Un giorno a Parigi

di Yugi95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Una coccinella senza ali ***
Capitolo 2: *** Capitolo II – Un sussurro nel vento ***
Capitolo 3: *** Capitolo III – L’abbraccio del silenzio ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Il gemello ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Una coccinella senza ali ***


Capitolo I - Una coccinella senza ali
 
Non appena l’ascensore raggiunse il quarto piano dell’hotel “Le Grand Paris”, le sue scintillanti porte dorate si spalancarono consentendo ai suoi occupanti di uscire. Tra questi vi erano due ragazze che, a differenza degli altri ospiti dell’albergo spaesati dalla grandezza e dall’estrema eleganza del luogo, s’incamminarono con decisione lungo uno dei corridoi che dal pianerottolo portava alle camere della struttura. Entrambe procedettero spedite verso la loro “meta”; tuttavia una di esse dovette fermarsi diverse volte poiché affaticata dal peso di ingombranti buste di plastica e carta recanti i loghi delle più importanti boutique parigine. L’altra, invece, annoiata dalle continue “pause” dell’amica, non la degnò della benché minima attenzione e lasciando svolazzare la sua bionda coda di cavallo nell’aria, giocherellò per tutto il tempo con il proprio cellulare. Impiegarono circa un paio di minuti per raggiungere un’imponente porta a due ante in legno laccato di bianco e decorata con raffinati ghirigori dorati. A quel punto la giovane e improvvisata portaborse poggiò delicatamente le numerose buste sulla moquette e, dopo aver preso dalla tasca dei suoi pantaloncini celesti un fazzoletto di stoffa ricamato, si asciugò il sudore dalla fronte. L’amica dapprima la scrutò con uno sguardo a metà tra la disapprovazione e il ribrezzo, poi, cercando di richiamarne l’attenzione, si portò la mano chiusa a pugno all’altezza della bocca e fece finta di tossire. Il gesto, per quanto potesse risultare alle orecchie di un “estraneo” impercettibile ed insignificante, ebbe l’effetto desiderato. L’altra, infatti, risistematasi degli spessi occhiali sul naso, sembrò quasi scattare sull’attenti e, una volta riprese tra le braccia le numerose e pesanti borse, spalancò con non poca difficoltà una delle ante in legno. La bionda, senza proferire parola, entrò nella propria suite del “Le Grand Paris” seguita dalla sua instancabile compagna, alla quale con un semplice gesto della mano indicò dove sistemare quello che ormai era un chiaro “retaggio” di un intenso pomeriggio di shopping. Fatto ciò la ragazza con gli occhiali, finalmente libera dai suoi “doveri”, sprofondò in una comoda poltrona rosa e, rivolgendosi alla sua amica, bisbigliò con voce carica di rammarico:
«Chloé, perdonami per averti rallentato così tanto. Le buste erano troppo pesanti…».
L’altra, dopo essersi distesa su un lungo divano anch’esso di colore rosa, replicò distrattamente:
«Dovresti fare un po’ di palestra Sabrina. Quest’oggi ho preferito “trattenermi” con gli acquisti, ma non sarà sempre così. Ho bisogno che tu sia abbastanza allenata… altrimenti sarò costretta a fare a meno di te».
«No! Cioè… non… non preoccuparti non ce ne sarà bisogno» si affrettò a replicare l’altra, temendo di essere sostituita - «Chiederò a papà di sottopormi allo stesso allenamento, che svolgono i cadetti della polizia di Parigi. Vedrai che non ti deluderò».
«Lo spero per te. Dopotutto sai bene quanto siano delicate le mie mani: non possono essere certo sottoposte ad uno sforzo simile» concluse, acida, Chloé, mentre sfogliava una rivista di moda.
Sabrina annuì più volte con la testa provando nei confronti dell’altra un estremo senso di gratitudine… gratitudine nata dalla seconda possibilità che le era stata appena concessa. La figlia del sindaco di Parigi, colpita dalla reazione della ragazza, abbozzò un leggero sorriso e continuò nella sua lettura. Poco dopo, però, annoiata e offesa dalle numerose fotografie, che ritraevano il suo amato Adrien con il cappello disegnato e realizzato dall’odiata Marinette, lasciò perdere il magazine. Di conseguenza, non sapendo cosa altro fare per trascorrere al meglio quel noioso pomeriggio, recuperò il telecomando del suo gigantesco televisore a schermo piatto e lo accese. Stava andando in onda un’edizione speciale del notiziario dedicata all’eroico salvataggio di Gabriel Agreste da parte di Ladybug e Chat Noir.
«Caspita! Certo che questo “Simon dice”, o come diamine si fa chiamare, ha combinato davvero un bel casino» esclamò Sabrina con voce meravigliata.
«Già…» sentenziò Chloé a denti stretti.
«Fortuna che c’erano Ladybug e Chat Noir: il signor Agreste non poteva chiedere di meglio» continuò, euforica, l’altra, mentre con la propria mano destra imitava il lancio dello yo-yo dell’eroina di Parigi.
«Sabrina…» sibilò l’amica improvvisamente - «Perché non vai in cucina a prendere un po’ di sushi? Lo shopping di quest’oggi mi ha distrutta, sto letteralmente morendo di fame».
«D’accordo. Vuoi… vuoi dell’altro?» le chiese, perplessa, la sua compagna di banco, avvicinandosi alla porta d’ingresso.
«Nient’altro! Assicurati che il pesce sia fresco… sai bene che non mangio le schifezze in scatola» la liquidò la bionda senza prestarle troppa attenzione.
Sabrina fece di “si” con la testa, poi uscì dalla camera chiudendosi la porta alle spalle. Chloé, ormai rimasta sola, rimase per alcuni secondi seduta sul divano ad aspettare che l’amica si allontanasse. Una volta che ne ebbe avuto la certezza, spense il televisore e, quasi si stesse trascinando, raggiunse il proprio letto sul quale si lasciò languidamente cadere. Chiuse gli occhi e rigirandosi più volte su se stessa cercò di addormentarsi o almeno di “staccare la spina” al cervello per alcuni minuti. Il tentativo, però, si rivelò ben presto vano: non riusciva a non pensarci… non riusciva a cancellare quell’immagine dalla sua testa. In preda allo sconforto la ragazza si posizionò sul bordo del materasso e, stringendo a sé un grande peluche a forma di coccinella, rimase a fissare il proprio guardaroba. Era come se stesse aspettando che un qualche cosa o un qualcuno facesse capolino tra i numerosi vestiti. Era in attesa di una risposta… una risposta che avrebbe messo finalmente a tacere la miriade di dubbi, sogni e paure che le opprimevano la coscienza. Chloé trascorse diverso tempo in quello stato catatonico, ma nulla di tutto ciò che la sua più fervida immaginazione avesse ardentemente sperato accadde. Di conseguenza decise di alzarsi… di prendere in mano lei stessa la situazione. Si rimise in piedi e portandosi dietro il pupazzo di stoffa, si diresse all’armadio posizionandosi di fronte ad esso. A quel punto estrasse dalla tasca della giacca un piccolo telecomando nero dotato di due pulsanti rossi. La bionda, continuando a mantenere la coccinella di peluche per una delle sue antenne, accarezzò con il pollice per alcuni istanti il bottone posto a sinistra dell’impugnatura; poi senza indugiare ulteriormente esercitò una leggera pressione su di esso. Nella camera della ragazza riecheggiò un sordo rumore di ingranaggi, mentre il pannello posteriore del guardaroba svelava una specie di scomparto segreto, all’interno del quale si trovava una perfetta replica del costume di Ladybug. L’attenzione di Chloé fu immediatamente rapita da quel vestito così particolare, quasi fosse rimasta ipnotizzata da quei pallini neri su sfondo rosso. Senza neanche rendersene conto mosse un paio di passi in avanti e tese il proprio braccio tremante verso di esso. Tuttavia appena ne sfiorò la superficie in lattice, ritirò subito la mano portandosela al petto e iniziò ad osservarla con orrore. Dopo la serie di sfortunati eventi che l’avevano portata ad essere Anti-bug, aveva giurato a se stessa che mai e poi mai avrebbe rivestito i panni di Ladybug… i panni della sua adorata eroina. Era stanca di fingere, stanca di recitare un ruolo che non le apparteneva. Lei era Chloé Bourgeois: la cinica e antipatica figlia del sindaco di Parigi, la ragazzina viziata pronta a tutto pur di ottenere qualsiasi cosa desiderasse. Troppo distante da Ladybug… troppo distante dal rispetto e dall’amore che un’intera città le tributava. Amore… dopotutto era questo quello che voleva: desiderava essere amata, desiderava che altri, oltre Sabrina e suo padre, le volessero bene per ciò che era. Strinse più che poté il pugno intorno all’antenna del pupazzo e, pervasa da un insopportabile senso di vergogna, chinò il capo mentre rivoli di calde lacrime le rigavano il candido viso. In quello stesso istante la porta della camera si spalancò e un’accomodante voce maschile si “fece avanti”.
«Mi perdoni l’intrusione signorina Bourgeois. Ho provato a bussare, ma lei non mi ha risposto. Non avendo notato alcun cartello con la scritta “non disturbare”, mi sono preoccupato e ho deciso di entrare per assicurarmi che stesse bene».
«Non… non fa niente, per… per questa volta ti perdono» balbettò Chloé, cercando di soffocare i singhiozzi - «Ciononostante gradirei sapere per quale motivo sei venuto nella mia stanza».
«Certamente. Ho incontrato la signorina Sabrina nelle cucine dell’albergo in cerca di cibo per lei e quindi ho ritenuto opportuno preparare per entrambe» rispose il maggiordomo dell’albergo con riverenza.
«Capisco… fa pure allora» replicò la ragazza senza voltarsi.
L’uomo, però, non si mosse dall’uscio della camera e, avendo immediatamente notato lo strano atteggiamento della ragazza, le chiese:
«C’è qualche cosa che non va, signorina Bourgeois? Come mai ha “rispolverato” il suo vestito da Ladybug? Credevo che non ne volesse più sapere di giocare a fare la supereroina: ha forse cambiato idea?».
Chloé rimase inizialmente in silenzio, limitandosi a prendere dei rapidi e profondi respiri al fine di calmarsi; poi con la voce rotta dall’emozione esclamò:
«Secondo… secondo te lei cos’ha più di me?».
«A chi si riferisce signorina?» replicò, ingenuamente, il maggiordomo, nonostante avesse capito l’allusione.
La bionda, tremando come una foglia, abbracciò la coccinella di pezza e, continuando a dare le spalle al suo interlocutore poiché non sopportava l’idea che gli altri la vedessero così vulnerabile, piagnucolò:
«A lei… a Ladybug. Perché riesce a compiere delle imprese eccezionali? Perché riesce ad avere amici sinceri e il loro appoggio incondizionato? Perché riesce ad essere amata da ogni singolo abitante di Parigi? Perché riesce… perché riesce dove io, invece, fallisco sempre?».
L’uomo rimase profondamente colpito dalle parole della “sua” signoria: in tutti quegli anni di onorato servizio presso l’albergo di suo padre, non l’aveva mai vista in quelle condizioni. Percepì una stretta al petto e quasi in contemporanea una sgradevole sensazione allo stomaco, come se qualcuno l’avesse colpito con un pugno. Non riusciva a sopportare tutta quella disperazione… tutto quel dolore provato da una fragile ragazzina a cui voleva tanto bene. Espirò profondamente e, superato un momento d’iniziale incertezza, decise di avvicinarsi a Chloé. Quest’ultima, sentendo lo scricchiolio del pregiato parquet in legno provocato dai passi del maggiordomo, si girò di scatto verso di lui. Aveva intenzione di respingerlo, avrebbe voluto cacciarlo dalla propria stanza e ordinargli di non tornare mai più. Avrebbe voluto… ma non ci riuscì, non riuscì a rifiutare quell’atto di disinteressata gentilezza che il dipendente si apprestava a compiere. L’uomo, infatti, si posizionò davanti la figlia del suo principale e, porgendole un fazzoletto di seta per asciugarsi le lacrime, con il sorriso sulle labbra le disse:
«Mia cara signorina Bourgeois, lei deve comprendere che l’amore e l’affetto non possono essere pretesi. Nessuno può obbligare qualcun altro a provare questi sentimenti… nessuno li può forzare. Ladybug e Chat Noir li hanno conquistati mettendo costantemente le loro vite in pericolo, sacrificando loro stessi per un bene superiore: la salvezza di Parigi e dei suoi abitanti. Per entrambi non è stato affatto facile fare breccia nel cuore delle persone, come non lo è per chiunque su questa terra. Mi ascolti: non è l’essere la figlia del sindaco di Parigi che le permetterà di ottenere il rispetto degli altri; non è l’essere una ricca e spregiudicata ragazza di città che le permetterà di vantare l’ammirazione dei suoi compagni; non è l’essere un supereroe che le permetterà di ricevere l’amore che merita. Sono le nostre azioni, le nostre emozioni, i sogni, le paure a definire realmente chi siamo e cosa possiamo aspettarci dal mondo che ci circonda. Sa perché Ladybug riesce sempre in tutto o, come lei stesso ha detto, dove lei non è in grado? La risposta è molto semplice: lei è se stessa… quella che vede svolazzare tra i palazzi non è Ladybug la supereroina, ma una semplice ragazza alla quale il destino ha affidato una missione più grande di lei… più grande di tutti noi. Lei deve scoprire chi sia la reale Chloé Bourgeois e cosa voglia realmente dalla vita. Solo in questo modo potrà dare un senso a tutto questo… un senso alla sua esistenza».
«Sei… sei… sei davvero convinto di quanto stai dicendo?» singhiozzò la ragazza.
«Assolutamente… parola di Super Baffo» replicò, dolcemente, il maggiordomo, facendole l’occhiolino.
«Quindi l’unico modo per essere felice consiste nel comprendere appieno me stessa, giusto?» domandò la bionda, tirando su con il naso.
«Esatto!» concluse l’uomo risolutamente - «Soltanto allora potrà realmente essere amata dalle persone a cui tiene maggiormente, soltanto allora potrà diventare la più grande di tutte le eroine, soltanto allora… potrà spiegare le sue ali verso il meraviglioso futuro che l’attende».
Chloé rivolse i suoi lucidi occhi azzurri verso quelli dolci del suo interlocutore e, lasciandosi del tutto andare alle proprie emozioni, scoppiò nuovamente a piangere. Questa volta, però, le sue furono lacrime di gioia e gratitudine. Gratitudine che dimostrò per la prima volta abbracciando il suo fidato maggiordomo, il quale fu ben lieto di ricambiare quel gesto del tutto inaspettato, e bisbigliandogli nell’orecchio parole d’affetto:
«Grazie… per tutto ciò che hai fatto e soprattutto per tutto ciò che continuerai a fare per me».
 
