Boom di Kim WinterNight (/viewuser.php?uid=96904)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno: Time for the Love ***
Capitolo 2: *** Capitolo due: Mica Van Gogh ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Rize up ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro: Darkest Days ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque: The Nameless ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei: Fyah ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette: Sono solo canzonette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto: Prison Song ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove: Life ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci: Rag Doll ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici: Ballo in fa diesis minore ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici: Heaven And Hell ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici: Don't stay ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici: Who you think you are? ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici: Are you gonna be my girl ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici: Immigrant Star ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette: The Chain ***
Capitolo 18: *** Epilogo: Boom ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno: Time for the Love ***
ReggaeFamily
Capitolo
uno: Time
for the Love
Mentre
mi preparavo per il mio ultimo campo, mi sentivo malinconica. Il
punto fondamentale della questione era uno solo, e portava il nome di
Danilo.
Ebbene
sì, stavo uscendo da circa tre settimane con un ragazzo che
non era Marco, il che era assolutamente incredibile per una ragazza
come me, una ragazza disabile.
Danilo
aveva portato una ventata d'aria fresca nella mia vita, mi aveva
fatto capire che anche io potevo essere accettata da qualcuno che non
avesse a che fare con i miei stessi problemi; mi aveva fatto capire
che per lui non erano problemi,
ma che si trattava solo della mia condizione di vita, diversa da
quella di chiunque altro, proprio perché ognuno di noi era
unico, diverso, speciale.
In realtà non era un
ragazzo molto loquace, ma quando mi teneva tra le braccia e mi
accarezzava i capelli mi sentivo come se non potesse capitarmi niente
di male.
Ero veramente felice di
averlo conosciuto. E sapevo che mi sarebbe mancato durante il campo.
Era ironico pensare che, mentre l'anno precedente avevo pensato di
fingere di avere un ragazzo per ferire Marco, stavolta invece il fato
mi aveva messo su un piedistallo e avevo tutte le carte vincenti
dalla mia parte.
Una cosa era certa: non mi
sarei fatta intimorire da Marco, dall'attrazione che da sempre
provavo per lui, dal suo atteggiamento spavaldo che sempre mi aveva
attirato e ferito.
«Lau, rispondimi! Uff,
sei sempre con quel cellulare in mano!» mi apostrofò
Tamara, mentre trascinava la grande valigia verso l'uscita di casa.
«Eh? Ah, sì,
scusa... stavo rispondendo a Dani!» replicai con un sorriso.
«Arrivo!»
Eravamo di nuovo pronte per
partire e non mi sembrava vero: quella sarebbe stata la seconda
avventura per noi due, il secondo campo insieme, e purtroppo anche
l'ultimo. Ero ormai troppo grande per poter partecipare a quelle
iniziative, avevo quasi ventitré anni ed era assurdo
constatare che fossero trascorsi quasi dieci anni da quando avevo
conosciuto Marco, Viola e un sacco di altre persone che avevano fatto
parte della mia vita.
«Andiamo, mamma! Sei
sempre in ritardo!» strillò Tamara, scuotendo il capo.
«No, mica è
vero!» esclamai.
«Lau, ti mancherà
Dani?» chiese mia madre quando riuscì finalmente a
uscire di casa, dieci minuti e infiniti incitamenti più tardi.
«Ma che domande mi
fai?!» mi indignai.
«Siete innamorati!»
mi prese in giro lei, caricando le valige nel portabagagli.
«Oh, che carini! Che
romantici!» rincarò mia sorella.
«Piantatela voi due!»
tuonai.
Salimmo
in macchina e ci mettemmo in viaggio, il quale durò poco più
di dieci minuti in quanto dovemmo soltanto raggiungere una stazione
di servizio poco distante dal
nostro paese; poi saremmo state prelevate dal pullman che era partito
dalla capitale con a bordo il resto dei nostri compagni di campo.
Dovemmo aspettare un bel po'
prima che loro arrivassero, ma quando ciò accadde fu una festa
incredibile: io e Tamara ci fiondammo ad abbracciare Giovanna come
due pazze, felicissime che sarebbe stata con noi anche durante
quell'esperienza. Poco dopo fummo raggiunte da un'altra ragazza, che
io riconobbi subito come Marta, un'educatrice che aveva partecipato
al campo con noi ben tre anni prima.
«Lau!» esultò
lei, venendomi in contro.
«Marta!»
esclamai, correndo ad abbracciarla. «Sono così felice
che ci sia anche tu quest'anno, ci divertiremo un sacco!»
In quel momento appresi che
né Stella né Stefano sarebbero stati dei nostri, perciò
il ruolo di coordinatrice era passato a Marta. Lei mi spiegò
che saremmo state in camera insieme e che non vedeva l'ora di
ascoltare tutto ciò che avevo da raccontarle, dal momento che
non ci vedevamo da una vita.
Notai che anche Marco era
sceso dal pullman per salutarci: era vestito completamente di nero,
come sempre, e aveva addosso una maglia di un gruppo metal; i suoi
capelli erano sempre lunghi e ricci, e non era cambiato molto
dall'ultima volta che ci eravamo visti.
Si
avvicinò a me e Tamara e ci salutò con freddezza,
anche se subito prese a parlare con mia sorella, dato che loro
avevano continuato a sentirsi ogni tanto.
Alla fine lui aveva deciso
di partecipare al campo, anche se non avevo idea di cosa gli avesse
fatto cambiare parere; io e Tamara avevamo continuato a divertirci
alle sue spalle per un po', ma c'erano stati dei momenti troppo
divertenti per essere dimenticati.
Ripensai a due mesi prima,
quando avevo ricevuto un messaggio da Marco e avevo deciso di
rispondergli; mi aveva scritto che aveva assoluto bisogno di parlarmi
e io avevo deciso di giocare un po'. Non conoscevo ancora Danilo, era
piena estate ed ero rientrata da poco da un concerto molto
divertente, perciò mi ero presa la libertà di prenderlo
un po' in giro. Marco, dopo qualche messaggio, se n'era uscito
dicendomi che avrebbe voluto ricostruire un rapporto d'amicizia o
d'amore con me. Ero rimasta basita, poi ero scoppiata a ridere e
avevo fatto leggere quel messaggio a Tamara. Ovviamente non avevo
accettato, e a un certo punto avevo smesso semplicemente di
rispondergli perché stufa delle sue stronzate. Ormai lo
conoscevo, e probabilmente quella sera doveva essere completamente
ubriaco.
Poi
lo avevo rivisto. Ero andata a un concerto metal che si era tenuto
nella zona in cui abitava lui, e lì ci eravamo incontrati per
caso. Spinta dal divertimento e dall'ilarità, ero corsa a
salutarlo e lui aveva
faticato a riconoscermi, per poi limitarsi a chiedermi come stavo e
come mai mi trovassi lì. Ovviamente, in pieno stile Marco, non
aveva approfittato di quell'occasione per parlarmi di ciò che
voleva dirmi soltanto due settimane prima, e io non mi ero presa il
disturbo di ricordarglielo.
Infine, qualche giorno prima
della partenza, mi aveva scritto un messaggio e io lo avevo ignorato,
dopo averlo raccontato a Danilo e aver ricevuto la sua approvazione.
E ora eravamo lì,
insieme, e io non potevo far altro se non pregustare ciò che
sarebbe potuto accadere durante quell'ultimo campo.
«Allora, andiamo?
Siamo già in ritardo!» ci spronò Giovanna.
Io e Tamara abbracciammo e
baciammo nostra madre, poi seguimmo Marco e le due educatrici verso
il pullman.
«Lau, vieni con me
davanti?» mi chiese Giovanna.
Così ci sistemammo
sul sedile accanto all'autista e solo allora mi accorsi che in realtà
il gruppo era stato suddiviso in due pullman. Poco dopo notai che
Tamara e Marco si erano sistemati nei posti proprio dietro di noi, e
così tesi l'orecchio per sentire cosa si stessero dicendo.
Io
e Tamara avevamo architettato un piano divertente nei giorni scorsi:
mia sorella aveva detto a Marco, tramite SMS, che al campo per lui ci
sarebbe stata una bella sorpresa, senza però accennare a nulla
in particolare e limitandosi a dirgli che la questione aveva a che
fare con me. Non appena si
fosse presentata l'occasione, Tamara gli avrebbe spiattellato la mia
relazione con Danilo con molta noncuranza, per poi divertirsi ad
analizzare la sua reazione. Stavo uscendo con un ragazzo, davvero
stavolta, perché non approfittarne per farsi due risate?
«Vivi è
nell'altro pullman?» chiesi a Giovanna, rendendomi conto che
Marco e mia sorella stavano parlando di musica, visto che lui aveva
insistito per farle ascoltare qualcosa di orribilmente black metal.
«Sì. Non vede
l'ora di abbracciarti!» dichiarò l'educatrice con un
sorriso. «Cosa mi racconti?» mi chiese poi.
Feci spallucce. «Niente
di che, solo che... esco con un ragazzo» buttai lì.
«E che aspettavi a
dirmelo?!» strepitò lei con l'entusiasmo di una bambina.
«Ci siamo appena
incontrate!»
Giovanna rise. «E lui
lo sa?» bisbigliò.
«Lui?»
«Marco» mi
sussurrò all'orecchio.
Sorrisi. «Non ancora.»
«Ne vedremo delle
belle!» commentò.
Chiacchierammo del più
e del meno, intrattenendoci anche con l'autista, il quale era
abbastanza simpatico e propenso al dialogo.
Mentre
eravamo fermi a un semaforo, estrassi il cellulare e trovai un
messaggio insolitamente lungo da parte di Danilo. Ci impiegai un po'
a leggerlo, poiché i riflessi del sole disturbavano la mia
visuale e si schiantavano contro lo schermo del mio fedele Nokia con
i tasti, sempre lo stesso da tre anni e mezzo.
Io
sto tornando a casa ora dovevo vedermi con un mio compagno di scuola
fai buon viaggio tesoro sento già la tua mancanza ieri andando
via si ero un po triste e mi e scesa anche qualche lacrima, non vedo
l'ora di riabbracciarti <3
Sorrisi per la quasi totale
mancanza di punteggiatura, poi esclamai: «Oh, che carino!».
Giovanna, al mio fianco,
chiese: «Chi?».
«Dani! Leggi!»
dissi, passandole il cellulare.
Lei esaminò in fretta
il contenuto dell'SMS, poi ridacchiò e mi restituì il
telefono. «Wow, è proprio innamorato!» scherzò.
Trascorremmo il resto del
viaggio a chiacchierare del più e del meno, finché non
raggiungemmo finalmente la nostra meta. Il residence era lo stesso
dell'anno precedente, e io finii, insieme a Viola e Marta, nella
cemera che l'ultima volta era stata occupata da Marco, Thomas,
Lucrezia e Lorenzo.
Non appena fummo tutti scesi
dai pullmini, io e Tamara ci precipitammo ad abbracciare Viola; fu
una festa bellissima, un momento magico ed emozionante, dato che non
ci vedevamo da molti mesi e lei era mancata a noi come noi eravamo
mancate a lei.
«Mi dispiace per te,
Tami, che anche quest'anno devi stare in stanza con Simona e
Gabriella!» disse Viola in tono dispiaciuto.
«Dai, prendiamo il
lato positivo: c'è Giovi con lei!» provai a
sdrammatizzare.
«Grazie eh, questo sì
che mi rincuora... tanto quelle due annullano completamente l'effetto
positivo di Giovi, sono due piaghe!» si lamentò mia
sorella.
«Hai ragione!»
concordò Viola. «Non ti invidio.»
«Voi siete anche più
fortunate di me, perché quest'anno non c'è Elisa e
siete solo voi due con Marta, che è fantastica!»
«Grazie per il
complimento, Tami. Sappi che sei la benvenuta nella nostra stanza a
qualsiasi ora del giorno e della notte» intervenne Marta, che
era di passaggio con qualche bagaglio tra le mani.
«Questo mi dà
la forza per vivere!» scherzò Tamara di rimando.
Guardai Marta: era il primo
momento in cui riuscivo a vederla in maniera decente, poiché
c'era il sole a illuminarla mentre si fermava un attimo a parlare con
Giovanna; era un po' più bassa di me, piuttosto magra ma non
per questo priva di forme. Aveva i capelli legati in una coda di
cavallo, la pelle abbronzata e indossava dei vestiti semplici e
comodi.
Il mio cellulare squillò:
era Danilo!
Mi guardai un attimo intorno
e individuai Marco a pochi metri da me, intento a fumare mentre
veniva irrimediabilmente importunato da Nicolò. Mi posizionai
poco distante da loro, mentre rispondevo alla chiamata, in modo da
avere il ragazzo a portata di orecchie.
«Dani?» esordii.
«Ciao tesoro. Come
va?» mi domandò lui in tono calmo. La sua voce fece
aumentare la nostalgia che provavo nei suoi confronti.
«Bene dai, siamo
arrivati da poco, però mi manchi» ammisi.
«Anche tu, lo sai.
Dai, se riesco vengo a trovarti.»
Sorrisi. «Sì,
ti prego! Ti aspetto con ansia!»
Scambiammo ancora qualche
parola, poi fui costretta a riattaccare perché dovevamo
sistemare i bagagli e poi prepararci per andare a cena.
Prima di salire in camera,
conobbi Giorgio, un nuovo ragazzo che aveva tredici anni e sembrava
simpatico, anche se purtroppo era completamente cieco e soffriva di
una qualche forma di obesità non meglio definita. Mi
dispiacque molto apprendere che un'altra persona era caduta vittima
di quel male che ci accomunava tutti, un male quasi incurabile e che
ci rendeva fisicamente limitati. Riusciva, però, ad aprire le
nostre menti e a renderci liberi sotto un punto di vista diverso dal
resto del mondo.
Quando io e Marta ci
ritrovammo da sole, mentre Viola era in bagno, mi accostai
all'educatrice e lo sussurrai: «Allora? Hai tutto l'occorrente
per scrivere in braille?».
«Certo! Passami la
poesia e io la copio» confermò la ragazza con
entusiasmo.
Corsi in camera a recuperare
il foglio che conteneva la poesia di compleanno che io e Tamara
avevamo scritto per Viola, in modo che Marta potesse copiarla in
braille e la nostra amica potesse leggerla con le dita. Ero
emozionata, ma mi dispiaceva non essere io stessa in grado di
utilizzare quel linguaggio fatto di puntini e piccoli fori su carta.
Viola, di ritorno dal bagno,
sentì il rumore del punteruolo mentre Marta lavorava, così
si fece prendere dall'entusiasmo e gridò: «Chi sta
scrivendo in braille?».
Marta sorrise. «Io.
Sto preparando un compito da far fare a un mio alunno quando
rientriamo dal campo. Sai, è una cosa lunga e mi sono dovuta
portare appresso il materiale» spiegò con disinvoltura,
per poi strizzarmi il braccio con complicità.
«Davvero? Che bello, e
che compito è?» volle sapere Viola, mentre armeggiava
tra i suoi bagagli ancora da disfare.
«Un pezzo della Divina
Commedia, pensa cosa mi tocca fare!» inventò ancora
Marta.
«Oddio, che palle!»
commentò Viola.
«Già, non ti
invidio proprio» intervenni io.
«Già, poi io
non sono tanto veloce a scrivere in braille...»
«Ti serve aiuto?»
domandò la mia amica, affacciandosi dalla nostra camera.
«No, meglio se mi
esercito, altrimenti rimarrò sempre una schiappa» la
tranquillizzò Marta, senza smettere di scrivere.
Terminò giusto in
tempo, poco prima di andare a cena, così io misi la poesia
insieme ai regali che io e mia sorella avevamo preparato per Viola e
scesi insieme agli altri per andare in pizzeria.
Trovai tamara e le
sussurrai: «Hai detto a quello lì di Danilo?».
«Non ancora»
rispose lei. «Abbi un po' di pazienza e vedrai che arriverà
anche quel momento» aggiunse con un sorriso.
Eravamo giunti da poco al
residence, eppure ero certa che anche per quel campo ne avremmo visto
delle belle.
E io stavolta ero davvero
pronta a vivere ogni cosa nel modo giusto, complice soprattutto la
forza che ricevevo dalla presenza di Danilo nella mia vita.
Ebbene
sì, anche se sembrava impossibile, sono tornata con il tanto
atteso (?) sequel di 'Alive'; come ben sapete questa è
l'ultima delle tre storie che fanno parte della serie 'Youth of the
Nation', dedicata alle avventure di Laura, Marco e i loro compagni di
campo.
Raccontare
di loro mi piace un sacco, come avrete notato, e so già che mi
mancheranno parecchio quando questa storia si concluderà. Ma
ora non pensiamo al futuro, siamo solo al primo capitolo!
Be',
come vi sembra quest'inizio? Siete contenti che Laura stia uscendo
con questo Danilo? Stavolta ha davvero l'occasione per dimenticare
Marco e farlo soffrire come lui ha sempre fatto soffrire lei.
Ne vedremo delle belle mi sa :D
Spero
di ritrovare gli affezionati lettori di un tempo e di trovare anche
qualcuno di nuovo tra le mie recensioni o tra le persone che
seguono/preferiscono/ricordano la mia storia!
Ultima
cosa: aggiornerò questa storia ogni sabato, perciò
tenetevi pronti ;)
Vi
ringrazio fin da ora e vi saluto, alla prossima e non esitate a
lasciare il vostro parere nelle recensioni ♥
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Capitolo 2 *** Capitolo due: Mica Van Gogh ***
ReggaeFamily
Capitolo
due: Mica
Van Gogh
In
pizzeria mi ritrovai seduta di fronte a Viola e, dopo aver ordinato
la cena, io e Tamara ci avvicinammo alla nostra amica e le
consegnammo il nostro regalo con tanto di poesia; avevamo pensato di
donarle una crema e un bagnoschiuma profumatissimi, abbinati a un
braccialetto con i gufi e a un portachiavi di peluche a forma di
emoticon sorridente.
Quando
Viola aprì i suoi nuovi tesori, rimase veramente contenta e ci
abbracciò forte, ripetendoci all'infinito che non avremmo
dovuto disturbarci. La cosa che la sorprese e la commosse
maggiormente, tuttavia, fu la nostra composizione in rima scritta in
braille.
«Come
avete fatto a scriverla?» ci chiese perplessa e con la voce
impregnata di gioia.
«Secondo
te Marta cosa stava facendo prima? Ti pare che si mettesse a copiare
strofe della Divina Commedia?» la presi in giro, ridacchiando
compiaciuta.
«È
stata lei allora! Se vi prendo...» scherzò, poi prese a
leggere la nostra poesia lasciando che le sue dita scorressero sul
foglio disseminato di puntini.
Rise
sia per le cretinate che avevamo scritto che per gli errori che Marta
aveva commesso nel copiare il testo in braille, così finimmo
per fare un baccano infernale nella pizzeria tra risate e accuse
scherzose.
Quando
tornammo ognuno al proprio posto, attendemmo ancora qualche minuto
prima di poter cominciare a mangiare; chiacchierammo un sacco e ci
divertimmo come capitava soltanto quando eravamo tutti insieme.
Una
volta terminata la cena, rientrammo al residence e ci rifugiammo
nelle nostre stanze, dopo aver appreso che la mattina seguente la
maggior parte di noi si sarebbe recata in piscina, mentre qualcuno
avrebbe cominciato con le attività in compagnia degli
istruttori.
Io
intanto continuavo a scambiare SMS con Danilo, e sentivo abbastanza
la sua mancanza. Mentre rispondevo a uno dei suoi messaggi
monosillabici – non era molto loquace come ragazzo,
specialmente quando doveva scrivere attraverso un cellulare –,
me ne arrivò un altro.
Era
Tamara che mi scriveva dalla sua stanza.
L'ho
detto a Marco XD
Dai,
davvero? Oh, così impara! E come ha reagito?
Certo,
stava rompendo e non faceva che chiedermi “ma cos'è che
dovevi dirmi? Qual era la sorpresa?”, così durante la
cena gliel'ho detto! È rimasto abbastanza impassibile, ma io
ho capito che ci è rimasto di sasso e non se l'aspettava! Ha
detto che è contento... seee, ma chi ci crede? XD
Che
squallido... ma si riprende? Ahahahah, grande Tami! Ora lo sa e
finalmente capirà che deve lasciarmi in pace... :D
Perché,
capisce?
Quell'ultimo
messaggio di mia sorella mi fece scoppiare a ridere, così
Viola mi chiese cosa fosse successo.
Ero
stesa sul letto dopo essermi preparata per la notte, mentre la mia
amica ancora armeggiava con valige e prodotti per l'igiene personale.
«Ti
ho detto che esco con Danilo, no?»
«Sì,
certo! E allora?»
Ridacchiai.
«Tami l'ha detto a quel troglodita di Marco e lui ci è
rimasto palesemente di merda, anche se ha cercato di nasconderlo!»
raccontai.
«Chi
esce con chi?» intervenne Marta, facendo irruzione nella nostra
stanza e gettandosi sul letto accanto a me. «Cosa mi nascondi,
eh? Raccontami tutto! Me l'avevi promesso!»
Così
tutte e tre prendemmo a chiacchierare, mentre sia Marta che Viola
andavano in brodo di giuggiole per la mia recente relazione;
non sapevo se definirla tale, perché io e Danilo uscivamo
insieme da troppo poco tempo, però stavamo bene insieme e io
avrei voluto che le cose continuassero a funzionare, fino a diventare
serie e forti.
«Ragazze, sono
contenta!» affermai, dopo aver inviato un messaggio di
buonanotte a Danilo.
«Anche noi lo siamo
per te!» affermò Viola, per poi dirigersi verso il
bagno.
Io e Marta rimanemmo sole e
lei mi domandò: «E quindi con Marco non ha funzionato,
ho capito bene?».
Annuii. «Purtroppo non
siamo compatibili, se escludiamo l'attrazione fisica.»
Marta rise. «Beata
gioventù!» strepitò.
«Smettila di parlare
come un'anziana!»
Poco dopo l'educatrice
lasciò la stanza e salì le scale in legno che
conducevano alla sua camera, situata, come quella di Giovanna, in un
vano che doveva fungere da mansarda e dare l'effetto di trovarsi in
una sorta di baia in stile Heidi. In realtà era orribile dover
percorrere quella ripida e stretta rampa di legno scricchiolante, ma
del resto non si poteva pretendere granché.
Prima che Viola tornasse dal
bagno, scivolai in un sonno ristoratore, desiderando che il tempo
trascorresse in fretta e che Danilo venisse a trovarmi come mi aveva
accennato quel pomeriggio.
Quando la mattina seguente
mi svegliai, la prima cosa che mi venne in mente fu che dovevo
alzarmi a preparare il caffè.
La sera prima gli istruttori
– tra cui c'era una new entry di nome Samuele che però
non si era neanche presentato ed era piuttosto silenzioso – ci
avevano annunciato che per quel campo ognuno di noi avrebbe fatto la
colazione nella sua stanza, visto che ognuna di esse era munita di un
piano cottura e di un forno a microonde.
Da un lato ero contenta,
perché in quel modo avrei evitato di avere a che fare con
esemplari come Simona, Gabriella e Nicolò di buon mattino,
però mi rendevo conto che per Tamara non sarebbe stato per
niente bello dover stare insieme alle sue disastrose compagne di
stanza durante quel pasto mattutino; Simona e Gabriella, infatti, non
erano minimamente in grado di badare a loro stesse, così
sarebbe stato compito di Tamara e Giovanna preparare loro la
colazione o comunque supportarle durante quell'operazione.
Mi alzai poco dopo e mi
diressi verso la cucina, dove incrociai subito Marta.
«Preparo io il caffè»
le dissi con un sorriso.
Così lei mi aiuto a
trovare ciò che mi serviva per riempire la moka e mi misi
all'opera; usai un fazzoletto di carta per appoggiare la parte
inferiore della caffettiera, metodo che utilizzavo per evitare che il
caffè in eccesso venisse sprecato. Non riuscendo a vedere se
la polvere andasse a finire tutta dentro il filtro, mi servivo di
quell'escamotage per raccogliere quella che si depositava ai lati del
piccolo serbatoio e rimetterla nella confezione del caffè.
«Ti fai furba, eh?»
mi chiese Marta, osservando i miei gesti.
«Direi di sì,
altrimenti tutto questo verrebbe sprecato» spiegai, indicando
il cerchio di polvere scura che era rimasto sul tovagliolo.
Misi
sul fornello la caffettiera e riuscii, dopo qualche tentativo, ad
accendere il gas; dopodiché tornai
in camera a svegliare Viola.
«Vivi, dai, alzati!
Cosa mangi tu per colazione? Abbiamo, per ora, solo del caffè,
una busta di latte e qualche brioche confezionata» esordii,
scuotendola leggermente per una spalla.
Lei sbadigliò e
impiegò un sacco di tempo per alzarsi dal letto. «Uff,
volevo continuare a dormire, sono stanca!» borbottò,
mettendosi a sedere e strofinandosi gli occhi con le mani.
«Non rompere! È
tardi, e tu sei lenta come una lumaca a prepararti! Allora, che vuoi
per colazione?» domandai ancora, ammucchiando le coperte ai
piedi del letto.
«Uhm...» Viola
sbadigliò ancora. «Latte.»
«Vieni qui, ti insegno
a prepararlo!» gridò Marta dall'altra stanza.
«Pure? Oh no!»
si lamentò la mia amica.
«Non fare i capricci,
su!» ridacchiai, mentre tornavo a controllare la caffettiera.
«Quest'affare non
funziona, quanto ci vuole a fare un caffè?» mi lamentai,
notando che, nonostante fossero trascorsi diversi minuti, l'oggetto
in questione si rifiutava di fare il suo lavoro.
Marta mi raggiunse e nel
frattempo anche Viola si alzò e arrivò in cucina.
«La metto sotto
l'acqua, vedrai che poi funzionerà» affermò
l'educatrice.
Quando rimise la caffettiera
sul fornello, ci vollero ancora diversi minuti prima che cominciassi
a udire il familiare gorgoglio del caffè che saliva dal
filtro. Sospirai e cercai qualche tazzina, portai fuori le poche
bustine di zucchero che la sera prima avevo raccattato dalla stanza
dei ragazzi e portai tutto sul tavolo; nel frattempo Marta spense il
fornello e trasportò la caffettiera in tavola, poi si dedicò
a insegnare a Viola come scaldarsi un po' di latte nel microonde.
Mentre aspettavo che il
caffè si raffreddasse un po', osservai ciò che stavano
facendo le mie compagne di stanza.
«Viola, dammi la mano.
Senti questi pulsanti?»
«Sì, a cosa
servono?» domandò curiosa la mia amica.
«Quello più
grande è il tasto di accensione, gli altri tre servono per
decidere quanti secondi vuoi far scaldare ciò che metti nel
forno: quello subito sotto indica dieci secondi, il secondo venti e
l'ultimo un minuto. Dipende da quanto vuoi che il tuo latte sia
bollente» spiegò con gentilezza Marta, guidando la mano
di Viola durante l'esplorazione.
Storsi la bocca. «Odio
quegli aggeggi» commentai. «A casa mia si usano i
pentolini per scaldare qualunque cosa, siamo contrari al microonde.»
«Sempre la solita tu!»
mi rimbeccò Marta. «Invece è comodo e veloce.»
«E nocivo»
aggiunsi con un'alzata di spalle.
«Anche noi non lo
usiamo mai, però ce l'abbiamo. Ma anche mamma preferisce usare
i metodi tradizionali» raccontò Viola.
Marta la aiutò a
riempire la sua tazza di latte, poi la supportò nell'infilarla
all'interno del forno.
«Tua madre è un
genio» dissi con un sorriso, prendendo un sorso del mio caffè.
Dopo alcuni tentativi, le
due riuscirono a scaldare il latte e mi raggiunsero a tavola.
Chiacchierammo e facemmo colazione in fretta; nel frattempo Danilo si
era svegliato e mi aveva inviato il buongiorno, e io ero molto felice
di sentirlo. Era difficile immaginare di dover trascorrere altri
dieci giorni senza di lui, però forse lui sarebbe venuto a
trovarmi e non avrei dovuto attendere così tanto a lungo.
Dopo colazione lavai le
scodelle e i cucchiaini, poi mi precipitai in bagno a prepararmi per
la piscina. Infilai il costume nero, un paio di shorts e una
canottiera e corsi a recuperare la borsa con il telo e tutto il
necessario per scendere di sotto.
La mattina trascorse
tranquillamente e io ebbi modo di parlare con Giorgio, il ragazzino
che stava frequentando per la prima volta il campo insieme a tutti
noi. Era simpatico e molto intelligente, ma ciò che mi colpì
maggiormente fu la sua sensibilità; anche Nicolò pareva
esserne rimasto colpito, per questo approfittò subito per
trattarlo come se fosse il suo schiavetto. Quel ragazzo era
impossibile, non sarei mai stata in grado di sopportarlo.
Mi divertii anche a sentire
i racconti di mia sorella riguardo alla sua nottata e al risveglio di
quella mattina.
«C'era una zanzara che
mi ronzava intorno, poi non vi dico quanto caldo faceva in quella
stanza! Non potevamo neanche aprire la finestra perché il
letto di Simona rimane proprio là sotto e lei non faceva che
alzarsi ininterrottamente per andare in bagno! Poi, ovviamente,
sbagliava letto e veniva nel mio o in quello di Gabriella! Poi a un
certo punto è arrivato il camion che ritira la spazzatura e ha
fatto un casino assurdo, mi sarei affacciata alla finestra e avrei
volentieri gridato imprecazioni a non finire! E, cosa più
avvincente, Simona non fa che sganciare aria da orifizi non meglio
identificati. In qualsiasi momento, sempre, è una tortura!»
Tutti scoppiammo a ridere.
Eravamo seduti sulle sdraio e io ero da poco uscita dall'acqua.
«Oddio Tami, ma è
orribile!» esclamò Viola in tono apprensivo.
«Abbastanza! Non vi
dico... infatti non ho quasi chiuso occhio» si lamentò
ancora, per poi sospirare e scuotere il capo.
«Simona e le sue bombe
a orologeria» commentò Marco. Stazionava in un angolo,
sotto l'ombra del portico che ospitava alcune sdraio, ed era seduto
per terra sul suo telo. Poco dopo fece partire della musica dal suo
cellulare.
Viola storse la bocca.
«Cos'è questo casino? Ma tu ascolti sempre queste cose
che sembrano dei barattoli ammaccati che sbattono tra loro?»
«Vivi, mi fai morire!»
scoppiò a ridere Tamara, piegandosi in avanti e rischiando
così di ruzzolare dalla sua postazione su una sdraio
traballante.
«Stai attenta tu!»
la apostrofai. «Vivi, hai sempre da ridire? Mica la gente può
ascoltare solo Africa o le canzoni degli anni Ottanta!»
«Che bella Africa!
Me la mettete?» saltò su la mia amica.
«Anche quest'anno devi
rompere con questa canzone? Mio dio!» sbuffai.
«Lalli, ti ricordi
quando ero fissata con Moonlight Shadow?» mi chiese
Viola con un sorriso.
«Ma certo! Però
quella non posso mettertela, non ce l'ho! Ma, piuttosto, tu non eri
la donna anti-tecnologia per eccellenza?» la punzecchiai,
vedendola armeggiare con il suo nuovo Iphone.
«Ma Lalli! Sai che è
facile da usare? Ho fatto un piccolo corso, e di certo non mi metto a
parlarci come fanno loro!» si giustificò la mia amica,
alludendo a Gabriella che intanto parlava con il cellulare cercando
di usare Siri senza successo.
«E come diamine fai?»
le chiese perplessa Tamara.
«Un giorno ve lo
spiego!»
«Uff, ma perché
questo coso non funziona? Ho detto: riproduci brano #fuoriceilsole!»
strillò all'improvviso Gabriella.
Marco sghignazzò e
fece partire una canzone da lui definita tranquilla, ma che da subito
io ritenni una noia pazzesca.
«Che è 'sta
roba?» domandai.
«Sono i Tool! Non
dirmi che non li conosci, sono fighissimi» disse lui con
orgoglio, per poi canticchiare quella nenia insopportabile.
«Sembra una
ninnananna» osservò Viola. «Che palle!»
«Ma a te non va bene
mai niente, eh?» intervenne Marta ridendo.
«Oh, ragazzi!»
La voce squillante e insopportabile di Nicolò squarciò
l'aria, interrompendo tutte le nostre conversazioni. Poco dopo lui e
Giorgio comparvero all'ingresso della piscina.
«Il pranzo è
quasi pronto, cominciate a prepararvi!» disse Giorgio con
orgoglio.
Intanto Gabriella,
imperterrita, cantava – o meglio, biascicava monotona –
la canzone di Lorenzo Fragola che era il tormentone dell'estate e io
l'avrei volentieri buttata in piscina.
Così mi alzai e presi
a raccattare le mie cose, buttandole in borsa alla rinfusa.
«Gabriella, basta!
Dobbiamo andare a pranzo!» la esortò Giovanna,
chinandosi per raccogliere i vestiti che Simona aveva lasciato cadere
a terra, vicino a sé. «Dai Simo, vestiti. Non hai fame?»
si rivolse poi all'altra ragazza, la quale sembrava, come sempre,
immersa in un mondo tutto suo.
Scossi il capo e sospirai,
infilandomi in fretta i vestiti. Chiesi le chiavi della nostra stanza
a Marta e mi inventai che dovevo andare urgentemente in bagno, poi mi
avviai in fretta verso la mia camera.
Non ne potevo più di
sentire Lorenzo Fragola e le canzoni deprimenti di Marco, e poi
volevo sentire Danilo e parlare un po' con lui. Tuttavia, una volta
arrivata a destinazione, provai a chiamarlo ma lui non rispose.
Così mi diedi una
rinfrescata e misi su un po' di musica dal mio cellulare,
ritrovandomi ad ascoltare un brano che da giorni non faceva che
tormentarmi. Si trattava di Mica Van Gogh di Caparezza, brano
che mi aveva preso tantissimo da quando avevo sentito il suo nuovo
album, e la fissa era cresciuta dopo aver assistito, quell'estate, a
un concerto mozzafiato che mi aveva lasciato sfinita ma pienamente
soddisfatta.
