Trash, spazzatura

di joellen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** LE SPEDIZIONI ***
Capitolo 3: *** IL CLAN ***
Capitolo 4: *** Un giorno da non dimenticare ***
Capitolo 5: *** OSPITI ***
Capitolo 6: *** AREA 51 ***
Capitolo 7: *** IL PIACERE DI COMUNICARE ***
Capitolo 8: *** IL NASO FUORI CASA ***
Capitolo 9: *** SPIRAGLI ***
Capitolo 10: *** C'E' NESSUNO IN GIRO? ***
Capitolo 11: *** COME AMMINISTRARE I VISITATORI ***
Capitolo 12: *** VERSO NORD ***
Capitolo 13: *** PRIME NOTIZIE DAL PASSATO ***
Capitolo 14: *** LA CONFERENZA ***
Capitolo 15: *** IL GRANDE FRATELLO NON GUARDA ***
Capitolo 16: *** RICERCA DI CONTATTI ***
Capitolo 17: *** FINALMENTE, DI NUOVO ***
Capitolo 18: *** QUI, TERRA. C'E' NESSUNO LA' FUORI? ***
Capitolo 19: *** VERSO LA SIBERIA ***
Capitolo 20: *** VISITA A WASHINGTON, 1a parte ***
Capitolo 21: *** VISITA A WASHINGTON 2a parte ***
Capitolo 22: *** ULTERIORI FRAMMENTI DI VERITA' ***
Capitolo 23: *** LA VENDETTA E' UN PIATTO DA SERVIRE FREDDO ***
Capitolo 24: *** POCHI MINUTI DI FUOCO ***
Capitolo 25: *** RISVEGLIO ***
Capitolo 26: *** ATTESE ***
Capitolo 27: *** RITORNO ALLA VITA ***
Capitolo 28: *** ATTACCO ALLA TERRA ? ***
Capitolo 29: *** CONTRATTACCO ***
Capitolo 30: *** LA TERRA SI SALVERA'? ***
Capitolo 31: *** PREPARATIVI PER IL RIENTRO ***
Capitolo 32: *** PARTENZA ***
Capitolo 33: *** FINESTRA APERTA SU ARIEL ***
Capitolo 34: *** UN SECOLO PRIMA ***



Capitolo 1
*** prologo ***


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Prologo

 

Terra,  anno 2100

 

Il piccolo drone sorvolava leggero e veloce l'area programmata nella sua memoria in cui le immagini venivano via, via registrate ed inviate automaticamente alla base per tenere lo staff costantemente informato della perlustrazione.

 

 

Pianeta Beta 1

 

E alla base, su schermo panoramico, i membri dello staff scientifico seguivano il filmato con silenzioso interesse. Sul grande televisore si susseguivano le immagini di un vasto territorio, paesaggisticamente molto vario nel suo alternarsi di aspre e aride montagne, valli, gole in cui scorreva acqua, ampie spianate, che una volta avevano ospitato centri urbani di cui però sembravano esserci rimaste solo rovine, e che ora apparivano costellate a macchia di leopardo di grosse carcasse ferrose, arrugginite.

Due dei componenti dello staff, vicini di scrivania, si girarono l'uno verso l'altro e si scambiarono occhiate d'intesa.

"Direi che è il posto ideale" dichiarò uno dei due.

L'altro annuì.

"Prepariamo la spedizione" propose.

"Come si chiama il pianeta?" chiese il primo.

Il secondo gettò un rapido sguardo alla mappa stellare.

"Terra" rispose soddisfatto.

 

 

 

A migliaia di chilometri, un altro drone sorvolava a velocità non eccessivamente elevata la distesa verde costituita dalle chiome degli alberi che, vicini l'un all'altro, formavano quasi uno strato protettivo del terreno sottostante, visibile a tratti attraverso i pochi spazi lasciati dal manto arboreo.

 

 

Pianeta Ariel

 

Nella grande sala di controllo Elai Heron seguiva attento le immagini che si susseguivano sul mega schermo, discretamente coperte in basso da tabelle fitte di dati su sfondo blu scuro. Heron compì qualche passo in avanti piazzandosi dietro la sedia di una sua collaboratrice che si girò rifilandogli un'occhiata veloce ma compiaciuta.

"Ne avremmo anche per i nostri figli" commentò la donna.

"Ne avremmo almeno per altre quattro generazioni" replicò Heron, trionfante.

"Comincio ad organizzare il viaggio?" azzardò un giovane seduto a tre postazioni sulla destra.

"Sei ancora lì?" lo redarguì Heron allegramente.

Il giovane scattò in piedi, lasciò la sua postazione e uscì dalla sala.

"Come si chiama il pianeta del tesoro?" chiese Heron alla donna seduta davanti a lui.

"Terra, comandante" rispose lei, pronta e professionale, questa volta senza voltarsi.

"Bene. - commentò Heron - E' la nostra speranza".

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Capitolo 2
*** LE SPEDIZIONI ***


1)  LE SPEDIZIONI

 

 

 

Terra, anno 2108

 

L'imponente cargo, nero e articolato al punto da assomigliare ad un grosso insetto, atterrò piuttosto rumorosamente sulla sabbia sollevandone una grossa nuvola che parve avvolgerlo per qualche secondo, tuttavia, in realtà, nessuno lo sentì arrivare non essendoci anima viva negli immediati dintorni dell'area di atterraggio.

Almeno così sembrò ai due componenti dell'equipaggio che scesero dall'astronave per dare un'occhiata nei dintorni.

La zona era caratterizzata da terreno arido e sabbioso, circondato da strane alture stratificate come fossero state composte da fette di roccia poste una sopra l'altra, talvolta anche in modo non uniforme. Ai due l'area parve perfetta per lo scopo e, considerato ciò, rientrarono nel veicolo per dare il via all'operazione di scarico della merce. Dall'interno dell'apparecchio scivolò automaticamente la pedana dalla quale cominciarono a scendere enormi containers grigio scuro seguiti da esseri umani in uniforme e caschi verdi che manovravano i carrelli su cui i containers si muovevano con apparente facilità. Ma, scaricato l'ultimo, contro uno dei primi, già sistemati sulla spianata polverosa, giunse da fonte ignota un lungo raggio luminoso che lo incendiò con un boato.

"Oh no! - esclamò uno dei manovratori - Il Clan!".

Tutti gli operatori rientrarono nell'astronave e il comandante ordinò loro di porsi ai posti di combattimento. Da dietro le alture partirono altri raggi luminosi rossi e azzurri, questa volta diretti sul veicolo, ma anche da esso uscirono altri raggi verso le alture. Seguì uno scambio fittissimo di raggi variamente colorati, molti dei quali andarono a segno senza badare troppo alla natura del bersaglio, provocando grida disumane di coloro che ne erano colpiti, e che morivano carbonizzati, e incendi apocalittici dei containers, nonché di gran parte dell'astronave che rimase danneggiata in modo quasi irreparabile e, pochi minuti dopo, distrutta dall'ultimo fascio di raggi letali.

Dietro le montagne, un altro veicolo si alzò in volo dirigendosi verso lo spazio infinito, lasciando su quell'area, arida e desolata, cadaveri e carcasse fumanti.

"Così imparano a capire chi esercita il diritto" sentenziò il capitano, lanciando un ultimo sguardo torvo dell'occhio senza benda,  sullo sfacelo che aveva appena causato.

"Ben detto, Capitano" approvò un suo sottoposto, alzando l'indice della mano destra per sottolineare il suo accordo con la dichiarazione.

 

 

 

Da un ultimo controllo sulle mappe stellari, la Terra risultava completamente disabitata e, seguendo le immagini che scivolavano l'una dopo l'altra sul grande schermo nella sala comando dell'astronave, Elai Heron si sorprese a domandarsi come mai un pianeta così ricco di vegetazione, come quella che si vedeva sullo schermo, non potesse ospitare forme di vita, anche semplici, ma tant'era. Le ricerche in merito, effettuate nei mesi e negli anni precedenti la decisione di organizzare un viaggio verso quel pianeta, avevano dato quei risultati: sulla Terra sembrava non esserci vita. In compenso, erano state rilevate quantità inimmaginabili di uranio, plutonio ed altri preziosi minerali utili al fabbisogno di Ariel che andava avanti ad energia nucleare per via della lontananza dal suo Sole.

Ariel poteva essere definito un pianeta artificiale, ovvero: quasi interamente costruito da opera umana, dopo che il rimanente della razza biologica era stato costretto a trasferirsi lì dal pianeta originario il quale, colpito da un meteorite che ne aveva spostato l'asse e l'orbita, si era avvicinato troppo al Sole per consentire una continuazione della vita su di esso.

Su Ariel, la vita era ricominciata con le aree urbane incapsulate sotto cupole di vetro realizzate appositamente per incamerare più calore possibile dalla poca energia che proveniva dal Sole lontano, e alimentate da centrali nucleari a fusione fredda, tenute però fuori dalle città per assicurare gli abitanti da qualunque eventuale incidente che, tuttavia, per fortuna, non si era mai verificato. Ma su Ariel, la materia prima per far funzionare le centrali non era molta e stava esaurendosi. Se non si fosse provveduto ad un rifornimento, le zone vitali del pianeta si sarebbero spente destinando il pianeta a morte certa, per sempre.

I pensieri di Heron furono interrotti da uno dei membri dell'equipaggio che lo avvertì di aver trovato, finalmente, una buona area di atterraggio. Ridestandosi dal suo viaggio mentale, Heron impartì gli ordini per la manovra.

Elai Heron e i suoi uomini - ma anche donne - non tornarono mai più su Ariel.

L'astronave si disintegrò in un'esplosione apocalittica ancor prima che mettessero piede sul suolo terrestre e, ovviamente, non poterono mai riferire che la Terra non era completamente disabitata come era risultato dalle ricerche e dalle mappe stellari.

 

 

Nella sala del Centro Operativo di Novosibirsk, in Siberia, quattro persone: due uomini e due donne, seguirono la scena attraverso un ampio schermo televisivo che occupava una parete. Al termine, quando dall'apparecchio si levò l'ultimo filo di fumo, il colonnello Antonov ruppe il silenzio.

"Vediamo un pò se la smettono di venirci a rompere l'anima! - esordì, seccato e rancoroso - Cosa vogliono fare? Hanno preso la Terra per una discarica?".

 

 

 

 2) IL RITORNO

 

 

Ariel, 2110

 

Prima di partire, Al Heron volle andare a far visita ad Adoniesis, vecchio saggio della città, amico di famiglia, che abitava dall'altra parte del centro abitato. Aveva la tempesta nel cuore; sapeva che, molto probabilmente, il vecchio non sarebbe stato in grado di placarla, ma era sicuro che qualche sua parola sarebbe stata sufficiente per calmare un poco il vento.

Era una bella giornata e i raggi del Sole lontano riuscivano comunque ad arrivare alla grande cupola che copriva la città, riparandola dalle pur esigue scorie radioattive, regalando agli abitanti un piacevole tepore. La vettura elettrica a cuscinetto filava via veloce sull'asfalto liscio dell'ampia strada che collegava i quartieri di Momex, la città dove Al risiedeva da quando lui e la sua famiglia si erano trasferiti sul pianeta. Come tutti gli altri agglomerati urbani del piccolo pianeta, anche Momex era una successione di quartieri eleganti, con begli edifici circondati di vegetazione lussureggiante, ed altri più popolari, ma non squallidi. Adoniesis viveva in un quartiere periferico, mediamente popolare, in una piccola casa circondata da un bel giardino curato e, quando Al arrivò davanti al cancello della sua abitazione, il vecchio stava annaffiando le piante già fiorite.

Adoniesis fu felice di vedere il giovane uomo, ma si accorse subito dall'espressione scura del volto, che era profondamente turbato. Lo fece entrare nel suo rifugio costituito quasi interamente da un'unica ampia stanza, tuttavia molto illuminata da 3 finestre che sembravano essere state costruite apposta per far entrare più luce possibile. Si accomodarono: uno su un divano a due posti, l'altro su una comoda poltrona foderata di stoffa color caffè e restarono circa un minuto in silenzio, Adoniesis a scrutare Al con aria severa, ma preoccupata.

"Hai paura, ragazzo?" gli domandò paternamente.

Al fissò il volto segnato dagli anni dell'amico, addolcito da due piccoli occhi grigio chiaro dallo sguardo indagatore, ma buono.

"Non lo so" rispose Al, quasi monocorde.

Adoniesis fissò il giovane uomo.

"Ne avresti tutte le ragioni. - asserì - E' un'incognita per te dopo quel che è accaduto a tuo padre".

"Non posso rinunciare. - dichiarò Al, accorato - Glielo devo".

"Si, - ribatté Adoniesis in tono comprensivo - ma non pensare alla vendetta! - si fermò un attimo, poi riprese - Non pensare solo alla vendetta. - gli consigliò sottolineando l'avverbio "solo" con la voce. -  Tu stai partendo anche per salvare il nostro mondo".

Al annuì stancamente.

"Già" confermò, laconico.

Adoniesis si alzò dal divano,  si avvicinò al giovane e gli batté una mano su una spalla.

"Pensa a questo, Al. - ribadì - Pensa soprattutto a questo".

Come Al aveva pronosticato, la tempesta nel suo cuore non era cessata, ma la voce e le poche, semplici parole di Adoniesis avevano diminuito di molto la forza del vento che fischiava impetuoso nel suo animo.

Tornò a casa e cominciò i preparativi materiali e spirituali per la partenza, cercando di concentrarsi sulla salvezza del suo pianeta. In una nicchia della parete, nel suo studio sopra la scrivania, uno schermo proiettava di continuo le fotografie di lui con suo padre Elai e del mondo che avevano dovuto lasciare. Sotto lo schermo, un piccolo candelabro di vetro reggeva una lampadina a goccia che emanava una flebile luce azzurra, quel tanto sufficiente per illuminare l'immagine sacra di un uomo anziano dallo sguardo chiaro, calmo e solenne. Aveva sempre sentito dire che esisteva, ma non l'aveva mai visto e, da tempo, dubitava ormai della sua esistenza, visto che non aveva compiuto il miracolo di proteggere suo padre dal pericolo mortale in cui era incorso, senza favorirne il ritorno.

Chi doveva pagare l'avrebbe pagata per mano sua, ma bisognava anche procurare il carburante per continuare a vivere.

Ariel, astroporto

 

All'arrivo di Al Heron all'astroporto, i graduati più alti del suo equipaggio lo salutarono con deferenza ma anche con la gioia di vederlo, specialmente l'elemento femminile. Al Heron era decisamente bello anche quando non era in vena di sorridere come in quel momento, malgrado lo sforzo che fece per strapparsi un sorriso: 40 anni, ben oltre il metro e ottanta di altezza, capelli corti castano chiaro, occhi di un azzurro intenso, corpo scolpito da una prolungata e costante attività fisica, ben messo in risalto dall'uniforme blu scuro della Flotta Interstellare;  viso dai bei tratti regolari, tuttavia non effeminati, piglio risoluto di chi comanda e sa farlo nel migliore dei modi.

"E' tutto pronto, capo" ebbe il piacere di annunciargli il Comandante in Seconda, Granya Addok, 36 anni distribuiti in circa 1, 70 cm d'altezza di fisico snello, chioma corvina dai riflessi blu, curiosamente emanati anche dalla sua carnagione quasi bianca, su cui s'intravedevano delicati i lineamenti orientaleggianti, e dagli occhi neri oblunghi, caratteristiche tipiche della razza Omneris degli Oceani, proveniente dal vecchio pianeta.

Heron si fermò e salutò in silenzio tutti i componenti del suo equipaggio, chinando appena la testa e da essi ricevette il medesimo saluto.

"Bene. - esordì poi - Vediamo se riusciamo a trovare un pò di cibo per il nostro povero mondo affamato".

I componenti dell'equipaggio sorrisero, ma non per dovere. Amavano il Comandante Heron, come avevano amato suo padre Elai, almeno quelli che avevano avuto la fortuna di averlo conosciuto; coloro che si erano salvati non essendo partiti con lui per la sua ultima missione.

"Distruggeremo quel pianeta, Comandante! - tuonò minaccioso un giovane ufficiale - Uccideremo tutti e vendicheremo suo padre!".

Contrariamente alle sue aspettative, il giovane ufficiale ricevette da Heron una bruttissima occhiata.

"Non distruggeremo un bel niente, Ollen. - ringhiò il Comandante - Quel pianeta ci serve intero, altrimenti qui moriremo tutti. Riguardo agli abitanti.... - si fermò un attimo e assunse un'espressione vaga, rammentando le parole sagge di Adoniesis - quando arriveremo là decideremo sul da farsi. Se non avete nient'altro da dire, direi di alzare i tacchi".

Ci fu un battito di tacchi all'unisono dopo il quale, ad un comando impartito da un dispositivo in mano a Al, la grande astronave aprì lentamente le sue fauci per inghiottire il suo equipaggio che, una volta all'interno, si sistemò nelle cellette ad animazione sospesa al fine di affrontare il lungo viaggio fino alla Terra, preservando in quel modo l'integrità fisica ed organica dei corpi.

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Capitolo 3
*** IL CLAN ***


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3) IL CLAN

 

Spazio, ultima frontiera.....

Oltre alla celebre opening della storica serie televisiva fantascientifica STAR TREK, la frase era più o meno il primo pensiero che nasceva nella mente di chi per caso, solcando le invisibili vie dello spazio, si fosse trovato a passare presso il piccolo sistema solare Alpha 1, costituito da 5 pianeti, di cui la superficie dei satelliti quasi non si vedeva più, celata da uno schermo debolmente lucente di detriti di tutti i generi, orbitanti come automi stanchi attorno ad essi. Se poi si aveva la ventura di scendere sul suolo di detti satelliti, ci si ritrovava con strati di altri detriti ferrosi, ferruginosi, arrugginiti, che potevano arrivare anche fino al punto vita di un essere umano....

Colui, o coloro che si fossero trovati ad atterrare in simili posti, si sarebbero chiesti, appunto, in quale misero angolo dell'universo fossero finiti....

 

 

 

Pianeta Beta 1

 

Chi invece non se lo chiedeva (più) era lo staff componente l'equipaggio del grosso cargo scuro che da Beta 1 era decollato da alcune ore in direzione Terra, l'ultima speranza di trovare ancora qualche metro quadro libero per poter depositare ciò che ormai non stava più né su Beta, né sui satelliti, né in alcun altro angolo del sistema solare e della galassia.

Sul loro mondo, l'evoluzione tecnologica era stata talmente veloce da provocare un accumulo esagerato di materiale metallico, non immediatamente smaltibile, che aveva costretto gli abitanti, non molto inclini a sbarazzarsi subito dei vecchi modelli, a creare depositi su depositi per poter accatastare tutto l'antiquariato e il modernariato industriale che si era venuto ad ammucchiare nel corso degli ultimi anni, colpa anche del carattere nostalgico dei Betani, i quali amavano conservare ogni singolo oggetto come testimonianza delle tappe segnate dal progresso della popolazione.

Se si camminava per le strade delle città di Beta, ogni cinquanta, cento metri s'incontravano negozietti, bottegucce e banchetti in cui erano esposti modelli di computers, cellulari, portatili e altri elettrodomestici di ogni foggia, colore ed epoca, messi in bella mostra per invitare gli abitanti ad acquistare, anche solo per pochi cents, gloriosi reperti che dimostravano l'evoluzione cerebrale della specie. Ma negli ultimi tempi, quelle "sirene" non incantavano più nessun compratore, ormai sepolto da strati di progresso metallurgico ed elettronico.

 

Nonostante la mole, il cargo scivolava silenzioso nello spazio come se stesse procedendo spedito su rotaie invisibili, dritto, filato verso la Terra. L'equipaggio addormentato non vide un veicolo più piccolo avvicinarsi a freccia verso di esso. Ma i sensori distribuiti nelle intercapedini delle pareti, all'interno del veicolo, avvertirono quell'avvicinamento e cominciarono a trasmettere impulsi di avviso, incanalati poi nei cavi che arrivavano alle celle di animazione sospesa in cui i componenti dell'equipaggio riposavano. Conor Ukkoos aprì gli occhi per primo e azionò l'apertura del coperchio della sua cella. Una volta fuori, sbandando leggermente a causa del lungo periodo di inattività fisica e psichica, raggiunse il primo monitor a disposizione e lo accese.

Quando l'immagine che lo schermo restituì fu chiara, desiderò che non lo fosse stato. Desiderò non vedere quel che stava vedendo. Ma ormai era troppo tardi. Il "suo"cargo era stato agganciato e bloccato da una delle astronavi piccole e scure del famigerato CLAN, un'organizzazione spaziale malavitosa, composta da individui provenienti da vari pianeti - inclusi Beta 1 e Ariel -, che campavano di rapine e di ricatti.

"Vuoi arrivare vivo e con la pancia piena fino alla Terra? - gracchiò, sprezzante, il capitano dell'astronave nemica, riempiendo il monitor con la sua faccia larga e segnata dagli innumerevoli sfregi che marcavano la sua vita costellata di battaglie, duelli, scontri corpo a corpo e incidenti dai quali, non si era mai saputo come, era sempre uscito, anche più morto che vivo, ma sempre uscito - C'è bisogno che ti ricordi cosa devi fare o te lo devo ricordare anche adesso?".

Ukkoos fremette di rabbia. Contro il CLAN c'era poco da fare se si voleva sopravvivere. E quello spregevole individuo, assieme alla sua ciurma di criminali, era lì, intenzionato ad ottenere due cose in alternativa: la merce o il denaro per proseguire e far proseguire il viaggio alle vittime.

Quegli sgradevoli incontri si ripetevano ormai da anni, cioè, da quando era iniziato il trasporto dei detriti fuori dall'orbita dei pianeti invasi. Quella gentaglia aveva trovato un ottimo sistema per vivere a spese del prossimo. Ma Ukkoos decise che non sarebbe più stato a quel tipo di ricatto e, non visto, lanciò un allarme premendo con un piede un pulsante sul pavimento, rammentando improvvisamente che prima di lui nessuno era mai riuscito a farlo senza morire. Perché lui era riuscito a farlo e gli altri no? Semplice: i componenti del CLAN erano diventati così sicuri di spaventare le loro vittime con la loro sola presenza, e spavaldi, da non cercare più la lotta fisica e la battaglia, limitandosi a scontri verbali. Ukkoos non aveva la certezza matematica che il suo appello avrebbe potuto avere una risposta, ma ci aveva provato. Ed ora era pronto alla seconda fase, ovvero: la maledetta trattativa con i delinquenti.

Nel frattempo, anche gli altri del suo equipaggio erano usciti dalle celle di animazione e fissavano afflitti la facciona sfigurata del brigante che li guardava a sua volta, attraverso lo schermo, col tipico ghigno sfrontato di chi è certo della vittoria.

Sganciarsi dal veicolo dei criminali era praticamente impossibile. Questi avevano trovato il modo di bloccare le astronavi, anche le più grosse, con la forza di attrazione di grandi calamite che non permettevano il benché minimo movimento fuori dal fascio attrattivo. E non mollavano finché non avevano ottenuto ciò che chiedevano. Nel peggiore dei casi facevano saltare i mezzi dei resistenti, ma negli ultimi tempi non erano più ricorsi a questi metodi estremi, avendo capito che in questo modo anche loro andavano a perderci, quindi, l'incontro/scontro con la banda del CLAN si risolveva spesso, purtroppo, in estenuanti trattative.

"Quanto vuoi?" chiese infatti Ukkoos, freddo e laconico.

Gangu - questo era il nome del comandante del veicolo del CLAN - torse bocca, già storta, e faccia in una smorfia di spocchiosa sufficienza che provocò un ulteriore, seppur contenuto e silenzioso, moto di rabbia nell'animo del capitano di Beta 1.

"Sai come funziona, no? - replicò Gangu, mellifluamente, disgustosamente calmo - Metà della pappa così com'è o in altro metallo dal suono più dolce". E Ukkoos sapeva che, di solito, la prima alternativa era la più conveniente. Non si viaggiava mai con denaro e, oltre tutto, con certi personaggi circolanti, le transazioni finanziarie erano sempre un rischio. I membri del CLAN trovavano spesso scuse e trucchi per ottenere più denaro possibile, anche in quantità di molto superiore all'effettivo valore della merce.

Ma era proprio a questo punto che l'inganno più grosso veniva messo in scena.

Il CLAN non si accontentava di prendersi la merce e andarsene.

No.

Le loro astronavi mantenevano arpionate quelle delle vittime con le calamite e si facevano trainare fino a destinazione risparmiando sul carburante, costringendo invece i mezzi degli avversari ad un consumo doppio a causa del traino. Il massimo dello sfregio e del disprezzo nei confronti di qualunque altro essere umano.

Tuttavia, i malviventi non avevano idea di cosa li stesse aspettando dietro l'angolo.

Il cargo riprese tristemente il viaggio verso la meta con la zavorra attaccata a poppa e il sangue dei componenti dell'equipaggio che ribolliva dalla rabbia per l'impossibilità di reagire.

 

 

 

 

 

 

4) UNA DECISIONE TERRIBILE

 

Immagini confuse di scene di panico e disperazione nelle quali individui di vario aspetto si assalivano, assalivano e venivano assaliti da altri individui che non sembravano avere più remore ad uccidere, si sovrapponevano l'una sull'altra come in un video montato con frequenti transizioni di dissolvenza incrociata. Al Heron si vedeva poco più che bambino, poco meno che adolescente, stretto al fianco di suo padre, che lo rassicurava:

"Non ti preoccupare, Al. - gli diceva l'uomo, dolce - Ce ne dobbiamo andare, ma andremo a star meglio, vedrai". Poi, non sapeva come, davanti a lui e tutto intorno, si levavano alte fiamme e lui si trovava a correre in mezzo a quell'inferno di fuoco, uscendone stranamente e miracolosamente illeso. Subito dopo, di solito, si svegliava di colpo, in un bagno di sudore, ma non riusciva a ricordare altro di quello strano, ricorrente, tremendo sogno.

 

 L'elegante lunga freccia argentea solcava velocissima lo spazio nero verso la Terra.

All'interno, il silenzio irreale e palpabile del riposo in cui galleggiavano gli occupanti dell'astronave nelle loro celle fu interrotto con discreta fermezza dagli impulsi del sistema di comunicazione che stava ricevendo un messaggio di soccorso.

E l'ultimo impulso giunse alla mente e al corpo immobile del comandante Heron sotto forma di piccola e leggera scossa elettrica che fece fremere le sue membra svegliandolo di soprassalto dal suo sonno e dal suo consueto incubo. Sentendosi, come sempre, immerso in una vasca di sudore ma, tutto sommato, libero dal sogno, Heron aprì un occhio e guardò oltre il vetro brunito sopra di lui. Sbatté le palpebre per schiarirsi la vista e qualche secondo dopo il coperchio della cella di animazione sospesa si aprì automaticamente da solo, invitandolo in modo subdolo ad uscire dalla "cuccia" per andare a vedere cosa stava succedendo. Per quanto il macchinario fosse sofisticato, i circuiti di un computer non arrivavano sempre a capire che avrebbe potuto trattarsi di un inganno o di un falso allarme, ma Heron sapeva che, in ogni caso, quando il sistema di comunicazione riceveva un messaggio di richiesta di aiuto, in qualche modo, bisognava almeno scoprire se di inganno si trattava.

Il comandante uscì dalla cella, si stiracchiò per sciogliere i muscoli rattrappiti dalla prolungata inattività, uscì anche dalla stanza del "lungo riposo" e mentre compiva queste azioni, le luci nell'astronave sembrarono accendersi a "domino", una dopo l'altra al suo passaggio, come se ogni suo movimento attivasse ciascuna delle funzioni del veicolo. L'orologio al polso destro rinnovò il promemoria del motivo che lo aveva destato dal suo sonno indotto. Una lucina rossa indicava richiesta di aiuto. Col polpastrello dell'indice destro, Heron sfiorò la superficie vetrosa dell'oggetto facendo comparire sul display la parola AIUTO in una lingua che non conosceva ma che il traduttore simultaneo tradusse nella sua. Era davvero una richiesta di soccorso o era una trappola? L'avrebbe saputo presto e se così fosse stato non ne sarebbe rimasto nemmeno troppo sorpreso. Nel corso di quei viaggi, eventi del genere non erano una novità.

In sala comando, tuttavia, apprese qualcosa che gli fece piacere.

Non erano lontani dalla destinazione.

Lo schermo acceso gli mostrò lo spazio e i dati riguardanti il percorso già coperto e quello ancora da coprire. La Terra era già visibile, sebbene in formato puntino sul radar.

Ma un altro schermo gli mostrò altri dati meno piacevoli: quelli concernenti la richiesta di aiuto, e a sinistra dello schermo, nell'area rotonda del rilevatore, apparvero due cerchi di cui il secondo più piccolo del primo in ordine di comparsa. Heron fissò lo sguardo sullo schermo, avvertendo misteriosamente crescere una certa ansia nell'animo. In quel momento, nella sala fecero il loro ingresso Addok e Ollen.

"Comandante. - esordì il giovane ufficiale - Che succede?".

"Sembra che qualcuno abbia bisogno di noi" rispose Heron in apparente buon umore.

"Non sarà una trappola?" osservò Ollen, diffidente.

"Lo sapremo presto, credo. - rispose Heron - Ben svegliati" concluse girandosi verso di loro e abbozzando finalmente un mezzo sorriso. A distanza di pochi secondi, uno dopo l'altro, entrarono in sala anche gli altri tre dell'equipaggio: due donne ed un uomo.

Trascorsero probabilmente cinque minuti allorché all'angolo sinistro dello schermo più grande fece capolino la punta di un veicolo spaziale che procedeva a buona velocità ma non eccessiva permettendo così ad Heron e il suo equipaggio di sapere cosa li aveva svegliati.

Nervi e muscoli dei sei occupanti l'astronave si tesero in contemporanea nel momento in cui la massiccia nave spaziale si rivelò in tutta la sua possanza, avanzando quasi con fatica, seguita da un altro mezzo che la teneva "ancorata" ad un magnete. I sei impiegarono pochissimi secondi a capire la situazione.

"Oh no! - mormorò Heron vedendo la scena - Il CLAN! Tutti ai posti di combattimento!" ordinò ad alta voce. Si disposero tutti e sei nelle loro postazioni, con le dita pronte a premere i pulsanti giusti.

Le due astronavi procedevano ad una certa distanza dal veicolo di Heron, ma un raggio che fosse partito dalla nave del CLAN avrebbe disintegrato il suo gioiello. A quel che capì di trovarsi di fronte, Heron sentì la colonna vertebrale attraversata da un lungo, potente brivido e si sentì posto davanti ad una decisione tremenda: sparare sul mucchio e distruggere entrambe le astronavi ! Il CLAN non perdonava! Avvertì fisicamente l'intensità degli sguardi degli altri suoi compagni di viaggio conversi su di lui. Non possedeva facoltà psichiche; non era in grado di leggere nel pensiero altrui, ma in quel momento non era difficile immaginare cosa gli altri stessero pensando. Salvare l'equipaggio dell'astronave attaccata dal CLAN avrebbe voluto dire essere poi aggrediti dai criminali nel peggiore dei modi. Anche Heron sapeva che i delinquenti del Clan non uccidevano più nello spazio, ritenendo più conveniente essere "accompagnati" a destinazione, salvo poi sterminare le vittime una volta atterrate nel pianeta, ma non accettava di sottostare alle condizioni di quegli sciagurati. Essendo la ricerca di uranio e materiali radioattivi lo scopo del viaggio che aveva intrapreso, la sua astronave non  aveva carico nella stiva, tuttavia lo avrebbe avuto dopo, e il Clan gli avrebbe chiesto il "contributo" per la salvezza dell'equipaggio e del carico. Fu assalito da un dubbio atroce: e se suo padre fosse morto proprio per questo motivo? Se anche lui avesse incontrato il CLAN? Se non avesse accettato il loro ricatto? Gli era stata riferita la modalità della sua morte, ma non la causa. I secondi successivi passarono lentissimi come se tutto intorno a lui avesse perso peso, spessore e velocità. Gli sguardi dei membri dell'equipaggio lo stavano trapanando in attesa di una sua decisione, di un suo ordine. Poi, un evento lo scosse dal torpore. Il grosso volto sfregiato, la testa pelata e la voce gracchiante, uscita dalla bocca deformata del capo banda, lo scrollarono dall'impasse.

"Ci vediamo sulla Terra, vecchio mio!".

"Non esserne troppo sicuro" si sorprese a rispondere Heron, glaciale ma con il fuoco della rabbia dentro di sé. Granya Addok si era girata verso di lui e lo fissava tanto che lui si sentì radiografato dal suo sguardo scuro e obliquo. A sua volta, Heron si girò verso di lei.

Silenzio siderale nel vero significato del termine.

Le due astronavi unite scivolarono e cominciarono ad allontanarsi.

L'ultima immagine che apparve sullo schermo fu il volto magro, teso, ma fiero e composto di quello che doveva essere il comandante del cargo il quale scrutò Heron nella sua muta richiesta di soccorso, la cui risposta, forse, già conosceva e si aspettava quasi come una liberazione.

Un minuto dopo, a debita distanza e giusta posizione, la volta nera del cielo fu rischiarata da un gigantesco lampo di luce dopo il quale Heron abbassò la testa per non vedere.

Era consapevole di aver ucciso degli esseri umani, fra i quali anche degli innocenti, ma la testa del mostro era stata staccata e distrutta. Non che l'azione in sé avrebbe del tutto risolto il problema, tuttavia, senza la testa, senza più i capi dell'organizzazione, il mostro del CLAN  avrebbe perso molto del suo potere.

Heron teneva ancora lo sguardo basso quando l'ufficiale Ollen lasciò la sua postazione per avvicinarsi a lui.

"Dovevamo farlo, comandante" giustificò l'atto, serio e compreso.

Heron rialzò la testa e tornò a guardare lo schermo ora riempito solo di punti luminosi.

"Già. - asserì, scuro in faccia e con timbro profondo della voce - Dovevamo farlo".

Nessuno degli altri si pronunciò né a favore, né contro la decisione del loro superiore e non per paura. Tutti erano stati addestrati a prendere provvedimenti drastici nelle occasioni in cui fosse stato necessario. E quella era stata una delle occasioni. Heron si concentrò ed esercitò tutto il potere di persuasione di cui era capace su se stesso per convincersi che perfino il comandante del cargo gli aveva tacitamente chiesto di farlo pur di non dover sottostare ai vili ricatti di quegli esseri abominevoli, ma il decidere nella simulazione durante l'addestramento e il trovarsi in situazioni del genere nella realtà erano cosa ben diversa e lo spirito con cui si faceva fronte a tali situazioni non era mai lo stesso. Non era la prima volta che Heron aveva dovuto arrivare a simili soluzioni, ma questi atti gli lasciavano sempre un sapore amaro in bocca.

"Comandante. - esordì Addok - Abbiamo sicuramente distrutto l'astronave del CLAN, però non è del tutto sicuro che abbiamo distrutto anche l'altra".

Heron si voltò verso di lei. Il suo sguardo era fermo e fiero.

"Non cercare di consolarmi, Addok - la rimproverò blandamente e stancamente Heron - Sai anche tu che per estirpare il maligno, spesso bisogna colpire anche il buono".

A quel giro, furono gli altri ad abbassare lo sguardo.

"Torniamo a dormire, comandante?" chiese un altro giovane ufficiale.

"Si. - rispose Heron - E' meglio. Fra non molto dovremmo entrare in fase d'ingresso nell'atmosfera terrestre, che è la più difficile, e meno energia consumiamo, più ce ne sarà per la fase" e nel dirlo, si alzò dalla postazione di combattimento premendo contemporaneamente il pulsante di sospensione energia. Man mano che si avvicinavano alla sala delle cuccette, le luci si spensero al loro passaggio e dopo pochi minuti, l'interno dell'astronave tornò buio e silenzioso.

Heron si stese nella cella e attivò il dispositivo del sonno. Si addormentò con l'immagine dell'esplosione negli occhi.

Ciò che avvenne nell'arco di tempo successivo fu molto strano e violento.

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Capitolo 4
*** Un giorno da non dimenticare ***


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UN GIORNO DA NON DIMENTICARE

 

 

Terra, 2114, una notte stellata di giugno in una tranquilla cittadina svizzera

 

 

La graziosa cittadina di Grindewald, spalmata su una paradisiaca valle circondata dalle montagne, dormiva sotto un cielo stellato di giugno quando il buio e il silenzio furono bruscamente squassati da un fragore apocalittico e da un bagliore che illuminò a giorno la zona per alcuni istanti, svegliando per primi gli animali, soprattutto i cani che presero ad abbaiare furiosamente, atterriti dal baccano provocato dal boato.

Anche Wendy, la terrier della famiglia Aloisi, sprofondata fino ad un secondo prima nel sonno del giusto, si destò di colpo, uscì dalla sua cuccia in giardino e cominciò ad abbaiare con una certa veemenza all'alone azzurro-rosso-giallo che si vedeva oltre la cresta del monte, contro il quale, il profilo seghettato della cima si stagliava nero come la bocca super dentata di un' orribile creatura che si fosse svegliata anche lui dal botto.

Il forte rumore penetrò attraverso le persiane e le ante semi-chiuse della finestra che dava luce alla camera da letto dove Stefano Aloisi e Annamaria Di Gennaro riposavano dopo una giornata di lavoro. Quando Annamaria si destò e guardò l'orologio, questo segnava le 3 di notte.

E la donna ebbe un cattivo presentimento.

Si alzò e andò ad aprire la finestra. Presto, il presentimento si trasformò in amara previsione.

Avrebbe dovuto tornare in ospedale. Morti, o feriti gravissimi, in arrivo.

Anche Stefano si svegliò e la raggiunse alla finestra.

Insieme convogliarono gli sguardi in direzione della montagna di fronte, dietro la quale sembrava essersi acceso un incendio che però pareva anche essersi già ridimensionato.

Annamaria sospirò.

"Nemmeno stanotte si dorme" constatò, rassegnata.

Infatti, dopo pochi istanti, il suo orologio emise il classico bip del cerca-persone.

I due si guardarono alla luce del bagliore e Stefano scrutò serio sua moglie.

Annamaria tornò al letto e cominciò a vestirsi.

"Speriamo che non sia troppo grave" si limitò a commentare il marito.

"Grave o non grave, devo andare. Lo sai" asserì, senza tuttavia tono di lamento.

Stefano baciò Annamaria e lei, una volta vestita, uscì di casa aprendo nel frattempo il garage con un comando dell'orologio.

Federico, il terzo dei loro figli, uscì dalla sua stanza e incontrò suo padre.

"Che è successo?" chiese, assonnato.

"La mamma deve andare al lavoro. - spiegò l'uomo - Ma sarà una cosa breve. Torna a dormire" e nel dirlo, abbracciò il bambino e lo accompagnò nella sua camera.

Non sapeva perché, ma sentiva che invece non sarebbe stata una cosa molto breve.

Ciò nonostante, non aveva idea di cosa fosse capitato nella cittadina di cui era sindaco e, al momento, non aveva sentore dell'evento incredibile di cui il paese sarebbe stato protagonista nelle settimane successive.

Qualche ora dopo, nel suo ufficio di primo cittadino, Stefano era pronto ad affrontare una nuova giornata di lavoro, ignaro di cosa avrebbe dovuto ulteriormente fronteggiare nelle ore e nei giorni che seguirono.

La cittadina che amministrava si trovava in una splendida e soleggiata conca verde chiusa da una corona di montagne dalle cime nude ed aguzze, in un paesaggio che, visto dall'alto dava l'idea di essere capitati nel classico villaggio da favola o da cartolina natalizia, con le casette di massimo due piani, in pietra, legno e intonaco bianco, i tetti a punta e i balconcini da cui scendevano fasci di gerani colorati. Tuttavia, Stefano sapeva, per esperienza personale, che quel paradiso in terra nascondeva in realtà tensioni latenti fra la comunità teutonica e quella italiana, più numerosa, trasferitasi in parte lì dopo i fatti accaduti un secolo prima.

Lui era nato nella cittadina e da 45 anni ci viveva, ora con la sua numerosa famiglia composta da lui stesso, la moglie Annamaria e i quattro figli nati dalla loro unione, ma i suoi genitori e i suoi avi erano emigrati in quel luogo parecchio tempo prima e, inizialmente, si erano scontrati con la comunità locale tedesca che, come ovvio, non li aveva accolti a braccia aperte. Malgrado questo, ma, forse, grazie alla sua mole (1, 95 m), nonché al suo carattere deciso, Stefano era riuscito a imporsi sugli "indigeni" di lingua germanica. Non era andato tutto liscio, la strada non era stata ancora completamente spianata, ma era stato accettato e, alle ultime elezioni amministrative, era stato eletto sindaco di Grindewald anche dai tedeschi.

A dispetto che fosse un venerdì mattina, un dipendente del Comune in divisa entrò nell'ufficio per annunciare a Stefano che quella notte, in un locale della città era scoppiata una rissa fra autoctoni e Italiani dalla quale un certo numero di avventori era uscito con varie ammaccature, molto alcool e una discreta quantità di rabbia in corpo. Con un sospiro tranquillo, Stefano ordinò all'uomo di chiudere il locale, almeno per la sera seguente, andare all'ospedale e ascoltare le testimonianze dei presenti, nonché dei partecipanti attivi alla rissa, quindi, di tornare poi in ufficio per riferire la dinamica dei fatti, sebbene non gli fosse difficile immaginare come sicuramente questi si erano svolti.

