Kaiserreich

di Luca29
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primavera ***
Capitolo 2: *** Libertà o Morte ***
Capitolo 3: *** Non passa lo Straniero ***
Capitolo 4: *** La Grande Offensiva ***
Capitolo 5: *** La calata dei Lanzichenecchi ***
Capitolo 6: *** La Repubblica, Il Regno, l'Impero ***
Capitolo 7: *** Contrattacco ***
Capitolo 8: *** Viva la Revoluciòn! ***
Capitolo 9: *** Esilio ***
Capitolo 10: *** Alba Bianca ***
Capitolo 11: *** Zarevna ***



Capitolo 1
*** Primavera ***


Kaiserreich
1
Primavera
St. Michel, Francia
21 Marzo 1918
 
Il cielo splendeva limpido quel giorno, il primo della primavera. La natura si risvegliava dal lungo letargo invernale: fiori, insetti, uccelli e piccoli animali uscivano allo scoperto; l’acqua dei ruscelli scorreva placida, e le foglie erano mosse dal vento. Vento che portava aroma di ciclamini, di gigli, del muschio che cresce tra le rocce, e portava cloro. Nuvole di cloro volavano basse, portate dal vento sulle trincee, scavate nel fango e nella terra, spoglia e puntellata di crateri, percorsa da filo spinato e coperta di scheletri. Nuvole di cloro, silenziose, si insinuavano nei corridoi affollati, dove i soldati tedeschi si muovevano come formiche da una parte all’altra, facendo un concerto di rantolii, gemiti, colpi di tosse e affannosi respiri. Come foglie in autunno cadevano a terra, con il volto contratto, con le mani al collo, con le maschere ancora indosso. Cominciarono a udirsi urla, voci che fendevano l’aria mortifera con ordini secchi. E i soldati si muovevano ancor più di prima, sbrigandosi a raggiungere chissà quale comandante tra quelli vivi. Le nuvole svanirono nel giro di poco tempo, liberando la tanto agognata aria pulita al vento. La vista si fece più limpida e a poco a poco le voci si acquietarono. E tra il suono dei corvi salì un ronzio, sempre più forte, che veniva dal cielo. Come falchi sulla preda, piombarono addosso a loro gli aerei nemici, lanciandosi a picchiata sulle trincee sganciando il loro carico sugli uomini. Rimbombarono i tuoni delle esplosioni, che sollevarono mucchi di terra e soldati dal suolo, facendo schizzare intorno assi, sacchi, armi, arti e busti. Da lontano, altri tuoni: Migliaia di proiettili si abbatterono sui tedeschi, distruggendo tutto ciò che era ancora illeso, uccidendo molti di coloro che erano rimasti vivi. Poi silenzio. La quiete prima della tempesta. Tempesta che tutti ormai aspettavano, ma nessuno più di lui: ritto, col petto in fuori che mostrava la croce di ferro e l’uniforme, sporca di fuliggine e polvere; lui, ritto con gli stivali neri infangati e macchiati dalla pozza di sangue su cui si ergevano; lui, con occhi stretti e penetranti, color del ghiaccio, che osservavano impassibili l’orizzonte; lui, con i capelli biondi tirati, nonostante tutto, all’indietro in perfetto ordine e con lo sguardo severo sul volto giovane; lui, Germania.

“Signore, ordini?”
Germania si voltò verso l’ufficiale che, sull’attenti, aveva parlato. Nei suoi occhi, come in quelli di tutti i soldati, si vedeva la risolutezza e la consapevolezza di star per affrontare un attacco: quattro anni di guerra in trincea avevano reso una routine questi eventi.
“Sì. Chiamate rinforzi dalle retrovie, che facciano portare anche altre munizioni, granate e mitragliatrici. Le postazioni di artiglieria?”
“Sono miracolosamente incolume, signore.”
Ludwig annuì, congedò l’ufficiale e chiamò un messaggero.
“Riferisci alla compagnia di segnalazione di prendere contatto con le basi aeree della Champagne, voglio assicurarmi appoggio dall’alto. Dai ordine di tenersi pronti al decollo in qualsiasi momento.”

Il soldato corse a riferire, e Germania tornò ad osservare la terra di nessuno. Sebbene tutti si aspettavano un attacco imminente, di tutti coloro che erano in trincea solo Germania sapeva il perché di ciò. Ed il motivo era ad Est. Russia, infatti, era uscito dai giochi con la proclamazione della presa di potere da parte di Lenin e dei suoi sostenitori comunisti, che subito firmarono un trattato a Brest-Litovsk in cui cedevano i territori fin là occupati dai tedeschi e l’Ucraina agli Imperi Centrali. Dopo poco tempo i sostenitori del precedente governo democratico e dello Zar scatenarono una guerra civile, costringendo Russia, gravemente malato, a letto1. Senza più un così grande nemico ad Est, centinaia di migliaia di uomini poterono essere dislocati da un fronte all’altro, in questo caso quello occidentale. L’Intesa quindi stava tentando il tutto per tutto per impedire che i tedeschi si rafforzassero ad Ovest, attaccando prima dell’arrivo delle truppe da Est. Ed era anche per questo motivo, che Germania era motivato più che mai a lottare: perdere significava lasciar passare migliaia di uomini nel fronte, permettendo all’Intesa di raggiungere il Reno; vincere, al contrario, voleva dire stroncare una volta per tutte le truppe Anglo-Francesi, affievolendo il fronte nemico. Questo era il punto di svolta, e Germania lo sapeva. Non passò molto tempo, e Germania udì un distante suono di grida e motori, in un inquietante crescendo. Afferrò un binocolo e osservò la terra di nessuno: all’orizzonte si vedevano le sagome dei soldati francesi muoversi verso la loro trincea, accompagnati da vari mezzi meccanizzati. Contò una decina di carri F-172 e altrettante macchine corrazzate, e questo solo nel suo raggio visivo.
“Scheiße3…” mormorò.
Corse verso il telefono da trincea e portò la cornetta all’orecchio.
“Qui il tenente Schulz, artiglieria da campo, chi parla?”
“Ludwig Beilschmidt. I francesi stanno incominciando l’offensiva, bombardate la terra di nessuno, ora!”
“Ja, herr Deustchland!4
Germania posò la cornetta e si mise in posizione, con il fucile in spalla e il binocolo in mano. Il cuore gli batteva a mille, la fronte era zuppa di sudore. Nel frattempo i soldati avevano cominciato a muoversi da tutte le parti per mettersi in posizione, facendo sporgere le canne dei fucili dai sacchi di sabbia che proteggevano la trincea. Quando i francesi furono a 500 metri dalla trincea, la terra di nessuno fu scossa dalle esplosioni dei proiettili di artiglieria tedesca: enormi zolle di terra sollevavano uomini ed armi, creando crateri dove i francesi si lanciavano per evitare il fuoco delle mitragliatrici, che già cominciavano a volare. Un carro fu colpito in pieno, liberando una nuvola di gas e fiamme tutt’intorno. Ma i francesi si avvicinavano sempre più, incuranti dello sbarramento dei cannoni nemici, e arrivarono a tiro. Iniziò uno scambio di colpi da entrambe le parti. I tedeschi, saldi nelle loro postazioni, sparavano meccanicamente, centrati di tanto in tanto dai proiettili nemici. I francesi appoggiavano le loro canne da fuoco su ogni superfice disponibile, compresi ceppi, tronchi, cadaveri, rocce, permettendo alle mitragliatrici medie di scaricare le loro raffiche sulle trincee, abbattendo più uomini possibili. Fermatosi il fuoco di sbarramento, anche i mezzi corrazzati ritornarono alla carica, arrivando a tiro e cominciando a far fuoco. Germania fu travolto dai detriti generati da un’esplosione avvenuta non lontano da lui e che aveva distrutto una mitragliatrice. Ludwig diede dei colpi di tosse, poi addrizzò il torso e appoggiò il fucile sulla spalla. Dopo che ebbe preso la mira, premette il grilletto, centrando un mitragliere nemico e subito ricaricò, per poi sparare ad un fuciliere che veniva in corsa e che cadde rovinosamente in avanti venendo scavalcato da un compagno che lanciò una granata. Questa esplose pochi metri davanti a Germania, fuori la trincea. Ludwig cadde all’indietro per l’onda d’urto, frastornato dalle esplosioni e dagli spari tutt’intorno. Quando si rialzò, vide avanzare verso di lui una macchina corrazzata che faceva fuoco con la mitragliatrice montata su di essa. Germania scese dal piedistallo, si diresse verso una cassa e prese una delle granate anticarro.
“Prendi questo regalo, mangia-rane!” Urlò lanciando la granata sotto la macchina. L’esplosione sollevò il mezzo per un metro in altezza, facendolo atterrare spezzato in due e in fiamme. Germania fece un profondo respiro, poi si voltò verso un soldato.
“Corri al telefono e dai ordine di decollo a tutti gli aerei disponibili nella regione, sia caccia che da supporto ravvicinato. Svelto!”
Il soldato cominciò a correre, saltando la gamba di un suo compagno moribondo, accasciato al suolo.
<5, e dicono sia bravo. Beh, sarà meglio per lui che sia vero, o sarò io stesso a buttarlo giù dal suo aereo…>> Pensò Germania, mentre con la coda dell’occhio vedeva un paio di soldati correre avvolti dal fuoco lanciato da un lanciafiamme nemico.
<<Per quanto assurdo mi sembri, non ho mai così tanto desiderato l’aiuto di Gilbert quanto adesso…”
 
Quartier Generale dell’Intesa, Francia
4 Giugno 1918
 
Inghilterra continuava ad andare avanti e indietro lungo la sala della villa scelta come base operativa. La sala era il salone dei ricevimenti dei padroni di casa, ed era di un raffinato stile rustico, illuminata da una grande vetrata che permetteva di vedere le colline boscose e verdi. Al centro c’era un tavolo, coperto di carte, mappe e fogli. Arthur non si dava pace, controllando ad ogni passo l’orologio e il telefono, e dopo essersi assicurato che nulla era cambiato, scuoteva il capo mormorando qualcosa. Nella sala c’era un silenzio teso, l’unico suono proveniva dai passi di Inghilterra e dallo scribacchiare del generale Pétain6, che prendeva appunti sulla situazione.
“Mon cher, dovresti sederti e rilassarti. Così ti affaticherai le gambe.” Disse Francia mentre reggeva un bicchiere di vino con una mano e si aggiustava i biondi capelli con l’altra. Inghilterra si voltò stizzito verso di lui.
“Rilassarmi? Ma certo, in fondo stiamo semplicemente aspettando i risultati della più grande offensiva della guerra, perlopiù quella decisiva!” Disse sprezzante strappando di mano il calice di vino a Francia, per poi poggiarlo sul tavolo.
“Invece di bere dovresti essere preoccupato! L’offensiva si è impantanata a St. Michel, non abbiamo superato che la prima linea di trincee a Reims, in Belgio siamo stati addirittura respinti!” Disse acido. Francia abbozzò un sorriso, accolto da uno sguardo furente dell’inglese.
“Però abbiamo ripreso Cambrai. Est-il vrai, gènèral?7” Chiese Francis a Pétain. Questo sollevò il capo e annuì, guradò Arthur e poi Francia.
“Tuttavia, monsieur Bonnefoy, monsieur Kirkland ha ragione: l’offensiva non è andata come nei piani. I nostri obbiettivi sono ancora in mano tedesca, e secondo le nostre previsioni a quest’ora avremmo dovuto essere arrivati al confine belga.”
Arthur assunse un’espressione di soddisfatto compiacimento sentendosi posto nel vero dal generale di Francia. Tuttavia Francis sembrò prendere con leggerezza le stime di Pétain. Il francese prese in mano una penna e trascinò verso di sé la mappa del fronte.
“Dunque, dov’è che avevamo subito maggiori perdite?” Chiese con tono distratto.
“Come puoi prendere con nonchalance le operazioni? Ti ricordo che è il tuo Paese ad essere sotto attacco, non il mio.”
“Arthur, io non sono superficiale. Semplicemente mi rilasso, dato che innervosirsi non serve a nulla. Dunque, mi dici dove abbiamo subito le maggiori perdite?”
Inghilterra si sedette sospirando.
“Ad Ypres, in Belgio, e a St. Michel. Sappiamo però che a St. Michel si trovi Germania in persona, dunque i soldati lì sono più motivati a combattere.”
Francia cerchiò i punti indicati, scrivendo accanto ai nomi delle località il numero di perdite accertate dall’ultimo rapporto telegrafico.
“Se solamente avessimo anche noi un Rappresentante sul fronte… Io e te siamo qui a pianificare, Australia e Nuova Zelanda si rifiutano ancora di seguire i miei ordini dopo Gallipoli8, Sud Africa è a casa, India e Pakistan sono in Medio Oriente con Scozia, Galles e Irlanda del Nord stanno affrontando quel barile di guai che è Irlanda9, Cornovaglia è a Londra… l’unico al fronte è Canada, ma pare venga notato solo dai suoi uomini… L’unica alternativa sarebbe-“
“Fermiamo l’offensiva.”
Inghilterra smise di colpo di parlare, spalancò gli occhi e la bocca guardando incredulo Francia, che nel frattempo si era alzato. Rivolse lo sguardo a Pétain, che però aveva sul volto l’aria di chi era già a conoscenza di tutto.
“W-what?”
“Hai sentito bene, Inghilterra, fermeremo l’offensiva. Io e il generale ne avevamo già discusso, e siamo arrivati alla conclusione che le perdite subite sono troppe per continuare a sostenere l’attacco.”
Inghilterra fremeva, aveva voglia di tirare un pugno al francese.
“Ti rendi conto di ciò che dici?” Chiese rosso in viso.
“Arthur, possibile che tu non capisca? La situazione è insostenibile ormai! Ci sono già stati troppi morti, e se continuassimo l’offensiva non avremmo più soldati per difenderci. Nelle mie città sta crescendo il malcontento, l’UGT10 ha già indetto uno sciopero generale e l’esercito un ammutinamento. Ed ora gli uomini da fucilare sono troppi, mentre le munizioni troppo poche. In fondo la guerra è ancora dalla nostra parte: il tuo blocco navale continua ad affamare la popolazione tedesca, le nostre forze sono in procinto di invadere l’Anatolia e portare Impero Ottomano in condizioni di resa ed abbiamo il totale controllo di Africa, Asia, America ed Oceania. Cosa può andare storto?”
Inghilterra aggredì Francia, afferrando il colletto della giacca e trascinando il volto del francese al suo.
“Cosa potrebbe andare storto? Cosa potrebbe andare storto? Da dove vuoi che cominci?” Chiese furibondo.
“Pensi che il blocco navale sia eterno? Sebbene abbia eliminato la flotta dei sottomarini di Germania, la marina è ancora disponibile anche se in riparazione11. E per di più, ora Germania ha accesso al grano, al carbone e al petrolio di Ucraina, quindi questa tattica non può funzionare. Anche se vincessimo in Anatolia, la flotta ottomana controlla il Bosforo, ed Istanbul è irraggiungibile dalle forze di terra. E vorrei farti notare che il teatro di guerra principale è l’Europa! Possiamo anche controllare il mondo intero, ma se prendono Parigi o addirittura Londra, la nostra sarà comunque una sconfitta!”
Lasciò andare Francia, ansimando dalla rabbia.
“Interrompi l’offensiva se vuoi, ma sappi che sarà una pessima decisione.”
Francia lo guardò, per niente turbato dai gesti di Arthur.
“Una decisione già presa, Angletèrre.”
Inghilterra si sedette di nuovo, e prese la tazza di tè che la cameriera aveva appena portato. Bevve un sorso e disse:
“Una condanna che hai già firmato. Peccato che sul patibolo ci finiremo noi.”

 
 
 
 
Note Finali
1: Qui faccio riferimento alla mia visione delle guerre civili in Hetalia. Secondo me, essendo le Nazioni neutrali in conflitti che vedono scontrarsi cittadini dello stesso popolo, si ammalano più o meno gravemente.
2: Gli F-17 erano carri leggeri francesi della prima guerra mondiale, i primi con torretta mobile.
3: Merda, in tedesco.
4: “Sì, signor Germania!”, in tedesco.
5: Hermann Göring, famoso gerarca nazista e comandante in capo della Lutwaffe del Terzo Reich, fu anche un pilota e capo di squadriglia di bombardieri nella Prima Guerra Mondiale. In questa linea temporale dove la Germania ne esce vincitrice, non diverrà mai un uomo di spicco in un partito inesistente, e continuerà a vivere come un rampollo della nobiltà tedesca.
6: Il Generale Philip Pétain fu comandante in capo dell’esercito francese a partire dal 1916. Nella nostra linea temporale fu un rispettato Generale che divenne poi celebre per essere presidente dello Stato di Vichy, nella Francia meridionale, fantoccio della Germania nazista.
7: “Non è vero, generale?” in francese.
8: Inghilterra si riferisce alla battaglia di Gallipoli, una disastrosa campagna militare avvenuta nella Turchia occidentale ideata da Winston Churchill, all’epoca Ministro della Marina Britannica, sebbene fosse giovanissimo. Il piano prevedeva uno sbarco nella penisola di Gallipoli, non lontano dall’antica città di Ilio, e avrebbe dovuto garantire all’Intesa il controllo dello stretto del Dardanelli e del Bosforo, guidando le armate alleate all’occupazione di Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano. Presa la città e gli stretti, i rifornimenti alleati avrebbero potuto raggiungere i porti russi del Mar Nero. Tuttavia l’offensiva, avvenuta nel 1915, si dimostrò un fallimento epocale: la flotta fu quasi completamente distrutta e un centinaio di migliaia di uomini, per lo più australiani e neo-zelandesi, morirono. Dopo quell’episodio, Churchill fu costretto a dimettersi.
9: In questo scenario l’Irlanda è in preda ad una vera e propria guerra d’indipendenza, scoppiata dopo che, come repressione a dei tafferugli a Dublino, l’esercito britannico inviato nell’isola attuò soprusi e crimini contro la popolazione. La guerra, appoggiata dai tedeschi, durerà fino al 1920 e verrà trattata nei capitoli successivi.
10: L’UGT (Union Gènèrale du Travaille, cioè Unione Generale del Lavoro.) in questo scenario è un unione dei vari sindacati francesi, che appunto scatenò scioperi e scontri nel paese, e, come vedremo, giocò un ruolo primario subito dopo la capitolazione della Francia.
11: Qui Inghilterra si riferisce agli esiti della battaglia dello Jutland, una battaglia navale tra la Royal Navy e la Kriegsmarine nelle acque del Mare del Nord, avvenuta nel 1916. La battaglia, finita in parità, costrinse la flotta tedesca, gravemente danneggiata, a lunghe riparazioni che garantirono alla Gran Bretagna il controllo dei mari.



Salve a tutti! Il mio nome è Luca29, e questa è la mia prima fanfiction che pubblico su EFP. Sebbene abbia scritto altre storie, esse sono andate perdute e quindi mi sono cimentato in quest’opera tutta nuova (Sperando vada tutto bene!). Come si può intuire dal titolo, dall’introduzione e dal capitolo stesso, questa fanfiction è in realtà una risposta alla domanda: e se gli Imperi Centrali avessero vinto la Prima Guerra Mondiale? Tuttavia questa risposta non è mia, ma dei creatori di “Kaiserreich, Legacy of the Weltkrieg”, una mod dei giochi “Hearts of Iron II: Darkest Hour” e “Hearts of Iron IV”, giochi ambientati nella seconda Guerra Mondiale che la mod (che come dice il nome, modifica un gioco) trasporta in uno scenario alternativo dove l’Intesa fu sconfitta. La Storia dietro agli eventi narrati dalla mod è gigantesca, perciò ho deciso di trascriverla in chiave… hetalica, possiamo dire. Naturalmente non potevo non far combaciare queste due cose, e perciò eccovi Kaiserreich. C’è da fare una grande premessa però perché si possa capire appieno lo scenario: gli USA non entrarono in guerra poiché l’Impero Tedesco, spaventato da un loro intervento, bloccarono la Guerra Sottomarina Indiscriminata ed evitarono così di creare un casus belli per gli americani. Senza truppe fresche, e soprattutto senza l’immenso apparato industriale americano, l’Intesa crollò. Detto questo, non rimane che salutarvi, ringraziarvi per aver letto e d’invitarvi a lasciare una recensione, per farmi sapere cosa ve ne pare (e per segnalarmi errori soprattutto!). Spero che rimarrete con me in questa avventura ucronica per scoprire come andrà a finire! E, concludendo, se vi siete annoiati, sappiate che non lo si è fatto apposta. Alla Prossima!

 

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Capitolo 2
*** Libertà o Morte ***


Libertà o Morte

Kaiserreich

2

Libertà o Morte1

 

Salonicco, Grecia

5 Luglio 1918

 

Grecia era seduto su uno degli ormeggi del lungomare, osservando le navi in lontananza che se ne andavano portando con loro i soldati che per mesi avevano difeso Salonicco dalle forze degli Imperi Centrali. Almeno fino a due giorni prima. Un gatto salì sule spalle di Grecia, accoccolandosi tra la spalla e il collo del greco. Herakles lo accarezzò un poco, continuando a pensare. Prima Serbia e Montenegro, poi Romania… ed ora lui, l’Ellade, erano stati schiacciati dai loro nemici. Persino Russia era stato costretto ad un armistizio. Sembrava che nulla potesse più fermare gli Imperi Centrali, e tutti sapevano che Francia, Inghilterra ed i fratelli Italia sarebbero stati travolti dai rinforzi nemici provenienti dall’Est. Un alito di vento mosse il ciuffo a tridente di Herakles, e dei gabbiani si librarono in volo atterrando sui vari vicino ad un vecchio pescatore che stava seduto con una lenza, ad aspettare i pesci. Le strade di Salonicco erano silenziose, la gente era rimasta in casa, e poche persone si avventuravano per cercare i pochi negozi di alimentari aperti. Dietro di lui, piazza Aristotele2 era vuota, e così diversa dalla vitalità serale che di solito l’avvolgeva. Se non fosse stato il simbolo della sua sconfitta, questa calma gli sarebbe piaciuta. Alle sue spalle iniziò un crescendo di passi scanditi, pesanti e forti, accompagnati da un urlo di un comandante. I soldati si dispiegarono intorno alla piazza, per vedere oltre le palme che la circondavano se ci fosse qualcuno o per entrare nei negozi aperti per comprare qualcosa. In fondo, dopo la resa dei Greci, loro erano in un territorio costretto all’amicizia e potevano approfittarsene per rilassarsi dai combattimenti che da anni vivevano. Due soldati si avvicinarono al vecchio, che girò il capo e li salutò togliendosi il berretto da pescatore, per poi voltarsi di nuovo verso il mare azzurro. Uno dei soldati, il più giovane, alzò la mano per salutare in un gesto involontario.

“Non ti facevo così mattiniero, Grecia. Sono solo le otto del mattino…” Disse una voce maschile alle sue spalle. Grecia fece accomodare il gatto sulla sua testa, si alzò in piedi e, lentamente, si girò verso la voce. Davanti a sé vide Bulgaria, con un sorrisino ironico sul volto e i capelli corti e corvini, e Ungheria, che invece lo guardava con aria seria attraverso i suoi grandi occhi verdi. Entrambi erano in uniforme: Bulgaria era vestito con una divisa verde dove brillavano alcune medaglie sul petto; Ungheria indossava la sua uniforme color ciano, senza medaglie e con il berretto che lasciava scoperto il suo fiore Balaton3. Insieme a loro vide Croazia, mogia e tenente gli occhi castani verso il basso, lasciando penzolare la sua treccia bionda, e Galizia4, che invece sembrava avere lo stesso tono scherzoso di Bulgaria. Herakles fissò lo slavo dagli occhi verdi e i capelli corti e castani. Era la prima volta infatti che vedeva Galizia.

“Allora, non si salutano gli amici?” chiese provocatorio Bulgaria.

“Credo che voi non siate qua per i convenevoli.” Rispose Grecia.

“Esattamente, siamo qui per portarti ad Atene. Tuttavia possiamo ancora rimanere qui a chiacchierare un po’.” Disse Sergey, sedendosi su uno degli ormeggi. Ungheria fece lo stesso, lasciando a Grecia l’ormeggio in mezzo ai due occupati.

“Perché dovrei essere scortato fino ad Atene? Non è tutto finito fra di noi?” Chiese il greco, allungando le gambe.

“No. Serve la tua firma per l’armistizio, ma tu eri qui con i tuoi uomini e non nel palazzo reale.” Rispose Ungheria.

“Ad ogni modo, ti va del caffè? Turchia mi ha insegnato come prepararlo alla sua maniera…” L’entusiasmo del bulgaro scemò vedendo lo sguardo truce che Grecia gli aveva rifilato, e bevve un sorso di caffè in silenzio.

“Se vuoi del vero caffè, devi prenderne uno greco. Seguitemi.” Herakles si alzò e si incamminò lungo la via, seguito dagli altri.

“Sai, devo complimentarmi della tua difesa, venendo qui solo la periferia è stata danneggiata dai colpi di artiglieria, nonostante un assedio di mesi. La tua difesa aereo-navale si è dimostrata efficace.”

Nonostante Bulgaria cercasse in tutti i modi di riallacciare i rapporti con il greco, quello rimaneva impassibile. Ungheria se ne accorse, e decise di cambiare discorso.