Tu,
in fissa con i cellulari, lui coi girasoli,
girare
con te è un po' come quando si gira soli...
Mi misi a cantare, ammirando
ancora una volta la genialità di quell'uomo, aggirandomi per
la stanza in attesa che anche Viola e Marta arrivassero.
Mi sentii improvvisamente
affamata. Nicolò e Giorgio avevano cucinato il pranzo per
tutti noi, chissà se avevano creato qualcosa di realmente
commestibile.
«Lau!» mi chiamò
Marta, entrando in stanza in compagnia di Viola.
«Sono qui»
gridai dalla mia camera.
«Questo pomeriggio
devi andare a fare orientamento con Marco e Samuele» mi avvisò
in tono allegro.
«Con Marco? E ti
pareva! Samuele... ah, il nuovo istruttore?» buttai lì
leggermente confusa.
«Già.»
Rimasi un attimo in
silenzio, poi chiesi: «Ma quello parla o e muto? Non si è
neanche presentato e non ho ancora capito se è in grado di
ricoprire il ruolo che dovrebbe!».
Viola sbuffò. «Ma
sei cattiva!»
«No» la
contraddisse Marta. «Anche secondo me è muto!»
A quel punto scoppiammo
tutte e tre a ridere e ci preparammo per andare a pranzo, mentre io
mi domandavo perché dovessi necessariamente fare le mie
attività di orientamento e mobilità con Marco.
Possibile che questi diamine
di istruttori non avessero altri programmi per noi due? Possibile che
volessero a tutti i costi vederci insieme, vicini?
Smisi di pensarci quando il
mio cellulare squillò: era Danilo.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre: Rize up ***
ReggaeFamily
Capitolo
tre: Rize up
Il
pranzo era stato più buono di quanto avessi sperato, e anche
aver parlato con Danilo al telefono mi aveva messo di buonumore. Ero
pronta per affrontare quel pomeriggio di orientamento e mobilità
con Marco, non mi importava granché di lui, non dovevo
pensarci e non mi restava che godermi l'ennesima esperienza atta ad
aumentare la mia autonomia personale.
Ma
accadde qualcosa che mi fece capire che Marco stava facendo di tutto
per attaccarsi a me come al solito; stranamente la cosa non mi andava
proprio, ma non potei fare altro che accettare la situazione. Gli
istruttori, a fine pranzo, chiesero chi volesse cucinare la cena
della sera seguente, così io mi proposi per quell'attività,
tanto prima o poi sarebbe toccato a tutti. Poco dopo Marco disse, con
finto disinteresse, che anche lui era d'accordo, perciò
compresi che saremmo stati in coppia insieme e la cosa mi irritò.
Tuttavia lasciai perdere e discussi con lui e gli altri sul menu da
preparare: decidemmo che avremmo servito una buona insalata di riso e
degli anelli di cipolla in pastella. A quel punto Tamara e Viola si
proposero per andare a fare la spesa, così anche loro
sarebbero state impegnate quel pomeriggio in una spedizione
all'Eurospin insieme a Lorenzo.
Sperai
vivamente che quell'atteggiamento di Marco non mirasse a
qualcos'altro, e decisi di evitare di dar troppo peso alla cosa per
il momento.
Prima
di uscire con il nuovo istruttore, salii in camera e esortai Tamara e
Viola a seguirmi perché avevo voglia di un caffè; alla
fine anche Marco ci raggiunse e io preparai la caffettiera. Avevo
come l'impressione che quello sarebbe diventato una sorta di rituale
per noi quattro.
Quando
io e Marco, verso le quattro, scendemmo a raggiungere Samuele, lui ci
annunciò in tono piatto che ci saremmo occupati di prenotare
in pizzeria per la cena, il che comprendeva il dover raggiungere in
autonomia il locale, per poi ripercorrere la strada verso il
residence. Ordinaria amministrazione.
Ci
avviammo per le assolate vie del paese, e solo allora scoprii che
Samuele non era muto e che, anzi, parlava un sacco, ma solo degli
argomenti che lo interessavano veramente. Infatti, cominciò a
raccontare a me e Marco di tutti i concerti a cui aveva assistito, di
tutti i viaggi che aveva fatto sia per piacere che per accompagnare
dei ragazzi come noi in dei campi simili a quello che stavamo
vivendo. Era molto entusiasta quando parlava di musica e di viaggi,
ci svelò un sacco di aneddoti e ci fece ridere più di
una volta. Alla fin fine era simpatico, con lui si riusciva a
instaurare una conversazione accettabile, anche se non l'avrei mai
detto.
Raggiungemmo
lo stesso locale in cui avevamo cenato la sera prima e trovammo i
camerieri intenti a ripulire e preparare la sala all'interno. Ci
accomodammo all'esterno, in cui si trovavano parecchi tavoli
circondati da panche in legno. Una cameriera ci chiese se volessimo
ordinare qualcosa e noi prendemmo un caffè a testa, poi
prenotammo due tavoli per quella stessa sera, precisando che quello
occupato da noi ragazzi – che eravamo in otto – doveva
essere separato da quello di educatori e istruttori.
Intanto
continuammo a chiacchierare di musica con Samuele, e infine mi stupii
parecchio quando Marco decise di offrirci il caffè. Ero
allibita, da quando era diventato così generoso?
Mentre
lui andava a pagare, ricevetti una telefonata: si trattava della mia
amica Beatrice, colei che, folle quanto e più di me, mi aveva
aiutato a buttare giù il copione che avrei dovuto inscenare
durante il precedente campo per far stare Marco al suo posto. Avevo
fallito miseramente, ma almeno avevo capito che una sciocchezza del
genere non avrei dovuto neanche pensarla. Ci eravamo ritrovate a
riderci su, pensando che stavolta avevo davvero un ragazzo con cui
uscivo e non ci sarebbe stato bisogno di mentire a Marco.
«Lau!
Tutto bene?» esordì lei in tono allegro.
«Ciao
Bea. Tutto okay, attualmente sto facendo un'attività di
orientamento» raccontai.
«Uhm,
bello. E con il coso come va?»
Risi.
«Il coso. Tutto sotto controllo, direi.» Lasciai che
Marco e Samuele si allontanassero di qualche metro da me e
bisbigliai: «Sono con lui a fare l'attività. Poi dopo,
via SMS, ti racconto una cosa. Riderai, fidati».
«Ci
sta provando?» volle sapere Beatrice.
«Quello
sempre, ma stavolta gli va male. E tu che mi racconti?»
«Stamattina
ho fatto un affare...» E prese a raccontarmi di un paio di
scarpe carinissime che aveva comprato per pochi euro, esaltando il
fatto che fossero comode ed eleganti allo stesso tempo.
Evitai
di farle notare che un paio di stivali estivi color beige mi
avrebbero fatto venire il voltastomaco al solo vederli e continuai a
chiacchierare con lei per un po', finché non ci salutammo
perché dovevo concentrarmi sul percorso di ritorno verso il
residence.
Una
volta rientrata, ero abbastanza stanca, ma Lorenzo mi annunciò
che per raggiungere nuovamente il ristorante avrei dovuto fare
nuovamente il percorso a piedi, utilizzando il bastone bianco.
Rimasi
sorpresa. «Sul serio? Okay, ma... spero di farcela»
replicai.
«Ma
sì, ci sarò io con te. E anche Marco e Gabriella
faranno una passeggiata con noi, che ne pensi?» mi rassicurò
con calma l'istruttore.
«Okay,
proviamoci.»
Nel
frattempo Tamara mi raggiunse; pareva sconvolta e un po' triste, così
le circondai le spalle con un braccio e le chiesi: «Che
succede, sorellina?».
«Ho
assistito a una scena terribile...»
«E
cioè?»
«Lalli,
Tami, dove siete?» ci chiamò Viola, che intanto si
trovava nei pressi delle scale che conducevano alla nostra stanza. Io
e mia sorella la raggiungemmo e salimmo tutte e tre in camera.
«Dicevate?
Che è successo mentre eravate all'Eurospin?» chiesi
curiosa.
«Non
è successo all'Eurospin, che scema! È stato in
strada...» borbottò Tamara.
«Oh
sì, hanno investito quei cagnolini!»
«Eh?
Dei cani?»
Tamara
sospirò. «Eh, due cani! Li hanno investiti... il più
grande non si è fatto nulla, mentre il piccolo è
rimasto steso lì ed è stato subito soccorso, solo
che... oddio, è stato orribile quel tonfo...»
«Vero,
Tami ha ragione!»
«Mi
dispiace ragazze, ma non fatevi rovinare la vita da questa cosa,
dai!» tentai di sdrammatizzare, entrando in bagno per
rinfrescarmi un po' il viso.
«Tu
sei insensibile, sempre la solita! Solo perché tu hai paura
dei cani...» mi accusò subito mia sorella.
«Ma
stai zitta, questo cosa c'entra? Ho paura dei cani, ma mica vuol dire
che voglio che siano maltrattati...» ribattei irritata.
«Ragazze,
state litigando?» intervenne all'improvviso Marta, facendo il
suo ingresso in camera. «Lau, ti cercano per andare a piedi al
ristorante.»
«Ora
scendo!»
Mentre
mi avviavo verso l'esterno, sentii Tamara e Viola raccontare il loro
pomeriggio di spesa all'educatrice e sorrisi: ero orgogliosa di loro,
erano state brave e non avevano riscontrato particolari problemi
nell'affrontare la loro attività.
Mentre
aspettavo di partire per il ristorante, scambiai dei messaggi con
Danilo e Beatrice. Speravo ardentemente che lui venisse a trovarmi,
mi mancava davvero troppo.
Poco
dopo afferrai il mio bastone e cominciai ad avviarmi insieme a
Lorenzo, Marco e Gabriella verso il ristorante; mentre camminavo
lentamente, stando attenta a trovare tutti gli ostacoli e superarli
senza farmi male; avrei voluto che Danilo mi vedesse, che capisse
quanto quell'esperienza stava diventando importante per me, che mi
osservasse mentre riuscivo a prendermi la mia autonomia una volta
tanto.
Il
tragitto fu molto lungo, proprio perché non ero in grado di
procedere troppo in fretta e dovevo stare molto attenta a dove
mettevo i piedi. Alla fine, con un fastidiosissimo mal di schiena e
l'autostima alle stelle, raggiunsi finalmente la mia meta. Ero
felice, non riuscivo a credere di esserci riuscita con le mie sole
forze.
«Ma
quanto ci hai messo? Noi siamo arrivati una vita fa!» si
lamentò Marco, intento a fumare vicino all'ingresso.
Irritata,
replicai: «Grazie, tu riesci a spostarti più in fretta
perché hai un residuo visivo».
«E
che ostacoli vuoi che ci siano in questo tragitto? Non ho capito...»
«Prova
a farlo con il bastone e poi ne riparliamo» tagliai corto,
avviandomi all'interno del locale. Stavo cominciando a stancarmi
dell'atteggiamento da stronzo di Marco, non riuscivo proprio a
sopportare quel suo modo di fare da altezzoso che si vantava di aver
capito tutto della vita, mentre invece era soltanto un cretino pieno
di sé. Come avevo potuto innamorarmi di lui in passato? Mi
sentivo proprio una stupida a ripensarci.
La
cena procedette in tranquillità e, durante il viaggio di
ritorno, decisi di salire sul furgoncino perché ero troppo
stanca per rifare il tragitto a piedi con il bastone. Capitai seduta
accanto a Marco e, pur di stargli il più lontano possibile, mi
spiaccicai contro la portiera e lo ignorai deliberatamente.
Non
faceva che innervosirmi, e sinceramente mi stava passando la voglia
di fare attività con lui anche il giorno seguente. Al solo
pensiero mi sentivo nauseata.
Perché
gli istruttori permettevano certe cose? Stavolta avrebbero dovuto
separarci, invece le cose stavano andando male e stavano degenerando
fin troppo per i miei gusti.
Il
giorno dopo cominciò nel modo sbagliato.
Mentre
mi preparavo per andare in spiaggia, mi accorsi che mi era arrivato
il ciclo. In anticipo di cinque giorni, cazzo.
Non
aspettavo altro che andare al mare perché mi sentivo proprio
in vena di un bel bagno, dato che durante l'estate non ci ero andata
neanche una volta. Invece ero stata la solita sfigata e ora mi
aspettava una bella mattinata in preda alla noia, mentre Tamara e
tutti gli altri si tuffavano in quella meravigliosa acqua salata.
Imprecando,
uscii dal bagno e trovai Viola che sistemava le sue cose in silenzio.
«Che
succede, Lalli?»
«Mi
sono arrivate...» borbottai contrariata.
«Oh
no, che sfiga!»
«Già.»
Controllai che nella borsa del mare ci fosse tutto il necessario e mi
sedetti sul letto per rispondere a un messaggio di Danilo. «Tu
stai bene?»
«Penso
di sì» rispose con scarsa convinzione. «Mi sento
un po' stanca, niente di che...»
Finimmo
di prepararci e raggiungemmo gli altri al piano di sotto; neanche a
dirlo, eravamo in ritardo per colpa di Viola, e il primo gruppo era
già partito per la spiaggia.
Trascorsi
gran parte della mattinata sotto l'ombrellone ad ascoltare musica con
gli auricolari, il che mi fece sentire tremendamente annoiata. Non
riuscivo a inviare dei messaggi perché c'era troppa luca
intorno a me e non ero in grado di vedere lo schermo del cellulare,
perciò le mie risorse in quel caso erano piuttosto scarse.
Mi
ritrovai ad ascoltare Rize up,
una canzone reggae bellissima di un gruppo australiano di nome Blue
King Brown. Era cantata da una ragazza con una voce pazzesca, e in
quel momento mi soffermai ad analizzarla con più attenzione.
Rize
up, get up, rize up, right away!
Rize
up, get up, rize up, right away!
Rize
up, get up, rize up, right away!
Rize
up, get up, rize up now!
Viola
si mise in costume, ma non fece il bagno; si sdraiò all'ombra
e rimase piuttosto in silenzio, così a un certo punto mi andai
a sedere accanto a lei e cominciammo a scambiare qualche parola.
Intanto
tutti uscirono dall'acqua e Nicolò si sistemò poco
distante da noi, facendo un casino con la sabbia e con la sua voce
altamente disturbante.
«Ma
quando si spegne questo qui?» si lamentò Viola.
Poco
dopo anche Tamara ci raggiunse e si sedette accanto a me,
abbracciando le ginocchia con le braccia.
«Hai
messo la crema?» le chiesi.
«Mmh...
non ho voglia» bofonchiò.
«Tami,
la crema devi metterla, lo sai!» la rimproverai.
«Uff...»
«Portala
qui, te la spalmo io» insistetti.
«Ma...
e va bene, che palle!» si arrese, contorcendosi per raggiungere
il suo zaino. Ne estrasse la crema e me la passò controvoglia.
Gliela
spruzzai sulla schiena e le spalle, poi presi a massaggiarla, mentre
le intimavo di fare lo stesso sul viso e sulla parte anteriore del
suo corpo.
«Ora
sei contenta?» si lamentò.
«Ti
fa male prendere troppo sole, è la prima volta che stiamo al
mare quest'anno, quindi non rompere.»
Poco
dopo presi a chiacchierare con Samuele, steso accanto a noi, mentre
Nicolò blaterava e importunava il povero Giorgio. Gabriella
parlava con il cellulare e Simona portava fuori discorsi che solo lei
poteva capire. Poi c'era Marco che se ne stava per gli affari suoi
con le cuffie e la sua solita aria cupa e imbronciata. Non sarebbe
mai cambiato, ne ero certa. Ormai aveva diciannove anni e sarebbe già
dovuto essere più maturo, invece continuava ad agire come un
adolescente perenne.
A
un certo punto sentii Viola afferrarmi la mano, una presa convulsa,
forte, stranamente forte.
Posai lo sguardo su di lei e
mi accorsi che storceva la bocca in una smorfia innaturale, mentre la
sua stretta aumentava.
«Oh no»
mormorai, poi mi voltai verso Samuele e gli dissi: «Samu? Samu,
Viola ha una crisi».
«Come?» fece lui
confuso.
«Ha una crisi»
ripetei più forte.
Viola cominciò a
mugolare e tra quei suoni quasi incomprensibili capii che stava
chiamando sua madre. Era un mormorio flebile, eppure tutti se ne
accorsero.
Poco dopo Samuele si
inginocchiò accanto a lei, e proprio in quel momento arrivò
Giovanna e prese la mano sinistra di Viola tra le sue; sia io che lei
prendemmo a parlarle con molta calma, finché lei smise di
mugolare e si calmò. Sentii pian piano il suo corpo
rilassarsi, ma fu lieve, perché le crisi epilettiche
richiedevano un po' di tempo per essere smaltite e superate.
Era stata lieve, per
fortuna, e quando Viola riuscì a parlare, disse che in effetti
non era successo niente di così grave. Riuscimmo a parlare e
scherzare per un po', e mi resi conto a malapena che mia sorella era
sparita.
«Ma dov'è
Tami?» chiesi leggermente preoccupata.
«Lucrezia l'ha portata
via, piangeva e...» mi spiegò Marta, in piedi vicino a
me.
«Povera Tami...»
sussurrò Viola. «Lei non... Lalli... sta...»
Poi la crisi riemerse e
inghiottì nuovamente la mia amica, ma stavolta io e Giovanna
fummo pronte per soccorrerla e starle accanto. Stavolta durò
un po' di più, fu più intensa, ma alla fine Viola si
calmò e si addormentò.
Le crisi erano tornate. Per
quell'anno non eravamo stati fortunati come nel campo precedente, ma
comunque sperai che Viola ne subisse il meno possibile.
Quella giornata era
cominciata male e ora ne comprendevo il perché. E non era
neanche a metà, chissà cosa ci aspettava.
Mi ricordai che avrei dovuto
cucinare con Marco e mi venne l'angoscia. Non ne avevo nessuna
voglia, mi sarei volentieri inventata una scusa per evitarlo.
Ma non potevo, dovevo tenere
duro.
Dovevo
risorgere, ribellarmi,
proprio come Nattali Rize gridava nella canzone con i suoi Blue King
Brown.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro: Darkest Days ***
ReggaeFamily
Capitolo
quattro: Darkest
Days
«Ragazzi,
dai, preparatevi. Andiamo a pranzo al chiosco qui accanto»
annunciò Giovanna, rivolta principalmente a Simona, Gabriella
e Nicolò, i quali impiegavano sempre un tempo infinito a
riordinare le loro cose e rivestirsi.
Cercai
di svegliare delicatamente Viola, la quale ancora dormiva in seguito
alla seconda crisi, e lei pian piano parve riprendere conoscenza. La
prima cosa che fece fu regalarmi un sorriso e io capii che forse
stava meglio.
Ma
qualcosa spezzò quel momento idilliaco: infatti, Nicolò
si alzò dal suo telo e lo sollevò per ripiegarlo, ma in
questo modo rovesciò un quintale di sabbia sulla testa della
povera Viola.
«Nicolò!»
gridò lei, passandosi le mani sulla faccia e tossicchiando.
«Mio
dio, ma sei un casino!» lo accusai io, mentre rimettevo il mio
telo in borsa.
Tra
un battibecco e l'altro riuscimmo a sistemarci e a raggiungere il
chiosco. Io mi ritrovai seduta di fronte a Nicolò, con Tamara
alla mia destra e Viola alla mia sinistra. Quest'ultima stava ancora
male, qualcuno le aveva prestato una felpa, ma ancora tremava ed era
evidentemente scossa dalle crisi da poco passate.
«Vivi,
quando torniamo al residence, ti riposi un po'. Va bene?» le
dissi, posandole una mano sul braccio.
«Va
bene Lalli.»
Il
pranzo fu abbastanza lungo ma tranquillo, tranne per il fatto che
Tamara ordinò la cosa sbagliata: infatti scelse di prendere
della pasta alla carbonara, ma doveva trattarsi di qualcosa di
congelato e precotto, perché mia sorella la trovò
disgustosa e disseminata di qualcosa di duro e immangiabile.
«Io
non l'avrei mai presa. Il mio panino invece è buono, e anche
le patatine» le feci notare, ridendo.
Di
fronte a me, Nicolò si era tuffato su una porzione enorme di
patatine fritte che non riuscì poi a finire, così tutti
ci adoperammo per aiutarlo.
Quando
finimmo, aspettammo un tempo indefinito prima che educatori e
istruttori si decidessero a riportarci al residence. Quando
finalmente il primo gruppo salì a bordo del furgoncino, alcuni
di noi si aggirarono accanto ad alcune bancarelle presenti nel
lungomare. Tamara cominciò a cercare un braccialetto di suo
gradimento e io ne comprai uno con i teschi da regalare a un'amica.
Finalmente
anche noi rientrammo al residence e io mi fiondai sotto la doccia,
mentre Viola e Marta riposavano un po'. Verso le sei io e Marco
avremmo cominciato a preparare la cena e io non vedevo l'ora che
tutto finisse, in modo da non averlo troppo attaccato addosso.
Nel
frattempo continuava a scambiare dei messaggi con Danilo e sentivo
ancora la sua mancanza, ma l'atmosfera del campo, come sempre,
riusciva a farmi distrarre da tutti i pensieri negativi che facevano
parte della mia vita esterna a quell'esperienza. Beatrice, intanto,
era rimasta sconvolta e divertita dal fatto che Marco si fosse
proposto per cucinare con me, così aveva incaricato Tamara di
tenerci d'occhio, per poi riferirle qualsiasi cosa sospetta.
Era
buffo come le mie vicissitudini diventassero in fretta e furia
patrimonio dell'umanità.
«A
me le cipolle fanno male agli occhi» sentenziai, mentre Marco
mi domandava di occuparmi io di quell'alimento. «Penserò
all'insalata di riso, ma con quelle non ce la posso fare.»
«Va
bene» borbottò.
«Bene.»
Erano
da poco passate le sei e ci trovavamo all'esterno dell'appartamento
dei ragazzi, ovvero al piano terra. Dei tavoli erano stati allestiti
per facilitare la preparazione della cena ed evitare che rimanessimo
rintanati in cucina.
Mi
diressi dentro a recuperare il formaggio, poi tornai fuori e
cominciai a tagliarlo a tocchetti, mentre l'acqua per il riso era già
stata messa a bollire. Non avevo molta voglia di svolgere quelle
attività, ero un po' stanca e avevo già un mal di
schiena pazzesco. In più, l'odore acre delle cipolle mi stava
distruggendo, e gli occhi mi pizzicavano fastidiosamente.
Sbuffando
ogni tanto, riuscii comunque a compiere il mio dovere e mi occupai
anche di controllare il riso.
A
un certo punto della serata fui telefonata da Danilo e parlai con lui
di fronte a Marco, fregandomene deliberatamente di lui e di ciò
che potesse pensare o provare in merito. Tuttavia, fui costretta a
salutarlo in fretta perché avevo da fare, così gli
promisi che l'avrei richiamato più tardi.
Infine
il momento della cena giunse e il risultato fu eccellente, tranne per
il fatto che il riso avrebbe necessitato di qualche minuto in più
di cottura.
«Peccato,
perché per il resto è tutto buonissimo» disse
Tamara, facendo comunque il bis di insalata di riso.
«Se
ti piacesse davvero, faresti il tris?» la punzecchiai.
«Probabile!»
Gli
anelli di cipolla in pastella fecero faville: ne mangiammo veramente
un sacco e tutti li apprezzarono, contrariamente a quanto avessi
pensato. C'erano delle persone molto viziate nel nostro gruppo, una
delle quali era Simona.
«Questo
riso è freddo. Chi me lo scalda?»
«Simo,
l'insalata di riso si mangia fredda» le fece notare Giovanna in
tono pacato.
«Ma
a me non piace freddo! Voglio che sia caldo!» si lagnò
ancora la ragazza, agitandosi sulla sedia e alzando la voce.
«Simo,
non fare così... si mangia fredda l'insalata di riso, calda
non è buona» tentò di tranquillizzarla Marta.
«Invece
sì che è buona!»
«Simona...»
intervenne Lucrezia.
«Non
la mangio se non è calda!»
Insomma,
si lamentò e piagnucolò così tanto, che alla
fine qualcuno prese il suo fiatto e lo infilò nel microonde
per far sì che si scaldasse.
Neanche
a dirlo, Simona lasciò che il cibo si freddasse di nuovo,
asserendo che era troppo caldo, e alla fine ne mangiò sì
e no quattro forchettate.
Ero
basita. Io non le avrei mai permesso di comportarsi in quel modo, se
fosse stata mia figlia, probabilmente l'avrei data in adozione dopo
due ore.
Dopo
cena, Giorgio, Nicolò e Gabriella presero a parlare con il
cellulare, facendo un casino assurdo e mandandomi fuori di testa.
Oddio, ma come potevano trascorrere il loro tempo a fare gli automi
di fronte a un telefono? Anche Viola aveva un cellulare come il loro,
ma non lo usava allo stesso modo e si unì al casino generale
solo perché stava parlando con sua madre.
Effettivamente
non si capiva niente, se qualcuno ci avesse visto dall'esterno, ci
avrebbe preso per pazzi furiosi e si sarebbe domandato perché
non ci avessero ancora rinchiuso in un reparto psichiatrico; come
avrei potuto dargli torto? Anche io ogni tanto mi ponevo certe
domande, ma poco dopo non ci pensavo più e mi dicevo che in
fondo noi eravamo così e basta, eravamo un gruppo eterogeneo
in cui ognuno faceva valere le proprie stranezze senza rifletterci
su.
Prima
di andare in camera mia, appresi che la mattina seguente io e Marco
avremmo avuto nuovamente un'attività in coppia. Possibile che
gli istruttori stessero cercando di accoppiarci anche in un altro
senso? Non ne potevo già più.
Dopo
aver mandato la buonanotte a Danilo e alle mie amiche, rimasi un po'
a chiacchierare con Viola mentre si cambiava, ma entrambe eravamo
troppo stanche, così presto ci addormentammo senza neanche
accorgermene.
Anche
il giorno successivo cominciò nel modo sbagliato: dopo aver
preparato il caffè, presi la caffettiera per portarla in
tavola e mi bruciai un dito. Cominciai a imprecare mentalmente e non,
correndo a infilare la mano sotto l'acqua corrente.
Feci
colazione in fretta con caffè e grissini al sesamo, poi mi
resi conto che fuori stava piovendo. Io e Marco ci saremmo dovuti
spostare nella città vicina per fare orientamento e mobilità
con Lorenzo, e io ne avevo già le scatole piene.
Fortunatamente avevo portato l'ombrello, ma avevo come la sensazione
che sarebbe stata una mattinata difficile.
Quando
infine uscimmo dal residence per recarci alla vicina fermata
dell'autobus – e io avevo fatto lo stupido errore di infilare
ai piedi un paio di infradito – mi accorsi che si era alzato il
vento e stava cominciando a piovere più forte. Aprii
l'ombrello e cercai di riparare sia me che Marco, dato che ero stata
costretta a farmi guidare da lui vista la poca luce che le nuvole
quasi nere lasciavano filtrare.
Ma
una folata d'aria più forte delle altre fece ribaltare
l'ombrello e questo si ruppe, strappandosi. Imprecai per l'ennesima
volta durante quelle poche ore e capii che sarebbe stato un vero
casino per noi spostarci a piedi, se la pioggia non fosse diminuita.
Raggiungemmo
la fermata e ci rendemmo conto che l'autobus che avremmo dovuto
prendere a momenti, in realtà non sarebbe passato, così
fummo costretti ad aspettare per almeno venti minuti che arrivasse il
successivo. Fortunatamente la pioggia si era calmata e io sperai
vivamente che in città ci lasciasse un po' in pace.
Il
viaggio in autobus fu abbastanza rapido, ma quando scendemmo nei
pressi della stazione dei pullman, ci rendemmo conto che stava ancora
piovendo e aveva nuovamente aumentato.
La
mattinata mia e di Marco fu più o meno un sodalizio, poiché
fummo costretti a cercare più di una volta un riparo per non
trascorrere tutta la mattinata sotto il diluvio universale. Mi
ritrovai a pensare che neanche Noè con la sua arca sarebbe
sopravvissuto a tutto quel disastro, tenendo conto che anche il vento
era forte e spazzava via ogni cosa, facendo sì che la pioggia
ci raggiungesse anche sotto i blandi ripari che riuscivamo a trovare.
Fummo
costretti a fare un percorso per andare alla stazione dei treni a
chiedere informazioni sugli orari, dato che Marco qualche giorno dopo
sarebbe partito ad affrontare un test d'ingresso per l'università,
e io ne approfittai per informarmi sul servizio navetta che Danilo
avrebbe potuto usare per raggiungermi, in caso fosse venuto a
trovarmi.
Poi
dovemmo, ovviamente, fare il percorso inverso e fummo grati a
Lucrezia che, anziché farci tornare in autobus, ci venne a
prendere in macchina e ci riportò al residence sani e salvi,
più o meno.
Quando
arrivammo, mi precipitai a cambiarmi e indossai dei vestiti puliti,
per poi ridiscendere e raggiungere la stanza dei ragazzi, dove Viola
e Tamara erano intente a preparare il pranzo. Lì mi imbattei
in una ragazza che non conoscevo, la quale si presentò come
Gloria, ma io non capii minimamente di chi si trattasse o che cosa ci
facesse con noi.
«Che
ruolo ricopre quella?» chiesi a Tamara.
«Tu
lo sai? Io no» replicò confusa quanto me.
Il
pranzo fu abbastanza buono e consistette in pasta al sugo e caprese.
Tamara, per l'occasione, aveva preparato una versione della caprese
con un formaggio diverso dalla mozzarella, dato che a nessuna delle
due piaceva tanto quel latticino.
«Quella
cosa non ha nessun sapore» spiegai a Viola, riferendomi alla
mozzarella.
«Allora
voglio assaggiare la vostra versione con il formaggio alternativo»
disse la mia amica, che stava decisamente meglio rispetto al giorno
precedente.
Non
aveva avuto altre crisi e si era ripresa completamente, riposandosi e
prendendosi cura di sé, per quanto i ritmi del campo lo
permettessero.
Lei
e Tamara mi raccontarono che avevano trascorso parte della mattinata
chiuse in camera; Viola e Giorgio si erano adoperati per insegnare a
mia sorella un po' di scrittura braille, e lei era orgogliosa di
essere già capace a scrivere il suo nome.
«Brava!»
le dissi con un sorriso, poi raccontai via SMS a Danilo le mie
disavventure della mattinata.
Mi
ritrovai a pensare ai momenti in cui io e Marco ci eravamo ritrovati,
soli e vicini, sotto i ripari in città, aspettando che la
pioggia ci lasciasse un po' di tregua. Era stato veramente difficile
stargli accanto in quel modo, perché c'era qualcosa che mi
faceva pensare ai vecchi tempi, qualcosa che mi suggeriva che non mi
sarei mai davvero staccata da lui.
Mi
era anche venuto in mente che quelle scene sarebbero potute essere
romantiche, se solo tra noi due le cose fossero andate diversamente,
o se ancora io fossi stata la Laura di un tempo. Invece ora era tutto
diverso, non sentivo più il desiderio di costruire qualcosa
con lui, perché non si poteva proprio fare, nella maniera più
assoluta.
Mi
riscossi da quei pensieri e mi alzai. «Chi mi ama mi segua, io
vado in camera a preparare il caffè!» affermai,
accostandomi a Marta per prendere le chiavi della nostra stanza.
«L'importante
è che alle quattro e mezza siate tutti qui, verrà un
ospite speciale a parlarci di una sorpresa, ma non vi anticipiamo
nulla» ci informò Lorenzo.
Conoscevo
le loro sorprese e non riuscii ad aspettarmi niente di buono, come al
solito, nonostante alcuni dei ragazzi parvero entusiasti e
insistettero per cercare di estrapolare delle informazioni in
anteprima.
La
giornata, che già era cominciata male, peggiorò
ulteriormente non appena io, Tamara, Viola e Marco ci ritrovammo ad
aspettare di bere il caffè che avevo da poco preparato.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque: The Nameless ***
ReggaeFamily
Capitolo
cinque: The
Nameless
Ci
trovavamo in camera mia e di Viola, anche Marco e Tamara ci avevano
seguito per prendere il caffè.
«L'unica
che non ne beve sei tu, Vivi» osservò Tamara.
«È
che poi mi agito!» ribatté l'altra.
Io
sbuffai. «Questa caffettiera fa schifo! Ogni volta ci vogliono
secoli prima che... ma siete impazziti?!» sbottai
all'improvviso, facendo sobbalzare i presenti.
«Cosa
stai dicendo?» chiese mia sorella di rimando.
«Chiudete
subito la porta!»
strillai, notando che Marco era seduto proprio in mezzo alla corrente
d'aria che entrava dall'ingresso.
«Ma perché? Non
rompere...» borbottò ancora Tamara.
«Perché
entrano gli insetti, le zanzare...
insomma, volete chiudere o no?!»
«Oh, ma ti calmi?»
mi apostrofò Marco, con la faccia abbandonata sul tavolo.
«E secondo te dobbiamo
morire di caldo perché tu sei fissata con queste cazzate? Non
penso proprio!» mi contraddisse aspramente mia sorella.
«Tanto non ci dormi tu
qui, la fai facile!»
«Ma hai il fornellino,
attaccalo e vedi che non entra nessuna zanzara!» insistette
lei.
«Ho.
Detto. Di. Chiudere. Quella. Cazzo. Di. Porta.» Dopo aver
scandito ogni parola, presa da un eccesso di rabbia, mi precipitai su
Marco e lo sradicai letteralmente dalla sedia, per poi sbattere la
porta. «Ora è chiusa e deve rimanere così.
Chiaro?»
Tutti rimasero per un attimo
in silenzio, poi presero a rivoltarsi contro di me.
«Ma che cazzo di
problemi hai?» strillò mia sorella. «Ma fatti
curare!»
«Cazzo, Lau, ti
calmi?» se ne uscì Marco basito.
«Lalli, si vede che
hai le tue cose eh!» rincarò Viola.
«Ma state zitti! Se
avete molto caldo, basta aprire la finestra della nostra camera, ha
la zanzariera!» puntualizzai, dirigendomi nuovamente a
controllare a che punto fosse il nostro caffè. Ancora
quell'aggeggio non dava segni di vita, così sbuffai e aprì
il rubinetto del lavello, bagnandone la base come faceva sempre
Marta.
