There's A Place For Us

di CassidyKeynes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


!!!Note necessarie!!!

Questa è una vecchia storia che ho scritto quando avevo 13-14 anni. Si tratta di una storia incompleta e piena di incoerenza, dialoghi demenziali e sostanzialmente imbarazzanti per chiunque li legga.
Ho pubblicato tutti i capitoli solo perché si tratta di una parte della mia adolescenza e quindi si tratta di ricordi importanti. Se vi va di leggere comunque, prego, accomodatevi. Vi farete una sana risata. 

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La sveglia emise il solito rumore frastornante, riempiendo la mia silenziosa stanza di quell’orrendo suono.

A tentoni cercai l’insistente sveglia sul comodino di legno scuro. Riuscii finalmente a spegnerla. Mi accasciai nuovamente sul letto, sospirando.

Alzarsi alle 5 di mattina era una cosa disumana, avrebbero dovuto proibirlo per legge secondo me.

Controvoglia mi alzai lentamente, molto lentamente. Ma d’altronde, una ragazza quanta voglia poteva avere di alzarsi alle cinque di mattina in pieno inverno? Ovviamente avrei preferito starmene nel mio letto caldo a dormire fino a tardi e poi essere svegliata dolcemente da mia madre con il profumo di una buona cioccolata calda extra fondente. Ah, quello si che sarebbe stato bello. Purtroppo la mia vita non era così e svegliarmi alle cinque di mattina capitava almeno una volta a settimana.

Strascicai i piedi sul pavimento, fino a raggiungere il bagno. Non ebbi il coraggio di guardarmi allo specchio, sapevo già che aspetto avevo: quello di un fantasma. Mi avvicinai comunque al lavabo e mi sciacquai il viso con acqua gelida, per cercare di svegliarmi. Sapevo bene che non sarebbe servito a nulla, avrebbe solo peggiorato la sensazione di gelo che sentivo fin dentro alle ossa. Dannato inverno. Ecco perché la mia stagione preferita era l’autunno! Non faceva né freddo né caldo, ogni tanto pioveva (e questo per me era un bene, visto che adoravo la pioggia) e qualche volta c’era un bel sole. Invece in inverno faceva troppo freddo e alle cinque di mattina il sole ancora non era sorto. In pratica fuori era buio pesto. Sembrava fosse mezzanotte.

Asciugai il mio volto con un asciugamano e commisi l’errore di guardare l’immagine riflessa nello specchio. I miei lunghi capelli castani erano aggrovigliati, tanto che parevano un nido di rondini e i miei dolci occhi marroni erano circondati da occhiaie da panda. Ma che ci si poteva aspettare? Insomma, la sera prima mi ero addormentata alle undici e mezza di sera, di conseguenza avevo dormito appena cinque ore e mezza. Era normale che il mio volto avesse un’aria così distrutta.

Presi immediatamente la spazzola e cominciai a snodare i capelli con vigore. Non so quanto tempo passai a spazzolarli, a me sembrarono delle ore. Non mi dispiaceva spazzolare i capelli, ma non avevo molto tempo e mi dovevo sbrigare. Tanto non dovevo essere miss mondo, potevo anche uscire di casa con una coda di cavallo. E fu quello che feci. Con un elastico mi feci una bella coda di cavallo ordinata. Ecco, con un po’ di correttore sulle occhiaie, potevo apparire uscire di casa senza terrorizzare le persone. Sempre se si possano definire persone normali quelle che uscivano di casa alle cinque e mezza del mattino.

Vestita, lavata e truccata ero pronta per cominciare la mia giornata. Con un caffè gigante in mano, una borsa alla Mary Poppins e grandi occhialoni da sole che mi coprivano metà del volto (anche se ovviamente fuori non c’era nemmeno l’ombra di un raggio di sole), uscì di casa accompagnata da mia madre.

Salimmo sulla Volvo nera, dirette chi sa dove.

Per tutto il tragitto guardai fuori dalla finestra. Il cielo era noiosamente nero e non era una gran novità, contando che in Inghilterra il cielo la mattina presto era così anche in estate. Ecco l’unica cosa che odiavo di Londra: il tempo. Ok, l’autunno era fantastico, ma l’estate a chi la lasciavamo? Non esisteva proprio! Il massimo di caldo in cui si poteva sperare era 23 gradi, se erano 25 allora era ritenuto “un gran caldo”. Se ci fossero state estati calde, l’Inghilterra sarebbe stato il posto più bello del mondo per me. Non che la disprezzassi, mi piaceva, in fondo ci vivevo da sempre, ma dovevo ammettere che vivere in un posto un po’ più assolato, non mi sarebbe dispiaciuto affatto.

La macchina si fermò all’improvviso. Abbassai lo sguardo dal mio cielo.

Scesi dalla macchina con mia madre e ci dirigemmo verso l’entrata di un edificio dalla forma vagamente quadrangolare.

Entrammo lentamente e mi trovai davanti ad un tripudio di macchine fotografiche, telecamere e tante, tante persone che correvano da una parte all’altra.

Davanti a me potevo scorgere un muro bianco. Davanti c’erano molte, molte persone, quindi non riuscivo a vedere bene, ma mi pareva di scorgere un ragazzo che stava posando per le macchine fotografiche.

Restai lì a guardare, anzi, a cercare di guardare, per una mezz’oretta buona con mia madre al fianco che strillava al telefono. Alzai gli occhi al cielo e quasi, dico quasi, mi persi quella meravigliosa visione. Si, detto così sembra strano, ma è proprio così. Il nido di persone davanti al telo bianco si era diradato e finalmente potevo vedere il volto del ragazzo che avevo intravisto.

Mi avvicinai di qualche passo, per poterlo vedere meglio. Aveva capelli scuri e spettinati e occhi profondi, che sembravano risucchiarmi. Per un attimo il suo sguardo incontrò il mio e fui invasa da una strana sensazione di familiarità che non riuscivo a spiegarmi.

L’impulso di avvicinarmi a lui, di parlargli, era forte, ma mi tenni a debita distanza, in fondo stava ancora posando.

Mi sentì trascinare via. Mi stavano portando in sala trucco. Mi rassegnai così all’idea di poter guardare ancora quel ragazzo. Chi era? Non lo sapevo, ma mi sarebbe piaciuto scoprirlo.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Il tempo in sala trucco e quello che impiegavano i parrucchieri, sembrava non passasse mai. Ero inchiodata a quella sedia da inesorabili minuti, con un accappatoio rosa addosso e non so quante persone intorno. Ma forse era solo l’ansia che rendeva il tempo così lento e straziante. Dopo qualche minuto terminarono. Mi guardai allo specchio: capelli perfettamente lisci, trucco leggero e naturale. Vista così non apparivo più che una diciassettenne, beh, almeno non mi avevano fatta sembrare più piccola di quel che ero.

Mi alzai sospirando e buttando l’accappatoio su una sedia. Mi ritrovai ad andare in giro per l’edificio con addosso dei pantaloncini in jeans, un top grigio brillantato e degli stivali in pelle nera che mi arrivavano fino al ginocchio. Aspettavo che mi chiamassero per il servizio fotografico. Ero nel panico, lo ero tutte le volte. Senza accorgermene mi ritrovai di nuovo davanti all’accecante sfondo bianco dei servizi fotografici. Tra poco ci sarei stata io davanti a quello sfondo.

Il ragazzo che posava prima non c’era più, di sicuro era già andato via. Perché mi importasse tanto di quel ragazzo non lo sapevo, ci pensavo incoscientemente.

-Lucy!

Sentì una voce acuta chiamarmi. Mi girai e mi trovai davanti alla fotografa, Lindsay McFullen, una ragazza bionda, alta e magra, molto gentile, disponibile e soprattutto, una bravissima fotografa. Avevo già fatto dei servizi con lei, quindi mi tranquillizzai sapendo che avrebbe diretto lei il mio servizio fotografico.

-Lucy, tocca a te. Scusa se ti abbiamo fatto aspettare, stavamo terminando un altro servizio.- si scusò lei

-Non c’è alcun problema.- dissi sorridendo. Come potevo essere arrabbiata con lei? Era così dolce e carina, non si poteva restare adirati con lei per più di un minuto.

Mi sorrise, mostrando i suoi denti perfetti e bianchissimi, quasi abbaglianti.

Poi il suo sguardo si spostò da me e si concentrò su qualcosa o qualcuno alla sua destra. Non ci feci più di tanto caso, in fondo si sapeva che era un po’ pazza…

-Lui…- disse all’improvviso –E’ lui che ci ha fatti ritardare!

Teneva un braccio attorno alle spalle di quel ragazzo che avevo visto posare prima. Mi trattenni dallo spalancare la bocca per lo stupore. Era veramente un bel ragazzo, si, veramente bello.

-Andiamo a fare questo servizio va’!- Disse lei all’improvviso prendendomi sotto braccio e trascinandomi via –E tu- disse lei rivolta verso il ragazzo –Guarda ed impara da una professionista-disse riferendosi a me.

Io una professionista? Arrossii fino alla punta delle orecchie alle parole di Lindsay.

Mi trascinò via prima che potessi controbattere.

Alla fine mi ritrovai in estremo imbarazzo davanti allo sfondo bianco, con un ventilatore gigante puntato in faccia che quasi mi faceva lacrimare gli occhi. Mi portarono davanti un microfono, di quelli in stile anni 50. Cominciai a posare e a fingere di cantare con quel microfono.

Ero più nervosa di quanto non fossi mai stata per un servizio fotografico. Dipendeva forse da quei due occhi scuri e magnetici che mi fissavano, ma ancora non me ne rendevo conto.

Gli gettai alcune occhiate ogni tanto e tutte le volte il suo sguardo incontrava il mio, facendomi arrossire o sussultare.

Ero timida con i ragazzi, si, con qualsiasi ragazzo, ma con quel ragazzo era diverso, era come se lo conoscessi, era come se quegli occhi mi avessero già incantata in passato. Forse l’avevo incontrato nei primi 7 anni della mia vita, di cui non ricordavo assolutamente nulla per colpa di un incidente stradale in cui avevo perso la memoria.

L’unica cosa che sapevo era che mi attraeva in un modo strano, in un modo quasi disumano.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Una volta terminato il servizio l’istinto irrefrenabile di andare a parlare con quel ragazzo dall’incredibile familiarità, mi travolse come un treno in corsa, ma non appena mi girai verso il punto in cui era rimasto durante i miei scatti, non lo vidi più. Lo cercai per un po’. Non capivo nemmeno perché lo facessi, era assurdo cercare con tanta assiduità uno sconosciuto! Scossi la testa cercando di dimenticare quegli occhi incantatori.

Prima che potessi andare a cambiarmi, Lindsay mi prese sottobraccio

–Brava Lucy, ottimo lavoro!

Sorrisi –Grazie!- risposi. Poi senza nemmeno pensarci chiesi –Scusa, ma quel ragazzo di prima chi era? Non mi pareva di conoscerlo.

“Eppure sento che l’ho già incontrato…” pensai automaticamente.

Forse non avrei dovuto fare quella domanda. Non sapevo nemmeno perché l’avevo fatta, mi era venuto spontaneo chiederlo.

-Ah, si!- Esclamò Lindsay –Si vede che non vai al cinema, eh!- mi disse ridendo.

Non capivo perché ridesse. Si, ok, non andavo spesso al cinema e non ero aggiornata sui nuovi film ecc, ma che ci potevo fare se dovevo comporre nuovi canzoni? Mia madre, alias la mia manager, non mi lasciava un minuto di respiro, dovevo comporre, comporre, comporre… Come potevo permettermi di andare al cinema con una vita così?

-Beh, lui è Skandar Keynes, avrai sentito nominare il film Le Cronache di Narnia, no?- continuò Lindsay.

“Skandar Keynes…” il suo nome riecheggiava nella mia testa come il rintocco delle campane nel silenzio della notte.

Poi mi resi conto di dover una risposta a Lindsay, che mi guardava come se fossi scema

–Ehm… veramente no…- dissi un po’ imbarazzata per la mia poca conoscenza in questi campi.

Lei si portò una mano sulla fronte, scuotendo la testa.

-Lo sai che non ho tempo per queste cose!- dissi io sbuffando. In fondo sapeva che ero molto impegnata e che non avevo il tempo per leggere un bel libro, andare a vedere un film o anche solo uscire per una passeggiata! Almeno in questi tempi, visto che ero appena al secondo disco dovevo darmi da fare, almeno così diceva mia madre. Beh, ma in fondo mi aveva anche detto che dopo il terzo saremmo potute andare con un po’ più calma. Ormai il disco era completo, ma mia madre continuava comunque a riempirmi di impegni: concerto qua, concerto là, vai a questa trasmissione, fai queste interviste, fai questi servizi fotografici… Sempre la stessa storia, tutto per la promozione di questo terzo disco della malora.

Forse Lindsay non poteva capirmi, il lavoro di un fotografo era molto più semplice di quello di un cantante o un attore, bastava scattare foto.

Lindsay mi prese per le spalle e mi scosse con vigore fino a farmi venire voglia di vomitare

–Esci da questo corpooooo!!- urlò lei scuotendomi ancora.

Che era pazza era un dato di fatto ormai.

Mi lasciò andare e mi guardò piegando la testa di lato, come se la pazza fossi io e non lei.

-Devi divertirti ragazza mia- annunciò lei con un sorriso

Mi girava la testa e mi sentivo come un frappé: frullata.

-Non posso divertirmi se mi uccidi prima- mi lamentai io

Lindsay rise. Aveva una risata cristallina e contagiosa.

Non potevo dire che Lindsay fosse mia amica, ma ci conoscevamo da tre anni ormai, da ancora prima del mio debutto e sapevo di potermi fidare di lei. Certo, era un po’ pazza, sbadata e urlava sempre (cosa che, oltretutto, non ho mai capito perché facesse), ma era una brava persona, precisa nel suo lavoro come pochi e sapeva ascoltare.

La salutai ed andai a cambiarmi d’abito, tornando ad indossare i miei comodi jeans chiari e la mia camicia blu a quadri, il mio classico abbigliamento da tutti i giorni, specialmente per quando sapevo di dover fare servizi fotografici o dovevo andare in posti in cui mi avrebbero cambiata d’abito. Guai ad indossare i miei jeans per un’intervista! Mia madre mi avrebbe uccisa, come minimo.

Sapevo che il grande capo (sempre mia madre) mi aspettava in macchina per trascinarmi chissà dove. Sospirai e una volta recuperata la mia borsa formato gigante uscì. L’aria fredda d’inizio febbraio mi colpi in faccia come uno schiaffo e ciò che vidi davanti ai miei occhi fu ancora peggio di quello schiaffo.

Vidi il ragazzo di nome Skandar che rideva con un altro ragazzo alto, magro, biondo e dagli occhi incredibilmente azzurri.

Il sorriso di Skandar era così splendente da farmi quasi chiudere gli occhi per l’abbaglio.

Non chiedetemi perché provassi quella strana attrazione per uno sconosciuto, non lo sapevo nemmeno io. Forse era solo perché era carino, molto carino, forse troppo per me.

Mi era già capitato di innamorarmi, di provare forte attrazione per un ragazzo, ma mai a prima vista, certo, molte volte mi ero avvicinata ad un ragazzo solo perché lo trovavo bello, e forse il fatto di essere così attratta da quegli occhi, da quel sorriso, era solo perché era, appunto, estremamente bello.

Entrambi si girarono verso di me, forse perché attirati dallo sbattere della porta dello studio.

Il biondo rimase impassibile, mentre posso giurare di aver visto Skandar spalancare di poco gli occhi e sussultare vedendomi.

Piegai leggermente la testa di lato, non capivo quella sorpresa nel vedermi, in fondo l’altro ragazzo era rimasto impassibile. Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e cercai con lo sguardo l’auto. Dove diamine si era cacciata quella cavolo di mia madre sbadata che mi ritrovavo?

Ero bloccata in quel punto, come se l’asfalto sotto i miei piedi si fosse sciolto e io fossi rimasta intrappolata nel catrame.

Skandar e l’altro ragazzo non ridevano più. Ogni tanto confabulavano sottovoce. Skandar mi lanciava qualche sguardo accusatore di tanto in tanto, mentre l’altro fissava impassibile un punto indefinito dell’orizzonte. Mi chiedevo il perché di quegli sguardi da parte di Skandar, in fondo non ci conoscevamo nemmeno, cosa avevo fatto io per meritarmi quegli sguardi freddi?

Dopo altri due minuti l’ì impalata al freddo e altri sguardi di Skandar la rabbia mi prese dentro. Mi avvicinai a grandi falcate a quei due e puntai i miei occhi su quelli di lui. Ero infuriata e si vedeva, cosa diamine voleva dalla mia vita? Prima mi incantava con quei suoi profondi occhi scuri e poi mi lanciava quegli sguardi come se avessi tentato di spingerlo sotto un treno.

-Scusa, ce l’hai con me?- chiesi puntando le mani sui fianchi

Lui sgranò gli occhi come se gli avessi detto che avevo un alligatore dentro la mia borsa.

L’altro ragazzo invece si limitò a squadrarmi dall’alto al basso. Il suo viso poi esplose in un sorriso –Scusa, niente affatto, è che gli ricordi una persona, tutto qui.- disse il biondo con un altro sorriso –io sono William Moseley, molto piacere- disse tendendomi la mano –e tu sei…?

Rimasi leggermente a bocca aperta. Io ero andata lì e me l’ero presa con quel povero ragazzo, quando mi stava guardando così solo perché gli ricordavo una persona, magari una persona che gli stava poco simpatica visto le occhiate che mi lanciava.

-Ehm… Mi dispiace di essere stata scortese…- mi scusai immediatamente sia con Skandar che con il ragazzo che aveva detto di chiamarsi William Moseley. –Io sono Lucila, Lucila Kingston, piacere mio…- dissi stringendo la sua mano.

Vidi Skandar spalancare ancora di più gli occhi quando pronunciai il mio nome. Non ci feci più di tanto caso e gli tesi la mano con un sorriso.

Lui indugiò per due secondi, per poi stringere la mia mano –Skandar Keynes, piacere- disse lui.

La sua voce era come musica nella mia testa, mi ammaliava come un incantatore di serpenti incantava il suo animale.

Riuscimmo ad intavolare una mini discussione. Scoprì che entrambi erano due dei quattro protagonisti del film Le Cronache di Narnia. Non ne avevo mai sentito parlare, ma improvvisamente mi era venuta voglia di vedermi questo film.

Sentì il rumore della pota alle nostre spalle e vidi spuntare una testa bionda e subito riconobbi il viso di Lindsay –Will, Ska!- urlò facendo un movimento con la testa, invitandoli ad entrare.

Sorrisi a Linz (a volte mi capitava di chiamarla così) che si sorprese a vedermi ancora lì.

Il suono di un clacson mi fece girare in direzione della strada. Finalmente mia madre era arrivata.

Mi voltai verso i due ragazzi e con un mega sorriso li salutai.

-E’ stato un piacere conoscerti- mi disse William.

Mi voltai verso di lui e con un leggero rossore sulle guance (mi accadeva sempre quando ero in imbarazzo) gli risposi –Anche per me, spero di rivedervi!

Alzai la mano salutandoli e sorridendo tornai alla mia macchina.

Mia madre come al solito stava parlando, anzi strillando, al cellulare. Non mi chiese chi erano i due ragazzi, non mi chiese com’era andato il servizio, non fece alcuna domanda. In genere un genitore normale faceva domande di questo genere, ma lei no, non gliene importava nulla probabilmente, ma ormai non ci facevo più caso. Sapevo bene che l’unica cosa che le importava era che fossi sempre più famosa per avere sempre più soldi, ormai avevo capito com’era mia madre. Non che mi importasse qualcosa dei suoi comportamenti, poteva fare come gli pareva, tanto io ero diventata una cantante ed avevo realizzato il mio sogno, era solo quello l’importante.

Ripensai a Will e Skandar. Erano entrambi ragazzi meravigliosi, belli come dei greci. Peccato che Skandar fosse così silenzioso, aveva scambiato si e no due parole e quelle mi erano bastate per far partire il mio cuore per la tangenziale. Era strano come quel ragazzo potesse avere quell’effetto su di me.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


I giorni seguenti furono peggio dell’inferno. Mia madre era diventata un macchina trova – impegni. In una sola settimana avevo tenuto due interviste, avevo partecipato ad un programma televisivo e avevo fatto un altro servizio fotografico. “Per la promozione del nuovo disco” così mi diceva mia madre quando le chiedevo quando ci saremmo fermate un po’. Non mi rispondeva mai veramente, mi diceva solo che facevamo quello per la promozione del cd…

Mi sorpresi a ripensare a Skandar e Will ed a quei cinque minuti di conversazione che avevamo avuto. Will mi era sembrato un ragazzo molto simpatico e aperto. Skandar era stato freddo e distaccato, ma magari era fatto proprio così. Mi sarebbe piaciuto rincontrarli e, perché no, conoscerli meglio.

Nel grande mondo dello spettacolo non ero riuscita a legare molto e mi sarebbe piaciuto avere qualche amico appartenente a quel mondo.

Proprio in quel momento sentì vibrare il cellulare dentro la borsa. Ero dentro lo studio di non so che con mia madre e mentre lei discuteva con un tizio che era produttore di non so che film, potevo anche rispondere alla chiamata. Frugai nella borsa, alla disperata ricerca del cellulare. Ma perché prendevo sempre borse così grandi? Una volta trovato feci in tempo a rispondere prima che mettessero giù. Non avevo nemmeno letto il numero sul display, ma poco importava.

-Pronto?- dissi io

-Pronto Lucila? Sono Will, ti ricordi?

La voce di Will mi arrivò frastagliata all’orecchio

-Oh, ciao William, certo che mi ricordo!- dissi io con voce allegra. Poi mi fermai un secondo a pensare e senza esitare gli chiesi –Scusa, ma come hai avuto il mio numero?- chiesi perplessa.

-Beh, sai com’è Lindsay, no?- disse lui

Quella pasticciona di Linz aveva di nuovo dato il mio numero di cellulare in giro… Accidenti a lei, per colpa sua avevo dovuto cambiare numero tipo 10 volte.

-Sai se ha dato il mio numero a qualcun altro?- chiesi preoccupata di dover cambiare nuovamente numero

-No, solo a me, tranquilla- sentivo la sua voce a tratti, magari era in macchina e stava passando sotto una galleria… quando capitava a mia madre non la smetteva più di maledire il mondo…

-Will, non ti sento, cos’hai detto?- chiesi

Silenzio di tomba. Dall’altra parte del telefono non sentivo più nulla. Beh, l’avrei richiamato in un altro momento. Mia madre era tornata verso di me e tamburellava il piede a terra, aspettando che le prestassi attenzione.

Tenevo ancora il telefono vicino all’orecchio, mentre Hitler versione femminile, mi fissava con occhi di fuoco.

-Lucy? Ci sei ancora? Mi senti?- La voce di Will ora mi giungeva nitida, e stranamente vicina. Alzai lo sguardo e poco distante da me vidi un ragazzo di spalle, con un telefono in mano e che pronunciava il mio nome.

Senza volere scoppiai a ridere, attirando la sua attenzione.

-Ehi, che ci fai qui?- mi chiese lui venendomi incontro.

-Non lo so, mi ci ha trascinata mia madre. E tu invece?- risposi io curiosa di sapere perché si trovasse in quel posto. Poi notai com’era vestito: aveva addosso un completo grigio e una cravatta a righe

Stava bene vestito così, dovevo proprio ammetterlo.

-Ho appena finito di girare l’unica scena in cui compaio in questo film…- disse lui.

Mi balenò in mente la possibilità che ci fosse anche Skandar. Cercai di cacciare via quell’idea bislacca, non dovevo pensarci. Non doveva per forza esserci anche Skandar dove c’era Will.

Mi sentì toccare una spalla e vidi mia madre che, strano ma vero, sorrideva. Si, sorrideva!

-Tesoro mio- disse lei radiosa. Odiavo quando mi chiamava così. –Tu comporrai la colonna sonora di un film!- mia madre era entusiasta e pensai che da un momento all’altro si sarebbe messa a saltellare.

Poi ripensai a ciò che aveva appena detto mia madre. Cosa? Comporre la colonna sonora per un film?! Sgranai gli occhi e mi trattenni dall’urlare.

Mi voltai verso Will con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.

-Aspetta, quale film?- dissi curiosa

Mia madre indicò Will con un sorriso –Narnia!- disse lei, e questa volta anche lui sgranò gli occhi.

Avrei composto la colonna sonora di Narnia, il film in cui recitavano Will e anche Skandar. Quella era un’opportunità unica al mondo, nulla poteva rendermi più felice in quel momento.

