Boom

di Kim WinterNight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno: Time for the Love ***
Capitolo 2: *** Capitolo due: Mica Van Gogh ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Rize up ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro: Darkest Days ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque: The Nameless ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei: Fyah ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette: Sono solo canzonette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto: Prison Song ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove: Life ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci: Rag Doll ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici: Ballo in fa diesis minore ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici: Heaven And Hell ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici: Don't stay ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici: Who you think you are? ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici: Are you gonna be my girl ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici: Immigrant Star ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette: The Chain ***
Capitolo 18: *** Epilogo: Boom ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno: Time for the Love ***


ReggaeFamily

Capitolo uno: Time for the Love




Mentre mi preparavo per il mio ultimo campo, mi sentivo malinconica. Il punto fondamentale della questione era uno solo, e portava il nome di Danilo.

Ebbene sì, stavo uscendo da circa tre settimane con un ragazzo che non era Marco, il che era assolutamente incredibile per una ragazza come me, una ragazza disabile.

Danilo aveva portato una ventata d'aria fresca nella mia vita, mi aveva fatto capire che anche io potevo essere accettata da qualcuno che non avesse a che fare con i miei stessi problemi; mi aveva fatto capire che per lui non erano problemi, ma che si trattava solo della mia condizione di vita, diversa da quella di chiunque altro, proprio perché ognuno di noi era unico, diverso, speciale.

In realtà non era un ragazzo molto loquace, ma quando mi teneva tra le braccia e mi accarezzava i capelli mi sentivo come se non potesse capitarmi niente di male.

Ero veramente felice di averlo conosciuto. E sapevo che mi sarebbe mancato durante il campo. Era ironico pensare che, mentre l'anno precedente avevo pensato di fingere di avere un ragazzo per ferire Marco, stavolta invece il fato mi aveva messo su un piedistallo e avevo tutte le carte vincenti dalla mia parte.

Una cosa era certa: non mi sarei fatta intimorire da Marco, dall'attrazione che da sempre provavo per lui, dal suo atteggiamento spavaldo che sempre mi aveva attirato e ferito.


«Lau, rispondimi! Uff, sei sempre con quel cellulare in mano!» mi apostrofò Tamara, mentre trascinava la grande valigia verso l'uscita di casa.

«Eh? Ah, sì, scusa... stavo rispondendo a Dani!» replicai con un sorriso. «Arrivo!»

Eravamo di nuovo pronte per partire e non mi sembrava vero: quella sarebbe stata la seconda avventura per noi due, il secondo campo insieme, e purtroppo anche l'ultimo. Ero ormai troppo grande per poter partecipare a quelle iniziative, avevo quasi ventitré anni ed era assurdo constatare che fossero trascorsi quasi dieci anni da quando avevo conosciuto Marco, Viola e un sacco di altre persone che avevano fatto parte della mia vita.

«Andiamo, mamma! Sei sempre in ritardo!» strillò Tamara, scuotendo il capo.

«No, mica è vero!» esclamai.

«Lau, ti mancherà Dani?» chiese mia madre quando riuscì finalmente a uscire di casa, dieci minuti e infiniti incitamenti più tardi.

«Ma che domande mi fai?!» mi indignai.

«Siete innamorati!» mi prese in giro lei, caricando le valige nel portabagagli.

«Oh, che carini! Che romantici!» rincarò mia sorella.

«Piantatela voi due!» tuonai.

Salimmo in macchina e ci mettemmo in viaggio, il quale durò poco più di dieci minuti in quanto dovemmo soltanto raggiungere una stazione di servizio poco distante dal nostro paese; poi saremmo state prelevate dal pullman che era partito dalla capitale con a bordo il resto dei nostri compagni di campo.

Dovemmo aspettare un bel po' prima che loro arrivassero, ma quando ciò accadde fu una festa incredibile: io e Tamara ci fiondammo ad abbracciare Giovanna come due pazze, felicissime che sarebbe stata con noi anche durante quell'esperienza. Poco dopo fummo raggiunte da un'altra ragazza, che io riconobbi subito come Marta, un'educatrice che aveva partecipato al campo con noi ben tre anni prima.

«Lau!» esultò lei, venendomi in contro.

«Marta!» esclamai, correndo ad abbracciarla. «Sono così felice che ci sia anche tu quest'anno, ci divertiremo un sacco!»

In quel momento appresi che né Stella né Stefano sarebbero stati dei nostri, perciò il ruolo di coordinatrice era passato a Marta. Lei mi spiegò che saremmo state in camera insieme e che non vedeva l'ora di ascoltare tutto ciò che avevo da raccontarle, dal momento che non ci vedevamo da una vita.

Notai che anche Marco era sceso dal pullman per salutarci: era vestito completamente di nero, come sempre, e aveva addosso una maglia di un gruppo metal; i suoi capelli erano sempre lunghi e ricci, e non era cambiato molto dall'ultima volta che ci eravamo visti.

Si avvicinò a me e Tamara e ci salutò con freddezza, anche se subito prese a parlare con mia sorella, dato che loro avevano continuato a sentirsi ogni tanto.

Alla fine lui aveva deciso di partecipare al campo, anche se non avevo idea di cosa gli avesse fatto cambiare parere; io e Tamara avevamo continuato a divertirci alle sue spalle per un po', ma c'erano stati dei momenti troppo divertenti per essere dimenticati.

Ripensai a due mesi prima, quando avevo ricevuto un messaggio da Marco e avevo deciso di rispondergli; mi aveva scritto che aveva assoluto bisogno di parlarmi e io avevo deciso di giocare un po'. Non conoscevo ancora Danilo, era piena estate ed ero rientrata da poco da un concerto molto divertente, perciò mi ero presa la libertà di prenderlo un po' in giro. Marco, dopo qualche messaggio, se n'era uscito dicendomi che avrebbe voluto ricostruire un rapporto d'amicizia o d'amore con me. Ero rimasta basita, poi ero scoppiata a ridere e avevo fatto leggere quel messaggio a Tamara. Ovviamente non avevo accettato, e a un certo punto avevo smesso semplicemente di rispondergli perché stufa delle sue stronzate. Ormai lo conoscevo, e probabilmente quella sera doveva essere completamente ubriaco.

Poi lo avevo rivisto. Ero andata a un concerto metal che si era tenuto nella zona in cui abitava lui, e lì ci eravamo incontrati per caso. Spinta dal divertimento e dall'ilarità, ero corsa a salutarlo e lui aveva faticato a riconoscermi, per poi limitarsi a chiedermi come stavo e come mai mi trovassi lì. Ovviamente, in pieno stile Marco, non aveva approfittato di quell'occasione per parlarmi di ciò che voleva dirmi soltanto due settimane prima, e io non mi ero presa il disturbo di ricordarglielo.

Infine, qualche giorno prima della partenza, mi aveva scritto un messaggio e io lo avevo ignorato, dopo averlo raccontato a Danilo e aver ricevuto la sua approvazione.

E ora eravamo lì, insieme, e io non potevo far altro se non pregustare ciò che sarebbe potuto accadere durante quell'ultimo campo.

«Allora, andiamo? Siamo già in ritardo!» ci spronò Giovanna.

Io e Tamara abbracciammo e baciammo nostra madre, poi seguimmo Marco e le due educatrici verso il pullman.

«Lau, vieni con me davanti?» mi chiese Giovanna.

Così ci sistemammo sul sedile accanto all'autista e solo allora mi accorsi che in realtà il gruppo era stato suddiviso in due pullman. Poco dopo notai che Tamara e Marco si erano sistemati nei posti proprio dietro di noi, e così tesi l'orecchio per sentire cosa si stessero dicendo.

Io e Tamara avevamo architettato un piano divertente nei giorni scorsi: mia sorella aveva detto a Marco, tramite SMS, che al campo per lui ci sarebbe stata una bella sorpresa, senza però accennare a nulla in particolare e limitandosi a dirgli che la questione aveva a che fare con me. Non appena si fosse presentata l'occasione, Tamara gli avrebbe spiattellato la mia relazione con Danilo con molta noncuranza, per poi divertirsi ad analizzare la sua reazione. Stavo uscendo con un ragazzo, davvero stavolta, perché non approfittarne per farsi due risate?

«Vivi è nell'altro pullman?» chiesi a Giovanna, rendendomi conto che Marco e mia sorella stavano parlando di musica, visto che lui aveva insistito per farle ascoltare qualcosa di orribilmente black metal.

«Sì. Non vede l'ora di abbracciarti!» dichiarò l'educatrice con un sorriso. «Cosa mi racconti?» mi chiese poi.

Feci spallucce. «Niente di che, solo che... esco con un ragazzo» buttai lì.

«E che aspettavi a dirmelo?!» strepitò lei con l'entusiasmo di una bambina.

«Ci siamo appena incontrate!»

Giovanna rise. «E lui lo sa?» bisbigliò.

«Lui?»

«Marco» mi sussurrò all'orecchio.

Sorrisi. «Non ancora.»

«Ne vedremo delle belle!» commentò.

Chiacchierammo del più e del meno, intrattenendoci anche con l'autista, il quale era abbastanza simpatico e propenso al dialogo.

Mentre eravamo fermi a un semaforo, estrassi il cellulare e trovai un messaggio insolitamente lungo da parte di Danilo. Ci impiegai un po' a leggerlo, poiché i riflessi del sole disturbavano la mia visuale e si schiantavano contro lo schermo del mio fedele Nokia con i tasti, sempre lo stesso da tre anni e mezzo.


Io sto tornando a casa ora dovevo vedermi con un mio compagno di scuola fai buon viaggio tesoro sento già la tua mancanza ieri andando via si ero un po triste e mi e scesa anche qualche lacrima, non vedo l'ora di riabbracciarti <3


Sorrisi per la quasi totale mancanza di punteggiatura, poi esclamai: «Oh, che carino!».

Giovanna, al mio fianco, chiese: «Chi?».

«Dani! Leggi!» dissi, passandole il cellulare.

Lei esaminò in fretta il contenuto dell'SMS, poi ridacchiò e mi restituì il telefono. «Wow, è proprio innamorato!» scherzò.

Trascorremmo il resto del viaggio a chiacchierare del più e del meno, finché non raggiungemmo finalmente la nostra meta. Il residence era lo stesso dell'anno precedente, e io finii, insieme a Viola e Marta, nella cemera che l'ultima volta era stata occupata da Marco, Thomas, Lucrezia e Lorenzo.

Non appena fummo tutti scesi dai pullmini, io e Tamara ci precipitammo ad abbracciare Viola; fu una festa bellissima, un momento magico ed emozionante, dato che non ci vedevamo da molti mesi e lei era mancata a noi come noi eravamo mancate a lei.

«Mi dispiace per te, Tami, che anche quest'anno devi stare in stanza con Simona e Gabriella!» disse Viola in tono dispiaciuto.

«Dai, prendiamo il lato positivo: c'è Giovi con lei!» provai a sdrammatizzare.

«Grazie eh, questo sì che mi rincuora... tanto quelle due annullano completamente l'effetto positivo di Giovi, sono due piaghe!» si lamentò mia sorella.

«Hai ragione!» concordò Viola. «Non ti invidio.»

«Voi siete anche più fortunate di me, perché quest'anno non c'è Elisa e siete solo voi due con Marta, che è fantastica!»

«Grazie per il complimento, Tami. Sappi che sei la benvenuta nella nostra stanza a qualsiasi ora del giorno e della notte» intervenne Marta, che era di passaggio con qualche bagaglio tra le mani.

«Questo mi dà la forza per vivere!» scherzò Tamara di rimando.

Guardai Marta: era il primo momento in cui riuscivo a vederla in maniera decente, poiché c'era il sole a illuminarla mentre si fermava un attimo a parlare con Giovanna; era un po' più bassa di me, piuttosto magra ma non per questo priva di forme. Aveva i capelli legati in una coda di cavallo, la pelle abbronzata e indossava dei vestiti semplici e comodi.

Il mio cellulare squillò: era Danilo!

Mi guardai un attimo intorno e individuai Marco a pochi metri da me, intento a fumare mentre veniva irrimediabilmente importunato da Nicolò. Mi posizionai poco distante da loro, mentre rispondevo alla chiamata, in modo da avere il ragazzo a portata di orecchie.

«Dani?» esordii.

«Ciao tesoro. Come va?» mi domandò lui in tono calmo. La sua voce fece aumentare la nostalgia che provavo nei suoi confronti.

«Bene dai, siamo arrivati da poco, però mi manchi» ammisi.

«Anche tu, lo sai. Dai, se riesco vengo a trovarti.»

Sorrisi. «Sì, ti prego! Ti aspetto con ansia!»

Scambiammo ancora qualche parola, poi fui costretta a riattaccare perché dovevamo sistemare i bagagli e poi prepararci per andare a cena.

Prima di salire in camera, conobbi Giorgio, un nuovo ragazzo che aveva tredici anni e sembrava simpatico, anche se purtroppo era completamente cieco e soffriva di una qualche forma di obesità non meglio definita. Mi dispiacque molto apprendere che un'altra persona era caduta vittima di quel male che ci accomunava tutti, un male quasi incurabile e che ci rendeva fisicamente limitati. Riusciva, però, ad aprire le nostre menti e a renderci liberi sotto un punto di vista diverso dal resto del mondo.

Quando io e Marta ci ritrovammo da sole, mentre Viola era in bagno, mi accostai all'educatrice e lo sussurrai: «Allora? Hai tutto l'occorrente per scrivere in braille?».

«Certo! Passami la poesia e io la copio» confermò la ragazza con entusiasmo.

Corsi in camera a recuperare il foglio che conteneva la poesia di compleanno che io e Tamara avevamo scritto per Viola, in modo che Marta potesse copiarla in braille e la nostra amica potesse leggerla con le dita. Ero emozionata, ma mi dispiaceva non essere io stessa in grado di utilizzare quel linguaggio fatto di puntini e piccoli fori su carta.

Viola, di ritorno dal bagno, sentì il rumore del punteruolo mentre Marta lavorava, così si fece prendere dall'entusiasmo e gridò: «Chi sta scrivendo in braille?».

Marta sorrise. «Io. Sto preparando un compito da far fare a un mio alunno quando rientriamo dal campo. Sai, è una cosa lunga e mi sono dovuta portare appresso il materiale» spiegò con disinvoltura, per poi strizzarmi il braccio con complicità.

«Davvero? Che bello, e che compito è?» volle sapere Viola, mentre armeggiava tra i suoi bagagli ancora da disfare.

«Un pezzo della Divina Commedia, pensa cosa mi tocca fare!» inventò ancora Marta.

«Oddio, che palle!» commentò Viola.

«Già, non ti invidio proprio» intervenni io.

«Già, poi io non sono tanto veloce a scrivere in braille...»

«Ti serve aiuto?» domandò la mia amica, affacciandosi dalla nostra camera.

«No, meglio se mi esercito, altrimenti rimarrò sempre una schiappa» la tranquillizzò Marta, senza smettere di scrivere.

Terminò giusto in tempo, poco prima di andare a cena, così io misi la poesia insieme ai regali che io e mia sorella avevamo preparato per Viola e scesi insieme agli altri per andare in pizzeria.

Trovai tamara e le sussurrai: «Hai detto a quello lì di Danilo?».

«Non ancora» rispose lei. «Abbi un po' di pazienza e vedrai che arriverà anche quel momento» aggiunse con un sorriso.

Eravamo giunti da poco al residence, eppure ero certa che anche per quel campo ne avremmo visto delle belle.

E io stavolta ero davvero pronta a vivere ogni cosa nel modo giusto, complice soprattutto la forza che ricevevo dalla presenza di Danilo nella mia vita.




Ebbene sì, anche se sembrava impossibile, sono tornata con il tanto atteso (?) sequel di 'Alive'; come ben sapete questa è l'ultima delle tre storie che fanno parte della serie 'Youth of the Nation', dedicata alle avventure di Laura, Marco e i loro compagni di campo.

Raccontare di loro mi piace un sacco, come avrete notato, e so già che mi mancheranno parecchio quando questa storia si concluderà. Ma ora non pensiamo al futuro, siamo solo al primo capitolo!

Be', come vi sembra quest'inizio? Siete contenti che Laura stia uscendo con questo Danilo? Stavolta ha davvero l'occasione per dimenticare Marco e farlo soffrire come lui ha sempre fatto soffrire lei. Ne vedremo delle belle mi sa :D

Spero di ritrovare gli affezionati lettori di un tempo e di trovare anche qualcuno di nuovo tra le mie recensioni o tra le persone che seguono/preferiscono/ricordano la mia storia!

Ultima cosa: aggiornerò questa storia ogni sabato, perciò tenetevi pronti ;)

Vi ringrazio fin da ora e vi saluto, alla prossima e non esitate a lasciare il vostro parere nelle recensioni ♥

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Capitolo 2
*** Capitolo due: Mica Van Gogh ***


ReggaeFamily

Capitolo due: Mica Van Gogh




In pizzeria mi ritrovai seduta di fronte a Viola e, dopo aver ordinato la cena, io e Tamara ci avvicinammo alla nostra amica e le consegnammo il nostro regalo con tanto di poesia; avevamo pensato di donarle una crema e un bagnoschiuma profumatissimi, abbinati a un braccialetto con i gufi e a un portachiavi di peluche a forma di emoticon sorridente.

Quando Viola aprì i suoi nuovi tesori, rimase veramente contenta e ci abbracciò forte, ripetendoci all'infinito che non avremmo dovuto disturbarci. La cosa che la sorprese e la commosse maggiormente, tuttavia, fu la nostra composizione in rima scritta in braille.

«Come avete fatto a scriverla?» ci chiese perplessa e con la voce impregnata di gioia.

«Secondo te Marta cosa stava facendo prima? Ti pare che si mettesse a copiare strofe della Divina Commedia?» la presi in giro, ridacchiando compiaciuta.

«È stata lei allora! Se vi prendo...» scherzò, poi prese a leggere la nostra poesia lasciando che le sue dita scorressero sul foglio disseminato di puntini.

Rise sia per le cretinate che avevamo scritto che per gli errori che Marta aveva commesso nel copiare il testo in braille, così finimmo per fare un baccano infernale nella pizzeria tra risate e accuse scherzose.

Quando tornammo ognuno al proprio posto, attendemmo ancora qualche minuto prima di poter cominciare a mangiare; chiacchierammo un sacco e ci divertimmo come capitava soltanto quando eravamo tutti insieme.

Una volta terminata la cena, rientrammo al residence e ci rifugiammo nelle nostre stanze, dopo aver appreso che la mattina seguente la maggior parte di noi si sarebbe recata in piscina, mentre qualcuno avrebbe cominciato con le attività in compagnia degli istruttori.

Io intanto continuavo a scambiare SMS con Danilo, e sentivo abbastanza la sua mancanza. Mentre rispondevo a uno dei suoi messaggi monosillabici – non era molto loquace come ragazzo, specialmente quando doveva scrivere attraverso un cellulare –, me ne arrivò un altro.

Era Tamara che mi scriveva dalla sua stanza.


L'ho detto a Marco XD


Dai, davvero? Oh, così impara! E come ha reagito?


Certo, stava rompendo e non faceva che chiedermi “ma cos'è che dovevi dirmi? Qual era la sorpresa?”, così durante la cena gliel'ho detto! È rimasto abbastanza impassibile, ma io ho capito che ci è rimasto di sasso e non se l'aspettava! Ha detto che è contento... seee, ma chi ci crede? XD


Che squallido... ma si riprende? Ahahahah, grande Tami! Ora lo sa e finalmente capirà che deve lasciarmi in pace... :D


Perché, capisce?


Quell'ultimo messaggio di mia sorella mi fece scoppiare a ridere, così Viola mi chiese cosa fosse successo.

Ero stesa sul letto dopo essermi preparata per la notte, mentre la mia amica ancora armeggiava con valige e prodotti per l'igiene personale.

«Ti ho detto che esco con Danilo, no?»

«Sì, certo! E allora?»

Ridacchiai. «Tami l'ha detto a quel troglodita di Marco e lui ci è rimasto palesemente di merda, anche se ha cercato di nasconderlo!» raccontai.

«Chi esce con chi?» intervenne Marta, facendo irruzione nella nostra stanza e gettandosi sul letto accanto a me. «Cosa mi nascondi, eh? Raccontami tutto! Me l'avevi promesso!»

Così tutte e tre prendemmo a chiacchierare, mentre sia Marta che Viola andavano in brodo di giuggiole per la mia recente relazione; non sapevo se definirla tale, perché io e Danilo uscivamo insieme da troppo poco tempo, però stavamo bene insieme e io avrei voluto che le cose continuassero a funzionare, fino a diventare serie e forti.

«Ragazze, sono contenta!» affermai, dopo aver inviato un messaggio di buonanotte a Danilo.

«Anche noi lo siamo per te!» affermò Viola, per poi dirigersi verso il bagno.

Io e Marta rimanemmo sole e lei mi domandò: «E quindi con Marco non ha funzionato, ho capito bene?».

Annuii. «Purtroppo non siamo compatibili, se escludiamo l'attrazione fisica.»

Marta rise. «Beata gioventù!» strepitò.

«Smettila di parlare come un'anziana!»

Poco dopo l'educatrice lasciò la stanza e salì le scale in legno che conducevano alla sua camera, situata, come quella di Giovanna, in un vano che doveva fungere da mansarda e dare l'effetto di trovarsi in una sorta di baia in stile Heidi. In realtà era orribile dover percorrere quella ripida e stretta rampa di legno scricchiolante, ma del resto non si poteva pretendere granché.

Prima che Viola tornasse dal bagno, scivolai in un sonno ristoratore, desiderando che il tempo trascorresse in fretta e che Danilo venisse a trovarmi come mi aveva accennato quel pomeriggio.


Quando la mattina seguente mi svegliai, la prima cosa che mi venne in mente fu che dovevo alzarmi a preparare il caffè.

La sera prima gli istruttori – tra cui c'era una new entry di nome Samuele che però non si era neanche presentato ed era piuttosto silenzioso – ci avevano annunciato che per quel campo ognuno di noi avrebbe fatto la colazione nella sua stanza, visto che ognuna di esse era munita di un piano cottura e di un forno a microonde.

Da un lato ero contenta, perché in quel modo avrei evitato di avere a che fare con esemplari come Simona, Gabriella e Nicolò di buon mattino, però mi rendevo conto che per Tamara non sarebbe stato per niente bello dover stare insieme alle sue disastrose compagne di stanza durante quel pasto mattutino; Simona e Gabriella, infatti, non erano minimamente in grado di badare a loro stesse, così sarebbe stato compito di Tamara e Giovanna preparare loro la colazione o comunque supportarle durante quell'operazione.

Mi alzai poco dopo e mi diressi verso la cucina, dove incrociai subito Marta.

«Preparo io il caffè» le dissi con un sorriso.

Così lei mi aiuto a trovare ciò che mi serviva per riempire la moka e mi misi all'opera; usai un fazzoletto di carta per appoggiare la parte inferiore della caffettiera, metodo che utilizzavo per evitare che il caffè in eccesso venisse sprecato. Non riuscendo a vedere se la polvere andasse a finire tutta dentro il filtro, mi servivo di quell'escamotage per raccogliere quella che si depositava ai lati del piccolo serbatoio e rimetterla nella confezione del caffè.

«Ti fai furba, eh?» mi chiese Marta, osservando i miei gesti.

«Direi di sì, altrimenti tutto questo verrebbe sprecato» spiegai, indicando il cerchio di polvere scura che era rimasto sul tovagliolo.

Misi sul fornello la caffettiera e riuscii, dopo qualche tentativo, ad accendere il gas; dopodiché tornai in camera a svegliare Viola.

«Vivi, dai, alzati! Cosa mangi tu per colazione? Abbiamo, per ora, solo del caffè, una busta di latte e qualche brioche confezionata» esordii, scuotendola leggermente per una spalla.

Lei sbadigliò e impiegò un sacco di tempo per alzarsi dal letto. «Uff, volevo continuare a dormire, sono stanca!» borbottò, mettendosi a sedere e strofinandosi gli occhi con le mani.

«Non rompere! È tardi, e tu sei lenta come una lumaca a prepararti! Allora, che vuoi per colazione?» domandai ancora, ammucchiando le coperte ai piedi del letto.

«Uhm...» Viola sbadigliò ancora. «Latte.»

«Vieni qui, ti insegno a prepararlo!» gridò Marta dall'altra stanza.

«Pure? Oh no!» si lamentò la mia amica.

«Non fare i capricci, su!» ridacchiai, mentre tornavo a controllare la caffettiera.

«Quest'affare non funziona, quanto ci vuole a fare un caffè?» mi lamentai, notando che, nonostante fossero trascorsi diversi minuti, l'oggetto in questione si rifiutava di fare il suo lavoro.

Marta mi raggiunse e nel frattempo anche Viola si alzò e arrivò in cucina.

«La metto sotto l'acqua, vedrai che poi funzionerà» affermò l'educatrice.

Quando rimise la caffettiera sul fornello, ci vollero ancora diversi minuti prima che cominciassi a udire il familiare gorgoglio del caffè che saliva dal filtro. Sospirai e cercai qualche tazzina, portai fuori le poche bustine di zucchero che la sera prima avevo raccattato dalla stanza dei ragazzi e portai tutto sul tavolo; nel frattempo Marta spense il fornello e trasportò la caffettiera in tavola, poi si dedicò a insegnare a Viola come scaldarsi un po' di latte nel microonde.

Mentre aspettavo che il caffè si raffreddasse un po', osservai ciò che stavano facendo le mie compagne di stanza.

«Viola, dammi la mano. Senti questi pulsanti?»

«Sì, a cosa servono?» domandò curiosa la mia amica.

«Quello più grande è il tasto di accensione, gli altri tre servono per decidere quanti secondi vuoi far scaldare ciò che metti nel forno: quello subito sotto indica dieci secondi, il secondo venti e l'ultimo un minuto. Dipende da quanto vuoi che il tuo latte sia bollente» spiegò con gentilezza Marta, guidando la mano di Viola durante l'esplorazione.

Storsi la bocca. «Odio quegli aggeggi» commentai. «A casa mia si usano i pentolini per scaldare qualunque cosa, siamo contrari al microonde.»

«Sempre la solita tu!» mi rimbeccò Marta. «Invece è comodo e veloce.»

«E nocivo» aggiunsi con un'alzata di spalle.

«Anche noi non lo usiamo mai, però ce l'abbiamo. Ma anche mamma preferisce usare i metodi tradizionali» raccontò Viola.

Marta la aiutò a riempire la sua tazza di latte, poi la supportò nell'infilarla all'interno del forno.

«Tua madre è un genio» dissi con un sorriso, prendendo un sorso del mio caffè.

Dopo alcuni tentativi, le due riuscirono a scaldare il latte e mi raggiunsero a tavola. Chiacchierammo e facemmo colazione in fretta; nel frattempo Danilo si era svegliato e mi aveva inviato il buongiorno, e io ero molto felice di sentirlo. Era difficile immaginare di dover trascorrere altri dieci giorni senza di lui, però forse lui sarebbe venuto a trovarmi e non avrei dovuto attendere così tanto a lungo.

Dopo colazione lavai le scodelle e i cucchiaini, poi mi precipitai in bagno a prepararmi per la piscina. Infilai il costume nero, un paio di shorts e una canottiera e corsi a recuperare la borsa con il telo e tutto il necessario per scendere di sotto.

La mattina trascorse tranquillamente e io ebbi modo di parlare con Giorgio, il ragazzino che stava frequentando per la prima volta il campo insieme a tutti noi. Era simpatico e molto intelligente, ma ciò che mi colpì maggiormente fu la sua sensibilità; anche Nicolò pareva esserne rimasto colpito, per questo approfittò subito per trattarlo come se fosse il suo schiavetto. Quel ragazzo era impossibile, non sarei mai stata in grado di sopportarlo.

Mi divertii anche a sentire i racconti di mia sorella riguardo alla sua nottata e al risveglio di quella mattina.

«C'era una zanzara che mi ronzava intorno, poi non vi dico quanto caldo faceva in quella stanza! Non potevamo neanche aprire la finestra perché il letto di Simona rimane proprio là sotto e lei non faceva che alzarsi ininterrottamente per andare in bagno! Poi, ovviamente, sbagliava letto e veniva nel mio o in quello di Gabriella! Poi a un certo punto è arrivato il camion che ritira la spazzatura e ha fatto un casino assurdo, mi sarei affacciata alla finestra e avrei volentieri gridato imprecazioni a non finire! E, cosa più avvincente, Simona non fa che sganciare aria da orifizi non meglio identificati. In qualsiasi momento, sempre, è una tortura!»

Tutti scoppiammo a ridere. Eravamo seduti sulle sdraio e io ero da poco uscita dall'acqua.

«Oddio Tami, ma è orribile!» esclamò Viola in tono apprensivo.

«Abbastanza! Non vi dico... infatti non ho quasi chiuso occhio» si lamentò ancora, per poi sospirare e scuotere il capo.

«Simona e le sue bombe a orologeria» commentò Marco. Stazionava in un angolo, sotto l'ombra del portico che ospitava alcune sdraio, ed era seduto per terra sul suo telo. Poco dopo fece partire della musica dal suo cellulare.

Viola storse la bocca. «Cos'è questo casino? Ma tu ascolti sempre queste cose che sembrano dei barattoli ammaccati che sbattono tra loro?»

«Vivi, mi fai morire!» scoppiò a ridere Tamara, piegandosi in avanti e rischiando così di ruzzolare dalla sua postazione su una sdraio traballante.

«Stai attenta tu!» la apostrofai. «Vivi, hai sempre da ridire? Mica la gente può ascoltare solo Africa o le canzoni degli anni Ottanta!»

«Che bella Africa! Me la mettete?» saltò su la mia amica.

«Anche quest'anno devi rompere con questa canzone? Mio dio!» sbuffai.

«Lalli, ti ricordi quando ero fissata con Moonlight Shadow?» mi chiese Viola con un sorriso.

«Ma certo! Però quella non posso mettertela, non ce l'ho! Ma, piuttosto, tu non eri la donna anti-tecnologia per eccellenza?» la punzecchiai, vedendola armeggiare con il suo nuovo Iphone.

«Ma Lalli! Sai che è facile da usare? Ho fatto un piccolo corso, e di certo non mi metto a parlarci come fanno loro!» si giustificò la mia amica, alludendo a Gabriella che intanto parlava con il cellulare cercando di usare Siri senza successo.

«E come diamine fai?» le chiese perplessa Tamara.

«Un giorno ve lo spiego!»

«Uff, ma perché questo coso non funziona? Ho detto: riproduci brano #fuoriceilsole!» strillò all'improvviso Gabriella.

Marco sghignazzò e fece partire una canzone da lui definita tranquilla, ma che da subito io ritenni una noia pazzesca.

«Che è 'sta roba?» domandai.

«Sono i Tool! Non dirmi che non li conosci, sono fighissimi» disse lui con orgoglio, per poi canticchiare quella nenia insopportabile.

«Sembra una ninnananna» osservò Viola. «Che palle!»

«Ma a te non va bene mai niente, eh?» intervenne Marta ridendo.

«Oh, ragazzi!» La voce squillante e insopportabile di Nicolò squarciò l'aria, interrompendo tutte le nostre conversazioni. Poco dopo lui e Giorgio comparvero all'ingresso della piscina.

«Il pranzo è quasi pronto, cominciate a prepararvi!» disse Giorgio con orgoglio.

Intanto Gabriella, imperterrita, cantava – o meglio, biascicava monotona – la canzone di Lorenzo Fragola che era il tormentone dell'estate e io l'avrei volentieri buttata in piscina.

Così mi alzai e presi a raccattare le mie cose, buttandole in borsa alla rinfusa.

«Gabriella, basta! Dobbiamo andare a pranzo!» la esortò Giovanna, chinandosi per raccogliere i vestiti che Simona aveva lasciato cadere a terra, vicino a sé. «Dai Simo, vestiti. Non hai fame?» si rivolse poi all'altra ragazza, la quale sembrava, come sempre, immersa in un mondo tutto suo.

Scossi il capo e sospirai, infilandomi in fretta i vestiti. Chiesi le chiavi della nostra stanza a Marta e mi inventai che dovevo andare urgentemente in bagno, poi mi avviai in fretta verso la mia camera.

Non ne potevo più di sentire Lorenzo Fragola e le canzoni deprimenti di Marco, e poi volevo sentire Danilo e parlare un po' con lui. Tuttavia, una volta arrivata a destinazione, provai a chiamarlo ma lui non rispose.

Così mi diedi una rinfrescata e misi su un po' di musica dal mio cellulare, ritrovandomi ad ascoltare un brano che da giorni non faceva che tormentarmi. Si trattava di Mica Van Gogh di Caparezza, brano che mi aveva preso tantissimo da quando avevo sentito il suo nuovo album, e la fissa era cresciuta dopo aver assistito, quell'estate, a un concerto mozzafiato che mi aveva lasciato sfinita ma pienamente soddisfatta.