Solita storia. Anche dopo anni, qualche indigeno ancora mal tollerava l'invasione italiana della sua quieta cittadina svizzera. Ma quando il graduato tornò in ufficio per conferire con lui, il suo volto chiaro di uomo nordico, caratterizzato dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, era ancora più chiaro, quasi cadaverico, e gli occhi erano sgranati. Turbato, Stefano chiese spiegazioni e la risposta, confusa, fu ancora più preoccupante.

"Signor sindaco, - balbettò quasi l'uomo - l'ospedale è in assetto di grave allarme. Non mi hanno fatto entrare. Si sospetta un'epidemia, ma non ho capito di cosa!".

Il pensiero di Stefano andò velocissimo alla moglie, primario al nosocomio comunale, e si fece ulteriormente più pesante, dopo il tentativo ripetuto e inutile di chiamarla con il telefono incorporato all'orologio. Riuscì a mantenersi calmo, almeno all'esterno, ma sentì il cuore fare le capriole. Questo nuovo allarmante evento aveva a che fare con ciò che lui e Annamaria avevano visto durante la notte? I nuovi tentativi di contattare la consorte, andati a vuoto, incrementarono la paura. Per mettere d'accordo la popolazione, il vice sindaco era tedesco, ma non si trovava in giro, sicché Stefano chiese all'uomo in divisa di andare a cercarlo, pregandolo, una volta trovato, di recarsi subito nel suo ufficio. Nella comunità tedesca, c'era anche chi amava Stefano per quello che era, riconoscendogli i suoi pregi di autentico leader e ottimo conduttore di un'amministrazione non facile.

L'ufficiale di Polizia montò in macchina e si avviò, spedito, in direzione di uno dei probabili luoghi in cui sapeva avrebbe trovato la "spalla" del sindaco. E infatti lo trovò proprio lì, in un locale, in cui stava consumando la colazione a base non di cappuccino e dolcetto, ma di birra e salsicce. E a giudicare dal colorito rosa acceso del volto paffuto, non era alla prima pinta. Con modi gentili, ma fermi, invitò il secondo cittadino a raggiungere subito il luogo di lavoro. Stancamente, e borbottando, il vice sindaco lasciò il grosso boccale di ceramica bianca dipinta a mano con paesaggi del posto, depositandolo sul bancone con fare seccato, pagò alla cassa e uscì dalla birreria, seguìto dal graduato che non lo perse mai di vista finché non lo vide entrare nella palazzina del municipio.

Il panico travolse quasi Stefano quando, arrivato all'ospedale, non fu possibile neppure a lui entrare.

Di Annamaria e dei suoi colleghi, nessuna notizia. Erano "ostaggi" all'interno dell'edificio.

Ma dopo un'ora circa, Annamaria comparve, piccola, affacciandosi all'apertura, in mezzo alle due grosse ante della porta in fondo al corridoio dove lui si trovava, all'imbocco. Vedendolo, corse verso di lui e si abbracciarono. Indossava ancora il camice da chirurgo, si stava togliendo i guanti ed aveva abbassato la mascherina sulla gola. Quell'atto rassicurò Stefano di molte tacche. Se lo abbracciava, voleva dire che non era infettata da qualche misterioso e pericolosissimo virus vagante.

"Allora non è epidemia! - constatò Stefano, rincuorato, stringendo le spalle della sua donna - Non ci sono malattie gravi in circolazione".

Il volto mediterraneo della moglie era pallido, ma non eccessivamente sconvolto. L'espressione dei suoi occhi scuri era di stupore, mista a preoccupazione per qualcosa di certamente serio e, più che altro, sconcertante.

"Ti dico tutto a casa, stasera. - tagliò corto la donna - Adesso non posso parlare".

"Cosa devo fare io?" chiese Stefano, invece più agitato.

"Niente. - rispose Annamaria - Continua pure il tuo lavoro. Stasera ti racconto tutto, Ora, meno sai, meglio è" e nel parlar così, lo baciò con dolcezza e passione confermando in questo modo l'assoluta assenza di eventuale pericolo di contagio.

Per quanto incuriosito al massimo, Stefano si sentì più rasserenato e, insieme con lei, si avviarono verso la prima macchina erogatrice di caffè. Il personale del nosocomio si aggirava, frettoloso per i corridoi dell'edificio senza però risparmiare un saluto riverente, seppur rapido, alla prima coppia della città e Stefano, dal canto suo,  non negò ad alcuno un breve inchino della testa sorseggiando il caffè che lui e Annamaria avevano pazientemente insegnato alla popolazione locale a fare secondo la ricetta italiana ovvero: forte, concentrato e aromatico.

Vedere i due insieme strappava un sorriso di compiacimento ma anche di sottile, bonaria, ironia.

Fra marito e moglie c'erano almeno trenta centimetri di differenza in altezza. Benché abbastanza magro, Stefano era un colosso fisico, un armadio a tre ante, con un viso largo e squadrato, addolcito però da un perenne velo di barba castana, come i capelli che gli coprivano per intero il collo, e irradiato da un paio di begli occhi grigio verde, di taglio leggermente allungato, acuti e indagatori. Annamaria era minuta, con capelli castano scuro lunghi, ora raccolti nella cuffietta dell'uniforme ospedaliera e gli occhi grandi e scuri come i capelli, dall'espressione dolce e intensa, che illuminavano un viso rotondeggiante dai tratti regolari da cui sporgeva il naso lievemente aquilino. Annamaria era medico ed era riuscita ad entrare a lavorare nell'ospedale della città grazie all'aver salvato la vita al figlio più piccolo di un notabile di lingua tedesca del luogo, colpito da un'improvvisa quanto misteriosa forma di meningite. Forse era stato anche questo episodio che aveva favorevolmente contribuito all'accettazione della comunità italiana nella rigida e diffidente comunità germanica.

Finito di sorbire il caffè, i coniugi si salutarono ed ognuno tornò alla sua mansione, ma per Stefano non fu facile riprendere a svolgere il suo incarico con i pensieri che andavano alla moglie e al mistero che avvolgeva la struttura sanitaria della città in quelle ore.

Quando Stefano rientrò in ufficio, la palazzina comunale, bianca, di soli tre piani, con decori geometrici in legno era circondata dalla cittadinanza che, malgrado lo sforzo congiunto del vice sindaco e dell'ufficiale di polizia di rassicurarla, aveva riempito la piazzetta antistante, per chiedere delucidazioni sulle voci che avevano cominciato a circolare a proposito di ciò che stava accadendo all'ospedale. Quella notte non solo Stefano e Annamaria avevano sentito il boato e avevano visto il bagliore quasi diurno illuminare il retro della montagna e volevano saperne di più,

"Tranquilli, amici! - tuonò Stefano in perfetto tedesco, salito sull'ultimo scalino davanti alla porta d'ingresso. - La situazione è meno grave di quanto si fosse immaginato all'inizio e tutto è sotto controllo. Potete tornare a casa e riprendere le vostre attività. Vi terremo informati sugli sviluppi".

Detto ciò, rientrò nell'edificio e raggiunse la sua postazione di lavoro. Inutile dire che i cittadini non lasciarono subito la piazza rimanendo lì a raccontarsi e a commentare gli eventi.

Oltre ad essere una piccola città, per la sua collocazione, e per le conseguenze di ciò che era avvenuto tempo addietro, Grindewald era isolata dal resto del mondo e, da allora, per i suoi abitanti ciò che importava maggiormente era solo ciò che succedeva all'interno della conca fra i monti nella quale era distesa. Di quel che accadeva al di fuori, nel pianeta, da tempo lì non giungevano più informazioni o notizie. Per caso o di proposito? Pertanto, i compiti del primo cittadino, spartiti poi fra i vari assessorati, erano di mantenere l'ordine, far quadrare i conti fra spese e ricavi, celebrare matrimoni, registrare morti e nascite e, periodicamente, organizzare feste e sagre.

Pochi minuti dopo essersi reinsediato al suo posto, Stefano fu, appunto, disturbato da una coppia mista - un italiano e una tedesca - che gli chiesero di sposarli. Finito il pacifico tumulto per l'arcano in ospedale, la normalità si ristabilì apparentemente in quel piccolo paradiso in terra.

Nessuno degli abitanti ebbe il minimo presentimento che qualcosa, invece, stava per cambiare.

 

 

 

Sera

 

Finalmente Annamaria, sfinita, varcò la soglia di casa, accolta da Stefano, in fibrillazione, dopo essere riuscito faticosamente a convincere i suoi figli più piccoli: Federico e Annalisa di sei e tre anni, ad andare a letto. Decisero di attendere  e assicurarsi che tutti e quattro i loro ragazzi fossero sprofondati nel sonno e si ritirarono anche loro nella loro stanza. Stefano non stava più nella pelle per conoscere i segreti del mistero che Annamaria gli aveva accennato in ospedale e Annamaria non sapeva invece da dove cominciare a raccontare. Non si poteva definire scioccata, ma era ugualmente scossa dall'evento.

"Sono....tutti morti?" azzardò Stefano, quasi timoroso di una conferma.

"No. - rispose sorprendentemente Annamaria - Beh... - proseguì poi, costernata - Tre sono gravi e non sappiamo se ce la faranno; due sono in prognosi riservata, ma nutriamo qualche speranza e uno sembra se la sia cavata con qualche costola rotta ma....".

"Ma?" la incalzò Stefano, trepidante.

Annamaria scosse la testa, molto esitante.

"Non so come dirlo" continuò.

"Dillo, semplicemente" la incoraggiò il marito.

Annamaria sollevò il viso e guardò il consorte negli occhi.

"Non sono dei nostri" rispose, espirando come per liberarsi di un peso.

Si sentì sondata dagli occhi grigio verdi di Stefano che le scavarono nell'anima fino ai meandri più reconditi.

"Cioè? - chiese maggiori lumi lui, assumendo il tono di chi sta sul chi vive, con le ciglia aggrottate - Non sono del paese? - Annamaria negò - Vengono da un'altra zona della Terra?" Annamaria negò ancora.

Stefano sentì di toccare la soglia dell'allarme rosso. Annamaria annuì.

"Hanno la pelle color bianco perlaceo, - specificò - e...il sangue blu". Vide gli occhi del marito ingrandirsi oltre misura.

"Alieni?" esclamò. Annamaria gli fece cenno di abbassare di molto il volume della voce.

"A meno che l'inquinamento sul pianeta non abbia raggiunto livelli tali da apportare simili modifiche al DNA umano, non risulta che sulla Terra ci siano popolazioni con queste caratteristiche" commentò.

"Oh cazzo!" se ne uscì Stefano strappando un sorriso alla consorte che pur non amando molto il turpiloquio, trovò, in questo caso,  l'esclamazione, divertente.

"Già" confermò lei, sorridendo ancora.

"E... - balbettò Stefano - come sono?".

"Come noi, Stefano. - rispose lei - Due braccia, due gambe, due occhi.... E sono belli. Non sono mostricciatoli con la testa grossa, il corpo piccolo o le antenne come li abbiamo visti in certi film di fantascienza piuttosto stupidi".

"Dio ci ha creati tutti a sua immagine e somiglianza. - commentò Stefano, fissando, ieratico, un punto lontano oltre le spalle della moglie - Non solo sulla Terra.... - Se è vero, - proseguì, serio -  e se....Dio esiste veramente.....ancora" concluse.

In qualità di sindaco, Stefano era autorizzato a celebrare matrimoni, ma non era il suo ruolo il solo motivo. Da anni non venivano più celebrati matrimoni religiosi in chiesa perché....da anni non c'erano più sacerdoti a celebrarli e le chiese erano chiuse.

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Capitolo 5
*** OSPITI ***


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6) STRANI MOVIMENTI

 

 

Terra: nei paraggi dell'Area 51

 

Il drone sorvolò, con un lieve e regolare ronzio, la spianata, bruciata da un Sole implacabile, di quell'angolo di pianeta che sembrava sgombro da qualunque tipo di detrito, presente invece su molte altre aree del globo terracqueo, e l'apparente assenza di vita, registrata dal dispositivo, parve dare il via alle successive manovre di un mezzo pesante, ma volante, che atterrò su una pista ormai ricoperta di sabbia per svolgere la sua mansione.

La nuvola sabbiosa si alzò e coprì la visuale per un minuto circa per poi dissolversi e ridiscendere pacifica sul terreno lasciando chi di dovere a compiere le manovre del caso. Il grosso veicolo spalancò verticalmente la sua gigantesca bocca e da essa uscì tutto ciò che costituiva fastidio ed ingombro per coloro che erano arrivati fin lì a sbarazzarsene: ferraglie, qualsiasi prodotto di scarto di qualunque materiale e perfino rifiuti organici.

Ma quei movimenti e quel baccano non passarono inascoltati e, dal nulla, un manipolo di cinque individui, abbigliati con tute mimetiche, e con grosse armi da fuoco fra le mani, fecero la loro silenziosa comparsa piazzandosi a gambe divaricate e atteggiamento sprezzante al cospetto della squadra di operatori ..... ecologici i quali si fermarono, sbigottiti, a guardarli.

"Oh no! - esclamò a mezza voce uno di loro - Anche qui".

"Già. - fece uno dei cinque, con un sorriso cattivo - Noi siamo ovunque la nostra presenza sia necessaria. E direi che questo sia uno dei casi, non trovate?".

"No" rispose, secco, un membro dell'equipaggio del veicolo di scarico.

"Mmmm.... - muggì il primo individuo armato e mimetizzato che aveva parlato - Da qualche parte mi pare di aver letto e capito che questo è terreno privato, quindi lo scarico non è legale a meno che non si abbiano permessi speciali".

"Perché? - ribatté un altro del mezzo di scarico - Tu ce l' hai il permesso? A me non sembra. Che vuoi da noi?".

"Se tenete ad avere il permesso noi potremmo anche farvelo avere. - replicò l'uomo armato - Con uno scambio vantaggioso".

"Per voi criminali!" protestò vivacemente il primo scaricatore.

"Anche per voi, idiota" protestò il tizio armato, tornando serio, e in tono duro.

"Certo. - si ribellò il secondo scaricatore - Ci dobbiamo rivendere il cargo per pagare la vostra gentile concessione. Ma va' all'inferno!".

"Inferno? - ripeté il malvivente, sarcastico - Non esiste".

"Per te, e per tutta la tua razza, esiste. -  rispose lo scaricatore - Ne abbiamo creato uno apposta per voi proprio ora" e nel dirlo premette un pulsante a destra del suo orologio da cui scaturì un sottile raggio blu che andò a colpire il rompiscatole in mezzo al torace, spedendolo qualche metro indietro sul terreno.

Uno degli altri cinque sparò col suo mitra vintage e colpì a morte uno degli scaricatori. L'altro si era già andato a rifugiare rientrando nel veicolo e lo stava per chiudere  quando tutta l'area sotto i suoi piedi, e sotto il mezzo di trasporto, cominciò a vibrare intensamente e poi a tremare nel tipico moto ondulatorio di un fortissimo sisma. I quattro delinquenti rimasti in piedi videro il terreno su cui sostavano aprirsi letteralmente ma in modo anomalo. Il suolo, infatti, non si spaccò creando crepe serpeggianti, classiche delle conseguenze di un terremoto, ma si aprì in un unica lunghissima faglia dritta e il terreno iniziò a sprofondare con un boato terrificante trascinando tutto ciò che vi era sopra in una enorme voragine  che ingoiò qualsiasi cosa vivente e/o non.

 

 

7) IL RISVEGLIO

 

 

 

Grindewald, tre giorni dopo l'incidente

 

Elai Heron teneva Al per mano e Al guardava suo padre con ammirazione e paura.

Lo vedeva alto e grande. Un gigante severo ma buono che lo stava però conducendo dentro una foresta di fiamme le cui lingue rosse e gialle dalle punte azzurre danzavano minacciose davanti ai suoi occhi formando a tratti sagome di volti umani terrificanti e terrorizzati che, ad un certo punto, cedevano il posto, svanendo,  all'apparizione di una croce con la parte inferiore dell'asse centrale più lunga rispetto a quella superiore.

E come sempre accadeva, Al Heron si svegliò in un bagno di sudore e....di dolore!

Aprì gli occhi e non riuscì a capire dove si trovasse. Il soffitto sopra di lui aveva pieghe e riflessi argentei e quasi tutto il suo viso era coperto ed imprigionato da un aggeggio morbido che si muoveva seguendo il suo respiro. Tuttavia, pur essendo regolari, inspirazione ed espirazione gli provocavano fitte acute a tutto il torace. Cosa gli era successo? Perché sentiva male dappertutto? Gli venne spontaneo muoversi, ma il dolore gli gelò la spontaneità. Il secondo istinto fu di chiamare aiuto, ma anche quello gli morì nella gola arsa dalla sete. La situazione in cui versava non gli piaceva per niente e provò rabbia nel constatare che non avrebbe potuto cambiarla almeno nel tempo a venire. Inoltre, ripensando a suo padre, si ricordò che doveva vendicarlo.

 

 

Era ora di pranzo e Stefano intravide una remota possibilità di incontrarsi con sua moglie e i suoi ragazzi per consumare finalmente, una volta ogni tanto, un buon pasto tutti insieme. Telefonò ad Annamaria la quale, anche lei ottimista nel vedere questa opportunità, fissò con lui un piccolo programma per i minuti successivi: lei sarebbe passata a prendere i due maschi a scuola; Stefano avrebbe prelevato Annalisa all'asilo. Flavia, la figlia maggiore, dodicenne, sarebbe uscita da scuola verso l'una per raggiungerli in un ristorantino non lontano dal municipio.

Tutto andò secondo i loro piani fino all'ingresso al ristorante.

In quel momento, Annamaria ricevette una chiamata urgentissima dall'ospedale da cui era uscita senza problemi circa un'ora prima. Uno dei pazienti "speciali" si era svegliato, era riuscito ad alzarsi dal suo letto ed ora stava minacciando altri pazienti ed alcuni operatori sanitari con un bisturi in mano e la ferma intenzione di usarlo se non avesse ottenuto ciò che chiedeva.

Al suo ritorno nel nosocomio, entrando nella stanza nella quale era ricoverato, l'uomo si girò verso di lei e le lanciò un'occhiata così intensa che lei ne avvertì la profondità da lontano e, avvicinandosi a lui, non poté far a meno di notare il blu cobalto dei suoi occhi che la radiografavano fino al midollo.

Fu invasa dall'imbarazzo, più che altro pensando a come avrebbe comunicato con lui. Senza lasciare il bisturi, il paziente si strinse la testa fra le mani, contraendo il viso in una smorfia di concentrazione e apparente, forte sofferenza, dopodiché, con sua grande sorpresa, le rivolse la parola nella sua lingua.

"Perché avete ucciso mio padre? - accusò, accorato - Cosa aveva fatto?".

Annamaria restò annichilita dallo stupore ma trovò la forza di rispondere:

"Non abbiamo ucciso suo padre. - disse, sforzandosi di tenere i nervi e tutto il resto sotto controllo - Mi dispiace molto che sia stato ucciso, glielo garantiamo, ma non siamo stati noi e non sappiamo chi lo abbia fatto". In quel momento l'uomo, appoggiato con la mano libera alla sbarra di ferro ai piedi del letto, vacillò e si piegò in due, stringendo i denti, esibendo poi grosse difficoltà nel respiro. Tossì con violenza, sputando un rivolo di sangue bluastro - viola che gli scivolò dall'angolo della bocca, andando a macchiare la t - shirt bianca. In un attimo gli furono tutti addosso, lo bloccarono; una delle infermiere riuscì a strappargli il bisturi dalla mano, Annamaria fu pronta a prenderlo, a riportarlo nel suo letto coperto dalla tenda ad ossigeno e ad aiutarlo nel riadagiarcisi nel modo meno penoso che le fu possibile. Nel muoversi, Annamaria notò che soffriva molto. Il dolore alle costole rotte doveva essere terribile e lei si adoperò subito per risistemargli tutti i tubi collegati ai macchinari di sopravvivenza, compreso il respiratore di cui l'uomo dimostrava di averne un estremo bisogno. Constatato con soddisfazione che sarebbero stati in grado di capirsi, una volta ridisteso sul letto e col respiratore sul viso, lei gli parlò dolcemente convincendolo a rilassarsi e abbandonare per il momento ogni proposito di vendetta. L'imperativo era: riposarsi e stare tranquillo. Tutto si sarebbe risolto per il meglio. Era vivo. Dolorante, ma vivo, e questo era un mezzo miracolo, se di miracoli si poteva ancora parlare. In quell'attimo, nella stanza fece il suo ingresso anche un collega, del luogo, al quale lei si rivolse per avere alcune informazioni proprio sul miracolo.

"La Scientifica ha effettuato i rilevamenti. - le annunciò il medico - Il veicolo col quale si sono schiantati sulla montagna è andato distrutto, ma le celle in cui erano chiusi, in un certo senso, li hanno salvati da morte sicura perché erano costruite con materiale ignifugo che ha impedito alle fiamme di propagarsi anche a quelle. Tuttavia, tre di loro sono ugualmente in condizioni molto gravi e non sappiamo ancora se sopravvivranno".

"Perché a lui è andata meglio che agli altri?" chiese Annamaria, indicando col mento il paziente, potenziale omicida.

"Perché è quello che è atterrato meglio di tutti. - rispose il medico - La sua cella non si è capovolta".

"Ha riportato comunque delle fratture" osservò Annamaria.

"E' il minimo che poteva capitargli. - commentò il collega - L'urto non dev'essere stato una bazzecola". Annamaria tornò a guardare l'uomo che ora sembrava essersi di nuovo addormentato.

Addio pranzo con la famiglia, ma adesso la situazione si era normalizzata.

Stefano la chiamò per essere ragguagliato sugli sviluppi della vicenda.

"Tutto a posto. - rispose Annamaria, sedendosi, esausta sulla prima sedia che trovò - Stasera ti racconto" quindi chiuse telefonata e occhi, cercando anche lei di recuperare un filo di relax.

 

 

 

 

 

 

 

Sera

 

Quando rientrò, Stefano vide sua moglie più stanca del solito e se ne preoccupò.

I ragazzi erano già nel mondo dei sogni e lui la trascinò subito in camera da letto dove ambedue si sedettero sul letto, Stefano ansioso di sapere. Annamaria gli raccontò la giornata. Al termine, Stefano si tirò nervosamente i capelli indietro infilandosi le lunghe dita fra essi e accennando una risata tesa.

"Porca puttana! - esordì a mezza voce - I tedeschi e i nostri che se le danno di santa ragione, il mio vice, semi alcolizzato, che va a birra invece che a caffè, la festa da organizzare a fine mese e adesso ci mancavano gli alieni vendicativi! E se ce ne fossero altri sulla Terra? Se stessero preparando un'invasione?..."

"Ehi, ehi, ehi, Spielberg! - lo ridimensionò Annamaria ridacchiando - Non crearti saghe cinematografiche dove non ci sono! Secondo me, quel tipo è da solo, a parte il resto del suo equipaggio che non si sa ancora se sopravvivrà. Ha parlato soltanto di suo padre che forse è stato ucciso sulla Terra, ma non si sa dove". Stefano si calmò, poi si bloccò e fissò la moglie.

"Hai detto Spielberg?" disse.

"Si, - rispose Annamaria, sorpresa - perché?".

"Chi è Spielberg?" chiese, sospettoso.

"Uno che forse faceva film" rispose Annamaria.

"Come lo sai?".

"Qualche sera fa, in un momento di pausa, mi sono messa a guardare la tv e andava in onda un film firmato da lui. Parlava di alieni".

Stefano strinse le spalle della donna e la guardò intensamente.

"Annamaria, - attaccò, sentendo la sua mente lavorare con alacrità - il nostro pianeta ha un passato e noi non ne sappiamo niente. Perché?".

"E lo chiedi a me, a quest'ora?" rispose Annamaria, ironica.

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Capitolo 6
*** AREA 51 ***


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8) AREA 51

 

 

Terra

 

Si risvegliarono a scadenza di pochi secondi l' uno dall'altro e, aperti completamente gli occhi, si trovarono in un vasto ambiente in fondo al quale intravidero alcuni macchinari. Provarono a muoversi ma, a parte la spiacevole e dolorosa sensazione di non aver più un osso sano in corpo, si videro legati, fino all'immobilità, su poltroncine disposte in riga ad una certa distanza l'una dall'altra. I cinque uomini si scambiarono occhiate e l'aria dell'intero vano parve riempirsi di punti interrogativi.

Dov'erano?

Cos'era successo prima?

Com'erano arrivati lì?

Tre ottime domande alle quali, al momento, non sembrava esserci risposta.

Tuttavia, dopo pochi minuti, da probabili ed invisibili ingressi laterali, esseri umani in uniforme grigio-verde fecero la loro comparsa come fossero entrati in una sorta di palcoscenico e si fermarono davanti a loro, a gambe leggermente divaricate, guardandoli con apparente poca curiosità, quasi li avessero attesi, quasi avessero saputo che prima o poi sarebbero arrivati.

Infatti, pochissimi secondi dopo, uno di essi parlò.

"Buon giorno. - salutò Steve Forrest, con una certa spocchia. Gli ospitati (Prigionieri? Ostaggi?) lo fissarono all'unisono, allocchiti, non avendo capito la parola appena pronunciata e non seppero come rispondere - Benvenuti. - proseguì Forrest - Allora....avete finito di scaricare le vostre porcherie sul nostro suolo?".

Altro scambio muto di occhiate interrogative nel gruppo dei legati alle poltrone dopodiché col mento, Forrest fece un segno a Edwards di andare in fondo alla stanza. Quello ci andò e smanettò con un macchinario, il che produsse un paio di effetti: un'improvvisa, fortissima quanto fortunatamente breve emicrania ai malcapitati e, da quel momento, in poi, la possibilità di capirsi fra i presenti nella stanza.

"Pensavamo che questo pianeta fosse disabitato.- si giustificò uno di quelli legati alle poltrone - Le nostre mappe non mostravano segni di vita".

"Mmmm ... muggì Forrest - su questo potreste anche aver ragione. - convenne poi - A dirla tutta, ora siamo un pò di meno...".

"Parecchi di meno" osò interloquire Hardings, vicino a Forrest.

"Non serve sottilizzare troppo, Hardings. - lo riprese Forrest - Il punto è che questi non hanno alcun diritto di insozzare la zona solo perché non ci vedono camminare nessuno sopra".

"Ehi - fece un altro prigioniero - Ci sono altre zone del vostro pianeta piene di immondizia".

Stavolta lo scambio di sguardi interrogativi si scatenò fra gli uomini della base.

In realtà, il poco simpatico traffico di smaltimento rifiuti sulla Terra era cominciato da non molto tempo, forse una decina d'anni. Fino ad allora, la Terra era stata semplicemente e completamente isolata ed ignorata da qualunque rotta di qualsivoglia viaggiatore spaziale, anche occasionale. Solo Beta 1, bisognoso di spazio per liberarsi dall'eccesso di spazzatura, e Ariel, in cerca di minerali per continuare a vivere, avevano intercettato la Terra come meta per soddisfare i loro rispettivi scopi, trovandola per l' appunto deserta e disabitata.

Senza dimenticare il CLAN, l'accozzaglia di malavitosi di cui alcuni provenienti, forse, anche da altri mondi poco noti.

Almeno per ora.

Sentendoli atterrare sulle loro teste, gli uomini dell'Area 51 si erano limitati a provvedere alla pulizia della zona senza conoscere la situazione di altre zone del pianeta, e l'informazione appena avuta giungeva nuova anche perché, in seguito agli eventi di un secolo addietro, comunicare con il resto del globo era diventato, chissà per quale strano motivo,  molto difficile.

Oltre a ciò, nelle operazioni di ripulitura, lo staff dell'Area aveva trovato molto materiale interessante e utile alle proprie ricerche e sperimentazioni. Ma in tutto il rimanente della Terra, se lo si sorvolava, ci si trovava sotto, larghissimi tappeti di ogni mal di dio.

"Ma che è successo al vostro mondo?" chiese uno di coloro che erano atterrati proprio per svuotare i magazzini di Beta 1.

"Piacerebbe anche a noi saperlo" rispose Forrest che, in effetti, non lo sapeva.

Per un'altra arcana ragione, degli eventi di un secolo prima non sembrava essere rimasta pressoché alcuna testimonianza neppure archiviata in qualche antico hard disk, come se si fosse volutamente cancellare un'epoca per non richiamarla mai più e ricominciare da zero con una nuova era. Ma la nuova era non aveva corpo, né ancora un'identità precisa. Molti dei sopravvissuti sulla Terra non sapevano dell'esistenza in vita di altri, raggruppati in altre piccole comunità sparse ai quattro angoli del mondo.

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Capitolo 7
*** IL PIACERE DI COMUNICARE ***


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9)  IL PIACERE   D I POTER COMUNICARE

 

 

Terra: Grindewald, cinque giorni dopo.

 

 

Al Heron sognò di nuovo il fuoco ma al risveglio non provò né paura, né tanto meno dolore.

Si svegliò e basta, tuttavia, intorno a lui il panorama non era cambiato di molto. Sopra la sua testa brilluccicava ancora il soffitto argenteo e il suo viso era sempre semi-coperto da qualcosa di morbido e gommoso che pareva dare un buon contributo alla sua respirazione, ma che gli stava portando una sete da deserto.

Proprio in quel momento, la tenda che lo circondava si scostò e in mezzo ai due lembi si affacciò un volto piacevole da vedere: un volto, i cui occhi grandi e scuri si allargarono ancor di più, e una mano che maneggiò sopra il suo naso con l'arnese morbido che gli copriva il viso, liberandolo finalmente da esso. Heron guardò quel volto e Annamaria guardò il volto dell'uomo notando con stupore un particolare: il colorito della sua carnagione sembrava essere cambiato passando da una tonalità pallida, decisamente perlacea, ad una di un paio di nuances più rosea.

Lo salutò con un bellissimo sorriso.

"Buon giorno. - la sentì dire con una gradevole voce argentina - Come si sente? Meglio, spero".

Provò a girarsi più verso di lei. Una fitta lo trafisse al torace, ma riuscì ugualmente nell'intento.

Tentò di rispondere, annuendo con la testa e poi usando le parole.

"Ho sete. - implorò quasi - E si. - proseguì - Sto meglio. Grazie".

Annamaria aprì completamente la tenda, alzò la parte superiore del letto e offrì da bere al paziente un grosso bicchiere colmo d'acqua. Heron bevve  con avidità e ne chiese ancora. Era buona, fresca; l'apprezzò molto e lo espresse a voce, quindi si guardò intorno.

"Dove sono? - domandò - Dove sono gli altri? Sono in Paradiso, forse? Esiste, allora?".

Annamaria sorrise.

"Mi è stato detto di no, - rispose, dolce - ma si trova comunque al sicuro, dove nessuno farà del male a lei e ai suoi amici".

"I miei compagni! - sussurrò lui, agitandosi - Stanno bene? Sono vivi?".

Annamaria lo informò di tutto parlandogli sempre con soavità, ma quando Heron seppe degli altri componenti del suo equipaggio chiuse gli occhi e, palesemente avvilito, si lasciò andare sul letto.

Il suo primo pensiero andò a Granya Addok, suo vice, e anche altro per lui.

"Ricorda qualcosa di quel che le è successo?" chiese Annamaria.

Ecco. Quello era il punto davvero dolente. Più dolente delle fitte al torace. Ricordava un gran colpo di coda all'astronave, una fortissima accelerazione e poi più nulla. Forse aveva perso il controllo del veicolo. Forse erano lì, alcuni di loro in fin di vita, per colpa sua. Annamaria lo guardava nella sua afflizione. Era veramente bello: il volto fine, regolare; quell'incarnato chiarissimo che contrastava il colore pur sempre chiaro dei capelli, ma il cui confronto li faceva apparire scuri; i lineamenti delicati; gli occhi, quando li riaprì, blu cobalto, e infine le labbra, disegnate da un artista.

L'uomo scosse la testa.

"No" rispose, semplicemente lasciando intuire ad Annamaria che forse non voleva ricordare.

Lei non insistette.

"Non si preoccupi. - volle rassicurarlo - Adesso non è importante".

"Veramente lo sarebbe" la contestò lui, educato.

Annamaria sorrise.

"Certo. - convenne - Capisco. Lo sarebbe. Ma dopo un incidente come quello che ha avuto lei e i suoi colleghi, dal quale è già un miracolo che siate usciti vivi, pretendere di ricordare è pretendere quasi l'impossibile. Non si angosci. Col tempo ricorderà".

"Miracolo?" ripeté lui.

"Oh! - fece Annamaria come fosse sbadata - Si. Lo so: i miracoli non esistono, ma come chiamerebbe lei uscire vivi da un impatto contro una montagna a velocità della luce, o quasi?".

Annamaria si fermò un attimo a respirare la consapevolezza di parlare con un uomo che veniva da un altro mondo, credendo tuttavia di sognare, ma alcuni suoi colpi di tosse la riportarono alla realtà istillandole apprensione per lui e spingendola a prestargli immediato soccorso, rimettendogli il respiratore. Forse l'aria di Grindewald era dannosa per lui? Il cerca persone trillò avvisandola che qualcun altro aveva bisogno di lei. Lasciò Heron a malincuore. Le era parso di vedergli gli occhi lucidi. Sarebbe rimasta volentieri a confortarlo.

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Capitolo 8
*** IL NASO FUORI CASA ***


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10 ) TRASH - SPAZZATURA

 

 

Area 51

 

Nel vasto ambiente dei sotterranei dell'Area 51 alcuni grandi schermi si accesero mostrando dapprima solo un pulviscolo catodico bianco e nero poi, dopo forse mezzo minuto, immagini, leggermente sfocate, inquadranti varie zone del continente americano aventi in comune il medesimo scenario, ossia: vere e proprie montagne di detriti di ogni genere.

Lo spettacolo gettò l'intero vano e i suoi occupanti nel silenzio più assoluto, attonito e imbarazzato.

"Che cazzo è successo?" esclamò Hardings, fissando a turno gli schermi.

"Vorrei saperlo anch'io. -  rispose Forrest, apparentemente meno imbarazzato degli altri ma, di sicuro, più meravigliato e infuriato dei colleghi e degli uomini legati alle sedie, ai quali si rivolse in tono poco conciliante - Avete spiegazioni da dare? Io sono certo di si e fareste bene a darle alla svelta prima che ve le estorca in modalità sgradevole" concluse duro e tagliente come una lama.

Nell'enorme sotterraneo il silenzio tornò sovrano assoluto fino a che fu rotto dalla voce, arrochita per l'emozione, di uno degli scaricatori.

"Io l' ho detto. - cominciò, incerto - Non abbiamo più spazio per i rifiuti e.... abbiamo visto che sulla Terra ce n'era tanto e.... ci era sembrato che il pianeta fosse disabitato. Non abbiamo la minima idea di cosa sia successo sul vostro mondo".

Forrest, Edwards e Hardings si guardarono, esterrefatti, quindi ridiressero gli sguardi sugli schermi, fissando i monti di immondizia. Tuttavia, dopo i primi attimi di autentico stupore, in quei giganteschi cumuli di pattume, i tre iniziarono a intravedere qualcosa di positivo.

"Scusate, - s'intromise uno dei prigionieri appartenente al gruppo dei malviventi - ma nessuno di voi si era accorto di questo, prima d'ora?".

Forrest dovette ammettere che l'uomo aveva ragione. Fino al giorno precedente, lui e il suo staff dell'area avevano costantemente provveduto alla pulizia e alla rimozione di immondizia ammucchiatasi e sparsa al di sopra delle loro teste e per un raggio di alcuni ettari, ma non erano andati mai oltre quei limiti naturali quasi esistessero virtuali colonne d'ercole al di là di cui era inutile avventurarcisi, considerando anche che non era stato loro più possibile ricevere informazioni sulla sorte del resto del pianeta.

A quel punto, Forrest prese una decisione e ordinò ai suoi collaboratori di salire su uno dei loro veicoli aerei di ricognizione per effettuare un sorvolo oltre i limiti fino a quel momento assurdamente, ma istintivamente rispettati.

In attesa degli esiti, l'uomo restò in piedi, fra gli schermi ed i prigionieri, a riflettere sull'incredibile status delle cose.

Già. Cos'era successo alla Terra? Perché non aveva avuto più notizie dall'esterno?

E non aveva idea di quanti suoi simili si fossero posti la stessa domanda, almeno per qualche tempo, prima di seppellire gli eventi nel gran calderone del dimenticatoio.

La Terra non aveva più un passato e nessuno aveva alzato un dito per farlo riemergere.

Cos'era avvenuto di tanto terribile per cancellarlo e impedire a chiunque che fosse, anche solo per un istante, cercato e ripreso?

Forrest e gli altri avevano circa cinquant'anni, dunque mezzo secolo, ma non bastava per poter tornare indietro fino all'ora X, o al giorno X quando era successo, e nessun altro, sul pianeta, risultava sopravvissuto cento anni o più per ricordare, anche solo vagamente, i fatti.

Le immagini del veicolo di ricognizione in volo, che cominciarono a scalzare quelle delle montagne di spazzatura, restituirono un panorama desolante, tuttavia, il paesaggio appariva si apocalittico, ma non di distruzione provocata da fenomeni, per esempio, sismici, quali terremoti, maremoti o esplosioni vulcaniche. No. Niente di tutto questo o, almeno così sembrava.

Di sicuro, il mondo era stato sconvolto da un evento di proporzioni, si potrebbe usar definire, bibliche, ma non di natura fisica. In alcune zone del pianeta gli edifici erano effettivamente in macerie ma lo erano in modo singolare. Non erano crollati tutti in briciole come se fossero stati polverizzati da scosse telluriche o aggrediti da tsunami; parevano essere stati bombardati e i bombardamenti, benché ugualmente distruttivi, lasciavano segni diversi da quelli lasciati dai fenomeni di origine geologica o atmosferica, portando ad intuire che più di un cataclisma, il pianeta fosse stato vittima di una guerra a livello mondiale o, quanto meno ad una poderosa rivoluzione a larga scala.

Ad un certo punto, il panorama devastato e desolante cominciò ad essere sostituito da inquadrature di agglomerati urbani nei quali sembrava esserci ancora vita. Dall'alto del veicolo s'intravedevano forme che si muovevano come formiche, non molto operose, si sarebbe detto piuttosto tranquille, quasi non avessero più tanta fretta di vivere; quasi sapessero che davanti a loro la vita sarebbe stata abbastanza lunga per fare tutto ciò che avevano in programma di fare.

E la cosa più strana che Hardings notò fu che nessuno parve alzare gli occhi al cielo per vedere chi o cosa stesse volando sulla testa. Gli esseri semoventi continuarono a camminare e a muoversi senza guardare in alto. Ai comandi del velivolo, attraverso il vetro dei caschi, Hardings ed Edwards, invece, si guardarono attoniti ed interrogativi.

Ma non fu così per tutti.

Sentendo un ronzio lontano, e vedendo qualcosa che volava, qualcuno alzò occhi e naso per vedere cosa volava.

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Capitolo 9
*** SPIRAGLI ***


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11)  SPIRAGLI

 

Grindewald - ufficio del Sindaco

 

Stefano aveva cominciato a cercare.

Dopo la velocissima corsa che, in soli dieci, quindici anni aveva portato i Terrestri ad abbandonare quasi del tutto i computers a favore dei tablets e delle nuove generazioni di telefoni cellulari, l'evoluzione tecnologica aveva subìto una brusca battuta di arresto non producendo pressoché più alcun dispositivo di comunicazione e sulla scrivania del sindaco di Grindewald troneggiava un buon computer portatile datato 2102 ancora ben funzionante.

Internet esisteva ancora, ma si era trasformata in una più limitata Intranet nella quale si trovavano solo informazioni sull'area in cui si abitava; una sorta di rete domestica che non andava oltre la corona di montagne intorno alla cittadina. Di essa, degli abitanti e degli eventi si trovava tutto e anche di più, compresi i pettegolezzi, ma niente di ciò che era al di là dei monti.

Il ronzio lontano pervenne alle orecchie di Stefano che aveva aperto la finestra del suo ufficio per alcuni istanti, il tempo necessario di fumarsi una sigaretta senza strafogarsi. Ciò che ronzava appariva piccolo a distanza, e sfrecciò scuro nel cielo celeste pallido di una giornata non molto assolata per poi sparire proprio dietro la cima contro cui si era schiantato il veicolo alieno.

Il fatto curioso fu che il piccolo aereo ricomparve dopo alcuni minuti dirigendosi poi verso est.

Poi ritornò e puntò verso sud.....

Dopo il grande botto di alcune notti prima, quella visita costituì una novità.

 

 

 

Ospedale

 

Quel giorno, la figlia maggiore, Flavia, aveva chiesto a sua madre di andare con lei in ospedale per far visita ad un'amica ricoverata un paio di giorni prima per una banale appendicite e Annamaria era stata felice di andare a lavorare con la figlia al seguito, programmando poi di tornare a casa con lei e, magari, riuscire almeno ad andare a cena insieme con gli altri componenti della sua famiglia.