In realtà non sapevo nulla di Narnia, né della storia o dei personaggi… come potevo comporre una canzone su un film di cui non sapevo nulla?

-Ehm… mamma… come posso comporre su un film di cui non conosco nulla?- chiesi a mia madre

-Ti aiuteremo noi…- mi girai verso Will che mi sorrideva.

Gli sorrisi a mia volta –Ti ringrazio

La cosa che mi lasciò un dubbio era quel noi. Per noi chi intendeva? Lui e…? Skandar forse?

Mi chiedevo perché continuassi a pensare a lui, in fondo non ne avevo alcun motivo. Non dovevo pensarci, dovevo riuscirci. La cosa che più mi confondeva era quella strana familiarità che mi infondeva quel viso. Magari somigliava a qualcuno che conoscevo, tutto qui… Si, doveva essere per forza così.

-Andiamo Lù?- mi chiese mia madre.

Guardai Will e lui mi disse semplicemente –Ti chiamo

Sorrisi a quel “Ti chiamo”, mi faceva sentire strana, mi infondeva una sorta di calore che mi impediva di non sorridere.

Lo salutai con la mano e seguì mia madre che stava già parlando al telefono. Che telefono dipendente…

Comporre la colonna sonora di un film ed essere aiutata da Will era più di quanto sperassi, era un’ottima occasione per farmi qualche amico in più. Chi sa se non avrei avuto l’onore di conoscere anche le altre due protagoniste del film che a quanto avevo capito si chiamavano Anna e Georgie, e magari anche diventare amica di Skandar. Beh, quello era il mio sogno più ambito, anche se non lo volevo confessare nemmeno a me stessa.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Non potevo dire che la mia vita fosse tranquilla, la mia vita era un’avventura continua, era un treno in corsa.

La mia ultima avventura? Ovviamente scrivere la colonna sonora del terzo film di Narnia! Sarebbe stata un’impresa ardua, non avevo idea di come avrei fatto. Fortuna che c’era Will che mi aiutava.

In quei giorni ci eravamo sentiti spesso ed eravamo anche usciti. No, non era stato un appuntamento, tranquilli… Eravamo solo andati a prendere un caffè ed avevamo discusso del primo film. Will mi aveva raccontato tutto ciò che succedeva in quest’ultimo, mi aveva parlato dei personaggi e dei loro atteggiamenti. Mi era sembrato molto interessante, mi sarebbe piaciuto vederlo.

Will era un ragazzo simpatico, dolce, gentile ed intelligente, insomma, il principe azzurro che tutte le ragazze si aspettavano. Se poteva diventare il mio principe non l’avevo ancora capito, sapevo solo che non annegavo nei suoi occhi come mi era capitato con quelli di Skandar. Era strano, lo so, ma non potevo far a meno di pensare a lui. Il suo nome mi tornava in mente in qualsiasi momento della giornata e mi tormentava.

Fuori dal bar faceva un freddo tremendo. Ero lì davanti con i miei occhialoni da sole, nonostante fosse coperto da spessi nuvoloni che presagivano pioggia, e un’altra delle mie borse formato gigante. Dovevo veramente decidermi a prendere borse più piccole, finivo sempre per metterci di tutto dentro e alla fine mi sembrava di portarmi il mondo in borsa: agenda, fazzoletti, trucchi, cellulare, iPod, una bottiglietta d’acqua, fogli vari, penne, ombrello, addirittura una maglietta pulita... ci mancava poco che ci mettessi dentro una chiave inglese ed ero a posto. Anzi, forse avevo anche quella dentro la borsa. Beh, non si poteva mai sapere, no? Magari incontravo un automobilista in difficoltà e la mia chiave inglese sarebbe potuta servire.

Vidi in lontananza la chioma bionda di Will, che ormai avevo imparato a riconoscere. Era assieme ad una ragazza alta ed a una un po’ più bassa, poi, dietro di loro, intravidi un ciuffo di capelli scuri e il mio cuore fece tre capriole per l’emozione. Ormai avevo smesso di chiedermi il perché, non ci facevo più caso, ignoravo semplicemente quei battiti veloci e insistenti. Temetti che in quel momento il mio cuore sarebbe saltato fuori se non avessi avuto una gabbia toracica.

Will fu il primo ad avvicinarsi –Ciao Lucy- mi salutò con un bacio sulla guancia. Era la seconda volta che lo faceva e più o meno mi ci stavo abituando.

-Loro sono Anna, Georgie e beh, Skandar lo conosci già- disse lui facendo le presentazioni.

Sorrisi alle due ragazze. Anna era alta e magra, aveva una carnagione nivea, gli occhi azzurro ghiaccio e i capelli scuri. Mi ricordava Biancaneve

Georgie era molto graziosa, aveva i capelli castano chiaro e due bellissimi occhi azzurri. Era piuttosto bassina, anzi, a dirla tutta era alta quanto me…

L’unico che sembrava non c’entrare nulla con quei tre ragazzi era Skandar, con i suoi occhi profondi e scuri che mi avevano affascinata la prima volta in cui mi ci ero soffermata.

Mi sorrise e il mio cuore fu dilaniato da una stretta quasi mortale.

Quel sorriso mozzafiato che mi aveva rivolto aveva rischiato di farmi avere un infarto.

Con nonchalance mi morsi il labbro inferiore. Quel sorriso faceva quasi male.

La cosa che mi aveva sorpresa più di tutto era il repentino cambiamento rispetto alla volta precedente in cui ci eravamo visti. Quel giorno era stato freddo, come se fosse in collera con me, mentre oggi mi sorrideva. Strano.

Cercai di tornare al presente.

Porsi la mano prima ad Anna e poi a Georgie.

–E’ un piacere conoscervi- dissi con un gran sorriso.

Anna mi sorrise dolcemente e strinse la mia mano con delicatezza –Piacere nostro

Georgie invece si limitò a stringermi la mano e a sorridere.

Notai che sia io che Will, Anna e Georgie portavamo degli occhiali da sole, come se portarli non rendesse riconoscibili le nostre facce. Georgie aveva anche un cappellino leopardato in testa, il che invece di far distogliere l’attenzione, l’attraeva ancor di più.

Skandar era l’unico che non aveva cercato di nascondersi.

Entrammo nel bar, vuoto fortunatamente. Il calore che c’era lì dentro mi avvolse, facendo sparire quel freddo di metà Febbraio che entrava addirittura nelle ossa.

Ci sedemmo in un tavolo in fondo, lontano dalla vetrina e da possibili sguardi indiscreti. Ordinammo i nostri caffè e cominciammo a parlare. Li informai anche che avevo già cominciato a pensare ad una melodia, anche se ero un po’ titubante.

Mi sorprese ciò che disse all’improvviso Anna

-Se sei indecisa Skandar può aiutarti- disse come se fosse una cosa normalissima. Poi si rivolse a lui -se non sbaglio suoni la chitarra e il flauto, no?

Farmi aiutare da Skandar? A quelle parole mi bloccai completamente alla sedia, come se mi ci avessero incollata con l’attak.

-Ma figurati, ce la posso fare anche da sola, non voglio disturbare, in fondo è già occupato con le riprese, no?- dissi io ad Anna. Nella mia voce si poteva leggere un po’ di… panico?

-Per me non c’è alcun problema…- disse lui come se io non avessi detto nulla. La sua voce calma e profonda mandò il tilt il mio cervello. Ora funzionava un secondo si ed uno no.

-Bene, allora è deciso, no?- disse Georgie.

O erano loro ad aver perso la capacità di sentire la mia voce, oppure ero diventata io muta senza rendermene conto. Non avevano sentito una parola di quel che avevo detto.

Ero sicura che farmi aiutare da Skandar sarebbe stata solo una grande, grandissima, distrazione per il mio povero cervello.

Rigirai il mio cappuccino con il cucchiaino, producendo quel classico e fastidioso tintinnio. Lo bevvi senza dire una parola. Poi posai rumorosamente la tazzina sul piattino bianco di ceramica.

-Bene…- dissi sospirando.

Presi la borsa grigia e cominciai a frugarci dentro, in cerca dell’agenda.

Passarono tipo cinque minuti prima di riuscire a trovarla.

Controllai i miei impegni. Tutti i mercoledì pomeriggio ero libera, giorno che generalmente dedicavo a comporre.

Per mia fortuna, o sfortuna, non saprei dire, quel giorno era proprio mercoledì, ma non avevo idea degli impegni di Skandar…

-Sono libera tutti i mercoledì pomeriggio…- dissi accennando un sorriso. –Prossimo mercoledì?- gli chiesi ricacciando la mano dentro la borsa, tentando di trovare una penna funzionante.

-Ok- mi disse lui semplicemente, senza controllare da nessuna parte se avesse impegni per quel giorno.

Segnai sull’agenda il nostro incontro, poi presi uno di quei tanti foglietti bianchi che tenevo al fondo di questa e ci segnai sopra il mio indirizzo e il mio numero di cellulare. Gli passai poi il biglietto che lui infilò velocemente nella tasca dei jeans.

Intanto Anna e Will avevano preso a parlare vivacemente e ridere come matti. Stavano proprio bene assieme, sembravano una coppia e a vederli un sorriso mi venne spontaneo.

Poi ripensai a ciò che era appena accaduto. Avevo appena concordato per far venire Skandar da me per aiutarmi ed il mercoledì seguente saremmo stati assieme per un intero pomeriggio. Mi si scatenò dentro un terrore irrazionale ma irrefrenabile.

All’improvviso mi vennero mille dubbi, quelli classici che si poneva ogni ragazza quando aveva un appuntamento con un ragazzo. Il punto era che il nostro era un appuntamento di lavoro, era per lavoro, quindi quei dettagli non avrebbero dovuto spaventarmi così tanto.

Sentì il cellulare vibrare nella tasca dei miei comodi jeans. Lo presi e notai che mia madre mi aveva inviato un sms. Lo aprì e ci lessi le parole “Tempo scaduto”. Significava che dovevo tornare a casa immediatamente. Mia madre era un mostro. Guardai l’orologio Rolex nero che tenevo al polso e notai con orrore che erano le 6.30 di sera. Mia madre mi avrebbe ammazzata.

Mi alzai di scatto distogliendo i quattro dalle loro chiacchiere.

Lanciai un’occhiata fuori dalla vetrina e notai la mia auto fuori dal bar.

-Scusatemi, devo proprio andare!- dissi prendendo frettolosamente la borsa e gettandoci dentro l’agenda. Mi infilai la giacca e sorrisi a tutti e quattro.

-Ci vediamo, è stato un piacere conoscerti- mi disse Georgie

-Anche per me- dissi con un ampio sorriso. Poi mi rivolsi a Skandar –Mercoledì pomeriggio.- gli ricordai.

Feci un gesto di saluto con la mano e dopo aver pagato al bancone schizzai fuori prima che Will potesse alzarsi e protestare.

Salii sull’auto nera che partì a razzo, spedita verso casa mia.

Il silenzio che c’era in auto lasciò troppo spazio ai miei rimugina menti.

Ero ancora nervosa, per il solo pensiero di dover vedere di nuovo Skandar, e il fatto che mi avrebbe aiutata a comporre la canzone mi preoccupava ancora di più. Quando componevo avevo bisogno di assoluto silenzio e se c’era qualcuno nei paraggi o qualcuno mi stava ascoltando, non riuscivo a concentrarmi a dovere. Il fatto di avere Skandar vicino mi preoccupava in un modo assurdo. Sapevo che i suoi occhi marroni mi avrebbero distratta a tal punto da farmi bloccare con le mani sul piano e la bocca spalancata per cantare, senza che nessun suono potesse uscire.

Sapevo che sarebbe andata così.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Mi chiedevo perché il tempo volasse così in fretta. Avrei voluto che quel giorno non arrivasse mai.

Era mercoledì di primo pomeriggio, uno dei soliti pomeriggi nuvolosi ed uggiosi. Come al solito il cielo era plumbeo e il sole pigro pareva non aver alcuna intenzione di far capolino tra le nuvole, per rallegrare la mia giornata.

Stavo camminando per la casa senza un motivo preciso. Ero da sola in quella sottospecie di castello, con solo qualche maggiordomo di qua e di là. Casa mia sembrava veramente un castello, con i suoi quattro piani di mostruosità.

Presi l’ascensore e dal primo andai al quarto piano. L’ascensore era stata un’idea di mia madre, diceva che non aveva tempo di fare le scale… che strana donna mia madre…

Percorsi il lungo e luminoso corridoio dalle mille finestre che, purtroppo, si affacciavano sulla strada. La cosa positiva però era che il cielo si vedeva benissimo, peccato che fosse sempre così grigio, una catastrofe per una come me che amava osservare il cielo.

Entrai nella terza porta sulla destra. Quella era la mia stanza. Al centro della sala vi era un pianoforte a coda in legno di mogano. Il mio piano preferito. Certo, perché non era l’unico. Ne avevo uno nella serra. In estate mi piaceva andare a suonare là, tra le piante e la luce accecante del sole che a volte filtrava attraverso le vetrate, rendendo tutto intorno a me così magico…

In fondo alla sala, in un angolo solitario c’era un pianoforte a muro. Non lo usavo quasi mai, ma era stato il mio primo pianoforte e ci ero molto affezionata.

Poi la stanza era disseminata di altri strumenti, come chitarre classiche, elettriche ed una batteria. In passato infatti li tenevo nello scantinato della mia vecchia casa e provavo con la mia vecchia band. Ora li avevo portati tutti in quell’immensa sala insonorizzata. Molte volte mi soffermavo ad ammirarli. Quegli strumenti raccontavano la mia storia.

Mi avvicinai al pianoforte e sfiorai i tasti con le mie esili e lunghe dita. L’impulso di sedermi e suonare una melodia a caso mi travolse e non potei resistere alla tentazione. Presi posto davanti al piano e cominciai ad eseguire la prima canzone che mi veniva in mente, che solitamente era sempre la stessa, sempre quella melodia che mi tormentava.

Il mio primo ricordo dopo il mio incidente stradale con i miei genitori, era stata proprio quella musica travolgente. Ne ignoravo la provenienza, ma mi prendeva dentro tutte le volte, quasi fino a farmi piangere.

Magari Skandar sapeva di che canzone si trattava. Mi sarebbe piaciuto suonargliela, ma era quasi impossibile. Era troppo personale, suonandogliela mi sarei sentita come messa a nudo. All’improvviso mi ricordai che sarebbe arrivato da lì a momenti. Mi prese un panico improvviso e lo stomaco mi si chiuse completamente. Continuavo a ripetermi che era per lavoro, solo per lavoro.

Nonostante tutti le mie auto rassicurazioni, il nervosismo continuava ad attanagliarmi. Continuai a suonare, cercando di non pensare più che Skandar stava per arrivare.

Le mie mani si fermarono improvvisamente a metà canzone. Non sapevo più come continuava, avevo sempre saputo fino a quel pezzo.

Cominciai a provare la canzone per Narnia. Avevo in testa una mezza melodia, ma non ci avevo ancora pensato bene. Quindi suonai qualche pezzo un po’ a caso.

Fui costretta ad interrompermi quando si aprì la porta. Il viso di uno dei maggiordomi apparve sulla soglia.

-Ehm, scusi se la disturbo signorina…- mi disse un po’ titubante. Era il nuovo maggiordomo e oltretutto era il più giovane di tutti, aveva appena venticinque anni, era il figlio del nostro maggiordomo più fidato, come potevamo non assumerlo?

Gli sorrisi, facendogli capire che non lo mangiavo –Puoi chiamarmi Lucila- gli dissi. Non mi piaceva che mi dessero del lei. In fondo i miei maggiordomi erano anche miei amici.

Il suo volto esplose in un sorriso. –E’ arrivato l’ospite- mi disse lui tutto felice.

-Grazie, fallo pure entrare- gli dissi con un’ulteriore sorriso.

Staccai le mani ancora sul piano e le posai sul grembo. Il maggiordomo sparì dietro la porta e apparse Skandar con un sorriso sul volto. Mi si mozzò il fiato vedendolo e il cuore prese ad andare ad una velocità pazzesca.

Mi alzai dal mio piano e gli andai in contro.

-Benvenuto nella mia stanza della musica- gli dissi raggiante indicando lo spazio attorno a me.

Lui si guardò attorno –Notevole- disse meravigliato.

Presi una sedia posta poggiata alla parete e la sistemai vicino a piano. Mi sedetti e con un cenno del capo lo invitai ad accomodarsi sulla sedia.

-Suoni la chitarra, no?- gli chiesi lanciando uno sguardo alle tante chitarre classiche ed elettriche poste sui loro cavalletti.

Lui annuì. Spostai lo sguardo da una chitarra all’altra, fino ad individuare la mia preferita. Andai a prenderla, per poi portargliela.

-Bene…-dissi per poi sospirare. –A dire la verità ho poco chiara la melodia…- gli confessai con le mani poggiate sul piano. -però ho già scritto qualcosa…-

-Sentiamo- disse semplicemente lui rivolgendomi uno di quei suoi sorrisi sghembi che mi piacevano tanto.

Presi un gran respiro e cominciai a suonare l’unico pezzo della canzone di cui ero sicura.

Sentivo i suoi occhi magnetici puntati su di me, sulle mie mani che scorrevano lentamente sui tasti neri e bianchi. Per fortuna avevo i capelli che mi servivano da tenda e che mi coprivano leggermente il viso ai lati, così da non potermi distrarre buttandogli qualche occhiata.

Mi fermai dopo poco, quel pezzo era l’unico di cui ero certa. Alzai lo sguardo sul suo viso per cercare di decifrare la sua espressione.

Sembrava gli fosse piaciuto il pezzo.

-Risuonala- mi disse poi lui –stavolta non fermarti, continua a suonare, anche a caso- disse con un sorriso.

Obbedii come un cagnolino. Ricominciai ad eseguire il pezzo e questa volta non mi fermai, continuai un po’ a caso, non facevo nemmeno molto caso a ciò che stavo suonando. Poi mi fermai e trovai il volto sorridente di Skandar su di me. Piegai leggermente la testa di lato, possibile che avessi prodotto una melodia decente?

-Visto? Era semplice, no?- disse lui.

-Già, peccato che non la ricordi già più- bofonchiai accarezzando i tasti.

-Per tua fortuna ho una memoria infallibile- disse.

Con la chitarra cominciò ad eseguire ciò che avevo appena suonato io. Lo ascoltai quanto più attentamente potevo, anche se era difficile concentrarmi sulla musica quando avevo il suo viso così vicino. Osservai i suoi lineamenti con attenzione, come per cercare di stamparmi la sua immagine nella mente.

Poi smise di suonare e alzando il viso sorrise leggermente. Si allungò verso di me e io mi sorpresi ad arrossire. Poi notai che aveva solo allungato la mano verso i fogli di pentagramma.

-Posso?- chiese lui alludendo ai fogli.

-Certo- dissi io passandogli la matita.

Cominciò a scarabocchiarci sopra le note e dopo un po’ me lo passò.

-Prova a suonarlo- mi disse lui passandomi il pentagramma scribacchiato

Lo posizionai davanti al piano e suonai nota per nota, ascoltando bene la melodia. Mi fermai a correggere un punto e ricominciai e continuai così, senza nemmeno l’aiuto di Skandar, che ormai non diceva più nulla. Stava solo ad osservarmi e tutto il nervosismo che mi era preso prima di vederlo, in quel momento mi pareva così assurdo…

Alla fine si poteva dire che la canzone era più o meno a posto. Non mancava molto e le parole stavano già cominciando a venirmi in mente.

Ormai ero a mio agio con Skandar, non mi vergognavo più di suonare con lui affianco. Mi venne quindi l’idea di fargli sentire quella melodia che avevo in testa dal giorno dell’incidente.

-Posso farti sentire un pezzo?- gli chiesi quindi

-Certamente- rispose.

Feci una specie di mezzo sorriso per poi sospirare. Cominciai a eseguire quella canzone che mi emozionava tanto. Mi fermai nel bel mezzo della melodia, ove la mia mente non aveva più memoria di questa.

Mi voltai verso Skandar e lo vidi con gli occhi spalancati. Era bianco come una mozzarella.

-Ehm… qualcosa non va?- chiesi preoccupata prendendo a giocare con la catenina che portavo al colo ben nascosta sotto la maglietta. La tirai fuori e strinsi nel pugno il ciondolo che vi era appeso. Quella collanina era una di quelle cose a cui tenevo molto. Anche quella faceva parte della mia vita prima dell’incidente, perché all’ospedale tra i miei vestiti mi avevano ridato anche quella e non so perché, ma sentivo che aveva un significato speciale.

Lui per qualche secondo non spiccicò parola. Poi, quando stavo cominciando a preoccuparmi seriamente disse

-Dove hai imparato quella canzone?- chiese con la voce ridotta quasi ad un sussurro

-Non l’ho imparata… Ehm… è difficile da spiegare- non sapevo se volevo raccontargli dell’incidente, non eravamo ancora molto amici e non sapevo se era il caso di raccontargli un pezzo della mia vita così importante. Tuttavia gli spiegai tutto.

-Vedi… quando avevo sette anni feci un incidente stradale con i miei genitori. Persi la memoria. Quando mi risvegliai in ospedale il mio primo pensiero fu questa melodia. Pensavo tu potessi sapere di che canzone si tratta…- gli spiegai, cercando di non soffermarmi troppo sul fatto dell’incidente e della memoria.

Era più pallido di prima e mi guardava come se fossi un’aliena.

Mi sorpresi a sentire le sue parole

-Conosco benissimo questa canzone… l’avevo scritta io…

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Quelle parole riecheggiavano nella mia testa. I dubbi spuntavano fuori come i funghi. Come poteva aver scritto lui quella canzone? Quella melodia era uno dei pochi ricordi dopo il mio risveglio in ospedale, era impossibile che fosse stato lui a scriverla. Impossibile.

-Ma come…- mi uscì solo dalla bocca. Ero completamente incapace di proferire parola. Ero in un misto tra lo sconcertata e lo sconvolta. Dovevo credere a quelle sue parole?

Lui si portò una mano alla fronte, scompigliando leggermente i capelli scuri. Riuscivo solo a pensare che dovevano essere morbidi come la seta. Nonostante fossi così confusa sulle sue parole non riuscivo a non pensare che fosse bellissimo.

-In realtà non l’avevo scritta da solo…- disse lui. Parlava come se quelle parole gli facessero male. –Eravamo solo dei bambini, lo so, ma quella era la nostra canzone…- disse quasi in un sussurro.

“Eravamo solo dei bambini…” quelle parole, cosa stavano a significare? Voleva forse dirmi che da bambini ci conoscevamo? Eravamo amici? Avevamo scritto assieme quella canzone? Non capivo nulla, troppe cose stavano riaffiorando dal cassettino dimenticato dei ricordi che mai avrei recuperato. Non capivo, decisamente, non capivo.

-Spiegati meglio…- gli chiesi. Se eravamo stati amici, se ci eravamo conosciuti da piccoli, volevo sapere tutto. Un’infanzia passata accanto a lui doveva essere stata per forza una bella esperienza. Mi meravigliavo del fatto che fossi riuscita a dimenticare persino quegli occhi. Ma non li avevo dimenticati completamente. La prima volta che l’avevo visto quegli stessi occhi avevano aperto una porta nella mia mente, avevano risvegliato qualche senso perduto. Ricordavo i suoi occhi, anche se non sapevo dove li avevo visti.

Lui sospirò ed alzò lo sguardo, puntando i suoi pozzi scuri nei miei occhi color nocciola.

-Da piccoli noi due eravamo molto amici. Passavamo i pomeriggi a giocare assieme e a volte mi chiedevi di suonare la chitarra per te. Poi un giorno mi dicesti che volevi diventare una cantante. Avevi solo sei anni, ma già allora avevi le idee ben chiare. Mi chiedesti di insegnarti a suonare la chitarra. Imparavi in fretta e suonare ti appassionava molto. Così un giorno cominciammo a suonare e ne venne fuori questa melodia. A volte la canticchiavi a bassa voce, altre a squarciagola.

Vederti così contenta mi riempiva il cuore di gioia. Poi un giorno ti persi… ci fu quell’incidente…-

Si prese la testa tra le mani quasi come dilaniato dal dolore di quelle parole che suscitavano così tanti ricordi che forse avrebbe voluto volentieri dimenticare.