“Che bel mare… e siamo in un porto… dovremmo venire più spesso da te, come turisti.”

“Ognuno ha le proprie qualità. Tuo marito ha i monti, tu hai le pianure, io ho il mare.”

“Ma anche tu hai monti e pianure…” fece notare Galizia.

“La qualità arriva quando si fanno fruttare i doni della Natura. Io non sono riuscito a farlo con le montagne come ho fatto col mare. Siamo arrivati.”

Entrarono in un locale piuttosto semplice, con tavolini di legno in un cortiletto esterno, attorno cui si sedettero. Grecia fece portare un caffè per tutti e di nuovo cadde il silenzio. Ad un tratto il gatto che fino a quel momento era rimasto sul capo di Grecia balzò a terra e si incamminò verso Croazia, strusciandosi contro la gamba della ragazza. Theresa posò lo sguardo sorpresa, per poi allungare il braccio destro verso la testolina del felino, titubante.

“Su, accarezzalo. Si vede che ti ha preso in simpatia.” Disse Grecia. La croata eseguì e sorrise sentendo le fusa e i miagolii del gatto.

“Non abbiamo mai avuto gatti in casa, nostro padre li detesta5. E lo stesso vale per Serbia.”

“Deve essere dura combattere contro i propri fratelli. Come ci si sente?”

Croazia blocco la mano e sbarrò gli occhi, da cui poco dopo cominciarono a sgorgare lacrime. Ungheria posò il suo caffè guardando Grecia con aria di biasimo e di irritazione.

“Fiodor, accompagna Theresa a fare una passeggiata per calmarsi.” Ordinò la magiara a Galizia. Questo si alzò e fece alzare anche Croazia, che singhiozzava.

“Sai, mia nonna6 usava dire <>. Per anni ho frainteso quel messaggio, ma adesso l’ho compreso: la vita deve essere libera, senza la libertà l’uomo muore.”

Croazia voltò il capo mostrando il suo bel viso bagnato di lacrime, e Galizia si fermò, per poi riprendere il cammino a passi più svelti e arrabbiati, trascinando con sé la balcanica.

“Grazie, Grecia, ci serviva proprio una lezione di filosofia!” Sbottò Elizaveta.

“La libertà viene con la conoscenza e con l’amore della saggezza, è per questo che l’ignoranza è lo strumento dei despoti.” Ribatté il greco, con una sfumata e lieve ironia che fece sorridere anche Bulgaria.

“Austria ed io non siamo-“ Ungheria fu interrotta da un canarino giallo che le sfrecciò davanti, e da un urlo poco lontano:

“Gilbird! Ritorna alla base!”

“A rossz, hogy rosszabb ...7

La figura alta di Prussia entrò nel cortiletto con un ghigno beffardo sul volto.

“Ehi, ho visto Croazia uscire da qui piangendo. Non ci sai proprio fare con le donne, eh Grecia?”

Grecia fece un sospiro, contemporaneamente ad uno sbuffo irritato di Ungheria, e fece portare un altro caffè.

“Che ci fai qui Prussia? Non eri ad Atene?”

“Mia cara, non sei contenta di rivedermi? Sono venuto qui per far firmare le condizioni di resa al qui presente Grecia, oltre per onorare la città di Salonicco della mia Magnifica presenza ovvio!”

Ungheria si portò la tazza di caffè alla bocca per calmare la sua voglia di tirare un pugno al tedesco, che nel frattempo stava facendo bere il suo caffè a Gilbird.

“Ma noi siamo venuti qui per portare Herakles da te ad Atene, ci hai fatto fare questo viaggio per nulla?” Chiese Bulgaria.

“Beh, ho deciso di venire personalmente perché ho bisogno di partire il più presto possibile per Berlino. Io e West dobbiamo pianificare una grande offensiva contro Francia e Inghilterra. Dunque…” Prussia frugò nel taschino della sua uniforme e ne estrasse un foglio piegato più volte. Lo aprì, prese una pena da un altro taschino e porse entrambi a Grecia.

“Ecco qua! Allora, come puoi leggere tu stesso, queste sono le nostre condizioni: le Isole Ioniche passeranno al damerino e mogliastra, la Tracia e la Macedonia passeranno invece a Bulgaria. In più dovrai permettere al Magnifico Me di controllare Creta fino alla fine della guerra. Altre condizioni potrebbero essere proposte nel trattato di pace ufficiale con l’intesa. Ist das klar?8

Grecia prese la penna e firmò senza neanche leggere, stupendo Bulgaria. Non fu però notato da Prussia ed Ungheria, che stavano discutendo sulla parola "mogliastra". Prussia riportò la sua attenzione verso Grecia, sporgendosi verso di lui con il segno di una manata sulla guancia.

“Kesesese! Sapevo che eri saggio, Grecia. D’altronde non potevi far altro: le nostre truppe, mentre noi parliamo, sono in procinto di occupare Corinto.” Prussia riprese il foglio e la penna e li ripose nel taschino. Poi finì il suo caffè.

“Sai Grecia, devi sentirti fiero: hai permesso il test di una nuova tattica da me magnificamente ideata. Usare le truppe d’assalto per occupare le aree vitali di un paese mentre il grosso dell’esercito nemico è fermo in un punto. L’ho chiamata <>, Guerra Lampo… Beh, direi che Teutoberg8 è stato un successo. Ja, un vero successo.”

Detto questo si alzò, invitando gli altri a fare lo stesso.

“Si è fatto tardi. Vai a richiamare i tuoi due servetti, Ungarn9. Addio Grecia, ci rivedremo alla conferenza di pace!”

Prussia si allontanò a passo fiero e baldanzoso seguito dal suo canarino. Bulgaria salutò Herakles alzando la mano debolmente, mentre Ungheria, visibilmente infuriata, si diresse a passi svelti verso Croazia e Galizia. Grecia rimase seduto, a bere il suo caffè. Non era più un uomo libero.

 

Note:

1 Il titolo, Libertà o Morte, non è altro che il motto del Regno di Grecia all’epoca, e della repubblica greca adesso.

2 Piazza Aristotele è una vera piazza di Salonicco (ci ho messo un po’ a trovare una piazza che potesse avvicinarsi a ciò che avevo in mente, su Google Earth.)

3 Il nome del fiore che Ungheria ha tra i capelli, Balaton, è quello del lago ungherese che rappresenta. Questa informazione è ufficiale ed è stata fornita da Himaruya stesso sul suo blog.

4 La Galizia è una regione dell’Est Europa che si estende tra le attuali Polonia, Ucraina e Moldavia. All’epoca dei fatti raccontati faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico, e in questa storia giocherà un ruolo più importante di quello che ha avuto nella nostra linea temporale. Galizia è parente adottivo degli slavi, e fu cresciuto come un cuginetto da Ucraina prima e Polonia poi, prima di essere ceduto ad Austria nel 1795 con la spartizione della Confederazione Polacco-Lituana. Il suo nome, Fiodor, è piuttosto comune in Russia e negli altri paesi slavi, ed è un rimasuglio degli antichi uomini Variaghi che crearono il Rus’ di Kiev.

5 Il padre naturale di Croazia, Serbia, Bosnia, Montenegro, Slovenia e Kosovo, nonché padre adottivo di Macedonia, è Jugoslavia. Questo suo odio per i gatti non ha alcun fondamento ed è soltanto un mio headcanon del mio OC.

6 La Nonna di cui parla Herakles è Antica Grecia. E qui bisogna aprire una lunga spiegazione. Sebbene nell’opera originale ci si riferisce a lei come Mamma Grecia, tutto ciò non poteva essere accettabile in un ambito storico e culturale in cui si pone Hetalia. Nella mia visione (e sottolineo MIA per chiarire il fatto che nulla di quel che dico è ufficiale.), Antica Grecia e Nonno Roma sono marito e moglie, ed hanno due figli: Impero Romano d’Occidente ed Impero Romano d’Oriente. Quest’ultimo sarà poi conosciuto come Impero Bizantino ed avrà come figli Grecia, Macedonia (adottato da Jugoslavia), Cipro e Malta. Questa mia scelta si basa sul fatto che l’Antica Grecia e l’Impero Bizantino sono due cose completamente diverse in ogni aspetto, e dunque non potevano essere la stessa persona.

7 “Di male in peggio…” in ungherese.

8 “È chiaro?” in tedesco.

9 Ungheria, in tedesco.

Rieccomi col secondo capitolo di Kaiserreich! Un capitolo meno movimentato ma non meno importante, in cui compaiono i miei primi OC di cui avrò bisogno in quest’opera. Non avete idea di quanti ne devo creare! E per la gioia di grandi e piccini, c’è anche il Magnifico! La situazione bellica si fa sempre più problematica per l’Intesa: ora che i Balcani sono sotto occupazione, il prossimo obbiettivo sarà a noi molto vicino, anzi, vicinissimo… chi sarà mai? Beh, lo scoprirete la settimana prossima. Scusate se il capitolo è un po’ corto, ma spero che il messaggio arrivi lo stesso. Bh, non mi rimane che salutarvi, ringraziarvi, invitarvi a lasciare una recensione e a ricordarvi che, nel caso vi foste annoiati, non si è fatto apposta!

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Capitolo 3
*** Non passa lo Straniero ***


Non passa lo straniero

Kaiserreich

3

Non passa lo Straniero1

 

Trento, Impero Austro-Ungarico

1 Marzo 1919

 

La carrozza nera e lucida, trainata da due stalloni bruni, entrò in piazza Duomo, sotto lo sguardo delle persone che passeggiavano lungo le vie e di coloro che la seguivano con lo sguardo dalle finestre dei palazzi. Il cocchiere fece girare il mezzo accanto alla fontana centrale e lo fece fermare davanti al Palazzo Pretorio. Dalla carrozza scese un uomo dal viso giovane, che indossava un abito molto bello, bianco, con una fascia rossa riempita di medaglie. Sul viso un po’ appuntito, proprio sotto il lato destro della bocca, c‘era un neo, mentre dai capelli castano scuro pettinati con cura ed ordine spuntava un vistoso ciuffo, simile ad un artiglio. Dopo di lui uscì un altro giovane, più basso con occhi blu e capelli biondo cenere, vestito di una semplice uniforme blu austriaca, che aiutò una ragazza a scendere. La giovane era bella, con grandi occhi azzurri e capelli castani, tenuti lunghi fino alle spalle, dove subivano un taglio netto, ed aveva una treccia che andava da una parte all’altra del cranio, sopra la nuca. Era vestita anche lei in uniforme blu, ma al contrario del ragazzo indossava una gonna dello stesso colore, piuttosto stretta sulle gambe, che le arrivava alle ginocchia.

“Slowakei, Böhmen, beeilen Sie sich!”2

“Umpf, aspetta un attimo Austria. Non riesco a muovermi bene con questa gonna.” Disse Boemia, cercando di far più in fretta possibile con piccoli passi: di sicuro le scarpe col tacco non erano le sue preferite.

“Almeno sei elegante, Pavla, e questo è importante. Igor, dalle il braccio. Siamo già in ritardo per via di quel pastore…”

Lo slovacco eseguì, e i tre entrarono nel palazzo. Entrarono in quello che un tempo era l’ufficio del pretore di Trento, dove c’era un tavolo su cui era distesa una cartina raffigurante il Nord-Est della penisola italica. Su di essa vi era disegnata una linea lungo il fiume Piave, e vi erano tracciate una grande freccia che partiva da Trento e puntava verso Sud-Ovest, da cui partivano due frecce: una verso Milano, un'altra verso Venezia. Austria si sedette a capotavola, e ai suoi fianchi si accomodarono Boemia e Slovacchia, uno per lato, e poi via via i vari ufficiali e comandanti, tra cui spiccava il generale Radowitz, vestito simile a Roderich e avente due grandi baffi castani e due occhi piccoli dello stesso colore. Austria prese alcuni documenti e cominciò a leggerli in silenzio.

“Herr Österreich3, lasciatemi illustrare il piano.”

“Fate pure.” Rispose l’interpellato senza alzare lo sguardo dai fogli.

Il generale si schiarì la voce e iniziò a spiegare il piano offensivo.

“Come potete notare dalla mappa, la nostra sarà una tattica completamente diversa da quelle che abbiamo usato fin ora. Gli Italiani si sono barricati aldilà del Piave, e non siamo riusciti a sconfiggerli. Dunque è giunto il momento di cambiare luogo d’attacco: partiremo dal fronte trentino. Una volta sfondato questo fronte più sguarnito, seguiremo l’Adige puntando dritti su Verona e Vicenza il più velocemente possibile: se saremo abbastanza rapidi potremo accerchiare tra il 75 e il 50% dell’intero esercito italiano nella sacca che si formerà, e che includerà Venezia. Una volta sfondato da Trento, l’armata di dividerà in due: una andrà ad Ovest verso Bergamo, Brescia e, se tutto andrà bene, a Milano; l’altra armata si dirigerà ad Est per raggiungere Venezia, supportata da un attacco sul Piave che permetterebbe di assediare la città via terra.”

Il generale guardò i presenti in cerca di domande. Slovacchia alzò un braccio.

“Sì?”

“Questa operazione richiederà molte truppe, e se le spostassimo dal Piave gli Italiani potrebbero passare all’offensiva.”

Il generale sorrise con già la risposta pronta.

“Avremo uomini a sufficienza: i tedeschi ci hanno già fornito quattro divisioni di Jaëger4 Alpini, e entro una settimana molti veterani del fronte orientale arriveranno qui a Trento. Per di più, domani i nostri alleati lanceranno una grande offensiva sul fronte occidentale, e secondo le nostre previsioni l’Intesa dislocherà parecchie divisioni dall’Italia e dal Medio Oriente.”

Austria posò le carte e guardò il generale.

“Quando inizierà l’operazione?”

“L’11 di questo mese, signore.”

“Abbiamo abbastanza pezzi di artiglieria? E munizioni? Possiamo contare sul supporto aereo?”

“Ja, signore. Tuttavia il fronte aereo sarà libero solo dopo le prime vittorie: le nostre basi aeree sono troppo piccole, nascoste tra i monti, mentre gli aeroporti nella Pianura Padana sono più ampi.”

“E nel caso occupassimo Milano?” chiese Boemia.

“Allora formeremo una linea del fronte che raggiunga il Po, occupando anche Torino. Se i fratellini non si saranno già arresi, marceremo su Roma.” A rispondere fu Austria, che, prendendo una penna tracciò una linea lungo il Po e una freccia che arrivava al lembo della mappa con su scritto: “Roma”.

“Ehm, signore, non credo sarebbe una buona idea: il fronte sarebbe troppo lungo e i francesi potrebbero inviare rinforzi agli italiani. Suggerisco invece di fermare il fronte sul Ticino ed allungarlo fino alla Svizzera.”

Austria guardò il generale con moto di stizza.

“D’accordo, l’importante per me è che l’operazione sia rapida e vittoriosa, così vedrà quell’idiota di Prussia… e poi sono stufo di combattere una stupida guerra che per colpa delle ambizioni di quella ragazzina viziata quale è Serbia5 ha già causato troppi morti…”

“La vittoria sarà nostra, glielo assicuro!”

 

Campagne nei pressi di Padova, Italia

27 Aprile 1919

Come gli Spartani alle Termopili, avevano resistito tre giorni. Come gli Spartani, avevano combattuto, da soli, contro un nemico numericamente superiore valorosamente. Come gli Spartani, erano stati sbaragliati all’alba del terzo giorno. Ecco i pensieri di Australia mentre, nell’improvvisata trincea, sparava contro gli Austro-Ungarici imitato dai suoi uomini. Avevano perso il supporto dell’artiglieria ed ora erano circondati dalle truppe nemiche, tagliati fuori dai rifornimenti. Jack, col cappello legato alle spalle e con il suo perenne cerotto sul setto nasale, non poteva fare a meno di ricordare Gallipoli.

“Però questa volta non c’è Theodore6. Sia maledetto il giorno in cui ho accettato la proposta di Arthur di venire in Italia…”

Mormorato questo, si scansò di lato, afferrò una granata e la lanciò al nemico. Ma ormai era tutto inutile: i suoi soldati stavano respingendo i nemici con ogni mezzo. Aveva già visto qualcuno usare il proprio digderidoo7 come una mazza contro la testa dei soldati avversari. Continuò a sparare finché non esaurì le munizioni del fucile, quindi prese una pistola e ricominciò a scaricare colpi su colpi. All’improvviso cadde a terra travolto da un giovane uomo biondo con un curioso ciuffo all’insù. Era vestito da ufficiale e combatteva con una forza maggiore degli altri soldati8, anche se non era forte quanto lui. Australia si rialzò e lo lanciò poco lontano facendolo rotolare rovinosamente. Gli puntò la pistola contro, ancora confuso e sorpreso, ma sentì una voce femminile dietro di lui.

“Posa subito l’arma e non ti succederà nulla!”

Australia si voltò e la vide: era stupenda, con occhi grandi e azzurri come il suo mare, capelli corti del colore del legno dei suoi ranch, e il viso, più bello della barriera corallina, che aveva un’aria incattivita come l’Outback9. Fu l’ultima cosa che vide prima di svenire. Slovacchia gettò il fucile con cui aveva colpito l’australiano alla nuca e corse ad abbracciare la sorella maggiore.

“Vd’aka za zàchranu života!10

“Staccati, siamo ancora in battaglia!” Boemia cercò di liberarsi dal fratellino, arrossendo vistosamente. Poi, ordinò a due soldati di portare Australia tra i prigionieri feriti, in attesa di trasferirli a Verona, da poco catturata.

 

Venezia, Italia

11 Aprile 1919

Il palazzo dei dogi a Venezia, un tempo abitato dai potenti consoli della Serenissima, ora era occupato da ufficiali e alte cariche dell’Esercito Regio Italiano. In quella che era una magnifica sala da pranzo, il lungo tavolo era occupato da carte. Attorno ad esso, tra le molte figure che andavano e venivano, spiccavano il generale Armando Diaz e Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III. Poi, c’erano i due fratelli Vargas, Romano e Veneziano, l’Italia in persona. I quattro discutevano vicino ad una finestra che dava sui canali della perla dell’Adriatico. La notizia che gli Austro-Ungarici avessero ormai completamente circondato Venezia era stata confermata, ed un enorme guaio si stagliava all’orizzonte.

“Generale, quanti uomini abbiamo nell’area attualmente tagliata fuori?” chiese il Re.

“Il 60% delle intere forze armate è a Venezia, maestà. E questo vuol dire che la penisola è sguarnita. Abbiamo già dato ordine a tutti gli uomini capaci di mobilizzarsi ed ostacolare l’avanzata nemica, ma ormai sono alle porte di Milano. Il rischio è che, se riusciranno ad oltrepassare il Po, la Nazione sarà costretta a subire un’occupazione militare.”

Il re guardò Veneziano, che non faceva altro che rimanere in silenzio, con gli occhi ambrati riempiti di lacrime che fissavano la città.

“Veneziano, non disperare, possiamo ancora farcela.”

Italia del Nord fece un debole sorriso e annuì alle parole del monarca, mentre Romano aveva assunto una colorazione rossastra, pieno di rabbia.

“Tks, è tutta colpa di quel bastardo francese! Se non ci avesse abbandonato a quest’ora…”

“Il fratellone Francia doveva farlo, Romano, anche lui è nei guai, le forze di Germania sono arrivate quasi a Parigi.”

“Maledetto crucco! Lui scatena sempre le nostre disgrazie!”

“Ve ~, se non lo avessimo tradito-“

“Basta ora, è inutile rammaricarsi. Le nostre truppe impediranno la presa di Venezia a lungo: voi, maestà, avete il tempo di fuggire via mare dato che la nostra flotta è ancora incontrastata. E suggerisco di farlo il prima possibile.” Disse Diaz, cercando di cambiare argomento.

“Devo dare ragione al generale, Maestà: voi e la sua famiglia siete in pericolo. Se lei è d’accordo, salperemo domani a mezzogiorno diretti ad Ancona, da lì prenderemo il treno fino a Roma.” Aggiunse Lovino, che sperava di allontanarsi dal fronte. Il Re sospirò gravemente, ed annuì.

“Già, forse è meglio così…” Detto questo, fece per andarsene, per poi fermarsi all’improvviso.

“L’unica cosa che mi rincresce, è abbandonare tutti i giovani valorosi. Spero mi perdoneranno.” E se ne andò, seguito poco dopo da Diaz. Presto rimasero solo Veneziano e Romano nella sala.

“Romano?”

“Che vuoi?”

“Anche se tutto andrà male, voglio che tu mi prometta che rimarremo uniti. Io, te e Filomena11.”

“Uff, sempre sdolcinato. Lo prometto: sei contento ora?”

“Sì! Ti va della pasta? Io ho molta fame!”

 

Note

1 Il titolo è un verso del ritornello della “Canzone del Piave”, una canzone militare italiana che glorifica la difesa del fronte, che in quesa linea temporale non è stata efficace.

2 “Slovacchia, Boemia, sbrigatevi!” in tedesco.

3 “Signor Austria” in tedesco.

4 Jaëger, in tedesco, vuol dire cacciatore, ed è un nome tipico delle unità di molti paesi specializzate nei combattimenti in montagna e nelle foreste.

5 Come tutti voi saprete, Gavrilo Princip, l’uomo che uccise Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria e che diede il casus belli per lo scoppio della Grande Guerra, era un nazionalista serbo che credeva nel panslavismo meridionale, una dottrina che invoca all’unione dei popoli slavi dei Balcani in un’unica nazione. L’atto di Princip, sebbene causò la morte di 15 milioni di persone, permise la creazione della Jugoslavia, la Nazione degli slavi del Sud.

6 Theodore è il nome che ho dato a Nuova Zelanda, a cui Australia si riferisce nell’ambito dell’offensiva di Gallipoli.

7 Il digderidoo è uno strumento etnico delle popolazioni aborigene australiane, composto da un lungo e grosso tubo di legno senza fori lungo il tronco.

8 Nella mia visione di Hetalia, le nazioni sono fisicamente più forti dei normali esseri umani quando usano il loro massimo potenziale. Naturalmente, però, le nazioni non sono allo stesso livello di forza.

9 L’Outback, il deserto australiano, è uno dei luoghi più pericolosi e inospitali della terra: un estensione desertica grande come l’Europa Occidentale e piena di animali pericolosi.

10 “Grazie, mi hai salvato la vita!” in slovacco.

11 Filomena Vargas, l’Italia Centrale, è un OC di una mia amica, quindi non ne detengo i diritti.

 

Salve, rieccomi col terzo capitolo! Un po’ in ritardo, per via di Pasqua, ma l’importante è esserci. Un capitolo drammatico, l’Italia è invasa e nulla sembra fermare le armate Austro-Ungariche. Ma chi vincerà alla fine? Lo scoprirete solo tra un po’. Parlando dei personaggi, Slovacchia e Boemia (Repubblica Ceca oggi) sono stati rappresentati da Himaruya, quindi non sono OC. L’unica cosa originale è il loro nome, da me creato. Ve lo aspettavate Australia nel Veneto? Beh, forse no, ma la wiki della mod da cui prendo lo scenario scrive di una divisione australiana che per tre giorni bloccò l’avanzata nemica. Beh, per oggi è tutto gente, non mi resta altro che esortarvi a recensire, a dirmi se secondo voi funziona l’AustraliaxBoemia, e di rammentarvi che, se vi foste annoiate, non si è fatto apposta. Alla prossima!

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Capitolo 4
*** La Grande Offensiva ***


La grande offensiva

Kaiserreich

4

La Grande Offensiva

St. Mihel, Francia

2 Marzo 1919

 

Germania si sedette su una sedia di legno, posta vicino un tavolo su cui era poggiata una radio, nelle retrovie della trincea. Accanto a lui, in piedi, c’erano alcuni ufficiali. La radio emetteva solo qualche distorsione e davanti ad essa c’era un microfono. Germania sapeva già cosa doveva dire, l’aveva preparato da giorni questo discorso. Non era facile come un discorso al Reichstag1, di fronte a politici che vogliono solo sentirsi dire ciò che vogliono. Doveva parlare ai suoi soldati, quelli sopravvissuti a cinque anni di guerra in trincea. Quelli che avevano perso amici, che avevano perso affetti personali, che non vedevano l’ora di tornare a casa dalla loro famiglia, e che sapevano come poteva andare a finire. Al Kaiser aveva promesso una vittoria certa, a loro poteva solo offrire la speranza. Si avvicinò il microfono, ed iniziò.

