Holding hands in this hell called life

di Jade Tisdale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Heir to the demon ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Blood ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: I'll protect you ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: The beginning of a new life ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: We're home ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: The job ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: The charmer ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: I just want to protect you ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: The love of a mother is forever ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9: Revelations ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10: Last call ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11: We're like a family ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12: That little heart ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13: New alliances ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14: Masks ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15: Six years together ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16: Protecting you ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17: Everything for her ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18: My only, real treasure ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19: Secrets ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20: Sisters ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21: Back in action ***



Capitolo 1
*** Prologo: Heir to the demon ***


 

Prologo:
Heir to the demon
 

 

 


 

«Padre, volevi vedermi?»
Una figura famigliare riemerse dalle acque del Pozzo di Lazzaro, avvolgendo il proprio corpo bagnato in una morbida e pregiata vestaglia.
Nyssa si inchinò dinanzi al padre, che le rivolse un'occhiata severa, ma al tempo stesso, amareggiata.
«Dobbiamo parlare della tua posizione, Nyssa.»
Quest'ultima alzò di colpo il capo, al sentir nominare la sua eredità.
Ra's iniziò a camminare lentamente, le mani giunte dietro la schiena. Quello che stava per dire non era facile, nemmeno per uno come lui. E di certo, lo sguardo nervoso di sua figlia non rendeva le cose migliori.
«Ormai sei una donna adulta, addestrata e pronta ad accettare le responsabilità che ti spettano. Presto prenderai il potere al posto mio, quell'eredità tanto attesa che ti spetta di diritto. La Lega sarà completamente tua, e il sogno che brami fin da quando eri bambina si avvererà molto presto.»
Nyssa accennò un piccolo sorriso al padre, che in quel momento le dava le spalle; le piaceva la sensazione di avere il comando su tutto, la consapevolezza che molte persone l'avrebbero temuta per il suo nome. Ancor di più, adorava parlare della sua eredità. Poter diventare la Testa del Demone, era da sempre il suo desiderio più accanito, una realtà che presto si sarebbe avverata e che il solo pensiero le faceva venire la pelle d'oca.
«Mi sono pienamente meritata questo titolo» azzardò la ragazza, sicura delle sue parole.
Ma l'espressione rigida del padre la fece riflettere, e pentire di ciò che aveva appena detto.
Nyssa si schiarì distrattamente la voce, distogliendo lo sguardo.
«Ti sbagli. Non è esattamente un premio meritato. Hai dimostrato una forza di volontà degna del tuo nome, ma c'è un'ultima cosa che dovrai fare per diventare la nuova Testa del Demone.»
Ra's si fermò di fronte alla figlia: pochi centimetri li separavano, e l'uomo percepì chiaramente la tensione provata da Nyssa.
«Dovrai sposarti. Trovare un uomo all'interno della Lega degno di divenire il marito del Demone. E sono disposto a darti libera scelta sullo sposo che si inginocchierà dinanzi a me per chiedere la tua mano.»
La mora assimilò le parole di Ra's come una pugnalata in pieno petto. Lui sapeva bene che i sentimenti che la figlia provava nei confronti di Sara erano sinceri: come poteva farle un simile ricatto, solo per cederle la propria eredità -che, come aveva detto lui poco prima, teoricamente le spettava di diritto?
Si alzò con lentezza, osservando con stizza l'uomo che si trovava davanti: lo conosceva da ventinove anni, eppure, gli pareva di aver iniziato un dialogo con un perfetto estraneo che non sapeva assolutamente niente di lei.
«Sai bene che non posso farlo. Non sarebbe onorevole da parte mia un tale comportamento nei confronti di Ta-er al-Sahfer. Non posso tradirla in questo modo.»
«E ti è sembrato onorevole il modo in cui lei si è comportata nei tuoi confronti? Illudendoti, rendendoti debole, e andandosene senza dire una parola?» Il Demone puntò i suoi occhi in quelli della sua unica figlia, il cui sguardo era più che furente. «Al-Sahfer ti ha tradita due volte, la prima tornando a Starling da Arrow, la seconda ripresentandosi alla Lega solo per salvare la sua città. Credi davvero che gliene importi qualcosa di te? Ti sta solo usando.»
«Non hai il diritto di parlare così!» sbottò Nyssa, il cui tono di voce, da rispettoso e pacato, era divenuto ben presto alterato. «Lei ci è stata di aiuto più di una volta, ha intrapreso missioni che neanche i tuoi più fedeli guerrieri sono riusciti a portare a termine. Merita il titolo di Testa del Demone tanto quanto me.»
Ra's s'incupì leggermente, dando nuovamente le spalle alla figlia. «Hai ragione. Anzi, forse meriterebbe quel titolo più di quanto lo meriteresti tu.»
Nyssa inspirò profondamente, trattenendosi dal mettersi a urlare. «Già, lo meriterebbe. Se solo tu non la odiassi.»
L'uomo non ebbe alcuna reazione a quelle parole. D'altronde, non c'era niente di non vero in ciò che aveva detto Nyssa.
Quest'ultima scosse impercettibilmente la testa; si aspettava una risposta negativa, un'esclamazione che le facesse capire che si sbagliava, che il padre stava solo bleffando e che in realtà non aveva niente in contrario alla sua relazione con Canary.
Ma non sarebbe mai successo, e lei lo sapeva bene.
Ra's voleva che la tradizione fosse portata avanti. Nyssa avrebbe dovuto avere dei figli con un uomo che a malapena conosceva -e che di sicuro avrebbe ucciso non appena se ne fosse stancata. Ma quella non era la vita che voleva.
Si mosse rapidamente verso il portone della stanza, intenzionata ad uscire, ma nel sentire il rumore dei suoi passi, Ra's parlò di nuovo, facendola bloccare.
«Se ci tieni davvero a questo anello, ti conviene prendere in considerazione la mia offerta. Non hai nessun'altra scelta, se non quella di concederti del tempo per rifletterci.»
Nyssa scosse con forza l'uscio alle sue spalle, sbuffando sonoramente. Le sarebbe tanto piaciuto lasciarsi alle spalle i suoi problemi, così come aveva sbattuto la porta in faccia al padre.
Il rispetto a Nanda Parbat si stava lentamente dissolvendo, così come la sua pazienza.
Voleva prendere le redini della Lega, ma voleva farlo a modo suo. Al contempo, il padre desiderava cedere il potere alla sua erede, ma non riusciva ad accettare che un'insulsa bionda proveniente da una ricca città sposasse la sua unica figlia e stravolgesse i suoi modi di fare, i suoi modi di comandare, che avrebbero sicuramente influito nel futuro della Lega degli Assassini.
Ra's voleva il meglio per sua figlia, anche se aveva un modo alquanto strano di dimostrarlo. E Nyssa voleva bene a suo padre, ma non poteva rinunciare a Sara. Non di nuovo.
Ormai aveva deciso: presto, lei e Sara sarebbero fuggite. Era la loro unica occasione per avere una vita serena. Sarebbero state nel mirino della Lega per un po' di tempo, ma si sarebbero difese, e quando la morte avrebbe abbracciato Ra's, sarebbero state libere. Per sempre.
I pensieri di Nyssa apparivano così infantili e spontanei da sembrare irrealizzabili.
Suo padre non era in punto di morte. Chissà quanti anni ancora avrebbe avuto da vivere. Semplicemente, per evitare spiacevoli sorprese prima del previsto, voleva ad ogni costo mettere a posto le questioni interne della Lega.
Ma l'erede avrebbe lottato, pur di far accettare al padre la realtà: lei non avrebbe mai più lasciato andare Sara. Era lei la persona che voleva sposare, lei e nessun altro.
E glielo avrebbe fatto capire con tutte le sue forze.



Nyssa chiuse la porta della sua stanza con forza, come aveva fatto pochi minuti prima dopo la discussione avuta col padre. Si accasciò a terra, osservando con sguardo vigile il letto rifatto.
Si prese la testa fra le mani e cominciò a bisbigliare qualche parola in arabo, trattenendo a stento le lacrime.
Una figura le fu subito accanto, e silenziosamente, iniziò ad accarezzarle i capelli.
Nyssa alzò lo sguardo, incrociando quello preoccupato e confuso di Sara.
«Che cosa ci fai qui?»
«Ho saputo che sei stata convocata da tuo padre. Cos'è successo?»
La mora distolse la visuale dagli occhi di ghiaccio che si ritrovava davanti e si mise a osservare un mobile in legno antico alla sua destra, che tanto odiava.
«Si tratta di me?» azzardò la bionda, sistemando una ciocca scura dietro l'orecchio dell'erede.
Nyssa scosse la testa, gli occhi ancora lucidi. «Non mi va di parlarne.»
«Va bene.» Sara ritrasse lentamente le mani, lasciando un'ultima carezza sulla guancia di Nyssa, prima di andarsi a sedere nel letto di quest'ultima. «Di qualsiasi cosa si tratti, sappi che io sarò qui ad aspettare che quel muso lungo si tramuti in uno splendido sorriso, dopodiché ne parleremo.»
La diretta interessata, come da copione, si lasciò sfuggire una piccola risata.
Sara ruotò leggermente la testa di lato, e Nyssa, dopo aver riposto la divisa della Lega nell'armadio, si sedette di fianco a lei.
«Perché mi hai rifatto il letto proprio ora, che devo rimettermi sotto alle coperte? Tanto valeva lasciarlo com'era, non credi?»
Sara si strinse nelle spalle: «Mi viene difficile accettare il fatto che tu non sappia rifarti il letto da sola. Quando diventerai la nuova Testa del Demone, qualcuno dovrà pur pensarci al posto tuo, mattina o sera che sia. Non credi?»
Nyssa scosse leggermente la testa di fronte alle frasi senza senso dell'amata. «Se mai diventerò il nuovo Demone, perché mai dovresti rifarmi il letto alle nove di sera?»
«Perché essendo tu il capo mi permetterai di dormire tutto il giorno, è ovvio!»
La mora scoppiò a ridere, una risata che ben presto contagiò anche Sara. Ma a differenza di quelle che dedicava alla bionda quando erano sole, quella volta la risata di Nyssa lasciava trasparire segni di preoccupazione.
Probabilmente quell'episodio non si sarebbe mai verificato, anche se la faceva sorridere il pensiero di una futura lei intenta a mettere alla prova un nuovo membro della Lega, e nel mentre Sara occupata in chissà quale strano sogno.
Era il loro ideale di vita normale, e decisamente difficile da realizzare. Ma Nyssa avrebbe lottato duramente per rendere felice Sara. Le avrebbe regalato la vita che tanto sognava, e lo avrebbe fatto anche a costo di mettersi contro suo padre.















Finalmente sono riuscita a cominciare questa long. Come vi ho già anticipato, la coppia principale della fanfiction è quella composta da Nyssa e Sara (ah, la mia adorata otp♥), ma tratterò spesso anche di Oliver e Felicity.
Dal prologo si può già dedurre qua
lcosa sulla trama, ovvero che approfondirà principalmente la posizione di Nyssa, scatenando fin da subito in lei un dubbio di vitale importanza - essere la Testa del Demone, o la persona sulla quale Sara potrà sempre contare?
Piccola annotazione: può sembrare stupido che la figlia del demonio non sappia rifarsi un semplice letto, vero? Beh, per me Nyssa, nella sua vita, ha dovuto imparare cose più importanti di sprimacciare un cuscino o piegare delle lenzuola, e questo piccolo pensiero mi è servito per creare un clima allegro nel finale del prologo: come ha detto l'erede nella 3x21, la felicità è un sentimento che non le appartiene, e questo buffo fatto -che lei non sappia rifarsi il letto, intendo- dimostra invece che non è così. Pur essendo in mezzo a milioni e milioni di assassini, Sara e Nyssa, quando sono insieme, riescono ad essere felici.
Siccome credo di essere stata poco chiara, non so se avete capito l'antifona; se così non fosse, sarà tutto molto più chiaro man mano che la storia procede. 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Blood ***


 

Capitolo 1:
Blood

 

 

Welcome to your life 
There's no turning back 
Even while we sleep 
We will find you 
Acting on your best behaviour 
Turn your back on mother nature 
Everybody wants to rule the world

 

 

Nyssa scoccò una freccia. Poi un'altra.
Il rumore dell'arco teso le faceva venire i brividi per l'emozione, e ogni volta che una freccia raggiungeva il suo obiettivo, sentiva di aver superato un traguardo in più.
Le due guardie caddero a terra e il pavimento fu subito macchiato dal rosso del loro sangue.
Dall'altra parte del lungo corridoio, Sara colpì con il suo bastone un altro uomo, dopodiché gli spezzò il collo con facilità e lo lasciò scivolare a terra.
Le due si avvicinarono, ritrovandosi nel bel mezzo dell'androne, di fronte ad una porta: si scambiarono un'occhiata d'intesa, e non appena l'erede varcò la soglia, Canary attivò il suo dispositivo acustico.
Si udì subito l'urlo disperato di un uomo, nascosto dietro alla sua scrivania, che cercò inutilmente di tapparsi le orecchie con le mani.
Nyssa allontanò la pistola dai suoi piedi e gli puntò contro il suo arco: «William Bartlett. Mi nuoce molto informarti che questi sono i tuoi ultimi attimi di vita.»
E prima che l'uomo potesse compiere un qualsiasi movimento, due frecce rosse gli perforarono il petto.



«Perché non ci trasferiamo qui a Sydney? L'Australia non è poi così male» scherzò Sara, osservando la città scomparire lentamente dalla sua visuale.
«L'Australia è troppo vicina alla Lega. Ci troverebbero sicuramente» spiegò la mora, seduta di fronte a lei nell'elicottero. «Perché invece non andiamo in Europa? Laggiù ci sono molti posti belli. L'Italia, per esempio. O forse sarebbe meglio la Spagna, visto che lì ci potremmo sposare legalmente.»
Canary fissò confusa l'erede, accennando un sorriso spontaneo. «Nyssa, stavo solo scherzando.»
Al sentir quella frase, i suoi occhi diventarono lucidi; le sue iridi nocciola lasciavano trasparire angoscia e terrore, due emozioni che non le appartenevano.
«Nyssa, ultimamente sei un po' strana, dico davvero. C'entra quello che ti ha detto tuo padre l'altro giorno?»
Dannazione.
«No, non c'entra nulla la discussione che ho avuto con mio padre.»
Sara si sporse leggermente in avanti. «Discussione
«Nulla di rilevante.»
I loro sguardi si incrociarono nuovamente, e Sara intravide in quello di Nyssa un immenso dispiacere, ma al tempo stesso, per la prima volta da quando la conosceva, paura.
«Perché non ne vuoi parlare?»
«Perché non voglio perderti di nuovo.»
La bionda deglutì, portandosi distrattamente una ciocca di capelli dietro all'orecchio.
Nyssa, invece, distolse lo sguardo a denti stretti.
Odiava pensare che Sara si preoccupasse per lei. Odiava turbarla più di quanto già non fosse.
Un leggero scossone fece sobbalzare entrambe, ma, subito dopo, il rumore dell'elicottero che aumentava velocità le calmò.
«Odio questo pilota. Ogni volta che c'è lui ho sempre paura che l'elicottero cada da un momento all'altro» rivelò Sara, andandosi a sedere di fianco all'amata.
Quest'ultima scoppiò a ridere di gusto, incrociando teneramente la sua mano con quella di Canary nel tentativo di calmarla.



Nyssa osservò con attenzione Sara, intenta ad infilarsi la vestaglia da notte; durante i vari scontri di quel giorno, la bionda aveva riportato una ferita notevole sulla spalla destra. E sotto la camicetta trasparente, il taglio profondo si vedeva chiaramente.
Quando Sara si sedette nel letto dell'erede, quest'ultima passò l'indice destro sulla zona lesionata.
«Ti fa male?» chiese, ritraendo la mano.
«Sì, ma è sopportabile» confermò Canary. «Sono certa che entro un paio di giorni il dolore passerà del tutto.»
La mora delineò un sorriso, dopodiché si sdraiò. Sara, al contrario, rimase seduta a gambe incrociate, dedicandole un'occhiata severa.
«Perché hai insistito affinché venissi con te in missione, questa sera?»
Nyssa inspirò profondamente: «Per proteggerti.»
«Da cosa? O meglio, da chi?»
L'erede del Demonio non rispose, pregando che la bionda non facesse altre domande.
Non voleva litigare con lei, ma al tempo stesso, non poteva dirle la verità. L'unico modo per proteggerla, era tenerla all'oscuro delle intenzioni di Ra's.
«Non mi hai ancora detto perché abbiamo ucciso quell'uomo.»
Nyssa esitò un momento. «Era un terrorista.»
«E noi siamo migliori di lui, per caso?»
La mora si mise a sedere, puntando i suoi occhi in quelli di ghiaccio dell'amata. «È stata una giornata dura per entrambe. Che ne dici di dormire e di rimandare le chiacchiere a domani?»
Sara annuì lievemente. Le due si distesero una di fianco all'altra, dandosi la schiena, ma entrambe non chiusero occhio per un po': troppi pensieri affollavano le loro menti per permettergli di dormire.

*

Sara strinse tra le mani il suo bastone di ferro, studiando con cura i movimenti dei due mercenari di fronte a lei.
Uno di loro le puntò la spada al petto, ma Canary la fece scivolare dalle mani del nemico con un semplice movimento della sua arma; subito dopo, il secondo combattente cercò di contrastarla con arco e frecce. Una di queste le sfiorò la guancia, facendole abbassare la guardia, cosicché il primo mercenario recuperasse la propria spada e gliela puntasse alla gola.
Sara iniziò a respirare affannosamente per la fatica. Puntò i suoi occhi di ghiaccio in quelli scuri dell'uomo che si trovava di fronte, esausta.
«È finita.»
La voce del mercenario fece sì che sul suo volto andasse a formarsi un sorrisetto furbo. Canary divise il bastone in due più piccoli: uno lo utilizzò per togliere nuovamente di mano la spada dell'assassino -e di appropriarsene-, l'altro per contrastare l'ennesima freccia.
L'arciere abbandonò a terra il suo arco, consapevole che sarebbe stato uno scontro inutile, ed estrasse dal fodero la sua spada: iniziò così l'ennesima lotta delle ultime due ore, ma il combattimento fu interrotto da una voce ben nota fra gli assassini della Lega.
«Ta-er al-Sahfer» esordì cautamente la voce maschile. «È richiesto il tuo intervento per un incarico.»
Sara gettò a terra la spada, concedendosi qualche attimo per respirare; si voltò in direzione dell'uomo che l'aveva interpellata, e si avviò verso l'uscita della stanza a passo lento.
«Sarab» disse con voce fioca, respirando a pieni polmoni.
Il giapponese la guardò dall'alto verso il basso, le mani giunte dietro alla schiena. «Come procedono i tuoi allenamenti?»
«Direi bene. Ho messo al tappeto una cinquantina di assassini in meno di due ore.»
Maseo inarcò un sopracciglio. «Si dice colleghi, non assassini.»
«Come ti pare» soffiò la bionda, bevendo un sorso d'acqua dalla sua bottiglietta. «Comunque, eri venuto ad affidarmi un incarico o sbaglio?»
L'uomo annuì, continuando a camminare. «Il suo nome è Bao Lee. È uno dei maggiori esponenti della mafia cinese, ma negli ultimi tempi si sta dedicando alla formazione di un movimento estremista che potrebbe seriamente danneggiare tutto il paese. Eliminandolo, i suoi seguaci non avranno più una guida su cui fare affidamento e da soli non nuocerebbero più di tanto. Il tuo compito è ucciderlo.»
«Sai che novità» ironizzò Canary. «Qual è la mia meta?»
«Una regione vicina, Hubei. Verrai scortata da sei dei nostri uomini.»
«Bene. Avete già informato Nyssa?»
Maseo si fermò, ma non osò voltarsi. «La figlia di Ra's al Ghul non parteciperà alla missione.»
La bionda, anche se solo per un secondo, esitò. «Perché non vuoi che venga con me?»
«Perché non sono stato io ad affidarti questa mansione» rivelò il mercenario, voltandosi verso di lei. «È stato Ra's al Ghul in persona, e ha esplicitamente richiesto che Nyssa non venga coinvolta.»
«Perché? Le missioni più dure di solito spettano a lei, oppure a entrambe. Se con me ci saranno altri sei uomini, significa che questo Lee è un pezzo grosso. Ra's non mi avrebbe mai mandata da sola a battermi con un tizio del genere, non mi ritiene abbastanza abile.»
«Sara, posso darti un consiglio?» Sarab sospirò impercettibilmente. «Sei tra le migliori combattenti della Lega, e tu più di tutti devi cercare di non metterti contro il Demonio. Smettila di essere così sfacciata con tutte le persone che incontri, le conseguenze delle tue parole potrebbero essere disastrose.»
«È una minaccia?»
«Un avvertimento. Ra's detesta le persone impertinenti come te.»
«Allora lo prenderò come un complimento.»
E, detto questo, Sara scomparve nel corridoio con un brutto presentimento.



Un'ora e mezza dopo, l'elicottero della Lega atterrò nella cittadina di Yichang -sul tetto del palazzo posto di fianco all'abitazione di Lee, per la precisione. Si trattava di un'enorme villa, con almeno otto guardie nel cortile e due cecchini al primo piano.
Furono i sei membri della Lega ad occuparsi dei tirapiedi del loro obiettivo: d'altronde, Sara era lì soltanto per uccidere Lee e nessun altro. Meno vittime perivano per mano sua, meno lei avrebbe sofferto.
Nel giro di qualche minuto, la banda riuscì ad entrare nella casa. Ad attenderli sulla soglia c'erano tre uomini armati di fucili: due di loro furono eliminati senza troppa fatica, mentre il terzo, dopo aver assistito alla scena, lasciò andare la sua arma a terra e alzò le mani in segno di resa. Uno della Lega gli puntò la spada alla gola, ma prima che potesse fare altro, la voce di Canary lo bloccò.
«Dov'è Bao Lee?»
L'uomo deglutì, osservando con terrore la lama che gli sfiorava la pelle. «È al p-piano d-di sop-pra...»
«Quante guardie ci sono a proteggerlo? Quante-» Sara si bloccò, osservando con stizza il mercenario mentre decapitava l'uomo davanti a lui.
«Perché lo hai ucciso? Avrebbe potuto darci degli indizi!» sbottò la bionda, rivolta al combattente.
Quest'ultimo puntò la spada verso di lei, con fare minaccioso: «Non importa a nessuno se sei l'amata della figlia del Demonio. Noi abbiamo un compito da portare a termine, e di certo non prendiamo ordini da te.»
L'uomo ritrasse la spada con rapidità, mentre Sara, al contrario, prese in considerazione l'idea di spezzargli il collo.
No. Mantieni la calma s'impose, seguendo gli altri membri all'interno dell'abitazione.
La squadra si divise: quattro di loro perlustrarono il resto del piano terra, mentre Sara e i rimanenti due membri della Lega (tra cui il mercenario con la quale era nato il battibecco poco prima) si diressero al piano superiore. Dovettero superare un altro paio di guardie prima di giungere nello studio di Lee, che però, era vuoto.
Sara fu abbastanza svelta nel capire dove si fosse diretto l'uomo; la finestra che dava sulla terrazza era aperta, e lei, con un balzo, cadde in ginocchio sul prato. Quando iniziò a correre, Lee era pochi metri più avanti di lei.
Superato il cancello della villa, il mafioso estrasse la pistola dalla tasca della sua giacca e sparò un paio di colpi in direzione della bionda, che li evitò con agilità.
L'inseguimento si protrasse per qualche minuto. Le strade di Yichang erano buie e vuote, e questo favorì l'uccisione di Lee.
Quando Sara fu abbastanza vicina al suo obiettivo -ovviamente dopo aver evitato prontamente ogni suo colpo di pistola-, divise il suo bastone in due più piccoli e ne scagliò uno davanti a lei: il colpo andò a buon fine, e l'uomo cadde subito a terra.
Si avvicinò con rapidità al corpo, pronta a dargli il colpo di grazia, ma quando si accovacciò di fronte a lui, i suoi occhi non videro altro che sangue.
Il sangue di Lee, che aveva cominciato ad uscire a fiotti dopo che lei lo aveva colpito sulla nuca.
Un senso di nausea l'assalì, portandola a coprirsi la bocca con una mano. L'odore del sangue invase le sue narici, e la testa cominciò a girarle in modo vorticoso.
E prima ancora che Sara potesse realizzare cosa stesse succedendo, cadde a terra, priva di sensi.














Avrei dovuto pubblicare questo capitolo la settimana prossima, prima di partire per Firenze (non so se ne eravate al corrente, ma lì si sarebbe svolta la prima convention italiana dedicata ad Arrow), ma la Green Heart Italian Con è stata annullata.
E così, tutti i miei sogni e le mie speranze di poter incontrare la mia adorata Caity -l'attrice che interpreta Sara- si sono frantumate in mille pezzi. È da ieri che piango come una disperata per questo ç_ç
Sto andando fuori tema, quindi torniamo al capitolo. Malgrado la mia disperazione, sono riuscita a concluderlo e a revisionarlo prima del previsto.
Non avendo ancora recensioni mi sembra di parlare da sola, è che ormai sono abituata a scrivere delle note a fine capitolo, ma il fatto che ci siano state molte visualizzazioni del prologo (qualcuno ha anche inserito la storia tra le preferite e le seguite), mi conforta e mi fa sentire meno sola ahahaha
Comunque, il testo scritto in alto a destra è della canzone Everybody wants to rule the world di Lorde. Un giorno ho ascoltato con attenzione le parole della canzone e mi sono resa conto che descrive quasi pienamente il tema della mia fanfiction, per questo ho deciso di riportare il testo in qualche capitolo, man mano che la storia prosegue.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: I'll protect you ***


 

Capitolo 2: 
I'll protect you

 

 

 

 

Sara aprì di colpo gli occhi, inspirando a pieni polmoni: le era parso di essersi risvegliata da un sonno infinito, in cui respirare le era stato difficile.
«Stai tranquilla, sei in uno degli alloggi ospedalieri di Nanda Parbat.»
Canary si massaggiò il capo. «Alloggi ospedalieri? Non sapevo che esistessero cose simili, qui dentro.»
«Qualcuno dovrà pur curare i malati o risanare le ferite dei mercenari, non credi?»
L'altra fece una smorfia, mettendosi a sedere nel lettino. «Ho sempre fatto da sola.»
Da quella postazione, riuscì finalmente a guardare in volto la sua interlocutrice: era una donna orientale, abbastanza giovane, dai lunghi capelli neri e uno sguardo innocente e, all'apparenza, leale. Indossava un camice bianco da medico.
«Cos'è successo?»
La donna abbozzò un sorriso. «Sei svenuta durante l'ultima missione e hai battuto la testa. Mi sono permessa di analizzare il tuo sangue e di fare altri controlli. Nulla di preoccupante, comunque. Puoi stare tranquilla, Sara. Hai dormito per ben sei ore, perciò hai recuperato tutte le forze.»
«Come sa il mio nome?» domandò, seccata che una sconosciuta la conoscesse come Sara e non come Ta-er al-Sahfer.
«Sei l'amata della figlia del Demonio» puntualizzò l'altra, come se fosse una giustificazione ovvia. Subito dopo, allungò la mano nella sua direzione. «Io sono Mizuki Kawamura. Piacere di conoscerti.»
Canary strinse leggermente la mano della giapponese, cominciando a sentirsi a disagio. «Allora, dottoressa Kawamura... vedo che in quella scrivania ci sono molti fogli a mio nome.»
«Già. Sono i risultati dei vari esami che ti ho fatto.»
Sara deglutì. «Posso vederli?»
La mora esitò, rimanendo impalata nel bel mezzo della stanza per quasi un minuto.
Di sicuro quella reazione non prometteva nulla di buono.
«Posso sapere cosa sta succedendo?» sbottò, alzandosi dal lettino e incrociando le braccia. «Non ha appena detto che posso stare tranquilla e che va tutto bene?»
Mizuki poggiò la mano sulla scrivania, abbassando lo sguardo. «Non è una cosa facile da dire.»
La bionda deglutì ancora. «Allora la dica e basta.»
La dottoressa sospirò sommessamente. Non avrebbe avuto senso nascondere la verità a Sara, anche perché, prima o poi, se ne sarebbe accorta da sola. Prese un respiro profondo, dopodiché, lo disse. «Sei incinta.»
Sara percepì un brivido attraversarle la schiena, e il vuoto più totale dentro di lei.
No.
Non poteva essere vero.
Il suo cuore prese a battere sempre più velocemente, come se stesse per scoppiare da un momento all'altro. Lo shock le fece girare la testa per qualche secondo.
«Non è una cosa facile da digerire, lo so, ma-»
«Quanto tempo ha?»
Non sapeva cos'altro chiedere. La domanda le era uscita di getto, senza che potesse pensarci su ancora un po'.
Mizuki chiuse inspiegabilmente gli occhi per un paio di secondi. «Otto settimane.»
Dio... non ci posso credere.
«Ra's non lo deve sapere. Nessuno lo deve sapere» sussurrò la bionda, con voce tremante e occhi lucidi.
La giapponese le sorrise con comprensione. «Sono stata rapita nove anni fa per le mie qualità nel campo della medicina. Ra's mi ha costretta a vivere il resto della mia vita a Nanda Parbat, altrimenti avrebbe ucciso mio figlio con le sue mani. Era solo un bambino, già orfano di padre. A quest'ora sarà un uomo distrutto, ma almeno, gli ho salvato la vita» disse, accarezzandole amorevolmente la spalla sinistra. «Non so cosa tu voglia fare. Sei ancora in tempo per abortire, ma hai appena scoperto una cosa più grande di te e devi prenderti del tempo. Voglio solo farti capire che io ti appoggerò, qualunque strada vorrai seguire. Sono una madre, e chi meglio di una madre potrebbe capire la tua situazione?» Ritrasse la mano, ma il sorriso sul suo volto non scomparve. «So bene che se decidessi di tenerlo, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche, perciò non lo dirò a nessuno. Te lo prometto.»
Canary annuì debolmente, trattenendo a stento le lacrime. «Grazie. Ma ora ho bisogno d'aria.»



Correva a perdifiato fra i corridoi di Nanda Parbat, illuminati dalla flebile luce emanata dalle candele.
Era notte fonda, ma nonostante ciò, numerosi membri della Lega si stavano allenando. Nessuno di loro la considerò.
Quando arrivò finalmente di fronte alla porta della sua stanza, si chiuse a chiave dentro e si accasciò a terra, scoppiando in lacrime.
Il bambino che portava in grembo era di Oliver.
Non ci sarebbe stato niente di strano se in quel momento si fosse trovata a Starling City, tra le braccia dell'uomo che amava da una vita. Ma era tornata a Nanda Parbat, e aveva giurato nuovamente fedeltà alla Lega, a Ra's. E a Nyssa.
Si prese la testa fra le mani, singhiozzando sonoramente.
Aveva scoperto di essere incinta da soli dieci minuti, eppure, già si chiedeva quale sarebbe stata la scelta migliore da fare.
Se avesse deciso di tenere il bambino, avrebbe passato l'inferno. Nyssa si sarebbe sicuramente sentita tradita, e Ra's l'avrebbe indubbiamente uccisa. La Testa del Demone la odiava, e il sentimento era reciproco. Perciò, pur di farla fuori, avrebbe trovato anche la più misera delle scuse.
Se avesse abortito, invece, sarebbe andato tutto bene. Avrebbe potuto farlo proprio in quel momento, e nessuno lo avrebbe mai scoperto -sempre sperando che la dottoressa orientale tenesse la bocca chiusa. Però, avrebbe anche impedito a quella piccola vita che cresceva dentro di lei di vedere il mondo coi propri occhi.
Per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva sola, confusa e... spaventata a morte. Avrebbe tanto voluto prendere il primo volo per Central City e riabbracciare sua madre, l'unica persona che probabilmente l'avrebbe indirizzata nella giusta via. Dinah l'aveva sempre protetta, aiutata, ed era stata sua complice più e più volte, in primis quando era salita sul Gambit con Oliver Queen.
Strinse le dita fra i suoi capelli con forza, senza riuscire a smettere di singhiozzare, e quando la disperazione ebbe consumato tutte le sue energie, si addormentò.



Si era svegliata l'indomani, nel tardo pomeriggio, ed era rimasta nella sua camera per diverse ore, rimuginando sulle parole della dottoressa. Poi, senza un motivo ben preciso, andò a cercare Nyssa, continuando a guardarsi intorno, impaurita: aveva l'impressione di essere osservata di continuo.
Ad un tratto, considerando il fatto che continuava a ruotare la testa a destra e a sinistra, andò a sbattere contro qualcosa, o meglio, qualcuno, che strinse saldamente le proprie mani intorno alle sue spalle.
Sara incontrò lo sguardo preoccupato e angosciato dell'erede del Demonio, che dopo averla presa per mano, senza dire nulla, la trascinò all'interno della propria stanza, situata in fondo all'androne nella quale si trovavano.
Una volta dentro, Nyssa strinse forte Sara a sé, accarezzando dolcemente la sua chioma dorata. In quell'abbraccio era racchiusa tutta la sua preoccupazione, e tutto l'amore che provava per Ta-er al-Sahfer.
«Dove sei stata?» domandò, con un tono di voce tra il preoccupato e l'accusatorio.
Sara non rispose. Si strinse nelle spalle, cominciando a sentirsi in colpa per non essersi più fatta vedere.
«Non riuscivo a trovarti. Stavo impazzendo.» Il tono di Nyssa si era trasformato in un misero sussurro.
«Mi dispiace» disse semplicemente l'altra, abbassando lo sguardo. «Non volevo farti preoccupare.»
La mora scostò la mano dai suoi capelli per sfiorarle la guancia. «C'è qualcosa che non va?»
«No, è tutto a posto» si affrettò a rispondere. «Ero venuta a cercarti solamente per... per farti sapere che stavo bene.»
Sara si voltò, intenzionata ad andarsene, ma prima che riuscisse a poggiare le dita sulla maniglia della porta, la voce di Nyssa la bloccò nuovamente. «Dove stai andando?»
La giovane Lance sospirò impercettibilmente. «Nella mia camera. Ho bisogno di riposare.»
Nyssa compì qualche passo verso di lei. «Hai un aspetto orribile» rivelò, costringendola a voltarsi. «Sara, devi dirmi cos'hai. Sono l'unica che ti può aiutare.»
La bionda si prese la testa tra le mani, sorridendo amaramente: «No, ti sbagli. Non puoi aiutarmi nemmeno tu, Nyssa. Nessuno può farlo.»
«Perché no?»
«Perché ho fatto una cazzata. E di certo rivelarla a te è l'ultimo dei miei pensieri.»
La figlia del Demone strinse involontariamente le mani a pugno. «Di qualsiasi cosa si tratti, non vedo perché tu debba nasconderla a me.»
«Parli proprio tu?» sbottò l'altra, con una cattiveria che non le apparteneva. «Sono settimane che sei strana, e dopo essere stata convocata da tuo padre, mi stai appiccicata come se ci fosse costantemente un cecchino alle mie spalle. Vuoi lasciare la Lega, quando mesi fa hai fatto il possibile per farmici tornare, e non vuoi spiegarmi il perché di questo improvviso cambiamento di idee. Chi è che si tiene tutto dentro di noi due?»
«A questo punto direi entrambe» sospirò la mora, con un tono di voce decisamente più basso di quello dell'amata.
Sara si massaggiò le palpebre col pollice e l'indice, nel tentativo di non scoppiare nuovamente a piangere. Nyssa notò il suo gesto, e le prese il volto tra le mani, poggiando la fronte contro la sua.
«Io ti amo» soffiò, puntando i suoi occhi nocciola in quelli di ghiaccio di lei. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto, non muterà i sentimenti che provo per te.»
La bionda si sentì terribilmente debole. Si sporse leggermente in avanti, unendo le sue labbra con quelle dell'erede, e nel mentre, calde lacrime presero ad accarezzarle il viso.
Quel bacio tanto atteso fu spezzato da un singhiozzo inaspettato. Sara si portò le mani davanti agli occhi, e non riuscì a soffocarne un altro; si accovacciò a terra, e Nyssa le fu subito accanto, accarezzandole la schiena con delicatezza.



Cinque minuti dopo, le due erano rannicchiate sotto alle coperte. Sara aveva smesso di piangere, ma aveva cominciato a tremare, e la figlia del Demonio l'aveva accolta tra le sue braccia nel tentativo di calmarla.
All'improvviso, dopo diverso tempo, la bionda alzò lo sguardo in direzione dell'amata: i suoi occhi azzurri, con le ciglia leggermente bagnate, sembravano ancora più belli. Nyssa le passò una mano tra i capelli.
«Che c'è?» sussurrò, arricciandosi una ciocca bionda nell'indice destro.
Sara deglutì silenziosamente. Era davvero la decisione giusta quella di dire a Nyssa le cose come stavano? Non lo sapeva. Ma in quel momento, era troppo confusa e scioccata per capire cosa fosse giusto o sbagliato. Prese un respiro profondo, dopodiché, parlò. «Sono incinta.»
La mora cessò di colpo di giocherellare coi capelli dell'altra. Ritrasse lentamente la mano, e aprì un poco la bocca, cercando di dire qualcosa.
«Mi dispiace» sussurrò la bionda. «Sei arrabbiata?»
L'altra scosse la testa. «No, non sono arrabbiata. Solo... sorpresa.» Sospirò, passandosi una mano tra i capelli. «Il padre è... Oliver?»
Canary alzò un sopracciglio: «Credi davvero che io possa essere stata con altri uomini?»
«No» replicò l'altra, facendo una piccola smorfia. «È che non so cos'altro dire.»
«Nemmeno io.»
Si guardarono negli occhi per un tempo indefinito. Nyssa prese a baciarle dolcemente la fronte, scendendo sempre giù, fino alla punta del naso.
«Mio padre vuole che ti lasci» disse ad un tratto, cominciando a creare dei cerchi immaginari con l'indice intorno all'ombelico dell'amata. «Prima di conferirmi il titolo di Testa del Demone, vuole che io sposi un uomo all'interno della Lega. Mi ha dato libera scelta, ma probabilmente lui spera in Sarab: d'altronde, è il suo braccio destro.»
Sara deglutì ancora: «E tu... cosa vuoi fare?»
«Non ho nessuna intenzione di accettare, se è questo che intendi. È per questo motivo che volevo scappare: per proteggerti.»
Nyssa sospirò ancora, prendendo le mani dell'amata tra le proprie: i suoi occhi si illuminarono, e sul suo volto andò a formarsi un sorriso a trentadue denti.
«Perché non ce ne andiamo in un posto lontano, noi tre? Non sarebbe meraviglioso?»
Canary sussultò lievemente. «Noi tre
L'erede del Demonio annuì. «Non sembra un segno del destino? Voglio dire... stiamo parlando di un figlio, Sara. E a meno che tu non abbia intenzione di abortire, sarebbe la ragione di un nuovo inizio.»
«Non posso ucciderlo. Non sarebbe giusto» bisbigliò l'altra, scuotendo un poco la testa. «Ma facendolo nascere, potrebbero esserci delle conseguenze terribili.»
Nyssa esitò: con quelle poche parole, Sara era riuscita a frantumare tutte le sue speranze e i suoi sogni. Ma aveva ragione. «Ti macchieresti di tradimento nei confronti dell'erede del Demonio, in quanto hai avuto una relazione con un altro uomo, e un figlio ne è la prova» ricordò. «Mio padre ti ucciderebbe, se lo venisse a sapere.»
«Non ho paura di morire» rivelò Al-Sahfer, stringendo con forza le mani dell'amata senza accorgersene. «È solo che... questo figlio è anche di Oliver. Non posso essere la sola a decidere del suo futuro.»
La figlia del Demonio sorrise leggermente: «Hai ragione. Allora uno di questi giorni dovremmo tornare a Starling City per parlargliene. Che ne pensi?»
La bionda ricambiò il sorriso, anche se in realtà, non aveva idea di come dirlo ad Arrow: lui era innamorato di Felicity, e nell'ultimo mese le cose tra loro potevano essersi fatte più serie.
«Io...»
«Se restiamo a Nanda Parbat, prima o poi, mio padre lo verrà a sapere» proseguì la mora, con malinconia. «Perciò, in ogni caso, ce ne dobbiamo andare. Per non destare sospetti, domani stesso andrò a dirgli che ci prendiamo una pausa dai nostri incarichi.»
«E se... se ci dessero la caccia?»
L'erede socchiuse un poco gli occhi, sorridendo amaramente. «Guardiamo il lato positivo: magari mio padre morirà prima della nascita del bambino.»
Prese a solleticare la pancia di Sara, facendola ridacchiare: «Si vede che ami molto tuo padre.»
«Provo per lui ciò che lui prova per me.»
Detto ciò, Nyssa si alzò dal letto, spegnendo tutte le candele presenti nella stanza.
«Facciamo un'ipotesi» esordì, una volta tornata a letto. «Fingiamo che, un giorno, noi due riusciremo a toglierci da tutti i casini della Lega e ad avere una vita normale. Se accadesse, e se Oliver fosse d'accordo...» disse, con le guance rosse dall'imbarazzo «potrei adottare il bambino?»
Canary si bloccò per un secondo, a disagio. «Stai già correndo troppo, sai?» scherzò, lasciandole un bacio a fior di labbra. «Beh, se riuscissimo a tirarci fuori da questa brutta situazione, non vedo perché no.»
L'erede sorrise dolcemente, e accolse nuovamente la bionda tra le sue braccia: «Ti prometto che vi proteggerò, fosse l'ultima cosa che faccio.»
Detto questo, le lasciò un ultimo bacio sulle labbra, come per augurarle buonanotte.
Sara nascose il viso nell'incavo del suo collo, sorridendo.
«Nyssa.»
«Uhm?»
«Mi hai insegnato molto bene l'arabo, ma ti sei dimenticata due parole fondamentali.»
«Quali?»
«Ti amo.»
«Si pronuncia uhibbuki. Perché me lo chiedi?»
«Uhibbuki, Nyssa.»














Ho notato che negli scorsi capitoli le mie note erano più lunghe del capitolo, perciò questa volta sarò breve xD
Ecco a voi la grande notizia: Sara è incinta. La storia ruoterà principalmente intorno a questo fatto, per questo motivo parlerò spesso degli Olicity.
Mi farebbe molto piacere sentire le vostre opinioni. A presto ^-^

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: The beginning of a new life ***


 

Capitolo 3:
The beginning of a new life

 

 

It's my own design
It's my own remorse
Help me to decide
Help me make the most
Of freedom and of pleasure
Nothing ever lasts forever
Everybody wants to rule the world

 


Ra's portò il calice pieno di vino a contatto con le sue labbra; il liquido amaro gli donò subito un senso di pace e libertà. Poggiò con cura la coppa sul tavolo, dopodiché incrociò le mani.
«Spero che la questione di cui dobbiamo trattare urgentemente riguardi la tua eredità» esordì in tono pacato.
Nyssa abbozzò un sorriso. «Ma certo.»
Due donne conclusero rapidamente il proprio lavoro -una riempì nuovamente il calice del Demone, l'altra portò un invitante piatto ricco di verdure-, dopodiché si dileguarono.
«Vuoi unirti al mio pasto?»
«No, ho già mangiato» si affrettò a rispondere la mora. «Sono venuta solo per dirti che ho preso una decisione.»
L'uomo bloccò la forchetta a mezz'aria, per poi posarla cautamente sul piatto.
«Vorrei che tu ci concedessi una pausa per riflettere.»
La Testa del Demone puntò i suoi occhi scuri in quelli nocciola della figlia. «Al-Sahfer non ha bisogno di una vacanza.»
«Sì, invece» proseguì l'altra, con fare deciso. «La libererò dal patto che la vincola alla Lega. In questo modo, potrò dedicarmi pienamente ai miei compiti come nuovo Demone, senza distrazioni. Ti chiedo solo un po' di tempo per riflettere sul mio futuro.»
Ra's riprese in mano la posata, e si gustò la pietanza senza ulteriori interruzioni. Continuò a mangiare per un tempo che a Nyssa parve interminabile, quando ad un tratto, parlò.
«Se non ti conoscessi» disse, pulendosi la bocca con il tovagliolo «ti direi che è un ottimo piano. Ma tu non hai alcuna intenzione di lasciare andare la tua amata. Te lo leggo negli occhi.»
Nyssa strinse involontariamente i pugni dietro alla schiena: si sentì un'idiota, perché, come sempre, non riusciva a controllare la sua rabbia. Ma ora, non poteva in alcun modo lasciarsi andare alle emozioni.
Doveva mantenere la calma. Doveva farlo per Sara. E per il bambino che portava in grembo.
«Quell'anello che porti al dito è più importante di qualsiasi altra cosa per me. Lo sai bene.»
«Avresti dovuto uccidere quell'insolente mesi fa, ma non lo hai fatto. Cosa ti fa credere che ti darò nuovamente fiducia?»
«Perché sono sangue del tuo sangue» proseguì la mora. «Non appena tornerò a Nanda Parbat, mi metterò alla ricerca di un uomo, e comincerò ad immergermi nelle acque del Pozzo di Lazzaro. Avrò un figlio, e lo addestrerò rigidamente come tu hai fatto con me. Lo farò perché l'unico motivo per cui sono nata è guidare la Lega degli Assassini. E nessuno meglio di me potrebbe portare a termine questo compito.»
Se qualcuno avesse chiesto a Sara chi fosse la vera Nyssa al Ghul, lei avrebbe risposto dicendo che era una ragazza romantica, con dei sogni e delle speranze per il futuro. Avrebbe detto che la sua freddezza era una semplice maschera, e che in realtà avrebbe voluto avere una vita normale, come chiunque altro.
Ma quella donna, quella che in quel momento stava discutendo con Ra's, non era la vera Nyssa al Ghul. Quella era una donna spietata e senza cuore, una guerriera bella e forte al tempo stesso. In poche parole, il prototipo della figlia perfetta secondo suo padre. Un'illusione.
«Quanto tempo starai via?»
«Non lo so. Poche settimane, immagino.»
L'uomo sospirò, giungendo nuovamente le mani. «Tradisci ancora una volta la mia fiducia, e scordati di diventare la nuova Testa del Demone.»
«Non lo farò» concluse l'erede, dirigendosi a passo svelto all'esterno della stanza.

*

Oliver scagliò con decisione una delle sue frecce paralizzanti, colpendo in pieno il collo di un uomo col viso coperto da un cappuccio, facendolo svenire.
«Via libera.»
Roy comparve dal corridoio, arco teso fra le mani e sguardo vigile.
«Lo Starling City Modern Art Museum è un complesso enorme, ma per vostra fortuna, ho hackerato tutte le telecamere di sicurezza, e posso condurvi direttamente al punto esatto in cui si sta svolgendo il furto.»
Oliver si fermò in mezzo alla stanza. «Quanto tempo abbiamo prima che le telecamere riprendino a funzionare?»
Si sentì il rumore di dita che digitano sulla tastiera di un computer: subito dopo, Felicity parlò. «Non ritorneranno in funzione fino a quando io non mi disconnetterò, ma la guardia che era all'entrata è riuscita a contattare la polizia prima che i banditi la colpissero. Saranno lì a breve, probabilmente tra meno di cinque minuti, perciò vi conviene sbrigarvi.» Sospirò, digitando ancora dei codici sulla tastiera. «I ladri si trovano al primo piano. Prendete la porta che si trova davanti a voi e salite le scale: è la seconda stanza a destra.»
Arsenal abbassò cautamente il suo arco. «La sicurezza di questo museo è sempre stata notevole. Come avranno fatto ad entrare?»
«Probabilmente uno di loro lavora qui, o ha delle conoscenze strette» ipotizzò Oliver, cominciando a salire le scale un gradino alla volta.
«Non si sono neanche preoccupati di oscurare le telecamere. Se non ci avessimo pensato noi, sarebbe sicuramente intervenuta la polizia.»
Arrow si fermò di fronte alla porta che conduceva al corridoio principale del primo piano. «È proprio quello che dovevamo evitare. Questa banda è sfuggita troppe volte alle autorità grazie alle armi, e non possiamo permettere che ci siano altre vittime.»
La aprì con un calcio. Due membri della famigerata banda criminale, situati di guardia nel bel mezzo del corridoio, presero a sparare contro di lui: Oliver evitò per un pelo i proiettili grazie al suo aiutante, che lo aveva trascinato indietro tenendolo per il braccio.
Subito dopo, i due arcieri colpirono agilmente gli uomini, puntando alle loro gambe: entrambi caddero a terra, e Roy si affrettò ad allontanare i fucili da loro con un calcio.
Dopo averli messi fuori gioco, i due si diressero 
a passo svelto verso la seconda porta a destra, aperta. Arrow tese nuovamente il suo arco, ma quando varcò la soglia, tutto ciò che vide fu un uomo calarsi giù dalla finestra: i quadri erano spariti.




«Dig, il furgone bianco è poco più avanti di te. Sta per svoltare a sinistra al prossimo semaforo, nella strada che conduce a The Glades.»
«Lo vedo. Cerco di raggiungerlo.»
«Perfetto. Oliver, Roy, voi dove-»
«Siamo già a The Glades» spiegò Arsenal, grato che lui e Oliver, quella sera, erano andati in missione in moto. «Stiamo facendo la strada al contrario.»
«Vi state avvicinando. La strada che state facendo è deserta, perciò vi sarà facile individuare il mezzo. Nel frattempo contatto il capitano Lance.» Felicity si lasciò andare ad un sospiro sommesso. «Ci servirebbe una vacanza, non credete?»
«Non finché c'è qualcuno che attacca la mia città» ribatté Oliver, aumentando la velocità.
A sua volta, anche il furgone bianco -e Diggle poco più indietro- accelerò. Quando furono abbastanza vicini, Arrow e Arsenal si scambiarono un'occhiata d'intesa, dopodiché frenarono in contemporanea, e scagliarono due frecce nelle gomme del camioncino: il guidatore perse il controllo del mezzo, e nel giro di poco andò a sbattere contro un paio di bidoni, causando la fuoriuscita di gas dal cofano.
I due arcieri scesero rapidamente dalle loro moto: nel mentre, John -armato di pistola- li raggiunse.
Oliver si affacciò con cautela al finestrino aperto, constatando che i tre uomini erano svenuti. Subito dopo, tutto ciò che udì fu il rumore delle sirene della polizia in lontananza.