Arrivate nella struttura, le due si erano separate per raggiungere i vari reparti e Annamaria aveva raccomandato a Flavia di ritornare da lei non appena avesse finito la visita.

I vetri delle finestre del nosocomio erano spessi e anti-rumore con lo scopo di dare pace e silenzio agli ospiti, ma il microchip impiantato nel cervello di Al Heron, oltre a tradurre ogni linguaggio in codice binario per permettere a lui e ai suoi complanetari di comprendere le lingue parlate nell'universo conosciuto ed abitato, aveva la sensibilità di consentirgli di avvertire rumori anche in ambienti insonorizzati e protetti. I rumori giungevano a lui, ovviamente attutiti per non arrecargli troppo disturbo, ma arrivavano, e Heron avvertì il ronzio che lo spinse istintivamente ad alzarsi dal letto e ad andare alla finestra per vedere.

Grazie alle cure, e a massicce dosi di analgesici, i dolori al corpo si erano di molto attenuati e, malgrado ancora qualche fitta, l'uomo riuscì a muoversi fino alla grande finestra e a guardare da dietro il vetro centrale quanto bastò per vedere il velivolo sfrecciare rapido nel cielo.

Non era un'altra astronave mandata forse da Ariel per cercarlo.

Con tutta probabilità, su Ariel era giunta notizia anche della sua scomparsa.

Con tutta probabilità, su Ariel i suoi complanetari erano convinti che anche lui fosse morto come suo padre. Da lui e dal suo veicolo non erano più pervenuti aggiornamenti.

Al abbassò la testa ed ebbe un pauroso capogiro che lo obbligò ad ancorarsi al termosifone spento sottostante la finestra. Si sentiva debolissimo e non cadde a terra solo perché, provvidenzialmente, Annamaria entrò in quel momento e corse a sostenerlo, riaccompagnandolo poi al letto.

Era uscito dalla tenda ad ossigeno ed ora riposava su un letto normale con testiera e spalliera di metallo lucido blu come i suoi occhi che fissavano Annamaria con sguardo intenso di discreta e dignitosa supplica. Non volle stendersi, rimanendo seduto sul bordo, al centro del materasso.

"Credo... - sussurrò - di avere fame".

"Lo credo anch'io. - convenne Annamaria - Saranno almeno dieci giorni che non manda giù neppure una briciola di pane. Anche gli alieni mangiano, suppongo. - si fermò e gli sorrise - Vado ad ordinarle una bella e abbondante colazione" detto questo, prese il telefono ed inoltrò l'ordinazione.

Dunque, quella donna sapeva chi lui fosse e cosa fosse, ma non sapeva nulla di suo padre.

Chi avrebbe potuto sapere di lui? Chi avrebbe potuto dargli qualche informazione?

Pochissimi minuti dopo, un giovane dipendente in camice bianco entrò con un carrello metallico interamente occupato da piatti, bicchieri, vassoio e varie cuccume, anche quelle d'acciaio lucidissimo, e lo spinse fino al letto dove Heron era ancora seduto. In altrettanti pochi minuti, l'uomo spazzolò il contenuto di piatti e bicchieri, godendo tuttavia del sapore dei cibi ingoiati, e regalando, al termine del pasto, al giovane e ad Annamaria, un sorriso dolce, bellissimo, velato di fanciullesca malinconia. Rifocillato e rinvigorito dal cibo, volle recarsi in bagno senza aiuto, liberandosi dalle scorie accumulate nell'organismo da giorni di assoluta immobilità, si sciacquò il viso più volte, bevve altra acqua, tornò nella stanza, ma non volle tornare a letto e chiese di essere accompagnato a vedere almeno uno dei suoi colleghi, pur conscio che la vista gli avrebbe fatto più male del dolore al torace. Ma Annamaria fu richiamata in altro reparto e non poté accompagnarlo, delegando il giovane dipendete all'incombenza. Il ragazzo lo scortò nella sala di rianimazione dove riposava la donna, Granya Addok, immobile, ancora custodita all'interno della tenda ad ossigeno. Come Heron aveva previsto, vederla in quelle condizioni fu un colpo tremendo che lo sorprese a trattenere le lacrime a stento.

"Mi dica sinceramente, - si rivolse l'uomo al ragazzo, - si salverà? Si risveglierà?".

Il giovane guardò Heron, contrito.

"Non lo sappiamo ancora. - rispose - Ha alcune vertebre del collo danneggiate. Potrebbe salvarsi. Potrebbe anche risvegliarsi, ma non sappiamo se potrà tornare a camminare e a muoversi come prima". Al Heron chiuse gli occhi, distrutto. Lanciò un'ultima occhiata alla tenda e chiese di uscire.

Perché si era salvato solo lui? Se non fosse accaduto quel che era accaduto, avrebbe potuto prendersela con un ente superiore che aveva voluto punirlo per il suo eccessivo decisionismo, ma non era così. Nessuno lo aveva punito. Forse si era punito da solo addossandosi una colpa che avrebbe potuto anche non essere completamente sua ma che ora sentiva sulle sue spalle ancora indolenzite. Il ragazzo gli domandò se avesse voluto continuare il giro, ma Heron pensò, con saggezza, che per quel giorno lo spettacolo poteva finire lì, distribuendo la pena nei giorni successivi. Il ragazzo lo riaccompagnò nella sua stanza, chiese se avesse bisogno d'altro e, alla sua risposta negativa, uscì lasciandolo definitivamente ai suoi pensieri. Al non volle rimettersi a letto. Aveva visto che era in grado di camminare e volle muovere le gambe. All'esterno, sotto la finestra si vedeva il giardino dell'ospedale, curatissimo, con prato verde rasato e fiori intorno agli alberi tagliati da giardinieri artisti. Il tempo non prometteva molto bene. Il Sole era sparito sopra una coltre di nubi grigio scuro che minacciavano pioggia, ciò nonostante, il panorama che si godeva dalla finestra era splendido e sereno: una vasta distesa verde sulla quale alcune case erano ordinatamente raggruppate in un agglomerato al centro, altre, invece, erano sparse, più distanziate andando verso le pendici dei monti che contornavano la valle, qualcuna con accanto lo specchio azzurro di una piscina. In un certo qual modo, quel panorama gli ricordava le città di Ariel le quali però si differenziavano da quella che vedeva sotto i suoi occhi per il colore del cielo sopra di esse, quasi sempre bianco a causa dell'alta concentrazione di polveri provenienti dalle centrali atomiche disseminate sul pianeta, fuori dai centri abitati salvaguardati dalle cupole di protezione. Appoggiandosi ovunque, Heron si avviò verso l'uscita dalla stanza.

Voleva ritrovare la donna che credeva gli avesse salvato la vita.

Voleva chiedere a lei se i suoi compagni di viaggio si sarebbero salvati.

Non aveva più dovuto ricorrere alla maschera ad ossigeno, ma a destra del letto ne vide una priva di qualunque cavo, semplicemente posata su una forcella e, per sicurezza, la prese portandosela dietro.

Se il paesaggio di quella cittadina era simile a quello delle città di Ariel, non lo era l'aria, molto più leggera e rarefatta.

 

 

L'orario delle visite stava per terminare e Flavia si accomiatò da Hilde, sua compagna di classe, stesa sul letto dopo aver subìto un normale, seppur fastidioso, intervento all'appendice. Le due ragazzine si salutarono affettuosamente, Flavia lasciò l'amica con un sonoro bacio su un guancia, uscì dalla cameretta in cui la ragazza era ospitata e, come le aveva raccomandato sua madre, andò a cercarla nel reparto pneumologia dove Annamaria, originariamente infettivologa, era stata designata dopo che, a causa dell'isolamento in cui Grindewald si era affossata, le malattie infettive erano, in pratica, scomparse del tutto. Iniziò a percorrere il lungo corridoio al termine del quale avrebbe trovato l'ascensore quando, proprio in fondo, controluce, vide una forma umana scura con un volto che, anche in ombra, le sembrò indefinito, deforme, mostruoso, con una specie di proboscide al posto del naso. In quel momento il suo cellulare squillò. Esitante, tremante, rispose e, nel contempo, cacciò un urlo di terrore. All'altro capo della linea, la vocina squittente di una sua amichetta le chiese, spaventata cosa stesse succedendo. Le porte delle altre stanze si spalancarono sul corridoio e gli occupanti si affacciarono per vedere e sapere la stessa cosa.

Sul cerca-persone, Annamaria vide lampeggiare la luce di chiamata di emergenza e corse al reparto da dove era partita la chiamata.

La scena che si presentò fu tragicomica.

L'ospite alieno era davanti a un gruppetto di pazienti ed infermieri, accorsi anche loro dopo aver ricevuto varie chiamate, con la maschera di ossigeno stretta nella mano sinistra e lo sguardo blu che si muoveva veloce da una persona all'altra.

La frittata è fatta, pensò Annamaria, sconsolata, e adesso cosa racconto?

Heron diresse gli occhi su di lei invitando tacitamente gli altri a fare la stessa cosa come se lei fosse stata l'oracolo appena arrivato. Flavia si gettò fra le braccia della madre e Annamaria la strinse a sé, consolandola subito e rassicurando gli altri.

"Tranquilla, Flavia. - le sussurrò - E' tutto a posto. Non è pericoloso. Non farà del male a nessuno. Sta solo cercando suo padre".

Per incanto della sua voce calma, tutti si rasserenarono e contemplarono l'uomo con occhi diversi, ammirandone l'aspetto molto piacevole. I due si erano parlati, ma non si erano ancora mai presentati.

"Mamma, chi è?" chiese Flavia staccandosi di poco dall'abbraccio materno.

"Vi presento.... - introdusse Annamaria - come ha detto che si chiama?" domandò all'uomo.

"Sono Heron. - si presentò Al - Al Heron, comandante della Prima Unita della Flotta Spaziale, e vengo da Ariel, quarto pianeta del quindicesimo sistema solare della galassia di Andromeda".

Tana!

Vinta dall'evidenza, Annamaria alzò gli occhi al soffitto.

"E' uno scherzo!" esclamò uno dei pazienti fuoriusciti dalla sua stanza.

"Sono tutti così?" cinguettò, compiaciuta, una paziente, muovendo la testa sormontata dai bigodini, e lo sguardo fra Heron e Annamaria.

"Siamo stati invasi dagli alieni e nessuno ci ha detto niente!" protestò un altro.

"Potrebbero voler sembrarci amici e poi distruggerci tutti!" sbraitò un quarto paziente,

E sarebbero andati avanti in quel modo per un pezzo se Annamaria non si fosse imposta con un picco risoluto della voce che s'innalzò sopra le altre.

"Va bene, adesso basta! - gridò quasi, riuscendo a far tornare silenzio e calma nel corridoio - D'accordo. Avete ragione. Avremmo dovuto avvertire, ma nemmeno sapevamo come fosse la situazione e allarmarvi con notizie false sarebbe stato ancora peggio. - poi, indicando lo spaurito Heron, continuò - Ciò che quest'uomo dichiara è tutto vero, ma non è qui per farci del male. E non ci sarà alcuna invasione aliena. -  illustrò la drammatica situazione dell'uomo  - Sta cercando un suo familiare. Lo vogliamo aiutare a ritrovarlo, eh?" finì col tono di chi invitava a partecipare ad un gioco.

I pazienti, avvolgendosi le vestaglie intorno ai corpi, e i paramedici, fermi dove erano accorsi, si passarono vicendevolmente in rassegna, nel silenzio della sorpresa, della costernazione e dell'imbarazzo, concludendo il giro degli sguardi sul meravigliato e intimidito comandante Heron che, muto, fissava Annamaria.

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Capitolo 10
*** C'E' NESSUNO IN GIRO? ***


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12)  C'E' NESSUNO IN GIRO?

 

Terra. Durante la ricognizione aerea

 

Hardings ed Edwards rimasero sbalorditi.

Sotto di loro il deserto del Sahara era un tappeto scuro di immondizia di ogni genere dove comunque dominava il colore del ferro di veicoli probabilmente atterrati in malo modo, di satelliti e sonde precipitati sulla Terra e .... forse anche di mezzi di fabbricazione non terrestre, rispetto ad altri colori compreso quello rossiccio della sabbia, quasi del tutto sparita sotto quel tappeto.

Nel loro volo, i due piloti stavano scoprendo che, più o meno, tutte le aree disabitate e poco abitabili del pianeta erano diventare discariche a cielo aperto.

"Figli di puttana ! -  gracchiò Hardings a denti stretti, incavolato nero - Hanno preso la Terra per la loro pattumiera! E nessuno se n'è accorto?" finì con l'urlare, scuotendo pericolosamente le leve della cloche. Allarmato dalla sua reazione nervosa, Edwards afferrò il braccio destro del collega, richiamandolo gentilmente all'auto-controllo. Per tutta risposta, Hardings effettuò la manovra di viraggio e puntò con decisione verso nord impartendo all'aereo una forte accelerazione.

Quando però, in lontananza, intravidero un grosso centro urbano, Hardings decise improvvisamente di voler scendere a farci un giro ed avviò le manovre di atterraggio su quelle che dovevano essere le piste di Ciampino. Si, perché quel grosso agglomerato che avevano visto era proprio Roma.

Ma una volta atterrati, e saliti su un convoglio che dall'aeroporto li conduceva al cuore della città, ebbero la prima sconcertante sorpresa. La carrozza era semi vuota e i pochi passeggeri lanciarono sfuggevoli occhiate ai due senza tuttavia mostrare né paura, né tanto meno curiosità o sospetto.

"C'è qualcuno che è sopravvissuto, allora! - esclamò Hardings esibendo una felicità infantile - Non siete morti tutti !". A quel punto, i passeggeri inviarono loro sguardi moderatamente stupiti e uno di essi, un tipo anonimo, basso e panciuto, con pantaloni grigi sbiaditi ed una maglietta a righe gialle e rosse, rispose a loro nel suo italiano romanesco:

"Perché, ce stanno artri in giro?".

I due piloti americani lo capirono per merito del microchip inserito nel cervello che, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non era un'invenzione di matrice aliena.

"Certo che c'è qualcun altro in giro! - ribatté Hardings molto irritato dal tono quasi infastidito dell'uomo - Non ci siete solo voi, non lo sapete?".

"No. - rispose ancora il tizio il quale, malgrado parlasse il suo dialetto, dimostrò di conoscere l'inglese quanto bastava per capirli -  E sinceramente, nun ce ne frega niente" terminò secco, in italiano.

Hardings ed Edwards erano allibiti, ma continuarono il viaggio senza più profferir parola.

Il treno si fermò alla Stazione Termini e, una volta fuori dal vagone, Edwards chiese come si arrivasse nel centro della città. Le informazioni gli furono date da un'impiegata ambulante lungo i corridoi, gentile ma fredda. I due salirono su un convoglio della metropolitana e, grazie ad una voce registrata che si diffondeva da microfoni distribuiti all'interno della carrozza, e scandiva il luogo di ogni tappa, riuscirono a scendere ad una fermata vicina al centro storico. Non essendo mai stati a Roma, risaliti in superficie, non capirono subito dove si trovassero e domandarono di nuovo lumi.

Ricevettero risposte cortesi ed esaurienti, in buon inglese, tuttavia sempre gelide, da passanti che poi riprendevano a camminare a passo spedito, ma non affrettato, guardando in avanti, persi ognuno nei propri pensieri.

Le strade non erano affollate e, di conseguenza il traffico era abbastanza scorrevole perfino sul Lungotevere. Seguendo un tratto del lungo viale alberato, i due giunsero nei pressi di Castel S. Angelo e da qui, avvistata la cupola, raggiunsero Piazza San Pietro.

Non avendo idea di cosa fosse avvenuto in passato, non trovarono strano che nella piazza serpeggiasse una lunga fila di persone in paziente e civile attesa del proprio turno per visitare la basilica. A pagamento.

I due decisero di fermarsi qualche ora nella città, sperando di saper qualcosa su ciò che era accaduto anni prima, ma le loro ricerche e le loro speranze finirono presto in fumo. Molti intervistati in proposito risposero che la situazione era quella che si vedeva e non c'era molto da spiegare, né da rivangare. Per la stragrande maggioranza dei cittadini era sempre stato così. La loro vita era quella, da sempre. Non ne conoscevano altre e non le volevano conoscere. A loro andava bene in quel modo. C'era calma e ordine e così doveva rimanere.

Nessuna traccia del passato.

Nessun ricordo.

Millenni di storia cancellati da un'enorme, invisibile spugna spietata.

Quella sera, Hardings ed Edwards vollero concedersi un tour notturno per la città e s'inoltrarono per le stradine che sbucavano poi in Piazza Navona. Trovarono Roma viva anche di notte, con i cittadini che gironzolavano per le sue vie leccando i gelati e chiacchierando. I negozi erano aperti e alcuni nottambuli entrarono in quello che sembrava essere un grosso emporio, il cui ingresso era proprio davanti alla Fontana dei 4 fiumi.  Hardings invitò Edward  a farci una visita. Il locale era ampio, elegante ed esponeva merce di alta qualità. Fin lì, niente di strano.

Fu quando uscirono e compirono il periplo della fontana che notarono il dettaglio.

Sopra l'insegna del negozio s'intravedeva ancora la scritta: CHIESA DI SANT'AGNESE.

Una volta, quel locale era un luogo sacro.

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Capitolo 11
*** COME AMMINISTRARE I VISITATORI ***


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  COME AMMINISTRARE I VISITATORI

 

 

 

Grindewald, luglio 2114

 

 

Sebbene Annamaria ed i suoi colleghi fossero riusciti a contenere le conseguenze dello sconfinamento di Heron dal reparto di malattie infettive, e la dottoressa avesse pregato la figlia maggiore di non divulgare ancora la notizia, voci di corridoio erano trapelate ugualmente, ed erano uscite dal nosocomio diffondendosi per la città in modo non chiassoso ma in ogni caso invasivo.

E il sindaco Stefano Aloisi ne pagò lo scotto in termini di continue visite da parte dei cittadini che entrarono spesso nel suo ufficio senza bussare, soprattutto quelli appartenenti alla comunità teutonica.

"Avrebbe dovuto dircelo! - protestò un tedesco, imbufalito - Potrebbero essere pericolosi!".

"Avete avuto fastidi? - rispose Stefano in tono - Vi hanno fatto del male? Hanno fatto del male a qualche vostro familiare?".

"No, - dovette ammettere un connazionale del sindaco - ma sono stranieri! Non sono dei nostri e non conosciamo ancora le loro intenzioni".

"E se fossero arrivati qui per conquistarci ed assoggettarci?" osservò una cittadina germanica.

"Non crede che l'avrebbero già fatto?" ribatté Stefano.

"Potrebbero farlo in silenzio, senza dir niente" commentò un italiano.

Stefano si alzò dalla sedia erigendosi in tutta la sua possanza, allontanando di poco, istintivamente, la piccola folla che si era radunata nella stanza dei comandi. E a quel punto, qualcuno parlò a suo favore.

"Signor sindaco, - propose una donna italiana, alta, bruna e robusta, con i tipici spiriti di curiosa e di cacciatrice di notizie - perché non indice una conferenza stampa? I visitatori potrebbero presentarsi, o essere presentati, in modo da sapere chi sono e cosa intendono fare. A questo punto, se non hanno nulla da nascondere, verranno, se invece sono qui con cattive intenzioni, in una maniera o nell'altra, mostreranno una reazione. O scapperanno, o attaccheranno".

Per quanto demenziale e surreale, quella soluzione si rivelò una buona idea e, intuito subito che tipo lei fosse, Stefano chiese cortesemente alla donna di organizzare l'evento. L'italiana uscì di corsa dall'ufficio di Stefano e non si fece più vedere in giro per alcuni giorni, riapparendo poi, soddisfatta, annunciandogli che tutto era pronto per l'inizio del mese di agosto e, se avesse voluto, anche per la fine di luglio, in occasione della festa di fine mese.

Stefano tirò un mezzo sospiro di sollievo e si accese una sigaretta per rilassarsi, aprendo la finestra per non impuzzolentire l'ufficio con l'odore del fumo.

Pochi minuti dopo, entrò Annamaria e, nonostante apparisse stravolta, per lui fu come avere una visione divina, se si poteva ancora parlare di divino.

Le chiese come stesse l'ospite e quale fosse la situazione reale.

"Sta meglio. - rispose la moglie - Ma è ancora l'unico del suo equipaggio ad essere in piedi e camminare con le sue gambe. E'ormai quasi sicuro che tre di loro non ce la faranno. Gli altri due sono ancora in coma, ma non irreversibile. Potrebbero però risvegliarsi fra mesi!".

Stefano le riferì gli sviluppi in merito all'organizzazione della conferenza stampa.

"Pensi che se la sentirà?" le domandò, alla fine, perplesso.

Annamaria sorrise.

"Nonostante sia il comandante di una flotta spaziale, abituato a decidere della sorte di altri esseri umani, fondamentalmente è timido.- rispose - Non so come potrebbe reagire davanti al pubblico. Cercherò di prepararlo dal punto di vista psicologico".

"Credi sia stata una buona idea?" chiese Stefano alludendo all'evento al quale lei avrebbe dovuto prepararlo.

"Tutto sommato, si. - rispose Annamaria, convinta - Per lui sarebbe una buona opportunità per illustrare la sua condizione e domandare, eventualmente aiuto, nonché a dirci qualcosa che potrebbe essere utile a noi. Sarebbe un bello scambio di informazioni".

Di sua moglie, Stefano adorava il non stupirsi praticamente di nulla e la sua complicità in tutto.

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Capitolo 12
*** VERSO NORD ***


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14)  TERRITORIO LIBERO

 

 

Verso nord

 

 

Lasciata Roma, con il suo mistero dei luoghi sacri, non più sacri, e rifornito l'aereo di carburante, Hardings ed Edwards puntarono ancora verso nord e spingendosi alle alte latitudini scoprirono un territorio vasto che apparve libero da detriti di qualunque genere, corrispondente alla Siberia.

Altro scambio muto di sguardi interrogativi e successiva immediata decisione di atterrare per sapere perché. Hardings provò a comunicare con qualcuno al suolo: ricevette risposta e autorizzazione a scendere.  Planati sulla pista e scesi dal velivolo, furono accolti con moderato calore da tre uomini di una probabile base militare nei dintorni, i quali chiesero da dove provenissero. Quando Hardings lo rivelò, annuendo con le teste, i tre dimostrarono di conoscere il luogo.

"Com'è la situazione da voi?" domandò uno dei tre, presentandosi col nome di Antonov.

Hardings gliela raccontò e gli parlò di ciò che avevano visto dall'aereo.

"Maledetti schifosi bastardi! - digrignò Antonov - Hanno preso il nostro pianeta per il loro immondezzaio. Ma noi ne abbiamo fatti saltare per aria parecchi e da un pò di tempo non si sono fatti più vedere, almeno da queste parti".

"Anche da noi. - disse Hardings - Ma da noi, ogni tanto, qualcuno atterra ".

"Non abbiate pietà. - suggerì Antonov, risoluto - Sterminateli. Chissà che non passi loro la voglia, definitivamente".

"Ma da dove vengono?" chiese Edwards.

"Non lo so. - rispose Antonov, duro - E non me ne può fregare di meno. So solo che non hanno alcuna autorità e autorizzazione a sporcare il nostro pianeta con le loro schifezze. Se continuano, e noi li vediamo arrivare, li attaccheremo su scala mondiale. Preparatevi anche voi".

Hardings azzardò ad accennare anche ciò che avevano scoperto a Roma.

"Sapete che diavolo è successo?" chiese poi.

Antonov invitò i tre a seguire lui e i colleghi alla base, una costruzione larga e bassa, con i muri rossastri, appena fuori dalle piste di atterraggio. Entrati tutti e cinque, in un'ampia stanza, l'uomo offrì da bere ai suoi e agli ospiti.

"Qualche vaga idea ce l'avremmo" parlò poi.

"E sarebbe?" lo incoraggiò Hardings, speranzoso di avere delucidazioni.

"Dev'essersi trattato di una specie di rivoluzione culturale. - teorizzò il russo - Un pò cruenta".

"Direi. - commentò Edwards - Non siamo rimasti in molti".

"Perché? - commentò Antonov - E' un male secondo voi?".

"Non saprei. - replicò Hardings - Forse no. Però, il punto è che ai superstiti non sembra fregare niente di sapere se altri sono ancora al mondo. Ma da chi avete avuto notizia di cosa è successo?".

"In un villaggio sperduto, non so dove, - iniziò Antonov - abita una donna molto anziana, forse ultra centenaria, sopravvissuta a questa rivoluzione ma.....".

"Ma?" fecero in coro Hardings ed Edwards che sentivano aumentare la speranza di saperne di più.

"Pare che sia l'unica sopravvissuta della sua famiglia. - rispose Antonov - All'epoca dei fatti, era molto piccola e fu sepolta in uno scantinato dai suoi per proteggerla dai rivoltosi. Quando riemerse, scoprì che i suoi familiari erano tutti morti, quindi, anche se era già nata al tempo degli eventi, non può ricordare cosa sia realmente accaduto e non c'è nessuno che possa riportare com'è veramente andata".

Hardings ed Edwards si guardarono, avviliti. La loro unica piccola speranza di apprendere qualcosa in merito agli eventi del passato era miseramente tramontata.

 

 

 

15) IL COMANDANTE HERON

 

Grindewald, ospedale

 

 

Annamaria entrò, educata e discreta, nella camera del nosocomio che da circa un mese ospitava il comandante Al Heron e trovò l'uomo in piedi che guardava oltre la finestra. Avvicinatasi a lui, non poté fare a meno di notarne l'espressione triste in quei suoi splendidi occhi cobalto che, giratosi verso di lei, si fissarono sulla sua persona, passandola ad un'accurata radiografia senza comunque altri scopi che non fossero di ringraziamento e speranza.

Gli parlò con la sua abituale soavità spiegandogli cosa sarebbe successo nei giorni seguenti e gli chiese se si fosse sentito di presentarsi in pubblico, sottolineando l'eventuale utilità che ne avrebbe ricavato.

"Non ho nulla da nascondere, - disse Heron, mestamente - tranne la responsabilità che ho sul mio equipaggio".

Annamaria sospirò e gli posò una mano sulla spalla larga esposta verso di lei.

"Comandante Heron, - esordì - io non ho ancora idea di cosa vi sia successo e di come e perché voi siate atterrati qui dietro quella montagna nel modo terribile in cui lo avete fatto, ma sono sicura che non è colpa sua. Dev'essere stato un evento accidentale. Credo che nello spazio possa accadere. Un meteorite.....qualunque cosa può aver colpito la vostra astronave e deviato la rotta, portandovi ad arrivare fin qui. Non si colpevolizzi. Non si tormenti con responsabilità che forse non ci sono".

Heron si voltò completamente verso di lei e, con sua immensa sorpresa, alzò una mano e le accarezzò una guancia. E Annamaria si trovò ad avere lei gli occhi lucidi di commozione.

Fissò l'uomo. Ora che si era ripreso quasi del tutto, era di una bellezza stratosferica. L'ossigeno che aveva respirato, e che, di tanto in tanto era costretto a respirare a causa dell'aria rarefatta dei duemila e passa metri di altitudine ai quali la cittadina di Grindewald era situata, che, spesso, gli rendevano il respiro difficoltoso, aveva cambiato il colore della pelle da bianco cereo a un lieve tuttavia gradevole color spumante pallido, e i lineamenti, prima contratti dalla sofferenza delle ossa rotte, ora distesi dal benessere fisico ritrovato, si erano ulteriormente, addolciti, senza però essere effemminati. Annamaria fu certa che alla conferenza stampa avrebbe fatto strage di cuori muliebri, scatenando, come unico effetto negativo, una bella dose di gelosia maschile. A malincuore, gli prese il polso e allontanò dal viso la sua mano bianca dalle dita sottili e lunghe.

Heron le chiese scusa e lei accettò scuotendo la testa in un gesto di noncuranza, quindi, l'uomo tornò a guardare oltre la finestra.

Poi si girò di nuovo, sorrise e annuì.

"Sono pronto" rispose, sicuro.

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Capitolo 13
*** PRIME NOTIZIE DAL PASSATO ***


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16) PRIME NOTIZIE DEL PASSATO

 

Terra, Kirghizistan

 

Contrariamente alle previsioni pessimistiche dei due piloti americani, la centenaria fu trovata, non in Siberia, bensì in un villaggio di poche urte del Kirghizistan, in mezzo alle montagne, a oltre 3000 metri di altitudine, tutto sommato molto più vicino di quanto sarebbe potuto essere se avessero dovuto fare il giro della Siberia, essendo lo Stato a pochi chilometri dal confine siberiano.

In un paesaggio dominato dal color argilla del terreno, dal grigio e dal bianco dei monti, l''urta dove la donna abitava costituiva una gradevole macchia colorata e, malgrado il freddo, era calda,  interamente rivestita com'era di tappeti di pregio, variopinti, con bellissimi disegni orientaleggianti, manufatti da lei stessa in persona, nel molto tempo libero che aveva durante le lunghe giornate fra quelle alte montagne dove, incredibilmente viveva ancora da sola, autosufficiente ed abbastanza lucida da poter parlare e formulare discorsi sensati. Per la traduzione dall'inglese al Kirghiso e viceversa, Antonov aveva provveduto mandando, con i due americani, un suo dipendente, nato nel Paese della donna, e vissuto sul luogo abbastanza da ricordare qualcosa del suo idioma d'origine.

Il volto tartaro di cartapesta scura, dagli zigomi alti, attraversato da centinaia di rughe dell'anziana montanara, era illuminato da occhi stranamente e straordinariamente chiari per la razza di quei luoghi, e lo sguardo era ancora sveglio e brillante.

Non molto avvezza a parlare per il lungo tempo passato in pressoché completa solitudine, il suo racconto partì sotto la forma di intervista, con domande piuttosto corte e precise poste dall'interprete, alle quali la donna controbatté con risposte altrettanto corte e precise.

Aveva trascorso i suoi cento anni e oltre - affermò di averne attualmente centocinque - in quel villaggio senza spostarsi mai troppo e incontrando poca gente, troppo poca per raccogliere testimonianze bastanti a ricucire qualche brandello di storia del pianeta in quell'ultimo secolo, però qualcosa uscì per praticare un piccolo squarcio nello spesso velo di inspiegabile occultamento del passato della Terra.

In parole semplici e povere, Hardings, Edwards e l'interprete capirono, o credettero di capire, che cento anni addietro, un giorno, qualcuno aveva, in sostanza, rivelato quella che aveva definito Verità Assoluta, ovvero, la non esistenza di alcuna divinità e la completa invenzione di una mitologia ad essa legata, la qual cosa, in soldoni, stava a significare che Dio non esisteva, non era mai esistito e tutto ciò che aveva girato intorno a lui si era rivelato un ammasso di enormi balle costruite ad arte per far soldi, questione che, comunque, alla narratrice non aveva interessato più di tanto, non essendo mai stata credente,  il cui sviluppo della vicenda non aveva più seguito per i motivi appena citati e perché nel suo Paese, a parte all'inizio, ben presto di notizie non ne erano più arrivate.

Non era molto, ma era già un indizio che, tra l'altro, forniva una spiegazione al recente nuovo utilizzo profano dei luoghi una volta ritenuti sacri.

Tornati alla base in Siberia, Hardings ed Edwards ringraziarono Antonov e compagni e risalirono sul loro velivolo di ricognizione.

"Se vedete uno di quei cosi belli gonfi di spazzatura - avvertì il russo - abbattetelo senza misericordia. Non importa se ammazzate anche gli occupanti. Sono bastardi in meno che vengono a depositare la loro merdaccia sul nostro sacro suolo".

Prima di chiudere lo sportello dell'aereo, Hardings salutò Antonov con il tipico leggero battito della mano tesa a taglio sopra l'arcata sopraciliare destra in segno di comprensione del messaggio e successiva tacita promessa di obbedire al suo ordine ma, non appena i due ripresero posto davanti ai comandi, prima di rimettere il moto l'aereo, Hardings si fermò a riflettere ad alta voce, volendo condividere i suoi pensieri col collega

"Edwards... "gli si rivolse, perplesso.

"Si?"

"E' possibile che l'umanità abbia creduto subito a quello che era stato detto?".

Anche Edwards si fermò a riflettere. Sembrava strano pure a lui.

"Non saprei, - rispose tuttavia - Però...si. In effetti...".

"O forse è stato proprio questo a provocare lo sconquasso" osservò Hardings.

"Cioè?" disse Edwards che aveva capito, ma voleva ulteriori conferme.

"Secondo me, in principio, la gente non ha creduto subito. - azzardò Hardings - Vuoi che sia stata così stupida da prendere a tamburo battente per buona una dichiarazione fatta magari da un tizio che si era svegliato male una mattina o che aveva chiesto un miracolo e non lo aveva ottenuto? Succede così, sai? Tutti i più grandi casini della Terra sono avvenuti perché qualcuno non si è visto accontentato nella propria richiesta.  Poi l'umanità si è divisa in credenti e non credenti e, finalmente, dopo anni di silenzio e ipocrisia, le due fazioni se le sono date da orbi sfogando i loro istinti repressi. Secondo me è andata così".

Pensandoci bene, Edwards realizzò di trovarsi in accordo col collega. Doveva essere andata in quel modo. Soddisfatto della sua teoria, Hardings accese i motori dell'aereo e dopo pochi secondi i comandi automatici si attivarono, favorendo un decollo rapido e ben calibrato. Altri secondi dopo, lasciata la pulita Siberia alle spalle, sotto di loro si riaprì il desolante panorama di distese di spazzatura in tutte le zone pianeggianti disabitate.  E la madre delle domande sbocciò spontanea: possibile che, tranne nelle aree intorno a basi militari, nel resto del mondo nessuno si fosse mai accorto di quello scempio? Libero, grazie al temporaneo inserimento del pilota automatico, Hardings lasciò per qualche attimo i comandi incuriosendo e ponendo all'erta Edwards che indovinò una qualche altra profonda riflessione del compagno di volo. Ed effettivamente, Hardings era stato folgorato da un pensiero improvviso: che fine avevano fatto i telescopi? Riprese completamente i comandi in mano e puntò l'aereo verso sud est.

Nel mentre, i due fecero in tempo ad accorgersi che l'intero territorio del Medio Oriente era scomparso, sommerso dalla spazzatura.

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Capitolo 14
*** LA CONFERENZA ***


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Grindewald, più o meno nello stesso periodo

 

Ospedale

 

Terminata la giornata lavorativa, prima di tornare definitivamente a casa, Annamaria volle fare un'ultima visita a Heron per assicurarsi che fosse davvero pronto per la conferenza. Era rimasta particolarmente colpita da quella carezza, elargitagli dall'uomo forse inconsciamente, ed ebbe una seconda maggiore sorpresa allorché, entrata nella stanza, Heron le andò incontro con le braccia semi tese come se la volesse abbracciare, ritraendosi solo all'ultimo momento da quell'impulso e scusandosi per il gesto. Annamaria fu sicura di capire.

"Comandante Heron, - gli si rivolse piena di comprensione - lei ama quella donna, vero?" disse, riferendosi alla paziente sotto tenda ad ossigeno. Heron tornò al letto e si sedette, affranto, sul bordo.

"Si" confessò come una liberazione.

"Ma?" lo sollecitò Annamaria aspettando il "ma".

"Le regole della flotta proibiscono ogni legame sentimentale, anche una semplice amicizia fra membri dell'equipaggio di un'astronave" rivelò l'uomo, tristissimo.

"Lei la ama?" chiese ancora Annamaria.

"Si. - rispose Heron, maggiormente afflitto - Almeno....credo!".

"Immaginavo. - disse Annamaria avvicinandosi a lui. L'uomo si girò verso di lei lanciandole uno sguardo muto che però diceva tutto - Al diavolo, le regole!" si lasciò sfuggire lei, a mezza voce, stizzita e anche lei rattristata.

A quel punto, Heron ebbe una reazione imprevista. Spalancò i suoi splendidi occhi blu di stupore.

"Come ha detto, scusi?" la interpellò, teso. Perplessa, Annamaria ripeté la frase.

"Credo sia un vecchio modo di dire. - spiegò - Per protestare contro una situazione a noi sfavorevole".

"No, - rettificò Heron - Al diavolo. Il Diavolo....  -  e nel parlar così, prese un tablet e le mostrò una fotografia che raffigurava una croce.- Ha mai visto quest'oggetto?".

Annamaria frugò nel suo archivio mentale. Si. Aveva incontrato l'immagine di quell'oggetto ma non l'aveva mai associato a nulla di particolarmente importante.

"Perché me lo chiede?" domandò, incuriosita.

"Perché a volte mi appare in sogno. - rispose Heron, eccitato da un'emozione che sembrava intensa - Fra le fiamme. - Poi, afferrandole il bavero del camice la invitò a guardarlo bene. Lo sguardo di Annamaria cadde sulla piccola spilla appuntata sotto il bavero: il Caduceo, il bastone avvolto nelle spire di due rettili, il simbolo della categoria dei medici. Annamaria non capì subito - Dovrebbe esserci anche la croce - riprese Heron - come simbolo di chi salva vite per professione. Lo avevo visto in un libro a casa di un nostro vecchio amico di famiglia. - si fermò notando l'espressione corrucciata di Annamaria - Ho detto qualcosa che non va?" terminò preoccupato.

Annamaria sorrise.

"No. - lo tranquillizzò - Talvolta ho la sensazione che ci venga nascosto un passato".

"Non è una sensazione" corresse Heron.

Annamaria gli si avvicinò ancor di più e gli si mise davanti scrutandolo con sguardo determinato.

"Lei sa qualcosa in merito?" lo interrogò, decisa.

"Del vostro pianeta, no. - rispose Heron - Del mio, frammenti di racconti incompleti che hanno il sapore di favole narrate di fronte al fuoco di un camino". Annamaria apprezzò quella poetica similitudine. Sotto la rigidità dell'uniforme di pilota di un'astronave - che in quel momento, tuttavia non indossava -, Heron stava rivelando un animo sensibile e romantico.

"E di cosa parlava quel passato? Ricorda?" continuò Annamaria, cercando di incoraggiarlo a parlare. Heron la guardò con un un'intensità difficilmente sostenibile.

"Di un dio che non c'è più. - rispose lui, sempre mesto - O almeno di una divinità in cui i nostri antenati riponevano fiducia". Annamaria annuì, percependo vaghe linee di un'idea che andava disegnandosi nella sua mente. Al momento decise di non insistere e  di cambiare tema.

"Perché lei e il suo equipaggio siete venuti fin qui, in un mondo popolato da quattro gatti? - domandò - Ci siete arrivati per caso?" Heron abbozzò un sorriso. Meraviglioso.

"No. - rispose - Oltre ai quattro gatti, avete materiale che ci interessa".

"Quale?" chiese Annamaria, curiosa.

"Uranio" rispose Heron, secco, osservando divertito l'espressione stupita della donna.

"Non è pericoloso?" commentò infatti Annamaria.

"Se usato male. - specificò Heron con atteggiamento di chi si vanta di essere esperto, mutandolo però poi in uno più umile - Annamaria... - proseguì, preoccupato - gli abitanti di questa città hanno paura di me?"

Annamaria sorrise.

"All'inizio sì. - ammise - Ma ora sono solo curiosi e ansiosi di conoscerla. - si allontanò di poco, per cominciare ad andar via, continuando a sorridere - Stia tranquillo. Andrà tutto liscio. Sia solo se stesso. E li conquisterà davvero. Buona notte". Detto ciò, gli sfiorò una spalla. Prima di lasciare la stanza, fu certa che il comandante avrebbe voluto almeno deporle un bacio sulla fronte o su una guancia. Uscì in fretta per impedirglielo e per evitare a lei stessa di commuoversi.

 

 

 

 

A casa Aloisi

 

Non erano riusciti ad andare a cena fuori ma quella sera la famiglia Aloisi era al completo attorno al tavolo della bella e grande cucina abitabile per consumare il pasto serale tutti insieme.

Flavia, Giulio e Federico, i più grandicelli erano finalmente in vacanza dalla scuola e la piccola Annalisa era ben sistemata, salda sul suo seggiolone, in trepida, nervosa, affamata attesa del primo piatto, la sua bella porzione "da grandi" delle penne all'arrabbiata. Annamaria non aveva di sicuro molto tempo per preparare pietanze elaborate come lasagne o cannelloni, ma i primi piatti le venivano comunque sempre molto bene.

"Mamma, è vero che ci sono gli alieni?" se ne uscì Giulio di punto in bianco.

"Le notizie girano in fretta" commentò Stefano, mordicchiando un pezzo di pane morbido e fresco.

"Non siamo certo a Roma o a New York" fu la risposta veloce di Annamaria.

"Mamma, tu li hai visti, vero?" fece seguito Federico.

"Li ho visti anch'io! -  si vantò Flavia ridimensionandosi però, subito dopo - Cioè....l' ho visto. Ne ho visto uno solo. - Giulio e Federico la tempestarono di domande alle quali la ragazzina rispose, per la verità, in tono non tanto enfatico - Poverino! - si mostrò empatica alla fine - Mi ha fatto quasi pena. Sembrava più spaventato lui di noi".