“Soldati dell’Impero tedesco, ascoltate. Chi vi parla è Ludwig Beilschmidt, la Germania. E sto trasmettendo in trincea, qui con voi, per combattere con voi. Lo so, vi avevamo promesso un ritorno rapido nelle vostre case, addirittura prima dell’autunno del ‘142, ma come avete potuto vedere, la guerra si è protratta. Sono cinque anni che vivete nel fango, in corridoi dove la morte serpeggia ogni minuto. Questo l’ho vissuto anch’io con voi. Al contrario dei nostri nemici, Francia e Gran Bretagna, che sono rimasti nelle loro calde dimore mentre i loro uomini morivano come voi in battaglia, io e mio fratello vi siamo stati accanto. Ora, insieme a voi, ci accingiamo al più grande sforzo: l’ultimo grande attacco che porterà alla vittoria. So bene che avete sentito queste parole molte volte invano, ma stavolta vi prometto che non sarà così. Il mondo è cambiato: Russia è sconfitto, Grecia, Romania e Serbia sono capitolati.  Insieme abbiamo respinto l’attacco dell’Intesa l’anno scorso, togliendo preziose vite ai nostri nemici. Ora saremo noi ad attaccare. Siamo di più, siamo meglio armati, abbiamo più esperienza: la vittoria non può che sorriderci! Preparatevi, perché insieme marceremo su Parigi! Stavolta ve lo assicuro: tornerete a casa prima che le foglie cadano dagli alberi. Abbiate fede, e guidate alla vittoria il vostro Paese, che combatterà con voi fino alla fine! Il Kaiser e le vostre famiglie saranno fieri di voi, porterete alla Germania la gloria e il potere. E, soprattutto, porterete la pace in Europa. Questo è l’ultimo atto, ed è ora di recitarlo assieme. Non temete, Gott ist mitt uns3!”

Lungo la trincea partì un applauso seguito da urla incoraggiate. Germania si alzò e si diresse verso la linea più esterna. Arrivato, fu accolto dai soldati con aria gioiosa e tesa. Un tenente gli porse un telefono:

“Pronto?”

“Kesesese! Bravo, West, si vede che sai parlare! D’altronde, hai imparato dal migliore!”

“Umpf, saper parlare bene è un’arte Gilbert.”

“Anche saper combattere lo è. Che ne dici di fare una scommessa? Chi arriva per ultimo a Nancy dovrà offrire una birra all’altro! Grande idea eh? Beh, prepara il portafoglio Lud, il Magnifico Me avrà di sicuro molta sete! Kesesese!”

“Aspetta-“

Prussia attaccò prima che Germania potesse ribattere. Sospirò e ridette il telefono al tenente. Prese un binocolo e diede uno sguardo alle trincee nemiche. Poi si voltò verso i soldati.

“So bene ciò che provate, ma è bene mettere da parte la tensione. Non preoccupatevi della morte: sarete vivi nei miei ricordi, ognuno di voi. Ed ora, avanti!”

Fischiò con il fischietto e i soldati corse fuori dalla trincea con un urlo gigantesco, amalgamato e compatto: Für den Kaiser, für Deutschland und Gott!4

 

St. Mihel, Francia

7 Marzo 1919

 

Dopo cinque giorni di intensi combattimenti, le truppe tedesche non avevano ancora occupato la cittadina a sud di Verdun. Le tattiche utilizzate in Grecia non funzionarono altrettanto efficacemente contro le ben difese postazioni francesi, le truppe d’assalto si erano dovute fermare prima di arrivare al villaggio. Ma fin troppo tempo era stato perso secondo Germania, chinato a terra con il braccio alzato dando le spalle alla trincea. Davanti a lui vari mortai erano pronti al fuoco, ed aspettavano il suo comando. Germania diede uno sguardo all’orologio da taschino, aspettò pochi secondi, ed abbassò la mano. Con il ritmo di una mitraglia i mortai lanciarono i proiettili, che si schiantarono sulle trincee nemiche sollevando zolle di terra, equipaggiamento ed esseri umani. Con un altro segnale della mano, dopo aver afferrato una mitragliatrice, Germania ordinò alla fanteria di partire all’attacco, mentre i mortai continuavano il fuoco. Germania uscì dalla trincea correndo: davanti a sé, a soli poche decine di metri, i soldati francesi facevano capolino dalla trincea con i fucili in mano, e di tanto in tanto i colpi di mortaio esplodevano lì intorno. Un proiettile gli sfiorò la guancia, un altro gli strappò parte della manica. Germania portò la mitragliatrice sul fianco, prendendola con entrambe le mani, e cominciando a far fuoco sui soldati nemici. La raffica di colpi lo fece tremare, e si abbatté sui sacchi di sabbia, centrando qualche testa. Un soldato accanto a lui lanciò una granata contro i francesi, che si gettarono a terra per evitare la detonazione. Questo permise a Germania ed ad altri uomini di avvicinarsi ancora di più alla trincea. Una raffica di mitragliatrice fissa francese uccise alcuni uomini, tra cui quello che aveva lanciato la granata. La mitragliatrice non fece in tempo a ricaricarsi che venne avvolta dalle fiamme di un lanciafiamme tedesco. Uno dei mitraglieri corse via bruciando vivo, per poi essere abbattuto da un’altra raffica di Germania, che uccise anche altri due uomini che correvano da un corridoio della trincea. Germania ed altri soldati saltarono dentro la trincea, eliminando gli ultimi occupanti. Sopra di loro passarono una decina di aerei in formazione a V, che si lanciarono in picchiata disperdendosi per far fuoco sulle trincee nemiche. Diverse ore dopo, con il sole sullo zenit, le forze tedesche erano arrivate nella cittadina fantasma, e le ultime truppe francesi si arresero. Germania, seduto su una cassa di munizioni nella piazza centrale, osservava un ATV-75 avanzare lentamente. Troppo lentamente per i gusti di Prussia, certo, ma per Germania era fondamentale, soprattutto contro le forze motorizzate dell’Intesa. L’unico problema era la sua lentezza: era un bersaglio troppo facile per l’artiglieria e per i carri nemici, molto più tecnologicamente avanzati di quelli tedeschi. Germania si alzò, guardò l’orologio, e si incamminò verso le posizioni più avanzate. Avevano già perso troppo tempo.

 

 

 

Reims, Francia

26 Marzo 1919

 

Prussia e Germania erano davanti alla cattedrale dove, fin dal 486 d.C., tutti i re di Francia furono incoronati. La sua figura gotica si elevava verso il cielo grigio, coperto di nuvole.

“Allora, West, questa birra?”

Germania guardò il fratello sconsolato: Prussia infatti, dopo aver vinto la scommessa arrivando per primo a Nancy, ne aveva subito organizzata un’altra, con obbiettivo Reims.

“Potresti anche goderti l’arte, di tanto in tanto.”

“L’arte è per i damerini come Austria o i deboli come Francia e Italia. Siamo in guerra, l’arte è superflua. La musica che si ode sono i colpi dell’artiglieria e le sculture sono i crateri nelle strade.”

“Devi ammettere però che è magnifica.”

“Sai, sarebbe ancora più magnifica con la mia faccia sul rosone centrale. Non credi?”

“Ja, ja…”

Prussia si incamminò dando le spalle alla cattedrale, e Germania lo seguì. Entrarono in un locale ed ordinarono due boccali di birra. Germania pagò e si misero a sedere su un tavolo all’esterno, che dava sulla strada brulicante di soldati e mezzi che si dispiegavano in vari luoghi della città. Fecero un brindisi al Kaiser e bevvero un sorso.

“Comunque sia, ormai manca poco.” Disse Prussia pulendosi la bocca con la manica.

“Già, abbiamo praticamente diviso in due la difesa nemica. I francesi si sono concentrati nelle aree qui vicino, ma hanno assottigliato troppo la linea. Un attacco ben mirato sfalderà le loro difese, permettendoci di arrivare a Parigi.”

“Possibilmente senza un altro dei loro miracoli!6

“Non farmici pensare…”

Prussia ridacchiò, bevve un altro po’, e poi si piegò in avanti verso il fratello.

“Sai, anche il damerino ha iniziato l’assalto in Italia. Ha già preso Verona e Vicenza, ma una divisione australiana gli sta bloccando la strada. Che figura, kesesese!”

Germania si incupì un po’. L’entrata in guerra dei fratelli Italia non era stata prevista, o almeno, non dalla parte avversaria. Romano aveva sin da subito voluto dichiarare loro guerra, Filomena voleva la neutralità e Veneziano voleva entrare negli Imperi Centrali. Alla fine il governo scelse la proposta di Romano, anche perché Austria si era mostrato molto poco collaborativo. Germania pensava che i tre si meritassero una lezione, ma un po’ si sentiva in colpa. Avevano pure sempre formato un’alleanza7. Germania finì il boccale, e si rivolse ad un ufficiale che passava in quel momento.

“Contatta il quartier generale, e richiedi immediatamente un attacco a Chateau-Thierry, in modo tale che i francesi non possano ritirarsi sulla linea della Marna.”

L’ufficiale scattò sull’attenti e si diresse verso il quartier generale. Prussia guardò Ludwig con aria incuriosita.

“Dai già l’attacco?”

“Sì, Gilbert. Non possiamo perdere tempo. Se vinceremo ancora, Parigi sarà nostra, e questa stupida guerra finirà una volta per tutte!”

 

Note:

1 Il Reichstag è il parlamento tedesco, chiamato dal 1945 in poi Bundestag (parlamento federale)

2 Germania qui fa riferimento alla famosa frase pronunciato dal Kaiser Guglielmo II allo scoppio della guerra: “La guerra finirà prima che le foglie cadano dagli alberi.”. Le aspettative dei tedeschi di una guerra lampo fallirono miseramente.

3 Dio è con noi, in tedesco

4 Per il Kaiser, per la Germania e Dio, in tedesco.

5 L’unico carro tedesco della prima guerra mondiale, simile ad un grosso mattone metallico.

6 Prussia qui si riferisce alla prima battaglia della Marna, soprannominata Miracolo della Marna poiché miracolosamente, contro tutte le aspettative, le forze anglo-francesi riuscirono a respingere l’assalto tedesco a poco meno di 30 Km da Parigi, anche grazie ai rinforzi arrivati via taxi.

7 La Triplice Alleanza, fra Austria-Ungheria, Germania ed Italia, era un patto difensivo. L’Italia ruppe l’alleanza per vari motivi, primo fra tutti le promesse territoriali dell’Intesa.

 

Rieccomi! Ancora una volta, delle vacanze in famiglia hanno ritardato l’uscita del capitolo, ma in compenso ne ho scritto un altro fresco fresco. Spero dunque che l’attesa sia stata ripagata con questo capitolo! La situazione, come vedete, è ormai segnata. La Francia è sotto attacco, e l’Impero Tedesco ottiene vittorie su vittorie. Sappiamo già chi vincerà, ma come non ancora. Il capitolo, suddiviso in tre parti distinte, è un po’ corto, lo ammetto, ma il prossimo durerà un pochino di più. E finalmente c’è una vera scena di combattimento! Stavolta Germania attacca le trincee francesi, e la brutalità della guerra si mostra subito in tutto il suo orrore. Beh, per oggi è tutto gente! Non mi rimane che invitarvi a lasciare una recensione, ringraziarvi per la lettura, e dirvi che, se vi foste annoiati, di sicuro non si è fatto apposta. A presto!

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Capitolo 5
*** La calata dei Lanzichenecchi ***


La calata dei lanzichenecchi

Kaiserreich

5

La calata dei Lanzichenecchi

 

Venezia, Italia

5 Luglio 1919

 

Veneziano non poteva credere ai suoi occhi. Un vaporetto era saltato in aria, gettando in acqua molti soldati che tentavano un ridispiegamento, colpito dai proiettili di un cannone austriaco montato su un battello fluviale a qualche centinaio di metri di distanza. Feliciano, tremante, si appoggiò su una colonna a piazza San Marco, e rivolse i suoi occhi spiritati verso il cielo plumbeo. Essi si aprirono ancora di più: dal campanile volò giù pietosamente il tricolore, sostituito in cima dalla bandiera d’Austria-Ungheria. Era dunque questo il segno della sua capitolazione? Il Nord era perduto. Milano, Bologna e Ravenna erano cadute, e le armate nemiche erano giunte fino all’Appennino Tosco-Emiliano prima di incontrare una più decisa resistenza. Ma nel frattempo la sacca di Venezia si era ristretta sempre più, e il primo del mese, i paesini sull’immediato entroterra erano caduti. Ora però, i combattimenti erano in città. Veneziano era, come l’intero Nord Italia, l’ombra di sé stesso, persino il suo ciuffo si era afflosciato verso il basso. Tuttavia, non era arrabbiato, fondamentalmente perché non aveva con cui adirarsi. D’altronde, chi avesse avuto la responsabilità di tutto questo non lo sapeva. Serbia? Austria? Russia? Germania? Francia? E poi, cosa importava? Oramai era fatta, il dado è tratto, come diceva il nonno. Veneziano si alzò di scatto alla vista di alcuni soldati austriaci entrare nella piazza. Si accorsero di lui ed aprirono il fuoco, ma Feliciano fu incredibilmente abile e fortunato da evitare i colpi, prima di cadere a terra e sentire una raffica di mitragliatrice passargli sopra il capo.

“Presto, si alzi!”

Italia del Nord alzò lo sguardo e vide davanti a lui una gondola, su cui era montata una mitragliatrice. Il tipico gondoliere era sostituito da un soldato, ed oltre al mitragliere, altri due uomini riempivano la piccola imbarcazione. Veneziano si alzò a stenti e salì, permettendo alla gondola di allontanarsi, e si mise a sedere tra i due soldati mentre il loro compagno abbatteva i soldati nemici con i proiettili.

“Signore, i soldati sono nel caos! Avete ordini?”

“Dov’è il generale?”

“Non ne ho idea…”

Veneziano era sempre più impaurito. L’esercito era allo sbando, senza una linea di comando funzionante ed in completo stato di abbandono. All’improvviso dal cielo calò un aereo nemico in picchiata. Al grido del gondoliere gli uomini si gettarono nel canale, prima che l’ordigno sganciato dal bombardiere colpisse la gondola. L’onda d’urto portò Veneziano fino ad un ammasso di rocce che spuntavano vicino ad una strada, e che prima formavano un ponte. Lì si tirò su tossendo, zuppo d’acqua. Poi sentì la canna di una pistola premere sulla sua tempia, ed una voce familiare dire:

“Non muoverti.”

Feliciano rimase immobile, rigido, e lasciò che le sue mani fossero legate da una corda. Poi fu strattonato e costretto ad alzarsi. Quindi si voltò, per vedere chi gli avesse puntato la pistola: era un uomo della sua stessa apparente età, ma lui sapeva benissimo che era vecchio secoli. Aveva i capelli castani, scuri, lisci e che gli incorniciavano il viso. Gli occhi erano grandi e di un verde chiarissimo, come gemme. Feliciano riconobbe il suo amico, un amico che non vedeva da molti anni.

“Slovenia?”

“Già, io… mi dispiace Veneziano, ma Austria ha ordinato di condurti prigioniero da lui.” Disse mogio lo sloveno, che si avviò verso il palazzo dei dogi, e Veneziano lo seguì controvoglia trascinato da due soldati.

“Simon, lo sai com’è Roderich quando è arrabbiato, aiutami!”

“Non posso farci nulla, Veneziano. Io eseguo solamente i miei ordini.”

Feliciano pose lo sguardo a terra, sconsolato.

“Ve~… servite pasta ai prigionieri, vero?”

Slovenia quasi inciampò dallo stupore e si mise a ridere di gusto.

“Sei sempre il solito!”

“Dico sul serio, quando ho paura mi viene fame!”

“Tu hai sempre fame!”

“Anche questo è vero…”

I due risero, come ai vecchi tempi.

“Ehi, Slovenia, volevo dirti che mi dispiace. Mi dispiace che tu abbia dovuto combattere contro i tuoi fratelli.”

“Sai, Italia, quando te ne sei andato, nel 18481, ho provato un po’ di rabbia nei tuoi confronti. Insomma, mi avevi lasciato solo! Poi nel 1861 ho provato invidia. Invidia perché tu ti eri finalmente riunito con tuo fratello e tua sorella, avevi sconfitto Austria ed eri diventato importante. In quel momento giurai che mi sarei riunito con la mia famiglia, e che saremmo stati uniti sotto la nazione di nostro padre. Invece eccomi qui, a combattere l’alleato dei miei fratelli e mio padre insieme alle mie sorelle. Non devi dunque dispiacerti, sono io quello che lo deve fare, perché non ho avuto la forza di riunire la mia famiglia. Te lo dico da amico, con sincerità: sei stato sconfitto, e l’unica cosa che ti rimane è la tua famiglia. Ma purtroppo, proprio perché è l’unico avere che possiedi, te lo strapperanno. Allora ti sentirai come me, impotente ed incapace di tenere insieme ciò per cui hai combattuto. Mi dispiace.”

 

Roma, Italia

1 Agosto 1919

 

Un sottile filo di luce passava attraverso le tende montate alle finestre, e arrivava sugli occhi chiusi di Filomena Vargas. L’Italia Centrale dormiva beatamente, giacente tra le leggere lenzuola e il cuscino. Distesa supina, aveva la mano sinistra sotto il cuscino, e quella destra sopra l’addome. Il raggio luminoso la fece svegliare. Si mise a sedere, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi castani. Rimase intontita per un po’, poi si alzò dal letto, si infilò le ciabatte ed andò ad aprire la finestra, lasciandosi inondare dalla luce mattutina. Quando si abituò, osservò il limpido cielo di Roma che si estendeva sopra i tetti delle case che, oltre la Piazza del Quirinale, si ergevano sempre più in lontananza. Ma c’era qualcosa di diverso quel giorno: le strade erano vuote, non c’erano il via vai di persone e il passaggio dei mezzi che rendevano così vivace la Capitale. Filomena si chiese il perché di tutto ciò, non riuscendo a capacitarsene, finché un biplano non passò sopra la piazza. E quel biplano aveva lo stemma dell’aquila d’Austria. Filomena balzò all’indietro esclamando:

“I Crucchi! Me n’ero dimenticata! Che ore sono?”

Vide l’orologio che segnava le nove in punto. Il piano di evacuazione del Re e della regina doveva iniziare, e secondo il piano di marcia la famiglia reale, il governo, lei e suo fratello Romano sarebbero dovuti partire tra mezz’ora. Vedendo che era così tardi corse in bagno, si lavò alla ben e meglio, e si diede una veloce aggiustatina ai capelli da cui spuntava il ciuffo proprio al centro. Tornata in camera si vestì il più velocemente possibile: scarpe nere, calze bianche, gonna grigio chiara e camicetta bianca. Per quanto la Regina si sforzasse, infatti, Filomena non apprezzava vestiti eleganti e cose del genere. Sempre correndo si diresse verso la porta, ma scivolò su un pezzo di carta e cadde malamente sul pavimento marmoreo. Rialzatasi, prese il foglietto e lesse cosa c’era scritto sopra:

Cara Filomena,

Abbiamo appreso la notizia che gli Austro-Ungarici sono arrivati prima del previsto a Viterbo, pertanto abbiamo deciso di anticipare l’evacuazione verso Napoli di qualche ora. Abbiamo deciso di non svegliarti perché avremmo perso tempo abbiamo ritenuto opportuno che il Centro Italia rimanesse a Roma, come ha fatto Veneziano a Venezia.

Tanti saluti,

Romano Lovino Vargas.

 

Filomena schiacciò il foglietto nel suo pugno, digrignando i denti.

“Quel lurido stronzo! Lasciare la sua sorellina alla mercé dei nemici, che razza di fratello maggiore è? Ma giuro che gliela farò pagare, quando ci rivedremo lo riempirò di sganassoni, oh sì… lo gonfierò!” Ed uscì in piazza imprecando a mezza voce, camminando a passi svelti e decisi. Si guardò intorno: la piazza era deserta, anche i corazzieri erano fuggiti col Re. In effetti, ora che cominciava a rimuginare un poco, era uscita dal palazzo senza aver deciso cosa fare o dove andare. Era sola, a Roma, senza avere idea di cosa sarebbe successo. Fu interrotta nei suoi pensieri dall’urlo in tedesco di un soldato austriaco, che la indicava con la sua classica uniforme azzurra. Dalla scalinata comparvero un ragazzo ed una ragazza, vestiti da ufficiali, e sembravano avere la stessa età apparente2. I due si diressero verso di lei, e Filomena capì con stupore chi fossero: li aveva incontrati quelle rare volte in cui era andata a Vienna in occasioni formali (infatti solitamente preferiva conversare con Ungheria che prestare attenzione ai vari sottoposti di Austria), ma si ricordava chiaramente che erano Boemia e Slovacchia. E questo voleva dire che Austria era venuto a prenderla, almeno indirettamente. Un brivido di terrore le scosse il corpo, e un riempì le sue orecchie impedendole di sentire le parole, probabilmente rassicuranti dato il volto di Boemia, e, spaventata, cominciò a correre, lasciando di sasso i due fratelli moravi. Filomena percorse rapidamente la piazza, entrando nei giardini di Montecavallo e sbucando su via della Pilotta, per poi imboccare, sempre di corsa, via Quattro Novembre ed arrivare finalmente a Piazza Venezia, davanti all’imponente struttura del Vittoriano. Si fermò un attimo a bere da una fontanella, ridacchiando:

“Eh… eh eh… gliel’ho fatta ai due imbecilli! Filomena sei proprio un genio!” Ma il suo gongolare finì quando vide sbucare ansimanti Slovacchia e Boemia, quest’ultima indietro rispetto al fratello, poiché la gonna, stretta alle gambe, le impediva di camminare bene e le scarpe coi tacchi la facevano inciampare sui sanpietrini. Filomena impallidì, e cominciò a guardarsi intorno: notò due calesse davanti al Mausoleo e corse fino a lì, salendo su una delle carrozze.

“Lei (anf) lavora (anf)?”

“Certo, signorì! Oggi poi ce so li crucchi ch’è ‘n piacere! Sa quanti vorranno fa’ un giretto turistico?”

“Allora (anf) parta immediatamente (anf) per San Pietro, e corra il più velocemente possibile! I crucchi mi stanno alle calcagna!”

“Agli ordini signorì!”

Detto questo fece partire i due cavalli al galoppo lungo Via delle Botteghe Oscure, diretto a San Pietro. Subito dopo, Slovacchia e Boemia balzarono sul secondo calesse, quest’ultima quasi rinciampando.

“Presto, insegua quella carrozza!” Disse il ragazzo.

L’uomo si voltò, facendo segno di non aver capito. Pavla e Igor si guardarono.

“Tu lo sai l’Italiano?”

“No!”2

Proprio di lì passò un soldato che si avvicinò a loro.

“Signori, avete bisogno di aiuto? Sono di Pola, posso tradurre dal tedesco.”

La boema ripeté il loro desiderio, e l’uomo si voltò sorridendo:

“Ah, e ditelo subito! Reggeteve forte, stamo pe’ fa’ na gran corsa!”

E partì al galoppo. I due calesse erano distanziate di una decina di metri, e mantennero stabili le distanze lungo tutta via delle Botteghe Oscure, per poi ridurle a Via di Torre Argentina. Su Corso Vittorio Emanuele II, ormai correvano in parallelo, e Igor aveva afferrato il braccio di Filomena.

“Arrenditi!”

“VAFFANCULO!”

“Marco, dopo ce famo n’amatriciana?”

“Nun me va, Giusé, preferisco la gricia.”

Ad un certo punto la carrozza dei due slavi fece un’improvvisa curva per evitare un povero gruppo di soldati austro-ungarici che attraversava la strada. Facendo questo, Slovacchia mollò la presa e cadde all’interno del calesse sorretto dalla sorella maggiore. La carrozza di Filomena guadagnò spazio e la ragazza cominciò a schernire i due inseguitori. L’inseguimento continuò fino a che non apparvero le colonne di Piazza San Pietro. La carrozza di Filomena si fermò, non potendo proseguire nel territorio della Santa Sede, imitata dalla carrozza di Slovacchia e Boemia. L’Italia Centrale ricominciò a correre, evitando le scarpe che Pavla le aveva lanciato contro per liberarsi di quel fastidio, e puntò dritta alla porta della basilica. Lì davanti infatti stava dritto l’uomo su cui lei faceva sempre affidamento quando era nei guai. Non molto alto, con barba bianca e capelli canuti su cui spuntava un ciuffo ribelle all’indietro. L’abito nero, da cardinale, era elegante e severo. Non si trattava altro di Benedetto Gregorio Vargas, ovvero…

“Zio Vaticano! Aiutami, mi vogliono prelevare!” Urlò Filomena gettandosi ai piedi del rappresentante della Santa Sede.

“Chi ti vuole prelevare, Filomena?” Una delle domande retoriche di Vaticano. Sapeva benissimo infatti che le forze austro-ungariche erano entrate a Roma, e poteva immaginare che Austria volesse avere la ragazza come prigioniera a Vienna. Il vecchio posò la mano sulla testa della ragazza, che si alzò e si nascose dietro la sua schiena, osservando Slovacchia e Boemia andare verso di loro. Quando arrivarono davanti a Vaticano, i due fratelli ebbero reazioni opposte: Slovacchia fece un profondo inchino e baciò l’anello che Benedetto portava sull’anulare destro, mentre Boemia lo guardò con astio. Vaticano, che conosceva bene i motivi di tale odio3, non si trattenne dallo stuzzicare la ragazza.

“Pavla, ammiro molto la tua umiltà. Venire con i piedi scalzi dinnanzi al trono di Pietro…”

“Senti vecchiaccio o ti levi o-“

Slovacchia schiacciò il piede della sorella per farla zittire, poi guardò Vaticano in maniera gentile.

“Sua Eminenza, lei sa bene perché siamo qui. Austria ha ordinato di prendere Filomena e portarla da noi a Vienna…”

“Questa è la casa di Dio, Igor, e nessuno può profanarla con un tale gesto.”

