~CITY~

di Rose Wilson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Apprendista ***
Capitolo 2: *** La sala esperimenti ***
Capitolo 3: *** Notti insonni ***
Capitolo 4: *** Meccanici ***
Capitolo 5: *** Sostanza H85 ***
Capitolo 6: *** Rivelazioni... ***
Capitolo 7: *** ... Megattere, Demoni e Guai ***
Capitolo 8: *** Risposte, finalmente ***
Capitolo 9: *** Il suo nome ***



Capitolo 1
*** L'Apprendista ***


A grande richiesta (seh, ora non esageriamo), ecco a voi il seguito di ~CITY~ Prologue!
Ci tengo subito a ringraziare di cuore tutte le persone che hanno messo la storia tra le preferite/seguite (appena capirò la differenza vi chiamerò), tutte le persone che hanno recensito, ma anche tutti i "lettori fantasma" che non hanno recensito nè messo una preferenza ma che comunque hanno speso cinque minuti del loro tempo per leggere, grazie davvero a tutti.
Per ulteriori chiarimenti, ci rivediamo più sotto a fine capitolo.
Bene, non ho nient'altro da dire, a parte augurarvi buona lettura e... sigla!

https://www.youtube.com/watch?v=iovwYQ7I2QU







 




~CITY~






CAPITOLO PRIMO

L'APPRENDISTA




 
< Apprendista Markov? Markov? Ma dove- Si puo sapere cosa stai facendo?! >

L'apprendista sussultò alle grida del superiore. Aprì di scatto gli occhi, ritrovandosi davanti il viso rosso di rabbia di Ainsworth. Non ebbe il tempo, però, di rispondere che il suo capo si rimise a sbraitare.

< Ti sei di nuovo addormentata durante le ore lavorative! E' incredibile! Credevo avessi imparato la lezione l'ultima volta, dopo che ti ho spedito nelle fucine, e invece no! >

< Non stavo dormendo, capo, giuro! > ribattè la ragazza, agitando la paletta polverosa che aveva in mano per enfatizzare le sue parole. < E se anche fosse, la colpa è solo tua a darmi questi orari. Ma chi si sveglia alle 9:30 di mattina? >

Se a dirlo fosse stato un qualsiasi altro degli Apprendisti, Ainsworth, membro da più di trent'anni della Corporazione Ingegneristica, non avrebbe esitato un secondo di troppo a buttarlo in pasto ai Meccanici, gli androidi con sembianze bestiali che si occupavano dei lavori tecnici, ad esempio fondere i materiali non più utili alla City e a cui una mano umana faceva sempre comodo.

Ma quella non era un qualsiasi altro apprendista.
Era Markov. Ainsworth si passò una mano sul viso, rischiando di far cadere l'immancabile parrucchino bianco, esasperato.

< Cosa devo fare con te, Markov? Fila subito ad aiutare Atwood con quelle ceramiche del ventisettesimo secolo >

Il viso della ragazza si illuminò. < Grazie capo! Volo capo! > e, gettati a terra scopa e paletta, corse via in direzione della Zona Museo, accompagnata dalle grida di Ainsworth che urlava: < Ti ho già detto di non chiamarmi capo! >

La City era suddivisa in dodici aree, ognuna con uno specifico incarico, che si dividevano a loro volta in ventiquattro Distretti, che a loro volta erano composti da vari Settori e migliaia di Zone.

Markov era nata e cresciuta nella City, o meglio, in quel Settore della City e lo conosceva a memoria. Non si trovava nelle Aree più grandi, come l'Area Sperimentale, anzi tra tutte e dodici era la più piccola, ma di certo era tra le più utili. Si trattava infatti dell'Area Rifornimento, incaricata di fornire alla City viveri e materie prime, sebbene gli Apprendisti dovessero svolgere praticamente ogni sorta di lavoro, prima di poter entrare a far parte di una Corporazione o diventare impiegato.

Quella più importante tra tutte, però, era sicuramente l'Area Capitale, dove risiedeva il Sindaco assieme a tutti i suoi alleati.

Per passare dalla Zona Apprendisti alla Zona Museo avrebbe dovuto attraversare una decina circa di corridoi lunghi e freddi e, a detta della ragazza, "noiosi", per poi prendere un'ascensore, salire di quattro piani, imboccare il corridoio principale e raggiungere la porta contrassegnata Z. Museo, dove per entrare fuori orario, come in quel caso, avrebbe dovuto utilizzare il tesserino degli Apprendisti.

Ci avrebbe impiegato all'incirca venticinque minuti, sempre che l'ascensore non fosse pieno, e lo era sempre. Ignorò le occhiate severe, sdegnose o semplicemente curiose dei vari superiori, quali Ingegneri, Mastri, Scienziati e tanti altri tizi col cappotto bianco sporco mentre si faceva largo nella cabina. A ogni piano altre persone entravano, spingendo e sgomitando e Markov ringraziava mentalmente di non essere claustrofobica.

Finalmente, l'ascensore si fermò al quarto piano, e la ragazza potè svignarsela.

Percorse il corridoio, cercando con lo sguardo la porta per la Zona Museo, finchè non la trovò ed inserì il tesserino degli Apprendisti nella fessura appena sotto la tastiera posta per inserire chissà quali codici.

Appena entrata venne investita da un forte odore di vecchio e polvere, che la fece tossire.
Ma come diamine faceva, Luke, a lavorarci lì dentro?

< Ehi tu, che cosa... Markov? >

La ragazza sbuffò mentre si voltava verso l'Apprendista Anders.
< Ciao Amalia > borbottò. La mora, con una pila che quasi la superava in altezza di enormi vecchi portatili risalenti probabilmente a qualche secolo prima tra le braccia, la fissò sospettosa.

< Si può sapere cosa sei venuta a fare quassù, scricciolo? > le domandò aspramente.

< Mi ha mandata Ainsworth. Devo aiutare Luke, sai per caso dov'è? > chiese lo "scricciolo" ignorando il nomignolo.

L'altra sogghignò. < Sicura che tu sia venuta fin qui solo per aiutarlo? Ultimamente vi vedo spesso soli insieme... >

Markov storse il naso. < Se ci ha visto significa che tanto soli non eravamo. Sai dov'è sì o no? >

L'Apprendista Anders accentuò il sorriso cattivo. < Sezione di Storia Naturale, sala degli uccelli imbalsamati >

La bionda ringraziò frettolosamente e se ne andò, con l'inquietante sensazione degli occhi violacei di Amalia incollati sulla schiena.

Amalia, comunque, non aveva mentito. L'Apprendista Atwood era infatti di spalle, intento a lucidare la teca in vetro contenente un'esemplare di rondine, un meraviglioso volatile estinto verso la fine del ventunesimo secolo. La ragazza sorrise, gli arrivò da dietro e, una volta raggiunto, gli gridò nell'orecchio con quanto fiato aveva in corpo.

< APPRENDISTA ATWOOD A RAPPORTO! >

Il poveretto sobbalzò, facendo cadere lo straccio. Si voltò, adirato.

< Ah! Bastardo, mi hai fatto prendere un c- Tara? > La rabbia svanì appena un poco dal suo volto. < Ma sei impazzita? Ho perso dieci anni di vita con quel salto >

< Adesso esageri > lo rimbeccò lei, alzando gli occhi al cielo.

< Ti odio > brontolò lui, poi sbattè le palpebre, confuso. < Ma tu che ci fai qui? Non dirmi che ti sei di nuovo addormentata sul lavoro >

Markov sorrise colpevole. < Okay, non te lo dico >

< Tara! > sospirò lui esasperato, mentre l'altra, ridacchiando, saltellava facendo slalom tra le innumerevoli teche contenenti corvi, passeri e pettirossi.

< Se proprio vuoi trasgredire alle regole, fai come me e frega il portafoglio ai tizi in ascensore, almeno ci guadagni. Si può sapere cosa diavolo fai la notte per addormentarti praticamente ovunque durante il giorno? >

La ragazza abbassò lo sguardo, fingendo di stare attenta a dove metteva i piedi quando l'unica cosa che voleva era evitare gli occhi azzurri di Luke. Oh sì, faceva delle cose la notte, ma erano cose vietate, che non poteva raccontare nemmeno all'amico. Sbuffò, andando quasi a sbattere contro il modellino meccanico di un falco.

< E' che mi annoio. Sono secoli che non avviene qualcosa di interessante, che so, una nuova conquista, una nuova battaglia, niente. Ci limitiamo a spargere cemento sopra... sopra... > si fermò a metà di un saltello, con una gamba sollevata, mordendosi il labbro per ricordarsi il termine esatto.

< La Terra? > indovinò Atwood, al che lei annuì. < Tara, so meglio di te come ti senti, e ti do ragione, il Sindaco e tutti quei suoi leccapiedi dell'Area Capitale sono dei bastardi fatti e finiti. Ma continuare così non ha senso. Piuttosto, ho sentito dire che abbiamo finalmente conquistato e cementato l'intero continente >

< Conticosa? > domandò lei, corrugando la fronte.

< Continente. E' il modo in cui gli antichi chiamavano le terre emerse > spiegò Luke. La ragazza sbuffò di nuovo.

< E che ci vuole? Qui continua a non succedere nulla >

In quel momento, lo schermo posto dietro l'Apprendista Markov si accese di colpo, facendola sobbalzare.

< Salve a tutti i cittadini > salutò formalmente la figura imponente del Sindaco, comparsa all'improvviso. < Tutti i Componenti della Corporazione Scientifica sono richiesti nell'Area Capitale. Grazie e buona giornata > lo schermo si scurì di nuovo.

I due ragazzi si guardarono, scambiandosi occhiate sorprese.

< Il Sindaco mi fa venire i brividi > ruppe il silenzio la bionda, passandosi le mani sulle braccia, come colpita da un freddo improvviso. < Se solo si togliesse quella maschera agghiacciante dalla faccia ogni tanto... >

< Non dire idiozie. Se se la togliesse, poi Amalia non potrebbe più raccontare diavolerie sul suo conto e terrorizzare i novellini > sogghignò Luke.

< Però perchè il Sindaco ha richiamato tutta la Corporazione Scientifica? Solo gli scienziati si divertono, non è giusto! > fece Markov, mettendo il broncio come una bambina.

< Gli scienziati? Divertirsi? Ma ti ascolti quando parli? > il ragazzo scosse il capo e si chinò a raccogliere lo spruzzino e lo straccio che gli erano caduti. < Ma ora basta perdere tempo. Aiutami con quelle ceramiche antiche, o finirò col ricevere io stesso una punizione e, a ben pensarci, non mi va proprio >

La ragazza sbuffò mentre una ciocca dorata le cadeva davanti al viso. Dovette incrociare gli occhi in maniera piuttosto buffa per riuscire a vederla.

< Come vuoi. Uffa però >

E detto questo, i due Apprendisti si diressero verso l'uscita della sala.

 
~ ~ ~
 
Immerso nella più completa oscurità, un uomo con un occhio solo scrutava l'immagine che gli era appena apparsa davanti attraverso un piccolo arnese a forma di esse. A un comando vocale, questo aveva infatti preso a vibrare, per poi trasmettere un'ologramma della sua sottoposta più fidata.

< Lui l'ha traferita proprio tre giorni fa nella sala esperimenti. Come da ordini, abbiamo subito iniziato con le operazioni > stava concludendo la donna dell'ologramma, vestita di un'armatura nera e arancio. Portava i capelli bianchi sciolti sulle spalle e sul suo occhio sinistro spiccava una benda scura.

L'uomo annuì lentamente con il capo. < Avete rilevato caratteristiche anormali nell'esperimento, a parte ciò che già sappiamo? >

< Possiede un fattore di guarigione impressionante. Abbiamo fatto qualche test per esserne sicuri: risulta chiaramente che il soggetto è in grado di rimarginare quasi tutti i tipi di ferita, purchè non siano mortali e purchè il soggetto ne abbia le forze necessarie > rispose prontamente lei. < E, ovviamente, ci sono i suoi poteri >

L'uomo socchiuse il suo unico occhio. < Parlatemi di questi poteri. Cos'è in grado di fare? >

< Non siamo ancora certi di tutte le sue abilità. E' in grado di creare sfere di energia dalle mani, mutare il suo corpo in ombra e far comparire dal nulla scudi e rampicanti della medesima energia nera. Tuttavia potrebbe riservarci ancora delle sorprese > elencò la donna albina.

L'uomo annuì di nuovo. < Molto bene. Avete fatto un buon lavoro, Lady Rose >

La donna parve esitare un secondo, poi chinò il capo in segno di rispetto e l'ologramma svanì.






Probabilmente molti di voi adesso smetteranno di leggere la storia, la dispreferiranno (?) o disseguiranno (??) o cosa diavolo ne so io. Perché sì, ragazzi, ecco a voi una dei coprotagonisti di questa storia, Tara Markov, non esattamente il personaggio più amato del fandom.
Ma a me non importa un accidente! Don't like Terra? Don't read about Terra. Simple.
Vabbè, lasciamo perdere.
Piuttosto, per tutti quelli a cui Tara sta un po' sulle scatole ma che continueranno comunque a leggere la long, calmi (?) state tranquilli (?). Non voglio mentirvi, Terra sarà non fondamentale, di più, per l'esito della storia, però come ho già specificato lei sarà una coprotagonista, ovvero i punti di vista cambieranno molto spesso da capitolo a capitolo.
Per farla breve non ruoterà tutto intorno a lei.
E prima che qualcuno me lo chieda, no, il video non l'ho fatto io, e la canzone è City, degli Hollywood Undead. Dato che è stato proprio ascoltando questa canzone che mi è venuta in mente l'idea per la storia, ho pensato fosse doveroso inserirla nella long. Prendetela come, non so, una sigla iniziale.
E... Luke? Ma chi sarà mai questo misterioso ragazzo? ... Avanti questa non è difficile.
Poi... come potevo anche solo pensare di non mettere Rose? E il nostro amatissimo Sindaco?
Ultima cosa: purtroppo non potrò essere sempre il massimo della puntualità, anzi temo che sarà proprio poco il tempo per scrivere e postare. Perché, indovinate, tra una settimana ricomincio la scuola! Liceo scientifico, evviva... *tono altamente sarcastico*.
Cercherò comunque di essere il più costante possibile, promesso.
Bene, credo di aver detto tutto.
A presto, si spera, con il prossimo capitolo,

Rose Wilson

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Capitolo 2
*** La sala esperimenti ***



~CITY~








CAPITOLO 2



LA SALA ESPERIMENTI


 
Dolore. Un dolore sordo, continuo, che le ottenebrava la mente, impedendole di pensare con lucidità.

Era così da quando l'avevano trasferita nella sala esperimenti. Le faceva male tutto, ma dalla sua bocca non uscivano che grida e lamenti. Non una confessione, non una supplica, non un pianto.

Ma questo era chiaro. Lei non poteva piangere. Semplicemente non ne era in grado. Non aveva pianto alla morte dei suoi genitori, non aveva pianto alla distruzione del mondo così come lo conosceva, non avrebbe pianto per il dolore.

Era impossibile determinare con chiarezza da quanto fosse lì dentro. A parer suo, poteva essere passato un giorno quanto un anno.

Non poteva neppure carpire tale informazione dai pasti, dato che la maggior parte del tempo lei cadeva in una specie di trance dal quale fuoriusciva solo per brevi periodi, quel che bastava perché le iniettassero qualcos'altro nelle vene che l'avrebbe fatta gridare dal dolore finché non fosse scivolata nuovamente in quella dimensione onirica che, per lo meno, era una buona scappatoia dalla sofferenza.

Sentì la porta scorrevole aprirsi. Prese un respiro profondo e strinse i denti, pronta per l'ennesima tortura.
Sentì i passi pesanti degli stivali sul pavimento di metallo, lenti e calcolati. Erano in due.
Sentì il proprio cuore accellerare.

 
~~~
 
Lui odiava quella donna.

Quella donna accanto a lui, con un ghigno malefico sul volto, probabilmente pregustando l'attimo in cui avrebbe inflitto chissà quali atroci torture alla sua preda, legata a un freddo tavolo da laboratorio.

Quella donna che lo aveva sempre superato in tutto e che glielo rinfacciava di continuo.
Quella donna che non aveva esitato un secondo ad uccidere per arrivare al potere.
Lui la odiava.

I due si trovavano nella sala esperimenti, a fissare l'inerte prigioniera. Due enormi manette grigio azzurre le bloccavano i polsi e le caviglie al tavolo, costringendola a tenere braccia e gambe divaricate. A parte l'intimo nero era nuda e, chissà perché, ciò lo metteva a disagio.

«Demone» la salutò malignamente la donna, entrando a passi decisi nella sala e raggiungendo il tavolo. Il ragazzo si costrinse a muovere le gambe e a raggiungerla.

Due palpebre grigie si socchiusero lente, rivelando un piccolo spicchio delle meravigliore ametiste che l'esperimento 929 possedeva al posto degli occhi. Al solito, aveva un'espressione impassibile dipinta sul viso perlaceo ma, a differenza delle altre volte, i suoi occhi rivelavano, nel profondo, il dolore che la tormentava. Il ragazzo si morse il labbro. Mai prima di allora gli era capitato di rimanere infastidito da una sofferenza altrui. O meglio, c'era stato un tempo...

«Lord. Lady.» rispose atona lei. Era solo una sua impressione, o stava guardando proprio lui?

La donna la squadrò senza pudore, abbandonando il ghigno.

«Le ferite che le abbiamo inflitto ieri sono scomparse. Notevole» commentò, sfilandosi gli onnipresenti guanti color dell'acciaio e calzando dei guanti di plastica, per poi afferrare una siringa.

«Allora, il protocollo mi obbliga a porti per l'ennesima volta la seguente domanda: dove si trova la base dei ribelli?» domandò, vagamente annoiata, mentre versava all'interno del cilindro in vetro un liquido trasparente.

Le rispose il silenzio, al che lei sogghignò.

«Brava ragazza. Il gioco facile non è divertente» affermò, infilandole l'ago nell'avambraccio destro. Lei non fece una piega nemmeno quando l'intera sostanza le entrò in corpo. Dopo pochi secondi iniziò a gridare.

La donna assistette deliziata al suo strazio. Il ragazzo fu costretto a distogliere lo sguardo. Quegli occhi di ametista non l'avevano lasciato un solo istante.

 
~~~
 
La donna rimise a posto la siringa e i guanti, lanciando occhiate scocciate alla prigioniera.

«Non piange mai, non implora mai, che noia!» si lamentò, afferrando uno straccio e ficcandolo in mano al ragazzo.

«Occupatene tu, va, che io ho da fare» ringhiò brusca, uscendo dalla stanza e lasciandolo solo.

Lui la guardò andare via, trattenendo a stento un moto di rabbia. Si voltò verso l'esperimento 929 e per poco non sussultò. Quegli occhi, del colore delle ametiste più pure si erano aperti di nuovo e lo scrutavano.