Annamaria si fermò con la zuppiera in mano, sovrappensiero. Tutti ebbero l'impressione che fosse preoccupata. Infatti, immediatamente dopo, chiese al marito quando fosse stata fissata la conferenza.

" A fine settimana. -  rispose Stefano, piuttosto allegro. Ma nel vedere la consorte perplessa, tornò serio - Come sta il nostro ospite?".

"Fisicamente sta meglio. - rispose Annamaria facendo spazio sul tavolo e depositando la zuppiera fumante - Si è ripreso quasi del tutto, ma moralmente è un pò giù. A dirla tutta, non so davvero come reagirà e come si comporterà. E' vero che è un tipo abituato al comando e a prendere decisioni in velocità, ma qui la situazione è molto diversa. E' letteralmente in un altro mondo che non è il suo. Sto cercando di prepararlo meglio possibile. Comunque, già il fatto che abbia accettato di parlare in pubblico, è un buon segno. Vuol dire che ha voglia di comunicare con noi..... - si fermò come per pensarci - Ne ha bisogno".

"Ci racconterà la sua storia?" intervenne di nuovo Giulio.

"Ci parlerà del suo pianeta?" si accodò Federico.

"Possiamo venire anche noi alla conferenza?" chiese Flavia.

"La conferenza è aperta a tutti. -  rispose Stefano, afferrando la forchetta e affondandola nelle penne scivolose di profumato sugo di pomodoro, come a voler porre fine alla discussione, dando il via alla cena - Fa parte della festa di fine mese che è aperta a tutti".

Annamaria si fermò con la forchetta a mezz'aria.

"Non so se forse sia troppo presto" commentò, seria.

"E' meglio così, credimi. - le fece notare Stefano - Già gli abitanti non hanno digerito molto che abbiamo tenuto loro nascosto la presenza dei nostri visitatori dello spazio. Mi hanno assalito e me ne hanno dette di tutti i colori. - si lamentò - Si sono calmati solo quando ho annunciato che uno di loro si sarebbe fatto vedere, proprio perché non hanno nulla da nascondere. Sono venuti in pace.....Vero?" . Scorgendo sul volto di Stefano una buffa espressione di ricerca di conferma, Annamaria accennò un sorriso. Se si escludeva quella iniziale minaccia di vendetta per la morte del padre, perito chissà dove e perché, con la quale aveva esordito i primi giorni di degenza, forse sotto l'effetto degli analgesici e dell'ossigeno, Heron non aveva più dato segni di istinti violenti, anzi! Si era dimostrato pacifico e....molto dolce, soprattutto con lei. Ma aveva manifestato un continuo tormento interiore che pareva farlo soffrire e neanche poco e adesso lei ne conosceva la ragione.  Per associazione di idee, le venne in mente di colpo ciò che le aveva mostrato e volle condividerlo con il marito pur rendendosi conto che, forse, l'argomento non sarebbe stato adattissimo per i figli.

Al sentirla parlare, Stefano smise di botto di mangiare e alzò la testa di scatto.

"E me lo dici così?" la rimproverò senza, tuttavia, esser duro.

"Come avrei dovuto dirtelo? - replicò Annamaria, piegando sullo scherzoso - Cantando?" e accennò una musica mettendo in versi ciò che aveva appena detto a parole.

Stefano drizzò la testa e il busto, dimostrando estremo interesse alla rivelazione e anche che sembrava aver avuto un'improvvisa intuizione.

"Annamaria...."esordì, vagamente solenne.

"Si?" lo incalzò la moglie.

"Qualunque cosa sia successa sul nostro pianeta, qualcosa di simile dev'essere successo in quello del nostro amico".

"Credo di si" convenne Annamaria.

"Convincilo a parlarne alla conferenza" quasi le ordinò Stefano. Annamaria annuì

"Credo che lo farà. - disse a mezza voce - Senza bisogno di convincerlo".

E  la famiglia Aloisi riprese la cena.

 

 

 

 

 

Dopo cena

 

L'eccitazione per la conferenza imminente, che senza dubbio si stava delineando fuori da ogni schema convenzionale, rese particolarmente difficile il persuadere la prole della famiglia ad andare a godersi il sonno del giusto. In altre parole, quella sera i coniugi Aloisi fecero più fatica del solito a mandare i loro figli nelle proprie stanze a dormire, ma alla fine ci riuscirono e dopo aver socchiuso la porta della loro camera per non perdere del tutto il controllo della situazione, poterono godersi un pò di intimità senza esagerare data anche la profonda stanchezza a cui giungevano al termine di giornate per loro sempre piuttosto pesanti. Quando Stefano uscì dal bagno dopo una doccia rigenerante, trovò Annamaria seduta sul letto matrimoniale, a gambe incrociate e con la faccia scura. Si sedette accanto a lei e le girò il viso verso di lui.

"Sputa il rospo!" le comandò, in tono scherzosamente imperioso, sicuro che stesse covando qualche pensiero cupo. Annamaria scosse la testa.

"Forse hai ragione" esordì, seria.

"Su cosa?" chiese lui, sospettoso.

"Sul passato. - rispose Annamaria - Abbiamo un passato. Questo pianeta ha un passato, ma non so per quale accidenti di strano motivo, è stato cancellato o almeno qualcuno ha deciso che non dobbiamo recuperarlo e mi domando perché. Cosa è successo di tanto terribile da impedircelo?"

Stefano sgranò gli occhi.

"Complimenti, dottoressa Di Gennaro! - gongolò - Lei ha appena posto la domanda della settimana! O meglio: quella del millennio".

"E cosa vinco?" continuò il gioco Annamaria.

Stefano non rispose passando all'azione e baciandola.

"Ritroveremo il passato della Terra. - si divertì Stefano a promettere solennemente - Parola di Stefano Aloisi".

 

 

 

 

 

 

La conferenza

 

La tanto attesa conferenza ebbe luogo il sabato in un'ampia sala del municipio di Grindewald, che si riempì fino all'esaurimento posti in piedi. Si poté quasi dire che vi partecipò tutta la popolazione adulta e pensante, ma registrò anche la presenza di molti giovani fra i quali i figli maggiori del sindaco Aloisi. Stefano ricevette molti complimenti per sua figlia, una bella ragazzina di 12 anni, più alta di svariati centimetri della media - mutuati dalla statura di suo padre -, sottile, dal bel visetto sveglio, incorniciato da una folta e lunga capigliatura castano ramato, e illuminato da due grandi occhi grigio-verdi, anch'essi ereditati da papà Stefano, mentre i due maschi, Federico e Giulio, rispettivamente di 9 e 7 anni, erano piuttosto evidentemente somiglianti ad Annamaria, anche loro castani di capelli e occhi, dalle chiome corte e zazzerute, e i visi tondeggianti che conferivano un aspetto simpatico ed accattivante. La piccola Annalisa, troppo giovane per partecipare a quell'assemblea, dove forse si sarebbe parlato di cose da grandi, era rimasta a casa con una ragazza trovata disponibile per miracolo a farle da baby sitter per quella mattina.

Tutti sapevano dell'arrivo dell'ospite che veniva da lontano e l'emozione era tangibile al tatto.

I commenti bisbigliati serpeggiavano fra i convenuti e si sentiva di tutto: da quelli benevoli e speranzosi a quelli vagamente velati di incomprensibile malignità, finché da una porta in fondo alla sala, Heron entrò, alto, elegante nel portamento, nel semplice e sobrio completo grigio chiaro, prestatogli da un collega di Annamaria della sua stessa statura e struttura fisica, sotto il quale spiccava una camicia celeste, ben stirata, ma aperta al collo per volere della dottoressa, preoccupata che potesse il più liberamente respirare, considerando la sua nota difficoltà nel farlo a causa dell'altitudine e delle dolorose conseguenze fisiche riportate nel grave incidente di cui lui e il suo equipaggio erano rimasti vittime. Le costole fratturate si erano ormai pressoché saldate completamente, ma gli procuravano ancora, di quando in quando, qualche brutta fitta e solo per cautela, sotto la camicia, indossava un leggero tutore elastico che gli fasciava il torace, accentuandogli apparentemente l'ampiezza del petto. Il suo avanzare verso il lungo tavolo in fondo alla sala, dalla parte opposta dell'entrata, ebbe il potere di ammutolire qualunque residuo commento diretto alla sua persona, facendo convergere gli sguardi su di lui, fomentando un "oh" di meraviglia e dividendo idealmente ed immediatamente la platea nelle due fazioni sessualmente distinte: la femminile, inchiodata dalla meraviglia e la maschile, più mobile, che a sua volta si divise a metà fra coloro che mormorarono di ammirazione e quelli che vibrarono di invidia e gelosia.

Senza guardare, Heron raggiunse il tavolo e, invitato con fare soave da Annamaria che parve mangiarselo con gli occhi, lo aggirò e vi si sistemò dietro, al centro di esso. A quel punto, alzò la testa e gli occhi puntandoli sui presenti i quali sembrarono perdere la parola, precipitando la sala in un silenzio irreale. Silenzio che lui ruppe poco dopo stirando lentamente le sue labbra perfette in un sorriso, prima timido poi sempre più aperto, sciogliendo gli animi come burro al Sole.

"Miseria! - si sentì borbottare una voce femminile - Ma nel suo pianeta sono tutti come lui? E gli altri? Voglio andare. Voglio partire subito!".

Esplose una risata in mezzo alla quale, però, si udì anche qualche rimbrotto acido, probabilmente fuoriuscito dalla bocca di qualche esemplare maschile non molto felice di essere oggetto di un inevitabile confronto esteriore avanzato dalla propria partner. Alcuni animi mostrarono di cominciare a scaldarsi, pronti ad un eventuale scambio di non educati convenevoli, ma gli esponenti delle Forze dell'Ordine esibirono subito palesi le intenzioni di spegnere e disinnescare qualunque miccia, anche la più piccola, spingendo con pochi complimenti le teste calde fuori dalla sala attraverso porte laterali.

Ristabilita la calma, la bruna, alta e spavalda organizzatrice della conferenza si sorprese ancora sotto shock, ma si fece coraggio, si ricompose e cominciò a porre le sue domande a cui Heron rispose dapprima timido, educato, dolcissimo, sfoderando poi, anche ironia. Precedentemente istruita da Annamaria che ormai sapeva molto dello straniero, Giacinta Raineri, - questo era il nome della cronista che aveva voluto l'incontro - raggiunse presto il punto desiderato.

"Comandante Heron, - lo interpellò come aveva appreso dalla dottoressa - cosa l' ha spinta a venire sul nostro pianeta?".

"Piacerebbe saperlo anche a me. - rispose Heron esibendo la sua ironia - Visto che sono arrivato qui in modo molto veloce. Anche troppo, forse" . Molti ricordarono il botto di un mese prima e riempirono la sala con una risata contenuta, ma sentita, dopodiché Heron riprese, stavolta recuperando la sua serietà e la sua sobrietà, fornendo il vero motivo della sua presenza sulla Terra. "Uranio?" esclamò un convenuto, sinceramente stupito dalla risposta.

"Già. - confermo Heron - Siamo qui perché abbiamo scoperto che sulla Terra c'è molto uranio e altri minerali che potrebbero servirci per alimentare le nostre centrali produttrici di energia per far funzionare i macchinari che ci forniscono luce e calore nelle città e nelle abitazioni".

"Io so dov'è l'uranio!" se ne uscì un cittadino italiano di Grindewald.

"Bene. - rispose Heron, sentendo accendere la speranza - Me lo dica. Vado a cercarlo, ne prenderò quanto stimo sia necessario e toglieremo il disturbo".

"Nessun disturbo, comandante! - gongolò una donna tedesca in carne - Per me può stare qui quanto vuole".

"Non t'illudere, balena! - la smorzò un italiano - Scòrdati che venga a scaldarti il letto!"

Senza replicare, la corpulenta signora teutonica si alzò dalla sua poltrona, si mosse rapidissima fino a quella occupata dall'italiano e assestò all'uomo un'energica borsata sulla testa. Il tedesco strillò, si portò le mani al capo mezzo pelato e, con occhi furenti, si scagliò a voce contro la donna investendola di insulti mezzo in italiano e mezzo in tedesco. Lei non mostrò di essersi pentita del gesto, anzi! Manifestò l'intenzione di concedergli il bis, il tris e il tetris se non fosse stato per gli agenti delle Forze dell'Ordine che la riacchiapparono e, a forza, la riportarono alla sua postazione  con le loro armi puntate addosso. I due litiganti si sedettero ai loro posti, continuarono a guardarsi in cagnesco, ma non si mossero più.

La conferenza proseguì senza altri inconvenienti e si giunse alla questione cruciale.

"Comandante... - avviò Giacinta, compiendo un profondo respiro - molti anni fa qui, sul nostro pianeta sembra siano avvenuti dei fatti che hanno sconvolto l'umanità decimandola numericamente, e cambiandone per sempre l'assetto sociale. Pare strano, ma noi di queste ultime generazioni non sappiamo nulla di quel che realmente sia avvenuto perché non ci sono giunte più informazioni nel tempo, però pare che lei sappia qualcosa. Può dircelo?".

Anche Heron respirò e a qualcuno non sfuggì una rapida smorfia di dolore che alterò per un secondo o due i bei tratti del suo volto. Non sfuggì neppure ad Annamaria che gli si accostò apprensiva. Ma l'uomo la tranquillizzò. Stava bene ed era già tutto passato.

"Nemmeno io ne so molto. - rispose calmo - A quell'epoca non ero ancora nato. Non ero nemmeno in programma... - altra risatina generale - Ma da quel poco che sono riuscito a sapere grazie a persone che sono vissute a lungo e sono ancora vive, so che gli eventi sono da ricondurre al sentimento della fede. In altre parole.... - si fermò un attimo per prendere un altro respiro, allarmando Annamaria che cominciò a vederlo affaticato - dev'essere successo qualcosa che riguarda la sfera religiosa... o una credenza...".

"Una guerra santa?" azzardo qualcuno ad alta voce.

"Qualcosa di simile" fece eco un altro. L'ipotesi accese un'interessante e civile discussione che coinvolse molti partecipanti. Annamaria ne approfittò per assicurarsi che Heron stesse bene, ma l'uomo le garantì che tutto stava procedendo per il meglio e che, malgrado la tensione, si stava divertendo.

"Ma... - continuò Giacinta - è successo anche nel suo pianeta?".

"Credo di si" rispose Heron, convinto.

 

L'evento ebbe termine scivolando poi nella grande festa che sindaco e assessori avevano preparato nelle piazze della cittadina allestite con enormi tavolate dove salsicce, birra, delikatessen tedesche e sana cucina italiana s'incontrarono in una grande mangiata e bevuta a cui seguì danze e canti di entrambe le comunità le quali, almeno una volta ogni tanto, si univano dimenticando vecchi rancori intonando insieme canzoni di montagna e di altro genere.

Il Sole era brillante e caldo e il cielo sereno, di un azzurro densissimo, si specchiò magicamente negli occhi del bel comandante extraterrestre accentuando il blu che parve retroilluminarsi sprigionando una luce quasi sovrannaturale. Qualcuno cominciò a pensare che in quel momento, se non Dio, o il dio di cui si era parlato a fine conferenza, lui avrebbe potuto comunque essere una creatura in cui credere, alla quale dare fiducia e su cui confidare per risolvere qualche problema.

Era l'effetto della birra?

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Capitolo 15
*** IL GRANDE FRATELLO NON GUARDA ***


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IL GRANDE FRATELLO....NON GUARDA

 

 

Volo di ricognizione

 

"Tom, dove stai andando? - domandò Edwards, preoccupato, notando che il collega aveva spinto il velivolo a velocità piuttosto elevata - Dove intendi andare?".

Qualche ora dopo lo indovinò. Da lontano, in mezzo alla vegetazione, faceva capolino una costruzione dalla struttura inconfondibile, che ne rivelava la natura e la funzione: la cupola di un osservatorio astronomico, stranamente chiusa.

"Il telescopio di Monte Palomar è stato ritirato" borbottò Hardings abbassando la quota di volo dell'aereo e puntando più a sud.

Dopo circa un'ora furono sopra al grande telescopio, incassato nel verde, di Arecibo Ed anch'esso era circondato da detriti di ogni genere.

Edwards vide Hardings girarsi verso di lui e fissarlo, stralunato.

I più grandi telescopi del mondo, quelli che, per capirsi, erano in grado di sondare l'universo fino agli angoli più remoti, erano stati bloccati e messi fuori uso, il che spiegava il non aver intercettato gli invasori impedendo che questi depositassero la loro spazzatura sul suolo terrestre.

Perché?

E da chi?

 

 

 

Terra, Area 51

 

Sicuri ormai che i prigionieri non sarebbero scappati in alcun modo e da nessuna parte, Forrest e soci avevano deciso di lasciarli liberi mantenendo comunque una stretta sorveglianza.

Uno degli scaricatori di immondizia manifestò educatamente la necessità di andare al bagno. Cinque uomini della sorveglianza gli puntarono le loro armi contro e, senza abbassarle, lo scortarono fino alle toilettes. L'uomo aveva finito col non farci più molto caso ed accettava di spostarsi ovunque all'interno di quello strano posto, costantemente accompagnato dalle bocche di quei "cannoni" sempre carichi, pronti a far fuoco ad ogni sua mossa interpretata come errata.

Atteggiamento differente e più infastidito, quello mostrato invece dagli esponenti della "malavita spaziale", più insofferenti a quel tipo di costrizione. Ma tant'era. Il capo di quel luogo aveva deciso così e non sembrava esibire intenzioni di cambiamento di idee. Avevano dovuto accontentarsi di non essere più legati alle sedie e considerare quella concessione come una generosa prova di fiducia che non doveva assolutamente essere delusa, pena: il tornare ad essere legati per l'eternità.

Gli uomini partiti per la ricognizione aerea non erano ancora rientrati alla base e ciò stava lievitando un certo nervosismo all'interno degli ambienti.

Con le armi sempre puntate addosso, i prigionieri seguirono il capo e compagni recarsi in fondo all'ampia sala, entrare, smanettare con i macchinari e parlottare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A bordo dell'aereo

 

La radio di bordo emise un fischio lacerante che per poco non mise fuori uso i timpani di Hardings ed Edwards, poi gracchiò e spernacchiò poco finemente, per introdurre, alla fine dei vari rumori, una voce anch'essa non molto limpida, ma familiare.

"Si può sapere dove accidenti siete? - sbraitò la voce - Avevo detto un volo di ricognizione non uno turistico! Siete andati alle Hawaii a fare surf?".

"Capo, - replicò Hardings, eccitato - Non sa cosa abbiamo scoperto!".

"No, - protestò vispamente Forrest - e mi auguro per voi che sia interessante, altrimenti non rispondo delle conseguenze. Quando vi decidete a tornare?".

"Stiamo tornando, capo. - lo assicurò Hardings - Fra non molto arriviamo".

 

 

Poche ore dopo, Hardings ed Edwards fecero il loro ingresso nell'ampia stanza accolti dal loro capo, fra il contento di rivederli o lo stizzito di rivederli così tardi. Tuttavia, in seguito all'avere ascoltato il rapporto abbastanza dettagliato dei due piloti, gli animi di Forrest e degli altri uomini della base si calmarono ma furono anche pervasi da una spiacevole sensazione di inquietudine e a farne le spese furono, ancora una volta, i prigionieri che si videro puntare le armi dai sorveglianti, col tiro alzato e più minaccioso di prima.

"Ne sapete niente?" squillò Forrest, torvo.

I cinque prigionieri si passarono in rassegna, stupiti e in imbarazzo.

"No" rispose uno degli scaricatori.

"Capo, - lo interpellò un altro uomo della base, un tipo giovanile, alto, magro biondo ed occhialuto, esprimendosi in un tono di voce professionale, da esperto di cospirazioni - è evidente che qualcuno ha creato questa situazione per esercitare un comando occulto".

"Un comando occulto?" ripeté Forrest, poco persuaso.

"Si. - ribadì l'occhialuto - Da qualche parte dev'essere nata un'organizzazione oligarchica, formata da un esiguo gruppo di persone le quali hanno fatto in modo che i sopravvissuti agli eventi di un secolo fa si siano divisi in comunità separate, indipendenti, specie di città-stato di stampo greco, indifferenti all'esistenza degli altri. Dividi et impera, usava dire l'antico popolo romano".

"Perché? - chiese e si chiese Forrest, accigliato - E chi può esser stato a volere questo?".

"Non saprei" rispose l'occhialuto, esibendo la sua cultura, ma anche la sua sincera perplessità.

"Un popolo alieno?" azzardò un altro esponente dello staff della base.

Forrest si grattò prima la testa poi, il mento.

"Beh, - fece, assumendo un atteggiamento più deciso - dobbiamo scoprirlo - e rivolgendosi, cupo ai prigionieri - Voi ci aiuterete, vero?". L'ulteriore innalzamento del tiro delle armi in mano ai sorveglianti, non lasciò molte chances ai cinque prigionieri i quali non avrebbero saputo da che parte cominciare, ma accettarono l'incarico senza recriminare troppo.

 

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Capitolo 16
*** RICERCA DI CONTATTI ***


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RICERCA  D I  CONTATTI

 

 

 

Grindewald, il giorno dopo

 

 

La festa di fine mese si era conclusa per il meglio.

La conferenza si era rivelata un successo, imprimendo vivacità, ulteriori maggior interesse e partecipazione ai festeggiamenti da parte della cittadinanza che ora era consapevole della novità piovuta sul loro sonnacchioso nucleo urbano. Nella sua educata discrezione, il bel comandante alieno Al Heron aveva ovviamente scatenato la curiosità degli abitanti i quali avrebbero volentieri venduto i propri familiari, o parte di essi, per sapere di più su di lui ma che dovettero ben presto accontentarsi di apprendere notizie vaghe da Annamaria e dallo staff medico precipitatosi a riformare il cordone protettivo attorno a lui, per lasciarlo riposare e ultimare le cure per la sua ripresa fisica definitiva, nonché compiere ennesimi tentativi di rimettere in sesto almeno qualche altro componente scassato del suo equipaggio.

Pur ricevendo impressione positiva, Stefano non aveva potuto fare a meno di notare lo sguardo intenso che l'uomo aveva di tanto in tanto riservato alla sua dolce consorte ed ora osservava Annamaria, apparentemente con altri occhi. Ma Annamaria non aveva fatto una piega e fissava il marito con sguardo scanzonato.

"Stefano Aloisi, - lo apostrofò quella sera, soli nella loro camera da letto - che fai, mi fai il geloso?".

Stefano si schiarì la voce cercando nel contempo di darsi un contegno distaccato.

"Ammetterai che non gli sei antipatica" osservò.

"E chi lo nega? - riconobbe lei, senza scomporsi - Ma ti assicuro che non si va oltre la simpatia. - Annamaria smise di parlare, si avvicinò al marito e gli accarezzò le braccia regalandogli uno sguardo accorato - Il cuore e la mente di quell'uomo sono per la donna che è ancora in coma sotto la tenda ad ossigeno e che noi stiamo cercando di salvare. Per lui, io sono colei che forse la salverà. Deve salvarla!"

"La salverete?" chiese Stefano, stavolta, parlando seriamente.

"Non morirà. - rispose Annamaria, triste - Ma non sappiamo ancora se si alzerà e tornerà a camminare". Stefano chiuse gli occhi, sinceramente costernato per la notizia, quindi si avvicinò ad Annamaria e la baciò senza altri indugi. Il resto della sera e della notte furono spesi dai due nella conferma che il cuore di Annamaria Di Gennaro era, e sarebbe stato sempre solo per Stefano Aloisi.

 

 

 

 

La mattina dopo

 

 

La mattina dopo, al suo arrivo in ospedale, un'infermiera corse verso di lei annunciandole che Heron era entrato nella stanza della donna ricoverata ancora al reparto terapia intensiva. Corsa sul posto, Annamaria trovò l'uomo sbirciare la paziente attraverso la sottile breccia aperta da lui scostando i lembi della tenda che la chiudeva nell'ambiente iperbarico. Al suo ingresso, Heron chiuse la tenda e si voltò verso Annamaria. Lo sguardo dell'uomo provocò nella donna un autentico moto di compassione. Gli occhi blu erano lucidi di lacrime. Avrebbe voluto farli vedere a suo marito, ma Heron si ricompose velocemente e si mosse verso di lei, avvicinandosi e stringendole le braccia.

"Guarirà, comandante. - le venne spontaneo rincuorarlo - Ce la faremo".

"Non c'è rimasto niente della nostra astronave, vero?" chiese Heron, sorprendendola della domanda.

"Purtroppo no. - rispose Annamaria, avvilita, confermando la richiesta dell'uomo - Almeno così mi è stato riferito".

Heron assunse un'espressione pensierosa e concentrata.

"Devo trovare un modo per recuperare un contatto con il mio pianeta. - annunciò poi, con aria vagamente persa - Cosa posso usare? Cos'avete qui sul vostro?".

Annamaria si sentì completamente spiazzata. Se nel suo campo medico era considerata, e lei stessa si considerava qualcuno, in astronomia si reputava una nullità totale. Tuttavia, nel suo disordinato archivio della memoria, ripescò il ricordo di aver incontrato, nel corso dei suoi studi, la notizia dell'esistenza di telescopi da qualche parte sulla Terra. Al momento non era sicura che fosse la soluzione ideale, ma ritenne giusto di doverlo menzionare al povero disperato Heron che invece, a quell'informazione, si riaccese come una torcia a cui avessero appena cambiato le batterie.

"Telescopi?" ripeté il comandante in un sussurro.

"Telescopi" confermò Annamaria, felice di vederlo cambiar colore di pelle al viso.

"Certo! - mormorò Heron, effettivamente risollevato - Telescopi. Va benissimo. Li abbiamo anche noi su Ariel. Servono a sondare l'universo. Con quelli abbiamo trovato la Terra. Dove sono?".

In quel preciso momento, Annamaria non lo ricordava con esattezza, ma gli promise di trovarli prima possibile e chiamò subito Stefano per girargli la richiesta.

 

 

Nel suo ufficio, Stefano provò a cercarli sul computer e fortunatamente li trovò.

Forse non facevano parte del pacchetto di cose appartenenti al passato del pianeta, da cancellare, o già cancellate.

"Non si trovano qui, - tenne a puntualizzare Annamaria dopo aver avuto da Stefano la risposta desiderata - ma in un altro continente, però...."

"Si possono raggiungere con un veicolo aereo" finì Heron, ora con il morale decisamente più alto.

Al contrario, Annamaria entrò nel panico. Heron aveva già difficoltà di respirazione a 2300 metri di altitudine, figurarsi a decine di migliaia. Era vero che lui viaggiava nello spazio, ma in altre condizioni e glielo fece presente. Da parte sua, Heron volle subito tranquillizzarla garantendole che si sarebbe portato dietro la maschera ad ossigeno vista accanto al letto.

Tutto risolto. Ora andava solo trovato chi lo avrebbe accompagnato fino a destinazione.

E qui, la sera, quando tornò a casa, Annamaria ebbe la seconda sconvolgente sorpresa: sarebbe stato Stefano stesso a portarlo alla meta. Perché Stefano sapeva pilotare un aereo e si offrì di buon grado a fargli da "autista".

 

 

 

 

Nel frattempo........

 

Area 51

 

"Stando a ciò che avete visto e detto, in parole povere, sulla Terra non sono spariti tutti" asserì Forrest a fine rapporto dei due piloti appena tornati dal volo perlustrativo.

"Esatto, signore. - confermò Hardings, sembrando fiero della scoperta e di esserne stato l'autore assieme al collega Edwards - Non siamo rimasti in molti, ma qualcuno ancora c'è. Solo che....".

"Quel che è rimasto della popolazione terrestre si è riunito in vasti agglomerati urbani, sparsi per il mondo e non comunicanti fra loro. - continuò Arnold Weaver, il giovane occhialuto - L'ultimo particolare è davvero strano. C'è da chiedersi perché fra le popolazioni non ci sia desiderio di sapere che altrove, sul pianeta ci sono altri esseri umani, a parte un eventuale piano di separazione volontaria voluta da qualcuno collocato nelle alte sfere dell'amministrazione di una di queste città stato".

"Dove pensa che sia, Weaver?" chiese Forrest.

"Non saprei. - rispose Weaver sinceramente perplesso - Per quel che ne so, può essere dovunque. Se davvero c'è".

"Qui, in America?" domandò ancora Forrest.

Weaver aprì le braccia.

"Dovunque. - rispose serafico - Anche in un posto dove potremmo non immaginare che siano".

Arnold Weaver, 38 anni, alto, slanciato, aria giovanile da eterno studente universitario, vantava in effetti due lauree: psicologia comportamentale e sociologia, ma anche lui, in quel momento, tracciando con un dito passato sul vetro di un grosso schermo incastonato in un vasto ripiano, un grande cerchio ideale sulla zona dell' Europa mediterranea, manifestava dubbi sulla singolare situazione che era venuta a crearsi sul globo terrestre,

"Se non fosse così?" insistette Forrest.

"Allora dobbiamo pensare che gli eventi accaduti in passato sono stati così sconvolgenti da togliere agli abitanti la voglia e la curiosità di sapere dell'esistenza degli altri e di comunicare la propria, nonché di cercare semplicemente contatti" rispose Weaver.

"Che diavolo può essere successo?" sbottò Forrest al quale questo mistero dava quasi fastidio fisico.

"Per ora non ne ho idea. - rispose Weaver, con contenuta desolazione - Il guaio è, - proseguì - stando sempre al rapporto dei nostri amici, - e nel dirlo, indicò i due piloti - che i mezzi di comunicazione sono fuori uso e nessuno ha pensato a ripristinarli, elemento questo che avvalora ulteriormente l'ipotesi di una volontà a non comunicare".

"Bel mistero!"borbottò Forrest, contrariato, avvicinandosi poi, di colpo ad uno dei prigionieri il quale arretrò, lievemente intimorito dall'espressione severa del viso e degli occhi dell'uomo.

"Oltre a scaricare le vostre schifezze qui sul nostro pianeta, - lo apostrofò, duro - quale altro motivo vi ha portato qui? E ti conviene dirlo subito se non vuoi assaggiare i nostri sistemi di persuasione a parlare. Sono piuttosto pesanti e convincenti". I soldati puntarono le loro armi cariche a tutta la superficie della testa dell'individuo, che non mosse un dito.

"Nessuno, si...signore" balbettò.

"Sicuro? - incalzò Forrest - Parla" lo minacciò poi.

"Lo giuro. - si affrettò ad assicurare il poveretto - Abbiamo visto il vostro pianeta deserto. Che motivo avremmo avuto di attaccare, muovere guerra, occupare o conquistare un pianeta deserto e disabitato?".

"E' questo che avete visto? - chiese Forrest ridimensionando il tono minaccioso - Non avete visto anima viva sul nostro pianeta?".

"I nostri strumenti non hanno registrato tracce biologiche. - rispose l'alieno più tranquillizzato nel vedere Forrest meno nervoso - Non quando hanno individuato il vostro mondo".

"Quanto tempo fa è successo? - chiese Forrest, a questo punto quasi più incuriosito che seccato - Ricordi?".

L'alieno guardò verso il soffitto come se da esso volesse trarre ispirazione per ricordare.

"Una decina di anni fa. - rispose poi ricordando senza trarre ulteriori ispirazioni dal soffitto - Forse".

"Da dieci anni andate avanti e indietro dal vostro pianeta a qui per scaricare la vostra immondizia?".

"S....s....si, signore. - rispose l'alieno tornando a balbettare - Abbiamo occupato i satelliti. Non avevamo più spazio e non sapevamo più dove depositarla".

"E avete trovato la Terra" seguitò Forrest recuperando l'aggressività in seguito alla sua risposta.

"L'hanno trovata i nostri strumenti. - rispose l'uomo - Gliel' ho detto. Sembrava deserto e disabitato".

"Signori... - richiamò l'attenzione un altro dei prigionieri appartenente al gruppo dei malavitosi - se volete, pensiamo noi a sgombrare e ripulire tutto.... - fece una pausa studiata, ridacchiando sarcasticamente - Il servizio però...." non riuscì a finire la frase. Forrest gli si avvicinò fulmineo e gli assestò un violento manrovescio su una guancia facendo compiere alla testa un giro di 90 gradi. L'uomo protestò vivacemente per il colpo.

"Ne approfitteremo subito, stronzo! - digrignò poi Forrest ponendo il volto a pochissimi centimetri dalla faccia dell'alieno e inchiodandolo con sguardo freddo - Ma non tireremo fuori un centesimo. Servizio ripulitura completamente gratis, hai capito, testa di cavolo?".

"Guarda che non siamo stati noi a sporcare! - ribatté l'alieno malvivente -  Anzi! Noi abbiamo cercato di impedire a loro di sbarcare qui".

"Certo! - strillò il Betano - A suon di mazzette! Se vuoi portare fin qui la spazzatura, basta versarci cinquantamila dollari universali!".

"Facevamo del bene!" cercò di giustificarsi il malvivente.

"Basta! - urlò Forrest, infuriato. - Sgombrerete tutto completamente gratis".

"Ma dove portiamo quella roba? -  si lamentò il Betano angustiato - Noi non abbiamo più posto".

"Non ho detto che dobbiate portarla in un altro posto" replicò Forrest cambiando atteggiamento e piegandolo verso un tono soddisfatto,  pensando che già da tempo aveva trovato un valido impiego per tutto il materiale raccolto intorno all'Area 51.

I prigionieri si scambiarono occhiate perplesse e preoccupate.

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Capitolo 17
*** FINALMENTE, DI NUOVO ***


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FINALMENTE,  D I  NUOVO IN "ONDA" 

 

Stefano Aloisi e Al Heron partirono una mattina di buon ora, poco dopo il sorgere del Sole.

Ripresosi ormai quasi completamente nel fisico,il comandante Arieliano fu quasi felice di uscire finalmente all' aperto nonostante l'aria leggera dell'altitudine elevata e seguì Stefano fino al velivolo, sorridendo, senza però abbandonare del tutto quel velo malinconico che lasciava trasparire la sua costante preoccupazione per i membri del suo equipaggio, specie per la donna del suo cuore.

"Si riprenderà, Heron. - lo incoraggiò Stefano - Vedrà che quando torneremo, lei starà meglio. Mia moglie sa il fatto suo". In realtà, Stefano non era così sicuro ma, in cuor suo, sentiva che comunque una soluzione sarebbe stata trovata per tirarla fuori da quella maledetta tenda ad ossigeno.

Annamaria era più dubbiosa e, in aggiunta, seguendo con lo sguardo marito e alieno allontanarsi verso l'aereo, avvertì un insidioso presentimento poco positivo, ma lo tenne per sé non volendo turbare alcuno, forse neppure se stessa. Baciò Stefano e diede ai due una sorta di benedizione per il viaggio.

"Cercate di tornare tutti interi" si raccomandò con la sua solita celata vena ironica.

"Non stiamo andando in guerra. - rispose Stefano in tono meno scherzoso - E' solo un volo ricognitivo. Speriamo solo di tornare con qualche buona notizia. O soltanto con qualche notizia".

"Giusto. - riconobbe Annamaria riacquistando una tranquilla saggezza - Basterebbe anche soltanto questo". E nel dir così, abbracciò Flavia che aveva voluto andare con la mamma a salutare il padre che partiva. Heron lanciò ad Annamaria uno sguardo che trafisse il suo sensibile cuore femminile. Era uno sguardo pieno di riconoscenza e di letizia nel vedere l'amore fra lei, Stefano e la figlia, ma anche di immenso dolore per la stessa ragione; per non poter avere ciò che loro avevano. Poi si voltò e cominciò ad allontanarsi affiancando Stefano verso l'aereo. Annamaria provò per lui una pena infinita. Quell'uomo stava soffrendo in modo indicibile.

Guardando i due, vicini, spalla a spalla, Annamaria si rese conto della statura di Heron non di molto inferiore a quella di Stefano, apparentemente  accentuata dalla tuta scura da pilota che, oltre tutto, metteva in risalto la figura slanciata dell'alieno.

La pista di decollo era appena fuori città, ricavata nel poco spazio fra l'abitato e i monti, ma la tecnologia, che non aveva fatto passi da gigante nella comunicazione però nella meccanica sì, aveva prodotto aerei che erano quasi in grado di decollare verticalmente dopo una breve corsa di rullaggio. Il velivolo si staccò presto da terra, si alzò di alcuni metri, ripartì orizzontale e scomparve presto oltre le creste dure e arrossate dal Sole delle montagne che circondavano la cittadina. Le due donne rimasero ancora qualche minuto a pensare, poi si decisero a rientrare nel centro abitato.

"Torneranno presto?" chiese Flavia, in macchina, a sua madre.

Annamaria sorrise.

"Non credo stasera per cena. -  rispose - Non ce la fanno".

Anche Flavia sorrise alla battuta materna.

Annamaria calcolò rapidamente che, nonostante la velocità del mezzo, il viaggio dei suoi uomini sarebbe durato almeno una settimana dei cui primi giorni non avrebbe potuto avere molte informazioni fino a che i due non avessero trovato il modo di ripristinare uno straccio di comunicazione con l'esterno.

 

 

Oltrepassata la grande barriera delle Alpi che si estendeva per molti chilometri verso ovest, scintillante al Sole di fine luglio, Stefano puntò ancora verso occidente, direzione Oceano Atlantico e quindi continente Americano dove aveva scoperto che si trovavano i due più grossi, potenti ed importanti telescopi del mondo: quello di Monte Palomar, in California, e quello di Arecibo nell'isola di Portorico.

Volando velocissimi ad alta quota, Stefano aveva avuto premura a pressurizzare al massimo la cabina di pilotaggio tuttavia, per molti chilometri, Heron mantenne la maschera ad ossigeno sul volto. Volare su un aereo non era la stessa cosa che viaggiare su un'astronave ma giunti ad un certo punto del viaggio, il comandante alieno provò a levarsela, scoprendo presto e con piacere che riusciva a respirare anche senza, grazie alla grande quantità di ossigeno che entrava nell'abitacolo.

I due si sorrisero ma Heron tornò serio e sgranò gli occhi non appena in lontananza cominciò ad intravedere la grande distesa liquida dell'oceano.

"Oddio!" esclamò con la voce strozzata dall'emozione.

Stefano restò molto sorpreso per quella esclamazione.

"Oddio?" ripeté infatti, meravigliato girandosi verso di lui.

"Si, - confermò Heron - Perché?".

"Heron.... " lo interpellò Stefano in tono deciso e vagamente solenne.

"Si?" fece Heron lievemente stupito.

"Cosa sa precisamente di Dio?".

"So che c'era. - rispose Heron quasi con una punta di tristezza - Che è esistito. Poi è scomparso e non si è più parlato di lui. Credo di aver capito che anche qui sulla Terra c'era un dio. C'è stato e anche qui è sparito".

Ecco un bell'argomento di cui parlare durante quel volo!

"Già. - confermò Stefano - Sembra proprio che sia così. Strano, vero?".

Heron abbozzò un sorriso mesto.

"In effetti. - ammise - Ma un vecchio amico della nostra famiglia mi disse che i nostri avi credevano in lui e stavano bene. Poi, un giorno qualcuno dichiarò che era tutto falso, che ci erano state raccontate solo bugie, che eravamo stati ingannati e dovevamo credere solo in noi stessi....."

Heron si fermò e si rimise la maschera per recuperare il respiro, allarmando un poco Stefano che si preoccupò subito per quella pausa.

"Tutto bene?" chiese infatti.

Il comandante inspirò ed espirò cinque, sei volte, quindi, si tolse di nuovo la maschera e rassicurò Stefano, sorridendo e alzando un pollice come aveva visto fare a un paio di pazienti all'ospedale.

Stefano si accorse di come l'uomo guardasse avidamente il mare che brillava sotto di loro inondato dal Sole dell'anticiclone delle Azzorre.

"Non c'è il mare nel suo pianeta, Heron?" non poté fare a meno di chiedere.

"Si, c'è. - rispose il comandante - ma non così vasto".

Stefano tornò all'attacco.

"Heron, - ricominciò - lei allora ricorda qualcosa di quel che è successo. Cosa è successo esattamente?".

Heron scosse la testa, avvilito. I ricordi non erano molti ed erano confusi.

"Ricordo solo grandi incendi. - rispose lasciandosi trasportare dall'emozione legata ad immagini che si sovrapponevano senza un ordine preciso - Bruciava tutto e noi dovemmo scappare dal nostro pianeta per rifugiarci dove siamo ora, in un pianeta più piccolo e lontano dal nostro sole. Un pianeta più freddo dove occorre molta energia per riscaldarlo e riscaldarci. Ecco perché abbiamo bisogno di uranio".

"Ma non è pericoloso?" obiettò Stefano che aveva sentito parlare di inquietanti incidenti alle centrali nucleari.

"No, se usato correttamente" rispose Heron, calmo.