Slovacchia trasalì. La situazione si faceva difficile. Nel frattempo Filomena stava pian piano riacquistando speranza.

“Naturalmente, Sua Eminenza, ma vede, noi abbiamo ricevuto un ordine categorico, quello di prelevare Filomena dall’Italia-“

“Questo non è l’Italia, questo è il Regno di Dio sulla Terra. Ed in quanto tale, il vostro ordine non è valido.”

Slovacchia era sempre più in difficoltà davanti il volto severo di Vaticano. Guardò la sorella, ma lei ricambiò dicendogli con i suoi occhi blu: <>

“Ma, Sua Eminenza, allora come faremo a dire ad Austria tutto ciò? Non credo che lo accetterebbe.”

Vaticano tirò fuori da dietro la schiena una pergamena, legata col sigillo papale.

“Sua Santità ha firmato la sua autorizzazione. Mostrerete questo documento ad Austria, e lui dovrà accettare. Ora andate figlioli, e che il Signore sia con voi.”

Slovacchia baciò ancora una volta l’anello di Vaticano, mentre Boemia afferrò con rabbia il rotolo, poi uscirono dal colonnato del Bernini, che rendeva le figure umane così piccole di fronte alla magnificenza della basilica, simbolo del potere di Vaticano. L’Italia Centrale abbracciò lo zio, ringraziandolo e riempendolo di baci.

“Non devi ringraziare me, Filomena, ma il Santo Padre. Questa volta ti è andata bene, ma non succederà di nuovo!”

“Sì sì, ho capito! Grazie zio! Ora vado a-“

“Ora tu mi segui dentro! Nel documento è scritto che tu rimarrai nel Palazzo Apostolico, e così farai! Ora sbrigati, tra poco inizierà la Santa Messa, e tu ci verrai. Chiaro?”

Vaticano non attese la risposta della nipote, si voltò ed entrò nella basilica, seguito poco dopo da Filomena, che borbottava qualcosa riguardo la sua famiglia.

 

Vienna, 9 Settembre 1919

Austria si stava vestendo davanti allo specchio. Aveva già indossato i pantaloni neri, la camicia bianca e gli stivali neri, e si accingeva a vestire l’uniforme bianca da alto ufficiale, tagliata da una fascia rossa adorna di medaglie. Il suo volto, serio ed affascinante, era più colorito rispetto ai tempi precedenti, ed anche il ciuffo Mariazel sembrava ergersi più in alto. I suoi occhi violetto luccicavano, finalmente, dopo anni di guerra, stress ed ansia. Bussarono alla porta, ed entrò Transilvania. Molto simile al fratello Romania, il primogenito di Dacia era più alto e ossuto, e la sua pelle, pallida perennemente, i suoi denti aguzzi, i capelli rossi lisci e lunghi fino alle spalle, ed i suoi occhi profondi e grigi; tutto di lui faceva ricordare un vampiro.

“Signor Austria, Boemia e Slovacchia sono tornati dal fronte.”

Austria lo osservò attraverso il riflesso dello specchio, unica vera prova della natura umana di Transilvania.

“E dunque, Krul, quali sono le notizie che portano? Ah, nel frattempo lucidami il bastone delle cerimonie ufficiali: tra poco ho un incontro con il ministro della difesa turco riguardo l’invio di truppe in Anatolia. Germania ne ha inviate due, ed ora pretende che anch’io aiuti Ottomano.”

Krul passò la lingua sottile sulle labbra scolorite, si sedette prendendo in mano bastone e fazzoletto e cominciò a lucidare.

“I due tornano riportando la notizia che Marsiglia è caduta due giorni fa, e che le guarnigioni nelle città italiane sono salde e non incorrono in pericoli imminenti dopo l’armistizio. Però…”

“Però? Uff, deve sempre esserci qualcosa di storto. Va avanti.”

“Dicevo-“

“A proposito, Filomena è arrivata da suo fratello a Klagenfurt?”

“Proprio di questo volevo parlarle… Filomena Vargas è rimasta a Roma…”

Austria allacciò l’ultimo bottone e si voltò lentamente verso di lui con aria irritata. Ora faceva più paura del transilvano.

“Come sarebbe?”

“L-lei è rimasta in Italia per motivi a noi estranei…”

“Cioè?”

“Lei è sotto la protezione dello zio…”

“Cioè?”

“C-cioè è sotto la protezione di Vaticano…”

“Come sarebbe?”

“Il Papa in persona ha firmato questo documento…” tirò fuori il rotolo col sigillo papale “… e sono tornati senza di lei.”

“È questo ciò che mi dovevi dire?”

Transilvania annuì terrorizzato. Austria fece una smorfia, afferrò violentemente il rotolo e lesse il contenuto in latino. Dopodiché lo gettò sulla scrivania della sua stanza e prese il bastone, battendolo a terra, o per meglio dire, sul piede del subordinato che emise un gemito di dolore.

“Umpf, non possiamo proprio fare nulla… Tuttavia posso sempre punire quei due incapaci. Di’ a loro di presentarsi questa sera nelle mie stanze, ora proprio non ho tempo. Tu guarda che bisogna fare…”

Così dicendo se ne andò, seguito da Krul, che saltellava su un piede solo, quello non dolente, verso le stanze di Boemia e Slovacchia. <>, questo è ciò che pensava Transilvania, <>

 

Note:

1 Secondo la mia visione di Hetalia, Veneziano rimase alla corte di Austria fino al 1848, quando fuggì verso il Regno di Sardegna poco prima della Prima Guerra d’Indipendenza.

2 Nella mia visione di Hetalia, ogni Nazione comunica con le altre usando la propria lingua, ed il suono di questa viene elaborata dal cervello della Nazione uditrice nella propria lingua, permettendo una comunicazione chiara. Tuttavia questo non vale altrettanto per le comunicazioni tra esseri umani e Nazioni, dato che la proprietà cerebrale di quest’ultime si attiva solo ad una certa frequenza, quella prodotta dal suono delle parole delle altre Nazioni. Naturalmente questo fatto può essere aggirato dalla conoscenza di altre lingue oltre a quella nativa.

3 Il motivo di odio qui citato è prettamente storico: La defenestrazione di Praga, che diede vita alla guerra dei Trent’anni, e il tasso di popolazione atea in Boemia (60%).

 

Salve! Rieccoci con Kaiserreich, miei fedeli lettori e lettrici. Stavolta è ufficiale, l’Italia è capitolata sotto l’offensiva Austro-Ungarica una volta per tutte, permettendo alle truppe degli Imperi Centrali di valicare le sguarnite difese alpine francesi ed occupare la Provenza. La famiglia Vargas è divisa: Veneziano a Klagenfurt prigioniero, Filomena a Roma relegata nel Vaticano e Romano a Napoli col governo e la famiglia reale. Ed è questa la terribile profezia di Slovenia… o forse no? Beh, per scoprirlo non dovrete fare altro che continuare a seguire la vicenda! Filomena, come detto nel 3 capitolo, è un OC di una mia amica, come Transilvania, mentre Vaticano è un mio OC, come Slovenia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che i personaggi siano stati di vostro gradimento. Vi lascio con una domanda: amatriciana come Marco, o gricia come Giuseppe? Personalmente io rispondo gricia, ma sono curioso di sapere da voi. Beh, per oggi è tutto! Non mi rimane che ringraziarvi, invitarvi a lasciare una recensione e ricordarvi che, se vi foste annoiati, non si è fatto apposta.

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Capitolo 6
*** La Repubblica, Il Regno, l'Impero ***


La Repubblica, Il Regno, l'Impero

Kaiserreich

6

La Repubblica, il Regno, l’Impero

Dieppe, Francia

21 Giugno 1919

Il porto di Dieppe, sulla Manica, non era mai stato così indaffarato come in quel periodo. Non era infatti uno scalo particolarmente importante né per navi mercantili né per navi militari, tantomeno per navi da crociera, che raramente navigavano lungo le coste della Normandia. La causa di un così improvviso cambiamento era la guerra, che ha l’abitudine di modificare spesso le abitudini degli uomini, nel bene e nel male. Proprio lì infatti si era radunato il quartier generale della BEF1 dopo la caduta di Amiens nelle mani teutoniche. I Tedeschi infatti erano riusciti a sfondare le linee dell’Intesa a Chateau-Therry, dividendo le truppe britanniche dall’esercito francese in rotta a Sud. I Britannici, come chiamati da un istinto innato si erano ritirati fino alla Normandia, e divenne presto chiaro che quella che era stata presentata come un’operazione di ripiegamento, non si trattava che di una ritirata verso la madrepatria oltre il Canale. Sebbene i soldati fossero felici di tornare nelle loro case dalle loro famiglie, non curanti della figuraccia che stavano per fare, questo non era il caso di due uomini lì presenti: il generale Allenby ed Arthur Kirkland, l’Inghilterra in persona. I due erano nel salone di un hotel della cittadina francese, diventato un gabinetto per il generale e gli altri ufficiali intenti a bere il tè nella maniera più britannica possibile, quasi a voler nascondere questo gesto vile con la tradizione della Madrepatria. Nessuno voleva parlare della ritirata, tantomeno Inghilterra, ed infatti la conversazione era riguardo alle pratiche di mare che ogni gentleman britannico dovrebbe conoscere. La chiacchierata di quel giorno fu bruscamente interrotta dall’arrivo di un soldato. Gli uomini lo guardarono con aria accigliata, come se la vista di quella persona gli avesse riportato alla memoria il motivo per cui erano a Dieppe da ormai alcuni giorni.

“Signori, mi dispiace interrompervi, ma il carico speciale è arrivato.”

Arthur, appena sentì queste parole, vuotò in un sorso la tazzina, la posò sul tavolino da caffè e si alzò.

“Dov’è ora?”

“Nella sua stanza, Sir Kirkland.”

“Accompagnami.”

Inghilterra uscì preceduto dal soldato, con un’espressione di disagio e riflessione. Era chiaro che non sapesse cosa dire, nonostante avesse immaginato questo discorso da tempo ormai. Arrivati davanti alla porta, Arthur bussò ed entrò nella stanza, chiudendo la porta dietro di sé e lasciando il soldato a guardia. La stanza era di un gusto molto raffinato, come l’intero hotel in stile Napoleone III2, ed arredata da mobili pregiati. Una poltrona rossa, un divanetto dello stesso colore ed un tavolino da caffè in legno e vetro. Oltre questi si intravedeva un comò in legno e due porte, una per il bagno e l’altra per la camera da letto. Ma gli occhi d’Inghilterra erano fissi sulla persona seduta sul divano davanti a lui, e tremavano dal nervosismo, oltre che dalla naturale reazione alla vista di una figura così bella: alta, pelle chiara, occhi grandi e verdi come smeraldo, capelli corti biondi tenuti da un nastrino, vestito celeste che lasciava scoperte le esili braccia e, soprattutto, un visino dai lineamenti dolci, raffinati e sorridenti.

“Spero tu abbia fatto un buon viaggio.”

“Bellissimo, l’aria dell’estate e il paesaggio l’hanno reso incantevole.” Rispose Belgio mentre invitava Inghilterra a sedersi accanto a lei. Inghilterra obbedì controvoglia, sedendosi e baciando la mano della ragazza: non si fosse mai detto che Arthur Kirkland non era un gentleman!

“Tuttavia, Arthur, mi domando perché siamo qui e non con Francia a Bordeaux.”

Inghilterra deglutì ed avvampò, e rispose mogio allontanando gli occhi dalla ragazza.

“Vedi, Belle… la situazione non è più sostenibile… il fronte è crollato, Francia è a Bordeaux e…”

“E?”

“Ed io ho convenuto col generale Allenby che sia meglio evacuare le nostre truppe in Gran Bretagna.”

Belle lo guardò con aria stupita. La bocca si piegò in una smorfia di rabbia e dolore, gli occhi si spalancarono.

“C-come sarebbe? Tu avevi promesso che mi avresti protetta!3 Ed ora te ne vai? Fuggi come un vigliacco?”

“Ascoltami, per favore… io manterrò la mia promessa, infatti verrai con me a Londra.”

“A Londra? E dovrei abbandonare il mio popolo?”

“Il tuo popolo sarà più motivato sapendo che tu sei al sicuro e lontano dai tedeschi. Devi fidarti di me, è l’unica soluzione.”

Belgio lo guardò con rabbia, il labbro tremava e gli occhi si erano inumiditi.

“L’unica soluzione? L’unica soluzione? Dimmi, ti è passata per la mente l’idea di combattere? Ah, certo che no, d’altronde la tua isola è sicura, difesa dalla marina, perché preoccuparsi degli altri? E perché combattere quando ci sono le tue colonie pronte a farlo?”

Inghilterra, irritato dalle parole della belga, con un gesto impulsivo le afferrò il braccio e la tirò a sé. La ragazza emise un urlo mentre tentava di liberarsi dalla ferrea morsa di Arthur.

“Ora ascoltami, ragazzina viziata! Comincia a trattarmi con più rispetto. Io sono l’Impero Britannico, io controllo il più grande impero mai visto, e sempre io ho deciso di combattere e di far combattere centinaia di migliaia di soldati per salvare il culo a te e alla rana! Sono morti milioni di uomini in questa guerra, hanno bombardato Londra ed Edimburgo4, sono morti civili perché io ho deciso di aiutarti. Senza di me la guerra sarebbe stata persa da un pezzo e tu saresti sotto le grinfie di Germania, esattamente come tuo fratello!5 Dunque se ti dico che non c’è più altra soluzione tu devi annuire e basta, e devi ringraziarmi baciando queste mani che hanno scavato trincee ed hanno imbracciato armi insanguinate per proteggerti, e che sempre per proteggerti hanno firmato l’ordine di evacuazione!”

Belgio ammutolì di fronte alla sfuriata dell’inglese, tutto rosso ed ansimante. Inghilterra, vedendola impietrita, si irritò ancora di più, avendo ormai perso il controllo di sé stesso, e le diede uno schiaffo, forte e violento, che fece ruotare il capo della ragazza di novanta gradi.

“Understood bitch? Kiss my fucking hands!”6

La ragazza, in lacrime, ubbidì, e dopo averlo fatto si abbandonò al pianto. Arthur, calmatosi, si alzò e si diresse verso la porta. La aprì, e senza nemmeno voltarsi, le disse:

“Si parte domani all’alba. Fatti trovare pronta.”

E chiuse la porta delicatamente, per poi uscire dall’albergo e camminare per il lungomare. Camminò per parecchio tempo, ed in quel tempo non aveva fatto altro che pensare a Belgio. Si sentiva terribilmente in colpa, e non sapeva come uscir fuori da quella situazione. Le sue domande vennero messe da parte quando, arrivato all’albergo, gli fu comunicato che un uomo lo attendeva al telefono. Alzò la cornetta, ed il suo secondo dialogo più difficile della giornata iniziò.

“Arthur? Esigo spiegazioni.”

La voce di Francia risuonò vicino all’orecchio dell’inglese.

“Non ti ci mettere anche tu, ho avuto una conversazione con Belgio e non è andata benissimo.”

“Cosa è successo?”

Inghilterra raccontò brevemente l’incontro con la belga, con aria affranta.

“Mon cher, non ci sai fare con le donne.”

“Ah, shut up!”

“Ad ogni modo, non mi hai ancora fornito spiegazioni sul perché tu sia a Dieppe.”

Arthur, che sperava di aver fatto dimenticare a Francis l’accaduto, rispose in maniera più neutrale possibile. Era inutile nascondere l’ovvio.

“Sto scappando. Domani salperemo verso Londra.”

Francis rimase in silenzio per un po’, per poi cominciare a ridere.

“Ahahaha! Arthur, il tuo humor è sempre il migliore!”

“Francia, sono serio.”

Francia smise immediatamente di ridere. Le uniche volte che lo chiamava così, era quando era serio. Molto serio.

“Hai veramente intenzione di andartene? Di lasciarmi qui da solo contro Germania e Prussia?”

“Le nostre posizioni non sono più difendibili, dobbiamo andarcene o verremo annientati!”

“Annientati? Io verrò annientato se tu te ne scappi! Insieme potremmo ancora organizzare un’offensiva per ricongiungerci a Parigi.”

“Parigi è sotto assedio, Francia! Le tue truppe sono ammutinate e la tua gente protesta. Non possiamo vincere, è finita.”

“E tu mi lasci qui, a vedere la mia Nazione sgretolarsi. Non ti senti un po’ in colpa?”

La risposta era sì, ma non ebbe il coraggio di rispondere. Sospirò invece.

“Buona fortuna, Francia.”

Arthur attaccò la cornetta, e si diresse verso la sua camera. Aveva bisogno di riposare e di pensare, come chiunque si fosse trovato nei suoi panni. Ma la sua fu una notte agitata, nella sua mente riecheggiavano i singhiozzi di Belle e la voce di rimprovero di Francia, come fossero spiriti venuti a punirlo. Si alzò alle quattro del mattino più stanco di quando era salito nel letto, così stanco da non prestare attenzione ad una fatina che gli svolazzava intorno con aria preoccupata. Salito sulla nave, vide gli uomini felici, impazienti di tornare a casa. Ma Inghilterra, per quanto provasse a desiderare la sua poltrona, la sua vita a Buckingam Palace, la sua famiglia (quest’ultima non era un pensiero così rassicurante), la sua mente rimaneva ancorata alle parole di Francis e Belle. Erano ormai la sua croce.

 

Parigi, Francia

1 Ottobre 1919

Tre figure erano appoggiate sulla ringhiera che scorre sulla cima della Torre Eiffel, osservando Parigi velata dalle nubi grigie che ricoprivano il cielo. La città sembrava spenta, vuota e morta. Tuttavia, Germania, Prussia ed il Kaiser Guglielmo II la trovavano ancor più bella del solito. Il centro della città, non toccato dai combattimenti al contrario delle banlieau7, manteneva intatto il suo fascino che da secoli ammaliava i visitatori dal mondo intero. Ma qualcosa era diverso quel giorno: dalle torri di Notre-Dame, dalla cima dell’Arco di Trionfo, dagli obelischi e dalla Torre stessa, la bandiera dell’Impero Tedesco si sollevava al fievole vento. Parigi era occupata.

“Allora, quando comincia la parata?”

“Tra poco, vostra maestà.”
“Kesesese! Non si preoccupi, sarà Magnifica! D’altronde, si rifarà a quella a cui ho partecipato nel 18718! Ti ricordi, West?”

“Ja, ricordo bene.”

Questa affermazione non fermò Prussia dal raccontare l’evento, o almeno la sua versione dei fatti. Gli storici dubitano infatti che tutte le donne di Parigi si siano messe in fila pronte al concedersi al Magnifico prussiano. Ma, tornando ai tre sulla torre, Prussia fu interrotto dal Kaiser, che aveva udito un rumore di motori in lontananza.

“Ecco! Comincia la parata!”

Facendo capolino dalla strada circondata dai palazzi, una serie di carri AT7V si mossero sull’ Avenue Bouvard. In perfetta sincronia, avanzavano sfoggiando le lucenti pareti metalliche sfoggiando la bandiera dell’Impero e la croce teutonica, simbolo di orgoglio. Dopo di loro, passarono un MkIV9 e due Schneider CA1 M1610, catturati e riparati per essere prede di guerra. Altri armamenti dell’Intesa passarono su carri trainati da cavalli bardati del tricolore imperiale tedesco. E poi, al suono della banda militare, posta proprio a lato dell’Avenue, si levò il suono secco dei soldati in marcia: passarono i reggimenti di cavalleria, con gli stalloni dal portamento fiero, con le lance in mano; passarono gli artiglieri, che spararono i bengala colorati usati per chiamare supporto; passarono la fanteria semplice e le truppe d’assalto, che si fermarono battendo i piedi e gridando: Sieg, Reich!11; passarono i reparti addetti alla guerra chimica, con le inquietanti maschere addosso; passarono i genieri, le auto meccanizzate e il battaglione polacco. Ad ogni passaggio il Kaiser mormorava “magnifico”, mentre Germania e Prussia osservavano fieri. Per finire, guidati dal celeberrimo aereo rosso12, lo stormo aereo passò liberando in cielo il tricolore imperiale, aprendo la strada ad uno zeppelin gigantesco, che oscurò la strada sottostante. Lo zeppelin si allontanò lentamente, e Parigi tornò vuota dopo quelle ore di vivacità macabra.

 

Bordeaux, Francia

4 Ottobre 1919

Il palazzo sede del comune di Bordeaux si era trasformato già da alcuni mesi nella residenza del governo francese, guidato, dopo le dimissioni di Clemenceau, da Aristide. Le dimissioni del presidente non avevano placato il caos imperante nel Paese, tormentato da disordini, proteste, scontri e violenti scioperi, tutti organizzati dall’UGT. Dopo poco tempo, gran parte dell’esercito iniziò un ammutinamento, e solo una mediazione riuscì a scongiurare che il nuovo fronte stabilito lungo la Loira diventasse sguarnito. Ma ormai era tutto perduto: il parlamento era paralizzato dall’area più estrema della sinistra, che invocava una rivoluzione come stava accadendo in Russia. Con la caduta di Parigi, Francia vedeva sempre più inevitabile lo scoppio di una rivoluzione. Seduto davanti ad una scrivania, illuminata da una lampadina che brillava in mezzo al buio di una notte senza luna, Francis teneva fra le mani il fatidico foglio che avrebbe posto fine ai suoi dolori e a quelli del suo popolo. Il foglio della resa. Lo stava osservando con gli occhi azzurri, e bellissimi quando era nelle migliori condizioni, spenti e le occhiaie nere molto visibili. Era malaticcio, tanto da non leggere più cosa c’era scritto sul foglio, ormai lo sapeva. Ciò che non riusciva ad accettare era come si fosse arrivati a tutto questo. Come aveva potuto perdere? Se Napoleone lo avesse visto in questo stato, si sarebbe vergognato di essere il suo imperatore. Tuttavia se c’era una cosa che lo mandava su tutte le furie, oltre la presa di Parigi, era la fuga di Inghilterra. Più ci pensava e più si arrabbiava, quasi a fargli venire il voltastomaco dal disgusto. Si era fidato dell’inglese, e lui se n’era svignata nel momento del bisogno preoccupato di difendere la propria intoccabile isola. Ed ora Francia era solo, con una rivoluzione alle porte. Già, una rivoluzione. Molti degli estremisti si facevano già chiamare Giacobini, e tutto ciò non faceva altro che angosciare Francia: lui non voleva una replica del Terrore12. Mise il foglio da parte sulla scrivania, si accese una sigaretta, e prese un foglio completamente bianco. Cominciò a scrivere con inaspettata energia, fermandosi di tanto in tanto per prendere una boccata di fumo. Quando finì la lettera, la mise in una busta, poi prese il documento della capitolazione e lo firmò senza nemmeno rileggerlo un’ultima volta. Fatto ciò, suonò una campanella e si alzò andando vicino alla finestra. La stanza, piccola e buia, aveva una sola finestra che dava sulla strada ed una sola porta, da cui entrò una ragazza. Era alta, sul metro e settanta circa, ed era incredibilmente bella. La pelle, leggermente scura, era in sintonia con i capelli, lunghi e bruni, le ricadevano sulla schiena sotto forma di voluttuosi boccoli. Sul viso, ovale e dai lineamenti dolci, erano incastonati due occhi celesti, luminosi e furbi e coperti da ciglia lunghe e scure. Le labbra, rosse e carnose, erano piegate in un sorriso amorevole, che sviava lo sguardo dal naso, sottile e dritto, che stonava con la sua rigidità sul viso della giovane, formosa e dalle gambe lunghe. Indossava una camicia da notte color oliva, da cui uscivano fuori le mani, affusolate, e i piedi piccoli, nascosti in delle pantofole verdi.

“Francis, mi hai chiamato?” Chiese Corsica. Francia si voltò verso la sorellina, e annuì sorridendo inconsciamente alla ragazza.

“Oui, ti ho chiamato per dirti di prendere questo.” Francis le porse il documento firmato.

“Consegnalo al presidente in mattinata.”

La ragazza prese il foglio sospirando sconsolata e si rivolse al fratello con aria di biasimo.

“Mon ami, non stai bene, non dovresti fumare. Piuttosto vieni a dormire, è molto tardi.”

“Non, rimarrò qua ancora un po’. Devo pensare… anzi, già che ci sei, portami un cognac.”

Corsica si avvicinò ad un comodino dove c’erano vari liquori, prese la bottiglia di cognac e riversò il contenuto in un bicchiere di vetro, che porse a Francia.

“Ecco, ma non andare a dormire troppo tardi, o ti sentirai troppo debole.”

La ragazza fece per andarsene, ma Francis la fermò posando la sua mano sulla spalla di lei.

“Aspetta, c’è un’altra cosa.” Le diede in mano la lettera.

“Quando scoppierà la guerra civile, in caso di sconfitta della Repubblica, organizza un referendum al più presto per far entrare la Corsica, Nizza e la Savoia in Italia. E consegna questa lettera a chi guiderà il governo in esilio.”

Corsica prese la lettera sconcertata, senza staccare gli occhi da Francis, che aveva un sorrisetto in volto oscurato dai capelli biondi.