Non c'era odio, né collera, né altro nel suo sguardo. Vi era solo apparente indifferenza e questo lo metteva a disagio più di quanto già non lo fosse.

Restarono fermi lì, a studiarsi per un tempo che parve infinito. Poi, lei ruppe il silenzio per la prima volta.
«Non dovreste odiarla, Lord»

Il ragazzo si accigliò, confuso.
«Cosa?»

«Ho detto che non dovreste odiarla» ripetè lei, con la medesima voce atona di prima.

Lui scosse la testa, frastornato. «Intendete Lady Rose? Come avete fatto a capire il mio astio nei suoi confronti?»

«Non serve essere empatici come me per accorgersene» rispose lei, come se fosse ovvio, non mutando il tono.

«Non dovreste odiarla»

Lui si sentì offeso: erano anni che aveva imparato a celare le sue emozioni al mondo intero e il fatto che non un essere umano, un esperimento mal riuscito riuscisse a leggergli la mente in quel modo lo irritava non poco.

Il ragazzo emise un verso di scherno. «Datemi un valido motivo per cui non dovrei. Voi non conoscete quella donna»

Lei chiuse gli occhi e rimase in silenzio. Dopo vari istanti mormorò, con voce stanca e inespressiva:

«Avete ragione, Lord, io non conosco quella donna. Ma, mentre voi vi limitate a guardare, io vedo. La Lady che voi conoscete non esiste, è solo una finzione, una maschera falsa quanto fragile»

Riaprì gli occhi viola e lo fissò.
«Sta soffrendo, Lord. Ha paura»

Il ragazzo, turbato, rimase in silenzio. Ciò che l'esperimento diceva non aveva senso. Quella donna era una semplice mercenaria che, chissà per quale motivo era finita col diventare il braccio destro del Sindaco, tutto qui. E ai mercenari era vietato conoscere la paura.
Prima, però, che potesse anche solo aprire la bocca per rinfacciarle quell'ovvietà, lei entrò, interrompendoli.

«Dick, il Sindaco vuole vederti» gli comunicò, secca, senza nemmeno fermarsi a guardarlo, andando dritta al tavolo dove giaceva la prigioniera, che aveva richiuso nuovamente gli occhi.

La donna si voltò a guardarlo, seria.
«Non è felice»

Lui annuì con un cenno del capo e si voltò verso l'uscita, per poi bloccarsi. Lanciò un'ultima occhiata all'esperimento 929, poi alla donna. Era davvero solo una maschera? La fissò ancora, mentre armeggiava con una flebo, quasi come se si aspettasse che accedesse chissà cosa che confermasse le parole della prigioniera da un momento all'altro. Tutto normale.

Scosse la testa e fece per andarsene quando lo notò.

Il tremito appena percettibile delle mani, il labbro inferiore martoriato da continui morsi di indecisione, il quasi invisibile sudore che le imperlava la fronte pallida.

Che la prigioniera avesse ragione? Che quella donna stesse veramente fingendo di essere una mercenaria crudele e spietata come lui l'ha sempre vista per mascherare chissà quali incertezze e timori?

La donna sollevò lo sguardo su di lui e aggrottò la sopracciglia sottili.
«Si può sapere cosa ci fai ancora qui? Muoviti!» sbottò aspra.

Lui si riscosse e annuì di nuovo col capo, voltandosi e uscendo dalla stanza.

 
~~~
 
«Abbiamo finito?» domandò esausta la ragazza, strofinandosi gli occhi irritati dalla polvere.

Lei e Luke erano lì sotto a pulire e catagolare quei vasi antichi da almeno due ore, e non parevano nemmeno lontanamente vicini all'aver finito. Per l'appunto l'amico ignorò la domanda, non ritenendola degna di risposta, e continuò a lucidare la teca di una vecchia ciotola risalente al ventiseiesimo secolo, come daltronde ogni altra cosa presente nella sala dove si trovavano.

Tara stava in piedi accanto a lui, con uno stupido blocco per gli appunti in una mano e una penna nell'altra, col compito di riportare numero, data e nome dell'archeologo che aveva scoperto la ceramica.

Lei era annoiata a morte, e scommetteva lo stesso per Luke. Represse a stento uno sbadiglio, maledicendo mentalmente Ainsworth. L'aveva rimproverata perché si era addormentata sul lavoro, ma se la spediva a fare lavori di questo genere rischiava seriamente di mandarla in letargo.

Se non uscissi tutte le notti per guardare le tue amate stelle ignorando le regole del coprifuoco, saresti più che sveglia, le sussurrò maligna una voce nella sua testa, che lei scacciò via.

«Ehi Luke, secondo te perché il Sindaco ha richiamato l'intera Corporazione Scientifica nell'Area Capitale?» domandò all'improvviso, ricordando il video messaggio visto nella sala degli uccelli imbalsamati.

«Eh? Mah, non saprei e a ben pensarci non voglio saperlo. Non sono affari miei, e nemmeno tuoi» brontolò l'amico, voltandosi appena a guardarla per poi chinarsi di nuovo davanti alla teca che era intento a pulire, sporcando di polvere la divisa nera e grigia degli Apprendisti.

Il regolamento diceva chiaramente che, a meno che non fosse un giorno festivo, gli Apprendisti erano tenuti a tenere le divise sempre e comunque ma, dato che a Luke le regole non erano mai piaciute troppo, lui era stato lesto ad aggirare la regola. Sul davanti e sul retro della sua maglia, infatti, spiccava un teschio stilizzato disegnato da lui stesso, con una bella X rossa sulla fronte.

Questo suo comportamento era più volte stato ripreso e rimproverato, molto spesso punito anche, ma non era servito a nulla, quindi adesso i superiori si limitavano a sospirare contrariati e a lanciargli occhiatacce, senza però fare nulla di concreto.

Tara sbuffò. Luke sapeva essere davvero insopportabile quando ci si metteva.

«E andiamo, non sei nemmeno un minimo curioso? Secondo me ci stanno nascondendo qualcosa di grosso» ribadì, per nulla intenzionata a lasciar cadere l'argomento.

«Secondo me, invece, sono cose che non ti riguardano. E comunque scommetto che si tratta solo di sistemare qualcosa nei laboratori. Niente che ti possa interessare»

«Sei noioso»

«Sono realista»

«C'è differenza?»

«Sì»

Terminò così la loro conversazione.

Un paio d'ore più tardi, durante la cena alla mensa dove tutti gli Apprendisti consumavano i loro pasti, Tara e Luke si separarono - le regole erano molto severe riguardo i rapporti tra femmine e maschi.

La bionda si sedette accanto a due ragazze della sua età, una certa Jennifer e una certa Karen, con cui non condivideva un'amicizia molto profonda ma con cui spesso e volentieri si ritrovava a chiacchierare.

In quel momento, Jennifer, i cui capelli rosa erano intrecciati e laccati in un paio di corna demoniache che venivano continuamente rese oggetto di critiche e rimproveri da parte dei superiori più anziani, farneticava con aria piuttosto adirata su di un ragazzetto che da un po' di giorni non la lasciava in pace e osava farle la corte.

Era talmente furiosa che si accorse della presenza di Markov solo una dozzina di minuti dopo che avevano iniziato a mangiare.

«Tara? Da quanto sei qui?» domandò, cambiando tono di colpo a metà di una frase e accigliandosi, confusa.

«Più o meno dalla millesima volta che hai mandato a quel paese quel poveraccio» rispose Karen al posto della bionda, ammiccando verso quest'ultima.

Il resto della cena trascorse piacevolmente, tranne quando Amalia, passando accanto al loro tavolo, rovesciò accidentalmente il contenuto della sua bottiglietta addosso a Jennifer, col solo risultato di uno sclero da parte della rosa che piagnucolò per la sua meravigliosa acconciatura rovinata per tutto il resto della serata.
















Rivelata l'identità del "ragazzo" di cui si è sentito tanto parlare nel Prologue! Dai, siate sinceri: ve lo aspettavate?
E se avete ancora dubbi riguardo Luke allora non so proprio che dirvi.


Al prossimo capitolo,
Rose

P.s.: per qualunque cosa (discutere, insultarmi, farmi notare quei due errori grammaticali che nemmeno a rileggere il testo trecento volte vengono fuori, ecc...) ricordate che il tasto "Recensisci" è a vostra disposizione :) .



 
 

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Capitolo 3
*** Notti insonni ***



~CITY~
























 








 





CAPITOLO 3












NOTTI INSONNI


 
Tara si rigirò nel letto, scalciando le lenzuola a terra. Aveva le palpebre serrate e le tremava il labbro, mentre le sue mani si aprivano e si richiudevano nel sonno. Rivoli di sudore le incollavano le ciocche di capelli alla fronte e al collo, infilandosi sotto la maglietta e rendendole la schiena appiccicosa.

«No... via, lasciami in pace...» mugugnò, mentre l'incubo che la tormentava ormai da anni le scorreva dinanzi agli occhi chiusi.

Tara era orfana. I suoi genitori erano morti qualche anno dopo la sua nascita, troppo pochi perché lei li potesse ricordare. Non le avevano mai rivelato la causa del decesso e, da quando ne aveva memoria, almeno una volta al mese, lo stesso orribile incubo la perseguitava.


Era bassa nel sonno, non doveva aver più di una decina d'anni. Vestiva di un abito verde e oro, così bello da farla sembrare una principessa. Stava correndo in un lungo corridoio bianco e spoglio, che pareva non avere fine.
Non ricordava nulla, non sapeva nulla, sapeva solo che doveva correre, doveva sbrigarsi o qualcosa di terribile sarebbe accaduto. Udiva voci in lontananza che la chiamavano, ma non riusciva mai a raggiungerle. Non aveva idea di come facesse a saperlo, ma era sicura si trattassero delle voci dei suoi genitori.

«Mamma! Papà!» gridò a pieni polmoni, ma dalle sue labbra non uscì suono.

All'improvviso il regale vestito si tramutò in sangue, che le macchiò la pelle e gliela bruciò come fosse acido. Il candido corridoio si tinse di nero, finché la piccola Tara si ritrovò a vagare nei gelidi corridoi della City. Le gambe le cedettero senza alcun preavviso e si ritrovò in ginocchio. Al posto dell'abito, indossava adesso la divisa degli Apprendisti sporca di rosso.

Le voci lontane si fecero di colpo disperate, finché un agghiacciante urlo femminile di terrore e sofferenza spense con sè ogni suono.
Un'ultima frase, flebile come la voce di un morente le giunse alle orecchie.

«
Tu non appartieni a questo luogo, Tara Markov»


La ragazza si svegliò di colpo, ansante e fradicia di sudore. Riuscì a fatica a trattenere il grido di panico che le aveva raggiunto le labbra e stava quasi per abbandonarle. Si accasciò sul letto, mentre calde lacrime le sgorgavano dagli occhi azzurri e le rigavano le guance.

Rimase così per un po', lasciando il tempo necessario al suo cuore perché la smettesse di scalpitare impazzito all'interno della cassa toracica, poi, in silenzio, si alzò dalla branda. Si infilò la prima cosa che trovò da mettersi e le scarpe, queste ultime abbandonate in malo modo sotto al letto, poi si diresse, attenta a non svegliare nessuna delle sue compagne, verso l'uscita del dormitorio.

Nonostante fosse buio non ebbe problemi a ritrovare la strada, dato che ormai la conosceva a memoria. Percorse una decina circa di corridoi, prese l'ascensore fino al piano più alto, attraversò un paio di sale e la trovò: una minuscola porticina, alta sì e no poco più di un metro, senza serratura né maniglia. La ragazza la spinse piano, trovandola come al solito aperta, e vi si infilò dentro.

China per non sbattere la testa, che comunque sfiorava il soffitto, salì la breve scalinata che si trovava a pochi passi dall'entrata, poi, ritrovatasi davanti una seconda porta, la tirò.

Venne investita da una brezza gelida, che le provocò un brivido lungo la schiena. Il cielo, nero come l'inchiostro, si apriva sopra di lei.

 
~~~
 
Dick non riusciva a dormire quella notte. Si rigirò per l'ennesima volta nella branda, senza che il sonno lo raggiungesse. Nervoso, si alzò e, indossata l'armatura e la maschera che celava i suoi occhi al resto del mondo, abbandonò la stanza.

Non aveva dimenticato l'incontro con il Sindaco, avvenuto poche ore prima. E come avrebbe potuto? Il motivo era sempre lo stesso: bisognava assolutamente scoprire al più presto l'ubicazione della base dei ribelli, così da poter sferrare un attacco prima che quei dannati terroristi dessero inizio a una guerra.

Nonostante le torture, però, la prigioniera si rifiutava di parlare, e la colpa ricadeva naturalmente su di lui.
Si passò una mano sul volto, frustrato. Se questo non fosse stato già abbastanza, l'esperimento 929 aveva uno strano effetto su di lui. Ogni volta che chiudeva gli occhi, rivedeva le gelide ametiste della prigioniera, ogni volta risentiva le sue grida di dolore in pieno contrasto con la sua voce, atona e cupa, ogni volta risentiva una sconosciuta quanto dolorosa stretta al cuore.

E non può fare a meno di notare quanto l'esperimento somigli a...

Il ragazzo scacciò quei pensieri dalla testa. Quasi senza accorgersene, i suoi passi l'avevano riportato dinanzi alla sala esperimenti, dove sapeva di trovare lei. Per un istante, prese in considerazione l'idea di entrare lì dentro, anche solo per vederla.
Scosse la testa: probabilmente era il troppo lavoro, lo stava facendo impazzire. Seppur a malincuore, sorpassò la porta della sala e continuò a camminare senza meta.

 
~~~
 
L'aveva percepito, quando si era accostato all'ingresso della sala. Per un istante, la parte meno razionale e più emotiva della sua personalità, quella che da anni e anni tentava di sopprimere senza mai riuscirci completamente, aveva sperato che entrasse, che solcasse quella dannata porta solo per vederla.

L'esperimento 929 fece una smorfia nell'allontanare quei pensieri molesti: quel ragazzo è un mercenario del Sindaco, l'uomo che vuole morta me e tutti i miei compagni, si ripetè. Non poteva permettersi di pensarla in altro modo. La sua missione non era ancora finita.

Un minuscolo sorriso amaro le apparse sul volto perlaceo mentre un'aura di tenebra le circondava le mani bloccate al tavolo. Sarebbe potuta evadere in qualunque momento, anche quella notte stessa. Il suo compare la attendeva in un sottomarino pronto per la fuga, e mutata in ombra l'avrebbe potuto raggiungere in meno di mezz'ora senza farsi vedere.

Ma non lo aveva fatto, e non l'avrebbe fatto nemmeno quella volta. Doveva portare a termine il suo compito, prima. Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi, mentre abbassava le barriere della mente, permettendole di ampliarsi.

Di colpo, la City, la sala esperimenti, il tavolo, le manette cessarono di esistere, lasciando il posto al vuoto totale. Era, in breve, come rimirare l'universo: tutt'intorno a lei era il buio e le luci delle stelle altro non erano che le menti di tutti gli esseri pensanti che si trovassero nelle vicinanze.

Notò quella del ragazzo poco distante, quella della donna albina, persino la minuscola e primitiva mente di un topo. Poi, qualcosa attirò la sua attenzione, una luce piuttosto distante, ma in qualche modo anche vicina. Avvicinandosi, scoprì che apparteneva a una ragazza all'incirca della sua età, fosse appena più piccola.

Corrugò la fronte: doveva star trasgredendo alle regole del coprifuoco, dato che era sveglia e non si trovava in un qualche dormitorio assieme ad altri coetanei.

Chissà perché lo fece, ma si decise a sfiorarle la coscienza.

 
~~~
 
Tara sussultò. Voltò di scatto il capo a destra e a sinistra, ma non vide nessuno. Eppure era sicura di non essere sola. Non sapeva neppure lei come spiegarlo, ma aveva chiaramente percepito una presenza, ne era sicura.

Un brivido non solo di freddo le attraversò la spina dorsale. Si abbracciò le gambe, posando il mento sulle ginocchia: a quanto pareva se lo era solo immaginato.

In lontananza non si vedeva altro che una distesa di palazzi tutti attaccati tra loro e privi di finestre.
E cemento, cemento, ancora e sempre cemento. E acciaio.

Davanti a lei, a qualche chilometro di distanza circa, nascosto dai numerosi edifici neri, sapeva esserci l'oceano, sebbene non l'avesse mai visto. Sapeva ovviamente che si trattava di un'enorme distesa d'acqua salata che separava la City dal resto delle terre emerse - come aveva detto Luke che si chiamavano? Continenti, ecco - ma non l'aveva mai visto dal vivo e dubitava fortemente che ciò sarebbe mai successo.

Di colpo, l'orribile incubo avuto le ritornò alla mente, cancellando ogni altro pensiero. Era sempre lo stesso, anno dopo anno, nulla cambiava. Lo stesso corpo da bambina, lo stesso regale abito verde e oro, lo stesso corridoio, le stesse voci, tutto era uguale e identico alla volta precedente.

Spesso si era ritrovata a chiedersi perché, perché sempre il medesimo sogno si ripresentava puntuale ogni mese per perseguitarla?
Ogni volta non riusciva a darsi una risposta.

















Salve! Ci siete ancora tutti? Nessuno è morto? Perfetto.
Dunque ecco a voi il terzo capitolo. Che ne pensate? Io, personalmente, vi consiglio solo di non sottovalutarlo.
Come al solito un ringraziamento speciale a tutti coloro che recensiscono, ci vediamo al prossimo capitolo!

Rose Wilson

 
 

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Capitolo 4
*** Meccanici ***



~CITY~
































CAPITOLO 4













MECCANICI


 
Il sole rossastro come una chiazza di sangue fece presto la sua comparsa anche quella mattina, illuminando la City con i primi fiochi raggi. Essa, dall'alto, appariva come una distesa infinita di cemento e acciaio, con i suoi innumerevoli edifici color del catrame, alti decine di metri e tutti attaccati tra loro, come migliaia di zanne affilate che tentavano di ferire il cielo e le nuvole con le loro punte aguzze e acuminate. Era quasi impossibile pensare che, secoli e secoli prima, quel luogo possedesse prati, campi, montagne, laghi e foreste, sconfinate valli e immense pianure, dove creature differenti dall'uomo riuscivano a sopravvivere naturalmente, senza cose come il metallo e il ferro.

Adesso, il cielo un tempo azzurro era perennemente offuscato da una patina di fumo e gas, mentre la terra era morta, sepolta sotto metri e metri di cemento.
Gli animali si erano estinti tutti, chi prima e chi dopo, così come la vegetazione, ridotta a meno di un ricordo.

Gli abitanti non potevano rendersene conto, accecati dal lusso sfrenato con il quale convivevano, e neppure gli Scienziati, troppo presi dalle loro ricerche e dai loro esperimenti inumani, i Mastri cui importava solo del denaro, gli Ingegneri che non pensavano ad altro che non fosse il loro mestiere, e così via.