Io rimasi immobile sulla mia sedia, ero rimasta paralizzata da quelle parole. Quindi… noi due eravamo amici d’infanzia e poi… dopo l’incidente mi ero dimenticata di lui…

Mi chiesi come avevo potuto dimenticarlo, come avevo potuto dimenticare quegli occhi scuri, quei capelli selvaggi e quel sorriso abbagliante. Ma no, in fondo li ricordavo ancora, qualcosa di lui era rimasto ben radicato nella mia memoria e al vederlo mi era sembrato già di conoscerlo. Per quello, forse, mi sentivo così in sintonia con lui. Non avevo paura di stargli accanto, non avevo paura di parlargli, non sudavo freddo e non mi tremava la voce. E questo perché ci conoscevamo già, perché lui era un mio amico d’infanzia.

Mollai la catenina che stringevo ancora nel pugno della mia mano. La lasciai cadere sul mio petto con un tintinnio. Non ebbi cura di nasconderla sotto la t-shirt, non m’importava che la vedesse. In fondo aveva sentito quella melodia, vedere qualcos’altro riguardante la mia infanzia non avrebbe cambiato le cose, anzi, magari avrei scoperto il significato di quella stessa collana, chissà.

Lui alzò di scatto la testa e mi guardò di nuovo negli occhi. Poi sfiorò la catenina e per una frazione di secondo riuscì ad intravedere il suo sorriso.

-Te l’avevo regalata io…- disse lui osservando il ciondolo a forma di stella. Poi fece un po’ di pressione sul dorso, il ciondolo fece un piccolo “clac” e si aprì.

Non avevo mai notato che si potesse aprire, ma forse perché non mi ero mai soffermata ad osservarlo attentamente. L’avevo sempre guardato con un po’ di sospetto. Forse perché non sapevo cosa rappresentasse, forse perché ero dubbiosa sul suo significato. Non rappresentava nulla, ma ero decisa a portarlo sempre con me perché sapevo che un tempo doveva essere stato importante.

Presi il ciondolo in mano, sfiorando quella calda di Skandar che teneva ancora la collana delicatamente tra le dita. All’interno vi era una foto di due bambini. Eravamo noi due, lo capì subito. Uno abbracciato all’altro con un sorriso formato gigante stampato sul viso, sembravamo felici. Sullo sfondo c’era un giardino che più verde di così non si poteva. Non ricordavo quel posto. Doveva essere bello. Magari la casa di Skandar, magari una delle mie vecchie case oppure casa di qualche mio parente o di Skandar. Chissà che ricordo rappresentava quella foto per Skandar.

Oltre la foto, sull’altro lato interno, vi era un’incisione. “You’re my star”. Quelle quattro parole scritte mi fecero quasi piangere. Mi venne voglia di abbracciare Skandar in quel momento, ma non lo feci, sarebbe stato un gesto avventato da parte mia. Quelle parole potevano sembrare stupide, ovvie, ma erano molto importanti, lo sapevo. Skandar, conoscendo il mio sogno di diventare una cantante, una stella, aveva scritto quelle parole per farmi capire che, anche se non fossi diventata famosa, per lui sarei sempre stata la più brava, la sua stella. Quella scritta nascondeva un significato così bello e importante, che non avrei mostrato la collana a nessun’altro che a Skandar. Era una cosa personale, non volevo che nessun’altro rovinasse quel ricordo così dolce.

Ad un certo punto mi sentivo come colpevole, colpevole di aver perso la memoria, di essermi dimenticata di lui. Avrei voluto poter recuperare tutti quei ricordi con uno schiocco di dita, ma sapevo di non poterlo fare e mi faceva male esserne cosciente.

-Mi dispiace…- dissi a bassa voce. –Mi spiace per essermi dimenticata di te…

-E’ stata colpa mia…- disse lui con una mano tra i capelli

-No, non è stata colpa tua… Non potevi essere colpevole di quell’incidente stradale…

-Se io non avessi continuato a fare domande a tuo padre come un bambino viziato e curioso probabilmente non si sarebbe distratto e non avrei causato tanti problemi. E’ solo colpa mia… - disse ancora con le mani tra i capelli. Mi sembrava fosse sull’orlo del pianto, mi faceva tenerezza in quel momento. Era così debole, vulnerabile, la sua anima era completamente messa a nudo in quel momento, potevo chiaramente sentire il suo dolore.

Un secondo dopo misi a fuoco la situazione. Ciò che aveva appena detto quindi stava a significare che anche lui era presente in macchina con mia madre, mio padre e me?

-Ma… quindi c’eri anche tu in macchina?

Lui sospirò. Sapevo che farcendogli tante domande e obbligandolo così a rispondermi gli stavo facendo solo male, ma volevo sapere. Dovevo sapere.

-Sì, c’ero anch’io in macchina.- cominciò lui -Stavamo andando al parco. I miei genitori erano già là, ci stavano aspettando. Io avevo insistito per venire in macchina con te. Eravamo partiti dieci o quindici minuti dopo la mia famiglia e poi,- fece una pausa che mi parve infinita -tuo padre perse il controllo dell’auto a causa mia. Tu, perdetti la memoria. Dimenticasti tutto. Dimenticasti la tua famiglia, i tuoi amici… dimenticasti persino me e nel momento in cui ti venni a trovare in ospedale quasi morì al sentirti chiedere “e tu chi sei?”. Il sorriso che portavo sul viso appassì come i fiori che tenevo in mano a sentirti pronunciare quelle parole.- sospirò e dopo aver preso un lungo respiro, continuò, sempre tenendo lo sguardo piantato sul pavimento -Volevo solo dimenticarmi di te, odiarti, ma quando cercavo di portarti rancore, l’unica cosa che riuscivo a fare era portare rancore per me stesso. Arrivai persino ad odiarmi. Mi odiavo perché sapevo che era tutta colpa mia, mi odiavo perché non riuscivo ad odiare te, mi odiavo perché non riuscivo a dimenticare quella bambina di nome Lucila con cui avevo giocato così tante volte, quella bambina dal sorriso dolce e gli occhi scuri e sinceri, quella bambina che era stata il mio primo amore.

Skandar alzò la testa e notai i suoi occhi lucidi. Sentì le lacrime salire agli occhi. Quel ragazzo aveva sofferto così tanto, più di quanto io avessi mai potuto immaginare. A causa mia, a causa della mia memoria perduta, lui era stato male per così tanto tempo, arrivando persino ad odiare se stesso. Ed era solo colpa mia. Lui diceva che era colpa sua, ma non era vero, ero io l’unica colpevole di tutto quello, ero io la causa del suo dolore. E non riuscivo a perdonarmi. Come avevo potuto causare tanta sofferenza? Ero solo una bambina, l’avevo fatto incoscientemente, ma non potevo fare a meno di odiarmi. Mi odiavo perché avevo ferito Skandar. Gli avevo causato tanto dolore che mi sembrava assurdo che io avessi continuato la mia vita così, felice e contenta, mentre lui aveva sofferto in silenzio. Per ben dieci anni avevo continuato a vivere la mia vita con tranquillità, ignara di tutto il male a cui avevo condannato persone che per me erano state molto importanti. Persone come Skandar, persone come i miei genitori, i miei vecchi amici. Così tanto dolore avevo provocato, che non riuscivo nemmeno a immaginarmelo. Non potei fare a meno di pensare che ero una persona orribile. Sapevo bene che non ero colpevole della mia perdita di memoria, ma non riuscivo a non pensare che non ero una brava persona. Mi sentivo marcia dentro.

Non riuscivo a trattenere le lacrime, non ero brava a nascondere le emozioni. Skandar prese le mie mani tra le sue e in quel momento tutte le lacrime che avevo tentato di nascondere, uscirono fuori come un fiume in piena. Non mi piaceva mostrarmi così debole agli occhi altrui, ma non potevo far nient’altro che versare lacrime anche se sapevo di non averne diritto alcuno.

Sentì le sue braccia stringermi e mi ritrovai poggiata al petto di Skandar. Mi sentivo protetta tra le sue braccia, mi sentivo meglio. E in quel momento tornai un po’ bambina. I bambini hanno paura del mostro sotto il letto e hanno bisogno della mamma per essere calmati. Io in quel momento ero spaventata da tutta la sofferenza che avevo arrecato e avevo bisogno di essere protetta. Stringendomi a quel modo, Skandar mi donava la protezione di cui avevo bisogno. Mi sentivo bene tra le sue braccia e lentamente le lacrime cessarono. Sapevo bene che non ero io a dover piangere, sapevo che sarei dovuta essere io a proteggere Skandar, ma alla fine era andata così. Ero decisa però, a difendere Skandar da quel momento. Non avrei più permesso a niente e nessuno di fargli del male. Non volevo più che soffrisse, né a causa mia né a causa di altri. Da quel momento in poi sarei dovuta diventare più forte. Dovevo essere forte due volte: per me stessa e per proteggere Skandar.

Non doveva soffrire mai più. Ne aveva già passate abbastanza, volevo solo vederlo felice.

Lui mi scostò delicatamente, in modo da potermi vedere in viso. Passò una mano sul mio volto, asciugando quello che rimaneva sulle guance delle mie lacrime.

-Perché piangi?- mi chiese senza capire il perché di quel mio stato d’animo.

-Perché...- cominciai io dopo un singhiozzo –Perché ho arrecato troppa sofferenza a molte persone a me care e nel frattempo, mentre loro soffrivano, io vivevo in serenità. Non è giusto che io sia stata così bene, mentre loro no- mi asciugai una lacrima –Mi spiace per averti fatto del male, non volevo, sul serio…

Lo vidi sorridere leggermente e il suo sorriso mi fece quasi male da tanto era bello.

-Ti ho già detto che non importa quanto tu mi abbia ferito, perché comunque non riuscirei mai ad odiarti. Potrai sempre ferirmi quanto vorrai, non riuscirò mai a portarti rancore. Per questo, fammi male quanto vuoi e non farti problemi. Feriscimi, uccidimi, arrecami tutto il dolore che puoi, perché non potrò mai, mai, dimenticarti o arrivare ad odiarti. Mi renderai felice qualsiasi cosa farai, persino ferirmi fisicamente. Sarò sempre felice, perché l’avrai fatto tu. Qualsiasi cosa, qualsiasi offesa o bella parola che uscirà dalla tua bocca, non potrà che rendermi felice. Non potrò mai odiarti- disse tutto con un sorriso. Mi sembrò un discorso assurdo quanto dolce e romantico. Le parole che aveva detto erano così belle che quasi mi commossi. Nonostante tutto il dolore, lui continuava a volermi bene. Ma forse la persona che ricordava lui, quella bambina dolce ed allegra, non l’avrebbe ritrovata nell’attuale Lucila. Mi chiedevo se mi avrebbe accettata anche con il passare degli anni. Crescendo sarei cambiata ancora e il mio carattere sarebbe mutato. Mi avrebbe ancora voluto bene nonostante i miei cambiamenti?

-Magari saresti felice tu- dissi io –ma mi sentirei troppo in colpa, sapendo di averti causato sofferenza, non potrei sopportare di vivere con un peso così sulla coscienza. Saperti ferito, ferirebbe me.

Ancora una volta mi ritrovai avvolta nel suo abbraccio e non potei far altro che abbandonarmici. Riflettei su tutto ciò che mi aveva detto. Doveva per forza essere tutto vero, la foto nel mio ciondolo ne era la prova. Noi da piccoli eravamo amici e dopo l’incidente ci eravamo persi di vista. Ma chissà perché. Di sicuro non era stato per volere suo. Se realmente ero stata il suo primo amore, non mi avrebbe lasciata andare così, come nulla. Se fosse stato davvero innamorato di me, se fosse stato davvero mio amico, mi avrebbe aiutata a superare quel periodo in cui avevo dimenticato tutto della mia vita. Ed ero certa che lui l’avrebbe fatto. Magari ero stata proprio io a chiedergli di non farsi più vedere, forse i suoi genitori gli avevano proibito di venirmi a trovare o forse erano stati i miei a non volerlo più veder girare attorno a me.

-Perché non mi sei stato accanto durante il periodo in cui ero senza memoria? Ero stata io a chiederti di non venirmi a trovare?- chiesi ancora poggiata al suo petto.

Sospirò –I tuoi genitori mi vietarono di avvicinarmi ancora a te, mi riteneva la causa della distruzione della vostra famiglia. E francamente, avevano tutte le ragioni del mondo per odiarmi.

Rimasi in silenzio, ad ascoltare il suono del suo cuore che andava velocemente. Quella dolce musica accompagnata dal suono del suo respiro caldo sul mio capo, mi cullavano lentamente. Era così bello poter stare abbracciata a lui. Sentivo come la sensazione di essere già stata così tante altre volte, e di sicuro da piccola mi ero addormentata a quel modo chissà quante volte. Mi faceva sorridere il pensiero di un’infanzia con Skandar. Di sicuro da qualche parte, nascosti nel mio cervello, c’erano ancora tutti i nostri ricordi: le immagini di lui che mi ero stampata nella testa, il ricordo del suono della sua risata e del battito del suo cuore, il ricordo della nostra canzone. Dovevano esserci così tanti ricordi che avevo perso, che avevo dimenticato. Mi si strinse il cuore sapendo che io forse non avrei mai recuperato tutto quello. Skandar ricordava tutto e nei momenti in cui si sentiva più triste di sicuro si era aggrappato con avidità a quei ricordi, così da riuscire a non cadere. O forse erano stati proprio tutti quei ricordi a farlo cadere. Chissà.

-Vorrei poter avere tre desideri- dissi poggiata al suo petto –Uno lo userei per far scomparire tutto il dolore che ho recato alle persone a cui volevo e voglio bene, l’altro lo userei per recuperare la mia memoria e l’ultimo lo donerei a te, così da poterti almeno in parte ripagare per tutto il dolore che hai subito per me- feci una piccola pausa -So bene che un misero desiderio non è molto, ma te lo regalerei cosicché tu possa farne ciò che preferisci.- rimasi in silenzio per qualche secondo, pensando a ciò che avrebbe potuto farci -Potresti usarlo per ferirmi, per farmi male in modo che io possa capire cos’hai provato tu, oppure potresti usarlo per odiarmi o dimenticarmi.- sospirai -Vorrei poter avere questi tre desideri. Ti prometto che se incontrerò una fata o un genio della lampada ti regalerò il mio ultimo desiderio.- socchiusi gli occhi, tornando a sentire il suono del suo cuore.

-Probabilmente lo userei per far sì che le nostre strade non si dividano mai…- sussurrò quasi inudibilmente.  

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


In quei giorni la mia unica aspirazione era quella di stare a letto, al caldo, a fingermi malata per evitare qualche futile intervista.

Dopo il pomeriggio con Skandar il mio cervello si rifiutava di accendersi. Non riuscivo a pensare, non avevo la capacità di ragionare su ciò che mi aveva detto. Dovevo credergli? Nonostante mi ponessi questo interrogativo, nel mio cuore sentivo che gli credevo. Tutti i tasselli andavano al loro posto, come la sensazione di averlo già conosciuto, di essere già rimasta ammaliata dalla sua voce, dai suoi occhi, dal suo sorriso… da lui…

Cominciavo a credere di essere innamorata di lui, ma era completamente impossibile. Come potevo essere innamorata di lui? Si, ok, da piccoli avevamo condiviso molto, ma io non ricordavo nulla e sapevo poco o niente di lui.

Mi alzai dal mio comodo letto rotondo, cercando di non urtare nessuna delle candele poste sul suo perimetro. Adoravo accenderle la sera, prima di dormire e riempirmi i polmoni dei loro dolci profumi: vaniglia, cioccolato, lamponi, fragole, mirtilli, cocco… un tripudio di gusti!

Andai dritta verso la finestra e mi sedetti sul piccolo davanzale guardando fuori.

Sospirai guardando il cielo, ovviamente, grigio. Mai una nota di colore in quella città. Mi veniva voglia di scappare a volte. Non so, cambiare aria, andarmene in qualche luogo lontano e sconosciuto.

Misi da parte tutti quei pensieri quando entrò mia madre, con i suoi capelli lunghi, rossi e perfettamente lisci e gli occhi grigio fumo puntati su di me. Io e mia madre non ci somigliavamo nemmeno un po’, a volte pensavo di non essere sua figlia.

-Come ti senti?- mi chiese premurosa come non mai in tutta la sua vita.

Ovviamente le avevo detto che stavo male, solo per restarmene tranquilla a casa solo per uno o due giorni.

-Un po’ meglio, grazie- dissi io tornando a guardare la strada poco trafficata.

Non avevo voglia di parlare con quell’egoista di mia madre, l’unica cosa che avevo voglia di chiederle era dell’incidente, se era come diceva lei o se ero stata sul serio rapita.

-Sicura?- mi chiese lei sedendosi sul mio letto. –Ti trovo molto pensierosa, c’è qualcosa che ti turba?

Non avevo mai visto mia madre così. Possibile che avesse sul serio un cuore e che le stessero a cuore le mie condizioni? Beh, in fondo era sempre mia madre e doveva per forza volermi bene ed in fondo le volevo bene anch’io, anche se non lo volevo affatto ammettere.

-Si, credo di si…- dissi io tornando a guardarla negli occhi. Mi sarebbe piaciuto molto avere i suoi occhi, erano bellissimi e trasmettevano fiducia. Guardandola mi veniva spontaneo raccontarle tutto. Cercai di trattenermi, ma tanto prima o poi le avrei dovuto parlare di ciò che mi tormentava la mente.

-Mamma…- dissi io abbassando lo sguardo –Quando avevo sette anni, quando mi risvegliai senza sapere chi ero, mi dicesti che avevamo fatto un incidente…

-Si…- mi disse lei, non capendo dove volessi andare a parare

-E’ stato sul serio così?- chiesi tornando a guardarla negli occhi. Una delle mie qualità era quella di capire dai comportamenti delle persone, se mentivano o dicevano il vero.

-Certo che è così, tesoro mio. Perché me lo chiedi?- mi disse lei come se tutto fosse normalissimo. Ma anche se mi guardava negli occhi, aveva cominciato a torturarsi le mani e aveva accavallato e scavallato le gambe già due volte. Mentiva.

-Nulla, volevo solo esserne certa…- dissi vaga. Poi tirai fuori dalla maglietta del pigiama il ciondolo a forma di stella e lo aprì facendo pressione sul dorso, come aveva fatto Skandar.

Le mostrai la foto presente all’interno –Chi è questo bambino?- le chiesi come se non sapessi nulla, come se fossi all’oscuro di tutte le bugie che mi stava raccontando o che forse mi aveva raccontato Skandar. No, Skandar non avrebbe mai potuto raccontarmi una bugia tanto grande. Non lo conoscevo molto, ma nel profondo del mio cuore sentivo che le sue parole erano sincere, erano vere!

Solo in quel momento notai che in realtà gli occhi grigi di mia madre, che all’inizio mi erano sembrati così sinceri e dolci, solo allora notai che in realtà nascondevano mille segreti, mille bugie.

-Si, era un tuo amico, giocavi spesso con lui- disse lei con un sorriso

-Come si chiamava?- chiesi chiudendo il ciondolo.

-Si chiamava Jonathan. Ma come mai tanta curiosità?- chiese mia madre con un sorriso.

Tuttavia tutti i segni erano chiari: continuava a torturarsi le mani, molte volte il suo sguardo era puntato in alto a destra (segno che stava usando la parte fantasiosa del cervello), i suoi sorrisi nervosi… stava mentendo ed era chiaro come la luce del sole.

-Per caso il suo nome non era… Skandar?- chiesi alzando un sopracciglio.

Mia madre sgranò gli occhi e riuscì a vederla sobbalzare –Skandar? Ma che vai dicendo?- mi disse lei facendo un gesto con la mano come per liquidare il discorso.

Mi alzai in piedi e mi avvicinai –Puoi anche smetterla di fingere, tanto ormai l’ho capito che mi stai dicendo un sacco di bugie…- le dissi cercando di rimanere calma. La fissavo negli occhi e mantenevo un’espressione annoiata, come se tutto ciò che diceva non mi importasse. –I bambini nella foto siamo io e Skandar e non c’è stato nessun incidente, sono stata rapita. Rapita, mamma!- dissi alzando leggermente la voce. Ormai non capivo più nemmeno quello che dicevo. Ero in collera con lei, come aveva potuto raccontarmi tutte quelle bugie, come aveva potuto mentirmi per tutti quegli anni?

-Tu stai delirando Lucy…- mi disse lei in tono calmo, ma potevo sentire chiaramente il tremolio della sua voce. –Chi ti ha detto tutte queste assurdità?

Era così falsa, come poteva continuare a negare l’evidenza?

-Per tua informazione, è stato lo stesso Skandar a raccontarmi tutte quelle che tu chiami assurdità- dissi quasi urlando.

Mia madre si irrigidì al suono di quelle parole. Forse avevo finalmente fatto centro, forse finalmente mi avrebbe detto tutta la verità.

-Per favore…- le dissi –raccontami la verità, voglio sapere ciò che è successo veramente- la supplicai sedendomi al suo fianco.

Sapevo ormai che le parole di Skandar erano vere, ma volevo sentirle pronunciare da mia madre, volevo che mi dicesse tutto.

Lei sospirò, come rassegnata –Va bene… Si, sei stata rapita da piccola e quel ragazzo della foto ne è la causa! Se dici che ti ha raccontato lui tutto questo, ti prego Lucy, ti chiedo di stargli lontana, stai lontana da lui!- mi supplicò alla fine.

Mia madre mi stava veramente chiedendo di stare lontana da Skandar? Come potevo? Era stato lui a rivelarmi la verità sul mio passato, era stato solo grazie a lui che sapevo la verità su quel passato dimenticato che mi tormentava ogni notte. Non potevo allontanarmi da lui così all’improvviso e senza motivo. E poi, non potevo negare che mi piaceva, anche volendo non avrei saputo resistere ai suoi occhi scuri.

-Non posso- le risposi solamente

La vidi irrigidirsi –Non voglio che ti avvicini a quel ragazzo! Ti ha già fatto troppo male, non gli permetterò di torcerti un solo capello!- disse lei alzandosi in piedi e guardandomi con occhi di fuoco.

-Non è stata colpa sua se mi hanno rapita!- dissi io in tutta risposta. Non era assolutamente colpa di Skandar se mi avevano rapita, lui non c’entrava nulla e non capivo perché mia madre ce l’avesse tanto con lui, al massimo avrebbe dovuto prendersela con l’uomo che mi aveva rapita e non con lui!

-Invece si! E’ stata solo colpa sua! Ti proibisco di avere ogni genere di contatto con lui!- mi urlò contro.

Detto questo uscì sbattendo la porta.

-Ti odio!- le urlai, sperando che mi avesse sentita.

Come poteva impedirmi di “avere ogni genere di contatto con lui”? Non la capivo e non volevo capirla. Non poteva proibirmi di vederlo, non in quel momento, quando avevo scoperto così tante cose, non quando avevo scoperto che mi piaceva.

C’erano così tante cose che ancora non sapevo, non ricordavo, di lui. C’erano così tante cose che volevo sapere di quel ragazzo così misterioso e affascinante che a quanto pare conoscevo già da quando ero piccola, quel ragazzo così dolce che quel mercoledì pomeriggio mi aveva stretta a se e mi aveva cullata come una bambina bisognosa di protezione, quel ragazzo che profumava di cocco e i quali occhi erano più profondi dell’oceano e più scuri di un pozzo…

In quel momento capii di non poter restare senza di lui, seppure non me lo spiegassi, seppure lo conoscessi da così poco, avevo bisogno di vederlo.

In quel momento mi venne un’idea tanto assurda quanto geniale, un’idea che non avrei mai immaginato potesse uscire dal mio cervello.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Certo, la mia mente era parecchio contorta, ma mai avrei immaginato di poter fare, o anche solo pensare di fare, una cosa come quella. Forse, anzi, sicuramente, ero pazza. Si, perché un atto del genere le persone normali l’avrebbero chiamato pazzia, ma per me quell’atto, avventato per molti, era importante.

Sinceramente mi sentivo una stupida, scendendo furtivamente da una fune di lenzuola, dalla finestra del bagno sul retro di una casa-castello per non farmi scoprire. Più che stupida mi sentivo una criminale, con tanto di occhialoni Prada. Beh, una criminale alla moda, no?

Per poco non caddi giù dalla fune, rischiando di spaccarmi l’osso del collo. Ma che non ero brava negli sport era un dato di fatto, lo sapevano anche i muri. Dopotutto non era colpa mia se ero allergica ad ogni tipo di sport che comprendesse la corsa o una palla. Finivo sempre per ferirmi o per ferire qualche mio compagno e se in quel momento ci fosse stato qualcuno con me, avrei sicuramente trovato il modo di ferirlo involontariamente.

Finalmente i miei piedi toccarono la tanto ambita terra e potei tirare un sospiro di sollievo. Se mia madre non mi avesse chiuso a chiave in camera, sarei potuta uscire con più facilità, d’altronde lei era uscita. Pensava che rinchiudermi mi avrebbe fermata. Illusa.