Tu, in fissa con i cellulari, lui coi girasoli,

girare con te è un po' come quando si gira soli...


Mi misi a cantare, ammirando ancora una volta la genialità di quell'uomo, aggirandomi per la stanza in attesa che anche Viola e Marta arrivassero.

Mi sentii improvvisamente affamata. Nicolò e Giorgio avevano cucinato il pranzo per tutti noi, chissà se avevano creato qualcosa di realmente commestibile.

«Lau!» mi chiamò Marta, entrando in stanza in compagnia di Viola.

«Sono qui» gridai dalla mia camera.

«Questo pomeriggio devi andare a fare orientamento con Marco e Samuele» mi avvisò in tono allegro.

«Con Marco? E ti pareva! Samuele... ah, il nuovo istruttore?» buttai lì leggermente confusa.

«Già.»

Rimasi un attimo in silenzio, poi chiesi: «Ma quello parla o e muto? Non si è neanche presentato e non ho ancora capito se è in grado di ricoprire il ruolo che dovrebbe!».

Viola sbuffò. «Ma sei cattiva!»

«No» la contraddisse Marta. «Anche secondo me è muto!»

A quel punto scoppiammo tutte e tre a ridere e ci preparammo per andare a pranzo, mentre io mi domandavo perché dovessi necessariamente fare le mie attività di orientamento e mobilità con Marco.

Possibile che questi diamine di istruttori non avessero altri programmi per noi due? Possibile che volessero a tutti i costi vederci insieme, vicini?

Smisi di pensarci quando il mio cellulare squillò: era Danilo.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre: Rize up ***


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Capitolo tre: Rize up




Il pranzo era stato più buono di quanto avessi sperato, e anche aver parlato con Danilo al telefono mi aveva messo di buonumore. Ero pronta per affrontare quel pomeriggio di orientamento e mobilità con Marco, non mi importava granché di lui, non dovevo pensarci e non mi restava che godermi l'ennesima esperienza atta ad aumentare la mia autonomia personale.

Ma accadde qualcosa che mi fece capire che Marco stava facendo di tutto per attaccarsi a me come al solito; stranamente la cosa non mi andava proprio, ma non potei fare altro che accettare la situazione. Gli istruttori, a fine pranzo, chiesero chi volesse cucinare la cena della sera seguente, così io mi proposi per quell'attività, tanto prima o poi sarebbe toccato a tutti. Poco dopo Marco disse, con finto disinteresse, che anche lui era d'accordo, perciò compresi che saremmo stati in coppia insieme e la cosa mi irritò. Tuttavia lasciai perdere e discussi con lui e gli altri sul menu da preparare: decidemmo che avremmo servito una buona insalata di riso e degli anelli di cipolla in pastella. A quel punto Tamara e Viola si proposero per andare a fare la spesa, così anche loro sarebbero state impegnate quel pomeriggio in una spedizione all'Eurospin insieme a Lorenzo.

Sperai vivamente che quell'atteggiamento di Marco non mirasse a qualcos'altro, e decisi di evitare di dar troppo peso alla cosa per il momento.

Prima di uscire con il nuovo istruttore, salii in camera e esortai Tamara e Viola a seguirmi perché avevo voglia di un caffè; alla fine anche Marco ci raggiunse e io preparai la caffettiera. Avevo come l'impressione che quello sarebbe diventato una sorta di rituale per noi quattro.

Quando io e Marco, verso le quattro, scendemmo a raggiungere Samuele, lui ci annunciò in tono piatto che ci saremmo occupati di prenotare in pizzeria per la cena, il che comprendeva il dover raggiungere in autonomia il locale, per poi ripercorrere la strada verso il residence. Ordinaria amministrazione.

Ci avviammo per le assolate vie del paese, e solo allora scoprii che Samuele non era muto e che, anzi, parlava un sacco, ma solo degli argomenti che lo interessavano veramente. Infatti, cominciò a raccontare a me e Marco di tutti i concerti a cui aveva assistito, di tutti i viaggi che aveva fatto sia per piacere che per accompagnare dei ragazzi come noi in dei campi simili a quello che stavamo vivendo. Era molto entusiasta quando parlava di musica e di viaggi, ci svelò un sacco di aneddoti e ci fece ridere più di una volta. Alla fin fine era simpatico, con lui si riusciva a instaurare una conversazione accettabile, anche se non l'avrei mai detto.

Raggiungemmo lo stesso locale in cui avevamo cenato la sera prima e trovammo i camerieri intenti a ripulire e preparare la sala all'interno. Ci accomodammo all'esterno, in cui si trovavano parecchi tavoli circondati da panche in legno. Una cameriera ci chiese se volessimo ordinare qualcosa e noi prendemmo un caffè a testa, poi prenotammo due tavoli per quella stessa sera, precisando che quello occupato da noi ragazzi – che eravamo in otto – doveva essere separato da quello di educatori e istruttori.

Intanto continuammo a chiacchierare di musica con Samuele, e infine mi stupii parecchio quando Marco decise di offrirci il caffè. Ero allibita, da quando era diventato così generoso?

Mentre lui andava a pagare, ricevetti una telefonata: si trattava della mia amica Beatrice, colei che, folle quanto e più di me, mi aveva aiutato a buttare giù il copione che avrei dovuto inscenare durante il precedente campo per far stare Marco al suo posto. Avevo fallito miseramente, ma almeno avevo capito che una sciocchezza del genere non avrei dovuto neanche pensarla. Ci eravamo ritrovate a riderci su, pensando che stavolta avevo davvero un ragazzo con cui uscivo e non ci sarebbe stato bisogno di mentire a Marco.

«Lau! Tutto bene?» esordì lei in tono allegro.

«Ciao Bea. Tutto okay, attualmente sto facendo un'attività di orientamento» raccontai.

«Uhm, bello. E con il coso come va?»

Risi. «Il coso. Tutto sotto controllo, direi.» Lasciai che Marco e Samuele si allontanassero di qualche metro da me e bisbigliai: «Sono con lui a fare l'attività. Poi dopo, via SMS, ti racconto una cosa. Riderai, fidati».

«Ci sta provando?» volle sapere Beatrice.

«Quello sempre, ma stavolta gli va male. E tu che mi racconti?»

«Stamattina ho fatto un affare...» E prese a raccontarmi di un paio di scarpe carinissime che aveva comprato per pochi euro, esaltando il fatto che fossero comode ed eleganti allo stesso tempo.

Evitai di farle notare che un paio di stivali estivi color beige mi avrebbero fatto venire il voltastomaco al solo vederli e continuai a chiacchierare con lei per un po', finché non ci salutammo perché dovevo concentrarmi sul percorso di ritorno verso il residence.

Una volta rientrata, ero abbastanza stanca, ma Lorenzo mi annunciò che per raggiungere nuovamente il ristorante avrei dovuto fare nuovamente il percorso a piedi, utilizzando il bastone bianco.

Rimasi sorpresa. «Sul serio? Okay, ma... spero di farcela» replicai.

«Ma sì, ci sarò io con te. E anche Marco e Gabriella faranno una passeggiata con noi, che ne pensi?» mi rassicurò con calma l'istruttore.

«Okay, proviamoci.»

Nel frattempo Tamara mi raggiunse; pareva sconvolta e un po' triste, così le circondai le spalle con un braccio e le chiesi: «Che succede, sorellina?».

«Ho assistito a una scena terribile...»

«E cioè?»

«Lalli, Tami, dove siete?» ci chiamò Viola, che intanto si trovava nei pressi delle scale che conducevano alla nostra stanza. Io e mia sorella la raggiungemmo e salimmo tutte e tre in camera.

«Dicevate? Che è successo mentre eravate all'Eurospin?» chiesi curiosa.

«Non è successo all'Eurospin, che scema! È stato in strada...» borbottò Tamara.

«Oh sì, hanno investito quei cagnolini!»

«Eh? Dei cani?»

Tamara sospirò. «Eh, due cani! Li hanno investiti... il più grande non si è fatto nulla, mentre il piccolo è rimasto steso lì ed è stato subito soccorso, solo che... oddio, è stato orribile quel tonfo...»

«Vero, Tami ha ragione!»

«Mi dispiace ragazze, ma non fatevi rovinare la vita da questa cosa, dai!» tentai di sdrammatizzare, entrando in bagno per rinfrescarmi un po' il viso.

«Tu sei insensibile, sempre la solita! Solo perché tu hai paura dei cani...» mi accusò subito mia sorella.

«Ma stai zitta, questo cosa c'entra? Ho paura dei cani, ma mica vuol dire che voglio che siano maltrattati...» ribattei irritata.

«Ragazze, state litigando?» intervenne all'improvviso Marta, facendo il suo ingresso in camera. «Lau, ti cercano per andare a piedi al ristorante.»

«Ora scendo!»

Mentre mi avviavo verso l'esterno, sentii Tamara e Viola raccontare il loro pomeriggio di spesa all'educatrice e sorrisi: ero orgogliosa di loro, erano state brave e non avevano riscontrato particolari problemi nell'affrontare la loro attività.

Mentre aspettavo di partire per il ristorante, scambiai dei messaggi con Danilo e Beatrice. Speravo ardentemente che lui venisse a trovarmi, mi mancava davvero troppo.

Poco dopo afferrai il mio bastone e cominciai ad avviarmi insieme a Lorenzo, Marco e Gabriella verso il ristorante; mentre camminavo lentamente, stando attenta a trovare tutti gli ostacoli e superarli senza farmi male; avrei voluto che Danilo mi vedesse, che capisse quanto quell'esperienza stava diventando importante per me, che mi osservasse mentre riuscivo a prendermi la mia autonomia una volta tanto.

Il tragitto fu molto lungo, proprio perché non ero in grado di procedere troppo in fretta e dovevo stare molto attenta a dove mettevo i piedi. Alla fine, con un fastidiosissimo mal di schiena e l'autostima alle stelle, raggiunsi finalmente la mia meta. Ero felice, non riuscivo a credere di esserci riuscita con le mie sole forze.

«Ma quanto ci hai messo? Noi siamo arrivati una vita fa!» si lamentò Marco, intento a fumare vicino all'ingresso.

Irritata, replicai: «Grazie, tu riesci a spostarti più in fretta perché hai un residuo visivo».

«E che ostacoli vuoi che ci siano in questo tragitto? Non ho capito...»

«Prova a farlo con il bastone e poi ne riparliamo» tagliai corto, avviandomi all'interno del locale. Stavo cominciando a stancarmi dell'atteggiamento da stronzo di Marco, non riuscivo proprio a sopportare quel suo modo di fare da altezzoso che si vantava di aver capito tutto della vita, mentre invece era soltanto un cretino pieno di sé. Come avevo potuto innamorarmi di lui in passato? Mi sentivo proprio una stupida a ripensarci.

La cena procedette in tranquillità e, durante il viaggio di ritorno, decisi di salire sul furgoncino perché ero troppo stanca per rifare il tragitto a piedi con il bastone. Capitai seduta accanto a Marco e, pur di stargli il più lontano possibile, mi spiaccicai contro la portiera e lo ignorai deliberatamente.

Non faceva che innervosirmi, e sinceramente mi stava passando la voglia di fare attività con lui anche il giorno seguente. Al solo pensiero mi sentivo nauseata.

Perché gli istruttori permettevano certe cose? Stavolta avrebbero dovuto separarci, invece le cose stavano andando male e stavano degenerando fin troppo per i miei gusti.


Il giorno dopo cominciò nel modo sbagliato.

Mentre mi preparavo per andare in spiaggia, mi accorsi che mi era arrivato il ciclo. In anticipo di cinque giorni, cazzo.

Non aspettavo altro che andare al mare perché mi sentivo proprio in vena di un bel bagno, dato che durante l'estate non ci ero andata neanche una volta. Invece ero stata la solita sfigata e ora mi aspettava una bella mattinata in preda alla noia, mentre Tamara e tutti gli altri si tuffavano in quella meravigliosa acqua salata.

Imprecando, uscii dal bagno e trovai Viola che sistemava le sue cose in silenzio.

«Che succede, Lalli?»

«Mi sono arrivate...» borbottai contrariata.

«Oh no, che sfiga!»

«Già.» Controllai che nella borsa del mare ci fosse tutto il necessario e mi sedetti sul letto per rispondere a un messaggio di Danilo. «Tu stai bene?»

«Penso di sì» rispose con scarsa convinzione. «Mi sento un po' stanca, niente di che...»

Finimmo di prepararci e raggiungemmo gli altri al piano di sotto; neanche a dirlo, eravamo in ritardo per colpa di Viola, e il primo gruppo era già partito per la spiaggia.

Trascorsi gran parte della mattinata sotto l'ombrellone ad ascoltare musica con gli auricolari, il che mi fece sentire tremendamente annoiata. Non riuscivo a inviare dei messaggi perché c'era troppa luca intorno a me e non ero in grado di vedere lo schermo del cellulare, perciò le mie risorse in quel caso erano piuttosto scarse.

Mi ritrovai ad ascoltare Rize up, una canzone reggae bellissima di un gruppo australiano di nome Blue King Brown. Era cantata da una ragazza con una voce pazzesca, e in quel momento mi soffermai ad analizzarla con più attenzione.


Rize up, get up, rize up, right away!

Rize up, get up, rize up, right away!

Rize up, get up, rize up, right away!

Rize up, get up, rize up now!


Viola si mise in costume, ma non fece il bagno; si sdraiò all'ombra e rimase piuttosto in silenzio, così a un certo punto mi andai a sedere accanto a lei e cominciammo a scambiare qualche parola.

Intanto tutti uscirono dall'acqua e Nicolò si sistemò poco distante da noi, facendo un casino con la sabbia e con la sua voce altamente disturbante.

«Ma quando si spegne questo qui?» si lamentò Viola.

Poco dopo anche Tamara ci raggiunse e si sedette accanto a me, abbracciando le ginocchia con le braccia.

«Hai messo la crema?» le chiesi.

«Mmh... non ho voglia» bofonchiò.

«Tami, la crema devi metterla, lo sai!» la rimproverai.

«Uff...»

«Portala qui, te la spalmo io» insistetti.

«Ma... e va bene, che palle!» si arrese, contorcendosi per raggiungere il suo zaino. Ne estrasse la crema e me la passò controvoglia.

Gliela spruzzai sulla schiena e le spalle, poi presi a massaggiarla, mentre le intimavo di fare lo stesso sul viso e sulla parte anteriore del suo corpo.

«Ora sei contenta?» si lamentò.

«Ti fa male prendere troppo sole, è la prima volta che stiamo al mare quest'anno, quindi non rompere.»

Poco dopo presi a chiacchierare con Samuele, steso accanto a noi, mentre Nicolò blaterava e importunava il povero Giorgio. Gabriella parlava con il cellulare e Simona portava fuori discorsi che solo lei poteva capire. Poi c'era Marco che se ne stava per gli affari suoi con le cuffie e la sua solita aria cupa e imbronciata. Non sarebbe mai cambiato, ne ero certa. Ormai aveva diciannove anni e sarebbe già dovuto essere più maturo, invece continuava ad agire come un adolescente perenne.

A un certo punto sentii Viola afferrarmi la mano, una presa convulsa, forte, stranamente forte.

Posai lo sguardo su di lei e mi accorsi che storceva la bocca in una smorfia innaturale, mentre la sua stretta aumentava.

«Oh no» mormorai, poi mi voltai verso Samuele e gli dissi: «Samu? Samu, Viola ha una crisi».

«Come?» fece lui confuso.

«Ha una crisi» ripetei più forte.

Viola cominciò a mugolare e tra quei suoni quasi incomprensibili capii che stava chiamando sua madre. Era un mormorio flebile, eppure tutti se ne accorsero.

Poco dopo Samuele si inginocchiò accanto a lei, e proprio in quel momento arrivò Giovanna e prese la mano sinistra di Viola tra le sue; sia io che lei prendemmo a parlarle con molta calma, finché lei smise di mugolare e si calmò. Sentii pian piano il suo corpo rilassarsi, ma fu lieve, perché le crisi epilettiche richiedevano un po' di tempo per essere smaltite e superate.

Era stata lieve, per fortuna, e quando Viola riuscì a parlare, disse che in effetti non era successo niente di così grave. Riuscimmo a parlare e scherzare per un po', e mi resi conto a malapena che mia sorella era sparita.

«Ma dov'è Tami?» chiesi leggermente preoccupata.

«Lucrezia l'ha portata via, piangeva e...» mi spiegò Marta, in piedi vicino a me.

«Povera Tami...» sussurrò Viola. «Lei non... Lalli... sta...»

Poi la crisi riemerse e inghiottì nuovamente la mia amica, ma stavolta io e Giovanna fummo pronte per soccorrerla e starle accanto. Stavolta durò un po' di più, fu più intensa, ma alla fine Viola si calmò e si addormentò.

Le crisi erano tornate. Per quell'anno non eravamo stati fortunati come nel campo precedente, ma comunque sperai che Viola ne subisse il meno possibile.

Quella giornata era cominciata male e ora ne comprendevo il perché. E non era neanche a metà, chissà cosa ci aspettava.

Mi ricordai che avrei dovuto cucinare con Marco e mi venne l'angoscia. Non ne avevo nessuna voglia, mi sarei volentieri inventata una scusa per evitarlo.

Ma non potevo, dovevo tenere duro.

Dovevo risorgere, ribellarmi, proprio come Nattali Rize gridava nella canzone con i suoi Blue King Brown.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro: Darkest Days ***


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Capitolo quattro: Darkest Days




«Ragazzi, dai, preparatevi. Andiamo a pranzo al chiosco qui accanto» annunciò Giovanna, rivolta principalmente a Simona, Gabriella e Nicolò, i quali impiegavano sempre un tempo infinito a riordinare le loro cose e rivestirsi.

Cercai di svegliare delicatamente Viola, la quale ancora dormiva in seguito alla seconda crisi, e lei pian piano parve riprendere conoscenza. La prima cosa che fece fu regalarmi un sorriso e io capii che forse stava meglio.

Ma qualcosa spezzò quel momento idilliaco: infatti, Nicolò si alzò dal suo telo e lo sollevò per ripiegarlo, ma in questo modo rovesciò un quintale di sabbia sulla testa della povera Viola.

«Nicolò!» gridò lei, passandosi le mani sulla faccia e tossicchiando.

«Mio dio, ma sei un casino!» lo accusai io, mentre rimettevo il mio telo in borsa.

Tra un battibecco e l'altro riuscimmo a sistemarci e a raggiungere il chiosco. Io mi ritrovai seduta di fronte a Nicolò, con Tamara alla mia destra e Viola alla mia sinistra. Quest'ultima stava ancora male, qualcuno le aveva prestato una felpa, ma ancora tremava ed era evidentemente scossa dalle crisi da poco passate.

«Vivi, quando torniamo al residence, ti riposi un po'. Va bene?» le dissi, posandole una mano sul braccio.

«Va bene Lalli.»

Il pranzo fu abbastanza lungo ma tranquillo, tranne per il fatto che Tamara ordinò la cosa sbagliata: infatti scelse di prendere della pasta alla carbonara, ma doveva trattarsi di qualcosa di congelato e precotto, perché mia sorella la trovò disgustosa e disseminata di qualcosa di duro e immangiabile.

«Io non l'avrei mai presa. Il mio panino invece è buono, e anche le patatine» le feci notare, ridendo.

Di fronte a me, Nicolò si era tuffato su una porzione enorme di patatine fritte che non riuscì poi a finire, così tutti ci adoperammo per aiutarlo.

Quando finimmo, aspettammo un tempo indefinito prima che educatori e istruttori si decidessero a riportarci al residence. Quando finalmente il primo gruppo salì a bordo del furgoncino, alcuni di noi si aggirarono accanto ad alcune bancarelle presenti nel lungomare. Tamara cominciò a cercare un braccialetto di suo gradimento e io ne comprai uno con i teschi da regalare a un'amica.

Finalmente anche noi rientrammo al residence e io mi fiondai sotto la doccia, mentre Viola e Marta riposavano un po'. Verso le sei io e Marco avremmo cominciato a preparare la cena e io non vedevo l'ora che tutto finisse, in modo da non averlo troppo attaccato addosso.

Nel frattempo continuava a scambiare dei messaggi con Danilo e sentivo ancora la sua mancanza, ma l'atmosfera del campo, come sempre, riusciva a farmi distrarre da tutti i pensieri negativi che facevano parte della mia vita esterna a quell'esperienza. Beatrice, intanto, era rimasta sconvolta e divertita dal fatto che Marco si fosse proposto per cucinare con me, così aveva incaricato Tamara di tenerci d'occhio, per poi riferirle qualsiasi cosa sospetta.

Era buffo come le mie vicissitudini diventassero in fretta e furia patrimonio dell'umanità.


«A me le cipolle fanno male agli occhi» sentenziai, mentre Marco mi domandava di occuparmi io di quell'alimento. «Penserò all'insalata di riso, ma con quelle non ce la posso fare.»

«Va bene» borbottò.

«Bene.»

Erano da poco passate le sei e ci trovavamo all'esterno dell'appartamento dei ragazzi, ovvero al piano terra. Dei tavoli erano stati allestiti per facilitare la preparazione della cena ed evitare che rimanessimo rintanati in cucina.

Mi diressi dentro a recuperare il formaggio, poi tornai fuori e cominciai a tagliarlo a tocchetti, mentre l'acqua per il riso era già stata messa a bollire. Non avevo molta voglia di svolgere quelle attività, ero un po' stanca e avevo già un mal di schiena pazzesco. In più, l'odore acre delle cipolle mi stava distruggendo, e gli occhi mi pizzicavano fastidiosamente.

Sbuffando ogni tanto, riuscii comunque a compiere il mio dovere e mi occupai anche di controllare il riso.

A un certo punto della serata fui telefonata da Danilo e parlai con lui di fronte a Marco, fregandomene deliberatamente di lui e di ciò che potesse pensare o provare in merito. Tuttavia, fui costretta a salutarlo in fretta perché avevo da fare, così gli promisi che l'avrei richiamato più tardi.

Infine il momento della cena giunse e il risultato fu eccellente, tranne per il fatto che il riso avrebbe necessitato di qualche minuto in più di cottura.

«Peccato, perché per il resto è tutto buonissimo» disse Tamara, facendo comunque il bis di insalata di riso.

«Se ti piacesse davvero, faresti il tris?» la punzecchiai.

«Probabile!»

Gli anelli di cipolla in pastella fecero faville: ne mangiammo veramente un sacco e tutti li apprezzarono, contrariamente a quanto avessi pensato. C'erano delle persone molto viziate nel nostro gruppo, una delle quali era Simona.

«Questo riso è freddo. Chi me lo scalda?»

«Simo, l'insalata di riso si mangia fredda» le fece notare Giovanna in tono pacato.

«Ma a me non piace freddo! Voglio che sia caldo!» si lagnò ancora la ragazza, agitandosi sulla sedia e alzando la voce.

«Simo, non fare così... si mangia fredda l'insalata di riso, calda non è buona» tentò di tranquillizzarla Marta.

«Invece sì che è buona!»

«Simona...» intervenne Lucrezia.

«Non la mangio se non è calda!»

Insomma, si lamentò e piagnucolò così tanto, che alla fine qualcuno prese il suo fiatto e lo infilò nel microonde per far sì che si scaldasse.

Neanche a dirlo, Simona lasciò che il cibo si freddasse di nuovo, asserendo che era troppo caldo, e alla fine ne mangiò sì e no quattro forchettate.

Ero basita. Io non le avrei mai permesso di comportarsi in quel modo, se fosse stata mia figlia, probabilmente l'avrei data in adozione dopo due ore.

Dopo cena, Giorgio, Nicolò e Gabriella presero a parlare con il cellulare, facendo un casino assurdo e mandandomi fuori di testa. Oddio, ma come potevano trascorrere il loro tempo a fare gli automi di fronte a un telefono? Anche Viola aveva un cellulare come il loro, ma non lo usava allo stesso modo e si unì al casino generale solo perché stava parlando con sua madre.

Effettivamente non si capiva niente, se qualcuno ci avesse visto dall'esterno, ci avrebbe preso per pazzi furiosi e si sarebbe domandato perché non ci avessero ancora rinchiuso in un reparto psichiatrico; come avrei potuto dargli torto? Anche io ogni tanto mi ponevo certe domande, ma poco dopo non ci pensavo più e mi dicevo che in fondo noi eravamo così e basta, eravamo un gruppo eterogeneo in cui ognuno faceva valere le proprie stranezze senza rifletterci su.

Prima di andare in camera mia, appresi che la mattina seguente io e Marco avremmo avuto nuovamente un'attività in coppia. Possibile che gli istruttori stessero cercando di accoppiarci anche in un altro senso? Non ne potevo già più.

Dopo aver mandato la buonanotte a Danilo e alle mie amiche, rimasi un po' a chiacchierare con Viola mentre si cambiava, ma entrambe eravamo troppo stanche, così presto ci addormentammo senza neanche accorgermene.


Anche il giorno successivo cominciò nel modo sbagliato: dopo aver preparato il caffè, presi la caffettiera per portarla in tavola e mi bruciai un dito. Cominciai a imprecare mentalmente e non, correndo a infilare la mano sotto l'acqua corrente.

Feci colazione in fretta con caffè e grissini al sesamo, poi mi resi conto che fuori stava piovendo. Io e Marco ci saremmo dovuti spostare nella città vicina per fare orientamento e mobilità con Lorenzo, e io ne avevo già le scatole piene. Fortunatamente avevo portato l'ombrello, ma avevo come la sensazione che sarebbe stata una mattinata difficile.

Quando infine uscimmo dal residence per recarci alla vicina fermata dell'autobus – e io avevo fatto lo stupido errore di infilare ai piedi un paio di infradito – mi accorsi che si era alzato il vento e stava cominciando a piovere più forte. Aprii l'ombrello e cercai di riparare sia me che Marco, dato che ero stata costretta a farmi guidare da lui vista la poca luce che le nuvole quasi nere lasciavano filtrare.

Ma una folata d'aria più forte delle altre fece ribaltare l'ombrello e questo si ruppe, strappandosi. Imprecai per l'ennesima volta durante quelle poche ore e capii che sarebbe stato un vero casino per noi spostarci a piedi, se la pioggia non fosse diminuita.

Raggiungemmo la fermata e ci rendemmo conto che l'autobus che avremmo dovuto prendere a momenti, in realtà non sarebbe passato, così fummo costretti ad aspettare per almeno venti minuti che arrivasse il successivo. Fortunatamente la pioggia si era calmata e io sperai vivamente che in città ci lasciasse un po' in pace.

Il viaggio in autobus fu abbastanza rapido, ma quando scendemmo nei pressi della stazione dei pullman, ci rendemmo conto che stava ancora piovendo e aveva nuovamente aumentato.

La mattinata mia e di Marco fu più o meno un sodalizio, poiché fummo costretti a cercare più di una volta un riparo per non trascorrere tutta la mattinata sotto il diluvio universale. Mi ritrovai a pensare che neanche Noè con la sua arca sarebbe sopravvissuto a tutto quel disastro, tenendo conto che anche il vento era forte e spazzava via ogni cosa, facendo sì che la pioggia ci raggiungesse anche sotto i blandi ripari che riuscivamo a trovare.

Fummo costretti a fare un percorso per andare alla stazione dei treni a chiedere informazioni sugli orari, dato che Marco qualche giorno dopo sarebbe partito ad affrontare un test d'ingresso per l'università, e io ne approfittai per informarmi sul servizio navetta che Danilo avrebbe potuto usare per raggiungermi, in caso fosse venuto a trovarmi.

Poi dovemmo, ovviamente, fare il percorso inverso e fummo grati a Lucrezia che, anziché farci tornare in autobus, ci venne a prendere in macchina e ci riportò al residence sani e salvi, più o meno.

Quando arrivammo, mi precipitai a cambiarmi e indossai dei vestiti puliti, per poi ridiscendere e raggiungere la stanza dei ragazzi, dove Viola e Tamara erano intente a preparare il pranzo. Lì mi imbattei in una ragazza che non conoscevo, la quale si presentò come Gloria, ma io non capii minimamente di chi si trattasse o che cosa ci facesse con noi.

«Che ruolo ricopre quella?» chiesi a Tamara.

«Tu lo sai? Io no» replicò confusa quanto me.

Il pranzo fu abbastanza buono e consistette in pasta al sugo e caprese. Tamara, per l'occasione, aveva preparato una versione della caprese con un formaggio diverso dalla mozzarella, dato che a nessuna delle due piaceva tanto quel latticino.

«Quella cosa non ha nessun sapore» spiegai a Viola, riferendomi alla mozzarella.

«Allora voglio assaggiare la vostra versione con il formaggio alternativo» disse la mia amica, che stava decisamente meglio rispetto al giorno precedente.

Non aveva avuto altre crisi e si era ripresa completamente, riposandosi e prendendosi cura di sé, per quanto i ritmi del campo lo permettessero.

Lei e Tamara mi raccontarono che avevano trascorso parte della mattinata chiuse in camera; Viola e Giorgio si erano adoperati per insegnare a mia sorella un po' di scrittura braille, e lei era orgogliosa di essere già capace a scrivere il suo nome.

«Brava!» le dissi con un sorriso, poi raccontai via SMS a Danilo le mie disavventure della mattinata.

Mi ritrovai a pensare ai momenti in cui io e Marco ci eravamo ritrovati, soli e vicini, sotto i ripari in città, aspettando che la pioggia ci lasciasse un po' di tregua. Era stato veramente difficile stargli accanto in quel modo, perché c'era qualcosa che mi faceva pensare ai vecchi tempi, qualcosa che mi suggeriva che non mi sarei mai davvero staccata da lui.

Mi era anche venuto in mente che quelle scene sarebbero potute essere romantiche, se solo tra noi due le cose fossero andate diversamente, o se ancora io fossi stata la Laura di un tempo. Invece ora era tutto diverso, non sentivo più il desiderio di costruire qualcosa con lui, perché non si poteva proprio fare, nella maniera più assoluta.

Mi riscossi da quei pensieri e mi alzai. «Chi mi ama mi segua, io vado in camera a preparare il caffè!» affermai, accostandomi a Marta per prendere le chiavi della nostra stanza.

«L'importante è che alle quattro e mezza siate tutti qui, verrà un ospite speciale a parlarci di una sorpresa, ma non vi anticipiamo nulla» ci informò Lorenzo.

Conoscevo le loro sorprese e non riuscii ad aspettarmi niente di buono, come al solito, nonostante alcuni dei ragazzi parvero entusiasti e insistettero per cercare di estrapolare delle informazioni in anteprima.

La giornata, che già era cominciata male, peggiorò ulteriormente non appena io, Tamara, Viola e Marco ci ritrovammo ad aspettare di bere il caffè che avevo da poco preparato.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque: The Nameless ***


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Capitolo cinque: The Nameless




Ci trovavamo in camera mia e di Viola, anche Marco e Tamara ci avevano seguito per prendere il caffè.

«L'unica che non ne beve sei tu, Vivi» osservò Tamara.

«È che poi mi agito!» ribatté l'altra.

Io sbuffai. «Questa caffettiera fa schifo! Ogni volta ci vogliono secoli prima che... ma siete impazziti?!» sbottai all'improvviso, facendo sobbalzare i presenti.

«Cosa stai dicendo?» chiese mia sorella di rimando.

«Chiudete subito la porta!» strillai, notando che Marco era seduto proprio in mezzo alla corrente d'aria che entrava dall'ingresso.

«Ma perché? Non rompere...» borbottò ancora Tamara.

«Perché entrano gli insetti, le zanzare... insomma, volete chiudere o no?!»

«Oh, ma ti calmi?» mi apostrofò Marco, con la faccia abbandonata sul tavolo.

«E secondo te dobbiamo morire di caldo perché tu sei fissata con queste cazzate? Non penso proprio!» mi contraddisse aspramente mia sorella.

«Tanto non ci dormi tu qui, la fai facile!»

«Ma hai il fornellino, attaccalo e vedi che non entra nessuna zanzara!» insistette lei.

«Ho. Detto. Di. Chiudere. Quella. Cazzo. Di. Porta.» Dopo aver scandito ogni parola, presa da un eccesso di rabbia, mi precipitai su Marco e lo sradicai letteralmente dalla sedia, per poi sbattere la porta. «Ora è chiusa e deve rimanere così. Chiaro?»

Tutti rimasero per un attimo in silenzio, poi presero a rivoltarsi contro di me.

«Ma che cazzo di problemi hai?» strillò mia sorella. «Ma fatti curare!»

«Cazzo, Lau, ti calmi?» se ne uscì Marco basito.

«Lalli, si vede che hai le tue cose eh!» rincarò Viola.