“Cosa dici? Non ci sarà alcuna rivoluzione, la guerra è finita e-“

“Fa come ti dico. Questa è l’unica speranza della Repubblica, tradita dal Regno e sconfitta dall’Impero. Bonne nuit, mon amie.13

Corsica uscì dalla stanza un po’ inquietata, ma non diede subito molto peso alle parole del fratello, dando la colpa al suo stato di salute cagionevole. Davanti alla finestra, Francia continuava a ripetere:

“La Repubblica, tradita dal Regno e sconfitta dall’Impero.”

 

 

Note:

1 La BEF, ovvero the British Expeditionary Force, la Forza di Spedizione Britannica, era il nome dell’armata composta dalle divisioni britanniche e del Commonwealth, operante in Francia.

2 Esattamente come lo stile vittoriano, anche lo stile Napoleone III è uno stile architettonico in voga nel continente europeo intorno alla metà dell’ottocento. Entrambi gli stili sono molto raffinati ed ideati per edifici pubblici o appartenenti alla ricca borghesia o alla nobiltà.

3 Belle si riferisce al trattato di Londra, che sancì l’indipendenza del Belgio, garantita dai britannici. L’invasione del Belgio attuata dai tedeschi per il piano Schlieffen, secondo cui passando attraverso Belgio e Lussemburgo le forze tedesche sarebbero state in grado di prendere Parigi, scatenò infatti l’entrata in guerra della Gran Bretagna.

4 Inghilterra si riferisce ai bombardamenti che, tra 1915 e 1917, colpirono le principali città del Regno Unito. I bombardamenti tedeschi avvenivano grazie agli zeppelin, ma la vulnerabilità di questi contro i caccia fece diminuire lo sfruttamento di questa strategia.

5 Il fratello di Belgio è Lussemburgo, fratello minore che è un personaggio ufficiale dell’opera, in quanto ritratto da Himaruya.

6 “Capito, puttana? Bacia le mie fottute mani!”

7 Le banlieau sono le periferie francesi, molto diverse dalle normali periferie delle città europee sotto un punto di vista social-culturale.

8 A Parigi, nel 1871, fu celebrato il trionfo prussiano nella guerra Franco-Prussiana sugli Champs-Elysées. Sempre a Parigi, Guglielmo I fu proclamato primo imperatore del Secondo Reich tedesco.

9 Il MkIV (leggasi mark 4), è stato il primo carro armato della Storia. Inglese, fu utilizzato per la prima volta nel 1916 durante la battaglia della Somme, con l’intenzione di sfondare le trincee tedesche. Vennero adoperati due carri, di cui uno si impantanò subito, mentre l’altro arrivò alla prima linea di trincee, terrorizzando i soldati tedeschi. Nonostante l’utilizzo del carro, la battaglia, che durò per mesi, risultò in un sanguinosissimo pareggio costato in totale 1 milione e mezzo di vittime in totale.

10 Lo Schneider CA1 M16 era un carro pesante di produzione francese.

11 “Vinca l’Impero!” in tedesco.

12 Il Terrore fu un periodo molto sanguinoso e caotico per la Francia, che subito dopo la Rivoluzione era impegnata a difendersi dagli imperi stranieri e dal disordine interno. Durante questo periodo, che durò tra 1790 e il 1795, Robespierre, leader del partito giacobino, fu un dittatore che mandò alla ghigliottina oltre 30.000 persone.

13 “Buona notte, amica mia.” In francese.

 

 

Rieccomi! Non preoccupatevi, non sono fuggito, ma tra vari impegni non sono riuscito a pubblicare questo capitolo la scorsa settimana, decidendo dunque di avvantaggiarmi il prossimo capitolo. Beh, spero che non me ne vogliate. Parlando di questo capitolo, la Francia è caduta, ed una rivoluzione è alle porte. La guerra in Europa è ufficialmente finita, ma dovremo aspettare ancora un po’ di capitoli prima del trattato di pace definitivo, che secondo la timeline di Kaiserreich avvenne l’11 Novembre 1921. Quindi, ecco le domande di fine capitolo: cosa c’è scritto nella lettera di Francia? E a chi è indirizzata? Beh, bisognerà aspettare per scoprirlo. Detto questo, il biplano rosso è quello del celeberrimo Barone, che in realtà morì in combattimento nel 1916. Possiamo chiamarla una licenza letteraria ;). Beh, non ho altro da aggiungere, e non mi rimane che invitarvi a recensire, ringraziarvi per la lettura e ricordarvi che, se vi foste annoiati, non s’è fatto apposta.

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Capitolo 7
*** Contrattacco ***


Contrattacco

Kaiserreich

7

Contrattacco

 

Suez, Egitto

2 Febbraio 1920

 

Steso a terra, col torace e l’addome che premevano sulla calda sabbia della duna, Impero Ottomano osservava i movimenti delle truppe britanniche in un villaggio a ridosso del canale di Suez. Tra le case bianche dai tetti piatti, tipiche dell’area, si muovevano soldati indaffarati. C’era chi giocava a calcio sulla sabbia, chi puliva il suo fucile dai granelli, chi prendeva il sole, chi si faceva un bagno nel canale. Non sembravano preoccuparsi di essere in guerra e di essere la linea difensiva che doveva impedire agli Ottomani di entrare in Egitto. E non sapevano di essere osservati dai Turchi. Sadik iniziò a ridacchiare, ponendo il binocolo in una sacca lì vicino e rivolgendosi ai suoi due assistenti:

“Eh eh eh, non si aspettano un attacco. Sciocchi! Presto vedranno l’ira dell’Impero Ottomano, vero raga- Smettetela!”

Israele e Palestina erano infatti intenti a bisticciare, come al solito. I due fratelli, nipoti di Giudea, non sembravano tali: mentre Israele aveva una carnagione più chiara, Palestina era mulatto; Israele aveva tratti più marcati, ostili come il suo carattere, ed un grande naso, mentre Palestina aveva un viso più accogliente e dolce; i capelli, corvini per entrambi, erano lisci per Israele e ricci per Palestina. Tuttavia condividevano gli stessi occhi sottili e color pece, oltre che la testardaggine. Dopo aver diviso i due, Ottomano si sedette su una roccia, pronto a spiegare il suo piano ai due. Israele e Palestina lo guardarono attenti.

“Da quanto rilevato dai nostri infiltrati, in quel villaggio ci sono Scozia e i fratelli indiani, dunque è logico pensare che si tratti di un quartier generale. Tuttavia credo si tratti di una situazione momentanea, e che i Britannici lasceranno presto il villaggio per barricarsi oltre il canale.”

“Dunque, cosa hai pianificato?” Chiese Palestina.

“Ti rispondo subito, Ilias. Attaccheremo, impedendo al reggimento qui stanziato di oltrepassare il canale e catturando Scozia e i suoi. Nel frattempo attaccheremo anche in altri punti. L’assalto sarà preceduto dall’artiglieria, e avremo il supporto di mezzi tedeschi.”

“Sicuro che funzionerà?” Chiese scettico Israele.

“Ovvio, David! Cosa potrebbe andare storto?”

“Beh, dicesti lo stesso a Damasco. Ricordi?”

Turchia strabuzzò gli occhi coperti dalla maschera, e rimase immobile, ricordando la catastrofe che Israele aveva richiamato alla memoria.

 

Damasco, Impero Ottomano

15 Agosto 1918

Scozia camminava tra le vie di Damasco da qualche ora a questa parte ormai, non riuscendo ad orientarsi tra le vie della città, danneggiata dai combattimenti ma ormai in mani britanniche. Camminò a ridosso di un muro decorato in cima da merli, finché non arrivò in una piazza. Lì vide dei soldati, tra cui India che si ergeva alto e col suo turbante, trascinare due prigionieri legati verso il centro della piazza, coperto d’ombra nonostante il sole del tramonto. Scozia alzò lo sguardo e vide l’origine dell’oscurità: il grande minareto della Grande Moschea di Damasco, che si ergeva verso l’alto fiero e magnifico. Kenneth si avvicinò al gruppetto e si fermò davanti ai prigionieri, inginocchiati. Si accese la pipa, tirò una boccata di fumo, e iniziò l’interrogatorio:

“Bene bene, chi abbiamo qui?”

“Israele e Palestina in persona, Mr Kirkland!” Rispose India, col volto soddisfatto coperto di polvere, ma in cui risaltavano i lucenti occhi castani.

“Ed Impero Ottomano?”

“Non pervenuto.”

“Più che altro, s’è dato…” Disse Israele d’un tratto. Scozia lo guardò curioso, e si chinò in avanti.

“Dici?”
“Ovvio, quel mangia-kebab sarà certamente in rotta verso Istanbul…”

“Non dire così di Sadik, non è rispettoso!” Disse Palestina con aria di rimprovero. Israele non esitò a controbattere, ed ecco che i due tornarono a discutere.

“Fanno così spesso?” Chiese Kenneth.

“Non la smettono da quando li abbiamo presi.” Rispose India sconsolato “Ogni volta finiscono di parlare male della religione dell’altro.”

“Beh, anche se Ilias è un cretino, almeno non è un politeista come te!” Gli urlò di rimando Israele, facendo infuriare Muhandas. Fu così che divennero tre le persone a discutere un po’ troppo animatamente davanti alla moschea. Scozia, innervosito dalla confusione da cui di tanto in tanto usciva fuori qualche frase come << Non preoccuparti, Allah è talmente misericordioso che ti permetterà di avere vergini in paradiso anche col pene tagliato!m1 >> e << Neanche tutte le mani di Śiva2 potrebbero contenere tutte le cazzate del Corano >> e << Javeh fulminali! >>, diede una ginocchiata a testa per i due fratelli e un ceffone ad India, cosa che li fece ammutolire.

“Cavolo, tacete! India, ti divido da tuo fratello Pakistan e riesci comunque a litigare con i musulmani! A proposito, a che punto è?”

“Che male… lui è a Baghdad…”

“Ottimo. Voi, prendete questi due e portateli dal generale Allenby3. Tu, Muhandas, seguimi.”

Gli uomini eseguirono, lasciando dietro di sé India e Scozia. I due, rimasti soli sotto l’ombra del minareto, ascoltavano il silenzio che li circondava, e che li innervosiva. Kenneth, incapace di sopportarlo ancora, avviò la discussione:

“Certo che questa città è grande, la sua conquista sarà stata una dura mazzata per gli Ottomani!”

“Concordo, almeno quanto l’aver perduto il 60% del loro esercito.”

“Dunque Pakistan è a Baghdad… e Arabia?”

“Ah, non lo so. Sarà in mezzo al deserto, in fondo è lì che opera.”

Scozia, annuì, esalando una nuvoletta di fumo.

“Beh, non vedo l’ora di arrivare ad Istanbul… così il mio caro fratellino smetterà di rompere le palle sulla mia inattività. Tks, io inattivo… ridicolo!”

India sorrise.

“Mr. Arthur di sicuro si preoccupa per la guerra.”

“No, si preoccupa di urtarmi i nervi. Dovrei fare come Irlanda… bah, non voglio pensarci. Ho sete, in questo posto fa troppo caldo. Andiamo a berci un bel whiskey!”

Così i due lasciarono la piazza della Grande Moschea, camminando sotto il sole rosso del tramonto siriano, tinto dal sangue e dal fuoco della guerra.

Suez, Egitto

2 Febbraio 1920

“Sadik? Sadik? Ci sei?”

“Complimenti, David, ora Turchia è paralizzato!”

“Che ne sapevo io? Non mi aspettavo una tale reazione!”

Sadik era rimasto immobile da almeno cinque minuti buoni, ed i due fratelli si stavano cominciando a preoccupare. Palestina andò a prendere un secchio pieno d’acqua, pronto per lanciarlo addosso al turco nella speranza che si risvegliasse da questa sua trance. E funzionò. Tuttavia, non fu un risveglio felice.

“Cosa state facendo, idioti? Ora sono zuppo come un pulcino!”

Sadik si alzò irato e prese per le orecchie sia Palestina che Israele, che cominciarono a dimenarsi.

“E-eri andato in trance, quindi abbiamo pensato di svegliarti…”

“Non è stata una mia idea, lo giuro sul mio candelabro!”

Sadik sospirò, lasciando cadere i due sulla sabbia. Dopodiché, si diresse verso la postazione di artiglieria di quell’altura. Sotto un capanno di tela, in modo tale che il sole non rendesse incandescente il ferro dei cannoni, le bocche di fuoco ottomane erano curate dai soldati turchi, in uniforme beige a strisce rosse. Alla vista del trio, i soldati scattarono sull’attenti, pronti a ricevere ordini. Turchia osservò l’orologio del suo taschino: era mezzogiorno.

“Soldati, tra un’ora voglio che iniziate un bombardamento di quelli che solo l’Impero Ottomano sa fare! Bersagliateli di proiettili e fateli crollare come le mura di Kostantinyye4. Questo è tutto, che non manchiate un solo colpo, ne va della nostra vittoria.”

Detto questo si dileguò velocemente, seguito dai due fratelli, in direzione della seguente postazione. L’ordine era sempre quello, far rombare le bombarde ottomane, terrore dell’Occidente, ancora una volta.

 

Suez, Egitto

2 febbraio 1920

Ore 16:05

Scozia era irritato. Irritato dal caldo, dalla sabbia, e dall’assalto in corso. Aveva sperato di riuscire a rilassarsi, ma così non fu, ed ora si ritrovava in una casa del villaggio a spalancare finestre per permettere ai soldati di sparare contro in nemici. Ogni volta che ne apriva una, l’odore acre della polvere da sparo si insinuava nelle narici, e il caldo delle fiamme si addizionava a quello naturale del sole, basso nel cielo. Aperta l’ultima, puntò il fucile al di fuori di essa, sparando a vista. In tutto il villaggio, mezzo distrutto dalla raffica di artiglieria, vagavano proiettili e spuntavano piccole nubi di polvere, fumo e gas, che i soldati attraversavano con le maschere sul volto. Esaurito il caricatore, Scozia si spostò con le spalle al muro per ricaricare. Prima che potesse tornare alla finestra, tuttavia, fu chiamato da un soldato, terrorizzato. Scozia si affacciò alla finestra e non poté altro che esclamare:

“Bloody hell…”

Bisogna sapere che vicino a quel villaggio passava un tratto della ferrovia che collegava Gerusalemme al Cairo, e difatti c’era un ponte levatoio sul canale, adibito al transito ferroviario. I soldati del Commonwealth non a caso erano stati posti a guardia di quel ponte: il piano era quello di farlo detonare, e per questo le truppe erano state ordinate di difendere il ponte fino a che il lavoro dei genieri non fosse stato ultimato. Ma proprio questa ferrovia si stava rilevando mortale per l’esercito Britannico. Ciò che aveva inquietato Scozia era un lungo e minaccioso treno corrazzato, con tre grandi torrette d’acciaio dotate di imponenti bocche di fuoco. Ed erano puntate su di loro. Con un tuono i tre cannoni spararono i loro giganteschi proiettili, che fenderono l’aria ad una velocità pazzesca, prima di abbattersi sulla casa. L’edificio saltò in aria, generando un’ondata di fiamme, detriti, e resti umani. Scozia fu lanciato a terra con violenza, e rotolò sulla terra arida ed intrisa di sangue. L’essere una Nazione permise a Kenneth di sopravvivere al volo e alla caduta, tuttavia non lo salvò dalle ustioni, dalla slogatura del braccio sinistro e da varie ferite sugli arti e sull’addome. Si rialzò a fatica, tenendo il braccio dolorante a penzolare lungo il busto, mentre con l’arto sano afferrò un fucile caduto accanto a lui. Si poggiò ad un muretto poco più avanti, con le orecchie ancora ovattate con cui difficilmente percepiva i suoni, e gli occhi offuscati dalla polvere, e prese una boccata di ossigeno. Ad un certo punto, voltata la testa verso un rumore lì vicino, notò un soldato che era con lui nell’edificio, ormai reso un cumulo di macerie, uscire sporco di polvere da un cumulo di stoffe e detriti. Il soldato notò Scozia e si avvicinò a lui di corsa, inginocchiandosi davanti al muretto, e spiegando al suo superiore come fosse sopravvissuto, scaraventato dall’onda d’urto contro delle tele di una casa. Subito dopo sopraggiunsero India e Pakistan, quest’ultimo portando con sé una pesante mitragliatrice, nera come i suoi capelli, corti e neri. Gli occhi castani del musulmano erano rivolti verso le dune in lontananza, scrutando il nemico. Nel frattempo, India si stava preoccupando di Scozia.

“Mr. Kirkland, sta bene?”

Quello tossì prima di rispondere.

“Sì, sì… non preoccuparti, ne ho vissute di battaglie peggiori…”

“Ehm, ragazzi, credo che abbiamo un problema…” disse ad un tratto Pakistan, con voce preoccupata.

“Che c’è, Hamal?”

Il pakistano di rimando indicò la cima di una duna, dove si stavano radunando moltissimi soldati turchi, con i fucili e le baionette puntate a mo’ di lancia. Non erano soli, infatti arrivarono anche dei cavalieri e delle macchine corrazzate di modello tedesco. Alla loro testa si ergeva una figura particolare, alta, vestita con pantaloni rossi e giacca verde. In mano teneva una sciabola che brillava al sole della sera, e il vento sollevava la sciarpa bianca. Scozia ringhiò, riconoscendo la figura: era l’Impero Ottomano.

 

Sadik aveva scorto i quattro uomini dietro il muretto, e li stava esaminando. Sul suo volto nacque un ghigno appena vide i capelli rossi di Scozia: poteva finalmente vendicare la sconfitta di Damasco. Si voltò a scrutare le altre alture: dalla parte opposta del villaggio vide un’altra parte della sua armata, guidata da Palestina, mentre vicino al treno, chiamato a rinforzo, Israele guidava il resto degli uomini. L’attacco finale stava per essere compiuto, e lo si notava dall’aria tesa, piena di tensione, che rivestiva la zona. Il rumore del vento che soffiava fra le palme rompeva un silenzio tombale. Nel frattempo anche i britannici avevano cominciato a radunarsi, creando un quadrato a protezione del ponte, tra sacchi di sabbia e barricate di mobili, oltre che postazioni sui tetti. L’unico loro mezzo corrazzato era un MkIV. A rompere il silenzio fu l’arrivo di alcuni areoplani britannici, che facendo fuoco sulle postazioni ottomane sul lato di Israele, scompigliarono le truppe di David. L’MkIV decise di caricare in quel punto, facendo fuoco e costringendo in molti a ritirarsi oltre la duna, mentre alcuni biplani venivano abbattuti dalle contraeree turche: il carro avanzò spavaldo sempre più, finché non fu ridotto in polvere dai colpi del treno, che nel frattempo aveva ricaricato i giganteschi proiettili. L’entusiasmo degli Inglesi scemò, e quando anche l’ultimo aereo precipitò al suolo, tornò il silenzio. E così da dietro la duna spuntarono fuori i soldati di David, che caricarono avidi di vendetta le postazioni britanniche, seguiti dalle truppe comandate da Palestina. Impero Ottomano non poté far altro che dare il segnale di attacco, e con lui scesero centinaia di uomini, in una gigantesca carica di baionette. Le truppe di Scozia non restarono con le mani in mano mentre venivano attaccate, e i soldati risposero sparando con fucili e mitragliatrici. La pioggia di proiettili sfiorò Sadik mentre correva, e si abbatté sui corpi dei soldati anatolici, che caddero a decine. Ma non bastò: i Turchi erano troppi, e scaturì un’immensa battaglia corpo a corpo. Sadik per primo si scagliò nella mischia: con un salto acrobatico abbatté la sua lama contro un inglese, fendendolo in petto, per poi evitare il calcio di un altro nemico. Nemico che finì a terra, sbilanciato dal turco che poi lo finì squarciandogli lo stomaco. Non fece in tempo ad estrarre la sua sciabola che vide di fronte a lui un altro soldato caricare puntandogli contro la baionetta: Turchia afferrò quindi l’arma con un forte strattone, usò il calcio del fucile come clava sulla testa del soldato ed infine infilzò la baionetta nel torace dell’avversario. Estrasse poi il fucile e lo usò come un giavellotto, centrando un nemico sopra un tetto. Era da tempo che non gli capitava di combattere in questa maniera, e in mente tornarono i ricordi della sua epoca d’oro, della battaglia di Varna5, e quasi non si curò del rumore dello scoppio delle granate e dei fucili intorno a lui, circondato da cadaveri e polvere, come assorto in questa trance risvegliata dal sangue. A riportare il turco sulla Terra fu il dissiparsi del fumo di una granata, che espose Scozia, ferito ma che continuava a combattere strenuamente e con fierezza. Sadik si diresse a passo deciso verso di lui, pronto ad affrontare il suo rivale in quella guerra così terribile. Anche Kenneth lo notò, e anche lui si avvicinò a Turchia. Tra i due sfidanti, si aprirono le truppe intorno a loro, per assistere ad un duello per niente inferiore a quelli letti, da chi sapeva leggere, a scuola nei poemi antichi.

“Scozia, non hai una bella cera! Stanco?”

“Tks, mai stato meglio! E tu invece, con la sciarpa nel deserto, devi essere impazzito…”

“Sempre meglio della gonnellina.”

Kenneth digrignò la mandibola, ferito nel profondo da quell’affermazione contro il suo amatissimo kilt. Fece dunque un passo avanti, cercando di ergere la sua statura e la sua massa fisica, più robusta di quella di Sadik.

“Finirai trapassato da una lama come il tuo amato kebab, Malato d’Europa6!”

“Io sono l’erede degli Unni7! Comincia a pregare, perché al contrario di Allah io non sarò misericordioso!”

Detto questo, Turchia sferrò il primo colpo, con un affondo diretto verso l’ampio petto dello scozzese, il quale tuttavia schivò il fendente e contraccambiò menando il fucile contro l’avversario. Sadik, agilmente, parò la mazzata e con un calcio allontanò Scozia, sperando di destabilizzarlo. Kenneth fu invece pronto e accorto, e rimase saldamente con i piedi ancorati. Con uno scintillio negli occhi blu, afferrò la sciarpa di Ottomano, e lo tirò a sé pronto a trapassarlo con la baionetta. La reazione di Sadik fu tuttavia pronta, e con un veloce colpo di mano fendette l’aria a pochi millimetri dal naso di Scozia, tagliando nel suo tragitto un ciuffo di capelli rossi. Ormai in vantaggio Turchia calò una serie di colpi uno dietro l’altro, approfittando della stanchezza e delle ferite di Kenneth. Ma questa concentrazione gli fu fatale: non notò infatti l’arrivo nel canale di un ospite indesiderato, lungo 20 metri e pesante migliaia di tonnellate: una corrazzata britannica era giunta in soccorso. Ed infatti ad annunciarla fu un boato terribile, che fece tremare la terra. I cannoni della nave avevano sparato, colpendo il treno Ottomano che saltò in aria. Accortosi del mostro d’acciaio appena arrivato, Sadik osservò i vari pezzi d’artiglieria navale far fuoco contro le sue truppe, che fuggirono terrorizzate. Dando un ultimo sguardo sprezzante a Scozia, si allontanò anche lui oltre le dune.

 

Suez, Egitto

2 Febbraio 1920

Ore 19:00

Scozia era seduto su un carro, dall’altra parte del canale, mentre veniva medicato dai medici della nave. India e Pakistan si stavano curando del trasporto di armi, feriti ed oggetti oltre il ponte, che da lì a pochi minuti sarebbe saltato in aria. Il cielo era già blu, la notte era calata presto in quel caldo giorno d’inverno, e faceva sempre più freddo. Si avvicinò a lui un ragazzo mulatto, che indossava un vestito tradizionale arabo ed un turbante bianco. Sul viso erano incastonati due smeraldi, che brillavano alla luce delle lampade e dei fuochi.

“Allora, Gupta, a quanto pare sono in debito con te…”

Egitto si sedette sul carro accanto a Scozia, poggiandosi anche col bastone.

“Erano solo ordini del quartier generale. Anche se qualcosa potrei pur chiedertelo.”

“Dimmi pure allo- ahia! Fa’ piano!”

Kenneth si rivolse ad una giovane infermiera, probabilmente alla sua prima esperienza, e visibilmente traumatizzata dalla vista di quell’orrore che è la guerra.

“M-mi scusi, fa un po’ male ma serve per disinfettare la ferita al braccio...”

Lo scozzese sbuffò lasciandola proseguire con le medicazioni, per dedicarsi ad Egitto.

“Dicevi?”

“Beh, che forse una volta ripagherai il debito. Non ora, però.”

“Bah, contento tu…”

Sistemata la questione, Scozia si accese la pipa e cominciò a fumare. Cerchietti di fumo volavano nel cielo diradandosi. Si voltò verso Gupta, che lo osservava attentamente. Si creò un silenzio imbarazzante, finché Egitto non si decise a parlare:

“Com’è stato combattere con Turchia?”

Scozia si stupì.

“Non so… come sempre direi…”

“E come ti senti di solito?”

“Cos’è un interrogatorio? Non hai mai combattuto, tu?”

Egitto sorrise, scosse la testa, rimase in silenzio. Dopo un paio di minuti rispose:

“Forse anche troppo.”

Appena finì la frase, il ponte fu fatto esplodere: un enorme bagliore scaturì, insieme ad un boato tremendo. Dopo l’esplosione, tornò la quiete. Avevano vinto loro, stavolta. Non sapevano, ma potevano benissimo immaginarlo, che questo sarebbe stato l’ultimo successo in una guerra persa.