Avevo fatto in tempo a prendere il mio cellulare. Cercai di ricordare il numero di Will.

“Cavolo, dovevo segnarlo nella rubrica” pensai portandomi una mano sulla fronte. Poi un lampo nella mia mente e il numero mi apparve nitidamente. Lo composi velocemente, quasi con la paura di dimenticarlo.

Uno squillo, due squilli, tre… Finalmente sentì la sua voce

-Pronto?- sentì dire dall’altra parte del telefono

-Pronto Will? Sono Lucy!- dissi quasi urlando

-Si, ciao Lucy, come stai?- disse con il suo classico tono calmo

-Non ho tempo per i convenevoli! Dimmi solo se Skandar è con te!- gli dissi. Avevo bisogno di vederlo all’istante, non potevo perdere tempo. Mia madre poteva arrivare da un momento all’altro e scoprire che non ero nella mia camera e chiamare la polizia per cercarmi.

-Ehm… si, perché?- chiese lui sospettoso

-Non importa il perché! Dove siete?- chiesi mentre cominciavo a correre per la strada senza aver la minima idea di dove andare.

-Siamo appena usciti dal bar della scorsa volta. Ma perché?- chiese lui, continuando sicuramente a chiedersi perché li cercassi con tanta assiduità.

-Ok, grazie, non muovetevi da lì!- gli dissi per poi attaccare, senza dargli il tempo di ribattere ancora una volta.

Ricordavo la strada per arrivare a quel bar, anche se non era così vicino a casa mia quanto sembrava. Dovetti correre per più di venti minuti. Speravo che quei due non avessero deciso di andarsene e rovinare tutto. Intravidi in lontananza il bar e due ragazzi fuori, poggiati al muro vicino a quest’ultimo. Continuai a correre e quando fui abbastanza vicina riuscì a riconoscere Skandar e Will.

Feci uno scatto finale e volai dritta tra le braccia di Skandar, che mi guardò stupefatto una volta che ebbi alzato il viso dal suo petto.

-Ti credo.- dissi solamente. Avevo il fiatone. Correre per venti minuti di seguito con addosso solo una maglietta e un giubbottino da pioggia, non era il massimo. –Ti credo- ripetei –E mia madre è una bugiarda…- dissi con quel poco fiato in gola.

Lui si limitò a sorridere.

-Non dovevi correre fin qui per dirmelo- mi disse

-Invece si, perché mia madre mi ha impedito di vederti e dovevo dirtelo. Sono scappata dalla finestra del bagno… ci ho messo mezz’ora per scendere da quella maledetta fune, ma dovevo dirtelo. Dovevo dirti che ti credo e che non ho intenzione di rinunciare a vederti. Non ora che avrei così tanto da chiederti, non ora che vorrei che mi raccontassi di quando eravamo piccoli. Voglio sapere tutto, così sarebbe come se non mi fossi mai dimenticata nulla di te.- dissi tutto d’un fiato, senza dargli il tempo di aprire bocca. Cercavo di trattenere quelle assurde lacrime che cercavano di scendere giù dai miei occhi color nocciola. Non aveva senso piangere per un’assurdità simile, io ero una persona forte e non potevo, non dovevo, piangere.

Non capivo perché mi ero sentita così male quando mia madre mi aveva proibito di vedere Skandar. Ok, eravamo amici d’infanzia e ok, mi piaceva, ma sapevo ben poco di lui. Era completamente illogico piangere per qualcuno di cui conoscevo poco o nulla. Ma forse era proprio perché volevo conoscerlo meglio che piangevo, perché volevo e non potevo perché mia madre me lo aveva impedito.

-Mi dispiace…- dissi ancora –Mi dispiace di essermi dimenticata di te- mi sentivo in colpa per averlo dimenticato e l’unica cosa che potevo fare era scusarmi. Non mi spiegavo ancora come avevo potuto dimenticarlo, era praticamente impossibile. Una volta incontrati quegli occhi non si poteva dimenticarli. Io ero caduta in trappola del suo sguardo profondo, del suo sorriso abbagliante, del suo profumo intenso di cocco e del calore del suo abbraccio che mi aveva lasciato come una bruciatura dentro. E in quel momento, in cui lui mi teneva ancora per i fianchi, riuscivo a sentire il calore della sua pelle scottare la mia, attraverso il giubbotto e la maglietta fina.

Lui si limitava a guardarmi negli occhi, come allibito dalle mie parole. Non facevamo nemmeno caso a Will, che ormai non ci guardava più con gli occhi strabuzzati.

-Perché?- chiese lui ad un certo punto –Perché tutta questa dedizione per me?- chiese come se non riuscisse a capirmi, come se non capisse perché fossi corsa fin lì solo per dirgli quelle cose.

-Perché… perché mi piaci e… voglio sapere di più di te, voglio che mi racconti di quando eravamo piccoli e voglio che mi insegni la nostra canzone- dissi io parlando lentamente, quasi come se avessi paura di quelle parole, paura che fossero troppo avventate e che potessero allontanare Skandar da me. Invece lo vidi sorridere e in un secondo il mio viso era di nuovo poggiato sul suo petto. Ancora quel dolce profumo di cocco, che mi avvolgeva. Volevo ubriacarmi del suo profumo, ubriacarmi della sua presenza, del suo sorriso più luminoso del sole e dei suoi occhi che in quel momento parevano brillare. Avrei voluto rimanere così per sempre. Possibile che non fossi l’unica a provare quei sentimenti? Possibile che anche lui, seppur in minima parte nutrisse un qualche sentimento per me? Oppure stava solo cercando di rifiutarmi in modo gentile?

Non lo sapevo e forse non lo volevo nemmeno sapere. Mi bastava quel momento. Non sapevo cosa fare, non volevo assolutamente rinunciare a lui e sapevo che parlarne con mia madre non sarebbe affatto servito, lei non mi ascoltava mai, non le importava ciò che dicevo, ciò che desideravo. Era solo un’egoista ed io la odiavo. Avrei preferito avere un’altra madre, anche perché eravamo completamente diverse, sia per carattere che per aspetto esteriore. Non assomigliavo nemmeno a mio padre, pensandoci bene. A volte credevo di essere stata adottata e forse non sarebbe nemmeno stato male saperlo, sapere di non avere nulla a che fare con quei due individui insulsi, uno peggio dell’altra. Mia madre viveva per lavorare e per fare soldi, mio padre viveva in poltrona o in ufficio, a fare nulla. Durante la giornata le sue attività erano quelle di dormire, mangiare, leggere il giornale e guardare la tv.

Quanto li odiavo… entrambi! Avrei voluto scappare e forse non era nemmeno una brutta idea. Peccato che non potessi assolutamente farlo, non potevo mollare tutto così, non potevo scomparire da sola. L’ideale sarebbe stato scappare assieme a Skandar. Una fuga d’amore (o almeno così sarebbe stato per me), non esisteva cosa più romantica a parere mio.

Scappare dai miei genitori rimaneva comunque nella lista delle mie cose da fare. Prima la facevo, meglio era.

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Il timore che quel momento sarebbe potuto finire, che quella magia si sarebbe dissolta, mi fece quasi rabbrividire. Di tornare a casa non se ne parlava nemmeno, non avevo alcuna intenzione di tornare in quella prigione, e poi, salire dalla fune di lenzuola, sarebbe stato molto più complicato che scendere. In fondo però sapevo di dover tornare in dietro. Che mi piacesse o meno, la mia casa era quella e la mia famiglia anche e purtroppo i genitori non si possono scegliere, altrimenti li avrei cambiati volentieri. Ma non pensiamo ai miei genitori, meglio cancellarli, almeno per qualche istante, solo per quei pochi minuti in cui ero con Skandar. Mentre ero con lui non mi andava di pensare a nient’altro. Intanto però un’altra delle mie strambe idee (che credo cominciassero ad essere una mia caratteristica) continuava a farsi largo nella mia mente, mentre camminavo al fianco di Skandar per le vie grigie di Londra. Will si era dileguato in gran fretta, osservando che aveva un impegno ed era in ritardo. Non so se se lo era inventato, questo ipotetico impegno, ma subito dopo averci salutati si era girato, aveva preso il telefono in mano e aveva fatto una chiamata. Dopo un “Ciao” che aveva detto, non avevo più sentito nulla e lui era scomparso camminando in gran fretta nella direzione opposta di quella in cui stavamo andando Skandar ed io. Non avevamo una meta precisa in effetti, camminavamo e basta, ma devo ammettere che sentivo un gran freddo con addosso solo un giubbino leggero e sotto una magliettina maniche corte. Stolta io, che non mi ero coperta meglio! D’altronde avevo avuto una gran fretta di uscire e quelle erano state le prime cose che avevo trovato. Tenevo il viso dentro il giubbotto e gli occhiali da sole, rigorosamente Prada, ben inforcati. Non avevo la minima intenzione di essere assalita da qualche ragazzina impazzita che sarebbe morta per un mio autografo. La cosa che odiavo del mio lavoro era proprio quella. Non i fan di per se, loro li adoravo, ma piuttosto quelli pazzi, di quelli che ti saltano addosso e cercano di strapparti di mano qualcosa per poi dire “Questo fazzoletto è stato usato da Lucila Kingston!”. Che cosa raccapricciante…

Tutto attorno a me sembrava aver perso i colori. Anch’io mi sentivo in bianco e nero. L’unica nota di colore era quel meraviglioso ragazzo che camminava lentamente al mio fianco, come se avessimo tutto il tempo del mondo, come se il tempo si fosse fermato solo per noi, per darci il tempo di riflettere, di camminare, di parlare di noi.

-Niente borsa oggi?- osservò lui

-Non è stato facile scendere da una fune senza, immaginati con!- dissi scherzando e trattenendo una risata, immaginando me stessa con una borsa extralarge sotto il braccio, mentre tentavo di scendere dalla fune. Sarebbe stata una scena veramente esilarante.

Anche lui rise, probabilmente si era immaginato la stessa cosa.

-Sei peggio di allora…- disse quando smettemmo di ridere

Quella frase m’incuriosì, probabilmente alludeva a quando eravamo piccoli.

-Com’ero da bambina?- gli chiesi, curiosa di saperlo.

Lui riflesse per qualche secondo –Eri piena d’energie, era come avessi bevuto tre litri di caffè, non so se mi spiego! Ridevi per ogni cosa, avevi sempre il sorriso sulle labbra, ogni volta avevi qualche parola gentile da rivolgere. Ah, eri una piccola scimmia! Ti arrampicavi dappertutto, dagli alberi alle staccionate alle ringhiere…- disse finendo la frase con una risata soffocata. Mi guardò con uno strano luccichio negli occhi che mi fece sorridere.

-Tu invece com’eri?- chiesi sempre più curiosa, bramosa delle sue parole.

-Ti somigliavo, anche se ero un po’ più tranquillo. Ridevamo sempre assieme. Ricordo di quando giocavamo ai pirati. Avevamo eletto un albero come la nostra nave. Fingevamo di combattere con le spade e di rubare preziosi tesori.- disse sorridendomi, ma con una punta di nostalgia nello sguardo.

Dovevano essere stati bei giorni quelli della nostra infanzia. Mi chiedevo solo perché avessero cercato di rapirlo. Non riuscivo a trovare una soluzione plausibile. Potevo chiedere direttamente a lui, ma non credo fosse il caso di chiedergli una cosa del genere. O almeno non in quel momento. Ricordi tristi non andavano a braccetto con le risate che ci eravamo appena fatti.

Guardandolo in quel momento e ascoltando le sue parole, sentivo di voler sapere ancora di più di lui. Anche cose che non riguardavano la nostra amicizia, volevo semplicemente sapere qualcosa in più su di lui. Le cose classiche: il colore preferito, se gli piaceva leggere, e qual’era il suo libro preferito, se gli piacevano gli animali… insomma, cose semplici, non chiedevo molto.

Affondai le mani nelle tasche del giubbottino e continuai ad elencarmi in testa tutte le domande che volevo fargli. Cominciai dalla prima e gli chiesi, come se fosse la cosa più normale del mondo:

-Qual è il tuo colore preferito?

Sentì il suo sguardo su di me, ma cercai di non farci caso e continuai a guardare davanti a me.

-Il blu- mi rispose

-Animale preferito?- continuai io con la mia lista prefissata nella mia testa.

-Cane.

-Libro preferito?

Non so per quanto continuammo a fare domande assurde e superficiali, ma per me molto importanti, fatto sta che alla fine sapevo quasi tutto ciò che desideravo su di lui. Certo, c’erano ancora alcuni particolari che mi mancavano, ma sapevo che sarei comunque riuscita a colmare quelle piccole lacune.

-Che ne dici di continuare l’interrogatorio a casa mia? Ormai siamo vicini.- mi propose lui.

Probabilmente aveva notato che battevo i denti per il freddo. Fui lieta di accettare il suo invito.

In effetti camminavamo da parecchio, ma per fortuna non avevo ancora ricevuto messaggini o chiamate da parte di mia madre, segno che non era ancora arrivata a casa e che avevo ancora un po’ di tempo da passare con Skandar, prima di tornare a casa e dover affrontare l’ira funesta di quella iena ridens senza cuore, chiamata anche mamma.

Scacciai ancora una volta i pensieri relativi ai mostri e riportai la mia attenzione sul dolce viso di Skandar. Prestai attenzione a particolari che prima non avevo notato: la carnagione chiara, alcune lentiggini sulle guancie e sul naso leggermente all’insù, gli occhi scuri che colpiti dalla luce sembravano più chiari, quasi ambrati, le labbra carnose e rosee che mi attraevano come una calamita… Anzi, non solo le sue labbra mi attraevano, era tutto il suo viso, tutto il suo corpo, che emanava uno strano calore che ogni volta che mi avvicinavo a lui, sembrava avvolgermi. Forse stavo diventando pazza o forse lui cominciava a piacermi sul serio. Non lo sapevo e forse non lo volevo nemmeno sapere.

Ero talmente persa nei miei pensieri, che non mi accorsi di stare andando a sbattere contro una ragazza. Ma la mia sfortuna non era finita lì. Andandoci a sbattere mi erano scesi gli occhiali ed ecco che la ragazza mi aveva vista in viso e aveva tirato un urlo annunciando il mio nome e indicandomi. In pochi secondi fui circondata da mille ragazzine urlanti e altrettanto Skandar che era stato riconosciuto. Beh, oltretutto come si poteva non riconoscere un viso angelico come il suo?

Cercai di calmare le ragazze che comunque non accennavano a smettere di urlare e trapanarmi i timpani. Si, perché con mia grande sfortuna avevo incontrato di quelle fan pazze di cui parlavo prima. Mi ritrovai a firmare fazzoletti di carta, agende, borse, magliette, forse addirittura qualche mano, non lo so.

Dopo qualche minuto mi sentì tirare dal cappuccio del giubbotto ed in seguito qualcuno mi prese per mano e mi trascinò via. Davanti a me Skandar correva velocemente, mentre le piccole e grandi fan ci inseguivano. Seguii prontamente Skandar. Cercammo di seminare i ragazzini e le ragazzine urlanti, ma sembrava che non si stancassero mai. Stavo cominciando ad essere stanca e i fan sembravano aumentare sempre di più, quando quell’angelo geniale di Skandar mi tirò in un vicolo mentre passavamo per una via affollata. Ci appiattimmo sul muro di questo aspettando con il fiato sospeso che i fan passassero senza vederci. Li sentimmo passare davanti al vicolo senza prendersi la briga di controllare se ci fossimo nascosti lì. Dopo qualche minuto dal loro passaggio tirai un profondo sospiro di sollievo. Poi cominciai a ridere, senza apparente motivo. Ridevo come una stupida e forse Skandar mi aveva preso per pazza, ma era stato divertente. Era da molto che non scappavo dai fan in quel modo! Era successo solo la prima volta che ero uscita di casa a viso scoperto, quando ero appena agli inizi e avevo pubblicato un solo cd. Non avevo fatto molto caso al fatto dei fan urlanti, ed ero uscita per comprare della semplice marmellata al negozio dietro l’angolo. Una volta entrata in negozio mi ero ritrovata circondata dai fan ed ero stata costretta a correre via. Dopo quella volta non mi era più successo, piuttosto quando i fan mi circondavano interveniva la mia guardia del corpo o mia madre. In realtà avere una guardia del corpo non mi sembrava così fondamentale, in fondo non ero poi così famosa ed importante, credo. Comunque della guardia del corpo avrei fatto volentieri a meno, come dei maggiordomi. Ad ogni modo, quello era stato un bel tuffo nel passato e ricordare la mia faccia sbigottita di allora, quando mi ero ritrovata tra i fan, mi fece ridere ancora di più. Quando mi fermai mi ritrovai con il viso a pochi centimetri da quello di Skandar che si era poggiato al muro di fronte a quello a cui ero poggiata io. Solo in quel momento mi accorsi di quando fosse stretto quella sottospecie di vicolo. Entrambi ci tirammo leggermente in dietro e notai che Skandar mi guardava con un’espressione strana. Quindi chiesi: -Perché mi guardi così?

-Mi piace vederti ridere- disse con un sorriso che, nonostante il buio del vicolo, riuscì a vedere benissimo. Arrossii leggermente, pregando che la luce fosse talmente fioca da non riuscire a mostrare il mio rossore.

Poi lui sporse la testa fuori dal vicolo. Guardò a destra e poi a sinistra, per poi voltarsi verso di me.

-Possiamo andare

Poi mi prese la mano e mi trascinò fuori. Il contatto con la sua pelle candida e stranamente calda (avevo già detto come riuscisse a trasmettermi quel calore, nonostante si gelasse, no?) mi fece rabbrividire e sorridere in modo forse stupido. La mia felicità in quel momento era tale da farmi credere di star lievitando, invece che camminando per le solite vie palesemente grigie della caotica ma bellissima ed irrinunciabile Londra. All’improvviso mi sembrò che tutto fosse tornato a colori: le strade, le persone, il cielo… tutto mi sembrava di nuovo colorato e allegro, ma forse era solo il mio cuore che saltellava felicemente nel mio torace e mi faceva pensare che tutto intorno a me fosse magico. Ma forse non era nulla di tutto ciò, forse era Skandar ad essere magico, che in qualche modo mi faceva sentire leggera, mi toglieva dei grossi macigni dal cuore e mi rendeva felice come mai nessun’altro era riuscito a rendermi.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


La casa di Skandar fortunatamente non era come la mia. Fortunatamente, perché in case molto grandi tendevo a sentirmi a disagio. Invece casa sua era accogliente, mi faceva sentire totalmente a mio agio. Appena entrata fui invasa da un buonissimo profumo di lavanda. La casa era perfettamente in ordine e si vedeva che era opera di un’amorevole madre e non di inutili maggiordomi. Skandar mi aveva gentilmente invitata ad entrare. Mi aveva rassicurata che i suoi genitori non erano in casa ma sarebbe arrivata sua sorella da un momento all’altro. Ecco un altro particolare di lui di cui non ero a conoscenza: aveva una sorella! Ero curiosa di sapere com’era, se era simpatica, insomma, ero impaziente di conoscerla e, perché no?, diventare sua amica.

Ci sedemmo in cucina. Questa era completamente in legno con una penisola centrale. Mi sedetti ad uno sgabello davanti alla penisola, aspettando che Skandar si sedesse di fronte a me. Lo vidi trafficare davanti alla cucina. Dopo un po’ posò davanti a me una tazza fumante di cioccolata. Piacevolmente sorpresa dalla sua gentilezza lo ringraziai con un ampio sorriso. Lui quindi si sedette davanti a me con la sua tazza blu tra le mani. Notai che la mia tazza era color viola. Aveva preso una tazza del mio colore preferito. Che lo avesse fatto a posta? No, doveva essere stato un puro caso. Stavo ricominciando a prefissarmi le domande per proseguire il mio spietato interrogatorio. Poggiai la tazza sul bancone e prima di poter aprire bocca Skandar mi interruppe.

-Ora è il mio turno- disse solamente.

Aveva anticipato le mie domande.

Cominciò con domande più complesse di quelle che gli avevo fatto io, insomma, lui mi chiedeva risposte articolate, io gli avevo chiesto si e no due parole.

-Come sei diventata cantante?- fu la sua prima domanda.

Ci dovetti pensare su un attimo, per poi poter rispondere.

-Super mamma! Si è adoperata, ha trovato un produttore musicale disposto a finanziarmi e voilà. Si può dire che la storia semplificata sia questa- dissi io.

A quella domanda ne seguirono molte altre, una più complessa dell’altra e che richiedevano sempre più tempo per pensare. Poi ne arrivò una in particolare:

-Perché volevi diventare cantante?

Questa era veramente difficile. Dovetti pensarci un bel po’, prima di poter rispondere. Le ragioni erano molte, ma nessuna mi sembrava sufficiente, in quel momento.

-La risposta più sensata che posso darti è perché cantare mi libera dallo stress e da tutti i problemi. Possiamo dire che cantare mi fa sentire libera. Ma a dire la verità non credo che questa sia una motivazione sufficiente. Forse volevo diventare cantante per capriccio o per manie di protagonismo- ridacchiai -In conclusione: non lo so perché volevo diventare cantante. Da quanto mi hai detto volevo diventarlo già da piccola. Non ti avevo mai spiegato il perché di questa mia scelta?

Lo vidi sorridere, forse ridacchiare.

–Volevi che fossi fiero di te- disse infine

Rimasi un po’ sorpresa da quelle parole. Sul serio da piccola volevo diventare una cantante, solo perché lui fosse fiero di me? Mi sentì avvampare, forse per tremenda vergogna provata al suono di quelle parole. Sentivo le orecchie andarmi a fuoco (quando ero nervosa mi succedeva spesso). Tenevo lo sguardo fisso sulla cioccolata nella mia tazza viola scuro, senza aver il coraggio di alzare il viso, perché sapevo che mi sarei trovata davanti ai suoi occhi e non sarei riuscita a scappare.

Presi da sotto la maglietta il ciondolo a forma di stella che mi aveva regalato lui. Ora capivo di più il significato di quelle quattro parole incise dentro. “You’re my star”. Erano parole importanti, o almeno lo erano per me. Con quella frase mi aveva voluto dire che era fiero di me.

Feci pressione sul dorso del ciondolo che si aprì e contemplai la bellezza di quelle parole scritte in piccolo nella parte sinistra, a lato della nostra foto.

-Te l’avevo regalata proprio per quello- disse lui.

Alzai lo sguardo su di lui e, come avevo previsto, rimasi incatenata al suo sguardo. Mi teneva prigioniera con quei suoi occhi dolci e quel suo sorriso radioso.

Tenevo ancora in mano quell’importante ciondolo, quando gli chiesi: -Quando me lo avevi regalato?

-Il giorno del tuo settimo compleanno.- disse lui, mentre il sorriso sul suo viso si affievoliva.

Capivo perché il suo sorriso avesse perso la leggerezza di poco prima: il mio compleanno era stato poco prima del mio rapimento. Capii che fare quella domanda era stato stupido. Abbassai lo sguardo di nuovo, sentendomi in colpa.

-Scusa- dissi quindi –Non dovevo chiedertelo

All’improvviso sentì uno strano calore sulla mano destra e notai che Skandar aveva posato la sua mano sulla mia. Il suo sorriso era tornato quello di prima e la cosa mi riempì il cuore di gioia.

-Devi smetterla di scusarti- disse –non è colpa tua se ti hanno rapita, non è colpa tua se ti sei dimenticata i tuoi primi sette anni di vita e non è colpa tua se tua madre ti impedisce di vedermi.

Dicendo queste parole il suo sguardo si era leggermente indurito, come se mi stesse sgridando per tutto quello. Le parole che disse successivamente quasi mi fecero male: -Non è colpa tua, è mia, che non ho saputo difenderti. Solo mia.

Aveva abbassato lo sguardo e il suo bellissimo sorriso era definitivamente scomparso dal suo viso. Sentii come una stretta lancinante al cuore. Mi faceva male vederlo così. In quel momento avevo voglia di abbracciarlo, di stringerlo e sussurrargli all’orecchio che non era affatto così. Ed è quello che feci. Senza spostare la mano da sotto la sua, mi alzai ed andai dall’altra parte della penisola, dove era seduto Skandar. Una volta davanti a lui tentennai qualche secondo, per poi mandare al diavolo tutto e stringerlo a me, lasciandolo posare il capo sul mio petto. Dopo uno o forse due secondi sentii Skandar stringermi a sua volta. Tra le sue braccia mi sentivo così bene, che solo in quel momento capii a fondo che non potevo stare senza di lui. Sembrerà strano, ma avevo bisogno di averlo vicino. Quell’abbraccio mi fece sentire meglio, mi fece dimenticare tutti i miei tomenti: mia madre, mio padre, il mio lavoro… tutto sembrava lontano mille anni luce da noi. Tutto sembrava così lontano da non parer nemmeno reale. Solo quell’attimo mi sembrava importante.