Vedendo sotto di loro le isole caraibiche, Stefano smise di parlare concentrandosi sull'immediata e delicata fase di abbassamento quota, nonché quella successiva di atterraggio che però si presentava non facile. La mappa elettronica sul quadro dei comandi rilevava infatti scarsità di zone su cui poter scendere seppur verticalmente. Avvertì Heron di rimettersi la maschera dovendo forse abbassare anche il livello di pressurizzazione nella cabina. Senza discutere, Heron provvide subito a rindossare il dispositivo e senza aggiungere altro, ma promettendosi di tornare nell'argomento Dio, Stefano si dedicò alle manovre da compiere.

 

 

 

 

TROVARE LA CURA GIUSTA

 

 

Grindewald, ospedale

 

Tornata alla sua postazione abituale, all'interno del nosocomio, Annamaria fu assalita, travolta e tempestata di domande dai pazienti - e dalle pazienti - sfaccendati sul bello straniero che quella mattina non si vedeva più aggirarsi fra i corridoi.

"E' ripartito?" domandò un paziente.

"E' tornato a casa?" chiese una paziente.

"Poverino! - esclamò un'altra - Era così triste!".

E via discorrendo.

Annamaria si recò al reparto malattie infettive dove gli altri membri dell'equipaggio di Heron giacevano da giorni, inerti nelle loro stanze di terapia intensiva, senza apparenti segni di miglioramento ma neanche di passare a miglior vita se ci fosse stata.

Tre di loro avevano la colonna vertebrale spezzata, mentre la donna, oggetto d'amore di Heron, aveva solo tre vertebre rotte alla base del collo, ma erano sufficienti per tenerla in coma, anche indotto e farmacologico. Se sveglia, i dolori sarebbero stati molto forti.

Osservandola meglio sotto la tenda ad ossigeno,  dietro la plastica trasparente del respiratore,Annamaria scoprì che in effetti era piuttosto bella, con il suo viso dai tratti orientaleggianti che la faceva assomigliare ad una nostra Coreana o quanto meno un'abitante dell'arcipelago indonesiano.  La medicina, finalmente sdoganata dai paletti moraleggianti esistiti fino a qualche tempo prima, aveva compiuto passi enormi e registrato importanti progressi sulla genetica che avevano reso malattie incurabili. come cancro e leucemia, appena poco più gravi di una comune influenza; possibile però che non avesse ancora trovato una cura adeguata per risanare ossa rotte? Dopo il solito giro e la solita consultazione con colleghi e assistenti, non dovendo occuparsi di Heron e soci, e non avendo molto altro da fare, Annamaria pensò di recarsi in biblioteca per effettuare ricerche.  Sfogliando volumi cartacei e spulciando nella memoria dei computers, la donna scoprì che forse qualcosa del passato del pianeta era stato salvato, almeno in quell'angolo remoto del globo. Molte notizie risalivano infatti all'inizio del nuovo millennio e qualcuna era datata anche più indietro, nelle quali si accennava appunto a problematiche di carattere falsamente morale.

Ma anche ad altro.

A mere questioni economiche che però avevano maggiormente inciso sul progresso nella ricerca medica e scientifica più in generale. Fra le tante nozioni e notizie, ne trovò una che la colpì come un macigno conferendole una certa sicurezza di aver trovato la soluzione o una possibile soluzione ai danni riportati da Heron e colleghi nel loro grave incidente. Verso la fine del ventesimo secolo, un oscuro e semisconosciuto medico russo aveva messo insieme calcio, silicio e resina di betulla, li aveva trattati per metà naturalmente con acqua e alcool e per metà chimicamente, con una sostanza che li amalgamava e li sintetizzava in una specie di schiuma la quale, iniettata attraverso un grosso ago, o una sottilissima sonda, intorno all'osso fratturato, lo "fasciava" e lo saldava in poco tempo venendo assorbito con velocità dal tessuto osseo che ricomponeva la frattura senza la necessità di ricorrere a supporti esterni in gesso per immobilizzare l'arto offeso come era stato in uso intervenire in questi casi negli ospedali del mondo intero per anni, costringendo il paziente a lunghi periodi di inutile e fastidiosa immobilità, seguiti poi da altrettanti lunghi periodi di dolorosa fisioterapia riabilitativa.

Naturalmente, il medico era stato internato in qualche istituto per malati mentali e dimenticato con la sua scoperta che, in qualche modo, ledeva al traffico lucroso di gessi e fisioterapisti i quali, altrimenti, sarebbero rimasti disoccupati.

Annamaria avrebbe voluto comunicare subito questa notizia a Stefano, ma la comunicazione non era stata ancora ripristinata. Avrebbe voluto urlare, ma si guardò dal farlo. Problema: dove trovare i componenti dello strano farmaco? Calcio e silicio si reperivano un pò ovunque ma la resina di betulla? Si rituffò fra volumi e computers e trovò anche quella: la maggior quantità e probabilità di reperimento si registrava in Siberia! Si sorprese a fremere di impazienza e rabbia avvertendo improvviso un consistente rallentamento del tempo. Non era mai stata un genio in fisica ma in quel momento, come non mai, comprese appieno il vero significato della teoria della relatività eisteiniana: se stai bene e sei felice, il tempo vola, ma basta che ti dolga un dente o che abbia una preoccupazione, anche piccola, e il tempo di colpo rallenta in modalità drammatica. Ecco! La seconda tipologia di situazione era diventata concreta!

Un immaginario orologio a pendolo cominciò a scandire minuti e secondi con suono cupo e sinistro.

Annamaria non riusciva a togliersi dalla testa l'espressione accorata di Heron che, silenzioso e discreto, le chiedeva aiuto per lui e i suoi colleghi. Doveva salvarli ed ora forse aveva la soluzione in mano per farlo. Doveva solo aspettare di poterlo fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Portorico, Caraibi

 

A causa del territorio circostante, piuttosto ondulato, con pochissimo spazio pianeggiante e a dispetto della possibilità dell'aereo di atterrare in verticale, Stefano dovette compiere vari giri e un bel numero di manovre per poter scendere sicuro nei pressi del telescopio di Arecibo ma, alla fine, la sua abilità lo premiò con atterraggio perfetto ed applauso del suo compagno di volo.

"Sarebbe ottimo anche come pilota di un'astronave!" esclamò Heron soddisfatto.

"Non si allarghi, comandante!" si schernì Stefano ricordando una buffa espressione romanesca: 'nt'allargà!, rivolta a chi si dava arie o s'illudeva su qualcosa che avrebbe voluto accadesse.

Il gigantesco padellone del telescopio era incassato fra morbide onde del terreno, e sormontato da una complicata struttura in metallo che doveva essere l'antenna, la quale, ora, penzolava sopra, inerte, dondolando pigramente mossa dal vento ed arrugginita dal tempo atmosferico e cronologico, dando al tutto un aspetto desolante, di abbandono e colpevole incuria.

Scesi entrambi dall'aereo, Stefano ed Heron si scambiarono occhiate afflitte.

"Dubito molto che questo arnese funzionerà. - commentò amaramente Stefano - Chissà da quanto è in queste condizioni".

Heron non rispose limitandosi a fissare l'oggetto, senza particolari espressioni del viso.

Guardandosi poi intorno, scoprirono a qualche centinaio di metri, in fondo ad un viale, sopra ad un'altura, un piccolo edificio bianco che, con la sua torretta, sembrava un faro in mezzo ad un mare verde di alberi. Forse doveva esser stato un centro ricerche o, semplicemente la residenza di qualche scienziato o astronomo che aveva usato, o usava spesso il telescopio.

I due lasciarono l'antenna e si diressero verso l'edificio ma, ivi giunti, lo trovarono chiuso, addirittura con il lucchetto alla porta. Stefano vide Heron compiere una mossa di stizza. Dal canto suo, Heron si sorprese seccato per non aver con sé neppure un'arma, persa probabilmente nell'incidente insieme con tutte le altre. Stefano, invece l'aveva. Di solito era caricata a salve per intimidire e riportare certi soggetti della città alla calma, ma quel giorno, sapendo di dover andare in giro, avventurandosi oltre confine, in territori sconosciuti, l'aveva caricata a dovere, con proiettili veri e ne usò uno sparando al lucchetto che si aprì, docile, senza discutere. La porta di legno, forse gonfia per le innumerevoli copiose piogge tropicali del luogo, cigolò impietosamente e sinistramente introducendoli verso l'interno dell'edificio che però si rivelò davvero fantascientifico, con mastodontiche apparecchiature di acciaio non intaccato dal tempo, luccicanti nella penombra appena ferita da sottili frecce di luce provenienti da strette finestre poste in alto nelle pareti. Guidati da quella debole fonte luminosa, i due riuscirono a trovare la strada per giungere alla "sala comandi", quella, per intenderci, da cui si poteva manovrare il telescopio. E qui, Stefano lasciò il campo libero ad Heron che dimostrò presto di trovarsi come a casa sua.

L'operazione che rubò loro più tempo fu quella di recuperare l'energia elettrica per far ripartire i macchinari, per la quale dovettero in alcuni punti buttar giù parti di parete al fine di ripescare cavi funzionanti. Ad un certo punto, s'imbatterono in una specie di grossa ciabatta di congiunzione, alla quale era collegata una fitta ragnatela di cavi. La ciabatta era a forma di croce e Stefano giurò di vedere Heron assentarsi dal mondo per un pugno di istanti, assumendo un'espressione facciale distaccata e distante anni luce da lui, con i suoi occhi blu che fissavano un punto lontanissimo.

Lo vide! Era inchiodato ad una croce! Perché? Cos' aveva fatto? Chiese spiegazioni ad una donna che piangeva. "Lo stanno uccidendo perchè ama!" rispose lei. Si fermò a guardare la terribile scena  sotto il sole cocente che bruciava la zona già secca di suo, finché i suoi compagni non lo richiamarono per lasciare il luogo.

Stefano scosse Heron in apparente stato di completa trance.

"Heron! - lo chiamò - Che le succede? Che cos' ha? Sta bene?" .

Heron parve uscire dallo stato catatonico.

 "Sì. - rispose annuendo, ancora tuttavia incantato - Va tutto bene, capitano Aloisi" lo rassicurò alla fine. Stefano, però, non era persuaso.

"Ha visto qualcosa? - gli domandò, premuroso e ansioso - Questo oggetto le ha suscitato ricordi? Come mai, la croce?" chiese infine.

Heron gli rivelò il dettaglio del simbolo da lui visto sul camice di lavoro di Annamaria.

"E' il simbolo dell'Ordine dei Medici" spiegò Stefano.

"Lo so. - confermò Heron - Me lo ha detto sua moglie. Qualcuno, molto tempo fa, è morto su una croce".

"E' ciò che ha visto lei, pochi minuti fa?" chiese Stefano, sempre più curioso e d eccitato da quei particolari che stavano emergendo.

"Sì" ammise Heron.

Stefano fissò quel suo compagno di avventure con uno sguardo così intenso da costringere Heron ad abbassare la testa.

"Heron, - attaccò poi - Voi siete venuti sulla Terra, vero?".

"I miei avi forse. - rispose Heron con un timbro di voce che sembrava venire dallo spazio - Ma non capisco perché riesca a vederlo anch'io".

Stefano non rispose. Realizzò che non avrebbe potuto. Che non avrebbe saputo cosa dirgli. Si limitò a stringergli il braccio la cui mano teneva la ciabatta a croce.

"Lo scopriremo, Heron. - lo incoraggiò - Anch'io voglio saperlo".

Heron sorrise. Un sorriso dolce e malinconico. Poi ricominciò a smanettare sulla ciabatta e sui cavi ad essa collegati.

Il lavoro li assorbì per un tempo superiore alle loro aspettative. C'era da sdipanare un notevole groviglio di fili di tutti gli spessori ma, al termine, il groviglio si sciolse, riuscirono a connettere tutte  le spine alle varie prese e l'energia elettrica ronzò e vibrò all'interno dei sottili rivestimenti in vari tipi di metalli, perfino oro e argento.

 Riscosso il successo in quel versante, il resto fu abbastanza agevole e i macchinari tornarono al funzionamento e alla vita.

Stefano e l' alieno si strinsero le mani con forza per celebrare quell'evento.

 

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Capitolo 18
*** QUI, TERRA. C'E' NESSUNO LA' FUORI? ***


Nuova pagina 2

Area 51

 

Un silenzio di piombo era calato sulla vasta sala del sotterraneo, in cui, in quel momento, ognuno era occupato in compiti diversi: Forrest sembrava meditare; Hardings ed Edwards si guardavano in cerca di ispirazione per idee nuove su come passare il tempo; Arnold Weaver era sempre impegnato ad elaborare teorie sul perché la gente non comunicava, e i soldati avevano ormai le braccia bloccate, con le armi puntate fisse sulle facce dei prigionieri, rassegnati ad andare in bagno con la scorta perennemente armata.

Quando ecco compiersi il miracolo!

Gli schermi si riempirono del blu della vastità dell'oceano e di una realtà lontana dall'area 51.

"Qualcuno ha riattivato il telescopio!" esclamò Weaver con la sua voce educata ma piena di meraviglia.  I soldati armati si girarono e, in contemporanea, puntarono le armi verso i monitors.

Solo un urlo potente ed agghiacciante di Forrest evitò il disastro.

"IDIOTI !!!!! - sbraitò l'uomo, infuriato - Giù quel cazzo di armi! Riposo !! I prigionieri hanno capito! - Finalmente i soldati abbassarono braccia ed armi e, ad uno ad uno caddero a terra, svenuti -Era ora!" concluse Forrest che aveva appena sudato freddo per il tremendo pericolo scampato di vedere gli schermi distrutti dai fucili. Alcuni minuti dopo la panoramica del mare blu e di un altro mare verde di lussureggiante vegetazione tropicale, due volti apparvero sui televisori: uno barbuto ed uno chiarissimo dai bei lineamenti eleganti.

"Salve. - salutò il barbuto, allegro e sorridente - Se da qualche parte nel mondo qualcuno ci sta vedendo, io sono Stefano e lui è Heron. Siamo qui a Portorico, in pace, e vogliamo sapere se qualcun altro vuole comunicare con noi".

Forrest, Hardings, Edwards, Weaver e i prigionieri sgranarono gli occhi e fissarono esterrefatti i volti comparsi sugli schermi. Poi, Forrest si ricompose e parlò, presentandosi e presentando gli altri.

"Vorremmo sapere com'è....ehm... - si fermò per schiarirsi la voce - la situazione e....".

"Se avete visto per caso qualche città - stato. - s'intromise Weaver - Qualche agglomerato urbano in giro. Voi da dove venite?".

"Dalla Svizzera. - rispose Stefano soddisfatto - In Europa".

"Interessante. - commentò il giovane sociologo - Ci sono città - stato da voi?".

Stefano rimase un pò perplesso dalla definizione, ma intuì e rispose. Solo che, all'inizio del volo, dirigendosi subito verso l'America, non aveva visto molti centri urbani durante il viaggio.

"C'è il nostro. - disse - Quello da cui proveniamo" E citò il nome della città dove abitavano.

Weaver la cercò subito sul computer e la trovò, ma non era segnata come polis. Evidentemente, le cartine non erano aggiornate. Weaver sorrise, composto.

"Beh, - fece poi - Ben trovati".

Stefano e Heron sorrisero compiaciuti.

"Voi dove siete ora?"domandò Forrest.

"Arecibo... - rispose, prontamente Stefano - Credo".

"Il famoso telescopio di Arecibo. - osservò Weaver, compunto - A Portorico. Il più grande del mondo" e snocciolò subito dopo i dati dello strumento.

"Potreste venire. - propose Forrest, accennando poi un mezzo sorriso - Non siete molto lontani da noi".

"Dove siete voi?" chiese Stefano.

"Area 51. - rispose Forrest, soddisfatto - Dovreste conoscerla".

Stefano ci rifletté sopra. L'aveva sentita nominare, ma non ricordava esattamente dove fosse e chiese lumi.

"Nevada. -  rispose ancora Forrest. - Immagino che stiate viaggiando in aereo. Se il vostro mezzo è potente e veloce, in un'ora siete qui.  Magari ci beviamo una birra insieme".

Stefano giudicò la proposta simpatica, ma volle consultarsi con Heron che stava smanettando a tutto spiano sulla grande tastiera dei comandi sul ripiano sotto lo schermo. Il comandante annuì, tuttavia, pregò Stefano di lasciargli finire il lavoro. Quel che l'uomo desiderava in quel momento più di ogni altra cosa era tentare un contatto con il suo pianeta. Stefano capì che l'alieno aveva una qualche priorità e credette opportuno dargliela.

"Magari fra un pò" ritenne giusto avvisare i suoi interlocutori al di là dello schermo.

Forrest alzò il pollice in segno di accordo. Heron ripeté il gesto a Stefano. Evidentemente gli piaceva, pensò Stefano e lo lasciò lavorare.

 

 

 

 

 

 

 

Grindewald

 

Lo schermo del computer, a sinistra di Annamaria, iniziò a fare versi strani e, sotto certi aspetti, poco raffinati, accompagnando in quel modo lampi di immagini, all'inizio in bianco e nero, che tentavano disperatamente di formarsi assoggettando i pixels al loro volere o, almeno provando a farlo, in un continuo e caotico susseguirsi di scatti e chiari e scuri sino a quando, finalmente, il rettangolo 16:9 si riempì prima con un panorama marino, poi terrestre e verde ed infine con i volti familiari e rassicuranti di Stefano e Heron.

Per un pelo, nel rivederli sul monitor, Annamaria non emise un grido di gioia!

"Ci siete riusciti?" cinguettò, felice.

"Tu che dici?" contro rispose Stefano sorridendo sotto i radi baffi.

Heron aveva un'espressione del viso leggermente più sollevata, distesa e speranzosa.

Annamaria ricambiò lo sguardo con un sorriso e, avendo stupidamente paura di dimenticarlo, comunicò subito a Stefano e al comandante la sua scoperta.

"Perfetto! - esclamò Stefano, realmente soddisfatto - Sei un fenomeno! Andremo immediatamente in Siberia. Tra l'altro, là si trova anche l'uranio, così prenderemo due piccioni con una fava".

Heron si voltò, perplesso, verso Stefano, il quale girò l'indice della mano destra per avvisarlo che poi gli avrebbe spiegato il senso della frase. Dal canto suo, Heron annuì e fece il gesto del pollice alzato per indicargli che a lui andava bene. Annamaria sorrise, divertita. I due sembravano intendersi ed Heron stava imparando molte cose terrestri.

La comunicazione era stata ripristinata.

Tutto pareva andar bene.

 

 

 

Isole Svalbard, Groenlandia

 

Gli schermi nella sala del Centro Ricerche si animarono e si riempirono prima di blu, poi di verde e infine di nero tempestato di corpi celesti vaganti.

"Cavolo! " esclamò Jansen, compiendo quasi un salto sulla poltroncina imbottita, foderata di rosso scuro, davanti alla sua postazione informatica. Erika Nielsen, sua vicina, che si era alzata dalla sua poltrona per sgranchirsi un pò le membra, si precipitò accanto a lui per vedere cosa avesse suscitato lo stupore del collega.

"A quanto pare, qualcuno è riuscito a ripristinare i telescopi" commentò lievemente costernata.

"Sembra proprio. - confermò Jansen - Ed ora? Che succederà?"

"Niente. - rispose Nielsen - Dobbiamo vedere cosa succederà nell'immediato futuro. - quindi si eresse nel suo quasi metro e ottanta di statura - D'altronde, dovevamo prevedere che, prima o poi, qualcuno avrebbe messo il naso fuori da casa sua!".

"Si, - obiettò Jansen - ma se....".

"Se, cosa? - replicò Lasström, senza muoversi dalla sua sedia, alzando gli occhi grigi da sopra la montatura degli occhiali - se i nostri simili cercano contatti? Che li trovino, se vogliono, ma niente forzature e niente repressioni. Può darsi che dopo un secolo, gli esseri umani siano di nuovo pronti a dirsi almeno buon giorno e buona sera. Che lo facciano pure! Non glielo impediremo, ma non li incoraggeremo. Ricordate i piani, no? Jansen, non agitarti inutilmente".

Il giovane ingegnere tornò a guardare lo schermo, sospirando.

Erika Nielsen lanciò un'occhiata all'enorme mappa tridimensionale che occupava la parete di fronte alle postazioni di lavoro, nella quale era stato riportato per intero il nuovo assetto urbano e sociale della Terra, costituito da agglomerati urbani più o meno vasti, sparsi per il globo.

L'Europa era il continente che ne contava di più: 5; Londra, Parigi, Berlino, Mosca e Roma. L'America ne contava 3: Washington - New York per il Nord, Città del Messico per il centro e Buenos Aires per il sud. Anche l'Asia ne aveva 3: Hong Kong, Tokio e Bombay. L'Australia era concentrata solo su Sidney e in Africa, la popolazione rimasta si era riunita a Città del Capo.

La piccola polis svizzera di Grindewald, luogo di un grande evento, non era segnata.

 

 

 

 

 

Ariel

 

Sui monitors dell'ampia sala operativa, al Centro Spaziale, collegati ai telescopi fissi su ciò che era all'esterno del piccolo pianeta, il nero del cielo e i pochi corpi che vi si muovevano dentro sparirono dietro all'immagine di un essere vivente dal volto conosciuto che fece sobbalzare gli occupanti delle varie postazioni ma, soprattutto il direttore Kaius.

"Comandante Heron!" esclamò l'uomo, sorprendendosi a contenere con fatica la felicità nel rivedere il giovane ammiraglio della Flotta Spaziale di Ariel, da molti dato per morto o almeno disperso.

"Buon giorno, amici!" lo salutò Heron con un sorriso tuttavia non esageratamente radioso.

"Come stai, ragazzo? - chiese Kaius, accorato - Ti credevamo....".

"Morto?" terminò Heron.

"Beh.... - balbettò Kaius - Non abbiamo avuto più tue notizie. Non siamo riusciti a pensare in modo molto positivo sulla tua missione".

Sugli schermi, accanto ad Heron, gli Arieliani videro un altro essere umano di sesso maschile, dal volto scuro, ma non minaccioso, né tanto meno sgradevole. Ed Heron lo presentò ai suoi complanetari. Stefano salutò tutti alla maniera tipicamente italiana, agitando la mano destra e sorridendo.

"E' grazie a lui, - introdusse Heron - e alla sua giovane, ma intelligente compagna di vita, che io sono ancora vivo e intero...Quasi".

"E gli altri?" incalzò Kaius.

La piccola pausa di silenzio prima della risposta di Heron, fece tremare i presenti nella sala.

"No!" sussurrò Kaius, sprofondando nello sconforto. Ma Heron volle in parte rassicurarli spiegando che, allo stato attuale delle cose, essi erano ancora ufficialmente vivi e c'era speranza di poterli salvare benché l'impresa non si presentasse facile.

Da quel momento, Heron comunicò con la sua gente nella loro lingua estromettendo Stefano dalla conversazione. Stefano capì e non insistette a voler partecipare allontanandosi da lui, scomparendo dallo schermo e spostandosi verso un altro monitor per poter continuare a parlare con Forrest e compagni. Ma in lui rimase aleggiante un pizzico di curiosità per quel che si stavano dicendo e, pur chiacchierando con Forrest, non perse mai completamente di vista l'alieno seguitando a sbirciarlo con la coda dell'occhio.

"Non è dei nostri, vero?" disse Forrest, alludendo a Heron.

Stefano si stupì dell'intuizione del suo interlocutore.

"Come...." farfugliò.

"Oh, non si meravigli! - minimizzò Forrest, allegro - Siamo abituati a vederne di tutti i colori. Qui atterra di tutto. ".

Discreto, a passo felpato, Stefano si riavvicinò ad Heron, in tempo per vedere sullo schermo davanti all'alieno, un altro uomo di età avanzata ma non troppo, con un volto che, incorniciato e sormontato da una folta capigliatura candida, illuminato da occhi grigi a fessura,  lo faceva assomigliare a  quello di un anziano saggio dell'estremo Oriente terrestre, visto in una fotografia su un libro.

Heron si girò verso Stefano e, con sua sorpresa, lo afferrò per un braccio,  trascinandolo poi, verso di sé.

"Le presento Adoniesis. - lo informò - Un amico della mia famiglia". A Stefano venne spontaneo salutare l'uomo con un cerimonioso inchino della testa per rispetto ad un'ipotetica età non più molto verde .  Dallo schermo, l'uomo ricambiò il saluto più o meno alla stessa maniera, ma con meno enfasi.

"Vorrei andare presto in Siberia. - annunciò poi Heron, un pò teso - Abbiamo bisogno urgente dell'uranio. E di quella pianta".

Stefano agitò la testa in segno di comprensione e fece per salutare Forrest che però, udita la richiesta, s'intromise con una certa risolutezza.

"Ragazzi, - li interpellò - se dovete andare in Siberia, e siete disarmati, allora vi consiglio vivamente di passare un attimo da noi. In Siberia c'è una base militare, un pò come la nostra, diretta da uno stron......ehm .... - si schiarì la voce come per scusarsi dell'epiteto usato nei confronti del collega-rivale - da un tipo che ha il viziaccio di sparare a chiunque scenda nelle immediate vicinanze,  che non abbia un aspetto decisamente terrestre e viaggi con mezzi sospetti di essere carichi di spazzatura. - si fermò un istante e si rivolse diretto a Stefano - Forse il vostro mezzo di trasporto e piccolo ed innocente, Stefano, ma fossi in voi, mi porterei qualcosa. Noi qui abbiamo una buona scorta e vi possiamo dare qualche articolo interessante ed efficiente. Datemi retta. Non andate là solo col fazzoletto bianco, gridando veniamo in pace. Non so se quel tipo ed i suoi soci  ci crederebbero al cento per cento".

Stefano ed Heron si scambiarono occhiate d'intesa ed Heron accettò la proposta.

Dopo alcuni minuti, i due erano già in volo verso l'Area 51.

 

 

Nella prossima puntata si saprà come Heron si sia potuto collegare col suo pianeta, a 4 anni luce dalla Terra.....

E non è del tutto fantascienza.

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Capitolo 19
*** VERSO LA SIBERIA ***


Nuova pagina 2

Area 51

 

 

L'aereo su cui Stefano ed Heron volavano era un piccolo gioiello di meccanica e tecnologia.

Nonostante le dimensioni non certo gigantesche (apertura alare totale di appena 12 metri),  era un quadrimotore, con motore principale di diecimila cavalli ed era in grado di volare nella stratosfera a quindicimila chilometri l'ora con possibilità di decollo ed atterraggio quasi in verticale, caratteristica che favoriva le due operazioni in qualsiasi tipo di territorio, anche il più accidentato.

Giunti in effetti dopo circa un'ora di volo, a quota relativamente bassa, notando il terreno piuttosto piatto ed un accenno di pista, Stefano si concesse un atterraggio abbastanza comodo in diagonale. Toccato il suolo, una voce alla radio - quella di Forrest - lo avvertì di non scendere dal velivolo ed attendere sue istruzioni. Stefano ed Heron si limitarono a liberarsi parzialmente dei vari impedimenti che bloccavano i loro corpi durante il volo e aspettarono qualche minuto in cui, dopo uno scossone, l'aereo cominciò ad abbassarsi fino ad essere inghiottito dalla terra e terminare il suo viaggio dentro ad un immenso hangar sotto la pista. Arrestato il meccanismo di discesa e chiusosi il soffitto sopra le loro teste, la voce di Forrest comunicò a Stefano che poteva spegnere tutto e rilassarsi. I due si slacciarono tutte le cinture di sicurezza, ma Heron non abbandonò la maschera ad ossigeno, allacciandosi i legacci dietro al collo, quindi scesero dal velivolo e si avviarono verso il fondo dell' hangar la cui enorme porta si aprì automaticamente introducendo i due in un'altra grande sala dove Forrest li accolse con calore, stringendo forte le loro mani.

Attraversarono anche quel vasto vano e la loro passeggiata finì dentro l'ultimo locale, più illuminato degli altri,  pieno di macchinari e schermi, in cui ricevettero il benvenuto da Edwards, Hardings e Weaver, di tutti, in apparenza, il più felice di vederli e conoscerli, il quale si complimentò subito, con molto sussiego, per l'esito positivo del ripristino del telescopio.

"Merito suo. - si tirò indietro Stefano - E' lui il genio dei telescopi" disse, battendo amichevolmente una mano sulla spalla di Heron che sorrise, timido e modesto. A quel punto, Forrest riapparve con le bottiglie di birra promesse per festeggiare gli ospiti e la visita.

"Come ha fatto a restituire le immagini del pianeta?" domandò Weaver.

"Ho trovato un satellite funzionante" rispose Heron,  pronto.

"Perché? - intervenne Forrest - Non mi dica che ce n'è ancora qualcuno!".

"Evidentemente si" constatò Stefano.

"Buon Dio! - esclamò Forrest - Allora non è andato tutto a puttane!".

"Evidentemente no" replicò Stefano.

"Certo che c'è" confermò Heron con aria soddisfatta.

Tutti gli sguardi degli occupanti la sala conversero su di lui.

Weaver tornò allo schermo e mise mano alla tastiera.

Pochi secondi dopo, all'interno di un piccolo riquadro in basso a destra del monitor  gli comparve l'immagine di un apparecchio a cilindro, nero lucido, che con non eccessiva ma costante andatura si muoveva sopra la superficie della Terra. Weaver non ricordava di averlo mai visto ma c'era.

"E' il Black Night. - informò Heron -  Gira intorno al pianeta da molto tempo".

Da lui gli sguardi dei presenti si spostarono effettuando un rapido muto scambio  fra gli uomini.

In quel momento, nessuno ricordava che fosse esistito un satellite di nome Black Night.

 

 

"Un ulteriore buon motivo per brindare" commentò Forrest, allegro, cominciando a stappare le bottiglie.

Sugli schermi accesi si alternavano ad intervalli regolari foto in lento movimento ritraenti vari angoli della Terra e squarci dello spazio nero e profondo dentro il quale tutto ciò che c'era, a tratti pareva quasi immobile in un silenzio talmente denso da sembrare che si propagasse anche nella sala. Ma il silenzio fu presto rotto dai leggeri urti tintinnanti delle bottiglie che si scontrarono nel brindisi di buon auspicio.

In Siberia c'è una base militare, un pò come la nostra, diretta da uno stron...... da un tipo che ha il viziaccio di sparare a chiunque scenda nelle immediate vicinanze,  che non abbia un aspetto decisamente terrestre e viaggi con mezzi sospetti di essere carichi di spazzatura.......

Sul momento non ci aveva pensato. Non ci aveva dato peso, ma ora Heron si sorprese a ritornare con la mente a quella frase pronunciata dall'uomo che aveva davanti, occupato a bere dalla bottiglia.

E nel suo cervello, un terribile sospetto cominciò a formarsi come l'embrione di una nuova creatura.

Ora, forse sapeva, o credette di intuire dove e com'era morto suo padre ma stabilì di non rendere partecipe il suo compagno di viaggio alla scoperta. Non voleva essere fermato nei suoi propositi.

A Stefano però, non sfuggì l'espressione cupa che il volto dell'ormai amico alieno assunse, l'indurimento dei tratti del viso, l'abbassamento del braccio la cui mano teneva la bottiglia,  e si avvicinò a lui per chiedergli se tutto andava bene.

"Si, certo. - gli garantì Heron abbozzando un sorriso tirato - Niente paura. E' tutto a posto" e così dicendo, buttò giù qualche altra sorsata di birra. Era fresca e frizzante. Gli piaceva.

Anche Forrest gli domandò se andasse tutto bene e Heron rassicurò anche lui.

Finiti birra e brindisi, l'uomo raccolse le bottiglie e andò a gettarle in un contenitore di rifiuti a scomparsa semi nascosto in un punto di una delle pareti della sala, dietro all'ala destra del lungo tavolo ad "elle" sormontata da uno schermo, dopodiché chiese a Stefano e a Heron di aspettarlo, poi però, cambiò idea e li invitò a seguirlo fuori dalla sala.

"Voglio mostrarvi una cosa" annunciò, apparentemente orgoglioso di quello che sembrava un appetitoso segreto.

Curiosi, Stefano ed Heron lo seguirono per corridoi e sale finché giunsero ad un altro vastissimo hangar in mezzo al quale troneggiava un grosso veicolo aereo che, tuttavia, non aveva di certo l'aspetto di un normale aeroplano bensì quello di un'autentica astronave, non molto grande ma con le classiche caratteristiche di un mezzo adatto a viaggi interspaziali. E rivelò loro che quel veicolo era stato realizzato con la spazzatura raccolta tutt'intorno all'Area 51.

"Complimenti. - si congratulò Stefano - Questo si che è un uso intelligente dell'immondizia".

Forrest sorrise soddisfatto.

"E adesso, pensiamo alle necessità immediate" dichiarò spegnendo la luce dell' hangar e uscendo dall'enorme locale. Ritornarono alla sala comandi dove il capo dell'area pregò i due di aspettarlo.

Stefano e Heron lo attesero conversando amabilmente con Weaver e soci.

"E così venite dall'Europa" esordì Weaver a cui brillavano gli occhi chiari dietro le lenti degli occhiali.

"Si. - confermò Stefano, quasi fiero - Credo di si".

"Ehi! - s'intrufolò Hardings, allegro, dando una leggera gomitata ad Edwards - Ci siamo stati anche noi! Dov'è che siamo stati? In quella città dove c'è quel grande palazzo con la cupola".

"Roma" specificò Stefano sorprendendosi di saperlo.

"Si. - strillò Edwards entusiasta - Siamo stati proprio lì, credo".

Stefano avvertì una strana punta di nostalgia, come se i due stessero parlando di un posto da lui conosciuto e forse amato. E di colpo ricordò suo padre , o probabilmente suo nonno, che gliel'aveva nominata una volta, indicandogliela su una vecchia cartina geografica stinta, rivelandogli che la sua famiglia proveniva da quella città. Doveva aver assunto un'aria triste perché Hardings gli si accostò, preoccupato.

"Abbiamo detto qualcosa che non dovevamo?"domandò, contrito.

Stefano si ridestò da quella specie di sogno ad occhi aperti e tranquillizzò l'uomo sorridendo.

"No, no. - disse - E' che...".

"Piacerebbe anche a lei andarci?" ammiccò Hardings.

"Dovrebbe assolutamente. - s'intromise Edwards - Ci sono molte belle donne!".

Hardings appioppò ad Edwards una gomitata più potente, che strappò al collega un lamento ed un'imprecazione.

"E che avrò detto mai! - protestò l'uomo - E' la verità e le hai viste anche tu".

Roma! Stefano sentì la mente essere attraversata da improvvisi ma vividi flashes di una memoria che non gli parve nemmeno sua ma che gli riportò bocconi di frasi udite in casa sua:

"Non riesco ancora a crederci!" un giorno aveva sospirato suo padre.

"Già. - aveva confermato sua madre - Sembra assurdo ma siamo qui perché i nostri vecchi sono dovuti scappare dal caos totale".  

In quel momento, Forrest rientrò nella sala con una borsa blu e nera che consegnò a Stefano e che aprì davanti ai suoi occhi. La borsa conteneva un certo numero di armi di tutti i tipi, dalle dimensioni piccole ma, come tenne a specificare fiero, dal potenziale ragguardevole.

Stefano prese in mano una piccola pistola dalla linea essenziale, tutta metallizzata e leggera.

"Questa è veramente un portento! - illustrò Forrest, soddisfatto - Triplo uso: a proiettili, elettrica e a raggio laser" e nel dirlo, indicò a Stefano una levetta rossa nascosta sotto il calcio, istruendolo sul suo utilizzo per la verità molto semplice: bastava infatti alzare ed abbassare la levetta per variare l'uso.

"Interessante. -  commentò Stefano, laconico, ma ironico  - Dove le ha trovate?".

Forrest alzò gli occhi verso il soffitto come per cercare di ricordarlo.

"Mmmm - fece meditabondo - Bottino di guerra?"rispose, fingendo una vaga ipotesi .

Stefano capì,annuì e sorrise.

"Andata" assentì, schioccando uno sguardo furbo e complice all'uomo

Forrest ridacchiò.

 "Vi saranno molto utili. - dichiarò poi, gongolante - Ma non usatele a sproposito. Assicuratevi di adoperarle a momento ed occasione giusta".  Stefano annuì di nuovo e, con Heron, alzarono il pollice destro in contemporanea, nel tipico gesto di chi aveva capito tutto.

Allorché Stefano  e Heron lasciarono la base, all'esterno stava imbrunendo e la giornata volgeva lentamente al tramonto. Il Sole stava calando arrossendo le rocce di quella zona semidesertica conferendole una magnifica colorazione rosso scuro. Ritornati all'aria aperta, riconquistata la posizione di decollo e riassicurati i loro corpi ai sedili dell'aereo con i vari legacci, Stefano riaccese i motori e  ripeté per la seconda volta in quel giorno le manovre per alzarsi in volo.

Giunti ad un certo punto del viaggio, Stefano fece per  salire di quota quando, dirigendosi verso nord ovest, sotto di loro, intravide un autentico oceano di luci fittissime indicanti un gigantesco agglomerato urbano.

"Oh, cavolo !" esclamò a mezza voce e invitò Heron a guardare. Anche Heron restò senza parole.

"Una città-stato!" esclamò a sua volta, rammentando la definizione che Weaver aveva dato al complesso edilizio. I due si scambiarono una veloce occhiata d'intesa di sbieco.

"Visitina? -  propose Stefano strizzando l'occhio all'alieno - O ha molta fretta di raggiungere la meta?".

Heron ci pensò su qualche secondo. In effetti, aveva una certa premura ad andare alla meta ma la curiosità di vedere un centro urbano più grande della cittadina di montagna in cui era precipitato e vissuto fino a qualche ora prima, superò la fretta di recarsi al luogo di destinazione e gli fece sollevare il pollice per l'ok.

Stefano consultò la mappa digitale sul pannello dei comandi dell'aereo e anche grazie al ritorno in funzione del telescopio e del satellite, il display rivelò che quel mare luminoso corrispondeva a Washington. Comunicò la scoperta a Heron che, malgrado non sapesse neanche cosa fosse, approvò incondizionatamente la decisione di Stefano di scendere e fare un giro.

Stefano avviò le procedure per chiedere permesso ad atterrare nell'area della città.

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Capitolo 20
*** VISITA A WASHINGTON, 1a parte ***


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Washington

 

Il permesso di atterrare gli fu accordato ma non prima di una specie di interrogatorio.

"Da dove venite?" chiese la voce del controllore.

"Europa, signore!" rispose Stefano con la sua voce sicura e squillante.

All'altro capo, silenzio toccabile.

"Europa?" esclamò la voce della torre, sinceramente meravigliata.

"Sissignore" confermò Stefano, baldanzoso.

"C'è qualcuno al di là dell'oceano?" domandò, palesemente stupita, la voce dalla torre di controllo.

"Sissignore. - confermò Stefano, con orgoglio - Non siete i soli rimasti dopo..... - e qui si fermò anche lui dubbioso su come definire il passato inesistente - Dopo... Beh, insomma, dopo quello che è successo prima. Ma non mi chieda cosa è successo, per favore".

Stefano udì un muggito.

"D'accordo, d'accordo. - acconsentì la voce dalla torre - Qual è lo scopo della sua presenza nel nostro cielo?".

"Turismo, signore! - rispose Stefano con una certa sfacciataggine - E cultura".

Heron gli scoccò un'occhiata obliqua, divertita.

Alla risposta di Stefano, seguì un secondo muggito.

"Va bene. - continuò la voce - Affermativo. Permesso accordato. Scendete pure".

Il cielo, ormai blu scuro, evidenziò meravigliosamente la pista illuminata dell'aeroporto a poche migliaia di metri davanti all'aereo e stavolta Stefano si permise un normale e tranquillissimo atterraggio in diagonale con dolce scivolata conclusiva che si arrestò al termine della pista.

Ma una volta atterrati, fu loro intimato di non uscire subito dal velivolo e Stefano vide quattro persone avvicinarsi camminando veloci verso l'aereo. Fu solo quando i quattro raggiunsero il veicolo che Stefano e Heron poterono lasciare l'abitacolo, scendere le scale e mettere piede sul suolo. E i quattro squadrarono Stefano e Heron né più e né meno fossero ambedue extraterrestri.

 

 

 

 

Casa Bianca

 

Sui due grandi monitors, fissati alle due robuste staffe inchiodate alle due strisce esigue di pareti libere da finestre e mobili della Sala Ovale, le immagini che si susseguivano lente cambiarono d'improvviso sostituendo le solite rassicuranti fotografie dell'esterno dell'edificio con altre riproducenti luoghi lontani sulla Terra e nello spazio  e Alice Kelly, attuale governatore dell'asse Washington - New York, guardando quelle foto, saltò quasi dalla comoda e avvolgente poltrona in pelle nera posizionata dietro la massiccia scrivania intarsiata che occupava metà della stanza.

"Che accidenti...." esclamò. E pochi minuti dopo, il telefono, sull'orologio da polso, trillò.

"Buona sera, Governatore. - la salutò educatamente una faccia stupita ma anche radiosa, dai capelli e occhi chiari - Ci sarebbe una grossa novità per lei. - Sul piccolo display dell'orologio apparve una foto che ritraeva due uomini: uno con capelli, barba e baffi castani e occhi grigio-verde di forma lievemente allungata, accanto ad un altro, capelli corti biondo scuro, due occhi incredibilmente blu e incarnato chiaro, glabro, con bellissimi lineamenti - Due uomini vorrebbero atterrare qui a Washington. Sono arrivati fin qui in aereo....Dall'Europa, al di là dell'oceano".