 

Note:

1 Qui Ilias non manca di fare una battuta sulla pratica religiosa ebraica di tagliare il prepuzio del pene ai bambini, citando anche la concezione islamica del paradiso, dove Allah garantirebbe vergini ai meritevoli.

2 Śiva è una divinità indù dalle molteplici braccia.

3 Il generale Allenby, che abbiamo visto nello scorso capitolo in Normandia, all’inizio era operativo in Medio Oriente. Fu dislocato insieme a molti uomini sul fronte Occidentale nel disperato tentativo di fermare i Tedeschi. Il tentativo fallì, e la mossa costrinse i Britannici a ritirarsi e fortificarsi oltre il canale di Suez, restituendo agli Ottomani tutti i territori conquistati.

4 Kostantinyye è il nome in turco per Costantinopoli, e così infatti sarà chiamata la città fino al 1922, anno della fondazione della Repubblica Turca, quando, spostata la capitale ad Ankara, la città fu chiamata Istanbul.

5 La battaglia di Varna, città della Bulgaria che si affaccia sul Mar Nero, fu combattuta il 10 Novembre del 1444. All’epoca una crociata era stata indetta contro gli Ottomani guidati da Murad I, crociata a cui risposero Ungheria, Polonia, Lituania e Boemia, oltre che Serbia e Bosnia. La campagna fu una catastrofe per i cristiani: il re di Polonia, Ungheria e Boemia fu ucciso, lasciando i tre Paesi in un vuoto politico, mentre la Serbia perse la Macedonia.

6 L’Impero Ottomano era spesso chiamato il Malato d’Europa, poiché era un impero ormai in declino e decadente, prossimo alla caduta.

7 I Turchi sono discendenti degli Unni. Sono infatti un’etnia molto grande, divisa in vari popoli, che si estende dalla Turchia, all’Azerbaijan all’Asia Centrale, e sono imparentati anche con Mongoli, popolazioni delle steppe siberiane, Ungheresi, Estoni e Finlandesi.

 

 

Salve gente! Come va? Spero meglio dei nostri eroi che combattono sotto il sole del deserto. Ad ogni modo, ecco il nuovo capitolo. Uno di più lunghi. Come vedete, si è cambiato fronte, un fronte importante ma sconosciuto ai più, ed è per questo che è ancora più interessante. Fanno la comparsa molti personaggi: Scozia, Turchia, Israele, Palestina, India, Pakistan ed Egitto! Di questi, Scozia è un OC di una mia amica, India è ufficiale, Pakistan un mio OC. Spero vi piacciano, perché ne leggeremo ancora ne vicende. Che dire, un capitolo con riferimenti religiosi, quindi ci tengo a precisare la mia neutralità (sono ateo infatti) e il fato che le battute vanno lette in chiave umoristica, e senza offesa. Se vi sentirete offesi, vogliate perdonarmi. Bene, non ho altro da aggiungere, tranne il fatto che il prossimo capitolo sarà piuttosto tranquillo e di passaggio, oltre che breve. Tuttavia, avrà un suo grande perché. Non mi rimane dunque che ringraziarvi, di invitarvi a lasciare una recensione e ricordarvi che, se vi foste annoiati, non s’è fatto apposta. Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Viva la Revoluciòn! ***


Viva la Revoluciòn!

Kaiserreich

8

Viva la Revoluciòn!

 

Città del Messico, Messico

21 Maggio 1920

Nel palazzo presidenziale del Messico si stava svolgendo l’incontro più importante dell’ultimo decennio per il Paese latino. In una sala infatti, i tre uomini più influenti del Messico stavano discutendo sul futuro della loro Nazione, che assisteva, debole e sfiancata da dieci anni di guerra civile, al dibattito, acceso e che rischiava di tramutarsi in uno scontro armato. Ma andiamo con ordine.

 

All’epoca il Messico era nel caos: dopo la rivoluzione, e la conseguente guerra civile tra i Repubblicani e le forze lealiste al generale e dittatore Porfiro Diaz, il socialismo era diventata l’ideologia più in voga tra i rivoluzionari, specialmente tra quelli che componevano le forze guerrigliere di Pancho Villa, un bandito che operava soprattutto al Nord, vicino al confine con gli Stati Uniti. Contemporaneamente le forze Repubblicane, vincitrici e conservative, sotto la guida di La Huerta tentarono di restabilire la costituzione del vecchio regime di Diaz. Questa mossa, apprezzata dagli USA, non fece altro che causare una nuova rivoluzione, stavolta di stampo socialista. Negli stati del Sud, Emiliano Zapata creò un’armata rivoluzionaria, mentre al Nord, insieme a Pancho Villa, si organizzarono forze rivoluzionarie guidate da Venustiano Carranza. Sebbene La Huerta fu costretto alle dimissioni nel Luglio 1914, il tentativo di stabilire un ordine rivoluzionario al Paese, con la cosiddetta Convenzione di Aguascalientes, fallì portando il Messico in una nuova guerra civile: al Sud, Zapata e il suo esercito controllavano lo Yucatan e gli altri territori meridionali, al Nord Villa continuava la sua guerriglia, mentre il presidente ufficiale, Carranza, si era asserragliato nella capitale e nelle montagne al centro del Messico. Le azioni di Villa contro le cittadine americane oltre al confine convinsero gli Stati Uniti ad inviare una spedizione punitiva, che non riuscì comunque ad eliminare i guerriglieri, ed aiuti bellici a Carranza. Tuttavia questa mossa rese Carranza il legittimo presidente agli occhi del mondo. Nell’Aprile del 1915, a Celaya, le forze governative sconfissero i rivoluzionari, costringendo Zapata a ritirarsi al Sud. La vittoria di Celaya permise a Carranza di scrivere una nuova costituzione, che mantenne molti aspetti socialisti nel tentativo di ingraziarsi il popolo ed i ribelli. Tuttavia Zapata rimaneva una minaccia a Sud: il generale Pablo Gomes inviò il colonnello Jesus Guajardo ed i suoi uomini nelle giungle meridionali, dove le forze zapatiste attuavano ormai da tempo una guerriglia feroce. Ma Guajardo ed i suoi uomini, appena giunti nelle regioni, si unirono a Zapata. Quello che passò alla Storia come l’Engaňo de Chinameca permise la continuazione delle attività di Zapata. Nel 1919, arrivò la svolta. Il generale Alvaro Obregon, sfruttando la sua immensa popolarità tra i Messicani, decise di candidarsi per le elezioni presidenziali dell’anno seguente, mentre Carranza annunciò che non si sarebbe candidato: al suo posto nominò Ignacio Bonillas, uno sconosciuto diplomatico che aveva intenzione di utilizzare come burattino. Tuttavia, capendo che la vittoria non sarebbe stata sua, tentò di arrestare Obregon, che riuscì a fuggire nello Stato di Guerrero. Subito dopo, il generale Alfonso de La Huerta, parente dell’ex presidente, proclamò un’insurrezione contro Carranza, che si rifiutò di arrendersi nonostante il 70% dell’esercito Messicano fosse schierato dalla parte degli insorti, e scappò dunque sulle montagne presso Puebla, nel tentativo di raggiungere Veracruz, ma venne assassinato dai suoi. Nel frattempo, approfittando del caos, Zapata si era mosso ed era riuscito ad occupare molte importanti città, come Cuernavaca, Cuatla, Xochimilco e Toluca, per poi catturare Città del Messico stessa.

Ed eccoci dunque al 21 Maggio 1920, nel palazzo presidenziale di Città del Messico, dove i tre uomini più influenti del Messico stavano discutendo sul futuro della loro Nazione. Intorno ad un tavolo, pieno di carte e su cui c’erano delle tazzine di caffè oramai svuotate da molto, Emiliano Zapata, il generale Alvaro Obregon e il generale Alfonso de la Huerta stavano discutendo soprattutto sull’assetto politico dopo la rivoluzione. Nel frattempo Messico, stanco e malato, prestava poca attenzione ai discorsi, cercando il sole del primo pomeriggio come un’iguana della California. La sua lucidità era ormai andata, e non desiderava altro che riposarsi. Il ragazzo si aggiustò i capelli neri mentre osservava con gli occhi di pece scavati dal sonno un foglio, precisamente una pagina della Costituzione.

“Signor Zapata, lei sa bene che le nostre forze sono superiori, dunque non è nella posizione di fare richieste!”

“Generale, lei sa meglio di me che un combattimento urbano causerebbe molti problemi alle vostre truppe. E né voi e né il generale De la Huerta avete abbastanza coraggio ad affrontarmi.”

La Costituzione, oggetto di tanti dibattiti e scontri armati. Pensandoci meglio, tuttavia, Messico trovò in quel foglio la soluzione ai problemi del suo Paese.

“Ascoltatemi!”

I tre si voltarono stupiti: sin dall’inizio della riunione Messico era rimasto in disparte, visibilmente convalescente, tuttavia ora sembrava aver trovato l’energia perduta.

“Ascoltatemi, credo di aver trovato la soluzione. Un compromesso che accontenterà tutti.”

Gli uomini lo invitarono a continuare.

“Allora, il generale Obregon vuole essere presidente, poiché gode del supporto popolare, giusto? E nel frattempo il signor Zapata vuole mantenere una politica socialista nel governo, no?”

“Claro! Dunque?”

“Dunque arriviamo ad un accordo: il generale Obregon sarà presidente, mentre il signor Zapata ministro dell’economia. In questo modo si potrà mantenere un carattere socialista per il Messico. Nel frattempo il generale De La Huerta sarà il ministro della difesa.”

Obregon portò la mano al mento per riflettere.

“Lei sta proponendo un triumvirato messicano?”

Messico annuì.

“Per me va bene.” Disse De La Huerta, seguito da Obregon. Zapata li guardò dubbiosi, ma poi sorrise anche lui.

“Sono d’accordo anch’io.”

Messico sorrise lasciando un sospiro di sollievo.

“Mucho bien! Allora dobbiamo brindare!”

Si fecero portare del vino, ed alzarono i calici facendo tintinnare i cristalli.

“Viva il Messico! Viva la Rivoluzione!”

“Viva el Mexico! Viva la Revoluciòn!”

 

 

Salve a tutti! Oggi il capitolo è un po’ corto, lo ammetto, ma era necessario, come lo sarà il prossimo, che prevedo sarà breve anch’esso. Vogliate scusarmi, ma in compenso il capitolo che verrà dopo il prossimo (strani giri di parole) sarà più lungo e avvincente. Diciamo che ci voleva un ponte di due capitoli tra la Weltkrieg, o Guerra Mondiale, e la Guerra Civile Russa. Ora che sapete anche cosa ci attenderà in futuro, parliamo del presente! Messico ha finalmente ritrovato la pace dopo un decennio di guerra civile, ed ora avanza verso un futuro di stampo socialista. Notate il trend? Il socialismo è dominante in Francia e in Messico, e non bisogna dimenticare il mitico trio Lenin - Trotsky – Stalin in Russia! Come finirà? Beh, lo scoprirete leggendo, cari lettori! Avete notato la mancanza di note? Oltre all’evidente mancanza di bisogno di chiarimenti (dato che i termini spagnoli utilizzati sono facilmente comprensibili), è anche un test per il futuro. Preferite le note, o preferite questo modello dove le future note saranno integrate nella narrazione? Vi prego di farmi sapere, è la mia prima fanfiction e dunque ci tengo molto al vostro gradimento, sia narrativo che stilistico. Ora la smetto ché altrimenti gli appunti finali diventano più lunghi del capitolo! Beh, non mi rimane che ringraziarvi per la lettura, invitarvi a lasciare una recensione, e ricordarvi che, se vi foste annoiati (speriamo di no questa volta, perché rischio!), non s’è fatto apposta. Ciao, alla prossima!

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Capitolo 9
*** Esilio ***


Esilio

Kaiserreich

9

Esilio

 

Parigi, La Comune di Francia1

31 Maggio 1920

 

Il tramonto di Parigi era scarlatto come il cuore della sua gente e come il sangue che l’aveva liberata dalle catene. Era questo uno dei tanti slogan del nuovo governo sindacalista2 francese, uscito vittorioso dalla breve ma brutale guerra civile che aveva consumato la Nazione. La gente era felice, sembrava spensierata, come se le catene che l’opprimeva fossero veramente state tolte. Francia, seduto nel suo studio con un bicchiere di vino (rosso, come il socialismo ormai imperante), non la pensava così. La Rivoluzione del 1789 promise le stesse cose, che non furono ottenute in gran parte. Per di più, erano state recise forse le vere catene? Erano state la morte, la fame, la malattia sconfitte? Erano forse liberi da un governo centrale? Francia bevve un sorso, malinconicamente pensando alla sua posizione. Lui doveva fare ciò che era la volontà del popolo, e lo avrebbe fatto, ma aveva anche vissuto abbastanza a lungo per capire come andasse il mondo, un mondo che non ha spazio per l’uguaglianza. La paura di Francia era quella di trovarsi a che fare con un nuovo Terrore, e che la spinta positiva che accompagna sempre il periodo immediatamente successivo ad una rivoluzione si spegnesse col sangue della sua gente, come accadde in passato. Mentre rifletteva, Francia assunse la sua postura abituale di ragionamento, o così almeno la considerava: con la schiena e la nuca appoggiate allo schienale della sedia e le gambe sulla scrivania, dove era poggiato “Il Manifesto del Comunismo” di Marx. Una lettura obbligatoria per lui, ma contemporaneamente una lettura svogliata e mal sopportata. E difatti stava anche cercando una scusa per non leggerlo, che fortunatamente arrivò. Bussarono alla porta, e dopo aver ottenuto il consenso, entrò un giovane funzionario con due lettere in mano.

“Compagno Francia, le lettere sono arrivate.”

“Trés bien, poggiale sulla scrivania. Merci beaucoup, Filippe3.”

Il ragazzo sorrise e lasciò la stanza. Francia si mise composto ed afferrò la prima lettera, come al solito con la busta completamente bianca e anonima. L’aprì, e notò subito un particolare profumo femminile, che sapeva di mirto, e una scrittura raffinata e minuta. Ed iniziò a leggere la lettera di sua sorella Corsica.

 

Roma, Italia

4 Gennaio 1920

A Piazza del Quirinale, Corsica scese dalla carrozza che l’aveva scortata dalla stazione ferroviaria. Entrò nel palazzo, salutata con gli onori dovuti dai corazzieri di guardia. Entrò nel cortile, dove vi erano, allineati e negli abiti migliori, il Re, la Regina, i tre fratelli Italia e Vaticano, circondati da carabinieri a cavallo. Anche Corsica era elegante, vestita di un lungo abito azzurro e protetta dal freddo da una pelliccia su le spalle. I capelli, lucidi e splendenti, le cadevano sulla schiena. Camminò verso le persone a lei così care, a passi solenni, seguita da tre soldati: ognuno di loro portava un drappo, ogni drappo era una provincia staccatasi dalla Francia con un referendum ed unitasi al Regno d’Italia (ormai con i giorni contati). Corsica arrivò davanti ai due regnanti, e si inchinò con riverenza, per poi porgere al Re i drappi. Fino ad allora era stato il silenzio a caratterizzare la cerimonia, silenzio che fu rotto da Corsica:

“Vostra Maestà, oggi vi consegno i drappi di Nizza, Savoia e Corsica, e a nome della popolazione che lì risiede, vi chiedo di accettare l’esito del referendum tenutosi in quelle aree ed in cui la gente ha espresso il desiderio di tornare nella loro patria originale, il Regno d’Italia.”

La Nazione si inchinò davanti ai due sovrani, e i tre soldati consegnarono i drappi, che vennero presi dal Re. Vittorio Emanuele poi fece rialzare Corsica, dopo aver consegnato ai corazzieri i drappi, e solennemente disse:

“Io, Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, accetto le volontà delle genti di Corsica, Nizza e Savoia, e giuro sulla Costituzione del regno che servirò le persone che, con spirito patriottico, hanno deciso di tornare nella Patria Nostra.”

Detto ciò, i regnanti e la famiglia Vargas entrarono nel Palazzo, mentre gli stendardi vennero posizionati vicino a quelli delle già esistenti regioni del Regno.

 

Corsica era seduta sul letto della sua nuova camera al Quirinale, rilassandosi dopo aver riposto le sue cose ed aspettando la chiamata al pranzo di famiglia con i suoi fratellastri italiani e lo zio Vaticano, nonché, o almeno era questo ciò che prometteva Feliciano, gli altri fratellastri Seborga e San Marino. Vivienne si guardava intorno curiosa: era dai tempi di Nonno Roma e papà Occidente4 che non tornava a vivere nell’Urbe. Ed ora eccola lì, al Quirinale, ormai facente parte del Regno d’Italia. Ma tra tutti i dubbi, ce n’era uno che l’assillava più degli altri… Fu interrotta nei suoi pensieri da un rumore proveniente da una porta più stretta di quella principale, e che prima d’ora non aveva notato. Si alzò e si avvicinò alla porta, ma appena toccò la maniglia si sentì di nuovo il rumore di oggetti che cadevano e cozzavano fra loro. Corsica, stranita ed inquietata, bussò titubante.

“C’è qualcuno? Se sì esci fuori, non è uno scherzo divertente!”

Rimase per un po’ il silenzio, per poi rompersi con una voce stridula, e piuttosto ridicola.

“N-non c’è nessuno! Hai le allucinazioni uditive!”

Alla corsa la voce sembrò familiare, e quindi tentò di aprire la porta, trovando una fiera resistenza dall’altra parte.

“Esci da lì, chiunque tu sia!”

“No! Sono la fatina degli sgabuzzini, non posso lasciare il mio habitat!”

Alla fine Corsica vinse: riuscì a spalancare la porta e venne travolta dalla fatina all’interno dello sgabuzzino. Aprendo gli occhi, vide sopra di sé una ragazza giovane e molto simile a lei: aveva gli occhi castano scuro, i capelli lunghi e neri raccolti in una coda di cavallo, un sorriso furbo e vivace, incorniciato in un viso dai tratti dolci e dalla bellezza selvaggia. Vivienne rimase a bocca aperta, mentre sua sorella Sardegna le stampava un bacio in fronte. Le due si alzarono e si abbracciarono immediatamente.

“Lavinia! Da quanto tempo che non ti vedo!”

“Eh, hai ragione Viviana.”

“Vivienne, per favore, lo preferisco.”

“Allora vivere con il cugino Francis ti ha cambiata non poco! Dì un po’, come sta la mia testina di moro4?”

“Sta bene la tua testina, ed è anche sorpresa di vederti. Pensavo fossi rimasta a Cagliari. E che ci facevi nello sgabuzzino?”

Sardegna ridacchiò, prese per mano la sorella e si sedette sul letto trascinandola.

“Volevo farti una sorpresa stanotte.”

“E ti sei posizionata qui così presto?”

“Non importa, l’attesa era ben spesa comunque.”

Corsica sospirò ed osservò la sorella: indossava una camicia bianca con maniche vaporose ed una larga gonna rossa. Oltre al viso, solo le mani, più forti ma non per questo meno belle di quelle della sorella, uscivano dall’abito. Che era tutto impolverato.

“Così non va bene!” esclamò Corsica fiondandosi al suo armadio.

“Cosa c’è?” Chiese Lavinia, sorpresa dallo scatto felino della sorella.

“Il tuo abito è sporco di polvere e non è adatto ad un’occasione del genere!”

“Ma è un pranzo di famiglia.”

“Prova questo.”

Corsica le diede un abito bianco ed una gonna nera che arrivava alle ginocchia, e forzò la sorella ad indossarlo. Tuttavia Sardegna non era sicura.

“Non credi che metta troppo in risalto… queste?” disse tastandosi i seni.

“Meglio così, fidati. Bene, ora possiamo andare!”

E detto ciò, trascinò la sorella fuori dalla stanza, e per tutto il tragitto non fecero altro che scherzare come due ragazzine che non si vedevano da secoli.

 

Parigi, La Comune di Francia

31 Maggio 1920

 

Francia ripiegò la lettera della sorella, con un sorriso dolce sulle labbra. Era sinceramente felice che Corsica avesse ritrovato Sardegna e si trovasse bene in Italia. Francis, infatti, era fiero di dire che, al contrario del rivale Inghilterra, si curava dei suoi familiari, anche se in quel tangente, come in molti altri, Inghilterra non centrasse nulla. Il biondo posò la lettera e prese l’altra busta, scartandola. Stavolta un altro odore, inebriante e forte come la sabbia del Sahara, lo travolse. Ed iniziò a leggere la lettera della sua affezionata Algeria.

 

Algeri, Repubblica di Francia

4 Gennaio 1920

 

Al porto di Algeri era attraccata una corrazzata. Non era una corrazzata qualsiasi, era la punta di diamante della flotta del Mediterraneo della Francia. E conteneva un carico speciale, che ora si trovava a terra, davanti ad una ragazza alta e dalla bellezza straordinaria: le calde temperature del sole calante algerino avevano spinto la giovane a vestirsi con un abito unico di colore blu, che lasciava scoperte le braccia ambrate culminanti con due mani delicate e lunghe e che valorizzava le forme attraenti della ragazza; il viso, lungo e dolce, che incastonava una piccola bocca adorabile, un naso altrettanto minuto e due occhi neri e profondi, che incantavano chiunque li osservasse, era a sua volta incorniciato da un velo verde. Davanti ad Algeria c’era il Maresciallo Foch, leader del governo francese in esilio in Africa dopo la Guerra Civile.

“Mademoiselle Algerie, je suis enchanté.5” Disse il Maresciallo baciandole la mano.

“Min diwaei saruri6, maresciallo. Le notizie della rivoluzione sono giunte da noi, e i popoli dell’Africa sono pronti a servire lealmente il legittimo governo di Francia.”

“La vostra lealtà sarà ricordata. Ad ogni modo, signorina, ho una lettera per lei.”

Detto ciò le consegnò la lettera, e Algeria notò con stupore che proveniva da Francia stesso. Ringraziò il maresciallo, che fu poi scortato fino al municipio di Algeri, nuovo palazzo del governo francese. Nel frattempo Algeria rimase sul lungo mare per leggere la lettera. Non fece neanche in tempo a strappare la busta che fu cinta da due esili braccia, accompagnate da una squillante voce femminile.

“Che fai, Tlemcen?”

Algeria riconobbe sua sorella Tunisia, e sporgendo il capo oltre la giovane notò avvicinarsi anche suo fratello Marocco.

“Ah, ci siete anche voi allora.”

Il ragazzo si avvicinò, staccando Tunisia dalla schiena dell’algerina e mettendosela a cavalcioni sul collo, lungo e massiccio, in confronto alla corporatura esile ed al volto lungo e secco. Tunisia aveva le stesse caratteristiche nel viso, tuttavia non gli stessi capelli lisci del fratello. Al contrario, i suoi capelli erano lunghi, color carbone e ricci, come quelli di suo padre Cartagine7. Marocco si sporse per vedere la lettera appena presa da Algeria.

“Una lettera? Di chi?” chiese.

“Da parte di Francia, ma non so proprio cosa aspettarmi. La leggiamo assieme?”

Gli altri due annuirono, e Algeria iniziò a leggere la lettera con la sua voce melodiosa, lettera che trascriverò dal francese per facilitarne la comprensione:

Mia adorata Tlemcen,

Quando avrai ricevuto questa lettera vorrà dire che la Francia sarà ormai diventata un paese socialista, e che il legittimo governo democratico sarà stato costretto all’esilio in Africa. Come ben sai, come Nazione io non posso altro che essere leale verso il popolo, e dunque non li tradirò; tuttavia desidero che tu porti avanti lo spirito della Francia e che un giorno potrai riconquistare la mia terra e liberare il mio popolo dalle invisibili catene dell’ignoranza e della disperazione, oggi da loro viste come ali di libertà. Ti chiederai perché io decida di affidarmi ad una colonia che potrebbe approfittare del caos per liberarsi. Beh, francamente, mia cara, mi fido di te come nessun altro mio sottoposto, e spero che non deluderai la mia fiducia. Se accetterai il compito, prometto la libertà per te ed i tuoi fratelli, parola d’onore. Contando in un tuo appoggio, ho pensato di scriverti anche delle disposizioni che ti aiuteranno: accetta le richieste di Germania al trattato di pace, il tuo primo obbiettivo sarà la riconquista della Francia; continua il forte legame di alleanza con l’Intesa ed Inghilterra in particolare, poiché da sola non potrai farcela; Confida in te stessa più che negli altri, perché sei tu, Tlemcen, la persona che dovrà guidare il mio destino. Il mio fato, Algeria amatissima, è nelle tue splendide mani, rendimelo indietro e sarai libera. Fatti forza, amica mia, perché da oggi non sei più Algeria, ma la Repubblica di Francia.

A te con animo devoto,

Francis Bonnefoy

PS: saluta quella piccola peste di Tunisia!

 

Marocco rimase piuttosto stupito, e rigirò il foglio più volte tra le mani, mentre Tunisia, sorridente, aveva desiderio di ricambiare il saluto al suo signore.

“Comunque, è un compito piuttosto arduo, Tlemcen, sei sicura che… ehi, ci sei?”

Algeria era assorta con aria sognante verso il mare color del vino, e mormorò, inconscia in questa sua trance amorosa:

“Mi ha chiamato amatissima…”

Marocco sospirò rassegnato, e infilò la lettera in una tasca della giacca.