Quando i tre rientrarono nella loro base, erano le due passate. Felicity li accolse sbadigliando, e Oliver non riuscì a trattenere una risata. Si avvicinò alla bionda e gli stampò un bacio sulle labbra.
«E tu quando sei arrivata?» domandò a Laurel, in piedi di fianco all'altra ragazza.
«Poco fa. Ho saputo da mio padre che Arrow aveva catturato una banda di ladri, e ho pensato che a Felicity servisse un caffè» scherzò, incrociando le braccia.
«In effetti è solo grazie alla caffeina se sono rimasta in piedi» proseguì l'esperta di computer, lasciandosi nuovamente andare sulla sedia.
Subito dopo, Oliver alzò di scatto la testa, gli occhi rivolti davanti a lui. Al sentire dei passi lungo le scale che conducevano al piano superiore, tese il suo arco, pronto a colpire.
Rilassò i muscoli solo quando vide una chioma bionda molto famigliare e il sorriso di Sara. Un attimo dopo, però, dietro di lei, comparve Nyssa, anche lei con l'arco teso tra le mani; Arsenal e Dig si affrettarono a recuperare le proprie armi, e le puntarono contro l'erede del Demonio, che però non si lasciò intimidire.
«Non siamo venute qui per combattere» esordì la bionda, scocciata dal comportamento dei presenti «perciò abbassate tutti le vostre armi. Vale anche per te, Nyssa.»
La mora riservò uno sguardo infastidito all'amata, ma la sua occhiata bastò per farle rimettere la freccia nella faretra. Gli altri tre, anche se contrari, riposero le proprie armi sul tavolo.
«Sara...» Il sussurro di Laurel fu ben udito da tutti i presenti. La donna corse incontro alla sorella, un sorriso a trentadue denti stampato in viso, e l'abbracciò. La strinse più che poté, arrivando a sentire il battito del suo cuore, e la minore fece lo stesso, beandosi del calore che quell'abbraccio le stava donando.
Sara sciolse lentamente l'abbraccio con la sorella, e salutò prima Roy, poi Dig, abbracciandoli di slancio. Subito dopo, il suo sguardo incontrò casualmente quello di Arrow. Si avvicinò a lui di qualche passo, nonostante le tremassero le gambe.
«Ciao, Sara.»
Deglutì. «Ciao, Ollie.»
Per un attimo, le parve quasi come se nella stanza ci fossero solo loro due. Poi, al sentire una mano aggrapparsi leggermente alla sua maglietta, ritornò alla realtà, e si ritrovò faccia a faccia con Nyssa: si sentiva spaesata e a disagio nell'Arrow Cave. Glielo leggeva negli occhi.
«Che cosa vi ha portate a Starling City?»
Canary si voltò nuovamente, e solo allora la notò: Felicity era vicino ad Oliver, un paio di passi più indietro. Avrebbe voluto abbracciare anche lei, ma la stretta della sua amata le impedì di muoversi.
«Ci siamo prese una pausa» mentì, sfoggiando uno dei suoi più falsi sorrisi.
Per qualche secondo, nella stanza calò il silenzio.
«Quanto tempo resterete?»
«Non lo sappiamo» proseguì la bionda, rivolta alla sorella maggiore. «Per questo non devi dire niente a papà. Potremmo partire da un momento all'altro, perciò non voglio che si faccia delle speranze.»
Laurel ricambiò il sorriso, accarezzandole dolcemente la spalla. «Stai tranquilla.»
Detto questo, Sara abbassò il capo, mentre Nyssa continuò a guardarsi intorno: i tre uomini la stavano fissando, e quando Canary se ne accorse, alzò nuovamente lo sguardo.
«Nyssa non ha cattive intenzioni, ve lo posso giurare» ribadì, puntando i suoi occhi di ghiaccio in quelli del suo ex fidanzato. «È stata lei e concedermi un po' di riposo.»
«Strano, tempo fa ha rapito tua madre per il motivo opposto.»
L'erede si voltò verso Diggle: «Ho avuto la stessa conversazione con mio padre, prima di convincerlo a farci lasciare Nanda Parbat.»
John non aggiunse altro: prese un respiro profondo, mentre cercava di assimilare il significato di quelle parole.
«Suppongo che non abbiate un posto dove andare» proseguì Laurel. «Che ne dite di venire da me?»
Sara deglutì ancora. «Non vogliamo crearti troppo disturbo. Noi...»
L'ex miliardario non la lasciò finire. «Se preferite, potete restare qui. Laggiù c'è un materasso matrimoniale: non è il massimo, ma almeno non dovrete dormire sul pavimento.»
«E tu dove andrai?»
Oliver e Felicity si scambiarono una lunga occhiata, e la bionda capì. Unirono le proprie mani, e il tecnico informatico arrossì lievemente. «Io dormo a casa di Felicity... da un po'.»
«Oh.»
Sara percepì una sorta di peso sul cuore che le impedì di dire altro. Nyssa lasciò andare lentamente la presa sulla sua maglietta, capendo che l' amata non si sentiva bene.
«Vi ringraziamo per la disponibilità. Sara, andiamo di sopra a prendere i nostri bagagli?»
La bionda annuì lievemente, e sparì lungo le scale insieme a Nyssa: subito dopo, anche Laurel, Roy e Felicity le seguirono, nel tentativo di aiutarle a sistemarsi.
Diggle incrociò le braccia, e sul suo volto andò a formarsi un piccolo sorriso: «Signor Queen, lei sa benissimo che la Lega degli Assassini ha un'innumerevole quantità di rifugi in giro per il mondo, Starling City compresa, eppure gli ha comunque offerto un tetto sulla testa. Di conseguenza, questa domanda mi sorge spontanea: perché?»
Oliver poggiò le mani sul tavolo dei computer, e piegò leggermente la testa all'indietro. «Questa storia non mi convince. Sono sicuro che ci sia qualcos'altro sotto.»
John sospirò. «Lo penso anch'io.»



«Non posso dirgli del bambino. Hai visto com'erano allegri lui e Felicity? Non posso rovinare la loro relazione in questo modo. Non ce la faccio.»
«Dovrai farlo comunque, lo sai no?» sussurrò amorevolmente Nyssa, accarezzando i suoi capelli dorati.
Sara sospirò sonoramente. «Non so cosa fare.»
Il materasso emise un lieve scricchiolio. La mora osservò tristemente la sua amata chiudere tristemente gli occhi: avrebbe fatto di tutto pur di alleviare le sue sofferenze.

*

Sara incrociò distrattamente le braccia, continuando a guardarsi intorno: erano appena le otto di mattina, e le era dispiaciuto non dire a Nyssa che sarebbe uscita, ma, al tempo stesso, se l'avesse svegliata si sarebbe sentita in colpa. Avrebbe potuto benissimo aspettare qualche ora, ma in quel momento, aveva sentito la necessità di vederla.
All'improvviso, sentì due braccia cingerle la vita con dolcezza, e subito dopo un viso poggiare la propria guancia sulla sua schiena.
La bionda sorrise, e con un movimento rapido, si voltò, abbracciando a sua volta Cindy: le lasciò un bacio sulla fronte, e la ragazzina non smise di stringerla neanche per un secondo.
«Quando ho letto il tuo messaggio non riuscivo a crederci!» esclamò la mora sorridente, ma con gli occhi lucidi. «Mi sei mancata così tanto.»
«Lo so. Anche tu mi sei mancata, Sin» sussurrò, ricambiando il sorriso.
Entrarono nella caffetteria ansiose -Sara per quello che avrebbe detto a breve, e Cindy perché erano mesi che non vedeva l'amica.
Si sedettero ad un tavolino per due, ma dopo aver ordinato, non dissero nulla. Si scambiarono delle occhiate fugaci, per poi rinchiudersi nei propri pensieri.
Ad un tratto, però, Sara trovò il coraggio di iniziare la conversazione.
«Scusami, Sin. Scusa se me ne sono andata via senza dire una parola. Il fatto è che ci sono così tante cose che non sai di me, e sono molto dispiaciuta per non potertele raccontare tutte.»
La mora si mise seduta comoda sulla sedia. «Ti sei presa cura di me per un anno senza che io te lo chiedessi, perciò non devi dispiacerti. So che sei una ragazza fantastica, e questo mi basta. Sono io a doverti chiedere scusa per non averti ringraziata abbastanza.»
Canary scosse lievemente la testa. «Non sono una brava ragazza come credi tu.»
«Hai passato sei anni lontana da casa, e chissà quali tragedie hai dovuto sopportare. Perciò, anche se hai fatto delle cose sbagliate... lo posso capire.»
«Uccidere è nella lista?»
«Tu non sei un'assassina» proseguì la ragazza, abbassando un poco il tono di voce «sei una vigilante.»
«Non esattamente» ribatté l'altra, sorridendo amaramente. «Ricordi quella volta in cui ti ho parlato dei miei sei anni lontana da Starling City?»
«Vagamente. Sai com'è, erano le quattro di mattina e mi hai svegliata dopo aver avuto un incubo, perciò non ero tanto lucida» scherzò, facendo un occhiolino.
Sara ammiccò un sorriso: «Dopo che il Queen's Gambit è affondato, ho passato un anno su un mercantile con degli uomini crudeli, che sfruttavano dei prigionieri per i loro esperimenti. L'anno dopo, l'ho trascorso su un'isola chiamata Lian Yu, ed è lì che mi sono ricongiunta con Oliver. Poi, una ragazza di nome Nyssa mi ha salvata da una morte sicura, e mi ha portata con lei a Nanda Parbat.»
«Nanda-che?» soffiò la mora, mentre la cameriera poggiava gli ordini sul tavolino.
La bionda attese che se ne andasse prima di proseguire: «Nanda Parbat, il covo della Lega degli Assassini.»
Cindy diede un morso al suo cornetto alla crema, ignorando il fatto che la parola "assassino" fosse realmente collegata alla sua amica, mentre Sara mescolò lo zucchero nel suo caffè. Ad un tratto, smise di far roteare il cucchiaino, e puntò i suoi occhi in quelli della ragazzina.
«Sono incinta.»
Sin buttò giù l'ultimo pezzo di brioche, e per poco non le andò di traverso. Tossicchiò per un minuto buono prima di riprendersi del tutto. «Non avevi una fidanzata?»
Sara annuì. «Sì. Ce l'ho ancora.»
L'altra diede un sorso al suo caffèlatte. «Non so se dirti "congratulazioni" oppure "mi dispiace". È una bella notizia, ma non ne sembri tanto contenta.»
«In realtà, lo sono» ammise la bionda, abbassando lo sguardo per un attimo. «Il punto è che il padre della mia ragazza è il capo della Lega. E lui, beh... lui mi odia. E ho paura che potrebbe uccidere le persone a cui tengo.»
«Perché hai tradito sua figlia?»
«No, a lui non importa niente di sua figlia. E poi, quando sono rimasta incinta, io e la mia ragazza non stavamo più insieme. È così complicato da spiegare.» Sospirò, passandosi una mano fra i capelli. «Quando ho deciso di allontanarmi dalla Lega, più o meno nel periodo in cui ci siamo conosciute, ho segnato la mia vita. Sarei dovuta morire, ma la mia ex... lei mi ha liberata.»
«Quindi suppongo che quando sei tornata a Nanda... Parbat, lei ti abbia accolta a braccia aperte.»
Canary delineò un sorriso. «Sì, è così.»
«E il padre del bambino?»
«È Oliver» rivelò la bionda, bevendo un altro sorso di caffè. «Però, non lo sa ancora. Mentre io ero via, lui si è fidanzato e... ho paura di rovinare tutto. La donna con cui sta è fantastica, e lo sanno tutti che sono fatti l'uno per l'altra. Il nostro è stato solo un modo per divertirci, per non dimenticare i vecchi tempi. L'ho amato per tutta la mia vita, è vero, ma proprio ora che sono riuscita a dimenticarlo, ho paura di compiere l'ennesimo errore.»
«Sei tornata per dirglielo, perciò che senso ha tirarti indietro proprio ora?»
La giovane Lance inarcò un sopracciglio. «Come sai che sono tornata a Starling solo per questo motivo?»
Sin sorrise ancora. «Sesto senso.»
Rimasero nuovamente in silenzio per un tempo indecifrabile.
«La tua ragazza» sussurrò la mora «è questa Nyssa?»
Sara annuì, arrossendo lievemente.
«Dev'essere una persona splendida. Voglio dire, se è ancora con te dopo aver saputo di questa storia, significa che ti ama veramente.»
L'altra ruotò leggermente la testa di lato, assimilando il significato delle parole di Sin. «Probabilmente è così.»



Sara pagò per entrambe, e assicurò all'amica che non sarebbe sparita di nuovo.
Cindy le disse nuovamente che Oliver meritava di sapere la verità: le consigliò di attendere il momento giusto per dirglielo, ma di non temporeggiare troppo.
Quando Canary fece ritorno al Verdant, Laurel e Nyssa erano sedute vicino al bancone. Si fermò all'entrata per guardarle: sua sorella parlava animatamente con l'erede, che l'ascoltava con attenzione, e ogni tanto interveniva, anche se titubante. Era veramente felice di vederle chiacchierare tra di loro, visti i precedenti.
Quando si avvicinò, la prima a notarla fu Nyssa: le dedicò una delle sue occhiate più dolci, e quando Laurel si accorse di quel gesto, si voltò a sua volta.
Le sorelle Lance si scambiarono un rapido abbraccio, e l'avvocato lasciò una carezza sui capelli della bionda, sorridendo amorevolmente.
«Dove sei stata?»
Sara si voltò verso Nyssa: non lo aveva chiesto con cattiveria, né con fare possessivo o preoccupato, come faceva di solito a Nanda Parbat quando la bionda andava in missione senza avvertirla. Aveva utilizzato un tono di voce molto calmo, che non le apparteneva.
«Sono andata a trovare un'amica» rispose semplicemente Canary. «E voi due, invece? Di che parlavate?»
«Non posso dirtelo» soffiò la castana, ancora sorridente. «Però, se vuoi, te lo posso mostrare.»



Pochi minuti dopo, le tre si trovavano in un appartamento accogliente, situato al secondo piano di un edificio non molto distante dal Verdant. Laurel aprì le tende per illuminare la stanza vuota, e gli occhi di Sara lasciarono trasparire tutto lo stupore che provava.
«Che posto è questo?» domandò, continuando a guardarsi intorno incuriosita.
Laurel sorrise. «Un mio ex collega del CNRI si è trasferito a Coast City un paio di settimane fa, e ha messo in vendita il suo vecchio alloggio ad un prezzo molto basso.»
«E perché tutto ad un tratto ha deciso di andarsene? Non è che questa casa è infestata dai fantasmi, o roba simile?»
Nyssa fece un piccola risata, accarezzando delicatamente la schiena della sua amata.
L'avvocato scosse la testa: «No, nessun fantasma. Sua moglie è incinta, e non voleva che il bambino nascesse con un padre senza lavoro. Così, ha portato un po' di curriculum a Coast City, dove vivono i suoi suoceri, e ha avuto fortuna.»
L'erede del Demonio percepì un brivido accarezzarle la schiena. Un lavoro?
«E noi cosa c'entriamo con tutta questa storia?» chiese la bionda, indicando Nyssa con lo sguardo.
«Non so di preciso quanto tempo vi fermerete» proseguì la maggiore delle sorelle Lance, compiendo qualche passo verso il centro della stanza «ma è chiaro che, in ogni caso, tornerete. Ho chiesto a Nyssa se qualche membro della Lega verrebbe a torturarmi se decidessi di regalarvi un appartamento, e lei ha detto che posso procedere subito con l'acquisto.»
Canary si voltò di scatto verso la sua ragazza, con sguardo confuso. «Non possiamo compare questo alloggio! Non abbiamo i soldi, e-»
«Come ho già detto» la bloccò Laurel «ve lo regalerei io. È ovvio che non mi potrei permettere da sola anche il mobilio, ma Nyssa ha detto che ha un conto personale, e che quei soldi potrebbero bastare anche per garantirvi di vivere per qualche mese.»
«Laurel, non posso accettare. Dopo tutto quello che ti ho fatto, io...» Si lasciò andare ad un lungo sospiro.
La sorella le scostò una ciocca di capelli dietro all'orecchio. «Il passato non esiste più, Sara. Permettimi di ricominciare così, regalandovi una casa in cui potrete tornare tutte le volte che vorrete.» Laurel alzò lo sguardo, incrociando quello di Nyssa. «E poi, non dovreste più dormire nel covo di Oliver» scherzò, abbozzando un sorriso.



«Non riesco a credere di aver accettato quest'idea folle.»
Nyssa sorrise, stringendo la mano di Sara nella sua. «Il nostro piano è quello di restare, giusto? Quindi direi che il destino è dalla nostra parte.»
Si sedettero in una panchina situata vicino ad un parco -probabilmente l'unico- a The Glades.
«Sta andando tutto come previsto» sussurrò la mora, lasciando un bacio sulle labbra dell'amata. «Avremo un posto tutto nostro. Riesci a crederci?»
Canary ruotò leggermente la testa di lato. «Quando se ne presenterà l'occasione, restituiremo tutti i soldi a mia sorella. Lo sai questo, vero?»
L'altra annuì, senza riuscire a smettere di sorridere.
«Piuttosto, perché non mi hai detto che avevi un conto personale?»
«Perché non è vero. Il conto è di mio padre: io gli ho semplicemente rubato un po' di soldi prima di partire.»
«Che cosa intendi con un po'
«Presto non avrà più importanza» rispose.
«Uhm?»
Nyssa sospirò, abbassando distrattamente lo sguardo. «Voglio un lavoro.»
Sara scoppiò in una sonora risata: «Nyssa al Ghul che cerca lavoro? Che cosa scriverai nel tuo curriculum, "esperta assassina"?»
«Qui sono Nyssa Raatko» precisò l'altra, delineando un sorriso. «Dico sul serio. La storia di Laurel mi ha aperto gli occhi, e io... io voglio fare qualcosa per te e per il bambino, in qualche modo.»
La bionda si fece improvvisamente seria. Prese il viso di Nyssa tra le proprie mani, cominciando ad accarezzarle dolcemente le guancie. «Tu stai facendo molto per me. Per noi. Il fatto che tu abbia scelto me, anziché prendere il posto di tuo padre nella Lega, è un'enorme sacrificio, e lo capisco.»
«Non è stato un sacrificio. Io sceglierò sempre te, Sara. Sempre» soffiò l'erede, prima di avvicinarsi alla sua amata e baciarla amorevolmente.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: We're home ***


 

Capitolo 4: 
We're home

 

 

 

 

«È stata un'esperienza sconcertante.»
Sara soffocò una risata, stringendo la mano destra intorno al braccio di Nyssa. «Abbiamo semplicemente scelto il divano per il salotto.»
«Sì, ma quel magazzino era enorme, e quei divani terribilmente scomodi. E, ovviamente, l'unico decente ci è costato una fortuna.» L'erede del Demonio sospirò sommessamente. «Ho bisogno di un caffè.»
«Non pensavo che l'avresti mai detto» soffiò la bionda, non riuscendo a smettere di sorridere.
«Il lato positivo è che sabato potremo finalmente trasferirci nella nostra nuova casa.» La voce della mora si ridusse ad un misero sussurro, e Canary si accorse anche del rossore che le contornava le guance.
Il cellulare di Sara cominciò a squillare e la ragazza si fermò nel bel mezzo del marciapiede per rispondere. «Felicity?» esordì, inarcando le sopracciglia con fare stupito e confuso al tempo stesso. «È successo qualcosa?»
«No, è tutto a posto!» esclamò la bionda dall'altra parte del telefono. «Sei con Nyssa?»
Canary rivolse un'occhiata fugace alla sua amata. «Sì, certo, è qui con me. Perché me lo chiedi?»
«Oliver ha comprato del cibo thailandese, ma... diciamo che ha un po' esagerato con le porzioni, e dubito che riusciremo a finire tutto da soli. Vi andrebbe di unirvi a noi?»
«Dovresti inventarti delle scuse migliori» rispose la bionda, ridacchiando.
«Non sono brava a mentire» ribatté l'altra, con un pizzico d'ironia. «Tra venti minuti a casa mia?»
 Sara abbozzò un sorriso. «Arriviamo subito.»



«Siete già qui? Non sono passati neanche dieci minuti!» affermò Felicity, lasciando entrare le due ospiti.
«Quando mi hai chiamata eravamo appena uscire da un negozio di arredamenti, così abbiamo preso un taxi per non tardare» spiegò la giovane Lance, facendole l'occhiolino.
«Oh, giusto! Dimenticavo che questo fine settimana tu e Nyssa vi trasferirete. Sono così felice per voi, dico davvero!»
Sara le sorrise, e il gesto fu ricambiato dal tecnico informatico; Nyssa le osservò con discrezione, fino a quando, ad un tratto, sentì una mano poggiarsi delicatamente sulla sua spalla.
«Sono felice che siate venute.»
L'erede del Demonio si voltò lentamente, incrociando i verdissimi occhi di Oliver Queen. Ignorò a fatica il fatto che avesse osato toccarla.
«Ollie!» Sara lo abbracciò di slancio, mentre l'ex miliardario le lasciava un bacio sulla fronte.
I due si fissarono a lungo senza dire una parola. La bionda sentiva solamente il rumore del suo respiro irregolare e il battito del suo cuore farsi sempre più rapido.
Quel momento di profondo disagio per Sara, fortunatamente, fu spezzato dalla voce di Felicity.
«Che ne dite di accomodarci a tavola? In cucina c'è un'anatra arrosto con curry rosso che aspetta solo di essere mangiata!»
«Sto morendo di fame» disse Nyssa, parlando tra sé e sé. La padrona di casa sentì il suo commento, e le dedicò un sorriso sincero.
L'erede, imbarazzata, non rispose in alcun modo a quel gesto.



«Mi piace molto la tua casa. È piccola, ma accogliente» affermò Sara, bevendo un sorso d'acqua dal suo bicchiere. «Mi ricorda molto quella in cui vivevo prima.»
La ragazza ignorò l'occhiata malinconica di Oliver, seduto di fronte a lei, e continuò il suo racconto per dare una spiegazione a Felicity.
«Mia madre insegna alla Central City University fin da quando ero bambina. Non si è mai trasferita per essere una madre presente, così è stata costretta a prendere il treno ogni giorno per quasi vent'anni. Poi, dopo che il Gambit è affondato, i miei si sono separati.» Fece una pausa, prendendo un respiro profondo. «Mia madre se n'è andata a Central City, mio padre si è comprato un alloggio non molto distante dalla stazione di polizia, e Laurel è andata a vivere nell'appartamento che avrebbe dovuto condividere con Oliver.»
Quando si rese conto delle parole che aveva detto, era troppo tardi.
Felicity distolse lo sguardo -non perché quella frase le aveva dato fastidio, bensì per non mettere a disagio l'amica-, e Oliver abbassò il capo.
«Scusatemi» sussurrò Canary, sentendo la mano di Nyssa poggiarsi sulla sua gamba con fare rassicurante.
«Non devi scusarti» la tranquillizzò l'altra, sistemandosi gli occhiali da vista. «Vai pure avanti.»
Sara soffocò un sospiro, mentre un brivido inaspettato le accarezzava la schiena. Che figura.
«Dico questo perché... la mia famiglia è a pezzi. Ogni volta che torno a Starling, non ho un punto di riferimento. E adesso che Laurel mi ha regalato quell'appartamento...» Sul suo volto andò a formarsi un lieve sorriso. «È bello sapere di avere un posto tutto mio. Tutti si sono rifatti una vita, mentre io sono rimasta bloccata in un limbo per sette anni. Ma adesso che sono riuscita a trovare una via di uscita, non voglio sprecare questa meravigliosa opportunità.»
Nyssa le dedicò un sorriso carico di gioia, che Sara si affrettò a ricambiare. Felicity le osservò con le mani incrociate, provando una strana sensazione di allegria. Era veramente felice per loro.
Oliver, al contrario, mandò giù un sorso di birra per nascondere la sua espressione pensierosa. Non era geloso di Sara, lui amava Felicity e di questo ne era certo. Però... tra lui e la più giovane delle sorelle Lance c'era sempre stata una sorta di intesa che non aveva mai provato con nessun'altra donna. E vedere la ragazza che un tempo aveva amato rifarsi una vita con la sua fidanzata, poco dopo essere tornata a far parte di una Lega di assassini psicopatici, come se nulla fosse, gli parve molto strano. Fin troppo.
«Quindi, avete già acquistato tutti i mobili?»
La bionda annuì a Felicity. «Sì. Pensavamo di metterci più tempo, e invece sono bastati pochi giorni. L'aiuto di Nyssa è stato essenziale!»
Canary scoppiò in una sonora risata; la sua amata inarcò un sopracciglio, mostrandosi fintamente scocciata, mentre Arrow ruotò leggermente la testa di lato.
«Che intendi dire?»
«“Questo non mi piace, quello non ce lo possiamo permettere, quest'altro ha un colore orribile”. Sono state le giornate più esilaranti di tutta la mia vita!» esclamò Sara, provocando un lieve rossore sulle guance della mora.
Quest'ultima, per non sentirsi ulteriormente a disagio, cambiò argomento. «E voi? Da quando vivete insieme?»
Oliver e Felicity si scambiarono un'occhiata imbarazzata, non riuscendo a trattenere una piccola e buffa risata.
«Ci siamo messi insieme pochi giorni dopo aver rinchiuso Slade nella prigione su Lian Yu» spiegò il ragazzo, con un tono di voce inspiegabilmente cauto.
«A causa degli uomini di Deathstroke, la città ha riportato numerosi danni» proseguì Felicity. «Ci siamo chiesti più e più volte se fosse giusto rimanere insieme, o se per Arrow fosse meglio pensare ai cittadini Starling City e a nessun altro. Poi, ci siamo convinti che ce l'avremmo fatta, e così ho chiesto a Oliver di venire a vivere con me. È anche una questione di sicurezza, da come dice lui.»
«Fondamentalmente, è per questo motivo se ho accettato.»
«A cosa ti riferisci, esattamente?» domandò Sara, incrociando la sguardo dell'ex fidanzato.
«“Ti voglio troppo bene per stare insieme a te”. Ricordi chi è stato a dirmi questa frase?»
La bionda annuì lentamente. Era stata lei a farlo, poco prima di tornare a Nanda Parbat. Il fatto che Oliver stesse pronunciando quelle parole di fronte a Felicity e a Nyssa, considerando che avrebbero potuto fare loro delle domande, la stupì molto.
«Io e Felicity abbiamo indubbiamente commesso un errore. Con la vita che conduco, mi sono fatto un'innumerevole quantità di nemici, e un'indomani, se qualcuno volesse vendicarsi con me, colpirebbe le persone che amo. Un po’ come ha fatto Slade. Capisci che intendo?»
Sara annuì ancora, questa volta con più convinzione. «Le persone come noi non possono avere una vita normale. Metteremmo a rischio chi ci sta intorno.»
«Esattamente. E dato che noi due abbiamo deciso di provarci» disse Oliver, incrociando la propria mano con quella della fidanzata «il minimo che possa fare è vivere al suo fianco per proteggerla in ogni momento.»
La bionda si strinse nelle spalle, provando un improvviso senso di colpa. Oliver e Felicity si scambiarono un bacio davanti ai suoi occhi lucidi e carichi di vergogna, mentre Nyssa tentava vanamente di capire cosa le fosse preso.



La notte era ormai vicina.
Sara e Nyssa camminavano l'una di fianco all'altra, in un silenzio che pareva irreale.
I marciapiedi erano vuoti, mentre in strada c'era un continuo via vai di automobili.
«Perché ti sei ammutolita di colpo?» domandò ad un tratto la mora, seriamente preoccupata per la reazione dell'amata.
Canary non rispose, continuando a camminare come se nulla fosse. L'erede la assecondò per un paio di minuti, ma poi, la sua pazienza esplose
«Mi hai sentita? Sara!»
La bloccò con cattiveria, stringendo la mano intorno al suo braccio, costringendola così a voltarsi: Sara piangeva silenziosamente, e nel vederla in quello stato, Nyssa provò una strana sensazione di vuoto all'altezza dello stomaco.
«Che cosa ho fatto?»
Aveva la voce incrinata dal pianto: ciò lasciava trasparire il dolore e l'angoscia che aveva trattenuto dentro di sé per tutta la serata.
Nyssa sussultò. «A che ti riferisci?»
Sara iniziò a singhiozzare, coprendosi il volto con entrambe le mani. «Il bambino... io... l'ho condannato a morte» disse, mentre l'erede del Demonio la accoglieva tra le sue braccia. «Sono stata una sciocca... avrei dovuto... avrei... io...»
«Calmati. Respira, Sara. Io sono qui» sussurrò dolcemente, cominciando a cullarla dolcemente nel tentativo di calmarla. «Non possiamo rinunciare a costruirci una famiglia a causa della vita che conduciamo. Siamo esseri umani e meritiamo di comportarci come tali. Non sentirti in colpa per il bambino. Hai fatto la scelta giusta, e io ti ho promesso che vi proteggerò fino alla fine.»
La bionda tirò su col naso, nascondendo il viso nell'incavo del collo dell'amata. «Voglio tornare al covo, adesso. Per favore...»
Nyssa annuì lentamente, dopodiché strinse la mano di Sara intorno alla propria e riprese a camminare, la mente affollata da vari pensieri.

*

Dopo quanto accaduto quella sera, Sara si chiuse in un silenzio agghiacciante, e Nyssa non osò turbarla in alcun modo. Non ne parlarono più.
Le serate passarono in fretta, anche grazie all'aiuto che le due avevano offerto al Team Arrow. Quattro mani in più facevano sempre comodo per acciuffare -o uccidere accidentalmente, secondo Nyssa- dei banditi.
Quando finalmente le due amate si trasferirono nel loro appartamento,  nessuno era ancora stato messo al corrente della gravidanza di Sara. Ed era quasi al terzo mese.
La squadra gli offrì l'aiuto necessario per preparare al meglio la nuova casa. Laurel scelse le postazioni dei mobili, mentre Roy, John e Oliver aiutarono i facchini a collocare tutto al posto giusto: Felicity rimase ad aspettarli al Verdant con Sara e Nyssa, che attesero con impazienza il ritorno dei loro amici.



«Sei pronta?»
Sara prese un respiro profondo. Le tremavano le gambe. «Sì.»
La mora infilò la chiave nella serratura con delicatezza, cercando di non lasciar trasparire alcun segno di agitazione.
Quando aprì la porta, tutto ciò che i loro occhi videro fu una stanza buia.
Sara poggiò le dita sull'interruttore situato dietro di lei, e quando accese la luce l'espressione sul suo viso cambiò completamente.
Il salotto era splendido. L'oggetto che spiccava di più era indubbiamente il divano bianco che aveva scelto Nyssa: il morbido tappeto - molto sicuramente un'aggiunta di Laurel- era grigio tenue, e sul tavolino in vetro sopra di esso era stata posta una bottiglia di champagne.
L'erede del Demonio lesse ad alta voce il bigliettino:


“Lo champagne è un'extra di Oliver. Sarebbe gradito se non ne avanzaste neanche un sorso. Passate una bella serata, per una volta!

Dig, Ollie e Roy”


Canary soffocò una risata, portandosi una mano vicino alla bocca.
«Bisogna ammettere che il tuo ex è molto... perspicace, oserei dire.»
Sara si voltò verso Nyssa, incrociando il suo sguardo magnetico. Quest'ultima non aggiunse altro e si diresse nella cucina, situata nella stanza a sinistra del salotto; ritornò dopo poco con due bicchieri in mano.
Le due si sedettero nel divano, e dopo aver versato lo champagne, si scambiarono una lunga occhiata.
«Alla nostra nuova casa, e a noi due» esordì Sara, alzando il flûte.
L'erede del Demonio abbozzò un sorriso imbarazzato. «Al bambino.»
Canary si portò in fretta il bicchiere vicino alla bocca, nel tentativo di reprimere il suo imbarazzo. Nyssa fece lo stesso, ma con meno entusiasmo: non aveva mai assaggiato dello champagne in vita sua.
Il liquido le attraversò la gola in fretta, donandole una strana sensazione di calore, e subito dopo la lingua cominciò a pizzicarle irrefrenabilmente. Ma, non appena Sara le propose di visitare il resto della casa, il fastidio passò completamente.
Sulla destra vi era il lungo corridoio, con alcuni scatoloni zeppi di roba sparsi qua e là: si trattava dei pochi vestiti che le due possedevano, delle loro divise e di alcuni oggetti che a Sara erano molto familiari, come la fotografia che lei e sua sorella si erano scattate sette anni prima. Ogni membro della famiglia Lance aveva incorniciato quella fotografia -Quentin l'aveva posta sulla scrivania del suo ufficio, Laurel in salotto, e probabilmente anche Dinah l'aveva collocata in un posto a lei caro. Mancava solo lei: solo Sara.
Nyssa aprì la prima porta sulla sinistra: il bagno. Era poco più piccolo della cucina, ma accogliente. C'erano sia la doccia che la vasca da bagno: vicino a quest'ultima, erano stati posti ordinatamente i prodotti che avevano acquistato il giorno prima.
Si diressero alla fine del corridoio, giungendo davanti a due porte. Quella di destra conduceva ad una stanza vuota, ma le due non potevano saperlo: Sara la varcò, e per un attimo il suo cuore smise di battere.
Quella era la stanza in cui un giorno, se tutto fosse filato liscio, avrebbe dormito suo figlio.
«Che cos'hai detto a...» Sara bloccò la frase a mezz'aria, ma era ovvio che si riferisse ad Oliver.
«Ho solo detto che non sapevamo cosa farne di questa stanza, probabilmente una camera degli ospiti, più avanti» rispose Nyssa, poggiandole una mano sulla spalla. «Sta' tranquilla, non ho nemmeno accennato alla gravidanza. È compito tuo parlarne.»
La bionda si lasciò andare ad un sospiro di sollievo, e la sua amata le dedicò un sorriso.
«Che dici, guardiamo la nostra stanza?»
Non fece in tempo a rispondere, perché Nyssa era già entrata nella camera.
La seguì a passo lento. Le tremavano ancora le gambe.
La stanza era grande, spaziosa, e decisamente più bella di come se l'era immaginata. Era perfetta, e bianca.
I mobili, il letto, le tende. Tutto bianco.
Sara compì qualche passo in avanti, incredula che quella, da quel giorno in poi, sarebbe stata la sua casa. La loro casa.
Si bloccò di fronte alla finestra, sfiorando impercettibilmente il vetro con le dita.
Era un semplice appartamento al secondo piano di un edificio, eppure, da quella postazione, lei poteva vedere la sua città.
Vedeva in lontananza il parco in cui andavano spesso lei e Nyssa, il semaforo con la luce rossa che si accendeva e spegneva a piacimento, il bar di fronte con l'insegna a forma di croissant, il Verdant in fondo alla strada. Riusciva a scorgere anche il vecchio campanile in cui aveva vissuto con Sin, l'unico luogo in cui le due poterono vedersi senza dare nell'occhio quando ancora non era stato reso noto il fatto che Sara fosse viva.
Nyssa abbracciò dolcemente l'amata da dietro, poggiando la testa sulla sua spalla: prese ad osservare la città insieme a lei, provando un'emozione, una consapevolezza che non aveva mai sentito prima.
«Siamo a casa» affermò la mora, sorridendo gioiosamente alla città.














Ho cercato di descrivere l'appartamento con poche parole, anche perché, se avessi aggiunto tutti i dettagli, il capitolo sarebbe sembrato/diventato l'opuscolo di un'agenzia immobiliare xD
Mi sono limitata a scrivere poche righe della loro nuova casa -confortevole e semplice- perché si tratta di un passo importante, ma non così importante da dedicare un'intera pagina di word per la descrizione. Credo che sarei andata fuori tema, anche se probabilmente ho già esagerato così.
Un capitolo un po' diverso e piuttosto calmo rispetto ai precedenti. Spero di rifarmi con il prossimo.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: The job ***


 

Capitolo 5: 
The job

 

 

 

 

Sara aprì gli occhi con delicatezza, ritrovandosi completamente avvolta nelle coperte calde.
Le tende erano tirate, ma dalle finestre filtrava una flebile luce, segno che era già mattina.
La bionda sbadigliò, stiracchiandosi leggermente. Ci vollero ancora un paio di minuti prima che trovasse la forza di alzarsi dal letto.
Era ormai alla tredicesima settimana di gravidanza, e non lo aveva ancora detto a nessuno, eccetto a Sin.
Più i giorni passavano, più si rendeva conto che sarebbe stato sempre più difficile rivelarlo a Oliver.
Non appena quel pensiero si fece spazio nella sua mente, cercò di scacciarlo. Si posizionò di fronte allo specchio situato davanti al letto e prese ad accarezzarsi lentamente la pancia ancora piatta: nel farlo, un sorriso le contornò le labbra.
«Sarai un maschio, o una femmina?» sussurrò dolcemente.
Di certo non si aspettava una risposta da parte del bambino, ma desiderava con tutta sé stessa ricevere un segnale che le indicasse se lui -o lei- stesse bene oppure no. Voleva solo questo.
Si diresse verso la cucina, cercando di liberare la mente da tutti i pensieri. Sul tavolo trovò un bigliettino e, sul fornello, una caffettiera fumante.


“Il frigo è praticamente vuoto, perciò sono andata a fare un po' di spesa. Se la coda alle casse non sarà troppo lunga, tornerò per l'ora di pranzo.

Nyssa”


Sara lasciò andare il biglietto sul tavolo, dopodiché si versò il caffè in una tazza. Dopo averne mandato giù un sorso, sul suo viso andò a formarsi un'espressione stupita e, al tempo stesso, confusa: era il caffè più buono che avesse mai bevuto in vita sua.



Erano ormai le quattro di pomeriggio. Sara aveva inviato tre messaggi a Nyssa e l'aveva chiamata sette volte nel giro di due ore: durante le prime cinque telefonate non aveva ricevuto risposta, mentre le ultime due volte era scattata la segreteria. Stava seriamente cominciando a preoccuparsi.
Un quarto d'ora dopo, la bionda si ritrovò a varcare la soglia del Verdant. Si diresse a passo spedito verso la porta che conduceva al piano inferiore, ma, prima ancora che riuscisse ad inserire la password, essa si aprì.
Diggle le fece un cenno di saluto col capo, accennando un sorriso: «Che cosa ci fai-»
Sara non gli diede il tempo di finire la frase. «Sto cercando Nyssa.»
John chiuse la porta alle sue spalle con cautela. «Non è mai venuta al Verdant. Oliver e Roy si stanno allenando di sotto, siamo qui da più di tre ore e non è passato nessuno.»
La bionda sbatté nervosamente le ciglia un paio di volte, assimilando il significato delle parole dell'amico. «Oh.»
L'ex militare osservò con attenzione l'espressione preoccupata di Sara, percependo chiaramente la sua agitazione. «È successo qualcosa?»
Canary deglutì. «Quando mi sono svegliata, ho trovato questo» spiegò, porgendo all'amico il biglietto. «Non è ancora tornata a casa.»
«Magari ha incontrato qualche amico della Lega al supermercato e gli sta raccontando della vostra vacanza a Starling. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, si è messa a litigare con il cassiere. Sappiamo bene com'è fatta.»
«John, non è il momento di scherzare. Sono preoccupata.»
Il diretto interessato le mise una mano sulla schiena, conducendola nel salone del locale. I due si sedettero vicino al bancone, uno di fianco all'altra.
«Mi pare che Nyssa sappia difendersi benissimo da sola. Per quale motivo dovresti essere preoccupata per lei?» chiese l'uomo, mutando il suo tono di voce da scherzoso ad estremamente serio.
Sara si portò una ciocca di capelli dietro all'orecchio. Non le veniva in mente nessuna scusa valida.
«Non è questo il punto» esordì, studiando con attenzione le parole da usare. «Anche tu sai difenderti, ma se sparissi per ore credo che anche Lyla sarebbe in pensiero per te.»
Diggle abbassò leggermente il capo, annuendo. «Giusto.»
Ad un tratto, il telefono di Sara vibrò. Quest'ultima lo estrasse dalla tasca dei pantaloni col cuore che batteva a mille, ma, non appena lesse il nome del destinatario, sospirò.
«È lei?» chiese John, indicando il cellulare con lo sguardo.
«No» rispose, poggiando il telefono sul bancone. Era un messaggio di Sin, che le chiedeva -di nuovo- come stava e se aveva detto a qualcuno della gravidanza. Le avrebbe risposto più tardi.
«So che tu e Nyssa ci state nascondendo qualcosa, e non voglio obbligarti a dirmi di che cosa si tratta. Anzi, voglio darti solo un consiglio: i segreti hanno un peso. Più aspetterai, più le cose potrebbero complicarsi. Invece, prima tu e la tua ragazza ci direte che cosa vi è capitato, prima vi potremo aiutare.»
Sara delineò un piccolo sorriso stanco: «Sei molto gentile, ma purtroppo, John, ci sono segreti che è meglio non svelare. Dovresti saperlo bene.»
Lui annuì leggermente. «Sì, è così. Ma siamo amici, e gli amici cercano sempre di darsi una mano. Perciò, se avrai bisogno di sfogarti con qualcuno, sappi che io ci sarò.»
«Lo apprezzo molto» sussurrò la bionda. «Non dire a Oliver che sono venuta. Non mi va che si preoccupi per me.»
«Va bene.» Dig piegò il polso sinistro, lanciando una rapida occhiata al suo orologio. «Mi spiace, ma devo andare. Questa sera i genitori di Lyla verranno a cenare da noi e non voglio tardare. Finalmente gli diremo della gravidanza, perciò augurami buona fortuna.»
Sara sussultò. «Lyla è incinta?»
«Sì, di una bambina. Dovrebbe nascere in autunno» disse Dig, sorridente. «Ti consiglio di aspettare fino a domani mattina. Se quando ti sveglierai Nyssa non sarà ancora tornata, allora ci converrà andare a cercarla.»
Canary annuì, sforzandosi di ricambiare il sorriso.



Sara lanciò l'ennesima occhiata all'orologio da muro della cucina. Segnava le nove e quindici minuti.
Quando era tornata a casa, aveva iniziato a provare una forte fitta al ventre.
Non sapeva quale fosse la reale causa del suo dolore. Poteva trattarsi di un sintomo legato alla gravidanza, oppure c'entrava col fatto che avesse lo stomaco vuoto, visto che, da quando si era svegliata, non aveva messo niente sotto ai denti. O forse, era semplicemente in ansia per Nyssa.
Proprio in quel momento, la porta dell'appartamento si aprì. Sara si diresse a passo spedito verso il salotto, e non appena i suoi occhi incrociarono quelli della sua amata, sana e salva, non riuscì a trattenere un singhiozzo.
L'erede lasciò andare le borse della spesa a terra e si avvicinò a Sara, stringendola tra le proprie braccia. La bionda riuscì a trattenere le lacrime soltanto grazie all'abbraccio rassicurante di Nyssa.
«Va tutto bene» sussurrò la mora, accarezzandole dolcemente i capelli. «Sono qui, Sara. Sono qui.»
«Credevo che qualcuno della Lega ti avesse fatto del male» rivelò l'altra, con voce tremante.
Nyssa scosse lievemente la testa. «No, non è successo niente. È tutta colpa mia, perdonami. Non era mia intenzione farti preoccupare.»
La bionda sciolse lentamente l'abbraccio, dedicando all'amata un sorriso sollevato. «L'importante è che stai bene.»
La mora ricambiò il sorriso, lasciandole una carezza sulla guancia.
«Si può sapere dove ti eri cacciata?»
La figlia del Demonio ritrasse lentamente la mano. «È una lunga storia. Ti basta sapere che mi sono persa e che avevo il cellulare scarico. Starling City è più grande di quanto pensassi.»
Sara si mordicchiò il labbro inferiore, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quello di Nyssa.
Mentiva. Glielo leggeva negli occhi.
Però, dopo aver passato più di nove ore in ansia, non aveva voglia di mettersi a fare domande o addirittura di litigare.
«Non voglio che accada mai più» disse semplicemente.
«Mi dispiace» ripeté la mora.
Sul volto di Canary, tutto a un tratto, si fece spazio un'espressione divertita. «La prossima volta chiederò a Felicity di metterti un gps sul cellulare, così potrò ritrovarti facilmente.»
Nyssa fece una piccola risata, annuendo lentamente. «Sì, sarebbe una buona idea.»

*

Roy strinse con forza il bastone di legno, mentre Oliver cercava in ogni modo di strapparglielo di mano. L'ex miliardario tentò di trascinarlo verso di sé, ma Roy aumentò la presa sull'arma, facendo stringere i denti all'amico.
«Sicuro che non ti sia rimasto del mirakuru nelle vene?»
Il ragazzo lanciò una rapida occhiata divertita a Felicity, e Arrow, approfittando di quel momento di distrazione, riuscì nel suo intento. Un attimo dopo, colpì l'allievo alla schiena, e quest'ultimo cadde rovinosamente a terra.
Oliver trattene a stento una risata mentre aiutava Roy ad alzarsi.
«Non devi mai abbassare la guardia» disse, porgendogli nuovamente il bastone.
«È colpa sua, non mia» rispose ironicamente Arsenal, indicando la bionda.
«Oh-oh.»
«Felicity, stava solo scherzando.»
«Non si tratta di questo» soffiò rivolta a John. «È in corso un'aggressione tra la Johnson e la Graham. Un gruppo di teppisti ha circondato tre ragazzine.»
Oliver agguantò il proprio arco, scambiando un'occhiata d'intesa con Roy. «Felicity, chiama Sara. Chiedile se lei e Nyssa hanno la serata libera.»
La bionda sorrise, digitando il numero di Canary sul telefonino. «Agli ordini!»



L'eco di un urlo si propagò nell'aria, ma nessuno nei paraggi sembrò averlo sentito.
In realtà, il quartiere era deserto.
Non avrebbero dovuto tornare a casa da sole. Erano state stupide.
Uno dei quattro teppisti estrasse un coltello dalla tasca dei pantaloni; un altro di loro, invece, si avvicinò alla ragazza che avevano circondato, ma, prima ancora che riuscisse a sfiorarla, quest'ultima gli sputò contro.
L'uomo evitò per un pelo il grumo di saliva e, subito dopo, un'espressione rabbiosa gli contornò il viso. «Brutta stronzetta... adesso ti faccio vedere io!»
«Fermi dove siete!»
Convinti che si trattasse della polizia, si voltarono entrambi con il cuore in gola; ma quando realizzarono che si trattava di due giustizieri, un ampio sorriso si fece spazio sui loro volti.
«Ma tu guarda: Arrow è venuto a punirci!» esclamò l'uomo col coltello.
Il diretto interessato scagliò una freccia in direzione della sua mano, facendo cadere l'arma a terra. L'uomo, dopo un primo momento di smarrimento, corse in direzione di Oliver e iniziò a colpirlo con una serie di calci e pugni, che l'ex miliardario evitò prontamente: non appena ne ebbe l'occasione, Arrow colpì il nemico con un paio di calci allo stomaco, che bastarono per metterlo al tappeto.
Arsenal si scagliò contro il secondo aggressore, colpendolo con un potente gancio sinistro: dopodiché, tese il suo arco, ma l'uomo, dopo aver visto quanto era accaduto al suo amico, alzò entrambe la braccia in aria in segno di resa.
Intanto, dall'altra parte della strada, Nyssa e Sara si stavano battendo con altri due teppisti. Li sconfissero senza troppa fatica: l'erede del Demonio riuscì a bloccare il suo nemico ferendolo alla gamba con una freccia, mentre Canary colpì l'altro alla testa con il proprio bastone, facendolo svenire.
«Se questo è lo standard delle vostre missioni, allora posso combattere a occhi chiusi» ironizzò la mora, facendo sorridere Sara.
«È meglio avvertire subito la polizia» suggerì quest'ultima, digitando il numero di Quentin sul cellulare. Non appena il capitano rispose, Sara si allontanò di qualche passo.
Nel mentre, la giovane che le due avevano salvato si avvicinò a Nyssa. Aveva le guance sporche di mascara. «Dovete salvare Janice! Dovete salvarla, vi prego!»
L'erede alzò un sopracciglio. «Chi è Janice?»
«La nostra amica» s'intromise la seconda ragazza, che si era avvicinata a loro non appena Arrow le aveva detto di farlo. «Era con noi quando ci hanno aggredite.»
«È scappata verso la Dodicesima, ma uno di quegli uomini l'ha seguita» spiegò la prima, singhiozzando.
Nyssa deglutì. Si voltò in direzione del resto del team: Sara era ancora al telefono col padre, mentre Oliver e Roy stavano legando i quattro uomini -privi di sensi e non- ad una rete.
Non c'era tempo per organizzare un piano: doveva agire.



La ragazza correva a perdifiato tra le strade di The Glades, senza una meta.
Il ragazzo la inseguiva ormai da diversi minuti.
Era stanca, e smarrita. Si ritrovò in un vicolo cieco senza rendersene conto e, prima che potesse trovare una via d'uscita, incrociò lo sguardo dell'aggressore.
«Suvvia, piccola, non avere paura» disse quest'ultimo, dedicandole un piccolo sorriso. Il suo alito puzzava di alcool. «Voglio solo divertirmi un po’.»
La giovane iniziò a indietreggiare, fino a quando non si ritrovò con la schiena contro al muro. L'uomo si avvicinò ulteriormente, e si bloccò solo quando furono pochi centimetri a dividerli.
«Ti prego» sussurrò lei, con voce tremante. «Non farmi del male.»
Sul volto dell'aggressore andò a formarsi un altro sorriso sghembo: allungò la mano nella direzione della ragazza, ma, non appena le sfiorò i capelli, una terza voce attirò la sua attenzione.
«Lasciala andare. Adesso.»
Il ragazzo si voltò lentamente, incontrando lo sguardo rigido di Nyssa.
«Se no? Che mi farai?»
Si voltò ancora, ma questa volta l'erede non gli permise di fare altro: tese in fretta il suo arco, dopodiché, scagliò una freccia con forza, ferendolo alla spalla. L'uomo gridò non appena essa entrò a contatto con la sua pelle.
Nyssa si avvicinò al teppista e, dopo aver strappato dal suo corpo la freccia, gli tirò un pugno sul viso, facendolo cadere a terra. Poggiò il piede sulla sua spalla sanguinante, iniziando a schiacciare sempre di più, fino a quando non vide le lacrime uscire dai suoi occhi.
Ritrasse la gamba dopo diverso tempo. Quando si voltò, incontrò lo sguardo terrorizzato di Janice.
«Grazie» sussurrò la ragazza. Tremava come una foglia. Probabilmente era così spaventata da non avere il coraggio di allontanarsi da Nyssa. «Posso sapere chi sei?»
Prima che l'erede potesse rispondere, un gemito attirò la sua attenzione. Si voltò nuovamente in direzione dell'aggressore, inginocchiato a terra.
«Puttana...» sibilò a denti stretti.
La mora si accovacciò davanti a lui. «Uomini. Mi fate davvero pena.»
E, prima che Janice o l'uomo potessero premeditarlo, Nyssa colpì la mascella di quest'ultimo con un gancio destro, che lo fece cadere con la schiena a terra.
Un insieme di emozioni si impossessò di lei.
Rabbia. Dolore. Ancora rabbia.
Scagliò un altro pugno sul viso dell'aggressore, poi un altro, e un altro ancora, dando vita ad una serie di colpi che provocarono delle ferite superficiali su ogni centimetro di pelle dell'uomo.
L'ira si era impossessata di lei.
Janice spalancò le palpebre. Adesso era terrorizzata da colei che sarebbe dovuta essere la sua salvatrice.
Quest'ultima continuò a colpire il nemico per un tempo che le parve interminabile, fino a quando una voce -l'unica che riusciva sempre a farla ragionare- non la fece esitare.
«Nyssa!»
La diretta interessata bloccò il gomito a mezz'aria. Solo in quell'istante, nel sentire la voce di Sara, si rese conto di quello che aveva appena fatto.
Spostò lo sguardo dal volto del ragazzo al suo guanto destro, completamente macchiato di rosso. Poi, alzò il viso in direzione di Sara: era in piedi, pochi metri più in là, e la osservava con fare scioccato. Janice aveva iniziato a singhiozzare.
Ma, prima che potesse dire o fare qualunque cosa, il rumore della sirena dell'auto della polizia la riportò alla realtà.
Sara la agguantò prontamente ad un braccio e la trascinò via.