«Ma state zitti! Se avete molto caldo, basta aprire la finestra della nostra camera, ha la zanzariera!» puntualizzai, dirigendomi nuovamente a controllare a che punto fosse il nostro caffè. Ancora quell'aggeggio non dava segni di vita, così sbuffai e aprì il rubinetto del lavello, bagnandone la base come faceva sempre Marta.

Feci attenzione a non scottarmi nuovamente mentre rimettevo la caffettiera sul fornello, e rimasi ad aspettare che si decidesse a fare il suo dovere.

«Non possiamo neanche accendere l'aria condizionata, altrimenti ce la fanno pagare!» si lamentò Tamara.

«Chi se ne frega...» borbottai.

«Cazzo, Laura... non ti sopporto quando fai così!» mi disse in tono profondamente irritato.

«Non sono problemi miei. Del resto questa è camera mia, quindi vedete di adattarvi» abbaiai. «Oh, finalmente questa cazzo di caffettiera sta funzionando!» esclamai poi, udendo il tanto agognato gorgoglio del caffè che saliva attraverso il filtro.

«Ma vaffanculo, ma che cazzo hai? Sei intrattabile e insopportabile!»

«Lalli, fino a prova contraria questa è anche camera mia!» intervenne Viola.

Continuando a borbottare tra me e me, mi adoperai per portare la caffettiera sul tavolo.

«Dai, lo verso io» si offrì Marco in tono annoiato.

Mi voltai per andare a prendere lo zucchero e sbattei contro Tamara, che intanto si era accostata a sua volta al tavolo.

«E spostati!» sbraitai.

«Laura, hai rotto i coglioni! Adesso bevo il caffè e me ne vado, non ti reggo più! Sbattiti la testa al muro se sei molto nervosa, gli altri non c'entrano niente!» esplose mia sorella infuriata.

«Oh, finalmente te ne vai allora!» Tornai al tavolo e ci gettai sopra alcune bustine di zucchero.

Calò il silenzio mentre ognuno di noi beveva il suo caffè, poi Tamara e Marco lasciarono la stanza.

Se fossi stata completamente lucida, mi sarei resa conto di aver esagerato con il mio comportamento, ma in quell'istante sentivo solo ondate di rabbia invadermi completamente, senza darmi tregua.

Marta giunse in camera poco dopo ed esordì: «Mi hanno detto che qui qualcuno è incazzato».

«Odio quando la gente si coalizza contro di me solo per farmi girare ciò che non ho» scattai subito. «Scommetto che te l'ha detto quella stupida di mia sorella!»

«Ha detto che hai sradicato Marco dalla sedia e che hai urlato loro contro per tutto il tempo.»

«Ma chi si coalizza? Sei visionaria Lalli, lo sai?» interloquì Viola.

«Tu zitta!» la rimbeccai.

«Ho capito, arrangiati» concluse lei, per poi spostarsi in camera e lasciandomi in cucina con Marta.

«Oggi sei intrattabile, eh?» scherzò lei, per poi salire le scale in legno che conducevano alla sua stanza.

Sbuffai e riordinai la cucina, lavai le tazzine e la caffettiera, poi presi il cellulare e scrissi dei messaggi in cui mi sfogavo per ciò che era successo, inviandoli poi a Danilo, Beatrice e Anna.

Ero certa che loro sarebbero stati comprensivi, anche se forse avrei avuto bisogno di una bella strigliata.

Riuscii a recuperare un po' di calma solo dopo aver ascoltato The Nameless degli Slipknot a palla con le cuffie, lasciando che la voce di Corey Taylor mi graffiasse l'anima e il cervello, mentre il ritmo serrato, avvolgente e rabbioso mi faceva sentire compresa e faceva da valvola di sfogo alle mie emozioni.


Pathetic benign accept it undermine
Your opinion my justification
Happy safe servant caged
Malice utter weakness
No toleration, invade
Committed enraged admit it
Don't condescend don't even disagree
Destroy decay disappoint delay
You've suffered then now suffer unto me


Doveva essere colpa del ciclo, del fatto che mi mancasse Danilo, della mattinata trascorsa sotto la pioggia, della scottatura che mi ero procurata al dito mentre armeggiavo con la caffettiera mentre preparavo la colazione, della troppa vicinanza di Marco dettata dalle attività che gli istruttori ci imponevano di fare insieme...

Era una giornata estremamente negativa.


Giunsi al piano inferiore in ritardo, fregandomene altamente del fatto che la nostra sorpresa prevedeva che fossimo tutti fuori dalla stanza dei ragazzi alle quattro e mezza. Mi lasciai cadere su una sedia e sbuffai nell'udire le voci fastidiose di Gabriella e Nicolò che blateravano. Sarei rimasta volentieri in camera mia, anche perché il tempo non era migliorato e c'era piuttosto fresco; non pioveva più come quella mattina, ma ogni tanto un acquazzone si abbatteva sul paese. Fortunatamente noi ci trovavamo al coperto, sotto la veranda, ma ogni tanto una folata di vento portava con sé delle gocce di pioggia che mi facevano rabbrividire.

La nostra sorpresa si presentò con il nome di Sara e prese a blaterare su quanto fosse bello ed emozionante fare una bella passeggiata in riva al lago, all'imbrunire; in alternativa ci propose di andare a fare una splendida camminata in mezzo alla macchia mediterranea.

«Ragazzi, potete scegliere di fare anche entrambi i percorsi. Cosa ne pensate? Secondo me per voi potrebbe essere una magnifica esperienza!» cinguettò infine Sara. Aveva una voce irritante e un modo di parlare cadenzato e noioso, non la sopportavo, anche perché si stava rivelando insistente, nonostante educatori e istruttori le stessero spiegando che probabilmente non avremmo avuto il tempo materiale per compiere entrambi i percorsi.

«Sembrano interessanti tutti e due, perché non li facciamo?» se ne uscì Viola con entusiasmo.

«Tanto non abbiamo tempo» commentai. «E poi al lago ci sono gli insetti, che palle! Io non ho voglia di andare lì... sarebbe meglio la passeggiata nella macchia mediterranea!»

«Oh, ma tu sei un caso perso, Lau! Chi se ne frega degli insetti? Ti metti lo spray e vedrai che non ti pungono!» intervenne Tamara.

«Appunto! Dai, Lalli, che ne pensi? Sarebbe proprio bello!» aggiunse Viola.

«A me non ispira... proprio per niente, io non lo voglio fare!» ripetei.

«Solo per gli insetti!» sbottò mia sorella.

«Non solo, è che non mi piace e basta! Smettila di dire cazzate. Cosa vi cambia se ne facciamo solo uno? Abbiamo un sacco di altre cose da fare.»

«E a te cosa cambia se li facciamo tutti e due?»

Sbuffai. «Mi cambia eccome! Non ho voglia di andare a passeggiare al lago!»

«Tu sei fissata! Se la maggioranza decide di andarci, mica puoi stare qui da sola» mi fece notare Viola, mentre ci accorgevamo che tutti parevano interessati a entrambi i percorsi.

«Chi te lo dice?» alzai la voce, sentendomi irritata e indisposta dal fatto che quelle due stessero tornando alla carica insieme; stranamente erano sempre d'accordo su tutto e facevano passare la sottoscritta per una pazza lunatica.

«Oh Laura, vedi di non urlare! Capito?» se ne uscì a sproposito Nicolò, utilizzando un tono di voce molto stridulo e più elevato del mio.

«Fatti i cazzi tuoi, Nicolò!» strillai.

«Lo vedi che è isterica? Poi non ho ragione...» borbottò Tamara rivolta a Viola.

«E invece no!» ribatté Nicolò, alzandosi di scatto dalla sedia.

«Mi state distruggendo i timpani... smettetela» bofonchiò Marco.

«Ovviamente vi dovete tutti coalizzare contro di me, vero? Molto divertente! Io me ne vado, con certi idioti non c'è neanche da perdere tempo» affermai con stizza, mettendomi in piedi e avviandomi verso le scale che conducevano alla camera.

Non riuscivo bene a vedere dove mettevo i piedi, il cielo era plumbeo e pareva di essere quasi all'imbrunire, nonostante dovessero essere al massimo le sei del pomeriggio.

Borbottando, mi fiondai all'interno della stanza e chiusi la porta, sbattendola dietro di me con forza e senza riguardo.

La prima cosa che feci fu andare in bagno, il nervosismo mi aveva fatto venire un mal di pancia terribile. Nel frattempo scrissi alle persone che sapevo mi avrebbero capito e ascoltato senza giudicarmi.


Cerca di stare tranquilla dai


Il messaggio di Danilo mi fece sorridere. Non mi fu materialmente d'aiuto, ma lui era fatto così, era di poche parole e cercava di fare del suo meglio per starmi accanto.

Beatrice e Anna, invece, mi dissero che probabilmente quella era una giornata destinata a procedere in negativo, e che non riuscivano a capire come potesse esserci una coalizione contro di me.


Non è che si tratti proprio di una coalizione... è che Viola e Tamara si trovano sempre d'accordo, e mi danno contro insieme... a me dà fastidio anche perché a volte sto discutendo con una, e l'altra si intromette difendendola, manco fossero l'unia l'avvocato delle cause perse dell'altra! Insopportabili... uff... poi quel coglione di Nicolò che si intromette a sproposito... l'avrei pestato, giuro! Lui non c'entrava proprio niente in tutta questa storia!


Scrissi e inviai lo stesso messaggio sia a Beatrice che ad Anna, poi riuscii finalmente a uscire dal bagno e mi diressi a prendere il computer che avevo riposto dentro l'armadio. Lo accesi e decisi che avevo proprio bisogno di scrivere. In momenti come quello, l'unica cosa che poteva distrarmi era proprio la scrittura.

Non avrei mai immaginato che al campo avrei trovato il tempo e l'occasione per una simile attività: i ritmi per noi erano sempre frenetici e serrati, e alla fine della giornata eravamo tutti stanchi e stravolti, troppo per poter decidere di compiere qualsiasi azione che richiedesse concentrazione.

L'unico a soffrire d'insonnia era Marco, anche se io credevo si trattasse più di un atteggiamento o di un problema psicosomatico, piuttosto che una vera e propria mancanza di sonno. Così ne approfittava per ripassare e fare i test per prepararsi all'esame di ammissione che avrebbe sostenuto di lì a pochi giorni. Non do come potesse riuscirci, non di notte e dopo una lunga ed estenuante giornata.

Prima di aprire il programma di scrittura, afferrai il cellulare e misi su un po' di musica, riascoltando innanzitutto The Nameless. Avevo bisogno di carica, di rabbia come la mia, anche se poi cominciai a scrivere un capitolo veramente triste e malinconico, dove non c'era stizza né furia, ma solo un'infinita angoscia.


Anyone no anything yes anyway fall anybody mine
Anybody tell me
I want you I need you I'll have you I won't
Let anybody have you
Obey me believe me just trust me worship me
Live for me
Be grateful now be honest now be precious now
Be mine just love me


Più scrivevo, più sentivo la negatività scemare, ma avevo ancora bisogno di sentire quella canzone che parlava di odio e di possessione, quella canzone che non c'entrava niente con la mia situazione, ma che in qualche modo mi apparteneva e mi capiva, utilizzando solo un ritmo veloce, un grido continuo, una batteria ossessiva e degli stacchi melodici colmi di disperazione.


I never wanted anybody more
Than I wanted you
(I know) the only thing I ever really loved
Was hate


E mi lasciai guidare dalla musica e dalle mie dita sulla tastiera, estraniandomi dalla realtà e smettendo di pensare a tutte le liti e tutti gli eventi negativi della giornata.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei: Fyah ***


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Capitolo sei: Fyah




«Racconta.»

«Praticamente ieri notte io, Marco, Marta e Giovi eravamo in terrazza, davanti alla mia camera» spiegò Tamara. «Siamo rimasti a blaterare per un sacco di tempo, poi Marta e Giovi se ne sono andate e io sono rimasta sola con Marco. Stavo giocando con i suoi capelli, sai come l'ultima notte dello scorso campo, no?»

Annuii mentre cercavo qualcosa da mettermi. «Sì. Ma era tardi, no? Dopo la giornata terribile di ieri, come hai fatto?»

«Non chiedermelo, perché non lo so neanche io. Comunque, poi stava piovendo e noi siamo rimasti a parlare e a guardare i lampi. O meglio, lui li guardava, io non li vedevo! Nel frattempo lui stava studiando, cioè faceva quei test per prepararsi all'esame di ammissione per l'università.»

Viola intervenne: «Di notte? E come faceva a leggere? Ma è pazzo?!».

«Certo che è pazzo» confermai.

«Lui sostiene che riesce a vedere benissimo, anche se sinceramente non so come sia possibile. Attacca la faccia al libro e a volte non si capisce cosa dice» raccontò in tono ironico mia sorella, per poi sedersi sul mio letto e sospirare.

Io e Viola ridacchiammo.

«A un certo punto, così, a caso, gli ho chiesto qual era la sua più grande paura. Era un momento idilliaco, credetemi!» esclamò divertita Tamara.

«Sentiamo le sue massime» borbottai, infilandomi un paio di leggings neri.

«Ha detto che il suo più grande terrore è diventare cieco» ci rivelò mia sorella.

«Ma che terrore è?» se ne uscì Viola. «Sapete cosa vi dico? L'epilessia terrorizza, non la cecità.»

Le parole di Viola mi colpirono, mi fecero riflettere e mi ritrovai a darle mentalmente ragione. Mentre lei e Tamara continuavano a parlare, io mi immersi nel ricordo di tutte le crisi di Viola a cui avevo assistito, comprese quelle avvenute solo due mattine prima, in spiaggia; mi tornò in mente il suo pianto di due sere prima, durante il quale si era sfogata e mi aveva confidato di non poterne più di quelle crisi, di non voler essere un peso o una preoccupazione per gli altri. Mi aveva descritto ancora una volta quegli avvenimenti come un elettroshock e io avevo cercato di consolarla in tutti i modi, ma sapevo che il suo malessere era troppo profondo per essere curato con le mie stupide parole.

Tuttavia, sapevo anche che Viola era forte, una delle persone più forti che avessi mai conosciuto: affrontava ogni cosa con il sorriso, scherzava sui suoi problemi, non si lasciava abbattere, anche se ogni tanto sentiva il bisogno di sfogarsi come tutti.

«Insomma, l'importante è che non si faccia strane idee» concluse Tamara. «Altrimenti lo spedisco su Marte in un attimo!»

«Attenta, conoscendolo, potrebbe allungare le mani...» buttai lì, finendo di prepararmi.

«Oddio, non dirmelo! Potrei rimettere lo yogurt che ho mangiato a colazione, più la cena di ieri e...»

«Non ci interessa!» tuonai, per poi scoppiare a ridere.

Il nervosismo del giorno prima sembrava svanito nel nulla, grazie anche al fatto che dopo cena avevo parlato al telefono con Danilo ed ero riuscita a rilassarmi un sacco.

Mi mancava terribilmente.


Il pomeriggio giunse in fretta. Avevamo una visita programmata per le quattro, avremmo trascorso un po' di tempo all'interno di un museo tattile e io non vedevo l'ora.

Come al solito, fummo costretti a spostarci in due gruppi, vista la scarsa capienza del furgoncino che avevamo a disposizione. Marco e Tamara partirono insieme al primo gruppo, così quando anche noi giungemmo a destinazione, notai che mia sorella era un po' sconvolta.

«Cosa è successo?» le chiesi subito.

«No, ma secondo me Marco ha problemi seri!» esclamò.

«Quello l'avevamo capito. Che ha combinato stavolta?»

Tamara sospirò. «Prima che arrivaste voi, siamo andati in un bar a comprarci l'acqua perché io stavo morendo di sete. Be', lui si è preso un Montenegro e poi aveva sete e voleva bere dalla mia bottiglietta!»

«Un Montenegro alle quattro del pomeriggio?»

Lei annuì. «Ha detto che aveva bisogno di qualcosa per digerire.»

Scoppiai a ridere. «Che schifo, ma è un caso perso!»

«No, è alcolizzato! Comunque non gli ho fatto toccare la mia acqua, che se la compri anziché bere altre cazzate!» concluse mia sorella con decisione.

«Fatto bene!»

Nel frattempo avevamo preso a camminare nel centro storico della città, calpestando un lastricato punteggiato di pietre e trovandoci a sfilare attraverso stradine molto strette e chiuse al traffico. Ci fermammo poco dopo di fronte a un enorme portone ad arco e apprendemmo che saremmo presto entrati nel museo.

Ci ritrovammo in un atrio buio e poco spazioso. Fummo accolti da una donna che ci spiegò subito che la nostra guida sarebbe stata una persona non vedente. Dopo aver atteso per qualche minuto, fummo introdotti in una sala più grande e luminosa, al centro della quale faceva bella mostra un enorme espositore che si estendeva in lunghezza. Sulla parte piana era ricoperto di oggetti, mentre in verticale era composto di pannelli tattili con scrittura braille e in nero a carattere ingrandito, sui quali erano puntati dei faretti.

Trascorsero soltanto cinque minuti prima che cominciassi a stancarmi. La nostra guida, un certo Maurizio, era flemmatica e noiosa, così io e Tamara ci aggirammo per conto nostro lungo l'espositore, che poi scoprimmo essere attrezzato su due lati. In quella stanza faceva caldo, non c'era poi tanta luce e io trascorsi il tempo a scattare delle foto a tutti gli oggetti presenti, ma poi fui raggiunta dal solito mal di schiena che mi fece desiderare una sedia comoda su cui poggiarmi.

«Oddio, non ne posso più...» bisbigliai a Tamara dopo circa un quarto d'ora.

La visita sarebbe stata molto interessante se solo Maurizio si fosse soffermato meno su ogni singolo oggetto, anziché elencare vita, morte e miracoli sui popoli che lo avevano utilizzato in passato.

A un certo punto anche Marco ci raggiunse e io faticavo ormai a stare in piedi senza avvertire un dolore lancinante.

«Dicono che dobbiamo andare ad accompagnare quella tizia alla stazione» bofonchiò.

«Quale tizia?» chiese Tamara confusa.

«Gloria. Oh, finalmente se ne va! Non la sopportavo più. Sapete che è un essere talmente amorfo che non ha fatto altro che stare in bagno da quando è approdata nella nostra stanza?» raccontai a bassa voce.

«Oddio» disse Tamara. «In bagno?»

«Sì. Deve aver confuso la nostra stanza per la sua lettiera personale. E non vi dico che puzza c'è là dentro ogni volta che esce...»

«Cazzo, che schifo!» sbottò Marco.

«State parlando male della nostra ospite?» ci raggiunse Marta, parlando in tono ironico.

«Deve soffrire di diarrea cronica» le feci notare con un sorrisetto ironico.

«Ma che ruolo ricopre? Io non l'ho ancora capito» osservò mia sorella perplessa.

«Nemmeno io. Qui sanno tutto gli istruttori, io e Giovi non ne abbiamo idea» spiegò con fare allusivo l'educatrice.

«E quindi dovremmo andare ad accompagnarla alla stazione? No, che palle! Io voglio andare da BOD!» mi lamentai.

BOD era l'acronimo di Black Or Die, un famoso negozio presente nella città in cui ci trovavamo, nel quale era presente un vasto assortimento di dischi, abbigliamento e accessori in stile rigorosamente rock e metal. Io volevo andarci assolutamente, non bazzicavo spesso da quelle parti e adoravo quel posto. Non volevo perdere l'occasione di passarci per colpa di una cretina insignificante che aveva bisogno della scorta per prendere uno stupido treno.

«Ora vediamo» fu tutto ciò che Marta poté rispondermi.

«Io quella non so neanche chi sia, cosa me ne frega di andare ad accompagnarla alla stazione?» concordò Marco. «Anche io voglio andare da BOD!»

«Pure io! Non ci entro da una vita» si intromise Tamara.

«Adesso ne parlo con gli altri. State tranquilli. Lau, cos'hai?» mi domandò Marta, notando che probabilmente non facevo che spostare il peso del corpo da un piede all'altro e ogni tanto mi esprimevo in qualche smorfia di dolore, portandomi una mano sul fianco sinistro.

«Mal di schiena. Non c'è una sedia in questo posto?»

«Sì, laggiù» replicò Marta indicando un punto a me invisibile. «Marco, l'accompagni tu per favore?» Detto questo, l'educatrice si unì nuovamente al resto del gruppo, che intanto stava facendo un baccano assurdo, cullato sempre dalla voce monotona della guida.

Marco disse: «Andiamo». Io lo afferrai per il braccio, trascinando con me anche mia sorella. Si avviò con passo spedito verso il punto in cui avrebbero dovuto esserci delle sedie, ma all'improvviso si bloccò. «Ma che cazzo...» imprecò.

Allungai una mano e mi ritrovai a toccare qualcosa di simile a una credenza, un mobile, forse una cassettiera. Tutto, fuorché una sedia.

«Ehm... Marco, come facciamo a sederci qui?» gli feci notare, trattenendo a stento le risate.

Lui ci lasciò lì e andò a cercare Marta.

«Tami?»

«Lau?»

«Ma che problemi cognitivi ha questo?»

«Sta perdendo la vista, te lo dico io» osservò mia sorella.

«E non lo vuole ammettere.»

«Esatto.»

Sospirai. «Che essere problematico» conclusi, mentre Marco tornava da noi in compagnia di Marta, continuando a ripetere che forse lei aveva sbagliato a indicargli la giusta direzione da seguire.

Era irrecuperabile, mi faceva davvero pena.


Black Or Die consisteva in una stanza quadrata piena zeppa di CD, vinili, accessori chiusi in delle vertinette, poster giganti, magliette e felpe con i loghi di un sacco di band rock e metal...

Era un paradiso musicale, questo era l'unico modo che trovai per descriverlo. Non era la prima volta che entravo in quel negozio, ma l'effetto era sempre lo stesso.

Dopo l'estenuante visita al museo, io e Marco eravamo riusciti a convincere Samuele ad accompagnarci da BOD; neanche a dirlo, mia sorella mi era arrabbiata un sacco perché non l'avevamo portata con noi, ma avevamo fatto tutto di fretta, temendo che il negozio chiudesse.

Fortunatamente non avevamo dovuto accompagnare quella piattola di Gloria alla stazione, l'avevamo a malapena salutata quando ancora eravamo seduti dentro il museo, e io ero molto contenta di essermene liberata. Non sopportavo più quella presenza quasi spettrale in camera mia.

Quando uscii da BOD, stringevo tra le mani un sacchetto con due CD: si trattava dell'omonimo album dei Rage Against The Machine e poi di un quasi introvabile disco di Babaman, ovvero Dinamite. Anche quella volta Black Or Die era riuscito a sorprendermi, regalandomi un acquisto inaspettato.

Quando tornammo dal resto dagli altri, che intanto stazionavano da almeno un'ora in un bar del centro che riusciva a contenerli a malapena, mia sorella si rivoltò contro di me.

«Sapevi benissimo che volevo venire anche io da BOD! Sei una stronza!» sbottò non appena mi vide, senza neanche salutarmi.

«Scusa, ma era già tardi e avevamo paura che chiudesse! Che palle, adesso non cominciare...»

«E ma cazzo, lo sapevi che volevo venire!» ripeté.

«Ormai è andata così! Se non la smetti non ti dico cosa ho comprato» la minacciai scherzosamente, cercando di stemperare l'atmosfera.

Continuammo a battibeccare per un po', mentre tutti insieme ci spostavamo in un locale per la cena. Questa trascorse tranquillamente, anche se Simona volle che il menu le venisse letto tre volte prima di optare per la sua solita pizza con le melanzane.

Tutto sommato quella giornata era andata bene, mi ritrovai felice dei miei acquisti e mi divertii anche una volta al residence, poiché Tamara rimase con me e Viola fino all'una e un quarto di notte e insieme ridemmo un sacco di Marco e del suo sbaglio all'interno del museo.

«Anche secondo me è peggiorato e non vuole ammetterlo» concordò Viola. «Ma che senso ha?»

«Non lo so proprio» le disse Tamara.

Continuammo a ridere e parlare finché non fummo troppo stanche, così mia sorella andò via e io mi ritrovai a letto soddisfatta.

L'ultima cosa a cui pensai prima di dormire, fu che avrei voluto tanto portare Danilo con me al museo tattile, un giorno. Era come se sentissi già vibrare le sue emozioni, quelle emozioni che si provavano quando si entrava a contatto e ci si immergeva in un mondo diverso da quello a cui si era abituati.

Sì, gliel'avrei proposto.




Cari lettori, torno a farvi un salutino :)

Come vi sembra questa storia? È degna delle due precedenti? Spero di sì, vi dico solo che devono succedere ancora un sacco di cose! :D

Sono qui principalmente per darvi un'informazione di servizio (?): il negozio Black Or Die non è una novità per la sottoscritta; infatti, appare – anzi, viene nominato – nella mia vecchia long Rapture. Siccome lì non mi era stato di nessuna utilità, dato che tutto girava attorno a un certo Metalland, ho deciso di riproporlo nelle avventure della nostra Laura! Che ne pensate?

Inoltre sono veramente felice di poter usare una canzone come Fyah di Babaman per questo capitolo: è uno dei primi pezzi che conobbi di tale artista, uno di quelli a cui sono più legata per via dei ricordi a cui rimanda (vero, Soul? XD) e uno dei più belli e rappresentativi di Dinamite, almeno secondo me ^^

Inoltre, chi segue la mia long sui System Of A Down, si sarà sicuramente accorto che questo titolo è identico a uno degli ultimi capitoli che ho pubblicato in quella storia! Eh sì, nel reggae la parola fyah è molto usata e significativa, quindi è quasi inevitabile che tanti brani abbiano lo stesso titolo, o che una determinata scena rimandi all'utilizzo di tale parola per essere descritta :D

Bene, vi ringrazio per essere arrivati fin qui e per il continuo sostegno che mi date!

Alla prossima ♥

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Capitolo 7
*** Capitolo sette: Sono solo canzonette ***


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Capitolo sette: Sono solo canzonette




Mi ricordo che anni fa

di sfuggita dentro un bar

ho sentito un juke-box che suonava

e nei sogni di bambino

la chitarra era una spada

e chi non ci credeva era un pirata!

[...]

E così e se vi pare

ma lasciatemi sfogare

non mettetemi alle strette

e con quanto fiato ho in gola

vi urlerò: non c'è paura!

ma che politica, che cultura,

sono solo canzonette!

non mettetemi alle strette

sono

sono

sono solo canzonette!


Mentre tutti eravamo a bordo di un pullman che ci stava trasportando verso il maneggio in cui avremmo trascorso la mattinata, Gabriella non faceva che ascoltare e “cantare” Sono solo canzonette di Edoardo Bennato. Non ne potevo più di sentirla, specialmente perché la ragazza non faceva che rovinare la canzone con il suo modo di interpretarla noioso e monotono.

Inoltre, erano giorni che non faceva che alternarla ossessivamente con #fuoriceilsole e Roma-Bangkok.

«Oddio, se la sento un'altra volta, giuro che vomito» brontolò Tamara.

Io, lei, Viola e Marco ci eravamo accaparrati gli ultimi quattro posti sul pullman e stavamo cercando di non ascoltare i deliri di Gabriella, la quale veniva incoraggiata da un divertito Nicolò e dal povero Giorgio: entrambi erano in fissa con le stesse canzoni e le chiedevano di ascoltarle a ripetizione.

Diedi di gomito a mia sorella. «Porto fuori le cuffie e ascoltiamo qualcos'altro?»

«Sarebbe bello, altrimenti porto fuori le mie. Non la sopporto più!»

«Dai, Gabriella, la rimetti Roma-Bangkok? È troppo bella!» strillò Nicolò in preda a chissà quale entusiasmo immotivato.

«Aspetta, prima voglio riascoltare Bennato!» Detto questo, gridò rivolta al suo cellulare: «Riproduci brano Sono solo canzonette».

Per l'ennesima volta le note di quella canzone si diffusero nel pullman e io alzai gli occhi al cielo.

«Giuro che mi piace questa canzone, ma lei me la sta facendo odiare» dissi.

«Che palle... io ascolto i Death adesso, devo anestetizzarmi» bofonchiò Marco, facendo partire una canzone metal a tutto volume, senza infilarsi le cuffie.

Viola subito si rivoltò: «Oddio, no, togli questa cosa! È terribile! Ma sta vomitando?».

«Vivi, sei assurda! Dai Marco, ma non puoi metterti gli auricolari?» lo rimbeccò Tamara.

Fortunatamente il viaggio non fu molto lungo; infatti, dopo aver condiviso per qualche canzone le cuffie con mia sorella, fummo costretti a scendere dal nostro mezzo e ci ritrovammo in un piccolo angolo di paradiso.

Eravamo quasi completamente immersi nella natura, circondati dalla macchia mediterranea, mentre in lontananza si potevano scorgere delle strutture non meglio identificate.

«Qui c'è un maneggio, ma anche un albergo» ci spiegò Marta, mentre si avvicinava a noi con Simona e Giorgio appesi alle braccia.

«Cioè? Un albergo a fianco a un maneggio? Che puzza» osservai mentre venivo già raggiunta da un sacco di mosche che si aggiravano intorno a noi. «No, io odio gli insetti! Mi sono già rotta!» aggiunsi, scacciando uno di quei maledetti animaletti.

«Andiamo ragazzi, avviciniamoci al punto d'incontro» ci incitò Giovanna, così tutti procedemmo al suo seguito.

Camminammo attraverso alcuni stretti sentieri e raggiungemmo in breve tempo uno spiazzo in cemento coperto da una tettoia. Dovemmo attendere alcuni minuti prima che qualcuno ci raggiungesse e ci spiegasse cosa avremmo fatto.

«Adesso andremo al coperto, nel capannone, dove vi insegneremo a strigliare e pulire i cavalli, poi ci potrete anche salire sopra per un breve giro al coperto. Dopodiché ci sarà la passeggiata verso la spiaggia, durante la quale ognuno di voi avrà un accompagnatore che camminerà accanto a lui e controllerà il cavallo. Quindi non preoccupatevi, andrà tutto bene e vi piacerà. Inoltre, i nostri cavalli sono addestrati e abituati a stare a contatto con un sacco di gente» spiegò con entusiasmo un uomo sulla quarantina.

«I ragazzi giovani come voi piacciono tanto ai nostri tesori» aggiunse una donna dalla voce dolce e rassicurante.

Venimmo condotti all'interno di un enorme capannone dal pavimento ricoperto di sabbia. Alcuni cavalli erano già pronti e ci aspettavano accanto a una parete su cui erano appesi, come apprendemmo poco dopo, vari strumenti che sarebbero serviti per pulirli e sistemarli.

«Oddio, che emozione, i cavalli mi piacciono un sacco» disse Viola. «Non vedo l'ora di salirci!»

Stranamente, anche io ero molto impaziente di vivere quell'esperienza, perché i cavalli non mi spaventavano come la maggior parte degli animali. Mi era capitato già in passato di salire su un cavallo e la cosa era stata di mio gradimento, perciò mi trovai in perfetto accordo con la mia amica.

«I cavalli a nostra disposizione sono solo due, quindi farete i turni. Avvicinatevi in coppia, prego» ci disse ancora l'uomo che ci aveva accolto; nonostante avesse detto il suo nome, io non riuscivo a ricordarlo.

Fu un'esperienza bellissima utilizzare le spazzole e sentire quei meravigliosi animali reagire positivamente, evidentemente contenti che qualcuno si prendesse cura di loro in quel modo.

«Devi compiere dei movimenti semicircolari con la spazzola, sì, brava, così! Ricordami il tuo nome» mi istruì pazientemente uno dei tanti aiutanti che si stavano occupando di noi.

«Laura.»

«Ecco, Laura. Sei mai andata a cavallo?» volle sapere.

«Sì, due o tre volte. Mi è piaciuto molto.»

Una volta ultimata l'operazione che stavamo compiendo, a qualcuno toccò l'arduo compito di pulire gli zoccoli ai nostri simpatici nuovi amici.

Fu divertente notare che Marco imprecava perché non riusciva a far sollevare la zampa al cavallo, mentre Giorgio si rivelò molto affine all'animale che gli era stato affidato e si divertì un sacco.

Dopodiché salimmo, sempre facendo i turni, in groppa; mi resi conto che montare a cavallo era molto più difficile di quanto ricordassi, forse perché quegli animali erano veramente alti e maestosi.

«Forse non sono mai salita su un cavallo così alto» bofonchiai, quando riuscii maldestramente ad ancorarmi alla sella.

«C'è sempre una prima volta, visto?» scherzò uno degli aiutanti.

Mi accompagnò per un paio di giri all'interno del capannone e, nonostante la cosa mi piacesse, sentivo anche delle proteste provenire dalla mia povera schiena. Tuttavia, cercai di ignorarle e pensai solo a divertirmi, riscoprendo la stupenda sensazione di essere trasportata da un essere vivente che si muoveva sotto di me e reagiva a ogni mio movimento. Riuscii a adattarmi a lui e lui in qualche modo si adattò a me, finché entrambi non ci rilassammo e la passeggiata proseguì tranquillamente.