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Note dell’autore: Buonsalve a tutti!!! Innanzitutto perdonate l’improvvisa “intrusione” in questo fandom XD.  Mi presento: sono Yugi95, ma come dico sempre… se vi fa piacere chiamatemi semplicemente Yugi ;D. Era da un po’ di tempo che avevo in mente una storiella a tema “Ladybug” (in realtà più di una… ma lasciamo perdere queste sottilette, scusate volevo dire: sottigliezze). Tuttavia a causa di un patologico senso d’insicurezza esistenziale, mi ero astenuto dal postarla fino a quando una mia amica non mi ha incoraggiato a compiere “questo passo” ^-^. Non sono un nuovo membro della community di EFP… community che frequento (e annoio XS) da ormai più di un anno. Tuttavia, sebbene abbia già postato un “qualche cosa” di mio in un’altra sezione del sito, questa rappresenta in assoluto la mia prima fanfiction a tema Miraculous 😃. Di conseguenza vi chiedo di mostrare un po’ di clemenza verso la storia ahahahahahahahahah. Venendo al contenuto della fanfict (eh… si, se ve lo state chiedendo mi piace analizzare e soprattutto criticare le “fesserie” che scrivo XD) cosa posso dirvi? Beh… come avrete sicuramente capito, la one-shot è incentrata esclusivamente sul personaggio di Chloé Bourgeois e cerca (non sono sicuro di esserci riuscito D:) di analizzarne un po’ la psicologia (mamma mia che parolone ho usato ahahahahahaha). In particolare affronta, attraverso un rapido scambio di battute tra il maggiordomo e la ragazza, la ragione per cui quest’ultima è così ossessionata dalla figura di Ladybug. I motivi che mi hanno spinto a cimentarmi in quest’impresa sono essenzialmente tre. 1) Fin dalla prima volta che ho visto il cartone animato, sono rimasto colpito dal personaggio di Chloé arrivando ad adorarla nonostante il suo carattere… diciamo… diciamo particolare XD. 2) Ho notato che in questo fandom il 99.9% delle storie è incentrato (com’è giusto che sia XD) su Marinette e Adrien… quindi mi piaceva l’idea di “uscire dagli schemi”. La cosa, inoltre, mi ha divertito parecchio perché nella sezione, in cui normalmente scrivo, accade esattamente l’opposto ahahahahahahahahah. Lì i personaggi principali sono snobbati (una in particolare… la detestano proprio XS) e gli vengono preferiti quelli secondari o addirittura i terziari (non credo sia azzeccato come termine… ma penso che ci siamo capiti). 3) L’immagine, che vedete in alto al capitolo, realizzata da cascend.tumblr.com (magari l’avessi fatta io… sono un disastro con la matita T.T), mi ha fornito l’ispirazione definitiva XD. Avevo per la testa diverse fanfiction dedicate a Chloé (ovviamente questa compresa) e conseguentemente non riuscivo a decidermi quale dovessi scrivere per prima. La fortuna ha voluto che beccassi la fanart di cascend su Pinterest… grazie alla quale mi sono finalmente convito :D. Anche la scelta di inserire il maggiordomo non è stata casuale. All’inizio avevo pensato che tale ruolo di confidente spettasse di diritto a Sabrina, ma, dopo aver rivisto l’episodio “Anti-bug”, ho optato per il fedele Super Baffo ahahahahahahahahah. Spero che tale “presenza” nella storia sia stata di vostro gradimento ;D. Beh… penso di avervi detto tutto (era anche ora… starete pensando voi XS), scusate la lunghezza di queste note chilometriche: a mia discolpa vi giuro che sono sempre così se non più lunghe XD. Sinceramente non so se continuerò a pubblicare altre one- shot a tema Miraculous, diciamo che molto dipende da come andrà con questa. Vi prego solo di non fraintendermi: non sono alla disperata ricerca di “fama letteraria”. La verità è che già mi dà fastidio togliere spazio ad altri autori che pubblicano di consueto su questo fandom, figuriamoci se continuassi a farlo sapendo che le storie non sono di vostro gradimento T.T. Si lo so… sono un personaggio strano ahahahahahahahahah Mi auguro davvero che la storia vi sia piaciuta e… e niente alla prossima (forse XD) :D :D :D.

