Si salva sempre qualcuno

di LoveStoriesInMyHead
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Porpora ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




***


Prologo

 

Mi aggiravo per la sala con occhi distratti. Facevo piccoli passi, lenti ed indecisi. Provavo ad andare a tempo. Tamburellai le dita sull'addome. Il tessuto leggero e scivoloso del mio top faceva sembrare il tocco così estraneo al mio corpo stesso. Non riuscivo a pensare. Non riuscivo a focalizzare nemmeno un punto di questa sala. Vedevo solo immagini confuse che si agitavano. Almeno loro riuscivano a seguire la musica. Li osservavo come fossero animali esotici mai studiati prima. Le luci stroboscopiche mi irritavano gli occhi e mettere a fuoco una sagoma era piuttosto difficile. Mi ero sempre chiesta cosa portasse gli adolescenti a ballare, muoversi a suon di musica ad alto volume. Camminai un altro po' e provai vagamente a divertirmi. Cercai di evitare con tutta me stessa di essere colpita da qualcuno. Mi spostai nell'angolo più remoto della sala ed osservavo. Osservavo tutto. Il comportamento delle ragazze, le luci che alternavano momenti di buio a momenti completamente confusi e disorientanti, i movimenti poco aggraziati dei ragazzi. Cercai di immedesimarmi nelle loro vite. Cercai di sentirmi come loro e, nonostante fossi una loro coetanea, non ci riuscii. Qui, ma in realtà ovunque, non era il mio posto. Un ragazzo mi urtò la spalla. Era leggermente sudato ed il tessuto della sua camicia nera era aderente alla sua schiena. Mi guardò per qualche secondo, probabilmente chiedendosi chi io fossi e perché me stessi in un angolo a fissare la gente. Probabilmente avrà pensato che io fossi strana. Lo capivo, lo pensavano tutti. Poi notai che le sue labbra si erano increspate in un leggero sorriso, come per scusarsi della botta. Non sapevo perché, ma ricambiai il sorriso e per un attimo questo posto non mi sembrava tanto male. Si allontanò con la stessa rapidità con cui era apparso e tornò in mezzo alla folla. Lo guardai ancora per qualche secondo, come se cercassi di trovare qualcosa, anche minima, da salvare in questo ragazzo. Per un attimo ci avevo creduto, ma qualche secondo dopo constatai che non era altro che uno dei tanti. Non c'era niente da salvare. Né in lui né in tutto il resto della folla. Nemmeno in me stessa.

Mi sedetti in uno dei divanetti e provai ad isolarmi. Non sarei dovuta essere qui.

Il ragazzo di poco fa camminava per la sala con un'aria spaesata. La sua mano torturava un bottone della camicia ed i suoi occhi correvano impazienti per la stanza. Si guardò intorno e sul suo viso scorsi una leggera espressione accigliata. Cercava qualcuno. C'era qualcosa in lui che mi spinse a continuare a fissarlo. Si perse nella calca ed il mio corpo lo seguì. Era come se gli avessi voluto dare una seconda opportunità. Come se prima di andarmene volessi constatare che non erano tutti uguali. Che qualcuno in realtà si salvava. Il mio cervello smise di funzionare. Mi feci strada tra la massa di gente e di tanto in tanto intravedevo la sua camicia. Lo vidi uscire dal locale, lo seguii senza esitazione. Uscii dall'edificio poco dopo di lui ed un'aria gelida mi avvolse. Il mio top si spostò con il vento, come se danzasse. Un brivido mi attraversò la schiena e d'istinto incrociai le braccia al petto. Cercavo di essere disinvolta. Lo guardavo con la coda dell'occhio, mentre fingevo di chiamare qualcuno al cellulare. Il ragazzo era appoggiato alla parete, tremava leggermente ed ogni tanto sbuffava. Si accese una sigaretta, forse per riscaldarsi, e si guardò intorno. Le luci gli illuminavano il profilo ed accentuavano il suo naso esageratamente grande e per niente perfetto. In contrasto, riuscivo a notare un filo di barba sul mento ed una piccola cicatrice tra la clavicola e la mandibola. Chissà come se l'era procurata. Come se mi avesse letto nel pensiero, le sue dita corsero sul suo collo, sfiorando la cicatrice, per poi terminare la corsa sulla bocca, toccando la sigaretta, leggiadramente tenuta tra due sottili e definite labbra color albicocca.

«Ti decidi a parlarmi o vuoi restare lì in silenzio?» La sua voce mi distrasse dalla mia analisi e spostò la mia attenzione dalle sue labbra ai suoi occhi. Adesso sembravano molto diversi. Qui fuori, avevano assunto una sfumatura ambrata che gli davano un non so che di magnetico.

«Allora?» insistette.