Feci attenzione a non
scottarmi nuovamente mentre rimettevo la caffettiera sul fornello, e
rimasi ad aspettare che si decidesse a fare il suo dovere.
«Non possiamo neanche
accendere l'aria condizionata, altrimenti ce la fanno pagare!»
si lamentò Tamara.
«Chi se ne frega...»
borbottai.
«Cazzo, Laura... non
ti sopporto quando fai così!» mi disse in tono
profondamente irritato.
«Non
sono problemi miei. Del resto questa è camera mia, quindi
vedete di adattarvi» abbaiai. «Oh, finalmente questa
cazzo di caffettiera sta funzionando!» esclamai poi, udendo il
tanto agognato gorgoglio del caffè che saliva attraverso il
filtro.
«Ma vaffanculo, ma che
cazzo hai? Sei intrattabile e insopportabile!»
«Lalli, fino a prova
contraria questa è anche camera mia!» intervenne Viola.
Continuando a borbottare tra
me e me, mi adoperai per portare la caffettiera sul tavolo.
«Dai, lo verso io»
si offrì Marco in tono annoiato.
Mi voltai per andare a
prendere lo zucchero e sbattei contro Tamara, che intanto si era
accostata a sua volta al tavolo.
«E spostati!»
sbraitai.
«Laura, hai rotto i
coglioni! Adesso bevo il caffè e me ne vado, non ti reggo più!
Sbattiti la testa al muro se sei molto nervosa, gli altri non
c'entrano niente!» esplose mia sorella infuriata.
«Oh, finalmente te ne
vai allora!» Tornai al tavolo e ci gettai sopra alcune bustine
di zucchero.
Calò il silenzio
mentre ognuno di noi beveva il suo caffè, poi Tamara e Marco
lasciarono la stanza.
Se fossi stata completamente
lucida, mi sarei resa conto di aver esagerato con il mio
comportamento, ma in quell'istante sentivo solo ondate di rabbia
invadermi completamente, senza darmi tregua.
Marta giunse in camera poco
dopo ed esordì: «Mi hanno detto che qui qualcuno è
incazzato».
«Odio quando la gente
si coalizza contro di me solo per farmi girare ciò che non ho»
scattai subito. «Scommetto che te l'ha detto quella stupida di
mia sorella!»
«Ha detto che hai
sradicato Marco dalla sedia e che hai urlato loro contro per tutto il
tempo.»
«Ma chi si coalizza?
Sei visionaria Lalli, lo sai?» interloquì Viola.
«Tu zitta!» la
rimbeccai.
«Ho capito,
arrangiati» concluse lei, per poi spostarsi in camera e
lasciandomi in cucina con Marta.
«Oggi sei
intrattabile, eh?» scherzò lei, per poi salire le scale
in legno che conducevano alla sua stanza.
Sbuffai e riordinai la
cucina, lavai le tazzine e la caffettiera, poi presi il cellulare e
scrissi dei messaggi in cui mi sfogavo per ciò che era
successo, inviandoli poi a Danilo, Beatrice e Anna.
Ero certa che loro sarebbero
stati comprensivi, anche se forse avrei avuto bisogno di una bella
strigliata.
Riuscii a recuperare un po'
di calma solo dopo aver ascoltato The Nameless degli Slipknot
a palla con le cuffie, lasciando che la voce di Corey Taylor mi
graffiasse l'anima e il cervello, mentre il ritmo serrato, avvolgente
e rabbioso mi faceva sentire compresa e faceva da valvola di sfogo
alle mie emozioni.
Pathetic
benign accept it undermine Your opinion my justification Happy
safe servant caged Malice utter weakness No toleration,
invade Committed enraged admit it Don't condescend don't even
disagree Destroy decay disappoint delay You've suffered then
now suffer unto me
Doveva essere colpa del
ciclo, del fatto che mi mancasse Danilo, della mattinata trascorsa
sotto la pioggia, della scottatura che mi ero procurata al dito
mentre armeggiavo con la caffettiera mentre preparavo la colazione,
della troppa vicinanza di Marco dettata dalle attività che gli
istruttori ci imponevano di fare insieme...
Era una giornata
estremamente negativa.
Giunsi al piano inferiore in
ritardo, fregandomene altamente del fatto che la nostra sorpresa
prevedeva che fossimo tutti fuori dalla stanza dei ragazzi alle
quattro e mezza. Mi lasciai cadere su una sedia e sbuffai nell'udire
le voci fastidiose di Gabriella e Nicolò che blateravano.
Sarei rimasta volentieri in camera mia, anche perché il tempo
non era migliorato e c'era piuttosto fresco; non pioveva più
come quella mattina, ma ogni tanto un acquazzone si abbatteva sul
paese. Fortunatamente noi ci trovavamo al coperto, sotto la veranda,
ma ogni tanto una folata di vento portava con sé delle gocce
di pioggia che mi facevano rabbrividire.
La nostra sorpresa si
presentò con il nome di Sara e prese a blaterare su quanto
fosse bello ed emozionante fare una bella passeggiata
in riva al lago, all'imbrunire; in alternativa ci propose di andare a
fare una splendida camminata in mezzo alla macchia
mediterranea.
«Ragazzi, potete
scegliere di fare anche entrambi i percorsi. Cosa ne pensate? Secondo
me per voi potrebbe essere una magnifica esperienza!»
cinguettò infine Sara. Aveva una voce irritante e un modo di
parlare cadenzato e noioso, non la sopportavo, anche perché si
stava rivelando insistente, nonostante educatori e istruttori le
stessero spiegando che probabilmente non avremmo avuto il tempo
materiale per compiere entrambi i percorsi.
«Sembrano interessanti
tutti e due, perché non li facciamo?» se ne uscì
Viola con entusiasmo.
«Tanto non abbiamo
tempo» commentai. «E poi al lago ci sono gli insetti, che
palle! Io non ho voglia di andare lì... sarebbe meglio la
passeggiata nella macchia mediterranea!»
«Oh, ma tu sei un caso
perso, Lau! Chi se ne frega degli insetti? Ti metti lo spray e vedrai
che non ti pungono!» intervenne Tamara.
«Appunto! Dai, Lalli,
che ne pensi? Sarebbe proprio bello!» aggiunse Viola.
«A me non ispira...
proprio per niente, io non lo voglio fare!» ripetei.
«Solo per gli
insetti!» sbottò mia sorella.
«Non solo, è
che non mi piace e basta! Smettila di dire cazzate. Cosa vi cambia se
ne facciamo solo uno? Abbiamo un sacco di altre cose da fare.»
«E a te cosa cambia se
li facciamo tutti e due?»
Sbuffai. «Mi cambia
eccome! Non ho voglia di andare a passeggiare al lago!»
«Tu sei fissata! Se la
maggioranza decide di andarci, mica puoi stare qui da sola» mi
fece notare Viola, mentre ci accorgevamo che tutti parevano
interessati a entrambi i percorsi.
«Chi te lo dice?»
alzai la voce, sentendomi irritata e indisposta dal fatto che quelle
due stessero tornando alla carica insieme; stranamente erano sempre
d'accordo su tutto e facevano passare la sottoscritta per una pazza
lunatica.
«Oh Laura, vedi di non
urlare! Capito?» se ne uscì a sproposito Nicolò,
utilizzando un tono di voce molto stridulo e più elevato del
mio.
«Fatti i cazzi tuoi,
Nicolò!» strillai.
«Lo vedi che è
isterica? Poi non ho ragione...» borbottò Tamara rivolta
a Viola.
«E invece no!»
ribatté Nicolò, alzandosi di scatto dalla sedia.
«Mi state distruggendo
i timpani... smettetela» bofonchiò Marco.
«Ovviamente vi dovete
tutti coalizzare contro di me, vero? Molto divertente! Io me ne vado,
con certi idioti non c'è neanche da perdere tempo»
affermai con stizza, mettendomi in piedi e avviandomi verso le scale
che conducevano alla camera.
Non riuscivo bene a vedere
dove mettevo i piedi, il cielo era plumbeo e pareva di essere quasi
all'imbrunire, nonostante dovessero essere al massimo le sei del
pomeriggio.
Borbottando, mi fiondai
all'interno della stanza e chiusi la porta, sbattendola dietro di me
con forza e senza riguardo.
La prima cosa che feci fu
andare in bagno, il nervosismo mi aveva fatto venire un mal di pancia
terribile. Nel frattempo scrissi alle persone che sapevo mi avrebbero
capito e ascoltato senza giudicarmi.
Cerca
di stare tranquilla dai
Il messaggio di Danilo mi
fece sorridere. Non mi fu materialmente d'aiuto, ma lui era fatto
così, era di poche parole e cercava di fare del suo meglio per
starmi accanto.
Beatrice e Anna, invece, mi
dissero che probabilmente quella era una giornata destinata a
procedere in negativo, e che non riuscivano a capire come potesse
esserci una coalizione contro di me.
Non
è che si tratti proprio di una coalizione... è che
Viola e Tamara si trovano sempre d'accordo, e mi danno contro
insieme... a me dà fastidio anche perché a volte sto
discutendo con una, e l'altra si intromette difendendola, manco
fossero l'unia l'avvocato delle cause perse dell'altra!
Insopportabili... uff... poi quel coglione di Nicolò che si
intromette a sproposito... l'avrei pestato, giuro! Lui non c'entrava
proprio niente in tutta questa storia!
Scrissi e inviai lo stesso
messaggio sia a Beatrice che ad Anna, poi riuscii finalmente a uscire
dal bagno e mi diressi a prendere il computer che avevo riposto
dentro l'armadio. Lo accesi e decisi che avevo proprio bisogno di
scrivere. In momenti come quello, l'unica cosa che poteva distrarmi
era proprio la scrittura.
Non avrei mai immaginato che
al campo avrei trovato il tempo e l'occasione per una simile
attività: i ritmi per noi erano sempre frenetici e serrati, e
alla fine della giornata eravamo tutti stanchi e stravolti, troppo
per poter decidere di compiere qualsiasi azione che richiedesse
concentrazione.
L'unico a soffrire
d'insonnia era Marco, anche se io credevo si trattasse più di
un atteggiamento o di un problema psicosomatico, piuttosto che una
vera e propria mancanza di sonno. Così ne approfittava per
ripassare e fare i test per prepararsi all'esame di ammissione che
avrebbe sostenuto di lì a pochi giorni. Non do come potesse
riuscirci, non di notte e dopo una lunga ed estenuante giornata.
Prima
di aprire il programma di scrittura, afferrai il cellulare e misi su
un po' di musica, riascoltando innanzitutto The Nameless.
Avevo bisogno di carica, di rabbia come la mia, anche se poi
cominciai a scrivere un capitolo veramente triste e malinconico, dove
non c'era stizza né furia, ma solo un'infinita angoscia.
Anyone
no anything yes anyway fall anybody mine Anybody tell me I want
you I need you I'll have you I won't Let anybody have you Obey
me believe me just trust me worship me Live for me Be grateful
now be honest now be precious now Be mine just love me
Più scrivevo, più
sentivo la negatività scemare, ma avevo ancora bisogno di
sentire quella canzone che parlava di odio e di possessione, quella
canzone che non c'entrava niente con la mia situazione, ma che in
qualche modo mi apparteneva e mi capiva, utilizzando solo un ritmo
veloce, un grido continuo, una batteria ossessiva e degli stacchi
melodici colmi di disperazione.
I
never wanted anybody more Than I wanted you (I know) the only
thing I ever really loved Was hate
E mi lasciai guidare dalla
musica e dalle mie dita sulla tastiera, estraniandomi dalla realtà
e smettendo di pensare a tutte le liti e tutti gli eventi negativi
della giornata.
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Capitolo 6 *** Capitolo sei: Fyah ***
ReggaeFamily
Capitolo
sei: Fyah
«Racconta.»
«Praticamente
ieri notte io, Marco, Marta e Giovi eravamo in terrazza, davanti alla
mia camera» spiegò Tamara. «Siamo rimasti a
blaterare per un sacco di tempo, poi Marta e Giovi se ne sono andate
e io sono rimasta sola con Marco. Stavo giocando con i suoi capelli,
sai come l'ultima notte dello scorso campo, no?»
Annuii
mentre cercavo qualcosa da mettermi. «Sì. Ma era tardi,
no? Dopo la giornata terribile di ieri, come hai fatto?»
«Non
chiedermelo, perché non lo so neanche io. Comunque, poi stava
piovendo e noi siamo rimasti a parlare e a guardare i lampi. O
meglio, lui li guardava, io non li vedevo! Nel frattempo lui stava
studiando, cioè faceva quei test per prepararsi all'esame di
ammissione per l'università.»
Viola
intervenne: «Di notte? E come faceva a leggere? Ma è
pazzo?!».
«Certo
che è pazzo» confermai.
«Lui
sostiene che riesce a vedere benissimo, anche se sinceramente non so
come sia possibile. Attacca la faccia al libro e a volte non si
capisce cosa dice» raccontò in tono ironico mia sorella,
per poi sedersi sul mio letto e sospirare.
Io
e Viola ridacchiammo.
«A
un certo punto, così, a caso, gli ho chiesto qual era la sua
più grande paura. Era un momento idilliaco, credetemi!»
esclamò divertita Tamara.
«Sentiamo
le sue massime» borbottai, infilandomi un paio di leggings
neri.
«Ha
detto che il suo più grande terrore è diventare cieco»
ci rivelò mia sorella.
«Ma
che terrore è?» se ne uscì Viola. «Sapete
cosa vi dico? L'epilessia terrorizza, non la cecità.»
Le
parole di Viola mi colpirono, mi fecero riflettere e mi ritrovai a
darle mentalmente ragione. Mentre lei e Tamara continuavano a
parlare, io mi immersi nel ricordo di tutte le crisi di Viola a cui
avevo assistito, comprese quelle avvenute solo due mattine prima, in
spiaggia; mi tornò in mente il suo pianto di due sere prima,
durante il quale si era sfogata e mi aveva confidato di non poterne
più di quelle crisi, di non voler essere un peso o una
preoccupazione per gli altri. Mi aveva descritto ancora una volta
quegli avvenimenti come un elettroshock e io avevo cercato di
consolarla in tutti i modi, ma sapevo che il suo malessere era troppo
profondo per essere curato con le mie stupide parole.
Tuttavia,
sapevo anche che Viola era forte, una delle persone più forti
che avessi mai conosciuto: affrontava ogni cosa con il sorriso,
scherzava sui suoi problemi, non si lasciava abbattere, anche se ogni
tanto sentiva il bisogno di sfogarsi come tutti.
«Insomma,
l'importante è che non si faccia strane idee» concluse
Tamara. «Altrimenti lo spedisco su Marte in un attimo!»
«Attenta,
conoscendolo, potrebbe allungare le mani...» buttai lì,
finendo di prepararmi.
«Oddio,
non dirmelo! Potrei rimettere lo yogurt che ho mangiato a colazione,
più la cena di ieri e...»
«Non
ci interessa!» tuonai, per poi scoppiare a ridere.
Il
nervosismo del giorno prima sembrava svanito nel nulla, grazie anche
al fatto che dopo cena avevo parlato al telefono con Danilo ed ero
riuscita a rilassarmi un sacco.
Mi
mancava terribilmente.
Il
pomeriggio giunse in fretta. Avevamo una visita programmata per le
quattro, avremmo trascorso un po' di tempo all'interno di un museo
tattile e io non vedevo l'ora.
Come
al solito, fummo costretti a spostarci in due gruppi, vista la scarsa
capienza del furgoncino che avevamo a disposizione. Marco e Tamara
partirono insieme al primo gruppo, così quando anche noi
giungemmo a destinazione, notai che mia sorella era un po' sconvolta.
«Cosa
è successo?» le chiesi subito.
«No,
ma secondo me Marco ha problemi seri!» esclamò.
«Quello
l'avevamo capito. Che ha combinato stavolta?»
Tamara
sospirò. «Prima che arrivaste voi, siamo andati in un
bar a comprarci l'acqua perché io stavo morendo di sete. Be',
lui si è preso un Montenegro e poi aveva sete e voleva bere
dalla mia bottiglietta!»
«Un
Montenegro alle quattro del pomeriggio?»
Lei
annuì. «Ha detto che aveva bisogno di qualcosa per
digerire.»
Scoppiai
a ridere. «Che schifo, ma è un caso perso!»
«No,
è alcolizzato! Comunque non gli ho fatto toccare la mia acqua,
che se la compri anziché bere altre cazzate!» concluse
mia sorella con decisione.
«Fatto
bene!»
Nel
frattempo avevamo preso a camminare nel centro storico della città,
calpestando un lastricato punteggiato di pietre e trovandoci a
sfilare attraverso stradine molto strette e chiuse al traffico. Ci
fermammo poco dopo di fronte a un enorme portone ad arco e
apprendemmo che saremmo presto entrati nel museo.
Ci
ritrovammo in un atrio buio e poco spazioso. Fummo accolti da una
donna che ci spiegò subito che la nostra guida sarebbe stata
una persona non vedente. Dopo aver atteso per qualche minuto, fummo
introdotti in una sala più grande e luminosa, al centro della
quale faceva bella mostra un enorme espositore che si estendeva in
lunghezza. Sulla parte piana era ricoperto di oggetti, mentre in
verticale era composto di pannelli tattili con scrittura braille e in
nero a carattere ingrandito, sui quali erano puntati dei faretti.
Trascorsero
soltanto cinque minuti prima che cominciassi a stancarmi. La nostra
guida, un certo Maurizio, era flemmatica e noiosa, così io e
Tamara ci aggirammo per conto nostro lungo l'espositore, che poi
scoprimmo essere attrezzato su due lati. In quella stanza faceva
caldo, non c'era poi tanta luce e io trascorsi il tempo a scattare
delle foto a tutti gli oggetti presenti, ma poi fui raggiunta dal
solito mal di schiena che mi fece desiderare una sedia comoda su cui
poggiarmi.
«Oddio,
non ne posso più...» bisbigliai a Tamara dopo circa un
quarto d'ora.
La
visita sarebbe stata molto interessante se solo Maurizio si fosse
soffermato meno su ogni singolo oggetto, anziché elencare
vita, morte e miracoli sui popoli che lo avevano utilizzato in
passato.
A
un certo punto anche Marco ci raggiunse e io faticavo ormai a stare
in piedi senza avvertire un dolore lancinante.
«Dicono
che dobbiamo andare ad accompagnare quella tizia alla stazione»
bofonchiò.
«Quale
tizia?» chiese Tamara confusa.
«Gloria.
Oh, finalmente se ne va! Non la sopportavo più. Sapete che è
un essere talmente amorfo che non ha fatto altro che stare in bagno
da quando è approdata nella nostra stanza?» raccontai a
bassa voce.
«Oddio»
disse Tamara. «In bagno?»
«Sì.
Deve aver confuso la nostra stanza per la sua lettiera personale. E
non vi dico che puzza c'è là dentro ogni volta che
esce...»
«Cazzo,
che schifo!» sbottò Marco.
«State
parlando male della nostra ospite?» ci raggiunse Marta,
parlando in tono ironico.
«Deve
soffrire di diarrea cronica» le feci notare con un sorrisetto
ironico.
«Ma
che ruolo ricopre? Io non l'ho ancora capito» osservò
mia sorella perplessa.
«Nemmeno
io. Qui sanno tutto gli istruttori, io e Giovi non ne abbiamo idea»
spiegò con fare allusivo l'educatrice.
«E
quindi dovremmo andare ad accompagnarla alla stazione? No, che palle!
Io voglio andare da BOD!» mi
lamentai.
BOD
era l'acronimo di Black Or Die,
un famoso negozio presente nella città in cui ci trovavamo,
nel quale era presente un vasto assortimento di dischi, abbigliamento
e accessori in stile rigorosamente rock e metal. Io volevo andarci
assolutamente, non bazzicavo spesso da quelle parti e adoravo quel
posto. Non volevo perdere l'occasione di passarci per colpa di una
cretina insignificante che aveva bisogno della scorta per prendere
uno stupido treno.
«Ora
vediamo» fu tutto ciò che Marta poté rispondermi.
«Io
quella non so neanche chi sia, cosa me ne frega di andare ad
accompagnarla alla stazione?» concordò Marco. «Anche
io voglio andare da BOD!»
«Pure
io! Non ci entro da una vita» si intromise Tamara.
«Adesso
ne parlo con gli altri. State tranquilli. Lau, cos'hai?» mi
domandò Marta, notando che probabilmente non facevo che
spostare il peso del corpo da un piede all'altro e ogni tanto mi
esprimevo in qualche smorfia di dolore, portandomi una mano sul
fianco sinistro.
«Mal
di schiena. Non c'è una sedia in questo posto?»
«Sì,
laggiù» replicò Marta indicando un punto a me
invisibile. «Marco, l'accompagni tu per favore?» Detto
questo, l'educatrice si unì nuovamente al resto del gruppo,
che intanto stava facendo un baccano assurdo, cullato sempre dalla
voce monotona della guida.
Marco
disse: «Andiamo». Io lo afferrai per il braccio,
trascinando con me anche mia sorella. Si avviò con passo
spedito verso il punto in cui avrebbero dovuto esserci delle sedie,
ma all'improvviso si bloccò. «Ma che cazzo...»
imprecò.
Allungai
una mano e mi ritrovai a toccare qualcosa di simile a una credenza,
un mobile, forse una cassettiera. Tutto, fuorché una sedia.
«Ehm...
Marco, come facciamo a sederci qui?» gli feci notare,
trattenendo a stento le risate.
Lui
ci lasciò lì e andò a cercare Marta.
«Tami?»
«Lau?»
«Ma
che problemi cognitivi ha questo?»
«Sta
perdendo la vista, te lo dico io» osservò mia sorella.
«E
non lo vuole ammettere.»
«Esatto.»
Sospirai.
«Che essere problematico» conclusi, mentre Marco tornava
da noi in compagnia di Marta, continuando a ripetere che forse lei
aveva sbagliato a indicargli la giusta direzione da seguire.
Era
irrecuperabile, mi faceva davvero pena.
Black
Or Die consisteva in una stanza
quadrata piena zeppa di CD, vinili, accessori chiusi in delle
vertinette, poster giganti, magliette e felpe con i loghi di un sacco
di band rock e metal...
Era
un paradiso musicale, questo era l'unico modo che trovai per
descriverlo. Non era la prima volta che entravo in quel negozio, ma
l'effetto era sempre lo stesso.
Dopo
l'estenuante visita al museo, io e Marco eravamo riusciti a
convincere Samuele ad accompagnarci da BOD; neanche a dirlo, mia
sorella mi era arrabbiata un sacco perché non l'avevamo
portata con noi, ma avevamo fatto tutto di fretta, temendo che il
negozio chiudesse.
Fortunatamente
non avevamo dovuto accompagnare quella piattola di Gloria alla
stazione, l'avevamo a malapena salutata quando ancora eravamo seduti
dentro il museo, e io ero molto contenta di essermene liberata. Non
sopportavo più quella presenza quasi spettrale in camera mia.
Quando
uscii da BOD, stringevo tra le mani un sacchetto con due CD: si
trattava dell'omonimo album dei Rage Against The Machine e poi di un
quasi introvabile disco di Babaman, ovvero Dinamite.
Anche quella volta Black Or Die
era riuscito a sorprendermi, regalandomi un acquisto inaspettato.
Quando
tornammo dal resto dagli altri, che intanto stazionavano da almeno
un'ora in un bar del centro che riusciva a contenerli a malapena, mia
sorella si rivoltò contro di me.
«Sapevi
benissimo che volevo venire anche io da BOD! Sei una stronza!»
sbottò non appena mi vide, senza neanche salutarmi.
«Scusa,
ma era già tardi e avevamo paura che chiudesse! Che palle,
adesso non cominciare...»
«E
ma cazzo, lo sapevi che volevo venire!» ripeté.
«Ormai
è andata così! Se non la smetti non ti dico cosa ho
comprato» la minacciai scherzosamente, cercando di stemperare
l'atmosfera.
Continuammo
a battibeccare per un po', mentre tutti insieme ci spostavamo in un
locale per la cena. Questa trascorse tranquillamente, anche se Simona
volle che il menu le venisse letto tre volte prima di optare per la
sua solita pizza con le melanzane.
Tutto
sommato quella giornata era andata bene, mi ritrovai felice dei miei
acquisti e mi divertii anche una volta al residence, poiché
Tamara rimase con me e Viola fino all'una e un quarto di notte e
insieme ridemmo un sacco di Marco e del suo sbaglio all'interno del
museo.
«Anche
secondo me è peggiorato e non vuole ammetterlo» concordò
Viola. «Ma che senso ha?»
«Non
lo so proprio» le disse Tamara.
Continuammo
a ridere e parlare finché non fummo troppo stanche, così
mia sorella andò via e io mi ritrovai a letto soddisfatta.
L'ultima
cosa a cui pensai prima di dormire, fu che avrei voluto tanto portare
Danilo con me al museo tattile, un giorno. Era come se sentissi già
vibrare le sue emozioni, quelle emozioni che si provavano quando si
entrava a contatto e ci si immergeva in un mondo diverso da quello a
cui si era abituati.
Sì,
gliel'avrei proposto.
Cari
lettori, torno a farvi un salutino :)
Come
vi sembra questa storia? È degna delle due precedenti? Spero
di sì, vi dico solo che devono succedere ancora un sacco di
cose! :D
Sono
qui principalmente per darvi un'informazione di servizio (?): il
negozio Black Or Die
non è una novità per la sottoscritta; infatti, appare –
anzi, viene nominato – nella mia vecchia long Rapture.
Siccome lì non mi era stato di nessuna utilità, dato
che tutto girava attorno a un certo Metalland,
ho deciso di riproporlo nelle avventure della nostra Laura! Che ne
pensate?
Inoltre
sono veramente felice di poter usare una canzone come Fyah
di Babaman per questo capitolo: è uno dei primi pezzi che
conobbi di tale artista, uno di quelli a cui sono più legata
per via dei ricordi a cui rimanda (vero, Soul? XD) e uno dei più
belli e rappresentativi di Dinamite,
almeno secondo me ^^
Inoltre,
chi segue la mia long sui System Of A Down, si sarà
sicuramente accorto che questo titolo è identico a uno degli
ultimi capitoli che ho pubblicato in quella storia! Eh sì, nel
reggae la parola fyah
è molto usata e significativa, quindi è quasi
inevitabile che tanti brani abbiano lo stesso titolo, o che una
determinata scena rimandi all'utilizzo di tale parola per essere
descritta :D
Bene,
vi ringrazio per essere arrivati fin qui e per il continuo sostegno
che mi date!
Alla
prossima ♥
|
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Capitolo 7 *** Capitolo sette: Sono solo canzonette ***
ReggaeFamily
Capitolo
sette: Sono
solo canzonette
Mi
ricordo che anni fa
di sfuggita dentro un bar
ho sentito un juke-box
che suonava
e nei sogni di bambino
la chitarra era una spada
e chi non ci credeva era
un pirata!
[...]
E così e se vi
pare
ma lasciatemi sfogare
non mettetemi alle
strette
e con quanto fiato ho in
gola
vi urlerò: non c'è
paura!
ma che politica, che
cultura,
sono solo canzonette!
non mettetemi alle
strette
sono
sono
sono solo canzonette!
Mentre tutti eravamo a bordo
di un pullman che ci stava trasportando verso il maneggio in cui
avremmo trascorso la mattinata, Gabriella non faceva che ascoltare e
“cantare” Sono solo canzonette di Edoardo Bennato.
Non ne potevo più di sentirla, specialmente perché la
ragazza non faceva che rovinare la canzone con il suo modo di
interpretarla noioso e monotono.
Inoltre, erano giorni che
non faceva che alternarla ossessivamente con #fuoriceilsole e
Roma-Bangkok.
«Oddio, se la sento
un'altra volta, giuro che vomito» brontolò Tamara.
Io, lei, Viola e Marco ci
eravamo accaparrati gli ultimi quattro posti sul pullman e stavamo
cercando di non ascoltare i deliri di Gabriella, la quale veniva
incoraggiata da un divertito Nicolò e dal povero Giorgio:
entrambi erano in fissa con le stesse canzoni e le chiedevano di
ascoltarle a ripetizione.
Diedi di gomito a mia
sorella. «Porto fuori le cuffie e ascoltiamo qualcos'altro?»
«Sarebbe bello,
altrimenti porto fuori le mie. Non la sopporto più!»
«Dai, Gabriella, la
rimetti Roma-Bangkok? È troppo bella!» strillò
Nicolò in preda a chissà quale entusiasmo immotivato.
«Aspetta, prima voglio
riascoltare Bennato!» Detto questo, gridò rivolta al suo
cellulare: «Riproduci brano Sono solo canzonette».
Per l'ennesima volta le note
di quella canzone si diffusero nel pullman e io alzai gli occhi al
cielo.
«Giuro che mi piace
questa canzone, ma lei me la sta facendo odiare» dissi.
«Che palle... io
ascolto i Death adesso, devo anestetizzarmi» bofonchiò
Marco, facendo partire una canzone metal a tutto volume, senza
infilarsi le cuffie.
Viola subito si rivoltò:
«Oddio, no, togli questa cosa! È terribile! Ma sta
vomitando?».
«Vivi, sei assurda!
Dai Marco, ma non puoi metterti gli auricolari?» lo rimbeccò
Tamara.
Fortunatamente il viaggio
non fu molto lungo; infatti, dopo aver condiviso per qualche canzone
le cuffie con mia sorella, fummo costretti a scendere dal nostro
mezzo e ci ritrovammo in un piccolo angolo di paradiso.
Eravamo quasi completamente
immersi nella natura, circondati dalla macchia mediterranea, mentre
in lontananza si potevano scorgere delle strutture non meglio
identificate.
«Qui c'è un
maneggio, ma anche un albergo» ci spiegò Marta, mentre
si avvicinava a noi con Simona e Giorgio appesi alle braccia.
«Cioè? Un
albergo a fianco a un maneggio? Che puzza» osservai mentre
venivo già raggiunta da un sacco di mosche che si aggiravano
intorno a noi. «No, io odio gli insetti! Mi sono già
rotta!» aggiunsi, scacciando uno di quei maledetti animaletti.
«Andiamo ragazzi,
avviciniamoci al punto d'incontro» ci incitò Giovanna,
così tutti procedemmo al suo seguito.
Camminammo attraverso alcuni
stretti sentieri e raggiungemmo in breve tempo uno spiazzo in cemento
coperto da una tettoia. Dovemmo attendere alcuni minuti prima che
qualcuno ci raggiungesse e ci spiegasse cosa avremmo fatto.
«Adesso andremo al
coperto, nel capannone, dove vi insegneremo a strigliare e pulire i
cavalli, poi ci potrete anche salire sopra per un breve giro al
coperto. Dopodiché ci sarà la passeggiata verso la
spiaggia, durante la quale ognuno di voi avrà un
accompagnatore che camminerà accanto a lui e controllerà
il cavallo. Quindi non preoccupatevi, andrà tutto bene e vi
piacerà. Inoltre, i nostri cavalli sono addestrati e abituati
a stare a contatto con un sacco di gente» spiegò con
entusiasmo un uomo sulla quarantina.
«I ragazzi giovani
come voi piacciono tanto ai nostri tesori» aggiunse una donna
dalla voce dolce e rassicurante.
Venimmo condotti all'interno
di un enorme capannone dal pavimento ricoperto di sabbia. Alcuni
cavalli erano già pronti e ci aspettavano accanto a una parete
su cui erano appesi, come apprendemmo poco dopo, vari strumenti che
sarebbero serviti per pulirli e sistemarli.
«Oddio, che emozione,
i cavalli mi piacciono un sacco» disse Viola. «Non vedo
l'ora di salirci!»
Stranamente, anche io ero
molto impaziente di vivere quell'esperienza, perché i cavalli
non mi spaventavano come la maggior parte degli animali. Mi era
capitato già in passato di salire su un cavallo e la cosa era
stata di mio gradimento, perciò mi trovai in perfetto accordo
con la mia amica.
«I cavalli a nostra
disposizione sono solo due, quindi farete i turni. Avvicinatevi in
coppia, prego» ci disse ancora l'uomo che ci aveva accolto;
nonostante avesse detto il suo nome, io non riuscivo a ricordarlo.
Fu un'esperienza bellissima
utilizzare le spazzole e sentire quei meravigliosi animali reagire
positivamente, evidentemente contenti che qualcuno si prendesse cura
di loro in quel modo.
«Devi compiere dei
movimenti semicircolari con la spazzola, sì, brava, così!
Ricordami il tuo nome» mi istruì pazientemente uno dei
tanti aiutanti che si stavano occupando di noi.
«Laura.»
«Ecco, Laura. Sei mai
andata a cavallo?» volle sapere.
«Sì, due o tre
volte. Mi è piaciuto molto.»
Una volta ultimata
l'operazione che stavamo compiendo, a qualcuno toccò l'arduo
compito di pulire gli zoccoli ai nostri simpatici nuovi amici.
Fu divertente notare che
Marco imprecava perché non riusciva a far sollevare la zampa
al cavallo, mentre Giorgio si rivelò molto affine all'animale
che gli era stato affidato e si divertì un sacco.
Dopodiché salimmo,
sempre facendo i turni, in groppa; mi resi conto che montare a
cavallo era molto più difficile di quanto ricordassi, forse
perché quegli animali erano veramente alti e maestosi.
«Forse non sono mai
salita su un cavallo così alto» bofonchiai, quando
riuscii maldestramente ad ancorarmi alla sella.
«C'è sempre una
prima volta, visto?» scherzò uno degli aiutanti.
Mi accompagnò per un
paio di giri all'interno del capannone e, nonostante la cosa mi
piacesse, sentivo anche delle proteste provenire dalla mia povera
schiena. Tuttavia, cercai di ignorarle e pensai solo a divertirmi,
riscoprendo la stupenda sensazione di essere trasportata da un essere
vivente che si muoveva sotto di me e reagiva a ogni mio movimento.
Riuscii a adattarmi a lui e lui in qualche modo si adattò a
me, finché entrambi non ci rilassammo e la passeggiata
proseguì tranquillamente.