Lo stesso accadde quando uscimmo all'aperto e ci recammo presso la stalla per raccattare degli altri cavalli. Prima che potessimo montare in groppa, ci furono consegnati dei caschetti da indossare per questioni di sicurezza.

Faceva un caldo pazzesco, le mosche ci aggredivano impietose e il sole era sempre più alto nel cielo.

«Questi così fanno sudare un sacco» mi lamentai, una volta che il mio casco fu allacciato a dovere.

«Cerca di resistere, dai» mi disse Giovanna, aiutando Gabriella a sistemarsi sul suo cavallo.

Per me fu più facile raggiungere la sella rispetto a quanto accaduto in precedenza. Una volta pronta, però, qualcosa andò storto.

«Oddio...» mormorai, sentendo la mia cavalla muoversi. In un attimo mi accorsi che stava avanzando a piccoli passi, dal momento che la mia aiutante si era allontanata un attimo per aiutare Simona.

«Qualcuno mi aiuti, sta camminando!» mi agitai in preda al panico, non sapendo minimamente come fermerlo. Improvvisamente avevo dimenticato come fare, sentivo solo l'ansia invadermi e avevo una fottuta paura di venir trascinata chissà dove.

«Lau! Come mai il tuo cavallo si è spostato? Devi avergli dato sbadatamente il comando per...» commentò Giovanna, in piedi accanto a Nicolò, già in sella da tempo.

«Non lo so, ma... aiutatemi!»

«Laura, tira le redini! Tutte e due insieme!» mi suggerì la mia aiutante, tornando con calma verso di me. Evidentemente sapeva che non c'era di che preoccuparsi, perciò mi tranquillizzai a mia volta e feci ciò che mi diceva, ma il cavallo non si fermò.

«Più forte, dai! Non gli farà male, la aiuterà a capire che deve fermarsi. Coraggio!»

Riprovai con più forza e stavolta l'animale su cui ero appollaiata si immobilizzò.

Tirai un sospiro di sollievo e mi rilassai completamente, rendendomi conto che avevo cominciato a sudare freddo. «Mio dio» mormorai.

Da quel momento la mia accompagnatrice non mi lasciò un attimo da sola, rimase accanto a me durante tutta la passeggiata verso la spiaggia e durante il tragitto di ritorno, così come fecero tutti gli altri aiutanti con i miei compagni d'avventura.

Fu molto bello stare a cavallo in mezzo alla natura, sfilare in mezzo agli alberi di pino, ritrovarsi a inciampare leggermente su qualche sasso disseminato qua e là e sentire il cavallo perdere per un attimo l'equilibrio, rendersi conto di essere sulla sabbia e notare alla propria destra il mare con le sue onde che si infrangevano sulla riva, guardare tutto dall'alto e sorridere perché era come essere liberi.

Educatori e istruttori scattarono un sacco di foto, tra cui una panoramica in cui ripresero tutti noi ragazzi uno accanto all'altro sui nostri cavalli, mentre alle nostre spalle si estendeva la spaiggia e più in fondo la distesa salmastra che portava con sé una brezza umida e invitante.

Tornammo nella zona delle stalle completamente sfiniti ma contenti, perché per tutti noi era stata una bellissima esperienza che avremmo ripetuto anche subito.


Eravamo tutti seduti attorno a due tavoli quadrati che avevamo accostato per poter stare più comodi. Avevamo raggiunto il bar presente nella piscina dell'albergo per il pranzo, dopo esserci congedati dai nostri aiutanti e dai meravigliosi animali che ci avevano allietato la mattinata.

Avevo un terribile mal di schiena e trovavo la sedia su cui mi ero accomodata tremendamente dura, ma cercai di non farci troppo caso e mi concentrai sulle conversazioni con i miei compagni.

Poco prima di lasciare il maneggio, avevo sentito Danilo al telefono e gli avevo raccontato ciò che mi era successo, quanto tutto questo mi fosse piaciuto e non avevo tuttavia omesso i dolori che avevo provato nel corso della mattinata.

Lui mi aveva consigliato di riposarmi una volta rientrata al residence, ma se non avevo capito male saremmo andati al mare nel pomeriggio.

Fui contenta di notare che il cielo si era oscurato e che delle nuvole grige non promettevano niente di buono, così educatori e istruttori furono costretti ad ammettere che non era il caso di andare al mare.

Mentre ripensavo a Danilo e al fatto che ancora non era riuscito a venire a trovarmi, una sensazione spiacevole si impossessò di me: davvero stava risultando così difficile per lui raggiungermi? In treno ci avrebbe impiegato al massimo quaranta minuti.

Fui distratta da mia sorella che imprecava: «No cazzo, è pieno di api!».

Mi allarmai subito e mi immobilizzai sulla sedia, guardandomi attorno in cerca di una qualche via di fuga; ci trovavamo su una sorta di veranda rialzata rispetto alla piscina, infatti eravamo saliti per una piccola gradinata prima di poter raggiungere il bar.

A quel punto si scatenò un po' il panico generale, ma Lorenzo e Samuele riuscirono a trovare un metodo per attirare le api in un unico punto lontano da noi. Non seppi come ci riuscirono, ma gliene fui estremamente grata, altrimenti non sarei stata in grado di mangiare il mio panino.

Avevamo da poco finito di mangiare, quando accadde qualcosa che non mi sarei mai aspettata.

Giovanna e Lucrezia arrivarono da noi in compagnia di un uomo a me sconosciuto, il quale indossava abiti semplici, non era tanto alto e doveva aver superato la cinquantina. Io comunque non ero brava a definire l'età delle persone, specialmente quando non potevo scorgerne bene i lineamenti, proprio come in quel caso.

«Ciao ragazzi» esordì lui in tono gentile.

«Indovinate chi è?» se ne uscì Lucrezia tutta contenta.

«Non saprei...» disse Gabriella.

Io ero perplessa. Chi poteva mai essere?

«Dai, lo conoscete bene, provate a indovinare!» rincarò Giovanna.

L'uomo sorrise appena e riprese a parlare: «Come state? Vi state divertendo in vacanza?».

«Dai, non riconoscete la sua voce? Non ci credo!» esclamò Marta.

Noi rimanemmo in silenzio. Io non avevo minimamente idea di chi potesse essere, la sua voce a primo impatto non mi sembrava familiare.

«Ditecelo, tanto non ci arriviamo!» tagliai corto.

«Dai... inizia con la b» ci suggerì Lorenzo.

«Con la b?» rifletté Nicolò confuso.

«Non lo so! Ce lo dite?» si stancò Gabriella.

«Va bene! Ragazzi, vi presento Edoardo Bennato!» annunciò infine Giovanna.

Calò il silenzio, durante il quale io cominciai a sentire una sensazione indescrivibile si impossessava di me; ero incredula, scioccata, basita, emozionata, imbarazzata... tutto insieme.

Non lo avevo riconosciuto, ma c'era da dire che non possedeva la stessa voce di quando lo si ascoltava cantare.

Gabriella diede subito voce a quel mio ultimo pensiero: «Hai la voce diversa!». Poi parve accorgersi di chi si trovava al nostro tavolo e cominciò a ridacchiare, imbarazzata, non riuscendo più a controllarsi.

A quel punto realizzai anche io cosa stava succedendo e mi premetti le mani sul viso. «Non è possibile! Non ci credo! Oddio!» continuava a ripetere.

Mi resi conto troppo tardi che probabilmente le nostre reazioni avevano messo in imbarazzo l'artista che si era gentilmente avvicinato a noi per un saluto e qualche foto.

Ci mettemmo più volte in posa e a un certo punto Gabriella e Nicolò presero a intonare:


Mi ricordo che anni fa

di sfuggita dentro un bar

ho sentito un juke-box che suonava

e nei sogni di bambino

la chitarra era una spada

e chi non ci credeva era un pirata!


Bennato canticchiò qualcosa con loro e io mi sentii imbarazzatissima per qualla scena piuttosto raccapricciante.

Poco dopo lui ci salutò e ci augurò buon proseguimento con la nostra vacanza, poi andò via.

«Oddio, ma davvero lo abbiamo conosciuto?» chiesi a mia sorella.

«Sì... credo...»

«La nostra infanzia, Tami!»

«Oddio...»

Dopodiché afferrai il cellulare e cominciai a inviare un sacco di messaggi ad amici e parenti, raccontando quanto mi era appena successo.

Ero seriamente senza parole.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto: Prison Song ***


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Capitolo otto: Prison Song




Ciao Lau, allora stasera veniamo a trovarti, va bene?


Ehii Cri, ma certo! A che ora arriverete? :)


Adesso ne parlo con Lucia e Michele e ti faccio sapere :-)


Perfetto, allora attendo vostre notizie ;)


Eravamo da poco tornati al residence e io stavo scambiando dei messaggi con Cristina, una mia amica. Lei, sua sorella Lucia e il suo ragazzo Michele si stavano organizzando per venire a trovarmi, dal momento che quel giorno c'era la festa paesana nel luogo in cui stavamo svolgendo il campo. Essendo domenica, ci sarebbe stata anche la tradizionale processione, la stessa a cui avevamo assistito durante il campo precedente.

Mi alzai dal letto su cui mi ero stesa dopo aver fatto la doccia e avvertii ancora una volta una fitta atroce alla schiena. Avrei avuto bisogno di molto riposo dopo l'esperienza a cavallo, ma ovviamente non avremmo avuto il tempo per farlo, perché alle sette meno venti dovevamo essere pronti per uscire.

Raggiunsi la cucina e mi affacciai alla scala in legno che portava al piano superiore, ovvero alla camera di Marta.

«Ci sei?» domandai all'educatrice.

«Sì! Dai, sali!» mi invitò lei in tono allegro.

Riuscii ad arrampicarmi per quei gradini, reggendomi alla parete con le mani, finché non emersi in un ambiente che aveva l'aspetto di una mansarda, era tutto ricoperto di legno e dava l'impressione di essere una serra, visto l'afoso caldo che lo permeava.

Marta aveva spalancato la finestra, ma il fatto che il cielo fosse coperto di nubi basse e immobili impediva a qualsiasi brezza di materializzarsi e stemperare un po' la stanza.

«Ti piace la mia camera?»

«Fa un caldo terribile!» borbottai.

«Lo so, a chi lo dici!»

Sorrisi. «Marta, i miei amici hanno detto che vengono a trovarmi. Possono, vero?» mi sentii in dovere di chiedere, anche se per me era scontato che loro potessero raggiungermi.

«Non lo so, devo chiedere agli istruttori. Mando ora un messaggio nel gruppo WhatsApp e...»

«Chiedere? Ma chiedere il permesso?» Ero stranita, non riuscivo a spiegarmi le sue parole.

«Lo sai che qui non decido io» tagliò corto in tono leggermente amaro e ironico.

«Ma che decisione bisogna prendere? Mi sembra di essere in prigione!» sbottai contrariata.

«Dicono che non può entrare chiunque qui al residence, ci vogliono delle autorizzazioni e...»

La interruppi: «Stiamo fuori dal cancello, se è questo il problema!».

«Ma penso che dovrete fare qualche attività tra poco, non ci sarebbe il tempo. Non so cosa dirti, sono ordini dall'alto» concluse lei dispiaciuta, pettinandosi frettolosamente i capelli.

Basita, ridiscesi le scale e rientrai impettita in camera; recuperai il cellulare e scrissi un altro messaggio a Cristina.


A quanto pare non potete entrare in struttura... senti, ci vediamo direttamente nella piazza in cui si ferma la processione? Se non ho capito male, vogliono portarci lì...


Mmh ok, va bene :-) arriviamo verso le 7 cmq


Scusate davvero, purtroppo qui io non decido un cazzo... sapessi quanto sono incazzata Cri...


Dai tranquilla Lau non ci puoi fare nulla ;-)


Sorrisi appena per il fatto che Cristina mi mandasse sempre le faccine con il naso, era qualcosa che la caratterizzava. Io non le sopportavo, però vederle apparire sul mio cellulare scatenava sempre la mia ilarità.

Nel frattempo raccontai l'accaduto via SMS anche ad Anna, Beatrice e Danilo, i quali furono estremamente dalla mia parte e si mostrarono comprensivi.

Intanto Viola uscì finalmente dal bagno e quasi contemporaneamente Tamara ci raggiunse.

Annunciò: «Oddio, ragazze, che schifo! Gabriella non vuole fare la doccia!».

«Cosa?!» sbottammo all'unisono io e Viola.

Marta, dalla sua stanza, prese a ridere e gridò: «Non dire cazzate!».

«Lo giuro! Ha detto che tanto non si è sporcata. Io sono sconvolta! Sono scappata perché in camera nostra c'era un odore di maneggio allucinante! Ha anche detto che si lava a pezzi, così, una cosa veloce...»

Mi portai una mano sulla fronte e sospirai. «Oddio che schifo, non farmi vomitare!»

«Tami, stai scherzando, vero?» disse Viola sconvolta. Anche se non riuscivo a vederla, avrei scommesso che sul suo viso fosse dipinta una smorfia schifata e incredibilmente buffa.

«No, non scherzo. Stavo per vomitarle addosso, pensate che non voleva neanche cambiarsi i vestiti!» raccontò ancora mia sorella.

Io ero veramente senza parole, perciò cominciai a ridere e presto contagiai anche le altre, scaricando un po' quel senso di tensione che mi si era aggrappato addosso dopo aver appreso che sarebbe stato un problema vedere i miei amici.

In seguito raccontai l'accaduto anche a Tamara e Viola e loro rimasero sorprese quanto me, domandandosi quale fosse la difficoltà tanto declamata dagli istruttori.

«Mi sembra di stare in carcere! E questo dovrebbe essere un campo mirato a responsabilizzarci? Ho ventitré anni e devo chiedere il permesso a questi qui per vedere i miei amici?»

«Appunto! Sono ridicoli quando fanno queste cose» commentò mia sorella. «Ah, oddio, devo raccontarvi di Marco!» esclamò poi all'improvviso.

Aggrottai le sopracciglia. «Di Marco?»

«Sì! Sai che ieri notte...»

Un grido proveniente dal piano di sotto ci interruppe: «Ragazze, scendete! Siamo tutti qui che vi aspettiamo!». Era stato Nicolò a urlare come un pazzo.

Mi accostai alla finestra e risposi irritata: «Calmati, Nicolò, fatti gli affari tuoi».

Lui mi ignorò deliberatamente e nel giro di un minuto piombò a sproposito in camera nostra, cominciando a sbraitare cose che solo lui capiva.

Infine fummo costrette a raggiungere il resto del gruppo di fronte al cancello del residence, dal momento che comunque non saremmo riuscite a parlare con lui tra i piedi.

Quando tutti fummo riuniti accanto all'uscita, Lorenzo annunciò: «Vi dividerete in coppie e raggiungerete la piazza in cui si ferma la processione. Ricordatevi che dovete stare uniti, perché anche se procederete a due a due, questa è un'attività di gruppo».

«Ma sul serio? Io ho mal di schiena, come faccio? Usare il bastone mi rallenta e...»

«Fai uno sforzo, dai» tagliò corto Lucrezia.

In quel momento capii che non sarei riuscita a mantenere la calma molto a lungo. Sentivo montare dentro una rabbia incredibile, che poi riconobbi come una sensazione di frustrazione e impotenza; se c'era una cosa che detestavo, era sentirmi dire ciò che dovevo o non dovevo fare, specialmente quando non mi andava o non ero nelle condizioni fisiche e mentali di fare ciò che mi veniva richiesto. Da quando era cominciato quel campo, non avevo fatto che ricevere ed eseguire ordini impartiti da degli istruttori megalomani e poco attenti alle necessità e ai problemi di noi ragazzi. Le esperienze come quella dovevano servire per insegnarci a vivere la quotidianità nel modo più normale possibile, riuscendo a fare tutto ciò che i normodotati potevano fare. Ma ovviamente era tutta un'illusione, non era sempre così che andavano le cose. Forse alcuni dei miei compagni d'avventura potevano non rendersi conto di essere dei burattini alla mercé di adulti che volevano organizzare le attività in base ai loro comodi, ma io non ero deficiente e neanche stupida, capivo benissimo cosa avevano combinato anche quel giorno, il che mi faceva andare in bestia.

Mi ritrovai in coppia con Giorgio e non feci che pochi passi prima di sentire il mal di schiena aumentare. Stavamo camminando troppo lentamente per la mia povera colonna vertebrale, e gli istruttori non facevano che ripeterci che dovevamo stare uniti.

A un certo punto non ne potei davvero più, mi sentivo invadere dal dolore, ero seccata e nervosa sia per il fatto di non poter incontrare liberamente i miei amici, sia perché nessuno di quegli istruttori si era minimamente curato di chiederci se fossimo d'accordo nel fare quell'attività, dopo la mattinata estenuante trascorsa al maneggio.

«Che palle, mi fa malissimo la schiena! Scusa, Tami, puoi andare un po' più in fretta? Non ne posso più...» mi lamentai con mia sorella, la quale camminava di fronte a me in coppia con Viola.

«Non posso mica correre, c'è gente di fronte a me!» sbottò lei, nervosa a sua volta per quella situazione. Sicuramente era in pensiero per me, ma si sentiva impotente proprio come la sottoscritta.

«Sì, ho capito, ma io sto morendo...»

«Sì, ma non è colpa mia! Calmati, cosa posso farci?»

«Guarda, lasciamo perdere...» Feci una pausa, ma ormai non poteva più fermarmi nessuno, ormai stavo veramente scoppiando e le parole uscirono da sole dalla mia bocca. «Perché in questo cazzo di campo sembra di essere in un carcere di massima sicurezza, noi siamo dei burattini e qui decidono tutto loro! Non ci chiedono cosa vogliamo fare, come stiamo, su cosa siamo d'accordo e su cosa no! Ma dimmi te se devo stare male per colpa di questa gente insensibile...»

«Lau, lo so, ma cerca di calmarti...» provò a dire mia sorella.

«Ma che cazzo stare calma! Loro devono stare calmi, pensano forse che siamo delle macchine? Ci saremmo dovuti riposare di più!» sbraitai ancora, senza preoccuparmi del fatto che sul marciapiede opposto si trovassero Lorenzo, Lucrezia e Samuele. Ovviamente loro stavano sentendo tutto ciò che stavo sputando fuori con rabbia, ma nessuno dei tre osò rispondere o dire qualcosa per cercare di calmarmi.

Questo fatto non fece che aumentare ulteriormente la mia furia: mi ignoravano come se fossi una cretina che stava blaterando senza cognizione di causa, come osavano?

Stavo per dire qualcos'altro, quando Giovanna mi raggiunse e mi propose: «Vai in coppia con Tamara? Magari potete camminare un po' più in fretta».

«Forse è meglio...» bofonchiai, mentre Giorgio e Viola si sistemavano in coppia insieme e io mi accostavo a mia sorella.

Ormai il sole stava calando ed era per noi d'obbligo usare il bastone, ma questo continuava a rallentare la mia camminata, nonostante ora avessi mia sorella accanto e con lei riuscissi a velocizzare un po' il passo.

«È inutile che ci abbiano messo in coppia insieme, tanto se dobbiamo stare al passo del resto del gruppo, non mi cambia niente!» mi inalberai nuovamente.

«Lo so, ma come facciamo? Io non so cosa dirti...» ribatté Tamara.

«Non sai cosa dirmi, certo...»

Una voce mi trapanò i timpani, proveniente dalle mie spalle: «Oh, Laura, ma la smetti di rompere e di lamentarti? Sei noiosa eh!».

«Nicolò, fatti i cazzi tuoi, hai capito? Smettila di intrometterti in ciò che non ti riguarda!» esplosi senza alcun ritegno, cercandi di accelerare il passo per non sentirlo troppo vicino a me.

«Invece no, perché mi stai rompendo, hai capito? Che palle che sei!»

Gabriella, che faceva coppia con lui, subito lo spalleggiò, rimanendo però più pacata e intromettendosi appena: «Sì, state strillando da dieci minuti, ci prenderanno per pazzi!».

Ma io ormai stavo per voltarmi da Nicolò per strozzarlo, non lo sopportavo più. Era tassativo che prima o poi ci si incazzasse con quel ragazzino durante un campo, era talmente pedante e indisponente da risultare proprio insopportabile.

Tuttavia, fu Tamara stavolta a rivoltarsi contro di lui: mentre Nicolò continuava a blaterare a caso, mia sorella si voltò di scatto e gli urlò contro degli insulti, per poi mollare un paio di colpi di bastone alla cieca. Questi, però, finirono per colpire anche Gabriella, nonostante nessuna di noi due volesse che ciò accadesse.

Infine Samuele ci prese con sé e ci fece camminare più in fretta, così ci allontanammo da Nicolò e gli altri, raggiungendo un po' prima la nostra meta.

Ci ritrovammo a sederci sulla stessa scalinata che ci aveva ospitato l'anno precedente, e com'era successo allora, mi chiesi che senso avesse portare un gruppo di ciechi e ipovedenti a vedere una processione. E poi, onestamente, a me di certi rituali non fregava un emerito cazzo.

Ero arrabbiata, ma speravo ancora – ingenuamente – di poter trascorrere un po' di tempo con Lucia, Cristina e Michele.

Così telefonai a Cristina.

«Pronto, Lau? Dove sei?» esordì la mia amica.

«Siamo appena arrivati, non ti dico il casino che è successo... sono incazzatissima» raccontai. «Siamo seduti sulla gradinata di fronte alla chiesa. Voi?»

«C'è un sacco di gente, non so di preciso dove siamo, ma ormai è tardi e mi sa che dobbiamo rientrare... c'è il viaggio da fare...» mi disse in tono dispiaciuto.

«Cazzo, no! Siete venuti per niente! Non è giusto!» dissi, sentendo l'ennesima ondata di rabbia pervadermi completamente.

«No dai, non è colpa tua. Ci siamo fatti una gita, non importa. Poi ci vedremo appena torni a casa, okay?» tentò di rassicurarmi Cristina.

«Sì, forse è meglio, tanto con questa gente di mezzo non si può fare niente...» fui costretta ad arrendermi, sentendomi sconfitta per l'ennesima volta contro gli istruttori e i loro modi dispotici. «Scusate ancora» aggiunsi.

«Tranquilla. Luci e Miki ti salutano!» esclamò lei.

«Ricambia, grazie per essere venuti. Ci sentiamo presto» conclusi.

Ci salutammo, poi interruppi la conversazione e riposi il telefono in borsa, sospirando e avvertendo un'intensa voglia di piangere e di strapparmi i capelli. Era un momento colmo di disperazione per me, uno di quelli in cui mi sentivo limitata dai miei problemi fisici e non sopportavo l'idea di non potermi muovere in autonomia. Se questo fosse stato possibile, sarei corsa a cercare i miei amici senza dar retta alle stronzate che provenivano dall'alto.

Non badai assolutamente alla processione, all'arrivo del resto del gruppo, alla folla che mi circondava.

Sentivo solo freddo fuori e dentro me, ero preda dello sconforto più totale e speravo che per quella giornata il mondo mi lasciasse in pace e mi permettesse di riposare la mente e il corpo.

Volevo strappare a morsi le barre della mia cella, lasciare la prigione in cui ero stata rinchiusa e riprendermi quel poco di libertà che potevo permettermi.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove: Life ***


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Capitolo nove: Life




Il locale in cui stazionavamo era estremamente piccolo e stretto; gli istruttori avevano fatto di tutto pur di far stare tutti noi ragazzi in un'unica tavolata, con il risultato di far sedere Tamara a capotavola. In questo modo, lei riusciva a stare a malapena seduta tranquillamente, dal momento che le persone che passavano di lì spesso la urtavano e in definitiva era davvero d'ingombro in quel punto.

Io ero riuscita a malapena a incastrarmi nel mio posto, seduta tra Gabriella e Giorgio.

«Qui dentro non ci stiamo, non capisco per quale motivo hanno insistito per farci sedere tutti insieme in due tavoli» si lamentò Viola, seduta alla sinistra di mia sorella.

Di fronte a me si trovava Marco, il quale a sua volta si era ritrovato tra Viola e Nicolò.

Ero già stanca di stare lì dentro, non mi piaceva il fatto che stessimo tutti appiccicati, tuttavia non potevo farci molto; mi limitai a ordinare qualcosa da mangiare – dei ravioli al pomodoro e una caprese – e ad attendere di ricevere il cibo.

Nel frattempo ci servirono, al posto del pane, una focaccia con sale e olio fatta con la pasta della pizza. Era buonissima, così ne mangiai diverse fette e sperai di riuscire a mandare giù anche il resto del cibo che avevo ordinato.

«Troppo buono, mangerei solo questo» osservai, continuando a mangiare quella prelibatezza.

Istruttori e educatori si erano sistemati in un altro tavolo e ogni tanto si avvicinavano per aiutare Simona a scegliere la sua cena o per supportare qualcun altro o accompagnare qualcuno in bagno.

«Non ci credo, anche oggi Simona ha fatto leggere dieci volte il menu prima di scegliere la sua solita pizza con le melanzane! Avrebbe potuto dirlo prima, no?» commentò Viola in tono esasperato.

«Lo sai com'è, che vuoi farci?» le fece notare Tamara, per poi sbuffare. «Ogni due secondi qualcuno passa e mi sbatte addosso! Che palle!» aggiunse poi.

«Per carità, avrebbero potuto portarci da un'altra parte...» borbottai.

Marco, ogni tanto, tirava qualche sospiro, poi all'improvviso chiamò Giovanna. Sembrava preoccupato, aveva un tono di voce strano, non riuscivo bene a definirlo, ma era come se avessi l'impressione che qualcosa non andasse.

Quella terribile giornata sembrava non avere più intenzione di concludersi.

Poco dopo Giovanna lo raggiunse e insieme uscirono dal locale. Inizialmente pensai che si fossero diretti a fumare, ma poi mi resi conto che erano usciti da un po' troppo tempo.

«Ma Marco che fine ha fatto?» chiesi a nessuno in particolare.

«Non lo so, sarà uscito a fumare...» osservò Tamara. «Ma mi sembra che stia passando troppo tempo, vero?» aggiunse.

«Appunto, per quello chiedevo...»

Il tempo trascorse e dopo circa venti minuti Marco e Giovanna rientrarono, seguiti da Marta.

«Che è successo?» chiese subito Tamara in tono leggermente apprensivo.

«Ha avuto un attacco di claustrofobia» spiegò Giovanna.

«Marco! E adesso come stai?» saltò su Viola allarmata.

Lui sospirò. «Sto meglio, tranquilla Vivi» rispose lui in tono piatto.

Mi venne in mente il giorno in cui, due anni prima, eravamo entrati nella grotta e lui si era sentito morire, tra vertigini e claustrofobia; era buffo pensare a quali fossero i nostri rapporti all'epoca, quanto fossi preoccupata per lui e quanto volessi stargli accanto e sostenerlo al meglio.

Ora parevano dei giorni lontani, ricordi sbiaditi, quasi come se non li avessi mai vissuti. Eppure sapevo che era tutto accaduto davvero, il che mi metteva addosso un senso di malinconia e divertimento insieme, una sensazione difficile da descrivere.

«In effetti qui c'è poca aria» mormorai.

Afferrai il cellulare e notai con disappunto che all'interno di quel buco non c'era campo. Avrei voluto rispondere a Danilo e Anna, i quali mi avevano spedito dei messaggi in risposta al mio racconto su quanto accaduto quel pomeriggio con gli istruttori, ma i messaggi non partivano. Sbuffai e nel frattempo arrivò la mia cena.

Mangiai senza troppo entusiasmo, non stavo molto bene quel giorno, mi sentivo stanca e spossata, volevo soltanto dimenticare tutto ciò che di negativo mi era successo. La bella esperienza a cavallo sembrava sbiadire se paragonata al malumore che ormai mi aveva avvolto da ore.

Finii in fretta di mangiare e cominciai a non poterne più di stare là dentro. Volevo andarmene, c'era troppa confusione per la mia mente annebbiata.

All'improvviso cominciai ad avvertire una sensazione d'ansia crescere all'interno del mio petto; si fece strada in fretta e mi attanagliò, impedendomi di compiere i movimenti o i gesti che avrei voluto. Questo non fece che amplificare il panico, facendomi sentire quasi paralizzata.

L'unica cosa che riuscii a fare fu allungare una mano sul tavolo, trovando quella di Marco. Gliela strinsi e avvertii immediatamente le lacrime invadermi gli occhi, rotolare sulle guance e bagnarmi il viso.

Ero completamente in panico e non sapevo come farlo capire a chi mi circondava, solo lui in quel momento era a mia disposizione, poteva in qualche modo comprendermi.

Cominciai a stringergli la mano con forza e a quel punto si rese conto che in me c'era qualcosa che non andava.

«Lau?» mi chiamò.

Ovviamente non fui in grado di rispondergli, mi limitai a tenergli forte la mano e a sperare che capisse che avevo bisogno di aiuto.

«Lau? Oh, cos'hai?» si preoccupò maggiormente. Rendendosi conto che non riuscivo a spiccicare parola, si voltò verso il tavolo degli educatori e istruttori. «Giovi? Vieni per favore? Lau sta piangendo» disse.

In pochi attimi Giovanna piombò accanto a me e cercò di capire cosa mi fosse preso, ma io le feci solo intendere che avevo bisogno di uscire dal locale e di prendere aria.

«Sta piangendo, la porto fuori» annunciò l'educatrice in tono pratico, senza lasciarsi prendere dal mio stesso panico.

«Giovi, ma Lau riesce a parlare?» chiese Tamara preoccupatissima.

Sapevo perché lo aveva detto: mia sorella aveva assistito a un altro di quegli strani attacchi di panico che si erano presentati negli ultimi anni, sapeva che quando ero in quelle condizioni, non riuscivo a parlare e trascorrevo almeno mezzora in silenzio, incapace di collegare gli impulsi del cervello alle mie labbra e alle corde vocali.

Avrei voluto rispondere, avrei voluto dirle che no, non riuscivo a parlare, ma mi limitai a rimanere in silenzio mentre mi alzavo dalla sedia e mi trovavo incerta sulle mie stesse gambe.

«Sì» replicò invece Giovanna.

«Sicura che parla?»

«Sì, sì» ripeté ancora l'educatrice, aiutandomi a uscire dallo stretto spazio in cui ero rimasta incastrata fino a poco prima.

Evidentemente, per Giovanna, i gesti che avevo compiuto per farle capire che volevo lasciare per un po' il locale, erano equivalsi al concetto di parlare, ma mi dispiaceva che mia sorella non avesse potuto sapere la verità.

Fui grata a Giovanna quando finalmente mi fece uscire all'aria aperta e mi condusse verso un muretto di cemento in cui potemmo sederci. Non avevo idea del luogo in cui ci trovavamo, non riuscivo a vedere niente e non ero nelle condizioni adatte per far affidamente su uno straccio di senso dell'orientamento. Immaginai che di fronte al locale ci fosse una piazza, la sensazione era quella di uno spazio ampio e aperto, e spesso si sentivano le grida e le risate di alcuni bambini che correvano a piedi o a bordo di una bicicletta.

«Lau, cosa è successo?» provò a chiedermi Giovanna.

Io non riuscivo ancora a parlare, mi limitavo a piangere come una stupida e mi sentivo davvero cretina in quel momento. Perché mi ero ritrovata ancora una volta in una situazione del genere? Perché non ero riuscita a controllare l'ansia?

Forse era colpa della stanchezza, del nervosismo e del malumore, ma sicuramente anche il mal di schiena faceva la sua parte. Mi sentivo una vera merda quel giorno, forse avevo toccato il fondo per quel campo. Questo significava forse che potevo soltanto risalire? Lo speravo, ma ancora dovevo riuscire a uscire da quella situazione.

Afferrai la mano di Giovanna e cercai di esprimermi utilizzando il suo palmo per scrivere. Non mi venne in mente niente di meglio, non sapevo come altro fare.

Le scrissi, lentamente, che non riuscivo a parlare.

«Come mai?»

Tracciai la parola panico sulla sua pelle e lei cercò di rassicurarmi più che poté.

«Vedi, secondo me è anche normale reagire così, non preoccuparti. Adesso cerca solo di rilassarti» disse con calma, accarezzandomi i capelli.

Poco dopo Lucrezia ci raggiunse e si posizionò in piedi di fronte a me; dopo aver chiesto a Giovanna cosa fosse capitato, cominciò a parlarmi a sua volta, in tono calmo e rassicurante.

«Laura, ascolta. Sicuramente sei molto stanca e non stai bene oggi, ma non devi preoccuparti. Passerà. Sai, io penso che tu sia una ragazza molto forte, ma anche le rocce a volte si sgretolano. Condurre una vita come la tua non è facile, io lo capisco benissimo e ti ammiro molto.» Lucrezia fece una pausa e io non capii appieno a cosa si riferisse, ma seppi con certezza che lei non si era arrabbiata con me per aver dato di matto in strada qualche ora prima. Forse non ce l'avevo con lei, forse mi ero incazzata più che altro con Lorenzo, ma a lei parve non importare più di tanto. Questo fece crescere in me una marea di sensi di colpa che infittirono le mie lacrime.