Questa era la City. Una landa fredda e desolata, di acciaio e cemento, tale e quale ai cuori delle persone che la abitavano.

 
~~~

Non passò troppo tempo dall'alba che gli Apprendisti furono costretti ad alzarsi dalle brande e a lasciare i dormitori per andare a lavorare; Tara e Luke non fecero certo eccezione. Subito dopo una magra colazione alla mensa - durante la quale Jennifer e Amalia si lanciarono per tutto il tempo occhiatacce e insulti poco velati, e se Luke non fosse intervenuto probabilmente sarebbero venute alle mani - i due, una volta informati sul loro orario lavorativo che li vedeva spesso insieme, si avviarono verso la Zona di recupero.

In poche parole avrebbero passato l'intera mattinata davanti a un nastro scorrevole dove avrebbero dovuto smistare tutto ciò che si poteva riutilizzare da tutto quello che si poteva benissimo gettare via, in compagnia dei lugubri Meccanici. Un vero spasso...

 
~~~

Tara non credeva che esistessero androidi più temibili dei Meccanici; alti più di tre metri, possedevano un petto possente e un cranio enorme, tutto il contrario della loro vita sottile e delle gambe, piccole e tozze, che terminavano in zampe artigliate al posto dei piedi.

Le mani erano munite di lunghi artigli ricurvi e la testa era quella di un lupo di metallo, con le orride mascelle in acciaio che producevano agghiaccianti clangori ogni volta che quei mostri muovevano la bocca; gli occhi verdi erano grossi come biglie e si illuminavano di un bagliore sinistro e morto ogni volta che entravano in funzione.

La voce era stridente e metallica, e tra i vari interstizi tra una placca metallica e l'altra spuntavano oliosi ciuffi di sintetica pelliccia nera.

Tara non faticava a credere che i membri delle Corporazioni mandassero gli Apprendisti indisciplinati sotto nelle fucine in compagnia di quei mostri, sicuri che così facendo avrebbero ottenuto seduta stante obbedienza e rispetto da parte del poveretto di turno.

Erano semplicemente terrificanti, i Meccanici. Eppure giravano voci che raccontavano di androidi grossi il doppio, con zanne grandi quanto un intero avambraccio e testa di serpente a sonagli, con all'interno la mente ancora viva e pensante dei ribelli catturati, che si nutrivano di carburante e carne umana.

Ovviamente erano molti gli Apprendisti - tra cui Amalia, che si divertiva un mondo a spaventare i più ingenui - che si occupavano di ingigantire fino all'assurdo tali voci, ma, ciononostante, la fervida fantasia di Markov non si faceva problemi a immaginare enormi belve di metallo assetate di sangue.

 
~~~

L'urlo lancinante dell'esperimento 929 si sarebbe udito in tutta l'Area Sperimentale se i muri della sala esperimenti non fossero stati insonorizzati. Benzina. Le avevano iniettato sottopelle della benzina, un antichissimo liquido usato un tempo oramai lontano per il funzionamento di svariati macchinari, per chissà quale perfido e maledetto test.

Non pianse nemmeno quella volta. Gridò finché la voce non la abbandonò e le parve quasi di dilaniarsi la gola. Per un secondo si ritrovò a sperare che se la fosse veramente lacerata, la gola, purché il supplizio finisse. Si maledì da sola: solo un debole o un codardo arriverebbe a desiderare nella morte solo per dolore fisico.

E lei non era né l'uno, né l'altro.

«Dicono che faccia male» ghignò crudelmente la donna, con in mano ancora la siringa sporca.

Anche quella volta, Dick non resistette alla tentazione di distogliere lo sguardo. Ringraziò mentalmente che la sua collega fosse troppo impegnata ad assistere alla prigioniera per notare questa sua debolezza, o glielo avrebbe rinfacciato a vita.

 
~~~

Tara era lì da poco, e già non ne poteva più. Il caldo era asfissiante e faticava a respirare per via degli sbuffi di vapore rovente. La divisa era fradicia per il sudore e i muscoli iniziavano ad avvertire la stanchezza per via della notte passata in bianco.

Si passò una mano tra le ciocche dorate, mentre sopprimeva a stento uno sbadiglio: tutta colpa di quei maledetti incubi. Poi un'idea le balenò in mente, tanto avventata quanto desiderabile in quel momento.

Si guardò intorno. Luke si era allontanato per fregare il borsello di un Mastro avvolto nel consueto cappotto bianco, e i Meccanici erano chini sul nastro scorrevole - ora fermo - a dissezionare la carcassa di un androide, cui già mancavano la testa, gli arti e alcune placche del petto.

Nessun altro in vista. Era l'occasione giusta per filarsela.

La ragazza posò sul nastro il pezzo di ferro rovinato con cui aveva armeggiato per più di un quarto d'ora - pur sapendo che non era recuperabile - e indietreggiò finché non fu vicino all'imboccatura del corridoio, controllando che la via fosse libera, dopodichè si voltò di scatto e corse al suo interno.

Mentre correva pensava a dove potesse andare. Il dormitorio e la mensa li aveva subito eliminati: l'avrebbero trovata subito. Anche la Zona Museo era da scartare: troppi Apprendisti in giro. Poi le venne in mente la strada che soleva percorrere per raggiungere il tetto. Sebbene conoscesse il percorso a memoria, l'aveva scoperto per puro caso e vi si era avventurata solo la notte, pertanto non aveva mai indagato per vedere in quale Area si trovasse.

Magari poteva giusto farci una capatina, un po' per la necessità di trovare un buon nascondiglio, un po' per la sua vivace e consueta curiosità che aveva già iniziato a divorarle l'animo.

Ecco dovrebbe essere qui pensò, fermandosi dinanzi all'ascensore. Era, naturalmente, pieno, forse anche più del solito, e Tara dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per assumere un'aria indifferente e sicura.

Non voleva certo far vedere dinanzi a tutta quella gente che stava deliberatamente trasgredendo alle regole.

Mentre aspettava pazientemente che la cabina raggiungesse il piano più alto, qualcosa attirò la sua attenzione: un cappotto celeste assieme a tutti gli altri bianchi. Il suo cuore saltò un battito.

Si trattava sicuramente di un membro della Corporazione degli Aviatori, coloro che guidavano le aereonavi da una parte all'altra della City per recapitare messaggi troppo importanti per essere spediti, vendere le loro merci o trasportare ovunque volessero i cittadini danarosi che potevano permettersi di vivere nella lussuosa Area Residenziale.

Tara aveva più volte sognato ad occhi aperti le enormi aereonavi mercantili che viaggiavano avanti e indietro sopra i cieli della City con il carico pieno di meraviglie, gli eleganti veivoli privati che riuscivano a raggiungere velocità inimmaginabili in pochi secondi, le splendide aereonavi da guerra che aprivano il fuoco sui malvagi ribelli.

Era forse il sogno privato di ogni ragazzo della sua età poter pilotare uno di quei favolosi mezzi di trasporto, anche solo per poco, e Tara non era certo l'eccezione che confermava la regola.

Non era insolito per lei, infatti, fantasticare per ore intere su eroi, avventure, terre straniere ormai dimenticate, perfidi terroristi della Lega, e via dicendo.

A distoglierla dalle sue fantasticherie fu proprio l'individuo dal cappotto azzurro, intento in un'accesa discussione con un secondo uomo, probabilmente un Mastro considerata la catena di bronzo che portava al collo.

«... è così, ti dico. Ho visto con i miei occhi quella donna con i capelli bianchi sparare a uno dei suoi Cacciatori, solo per una lieve perdita di carburante. E dire che era un androide ottimale»

«Mostruoso» commentò con voce piatta il Mastro, senza nemmeno sforzarsi di fingersi interessato.

«Oh, ma non è tutto! Pensa che l'altro giorno un mio amico l'ha vista che ordinava ai suoi androidi di distruggere l'aereonave di un tipo da cima a fondo, soltanto perché la sera prima quello aveva alzato un po' il gomito. Roba da matti»

«Assolutamente» concordò il Mastro, «Ma d'altronde, amico mio, cosa mai possiamo aspettarci da una donna? Per lo più, sai, è albina...»

«Sono tutte dei demoni. Loro e quei dannati della Lega Anti-Progresso»

A quel punto, Tara smise di ascoltare: l'ascensore era arrivato al piano più alto, ed era il momento per lei di scendere. Fu l'unica ad abbandonare la cabina, così che si ritrovò in un corridoio deserto.

Meglio. Almeno non avrebbe dovuto inventare chissà quale scusa che giustificasse la sua presenza lì.

Le parve di camminare per una ventina di minuti circa, i passi che emettevano lievi rimbombi sul pavimento in acciaio, quando udì un urlo disumano perforarle i timpani.

E, sebbene ancora non lo sapesse, sarebbe stato proprio quell'urlo a segnare la sua condanna. E, al contempo, la sua salvezza.

 
~~~

Il grido proveniva da dietro una porta poco distante da lei, appena appena socchiusa, sicché l'urlo si udì nonostante le pareti certamente insonorizzate. Senza nemmeno accorgersene Tara si era ritrovata con le mani premute sulle orecchie e le lacrime che le pizzicavano le palpebre serrate, a pregare che qualcuno ponesse fine a quello strazio.

Forse poteva sembrare esagerato, se non patetico mettersi a piangere per un grido, ma quell'urlo era diverso dai soliti rumori cui la ragazza era abituata. Era un autentico grido di dolore, quasi inumano, che riassumeva sofferenza, rabbia, odio.

E la cosa peggiore, era che era sicura di aver già sentito altrove un grido del genere. Nei suoi incubi.

Pian piano, l'urlo si estinse, lasciando il posto a un flebile gemito per poi tacere. Lentamente, la ragazza si rialzò - senza che se ne rendesse conto era scivolata - ancora tremante, guardandosi intorno come a controllare che nessuno stesse arrivando allarmato dal grido.

Nessuno. A quanto pare doveva essere proprio deserto quel piano, oppure erano tutti abituati a udire simili urli agonizzanti. L'Apprendista Markov prese un profondo respiro e si voltò verso la porta da cui era giunto il grido, indecisa sul da farsi.

Una parte di lei, senz'altro la più astuta, le strillava di fare dietrofront e scappare il più in fretta possibile senza voltarsi indietro. L'altra invece, che doveva essere il suo lato più coraggioso e sensibile, o semplicemente il più stupido, la incitava a entrare in quella stanza a controllare la cosa che aveva gridato: poteva trattarsi di qualcuno in pericolo e lei era l'unica che potesse fare qualcosa al momento.

Se non vai lì dentro, le sussurrò maligna la solita vocina nella sua testa, lo rimpiangerai per il resto dei tuoi giorni. E sebbene Tara ritenesse, giustamente peraltro, che quella fosse un'esagerazione bella e buona, la sua impulsività ebbe come sempre la meglio, e in pochi attimi le sue gambe l'avevano già portata dinanzi alla porta, che essendo già socchiusa si aprì docilmente appena la sua mano sfiorò la superficie di metallo.

Si trattava di una stanza quadrata, in cui il colore bianco regnava sovrano: bianche erano le pareti, bianco era il soffitto, bianco il pavimento. Disposti lungo i muri vi erano vari macchinari, bianchi pure quelli, e sopra ognuno di essi stavano in bella mostra varie file di strumenti che la ragazzina riconobbe di uso medico, tra cui bisturi, siringhe, aghi, flebo e coltelli chirurgici.

Al centro della stanza si ergeva un basso tavolo in metallo, e sopra di esso... vi era, legata, una ragazza, non più grande di lei, con la pelle grigia e i capelli corvini che le ricadevano scompostamente sul viso. Gli occhi erano serrati, così come le labbra sottili, rivoli di sudore le imperlavano la fronte e le tempie, le mano erano chiuse a pugno.

Tutto i muscoli erano contratti, chiaro segno che stesse soffrendo, e Tara non ci mise molto a capire il perché. L'intero fisico era ricoperto da tagli e abrasioni e un'orrida ferita sanguinante le sfregiava il viso: partiva dalla fronte, passava appena sopra il naso e terminava subito sotto l'occhio destro, rimasto illeso.

La ragazzina deglutì, incapace di muoversi. La mente le si era di colpo bloccata, non riusciva a pensare a nulla che non fosse quel corpo martoriato disteso sul tavolo. Il cuore le batteva all'impazzata nella cassa toracica, terrorizzato.

Ma niente le provocò più terore di una gelida voce alle sue spalle.

«E tu cosa ci fai qui?»



















Non ho potuto fare a meno di notare, con un pizzico di ironia, che, mentre il capitolo 1 di City ha ricevuto oltre 140 visualizzazioni, i capitoli 2 e 3 non hanno superato la sessantina. Devo quindi dedurre che "l'intrusione" di Tara nella storia non sia stata esattamente una sorpresa gradita?
Comunque... vorrei specificare, onde evitare fraintendimenti, che non sono sessista e/o maschilista (oltre agli ovvi motivi che dovrebbero far desistere chiunque dall'esserlo, andrei contro il mio stesso genere, quindi perché dovrei?), né razzista verso le persone albine/di colore/ecc., né, giusto per specificazione, omofoba. Il nostro simpatico Aviatore e il nostro Mastro li ho inseriti unicamente per farvi notare come, nonostante siano passati secoli e secoli, esistano ancora, purtroppo, sciocchi pregiudizi e infondate fobie.
Poi... per quanto riguarda la prigioniera, devo dirvi che, purtroppo, l'iniezione di benzina sottopelle non è una sadica invenzione nata dalla mia mente malata. Questa pratica di tortura veniva adoperata dai nazisti nei campi di concentramento sugli ebrei, sui criminali, sugli omosessuali e sul resto delle centinaia di innocenti che venivano mandati a morire in modo atroce e per nulla umano. Solo che, le "mie" iniezioni sono "solamente" sottopelle, i tedeschi iniettavano direttamente la benzina nelle vene del malcapitato di turno. Ho modificato questo dato perché anche una come l'esperimento 929 a una tale operazione non sarebbe sopravvissuta. E io non voglio mica che muoia. Non ancora, perlomeno...
Ringrazio di cuore Edoardo811 e aconsentino422 che recensiscono tutti i capitoli, e niente, come al solito posterò il prossimo capitolo venerdì.
A presto,

Rose Wilson






 

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Capitolo 5
*** Sostanza H85 ***



~CITY~






CAPITOLO 5



SOSTANZA H85

 
Tara non si mosse, paralizzata dalla paura. Sentì dei passi dietro di sé, segno che qualcuno si stava avvicinando.

«Cosa stai facendo, ragazzina?» ringhiò gelida la voce, vicinissima al suo orecchio. In un'attimo, una mano calzata da un guanto di ferro si richiuse di scatto sul suo polso, stringendo talmente forte da allentare appena il nodo alla sua gola e farle riacquisire la voce. Lanciò un grido di dolore, mentre udiva distintamente una serie di sinistri scricchiolii provenire dal suo polso.

Il suo aguzzino non fece una piega e la costrinse a voltarsi, rivelandosi essere una donna alta e snella, vestita in quella che pareva in tutto e per tutto un'armatura moderna, completa di tessuto al titanio e placche metalliche. Aveva dei lunghi capelli bianchi che le ricadevano sulle spalle e una benda nera sull'occhio destro.
Il suo era uno sguardo duro e freddo, di quelli che sembrano scrutarti l'anima. Il limpidissimo azzurro ghiaccio delle iridi era incredibilmente simile a quello di Luke.

«Si può sapere cosa ci fai qui?» sibilò di nuovo, aumentando la stretta al suo polso e strappandole un gemito acuto.

«M-Mi lasci!» riuscì a gridare Tara, sebbene la sua sembrasse più una supplica che altro.

«Silenzio!» ordinò, con un tono che non ammetteva repliche, poi si voltò e uscì dalla sala, trascinandosi dietro la poveretta, che fece appena in tempo a girarsi verso la misteriosa ragazza prima di venire brutalmente strattonata fuori: due occhi color delle ametiste la stavano fissando.


Luke imprecò silenziosamente nell'assistere alla scena.


«Mi lasci, ho detto!» continuava a strillare Tara, tentando continuamente e senza successo di liberarsi dalla stretta micidiale a cui era costretto il suo polso. La donna, sorda ai suoi piagnistei, si stava dirigendo verso la fine del corridoio, dove una pedana circolare dal diametro di un metro circa era fissata al pavimento. Una seconda pedana era invece collocata sul soffitto, proprio sopra alla prima.

La ragazza riconobbe all'istante di cosa si trattasse: era una cabina di costrizione, anche detta di isolamento. Serviva, nell'Area Sperimentale, a rinchiudere al suo interno soggetti e cavie da laboratorio, quando non era possibile trasferirle in una sala esperimenti. All'occorrenza, però, poteva benissimo essere utilizzata per imprigionare temporaneamente criminali, ribelli o chiunque altro in attesa di spedirlo nell'Area Carcere, o in qualunque altro posto si volesse.

La donna la trascinò proprio al suo interno, tenendola ferma, poi premette un pulsante e al contempo ritirò il braccio con cui le bloccava il polso. Prima che se ne rendesse pienamente conto, a separare Tara dalla sua aguzzina vi era ora un campo di forza di un trasparente azzurro acceso, che collegava le due pedane.

La bionda alzò titubante una mano e lo toccò, posandovi sopra l'intero palmo: era come tastare una parete, solida in tutto e per tutto. Piccoli centri concentrici si propagavano dalla sua mano, come quando si lanciava qualcosa nell'acqua.

Per tutto il tempo la donna albina aveva mantenuto un'espressione distaccata, quasi non guardandola in faccia. Sollevò il braccio e avvicinò la bocca a una delle numerose placche metalliche che le rivestivano gran parte del corpo, quella che le ricopriva l'intero avambraccio. Premette un tasto e si aprì, rivelando un piccolo congegno a forma di esse.

Markov, nonostante non avesse una buona visuale da dentro la cabina, lo riconobbe, e sebbene al momento non ne ricordasse il nome esatto, si trattava di un arnese per le comunicazioni olografiche, anche chiamate olocomunicazioni.

«Dick, a rapporto» ordinò la donna con voce dura. Dopo appena qualche secondo, l'ologramma non più alto di una mano di un ragazzo, che non doveva essere più grande di Tara, anche lui in armatura, comparì sopra il braccio della donna.

«Lady Rose» ribattè lui. Dal tono con ci si rivolse a lei non doveva essere troppo felice di essere stato chiamato.

«Ho trovato una ragazzina che si aggirava nell'Area Sperimentale senza autorizzazione» spiegò lei.

Tara quasi si offese a sentirsi chiamare "ragazzina". Dannazione, aveva sedici anni e mezzo, quasi diciassette! Non era mica poco. La donna, che a quanto pare si chiamava Rose abbassò poi il tono della voce, come a non volersi far sentire da nessuno, cosa piuttosto stupida dato che il piano era pressoché deserto e Tara ci sentiva benissimo.

«Ha visto il demone»

«Esperimento 929» la corresse quello che doveva chiamarsi Dick.

«Massì, quello che è!» sbraitò lei, per poi ricomporsi.

«Mettimi in collegamento con il Sindaco. Devo sapere quali misure adottare»

«Ricevuto» sibilò a denti stretti lui, poi il suo ologramma svanì. Lady Rose borbottò qualcosa che alle orecchie della bionda suonava molto come "Vai al diavolo, Dick". Poco dopo un secondo ologramma prese forma sopra l'arnese: si trattava di un uomo, alto e robusto, in un'armatura di ferro color rame; al viso, portava una maschera munita di un occhio solo, troppo familiare perché Tara potesse non riconoscerlo. Un brivido di paura le attraversò la schiena: il Sindaco.

«Signore» la donna si mise subito sull'attenti.

«Lady Rose» ricambiò il saluto formale lui, con voce profonda. «Sono stato brevemente informato riguardo lo spiacevole inconveniente. Potrebbe ripetermelo?»

«Sì, signore. Ho sopreso una ragazzina aggirarsi per l'Area Sperimentale senza autorizzazione» ripetè come prima la donna. «E ha visto l'esperimento 929»

«Di chi si tratta?»

Lei le lanciò un'occhiata passiva e fugace, ma che bastò a farla deglutire. Quell'unico occhio color ghiaccio faceva paura, anche quando non sembrava furente.

«All'apparenza, direi una semplice Apprendista di terzo o quarto grado»

L'uomo annuì. «Bene. Prenotatele pure una sala esperimenti»

La donna sgranò il suo unico occhio. «Cosa?» Si schiarì la gola. «Voglio dire, signore...»
Sollevò lo sguardo su di lei, e per la prima volta Tara vi lesse solo compassione.

«E' solo una bambina. Non avrà nemmeno diciott'anni»

Bambina? Prima ragazzina e adesso addirittura bambina? Questa era mancanza di rispetto! Tara avrebbe tanto voluto dire ad alta voce che aveva sedici anni e ben nove mesi, ma si trattenne. Dopotutto, a quanto sembrava, la mercenaria stava cercando di aiutarla.

«E' per l'appunto l'età giusta per quel genere di esperimenti» Il Sindaco socchiuse il suo unico occhio. «Sta forse contraddicendo ai miei ordini, Lady Rose?»

La donna sbiancò come se avesse appena visto un fantasma.

«No di certo, signore. Solo, ecco, credevo che simili operazioni le svolgessimo solo sui ribelli»

«E' così. Ma al momento può benissimo usare quella ragazzina» ribadì lui, con una calma e una pacatezza che lo rendevano quasi inquietante.

Lei si arrese. «Sì, signore. Come volete che proceda?»

«Fatele un test dei geni. Se risulta positivo iniettatele la sostanza H85. Altrimenti utilizzatela pure come cavia per le cure mediche»

La donna deglutì. «Come volete, signore» e l'ologramma svanì.

Si voltò verso Tara, anch'essa divenuta pallida come un cadavere, sebbene non avesse ben chiara la sorte che le spettava. Di qualsiasi cosa si trattasse, non doveva essere una cosa bella.

«Non avresti dovuto venire qui» sospirò l'albina, richiudendo con uno scatto la scaglia metallica.

Come se davvero ti importasse qualcosa su che fine farò, pensò cinicamente la ragazza, cercando di non mostrare quanto realmente fosse terrorizzata. La sua aguzzina premette un pulsante posizionato su una piccola tastiera fissata alla parete accanto alla cabina e di colpo, all'interno di essa, si sprigionò un gas bianco dalla pedana collocata sul soffitto, che la fece tossire fino a farla cadere in ginocchio.

L'ultimo pensiero cosciente che riuscì a formulare fu: "Che modo stupido di morire" prima di accasciarsi e perdere i sensi.