Lo stesso accadde quando
uscimmo all'aperto e ci recammo presso la stalla per raccattare degli
altri cavalli. Prima che potessimo montare in groppa, ci furono
consegnati dei caschetti da indossare per questioni di sicurezza.
Faceva un caldo pazzesco, le
mosche ci aggredivano impietose e il sole era sempre più alto
nel cielo.
«Questi così
fanno sudare un sacco» mi lamentai, una volta che il mio casco
fu allacciato a dovere.
«Cerca di resistere,
dai» mi disse Giovanna, aiutando Gabriella a sistemarsi sul suo
cavallo.
Per me fu più facile
raggiungere la sella rispetto a quanto accaduto in precedenza. Una
volta pronta, però, qualcosa andò storto.
«Oddio...»
mormorai, sentendo la mia cavalla muoversi. In un attimo mi accorsi
che stava avanzando a piccoli passi, dal momento che la mia aiutante
si era allontanata un attimo per aiutare Simona.
«Qualcuno mi aiuti,
sta camminando!» mi agitai in preda al panico, non sapendo
minimamente come fermerlo. Improvvisamente avevo dimenticato come
fare, sentivo solo l'ansia invadermi e avevo una fottuta paura di
venir trascinata chissà dove.
«Lau! Come mai il tuo
cavallo si è spostato? Devi avergli dato sbadatamente il
comando per...» commentò Giovanna, in piedi accanto a
Nicolò, già in sella da tempo.
«Non lo so, ma...
aiutatemi!»
«Laura, tira le
redini! Tutte e due insieme!» mi suggerì la mia
aiutante, tornando con calma verso di me. Evidentemente sapeva che
non c'era di che preoccuparsi, perciò mi tranquillizzai a mia
volta e feci ciò che mi diceva, ma il cavallo non si fermò.
«Più forte,
dai! Non gli farà male, la aiuterà a capire che deve
fermarsi. Coraggio!»
Riprovai con più
forza e stavolta l'animale su cui ero appollaiata si immobilizzò.
Tirai un sospiro di sollievo
e mi rilassai completamente, rendendomi conto che avevo cominciato a
sudare freddo. «Mio dio» mormorai.
Da quel momento la mia
accompagnatrice non mi lasciò un attimo da sola, rimase
accanto a me durante tutta la passeggiata verso la spiaggia e durante
il tragitto di ritorno, così come fecero tutti gli altri
aiutanti con i miei compagni d'avventura.
Fu molto bello stare a
cavallo in mezzo alla natura, sfilare in mezzo agli alberi di pino,
ritrovarsi a inciampare leggermente su qualche sasso disseminato qua
e là e sentire il cavallo perdere per un attimo l'equilibrio,
rendersi conto di essere sulla sabbia e notare alla propria destra il
mare con le sue onde che si infrangevano sulla riva, guardare tutto
dall'alto e sorridere perché era come essere liberi.
Educatori e istruttori
scattarono un sacco di foto, tra cui una panoramica in cui ripresero
tutti noi ragazzi uno accanto all'altro sui nostri cavalli, mentre
alle nostre spalle si estendeva la spaiggia e più in fondo la
distesa salmastra che portava con sé una brezza umida e
invitante.
Tornammo nella zona delle
stalle completamente sfiniti ma contenti, perché per tutti noi
era stata una bellissima esperienza che avremmo ripetuto anche
subito.
Eravamo tutti seduti attorno
a due tavoli quadrati che avevamo accostato per poter stare più
comodi. Avevamo raggiunto il bar presente nella piscina dell'albergo
per il pranzo, dopo esserci congedati dai nostri aiutanti e dai
meravigliosi animali che ci avevano allietato la mattinata.
Avevo un terribile mal di
schiena e trovavo la sedia su cui mi ero accomodata tremendamente
dura, ma cercai di non farci troppo caso e mi concentrai sulle
conversazioni con i miei compagni.
Poco prima di lasciare il
maneggio, avevo sentito Danilo al telefono e gli avevo raccontato ciò
che mi era successo, quanto tutto questo mi fosse piaciuto e non
avevo tuttavia omesso i dolori che avevo provato nel corso della
mattinata.
Lui mi aveva consigliato di
riposarmi una volta rientrata al residence, ma se non avevo capito
male saremmo andati al mare nel pomeriggio.
Fui contenta di notare che
il cielo si era oscurato e che delle nuvole grige non promettevano
niente di buono, così educatori e istruttori furono costretti
ad ammettere che non era il caso di andare al mare.
Mentre ripensavo a Danilo e
al fatto che ancora non era riuscito a venire a trovarmi, una
sensazione spiacevole si impossessò di me: davvero stava
risultando così difficile per lui raggiungermi? In treno ci
avrebbe impiegato al massimo quaranta minuti.
Fui distratta da mia sorella
che imprecava: «No cazzo, è pieno di api!».
Mi allarmai subito e mi
immobilizzai sulla sedia, guardandomi attorno in cerca di una qualche
via di fuga; ci trovavamo su una sorta di veranda rialzata rispetto
alla piscina, infatti eravamo saliti per una piccola gradinata prima
di poter raggiungere il bar.
A quel punto si scatenò
un po' il panico generale, ma Lorenzo e Samuele riuscirono a trovare
un metodo per attirare le api in un unico punto lontano da noi. Non
seppi come ci riuscirono, ma gliene fui estremamente grata,
altrimenti non sarei stata in grado di mangiare il mio panino.
Avevamo da poco finito di
mangiare, quando accadde qualcosa che non mi sarei mai aspettata.
Giovanna e Lucrezia
arrivarono da noi in compagnia di un uomo a me sconosciuto, il quale
indossava abiti semplici, non era tanto alto e doveva aver superato
la cinquantina. Io comunque non ero brava a definire l'età
delle persone, specialmente quando non potevo scorgerne bene i
lineamenti, proprio come in quel caso.
«Ciao ragazzi»
esordì lui in tono gentile.
«Indovinate chi è?»
se ne uscì Lucrezia tutta contenta.
«Non saprei...»
disse Gabriella.
Io ero perplessa. Chi poteva
mai essere?
«Dai, lo conoscete
bene, provate a indovinare!» rincarò Giovanna.
L'uomo sorrise appena e
riprese a parlare: «Come state? Vi state divertendo in
vacanza?».
«Dai, non riconoscete
la sua voce? Non ci credo!» esclamò Marta.
Noi rimanemmo in silenzio.
Io non avevo minimamente idea di chi potesse essere, la sua voce a
primo impatto non mi sembrava familiare.
«Ditecelo, tanto non
ci arriviamo!» tagliai corto.
«Dai... inizia con la
b» ci suggerì Lorenzo.
«Con la b?»
rifletté Nicolò confuso.
«Non lo so! Ce lo
dite?» si stancò Gabriella.
«Va bene! Ragazzi, vi
presento Edoardo Bennato!» annunciò infine Giovanna.
Calò il silenzio,
durante il quale io cominciai a sentire una sensazione indescrivibile
si impossessava di me; ero incredula, scioccata, basita, emozionata,
imbarazzata... tutto insieme.
Non lo avevo riconosciuto,
ma c'era da dire che non possedeva la stessa voce di quando lo si
ascoltava cantare.
Gabriella diede subito voce
a quel mio ultimo pensiero: «Hai la voce diversa!». Poi
parve accorgersi di chi si trovava al nostro tavolo e cominciò
a ridacchiare, imbarazzata, non riuscendo più a controllarsi.
A quel punto realizzai anche
io cosa stava succedendo e mi premetti le mani sul viso. «Non è
possibile! Non ci credo! Oddio!» continuava a ripetere.
Mi resi conto troppo tardi
che probabilmente le nostre reazioni avevano messo in imbarazzo
l'artista che si era gentilmente avvicinato a noi per un saluto e
qualche foto.
Ci mettemmo più volte
in posa e a un certo punto Gabriella e Nicolò presero a
intonare:
Mi
ricordo che anni fa
di sfuggita dentro un bar
ho sentito un juke-box
che suonava
e nei sogni di bambino
la chitarra era una spada
e chi non ci credeva era
un pirata!
Bennato canticchiò
qualcosa con loro e io mi sentii imbarazzatissima per qualla scena
piuttosto raccapricciante.
Poco dopo lui ci salutò
e ci augurò buon proseguimento con la nostra vacanza, poi andò
via.
«Oddio, ma davvero lo
abbiamo conosciuto?» chiesi a mia sorella.
«Sì...
credo...»
«La nostra infanzia,
Tami!»
«Oddio...»
Dopodiché afferrai il
cellulare e cominciai a inviare un sacco di messaggi ad amici e
parenti, raccontando quanto mi era appena successo.
Ero seriamente senza parole.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto: Prison Song ***
ReggaeFamily
Capitolo
otto: Prison
Song
Ciao
Lau, allora stasera veniamo a trovarti, va bene?
Ehii
Cri, ma certo! A che ora arriverete? :)
Adesso
ne parlo con Lucia e Michele e ti faccio sapere :-)
Perfetto,
allora attendo vostre notizie ;)
Eravamo da poco tornati al
residence e io stavo scambiando dei messaggi con Cristina, una mia
amica. Lei, sua sorella Lucia e il suo ragazzo Michele si stavano
organizzando per venire a trovarmi, dal momento che quel giorno c'era
la festa paesana nel luogo in cui stavamo svolgendo il campo. Essendo
domenica, ci sarebbe stata anche la tradizionale processione, la
stessa a cui avevamo assistito durante il campo precedente.
Mi alzai dal letto su cui mi
ero stesa dopo aver fatto la doccia e avvertii ancora una volta una
fitta atroce alla schiena. Avrei avuto bisogno di molto riposo dopo
l'esperienza a cavallo, ma ovviamente non avremmo avuto il tempo per
farlo, perché alle sette meno venti dovevamo essere pronti per
uscire.
Raggiunsi la cucina e mi
affacciai alla scala in legno che portava al piano superiore, ovvero
alla camera di Marta.
«Ci sei?»
domandai all'educatrice.
«Sì! Dai,
sali!» mi invitò lei in tono allegro.
Riuscii ad arrampicarmi per
quei gradini, reggendomi alla parete con le mani, finché non
emersi in un ambiente che aveva l'aspetto di una mansarda, era tutto
ricoperto di legno e dava l'impressione di essere una serra, visto
l'afoso caldo che lo permeava.
Marta aveva spalancato la
finestra, ma il fatto che il cielo fosse coperto di nubi basse e
immobili impediva a qualsiasi brezza di materializzarsi e stemperare
un po' la stanza.
«Ti piace la mia
camera?»
«Fa un caldo
terribile!» borbottai.
«Lo so, a chi lo
dici!»
Sorrisi. «Marta, i
miei amici hanno detto che vengono a trovarmi. Possono, vero?»
mi sentii in dovere di chiedere, anche se per me era scontato che
loro potessero raggiungermi.
«Non lo so, devo
chiedere agli istruttori. Mando ora un messaggio nel gruppo WhatsApp
e...»
«Chiedere? Ma chiedere
il permesso?» Ero stranita, non riuscivo a spiegarmi le sue
parole.
«Lo sai che qui non
decido io» tagliò corto in tono leggermente amaro e
ironico.
«Ma che decisione
bisogna prendere? Mi sembra di essere in prigione!» sbottai
contrariata.
«Dicono che non può
entrare chiunque qui al residence, ci vogliono delle autorizzazioni
e...»
La interruppi: «Stiamo
fuori dal cancello, se è questo il problema!».
«Ma penso che dovrete
fare qualche attività tra poco, non ci sarebbe il tempo. Non
so cosa dirti, sono ordini dall'alto» concluse lei
dispiaciuta, pettinandosi frettolosamente i capelli.
Basita, ridiscesi le scale e
rientrai impettita in camera; recuperai il cellulare e scrissi un
altro messaggio a Cristina.
A
quanto pare non potete entrare in struttura... senti, ci vediamo
direttamente nella piazza in cui si ferma la processione? Se non ho
capito male, vogliono portarci lì...
Mmh
ok, va bene :-) arriviamo verso le 7 cmq
Scusate
davvero, purtroppo qui io non decido un cazzo... sapessi quanto sono
incazzata Cri...
Dai
tranquilla Lau non ci puoi fare nulla ;-)
Sorrisi appena per il fatto
che Cristina mi mandasse sempre le faccine con il naso, era qualcosa
che la caratterizzava. Io non le sopportavo, però vederle
apparire sul mio cellulare scatenava sempre la mia ilarità.
Nel frattempo raccontai
l'accaduto via SMS anche ad Anna, Beatrice e Danilo, i quali furono
estremamente dalla mia parte e si mostrarono comprensivi.
Intanto Viola uscì
finalmente dal bagno e quasi contemporaneamente Tamara ci raggiunse.
Annunciò: «Oddio,
ragazze, che schifo! Gabriella non vuole fare la doccia!».
«Cosa?!»
sbottammo all'unisono io e Viola.
Marta, dalla sua stanza,
prese a ridere e gridò: «Non dire cazzate!».
«Lo giuro! Ha detto
che tanto non si è sporcata. Io sono sconvolta! Sono
scappata perché in camera nostra c'era un odore di maneggio
allucinante! Ha anche detto che si lava a pezzi, così, una
cosa veloce...»
Mi portai una mano sulla
fronte e sospirai. «Oddio che schifo, non farmi vomitare!»
«Tami, stai
scherzando, vero?» disse Viola sconvolta. Anche se non riuscivo
a vederla, avrei scommesso che sul suo viso fosse dipinta una smorfia
schifata e incredibilmente buffa.
«No, non scherzo.
Stavo per vomitarle addosso, pensate che non voleva neanche cambiarsi
i vestiti!» raccontò ancora mia sorella.
Io ero veramente senza
parole, perciò cominciai a ridere e presto contagiai anche le
altre, scaricando un po' quel senso di tensione che mi si era
aggrappato addosso dopo aver appreso che sarebbe stato un problema
vedere i miei amici.
In seguito raccontai
l'accaduto anche a Tamara e Viola e loro rimasero sorprese quanto me,
domandandosi quale fosse la difficoltà tanto declamata dagli
istruttori.
«Mi sembra di stare in
carcere! E questo dovrebbe essere un campo mirato a
responsabilizzarci? Ho ventitré anni e devo chiedere il
permesso a questi qui per vedere i miei amici?»
«Appunto! Sono
ridicoli quando fanno queste cose» commentò mia sorella.
«Ah, oddio, devo raccontarvi di Marco!» esclamò
poi all'improvviso.
Aggrottai le sopracciglia.
«Di Marco?»
«Sì! Sai che
ieri notte...»
Un grido proveniente dal
piano di sotto ci interruppe: «Ragazze, scendete! Siamo tutti
qui che vi aspettiamo!». Era stato Nicolò a urlare come
un pazzo.
Mi accostai alla finestra e
risposi irritata: «Calmati, Nicolò, fatti gli affari
tuoi».
Lui mi ignorò
deliberatamente e nel giro di un minuto piombò a sproposito in
camera nostra, cominciando a sbraitare cose che solo lui capiva.
Infine fummo costrette a
raggiungere il resto del gruppo di fronte al cancello del residence,
dal momento che comunque non saremmo riuscite a parlare con lui tra i
piedi.
Quando tutti fummo riuniti
accanto all'uscita, Lorenzo annunciò: «Vi dividerete in
coppie e raggiungerete la piazza in cui si ferma la processione.
Ricordatevi che dovete stare uniti, perché anche se
procederete a due a due, questa è un'attività di
gruppo».
«Ma sul serio? Io ho
mal di schiena, come faccio? Usare il bastone mi rallenta e...»
«Fai uno sforzo, dai»
tagliò corto Lucrezia.
In quel momento capii che
non sarei riuscita a mantenere la calma molto a lungo. Sentivo
montare dentro una rabbia incredibile, che poi riconobbi come una
sensazione di frustrazione e impotenza; se c'era una cosa che
detestavo, era sentirmi dire ciò che dovevo o non dovevo fare,
specialmente quando non mi andava o non ero nelle condizioni fisiche
e mentali di fare ciò che mi veniva richiesto. Da quando era
cominciato quel campo, non avevo fatto che ricevere ed eseguire
ordini impartiti da degli istruttori megalomani e poco attenti alle
necessità e ai problemi di noi ragazzi. Le esperienze come
quella dovevano servire per insegnarci a vivere la quotidianità
nel modo più normale possibile, riuscendo a fare tutto ciò
che i normodotati potevano fare. Ma ovviamente era tutta
un'illusione, non era sempre così che andavano le cose. Forse
alcuni dei miei compagni d'avventura potevano non rendersi conto di
essere dei burattini alla mercé di adulti che volevano
organizzare le attività in base ai loro comodi, ma io non ero
deficiente e neanche stupida, capivo benissimo cosa avevano combinato
anche quel giorno, il che mi faceva andare in bestia.
Mi ritrovai in coppia con
Giorgio e non feci che pochi passi prima di sentire il mal di schiena
aumentare. Stavamo camminando troppo lentamente per la mia povera
colonna vertebrale, e gli istruttori non facevano che ripeterci che
dovevamo stare uniti.
A un certo punto non ne
potei davvero più, mi sentivo invadere dal dolore, ero seccata
e nervosa sia per il fatto di non poter incontrare liberamente i miei
amici, sia perché nessuno di quegli istruttori si era
minimamente curato di chiederci se fossimo d'accordo nel fare
quell'attività, dopo la mattinata estenuante trascorsa al
maneggio.
«Che palle, mi fa
malissimo la schiena! Scusa, Tami, puoi andare un po' più in
fretta? Non ne posso più...» mi lamentai con mia
sorella, la quale camminava di fronte a me in coppia con Viola.
«Non posso mica
correre, c'è gente di fronte a me!» sbottò lei,
nervosa a sua volta per quella situazione. Sicuramente era in
pensiero per me, ma si sentiva impotente proprio come la
sottoscritta.
«Sì, ho capito,
ma io sto morendo...»
«Sì, ma non è
colpa mia! Calmati, cosa posso farci?»
«Guarda, lasciamo
perdere...» Feci una pausa, ma ormai non poteva più
fermarmi nessuno, ormai stavo veramente scoppiando e le parole
uscirono da sole dalla mia bocca. «Perché in questo
cazzo di campo sembra di essere in un carcere di massima sicurezza,
noi siamo dei burattini e qui decidono tutto loro! Non ci chiedono
cosa vogliamo fare, come stiamo, su cosa siamo d'accordo e su cosa
no! Ma dimmi te se devo stare male per colpa di questa gente
insensibile...»
«Lau, lo so, ma cerca
di calmarti...» provò a dire mia sorella.
«Ma che cazzo stare
calma! Loro devono stare calmi, pensano forse che siamo delle
macchine? Ci saremmo dovuti riposare di più!» sbraitai
ancora, senza preoccuparmi del fatto che sul marciapiede opposto si
trovassero Lorenzo, Lucrezia e Samuele. Ovviamente loro stavano
sentendo tutto ciò che stavo sputando fuori con rabbia, ma
nessuno dei tre osò rispondere o dire qualcosa per cercare di
calmarmi.
Questo fatto non fece che
aumentare ulteriormente la mia furia: mi ignoravano come se fossi una
cretina che stava blaterando senza cognizione di causa, come osavano?
Stavo per dire
qualcos'altro, quando Giovanna mi raggiunse e mi propose: «Vai
in coppia con Tamara? Magari potete camminare un po' più in
fretta».
«Forse è
meglio...» bofonchiai, mentre Giorgio e Viola si sistemavano in
coppia insieme e io mi accostavo a mia sorella.
Ormai il sole stava calando
ed era per noi d'obbligo usare il bastone, ma questo continuava a
rallentare la mia camminata, nonostante ora avessi mia sorella
accanto e con lei riuscissi a velocizzare un po' il passo.
«È inutile che
ci abbiano messo in coppia insieme, tanto se dobbiamo stare al passo
del resto del gruppo, non mi cambia niente!» mi inalberai
nuovamente.
«Lo so, ma come
facciamo? Io non so cosa dirti...» ribatté Tamara.
«Non sai cosa dirmi,
certo...»
Una voce mi trapanò i
timpani, proveniente dalle mie spalle: «Oh, Laura, ma la smetti
di rompere e di lamentarti? Sei noiosa eh!».
«Nicolò, fatti
i cazzi tuoi, hai capito? Smettila di intrometterti in ciò che
non ti riguarda!» esplosi senza alcun ritegno, cercandi di
accelerare il passo per non sentirlo troppo vicino a me.
«Invece no, perché
mi stai rompendo, hai capito? Che palle che sei!»
Gabriella, che faceva coppia
con lui, subito lo spalleggiò, rimanendo però più
pacata e intromettendosi appena: «Sì, state strillando
da dieci minuti, ci prenderanno per pazzi!».
Ma io ormai stavo per
voltarmi da Nicolò per strozzarlo, non lo sopportavo più.
Era tassativo che prima o poi ci si incazzasse con quel ragazzino
durante un campo, era talmente pedante e indisponente da risultare
proprio insopportabile.
Tuttavia, fu Tamara stavolta
a rivoltarsi contro di lui: mentre Nicolò continuava a
blaterare a caso, mia sorella si voltò di scatto e gli urlò
contro degli insulti, per poi mollare un paio di colpi di bastone
alla cieca. Questi, però, finirono per colpire anche
Gabriella, nonostante nessuna di noi due volesse che ciò
accadesse.
Infine Samuele ci prese con
sé e ci fece camminare più in fretta, così ci
allontanammo da Nicolò e gli altri, raggiungendo un po' prima
la nostra meta.
Ci ritrovammo a sederci
sulla stessa scalinata che ci aveva ospitato l'anno precedente, e
com'era successo allora, mi chiesi che senso avesse portare un gruppo
di ciechi e ipovedenti a vedere una processione. E poi,
onestamente, a me di certi rituali non fregava un emerito cazzo.
Ero arrabbiata, ma speravo
ancora – ingenuamente – di poter trascorrere un po' di
tempo con Lucia, Cristina e Michele.
Così telefonai a
Cristina.
«Pronto, Lau? Dove
sei?» esordì la mia amica.
«Siamo appena
arrivati, non ti dico il casino che è successo... sono
incazzatissima» raccontai. «Siamo seduti sulla gradinata
di fronte alla chiesa. Voi?»
«C'è un sacco
di gente, non so di preciso dove siamo, ma ormai è tardi e mi
sa che dobbiamo rientrare... c'è il viaggio da fare...»
mi disse in tono dispiaciuto.
«Cazzo, no! Siete
venuti per niente! Non è giusto!» dissi, sentendo
l'ennesima ondata di rabbia pervadermi completamente.
«No dai, non è
colpa tua. Ci siamo fatti una gita, non importa. Poi ci vedremo
appena torni a casa, okay?» tentò di rassicurarmi
Cristina.
«Sì, forse è
meglio, tanto con questa gente di mezzo non si può fare
niente...» fui costretta ad arrendermi, sentendomi sconfitta
per l'ennesima volta contro gli istruttori e i loro modi dispotici.
«Scusate ancora» aggiunsi.
«Tranquilla. Luci e
Miki ti salutano!» esclamò lei.
«Ricambia, grazie per
essere venuti. Ci sentiamo presto» conclusi.
Ci salutammo, poi interruppi
la conversazione e riposi il telefono in borsa, sospirando e
avvertendo un'intensa voglia di piangere e di strapparmi i capelli.
Era un momento colmo di disperazione per me, uno di quelli in cui mi
sentivo limitata dai miei problemi fisici e non sopportavo l'idea di
non potermi muovere in autonomia. Se questo fosse stato possibile,
sarei corsa a cercare i miei amici senza dar retta alle stronzate che
provenivano dall'alto.
Non badai assolutamente alla
processione, all'arrivo del resto del gruppo, alla folla che mi
circondava.
Sentivo solo freddo fuori e
dentro me, ero preda dello sconforto più totale e speravo che
per quella giornata il mondo mi lasciasse in pace e mi permettesse di
riposare la mente e il corpo.
Volevo strappare a morsi le
barre della mia cella, lasciare la prigione in cui ero stata
rinchiusa e riprendermi quel poco di libertà che potevo
permettermi.
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Capitolo 9 *** Capitolo nove: Life ***
ReggaeFamily
Capitolo
nove: Life
Il
locale in cui stazionavamo era estremamente piccolo e stretto; gli
istruttori avevano fatto di tutto pur di far stare tutti noi ragazzi
in un'unica tavolata, con il risultato di far sedere Tamara a
capotavola. In questo modo, lei riusciva a stare a malapena seduta
tranquillamente, dal momento che le persone che passavano di lì
spesso la urtavano e in definitiva era davvero d'ingombro in quel
punto.
Io
ero riuscita a malapena a incastrarmi nel mio posto, seduta tra
Gabriella e Giorgio.
«Qui
dentro non ci stiamo, non capisco per quale motivo hanno insistito
per farci sedere tutti insieme in due tavoli» si lamentò
Viola, seduta alla sinistra di mia sorella.
Di
fronte a me si trovava Marco, il quale a sua volta si era ritrovato
tra Viola e Nicolò.
Ero
già stanca di stare lì dentro, non mi piaceva il fatto
che stessimo tutti appiccicati, tuttavia non potevo farci molto; mi
limitai a ordinare qualcosa da mangiare – dei ravioli al
pomodoro e una caprese – e ad attendere di ricevere il cibo.
Nel
frattempo ci servirono, al posto del pane, una focaccia con sale e
olio fatta con la pasta della pizza. Era buonissima, così ne
mangiai diverse fette e sperai di riuscire a mandare giù anche
il resto del cibo che avevo ordinato.
«Troppo
buono, mangerei solo questo» osservai, continuando a mangiare
quella prelibatezza.
Istruttori
e educatori si erano sistemati in un altro tavolo e ogni tanto si
avvicinavano per aiutare Simona a scegliere la sua cena o per
supportare qualcun altro o accompagnare qualcuno in bagno.
«Non
ci credo, anche oggi Simona ha fatto leggere dieci volte il menu
prima di scegliere la sua solita pizza con le melanzane! Avrebbe
potuto dirlo prima, no?» commentò Viola in tono
esasperato.
«Lo
sai com'è, che vuoi farci?» le fece notare Tamara, per
poi sbuffare. «Ogni due secondi qualcuno passa e mi sbatte
addosso! Che palle!» aggiunse poi.
«Per
carità, avrebbero potuto portarci da un'altra parte...»
borbottai.
Marco,
ogni tanto, tirava qualche sospiro, poi all'improvviso chiamò
Giovanna. Sembrava preoccupato, aveva un tono di voce strano, non
riuscivo bene a definirlo, ma era come se avessi l'impressione che
qualcosa non andasse.
Quella
terribile giornata sembrava non avere più intenzione di
concludersi.
Poco
dopo Giovanna lo raggiunse e insieme uscirono dal locale.
Inizialmente pensai che si fossero diretti a fumare, ma poi mi resi
conto che erano usciti da un po' troppo tempo.
«Ma
Marco che fine ha fatto?» chiesi a nessuno in particolare.
«Non
lo so, sarà uscito a fumare...» osservò Tamara.
«Ma mi sembra che stia passando troppo tempo, vero?»
aggiunse.
«Appunto,
per quello chiedevo...»
Il
tempo trascorse e dopo circa venti minuti Marco e Giovanna
rientrarono, seguiti da Marta.
«Che
è successo?» chiese subito Tamara in tono leggermente
apprensivo.
«Ha
avuto un attacco di claustrofobia» spiegò Giovanna.
«Marco!
E adesso come stai?» saltò su Viola allarmata.
Lui
sospirò. «Sto meglio, tranquilla Vivi» rispose lui
in tono piatto.
Mi
venne in mente il giorno in cui, due anni prima, eravamo entrati
nella grotta e lui si era sentito morire, tra vertigini e
claustrofobia; era buffo pensare a quali fossero i nostri rapporti
all'epoca, quanto fossi preoccupata per lui e quanto volessi stargli
accanto e sostenerlo al meglio.
Ora
parevano dei giorni lontani, ricordi sbiaditi, quasi come se non li
avessi mai vissuti. Eppure sapevo che era tutto accaduto davvero, il
che mi metteva addosso un senso di malinconia e divertimento insieme,
una sensazione difficile da descrivere.
«In
effetti qui c'è poca aria» mormorai.
Afferrai
il cellulare e notai con disappunto che all'interno di quel buco non
c'era campo. Avrei voluto rispondere a Danilo e Anna, i quali mi
avevano spedito dei messaggi in risposta al mio racconto su quanto
accaduto quel pomeriggio con gli istruttori, ma i messaggi non
partivano. Sbuffai e nel frattempo arrivò la mia cena.
Mangiai
senza troppo entusiasmo, non stavo molto bene quel giorno, mi sentivo
stanca e spossata, volevo soltanto dimenticare tutto ciò che
di negativo mi era successo. La bella esperienza a cavallo sembrava
sbiadire se paragonata al malumore che ormai mi aveva avvolto da ore.
Finii
in fretta di mangiare e cominciai a non poterne più di stare
là dentro. Volevo andarmene, c'era troppa confusione per la
mia mente annebbiata.
All'improvviso
cominciai ad avvertire una sensazione d'ansia crescere all'interno
del mio petto; si fece strada in fretta e mi attanagliò,
impedendomi di compiere i movimenti o i gesti che avrei voluto.
Questo non fece che amplificare il panico, facendomi sentire quasi
paralizzata.
L'unica
cosa che riuscii a fare fu allungare una mano sul tavolo, trovando
quella di Marco. Gliela strinsi e avvertii immediatamente le lacrime
invadermi gli occhi, rotolare sulle guance e bagnarmi il viso.
Ero
completamente in panico e non sapevo come farlo capire a chi mi
circondava, solo lui in quel momento era a mia disposizione, poteva
in qualche modo comprendermi.
Cominciai
a stringergli la mano con forza e a quel punto si rese conto che in
me c'era qualcosa che non andava.
«Lau?»
mi chiamò.
Ovviamente
non fui in grado di rispondergli, mi limitai a tenergli forte la mano
e a sperare che capisse che avevo bisogno di aiuto.
«Lau?
Oh, cos'hai?» si preoccupò maggiormente. Rendendosi
conto che non riuscivo a spiccicare parola, si voltò verso il
tavolo degli educatori e istruttori. «Giovi? Vieni per favore?
Lau sta piangendo» disse.
In
pochi attimi Giovanna piombò accanto a me e cercò di
capire cosa mi fosse preso, ma io le feci solo intendere che avevo
bisogno di uscire dal locale e di prendere aria.
«Sta
piangendo, la porto fuori» annunciò l'educatrice in tono
pratico, senza lasciarsi prendere dal mio stesso panico.
«Giovi,
ma Lau riesce a parlare?» chiese Tamara preoccupatissima.
Sapevo
perché lo aveva detto: mia sorella aveva assistito a un altro
di quegli strani attacchi di panico che si erano presentati negli
ultimi anni, sapeva che quando ero in quelle condizioni, non riuscivo
a parlare e trascorrevo almeno mezzora in silenzio, incapace di
collegare gli impulsi del cervello alle mie labbra e alle corde
vocali.
Avrei
voluto rispondere, avrei voluto dirle che no, non riuscivo a parlare,
ma mi limitai a rimanere in silenzio mentre mi alzavo dalla sedia e
mi trovavo incerta sulle mie stesse gambe.
«Sì»
replicò invece Giovanna.
«Sicura
che parla?»
«Sì,
sì» ripeté ancora l'educatrice, aiutandomi a
uscire dallo stretto spazio in cui ero rimasta incastrata fino a poco
prima.
Evidentemente,
per Giovanna, i gesti che avevo compiuto per farle capire che volevo
lasciare per un po' il locale, erano equivalsi al concetto di
parlare, ma mi dispiaceva che mia sorella non avesse potuto sapere la
verità.
Fui
grata a Giovanna quando finalmente mi fece uscire all'aria aperta e
mi condusse verso un muretto di cemento in cui potemmo sederci. Non
avevo idea del luogo in cui ci trovavamo, non riuscivo a vedere
niente e non ero nelle condizioni adatte per far affidamente su uno
straccio di senso dell'orientamento. Immaginai che di fronte al
locale ci fosse una piazza, la sensazione era quella di uno spazio
ampio e aperto, e spesso si sentivano le grida e le risate di alcuni
bambini che correvano a piedi o a bordo di una bicicletta.
«Lau,
cosa è successo?» provò a chiedermi Giovanna.
Io
non riuscivo ancora a parlare, mi limitavo a piangere come una
stupida e mi sentivo davvero cretina in quel momento. Perché
mi ero ritrovata ancora una volta in una situazione del genere?
Perché non ero riuscita a controllare l'ansia?
Forse
era colpa della stanchezza, del nervosismo e del malumore, ma
sicuramente anche il mal di schiena faceva la sua parte. Mi sentivo
una vera merda quel giorno, forse avevo toccato il fondo per quel
campo. Questo significava forse che potevo soltanto risalire? Lo
speravo, ma ancora dovevo riuscire a uscire da quella situazione.
Afferrai
la mano di Giovanna e cercai di esprimermi utilizzando il suo palmo
per scrivere. Non mi venne in mente niente di meglio, non sapevo come
altro fare.
Le
scrissi, lentamente, che non riuscivo a parlare.
«Come
mai?»
Tracciai
la parola panico sulla sua
pelle e lei cercò di rassicurarmi più che poté.
«Vedi, secondo me è
anche normale reagire così, non preoccuparti. Adesso cerca
solo di rilassarti» disse con calma, accarezzandomi i capelli.
Poco dopo Lucrezia ci
raggiunse e si posizionò in piedi di fronte a me; dopo aver
chiesto a Giovanna cosa fosse capitato, cominciò a parlarmi a
sua volta, in tono calmo e rassicurante.
«Laura, ascolta.
Sicuramente sei molto stanca e non stai bene oggi, ma non devi
preoccuparti. Passerà. Sai, io penso che tu sia una ragazza
molto forte, ma anche le rocce a volte si sgretolano. Condurre una
vita come la tua non è facile, io lo capisco benissimo e ti
ammiro molto.» Lucrezia fece una pausa e io non capii appieno a
cosa si riferisse, ma seppi con certezza che lei non si era
arrabbiata con me per aver dato di matto in strada qualche ora prima.