Yugi95

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Capitolo 2
*** Capitolo II – Un sussurro nel vento ***


Capitolo II – Un sussurro nel vento
 
Pioveva… pioveva ormai da tre giorni. Dal plumbeo cielo, che silenziosamente sovrastava la città di Parigi, cadevano innumerevoli stille di pioggia. Queste, facendosi trasportare dal vento e dalla forza di gravità, fendevano come spade la fredda aria d’autunno, finché non impattavano al suolo terminando la loro folle corsa. Nelle pozzanghere si riflettevano le luci della città, la sua vitalità, la sua essenza. Come un fiume nel pieno delle sue forze, folle di ombrelli multicolori fluivano per le strade di Parigi. I loro movimenti, armoniosi e sincronizzati, mimavano una sorta di danza, un ballo lento ma inevitabile che racchiudeva un profondo significato di unità e compostezza. Tra di essi, spiccava però un grazioso ombrellino azzurro, che, nonostante cercasse di imitare l’andatura degli altri, risultava costantemente fuori tempo. Simile ad una nota stonata che viene coperta dal dolce suono delle sue “compagne”, si faceva largo tra quella moltitudine sperando che la sua presenza non fosse notata. Tuttavia, un ingranaggio, per quanto possa essere grande e complesso, necessita che ogni suo pezzo, anche quello più piccolo, funzioni alla perfezione.
«Ehi, sta attenta! Mi stai bagnando tutta la schiena!» ringhiò un uomo sulla cinquantina.
«Mi… mi scusi. Non… non era mia intenzione» balbettò, timidamente, una ragazza dai capelli biondi indietreggiando leggermente.
«Bene!» sentenziò l’altro, per poi sparire tra la folla imprecando contro i giovani d’oggi e la loro superficialità.
Aurore rimase immobile, la sua bocca spalancata. Avrebbe tanto voluto replicare alle parole di quell’energumeno, ma non ne ebbe la forza. I suoi tristi occhi blu si perdevano nel vuoto, mentre i passanti, intenti a raggiungere al più presto un caldo e asciutto riparo dalla pioggia, sfilavano rapidamente ai suoi lati. Nessuno sembrava accorgersi di lei, nessuno sembrava percepire la sua presenza… nessuno sembrava interessarsi della sua sofferenza. Era un fantasma, un’ombra insignificante, un mero riflesso della persona sicura e determinata di un tempo. Un’improvvisa raffica d’acqua la ridestò dalla trance sollevando prepotentemente la gonna del suo vestito azzurro. Fu allora che la sentì, una voce fredda come il ghiaccio, minacciosa come una tempesta. Nulla più che un sussurro nel vento… impercettibile e senza senso per chiunque altro, ma non per lei. Si girò di scatto spaventata, alle sue spalle non vi era però nessuno. Riprese a camminare, veloce… sempre più veloce, senza mai voltarsi indietro. Il respiro era mozzato, il petto sembrava stesse per esploderle, lo sguardo era alla disperata ricerca di un qualcuno o di un qualcosa che potesse aiutarla. Percepiva la sua presenza, sentiva il suo fiato sul collo… quella terribile voce nella sua testa.
«Aurore. Aurore, vieni da me».
Si fermò, le gambe le facevano male, il volto era pallido e gli occhi irrorati eccessivamente di sangue. Nonostante avesse preferito continuare per la propria strada, ebbe l’inarrestabile impulso di girarsi ancora una volta. Voleva essere sicura, sicura che non la stesse seguendo, sicura che non potesse nuovamente farle del male. Erano lì, tra la folla di parigini e ombrelli, due iridi viola acceso che la fissavano insistentemente. Aurore ricambiò quello sguardo, benché terrorizzata, non riusciva a farne a meno. Doveva capire, doveva “toccare con mano” quella persona. Tremando come una foglia, si mosse nella sua direzione e tese il braccio destro in avanti. Ad ogni suo passo quegli occhi assumevano sempre più consistenza, i lineamenti del viso si facevano più marcati e il corpo perdeva quel suo aspetto etereo. Era a pochi centimetri dal suo obbiettivo, a breve avrebbe potuto avere tutte le risposte… risposte che ormai desiderava da fin troppo tempo. Aprì il palmo della mano per poter accarezzare quel viso di porcellana, ne sfiorò la fredda guancia… poi tutto svanì e Aurore, spinta accidentalmente da una coppia di fidanzati, si ritrovò in una pozzanghera.
«Perdonaci. Non ti abbiamo vista in tempo» esclamò una ragazza dai capelli neri, raccolti in due ciocche poste ai lati della testa
«Ti sei fatta male? Ti serve una mano per rialzarti?» aggiunse il suo compagno, passandosi nervosamente la mano tra la bionda chioma a causa di quell’imbarazzante situazione.
Aurore non rispose nulla limitandosi a fissare i due. Era lì, fino ad un attimo prima… lei era lì. L’aveva vista, la stava per toccare. Finalmente avrebbe potuto dare un senso a tutta quella situazione, finalmente avrebbe potuto capire cosa le stesse accadendo.
«Aurore, ti sto aspettando».
Ancora una volta, ancora una volta quella terribile voce le rimbombò nella testa. Non voleva più sentirla, non voleva più avere niente a fare con lei. Si mise in piedi e, incurante delle offerte di aiuto della coppia, si allontanò velocemente da quel luogo, dimenticando il suo amato ombrello per terra.
«Aurore, è inutile scappare».
La voce diventava sempre più insistente, mentre i passi concitati della ragazza si erano ormai trasformati in una corsa disperata. Aveva bisogno di aiuto, erano settimane che se le ripeteva. Aveva bisogno di qualcuno che la facesse smettere, di qualcuno che la salvasse dalle sue grinfie. Era disperata, non sapeva a chi rivolgersi… l’unica cosa che poteva fare era andare via, andare via il più lontano possibile da lei. Abbandonò la strada principale rifugiandosi nei vicoli della città.
«Vogliamo giocare a nascondino? D’accordo».
Percepiva la sua presenza. Nonostante stesse cercando di mettere sempre più distanza tra sé e lei, continuava a sentire il suono delle sue parole, continuava a sentirsi braccata come un’animale. Correva, correva senza avere una meta precisa, senza avere un posto dove poter essere al sicuro. La pioggia, sua unica “amica” in quella circostanza, l’aveva accompagnata per tutto il tempo. Era completamente bagnata, il suo bel vestito si era trasformato in un vecchio straccio logoro. Aveva freddo, le braccia erano percorse da continui tremori, mentre le caviglie avevano iniziato a gonfiarsi. Avrebbe voluto fermarsi; avrebbe voluto lasciarsi andare e farsi prendere; avrebbe voluto… ma decise diversamente, decise di non arrendersi.
«Aurore, smettiamola con questa farsa».
Si costrinse ad ignorarla, non poteva cedere. Strinse i denti e, chiudendo gli occhi, svoltò in uno stretta e oscura stradina abbandonata. Sperava che le tenebre e la solitudine le avrebbero concesso la protezione che stava cercando, la protezione che tanto desiderava. Il tentativo fu però vano, anzi peggiorò soltanto le cose. A causa dell’asfalto sconnesso e scivoloso, la ragazza perse l’equilibrio ritrovandosi nuovamente a terra. Questa volta la caduta fu ben più grave e, oltre a strapparle in più punti il vestito e le calze, le procurò diversi lividi ed escoriazioni.  Aurore non ebbe la forza di rialzarsi. Era troppo stanca per poter scappare, troppo indifesa per potersi difendere. Rigiratasi sulla propria schiena, contemplò le grigie nuvole che si trovavano sopra di lei, mentre dagli occhi fuoriuscivano rivoli di lacrime.
«Sei caduta? Mi dispiace».
Si portò le mani alle orecchie al fine di tapparle. Ciononostante, continuò a sentire quell’odiosa voce. Era una parte di sé, non poteva semplicemente “lasciarla fuori”. Doveva imparare a conviverci, doveva accettarla e farla propria.
«Aurore. Aurore, alzati. Torniamo a casa, insieme».
Quell’ultima parola colpì la ragazza nel profondo. Era stata pronunciata con strana dolcezza, una dolcezza che incuteva terrore.
«Forza, andiamo. Fidati di me».
Esasperata da quelle continue richieste; esasperata da quella persona invisibile a tutti tranne che a lei; esasperata da quella sua condizione, ormai ad un passo dalla follia; Aurore fece appello a quella poca lucidità, che ancora possedeva, e rivolgendosi al nulla, gridò:
«Sparisci! Non voglio più sentire la tua voce; non voglio più vedere i tuoi occhi alle mie spalle; non voglio più percepire la tua angosciante presenza. Va via e lasciami in pace!».
«Io non posso sparire, non adesso».
«Perché?! Perché non vuoi smetterla di perseguitarmi?».
«Perché… io sono te e tu sei me. Siamo destinate a stare insieme, anche adesso».
Preoccupata dal significato di quelle parole, Aurore si alzò da terra e, barcollando a causa delle ferite, si guardò intorno alla ricerca della sua misteriosa interlocutrice. Il vicolo era deserto, non c’era nessuno al di fuori di lei e del suo triste riflesso in una spoglia vetrina di un vecchio negozio abbandonato. La ragazza indugiò a lungo sulla sua immagine, scrutandone ogni dettaglio, ogni fattezza del proprio corpo. C’era qualcosa di strano, sembrava quasi che il suo riflesso le stesse sorridendo. Trascinandosi la gamba sinistra ancora dolorante, si avvicinò alla vetrina e poggiò le sue mani su di essa. La sua immagine speculare, però, non imitò il gesto. Rimase stranamente immobile, le labbra increspate in una smorfia di divertito disprezzo.
«No, non può essere. Non puoi essere ancora qui» sibilò, sconcertata, Aurore, mentre inizia finalmente a realizzare cosa stesse succedendo.
«Invece è così. Non me ne sono mai andata… sono sempre rimasta con te».
In quello stesso istante, il riflesso della giovane subì una metamorfosi. I biondi e lisci capelli di Aurore lasciarono posto ad una crespa chioma bianca e viola. Il suo vestitino azzurro si trasformò in un attillato costume viola dalle maniche bianche. Sul viso, infine, comparve una maschera, mentre nella sua mano destra uno strano ombrello viola. La ragazza spaventata da ciò che i suoi occhi le stavano mostrando, indietreggiò di alcuni passi e, colpendosi le tempie con i pugni, mormorò:
«No, no, no! Non sei reale, tutto questo non è reale. Sta avvenendo semplicemente nella mia testa».
«Nella tua testa? Forse. Non è reale? Sbagliato!».
Aurore si tastò il viso alla ricerca di un’eventuale maschera. Allo stesso modo osservò i propri vestiti in modo tale da capire se fossero stati sostituiti dal costume. In entrambi i casi non notò alcun mutamento. Eppure il suo riflesso continuava a restituirle quell’immagine che tanto aveva odiato e cercato di dimenticare: l’immagine di Tempestosa. Ricadde sulle proprie ginocchia e, coprendosi il volto con le mani, scoppiò a piangere. Era stremata da quella situazione paradossale; stremata dalle continue insistenze del suo alter-ego; stremata dalla pazzia che pian piano le stava pervadendo l’animo.
«Suvvia, non piangere. Dopotutto non ne hai alcun motivo, io non ti ho mai fatto del male. Io… voglio solo il meglio per te, il meglio per noi».
«Ti supplico, lasciami da sola. Non voglio tornare ad essere te: hai causato fin troppi guai in passato».
«Aurore, tu non puoi fare a meno di me e di ciò sei pienamente consapevole. Se sono tornata è perché sei stata tu a volerlo».
«Non è vero! Stai mentendo» piagnucolò l’altra stringendo le proprie braccia ai fianchi e iniziandosi a dondolare a vanti e in dietro.
«Questa volta non vi è alcuna Akuma ad influenzarti, nessun Papillon a dirti cosa o non cosa fare. Questa volta siamo solo io e te, anzi sei solo tu e il tuo disperato bisogno di tornare ad essere Tempestosa. Sai bene di non contare nulla da sola, per questo hai bisogno di me… hai bisogno di qualcuno che sia disposto a sporcarsi le mani per te».
«Basta, basta, basta! Non voglio più ascoltarti, devi sparire!».
Aurore lanciò un ultimo disperato urlo al cielo; poi si avventò contro la vetrina mandandola in mille pezzi. Alcune schegge del vetro lacerarono parzialmente la pelle delle mani e degli avambracci. Altri frammenti, invece, si andarono a conficcare nelle guance e sulla fronte. Grondante di sangue, acqua e sudore, Aurore barcollò all’indietro e, quasi non provasse più nulla, si lasciò cadere nuovamente sull’asfalto incurante dei frammenti. Chinò la testa e, specchiandosi nei resti della vetrina, sperò di non rivedere più quella persona. Tempestosa, però, era ancora lì. Nonostante fosse stata appena fatta a pezzi, il suo sorriso maligno continuava ad incutere terrore alla povera ragazza.
«Non ti libererai mai di me, Aurore. Io sono te e tu sei me, siamo un tutt’uno indivisibile. Io so cosa vuoi, conosco i tuoi più oscuri segreti e posso farli diventare realtà. Guarda davanti a te… troverai un regalo».
Non riuscendo neanche a capirne il motivo, Aurore si protrasse in avanti e, scostando sotto dei grossi pezzi di vetro, trovò un ombrellino azzurro. Lo prese tra le mani per osservarlo meglio: non vi erano dubbi, era proprio il suo. La ragazza lo strinse a sé e, dipingendosi un sorriso maniacale sul volto sporco di lacrime e sangue, bisbigliò:
«Io sono… Tempestosa».
Subito dopo levò una spaventosa e isterica risata al cielo, mentre il vicolo, il negozio e la città di Parigi scomparivano lasciando posto alle bianche pareti di una stanza d’ospedale.
 