“Invece di pensare al principe azzurro (o forse è meglio dire rosso), che ne dici se torniamo a casa? Sta calando il sole…”

Algeria si alzò stizzita, afferrò la lettera, e se ne andò borbottando:

“Taci, Muhammad, non capisci nulla!”

Marocco rimase a guardarla stranito, e si rivolse alla sorellina, ancora seduta sulle sue spalle.

“Cos’ha che non va?”

“Forse ha fame… ehi! Facciamo il couscous?”

Marocco rise e si avviò anche lui verso il municipio di Algeri. Capitale della Repubblica di Francia

 

 

 

Note:

1 Dato che ormai i socialisti hanno vinto la guerra civile, il nome del Paese è cambiato da Francia a La Comune di Francia, ad imitazione della Comune di Parigi, primo stato socialista della Storia, durato pochi mesi tra il 1870 e il 1871, durante la guerra Franco-Prussiana.

2 Nella timeline di Kaiserreich (in cui si ambienta la storia), il sindacalismo è n’ideologia politica che dà il potere ad un’assemblea di sindacati. Il risultato è quello di un comunismo più “leggero” di quello Marxista e Leninista.

3 “Grazie mille, Filippe” in francese.

4 Sardegna chiama Corsica così riferendosi al simbolo delle due isole, le teste di moro: 4 per la Sardegna, 1 per la Corsica.

5 “Signorina Algeria, sono incantato.” In francese.

6 “Il piacere è mio.” In arabo.

7 Una piccola parentesi sulla famiglia del Maghreb. Algeria, Marocco e Libia sono fratelli naturali, figli di Berbero. Tunisia invece è stata adottata: figlia naturale di Cartagine, a sua volta fratello di Libano e figlio di Fenicia, fu presa in custodia da Nonno Roma nel 146 a.C. Fu poi adottata da Berbero dopo la conquista araba dei possedimenti nordafricani dell’Impero Bizantino.

 

Salve a tutti! Scusatemi il ritardo, ma tra vari contrattempi e l’imprevista lunghezza del capitolo (che doveva essere un ponte e si è ritrovato ad essere uno dei più lunghi), non sono riuscito a portarlo la scorsa settimana. Spero non me ne vogliate. Eccoci dunque, Francia aveva ragione: la rivoluzione ha scosso il suo Paese ed ora il governo democratico è stato costretto all’esilio in Africa. Abbiamo anche scoperto così a chi era diretta la lettera, e abbiamo fatto conoscenza di tre dei quattro fratelli del Maghreb. Ci manca ancora Libia! Nel frattempo Corsica è fuggita in Italia, portandosi dietro la sua isola, Nizza e la Savoia, e ricongiungendosi dopo molti anni con la sorella Sardegna. E sono ben quattro le nuove Nazioni di questo capitolo. Quale sarà il loro destino? Lo scoprirete leggendolo! Oltre a questo, vi avviso che prenderò una pausa estiva: ho il mese di giugno e la prima settimana di luglio piuttosto piena di impegni, per poi andare finalmente in vacanza (si va a trovare Grecia e i suoi innumerevoli gatti!). Questo vuol dire che la pubblicazione settimanale si interrompe qui, e non ci sarà una data precisa per il prossimo capitolo. Aspettatevi qualcosina per la seconda settimana di luglio tuttavia! Bene, ho detto tutto ciò che dovevo dire, dunque non mi resta che ringraziarvi per aver letto, invitarvi a lasciare una recensione, a dirmi cosa ne pensate della coppia Algeria x Francia, e ricordarvi che, se vi foste annoiati, non s’è fatto apposta. Ciao, alla prossima!

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Capitolo 10
*** Alba Bianca ***


Alba bianca

Kaiserreich

10

Alba Bianca1

 

Tsaritsyn2, Russia

17 Gennaio 1919

 

L’alba era uno spettacolo meraviglioso quella mattina: era bianca come la neve che circondava l’area e che ricopriva col silenzio glaciale dell’inverno ogni cosa, mettendo a risalto così i rumori occasionali di qualche animaletto mattiniero che usciva dalla tana. Il silenzio, tuttavia, era accompagnato dal suono melodioso di una balalaika, che con le sue corde pizzicate riempiva le orecchie di Filip Armavirich. Il rappresentante del popolo cosacco stava in piedi sulle rive fredde e nevose del Volga, osservando in lontananza dal campo del generale Krasnov la città di Tsaritsyn. Per due volte lui ed i suoi uomini avevano tentato di espugnare la fortezza bolscevica, fallendo. I suoi cosacchi del Don erano dunque stati costretti ad accamparsi, nell’attesa dei rinforzi dell’Armata Volontaria Caucasica, che era arrivata una settimana prima. I soldati lealisti guidati dai generali Wrengel e Danikin erano accampati presso quelli di Krasnov, ed attendevano con ansia l’attacco per riconquistare la città. Filip diede le spalle alla città e si diresse verso la tenda dei generali, accompagnato dalla musica della balalaika. Entrato dentro vide i tre uomini in comando attorno ad un tavolo su cui vi era una mappa di Tsaritsyn e dintorni. In quel momento Danikin stava spiegando la situazione sul resto del fronte meridionale, e fece cenno a Filip di avvicinarsi mentre continuava a parlare.

“Come accennavo precedentemente, Kornilov ed i suoi hanno completato l’accerchiamento della città a nord, impedendo ai bolscevichi di fuggire e bloccando i rinforzi che ormai saranno in marcia. Detto ciò, possiamo iniziare a pianificare l’attacco vero e proprio, dato che il signor Armavirich è qui. Ha qualche idea?”

Filip si portò la mano sinistra sul volto, per lisciare pensoso i suoi neri baffi cosacchi, che tuttavia non toglievano la vitalità giovanile della Nazione. Con i suoi occhi castani scambiò uno sguardo col generale Krasnov. Gli occhi dell’uomo, color ghiaccio, brillavano alla fioca luce della lampada al centro del tavolo, e lo osservarono attentamente. Alla fine, iniziò a discorrere.

“La città è ben difesa da un consistente numero di Guardie Rosse, ben armate e barricate tra le vie e gli edifici di Tsaritsyn. Tuttavia non è del numero che dobbiamo preoccuparci, dato che grazie all’Armata Caucasica li abbiamo soverchiati, ma del loro comandante: un georgiano, membro del Politburo3 e candidato alla successione di Lenin dopo la sua morte in Agosto4; il suo nome è Ioseb Jugashvili, ma i suoi uomini lo chiamano Stalin.”

Danikin assunse un’espressione curiosa.

“L’uomo d’acciaio? C’è un motivo particolare?”

Krasnov rispose accendendo una pipa.

“Beh, sembra sia molto resistente nel fisico e molto duro. È lui che mantiene insieme con disciplina quella banda di traditori.”

“Ad ogni modo,” ricominciò Filip “con o senza leader il problema principale è come affrontare lo scontro. Né la nostra cavalleria né la nostra fanteria è riuscita, infatti, a sfondare le linee difensive comuniste. Manchiamo di forze di sfondamento.”

Wrangel fece un ghigno soddisfatto, e col suo volto magro e caratterizzato da piccoli ed adunchi baffi osservò Filip.

“Non più, Signori, non più. Con noi abbiamo dei pezzi d’artiglieria tedeschi! Ridurremo in polvere la resistenza di quei soldati!”

Krasnov osservò felice il generale, mentre Denikin cerchiava i punti critici della città, punti da dover possibilmente bombardare.

“Dunque gli Ucraini portano anche cose utili di tanto in tanto!” esclamò Krasnov.

“Non solo, abbiamo anche un’arma segreta da mostrarvi qui fuori. Che dice, Anton, la mostriamo?”

Denikin sollevò il volto dalla mappa ed annuì. Lasciarono tutti la tenda e si diressero verso il Volga. Sulla riva del fiume vi era una piccola stazione per i battelli, occupata adesso da un AT7-V tedesco su cui era stata disegnata la bandiera della Repubblica Russa. Vicino al carro armato c’era il suo equipaggio, occupato ad chiacchierare osservando l’alba bianca di Tsaristyn. Sulla superficie del fiume, in parte ghiacciato, c’era invece un battello armato di un piccolo pezzo d’artiglieria piuttosto datato ed una mitragliatrice. Filip si avvicinò scettico al carro armato, e gli diede un calcio facendo scivolare giù un po’ di neve che si era accumulata sul tetto.

“Questa scatola d’acciaio sarebbe la vostra arma segreta? I miei cavalli sembrano molto più agili e maneggevoli, o sbaglio?” Chiese il cosacco, scettico, a Wrangel. Quello rispose appoggiando la mano su uno dei cannoni del carro.

“Non si sbaglia, Filip Armavirich. Tuttavia dimentica le sue qualità: questa bestia è resistente ed ha una potenza di fuoco invidiabile. Per di più, i bolscevichi non la conoscono e ciò garantirà un buon effetto sorpresa e terrore nei loro ranghi. Si fidi, sul fronte Occidentale queste macchine vengono usate da entrambi gli schieramenti da tre anni ormai.”

Filip osservò gli altri generali, che davano ragione a Wrengel. Si voltò di nuovo verso il carro e mormorò:

“L’attacco inizierà a mezzogiorno. Se entro l’alba di domani la città non sarà ancora caduta, utilizzeremo la macchina tedesca. E sarà meglio che funzioni.”

 

Tsaristyn, Russia

18 Gennaio 1919

Ore 6:30

 

Filip osservò l’orologio che teneva nel taschino: segnava le sei e mezza del mattino. Alto sul suo cavallo, osservò lo scenario intorno a sé. Dietro di lui, altri battelli si arenavano sulla riva del Volga su cui si affaccia la città, aprendo i portelli e vomitando fanti con i fucili armati di baionetta pronti a lanciarsi all’attacco. Il cielo, nuvoloso e grigio, iniziava ad illuminarsi con le prime luci dell’alba, che imbiancavano le nuvole. Le colonne dei soldati marciavano portando con sé alcuni pezzi di artiglieria leggera, mentre dall’isola davanti la città facevano fuoco le artiglierie tedesche in mano ai Bianchi. La città tuttavia, nonostante sotto un’incessante pioggia di proiettili, non era ancora caduta. Per questo Filip era nervoso: non voleva utilizzare quell’arma, che tuttavia vide sbarcare da un battello insieme a mezzi motorizzati. Digrignando i denti, fece un cenno con la mano ai suoi cavalieri cosacchi, che lo seguirono al trotto verso i primi edifici semidistrutti della città. I luoghi di sbarco erano stati presi, e la periferia ovest catturata, e Filip aveva in mente di puntare dritto al cuore della città, tagliando in due le forze sovietiche per poi allargare il corridoio fino a mergerlo con il fronte. Tra i tuoni dei cannoni, lanciò la carica. Decine di cavalieri caricarono lungo la strada butterata di crateri, affiancata dalla fanteria che faceva fuoco coi fucili. Dai sacchi di sabbia e dalle barricate fecero capolino i bolscevichi, che cominciarono a sparare con mitragliatrici e lanciare granate contro la cavalleria di Filip. Il cosacco, dal canto suo, aveva assunto in volto un’espressione compiaciuta e sadica, come ogniqualvolta che combatteva. Estrasse la sciabola con la sua mano destra, guantata d’acciaio, e tirò fuori dalla cintura che teneva la sua giacca di pelliccia una pistola, con cui sparò contro un sovietico oltre la barricata. Accanto a lui gli altri cavalieri galoppavano impavidi contro i nemici, non curandosi dei proiettili: alcuni adoperavano fucili a canne mozze, con cui scaricavano sui volti nemici i grossi proiettili; altri caricavano con la lancia in resta entrando nei buchi delle difese nemiche creati dai colpi di mortaio esplosi lì vicino, ed infilzando i soldati rossi come spiedini. Il cavallo di Filip balzò oltre la barricata, scalciando all’indietro e colpendo con gli zoccoli la schiena di un avversario, spezzandola, mentre il giovane in sella a lui fendette con la sua lama il collo di un ufficiale. Intanto altri cavalieri e fanti scavalcavano le barriere di sabbia dei sovietici, mentre alcune macchine corrazzate travolgevano barricate schiacciando i difensori sotto le loro ruote e facendo fuoco contro altri, che si erano appostati dietro alcuni tavoli rovesciati di una taverna. Dopo un po’, la piccola piazzola su cui erano state costruite le barricate era stata ripulita dalle truppe nemiche. Un paio di macchine corrazzate si incamminarono a massima velocità verso il municipio, dove risiedeva il Soviet5 cittadino ed il quartier generale di Stalin. Un proiettile di artiglieria esplose su un tetto di un edificio, polverizzandolo e scatenando un tuono vigoroso, mentre Filip osservava intorno a sé radunarsi cavalieri e fanti. Crebbe la sua adrenalina. Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni:
 “За Родину! Для Республики! Следующий!6

(Za Rodinu! Dliya Respubliki! Sleduiuscii!)

Portò il cavallo eretto sulle zampe posteriori e si lanciò al galoppo, seguito dai soldati al grido di “Urrà!”. I cavalieri passavano con la spada tutti i sovietici che incontravano, uccidendo e mutilando, mentre i fanti rispondevano al fuoco nemico e caricavano con la baionetta. Alcuni soldati bolscevichi, dopo aver rovesciato un carretto di alcuni civili che scappavano verso il centro cittadino, fissarono una mitragliatrice e fecero fuoco. Tra cavalli, soldati bianchi e rossi che cadevano a terra, Filip cavalcava incurante, accompagnato dalle esplosioni dell’artiglieria che provocavano piogge di detriti e travolse il carretto con i suoi difensori, occupati a ricaricare la mitragliatrice, continuando imperterrito. Davanti a sé riconobbe le sagome d’acciaio delle macchine: tuttavia erano in fiamme, fumanti e irrimediabilmente danneggiate, con dietro alcuni soldati, o almeno chi non era ferito, che facevano fuoco con tutto ciò che avevano. Il perché di ciò esplose un colpo che arrivò dritto davanti a Filip, sbalzandolo dal cavallo, morto sul colpo, e scaraventandolo oltre una di quelle macchine. Soccorso dai soldati, il cosacco riprese la sciabola, caduta qualche metro più in là, e si mise in ginocchio dietro la macchina. Si sporse un poco per vedere cosa avesse sparato quel colpo, e vide un cannone anticarro dietro vari sacchi di sabbia, proprio sull’entrata di una strada che si restringeva stretta tra gli edifici.

“Dobbiamo trovare un modo per abbattere quel cannone…” Mormorò Filip. E gli venne in mente l’arma segreta di Wrangel. Ordinò ad uno dei soldati vicino a lui di correre nelle retrovie e richiamare il carro armato. Il soldato partì correndo il più velocemente possibile, mentre un altro tentava di centrare con un proiettile del suo Mosin-Nagant7 la testa degli artiglieri riparati dietro il cannone. All’improvviso, mentre ricaricava il caricatore (il precedente si era vanamente consumato sui sacchi di sabbia o sulla strada), si sentì uno sparo e il soldato cadde all’indietro con uno spruzzo di sangue. Sulla fronte aveva un buco da cui usciva sangue, e sotto la testa si formò una pozza rossa intrinseca di pezzi di cervello. Filip digrignò una smorfia, e guardò verso le finestre dei palazzi, da cui sembrava fosse venuto il proiettile. Tuttavia non sapeva da quale finestra provenisse. Si guardò intorno e vide un cadavere sotto la macchina. Lo afferrò ed ordinò a i due soldati rimanenti di sorreggerlo e portare la testa oltre la protezione del mezzo, mentre lui prese il fucile del morto. I soldati eseguirono e il cranio senza vita del cadavere fu trapassato, stavolta però Filip vide lo sparo ed esplose anche lui un colpo verso la finestra dove stava appostato il cecchino, che si accasciò morto con il busto penzolante oltre l’intelaiatura lignea e il vetro scheggiato. Dopo aver vuotato il caricatore contro il cannone, mancando i bersagli umani, Filip sentì il rumore di una finestra rotta, e sporgendosi vide una granata volare giù verso di lui. Si alzò e si slanciò con forza e prontezza, venendo investito dall’esplosione e sbalzato vari metri al centro della strada. Filip tossì ripetutamente, impolverato e con le gambe doloranti. Alzò lo sguardo e vide la bocca del cannone anticarro puntare verso di lui. Rimase immobile, impietrito, ad osservare i bolscevichi caricare l’arma con un proiettili, scosso dal dolore fisico e dalla paura. Sebbene infatti una Nazione non possa morire che per mano di un’altra Nazione (o sé stessa in caso di suicidio), o per la morte di tutti i suoi abitanti o l’estinzione della sua cultura, le ferite rimanevano tali: ed un colpo d’artiglieria preso in pieno significava la morte de facto. Le palpebre, spalancate sui suoi occhi castani, si chiusero al suono di un esplosione, e si riaprirono appena il cosacco notò di essere ancora senziente: la postazione del cannone era stata distrutta, e al suo posto c’era un cratere insanguinato. All’immediata percezione del rumore meccanico che sentì dietro di sé, Filip si voltò notando la figura dell’AT7-V. Un portello si spalancò, ed un soldato prese di forza il giovane portandolo all’interno del carro, che proseguì, scortato dai fanti di rinforzo, la lenta marcia.

Tsaritsyn, Russia

18 Gennaio 1918

Ore 16:54

Nel Municipio di Tsaritsyn, danneggiato dai combattimenti e dai colpi di artiglieria, i generali erano seduti intorno ad un tavolo nell’ufficio del sindaco. Sui tetti degli edifici più importanti della città ormai sventolava la bandiera della Repubblica Russa, e per questo Wrangel, Denikin, Krasnov e Filip stavano facendo un brindisi con la vodka trovata nell’ufficio. Il cosacco si era ripreso velocemente dalle violente scosse subite agli arti, data la sua robustezza, e si stava difendendo dalle continue frecciatine di Wrangel.

“Allora, mio caro Armavirich, ti sei ricreduto sulla scatola d’acciaio?”

“Tks, è lenta da far schifo! Fosse arrivata prima non avrei rischiato la vita in quel modo!”

Mentre i due continuavano a discutere sull’efficacia dell’AT7-V, Denikin e Krasnov facevano il punto sulla situazione.

“Sembra che tra i vari fuggiti all’ultimo secondo ci sia anche colui che chiamano Stalin, anche se è lui quello che ci ha tenuti impegnati qui così a lungo.” Cominciò il generale dei cosacchi.

“Poco importa, Krasnov: ciò che conta è la presa della città. Il contrattacco sovietico sta venendo bloccato da Kornilov, e Kharkov è già stata riconquistata.”

“Siamo riusciti ad entrare in contatto con Kolchak?”

“Sì, si è congratulato della vittoria ed ha ordinato un rafforzamento delle linee di rifornimento da Kazan a Tsaritsyn.”

Kolchak, comandate delle armate bianche siberiane e nominato comandante in capo delle forze Repubblicane, stava nel frattempo ad Omsk, impegnato nel gestire i movimenti imprevedibili della Legione Cecoslovacca, prima schieratasi con i bolscevichi ed in seguito passata alle forze lealiste. Denikin prese una mappa, e cominciò a tracciare alcune linee. Wrangel e Filip si avvicinarono, avendo finito il duello verbale.

“La strada verso Mosca è aperta! Dovremmo immediatamente approfittarne.” Disse Denikin, mentre segnava le divisioni disponibili sulla mappa.

“Se conquistiamo Mosca, la guerra sarà vinta!” Esclamò entusiasta. Tuttavia gli altri erano perplessi, e fu Wrangel ad esporre le sue posizioni nettamente contrarie.


“То, что происходит в вашей голове, Деникина?8 (To, chto proiskhodit v vashey golove, Denikina?) Un’avanzata adesso ci sarebbe fatale: le nostre truppe sono stanche, il fronte si allungherebbe troppo e poi dimentichi Makhno e la sua Armata Nera in Ucraina, che potrebbe facilmente tagliarci fuori! No, è una mossa stupida adesso. Abbia pazienza, Denikin, e vedrà sorgere su Mosca un’alba bianca molto presto.”

Denikin, sebbene scettico, si lasciò convincere. Ma per vedere l’alba bianca di Mosca, avrebbe dovuto aspettare ancora a lungo.

 

Note:

1 Il titolo “Alba Bianca”, oltre al fatto che nel capitolo si faccia riferimento molto spesso alle candide aurore, è anche una parodia del film “Alba Rossa”, in cui l’Unione Sovietica, in piena Guerra Fredda, era riuscita a conquistare la costa Occidentale del Nord America.

2 Tsaristyn, ad oggi Volgograd, è la più importante città del bacino del Volga, e capitale dell’Oblast’ omonimo. Ai più è conosciuta come Stalingrado, dato che, come abbiamo visto nel capitolo, fu difesa da Stalin stesso. Nella nostra linea temporale, vincendo.

3 Il Politburo era il consiglio di tutti i Soviet dell’Unione, ma durante la guerra civile era più che altro il gruppo dei fedelissimi di Lenin.

4 Lenin non morì nell’Agosto del 1918 nella nostra timeline, tuttavia in quella di Kaiserreich sì, ucciso da un fanatico menscevico. Questo destabilizzò il morale dei rivoluzionari, e fu un elemento chiave della sconfitta dei sovietici.

5 I Soviet erano i congressi locali dell’Unione Sovietica.

6 “Per la Madrepatria! Per la Repubblica! Avanti!” in russo.

7 Il Mosin-Nagant, fucile di produzione russo-belga, era l’arma principale usata dalla fanteria russa nella Grande Guerra.

8 “Cosa ti passa per la testa, Denikin?” in russo.

 

Salve! Non ci si vede da un po’, eh? Beh, come promesso eccovi il capitolo della seconda settimana di luglio: abbiamo fatto la conoscenza di Filip Armavirich, il rappresentante della Nazione cosacca, mio OC, che si creerà in seguito con il nome di Federazione del Don-Kuban. La Guerra Civile Russa sarà l’argomento dei prossimi capitoli, che tuttavia non avranno una scadenza precisa, sempre per via dell’estate. Quindi, fino ad un contrordine, ogni tanto date un’occhiata per vedere se avrò aggiunto un altro capitolo. Beh, non mi rimane che salutarvi, ringraziarvi per la lettura e per la pazienza con cui avete atteso il capitolo, invitarvi a lasciare una recensione, augurarvi buone vacanze e ricordarvi che, se vi foste annoiati, non s’è fatto apposta. Ciao, alla prossima!

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Capitolo 11
*** Zarevna ***


Zarevna

Kaiserreich

11

Zarevna1

 

Kiev, Ucraina

20 Gennaio 1919

 

Germania uscì dalla macchina lunga e nera che lo aveva portato fin davanti l’entrata del Palazzo Marinskij a Kiev. Il palazzo, ora abitato dalla famiglia reale ucraina, era stato costruito come residenza estiva della zarina Caterina II, e difatti la sua facciata dimostrava la bellezza dello stile rococò russo del XVIII secolo: oltre il cancello metallico ed il muro ornato da statue marmoree si vedeva il giardino alla francese, illuminato da lampioni e la facciata azzurra, che diventata blu per le tenebre notturne e piena di finestre illuminate pareva il cielo stellato. Fu subito accolto da alcuni soldati di guardia ed il maggiordomo di palazzo, che lo scortarono oltre il giardino, conducendolo all’interno dell’edificio. Superato il portone, che si sviluppava in un’arcata sormontata in cima da due statue di marmo, entrò. La sala principale era di una bellezza mozzafiato: il pavimento era composto da mattonelle che formavano un quadrato, il cui perimetro era a motivo greco e che conteneva un cerchio con vari motivi; le pareti erano bianche e dorate, ed il soffitto ornato di bassorilievi aurei e dipinti di splendida fattura; dall’alto calava poi un lampadario di cristallo. Germania osservava immobile la sala con i suoi occhi di ghiaccio, e la sua figura, avvolta in un pastrano grigio e vestita da abiti scuri, risaltava in quel luccichio dorato. Fu richiamato all’improvviso all’attenzione:

“Germania, benvenuto! Hai fatto un buon viaggio?”

Sotto il portale principale che conduceva ad un lungo corridoio orizzontale, Ucraina era apparsa in tutta la sua bellezza. Ekaterina vestiva un abito bianco molto raffinato, con una gonna che si allargava a partire dai ginocchi, nascondendo le scarpe azzurre. L’abito si fermava all’altezza del petto, lasciando scoperte le spalle forti e bianche come la neve e metteva in risalto sia i fianchi che il seno notoriamente grande della slava, che a malapena entrava e lasciava a vedersi una buona parte di sé. Le braccia, muscolose come quelle di una contadina ma affusolate come quelle di una gran dama, erano coperte da maniche bianche che arrivavano a coprire anche le mani. I bordi dell’abito e delle maniche erano caratterizzate da una pelliccia grigia. Germania arrossì alla vista di quello spettacolo a cui nessun uomo avrebbe potuto resistere, soffermando il suo sguardo sottile ed imbarazzato sui grandi occhi zaffiro della ragazza, incastonati in un volto giovanile e rotondo, incorniciato a sua volta dai corti capelli di un biondo platinato. Ludwig si riscosse e si avvicinò ad Ucraina, baciandole la mano e sforzandosi di mantenere lo sguardo sul volto radioso e sorridente dell’altra.