Forse non ce l'avevo con lei, forse mi ero incazzata più che
altro con Lorenzo, ma a lei parve non importare più di tanto.
Questo fece crescere in me una marea di sensi di colpa che
infittirono le mie lacrime.
Giovanna, al mio fianco, mi
abbracciò e mi accarezzò ancora i capelli. «Lucrezia
ha ragione» concordò.
«Tu hai come una
doppia vita: di giorno vivi in un modo, puoi fare un po' le cose che
fanno tutti. Poi scende la notte e il tuo modo di vivere e percepire
cambia, è come se diventassi quasi un'altra persona. Questo è
straordinario, specialmente perché tu affronti tutto questo
con il sorriso, senza mai arrenderti e con la giusta dose di ironia.
Per me questa è la vera forza, io non ci riuscirei mai. Te lo
dico perché ne sono certa, ed è normale che ogni tanto
tu ceda a certi momenti. Devi solo affrontarli come fai sempre,
capito?» concluse l'istruttrice, e io sentii un sorriso
impregnarle il tono di voce.
Annuii senza ancora riuscire
a replicare a voce. In quel momento mi sentivo debole e vulnerabile,
non ero tanto certa che lei avesse ragione. Avrei tanto voluto una
persona in particolare a tenermi compagnia, così afferrai
ancora una volta la mano di Giovanna e la voltai col palmo all'insù.
Disegnai
una G e rimasi
immobile a riflettere.
Era l'iniziale del cognome
di Danilo, ma anche di quello di Marco.
E non sapevo chi dei due
avrei voluto mi abbracciasse in quell'istante, ero confusa e mi
sentivo infinitamente triste.
Ripresi a parlare poco prima
che tornassimo al residence, ma non fui granché loquace.
Tamara mi chiese, quando mi
incontrò accanto al furgoncino che ci avrebbe riportato in
struttura, cosa fosse successo.
«Ho avuto l'ansia per
tutto il tempo, pensa che, per assurdo, Vivi era più
tranquilla di me e ha dovuto pensare lei a rassicurare me!»
spiegò mia sorella. «Riuscivi a parlare o no?»
aggiunse.
«No» risposi
stremata.
«Ecco lo sapevo!
Cazzo, non ci voleva... come va adesso? Uff, volevo uscire da te,
ma...» partì in quarta lei, agitatissima.
«Stai tranquilla,
Tami. Ora sto bene» la rassicurai.
Trascorsi il tempo del
ritorno quasi completamente in silenzio, finché non tornammo
al residence.
«Ragazze, che ne dite
di venire nella nostra stanza? Ho scorte di cibo per un mese!»
propose Giovanna a me, Viola e Marta.
«Va bene, perché
no?» accettò la mia amica. «Tu Lalli te la senti?»
«Ma certo, va
benissimo anche per me!» risposi.
Mi sentivo decisamente
meglio, forse piangere mi era stato utile e aveva fatto sì che
scaricassi molta della mia ansia.
Raggiungemmo in poco tempo
la camera di Giovanna, Tamara, Gabriella e Simona; entrando, avvertii
un'orribile puzza indecifrabile e storsi il naso.
«Oddio, c'è
ancora odore di maneggio qui, che schifo!» sbottò mia
sorella, tappandosi teatralmente il naso.
«È vero, non vi
invidio per niente...» osservai disgustata.
Ci accomodammo attorno al
tavolo posto di fronte alla porta d'ingresso e Giovanna cominciò
a sistemare varie confezioni di cibo sul ripiano in legno.
«Abbiamo gli arachidi
salati, i Ringo, un po' di Canestrelli, delle patatine... servitevi
pure!» esclamò l'educatrice, sedendosi a sua volta su
una sedia.
Nel frattempo Gabriella e
Simona si prepararono – non senza difficoltà – per
andare a letto.
Poi finalmente noi potemmo
chiacchierare in pace, anche se tenemmo un tono di voce basso e
contenuto.
«Ieri Marco ha
superato se stesso, voleva farci sedere su una cassettiera! O
comunque non so cosa fosse, ma...» disse Tamara.
«Non ricordarmelo, che
scena raccapricciante!» esclamai, sgranocchiando qualche
patatina.
«Se volete ci sono
anche questi biscotti dell'Eurospin» disse Giovanna, aprendo
una nuova confezione di cibo.
«No grazie, mi bastano
i Ringo!» replicò Tamara.
«Ma guarda, anche tu
separi il biscotto dal ripieno quando mangi i Ringo? Anche io!»
esclamò Marta, osservando mia sorella.
«Certo, altrimenti non
c'è gusto!»
«Comunque, Marco
secondo me sta peggiorando tanto» proferì Viola,
facendosi un po' più seria.
«Sì. E poi ci
prova spudoratamente con me...» bofonchiò mia sorella.
«Oddio»
intervenne Giovanna. «Sul serio? E io che pensavo che farsi
una famiglia avesse un altro
significato...»
Calò per un attimo il
silenzio, poi scoppiammo tutte a ridere.
«Questa è
bellissima, Giovi!» commentai in tono divertito, non riuscendo
più a contenere le risate.
In effetti non aveva tutti i
torti, ma solo lei riusciva a portare fuori certe fesserie e a dirle
in tono serio e divertente allo stesso tempo.
Quando quella sera arrivai
in camera mia, non ebbi molto tempo per riflettere e pensare a ciò
che era avvenuto durante la giornata; la stanchezza si impossessò
di me e mi gettò immediatamente in un sonno profondo.
Mi resi soltanto conto di
essere grata alle ragazze che avevano fatto di tutto per distrarmi
quando eravamo tornate al residence, e ripensai con una nota di
malinconia al fatto che Danilo non fosse ancora venuto a trovarmi.
Forse non sarebbe venuto per
niente.
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci: Rag Doll ***
ReggaeFamily
Capitolo
dieci: Rag
Doll
«Vivi?
Svegliati, dai!»
«Uhm...»
«Dai,
altrimenti facciamo tardi!» ripetei per l'ennesima volta, per
poi accostarmi al lato sinistro del letto, sul quale Viola ancora
giaceva, infagottata tra le lenzuola.
«Non
sto bene...» mormorò, rimanendo immobile.
«Cosa
significa che non stai bene? Dai!» Ero certa che la mia amica
stesse cercando una scusa per rimanere a letto, era una pigra
inguaribile!
«Lalli...
ho avuto una crisi...»
«Ma
quando? Io non ho sentito niente!» tentai di sdrammatizzare.
«Nel
sonno... mi sono svegliata che...»
La
interruppi: «Vivi, ma io non ho sentito niente! Non ce l'hai
avuta, magari è stata solo un'impressione...».
«Ti
dico di sì, Lalli! Mi sono svegliata che mi sentivo rigida e
avevo tanto freddo... sto malissimo...»
Udii
il rumore della caffettiera che cominciava a gorgogliare in cucina,
così sospirai e le dissi: «Okay, aspetta che devo andare
a spegnere il caffè. Torno tra un po'».
«Va
bene.»
Tornai
in cucina e incrociai Marta.
«Lau,
che succede?» mi domandò lei.
«Vai
tu da Vivi? Ha detto di aver avuto una crisi durante il sonno, ma non
so se...»
«Adesso
vediamo.»
Io
raggiunsi il fornello e lo spensi, per poi trasportare con attenzione
la caffettiera sul tavolo. Poi mi occupai di cercare lo zucchero,
portai fuori qualche brioche dal frigorifero e recuperai i miei amati
grissini al sesamo dell'Eurospin. Erano sempre e comunque una
salvezza!
Dopodiché
tornai in camera e trovai Marta in piedi accanto al letto.
«Hai
ancora freddo?» chiese l'educatrice alla mia amica.
«Sì»
confermò Viola, sotterrandosi sotto le coperte e infilandoci
sotto anche il viso.
«Però
a me sembra strano...» osservai pensierosa.
«Cosa?»
mi domandò Marta.
«Che
abbia avuto una crisi nel sonno... io non mi sono accorta di niente»
borbottai.
«Però
è così» mi assicurò Viola in tono
sommesso.
Sospirai
e mi sentii in colpa per non averle creduto; cosa potevo saperne io?
Il fatto che non avessi udito nessun rumore provenire dalla mia amica
non significava che lei si fosse inventata tutto. Ero proprio cretina
certe volte.
Mi
avvicinai a lei e mi sedetti sul bordo del materasso, mentre Marta
lasciava la stanza.
«Scusa
se non ti ho creduto, volevo solo... speravo che non...»
cominciai, non trovando le parole giuste per esprimermi.
«Non
preoccuparti» mi rispose.
«Davvero?
Sono stupida, lo so!» mi schernii ancora.
«Per
questo ti voglio bene.»
Le
posai una mano sulla guancia e sorrisi. «Anche io te ne voglio.
Ora riposa e non preoccuparti di nulla.»
La
lasciai a letto e tornai in cucina, dove Marta si era già
seduta a tavola. Mi accomodai a mia volta e sospirai per l'ennesima
volta.
«Non
ci voleva» dissi.
«Già.
Rimango io con lei stamattina, ve la caverete in piscina senza di me»
decise l'educatrice, sorseggiando il suo caffè.
«Va
bene, l'importante è che lei non rimanga sola. Potrei stare io
a farle compagnia se...»
«No,
tu vai pure in piscina. Non preoccuparti, ora Viola sta bene, deve
solo riposare un po'. Se si sente meglio, le chiedo se ha voglia di
scendere in piscina. Okay?» mi tranquillizzò Marta.
Annuii
e finii di fare colazione, in preda a uno strano senso di fastidio.
Un'altra
giornata era cominciata decisamente male.
Non
potei fare il bagno, avevo ancora il ciclo, così mi sistemai
all'ombra del portico in paglia che ospitava un numero abbastanza
ristretto di sdraio. Mi affrettai a occuparne una e frugai subito in
borsa alla ricerca delle mie cuffie.
Avevo
bisogno di rilassarmi con un po' di musica, mi sentivo sotto stress e
ancora non riuscivo a stare del tutto tranquilla. L'attacco di panico
della sera prima mi aveva provato, così come quello di
claustrofobia di Marco; poi avevo scoperto che Viola aveva avuto
un'altra crisi e questo non aveva fatto che accentuare il mio
malumore.
Lasciai
che le canzoni scorressero nelle mie orecchie in riproduzione casuale
e mi adagiai sulla sdraio, chiudendo gli occhi.
Nel
frattempo la maggior parte dei ragazzi si buttarono in acqua, tra cui
mia sorella. La invidiai un po', anche perché faceva un caldo
infernale e un bel bagno mi ci sarebbe proprio voluto.
Trascorse
un po' di tempo, poi mi stancai di stare con le cuffie alle orecchie
e mi alzai, per poi avvicinarmi a Giovanna, Simona e Marco.
Quest'ultimo
era seduto per terra e stava con le gambe incrociate; i capelli gli
ricadevano sulla faccia e stava armeggiando con il cellulare.
A
un certo punto fece partire una canzone deprimente e lagnosa, così
mi rivolsi a lui e lo apostrofai: «Ma che palle, almeno metti
qualcosa di più allegro!».
«Non
ti va mai bene niente... ma Vivi dov'è?» bofonchiò.
«Ha
avuto una crisi durante il sonno e ora sta riposando. No, mi va bene
tutto, ma ora siamo in gruppo e tu porti fuori questi brani da
suicidio?» ribattei senza scompormi.
«Di
questa che ne pensi?»
Ascoltai
un brano rock a me ignoto e decisi di non commentare, non mi
importava più di tanto cosa volesse ascoltare. Quando la
canzone terminò, lui mi chiese se potessi prestargli il mio
telefono, in modo da mettere su qualcosa dalla mia immensa playlist.
Nel
frattempo, Tamara ci raggiunse e si avvolse attorno al corpo il suo
telo da mare. Si sedette sulla mia stessa sdraio e insieme ci
mettemmo in ascolto di ciò che stava selezionando Marco.
Scelse
qualche brano degli Slipknot, qualcosa dei Korn e perfino dei System
Of A Down; poi si orientò su un gruppo rock locale che
conoscevamo entrambi e così ascoltammo un bel po' di loro
brani.
Dopo
un po' ripresi il mio cellulare e decisi di scegliere io le canzoni
da ascoltare, spaziando in vari generi per non annoiare nessuno.
Verso
mezzogiorno Viola e Marta ci raggiunsero, così mi precipitai
subito incontro alla mia amica per chiederle come stava. Lei era
sorridente e tranquilla, mi disse di aver riposato un bel po' e di
stare decisamente meglio.
Quando
tornai alla sdraio, notai che Nicolò e Giorgio erano usciti
dall'acqua e si erano accomodati non tanto distanti l'uno dall'altro.
Giorgio
teneva in mano un tubo di Pringles e si accingeva a mangiare le sue
patatine in santa pace, quando Nicolò distrusse l'idillio,
come suo solito.
«Giorgio,
me ne dai un paio?» domandò in tono cantilenante e
pedante.
«Sì,
ma non mangiarne troppe...»
La
mia stima verso Giorgio raggiunse le stelle, ma Nicolò parve
poco propenso a seguire il consiglio che gli era appena stato dato.
«Non
essere tirchio!» strepitò ancora, allungandosi per
infilare nuovamente la mano dentro il tubo.
A
quel punto Giorgio si incazzò parecchio e sbottò:
«Nicolò, smettila subito! Mi sono proprio stancato, sai?
Da quando è cominciato il campo non fai che approfittarti di
me, ma pensi che io sia scemo? Ora non te ne do più,
arrangiati!».
La
mia stima per quel ragazzino crebbe ancora e si estese verso
l'infinito e anche oltre.
«Bravo
Giorgio!» esclamò Viola con entusiasmo.
«Grande,
diglielo!» aggiunsi io.
«Vedi
Nicolò, porti le persone a rivoltarsi contro di te. Forse
dovresti cambiare atteggiamento» commentò Giovanna.
Lui
continuò a borbottare tra sé, ma noi lo lasciammo
perdere e ci concentrammo sulla musica e sul cibo che stavamo
consumando; io avevo portato appresso i grissini al sesamo, Giorgio
ci offrì le sue patatine e Giovanna portò fuori un po'
di biscotti assortiti.
«Lau,
prestami il tuo telefono, vediamo cosa possiamo ascoltare!» mi
disse Marta, intenzionata a far ballare Simona e Gabriella; aveva
notato che le due se ne stavano sedute e non comunicavano con il
resto del gruppo, Gabriella impegnata a parlare con il cellulare e
Simona immersa nel suo mondo fatto di biscotti per la colazione,
fazzoletti per il naso che nessuno le dava e colazioni nella camera
di Nicolò.
Consegnai
l'oggetto a Marta e lei cominciò a scorrere i nomi degli
artisti presenti nella mia raccolta multimediale.
«30
Seconds To Mars... chi se li ricordava più?! Accept...
Aerosmith... Aerosmith?! Fantastici! Che canzoni hai?» esclamò
lei tutta contenta.
«Apri
la cartella, ora non mi ricordo... Marta, ti ricordi quando, tre anni
fa, eravamo al campo e in quel campeggio mandavano sempre I don't
want to miss a thing?»
«Sì, cavoli! È
vero, erano fissatissimi!»
Ridacchiai. «Meglio di
quando partivano le canzoncine della baby dance...»
Anche
lei rise e scelse un brano molto allegro e trascinante degli
Aerosmith, ovvero Rag Doll.
«La adoro, troppo divertente! Forza, Simo, Gabri... alzatevi!
Venite a ballare!» le incoraggio Marta, cominciando a muoversi
a ritmo con la musica e prendendo a cantare la canzone in questione,
inventandosi però tutte le parole.
Io mi misi in piedi a mia
volta e accennai qualche passo incerto; ballare non mi piaceva, però
la musica spesso riusciva a trascinarmi con sé e non mi
importava di non riuscire a risultare sensuale o aggraziata, non
erano proprio problemi miei.
Cominciai a mia volta a
cantare e fu divertentissimo; in quel momento mi sentii veramente
leggera, libera e tranquilla, non c'era niente che potesse
preoccuparmi.
Yes
I'm movin' Yes I'm movin' Get ready for the big time Tap
dancing on a land mine Yes I'm movin' Yes I'm movin' Old tin
lizzy do it till you're dizzy Give it all ya got until you're put
out of your misery
«Troppo bella questa
canzone, non la sentivo da secoli!» gridò Marta in preda
all'entusiasmo, prendendo le mani di Simona per incitarla a muoversi
a ritmo.
Il mio sguardo cadde su
Gabriella, la quale si muoveva scompostamente e non sembrava
apprezzare particolarmente quel tipo di musica.
Andammo avanti così
per un po', ascoltando diverse canzoni e ballando come invasate.
Fortunatamente in piscina
non c'era nessun altro oltre noi.
Dopo un po' ci rimettemmo a
sedere, sfinite e accaldate; bevemmo un po' d'acqua e cercammo di
riprendere fiato.
Marco si sedette sul muretto
di cemento e pietra che delimitava le aiuole della piscina.
Imbracciava la sua chitarra classica e strimpellava distrattamente,
intonando un brano piuttosto malinconico, come al solito.
Mi
venne un'idea e mi accostai alla mia borsa; frugai al suo interno e
ripescai la macchina fotografica che ci avevo buttato dentro quella
mattina.
Senza farmi notare da lui,
presi a scattargli qualche foto, perché mi veniva da ridere
per la serietà con cui si atteggiava a grande musicista
maledetto con tanto di capelli sul viso e il sole che batteva
implacabile su di lui.
«Guarda, Giovi»
sussurrai, mostrando le foto all'educatrice che, nel frattempo, mi si
era avvicinata per capire cosa stessi combinando.
«Serio, troppo
serio... non se la fa mai una risata?» osservò lei
ironica.
«A quanto pare no...»
«Ragazzi, vi
ricordate, vero, che questo pomeriggio abbiamo la musicoterapia?»
ci chiese Marta, mentre cercava di aiutare Simona a sistemare le sue
cose.
Ormai si avvicinava l'ora di
pranzo e dovevamo cominciare a prepararci per andarcene dalla
piscina.
«Ah, sì! A che
ora si comincia?» mi informai.
«Verso le quattro»
rispose Giovanna.
«Sempre troppo
presto... ci sarà da morire per via del caldo!» si
lamentò Tamara, ripiegando il suo telo.
«Sicuramente»
borbottai a mia volta.
Sperai che quell'esperienza
risultasse positiva, altrimenti sarebbe stata una doppia seccatura.
Dopo aver finito di
racimolare i nostri effetti personali, ci incamminammo verso le
nostre stanze.
Io
mi accostai a Viola e procedetti accanto a lei, controllando
che il bastone non le creasse dei problemi e che seguisse il percorso
giusto.
Poco dopo Tamara ci
raggiunse e ci sussurrò: «Dopo devo raccontarvi di
Marco».
«Oddio»
mormorai. «Che è successo?»
«Poi vi dico, appena
abbiamo un attimo di tranquillità...»
«Tami, però non
farci preoccupare! Ha fatto qualche stupidaggine?» intervenne
Viola.
«Sì, ma non c'è
da preoccuparsi. State tranquille» ci rassicurò mia
sorella con un sorriso.
Non vedevo l'ora di scoprire
cos'altro aveva combinato quel cretino. Sperai caldamente che non
avesse esagerato con mia sorella, altrimenti se la sarebbe vista con
me.
Ma conoscevo Tamara, lei era
benissimo in grado di badare a se stessa.
Andai a pranzo più
curiosa che mai, con la speranza che la giornata migliorasse ancora.
Le cose sembravano andare meglio rispetto a quella mattina, perciò
incrociai le dita e decisi che avrei fatto di tutto pur di far
procedere tutto in maniera positiva.
Dopotutto eravamo in
vacanza, avevamo anche noi il diritto di divertirci, sentirci liberi
e svuotare la mente.
Ero stanca della negatività
e del malumore, non potevo permettere a nessuno di rovinare il mio
ultimo campo.
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Capitolo 11 *** Capitolo undici: Ballo in fa diesis minore ***
ReggaeFamily
Capitolo
undici: Ballo
in fa diesis minore
Alle
quattro del pomeriggio eravamo tutti pronti ad accogliere i nuovi
ospiti che si sarebbero occupati dell'attività di
musicoterapia.
Faceva
un caldo bestiale, ma fortunatamente ci eravamo sistemati all'ombra,
nel punto di fronte all'ingresso della camera dei ragazzi.
Poco
dopo Lucrezia ci raggiunse in compagnia di un uomo e una donna: lui
indossava una camicia celeste a maniche corte infilata dentro un paio
di pantaloni anonimi, mentre lei sfoggiava un bel vestitino dalle
tinte estive e portava ai piedi un paio di sandali chiari.
«Ciao
a tutti!» ci salutò subito la donna, e io a primo
impatto ebbi una buona impressione di lei; non aveva utilizzato un
tono di voce falso o un atteggiamento condiscendente nei nostri
confronti, sembrava intenzionata a trattarci con il rispetto che
meritavamo.
Forse
era stupida come riflessione, ma spesso mi era capitato di incontrare
persone ignoranti che mi avevano trattato in quella maniera, pensando
– anzi, non pensando affatto – che i miei problemi visivi
si estendessero anche al cervello.
«Ciao
ragazzi» aggiunse il suo accompagnatore. Rispetto a lei
sembrava un po' meno espansivo, ma non mi fece comunque una brutta
impressione.
«Io
sono Maria Vittoria e lui è Alfredo, ci fa molto piacere
essere qui con voi. Vorremmo proporvi una bella attività da
fare tutti insieme, qualcosa che speriamo possa piacervi. Ma prima
sarebbe carino un veloce giro di presentazioni, giusto per conoscerci
un po' meglio. Ditemi come vi chiamate, quanti anni avete e cosa vi
piace fare. Chi comincia?»
Mi
guardai intorno e attesi che qualcuno prendesse l'iniziativa; poco
dopo Nicolò prese la parola: «Dai, comincio io! Sono
Nicolò, ho diciassette anni e non so cosa mi piace fare. Ah
sì, mi piace mangiare!»
Ridacchiammo
tutti, poi Maria Vittoria chiese a Giorgio di parlare un po' di sé.
«Sono
Giorgio, ho dodici anni e mi piace un sacco guardare i cartoni
animati Disney» disse timidamente il ragazzino.
Poco
dopo fu il turno di Gabriella, la quale era seduta alla mia sinistra:
«Ciao Maria Vittoria e ciao Alfonso, io sono Gabriella. Ho
diciassette anni, ne farò diciotto il mese prossimo. Mi piace
molto nuotare, esplorare le grotte dove ci sono i pipistrelli –
sono bellissimi, li adoro! – e poi amo guardare le gare di Moto
3, cantare e nuotare velocissimo!». Parlò con un tono
talmente timido, ma allo stesso tempo colmo d'entusiasmo, che mi fece
quasi tenerezza.
«Quante
cose! Bene, ora passiamo a te» mi si rivolse Alfonso.
Mi
schiarii la gola. «Io sono Laura, ho ventitré anni e ho
diverse passioni» esordii con leggero imbarazzo.
«Quali?»
volle sapere Maria Vittoria.
«Amo
la musica, amo cantare fin da quando ero piccola, adoro leggere e
scrivere» conclusi.
«Ah,
senti senti! Tu invece?» proseguì la donna in tono
dolce.
Alla
mia destra sedeva Viola, la quale comprese di dover prendere parola e
così fece: «Ciao, sono contenta che siate venuti qui per
quest'attività. Io mi chiamo Viola, ho ventitré anni e
mi piace molto la musica anni Ottanta. Adoro gli animali e ho un
gatto che mi aspetta a casa, mi manca un sacco».
Tutti
ridemmo e io commentai: «Viola e suo figlio a quattro zampe!».
«Che
carina! Dimmi tu, invece, come ti chiami?» Alfonso si rivolse a
mia sorella.
«Sono
Tamara, ho quattordici anni e mi piace molto la musica, ho una grande
passione per il reggae! Poi mi piace molto scrivere e leggere,
proprio come a Laura che è mia sorella. Si nota?»
Maria
Vittoria e Alfonso guardarono noi, si scambiarono un'occhiata e
annuirono. Riuscivo a scorgere i loro movimenti perché sul
portico splendeva una buona luce, nonostante non ci trovassimo sotto
il sole.
«Vi
somigliate molto. Siete gemelle?» chiese l'uomo.
Risi.
«Ce lo dicono tutti, ma no, non lo siamo. Abbiamo otto anni di
differenza.»
«Giusto,
lei ne ha quattordici e tu...» rifletté Maria Vittoria.
«Io
ventitré» risposi.
«Ecco,
caspita! Non si direbbe... comunque, tu invece come ti chiami,
tesoro?» domandò la donna a Simona.
Tamara
intervenne: «Dai Simo, presentati, tocca a te ora!».
«Sì.
Sono Simona.»
«Quanti
anni hai?»
«Venti.
Ho vent'anni. E sai cosa voglio fare? Andare nella stanza di Nicolò
a cercare i biscotti... cioè, io voglio andarci di mattina, ma
nessuno mi manda... è un'ingiustizia, io quei biscotti li
voglio, ma se non li mangio nella camera di Nicolò non è
la stessa cosa... e ora mi sgocciola il naso, chi mi dà un
fazzoletto?» blaterò Simona agitatissima.
Giovanna
si accostò a lei con discrezione e le suggerì di
controllare nelle tasche dei suoi pantaloncini per vedere se i
fazzoletti fossero lì.
Scossi
il capo e individuai educatori e istruttori che stavano in disparte e
non si immischiavano in ciò che stavamo facendo.
«E
tu invece?»
Marco
sollevò il capo. Era seduto di fronte a me ed era rimasto in
silenzio per tutto il tempo. «Sì, mi scusi... mi chiamo
Marco, ho diciannove anni e amo suonare.»
Alfonso
annuì. «Buono, vedo che in questo gruppo abbiamo diversi
musicisti e artisti di vario genere! Bene, Mari, vogliamo spiegare ai
ragazzi cosa faremo oggi?» si rivolse poi alla collega.
«Certo.
Ragazzi, voi siete in otto. Vogliamo dividervi in due gruppi e fare
un piccolo esperimento. Vediamo un po'... Laura, giusto? Va bene se
la tua squadra sarà formata dai ragazzi alla tua sinistra?»
Osservai
Gabriella, Nicolò e Giorgio, poi dissi: «Certo».
«Perfetto!
L'altra squadra sarà formata dal resto del gruppo. Bene, ora
vi spieghiamo un po' cosa dovrete fare. Avete presente quei talent
show che si vedono tanto in TV? Ecco, ogni componente della prima
squadra si esibirà cantando una canzone a sua scelta e i
componenti dell'altra dovranno giudicare le singole esibizioni con un
punteggio da zero a dieci. Tutto chiaro, vero?» ci interrogò
Maria Vittoria con il sorriso nella voce.
Gli
occhi mi si illuminarono alla sola idea di dover cantare, anche se
avvertii un po' d'ansia.
«Cominciate
a pensare a che brano eseguire, così noi possiamo cercare la
base su internet» ci suggerì Alfonso, armeggiando con un
portatile che era stato sistemato su uno dei tavoli in vimini.
Presi
a riflettere un po' su un brano che fossi in grado di eseguire e che
mi emozionasse al punto giusto, senza però farmi perdere il
controllo e gettarmi in lacrime. Esistevano quelle canzoni che mi
avevano rubato il cuore e che non avrei mai potuto cantare per la
troppa emozione, come per esempio Gli uomini non cambiano di
Mia Martini o Canzone per un'amica
dei Nomadi.
Mi venne in mente che sarei
risultata molto originale se avessi eseguito qualcosa di insolito, ma
ancora avevo tempo per prendere una decisione, dato che a cominciare
sarebbe stato Giorgio.
Eseguì una canzone
del Re Leone e io mi commossi perché fu davvero molto dolce;
la sua performance fu colma di timidezza e trasporto, nonostante non
fosse certo intonato e andasse spesso fuori tempo. Fu emozionante
ascoltarlo, e infatti ottenne un sacco di bei voti, anche se non
furono tutti e quattro dei dieci.
Dopodiché fu Nicolò
a cantare, eseguendo una canzone che non conoscevo e che non mi
trasmise niente di particolare. Se avessi dovuto giudicarlo io, gli
avrei dato forse un sei e mezzo per il coraggio, ma nulla di più.
Dopo
di lui venne il turno di Gabriella. Era molto emozionata e non mi
stupii affatto quando annunciò che voleva eseguire Sono
solo canzonette del nostro amico Bennato.
Nel suo caso, se avessi dovuto darle un voto, sicuramente avrei
optato per un dieci. Non fu eccezionale in quanto a tecnica o
intonazione, ma fu palese la sua emozione e la tenerezza che provai
per lei in quel momento fu una delle poche cose che mi fece sentire
vicina a quella ragazza almeno per una volta nella vita.
«Brava Gabriella! Ora
tocca a te, Laura, cos'hai deciso di eseguire?» mi chiese Maria
Vittoria.
«Vorrei
cantare Ballo in fa# minore di
Angelo Branduardi» proferii.
Marco si esibì in un
fischio d'approvazione, mentre la donna di fronte a me rimaneva a
bocca aperta e il suo collega annuiva compiaciuto.
«Caspita,
ora sì che sono sorpresa!» si espresse infine
lei.
Mi sentii avvampare e
sorrisi di rimando. «Spero di riuscirci.» Mi misi in
piedi e mi accostai al tavolo su cui si trovava il computer, per poi
voltarmi nella direzione dei miei compagni d'avventura. Marco, ora,
si trovava seduto alla mia sinistra e sembrava molto interessato ad
ascoltare la mia performance.
Tirai un lungo sospiro e
attesi che Alfonso trovasse una base decente su YouTube. Quando
infine riuscimmo a beccarne una abbastanza coerente con il brano
originale, lui la fece partire e io mi immersi nel mio elemento
naturale.
Sono
io la morte e porto corona.
Io
son di tutti voi signora e padrona.
E
così sono crudele, così forte sono e dura,
che
non mi fermeranno le tue mura.
Ero emozionata, la voce
all'inizio aveva tremato un po', ma poi mi ero lasciata andare.
Quello era uno dei miei brani preferiti di Branduardi, un artista che
fin da piccola avevo imparato ad apprezzare e verso il quale avevo
sempre nutrito una profonda stima e ammirazione.
Presi fiato e mi rigettai a
capofitto sulle note.
Sono
io la morte e porto corona.
Io
son di tutti voi signora e padrona.
E
davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare.
E
dell'oscura morte al passo andare!
Sei
l'ospite d'onore del ballo che per te suoniamo,
Posa
la falce e danza tondo a tondo!
Il
giro di una danza e poi un altro ancora,
E
tu del tempo non sei più signora!
Quando terminai la canzone,
uno scroscio di applausi mi invase e dovetti trattenere le lacrime
per non permettere loro di scivolarmi giù dagli occhi.
«Bravissima, ma adesso
sentiamo che voto ti daranno i ragazzi! Viola, tu che ne pensi?»
le chiese Maria Vittoria.
«Io le do dieci perché
è stata bravissima e ha cantato una canzone difficile!»
esclamò la mia compagna di stanza.
«Troppo gentile,
Vivi...» bofonchiai.
«Anche io le do dieci,
assolutamente! Non sono di parte, Lau sa benissimo che se qualcosa
non va glielo dico, ma stavolta si è proprio superata!»
affermò mia sorella con fermezza.
«Tu, Simo?» fece
Maria Vittoria.
«Sì, anche io
le do dieci perché è stata molto brava. Ma volevo dire,
Laura, secondo te posso andare a prendere i biscotti? A volte mi
comporto come non dovrei, lo so, ma ogni tanto anche gli altri
esagerano con me... domani mattina spero proprio di poterci andare
nella stanza di Nicolò a...»
«Okay, okay! Simo,
grazie, ne parliamo dopo, eh?» tagliai corto. Era stata carina,
ma del resto stava distribuendo dieci a chiunque aprisse bocca, per
poi finire a blaterare cose sconnesse che non avevano nessuna
attinenza con l'attività in corso.
Dopo qualche istante, Maria
Vittoria finì di appuntare le votazioni, poi si accorse che
mancava quella di Marco, così lo incoraggio a esprimere il suo
parere.
«Che dire... il dieci
è assicurato. Lau, sei stata capace di sorprendermi, hai
portato fuori una canzone che è storia della musica, l'hai
eseguita a modo tuo e sei stata cazzutissima. Complimenti»
disse lui con un leggero entusiasmo a impregnare il solito tono
piatto con cui parlava.
Lo presi come un buon segno,
come un complimento e ne fui soddisfatta. Fu come se riuscire a far
colpo su di lui mi mettesse addosso un qualcosa di più
positivo, come se mi conferisse potere e controllo nei suoi
confronti.
Tornai a sedermi e aspettai
che l'altro gruppo cominciasse a esibirsi.
Viola fu la prima e cantò
un brano di Max Pezzali, uno dei suoi artisti preferiti. Fu
bravissima e mi venne quasi da piangere per quanto impegno mise in
quell'esibizione.
Ovviamente ricevette dei
bellissimi voti da tutti, me compresa.
Tamara inizialmente era
titubante e non voleva cantare, si vergognava e non riusciva a
trovare la forza per esporsi tanto. Infine riuscimmo a convincerla e
ci deliziò con un emozionante brano reggae a cui era molto
legata.
Ero sinceramente orgogliosa
di lei, nonostante sentissi la sua voce tremare e mancare qualche
nota o parola. Ero veramente in uno stato di gioia indescrivibile,
quell'esperienza della musicoterapia stava sicuramente aiutando tutti
noi ad aprirci, a metterci in gioco, a portare fuori emozioni vere e
a non nasconderci più dietro le apparenze, amicizie o
antipatie che si erano create all'interno del gruppo.
Quando mia sorella terminò
la sua esibizione, la stritolai in un abbraccio e le ripetei
all'infinito che era stata formidabile e che non aveva proprio motivo
di vergognarsi.
Dopo di lei fu un po'
difficile far cantare Simona. «Non conosco nessuna canzone»
disse.
«Ma sì, dai,
una la conosci di sicuro!» la incoraggiò Maria Vittoria.