Giovanna, al mio fianco, mi abbracciò e mi accarezzò ancora i capelli. «Lucrezia ha ragione» concordò.

«Tu hai come una doppia vita: di giorno vivi in un modo, puoi fare un po' le cose che fanno tutti. Poi scende la notte e il tuo modo di vivere e percepire cambia, è come se diventassi quasi un'altra persona. Questo è straordinario, specialmente perché tu affronti tutto questo con il sorriso, senza mai arrenderti e con la giusta dose di ironia. Per me questa è la vera forza, io non ci riuscirei mai. Te lo dico perché ne sono certa, ed è normale che ogni tanto tu ceda a certi momenti. Devi solo affrontarli come fai sempre, capito?» concluse l'istruttrice, e io sentii un sorriso impregnarle il tono di voce.

Annuii senza ancora riuscire a replicare a voce. In quel momento mi sentivo debole e vulnerabile, non ero tanto certa che lei avesse ragione. Avrei tanto voluto una persona in particolare a tenermi compagnia, così afferrai ancora una volta la mano di Giovanna e la voltai col palmo all'insù.

Disegnai una G e rimasi immobile a riflettere.

Era l'iniziale del cognome di Danilo, ma anche di quello di Marco.

E non sapevo chi dei due avrei voluto mi abbracciasse in quell'istante, ero confusa e mi sentivo infinitamente triste.


Ripresi a parlare poco prima che tornassimo al residence, ma non fui granché loquace.

Tamara mi chiese, quando mi incontrò accanto al furgoncino che ci avrebbe riportato in struttura, cosa fosse successo.

«Ho avuto l'ansia per tutto il tempo, pensa che, per assurdo, Vivi era più tranquilla di me e ha dovuto pensare lei a rassicurare me!» spiegò mia sorella. «Riuscivi a parlare o no?» aggiunse.

«No» risposi stremata.

«Ecco lo sapevo! Cazzo, non ci voleva... come va adesso? Uff, volevo uscire da te, ma...» partì in quarta lei, agitatissima.

«Stai tranquilla, Tami. Ora sto bene» la rassicurai.

Trascorsi il tempo del ritorno quasi completamente in silenzio, finché non tornammo al residence.

«Ragazze, che ne dite di venire nella nostra stanza? Ho scorte di cibo per un mese!» propose Giovanna a me, Viola e Marta.

«Va bene, perché no?» accettò la mia amica. «Tu Lalli te la senti?»

«Ma certo, va benissimo anche per me!» risposi.

Mi sentivo decisamente meglio, forse piangere mi era stato utile e aveva fatto sì che scaricassi molta della mia ansia.

Raggiungemmo in poco tempo la camera di Giovanna, Tamara, Gabriella e Simona; entrando, avvertii un'orribile puzza indecifrabile e storsi il naso.

«Oddio, c'è ancora odore di maneggio qui, che schifo!» sbottò mia sorella, tappandosi teatralmente il naso.

«È vero, non vi invidio per niente...» osservai disgustata.

Ci accomodammo attorno al tavolo posto di fronte alla porta d'ingresso e Giovanna cominciò a sistemare varie confezioni di cibo sul ripiano in legno.

«Abbiamo gli arachidi salati, i Ringo, un po' di Canestrelli, delle patatine... servitevi pure!» esclamò l'educatrice, sedendosi a sua volta su una sedia.

Nel frattempo Gabriella e Simona si prepararono – non senza difficoltà – per andare a letto.

Poi finalmente noi potemmo chiacchierare in pace, anche se tenemmo un tono di voce basso e contenuto.

«Ieri Marco ha superato se stesso, voleva farci sedere su una cassettiera! O comunque non so cosa fosse, ma...» disse Tamara.

«Non ricordarmelo, che scena raccapricciante!» esclamai, sgranocchiando qualche patatina.

«Se volete ci sono anche questi biscotti dell'Eurospin» disse Giovanna, aprendo una nuova confezione di cibo.

«No grazie, mi bastano i Ringo!» replicò Tamara.

«Ma guarda, anche tu separi il biscotto dal ripieno quando mangi i Ringo? Anche io!» esclamò Marta, osservando mia sorella.

«Certo, altrimenti non c'è gusto!»

«Comunque, Marco secondo me sta peggiorando tanto» proferì Viola, facendosi un po' più seria.

«Sì. E poi ci prova spudoratamente con me...» bofonchiò mia sorella.

«Oddio» intervenne Giovanna. «Sul serio? E io che pensavo che farsi una famiglia avesse un altro significato...»

Calò per un attimo il silenzio, poi scoppiammo tutte a ridere.

«Questa è bellissima, Giovi!» commentai in tono divertito, non riuscendo più a contenere le risate.

In effetti non aveva tutti i torti, ma solo lei riusciva a portare fuori certe fesserie e a dirle in tono serio e divertente allo stesso tempo.

Quando quella sera arrivai in camera mia, non ebbi molto tempo per riflettere e pensare a ciò che era avvenuto durante la giornata; la stanchezza si impossessò di me e mi gettò immediatamente in un sonno profondo.

Mi resi soltanto conto di essere grata alle ragazze che avevano fatto di tutto per distrarmi quando eravamo tornate al residence, e ripensai con una nota di malinconia al fatto che Danilo non fosse ancora venuto a trovarmi.

Forse non sarebbe venuto per niente.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci: Rag Doll ***


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Capitolo dieci: Rag Doll




«Vivi? Svegliati, dai!»

«Uhm...»

«Dai, altrimenti facciamo tardi!» ripetei per l'ennesima volta, per poi accostarmi al lato sinistro del letto, sul quale Viola ancora giaceva, infagottata tra le lenzuola.

«Non sto bene...» mormorò, rimanendo immobile.

«Cosa significa che non stai bene? Dai!» Ero certa che la mia amica stesse cercando una scusa per rimanere a letto, era una pigra inguaribile!

«Lalli... ho avuto una crisi...»

«Ma quando? Io non ho sentito niente!» tentai di sdrammatizzare.

«Nel sonno... mi sono svegliata che...»

La interruppi: «Vivi, ma io non ho sentito niente! Non ce l'hai avuta, magari è stata solo un'impressione...».

«Ti dico di sì, Lalli! Mi sono svegliata che mi sentivo rigida e avevo tanto freddo... sto malissimo...»

Udii il rumore della caffettiera che cominciava a gorgogliare in cucina, così sospirai e le dissi: «Okay, aspetta che devo andare a spegnere il caffè. Torno tra un po'».

«Va bene.»

Tornai in cucina e incrociai Marta.

«Lau, che succede?» mi domandò lei.

«Vai tu da Vivi? Ha detto di aver avuto una crisi durante il sonno, ma non so se...»

«Adesso vediamo.»

Io raggiunsi il fornello e lo spensi, per poi trasportare con attenzione la caffettiera sul tavolo. Poi mi occupai di cercare lo zucchero, portai fuori qualche brioche dal frigorifero e recuperai i miei amati grissini al sesamo dell'Eurospin. Erano sempre e comunque una salvezza!

Dopodiché tornai in camera e trovai Marta in piedi accanto al letto.

«Hai ancora freddo?» chiese l'educatrice alla mia amica.

«Sì» confermò Viola, sotterrandosi sotto le coperte e infilandoci sotto anche il viso.

«Però a me sembra strano...» osservai pensierosa.

«Cosa?» mi domandò Marta.

«Che abbia avuto una crisi nel sonno... io non mi sono accorta di niente» borbottai.

«Però è così» mi assicurò Viola in tono sommesso.

Sospirai e mi sentii in colpa per non averle creduto; cosa potevo saperne io? Il fatto che non avessi udito nessun rumore provenire dalla mia amica non significava che lei si fosse inventata tutto. Ero proprio cretina certe volte.

Mi avvicinai a lei e mi sedetti sul bordo del materasso, mentre Marta lasciava la stanza.

«Scusa se non ti ho creduto, volevo solo... speravo che non...» cominciai, non trovando le parole giuste per esprimermi.

«Non preoccuparti» mi rispose.

«Davvero? Sono stupida, lo so!» mi schernii ancora.

«Per questo ti voglio bene.»

Le posai una mano sulla guancia e sorrisi. «Anche io te ne voglio. Ora riposa e non preoccuparti di nulla.»

La lasciai a letto e tornai in cucina, dove Marta si era già seduta a tavola. Mi accomodai a mia volta e sospirai per l'ennesima volta.

«Non ci voleva» dissi.

«Già. Rimango io con lei stamattina, ve la caverete in piscina senza di me» decise l'educatrice, sorseggiando il suo caffè.

«Va bene, l'importante è che lei non rimanga sola. Potrei stare io a farle compagnia se...»

«No, tu vai pure in piscina. Non preoccuparti, ora Viola sta bene, deve solo riposare un po'. Se si sente meglio, le chiedo se ha voglia di scendere in piscina. Okay?» mi tranquillizzò Marta.

Annuii e finii di fare colazione, in preda a uno strano senso di fastidio.

Un'altra giornata era cominciata decisamente male.


Non potei fare il bagno, avevo ancora il ciclo, così mi sistemai all'ombra del portico in paglia che ospitava un numero abbastanza ristretto di sdraio. Mi affrettai a occuparne una e frugai subito in borsa alla ricerca delle mie cuffie.

Avevo bisogno di rilassarmi con un po' di musica, mi sentivo sotto stress e ancora non riuscivo a stare del tutto tranquilla. L'attacco di panico della sera prima mi aveva provato, così come quello di claustrofobia di Marco; poi avevo scoperto che Viola aveva avuto un'altra crisi e questo non aveva fatto che accentuare il mio malumore.

Lasciai che le canzoni scorressero nelle mie orecchie in riproduzione casuale e mi adagiai sulla sdraio, chiudendo gli occhi.

Nel frattempo la maggior parte dei ragazzi si buttarono in acqua, tra cui mia sorella. La invidiai un po', anche perché faceva un caldo infernale e un bel bagno mi ci sarebbe proprio voluto.

Trascorse un po' di tempo, poi mi stancai di stare con le cuffie alle orecchie e mi alzai, per poi avvicinarmi a Giovanna, Simona e Marco.

Quest'ultimo era seduto per terra e stava con le gambe incrociate; i capelli gli ricadevano sulla faccia e stava armeggiando con il cellulare.

A un certo punto fece partire una canzone deprimente e lagnosa, così mi rivolsi a lui e lo apostrofai: «Ma che palle, almeno metti qualcosa di più allegro!».

«Non ti va mai bene niente... ma Vivi dov'è?» bofonchiò.

«Ha avuto una crisi durante il sonno e ora sta riposando. No, mi va bene tutto, ma ora siamo in gruppo e tu porti fuori questi brani da suicidio?» ribattei senza scompormi.

«Di questa che ne pensi?»

Ascoltai un brano rock a me ignoto e decisi di non commentare, non mi importava più di tanto cosa volesse ascoltare. Quando la canzone terminò, lui mi chiese se potessi prestargli il mio telefono, in modo da mettere su qualcosa dalla mia immensa playlist.

Nel frattempo, Tamara ci raggiunse e si avvolse attorno al corpo il suo telo da mare. Si sedette sulla mia stessa sdraio e insieme ci mettemmo in ascolto di ciò che stava selezionando Marco.

Scelse qualche brano degli Slipknot, qualcosa dei Korn e perfino dei System Of A Down; poi si orientò su un gruppo rock locale che conoscevamo entrambi e così ascoltammo un bel po' di loro brani.

Dopo un po' ripresi il mio cellulare e decisi di scegliere io le canzoni da ascoltare, spaziando in vari generi per non annoiare nessuno.

Verso mezzogiorno Viola e Marta ci raggiunsero, così mi precipitai subito incontro alla mia amica per chiederle come stava. Lei era sorridente e tranquilla, mi disse di aver riposato un bel po' e di stare decisamente meglio.

Quando tornai alla sdraio, notai che Nicolò e Giorgio erano usciti dall'acqua e si erano accomodati non tanto distanti l'uno dall'altro.

Giorgio teneva in mano un tubo di Pringles e si accingeva a mangiare le sue patatine in santa pace, quando Nicolò distrusse l'idillio, come suo solito.

«Giorgio, me ne dai un paio?» domandò in tono cantilenante e pedante.

«Sì, ma non mangiarne troppe...»

La mia stima verso Giorgio raggiunse le stelle, ma Nicolò parve poco propenso a seguire il consiglio che gli era appena stato dato.

«Non essere tirchio!» strepitò ancora, allungandosi per infilare nuovamente la mano dentro il tubo.

A quel punto Giorgio si incazzò parecchio e sbottò: «Nicolò, smettila subito! Mi sono proprio stancato, sai? Da quando è cominciato il campo non fai che approfittarti di me, ma pensi che io sia scemo? Ora non te ne do più, arrangiati!».

La mia stima per quel ragazzino crebbe ancora e si estese verso l'infinito e anche oltre.

«Bravo Giorgio!» esclamò Viola con entusiasmo.

«Grande, diglielo!» aggiunsi io.

«Vedi Nicolò, porti le persone a rivoltarsi contro di te. Forse dovresti cambiare atteggiamento» commentò Giovanna.

Lui continuò a borbottare tra sé, ma noi lo lasciammo perdere e ci concentrammo sulla musica e sul cibo che stavamo consumando; io avevo portato appresso i grissini al sesamo, Giorgio ci offrì le sue patatine e Giovanna portò fuori un po' di biscotti assortiti.

«Lau, prestami il tuo telefono, vediamo cosa possiamo ascoltare!» mi disse Marta, intenzionata a far ballare Simona e Gabriella; aveva notato che le due se ne stavano sedute e non comunicavano con il resto del gruppo, Gabriella impegnata a parlare con il cellulare e Simona immersa nel suo mondo fatto di biscotti per la colazione, fazzoletti per il naso che nessuno le dava e colazioni nella camera di Nicolò.

Consegnai l'oggetto a Marta e lei cominciò a scorrere i nomi degli artisti presenti nella mia raccolta multimediale.

«30 Seconds To Mars... chi se li ricordava più?! Accept... Aerosmith... Aerosmith?! Fantastici! Che canzoni hai?» esclamò lei tutta contenta.

«Apri la cartella, ora non mi ricordo... Marta, ti ricordi quando, tre anni fa, eravamo al campo e in quel campeggio mandavano sempre I don't want to miss a thing

«Sì, cavoli! È vero, erano fissatissimi!»

Ridacchiai. «Meglio di quando partivano le canzoncine della baby dance...»

Anche lei rise e scelse un brano molto allegro e trascinante degli Aerosmith, ovvero Rag Doll. «La adoro, troppo divertente! Forza, Simo, Gabri... alzatevi! Venite a ballare!» le incoraggio Marta, cominciando a muoversi a ritmo con la musica e prendendo a cantare la canzone in questione, inventandosi però tutte le parole.

Io mi misi in piedi a mia volta e accennai qualche passo incerto; ballare non mi piaceva, però la musica spesso riusciva a trascinarmi con sé e non mi importava di non riuscire a risultare sensuale o aggraziata, non erano proprio problemi miei.

Cominciai a mia volta a cantare e fu divertentissimo; in quel momento mi sentii veramente leggera, libera e tranquilla, non c'era niente che potesse preoccuparmi.


Yes I'm movin'
Yes I'm movin'
Get ready for the big time
Tap dancing on a land mine
Yes I'm movin'
Yes I'm movin'
Old tin lizzy do it till you're dizzy
Give it all ya got until you're put out of your misery


«Troppo bella questa canzone, non la sentivo da secoli!» gridò Marta in preda all'entusiasmo, prendendo le mani di Simona per incitarla a muoversi a ritmo.

Il mio sguardo cadde su Gabriella, la quale si muoveva scompostamente e non sembrava apprezzare particolarmente quel tipo di musica.

Andammo avanti così per un po', ascoltando diverse canzoni e ballando come invasate.

Fortunatamente in piscina non c'era nessun altro oltre noi.

Dopo un po' ci rimettemmo a sedere, sfinite e accaldate; bevemmo un po' d'acqua e cercammo di riprendere fiato.

Marco si sedette sul muretto di cemento e pietra che delimitava le aiuole della piscina. Imbracciava la sua chitarra classica e strimpellava distrattamente, intonando un brano piuttosto malinconico, come al solito.

Mi venne un'idea e mi accostai alla mia borsa; frugai al suo interno e ripescai la macchina fotografica che ci avevo buttato dentro quella mattina.

Senza farmi notare da lui, presi a scattargli qualche foto, perché mi veniva da ridere per la serietà con cui si atteggiava a grande musicista maledetto con tanto di capelli sul viso e il sole che batteva implacabile su di lui.

«Guarda, Giovi» sussurrai, mostrando le foto all'educatrice che, nel frattempo, mi si era avvicinata per capire cosa stessi combinando.

«Serio, troppo serio... non se la fa mai una risata?» osservò lei ironica.

«A quanto pare no...»

«Ragazzi, vi ricordate, vero, che questo pomeriggio abbiamo la musicoterapia?» ci chiese Marta, mentre cercava di aiutare Simona a sistemare le sue cose.

Ormai si avvicinava l'ora di pranzo e dovevamo cominciare a prepararci per andarcene dalla piscina.

«Ah, sì! A che ora si comincia?» mi informai.

«Verso le quattro» rispose Giovanna.

«Sempre troppo presto... ci sarà da morire per via del caldo!» si lamentò Tamara, ripiegando il suo telo.

«Sicuramente» borbottai a mia volta.

Sperai che quell'esperienza risultasse positiva, altrimenti sarebbe stata una doppia seccatura.

Dopo aver finito di racimolare i nostri effetti personali, ci incamminammo verso le nostre stanze.

Io mi accostai a Viola e procedetti accanto a lei, controllando che il bastone non le creasse dei problemi e che seguisse il percorso giusto.

Poco dopo Tamara ci raggiunse e ci sussurrò: «Dopo devo raccontarvi di Marco».

«Oddio» mormorai. «Che è successo?»

«Poi vi dico, appena abbiamo un attimo di tranquillità...»

«Tami, però non farci preoccupare! Ha fatto qualche stupidaggine?» intervenne Viola.

«Sì, ma non c'è da preoccuparsi. State tranquille» ci rassicurò mia sorella con un sorriso.

Non vedevo l'ora di scoprire cos'altro aveva combinato quel cretino. Sperai caldamente che non avesse esagerato con mia sorella, altrimenti se la sarebbe vista con me.

Ma conoscevo Tamara, lei era benissimo in grado di badare a se stessa.

Andai a pranzo più curiosa che mai, con la speranza che la giornata migliorasse ancora. Le cose sembravano andare meglio rispetto a quella mattina, perciò incrociai le dita e decisi che avrei fatto di tutto pur di far procedere tutto in maniera positiva.

Dopotutto eravamo in vacanza, avevamo anche noi il diritto di divertirci, sentirci liberi e svuotare la mente.

Ero stanca della negatività e del malumore, non potevo permettere a nessuno di rovinare il mio ultimo campo.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici: Ballo in fa diesis minore ***


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Capitolo undici: Ballo in fa diesis minore




Alle quattro del pomeriggio eravamo tutti pronti ad accogliere i nuovi ospiti che si sarebbero occupati dell'attività di musicoterapia.

Faceva un caldo bestiale, ma fortunatamente ci eravamo sistemati all'ombra, nel punto di fronte all'ingresso della camera dei ragazzi.

Poco dopo Lucrezia ci raggiunse in compagnia di un uomo e una donna: lui indossava una camicia celeste a maniche corte infilata dentro un paio di pantaloni anonimi, mentre lei sfoggiava un bel vestitino dalle tinte estive e portava ai piedi un paio di sandali chiari.

«Ciao a tutti!» ci salutò subito la donna, e io a primo impatto ebbi una buona impressione di lei; non aveva utilizzato un tono di voce falso o un atteggiamento condiscendente nei nostri confronti, sembrava intenzionata a trattarci con il rispetto che meritavamo.

Forse era stupida come riflessione, ma spesso mi era capitato di incontrare persone ignoranti che mi avevano trattato in quella maniera, pensando – anzi, non pensando affatto – che i miei problemi visivi si estendessero anche al cervello.

«Ciao ragazzi» aggiunse il suo accompagnatore. Rispetto a lei sembrava un po' meno espansivo, ma non mi fece comunque una brutta impressione.

«Io sono Maria Vittoria e lui è Alfredo, ci fa molto piacere essere qui con voi. Vorremmo proporvi una bella attività da fare tutti insieme, qualcosa che speriamo possa piacervi. Ma prima sarebbe carino un veloce giro di presentazioni, giusto per conoscerci un po' meglio. Ditemi come vi chiamate, quanti anni avete e cosa vi piace fare. Chi comincia?»

Mi guardai intorno e attesi che qualcuno prendesse l'iniziativa; poco dopo Nicolò prese la parola: «Dai, comincio io! Sono Nicolò, ho diciassette anni e non so cosa mi piace fare. Ah sì, mi piace mangiare!»

Ridacchiammo tutti, poi Maria Vittoria chiese a Giorgio di parlare un po' di sé.

«Sono Giorgio, ho dodici anni e mi piace un sacco guardare i cartoni animati Disney» disse timidamente il ragazzino.

Poco dopo fu il turno di Gabriella, la quale era seduta alla mia sinistra: «Ciao Maria Vittoria e ciao Alfonso, io sono Gabriella. Ho diciassette anni, ne farò diciotto il mese prossimo. Mi piace molto nuotare, esplorare le grotte dove ci sono i pipistrelli – sono bellissimi, li adoro! – e poi amo guardare le gare di Moto 3, cantare e nuotare velocissimo!». Parlò con un tono talmente timido, ma allo stesso tempo colmo d'entusiasmo, che mi fece quasi tenerezza.

«Quante cose! Bene, ora passiamo a te» mi si rivolse Alfonso.

Mi schiarii la gola. «Io sono Laura, ho ventitré anni e ho diverse passioni» esordii con leggero imbarazzo.

«Quali?» volle sapere Maria Vittoria.

«Amo la musica, amo cantare fin da quando ero piccola, adoro leggere e scrivere» conclusi.

«Ah, senti senti! Tu invece?» proseguì la donna in tono dolce.

Alla mia destra sedeva Viola, la quale comprese di dover prendere parola e così fece: «Ciao, sono contenta che siate venuti qui per quest'attività. Io mi chiamo Viola, ho ventitré anni e mi piace molto la musica anni Ottanta. Adoro gli animali e ho un gatto che mi aspetta a casa, mi manca un sacco».

Tutti ridemmo e io commentai: «Viola e suo figlio a quattro zampe!».

«Che carina! Dimmi tu, invece, come ti chiami?» Alfonso si rivolse a mia sorella.

«Sono Tamara, ho quattordici anni e mi piace molto la musica, ho una grande passione per il reggae! Poi mi piace molto scrivere e leggere, proprio come a Laura che è mia sorella. Si nota?»

Maria Vittoria e Alfonso guardarono noi, si scambiarono un'occhiata e annuirono. Riuscivo a scorgere i loro movimenti perché sul portico splendeva una buona luce, nonostante non ci trovassimo sotto il sole.

«Vi somigliate molto. Siete gemelle?» chiese l'uomo.

Risi. «Ce lo dicono tutti, ma no, non lo siamo. Abbiamo otto anni di differenza.»

«Giusto, lei ne ha quattordici e tu...» rifletté Maria Vittoria.

«Io ventitré» risposi.

«Ecco, caspita! Non si direbbe... comunque, tu invece come ti chiami, tesoro?» domandò la donna a Simona.

Tamara intervenne: «Dai Simo, presentati, tocca a te ora!».

«Sì. Sono Simona.»

«Quanti anni hai?»

«Venti. Ho vent'anni. E sai cosa voglio fare? Andare nella stanza di Nicolò a cercare i biscotti... cioè, io voglio andarci di mattina, ma nessuno mi manda... è un'ingiustizia, io quei biscotti li voglio, ma se non li mangio nella camera di Nicolò non è la stessa cosa... e ora mi sgocciola il naso, chi mi dà un fazzoletto?» blaterò Simona agitatissima.

Giovanna si accostò a lei con discrezione e le suggerì di controllare nelle tasche dei suoi pantaloncini per vedere se i fazzoletti fossero lì.

Scossi il capo e individuai educatori e istruttori che stavano in disparte e non si immischiavano in ciò che stavamo facendo.

«E tu invece?»

Marco sollevò il capo. Era seduto di fronte a me ed era rimasto in silenzio per tutto il tempo. «Sì, mi scusi... mi chiamo Marco, ho diciannove anni e amo suonare.»

Alfonso annuì. «Buono, vedo che in questo gruppo abbiamo diversi musicisti e artisti di vario genere! Bene, Mari, vogliamo spiegare ai ragazzi cosa faremo oggi?» si rivolse poi alla collega.

«Certo. Ragazzi, voi siete in otto. Vogliamo dividervi in due gruppi e fare un piccolo esperimento. Vediamo un po'... Laura, giusto? Va bene se la tua squadra sarà formata dai ragazzi alla tua sinistra?»

Osservai Gabriella, Nicolò e Giorgio, poi dissi: «Certo».

«Perfetto! L'altra squadra sarà formata dal resto del gruppo. Bene, ora vi spieghiamo un po' cosa dovrete fare. Avete presente quei talent show che si vedono tanto in TV? Ecco, ogni componente della prima squadra si esibirà cantando una canzone a sua scelta e i componenti dell'altra dovranno giudicare le singole esibizioni con un punteggio da zero a dieci. Tutto chiaro, vero?» ci interrogò Maria Vittoria con il sorriso nella voce.

Gli occhi mi si illuminarono alla sola idea di dover cantare, anche se avvertii un po' d'ansia.

«Cominciate a pensare a che brano eseguire, così noi possiamo cercare la base su internet» ci suggerì Alfonso, armeggiando con un portatile che era stato sistemato su uno dei tavoli in vimini.

Presi a riflettere un po' su un brano che fossi in grado di eseguire e che mi emozionasse al punto giusto, senza però farmi perdere il controllo e gettarmi in lacrime. Esistevano quelle canzoni che mi avevano rubato il cuore e che non avrei mai potuto cantare per la troppa emozione, come per esempio Gli uomini non cambiano di Mia Martini o Canzone per un'amica dei Nomadi.

Mi venne in mente che sarei risultata molto originale se avessi eseguito qualcosa di insolito, ma ancora avevo tempo per prendere una decisione, dato che a cominciare sarebbe stato Giorgio.

Eseguì una canzone del Re Leone e io mi commossi perché fu davvero molto dolce; la sua performance fu colma di timidezza e trasporto, nonostante non fosse certo intonato e andasse spesso fuori tempo. Fu emozionante ascoltarlo, e infatti ottenne un sacco di bei voti, anche se non furono tutti e quattro dei dieci.

Dopodiché fu Nicolò a cantare, eseguendo una canzone che non conoscevo e che non mi trasmise niente di particolare. Se avessi dovuto giudicarlo io, gli avrei dato forse un sei e mezzo per il coraggio, ma nulla di più.

Dopo di lui venne il turno di Gabriella. Era molto emozionata e non mi stupii affatto quando annunciò che voleva eseguire Sono solo canzonette del nostro amico Bennato. Nel suo caso, se avessi dovuto darle un voto, sicuramente avrei optato per un dieci. Non fu eccezionale in quanto a tecnica o intonazione, ma fu palese la sua emozione e la tenerezza che provai per lei in quel momento fu una delle poche cose che mi fece sentire vicina a quella ragazza almeno per una volta nella vita.

«Brava Gabriella! Ora tocca a te, Laura, cos'hai deciso di eseguire?» mi chiese Maria Vittoria.

«Vorrei cantare Ballo in fa# minore di Angelo Branduardi» proferii.

Marco si esibì in un fischio d'approvazione, mentre la donna di fronte a me rimaneva a bocca aperta e il suo collega annuiva compiaciuto.

«Caspita, ora sì che sono sorpresa!» si espresse infine lei.

Mi sentii avvampare e sorrisi di rimando. «Spero di riuscirci.» Mi misi in piedi e mi accostai al tavolo su cui si trovava il computer, per poi voltarmi nella direzione dei miei compagni d'avventura. Marco, ora, si trovava seduto alla mia sinistra e sembrava molto interessato ad ascoltare la mia performance.

Tirai un lungo sospiro e attesi che Alfonso trovasse una base decente su YouTube. Quando infine riuscimmo a beccarne una abbastanza coerente con il brano originale, lui la fece partire e io mi immersi nel mio elemento naturale.


Sono io la morte e porto corona.

Io son di tutti voi signora e padrona.

E così sono crudele, così forte sono e dura,

che non mi fermeranno le tue mura.


Ero emozionata, la voce all'inizio aveva tremato un po', ma poi mi ero lasciata andare. Quello era uno dei miei brani preferiti di Branduardi, un artista che fin da piccola avevo imparato ad apprezzare e verso il quale avevo sempre nutrito una profonda stima e ammirazione.

Presi fiato e mi rigettai a capofitto sulle note.


Sono io la morte e porto corona.

Io son di tutti voi signora e padrona.

E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare.

E dell'oscura morte al passo andare!


Sei l'ospite d'onore del ballo che per te suoniamo,

Posa la falce e danza tondo a tondo!

Il giro di una danza e poi un altro ancora,

E tu del tempo non sei più signora!


Quando terminai la canzone, uno scroscio di applausi mi invase e dovetti trattenere le lacrime per non permettere loro di scivolarmi giù dagli occhi.

«Bravissima, ma adesso sentiamo che voto ti daranno i ragazzi! Viola, tu che ne pensi?» le chiese Maria Vittoria.

«Io le do dieci perché è stata bravissima e ha cantato una canzone difficile!» esclamò la mia compagna di stanza.

«Troppo gentile, Vivi...» bofonchiai.

«Anche io le do dieci, assolutamente! Non sono di parte, Lau sa benissimo che se qualcosa non va glielo dico, ma stavolta si è proprio superata!» affermò mia sorella con fermezza.

«Tu, Simo?» fece Maria Vittoria.

«Sì, anche io le do dieci perché è stata molto brava. Ma volevo dire, Laura, secondo te posso andare a prendere i biscotti? A volte mi comporto come non dovrei, lo so, ma ogni tanto anche gli altri esagerano con me... domani mattina spero proprio di poterci andare nella stanza di Nicolò a...»

«Okay, okay! Simo, grazie, ne parliamo dopo, eh?» tagliai corto. Era stata carina, ma del resto stava distribuendo dieci a chiunque aprisse bocca, per poi finire a blaterare cose sconnesse che non avevano nessuna attinenza con l'attività in corso.

Dopo qualche istante, Maria Vittoria finì di appuntare le votazioni, poi si accorse che mancava quella di Marco, così lo incoraggio a esprimere il suo parere.

«Che dire... il dieci è assicurato. Lau, sei stata capace di sorprendermi, hai portato fuori una canzone che è storia della musica, l'hai eseguita a modo tuo e sei stata cazzutissima. Complimenti» disse lui con un leggero entusiasmo a impregnare il solito tono piatto con cui parlava.

Lo presi come un buon segno, come un complimento e ne fui soddisfatta. Fu come se riuscire a far colpo su di lui mi mettesse addosso un qualcosa di più positivo, come se mi conferisse potere e controllo nei suoi confronti.

Tornai a sedermi e aspettai che l'altro gruppo cominciasse a esibirsi.

Viola fu la prima e cantò un brano di Max Pezzali, uno dei suoi artisti preferiti. Fu bravissima e mi venne quasi da piangere per quanto impegno mise in quell'esibizione.

Ovviamente ricevette dei bellissimi voti da tutti, me compresa.

Tamara inizialmente era titubante e non voleva cantare, si vergognava e non riusciva a trovare la forza per esporsi tanto. Infine riuscimmo a convincerla e ci deliziò con un emozionante brano reggae a cui era molto legata.

Ero sinceramente orgogliosa di lei, nonostante sentissi la sua voce tremare e mancare qualche nota o parola. Ero veramente in uno stato di gioia indescrivibile, quell'esperienza della musicoterapia stava sicuramente aiutando tutti noi ad aprirci, a metterci in gioco, a portare fuori emozioni vere e a non nasconderci più dietro le apparenze, amicizie o antipatie che si erano create all'interno del gruppo.

Quando mia sorella terminò la sua esibizione, la stritolai in un abbraccio e le ripetei all'infinito che era stata formidabile e che non aveva proprio motivo di vergognarsi.

Dopo di lei fu un po' difficile far cantare Simona. «Non conosco nessuna canzone» disse.

«Ma sì, dai, una la conosci di sicuro!» la incoraggiò Maria Vittoria.