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Note dell’autore: Buonsalve a tutti!!! Non so se vi ricordate di me (anche perché è passato molto tempo XD), quindi credo sia meglio che mi ripresenti ahahahahahahahahahaha. Sono Yugi95, ma se volete chiamatemi semplicemente Yugi 😉. Diversi mesi fa postai su questa sezione di EFP una breve one-shot su Chloé, promettendovi e promettendomi nelle note di postare qualcos’altro in futuro. Per vostra grande sfortuna, sono riuscito ad organizzarmi e a mettere a punto il mio piccolo progettino su Miraculous: la raccolta “Un giorno a Parigi”. Penso sia inutile spiegarvi in cosa consista questa raccolta, dal momento che è stato già fatto nella descrizione generale alla storia 😊. Di conseguenza passerei subito a tirare le somme di questo secondo capitolo (il primo è rappresentato dalla breve storia su Chloé XD). La protagonista assoluta è Aurore Beauréal, ovvero la micidiale Tempestosa. Sarò sincero: amo alla follia questo personaggio, forse al pari della pestifera figlia del sindaco di Parigi ahahahahahahah. Fin dalla sua prima comparsa, l’ho considerata l’antagonista per eccellenza ed è diventata il mio “cattivo” preferito 😉. Per questo motivo ho deciso di dedicarle il secondo capitolo della raccolta (l’ordine di apparizione dei catti, infatti, non combacerà con quello dei capitoli). In particolare ho voluto mettere l’accento sulle possibili (credo e spero che nel cartone non si arrivi mai ad una cosa del genere ahahahahahahah) conseguenze dell’essere posseduti da un’Akuma. Aurore, infatti, è perseguitata dal ricordo del suo alter-ego malvagio, Tempestosa; ne sente addirittura la voce e ne può vedere il riflesso. Di conseguenza spaventata e impossibilitata a liberarsi da questa opprimente presenza, scappa… decide di fuggire. Il tutto, però, si rivela inutile, perché come dice la stessa Tempestosa: “tu sei me e io sono te”. Il finale… preferisco non commentarlo, ma sono curioso di sapere cosa ne pensate e che effetto vi ha fatto 😊. Chiudo facendo un piccolo appunto sullo stile e la struttura di questo capitolo XD. Chi ha letto la one-shot su Chloé o qualsiasi altra delle mie storie, saprà che nella narrazione tendo ad essere molto preciso e a descrivere non solo scenari, emozioni e oggetti, ma specifico anche di volta in volta chi abbia pronunciato una determinata “striscia” di dialogo. In questo caso, però, ho voluto provare a mantenermi sul vago e sull’indeterminato al fine di conferire maggiore tensione e incertezza alla storia… spero di esserci riuscito 😉. Beh… io ho finito, perdonate questa mia seconda intrusione nel fandom XD. Per chiunque fosse interessato, la raccolta sarà aggiornata ogni due settimane e avrà sempre capitoli di questa lunghezza (più o meno XS). Grazie mille per l’attenzione che mi avete dedicato e… e niente ci si sente alla prossima 😊 😊 😊.
Yugi95

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Capitolo 3
*** Capitolo III – L’abbraccio del silenzio ***