«Conosco solo Marco
se n'è andato e non ritorna più e anche Tu mi
manchi amore mio!»
«Vedi che allora
qualcuna la conosci? Quale scegli?»
«Marco se n'è
andato e non ritorna più» decise infine Simona.
Ci volle un po' per
ricordare il titolo esatto del brano, ma alla fine Alfonso trovò
la base de La Solitudine di Laura Pausini, così Simona
prese a cantare il brano quasi a memoria.
Andò per lo più
fuori tempo, sbagliò molte parole e non fu granché in
generale, ma io mi ritrovai a piangere come una bambina, commossa
come non mai. Quell'attività stava decisamente facendo
capitare un sacco di cose pazzesche, cose che non avrei mai
immaginato, come dare un bel dieci a Simona.
L'ultimo a esibirsi fu
Marco. «Suono un brano da me composto, userò la mia
chitarra come accompagnamento» ci informò, per poi
rientrare in stanza a recuperare il suo strumento.
Poco dopo tornò da
noi e si sedette nuovamente al suo posto, esattamente di fronte a me.
Quando cominciò a
suonare non sapevo cosa aspettarmi, poi prese a cantare e, nonostante
il testo fosse in inglese e non riuscissi ad afferrare la maggior
parte delle parole, avvertii una profonda malinconia provenire da
quella melodia, da quelle note e da quegli accordi precisi e
consapevoli.
Mi ritrovai a piangere
ancora una volta, ormai ero entrata in una fase delicata, difficile
da gestire.
E, inevitabilmente, mi
ritrovai a pensare a tutto ciò che era successo con Marco, ma
soprattutto a ciò che non era successo; il tempo perso, le
occasioni mancate, le ripicche, i piani diabolici finiti male...
tutto questo era nato solo per colpa di un'attrazione quasi
incontrollabile, di sentimenti acerbi che ci avevano avvicinato l'uno
all'altra in un momento inadatto, in una fase della nostra vita in
cui non eravamo pronti per affrontare certe cose davvero importanti.
Sicuramente i nostri
sentimenti erano stati profondi e veri, ma noi non eravamo stati in
grado di viverli e di accoglierli. Ci eravamo limitati a farci del
male, ancora e ancora, e in quel momento la situazione non era
diversa.
Niente era cambiato, niente
sarebbe mai cambiato.
Il brano da lui eseguito,
oggettivamente, fu monotono e ripetitivo, nonché veramente
triste e quasi da suicidio; tuttavia non riuscii proprio a
trattenermi e a evitare di versare lacrime amare sui miei stupidi e
inutili ricordi.
«Dieci» dissi
soltanto.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici: Heaven And Hell ***
ReggaeFamily
Capitolo
dodici: Heaven
And Hell
L'attività
di musicoterapia ci servì davvero; dopo la prima parte,
facendo un conteggio dei voti che ognuno di noi aveva ricevuto,
furono proclamati i vincitori, ovvero io, Marco e Tamara.
Dovemmo
cantare un altro brano e trovare una citazione di nostro gradimento
da dedicare al resto del gruppo; questo mi portò a riflettere
ancora di più su ognuno dei miei compagni d'avventura, finché
non mi resi conto che, a prescindere da tutto ciò che
inevitabilmente ci divideva, eravamo legati dalla speranza di non
arrenderci e di fare dei nostri limiti un punto di forza.
Perciò
dedicai loro un brano reggae cantato da una ragazza molto talentuosa,
il che fece piovere su di me ulteriori complimenti che sentivo di non
meritare. Non avevo mai studiato canto, non possedevo nessuna tecnica
e la mia performance non era stata granché. Ciò che
davvero volevo comunicare era un messaggio chiaro: volevo che nessuno
si arrendesse, che tutti guardassero al futuro anche se i loro occhi
non potevano scorgere ciò che si palesava nel loro cammino, di
pensare sempre positivo e amare la vita.
Perché
è lei, la vita, il dono più prezioso che ogni essere
possiede.
Ripensarci
mi faceva sorridere e rendere conto di aver scaricato un sacco di
ansia e malumore; ero molto grata a Maria Vittoria e Alfonso. Quando
ci avevano annunciato che sarebbero tornati per un'altra attività
con noi, ne ero stata subito entusiasta e già non vedevo l'ora
che ciò accadesse.
«Lau,
ci sei?» Tamara attirò la mia attenzione e mi riportò
bruscamente alla realtà.
Eravamo
in camera mia, ci eravamo tornate da poco, e stavamo aspettando che
Viola si decidesse a entrare in doccia.
«Sì,
ripensavo a prima... comunque non sono stata così brava con
quella canzone, esagerati» borbottai.
«Macché.
Sempre a sottovalutarti, che palle! Piuttosto, vi devo raccontare di
Marco!» saltò su mia sorella.
«E
adesso come facciamo? Io devo lavarmi! Venite a farmi compagnia in
bagno?» ci propose Viola, raccattando qualcosa da mettersi.
«Ci
sarà un caldo bestiale dentro quel bagno... e se lasciassimo
la porta aperta? Tanto se arriva qualcuno ce ne accorgiamo io e
Tami!» suggerii. Non avevo nessuna voglia di farmi una sauna
proprio in quel momento, ero già pronta per andare a cena.
«Okay!
Dai Tami, comincia a raccontare!» la sollecitò Viola,
avviandosi a tentoni verso la sua meta.
Marta
scese precipitosamente le scale in legno, producendo un baccano
infernale. «Voglio sentire anch'io!» esclamò,
piazzandosi accanto alla soglia del bagno.
Tamara
andò a sedersi sul coperchio del water e io mi posizionai di
fianco a Marta, pronta a scoprire cosa avesse combinato Marco.
«Allora...
l'altra sera non avevo voglia di andare a dormire, dopo essere andata
via dalla vostra stanza. Così sono scesa e sono andata verso
la stanza dei ragazzi. Lì ho trovato Marco che studiava per i
test d'ammissione, fuori in veranda.»
«Non
capirò mai come fa a studiare al buio e a quegli orari
improbabili...» commentai perplessa.
«Non
chiederlo a me...»
«E
quindi? Arriviamo al dunque!» si agitò Marta curiosa.
«Quindi
mi sono seduta con lui e ho cominciato a giocare con i suoi capelli.
Poi siccome avevo freddo, lui mi ha offerto la sua giacca e si è
messo anche lui a giocherellare con qualche mia ciocca. Ma fin qui
tutto okay, nella norma. Anzi, stavamo ridendo perché in
lontananza si sentiva qualcuno fare karaoke, gente disagiata
s'intende! Erano stonatissimi!» proseguì mia sorella.
«MI
sembra di averli sentiti, è vero!» concordò Marta
in tono divertito.
«Non
era solo questo il racconto, vero?» intervenne Viola, la voce
ovattata per via del getto dell'acqua sotto il quale si era infilata
poco prima.
«No,
aspettate, questo è niente!» Tamara sospirò.
«Ieri, dopo che Lau e Vivi se ne sono andate dalla nostra
stanza, io non avevo molto sonno. Così ho avvisato Giovi che
sarei andata da Marco, sicura di trovarlo immerso nello studio o
comunque sulla veranda della stanza dei ragazzi. Sono scesa e, come
sapete, c'era abbastanza fresco ieri sera, così l'ho trovato
con una coperta enorme e pesantissima addosso...»
Risi.
«Di quelle matrimoniali in lana che ci sono anche nel nostro
armadio?»
«Sì,
esatto. Una di quelle. Stava studiando ed era seduto per terra, così
mi ha offerto un pezzo di coperta e anche io mi sono seduta sul
pavimento. Come al solito abbiamo cominciato a parlare e dire
fesserie, mentre giocavamo l'uno con i capelli dell'altra. Niente di
che, no?»
Ero
sempre più curiosa e preoccupata. «Appunto, e...?»
la incitai.
«E
niente... oddio, aspettate che ancora non ci credo. Okay,
riprendiamoci, ehm...»
«Oddio,
Tami, non farci preoccupare!» disse Viola.
«Tranquille,
ora proseguo! In pratica a un certo punto ha cominciato a lasciarmi
carezze sui capelli e il viso, poi si è mezzo sdraiato su di
me usandomi come cuscino... io non sapevo cosa fare, ero sinceramente
basita, ma ho cercato di non darlo a vedere. Il top è stato
quando mi ha dato un bacio sulla testa. Sono rimasta immobile e...»
«Cosa?!»
strillammo noi tre all'unisono.
«Dimmi
che non è vero!» esplose Marta, scoppiando a ridere.
«Giuro!
E poi... poi me ne ha dato un altro e io lì ho capito che
dovevo andarmene a letto. Anche perché, poco dopo, mi ha
afferrato il mento ed era come se volesse sollevarlo verso di lui,
per...»
Mi
presi la testa tra le mani in preda alla disperazione. «Non è
possibile, che stronzo! Che pezzo di merda!» esclamai
indignata, non riuscendo a credere che davvero Marco fosse arrivato a
tanto.
«Credici!
Nel frattempo avevo i brividi per il freddo e lui mi ha chiesto: “Sei
sicura che stai tremando per il freddo?”. Credeva forse che
stessi tremando per l'emozione di averlo vicino? Ma è proprio
un povero illuso! Vi giuro che a quel punto gli ho detto che volevo
andare a letto e gli ho chiesto di riaccompagnarmi in camera mia.
Meno male che non ha fatto storie!»
«Che
squallore, ragazze, non ci credo... ma vi rendete conto che questo
deficiente neanche due mesi fa voleva ricostruire con me un
rapporto d'amicizia o d'amore e
ora ci prova spudoratamente con mia sorella?! Mi fa schifo! Ma si può
davvero cadere così in basso?» sbottai adirata. Ce
l'avevo con lui, ma ancor di più con me stessa per aver anche
solo rimpianto di non aver costruito qualcosa con lui in passato.
Solo ora mi stavo rendendo
conto che avevo sprecato davvero il mio tempo e le mie energie,
stando appresso a un coglione senza cervello, un pezzente che
ragionava solo con ciò che regnava all'interno delle sue
fottute mutande.
Ero veramente incazzata, ma
sentivo anche una gran pena nei confronti di quel ragazzino stupido e
insensibile; mi faceva pena perché era semplicemente vuoto e
senza una morale, si dava tante arie ma alla fine rimaneva soltanto
un involucro senza cuore né riguardo per il prossimo, un
narcisista egoista ed egocentrico che non badava a niente quando si
trattava di ottenere qualcosa che poteva procurargli piacere.
«Questo è
davvero troppo, vi giuro! Io me ne vado, devo cercare Giovi. Adesso
riderò ogni volta che me lo ritroverò di fronte, che
penuria!» blaterò Marta, per poi lasciare la stanza.
A quel punto anche io
scoppiai a ridere, rendendomi conto che non avevo nessuna voglia né
intenzione di innervosirmi per un essere spregevole come Marco.
Il fatto che uscissi con
Danilo non aveva niente a che vedere con lui ora, perché a
quel punto non avrei potuto lasciarmi andare con Marco neanche se
avessi voluto; mi faceva schifo, ribrezzo, mi disgustava in una
maniera che non sapevo descrivere neanche a me stessa.
Tamara e Viola risero con me
per un bel po' di tempo, e alla fine riuscii a vedere il lato
tristemente ironico della faccenda; non dovevo pormi dei problemi,
l'unico che stava facendo una grossa figura di merda era solo e
soltanto Marco.
Dopo un po' riuscimmo a
riprenderci dalle risate e io mi sentii molto più libera e
rilassata.
«Vivi, ma... hai
finito?» chiesi alla mia compagna di stanza, quando il getto
dell'acqua si interruppe.
«No, devo ancora
insaponare il corpo» rispose lei con semplicità.
Tamara si lasciò
sfuggire un sospiro. «Ma Viola, sei lì dentro da almeno
venti minuti!» esclamò.
«Ordinaria
amministrazione...» bofonchiai, avviandomi verso il mio letto
alla ricerca del cellulare.
«Ragazze! Muovetevi,
tra un quarto d'ora si va a cena!» gridò Giovanna dal
piano di sotto, dopo essersi posizionata sotto la finestra della mia
stanza.
«Arriveremo in
ritardo, sappilo» la avvertii. «Viola è ancora in
doccia.»
«Viola, sbrigati!»
strillò ancora l'educatrice.
Scoppiai ancora una volta a
ridere e finii di sistemarmi, ripensando solo vagamente a ciò
che avevo appena appreso da mia sorella.
Marco era davvero pessimo,
come potevo essermi legata così tanto a lui in passato? E come
avevo potuto permettergli di giocare con me?
Non riuscivo a perdonarmelo,
ma ormai era acqua passata e non potevo certo castigarmi per sempre.
Però, sicuramente,
potevo imparare dai miei stessi errori.
Per cena ci recammo in una
trattoria, la stessa in cui eravamo stati anche l'anno precedente; la
raggiungemmo a piedi, usando il bastone bianco, e devo dire che andò
decisamente meglio rispetto alle altre volte.
Il paese era stranamente
immerso nel buio e presto scoprimmo che c'erano stati dei problemi
con la corrente nelle strade. Fu un'esperienza abbastanza
interessante per tutti, anche per chi solitamente era abituato ad
avere un livello di vista più elevato.
Il tragitto non durò
troppo a lungo, ma io mi sentivo stanca e presto appresi anche non
ero l'unica a sentirmi sfinita quel giorno; anche mia sorella
riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti e, se non fosse stato
per l'ottimo cibo che mandammo giù, probabilmente entrambe ci
saremmo addormentate con la testa dentro il piatto o sul tavolo.
A un certo punto ci fu una
scena piuttosto esilarante, per la quale dovetti trattenere le
risate.
Marco era seduto alla destra
di Tamara e i due ogni tanto scambiavano qualche parola, anche se
spesso Nicolò si intrometteva e cercava di attirare
l'attenzione con una delle sue fesserie.
A un certo punto sentii
Tamara dirgli: «Stanotte dormi allora, ti lamenti sempre che
sei stanco e poi...»
Lui rispose: «Tanto
non ci riesco. Le alternative quindi sono due: o mi metto a studiare
o vieni tu a farmi compagnia».
Rischiai di strozzarmi con
un pezzo di pane e attesi la risposta di mia sorella, curiosa di
scoprire come lo avrebbe rimbeccato.
«Marco, non so neanche
se arrivo al residence, figurati se vengo a farti compagnia... non
esiste, ho troppo sonno!»
Esultai
interiormente per la fantastica risposta di mia sorella e mi
ripromisi di farle i complimenti. Quel cretino non si meritava
nient'altro che rimanere da solo a studiare o a fare ciò che
gli pareva. L'importante era che smettesse di importunarci e che
tenesse le mani a posto, per
il resto non erano certo problemi miei.
Decisi di rientrare a piedi
per evitare di addormentarmi sul furgoncino o in attesa di esso, ma
purtroppo dovetti fare il tragitto a braccetto con Marco, il quale
aveva optato per una passeggiata con la scusa di far scemare un po'
l'effetto del vino che aveva bevuto durante la cena.
Come al solito aveva
esagerato e non aveva saputo quando fermarsi, razza di imbecille. Più
ci avevo a che fare, più sentivo un forte senso di repulsione
farsi strada dentro me.
Ma, da qualche parte,
esisteva ancora quella stupida e pedante attrazione, non riuscivo a
scongiurarla del tutto e questo mi mandava letteralmente in bestia.
Mentre
mi preparavo per andare a letto, misi su un po' di musica e nel
lettore del mio telefono risuonarono le prime note di Heaven
And Hell dei Black Sabbath; mi
piaceva molto quel brano, specialmente perché a cantarlo era
Ronnie James Dio. Lo avevo sempre apprezzato molto più di Ozzy
Osbourne come voce di quella band, così lasciai scorrere la
musica e mi ritrovai a canticchiare qualche parola del testo.
Sing
me a song, you're a singer
Il primo verso della canzone
sembrava fatto apposta per rappresentare l'attività di
musicoterapia che avevamo svolto nel pomeriggio. Ma furono altre
parole a colpirmi.
A volte ci sono dei momenti
in cui, nonostante si conosce un brano da un sacco di tempo, ci si
sofferma per la prima volta su una particolarità di esso a cui
non si aveva mai prestato attenzione.
E a me accadde quando Ronnie
cantò:
Well
if it seems to be real, it's illusion For every moment of truth,
there's confusion in life
In poche parole e con la sua
solita capacità di creare delle vere e proprie poesie, aveva
descritto ciò che pensavo della vita e di quanto mi stava
succedendo ultimamente.
Se
ti sembra che qualcosa sia reale, be', non è altro che
un'illusione, aveva detto. E
cosa c'era di più illusorio dei sentimenti e dei pensieri che
ognnuno di noi si creava nella sua mente?
A me era successo con Marco,
mi ero illusa che fosse una persona diversa, che potesse essere
adatta a me, e invece si era rivolato un vero e proprio idiota.
E come potevo essere certa
che anche con Danilo non stessi sbagliando tutto? Forse non avrei
dovuto pensarci, ma le mie esperienze mi avevano insegnato che non
tutto è come sembra, anzi non lo è mai.
E
Ronnie aveva anche detto che per ogni momento di verità
bisognava aspettarsi solo confusione;
come potevo dargli torto? La verità faceva male, era sempre
così, e non sempre era utile a chiarirci le idee.
Per me quelle parole furono
una rivelazione, così andai a letto con l'amaro in bocca e con
la sgradevole sensazione di aver, ancora una volta, sbagliato tutto.
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici: Don't stay ***
ReggaeFamily
Capitolo
tredici: Don't
stay
La
mattina seguente la trascorremmo in spiaggia; salimmo a bordo di un
pulmino e il viaggio fu abbastanza breve.
Ci
ritrovammo su una distesa di sabbia chiara e quasi deserta; essendo
martedì, c'erano poche persone che avevano deciso di recarsi
al mare. Probabilmente molti avevano da lavorare e avrebbero optato
per il fine settimana.
Sistemammo
le nostre cose e ci stendemmo sui teli, chiacchierando tra noi e
attendendo il momento in cui avremmo potuto fare il bagno. Io non ero
certa di volerlo fare, ancora avevo il ciclo e non mi andava di
rischiare.
Trascorsi
il tempo ad ascoltare musica e parlai poco con il resto del gruppo;
Marco stava intrattenendo una conversazione con l'autista del
pulmino, Simona blaterava insieme a Nicolò, Gabriella parlava
con il cellulare e Giorgio faceva lo stesso, cercando invano di
telefonare ai suoi genitori. In quel luogo non c'era campo e non
sarebbe stato facile per lui mettersi in contatto con la sua
famiglia.
Viola,
invece, chiacchierava con Giovanna e Marta, mentre mia sorella rimase
in dormiveglia con le cuffie alle orecchie per tutto il tempo,
interrompendosi soltanto per fare il bagno insieme a qualche
componente della compagnia.
Ci
fu una scena esilarante durante la mattinata, anche se per Tamara ci
fu ben poco da ridere.
Si
era alzata per andare a fare il bagno e Marco cercava di attirare la
sua attenzione per dirle qualcosa, ma lei non gli prestava
attenzione. A quel punto lui aveva afferrato una delle sue pantofole
e l'aveva sollevata, per poi mollarle un sonoro colpo sulla gamba.
Tamara
si irrigidì sul posto, poi prese a sbraitargli contro: «Ma
che cazzo fai? Sei scemo?! Perché non te la sei pestata in
culo quella ciabatta? Idiota, mi hai fatto male!».
«Scusa,
non l'ho fatto apposta... non pensavo di colpirti così forte!»
si giustificò lui in un borbottio confuso.
«Sì,
scusa un cazzo! Mi hai lasciato il segno, razza di deficiente!»
strillò ancora mia sorella, massaggiandosi furiosamente la
parte posteriore del ginocchio sinistro.
«Scusa,
non incazzarti... non volevo...»
«Ma
vaffanculo!» concluse lei, per poi dirigersi a passo di marcia
verso la riva.
In
effetti la scenetta poteva risultare divertente, dato che a me
comparve un sorriso spontaneo mentre assistevo a quello scambio di
battute, ma Marco si era rivelato come il solito coglione.
Il
tempo trascorse abbastanza in fretta e ci ritrovammo in un chiosco
sulla spiaggia per il pranzo.
Consumammo
i nostri panini, insalate e patatine fritte con voracità,
finché a Tamara non capitò un piccolo incidente.
«Allora...
devo condire l'insalata, vediamo un po'...» disse, frugando in
una ciotola piena di bustine di sale, olio e altri aromi e condimenti
vari. «Sarà olio?» proseguì, cercando di
leggere su una delle bustine. «Qui c'è scritto Olitalia,
quindi è olio!» esclamò infine, per poi aprire il
contenitore e svuotarne il liquido dentro il piatto che le stava di
fronte.
Poco dopo notai che emetteva
un grugnito contrariato e schifato, così le chiesi:
«Cos'hai?».
Era seduta di fronte a me ed
era illuminata da una forte luce, così potevo scorgere almeno
un po' la sua espressione e i suoi gesti.
«Ho
sbagliato... ci ho messo l'aceto anche questa volta»
sbottò con un moto di rabbia e disperazione. «Che
schifo!»
Scoppiai a ridere. «Non
ci credo! Ormai è una tradizione del campo, a quanto pare»
commentai.
«Almeno stavolta non è
colpa mia» borbottò Marco.
Poco dopo aver finito di
pranzare, educatori e istruttori si accostarono a noi e Lucrezia
annunciò: «Un signore ha offerto un Maxibon a tutti voi,
ragazzi».
«Cosa significa?»
domandò mia sorella perplessa; era riuscita a mangiare quasi
tutta l'insalata e aveva fatto in modo di buttare solo lo strato
superiore. Doveva essere già sfinita per le cose negative che
le stavano capitando durante quella giornata.
«Significa
che ha detto di avere una nipote non vedente o qualcosa di simile...
e quindi ha insistito per offrirvi qualcosa. Ha detto che gli fa
piacere vedervi così carini e uniti, così sereni...»
proseguì Giovanna in
tono allegro.
«Ma sul serio?»
feci io basita.
«Che problemi ha?»
rincarò Tamara.
«È stato
gentilissimo!» si commosse subito Viola.
Poco dopo un cameriere
arrivò da noi tenendo in mano un vassoio stracolmo di gelati.
Tutti ne prendemmo uno e cominciammo a mangiarlo con estremo piacere.
Certo che situazioni come
quella potevano capitare solo a noi...
«Sono stanchissima»
sbadigliai, mentre il pulmino si fermava nel parcheggio del
residence.
«Dormi» mi
suggerì Marco.
«Non penso proprio. Ho
bisogno di una bella doccia, sicuramente mi farà bene.»
Avevamo trascorso qualche
ora del pomeriggio nuovamente in spiaggia e verso le cinque e mezza
eravamo ripartiti verso la nostra momentanea abitazione.
Quando il mezzo si fu
fermato, Marco fu il primo ad alzarsi e aspettò che anche noi
lo facessimo. Era in piedi nel corridoio tra i sedili e si era
rivolto verso gli ultimi quattro sedili dove ancora io, Tamara e
Viola eravamo sedute.
La mia compagna di stanza
era posizionata su quello centrale che dava direttamente sul
corridoio. Si chinò in avanti per infilare qualcosa dentro la
sua sacca e andò quasi a sbattere con la fronte sulle parti
basse del ragazzo.
«Vivi,
guarda che mi stai per mettere la faccia dove
non batte il sole...» le fece notare lui con ironia.
Viola si rimise seduta e
raddrizzò la schiena, senza scomporsi troppo. Sorrise appena
e, con estrema serietà e naturalezza, affermò: «Scusa,
volevo solo controllare che non fosse ammuffito».
Calò il silenzio per
un istante, poi io e mia sorella scoppiammo rumorosamente a ridere,
cominciando a elogiare la nostra amica come se non ci fosse un
domani. Era stata epica la sua affermazione, ma soprattutto il modo
in cui l'aveva pronunciata.
Marco parve confuso.
«Scusate, perché state ridendo? Non ho capito...»
farfugliò.
«Ma sul serio non ci
arrivi?!» sbottò Tamara, contorcendosi sul sedile per il
troppo ridere.
«Non ho sentito!»
obiettò lui.
Sospirai. «Viola
voleva controllare che le tue parti basse non avessero la muffa»
ripetei, per poi piombare nuovamente nell'ilarità più
profonda. «Ah Vivi, sei un fottuto genio! Sto morendo!»
«Che stronze!»
ci accusò Marco irritato.
«Rimarrà nella
storia!» osservò mia sorella.
Marco prese a borbottare tra
sé e sé, avviandosi lentamente verso l'uscita del
pulmino. Io e le ragazze continuammo a ridere come pazze e, una volta
all'esterno del mezzo, raccontammo tutto a Giovanna e Marta.
Le due si unirono
all'ilarità generale e si complimentarono con Viola per la
geniale trovata.
Lei
sorrise ingenuamente. «Eppure non l'ho detto con
malizia» si giustificò.
«Ed è per
questo che sei stata fantastica!» le assicurai, guidandola
verso la nostra stanza.
Non vedevo decisamente l'ora
di buttarmi sotto la doccia.
«Sei seria?» si
sorprese Viola in tono schifato.
«Serissima»
confermò Tamara.
«Non ci credo»
intervenni io.
«Credici, perché
è così. Non si è voluta lavare neanche oggi. Vi
rendete conto?»
Marco rise brevemente. «Che
schifo!»
«Puoi contarci! In
camera nostra c'è una puzza terribile, un misto tra quella di
maneggio e altri odori non meglio classificati» raccontò
mia sorella. «Senza contare che Simona sgancia delle bombe
rumorose e puzzolenti ogni tre secondi.»
«Smettila, ti prego!»
si rivoltò Viola.
«Cioè,
fammi capire... Gabriella davvero
si è rifiutata di fare la doccia? Domenica siamo andati al
maneggio, ieri in piscina e oggi al mare... cristo, mi viene la
nausea e non ti invidio per niente!» sbottai contrariata,
avvertendo un moto di repulsione farsi largo nel mio stomaco.
Ci trovavamo tutti e quattro
sdraiati sul letto mio e di Viola; avevamo cenato da circa mezzora e
poi ci eravamo spostati nella nostra stanza per stare un po' insieme
a poltrire e chiacchierare.
Io
mi ero sistemata all'estrema sinistra del materasso, Tamara era alla
mia destra, accanto a lei c'era Marco e infine Viola. Eravamo
completamente immersi
nell'oscurità, ma questo non ci importava più di tanto
perché la luce attualmente non ci era di alcuna utilità.
«Io non capisco come
faccia» sospirò Tamara, ponendo fine alla disgustosa
conversazione basata sulla poca igiene di Gabriella.
«Domani ho l'esame,
speriamo bene» raccontò Marco.
«A che ora parti?»
si informò Viola.
«Ho il treno alle
nove...»
«Andrà bene,
non fai che studiare da giorni» lo rassicurò Tamara.
«Chissà...»
Io nel frattempo ricevetti
un messaggio in cui Danilo mi augurava la buonanotte e sorrisi per il
fatto che erano soltanto le undici di sera. Risposi con calore e
abbandonai il cellulare sul comodino, ascoltando le chiacchiere dei
miei amici.
A un certo punto, giusto per
fare la cretina, presi a tormentare mia sorella, dandole dei colpetti
sulla schiena e fingendo di volerle saltare addosso.
«Uffa, smettila...
lasciami tranquilla, sono comoda e vorrei dormire...» biascicò
lei.
«Non dormirai in
camera mia!» esclamai, cominciando a farle il solletico.
Lei prese a dibattersi e
così ebbe il via una rumorosa lotta tra noi due; era
divertente sentire le sue proteste e i gridolini che lanciava ogni
volta che le solleticavo un punto qualsiasi del corpo.
«Sei ipersensibile!»
commentai.
«Anche
tu se è per questo! Ora ti faccio vedere» sghignazzò
Tamara, per poi restituirmi il favore.
«Smettetela di fare
casino, dai!» si lamentò Viola con il sorriso nella
voce. «Altrimenti Marta ci sgrida!»
«Tami, basta, oddio...
muoio... okay, hai ragione, hai vinto! Basta!» protestai, per
poi ritrovarmi nel punto del materasso in cui, fino a poco prima, era
stata lei. Questo significava che Marco era alla mia destra, sentivo
chiaramente la sua presenza e questo mi metteva un po' a disagio.
«Così impari!»
ribatté mia sorella con ironia, per poi abbandonarsi sul letto
e rannicchiarsi su se stessa, occupando il mio precedente posto.
Io feci di tutto per
rimanere rilassata il più possibile, ma era chiaro che
ritrovarmi sdraiata accanto a Marco nell'oscurità mi
procurasse sensazioni contrastanti. Da un lato avrei voluto scappare
via all'istante, per paura che lui allungasse anche un solo dito su
di me; dall'altro, invece, volevo metterlo alla prova, ero curiosa di
scoprire cosa sarebbe successo. Lo conoscevo troppo bene, e forse per
questo avrei dovuto allontanarmi immediatamente da lui.
Invece rimasi lì e
tentai di stare tranquilla, di non pensare male, di godermi quel
momento di pace con i miei amici.
Ben presto, però,
dovetti ricredermi.
Eravamo
rimasti in silenzio e ognuno pareva immerso nei propri pensieri. Io
avvertivo una certa tensione, un'elettricità sinistra
nell'aria, anche se non capivo se fosse solo un'impressione mia o se
fosse reale.
Un istante dopo avvertii un
movimento alla mia destra, poi una delle mani di Marco si posò
sul mio fianco. Mi irrigidii sul posto e cominciai ad avvertire i
battiti accelerati del mio cuore. Cosa stava facendo? Perché
mi stava toccando?
Imperterrito, allungò
anche l'altro braccio e lo incastrò intorno alla mia vita,
cercando di trascinarmi più vicino a sé.
Don't
stay!
Io opposi resistenza,
cercando di mantenere il controllo. Nella mia mente volteggiavano
mille pensieri sconclusionati, non sapevo come fare a tenerli a bada.
Danilo
è più importante di lui.
Esco
con Dani, mi piace davvero...
Marco,
perché mi fai questo?
Togli
quelle mani.
Non
muoverti, non lasciarmi andare.
Laura,
riprenditi, che ti succede?
Non
togliermi le mani di dosso...
Spostati,
Laura, allontanati. Ora. Subito.
Mi agitai e cercai di
indietreggiare, di schiacciarmi contro il corpo immobile di mia
sorella che fingeva di dormire.
Don't
stay!
«Dai...»
sussurrò Marco.
Non
ascoltarlo, non ascoltarlo, non ascoltarlo.
È
così dannatamente difficile...
È
così dannatamente attraente...
Il mio corpo reagiva a
quella vicinanza, il mio corpo mi stava tradendo e stava tradendo
Danilo. Avvertivo chiaramente un calore intenso farsi largo tra le
mie cosce e invadere ogni cellula di me, rendendomi così
sensibile a ogni singolo respiro che Marco produceva. Anche se non
eravamo stretti l'uno all'altra, era palese che qualcosa stava
capitando.
Laura,
cosa cazzo fai? Spostati!
Don't
stay!
Non
ci riesco, ci riesco, non ci riesco, ci riesco...
Marco fece leva con le
braccia e riuscì a trascinarmi contro di sé. Mi
ritrovai con il viso a pochi centimetri dal suo, il cuore a mille, il
respiro accelerato e il corpo in fiamme per quell'improvviso e
maledetto contatto.
Marco chinò appena il
viso e per poco non lo affondò nel mio petto.
Don't
stay!
A quel punto mi riscossi
bruscamente, rendendomi conto di cosa stava succedendo e di cosa non
doveva assolutamente succedere. Stavo frequentando Danilo e non
volevo rovinare il nostro rapporto per colpa di un coglione
qualsiasi, per colpa di uno stronzo che il giorno prima aveva provato
spudoratamente a baciare mia sorella.
Lo spinsi via con forza e,
senza fare tante storie, mi voltai di spalle e costrinsi Tamara a
tornare al suo posto, asserendo di dover usare il cellulare che era
in carica e il filo non era abbastanza lungo per arrivare fin dov'ero
io.
Lei infine cedette e ci
scambiammo nuovamente di posto.
Don't
stay! Forget our memories, Forget our possibilities...
Dentro mi sentivo una vera
merda. Faticavo a regolarizzare il respiro e avvertivo una forte
agitazione emotiva e fisica scuotermi nel profondo.
Cosa
cazzo ho fatto?
E mentre mi torturavo con
quell'interrogativo, un fastidioso desiderio continuava a farsi
strada dentro di me, tra le mie cosce e in tutto il mio corpo.
Un desiderio colmo di
patetica frustrazione.
Just
give me myself back and... Don't stay!
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici: Who you think you are? ***
ReggaeFamily
Capitolo
quattordici: Who
you think you are?
Senti...
non mi è piaciuto per niente come ti sei comportato ieri sera.
Sappi che non ho nessuna intenzione di rovinare il mio rapporto con
Danilo per le strane idee che ti sei messo in testa. Vedi di
comportarti civilmente e di non provare più a fare ciò
che hai fatto ieri, non mi è andata affatto giù questa
cosa, Marco. Forse non ti è chiaro che sono impegnata e tengo
a stare tranquilla.
Lau,
guarda che non l'ho fatto con malizia, stavo solo giocando...
comunque, va bene... ti starò alla larga, anche se le mie
intenzioni sono state travisate
Stranamente
a me non è sembrato affatto un gesto innocente... sbaglierò
io, ma comunque grazie, meglio se eviti di rifarlo.
Mi ero svegliata di
malumore, incazzata e senza alcuna voglia di scherzare; il ricordo di
quanto successo con Marco la sera prima mi stava martellando in testa
e non ne potevo più.
Così, in preda alla
rabbia, gli avevo scritto un messaggio per mettere in chiaro le cose.
Non volevo assolutamente che si ripetesse, e lui doveva saperlo
subito perché sarebbe partito abbastanza presto per andare a
sostenere il test di ammissione e non lo avrei visto.
Nel frattempo, visto che mi
ero svegliata da poco e ancora stazionavo in bagno, avevo inoltrato
la conversazione con lui anche a Tamara, in modo che sapesse tutto in
tempo reale, e poi ne avremmo parlato più tardi.