«Conosco solo Marco se n'è andato e non ritorna più e anche Tu mi manchi amore mio

«Vedi che allora qualcuna la conosci? Quale scegli?»

«Marco se n'è andato e non ritorna più» decise infine Simona.

Ci volle un po' per ricordare il titolo esatto del brano, ma alla fine Alfonso trovò la base de La Solitudine di Laura Pausini, così Simona prese a cantare il brano quasi a memoria.

Andò per lo più fuori tempo, sbagliò molte parole e non fu granché in generale, ma io mi ritrovai a piangere come una bambina, commossa come non mai. Quell'attività stava decisamente facendo capitare un sacco di cose pazzesche, cose che non avrei mai immaginato, come dare un bel dieci a Simona.

L'ultimo a esibirsi fu Marco. «Suono un brano da me composto, userò la mia chitarra come accompagnamento» ci informò, per poi rientrare in stanza a recuperare il suo strumento.

Poco dopo tornò da noi e si sedette nuovamente al suo posto, esattamente di fronte a me.

Quando cominciò a suonare non sapevo cosa aspettarmi, poi prese a cantare e, nonostante il testo fosse in inglese e non riuscissi ad afferrare la maggior parte delle parole, avvertii una profonda malinconia provenire da quella melodia, da quelle note e da quegli accordi precisi e consapevoli.

Mi ritrovai a piangere ancora una volta, ormai ero entrata in una fase delicata, difficile da gestire.

E, inevitabilmente, mi ritrovai a pensare a tutto ciò che era successo con Marco, ma soprattutto a ciò che non era successo; il tempo perso, le occasioni mancate, le ripicche, i piani diabolici finiti male... tutto questo era nato solo per colpa di un'attrazione quasi incontrollabile, di sentimenti acerbi che ci avevano avvicinato l'uno all'altra in un momento inadatto, in una fase della nostra vita in cui non eravamo pronti per affrontare certe cose davvero importanti.

Sicuramente i nostri sentimenti erano stati profondi e veri, ma noi non eravamo stati in grado di viverli e di accoglierli. Ci eravamo limitati a farci del male, ancora e ancora, e in quel momento la situazione non era diversa.

Niente era cambiato, niente sarebbe mai cambiato.

Il brano da lui eseguito, oggettivamente, fu monotono e ripetitivo, nonché veramente triste e quasi da suicidio; tuttavia non riuscii proprio a trattenermi e a evitare di versare lacrime amare sui miei stupidi e inutili ricordi.

«Dieci» dissi soltanto.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici: Heaven And Hell ***


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Capitolo dodici: Heaven And Hell




L'attività di musicoterapia ci servì davvero; dopo la prima parte, facendo un conteggio dei voti che ognuno di noi aveva ricevuto, furono proclamati i vincitori, ovvero io, Marco e Tamara.

Dovemmo cantare un altro brano e trovare una citazione di nostro gradimento da dedicare al resto del gruppo; questo mi portò a riflettere ancora di più su ognuno dei miei compagni d'avventura, finché non mi resi conto che, a prescindere da tutto ciò che inevitabilmente ci divideva, eravamo legati dalla speranza di non arrenderci e di fare dei nostri limiti un punto di forza.

Perciò dedicai loro un brano reggae cantato da una ragazza molto talentuosa, il che fece piovere su di me ulteriori complimenti che sentivo di non meritare. Non avevo mai studiato canto, non possedevo nessuna tecnica e la mia performance non era stata granché. Ciò che davvero volevo comunicare era un messaggio chiaro: volevo che nessuno si arrendesse, che tutti guardassero al futuro anche se i loro occhi non potevano scorgere ciò che si palesava nel loro cammino, di pensare sempre positivo e amare la vita.

Perché è lei, la vita, il dono più prezioso che ogni essere possiede.


Ripensarci mi faceva sorridere e rendere conto di aver scaricato un sacco di ansia e malumore; ero molto grata a Maria Vittoria e Alfonso. Quando ci avevano annunciato che sarebbero tornati per un'altra attività con noi, ne ero stata subito entusiasta e già non vedevo l'ora che ciò accadesse.

«Lau, ci sei?» Tamara attirò la mia attenzione e mi riportò bruscamente alla realtà.

Eravamo in camera mia, ci eravamo tornate da poco, e stavamo aspettando che Viola si decidesse a entrare in doccia.

«Sì, ripensavo a prima... comunque non sono stata così brava con quella canzone, esagerati» borbottai.

«Macché. Sempre a sottovalutarti, che palle! Piuttosto, vi devo raccontare di Marco!» saltò su mia sorella.

«E adesso come facciamo? Io devo lavarmi! Venite a farmi compagnia in bagno?» ci propose Viola, raccattando qualcosa da mettersi.

«Ci sarà un caldo bestiale dentro quel bagno... e se lasciassimo la porta aperta? Tanto se arriva qualcuno ce ne accorgiamo io e Tami!» suggerii. Non avevo nessuna voglia di farmi una sauna proprio in quel momento, ero già pronta per andare a cena.

«Okay! Dai Tami, comincia a raccontare!» la sollecitò Viola, avviandosi a tentoni verso la sua meta.

Marta scese precipitosamente le scale in legno, producendo un baccano infernale. «Voglio sentire anch'io!» esclamò, piazzandosi accanto alla soglia del bagno.

Tamara andò a sedersi sul coperchio del water e io mi posizionai di fianco a Marta, pronta a scoprire cosa avesse combinato Marco.

«Allora... l'altra sera non avevo voglia di andare a dormire, dopo essere andata via dalla vostra stanza. Così sono scesa e sono andata verso la stanza dei ragazzi. Lì ho trovato Marco che studiava per i test d'ammissione, fuori in veranda.»

«Non capirò mai come fa a studiare al buio e a quegli orari improbabili...» commentai perplessa.

«Non chiederlo a me...»

«E quindi? Arriviamo al dunque!» si agitò Marta curiosa.

«Quindi mi sono seduta con lui e ho cominciato a giocare con i suoi capelli. Poi siccome avevo freddo, lui mi ha offerto la sua giacca e si è messo anche lui a giocherellare con qualche mia ciocca. Ma fin qui tutto okay, nella norma. Anzi, stavamo ridendo perché in lontananza si sentiva qualcuno fare karaoke, gente disagiata s'intende! Erano stonatissimi!» proseguì mia sorella.

«MI sembra di averli sentiti, è vero!» concordò Marta in tono divertito.

«Non era solo questo il racconto, vero?» intervenne Viola, la voce ovattata per via del getto dell'acqua sotto il quale si era infilata poco prima.

«No, aspettate, questo è niente!» Tamara sospirò. «Ieri, dopo che Lau e Vivi se ne sono andate dalla nostra stanza, io non avevo molto sonno. Così ho avvisato Giovi che sarei andata da Marco, sicura di trovarlo immerso nello studio o comunque sulla veranda della stanza dei ragazzi. Sono scesa e, come sapete, c'era abbastanza fresco ieri sera, così l'ho trovato con una coperta enorme e pesantissima addosso...»

Risi. «Di quelle matrimoniali in lana che ci sono anche nel nostro armadio?»

«Sì, esatto. Una di quelle. Stava studiando ed era seduto per terra, così mi ha offerto un pezzo di coperta e anche io mi sono seduta sul pavimento. Come al solito abbiamo cominciato a parlare e dire fesserie, mentre giocavamo l'uno con i capelli dell'altra. Niente di che, no?»

Ero sempre più curiosa e preoccupata. «Appunto, e...?» la incitai.

«E niente... oddio, aspettate che ancora non ci credo. Okay, riprendiamoci, ehm...»

«Oddio, Tami, non farci preoccupare!» disse Viola.

«Tranquille, ora proseguo! In pratica a un certo punto ha cominciato a lasciarmi carezze sui capelli e il viso, poi si è mezzo sdraiato su di me usandomi come cuscino... io non sapevo cosa fare, ero sinceramente basita, ma ho cercato di non darlo a vedere. Il top è stato quando mi ha dato un bacio sulla testa. Sono rimasta immobile e...»

«Cosa?!» strillammo noi tre all'unisono.

«Dimmi che non è vero!» esplose Marta, scoppiando a ridere.

«Giuro! E poi... poi me ne ha dato un altro e io lì ho capito che dovevo andarmene a letto. Anche perché, poco dopo, mi ha afferrato il mento ed era come se volesse sollevarlo verso di lui, per...»

Mi presi la testa tra le mani in preda alla disperazione. «Non è possibile, che stronzo! Che pezzo di merda!» esclamai indignata, non riuscendo a credere che davvero Marco fosse arrivato a tanto.

«Credici! Nel frattempo avevo i brividi per il freddo e lui mi ha chiesto: “Sei sicura che stai tremando per il freddo?”. Credeva forse che stessi tremando per l'emozione di averlo vicino? Ma è proprio un povero illuso! Vi giuro che a quel punto gli ho detto che volevo andare a letto e gli ho chiesto di riaccompagnarmi in camera mia. Meno male che non ha fatto storie!»

«Che squallore, ragazze, non ci credo... ma vi rendete conto che questo deficiente neanche due mesi fa voleva ricostruire con me un rapporto d'amicizia o d'amore e ora ci prova spudoratamente con mia sorella?! Mi fa schifo! Ma si può davvero cadere così in basso?» sbottai adirata. Ce l'avevo con lui, ma ancor di più con me stessa per aver anche solo rimpianto di non aver costruito qualcosa con lui in passato.

Solo ora mi stavo rendendo conto che avevo sprecato davvero il mio tempo e le mie energie, stando appresso a un coglione senza cervello, un pezzente che ragionava solo con ciò che regnava all'interno delle sue fottute mutande.

Ero veramente incazzata, ma sentivo anche una gran pena nei confronti di quel ragazzino stupido e insensibile; mi faceva pena perché era semplicemente vuoto e senza una morale, si dava tante arie ma alla fine rimaneva soltanto un involucro senza cuore né riguardo per il prossimo, un narcisista egoista ed egocentrico che non badava a niente quando si trattava di ottenere qualcosa che poteva procurargli piacere.

«Questo è davvero troppo, vi giuro! Io me ne vado, devo cercare Giovi. Adesso riderò ogni volta che me lo ritroverò di fronte, che penuria!» blaterò Marta, per poi lasciare la stanza.

A quel punto anche io scoppiai a ridere, rendendomi conto che non avevo nessuna voglia né intenzione di innervosirmi per un essere spregevole come Marco.

Il fatto che uscissi con Danilo non aveva niente a che vedere con lui ora, perché a quel punto non avrei potuto lasciarmi andare con Marco neanche se avessi voluto; mi faceva schifo, ribrezzo, mi disgustava in una maniera che non sapevo descrivere neanche a me stessa.

Tamara e Viola risero con me per un bel po' di tempo, e alla fine riuscii a vedere il lato tristemente ironico della faccenda; non dovevo pormi dei problemi, l'unico che stava facendo una grossa figura di merda era solo e soltanto Marco.

Dopo un po' riuscimmo a riprenderci dalle risate e io mi sentii molto più libera e rilassata.

«Vivi, ma... hai finito?» chiesi alla mia compagna di stanza, quando il getto dell'acqua si interruppe.

«No, devo ancora insaponare il corpo» rispose lei con semplicità.

Tamara si lasciò sfuggire un sospiro. «Ma Viola, sei lì dentro da almeno venti minuti!» esclamò.

«Ordinaria amministrazione...» bofonchiai, avviandomi verso il mio letto alla ricerca del cellulare.

«Ragazze! Muovetevi, tra un quarto d'ora si va a cena!» gridò Giovanna dal piano di sotto, dopo essersi posizionata sotto la finestra della mia stanza.

«Arriveremo in ritardo, sappilo» la avvertii. «Viola è ancora in doccia.»

«Viola, sbrigati!» strillò ancora l'educatrice.

Scoppiai ancora una volta a ridere e finii di sistemarmi, ripensando solo vagamente a ciò che avevo appena appreso da mia sorella.

Marco era davvero pessimo, come potevo essermi legata così tanto a lui in passato? E come avevo potuto permettergli di giocare con me?

Non riuscivo a perdonarmelo, ma ormai era acqua passata e non potevo certo castigarmi per sempre.

Però, sicuramente, potevo imparare dai miei stessi errori.


Per cena ci recammo in una trattoria, la stessa in cui eravamo stati anche l'anno precedente; la raggiungemmo a piedi, usando il bastone bianco, e devo dire che andò decisamente meglio rispetto alle altre volte.

Il paese era stranamente immerso nel buio e presto scoprimmo che c'erano stati dei problemi con la corrente nelle strade. Fu un'esperienza abbastanza interessante per tutti, anche per chi solitamente era abituato ad avere un livello di vista più elevato.

Il tragitto non durò troppo a lungo, ma io mi sentivo stanca e presto appresi anche non ero l'unica a sentirmi sfinita quel giorno; anche mia sorella riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti e, se non fosse stato per l'ottimo cibo che mandammo giù, probabilmente entrambe ci saremmo addormentate con la testa dentro il piatto o sul tavolo.

A un certo punto ci fu una scena piuttosto esilarante, per la quale dovetti trattenere le risate.

Marco era seduto alla destra di Tamara e i due ogni tanto scambiavano qualche parola, anche se spesso Nicolò si intrometteva e cercava di attirare l'attenzione con una delle sue fesserie.

A un certo punto sentii Tamara dirgli: «Stanotte dormi allora, ti lamenti sempre che sei stanco e poi...»

Lui rispose: «Tanto non ci riesco. Le alternative quindi sono due: o mi metto a studiare o vieni tu a farmi compagnia».

Rischiai di strozzarmi con un pezzo di pane e attesi la risposta di mia sorella, curiosa di scoprire come lo avrebbe rimbeccato.

«Marco, non so neanche se arrivo al residence, figurati se vengo a farti compagnia... non esiste, ho troppo sonno!»

Esultai interiormente per la fantastica risposta di mia sorella e mi ripromisi di farle i complimenti. Quel cretino non si meritava nient'altro che rimanere da solo a studiare o a fare ciò che gli pareva. L'importante era che smettesse di importunarci e che tenesse le mani a posto, per il resto non erano certo problemi miei.

Decisi di rientrare a piedi per evitare di addormentarmi sul furgoncino o in attesa di esso, ma purtroppo dovetti fare il tragitto a braccetto con Marco, il quale aveva optato per una passeggiata con la scusa di far scemare un po' l'effetto del vino che aveva bevuto durante la cena.

Come al solito aveva esagerato e non aveva saputo quando fermarsi, razza di imbecille. Più ci avevo a che fare, più sentivo un forte senso di repulsione farsi strada dentro me.

Ma, da qualche parte, esisteva ancora quella stupida e pedante attrazione, non riuscivo a scongiurarla del tutto e questo mi mandava letteralmente in bestia.


Mentre mi preparavo per andare a letto, misi su un po' di musica e nel lettore del mio telefono risuonarono le prime note di Heaven And Hell dei Black Sabbath; mi piaceva molto quel brano, specialmente perché a cantarlo era Ronnie James Dio. Lo avevo sempre apprezzato molto più di Ozzy Osbourne come voce di quella band, così lasciai scorrere la musica e mi ritrovai a canticchiare qualche parola del testo.


Sing me a song, you're a singer


Il primo verso della canzone sembrava fatto apposta per rappresentare l'attività di musicoterapia che avevamo svolto nel pomeriggio. Ma furono altre parole a colpirmi.

A volte ci sono dei momenti in cui, nonostante si conosce un brano da un sacco di tempo, ci si sofferma per la prima volta su una particolarità di esso a cui non si aveva mai prestato attenzione.

E a me accadde quando Ronnie cantò:


Well if it seems to be real, it's illusion
For every moment of truth, there's confusion in life


In poche parole e con la sua solita capacità di creare delle vere e proprie poesie, aveva descritto ciò che pensavo della vita e di quanto mi stava succedendo ultimamente.

Se ti sembra che qualcosa sia reale, be', non è altro che un'illusione, aveva detto. E cosa c'era di più illusorio dei sentimenti e dei pensieri che ognnuno di noi si creava nella sua mente?

A me era successo con Marco, mi ero illusa che fosse una persona diversa, che potesse essere adatta a me, e invece si era rivolato un vero e proprio idiota.

E come potevo essere certa che anche con Danilo non stessi sbagliando tutto? Forse non avrei dovuto pensarci, ma le mie esperienze mi avevano insegnato che non tutto è come sembra, anzi non lo è mai.

E Ronnie aveva anche detto che per ogni momento di verità bisognava aspettarsi solo confusione; come potevo dargli torto? La verità faceva male, era sempre così, e non sempre era utile a chiarirci le idee.

Per me quelle parole furono una rivelazione, così andai a letto con l'amaro in bocca e con la sgradevole sensazione di aver, ancora una volta, sbagliato tutto.

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici: Don't stay ***


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Capitolo tredici: Don't stay




La mattina seguente la trascorremmo in spiaggia; salimmo a bordo di un pulmino e il viaggio fu abbastanza breve.

Ci ritrovammo su una distesa di sabbia chiara e quasi deserta; essendo martedì, c'erano poche persone che avevano deciso di recarsi al mare. Probabilmente molti avevano da lavorare e avrebbero optato per il fine settimana.

Sistemammo le nostre cose e ci stendemmo sui teli, chiacchierando tra noi e attendendo il momento in cui avremmo potuto fare il bagno. Io non ero certa di volerlo fare, ancora avevo il ciclo e non mi andava di rischiare.

Trascorsi il tempo ad ascoltare musica e parlai poco con il resto del gruppo; Marco stava intrattenendo una conversazione con l'autista del pulmino, Simona blaterava insieme a Nicolò, Gabriella parlava con il cellulare e Giorgio faceva lo stesso, cercando invano di telefonare ai suoi genitori. In quel luogo non c'era campo e non sarebbe stato facile per lui mettersi in contatto con la sua famiglia.

Viola, invece, chiacchierava con Giovanna e Marta, mentre mia sorella rimase in dormiveglia con le cuffie alle orecchie per tutto il tempo, interrompendosi soltanto per fare il bagno insieme a qualche componente della compagnia.

Ci fu una scena esilarante durante la mattinata, anche se per Tamara ci fu ben poco da ridere.

Si era alzata per andare a fare il bagno e Marco cercava di attirare la sua attenzione per dirle qualcosa, ma lei non gli prestava attenzione. A quel punto lui aveva afferrato una delle sue pantofole e l'aveva sollevata, per poi mollarle un sonoro colpo sulla gamba.

Tamara si irrigidì sul posto, poi prese a sbraitargli contro: «Ma che cazzo fai? Sei scemo?! Perché non te la sei pestata in culo quella ciabatta? Idiota, mi hai fatto male!».

«Scusa, non l'ho fatto apposta... non pensavo di colpirti così forte!» si giustificò lui in un borbottio confuso.

«Sì, scusa un cazzo! Mi hai lasciato il segno, razza di deficiente!» strillò ancora mia sorella, massaggiandosi furiosamente la parte posteriore del ginocchio sinistro.

«Scusa, non incazzarti... non volevo...»

«Ma vaffanculo!» concluse lei, per poi dirigersi a passo di marcia verso la riva.

In effetti la scenetta poteva risultare divertente, dato che a me comparve un sorriso spontaneo mentre assistevo a quello scambio di battute, ma Marco si era rivelato come il solito coglione.

Il tempo trascorse abbastanza in fretta e ci ritrovammo in un chiosco sulla spiaggia per il pranzo.

Consumammo i nostri panini, insalate e patatine fritte con voracità, finché a Tamara non capitò un piccolo incidente.

«Allora... devo condire l'insalata, vediamo un po'...» disse, frugando in una ciotola piena di bustine di sale, olio e altri aromi e condimenti vari. «Sarà olio?» proseguì, cercando di leggere su una delle bustine. «Qui c'è scritto Olitalia, quindi è olio!» esclamò infine, per poi aprire il contenitore e svuotarne il liquido dentro il piatto che le stava di fronte.

Poco dopo notai che emetteva un grugnito contrariato e schifato, così le chiesi: «Cos'hai?».

Era seduta di fronte a me ed era illuminata da una forte luce, così potevo scorgere almeno un po' la sua espressione e i suoi gesti.

«Ho sbagliato... ci ho messo l'aceto anche questa volta» sbottò con un moto di rabbia e disperazione. «Che schifo!»

Scoppiai a ridere. «Non ci credo! Ormai è una tradizione del campo, a quanto pare» commentai.

«Almeno stavolta non è colpa mia» borbottò Marco.

Poco dopo aver finito di pranzare, educatori e istruttori si accostarono a noi e Lucrezia annunciò: «Un signore ha offerto un Maxibon a tutti voi, ragazzi».

«Cosa significa?» domandò mia sorella perplessa; era riuscita a mangiare quasi tutta l'insalata e aveva fatto in modo di buttare solo lo strato superiore. Doveva essere già sfinita per le cose negative che le stavano capitando durante quella giornata.

«Significa che ha detto di avere una nipote non vedente o qualcosa di simile... e quindi ha insistito per offrirvi qualcosa. Ha detto che gli fa piacere vedervi così carini e uniti, così sereni...» proseguì Giovanna in tono allegro.

«Ma sul serio?» feci io basita.

«Che problemi ha?» rincarò Tamara.

«È stato gentilissimo!» si commosse subito Viola.

Poco dopo un cameriere arrivò da noi tenendo in mano un vassoio stracolmo di gelati. Tutti ne prendemmo uno e cominciammo a mangiarlo con estremo piacere.

Certo che situazioni come quella potevano capitare solo a noi...


«Sono stanchissima» sbadigliai, mentre il pulmino si fermava nel parcheggio del residence.

«Dormi» mi suggerì Marco.

«Non penso proprio. Ho bisogno di una bella doccia, sicuramente mi farà bene.»

Avevamo trascorso qualche ora del pomeriggio nuovamente in spiaggia e verso le cinque e mezza eravamo ripartiti verso la nostra momentanea abitazione.

Quando il mezzo si fu fermato, Marco fu il primo ad alzarsi e aspettò che anche noi lo facessimo. Era in piedi nel corridoio tra i sedili e si era rivolto verso gli ultimi quattro sedili dove ancora io, Tamara e Viola eravamo sedute.

La mia compagna di stanza era posizionata su quello centrale che dava direttamente sul corridoio. Si chinò in avanti per infilare qualcosa dentro la sua sacca e andò quasi a sbattere con la fronte sulle parti basse del ragazzo.

«Vivi, guarda che mi stai per mettere la faccia dove non batte il sole...» le fece notare lui con ironia.

Viola si rimise seduta e raddrizzò la schiena, senza scomporsi troppo. Sorrise appena e, con estrema serietà e naturalezza, affermò: «Scusa, volevo solo controllare che non fosse ammuffito».

Calò il silenzio per un istante, poi io e mia sorella scoppiammo rumorosamente a ridere, cominciando a elogiare la nostra amica come se non ci fosse un domani. Era stata epica la sua affermazione, ma soprattutto il modo in cui l'aveva pronunciata.

Marco parve confuso. «Scusate, perché state ridendo? Non ho capito...» farfugliò.

«Ma sul serio non ci arrivi?!» sbottò Tamara, contorcendosi sul sedile per il troppo ridere.

«Non ho sentito!» obiettò lui.

Sospirai. «Viola voleva controllare che le tue parti basse non avessero la muffa» ripetei, per poi piombare nuovamente nell'ilarità più profonda. «Ah Vivi, sei un fottuto genio! Sto morendo!»

«Che stronze!» ci accusò Marco irritato.

«Rimarrà nella storia!» osservò mia sorella.

Marco prese a borbottare tra sé e sé, avviandosi lentamente verso l'uscita del pulmino. Io e le ragazze continuammo a ridere come pazze e, una volta all'esterno del mezzo, raccontammo tutto a Giovanna e Marta.

Le due si unirono all'ilarità generale e si complimentarono con Viola per la geniale trovata.

Lei sorrise ingenuamente. «Eppure non l'ho detto con malizia» si giustificò.

«Ed è per questo che sei stata fantastica!» le assicurai, guidandola verso la nostra stanza.

Non vedevo decisamente l'ora di buttarmi sotto la doccia.


«Sei seria?» si sorprese Viola in tono schifato.

«Serissima» confermò Tamara.

«Non ci credo» intervenni io.

«Credici, perché è così. Non si è voluta lavare neanche oggi. Vi rendete conto?»

Marco rise brevemente. «Che schifo!»

«Puoi contarci! In camera nostra c'è una puzza terribile, un misto tra quella di maneggio e altri odori non meglio classificati» raccontò mia sorella. «Senza contare che Simona sgancia delle bombe rumorose e puzzolenti ogni tre secondi.»

«Smettila, ti prego!» si rivoltò Viola.

«Cioè, fammi capire... Gabriella davvero si è rifiutata di fare la doccia? Domenica siamo andati al maneggio, ieri in piscina e oggi al mare... cristo, mi viene la nausea e non ti invidio per niente!» sbottai contrariata, avvertendo un moto di repulsione farsi largo nel mio stomaco.

Ci trovavamo tutti e quattro sdraiati sul letto mio e di Viola; avevamo cenato da circa mezzora e poi ci eravamo spostati nella nostra stanza per stare un po' insieme a poltrire e chiacchierare.

Io mi ero sistemata all'estrema sinistra del materasso, Tamara era alla mia destra, accanto a lei c'era Marco e infine Viola. Eravamo completamente immersi nell'oscurità, ma questo non ci importava più di tanto perché la luce attualmente non ci era di alcuna utilità.

«Io non capisco come faccia» sospirò Tamara, ponendo fine alla disgustosa conversazione basata sulla poca igiene di Gabriella.

«Domani ho l'esame, speriamo bene» raccontò Marco.

«A che ora parti?» si informò Viola.

«Ho il treno alle nove...»

«Andrà bene, non fai che studiare da giorni» lo rassicurò Tamara.

«Chissà...»

Io nel frattempo ricevetti un messaggio in cui Danilo mi augurava la buonanotte e sorrisi per il fatto che erano soltanto le undici di sera. Risposi con calore e abbandonai il cellulare sul comodino, ascoltando le chiacchiere dei miei amici.

A un certo punto, giusto per fare la cretina, presi a tormentare mia sorella, dandole dei colpetti sulla schiena e fingendo di volerle saltare addosso.

«Uffa, smettila... lasciami tranquilla, sono comoda e vorrei dormire...» biascicò lei.

«Non dormirai in camera mia!» esclamai, cominciando a farle il solletico.

Lei prese a dibattersi e così ebbe il via una rumorosa lotta tra noi due; era divertente sentire le sue proteste e i gridolini che lanciava ogni volta che le solleticavo un punto qualsiasi del corpo.

«Sei ipersensibile!» commentai.

«Anche tu se è per questo! Ora ti faccio vedere» sghignazzò Tamara, per poi restituirmi il favore.

«Smettetela di fare casino, dai!» si lamentò Viola con il sorriso nella voce. «Altrimenti Marta ci sgrida!»

«Tami, basta, oddio... muoio... okay, hai ragione, hai vinto! Basta!» protestai, per poi ritrovarmi nel punto del materasso in cui, fino a poco prima, era stata lei. Questo significava che Marco era alla mia destra, sentivo chiaramente la sua presenza e questo mi metteva un po' a disagio.

«Così impari!» ribatté mia sorella con ironia, per poi abbandonarsi sul letto e rannicchiarsi su se stessa, occupando il mio precedente posto.

Io feci di tutto per rimanere rilassata il più possibile, ma era chiaro che ritrovarmi sdraiata accanto a Marco nell'oscurità mi procurasse sensazioni contrastanti. Da un lato avrei voluto scappare via all'istante, per paura che lui allungasse anche un solo dito su di me; dall'altro, invece, volevo metterlo alla prova, ero curiosa di scoprire cosa sarebbe successo. Lo conoscevo troppo bene, e forse per questo avrei dovuto allontanarmi immediatamente da lui.

Invece rimasi lì e tentai di stare tranquilla, di non pensare male, di godermi quel momento di pace con i miei amici.

Ben presto, però, dovetti ricredermi.

Eravamo rimasti in silenzio e ognuno pareva immerso nei propri pensieri. Io avvertivo una certa tensione, un'elettricità sinistra nell'aria, anche se non capivo se fosse solo un'impressione mia o se fosse reale.

Un istante dopo avvertii un movimento alla mia destra, poi una delle mani di Marco si posò sul mio fianco. Mi irrigidii sul posto e cominciai ad avvertire i battiti accelerati del mio cuore. Cosa stava facendo? Perché mi stava toccando?

Imperterrito, allungò anche l'altro braccio e lo incastrò intorno alla mia vita, cercando di trascinarmi più vicino a sé.


Don't stay!


Io opposi resistenza, cercando di mantenere il controllo. Nella mia mente volteggiavano mille pensieri sconclusionati, non sapevo come fare a tenerli a bada.

Danilo è più importante di lui.

Esco con Dani, mi piace davvero...

Marco, perché mi fai questo?

Togli quelle mani.

Non muoverti, non lasciarmi andare.

Laura, riprenditi, che ti succede?

Non togliermi le mani di dosso...

Spostati, Laura, allontanati. Ora. Subito.

Mi agitai e cercai di indietreggiare, di schiacciarmi contro il corpo immobile di mia sorella che fingeva di dormire.


Don't stay!


«Dai...» sussurrò Marco.

Non ascoltarlo, non ascoltarlo, non ascoltarlo.

È così dannatamente difficile...

È così dannatamente attraente...

Il mio corpo reagiva a quella vicinanza, il mio corpo mi stava tradendo e stava tradendo Danilo. Avvertivo chiaramente un calore intenso farsi largo tra le mie cosce e invadere ogni cellula di me, rendendomi così sensibile a ogni singolo respiro che Marco produceva. Anche se non eravamo stretti l'uno all'altra, era palese che qualcosa stava capitando.

Laura, cosa cazzo fai? Spostati!


Don't stay!


Non ci riesco, ci riesco, non ci riesco, ci riesco...

Marco fece leva con le braccia e riuscì a trascinarmi contro di sé. Mi ritrovai con il viso a pochi centimetri dal suo, il cuore a mille, il respiro accelerato e il corpo in fiamme per quell'improvviso e maledetto contatto.

Marco chinò appena il viso e per poco non lo affondò nel mio petto.


Don't stay!


A quel punto mi riscossi bruscamente, rendendomi conto di cosa stava succedendo e di cosa non doveva assolutamente succedere. Stavo frequentando Danilo e non volevo rovinare il nostro rapporto per colpa di un coglione qualsiasi, per colpa di uno stronzo che il giorno prima aveva provato spudoratamente a baciare mia sorella.

Lo spinsi via con forza e, senza fare tante storie, mi voltai di spalle e costrinsi Tamara a tornare al suo posto, asserendo di dover usare il cellulare che era in carica e il filo non era abbastanza lungo per arrivare fin dov'ero io.

Lei infine cedette e ci scambiammo nuovamente di posto.


Don't stay!
Forget our memories,
Forget our possibilities...



Dentro mi sentivo una vera merda. Faticavo a regolarizzare il respiro e avvertivo una forte agitazione emotiva e fisica scuotermi nel profondo.

Cosa cazzo ho fatto?

E mentre mi torturavo con quell'interrogativo, un fastidioso desiderio continuava a farsi strada dentro di me, tra le mie cosce e in tutto il mio corpo.

Un desiderio colmo di patetica frustrazione.


Just give me myself back and...
Don't stay!

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici: Who you think you are? ***


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Capitolo quattordici: Who you think you are?




Senti... non mi è piaciuto per niente come ti sei comportato ieri sera. Sappi che non ho nessuna intenzione di rovinare il mio rapporto con Danilo per le strane idee che ti sei messo in testa. Vedi di comportarti civilmente e di non provare più a fare ciò che hai fatto ieri, non mi è andata affatto giù questa cosa, Marco. Forse non ti è chiaro che sono impegnata e tengo a stare tranquilla.


Lau, guarda che non l'ho fatto con malizia, stavo solo giocando... comunque, va bene... ti starò alla larga, anche se le mie intenzioni sono state travisate


Stranamente a me non è sembrato affatto un gesto innocente... sbaglierò io, ma comunque grazie, meglio se eviti di rifarlo.


Mi ero svegliata di malumore, incazzata e senza alcuna voglia di scherzare; il ricordo di quanto successo con Marco la sera prima mi stava martellando in testa e non ne potevo più.

Così, in preda alla rabbia, gli avevo scritto un messaggio per mettere in chiaro le cose. Non volevo assolutamente che si ripetesse, e lui doveva saperlo subito perché sarebbe partito abbastanza presto per andare a sostenere il test di ammissione e non lo avrei visto.

Nel frattempo, visto che mi ero svegliata da poco e ancora stazionavo in bagno, avevo inoltrato la conversazione con lui anche a Tamara, in modo che sapesse tutto in tempo reale, e poi ne avremmo parlato più tardi.