 
~~~

Il Sindaco Wilson prese un lungo sorso dalla tazza fumante che teneva stretta nella mano sinistra, perennemente calzata dal guanto di metallo. Ormai non teneva più conto delle ore passate all'interno di quell'armatura soffocante, ma era necessario che la indossasse sempre e comunque, anche al momento di coricarsi. Dopo gli innumerevoli tentati omicidi da parte della Lega, aveva imparato che le precauzioni non erano mai eccessive.
Certo, a quei tempi i sistemi di sorveglianza e di sicurezza di cui disponeva allora non erano ancora i sofisticatissimi sistemi che aveva ora, in grado di rilevare il battito cardiaco di un topo a trenta leghe di distanza dall'Area Capitale, però, riteneva lui, era semrpe meglio prevenire che curare.

Posò la tazza sul bracciolo dell'imponente scranno in ferro massiccio e rivolse la sua attenzione al suo sottoposto, in piedi a una decina di metri da lui. L'armatura nera e arancio aderiva quasi totalmente al fisico asciutto e muscoloso del ragazzo, e la esse metallica che portava sul petto brillava nella penombra,

«L'esperimento 929 persiste nel non rivelarvi l'ubicazione della base ribelle, Lord Dick?» domandò pacato Wilson.

«Sì, signore» rispose lui, lasciando trapelare nel tono di voce una ben chiara nota di nervosismo.

Il Sindaco socchiuse il suo unico occhio, sebbene il ragazzo non potesse accettarsene vista la maschera che Wilson indossava come una seconda pelle.

«Lord Dick, lei sa bene che non possiamo permetterci errori, sopratutto in questo periodo. Le operazioni procedono correttamente?»

Intende dire, se procedono le torture inumane che le stiamo infliggendo ormai da una settimana senza darle un secondo di tregua?, avrebbe voluto chiedere lui, ma si bloccò in tempo.

Si poteva sapere che gli era preso all'improvviso? Quella ragazza non era più umana, era un demone, un mostro senz'anima che lo ucciderebbe seduta stante se ne avesse l'occasione. E poi erano anni che si occupava di supervisionare gli scienziati mentre facevano il loro lavoro sulle cavie - ribelli, criminali e quant'altro - perché si preoccupava tanto di quella lì in particolare?

Sarà che gli ricorda...

«Lord Dick» lo richiamò dal flusso dei suoi pensieri la voce profonda del Sindaco. «Non ha risposto alla mia domanda»

«Perdonatemi, signore» si affrettò a scusarsi lui. «Sì, le operazioni procedono»

A quel punto Wilson si alzò in tutta al sua considerevole altezza dallo scranno e si avvicinò a Dick.

«Vede, Dick, se c'è una cosa che ho imparato nel corso degli anni, è che la gente farebbe di tutto, se ci fosse in gioco la loro vita. Ora, nel caso dell'esperimento 929, ritengo che la minaccia di morte non sarebbe sufficiente, né che sarebbe produttiva dato che abbiamo bisogno di lei e che quindi non possiamo semplicemente sopprimerla.
«Perciò, sono giunto all'idea che potremmo ricavare le informazioni che ci servono minacciando di eliminare i suoi compagni»

Il ragazzo assunse un'espressione scettica. «Signore, mi perdoni, ma quell'essere è privo dell'umanità necessaria per provare compassione, persino se riguarda la morte dei propri compari»

Il Sindaco sorrise gelido dietro la maschera. «Ci sono destini peggiori della morte, Dick»

 
~~~

Rose strinse le dita attorno all'elsa della spada che portava alla cintola, in un moto di nervosismo. Dinanzi a lei un paio di Scienziati armeggiavano attorno al basso tavolo di metallo, con sopra, in una cassa di vetro, il corpo privo di sensi dell'Apprendista.

La donna stirò le labbra in una smorfia. Quello era forse il motivo principale per cui odiava con tutta sé stessa il suo lavoro. Scosse il capo, mentre un Apprendista Scienziato, che doveva essere come minimo di grado S per poter assistere a una tale operazione, si torceva agitato le mani, senza mai perdere di vista i suoi superiori per evitare probabilmente di fare qualche sciocchezza.

L'unico, gelido occhio azzurro di Lady Rose si posò sulla siringa, vuota, che era stata abbandonata come un vecchio giocattolo rotto su di un ripiano accanto al tavolo.

Purtroppo per la sfortunata ragazza il test dei geni era risultato positivo, e gli Scienziati avevano ricevuto l'ordine di iniettarle nelle vene la sostanza H85. Era, da quel che sapeva, la temibile essenza in grado di straovolgere il DNA di qualsiasi essere umano, apparentemente a casaccio, la medesima essenza che, anni or sono, aveva trasformato quell'insulsa ribelle nel demone che i cittadini avevano imparato a temere e odiare.

Una volta avviato il processo, inoltre, era impossibile arrestarlo e, si diceva, fosse estremamente doloroso e brutale, tant'é che molte delle cavie morivano ancor prima che gli Scienziati potessero anche solo ipotizzare che cosa fossero diventati.

Altri, invece, sopravvivevano, e trascorrevano gli ultimi rimasugli della loro miserabile esistenza rinchiusi in una cella o in una sala esperimenti. E considerati i test cui venivano sottoposti non era anormale che i più forti non resistessero per più di ventiquattro mesi prima di spirare.

Certo, a meno che non riuscissero a fuggire. Erano casi isolati, più unici che rari, ma talvolta ci riuscivano davvero. E, ovviamente, non esitavano un secondo di troppo ad entrare subito nella tre volte dannata Lega Anti-Progresso.

Al pensiero di quella maledetta resistenza che osava opporsi all'unico futuro possibile per quel mondo, marcio fino al midollo, una smorfia di assoluto disprezzo si dipinse automaticamente sul viso dell'albina.

Come si permettevano quei barbari di rifiutare ciò che era il solo e unico destino scritto per la Terra?
Come potevano anche solo pensare che il Sindaco fosse malvagio, quando era l'uomo che aveva portato la salvezza ad un mondo altrimenti destinato alla rovina?

A distoglierla da quei pensieri rancorosi fu un'ombra improvvisa. Di colpo, un'energia oscura, più nera delle tenebre stesse, invase la sala esperimenti, tingendo di nero ogni cosa. Un freddo gelido come la morte piombò come una cappa funesta su Rose e i restanti due uomini e il ragazzo, che presero a gridare in preda al panico.

Cercando di non perdere la calma, la donna sguainò la spada e si mise in posizione difensiva, voltando di scatto il capo in tutte le direzioni.
Poi, li vide.

In quel mare di oscurità, due occhi viola, freddi e dure come la pietra, la fissavano. A seguire i due occhi venne poi fuori un volto, poi un busto ed infine tutto il resto del corpo dell'esperimento 929 fuoriuscì dalle tenebre. Era completamente vestita, avvolta in un mantello nero con il cappuccio alzato a nasconderle il viso. L'unica cosa che Rose era in grado di intravedere era il suo sguardo minaccioso.

Infine, senza distogliere un istante quegli occhi senz'anima da lei, mormorò con voce cupa e senza emozioni:

«Rachel Roth, Agente Oscura della Lega Anti-Progresso. E' stato un piacere fare la sua conoscenza, Lady Rose»

Poi fu il buio.



























Viene rilevata ufficialmente l'identità della prigioniera, che ora prigioniera non è più tanto.
Ella infatti è Rachel Roth, anche detta Raven, anche detta Corvina, anche detta Agente Oscura, anche detta Ribelle dei Ghiacci, anche detta... sì, vabbè, avete afferrato.
Un ringraziamento come sempre a tutti quelli che recensiscono (e anche solo a chi legge) e ci vediamo alla prossima!

Rose








 

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Capitolo 6
*** Rivelazioni... ***



CITY







CAPITOLO 6

RIVELAZIONI...


 
Una bambina, che non doveva avere più di dieci anni, avvolta in una divisa color neve che le stava decisamente troppo grande, stava seduta da sola sul pavimento in acciaio, china e concentratissima su un foglio di carta, reliquia quantomai rara di quei tempi. La matita, tenuta stretta in mano, scorreva rapida su di esso, tracciando linee decise per far prendere vita a chissà quale disegno.

«Scusa» a quella parola la piccola alzò il capo, incrociando lo sguardo di un ragazzino dai capelli neri come il carbone e gli occhi azzurri come il ghiaccio. «Posso sedermi accanto a te?»

Lei sbattè le palpebre, sorpresa non poco da quella richiesta, ma annuì col capo. Seduti l'uno accanto all'altra, il bambino allungò il collo verso il disegno. «Che cos'è?» domandò, leggermente accigliato. Non aveva mai visto nulla del genere.

Lei inarcò un sopracciglio, arte non comune a tutti e che stupì molto il ragazzino. «Come cos'è? E' un fiore» rispose, come se fosse un'ovvietà, indicandogli lo schizzo incredibilmente dettagliato per una della sua età.

«Un fiore? E che cos'è un fiore?» chiese ancora lui, confuso. Lei socchiuse le labbra in un'espressione di muto stupore.
«Non ne hai mai visto uno?»

Il bambino annuì, al che sul viso di lei si dipinse un'espressione dispiaciuta.

«E' un po' difficile da spiegare» iniziò, tirando fuori la lingua tra i denti come se fosse molto concentrata su qualcosa.

«Questo è lo stelo, vedi?» disse, indicandogli una parte del disegno. «E' come un filo di metallo, capisci, solo che è vivo e cresce nella terra»

«Come fa ad essere vivo se è come un filo di metallo? E che intendi con cresce nella terra? Vuoi dire che spunta dal pavimento?»

«Te l'ho detto che era difficile» lo rimbeccò lei. «Dunque, è lungo e sottile come un filo di metallo, però è verde, e dentro c'è una cosa che si chiama clorofilla» si morse di nuovo la lingua, in cerca del termine adatto. «E' come il carburante per gli androidi, capisci, o come il sangue per noi umani»

«Oh» commentò lui, sempre più affascinato. «Ma come riesce a spuntare dal pavimento?»

«Non spunta dal pavimento, i fiori spuntano dalla terra»

«Cos'è la terra?» domandò lui, cambiando posizione e mettendosi a gambe incrociate. Ora sul viso della bambina era evidente che fosse sbalordita.

«Non hai mai visto la terra?»

«No»

«Oh, allora questa è ancora più difficile» borbottò la piccola, aggrottando le sopracciglia.

«Bè, dunque, la terra sta in basso, come il pavimento» disse, tamburellando un dito sul freddo acciaio sotto di loro. «Solo che è marrone, e può essere calda se c'è il sole e fredda se c'è la neve. Ed è bello giocarci, solo che ti puoi sporcare facilmente. E dentro ci sono delle piccole cose che si chiamano semi, da cui nascono i fiori»

«Wow» fu l'unica cosa che riuscì a dire lui, cercando di immaginarsi una cosa così strana. «E questo invece cos'è?» chiese, indicando il disegno. Lei sorrise, e il ragazzino non potè fare a meno di notare quanto fosse bella.

«Quella è la cosa più bella dei fiori. Sopra lo stelo c'è una cosa chiamata bocciolo. E' come un pallino giallo, perché è pieno di polline, sai, e tutt'intorno ci sono i petali. Sono come dei pezzi di carta, e possono essere di tutti i colori! Una volta ne ho addirittura visto uno blu»

«Come fai a sapere tutte queste cose?»

Lo sguardo della bimba si fece di colpo distante. «Prima vivevo con la mia mamma in un posto... diverso da questo. Avevamo una casetta, molto piccola, e non molto lontano c'era un grande castello. Sembrava quello delle fiabe. E c'era un prato dove potevo andare tutte le volte che volevo, e c'erano tantissimi fiori» mormorò malinconica.

«Era bello, e c'erano anche tante persone che andavano in giro con dei mantelli bianchi e dicevano cose buffe. Erano tutti molto buoni con me» I suoi occhi color mare luccicarono.

«Poi però sono arrivati degli uomini strani, tutti vestiti di nero. Con loro c'erano anche degli androidi»

Una lacrima solitaria le rigò la guancia, mentre il suo sguardo era perso nel vuoto. «La mamma mi ha detto di fare la brava e di fare quello che mi dicevano di fare, mentre lei doveva andare in un posto»

Cercò di sorridere, ma il risultato fu più simile a una smorfia di tristezza. «Mi ha promesso che sarebbe tornata presto a prendermi. La sto aspettando, sai»

Il ragazzino non era sicuro di aver capito bene tutto, però era certo di una cosa: non gli piaceva vederla piangere. Sebbene con un po' di titubanza, allungò una mano verso il volto di lei e le asciugò la lacrima, sotto il suo sguardo stupito.

«Sono sicuro che tornerà presto» le disse, nonostante non ne fosse per niente certo. Però alla bambina bastò, e gli donò il più piccolo e sincero dei sorrisi.

«E io sono sicura che un giorno anche tu vedrai i fiori» gli sussurrò in risposta.

Sorrisero entrambi, poi lui le porse la mano aperta.

«Io mi chiamo Dick»

Lei gliela strinse.

«Io sono Rachel»

 
~~~
 
Il ragazzo digrignò i denti, mentre le sue dita, in un moto di rabbia, si richiudevano di scatto sull'elsa della spada. Non era successo davvero, non poteva essere davvero successo. E invece era accaduto l'inimmaginabile.

L'esperimento 929 era fuggito, e con lei pure la sciocca ragazzina curiosa. Come aveva potuto lasciarsela scappare in quel modo?

In realtà era ben conscio della verità, nonostante il suo orgoglio gli vietasse categoricamente di ammetterlo, anche solo a sé stesso. L'esperimento era sempre stato in grado di fuggire, li aveva solo usati sperando di ottenere chissà quali informazioni, facendo buon viso a cattivo gioco e sopportando le torture che le avevano inflitto, loro che avevano davvero creduto, stupidamente, di riuscire a piegarla.

Scosse la testa. Il Sindaco ovviamente era stato subito informato a riguardo, e non ne era stato affatto felice. Le ferite ancora fresche e sporche di sangue sulla sua schiena ne erano la prova.

Fremeva, inoltre, ancora di rabbia per via della sua collega. Dopo la fuga dei due soggetti, la donna era caduta in un coma temporaneo, probabilmente per via dei poteri dell'esperimento 929. A quanto pare possedeva, oltre alla cpacità di controllare le tenebre a proprio piacimento, anche dei poteri psichici, che da quel che aveva capito non erano per niente da sottovalutare.

A ben pensarci, Dick si era chiesto più volte come mai, vista l'occasione, l'esperimento non avesse più semplicemente ucciso Lady Rose. Ma per quanto si sforzasse non riusciva a trovare risposta.

Comunque, un paio d'ore prima, era stato costretto a recarsi nella Zona Medica per controllare la salute della collega, e sopratutto per ascoltare la sua versione dei fatti. Era rimasto indifferente tutto il tempo, mentre quella, seduta su una sedia dopo aver espressamente rifiutato di coricarsi nonostante le proteste dei dottori, raccontava di malavoglia la fuga dell'esperimento; ma non era riuscito a contenersi quando gli aveva comunicato le esatte parole che le aveva riferito il "demone" prima di svanire nelle tenebre.