*

Quando il campanello suonò, Sara stava ancora dormendo.
Si svegliò di colpo e, con il cuore che batteva a mille, raggiunse l'atrio di corsa. Aprì la porta senza nemmeno controllare nello spioncino chi l'avesse disturbata, rendendosi conto solo dopo averlo fatto di essere stata parecchio imprudente.
Ma, non appena incontrò lo sguardo allegro di Sin, tutti gli altri pensieri scomparvero dalla sua mente.
«Cosa ci fai qui?» domandò, incrociando le braccia.
La ragazzina alzò le spalle. «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere se ti avessi portato la colazione» spiegò, mostrando a Sara il sacchetto che, fino a due secondi prima, teneva nascosto dietro la schiena. «Quando ti prendevi cura di me, mi facevi sempre trovare qualcosa per colazione.»
La bionda delineò un sorriso, scostandosi dalla soglia: «Entra.»
Cindy non se lo fece ripetere due volte; pochi minuti dopo, le due si ritrovarono a mangiare ciambelle e a sorseggiare del caffè comodamente sedute in cucina.
«Ho sentito che ieri sera Canary e Arrow hanno salvato delle ragazze da un'aggressione» disse Cindy, soffiando dentro alla sua tazza. «Non sarebbe meglio se restassi a riposo, viste le tue condizioni?»
«Fino a quando riuscirò ad entrare in quel costume, non mi fermerà nessuno» scherzò la bionda, facendole l'occhiolino. «E comunque, non eravamo solo io e Oliver. C'erano anche Roy e Nyssa con noi.»
La mora le dedicò un sorriso forzato. «È dolce da parte tua pensare alla sorte del prossimo malgrado le tue condizioni, ma...»
«Dovresti cercare sul dizionario il significato della parola dolce
«...credo che tu debba comunque pensare alla tua salute prima di metterti a combattere contro una squadra di delinquenti.» Sin mandò giù un sorso della bevanda calda. «Sai bene a cosa mi riferisco» proseguì, in risposta alla battuta che l'amica le aveva appena fatto.
«Perdonami, ma “dolce” non è esattamente il termine adatto per descrivere quello che faccio.» Canary si ritrovò a ridacchiare, ma, notando l'espressione seria della ragazzina, si zittì. Sospirò appena. «Ti senti ancora coinvolta, non è così?»
Cindy abbassò lo sguardo sulla ciambella che teneva tra le mani: la glassa al cioccolato le si stava sciogliendo sulle dita, rendendogliele appiccicose.
«È solo che...» esordì, con un filo di voce. «Ogni volta che intervieni nel salvare qualcuno, soprattutto delle ragazzine, mi ritorna alla mente il modo in cui ci siamo conosciute.»
La bionda deglutì, poggiando con cautela la tazza nel piattino.
«Quei ragazzi mi stavano per aggredire, ma tu sei intervenuta in tempo. Avresti potuto lasciarmi lì, eppure, non lo hai fatto» spiegò, incrociando nuovamente lo sguardo di Sara. «Mi hai salvato la vita.»
«Ho fatto quello che dovevo fare. Ho fatto la cosa giusta.»
«Lo so, ma è stato un pensiero dolce da parte tua. Sarai un ottima madre. Le madri dolci sono le migliori.»
La più giovane delle sorelle Lance non rispose, soppesando sulle parole dell'amica.
«A proposito» esclamò ad un tratto la mora, pulendosi le labbra con un tovagliolo «hai intenzione di dire ad Oliver della gravidanza, o devo farlo io?»
Sara mise entrambe le tazze nel lavello, dopodiché, alzò gli occhi al cielo. «Me lo ripeterai all'infinito, non è vero?»
«Te lo ripeterò fino a quando non sputerai il rospo.»
La bionda scosse lievemente la testa, esasperata. In fondo, però, sapeva che l'amica aveva ragione.
Iniziò ad insaponare le tazze, mentre Sin, ancora seduta, si stiracchiò: un attimo dopo, il cellulare di Sara emise una vibrazione, segno che era arrivato un messaggio.
«Puoi controllare chi è, per favore?» chiese, senza voltarsi.
Cindy annuì, ma, non appena ebbe il cellulare di Sara tra le mani, si soffermò sulla fotografia di sfondo.
«Questa qui è la tua ragazza?» domandò la mora, mostrando l'immagine a Canary.
Quest'ultima rispose con un cenno del capo.
«La conosco. Cioè, l'ho già vista da qualche parte, ma non ricordo dove» ammise, ma le bastarono pochi secondi per ricordare. «Ah, ecco! Lavora in quel pub irlandese sulla Diciassettesima... il Slàinte[1], giusto?»
Canary si voltò, inarcando un sopracciglio. «Da quando frequenti gli Irish pub?»
Sin si strinse nelle spalle. «Ho diciotto anni» sussurrò, come se fosse una risposta più che ovvia.
Sara riprese a sciacquare le tazze come se niente fosse. «Nyssa non ha un lavoro. Probabilmente la barista le somiglia.»
«Sono abbastanza sicura che fosse lei» insistette la mora. «Aveva un accento... mediorientale, credo.»
La donna si bloccò nuovamente: «E se andassimo a dare un'occhiata?»



Quel giorno il Slàinte era pieno di ragazzini rumorosi, che si scattavano un selfie dopo l'altro mentre consumavano la propria ordinazione.
Nyssa si asciugò il sudore passandosi il dorso della mano sulla fronte. Era esausta.
«Se ti stanchi dopo appena un'ora, dubito che il capo ti assumerà» la punzecchiò la barista, una tipa rossa con un accento europeo.
L'erede sospirò pesantemente. «Non ho alcuna esperienza come cameriera, è vero, ma non è questo il punto» spiegò, poggiando il vassoio sul bancone. «Quello che non capisco è come mai degli adolescenti siano qui a mangiare patatine fritte anziché essere altrove.»
«Sono ragazzi» rispose semplicemente l'altra, scrollando le spalle. «Hanno bisogno di svagarsi un po’.»
La barista riempì tre calici di birra in pochi secondi, mettendoli poi nel vassoio della mora.
«Tavolo sei. Stai solo attenta a non far cadere di nuovo i bicchieri.»
Li aveva rotti per caso -in realtà, dei ragazzini avevano preso a spintonarsi a vicenda e uno di loro le era finito addosso-, ma la barista aveva comunque trovato un buon modo per lanciarle delle frecciatine continue: prenderla in giro per la sua scarsa esperienza.
Nyssa si allontanò con fare scocciato, sbuffando. Subito dopo, però, si ricordò di quanto aveva racimolato nell'ultima settimana, e delle ottime mance che aveva ricevuto.
Si sforzò di sorridere mentre consegnava l'ordinazione a tre ragazzi poco più giovani di lei, che la osservavano con un sorrisetto sghembo.
«Ehi, bellezza» esordì uno di loro, facendole l'occhiolino.
«È la prima volta che ti vediamo qui. Sei nuova?» proseguì un altro tipo con una folta barba scura. «Come ti chiami?»
Nyssa finse di non sentire e sistemò più in fretta che poté i calici sul tavolino, con l'obiettivo di andarsene prima che quegli idioti la mettessero di cattivo umore.
Non appena si voltò, però, il terzo ragazzo la bloccò, stringendo con forza la mano intorno al suo braccio.
«Bambolina, il mio amico ti ha fatto una domanda.»
L'erede del Demonio inarcò entrambe le sopracciglia, assumendo un'espressione indifferente.
«Ho da fare» soffiò, cercando di liberarsi con uno strattone.
L'uomo, però, aumentò la presa su di lei: «Il proprietario è un mio amico. Posso farti licenziare per la tua arroganza e il cattivo servizio, se voglio.»
Nyssa deglutì, trattenendosi dal tirargli un pugno in faccia. «Ho da fare» ripeté, consapevole del fatto che non avrebbe trattenuto la sua ira a lungo.
Un attimo dopo, però, una terza voce s'intromise. «Hai sentito cos'ha detto? Lasciala andare.»
La mora lanciò un'occhiata a Sara, che osservava il ragazzo con fare minaccioso.
«E tu chi saresti? » domandò lui, mandando giù un sorso di birra con la mano libera. Subito dopo, si lasciò andare ad una goffa risata. «Che importa. Non ho paura di una donna.»
«Dovresti, invece.»
Fu allora che l'uomo si fece serio di colpo, spostando rapidamente lo sguardo da Sara a Nyssa, probabilmente capendo qual era il rapporto tra le due.
«Kurt, lasciala stare.»
Quest'ultimo alzò istintivamente lo sguardo e, senza volerlo, lasciò andare la presa sul braccio dell'erede. «Non stavo facendo niente.»
La barista dai capelli rossi sospirò. «Hai detto così anche l'ultima volta.» 
«Kathy, non immischiarti.»
«Devo. Il signor James mi ha chiesto di tenerti lontano dalle clienti e dallo staff. Quindi, o tu e i tuoi amici alzate immediatamente il vostro sedere e ve ne andate, o sarò costretta a chiamare la polizia.»
Questa volta, fu Sara a stringere la mano intorno all'avambraccio di Nyssa. Quest'ultima le dedicò un'occhiata confusa, rimanendo in silenzio.
I tre ragazzi si alzarono in piedi e, accompagnati da Kathy, si diressero all'esterno del locale. Nyssa poté giurare di aver sentito l'amico del proprietario borbottare lesbiche del cazzo, ma, per evitare ulteriori problemi, non disse una parola al riguardo.
Canary la guardò a lungo negli occhi prima di aprire bocca. «Possiamo parlare?»
L'erede annuì. «Andiamo nel retro.»



«Stai bene?»
Nyssa si schiarì la voce, a disagio. «Sì. È tutto a posto.»
«Non direi.»
La mora si voltò, incrociando lo sguardo furente della sua amata.
«Dobbiamo parlare di ieri notte.»
L'erede deglutì. Quella mattina era uscita di casa prima che Sara si svegliasse proprio per evitare quella conversazione. Ma era inevitabile che prima o poi ne avrebbero parlato.
«Sono un'assassina. Dovrei aggiungere altro?»
«Non eri in te.»
«Ho perso il controllo.»
«Me ne sono accorta. Il punto è, perché?»
Nyssa contò mentalmente fino a dieci, nella speranza di trovare una risposta valida, o almeno credibile. Non la trovò.
Rimase in silenzio, e l'amata abbassò lo sguardo.
«Sei cambiata» sussurrò Canary tristemente. «Dal giorno in cui hai discusso con tuo padre, tendi a nascondermi le cose. Non vuoi dirmi cosa ti è preso ieri, così come non mi hai detto nulla di questo lavoro.»
La mora inspirò profondamente, sentendo crescere un peso all'altezza dello stomaco. «Sara, prima che tu dica qualsiasi cosa al riguardo, io-»
«Perché stai facendo tutto questo?»
Il suo tono di voce pareva deluso, amareggiato, e decisamente arrabbiato.
L'erede del Demonio inspirò ancora. Una lite era l'ultima cosa che voleva, perciò, almeno lei, avrebbe dovuto mantenere la calma.
«Te l'ho detto. Non posso starmene con le mani in mano.» Sospirò, pulendosi distrattamente i palmi sudati sul grembiule. «I soldi che ho rubato a mio padre prima o poi finiranno, e quando accadrà cosa faremo?»
La bionda deglutì. «Non lo so. So solo che, forse, non avresti dovuto agire alle mie spalle. Se me ne avessi parlato, avremmo trovato una soluzione insieme
«Non mi sembra che tu mi abbia parlato della tua intenzione di tornare a Starling City, l'anno scorso» soffiò, alzando un poco il capo.
«Nyssa, non ti azzardare a-»
«Io te ne avevo parlato, Sara. Ti avevo detto che mi sarei messa alla ricerca di un lavoro. Cosa dovevo fare, stilare una lista di tutti i negozi o i locali in cui avevo lasciato il mio curriculum?»
«Certo che no. Però, avresti almeno potuto dirmi che avevi trovato un posto.» Sara deglutì ancora. «Hai idea di quello che ho passato negli ultimi giorni? Quando mi dicevi che andavi a fare una passeggiata, o ad allenarti al Verdant? Puoi immaginare solo per un secondo la paura che provavo quando uscivi di casa?»
Nyssa assunse un'espressione confusa. «A che ti riferisci?»
«Alla Lega, Nyssa. Sapevo benissimo che mentivi, ma avevo paura che ti stessi cacciando in qualche guaio. Credevo che ci avessero trovate e che tu li stessi combattendo da sola.»
L'erede si avvicinò a Sara di qualche passo. «Mi dispiace.»
«Lo so. Ma ormai, che importanza ha?»
Nyssa spostò il peso da una gamba all'altra, non sapendo come comportarsi. «Come hai fatto a trovarmi?» domandò poi, cercando di cambiare argomento.
Sara incrociò le braccia, ma non osò darle alcuna spiegazione. Dopo diversi secondi di silenzio, la mora si decise a riprendere la parola.
«Io e altre tre ragazze siamo in prova come cameriere. Nonostante non siamo state assunte, il proprietario ci ha comunque pagato le ore di lavoro come se lo fossimo. Se ti può consolare, dubito che mi prenderà. Ho già fatto troppi danni» rivelò, abbozzando un sorriso che l'amata non ricambiò. «In ogni caso, dopo quello che è successo oggi, sarò la prima a tirarmi indietro.»
«Forse tu non hai ancora capito il motivo della mia collera» mormorò Sara, ancora visibilmente arrabbiata. «È bello vederti così interessata per il nostro futuro, ma, se in una relazione non c'è fiducia, dubito che si possa parlare di un futuro
Un brivido attraversò la schiena di Nyssa. «Non dire così.»
Canary abbassò lo sguardo e, subito dopo, si ritrovò tra le braccia dell'erede. Quest'ultima iniziò ad accarezzarle dolcemente la schiena, nel tentativo di calmarla.
Sara sentì gli occhi inumidirsi di colpo e inveì mentalmente contro sé stessa. Ultimamente era diventata troppo emotiva.
«Tu non hai idea di quello che ho passato quel giorno» rivelò, inspirando lentamente il profumo della mora. «Temevo che non saresti più tornata.»
Nyssa le baciò appena l'incavo del collo, intuendo perfettamente il giorno in questione. «Sarei dovuta restare in prova per quattro ore, ma la ragazza che doveva darmi il cambio si è sentita male e non si è presentata. Così, mi sono offerta di coprirla» spiegò, lasciando andare lentamente la presa sull'amata. «Di certo, non immaginavo che avrei passato tutto il giorno chiusa qui dentro. Il titolare mi aveva assicurato che sarebbero bastate un paio d'ore, ma il locale si è riempito e ho perso la cognizione del tempo. Ti avrei avvisata, ma il cellulare era scarico per davvero e, avendo usato la scusa della spesa, sono corsa al supermercato a comprare qualcosa. Il tempo è passato senza che me ne rendessi conto.»
Sara assimilò il significato di quelle parole con un nodo alla gola. «Per la cronaca, era una pessima scusa.»
«Allora perché hai finto di credermi?»
La bionda scosse le spalle. «Non lo so.»
«Non era mia intenzione farti preoccupare, habibti[2]
«Sì, ho capito.» Sospirò, passandosi distrattamente le mani tra i capelli. «Sono io a doverti chiedere scusa. Ti ho aggredita prima che tu potessi spiegarmi quanto è successo. Quello che ancora non capisco è perché non me ne hai parlato.»
La mora abbassò lo sguardo. «Avevo paura di non avere la tua approvazione. Avevo paura che non credessi in me» svelò, sospirando sommessamente. «Ho pensato che, forse, se fossi tornata a casa con in mano una busta piena di soldi e un contratto di lavoro, avresti capito che potevo farcela. Volevo solo renderti orgogliosa di me.»
Sara corrugò un poco la fronte. «Ma io sono orgogliosa di te. Cosa ti fa credere il contrario?»
L'altra si strinse nelle spalle. «Tu sei andata al college, e facevi la barista. Io non sono mai andata a scuola e fino alla settimana scorsa non avevo idea di come si preparasse un caffè. Come si fa ad essere orgogliosi di una come me?»
Canary si avvicinò ulteriormente alla mora, prendendole il viso tra le mani. «Non dire sciocchezze. Non ho mai finito il college perché ero una ragazzina stupida e sono salita in quello yacht con Oliver. Facevo la barista e me la cavavo, questo è vero, ma sapevo fare solo quello. In realtà, la maggior parte delle cose le ho imparate da te.»
«Ah sì? E cos'hai imparato oltre ad uccidere la gente?»
Sara delineò un sorriso. «A difendermi. Ad affilare le spade. A sopportare il dolore. A saturare una ferita. A fare un milione di altre cose che non avrei mai e poi mai immaginato di poter imparare. E ad amare.»
L'erede sussultò; nel mentre, l'amata si alzò appena sulle punte dei piedi, lasciandole un bacio a fior di labbra. «Il lato positivo, è che ora sai preparare un ottimo caffè.»
Nyssa scoppiò a ridere e, dopo aver gettato a terra il grembiule del locale, catturò nuovamente le labbra di Sara tra le proprie.














[1] Significa “salute” in irlandese.
[2] Significa “mia amata” in arabo.






Sono in ritardissimo, lo so. Mi spiace veramente tanto >.<
Il lato positivo, però, è che questo è in assoluto il capitolo più lungo che abbia scritto per questa long xD

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: The charmer ***


 

Capitolo 6: 
The charmer

 

 

 

 

L’acqua della doccia scorreva velocemente sui suoi capelli, e il contatto con il liquido ghiacciato riuscì a svegliarlo completamente.
I graffi che si era procurato durante lo scontro della sera precedente erano profondi e ben visibili sulla sua schiena, ma, fortunatamente, con gli anni aveva imparato a sopportare il dolore.
Oliver si passò entrambe le mani sul viso, sospirando.
«Stanco?»
L'uomo si voltò verso Felicity, in piedi sullo stipite della porta. «Abbastanza» rivelò, coprendosi con un asciugamano.
La bionda delineò un sorriso, incrociando le braccia nervosamente. L’ex miliardario si accorse di quel gesto e le dedicò uno sguardo confuso.
«Tutto bene?» domandò, strofinandosi i capelli con un secondo asciugamano.
Lei annuì, poco convinta. «Solo che...» Sospirò a sua volta, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso. «Abbiamo visite.»



Quentin accettò senza troppi convenevoli il bicchiere d'acqua che Felicity gli aveva offerto, ringraziandola con un cenno del capo.
Oliver, seduto di fronte a lui, incrociò le mani. «Perché è venuto qui?»
Il capitano lo osservò silenziosamente per qualche secondo prima di rispondere. «Non potevo aspettare che calasse la notte per incontrarti» ironizzò, poggiando il bicchiere sul tavolino di vetro. «È troppo importante.»
Lui annuì, poco convinto. «La ascolto.»
Quentin sospirò sonoramente, dopodiché gli porse un fascicolo con dei fogli pieni di dati. Sulla targhetta c'era scritto: “L’Incantatore”.
«Questo nome mi dice qualcosa» dichiarò la bionda, con fare pensieroso.
Arrow diede una rapida occhiata all'identikit dello sconosciuto, dopodiché, si soffermò sulla fotografia nella seconda pagina. Raffigurava una ragazza col cranio fracassato che avrà avuto all'incirca l'età di Thea.
«Perché lo chiamate Incantatore?» domandò il ragazzo.
«Perché incanta le donne con il suo fascino. Si presenta alle feste e ai galà dei ricchi, seleziona una preda e, dopo averla abbindolata per bene, la tortura fino ad ucciderla.»
Felicity deglutì, rabbrividendo alla vista di una seconda foto, dove una donna era stata bruciata viva.
«Queste schede risalgono a due mesi fa» sibilò poco dopo l'ex miliardario, fissando attonito un'altra dozzina di fotografie, una più cruenta dell'altra. «Perché non mi ha informato prima?»
«Perché nemmeno noi ne sapevamo nulla» rivelò il capitano, riprendendo il bicchiere tra le mani. «L'Incantatore ha sempre agito a Central City, perciò noi non ne eravamo al corrente. Però, la settimana scorsa...» Sospirò, passandosi una mano sul viso. «Una nostra poliziotta si trovava di guardia ad un party di beneficenza e...»
Quentin si premette le dita sulle palpebre, cercando di trattenere le lacrime. Fu allora che Felicity si coprì le labbra con le dita, sentendosi un'idiota.
«Mi dispiace tanto» sussurrò, affranta. «Mi sono ricordata dove ho già sentito questo nome, l'Incantatore. C'era un articolo sul giornale l'altro giorno, ma non c'era scritto molto, eccetto che era morta una donna molto giovane. Immagino che la vittima fosse-»
Oliver la bloccò con lo sguardo, e il tecnico informatico si strinse nelle spalle, a disagio.
Dopo un primo momento di shock, Lance alzò il viso. Apparentemente, sembrava essersi ripreso.
«Sì, era lei» disse, osservando distrattamente il tappeto scuro e morbido sotto ai suoi piedi. «Si chiamava Susanna Grand. Aveva una figlia di tre anni e un marito disoccupato. È stata uccisa a martellate nel petto.»
Oliver chiuse il fascicolo di colpo, stringendolo tra le mani con forza. «Lo prenderemo, detective.»
«Lo spero» ammise Quentin, con un sorriso amaro. Poggiò nuovamente il bicchiere sul tavolino, dopodiché, si alzò in piedi. «Ora è meglio che vada. Ho alcune faccende da sbrigare.»
«Solo una domanda» s'intromise la bionda, alzandosi a sua volta di scatto, «avete qualche idea sulla sua identità? Potrebbe essermi utile per individuarlo il prima possibile.»
Il capitano sospirò ancora. «No, nessuna. Purtroppo tutte le sue vittime sono decedute e non ci sono testimoni. Gli altri partecipanti alle cerimonie hanno assicurato che non hanno notato niente di strano,e che non c'era nessun imbucato alle loro feste. Stiamo cercando un ago in un pagliaio.»
Oliver annuì, dopodiché, allungò una mano in direzione di Lance. «Le faremo sapere.»
L'uomo ricambiò la stretta, puntando i suoi occhi in quelli dell'ex miliardario. Ci mise un altro paio di secondi prima di farsi forza e porgere quella fatidica domanda che da giorni lo perseguitava. «Ho sentito dire che nelle ultime serate una donna vestita di nero ha aiutato Arrow a catturare dei criminali» affermò.
Arrow abbozzò un sorriso. «Non si tratta di Sara, se è questo che pensa. In realtà, non la sento da un po’.»
Quentin fece una smorfia. «Nemmeno io.»
I due si scrutarono in silenzio per diverso tempo prima di parlare ancora, mentre Felicity spostava rapidamente lo sguardo da Oliver a Quentin, e viceversa.
«Adesso che conosce la mia vera identità, potremmo organizzare una festa» scherzò il ragazzo, riuscendo a strappare un sorriso al capitano.
«Non credo che un poliziotto sarebbe ben accetto in mezzo a un gruppo di vigilanti, ma possiamo sempre tenere da conto l’idea per incastrare il nostro killer» rispose con ironia. «Tenete pure il fascicolo, e avvisatemi non appena scoprite qualcosa.»
«Ci conti.»
Dopo che Quentin fu uscito dalla casa, Felicity ritornò in salotto e osservò il fidanzato confusa. «Perché gli hai mentito?»
Oliver corrugò la fronte. «A che ti riferisci?»
«A Sara.»
Arrow sospirò, compiendo qualche passo verso di lei. La bionda incrociò le braccia, in attesa.
«Quando Sara è tornata, ci ha fatto promettere di non dire niente a suo padre, ricordi?» esordì, con tono di voce pacato. Attese che la bionda annuisse prima di proseguire. «Non gliel’ho detto per questo motivo. E poi, sono sicuro che Sara e Nyssa ci stiano nascondendo qualcosa di grosso. Forse Quentin sarà più al sicuro se non saprà che sua figlia è tornata in città, almeno fino a quando non capiremo cosa c’è sotto.»
Felicity deglutì in silenzio, e capì che probabilmente Oliver aveva ragione. Ma, dentro di sé, non riuscì a non chiedersi che cosa avesse davvero spinto le due donne a tornare a Starling City.
Ho un brutto presentimento... veramente brutto.

*

Sara si passò una mano sul ventre, sospirando.
Era da poco uscita dalla doccia, e quando era passata davanti allo specchio della camera da letto, si era resa conto che qualcosa, in lei, stava cambiando.
«Nyssa?» esclamò ad un tratto, ruotando appena il corpo sul fianco destro.
L’erede del Demonio la raggiunse nella stanza poco dopo e, non appena la vide in biancheria intima, non riuscì trattenere una risata. «È un po’ tardi per la prova costume, non trovi?»
La bionda continuò ad osservare il proprio corpo, senza ascoltare realmente le parole di Nyssa. «Dai, vieni qui.»
La ragazza si avvicinò allo specchio, dopodiché, poggiò a sua volta una mano sul ventre dell’amata e il mento sulla sua spalla. «Che ti prende?»
L’altra rimase in silenzio per qualche secondo, aspettando il momento giusto per parlare. «Guarda» disse semplicemente, senza indicare nulla in particolare.
 Subito dopo, sentì la mora passarle l’indice sulla spalla destra.
«È quasi guarita» disse, riferendosi alla ferita che Sara si era procurata il mese prima durante uno scontro.
«Non intendevo questo» proseguì Canary, arricciando il naso. «Non sembra anche a te che mi stia crescendo la pancia?»
«Sei incinta» rise a labbra chiuse la mora, allontanandosi «mi sembra logico che ti cresca la pancia. No?»
Sara fece una smorfia, seccata. Nel frattempo, l’erede estrasse una maglietta bianca dal cassetto e la passò alla bionda.
«Non intendevo questo. Di nuovo» mugugnò Sara, infilandosi la t-shirt di malavoglia.
Nyssa la osservò con serietà mentre continuava a rimirarsi allo specchio. «Hai intenzione di passare tutto il giorno chiusa qui dentro?»
Canary mise le mani sui fianchi, dopodiché, sbuffando, si sedette sul bordo del letto. «Sono preoccupata» ammise, e Nyssa capì all'istante a cosa si riferisse.
«Dovrai dirglielo, prima o poi.»
«Lo so. Ma ho comunque paura» rivelò Sara, prendendosi la testa tra le mani.
La mora si sedette al suo fianco e le accarezzò la schiena con fare rassicurante, e quando Sara alzò il viso, Nyssa le dedicò un sorriso sincero.
«Andrà tutto bene.»
La bionda sorrise appena, non del tutto convinta. «Lo spero.»
L'altra ritrasse la mano. «Piuttosto» esordì, inarcando un sopracciglio «perché non mi spieghi come hai fatto a non accorgerti di essere incinta? Non ne abbiamo mai parlato.»
Sara sussultò, ma non riuscì a non chiederselo a sua volta.
«Io...» Deglutì, ripensando alle settimane successive a quando aveva lasciato Oliver e a come lei non si fosse accorta di nulla. «Penso che fosse lo stress. Insomma, il mio ritorno alla Lega, Salde Wilson... direi che controllare se avessi il ciclo o meno fosse l'ultimo dei miei pensieri.»
Nyssa abbassò lo sguardo, annuendo appena. «Comunque, non pensarci troppo. La pancia non si nota ancora, perciò...»
«...ho ancora tempo per riflettere su come dirlo ad Oliver.»
La mora delineò un sorriso. «Sì. Ma vedi di non metterci troppo.»
«Mi sembra di sentire Sin.»
«Allora dovresti ascoltare entrambe.»
Detto questo, Sara rise, e Nyssa inarcò un sopracciglio.
«E adesso che ti prende?»
Canary si lasciò andare sul materasso morbido, attendendo che Nyssa si stendesse al suo fianco. «Hai notato che di recente le nostre conversazioni più intense le abbiamo a letto?»
La figlia del Demonio rise a sua volta, per poi lanciare dolcemente un cuscino sul viso dell’amata.

*

«Non capisco» esordì Laurel, incrociando meccanicamente le braccia. «Perché mio padre non me ne ha parlato? Voglio dire, anch'io ho sentito notizie riguardo all’Incantatore, però...» sospirò, incontrando lo sguardo di Oliver «lui sa che sono in contatto con Ar- con te. Non riesco a capire come mai non mi abbia inclusa nel pacchetto.»
«Già, a proposito» s’intromise Sara, «com’è che papà ha scoperto di Oliver?»
L’ex miliardario incrociò le mani dietro la schiena, abbassando appena il capo. Si preparò a dare una spiegazione alla bionda, ma la sorella di quest’ultima lo precedette.
«È successo pochi giorni dopo che è stato rilasciato dall’ospedale» spiegò Laurel.
Sara inarcò un sopracciglio, confusa. «Come?»
Oliver serrò le labbra per un paio di secondi, senza un reale motivo. «Non lo so neanch’io» ammise, la voce ridotta ad un sussurro. «Quando ho saputo che tuo padre si è sentito male dopo la tua partenza, sono rimasto abbastanza... scosso.»
Canary annuì appena, ripensando con disgusto al momento in cui Laurel l’aveva chiamata dicendole che il padre era ricoverato in ospedale, mentre lei era su quella nave con Nyssa, in viaggio per tornare a Nanda Parbat. Avrebbe tanto voluto tornare indietro e restare al fianco di Quentin, ma non se l’era sentita di abbandonare nuovamente Nyssa, perciò si era tenuta telefonicamente in contatto con la sorella per diversi giorni. E ora, si sentiva doppiamente in colpa, perché era tornata a Starling City da quasi un mese e non si era ancora degnata di andarlo a trovare o di fargli una semplice telefonata per chiedergli come stesse.
«Non so cosa mi sia preso» proseguì Arrow. «Forse volevo solamente dimostrargli che gli ero vicino e che avevo fiducia in lui. Però, quando gli rivelai la mia vera identità, mi resi conto che lui già lo sapeva. Sapeva di tutti noi.»
«Beh, almeno a qualcosa è servito, visto che ha abolito subito la Task force Anti-Vigilante» commentò John.
Roy sorrise appena, pensando a quanto quella situazione fosse buffa. Fino all’anno prima era stato arrestato diverse volte ‒ anche se grazie a Thea non aveva mai passato più di qualche ora in commissariato ‒, mentre ora si ritrovava ad essere alleato del capitano della polizia.
«E questo ci riporta alla mia domanda di prima...»
«Probabilmente non voleva metterti in mezzo. Quest’uomo è pericoloso, Laurel» disse Oliver, rivolto all'avvocato.
«È agghiacciante» commentò John, sfogliando per l’ennesima volta le fotografie all’interno del fascicolo dell’Incantatore.
Nyssa si avvicinò di qualche passo al gruppetto, poggiando le mani sui fianchi. «Se ce lo avessi qui davanti, lo torturerei fino a fargli implorare la morte.»
Oliver le dedicò un’occhiata indefinibile, mentre Felicity replicò alla sua affermazione. «Conserva i pensieri maligni per questa sera.»
«Questa sera?» chiese Sara.
Il tecnico informatico annuì. «Ci sarà un galà di beneficienza in Downtown Street, presso il vecchio teatro comunale.»
«Bene.» L'ex miliardario si voltò nuovamente verso i suoi compagni. «Dig, Roy, avete uno smoking elegante?»
I due si scambiarono un’occhiata eloquente, fino a quando un sorriso non contornò le labbra di entrambi.
«Noi dove ci vuoi?» domandò Sara, con Nyssa e Laurel complici appena dietro di lei.
Oliver serrò nuovamente le labbra, poggiando accuratamente una mano sulla spalla della bionda. «Qui.»
Sara incrociò d’istinto le braccia. «Scusami?» esclamò, inarcando un sopracciglio. «Credi davvero che ce ne staremo qui con le mani in mano mentre un maniaco psicopatico se ne va in giro per la città ad uccidere delle donne innocenti?»
«Maniaco psicopatico» sottolineò, rivolgendosi anche alle ragazze poste dietro a Canary. «È per questo che non voglio che vi muoviate da qui. Se vi accadesse qualcosa, vostro padre avrebbe non uno, ma ben tre motivi per uccidermi.»
Nyssa, al sentirsi tirata in ballo, arricciò il naso. Sara mantenne lo sguardo serio fisso su Oliver, mentre Laurel tentò lo stesso gioco con gli altri due membri del team.
«Non guardarci in quel modo, non siamo noi a comandare qui» si giustificò Roy, scuotendo appena il capo.
«Mi dispiace, ragazze, ma non ho nessuna intenzione di mettervi in mezzo. Vi ricordate cos’è successo l'anno scorso, quando abbiamo usato Felicity come cavia per acciuffare Mathis?»
«L’avete salvata in tempo.»
«In tempo è la parola chiave, Laurel» proseguì Arrow. «E se non riuscissimo a salvarvi in tempo? La prossima su quel fascicolo potrebbe essere una di voi.»
«Adesso basta!» Felicity scattò in piedi, mostrando tutta la sua ira in uno sguardo. «Come puoi paragonarmi a loro? Come puoi paragonarmi a delle donne che sono perfettamente in grado di difendersi da sole? A differenza mia, loro sono addestrate, Oliver.»
«Laurel non la è» sibilò l'ex miliardario, spostando lo sguardo dalla sua ragazza alla sua ex nel giro di mezzo secondo.
«Non saprò combattere contro un esercito di burattini col Mirakuru nelle vene, ma qualche corso di autodifesa l’ho fatto pure io» protestò l’avvocato, a testa alta.
«In ogni caso, noi cinque le copriremo le spalle» s’intromise la figlia del Demonio, sott’intendendo che lei e Sara, in ogni caso, li avrebbero seguiti.
Oliver continuò a guardare Laurel negli occhi, sospirando. «Posso concedere a loro di venire con noi,» proseguì, indicando Sara e Nyssa con lo sguardo «ma tu...»
«Io sono l’ultima arrivata» commentò la maggiore delle sorelle Lance, seccata «quindi non posso fare altro che seguire gli ordini. Ho recepito il messaggio, forte e chiaro.»
«Laurel, non intendevo ques-»
«No, ti prego, risparmiami le tue scuse. Resterò qui a far compagnia a Felicity. Di sicuro riceverò più soddisfazioni seduta qui con lei che sul campo con te che ti comporti da mammina ogni due secondi.»
Detto questo, Laurel si avvicinò all’amica, mentre Sara le riservava un’occhiata dispiaciuta. In fondo, però, sapeva che Oliver aveva ragione: Laurel non era addestrata, e portarla con sé sul campo di battaglia sarebbe stato come condannarla ad una morte certa.
Non avevano scelta se non lasciarle un po’ di tempo per sbollire la rabbia, dopodiché, sarebbe tornato tutto alla normalità.



Il grande salone principale del teatro era pieno di miliardari, poliziotti, e, ovviamente, giornalisti.
Sara, Nyssa, John e Roy si gettarono nella mischia, mentre Oliver, travestito da Arrow, osservò l’andamento del party dal tetto di un edificio lì vicino, pronto ad attaccare in caso l’Incantatore fosse fuggito ‒ sempre nell’ipotesi che si fosse presentato al galà, altrimenti si sarebbero semplicemente svagati per una serata.
I quattro si divisero: Dig si posizionò non molto distante dall'entrata, Roy iniziò a camminare verso il centro della sala guardandosi costantemente intorno, mentre le due donne rimasero vicino al bancone del buffet.
Dopo alcuni minuti di calma apparente, Sara iniziò ad assaggiare tartine e salatini di tutte le qualità, fino a quando l’amata, accorgendosi dell'esagerata quantità di cibo che la bionda stava ingoiando, le lanciò un’occhiata severa.
«Forse dovresti smetterla con gli stuzzichini.»
«Perché dici così? Ne ho solo mangiati un paio.»
«Ne ho contati dieci» sibilò la mora, togliendole il piatto di mano. «Piantala, o ci toccherà offrire la cena a tutta questa gentaglia.»
Sara fece una piccola risata, provocando un’occhiata confusa da parte di Nyssa.
«Gentaglia?»
«I ricchi sono gentaglia» proseguì la figlia di Ra’s, arricciando il naso. «Nella maggior parte dei casi sono persone meschine, capaci di raggirare chiunque pur di raggiungere il proprio volere. Non pensano a nessuno se non a sé stessi, e non si prendono le colpe dei propri errori, ma addirittura arrivano a corrompere le persone intimandole di mentire pur che le loro cazzate non saltino fuori. I ricchi sono falsi e calcolatori e-»
«Posso sentirvi, sapete? La comunicazione è aperta a tutti noi.»
Al sentire la voce di Oliver, Nyssa sussultò. Nella sua mente si materializzarono delle scuse che non riuscì a tramutare in parole, ma ci pensò Felicity a tenerle la parte.
«Guarda che non ha tutti i torti. Tu sei l’eccezione che conferma la regola, tesoro.»
Canary incrociò le braccia, sbuffando. Mise su un finto broncio, e nello stesso istante incrociò lo sguardo di un ragazzo che stava camminando verso di lei. Alto, biondo, occhi color del cielo, sorriso smagliante e fisico invidiabile, non avrà avuto più di venticinque anni ‒ e, se ce li aveva, li portava alla grande. Il prototipo perfetto del criminale perfetto.
Sara ricambiò il sorriso, e l’uomo le ammiccò.
Non appena la ebbe superata, non prima di averle dedicato un ultimo sguardo, Nyssa ruotò appena la testa di lato, assumendo un’espressione indescrivibile.
«E quello cos’era?»
«Si chiama flirtare.»
La mora inspirò profondamente, trattenendosi dall’inseguire mister sorriso perfetto. «Non ti pare un po’... fuori luogo?»
Sara fece spallucce nel suo abito beige, agguantando un altro paio di stuzzichini. «Nulla che non sia umano.»
«Abbiamo una missione, Sara. E il piano di Oliver non prevede che ci perdiamo in corteggiamenti.»
«Fanculo Oliver e il suo piano.»
«Vi ricordo che posso sentirvi. Di nuovo.»
«Spegni quella maledetta comunicazione invece di origliarci, dannazione!» esclamò Sara, con un pizzico di ironia nella voce. Fin dalla notte dei tempi, malgrado fosse innamorata di lui dal primo momento che l’aveva incontrato, Sara si era sempre permessa di riservagli degli insulti gratuiti solo per il semplice gusto di farlo.
L’erede serrò la mascella, cercando inutilmente di placare l’ira che stava crescendo dentro di lei. «Hai una ragazza» le ricordò a bassa voce, nella speranza di non farsi sentire dagli altri. «Non mi sembra un comportamento adeguato civettare con un uomo in sua presenza» proseguì, parlando di sé in terza persona. E quando Nyssa parlava di sé in terza persona, significava che stava davvero perdendo le staffe.
Sara, d'altro canto, non appena trovava un modo per infastidire la sua amata, ne approfittava finché l’altra non ammetteva di essere gelosa, rinunciando a difendere il suo onore.
«Aha! Ecco perché non ti va giù che io ci provi con dei ragazzi, perché tu non lo puoi fare!» esclamò la più giovane delle sorelle Lance, appurando che il suo piano per stuzzicare la figlia del Demonio stava andando alla grande.
Nyssa incrociò le braccia con fare superiore. «Solo perché non mi piacciono gli uomini, non significa che io non sappia sedurli.»
«Sì, certo, come no. Scommetto che non riusciresti a fare colpo nemmeno su un uomo presente in questa stanza.»
Nyssa inarcò un sopracciglio. «Mi stai sfidando, per caso?»
Sara delineò un sorriso. «Può darsi.»
«Siete ad un galà» le interruppe Roy, poggiando l'indice destro sull'auricolare. «Non potreste cercare di essere professionali almeno per una sera?»
«Forse Sara non ha tutti i torti» ammise Diggle, mentre camminava tra la folla. «Non sappiamo che faccia abbia l’Incantatore, perciò ci conviene stuzzicarlo un po’.»
«E noi come facciamo? Ti ricordo che siamo uomini» protestò il ragazzo.
«Probabilmente Sara e Nyssa sapranno cavarsela benissimo da sole» s’intromise Felicity.
Roy annuì. Dopotutto, non era male come idea.
«Tu sei d’accordo, capo?»
Oliver soppesò sulle parole di Arsenal per diverso tempo prima di prendere una decisione. «Cercate di non allontanarvi dalla sala principale e di restare nel campo visivo di Roy e Dig.» Una pausa. Poi un sospiro. «Non mettetevi nei guai, vi prego.»
Le due donne si scambiarono un’occhiata d’intesa.
«Allora... sfida accettata?» domandò Sara, allungando la mano destra in direzione dell’amante.
Nyssa ci rifletté un paio di secondi prima di ricambiare la stretta. «Sfida accettata.»



«Se non la smetti resterai senza.»
Laurel si voltò di scatto verso Felicity, intuendo all’istante a cosa si riferisse: quasi dieci minuti prima aveva preso a mordicchiarsi nervosamente le unghie, e solo allora si rese conto che tutta la fatica che aveva messo nelle ultime settimane per farle ricrescere era stata inutile.
Sospirò, passandosi una mano sul viso. Era veramente stanca.
«Tutto bene?» domandò la bionda. Laurel osservò di sottecchi il monitor del computer dell'amica: il suo auricolare era acceso, ma il microfono era stato spento. Sicuramente voleva parlare di Oliver, di Sara o di qualcos’altro che l’avrebbe fatta innervosire più di quanto già non fosse.
«Sì. Alla grande» rispose, senza mostrare alcuna vena di ironia nella voce.
Felicity delineò un sorriso. «A me non sembra.»
Un altro sospiro uscì dalle sue labbra. «Se devi dirmi qualcosa, allora dilla e basta. »
Il tecnico informatico accavallò le gambe, ruotando la sedia alla sua destra in modo da avere la completa visuale sulla castana. «Tu sei forte» esordì, con tono pacato. «Hai superato la presunta morte di tua sorella e del tuo fidanzato, cosa che pochi sarebbero riusciti a fare.»
«Mi stavano tradendo. Tutti e due» puntualizzò, mettendo su un broncio che fece stringere ulteriormente il cuore di Felicity. «Direi che è stato abbastanza facile superare la perdita.»
La bionda sospirò a sua volta, consapevole che quella conversazione sarebbe servita a ben poco.
Però, ci doveva comunque provare.
«Capisco che tu ti senta, come dire, trascurata, ma non è affatto così. Tu sei molto importante per la squadra, Laurel.»
«Sono nell’Ufficio del Procuratore, il che, occasionalmente, mi permette di fare qualcosa, ma di solito me ne sto qui ad aspettare che gli altri tornino con le mani sporche di sangue.»
«Questa vita è più dura di quanto sembri» commentò Felicity, abbassando appena il capo. «Probabilmente tu la vedi come una cosa eccitante, andare là fuori a combattere il crimine, ma non la è. Voglio dire, è bello poter aiutare le persone, però... è un rischio enorme. Per tutti quanti.»
Laurel soppesò un paio di secondi sulle sue parole, per poi tornare a torturarsi il pollice destro. Tanto, peggio di così.
«Dovresti essere felice del fatto che Oliver si preoccupi per te, no?» domandò il tecnico informatico, ruotando appena la testa di lato. «Cioè, sì, mi ha letteralmente data in pasto a Slade due mesi fa, e l'anno scorso col fabbricante di bambole ci ho quasi lasciato la pelle, però...»
«Però io non sono ritenuta abbastanza indipendente da prendere le decisioni da sola.»
Felicity scosse la testa, sorridendo ancora. «Però, in entrambe le occasioni, chi era in pericolo più di tutti gli altri?»
Laurel sentì il respiro morirle dentro. Era strana, quella sensazione. Egoismo, forse? O era semplicemente il senso di colpa che la stava consumando da dentro?
Dopotutto, Oliver l’aveva protetta fino a quel momento, e lei si era addirittura arrabbiata con lui.
Dannazione. Dinah Laurel Lance, sei veramente una stupida.
Felicity le mise una mano su una gamba, con fare rassicurante. «Io lo amo» sussurrò, «e credo che anche lui mi ami. Però, rimarrà sempre legato a te. Probabilmente è destino. Quindi, la prossima volta che cercherà di proteggerti, cerca di essere dalla sua parte anche se la cosa ti infastidisce. Probabilmente prima o poi si stancherà di correrti dietro e inizierà a fregarsene. Se continui così, rischi di non poter più contare su di lui, e sarebbe un peccato.»
La maggiore delle sorelle Lance lasciò uscire tutta l’aria che aveva trattenuto dentro di sé fino a quel momento, sentendosi all’improvviso più leggera.
«Grazie» bisbigliò, con gli occhi lucidi. «Non capisco come fai a non essere...»
«Gelosa?» la anticipò l’altra. «Perché mi fido di lui. E forse dovresti cominciare a farlo anche tu.»



Nyssa digrignò i denti, visibilmente infastidita.
A pochi metri da lei, Sara stava parlando non con uno, non con due, ma con ben tre uomini con un sorriso sghembo stampato in viso che le ronzavano intorno da diversi minuti.
Uno di loro era molto alto ‒ così alto che in confronto Sara sembrava una pixie ‒, di carnagione scura, ed era un poliziotto.
Probabilmente è un amico di suo padre e l’ha riconosciuta pensò la figlia del Demonio. Probabilmente parlano del più e del meno, o dello strano caso che gli è stato assegnato questa mattina. Non sta per forza flirtando con lei, no?
No. Era ovvio che ci stesse provando con lei, così come gli altri due ragazzi, poco più che ventenni e indubbiamente dei figli di papà ‒ dopotutto, che cosa potrebbero mai fare dei ragazzini ad un party di beneficienza?!
Non era neanche tanto il fatto che Sara fosse riuscita ad infatuare tre uomini ad infastidirla, quanto che loro la stuzzicassero e che lei ricambiasse con piacere.
Piantala. Sai bene che non ti tradirebbe mai. Lo sta facendo per la missione, dopotutto.
Già. Per la missione. Sara lo stava facendo per la missione.
Però era anche vero che quando voleva sapeva davvero come farla ingelosire, quella bionda psicopatica.
E lei, invece, non era ancora riuscita a parlare con nessuno.
Non che non ci avesse provato, anzi. Più e più volte un uomo le aveva rivolte dei lunghi sguardi e dei sorrisi dolci, e lei aveva ricambiato con gioia, credendo di avercela finalmente fatta. Dopo alcuni minuti, però, aveva scoperto che l’uomo in questione stava sorridendo ad un altro uomo, nientemeno che il cameriere posto dietro al bancone del buffet incaricato di servire le bevande alcoliche.
Per una volta tanto che vorrei fare colpo su un uomo, quello che scelgo è gay. Che strano scherzo del destino.
Eppure, negli ultimi anni, lei e Sara ne avevano fatte veramente tante di sfide. Certo, in un modo o nell’altro la bionda ne era sempre uscita come vincitrice, ma Nyssa, almeno, avrebbe dovuto trarne qualche insegnamento, dalle sue sconfitte.
Sara avrebbe indubbiamente vinto anche questa volta.
«Punch?»
La mora, presa alla sprovvista, si voltò di scatto, e per poco non andò a sbattere contro un uomo poco più basso di lei. Tuttavia, per lo spavento, l’uomo in questione lasciò cadere i due bicchieri che aveva in mano; fortunatamente, Nyssa li recuperò con un rapido scatto appena in tempo, prima che toccassero il pavimento.
«Wow» commentò lui, sbalordito «che riflessi!»
L'erede del Demonio sorrise appena, porgendo i due calici al ragazzo. «Non c’è di che» commentò. «Dovresti stare più attento» disse poi, pronta ad allontanarsi.
Ma, prima che riuscisse a compiere un solo passo, la voce dell’uomo la bloccò di nuovo.
«Io... io parlavo con te, poco fa...»
Nyssa inarcò un sopracciglio, scuotendo appena il capo. «Scusami, non ricordo. Stavo controllan- cercando un’amica tra la folla. Che stavi dicendo?»
Il ragazzo inspirò, drizzando le spalle subito dopo, come per darsi sicurezza. «Volevo sapere se ti andava del punch.»
La ragazza non rispose, colta di sorpresa.
Eccola lì, la sua occasione. Un ragazzo stava cercando di attaccare bottone con lei.
Dentro di sé, Nyssa stava morendo dalla gioia e dallo stupore, ma probabilmente tutto ciò che riuscì ad esternare fu un’espressione nauseata e contraddittoria, perché l’uomo si fece improvvisamente serio.
«Non volevo essere così sfacciato, insomma... sì, cioè, non ti conosco, ma ti ho vista qui tutta sola e ho pensato che ti andasse un po’ di compagnia.» Sorrise, e nel mentre gli spuntò una fossetta sulla guancia destra. «Sono Josh Hunter, comunque.»
Nyssa sorrise a sua volta, accettando il bicchiere di punch. «Nyssa Raatko» disse infine, stringendo calorosamente la mano dell’uomo.



Sara sbuffò, avvicinandosi nuovamente al bancone del buffet. Da sola.
Aveva liquidato i tre ragazzi fingendo di dover andare urgentemente al bagno ‒ effettivamente dopo aver mangiato quegli stuzzichini il suo stomaco aveva iniziato a mandarle dei segnali strani ‒, e non appena erano spariti dalla sua visuale, era tornata nell’esatto punto in cui, pochi minuti prima, si era accostata insieme a Nyssa.
A proposito, dove diamine si era cacciata? Ormai era da diversi minuti che non la vedeva, e ciò non fece altro se non far crescere un senso di ansia in lei.
Maledetta. Se davvero credeva che farla preoccupare fosse un buon modo per vendicarsi del suo comportarsi da civetta di pochi minuti prima, allora a Nyssa servivano un paio di lezioncine su come rendere divertente ‒ e non traumatico ‒ un rapporto di coppia.
«Gente, mi sentite?» domandò ad un tratto, premendo il tasto sull’auricolare.
«Forte e chiaro. Che succede?» fu la riposta di Diggle.
«Ho perso di vista Nyssa.»
Silenzio.
«Felicity?»
«Ci penso io!» esclamò il tecnico informatico, in risposta ad Oliver. Si udì il rumore delle sue dita che digitavano rapidamente sulla tastiera del computer, poi, alcuni istanti di assoluto silenzio. «Ha spento la comunicazione» constatò pochi secondi dopo.
Canary deglutì, mentre il suo cuore cominciava a battere sempre più velocemente.
«Ma» aggiunse, «se mi date un paio di minuti posso accendere la connessione del suo auricolare in remoto.»
Sara sorrise, espirando con tranquillità.
«Trovato qualcosa?» chiese Arrow.
«Solamente tre idioti che hanno cercato di attaccare bottone, ma nessuno di loro era un valido candidato per essere l’Incantatore.»
«E cosa te lo fa pensare?» chiese John, incuriosito.
«Non hanno insistito più di tanto. Voglio dire, se si fosse veramente trattato di lui, dopo diversi minuti passati a chiacchierare dubito che mi avrebbe concesso di dileguarmi così facilmente.»
«Giusta osservazione» commentò Oliver. «Mi raccomando, tenete gli occhi aperti. Ci risentiamo tra dieci minuti.»
Sara annuì appena, dopodiché, spense il microfono. Un attimo dopo, la sua attenzione fu catturata da qualcuno che si era avvicinato a lei.
«Posso sapere che cosa ci fa una così bella ragazza qui tutta sola?»
La minore delle sorelle Lance alzò lo sguardo, incontrando quello dell’uomo dal sorriso celestiale che aveva incrociato pochi minuti prima.
Proprio la persona che stava cercando.
«La tua amica ti ha abbandonata?»
Sara incrociò le braccia, ruotando appena la testa di lato. «Già, proprio così.»
Il ragazzo delineò un sorriso sghembo. «Meno male» commentò, «credevo che fosse la tua ragazza.»
Sara mostrò uno dei suoi più falsi sorrisi, ma dentro di sé, desiderò con tutta sé stessa tirargli uno di quei ganci che fanno venire male alla mascella per giorni.
«E se anche fosse?» chiese, nel modo più ironico possibile. «Sarebbe un problema, per te?»
«Direi di no.» Un altro sorriso mieloso. «Voglio dire, se non lo è per te.»
Per un attimo, Sara si sentì svenire. L’aspettava una lunga e noiosa serata.