Capitolo III – L’abbraccio del silenzio
 
Quella mattina di inizio maggio la camera da letto dei coniugi Haprèle sembrava essersi trasformata in un campo di battaglia. Giacche, pantaloni e T-shirt colorate erano state gettate alla rinfusa sul bianco materasso matrimoniale, ormai privato delle sue lenzuola verde acqua. Queste, infatti, erano state misteriosamente “adagiate” sui lunghi bracci del bronzeo lampadario che pendeva dall’alto soffitto. Cappelli di varie forme e misure, invece, si trovano sparsi sul pavimento, rendendo quasi impossibile il potersi spostare da un punto all’altro della stanza. Creme, cosmetici, pennelli e piumini, infine, erano stati riposti alla rinfusa su di un bianco mobile da toletta, dotato di un grande specchio la cui superficie rifletteva l’immagine di un giovane dai capelli castani. Sulle sue ginocchia era poggiato un borsone grigio dai manici neri, all’interno del quale erano stati ordinatamente stipati una serie di vestiti, scarpe e trucchi. L’uomo con una strana euforia e maniacale attenzione stava controllando attentamente il contenuto della borsa, quando una voce femminile, proveniente dalle sue spalle, lo fece sobbalzare.
«È la quindicesima volta che scavi lì dentro: stai diventando ossessivo».
L’altro si girò di scatto verso la porta della camera e, lasciando cadere il borsone per terra, si mise in piedi. Si passò nervosamente una mano tra i capelli e, tenendo lo sguardo basso per l’imbarazzo, biascicò:
«Ho paura di dimenticare ciò che mi serve per l’audizione, tutto qui».
«Sono sicura che hai preso il necessario, forse anche qualcosa in più» scherzò la donna massaggiandosi la pancia che ormai da una settimana non la smetteva di farle male.
Il marito, resosi conto di quel gesto impercettibile, corse verso di lei e, prendendole la mano, la cinse con il braccio destro. L’accompagnò lentamente verso il letto e, cercando di non farla sforzare, la fece sedere sul bordo del materasso in modo tale che potesse riposarsi. La donna, come ringraziamento per quella cortesia, gli regalò un luminoso sorriso. Il giovane cercò di fare altrettanto, ma l’ansia, causata dal particolare stato di attesa in cui versava la sua dolce metà, non gli dava pace. In quei nove mesi sembrava essere filato tutto liscio; tuttavia nell’ultimo periodo la signora Haprèle aveva accusato strani e continui dolori all’altezza del ventre e, come se non bastasse, il suo corpo si era parecchio debilitato.
«Adeline, non avresti dovuto salire la rampa di scale da sola» esclamò l’uomo con tono severo.
«Sto bene. Non c’è bisogno di allarmarsi, Fred» lo rassicurò la moglie, mentre continuava a massaggiarsi il grembo - «Tu, piuttosto, come ti senti? Sei sicuro di farcela? Dopotutto non sei obbligato».
Il signor Haprèle si inginocchiò davanti la donna e, prendendole le mani, le disse:
«Tesoro, questa è la mia grande occasione… non posso lasciarmela sfuggire. Erano anni che la compagnia teatrale della Comédie-Française non assumeva nuovi figuranti. Certo, sono nervoso oltre ogni immaginazione, ma… ma questa è la mia ultima possibilità per diventare qualcuno, per mostrare agli altri le mie capacità».
«Sai bene che non devi dimostrare niente a nessuno, soprattutto alle persone che ti amano per ciò che sei» replicò Adeline facendogli l’occhiolino.
«Adeline, ti prego…» sospirò, tristemente, Fred chinando la testa e stringendo la presa sulle mani della sua compagna - «Se riuscissi ad entrare nella compagnia di Monsieur Dubois, potremmo dare una svolta alla nostra vita. Avremo una casa più grande; una macchina nuova… anzi no, due macchine nuove; potrai lasciare il tuo impiego presso la fabbrica di Gabriel Agreste; nostra figlia potrà frequentare le migliori accademie della Francia; io potrò… potrò finalmente smetterla di fare il bidello in quell’insulsa scuola».
«”Assistente educatore”, prego. Non sminuire il tuo ruolo» puntualizzò l’altra con una vena di ironia.
«Ovvero un bidello» concluse, amareggiato, il marito.
Il pallido volto del signor Haprèle si era incupito; i suoi occhi, non riuscendo a sopportare il dolce sguardo di Adeline, erano bassi e continuavano ad osservare il un punto fisso sul pavimento. Adeline scrutò il suo viso per alcuni secondi, poi, dopo essersi portata alcune ciocche dei suoi lunghi capelli binodi dietro le orecchie, come era solita fare per darsi un certo tono di serietà, bisbigliò dolcemente:
«D’accordo, Fred. Vai all’audizione e dà tutto te stesso; però sappi che io e la piccola Mylène ti vorremo sempre bene, a prescindere da ciò che tu sia o faccia».
La bocca del Signor Haprèle, dapprima serrata in una stretta morsa di disapprovazione, si dischiuse in un gioioso sorriso. Dopotutto non chiedeva altro: desiderava con tutto il cuore che sua moglie condividesse e appoggiasse la sua scelta. Aveva bisogno del suo supporto, aveva bisogno di condividere con lei le sue aspettative di vita. Si rimise in piedi e, sovrastando a causa della sua eccessiva altezza l’esile e minuta figura della moglie, le diede un tenero bacio sulla fronte. Adeline chiuse gli occhi, mentre le sue guance si coloravano leggermente di rosso. Il giovane mantenne poggiate le sue umide labbra sulla morbida pelle della donna per alcuni secondi; poi dopo aver dato un rapido sguardo all’orologio che portava al polso, sibilò:
«Si è fatto tardi: devo andare».
Fred si separò dalla moglie e, prendendo una delle bombette sparse sul pavimento, s’incamminò verso la porta. La signora Haprèle lo osservò divertita, poi, richiamando la sua attenzione con uno schiocco di dita, esclamò:
«Ehi, spilungone! Dimenticato nulla?».
L’altro, resosi immediatamente conto della cosa, si colpì il lato della testa con il palmo della mano. Tornò indietro e, una volta raggiunto il mobile da toletta, recuperò il borsone grigio all’interno del quale vi era tutto l’occorrente per la sua audizione. Salutò Adeline con un rapido cenno della mano e guadagnò per una seconda volta l’uscio della camera da letto. Tuttavia, sebbene sapesse di non avere ancora molto tempo a disposizione, si fermò nuovamente e, dopo aver frugato nelle tasche della sua giacca marroncina, estrasse un compatto cellulare dalla scocca color grigio lavagna.
«Qualora dovessi sentirti male…» mugugnò Fred indicando l’oggetto - «non esitare a chiamarmi. Lascio tutto e corro da te».
«Stai tranquillo. Il dottore ha detto che ci vuole ancora una settimana» replicò la donna, mentre accarezzava dolcemente la sua pancia ormai giunta al limite massimo della capienza.
«D’accordo, però non sforzarti troppo» sentenziò, apprensivamente, l’altro.
«Va bene, va bene» concluse, rassegnatamente, Adeline facendo spallucce; per poi aggiungere con tono risoluto e la mano chiusa a pugno: «Mi raccomando Fred, fatti valere».
«Non vi deluderò!» esclamò il giovane alzando il pollice in segno di vittoria, mentre lasciava la stanza.
La signora Haprèle fissò finché poté le spalle del marito, trasformando pian piano il suo sorriso in una smorfia di dolore. Intanto Fred aveva raggiunto l’androne del palazzo e, una volta salutato l’anziano custode, si precipitò alla sua auto: una vecchia e sgangherata Renault Supercinque del ‘95 di colore rosso. Aprì la portiera, che puntualmente cigolò come i cancelli delle prigioni di Mont Saint-Michel, e prese posto sullo scomodo sediolino del guidatore. Al terzo tentativo e innumerevoli imprecazioni dopo, la macchina si degnò di accendersi.
«Una volta che avrò ottenuto il posto nella compagnia di Monsieur Dubois, sarai la prima cosa che sostituirò… vecchia carretta che non sei altro» mugugnò il Signor Haprèle, mentre cercava inutilmente di abbassare il finestrino del veicolo.
Per raggiungere il Palais-Royal, che si trova nel I arrondissement di Parigi, avrebbe impiegato circa una mezz’ora, traffico permettendo. Di conseguenza ingranò la marcia e si apprestò a lasciare il più velocemente possibile Ménilmontant, ovvero il XX arrondissement della città… quello più lontano dal centro. Come preventivato dal giovane, il vecchio macinino impiegò mezzo giro d’orologio per raggiungere il prestigioso teatro. Parcheggiata l’auto in uno spiazzo poco distante, Fred si diresse all’ingresso della struttura. Prima di entrare, però, si soffermò davanti all’imponente colonnato d’accesso; alzò lentamente la testa verso l’alto e fissò con aria trasognante quello che sperava sarebbe diventato il suo nuovo luogo di lavoro. Rimase in quello stato catatonico per alcuni istanti, poi l’acuto clacson di un pullman municipale lo richiamò alla realtà. Il Signor Haprèle, allora, espirò profondamente e, ripensando alle dolci sagome di sua moglie e della sua futura bambina, trovò il coraggio di entrare nella hall principale del teatro. Una volta all’interno della struttura seicentesca, si diresse immediatamente alla biglietteria: l’unico posto dove avrebbe potuto avere una qualche informazione in merito al provino. Una delle “maschere”, presenti dietro un antico e pregiato bancone di mogano con intarsi dorati, gli indicò il percorso per raggiungere i camerini, che per quell’occasione erano stati destinati agli aspiranti attori. Nonostante le informazioni ricevute fossero abbastanza dettagliate, Fred si perse tra gli innumerevoli corridoi, passaggi e cortiletti dell’immenso complesso. Dopo aver girovagato a vuoto per circa una decina di minuti, la sua attenzione fu richiamata da una squillante voce femminile:
«Mi scusi. Dove sta andando?».
L’uomo, allora, si ritrovò dinanzi una giovane donna di circa trent’anni. Era bassina quasi come Adeline, ma più tarchiata; i suoi capelli a caschetto erano di un bel rosso acceso, mentre gli occhi verde acqua erano incorniciati da uno spesso e pesante paio di occhiali. Indossava un leggero tailleur blu, al di sotto di questo una camicetta del medesimo colore e delle scarpe con il tacco nere. Tra le mani stringeva una cartellina stracolma di fogli; la testa, invece, era sormontata da un archetto con microfono. Il signor Haprèle intuì subito che quella persona doveva essere in qualche modo coinvolta nell’organizzazione delle audizioni. Di conseguenza, togliendosi educatamente la bombetta, si presentò:
«Mi… mi chiamo Fred Haprèle. Sono qui per il provino della Comédie-Française, quello organizzato da Monsieur Dubois».
«Capisco, ma mi duole informarla che è del tutto fuori strada» cinguettò, allegramente, l’altra - «Continuando per di là si sarebbe ritrovato nella sede del Consiglio Costituzionale di Francia».
«Allora è un miracolo che non mi abbiano sparato a vista, prendendomi per un malintenzionato» scherzò Fred a sua volta.
«La prego di seguirmi, l’accompagnerò ai camerini» concluse la donna trattenendo a fatica le risate - «Ah, comunque molto piacere Fred… io sono Sarah».
«Il piacere è tutto mio».
Grazie all’aiuto di Sarah, il signor Haprèle raggiunse finalmente le quinte della Salle Richelieu, luogo dove avrebbe sostenuto il suo provino. La donna dai capelli rossi, dopo averlo accompagnato ad uno dei banchi d’accettazione per i candidati, si congedò e si diresse rapidamente in sala poiché, a suo dire, Monsieur Dubois la stava aspettando. Il Signor Haprèle, salutata la sua nuova conoscente, consegnò una lettera di presentazione ad uno svogliato funzionario sulla cinquantina. Questi, seduto dietro un banchetto in plastica insieme ad altre due persone, diede ordine di protocollare i documenti appena ricevuti. Fatto ciò, consegnò all’aspirante attore un foglio con impresso un numero a quattro cifre.
«Quando sarà il suo turno, l’altoparlante della sala chiamerà il numero che le è stato dato».
«Perfetto!» esclamò Fred con risolutezza - «Senta, dove posso trovare il mio camerino?».