Era semplicemente esploso. Con uno scatto ferino l'aveva afferrata per le spalle e l'aveva scaraventata a terra, cogliendola di sorpresa.

«Taci!» le aveva intimato, sotto il suo sguardo sgomento. «Ciò che dici è impossibile! Rachel Roth è morta! MORTA!» aveva gridato ancora, con tanta veemenza che l'albina era ammutolita, quasi terrorizzata non avendolo mai visto tanto infuriato.

Rachel era morta. Da anni. Causa un incidente durante il lavoro. Rose doveva aver per forza sentito male, non c'erano altre spiegazioni.

Mentre ripensava all'accaduto i ricordi lo assalirono di colpo. Rachel... nonostante fossero passati più di quattro anni la sua morte rimaneva una ferita mai guarita del tutto, dolorosa e sanguinante. Quanto aveva sofferto... ma perlomeno questo lo aveva spinto a diventare un mercenario per il Sindaco. Il dolore era diventato in breve la sua forza, e aveva finito per dimenticare Rachel.

E adesso, ecco che i fantasmi del passato tornavano a perseguitarlo. Dick scosse la testa, cercando inutilmente di allontanare quei pensieri dalla sua testa.

Rachel era morta. E niente e nessuno avrebbe mai potuto riportarla in vita.

Nemmeno l'esperimento 929.

 
~~~
 
Ma che diavolo... pensò, mentre riprendeva lentamente conoscenza. La testa gli pulsava come se il suo cuore avesse improvvisamente deciso di trasferircisi e le tempie gli dolevano tremendamente. Gli era difficile muoversi, anche solo sollevare le palpebre pareva un'impresa titanica.

Prese un respiro - ignorando il costato dolorante - e socchiuse gli occhi. La prima cosa che vide fu un'accecante luce bianca, che lo costrinse a serrare nuovamente le palpebre.

Oh, fantastico. Sono morto.

Però il fatto era che lui si sentiva maledettamente vivo. Il dolore che provava ovunque ne era la prova, assieme al fatto che respirasse.

Sbuffò. Non gli piaceva la sensazione di impotenza che stava provando in quel momento, perciò si costrinse a mettersi seduto, ignorando le fitte e i puntini neri e rossi che avevano preso a danzargli davanti agli occhi, che aveva aperto lentamente onde evitare di rimanere nuovamente abbagliato. Appena la vista si adattò alla luce intensa, e la testa smise di girargli quanto bastasse a farlo rimanere lucido, Luke si guardo intorno.

Si trovava in una cabina non molto grande, dalle pareti in lucido ottone rischiarate da un paio di lampade ad olio appese al soffitto - il ragazzo seppe riconoscerle per via dell'educazione ricevuta da bambino su quanto fossero primitive alcune tecnologie ancora utilizzate nei paesi "non civilizzati", che altro non erano che tutto il resto del mondo.

Vi erano due brande bianche semplici, una piccola libreria - quasi non credette ai suoi occhi: libri, libri veri! Ma dove dannazione era finito? - e un armadio alto e stretto, di un materiale bruno e caldo, tutto il contrario del freddo metallo cui era abituato (possibile fosse... legno?).

Prese un respito profondo e cercò di ricordare cos'era successo nelle ultime ore. Aveva visto Tara nei guai... non che fosse poi una grande novità che la sua migliore nonché unica amica si mettese un giorno sì e l'altro pure nei casini da sola... aveva assistito impotente mentre quei bastardi le bucavano le vene per iniettarle chissà cosa... poi si era fatto tutto nero, era scattato in avanti verso la bionda...

E qualcosa doveva averlo colpito sul cranio.

Strinse i denti e si alzò, barcollando leggermente per via di un giramento, e raggiunse la porta in fondo alla stanza, dipinta di un blu profondo. Ci mise circa tre secondi a realizzare per aprirla avrebbe dovuto tirarla. Nella City tutte le porte erano automatizzate, quindi, a rigor di logica, non si trovava più nell'Area Sperimentale. Né in nessun'altra Area.

Seppur tradendo una certa titubanza, il ragazzo allungò una mano verso la maniglia e la abbassò, producendo un click che gli sembrò rumoroso quanto un tuono nel silenzio che opprimeva la cabina, quindi la porta si aprì, rivalendo un breve corridoio bianco e spoglio, eccezion fatta per le lampade ad olio appese al soffitto e un paio di porte - probabilmente altre cabine - che si affacciavano ad esso.

In fondo, vi era una porta leggermente più grande delle altre, dipinta di un rosso cupo. Una volta raggiunta Luke si bloccò, indeciso se proseguire. Udiva delle voci provenire dall'interno, quindi non era solo.

Sbuffò nuovamente. Di certo non avrebbe ottenuto risposte se fosse rimasto lì impalato come un idiota.

Aprì la porta.

Si trattava di una sala spaziosa, che ricordava molto una sala comandi, di quelle che lui aveva spesso visto nelle olografie di aereonavi. Le pareti e il pavimento erano grigio ardesia, mentre l'alto soffitto era bianco; in fondo vi erano delle console di metallo, e sparse un po' ovunque vi erano numerose poltrone in pelle nera. Poco distanti da esse vi erano tre figure voltate di spalle, ma Luke non vi diede peso, troppo occupato a spalancare gli occhi sgomento.

Dietro le console, infatti, vi era un'enorme vetrata che occupava tutta la parete di fondo, e lo scenario che gli si presentava lo lasciò interdetto.

Si trovava sott'acqua.



«Oh, merda»

La colorita imprecazione di Luke richiamò immediatamente l'attenzione delle tre figure, che si voltarono di scatto verso di lui.

«Ah, sei sveglio. Pensavamo fossi morto» commentò sprezzante una voce che il ragazzo riconobbe saduta stante. Dal tono con cui lo disse, però, era chiaro che intendesse: "Speravamo fossi morto".

«A-Amalia?» domandò con voce rauca lui, sbigottito. Era diversa, ora. Certo, i lunghi capelli neri le ricadevano come al solito sulla schiena, e i suoi occhi mantenevano come al solito quella scintilla ribelle e arrogante che tanto la distingueva. Ma al posto della divisa indossava adesso un top, una gonna e degli stivali, tutto del medesimo colore nero, mentre braccia, gambe, addome e fianchi erano coperti da numerose placche metalliche. Tra le braccia teneva stretto un fucile, e nonostante fosse stravaccata sulla poltrona sembrava pronta ad usarlo al minimo segnale di pericolo.

O di noia, pensò Luke, rabbrividendo.

Quella roteò gli occhi. «Wow, ci sei arrivato senza aiuto. Vuoi anche un premio per caso?»

In piedi davanti alla console, invece, vi era un essere talmente mostruoso che il ragazzo faticò non poco a trattenersi dal lanciare un urlo non esattamente virile. Era alto e imponente, con i muscoli possenti che sembravano entrare a malapena nell'uniforme nera attillata. Le braccia erano ricoperte di pelliccia scura, mentre la testa era lunga e schiacciata ai lati, dalle sembianze quasi caprine, con due corna enormi che gli spuntavano sul cranio. Sul dorso del collo vi era un'ispida criniera nera e la pelle grigia pareva quasi cuoio.

Nell'incrociare il suo sguardo incredulo la creatura sbuffò, emettendo dalle narici due volute di vapore.

«Sento odore di cittadino» ringhiò, storcendo il muso. «Odore schifo»

La terza e ultima figura, in piedi poco distante dai due, alzò gli occhi al cielo per quell'osservazione. Si trattava di una ragazza, probabilmente della sua età, avvolta in un mantello color delle tenebre più oscure. Il cappuccio era alzato, nascondendo il viso e lasciando intravedere solo il suo sguardo freddo e vigile. Le iridi erano di un color ametista che Luke non aveva mai visto prima. Non erano come quelle di Amalia, decisamente più chiare e con l'aria di chi è sempre pronto a schernire, no, le sue erano di un viola profondo e impenetrabile, che sembrava scrutargli l'anima.

Sulla sua spalla destra stava posato uno strano essere, non più alto di due palmi e di colore grigiastro; stava con le braccia alate avvolte attorno al corpicino, e aveva due grandi orecchie sopra la testa. Due occhi azzurri lo fissavano, posti su un muso che terminava in una bocca irta di denti. Il ragazzo lo indicò tremante.

«Quello. E' un pipistrello» stabilì, ringraziando il fatto che la sua voce non fosse così tremante come se l'era immaginata.

Il pipistrello si indispettì.

«A chi ha dato del pipistrello, l'umano?» chiese con voce metallica, facendo prendere un colpo al poveretto.

«Ah, non prendertela Ares. E' solo un po' rimbecillito per via dei poteri di Rae» Amalia inarcò un sopracciglio. «Certo, non che prima stesse poi tanto meglio...»

«Komand'r, per favore» sospirò la ragazza incappucciata. «E' ovvio che sia spaesato, ti ricordo che è un cittadino»

Si rivolse a lui. «Sono spiacente per via di questo... inconveniente» Si accigliò appena. «Non eri tu il nostro obiettivo»

A Luke girava la testa. Chi diavolo erano quei tre? Cosa volevano da lui?

«Chi siete? O meglio cosa siete?» chiese, anche se un dubbio atroce si era già insinuato nei suoi pensieri.

La ragazza rimase impassibile mentre gli indicava i due alle sue spalle.

«Loro sono l'agente Wildebeest e l'agente Komand'r» fece un cenno col capo verso il coso sulla sua spalla. «Lui è Ares»

Infine ritirò le braccia all'interno del mantello e, con la medesima voce priva di emozioni, terminò:

«E io sono Rachel. Siamo agenti della Lega Anti-Progresso»















Tre parole.
Amo. I. Pipistrelli.

... Okay?

Comunque, ecco a voi il capitolo 6. Approfitto per dirvi, inoltre, che è da qui che iniziaranno ad esserci un paio di problemini della pubblicazione. Il fatto è che, pensate un po', questo capitolo l'ho finito di scrivere neanche tre giorni fa. E il capitolo 7 è ancora bianco. Per non parlare della scuola che sembra essersi messa in testa l'idea brillante di dimezzarmi il tempo libero per scrivere. Grazie mille, prof di inglese! Avevo proprio bisogno di un test la prossima settimana!
E dunque nulla, il prossimo capitolo potrebbe tardare leggermente. Chiedo venia, ma vi prometto che farò il possibile per essere costante, giuro.

E infine, le solite cose. Che ne pensate del capitolo? Spero vi sia piaciuto, anche perché scriverlo è stata un'agonia. Credo anche che questa sia la prima volta che compare Wildebeest (e non ditemi nulla, vi prego: si scrive davvero in questo modo, non me lo sto inventando) come personaggio vero e proprio e non come semplice comparsa su questo fandom. Poi correggetemi se sbaglio, ma credo sia così.

Ringrazio come al solito tutti coloro che recensiscono e ci vediamo alla prossima!

Rose

P.s. Il fatto che tutti definiscano Tara "una ragazzina" non è in realtà dovuto alla sua età effettiva, dato che Robin ha praticamente gli stessi suoi anni, appena appena più grande, ma è dovuto al fatto che Terra, non essendo sviluppata ed essendo pure parecchio esile, dimostra assai meno di quanto in realtà abbia.
(questo l'ho scritto perché, visto che la mia età si avvicina abbastanza alla sua, non ci tenevo a darmi da sola della bambina, ecco tutto)





 

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Capitolo 7
*** ... Megattere, Demoni e Guai ***


~

~CITY~






CAPITOLO 7

... MEGATTERE, DEMONI E GUAI



 
«Ehi, tutto okay pivello? Hai una pessima cera» commentò Amalia, con un tono di voce a metà tra il divertito e lo scherno.

Dopo averlo praticamente obbligato a sedersi su una delle numerose poltrone nere, quei tre avevano preso a parlottare tra loro riguardo l'onda psichica emanata da Rachel, chiedendosi e crucciandosi su quanto potessero rivelarsi spiacevoli dei possibili e per nulla improbabili effetti collaterali di coloro che la subivano, ma Luke non stava ascoltando nemmeno una parola, assillato da un pensiero costante ma sfuggente, che svaniva ogni qual volta lui cercasse di metterselo a fuoco per poi ricomparire un attimo dopo, a tormentarlo.

Si sentiva come se si fosse scordato qualcosa di fondamentale, che non riuscisse a ricordare nonostante tutti i suoi sforzi.

Per distrarsi gettò un'occhiata fuori dalla vetrata, e per poco non si spaventò nel vedere una creatura di dimensioni enormi entrare nel suo campo visivo. Era grande come minimo l'intero sottomarino, se non di più, dal manto grigio e splendente nei riflessi solari che fendevano come lame affilate la superficie del mare.

L'essere li sorpassò senza degnar loro di attenzione, per poi venire inghiottito dalle profondità oceaniche.

«Mi hai sentito o sei sordo? Sembri messo male quasi quanto lo scricciolo»

Le parole di Amalia ebbero su di lui l'effetto di una secchiata d'acqua gelata. Tara!

Di colpo non ci vide più. Balzò in piedi di scatto e si avventò su di Rachel, che, colta di sorpresa, fece appena in tempo a voltarsi verso di lui che caddero a terra entrambi. Il pipistrello cacciò un urlo acuto e fu lesto a levarsi in aria, volando in circolo sopra ai due.

«Dov'è Tara? Cosa le avete fatto?»

Il pugno di Wildebeest lo colpì in pieno sulla guancia, scaraventandolo lontano dalla ragazza e lasciandolo accasciato sul pavimento, dolorante. Quasi non vide l'energumeno aiutare delicatamente la compare a rialzarsi, e quasi non udì il caratteristico click clack che emette un fucile caricato.

«Wow. Sapevo che eri idiota, ma non immaginavo lo fossi così tanto» proferì la mora ghignante. Nonostante fosse ancora comodamente seduta aveva alzato l'arma e l'aveva caricata a velocità impressionante, mentre i muscoli che la reggevano erano rigidi, pronti a sparare in qualunque momento.

Rachel lo fissò. Nessuna emozione le attraversò il volto, nemmeno un indizio che facesse intuire se fosse arrabbiata per essere stata aggredita. Tutt'altro, sembrava quasi che lo stesse... rivalutando.

«... Come ti chiami, ragazzo?» gli chiese, con un tono che gli parve quasi ingentilito. Lui cercò di rialzarsi, invano, al che si limitò a rimanere disteso sul fianco sul pavimento.

«Dov'è. Tara» ringhiò lui, sputando a terra un grumo di sangue nerastro.

Un lampo scarlatto illuminò per un secondo le iridi viola della ribelle.

«La ragazza starà bene» si limitò a dire. Luke avrebbe voluto chiederle di più in merito, ma qualcosa - probabilmente il suo istinto di conservazione - glielo impedì. Quando aveva pronunciato il nome dell'amica aveva infatti ben notato, nonostante l'oscurità del cappuccio, come si fosse alterata l'espressione impassibile della ragazza, gli occhi dapprima semplicemente distanti a glaciali e il labbro superiore alzato, a rilevare denti leggermente più aguzzi del normale.
Ma fu questione di pochi istanti, dopodichè si ricompose quasi subito.

«In questo momento si trova in infermeria. A breve la potrai rivedere» Lo fissò per qualche attimo, per poi aggiungere: «Ho risposto alla tua domanda. Gradirei ora che tu rispondessi alla mia»

«... Luke. Luke Atwood» rispose lui dopo svariati secondi, senza staccare gli occhi color ghiaccio da quelli viola ametista di Rachel. Si sentiva come un animale in trappola, senza nulla da perdere e tutto da guadagnare, pronto a qualsiasi cosa pur di sopravvivere.
E lo sapevano entrambi.

Lei lo squadrò a lungo, poi gli si avvicinò, ignorando i ringhi infastiditi di Wildebeest e i sorrisi di scherno di Amalia. Arrivata davanti a lui si chinò e gli posò il palmo aperto della mano sul petto, apparentemente senza curarsi di fargli male.

Quello cercò di protestare, ma la vista del fucile puntato su di lui lo fece desistere, non impedendogli però di scoccare un'occhiata di puro odio verso la demone. Presto, tuttavia, la sua attenzione venne attratta da ciò che stava accadendo sul suo petto.

Un'aura nera come la notte aveva rivestito la mano perlacea di Rachel come un guanto e, lentamente, si sentiva come se stesse pian piano rinascendo. Il dolore alla testa si attenuava, le ossa smettevano di gemere ad ogni movimento, i muscoli riacquisivano forza. Persino la guancia smise di pulsare.
In breve il dolore scomparve, come se non fosse mai esistito.

Mentre ancora cercava di capire come un miracolo del genere fosse accaduto Rachel si alzò e, con un unico movimento fluido del braccio si abbassò il cappuccio, scoprendo il volto. E quel viso lo lasciò interdetto forse anche più del modo in cui lo aveva curato.

La pelle era grigia e pallida, come se non avesse mai conosciuto il tepore del sole, su cui i capelli, corti e neri come le tenebre, risaltavano enormemente, come la luna splendente risalta il buio della notte. Le labbra erano sottili e dritte, come se non si fossero mai piegate in un sorriso, mentre i lineamenti erano affilati, seppur al contempo delicati.

Vi era un'unica imperfezione in quel volto: una lunga cicatrice, che le tagliava a metà la parte superiore del viso, dalla fronte a poco sotto l'occhio destro. Ma Luke si scoprì indeciso se decretare che la bellezza del volto esaltasse lo sfregio, o se fosse proprio lo sfregio a esaltare la sua bellezza.

Ma che diavolo vado a pensare?!

«Alzati Luke Atwood. Voglio mostrarti una cosa» La voce apatica ma autoritaria della ragazza lo distolsero - fortunatamente, a parer suo - dai suoi pensieri, e si costrinse ad alzarsi. Qualunque cosa quella gli avesse fatto aveva funzionato a meraviglia, ma questo non faceva che accrescere i suoi sospetti: se non lo volevano morto, anzi volevano fosse in forma, era chiaro che desiderassero qualcosa da lui. Ma cosa?

«Seguimi» ordinò perentoria lei, voltandosi e dirigendosi verso una porta in metallo - l'unico oggetto di un materiale fino ad allora che il ragazzo seppe riconoscere a colpo d'occhio - che prima non aveva notato. Luke la seguì, tenendosi comunque a distanza di sicurezza. Dietro di lui udì chiaramente Amalia alzarsi e raggiungerli, fucile sempre stretto tra le braccia.

Percorso un breve corridoio, i tre giunsero davanti a una seconda porta senza maniglia, anch'essa in acciaio.

Un minimo di civiltà almeno ce l'hanno, pensò acidamente lui, mentre la ragazza corvina si fermava e gli lanciava un'occhiata passiva da sopra la spalla.

«Luke» mormorò, lo sguardo perso nel vuoto. «Quanto stai per vedere non deve renderti pavido. Ricorda che vogliamo il bene della tua amica quanto tu vuoi il suo»

Le sue parole riecheggiarono nella mente di Luke come una condanna, tanto quella frase suonava alle sue orecchie più minacciosa e ambigua che rassicurante.

Rachel posò il palmo perlaceo della mano su di un pannello posto a lato della porta, e dopo una rapida scansione questa si aprì, scorrendo di lato.

Si trattava di una stanza molto simile a una comune sala esperimenti, eccezion fatta per i vari macchinari medici accompagnati da uno schermo di notevoli dimensioni posto sulla parete e collegato ad un vicino elettrocardiogramma. La linea rosso sangue si impennava e precipitava continuamente su di esso, emettendo un bip continuo e perciò rassicurante.

Tutt'altro che confortante era invece il corpo bianco come un cadavere disteso su di un lettino pulito al centro della sala, con svariati tubicini trasparenti - troppi, troppi - infilati nelle narici, in mezzo alle livide labbra serrate e le flebo - troppe, troppe! - che gli bucavano le vene iniettandole nel corpo misteriosi liquidi cha parevano acqua. Ma Luke capì fin da subito che non si trattava d'acqua.

Da quando era solo un bambino, una cosa gli era stata chiara: gli aghi davano e toglievano. Ai demoni davano poteri sovrannaturali, ma toglievano l'umanità e l'anima.
Semplice.

Ma quel corpo disteso sul lettino non apparteneva ad un demone, Tara non era un demone, Tara era umana, la persona con più umanità che Luke avesse mai conosciuto.

Non gli importava più nulla di dove fossero finiti, né di quei tre malati mentali che per poco non l'avevano ucciso; se c'era una persona che non meritava di finire in una fredda sala esperimenti o ospedaliera che fosse, aggrappata alla vita unicamente per mezzo di tubi e siringhe e monitor, se davvero esisteva una persona che non meritava nulla di ciò, quella era Tara.

Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò accanto al lettino, con una mano posata delicatamente su quella gelida dell'amica e gli occhi lucidi, come se tutto il ghiaccio che caratterizzavano le sue iridi si fosse improvvisamente sciolto.

«Cosa. Le avete. Fatto.» sibilò, senza nemmeno voltarsi in direzione delle due ribelli. Udì uno sbuffo indignato - Amalia - poi una voce apatica - Rachel.

«Non siamo stati noi a ridurla in questo stato» ribattè fredda quest'ultima.

«Anzi, sarebbe meglio per te ringraziarci, pivello» rincarò la dose la ragazza armata. «E' grazie a noi se respira ancora»

Quello fu troppo. Furente, si girò verso le due e, con un tono che non ammetteva repliche, ringhiò:

«Dovete dirmi ogni cosa. Mi, anzi, ci dovete almeno una spiegazione»

Un angolo delle labbra di Rachel si sollevò appena, in un minuscolo accenno di sorriso quantomai amaro e spento di chi non ha più speranze di essere felice.

«Credo sia il minimo che possiamo fare per voi»