Non sapevo che rispondere. La musica mi arrivava alle orecchie più sbiadita, lontana. Il muro al quale ero appoggiata sussultò a ritmo mentre il rumore del traffico sovrastava quello della sala della discoteca.

«Scusami. Non volevo essere maleducata» risposi a modo, come sempre. Era il modo migliore per nascondere le emozioni.

Adesso era lui a tenere gli occhi incollati sul mio corpo. Fece un passo verso di me e sussultai leggermente.

«Tu sei la ragazza che ho urtato alla festa, vero?» chiese con lo stesso sorriso di prima. Annuii leggermente.

Assunse la mia stessa posizione e fissò il paesaggio urbano davanti ai nostri occhi. C'era un gran viavai di persone lungo la piazza principale. Una coppia camminava lungo il marciapiede in pietruzze mano nella mano, le vetrine dei negozi erano tutte illuminate, mostrando capi costosi ed alla moda, un anziano portava a spasso il suo cane. Le auto percorrevano le strade con estrema tranquillità, come se la gente si stesse godendo ogni singola cosa, prendendosi il tempo necessario. Era tutto così diverso dall'interno del locale.

«Neanche tu riuscivi a pensare lì dentro?» continuò, rompendo il silenzio e sputando un po' di fumo nell'aria.

«Beh, non c'è molto da pensare in una sala da discoteca» dissi, sollevando le braccia.

«Questo è vero, però credo che tu non abbia fatto altro per tutta la serata.»

«Beccata. Diciamo che questo non è un posto che frequento di solito. Sono più un tipo da soffitta.»

«Soffitta? E che tipo sarebbe?» Accennò una risata.

Non sapevo nemmeno io il perché avessi deciso di parlargli. Però in un modo alquanto bizzarro, mi sentivo sempre più vicina alla normalità.

«Un tipo tranquillo, che legge accanto ad una finestra e sorseggia un tè. Quel tipo. Abbastanza noioso, non trovi?»

«Non direi. Penso sia interessante. Se ti consola saperlo, ogni tanto dipingo. È soltanto un passatempo, ma mi soddisfa. È rilassante. So benissimo che il mio aspetto può far pensare tutt'altro. E devo dire che un po' questa cosa mi piace. Sorprende sempre saperlo.» Sorrise e la sua risata mi echeggiò in testa per ancora qualche secondo.

«Io sono sorpresa.» ammisi sorridendo.

La sua sigaretta era ormai finita e, con un gesto veloce, lanciò il mozzicone oltre una siepe.

Era strano. Mi sentivo strana. Non so spiegarlo, ma in quel momento mi sentivo a posto con l'universo. In quella sera del quindici aprile ero esattamente dove sarei dovuta essere. A conversare con uno sconosciuto ed a godermi l'aria fredda che mi gelava le vene.

Era un bel modo per andarsene, no? Terminare questo percorso con un'ultima bella esperienza. In fondo quello che avevo sempre voluto era sentirmi normale e, quella sera, un po' lo ero stata.

Lo guardai un'ultima volta, con un leggero sorriso in volto. Poi mi voltai, feci un passo, un altro e poi un altro. Il mio piede sinistro toccò l'asfalto. Sentii dei passi ed una mano cercò di tirarmi via. Il tessuto del mio top era troppo scivoloso e gli sfuggì. Penso avesse capito le mie intenzioni, così mi girai e gli dissi addio. Un millesimo di secondo dopo mi contrapposi tra un'auto e l'altra. Sentii le ruote che stridevano contro l'asfalto, delle urla in lontananza ed un'imprecazione da parte del ragazzo conosciuto poco prima. Poi un forte colpo al fianco. Qualche lacrima toccò la mia guancia ed un dolore atroce mi attraversò tutto il corpo. Vidi volare il mio cellulare verso il marciapiede e poi tutto si fece buio. 
Lo aspettavo da tempo, sapete? Finalmente me ne ero andata. Alla fine qualcosa da salvare in quel ragazzo c'era.

 

 

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Capitolo 2
*** Porpora ***




Capitolo uno:

Porpora
 
 

Edric se ne stava lì, immobile. Gli occhi puntati sul corpo della ragazza. Il vento si era alzato e la sua camicia, oramai fradicia, non lo teneva al caldo per nulla. Una goccia di sudore gli rigò la tempia. Gli si seccò la bocca e ci vollero parecchi secondi prima che si accorgesse di avere la bocca spalancata. Deglutì e si inumidì velocemente le labbra, poi fece un respiro profondo. Le gambe gli tremavano violentemente ed a guardarla dall'esterno, la scena pareva congelata, un fotogramma solitario che avrebbe tanto voluto essere soltanto un allestimento, una finzione. Ma era tutto vero e la distesa rossa sull'asfalto non era vernice, il corpo accartocciato su se stesso non era un manichino. E questo Edric sembrava non averlo ancora realizzato.