A quelle parole il funzionario e i suoi assistenti scoppiarono in una fragorosa e volgare risata. Una volta che si furono calmati, i tre, vedendo l’espressione di disappunto e smarrimento impressa sul volto del signor Haprèle, ebbero la decenza di fargli capire il motivo di quel loro comportamento. A causa dell’enorme numero di candidati, che sfiorava quasi le duemila persone, infatti, non era stato possibile assegnare un camerino a persona. Di conseguenza gli aspiranti attori si sarebbero dovuti accontentare di condividere le poche stanzette messe a disposizione dalla compagnia. Nonostante avesse preferito avere uno spazio tutto suo, all’interno del quale avrebbe potuto concentrarsi in vista dell’audizione, Fred non si perse d’animo e, trascinandosi dietro il suo pesante borsone grigio, entrò in un camerino a caso. All’interno di quest’ultimo vi erano circa una trentina di persone e per ognuna di esse che ne usciva né entravano cinque. Il Signor Haprèle, preferendo non relazionarsi troppo con quelli che erano a tutti gli effetti degli avversari, si cambiò in pochi minuti. Così, dopo essersi truccato e aver indossato il suo amato costume da mimo, decise di aspettare il proprio ingresso in scena in un angusto spazio posto dietro il palcoscenico. Tuttavia, vuoi la fretta di lasciarsi alle spalle il brusio prodotto dai numerosi aspiranti, vuoi la tensione dovuta all’audizione più importante della sua vita, il giovane Fred dimenticò nella tasca della giacca il proprio cellulare. Cellulare che di lì a poco iniziò a vibrare e ad illuminarsi. Trascorsero lunghe ore di attesa finché, quando ormai il povero Signor Haprèle stava per essere letteralmente divorato dall’ansia, lo speaker non pronunciò il numero presente sul suo foglio di carta. Si aggiustò con fare sicuro la falda della bombetta, poi, data un’ultima controllata al suo aspetto, si incamminò verso il davanti del palcoscenico. Non appena guadagnò la scena, la Salle Richelieu lo “investì” con tutta la sua bellezza. Non era mai stato in quel luogo d’arte, fino ad allora si era dovuto accontentare di fotografie, stampe e dipinti che riproducevano fedelmente la maestosa sala di uno dei più importanti teatri di tutta la Francia. Nonostante le luci fossero basse e soffuse, poté facilmente scorgere il gigantesco lampadario di cristallo che pendeva dal soffitto, i quattro registri di gallerie e la vasta platea… nella quale si era posizionata la commissione esaminatrice, capitanata da Monsieur Dubois. Affianco a quest’ultimo vi era anche Sarah, la quale, non appena riconobbe Fred, gli rivolse un sorriso di incoraggiamento. L’aspirante attore, dopo essersi presentato al “pubblico” in sala, diede il via al suo numero. Aveva impiegato mesi a perfezionare quella performance: ogni gesto, ogni movimento, ogni singolo respiro era stato accuratamente studiato. Dominava la scena, non vi era alcuna incertezza nella sua recitazione… tutto era curato al minimo dettaglio e nulla era lascato al caso. Non si trattava più di finzione, quella era realtà… la realtà costruita da Fred Haprèle e dal suo fantastico spettacolo. I membri della commissione esaminatrice, Sarah, gli spettatori e gli stessi partecipanti al concorso, che in quel momento si trovavano nella sala, rimasero a bocca aperta. Nessuno di loro aveva mai avuto il privilegio di assistere ad un’interpretazione di quella maestria. Erano concentrati, quasi rapiti dalla longilinea figura di quell’uomo, che muovendosi agilmente sul palco li aveva trasportati nel suo mondo… li aveva trasportati nell’abbraccio del silenzio. Tuttavia, nonostante il coinvolgimento generale, c’era ancora qualcuno che continuava a mantenere un’inspiegabile e altezzoso distacco. Un qualcuno che era pronto a far sentire la propria voce al fine di distruggere quella magica atmosfera.
«Perfetto! Può bastare» esclamò Monsieur Dubois in maniera fredda e annoiata - «Le faremo sapere, grazie».
La sua assistente, i restanti membri della “giuria” e gli spettatori in platea furono scioccati da quelle parole pesanti come dei macigni. Allo stesso modo sul bianco viso del signor Haprèle si era dipinta un’espressione incredula e amareggiata. Dopotutto non aveva neanche potuto portare a termine la propria performance, per la quale aveva dato letteralmente tutto se stesso impegnandosi e sottraendo tempo alla sua amata famiglia. Avrebbe voluto urlare, sbattere i piedi per terra, tirare un pugno in una delle scenografie. Avrebbe voluto fregarsene dell’intervento dell’amministratore della Comédie-Française, avrebbe voluto completare il suo numero in modo tale da poter rendere fiere le persone che contavano su di lui. Avrebbe voluto… ma non ne ebbe il coraggio. Chinò il capo e senza proferire parola si allontanò dal palcoscenico, mentre Monsieur Dubois annunciava dallo speaker il numero del candidato successivo. Umiliato e infuriato soprattutto con se stesso e le sue futili ambizioni, si trascinò fino al camerino in cui aveva riposto i propri vestiti, cercando di ignorare i brusii confusi che aveva alle spalle. Uno di questi, però, attirò così tanto la sua attenzione che lo spinse a voltarsi. Sarah era dinanzi a lui, i suoi occhi erano stranamente arrossati, mentre le sue labbra erano contorte in una smorfia di disappunto. Il signor Haprèle fu sorpreso di ritrovare la donna conosciuta quella mattina.
«Sarah, le serve qualcosa?» bisbigliò, mestamente, l’uomo, lasciando trasparire tutta la sua frustrazione.
«Mi, mi dispiace» mugugnò l’altra tenendo lo sguardo basso per la vergogna - «Lei è stato eccezionale, la sua è stata una delle migliori performance a cui abbia mai assistito. Monsieur Dubois non avrebbe dovuto interromperla».
«Non si preoccupi, sono cose che capitano» sibilò Fred passandosi nervosamente una mano tra i capelli - «Adesso, però, mi scusi… devo proprio andare. Arrivederci».
Il signor Haprèle non fece neanche in tempo a girarsi che Sarah lo afferrò per un braccio strattonandolo. Subito dopo prese dal taschino del proprio tailleur un biglietto da visita e, consegnandolo al suo confuso interlocutore, gli disse a bassa voce:
«Senta, Fred… io al momento lavoro per quel tiranno del Monsieur Dubois, però sto cercando di mettermi in proprio. Sa, ho appena conseguito master in teatro, quindi vorrei… vorrei fondare una mia compagnia. Non so quanto tempo ed energia impiegherò per realizzare il mio sogno, ma vorrei tanto che lei ne facesse parte. Questo è il mio numero, qualora fosse interessato non esiti a chiamarmi. Il suo talento non deve essere assolutamente sprecato».
«La ringrazio, le farò sapere… ne sia pur certa» replicò l’altro con un sorriso sincero, mentre salutava la sua nuova amica con una stretta di mano.
Una volta congedatosi, Fred rientrò nel camerino e, sebbene il provino più importante della sua carriera non fosse andato come avrebbe voluto, una nuova speranza si era accesa nel suo fragile animo. Una speranza di riscatto, una speranza di opportunità, una speranza… una speranza che dovette immediatamente lasciare posto alla paura, allo sconforto e al senso di colpa, non appena il giovane si accorse delle cinquanta chiamate perse sul suo cellulare. Una trentina di queste erano di Adeline, altre invece erano dei suoi suoceri, un paio infine provenivano dall’Ospedale Cochin… luogo in cui sua moglie era solita andare a controllo. Terrorizzato dall’eventualità che qualcosa di tremendo fosse accaduto, si cambiò in fretta e furia e, con il volto ancora impiastricciato dalla cipria, corse verso la macchina. Senza dare troppa importanza al codice stradale, guidò il più velocemente che poté alla volta del XIV arrondissement di Parigi, il quartiere in cui è ubicato l’Ospedale Cochin. Impiegò una decina di minuti, a fronte dei canonici venti, per raggiungere il presidio. Fermò il vecchio macinino, fumante per lo sforzo, nel primo posto libero che gli capitò a tiro e, buttando per l’aria chiunque si trovasse sul suo cammino, raggiunse il reparto di maternità. A quell’ora il luogo era ormai deserto, ad eccezione di un giovane infermiere che stava annotando delle informazioni su una cartella clinica.
«Mi scusi…» sibilò Fred richiamando l’attenzione del ragazzo - «Sto cercando mia moglie, la signora Adeline Haprèle. Lei sa per caso dove posso trovarla?».
«Mi dia un secondo, adesso chiamo il dottor Renard» replicò l’altro con gentilezza, mentre pigiava un tasto del suo cercapersone.
Il solo sentire quel cognome tranquillizzò il signor Haprèle: il dottor Renard, infatti, aveva seguito la gravidanza della sua adorata Adeline e in quei nove mesi era diventato quasi una persona di famiglia. Dopo una manciata di minuti il responsabile del reparto raggiunse i due. Era visibilmente provato e sembrava leggermente affaticato; tuttavia, cercando di mantenere la compostezza che la sua professione richiede, si rivolse con tono sicuro all’infermiere:
«Grazie per avermi chiamato, Antoine. Adesso puoi andare».
Il giovane fece un rapido gesto di assenso con la testa, poi, dopo aver educatamente salutato entrambi, scomparve tra i corridoi del reparto.
«Dottore, dov’è Adeline?» chiese, all’improvviso, il signor Haprèle non riuscendo più a trattenere quel disperato bisogno di sapere come stesse sua moglie.
«Fred…» biasciò il dottor Renard tenendo lo sguardo basso - «si sieda, le devo dire una cosa».
I due, allora, presero posto su una barella per il trasporto dei pazienti, posta lì vicino. Fatto ciò, il responsabile del reparto iniziò a parlare. Man mano che il discorso procedeva la voce del dottor Renard diventava sempre più roca e bassa, mentre dagli occhi del povero Fred scendevano rivoli di lacrime che gli rigarono quel po’ di trucco che ancora aveva sulle guance. Il parto anticipato, le precarie condizioni di salute di sua moglie, le complicanze… queste e tutte le altre spiegazioni del medico sembravano perdere sempre più consistenza, fino a trasformarsi in leggero rumore di sottofondo. Nella mente del signor Haprèle, invece, si faceva strada l’immagine nitida della sua amata Adeline, che si stagliava felice sullo sfondo delle bianche coste della Normandia. I suoi capelli biondi come l’oro fluttuavano delicatamente nell’aria, mentre il suo magico sorriso rapiva l’attenzione di chiunque lo guardasse. Era l’eco di un ricordo… uno dei ricordi più belli della sua vita, il ricordo di un qualcuno che ormai non c’era più.
«Dottor Renard…» mugugnò, improvvisamente, il signor Haprèle tirando su con il naso - «Voglio vederla, voglio vedere Adeline. Dove si trova?».
«Di sotto. Ci sono già i suoi genitori con lei» rispose il medico con tono triste - «Prima di accompagnarti, però, devo farti conoscere una persona».
A quel punto il dottor Renard afferrò per il braccio il suo confuso interlocutore e, senza aggiungere altro, lo trascinò con sé in un corridoio sulla destra. Percorsero circa una cinquantina di metri, finché non si fermarono dinanzi un grande e spesso vetro dal quale era possibile osservare l’interno di una piccola stanza. In quest’ultima vi erano tante culle di metallo messe l’una accanto all’latra. Il responsabile del reparto, allora, ne indicò una sulla cui parte anteriore vi era scritto un nome che attirò immediatamente l’attenzione di Fred: Mylène. In neo-papà poggiò entrambe le mani sul vetro e si avvicinò il più che poté a quell’insormontabile barriera. La sua bambina stava dormendo beatamente, avvolta in una comoda copertina rosa e con un cappellino del medesimo colore che le copriva la testa. Sul viso del signor Haprèle, ormai devastato dal dolore e dal senso di colpa, comparve uno “spiraglio” di serena felicità e gratitudine. Mylène, la sua piccola Mylène stava bene… Adeline aveva dato tutto al fine di permetterle di iniziare a vivere. Sua moglie aveva compiuto un immenso sacrificio, ma adesso… adesso toccava a lui. Quel giorno aveva tradito tutti: sua moglie, la sua famiglia, le sue aspettative. Quel giorno aveva anteposto la sua ambizione ai ciò che aveva di più caro al mondo. Quel giorno, perdendo Adeline, aveva toccato il fondo; ma non poteva lasciarsi andare, perché sua figlia aveva bisogno di lui. Fu così che, quel giorno di inizio maggio… il giorno in cui nacque Mylène, Fred Haprèle promise a se stesso che non avrebbe mai deluso la sua bambina. Qualsiasi cosa fosse successa… lei sarebbe sempre stata fiera di lui.
 