 
~~~
 
Era buio attorno a lei.
Il silenzio la opprimeva, mentre un freddo mortale si impossessava di lei, lento e inesorabile.


Dove mi trovo?

Un dolore lontano, quasi come se si trattasse del ricordo sbiadito di una sofferenza passata le attanagliava la testa, gelidi artigli di una qualche perfida belva.

Come ci sono finita?

Un brivido, anzi, una vera e propria scossa le attraversò il corpo, per poi ripetersi, ancora e ancora.

Chi sono io?

L'oscurità iniziò, con lentezza immane, a dissiparsi. Una voce, una voce che trovò al contempo incredibilmente familiare e terribilmente sconosciuta.

... Terra.

E il nero lasciò posto al giallo.

 
~~~
 
Non era passata neanche una mezz'ora buona da quando Rachel aveva inziato a parlare.

Aveva introdotto il discorso informandogli di essere in quel momento a bordo della Megalodon, una delle molte Megattere di cui la Lega era fornita. Alla sua faccia stranita Amalia gli aveva spiegato - con un'aria da sufficienza neanche si stesse rivolgendo a un bambino - che le Megattere erano un specie di sottomarino ispirato in tutto e per tutto alla creatura che lui stesso aveva notato prima, in sala comandi.

Sebbene dall'interno fosse impossibile accorgersene, l'esterno era infatti lungo e grigio, corazzato, con due enormi pinne laterali su cui erano posizionati dei motori a propulsione, e terminante in un'aggraziata coda da cetaceo - la specie cui a quanto pare apparteneva l'enorme animale visto da Luke - che muovendosi di continuo era in grado di raggiungere velocità notevoli per un mezzo di simili dimensioni e persino di infliggere danni ingenti a imbarcazioni di media grandezza.

Le somiglianze tra l'animale e la macchina erano davvero impressionanti.

Per tutto il tempo Luke aveva mantenuto un atteggiamento passivo, annuendo a ciò che dicevano e fissandole negli occhi, come a sfidarle a proseguire, mentre dentro pensava disperatamente a come diavolo fuggire da lì. Di certo in quel momento era impossibile, essendo lui a bordo di un sottomarino a chissà quante leghe di distanza dalla City.

Stava per l'appunto riflettendo su cosa fare quando un urto improvviso inclinò l'intero sommergibile, al che ne seguì un altro, e poi un altro ancora, che mandarono lui e le altre due ragazze a terra. Un allarme iniziò a suonare, mentre l'intero soffitto si illuminava a intermittenza di rosso.

«Ma che ca-» si interruppe a metà dell'imprecazione Amalia, tirandosi in piedi e correndo fuori dall'infermeria. Anche Rachel si rialzò all'istante, per poi barcollare ed appoggiarsi alla parete, preda di un giramento.

«Che succede?» gridò Luke per sovrastare il rumore assordante, terrorizzato come non mai. Non gli era mai successo di ritrovarsi in una situazione simile prima d'ora, sentiva davvero di temere per la propria vita. La corvina non rispose e gli indicò il poco distante lettino su cui stava distesa Tara.

Lui all'inizio non capì, ma non appena posò gli occhi sul corpo della bionda si immobilizzò, atterrito.

La ragazza, dapprima in fin di vita, stava ora seduta sul lettino, a gambe distese, quasi come se si fosse appena svegliata e incurante del caos attorno a lei. Gli occhi erano serrati, ma da come voltava il capo intorno, curiosa, sembrava non ne avesse bisogno.

Mugugnò qualcosa di incomprensibile, prima di ruotare il busto e alzarsi, come se fosse tutto nella norma. Si stiracchiò, facendo scricchiolare in maniera agghiacciante le ossa delle braccia, poi del collo. Rimase un attimo ferma, la fronte aggrottata, poi azzardò un passo, come se non ricordasse esattamente come si camminava, poi un altro, finché non parve più sicura di sé, e si produsse in un ringhio soddisfatto e compiaciuto.

Ripassò lo sguardo, nonostante le palpebre abbassate, su tutta la stanza, finché non lo posò su di Luke. A quel punto qualcosa parve scattare in lei, e il suo comportamento mutò in maniera brutale.

Si immobilizzò, le braccia lungo i fianchi con i gomiti leggermente all'indietro, le mani strette a pugno, il fiato più pesante che si trasformava in rantolii e sbuffi.

Boom, fece l'ennesimo urto, ancor più forte dei precedenti. Di colpo, gli occhi di Tara si spalancarono, rivelando due enormi globi gialli, senza tracce né di bianco né di pupilla. Le labbra si arricciarono, a svelare i denti, mentre un ringhio profondo e gutturale scaturiva dalla sua gola. Un'aura dorata le avvolse le mani, e i capelli biondi si sollevarono in aria e presero a contorcersi, come serpenti.

Il ragazzo non riusciva a smettere di guardarla, pietrificato. Alla fine era avvenuto ciò che più temeva.

Tara, la sua migliore amica, l'unica con cui riusciva ancora a sorridere, l'unica di cui si fidava e con cui era in grado di confidarsi senza paura, l'unica cui era certo di voler bene, era diventata un demone.

Le cose non sarebbero state mai più le stesse.

 
~~~

Rachel si rimise in piedi a fatica dopo che l'ennesimo urto l'aveva nuovamente fatta cadere. Si sentiva prosciugata, priva di forze. Si tirò il cappuccio sul volto: nonostante i suoi poteri psichici fossero tutt'altro che deboli le costava ogni volta uno sforzo immane attivarli, sopratutto dopo una settimana di deperimento e torture come quella cui era stata costretta a sottoporsi.

Prese un respiro profondo, come le era stato insegnato, e si ripetè con la voce ridotta ad un sussurro le uniche parole che riuscivano ogni volta a donarle quel poco di pace e di controllo di cui disponeva da quando... era mutata.

«Azarath Metrion Zinthos»

Sospirò, poi si aggiustò il mantello sulla spalle e posò la sua attenzione sulla scena alquanto singolare che le si presentava dinazi agli occhi.

Luke, pietrificato e chiaramente nel panico, e dall'altra parte della stanza la ragazza che lei stessa aveva salvato dagli Scienziati che subiva ciò che definivano il "risveglio". Si trattava, per l'appunto, del primo risveglio dei soggetti dopo le iniezioni - le rare volte che essi sopravvivevano - dove si manifestavano per la prima volta i poteri o le sembianze paranormali che la sostanza H85 donava, e ovviamente, i soggetti in questione erano totalmente succubi di essi, non avendone ancora il controllo, in mano quindi ai loro poteri, che portavano a una rabbia cieca e senza ragione, costringendoli ad attaccare qualunque cosa si muovesse e non riconoscendo nessuno, amico o nemico che fossero.

Esattamente ciò che stava avvenendo in quel momento.

Un secondo dopo rientrò una trafelata Amalia che, senza degnare di un'occhiata Luke e Tara, le riferì, agitata.

«Rocce. Decine e decine di macigni partono a tutta velocità dall'abisso e si schiantano sulla Megalodon. E il fondale disterà più di tremila metri, diamine!»

Sembrò rendersi conto solo allora della ragazza bionda, al che imprecò.

«Ma devono tutti svegliarsi sempre nei momenti peggiori?! Perché capitano sempre a me le teste di Malchior deficienti?» e, con una sonora bestemmia, corse nuovamente via, sebbene Rachel sapesse bene che non stesse scappando, tutt'altro.