Poco più tardi,
mentre finivo di vestirmi, mia sorella ci raggiunse in camera:
sembrava piuttosto sconvolta e si lasciò cadere sul letto con
un sospiro.
«Sul serio quel...
quel... quel cretino ci ha provato con te?! Dopo che ha provato a
baciarmi? Che squallido, oddio, che schifo!» trillò
Tamara con indignazione.
«Già, a quanto
pare, vedendo che tu non ci stavi, se l'è tentata con me. Ah,
no, ma guarda che lui non l'ha fatto con malizia, eh! Sono io
ad aver travisato le sue buone intenzioni, capito? Ma vai a
cagare!» sbottai, aggirandomi come una furia per la stanza in
cerca di una delle mie infradito.
«Come no...»
«Questo è
sempre peggio» commentò Viola, uscendo dal bagno proprio
in quel momento. «Tu, Tami, come stai? Mi sembri un po'
sconvolta... hai una faccia strana...» aggiunse poi.
«Vivi, come fai a
vedere la sua faccia?» scherzai.
«Non so, me ne accorgo
anche se non la vedo! Allora?» incalzò nuovamente la
nostra amica.
«Non vi dico quanto è
stato traumatico il mio risveglio... dormivo così bene, finché
non ho aperto gli occhi a causa delle grida disumane di Simona, voi
non avete idea di quanto l'ho odiata!» raccontò mia
sorella in tono esasperato.
«Ma perché
gridava?» volle sapere Viola, anticipando la mia stessa
domanda.
«Non ho capito granché
perché mi ero appena svegliata, ma stava blaterando a
proposito di voler andare a tutti i costi a prendere i biscotti nella
casa di Nicolò e altre cazzate... c'era Giovi, poverina, che
cercava di farle capire che non era il momento e che ognuno doveva
fare la colazione nella sua stanza, ma lei non voleva saperne di
stare zitta! Pensate che anche Gabriella le ha intimato di piantarla,
il che è grave... oddio, non immaginate il trauma che ho
vissuto!»
Io e Viola eravamo basite.
Possibile che durante questi dannati campi non potesse succedere
qualcosa di normale? Non ne potevo decisamente più.
Ero soltanto felice che
quella sarebbe stata la mia ultima esperienza con i campi.
«In pratica ha provato
ad abbracciarmi e poi ha anche asserito di non averlo fatto con
cattive intenzioni o malizia» stavo raccontando. Ero al
telefono con Danilo, dopo essere rientrata da un veloce giro in paese
alla ricerca di qualche souvenir da regalare ai miei amici e parenti.
«Chi ci crede?»
disse lui con calma.
Forse
troppa calma.
«Appunto. Così
l'ho rimesso al suo posto, gli ho detto che non doveva permettersi
visto che sono impegnata con te e che non mi è piaciuto per
niente il suo comportamento» mi affrettai ad aggiungere.
«Io mi fido di te»
mi assicurò Danilo senza scomporsi.
«Grazie, anche perché
non c'è proprio bisogno di preoccuparsi. È soltanto un
idiota.»
«Se poi dovesse
rifarlo, ci parlo io e vediamo» asserì in un tono che
non aveva nessuna traccia di una qualche minaccia.
«Macché, non si
permetterà, vedrai. Dimmi di te, invece... che combini?»
cambiai argomento, stanca di parlare di Marco e delle sue stronzate.
«Ieri sono andato dal
parrucchiere a farmi sistemare i capelli, oggi stavo aiutando mio
padre a montare il televisore nuovo. Ora siamo in pausa, poi dopo
pranzo riprendiamo.»
«Ma che bravo!»
esclamai con poco entusiasmo.
«Eh, ormai io e mio
fratello siamo grandi, è giusto che lo aiutiamo, dai.»
«Ovvio. Be', Dani, io
ora devo andare... ci sentiamo dopo? E in ogni caso per messaggi,
okay?» gli proposi, sapendo di dover tornare in piscina dagli
altri.
«Certo, va bene. A
dopo, ciao cucciola.»
«Ciao» conclusi,
interrompendo la conversazione. Sospirai tra me e me, contenta che
lui non se la fosse presa per la faccenda di Marco, ma anche un po'
preoccupata per la sua scarsa, inesistente, gelosia. Potevo
considerare normale una reazione del genere?
Mi ritrovai a pensare che
noi donne eravamo proprio complicate: se un uomo si mostrava con noi
troppo geloso, possessivo e pressante, questo ci infastidiva; se un
uomo, al contrario, ci dedicava poche attenzioni e sembrava quasi
distaccato, ci sentivamo trascurate.
Ma forse anche gli uomini
erano strani, perché difficilmente riuscivano a trovare una
via di mezzo tra i due estremi. Chissà perché...
Eravamo a bordo di un
autobus che ci stava conducendo verso la città; erano passate
da poco le cinque e mezza del pomeriggio e gli istruttori avevano
pensato per noi un'attività di orientamento e mobilità
di squadra. Non sapevamo ancora cosa ci avrebbe atteso, ma con i
presupposti di quanto accaduto in precedenza, c'era poco da stare
tranquilli.
Mia sorella si era
appisolata sul sedile e io avevo raccontato le novità su Marco
a Giovanna. Lei non era rimasta affatto sorpresa, forse perché
ormai aveva capito che razza di esemplare fosse lui.
«Ma ti rendi conto?»
bisbigliai, evitando che il resto del gruppo udisse i fatti miei.
Lei
sorrise. «Ripeto: pensavo che farsi una famiglia
significasse qualcosa di diverso.»
Risi. «Questa massima
mi piace, sai? Sei un genio!» le dissi.
«Ma è la
verità. Che squallore, ragazzi miei.»
Il viaggio durò
ancora pochi minuti, durante i quali chiacchierammo del più e
del meno, finché non scendemmo alla stazione degli autobus e
ci riunimmo per ascoltare le dritte degli istruttori.
«Ragazzi, vorremmo che
cercaste un regalo per Marco, visto che lui oggi non è con
noi. Sarete divisi in due gruppi e dovrete, infine, raggiungere la
piazza principale di questa cittadina. A formare le squadre saranno
Laura e Tamara.»
«Perché un
regalo per Marco?!» sbottai.
Lucrezia
sorrise appena. «Lui oggi non c'è, quindi abbiamo
pensato di fargli un pensierino che
possa portargli fortuna per l'esame che ha sostenuto e per il
prossimo che dovrà affrontare
dopo la fine del campo. Almeno sarà una sorpresa».
Non replicai, anche se
sinceramente quell'idea non mi garbava per niente. Finii per
arruolare nella mia squadra Viola e Nicolò, e mia sorella si
ritrovò con Simona, Gabriella e Giorgio.
Fu abbastanza estenuante
portarsi appresso quella piaga di Nicolò, visto e considerato
che spesso camminava troppo in fretta e usava male il bastone bianco;
quell'esperienza mi ricordò quando, al precedente campo, il
ragazzino aveva rischiato di essere investito da un'auto perché
non aveva dato ascolto né a me e Viola, né ai consigli
e le dritte di Lorenzo che aveva cercato di spiegargli più e
più volte come adoperare il suo bastone.
Andò piuttosto bene,
nonostante tutto, ma ci fu un momento in cui stimai profondamente
Nicolò come mai prima d'allora.
Ormai la luce era davvero
poca per me, così avevo sfoderato il bastone e anche io mi
muovevo con il suo supporto, esattamente come i miei compagni non
vedenti. Ci trovavamo in una stradina pedonale, così decidemmo
di camminare uno accanto all'altro e di prenderci sottobraccio per
rimanere uniti, visto che io non ero più in grado di badare a
loro e di capire dove si trovassero esattamente.
Stavamo procedendo
tranquillamente e ormai eravamo quasi arrivati alla piazza
principale, dalla quale poi avremmo raggiunto un qualche negozio per
comprare qualcosa per Marco. A un certo punto un ragazzino in
bicicletta passò accanto a noi, sfrecciando a tutta velocità,
e gridò: «Ma insomma, levatevi dai coglioni!».
Una rabbia incontrollabile
mi invase, ma non feci in tempo a formulare una risposta, che Nicolò
aveva già provveduto: «Deficiente, guarda che siamo
ciechi!».
Io e Viola cominciammo
subito a complimentarci con lui e alla fine scoppiammo tutti e tre a
ridere, contenti di aver fatto valere la nostra posizione e augurando
al tizio ogni male possibile e immaginabile.
Finimmo per recarci in un
tabacchino che affacciava sulla piazza e acquistammo un portacenere
portatile per Marco, giusto per adempiere al nostro compito. Io non
avevo nessuna intenzione di fargli un bel regalo, non era poprio il
caso. Inoltre, era talmente tirchio che non se lo meritava a
prescindere da tutto il resto.
Ci riunimmo con il resto dei
nostri compagni e decidemmo di recarci in un bar per un aperitivo;
erano solo le otto meno un quarto ed era troppo presto per andare a
cena, contando che gli istruttori avevano prenotato per le otto e
mezza in un locale situato in una delle stradine pedonali che
circondavano la piazza.
Prendemmo qualcosa da bere e
poi ci ritrovammo a parlare dell'attività appena vissuta:
Tamara raccontò che aveva avuto molta difficoltà a
orientarsi e che era stato un po' un problema aiutare anche gli altri
ragazzi che stavano nella sua squadra; a noi era andata piuttosto
bene rispetto a loro, se si faceva eccezione per il comportamento
poco collaborativo di Nicolò e il piccolo diverbio con
quell'idiota in bicicletta.
Infine andammo a cena e lì
ci raggiunse Marco, reduce dell'esame e di una giornata lontano da
noi e dall'atmosfera del campo.
Subito cominciò a
raccontare che aveva bevuto un bel po' durante la giornata, che
l'esame era andato decentemente – o almeno così sperava
– e che aveva comprato due bottiglie di non so quale vino
costoso che conosceva lui per offrirle a educatori e istruttori
durante l'ultima sera del campo.
Mi ricordai che ormai
eravamo agli sgoccioli: mancavano solo due giorni alla fine di
quell'esperienza e io non vedevo decisamente l'ora. Volevo rivedere
Danilo, i miei amici e lasciarmi alle spalle tutto ciò che era
capitato durante quei dieci giorni.
«Questo pomeriggio ho
preparato una playlist per la serata di domani» raccontai a
tutti e nessuno in particolare.
Marco non mi rispose, mentre
Tamara e Viola mi chiesero che cosa ci avessi messo dentro. Elencai
qualche canzone, ma dissi loro che sarebbe stata un po' mista e
adatta ai gusti di tutti.
Notai
che Marco evitava di commentare quando io dicevo qualcosa, non
sembrava per niente intenzionato
a parlare con me; doveva essersela presa per quello che gli avevo
detto quella mattina per SMS, ma a me non interessava: avevo soltanto
espresso il mio pensiero, lui era nel torto e avrebbe dovuto scusarsi
con me, anziché cercare di giustificarsi.
A un certo punto si svolse
una scena piuttosto comica e raccapricciante: avevamo appena finito
di mangiare e aspettavamo le nostre crepes dolci. Io l'avevo ordinata
con cioccolato fondente e noci e non vedevo l'ora di tuffarmici
sopra.
Marco, intanto, intercettò
una cameriera e le chiese: «Scusi, mi può portare un
Montenegro?».
Lei annuì e si
allontanò.
Mia sorella, seduta di
fianco a lui, commentò: «Giusto per rimanere leggero e
per non integrare la dose di etanolo già presente nel tuo
organismo».
«Ma cosa vuoi che
sia... tu non mi hai mai visto ubriaco, fidati.»
«E cosa c'entra?»
Marco sbuffò. «Pensa
che una volta sono andato a suonare a un matrimonio, ma mi sono
ubriacato così tanto che a un certo punto sono caduto e ho
sbattuto il mento non so neanche dove. Ero così fuori che non
sentivo neanche il dolore, me ne sono accorto solo perché me
l'hanno fatto notare!» Sembrava divertito dalla sua bravata,
mentre io mi sentivo sempre più disgustata.
«E poi? Sei riuscito a
suonare?» volle sapere Tamara perplessa.
«Sì, sì...
alla fine è andato tutto bene! È stato troppo
divertente!» le assicurò lui in tono soddisfatto.
«Uh, che spasso!
Immagino!» lo prese in giro lei con pungente ironia.
Nel frattempo la cameriera
cominciò a distribuire qualche crepe e consegno anche l'amaro
a Marco, il quale cominciò subito a tracannarlo tutto d'un
fiato.
Poi si voltò verso
Tamara per parlarle, ma lei immediatamente gli si rivoltò
contro: «Marco, girati! Hai una puzza terribile di quello
schifo che ti sei bevuto, mi fai venire la nausea!».
Lui prese a borbottare
qualcosa di incomprensibile, mentre io me la ridevo e commentavo
insieme a Viola, scoprendo che entrambe avrebbero tanto voluto
erigere una statua in onore di mia sorella: era stata davvero mitica!
Rientrammo al residence che
non era ancora mezzanotte, ma eravamo troppo stanchi per fare
qualsiasi cosa.
Così ci gettammo a
letto senza perdere tempo: il giorno dopo ci saremmo dovuti svegliare
piuttosto presto.
Inviai un messaggio a
Danilo, Beatrice e Anna per augurare loro la buonanotte e scivolai in
un sonno senza sogni, troppo sfinita anche per elaborare un qualsiasi
pensiero logico.
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici: Are you gonna be my girl ***
ReggaeFamily
Capitolo
quindici: Are
you gonna be my girl
Sole, sole, sole. C'era sole
ovunque, neanche uno sprazzo d'ombra, neanche per idea.
I miei piedi, così
come quelli dei miei compagni d'avventura, avanzavano per inerzia
sullo stretto sentiero sterrato. Eravamo circondati soltanto da bassi
cespugli di macchia mediterranea, niente che potesse confortarci
dalla calura che si abbatteva spietata sui nostri corpi stanchi.
Dopo dieci giorni di campo,
una sfacchinata del genere non ci voleva; forse avrebbero dovuto
organizzarla all'inizio, quando ancora avevamo le energie necessarie
per affrontare qualsiasi cosa. In ogni caso, non capivo come una
passeggiata naturalistica alla scoperta della macchia mediterranea
potesse svolgersi in piena mattinata. Rischiavamo seriamente
un'insolazione.
«Dai, fate uno sforzo!
Arriveremo presto al mare!» continuava a ripeterci una delle
guide, di cui avevo già dimenticato il nome.
Eravamo decisamente
stravolti: in linea di massima eravamo sfiniti, dal canto mio
avvertivo il solito mal di schiena farsi sempre più pungente,
mentre Marco aveva mal di testa.
«A pranzo non bevo»
dichiarò a un certo punto.
Mia sorella rise. «Non
ci credi neanche tu» lo contraddisse con ironia.
«No, no... vedrai...
ho un mal di testa atroce...»
Dentro me sapevo che Tamara
aveva ragione: quel cretino non avrebbe resistito alla tentazione di
prendersi una birra o un quarto di vino durante i pasti. Era un caso
perso.
«Io te l'avevo detto
ieri, no? Avevo scommesso che avresti avuto il mal di testa e ho
vinto! Sono un genio!» continuò a schernirlo Tamara,
sempre più divertita dalle condizioni del ragazzo.
Lui non rispose e si limito
a borbottare qualcosa d'incomprensibile. Tipico di chi si trova in
torto e non può assolutamente negarlo.
Non so quanto tempo
trascorremmo a camminare, mi parve infinito, finché finalmente
non ci fermammo su una spiaggetta deserta e molto bella. Ci
sistemammo sulla sabbia e ci accostammo alla riva per rinfrescarci e
fare il bagno, ma subito ci accorgemmo che era pieno zeppo di pesci
che non facevano che pungerci i piedi e le caviglie. Rinunciai
all'idea di fare un bagno decente e, sbuffando, mi accostai alla mia
borsa. Decisi di ristorarmi un po', bevendo diversi sorsi d'acqua e
mangiando i miei immancabili grissini al sesamo.
Troppo tardi mi resi conto
che, per andare via, avremmo dovuto ripercorrere tutto il tragitto a
piedi e mi sentii mancare. Non ce la potevo fare.
Stranamente, il ritorno
verso il pulmino fu più breve, forse perché le guide
avevano scelto una sorta di scorciatoia; quando arrivammo alla nostra
meta, stavo morendo di fame e di sete, non vedevo l'ora di andare a
pranzo e sedermi, per poi rialzarmi il più tardi possibile.
Il problema era che non
avevamo tempo: alle quattro del pomeriggio avremmo avuto il secondo
incontro con Maria Vittoria e Alfonso, e quando giungemmo a un
chiosco per pranzare, si erano già fatte le due.
Mi ritrovai seduta accanto a
Marco e la cosa mi lasciò piuttosto indifferente, anche perché
stavo pensando solo a ciò che avrei mangiato. Ordinai dei
ravioli al pomodoro, una caprese e delle patatine fritte e attesi con
ansia che il mio cibo arrivasse.
Potei presto constatare che
Tamara aveva vinto la seconda scommessa – che, piuttosto, era
stata una certezza fin dal principio – della giornata:
inizialmente Marco ordino una Coca Cola, ma a metà del pranzo
richiamò la cameriera e si fece portare un quarto di vino
rosso, dopo aver appreso con la birra c'era solo in formato da
trentatré centilitri e lui l'avrebbe voluta da sessantasei.
Un caso perso, mi fece
veramente schifo e pena, non vedevo l'ora che il campo finisse anche
e soprattutto per non doverlo più vedere e non dover più
assistere a certe scene raccapriccianti.
Una volta rientrati al
residence, non avemmo neanche il tempo per darci una rinfrescata: si
era già fatto tardi, Maria Vittoria e Alfonso arrivarono
puntuali e ci riunirono nuovamente di fronte alla stanza dei ragazzi.
Ero piuttosto seccata dal
fatto di non avere neanche un minuto per riprendere fiato: avevamo
sudato come cammelli durante la passeggiata, inoltre ci eravamo
buttati in spiaggia e qualcuno aveva fatto il bagno. Era da animali
non correre in doccia fin da subito, ma ancora una volta noi ragazzi
non avevamo avuto voce in capitolo e ci eravamo dovuti attenere alle
decisioni prese dall'alto.
«Lau?» mi
richiamò Tamara, mentre aspettavamo che i due nuovi arrivati
cominciassero a spiegarci cosa avremmo fatto quel pomeriggio.
«Dimmi.»
«Ma... anche tu hai
notato che Samuele non si è mai cambiato i pantaloni da quando
siamo arrivati? Ha sempre quegli orribili bermuda in fantasia
militare...» bisbigliò in tono indignato.
Risi. «Sì, e
tra l'altro si è portato appresso solo due magliette. Gliene
ho visto addosso solo due durante tutti questi giorni.»
«Secondo me si è
portato appresso solo quello zaino che ha sempre addosso, in cui ha
ficcato solo una maglietta di ricambio e forse qualche capo di
biancheria intima. Mi viene da vomitare...»
Scoppiammo a ridere, così
Viola volle sapere cosa ci stesse prendendo. Tamara le spiegò
la situazione e anche lei si unì alla nostra ilarità,
asserendo che probabilmente quelli erano gli unici vestiti in suo
possesso.
Maria Vittoria, poco dopo,
attirò la nostra attenzione. «Ragazzi, oggi faremo
qualcosa di diverso rispetto all'altra volta.»
«Cosa?» si
incuriosì subito Nicolò.
«Ora ve lo spieghiamo,
giovanotto» lo rassicurò Alfonso con un leggero sorriso.
La donna proseguì:
«Ora vi daremo un cartoncino su cui ognuno di voi dovrà
scrivere alcuni suoi pregi. Mi raccomando, solo qualità
positive. Devono essere ameno cinque».
Nel frattempo ci
distribuirono qualcosa su cui scrivere e alcuni pennarelli e penne;
decidemmo che noi ipovedenti avremmo aiutato i non vedenti a scrivere
le loro qualità, dato che non era disponibile, al momento, del
materiale per far sì che loro scrivessero in braille.
Fu piuttosto difficile
scrivere qualcosa di positivo, non solo per me, ma per tutti noi;
alla fine riuscii a buttar giù qualche parola, come per
esempio schiettezza o empatia.
Quando finimmo tutti di
annotare i nostri pregi, Maria Vittoria ci spiegò come avremmo
proceduto: «Ora ognuno di voi leggerà a voce alta ciò
che ha scritto, e gli altri dovranno commentare, dicendo ciò
che pensa. Se pensate che i pregi scritti dai vostri amici siano
corretti o se avete dei suggerimenti per far sì che migliorino
qualcosa di loro stessi, non esitate a dirlo. Dovete essere sinceri
il più possibile».
«Interessante...»
commentai.
Così cominciammo
l'attività; mi ritrovai a essere veramente sincera con tutti,
perché lo scopo di ciò che stavamo facendo era proprio
quello, e inoltre nessuno avrebbe dovuto prendersela per i consigli e
suggerimenti altrui.
A Nicolò dissi che
forse avrebbe dovuto essere più tranquillo ed evitare di
infastidire gli altri con il suo modo di fare sempre esuberante e
pedante, perché comunque ognuno aveva il diritto di avere i
suoi spazi e lui non poteva permettersi di disturbare ogni volta che
ne aveva voglia. A Gabriella e Simona dissi più o meno
qualcosa del genere, aggiungendo che avrebbero dovuto contenersi ed
evitare di ripetere sempre le stesse cose all'infinito, perché
gli argomenti che portavano fuori non sempre erano di interesse
comune e le persone potevano anche non aver interesse per i loro
discorsi, soprattutto se ripetuti allo sfinimento. A Giorgio dissi
che, secondo me, avrebbe dovuto impegnarsi maggiormente per
socializzare e per mostrare il vero se stesso, dato che era un
ragazzo simpatico, intelligente e divertente, doveva soltanto
portarlo fuori e mettersi in gioco.
A Viola dissi che spesso era
testarda e che avrebbe dovuto ascoltare maggiormente i consigli che
le venivano dati, perché su certi argomenti non poteva avere
ragione sempre e solo lei; le dissi anche che a volte si lasciava
influenzare dalle persone sbagliate, che magari con forza e con
determinati modi di fare, riuscivano a convincerla di cose che lei
non avrebbe mai condiviso, se avesse ragionato con la sua testa.
A Tamara più o meno
dicemmo tutti che era molto dolce e sensibile, ma che aveva tanti
problemi con l'autostima; le consigliai di non sottovalutarsi perché,
se avesse imparato ad amarsi, avrebbe scoperto di essere una persona
davvero apprezzabile e bella.
Lei parve commossa, dato che
tutti le stavano facendo un sacco di complimenti che non credeva di
meritare; le sembrava strano che tutti pensassero tante cose positive
di lei.
Anche io, francamente, mi
sentivo sull'orlo delle lacrime; sentire tutti noi parlare con tanta
sincerità gli uni degli altri era qualcosa di davvero bello:
non c'era astio, non c'era competizione, non c'era rabbia. Mi
ritrovai a pensare che quell'attività di autocritica e di
riscoperta di se stessi e degli altri sarebbe stata molto utile per
molti di noi.
Quando arrivò il
momento di parlare di Marco, lui esclamò: «Adesso tutti
mi diranno che sono un beone!».
Io gli dissi: «In
effetti quello non si può negare».
Gli spiegai che secondo me
era troppo chiuso in se stesso e che avrebbe dovuto, ogni tanto,
aprirsi e affidarsi agli altri quando aveva qualche problema, anziché
rifugiarsi in modi effimeri e inutili come l'alcol o il fumo, che non
avrebbero comunque risolto un bel niente. Inoltre gli dissi che
avrebbe dovuto accettarsi di più, accettare anche il suo
essere ipovedente.
Poco dopo giunse il mio
turno di essere bersagliata; stranamente, ricevetti anche io dei
buoni complimenti, anche se qualcuno mi disse che avrei dovuto
calmarmi e cercare di non dare di matto per tutto. Mi dissero che ero
impulsiva e che spesso non davo ascolto agli altri, ma che comunque
avevo un buon carattere, sapevo stare in gruppo e aiutare chi ne
aveva bisogno.
Mi fece piacere ricevere
certi consigli da loro, perché in un modo o nell'altro avevano
imparato a conoscermi e sapevo che avevano certamente ragione.
Qualche lacrima sfuggì
al mio controllo, proprio perché quell'attività mi
colpì molto e mi servì per capirmi e riflettere su me
stessa e su ciò che avrei potuto migliorare di me.
Verso le sette salutammo
Maria Vittoria e Alfonso, poiché avremmo dovuto fare la doccia
e prepararci per l'ultima sera del campo. Mentre eravamo impegnati
con i due psicologi, Giovanna era venuta a chiederci come volevamo la
pizza per la cena, dato che l'avremmo mangiata a bordo piscina dopo
averla ordinata dalla nostra pizzeria di fiducia, quella in cui ci
eravamo recati diverse volte sia quell'anno che il precedente.
Poco prima di risalire in
camera, notai che Marco si stava dirigendo verso la nostra stanza per
un motivo a me ignoto, così mi venne spontaneo affiancarlo,
lasciando indietro gli altri.
«Ce l'hai con me?»
gli chiesi con semplicità.
Sinceramente, sarebbe stato
l'ultimo mio campo, probabilmente non l'avrei mai più rivisto
– e lo speravo – ma non volevo che ci lasciassimo in malo
modo. Ero tendenzialmente una persona pacifica, detestavo avere dei
problemi con gli altri, specialmente se non ce n'era un vero motivo.
Con lui era andato sempre tutto male, ma non avrei dovuto
frequentarlo in futuro, quindi non aveva senso che ci ignorassimo
anche in queste ultime ore di campo.
«No, non ce l'ho con
te» borbottò, mentre salivamo le scale che conducevano
al terrazzo di camera mia. «È solo che io non ho fatto
niente con cattive intenzioni, tutto qui.»
Ci fermammo di fronte alla
porta, dato che le chiavi le aveva Marta e quindi avremmo dovuto
aspettare che arrivasse; eravamo soli sul terrazzo e pensai che fosse
arrivato il momento di parlare, di dirci qualcosa che avrebbe
definitivamente messo fine al nostro rapporto, se così si
poteva definire.
«Non so, non ti credo.
Sono successe tante cose, posso avere dei dubbi, non pensi?»
gli feci notare.
Mi afferrò per le
mani. «Lau, ascolta. Credimi, io sono davvero felice che tu
stia con Danilo, non voglio assolutamente rovinare ciò che c'è
tra voi. Non avevo secondi fini, volevo solo abbracciarti perché
a te ci tengo. Davvero.»
Continuavo a non credergli,
ma non glielo dissi e finsi il contrario. «Okay, va bene. Non
importa» concessi con un sospiro. «In ogni caso, sono
contenta che questo campo stia per finire e che sia il mio ultimo.
Non rivedrò più nessuno di voi ed è meglio così»
aggiunsi.
Lui lasciò la presa e
sbuffò. «Perché dici così? Senti, io
durante tutti quesi mesi avrei voluto vederti, giuro, mi piacerebbe
che non perdessimo i contatti... non appena mi sistemo
all'università, giuro, prendo il treno e vengo da voi. Se c'è
un bed and breakfast nel vostro paese, rimango anche più di un
giorno. Mi dispiace che la pensi così, però
possiamo...»
Dovetti trattenermi per non
scoppiare a ridergli in faccia. «Non ci credi neanche tu,
Marco. Andiamo!»
«Non è vero! Lo
farò, vedrai!» affermò con enfasi.
Scossi appena il capo. Mi
faceva piuttosto pena, ma non glielo dissi. Non avevo voglia di
discutere con il vento. Avevo ormai capito com'era fatto: non si era
preoccupato di venirmi a trovare neanche quando i rapporti tra noi
erano un po' più stretti, ero stata sempre io a prendere il
treno per raggiungerlo, a organizzarmi per andare da lui; da parte
sua non c'era mai stato niente di concreto, perché avrebbe
dovuto fare qualcosa ora? Era impensabile, davvero ridicolo.
«Sono contento che
abbiamo chiarito, comunque. E non dire così, vedrai che verrò
a trovarvi» ribadì Marco con un mezzo sorriso.
Presa da uno slancio
improvviso, lo abbracciai. Non so cosa mi fosse preso, però
era come se volessi dargli il mio addio, quello definitivo e ultimo.
Lui ricambiò e mi
disse: «Ti voglio bene Lau, voglio che tu sia felice».
«Sì»
mormorai. «Anche io.»
Non sapevo se quelle ultime
due parole fossero riferite al fatto che gli volessi bene o che
desiderassi essere felice; Marco aveva comunque rappresentato
qualcosa di importante per me, nonostante ora lo disprezzassi e
trovassi riprovevoli i suoi atteggiamenti.
Ci separammo quando udimmo i
passi di Marta e Viola che salivano le scale.
«Marco, cosa ti
serviva?» chiese Marta, sventolando le chiavi mentre si
avvicinava alla porta.
«Devo prendere il
vino, ce l'ho in frigo da voi, ricordi?» rispose lui. «Ah
Lau, nella playlist per stasera l'hai messa Are you gonna be my girl
dei Jet? Ce l'ho in testa da quando stavamo ascoltando musica in
piscina, giorni fa...»
«L'ho messa,
tranquillo!» assicurai, entrando in camera.
E mi venne in mente che no,
non sarei mai stata la sua ragazza. E non lo ero mai stata, ciò
che c'era stato tra noi era sempre stato illusorio e pieno di bugie.
Ero contenta che fosse
finito tutto, che non ci saremmo più rivisti e che ci eravamo
detti finalmente addio.
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Capitolo 16 *** Capitolo sedici: Immigrant Star ***
ReggaeFamily
Capitolo
sedici: Immigrant
Star
«Adesso
prendo il vino e me ne vado...»
Sbuffai,
entrando in camera mia per mettere in carica il cellulare.
Nel
frattempo, sentii che Nicolò si stava arrampicando su per le
scale: produceva un baccano assurdo e strillava come suo solito.
«No,
e adesso questo che vuole?» protestai a voce non troppo bassa,
senza curarmi del fatto che lui potesse sentirmi. Non mi importava,
lo sopportavo a malapena e non ero contenta di trovarmelo tra i piedi
anche in camera mia.
«Chissà...»
ribatté Viola.
Il
ragazzo arrivò in fretta sulla soglia e cominciò a
straparlare come al solito, perforando i miei timpani e la soglia
della mia pazienza. Non avevo proprio alcuna intenzione di averci a
che fare.
«Dove
siete voi due?» urlò Nicolò, rivolto a me e
Viola.
«In
camera nostra, cosa te ne frega?!» sbottai.
«Dai
Lalli, non trattarlo male che poi rompe il doppio...» bisbigliò
Viola.
Nel
frattempo ci adoperammo per cominciare a preparare i bagagli: alla
partenza ormai mancava pochissimo, la mattina seguente sarebbe tutto
finito e ognuno sarebbe tornato alla propria vita. Da un lato ero
piuttosto contenta, ma dall'altro c'era una vena di malinconia che
permeava il mio essere. Ovviamente, Viola mi sarebbe mancata, così
come Giovanna e Marta. Marco no di certo, ma questo era logico.
Udii
Nicolò che parlava animatamente con Marco, poi quest'ultimo
aprì il frigorifero che si trovava in cucina e la sua voce
arrivò in un rimbombo confuso fino a noi.
«Marta,
vedrai che faremo una bella festa!» assicurò il ragazzo,
per poi afferrare rumorosamente le due bottiglie di vino che aveva
comprato apposta per quella sera.
Poi
tutto accadde in un secondo: un frastuono terribile, rumore di vetri
infranti, un puzzo nauseabondo a base di alcol e poco altro...
Io
e Viola strillammo simultaneamente e ci tappammo entrambe il naso con
due dita, soffiando aria dalla bocca.
«Oddio
che schifo! Che cazzo è successo?» sbottai irritata,
procedendo a tentoni verso la porta. L'aria era irrespirabile, volevo
chiudermi dentro la stanza e non sentire più quell'olezzo
disgustoso.
«No!»
sbraitò Marco. «No, cazzo... il vino! Dodici euro
sprecati, no! Cazzo, e adesso?! No, non ci credo, che peccato!»
La
scena era talmente raccapricciante che io e Viola non potemmo più
trattenerci e scoppiammo a ridere come due pazze.
Nel
frattempo raggiunsi la porta e la sbattei con forza, rendendomi conto
che fortunatamente l'odore del vino non si sentiva più tanto
forte come prima.
Allora
lasciai libere le mie povere narici e risi, risi fin quasi a perdere
il respiro; era assurdo, Marco se l'era proprio meritato
quell'incidente con il suo diamine di vino!
«Quant'è
che l'ha pagato? Dodici euro?!» strillò Viola in tono
incredulo, portandosi una mano alla fronte. «Oddio, ma... come
si possono spendere tutti quei soldi per un litro di vino?»
«Non
era un litro, ma settantacinque millilitri» precisò lui
dalla cucina, continuando a imprecare come un forsennato.
Nel
frattempo Giovanna arrivò in nostro soccorso, salendo di corsa
le scale per dare una mano a Marta.
«Vi
prego, pulite in fretta! Non si respira qui dentro!» implorai,
sistemandomi vicino alla finestra per poter respirare un po' d'aria
pulita e fresca.
Poi
continuai a ridere, trovando che quella fosse la lezione perfetta che
Marco doveva ricevere.
«Così
impara!» sentenziò Viola in tono malizioso. «Cretino.»
«Così
impari, Marco!» gridai io senza pormi alcun tipo di problema.
Ormai ero troppo divertita per smettere di prenderlo in giro.
Io
e Viola stavamo facendo un baccano assurdo e, mentre Giovanna faceva
avanti e indietro dalla nostra stanza alla sua per recuperare stracci
e disinfettanti vari, Marta ci intimava di abbassare la voce perché
avremmo potuto disturbare gli altri ospiti del residence.
A
noi, neanche a dirlo, importava ben poco.
«Che
è 'sta puzza?! Oddio! Mi sembra di essere in cantina, che
schifo!» si lamentò Tamara, che intanto stava cercando
di salire le scale in modo da controllare cosa stesse succedendo.