All’inizio, quando Josh aveva proposto a Nyssa di sistemarsi in un punto meno caotico della sala, la donna aveva esitato. In primis perché allontanandosi non avrebbe più potuto tenere d’occhio Sara, e poi, con l’Incantatore presumibilmente nei paraggi, non se la sentiva proprio di trovarsi impreparata o colta di sorpresa durante un attacco improvviso.
D’altronde, l’uomo che aveva appena conosciuto non le dava per niente l’idea di essere un tipo che potesse ammaliare le donne: non si faceva la barba da chissà quanto, il nodo alla cravatta sembrava fatto da un bambino delle elementari e non aveva ancora bevuto un sorso di punch.
Altro che Incantatore, dava più l’idea di essere un tizio rimasto chiuso in casa per giorni, a cui, una volta uscito nuovamente all’aria aperta, venisse difficile interagire con altri esseri viventi.
Si erano seduti sui gradini della scalinata che conduceva al piano superiore del teatro, abbellita da un lungo tappeto rosso e da diversi quadri di inestimabile valore posti sul muro adiacente.
«Hai proprio un bel vestito» disse ad un tratto il ragazzo, facendo tornare Nyssa alla realtà.
E lo era veramente. Era nero, con dei filamenti dorati disposti orizzontalmente, ed era così lungo da arrivare quasi a coprirle le caviglie, ma con un leggero spacco che le avrebbe permesso di combattere senza troppa fatica: al particolare abito, aveva abbinato un paio di sandali neri con tacco non troppo alti, più comodi di quanto pensasse. Per l’occasione, Nyssa aveva deciso di lasciare i capelli sciolti e di indossare un paio di orecchini celesti, che non aveva mai avuto l’occasione di sfoggiare.
«Ti ringrazio. Me l'ha prestato la mia raga- sorellastra» buttò lì, maledicendosi mentalmente per l'imminente gaffe.
«Il mio fratellastro a malapena mi concedeva uno strappo a scuola di tanto in tanto, ma di solito mentiva a nostra madre dicendole che mi accompagnava, quando invece mi faceva scendere dopo un isolato e dovevo farmela a piedi.»
Ah, però. Simpatico il fratellone.
«Comunque, non mi sembra un argomento adatto ad una serata come questa» concluse, mandando finalmente giù il primo sorso del liquido rosso.
«In effetti, mi stavo chiedendo che cosa ci fa un tipo come te in un posto del genere. Non mi sembri-»
«Un miliardario? No, in effetti non lo sono proprio» rise. «Sono il proprietario di un bar in centro che ho inaugurato poco più di un anno fa, ma non credo di potermi definire una persona ricca.»
«Quindi, perché ti trovi qui?»
Josh sospirò, poggiando il bicchiere su un gradino. «Per sostenere quell’idiota del mio fratellastro, per l’appunto.»
«Credo di non capire» commentò l’erede, più confusa che mai.
«Presenterà il meeting. O meglio, lui sarà quello che leggerà un discorso non scritto da lui agli invitati cercando di convincerli a stilare degli assegni il più alti possibile, in poche parole un-»
Questa volta, fu Nyssa a non lasciargli finire la frase.
«Volevo dire, da quanto ho capito non sembra che andiate molto d’accordo. Come mai sei venuto a sostenerlo nonostante ciò?»
Il ragazzo si passò stancamente una mano sul viso. «Lo faccio per mia madre» rivelò, la voce ridotta ad un sussurro. «Kenneth è nato dal suo primo matrimonio con un tizio pieno di soldi. Si sono separati quando lui era molto piccolo, e dopo pochi anni mia madre ha conosciuto un altro uomo, si è risposata e ha dato alla luce me.» Fece una pausa, soppesando sulle parole da usare. «Mio padre ha sempre trattato Ken come se fosse suo figlio, visto che il suo padre biologico era parecchio assente, uno dei tanti motivi per cui mia madre ha chiesto il divorzio. Io gli ho sempre voluto un gran bene, ma nonostante tutto l’affetto che ha ricevuto, negli anni ha accumulato la rabbia e il dolore che la separazione dei genitori gli ha provocato, fino a diventare esattamente come suo padre. Un egocentrico, snob, riccone con la puzza sotto al naso. A diciotto anni è andato a vivere con suo padre e ha iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia. Quel gran bastardo, sa solo lui da dove li prende tutti quei soldi. Comunque, mia madre ha insistito affinché io mantenessi un rapporto con lui, perciò, ogni tanto, fingiamo di andare d’accordo per farla contenta. Che spasso, vero?»
Nyssa fece una smorfia indecifrabile, probabilmente divertita.
«Perdonami, ma basta un sorso di alcol per farmi venire la parlantina.»
«Me ne sono accorta» rise lei, sistemandosi una ciocca ribelle dietro all’orecchio.
«E tu, invece?» domandò, incrociando le braccia. «Sei qui in veste di ricca ereditiera?»
La figlia di Ra’s lasciò uscire un lungo sbuffo ‒ anche se da un lato trovò divertente il fatto che Josh l’avesse chiamata ereditiera, visto che lei era l’erede del Demonio. «Figuriamoci. Non ho nemmeno un lavoro.»
Il castano buttò giù un altro sorso di punch, gustandoselo con lentezza. «Davvero?»
«Davvero.»
Josh soppesò sulle parole della donna per alcuni secondi, prima di scolarsi tutto il bicchiere in un colpo solo.
«Okay, allora facciamo così» esordì, sfregando le mani «se tu mi concedi un ballo, in cambio ti regalerò un contratto a tempo indeterminato presso il mio locale. Ci stai?»
Nyssa delineò un sorriso furbo. «Devo ammettere che è una proposta allettante» disse, incrociando le braccia. «Però, prima di darti una risposta certa devo parlarne con la mia ra- sorellastra.»
L’uomo si accigliò. «Come mai?»
L’erede si irrigidì di colpo, udendo una vocetta stridula rimbombarle nella testa all’improvviso.
«Terra chiama Nyssa, si può sapere dove ti sei cacciata?»
La diretta interessata deglutì, innervosita. Non era proprio il momento adatto.  E adesso...?
«Non fare finta di niente con me! So benissimo che puoi sentirmi» proseguì Felicity.
«Ti senti bene?» domandò il ragazzo, notando l’improvvisa stranezza della mora.
Quest’ultima annuì freneticamente, per poi tossicchiare. «È solo che, sai com’è, sono appena uscita da un tremendo raffreddore e... credo di non essere ancora guarita del tutto.»
«Oh mio Dio, sei con qualcuno?»
«Però, che brutta cosa ammalarsi in piena estate! Immagino che ti abbia dato parecchio fastidio, magari hai dovuto rinunciare ad andare in vacanza per colpa di un malanno!»
«Eh già, proprio così» rispose Nyssa, con un sorriso tirato.
«Okay, perfetto, allora ti seguo. Utilizziamo la tattica di poco fa. Un colpo di tosse vale a dire sì, due colpi no, tre non lo so. Stai bene?»
Un colpo di tosse.
«Sei con l’Incantatore?»
Due colpi di tosse.
«Sapevi di aver spento la comunicazione?»
Tre colpi di tosse. Ma no, che non lo sapeva. Era già tanto se riusciva ad utilizzare un computer e un cellulare, figuriamoci se era in grado di interagire con degli auricolari.
«Okay... posso espandere la comunicazione anche agli altri? Sara è molto preoccupata.»
Tre colpi di tosse, che, per Nyssa volevano dire “fa’ come ti pare”. Poi, però, soppesò su quanto le era appena stato detto.
Sara è molto preoccupata.
Oh. Quindi la regina dei flirt aveva perso la sfida. Che soddisfazione, la vittoria.
«Lo prenderò come un sì. Allora, buona fortuna.»
Il tutto si svolse in una ventina di secondi, quindi, per Josh, parve come un semplice attacco di tosse.
Quando fu sicuro che Nyssa si sentisse meglio, le dedicò un sorriso. «Dov’eravamo rimasti?»
L’erede spostò lo sguardo in un punto indefinito alla sua sinistra. Lei ricordava benissimo dov’erano rimasti, per questo sperò con tutta sé stessa che il ragazzo se ne fosse dimenticato.
«Ah, giusto!» disse ad un tratto. «Mi stavi spiegando come mai devi chiedere il permesso a tua sorella per diventare una mia dipendente.»
La mora deglutì. «Ecco... io non sono molto brava come barista, o cameriera. Ci ho già provato e, a dirla tutta, non è esattamente il lavoro che fa per me. Anche lei sta cercando un impiego, perciò, magari potrebbe interessarle, visto che è più portata di me in certe cose» buttò lì, e per la prima volta dopo la sua ultima chiacchierata con suo padre, si complimentò mentalmente con sé stessa per la sua dote naturale nel riuscire a mentire alle persone su due piedi. «In ogni caso, ti farò sapere qualcosa.»
«Certamente. Ti lascio il mio biglietto da visita. Il numero è sul retro» spiegò, porgendole un cartoncino beige. Era disegnata una tazza di caffè fumante, con su scritto: “Mystery Café.”
«Quindi» proseguì la donna, senza riuscire a smettere di sorridere «ai party di beneficienza si balla anche?»
Josh rise a sua volta, passandosi distrattamente una mano tra i capelli. «Di solito no, ma, sai com’è, mio fratello si è appena fidanzato e ha richiesto che dopo le donazioni, che dovrebbero iniziare a momenti, venga concessa una mezz’ora di danze, cosicché gli ospiti non se ne tornino subito a casa. O meglio, questo è quello che ha detto lui. In realtà sappiamo benissimo entrambi che lo ha fatto solamente per farsi vedere in compagnia della sua futura sposa. A Kenneth è sempre piaciuto essere al centro dell’attenzione.»
Nyssa trattenne a stento una risata. Quel ragazzo era veramente buffo.
«Comunque, non mi hai ancora detto che cosa ci fa una plebea come te ad un ricevimento di così alto ceto sociale.»
L’erede tossicchiò nuovamente, aumentando così il tempo a sua disposizione per trovare una scusa credibile. «Un amico della mia sorellastra è qui per fare una donazione, e ci ha chiesto di accompagnarlo.»
Josh annuì convinto, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quello di Nyssa. Se l’era bevuta sicuramente.



«E così, vorresti dirmi che una bella principessa come te è venuta ad un party simile senza un cavaliere?»
«No, sono sola» sbuffò Sara, guardandosi ansiosamente intorno. «L’avrò ripetuto almeno tre volte» sibilò tra sé e sé.
Lucas, il tizio biondo dal sorriso angelico che la stava torturando da più di dieci minuti, non era l’Incantatore. Anche perché, se lo fosse stato, non appena l’avesse scoperto lo avrebbe sicuramente preso a botte senza ritegno.
Era un semplice playboy che si riteneva chissà chi, ma, per sua sfortuna, dopo qualche sillaba Sara aveva smesso di dargli peso, e ciò provocò in lui, oltre che un grande sconforto, anche un misto di rabbia. Di sicuro era uno di quelli che non accettava un rifiuto, perciò, l’unico modo per placare il suo turbamento era assillare la ragazza in questione fino a quando essa non si arrendeva al suo fascino. Peccato, però, che lui non conosceva bene Sara.
«Ti va un bicchiere di champagne?» disse ad un tratto, porgendo un flûte alla bionda.
La minore delle sorelle Lance, per un istante, fu tentata di accettare; poi si ricordò che non molto tempo prima aveva già fatto uno strappo alla regola bevendo un bicchiere dello stesso spumante insieme a Nyssa, e ciò la fece esitare. Non era un’esperta di bambini, ma di certo l’alcol non era salutare per una donna incinta.
«No, ti ringrazio» rispose, declinando la proposta. «Non mi va.»
Il biondo inarcò un sopracciglio, confuso, ma non ebbe il tempo di proferire parola: l’attenzione di tutti i presenti, Sara compresa, fu attirata da un forte boato.
Non proveniva dal salone principale, ma era comunque lì vicino, indubbiamente dentro all’edificio.
La reazione di Sara fu immediata: non si curò minimamente delle voci di Oliver e Felicity che urlavano nell’auricolare. I suoi pensieri andarono ad una sola persona, e pregò con tutta sé stessa di trovarla presto.



 








Okay, mi sembrava che per colpa mia i personaggi stessero avendo una piccola dipendenza da caffè, così questa volta a Quentin è toccata l'acqua e a Nyssa il punch xD
Che impressione vi ha dato il nuovo personaggio, Josh Hunter? Secondo voi è solo di passaggio o avrà rilevanza nella vita sentimentale e non di Nyssa? Sono curiosa di sentire le vostre idee ^^
E, per quanto riguarda il finale del capitolo... io so già cosa accadrà, ma non vi spoilero nulla (d’altronde, sappiamo tutti a chi stia pensando Sara u.u). Spero di non lasciarvi troppo a lungo sulle spine, ma visti i miei impegni non so quando potrei aggiornare *corre a nascondersi*

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: I just want to protect you ***


 

Capitolo 7: 
I just want to protect you

 

 

 

 

Correva a perdifiato tra la folla, controcorrente: tutti fuggivano, mentre lei non poteva fare altro se non farsi spazio in mezzo a quella massa di persone terrorizzate, il cui unico desiderio era quello di uscire al più presto dall’edificio.
Il suo desiderio, invece, era trovarla.
Quando Sara raggiunse la zona colpita dall’esplosione, col cuore che minacciava di esploderle nel petto, un trio di poliziotti le bloccò all’istante il passaggio.
«Signorina, dove crede di andare?» esordì uno di loro, con un tono di voce tutt’altro che garbato. «È pericoloso restare qui. Deve raggiungere al più presto l’uscita.»
«No, non posso!» sbottò la donna, con tutte le energie che aveva in corpo. «La mia ragazza è qui da qualche parte! Non posso andarmene finché non la trovo! Non posso
«La capisco, ma non può stare qui. Non può-»
«Sono la figlia del capitano della polizia» disse poi, cercando vanamente di apparire più calma. Sapeva che in quel modo avrebbe rischiato che suo padre venisse a sapere del suo ritorno in città, ma se era la sua unica possibilità per salvare Nyssa, non aveva altra scelta.«Sara Lance. Non mi riconoscete?»
A quelle parole, l’agente alleggerì la presa sulle sue spalle, ma non sembrava comunque intenzionato a farla passare.
«Dice la verità, signore» s’intromise un altro poliziotto, rivolgendo una lunga occhiata alla bionda.
Quest’ultima lo riconobbe all’istante: era l’agente che ci aveva provato con lei quella sera e che le aveva rivelato di aver attaccato bottone proprio perché si era ricordato di averla vista mesi prima in televisione, quando era stato annunciato che anche la ormai famosissima Sara Lance non era davvero morta dopo il naufragio del Queen’s Gambit.
«Non ha importanza. Noi non possiamo lasciar passare dei civili.»
Sara si trattenne dallo sbattere i piedi per terra come una bambina, sebbene fosse tentata di farlo. Il poliziotto di carnagione scura le dedicò un’occhiata dispiaciuta, ma almeno ci aveva provato.
Fu allora che Sara si rese conto di cosa si trovasse al di là del nastro giallo e nero. Oltre alle macerie, vi erano una quantità indefinita di corpi, alcuni con delle lastre di legno o frammenti dell’edificio conficcati nello stomaco, altri con arti mancanti o col volto dilaniato e ricoperto di sangue. Alcuni agenti stavano aiutando i feriti a rimettersi in piedi, mentre una decina di poliziotti cercava di coprire con dei teli i presunti morti affinché i loro corpi non fossero visibili, considerato che l’esplosione aveva raso al suolo quella parte del teatro (a occhio e croce circa un quarto della struttura) e che quindi chiunque avrebbe potuto accedervi facilmente dall’esterno. Ma in quel momento, oltre a loro, c’era soltanto una ragazza distrutta e spaventata.
Non ci volle molto affinché Sara si decidesse a mettersi di nuovo a correre, questa volta seguendo la massa di persone che urlava a squarciagola, come iniziò a fare lei dopo non molto.



«Devo tornare dentro.»
«No che non puoi. Ti devi calmare, Nyssa. Sono certo che tua sorella sta bene» la rassicurò Josh, con un tono di voce estremamente calmo.
«No che non sta bene, altrimenti sarebbe qui fuori come tutti gli altri.»
«Ci sono ancora un sacco di persone all’interno. Magari è rimasta bloccata tra la folla.»
«Già, e magari a momenti potrebbe saltare in aria un’altra parte dell’edificio. Mi dispiace, ma non me ne starò qui a guardare» insisté la mora, sciogliendo la presa dell’uomo sul suo braccio con uno strattone.
«Tutto quello che devi fare è un bel respiro profondo. Vedrai che ti sentirai subito me-»
«Io non ho bisogno di fare meditazione, Josh, devo trovarla! Adesso!» sbottò, rossa in viso.
Josh si strinse nelle spalle, preso alla sprovvista: nel mentre, Nyssa gli riservò l’ennesima occhiataccia, dopodiché si voltò.
Non ebbe nemmeno il tempo di compiere un passo che l’esile figura di una ragazza bionda con le lacrime agli occhi e il trucco sbavato attirò la sua attenzione.
«Sara…» sussurrò, portandosi istintivamente una mano all’altezza della bocca.
La diretta interessata corse verso di lei, spintonando senza volere le persone che le bloccavano il passaggio, fino a quando non ebbe l’amata tra le braccia: Nyssa la strinse a sua volta con tutte le forze che aveva, e Sara fece altrettanto, poggiando una mano sulla sua schiena e l’altra sul suo capo.
«Mio Dio… ero così preoccupata, Nyssa… stavo per morire di paura» singhiozzò la più giovane delle sorelle Lance, iniziando a scuotere nervosamente la testa. «Credevo che anche tu… Dio… ero così spaventata… ti amo così tanto» balbettò, iniziando a baciare ripetutamente le guance di Nyssa, come se volesse assicurarsi che non fosse un sogno e che la figlia di Ra’s fosse davvero viva e vegeta davanti a lei.
Quel gesto generò un lieve sorriso sulle labbra dell’Erede, i cui occhi erano ormai diventati lucidi.
«Va tutto bene. Siamo al sicuro» sussurrò la mora, prendendo il viso dell’amata tra le mani. «Ero nell’ala ovest del teatro, l’esplosione è avvenuta a est. Non sono nemmeno ferita. Va tutto bene, Sara. Va tutto bene» la rassicurò, stringendola nuovamente tra le proprie braccia.
Josh, a pochi metri di distanza tra loro, osservò la scena con un sorriso. Aveva dovuto sopportare Nyssa e il suo caratteraccio per più di dieci minuti, ma almeno ne era valsa la pena: ora, aveva rivisto il suo sorriso.



Non appena udì dei passi lungo le scale del sotterraneo, il cuore di Laurel cominciò a battere all’impazzata. Lei e Felicity si alzarono dalle proprie postazioni, dirigendosi rapidamente verso il centro della stanza: fu solo quando videro Sara, Nyssa e Roy sani e salvi che poterono concedersi un sospiro di sollievo.
«Oh mio Dio» soffiò Laurel, che non appena vide com’erano ridotte le guance della sorella la strinse in un lungo abbraccio.
«Va tutto bene, Laurel» sorrise quest’ultima, ricambiando la stretta. «Ho solo pianto un po’.»
L'avvocato sorrise a sua volta, felice di sapere che Sara stesse bene. Considerato che quest’ultima aveva gettato via il suo auricolare poco dopo l’esplosione come gesto di disperazione, non aveva idea di cosa le fosse successo. Ma quello non era di certo il momento adatto per fare domande. «E tu?»
«Non potrei stare meglio» rispose Nyssa, facendole un rapido occhiolino.
«Dove sono Oliver e Dig?» domandò Felicity, non appena ebbe sciolto l’abbraccio con Arsenal.
«Sono rimasti sul posto per capire se la polizia sapesse qualcosa riguardo all’accaduto» spiegò il ragazzo, affranto. «È stato terribile.»
I cinque si scambiarono sguardi e sorrisi di conforto, ma era comunque difficile cercare di rimanere concentrati dopo quanto successo.
Pochi istanti dopo, fu il rumore del cellulare di Felicity che squillava a farli tornare alla realtà.
«Siamo con il capitano Lance» esordì Oliver. «Stanno portando via i corpi.»
«Quanti?» domandò di getto il tecnico informatico, una mano all’altezza del cuore.
Per un tempo indefinibile, Oliver non rispose. «Per ora un centinaio.»
Sara inspirò a fondo. Le si raggelò il sangue nelle vene al pensiero che tra quelle persone ci sarebbero potuti essere Nyssa, John, Roy, o addirittura lei e il suo bambino.
Nyssa, al sentirla irrigidire, le mise un braccio intorno alla schiena, ma ciò non bastò a farla calmare.
Laurel si passò a sua volta una mano sul viso, mentre Arsenal rimase in silenzio, con mille pensieri per la testa.
«Ancora non si sa nulla» spiegò Dig, con un sospiro. «Stanno portando i feriti in ospedale e una volta medicati dovranno passare dalla centrale per testimoniare, ma vista l’ora, secondo il capitano, non sapremo nulla fino a domani.»
«Ricevuto» si limitò a dire Felicity, con voce tremante.



«È stata l’esperienza peggiore della mia vita.»
«Hai detto lo stesso quella volta in Algeria» le ricordò Nyssa con un sorriso, intenta ad indossare la vestaglia da notte.
«Logico che la pensassi così, è stata una delle mie prime missioni. Non avevo idea di cos’avrei dovuto sopportare dopo» sospirò la bionda, passandosi una mano sulla fronte.
La figlia del Demonio si sedette accanto a lei, osservandola con fare amorevole.
«Secondo te abbiamo fatto bene ad andarcene da Nanda Parbat?»
Nyssa ruotò appena la testa di lato, confusa. «Che intendi?»
«Non pensi che sarebbe stato meglio se fossimo rimaste e avessimo lasciato che il destino facesse il suo corso? Voglio dire, ormai non manca molto. Tra poche settimane il pancione sarà evidente e tutti sapranno la verità. Anche tuo padre lo verrà a sapere, in qualche modo.»
«E ti avrebbe ucciso senza pensarci due volte se fossimo rimaste.»
«Lo farà in ogni caso» soffiò Sara, abbassando il capo. «Ma non credi che sarebbe stato meglio se glielo avessimo detto, anziché scappare? Magari l’avrebbe presa diversamente.»
«O magari avrebbe tagliato la testa ad entrambe.»
«Devi sempre vedere il bicchiere mezzo vuoto» sbuffò Sara, incrociando le gambe.
«E tu invece sei troppo convinta che ci sia ancora un briciolo di umanità in mio padre.»
La bionda scosse appena le spalle, come se la sua motivazione fosse ovvia. «Perché è tuo padre.»
Nyssa rispose con una smorfia, e Sara si lasciò andare all’ennesimo sospiro.
«È solo che è successo tutto così in fretta. La gravidanza, la fuga, l’appartamento. Mi sembra ancora tutto così strano e… sbagliato.»
L’Erede deglutì sommessamente. «Vuoi dire che ti sei pentita di essere venuta via con me?»
«Non ho detto questo» si giustificò Canary, scuotendo appena il capo. «Dico solo che, magari, avremmo dovuto pensarci su prima di prendere decisioni affrettate.»
«Non avevamo tempo, Sara» sospirò la mora, massaggiandosi il braccio sinistro. «Ma se hai di ripensamenti, voglio che tu me lo dica adesso.»
La minore delle sorelle Lance serrò le labbra, diventando improvvisamente seria. «No.»
Nyssa annuì appena. «Bene.»
Le due rimasero in silenzio per un po’, fino a quando Sara si decise a mettersi sotto alle coperte e Nyssa fece lo stesso, passandole un braccio intorno alla vita.
Dopo pochi minuti, però, alla figlia di Ra’s tornò in mente lo strano ‒ ma, dovette ammetterlo, anche piacevole ‒ incontro di quella sera.
«Ho conosciuto un ragazzo al galà» esordì, alzando il mento con fierezza.
Sara si voltò nello stesso istante, giusto in tempo per vedere l’espressione orgogliosa stampata sul viso dell’amata. «Davvero?»
«Davvero» sorrise l’altra, spostandole una ciocca bionda dal viso. «E mi ha fatto una proposta di lavoro davvero allettante.»
Sempre sperando che sia ancora valida, pensò, ricordando il patto che aveva fatto con Josh: l’avrebbe assunta solamente se avesse accettato di ballare con lei. E, in un certo senso, Nyssa aveva risposto positivamente alla richiesta, ma alla fine, a causa dell’esplosione, non c’era stato nessun ballo.
«È una bella notizia.»
«Quindi ho la tua approvazione per un possibile colloquio?»
«Certo. Perché no?»
«Sai com’è, non vorrei che ti arrabbiassi di nuovo come l’ultima volta» ridacchiò l’Erede del Demonio, baciandole appena l’incavo del collo.
Sara non poté fare a meno di ridere a sua volta, contagiata dall’amata. «Mi dispiace per quella scenata al pub. Da un lato credo ancora di aver avuto ragione, però… dall’altro mi rendo anche conto di aver esagerato. Diamo la colpa agli ormoni?»
Nyssa smise di ridere e le dedicò un sorriso dolce. «Ci sto» soffiò, per poi lasciarle un bacio a fior di labbra.
Sara spense l’abat-jour, per poi tornare alla postazione di poco prima.
Dopo aver chiuso gli occhi, non ci volle molto affinché il rumore dell’esplosione e le urla dei presenti le tornassero alla mente. Negli anni aveva assistito a diversi omicidi e attacchi terroristici, e molto spesso era stata lei stessa a stroncare delle vite, ma questa volta era diverso. Questa volta, non aveva agito come Ta-er al-Sahfer per conto della Lega degli Assassini: questa volta era stata Sara Lance ad assistere all’incidente. E non credeva che l’avrebbe superato molto facilmente.
Si voltò ancora, arrivando a toccare il mento dell’amata con la propria fronte, mentre un brivido le attraversava la schiena.
«Nyssa?»
«Uhm?»
«Non credo che riuscirò a dormire, stanotte.»
Nyssa iniziò ad accarezzarle lentamente la schiena, ripensando a sua volta a quanto accaduto quella sera. «Neanche io, habibti» sussurrò tristemente, lasciandole un bacio sul capo. «Neanche io.»

*

Si svegliò poco dopo le sei, con la testa che le pulsava e le gambe pesanti. Provò a voltarsi dalla parte opposta e a chiudere gli occhi con scarsi risultati: ormai sapeva bene che, non appena si svegliava, riaddormentarsi le veniva molto difficile.
Si mise a rimirare il soffitto per un po’, ma ciò servì solo a far accrescere in lei un’emozione mista a rimorso e colpevolezza. Così, pochi minuti dopo, con uno sbuffo pesante, si decise ad alzarsi e a darsi una sistemata: si lavò i denti, si truccò in fretta e bevve la solita tazza giornaliera di caffè. In pratica, stava facendo ciò che faceva normalmente tutti i giorni, solo… con un paio d’ore di anticipo.
Non seppe nemmeno lei come mai, un quarto d’ora dopo, si ritrovò a varcare il portone della ex fonderia Queen.
Ma la cosa che la stupì più di tutto, fu trovarvi Oliver ad allenarsi col suo pilastro da boxe. Laurel rimase in disparte una ventina di secondi ad osservarlo mentre scagliava una serie di pugni rapidi, convinta che l’uomo non si fosse accorto di lei.
«Perché sei qui?» chiese quest’ultimo, non appena si fermò per riprendere fiato.
La figlia di Quentin sobbalzò appena, colta di sorpresa. Subito dopo, si schiarì la voce. «Potrei farti la stessa domanda.»
Oliver prese un asciugamano da un cassetto e se lo passò sul viso, per poi voltarsi verso la sua ex ragazza.
Era distrutto. Laurel glielo poteva leggere in faccia: aveva assistito ad un omicidio di massa ‒ di nuovo ‒ e non aveva potuto agire in alcun modo, perché nessuno aveva notato qualcosa o qualcuno di sospetto e non avevano idea di chi fosse l’Incantatore. Non capitava spesso, ma anche stavolta Arrow si era sentito impotente perché non aveva saputo proteggere la sua città.
E ora, Oliver Queen stava cercando inutilmente di sbollire la rabbia e la sensazione di sconfitta tirando un paio di pugni ad un manichino.
«Non è colpa tua» esclamò ad un tratto l’avvocato, con tono fermo.
L’ex miliardario sostenne il suo sguardo, per poi lasciarsi andare ad un sospiro. «Lo so» ammise «ma sono comunque rimasto in disparte.»
«Tu e John avete aiutato i feriti a uscire, no?»
«Ma non è bastato.»
L’uomo andò a sedersi nella poltrona da ufficio di Felicity, e Laurel lo seguì col battito del cuore che aumentava gradualmente velocità.
«Tu ti dai sempre la colpa per tutto. Anche quando non ne hai» soffiò la donna, con un tono decisamente più cauto.
Oliver non rispose, scuotendo impercettibilmente il capo. Si passò l’indice sulle nocche della mano sinistra, facendo credere a Laurel di averla ignorata, quando invece stava riflettendo attentamente sulle sue parole.
In fondo era vero, lui si sentiva sempre in colpa, anche quando non c’entrava niente. Ma forse stavolta era davvero colpa sua.
Aveva iniziato ad avere rimorsi la notte del naufragio, quando aveva capito di aver perso le tre persone più importanti della sua vita: Sara, che aveva creduto morta per diversi mesi; suo padre, che si era sparato una pallottola in testa davanti a lui; e Laurel, che, aveva pensato, non l’avrebbe mai e poi mai perdonato per averla tradita e per aver ucciso sua sorella.
E invece, sette anni dopo, eccola lì, Dinah Laurel Lance, che tentava di farlo sentire meglio con il suo affetto e le sue parole. Ma se li meritava davvero il suo perdono e le sue attenzioni? Probabilmente no. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a non esserle grato per esserci sempre per lui.
«Perdonami» disse ad un tratto, tornando a guardarla negli occhi.
Laurel incrociò le braccia, confusa. «Di che parli?»
«Di ieri sera» proseguì il vigilante. Difficilmente chiedeva perdono a qualcuno, ma quando lo faceva erano scuse sincere, e Laurel lo sapeva.
«Oh.»
Rimasero in silenzio a lungo, l’uno perso nello sguardo dell’altra. Non era passato molto tempo dall’ultima volta che avevano avuto un battibecco, ma era successo prima che Laurel venisse a sapere che Oliver fosse Arrow, e quella scoperta aveva cambiato completamente il suo modo di vedere le cose.
«Avrei dovuto darti molta più fiducia» riprese Oliver. «Mi ricordo di quella volta che hai difeso me e Tommy in quel nightclub, un paio di anni fa. Sei stata brava.»
«Ma di certo le lezioni di autodifesa non sarebbero bastate per confrontarmi in uno scontro vero.»
«Non importa. In ogni caso, sono stato duro con te e-»
La donna scosse la testa, l’ombra di un sorriso stampata sulle labbra. «No» ribatté, seria. «Stavi solo cercando di proteggermi. Ne ho parlato con Felicity, e lei mi ha fatto capire che ero dalla parte sbagliata. Non sentirti in colpa anche per questo. Sono io quella che si è comportata da idiota.»
«Non riesco a credere che tu l’abbia detto davvero.»
Laurel scoppiò in una sonora risata, che ben presto contagiò anche Oliver.
«Ti perdono» disse infine, stringendosi nelle spalle.
Perché alla fine, Laurel lo perdonava sempre.

*

Ormai era da più di mezz’ora che Roy tentava di allenarsi alla salmon ladder con scarsi risultati, mentre Felicity continuava a digitare freneticamente sulla tastiera con lo sguardo fisso sullo schermo.
Ad un tratto, i due sbuffarono all’unisono, abbandonando la loro postazione e dirigendosi verso il bancone, dove, non molto tempo prima, Diggle aveva lasciato del cibo comprato in un fast food che aveva preso per loro.
«Non riuscirò mai ad arrivare così in alto con quella sbarra come fanno Oliver e Sara. È meglio se lascio stare» esordì il ragazzo, addentando un pezzo di pollo ancora tiepido.
«Il fisico ce l’hai. La determinazione pure. Devi solo allenarti un po’ di più» fu la risposta della bionda, mentre inzuppava le patatine fritte nel ketchup. «Io invece non troverò mai un modo per smascherare l’Incantatore.»
«Ancora nessun indizio?»
La donna scosse la testa, affranta. «No. E non riesco a capire come faccia a non lasciare tracce.»
«Possibile che non ci siano testimoni? Sembra una situazione irreale.»
«Non la è, Roy» sospirò la bionda, passandosi una mano sul collo. «Purtroppo nessuno ha ancora aperto bocca. E non lo so se lo fanno per paura o perché non hanno davvero idea di cosa sia successo, ma non importa. In ogni caso, noi siamo ad un punto morto.»
Arsenal annuì lievemente, ma poi prese a scuotere la testa in fretta. «Non ci credo» soffiò, a voce bassa. «Mi rifiuto di credere che non sappiamo come aiutare la nostra città.»
«Ho cercato indizi tutto il giorno, Roy, ma tutto ciò che ho trovato sono stati gli articoli del Central City Picture News e quello uscito l’altro ieri sull’esplosione, ma nulla di più. Non ha lasciato impronte, e le telecamere del teatro sono state magicamente distrutte due ore prima che iniziasse il galà.»
Roy soppesò sulle parole dell’amica per un po’, ma non seppe in che modo controbattere. Era ovvio che, con le poche informazioni che avevano, sarebbe stato impossibile agire. Non potevano far altro se non attendere la notizia del prossimo importante evento che avrebbe coinvolto i miliardari di Starling City e, presumibilmente, il loro nemico.
«Quand’è che glielo dirai?» sospirò all’improvviso Felicity.
Il ragazzo alzò di colpo lo sguardo, deglutendo. «Non so di cosa tu stia parlando.»
La donna ruotò la testa di lato, abbozzando un sorriso. «Invece lo sai bene.»
Roy cercò in ogni modo di evitare il suo sguardo, ma dopo non molto il tecnico informatico poggiò i gomiti sul bancone, arrivando a pochi centimetri dal suo viso. «So tutto» sussurrò, sistemandosi gli occhiali sul viso. «Dovresti trovare un nascondiglio migliore per le tue cose, sai?»
Il vigilante strinse involontariamente le mani a pugno, sconvolto. «Felicity, che cos’hai fatto?»
La diretta interessata rizzò la schiena, portandosi le mani davanti al viso in segno di resa. «Niente. È solo che ieri notte, quando hai dimenticato qui il tuo borsone, me lo sono messa in spalla per spostarlo, ma non appena l’ho fatto la lettera di Thea è caduta a terra e l’ho letta senza volerlo.»
«Senza volerlo, uh?»
«Sono una persona curiosa» si giustificò, scorgendo l’ombra di un sorriso sul viso di Roy. «Non puoi tenerglielo nascosto a vita. Oliver è convinto che Thea stia solo viaggiando per il mondo. Dovresti dirglielo che la sua intenzione è quella di non tornare mai più. Ha il diritto di sapere. È suo fratello.»
«Non se ne parla» sbottò lui, scuotendo ancora il capo. «Se glielo dicessi, Oliver mi ucciderebbe solo perché non gliene ho parlato prima.»
«Beh, Oliver non è di certo il migliore quando si tratta di segreti» scherzò la bionda, passandosi una mano sul capo «per questo sono sicura che capirà. Devi solo trovare il modo e il momento giusto per dirglielo.»
Roy annuì appena, ma entrambi sapevano bene che quell’opzione sarebbe sicuramente stata fuori discussione per un bel po’.

*

Nyssa prese un respiro profondo, dopodiché, col cuore in gola, digitò il numero segnato nel cartellino del Mystery Café e, subito dopo, il tasto chiama.
Ci vollero quattro squilli prima che qualcuno si degnasse a rispondere.
«Pronto?»
La mora aprì un poco le labbra, colta di sorpresa. Era convinta che quel numero fosse del locale, non quello privato di Josh.
«Ciao, Josh» disse, non molto convinta. «Sono Nyssa.»
Ci vollero altri dieci secondi buoni prima che l’uomo dicesse altro, ma la donna udì chiaramente altre voci in sottofondo.
«Scusami, sono solo qui al bar e sto servendo dei clienti.»
«Oh» esclamò Nyssa, stringendosi nelle spalle. «Posso richiamarti, se vuoi…»
«No, no, assolutamente! Sono felice di risentirti. Credevo non avresti più chiamato.»
«Lo so» sospirò. «Mi dispiace. Sono stati giorni un po’ duri. Dopo quello che è successo sabato, poi…»
«Già. Orribile.»
La mora si zittì all’improvviso, non sapendo che altro dire. O meglio, sapeva benissimo cosa dire, ma non aveva idea di come affrontare Josh.
La sera dell’esplosione lo aveva trattato malissimo e dopo aver trovato Sara non si era più curata di lui. Non si era comportata per niente bene e temeva che il ragazzo ce l’avesse con lei.
Ma in fondo, si trattava di uno sconosciuto, giusto? Perché avrebbe dovuto importargliene?
Eppure le cose stavano così: aveva parlato tutta la sera con quello sconosciuto e ora le dispiaceva averlo liquidato senza una ragione.
«Hai chiamato per il posto qui al bar?»
La sua voce riportò Nyssa alla realtà. «Sì» soffiò, togliendosi un peso dal petto. «Sempre se è ancora disponibile.»
«Certo che lo è» rispose l’altro, e anche se non poteva vederlo l’Erede avrebbe scommesso che stesse sorridendo. «Puoi iniziare anche subito, se vuoi.»
«Oggi non posso» esclamò di getto. Stava mentendo, e il modo frenetico in cui aveva risposto le fece temere che l’uomo se ne fosse accorto.
«Okay» proseguì Josh, cauto. «Domani alle undici?»
«Va bene» aggiunse lei, ansiosa. «A domani.»
La figlia di Ra’s si affrettò a chiudere la telefonata senza attendere risposta dall’altro.
Si passò una mano sul viso, stanca, e non riuscì a non chiedersi perché si sentisse così dispiaciuta nei confronti di quel ragazzo.
«Quando cominci?»
Nyssa sussultò, voltandosi di scatto verso Sara «Eh?»
«Non stavi parlando con quel tipo, Josh? Ti sentivo dal bagno» rise, raccogliendo i capelli in uno chignon spettinato.
«Ma sì, certo. Inizio domani» sospirò la mora, abbandonando il cellulare sul tavolo. «Spero solo di esserne all’altezza.»
«Andrà bene, vedrai» le sorrise Sara, raggiante. «Devi solo crederci.»
Nyssa delineò un sorriso. «Come mai tutto questo ottimismo, stamattina?»
L’altra fece spallucce, versandosi del caffè nella tazza. «Non lo so. Mi sono svegliata bene, credo.»
La mora incrociò le braccia, mentre il suo sguardo cadde all’improvviso sul ventre non poi così tanto più piatto dell’amata. «Mi fa piacere.»

*

Il Mystery Café si trovava ad un paio di isolati dalla Queen Consolidated, e non era molto distante dalla stazione di polizia dove lavorava Quentin Lance.
Nyssa si portò una mano all’altezza del cuore. Cosa sarebbe successo se, per caso, il padre di Sara fosse andato proprio in quel bar a bere un caffè con i suoi colleghi? Come gli avrebbe spiegato la sua presenza dietro al bancone?
Se già l’idea di lavorare nel bar di Josh l’aveva fatta agitare, figurarsi il pensiero che avrebbe potuto incontrare il Capitano Lance da un momento all’altro.
La mora fu riportata alla realtà quando si rese conto di essersi paralizzata di fronte all’entrata del bar e una donna le sfiorò la spalla mentre usciva dal locale.
Coraggio, Nyssa. Puoi farcela. Hai affrontato cose peggiori di questa.
E quel pensiero non era riferito all’idea di incontrare Quentin, bensì a quella di affrontare Josh.
Dopo qualche istante, non seppe bene neanche lei come, le sue gambe iniziarono a muoversi da sole e in men che non si dica si ritrovò all’interno del locale.
Era più piccolo di come se l’era immaginato, ma grazioso: il salone era pieno zeppo di tavolini e sedie bianche con motivi floreali, mentre sulla destra si estendeva una lunga vetrinetta. Oltre alle tradizionali brioches e focacce di vario genere, c’erano anche pasticcini, torte e dolci di ogni tipo.
«È un bar pasticceria. Non te l’avevo detto?»
Nyssa alzò di colpo lo sguardo, incrociando quello di Josh. «Ciao» biascicò, intuendo che la frase del ragazzo fosse riferita al modo in cui stava osservando i dolci. «No, non me ne avevi parlato.»
«È stata un’idea di mio cugino, in realtà. Abbiamo aperto il bar insieme e lui, avendo studiato in una scuola di pasticceria, ha insistito affinché potesse sfruttare le sue doti e la sua passione. Vieni di là con me in cucina, te lo presento.»
La figlia del Demonio deglutì sommessamente. Era arrivata da appena venti secondi e Josh già la trattava come se niente fosse, come se si conoscessero da tutta la vita e fossero amici d’infanzia. Ma le cose non stavano così, e Nyssa non capiva come mai, dopo una sola serata passata insieme a lui, ci fosse già così tanta confidenza fra di loro.
Lo seguì titubante in cucina, dove ad attenderli vi era un uomo alto e robusto che stava riponendo una ventina di tazzine da caffè nella lavastoviglie.
«Roger?»
«E smettila di chiamarmi così» sbottò di colpo l’uomo, voltandosi verso Josh, ma quando si accorse della presenza di Nyssa si bloccò. «Soprattutto davanti alle belle donne.»
La mora alzò un sopracciglio, senza scomporsi. Josh fece finta di non aver sentito le ultime parole del cugino, e proseguì: «Lei è Nyssa, la ragazza di cui ti ho parlato l’altro giorno. È qui per il posto da barista.»
«Oh, piacere di conoscerti» sorrise l’omone, allungando la mano destra in direzione di Nyssa. «Sarà un piacere lavorare con te. Io sono Adam.»
L’Erede ricambiò la stretta con non molto entusiasmo. «Se ti chiami Adam, perché prima Josh ti ha…»
«Chiamato Roger? Perché è il mio secondo nome e lo detesto, e il nostro caro Joshua mi chiama così per darmi fastidio.»
Nyssa si voltò di scatto verso il ragazzo, alzando nuovamente un sopracciglio. «Joshua?»
«È il mio nome, sì» ammise l’altro, grattandosi distrattamente la testa. «Ma, ti prego, chiamami Josh. Tutti mi chiamano Josh. È mia madre che è fissata con Joshua perché era il nome di mio nonno, ma io a dirla tutta lo detesto.»
Nyssa annuì appena, delineando un sorriso. Chissà com’erano stati, i suoi nonni. E chissà se i suoi genitori avevano deciso di chiamarla Nyssa proprio perché era stato il nome della madre di sua madre ‒ dubitava che Ra’s avrebbe potuto onorare il nome della propria madre con la nascita di Nyssa, considerando che prima di lei aveva avuto chissà quante altre figlie. Lo avrebbe trovato un gesto nobile quello di ricordare i propri genitori dando ai figli il loro nome, eppure non riuscì a non chiedersi come mai Josh lo disprezzasse così tanto. Che avesse avuto dei diverbi con suo nonno? O semplicemente era un essere umano qualunque a cui non piaceva un nome qualunque? Ma, se così fosse stato, lei non lo avrebbe mai capito, perché lei non era un’umana qualunque. Lei era la figlia di Ra’s al Ghul. A malapena aveva conosciuto sua madre, figurarsi i propri nonni. Ma in quel momento non riuscì a desiderare altro. Avrebbe tanto voluto conoscere le sue radici, ma sapeva che non sarebbe mai successo.
Pochi istanti dopo, la voce di Josh la riportò alla realtà.
«…ovviamente avrai due ore libere per il pranzo da mezzogiorno alle due di pomeriggio. Il bar resta chiuso la domenica, mentre gli altri giorni apriamo alle sei in punto per le prime colazioni.»
 «Di solito io passo tutte le mattine in cucina a preparare dolci, mentre Josh resta al bancone. Ci siamo sempre divisi i pomeriggi, e la chiusura avviene intorno alle undici, ma è capitato che restassimo aperti fino alle due di notte a causa dell’affollamento di clienti, soprattutto quando c’è qualche importante partita di football e lasciamo accesa la tv per permettere ai clienti di seguirla.»
«In ogni caso, succede raramente. E non ti preoccupare, nessuno ti obbligherà a lavorare più del dovuto. I turni della settimana successiva li preparo io stesso nel weekend e cerco sempre di renderli equilibrati il più possibile per far sì che ognuno di noi abbia un altro giorno libero oltre alla domenica. Capito tutto?»
«Uhm, sì» mugugnò Nyssa, non del tutto convinta. «Però… wow. Avete sempre fatto tutto da soli?»
«All’inizio sì» sospirò Josh, scambiandosi un’occhiata con il cugino. «Poi abbiamo assunto due ragazze, ma una di loro si è trasferita qualche mese fa e si è licenziata, mentre l’altra è in maternità da poco. Comunque puoi stare tranquilla, Madison è una donna in gamba. Di sicuro quando tornerà l’anno prossimo andrete d’accordo!»
La figlia di Ra’s deglutì sommessamente, passandosi una mano sul braccio. «Sei sicuro di volermi assumere ancora prima di vedermi lavorare?»
«Hai detto di aver già lavorato in un pub di recente, e poi mi hai mandato il tuo curriculum via e-mail ed era perfetto. Direi che mi basta.»
Nyssa si sforzò di sorridere, ma aveva temuto fino all’ultimo secondo che qualcosa potesse andare storto. Felicity aveva creato il suo falso curriculum settimane prima, indicando che la mora era nata a Chicago, dove si era diplomata, e che in seguito si era trasferita a Starling City per lavorare come commessa in un negozio di vestiti che ormai aveva chiuso da anni e di cui nessuno ricordava più il nome: aveva inoltre aggiunto che Nyssa aveva lavorato al Verdant l’anno precedente, incrementando le sue probabilità di essere assunta come barista. Ma solo ora le fu chiaro che Josh l’avrebbe assunta in ogni caso.
«Direi che puoi cominciare subito» s’intromise Adam, porgendole un grembiule beige a righe rosse e il logo del locale disegnato sopra alle tasche. «Di là ci saranno sicuramente dei clienti che aspettano di essere serviti dalla nostra neoassunta»



«Non credo che la signora Grey ci abbia detto tutta la verità, capitano.»
«Già, non lo penso nemmeno io. Ma è spaventata, ed è comprensibile dopo quello che ha passato» sospirò il Capitano Lance, lasciando il fascicolo del caso sulla scrivania dell’agente. «Hudson, voglio i tabulati del suo cellulare delle ultime sei settimane entro stasera.»
«Sissignore.»
«Reyes» proseguì, rivolto all’altro poliziotto alla sua sinistra «assicurati che anche il figlio della Grey venga qui a testimoniare domani mattina. E…»
Quentin si voltò ancora, ma questa volta il suo campo visivo fu occupato dal volto di un ragazzo che conosceva bene. «Harper. È strano vederti qui come collaboratore anziché in manette, sai?»
«Ormai credevo ci avesse fatto l’abitudine» ribatté l’altro.
Sul volto dell’uomo andò a formarsi un lieve sorriso. Subito dopo, fece cenno a Roy di seguirlo nel suo ufficio.
«Che succede?» domandò una volta che ebbe chiuso la porta alle sue spalle.
«Volevamo solo sapere come stanno procedendo le indagini» rispose il giustiziere, infilando le mani nelle tasche della sua felpa rossa. «Ci sono delle novità?»
«Qualcosa, sì» sospirò il capitano, andandosi a sedere dietro alla propria scrivania. «Poco prima dell’esplosione, una donna, Bridget Hill, si è recata al bagno delle signore, e ha raccontato di aver sentito una ragazza piangere. L’ha trovata imbavagliata e incatenata al lavandino, con una bomba legata intorno alla vita. Mancavano solo sette secondi prima che esplodesse. La signora Hill è scappata, ma non è riuscita ad avvisare in tempo il resto dei presenti all’evento.»
Un brivido attraversò la schiena di Roy, il cui cuore iniziò a battere più veloce del solito.
«Ha riportato delle ferite molto gravi, tra le quali la perdita di un arto, ma è viva, per fortuna. Dio solo sa come abbia fatto a salvarsi. È un miracolo. Però» sospirò Lance «si sente in colpa per non essere riuscita a salvare gli altri. E non posso dire di non capire ciò che prova.»
Arsenal scosse la testa, assumendo un’espressione più che seria. «Non è stata colpa di nessuno, capitano. Solamente di quel pazzo che si diverte a uccidere delle persone innocenti» affermò, stringendo involontariamente le mani a pugno.
Quentin deglutì, passandosi una mano sul viso. «Purtroppo, il corpo della ragazza era…» si bloccò, chiudendo gli occhi per un istante. «Non sappiamo se sia stata violentata o altro. L’unica cosa che siamo riusciti a ipotizzare è che l’Incantatore l’abbia stordita o sedata, e che le abbia legato la bomba alla vita contro la sua volontà. Quale persona sana di mente accetterebbe di farsi saltare in aria in quel modo?»
Roy sospirò, non sapendo cosa dire. Erano state rare le volte in cui aveva visto il Capitano Lance turbato, ma in quel momento riuscì a scorgere nel suo sguardo lo stesso sentimento di impotenza che aveva letto negli occhi di Felicity la sera prima.
«Comunque, nulla di più» disse ancora Lance, unendo le mani davanti a sé. «Pensiamo che la ragazza fosse Taylor Ward, una studentessa del college. Ci sono ancora molti corpi non identificati, ma Taylor è l’unica ragazza che sembra essere più compatibile con quella descritta dalla signora Hill.»
«Grazie mille, capitano» concluse il ragazzo, dirigendosi verso la porta. Ma prima che potesse toccare la maniglia con le dita, la voce di Quentin lo bloccò ancora.
«Harper» esclamò, lo sguardo fisso su di lui. «Uno dei miei uomini mi ha riferito che Sara era all’evento di sabato.»
Roy deglutì sommessamente, per poi voltarsi appena verso di lui. «Come, scusi?»
«Hai capito benissimo.»
Arsenal si paralizzò sul posto, schiarendosi un poco la voce. «Non vediamo Sara dalla sera dell’assedio, signore. Insomma, dubito che la Lega l’abbia mandata sotto copertura ad una festa simile» ridacchiò il ragazzo, per poi tornare immediatamente serio. «Probabilmente il suo agente si è confuso.»
Quentin annuì leggermente, delineando un altro sorriso. «Certo. Probabilmente è andata così.»
Roy gli dedicò un ultimo sguardo, per poi uscire in fretta dall’ufficio. Il capitano osservò a lungo il punto in cui aveva visto il ragazzo rizzare la schiena al sentir pronunciare il nome di Sara, e sospirò ancora. Estrasse da uno dei cassetti della sua scrivania una confezione già aperta delle medicine che doveva prendere quotidianamente, e mandò giù una pillola senza nemmeno bere un sorso d’acqua. Spostò poi l’attenzione sulla fotografia che ritraeva Laurel e Sara e che era stata scattata tanti anni prima, per poi chiedersi come mai la vita delle sue figlie fosse diventata così complicata dopo il naufragio del Queen’s Gambit.