Riportò la sua attenzione a Tara e sollevò una mano, che al suo comando si tinse di nero.

 
~~~

La bionda lo fissava con odio, i pugni illuminati di giallo che puntavano dritti contro di lui. Poi, di scatto, tese le braccia verso di lui e urlò con quanto fiato aveva nei polmoni. Contemporaneamente, un intero pezzo di pavimento, grande all'incirca quanto il lettino sul quale nemmeno pochi minuti prima giaceva, e, rivestito d'aura color dell'oro, gli si scagliò contro.

Luke semplicemente non riusciva a muoversi; sarebbe potuta finire davvero male, se uno scudo d'ombra non fosse comparso dal nulla e all'ultimo secondo a interporsi tra il ragazzo e il proiettile improvvisato.

Ciò non fece che accrescere la furia di Tara, che non attese un secondo di troppo a strappare una seconda zolla d'acciaio, mirata stavolta a Rachel. Questa eresse un altro scudo di fronte a sé, il tutto mantenendo una calma e una concentrazione invidiabile a chiunque. Un attimo dopo un rampicante nero che pareva della medesima consistenza delle tenebre spuntò da terra per attorcigliarsi attorno alla gamba della ragazza bionda, poi un secondo e un terzo che andarono a immobilizzare l'altro arto inferiore e il polso destro.

Con un ringhio animalesco, Tara prese ad agitarsi, nel disperato tentativo di liberarsi dalla morsa ferrea cui la demone la sottoponeva. Un ultimo rampicante le afferrò il braccio sinistro, poi tutti e quattro la strattonarono al suolo, facendola cadere e bloccandola in ginocchio, china su sé stessa.

Luke, che per tutto il tempo non aveva mosso un muscolo, come risvegliato dalla trance si voltò verso di lei, il panico ben impresso nelle iridi color del ghiaccio.

«Cosa... cosa le è successo?» domandò, nonostante ne fosse già a conoscenza e nonostante le sue orecchie non volessero in alcun modo sentire una risposta.

Proprio allora tornò Amalia, sempre correndo, con in una mano il fucile e nell'altra uno strano oggetto nero e grigio, forse una sorta di bracciale. Sempre borbottando qualche imprecazione tra i denti si avvicinò a Tara, che ringhiando e dibattendosi tentava di allontanare da sé la ragazza, tentativo futile visto che quella si chinò accanto a lei e le allacciò il bracciale, coprendole metà avambraccio e parte del dorso della mano, dopodichè si alzò e mormorò:

«Con questo dovremo essere a posto» si voltò e, notando i due buchi nel pavimento sbuffò sonoramente. «Ringraziate che non siamo appena sopra la camera stagna, o a quest'ora saremmo tutti belli che affogati»

Ancora una volta, però, Luke si ritrovò ad ignorare ogni parola. Tara si era infatti immobilizzata di botto, gli occhi spalancati all'inverosimile e il fiato pesante, cose se faticasse a respirare. Un piccolo pulsante rosso sul guanto si illuminava ad intermittenza.

Lentamente, l'aura gialla abbandonò le sue mani, i capelli smisero di vorticare e, al posto dei due globi dorati, ricomparvero le iridi azzurro cielo che tanto la caratterizzavano. Infine, sempre ansante, la ragazza crollò a terra, mentre i rampicanti svanivano nel nulla.
















Salve a tutti.
Chiedo venia per il ritardo, ma sto passando un periodaccio, tra la scuola e la mancanza di ispirazione. Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, perché scriverlo è stata una tortura.
Perdonate anche la nota d'autore scarna, ma è tardi, ho sonno e il mio cervello non funziona per niente.
Alla prossima (si spera non troppo tardi),

Rose Wilson


 
 

 
 

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Capitolo 8
*** Risposte, finalmente ***



~CITY~





CAPITOLO 8

RISPOSTE, FINALMENTE

 




I pensieri di Luke non avrebbero potuto essere più confusi e disorientati in quel momento. I ribelli ti hanno sequestrato. Rachel ti ha salvato la vita. ha salvato Tara.

Tutte le sue certezze si stavano incrinando sotto il peso delle rivelazioni che, a poco a poco, sfuggivano dalle labbra di Rachel e Amalia, mentre queste, in infermeria, discutevano animatamente sulle condizioni tutt'altro che perfette della Megattera in seguito ai macigni scagliati da Tara. Con tanto di imprecazioni e bestemmie da parte della mora.

Non capiva molto di ciò che diceva, ma non era certo stupido e, a giudicare da quanto fosse agitata, il viaggio verso la loro, a lui ignota, destinazione si sarebbe protratto più a lungo di quanto chiunque lo desiderasse, a bordo.

Pure Rachel era accigliata, e rispondeva ai toni volgari della compagna con mormorii lugubri e per nulla rassicuranti.

In quel momento il ragazzo si trovava seduto su di un piccolo sgabello dotato di schienale che aveva trovato in infermeria, e stava chino su sé stesso accanto al piccolo lettino candido dove, dormiente, giaceva la sua amica.

O meglio, lui avrebbe davvero voluto con tutto il cuore che Tara stesse semplicemente dormendo, pronta a svegliarsi di lì a poco con la voce impastata di sonno a chiedere perché diamine Ainsworth la costringesse a svegliarsi prima di mezzogiorno.

Ma anche un cieco avrebbe capito che non stava dormendo. La pelle era pallida, smorta, come quella di un cadavere. Le palpebre erano serrate, rivoli di sudore le incollavano i capelli dorati alla fronte e al collo. Il respiro, seppur regolare, era flebile e poco profondo, come se potesse arrestarsi improvvisamente senza che nessuno se ne accorgesse in tempo.

Il bracciale grigio le avvolgeva quasi totalmente l'avambraccio, con il minuscolo pulsante rosso che aveva cessato già da parecchio di illuminarsi a intermittenza.

«Cittadino» lo richiamò alla realtà la voce profonda di Wildebeest. Luke si voltò, per vedere il mostro porgergli un vassoio. Sopra di esso sembrava esserci cibo, ma il ragazzo faticò a riconoscerlo come tale, abituato ai pasti stomachevoli e assolutamente anonimi della City.

Scosse la testa, e allungò la mano per respingere l'offerta ma tutto ciò che ottenne fu uno sbuffo animalesco. La mano libera, non impegnata a reggere il cibo, si richiuse poco delicatamente sul suo braccio, poi l'uomo lo costrinse ad afferrare il vassoio.

«Digiuno non aiuta la tua amica» disse fissandolo severo. Luke era incredulo. Quello... voleva essere un atto di gentilezza?

Notò che, per via della malformazione del viso e della mascella, faticava nel parlare. Ciò spiegava perché non avesse spiccicato parola sino ad allora. Eppure aveva parlato - aveva cercato di confortarlo? - e questo solo perché si era reso conto del dolore che provava in quel momento. E come avrebbe potuto accorgersene se, come sosteneva la City, non aveva un'anima?

Come ad aver intuito i suoi pensieri, sul viso ben poco espressivo della belva si dipinse una nota di disappunto, poi l'uomo gli voltò le spalle e abbandonò l'infermeria, probabilmente per dirigersi alla sala comandi.

Luke sbattè le palpebre, ancora stupito, poi abbassò lo sguardo sulle pietanze disposte ordinatamente sul vassoio che si ritrovava a reggere. Dopo un'attenta analisi, riuscì a dedurre che doveva trattarsi di pesce - essendo lui a bordo di quella che si poteva tranquillamente definire un'imbarcazione, avrebbe dovuto aspettarselo - cucinato in una maniera che non era in grado di definire, un bicchiare d'acqua e qualche ciuffo di verdura a far da contorno.

Prese a mangiare in silenzio, tendendo un orecchio alla conversazione tra Rachel e Amalia. A quanto pareva avevano terminato di discutere riguardo le condizioni della Megalodon.

«Quante scorte ci restano?»

«Abbiamo cibo e acqua sufficienti per tre settimane, se razioniamo»

«Bene. Quanti giorni dista la nostra base più vicina?»

«Una quindicina, ma con un motore in meno saremo fortunati se riusciremo a raggiungerla in meno di venti, venticinque»

Con la coda dell'occhio vide Rachel annuire pensierosa, poi anche Amalia lasciò la stanza, subito seguita da un gracchiante Ares. La ragazza sospirò, per poi andare a sedersi accanto a lui su una sedia, in silenzio.

Luke ingoiò l'ultimo boccone, sentendosi finalmente sazio. Non si era reso conto di quanta fame avesse, ma a sentire il suo stomaco doveva essere stato svenuto per parecchio tempo senza mangiare.

Ora però che non aveva più scuse per evitare di parlare, sentì l'ansia prendere possesso di lui. Lo metteva terribilmente a disagio la presenza di Rachel, e non gli si poteva certo dare torto. Non era ancora riuscito bene a inquadrarla: era una gelida e spietata assassina priva di anima, coma la City la dipingeva... oppure era qualcos'altro?

Le lanciò un'occhiata di sottecchi. Si era tolta di nuovo il cappuccio, lasciando liberi alla vista il capo e il viso. Ciocche di capelli nerissimi le ricadevano davanti agli occhi in maniera scomposta. Teneva lo sguardo alto e la schiena dritta anche allora che non faceva altro che fissare il vuoto davanti a lei. Se si accorse che lui la stava guardando non lo diede a vedere.

Nonostante la sua postura rigida era chiaro che fosse stremata, sebbene Luke non avesse idea del motivo. Proprio mentre sentiva che la tensione racchiusa in quel silenzio stava diventando opprimente al punto da lasciarlo senza fiato, Rachel aprì bocca.

«Curioso» mormorò, a bassa voce ma di colpo e con così poco preavviso che Luke si trattenne a stento dal trasalire.

«C-Cosa?» domandò, incespicando sulla sua stessa lingua.

«Nulla» rispose lei, sempre con lo sguardo rivolto al vuoto. «Ma è la prima volta che mi guardi senza odio, rabbia o timore negli occhi»

Il ragazzo si sentì avvampare.

«Suppongo dunque che sia un buon momento per porti la mia domanda» disse, voltando il capo di scatto nella sua direzione e piantandogli i suoi occhi color ametista addosso.

«Cosa ci facevi nascosto in quel corridoio, davanti alla sala esperimenti?»

Il suo viso era inespressivo, ma i suoi occhi erano indagatori e parevano scrutarlo nel profondo.

Il ragazzo distolse lo sguardo da lei. Sapeva che, prima o poi, quella domanda sarebbe saltata fuori. Si sentiva parecchio riluttante a rispondere, sopratutto per il fatto che Rachel non avesse ancora risposto alle sue di domande, più che legittime.

«... Niente. Avevo visto Tara allontanarsi dalla sua postazione di lavoro e ho deciso di seguirla per accertarmi che non finisse nei guai, tutto qui» borbottò. Alla fine aveva optato per una mezza verità, per allontanare eventuali sospetti da lui.

«Non potevo certo immaginare che sarebbe finita in una sala esperimenti... E che tu ci avresti rapiti»

Le labbra della ragazza si piegarono in una smorfia.

«A casa mia quello si chiama "salvare la vita"»

Trascorsero vari istanti di silenzio prima che Luke si decidesse a romperlo.

«Ho risposto alla tua domanda. Gradirei ora che tu ripondessi alle mie» le disse, ritorcendole contro le sue stesse parole.

Lei storse il naso di fronte a quella che per lei doveva essere una manifestazione di immaturità e basta. «Non preferiresti attendere che la tua amica si svegli? Sarebbe più facile e meno ripetitivo spiegarvi tutto quando siete assieme, no?»

«Voglio delle risposte. Adesso»

Rachel rimase a guardarlo, un'espressione gelida in viso, poi sospirò e si appoggiò stancamente allo schienale della sedia.

«Molto bene. Chiedimi ciò che vuoi» proferì, chiudendo gli occhi come se volesse addormentarsi lì sul posto.

Luke ci riflettè un paio di secondi. «Perché ti trovavi nella City?»

«Ero in missione» rispose con semplicità lei. «Mi sono fatta arrestare e, dall'interno, ho cercato di scoprire più informazioni possibili»

Lo disse con una tranquillità allarmante, come se essere arrestati dalla City fosse una cosa semplice e indolore. Il suo tono indifferente, però, veniva tradito dall'evidente debolezza che cercava di nascondere, dal suo corpo deperito al punto tale da renderla quasi fragile sotto alcuni punti di vista.

Attraverso la maglia aderente nera Luke riusciva a contarle le costole.

«Non credo proprio che questa fosse la tua unica domanda» lo riprese Rachel, mantenendo gli occhi chiusi, serafica. «Anzichè cercare come un ossesso che cosa ci guadagnerei a mentirti, ti consiglierei di passare al prossimo quesito»

Il ragazzo si morse la lingua, rimproverandosi per la sua sciocca esitazione.

«Eri in missione per conto della Lega?» chiese, per poi pentirsene un secondo dopo. Era una domanda stupida, e già si aspettava un commento sarcastico o quantomeno ironico fuoriuscire dalle labbra livide della ribelle.

«No»

Luke sgranò gli occhi, sbigottito: quell'affermazione contraddiceva ogni cosa detta sino ad allora. Come a percepire il suo stupore, Rachel continuò:

«A dire il vero ho scelto io stessa di partecipare, assieme ad Amalia, a questa missione... uhm, come dire?, "clandestina"» cercò di spiegarsi meglio, intrecciando le mani perlacee in grembo.

«Vedi, nonostante qualunque cosa sostenga la City, la Lega Anti-Progresso non è così informata e temibile come vorrebbe essere. Se attaccassimo ora, finirebbe in un bagno di sangue.

«Non disponiamo di dati sufficienti a fare più di tanto, per ora. E il nostro leader» la ragazza arricciò le labbra a scoprire i denti, in un accenno di ringhio. «Diciamo che preferisce "preservare l'incolumità" dei demoni a lui fedeli, piuttosto che rischiare di lanciarli in missioni rischiose e rimanere senza protezione.

«Tu non puoi saperlo, ma sia io che Amalia abbiamo un motivo preciso per combattere contro la City. Non credo di apparirti più insensibile o negativa di quanto tu già mi vedi dicendoti che le nostre sono puramente faccende personali.

«Ora come ora siamo in una situazione di stallo. Ma qualche settimana fa è caduta la goccia che ha fatto traboccare il vaso»

Socchiuse appena gli occhi, lanciandogli un'occhiata. «Sai cos'è accaduto esattamente ventitrè giorni fa, nell'Area Capitale?»

Luke negò piano con il capo. Qualcosa gli faceva sospettare che le parole della ragazza non lo avrebbero lasciato indifferente.

«Dieci dei prigionieri più giovani sono stati prelevati dall'Area Carcere e giustiziati pubblicamente. Molti di loro non superavano i dodici anni. Il motivo è presto detto: erano marchiati»

Nel riconoscere lo stupore del ragazzo, cercò di spiegarsi meglio: «Quelli che voi cittadini definite demoni. Noi preferiamo chiamarci con termini... meno offensivi»

Richiuse gli occhi. «Il resto puoi anche immaginartelo. Assieme a Wildebeest abbiamo pianificato questa piccola missione. Amalia era già infiltrata da qualche anno come Apprendista - il suo compito era aggiornare la Lega sugli archivi di guerra della City - e tutto quello che ho dovuto fare è stato eliminare colui che ha ordinato l'esecuzione e lasciare che mi arrestassero»

Luke rimase in silenzio, cercando di assimilare tutte quelle informazioni. Ma, se il quadro generale stava iniziando pian piano a schiarirsi, l'immagine della ragazza accanto a lui era immersa nelle tenebre.

Aveva appena ammesso di avere ucciso a sangue freddo uno dei - pochi - Ministri della City e aveva sopportato chissà quali torture solo per poter mettere le mani su informazioni utili a distruggere dall'interno ciò che per lui era tutto ciò che poteva definire casa.

«Hai ucciso un uomo» mormorò. La sentì sospirare.

«Un uomo che ha ucciso decine di persone e in special modo bambini solo per i loro geni. Non credo che una singola vita corrotta possa valere quanto tutto il sangue innocente di cui essa si è macchiata, ma non vado fiera delle mie azioni. Questo è tutto ciò che posso dirti a riguardo»

Rimasero in silenzio svariati secondi. Luke si morse l'interno della guancia.

«Cos'avete intenzione di fare con noi?»

Rachek esitò. «Dipende»

«Dipende da cosa?»

«Dipende da cosa voi avete intenzione di fare»

Il ragazzo rimase sbigottito. Aveva sempre pensato che non avrebbe avuto possibilità di scelta, e si era talmente abituato all'idea che anche solo quel vago accenno al fatto che avesse torto bastò per lasciarlo sconvolto. Al contrario, la ragazza appariva tranquilla e pacata, come se stessero discutendo sul tempo.

«Ma... non sarebbe tuo compito consegnarci alla Lega?»

«Compito?» chiese lei, guardandolo negli occhi con un sopracciglio inarcato. La sua espressione si indurì così all'improvviso che a Luke gli si mozzò il fiato in gola.

«Tutto ciò che voglio è distruggere la City. Non ho mai detto di essere dalla parte della Lega, né di dover eseguire "compiti" per essa»

Disse quelle parole con il gelo nella voce e nello sguardo. Un bagliore rosso fece capolino nelle iridi violacee.
Ma fu solo un secondo, dopodichè si ricompose quasi immediatamente.

«Se per vedere la City distrutta è necessario che resti alleata della Lega sono disposta a farlo. Ma non ho intenzione di costringervi a fare nulla contro la vostra volontà, come invece vorrebbero che facessi»

Luke era profondamente scosso, e si vedeva. Una parte di lui era atterrita e confusa riguardo alla ragazza in nero che gli sedeva accanto. In certi momenti gli pareva di vedere in lei un mostro, il demone che uccideva a sangue freddo e senza pietà.

Ma l'altro lato di lui... si scopriva ad ammirare la giovane. Ammirava come non pensasse due volte a sacrificare sé stessa, prima per la sua causa, qualunque essa fosse, e dopo per Tara, una perfetta sconosciuta solo per strapparla a un destino orribile.

O forse era solo il fatto che non seguisse e infrangesse le regole, comprese quelle che avrebbe teoricamente potuto aiutarla nel suo intento, a gettare una luce diversa su di lei.

«Certo, tu sei ovviamente più libero di scegliere della tua amica» aggiunse Rachel, ponderando bene le parole da usare. «Tra una ventina di giorni raggiungeremo una delle isole della Lega. Se lo desiderate, da lì potrete prendere una nave fino alla terraferma e arrangiarvi. Ma è bene che tu lo sappia»

Prese un respiro, senza staccare gli occhi da quelli di Luke. «Tara non potrà mai vivere una vita normale. Non nelle sue condizioni. Potrebbe anche reprimere dentro di sè i suoi poteri per una decina di anni, forse una quindicina; ma finirebbero con logorarla dall'interno, lentamente, giorno dopo giorno. Luke»

Per la prima volta la ragazza gli afferrò il braccio. La pelle era gelida come se torrenti in procinto di ghiacciarsi le scorressero nelle vene al posto del sangue. Luke si irrigidì ma non si ritrasse.

«Se lei non imparerà a controllare i suoi poteri... i suoi poteri impareranno a controllare lei. E allora neppure il bracciale di costrizione servirà a qualcosa. Penso tu possa ben immaginare cosa succederebbe, non è così?»

Il ragazzo deglutì mentre annuiva. Nella sua mente, la visione di una Tara dagli occhi dorati, feroce e sanguinaria senza neppure un briciolo di ciò che era stata la sua amica era più che sufficiente a fargli accapponare la pelle.

«... Bene» mormorò Rachel, ritraendosi. Si aggiustò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, mentre l'ormai consueto velo di apatia le ricadeva di nuovo sugli occhi.

«Come posso fare... per evitare che ciò avvenga?»

La voce di Luke era rotta, e sentiva che se avesse pronunciato solo una parola in più sarebbe scoppiato a piangere. Proprio lui che aveva passato anni a ripetersi come un mantra che le lacrime non erano altro che un segno di debolezza.

Il viso di Rachel si ingentilì appena.

«La Lega ha sempre bisogno di reclute, umani e demoni in egual misura»

La luce soffusa dell'infermeria illuminava a giorno la stanza e il viso di lei, ma nonostante ciò Luke ebbe ancora l'impressione che decine di ombre si nascondessero in quegli occhi spenti.

Erano entrambi esausti, e avrebbe dato qualunque cosa in cambio di una notte di sonno, eppure lui aveva ancora così tanti interrogativi per la mente. Al tempo stesso però, non riusciva neppure a comprendere appieno il significato che celava quell'ultima enigmatica frase.

Aprì la bocca per l'ultima domanda che si sentiva in dovere di porre quel giorno, prima di abbandonarsi a letto, da solo, a riflettere e a tentare di assimilare tutte le informazioni che Rachel gli aveva svelato.

Ma prima che potesse parlare la porta si spalancò all'improvviso, facendo apparire un'Amalia che decisamente non era in vena di domande.

Si bloccò nel vederlo, poi fece saettare lo sguardo verso il vassoio vuoto abbandonato sulle ginocchia del ragazzo ed esclamò: «Sei riuscito davvero a mangiare quella roba?»

Lui sbattè le palpebre, poi annuì col capo. Lei lo guardò come se avesse appena ammesso di saper respirare sott'acqua.

«Certo che devi essere davvero disperato per riuscire a mandar giù senza batter ciglio uno dei piatti di Wildebeest» borbottò, scuotendo la testa. «Tutt'ora mi chiedo, dopo tutto il tempo passato nella City come infiltrata, cosa sia peggio: la mensa degli Apprendisti o la cucina di quel vecchio caprone»

Si udì un ringhio profondo e infastidito provenire da qualche parte all'infuori dell'infermeria, e Luke si sentì rizzare tutti i peli delle braccia nel sentirlo.

Amalia invece alzò gli occhi al cielo, poi si voltò verso la porta aperta e gridò: «Lo so che puoi sentirmi dalla sala comandi, perché diavolo credi che sia così sincera?»

Per tutta risposta ricevette uno sbuffo indignato. Lei scosse il capo con fare indignato, poi si girò e si rivolse ai due.

«Allora» disse, indicandoli con fare accusatorio. «Voi. Vi state ancora scambiando i braccialetti dell'amicizia, o già pensate alle nozze?»

Il tono era mortalmente serio, e Luke ci mise più di un paio di secondi a realizzare che stava - ovviamente - facendo del sarcarmo, ma strabuzzò gli occhi comunque. Rachel si limitò ad alzare gli occhi al cielo, esasperata.

«Ehi, chiedevo» scrollò le spalle la mora. Si voltò e si diresse fuori dalla stanza, dicendo ad alta voce: «Se vi serve una stanza, la mia cabina non è a vostra disposizione»

Trascorsero pochi secondi nei quali Luke si accertò che se ne fosse andata, poi guardò in faccia la ragazza accanto a lui e chiede, senza accorgersi di utilizzare un tono molto più confidenziale di quanto gli si addicesse, considerato il suo carattere.

«Ma ce l'ha con me, o ha problemi un po' con tutti?»

L'ombra di un sorriso si dipinse sulle labbra di Rachel. «Diciamo pure che ha fatto dell'essere irrispettosa nei confronti del genere umano la sua ragione di vita»

Sorrisero appena, ma si trattava di un sorriso incerto, vago e fugace, che fa capolino sulle labbra ed è pronto a svanire in un battito di ciglia, poco fiducioso.

Intanto i macchinari continuavano silenziosamente il loro lavoro, emettendo sommessi bip a ogni battito vitale della giovane, respirando al posto suo, impedendo alla lama della morte di cadere sul suo volto troppo presto.





















Alla prossima (si spera non troppo tardi)!

Sì, certo. Poi mi ammalai, la scuola mi prese di mira, l'ispirazione se ne andò a farsi benedire e mi ammalai di nuovo :). Fatanstico, nevvero?
Okay, scherzi a parte mi spiace davvero di aver tardato tanto con questo capitolo. Per farmi perdonare è un po' più lungo dei precedenti  (nove pagine di agonia e bestemmie, per la precisione). Ma no, non mi soddisfa per niente. Sì, è lungo, ma noioso. Moooolto noioso.

Anyway. Lo so che un Red X che arrossisce è una cosa che non sta né in cielo né in terra (specie per ciò che dice a Stella nell'episodio a lui dedicato...) ma suppongo che dopo tutto ciò che stia provando, sia anche un poco autorizzato a essere un pelino più sensibile del solito, no?

E non ho nient'altro da dire, se non scusarmi ancora e sperare che qualunque cosa sia questo capitolo vi sia piaciuto.

Alla prossima,

Rose

 

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Capitolo 9
*** Il suo nome ***



~CITY~


CAPITOLO 9
IL SUO NOME


 
L'odore salmastro della salsedine e il dolce infrangersi delle onde sulla costa furono le prime cose che Tara notò del suo sogno. Era seduta a qualche metro dall'oceano, su un'enorme distesa di sabbia candida e soffice. Il cielo sopra di lei era sereno, con un paio di nuvole che lo attraversavano pigramente.

La tranquillità e la serenità di quel paesaggio così pacifico, tutto il contrario dei corridoi metallici e dei cieli cupi cui il sonno l'aveva abituata la invasero dolcemente, lasciandole un senso di calma mai provato fino ad allora.

Si rese conto solo in un secondo momento che, accanto a lei, vi era qualcuno seduto a gambe incrociate. All'apparenza appariva come un bambino, con una maschera bianca posta sul viso. Stava chino su sè stesso e disegnava ghirigori sulla sabbia umida servendosi di un bastoncino, senza degnare di uno sguardo lei o ciò che lo circondava.

Tara non riusciva a vederlo bene, per quanto si sforzasse. Era sfocato, con i tratti quasi indistinguibili. Non sarebbe stata in grado nemmeno di affermare che fosse maschio o femmina.

Ma dopotutto si trovava solo in un sogno.

«Ciao» disse quasi senza accorgersene. Il bambino sollevò appena lo sguardo da terra, senza smettere di disegnare.

«Ciao» le rispose, e lei ebbe come l'impressione che la stesse guardando negli occhi attraverso la maschera, sondandole l'anima. Neppure la voce la aiutò a stabilire se il suo interlocutore fosse un ragazzino o una ragazzina.

Dopo pochi secondi chiese: «Come ti chiami?»

«Tu lo sai già» mormorò la misteriosa figura con una sfumatura di malinconia nella voce.

Era vero. In effetti,
conosceva quella figura, e conosceva pure il suo nome. Eppure non se lo ricordava.

«Anch'io so il tuo nome» continuò. «L'ho saputo tempo fa e lo so di nuovo adesso. Ma non mi ricordo di te»

Un'improvvisa tristezza invase quel sogno, e con esso anche Tara. Avrebbe tanto voluto ricordarsi di quel ragazzino (o ragazzina, a seconda), anche solo per dirgli che non l'aveva dimenticato. Ma per quanto si sforzasse non ci riusciva.

«Non serve che ti tormenti. Non mi rammenteresti in ogni caso» sospirò la figura. Si alzò in piedi, lasciando cadere il bastoncino e fissando dritto l'orizzonte, senza guardarla in viso.

«Mi dispiace» si scusò la bionda, amareggiata. L'altro scrollò le spalle, indifferente, gesto che, se fossero stati nella realtà, probabilmente avrebbe ferito entrambi.

«Ora non ha importanza. Il passato è passato, e tale deve rimanere»

Tara si accorse che si stava per svegliare. I contorni del sogno stavano svanendo con rapidità e lentezza assieme, e la figura del ragazzino tremolava.

«
Ricordati di me quando verrà il momento, Tara Markov»

 
~~~
 
La ragazza si svegliò più dolcemente di quanto avrebbe potuto immaginare. Solitamente, ogni volta che si risvegliava nel cuore della notte era per il solito incubo e non erano risvegli piacevoli, tutt'altro.