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Note dell’autore: Ben ritrovati a tutti!!! Eccoci al terzo capitolo di questa inusuale raccolta XD. Come avevo accennato nella risposta alla recensione del passaggio precedente, il protagonista di questa storia è un maschietto: Fred Haprèle, ovvero il Mimo. A differenza delle one-shot su Chloé e Aurore, questa si colloca quattordici anni prima gli eventi della prima stagione. Fred, infatti, si è sposato da poco e, insieme alla moglie Adeline, aspetta la nascita della sua prima figlia. Non voglio dilungarmi inutilmente sulla trama in sé, anche perché rivivere alcune scene (non vi dico lo scriverle) è abbastanza pensate anche per me XS. Di conseguenza lasciatevi spiegare qual è l’idea di base, sulla quale ho strutturato questo capitolo. Sarò sincero… il Mimo come cattivo non mi è piaciuto molto, diciamo che l’ho trovato un po’ troppo stereotipato. Tuttavia ho adorato il motivo che ha portato all’akumatizzazione del povero signor Haprèle. Se ci fate caso… Fred non è frustrato e arrabbiato a causa del fatto che la sua parte gli sia stata rubata (per carità… è parte delle cause, ma non quella fondamentale ^-^); ma ciò che lo addolora profondamente è il deludere sua figlia Mylène. La ragazza, infatti, avrebbe assistito allo spettacolo e il non vedere il padre sul palco l’avrebbe sicuramente turbata. Ecco… la storia si basa proprio questo aspetto, o meglio sulla domanda: “Perché Fred è così terrorizzato dall’eventualità di deludere sua figlia?”. In fin dei conti ogni genitori ha questa paura, ma nella one-shot ho voluto “forzare” questo comun denominatore in modo tale che assumesse per il personaggio di Fred Haprèle un significato profondo e specifico. Spero di esserci riuscito 😊. Un altro paio di cosette e abbiamo finito, giuro. I luoghi presenti in questo capitolo esistono realmente e ognuno di essi è stato selezionato non a caso, ma per le sue peculiarità 😉. La Comédie-Française, ad esempio, è attualmente l’unica compagnia teatrale francese a poter indurre un concorso pubblico, essendo una sorta di compagnia di Stato che lavora permanentemente in quel teatro. La Salle Richelieu (luogo dove recita la Comédie-Française) si trova realmente vicino alla sede del Consiglio Costituzionale di Francia. Entrambe, infatti, sono ubicate all’interno del grande complesso del Palais-Royal XD. L’Ospedale Cochin è infine l’ospedale parigino ad avere il miglior reparto maternità della capitale. Beh… penso di avervi detto tutto, prima di salutarvi permettetemi di ringraziare Lady_Sue1789 che ha inserito la raccolta tra le “seguite” e usabella dream che ha inserito la raccolta tra le “seguite”, “preferite” e “ricordate”. Come al solito un grazie ai recensori e ai lettori silenziosi 😉. Io vi do appuntamento al 22 ottobre e… e niente spero di sentirvi presto 😊 😊 😊.
Yugi95