Non appena sentì ruotare la chiave nella serratura, Sara provò una sensazione mista a curiosità ed eccitazione. E quando Nyssa entrò nell’appartamento, la bionda la accolse a braccia aperte, stringendola in un forte abbraccio.
«Com’è andato il primo giorno?» chiese, gli occhi pieni di orgoglio.
«Non male, direi» sorrise l’altra, poggiando il cappotto nell’appendiabiti. «Ho rotto solo due tazzine, quindi direi che sono migliorata!»
Canary scosse appena il capo, lasciandosi andare ad una risata cristallina. «Sei sempre la solita.»
La figlia del Demonio ricambiò il sorriso, per poi dirigersi verso la camera da letto. Sara la seguì, e nel mentre Nyssa continuò a parlare.
«Devo ammettere che è stato stancante, ma mi sono divertita» disse, mentre l’amata si sedeva sul bordo del letto. «Il cugino di Josh è un tipo un po’ particolare, ma è simpatico. Ed è un ottimo chef. Prepara dei dolci fantastici.» Poi, ricordandosi dei pasticcini che Adam le aveva dato, aprì la borsa e recuperò un sacchetto di carta. «Questi li ha preparati lui stamattina. Ci sono alla crema, al cioccolato, alla panna e alla fragola.»
«Mio Dio, no! Nascondili dalla mia vista» strillò Sara, chiudendo il sacchetto all’istante. «Se inizio a mangiarne uno poi non la smetto più.»
«Infatti li ho presi per te» rise la mora, lasciandole un bacio a fior di labbra. «Così ingrassi, diventi paranoica e vieni da me a lamentarti» sussurrò a pochi centimetri dal suo orecchio.
Sara scosse appena il capo, inspirando poi il profumo inebriante del cioccolato, e non riuscì a resistere alla tentazione di assaggiare un pasticcino. Nyssa la osservò divertita; subito dopo, mentre tentava di sfilarsi i jeans, un foglio di carta le scivolò dalla tasca posteriore e solo quando lo vide a terra si ricordò di cosa si trattasse.
«A proposito» disse, mostrando a Sara il volantino e tirandosi nuovamente su i pantaloni. «Stasera si terrà un’asta di quadri alla Starling Art Gallery, tra la quindicesima e la Milton. Oggi è passata una ragazza al bar e lo ha riempito di questi. Dovremmo andare a dare un’occhiata, non credi? Potrebbe partecipare anche l’Incantatore.»
Sara si strinse nelle spalle, a disagio. «Non è detto che ci sia anche lui.»
«Già, appunto. Non lo sappiamo. Perciò direi che è meglio andare a controllare prima che si verifichi un’altra catastrofe, non credi?»
Sara cercò di rispondere, ma la suoneria del suo cellulare la bloccò.
«Pronto?» esordì Canary, ancora con la bocca piena.
L’Erede non riuscì a sentire una parola, ma lo sguardo di Sara le bastò per capire con chi stava parlando. La bionda accennò qualcosa anche riguardo all’evento che si sarebbe tenuto alla galleria d’arte, ma dall’espressione che si formò sul suo volto non parve che la persona dall’altro capo del telefono le avesse dato una risposta positiva.
«Okay, certo. Arriviamo subito.» Detto questo, si mise il cellulare in tasca e abbandonò il sacchetto sul letto.
«Oliver?»
La minore delle sorelle Lance annuì, lo sguardo divenuto improvvisamente serio. «Felicity ha scoperto delle cose sull’Incantatore e ce ne vuole parlare prima di fare la prossima mossa» spiegò, infilandosi una maglietta indaco presa dal cassetto.
«Okay. Quindi andiamo direttamente alla Starling Art Gallery?»
Sara scosse il capo, sistemandosi in fretta i capelli fuori dal colletto della t-shirt. «No. Oliver ha chiesto di riunirci prima al covo. E in ogni caso, dopo quello che è successo l’ultima volta, non vuole che noi due partecipiamo.»
Nyssa corrugò appena la fronte, avvicinandosi a Sara di qualche passo. «Ho capito bene?» domandò in modo ironico. «Dobbiamo perdere tempo prezioso per salvare delle vite andando al Verdant?»
Canary le rispose con un’alzata di spalle. «Non so cosa dirti.»
«Io invece lo so bene» ribatté l’altra, incrociando le braccia. «Arrow non ci comanda. Non vuole che due membri della Lega degli Assassini, tra cui la figlia di Ra’s al Ghul, lo aiutino in una missione per paura che si facciano male? Chi se ne frega. È un’idiozia. Io non lavoro per lui.»
«Qui non si tratta della Lega, ma di me e di te. Come persone. E sinceramente, dopo lo spavento che mi sono presa l’ultima volta, sono d’accordo con lui.»
Nyssa trattenne il respiro per qualche secondo, dopodiché, sebbene fosse del tutto irritata, rilassò i muscoli del viso. «Sai che ti dico? Va’ pure da Oliver.» Aprì in fretta l’armadio e ne estrasse un abito nero lungo. Lo infilò in fretta nella borsa e si voltò ancora verso Sara. «Non ho più voglia di stare a sentire Queen. Prima ha vietato a Laurel di venire con noi, e ora pretende che ce ne restiamo con le mani in mano mentre un killer se ne va in giro per il paese a uccidere delle donne innocenti? È inaccettabile.»
«Nyssa, ti prego, non cominciare…»
«No, infatti» sibilò, riempiendosi una mano di forcine. «La finisco qui.» Si diresse a passo spedito verso l’atrio e Sara, al sentire l’eco dei suoi tacchi, la seguì in fretta.
«Ehi, dove stai andando?»
«Non ne ho idea» rispose l’altra, aprendo la porta davanti a sé. «Da qualche parte. Non preoccuparti per me, non ce n’è bisogno. So badare a me stessa. Tornatene pure dal padre di tuo figlio.»
Fu solo quando Nyssa ebbe sbattuto la porta alle proprie spalle che Sara capì che loro due erano proprio una coppia fuori dal normale.



Non era mai stata in una galleria d’arte prima d’ora. Non che i quadri fossero sempre stati il centro dei suoi pensieri, ma ricordava che sua madre, un tempo, le aveva raccontato di quanto amasse l’arte. Di tanto in tanto l’aveva trovata chiusa in camera da letto intenta a dipingere paesaggi, volti e altri soggetti di cui non aveva mai compreso il significato. Tuttavia, non appena si ritrovò di fronte la marea di quadri presenti alla Starling Art Gallery, Nyssa si sentì terribilmente attratta dalle tele colorate e dalle cornici realizzate a mano. Si perse nel contemplare un quadro che ritraeva il momento esatto in cui le onde del mare si infrangono sugli scogli, e per lei, che nella sua vita l’oceano lo aveva visto raramente, vedere quell’immagine le fece provare un'emozione indecifrabile.
«È bello, non è vero?»
La figlia di Ra’s si voltò alla propria destra, incontrando lo sguardo di una ragazza giovane e bellissima. Aveva grandi occhi verdi, i capelli corti e castani e indossava un abito rosso e attillato che le stava d’incanto. Teneva fra le mani due calici pieni di vino, e la prima cosa che Nyssa notò fu lo strano colore che aveva la bevanda.
«Già. È meraviglioso» esclamò con un sorriso, osservando a lungo gli occhi della ragazza sconosciuta. Aveva un profumo ipnotizzante. «Mi chiamo Nyssa, comunque.»
«May» rispose l’altra, mostrando a sua volta un sorriso raggiante. «Allora, Nyssa. Che cosa ci fa una giovane donna come te in un posto simile?»
«In realtà, sono qui grazie a mio padre» mentì, unendo le mani in grembo. «Ama molto l’arte, quasi quanto me. Così, quando ha scoperto che ci sarebbe stata un’asta di quadri, ha deciso di farmi un regalo di compleanno anticipato in denaro. E non ho nessuna intenzione di uscire di qui a mani vuote.»
Le due si scambiarono un’occhiata eloquente, e May porse uno dei due bicchieri alla mora. «Vuoi?»
Nyssa osservò il vino rosso un paio di secondi, per poi prendere la coppa tra le mani e sorridere alla ragazza.



«Ci sono novità?» esordì Sara, non appena ebbe messo piede all’interno del covo.
«Che ti prende?» domandò Laurel, notando il rossore sul viso della sorella e il fiatone che aveva. «E dov’è Nyssa?»
«Va tutto bene, tranquilla» rispose, togliendosi in fretta il giubbotto di pelle, accaldata. Poi, soppesò sulla seconda domanda per un istante. «Non lo so.» Fece spallucce. «Da qualche parte.»
L’avvocato inarcò un sopracciglio, per poi scambiarsi un’occhiata con Felicity, ma le due non dissero una parola.
«Felicity ha trovato qualcosa, ma ha voluto che ci riunissimo tutti qui per mostrarcelo» spiegò Oliver, incrociando le braccia.
Al sentire il proprio nome, il tecnico informatico sobbalzò. Poi, dopo essersi sistemata gli occhiali sul naso, si preparò a mostrare ai compagni il materiale che aveva accumulato negli ultimi minuti.
«Ho scoperto qualcosa di interessante» esordì, aprendo una cartella piena di documenti e immagini. Tuttavia, non fece in tempo a cliccare sul primo file che il rumore del suo cellulare la distrasse.
«È per te» soffiò, lanciando il telefonino a Oliver.
Quest’ultimo si schiarì la voce, dopodiché, rispose. «Capitano Lance?»
«Scusate se tralascio i convenevoli, ma è davvero urgente. Riguarda il nostro obiettivo comune.»
«Non si preoccupi. La metto in vivavoce.»
Non appena ebbe sentito il bip che segnalava l’accensione dell’altoparlante, Quentin proseguì. «Poco più di un’ora fa abbiamo ricevuto una telefonata dallo Starling General da una donna, Danielle Ross» scandì, mentre Felicity inseriva il nome nel motore di ricerca. Davanti a loro apparve l’immagine di una donna sulla cinquantina, dai capelli corti, rossi e un sorriso splendente. «L’altra sera si trovava al teatro per fare una donazione insieme ad alcune amiche, e ad un certo punto ha visto Carlos Ross, l’ex marito, dirigersi verso le scale che conducono nelle cantine del teatro pochi minuti prima dell’esplosione. Ha cercato di seguirlo per salutarlo, ma le guardie le hanno bloccato il passaggio. Ha avuto giusto il tempo per tornare nella sala principale in attesa che il ricevimento iniziasse, dopodiché si è scatenato il caos.» Il capitano sospirò, prendendo un respiro profondo. «Il punto è che abbiamo ricontrollato le schede identificative delle vittime, ma non risulta nessun uomo deceduto a questo nome. A dirla tutta, Carlos Ross è stato dichiarato scomparso quella sera stessa. Ho paura che ci sia sfuggito qualcosa.»
«È quello che sto cercando di dire da cinque minuti!» sbottò Felicity, aprendo in fretta il file contenente le generalità dell’uomo appena citato. «La vera vittima non era la ragazza che si è fatta esplodere nel bagno delle signore, ma l’ex marito di Danielle, Carlos.» Sullo schermo apparve la fotografia dell’uomo legato ad una sedia; gli mancavano gli occhi e gli avevano sparato nel cranio. «Capitano, le sto inviando tutto quello che ho trovato, controlli il suo indirizzo di posta elettronica.»
«Come fai a dire che l’Incantatore aveva Ross nel mirino?»
«…Perché c’è dell’altro.»



Dopo essere riuscita a chiudere la comunicazione con Lance, Felicity prese un respiro profondo e si voltò verso il resto della squadra. Iniziò a giocherellare coi suoi anelli, ma lo stress non diminuì per niente.
«Ho voluto concludere la telefonata perché ci sei tu» proseguì la bionda, indicando Sara con lo sguardo «ma ho spiegato la situazione al capitano nell’e-mail. Voi, però, dovete sentirlo con le vostre orecchie.»
Diggle incrociò le braccia, in attesa, mentre Laurel prese a massaggiarsi nervosamente il braccio destro.
«Immagino vi starete chiedendo dove ho trovato quella foto» disse, grattandosi appena la nuca. «Dopo un’innumerevole quantità di tentativi, sono riuscita a scoprire chi ha manomesso le telecamere del teatro grazie ad un algoritmo. Questa persona ha operato dalla camera di un albergo in centro città che è stata affittata da qualcuno di nome Kendall Jones. Vi dice qualcosa?»
«Non era una delle ragazze che è stata uccisa a Central City?»
Il tecnico informatico annuì a John. «Esattamente. La cosa mi è sembrata alquanto strana, perciò ho superato il firewall e sono entrata nel suo computer, trovando questi.»
Felicity mostrò ai compagni un’altra decina di immagini ritraenti uomini morti e torturati. Per qualche istante, nella stanza calò il silenzio. I presenti osservarono a lungo le foto agghiaccianti davanti a loro, confusi e addolorati.
«Questi omicidi sono collegati a quelli delle donne presenti nel fascicolo della polizia. Sono avvenuti nelle stesse date. In realtà l’Incantatore cercava di ammaliare gli uomini, non le donne. Lo so perché a queste immagini sono allegati dei file in cui sono descritte chiaramente le sue azioni: trova una donna di qualsiasi orientamento sessuale, cerca di corromperla, di fare in modo che si fidi di lei, dopodiché la uccide e fa in modo che il corpo venga trovato come diversivo per farci credere che ad agire sia un uomo. Nel mentre, è da qualche parte chissà dove ad uccidere qualcun altro e fa scomparire le sue tracce.» Sospirò impercettibilmente, abbassando lo sguardo. «Tuttavia, ho notato che queste fotografie sono state scattate tutte nello stesso luogo, probabilmente in uno scantinato, e come potete vedere gli uomini sono stati tutti legati a una sedia. Con un po’ di attenzione, potrete notare che in ogni immagine, ai piedi delle vittime o in un angolo della stanza, c’è sempre qualche boccetta di profumo vuota. Le utilizza per stordire le sue prede prima di cominciare a torturarle. Il nome nelle confezioni è illeggibile, così ho pensato: “E se la chiave fosse proprio il soprannome dell’Incantatore?” Noi sappiamo che è stata la polizia di Central City a darglielo, ma se così non fosse? Se casualmente il killer avesse fatto in modo che tutti lo conoscessero con questo nome di proposito? Così, ho scoperto che questo Charmer in realtà non è altro che un vecchio profumo per uomini che è stato tolto dal commercio un paio d’anni fa. Allora ho fatto una piccola ricerca e sono venuta a sapere che una catena di profumerie, la “Lavande et Tournesol”, vende ancora illegalmente i restanti campioni. E indovinate un po’ negli Stati Uniti dove si trovano le uniche due profumerie ancora aperte e gemellate?»
«A Central City e a Starling City?» azzardò John.
«Bingo. Allora, visto che ormai abbiamo capito che le buone maniere non funzionano mai, mi sono permessa di sbirciare nei registri degli acquisti per scovare chi nell’ultimo periodo avesse comprato dei campioni di profumo a Starling City. Purtroppo ci sono ancora parecchie persone che richiedono lo Charmer, ma solo due ne hanno prese quindici confezioni alla volta. I loro nomi sono Susanna Grand e Taylor Ward.»
«La poliziotta che è stata uccisa un paio di settimane fa e la ragazza che si presume sia stata fatta saltare in aria al galà» disse Oliver.
«Aspetta un secondo» lo interruppe Laurel, bloccandosi per un istante. «Se si tratta della stessa persona… cioè, se chi ha ucciso quegli uomini e l’Incantatore sono un’unica mente, e quest’ultima utilizza sempre dei nomi femminili senza destare sospetti, allora vuol dire che…»
«Che non siamo sicuri del sesso dell’Incantatore» concluse Roy per lei. «Quindi…»
Sara si pietrificò, mentre quelle parole le arrivavano come una pugnalata in pieno petto. «Quindi è una donna» sussurrò, col cuore che batteva a mille.
Il tecnico informatico annuì appena. «Esatto. Mancavano dei pezzi, perciò ho fatto un’altra ricerca all’interno del suo “taccuino digitale”, trovando diverse fotografie di un uomo e di una donna insieme. Tramite il riconoscimento facciale, ho trovato degli articoli online, scoprendo che l’uomo in questione si chiamava Donald Richards, e che è morto due anni fa in un incidente aereo. La donna invece, nientemeno che la nostra Incantatrice, è Caroline Richards, un’ex agente dell’FBI. Così mi sono messa in contatto con Lyla – scusa John, ma le ho chiesto io di non dirtelo –, che mi ha fatto avere al più presto dei file segreti presenti nel database dell’ARGUS riguardanti la morte di Donald, scoprendo che l’attacco terroristico che ha fatto dirottare l’aereo era rivolto a lui, e ho ragione di credere che anche Caroline lo abbia scoperto. Suo marito aveva lavorato per un anni con la mafia, ma quando ha conosciuto Caroline ha deciso di mollare tutto e di vivere una vita tranquilla con la sua futura moglie. Nonostante questo, ha rubato diverso denaro alla banda di cui faceva parte, fino a lasciarci la pelle.»
Oliver le riservò un’occhiata confusa, e la bionda fece spallucce. «C’erano articoli anche su questo» spiegò.
«Quindi Caroline si sta vendicando con le persone che hanno ucciso suo marito?» domandò Laurel.
«In pratica, sì. Donald Richards era un miliardario che faceva parte di un vasto gruppo di persone losche, e credo che Caroline abbia deciso di liberarsi di ognuno di loro. Prima di colpire qualcuno, però, studia le sue abitudini, i modi di vivere, i rapporti personali e quant’altro, e questo pc è pieno di prove che possono testimoniarlo.»
«In pratica ha creato una specie di album dei ricordi di tutte le sue vittime con tanto di fotografie? È agghiacciante. Quella donna è pazza» sussurrò Arsenal, le mani strette nelle tasche.
«In effetti, lo è» confermò Felicity. «La perdita l’ha fatta andare fuori di testa.»
Dig si passò una mano sul viso. «In ogni caso, dobbiamo fermarla. È passata dall’uccidere donne innocenti ad omicidi di massa.»
«Felicity.» Arrow le mise una mano sulla spalla, lo sguardo serio e fisso su di lei. «È stato troppo facile.»
Lei corrugò la fronte, confusa. «Cosa? Che stai dicendo?»
«Sto dicendo che è stato fin troppo facile» soffiò, cauto. «Hai detto che l’Incantato- Incantatrice studia le abitudini delle sue vittime future, ma anche delle persone che gli sono vicine. Fino ad oggi non ha lasciato tracce, il che dimostra che è un hacker abile quanto te. E non lo dico perché dubito delle tue capacità, ma è praticamente assurdo che dopo tutti gli sforzi che hai fatto per trovare anche solo un misero indizio tu ci sia riuscita in meno di un pomeriggio e che addirittura abbia rintracciato il suo computer con tutte le prove che potrebbero incastrarla.»
Bastò quella frase per far sì che qualcosa, dentro di lei, scattasse. «Me l’ha servito su un piatto d’argento» constatò, aprendo un poco la bocca per lo stupore.
«Ma perché?» chiese istintivamente Roy.
«Vuole qualcosa da noi» affermò la maggiore delle sorelle Lance. «Qualcuno.»
I presenti si scambiarono delle rapide occhiate, e fu istintivo pensare all’unica persona che mancava all’appello.
«La mostra d’arte» disse ad un tratto Sara, con voce tremante. «Stasera c’è una mostra d’arte alla Starling Art Gallery.»
A quelle parole, Felicity si affrettò a ricollegarsi al computer dell’Incantatrice, cercando qualsiasi file con il nome di Nyssa. Dopo pochi secondi, trovò una cartella piena di fotografie dell’Erede del Demonio, e nel vederle Felicity provò una stretta al cuore: la prima foto ritraeva Nyssa all’esterno del teatro comunale la sera dell’esplosione; poi un’altra, dove stava salendo le scale dell’appartamento, e un’altra ancora dove stava servendo una fetta di torta a dei clienti nel nuovo bar in cui era stata assunta. Il tecnico informatico si voltò verso Sara, che aveva la bocca spalancata dallo shock, e si tolse gli occhiali, provando un profondo dispiacere. Non si capacitava del motivo per cui non aveva notato i file riguardanti Nyssa prima, e ora si sentiva terribilmente in colpa.
«C'è qualcosa di strano» osservò Roy, indicando un punto sullo schermo con l’indice destro. «Guardate bene le date delle cartelle.»
Il gruppetto si piegò in avanti per vedere meglio. La fotografia di Nyssa al teatro era stata scattata giorni prima, eppure, come per tutti gli altri file riguardanti la figlia di Ra’s, pareva fosse stata salvata sul computer solamente da un paio di minuti. Ecco perché non l’ho notata prima, pensò Felicity, dandosi mentalmente della stupida. Prima di esporre la sua teoria al resto del team, però, diede una rapida occhiata anche alle cartelle delle vittime precedenti, scoprendo di avere ragione.
«Ho capito il suo gioco» esclamò, gli occhi che le brillavano a causa dello stress. «Ho trovato queste cartelle solo oggi perché prima erano protette da password. E quella di Nyssa l'ho notata ora perché i file sono stati inseriti in ordine cronologico, ossia dal prima omicidio all’ultimo, ecco perché l’ultima cartella creata è stata anche l’ultima ad essere visibile. I file sono stati resi trovabili nel corso della giornata, e non nello stesso momento. Temo che l’Incantatrice abbia fatto il possibile affinché noi lo capissimo perché...»
Un suono simile a un bip attirò l’attenzione dei presenti. Felicity notò un puntino rosso sulla cartella di Nyssa, che segnava un aggiornamento recente: la aprì, trovandovi l’immagine di un manifesto sull’asta di quadri di quella sera più diverse altre foto che ritraevano Nyssa in tuta da combattimento insieme ad Arrow.
«...perché stasera attaccherà Nyssa. Perché vuole qualcosa dal Giustiziere.»
Oliver si voltò, dedicando un lungo sguardo a Sara, e quest’ultima, col cuore che batteva a mille, strinse involontariamente le mani a pugno.
«Dobbiamo trovare Nyssa. Subito.»












Devo ammettere che ad un certo punto scrivere questo capitolo è diventato molto palloso, più che altro perché nella mia testa sapevo già praticamente tutto quello che avrei dovuto scrivere ma il tempo a mia disposizione per farlo durante Giugno è stato pochissimo (ho deciso di dare il via alla mia estate facendomi delle maratone di serie tv e uscendo un po’ lol), quindi nonostante volessi con tutta me stessa parlare anche di altri personaggi, non vedevo l’ora di scrivere le scene Nyssara perché è da tipo una vita che non ci do dentro con le fanfiction e mi manca scrivere assiduamente su di loro. Sì, lo so, crederete che sia pazza, ma sono solo una fangirl che attende che la propria otp diventi canon, quindi è tutto nella norma.
Ammetto di sentirmi un po’ cattiva perché anche stavolta vi lascio con un finale aperto e con molta suspense, ma se Nyssa se le va a cercare non è mica colpa mia :P

Piccola curiosità: secondo voi chi sarà la prima persona a scoprire della gravidanza di Sara ‒ a parte la dottoressa della Lega, Nyssa e Sin che già lo sanno‒? Sono curiosa di sentire le vostre idee :3

EDIT: Mi sono accorta di non aver accidentalmente copiato un pezzo del testo, perciò ho provveduto a farlo ora. Per precisare, ho aggiunto la parte mancante verso la fine del capitolo, dopo che Sara dice: “«Stasera c’è una mostra d'arte alla Starling Art Gallery.»”
In ogni caso, dato che ho una mente un po’ contorta, se c'è qualcosa che non vi è chiaro riguardo alla storia dell’Incantatrice non esitate a chiedere lol

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: The love of a mother is forever ***


 

Capitolo 8: 
The love of a mother is forever

 

 

 

 

La galleria era piena di persone, molte delle quali Nyssa aveva già visto la sera dell’esplosione al teatro: almeno la metà degli acquirenti aveva partecipato al galà di pochi giorni prima, eppure, le donne e gli uomini che erano stati testimoni di quella catastrofe sorridevano e scambiavano convenevoli con amici e conoscenti come se nulla fosse mai accaduto.
Li osservò da lontano, posando una mano sulla gonna del vestito. Stringeva. Quando aveva aperto l’armadio, furente con Sara, aveva afferrato il primo abito che aveva trovato, senza rendersi conto che si trattava di un vecchio vestito che la fidanzata utilizzava quando andava alle superiori. Lei e Sara portavano la stessa taglia, ma evidentemente all’epoca la bionda era molto più magra di quanto Nyssa potesse immaginare.
Nello stesso istante, May ritornò con un bicchiere colmo di champagne. «Scusa il ritardo, ma al banco delle bevande c’era una fila assurda.»
Nyssa le sorrise. «Fa niente. Pronta per il secondo giro?»
L’altra annuì, mandando giù un sorso di spumante. «Certamente. Tu, piuttosto, come mai non bevi?» domandò, indicando il calice che le aveva porto[1] quasi mezz’ora prima, e che Nyssa aveva continuato a rigirarsi nervosamente fra le mani.
La diretta interessata fece spallucce. «A dire la verità, non ho molta sete.»
May annuì ancora, finendo il proprio champagne in pochi secondi. «Che ne dici di parlare in un posto un po’ più… appartato?»
La figlia di Ra’s le dedicò una lunga occhiata, ricordando le stesse parole che le aveva detto Josh al ricevimento di beneficenza qualche giorno prima.
«Ovviamente torneremo in tempo per l’inizio dell’asta» la tranquillizzò la ragazza dai capelli corti con un sorriso.
Nyssa ci pensò su per un po’, dopodiché sorrise e, ancora con il bicchiere in mano, seguì May con un brutto presentimento.



Nyssa rimase in silenzio per tutto il tragitto. Fu May a intrattenerla coi suoi discorsi sull’arte e su come se ne fosse innamorata da bambina. E nonostante sapesse che le sue erano tutte menzogne, non osò interromperla neanche una volta.
May la condusse davanti all’entrata del magazzino, e fu allora che Nyssa strinse più che poté le mani intorno al proprio bicchiere. Non appena ebbero messo piede all’interno del deposito, l’Erede del Demonio lo poggiò sopra ad uno scatolone, e attese che May si voltasse verso di lei prima di fare la sua mossa. Estrasse il coltello che teneva nascosto sotto alla gonna e lo puntò alla sua gola mentre la spingeva contro al muro. La donna osservò a denti stretti la lama puntata contro la propria pelle, il respiro affannato e gli occhi sbarrati.
«Credevi che non ti avrei riconosciuta?» esordì la mora, con un sibilo sprezzante. «Credevi che bastasse cambiare taglio di capelli nel giro di un pomeriggio e mettersi le lenti a contatto per ingannarmi?»
«Non so di cosa tu stia parlando» ringhiò l’altra, deglutendo a fatica.
«Vuoi dire che la ragazza bionda che oggi pomeriggio mi ha consegnato il volantino della mostra di quadri non eri tu? E che quel vino in realtà non è avvelenato? Pensavi non avessi capito che mi stavi spiando?» Aumentò la pressione sul suo collo, dalla quale colò una goccia di sangue scarlatto. «Credevi davvero che fossi così tanto stupida, Incantatrice
Sul volto della donna si formò un ghigno di sfida. Nyssa ci aveva azzeccato in pieno. «Perché non mi hai ancora uccisa?» sussurrò, velenosa. «Sei la figlia di Ra’s al Ghul. Avresti già dovuto tagliarmi la testa da ore.»
Nyssa non la ascoltò. «Che cosa vuoi da me?»
«Da te, nulla» rispose l’altra, inarcando un sopracciglio. «Ma da Arrow... beh, molte cose.»
Con uno scatto, l’Incantatrice colpì Nyssa all’addome e riuscì a liberarsi dalla sua presa, afferrando il manico di un mocio che utilizzò come se fosse un bastone. Nyssa si scagliò su di lei e tentò di colpirla in pieno viso, ma la donna evitò il suo attacco con un’agilità invidiabile. La mora le tirò un calcio, strappando appena un lato del vestito di Sara, e riuscì a colpirla in un fianco. Nel mentre, l’Incantatrice fece roteare il manico e compì un passo indietro, pronta ad attaccare di nuovo.
Dopo pochi istanti, Nyssa sembrava avere la meglio, e ciò la convinse che non ci avrebbe messo molto a vincere la battaglia. Mentre combattevano, però, l’Erede si rese conto di una cosa piuttosto strana: riusciva a prevedere le sue mosse. L’Incantatrice era abile, veloce, e sapeva utilizzare il bastone con una destrezza degna dei mercenari della Lega degli Assassini. Tuttavia, non ricordava di averla mai vista a Nanda Parbat.
«Chi ti ha addestrata?» domandò, evitando appena un colpo diretto alla propria schiena.
La donna sogghignò ancora, ma non rispose. Ciò non fece altro se non aumentare l’ira di Nyssa. Lasciò andare il coltello a terra e le strappò il bastone di mano, dopodiché glielo puntò all’altezza dello stomaco e premette più forte che poté. L’Incantatrice gemette, ma un attimo dopo, prima che Nyssa potesse prevederlo, riuscì ad evitare che quest’ultima le perforasse il ventre riappropriandosi del manico. La colpì alla fronte e non appena Nyssa ebbe abbassato la guardia, lo strinse intorno al suo collo.
Bastò un istante affinché le finestre del magazzino si rompessero e una freccia sfiorasse la spalla dell’Incantatrice. Giusto in tempo, pensò Nyssa fra sé e sé, sorridendo appena.
«Lasciala andare!» tuonò Oliver, la voce completamente modificata dal suo congegno.
La donna, ancora con l’Erede in ostaggio, si voltò, cosicché entrambe potessero vedere coi loro occhi l’arrivo dei giustizieri. «Finalmente sei arrivato.»
«Lasciala andare o giuro che‒» scattò Sara, ma prima che potesse compiere un solo passo, Arrow la bloccò con un gesto della mano.
«È me che vuoi, vero?» domandò l’uomo, abbassando il proprio arco. «Bene. Sono qui. Ma lei non c’entra. Non ti costa nulla liberarla.»
L’Incantatrice sorrise lievemente, aumentando la stretta intorno al collo della figlia di Ra’s. «Non è così semplice» rispose. Nel mentre, Sara continuava a spostare rapidamente lo sguardo da Nyssa al pavimento, ma la loro nemica sembrava non essersi accorta di nulla. Aveva occhi solo per Arrow. L’aveva cercato a lungo, e ora che se lo era finalmente ritrovato davanti non poteva sprecare la sua occasione.
«Dimmi che cosa vuoi e facciamola finita, Caroline!» sbottò l’ex miliardario, avvicinandosi a lei di qualche passo.
«Tutto quello che voglio è la tua collaborazione» esordì lei, con gli occhi che le brillavano. «Ormai avrai scoperto tutto quello che c’è da sapere su di me, così come io so molte cose su di te, Oliver.» L’uomo digrignò i denti, ma in fondo se lo aspettava un simile colpo basso. «So tutto del taccuino di tuo padre. Per più di un anno hai dato la caccia alle persone i cui nomi erano scritti su quel libretto, e vorrei farti una proposta.» Il ghigno sul suo volto si ampliò a dismisura. «Tu mi aiuterai ad uccidere quei bastardi che hanno fatto fuori mio marito, e in cambio io collaborerò con te per sbarazzarti delle persone su quella lista.»
«Sei una combattente formidabile» disse Oliver, con cautela. «Non mi sembra che tu abbia bisogno di aiuto.»
«È qui che ti sbagli» replicò, lasciando andare lentamente la presa sul collo di Nyssa. «Ho da poco scoperto che anche alcuni esponenti della mafia russa erano coinvolti. E indovina un po’ chi è in contatto con quei figli di puttana?»[2]
Arrow serrò la mascella, apparentemente incapace di prendere una decisione. Tuttavia, gli bastò ricevere un’occhiata glaciale da parte di Sara per capire quale strada prendere. «No» disse seccamente, stringendo la mano intorno al proprio arco. «Non ho intenzione di collaborare con un’assassina che ha ucciso delle persone innocenti per raggiungere i propri scopi.»
Caroline alzò il capo con fierezza. «Non mi sembra che tu sia molto diverso. In ogni caso, hai fatto la tua scelta.»
Un attimo dopo, prima che l’Incantatrice potesse muovere un muscolo, Nyssa le pestò il piede col tacco; approfittando del momento di debolezza, si riappropriò in fretta del bicchiere di vino e glielo scagliò sulla nuca. Nello stesso istante, Sara lanciò una delle freccette della Lega direttamente nel collo della donna: ciò bastò per farle perdere i sensi nel giro di un paio di secondi.



«Mi hai fatto prendere un colpo.»
Nyssa, seduta su uno dei tavoli dell’Arrow Cave, strinse leggermente i denti mentre Sara le disinfettava la ferita sulla fronte. Si assicurò che il resto della squadra fosse abbastanza lontano da non poter udire la loro conversazione, dopodiché deglutì. «Se ti avessi parlato del mio piano non mi avresti permesso di andarci da sola.»
La bionda passò lentamente il batuffolo di cotone sul taglio pieno di sangue, un piccolo broncio a contornarle le labbra. «Certo che no, idiota» sussurrò, abbassando lo sguardo per un istante. «Non farlo mai più.»
L’altra scosse la testa, ma entrambe sapevano che, se ce ne fosse stata l’occasione, Nyssa lo avrebbe rifatto senza pensarci due volte.
«Quindi, ricapitolando» esordì Felicity, avvicinandosi a loro seguita dal resto del team «come hai fatto a capire che l’Incantatrice ti stava seguendo?»
«Sono stata addestrata dalla Lega degli Assassini» disse ironicamente, passandosi una mano sulla fronte sudata. «Sapevo di essere pedinata, così come sapevo che c’erano delle telecamere nascoste in giro per la casa. Quello che non sapevo era chi mi stesse spiando. L’ho capito solo oggi, quando una ragazza al bar mi ha consegnato il volantino dell’asta di quadri. Ci ho messo un istante a riconoscerla: l’avevo vista la sera dell’esplosione nella sala principale del teatro, e il giorno successivo le sono finita addosso mentre salivo le scale del nostro palazzo. Ho subito capito che c’era qualcosa che non quadrava, perciò ho agito d’istinto.»
«Avresti comunque dovuto parlarcene» la rimproverò Laurel. «Sarebbe stato più sicuro.»
«Non era sicurezza che cercavo, ma risposte» disse, puntando lo sguardo verso di lei. «Se avessi incontrato la stessa donna all’asta, avrei confermato ogni mio dubbio. E così è stato.»
«In ogni caso» la interruppe Oliver, prima che scoppiasse un qualche tipo di lite tra le due «siamo riusciti a catturare l’Incantatrice senza causare ulteriori vittime. Ed è solo merito tuo.» Sorrise a Nyssa, che ricambiò senza pretese. «Perciò, grazie.»
«Ho fatto solo il mio dovere» rispose semplicemente l’altra, scrollando le spalle. Non lo diede a vedere, ma essere ringraziata da Oliver in parte le faceva piacere.
Anche Diggle le sorrise, probabilmente per la prima volta da quando la conosceva, e quel gesto la fece sentire leggermente a disagio.
«Direi che ci meritiamo tutti un po’ di riposo» commentò Felicity, mimando uno sbadiglio. «Che ne dite di radunare le nostre cose e andarcene a dormire?»
Ci fu un lieve mormorio di assenso, dopodiché il gruppo si disperse all’interno della stanza e Sara e Nyssa rimasero di nuovo sole. Canary fece una smorfia, dopodiché poggiò entrambe le mani sulle cosce della fidanzata, accarezzandogliele dolcemente.
«Quindi… non eri davvero arrabbiata con me?»
Nyssa sorrise, scoccandole un bacio sulla fronte. «Certo che no, stupida.»
«Sbaglio o ci stiamo allargando un po’ troppo con gli insulti oggi?» ridacchiò la minore delle sorelle Lance, solleticando appena i fianchi dell’amata.
«Mi sembra il minimo» rise Nyssa, osservando la schiena di Sara mentre si allontanava. «A proposito, non sei arrabbiata perché ho strappato il tuo vestito, vero?»

*

Il rumore dei tacchi di Laurel si disperse nel vociare diffuso nella centrale. Pareva essere una giornata diversa dalle altre: gli agenti si muovevano freneticamente da una parte all’altra della stanza, chi con delle cartelle in mano, chi completamente preso da una telefonata.
«Che cosa sta succedendo qui dentro?» domandò a Quentin non appena fu entrata nel suo ufficio.
«Non ti hanno informata? Hanno anticipato il processo dell’Incantatrice. Inizia tra mezz’ora.»
La castana sussultò appena. «No, non me l’hanno detto» rivelò, leggermente sconcertata. «Ma sappiamo tutti quale sarà il verdetto. Perché agitarsi così tanto?»
«Perché quando Arrow l’ha consegnata alla polizia alcuni cittadini hanno minacciato di ucciderla per tutti i problemi che ha causato. Ho dovuto tenere a bada anche alcuni dei miei agenti, altrimenti le avrebbero sparato in testa senza alcun ritegno.»
«Non avrebbero neanche fatto male» commentò Laurel, incrociando meccanicamente le braccia.
Quentin bevve un rapido sorso di caffè dalla sua tazza. «In ogni caso, molte persone vogliono partecipare al processo. Ti va di venire?»
La donna soppesò sulla richiesta per qualche secondo. «Avrei dei casi da ricontrollare, ma direi che questo è più importante.»
Il Capitano annuì. «Bene» disse, dirigendosi verso la porta che conduceva all’esterno del suo ufficio. «È giunta l’ora di chiudere questo capitolo.»

*

Quando Nyssa mise piede all’interno del Mystery Café, Josh, Adam e un’altra decina di clienti stavano osservando il televisore con gli occhi sbarrati; alcuni commentavano sottovoce, borbottando parole che l’Erede non comprese, mentre altri si limitavano a scuotere il capo amareggiati.
«Che mi sono persa?» domandò non appena giunse davanti al bancone.
«Hai sentito l’ultima sull’Incantatrice?» chiese Josh, lo sguardo fisso sullo schermo.
«Che è stata condannata all’ergastolo?»
«Questo ieri mattina. Stanotte è stata trovata morta nella sua cella. All’inizio pensavano si trattasse di un suicidio, ma adesso la polizia esclude già questa teoria.»
Nyssa deglutì, sentendo l’ira crescere dentro di lei. Con tutta la fatica che avevano fatto per catturare l’Incantatrice senza torcerle un capello ‒ per modo di dire, ovviamente ‒, dopo nemmeno un giorno di prigione c’era chi aveva pensato a sbarazzarsi di lei?
«Comunque, meglio così, almeno non c’è più il rischio che possa evadere e mietere altre vittime» affermò Josh, voltandosi finalmente verso la donna. «Ehi, che ti è successo?» esclamò preoccupato, indicando la ferita sulla fronte di Nyssa con lo sguardo.
«Sono caduta» rispose la donna, massaggiandosi lentamente il collo. «Ieri pomeriggio stavo facendo le pulizie di casa, sono inciampata sul pavimento bagnato e ho sbattuto contro lo spigolo del tavolo.»
«Deve far male» commentò lui, aggrottando le sopracciglia. «Credo di aver sbagliato a concederti subito un pomeriggio di riposo dopo il tuo primo giorno di lavoro.»
«Può darsi» continuò Nyssa, legandosi il grembiule dietro la schiena. «Ma sarebbe comunque potuto succedere qui al lavoro.»
«Vero» annuì Josh, sorridendo a fatica.



Sara digitò il codice che conduceva al nascondiglio segreto del Team Arrow con un groppo in gola. Da quel giorno, molte cose sarebbero cambiate, perché tutti sarebbero venuti a conoscenza del fatto che era incinta.
Si era svegliata con quella convinzione. Dopo averci rimuginato sopra tutta la notte, aveva finalmente deciso: lo avrebbe detto a Oliver quella mattina stessa.
Mentre apriva la porta, prese un respiro profondo. Era pronta a compiere il grande passo.
Tuttavia, quando giunse davanti all’enorme scrivania di Felicity e non vi trovò nessuno, l’ansia che provava crebbe ulteriormente. Oliver aveva passato le ultime mattine ad allenarsi, per questo aveva dato per scontato che lo avrebbe trovato appeso alla salmon ladder. Si sedette sul bordo di uno dei tavoli, decidendo di aspettare il suo arrivo; tuttavia, pochi secondi dopo, la porta si aprì di nuovo e Sara udì dei passi lungo la scala di metallo.
«Finalmente abbiamo chiuso questa faccenda.» Era Oliver.
«Te l’avevo detto che sarebbe andata bene!» trillò una voce femminile. Felicity.
Sara si voltò di scatto, col cuore che batteva a mille. Non aveva considerato il fatto che ci sarebbe potuta essere anche lei, e adesso si sentiva una completa idiota a non averci pensato prima.
Non appena i due ebbero oltrepassato l’ultimo gradino, se la ritrovarono davanti e le dedicarono un’occhiata allegra.
«Ciao, Sara!» esclamò la bionda, con un sorriso. «Hai saputo la buona notizia?»
La diretta interessata deglutì. «Quale notizia?»
«Felicity, la riunione è appena terminata. Non ho informato nessuno» le disse cautamente l’ex miliardario.
L’altra fece una smorfia. «Beh, avresti dovuto. È davvero una bella notizia.»
«Ragazzi, mi dispiace interrompervi, ma devo parlarvi di una cosa importante e non posso proprio aspettare» disse Canary tutto d’un fiato, cercando di farsi forza.
Tuttavia, Felicity proseguì il suo discorso come se niente fosse. «Oliver non perderà la Queen Consolidated!»
Sara, colta alla sprovvista, fece un passo indietro. «Che cosa?»
«C’era un solo potenziale acquirente, ma siamo riusciti a stringere un accordo» spiegò Oliver, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. «Nessuno mi voleva più come amministratore delegato poiché non mi ritenevano un buon soggetto. Per questo motivo ho fatto in modo che Felicity diventasse mia socia prima della riunione.» Sorrise a labbra strette, rivolgendo uno sguardo al tecnico informatico. «Ray Palmer, l’uomo che nelle ultime settimane ha tentato di portarmi via l’azienda, non ha potuto fare niente contro di noi. Felicity ha una buona reputazione nella ditta, ci lavora da quando io ero su Lian Yu e ha delle doti indispensabili affinché la Queen Consolidated vada avanti. Così, la scorsa settimana abbiamo firmato un contratto secondo il quale ognuno di noi avrebbe amministrato il trentatré per cento dell’attività.»
«E che ne è stato del restante uno per cento?» domandò Sara, incuriosita.
Felicity sorrise misteriosamente. «I membri del consiglio hanno votato questa mattina la persona che ritenevano più adeguata per guadagnarsi il restante uno per cento, e‒»
«Felicity ha vinto con una differenza invidiabile» concluse Oliver per lei.
La minore delle sorelle Lance sorrise, unendo le mani davanti al viso. «Ragazzi, è una notizia meravigliosa.» Si avvicinò ulteriormente al tecnico informatico e quest’ultima la abbracciò. «Sono veramente felice per voi.»
«Ho avuto più soddisfazioni nel catturare Slade Wilson e combattere contro il suo esercito, ma…» scherzò Arrow, mettendo il proprio braccio intorno alle spalle della fidanzata «devo ammettere che anche questo è appagante.»
Felicity scosse lievemente la testa, per poi chinarsi verso Oliver e baciarlo. Fu in quell’istante che Sara capì che non poteva dirgli della gravidanza. Avrebbe rovinato per sempre la sua relazione con Felicity, e l’ultima cosa che voleva era creare ulteriore disagio nella vita di Oliver. Aveva appena fatto un passo avanti nel riprendersi l’azienda di famiglia, e dargli una notizia del genere avrebbe sconvolto la sua intera esistenza.
«Anche tu avevi qualcosa di importante da dire, o sbaglio?»
Sara alzò nuovamente lo sguardo verso Felicity, deglutendo. «Io…» iniziò, sentendosi svenire. Le bruciava la gola dalla paura. Dopo pochi istanti, non sapendo cosa dire, esclamò: «Avete sentito cos’è successo questa notte?» Aveva di nuovo il cuore al galoppo. Notando i loro volti spaesati, proseguì: «L’Incantatrice è stata uccisa.»
I due si scambiarono uno sguardo confuso, mentre Sara si lasciò andare ad un sospiro di sollievo. Ringraziò mentalmente Nyssa per averle mandato un messaggio al riguardo non appena lo aveva scoperto poche ore prima.
«Com’è possibile?» scattò Oliver, mentre Felicity si affrettava a cercare informazioni al riguardo sul suo tablet.
«Non ne ho idea» rispose Sara, scrollando le spalle. «A volte accadono delle cose che sono più difficili da spiegare di quanto pensiamo.»



«…E così gli ho detto, “No, signore, si sta sbagliando. Questa non è casa sua, è l’ufficio del procuratore distrettuale.” Roba da matti» ridacchiò Laurel, intingendo le patatine fritte nel ketchup. «Insomma, capisco che era ubriaco, ma arrivare a così tanto… Sara, mi stai ascoltando?»
La diretta interessata alzò di scatto la testa, spaesata. «Sì. Sì, ho capito.»
«Certo, come no.» L’avvocato fece una smorfia. «Non mi sembri molto in forma. C’è qualcosa che non va con Nyssa?»
«No, con Nyssa è tutto okay» balbettò la sorella, sorseggiando lentamente il suo milkshake alla fragola. «Sono solo un po’ pensierosa riguardo a una cosa. Ma non è nulla di serio, non preoccuparti.»
Laurel scosse leggermente il capo, sorridendo appena. «Non cambi mai.»
«Che intendi dire?» replicò Sara, con la cannuccia a un lato della bocca.
«Indossi ancora quella maglietta degli Star City Rockets che ti ho regalato al liceo, bevi solo frullati alla frutta e diventi nervosa quando mi nascondi qualcosa» osservò, guardandola dritta negli occhi.
Sara sbuffò, stringendo il bicchiere intorno alle dita. «Non è niente, davvero. Tu, piuttosto, come mai sei così euforica oggi?»
La maggiore si mordicchiò il labbro, assumendo un’espressione maliziosa. «Ho una bella notizia.» Fece una pausa per creare un po’ di suspense, ma non riuscì a trattenersi a lungo. «La mamma è in città. È arrivata stamattina.»
Canary inarcò un sopracciglio, visibilmente seccata. «Cosa? Perché non me l’hai detto prima?»
«Perché volevo farti una sorpresa» rispose l’altra, con un sorriso. «Ho invitato lei e papà a cena da me questa sera. Preparerei qualcosa con le mie mani, ma devo lavorare tutto il pomeriggio, perciò credo che prenderò qualcosa a quel take away dove cucinano cibo cinese che papà adora. Ti va di unirti a noi?» Sorrise dolcemente, accarezzandole il dorso della mano nel tentativo di persuaderla ad accettare l’invito. «È da un bel po’ che non ci concediamo una serata in famiglia.»
Sara si strinse nelle spalle, fingendo di valutare l’offerta. «Non lo so, Laurel. È tutto così complicato.» Sospirò, passandosi una mano sul viso. Poi, scosse la testa in segno di diniego. «Mi dispiace, ma non posso venire. C’è Nyssa e… poi c’è papà, insomma…»
«Papà sarebbe comunque venuto a sapere che eri tornata in città, prima o poi» affermò la castana, addentando una patatina. «È un caso che tu sia riuscita ad evitare le telecamere quando agivi come Canary, ma lui non è stupido. E Nyssa non è un problema, era sottinteso che l’invito fosse esteso anche a lei. D’altronde, ormai è di famiglia.»
Nel sentire quelle parole pronunciate dalla sua stessa sorella, Sara provò una forte emozione all’altezza del cuore. Le era grata in un modo inimmaginabile, ma al tempo stesso, sapeva che era una follia.
«Dopo quello che è successo con la mamma, ho paura a farle rivedere Nyssa, soprattutto come mia… partner» ammise la bionda, ripensando con vergogna a quando l’Erede aveva rapito Dinah per far sì che lei tornasse alla Lega.
«Non preoccuparti per la mamma. Posso parlarci io» proseguì la donna, ma Sara continuava a non essere convinta dell’idea. «Promettimi almeno che ci penserai» la pregò Laurel.
Sara sbuffò ancora, alzando gli occhi al cielo. «Ci penserò» disse allora, ricevendo una forte stretta da parte della sorella.



«L’hanno sgozzata» spiegò Quentin, sospirando. «Quando abbiamo trovato il corpo, la scientifica si è messa subito all’opera, ma per ora è come cercare un ago in un pagliaio. Niente impronte digitali, nessuna persona sospetta nelle registrazioni. Chi ha agito aveva programmato tutto in ogni minimo dettaglio, ed è un esperto. Non ha lasciato la minima traccia.»
Oliver soppesò sulle parole del capitano per un istante. In vita sua aveva conosciuto una marea di killer professionisti, ma questa volta la faccenda si stava complicando più del previsto. Era chiaro che chiunque avesse ucciso l’Incantatrice stava attendendo che finisse in prigione prima di colpire. Aspettavano che qualcuno la catturasse per poi ucciderla senza problemi, pensò l’ex miliardario.
«Grazie mille, capitano. Le faremo sapere se scopriamo qualcosa.» Abbandonò il telefono sulla scrivania, ricevendo un’occhiata storta da parte di Felicity.
«Hai qualche teoria?» gli chiese quest’ultima.
Oliver serrò la mascella. «Forse. Ma non ne sono sicuro al cento per cento.»
«Puoi sempre chiedere ai tuoi amici della Bratva» suggerì Roy, mettendosi le mani in tasca. «Loro sanno sempre tutto di tutti, no?»
«Non ho più contatti con la Bratva da un po’» ammise il giustiziere, voltandosi verso Arsenal. «Però c’è qualcuno che potrebbe aiutarmi.»
Senza dare ulteriori informazioni, si diresse a passo spedito verso il piano superiore.



Oliver poggiò il cellulare sul bancone del bar, allargando con le dita la foto che gli aveva mandato Quentin poco prima. Ritraeva il corpo privo di vita dell’Incantatrice.
«Non qui» lo schernì Nyssa, cercando di non guardarlo negli occhi. Prese in mano un sacco della spazzatura mezzo vuoto e lo chiuse con un nodo. «Vieni nel vicolo sul retro fra due minuti.»
Mezzo minuto dopo, Oliver raggiunse Nyssa nel luogo stabilito, porgendole nuovamente il telefono con insistenza.
«Quindi?» domandò lei, inarcando un sopracciglio.
«Quindi voglio sapere se c’entrate voi.»
«Perché la Lega degli Assassini avrebbe dovuto uccidere una donna come lei?» chiese la mora, intuendo l’antifona.
«Non ne ho idea. Sei tu la figlia di Ra’s al Ghul» la punzecchiò Arrow, incrociando le braccia. «Sei tu quella che dovrebbe sapere quali sono i bersagli di tuo padre.»
«Dubito fortemente che sia opera della Lega.»
«Ma “dubito” non è una certezza. Non mi basta.»
Nyssa digrignò i denti, seccata. «Ci sono un’infinità di organizzazioni segrete piene di killer meticolosi. Perché punti il dito proprio contro di noi?»
«Perché fino ad oggi la vostra setta è stata l’unica ad attaccare Starling City» spiegò Oliver, abbassando il tono di voce. «Voglio solo che tu mi dia la conferma che‒»
«Non posso dartela» rispose in fretta lei, dirigendosi verso la porta sul retro del locale. Prima di sfiorare la maniglia con le dita, però, si voltò. «Mi dispiace, ma non c’è niente che possa fare.»
«Nyssa.» Oliver le si avvicinò, lo sguardo terribilmente serio. «Se a te e Sara… se vi sta succedendo qualcosa, lo voglio sapere. Se vi siete messe in qualche casino, se la Lega vi ha cacciate, io‒»
«Non c’è niente che non vada» replicò lei, ricambiando l’occhiata. «Ora devo tornare al lavoro. Non dire a Sara che ci siamo incontrati. Non serve.» E sparì dietro la porta come se niente fosse.