"Cosa? - esclamò Kelly, allibita - Sono armati? Che intenzioni hanno secondo lei?".

"Mi sembrano due persone pacifiche. - rispose l'interlocutore - Hanno dichiarato che sono qui per turismo e cultura. Possiamo accettarli?".

Convinta da sempre che la polis Washington - New York fosse l'unico agglomerato urbano al mondo, Alice Kelly si scoprì impreparata a ricevere la notizia che un altro angolo del pianeta Terra ospitasse altri esseri umani, tuttavia volle dimostrarsi civile e diede il suo consenso all'atterraggio.

"Li mandi da me. - ordinò poi - Prima che comincino a scorrazzare per le strade di Washington" detto questo, chiuse la comunicazione e corse allo specchio ad aggiustarsi la folta capigliatura rossa e la giacca del completo blu scuro.

Alcuni minuti dopo, i due furono introdotti da due segretarie, con aria sognante, nella Sala Ovale della Casa Bianca e Alice Kelly li fissò esterrefatta. Erano molto belli nelle loro tute da volo.

"Buona sera, signor Governatore. - salutò Stefano, con classe, in ottimo inglese -  Avremmo voluto presentarci meglio, ma non c'è stato il tempo".

Incantata, Kelly riuscì comunque a ridimensionare la situazione e l'atmosfera freddamente cerimoniose, quindi,  invitò i due ospiti ad accomodarsi sulle ampie sedie davanti alla scrivania.

"Per carità. - si affrettò a minimizzare - Non ha alcuna importanza. Andate benissimo così. In fondo, state viaggiando e dovete star comodi.... E così venite dall'Europa?".

"Si, signor Governatore, - confermò questa volta Heron - Veniamo dall'Europa e non sapevamo che sulla Terra ci fossero altri abitanti..."

"Ad essere sincera, - commentò la donna - neppure io lo sapevo. - e lanciando una veloce occhiata agli schermi, proseguì - Ma.... - balbettò, incerta - sbaglio o le linee di comunicazione sono state ripristinate da poco?".

"No, non sbaglia. - le confermò Stefano - In effetti, la comunicazione è possibile da poche ore grazie al mio....amico, qui vicino a me" terminò indicando Heron che sorrise quasi imbarazzato.

Bello, pensò Kelly, e anche intelligente. Ma pure chi le aveva parlato non era da meno.

Dal canto suo Heron si emozionò. Stefano lo aveva appena chiamato "amico" ma si affrettò ad accantonare quella bella emozione spiegando cosa aveva fatto e Stefano, facendosi coraggio, colse l'opportunità per porre la domanda, regina delle domande del momento.

"Signor Governatore, - attaccò schiarendosi la voce - sul nostro pianeta, molto tempo fa dev'essere accaduto qualcosa che ha cambiato profondamente un pò tutto. Ha idea di cosa sia successo?".

I due videro la donna sgranare i suoi grandi occhi grigio-verdi e fissarli, allibita, poi tornare ad un'espressione normale e infossarsi sotto le sopracciglia che si aggrottarono, dubbiose.

Ricordava vagamente di aver colto brani sfilacciati di un racconto uscito a pezzi da sotto i folti baffi chiari di suo nonno che aveva menzionato una rivoluzione, ma non aveva saputo altro anche perché in casa non era stato più sfiorato l'argomento, quasi fosse stato una specie di tabù.

"Per la verità, no signori miei. - rispose infatti, dispiaciuta solo per non poter soddisfare la richiesta dei suoi ospiti - L' ho sentito dire ma non ne so molto più di voi. E' importante?".

"Lo sarebbe soltanto per capire perché ora siamo in questa strana situazione" rispose Stefano.

"Si, certo. - concordò Kelly tuttavia non molto persuasa - Forse avete ragione. In Europa c'è qualche centro urbano?" domandò poi.

"Per quanto ne sappiamo, - rispose Stefano - dovrebbe esserci quello di Roma. E chissà.... ! -continuò, sperando così di accendere un minimo di curiosità nella testa della donna - Potrebbe essercene qualcun altro sparso nel mondo".

"Si, - fece lei stirando le labbra in un bel sorriso tuttavia non completamente convinto - potrebbe".

"Non è curiosa di saperlo?" chiese Stefano, alzando le sopracciglia, con gesto ammiccante.

"Finora non ho mai avvertito la necessità e la curiosità di sapere se siamo gli unici sopravvissuti sulla Terra. -  rispose il Governatore mantenendo il suo bel sorriso di circostanza - Considerando, oltretutto, che non c'è stata neppure la possibilità eventuale di scoprirlo, visto che le comunicazioni non funzionavano".

"Ha ragione. -  convenne Stefano riconoscendo che il discorso non faceva una grinza. Ma dopo i primi minuti di sconcerto riprese, più vivace - Si è mai domandata perché?".

La donna sospirò e ridusse il sorriso.

"Ho sempre pensato che la mancanza di comunicazione dipendesse da un guasto irreparabile agli impianti. - rispose, compunta - E ho altresì pensato che se finora nessuno aveva mai provveduto neppure a provare di ripararlo, doveva esserci un motivo valido per aver preso tale decisione".

"Giusto" ammise Stefano. Poi, lui e Heron si scambiarono rapide occhiate comprensive.

Kelly si soffermò a guardare Heron, ammirata dalla sua bellezza, cercando però di non rivelarsi troppo. Ma quei pochi secondi di osservazione discreta le bastarono per capire che, malgrado anche Heron la stesse scrutando con quei suoi favolosi occhi blu, il cuore, l'anima e la mente di quell'uomo erano in altro luogo, impegnati in qualcos'altro, o focalizzati su qualcun altro.

"E' meglio andare" si limitò ad intervenire l'alieno.

Rendendosi conto del non eccessivo entusiasmo della donna all'argomento, Stefano decise di non insistere sul tema e mostrò di voler andar via.

" Il mio collega ha ragione. Il viaggio che dobbiamo affrontare è lungo, - si scusò - E' tardi ed è meglio proseguire. Senza contare che lo sarà anche per lei, ormai, signor Governatore".

"Oh! - si schernì la donna - Per me far tardi è un'abitudine. C' è sempre tanto da fare qui. Ma tornate pure, se volete. Saremo felici di ospitarvi qui a Washington".

"Sicuramente. - mentì Stefano, senza molta fatica - Magari, alla fine del viaggio".

Il Governatore di Washington esibì un altro sorriso, stavolta un filo più radioso, e i tre si accomiatarono.  

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Capitolo 21
*** VISITA A WASHINGTON 2a parte ***


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VISITA A WASHINGTON, 2a parte

 

 

All'aeroporto

 

Sulla velocissima auto che riaccompagnò i due all'aeroporto, Stefano ed Heron rimasero in silenzio ma Stefano si accorse che Heron gli lanciava frequenti occhiate rapide ancorché intense e significative, segno evidente di una volontà di dirgli qualcosa che non doveva uscire nell'abitacolo della vettura. Senza parlare, Stefano gli accennò di aver capito, ma quando furono di nuovo sull'aereo e ricominciarono le manovre per sistemarsi e ripartire, Stefano non riaccese subito i motori, mettendo Heron sui carboni ardenti e inducendolo a girarsi verso di lui

"Com' è la storia del satellite? " lo apostrofò senza tuttavia alcun cenno di rimprovero, piegando il tono della voce verso un accento ironico.

"Quale satellite?" rispose Heron, fingendo indifferenza.

Stefano gli scoccò un' occhiata traversa, e stirò le labbra, sotto i baffi, in un sorrisino sghembo di presa in giro.

"Quello che lei sembra aver usato per riattivare il telescopio. Il Blacknight. -  rispose poi, serafico, aspettandosi una risposta. Heron si girò verso la pista e si morse il labbro inferiore, senza replicare subito - Ce l' avete messo voi? - proseguì Stefano - Non ne abbiamo mai sentito parlare prima. - e continuò, sempre calmo - Da quanto tempo siete qui?".

Heron sospirò, esibendo un abbozzo di capitolazione.

"Non lo so, di preciso. - si decise a rispondere - Io sono arrivato da poco" concluse, enigmaticamente. Stefano annuì.

"E?" seguitò, mantenendo un timbro placido e ironico, aspettando un proseguo.

"E, cosa?" fece Heron, con aria rassegnata.

"So che vuole dirmi qualcos' altro" lo incitò Stefano, intuendo subito che il suo amico alieno non voleva toccare l' argomento satellite,  almeno non nell' immediato.

"Ho parlato con il mio amico....." cominciò il comandante, guardando avanti, oltre il grande vetro parabrezza di fronte a loro.

"L'uomo con i capelli bianchi e il viso da grande saggio?" domandò Stefano, parzialmente divertito,

Infatti, Heron sorrise.

"Si. - rispose - Proprio lui. - Poi si rattristò - E' un amico della mia famiglia ma....".

"Ma?" rafforzò Stefano.

"Dopo la morte di mio padre, mi è rimasto solo lui. - disse Heron, sinceramente mesto - Ora lui E' la mia famiglia" terminò sottolineando il verbo essere con la voce.

Stefano si sentì quasi in colpa per aver preso in giro, seppur in tono affettuoso, l'extraterrestre.

"Mi dispiace, comandante. - si affrettò infatti a scusarsi - Davvero. E per un verso, sono felice che almeno qualcuno le sia rimasto vicino, se non altro moralmente, in tutto questo tempo ma.... - Stefano riconquistò il tono ironico iniziale - adesso, sputi il rospo! - Heron tornò a sorridere e Stefano capì ben presto che forse Heron non conosceva quell'espressione - Mi dica cosa vuole dirmi" si sbrigò a spiegare, allargando il sorriso.

"Decolliamo, capitano Aloisi. - propose Heron - Altrimenti gli uomini dell'aeroporto potrebbero allarmarsi e insospettirsi. -  e nel finir la frase, strizzò l'occhio. Stefano sospirò e accese i motori. Diavolo di un alieno! Aveva imparato molti gesti terrestri. Più di quanti avesse immaginato. Che Annamaria c'entrasse in qualche modo? Altro sospiro, ma stavolta Heron non attese e non si fece pregare per parlare, mantenendo tuttavia lo sguardo fisso oltre il parabrezza - Forse so dov'è morto mio padre. - rivelò di getto, cogliendo Stefano di sorpresa, che si girò un attimo per lanciargli una rapida occhiata - Ma non mi chieda di più. - continuò con un tono di voce simile al ghiaccio che si scioglieva al Sole - Ho bisogno di conferme" terminò con la voce alterata da una forte emozione. Stefano non gli chiese altro.

"Comandante Heron... " lo stuzzicò poi, essendogli venuta un'idea.

"Si?" rispose l'alieno.

"Che ne dice di fare un giretto a Washington?.. - propose Stefano -  O ha molta fretta?".

 

 

In città

 

Alcuni minuti dopo erano a spasso per le vie della ex capitale degli U.S.A., ora capitale della polis Washington-New York.

Pur in tuta da piloti, o forse proprio in virtù di quest'ultima, i due non passarono di certo inosservati. Alti tutti e due ed avvenenti, si accorsero ben presto di essere oggetto di osservazione ed interesse, neanche a dirlo, soprattutto Heron, con quel suo incarnato chiaro, luminoso e i suoi occhi blu.

Una donna in abiti eleganti li fermò e rivolse loro la fatidica domanda/constatazione: "Voi non siete di qui". E spalancò i suoi grandi occhi scuri allorché Stefano le rivelò che venivano dall'Europa.

"Europa?" esclamò la donna, allibita.

"Si" confermò Stefano.

"Ma non siamo rimasti solo noi?"  replicò la donna, ancora stupita.

Stefano ed Heron si scambiarono occhiate meravigliate ma anche d'intesa. Ormai era chiaro che in ogni angolo del mondo popolato, gli abitanti erano convinti di essere gli unici rimasti sul pianeta e non avevano mai cercato di sapere se ce ne fossero altri.

"No, signora. - la contraddisse cortesemente Stefano - Sulla Terra siamo un po' di più di quel che immaginavamo". La donna rimase ferma qualche istante a riflettere, o almeno così parve, poi li salutò e si allontanò con passo meno sicuro di quanto lo era quando li aveva fermati.

Anche Stefano si fermò e scrollò la testa. Heron, accanto a lui, lo scrutò, perplesso e apprensivo.

"Tutto a posto?" chiese.

Stefano stirò la bocca in un sorriso amaro.

"E' più facile comunicare con un extraterrestre che fra abitanti dello stesso pianeta. - sbottò alla fine. Poi si girò verso Heron - E' così anche su Ariel?".

Heron sorrise appena, ma anche il suo sorriso era triste.

"Gli Arieliani non sono dei gran chiacchieroni per natura. - tenne ad informarlo - Ci limitiamo a comunicazioni di servizio".

"Lei no, comandante. - si permise di osservare Stefano - Nonostante il suo mestiere, mi sembra che ami comunicare con il prossimo" .

"Lo trovo importante, capitano Aloisi. - rispose l'alieno - E necessario. Si evitano molti equivoci".

Si guardarono, si sorrisero e si concessero una breve risata con sfondo acidulo, quindi, ripresero la passeggiata, sempre con gli sguardi curiosi dei passanti addosso. Da parte loro, i due non poterono fare a meno di notare, sui volti delle persone che venivano loro incontro, espressioni, se non proprio di felicità, di certo di contenuta ma convinta serenità, come se le vite di quella gente fossero, per loro fortuna, povere di ansie e problemi. Questa distensione di animi poteva dipendere proprio dall'isolamento e dall' assenza di contatti fra le persone? Ai due cominciò a nascere qualche sospetto. Terminato il tour, tornarono all'aeroporto.

 

La Siberia non era molto lontana da dove si trovavano.

Sorvolarono in parte l'Alaska e rimasero allibiti.

Lo Stato, praticamente disabitato, era un immondezzaio a cielo aperto.

Heron fu còlto da un pensiero folgorante, ispirato da ciò che aveva visto alla base dell'Area 51.

E se avesse utilizzato tutta quella spazzatura per uno scopo?

Se l'avesse utilizzata per....produrre energia? Sarebbe stata una fonte sostitutiva a quella prodotta dall'uranio?...No, forse non sarebbe stata sufficiente per rimpiazzare il minerale, ma sarebbe stata compensativa. Il suo cervello cominciò a produrre idee.

Con l'aereo, Stefano sorvolò la Siberia che, nonostante fosse anch'essa in gran parte disabitata, si rivelò invece ai loro occhi libera e pulita da qualunque tipo di detrito.

Strano. Veramente strano.

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Capitolo 22
*** ULTERIORI FRAMMENTI DI VERITA' ***


Nuova pagina 2

 

 

ULTERIORI FRAMMENTI DI VERITA'

 

 

Base di Novosibirsk, sala operativa

 

Antonov, Kyrianov e Wichinskji, tre dei componenti lo staff della base, sobbalzarono sulle sedie allorché sugli schermi dei computers, e su quelli più ampi fissati alle pareti, d'improvviso, le immagini cambiarono di genere sostituendosi rapidamente a quelle che i tre ormai erano abituati a vedere da diversi mesi. Alcuni schermi si riempirono di panoramiche su angoli remoti della Terra: deserti ricoperti di grigi tappeti di ferraglie, distese di acqua più o meno calma e infine altri rivelarono ciò che c'era sopra di loro, ossia il cielo, con stelle e pianeti che si muovevano lenti nel nero siderale.

"Che mi venga un colpo! -  esclamò Antonov fissando, sbigottito quel mutamento così repentino - Ma che è successo?".

"Qualcuno ha riattivato telescopi e satelliti" commentò Wichinskji, con soddisfazione.

"Wow" fece Kyrianov, allegro.

"E' sicuro che sia un bene?" lo contestò Antonov.

"Beh, -  rispose Kyrianov, su di giri - almeno si vede qualcosa di nuovo".

Antonov, invece, guardò, sconsolato e adirato, il deserto ricoperto di spazzatura ferrosa. Tuttavia, subito dopo, quello spettacolo gli accese un lume di ottimismo.

"Ha ragione Kyrianov. -  convenne - Chissà che ora non vedremo meglio e prima gli sporcaccioni che arrivano qui a scaricare le loro schifezze per poterli abbattere subito".

Senza farsi vedere, Wichinskji sospirò e sbuffò. Per un verso poteva anche aver ragione, ma quell'uomo odiava proprio chiunque non fosse terrestre, per  principio.

 

 

Siberia, non lontano da Novosibirsk

 

Dio creò il cielo, la Terra e gli altri pianeti, i sistemi solari, le galassie e le costellazioni....l'universo, insomma ! Poi decise di popolare i pianeti... non tutti...solo alcuni....quelli che si trovavano ad una giusta distanza dal Sole attorno al quale giravano, in quanto si era reso conto che altri si trovavano troppo lontani o troppo vicini a quel Sole da poter essere abitati senza che gli esseri viventi ne ricevessero danni gravi: troppo caldo da essere bruciati o troppo freddo da essere congelati. E in un qualche modo misterioso,  i popoli dei pianeti abitati lo vennero a sapere cominciando a credere ad un entità superiore a loro, che aveva donato loro la vita e i mezzi per viverla nel modo più appropriato: la terra per poterne coltivare i frutti e sfamarsi, l'acqua per potersi dissetare, mantenere l'igiene e navigarci sopra per poter raggiungere le varie zone del pianeta....

Ma un giorno, qualcuno aveva annunciato che non esisteva alcun Dio e che tutto era stato generato da un'esplosione primordiale nell'universo, miliardi di anni prima......

"Heron! Heron! Heron!" lo richiamò Stefano, scuotendolo, accortosi dello stato quasi catatonico in cui il comandate alieno sembrava essere caduto mentre narrava i fatti.

Heron si scosse, effettivamente in trance.

"Si" fece, riacquistando completamente lo stato di veglia.

"Mi sta dicendo che la fede in Dio è stata equamente distribuita in tutto l'universo? - lo incitò - Che forse in tutti i pianeti abitati, i popoli credono in Dio? Che il suo messaggio è arrivato ovunque ci sia vita? La teoria è pazzesca!...Assurda!...Ma splendida!".

Heron si destò del tutto dal suo stato di trance e accomodò meglio sul sedile.

"Non ne ho un'idea precisa. - rispose Heron, completamente sveglio ma calmo - Per quel che ne so io potrebbe anche essere avvenuto. Il mio amico Adoniesis mi ha raccontato di templi bruciati e di mio padre che mi ha portato fuori da uno di questi, in fiamme, mentre eravamo dentro a pregare".

"E la croce, Heron? - lo sollecitò a continuare Stefano - Annamaria mi ha parlato di una croce che ha visto anche lei".

"Non ho mai saputo con esattezza cosa volesse dire quella croce. - rispose Heron quasi dispiaciuto di non poter fornire una spiegazione esauriente a quell'enigma - Credo fosse un simbolo di quella fede, ma l' ho vista di sfuggita in quel tempio". Stefano percepì una profonda emozione nella voce rotta del suo compagno di viaggio.

"Dobbiamo saperne di più, comandante! - sentenziò, fermo nel proposito - Probabilmente, questa è la chiave del passato di questo pianeta. - quindi si girò verso di lui - Perché ha voluto dirlo solo a me?".

" Perché ho pensato che solo lei e sua moglie avreste potuto capire" rispose Heron, ora sicuro e tranquillo.

Stefano gli dette una pacca sulla spalla dalla sua parte.

"Grazie per la fiducia" disse, sorridendo.

"Di niente" replicò Heron. Stefano si voltò un istante verso di lui e, sorridendo, alzò il pollice della mano destra in segno di intesa. Heron rispose alla stessa maniera torcendo le labbra in un mezzo sorriso di complicità.

Fra i due si stava stabilendo un bel rapporto di comprensione e, forse anche amicizia. Due rappresentanti di due popoli di due pianeti relativamente lontani, che però sembravano aver avuto un destino comune. Non solo! Stefano realizzò che, - pareva incredibile, - grazie al suo nuovo amico di un altro mondo, stava venendo a conoscenza dei fatti che in passato avevano sconvolto il suo.

In quel momento, tuttavia, accadde qualcosa che cambiò radicalmente la situazione creatasi attorno a loro.

 

 

 

Il momento di un'altra verità

 

Sul display collegato al radar, un oggetto di dimensioni piuttosto ragguardevoli - di sicuro un'aeronave, se non un'astronave - apparve a sinistra avanzando lento e dirigendosi verso un grosso punto al centro dello schermo. I due uomini concentrarono i loro sguardi sullo schermo seguendo l'oggetto, con attenzione. L'oggetto non arrivò al punto centrale e il disegno schematico di un'esplosione si formò sul monitor. E sempre alla loro sinistra, Stefano, con la coda dell'occhio e Heron girandosi di scatto nella direzione, videro da dov'erano un'enorme fiammata nel cielo che schiarì di molto la già non completa oscurità circostante loro, dovuta al Sole che in quel periodo non tramontava mai del tutto all'orizzonte.

Heron credette di non avere più dubbi.

Ora sapeva come, e soprattutto dove, era morto suo padre.

 

 

 

 

 

Base di Novosibirsk

 

Antonov seguì, soddisfatto, la fase dell'esplosione godendosi lo spettacolo del veicolo saltato in aria e scoppiato in pezzi schizzati ovunque nello spazio che stavano ricadendo sul suolo come le comete del 10 agosto, pur non essendo ancora arrivati a quella data.

"Altri insozzatori fuori dalle scatole!" esclamò fregandosi le mani.

Pochi secondi dopo, Zitowskji, il radarista, uscì nello spiazzo annunciandogli di aver intercettato un veicolo aereo.

"Piccolo o grande?" chiese Antonov, sul chi va là.

"Piccolo, direi. -  rispose l'uomo - Sembra un normale aereo da turismo".

Lievemente seccato, Antonov rientrò nell'edificio e andò dietro al giovane tecnico del radar fino alla sala controllo.

 

 

 

Sull'aereo

 

Il Sole a mezz'asta all'orizzonte illuminava il viso di Heron i cui bei tratti si erano improvvisamente induriti diventando lame taglienti e conferendo all'uomo un'espressione di glaciale furore.

"Tutto bene, amico?" gli chiese Stefano, preoccupato di quella rapida trasformazione.

"Si" fu la risposta fredda e lontana dell'alieno che guardava fisso davanti a sé come se stesse vedendo un nemico da abbattere immediatamente.

Stefano gli sfiorò la spalla.

"Hey, - lo apostrofò, ma in tono apprensivo - Turbato dall'esplosione? Forse è stato un incidente".

"No. - lo contraddisse Heron, mantenendosi gelido - Non è stato un incidente. L'esplosione è stata voluta. Di sicuro quella era un'astronave carica di spazzatura".

Stefano fu certo di capire ma si sentì ugualmente la spina dorsale percorsa da una scarica di forti

brividi di allarme.

"Beh... - se ne uscì con l'intenzione di recare un minimo di conforto al comandante - Forrest ci ha avvertiti che il responsabile della base qui in Siberia è un tipo da prendere con le molle".

Heron si voltò verso di lui e accennò un sorriso.

"Già. - confermò - Vero. Dobbiamo andare a prendere l'uranio. - continuò tornando serio ma acquisendo un'espressione meno minacciosa - E la medicina per il mio equipaggio".

Di colpo, a Stefano venne in mente un particolare a cui non aveva pensato; almeno non prima di quel preciso istante. E volle condividerlo con Heron.

"Hey, .... " lo richiamò, allegro. Heron si girò verso di lui, sorridendo a labbra chiuse.

"Si?"

"Sarà meglio non parlare dell'uranio" suggerì.

Dapprima, Heron non capì poi però arrivò alla stessa intuizione: l'uranio era usato anche per costruire armi atomiche e anche lui lo sapeva. Tacitamente, annuì per fargli sapere che aveva compreso, accompagnando il sì con l'ormai consolidato gesto del pollice alzato. Stefano rispose alla stessa maniera, senza aggiungere altro, riaccese i motori dell'aereo ed effettuò l'ennesimo decollo di quel lungo viaggio. Il territorio piatto gliene permise uno abbastanza normale, non troppo verticale.

E non si alzò eccessivamente. Non erano molto lontani dalla meta.

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Capitolo 23
*** LA VENDETTA E' UN PIATTO DA SERVIRE FREDDO ***


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LA VENDETTA E' UN PIATTO DA SERVIRE FREDDO

 

 

Base di Novosibirsk

 

"Veicolo aereo in avvicinamento da est" avvisò fredda, monocorde e apparentemente annoiata, la voce del controllore dalla torre.

Antonov si spostò dalla sua postazione di lavoro e si pose davanti allo schermo del radar.

Il veicolo sembrava procedere a velocità non molto elevata e ad altitudine piuttosto bassa, il che lo mise in guardia.

"Potrebbe essere un mezzo di ricognizione" commentò Kyrianov.

"Già. - convenne Antonov, con voce piatta - Aereo spia inviato per individuare dove scaricare il pattume".

"Attacchiamo?" chiese e propose Kyrianov.

Antonov stava per dare l' ok quando dalla grata del sonoro uscì una voce maschile senza alcun'ombra di minaccia.

"Unità Ci Acca 250 a torre di controllo. - si presentò la voce che parlò in inglese  - Buona sera signori. Veniamo in pace e abbiamo bisogno di aiuto".  Quella voce maschile, tranquilla e sicura, fermò l'ordine di distruzione che Antonov avrebbe impartito di lì a pochi secondi.

"Aspetti, capo! - contribuì Wichinskji a dissuaderlo ulteriormente, avvicinandosi veloce ad Antonov - Se c'è qualcuno che vuole scaricare immondizia, di solito manda prima un drone a perlustrare, non un aereo con umani a bordo".

Antonov convenne che l'uomo aveva ragione e scelse di rispondere alla voce.

"D'accordo.- disse, più disponibile -  Base Nova a unità CH 250. Per cosa, esattamente, siete venuti fin qui?". Sentendosi interpellare in inglese, Stefano si rincuorò

"Motivi... - rispose, cercando velocemente un termine che definisse il loro scopo nel modo migliore e più convincente possibile  - sanitari" rispose alla fine, sicuro di averlo trovato

Alla piccola grata nera del microfono gli pervenne un muggito. E dopo una manciata di secondi,

la risposta.

"Va bene. Atterrate pure".

Con questa concessione, Yuri Antonov tracciò le linee di un cambiamento di destino per lui e per gli altri.

 

 *********************

 

Anche in quel caso, essendo il territorio circostante piuttosto piatto, Stefano poté permettersi un atterraggio normale e in effetti lo eseguì con la massima calma, senza difficoltà. Ma il comportamento di Heron gli infuse agitazione. Benché l'uomo si muovesse con una certa naturalezza, percepì in lui nervosismo. E un paio di profonde respirazioni nella maschera ad ossigeno, lo allarmarono. Prima di uscire dal veicolo, prese un paio di pistole a triplo uso: a proiettili, elettrico e a raggi laser, dalla grossa borsa di armi fornita da Forrest e se ne infilò una in una tasca interna della tuta, passando in silenzio l'altra al comandante.

"Heron, - lo interpellò poi, preoccupato - tutto bene? - Heron annuì, ma l'avvicinarsi all'edificio che ospitava la base, aumentava il tumulto nel suo cuore e concentrarsi nei suoi obiettivi gli diventava sempre più difficile. Dovette fermarsi e respirare ancora profondamente. A quel punto, Stefano si fermò e fermò anche lui - Che ha, Heron? - gli domandò, apprensivo - Che succede? - Heron era combattuto. Il sospetto crescente sulla causa della morte del padre gli stava esplodendo nell'animo. Fu Stefano a decidere involontariamente per lui bloccandolo fino a che non si persuase a rivelargli ulteriori dettagli - Ne è sicuro?" - chiese conferma dopo aver ascoltato il suo racconto.

"Non al cento per cento. - rispose Heron - Ma per un buon novanta, si".

Stefano si tirò indietro i capelli e sospirò nel tentativo di mantenere i nervi saldi. Questa non ci voleva e sentiva di capire l'uomo, ma era altresì conscio che non potevano concedersi errori.

Strinse le spalle a Heron e lo guardò dritto negli occhi.

"Ha tutta la mia comprensione e solidarietà, comandante - dichiarò infatti - Anch'io proverei quello che sta provando lei ora, ma dobbiamo muoverci con cautela e stare molto attenti a ciò che diciamo. Qui, sulla Terra, usiamo dire che la vendetta è un piatto da servire freddo. So perfettamente come si sente e al suo posto, forse, prenderei queste persone e le metterei al muro, ma ora non possiamo farlo. Pensi alla sua donna, Heron! Si concentri su di lei. Chiediamo quel che dobbiamo chiedere poi, semmai, vedremo cosa si può fare".

Stefano ebbe l'impressione che Heron lo avesse capito e fosse d'accordo con lui. Malgrado il profondo dolore, che di certo in quel momento gli stava lacerando l'anima e che traspariva nei suoi occhi rendendoglieli particolarmente espressivi e brillanti, Heron era intelligente, abbastanza razionale e non avrebbe commesso sciocchezze. Gli fece coraggio stringendogli le braccia. Si mossero verso l'edificio largo e basso della base quando un uomo alto, magro, in uniforme grigio - verde, uscì dall'edificio e camminò dritto e marziale incontro a loro.

Anche Stefano si eresse in tutta la sua statura e si preparò a salutare l'uomo il quale, vedendolo più alto di lui, parve assumere più timore e rispetto nei suoi confronti. Raggiuntili, chinò lievemente la testa e strinse loro la mano. Stefano e Heron risposero allo stesso modo, quindi l'uomo li invitò ad entrare nella palazzina. Tolti i lunghi tavoli di metallo chiaro sui quali erano disposti i computers delle postazioni di lavoro e gli schermi alle pareti, il locale era piuttosto spoglio e spartano, ma l'accoglienza fu gentile e nemmeno troppo fredda.

"Cosa vi ha portato fin qui, - attaccò Antonov dopo essersi presentato e aver presentato i colleghi nella sala - e in cosa possiamo esservi utili?". Stefano sorrise. Era evidente che la sua mole incuteva agli uomini una certa soggezione, nonché la tendenza al garbo e alla disponibilità.

"Beh,... - iniziò, quasi imbarazzato, prevedendo che la sua richiesta sarebbe sembrata quanto meno curiosa - chiediamo l'autorizzazione a prelevare piccoli quantitativi di resina di betulla".

Uno degli uomini, il non eccessivamente alto, tarchiato, bruno,  baffuto sale e pepe, e con occhiali tondi, corrispondente al nome di Wichinskji, sorrise sotto i suoi folti mustacchi che spezzavano la rotondità della sua testa e del suo simpatico viso.

"Credo che i signori stiano chiedendo il farmaco aggiusta-ossa" ipotizzò.

Stefano sentì il cuore allargarsi il doppio della sua dimensione.

"Lo....avete?" quasi balbettò, incredulo per la soluzione più vicina delle sue aspettative.

"Ne abbiamo qualche campione in magazzino. - rispose Antonov - Ma è lì da un pò di anni. Bisogna vedere se sarà ancora efficace".

"E' costituito da componenti naturali. - tenne a precisare Wichinskji - Calcio, silicio e resina di betulla. Quelli non scadono. Vado a prenderne subito una confezione" detto questo, uscì veloce dalla sala attraverso una porta laterale, vicina ad uno dei grandi schermi. Stefano e Heron si scambiarono occhiate felici e sorrisi. Mai avrebbero pensato che la loro richiesta sarebbe stata soddisfatta in così breve tempo e facilità.

Ma non tutto andò liscio

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Capitolo 24
*** POCHI MINUTI DI FUOCO ***


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POCHI  MINUTI  D I  FUOCO

 

Alla luce bianca delle lampade che illuminavano la stanza, il pallore dell'incarnato di Heron risultò particolarmente visibile, dettaglio che attrasse l'attenzione di Antonov e lo spinse ad accostarsi all'alieno facendo scattare un campanello d'allarme nel cuore e nel cervello di Stefano il quale, comunque, seppe mantenere i nervi saldi.

"Si sente bene?" chiese Antonov a pochi centimetri dal comandante.

"Ho avuto un grave incidente - rispose Heron, pronto e tranquillo, nonostante l'istinto di sparare all'uomo fosse pressoché fuori da lui - dal quale sono uscito per miracolo, se di miracoli si può ancora parlare. Ho riportato la frattura di alcune costole che mi fanno ancora male. Io e il mio amico abbiamo saputo di questo farmaco e di dove avremmo potuto trovarlo, così, lui mi ha accompagnato fin qui nella speranza di trovarlo. Per fortuna lo avete. Togliamo subito il disturbo" finì la frase respirando un paio di volte nella maschera ad ossigeno portatile penzolante al collo. Ma la tensione nell'animo e nel suo corpo dovevano essere tangibili.

Stefano notò che lo sguardo chiaro e gelido di Antonov era pericolosamente fisso sull'extraterrestre e in cuor suo si augurò che il baffuto collega si sbrigasse a tornare con il medicinale per lasciare quel posto il più rapidamente possibile, specie dopo aver saputo cosa fosse forse successo al comandante, quasi amico. Antonov si allontanò di poco da Heron annuendo, ma senza parlare e staccare lo sguardo da lui.

"E' vero. - si affrettò Stefano a confermare la versione di Heron - Non si è ancora ripreso del tutto e purtroppo non può neanche sopportare fasciature per una grave forma di asma che gli impedisce in ogni caso di respirare bene. Questo farmaco può essere una buona soluzione per lui. Ora ce ne andiamo. Non preoccupatevi". 

"Non mi preoccupo. - assicurò Antonov, glaciale - E non ho fretta che voi ve ne andiate. ...Perché so che non ve ne andrete... Non vivi. Almeno lui".

Accadde tutto in pochi minuti.

 

Anche lui munito di arma a raggio laser, Antonov sparò a Heron colpendolo dritto al cuore.

Con orrore, Stefano vide l'alieno venir sbalzato all'indietro di qualche metro e stramazzare a terra rimanendo poi immobile.

"Chi volevate fregare? - sibilò il russo - Si vedeva da anni luce che non era dei nostri".

Esplodendo di rabbia, senza più remore, Stefano sparò ad Antonov ma Antonov fu altrettanto veloce e sparò a Stefano centrandolo al petto. Stefano avvertì un bruciore insopportabile al torace e non seppe se perse i sensi o passò a miglior vita. L'ultimo straziante pensiero volò ad Annamaria e ai suoi ragazzi. Non si sarebbe certo aspettato di andarsene lontano da casa, in così breve tempo da non poterli neppure salutare per l'ultima volta.

Pietrificato per i primi attimi dalla sequenza agghiacciante, Wichinskji, che nel frattempo era tornato dal magazzino, riuscì tuttavia a reagire, mollò la scatola a terra e sparò ad Antonov con una pistola a proiettili colpendo l'uomo allo stomaco.

Kyrianov estrasse la sua arma e fece per usarla contro Wichinskji ma il polacco sparò anche a lui centrandolo in mezzo alla fronte, quindi si mosse verso Antonov che non era morto, ma rantolava, lamentandosi per il dolore mentre una macchia rosso scuro si allargava in mezzo alla giacca dell'uniforme.

"Bastardo razzista! - digrignò con odio - Perché? Cosa le avevano fatto quei due?".

Accecato dalla rabbia non si accorse che Heron si era ripreso, si era alzato a fatica e, barcollando, stava avvicinandosi a loro. Se lo vide arrivare a destra puntando la sua arma contro Antonov.

"Ci penso io a finire il lavoro. - mormorò con la voce rotta da una fredda e controllata ira - Non aspettavo altro" e nel parlare, a fatica, incollò il foro di uscita della sua pistola a triplo uso alla fronte del capo della base siberiana che lo fissava terrorizzato come se sopra di lui ci fosse un fantasma o uno zombie. Anche Wichinskji era sbalordito dalla sua presenza lì ma non osò chiedergli spiegazioni. Non allora.

"Non ti ho ammazzato?" balbettò Antonov, senza fiato per il dolore allo stomaco.

"No, stronzo! - rispose Heron, abbassandosi e poggiando un ginocchio a terra,  con la voce monocorde di chi sta controllando molto bene le sue emozioni malgrado queste stiano per scoppiare tutte insieme come mortaretti - Hai creduto di colpirmi al cuore ma il mio cuore è leggermente spostato rispetto al vostro terrestre. Hai sbagliato anche stavolta, come hai fatto circa dieci anni fa quando hai fatto saltare in aria l'astronave di mio padre senza neppure chiedergli chi fosse....perché fosse arrivato fin qui... semplicemente perché hai creduto che fosse arrivato fin qui per scaricare spazzatura. Ma mio padre non era arrivato sulla Terra per scaricare immondizia..... Cercava solo carburante per le nostre centrali produttrici di energia per illuminare e scaldare il nostro pianeta. Tu però non glielo hai neanche chiesto. E' vero; non sono terrestre. Vengo da Ariel, ma a te non importa niente. Ci odi per principio. Per te siamo tutti solo imbratta-Terra! Non fai distinzioni perché non sei in grado di farle. Il tuo profondo razzismo ti acceca fino al punto di renderti anche idiota.... O forse lo sei di natura!" detto questo spinse indietro la levetta rossa della piccola arma e fece fuoco prima con un proiettile poi con una forte scarica elettrica che bruciò la carne, infine, allontanò di pochi millimetri la canna corta della pistola e spinse una terza  volta la levetta, più a fondo, sprigionando un sottile raggio laser blu che terminò l'opera. Antonov spirò con un urlo che riecheggiò agghiacciante in tutti gli angoli della sala. Dopo ciò, Heron si abbatté sfinito, con entrambe le ginocchia sul pavimento lucido e freddo, accanto a Wichinskji ancora sotto shock, e al corpo di Antonov, ora immobile dopo un ultimo sussulto.

Aveva consumato la sua vendetta, ma il piatto era tiepido.

Respirò un certo numero di volte nella maschera ad ossigeno appoggiandosi con una mano ad una spalla di Wichinskji che lo sostenne per un braccio.

"Soffri....davvero di asma?" gli chiese l'uomo vedendolo compiere quell'operazione.

Heron sorrise.

"L'aria terrestre è un po' leggera per me. - tenne a spiegare - Ma mi ci sto abituando. E adesso cerchiamo di rianimare il nostro amico, sperando che questo bastardo non l'abbia ucciso".

Stefano sembrava davvero morto.

Heron gli premette lievemente due dita sul collo ed in effetti non avvertì pulsazioni

Con Wichinskji si scambiarono occhiate disperate.

Poi Heron ebbe un'idea e istruì Wichinskji nel metterla subito in pratica.

Aprì la tuta fino allo stomaco e sbottonò gli indumenti sottostanti, dopodiché strappò la pistola dalla mano di Stefano, la consegnò a Wichinskji e gli impartì l'ultima istruzione.

Al suo via, Heron e Wichinskji puntarono contemporaneamente le armi sul petto nudo di Stefano, premendo la levetta rossa in modalità scarica elettrica. Il corpo di Stefano sobbalzò in maniera impressionante, ma poi rigiacque a terra immobile.

"Oddio, no!" mormorò Heron, disperato, accarezzando il volto dell'ormai amico.

"Dio? - ripeté Wichinskji, stupito di quell'invocazione - Anche tu credi in Dio?....Credevi...".

"Lo sentivo nominare spesso. - rispose Heron, serio - Ci credevo, ma forse per riflesso condizionato. O forse ci ho creduto sul serio".

"Allora è vero! - esclamò Wichinskji, quasi speranzoso - Dio è dovunque..... - Era".

"Già. - commentò Heron, amaro - Era. Almeno qui da voi.... E da noi su Ariel".

"Forse in altri pianeti esiste ancora. - si auto-incoraggiò Wichinskji - Bisognerebbe indagare".

"Hai ragione. - lo supportò Heron - Bisognerebbe. Ma sono troppo lontani anche per noi. Pur essendo probabilmente più potenti dei vostri, i nostri strumenti arrivano fino ad una certa distanza nell'universo. E non vanno oltre. Ma adesso dobbiamo salvare quest'uomo. Ha una donna meravigliosa che lo aspetta. E deve salvare la mia. Poi penseremo a cercare Dio da qualche parte. Se esiste ancora un angolo dell'universo che ci crede. Forza, amico! Ritentiamo".

"Heron? - lo chiamò Wichinskji con fare timido - Ti chiami Heron, vero?".

"Si. - confermò l'alieno, sospettoso ma curioso di quella domanda  - perché?".

"Il tuo cognome suona come un cognome di origine ebraica. - Wichinskji si fermò rendendosi conto di parlare di qualcosa che, con tutta probabilità, l'uomo non conosceva - Ah, non importa. - finì agitando una mano come per cancellare ciò che aveva appena detto. In effetti, Heron non conosceva la religione ebraica. Poi riprese - In ogni caso, se volete sapere qualcosa su quel che è successo tanti anni fa, dovete andare a Roma, al Vaticano. Lì troverete le risposte".

 

 

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Capitolo 25
*** RISVEGLIO ***


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RISVEGLIO

 

 

Al Heron annuì e sorrise all'uomo.

"Grazie amico. - disse - Posso sapere il tuo nome?".