Restammo così per non so quanto tempo, avvolti dal profumo di cioccolata e di lavanda, ma l’unica fragranza che mi faceva girare la testa era quella di Skandar. Sembrerò ripetitiva, ma il suo profumo di cocco mi rendeva matta.

Mi staccai da lui appena. Presi il suo viso tra le mani e lo alzai leggermente, portandolo quasi all’altezza del mio. Osservai a lungo quegli occhi, così dolci e profondi da farmi venir voglia di affogarci dentro. Le sue labbra rosee erano così vicine alle mie che dovetti mordermi il labbro inferiore un paio di volte, per evitare di impazzire e di avvicinarmi ulteriormente, fino a poggiare le mie labbra sulle sue. Sebbene l’impulso fosse forte, cercai di resistere. Solo due parole avevo voglia di dire in quel momento e non erano “Mi dispiace” oppure “Non preoccuparti” o qualsiasi altre insignificanti parole. Quelle due piccole parole erano così importanti, e avventate, da faticare a uscire fuori dalla mia bocca. Mi accorsi che sarebbe stato troppo impulsivo. Era troppo presto per dire quelle parole, seppur le sentissi pulsare dentro il cuore, seppur il mio cuore continuasse ad urlarle con tutta la sua forza.

Skandar portò una mano sul mio viso, carezzandolo e fui invasa da una sensazione di calore sempre più forte. Era come se la sua mano fosse fatta di puro fuoco. La tenne lì e desiderai con tutta me stessa che non la togliesse più. Con l’altra mano continuava a stringermi a se. Poi si alzò e dovetti indietreggiare, ma lui continuava a tenermi stretta. Mi sorrise e mi guardò dritta negli occhi, quasi a volermi perforare il cervello, quasi a voler entrare nella mia mente, con il suo sguardo. Le nostre bocche erano a pochi centimetri l’una dall’altra. Mi sembrava di respirare attraverso lui. Cercai con tutta me stessa di distogliere lo sguardo dalle sue labbra rosee e dai suoi occhi dolci e scuri, ma non ce la facevo. Anche con tutta la mia buona volontà, le sue labbra e i suoi occhi mi attraevano con una forza inspiegabile, quasi con prepotenza.

-Ti amo- disse Skandar. Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo, come se amarmi fosse una cosa normalissima, come se dire quelle parole fosse una cosa da tutti i giorni. Ma sentivo nel suo tono, che le aveva dette dandogli importanza. –Ti amo da sempre

Le sue parole rimbombavano nella mia testa e viaggiavano per la mia mente come una melodia cullata dolcemente dal vento. Quelle parole che avevano mandato il mio cuore in tilt, erano le stesse che avevo voluto dire io.

-Ti amo anch’io- dissi con un filo di voce, quasi avessi paura a pronunciare quelle poche parole.

Poi finalmente quelle labbra tanto agognate si posarono sulle mie. Erano morbide e dolci, più dolci del miele. Tutto mi sembrò esplodere in quel momento, come se avessimo appena commesso un reato, qualcosa di proibito, negato. E’ un reato amare?

Non m’importava, non m’importava nulla in quel momento. Quell’attimo era solo nostro.

Ora mi direte che era accaduto tutto troppo in fretta, che era stato un gesto avventato, ma voi non potete capire, non potete minimamente capire, con quale forza d’attrazione eravamo spinti l’uno tra le braccia dell’altro. Non potete capire quanto fosse grande quell’attrazione, quando fosse grande quell’amore che provavo e quanto il mio cuore fosse completamente in balia di lui.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Non so da quanto durasse quel bacio, forse ore o forse pochi minuti, l’unica cosa che sapevo era che non volevo più togliere le mie labbra da sopra quelle di Skandar.

Dopo un tempo che sembrò eterno ci staccammo di pochi centimetri e trovai i suoi occhi puntati sui miei. Avrei voluto poter stare così, semplicemente a guardare i suoi occhi intensi, per mille e mille anni ancora.

Il rumore di una chiave nella serratura mi fece girare di scatto. Le mani di Skandar si staccarono dai miei fianchi e io mi allontanai da lui di qualche passo. Quasi mi sentì male per quell’improvvisa lontananza. Per qualche secondo provai nausea e un forte giramento alla testa. Mi ero allontanata da quel fuoco troppo in fretta. Sentivo ancora le labbra bruciare, ma cercavo di non pensarci più di tanto.

Dalla cucina fece capolino una ragazza alta e snella. Aveva lunghi capelli scuri e ricci che le donavano un’aria simpatica e sbarazzina che me la fece piacere subito. La ragazza si presentò con un sorriso, dicendo di chiamarsi Soumaya. Si vedeva che era la sorella di Skandar, si somigliavano molto quei due. Avevano gli stessi occhi e lo stesso naso, fu la prima somiglianza che notai.

Soumaya mi piaceva, era allegra e simpatica, forse l’amica che non avevo mai avuto, ma questo avrei potuto dirlo solo in futuro.

Sebbene la mia mente fosse ancora ferma al bacio di pochi istanti prima, riuscì a chiacchierare con Soumaya senza sembrare un’idiota senza cervello.

Dopo poco si dileguò, andando di sopra, dicendo di dover studiare. La salutai con un sorriso e con la promessa di mantenere la parola di tornare a visitarla.

Una volta che fu salita ed ebbi sentito la porta di camera sua chiudersi con uno scricchiolio tirai un sospiro di sollievo. Non perché la sua presenza mi pesasse, ma perché ero ansiosa di poter di nuovo voltarmi verso Skandar e guardarlo di nuovo negli occhi.

Non avevo nemmeno il coraggio di controllare l’orario. Non volevo tornare a casa e starmene rinchiusa in camera mia per chissà quanto tempo, prima di poter vedere ancora Skandar. Sarebbe stato straziante restarmene tutti i giorni rinchiusa in casa a passeggiare per i corridoi vuoti e lugubri, con l’incessante pensiero di Skandar nella mia povera mente assetata di lui.

Mi voltai verso di lui e affondai il viso nel suo petto, in cerca di conforto.

-Non voglio tornare a casa- dissi con la voce ridotta ad un sussurro, tenendo il viso ancora poggiato sul suo petto.

Lo sentì stringermi di più, ma non disse una parola.

-Non riesco ancora a crederci…- sussurrai ancora.

Sul serio, non riuscivo ancora a credere a quella situazione. Era tutto così assurdo… Prima di tutto la cosa più strana e meravigliosa era il fatto che io e Skandar ci eravamo baciati, cosa a cui ancora stentavo a credere, e ancor meno riuscivo a credere a quelle parole dette poco prima da entrambi.

L’altra cosa assurda era che mia madre mi impedisse di vederlo. Ma dico, come poteva fare una cosa del genere? Era totalmente ingiusto e insensato. La odiavo e desiderava con tutto il cuore non vederla più. Quel mio stesso pensiero mi sorprese. Come potevo desiderare di non vedere più mia madre, la stessa persona che mi amava (seppur a modo suo) e che mi aveva messa alla luce?

Ero una sciocca ed egoista e me ne accorgevo sempre di più. La reazione di mia madre, vista al suo punto di vista, poteva anche essere giustificata. Anch’io al suo posto avrei reagito così, se dieci anni prima mia figlia fosse stata rapita al posto di un altro bambino.

Potevo mettermi nei panni di mia madre, la capivo, ma io non potevo assolutamente rinunciare a Skandar. Non ci riuscivo. Anche se avessi cercato di togliermelo dalla testa, non ci sarei riuscita, lo so. Quegli occhi, quel sorriso, quel viso dolce, mi avrebbero tormentato e avrebbero invaso i miei sogni ogni notte, rendendoli incubi.

Forse parlando con mia madre sarei riuscita a spiegarle come la pensavo, forse lei mi avrebbe capita… non lo so.

Sospirai e mi allontanai da Skandar. Lo guardai negli occhi, per poi allungare una mano sul suo viso e posare la mia mano delicata e dalle unghie perfettamente smaltate, sulla sua guancia. Sorrisi e lui fece altrettanto.

-Devo andare- dissi, mentre il sorriso di poco prima di affievoliva. –Non so quando potrò tornare

Skandar in quel momento mi sembrava il ragazzo più triste del mondo. I suoi occhi languidi mi dicevano tutto. Avrei voluto stringerlo a me e promettergli che sarei tornata il giorno dopo e quello dopo ancora, ma non ero sicura di poterlo fare.

-Ti prometto che scapperò ogni volta che potrò. Scenderò da quella fune di lenzuola mille volte ancora. Ti prometto che ci rivedremo spesso e comunque, mia madre non può tenermi lontana da te per sempre- dissi io con un sorriso, mentre la mia mano restava poggiata sulla guancia di Skandar.

Lui non disse una parola. Si avvicinò semplicemente e sfiorò le mie labbra con le sue, con un gesto tanto dolce, quanto elettrico. Si, elettrico, perché quel contatto mi aveva come dato la scossa.

Sospirai leggermente e dopo altri secondi passati ad annegare nei suoi occhi, mi voltai e presi il mio giubbotto bianco da pioggia. Mi voltai un’altra volta verso Skandar e lo trovai a due passi da me, con un paio di chiavi in mano e un leggero sorriso sul viso.

-Non crederai certo che ti avrei lasciata andare a piedi, vero?- disse poggiando un braccio attorno alle spalle e spingendomi verso la porta.

Uscimmo e notai con orrore che il cielo si stava facendo sempre più scuro. C’era il tramonto, con tutte le sue tinte calde. In genere “tramonto” è sinonimo di “romanticismo”, ma a me non trasmetteva tutto questa voglia di amore. Si può dire che preferissi di gran lunga l’alba al tramonto. Forse perché la notte non mi era mai piaciuta e avevo sempre amato il sole, il giorno, il cielo azzurro al posto di quello blu… non lo so, ma di certo quel cielo non mi suggestionava per nulla, piuttosto mi innervosiva, perché sapevo che mia madre sarebbe arrivata da un momento all’altro; arrivava sempre dopo il tramonto. Mentre continuavo a farmi tutti questi viaggi mentali, mentre pensavo al colore del cielo, Skandar si affiancò a me con una macchina nera dai vetri oscurati. Abbassò il finestrino e mi guardò come per dire “Allora, sali?”. Gli sorrisi, in un modo a dir poco da ebete e salì sulla macchina. Skandar guidava come un pazzo. Per mia fortuna amavo andare veloce e in quel tratto di strada era possibile, visto che di macchine nemmeno l’ombra.

Purtroppo incontrammo traffico dopo poco dalla nostra partenza. Il cielo continuava a farsi sempre più scuro ed io commisi l’imperdonabile errore di guardare l’orologio che tenevo al polso. Erano le diciotto e trenta. Il cuore mi salì in gola. Mia madre arrivava sempre alle sette a casa, e con quel traffico le possibilità di riuscire ad arrivare a casa prima di lei erano ben poche.

-Tranquilla, arriverai in tempo- mi disse Skandar, come se mi avesse letto nel pensiero, ma forse l’aveva capito solo dal modo nervoso con cui battevo il piede.

Arrivammo all’angolo di casa mia alle diciotto e cinquanta. Dovevo ammettere che Skandar aveva avuto ragione. Ero arrivata in tempo, sempre se mia madre non era tornata prima a casa.

Prima di scendere dall’auto, mi voltai verso Skandar. Mi avvicinai a lui e lo baciai dolcemente. Cercai di imprimermi nella mente il suo sapore, il suo odore e la sua immagine, in modo da potermene servire ogni volta che avevo voglia di vederlo e non potevo.

-Grazie del passaggio e di tutto il resto…- gli dissi con un sorriso tirato.

-Ci vediamo presto- rispose lui.

Scesi dalla macchina e per la millesima volta il freddo di fine febbraio mi fece gelare il sangue nelle vene. Cercai di ignorarlo e mi avvicinai al grande cancello di casa mia. Presi le chiavi dalla tasca destra dei jeans chiari e aprì lentamente il cancello, con le mani tremanti e una paura folle. Entrai e mi chiusi il cancello alle spalle. Mi voltai un’ultima volta verso Skandar, che era ancora lì, nella sua macchina nera. Alzai la mano in segno di saluto e poi presi a correre verso l’ingresso del retro principale. Purtroppo non avevo le chiavi della porta sul retro.

Una volta aperta la grande porta marrone mi trovai davanti a John. Ricordate il timido e giovane maggiordomo? Beh, mi trovai davanti a lui che rimase a bocca aperta nel vedermi.

Mi potai un dito sulle labbra, facendogli segno di tenere la bocca chiusa. Lui annuì con un sorriso. Sapevo ormai, di poter contare su di lui. Di sicuro in futuro sarebbe stato un valido alleato. Gli chiesi di seguirmi e lui prontamente annuì.

Mi diressi velocemente in camera mia, seguita da John. Trovai le chiavi appese alla porta e tirai un’enorme sospiro di sollievo. Girai la chiave e prima di entrare dissi a John: -Per favore, poi chiudi la porta a chiave e se quando arriva mia madre ti chiede qualcosa, digli che sono sempre stata nella mia camera, ok?

-Certo!- rispose prontamente lui, anche se probabilmente non poteva capire il perché di tutte quelle precauzioni.

Entrai nella mia camera, e come d’accordo, John chiuse a chiave da fuori.

La prima cosa che feci, fu andare a chiudere la finestra del bagno e tirare su la fune di lenzuola. Ci misi un po’ a scioglierle e le piegai accuratamente, per poi riporle in fondo all’armadio.

Mi fiondai sul letto e cominciai ad “ammirare” il soffitto dipinto a cielo diurno della mia stanza. Chiusi gli occhi e la mia mente tornò automaticamente al bacio con Skandar. Riaprì immediatamente i miei grandi occhi nocciola. Cavolo, l’avevo appena lasciato sotto casa mia e già ripensavo a lui? Non potevo andare avanti così, se dovevo sopravvivere rinchiusa in una casa, senza il permesso di vederlo, dovevo sforzarmi di non pensare a lui.

Accesi quindi la tv al plasma appesa al muro di fronte al mio letto. Cominciai quindi a fare zapping. Un canale, poi l’altro e poi un altro ancora. In tv non c’era nulla di interessante, decisi quindi di spegnerla.

Non potevo assolutamente stare con le mani in mano, la mia testa avrebbe avuto troppo tempo per pensare. Mi guardai intorno e il mio viso si illuminò alla vista della mia prima chitarra poggiata su un cavalletto contro un muro. Mi alzai lentamente dal letto tondo dalle coperte lilla e andai a prendere la mia chitarra classica, immacolata e brillante come oltretutto tutti i miei altri strumenti.

Restai ad ammirarla per qualche secondo, con un po’ di nostalgia dei bei vecchi tempi. Si, ero molto attaccata al passato e non mi piacevano particolarmente i cambiamenti radicali e improvvisi.

Tornai a sedermi sul bordo del mio letto e cominciai a strimpellare con la chitarra in mano. Ovviamente era un po’ scordata e dovetti accordarla. Sebbene il mio orecchio fosse ben allenato, ci misi un po’. Ricominciai a suonare, evitando accuratamente quella canzone.

Dopo un po’ sentì la serratura della mia porta. Alzai di scatto la testa e vidi apparire il volto di mia madre.

-Ciao- disse semplicemente

-Ciao- gli risposi altrettanto semplicemente e freddamente

-Cosa hai fatto in tutto il giorno?- chiese lei sospettosa

-Cosa vuoi che abbia fatto, rinchiusa qui? Ho guardato la tv, ho suonato, ho cantato e sono stata al computer, le uniche cose che potevo fare, mentre ero confinata qui- dissi io, cercando di essere credibile nella mia recitazione.

Mia madre si sforzò di sorridermi –Spero quindi che non tenterai di scappare per vedere quel ragazzo

Sospirai, cercando di sembrare spazientita –Non ho voglia di passare altri giorni rinchiusa. Se mi prometti di lasciarmi “libera”, io in cambio ti prometto di non vedere Skandar.

Mia madre sembrò dubbiosa all’inizio, ma poi mi sorrise e mi tese la mano –Affare fatto

Io strinsi prontamente la sua mano con un mezzo sorriso.

Poi lei uscì dalla mia stanza, chiudendo la porta alle spalle.

O mia madre era una completa stupida oppure ero io una grande attrice. Mi dispiaceva dover mentire a mia madre, avrei preferito parlarle e spiegarle il mio punto di vista, ma non era ancora il momento quello. Prima o poi il momento giusto sarebbe arrivato e forse in quel momento mi avrebbe capita e avrebbe smesso di trattarmi come una bambina.

Riposai la chitarra sul suo cavalletto, appena in tempo, perché John venne a dirmi che la cena era pronta. Gli sorrisi e scesi in sala da pranzo a cenare con i miei genitori. Mi comportai come se tutto fosse normale, cercando di apparire il più naturale possibile. Certo, era difficile rimanere impassibili, quando nella testa ti ronzavano mille pensieri, tra cui quello centrale era un ragazzo affascinante, dagli occhi magnetici, i capelli di seta e il sorriso abbagliante.
Ecco, ancora una volta ci ero cascata e avevo ripreso a pensare a lui.

La cosa positiva era che ero “libera”, per così dire, anche se sapevo che mia madre mi avrebbe lasciata uscire solo in compagnia della guardia del corpo o di un fidato maggiordomo.

Intanto avrei passato uno o due giorni con lei, seguendola da un’intervista all’altra, giusto per non destare alcun sospetto e perché potesse tornare a fidarsi di me.

Sarei tornata da Skandar appena possibile, glielo avevo promesso ed io mantenevo sempre le promesse.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Non sai mai cos’aspettarti da un nuovo giorno. Può succedere di tutto, dalla cosa più impensabile alla più ovvia e quotidiana. Ma è questo il bello della vita no? E’ tutto una continua sorpresa. Pensate che noia, se ogni giorno fosse uguale all’altro.

Il sole caldo batteva sulla grande vetrata della mia stanza immensa, facendomi venire voglia di uscire così com’ero in balcone e lasciarmi baciare dal suo calore.

Mi alzai con un balzo, rischiando di urtare tutte le varie candele poste sul perimetro del letto. Con un gran sorriso mi diressi verso la finestra e mi poggiai al davanzale guardando il cielo, finalmente, azzurro. La primavera stava finalmente arrivando, spazzando via il freddo ed il gelo dell’inverno. Speravo che questa primavera fosse più calda e soleggiata della precedente, che era stata come al solito uggiosa e piovosa. In realtà non amavo particolarmente la primavera, la mia stagione preferita era l’autunno. Non chiedetemi perché, è forse perché le foglie cadono dagli alberi e tutto si tinge di toni caldi come l’arancio, il giallo e il marrone. La cosa più bella per me, era passeggiare in un viottolo coperto dal manto delle foglie cadute dagli alberi. In quei momenti, mi pareva di finire in una favola. Ma per l’autunno mancava ancora tempo, era meglio tornare al presente.

Mi fiondai in bagno, pettinando i miei capelli scuri, lunghi e leggermente mossi. Quel giorno sembravo più luminosa del solito, come se emanassi una strana energia positiva che rendeva tutto intorno a me meraviglioso, che mi rendeva più bella, mi sentivo più bella e splendente come una vera stella. Non so spiegarlo: avevo una bizzarra luce negli occhi e un sorriso ebete stampato in faccia. Il mio cuore intanto saltellava allegramente senza motivo, mentre il mio cervello annacquato ballava la conga nella mia testa. Quella mattina ero strana. Beh, ma forse non solo quella mattina, ammettiamolo, io ero sempre strana.

Cercai nell’armadio qualcosa da mettere e alla fine presi un normale paio di jeans chiari (ovviamente strappati), una maglia nera a maniche corte con su scritto “Tell me more” e le mie immancabili Adidas bianche. Si, visto così il mio abbigliamento non era granché, ma credetemi quando vi dico che abbagliavo. Non per essere vanitosi o narcisisti, ma quel giorno ero bellissima. Forse era perché mi sentivo bene, perché mi sentivo bella dentro, non so.

Presi una borsa bianca dal mucchio accatastato dentro l’armadio e cercai una borsa di medie dimensioni, anche se era quasi impossibile trovarla, nell’infinità di borse extralarge che possedevo.

Dopo aver trovato la borsa perfetta ed aver faticato per mettere poca roba dentro, scesi al piano di sotto in cucina. John, il maggiordomo, mi aspettava con un bicchiere di caffè freddo pronto. Eh, lui si che mi capiva! La mattina ero completamente inutile senza il mio caffè freddo che mi dava la carica giusta per iniziale la giornata. Lo ringrazia con un sorriso e mi sedetti al tavolo. Quella mattina anche il mio solito caffè aveva un sapore diverso. Era più buono.

Mia madre si sedette di fronte a me, mentre John le poggiava davanti una tazza di caffè (o suo caldo a differenza del mio) e i suoi soliti biscotti dietetici. Che d’altronde non le servivano, visto che mia madre aveva praticamente un fisico perfetto. I suoi capelli rossi, la carnagione chiara e gli occhi grigio fumo, sembravano più radiosi quel giorno. Ma probabilmente ero io che vedevo tutto come se fosse magico, quel giorno.

Mi sorrise, per poi bere un sorso del suo caffè. Dopo aver mandato giù un biscotto, mi guardò e cominciò a spiegarmi i programmi per quel giorno. Tutto ciò che dovevo fare era girare una pubblicità di un profumo, del quale non ricordavo già più il nome. Avrei avuto un partner maschile e immaginai il tipo di pubblicità che avrei dovuto fare. Ma sinceramente poco me ne importava, nulla poteva guastarmi quella giornata. Nulla poteva turbare la mia felicità in quel momento, anche se non sapevo a cosa era dovuta tanta allegria. Probabilmente era perché il giorno prima avevo baciato Skandar. In quel caso allora, funzionavo a scoppio ritardato. Avete presente quando qualcuno fa un battuta, tutti ridono e tu non hai capito nulla e scoppi a ridere dopo, quando te l’hanno spiegata? Beh, secondo me dovevo funzionare più o meno così: a scoppio ritardato.

Ma, tornando al discorso con mia madre…

Le chiesi chi sarebbe stato il partner maschile ed indovinate la sua risposta? No, non ve lo dico, lo scoprirete tra poco.

Mia madre terminò la sua colazione ed io il mio caffè freddo. Il pensiero di dover girare lo spot pubblicitario proprio con quella persona, mi metteva addosso un’ansia terribile, ma anche felicità.

John porse le chiavi dell’auto a mia madre, che le prese velocemente, per poi afferrare la borsa ed uscire, mentre cominciava già a picchiettare sulla tastiera del cellulare, scrivendo a chissà chi.

La seguì a ruota nel garage ed entrai nella macchina nera, accendendo immediatamente lo stereo. Trovai una stazione radio in cui stavano passando la mia canzone. Mi fermai qualche secondo ad ascoltarmi, per poi cambiare subito. Non mi piaceva riascoltarmi perché sentivo ovunque stonature e sbagli, anche quando in realtà la mia interpretazione era perfetta. Si, ero molto autocritica.

Sprofondai sul comodo sedile in pelle nera della macchina, fissando fuori dal finestrino il cielo azzurro, con candide nuvole bianche che ci passeggiavano dentro.

Cominciai a pensare al tipo di spot che avrei fatto di lì a poco e mi venne quasi voglia di non farlo proprio. Non la pubblicità di un profumo, non con lui, anche perché generalmente quel tipo di pubblicità erano piuttosto…audaci. Beh, ma magari quelli che mi stavo facendo erano solo film mentali e la pubblicità sarebbe stata semplice e normale. Lo speravo, anche se sapevo che probabilmente non sarebbe stato così. Cercai di non pensarci, in fondo quel giorno mi sentivo così bene e non avrei permesso ad uno spot pubblicitario di rovinarmi la giornata.

Arrivammo davanti ad un edificio grande e grigio. Tutti gli studi visti da fuori (e anche da dentro) erano uguali. Entrammo e mi ritrovai in uno spazio immenso. A momenti non riuscivo a vedere la fine di quel posto.

Un uomo alto, magro e con una barba bionda che gli copriva metà del viso (l’altra metà del viso era coperta dai capelli, anche loro biondo grano) mi si avvicinò e si presentò: era il regista. Mi spiegò come si sarebbero svolte le riprese e quasi non svenni nel momento in cui mi spiegò il tutto.