Tornò a casa alle sei passate, coi piedi doloranti e il mascara colato a causa del sudore. Era stata una giornata molto intensa al Mystery Café: nelle ultime otto ore aveva fatto una pausa di soli dieci minuti, ovvero quando si era incontrata con Oliver nel retro del locale. Si diresse verso il corridoio a grandi passi, ma prima che riuscisse a raggiungere il bagno si ritrovò di fronte Sara con indosso il pigiama.
«Che ti è successo?» domandò quando la vide, indicando gli angoli degli occhi di Nyssa con l’indice.
«Che hai fatto?» chiese la figlia di Ra’s al tempo stesso, sovrapponendo la propria voce a quella di Sara.
«Ho fatto un pisolino pomeridiano» rispose l’altra, sfregandosi gli occhi con le nocche delle mani. «E tu?»
«Giornata piena» spiegò l’Erede, togliendosi la t-shirt rossa e abbandonandola sul pavimento. «Ho bisogno di una doccia.»
Tuttavia, prima che potesse compiere un solo passo, Sara la bloccò stringendole l’avambraccio. La guardò intensamente negli occhi per un paio di secondi prima di riprendere a parlare.
«Andiamo a cena da Laurel, questa sera?» Prese un respiro profondo, cercando di farsi forza. «Ci sono anche i miei genitori.»
Al sentire la parola “genitori”, Nyssa s’incupì. «Neanche per idea.»
La bionda aumentò con forza la stretta. «Andiamo, è solo per una sera.»
«Non è questo il punto, Sara. Lo sai bene» sbottò Nyssa, divincolandosi dalla presa con un gesto rapido. «Tu va’, se vuoi. Io resto qui.»
«Ma‒»
«Devo farmi una doccia» ripeté, dirigendosi rapidamente verso il bagno e sbattendo la porta alle proprie spalle.
Sara sospirò, passandosi una mano sulla fronte. Quando Nyssa prendeva una decisione, era irremovibile.



Maseo attraversò la stanza con il cappuccio sul capo, lo sguardo fisso in direzione del proprio padrone. Quando giunse davanti a Ra’s, si inchinò come faceva sempre, ma questa volta attese che il Demone gli facesse segno di alzarsi in piedi prima di assecondarlo.
«Hai fatto ciò che ti ho chiesto?»
Lui annuì lentamente. «Sì.» Alzò lo sguardo, incontrando quello di Ra’s. «Dubito che Ta-er al-Sahfer e sua figlia torneranno a casa molto presto.»
La Testa del Demonio serrò le labbra, iniziando a camminare intorno alla stanza con le mani dietro la schiena. Rimase in silenzio per qualche istante, dopodiché, si rivolse nuovamente al suo braccio destro. «Sai quello che devi fare.»
Il giapponese annuì ancora, per poi lasciare il santuario a passo svelto.



Quando Nyssa uscì dal bagno, avvolta nell’accappatoio nuovo di zecca che aveva comprato la settimana precedente, trovò Sara accucciata sul divano con un’espressione malinconica stampata in viso. Se lo aspettava. Ci aveva riflettuto a lungo nell’ultima mezz’ora, ma la sua risposta non sarebbe cambiata. Come avrebbe potuto sedersi allo stesso tavolo di Dinah Lance e fingere che sei mesi prima non l’aveva rapita? Non avrebbe mai sopportato il peso dell’imbarazzo che provava al solo pensiero di quello che aveva fatto.
Si avvicinò lentamente a Sara, trattenendo un sospiro. Era al quarto mese di gravidanza. Non vedeva i suoi genitori da settimane, addirittura da prima che scoprisse di essere incinta. Magari parlare con sua madre le avrebbe fatto bene: in fondo, lei che aveva avuto due figlie ne sapeva qualcosa in più. E poi, non avrebbe mai potuto negare a Sara l’opportunità di trascorrere una serata in compagnia della sua famiglia, anche se sapeva benissimo che non ci sarebbe mai andata senza di lei. Perché ora, anche Nyssa faceva parte della famiglia di Sara, nonostante per lei fosse ancora strano da pensare.
Quando fu a meno di un passo dall’amata, Nyssa le mise le mani sulle spalle e le diede un bacio sulla guancia da dietro. «Ehi» canticchiò, cercando di apparire serena.
La bionda si voltò, dedicandole un sorriso stanco, per poi fissare nuovamente un punto nel vuoto davanti a sé. La figlia di Ra’s si sedette allora al suo fianco, stringendo le sue mani calde fra le proprie. «Andiamo da Laurel?»
Sara scrollò le spalle, affranta. «Non voglio obbligarti a venire.»
«Non mi stai obbligando» puntualizzò l’altra, dandole un buffetto sulla guancia. «È una mia scelta.»
Canary alzò lo sguardo, osservandola a lungo con le sue iridi di ghiaccio. «Perché…»
Nyssa la anticipò prima che potesse terminare la frase. «Lo faccio per te.»
Sara si bloccò per un istante, riflettendo su quelle parole. Subito dopo, piena di gioia, si chinò in avanti per abbracciare strettamente Nyssa. Poggiò le labbra sulla sua spalla lievemente scoperta, inspirando a pieni polmoni il profumo del bagnoschiuma, mentre la mora prese ad accarezzarle delicatamente la schiena. Entrambe amavano quei momenti di tranquillità. Essere stretta fra le braccia dell’altra, senza pensieri, era piacevole. Immaginare di essere in un mondo vuoto, in cui esistevano soltanto loro due e non c’era nessun problema a perseguitarle, era una delle loro fantasie più sfrenate. Avrebbero fatto di tutto affinché quel loro desiderio si avverasse, ma sapevano che, prima o poi, la realtà si sarebbe comunque scagliata su di loro e le avrebbe inghiottite con la sua crudeltà.
Sara sciolse di malavoglia l’abbraccio, e Nyssa le dedicò uno sguardo malizioso. «Hai intenzione di uscire in pigiama?»
La bionda sorrise e scosse il capo al tempo stesso, ignorando volutamente l’osservazione dell’amata. «Dobbiamo nascondere la ferita con del fondotinta.»
Nyssa inarcò un sopracciglio. «Cosa?»
«Mia madre» sospirò Sara. «Sarà già dura presentarti come la mia ragazza, perciò è meglio non darle ulteriori preoccupazioni. Se vede il taglio sulla tua fronte potrebbe farsi delle paranoie.»
«Non potevi pensarci questa mattina, prima che andassi al lavoro?»
«A cosa?»
«Al fondotinta.»
La minore delle sorelle Lance fece una smorfia. «Stavo dormendo.»
Nyssa annuì. «Giusto.»
«Potevi pensarci da sola.»
La mora si sporse appena in avanti, baciandole dolcemente la punta del naso. «Non sono furba come te, habibti.»



Sara fece un respiro profondo, stringendo l’indice della mano sinistra di Nyssa con il proprio. Le due donne compirono gli ultimi passi nel corridoio che conduceva all’appartamento di Laurel, e quando si ritrovarono davanti alla porta, Sara lanciò uno sguardo a Nyssa. Quest’ultima sorrise. Era il suo modo per cercare di tranquillizzarla, facendole capire che, qualsiasi cosa fosse accaduta, lei sarebbe stata al suo fianco. Sara si fece coraggio e bussò alla porta.
La prima cosa che udirono fu la voce fioca di Quentin chiedere ironicamente a Laurel se aspettava visite. Non ci fu risposta. Pochi secondi dopo, la porta si spalancò, e la maggiore delle sorelle Lance le accolse con un sorriso a trentadue denti, passandosi le mani sudate nel lembo della maglia a righe. «Siete venute.»
Sara si strinse nelle spalle, sorridendo appena. Nyssa le fece un cenno col capo in segno di saluto. Laurel si spostò per farle entrare, e quando Sara ebbe messo piede nell’atrio, l’ansia si impossessò di lei. Aveva il timore di poter rivivere la serata di cinque mesi prima, quando aveva cenato con la sua famiglia dopo sei anni di assenza da casa, e il risultato era stata l’ennesima lite. Ma allora era stato Oliver ad accompagnarla, mentre adesso c’era Nyssa. E magari, con lei al suo fianco, quella cena avrebbe preso una piega diversa.
Strinse ancora le sue dita in cerca di supporto, e un istante dopo udì i passi di Quentin nel salotto. E quando se lo ritrovò davanti, si rese conto di non essere pronta. Suo padre indossava una camicia rossa, un paio di jeans logori e il suo orologio preferito. Si era tagliato i capelli, e non era per niente sconvolto nel vederla, anzi, sembrava quasi che se la sarebbe aspettata una sua apparizione improvvisa.
D’istinto, sorrise. Poi spostò lentamente lo sguardo dalla figlia minore a Nyssa, e quest’ultima si sentì mancare il respiro. Ma Quentin non ebbe alcuna reazione negativa nel vederla.
Dopo alcuni attimi passati in silenzio, il capitano trovò la forza di parlare. «Perché non mi avete detto che eri tornata in città?»
«Perché doveva essere una sorpresa» rispose Laurel, mettendo un braccio intorno alle spalle della sorella.
«Diciamo che ci siamo prese una vacanza e… beh, quando Laurel ci ha detto che la mamma sarebbe venuta in città, abbiamo pensato di passare a salutarvi» esordì cautamente la bionda, guardando le gambe di Nyssa con la coda nell’occhio. Stava tremando.
Quentin aggrottò la fronte. Non se l’era sicuramente bevuta. E infatti, aggiunse: «Quindi i miei colleghi non avevano le traveggole quando mi dicevano di aver visto Cana‒»
Per fortuna, Lance si zittì appena in tempo. Dietro di lui, Dinah guardava dritto in direzione di Sara. Aveva gli occhi gonfi di lacrime per l’emozione. «Sara…» sussurrò, superando Quentin di qualche passo.
Nyssa si irrigidì di colpo nel vederla. Le prudeva dappertutto. Avrebbe tanto voluto correre via, scappare da quell’assurda realtà, ma non poteva farlo. Doveva affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Doveva farlo. Per Sara.
Il cuore le batteva all’impazzata. Si frappose fra Sara e la madre prima che potessero toccarsi, ricevendo la completa attenzione da parte di tutti i presenti. «Signora Lance, sento il dovere di scusarmi con lei» esordì, cercando di apparire meno agitata possibile. «Quello che le ho fatto mesi fa è imperdonabile. Sono profondamente dispiaciuta. Ho fatto una cosa orribile, e me ne vergogno. Potrei darle delle spiegazioni, ma non avrebbe senso. Non capirebbe. Non perché dubito che lei potrebbe comprendere le mie motivazioni, semplicemente vengo da un mondo… diverso dal vostro. È complicato da spiegare. Non ha senso che le dica perché l’ho rapita, semplicemente non avrei dovuto. Purtroppo non ci sono scuse per quello che ho fatto. La prego, mi per‒»
Nyssa si zittì all’improvviso. In un istante, fu come le qualcuno le avesse strappato via lo stomaco. Si sentiva vuota come mai prima d’ora. Spalancò di colpo gli occhi e la bocca, incredula che stesse succedendo davvero.
Dinah la stava abbracciando. La madre della sua ragazza, la donna che aveva rapito e tenuto in ostaggio per ventiquattro ore quasi sei mesi prima, la stava abbracciando. Nyssa era confusa e sconvolta, ma non ebbe il tempo di pensare a come reagire che Dinah si era già ritratta. «Non devi darmi alcuna spiegazione, cara» disse, abbozzando un sorriso. All’udire quel “cara” Nyssa si sentì svenire. Era un sogno, per caso? «Laurel mi ha spiegato tutto. E sebbene tutta questa storia sia un po’ contorta… credo di capire perché lo hai fatto. Credo» ripeté, come se una volta non fosse abbastanza.
L’Erede del Demonio si voltò verso la maggiore delle sorelle Lance, che stava sorridendo sotto ai baffi. “Laurel mi ha spiegato tutto.” Chissà perché proprio oggi.
Subito dopo, per spezzare l’atmosfera imbarazzante che si era venuta a creare, Sara si avvicinò alla madre e la abbracciò a sua volta. Nyssa, invece, non mosse un muscolo: era ancora intontita per le parole di Dinah.



Dopo essersi tolte i cappotti ‒ sebbene fosse agosto fuori c’era parecchio vento ‒ Sara e Nyssa si accomodarono nella sala da pranzo, seguite a ruota dal resto della famiglia. Quentin si sedette a capotavola, con Sara alla sua sinistra, mentre Dinah si mise di fronte a lei e Laurel al suo fianco, davanti a Nyssa.
Dopo non molto, Quentin iniziò a parlare animatamente di uno strano caso a cui stava lavorando, mentre Dinah raccontò alcune storie divertenti riguardo alla sua vita quotidiana all’università. Laurel e Sara ridevano a ogni sua battuta, e Quentin controbatteva a sua volta con qualche freddura, come se quella fosse una normalissima cena di famiglia. Nyssa spiluccò a lungo il suo maiale in agrodolce senza dire una parola, fino a quando Dinah non la interpellò.
«E tu, cara? Non hai niente da raccontare?»
La figlia di Ra’s alzò lentamente lo sguardo. Colta alla sprovvista, aprì un poco la bocca, pensando rapidamente a qualcosa da dire. Perché continua a chiamarmi “cara”?
Non trovando niente di interessante da raccontare, tirò fuori la prima cosa che le venne in mente: «Al lavoro non si parlava altro che dell’Incantatrice.»
Il capitano annuì in silenzio, poggiando con cautela le posate sul tavolo. Sembrava che volesse dire qualcosa, ma Dinah lo precedette, ignorando il riferimento all’assassina. «Hai trovato lavoro?»
«In un bar» rispose in fretta Sara. Troppo in fretta, pensò Nyssa, lanciandole una rapida occhiata.
«Anche Sara faceva la barista ai tempi del college, lo sai?»
«Sì, me l’ha detto» annuì la mora, sorridendo appena. «Mi ci è voluto un po’ per imparare. Non avevo mai…» Si morse l’interno della guancia con forza. Cosa poteva dire, che non aveva mai usato una macchina per il caffè in vita sua? Che non aveva mai imparato a pulire un pavimento? Che non aveva mai lavorato? Per fortuna aveva chiuso la bocca un attimo prima di rovinarsi ulteriormente la reputazione con i genitori di Sara.
Tuttavia, Dinah intuì quello che avrebbe voluto dire e annuì a sua volta, unendo le mani sul tavolo. «Già, nemmeno io avevo mai lavorato prima di laurearmi. Ho sempre e solo insegnato. Era l’unica cosa che mi riusciva bene.»
«Beh, non eri male neanche a fare la mamma.»
Al commento di Laurel, Dinah sorrise amorevolmente. Sara, invece, avvampò. Nyssa non capì se era stata la parola “mamma” a provocare in lei quella reazione, o se si trattava semplicemente di uno degli effetti collaterali della gravidanza, come la stanchezza eccessiva e la fame senza fine. Ma la risposta era chiaramente stampata sulla faccia di Sara.
Effettivamente, prima d’ora nessuna delle due ci aveva pensato seriamente. Avevano sempre etichettato la “questione bambino” come il loro unico pretesto per poter cominciare a vivere come due persone normali. Ma era anche vero che stavano prendendo la situazione sottogamba.
Sara sarebbe diventata madre molto presto. E anche Nyssa, a modo suo, la sarebbe stata. Solo l’idea le fece venire la pelle d’oca.
Era ovvio che prima o poi si sarebbero dovute responsabilizzare, cominciando a ragionare come due donne e non come due assassine in fuga. Avrebbero dovuto trovare un accordo con Ra’s, convincerlo a lasciarle andare anche se era un’idea assurda e irrealizzabile, ma ci dovevano provare. E avrebbero dovuto amare quel bambino con tutte le loro forze, donandogli affetto ed essendo la loro guida lungo il suo cammino.
Tutto questo, ovviamente, nell’ipotesi che Oliver concedesse loro di tenerlo. E che loro due non venissero ammazzate prima.
Sara iniziò ad annaspare, in ansia. Si pulì la bocca con il tovagliolo, dopodiché si alzò di scatto dalla sedia, facendola strisciare sul pavimento. «Devo andare in bagno.»



Sara si richiuse in fretta la porta alle spalle, stringendo a lungo la mano intorno al pomello. Stava sudando in modo esagerato. Prese qualche respiro profondo, dopodiché aprì il rubinetto e si passò dell’acqua fresca sul viso.
Sta’ calma.
Sospirò, le gote ancora rosse per l’imbarazzo. Si sentiva svenire e non sapeva nemmeno lei il perché. Tutta quella storia la stava consumando da dentro. Cosa avrebbe pensato la sua famiglia di lei? Che era rimasta la stessa stupida ragazzina di un tempo? Che non era riuscita a prevenire di restare incinta? Che aveva tradito Nyssa andando a letto con un altro uomo?
Non era la verità e lo sapeva bene, perché lei e Nyssa si erano lasciate quando era stata con Oliver, ma riflettendoci ora, si sentiva una traditrice. Quando l’Erede del Demonio era tornata a Nanda Parbat, Sara non ci aveva pensato due volte a rimettersi con Oliver. Era persino arrivata a compromettere il rapporto con sua sorella pur di mandare avanti quella relazione senza futuro. Si era convinta che riconquistare l’unico uomo che aveva amato prima di Nyssa sarebbe stato il modo migliore per dimenticarla, ma alla fine aveva ceduto ed era tornata da lei. E ora che era incinta, la mora aveva accolto la notizia a braccia aperte, come se fosse stata una cosa che aspettava da tempo. Come se non desse peso al fatto che quel bambino era il figlio di Oliver. Come se non fosse mai successo nulla.
È questo l’amore, lo capisci?, pensò Canary, guardandosi allo specchio con un velo di malinconia a contornarle gli occhi. In vita sua, lei aveva amato soltanto Oliver e Nyssa. Prima di salire sullo yacht con Arrow, aveva avuto una breve relazione con un ragazzo alle superiori, dopodiché gli altri erano stati tutti flirt. Tuttavia, a differenza di quello che credevano in molti, non si era mai permessa di andare a letto con degli sconosciuti. Le piaceva ammaliare i ragazzi con il suo fascino, sedurli fino a farli impazzire, ma non era mai andata oltre al bacio e a qualche “toccatina” occasionale. Il suo lato romantico l’aveva sempre bloccata appena in tempo, ricordandole che avrebbe dovuto permettere di toccarla nel profondo solamente a qualcuno che amava davvero.
Con Oliver era stato amore a prima vista. Si erano conosciuti da bambini e non era mai riuscita toglierselo dalla testa: più e più volte si era ripromessa di dirglielo, credendo che quel sentimento fosse ricambiato, ma non trovò mai il coraggio di farlo. E quando lui e Laurel si fidanzarono, fu come se il mondo le fosse crollato addosso. Sara cominciò a credere di non essere abbastanza bella e intelligente come Laurel per poter conquistare Oliver, sebbene alla fine lo avessero perso entrambe: lui aveva scelto Felicity.
Con Nyssa era stato diverso. Il loro amore era nato gradatamente, permettendo a entrambe di scoprire che cosa fosse quello strano sentimento che condividevano. Quando aveva capito di essere innamorata di lei, aveva anche compreso che quell’amore era molto più grande di quello che aveva provato nei confronti di Oliver. Era più passionale, più affettuoso, più vero. Lo aveva capito dopo la loro prima notte d’amore, perché non era stata neanche lontanamente emozionante come le innumerevoli passate con Oliver. Al solo ricordo le venne la pelle d’oca.
All’improvviso, Sara udì due leggeri colpi sul legno della porta, che la fecero sussultare. «Tesoro, posso entrare?» Dinah fece una pausa, mentre Sara iniziò a respirare più velocemente di prima. «Devo lavarmi le mani. Sono unte di pollo.»
Dopo un primo momento di esitazione, Sara si avvicinò al gabinetto, tirò lo sciacquone e si schiarì la voce. «Puoi entrare.»
Dinah spalancò la porta un secondo dopo. Sara la guardò mentre le si avvicinava di qualche passo, un sorriso dolce a contornarle le labbra. Le sue mani erano perfettamente pulite, e solo allora la donna si ricordò che era stato suo padre a mangiare il pollo, mentre la madre si era limitata ad assaggiare la zuppa di granchio.
«C’è qualcosa che non va, tesoro?»
La bionda serrò la mascella, a disagio. «No, mamma. Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?»
L’altra scrollò le spalle. «Non lo so. Dimmelo tu.»
Sara abbassò lo sguardo nervosa. Per un attimo si pentì amaramente di aver insistito per andare a quella cena; ma poi, comprese che quella era la sua occasione per poter finalmente chiarire con sua madre quanto accaduto mesi prima con Nyssa.
«Mamma, io…» esordì titubante, passandosi una mano sul braccio. Deglutì appena, sentendo l’ansia aumentare ad ogni respiro. «Nyssa ed io... ti posso spiegare. Quando il Queen’s Gambit è affondato‒»
«Sara, no» scattò sua madre, facendosi seria in un attimo. «Non voglio saperlo. Non devi dirmelo solo perché ti senti obbligata. Non farlo.»
La ragazza si strinse nelle spalle. Aveva la gola secca e le bruciavano gli occhi.
Dinah si passò una mano sul volto, sospirando sommessamente. «Adesso ascoltami bene» disse cauta, facendo un altro passo. «Non pretendo di capire quello che hai passato negli ultimi sette anni. Non so cosa ti sia capitato, non ho la più pallida idea di dove tu sia stata e non mi interessa. Mi basta sapere che ora sei qui, a casa, sana e salva. So che la tua vita è complicata. So che sei Canary» sorrise, ma Sara non fece in tempo ad interromperla per controbattere. «Non negarlo. Da cosa l’ho capito? Perché sono tua madre. Non basta una maschera per fregarmi. Ti conosco come le mie tasche da prima ancora che nascessi, eri la mia bambina e la sei ancora, e io ci sarò sempre per te. Mi racconterai quello che ti è successo quando ti sentirai pronta, e allora io ci sarò. E se invece non vorrai mai farlo, andrà bene così. Sei un’eroina. Come lo sei diventata non ha importanza. In ogni caso, non potrei essere più fiera di te e della splendida donna che sei diventata.»
Sara riuscì a trattenere a stento le lacrime durante il discorso di Dinah, ma aveva comunque gli occhi lucidi. Un singhiozzo le morì in gola mentre trovava finalmente la forza di aprire la bocca: «Io non sono un’eroina.»
Dinah le prese entrambe le mani e gliele strinse, e Sara notò che anche lei era sul punto di scoppiare a piangere. «La sei eccome. Non dubitare di te stessa. Volevi salvare il mondo e ci sei riuscita, Sara. E se Nyssa ha contribuito a farti diventare un’eroina, allora non posso fare altro se non esserle grata.»
«Mamma, lei…»
«Aspetta, lasciami finire» disse, tirando su col naso. «Laurel non mi ha detto molto, soltanto che è stata lei a prendersi cura di te in tutti questi anni e che se mi ha rapita sei mesi fa c’è un motivo. Non ha potuto dirmelo, ma ora mi è tutto più chiaro. Nyssa voleva riaverti con sé perché ti ama. Non so perché sia arrivata al punto di mettere in mezzo anche me, non lo voglio sapere, è acqua passata. Ma se anche tu la ami, a me sta bene. Non è un problema, Sara, non lo è affatto.»
Non riuscì a resistere a lungo. Una lacrima le attraversò rapidamente la guancia, e fu subito seguita da un’altra, e un’altra ancora. Dinah la abbracciò, stringendola con forza a sé, accarezzandole dolcemente la schiena come faceva quando, da bambina, faceva un brutto sogno. La bionda inspirò a pieni polmoni il suo dolce profumo alla pesca, ricordando con amarezza tutte le volte in cui sua madre le era stata vicina, anche quando si era trovata lei stessa ad essere dalla parte del torto. Non poteva non essere grata a sua madre per essere così comprensiva, e in parte si sentiva in imbarazzo per non averle detto prima della sua relazione con Nyssa. Ma adesso, capì che non aveva alcuna importanza.
Chiuse gli occhi e sorrise senza rendersene conto, beandosi di quel contatto per un tempo che le parve indefinito. E inconsciamente, pregò che quell’abbraccio non finisse mai.



Nyssa batteva nervosamente il piede destro sul pavimento, e continuò a farlo fino a quando Quentin non ricevette una telefonata che lo costrinse ad alzarsi per rispondere e ad andare in un’altra stanza. Tirò un sospiro di sollievo, per poi alzare lo sguardo in direzione di Laurel. Stava ancora mangiando il suo riso alla cantonese con tutta calma.
«Che cos’hai detto a tua madre?» domandò ad un tratto la figlia di Ra’s, forse con più enfasi di quanto si aspettava. L’avvocato le lanciò un’occhiata inespressiva, per poi bere un sorso d’acqua dal proprio bicchiere.
«Vuoi del vino?»
«Spero per te che tu non ne abbia in casa» rispose ironicamente Nyssa.
Laurel sorrise. «No, infatti. Stavo scherzando.»
La mora ricambiò leggermente il sorriso, ma non riuscì a nascondere l’ansia che provava.
«Non le ho detto più di tanto, non ti preoccupare» fu la schietta risposta di Laurel, prima che ricominciasse a mangiare.
«E questo cosa vorrebbe dire?» chiese ancora Nyssa, inarcando un sopracciglio. «Come faccio a restare calma se non so‒»
«Fidati di me e basta.»
Un attimo dopo, Quentin ritornò nella sala da pranzo, e nel giro di qualche istante ricomparvero anche Sara e sua madre. A Nyssa bastò un’occhiata per capire che l’amata aveva pianto, ma non osò fare domande; quando la ragazza fu seduta nuovamente al suo fianco, le mise invece una mano sulla gamba, e Sara gliela strinse con un sorriso.
«Chi era al telefono?» domandò Laurel, con la bocca piena.
Quentin sospirò. «Un mio collega. Voleva che tornassi in centrale per aiutarlo con un problema non grave, ma io gli ho risposto che ero con la mia famiglia e che se ne poteva tranquillamente occupare il mio vice, che oltretutto è in servizio.»
«Che tipo di problema?» chiese istintivamente Sara, accarezzando il palmo della mano di Nyssa da sotto il tavolo.
Quentin le fece un occhiolino. «Segreto professionale.»



Quando tutti ebbero finito di cenare, più o meno mezz’ora dopo, Sara si accasciò sulla sedia e prese a massaggiarsi lentamente la pancia. «Non ho più mangiato così tanto dal nostro ultimo Natale insieme.»
Laurel arricciò il naso. «Era nel 2006, giusto? Alla festa del tuo diciannovesimo compleanno.»
«Sì, anche se non è che si potesse proprio definire festa» ridacchiò Sara. «Essendo Natale non è venuto nessuno, come al solito.»
«Oliver e Tommy alla fine sono stati gli unici ad essersi presentati a cena. Sono stati proprio carini» esclamò Dinah, senza accorgersi della smorfia di Laurel. Ma Sara la notò all’istante.
L’avvocato scivolò lentamente lungo lo schienale della sedia, a disagio. Deglutì e iniziò a fissare inspiegabilmente un punto nel vuoto. Quando si accorse della reazione della figlia, anche Dinah si irrigidì.
«Che dite, passiamo al dolce?» disse ad un tratto il Capitano Lance, anche lui con lo sguardo rivolto verso Laurel. Sara si strinse nelle spalle. Cosa stava succedendo? C’era qualcosa che lei non sapeva?
«Sì, vado a mettere i piatti sporchi nella lavastoviglie e porto i dessert. Ci sono le pere al vapore, il budino di tofu e i biscotti della fortuna!» affermò la madre di Sara, afferrando subito il proprio piatto.
Nyssa si alzò in piedi con l’intenzione di aiutarla, ma Dinah le lanciò un’occhiata che la fece bloccare. «Non preoccuparti, cara. Ci penso io.»
«Voglio aiutare» insistette la mora. «Abbiamo deciso all’ultimo minuto di venire, perciò non abbiamo avuto il tempo di comprare qualcosa da portarvi per ringraziarvi dell’invito. Permettetemi almeno di fare qualcosa per ricambiare.»
«Oh, no, tesoro, davvero, non ti devi scomodare. Tu sei un’ospite. Ma forse Sara ha voglia di aiutarmi, non è così?»
Canary riemerse dai propri pensieri in un secondo, per poi annuire freneticamente e seguire la madre in cucina con diversi piatti fra le mani. Li inserì nella lavastoviglie uno ad uno, ma prima che riuscisse ad accendere l’elettrodomestico, sentì la mano calda di Dinah sulla sua schiena.
«Tu sei incinta.»
Sara alzò la testa di scatto, confusa e sconvolta. Il panico di pochi minuti prima si impossessò nuovamente di lei e non riuscì a non strabuzzare gli occhi. «Eh?»
«Sei incinta» ripeté Dinah, col fiato sospeso. «Tu sei…»
«Piena. Sono piena, mamma» rispose, massaggiandosi nuovamente il ventre da sopra la maglietta. Se avesse potuto, l’avrebbe alzata per mostrarle che aveva ragione, ma in quel modo si sarebbe rovinata da sola. «Ho mangiato troppo.»
La donna scosse rapidamente la testa in segno di diniego. «Non trattarmi come se fossi una stupida. Si vede benissimo.»
«Mamma, non sono incinta, come fai a‒»
«Quando ti ho abbracciata, prima, avevi il seno gonfio.»
«Ho semplicemente preso una taglia in più?»
«Hai consumato ininterrottamente una pietanza dopo l’altra, come se non mangiassi da mesi.»
«Avevo solo fame. Non è la prima volta che mangio più di tutti!»
«Bevi sempre del vino durante i pasti, eppure stasera non l’hai nemmeno chiesto…»
«Perché Laurel e papà sono degli alcolizzati, mamma, non mi sembrava il caso. E poi dubito che abbiano del vino in casa.»
«…Ed è tutta la sera che ti massaggi la pancia, come se ci fosse qualcosa che non va dentro di te.»
Sara prese un respiro profondo, sfinita. Per quanto ancora poteva andare avanti con quella farsa?
«Sara, voglio solo sapere che cosa sta succedendo» la rassicurò Dinah, accarezzandole la spalla sinistra. «Se sei finita in qualche guaio, io…»
«È di Oliver» disse senza pensare, col cuore che batteva a mille. Le pizzicavano di nuovo gli occhi. «Il bambino è di Oliver.»
Fu come se le avessero tolto un macigno dal cuore.



«È successo tutto così in fretta» sussurrò Sara, sul punto di scoppiare a piangere per la seconda volta in quella sera. «Te lo ricordi, vero? Quando Nyssa se n’è andata noi non stavamo più insieme, per questo mi sono rimessa con Oliver. Non l’ho tradita, giusto?»
«Ma no, tesoro. Certo che no» rispose Dinah, cercando di apparire il più tranquilla possibile. Era seduta davanti a lei al tavolo della cucina e le stava stringendo la mano.
«Oliver lo sa?» aggiunse.
Sara scosse la testa.
«E quando hai intenzione di dirglielo?»
Fece spallucce. «Non lo so. Quando sarò pronta.»
Dinah annuì appena, assimilando in fretta il significato di quelle parole. «Vuoi abortire?»
La bionda si passò la mano libera sul viso, sospirando. «No. Non potrei neanche volendo. Ho superato il tempo massimo.»
«La mia domanda era un’altra.»
Sara scosse il capo, affranta. «Certo che no. No. Non lo so» sospirò ancora, massaggiandosi il collo con entrambe le mani. «È solo che… io non volevo diventare madre. Non adesso. Non era nei miei programmi. Non so nemmeno io come sia potuto accadere» rivelò, tirando su col naso.
Sua madre la guardò intensamente negli occhi per qualche istante. Sara sperava che le dicesse che aveva sbagliato, che era colpa sua e che doveva affrontare le conseguenze da donna adulta e matura: sarebbe stato il suo unico modo per mettersi l’anima in pace e comprendere finalmente che non poteva fare nulla per cambiare gli errori commessi in passato. Ma Dinah non fece niente di tutto ciò. Si alzò in piedi, mise un piatto pieno di biscotti della fortuna in mano a Sara e disse: «Andiamo a finire questa cena come si deve.»



«“Se l’opportunità non bussa, costruisciti una porta”» esclamò Laurel, leggendo la frase scritta nel suo biglietto. «Che cosa significa secondo voi?»
«Che non devi farti delle paranoie sul lavoro e che devi semplicemente guadagnarti i risultati con le tue forze» spiegò Quentin, delineando un sorriso.
La castana fece una smorfia. «Come se non lo sapessi già.»
Quando Sara e Dinah erano tornate nella sala da pranzo, Laurel aveva insistito affinché leggessero i bigliettini contenuti nei biscotti della fortuna: si erano così spostati tutti in salotto, sempre su richiesta di Laurel, e ora stavano confrontando i propri messaggi l’uno con l’altro.
«Bene, tocca a me» affermò Quentin, spezzando il proprio biscotto con uno schiocco. «“Sii padrone di te stesso, e commetterai pochi errori.”»
«Ah, questa la so» lo punzecchiò Laurel, alzando la mano come una giovane scolara. «Si riferisce al fatto che eri uno schiavo della bottiglia, e adesso ti sta esortando a continuare a mantenere il controllo e a non cedere nuovamente alla tentazione di bere.»
Al sentire le parole più che vere della figlia, sul volto di Dinah si formò un’espressione stupita, mentre Quentin serrò la mascella. Laurel lo osservò con un sorrisetto beffardo, ma il capitano non trovò le parole adatte per replicare. «Direi che è meglio proseguire. Su, a chi tocca?» disse invece.
«A me» rispose la signora Lance, alzando in aria il suo biscotto. «“Chi vivrà, vedrà.”»
«Breve ma intenso» scherzò Sara. Le ci era voluto pochissimo tempo per riprendersi dall’ultima conversazione avuta con sua madre e fingere che non fosse successo nulla. D’altronde, era stata Nyssa a insegnarle come essere disinvolta anche nelle situazioni peggiori, ma sapeva che a lei non avrebbe mai potuto mentire perché la conosceva troppo bene. Per questo aveva cercato di evitare il suo sguardo nella seconda parte della serata: per paura che notasse il suo malessere.
«Dinah, c’è qualcosa che devi dirci?» proseguì Quentin, inarcando un sopracciglio.
La donna accartocciò il bigliettino tra le proprie dita. «Certo che no. Sarà solo un presagio» rispose lei.
Sara sospirò, osservando a lungo il biscotto che teneva tra le mani prima di parlare. «Tocca a me.» Lo aprì in mezzo secondo, estrasse il bigliettino e lasciò cadere le due metà del biscotto sulle proprie gambe. «“Un problema è una possibilità che ti viene offerta per fare meglio.”»
Quando lesse la frase, per un attimo sentì lo stomaco contorcersi. Aveva paura. Ne aveva avuta fin dal primo istante, quando la Dottoressa Kawamura le aveva rivelato della gravidanza, ma mai come in quel momento si era sentita così terrorizzata. Nemmeno quando Ra’s l’aveva ricevuta la prima volta si era sentita così indifesa.
Possibile che anche uno stupido bigliettino le stesse dicendo quello che doveva fare? Possibile che a ventisette anni non fosse in grado di capire che ormai non poteva fare più niente per tornare indietro? Doveva rassegnarsi all’idea che un giorno, presto o tardi, le cose si sarebbero complicate. E non importava che lei e Nyssa desiderassero quella vita, perché Ra’s o qualcun altro gliel’avrebbe rovinata. Non erano destinate ad essere due persone normali, e non lo sarebbero mai state. Eppure, ora, erano sedute su quel divano come una qualsiasi coppia che passa la serata in compagnia della propria famiglia, come due donne che si erano conosciute per caso in un luogo comune, come un parco, una boutique o un bar, quando invece erano due assassine che non avevano idea di come crescere un bambino. Ma non ci avevano mai pensato perché quella gravidanza era stata la loro unica possibilità di scappare da quel mondo che avevano temuto per anni, e ora, l’idea di tornare a Nanda Parbat spaventava entrambe.
«Aspetta» disse ad un tratto Nyssa, prendendo in mano una delle due metà del biscotto di Sara. «Guarda» aggiunse, mettendogliela sotto al naso.
La bionda osservò meglio il contenuto del biscotto, per poi constatare che al suo interno c’era un altro bigliettino.
«Uffa» sbuffò Laurel, stringendo le braccia intorno a un cuscino. «Perché sei sempre tu quella più fortunata?»
«Fortunata? Dipende da quello che c’è scritto qui» sorrise Sara, aprendo lentamente il secondo pezzetto di carta. «“Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le rispose.”»
Nyssa raddrizzò la schiena, inspirando profondamente. Perché quei bigliettini erano così accurati? Perché sembrava che fossero stati scritti apposta per Sara e la sua situazione?
«Nyssa, l’ultimo è tuo» la incitò Laurel, facendola riemergere dai suoi pensieri.
La figlia del Demonio spezzò in due il proprio biscotto col cuore in gola. Si schiarì la voce un paio di volte prima di leggerne il contenuto: «“Non è mai troppo tardi per essere ciò che avresti potuto essere.”»
Sara si voltò verso di lei, ma prima che potesse aprire bocca, un rumore attirò l’attenzione di tutti i presenti. Laurel afferrò il proprio cellulare sul tavolino e lo fece smettere di vibrare digitando un codice sulla tastiera. «Scusatemi, prima ho messo dei vestiti in lavatrice e ho programmato la sveglia per ricordarmi di spostare tutto nell’asciugatrice.»
A quelle parole, Sara diede una rapida occhiata allo schermo del cellulare della sorella. «Sono quasi le dieci» esordì, stringendosi nelle spalle. «Nyssa ha lavorato tutto il giorno e onestamente sono stanca anch’io. Se non vi dispiace, andiamo a casa.»
Quentin e Laurel si scambiarono uno sguardo inespressivo, per poi voltarsi nuovamente verso di lei. «Ma no, non c’è problema» disse la maggiore delle sorelle Lance, abbozzando un sorriso.
Si diressero tutti e cinque nell’atrio in silenzio, e mentre Sara terminava di allacciarsi i bottoni del cappotto, Nyssa percepì una mano stringerle il gomito. Si voltò, incontrando lo sguardo serio del capitano, e per un attimo temette che le avrebbe gridato in faccia quello che pensava di lei ‒ che era una maledetta, schifosa assassina, secondo la sua idea ‒ e che non si sarebbe mai più dovuta presentare in casa sua.
«Hai la mia approvazione» disse invece, lasciando Nyssa a bocca aperta. Sospirò prima di proseguire e di mollare la presa sul suo braccio: «Da oggi in poi sarai sempre ben accetta in casa Lance. Ma vedi di non prenderla per un’abitudine.»
Sara inspirò a fatica, assimilando il significato delle parole del padre col cuore in gola. Nyssa era la prima persona che Sara presentava alla famiglia come fidanzata ‒ sia alle superiori che al college non aveva mai portato a casa nessuno dei suoi ragazzi, che aveva sempre definito come “gente che frequentava” ‒, ma quando Laurel stava con Oliver, il Capitano Lance non gli diede mai la sua approvazione. Sara aveva sempre creduto che gli servisse tempo per conoscerlo meglio. In fondo, anche sua madre le raccontava sempre che, quando lei e Quentin si erano fidanzati, ci erano voluti anni prima che suo padre accettasse a sua volta la loro relazione. E dopo anni e anni di fidanzamento tra Laurel e Oliver senza che Quentin accettasse la cosa, Sara aveva capito che suo padre avrebbe fatto lo stesso con lei. Non avrebbe permesso a un uomo di entrare tanto facilmente nella sua vita, e il pensiero che ora Quentin avesse addirittura dato la sua approvazione ad una donna, la fece sentire più orgogliosa di lui di quanto avrebbe mai immaginato.
«E cosa più importante, anche se non ho dubbi al riguardo, trattala bene» aggiunse, indicando la figlia minore con lo sguardo. «Non farmi pentire della mia decisione.»
Nyssa non aveva idea di cosa significasse quella frase. Corrispondeva a quando suo padre le diceva che, secondo lui, un mercenario sarebbe stato o meno all’altezza di prenderla come moglie? Non ne era certa, ma sapeva che era la cosa più bella che Quentin Lance avrebbe mai potuto dirle. E lo sguardo pieno di allegria di Sara le fece capire che aveva ragione.



Sara si slacciò il reggiseno con un rapido gesto della mano, per poi lasciarsi andare ad un sospiro di sollievo. Si infilò la t-shirt del pigiama e si passò una mano tra i capelli, dopodiché si voltò verso la portafinestra. Nyssa era appoggiata al parapetto e le dava le spalle.
Quando erano rientrate, la mora era uscita in terrazza per bere un bicchiere di vino e, a distanza di quindici minuti, era ancora lì, sola e pensierosa.
La bionda sospirò ancora, afferrò il proprio cappotto e raggiunse l’amata sul balcone.
«Ehi» esordì, incrociando le braccia.
L’Erede le rispose con un sorriso stanco. «Ehi» replicò senza voltarsi. Iniziò a giocherellare col bicchiere mezzo vuoto, osservando il proprio riflesso nel liquido viola, per poi mandarne giù un altro sorso. Rifletté qualche secondo chiedendosi se parlare con Sara di quello che la affliggeva fosse la cosa giusta da fare, e quando trovò la risposta a quella domanda le parole le uscirono di bocca senza che se ne accorgesse. «Credi che le frasi contenute nei biscotti della fortuna avessero una sorta di significato veritiero? Insomma, so che sono solo delle stupidaggini e delle casualità, ma sembravano calzare a pennello con la nostra situazione attuale.»
Sara si strinse nelle spalle, a disagio. «Non ne ho idea. Ma spero sia così.»
Nyssa deglutì sommessamente. «Anch’io.»
Il vento si era attenuato, ma faceva ancora molto freddo. Un brivido attraversò la schiena di Sara, ma la donna, intenzionata a scoprire che cosa passasse per la testa della fidanzata, non osò prendere in considerazione l’idea di tornare all’interno dell’appartamento senza di lei.
«Mia madre sa tutto» disse poi col fiato sospeso, come se temesse che fosse quello il motivo dell’inspiegabile silenzio di Nyssa. «Non volevo dirglielo, giuro, l’ha capito da sola. Non so nemmeno io come ha fatto, solo‒»
«Lo so, Sara. Lo so» disse cautamente l’Erede, svuotando completamente il bicchiere. Lo posò a terra e si leccò le labbra. «Era chiaro che ci sarebbe arrivata prima di tutti. È tua madre, ti conosce meglio di chiunque altro.»
Canary non seppe in che modo replicare. Quella conversazione stava diventando sempre più strana, ma decise di non arrendersi. Osservò a lungo le punte delle sue pantofole rosa prima di udire nuovamente la voce dell’altra donna.
«Tuo padre mi ha… sorpresa.»
Sara si avvicinò ulteriormente all’amata con le braccia strette intorno alla vita, sorridendo appena. «Lo so. Ha sorpreso anche me.» Fece una pausa, inspirando profondamente, per poi proseguire: «Quando ero piccola mio padre mi diceva che un giorno, quando avrei avuto una miriade di ragazzi ai miei piedi, lui avrebbe dato la sua approvazione solamente a colui che avrebbe ritenuto idoneo per chiedermi la mano. Non lo aveva mai fatto con nessuno prima d’ora.»
«Quindi è un privilegio per me?» chiese maliziosamente l’altra.
«Può darsi» rispose Sara, abbracciandola di slancio da dietro.
Nyssa annuì senza un motivo, riponendo lo sguardo nel vuoto senza ricambiare la stretta. Sara si allontanò senza dire una parola, ma era visibilmente confusa.
«Sicura di stare bene?»
Ancora una volta, la mora non osò alzare il capo. Sembrava solo stanca e assonnata, ma in realtà c’era ben altro sotto. Eppure, per la prima volta dopo tanto, sembrava che Nyssa facesse fatica ad esternare ciò che provava con Sara. Poi, come se le avesse letto nel pensiero, cominciò a parlare.
«Tua madre è stata gentile con me. Forse troppo.»
A Sara bastò quella frase, o meglio, il modo con cui l’aveva pronunciata, per capire. Come aveva fatto a non pensarci prima?
Si avvicinò a Nyssa di qualche passo, poggiandole cautamente una mano sulla spalla. «Amore, io…»
«Non credevo che avrei reagito in questo modo» proseguì, gli occhi gonfi di lacrime pronte a cadere «ma non riesco a controllarmi. È più forte di me, capisci? Mi manca troppo. Non ce la faccio ad andare avanti senza di lei. Non ci riesco.»
«Ehi» ripeté Sara, prendendole il viso tra le mani e costringendola in questo modo a guardarla negli occhi. «Sei più forte di così. Se sei sopravvissuta fino ad oggi riuscirai a farlo ancora per molto tempo. Tua madre non vorrebbe che ti abbattessi, lo sai.»
«Non voleva neanche che diventassi un’assassina, eppure nessuno le ha dato ascolto.»
Le dita di Sara iniziarono a bagnarsi delle lacrime calde di Nyssa, ma la minore delle sorelle Lance non se ne curò minimamente e continuò ad accarezzarle le guance. «Non farti del male in questo modo, ti prego. Smetti di ricordare.»
«Ma è Dinah che me la ricorda un sacco» rivelò infine, iniziando ad ansimare. «Erano entrambe così dolci, così gentili e delicate… l’unica cosa che le rende diverse è che lei è viva e ti ha vista crescere, mia madre no.»
«Nyssa‒»
«Mi sono sempre domandata come fosse avere una madre al proprio fianco. Tornare a casa e raccontarle com’è andata la giornata a scuola, chiederle un consiglio quando si ha un problema, parlarle del primo amore… ma lei se n’è andata troppo presto affinché capissi che cosa significasse avere una persona pronta a guidarti e ad aiutarti a distinguere le cose giuste da quelle sbagliate.»
«Hai avuto tuo padre. Ti ha cresciuta lui, Nyssa, non eri sola. Non sei mai stata sola.»
«Ma era come se lo fossi.»
Si asciugò le lacrime con la manica della giacca, costringendo Sara a ritrarre le proprie braccia. Tirò su col naso e rivolse nuovamente lo sguardo alla città che si estendeva davanti a lei.
«Se mia madre non fosse morta, a quest’ora non sarei qui. Se fosse ancora viva non sarei mai diventata un’assassina. È colpa di mio padre se non ho mai avuto la possibilità di vivere una vita normale. È solo colpa sua.» Afferrò il bicchiere più in fretta che poté e sentì il bisogno di lanciarlo giù dal palazzo, ma fortunatamente riuscì a trattenersi. «Tu sei fortunata, Sara. Non hai visto tua madre morire davanti ai tuoi occhi.»
E come se un uragano si fosse abbattuto su di loro, Nyssa tornò di corsa dentro casa, seguita a ruota da Sara. Tuttavia, quest’ultima si fermò a metà del corridoio, bloccata da una forte sensazione di malessere. Tentò di reprimere il conato, ma non ci riuscì. Si diresse così più in fretta che poté verso il bagno e, una volta davanti al gabinetto, vomitò la sua cena. Si liberò di tutto quello che aveva trattenuto quella sera, dalle emozioni represse alla sensazione di inadeguatezza all’idea di diventare madre. Come avrebbe fatto a crescere un figlio se non era nemmeno in grado di capire cosa turbasse la donna che amava più di ogni altra cosa? Ormai quel dubbio si era impossessato di lei. Sarebbe mai stata in grado di essere una buona madre? Non lo sapeva. Ma l’unico modo che aveva per scoprirlo, era andare avanti.







[1] Participio passato del verbo porgere.
[2] Noi sappiamo che durante la seconda stagione Oliver ha perso i suoi contatti con la Bratva, ma l’Incantatrice non lo sa.
[3] È una pura casualità (volutamente inserita da me, obviously) che nello stesso capitolo sia l’Incantatrice che Roy abbiano chiesto a Oliver di mettersi in contatto con la mafia russa. Roy può semplicemente non essere stato messo al corrente della cosa, o può essersene dimenticato. In ogni caso i due fatti non sono in alcun modo collegati.


 




Ormai aggiorno così di rado che quando lo faccio è un evento xD
Okay, questo è in assoluto il capitolo più lungo che abbia mai scritto e devo ammettere che è stato un vero e proprio parto. Non so come sia riuscita a scriverlo in tre mesi ma ce l’ho fatta, e adesso mi sento molto più sollevata. And, oggi abbiamo imparato che:
1. Sara non dirà mai a Oliver che è incinta se continua a procrastinare in questo modo.
2. Maseo e Ra’s stanno tramando qualcosa ma non si sa cosa.
3. Dinah è la mamma più buona del mondo.
A tal proposito, il titolo in italiano rendeva di più secondo me, ma dato che la mia idea iniziale era che tutti i capitoli avessero un titolo scritto in inglese non ho potuto fare altrimenti :/
Il prossimo capitolo dovrebbe (e sottolineo dovrebbe perché di sicurezza con me non ce n’è mai) essere mooolto più breve di questo, anche perché se continuo così la long la dovranno finire i miei bisnipoti ahahahah
Un bacio e alla prossima!

P.S. Le scommesse per il sesso del futuro pargolo Queen/Lance/Raatko sono ancora aperte ;)

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Capitolo 10
*** Capitolo 9: Revelations ***


 

Capitolo 9: 
Revelations

 

 

 

 

Quando Sara si fu ripresa, non ebbe il coraggio di tornare da Nyssa. Nonostante la porta della camera da letto fosse chiusa, riusciva a sentirla piangere dal corridoio, e il solo pensiero di doverla affrontare ancora le fece venire la pelle d’oca; così, decise di uscire a fare una passeggiata per schiarirsi le idee. Corse giù per le scale dell’edificio col cuore che batteva a mille, e solo dopo qualche minuto si rese conto di essersi dimenticata di infilarsi le scarpe. Ben presto, realizzò quanto fosse scomodo camminare lungo il marciapiede con le pantofole; si appuntò mentalmente di lavarle una volta tornata a casa, ma al momento non era quella la sua preoccupazione più grande.
Nyssa non parlava mai di sua madre. Con Sara lo aveva fatto poche volte, e quasi sempre la conversazione era terminata con l’Erede che scoppiava in un mare di lacrime e con la bionda al suo fianco pronta a consolarla. Questa volta, invece, Sara si era arresa. Continuava a ripetersi che lo aveva fatto per lei, che aveva preferito andarsene per lasciarla in pace, quando in realtà aveva semplicemente capito che non sarebbe mai riuscita a gestire la cosa. Non questa volta.
Continuò a camminare per un tempo indefinito, passando per strade che non aveva mai visto prima, fino a quando non giunse all’imbocco di The Glades e decise di fare dietrofront. Nello stesso istante, udì il suono del campanile non molto distante: era appena scoccata la mezzanotte.
Quando rincasò, cercò di fare meno rumore possibile. Lanciò uno sguardo al corridoio buio e, intenzionata a non creare ulteriore confusione con Nyssa, decise che quella notte avrebbe dormito sul divano. Si coprì con un plaid di lana che le aveva regalato Laurel pochi giorni prima, rigirandosi a lungo alla ricerca di una posizione comoda, fino a quando non finse che Nyssa la stesse abbracciando da dietro come faceva ogni notte e riuscì ad addormentarsi.