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Il gemello ***


Capitolo IV - Il gemello
 
Papillon era lì, in ginocchio sul freddo pavimento del suo covo. Le braccia a penzoloni erano piene di lividi e tagli grondanti sangue, che si raccoglieva in piccole pozze vermiglie. La testa era china, mentre nei suoi occhi l’ardore della battaglia aveva lasciato spazio alla tristezza e al risentimento. Ladybug e Chat Noir erano dinanzi a lui, esausti e gravemente feriti… sui loro volti provati era impressa un’espressione di soddisfazione velata da una nota di biasimo. I due osservarono il nemico, ormai sconfitto e privo di forze, per alcuni istanti; poi la ragazza, tenendo la mano destra sul fianco dolorante, barcollò verso Papillon e, stendendo il braccio sinistro in avanti, afferrò la sua maschera grigia tirandola via. 
«N-n-no… non può essere» balbettò Chat Noir reggendosi a fatica sul suo bastone - «Non puoi essere stato tu!».
Lo stupore e lo sconforto si dipinsero sul pallido volto del ragazzo, mentre una lacrima solitaria gli rigava la guancia sporca di sangue e sudore. Allo stesso modo Ladybug fu sconcertata nel trovarsi dinanzi proprio lui… nel trovarsi dinanzi Gabriel Agreste. Una miriade di pensieri, dubbi e domande si accavallarono nella mente di Marinette; tuttavia la ragazza era fin troppo stanca per poter trovare da sola una risposta. Di conseguenza, dopo aver preso un profondo respiro, deglutì e si rivolse al padre di Adrien:
«Perché?! Perché ha fatto questo?».
Papillon alzò lentamente il capo. Le labbra, increspate in un sorriso maniacale, erano pronte a dischiudersi rivelando le oscure intenzioni dell’uomo… il suo tremendo segreto. In quello stesso istante, però, una botola, posta ad alcuni metri di distanza, si spalancò rumorosamente. I tre si voltarono istintivamente alla loro destra, giusto in tempo per vedere una figura longilinea venir fuori da quell’angusto passaggio. Lo sconosciuto, avvolto dall’opprimente oscurità che aleggiava in quel luogo, fece un paio di passi in avanti posizionandosi dinanzi la grande finestra circolare del covo. Non appena il suo viso fu illuminato dalla debole luce, che penetrava dal vetro opaco, Ladybug e Chat Noir sussultarono, mentre le loro bocche si spalancavano in preda allo stupore.
«Si può sapere cosa diamine state facendo qui?!» esclamò il nuovo arrivato con un tono di voce a metà tra il disprezzo e l’indifferenza.
«M-m-ma… ma lei… cioè lui…» boccheggiò la ragazza dai cappelli corvini spostando rapidamente lo sguardo dal Gabriel inginocchiato ai suoi piedi al… al Gabriel che le aveva appena rivolto la parola.
«Signor Agreste, cosa ci fa in questo posto?!» sibilò, confuso, Chat Noir.
«Ci vivo!» replicò l’altro in maniera seccata - «Questa è la soffitta della mia villa».
Soltanto in quel momento il giovane Agreste si rese conto delle montagne di scatoloni, alte fino al soffitto, presenti in quel luogo e recanti la scritta “Proprietà di Gabriel Agreste!”. Adrien fissò inebetito quelle cataste, domandandosi come avesse fatto a non riconoscere la sua stessa abitazione, mentre s’infiltrava all’interno del covo di Papillon.
«Mi scusi…» sospirò Marinette, cercando di far quadrare i suoi pensieri - «Se lei è Gabriel Agreste, questo qui chi è?!».
A quel punto l’eroina di Parigi indicò Papillon, il quale sembrava essere una specie di clone del padre di Adrien… quasi un suo gemello. Il Signor Agreste, allora, mettendo le mani dietro la schiena, si avvicinò silenziosamente al nemico giurato della città. Indugiò per diversi istanti su viso tumefatto dell’uomo, che continuava a mantenere un’espressione sprezzante; finché non sibilò:
«Questo è… è il mio gemello malvagio, Ambrogio Agreste».
«Mi meraviglio che tu ti sia ricordato di me» ringhiò Ambrogio, mentre Ladybug e Chat Noir si scambiavano rapide occhiate alquanto confuse.
«Come potrei dimenticarmi di te» replicò, tristemente, l’altro - «Mi prendevi in giro e mi facevi i dispetti. Rubavi tutti i rocchetti di cotone in modo tale che non potessi cucire i vestiti per la mamma. Le tue malefatte le hanno spezzato il cuore».
«Tu sei sempre stato il suo preferito. A Natale e ai compleanni ricevevi i regali più belli».
«Era naturale: io mi comportavo bene a differenza tua».
«Ecco» esclamò, improvvisamente, Ladybug trascinandosi la gamba dolorante - «Credetemi… non vorrei interrompere questa amorevole riunione familiare, ma io e il mio collega ci meritiamo delle risposte».
«Esatto! Perché ha fatto tutto questo (zio che non ho mai conosciuto e di cui mi è sempre stata tenuta segreta l’esistenza)?» aggiunse Chat ormai in preda ad una crisi esistenziale.
Papillon ghignò maleficamente; poi si rivolse ai tre:
«È semplice: volevo vendetta, vendetta contro mio fratello. Erano anni che tramavo alle sue spalle, anni passati a mettere a punto il più geniale e malvagio dei piani. Un piano così cattivo che mi avrebbe reso il più malvagio tra i gemelli malvagi. Una trovata così meschina che Joffrey Baratheon a confronto sarebbe sembrato un agnellino. Ero sul punto di metterlo in pratica, niente e nessuno mi avrebbe fermato… …quando… quando mi resi conto di aver perso l’unico mazzo di chiavi che avevo per rigargli la macchina. Frustrato e amareggiato per il mio fallimento, mi ritrovai a vagare per un isolato prato alla periferia di Parigi. Fu lì, fu lì che la incontrai: una strana farfalla viola che leggeva un libro pesante come un mattone. Quel giorno divenni Papillon e trovai la mia nuova ragione di vita: elaborare un piano ancora più malvagio e complesso del precedente».
«Cioè?!» lo interruppe, bruscamente, Marinette, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del Signor Agreste e di suo figlio.
«Far credere agli abitanti di Parigi, ai Francesi, al mondo intero e… e perfino ad ipotetici spettatori (qualora le nostre vite non fossero altro che il risultato dell’elaborata fantasia di un uomo con la barba, poi diventata un cartone animato per bambini di età compresa tra i 10 e i 14 anni) che Gabriel Agreste fosse le Papillon. Tutti avrebbero pensato che mio fratello volesse impossessarsi del Miraculous del gatto e della coccinella per riportare indietro sua moglie Zoe (di cui sono segretamente innamorato e con la quale ho una figlia di nome Chloé… data in adozione perché troppo malvagia, anche più di me). Ho creato schiere di Akumatizzati per mettere in cattiva luce Gabriel; mi sono fatto inquadrare sempre quando lui non era presente in modo tale da rafforzare la mia teoria; ho sfruttato il suo maniacale interesse per anelli ed orecchini; avevo anche segretamente stabilito il mio covo in casa sua, affinché la gente pensasse che fosse lui le Papillon. Così… quando tutta Parigi si sarebbe rivoltata contro di lui, io avrei avuto la mia vendetta e, soprattutto, sarei potuto restare con la mia adorata Zoe, mentre questa nelle vesti di Pixie Girl salva la gente di non so quale città».
«Beh… il tuo piano è fallito e adesso dovrai rispondere per le tue malefatte» tagliò corto il Signor Agreste incrociando le braccia, mentre Chat Noir e Ladybug stentavano a credere a quelle assurdità.
Fu così che Ambrogio Agreste fu arrestato dalla polizia di Parigi e condannato per i crimini commessi. Ladybug e Chat Noir, invece, continuarono ad essere i paladini della città sebbene non ci fosse più nessuno da combattere. Gabriel, infine, andò in cerca di sua moglie Zoe e, una volta che l’ebbe trovata, le consegnò un’istanza di divorzio per aver avuto una tresca con suo fratello.
 
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Note dell’autore: Buonsalve a tutti!!! Sinceramente non so proprio cosa dirvi in queste note, anche perché non mi sarei mai aspettato di avere il coraggio per pubblicare questa storia XD. Storia nata in seguito all’uscita dell’ultimo trailer della seconda stagione del cartone (quello dove si vedeva Le Collector nell’ufficio di Le Papillon) per commemorare la prematura scomparsa di Ambrogio. Per chi non lo sapesse Ambrogio è il nome che il fandom italiano ha affibbiato al fantomatico “gemello cattivo” di Gabriel Agreste, ovvero (secondo la “frangia degli Ambrogisti) la persona che si celava dietro la maschera di Le Papillon. Ovviamente la teoria si è poi rivelata falsa e il personaggio in questione ha cessato automaticamente di esistere. Il nome Ambrogio (diffusosi ormai a livello interplanetario) è nato per puro caso durante un allegro scambio di messaggi su What’sApp tra me e altri appassionati della serie (compresa una nota autrice di storie su Miraculous… chi vuole capire, capisca ahahahahahahahahahaha). Credo che sulla storia in sé non ho proprio nulla da dire, spero solo vi abbia strappato un sorriso. Beh… io ho finito, vi do appuntamento……………………………. no non è vero, non ho finito ^_^. La “storia” su Ambrogio sarebbe dovuta rimanere relegata nel mio hard disk, se l’ho pubblicata è perché non volvevo saltare l’aggiornamento di oggi della raccolta 😊. Purtroppo non ho avuto tempo di dedicarmi al vero quarto capitolo della fanfiction, per un motivo ben preciso… motivo che scoprirete questa sera. L’unica cosa che posso dirvi al momento è questa: STAY TURNED… MAGIC IS COMIG 😉.
 
Yugi95
 

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