Si tirò su a sedere, sbadigliò e si stropicciò le palpebre. Tre movimenti che il suo corpo aveva svolto con movimenti fluidi e rapidissimi, tanto che rimase qualche secondo imbambolata a chiedersi dove diavolo fosse finita la sua solita goffaggine.

Scosse la testa, perplessa, e si guardò attorno. Nonostante le tenebre fossero talmente fitte da apparire come nere pareti, per qualche motivo a lei ignoto, i suoi occhi riuscivano a sondarle con una velocità impressionante, e con una facilità assurda.

Tara sbattè le palpebre una seconda volta, sempre più stranita.

Si trovava presumibilmente in un'infermeria, o quantomeno in una sala esperimenti ben camuffata. Lei si trovava in fondo accanto al muro opposto alla porta d'ingresso, perfettemente nel mezzo e con la parete alle spalle. Accanto a lei sostavano parecchi macchinari che non seppe riconoscere, sui quali erano adagiati vari utensili, quali siringhe e bisturi. Tutto era bianco e ordinato, e nell'aria aleggiava un nauseante odore di antibiotico.

Arricciò il naso. C'era qualcosa che non quadrava. Sentiva la divisa estremamente ruvida contro la pelle e aveva un lieve ma nitidissimo sapore di sangue in bocca.

Le dolevano i muscoli e aveva mal di testa. Non ricordava praticamente nulla: si era per caso ferita mentre lavorava nella Zona Recupero? Difficile da credere: lei non era tipo da impegnarsi talmente tanto in un lavoro da non restarne illesa.

Decisamente strano. E a tratti inquietante se pensava che non aveva idea di dove fosse. Decisa a sciogliere il più presto possibile il nodo che le si era creato alla bocca dello stomaco, si alzò in piedi, leggermente barcollante per il troppo tempo passato sdraiata e si avviò verso la porta d'uscita.

Questa si spalancò docilmente non appena la sfiorò con le dita della mano, mostrandole un corridoio immerso nell'oscurità. Varie lampade ad olio - erano ad olio, giusto? Non era mai stata brava a ricordarsi di certi dettagli, specie se non la interessavano -  pendevano spente dal soffitto.

Anche stavolta i suoi occhi misero a fuoco immediatamente l'ambiente che la circondava. Preferì, almeno per il momento, non porsi domande in merito, perchè non aveva idea di cosa la sua fin troppo fervida fantasia avrebbe potuto fornirle come spiegazione.

In fondo si trovava una seconda porta metallica, che scivolò di lato quando ancora si trovava a un metro di distanza.

Sbucò in una stanza enorme, e come la vide la sua mente non potè fare a meno di ricondurla  alle miriadi di immagini olografiche di aereonavi che aveva visto e segretamente - ma neanche tanto - ammirato. Non c'erano dubbi, quella era una sala comandi! Di cosa non ne aveva idea.

Certo, era decisamente spoglia per essere la sala comandi di un'aereonave, ma non vi erano dubbi che servisse, a tutti gli effetti, per pilotare e controllare un veicolo di grandi dimensioni.

In fondo una gigantesca vetrata occupava tutta la parete, ma Tara non riusciva bene a capire cosa ci fosse dietro di essa. Sembrava come se le tenebre laggiù si fossero condensate in un qualcosa di impenetrabile e inaccessibile agli occhi umani. Sicuramente non sembrava un semplice cielo notturno.

Dentro di lei albergavano emozioni e sentimenti contrastanti. Da una parte si sentiva confusa e non poco spaventata: dove diavolo era finita? Come aveva fatto ad arrivare lì? E perchè non si ricordava assolutamente nulla delle ultime ore?

D'altro canto, sentiva nascere dentro di sè delle sensazioni familiari e sconosciute.
La sua curiosità. immancabile compagna delle sue disavventure.
Adrenalina pura, che le impediva di restar ferma.
Potere. Una misteriosissima, insensata e meravigliosa sensazione di potere.

Per forse la prima volta della sua vita qualcosa scattò dentro Tara.
Per la prima volta, per chissà quale motivo, si sentiva forte.
In grado di fare qualunque cosa.

Stava riflettendo proprio su quelle strane e misteriose percezioni quando un'odore nuovo le si insinuò nelle narici, e una voce la riportò alla realtà.

«Tara? Sei tu?»

Lei sussultò e si voltò di colpo. Davanti alla porta - non quella che aveva utilizzato lei per entrare, ma una seconda che non doveva aver notato - sostava l'esile figura di una ragazza, vestita di nero da capo a piedi e con un lungo mantello scuro sulle spalle. L'odore proveniva da lei: ricordava la pioggia d'inverno, e di qualcos'altro che non era in grado di definire. Di certo non era sgradevole.

Nonostate il buio Tara riuscì a distinguere perfettamente il viso perlaceo, i lineamenti duri e affilati, le labbra sottili. Ma ciò che più la colpì furono gli occhi: due enormi occhi viola, profondi e freddi che brillavano nell'oscurità. Notò solo in un secondo momento l'orrido sfregio che divideva in due il volto della misteriosa fanciulla.

Per un istante si ritrovò a pensare a quanto le apparisse familiare e distante quel viso. Scacciò quasi subito dalla mente quelle insensate idiozie.

«Chi sei? E come conosci il mio nome?»

Le parole le abbandonarono le labbra prima ancora che potesse ponderarle, e le uscirono decisamente più dure di quanto avesse voluto. Se la ragazza ne fu turbata non lo diede a vedere.

«Il mio nome è Rachel» disse, portandosi con naturalezza una mano al petto. «Rachel Roth. E il tuo nome me lo ha rilevato il tuo amico, Luke Atwood»

Il cuore di Tara perse un battito. Luke era , assieme a lei? Ciò bastò a rassicurarla nell'immediato e almeno buona parte dell'ansia svanì. Restava da capire dove diavolo fosse quel .

Ma un momento: Rachel Roth? Dov'era che aveva già udito quel nome?

«Ti trovi all'interno di una Megattera. Un sottomarino» si spiegò quella notando l'espressione interrogativa della bionda.

«Un sottomarino? E perché? Cos'è successo? Dov'è Luke? E non mi hai ancora detto chi sei» la interruppe Tara, di colpo nuovamente ansiosa.

Rachel alzò le mani davanti a sè, con i palmi rivolti verso la bionda. Questa comprese all'istante, tramite il linguaggio del corpo, che stava cercando di tranquillizzarla. «Rifletti con calma Tara. Ricordi cos'è successo all'incirca qualche ora fa?»

La ragazza si bloccò. Se lo ricordava? A dire il vero non le pareva fosse successo chissà cosa. Dunque... si era alzata troppo presto per i suoi gusti - come tutte le mattine - ed era andata al lavoro... Giusto?

Sì, rimembrava persino il settore: Zona Recupero, assieme a dei Meccanici che odoravano di zolfo e carburante. Però, uhm, cos'era successo dopo? Quello proprio non se lo ricordava.

«Luke è nella cabina che gli abbiamo assegnato. Era esausto» interruppe il corso dei suoi pensieri Rachel, aggirando - notò Tara - astutamente le prime scomode domande della bionda.

«Ci stiamo dirigendo a est, verso l'Europa. In un posto sicuro. Almeno per il momento» terminò la frase incupendosi, come se il suo viso cercasse di smentire le sue stesse parole. Al sicuro? Al sicuro da cosa? Che voleva dire.

Tara però non fece in tempo a dire nulla che uno schianto improvviso colpì la Megattera, con una violenza tale da mandarle entrambe a gambe all'aria.

Un'imprecazione non esattamente elegante le sfuggì dalle labbra quando il suo gomito cozzò contro il pavimento duro. Si tirò su a sedere, mugugnando e massaggiandosi il fianco, anch'esso rimasto tutt'altro che illeso.

Con una certa inquietudine si rese conto di avere il cuore a mille, nel senso letterale del termine: era come se, al posto dei battiti, vi fossero i più fragorosi tuoni generati dalla più distruttiva delle tempeste. Le milioni di vene che aveva in corpo apparivano come miriadi di cascate sanguinanti, rapidissime e pulsanti.

Percepiva distintamente ogni parte del suo corpo dolorante per quella che era solo una piccola caduta, come se d'improvviso tutti i suoi sensi si fossero amplificati per stabilire dove si fosse veramente fatta male e dove no.

Scacciò quegli allarmanti pensieri dalla mente, poi alzò gli occhi verso l'altra ragazza. Quella si era già rialzata, e si trovava davanti alla console più grande e più vicina alla parete di fondo. Era accigliata, ma sembrava più seccata e infastidita che preoccupata.

«Pirati» ringhiò, mentre sulla console appariva il piano olografico di un radar, che mostrava in scala ridotta la Megattera e un secondo sottomarino, grande meno di un terzo della Megalodon, che si aggirava in cerchi sempre più stretti attorno a loro, come un avvoltoio.

Tara deglutì: «E-Ehi aspetta! Che vuoi dire con "pirati"?»

«Pirata: uomo o donna di mare che conduce azioni dannose e violente al fine di arricchirsi devastando navi, coste e talvolta intere città marittime»

Stavolta la ragazza non riuscì a trattenere un urlo soffocato, voltando il capo di scatto verso l'origine di quella voce metallica. Un piccolo androide a forma di pipistrello la fissava appollaiato su una sedia a una decina di metri da lei, il capo in acciaio inclinato a sinistra a far intendere curiosità. Come diavolo aveva fatto a non accorgersi di lui?

«Vi ho spaventato? O preferite una definizione più generica sulla pirateria del trentunesimo secolo?» le chiese con un'ingenuità tale da poter essere comparata a quella umana il robottino.

«Non mi pare questo il momento, Ares» lo richiamò Rachel. A un suo cenno, il pipistrello metallico sbattè le ali e si alzò in volo, per poi sistemarsi sulla spalla della ragazza, il tutto sotto gli occhi sempre più sbarrati di Tara.

«... Per Rorek, mai che si possa star tranquilli su questa insulsa bagnarola! Uno non può chiudere gli occhi un secondo che subito viene scaraventato giù dal letto da non so cosa...»

Tara si rialzò, e nel farlo incrociò lo sguardo di Amalia, ferma sulla soglia e con un'aria parecchio irritata, vestita unicamente con una vestaglia nera lunga fino ai ginocchi che, fossero state tutte in un'altra situazione, probabilmente sarebbe risultata decisamente comica.

Nel vederla, Amalia si battè una mano in fronte.

«E lo scricciolo si è pure svegliato. Che altro? Forza, non mi stupisco più ora»

«A-Amalia?» balbettò paralizzata la poveretta, che adesso non ci capiva davvero più nulla. Quella che molto probabilmente non era un'Apprendista storse il naso: «Sì, quello è il mio nome. Qualcosa in contrario?»

«Komand'r» la richiamò Rachel. «Ti spiacerebbe comportarti per cinque minuti da adulta e chiamare Wildebeest? No, sai, penso potrebbe ritornare utile visto che stiamo per combattere contro dei pirati»

L'interpellata sbuffò di fronte alle tonnellate di sarcasmo che quella frase conteneva.

«Stai velatamente cercando di dirmi qualcosa, Rae cara?»

«Komand'r»

«Sei carina quando sei esasperata»

Un rumoroso sospiro sfuggì dalle labbra di Rachel, che senza una parola di più mollò la console e si diresse verso l'uscita, seguita a ruota da una ghignante Amalia.

Tara rimase da sola nella sala comandi. Il suo mal di testa era andato ad amplificarsi e il suo cuore stava pian piano cedendo al sentimento del panico. Per la prima volta desiderò davvero di risvegliarsi nel suo letto, nel dormitorio degli Apprendisti, dove almeno sapeva cosa accadeva e sapeva come comportarsi.

«Tara?»

La ragazza sollevò il capo da terra, incrociando gli occhi dell'unica persona al mondo di cui si fidava ciecamente, più di sè stessa. Luke le si avvicinò, timoroso, quasi temesse di ritrovarsi davanti una mera illusione e che, una volta sfiorata, lei sarebbe svanita per non comparire mai più.

«Sei sveglia» mormorò con la voce rotta quando pochi centimetri li separavano. Entrambi avevano gli occhi lucidi.

Senza esitare un secondo di più, Tara gli gettò le braccia al collo, soffocando il viso nel petto muscoloso e reprimendo a stento un singhiozzo. Il ragazzo vacillò per un attimo, poi ricambiò l'abbraccio cercando di trattenere le lacrime che minacciavano di uscire.

Inutilmente.

 
~~~
 
«Ehm, sì, non vorrei intromettermi mentre fate cose, ma ci sarebbero dei simpaticoni che vorrebbero tanto tagliarci la gola. E credo che abbracciarsi teneramente non renderebbe tanto difficile il loro lavoro, eh» osservò Amalia con un sopracciglio alzato, ora vestita con un top nero e una gonna, accompagnati da varie placche metalliche su braccia, gambe e addome.

«Non sapete combattere. Sarebbe meglio per voi rifugiarvi in cabina» proferì atona Rachel. Alla cintura portava appeso un fodero di cuoio, da cui estrasse con eleganza una spada completamente nera come fatta in ossidiana.

Era la lama più fine e bella che Luke avesse mai visto. Lunga e sottile, tanto da poter infilarsi tra le scaglie di un'armatura, e affilata, in grado, probabilmente, di lacerare senza troppe difficoltà una cotta di maglia. Sotto certi aspetti ricordava la stessa Rachel: esile e oscura, fredda e mortale.

Sciolto l'abbraccio con l'amica si erano entrambi diretti senza parlare nella direzione indicata.

Oramai il ragazzo non provava neppure più a sperare di poter far ritorno alla sua vecchia vita, nella City. Non dopo quello che avevano fatto a Tara. Ma al tempo stesso aveva paura. Un conto era abbandonare la City. Un conto era combatterla.

Aveva riflettuto a proposito della cosa, ma non era venuto a capo di nulla. Se non entravano a far parte della Lega, Tara sarebbe stata condannata. Questo almeno secondo Rachel, e se non avesse visto con i suoi occhi il "Risveglio" della bionda, con tutta probabilità non avrebbe creduto a una parola della ragazza in nero. E tutt'ora sentiva di camminare in un campo minato.

Ma diventare agenti? Non era di certo una scelta meno rischiosa.

La porta si richiuse dietro di loro.

 
~~~
 
Sala comandi.

Rachel stringeva tra le dita l'elsa della lama color della notte, senza che un'emozione le attraversasse il volto. Amalia reggeva tra le braccia il suo fidato fucile come se stesse tenendo in braccio un bambino o un tenero cucciolo, e pareva immersa nei suoi pensieri. Wildebeest si assicurava che i suoi guanti neri ricoperti di affilatissime borchie, che rendevano mortale ogni suo pugno, fossero ben allacciati alle braccia.

Uno schianto violento.

«Siamo appena stati abbordati»

I tre agenti si scambiarono un'occhiata d'intesa. Da qualche parte vicino a loro udivano rumori di passi pesanti che si avvicinavano misti a grida feroci.

«Come ai tempi dell'addestramento, eh Rae?»

Una pausa. I rumori si intensificarono.

«Come ai tempi dell'addestramento, Komand'r»

E il massacro iniziò.

 
~~~
 
Luke stava seduto col capo chino sul letto della non molto grande cabina. I capelli neri come il carbone gli ricadevano davanti agli occhi in ciocche scomposte. Rivoli di sudore gli rendevano la schiena appiccicosa. Pensò distrattamente di avere il disperato bisogno di fare una doccia.

Tara era distesa a pancia sopra nel letto di fronte al suo, le mani intrecciate in grembo e le gambe sollevate in una delle sue strambe posizioni che, a detta sua, la aiutavano a rilassarsi.

La fronte era corrugata e lo sguardo celeste perso a rimirare il soffitto, probabilmente a inseguire un guizzante pensiero della sua mente fantasiosa.

In realtà il ragazzo era stupito non poco che non gli fosse stata ancora posta alcuna domanda da parte della bionda, o che comunque, a parta lo sfogo di pochissimo prima, la ragazza sembrasse tutt'altro che spaventata dai tre agenti che li avevano sequestrati, o perlomeno dalla contorta situazione in cui si trovavano.

C'erano volte in cui Luke avrebbe seriamente dato qualunque cosa pur di sapere cosa ronzasse nella testa della sua amica.

 
~~~
 
Rachel Roth.

Dove aveva già sentito quel nome? Era sicura, anzi era più che certa di averlo già udito da qualche parte nella City.
Uhm. Di cosa parlavano solitamente gli Ingegneri con cui aveva a che fare ogni giorno? Era possibile che Ainsworth le avesse raccontato qualcosa in merito nelle rare volte che le urlava addosso?

Era abbastanza sicura che nessuno degli Apprendisti portasse quel nome, anche perchè non era un nome tipico dell'Area Rifornimenti.

Bè, a ben pensarci neppure il mio è un nome tipico dell'Area da cui provengo pensò con una punta di rammarico.

Buffo come in quel momento si sentisse perfettamente calma e lucida, nonostante non avesse la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Forse era un modo del suo subconscio per distrarla e impedire che impazzisse. O forse era già impazzita.

Era immersa in questi pensieri quando lo sentì. Un odore ferroso e pungente, appartenente a qualcosa di caldo e rosso.

Un odore terribilmente invitante.

Sentì improvvisamente l'acquolina in bocca e un brontolìo provenire dal suo stomaco. Si accorse di avere fame.

Ogni emozione sparì dal suo volto. Gli occhi rimasero aperti, sgranati e freddi, spenti.

Doveva nutrirsi.

Con immane lentezza, si mise seduta. Poi ruotò la testa verso sinistra, in direzione del suo pasto.

«Luke» mormorò.

«Ho fame»















Ehi. Buonsalve.

C'è qualcuno? Se la risposta è sì: avete una pazienza invidiabile. Se la risporta è no: come avete fatto a rispondermi se non ci siete?

Telepatia?

Okay, scherzi a parte. Vi chiedo sinceramente scusa per l'immane ritardo. Non mi aspettavo di metterci così tanto, davvero. Ma vedete, per quanto mi piacerebbe non vivo su EFP. E, bè, sono piuttosto incasinata in questo periodo.

Non che io abbia poi chissà cosa da dirvi in queste note autore. Semplicemente, scusate e spero vivamente di riuscire a riprendere un certo ritmo nel pubblicare.

Cambiando argomento: che ne pensate di Terra? Non è la psicopatica da film horror di serie B più adorabile che esista?

No? Peccato.

Sembra comunque che il brutto vizio di interrompere i capitoli sul più bello non sia mutato in questi due mesi. Me ne farò una ragione. Voi probabilmente no ;).


Alla prossima gente.

Rose

 

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