*

Dinah lanciò un’occhiata alla porta d’ingresso, per poi posare nuovamente lo sguardo sul quotidiano che aveva fra le mani. Ormai stava aspettando Sara da dieci minuti buoni e, non avendo ricevuto alcun messaggio riguardante il suo ritardo, stava seriamente cominciando a preoccuparsi.
Pochi istanti dopo, però, la porta del locale si aprì nuovamente e questa volta fu proprio la figlia minore di Dinah ad occupare la sua visuale. La donna tirò un sospiro di sollievo, riponendo con cura il giornale accanto a sé.
Non appena Sara ebbe individuato la postazione della madre, la raggiunse a passo spedito, le diede un rapido bacio sulla guancia e si sedette di fronte a lei.
«Buongiorno» disse la bionda, con un tono di voce piuttosto basso.
«Buongiorno anche a te, tesoro» sorrise Dinah, mostrando i suoi denti bianchissimi.
La sera precedente, prima che Sara e Nyssa tornassero a casa, la signora Lance aveva fatto promettere alla figlia che il giorno successivo, prima del suo ritorno a Central City, si sarebbero incontrare al Joker Bar[1], una caffetteria aperta da poco che si trovava a South Boulevard, per fare un’ultima chiacchierata.
Sara si strinse nelle spalle, per poi passarsi le mani congelate sulle ginocchia nel tentativo di scaldarle. «Sbaglio o fa un po’ troppo freddo qui dentro?»
La signora Lance osservò la figlia per qualche istante, inarcando un sopracciglio di fronte al modo esagerato in cui stava tremando nonostante fosse agosto inoltrato. «Stai bene?»
«No, per niente.»
Dinah rimase in silenzio per alcuni secondi. «Riguarda la gravidanza o…»
«Non mi va di parlarne» rispose Sara, questa volta con un tono più brusco di quanto si aspettasse.
Tuttavia, Dinah non reagì in alcun modo se non annuendo. «Ordiniamo una tisana?»



Sara iniziò a calmarsi solamente quando ebbe finito la propria bevanda, ma sapeva che il peggio doveva ancora arrivare. Dinah era rimasta in silenzio per tutto quel tempo e ciò significava soltanto una cosa: stava per farle la ramanzina peggiore del secolo. Se la sera prima si era comportata in modo comprensivo e affettuoso, adesso era sicuramente pronta ad esplodere e a dire in faccia a Sara le cose come stavano, ossia che era una stupida e un’incosciente, e che non sarebbe mai stata in grado di crescere un figlio senza un lavoro che non prevedesse l’uccisione di qualcuno. Canary era già pronta per essere rimproverata, ma Dinah, nel vederla così sconvolta, scoppiò in una fragorosa risata.
«Non sono qui per sgridarti, se è questo che pensi» spiegò, pulendosi la bocca con il tovagliolo.
Sara corrugò la fronte, confusa. «E allora perché sei così silenziosa? Quando ero piccola lo facevi sempre prima di darmi una strigliata.»
Dinah intrecciò le mani sotto al mento, diventando improvvisamente seria. «Perché avevo bisogno di riflettere su cosa fosse giusto dire.»
Sara deglutì. «Riguardo a cosa?»
La signora Lance non rispose. Allungò una mano in direzione della propria tazza, dopodiché la attirò verso di sé. «Beviamo ancora qualcosa prima di continuare?»
«Come facevi a sapere che ero incinta?»
Dinah sorrise. «Non lo sapevo.»
«Scusami?»
«L’ho ipotizzato per i motivi che ti ho elencato, ma non potevo esserne sicura al cento per cento. Magari eri solo ingrassata e le tue abitudini negli ultimi sette anni potevano essere cambiate, ma ero parecchio dubbiosa al riguardo. Me lo sentivo che c’era qualcosa che non andava in te, e alla fine la mia teoria si è rivelata fondata.»
La bionda annuì piano, senza alzare lo sguardo. «Hai altro da dire?»
Dinah si strinse nelle spalle. «No. Direi che puoi andare.»
Sara tirò un sospiro di sollievo, dopodiché si preparò a pagare il conto e ad andarsene. Quella conversazione aveva preso una brutta piega e temeva che presto o tardi tutta l’ansia che tratteneva da ore sarebbe esplosa. Tuttavia, prima che riuscisse ad alzarsi in piedi per dirigersi alla cassa, la voce di sua madre la bloccò ancora.
«Sara.» La diretta interessata incontrò il suo sguardo, in cui riuscì a scorgere solamente il proprio riflesso sbiadito. «So che siete state tu e Nyssa a catturare l’Incantatrice» sussurrò, assicurandosi che nessuno la sentisse. «Sono fiera di te, amore mio, ma ho bisogno che tu sospenda temporaneamente la tua carica di vigilante. Se vuoi portare avanti questa gravidanza senza correre rischi, non devi assolutamente esporti come fai di solito. Con questo, però, non ti sto incitando a rinunciare per sempre ad indossare quella maschera, semplicemente ti consiglio di aspettare la nascita di tuo figlio. A questo proposito, ho bisogno di chiederti un’altra cosa.» Delineò un sorriso, notando appena il modo in cui le labbra di Canary stavano tremando. «Per nessun motivo al mondo, non devi smettere mai di fare quello che fai e di essere ciò che sei. Per nessun motivo, Sara. Ricordalo.»
«E cosa sarei?»
«Una guida» rispose Dinah, con gli occhi che le brillavano. «Un’eroina.»
Sara non rispose, segno che non era d’accordo con quell’affermazione. Si limitò ad abbassare nuovamente lo sguardo sulla sua tazza vuota, ma ciò non bastò a nascondere le lacrime che le pungevano gli occhi.
«E so che posso sembrare ripetitiva, tesoro, ma devi dirlo a Oliver. Devi farlo il prima possibile, altrimenti ti odierà per non avergli detto che il bambino che porti in grembo è il suo. Le vostre vite sono già abbastanza complicate, perciò aggiungere ulteriori contrasti non è la mossa migliore da fare.»
Sara inspirò profondamente, dopodiché annuì. «Lo farò, mamma. Te lo prometto.»
Fu allora che Dinah rivelò quello che realmente pensava su quella gravidanza. «Sapevo che saresti stata tu la prima a darmi un nipote.»
«Perché al liceo flirtavo con più ragazzi contemporaneamente?» rise la bionda.
La signora Lance scosse la testa. «Perché tua sorella ha sempre pensato a costruirsi una carriera, come feci io a mio tempo, mentre tu avevi una mentalità più aperta, proprio come tuo padre. Credevi che il futuro non si potesse programmare, che la tua anima gemella potesse trovarsi dall’altro capo del mondo e che saresti potuta rimanere incinta da un momento all’altro perché gli incidenti possono capitare. E alla fine, tutte queste predizioni si sono avverate. A questo punto non posso fare altro che chiedermi come sarebbe stata la tua vita se quel giorno ti avessi proibito di salire sul Queen’s Gambit con Oliver.»
«Di sicuro sarebbe stata più spensierata, ma anche noiosissima» ironizzò Sara, delineando un sorriso. «Voglio dire, non sarò diventata un medico come desideravo, ma posso comunque aiutare le persone. E credimi quando ti dico che se potessi tornare indietro non cambierei ogni singola decisione. Quando sono salita sul Gambit ero consapevole di quello che stavo facendo e dei rischi che correvo: sapevo che Laurel mi avrebbe potuta scoprire, e che se lo avesse fatto mi avrebbe odiata a morte, ma me ne sono infischiata perché ero convinta che si fosse messa insieme a Oliver solamente per darmi fastidio. E quando tu mi hai dato il consenso di partire con lui, per la prima volta in vita mia, mi sono sentita più forte di Laurel: oggi invece ringrazio il cielo per aver fatto sì che su quella nave ci salissi io e non lei, perché non augurerei a nessuno di passare quello che ho passato io. Quindi sì, mamma, quel giorno hai fatto davvero la cosa sbagliata lasciandomi andare, ma senza volerlo hai anche fatto la cosa giusta. Se non fossi mai salita su quella barca, a quest’ora non saprei combattere, non avrei mai conosciuto l’amore e non porterei questo bambino in grembo. Forse non lo hai ancora capito, ma è solo grazie a te se sono diventata la donna di cui tanto sei fiera. Quindi grazie, mamma. Grazie per avermi fatta diventare una persona migliore di quella che ero.»
Al sentire quelle parole, Dinah si passò una mano sulle guance bagnate, non prima di aver stretto la figlia fra le proprie braccia con tutte le forze che aveva in corpo.



Sara girò la chiave nella serratura con un groppo in gola: l’incontro con sua madre era stato piuttosto malinconico, e il pensiero di quello che sarebbe accaduto ora la faceva esitare. Si tolse la giacca e la scarpe, prese un respiro profondo ed entrò in camera.
Nyssa era distesa nel suo lato del materasso, lo sguardo rivolto verso il soffitto e le mani unite sullo stomaco. Quando notò Sara, sembrò illuminarsi.
«Come va?» domandò la bionda, avvicinandosi lentamente al letto.
Nyssa attese che la ragazza si fu distesa accanto a lei prima di rispondere. «Ho chiesto a Josh un giorno di riposo.»
Sara sorrise lievemente. «Di sicuro non starai facendo una buona prima impressione con il tuo capo visto che continui ad evitare di andare al lavoro.»
A quella frase, la mora affondò la testa nel cuscino, e Sara prese ad accarezzarle dolcemente la schiena. Rimasero in quella posizione per qualche minuto, fino a quando Nyssa si voltò in direzione dell’amata costringendola a fare lo stesso affinché si potessero guardare negli occhi.
«Quando ero piccola mia madre mi diceva sempre che un giorno mi sarei innamorata. Sosteneva che avrei incontrato un uomo fantastico e che avrei fatto follie per lui, così come lei aveva fatto per mio padre.» Sospirò, trattenendo a stento le lacrime. «Sono felice di aver constatato che si sbagliava. Non mi sarei mai perdonata se avessi sprecato il mio tempo con un uomo simile a mio padre.»
La bionda poggiò il gomito destro cuscino, sorreggendosi il mento con il palmo della mano. «Ma hai comunque fatto follie per amore.»
«Non per un uomo» puntualizzò l’altra, stringendo una mano sul lembo del cuscino. «Per te ne è valsa la pena.»
Un lieve rossore contornò le guance di Sara, ma Nyssa non fece in tempo a notarlo perché subito dopo si accoccolò sul suo petto e le circondò la vita con un braccio. «Sei andata all’incontro con tua madre questa mattina?»
Sara rispose con un mormorio di assenso, e Nyssa non riuscì a nascondere un sorriso.
«Sono felice di sapere che Dinah non ce l’ha più con me.»
Canary sorrise a sua volta, iniziando ad accarezzare i capelli dell’Erede. «Anche io» sussurrò dolcemente.
«È tornata a Central City?»
«Sì, ma verrà a trovarci il prima possibile. Forse riuscirà a liberarsi in tempo per il compleanno di Laurel.»
Nyssa annuì piano, mentre Sara le diede un leggero bacio sul capo.
«Se per te è troppo dura passare del tempo con mia madre, io…»
«Non è troppo dura, Sara. Tua madre è una persona meravigliosa. Non potrei mai rifiutare di trascorrere del tempo in sua compagnia.»
«E che mi dici di quello che è successo ieri notte?»
La figlia di Ra’s si irrigidì, ma riuscì a trovare la forza di alzare lo sguardo e di incontrare nuovamente quello dell’amata. «Non so nemmeno io cosa mi sia preso. Forse sono solo stanca di essere forte. Forse voglio solo lasciarmi andare e liberarmi di tutte le emozioni che sono stata costretta a trattenere in tutti questi anni.»
«Con me puoi farlo. Lo sai bene» la incitò Sara, prendendole il viso tra le mani. «Possiamo ridere, piangere, o fare il culo a qualche criminale quando ti pare e piace. Ma dobbiamo farlo insieme. Sto facendo del mio meglio per far sì che tra di noi non ci siano segreti, Nyssa, ma tu devi fare lo stesso. Se tutta questa situazione ti sta stressando al punto da farti ricordare tua madre, lo voglio sapere. Anche se questo significa svegliarmi nel cuore della notte per stringerti la mano mentre hai solo voglia di urlare. Hai capito?»
Lo sguardo di Sara ricadde per qualche istante sulle labbra tremanti di Nyssa.
«Ora ricordo perché mi sono innamorata di te» sussurrò la mora, per poi sorridere a labbra aperte. Poi Sara la baciò, e all’improvviso tutti i loro problemi scomparvero nell’arco di un secondo.

*

«Chi di voi ha ordinato un caffè macchiato e una brioche al cioccolato da portare via?»
«Oh, sono io!» esclamò un signore sulla sessantina, avvicinandosi in fretta al bancone.
«Avrei dovuto immaginarlo. Ordina le stesse cose ogni giorno!» replicò Nyssa, consegnando lo scontrino all’anziano dai folti baffi bianchi.
Quest’ultimo, al sentire quella frase, sospirò. «Mia figlia lavora in un’agenzia immobiliare non molto distante da qui, e da quando è stata lasciata da suo marito non è più la stessa. Così tutte le mattine le porto una brioche al cioccolato, il suo gusto preferito, nel tentativo di farla rallegrare un po’. Inutile dire che non basta un dolce di pasticceria per tirarla su di morale, ma almeno per cinque minuti riesce a mentire bene riguardo al suo umore» sorrise tristemente l’anziano.
«È un bel gesto da parte sua. Credo che anche sua figlia la pensi così.»
«Lo spero. E lei, che mi dice? È sposata, fidanzata? O beatamente single? Sa, mi sembra troppo giovane per essere sposata. Inoltre non porta la fede.»
Nyssa trattenne a stento una risata. «No, sono solo fidanzata. Ma spero di sposarmi, un giorno o l’altro.»
L’uomo, che la mora aveva idealmente chiamato Martin[2], mandò giù l’ultimo sorso di caffè, dopodiché diede un’occhiata allo scontrino. «Ed è felice?»
Nyssa non ci rifletté un secondo di più. «Sì. Sì, lo sono.»
L’altro sorrise lievemente. «Bene. È l’unica cosa che conta.» Tirò fuori dalla tasca una banconota da venti dollari e la mise sul bancone, ma quando l’Erede del Demonio si sporse per dargli il resto, lui era già sulla porta del locale.
«Ehi! Ha dimenticato‒»
«Tenga pure il resto.»
Nyssa lanciò una rapida occhiata al denaro che aveva fra le mani. «Ma sono più di dieci dollari!»
L’anziano le fece un cenno col capo. «La consideri una piccola mancia perché mi sopporta ogni mattina… e per la chiacchierata.» Nyssa tentò di dire qualcosa, ma l’uomo la interruppe nuovamente. «E mi creda, signorina, lei è giovane e la vita se la può ancora godere. Perciò, le do un consiglio: se è davvero felice, non deve sprecare nemmeno un istante dei suoi giorni accanto alle persone che ama. Ci vediamo domani.» E prima che la mora potesse ringraziarlo, Martin scomparve fuori dal locale.
Nyssa sorrise involontariamente: non era la sua prima mancia, ma il pensiero che un perfetto sconosciuto la considerasse una confidente la faceva sentire quasi una persona normale. Infilò i soldi nella tasca del grembiule, dopodiché si portò una ciocca di capelli dietro all’orecchio e iniziò a preparare i caffè per gli altri clienti.
«Come procede?»
La ragazza si voltò, incontrando lo sguardo neutro di Josh. «Mi sono guadagnata una mancia sostanziosa perché sono una buona ascoltatrice.»
Josh alzò le sopracciglia, incrociando meccanicamente le braccia. «Ti sei guadagnata la mancia perché sai fare il tuo lavoro.»
«Come siamo modesti.»
L’uomo rise appena, per poi passarsi distrattamente una mano tra i capelli. «Ascolta, Nyssa…» sospirò, attirando la completa attenzione dell’Erede. «C’è una cosa di cui vorrei parlarti.»
Prima che Josh potesse dire una sola parola in più, una pallottola gli sfiorò la spalla sinistra. Un attimo dopo, Nyssa trascinò il ragazzo dietro al bancone mentre tre uomini armati di mitragliatrici sfondavano le porte di vetro del bar.
«Che nessuno si muova! Altrimenti vi uccidiamo tutti!» gridò uno di loro, puntando minacciosamente l’arma in direzione dei clienti.
«Dateci tutto ciò che avete e nessuno si farà male!» proseguì un altro, mentre il terzo uomo si dirigeva verso la cassa. Fu allora che Nyssa incontrò lo sguardo terrorizzato di Josh e si sentì in dovere di fare qualcosa.
Con uno scatto, la figlia di Ra’s al Ghul afferrò una delle sedie di legno poste davanti al bancone e la scagliò contro al primo uomo, scaraventandolo a terra. Corse in direzione del secondo malvivente, riuscendo a rubargli il mitra prima che potesse sparare e ferire qualcuno. Diede vita ad un combattimento che durò solo una manciata di secondi: l’Erede attese il momento giusto prima di colpire l’uomo con una testata e stordirlo con un ulteriore gancio destro. Nel frattempo, l’ultimo bandito si preparò a spararle, ma Nyssa riuscì a proteggersi utilizzando il corpo dell’uomo appena colpito come scudo. Quando quest’ultimo cadde a terra, ormai privo di vita, Nyssa raggiunse l’ultimo rapinatore con una capriola e fece pressione sulla sua gamba con un calcio per farlo cadere a terra a faccia in giù. Gli assestò una serie di punti arrivando a rompergli il naso, e si fermò solamente quando fu sicura che avesse perso i sensi. A quel punto, si alzò in piedi: iniziò a guardarsi intorno, e quando vide i clienti ancora in lacrime nonostante quanto appena accaduto, comprese che con l’arrivo dei rapinatori si erano talmente spaventati da non aver avuto il coraggio di alzare lo sguardo. Solo Josh aveva assistito alla scena dal primo all’ultimo istante, e ora guardava Nyssa con un’espressione talmente stupita che sembrava volessero uscirgli gli occhi dalle orbite.



La stanza era illuminata dalla flebile luce del sole, che filtrava repentina attraverso i teli di plastica appesi ovunque.
Quando Sara si trovò al centro del piano, fu lieta di notare che la grande finestra era stata riparata, e che nonostante l’attacco degli uomini di Slade la torre fosse ancora in buono stato.
Sul tavolo trovò una manciata di dispositivi acustici che aveva dimenticato di portare con sé quando aveva lasciato Starling City, dei bicchieri di plastica vuoti e delle lampadine rotte che lei non ricordava di aver lasciato. Fu allora che la vide.
Sin dormiva sul pavimento a mezzo metro da lei, con solo una coperta sgualcita a tenerle caldo. Sara si avvicinò a lei cercando di non fare rumore, ma quando fu abbastanza vicina la punzecchiò dandole un lieve calcio nel sedere. La ragazzina si svegliò di soprassalto, puntando una mazza da baseball ‒ che probabilmente teneva nascosta sotto alla coperta ‒ in direzione di Sara; tuttavia, la bionda gliela strappò di mano nel giro di un secondo e la scagliò a terra con un gesto deciso.
«Mi hai mentito.»
Sin deglutì, indietreggiando lentamente. «Sara, lasciami spiegare…»
«Quando sono tornata a Starling City e mia sorella mi ha comprato quell’appartamento, mi hai giurato che non saresti mai più tornata qui sopra da sola. Hai detto che avevi degli amici disposti ad ospitarti per un po’, e invece ora scopro che non è così. Perché non me lo hai detto?»
«Perché volevo evitare questo» spiegò la mora, gesticolando con le mani. «Non volevo che mi urlassi contro. So badare a me stessa.»
«Cindy, hai appena diciotto anni.»
«Abbastanza per poter guidare, votare e vivere per conto mio. Tra non molto potrò anche consumare alcolici legalmente. Che hai da lamentarti?»
«Ho promesso che ti avrei protetta a ogni costo, e non ho alcuna intenzione di infrangere quella promessa.»
«E a chi lo avresti promesso?» ironizzò la ragazzina, incrociando le braccia.
Sara trattenne il respiro per qualche secondo. «A te, Sin. Il giorno che ti ho trovata mi hai fatto promettere che ti avrei sempre guardato le spalle. Te ne sei già dimenticata?»
«No, ma credevo che valesse soltanto fino al raggiungimento della maggiore età.»
Sara poggiò entrambe le mani sui fianchi, inarcando un sopracciglio. «Perché sei così testarda?»
Sin rimase impassibile per qualche secondo, nel tentativo di sostenere lo sguardo di Sara il più a lungo possibile, ma dopo non molto cedette. «Non volevo darti ulteriori preoccupazioni, okay? Hai già i tuoi problemi con la gravidanza e tutto il resto. Non mi andava di essere un ulteriore peso.»
«Ma tu non sei affatto un peso, Sin. Come puoi pensare una cosa simile?»
La ragazzina scrollò le spalle. «Te ne sei andata via. Più di una volta.» Fece una pausa, trattenendo un sospiro. «Mi hai lasciata qui senza preoccuparti minimamente di me e ho capito che forse mi ero illusa troppo. Io non sono tua sorella, Sara, ma per un istante potrei aver desiderato di esserlo. Perciò, vederti andare via come se niente fosse…» Abbassò lo sguardo, sentendo quello di Canary fisso su di sé. «Mi sono sentita… ferita, credo. E quando sei tornata con Nyssa eri così felice che ho preferito non dirtelo. È giusto che tu viva la tua vita senza una palla al piede come me che ti gira intorno.»
Sara, esterrefatta, aprì un poco la bocca. «Non credevo che ti sentissi così.»
Cindy accennò un sorriso amaro, stringendosi nelle spalle. «Lo capisco. Non sono poi così importante.»
«Lo sei eccome, Sin. Vieni qui.»
Detto questo, la mora si ritrovò tra le braccia di Sara, le stesse braccia che l’avevano salvata da un gruppo di malviventi l’anno precedente e che tanto le erano mancate.
«Non volevo trascurarti, te lo posso giurare. Quando me ne sono andata avevo intimato a Roy di tenerti d’occhio, e anche Arrow sapeva che eri sotto la mia ala protettrice. Per questo non mi sono preoccupata. Sapevo che eri in buone mani.»
«E adesso cos’è cambiato?»
La bionda sospirò, mettendole una mano sulla spalla. «Te l’ho detto, ho paura che quelli della Lega ci vengano a cercare. Se Ra’s al Ghul venisse a sapere della mia gravidanza, farebbe di tutto pur di farmela pagare. E ho paura che possa arrivare a ferire le persone a cui tengo.»
«Oh. Quindi è per questo che sei così apprensiva ultimamente?»
Anziché annuire, Sara rispose con un altro sospiro. «Se non trovi una sistemazione, verrai a vivere da me per un po’, intesi?»
«Scherzi? La tua ragazza mi fa paura. Sembra tremenda.»
Al sentir quelle parole, Canary scoppiò a ridere. «È solo l’apparenza, credimi. In realtà è un pezzo di pane.»
Cindy corrugò la fronte. «In ogni caso, non mi va di fare la terza in comodo. Vedrò di trovare un’altra soluzione.» Compì qualche passo in direzione di una cassettiera, sopra alla quale spiccava una vecchia radio che Sin accese subito dopo.
«Come preferisci. L’importante è che non resti qui. Non è più un posto sicuro ormai.» Sara si appoggiò al tavolo, per poi incrociare le braccia. «E quella da dove sbuca?» chiese, indicando la cassettiera di legno.
«Me l’ha regalata Oliver. Dopo l’assedio, questa torre è andata completamente distrutta. Sono rimasta in strada per giorni, fino a quando Queen non è venuto a dirmi che aveva delle conoscenze e che avrebbe fatto in modo che questo posto venisse restaurato il prima possibile. Dopo un paio di settimane la torre era come nuova, e ho trovato questa» spiegò, indicando la cassettiera. «È andato tutto bruciato quella notte, tranne il tavolo e alcuni dei tuoi dispositivi acustici.»
La bionda non rispose in alcun modo. Si limitò a sospirare, chiedendosi cosa sarebbe successo se mesi prima non avesse deciso di tornare alla Lega.
Dopo alcuni secondi passati a riflettere, Sara decise di non pensarci e di dedicare la sua attenzione alla radio, sintonizzata su un telegiornale locale. La reporter stava parlando dell’imminente inizio della stagione di football, ma il servizio fu interrotto dall’arrivo di una notizia dell’ultimo minuto.
«Ci segnalano che poco fa il Mystery Cafè, un bar situato in pieno centro, è stato vittima di una rapina non andata a buon fine. La polizia è da poco giunta sul posto. A quanto pare, uno dei malviventi è morto, mentre gli altri due sono gravemente feriti. Al momento non abbiamo altre informazioni. Vi aggiorneremo non appena…»
«Sara?» esclamò Sin, notando lo sguardo impaurito della vigilante. «Ti senti bene?»
La bionda scosse la testa, rabbrividendo. Senza dire una parola, corse giù per le scale, digitando un numero sul cellulare mentre superava gli ultimi gradini. «Papà? Mi serve il tuo aiuto.»



«Signora, è sicura di sentirsi bene?»
Nyssa sbuffò, alzando gli occhi al cielo per l’ennesima volta. «Ve l’ho detto, non mi sono fatta neanche un graffio.»
«Ha preso parte ad uno scontro. E anche se apparentemente ne è uscita illesa, un controllo non le farà male. L’ambulanza è proprio qui fuori.»
«Agente, non si preoccupi. Ci penso io a lei.»
Non appena udì quella voce, Nyssa alzò di colpo lo sguardo: il capitano Lance, a pochi passi da lei, le fece un rapido occhiolino.
«Ma, signore…»
Quentin lanciò al poliziotto un’occhiata di sbieco, che bastò affinché l’uomo si dileguasse e li lasciasse soli. Il capitano tirò un sospiro di sollievo, dopodiché si voltò verso l’Erede del Demonio. «So già tutto quello che devo sapere. Sono qui perché mi ha mandato Sara.»
«Sara?» domandò Nyssa, aggrottando le sopracciglia.
«Ha sentito la notizia alla radio e aveva paura che ti fosse capitato qualcosa. Sono venuto qui il prima possibile.»
La ragazza annuì, per poi volgere lo sguardo in direzione della porta a vetri. Josh era seduto a un tavolino insieme a un medico che gli stava disinfettando la ferita superficiale provocatagli dalla pallottola. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, e Nyssa rabbrividì al solo pensiero di doverlo affrontare.
Subito dopo, però, a invadere i pensieri di Nyssa fu qualcun altro. Sara fece il suo ingresso nel locale come un tornado, correndo in direzione di Nyssa e stringendola a sé con tutte le sue forze.
«Sto bene» rise la mora, inspirando il profumo dei capelli di Sara. «Avevi dei dubbi al riguardo?»
«Idiota» sussurrò l’altra, lasciandole un bacio sulla guancia.
«Possibile che voi due dobbiate sempre cacciarvi in situazioni strane anche quando non indossate i vostri costumi?» ironizzò Lance, con un sorriso divertito stampato sul volto.
«È proprio questo il problema. Tutti hanno visto quello che è successo.»
Nyssa scosse la testa. «No, non mi ha vista nessuno a parte gli aggressori. I clienti erano talmente spaventati che sono rimasti accasciati a terra per tutto il tempo. Nessuno di loro ha osato alzare lo sguardo fino a quando non gli ho detto che era tutto finito. L’unico che ha assistito è stato Josh. Il mio capo» aggiunse, alzando lo sguardo in direzione del capitano.
Sara le fece una carezza sulla guancia. «Siamo sicuri che non sarà un problema?»
«Gli parlerò il prima possibile.»
«Mi dispiace interrompervi, ma credo che il problema più grave sia un altro. Dovrai venire in centrale per testimoniare riguardo a quanto accaduto. La domanda è, cosa succederà quando rivelerai la tua identità?» domandò Quentin, abbassando il tono di voce per non essere sentito.
«Felicity ha rimosso le informazioni di Nyssa dai database della polizia, dell’FBI, della CIA e di qualunque altra agenzia di spionaggio esistente. L’unica che potrebbe darci ancora dei problemi è l’A.R.G.U.S., ma non credo che dovremmo preoccuparci.»
«Per ora» aggiunse la figlia di Ra’s al Ghul, ricevendo un’occhiata da parte dell’amata.
«In ogni caso, provvederò a controllare di persona che il tuo nome sia sparito dai nostri database prima dell’interrogatorio. La prudenza non è mai troppa» aggiunse Quentin prima di allontanarsi dalle due donne e raggiungere un detective non molto distante da loro.
Rimaste sole, Sara e Nyssa si scambiarono un lungo sguardo.
«Hai salvato queste persone non curandoti del fatto che avrebbero potuto scoprire la tua identità.»
«Dovevo farlo» rispose Nyssa. «È così che si comportano i vigilanti, no?»
La bionda rise ancora, per poi abbracciare nuovamente l’amata. «Sono così fiera di te.»
L’Erede ricambiò la stretta e chiuse gli occhi, incurante del fatto che Josh, a pochi metri di distanza da lei, la stesse osservando, con un mare di dubbi per la testa.



Nel corso della giornata, la notizia della rapina aveva ormai fatto il giro della città. Subito dopo l’interrogatorio, Nyssa aveva esplicitamente chiesto alla polizia che il suo nome non fosse rivelato ai giornalisti, anche se in ogni caso non si sarebbero potuti trattenere nel dire che era stata la cameriera del locale ad aver trovato il coraggio di affrontare i malviventi, riuscendo a salvare tutti gli ostaggi.
Ora, Nyssa era intenta ad affilare con cura la propria spada in camera da letto, incurante di quanto accaduto quella mattina. Non lo aveva fatto né per essere ringraziata, né per finire sui giornali: al contrario, per la prima volta in vita sua, si era sentita in dovere di fare la cosa giusta e di proteggere quelle persone. Dopo non molto, Sara entrò all’improvviso nella stanza, distraendola con la sua voce.
«Credi che sarebbe un problema per noi avere un’adolescente che gira per casa?»
«Dipende da chi è e dal motivo per cui dovrebbe gironzolare in casa nostra. Perché me lo chiedi?»
«Ti ricordi della mia amica Sin?»
«La figlia del pilota?»
Sara si irrigidì. «Sì.»
L’Erede le rispose con un rapido cenno del capo.
«Vorrei ospitarla qui per un po’. È sola al mondo e non ha un posto dove stare. Ho chiesto a Roy di accoglierla per qualche giorno, ma al più presto mi piacerebbe farle una sorpresa e permetterle di restare qui almeno fino alla nascita del bambino. Ovviamente se tu sei d’accordo.»
Nyssa socchiuse appena l’occhio destro, concentrandosi sulla lama che attraversava l’asse di legno. «Perché non dovrei? Se a lei sta bene dormire sul divano, sta bene anche a me» si limitò a rispondere, ma ciò bastò affinché Sara sorridesse e la ringraziasse col cuore.
Tuttavia, quando comprese che la mora non avrebbe più aperto bocca, Canary incrociò le braccia e si avvicinò ulteriormente a lei. «Non credi che dovresti parlagli?»
Nyssa si fermò di colpo, con la spada a mezz’aria. «Di chi stai parlando?»
«Lo sai.»
La figlia di Ra’s deglutì. «Non mi va.»
«Devo pensarci io?»
Nyssa sembrò rifletterci su per qualche secondo, ma la sua risposta non tardò ad arrivare. «Farò presto.»



L’estate stava ormai volgendo al termine. Una lieve brezza accarezzava le guance di Josh, seduto sul bordo del tetto del Mistery Cafè. Chiuse gli occhi, inspirando l’odore di pasta al sugo proveniente dal ristorante situato dall’altra parte della strada, e per un attimo gli sembrò di essersi isolato dal mondo.
«Non sapevo dell’esistenza di questo posto.»
L’uomo aprì di colpo le palpebre, ma non si voltò. «Se non lo sapevi, come ci sei arrivata fin quassù?»
«Ti ho visto da sotto» spiegò Nyssa, sedendosi accanto a lui. «Perché non metti dei tavolini in questo terrazzo? Sono sicura che in estate sarebbe stupendo.»
«Ci avevo già pensato, ma prima mi servono i soldi per installare delle ringhiere qui, altrimenti sarebbe troppo pericoloso. Ne riparleremo fra qualche anno.»
Josh iniziò a giocherellare col suo orologio, picchiettando l’indice destro sul vetro circolare del quadrante.
«Come sapevi di trovarmi qui?»
«Sesto senso.»
«Ho fatto male a lasciarti le chiavi del locale. Nemmeno ti conosco.»
«Lo so. Infatti non capisco perché mi hai dato così tanta fiducia fin dal principio. Siamo praticamente due sconosciuti.»
Josh si voltò cautamente alla propria destra, incontrando lo sguardo di Nyssa. Si scambiarono una lunga occhiata, fino a quando l’uomo sospirò.
«Grazie per avermi salvato stamattina. Non so come hai fatto, ma sei stata grandiosa.»
L’Erede scorse nella sua voce un pizzico di amarezza, ma fece finta di nulla. «Figurati. Devo tutto ai corsi di autodifesa che ho fatto da bambina.»
L’altro arricciò il naso, e ciò fece irrigidire Nyssa. «Da dove vieni?»
«Cosa?» Aveva la gola secca, ma trovò subito la forza di rispondere alla domanda di Josh. «Te l’ho già detto, vengo da Chicago. C’era scritto anche nel mio curriculum.»
«No, intendo da dove vieni realmente. Dove hai imparato quelle mosse? Nyssa Raatko è davvero il tuo nome o ti sei inventata pure quello?» Fece una pausa, analizzando la reazione di Nyssa, che però rimase impassibile. «Chi sei veramente?»
La ragazza serrò le labbra, a disagio. «Josh, io…»
«Ho bisogno di risposte.»
Per un istante, fu come se il mondo si fosse fermato. Josh poggiò una mano sulla guancia di Nyssa, dopodiché si sporse in avanti, arrivando quasi a sfiorare le sue labbra. La mora percepiva il respiro dell’uomo sul suo viso, il calore della sua mano sulla propria pelle, e al contempo il rumore provocato dal battito esagerato del suo cuore. Stava male. Le mancava l’aria. Il solo pensiero di quello che stava succedendo le provocò un vuoto allo stomaco. Riuscì a ritrarsi in tempo prima che Josh potesse baciarla, e subito si sentì meglio, ma quando notò l’espressione sul suo volto provò un immenso dispiacere nei suoi confronti.
«Perché…?»
«Non ho mai voluto mentirti. Non era quella la mia intenzione, lo giuro.»
«Nyssa… io non capisco…»
«Scusami se non ti ho detto prima chi ero veramente. Il fatto è che non potevo. Non posso neanche adesso. È difficile da spiegare, ma so che capirai. Ti chiedo scusa anche per questo. Cercavo solo un lavoro, ma forse sarebbe stato meglio non accettare.» Aprì un poco la bocca, espirando l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento. «E mi dispiace se non ti ho baciato, ma io non sono così.»
«Così come?»
Prese un respiro profondo. Dentro di lei vi era un miscuglio di emozioni e paure che aveva represso troppo a lungo. Taci, Nyssa. Fai ancora in tempo a non combinare un casino. Ma le emozioni prevalsero su tutto il resto.
«Così… normale.»
«Che intendi per normale?»
Oh, Josh. Sei proprio bravo a complicare le cose.
«Sono lesbica.»
Non seppe nemmeno lei perché glielo stesse dicendo. Era la prima volta che lo rivelava a qualcuno, ed era strano. Nemmeno con Sara c’era stato bisogno di parole. Nemmeno con suo padre era stato necessario dirgli che non le piacevano gli uomini. Se lo era sempre tenuto per sé, e ora lasciar uscire quella parola la faceva sentire fuori luogo ma, al tempo stesso, libera. Mai avrebbe immaginato che un giorno si sarebbe ritrovata a dover dire una cosa simile, ma adesso che lo aveva fatto il peso che da anni portava sul cuore sembrava essersi affievolito.
«Capisco. Quindi la tua sorellastra non è la tua sorellastra, vero?»
Nyssa scosse la testa, sospirando. «È la mia ragazza.» Fece una pausa, guardandosi le punte dei piedi che fluttuavano nel vuoto. «Ed è incinta.»
Ecco un’altra cosa che non avrebbe mai dovuto dire. Sapeva che sarebbe stato meglio tenerselo per sé, ma era stato più forte di lei. Da qualche parte aveva letto una citazione in cui si diceva che a volte rivelare i propri segreti a uno sconosciuto è più facile che farlo con le persone più vicine a noi. Ed era vero. Per anni era stata abituata a mantenere segreti, e solo ora, all’alba dei suoi trent’anni, comprese quanto fosse bello confidarsi con qualcuno all’infuori di Sara. Era ancora convinta di fare la cosa sbagliata, ma al tempo stesso sapeva che il danno era fatto e che non avrebbe più avuto alcun senso tirarsi indietro a quel punto.
«Come…?»
«È complicato» si limitò a dire la figlia di Ra’s. «Non lo sa nessuno. Quindi ti prego‒»
«Tienitelo per te.»
La mora annuì, unendo le mani in grembo.
«Quindi, immagino che quella donna vestita di nero che aiuta Arrow e il suo team a catturare i criminali sia tu. Non parlo di Canary, ma dell’altra. Quella con la spada e il cappuccio rosso.»
Questa volta, Nyssa si morse la lingua. Aveva rivelato fin troppi dettagli sulla sua vita privata, ma ammettere anche di essere una vigilante sarebbe stato troppo. Cercò di non incrociare lo sguardo di Josh, ma l’uomo comprese e scosse la testa.
«No, lascia stare. Fingi che non ti abbia chiesto nulla. So che non puoi rispondermi.»
L’uomo abbassò il capo, e nel mentre, Nyssa gli dedicò tutta la sua attenzione. E finalmente, nel vederlo sorridere nonostante fosse visibilmente abbattuto, le fu chiaro il motivo per cui, quando si trovava nelle vicinanze di Josh, si sentiva sempre a disagio. Perché lei lo sapeva. Lo aveva sempre saputo. Inconsciamente, lo aveva capito fin dall’inizio che Josh si era preso una cotta per lei e questo l’aveva portata ad essere restia e distaccata nei suoi confronti perché, come aveva detto Sara una volta ‒ in buona fede, ovviamente ‒, lei con gli uomini non ci sapeva fare.
Ad un tratto, Nyssa si strinse nelle spalle, temendo di porre quella domanda che la stava consumando da dentro dal momento in cui aveva iniziato quella conversazione. «Adesso che si fa?»
Josh si voltò verso di lei, facendosi improvvisamente serio. «Si va avanti.»


 

 

 

 

 

 


[1] No, non è un riferimento a Joker di Batman.
[2] E no, non mi sono ispirata al personaggio di Martin Stein. Semplicemente mi piaceva il nome.



 

 


Vi ricordate di quando vi ho detto che questo capitolo sarebbe stato mooolto più breve del precedente? Ecco, mi rimangio tutto lol alla fine mi sono lasciata prendere dalle emozioni e ho scritto a più non posso.
Avrete notato che la Nyssa di questo capitolo è stata fin troppo estroversa (chi ce la vede a dire la parola “lesbica” e a rivelare particolari della sua vita privata a qualcuno?), ma ho voluto che si confidasse con qualcuno proprio perché si sta adeguando ad avere una vita ordinaria: ha un lavoro, una casa, degli amici (anche se sembra strano da pensare), e Josh è uno di quelli. Piano piano, cambiando il suo stile di vita, Nyssa sta capendo che cosa significa essere normali. E nell’elenco delle cose che ci rendono normali fa parte fidarsi di qualcuno a cui confidare i propri segreti e le proprie paure. Questa storia è nata proprio con questo intento, ossia quello di mostrare come potrebbe essere Nyssa al di fuori della Lega ‒ non so se qualcuno di voi capirà il parallelismo, ma se avete mai visto Dragon Ball, la risposta è sì: avete presente C18? Da cyborg spietata che era, è diventata una moglie e madre amorevole. Ecco, questo è il tipo di cambiamento a cui ho voluto sottoporre Nyssa. In ogni caso, se non mi fossi spiegata a dovere o aveste ancora dei dubbi, sentitevi liberi di chiedere.
Visto che ormai manca poco al nuovo anno, ne approfitto per augurarvi un buon 2017, sperando che sia un anno migliore per tutti quanti (compresa questa meravigliosa ship che merita qualche gioia).

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Capitolo 11
*** Capitolo 10: Last call ***


 

Capitolo 10: 
Last call

 

 

 

 

L’odore di brioche calda si diffuse all’interno dell’appartamento con molta rapidità, arrivando addirittura a svegliare completamente Sara, che era in una condizione di dormiveglia da una buona mezz’ora. La bionda si passò una mano tra i capelli spettinati, per poi stiracchiarsi e lasciarsi andare ad un lungo sbadiglio.
Pochi istanti dopo raggiunse Nyssa in cucina, intenta a imbandire la tavola con diverse pietanze dall’aria gustosa. «Buongiorno» esclamò quest’ultima non appena la notò.
«Giorno» si limitò a rispondere Sara, osservando con interesse i vari piatti disposti sul tavolo. «Non dirmi che hai davvero imparato a cucinare i pancakes.»
«Credimi, è più facile di quanto sembri. Adam mi ha spiegato giusto ieri come si preparano. Devo dire che i primi tentativi sono stati veramente orribili, ma dopo aver passato mezza giornata ai fornelli ho finalmente capito dove sbagliavo e posso dire con orgoglio che ho cucinato i pancakes migliori del mondo. Perciò, visti i miei risultati, non potevo privarti di una colazione coi fiocchi» spiegò, lasciando all’amata un bacio sulle labbra.
Quest’ultima spostò lo sguardo dalla sua colazione a Nyssa un paio di volte prima di riprendere la parola. «Se hai davvero intenzione di viziarmi per tutto il resto della gravidanza, allora sappi che lo stai facendo nel mondo giusto» affermò, dopodiché si sedette al proprio posto e addentò la punta della sua brioche alla marmellata. «I lati positivi di avere un bar sotto casa.»
«I lati negativi di non lavorarci» disse Nyssa, incrociando meccanicamente le braccia. «Sarebbe veramente comodo. Dovrei solamente attraversare la strada anziché farmi il tragitto a piedi ogni giorno.»
«Ti ho già detto che puoi prendere un taxi. Ti risparmieresti la fatica.»
«Fatica? Una passeggiata di prima mattina fa più che bene.»
«E allora perché ti lamenti?»
La figlia di Ra’s piegò appena la testa di lato. «Non mi sto lamentando. Sto solo dicendo che avrei meno strada da fare. E se ti accadesse qualcosa sarei qui in meno di due minuti.»
«Ah, ecco qual è il problema.»
«Lo sai come la penso. Solo perché non ne parliamo mai non significa che questa situazione non mi preoccupi.» Nyssa sospirò, sedendosi di fronte a Sara. Poi, servendosi della forchetta della bionda, prese un pezzo di pancake dal suo piatto e se lo mise in bocca. «Forse dovrei mettermi in contatto con qualcuno della Lega. Giusto per capire se mio padre ha iniziato a farsi domande sul mio allontanamento. Sono passati due mesi e non ha ancora mandato nessuno a cercarmi. Mi sembra troppo strano.»
«Devi rilassarti, okay? Magari si è dimenticato di te. Può capitare. Soprattutto quando si hanno tanti figli in giro per il mondo.»
«Non sei spiritosa» borbottò la mora, facendo una piccola smorfia.
Sara delineò un sorriso, per poi farsi seria nel giro di pochi secondi. Inghiottì con calma l’ultima parte della brioche, si passò un tovagliolo di carta sulle labbra e puntò il suo sguardo in quello di Nyssa. «Perché non mi hai mai detto degli alloggi ospedalieri di Nanda Parbat?» Fece una pausa per osservare la reazione dell’amata, ma quest’ultima non si scompose. «Insomma, sapevo che c’erano dei medici, ma camere sotterranee piene di macchinari e lettini… sembrava di essere davvero dentro a un ospedale.»
Nyssa poggiò con cura la forchetta sul tavolo, scrollando le spalle. «In realtà, non è che non te lo volessi dire, semplicemente non ce n’è mai stato bisogno. Fin dal primo giorno in cui sei arrivata a Nanda Parbat ci ho sempre pensato io a medicarti. Quando hai preso parte alla tua ultima missione è andata diversamente perché io non c’ero, altrimenti è molto probabile che ne saresti rimasta all’oscuro fino ad oggi.»
A quelle parole, Sara aggrottò d’istinto le sopracciglia. «Non dico che imparare a medicarsi da soli sia una cosa di poco conto, anzi, se non mi fossi trovata in certe situazioni e se tu non fossi stata sufficientemente dura con me, di sicuro non avrei mai capito come suturare correttamente una ferita o rimuovermi da sola un proiettile. Quello che non capisco è… perché non viene utilizzato frequentemente?»
«Perché è il volere di mio padre. Lo sai che quando un membro della Lega è in fin di vita deve cavarsela da solo, altrimenti non verrà ritenuto degno del proprio nome. Tuttavia, negli ultimi anni ci sono state delle eccezioni. Sebbene la morte in battaglia venga considerato un disonore, ci sono sempre guerrieri che non vale la pena perdere, e ciò ha spinto mio padre a rapire dei medici per essere certo che in situazioni critiche i suoi uomini migliori sarebbero stati salvati. Inutile dire che molto spesso anch’io ho fatto in modo che dei mercenari non morissero senza chiedere la sua autorizzazione. Ma con te non è mai stato necessario. Ce la siamo sempre cavata, e ho voluto evitare di farti conoscere quel luogo perché temevo che potessero farti del male anziché guarirti.» Nyssa strinse la mano destra di Sara nella propria e le dedicò un sorriso dolce. Entrambe ricordavano con orrore quanto fosse stato difficile vivere a Nanda Parbat dopo che la loro relazione era ormai stata resa nota a tutta la Lega. Molti mercenari avevano ripudiato Sara, attaccandola e incolpandola di aver abbindolato Nyssa inducendola a compiere peccato. Nemmeno Ra’s l’aveva presa bene, anche se non aveva mai alluso al fatto che non accettasse quella relazione perché Sara era una donna, quanto perché aveva compreso che il sentimento provato da Nyssa nei suoi confronti era veramente forte, e temeva che ciò avrebbe potuto influenzare le sue decisioni future. «Quando siete andati a cercare Bao Lee, io ero appena partita a mia volta per una missione. Dopo il tuo svenimento, i mercenari che erano con te devono averti portata laggiù proprio a causa della mia assenza. Ma quando sono tornata a casa e sono stata informata di quanto accaduto, gli alloggi ospedalieri erano completamente deserti e per un attimo ho temuto che…»
Nyssa inspirò profondamente, chiudendo gli occhi per qualche istante. Sara la osservò in silenzio, per poi dischiudere le labbra e pronunciare quelle parole che tanto la spaventavano. «Pensavi che me ne fossi andata di nuovo, non è vero?»
La mora riaprì gli occhi, per poi annuire debolmente.
«Ti avevo promesso che non sarei più scappata, e non ho intenzione di infrangere quel giuramento. Lo so che dopo tutto quello che abbiamo passato può risultare difficile fidarsi di me, ma‒»
«Io mi fido di te» affermò l’Erede del Demonio, gli occhi carichi di sentimento. «Non mi fido di mio padre. Poteva averti spinta ad andartene per poi farmi credere che fosse stata una tua decisione. Insomma, ero spaventata a morte. Ho anche creduto che ti avesse uccisa, o peggio, che qualcuno lo avesse informato che eri stata portata nel reparto medico e che lui avesse ordinato ai dottori di farti una flebo con del veleno. Ti ho cercata in ogni angolo della Lega senza trovarti e ho davvero pensato che te ne fossi andata per sempre.»
«Mi ero semplicemente rintanata in camera mia per assimilare quello che avevo appena scoperto» rise Canary, mostrando le sue dolcissime fossette. «Hai esaminato ogni stanza di Nanda Parbat dimenticandoti di quella più ovvia.»
«In realtà, è stato il primo posto in cui ho guardato, ma non c’eri» ammise Nyssa.
A quel punto, Sara mise su un finto broncio. «Evidentemente quando l’hai fatto ero ancora in fuga. Quando me ne sono andata dagli alloggi sotterranei, ho cercato di scaricare la tensione correndo da un corridoio all’altro.»
«È servito a qualcosa? Correre, intendo.»
Sara sospirò, per poi reggersi il mento con una mano. «Non è servito assolutamente a nulla.»
Nyssa scoppiò a ridere senza un motivo, e dopo non molto la seguì anche Sara.
«Devo andare al lavoro» disse poco dopo la mora, stiracchiandosi leggermente. «Dovrei tornare dopo cena. Poi pensavo di andare al Covo per allenarmi un po’ con…»
Quando Nyssa si bloccò, Canary inarcò entrambe le sopracciglia. «Con Oliver?» Non attese risposta e proseguì: «Da quando tu e Oliver vi allenate insieme?»
«Infatti non mi sono mai allenata con lui» spiegò la figlia di Ra’s, trattenendo un sospiro. «Quasi sempre sono sola, oppure con Felicity e Roy. Devo dire che il ragazzino ha una buona tecnica, ma è fin troppo debole per l’età che ha. Persino Diggle è arrivato al punto di volermi sfidare una volta, ma non è mai successo con Oliver.»
Sara delineò un sorriso. «Meno male» soffiò, preparandosi a gustarsi i suoi pancakes allo sciroppo d’acero. «Voi due insieme rischiate di distruggere l’intero edificio.»
Nyssa fece una smorfia divertita, dopodiché si infilò la giacca e ruotò appena la testa di lato. «Oggi vai a pranzo con Laurel?»
L’altra annuì. «Sì. Dovremmo andare in un fast food sulla Settantaquattresima. Magari finito il pranzo ti passo a trovare al bar.»
«Mi farebbe molto piacere» concluse Nyssa, dopodiché le diede un bacio veloce e si avviò verso l’uscita.