“Ammazzatemi ora, vi prego!” pensai, mentre lui continuava a spiegare il tutto.

Annuì poco convinta alle sue parole e lui in tutta risposta mi mandò dal costumista e poi dal truccatore.

Sentivo che sarei potuta morire in quel momento. Non avevo il coraggio di fare quello spot. Ma poi, perché io, cantante, dovevo fare uno spot pubblicitario? Il mio lavoro consisteva nel cantare, non nel recitare. Sospirai mentre i parrucchieri e i make up artist uscivano dalla sala, lasciandomi sola con il mio tormento. Non volevo nemmeno guardarmi allo specchio, non ne avevo né la forza né la voglia, ma non resistetti alla curiosità.

Fissavo il mio riflesso nello specchio, senza capire se quella persona fossi davvero io. Ero un’altra. Il trucco dai toni caldi come il marrone, valorizzava i miei occhi che risplendevano più che mai. I vestiti erano la parte che più mi preoccupava. Non che fossero poi così succinti, è solo che non erano per nulla il mio genere, e non mi riconoscevo nello specchio.

Avevo voglia di urlare. Non volevo fare quella pubblicità con lui, mi vergognavo da morire!

Cercai di farmi forza, misi addosso l’accappatoio ed uscì dalla stanza con le gambe tremanti. Chiusi gli occhi e presi un bel respiro, mentre chiudevo la porta del camerino alle mie spalle. Riaprì gli occhi grandi e nocciola, cercando di non lasciarmi rovinare la splendida giornata da una semplice pubblicità. In fondo sarebbe potuto essere divertente, no?

Il regista mi venne incontro e mi disse che avremmo girato di lì a poco. Gli sorrisi e mi misi buona buona in un angolino, aspettando che mi chiamasse. In quei minuti sentì l’agitazione schizzare alle stelle e le farfalle nello stomaco farsi quasi fastidiose.

Mi guardai intorno, mentre persone dal viso completamente sconosciuto, mi passavano davanti. Non riuscì ad individuare mia madre nello sciame di gente presente in quel posto. Magari era uscita per parlare meglio al cellulare, come al solito. Beh, ma era meglio se non assisteva alle riprese, mi sarei sentita meno in imbarazzo.

Il regista mi chiamò urlando ed io andai svelta da lui, avendo quasi paura che mi sgridasse se ci avessi messo di più a raggiungerlo. Aprì una porta e mi ritrovai in un corridoio lungo, stretto e poco illuminato. Alla fine c’era una telecamera enorme, con dietro un cameraman tutto preso dal suo lavoro. Il regista mi disse semplicemente: -cammina lungo il corridoio, poi sciogliti i capelli scuotendoli un po’.

Mi disse solo questo, il resto stava a me. Prese il mio accappatoio ed io mi ritrovai gli occhi di tutti i presenti, ovvero il regista, il cameraman e altri due tizi, addosso. Indossavo un vestito corto nero che lasciava la schiena scoperta. Mi arrivava appena a metà coscia e quello era l’aspetto che più mi preoccupava. Non parliamo del tacchi che portavo ai piedi. Non ero abituata a camminare sui tacchi e con quelle scarpe avevo decisamente qualche problema d’equilibrio.

Il regista andò a posizionarsi dietro il cameraman e disse qualcosa alla donna al suo fianco, che schiacciò un tasto del telecomando che teneva in mano. Il regista urlò “azione”, mentre una musica partiva. Cominciai a camminare lungo il corridoio e arrivata quasi a metà mi sciolsi i capelli castani tenuti legati da una pinza. Scossi un po’ la folta chioma, lanciando la pinza a terra, per poi arrivare appena davanti al cameraman. Avevo cercato di tenere il viso rilassato, ma con uno sguardo sexy e profondo, di quelli che ti insegnavano a fare nei servizi fotografici. Speravo di non dover fare quella scena altri mille volte. Il regista urlò: -Stop! Bene, facciamone un’altra per sicurezza. Qualcuno le leghi i capelli!!

La stessa donna che prima aveva fatto partire la musica, andò a raccogliere la pinza e mi aiutò a legare nuovamente i capelli, per poi tornare al fianco del regista e far partire nuovamente la musica al suo “azione”. Ripetei nuovamente la scena, esattamente come prima e non dovetti farla più per mia fortuna. Uscimmo dal corridoio, per entrare in una stanza che si trovava proprio dietro il regista. Non avevo notato prima, che ci fosse quella stanza. Entrai seguita dal regista, mentre il cameraman rimase alle nostre spalle.

Seduto su un divano bianco, davanti a noi, c’era lui, proprio la persona con cui non volevo fare quella pubblicità. Mi avvicinai e gli sorrisi gentilmente. Ci salutammo, per poi metterci ad ascoltare le parole del regista. Ovviamente io avrei dovuto fare la parte più “brutta” per così dire. Non mi dispiaceva fare quella pubblicità con lui, ma se ci fosse stata un’altra persona, non sarebbe stato male. Era imbarazzante fare quella pubblicità, se fosse stato uno sconosciuto non mi sarei fatta alcun problema, ma era lui, e mi vergognavo.

Il regista mi trascinò alla porta, dove urlò nuovamente “azione” e la musica partì di nuovo. Mi tremavano leggermente le gambe e non sapevo quanto fosse terrorizzata la mia espressione. Camminai più o meno decisa fino a lui, cercando di tenere a freno l’agitazione. Sotto le direttive del regista, mi sedetti a cavalcioni su di lui, per poi toglierli la maglietta attillata. Dovetti addirittura strusciare il naso sul suo collo, come se il suo profumo mi facesse impazzire. A dire la verità, non era niente male. Affondai una mano nei capelli biondi di Will, avvicinando il suo viso al mio. Gli morsi il labbro, guardando verso la telecamera. Per fortuna il regista urlò “stop”. Mi allontanai come un fulmine da Will, mentre un sorriso nervoso compariva sul mio viso. Il regista ci venne vicino: -Bravi, la facciamo ancora una volta- poi si rivolse a me –e tu mettici più passione!

Io arrossii, come poteva chiedermi una cosa del genere? Beh, ma d’altronde era il mio lavoro e dovevo sottostare agli ordini supremi del regista. Sospirai e tornai all’entrata della stanza, dove dovetti ripetere ogni gesto compiuto precedentemente. Cercai disperatamente di sembrare convincente, anche perché non volevo ripetere quella scena altre volte.

Anche quella scena finì e potei tirare un sospiro di sollievo. Bene, finalmente avevamo finito di girare. Se avessi visto la mia pubblicità in televisione, avrei cambiato canale immediatamente, non avevo intenzione di rivederla.

Il regista mi ridiede il mio accappatoio, che indossai subito visto il freddo che faceva in quel luogo.

Will mi venne vicino e cercai di nascondere l’imbarazzo che provavo per aver girato con lui quello spot. Lui sorrise semplicemente, dicendomi: -mai pensato di fare cinema?

Rimasi un attimo interdetta –cinema?

-Si, saresti una brava attrice.

-Forse un giorno…- disse io, cercando di sorridere naturalmente

-Come va con Skandar? E’ successo qualcosa tra voi?- chiese improvvisamente

Io impallidì improvvisamente. Perché mi chiedeva quelle cose? Cosa ne sapeva lui?

-Ma, cosa dovrebbe succedere tra me e Skandar, scusa?- chiesi come se non capissi perché mi ponesse quelle domande. In realtà non capivo come avesse potuto capire che mi piaceva Skandar.

-Beh, pensavo che Skandar ti piacesse…- rispose semplicemente lui alzando le spalle

-Ma cosa vai dicendo?- dissi facendo un gesto con la mano con se tutto quello fosse assurdo –Siamo amici, ma non sono innamorata di lui.

Inutile dire che stavo mentendo spudoratamente su tutto, anche se non capivo perché. Sentivo di potermi fidare di Will, anche se ci conoscevamo relativamente da poco.

-Sicura?- chiese lui.

Evidentemente aveva capito che mentivo, oppure voleva solo essere certo che dicessi la verità.

-Sicura- dissi io con un sorriso.

Forse un giorno gli avrei detto la verità, ma quel giorno non era ancora arrivato. Magari conoscendoci meglio saremmo diventati amici e gli avrei detto la verità, oppure sarebbe stato Skandar a dirgli tutto. In quel caso Will mi avrebbe additato come bugiarda e non si sarebbe più fidato di me. Probabilmente mi stavo facendo un sacco di film mentali, anche se non mi piaceva affatto farne.

Ad un certo punto vidi una chioma bionda spiccare tra le altre e riconobbi immediatamente Lindsay. Le andai incontro sorridendo. Mi disse che ci avrebbe fatto alcune foto per la promozione del profumo ed io pensai “Oh no, non ho ancora finito…”. Tolsi l’accappatoio, rassegnata all’idea di dover rimanere vestita così ancora per un po’ di tempo.

Lindsay e Will si sorrisero in modo strano, ma probabilmente pareva a me così. Lui si andò a sedere nuovamente sul divano bianco e Lindsay mi chiese di sedermi semplicemente accanto a lui. Dovetti prendere il suo viso con una mano e avvicinarlo al mio quasi fino a sfiorare le sue labbra. Dovevo ammettere che il suo profumo era davvero buono. Dopo qualche scatto del genere, ovvero con uno stretto contatto fisico, Lindsay disse che andava bene così e dopo averci salutati si dileguò velocemente, senza che io ne capissi il motivo. Indossai nuovamente l’accappatoio, mentre mi dirigevo di nuovo verso l’uscita. Mi volta verso Will, mentre mi stringevo di più nell’accappatoio azzurrino a nido d’ape. Lo salutai con un gesto della mano e mi voltai. Feci appena due passi, che mi chiamò.

-Ah, Lucy?

Mi voltai verso di lui con un’espressione interrogativa.

-Stavi benissimo con quel vestito.

Arrossii alle sue parole e riuscì appena a dire un timido “grazie”. Mi voltai nuovamente, con il viso rosso e un piccolo sorriso sulle labbra. Anche con un complimento così, Will era riuscito a farmi arrossire. Era uno che sapeva come fare i complimenti alle ragazze. Non che avesse detto qualcosa di particolare, però lo aveva detto con un’espressione a dir poco irresistibile. Mi sorpresi ai miei stessi pensieri. Perché pensavo a Will in quei termini? A me piaceva solo Skandar, ero innamorata persa di lui. Allora perché in quel momento stavo pensando ancora al complimento che mi aveva rivolto? Decisi di ignorare i miei stessi pensieri e tornai in camerino. Una volta chiusa la porta alle mie spalle, mi persi a fissare il mio riflesso. No, quella non ero io. Non vedevo l’ora di cambiarmi, ma dovetti rimandare, perché sentì bussare alla porta. Andai ad aprirla e mi trovai davanti il volto di Will. L’espressione del suo viso pareva più triste che mai, mi sembrava così triste, che quasi mise tristezza anche a me. Aprì di più la porta e mi spostai leggermente di lato, lasciandolo entrare. Lo feci sedere su una delle sedie girevoli davanti allo specchio, per poi restare in piedi di fronte a lui che teneva le mani tra i capelli in un gesto disperato.

-Will…- dissi io cercando il suo sguardo –Stai bene?

Lui alzò il viso e lo trovai stravolto dalle lacrime. Quello non era il Will che conoscevo io, tutto sorrisi e gentilezza. Quel Will triste e sopraffatto dalle lacrime non era normale. Vederlo in quello stato fece quasi piangere anche me, mi mise addosso una tristezza enorme.

Will poi in un gesto veloce e inaspettato, mi strinse a se, come per cercare protezione. Con il viso poggiato sul mio petto, continuò a piangere. Le sentivo quelle lacrime di dolore, riuscivo a sentirle scivolare velocemente sul viso di Will che sapevo stava cercando di trattenerle senza risultato.

La sua debolezza in quel momento, mi lasciò completamente spiazzata. Avrei voluto fare qualcosa per lui, consolarlo, abbracciarlo più forte. Avrei voluto poter interrompere tutte le sue lacrime e fargli tornare il sorriso sul viso.

-Ti prego, non piangere… - gli sussurrai. La voce mi tremava. Ero sul punto di piangere anch’io e non capivo nemmeno perché.

-Will, che è successo?- chiesi. Mi staccai leggermente e presi il suo volto tra le mani, alzandoglielo –hai voglia di parlarne?

Mi sentivo un po’ come una mamma in quel momento. Sì, una mamma amorevole che cercava di capire perché suo figlio piangesse. Una mamma che cercava in tutti i modi di consolarlo, che aveva cercato di proteggerlo perché non si facesse del male eppure aveva fallito nel suo intento. Tenere il proprio bambino sotto una campana di vetro non era servito a nulla, perché lui senza capire, aveva cercato di frantumare quella campana e provandoci si era fatto solo del male. Ora quella mamma tentava di rimediare al suo sbaglio consolando il figlio, anche se non capiva perché stesse male. Io mi sentivo un po’ una mamma per Will, almeno in quel momento. E Will aveva bisogno di conforto, comprensione. Aveva bisogno di un abbraccio e di un’amica.

-La mia ragazza…- cominciò a dire con voce tremante –Lei mi ha… è tutto finito… - non riusciva a completare una frase, ma ciò che disse mi fu chiarissimo.

-Ho capito… non piangere però. Lei non merita queste tue lacrime. Sono troppo preziose per essere versate per una persona che ti ha lasciato così…

Lui non disse una parola. Non so se ci stesse riflettendo o meno. I suoi occhi parlavano chiaro però: il dolore era tanto da fargli quasi male fisico. Lo sapevo cosa provava. Lo avevo provato quando avevo scoperto di amare Skandar e non poterlo vedere per colpa di mia madre.

Gli carezzai il viso con una mano, asciugando quelle lacrime amare che aveva versato e che ancora non riusciva a fermare. Vederlo così vulnerabile mi faceva pensare che fosse un ragazzo bellissimo. So bene che non era né il momento né la situazione adatta per pensare quelle cose, ma non ci potevo fare nulla. A vederlo indifeso e sofferente era bellissimo. Mi veniva voglia di stringerlo a me, proteggerlo e fare sparire dal suo viso ogni lacrima.

Avrei proprio voluto vedere il viso di quell’insensibile ragazza che lo aveva lasciato. Come si poteva lasciare un ragazzo tanto carino e dolce?

Non riuscivo a spiegarmelo.

Poggiai la mia fronte su quella di Will, chiudendo gli occhi.

-Non piangere più. Non voglio mai più vederti piangere per una ragazza che non ti merita in alcun modo. Nessuna ragazza così insensibile merita una persona dolce come te, che non ha paura di piangere.- dissi per poi riaprire gli occhi e fissarli su quelli azzurrissimi di Will.

In quel momento i suoi occhi mi parevano quasi trasparenti. Non so se fosse per effetto delle lacrime poco prima versate, ma mi sembrava di poter leggere nella sua anima, attraverso quegli occhi.

 

 

 

Mi regalarono quel vestito nero e le scarpe, anche se sapevo che non li avrei mai messi: non erano per nulla il mio stile. Magari se il vestito fosse stato leggermente più lungo lo avrei indossato, ma con la schiena scoperta… insomma, quel vestito era troppo sexy per i miei gusti. Non avrei mai potuto indossarlo, e soprattutto per quale occasione? Senza volere, mi venne in mente l’idea di indossarlo per uscire con Skandar e arrossii ai miei stessi pensieri. Come potevo pensare una cosa del genere?

Uscii dalla stanza con addosso il mio jeans strappato, le mie scarpe bianche e la mia maglietta maniche corte nera. Indossai il giubbotto e presi la mia borsa bianca. Appena due passi e mi ritrovai davanti mia madre, che mi sorrise e mi chiese com’era andata. Come ogni figlia che si rispetti risposi “bene” e non spiccicai più parola, sebbene sapessi di dovermi comportare come una figlia modello in quei giorni.

All’improvviso mi balenò in testa la possibilità che Skandar vedesse quella pubblicità e l’agitazione prese il sopravvento su di me. Non potevo permettergli di vedere quella pubblicità! Cosa avrebbe pensato? No, era decisamente meglio se stava alla larga dalla tivù e dai cartelloni pubblicitari, perché la pubblicità di quel profumo poteva essere dovunque. Speravo con tutta me stessa che non la vedesse.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Svegliarsi la mattina, girarsi e rigirarsi nel letto nascondendo la testa sotto le coperte perché la luce proveniente dalla finestra è accecante e poi sbuffare, perché sai perfettamente che in un modo o nell’altro devi alzarti. La mia giornata, quella mattina, iniziava proprio così. Con uno sbuffo, seguito da un sorriso, perché il calduccio nel letto era così confortante da farti venir voglia di dormire ancora un po’, solo altri due minuti. Sì, uno dice sempre “altri due minuti, poi mi alzo” e invece non è mai così. Ti addormenti e ti svegli un ora dopo con il panico perché sei in ritardo per la scuola, il lavoro, un appuntamento. Allora a quel punto ti metti a saltellare per la stanza con una gamba infilata nel jeans, una manica della maglia infilata e lo spazzolino da denti in bocca. Non hai il tempo di truccarti e arrivi al tuo appuntamento/al lavoro/a scuola con i capelli scompigliati e gli abiti sciupati.

Il ricordo dei tempi in cui ero ancora un’anonima ragazza di seconda superiore, quando quello di diventare una cantante era ancora solo un sogno, ritornò in quel momento. Anch’io ero sempre in ritardo, anch’io arrivavo a scuola correndo, con i capelli scompigliati. Mi prendevano per pazza e quando entravo in classe, in ritardo, scoppiavano tutti a ridere. Non li potevo biasimare, in effetti ero davvero comica. Quelli, in fondo, non erano per niente dei brutti ricordi. Mi piaceva ricordare di quando non ero ancora famosa, mi teneva con i piedi per terra, mi ricordava chi ero veramente. Ricordare chi si era, era un buon allenamento. Era importante per non montarsi la testa e diventare una di quelle star montate e super montate. No, non sarei mai diventata una persona del genere.

Scesi dal mio caldo lettuccio. Mi stiracchiai con un piccolo sorriso, felice del nuovo giorno che era iniziato. Andai dritta alla finestra e ciò che vidi gelò il sangue nelle mie vene. Lanciai un urlo per la sorpresa, per la brutta sorpresa! Sentì subito la porta della mia camera aprirsi violentemente. Mia madre entrò trafelata che prese subito a scuotermi chiedendomi ripetutamente cos’era successo.

Io con la mano tremante indicai fuori dalla finestra. Indicavo il cartellone pubblicitario. Cosa raffigurava? C’ero io, sì, io con addosso quel vestito cortissimo e stretto, seduta affianco a William Moseley. Gli tenevo il viso con una mano ed nostri visi erano vicinissimi. Il mio sguardo era tutto per l’obbiettivo. Affianco alla nostra foto, il profumo pubblicizzato. Continuavo a guardare il cartellone con aria shockata. Ero consapevole del fatto che l’avrebbero dovuto pubblicizzare, quel dannato profumo, ma potevano anche evitare di piazzare un cartellone del genere davanti a casa mia. Oppure potevano scegliere una foto meno… imbarazzante! Accidenti, ma perché avevo dovuto fare quella pubblicità? Come un lampo per la mia mente passò un pensiero terrificante: Skandar che vedeva quel cartellone o che vedeva la mia pubblicità. Se l’avesse vista sarei sprofondata. E chissà come avrebbe reagito lui. Si sarebbe fatto una risata? Si sarebbe ingelosito? Cos’avrebbe pensato? No, mi stavo facendo troppe paranoie. Dovevo assolutamente smetterla.

Mia madre sbuffò vedendo il cartellone che le avevo indicato ed uscì dalla stanza come se nulla fosse accaduto. Io mi voltai, diedi le spalle a quel cartellone, come se questo bastasse a farlo scomparire da lì. Mi vestì in gran fretta e aggiustai i capelli un po’ come potei. Non mi importava granché, d’altronde era mercoledì e sarei restata a casa per “comporre” anche se probabilmente ne avrei approfittato per andare da Skandar. Si, sarei andata a trovare Skandar. Presi il cellulare dalla scrivania e scrissi velocemente un sms: “oggi possiamo vederci?”. Almeno avrei potuto evitare di fargli vedere quella pubblicità o uno di quel dannati cartelloni con me e William sopra.

La suoneria del cellulare mi fece sobbalzare. Cavolo, il ragazzo era veloce a scrivere sms, eh! Diceva semplicemente “Ok. Dove?”. Di farlo venire qua non se ne parlava, avrebbe visto il mega cartellone qua davanti. Gli chiesi se andava bene a casa sua e lui mi rispose solamente con un “Va bene, ci vediamo qui allora. Ti aspetto”. Cominciai a saltellare per la stanza con il cellulare stretto al petto. Cercai di darmi una regolata. Infilai il cellulare nella tasca dei jeans che avevo indossato e fluttuai fino al bagno, cominciando a pettinare i capelli. Guardandomi allo specchio notai che avevo un gran sorriso da ebete sul viso. Ma d’altronde come poteva non essere così? Non vedevo Skandar da due o forse tre settimane. Mi era mancato…

Mi guardai allo specchio, contemplando quel sorriso felice, quel sorriso che veniva dal più profondo del mio cuore. Era da tanto tempo che quel sorriso non faceva capolino nella mia vita. Non che non fossi felice della mia vita, però i miei precedenti sorrisi erano un po’ più spenti, mancavano di qualcosa. In quei sorrisi mancava Skandar. Lui era entrato così improvvisamente nella mia vita e mi aveva fatto il regalo più grande: mi aveva insegnato a sorridere veramente. Gli ero grata per questo, gli ero grata per tutto. Gli ero grata perché esisteva e anche perché quel giorno a casa sua mi aveva baciata così dolcemente… Le sue labbra erano morbide e tiepide ed il loro sapore dolce come il miele. Inutile dire che era stato il bacio più bello di tutta la mia vita.

Mi guardai ancora allo specchio, notando ancora che avevo uno strano luccichio negli occhi. Quella mattina in cui avrei visto Skandar, la felicità mi dava le allucinazioni. Ma forse era meglio così, era meglio vedermi magica, diversa, piuttosto che come sempre. Sospirai e presi la matita nera per gli occhi. La fissai qualche secondo, per poi riporla nel suo scaffale. No, quella mattina non l’avrei usata. Quella matita dopo qualche ore faceva l’effetto panda o “ho appena avuto un incontro di wrestling”. Misi solo un po’ di ombretto viola che mi ero comprata tempo a dietro e non avevo ancora avuto l’occasione di provare. Oh si, era un ombretto bellissimo.

Uscii dal bagno e saltellai fino alla mia porta, dove ripresi il contegno cominciando a camminare normalmente. Aprì la porta, guardai a destra, guardai a sinistra. Via libera. Sembrava che mia madre fosse uscita e mio padre… beh, lui era sempre in giro! O era in salotto a guardare la tv, oppure giocava ai videogiochi oppure… oppure dormiva! Andai in cucina, dove il caro John mi aspettava sorridente. Gli sorrisi a mia volta quando mi porse il mio caffè freddo quotidiano.

-Mia madre- chiesi –è già uscita?

-Si, è uscita una decina di minuti fa…

-Grazie John. – dissi, per poi dargli una pacca amichevole sulla spalla e volare fuori. Una volta fuori mi balzò in mente una domanda che probabilmente avrei dovuto farmi prima: come ci arrivavo a casa di Skandar?

Abbattuta cercai disperatamente una soluzione. Avrei potuto chiamare Skandar e chiedergli la via, ma magari poi si offriva di venire qui e non se ne parlava! Un lampo attraversò la mia mente e volai dentro casa. John era ancora in cucina, stava sistemando le stoviglie nella lavastoviglie. Lo presi per le spalle e lo strattonai leggermente.

-John, ho bisogno del tuo aiuto

 

 

Mi trovavo ormai davanti a casa di Skandar. John era riuscito a rintracciare il suo indirizzo e mi aveva accompagnata fino a casa sua. Sarebbe stato molto più semplice chiedere direttamente a Skandar l’indirizzo, ma io ero una maga nel complicarmi la vita.

Avevo fatto promettere solennemente a John di non dire a mia madre che ero andata a casa di Skandar. In caso le avrebbe dovuto dire che ero andata a fare una passeggiata e che sarei tornata presto. In quel caso John mi avrebbe fatto uno squillo e sarei volata a casa. Niente di più semplice.

Protesi una mano verso il citofono, ma tremava così tanto che non riuscivo a centrarlo. Chiusi gli occhi, presi un gran respiro, riaprì gli occhi e suonai quel benedetto campanello. Pochi secondi e sentì una voce femminile dall’altra parte che chiedeva:

-Si?

-Ehm… Sono Lucila… C’è Skandar?