«Tami,
stai giù! Quell'imbecille di Marco ha fatto cadere una delle
sue bottiglie di alcol sul pavimento della nostra cucina!» la
ammonii, accostandomi maggiormente alla zanzariera della finestra.
«Cosa?»
Mia sorella si bloccò a metà strada e si lasciò
andare a una fragorosa risata. «Gli sta bene! Così
impara a voler sempre assumere quella merda!» proferì
con entusiasmo, poi fece dietrofront e si allontanò
nuovamente.
«Andate
a fanculo!» gracchiò Marco dalla cucina, per poi
lasciare la nostra stanza tra borbottii e imprecazioni irripetibili.
«Ma
smettila, non è morto nessuno!» lo rimbrottò
Viola, accostandosi a piccoli passi alla finestra sotto cui lui stava
passando proprio in quel momento.
«Uhm...
dodici euro sprecati, ma dimmi te... cazzo, non ci voleva...»
La
sua voce cupa e amareggiata si perse nell'aria.
Io
e Viola rimanemmo perplesse per un attimo, poi tornammo ad
abbandonarci a un'altra serie infinite di risa.
Veramente
ridicolo.
Mi venivano in mente
soltanto quelle due parole per descrivere Marco e il suo
comportamento, specialmente durante quell'ultimo campo. Non so come
mai non mi fossi mai resa conto di che razza di idiota aveva attirato
la mia attenzione in passato.
Prima di scendere a cena,
scambiai qualche messaggio con Danilo.
Quel
cretino del mio ex ha fatto cadere una bottiglia di vino da 12 euro
in camera mia... non sai che puzza, ahahahahah, gli sta bene!
Domani
torni a scuola, vero? Come ti senti? Sei pronto?
Ahah
dai si sono pronto
Mi
fa piacere! A che ora dovrai alzarti? :)
Alle
7 e 10 circa
Infatti
vado a letto tra poco
Alle
nove vai già a letto?! O.O
E
si mi tocca cucciolotta
Io
non riuscirei XD dai, adesso vado a cena... lascio il telefono in
carica. Mi raccomando, stai tranquillo per domani, poi comunque ci
risentiamo! Un bacio :3
Abbandonai il cellulare sul
comodino e non aspettai una sua risposta, uscii dalla stanza in
compagnia di Viola e Marta, contenta che non ci fosse più
quella puzza nauseante di alcol.
Raggiungemmo il resto del
gruppo in piscina, dove già le pizze erano state sistemate sul
tavolo. Per l'occasione, questo era stato posizionato su una
piattaforma di cemento dove in genere stazionavano le sdraio.
Avevo portato con me il
computer, dentro il quale era già pronta la playlist che io e
Marta avevamo preparato apposta per l'occasione. Lo consegnai a
Giovanna, lei lo sistemò su una sedia e io mi avvicinai per
poterci collegare le casse portatili. Selezionai la playlist e la
feci partire in riproduzione casuale.
La musica fu un dolce
sottofondo durante la cena: io avevo preso una pizza con il
gorgonzola e me la gustavo appieno, decisamente affamata. Era una
bella serata, non c'era caldo e non soffiava troppo vento da
disturbarci, ma abbastanza per mantenere una temperatura piacevole.
Parlammo ancora
dell'incidente di Marco con il vino e tutti lo prendemmo ancora in
giro per ciò che aveva combinato.
«Tanto le bottiglie
erano due!» protestò con un boccone di pizza ancora da
inghiottire.
«Mastica, ingoia e poi
parla! Ci manca solo che mi sputi in faccia!» mi lamentai, dal
momento che ero seduta proprio di fronte a lui.
Tamara, al suo fianco, quasi
soffocò per via di un'improvvisa risata. «Stavo bevendo,
Lau... vuoi farmi morire?»
Feci spallucce. «Che
ho detto?»
Finimmo abbastanza in fretta
di consumare la nostra cena; io mi accostai alla postazione dove si
trovava il mio computer e mi ci sedetti di fronte, regolando il
volume e sollevandolo un po'.
«Tutti a ballare!»
esclamò Giovanna con enfasi, trascinando in piedi Gabriella e
Simona.
«Lau, metti una
canzone per loro...» mi suggerì Marta.
«Tipo?»
«Qualcosa di
reggaeton...»
Scorsi la lista dei brani
con il cursore, poi intravidi un titolo famigliare e ci cliccai sopra
due volte per farlo partire. Si trattava di El mismo sol, per
l'immensa gioia di Gabriella che subito si agitò come una
matta sulle note ritmate e dal sapore latino.
Marco si alzò dalla
sua sedia e si avvicinò a bordo piscina. «Com'è
l'acqua?» domandò.
In quel momento appresi che
Samuele stava facendo un bagno notturno e mi ritrovai a pensare che
sarebbe stato bella anche per me un'esperienza del genere.
«Bella fresca...»
commentò l'istruttore con il suo solito tono piatto.
Poi, un rumore indecifrabile
si diffuse nell'aria e io sobbalzai sulla sedia, non capendo cosa
fosse successo.
«Cazzo! Ah, è
gelida, cazzo!» sentì strillare Marco.
«Non dirmi che... ma
che cazzo... si è buttato in acqua?» sbottai allibita.
«Sì! Ed è
anche completamente vestito!» commentò Marta, per poi
scoppiare a ridere.
«Che genio» fece
Giovanna con ironia.
«Oddio, gli farà
malissimo! Ha appena cenato!» strepitò Viola; sentivo
già l'ansia farsi strada nella sua voce, quella ragazza era
proprio un caso perso.
«Cavoli suoi»
borbottò Tamara, poi sghignazzò e si sistemò
meglio sulla sua sedia.
«Ah, cazzo! Devo
uscire, sto morendo di freddo!» squittì Marco in tono
stridulo e insolitamente acuto. Sembrava proprio una femminuccia, non
potevo credere che uno come lui stesse davvero dando vita a
uno spettacolo tanto ridicolo e raccapricciante.
Non potei fare a meno di
ridere a mia volta, mentre Gabriella ballava ancora, come se niente
fosse, sulle note del famoso brano reggaeton.
Marco uscì di corsa
dall'acqua e si accostò nuovamente al tavolo, dove si lasciò
cadere sulla sedia che aveva occupato fino a poco prima. Intanto
continuava a borbottare e imprecare, e dal tremore della sua voce
intuii che era infreddolito e che il suo corpo doveva essere scosso
da profondi brividi.
«Guai a te se mi
bagni, ho il cellulare in mano!» lo ammonì subito
Tamara, seduta di fianco a lui.
«Macché.»
Lui ridacchiò. «Alla fine ho fatto bene, era una cosa da
provare!»
«Uh, che emozione!»
lo schernì con pungente ironia mia sorella.
In quel momento dalle casse
si diffuse immigrant Star dei Mellow Mood, brano che non avevo
potuto evitare di inserire nella playlist: era troppo allegro e dai
toni estivi per escluderlo.
«Tami, senti!»
richiamai mia sorella.
Lei fece un balzo dalla
sedia. «Adesso sì che si può ballare!»
esclamò con entusiasmo.
Anche io, dopo un po', mi
costrinsi ad alzarmi e a ballare insieme a lei, trascinando con me
anche Viola. I nostri movimenti erano tutto fuorché perfetti e
armoniosi, eppure non ci importava perché ci stavamo
divertendo da morire e quella giornata stava andando piuttosto bene.
Non riuscivo a credere che
l'ultima sera del mio ultimo campo fosse arrivata e stesse anche per
volgere al termine.
Don't
forget who you are
Oh
my little baby
Mi ritrovai a cantare quelle
parole, rendendomi conto che anche io non dovevo dimenticarmi della
mia identità, di chi ero e di cosa volevo.
Durante quel campo ero
riuscita a non farlo, a non farmi condizionare dalla presenza di
Marco, dall'attrazione che da sempre intercorreva tra noi. Ero stata
me stessa, ero stata forte e non avevo ceduto ad avances che, un
tempo, non avrei respinto e, anzi, avrei atteso con impazienza.
Un tempo avevo creduto di
poter costruire qualcosa con quel ragazzo, ora sapevo che mi ero
illusa, niente più. Ero stata ingenua, mi ero lasciata fregare
e avevo perso di vista la me stessa che non si lasciava mettere i
piedi in testa da nessuno.
E, soprattutto, ero cambiata
nel corso del tempo, avevo imparato dai miei errori e avevo trovato
un nuovo equilibrio. Forse questo non aveva a che fare con Danilo e
con la sua presenza nella mia vita, era semplicemente la stabilità
che mi permetteva di accogliere nuove persone e nuove esperienze
nella mia vita.
Stavo bene con me stessa,
anche se certe volte risentivo dei miei limiti fisici, ma tutto
sommato le cose mi andavano bene ed ero così riuscita ad
aprirmi a Danilo e quelle nuove sensazioni che pian piano stavo
scoprendo con lui.
Eppure, mentre mi agitavo a
ritmo di musica, ebbi come l'impressione che lui non sarebbe stato al
mio fianco per sempre. Era un'impressione remota, quasi intangibile e
inesistente, che però si stava pian piano rafforzando in me.
C'era qualcosa che non mi
convinceva.
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassette: The Chain ***
ReggaeFamily
Capitolo
diciassette: The
Chain
Ero
in bagno e finivo di prepararmi. Intanto, ripensavo alla sera
precedente e a tutto ciò che era capitato. Con la mente velata
di malinconia, ripercorsi gli avvenimenti delle ultime ore e mi resi
conto che era andato tutto bene, tutto secondo i piani, che avevo
fatto tutto ciò che dovevo e che avevo resistito, per la prima
volta, alla tentazione rappresentata da Marco.
Sorrisi
tra me e me, soddisfatta.
«Scambio
dei regali?» chiese Marco perplesso.
«Esatto!
Ieri sera, mentre tu eri via, i ragazzi sono andati in cerca di un
regalo per te. Contento?» lo canzonò Giovanna,
utilizzando un tono ironico che mi fece sorridere.
«Ah.»
«Ragazzi?»
attirò la nostra attenzione Lucrezia, consegnandoci i
pacchetti che aveva tenuto nascosti durante la cena.
Li
consegnammo a Marco e lui si scartò con curiosità,
contento dei suoi nuovi tesori. Li osservò con dedizione, ma
ci ringraziò a malapena.
Mi
pentii di avergli fatto un regalo, anche se la scelta non era partita
da me; era un vero e proprio ingrato.
Dopodiché,
gli istruttori annunciarono che avevano un regalo anche per ognuno di
noi da parte loro e delle educatrici.
«Addirittura?»
feci io.
«Certo!»
confermò Lucrezia, cominciando a distribuire un pacchetto a
testa.
Al
suo interno trovammo una maglietta con la scritta L'essenziale
è invisibile agli occhi e un biglietto con la stessa
frase scritta in nero e in caratteri braille.
«Wow!
È bellissima!» esclamò Tamara, esaminando
l'oggetto sotto una lampada al neon che illuminava il tavolo attorno
a cui avevamo cenato.
Tutti
fummo contenti di aver ricevuto quel regalo davvero particolare;
dopodiché Marco aprì la bottiglia di vino superstite e
io continuai a selezionare musica per intrattenere i miei compagni
d'avventura.
Infine
io e Viola ci ritrovammo a ballare Still
Loving You degli Scorpions come due sceme, oscillando a
destra e sinistra senza seguire un tempo ben preciso.
Poi,
verso l'una e mezza, la musica cessò e io rimasi perplessa per
un istante.
«Che
è successo?» domandò mia sorella.
Mi
accorsi che anche le luci si erano spente, così esclamai: «Mi
sa che ci hanno staccato la corrente!».
Scoppiammo
a ridere e ci preparammo per tornare in camera.
«Lau! Ti dai una
mossa? Giorgio deve andare via e volevamo fare una foto tutti insieme
con addosso le nuove magliette!» sentii gridare da mia sorella,
mentre entrava nella mia stanza.
«Okay, arrivo,
aspetta! Non sono ancora pronta!» risposi.
«Sì, ho capito,
ma deciditi!» mi esortò.
Feci in modo di impiegare
meno tempo possibile a prepararmi, ma alla fine quasi tutti i miei
compagni di campo presero a richiamarmi dal piano inferiore.
Corsi giù non appena
possibile, finendo di sistemarmi la maglietta in modo da essere
pronta per l'epica fotografia di fine campo.
Mi ritrovai incastrata tra
Giorgio e Viola, mentre alcuni dei nostri amici si accovacciarono a
terra e qualcuno, essendo più alto, si sistemò alle
nostre spalle.
Un uomo ci scattò
alcune foto – doveva essere il padrone del residence o il padre
di Giorgio, non ne ero sicura – e tutti finimmo per ridere a
crepapelle per le posizioni cretine che ognuno di noi assumeva in
vista di un nuovo scatto.
Dopodiché,
abbracciammo tutti Giorgio e gli augurammo buon viaggio.
«Mi mancherai!»
gli disse Tamara, tenendolo stretto.
«Anche tu! Tanto ci
siamo scambiati il numero, vero?»
«Ma certo!»
esclamò mia sorella.
Quando fu il mio turno per
salutarlo, gli regalai un affettuoso abbraccio e dissi: «Mi
raccomando, sii sempre forte e non arrenderti, okay? E non farti
mettere i piedi in testa da quella palla al piede di Nicolò!».
Quest'ultimo, sentendosi
tirato in causa, non perse tempo e si avvicinò subito a noi,
allungando le mani e poggiandole sul mio didietro.
«Nicolò,
spostati!» strillai, spintonandolo all'indietro.
«Cosa stavi dicendo su
di me? Amore mio, ti amo lo stesso!» disse lui, senza scomporsi
troppo.
«Ho detto che sei un
rompicoglioni.»
Lui rise come un idiota e
tornò a mettermi le mani addosso, poi dichiarò: «Amore
mio, che bella che sei!».
«Levami. Le. Mani. Di.
Dosso.» Detto questo, mi spostai dalla sua traiettoria e mi
diressi nuovamente verso la mia stanza per chiudere le valigie.
Non vedevo l'ora di
riabbracciare Danilo, non ne potevo più di Nicolò, di
Marco e della loro pedanteria. Perché tutti provavano a
mettermi le mani addosso? Era frustrante!
Il viaggio in pullman fu
estremamente malinconico: eravamo più morti che vivi, tutti
eravamo stanchi e provati da quei dieci giorni e non avevamo molta
voglia di parlare né di scherzare più di tanto.
Io avevo le cuffie alle
orecchie e stavo seduta accanto a Marco, mentre lui se ne stava
appeso al sedile di fronte al suo con le mani tra i capelli di mia
sorella.
«Marco, mi lasci in
pace?» sospirò lei.
«No.»
«Uff, perché?»
«Perché no.»
Scossi il capo. «Siete
due casi persi...» mormorai, mentre rispondevo a un messaggio
di Danilo.
«Gelosa?» mi
stuzzicò Marco.
«Non penso proprio»
borbottai.
Raggiungemmo velocemente la
nostra meta, ovvero la sede da cui la maggior parte di noi era
partita il primo giorno.
All'arrivo, non ebbi molta
voglia di salutare tutti, ma abbracciai sia Viola che Marco.
Quest'ultimo, lo sapevo e lo speravo, probabilmente non l'avrei mai
più rivisto, mentre con Viola avrei fatto di tutto per
mantenere i contatti, com'era sempre stato.
Dopo che io e Tamara
aiutammo nostro padre a caricare i nostri bagagli in macchina,
partimmo verso casa.
Lui ci chiese come fosse
andata: gli raccontammo un po' di cose, senza entrare troppo nei
dettagli perché in ogni caso avremmo dovuto ripetere tutto
anche a nostra madre.
Della musica di sottofondo
risuonava nell'abitacolo, e a un certo punto partì un pezzo
che non mi era del tutto sconosciuto.
«Che canzone è?»
domandai a mio padre, alzando un po' il volume.
«The Chain,
Fleetwood Mac. Buona musica!» mi spiegò.
Presi ad ascoltare quel
brano e mi resi conto che era davvero bello, orecchiabile ma che,
soprattutto, i musicisti erano formidabili, così come le linee
vocali che si intrecciavano in maniera perfetta.
And
if you don't love me now You will never love me again I can
still hear you saying You would never break the chain (Never break
the chain)
La cosa più bella
arrivò quando, a un tratto, cominciò a risuonare un
vibrante giro di basso che mi riempì letteralmente l'anima.
Se
non mi ami adesso, non potrai amarmi ancora. Posso ancora sentirti
dire: non potrai mai spezzare la catena.
Quelle
parole e quel giro di basso dai tratti funesti sortirono in me uno
strano effetto, come un presagio, un avvertimento.
Eppure,
non volevo essere negativa: quel pomeriggio sarei uscita con i miei
amici, mentre la sera avrei rivisto Danilo.
Tutto
sarebbe andato bene, i miei erano stati solo stupidi e insignificanti
dubbi.
Lui
suonava e io lo ascoltavo attentamente, cercando di cogliere ogni
nota e ogni sfumatura del suo essere attraverso quei suoni.
Da
quando uscivo con lui, avevo quasi dimenticato che fosse un
musicista, che suonasse in un gruppo che conoscevo e apprezzavo da
parecchio tempo, molto prima che ci conoscessimo.
Ma
ora, dopo quei giorni di lontananza, oltre che del suo abbraccio
sentivo la necessità della sua musica e di sentire tutto ciò
che lo rappresentava.
La
sua chitarra era delicata, quasi impercettibile in certi momenti,
eppure io riuscivo a coglierla.
Io
e mia sorella eravamo stravolte dalla stanchezza, ma avevamo ancora
la forza per ballare e stare sotto quel piccolo palco a sostenere
Danilo e i suoi compagni di band.
Quando
lo spettacolo finì, io trascinai mamma e Tamara da Danilo,
volevo assolutamente salutarlo e dargli almeno un abbraccio.
Ovviamente,
in pubblico non avrei mai azzardato altro, non era da me, anche
perché i suoi genitori erano presenti e io ancora non li
conoscevo.
Fu
lui, infine, a raggiungerci: mi abbracciò, ma non fu la
stretta calorosa e rassicurante che mi aspettavo e ricordavo; addussi
quello strano comportamento alla presenza dei suoi genitori e non ci
feci caso, limitandogli a chiedergli come stava e a scambiare due
chiacchiere con lui.
Poi,
lui ci condusse a conoscere i suoi genitori, i quali mi fecero subito
una strana impressione: mi strinsero appena la mano e parlarono
pochissimo. In particolare, sua madre parve non apprezzare
particolarmente la mia presenza e si limitò a dirmi il suo
nome senza alcun entusiasmo.
Quell'incontro
tra noi fu fiacco, ma io non ci badai e pensai che, una volta usciti
da soli nei giorni successivi, tutto sarebbe tornato al suo posto e
io sarei stata nuovamente felice e tranquilla.
Mentre
rientravo a casa, gli inviai un messaggio.
Dani,
spero di riuscire a vederti presto e di poter stare da sola con te.
Mi manchi troppo...
Tranquilla
poi ci organizziamo per domenica o lunedì :)
Okay,
va bene, lo spero tanto :3
Non
preoccuparti anche io non vedo l'ora :)
E sapevo che potevo
credergli, dovevo credergli, soprattutto dopo aver evitato il peggio,
ovvero la presenza di Marco e le sue spudorate avances.
Ce l'avevo fatta e mi
sentivo sfinita, sì, ma pienamente soddisfatta e in pace con
me stessa.
Carissimi
lettori, questo è l'ultimo capitolo di questa storia... ebbene
sì!
Ma
non preoccupatevi: ci sarà l'epilogo la prossima settimana,
quindi non è ancora finita del tutto!
Per
ora, che ne pensate?
Sappiate
che le sorprese non sono finite... quindi, aspettate l'ultimo
aggiornamento e poi fatemi sapere cosa ne pensate ^^
Alla
prossima e grazie infinite a chi ancora mi segue anche qui ♥
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Capitolo 18 *** Epilogo: Boom ***
Epilogo:
Boom
Era
pieno inverno. La pioggia battente imperversava implacabile, mentre
lampi e tuoni si susseguivano nella loro naturale sequenza, facendomi
sobbalzare di tanto in tanto.
Mi
ero barricata in casa, il fuoco all'interno della stufa a legna
ardeva scoppiettando, riscaldando l'atmosfera e le mie mani. Un buon
libro mi teneva compagnia, riempiendo la mia mente di storie non mie
e di ricordi appartenenti a personaggi inesistenti che, come di
consueto, sentivo più vicini dei miei stessi amici.
Leggevo
per la seconda volta L'ombra del vento
di Zafón
e non mi stancavo mai di quel suo stile inconfondibile, dei suoi
personaggi singolari e degli intrecci articolati e intriganti che
sapeva creare.
Durante
la lettura, un passo colpì la mia attenzione, così mi
affrettai a segnarlo su un vecchio quaderno in cui raccoglievo tutte
le mie citazioni preferite.
La
vita ci assegna senza possibilità di scelta i genitori, i
fratelli e gli altri parenti, l'unica e vera alternativa che ci offre
è quella di poter scegliere i nostri amici. Se qualcuno non ti
ama ti amerà qualcun'altro. Goditi l'amore delle persone che
ti vogliono bene, condividilo con loro e dedicagli il tuo.
Era come se l'autore avesse
colto il succo di ciò che era sempre stata la mia vita.
E qualcuno mi aveva detto:
«Lui non ti merita, non ti ha mai meritato. Se non ti ama lui,
troverai mille persone disposte a farlo».
Chissà se era vero,
io in ogni caso non credevo nell'amore, forse non ci avevo più
creduto da quando avevo subito la cocente delusione da parte di
Marco, più di due anni prima.
E non ci avevo creduto
neanche quando avevo cominciato a uscire con Danilo, ecco perché
sentivo sempre che qualcosa non andava tra noi.
Quel qualcosa ero io, era la
mia consapevolezza, era ciò che comunemente viene chiamato
sesto senso o intuito femminile.
«Dimmi,
che c'è che non va?»
«Lau,
ascolta... per me è molto difficile...»
Reggevo
il telefono con mano tremante, già pronta a udire il peggio,
già conscia di ciò che sarebbe successo di lì a
poco.
Ero
rientrata dal campo da tre giorni e le cose con Danilo non avevano
fatto che peggiorare, raffreddandosi sempre di più.
Lo
sentii tirare su col naso e rimasi basita.
«Non
possiamo più vederci, non me la sento di continuare...»
balbettò in preda ai singhiozzi.
«Come
sarebbe a dire? E perché?» sbottai contrariata.
«Ho
ricominciato la scuola, ho ripreso con la scuola guida e ho tante
cose da fare...»
«Avevamo
detto che avremmo trovato un compromesso!» avevo protestato.
Sul momento la mia reazione fu catastrofica: scoppiai a piangere e lo
implorai, risultando piuttosto patetica.
«Il
punto è che... tu sei troppo impegnativa, non riesco a
gestirti, a gestire le tue difficoltà e...»
«Cosa?!»
La rabbia mi invase, non avrebbe dovuto dirlo. Questo era troppo.
Come
avevo potuto credere che lui fosse una brava persona?
Probabilmente lo avevo
sempre saputo, me l'ero sentito fin nelle viscere, ma avevo preferito
farmi trascinare da quella sorta di avventura estiva senza pensare o
riflettere su niente di serio.
Tutto, per me, si era basato
prevalentemente sull'attrazione, non gli avevo permesso di arrivare
fino al mio cuore e questo aveva fatto sì che non soffrissi
quasi per niente. Piansi quel giorno, poi cominciai a rendermi conto
che lui era sempre stato strano e bizzarro.
Così, io e Tamara
prendemmo ad analizzare tutto ciò che era successo e io
cominciai a ricordare un sacco di stranezze riguardanti Danilo, cose
che risultarono davvero raccapriccianti e che mi convinsero che
dovessi soltanto ringraziarlo per avermi lasciato.
Arrivai alla conclusione che
era un ragazzo soggiogato dai genitori, a ventitré anni non
sapeva ragionare con la sua testa; aveva difficoltà di
adattamento, manie di persecuzioni che gli impedivano di appoggiare
il suo borsello su una panchina senza che qualcuno glielo rubasse.
Provava fastidio nel trovarsi in strada quando c'erano delle macchine
in transito, aveva dubbi su alcuni aspetti del sesso e aveva cercato
di impartire lezioni alla sottoscritta in una maniera piuttosto
bizzarra e inquietante.
Una volta mi aveva detto,
infatti, con tanto di balbettio d'accompagnamento: «Non so se
sei consapevole che quando si fanno certe cose... esce qualcosa... da
lì...».
Ero rimasta basita e non
avevo saputo come replicare, ma ci ero passata sopra e non ci avevo
più badato finché la mia mente non mi ci aveva
riportato con maggiore lucidità.
Ero uscita per un mese con
una specie di ritardato schizofrenico, e temevo che i suoi problemi
non fossero neanche diagnosticati e quindi non potessero essere
tenuti sotto controllo.
Col senno di poi, ero
contenta e me la ridevo nel ricordare tutte le citazioni memorabili
legate alle sue stronzate.
Non smisi di vederlo, poiché
continuai a seguire la sua band. Non mi importava niente che lui ci
fosse o meno, tanto era un incapace, spesso si dimenticava di suonare
ed era come se non esistesse all'interno del gruppo.
La cosa più
divertente fu che continuò a fissarmi, ogniqualvolta che ci
trovavamo nello stesso posto; fortunatamente, nella maggior parte
delle occasioni non potevo vederlo e quindi mi limitavo a ignorarlo e
a divertirmi per i fatti miei.
La mia vita era decisamente
migliorata, ma restava comunque il fatto che un essere simile aveva
detto di non poter gestire i miei problemi; certo, non era in grado
di gestire neanche i suoi, figurarsi i miei.
E allora cominciai a
maturare sempre più la convinzione che per una disabile come
me non ci sarebbe stato futuro in quel senso; era inutile girarci
intorno, la mia categoria era penalizzata sotto molti punti di vista
e sicuramente, se anche un disagiato come Danilo si era tirato
indietro – per volere, probabilmente, di quella strega di sua
madre –, nessun normodotato vero e proprio avrebbe accettato di
badare a una persona non autonoma come me.
Era logico, e a me non
importava più. Volevo stare tranquilla, volevo stare sola ed
evitare i problemi che queste situazioni portavano con sé.
Avevo davvero troppe cose a
cui pensare, tante difficoltà da affrontare e tante passioni
da coltivare, non avevo più tempo né voglia di sprecare
tempo prezioso in cose futili come l'illusione dell'amore o altre
stronzate affini.
La mia mente corse a Marco.
Non pensavo più a lui tanto spesso, se non nei momenti in cui
ricordavo alcune scene raccapriccianti dell'ultimo campo.
Ormai era gennaio, erano
trascorsi quattro mesi da quando il campo era finito e io mi sentivo
tranquilla.
Sorrisi al ricordo
dell'ultima volta che lo avevo visto. Era stato un caso e non me
l'aspettavo, ma ero certa che non sarebbe più successo.
Era
fine novembre e mia sorella aveva compiuto gli anni proprio quel
giorno. Per farle una sorpresa, l'avevano trascinata senza che lo
sapesse al concerto di uno dei nostri gruppi locali preferiti.
La
serata stava andando a gonfie vele, lei era emozionata e ancora non
poteva credere di essere davvero lì.
Ci
eravamo godute il concerto, il cantante aveva – sotto nostra
richiesta – fatto gli auguri a Tamara direttamente dal palco,
parlando al microfono e dedicandole poi uno dei brani più
belli.
Lei
era scoppiata a piangere e si era goduta il resto del concerto con
una nuova luce negli occhi e nel cuore.
I
componenti della band, infine, avevano insistito per regalarle una
maglia con il loro logo stampato sopra e lei aveva raggiunto così
il culmine della gioia.
Tutto,
insomma, procedeva a gonfie vele e noi, contentissime, ci stavamo
dirigendo verso l'uscita in compagnia di alcuni miei amici che
avevano partecipato con noi all'evento.
Qualcuno
ci fermò e noi lo riconoscemmo subito per due ragioni: la sua
voce lamentosa era inconfondibile, così come la puzza di alcol
che emanava.
«Lau,
Tami! Siete voi! Ciao!» esordì infatti Marco,
accostandosi a noi per baciarci sulle guance.
Mi
venne quasi da vomitare per l'odore che emanava, ma cercai di stare
calma e di non mandarlo al diavolo seduta stante.
«Anche
voi qui?» se ne uscì poi.
«A
quanto pare...» borbottai.
«Tami,
oggi è il tuo compleanno, vero? Auguri!»
«Grazie»
fece mia sorella in tono laconico.
«Io
sono stanchissimo... sono venuto qui perché loro mi piacciono
molto, ma tra l'università e tutto il resto sono sempre
fuso...» blaterò.
Non
avevo minimamente voglia di averci a che fare, aveva in qualche modo
rovinato l'idillio che aveva caratterizzato la serata fino a poco
prima.
«Ah,
be', immagino» fece Tamara con poca convinzione.
Lui
continuò a parlare di se stesso e non si preoccupò
minimamente di chiedere qualcosa su di noi; finalmente, cinque minuti
dopo, riuscimmo a liberarcene portando fuori la scusa che dovevamo
proprio andare perché ormai si era fatto tardi.
«Ma
perché dovevamo incontrare proprio lui? Che palle...»
brontolò Tamara mentre ci avviavamo verso il luogo in cui
stazionava la macchina di uno dei miei amici.
«Non
lo so... ma hai sentito quanto puzzava di alcol?!»
Era stato raccapricciante,
col senno di poi mi veniva soltanto da ridere. Marco era davvero un
essere penoso, non c'era nient'altro che io potessi dire sul suo
conto.
La cosa più grave era
che, pochi giorni dopo il campo, aveva scambiato dei messaggi con mia
sorella e le aveva fatto intendere di essersi innamorato di
lei, anche se non aveva esplicitamente fatto il suo nome.
Stavano parlando di me, lui
aveva detto che era contento di aver risolto le cose con me, ma che
il suo cuore ora apparteneva a un'altra ragazza. Tamara indagò
con qualche domanda e utilizzò il suo solito fare ingenuo e da
finta tonta, e venne fuori che lui non voleva rivelare a questa
ragazza di essere interessato a lei per non rovinare un rapporto
molto importante che aveva da poco ricostruito.
Ci impiegammo ben poco a
fare due più due e ci esibimmo in grosse risate che
perdurarono anche nei giorni successivi, ogni volta che ripensavamo
all'accaduto.
Poi, anche Tamara e Marco
avevano smesso di sentirsi.
Tutto era finito, puff,
svanito, scoppiato come un palloncino bucato.
Riportai l'attenzione sul
libro che avevo di fronte e rilessi le parole che avevo segnato sul
quaderno.
Sorrisi, pensando che avrei
potuto aggiungere una frase tutta mia a quel concetto, per renderlo
più completo e adatto a me.
Afferrai una penna rossa e
annotai:
Lasciare
che qualcuno ci ami significa permettergli di distruggerci.
L'amicizia è l'unico valore davvero irrinunciabile.
La mia mente cercò
l'immagine di mia sorella, lei che era la prima vera amica che
avessi; poi corse ad Anna, lei che era come una sorella acquisita per
me.
La mia vita poteva essere
completa anche così, anche con la loro sola presenza e il loro
sostegno. Senza di loro sarei irrimediabilmente caduta.
Tutto era esploso, ma io ero
ancora in piedi, pronta ad affrontare il mio futuro. Ormai avevo
eliminato tutti i parassiti che intralciavano il mio cammino e, in
caso se ne fossero presentati altri, ormai sapevo qual era il metodo
più efficace per estirparli e proseguire libera e serena.
Boom!
Here
comes the Boom!
How
you like me now?
Ciao
a tutti, eccomi qui con l'epilogo di questa storia, e quindi anche
dell'intera “trilogia”!
Vi
aspettavate che tra Laura e Danilo sarebbe finita così presto?
Qui
ci sono pensieri molto forti, idee molto ferree da parte della nostra
protagonista; ha raggiunto molte consapevolezze che prima non aveva
ancora maturato.
Volevo
dare un finale realistico, non un lieto fine scontato che non
rispecchiasse ciò che succede nella vita di tutti i giorni;
diciamocelo, è più logico che capitino certe cose,
piuttosto che tutto vada rose e fiori, non pensate anche voi? :D
Forse
mi sono fatta contagiare dal generale pessimismo della protagonista,
ma questo dimostra ancora una volta quanto siano i personaggi a
comandare noi autori, non il contrario!
Per
quanto riguarda la citazione di Zafón che ho inserito
all'inizio, si tratta della stessa che fa parte della mia
introduzione qui su EFP. Mi piaceva l'idea di inserirla e di farla
leggere alla nostra Laura, spero vi sia piaciuto quest'accostamento!
^^
Prima
di lasciarvi, spendo due parole su questa trilogia: mi sono
emozionata con i personaggi, l'ho portata a termine grazie
all'incoraggiamento di Marss che, ormai, non bazzica più tanto
sul sito. Tutto è partito da lì, e io sono felicissima
del risultato.
Sicuramente
non sarà un capolavoro della letteratura moderna, ma
sicuramente mi ha aiutato moltissimo e ha fatto sì che mi
cimentassi in qualcosa di diverso, di particolare; ha fatto sì
che entrassi nel mondo di Laura e dei suoi amici, dei suoi problemi e
delle sue difficoltà.
La
disabilità non è un tema facile da trattare, ma io ho
cercato di fare del mio meglio e mi auguro di esserci almeno un po'
riuscita.
Passo,
infine, ai ringraziamenti veri e propri: in questo caso devo
ringraziare le mie due lettrici più fedeli, le mitiche e
adorate Soul_Shine
e Hanna
McHonnor
che si sono prodigate a recensire tutti i capitoli ^^
GRAZIE
RAGAZZE, senza di voi non saprei come fare... siete la mia forza, mi
spingete sempre a continuare, qualunque cretinata io decida di fare o
scrivere, quindi a voi va tutta la mia gratitudine ♥
Grazie
anche a chi ha seguito in silenzio la storia, a chi l'ha apprezzata e
a chi si è emozionato pur senza dirmelo.
L'importante
è che le vicende di Laura e gli altri ragazzi siano arrivate,
almeno un po', al vostro cuore :3
Alla
prossima ♥
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