La persona che stava alla guida della Citroën, che aveva dato fine alla vita della giovane, scese dalla vettura e si fermò a qualche metro di distanza dal corpo. Il suo viso era lo specchio dell'orrore più macabro. L'urto era stato talmente violento da piegare a novanta gradi il busto della ragazza. Il suo viso non mostrava nessun segno di paura o dolore, piuttosto sembrava vagamente sereno, per quanto una morte del genere glielo concedesse. Le sue mani, piccole e dalle dita sottili, erano aperte, come se avesse preso la sua morte con leggerezza.

Era quasi come osservare un quadro meticoloso ed ordinato. Era impossibile non essere catturati dalla maestosità della scena.

Edric si era finalmente svegliato dal suo sonno, come se il suo cervello avesse deciso di mettere a fuoco quel dannato quanto ammaliante scenario. Si mosse verso il corpo e si chinò a guardarla. Non poteva credere che pochi istanti prima avesse conversato con quello che adesso era soltanto un ammasso di ossa rotte ed un lago di sangue, che alle luci della notte pareva nero. Questa visione cruda, che gli si palesò davanti, gli provocò una strana sensazione. Non era la prima volta che vedeva un cadavere, eppure quella sera, il corpo della giovane aveva qualcosa che lo attirava, nonostante avesse assunto una posizione talmente insolita da scombussolare gli stomaci più forti.

Edric si chinò su di lei e la osservò attentamente, paradossalmente solo in quell'istante si accorse della sua immensa bellezza. La sua pelle chiara, che pareva quasi porcellana, contrastava con una costellazione di lentiggini sulle guance e sul piccolo naso all'insù. Folte ciglia nere disegnavano un occhio attento e vivace, che fino a poco prima esitava ad osservare ogni singola linea della figura del ragazzo. Le labbra, carnose e con un sottile strato di rossetto, erano artisticamente macchiate dal sangue che era fuoriuscito a causa del forte urto. I suoi capelli neri, sparsi al suolo in tutta la loro lunghezza, fungevano da contorno al viso più interessante e raffinatamente bello che Edric avesse mai visto.

Questa visione fu bruscamente interrotta dalla donna, che con ostentata calma, cercava di comporre il numero per richiedere un'ambulanza. Come se non si fosse accorta che la ragazza era già trapassata da un pezzo. Si avvicinò al cadavere con passi veloci e corti, la sua gonna svolazzava ad ogni passo. La camicetta era abbottonata alla meno peggio e sul colletto aveva una piccola macchia di vino rosso.

Si accovacciò accanto ad Edric e si mise ad emulare il comportamento del più giovane.

«È morta?» Evidentemente la donna aveva pensato a lungo prima di formulare quella domanda, dall'intonazione si poteva ben capire la fatica nell'aver partorito un quesito così elaborato.

Edric fu tentato di dare una risposta alquanto sarcastica, ma constatando che la donna in questione era decisamente ubriaca, decise di lasciar correre e rispondere semplicemente: «Sì.»

 Subito la donna si poggiò una mano, con le unghie laccate di rosso, sulla bocca ed ansimò, probabilmente pensando alle conseguenze che avrebbe riscontrato. Le sfuggì un gemito e scoppiò in lacrime.

Il piccolo e modesto cervellino della donna doveva elaborare fin troppe informazioni tutte in una volta ed il suo fisico pensò bene di scaricare la tensione vomitando sulle costose e nuove scarpe di Edric, il quale si ritrasse con la velocità di un fulmine, imprecando ad un dio a cui nemmeno credeva. Si allontanò e bofonchiò qualcosa in risposta alle scuse della donna, irritato come un diavolo. Tornò sul marciapiede e si sedette sul piccolo gradino dell'ingresso del locale. Si accese un'altra sigaretta e cercò di scrollarsi via il vomito dalle scarpe.

Nel frattempo, sorprendendo tutta la folla che si era accalcata ad osservare l'accaduto, arrivò l'ambulanza con una rapidità allucinante. I paramedici fecero quel che è la prassi e cercarono di rassicurare la donna, che era arrivata alla fase isterica del superare un trauma. La caricarono di forza sulla vettura e le iniettarono qualcosa, forse per calmarla. Edric pensò che era decisamente un individuo alquanto insolito. Alle sirene dell'ambulanza si unirono quelle di un'automobile della polizia. Scesero dalla vettura due uomini in divisa e cercarono di allontanare la folla che aveva cominciato a fotografare senza vergogna il cadavere della ragazza. Fecero qualche domanda ai paramedici e si diedero appuntamento in ospedale, per effettuare un piccolo interrogatorio alla donna al fine di ricostruire gli ultimi avvenimenti. Uno dei due uomini in divisa camminò verso Edric e si presentò. Interrogò il giovane e constatò si trattasse di suicidio. Ne sembrò quasi felice, perché evidentemente questa rivelazione avrebbe evitato varie rogne sia all'agente che alla donna. Il caso, non appena si fosse capito chi si fosse suicidato, sarebbe stato archiviato velocemente e quella sera sarebbe potuto andare via dalla centrale ad un orario ragionevole. Poco dopo caricarono anche la ragazza e chiusero le porte del furgone.