-Ah! Ciao Lucila, entra pure!

Il cancello si aprì e mi ritrovai ad attraversare un piccolo giardino ricco di piante colorate. Mi piaceva quel giardino. La porta in legno di ciliegio che rappresentava l’entrata della dimora Keynes si aprì e sbucò fuori il viso allegro di Soumaya, la sorella di Skandar, che mi accolse con un sorriso raggiante.

-Quanto tempo è passato!- mi disse appena mi trovai davanti a lei

-Eh, purtroppo si. Sono stata molto impegnata.

-Non preoccuparti, in fondo sei qui, no? Ma so che vuoi vedere Skandar e non me-mi strizzò l’occhio –quindi vedrò di sparire- disse con un sorrisone.

Le risposi con un semplice sorriso imbarazzato.

-Entra pure, Skandar arriva subito, si stava facendo la doccia.

-Grazie Soumaya

La casa era identica alla prima volta che l’avevo vista: il solito profumo, la luminosità del luogo, la musica inesistente che comunque io sentivo… Non era cambiata una virgola, eppure era passato quasi un mese. Come passa il tempo.

Andai a sedermi sul divano del soggiorno, aspettando l’arrivo di Skandar. Ero nervosa al pensiero di vederlo, ma chi non lo sarebbe stato? In fondo ci eravamo visti un mese prima, ci eravamo lasciati con un bacio dal sapore del miele e poi non ci eravamo più visti per un periodo lunghissimo. E dire che gli avevo promesso che sarei tornata in fretta. Che bugiarda che ero stata.

Sentì del passi sulle scale ma cercai di non voltarmi. Strinsi i pugni, chiusi gli occhi per poi riaprirli immediatamente, piena di una nuova forza ed energia. Poi una mano sugli occhi mi oscurò la visuale.

-Ehi…- disse una voce maschile alle mie spalle. Sapevo perfettamente a chi apparteneva quella voce melodiosa, per quello le mie labbra si distesero in un sorriso che non riuscivo a cancellare.

Scostai gentilmente la sua mano dai miei occhi, in modo che fossi in grado di vederlo. Mi voltai verso di lui rimanendo incantata come sempre. I suoi capelli scuri erano bagnati e anche sulle lunga ciglia nere vi erano goccioline d’acqua. Ammettiamolo: da bagnato era ancora più bello. Sarà una frase fatta, una frase ovvia, ma era proprio vero.

Avvicinò il suo volto al mio e mi inebriai del profumo del suo shampoo. Poi senza che avessi il tempo di focalizzare la situazione, senza avere nemmeno il tempo di affogare nei suoi occhi, le sue morbide labbra si posarono candide sulle mie. In quel momento mi sentì più leggera, come se ciò che mi servisse fin dall’inizio fosse un suo bacio. Presto, troppo presto, le sue labbra si staccarono dalle mie. Sussurrarono parole che non erano il solito “mi sei mancata” oppure “ti amo”, di quelle cose molto ovvie che si leggono nei libri o si vedono nei film, no, ma mi disse:

-Promettimi che non passerà più così tanto tempo…

E l’unica cosa logica da dire in quel momento era: -Te lo prometto

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Sorrisi, abbracci, baci, amore. Era tutto ciò che caratterizzava quel momento così perfetto. Dopo tanto tempo senza vederci finalmente avevamo trovato un momento d’intimità. Non mi sembrava vero, era tutto così surreale… soprattutto per me che in tema amore ero una gran frana e non sapevo mai come comportarmi. Mi sentivo sempre un pesce fuor d’acqua. Ad esempio quando dichiaravo i miei sentimenti ad un ragazzo e lui li ricambiava, non sapevo mai come comportarmi dopo. In genere me ne stavo in silenzio con gli occhi e la testa bassa, aspettando una sua parola, poi prendevo a balbettare, mi sudavano le mani. Sì, una vera imbranata. Con Skandar era diverso. Sì, probabilmente questa frase l’avrete letta in tutti i libri d’amore o l’avrete sentita dire in tutti i film, ma era proprio così, che vi devo dire? Con Skandar mi ero comportata con assoluta naturalezza. Forse perché io ero diversa, forse perché l’amore che ci legava era diverso, forse perché tutto era diverso rispetto alle passate esperienze. L’unica cosa che sapevo era che lo amavo profondamente, il nostro amore era sbocciato in fretta, ma il fatto che da piccoli ci conoscevamo già e tutto ciò che avevamo condiviso, tutto ciò che non ricordavo e che lui mi aveva raccontato, aveva contribuito a farmi innamorare di lui sempre più. Skandar mi incuriosiva sempre di più. C’erano ancora molte cose che non sapevo di lui e volevo scoprirle tutte. Chissà quante sorprese ci avrebbe riservato il futuro, chissà se quell’amore sarebbe durato. Ma non mi andava di pensarci, volevo pensare solo al presente, vivere il momento, godermi quegli abbracci e baci finché potevo.

Ormai mi ero scordata di tutto: mia madre, il cartellone pubblicitario davanti a casa mia, la canzone per il film di Narnia che stavo tentando di finire, tutto era sfumato. Nella mia mente c’era solo Skandar che mi fissava con i suoi occhi scuri e terribilmente magnetici. Quegli occhi che ogni volta tentavo di definire senza mai riuscirci. Dietro quegli occhi c’era un mondo intero, avevano sfumature particolari che non avevo mai visto e ogni volta ne notavo altre diverse. Non finivo mai di scoprire i suoi occhi, erano così belli e particolari nella loro apparente normalità. Occhi normalmente marroni, ma che visti da vicini avevano una storia da raccontare. In poche parole: i suoi occhi mi affascinavano, mi attraevano come la luce attrae le falene.

Continuammo a guardare l’uno negli occhi dell’altro, in silenzio. Non era uno di quei momenti di silenzio imbarazzante, era un silenzio ricco di parole dette attraverso lo sguardo.

Tenendo una mano sul suo petto riuscivo a sentire il battito del suo cuore andare allo stesso ritmo martellante del mio, come se i nostri cuori stessero parlando, formando una conversazione tutta loro. E sentirli parlare mi piaceva, mi piaceva sapere che il suo cuore batteva forte quanto il mio, che provava le mie stesse emozioni. Mi rendeva così felice…

Sorrisi ai miei stessi pensieri. Sì, ero felice.

Un sorriso radiante e perfetto comparve anche sul volto di Skandar. Sarei potuta svenire per quel sorriso così bello che splendeva sul volto del ragazzo che mi piaceva e che era a pochi centimetri dal mio.

Quello era un momento perfetto, veramente perfetto e nulla avrebbe potuto rovinarlo finché…

Finché dei passi veloci non interruppero il magico silenzio che si era creato.

Soumaya corse giù dalle scale trafelata, il viso paonazzo e gli occhi strabuzzati. Si buttò sul divano, accanto a noi e afferrò velocemente il telecomando.

-Scusate, ma inizia la mia soap-opera preferita. E’ l’ultimo episodio!- disse mentre picchiettava velocemente su tutti i tasti del telecomando per cercare quello d’accensione, come se non conoscesse ancora il suo telecomando.

Finalmente riuscì ad accenderlo e tirò un sospiro di sollievo, sprofondando nel divano. Prese un cuscino, si rannicchiò su se stessa e strinse il cuscino tra le braccia, aspettando con ansia il termine della pubblicità e l’inizio del suo programma. Aveva i riccioli nerissimi in disordine e aveva ancora sul naso gli occhiali che usava per studiare. Ma lei non ci faceva caso, era troppo concentrata sulla tv e a maledire le lunghe pubblicità, per pensare a sistemarsi.

Mi trattenni dal ridere mentre la vedevo mangiarsi le unghie per la straziante attesa. Mi sistemai sul divano e poggiai la testa sulla spalla di Skandar, tentando di non disturbarla. Baciarsi mentre lei stava guardando la tv non era affatto educato.

Socchiusi gli occhi, cercai di riposarmi, cullata dal battito del cuore di Skandar, ma la musica fin troppo familiare di una pubblicità me li fece riaprire immediatamente.

A quella vista impallidì come una mozzarella.

Non poteva andare peggio.

Stavano passando la mia pubblicità! Mi feci piccola piccola nel divano, cercando di nascondermi dietro il cuscino. Non avevo il coraggio di guardare Skandar in faccia. Riuscì però a vedere Soumaya spalancare la bocca a mo di pesce palla e strabuzzare gli occhi tanto che non credevo fosse possibile.

Non volevo vedere quella pubblicità, non la volevo vedere, ma la guardai lo stesso.

Io che camminavo lungo quella stanza con addosso quel vestito attillato, mi scioglievo i capelli, raggiungevo Will, mi sedevo a cavalcioni su di lui, gli sfilavo la maglietta, strusciavo il naso sul suo collo, affondavo una mano nel suoi capelli biondi e gli mordevo il labbro. No, quella pubblicità era assurda. E Skandar l’aveva vista. Cosa avrebbe detto?

Ero imbarazzata, mi sentivo come colpevole.

-Accidenti Lucy!- esclamò Soumaya ancora esterrefatta, quando la pubblicità finì.

Non risposi, ero troppo impegnata a nascondermi dietro il cuscino per l’imbarazzo.

Sentì Skandar grugnire qualcosa, per poi alzarsi e salire le scale di fretta, con furia. Sbatté la porta di quella che probabilmente era camera sua.

Restai seduta nel divano, mi strinsi nelle spalle sentendo il freddo nelle ossa che mi aveva lasciato lui andandosene. In fondo però aveva ragione ad essere arrabbiato, lo sarei stata anche io al suo posto, o per lo meno mi sarei sentita male, confusa.

Guardai Soumaya pregandola con lo sguardo di consigliarmi cosa fare. Lei con un gesto del capo mi invitò a raggiungerlo. Cercò di fare un sorriso incoraggiante, ma poco mi servì, sebbene apprezzai il suo tentativo.

Sospirai e tesa fino alla punta dei capelli mi alzai dal divano su cui mi ero accucciata e su cui pochi minuti prima baciavo Skandar. Salì le scale lentamente, cercando di pensare a delle parole sensate da dirgli, ma la mia mente era completamente annebbiata, non avevo idea di cosa dirgli.

Davanti alla sua porta, in color noce scuro, presi un gran respiro, poggiai la mano sulla maniglia d’ottone ed entrai piano.

-Skandar?- chiesi quasi in un sussurro.

Nessuna risposta.

Entrai lentamente e lo trovai di fronte a me, seduto sul bordo del letto grande e a due piazze, con la testa china tra le ginocchia. Non sapevo se fosse più arrabbiato o se più ferito. Nella pubblicità mordevo il labbro inferiore di Will guardando la telecamera con uno sguardo intrigante. Mettendomi nei panni di Skandar, sembrava che in quella pubblicità lo stessi tradendo con Will, come se mentre mordevo il suo labbro, stessi guardando Skandar stesso. Un po’ come se gli stessi dicendo “baciare Will è molto meglio che baciare te”. Mi sentivo male al solo pensiero, come se l’avessi tradito sul serio, mi sentivo colpevole. Avrei voluto piangere, dirgli che mi dispiaceva, ma in fondo di cosa dovevo scusarmi? Io nemmeno la volevo fare quella pubblicità, non era stata colpa mia e il copione non l’avevo scritto io!

Chiusi la porta alle mie spalle e mi ci appoggiai, aspettando una qualche reazione da parte di Skandar. Reazione che non tardò ad arrivare. Difatti la sua voce, divenuta roca, mi arrivò poco dopo che ebbi chiuso la porta.

-Cosa diavolo era?- chiese ancora con il capo chino

-Eh?- chiesi io. Non sapevo cosa volesse che gli rispondessi.

Lui alzò il viso velocemente, si alzò e si avvicinò a me: -Cos’era quella pubblicità? Cos’era quello sguardo che avevi?- disse quasi urlandomi contro.

Spostai lo sguardo da lui fino al pavimento, non riuscivo a guardarlo in faccia. Non risposi, non sapevo cosa dirgli. Sobbalzai quando il suo pugno si scagliò sulla porta, sopra la mia testa.

Trovai la forza di parlare

-Perché te la prendi con me? E’ il mio lavoro, non posso farci nulla se il regista è un pervertito!- dissi tenendo un tono di voce moderato.

-Avresti potuto rifiutare- fu la secca risposta

-E’ stata mia madre ad organizzare tutto, io non sapevo nemmeno con chi avrei lavorato, dove o cos’avrei dovuto dire e fare! Te lo ripeto: non è colpa mia!- dissi, stavolta alzando la voce. –E poi, è solo per lavoro! Quando tu in un film dovrai baciare una ragazza cosa dovrò fare io?

-Dal tuo sguardo non mi sembrava fosse solo per lavoro- sibilò.

I suoi occhi non risplendevano più come poco prima sul divano accanto a me, ora erano spenti, opachi, la luce che li caratterizzava era sparita, inghiottita dalla sua rabbia.

Mi accigliai, ferita dalle sue parole, sconcertata.

-Non sono venuta qui per discutere.- dissi fissandolo. Lo spinsi via, appoggiai la mano sulla maniglia, aprì la porta e prima di uscire mi girai verso di lui: -Ci sentiamo quando sarai riuscito a capirmi. Schiarisciti le idee nel frattempo. Ciao. - dissi fredda, per poi uscire sbattendo la porta.

Presi il cellulare dalla tasca dei jeans e chiamai John perché mi venisse a prendere. Scesi le scale di corsa, presi la borsa dall’appendiabiti e salutai Soumaya.

-Ciao Soumaya, ci vediamo, forse…-dissi con il fumo che usciva dalle orecchie per la rabbia

-Cosa? Te ne vai?- chiese abbassando il volume della televisione

-Si, tornerò appena tuo fratello si calmerà e capirà che questo è il mio lavoro, così come il suo- dissi indossando la giacchetta bianca.

Soumaya annuì. –Mio fratello è un testone e quando è arrabbiato non ascolta nulla e nessuno. Vedrai che tra qualche giorno verrà a scusarsi.

-Grazie Soumaya, ci vediamo.-dissi aprendo la porta.

-Ah, Lucy?

-Si?

-Chiamami pure Maya- disse con un sorriso

Le sorrisi a mia volta. –Allora ciao, Maya.

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Due giorni, erano passati due giorni dalla mia litigata con Skandar.

Quel giorno, uscita da casa sua avevo trovato John ad aspettarmi fuori, in macchina. Ero salita velocemente e gli avevo chiesto di riportarmi a casa. Lui aveva acceso il motore senza dire una parola, ma dopo pochi minuti aveva chiesto:

-Come mai quell’aria infuriata?

Non sapevo cosa dirgli, più che altro non sapevo fino a che punto potevo parlargli di ciò che era accaduto, ma avevo un disperato bisogno di sfogarmi con qualcuno, così gli raccontai dello spot pubblicitario, di come Skandar aveva reagito vedendolo e della litigata.

Parlare con John mi aveva fatto sentire meglio.

-Forse, se quel ragazzo non ti capisce, vuol dire che non fa per te- mi aveva detto poi, spegnendo il motore dell’auto ormai parcheggiata nel box di casa mia.

-Non lo so, John, non lo so…

John mi aveva poi portato dentro e mi aveva fatto sedere sul divano. Era strano non trovarci mio padre, ma John mi aveva assicurato che era uscito con alcuni vecchi amici. Non sapevo nemmeno che mio padre avesse degli amici, d’altronde era sempre in soggiorno a guardare la tv, oppure stava leggendo un libro.

John mi portò un the alla menta piperita, il mio preferito.

-Bere qualcosa di caldo aiuta parecchio in giornate come questa- aveva detto con un sorriso.

In questi due giorni mi aveva aiutato molto. Era proprio un bravo amico. Sì, potevo definirlo mio amico ormai.

Non sapevo se essere più triste o arrabbiata. Il fatto di aver litigato con Skandar mi rendeva tremendamente triste, mi sentivo depressa, avevo il morale sotto le scarpe, ma allo stesso tempo ero arrabbiata con lui perché non mi capiva! Avevo fatto quello spot perché praticamente obbligata, quello era il mio lavoro, rifiutandomi di girare quello spot oltretutto sarei sembrata una ragazzina viziata. Skandar non capiva che ciò che avevo dovuto fare era stato solo per lavoro. Oltretutto, anche lui era parte del mondo dello spettacolo. Lui era un attore e a maggior ragione avrebbe dovuto girare scene in cui avrebbe dovuto baciare una ragazza! In quel caso cosa dovrei fare io? Arrabbiarmi con lui e accusarlo di non essermi fedele? No, che assurdità. John mi aveva detto che se non mi credeva, probabilmente era perché non aveva fiducia in me. Io avevo fiducia in lui e se lui non ne aveva in me, non aveva senso continuare la nostra storia.

Portai le gambe al petto e poggiai la testa sul freddo vetro della finestra. Ero seduta sull’ampio davanzale e fissavo fuori dalla finestra quel dannato cartellone. Era successo tutto per colpa di quella pubblicità, per colpa di mia madre che aveva accettato quell’incarico. Ovviamente non stavo dando tutta la colpa a lei, ma era anche colpa sua, seppur in minima parte. L’idea che mi avesse fatto fare apposta quella precisa pubblicità sfrecciò nella mia mente più veloce di una freccia scoccata da un’abile arciere. Cercai di cancellarla immediatamente, d’altronde lei non sapeva del sentimento che ci legava, non lo poteva sapere.

Scesi dal davanzale, infilai ai piedi le pantofole azzurre e andai a fare un giro per la casa. Abitavo in quella casa a ormai tre anni e ancora non la conoscevo del tutto. C’erano volte in cui mi perdevo. Mi chiedevo che senso avesse comprare una casa tanto grande per tre persone. Bastava una casa normale, come quella in cui vivevamo prima. La mia precedente dimora era piccola e graziosa. Aveva tre camere da letto, una cucina, un bagno, un soggiorno, una soffitta e un piccolo giardino dietro, che confinava con quello dei nostri vicini. Io ci stavo bene in quella casa, mi ci ero affezionata. Cambiare quella casa per questa non aveva avuto assolutamente alcun senso. Per di più, molte stanze erano completamente vuote! Il quarto piano ad esempio era del tutto vuoto, eccetto per la terza porta sulla destra, la mia personale ed unica stanza della musica. Non c’era nient’altro in quel piano, eccetto un bagno in fondo al corridoio. Al terzo piano c’era la mia stanza, era la seconda porta sulla destra. Alla prima porta c’era il mio guardaroba. Più che un guardaroba era un negozio di vestiti in una stanza. Credeteci o no in quella stanza avevo due camerini e manichini sparsi ovunque. Ci mancava solo la commessa e non c’era da sorprendersi sul fatto che mia madre mi avesse proposto di assumere una ragazza perché mi aiutasse nella scelta dei vestiti.

Alla terza porta c’era il mio bagno (raggiungibile anche dall’interno della mia stanza). Alla quarta c’era una stanza per gli ospiti e alla quinta un bagno.

Al secondo piano c’era la camera dei miei genitori, l’armadio di mia madre, un bagno, lo studio di mia madre e lo studio di mio padre, anche se mio padre non so cosa ci facesse lì dentro, visto che di lavoro faceva… lo scansafatiche!

Al primo piano c’erano la cucina, la sala da pranzo, il salotto e un’enorme bagno.

Beh, la mia casa era decisamente troppo grande! Non che non fossi felice di abitare lì, anzi, ero grata a tutti perché avevo la possibilità di vivere in quella casa stupenda, ma per me era troppo, io ero più essenziale, mi accontentavo di una casa con tre camere, un bagno, una cucina e un salotto.

Ero arrivata al secondo piano, stavo aprendo tutte le porte, esplorando ogni camera. Entrai nella camera dei miei genitori. Era una camera grande e luminosa, con un letto matrimoniale a baldacchino. Mi avvicinai al comodino di mia madre. Sopra c’era solo una foto messa in un’elegante porta ritratto. Nella foto c’eravamo io, mia madre e mio padre al lago. Era una foto di quando ero piccola, avrò avuto dieci anni o giù di lì.

Il comodino di mio padre era un vero disastro. C’erano riviste, libri, fazzoletti, carte di caramelle. Non voleva che nessuno lo toccasse, diceva sempre che lo avrebbe messo apposto lui, ma non lo faceva mai. Sospirai, presi un paio di riviste e le raggruppai un po’ più ordinatamente sul comodino. Notai un libro dalla copertina in velluto rossa. Le copertine così mi attraevano sempre. Aprì la copertina rigida e ci trovai dentro una foto. Raffigurava una ragazza sorridente con un cappellino di paglia in testa e un vestito bianco. Aveva capelli lunghi, mossi e scuri e occhi color nocciola. Quella ragazza era la mia copia, anzi, forse ero proprio io, ma non ricordavo affatto di aver mai scattato una foto così, tantomeno ricordavo d’aver mai indossato un cappellino di paglia.

Presi la foto, richiusi il libro ed uscii dalla stanza. Infilai la foto nella tasca dei pantaloni, cercando di non stropicciarla. Salii le scale recandomi in camera mia. Lì avrei potuto osservare quella foto con calma e decretare se ero sul serio io, una foto di cui non ricordavo, o se era un fotomontaggio (anche se era strano che mio padre tenesse una foto truccata dentro ad un libro) o se era solo una donna che mi somigliava molto. E se non ero io chi era? E perché mio padre ne aveva una foto?

Davanti alla porta della mia camera trovai John con una tazza fumante in mano. Gli sorrisi.

-Pensavo ti facesse piacere prendere un po’ di the- disse semplicemente

-Grazie, mi serviva proprio- dissi aprendo la porta della mia camera, facendogli segno di entrare. Gli presi la tazza dalle mani e mi sedetti sul bordo del letto. John non fece mai un passo oltre la soglia.

-Guarda che puoi entrare, non ti mordo!- dissi divertita.

Lui fece un timido sorriso, per poi entrare e chiudersi la porta alle spalle.

Battei la mano sul letto, accanto a me, facendogli segno di sedersi. In fondo una chiacchierata non avrebbe fatto male a nessuno. Pensandoci bene, non sapevo nulla di John e lui sapeva tutto di me.

Si sedette al mio fianco. Non era a disagio e la cosa mi rincuorava.

-Allora…- cominciai –tu sai tante cose di me, ma io so poco o niente di te…

-Cosa vuoi sapere?- chiese

-In generale…- risposi alzando le spalle

-Mi chiamo John Williams, ho ventidue anni, faccio il maggiordomo in casa Kingston, ma sono il maggiordomo personale di Lucila. Gioco a calcio e a golf, adoro gli animali e il mare.

-Cos’altro ti piace?- chiesi curiosa. Chissà, magari anche lui aveva una passione per la musica.

Poggiai la tazza di the, ormai agli sgoccioli, sul comodino affianco al letto e aspettai una risposta.

Lui si avvicinò a me. Avevo il suo viso a pochi centimetri di distanza e mi trovavo abbastanza in imbarazzo. Solo in quel momento notai che i suoi occhi erano verdi con screziature grigie. Non ci avevo mai fatto caso.

-Ancora non lo sai?- chiese con voce profonda

Cercai di allontanarmi un po’ da lui, ma più mi allontanavo e più lui si avvicinava. Ormai le sue ciglia sfioravano le mie. Se si fosse avvicinato ancora, le sue labbra si sarebbero posate sulle mie e sinceramente non volevo che accadesse. Sì, John era bello, biondo, con gli occhi verdi screziati di grigio. Insomma, era un bel ragazzo, ma non era il mio ragazzo. Era Skandar il mio ragazzo e, anche se in quel momento ero in collera con lui, non potevo, non dovevo, baciare nessun’altro che lui. Eccetto che per lavoro, caso in cui ero obbligata per copione a baciare qualcun altro.

-John…- sussurrai –sei troppo vicino- dissi cercando di allontanarlo, senza risultati

-Non abbastanza- sussurrò lui.

Un secondo dopo le sue labbra erano incollate sulle mie. Cercai di divincolarmi, ma teneva le mani ben salde sui miei polsi. Mi sospinse sul letto. Lottai per liberarmi, ma la sua prese era ferrea, non riuscivo a muovermi. Teneva i miei polsi stretti con una sola mano. L’altra mano passò sotto la mia maglietta. Mi dimenai e riuscì a staccarmi da quel bacio.

-Lasciami, smettila!-gli urlai –Aiuto!- urlai più forte, nel disperato tentativo di riuscire a farmi sentire da qualche maggiordomo.

Mi tappò la bocca con un altro bacio. Una lacrima scese sul mio viso. Non osai immaginare cos’altro avrebbe fatto prima che qualcuno fosse venuto nella mia stanza.