"Gregorji Wichinskji"  rispose l'interrogato porgendo la mano destra con la prospettiva di stringere la mano destra di Heron il quale esitò qualche secondo, per poi imitare il gesto con convinzione, continuando a sorridere.  La rivelazione non aveva grande senso per lui, ma Heron intuì che doveva farne tesoro e rivenderla subito al suo amico se fosse riuscito a rianimarlo. E tale rivelazione contribuì a infondergli maggior impegno nel riportare Stefano in vita. Insieme con Wichinskji, ritentarono la defibrillazione con le pistole e solo alla quinta scarica, Stefano diede segno di essere ancora nel mondo dei vivi con colpi di tosse da far temere ai due che sputasse veramente l'anima.

Stefano sentiva il petto ardere in modo atroce. Su tutta la superficie del torace la pelle era viola e bruciava come il fuoco anche all'interno, sui polmoni, rendendogli il respiro penoso. Tuttavia, aprì gli occhi e fissò Heron come fosse un fantasma.

"Comandante.... - sussurrò - sei...vivo?".

"Ben tornato, .....- lo salutò Heron - capitano Aloisi!".

"Diavolo di un alieno. - borbottò Stefano - E' davvero difficile ammazzarti!".

Heron sorrise, divertito.

Non visto, spaventato dal baccano dei colpi che gli era pervenuto agli auricolari, sceso a vedere cos'era successo e, vista la scena, il controllore della torre se la diede a gambe scomparendo nella vicina foresta siberiana.

 

 

 

Grindewald

 

Ore 5 del mattino.

Lo smart watch di Annamaria si animò emettendo l'allegro scampanio di una chiamata.

Ma la voce ansante di Stefano spense presto l'allegria del suono.

"Puoi prepararci un letto? - ansimò l'uomo - E magari uno straccio di colazione? Stiamo tornando".

Annamaria ebbe la spiacevole sensazione che il cuore perdesse alcuni colpi.

"Siete...ancora tutti e due in un pezzo solo?" osò chiedere la donna, augurandosi una risposta affermativa.

"Grosso modo, si" rispose Stefano con la voce di una tacca più sicura e ferma, garantendo così ad Annamaria il loro stato in vita.

"Stefano... - lo interpellò lei, esitante, non conoscendo le loro reali condizioni fisiche - che faccio? Vengo all'aeroporto o vi aspetto all'ospedale?".

"Fai tu. - fu la criptica risposta del consorte - A tua discrezione".

"Ok. - si arrese Annamaria - Ho capito".

"Hey... - la richiamò Stefano più animato - Abbiamo la medicina".

Quella rivelazione aiutò Annamaria a prendere la decisione giusta.

I movimenti della madre in cucina svegliarono Flavia che scattò fuori dal letto e si precipitò nella stanza dove Annamaria stava velocemente preparando la caffettiera per la colazione.

"Papà?" chiese, ansimante. Annamaria fece segno affermativo.

"Stanno tornando" annunciò con un mezzo sorriso.

 

All'ospedale, allorché vide i due uomini che si reggevano l'un l'altro avvicinarsi lentamente alla grande porta di vetro ed acciaio, non seppe se ridere o piangere ma era sicura di essere felice di rivederli vivi. Una volta all'interno, in una delle salette del pronto soccorso, si prese il tempo sufficiente per constatare meglio le loro reali condizioni fisiche che non si rivelarono gravi ma che, comunque, ripiegarono il suo programma verso un suo intervento piuttosto immediato. Spogliati nella parte superiore del corpo, entrambi ostentavano bruciature sulla pelle non belle alla vista, che stavano convertendosi in grosse vesciche purulente all' apparenza anche dolorose al tatto.

"Annamaria, - intervenne Stefano trattenendo deboli lamenti - non converrebbe pensare subito a curare i colleghi del nostro amico? Noi stiamo abbastanza bene. Possiamo aspettare".  Ma terminò la frase stringendo i denti in una smorfia intensa di dolore non appena Annamaria gli sfiorò il petto.

Lo sguardo fermo e sorprendentemente duro della donna, mentre cominciava ad armeggiare con gli strumenti per le cure, tacitò l'uomo.

"Decido io cosa fare e la priorità degli interventi" sentenziò Annamaria, rimanendo di marmo.

Dopo questa frase lapidaria, ambedue i feriti si scambiarono occhiate d'intesa, non parlarono più e la lasciarono fare.

Annamaria medicò con cura le ustioni sui corpi dei due uomini, fasciò i loro toraci con bende appropriate antiaderenti per evitare che si incollassero alle bruciature, somministrò loro dosi calibrate di anti dolorifici, li invitò a spostarsi in un'altra sala del nosocomio per liberare quella del pronto soccorso, raccomandò di non muoversi troppo e riposarsi, dopodiché li salutò, prese la confezione di farmaco che Stefano le porse e si spostò al reparto ortopedico al fine di iniziare l'operazione saldatura fratture multiple dei cinque membri componenti l'equipaggio della sfortunata astronave di Al Heron.

Il farmaco fu iniettato nei corpi attraverso lunghe e sottili sonde inserite alla base del collo per la donna e alla schiena per gli altri quattro infortunati. Conclusa la procedura, che durò svariati minuti, Annamaria trasse un profondo sospiro. Al momento non restava altro che attendere l'esito di tale terapia. Qualunque fosse stato, era, in ogni caso, valsa la pena tentare.

Dai suoi familiari, e dalla vita, Annamaria di Gennaro aveva appreso che nulla doveva essere abbandonato al destino. Il destino non esisteva, o meglio: era un mix fra le scelte operate dall'Uomo e una piccola percentuale di imponderabilità. Ma molto piccola.

 

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Capitolo 26
*** ATTESE ***


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ATTESE

 

Area 51

 

Attraverso i grandi schermi, accesi e operativi, Forrest e soci potevano finalmente seguire tutto ciò che avveniva sulla superficie terrestre e comunicare con qualche esemplare umano del pianeta che in quel momento fosse disposto e disponibile a comunicare con loro.

Su uno schermo poterono assistere all'arrivo e discesa di un veicolo spaziale che scaricò rottami in mezzo al deserto.

"Figli di puttana ! - gracchiò, rabbioso Forrest - Adesso vi faccio passare io la voglia di trattare la Terra come una pattumiera! Dove sono i prigionieri?" strillò alla fine.

"Li ha mandati a fare le pulizie, capo!" gli rammentò Hardings, al suo fianco.

"Ah, è vero" si ricordò Forrest, calmandosi un poco.

"Vuole che andiamo a cercarli e riportarli qui?" si offrì Edwards.

"Si, grazie. - rispose Forrest - Ho una missione importante per loro".

I due piloti eseguirono il saluto di rito e uscirono dalla sala comandi.

 

 

 

Base di Novosibirsk, Siberia

 

Gregorji Wichinskji si aggirò per la base e scoprì ben presto di essere rimasto solo ma decise di non abbandonare il luogo. Qualcuno avrebbe dovuto restare ed occuparsi di esso il minimo che sarebbe stato necessario per tenerlo in funzione e non lasciarlo decadere.

Portò il corpo di Antonov all'esterno, somministrò una sorta di benedizione inventata su due piedi e gli diede fuoco con l'accendino che teneva in tasca per accendersi i sigari; intanto che c'era, si accese anche un sigaro, dopodiché rientrò con l'intenzione di mettere un pò di ordine nel locale. Tuttavia, richiamato da voci di cui non riuscì subito a capirne la provenienza,  prima di accingersi a cominciare i lavori, andò a dare un'occhiata ad uno degli schermi che si trovava in una sala attigua a dove si era svolto lo scontro fra il suo capo e i due visitatori e lo vide occupato dall'immagine di un uomo con capelli molto corti, chiari e brizzolati che incorniciavano un viso simpatico ma dall'aria risoluta. Oltre al volto si scorgeva anche il colletto di un'uniforme militare. Attivò il sonoro per poterne ascoltare anche la voce.

 

 

 

Area 51

 

Nella sala comandi, uno schermo inquadrò un viso maschile dai capelli castani, striati di grigio, ornato da un paio di folti ed importanti baffi anche questi castani e brizzolati.

"Qui, base aerea Area 51, Stati Uniti d'America, o almeno, una volta era così. - attaccò Forrest - Sono il comandante Steve Forrest; con chi ho il piacere di parlare?".

"Qui base di Novosibirsk, Siberia. - rispose Wichinskji ben disposto a parlare - Ed è ancora così per adesso. Sono Gregorji Wichinskji, unico superstite di questo avamposto...Salve comandante Steve Forrest. Sono felice di trovare qualcuno con cui scambiare due parole....- Nella sala comando dell'Area 51scese un silenzio di ghiaccio in cui a Forrest sembrò che il cuore si fermasse. Ricordò infatti di aver lasciato i due visitatori: l'italiano Aloisi e l'alieno dalla pelle bianca, partiti proprio per la località all'altro capo del globo, ed ebbe paura a chiedere notizie dei due. - Un uomo molto alto e robusto e l'altro un pò più basso, più magro e con la pelle molto chiara?" chiese conferma il tizio sullo schermo.

"S....si" balbettò quasi Forrest, temendo fortemente una risposta negativa.

"Se ne sono andati pochi minuti fa. - informò Wichinskji - Erano un poco malmessi ma se ne sono andati con le loro gambe e il loro veicolo aereo. Credo che fossero diretti in Svizzera".

Forrest tirò un sospiro di sollievo che ebbe l'intensità di un tornado.

"Ma perché?.... - chiese poi - Che è successo?".

"C'è stato uno scontro a fuoco. - rispose Wichinskji serio - E il nostro capo ha avuto la peggio.... E' stato ucciso dall'uomo con la pelle chiara. Pare che il nostro capo gli avesse ucciso il padre".

"Oh, porca vacca!" esclamò Forrest sinceramente stupito dalla notizia.

"Già. - commentò Wichinskji, ridacchiando letteralmente sotto i baffi - Bel tipo ma tosto. Non ha avuto scrupoli a sparargli".

"Beh, - fece Forrest sospirando di nuovo - L'importante è che siano vivi. Mi sarebbe dispiaciuto se fosse loro accaduto qualcosa di brutto. Erano simpatici".

"Può dirlo forte, comandante. - commentò Wichinskji continuando a sorridere - Due esseri umani".

"Vero" convenne Forrest.

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Capitolo 27
*** RITORNO ALLA VITA ***


Nuova pagina 2

Chiedo venia ai lettori per averli fatti attendere così tanto tempo dalla pubblicazione dell' ultimo capitolo in ordine cronologico di questa mia storia, ma sono stata travolta da mille impegni che mi hanno impedito di proseguire la narrazione.

 

Per farmi perdonare ed agevolare la lettura del presente capitolo, scrivo un riepilogo degli ultimi fatti.

Alla base di Novosibirsk, in Siberia, è avvenuto un conflitto a fuoco in cui Heron e Stefano sono rimasti feriti, ma non gravemente da non riuscire a tornare a casa con le loro gambe, mentre Antonov, capo della base, è stato ucciso da Heron.

 

Il presente capitolo inizia avvolto da un' atmosfera romantica, ma nuove insidie aspettano i nostri personaggi.

Leggete e godete, se vi piace.

Grazie, se continuerete a leggere.

 

 

 

 

RITORNO ALLA VITA

 

 

Grindewald, alcuni giorni dopo

 

Sebbene, da oltre un secolo, non si parlasse più di eventi soprannaturali, in questo caso è possibile dire che Granya Addok, secondo ufficiale dell' equipaggio della Prima Unità della Flotta Spaziale di Ariel, ebbe la netta sensazione di uscire da un lungo e buio tunnel in fondo al quale brillava una vivida luce bianca.

Avvertì il tocco leggero di una carezza sulla guancia.

Aprì gli occhi e lo vide accanto a lei, vide il comandante Al Heron sempre bello, luminoso, sorridente, con i suoi occhi blu retroilluminati.

 

Al Heron uscì invece da una sorta di galleria che avrebbe ricordato quella di un parco-giochi, piena di immagini ed effetti speciali accavallantisi l' uno dopo l'altro, in alcuni istanti fondendosi l' uno dentro l'altro. Solo che le immagini erano drammatiche e cruente. Uomini armati di strumenti rozzi come fruste o catene seviziavano barbaramente loro simili, in particolare uno, il quale, oltretutto, trasportava una pesante croce su una spalla ormai consumata fino all' osso alla lettera dallo sfregamento del legno su piaghe sanguinanti.

Si svegliò di colpo, spalancò gli occhi e saltò seduto sul letto, ansante e sudato.

L'ufficiale Addok gli apparve in fondo al letto, in piedi, in calzoni celesti e maglietta bianca a maniche corte, immobile, sorridente, luminosa come un sogno, mentre lo fissava dolcissima, con i suoi grandi e lunghi occhi neri iridescenti.

Sorrise anche Heron, sbalordito, e provò ad alzarsi dal letto. Una volta in piedi, ebbe un leggero capogiro che lo obbligò ad appoggiarsi al primo sostegno a disposizione, ma durò un istante e fu subito dopo in grado di stare in posizione eretta. Mosse qualche passo verso di lei, lei gli andò incontro e... si abbracciarono, stretti l'uno contro l'altro.

Quando Annamaria entrò nella stanza per effettuare la visita di controllo, li trovò così e rimase bloccata, esterrefatta, sentendo gli occhi cominciare a pizzicarle di lacrime di commozione, notando oltretutto le guance magre e chiare di Heron luccicanti di lacrime alla luce del giorno che entrava nella stanza dalla finestra. Non osò compiere altri passi e si godette la scena, non riuscendo nemmeno lei a frenare le lacrime che le scendevano da sole sulle guance.

Anche Stefano, svegliatosi in quel momento, si sedette sul letto, rimanendo in silenzio a gustarsi quegli attimi, sforzandosi mascolinamente di non commuoversi pure lui. Marito e moglie si strinsero le mani, poi Stefano accostò Annamaria a sé, abbracciandola per le spalle continuando a fissare i due innamorati stretti in quell'abbraccio emozionantissimo.

Anche su Ariel si usava così.

L'universo, in fondo, era piccolo.

Il farmaco aveva funzionato.

Creata da un medico dimenticato in un ospedale psichiatrico nascosto chissà dove in un angolo sperduto dell'ex impero sovietico nell'era della Guerra Fredda, la miscela di calcio, silicio e resina di betulla, iniettata sulle fratture, le aveva saldate nel giro di una decina di giorni avvolgendole in una specie di schiuma che, assorbita dal tessuto osseo, aveva lentamente, ma non troppo, chiuso le crepe prodotte in esso dai gravi colpi ricevuti al momento dell'impatto nel violentissimo atterraggio dell'astronave sul suolo montuoso del nostro pianeta.

Annamaria decretò che era valsa la pena provare quella cura.

Il meraviglioso risultato era adesso sotto i loro occhi.

Nel quarto d'ora successivo, molti pazienti circolanti nel paraggi si fermarono sulla soglia della stanza a guardare, senza parlare, i due innamorati abbracciati, e mancò poco che si fosse dovuto chiamare i pompieri per allagamento dei locali. Tutti piangevano di commozione e si abbracciarono: uomini e donne, solo uomini e solo donne.

Da commovente, la scena divenne quasi comica.

 

Verso le nove e mezzo del mattino, fu distribuita la colazione e nel corso della seguente mezz'ora, nella stanza entrarono anche gli altri quattro membri dell'equipaggio di Heron, in un tripudio di applausi riservati a loro e ad Annamaria.

Ma l' idillio durò poco.

Furtivamente, l'ufficiale Ollen si avvicinò ad un carrello piazzato vicino al letto di Heron, che ospitava il vassoio su cui erano radunate le vettovaglie del pasto e, afferrato un coltello, si mosse verso Heron con l'intento di colpirlo alla schiena, passandosi la posata dalla mano destra alla sinistra. Stefano se ne accorse, afferrò anche lui un coltello dal vassoio sul carrello accanto al suo letto e lo lanciò contro l'uomo, centrandolo fra il petto e la spalla.

Tutti gridarono dallo spavento.

Dopo un balzo all'indietro, Ollen stramazzò a terra, in un primo istante non si capì subito se morto o no, rimanendo comunque immobile in terra. Staccatosi ormai dalla donna, Heron s'inginocchiò a fianco del collega colpito per verificarne la condizione.

Nella sala scese un silenzio sepolcrale che gelò il sangue nelle vene del sindaco di Grindewald, soprattutto dopo, allorché il comandante di Ariel si alzò e fissò Stefano con i suoi occhi blu divenuti improvvisamente due lame di ghiaccio..

 Nonostante la stazza, Stefano si sentì minuscolo e provò il desiderio di seppellirsi nel primo tombino che avesse trovato.

"Non....volevo! - mormorò, tirandosi i capelli indietro con una mano - Ma ho visto che...".

"No. - lo interruppe Heron il cui sguardo non aveva tuttavia ombra di rimprovero - Grazie, capitano Aloisi, per avermi salvato la vita".

Partì un altro fragoroso applauso tutto dedicato a lui.

"Figùrati, comandante Heron. - replicò Stefano, sospirando di sollievo - Ti ho ricambiato il favore".

Heron si staccò definitivamente dall'ufficiale Addok e si atteggiò ad uno che fosse intenzionato ad iniziare un discorso importante. Ed in effetti, così fu.

"Una decina di anni fa, - attaccò il comandante alieno, con aria grave - a bordo di una delle astronavi della Flotta Spaziale di Ariel, durante un viaggio interstellare, due uomini dell'equipaggio cominciarono a discutere a causa di una donna. Entrambi ne erano innamorati e la discussione si trasformò ben presto in alterco, quindi in scontro fisico. E nessuno dei due, ma neppure gli altri membri dell'equipaggio, distratti dal litigio e dal duello, si avvidero che un grosso meteorite stava avvicinandosi a grande velocità verso l'apparecchio. Il meteorite centrò in pieno l'astronave e la distrusse. L'impatto provocò la morte dell'intero equipaggio. Dieci persone morirono incenerite nell'incidente. Da quel giorno, e in seguito a quel terribile episodio, fu emanata una legge ferrea che proibì, e proibisce tuttora, categoricamente, qualsiasi tipo di rapporto fra i membri che non sia soltanto di lavoro. Questo per evitare che si verifichino altri incidenti come quello che vi ho appena narrato.  Ciò mi fa soffrire molto, non lo nego. Amo l'ufficiale Addok ma.... solo sulla terraferma. A bordo di un'astronave, ci scambiamo solo ordini e saluti convenzionali".

Di nuovo silenzio tombale per qualche secondo poi altro applauso che per poco non fece crollare l'intera stanza, stavolta dedicato a Heron che si riavvicinò alla donna abbracciandole le spalle e tirandola verso di sé.

Annamaria andò a controllare le condizioni del potenziale omicida. Il coltello era conficcato piuttosto in profondità fra petto e spalla sinistra ma non aveva colpito organi vitali importanti.

Con il cerca - persone chiamò il servizio paramedico per venire a prelevare il ferito, privo di sensi, attese che arrivasse qualcuno e, una volta arrivato, seguì la barella fuori nel corridoio.

 

Verso le undici, nella stanza dove Stefano ed Heron riposavano,  piombarono come bolidi tre dei quattro figli di Stefano, capitanati dalla maggiore, Flavia, i quali, a turno, abbracciarono il padre sotto gli occhi divertiti di Heron e l'ufficiale Addok.

Flavia fissò per qualche istante l'alieno e ne rimase affascinata.

Scomparso il velo triste dal suo volto e dai suoi occhi, l'extraterrestre pareva brillare di luce propria; splendido, avvolto dall'alone dell'amore ritrovato, le sorrise tenendo sempre la sua donna vicino, che sorrise anche lei alla ragazzina. I due maschietti: Federico e Giulio sorrisero all'ufficiale Addok trovandola bellissima. E lei ricambiò, imbambolando i due bambini che restarono incantati finché Stefano, vista la scena, non schioccò le dita riportando i figli nel mondo reale.

"Papà, quando torni a casa?" chiese Flavia,tutta eccitata.

"Quando lo deciderà la mamma" rispose Stefano, con filosofia.

"Ma stai meglio, vero?" chiese Federico.

"Si. - lo rassicurò Stefano - Molto meglio".

Dopo la visita dei figli, Stefano ricevette numerose visite da parte dei suoi concittadini sia italiani che tedeschi.

"Sei amato, capitano Aloisi" commentò Heron, sempre divertito.

"Pare di si" minimizzò Stefano, apparendo discretamente soddisfatto, pur se, nel suo io più recondito,,  lo era davvero.

"Lo meriti. - sentenziò Heron Sei un grande. Tu e la tua donna siete grandi. Se non fosse stato  per voi, noi non saremmo qui, vivi".

 Stefano sorrise.

"E' stato un piacere" rispose, con studiata modestia, fingendo di schernirsi.

Heron si staccò di nuovo da Granya Addok e si avvicinò, allargando le braccia, al letto di colui che ormai considerava il suo amico terrestre. Stefano rimase un attimo perplesso, poi capì. Si alzò anche lui dal letto e Heron lo abbracciò con forza. Stefano ricambiò, all'inizio per accontentarlo, poi con maggior convinzione.

E di nuovo, Annamaria capitò nella stanza proprio in quel frangente. Con la coda dell'occhio destro Stefano vide la moglie smanettare con il suo smart watch.

"Oggi, 10 agosto 2114, giornata degli abbracci. - dettò Annamaria all'orologio - Da oggi in poi, questo giorno sarà dedicato agli abbracci" .

Stefano, Heron e Addok risero.

Alcuni secondi dopo, fu il turno di Annamaria, che Heron abbracciò in modo particolarmente energico.

E nel clima gaio di un amore ritrovato, nonché della linfa vitale che aveva ripreso a scorrere nelle vene dei resuscitati grazie alle cure dello staff dell'ospedale di Grindewald, nessuno si prese la pena di dare anche solo un fuggevole sguardo ai monitors; nessuno si avvide del rischio mortale che il pianeta Terra stava per correre ed affrontare.

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Capitolo 28
*** ATTACCO ALLA TERRA ? ***


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Dov'eravamo rimasti?

Il farmaco somministrato ai membri dell' equipaggio, gravemente feriti nell' incidente con la loro astronave, ha funzionato, e i pazienti sono completamente guariti. Ma uno di loro, anch' egli innamorato del secondo ufficiale Granya Addok, compagna di Heron, tenta di uccidere il capitano, tentativo sventato da Stefano che se ne accorge in tempo. C'è clima di festa all' ospedale di Grindewald, ma un grosso pericolo incombe sulla Terra.

 

 

 

 

 

 

ATTACCO ALLA TERRA ?

 

 

 

Area 51

 

Weaver non credette ai suoi occhi.

Ora che il telescopio aveva ripreso a funzionare correttamente, le immagini che arrivavano ai teleschermi erano molto varie e andavano dallo spazio alle distese terrestri tristemente ricoperte d'immondizia, passando, talvolta, all'oceano e ai centri abitati. Improvvisamente, tornarono allo spazio per inquadrare uno stormo di veicoli che sembravano dirigersi verso la Terra.

"Che mi venga un colpo! - mormorò il giovane studioso, esterrefatto - Da dove escono quelle astronavi?" e chiamò Forrest il quale fissò lo schermo, allibito.

"Che accidenti  succede?" esclamò.

"E' quello che mi sto chiedendo anch'io" si unì Weaver, sconcertato.

"Porca puttana! - imprecò Forrest - Stanno puntando decisamente verso la Terra e non mi pare proprio che vogliano venire per il tè. Dobbiamo avvertire l'italiano e l'alieno! Prova a contattarli!".

Weaver attaccò a smanettare sulla tastiera. Ed in effetti, lo stormo non sembrava manifestare intenzioni amichevoli. I musi lunghi, affusolati dei velivoli avevano l' aspetto e davano l' idea di sfondare l'atmosfera, ma anche la superficie del pianeta.

 

Grindewald, Svizzera, ospedale

 

Sul suo smart watch, Annamaria si avvide di un segnale di comunicazione esterna e attivò il programma. Pochi secondi dopo le giunse uno strano ed inquietante messaggio che la invitava a guardare un qualsiasi schermo acceso. La dottoressa si trovava nella sala terapia intensiva dell'ospedale di Grindewald dove aveva ricoverato il collega ferito del comandante Heron e ne uscì qualche minuto per raggiungere il suo studio nel quale ricordava di aver lasciato acceso il computer.

Entrò e si avvicinò allo strumento informatico per dare un'occhiata al monitor dove, dopo pochi secondi scomparve il salva schermo sostituito da un'immagine che inquadrava lo spazio, riempito da una nidiata di veicoli in rapido movimento verso il pianeta.

Fissò il filmato, rapita, ma anche allarmata dallo spettacolo, quindi cercò, affannata, di mettersi in contatto col mittente che le aveva inviato il messaggio. Lo trovò, realizzando che proveniva dagli Stati Uniti. Armeggiando ancora sullo smart, lo individuò e lo identificò.

Era Forrest.

Lo interpellò.

"Ha visto?" le chiese il comandante americano.

"Affermativo. -  rispose Annamaria in perfetto codice militaresco - Che sta succedendo?".

"Stiamo cercando di capirlo anche noi, - rispose Forrest - ma la prego .... se il capitano Aloisi  e il suo amico extraterrestre sono nei paraggi, li avverta subito e li inviti a guardare. Forse loro sono in grado di capirlo meglio di noi".

Annamaria corse nella stanza dove suo marito Stefano ed il comandante Heron, con il suo equipaggio rimessosi in forze, festeggiavano ancora il miracolo della guarigione e si avvicinò al consorte per condividere con lui il messaggio appena ricevuto. Nel vedere Stefano sbiancare e diventare di colpo serissimo, Heron si pose sull'attenti e all'erta, domandando, apprensivo di seguirli. Stefano acconsentì ed Heron fu seguìto a sua volta dall'ufficiale Addok che non aveva più intenzione di mollare il suo amato. Tutti insieme seguirono Annamaria nel suo studio e, non appena entrarono, senza bisogno di altro invito, Stefano e l'alieno si diressero verso il computer  e lo schermo acceso.

Nel vedere la scena inquadrata sul monitor, l'incarnato dell'extraterrestre tornò al suo colore bianco - grigio alabastro.

"Oh no! - mormorò l'uomo, costernato - Il CLAN!!" e nel dirlo, strinse a sé Addok che gli rivolse un'occhiata disperata.

Stefano gli chiese spiegazioni..

"Sono criminali che provengono da vari pianeti della galassia. - rispose Heron, teso - Compreso il nostro Ariel.  Sono i più sfortunati. Rinnegati, reietti. Ma hanno trovato la loro rivincita col traffico della spazzatura. Solo che per quella, uccidono senza porsi domande. E senza porle alle loro vittime".

"Che facciamo, allora?" domandò Stefano alla fine della spiegazione, realmente preoccupato.

"Avete armi?" chiese Heron, pallidissimo.

"Non lo so. - rispose Stefano - Qui a Grindewald non credo".

Heron chiuse gli occhi, sentendosi sudar freddo.

"Comandante, - gli si rivolse Annamaria, allarmata - Stiamo per subire un attacco dallo spazio?".

"Così sembra. - rispose l'alieno - In ogni caso, quelle astronavi vanno distrutte. E' gente pericolosa, Non ci pensano molto prima di uccidere. Bisogna combatterli ad ogni costo".

Annamaria guardò implorante Stefano.

"Non preoccuparti - cercò di rassicurarla l'uomo stringendole le spalle - In qualche modo risolveremo la situazione".

All'interno dello smart watch di Annamaria, Forrest gracchiò qualche parola e Stefano afferrò il polso della moglie per rispondergli rivendendogli ciò che l'alieno gli aveva rivelato.

Altra imprecazione colorita dell'americano.

"Avete armi?" chiese Stefano al direttore dell'Area 51.

"Beh... - fece lui in tono vago - Vado a vedere in magazzino" e chiuse la comunicazione.

Dall'umore alle stelle, Heron passò, se non proprio alla disperazione, di certo ad un forte stato di ansia, sentendo addosso la responsabilità di aiutare chi aveva aiutato lui, e non sapendo al momento come fare, non avendo a disposizione nulla con cui far fronte al pericolo imminente. Si infilò le lunghe dita chiare fra i capelli folti trasmettendo in silenzio la sua angoscia agli altri.

Stefano strinse le spalle anche a lui.

"Tranquillo, amico mio. - lo incoraggiò Stefano -  In qualche modo faremo. In qualche modo affronteremo l'attacco".  Ma Heron era consapevole che con quei nemici, i suoi amici terrestri avevano ben poche chances di uscirne vincitori. In aggiunta, si sentì schiacciato da un pesante senso di colpa. Che fossero lì per lui? Lui aveva distrutto l' astronave-madre del Clan uccidendo la "Cupola", ma era conscio che ciò non dava la garanzia della conclusione definitiva con la malavita organizzata. Nella Galassia le notizie circolavano e, pur non essendoci più i capi, i gregari si erano riorganizzati eleggendo altri capi. E se erano lì per lui, la Terra non avrebbe avuto futuro.

"Al, - lo chiamò dolcemente Addok - Non addossarti colpe che non hai. - respirò a fondo - Non hai avuto altra scelta".  Heron fissò il suo sguardo color cobalto sulla sua compagna di viaggi, e lei ne colse la straripante amarezza . Heron accarezzò i capelli scurissimi del secondo ufficiale, quindi si allontanò.  

Con le sue grandi mani, il sindaco di Grindewald si ravviò i capelli portandoli dietro la nuca.

Non poteva nascondere quella nuova realtà; non poteva non avvisare la cittadinanza, ma come fare senza allarmarla? Dal clima gioioso, la sala passò ad uno silenzioso e teso. Gli altri sembravano non aver capito bene la situazione ma ne percepivano la gravità e si guardarono l'un l'altro.

"Ci sono dei problemi, signor sindaco?" chiese una donna tedesca.

"Si, - rispose Stefano, serio, riuscendo tuttavia a non buttarla sull'eccessivamente drammatico - ma niente paura. Li risolveremo".

La sua stazza e la sua sicurezza parvero sortire un buon effetto sui presenti, ma Stefano era sull' orlo del terrore puro.

Heron e Addok uscirono dalla stanza e si fermarono sul corridoio a qualche metro da essa.

"Che facciamo?" chiese la donna, guardando supplichevole il suo uomo.

"Non lo so, Granya. - rispose Heron quasi disperato - Se questa gente non ha armi, non avrà nemmeno speranze. Noi abbiamo perso tutto nell'incidente. E' un miracolo se siamo tutti ancora vivi e adesso non possiamo far nulla per loro. Neppure chiamare i nostri. Non ci sarebbe tempo per far arrivare rinforzi fin qui ".

Addok abbracciò di nuovo Heron e il comandante la strinse forte contro il suo corpo sentendo, in quel momento, di non poter far altro. Stefano uscì sul corridoio e si commosse vedendo i due uniti in quel gesto tenero. E in un certo senso, il gesto lo incoraggiò a tornare al suo posto per compiere il suo dovere.

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Capitolo 29
*** CONTRATTACCO ***


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PREPARAZIONE  AL CONTRATTACCO

 

 

 

Municipio, ufficio di Stefano, qualche ora dopo

 

"Lo sapevo! - sbraitò Hartmann, un massiccio cittadino teutonico, alto quasi quanto Stefano, biondo con gli occhi azzurri! - Non c'era da fidarsi! Dietro quella faccia da angelo, l'alieno stava preparando un piano per attaccare il nostro mondo, per invaderlo e conquistarlo! Altro che cercare solo l'uranio per scaldarsi!".

"Sentiamo, signor Hartmann, - lo apostrofò Stefano -  Secondo lei, cos'avrebbe la Terra di tanto interessante e appetibile da suscitare ad un extraterrestre la voglia di invadere e possedere un pianeta? Come il nostro, per giunta?".

"Non saprei. - rispose il tedesco smorzando un tantino l'alterigia iniziale - Ma è pur sempre un estraneo ...., uno straniero !! E poi, ... non dimentichiamoci che se lui e i suoi amichetti sono arrivati fin qui è perché loro sono molto più tecnologicamente avanzati di noi. Noi non siamo ancora riusciti neanche ad arrivare su Marte e forse non ci arriveremo mai!".

"Appunto per questo, mio caro Hartmann, - ribattè Stefano, sicuro - Cosa se ne farebbero di un pianeta retrogrado come il nostro? Lei cosa se ne farebbe? Personalmente io lo ignorerei, andando a cercare qualcosa di più ... sostanzioso!".

Gli altri concittadini del sindaco uscirono dalla stanza, mesti ed ansiosi.

Benché Stefano fosse stato in qualche modo in grado di tranquillizzare la sua gente, i Grindewaldesi erano ora informati e consapevoli di un grave pericolo imminente mai provato fino a quel momento.

 

 

 

 

 

Spazio

La flotta, composta da una ventina  di astronavi, procedeva solenne verso la Terra a velocità molto elevata, ma regolare.

Troppo regolare!

 

 

 

 

Grindewald, interno ospedale

 

Con lo sguardo incollato allo schermo, Heron se ne accorse.

Si accorse che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto.

Le astronavi si muovevano in gruppo, a cuneo, conservando la stessa distanza l' una dall' altra, come fossero telecomandate. Come se non fossero guidate da mente e mani umane.

Era successo qualcosa. A bordo dei veicoli, o della nave madre, era successo qualcosa di grave.

Forse un guasto. O era avvenuto un ammutinamento. In ogni caso quei velivoli non erano pilotati da umani. E ciò rendeva il pericolo in corso, altissimo.

Venti  proiettili inarrestabili stavano per colpire l'unico pianeta del Sistema solare dotato di requisiti atti alla vita.

 

 

 

 

Isole Svalbard, Groenlandia

 

L'immagine si materializzò anche sui monitors di quell'angolo gelato, sperduto fra i ghiacci polari.

"Ma che diamine... " esclamò Lasström seguendo il movimento dei veicoli.

"Ci stanno arrivando addosso!" esclamò  Jansen, sgomento,  dalla sua postazione, fissando il filmato.

"Sembra un attacco astronavale in piena regola!" commentò Nielsen, quasi ironica.

"Sono i cattivi?" domandò Jansen, con sarcasmo

"Certo  - confermò Lasström -  Quelli della spazzatura. - si stropicciò le mani - Fantastico! Finalmente ci divertiremo".

"Forse non è così divertente come sembra. - obiettò Jansen, un filo allarmato - Non si fermano. Paiono decisi a centrarci".

Lasström aumentò la concentrazione sul filmato.

E captò anche lui l' anomalia.

"Accidenti! - esclamò a mezza voce - Hai ragione! Non pare siano guidati dall' uomo. Sembra che viaggino con il pilota automatico".

"Questo non ci permette di comunicare con l' equipaggio" osservò Nielsen, costernata.

"Se c'è un equipaggio" aggiunse Jansen, amaro.

"Beh, - fece Lasström, rimanendo piuttosto freddo e controllato - Abbiamo di che fermarli noi. - posò gli occhiali sul tavolo di vetro, si alzò e sospirò - Ok. Tutti ai posti di combattimento. Almeno passeremo qualche ora in modo diverso".

"Capo .... " lo interpellò Jansen in tono calmo.

"Si?" fece Lasström mantenendo il suo atteggiamento rilassato e un tantino altezzoso.

"Si ricorda cosa abbiamo fatto?" proseguì Jansen.

"Certo, Jansen. - rispose Lasström, tranquillo - Ma evidentemente ora è arrivato il momento giusto per ripristinare le cose com'erano una volta".

Jansen annuì con la testa, senza profferire parola.

 

 

 

 

Area 51

 

"Le batterie sono a posto?" chiese Forrest a Edwards e Hardings.

"Si, capo. - rispose Hardings facendo il saluto militare - E' tutto a posto".

"Bene. - approvò Forrest, soddisfatto. - Vediamo chi la spunterà".

 

 

 

Base di Novosibirsk, Siberia

 

Anche Gregorj Wichinskji era stato avvertito ed aveva visto tutto.

Era rimasto solo ma non si perse d'animo.

Il sottosuolo dell'intera Siberia era un arsenale di ogni tipo di armi.

 Sarebbe stato sufficiente premere un tasto sul computer e di quei veicoli non sarebbe rimasto che polvere d'acciaio o di qualunque materiale con cui essi fossero stati fabbricati.

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Capitolo 30
*** LA TERRA SI SALVERA'? ***


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CONTRATTACCO

 

 

Grindewald, Svizzera. Interno ospedale

Heron e l'ufficiale in seconda, Addok, continuavano a seguire, sullo schermo del computer,  lo stormo di astronavi che si avvicinavano sempre di più, e sempre più rapidamente al nostro pianeta. E più si appropinquavano, più intenso ed angosciante diveniva il sospetto di Heron che nessuna mano - e mente - umana - esercitassero guida su quei velivoli.

Erano bombe innescate contro la Terra.

I due piloti extraterrestri si scambiarono occhiate preoccupatissime, in assoluto silenzio.

"Sinceramente, - dichiarò Annamaria, sgomenta, seguendo anche lei ciò che si vedeva sul monitor - non pensavo di finire così i miei giorni!".

"Anche i nostri. - si aggregò Heron, triste ed amaro - Lontano dal nostro mondo, senza la possibilità di tornarci mai più".

Annamaria domandò a Heron il favore di chiamare il marito ed i figli per poter almeno terminare la vita, abbracciata a Stefano e ai suoi ragazzi. Permesso ovviamente accordato da parte del comandante che, dal canto suo, tornò a stringere a sé l'ufficiale Addok e chiamò gli altri membri del suo equipaggio, attraverso un interfono gentilmente messo a disposizione dalla dottoressa, affinché potessero raggiungerlo nella stanza ed unirsi a loro due.

Quando, ad un certo momento, accadde l'impensabile!

Sul monitor l'immagine cambiò, sostituita da una che raffigurava un'enorme mappa sulla quale, in vari punti del pianeta, i tre videro formarsi velocemente lunghe scie rosse che partivano da essi dirigendosi verso un' unica meta.

"Missili!" sussurrò Annamaria, incredula.

"Allora, avete armi!" constatò Heron, quasi felice.

"Evidentemente, si!" commentò Annamaria, anche lei sorpresa da quello spettacolo, incapace di domare quel pizzico di ironia che talvolta le usciva pure nelle situazioni più drammatiche.

Ma anche Heron sfoderò una bella performance ironica che spiazzò la moglie del sindaco di Grindewald.

"Bisognerebbe avvertire chi ha lanciato quei missili .... - cominciò - di lasciare almeno una delle astronavi intere .... - Annamaria scrutò Heron, perplessa. - Ci servirebbe per tornare a casa!" finì il comandante, torcendo la bella bocca in un mezzo sorriso.

Annamaria capì al volo, sorrise, poi scoppiò in una breve risata.

"Ha ragione, comandante!"

Anche Addok rise.

"E' vero, Alàm, - considerò. Annamaria scoccò un'occhiata interrogativa ad Heron e Addok si affrettò a spiegare - E' il suo vero nome per intero. - proseguì sorridendo -  Alàm Heròn, con l'accento anche sulla "o" del cognome. Nella lingua del nostro pianeta, il suo nome vuol dire:  << il buon grande eroe>> " concluse con il suo sorriso radioso.

Heron annuì, ma con aria mesta.

"Peccato che in questo momento - disse - tutto mi senta tranne che un eroe!".

"Lo sei, Alàm! - lo confortò Addok , accarezzandolo sul viso - Non saremmo qui, tutti vivi senza il tuo aiuto".

"Non saremmo qui, tutti vivi, - ripeté Heron, serio - senza l'aiuto di questa donna" volle correggere Heron, indicando Annamaria.

"Grazie" disse semplicemente Addok, prendendo una mano della dottoressa e stringendola fra le sue, scure, dalle bellissime dita lunghe. Annamaria si limitò a sorridere, restando in silenzio, sentendo tuttavia gli occhi pizzicare ed inumidirsi di lacrime.

"Abbiamo solo fatto il nostro lavoro. -  minimizzò - Che è quello di salvare vite. Se è possibile. Finché lo è. -  Il suo cerca-persone trillò avvisandola della necessità di un suo intervento. Si scusò e uscì dal suo studio. - Continuate a seguire la faccenda. - si raccomandò sulla porta, prima di allontanarsi - E tenetemi aggiornata" finì, strizzando l'occhio destro  e chiudendo l'uscio.

Heron e Addok furono raggiunti dal resto dell'equipaggio e tutti insieme si assieparono attorno al computer per seguire ciò che sarebbe avvenuto di lì a pochi minuti o, al massimo poche ore.

 

 

Annamaria entrò nella sala terapia intensiva nella quale fu accolta dal sinistro e raggelante fischio dell'apparecchiatura salva-vita troneggiante accanto al letto in cui era steso l'ufficiale Ollen, sul cui schermo nero le linee gialla e blu dell'elettroencefalogramma e dell'elettrocardiogramma scorrevano parallele, veloci e completamente piatte. Fu poi travolta da un paramedico donna, agitatissima, che la trascinò vicino al letto dell'uomo, incapace tuttavia di spiegare chiaramente cosa fosse accaduto. Ogni traccia di vita pareva essere scomparsa dal corpo del paziente. Annamaria volle effettuare un controllo manuale, ma polsi e cuore non battevano più. L'uomo era morto e, in un primo momento, la dottoressa non capì come e perché, sapendo e avendo potuto constatare precedentemente la non eccessiva gravità della ferita inferta da Stefano con il lancio del coltello.