Poco più tardi, mentre finivo di vestirmi, mia sorella ci raggiunse in camera: sembrava piuttosto sconvolta e si lasciò cadere sul letto con un sospiro.

«Sul serio quel... quel... quel cretino ci ha provato con te?! Dopo che ha provato a baciarmi? Che squallido, oddio, che schifo!» trillò Tamara con indignazione.

«Già, a quanto pare, vedendo che tu non ci stavi, se l'è tentata con me. Ah, no, ma guarda che lui non l'ha fatto con malizia, eh! Sono io ad aver travisato le sue buone intenzioni, capito? Ma vai a cagare!» sbottai, aggirandomi come una furia per la stanza in cerca di una delle mie infradito.

«Come no...»

«Questo è sempre peggio» commentò Viola, uscendo dal bagno proprio in quel momento. «Tu, Tami, come stai? Mi sembri un po' sconvolta... hai una faccia strana...» aggiunse poi.

«Vivi, come fai a vedere la sua faccia?» scherzai.

«Non so, me ne accorgo anche se non la vedo! Allora?» incalzò nuovamente la nostra amica.

«Non vi dico quanto è stato traumatico il mio risveglio... dormivo così bene, finché non ho aperto gli occhi a causa delle grida disumane di Simona, voi non avete idea di quanto l'ho odiata!» raccontò mia sorella in tono esasperato.

«Ma perché gridava?» volle sapere Viola, anticipando la mia stessa domanda.

«Non ho capito granché perché mi ero appena svegliata, ma stava blaterando a proposito di voler andare a tutti i costi a prendere i biscotti nella casa di Nicolò e altre cazzate... c'era Giovi, poverina, che cercava di farle capire che non era il momento e che ognuno doveva fare la colazione nella sua stanza, ma lei non voleva saperne di stare zitta! Pensate che anche Gabriella le ha intimato di piantarla, il che è grave... oddio, non immaginate il trauma che ho vissuto!»

Io e Viola eravamo basite. Possibile che durante questi dannati campi non potesse succedere qualcosa di normale? Non ne potevo decisamente più.

Ero soltanto felice che quella sarebbe stata la mia ultima esperienza con i campi.


«In pratica ha provato ad abbracciarmi e poi ha anche asserito di non averlo fatto con cattive intenzioni o malizia» stavo raccontando. Ero al telefono con Danilo, dopo essere rientrata da un veloce giro in paese alla ricerca di qualche souvenir da regalare ai miei amici e parenti.

«Chi ci crede?» disse lui con calma.

Forse troppa calma.

«Appunto. Così l'ho rimesso al suo posto, gli ho detto che non doveva permettersi visto che sono impegnata con te e che non mi è piaciuto per niente il suo comportamento» mi affrettai ad aggiungere.

«Io mi fido di te» mi assicurò Danilo senza scomporsi.

«Grazie, anche perché non c'è proprio bisogno di preoccuparsi. È soltanto un idiota.»

«Se poi dovesse rifarlo, ci parlo io e vediamo» asserì in un tono che non aveva nessuna traccia di una qualche minaccia.

«Macché, non si permetterà, vedrai. Dimmi di te, invece... che combini?» cambiai argomento, stanca di parlare di Marco e delle sue stronzate.

«Ieri sono andato dal parrucchiere a farmi sistemare i capelli, oggi stavo aiutando mio padre a montare il televisore nuovo. Ora siamo in pausa, poi dopo pranzo riprendiamo.»

«Ma che bravo!» esclamai con poco entusiasmo.

«Eh, ormai io e mio fratello siamo grandi, è giusto che lo aiutiamo, dai.»

«Ovvio. Be', Dani, io ora devo andare... ci sentiamo dopo? E in ogni caso per messaggi, okay?» gli proposi, sapendo di dover tornare in piscina dagli altri.

«Certo, va bene. A dopo, ciao cucciola.»

«Ciao» conclusi, interrompendo la conversazione. Sospirai tra me e me, contenta che lui non se la fosse presa per la faccenda di Marco, ma anche un po' preoccupata per la sua scarsa, inesistente, gelosia. Potevo considerare normale una reazione del genere?

Mi ritrovai a pensare che noi donne eravamo proprio complicate: se un uomo si mostrava con noi troppo geloso, possessivo e pressante, questo ci infastidiva; se un uomo, al contrario, ci dedicava poche attenzioni e sembrava quasi distaccato, ci sentivamo trascurate.

Ma forse anche gli uomini erano strani, perché difficilmente riuscivano a trovare una via di mezzo tra i due estremi. Chissà perché...


Eravamo a bordo di un autobus che ci stava conducendo verso la città; erano passate da poco le cinque e mezza del pomeriggio e gli istruttori avevano pensato per noi un'attività di orientamento e mobilità di squadra. Non sapevamo ancora cosa ci avrebbe atteso, ma con i presupposti di quanto accaduto in precedenza, c'era poco da stare tranquilli.

Mia sorella si era appisolata sul sedile e io avevo raccontato le novità su Marco a Giovanna. Lei non era rimasta affatto sorpresa, forse perché ormai aveva capito che razza di esemplare fosse lui.

«Ma ti rendi conto?» bisbigliai, evitando che il resto del gruppo udisse i fatti miei.

Lei sorrise. «Ripeto: pensavo che farsi una famiglia significasse qualcosa di diverso.»

Risi. «Questa massima mi piace, sai? Sei un genio!» le dissi.

«Ma è la verità. Che squallore, ragazzi miei.»

Il viaggio durò ancora pochi minuti, durante i quali chiacchierammo del più e del meno, finché non scendemmo alla stazione degli autobus e ci riunimmo per ascoltare le dritte degli istruttori.

«Ragazzi, vorremmo che cercaste un regalo per Marco, visto che lui oggi non è con noi. Sarete divisi in due gruppi e dovrete, infine, raggiungere la piazza principale di questa cittadina. A formare le squadre saranno Laura e Tamara.»

«Perché un regalo per Marco?!» sbottai.

Lucrezia sorrise appena. «Lui oggi non c'è, quindi abbiamo pensato di fargli un pensierino che possa portargli fortuna per l'esame che ha sostenuto e per il prossimo che dovrà affrontare dopo la fine del campo. Almeno sarà una sorpresa».

Non replicai, anche se sinceramente quell'idea non mi garbava per niente. Finii per arruolare nella mia squadra Viola e Nicolò, e mia sorella si ritrovò con Simona, Gabriella e Giorgio.

Fu abbastanza estenuante portarsi appresso quella piaga di Nicolò, visto e considerato che spesso camminava troppo in fretta e usava male il bastone bianco; quell'esperienza mi ricordò quando, al precedente campo, il ragazzino aveva rischiato di essere investito da un'auto perché non aveva dato ascolto né a me e Viola, né ai consigli e le dritte di Lorenzo che aveva cercato di spiegargli più e più volte come adoperare il suo bastone.

Andò piuttosto bene, nonostante tutto, ma ci fu un momento in cui stimai profondamente Nicolò come mai prima d'allora.

Ormai la luce era davvero poca per me, così avevo sfoderato il bastone e anche io mi muovevo con il suo supporto, esattamente come i miei compagni non vedenti. Ci trovavamo in una stradina pedonale, così decidemmo di camminare uno accanto all'altro e di prenderci sottobraccio per rimanere uniti, visto che io non ero più in grado di badare a loro e di capire dove si trovassero esattamente.

Stavamo procedendo tranquillamente e ormai eravamo quasi arrivati alla piazza principale, dalla quale poi avremmo raggiunto un qualche negozio per comprare qualcosa per Marco. A un certo punto un ragazzino in bicicletta passò accanto a noi, sfrecciando a tutta velocità, e gridò: «Ma insomma, levatevi dai coglioni!».

Una rabbia incontrollabile mi invase, ma non feci in tempo a formulare una risposta, che Nicolò aveva già provveduto: «Deficiente, guarda che siamo ciechi!».

Io e Viola cominciammo subito a complimentarci con lui e alla fine scoppiammo tutti e tre a ridere, contenti di aver fatto valere la nostra posizione e augurando al tizio ogni male possibile e immaginabile.

Finimmo per recarci in un tabacchino che affacciava sulla piazza e acquistammo un portacenere portatile per Marco, giusto per adempiere al nostro compito. Io non avevo nessuna intenzione di fargli un bel regalo, non era poprio il caso. Inoltre, era talmente tirchio che non se lo meritava a prescindere da tutto il resto.

Ci riunimmo con il resto dei nostri compagni e decidemmo di recarci in un bar per un aperitivo; erano solo le otto meno un quarto ed era troppo presto per andare a cena, contando che gli istruttori avevano prenotato per le otto e mezza in un locale situato in una delle stradine pedonali che circondavano la piazza.

Prendemmo qualcosa da bere e poi ci ritrovammo a parlare dell'attività appena vissuta: Tamara raccontò che aveva avuto molta difficoltà a orientarsi e che era stato un po' un problema aiutare anche gli altri ragazzi che stavano nella sua squadra; a noi era andata piuttosto bene rispetto a loro, se si faceva eccezione per il comportamento poco collaborativo di Nicolò e il piccolo diverbio con quell'idiota in bicicletta.

Infine andammo a cena e lì ci raggiunse Marco, reduce dell'esame e di una giornata lontano da noi e dall'atmosfera del campo.

Subito cominciò a raccontare che aveva bevuto un bel po' durante la giornata, che l'esame era andato decentemente – o almeno così sperava – e che aveva comprato due bottiglie di non so quale vino costoso che conosceva lui per offrirle a educatori e istruttori durante l'ultima sera del campo.

Mi ricordai che ormai eravamo agli sgoccioli: mancavano solo due giorni alla fine di quell'esperienza e io non vedevo decisamente l'ora. Volevo rivedere Danilo, i miei amici e lasciarmi alle spalle tutto ciò che era capitato durante quei dieci giorni.

«Questo pomeriggio ho preparato una playlist per la serata di domani» raccontai a tutti e nessuno in particolare.

Marco non mi rispose, mentre Tamara e Viola mi chiesero che cosa ci avessi messo dentro. Elencai qualche canzone, ma dissi loro che sarebbe stata un po' mista e adatta ai gusti di tutti.

Notai che Marco evitava di commentare quando io dicevo qualcosa, non sembrava per niente intenzionato a parlare con me; doveva essersela presa per quello che gli avevo detto quella mattina per SMS, ma a me non interessava: avevo soltanto espresso il mio pensiero, lui era nel torto e avrebbe dovuto scusarsi con me, anziché cercare di giustificarsi.

A un certo punto si svolse una scena piuttosto comica e raccapricciante: avevamo appena finito di mangiare e aspettavamo le nostre crepes dolci. Io l'avevo ordinata con cioccolato fondente e noci e non vedevo l'ora di tuffarmici sopra.

Marco, intanto, intercettò una cameriera e le chiese: «Scusi, mi può portare un Montenegro?».

Lei annuì e si allontanò.

Mia sorella, seduta di fianco a lui, commentò: «Giusto per rimanere leggero e per non integrare la dose di etanolo già presente nel tuo organismo».

«Ma cosa vuoi che sia... tu non mi hai mai visto ubriaco, fidati.»

«E cosa c'entra?»

Marco sbuffò. «Pensa che una volta sono andato a suonare a un matrimonio, ma mi sono ubriacato così tanto che a un certo punto sono caduto e ho sbattuto il mento non so neanche dove. Ero così fuori che non sentivo neanche il dolore, me ne sono accorto solo perché me l'hanno fatto notare!» Sembrava divertito dalla sua bravata, mentre io mi sentivo sempre più disgustata.

«E poi? Sei riuscito a suonare?» volle sapere Tamara perplessa.

«Sì, sì... alla fine è andato tutto bene! È stato troppo divertente!» le assicurò lui in tono soddisfatto.

«Uh, che spasso! Immagino!» lo prese in giro lei con pungente ironia.

Nel frattempo la cameriera cominciò a distribuire qualche crepe e consegno anche l'amaro a Marco, il quale cominciò subito a tracannarlo tutto d'un fiato.

Poi si voltò verso Tamara per parlarle, ma lei immediatamente gli si rivoltò contro: «Marco, girati! Hai una puzza terribile di quello schifo che ti sei bevuto, mi fai venire la nausea!».

Lui prese a borbottare qualcosa di incomprensibile, mentre io me la ridevo e commentavo insieme a Viola, scoprendo che entrambe avrebbero tanto voluto erigere una statua in onore di mia sorella: era stata davvero mitica!

Rientrammo al residence che non era ancora mezzanotte, ma eravamo troppo stanchi per fare qualsiasi cosa.

Così ci gettammo a letto senza perdere tempo: il giorno dopo ci saremmo dovuti svegliare piuttosto presto.

Inviai un messaggio a Danilo, Beatrice e Anna per augurare loro la buonanotte e scivolai in un sonno senza sogni, troppo sfinita anche per elaborare un qualsiasi pensiero logico.

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici: Are you gonna be my girl ***


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Capitolo quindici: Are you gonna be my girl




Sole, sole, sole. C'era sole ovunque, neanche uno sprazzo d'ombra, neanche per idea.

I miei piedi, così come quelli dei miei compagni d'avventura, avanzavano per inerzia sullo stretto sentiero sterrato. Eravamo circondati soltanto da bassi cespugli di macchia mediterranea, niente che potesse confortarci dalla calura che si abbatteva spietata sui nostri corpi stanchi.

Dopo dieci giorni di campo, una sfacchinata del genere non ci voleva; forse avrebbero dovuto organizzarla all'inizio, quando ancora avevamo le energie necessarie per affrontare qualsiasi cosa. In ogni caso, non capivo come una passeggiata naturalistica alla scoperta della macchia mediterranea potesse svolgersi in piena mattinata. Rischiavamo seriamente un'insolazione.

«Dai, fate uno sforzo! Arriveremo presto al mare!» continuava a ripeterci una delle guide, di cui avevo già dimenticato il nome.

Eravamo decisamente stravolti: in linea di massima eravamo sfiniti, dal canto mio avvertivo il solito mal di schiena farsi sempre più pungente, mentre Marco aveva mal di testa.

«A pranzo non bevo» dichiarò a un certo punto.

Mia sorella rise. «Non ci credi neanche tu» lo contraddisse con ironia.

«No, no... vedrai... ho un mal di testa atroce...»

Dentro me sapevo che Tamara aveva ragione: quel cretino non avrebbe resistito alla tentazione di prendersi una birra o un quarto di vino durante i pasti. Era un caso perso.

«Io te l'avevo detto ieri, no? Avevo scommesso che avresti avuto il mal di testa e ho vinto! Sono un genio!» continuò a schernirlo Tamara, sempre più divertita dalle condizioni del ragazzo.

Lui non rispose e si limito a borbottare qualcosa d'incomprensibile. Tipico di chi si trova in torto e non può assolutamente negarlo.

Non so quanto tempo trascorremmo a camminare, mi parve infinito, finché finalmente non ci fermammo su una spiaggetta deserta e molto bella. Ci sistemammo sulla sabbia e ci accostammo alla riva per rinfrescarci e fare il bagno, ma subito ci accorgemmo che era pieno zeppo di pesci che non facevano che pungerci i piedi e le caviglie. Rinunciai all'idea di fare un bagno decente e, sbuffando, mi accostai alla mia borsa. Decisi di ristorarmi un po', bevendo diversi sorsi d'acqua e mangiando i miei immancabili grissini al sesamo.

Troppo tardi mi resi conto che, per andare via, avremmo dovuto ripercorrere tutto il tragitto a piedi e mi sentii mancare. Non ce la potevo fare.

Stranamente, il ritorno verso il pulmino fu più breve, forse perché le guide avevano scelto una sorta di scorciatoia; quando arrivammo alla nostra meta, stavo morendo di fame e di sete, non vedevo l'ora di andare a pranzo e sedermi, per poi rialzarmi il più tardi possibile.

Il problema era che non avevamo tempo: alle quattro del pomeriggio avremmo avuto il secondo incontro con Maria Vittoria e Alfonso, e quando giungemmo a un chiosco per pranzare, si erano già fatte le due.

Mi ritrovai seduta accanto a Marco e la cosa mi lasciò piuttosto indifferente, anche perché stavo pensando solo a ciò che avrei mangiato. Ordinai dei ravioli al pomodoro, una caprese e delle patatine fritte e attesi con ansia che il mio cibo arrivasse.

Potei presto constatare che Tamara aveva vinto la seconda scommessa – che, piuttosto, era stata una certezza fin dal principio – della giornata: inizialmente Marco ordino una Coca Cola, ma a metà del pranzo richiamò la cameriera e si fece portare un quarto di vino rosso, dopo aver appreso con la birra c'era solo in formato da trentatré centilitri e lui l'avrebbe voluta da sessantasei.

Un caso perso, mi fece veramente schifo e pena, non vedevo l'ora che il campo finisse anche e soprattutto per non doverlo più vedere e non dover più assistere a certe scene raccapriccianti.


Una volta rientrati al residence, non avemmo neanche il tempo per darci una rinfrescata: si era già fatto tardi, Maria Vittoria e Alfonso arrivarono puntuali e ci riunirono nuovamente di fronte alla stanza dei ragazzi.

Ero piuttosto seccata dal fatto di non avere neanche un minuto per riprendere fiato: avevamo sudato come cammelli durante la passeggiata, inoltre ci eravamo buttati in spiaggia e qualcuno aveva fatto il bagno. Era da animali non correre in doccia fin da subito, ma ancora una volta noi ragazzi non avevamo avuto voce in capitolo e ci eravamo dovuti attenere alle decisioni prese dall'alto.

«Lau?» mi richiamò Tamara, mentre aspettavamo che i due nuovi arrivati cominciassero a spiegarci cosa avremmo fatto quel pomeriggio.

«Dimmi.»

«Ma... anche tu hai notato che Samuele non si è mai cambiato i pantaloni da quando siamo arrivati? Ha sempre quegli orribili bermuda in fantasia militare...» bisbigliò in tono indignato.

Risi. «Sì, e tra l'altro si è portato appresso solo due magliette. Gliene ho visto addosso solo due durante tutti questi giorni.»

«Secondo me si è portato appresso solo quello zaino che ha sempre addosso, in cui ha ficcato solo una maglietta di ricambio e forse qualche capo di biancheria intima. Mi viene da vomitare...»

Scoppiammo a ridere, così Viola volle sapere cosa ci stesse prendendo. Tamara le spiegò la situazione e anche lei si unì alla nostra ilarità, asserendo che probabilmente quelli erano gli unici vestiti in suo possesso.

Maria Vittoria, poco dopo, attirò la nostra attenzione. «Ragazzi, oggi faremo qualcosa di diverso rispetto all'altra volta.»

«Cosa?» si incuriosì subito Nicolò.

«Ora ve lo spieghiamo, giovanotto» lo rassicurò Alfonso con un leggero sorriso.

La donna proseguì: «Ora vi daremo un cartoncino su cui ognuno di voi dovrà scrivere alcuni suoi pregi. Mi raccomando, solo qualità positive. Devono essere ameno cinque».

Nel frattempo ci distribuirono qualcosa su cui scrivere e alcuni pennarelli e penne; decidemmo che noi ipovedenti avremmo aiutato i non vedenti a scrivere le loro qualità, dato che non era disponibile, al momento, del materiale per far sì che loro scrivessero in braille.

Fu piuttosto difficile scrivere qualcosa di positivo, non solo per me, ma per tutti noi; alla fine riuscii a buttar giù qualche parola, come per esempio schiettezza o empatia.

Quando finimmo tutti di annotare i nostri pregi, Maria Vittoria ci spiegò come avremmo proceduto: «Ora ognuno di voi leggerà a voce alta ciò che ha scritto, e gli altri dovranno commentare, dicendo ciò che pensa. Se pensate che i pregi scritti dai vostri amici siano corretti o se avete dei suggerimenti per far sì che migliorino qualcosa di loro stessi, non esitate a dirlo. Dovete essere sinceri il più possibile».

«Interessante...» commentai.

Così cominciammo l'attività; mi ritrovai a essere veramente sincera con tutti, perché lo scopo di ciò che stavamo facendo era proprio quello, e inoltre nessuno avrebbe dovuto prendersela per i consigli e suggerimenti altrui.

A Nicolò dissi che forse avrebbe dovuto essere più tranquillo ed evitare di infastidire gli altri con il suo modo di fare sempre esuberante e pedante, perché comunque ognuno aveva il diritto di avere i suoi spazi e lui non poteva permettersi di disturbare ogni volta che ne aveva voglia. A Gabriella e Simona dissi più o meno qualcosa del genere, aggiungendo che avrebbero dovuto contenersi ed evitare di ripetere sempre le stesse cose all'infinito, perché gli argomenti che portavano fuori non sempre erano di interesse comune e le persone potevano anche non aver interesse per i loro discorsi, soprattutto se ripetuti allo sfinimento. A Giorgio dissi che, secondo me, avrebbe dovuto impegnarsi maggiormente per socializzare e per mostrare il vero se stesso, dato che era un ragazzo simpatico, intelligente e divertente, doveva soltanto portarlo fuori e mettersi in gioco.

A Viola dissi che spesso era testarda e che avrebbe dovuto ascoltare maggiormente i consigli che le venivano dati, perché su certi argomenti non poteva avere ragione sempre e solo lei; le dissi anche che a volte si lasciava influenzare dalle persone sbagliate, che magari con forza e con determinati modi di fare, riuscivano a convincerla di cose che lei non avrebbe mai condiviso, se avesse ragionato con la sua testa.

A Tamara più o meno dicemmo tutti che era molto dolce e sensibile, ma che aveva tanti problemi con l'autostima; le consigliai di non sottovalutarsi perché, se avesse imparato ad amarsi, avrebbe scoperto di essere una persona davvero apprezzabile e bella.

Lei parve commossa, dato che tutti le stavano facendo un sacco di complimenti che non credeva di meritare; le sembrava strano che tutti pensassero tante cose positive di lei.

Anche io, francamente, mi sentivo sull'orlo delle lacrime; sentire tutti noi parlare con tanta sincerità gli uni degli altri era qualcosa di davvero bello: non c'era astio, non c'era competizione, non c'era rabbia. Mi ritrovai a pensare che quell'attività di autocritica e di riscoperta di se stessi e degli altri sarebbe stata molto utile per molti di noi.

Quando arrivò il momento di parlare di Marco, lui esclamò: «Adesso tutti mi diranno che sono un beone!».

Io gli dissi: «In effetti quello non si può negare».

Gli spiegai che secondo me era troppo chiuso in se stesso e che avrebbe dovuto, ogni tanto, aprirsi e affidarsi agli altri quando aveva qualche problema, anziché rifugiarsi in modi effimeri e inutili come l'alcol o il fumo, che non avrebbero comunque risolto un bel niente. Inoltre gli dissi che avrebbe dovuto accettarsi di più, accettare anche il suo essere ipovedente.

Poco dopo giunse il mio turno di essere bersagliata; stranamente, ricevetti anche io dei buoni complimenti, anche se qualcuno mi disse che avrei dovuto calmarmi e cercare di non dare di matto per tutto. Mi dissero che ero impulsiva e che spesso non davo ascolto agli altri, ma che comunque avevo un buon carattere, sapevo stare in gruppo e aiutare chi ne aveva bisogno.

Mi fece piacere ricevere certi consigli da loro, perché in un modo o nell'altro avevano imparato a conoscermi e sapevo che avevano certamente ragione.

Qualche lacrima sfuggì al mio controllo, proprio perché quell'attività mi colpì molto e mi servì per capirmi e riflettere su me stessa e su ciò che avrei potuto migliorare di me.

Verso le sette salutammo Maria Vittoria e Alfonso, poiché avremmo dovuto fare la doccia e prepararci per l'ultima sera del campo. Mentre eravamo impegnati con i due psicologi, Giovanna era venuta a chiederci come volevamo la pizza per la cena, dato che l'avremmo mangiata a bordo piscina dopo averla ordinata dalla nostra pizzeria di fiducia, quella in cui ci eravamo recati diverse volte sia quell'anno che il precedente.

Poco prima di risalire in camera, notai che Marco si stava dirigendo verso la nostra stanza per un motivo a me ignoto, così mi venne spontaneo affiancarlo, lasciando indietro gli altri.

«Ce l'hai con me?» gli chiesi con semplicità.

Sinceramente, sarebbe stato l'ultimo mio campo, probabilmente non l'avrei mai più rivisto – e lo speravo – ma non volevo che ci lasciassimo in malo modo. Ero tendenzialmente una persona pacifica, detestavo avere dei problemi con gli altri, specialmente se non ce n'era un vero motivo. Con lui era andato sempre tutto male, ma non avrei dovuto frequentarlo in futuro, quindi non aveva senso che ci ignorassimo anche in queste ultime ore di campo.

«No, non ce l'ho con te» borbottò, mentre salivamo le scale che conducevano al terrazzo di camera mia. «È solo che io non ho fatto niente con cattive intenzioni, tutto qui.»

Ci fermammo di fronte alla porta, dato che le chiavi le aveva Marta e quindi avremmo dovuto aspettare che arrivasse; eravamo soli sul terrazzo e pensai che fosse arrivato il momento di parlare, di dirci qualcosa che avrebbe definitivamente messo fine al nostro rapporto, se così si poteva definire.

«Non so, non ti credo. Sono successe tante cose, posso avere dei dubbi, non pensi?» gli feci notare.

Mi afferrò per le mani. «Lau, ascolta. Credimi, io sono davvero felice che tu stia con Danilo, non voglio assolutamente rovinare ciò che c'è tra voi. Non avevo secondi fini, volevo solo abbracciarti perché a te ci tengo. Davvero.»

Continuavo a non credergli, ma non glielo dissi e finsi il contrario. «Okay, va bene. Non importa» concessi con un sospiro. «In ogni caso, sono contenta che questo campo stia per finire e che sia il mio ultimo. Non rivedrò più nessuno di voi ed è meglio così» aggiunsi.

Lui lasciò la presa e sbuffò. «Perché dici così? Senti, io durante tutti quesi mesi avrei voluto vederti, giuro, mi piacerebbe che non perdessimo i contatti... non appena mi sistemo all'università, giuro, prendo il treno e vengo da voi. Se c'è un bed and breakfast nel vostro paese, rimango anche più di un giorno. Mi dispiace che la pensi così, però possiamo...»

Dovetti trattenermi per non scoppiare a ridergli in faccia. «Non ci credi neanche tu, Marco. Andiamo!»

«Non è vero! Lo farò, vedrai!» affermò con enfasi.

Scossi appena il capo. Mi faceva piuttosto pena, ma non glielo dissi. Non avevo voglia di discutere con il vento. Avevo ormai capito com'era fatto: non si era preoccupato di venirmi a trovare neanche quando i rapporti tra noi erano un po' più stretti, ero stata sempre io a prendere il treno per raggiungerlo, a organizzarmi per andare da lui; da parte sua non c'era mai stato niente di concreto, perché avrebbe dovuto fare qualcosa ora? Era impensabile, davvero ridicolo.

«Sono contento che abbiamo chiarito, comunque. E non dire così, vedrai che verrò a trovarvi» ribadì Marco con un mezzo sorriso.

Presa da uno slancio improvviso, lo abbracciai. Non so cosa mi fosse preso, però era come se volessi dargli il mio addio, quello definitivo e ultimo.

Lui ricambiò e mi disse: «Ti voglio bene Lau, voglio che tu sia felice».

«Sì» mormorai. «Anche io.»

Non sapevo se quelle ultime due parole fossero riferite al fatto che gli volessi bene o che desiderassi essere felice; Marco aveva comunque rappresentato qualcosa di importante per me, nonostante ora lo disprezzassi e trovassi riprovevoli i suoi atteggiamenti.

Ci separammo quando udimmo i passi di Marta e Viola che salivano le scale.

«Marco, cosa ti serviva?» chiese Marta, sventolando le chiavi mentre si avvicinava alla porta.

«Devo prendere il vino, ce l'ho in frigo da voi, ricordi?» rispose lui. «Ah Lau, nella playlist per stasera l'hai messa Are you gonna be my girl dei Jet? Ce l'ho in testa da quando stavamo ascoltando musica in piscina, giorni fa...»

«L'ho messa, tranquillo!» assicurai, entrando in camera.

E mi venne in mente che no, non sarei mai stata la sua ragazza. E non lo ero mai stata, ciò che c'era stato tra noi era sempre stato illusorio e pieno di bugie.

Ero contenta che fosse finito tutto, che non ci saremmo più rivisti e che ci eravamo detti finalmente addio.

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici: Immigrant Star ***


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Capitolo sedici: Immigrant Star




«Adesso prendo il vino e me ne vado...»

Sbuffai, entrando in camera mia per mettere in carica il cellulare.

Nel frattempo, sentii che Nicolò si stava arrampicando su per le scale: produceva un baccano assurdo e strillava come suo solito.

«No, e adesso questo che vuole?» protestai a voce non troppo bassa, senza curarmi del fatto che lui potesse sentirmi. Non mi importava, lo sopportavo a malapena e non ero contenta di trovarmelo tra i piedi anche in camera mia.

«Chissà...» ribatté Viola.

Il ragazzo arrivò in fretta sulla soglia e cominciò a straparlare come al solito, perforando i miei timpani e la soglia della mia pazienza. Non avevo proprio alcuna intenzione di averci a che fare.

«Dove siete voi due?» urlò Nicolò, rivolto a me e Viola.

«In camera nostra, cosa te ne frega?!» sbottai.

«Dai Lalli, non trattarlo male che poi rompe il doppio...» bisbigliò Viola.

Nel frattempo ci adoperammo per cominciare a preparare i bagagli: alla partenza ormai mancava pochissimo, la mattina seguente sarebbe tutto finito e ognuno sarebbe tornato alla propria vita. Da un lato ero piuttosto contenta, ma dall'altro c'era una vena di malinconia che permeava il mio essere. Ovviamente, Viola mi sarebbe mancata, così come Giovanna e Marta. Marco no di certo, ma questo era logico.

Udii Nicolò che parlava animatamente con Marco, poi quest'ultimo aprì il frigorifero che si trovava in cucina e la sua voce arrivò in un rimbombo confuso fino a noi.

«Marta, vedrai che faremo una bella festa!» assicurò il ragazzo, per poi afferrare rumorosamente le due bottiglie di vino che aveva comprato apposta per quella sera.

Poi tutto accadde in un secondo: un frastuono terribile, rumore di vetri infranti, un puzzo nauseabondo a base di alcol e poco altro...

Io e Viola strillammo simultaneamente e ci tappammo entrambe il naso con due dita, soffiando aria dalla bocca.

«Oddio che schifo! Che cazzo è successo?» sbottai irritata, procedendo a tentoni verso la porta. L'aria era irrespirabile, volevo chiudermi dentro la stanza e non sentire più quell'olezzo disgustoso.

«No!» sbraitò Marco. «No, cazzo... il vino! Dodici euro sprecati, no! Cazzo, e adesso?! No, non ci credo, che peccato!»

La scena era talmente raccapricciante che io e Viola non potemmo più trattenerci e scoppiammo a ridere come due pazze.

Nel frattempo raggiunsi la porta e la sbattei con forza, rendendomi conto che fortunatamente l'odore del vino non si sentiva più tanto forte come prima.

Allora lasciai libere le mie povere narici e risi, risi fin quasi a perdere il respiro; era assurdo, Marco se l'era proprio meritato quell'incidente con il suo diamine di vino!

«Quant'è che l'ha pagato? Dodici euro?!» strillò Viola in tono incredulo, portandosi una mano alla fronte. «Oddio, ma... come si possono spendere tutti quei soldi per un litro di vino?»

«Non era un litro, ma settantacinque millilitri» precisò lui dalla cucina, continuando a imprecare come un forsennato.

Nel frattempo Giovanna arrivò in nostro soccorso, salendo di corsa le scale per dare una mano a Marta.

«Vi prego, pulite in fretta! Non si respira qui dentro!» implorai, sistemandomi vicino alla finestra per poter respirare un po' d'aria pulita e fresca.

Poi continuai a ridere, trovando che quella fosse la lezione perfetta che Marco doveva ricevere.

«Così impara!» sentenziò Viola in tono malizioso. «Cretino.»

«Così impari, Marco!» gridai io senza pormi alcun tipo di problema. Ormai ero troppo divertita per smettere di prenderlo in giro.

Io e Viola stavamo facendo un baccano assurdo e, mentre Giovanna faceva avanti e indietro dalla nostra stanza alla sua per recuperare stracci e disinfettanti vari, Marta ci intimava di abbassare la voce perché avremmo potuto disturbare gli altri ospiti del residence.

A noi, neanche a dirlo, importava ben poco.

«Che è 'sta puzza?! Oddio! Mi sembra di essere in cantina, che schifo!» si lamentò Tamara, che intanto stava cercando di salire le scale in modo da controllare cosa stesse succedendo.