Sentì il rumore di una porta sbattuta e un attimo dopo avevo i polsi liberi e le mie labbra anche. Mi alzai di scatto.

John a terra che si massaggiava la mandibola e dietro di lui… Skandar!!

-Non osare toccarla con le tue luride mani- sibilò massaggiandosi il polso

-Chi diavolo sei ragazzino, per dirmi cosa devo o non devo fare?- disse John alzandosi.

-Sono il suo ragazzo- disse indicandomi con un movimento del capo –e ti dico che se non te ne vai subito sei morto

Vidi John preparare i pugni, pronto a scagliarsi su Skandar.

-John, vattene subito da questa casa o chiamo la polizia- dissi in tono di minaccia

John grugnì qualcosa, per poi uscire sbattendo la porta della mia camera.

Guardai Skandar con gli occhi velati di lacrime, per poi buttargli le braccia al collo. Mi staccai leggermente da lui e gli presi il viso tra le mani, mentre altre lacrime scendevano dai miei occhi. Poggiai la mia fronte sulla sua, felice di vederlo, grata perché mi aveva “salvata”.

-Grazie…- sussurrai.

Lui sorrise e mi asciugò le lacrime con le dita. Mi abbracciò ed io mi abbandonai tra le sue braccia come una bambina.

-Mi dispiace di essere stato testardo, avevi ragione tu- mi disse, staccandosi da quell’abbraccio e guardandomi negli occhi. I suoi bei occhi scuri erano tornati splendenti come prima e questo mi rendeva felice.

-Puoi perdonarmi?- chiese

-Come potrei non perdonarti?- dissi asciugandomi l’ultima lacrima che era sfuggita al mio controllo.

Le sue labbra erano così vicine alle mie, i suoi occhi avevano un’espressione così dolce e la voglia di baciarlo era troppo forte. Come potevo resistergli? In un istante le nostre labbra erano incollate, impegnate in un lungo e profondo bacio. Tutto il mondo sembrò esplodere e scomparire dietro di noi. Probabilmente era solo la mia immaginazione, ma mi sembrava di volare. Dimenticai John, la foto di quella donna così simile a me, dimenticai mia madre ed il fatto che potesse tornare a casa da un momento all’altro.

Continuammo a baciarci, quei baci che mi accendevano uno strano fuoco dentro, un fuoco che non riuscivo a spegnere e che non volevo spegnere. Inarcai il collo, mentre le labbra morbide di Skandar cominciavano a baciarlo lentamente e con dolcezza. Gemetti, cercando di trattenermi dal saltargli praticamente addosso. Il suo profumo era talmente intenso da farmi venire il capogiro.

Il bussare alla porta spezzò la magica atmosfera che si era creata. Sbiancai, mi staccai velocemente da Skandar e lo trascinai dentro l’armadio.

-Stai qui- gli sussurrai per poi chiudere l’armadio ed andare ad aprire.

Mi ritrovai di fronte al viso infuriato di mia madre.

-Come mai ho visto John fuori dai cancelli? Che gli hai detto?

-Eh? No, nulla, gli ho detto che se aveva voglia poteva fare una pausa perché tanto io non avevo bisogno di nulla. Magari era andato a fare un giro ed era appena tornato!- dissi, cercando di essere il più convincente possibile.

Probabilmente la mia scusa funzionò, perché il volto di mia mare si rilassò.

Sospirò. –Come va con la canzone?

-Quale canzone?

-Quella per il film, tesoro mio, quale sennò?

-Ah, quella, si, procede bene, non manca molto, tranquilla

-Bene, perché domani è sabato ed hai un servizio fotografico e un’intervista. Per le otto devi essere più che pronta.

-Certo mamma.

-Tra un po’ si mangia, ha detto Paul che il pollo gli è venuto buonissimo. Speriamo che sia così.- disse per poi voltarsi per tornare al piano di sotto.

Chiusi la porta alle mie spalle e andai dritta all’armadio.

-Accidenti, qua dentro c’è un mondo!- esclamò Skandar indicando “l’armadio” alle sue spalle. –Altro che Narnia…- disse voltandosi nuovamente verso l’armadio.

Ridacchiai, divertita. In effetti aveva proprio ragione.

-Grazie ancora per avermi salvata dalle grinfie di John… Chi ti ha fatto entrare?

-Uno dei tanti maggiordomi. Ma in quanti siete qua dentro?

-Mia madre, mio padre, io e circa dieci o quindici maggiordomi, cameriere, cuochi ecc- dissi spiegando velocemente. –Ma tu te ne devi andare subito, perché la mia cara mamma è tornata dal lavoro e se ti vede qui siamo entrambi morti.- dissi spingendolo verso la porta.

-Se ho ragione e mia madre è andata nel suo studio, hai tutto il tempo del mondo per uscire, ma se è andata nel suo armadio hai meno di dieci minuti. Si cambia in fretta.

Uscii dalla stanza. Guardai a destra e poi a sinistra. Bene, non c’era nessuno nei paraggi. Feci un gesto a Skandar perché mi seguisse. Mi sentivo un po’ un’agente segreto. Controllai l’ascensore. Libero. Ma era comunque meglio prendere le scale, mia madre prendeva sempre l’ascensore ed era più difficile trovarla per le scale. Scendemmo silenziosamente ma in fretta. Arrivati al primo piano controllai la cucina. Di mia madre non c’era traccia. Controllai il salotto. Nemmeno lì. Feci segno a Skandar di correre fuori prima che qualcuno lo vedesse. Prima di lasciarlo andare lo attirai a me per un ultimo, veloce ma intenso, bacio. Lo spinsi poi verso l’uscita.

Andai alla finestra e da lì lo guardai andare via, ritornare a casa.

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Tra le mani dalle lunghe dita, fatte per suonare il piano, rigiravo ancora quella fotografia. Quella donna con quel sorriso così felice, i capelli castani al vento e il vestitino bianco e fresco… Quella fotografia sembrava quasi irreale, inconsistente, talmente era bella. E, anche se non mi consideravo bella quanto quella donna, dovevo dire che ero molto, molto, simile a lei. Forse avevamo un naso differente –il suo era piccolo e dritto mentre il mio brutto e “a patata”- e le sue labbra erano più piccole e rosse delle mie, ma lo sguardo, i capelli, i lineamenti del viso, erano gli stessi.

La mia fantasia cominciò a viaggiare e ipotizzai i vari motivi per cui quella foto fosse in un libro di mio padre. La prima possibilità era quella che la donna nella fotografia fosse mia madre (che allora era mora e con gli occhi scuri e che ora indossava lenti a contatto grigie e si tingeva a mia insaputa) oppure quella poteva essere ad esempio la mia sorellina scomparsa o qualcosa di simile o magari quella poteva essere la mia vera madre e quella che viveva sotto il mio stesso tetto era in realtà la sorella malvagia della mia vera madre che l’aveva uccisa e aveva poi minacciato mio padre di uccidere anche lui. Ok, quest’ultima ipotesi era un po’ meno improbabile delle altre due, ma che io ero dotata di una grande inventiva non era certo un segreto. Mi sembrava di essere un po’ come in un giallo. E mi sentivo proprio come Sherlock Holmes. Mi mancava solo la lente d’ingrandimento, perché l’impermeabile l’avevo già addosso.

Era una giornata piovosa ed ero appena tornata da un’intervista radiofonica. Sì, mi ero divertita abbastanza. La signora che mi aveva intervistata aveva sui trentacinque anni, aveva capelli lunghi, lisci e neri, occhi azzurri e un’aria allegra e pazza sul viso. Effettivamente si era rivelata veramente simpatica e giovanile, più di quanto m’aspettassi da una vestita con un tailleur grigio scuro. Era passata dalle domande più comuni fino a scendere a parlare della mia vita personale riuscendo anche a farmi ridere rumorosamente come mio solito. Avevamo parlato anche del mio recente incarico, quello di scrivere la canzone per la colonna sonora di Narnia. Mi aveva chiesto se avevo incontrato i protagonisti e come li avevo trovati. Io non potei rispondere altro se non che erano tutti simpatici. Raccontai di aver incontrato Georgie, Anna, Will e Skandar. La signora, di nome Sarah, allora scherzò, dicendo che alla lista dei bei ragazzi mancava solo Ben Barnes. Sorrisi a quelle parole. Non avevo visto Narnia, ma conoscevo il volto dei suoi protagonisti. Avevo abbastanza presente quello di Ben Barnes, che da quanto avevo capito interpretava il principe Caspian. Capelli ed occhi scuri, viso che ispirava simpatia istantanea e sorriso gentile. Mi sembrava una brava persona e anche un ragazzo molto carino. Magari prima o poi l’avrei conosciuto.

Parlammo anche dello spot pubblicitario girato con Will. Mi venne da arrossire parlandone e ripensando a quella giornata mi venne quasi da svenire, in fondo non avevo mai girato scene come quelle e parlarne mi imbarazzava, cosa che forse non doveva capitare ad una quasi diciottenne. Avrei voluto dire “no comment please”, ma non lo feci e risposi, cercando di mantenere la calma ripensando a quello spot che mi aveva addirittura fatto litigare con Skandar. Non parlai di Skandar, non l’avrei mai fatto. D’altronde mia madre sarebbe andata su tutte le furie. A proposito di mia madre. Non le avevo detto nulla della foto e cominciavo a credere di dovergliene parlare. Ma ogni volta che cercavo di cacciare fuori l’argomento mi tiravo indietro all’ultimo minuto. Non era una cosa facile da chiedere. Quella foto poteva essere qualcosa di importante, ma poteva anche essere qualcosa di stupido. Poteva anche solo essere una foto di mia madre da giovane. Avevo deciso. Ne avrei parlato con mio padre.

Non parlavo mai molto con lui, da piccola ci giocavo spesso, ma crescendo lui aveva cominciato ad allontanarsi. Ancora non capisco perché. Si era allontanato lentamente dal compimento dei miei dieci anni, se non ricordavo male. Erano passati due anni dal giorno in cui avevo avuto l’incidente, quindi la sua freddezza di sicuro non dipendeva dal fatto che ancora non ricordavo perfettamente ogni avvenimento capitato prima dell’incidente. Non sapevo perché, ma con gli anni mio padre cominciò ad allontanarsi sempre più, diventando quasi un estraneo ai miei occhi giovani. Non sapevo nulla di mio padre. A malapena ricordavo la data del suo compleanno. Non sapevo se lavorasse e che lavoro facesse, non sapevo se avesse amici, non sapevo quando fosse il suo anniversario di matrimonio con mia madre… non sapevo se amasse mia madre. Non sapevo nemmeno se amasse me. Eppure io gli avevo sempre voluto molto bene. Mi chiedevo sempre perché avesse cominciato ad ignorarmi come se fossi una mosca fastidiosa che vola intorno. Lo vedevo perdere la sua luce negli occhi sempre un po’ di più. Giorno per giorno lo vedevo spegnersi come una candela che si consumava sotto il calore della fiamma. Cominciai a pensare di aver “ucciso” io mio padre. Cominciai a pensare di essere io la causa delle tenebre nei suoi occhi. In fondo, se non era colpa mia, di chi?

Ero stata cresciuta dall’ipocrisia di mia madre e dall’assenza di mio padre. Ma non me ne lamentavo, in fondo non ero diventata una criminale, né una poco di buono. Anzi, ero una cantante famosa, avevo un ragazzo che mi amava, buoni amici e tutto sommato ero felice, nonostante il totale disinteresse dei miei genitori per la mia salute o per il mio stato d’animo.

Tolsi l’impermeabile, lanciandolo sulla sedia della scrivania, senza preoccuparmi minimamente di metterlo al suo posto nel mio armadio, se così si poteva chiamare. Quando ci avevo nascosto dentro Skandar, era quasi morto d’infarto, esclamando dopo “Accidenti, qua dentro c’è un mondo! Altro che Narnia…”. Risi al pensiero della sua faccia sbigottita. Lo avevo rassicurato, dicendogli che non li avevo comprati tutti io quei vestiti, che era stata mia madre per la maggior parte delle volte e poi spesso gli stilisti mi regalavano i vestiti come compenso per utilizzarli in pubblico come pubblicità.

Osservai un’altra volta la foto con la giovane donna sorridente e dopo aver preso un gran respiro infilai l’immagine nella tasca posteriore dei jeans neri, per poi uscire dalla stanza per dirigermi al piano di sotto. Purtroppo appena uscita dalla mia camera mi scontrai con John. Non avevo potuto licenziarlo perché non potevo dire a mia madre della sua “aggressione”. John era quindi rimasto a lavorare, ma cercavo di tenerlo il più lontano possibile da me.

Lui mi sorrise enigmatico e io aggrottai le sopracciglia cercando di capire cosa stesse a significare quell’espressione soddisfatta. Probabilmente notare la mia espressione infuriata e piana di risentimento nei suoi confronti non appena lo incrociavo gli dava qualche soddisfazione. Doveva essere masochista o qualcosa di simile.

Lo oltrepassai cercando di evitarlo, ma lui mi prese per il polso facendomi voltare verso di lui. Lo guardai con il fuoco negli occhi per poi sibilare tra i denti stretti: -Lasciami subito andare o urlo!

Lui non mi lasciò. Presi fiato, ma prima che potessi cacciare un urlo, lui mi attirò a sé, stringendomi in un abbraccio di ferro dal quale non potevo sfuggire in alcun modo.

Mi accarezzò i capelli con una mano e feci una smorfia di disgusto, per quanto mi fosse permesso, visto e considerato che avevo la faccia schiacciata contro il suo torace.

-Mi dispiace per l’altra volta, Lucy, non mi sono potuto trattenere – ammise a mezza voce, come se fosse una sofferenza troppo grande starmi accanto senza cercare di violentarmi come aveva fatto qualche giorno prima.

-Beh, che ti serva da lezione per trattenerti nel futuro – bofonchiai cercando di allontanarmi da lui, inutilmente.

Lui mi permise di allontanarmi un poco, ma solo per prendere il mio viso con una mano, alzandolo per poi fissare i suoi occhi strani nei miei. I suoi occhi così particolari facevano a pugni con i miei normalissimi, insulsi, occhi marroni. Invidiavo quelle iridi verdi e grigie, così belle e ipnotiche. E i capelli biondo grano contribuivano a donare ancora più effetto agli occhi mozzafiato che si ritrovava. Fortuna. Aveva avuto solo una fortuna sfacciata a nascere con quel bel faccino, altrimenti glielo avrei già distrutto. Ma non sapevo se lui ritenesse una fortuna avere quella faccia, visto e considerato che la ragazza che aveva tentato di violentare e che evidentemente gli piaceva (sì, sto parlando di me) non era intenzionata ad interessarsi a lui. Chissà se aveva capito che il problema non era il suo aspetto ma il suo carattere. Si era dimostrato gentile, premuroso e un ottimo ascoltatore, ma dopo quel fatidico pomeriggio avevo cancellato dalla mia testa tutti quei buoni aggettivi. Ormai ciò che pensavo vedendolo era: stupido maniaco.

-John, lasciami – dissi come se stessi dando un ordine ad un cane disobbediente

Lui aggrottò le sopracciglia mostrando un’espressione sofferente che quasi mi fece dispiacere di averlo trattato male. Ma subito mi ricordai di ciò che aveva tentato di farmi e la rabbia nei sui confronti tornò, reprimendo quel briciolo di gentilezza e compassione che avevano cercato di farsi strada nel mio cuore senza grandi risultati.

-Non riesci proprio a capirlo quanto mi dispiace? – chiese sempre con occhi languidi.

-No- risposi secca puntandogli i miei occhi accusatori addosso.

Lui sospirò abbassando un attimo il capo, per poi tornare a fissarmi negli occhi

-Lucy, ero mezzo ubriaco! Non ero del tutto consapevole delle mie azioni – fece una pausa e sospirò, prima di continuare – Se fossi stato sobrio non ti avrei mai fatto una cosa del genere. Io non ti ferirei mai…

Per un secondo mi colpì di sorpresa e spalancai un poco gli occhi, per poi cercare di tornare accigliata come prima. Era mezzo ubriaco? Per quello si era comportato a quel modo? In quel caso era tutto diverso, ma questo non cambiava il fatto che di lui non mi sarei fidata più, almeno non nel modo in cui mi fidavo prima.

“Io non ti ferirei mai”, già, lo dicevano tutti e alla fine riuscivano ugualmente a farti del male in un modo o nell’altro. Forse era una capacità speciale dei ragazzi quella di ferire le ragazze (amiche o fidanzate che fossero). Sì, doveva essere una caratteristica genetica di ogni essere di sesso maschile presente nella terra e forse anche oltre.

Sbuffai e con aria sufficiente dissi: -John, se quello che dici è vero allora non hai niente di cui scusarti e, soprattutto, non hai nessun motivo per trattenermi oltre. Quindi, gentilmente, lasciami – gli chiesi un’ultima volta, sperando che questa volta mi desse ascolto.

Lui lasciò cadere le braccia sui fianchi, come se si fosse ormai arreso all’evidenza. Mi rivolse un ultimo sguardo, per poi sospirare e scompigliarsi i capelli con aria confusa e stravolta. Un’espressione affranta troneggiava sul suo viso d’angelo e quasi mi fece venir voglia di scusarmi per le parole dure che gli avevo rivolto. Ma non potevo cedere così presto. Volevo bene a John e questo mi rendeva difficile tenergli il muso, ma non potevo dargliela vinta ogni volta che combinava qualcosa! Troppe volte lo avevo perdonato in passato, sebbene i piccoli disastri che combinava da adolescente non fossero nulla a confronto di quello che aveva fatto pochi giorni prima. Mi ricordo di un giorno in cui mi fece da babysitter. Aveva 18 anni e io 13. Beh, in sostanza aveva rotto per sbaglio un vaso, fatto quasi esplodere la cucina e gli era caduta la mia bambola di porcellana preferita dal quarto piano. Gli avevo portato rancore per mezza giornata al massimo, perché era riuscito subito a farmi tornare il sorriso. Non so come ne fosse capace, ma John riusciva sempre a farsi voler bene e qualsiasi cosa combinasse non si riusciva a essere in collera con lui. Almeno io. Io non ero mai riuscita ad avercela con lui per più di due o tre giorni al massimo.

Ma questa volta no. Doveva imparare che ogni azione ha le sue conseguenze, come ad esempio perdere la mia fiducia.

-Non c’è proprio niente che io possa fare per riconquistare la tua fiducia? – chiese passando di nuovo la mano tra i capelli dorati.

Sospirai e spostai lo sguardo da lui alla finestra, fissando il cielo per qualche secondo. Ebbene, voleva che io tornassi a fidarmi di lui? Ma come potevo dopo quello che era successo? Era ubriaco, certo, quindi non era completamente consapevole di ciò che stava facendo, ma in ogni caso non potevo perdonarlo del tutto. Per di più era ubriaco durante il suo orario di lavoro!

Sospirai, cercando di trovare una soluzione. Tutto pur di non veder più quella sua espressione da cane bastonato. Non ce la facevo proprio a vederlo così.

-Non ti ubriacare più e potrai di nuovo ronzarmi attorno come prima – vidi il suo viso illuminarsi, ma lo fermai prima che potesse dire qualsiasi cosa –Ma ad una condizione!

Lo vidi annuire come se avrebbe rispettato qualsiasi restrizione gli avessi imposto.

-Non dovremo stare mai più completamente soli. Se devi venirmi a portare il the in camera fallo portare a qualcun altro, oppure portalo su un carrellino, bussa alla mia porta e poi lascialo lì, insomma, scatena la tua fantasia. Ma mai più soli.

Lui sorrise, raggiante, come se fosse l’uomo più felice della terra –Mi sta bene, mi basta che siamo di nuovo amici.

Gli feci un piccolo sorriso, cercando di non sbilanciarmi. Poi mi venne in mente un'altra cosa che dovevo dirgli –Ah, un’altra cosa, John: il tuo silenzio per il mio. Se tu spifferi qualcosa a mia madre su Skandar, io le racconto tutto sul fatto che eri ubriaco sul lavoro e mi hai quasi violentata, ok?

Lui fece il gesto di chiudersi la bocca con un lucchetto per poi buttare la chiave alle sue spalle –Il tuo segreto è al sicuro con me, non ti tradirò – disse con un sorriso

“Sebbene tu abbia già tradito la mia fiducia”, pensai, ma non glielo dissi. Ma subito pensai che potesse leggermi nel pensiero, perché aggiunse di fretta: -Non questa volta

-Va bene – concessi – Possiamo riprovare. Scusa, ma ora devo fare una cosa importante. Sai dov’è mio padre?

-Tuo padre? Uhm, sì, mi sembra di averlo visto dormire sulla sua poltrona in soggiorno.

-Grazie, vado a vedere – dissi per poi tuffarmi giù per le scale.

Tirai fuori dalla tasca dei pantaloni la foto della bellissima donna che mi somigliava e la osservai qualche istante mentre scendevo le scale, cercando di non cadere. Scesi al primo piano, ma prima di poter andare fino in soggiorno, sentì il campanello della porta e visto che ero lì, decisi di andare ad aprire io stessa. Ma le persone che mi trovai davanti mi fecero quasi svenire. Non mi aspettavo di trovarmeli di fronte. Restai con gli occhi sgranati, la bocca spalancata e le braccia penzolanti sui fianchi come fossero spaghetti scotti. Ci volle qualche secondo perché mi riprendessi, animata dalle loro risatine. Poi la sorpresa lasciò spazio alla rabbia e alla paura

-Voi tre! Dannati! Cosa cavolo chi fate qui?!

Maya sembrò delusa e sporse il labbro inferiore e inarcò le sopracciglia –Pensavamo potesse farti piacere…

-Grazie, che gentili – dissi con un sorriso falso e un tono di voce smielato, per poi riprendere il tono accusatore di prima –Se mia madre trova qui Skandar, io vado alla forca! – dissi saltando sul posto e agitando le braccia come una pazza nevrotica.

Le loro risate però non mi fecero sentire meglio. Alzai gli occhi al cielo e li trascinai dentro, spingendoli velocemente verso le scale. A quanto pare la mia missione avrebbe dovuto aspettare.

Ancora con la foto in mano, corsi su per le scale, facendo segno a quei tre incoscienti di seguirmi. Mi scontrai con John e gli dissi, scrollandolo per le spalle: -Se arriva mia madre vieni subito ad avvisarmi e fai evacuare questi tre in massima segretezza. Soprattutto lui – dissi indicando prima tutti e tre e poi Skandar – Non importa se vede Maya e Will, basta che non vede Skandar, ok?

John mi sorrise e quasi rise per la mia reazione esagerata. Evidentemente nessuno capiva che mia madre era peggio di un mostro a sei teste indistruttibile ed immortale!

-Vi porto uno spuntino? – chiese cordialmente John, lisciandosi il completo da pinguino che mia madre gli imponeva.

Gli occhi di Maya si illuminarono e notando questo particolare alzai di nuovo gli occhi al cielo.

-Va bene, tutto quello che vuoi, svaligia la cucina. Andiamo! – incitai poi Will, Maya e Skandar.

Li spinsi nella prima stanza del mio piano, ovvero il guardaroba.

Il primo commento di Will fu quasi come quello di Skandar la prima volta che lo avevo nascosto lì.

-Oddio… anche tu hai un armadio che porta a Narnia! – disse guardandosi attorno.

Maya invece cominciò a lanciare piccoli gridolini, esplorando tutto il mio guardaroba, tirando fuori vestiti e poggiandoseli addosso, borbottando cose come “magari me lo può prestare”. Ma io non prestavo loro attenzione, ero troppo occupata. Sì, perché appena entrati Skandar mi aveva sospinta contro un muro e mi aveva baciata a tradimento, perfettamente conscio del fatto che avevamo qualche minuto per noi, visto che Maya e Will sarebbero rimasti incantati dall’armadio e avrebbero preso a girare tra i vestiti, dimenticandosi di noi.

Era così tanto che non vedevo Skandar e trovarmelo all’improvviso davanti a casa mi aveva sorpreso. Il problema era sempre lo stesso: il boss. Sarei praticamente morta se avesse trovato Skandar in camera mia o nel mio armadio o in qualsiasi altra stanza della casa.

Mi chiedevo perché lo odiasse tanto. In fondo non era mica stata completamente colpa sua quell’incidente. Anche mio padre aveva una parte di colpa! Se non avesse perso il controllo dell’auto non sarebbe successo nulla, non avrei perso la memoria, non avrei perso Skandar e tutto il resto della mia vita. Chissà quante altre persone avevo dimenticato e ancora non sapevo della loro esistenza. Ma in quel momento non volevo preoccuparmene, volevo solo godermi quel bacio e il tocco caldo di Skandar sui miei fianchi.

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