“S-sì, ho fatto un buon viaggio. Mi ha favorevolmente colpito come abbiate rimesso in regola le ferrovie così presto.”

La ragazza arrossì dal complimento sobbalzando, e facendo sobbalzare anche il petto, seguito dalle pupille dilatate dell’imbarazzatissimo tedesco.  

“Oh, c’è ancora molto da fare ed i successi finora raggiunti sono merito soprattutto vostro. Ma perché non ti sei ancora levato il pastrano? Mikhailo, vzyati odyah nashoho hostya i privesti ikh do svoikh pokoiv2.”

Un maggiordomo piuttosto anziano venne e prese il pastrano ed il cappello di Germania e si allontanò verso le stanze designate per l’ospite. Germania rimase così in un abito da incontri ufficiali: un’uniforme nera decorata con medaglie. Al collo, l’immancabile croce teutonica. Appena fu spogliato notò piacevolmente come l’edificio fosse caldo, non essendosi prima reso conto intento ad ammirare le bellezze del palazzo e di chi vi abitava. Ucraina lo invitò a seguirla verso la sua sala da ricevimento. Si incamminarono lungo il corridoio, decorato come la stanza precedente e ricco di vasi, statue, quadri e porte. Ucraina parlava del più e del meno, mentre Germania, che le camminava a fianco, snocciolava qualche monosillabo, poiché la sua mente ed i suoi occhi erano ancora concentrati sulla scollatura, ammirabile in tutto il suo splendore dal ragazzo, di poco più alto. Arrivarono nelle stanze di Ucraina, in particolare in un salottino molto raffinato, ma di modeste dimensioni: il pavimento monocromatico era marmoreo, mentre le pareti erano dipinte d’azzurro, su cui spiccavano le decorazioni dorate; il soffitto era caratterizzato da dipinti raffiguranti la vita dei campi e la natura, il luogo perfetto per Ucraina. La stanza conteneva delle poltrone ed un divano, in cerchio intorno ad un tavolino da caffè, un camino acceso ed un comò. Tutti raffinatamente decorati. Ucraina invitò l’ospite a sedersi su una poltrona, e lei fece lo stesso mettendosi di fronte a Germania.

“Anche questa sala è molto bella.” Notò il tedesco.

“Oh, non è nulla in confronto ai palazzi di Mosca e Pietrogrado3, ma a me piace particolarmente perché raffigura la vita dei campi. Mi permette di rimanere circondata da fiori e colture anche in inverno, quando tutto è in letargo.”

“Una tale passione per il giardinaggio deve essere naturale in queste terre fertili, giusto?”

“Oh sì, tutti in famiglia abbiamo questo pallino della coltivazione: Ivan ama prendersi cura dei suoi girasoli, mentre Natasha4 delle sue bietole5.”

Germania improvvisamente deviò discorso, riconducendosi al motivo per cui era lì a Kiev in quella sera invernale.

“A proposito di Natal’ya, è tempo di parlare di affari politici. Come ben sai tuo fratello è in preda ad una guerra civile…”

“Povero Vanya6! Spero si rimetterà presto.”

“Anche noi ci premuriamo della sua salute e salvezza, e per questo abbiamo deciso di lanciare l’operazione Ostland. Le nostre forze e quelle di Polonia, dei Baltici e di tua sorella attaccheranno i bolscevichi ed aiuteranno Russia a tornare presto in salute e salvo da un disastroso futuro comunista.”

Ucraina lo guardò un po’ confusa.

“Non eri stato tu ad inviare Lenin in Russia? E tra l’altro avete firmato con lui il trattato di Brest-Litovsk. Perché ora volete aiutare i bianchi?”

Germania non si scompose, si sistemò la croce e rispose calmo.

“Abbiamo firmato il trattato con il governo russo allora vigente, ed abbiamo inviato Lenin in Russia per farla uscire dalla guerra, cosa che si è rivelata ottima. Ma adesso dobbiamo guardare al futuro: Lenin e i suoi non mancheranno di diffondere la loro rivoluzione in altri luoghi del pianeta, e presto l’Europa potrebbe trasformarsi in un immenso Stato comunista. Non possiamo permettere che la proprietà privata ci venga sottratta e non possiamo permettere che il popolo prenda il potere. Pertanto noi interverremo.”

Ucraina storse il naso a quelle parole: per quanto non fosse comunista (non aveva neanche letto le opere di Marx), era convinta che il popolo fosse importante e che dovesse essere ascoltato e rappresentato giustamente dalla classe politica.

“E cosa ti ha portato a parlarmi di questo, Germania?”

“Ti chiedo il tuo aiuto. Sai bene che l’Armata Nera di Makhno sta imperversando nelle regioni orientali del tuo Paese, e riceve supporto dai Russi. Unirti a noi nell’operazione Ostland ti permetterà di eliminare questo fastidio.”

Ucraina rimase pensosa per un po’, ma appena aprì bocca per parlare, una porta dietro di lei venne aperta con forza, e da essa uscì vivace una giovane ragazza sui diciassette anni: aveva il viso allungato e dai lineamenti morbidi; il naso era lungo e prominente mentre la bocca composta da due dolci labbra era aperta in un caloroso sorriso, tramutatosi in uno più nobile ed austero alla vista dell’ospite; gli occhi erano piccoli e di un azzurro chiaro e vivo; i capelli castani le arrivavano alle spalle, ed erano raccolti in fronte con una frangetta spumosa; infine, era vestita con un raffinato abito bianco, adornato dal pizzo sulla scollatura e sull’estremità della gonna e delle maniche. La ragazza arrossì imbarazzata e si rivolse ad Ucraina.

“Izvinite, chto vy prervali vas, missis Ukraina, ya khotel pokazat' vam vyshivku, no ya pridu pozzhe.”7

Ucraina le rispose, ma in tedesco:

“Non preoccuparti cara, non ci disturbi. A proposito, voglio presentarti il nostro ospite, Ludwig Beilschmidt, la Germania.”

La giovane fece un inchino mentre Germania si alzò e le prese la mano, mentre Ucraina gli presentava la nuova arrivata.

“Germania, lei è Anastasiya Nikolaevna Romanova, legittima Zarina di tutte le Russie.”

Germania trasalì, e baciò la mano alla gran duchessa mormorando “Vostra Maestà”. La principessa sorrise lievemente, un po’ imbarazzata ed un po’ intimorita.

“Mia cara,” le disse Ucraina “ora torna nelle tue stanze, noi dobbiamo parlare di affari importanti. Ti chiamerò io per venire a cena con noi, sempre che a Germania non dia disturbo…”

“Per me sarà un onore.” Rispose fermamente il tedesco. Anastasiya si inchinò e uscì dalla stanza, facendo risuonare i colpi che i tacchi infierivano sul pavimento ad ogni passo. Appena la ragazza ebbe lasciato le due Nazioni, Germania fissò Ucraina con un’aria incuriosita.

“Perché mi guardi in quel modo?” chiese ingenuamente Ekaterina.

“Beh, non so, forse perché hai dentro casa l’erede al trono di Russia mentre tutto il mondo, compreso me stesso, la credeva morta e sepolta ad Ekaterimburg!”

Ucraina ridacchiò nervosa, ed arrossì.

“B-beh, è una lunga storia e-“

“Ho tempo.” Rispose impassibile Ludwig. Ekaterina sospirò ed iniziò a raccontare.

 

 

Pietrogrado, Russia

10 Luglio 1918

 

Siberia percorreva i corridoi del Palazzo d’Inverno, corridoi dorati e pieni di quadri raffiguranti Zar e Zarine. Quadri appositamente prelevati e dati alle fiamme, e sostituiti con quelli di Lenin e Marx. Non notando le finezze artistiche, abituata a vederle da ben due secoli ormai, la ragazza continuava dritta per la sua strada. Tra i vari funzionari, lavoratori e camerieri che andavano e venivano nel palazzo, Siberia spiccava per la sua altezza, quasi un metro e ottanta centimetri, e la sua bellezza. Vestita in maniera molto femminile, un abito rosa a maniche corte e piuttosto semplice che esaltava il seno, secondo solo a sua sorella Ucraina, si muoveva con leggiadria svettando con la sua figura snella ed imponente. Portava un vassoio sul quale erano poggiati un bicchiere, una caraffa, ed un piatto ancora fumante. Arrivò davanti ad una porta, l’aprì ed entrò nella stanza che si espandeva dietro essa: velata nella penombra provocata dalle tende chiuse, la stanza era grande e sfarzosa, come tutte quelle del Palazzo d’altronde, contenente una grossa scrivania in legno siberiano, un grande specchio con cornice di ambra del baltico, un lampadario di cristallo caucasico e, soprattutto, un grande letto: maestoso, a due piazze, aveva le gambe e lo schienale lignei ed intarsiati con linee dorate ed argentate; i cuscini erano raffinati, bianchi come le lenzuola. Sul letto, coperto dalle lenzuola, vi era Russia, dormiente e malato. Siberia poggiò il vassoio su un comodino, anch’esso di buon gusto, accanto al letto e si chinò verso Ivan per dargli un affettuoso bacio sulla fronte, mormorando un buon giorno con la sua voce dolce e calda. Si raddrizzò con un dolce sorriso in volto, da cui scostò una ciocca dei lunghi capelli argentei, e si avviò verso la finestra aprendo le tende e facendo entrare la luce del mattino.

“Oggi è una bellissima giornata Ivan, dobbiamo approfittarne per prendere un po’ di sole!” Disse mentre prendeva la sedia della scrivania e la posizionava accanto al letto, sedendosi. Non che lei avesse bisogno di molto sole: essendo tartara, aveva una carnagione leggermente più scura di quella di Russia e delle due sorelle, che al contrario era candida come la neve. Posò gli occhi color ghiaccio sul fratello, che sembrava esser preso in un sogno agitato, e perciò gli prese la mano carezzandola coi pollici.

“Dai Ivan, è ora di colazione, non ti vuoi svegliare?”

Non le importava se fossero parole sussurrate al vuoto in quel momento, poiché c’era sempre la speranza che Russia si svegliasse e potesse mangiare dopo giorni di digiuno. Innumerevoli erano infatti i piatti che lei stessa aveva rispedito nelle cucine, vedendo fallire i propri tentativi, ed ultimamente, sebbene fosse giunta la bella stagione, le condizioni di Ivan sembravano peggiorare, tanto che all’inizio di Luglio era rimasto sopito ed inerme per una settimana intera. Ad un occhio esterno, non velato da pregiudizi affettivi, la figura di Ivan pareva pietosa: la pelle bianca era diventata di un colore cadaverico, e da essa si vedevano le vene bluastre; il viso era più scavato, ed aveva perso la sua usuale paffutezza; la massa muscolare era calata, le clavicole affioravano dal trapezio e le rotule dai ginocchi; le dita di piedi e mani erano ossute.  All’improvviso Russia cominciò a tremare, a respirare affannosamente e contrarre i muscoli. Siberia posò rapidamente una mano sulla fronte del fratello, mormorando:

“Va tutto bene, sono qui.”

Dopo un po’ la crisi si calmò, ed Ivan aprì gli occhi: il viola acceso era diventato scuro e spento. Notata la figura accanto a sé, cominciò a parlare con un fil di voce.

“Anastasiya… sei tu?”

“Sì Ivan, sono io, tranquillo.”

Lui sorrise.

“Come sei cresciuta… sei altissima e bellissima. Oh, anche i capelli sono belli, una nuova acconciatura?”

Siberia lo guardò stranito, ma subito intuì: Ivan, delirante, la stava scambiando per la principessa, anche grazie all’omonimia tra loro due. Decise di reggere il gioco.

“Sì signor Russia, sono io.”

Ivan sembrò rendersi conto del suo stato, e chiese a Siberia di scusarsi con lo Zar. Lei lo rassicurò e lo convinse a mangiare un po’ della zuppa che gli aveva portato. Dopo aver finito, Ivan si distese di nuovo, tuttavia prima di assopirsi disse una frase che avrebbe cambiato il destino di molte vite:

“Mi dispiace non poterti proteggere, principessa. Sappiate che se dovesse capitare qualcosa a te, o a tuo fratello, o alle tue sorelle, io…”

“Non pensiamo a queste cose, signor Russia, lei pensi a rimettersi presto.”

Appena Russia chiuse gli occhi, Siberia si alzò e gli baciò la fronte, per poi andarsene a passo svelto. Ripercorse il corridoio, scese le scale marmoree e arrivò davanti ad una porta. Bussò, e da dentro si sentì una voce profonda dire: “Avanti.”. Anastasiya entrò, richiuse la porta dietro di sé e si trovò davanti a lei il signore di quel palazzo: Vladimir Ilich Lenin. Il presidente della Russia Sovietica stava guardando fuori dalla finestra, che si affacciava sul grande giardino del palazzo, adorno di fontane, aiuole, panchine e statue, ed era vestito semplicemente: una giacca marrone, pantaloni beige, scarpe marroni e il tipico berretto proletario.

“Posso fare qualcosa per te, compagna Siberia?” le chiese appena la vide entrare nello studio. Lei si avvicinò un po’.

“Sì, signor Lenin.”

“Ti ho già detto di chiamarmi compagno, no? Comunque sia, di che si tratta?”

“Di mio fratello Russia.”

Lenin scosse la testa e si voltò verso di lei, guardandola con gli occhi profondi ed allo stesso tempo compiaciuti, come mostrava il sorrisetto sotto i suoi famosi baffi.

“Compagno Russia dovrà resistere solo un altro po’, e poi si sveglierà felice del fatto che il suo popolo sarà stato liberato dall’oppressione degli zaristi e dei capitalisti!”

Siberia sorrise di rimando.

“Non ho dubbi, ma riguardo agli zar… vede, Russia è solito affezionarsi alle persone, data la solitudine che ha sempre vissuto sin dalla morte di suo padre Kiev8, e si è particolarmente affezionato ai vari principi e le varie principesse. Gli ultimi non fanno eccezione.”

Lenin la guardò curioso.

“Dunque?”

“Dunque vorrei chiederle il permesso di traferire la famiglia Romanov da Ekaterimburg fin qui a Pietrogrado.”

L’uomo la guardò sorpreso e sbuffò.

“Assolutamente no. Tu mi chiedi di portare la famiglia imperiale nella capitale, sai cosa significa? Che possono benissimo mettersi in contatto con i loro sostenitori.”

“Non ha considerato, però, che le forze bianche siberiane di Kolchak sono nei pressi di Ekaterimburg, e se dovessero liberare lo zar e la sua famiglia, sarebbe un duro colpo per la causa rivoluzionaria.”

Lenin si lisciò il pizzetto pensoso.

“In realtà c’è una soluzione, proposta dal soviet di Ekaterimburg… ucciderli tutti. Hanno già chiesto l’autorizzazione.”

Siberia deglutì pesantemente, temendo che fosse ormai troppo tardi per salvare la famiglia Romanov.

“Tuttavia, ho negato questa autorizzazione,” continuò Lenin “e quindi ti lascerò andare a prelevarli. Li porteremo nei pressi di Tula, però.”

Siberia emise un sospiro di sollievo, e la tensione scivolò via dal viso.

“Grazie, signor Lenin, ha fatto la scelta giusta!”

E se ne andò chiudendo la porta. Dentro lo studio Lenin tornò ad ammirare il giardino, mormorando:

“Me lo auguro…”

 

Ekaterimburg, Russia

17 Luglio 1918

Appena calato il sole, la città industriale di Ekaterimburg era illuminata da pochi lampioni, che facevano luce su parte dei marciapiedi scuri e vuoti. Era già scattato il coprifuoco, e si vedevano solo pattuglie di Guardie Rosse camminare ed esaminare vicoli e strade, con lampade in mano che provocavano il luccichio delle baionette. Anastasiya camminava sola, vestita con una giacca marone pesante, per proteggersi dai venti freddi della sua terra, calpestando volantini, foglie e mattonelle con i suoi stivali. Camminava alla volta del municipio di Ekaterimburg, per parlare con il presidente del Soviet e concordare il trasferimento dei Romanov verso Tula. Arrivò al municipio e fu accolta dal presidente nel suo ufficio, molto modesto ed illuminato da un lampadario appeso al soffitto.

“Compagna Siberia, deve essere stanca, vuole una tazza di tè?” Chiese l’uomo con fare cordiale e con un sorriso di circostanza in volto.

“No, grazie. Ho un compito importante e siamo già in ritardo. Questo è il documento ufficiale di autorizzazione per il trasferimento dei Romanov.” Gli disse porgendogli un foglio scritto a macchina e firmato da Lenin. Il presidente lo lesse e poi guardò Siberia con aria sconsolata.

“Compagna, temo che sia troppo tardi: è già stato inviato l’ordine dell’esecuzione…”

Siberia si alzò di scatto con una forza disarmante ed ergendosi in tutta la sua altezza. Ma più di tutto, il suo volto si era scurito ed i suoi occhi bluastri brillavano su quella maschera contratta dalla rabbia. L’uomo davanti a lei poteva giurare di vedere un’aurea violacea scaturire dal corpo di Anastasiya.

“Come sarebbe? La risposta da Pietrogrado era arrivata, e l’ordine era quello di lasciarli vivi!”

L’uomo deglutì terrorizzato, e tentò di scusarsi, ottenendo come solo risultato quello di fare infuriare ancora di più Siberia, che strinse gli occhi rendendoli due lame ghiacciate e si avvicinò al volto dell’altro fino a fargli sentire il suo respiro freddo come i venti che spirano oltre gli Urali.

“Ora tu farai come ti dico: chiamerai i carcerieri e darai il contrordine, nel frattempo mi avrai dato una macchina e due guardie per andare a trasferirli. Chiaro, compagno?”

L’uomo annuì e Siberia tornò normale e sorridente. Pochi minuti dopo, Siberia era su un camion militare, scortata da un guidatore armato e due Guardie Rosse, alla volta dell’isba9 della famiglia imperiale. Dopo un viaggio di mezz’ora arrivarono vicino all’isba, piuttosto grande per essere una casa da contadini, dove vi erano vari soldati bolscevichi a guardia dell’edifico, la maggior parte dei quali dormiva in una casupola poco distante. Ancora alzati c’erano una decina di uomini, che discutevano intorno ad un tavolo all’aperto, approfittando della piacevole serata estiva. Siberia si avvicinò a loro e chiese chi fosse il comandante ed essi le indicarono un uomo basso e magro, con due baffi fini ed affilati, che usciva dalla cantina della casa insieme a quattro soldati col fucile a tracolla. Siberia li raggiunse all’entrata mostrando il documento al comandante. Questo però la guardò e disse solamente: “Desolato…”. La ragazza strabuzzò gli occhi e scese velocemente nella cantina illuminata da una lampada ad olio appesa ad un muro. Lo scenario che poteva vedere era orribile: davanti a lei, il muro era sporco di grosse macchie di sangue e a terra stavano i cadaveri della famiglia Romanov. Poteva distinguerli tutti: c’era lo zar Nicola, con la barba ispida e rossa del suo stesso sangue; c’era la zarina Alessandra, morta tenendo per mano il marito e stringendo a sé il figlioletto Aleksey, il povero principino affetto d’emofilia e vulnerabile ad ogni taglio, ora dilaniato dai proiettili; c’erano Olga, Tatiana ed Anastasiya, le giovani e belle granduchesse, col volto cadaverico corrucciato in una smorfia di dolore, coi vestiti bucati e sporchi di sangue. Ecco la fine della famiglia imperiale, un ammasso umano su un lago di sangue rosso, rosso come quello degli uomini comuni a lungo oppressi e rosso come la passione, il fervore, la rabbia che li aveva uccisi. Rosso come il comunismo. Siberia trattenne i singhiozzi con le lacrime agli occhi, pensando ad un destino così crudele e giusto che forse era già scritto da secoli.

Ma all’improvviso, tra la massa inerme di corpi morti, ci fu una scossa: un corpo si mosse in una convulsione, che attirò Siberia verso di sé. A muoversi era il corpo butterato, ma ancora vivo, di Anastasiya. Siberia si gettò subito sulla ragazza, sollevandola un poco e notando che alcuni proiettili erano stati bloccati dai gioielli che la principessa indossava sotto il vestito, e miracolosamente i colpi che avevano raggiunto la carne avevano perforato regioni non vitali del corpo. La stessa fortunata sorte non era toccata alle sorelle. Siberia prese Anastasiya e la posizionò nel suo cappotto per nasconderla dagli sguardi dei bolscevichi, che chiaramente l’avrebbero voluta morta, ed uscì lentamente della cantina. Tornata all’aria fresca dell’estate, Siberia si avviò verso il camion. Notata da uno dei suoi accompagnatori, rispose che stava andando a prendere una cosa lasciata nel veicolo, e riuscì a scampare al primo problema. Arrivata, salì sul posto del guidatore e posò Anatasiya sul sedile accanto a lei. Si tolse la giacca e strappò la camicia che aveva sotto di essa, facendo varie strisce a mo’ di bende e tamponando con esse il sangue che sgorgava dai fori, dopodiché pose la giacca sulla ragazza per proteggerla dal fresco vento, mormorando:

“Resisti, principessa.”

E partì il più velocemente possibile verso Sud-Ovest, seminando i soldati che con pochi colpi sparati speravano di colpirla.

 

Kiev, Ucraina

20 Gennaio 1919

Germania era stupito dal racconto. Riuscire a svignarsela in quel modo con una principessa al fianco non era facile.

“Sei sicura sia andata così? Trovo tutto ciò come se fosse un espediente per finire in fretta il racconto…”

Ucraina sorrise ed alzò le spalle.

“Ah, non so, così mi raccontò Siberia. Fatto sta che riuscì a trovare un villaggio, lì fece rifornimento e si fece accompagnare da un medico che salvò la granduchessa fino ad arrivare ad Ekaterinodar, già sotto il controllo del generale Wrangel e di Filip. Dopodiché raggiunse Kerch, dove io la stavo aspettando dato che mia aveva avvertito in precedenza e mi affidò Anastasiya. Beh ora che sai la storia, che ne dici di cenare? Continueremo a parlare di affari diplomatici domani mattina.”

Germania accettò e, presa Ucraina a braccetto, si avviarono insieme verso la sala da pranzo per cenare assieme alla zarevna.

 

Note:

1 Zarevna in russo, ma in generale in tutte le lingue rutene, vuol dire erede, letteralmente figlia dello zar. Il suo maschile è Zarevich.

2 “Mikhail, prendi i vestiti del nostro ospite e posali nelle sue stanze” in ucraino.

3 Pietrogrado, letteralmente Città di Pietro, fu il nome dato a San Pietroburgo durante la Prima Guerra Mondiale, data l’ondata di nazionalismo e anti-germanismo scaturitasi all’epoca. Il nome durò fino al 1924, quando divenne Leningrado.

4 Diminutivo di Natal’ya.

5 Questo è un mio headcanon. Ho pensato che tutti nella famiglia slava avessero questo pallino dell’agricoltura, data la fertilità delle loro terre, ed ho accostato ciò al fatto che le bietole sono uno degli ortaggi più coltivati in quei luoghi ed ecco a voi Bielorussia in versione contadina.

6 Diminutivo di Ivan.

7 “Mi dispiace avervi disturbato, signorina Ucraina, volevo farvi vedere un ricamo, ma verrò più tardi.” In russo.

8 Il Rus’ di Kiev è stato il primo Stato russo nella storia, durante il Medioevo, e di conseguenza calza a pennello come padre di Ucraina, Russia e Bielorussia. Fu ucciso da Mongolia durante la sua invasione dell’Europa orientale. Siberia invece, nonostante sia considerata come una sorella dai tre sopracitati, è stata adottata da Russia durante il suo periodo di espansione oltre gli Urali tra il XVI e il XIX secolo, e durante quel periodo si è velocemente russificata. Naturalmente tutto ciò non è canon, bensì immaginato da me.

9 L’isba è la tipica casa contadina russa, di solito bassa e piccola e lignea, per non disperdere calore.

 

 

Rieccomi, care lettrici e cari lettori! Perdonate il ritardo, ma questo capitolo si è dimostrato essere più lungo del previsto, e per di più ci sono stati vari inconvenienti. Spero non me ne vogliate. Parlando del capitolo, possiamo definirlo il prologo per l’operazione Ostland ed anche l’esaudirsi di una mia piccola ideuccia sul salvataggio di Anastasiya. Badate, su Kaiserreich, la mod intendo, non si è salvata, ma ho deciso comunque di fare questo strappo alla regola per cavalcare l’onda del mito della granduchessa e per presentarvi il personaggio di Siberia, che sarà molto importante in questa storia. Parlando di Siberia, lei è un OC di una mia amica, mentre Kiev è un mio personale OC. Or dunque, cedo che non abbia niente da aggiungere. Ah, naturalmente questa lunga estate è finita e l’inverno sta arrivando, perciò dovrei tornare con la normale programmazione. Dico dovrei perché se ogni capitolo si dimostrerà così lungo temo dovrò cambiare la tabella di marcia. Beh, stavolta ho proprio detto tutto, e non mi resta che ringraziarvi per aver letto, invitarvi a lasciare una recensione, dirmi come immaginate Bielorussia in versione giardiniera, e ricordarvi che, nel caso vi foste annoiati, non s’è fatto apposta. Ciao, alla prossima!

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