«Tami, stai giù! Quell'imbecille di Marco ha fatto cadere una delle sue bottiglie di alcol sul pavimento della nostra cucina!» la ammonii, accostandomi maggiormente alla zanzariera della finestra.

«Cosa?» Mia sorella si bloccò a metà strada e si lasciò andare a una fragorosa risata. «Gli sta bene! Così impara a voler sempre assumere quella merda!» proferì con entusiasmo, poi fece dietrofront e si allontanò nuovamente.

«Andate a fanculo!» gracchiò Marco dalla cucina, per poi lasciare la nostra stanza tra borbottii e imprecazioni irripetibili.

«Ma smettila, non è morto nessuno!» lo rimbrottò Viola, accostandosi a piccoli passi alla finestra sotto cui lui stava passando proprio in quel momento.

«Uhm... dodici euro sprecati, ma dimmi te... cazzo, non ci voleva...»

La sua voce cupa e amareggiata si perse nell'aria.

Io e Viola rimanemmo perplesse per un attimo, poi tornammo ad abbandonarci a un'altra serie infinite di risa.


Veramente ridicolo.

Mi venivano in mente soltanto quelle due parole per descrivere Marco e il suo comportamento, specialmente durante quell'ultimo campo. Non so come mai non mi fossi mai resa conto di che razza di idiota aveva attirato la mia attenzione in passato.

Prima di scendere a cena, scambiai qualche messaggio con Danilo.


Quel cretino del mio ex ha fatto cadere una bottiglia di vino da 12 euro in camera mia... non sai che puzza, ahahahahah, gli sta bene!

Domani torni a scuola, vero? Come ti senti? Sei pronto?


Ahah dai si sono pronto


Mi fa piacere! A che ora dovrai alzarti? :)


Alle 7 e 10 circa

Infatti vado a letto tra poco


Alle nove vai già a letto?! O.O


E si mi tocca cucciolotta


Io non riuscirei XD dai, adesso vado a cena... lascio il telefono in carica. Mi raccomando, stai tranquillo per domani, poi comunque ci risentiamo! Un bacio :3


Abbandonai il cellulare sul comodino e non aspettai una sua risposta, uscii dalla stanza in compagnia di Viola e Marta, contenta che non ci fosse più quella puzza nauseante di alcol.

Raggiungemmo il resto del gruppo in piscina, dove già le pizze erano state sistemate sul tavolo. Per l'occasione, questo era stato posizionato su una piattaforma di cemento dove in genere stazionavano le sdraio.

Avevo portato con me il computer, dentro il quale era già pronta la playlist che io e Marta avevamo preparato apposta per l'occasione. Lo consegnai a Giovanna, lei lo sistemò su una sedia e io mi avvicinai per poterci collegare le casse portatili. Selezionai la playlist e la feci partire in riproduzione casuale.

La musica fu un dolce sottofondo durante la cena: io avevo preso una pizza con il gorgonzola e me la gustavo appieno, decisamente affamata. Era una bella serata, non c'era caldo e non soffiava troppo vento da disturbarci, ma abbastanza per mantenere una temperatura piacevole.

Parlammo ancora dell'incidente di Marco con il vino e tutti lo prendemmo ancora in giro per ciò che aveva combinato.

«Tanto le bottiglie erano due!» protestò con un boccone di pizza ancora da inghiottire.

«Mastica, ingoia e poi parla! Ci manca solo che mi sputi in faccia!» mi lamentai, dal momento che ero seduta proprio di fronte a lui.

Tamara, al suo fianco, quasi soffocò per via di un'improvvisa risata. «Stavo bevendo, Lau... vuoi farmi morire?»

Feci spallucce. «Che ho detto?»

Finimmo abbastanza in fretta di consumare la nostra cena; io mi accostai alla postazione dove si trovava il mio computer e mi ci sedetti di fronte, regolando il volume e sollevandolo un po'.

«Tutti a ballare!» esclamò Giovanna con enfasi, trascinando in piedi Gabriella e Simona.

«Lau, metti una canzone per loro...» mi suggerì Marta.

«Tipo?»

«Qualcosa di reggaeton...»

Scorsi la lista dei brani con il cursore, poi intravidi un titolo famigliare e ci cliccai sopra due volte per farlo partire. Si trattava di El mismo sol, per l'immensa gioia di Gabriella che subito si agitò come una matta sulle note ritmate e dal sapore latino.

Marco si alzò dalla sua sedia e si avvicinò a bordo piscina. «Com'è l'acqua?» domandò.

In quel momento appresi che Samuele stava facendo un bagno notturno e mi ritrovai a pensare che sarebbe stato bella anche per me un'esperienza del genere.

«Bella fresca...» commentò l'istruttore con il suo solito tono piatto.

Poi, un rumore indecifrabile si diffuse nell'aria e io sobbalzai sulla sedia, non capendo cosa fosse successo.

«Cazzo! Ah, è gelida, cazzo!» sentì strillare Marco.

«Non dirmi che... ma che cazzo... si è buttato in acqua?» sbottai allibita.

«Sì! Ed è anche completamente vestito!» commentò Marta, per poi scoppiare a ridere.

«Che genio» fece Giovanna con ironia.

«Oddio, gli farà malissimo! Ha appena cenato!» strepitò Viola; sentivo già l'ansia farsi strada nella sua voce, quella ragazza era proprio un caso perso.

«Cavoli suoi» borbottò Tamara, poi sghignazzò e si sistemò meglio sulla sua sedia.

«Ah, cazzo! Devo uscire, sto morendo di freddo!» squittì Marco in tono stridulo e insolitamente acuto. Sembrava proprio una femminuccia, non potevo credere che uno come lui stesse davvero dando vita a uno spettacolo tanto ridicolo e raccapricciante.

Non potei fare a meno di ridere a mia volta, mentre Gabriella ballava ancora, come se niente fosse, sulle note del famoso brano reggaeton.

Marco uscì di corsa dall'acqua e si accostò nuovamente al tavolo, dove si lasciò cadere sulla sedia che aveva occupato fino a poco prima. Intanto continuava a borbottare e imprecare, e dal tremore della sua voce intuii che era infreddolito e che il suo corpo doveva essere scosso da profondi brividi.

«Guai a te se mi bagni, ho il cellulare in mano!» lo ammonì subito Tamara, seduta di fianco a lui.

«Macché.» Lui ridacchiò. «Alla fine ho fatto bene, era una cosa da provare!»

«Uh, che emozione!» lo schernì con pungente ironia mia sorella.

In quel momento dalle casse si diffuse immigrant Star dei Mellow Mood, brano che non avevo potuto evitare di inserire nella playlist: era troppo allegro e dai toni estivi per escluderlo.

«Tami, senti!» richiamai mia sorella.

Lei fece un balzo dalla sedia. «Adesso sì che si può ballare!» esclamò con entusiasmo.

Anche io, dopo un po', mi costrinsi ad alzarmi e a ballare insieme a lei, trascinando con me anche Viola. I nostri movimenti erano tutto fuorché perfetti e armoniosi, eppure non ci importava perché ci stavamo divertendo da morire e quella giornata stava andando piuttosto bene.

Non riuscivo a credere che l'ultima sera del mio ultimo campo fosse arrivata e stesse anche per volgere al termine.


Don't forget who you are

Oh my little baby


Mi ritrovai a cantare quelle parole, rendendomi conto che anche io non dovevo dimenticarmi della mia identità, di chi ero e di cosa volevo.

Durante quel campo ero riuscita a non farlo, a non farmi condizionare dalla presenza di Marco, dall'attrazione che da sempre intercorreva tra noi. Ero stata me stessa, ero stata forte e non avevo ceduto ad avances che, un tempo, non avrei respinto e, anzi, avrei atteso con impazienza.

Un tempo avevo creduto di poter costruire qualcosa con quel ragazzo, ora sapevo che mi ero illusa, niente più. Ero stata ingenua, mi ero lasciata fregare e avevo perso di vista la me stessa che non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno.

E, soprattutto, ero cambiata nel corso del tempo, avevo imparato dai miei errori e avevo trovato un nuovo equilibrio. Forse questo non aveva a che fare con Danilo e con la sua presenza nella mia vita, era semplicemente la stabilità che mi permetteva di accogliere nuove persone e nuove esperienze nella mia vita.

Stavo bene con me stessa, anche se certe volte risentivo dei miei limiti fisici, ma tutto sommato le cose mi andavano bene ed ero così riuscita ad aprirmi a Danilo e quelle nuove sensazioni che pian piano stavo scoprendo con lui.

Eppure, mentre mi agitavo a ritmo di musica, ebbi come l'impressione che lui non sarebbe stato al mio fianco per sempre. Era un'impressione remota, quasi intangibile e inesistente, che però si stava pian piano rafforzando in me.

C'era qualcosa che non mi convinceva.

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette: The Chain ***


ReggaeFamily

Capitolo diciassette: The Chain




Ero in bagno e finivo di prepararmi. Intanto, ripensavo alla sera precedente e a tutto ciò che era capitato. Con la mente velata di malinconia, ripercorsi gli avvenimenti delle ultime ore e mi resi conto che era andato tutto bene, tutto secondo i piani, che avevo fatto tutto ciò che dovevo e che avevo resistito, per la prima volta, alla tentazione rappresentata da Marco.

Sorrisi tra me e me, soddisfatta.


«Scambio dei regali?» chiese Marco perplesso.

«Esatto! Ieri sera, mentre tu eri via, i ragazzi sono andati in cerca di un regalo per te. Contento?» lo canzonò Giovanna, utilizzando un tono ironico che mi fece sorridere.

«Ah.»

«Ragazzi?» attirò la nostra attenzione Lucrezia, consegnandoci i pacchetti che aveva tenuto nascosti durante la cena.

Li consegnammo a Marco e lui si scartò con curiosità, contento dei suoi nuovi tesori. Li osservò con dedizione, ma ci ringraziò a malapena.

Mi pentii di avergli fatto un regalo, anche se la scelta non era partita da me; era un vero e proprio ingrato.

Dopodiché, gli istruttori annunciarono che avevano un regalo anche per ognuno di noi da parte loro e delle educatrici.

«Addirittura?» feci io.

«Certo!» confermò Lucrezia, cominciando a distribuire un pacchetto a testa.

Al suo interno trovammo una maglietta con la scritta L'essenziale è invisibile agli occhi e un biglietto con la stessa frase scritta in nero e in caratteri braille.

«Wow! È bellissima!» esclamò Tamara, esaminando l'oggetto sotto una lampada al neon che illuminava il tavolo attorno a cui avevamo cenato.

Tutti fummo contenti di aver ricevuto quel regalo davvero particolare; dopodiché Marco aprì la bottiglia di vino superstite e io continuai a selezionare musica per intrattenere i miei compagni d'avventura.

Infine io e Viola ci ritrovammo a ballare Still Loving You degli Scorpions come due sceme, oscillando a destra e sinistra senza seguire un tempo ben preciso.

Poi, verso l'una e mezza, la musica cessò e io rimasi perplessa per un istante.

«Che è successo?» domandò mia sorella.

Mi accorsi che anche le luci si erano spente, così esclamai: «Mi sa che ci hanno staccato la corrente!».

Scoppiammo a ridere e ci preparammo per tornare in camera.


«Lau! Ti dai una mossa? Giorgio deve andare via e volevamo fare una foto tutti insieme con addosso le nuove magliette!» sentii gridare da mia sorella, mentre entrava nella mia stanza.

«Okay, arrivo, aspetta! Non sono ancora pronta!» risposi.

«Sì, ho capito, ma deciditi!» mi esortò.

Feci in modo di impiegare meno tempo possibile a prepararmi, ma alla fine quasi tutti i miei compagni di campo presero a richiamarmi dal piano inferiore.

Corsi giù non appena possibile, finendo di sistemarmi la maglietta in modo da essere pronta per l'epica fotografia di fine campo.

Mi ritrovai incastrata tra Giorgio e Viola, mentre alcuni dei nostri amici si accovacciarono a terra e qualcuno, essendo più alto, si sistemò alle nostre spalle.

Un uomo ci scattò alcune foto – doveva essere il padrone del residence o il padre di Giorgio, non ne ero sicura – e tutti finimmo per ridere a crepapelle per le posizioni cretine che ognuno di noi assumeva in vista di un nuovo scatto.

Dopodiché, abbracciammo tutti Giorgio e gli augurammo buon viaggio.

«Mi mancherai!» gli disse Tamara, tenendolo stretto.

«Anche tu! Tanto ci siamo scambiati il numero, vero?»

«Ma certo!» esclamò mia sorella.

Quando fu il mio turno per salutarlo, gli regalai un affettuoso abbraccio e dissi: «Mi raccomando, sii sempre forte e non arrenderti, okay? E non farti mettere i piedi in testa da quella palla al piede di Nicolò!».

Quest'ultimo, sentendosi tirato in causa, non perse tempo e si avvicinò subito a noi, allungando le mani e poggiandole sul mio didietro.

«Nicolò, spostati!» strillai, spintonandolo all'indietro.

«Cosa stavi dicendo su di me? Amore mio, ti amo lo stesso!» disse lui, senza scomporsi troppo.

«Ho detto che sei un rompicoglioni.»

Lui rise come un idiota e tornò a mettermi le mani addosso, poi dichiarò: «Amore mio, che bella che sei!».

«Levami. Le. Mani. Di. Dosso.» Detto questo, mi spostai dalla sua traiettoria e mi diressi nuovamente verso la mia stanza per chiudere le valigie.

Non vedevo l'ora di riabbracciare Danilo, non ne potevo più di Nicolò, di Marco e della loro pedanteria. Perché tutti provavano a mettermi le mani addosso? Era frustrante!


Il viaggio in pullman fu estremamente malinconico: eravamo più morti che vivi, tutti eravamo stanchi e provati da quei dieci giorni e non avevamo molta voglia di parlare né di scherzare più di tanto.

Io avevo le cuffie alle orecchie e stavo seduta accanto a Marco, mentre lui se ne stava appeso al sedile di fronte al suo con le mani tra i capelli di mia sorella.

«Marco, mi lasci in pace?» sospirò lei.

«No.»

«Uff, perché?»

«Perché no.»

Scossi il capo. «Siete due casi persi...» mormorai, mentre rispondevo a un messaggio di Danilo.

«Gelosa?» mi stuzzicò Marco.

«Non penso proprio» borbottai.

Raggiungemmo velocemente la nostra meta, ovvero la sede da cui la maggior parte di noi era partita il primo giorno.

All'arrivo, non ebbi molta voglia di salutare tutti, ma abbracciai sia Viola che Marco. Quest'ultimo, lo sapevo e lo speravo, probabilmente non l'avrei mai più rivisto, mentre con Viola avrei fatto di tutto per mantenere i contatti, com'era sempre stato.

Dopo che io e Tamara aiutammo nostro padre a caricare i nostri bagagli in macchina, partimmo verso casa.

Lui ci chiese come fosse andata: gli raccontammo un po' di cose, senza entrare troppo nei dettagli perché in ogni caso avremmo dovuto ripetere tutto anche a nostra madre.

Della musica di sottofondo risuonava nell'abitacolo, e a un certo punto partì un pezzo che non mi era del tutto sconosciuto.

«Che canzone è?» domandai a mio padre, alzando un po' il volume.

«The Chain, Fleetwood Mac. Buona musica!» mi spiegò.

Presi ad ascoltare quel brano e mi resi conto che era davvero bello, orecchiabile ma che, soprattutto, i musicisti erano formidabili, così come le linee vocali che si intrecciavano in maniera perfetta.


And if you don't love me now
You will never love me again
I can still hear you saying
You would never break the chain (Never break the chain)


La cosa più bella arrivò quando, a un tratto, cominciò a risuonare un vibrante giro di basso che mi riempì letteralmente l'anima.

Se non mi ami adesso, non potrai amarmi ancora. Posso ancora sentirti dire: non potrai mai spezzare la catena.

Quelle parole e quel giro di basso dai tratti funesti sortirono in me uno strano effetto, come un presagio, un avvertimento.

Eppure, non volevo essere negativa: quel pomeriggio sarei uscita con i miei amici, mentre la sera avrei rivisto Danilo.

Tutto sarebbe andato bene, i miei erano stati solo stupidi e insignificanti dubbi.


Lui suonava e io lo ascoltavo attentamente, cercando di cogliere ogni nota e ogni sfumatura del suo essere attraverso quei suoni.

Da quando uscivo con lui, avevo quasi dimenticato che fosse un musicista, che suonasse in un gruppo che conoscevo e apprezzavo da parecchio tempo, molto prima che ci conoscessimo.

Ma ora, dopo quei giorni di lontananza, oltre che del suo abbraccio sentivo la necessità della sua musica e di sentire tutto ciò che lo rappresentava.

La sua chitarra era delicata, quasi impercettibile in certi momenti, eppure io riuscivo a coglierla.

Io e mia sorella eravamo stravolte dalla stanchezza, ma avevamo ancora la forza per ballare e stare sotto quel piccolo palco a sostenere Danilo e i suoi compagni di band.

Quando lo spettacolo finì, io trascinai mamma e Tamara da Danilo, volevo assolutamente salutarlo e dargli almeno un abbraccio.

Ovviamente, in pubblico non avrei mai azzardato altro, non era da me, anche perché i suoi genitori erano presenti e io ancora non li conoscevo.

Fu lui, infine, a raggiungerci: mi abbracciò, ma non fu la stretta calorosa e rassicurante che mi aspettavo e ricordavo; addussi quello strano comportamento alla presenza dei suoi genitori e non ci feci caso, limitandogli a chiedergli come stava e a scambiare due chiacchiere con lui.

Poi, lui ci condusse a conoscere i suoi genitori, i quali mi fecero subito una strana impressione: mi strinsero appena la mano e parlarono pochissimo. In particolare, sua madre parve non apprezzare particolarmente la mia presenza e si limitò a dirmi il suo nome senza alcun entusiasmo.

Quell'incontro tra noi fu fiacco, ma io non ci badai e pensai che, una volta usciti da soli nei giorni successivi, tutto sarebbe tornato al suo posto e io sarei stata nuovamente felice e tranquilla.

Mentre rientravo a casa, gli inviai un messaggio.


Dani, spero di riuscire a vederti presto e di poter stare da sola con te. Mi manchi troppo...


Tranquilla poi ci organizziamo per domenica o lunedì :)


Okay, va bene, lo spero tanto :3


Non preoccuparti anche io non vedo l'ora :)


E sapevo che potevo credergli, dovevo credergli, soprattutto dopo aver evitato il peggio, ovvero la presenza di Marco e le sue spudorate avances.

Ce l'avevo fatta e mi sentivo sfinita, sì, ma pienamente soddisfatta e in pace con me stessa.




Carissimi lettori, questo è l'ultimo capitolo di questa storia... ebbene sì!

Ma non preoccupatevi: ci sarà l'epilogo la prossima settimana, quindi non è ancora finita del tutto!

Per ora, che ne pensate?

Sappiate che le sorprese non sono finite... quindi, aspettate l'ultimo aggiornamento e poi fatemi sapere cosa ne pensate ^^

Alla prossima e grazie infinite a chi ancora mi segue anche qui ♥

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Capitolo 18
*** Epilogo: Boom ***


Epilogo: Boom




Era pieno inverno. La pioggia battente imperversava implacabile, mentre lampi e tuoni si susseguivano nella loro naturale sequenza, facendomi sobbalzare di tanto in tanto.

Mi ero barricata in casa, il fuoco all'interno della stufa a legna ardeva scoppiettando, riscaldando l'atmosfera e le mie mani. Un buon libro mi teneva compagnia, riempiendo la mia mente di storie non mie e di ricordi appartenenti a personaggi inesistenti che, come di consueto, sentivo più vicini dei miei stessi amici.

Leggevo per la seconda volta L'ombra del vento di Zafón e non mi stancavo mai di quel suo stile inconfondibile, dei suoi personaggi singolari e degli intrecci articolati e intriganti che sapeva creare.

Durante la lettura, un passo colpì la mia attenzione, così mi affrettai a segnarlo su un vecchio quaderno in cui raccoglievo tutte le mie citazioni preferite.


La vita ci assegna senza possibilità di scelta i genitori, i fratelli e gli altri parenti, l'unica e vera alternativa che ci offre è quella di poter scegliere i nostri amici. Se qualcuno non ti ama ti amerà qualcun'altro. Goditi l'amore delle persone che ti vogliono bene, condividilo con loro e dedicagli il tuo.


Era come se l'autore avesse colto il succo di ciò che era sempre stata la mia vita.

E qualcuno mi aveva detto: «Lui non ti merita, non ti ha mai meritato. Se non ti ama lui, troverai mille persone disposte a farlo».

Chissà se era vero, io in ogni caso non credevo nell'amore, forse non ci avevo più creduto da quando avevo subito la cocente delusione da parte di Marco, più di due anni prima.

E non ci avevo creduto neanche quando avevo cominciato a uscire con Danilo, ecco perché sentivo sempre che qualcosa non andava tra noi.

Quel qualcosa ero io, era la mia consapevolezza, era ciò che comunemente viene chiamato sesto senso o intuito femminile.


«Dimmi, che c'è che non va?»

«Lau, ascolta... per me è molto difficile...»

Reggevo il telefono con mano tremante, già pronta a udire il peggio, già conscia di ciò che sarebbe successo di lì a poco.

Ero rientrata dal campo da tre giorni e le cose con Danilo non avevano fatto che peggiorare, raffreddandosi sempre di più.

Lo sentii tirare su col naso e rimasi basita.

«Non possiamo più vederci, non me la sento di continuare...» balbettò in preda ai singhiozzi.

«Come sarebbe a dire? E perché?» sbottai contrariata.

«Ho ricominciato la scuola, ho ripreso con la scuola guida e ho tante cose da fare...»

«Avevamo detto che avremmo trovato un compromesso!» avevo protestato. Sul momento la mia reazione fu catastrofica: scoppiai a piangere e lo implorai, risultando piuttosto patetica.

«Il punto è che... tu sei troppo impegnativa, non riesco a gestirti, a gestire le tue difficoltà e...»

«Cosa?!» La rabbia mi invase, non avrebbe dovuto dirlo. Questo era troppo.

Come avevo potuto credere che lui fosse una brava persona?


Probabilmente lo avevo sempre saputo, me l'ero sentito fin nelle viscere, ma avevo preferito farmi trascinare da quella sorta di avventura estiva senza pensare o riflettere su niente di serio.

Tutto, per me, si era basato prevalentemente sull'attrazione, non gli avevo permesso di arrivare fino al mio cuore e questo aveva fatto sì che non soffrissi quasi per niente. Piansi quel giorno, poi cominciai a rendermi conto che lui era sempre stato strano e bizzarro.

Così, io e Tamara prendemmo ad analizzare tutto ciò che era successo e io cominciai a ricordare un sacco di stranezze riguardanti Danilo, cose che risultarono davvero raccapriccianti e che mi convinsero che dovessi soltanto ringraziarlo per avermi lasciato.

Arrivai alla conclusione che era un ragazzo soggiogato dai genitori, a ventitré anni non sapeva ragionare con la sua testa; aveva difficoltà di adattamento, manie di persecuzioni che gli impedivano di appoggiare il suo borsello su una panchina senza che qualcuno glielo rubasse. Provava fastidio nel trovarsi in strada quando c'erano delle macchine in transito, aveva dubbi su alcuni aspetti del sesso e aveva cercato di impartire lezioni alla sottoscritta in una maniera piuttosto bizzarra e inquietante.

Una volta mi aveva detto, infatti, con tanto di balbettio d'accompagnamento: «Non so se sei consapevole che quando si fanno certe cose... esce qualcosa... da lì...».

Ero rimasta basita e non avevo saputo come replicare, ma ci ero passata sopra e non ci avevo più badato finché la mia mente non mi ci aveva riportato con maggiore lucidità.

Ero uscita per un mese con una specie di ritardato schizofrenico, e temevo che i suoi problemi non fossero neanche diagnosticati e quindi non potessero essere tenuti sotto controllo.

Col senno di poi, ero contenta e me la ridevo nel ricordare tutte le citazioni memorabili legate alle sue stronzate.

Non smisi di vederlo, poiché continuai a seguire la sua band. Non mi importava niente che lui ci fosse o meno, tanto era un incapace, spesso si dimenticava di suonare ed era come se non esistesse all'interno del gruppo.

La cosa più divertente fu che continuò a fissarmi, ogniqualvolta che ci trovavamo nello stesso posto; fortunatamente, nella maggior parte delle occasioni non potevo vederlo e quindi mi limitavo a ignorarlo e a divertirmi per i fatti miei.

La mia vita era decisamente migliorata, ma restava comunque il fatto che un essere simile aveva detto di non poter gestire i miei problemi; certo, non era in grado di gestire neanche i suoi, figurarsi i miei.

E allora cominciai a maturare sempre più la convinzione che per una disabile come me non ci sarebbe stato futuro in quel senso; era inutile girarci intorno, la mia categoria era penalizzata sotto molti punti di vista e sicuramente, se anche un disagiato come Danilo si era tirato indietro – per volere, probabilmente, di quella strega di sua madre –, nessun normodotato vero e proprio avrebbe accettato di badare a una persona non autonoma come me.

Era logico, e a me non importava più. Volevo stare tranquilla, volevo stare sola ed evitare i problemi che queste situazioni portavano con sé.

Avevo davvero troppe cose a cui pensare, tante difficoltà da affrontare e tante passioni da coltivare, non avevo più tempo né voglia di sprecare tempo prezioso in cose futili come l'illusione dell'amore o altre stronzate affini.

La mia mente corse a Marco. Non pensavo più a lui tanto spesso, se non nei momenti in cui ricordavo alcune scene raccapriccianti dell'ultimo campo.

Ormai era gennaio, erano trascorsi quattro mesi da quando il campo era finito e io mi sentivo tranquilla.

Sorrisi al ricordo dell'ultima volta che lo avevo visto. Era stato un caso e non me l'aspettavo, ma ero certa che non sarebbe più successo.


Era fine novembre e mia sorella aveva compiuto gli anni proprio quel giorno. Per farle una sorpresa, l'avevano trascinata senza che lo sapesse al concerto di uno dei nostri gruppi locali preferiti.

La serata stava andando a gonfie vele, lei era emozionata e ancora non poteva credere di essere davvero lì.

Ci eravamo godute il concerto, il cantante aveva – sotto nostra richiesta – fatto gli auguri a Tamara direttamente dal palco, parlando al microfono e dedicandole poi uno dei brani più belli.

Lei era scoppiata a piangere e si era goduta il resto del concerto con una nuova luce negli occhi e nel cuore.

I componenti della band, infine, avevano insistito per regalarle una maglia con il loro logo stampato sopra e lei aveva raggiunto così il culmine della gioia.

Tutto, insomma, procedeva a gonfie vele e noi, contentissime, ci stavamo dirigendo verso l'uscita in compagnia di alcuni miei amici che avevano partecipato con noi all'evento.

Qualcuno ci fermò e noi lo riconoscemmo subito per due ragioni: la sua voce lamentosa era inconfondibile, così come la puzza di alcol che emanava.

«Lau, Tami! Siete voi! Ciao!» esordì infatti Marco, accostandosi a noi per baciarci sulle guance.

Mi venne quasi da vomitare per l'odore che emanava, ma cercai di stare calma e di non mandarlo al diavolo seduta stante.

«Anche voi qui?» se ne uscì poi.

«A quanto pare...» borbottai.

«Tami, oggi è il tuo compleanno, vero? Auguri!»

«Grazie» fece mia sorella in tono laconico.

«Io sono stanchissimo... sono venuto qui perché loro mi piacciono molto, ma tra l'università e tutto il resto sono sempre fuso...» blaterò.

Non avevo minimamente voglia di averci a che fare, aveva in qualche modo rovinato l'idillio che aveva caratterizzato la serata fino a poco prima.

«Ah, be', immagino» fece Tamara con poca convinzione.

Lui continuò a parlare di se stesso e non si preoccupò minimamente di chiedere qualcosa su di noi; finalmente, cinque minuti dopo, riuscimmo a liberarcene portando fuori la scusa che dovevamo proprio andare perché ormai si era fatto tardi.

«Ma perché dovevamo incontrare proprio lui? Che palle...» brontolò Tamara mentre ci avviavamo verso il luogo in cui stazionava la macchina di uno dei miei amici.

«Non lo so... ma hai sentito quanto puzzava di alcol?!»


Era stato raccapricciante, col senno di poi mi veniva soltanto da ridere. Marco era davvero un essere penoso, non c'era nient'altro che io potessi dire sul suo conto.

La cosa più grave era che, pochi giorni dopo il campo, aveva scambiato dei messaggi con mia sorella e le aveva fatto intendere di essersi innamorato di lei, anche se non aveva esplicitamente fatto il suo nome.

Stavano parlando di me, lui aveva detto che era contento di aver risolto le cose con me, ma che il suo cuore ora apparteneva a un'altra ragazza. Tamara indagò con qualche domanda e utilizzò il suo solito fare ingenuo e da finta tonta, e venne fuori che lui non voleva rivelare a questa ragazza di essere interessato a lei per non rovinare un rapporto molto importante che aveva da poco ricostruito.

Ci impiegammo ben poco a fare due più due e ci esibimmo in grosse risate che perdurarono anche nei giorni successivi, ogni volta che ripensavamo all'accaduto.

Poi, anche Tamara e Marco avevano smesso di sentirsi.

Tutto era finito, puff, svanito, scoppiato come un palloncino bucato.

Riportai l'attenzione sul libro che avevo di fronte e rilessi le parole che avevo segnato sul quaderno.

Sorrisi, pensando che avrei potuto aggiungere una frase tutta mia a quel concetto, per renderlo più completo e adatto a me.

Afferrai una penna rossa e annotai:


Lasciare che qualcuno ci ami significa permettergli di distruggerci. L'amicizia è l'unico valore davvero irrinunciabile.


La mia mente cercò l'immagine di mia sorella, lei che era la prima vera amica che avessi; poi corse ad Anna, lei che era come una sorella acquisita per me.

La mia vita poteva essere completa anche così, anche con la loro sola presenza e il loro sostegno. Senza di loro sarei irrimediabilmente caduta.

Tutto era esploso, ma io ero ancora in piedi, pronta ad affrontare il mio futuro. Ormai avevo eliminato tutti i parassiti che intralciavano il mio cammino e, in caso se ne fossero presentati altri, ormai sapevo qual era il metodo più efficace per estirparli e proseguire libera e serena.


Boom!

Here comes the Boom!

How you like me now?




Ciao a tutti, eccomi qui con l'epilogo di questa storia, e quindi anche dell'intera “trilogia”!

Vi aspettavate che tra Laura e Danilo sarebbe finita così presto?

Qui ci sono pensieri molto forti, idee molto ferree da parte della nostra protagonista; ha raggiunto molte consapevolezze che prima non aveva ancora maturato.

Volevo dare un finale realistico, non un lieto fine scontato che non rispecchiasse ciò che succede nella vita di tutti i giorni; diciamocelo, è più logico che capitino certe cose, piuttosto che tutto vada rose e fiori, non pensate anche voi? :D

Forse mi sono fatta contagiare dal generale pessimismo della protagonista, ma questo dimostra ancora una volta quanto siano i personaggi a comandare noi autori, non il contrario!

Per quanto riguarda la citazione di Zafón che ho inserito all'inizio, si tratta della stessa che fa parte della mia introduzione qui su EFP. Mi piaceva l'idea di inserirla e di farla leggere alla nostra Laura, spero vi sia piaciuto quest'accostamento! ^^

Prima di lasciarvi, spendo due parole su questa trilogia: mi sono emozionata con i personaggi, l'ho portata a termine grazie all'incoraggiamento di Marss che, ormai, non bazzica più tanto sul sito. Tutto è partito da lì, e io sono felicissima del risultato.

Sicuramente non sarà un capolavoro della letteratura moderna, ma sicuramente mi ha aiutato moltissimo e ha fatto sì che mi cimentassi in qualcosa di diverso, di particolare; ha fatto sì che entrassi nel mondo di Laura e dei suoi amici, dei suoi problemi e delle sue difficoltà.

La disabilità non è un tema facile da trattare, ma io ho cercato di fare del mio meglio e mi auguro di esserci almeno un po' riuscita.

Passo, infine, ai ringraziamenti veri e propri: in questo caso devo ringraziare le mie due lettrici più fedeli, le mitiche e adorate Soul_Shine e Hanna McHonnor che si sono prodigate a recensire tutti i capitoli ^^

GRAZIE RAGAZZE, senza di voi non saprei come fare... siete la mia forza, mi spingete sempre a continuare, qualunque cretinata io decida di fare o scrivere, quindi a voi va tutta la mia gratitudine ♥

Grazie anche a chi ha seguito in silenzio la storia, a chi l'ha apprezzata e a chi si è emozionato pur senza dirmelo.

L'importante è che le vicende di Laura e gli altri ragazzi siano arrivate, almeno un po', al vostro cuore :3

Alla prossima ♥

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