Le sirene si fecero sempre più lontane e la gente iniziava ad annoiarsi. La folla si disperse ed anche Edric prese la decisione di tornarsene a casa. Dandosi uno slancio con le braccia, si alzò in piedi e, camminando svogliatamente verso la strada, si accorse di un cellulare abbandonato sul marciapiede. Lo raccolse e premette il tasto 'home'. Il display si illuminò ed il giorno e l'ora risaltarono su uno sfondo nero. Si accorse che era da poco passata la mezzanotte e imprecò una seconda volta nell'aver realizzato di dover tornare a casa a piedi, visto che l'ultimo autobus urbano era passato alle ventitré e trenta. Si incamminò lungo la via principale, che in poco tempo si era svuotata e pareva tirata fuori dalle peggiori scenografie di un qualunque film horror. La luce di uno dei tanti lampioni, che costeggiavano la via principale, cominciò a sfarfallare. I suoi passi scandivano il tempo, che in quel momento sembrava scorrere molto più lentamente del normale. Le sue mani giocherellavano con il cellulare e notò che non aveva nessun tipo di protezione. Lo sbloccò con un semplice tocco e curiosò qua e là per capire a chi appartenesse. Quindi entrò nella galleria fotografica e ne fu sorpreso perché non conteneva nessuna foto, figuriamoci un video. Edric provò a dare una spiegazione all'assenza di foto e video, giungendo alla conclusione che si trattasse di un cellulare appena comprato e quindi privo di particolarità che lo potessero ricondurre al proprietario. Andò poi nella rubrica e vi trovò soltanto quattro contatti, rispettivamente: mamma, papà, sorella ed il quarto era un ideogramma cinese, che ai suoi occhi pareva soltanto un insieme di linee a caso. Il quarto contatto gli fece capire il sesso del proprietario. Quel cellulare apparteneva sicuramente ad una ragazza perché alle sue orecchie stonava parecchio il pensiero di un ragazzo che salvava in rubrica la gente con una scrittura in cinese.

Per un attimo pensò di telefonare alla madre, ma accorgendosi dell'orario decise di procrastinare la telefonata alla mattina seguente. Proseguì con la sua ricerca e non trovò altro che un'innumerevole sfilza di playlist di tutti i generi. C'era talmente tanta musica che scartò l'ipotesi di un cellulare nuovo. La galleria vuota quindi gli fece pensare ad una ragazza alquanto brutta ed alternativa. Magari una di quelle che fino a qualche anno fa andavano in giro tutte vestite di nero ed ascoltavano musica rock dalla mattina alla sera. Si sentiva quasi un piccolo Sherlock Holmes e scoprire il proprietario del cellulare era diventata una sua priorità. Lo trovava decisamente intrigante ed il pensiero che potesse appartenere alla ragazza suicida lo infiammava ancora di più.

Quando arrivò al suo pianerottolo, si tolse le scarpe, le tenne con la punta delle dita ed entrò in casa. Subito il suo gatto iniziò a miagolare ed a strusciarsi tra le caviglie del ragazzo. Lo scostò con delicatezza e si avviò lungo il corridoio, fermandosi al bagno per lasciare le scarpe sul lavandino. Proseguì verso la sua camera e si liberò dai vestiti, che avevano cominciato a pesargli addosso. Infilò un vecchio pigiama e tornò in cucina. Aprì una scatoletta di cibo per gatti e la lasciò sul tavolo. L'animale con un veloce balzo raggiunse la latta ed iniziò a mangiare con Edric che lo osservava distrattamente. Il ragazzo si passò una mano tra i capelli e abbandonò la stanza. Si diresse al suo studio ed accese la sua lampada da lavoro. La puntò sulla tela immacolata e frugò nel cassetto della sua scrivania. Selezionò i pennelli che avrebbe voluto usare e scelse i colori giusti.

Gli piaceva dipingere, ma ancora di più gli piaceva farlo in penombra. Gli dava un non so che di misterioso. Il buio lo ispirava. E quella sera aveva visto l'oscurità nella sua massima forma: la morte. Più ispirazione di così si muore continuava a ripetersi, mentre faceva piccole e veloci pennellate color porpora sulla tela. Rise sommessamente e dipinse la morte della ragazza. Più ispirazione di così si muore. Letteralmente. 

 


 

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