L'infermiera si affannò a giustificarsi asserendo che non aveva mai perso la sorveglianza sull'uomo e che in nessun modo avrebbe lasciato il suo posto, ma Annamaria intuì molto presto che la morte di Ollen non era da imputare alla eventuale negligenza della giovane operatrice sanitaria. E lo capì notando un paio di particolari che non lasciavano molti dubbi sulla causa e sulla modalità in cui l'uomo era deceduto.

Due tubicini si erano staccati dall'apparecchiatura che lo aveva tenuto in vita fino a poco tempo prima. Ma non si erano staccati da soli. Qualcuno li aveva staccati e lo aveva fatto maldestramente, con mano poco ferma. In poche parole, Ollen si era tolto la vita. Si era suicidato. Annamaria aveva capito come era morto ma non ancora perché e si propose di domandarlo al comandante Heron.

 

 

 

Raggiunte da un nugolo di missili somigliante ad uno sciame di insetti, le astronavi che stavano giungendo sulla Terra a velocità pazzesca, senza controllo, furono letteralmente polverizzate, illuminando a giorno il nero della notte siderale appena sopra la calotta dell'atmosfera.

In molti, col cuore in gola dopo essere stati informati ed avvertiti del pericolo che il pianeta stava per correre,  seguirono l'operazione sugli schermi di tutto il mondo, rimanendo col fiato sospeso al momento dell'impatto. Lo spettacolo che seguì fu ancora più impressionante dello scoppio di migliaia di batterie di fuochi artificiali, se non addirittura di ordigni atomici

Il contrattacco aereo, partito da tre basi terrestri, ebbe pieno successo e i veicoli spaziali furono distrutti prima del loro ingresso nell'atmosfera. Gli abitanti del pianeta tirarono un sospiro di sollievo per il pericolo scampato, i cinque visitatori involontari Arieliani, specialmente il comandante Heron, non furono altrettanto felici e si scambiarono occhiate di preoccupazione.

Heron, infatti, aveva sperato che almeno una di quelle astronavi si fosse salvata da poter essere recuperata ed utilizzata per il ritorno su Ariel, ma si rese conto che un suo eventuale salvataggio avrebbe potuto essere un rischio per il pianeta che li stava ospitando.

Poi, però, improvvisamente rammentò qualcosa che avrebbe potuto risolvere la loro situazione.

Stava invitando i suoi colleghi a seguirlo quando Annamaria irruppe nel suo studio, con un'espressione piuttosto turbata sul volto, e lo sguardo duro, rivolto verso di lui. Si allarmò e le chiese, apprensivo, cosa fosse successo. Annamaria glielo riferì e lo vide abbassare testa e sguardo.

Addok sospirò e si apprestò a spiegare.

"L'ufficiale Ollen ha tentato di uccidere il comandante della sua unità - cominciò, serissima - e, secondo le leggi della Federazione, questo è un atto molto grave che comporta, purtroppo, la condanna capitale e.... a tale pena è preferibile darsi la morte prima".

Heron annuì mestamente.

"Si, dottoressa Annamaria. - tenne a confermare - Ollen non è il primo a scegliere di morire piuttosto che affrontare la pena".

"Capisco. - asserì Annamaria - Non voglio sapere che pena sia e non intendevo accusarla di nulla, comandante. E' solo che... - si fermò ed esibì un debole sorriso - Accidenti, ma non siete un po' troppo duri voi di Ariel?".

Heron e Addok sorrisero, dopodiché la donna si girò verso il comandante.

"Al, - lo interpellò con solennità - al  prossimo congresso della Federazione, dobbiamo far presente che si sta esagerando".

"Non sarà facile. - commentò Heron - Ma ci proveremo".

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Capitolo 31
*** PREPARATIVI PER IL RIENTRO ***


Nuova pagina 2

PREPARATIVI PER IL RITORNO A CASA

Grindewald

 

Heron continuava a fissare, avvilito, lo schermo del computer.

Nessuna delle astronavi che avevano attaccato la Terra era arrivata sana al suolo. Il pezzo più grande della più integra era di dimensioni pari ad un fazzoletto.

Yarus, un altro giovane ufficiale della Flotta, si avvicinò a lui.

"Comandante, - gli si rivolse in tono educato ma non sottomesso - come torniamo su Ariel?".

Il comandante sospirò.

"Non certamente con le ali. - rispose calmo, non rinunciando allo scherzo  - Sarebbe molto faticoso e impiegheremmo molto tempo . - si fermò e scoccò un'occhiata divertita - Troveremo un modo, ufficiale Yarus. - - Forse ho un'idea".

"La gente di questo pianeta potrebbe aiutarci?" domandò ancora Yarus.

"Potrebbe, amico mio. - rispose Heron - E forse lo farà".

Heron stava elaborando un pensiero. O meglio... dopo averlo ripreso, lo stava rielaborando.

Gli era tornato in mente un dettaglio.

A destra in basso del monitor comparve una piccola icona e subito dopo lo schermo fu quasi totalmente riempito dall'immagine di un interno conosciuto, al centro del quale si materializzò un volto, anche questo noto.

"Chi erano quelli che volevano attaccarci, comandante Heron? - chiese Forrest, adirato ma non troppo - Ne sa niente lei? - Heron sorrise.

"Criminali dello spazio" rispose, faceto

"Buon Dio! - esclamò Forrest - Neppure lo spazio si salva dalla delinquenza?".

"Purtroppo no" commentò Heron, amaro.

"E volevano attaccare il nostro pianeta?" chiese Forrest, perplesso.

"Attaccarlo ed inondarlo ulteriormente di spazzatura cosmica" rispose Heron, ora serio.

Forrest alzò le sopracciglia.

"Oh! - fece, sinceramente stupito  - Cavolo!".

Heron si congratulò con lui per l'azione di difesa/attacco intrapresa per risolvere la faccenda. L'americano ringraziò, gongolante, quindi fissò l'extraterrestre con preoccupazione chiedendogli perché lo vedesse turbato. Quando Heron gli illustrò il motivo della sua apprensione, condendolo con un pizzico di umorismo, Forrest sorrise apertamente - Amico, ricordi cosa ti ho fatto vedere alla base?" domandò, allegro.

Ecco! Era proprio questo che Heron ricordava. Forrest aveva invitato lui e Stefano a vedere cosa la base Area 51 custodiva nei suoi sotterranei. E fra gli oggetti interessanti c'era anche un'astronave costruita con i detriti lasciati sulla superficie della Terra. Non dava completo affidamento ma con qualche ritocco avrebbe potuto ugualmente essere utilizzata. Lui era abile in questo genere di interventi.

"D'accordo, capitano Forrest. - rispose - Allora forse ci rivediamo presto".

Forrest controrispose con un sorriso accattivante e la comunicazione venne temporaneamente chiusa. Si girò e vide Weaver immobile davanti ad un monitor, ma con lo sguardo perso oltre esso, le sopracciglia aggrottate ed un'espressione alquanto perplessa.

"Qualcosa non va, collega?" gli domandò, un filo apprensivo.

Weaver si voltò verso di lui, come ridestato da un sogno e lo invitò ad avvicinarsi avvisandolo di volergli mostrare qualcosa. Uno dei monitor a parete fu nuovamente riempito con la mappa del mondo qualche attimo prima del lancio dei missili contro le astronavi extraterrestri e Weaver, usando una penna elettronica, indicò al suo capo i punti da cui erano partiti i razzi. Erano tre: Nevada, Siberia e.... Polo Nord, per la precisione: un'isola delle Svalbard, sopra la Groenlandia.

I due si scambiarono occhiate di stupore e dubbio e lo spazio fra di loro, e tutto intorno a loro, si riempì di meraviglia e punti interrogativi. Sul momento, non ci avevano fatto caso, impegnati come'erano stati nel seguire l'attacco agli...attaccanti alla Terra, ma ora che avevano visto, e ci pensavano, la cosa apparve davvero strana e singolare.

"Ne sa qualcosa, capo?" chiese Weaver.

"No" rispose Forrest, sconsolato.

"Vuole che indaghi?" incalzò il giovane scienziato.

"Indaghi, Weaver. - lo esortò Forrest - Indaghi pure". Si allontanò da lui, poi si fermò e si voltò, guardando il giovane scienziato. Weaver gli lanciò un'occhiata interrogativa.

"Vuole dirmi altro?" chiese.

"Sì. - rispose Forrest, con aria risoluta - Se per caso le sue indagini approdassero ad un risultato, trovasse i nostri ignoti benefattori e riuscisse a comunicare con loro.... - fece una pausa studiata - li ringrazi per la collaborazione".

"Non mancherò di farlo, comandante!" rispose Weaver con tono seriamente scherzoso.

 

 

 

 

 

Area 51, alcuni giorni dopo

 

L'astronave era pronta per la partenza e per affrontare un lungo viaggio spaziale, intergalattico.

Heron, Addok e gli altri componenti dell'equipaggio avevano lavorato sodo per apportare tutte le dovute modifiche atte ad adattare il veicolo a lunghi tragitti, compresa l'installazione delle celle ad animazione sospesa che avrebbe salvaguardato i corpi degli uomini e delle donne dagli effetti del tempo. 

Tutti erano stanchi ma felici.

Tutti, tranne Heron e Addok.

Per loro tornare su Ariel avrebbe significato tornare a guardarsi da lontano, rinunciando anche a quegli scarsi contatti fisici che concretizzavano il loro amore. Ma Heron era consapevole che bisognava tornare a casa per poter portare il "cibo" che alimentava gli impianti il cui scopo era continuare a dar vita al pianeta, dunque, era ora di rientrare alla base.

Erano scesi sulla Terra per procurarsi l'uranio, invece, il comandante aveva maturato un'altra idea e, prima di lasciare quel pianeta, l'avrebbe messa in pratica.

La partenza fu stabilita proprio all'Area 51, indubbiamente più adatta, soprattutto in fatto di spazio per decollare, rispetto alla scarsa ampiezza della piccola valle svizzera.

I mezzi tecnologici più potenti, nonché il collegamento più diretto ai satelliti ed al telescopio di Arecibo che l'Area 51 vantava nei confronti di una postazione più piccola e privata, permisero ad Heron di stabilire un contatto con Ariel. Il volto incorniciato dalla folta capigliatura candida del suo saggio amico Adoniesis occupò il monitor.

"Ciao figliolo. - lo salutò l'uomo, sorridendo - come stai? Come va sulla Terra? Penso bene se ti stai attardando a tornare".

"Stiamo per tornare, Adoniesis"  annunciò Heron accennando un sorriso, non però molto aperto.

Il sorriso di Adoniesis, invece, si allargò maggiormente.

"Bene! - esclamò l'uomo, visibilmente contento - Non vedo l'ora di riabbracciarti. - poi si bloccò, aggrottando la fronte - Un momento..... - aggiunse - stiamo?".

"Sì, amico mio. - annunciò Heron, stavolta più gioioso - Siamo tutti vivi. Tutti, tranne Ollen".

"Fantastico! - esclamò il vecchio saggio, illuminandosi in volto - Capisco perché tu voglia rimanere sulla Terra. La popolazione di quel pianeta è davvero eccezionale. Ma che è successo ad Ollen?".

"Ha tentato di uccidermi. - rispose Heron, senza molta enfasi - Un terrestre glielo ha impedito. E sai cosa accade quando un graduato attenta alla vita del suo superiore".

La felicità si spense sul viso del saggio.

"Si viene espulsi nello spazio senza protezione e bombole d'ossigeno. - rispose l'uomo, mesto - Una morte orribile".

"Già" confermò Heron, anche lui serissimo.

"Beh,..... - riprese Adoniesis, più animato, quasi a voler cacciar via definitivamente quella brutta immagine - pensiamo ai vivi. Cercate di far presto a tornare.... - si fermò per aver scorto sul volto del giovane comandante un'espressione che non corrispondeva con esattezza alla gioia di rimetter piede sul suolo del pianeta d'origine - Che hai, ragazzo mio? Cosa  non ti rende felice di tornare?".

"Lo sai, Adoniesis" rispose Heron, mesto.

 Adoniesis abbassò lo sguardo, dimostrando di aver capito. Sapeva di lui e Addok.

"Troveremo una soluzione al tuo problema" cercò di rassicurarlo.

"Sai che l'unica soluzione per noi è uscire dalla flotta" puntualizzò Heron.

"Ma la flotta, senza di voi, sarebbe un'astronave senza più guida. - replicò il vecchio amico saggio mestamente - In balia di qualunque pericolo siderale".

"Lo so, amico mio. - convenne Heron altrettanto tristemente - Ma il prezzo da pagare, riguardo ai sentimenti, è molto alto".

"Quando non siete in servizio potete fare ciò che volete" tenne a precisare l'uomo.

"Certo. - confermò Heron - Ma si dà il caso che lo siamo per tre quarti della nostra vita".

Adoniesis non replicò, limitandosi a chiudere gli occhi, costernato da quella considerazione.

"Beh, .... - concluse poi, rialzando la testa - vi aspettiamo".

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Capitolo 32
*** PARTENZA ***


Nuova pagina 2

PARTENZA

 

 

Stefano, Annamaria e due dei loro figli: Flavia e Giulio, i più grandi, salirono sull'aereo per raggiungere il luogo dove sarebbe avvenuto il distacco e il pensiero li rendeva tristi.

Il rapporto creatosi con il comandante extraterrestre era davvero straordinario e questo era un altro motivo che incupiva il cuore e l'animo di Heron. Non li avrebbe dimenticati. Mai più.

Il grosso veicolo stazionava sulla larga piana all'interno del recinto che chiudeva la base.

L'aereo su cui Stefano e i suoi familiari avevano raggiunto l'Area 51 planò docile ed in diagonale su una pista a lato dell'astronave, poco più lontano.

Il Sole stava sorgendo e i suoi caldi raggi si allungavano dorati sull'ampia superficie sabbiosa e rocciosa della zona.

Heron e soci stavano armeggiando intorno al maestoso velivolo spaziale.

Quando Stefano e famiglia scesero dall'aereo, Heron mosse verso di loro a passo veloce e, raggiuntili, abbracciò prima Stefano e poi Annamaria, salutando i due ragazzi con molto calore, elargendo loro carezze su capelli e viso.

Stefano ed Heron fecero incontrare i loro sguardi, fissandoli l'uno sull'altro, quindi si scambiarono amichevoli pacche sulle spalle.

Finito di armeggiare sul veicolo, questo si aprì lentamente come se avesse un'enorme bocca in attesa spasmodica di essere riempita; come fosse quella di un terribile mostro affamato di carne umana. Metteva paura, ma i quattro non si lasciarono spaventare, tanto più che Heron li invitò ad entrare per visitarne l'interno. I ragazzi erano emozionatissimi.

Non sarebbe loro capitato mai più di vedere l'interno di un'astronave pronta per partire nello spazio e Flavia chiese di poter fotografare qualcosa. Permesso accordato a condizione che gli scatti fossero rimasti segreti. Giunto in quel momento, Forrest chiese a Flavia di consegnarle la scheda della fotocamera, promettendole che quelle immagini sarebbero rimaste per sempre nell'archivio della base, con il suo nome. La ragazzina capì e, un pò a malincuore, gli consegnò la scheda.

Forrest si diresse verso l'edificio, entrò, e ne uscì dopo pochi minuti, restituendo la scheda a Flavia.

"Tranquilla, - la rassicurò con un sorriso accattivante - Hai un posto nella storia dell'astronautica".

Flavia stirò le labbra rosa in un sorriso poco convinto, ma abbozzò, incoraggiata dal padre.

A quel punto fu dato il via ai saluti.

Poche parole e occhi lucidi.

L'immenso veicolo spaziale pareva attendere paziente di ingurgitare l'equipaggio per poi "digerirlo" nel corso del lungo tragitto fino ad Ariel. Anche gli altri membri salutarono i quattro terrestri rinnovando  i ringraziamenti per essere ancora al mondo dopodiché salirono a bordo, tranne l'ufficiale Addok. I due si fermarono pochi altri minuti con i loro salvatori poi voltarono loro le spalle e si avviarono, mano nella mano, verso l'astronave. Vedendoli così, Annamaria sentì lo stomaco stringersi a pugno. Non avrebbero potuto più neppure compiere quel bel semplice gesto di prendersi per mano. Ad un tratto però, Heron si bloccò, parlottò con Addok, si girò e tornò indietro, sorprendendo Stefano e i suoi familiari.

"Ci stai ripensando, comandante?" lo apostrofò Stefano, buttandola sull'umorismo, cercando di non lasciarsi travolgere dall'emozione.

"No. - rispose Heron, guardando l'amico terrestre dritto negli occhi. Si era ricordato di ciò che gli aveva detto l'uomo, conosciuto alla base siberiana - Ho un messaggio per voi". E riferì il messaggio di Wichinskji.

"Vaticano?" ripeté Stefano, stupito.

"Si. - confermò Heron - Vaticano. Si trova in una città che si chiama Roma, mi pare".

"Certo. - confermò Stefano - Va bene. Ci andremo. Grazie".  

"Quell'uomo mi ha detto che lì troverete le risposte alle vostre domande " finì Heron.

Stefano e Annamaria annuirono in silenzio.

Un ultimo lungo caldo abbraccio sancì definitivamente la separazione fra loro e l'alieno.

"Abbi cura di te, comandante" si raccomandò Stefano.

"Anche tu, - disse Heron - capitano Aloisi". Abbracciò anche Annamaria e regalò un sorriso ai ragazzi dopo il quale girò i tacchi e si diresse verso l'ingresso del velivolo.

Gli occhi di tutti pizzicavano per le lacrime che volevano uscire.

Stefano, Annamaria e i loro due figli seguirono l'uomo che entrò nel veicolo spaziale, senza voltarsi. Ma loro erano sicuri che anche Heron stava sentendo bruciare gli occhi.

Oltre a Forrest, sul luogo della partenza, sopraggiunsero anche Hardings, Edwards e Weaver, gli altri tre pilastri della base americana dell'Area 51. Ed anche loro non riuscivano molto bene a contenere la commozione per quel distacco.

L'enorme bocca dell'astronave cominciò a chiudersi lentamente fino a sigillare chi era dentro per proteggerlo dalle insidie esterne. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, il decollo della macchina fu rapido e poco rumoroso. L'astronave si alzò in verticale emettendo uno strano rombo sordo che non infastidì troppo l'udito entrando in compenso nello stomaco dei presenti, scuotendone gli organismi in modalità piuttosto consistente. Il veicolo si alzò di molto dalla pista e quando raggiunse una data altezza si mosse in orizzontale, schizzando via ad altissima velocità, scomparendo rapidamente alla vista degli astanti che restarono sul posto qualche altro minuto, senza profferir parola, ancora scossi dall'emozione.

 

 

 

Area 51, qualche minuto dopo

 

Elaborato il distacco, Forrest invitò tutti ad entrare nell'edificio con l'intenzione di seguire il volo dell'astronave almeno per una manciata di minuti, fino a che il telescopio avesse loro consentito di seguirlo.

E con grande sorpresa, sui monitor , il gruppo vide l'astronave volare bassissima sulla superficie terrestre mentre, alla poppa del veicolo, una grossa apertura circolare, come la bocca del tubo di un gigantesco aspirapolvere, risucchiava all'interno dell'apparecchio i detriti metallici, e di altri materiali di cui tutte le zone desertiche della Terra erano state tristemente cosparse negli ultimi dieci, vent'anni, ossia, da quando la Terra era stata erroneamente considerata un pianeta disabitato, dunque perfetto per diventare una discarica universale.

"Chi aveva detto che gli alieni erano cattivi e da combattere?" esordì Hardings.

"Non tutti" osservò Forrest.

"Il Bene e il Male sono ovunque" sentenziò Weaver con studiata solennità.

"Questa l' ho già sentita, - commentò Forrest, smorzando l'enfasi del giovane studioso con la sua solita ironia realistica - ma è sempre valida".

La battuta fu seguita da una sommessa sghignazzata generale.

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Capitolo 33
*** FINESTRA APERTA SU ARIEL ***


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A casa del saggio

 

Adoniesis, il vecchio saggio, amico di Heron aveva invitato lui e l'ufficiale Addok a pranzo presso la sua dimora per festeggiare il suo ritorno e l'esito positivo della sua missione.

Come sempre, la semplicità e l'essenzialità dell'abitazione dell'uomo erano comunque cariche del calore e della sua natura profondamente umana, emanate dalle pareti e dai pochi mobili chiari.

Tutti e tre si accomodarono nell'angolo del ricevimento ospiti, riassunto in un divano a due posti, dove si sedettero Heron e Addok, e una comoda poltrona, rivestiti con tessuto a fiori, su cui prese posto Adoniesis, non prima di aver posato sul tavolino di vetro,posto fra divano e poltrona,  un  vassoio di metallo con tre bicchieri colmi a metà di un aperitivo analcolico dal colore dorato, che porse agli ospiti, prendendone uno per sé.

Brindarono alla missione appena conclusa ed al ritorno del comandante.

"Allora, - iniziò l'uomo, sorridendo, con aria di chi è pronto ad ascoltare belle storie - a parte le varie vicissitudini del viaggio di andata, il tuo ritardo nel ritorno mi fa pensare che la Terra sia più ospitale di quanto raccontato dai tuoi predecessori".

Heron respirò a fondo.  L'atmosfera più densa di Ariel glielo consentì con facilità.

"La Terra è un magnifico pianeta. - cominciò - Con una bella popolazione ma ....".

"Ma?" fece eco Adoniesis ponendosi in modalità di attenzione.

"Ci siamo già stati?" lo apostrofò Heron senza alcun tono di rimprovero.

Adoniesis abbassò occhi e testa per un secondo, quindi rialzò il tutto e fissò il comandante con intensità.

"All' origine dell' universo, forse. - rispose poi, serafico - Ariel ha perso qualche pezzo per strada e quello ha vagato nello spazio fino ad approdare sulla Terra. Oppure un corpo celeste ha sfiorato Ariel quel tanto sufficiente per raccogliere semi di vita che si sono attaccati alla sua superficie e depositati sulla Terra, ma anche altrove, nello spazio.. Succede".

"Niente teorie divine?" replicò Heron, incuriosito e divertito.

"Del tipo che l' universo è stato creato da un dio?".

"Di quel tipo" rispose Heron, compreso.

Adoniesis tacque un istante, pensoso.

"E' una teoria circolante. - riprese - Ha circolato anche su Ariel fino a qualche anno fa".

"Circolava anche sulla Terra" puntualizzò Heron.

"Se circola ancora, lo fa in tutto l' universo, amico mio. - sentenziò il saggio - Se l' universo è stato creato da una sola mano, prima poi la notizia si diffonde ovunque".

"Eravamo sulla Terra anche quando quell' uomo è morto in quel modo orribile?" chiese Heron.

"Su una croce?" chiese Adoniesis a sua volta.

"Già".

"Forse sì. - rispose il saggio  - Vedi qualcosa?".

"In sogno. - rispose Heron - O in stato di semi-coscienza".

"Tu non c'eri all' epoca, Al. - precisò Adoniesis -  Ma hai ereditato la memoria nel tuo DNA di chi è stato presente all' evento. Un tuo antenato, giunto sulla Terra in quei giorni. Sai come funziona, vero? Te l' ho già spiegato, mi pare".

Heron annuì.

"Oltre alle caratteristiche fisiche, - disse - alle qualità mentali e morali, il nostro DNA memorizza e conserva anche gli eventi".

"E in questo modo possiamo spiegare perché alcuni individui credono di aver vissuto esperienze, visto luoghi o incontrato persone esistite in epoche remote, molto prima della loro nascita effettiva... Come te".

"In certi momenti l' impressione di aver visto, o addirittura vissuto, certi episodi è fortissima".

 confermò Heron.

"Probabilmente, - ipotizzò Adoniesis  -  di quegli eventi hai ereditato anche le emozioni".

"Ho poteri speciali?" chiese Heron, con una punta d'ironia, accennando un sorriso.

"Hai una sensibilità speciale, Al. -  rispose il saggio - Che è un potere".

"E' sparito tutto, Adoniesis. - commentò Heron, amaro - Anche sulla Terra. Nessun segno di una fede".

"Date le distanze, non sembra, - disse il saggio - ma le notizie si diffondono"

Adoniesis sorrise. Un sorriso triste

"Come mai è andato tutto perduto?" insistette  il comandante.

"Mancanza di buon senso, ragazzo mio. - rispose il saggio - E di senso della misura. L' umanità ne è affetta, purtroppo. Ovunque nell' universo. Credere in qualcosa di superiore a noi, può anche andar bene. E' consolatorio. Attaccarcisi e vivere solo per quello non va bene. Pensare che il divino risolva tutti i problemi è da stolti. E non è così. Si perde completamente il senso ed il contatto con la realtà. La fede cieca acceca. E' come se una fitta nebbia calasse sugli occhi nascondendo la verità. Senza contare il fanatismo che ne consegue. Per una divinità si diventa disposti ad uccidere. E ciò è tutt' altro che intelligente e saggio. Oltre ad essere incivile".

Heron convenne mestamente con Adoniesis, supportato da Granya Addok che aveva seguito, rapita, la conversazione, preferendo rimanere in silenzio. Non aveva molto da dire. Era d'accordo con le tesi dei due uomini. Anche lei aveva studiato genetica e conosceva bene le teorie sorte in merito.

"Vogliamo mangiare?" incitò, subito dopo, il saggio.

Heron e Addok si trovarono d'accordo anche su questo.

Durante il pasto, più di una volta Adoniesis vide Heron accarezzare e stringere la bella mano scura del secondo ufficiale, avvertendo ad ogni stretta, una puntura dolorosa al cuore. Aveva promesso al comandante di impegnarsi al massimo per trovare una soluzione definitiva al loro rapporto d'amore in servizio, sfortunatamente però, era consapevole di una totale assenza di soluzioni. Le leggi di navigazione erano durissime, specie dopo l' increscioso incidente della zuffa su un 'astronave per causa di una donna, che aveva condotto alla distruzione del veicolo, colpito da un grosso meteorite non visto, e provocato la morte dell'intero equipaggio.

L' unica soluzione per i due innamorati era lasciare Ariel e fuggire lontano, facendo perdere ogni traccia. Doveva solo studiare il "come".

 

 

 

 

Convegno della Flotta Aerospaziale di Ariel

 

L'edificio ove avrebbe avuto luogo l' assemblea si trovava all'estrema periferia di Momex, in una zona quasi disabitata e caratterizzata da vasta estensione di verde, costituito da prati e vegetazione di vario genere, comprendente alti alberi, ma anche bassi e folti arbusti di piante aromatiche che spargevano nell'aria gradevoli profumi.

Il palazzo, non molto grande e alto, era di forma ellissoidale, in cemento e vetro per raccogliere più luce possibile ed anch'esso era circondato da un bel parco ricco di piante, ora fiorite.

Per raggiungerlo con la sua vettura semi-volante, Heron aveva sorvolato la città, rammentando con non poca nostalgia, i paesaggi cangianti della Terra, con le sue zolle verdi, brune, brulle o sfolgoranti di lussureggiante vegetazione, e le sue immense distese d'acqua, denominate oceani sul pianeta che li aveva ospitati per circa un paio di mesi. Ariel aveva una bella natura ma niente di paragonabile con quella dai molteplici aspetti del mondo da cui lui e i suoi compagni di viaggio erano tornati, e quando entrò nell'ampio atrio del palazzo in cui stava per svolgersi il convegno annuale della Federazione, il suo volto doveva esprimere il vago disagio che la comparazione fra Ariel e la Terra gli stava procurando, tanto che un suo collega lo fermò nel corridoio conducente allo spazioso locale per chiedergli se qualcosa non andasse come doveva.

"No. - minimizzò Heron sorridendo - Va tutto bene, non ti preoccupare".

Il collega gli scoccò un'occhiata color ghiaccio, poco persuasa e sembrava non volerlo mollare se non gli avesse detto cosa non andava. Poi, con un sorrisetto sarcastico, lo interpellò.

"Belle donne sulla Terra?".

Heron gli rispose con smorfia di falsa sufficienza.

"Niente male. Lo ammetto",

"Ah, ecco!" replicò l'uomo alzando il mento appuntito.

Maltus, ammiraglio di un'altra delle astronavi della Federazione, era un tipo alto, segaligno, capelli a spazzola castani e occhi grigi che parevano emettere luce propria.

I due si salutarono avvicinando gli avambracci destri e stringendosi le corrispettive mani, dandosi appuntamento alla sala dei convegni di lì a pochi minuti.

Nel raggiungere la sala, Heron incontrò altri colleghi che lo bloccarono volendo avere notizie della loro avventura sulla Terra.

"Hai trovato la fonte? gli chiese un giovane ufficiale biondo e mingherlino.

"Certo"  rispose Heron, soddisfatto.

"Per quanto tempo?"

"Per sempre" rispose Heron, in tono trionfalistico. Il giovane ufficiale lo squadrò, stupito, coi suoi occhi grigio-verde.

"Stai dicendo che avremo energia per sempre?" esclamò.

"E' quello che ho detto" confermò Heron, gongolante.

"Sulla Terra c'è tanto uranio?" domandò il giovane.

"Sì, - rispose Heron - ce n'è molto, ma io ho trovato di meglio".

"Cosa?" chiese l' ufficiale, ansioso.

"Lo vedrai".

"Vuoi serbare la sorpresa per il convegno?" motteggiò il giovane.

"Se vuoi vedere adesso, non devi far altro che seguirmi".

I due uscirono dal palazzo e raggiunsero un enorme hangar a qualche centinaio di metri dall'edificio. L' hangar ospitava l' astronave con cui Heron e compagni erano tornati a casa.

Con un telecomando che estrasse dal taschino della giubba, il comandante aprì il portellone posteriore del veicolo e l' ufficiale restò paralizzato dalla meraviglia nel vedere l' interno stracolmo di ferraglie arrugginite.

 "Quella è la fonte?" esclamò.

"Spazzatura" dichiarò Heron, eccitato.

"Ma.... - balbettò il ragazzo - .....come.....?".

"Bruciandola. -  rispose il comandante, felice - Pensa alle nostre astronavi obsolete, non più in funzione, relegate in un angolo solo per occupare posto senza poter essere più utilizzate!".

"Geniale" convenne il giovane, ancora scioccato dalla sorpresa e dalla soluzione.

Geniale davvero se si considerava che l' operazione di incenerimento avveniva in grandi strutture all'esterno delle cupole che proteggevano i centri abitati, evitando in questo modo qualunque rischio di inquinamento atmosferico all' interno.

 

 

Il convegno iniziò circa mezz'ora dopo e la sala, con spalti distribuiti a corona tutti intorno, si riempì quasi completamente. Al centro, Erasmus, il capo assoluto della confederazione, ancora scuro di capelli nonostante l' età avanzata, e con poche rughe sul volto scarno ed austero, era sistemato su un'ampia e comoda poltrona di pelle nera, dietro ad una massiccia scrivania dalla quale uscì magicamente una tastiera su cui l' uomo premette un tasto che materializzò un gigantesco schermo olografico roteante per consentire a tutti i convenuti di vedere cosa era riprodotto.

All'ora prestabilita, Erasmus aprì il convegno con il consueto discorso introduttivo, dopodiché cominciò ad interpellare i vari partecipanti, chiedendo loro un rapporto sulle rispettive attività. Nulla di interessante finché non arrivò a Heron.

"Comandante Heron, - attaccò con tono quasi allegro - di sicuro lei avrà molte cose da raccontarci, nonché avvincenti aggiornamenti da riferire. Prego. Ci delizi. - Heron si schiarì la voce e partì con il suo rapporto - Com'è la storia della spazzatura?" finì l' anziano graduato, mantenendo il tono ilare..

Heron rise e illustrò la sua scoperta nonché il suo progetto per la sua utilizzazione.

Un muggito di ammirazione si propagò sordo nella sala.

"Beh, - fece Erasmus alla fine dell'esposizione del comandante - direi che il suo viaggio alla Terra abbia dato davvero ottimi risultati. Si occuperà lei di questo progetto?". Heron annuì. L'idea gli piaceva e diede risposta affermativa.

"Che impressione ha ricavato, in generale, del popolo terrestre? E' cambiato?" chiese a conclusione del suo intervento.

Heron respirò di nuovo a fondo.

"Direi di sì. - rispose - Ciò che ha passato in questi ultimi anni ha inciso profondamente negli animi, tanto da indurlo  a concedersi una lunga pausa di riflessione nella quale ogni esponente del popolo ha deciso di starsene per conto proprio senza, in apparenza, cercarsi e reperire notizie sugli altri ma, fondamentalmente, è un popolo di indole buona. Per loro l'amore l'uno verso l'altro è di importanza vitale e travalica qualunque condizione in cui si trovino".

Pronunciando questa frase, Heron era perfettamente conscio di aver lanciato il sasso che voleva lanciare, ovvero, l'eliminazione della maledetta regola che riguardava i rapporti interpersonali fra i membri delle varie flotte.

Erasmus raccolse il sasso ed il messaggio.

"Mi dispiace comandante Heron. - disse, dimostrando all' interpellato di aver capito, usando comunque un tono privo di recriminazione - Ma qui su Ariel, certi regolamenti rimarranno in vigore ancora per qualche tempo. Lei sa bene che il popolo di Ariel è tranquillo solo in apparenza".

Si, Heron lo sapeva. Altrimenti, episodi come la rissa, scoppiata in quell'astronave, non sarebbe mai avvenuta . Tanto meno, l'ufficiale Ollen non avrebbe attentato alla sua incolumità più o meno per lo stesso motivo che aveva innescato la rissa, cioè, l'amore..

Ma Heron si domandò se proprio queste regole così rigide non contribuissero talvolta a scatenare gli istinti animaleschi nel quieto - solo esteriormente - popolo di Ariel.

Tuttavia non insistette nel riproporre l'abolizione di tali leggi. Sarebbe stato uno sforzo inutile.

Ma la sua mente partorì un altro progetto, non sapendo ancora che era nato anche nella fantastica testa di Adoniesis.

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Capitolo 34
*** UN SECOLO PRIMA ***


Nuova pagina 2

 

UN SECOLO PRIMA

 

 

2016

 

Roma

 

 

"E venne il giorno della verità.

Tutto fu svelato e, da quel momento, nulla fu più come prima.

Seguì un tempo in cui cominciò la caccia a duplice direzione.

Il fratello uccise il fratello non tanto per il colore della pelle quanto per il dio che venerava.

Era lo stesso, ma con diverso nome, tuttavia, in suo nome, sangue fu sparso a fiumi per la supremazia di una fede che stava morendo.

Non uscì un vincitore.

Il Padre scomparve per sempre.

Uomini, donne e infanti non trovarono riparo e conforto neppure dietro le mura sacre.

Nessuno mosse un dito per difendere il suo simile .Tutti uccisero tutti, per giorni, mesi ed anni

Poi, il massacro si fermò.

Non erano rimasti in molti ed i sopravvissuti si chiusero dietro le mura delle loro città e delle loro dimore, occupandosi solo del proprio orto, senza più voler sapere nuove neppure del vicino.

Troppe parole erano state pronunciate; troppe parole avevano distrutto il piacere di pronunciarle e scambiarle con il fratello.

 

 

 

 

Un secolo dopo

 

Roma, 2126 Interno archivio segreto del Vaticano, non più segreto

 

Flavia Aloisi chiuse il tomo rivestito in pelle rossa, rifinita con preziose decorazioni in oro, ma rimase seduta sulla comoda poltrona in velluto verde che le abbracciava il corpo, in profonda meditazione.

Nella vastissima sala della Biblioteca Vaticana, in zona una volta segreta, - adesso non più - , che occupava quasi tutto il sotterraneo del palazzo, regnava un silenzio toccabile con mano.

Ora sapeva cos' era accaduto cento anni prima.

All'esterno, il mondo era tornato quasi alla normalità.

Il silenzio sacrale fu fiocamente interrotto dal ticchettio di un paio di tacchi, proveniente dal fondo dell' amplissimo vano, e la sagoma scura femminile della donna addetta alla sorveglianza ed alla consulenza comparve piccola contro la luce diffusa che illuminava la stanza, lontano.

Con andatura rigida, quasi militaresca, la donna si avvicinò al tavolo dove Flavia sedeva, fermandosi a pochi metri da lei, severa nel suo elegante tailleur bordeaux, con i capelli neri raccolti dietro la nuca e tenuti a posto da un bel fermaglio brillantinato.

L' espressione sul suo volto svelò a Flavia la sua perplessità ed un discreto sconcerto.

"Cosa pensa, signorina?" le chiese infatti la donna, fissandola con l' intensità dei suoi occhi neri.

Flavia si prese qualche secondo per rispondere.

In effetti, era un po' sgomenta, ma aveva capito.

"Credo sia stato un periodo difficile per l' umanità" rispose poi, distaccata.

"Indubbiamente. - convenne la donna - Ma è stato  necessario".

"Certo. - accordò Flavia, in realtà poco convinta - Probabilmente sì".

"Non probabilmente. - si permise di correggerla la donna - Di sicuro. Purtroppo, l' Uomo non ha innato il senso della misura, ed esagera. A questo punto occorre un restart per riportare l' equilibrio. E a volte, la soluzione è molto drastica. Dura e sanguinosa".

"Già" commentò Flavia, con amarezza.

Lo smartwatch  trillò, dolce e discreto.

"Flavia, hai finito? - Era sua madre - Ti aspettiamo per il pranzo".

"Vengo, mamma" rispose Flavia, veloce, alzandosi e compiendo il gesto di voler riporre il libro nel suo scaffale. La donna la fermò invitandola a non preoccuparsi per questo e ad andare dove doveva.

Flavia la ringraziò, sorridendo.

"Torni pure quando vuole, signorina Aloisi. - le disse la donna, gentile - Tutti questi libri sono a sua disposizione e a disposizione di chi vorrà consultarli". Flavia ringraziò ancora solo col sorriso e lasciò la sala.

 

 

 

Verso casa

 

Fuori era primavera; una fine aprile tiepida, con un cielo non del tutto sgombro da nuvole in cui il Sole faceva già sentire la sua forza anticipatrice della buona stagione. Flavia si fermò in mezzo a Piazza San Pietro e gettò lo sguardo attorno a sé. Il colonnato abbracciava la piazza, come sempre gremita di turisti che però provenivano solo dal suolo Italiano. Al di là dell' Oceano Atlantico, quasi nessuno sapeva che Roma c'era ancora. Lo sapeva lei e la sua famiglia, trasferitasi da qualche anno nella Città Eterna dopo il lungo soggiorno in Svizzera. Lo sapeva Stefano Aloisi che era stato eletto governatore di Roma a suffragio universale. E lei era la figlia del governatore, ma il fanatismo che prima sorgeva attorno a certe cariche era scomparso da un pezzo. Flavia camminava per Via Cola di Rienzo, accompagnata dagli sguardi dei passanti, incuriositi ed attratti più dalla sua bellezza che dall' illustre parentela. Nel quartiere era conosciuta solo perché era stata vista spesso con suo padre, niente di più. E di questo lei era felice. Non amava le luci della ribalta.

Ad attenderla nell' elegante appartamento di Via Paolo Emilio, c'era sua madre, Annamaria che, dopo l' elezione del marito a governatore, aveva rallentato di molto la sua attività di medico non essendo più necessario il suo apporto economico al bilancio familiare. Aveva trovato un ruolo part-time in una piccola clinica privata, nel quartiere, e tornava a casa per pranzo.

"Com' è andata la ricerca?" chiese subito alla figlia appena comparsa nel vano della porta di casa.

"Bene, mamma. - rispose Flavia senza tuttavia mettere eccessivo entusiasmo nella risposta - E' stata proficua" Ma Annamaria scorse un' espressione quasi triste sul volto della ragazza.

"Stai apprendendo tutto, vero?" disse, seria.

"Già" confermò Flavia, laconica, depositando la borsa con i libri, sul divano di pelle color miele.

"Non è stato bello".

"No".

"Ma da ora in poi andrà meglio, vedrai" la rincuorò Annamaria, accarezzandole le braccia, guardandola dritto negli occhi.

"Papà?" chiese Flavia, desiderosa di cambiare velocemente argomento.

"Da quando è sul trono, l' abbiamo perso, tesoro mio!" rispose la madre, allegra.

Qualche minuto dopo, la quiete della casa fu brutalmente interrotta dall' irruzione degli altri tre figli, al ritorno da scuola.

Flavia frequentava l' ultimo anno di Scienze Storiche, nuovo ramo della facoltà di lettere.

A Roma era iniziato un altro capitolo della vita della famiglia Aloisi.

Il televisore era acceso e l' immagine che stava passando colpì l' attenzione di Flavia: un uomo con i capelli biondo scuro e un paio d'occhi di un azzurro fuori dall' ordinario accesero nella ragazza il ricordo dell' ospite alieno, conosciuto anni addietro in territorio elvetico. Non era lui, ma ci assomigliava alquanto. Chissà dov'era! Chissà se l' avr4ebbero mai più visto!

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