«Questa cosa è… disgustosa.»
«Disgustosamente buona, vorrai dire» replicò Sara, pulendosi le dita con un tovagliolo. «Non puoi dirmi che fa schifo.»
«Il gusto è accettabile, ma è disgustoso toccarlo» spiegò la castana, dedicando una smorfia alla sorella. «E poi è la prima volta che lo mangio, perciò sii clemente.»
«Trent’anni su questa terra e non hai mai assaggiato il pollo fritto in pastella?»
«Preferisco i cheeseburger.»
Sara scosse la testa e rise al tempo stesso. Anche Laurel fece del suo meglio per sorridere, ma era chiaro che qualcosa non andava. Era strana dalla sera in cui avevano cenato a casa sua.
Canary avrebbe tanto voluto chiederle cosa le fosse preso, ma sapeva che in quel modo avrebbe solo peggiorato la situazione. Si sentiva in dovere di fare qualcosa per aiutare la sorella a sfogarsi, ma al tempo stesso non se la sentiva di forzarla a rivelarle i suoi problemi.
Un attimo dopo, senza un motivo preciso, Laurel sospirò, facendosi improvvisamente seria.
«Sai, ultimamente io e Tommy venivamo spesso qui a pranzo. Ordinavamo sempre una porzione di patatine fritte ciascuno, un’insalata per me e un doppio cheeseburger per lui. Erano giornate normali e tranquille, ed ero felice. Per la prima volta dopo anni, o meglio, dopo il naufragio del Gambit, mi sentivo rinata. Serena. Viva.» Il luccichio nei suoi occhi si spense in un attimo, lasciando spazio a un’espressione nostalgica. «Poi la felicità è di nuovo scappata via da me. Come se fossi maledetta, capisci? Forse qualcuno lassù ritiene che Dinah Laurel Lance non si meriti un po’ di pace. Ma non li posso biasimare, non sono stata né una brava sorella, né una brava figlia, né tantomeno una brava fidanzata.»
«Laurel, ma di che cosa stai parlando?»
L’avvocato aveva lo sguardo spento, rivolto verso il proprio pranzo che, ormai, si era raffreddato da un pezzo. «Tommy è morto.»
Sara prese un respiro profondo, sentendosi improvvisamente più pesante. «Lo so.» Si fermò per guardare in faccia la sorella, che aveva gli occhi gonfi di lacrime. «L’ho saputo, Laurel. Quando sono venuta a conoscenza del terremoto, ho fatto di tutto per avere i nomi di chi non ce l’aveva fatta. Sono andata a trovarlo al cimitero quando sono tornata a Starling City l’anno scorso. È stato un vero shock.»
La bionda si strinse nelle spalle, mentre Laurel mandò giù un bicchiere d’acqua in un sorso. «Cos’è successo?» chiese poi, esitante.
A Laurel tremavano le gambe. Rievocare quei ricordi faceva ancora male.
«Oliver mi aveva avvertita di non andare al CNRI, quella sera» esordì, cercando di mantenere un tono di voce pacato «ma io non l’ho ascoltato. Ho fatto di testa mia, come sempre, e mi sono messa in pericolo da sola. Mentre i miei colleghi correvano via, io sono rimasta intrappolata dentro perché volevo salvare dei documenti. Mi mancava l’aria. Ero sola, completamente sola, e ho temuto il peggio. Ma poi, all’improvviso, l’ho visto venire verso di me e mi sono subito sentita meglio.» Le lacrime scorrevano rapide sulle sue guance, e Laurel trattenne a stento un singhiozzo. «Stavo morendo, Sara! Stavo morendo e lui è venuto a salvarmi. Mi ha detto di scappare e io l’ho fatto, ma quando mi sono accorta che non era dietro di me ormai era tardi. C’è stata un’altra scossa che ha fatto crollare l’edificio, e papà non mi ha permesso di entrare.» Cercò con lo sguardo altra acqua e quando si accorse di averla finita, Sara le porse il proprio bicchiere. «Ero disperata. Arrow… Oliver, ha cercato di tirarlo fuori di lì, ma ormai non c’era più niente da fare. E ora, ripensando a quella sera, alle sirene della polizia, alle strade piene di cenere e di persone terrorizzate, all’odore di bruciato, alle scosse, mi sento quasi egoista. Ho preferito piangere la morte di Tommy piuttosto che guardarmi intorno. In quel momento, la distruzione che Malcolm aveva arrecato alla nostra città mi pareva una cosa di poco conto. Non mi interessava nulla degli altri cittadini, delle case crollate e delle famiglie distrutte. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era Tommy, e al fatto che non fossi tornata indietro per tirarlo fuori di lì.»
Sara mise la propria mano sopra quella di Laurel, la cui schiena, a quel contatto, fu percossa da un brivido. «Non puoi biasimare te stessa per aver dato più importanza alla tua perdita che al terremoto. Come puoi ritenerti egoista per aver visto morire l’amore della tua vita? È assurdo.»
Laurel non aveva mai alluso ad una relazione con Tommy, ma a Sara non erano servite parole per arrivarci. Lo aveva capito dallo sguardo della sorella che tra di loro c’era stato qualcosa, perché quando aveva iniziato a parlare di lui i suoi occhi si erano messi a brillare.
«C’erano cose più importanti a cui pensare. The Glades era a pezzi. Molte persone non avevano più un tetto sopra la loro testa, e i bambini che avevano perso i genitori durante il terremoto erano parecchi. Cinquecentotré persone hanno lasciato questa terra, quella notte. E per mesi io ho pensato solo alla sorte del figlio dell’uomo che ha provocato quel disastro.»
«Gli errori di Merlyn non hanno nulla a che vedere con Tommy» insistette Sara, aumentando la stretta che teneva unite le loro mani. «Lui non c’entrava niente, Laurel. E nemmeno tu. Avrai passato l’ultimo anno a darti la colpa per la sua morte quando sai benissimo che tu non hai niente a che fare con questa storia. L’unico colpevole di quello che è successo è Malcolm Merlyn.»
«Ma io non riesco a fare a meno di chiedermi cosa sarebbe accaduto se quel giorno non mi fossi trovata lì. Se fossi rimasta in appartamento sarebbe morto comunque? O si sarebbe semplicemente rotto una gamba? O forse, se non avessi pensato a salvare quelle carte e fossi rimasta a casa, Tommy mi avrebbe chiamata sul cellulare e sarebbe venuto da me per accertarsi che stessi bene. Ci sono immense possibilità, Sara. Abbiamo mille modi per decidere cosa fare del nostro futuro, mille strade da prendere per cambiare le carte in tavola. Il problema è che non sapremo mai quando staremo facendo la cosa giusta o quella sbagliata. Dobbiamo basarci sul nostro istinto. E forse è proprio questo il problema.»



Lyla Michaels era ormai al sesto mese di gravidanza ‒ quasi al settimo, in realtà. Il pancione era ben visibile, la cameretta della bimba già pronta ‒ anche se lei e John non avevano ancora rivelato a nessuno il sesso del nascituro ‒ e l’ansia alle stelle.
L’idea di diventare madre la spaventava, ma al tempo stesso la incuriosiva. Aveva sempre pensato che a causa del lavoro che conduceva non avrebbe avuto tempo di costruirsi una famiglia, ma John era riuscito a farle cambiare idea. In fondo, perché mai non avrebbero potuto difendere il mondo e aiutare tranquillamente la loro bambina a fare i compiti dopo cena come se nulla fosse?
A dir la verità, nessuno dei due aveva ancora riflettuto sulle conseguenze a cui quella decisione avrebbe portato: erano talmente elettrizzati all’idea di diventare genitori che tutto il resto non gli importava.
In quel momento la porta d’ingresso si aprì, e John comparve sulla soglia. Si pulì le scarpe nello zerbino, appese il cappotto sull’appendiabiti e salutò l’ex moglie con un bacio. «Credevo avessi del lavoro da sbrigare.»
«Infatti è così, ma verso l’ora di pranzo ho iniziato a non sentirmi molto bene e ho preferito tornare a casa.»
Diggle si sedette sul divano accanto a lei, cingendole le spalle con un braccio e iniziando ad accarezzarle amorevolmente il pancione con l’altra mano. «Va tutto bene?»
Lyla si affrettò ad annuire. «È tutto a posto, non ti preoccupare. Mi è solo venuta un po’ di nausea. E ogni tanto mi gira la testa. Sono sintomi comuni, credo.»
«Lo spero» disse lui, baciandole dolcemente la fronte.
«Hai dei programmi per stasera?»
«A meno che Oliver non mi proponga un appuntamento dell’ultimo minuto, direi di no» scherzò, strappando un sorriso sul volto di Lyla. «Cos’hai in mente?»
«Vorrei fare qualcosa di diverso invece che starmene seduta qui ad aspettare la nascita della bambina. Che ne so, andare a cena fuori, e poi al cinema o al bowling. Insomma, quando non sono al lavoro passo la mia giornata chiusa in casa a guardare la tv, perciò non mi dispiacerebbe prendere una boccata d’aria una volta tanto.»
John la guardò negli occhi per qualche istante prima di enunciare il verdetto: «Accetto. In effetti nell’ultimo mese non sono stato molto presente, perciò capisco che tu ti senta sola.»
«Non è quello, John, dico sul serio. Sai cosa la penso su quello che voi del Team Arrow fate. È onorevole. Ma ho davvero bisogno di svagarmi un po’» spiegò lei, piegando leggermente la testa di lato.
«E io lo capisco, Lyla. Onestamente, non credo che riuscirei a tenere un bambino dentro di me per nove mesi senza dare di matto.»
Lyla rise ancora, dopodiché poggiò la testa sulla spalla di John e sospirò.
«Come procedono le cose all’A.R.G.U.S.?»
«Fin troppo bene. Al momento sto tenendo d’occhio degli uomini qui a Starling City. Devo capire esattamente chi sono, quali sono le loro intenzioni, ma soprattutto cosa li ha portati in città.»
«Potrei darti una mano, se ti va.»
«Sai che non posso coinvolgerti, Johnny.» Lyla fece il labbruccio. «È contro le regole.»
«Hai ragione, hai ragione» rispose lui, trattenendo un sospiro. «A volte dimentico che Amanda Waller si ricorda di me soltanto quando gli servo.»
Lyla, in risposta, gli passò una mano sulla guancia, dopodiché si accoccolò meglio sul suo petto e assunse uno sguardo pensieroso. «Tu invece, che mi dici? Va tutto bene con la squadra?»
«Fila tutto liscio. E poi ora che ci sono anche Sara e Nyssa quattro mani in più fanno la differenza.»
Lyla alzò lentamente il capo nella sua direzione. «Sono ancora qui?» Fece una pausa, attendendo una risposta che non arrivò. Allora disse: «Avevo capito che la loro permanenza sarebbe stata temporanea.»
«Lo so, lo credevo anch’io» ammise John «ma sono passati due mesi dal loro arrivo, e onestamente non so più cosa pensare.»
La donna deglutì sommessamente. «È successo qualcosa? Insomma, con Ra’s al Ghul intendo.»
«Non ne ho la minima idea. Si rifiutano di dirci cos’è successo. Fingono che siano qui per farsi una vacanza, ma Laurel gli ha comprato un appartamento e Nyssa ha trovato lavoro, perciò è logico che si tratterranno ancora per un po’. Forse Ra’s le ha cacciate, o addirittura le ha liberate.»
«Ne dubito. Ra’s è un tipo particolare, è vero, ma non rinuncerebbe mai ad una combattente come Nyssa, soprattutto perché è sua figlia. Lei gli serve. Tutti i figli che ha avuto prima di lei sono morti, perciò Nyssa è l’unico modo che ha per mandare avanti la sua stirpe.»
Dig si accigliò. «Come fai a sapere tutte queste cose sulla Lega?» Bastò un’occhiata di Lyla affinché lui capisse. «Già, la Lega degli Assassini è uno dei vostri nemici peggiori. A volte dimentico anche questo.»
«Più che nemici, cerchiamo di controllarli» disse la donna, con un’alzata di spalle. «Forse sono scappate per nascondersi da qualcuno.»
«E si nasconderebbero qui, a Starling City? È il primo posto che chiunque collegherebbe a Sara. Non sono così stupide.» L’ex militare scosse appena il capo con fare pensieroso. «Come mai ti interessa tanto? Ha a che fare col caso su cui stai lavorando?»
«Te l’ho detto, Johnny» riprese lei, dirigendosi a passo lento verso la cucina. «È contro le regole.»



La tomba di Tommy era ormai diventata una tappa quotidiana per Laurel: passava a trovarlo dopo il lavoro, durante la pausa pranzo o quando si sentiva particolarmente giù di morale e non riusciva a dormire la notte. Ora, invece, si trovava inginocchiata di fronte a quel pezzo di marmo insieme a Sara, che le accarezzava dolcemente la schiena mentre lei singhiozzava.
Era passato poco più di un anno dalla morte di Tommy, ma lei sapeva benissimo che ce ne sarebbero voluti molti di più prima di riuscire a superare la cosa. Eppure in quell’istante, cullata dalle parole dolci di Sara e dalla sua mano calda, Laurel non poté fare a meno di sentirsi in pace, per una volta. Se sua sorella fosse stata presente la sera del terremoto, probabilmente sarebbe riuscita a tranquillizzarla. Oppure avrebbe potuto salvare Tommy. Era un’eroina, e Laurel non metteva in dubbio che in un combattimento con Oliver avrebbe potuto batterlo tranquillamente; per questo non riuscì a non chiedersi cosa sarebbe successo se Canary fosse stata lì, quella notte.
La donna sentì lo stomaco contorcersi per il dolore. Non appena si fu ripresa, inspirò a pieni polmoni, per poi asciugarsi le lacrime con la manica della giacca.
«Non dovevi andare da Nyssa al bar?»
La sorella minore le sorrise amorevolmente. «Non ha importanza. Andrò a trovarla più tardi.» Le mise una mano sulla guancia, muovendo lentamente il pollice sulla sua pelle. «Hai bisogno di me.»
Ed era vero: mai prima d’ora Laurel si era sentita così al sicuro tra le braccia di Sara.

*

Il cellulare di Nyssa squillò all’improvviso, disturbando la quiete che si era venuta a creare nell’appartamento. Ormai lei e Sara stavano guardando la tv da diverse ore, e di lì a poco si sarebbero entrambe addormentate sul divano se non fosse stato per la suoneria snervante che le aveva fatte rinsavire.
«Pronto?» disse la mora, mettendo subito la chiamata in vivavoce.
«Nyssa, sono Felicity. Abbiamo assolutamente bisogno di voi.»
«Mmh. Ma io ho sonno» si lamentò Sara, intuendo dal tono della bionda che sarebbero dovute andare a caccia di criminali.
«Beh, allora trova un modo per restare sveglia, perché se non andate ad aiutare Oliver lui e Roy se le prenderanno di santa ragione.»
Le due donne si scambiarono uno sguardo confuso. «Perché dici questo?»
«Perché è la verità, Sara» sospirò Felicity. «Al momento sta avvenendo un incontro tra alcuni membri della mafia cinese in un locale abbandonato a The Glades. Non conosciamo il motivo di questa riunione, ma sarà meglio scoprirlo al più presto. È stato tuo padre a chiederci di intervenire. A quanto pare la polizia non ha molti uomini a sua disposizione negli orari notturni, perciò ha preferito che ci muovessimo prima del loro arrivo, che comunque non avverrà prima di venti minuti, da quanto ci ha detto lui. Arsenal e Arrow si stanno già dirigendo sul posto, ma senza voi due dubito che riusciranno a battere da soli una dozzina di mafiosi con le loro guardie del corpo alle calcagna.»
«Sicura? Perché secondo me possono farcela benissimo da soli.»
A quelle parole, la figlia di Ra’s al Ghul coprì il microfono del telefonino con la mano, per poi lanciare un’occhiata di sbieco a Sara. Quest’ultima alzò gli occhi al cielo, scocciata: non era da lei rispondere in quel modo, ma quel giorno si sentiva veramente sfinita, e nemmeno un motivo così importante sarebbe riuscito a convincerla ad alzarsi dal divano. Inutile dire che lo sguardo di Nyssa, al contrario, l’aveva convinta eccome.
«Li raggiungiamo subito, Felicity, non ti preoccupare» la rassicurò la mora.
«Bene. Vi mando l’indirizzo tramite sms.»
Nyssa spense la comunicazione, dopodiché si voltò verso Sara e incrociò le braccia. «Avanti, alzati da lì e vatti a cambiare. Altrimenti sarò costretta a svegliarti con un secchio di acqua fredda.»
«Non oseresti» la minacciò Sara, puntandole il dito contro.
«Non mettermi alla prova, ragazzina» replicò l’Erede, socchiudendo appena gli occhi in segno di sfida.
Al sentir quella parola, Sara non riuscì a trattenere un sorriso: era quasi un gioco, per loro. Nyssa l’aveva chiamata spesso in quel modo durante i loro addestramenti, soprattutto quando Sara si era dimostrata determinata e pronta a imparare cose nuove. Ed era bello constatare che nonostante tutti gli anni che erano passati loro due non erano cambiate affatto.
Le due si cambiarono più in fretta che poterono ‒ a differenza degli altri membri del team, avevano preferito tenere i costumi a casa anziché lasciarli nell’Arrow Cave ‒, ma dopo non molto, Sara ritornò in salotto con uno sguardo sconvolto. «Il costume stringe.»
«Che cosa significa?»
«Significa che non riesco a tirare su i pantaloni più di così, Nyssa» rispose Sara, alludendo al fatto che i pantaloni di pelle le arrivassero a metà coscia. «E adesso che cosa faccio?»
«Troviamo un modo per farteli stare» insistette Nyssa, cercando di aiutare l’altra a indossare il costume. Nessuna delle due disse nulla al riguardo, ma quello non era nientemeno che uno dei tanti segni della gravidanza di Sara. E in quel momento la bionda comprese che non sarebbe riuscita a tenere il segreto per sé ancora a lungo.



Dopo essere riuscite a far indossare a Canary il suo costume ‒ stringeva veramente tanto, ma al momento avevano altro a cui pensare ‒, Nyssa e Sara accorsero in aiuto di Roy e Oliver. Quando giunsero nel luogo indicato da Felicity, i due vigilanti erano nascosti dietro a dei pilastri. Attesero il loro segnale prima di agire.
Non appena Oliver uscì dal suo nascondiglio, un uomo dalla carnagione scura sparò un colpo di pistola nella sua direzione; l’ex miliardario schivò prontamente il proiettile, assestando un gancio sinistro sul volto del criminale.
Sara, Roy e Nyssa si unirono alla mischia subito dopo. Mentre questi ultimi colpirono alcune guardie del corpo utilizzando arco e frecce, Sara si diresse a passo spedito verso un uomo con una maschera sul viso: solo allora si rese conto che tutti i mafiosi ne indossavano una per nascondere la loro identità, sebbene i buchi per gli occhi lasciassero intravedere i lineamenti orientali. Riuscì a colpire uno di loro con molta facilità, mettendolo fuori gioco con un semplice calcio allo stomaco, ma prima che potesse fare un altro passo si ritrovò con le spalle al muro, i polsi stretti ai lati della testa da due mani fin troppo forti per i suoi gusti. Uno dei bodyguard le era corso incontro non appena l’aveva vista dirigersi verso il gruppo di uomini mascherati.
Sara non si mosse di un millimetro. Si limitò a fare una smorfia, dopodiché decise di contare fino a tre; al due l’uomo era già morto, e un istante dopo se lo ritrovò ai suoi piedi, con due frecce rosse e nere piantate nella schiena. Lei e Nyssa si scambiarono uno sguardo d’intesa, dopodiché lei e Roy presero a inseguire fuori dal magazzino i mafiosi che avevano preferito darsela a gambe. Canary ne seguì uno che indossava una maschera bianca come il latte: riuscì a intravedere una pistola nascosta nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, ma non capì come mai non la stesse usando contro di lei. Tuttavia, non ci volle molto affinché lei lo raggiungesse: quando gli fu abbastanza vicina lo colpì alle caviglie con il suo bastone, facendolo cadere a terra. L’uomo si ricompose a fatica, e fu allora che Sara si accorse che aveva perso la maschera durante la fuga. Fece del suo meglio per apparire il meno sconcertata possibile, ma sapeva benissimo che non ce l’avrebbe mai fatta. Bao Lee, l’uomo che aveva assassinato poco più di due mesi prima, era in ginocchio davanti a lei, vivo e vegeto.
«Non è possibile… tu… tu eri morto… ti ho ucciso con le mie stesse mani a Yichang!»
«Ed è qui che ti sbagli, mia cara» ghignò l’uomo, con uno sguardo carico di odio. «Quello che hai ammazzato non era altro che uno dei miei uomini con indosso una maschera del mio viso[1]. Possiamo dire che si è sacrificato per una giusta causa. Tuttavia…» proseguì, guardandola dritta negli occhi «ti avrei riconosciuta anche in mezzo a una piazza affollata. Tu sei quella puttana della Lega degli Assassini che ha attentato alla mia vita. Direi che adesso è giunto il momento di vendicarmi.»
Il sorriso malefico sul suo volto si ampliò, mentre Sara provò una dolorosa fitta nel petto. Le sembrava di rivivere quella notte, quando il sangue di Bao Lee l’aveva fatta inspiegabilmente svenire e poche ore dopo aveva scoperto di essere incinta. Il solo ricordo le fece venire un capogiro. Sara cadde a terra, in ginocchio, mentre l’uomo davanti a lei si alzava in piedi e le puntava contro la propria pistola.
Se mi uccide, nessuno scoprirà nulla, pensò, boccheggiando disperatamente per far entrare aria nei polmoni. Se muoio ora, non dovrò dire a nessuno che sono incinta, e non dovrò sopportare il peso delle conseguenze a cui porterà il mio segreto.
La verità è che in quel momento si sentiva indifesa come un uccellino a cui sono state spezzate le ali. Le mancavano il respiro e le forze per reagire, e per la prima volta in vita sua pregò che Nyssa non la venisse a salvare.
«La Lega degli Assassini sarà molto delusa da te» concluse il mafioso, prima di fare pressione sul grilletto con il dito. Canary prese un respiro profondo, incapace di reagire; poi si sentì uno sparo e si accasciò a terra, priva di forze.



Felicity si mangiucchiava nervosamente le unghie da una decina di minuti, mentre Oliver camminava da una parte all’altra della stanza con le braccia incrociate. Roy se ne stava in un angolo della stanza senza dire una parola, mentre Laurel era in ansia per la sorte della sorella.
Ad un tratto, lungo la scalinata, comparve John, seguito da Sara e da Nyssa, che teneva la mano stretta intorno al braccio dell’amata per paura che perdesse l’equilibrio.
Oliver non diede il tempo al gruppetto di sistemarsi che già si era avventato su Sara. «Cos’è successo là fuori?»
La bionda gli rivolse un’occhiata indifferente, liberandosi dalla stretta di Nyssa. «Niente. Non è successo niente.»
«Ah no? Perché a me risulta che se Diggle non fosse arrivato in tempo tu ti saresti fatta ammazzare.»
Il ricordo del proiettile che attraversava lo stomaco di Lee la fece rabbrividire. «Sto bene, Oliver.»
«No, Sara, tu non stai bene» sbottò lui, compiendo alcuni passi verso di lei. Tuttavia, prima che potesse raggiungerla, Nyssa si frappose fra di loro, guardando Oliver dall’alto al basso con aria di sfida, sguardo che il vigilante ricambiò senza farsi intimidire.
«Ana’ bekhair, habibti[2]» si affrettò a dire Sara, accarezzandole dolcemente il braccio destro nel tentativo di calmarla. A quelle parole, Nyssa cercò di non scomporsi, ma dopo non molto fu costretta a indietreggiare e a lasciare che Sara se la sbrigasse da sola. D’altronde, era lei quella che doveva dare delle spiegazioni.
Oliver la osservò allontanarsi, pronto a riprendere la parola. Questa volta si rivolse anche a Nyssa, puntandole il dito contro: «È da quando siete arrivate a Starling City che vi comportate in modo strano. Avete deciso di unirvi al team e di aiutarci e questo mi sta bene, ma in una squadra non ci devono essere segreti.»
«Senti chi parla» sbuffò Laurel, nel tentativo di sostenere Sara. «Oliver, perdonami, ma è così. Tu sei il primo a nasconderci le cose. E non dire che non è vero.»
«Laurel, non ti immischiare.» Arrow trattenne a stento un sospiro, per poi voltarsi nuovamente verso Canary. «Sara, io mi sto solo preoccupando per te. Per voi. Quello che è successo questa sera non è normale.»
«Oliver, credo di aver avuto un semplice calo di pressione» mentì Sara, facendo del suo meglio per apparire credibile. Accennò un sorriso nervoso. «Mi dispiace avervi spaventati, non era mia intenzione. Ma davvero, non è niente.»
La bionda si preparò a voltarsi, ma prima che potesse compiere un solo passo Oliver strinse la mano intorno al suo braccio, e a quel contatto Sara si sentì svenire. Le sembrava incredibile come quel semplice gesto la facesse sentire così a disagio, considerato che poco più di quattro mesi prima lei e Oliver erano stati a letto insieme. Le tremavano le gambe in una maniera incontrollabile; Queen se ne accorse, ma non lasciò andare la presa su di lei nemmeno un istante. Poi, come se fosse una forza più grande di lei a parlare, Sara si lasciò andare, e lo disse.
«Sono incinta.»



Nella stanza calò il silenzio per qualche istante. Nessuno osò dire una parola, ma ognuno di loro, a modo suo, era sconvolto da quella notizia. John e Roy si scambiarono un’occhiata d’intesa, mentre Laurel cercò di intercettare lo sguardo di Nyssa, che però era fisso sul volto di Oliver. Felicity osservava la scena immobile, in attesa di scoprire cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
Oliver aprì leggermente la bocca, lasciando poi andare la presa sul braccio di Sara. «Perché mi dici questo?»
La donna non rispose. In fondo, non c’era alcun bisogno di parole. Bastò uno sguardo affinché tutti capissero.
«Quando siamo tornate in città l’avevo appena scoperto» cominciò a dire Sara, la voce fioca a causa dell’angoscia che provava. «Avrei dovuto dirtelo subito, lo so, ma non ce l’ho fatta. Ho avuto paura che mi avresti detto di abortire. E poi, quando ho visto quanto tu e Felicity foste felici insieme, ho capito che se ve lo avessi detto avrei rischiato di rovinare la vostra relazione.» Sara fece una pausa, spostando la sua attenzione su Felicity. «Lui non ti ha tradita, te lo posso giurare. È successo tutto prima dell’Assedio…»
«Lo so, Sara. Me lo ricordo che stavate insieme» sussurrò il tecnico informatico in risposta, un pizzico di acidità nella voce. Felicity chiuse gli occhi, per poi passarsi una mano sulla fronte. «Scusatemi. Ho bisogno d’aria.»Subito dopo si alzò in piedi, spostò la sua sedia girevole con un movimento brusco e se ne andò a passo svelto sotto gli occhi di tutti. Oliver, ancora visibilmente scioccato, cercò di seguirla, ma la strada gli fu sbarrata da Nyssa.
«Oliver, ti prego…»
«Nyssa, lascialo andare» l’ammonì Sara, che tratteneva a stento le lacrime. 
Detto questo, Oliver si allontanò a sua volta, e Sara rimase al centro della stanza, circondata da quegli amici che attendevano spiegazioni e dai sensi di colpa.

 

 

 

 

 

 

[1] No ma non ho preso spunto da Pretty Little Liars, no no xD
[2] La traduzione dovrebbe essere: “Sto bene, amore.”

 


 

 

 

 

Ormai avrete capito che ho un serio problema con il cibo, perché in ogni capitolo non riesco a non descrivere una scena in cui qualcuno consuma il proprio pasto lol
Non è mancanza di idee, è proprio una dipendenza che ho da sempre.
Comunque, sto mantenendo il passo di pubblicazione di un capitolo ogni due mesi (so che non è il massimo, ma considerati gli impegni, le varie long in corso e la lunghezza media dei capitoli di questa storia, direi che sono a cavallo, anche se questo capitolo in particolare mi è uscito più corto del normale).
Anyway, vi auguro buon Carnevale e buonanotte. E se tutto va bene, ci si rivede a Pasqua!

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Capitolo 12
*** Capitolo 11: We're like a family ***


 

Capitolo 11: 
We’re like a family

 

 

 

 

Felicity osservava la luna con gli occhi lucidi. Non si era mai resa conto di quanto quella sfera bianca fosse bella, luminosa, e sola. Malgrado fosse circondata da milioni di stelle, non aveva nessuno con cui parlare, con cui sfogarsi. E in quel momento si sentì vicina alla luna più che mai.
«Felicity.»
Quella voce la riportò alla realtà, anche se in quel momento era l’ultima che avrebbe voluto sentire. Tirò su col naso, e continuò a farlo finché non sentì le sue mani calde stringerle le spalle.
«Lo so che è stato un duro colpo, e che probabilmente ti sarà difficile da comprendere. Lo è anche per me, credimi.»
Cosa c’era di così difficile da comprendere? Lui e Sara erano stati a letto insieme perché fino a pochi mesi prima erano una coppia, e nessuno dei due era stato così intelligente da usare precauzioni. O forse le avevano usate, ma qualcosa era andato storto. Cosa credeva, che fosse una bambina? Che non sapesse come nascessero i bambini? A volte si chiedeva perché Oliver la trattasse come un’idiota. Tuttavia, non riuscì a trovare la forza di controbattere.
«Non mi va di tornare dentro. Insomma, so che dovrei parlare con Sara, ma credo di aver bisogno di un po’ di tempo per riflettere. E lo stesso vale per te.»
Il tecnico informatico prese un bel respiro, dopodiché si voltò e dedicò al vigilante uno sguardo serio. «Se avessi scoperto della gravidanza di Sara in tempo… voglio dire, se ne fossi venuto a conoscenza quando ancora si poteva pensare all’aborto, che cosa avresti fatto?»
Oliver, ancora in tuta di Arrow, a quella domanda si paralizzò. «Non lo so, Felicity» ammise, scuotendo appena il capo. «Non ne ho idea, io… non sono pronto a diventare padre. Però…» Si passò una mano tra i capelli, completamente spaesato.
La bionda annuì lentamente, assimilando il significato di quelle parole. Aveva gli occhi gonfi di lacrime.
«Io non…» Le tremava la voce, ma ciò non le impedì di proseguire. «Non credo di potercela fare, Oliver.»
Quest’ultimo corrugò la fronte, confuso. «Cosa intendi dire?»
Felicity deglutì. «Intendo dire che la tua vita è fin troppo incasinata così. Sei Arrow, ma al tempo stesso sei anche uno degli amministratori delegati della Queen Consolidated, e tra poco diventerai padre. È già dura avere tre vite diverse. Se mi ci metto di mezzo anch’io, non farò altre che complicare le cose.»
«Ma io sono Oliver Queen» protestò lui, prendendole le mani tra le sue. «E voglio stare con te, Felicity.»
«No, Oliver» disse lei, ritraendo lentamente le mani. «Tu credi di poter riuscire a gestire le tue varie identità, ma quando il bambino nascerà non ci sarà più spazio per me nella tua vita. Io ti conosco. Non lasceresti mai che Sara se la sbrigasse da sola. D’altronde, sei tu il padre, ed è giusto così. Molto presto dovrai pensare a crescere tuo figlio. E se c’è una cosa che amo di te è proprio il tuo principio di fare sempre la cosa giusta per proteggere le persone che ami.»
«Ti sbagli, Felicity, io faccio un sacco di errori. Ne abbiamo appena avuto l’esempio» esclamò, indicando la porta sul retro del Verdant. Gli tremavano le mani, ma cercò di calmarsi prendendo dei respiri profondi. «Felicity, ascoltami… non posso farcela senza di te. Non sono proprio capace a fare il padre. Il mio non è stato per niente un buon esempio.» Sospirò, guardandola un’ultima volta negli occhi. «Ho bisogno di te ora più che mai.»
Le lacrime iniziarono a rigare lentamente il volto della donna, che ora tratteneva a stento i singhiozzi. «Mi dispiace tanto, ma non è questa la vita che avevo immaginato per noi due» rivelò, deglutendo sommessamente. «Io ti amo, Oliver. E se mi ami anche tu devi lasciarmi andare.»
L’ex miliardario aveva pregato di non dover arrivare a quel punto, ma alla fine Felicity gli aveva dato un ultimatum. Aveva sempre odiato l’idea di dover scegliere tra due persone che amava ‒ era successo lo stesso con Thea e sua madre quando Slade Wilson li aveva rapiti, e pochi anni prima con Sara e Shado ‒, e adesso il pensiero di dover decidere tra la donna che amava e il figlio che Sara portava in grembo lo spaventava a morte.
Tuttavia, Felicity se ne andò prima che lui potesse darle una risposta, lasciandolo solo nel vicolo buio del Verdant.



Laurel si sistemò accanto a Sara sul divano, passandole una mano sui lunghi capelli biondi: se n’erano andate dal Verdant poco più di un’ora prima, ma Sara, nonostante la doccia calda e la tazza di tè che le aveva preparato Nyssa, era ancora molto tesa.
E ora, rannicchiata sul divano con le ginocchia al petto, sembrava una bambina che aveva perso il suo coniglietto di peluche preferito.
«Adesso Oliver mi odierà.»
Laurel dedicò uno sguardo severo alla sorella, facendo una smorfia. «Quello che è successo è anche colpa sua. La prima persona che dovrebbe odiare è sé stesso, non tu.»
Canary si strinse nelle spalle, assumendo un’espressione contrariata. «Ma avrei dovuto dirglielo prima. Se lo avessi fatto, forse le cose sarebbero andate diversamente.»
«Non sarebbe cambiato nulla» soffiò l’avvocato, cercando di mantenere un tono di voce tranquillo. «È ovvio che venire a sapere della tua gravidanza dopo mesi che vi siete lasciati lo abbia sconvolto. Insomma, non dev’essere stata una passeggiata nemmeno per te. Però sono sicura di una cosa: tra lui e Felicity non cambierà nulla. Si amano tanto quanto vi amate tu e Nyssa, e sono più che certa che lei non si lascerà sopraffare da una notizia simile. Andrà tutto bene, vedrai.»
La bionda, malgrado le carezze incessanti della sorella, si mordicchiò il labbro inferiore, a disagio. «Ciò non toglie che non riesco a smettere di pensare a cosa sarebbe successo se gliene avessi parlato subito.»
«Ascolta, non posso dire di sapere come ti senti, ma…» Laurel sospirò appena. «Ormai il passato è passato. Devi pensare al futuro.»
«Onestamente ho solo voglia di farmi una dormita.»
In quel preciso istante, Nyssa fece il suo ingresso nella stanza: era appena uscita dalla doccia e indossava un pigiama rosso a pois bianchi che la faceva sembrare una bambina ‒ motivo per cui la sua amata lo adorava. Si fermò sullo stipite della porta a braccia conserte, dedicando a Sara un lieve sorriso.
La bionda diede un rapido bacio sulla guancia della sorella prima di dileguarsi. «Ci vediamo domani.» Dopodiché superò Nyssa lungo il corridoio senza dire una parola, e Laurel attese che Canary se ne fosse andata prima di ricominciare a parlare.
«Tu lo sapevi» esordì, dirigendosi lentamente verso la mora. «Lo sapevi e non mi hai detto nulla.»
«Non era di certo compito mio metterti al corrente» commentò la figlia del Demonio, col suo solito sguardo imperscrutabile.
«Capisco che in principio noi due non andassimo d’accordo, ma poi sono cambiate molte cose, o sbaglio?»
«Laurel, ho rapito tua madre» le rammentò Nyssa, corrugando la fronte. «Dire che non ci piacevamo è un eufemismo.»
Malgrado quella frecciatina, la castana non si scompose. «Ma poi siamo diventate buone amiche. Perciò pensare che per due mesi mi hai tenuta all’oscuro della condizione di Sara… mi dà sui nervi.»
«Tua sorella è maggiorenne e vaccinata. Non ha più bisogno di qualcuno che le spieghi cosa deve o non deve fare.»
«Lo so, ma… dannazione, è mia sorella!» Malgrado il vano tentativo di mantenere un tono basso per non farsi sentire da Sara, Laurel non riuscì a non enfatizzare quell’ultima frase. «Non importa quanti anni abbia, io mi preoccuperò sempre per lei. Sempre. E tu avresti dovuto mettermi al corrente della sua situazione.»
«Santo cielo, Laurel, fai sul serio? Sara non è malata, è incinta, cazzo! Credi che potessi semplicemente mandarti un messaggino e dirti: “Ciao Laurel, sai che stai per diventare zia? Il padre è il tuo ex fidanzato, ma credo che la cosa non ti stupisca.” Hai idea di quanto sia stato pesante per noi due nascondervi la verità in queste settimane? Non lo abbiamo fatto con piacere, ma era giusto che fosse Sara a fare il primo passo, non io. E se ha voluto attendere così a lungo, ci sarà stato un motivo, non trovi?»
Adesso Laurel stava trattenendo a fatica la sua collera. «Io non sono arrabbiata con lei perché è incinta di Oliver. È vero, Sara ne ha fatti di sbagli, ma alla fine se l’è sempre cavata. E so per certo che avermi vicina la mette a disagio, visti i precedenti» disse, alludendo alla storia del Gambit. «Ma tu… tu sei un’irresponsabile. L’hai lasciata combattere ogni sera nonostante tutto. Hai idea di cosa sarebbe potuto accadere se fosse stata colpita troppo violentemente o se fosse svenuta in situazioni poco convenienti come è successo stasera? Proprio tu, che dici di amarla con tutto il tuo cuore, non avresti dovuto permetterle di mettere a rischio la sua vita e quella del bambino in questo modo.»
Nyssa serrò i pugni e la mascella al tempo stesso, assumendo l’espressione che riservava solamente ai mercenari che la facevano davvero infuriare quando non ascoltavano i suoi ordini. «Tu non sei nessuno per venire qui e mettere in dubbio i miei sentimenti per tua sorella. Se non l’amassi davvero, a quest’ora l’avrei già abbandonata al suo destino. E sai perché non l’ho fatto? Perché so che non mi ha tradita, e perché so di amarla più di ogni altra cosa. La domanda a questo punto è, tu la ami davvero come dici, o sei ancora accecata dalla gelosia?» Un sorriso amaro contornò le labbra dell’Erede del Demonio. «Ma in fondo, cosa te lo chiedo a fare. Non l’hai perdonata nemmeno quando è tornata a casa perché non ti ha chiamata per dirti che era ancora viva. Vuoi saperla una cosa? È colpa mia. Sono stata io a dirle di non farlo, non solo perché in questo modo sarebbe andata contro le regole della Lega, ma anche perché temevo che l’avrei persa per sempre. Sapevo che risentire le voci dei suoi famigliari avrebbe alimentato il suo desiderio di ritornare a casa, e il pensiero di non poterlo fare l’avrebbe solamente distrutta. Quindi sì, Laurel, ho fatto di tutto pur di tenerla lontana dalla sua vecchia vita non solo perché era obbligata a farlo, ma anche perché la amavo e la amo ancora. Mi sarò anche comportata da egoista, ma almeno io le idee chiare sui sentimenti che provo per lei ce le ho avute fin dal principio.»
L’avvocato inspirò profondamente, voltandosi dalla parte opposta rispetto a Nyssa per non farle vedere che era sul punto di scoppiare in lacrime. Non era vero, lei non era più invidiosa o arrabbiata con Sara, ma quei ricordi la facevano comunque sentire in colpa per come l’aveva trattata. Era sua sorella minore e le voleva un bene dell’anima, nonostante il tradimento, nonostante la gravidanza, nonostante tutti gli errori che aveva commesso. Tuttavia, non era riuscita a dimostrarglielo come avrebbe dovuto.
In preda all’imminente pianto, Laurel si avvicinò al divano, afferrò la sua borsa e si diresse a passo spedito fuori dall’appartamento, con la testa china per non incontrare nuovamente lo sguardo furente di Nyssa.



Nonostante ci avesse provato con tutte le sue forze, Sara non era riuscita a chiudere occhio. Aveva continuato a rigirarsi nel letto per quasi un’ora, fino a quando, scocciata, aveva deciso di fare una passeggiata per schiarirsi le idee.
Una volta in piedi, si infilò il cappotto di Nyssa ‒ era talmente lungo che avrebbe sicuramente tenuto nascosto gran parte del suo pigiama ‒ e si diresse rapidamente fuori dall’appartamento.
Giunta in strada, si sedette negli ultimi gradini della scala antincendio, osservando distrattamente il punto in cui fino a non molto tempo prima era parcheggiata l’auto di Laurel. L’aveva sentita litigare con Nyssa, ma non se l’era sentita di intromettersi. Dopotutto, non avrebbe avuto alcun senso schierarsi dalla parte di una delle due: se la sarebbero potuta sbrigare tranquillamente da sole.
Il caldo estivo stava ormai lasciando spazio ai primi venti autunnali, tanto gradevoli quanto fastidiosi: a Starling City non pioveva molto, ma in men che non si dica il sole se ne sarebbe andato, e al suo posto sarebbero arrivati il freddo, la neve e le vacanze natalizie, e a quel punto Sara si sarebbe trovata al termine della gravidanza. Le sembrava ancora troppo strano per essere vero.
Ad un tratto, non poté fare a meno di alzare lo sguardo. Lo aveva sentito arrivare già da un po’, ma aveva preferito non battere ciglio per testare il suo limite di sopportazione. Tuttavia, dopo pochi minuti, Oliver uscì allo scoperto, andandosi a sedere accanto a lei.
Sara si strinse ulteriormente nel cappotto, mentre l’ex miliardario poggiò i gomiti sulle ginocchia e giunse le mani davanti a sé, iniziando a sfregarle in preda a un tic nervoso.
«Mi dispiace» soffiò Sara, rompendo il silenzio.
«Non è colpa tua» protestò il vigilante, scuotendo appena il capo. «È di tutti e due.»
La bionda deglutì, rilassando lentamente le spalle. «Non avrei dovuto tenertelo nascosto così a lungo. Mi sono comportata da vigliacca.»
Oliver spostò lo sguardo altrove, emettendo un lungo e intenso sospiro. «No, hai solo avuto paura. Ne avrebbe avuta anche un qualunque altro essere umano. Se ti può consolare, ho paura anch’io. Sono terrorizzato.»
A quell’ultima frase, Sara notò l’accenno di un sorriso sul suo volto, e si affrettò a ricambiarlo. Probabilmente riderci su non era il modo migliore di affrontare la cosa, ma serviva a sciogliere la tensione fra loro.
«Felicity come l’ha presa?»
A quel punto, Arrow si irrigidì. Fu come se un proiettile lo avesse attraversato da una parte all’altra del torace, perché il dolore che provò fu talmente immenso che dovette prendersi la testa fra le mani per placarlo. Sara, preoccupata, stava per chiedergli cos’avesse, ma Oliver si ricompose all’istante, rispondendo con un altro sospiro.
«Felicity mi ha lasciato.»
Canary corrugò le sopracciglia, sconcertata. «Che cosa?»
«Ha detto che d’ora in avanti dovrò pensare a mio figlio, e che lei sarebbe solo una distrazione nella mia vita.»
«Che assurdità.» Fu tutto ciò che Sara riuscì a dire, perché ora il suo più grande incubo aveva deciso di avverarsi: Felicity e Oliver si erano lasciati a causa sua. Percepì chiaramente lo stomaco contorcersi dalla nausea, e per un attimo pensò che avrebbe vomitato da un momento all’altro; poi Oliver le poggiò con cura una mano sulla schiena, e il mondo sembrò scorrere più lentamente del solito.
«Ehi» sussurrò, facendole una carezza. «Conosco quello sguardo. Non puoi darti la colpa anche di questo.»
«E cosa dovrei fare? È successo tutto per causa mia. Adesso mi odierai.»
«Io non sono arrabbiato con te» spiegò il vigilante, sporgendosi appena nella sua direzione. «Non ce l’ho con nessuno. Abbiamo fatto un errore, ma non per questo dovremo piangerci addosso per il resto della vita.»
«Davvero, Ollie? Ne sei sicuro?» sbottò, alzandosi di scatto in piedi. «Perché a me non sembra che sia stato un errore. Io ricordo perfettamente che le precauzioni sono state utilizzate, perciò non capisco come possa essere successo.»
«Cosa vuoi che ti dica?» Gli si formò un nodo alla gola, ma riuscì comunque a proseguire. «Qualcosa è andato storto. Può capitare. Ma ciò non significa che non saremo in grado di cavarcela.»
Sara incrociò istintivamente le braccia. Indossava un pigiama rosa con dei coniglietti bianchi, e coi capelli spettinati sembrava proprio una bambina capricciosa, ma Oliver non avrebbe mai trovato il coraggio di dirglielo in faccia.
«Quindi non sei arrabbiato con me?» proruppe poco dopo, ammorbidendo il suo sguardo.
«Come potrei?»
L’ex miliardario si alzò in piedi a sua volta, accolse Sara fra le proprie braccia e le baciò il capo. L’unica certezza che avevano era che non sarebbero mai stati soli. Mai.

*

Il cellulare emise quattro squilli, ma dall’altra parte nessuno rispose. Al quinto squillo, Sara decise che avrebbe chiuso la telefonata e che avrebbe richiamato più tardi. Al sesto, però, si sentì un rumore di sottofondo.
«Pronto?»
Quando udì la sua voce, la donna si paralizzò. Malgrado fosse stata lei ad averla chiamata, ora se ne era già pentita, perciò aveva sperato con tutta sé stessa che sua madre fosse già a lezione e che quindi non le avrebbe risposto. Ma a quanto pare il destino aveva deciso che andasse diversamente.
«Tesoro, sei tu? Va tutto bene?»
«Mamma» riuscì solo a dire, col cuore che batteva a mille. Le tremava la voce, ma cercò di darsi un contegno per non scoppiare a piangere come ormai le succedeva ogni giorno per ogni minima stupidaggine. Si schiarì la voce, dopodiché riprese a parlare: «Come stai?»
«Bene. Io sto bene. E tu?»
Sara deglutì, andandosi a sedere sul divano. «Gliel’ho detto.»
Dinah restò in silenzio per alcuni istanti. Sara era sicura che sua madre avrebbe capito senza bisogno di ulteriori parole.
«Veramente? Era ora che sganciassi la bomba!»
“Sganciare la bomba” non era esattamente una frase tipica del vocabolario di Dinah Drake Lance, ma più di una volta la donna aveva tentato di utilizzare il gergo giovanile per comunicare con le figlie in modo più sciolto, soprattutto durante la loro adolescenza, e ancora adesso capitava che le sfuggisse qualche espressione poco colloquiale.
«Sara, che succede?»
La diretta interessata scrollò le spalle, incurante del fatto che la madre non potesse vederla. «È che ho paura di aver rovinato qualcosa di importante.»
La madre lasciò passare qualche altro secondo prima di chiederle: «A cosa ti riferisci, di preciso?»
«A Oliver… e alla sua ragazza.» Prese un respiro profondo prima di continuare. «Quando lei l’ha saputo ha deciso di lasciarlo perché ritiene che una volta nato il bambino non ci sarà spazio per una donna nella vita di Oliver. Ma a me sembra una grandissima sciocchezza.»
«Perché è così» confermò Dinah in tono pacato. «Ascoltami bene, tesoro: i figli sono la gioia più grande che una persona possa avere. Tu e Laurel siete le persone più importanti della mia vita. Quando è successo quel che è successo…» Sebbene fossero passati ormai sette anni, faceva ancora male rievocare quei ricordi. Dire a Sara “quando ti ho creduta morta” non avrebbe di certo impedito alle ferite di riaprirsi, perciò Dinah aveva preferito restare vaga. Ma Sara aveva capito perfettamente a cosa si riferiva. «Io ho quasi smesso di vivere. Ho permesso che la disperazione prendesse il sopravvento su di me. Ho lasciato tuo padre, ho abbandonato tua sorella quando più aveva bisogno di me, e per anni mi sono data malata al lavoro soltanto per evitare di incrociare a lezione studentesse che ti somigliavano o che avevano il tuo stesso nome. Ho ricominciato a vivere solamente quando sei tornata a casa, perché il dolore di averti persa era stato più forte della mia voglia di vivere. Ma tu e Oliver… voi non avete niente di cui preoccuparvi. Per modo di dire, ovviamente» rise, alludendo alla loro professione di vigilanti. Quando aveva scoperto che sua figlia era Canary, non ci aveva messo molto a fare due più due e a capire che Oliver era Arrow. E l’idea che suo nipote avrebbe avuto due genitori come loro la rendeva orgogliosa. «Siete giovani. E in salute. Ed entrambi meritate di avere al vostro fianco una donna che vi ami e che vi sostenga sempre.»
Sara non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma con quella frase sua madre era riuscita a darle il colpo di grazia. Non sarebbe riuscita a trattenere le lacrime ancora per molto.
«Perciò, anche se i tuoi figli saranno il tuo primo pensiero quando ti alzerai la mattina, ricordati che non è peccato condividere un po’ del tuo amore con un’altra persona. Solo… cercate di non esagerare con le smancerie, okay? Sai che i bambini le odiano. Ogni volta che abbracciavo vostro padre tu e Laurel eravate sempre pronte a infiltrarvi nella stretta perché eravate gelose di lui.»
A quel punto, Sara non riuscì a non scoppiare a ridere. Era vero. Fin da bambine, Laurel e Sara avevano sempre avuto un debole per il padre. Probabilmente ciò era portato dal fatto che molto spesso era lui a rimboccare loro le coperte prima di andare a dormire ‒ Dinah doveva dividersi tra la famiglia e il lavoro all’università a chilometri di distanza da casa, perciò molto spesso si addormentava subito dopo aver lavato i piatti ‒, oppure perché Quentin era quello che difficilmente riusciva a dire di no. Questo, ovviamente, fino alla soglia dei sei anni; dopodiché le sue bambine avevano iniziato ad avere i primi fidanzatini e da allora si era indurito parecchio.
Tuttavia, al contrario di Laurel, Sara aveva legato più con la madre che con Quentin. Lei e Dinah erano molto simili, tranne per il fatto che quest’ultima, a differenza della figlia, era sempre stata una persona composta, mentre Sara non aveva mai tentato di nascondere le proprie emozioni. Proprio come stava facendo ora.
«In ogni caso, se quella donna ama davvero Oliver, allora lo perdonerà e tornerà da lui, altrimenti non lo merita. Ricordatelo bene, figlia mia.»
Sara chiuse la telefonata con l’eco delle ultime parole pronunciate da Dinah che le rimbombava nella testa. Era un modo alternativo per farle capire che non era colpa sua, ma di certo non sarebbe bastato per placare il suo senso di colpa.
«Quanto hai sentito?» disse ad un tratto, ruotando appena il capo alla sua destra.
Un attimo dopo, Nyssa le mise una mano sul collo, iniziando a massaggiarglielo delicatamente. «Praticamente tutto.»
Canary chiuse gli occhi, beandosi di quel meritato momento di serenità. «Ieri sera sei venuta a letto tardi.»
L’Erede del Demonio le baciò l’incavo del collo. «Avevo bisogno di riflettere. Ma qualcosa mi dice che nemmeno tu ti sei addormentata subito come speravi.»
A quanto pare, dopo che Laurel se n’era andata, Nyssa si era accorta che Sara non era in casa. O forse lo aveva capito semplicemente perché aveva origliato la sua conversazione con Dinah?
«E adesso che cosa farai?»
Sara sospirò, voltandosi verso di lei per guardarla negli occhi. «Andrò a parlare con Felicity. È il minimo che possa fare.»
«Credi davvero di poter aggiustare la loro relazione?»
La bionda dedicò all’amata un lungo e intenso sguardo, per poi metterle una mano sulla guancia. «Non lo so, Nys[1]. So solo che ci devo provare.»



Alla Queen Consolidated, il lavoro non mancava mai. Soprattutto ora che era riuscito a non perdere il controllo dell’azienda di famiglia, Oliver si era ritrovato a dover lavorare più del solito.
Erano passati pochi secondi dall’inizio della sua pausa quando una donna bionda fece il suo ingresso nell’ufficio. L’ex miliardario l’aveva riconosciuta dalla sua inconfondibile camminata, ma alzò lo sguardo verso di lei solamente quando la porta a vetri si fu chiusa alle sue spalle.
«Come sapevi che mi avresti trovato qui?»
Sara compì qualche passo in avanti, dopodiché rispose con un’alzata di spalle. «Non lo sapevo, ma il Verdant era deserto e ho dedotto che stanotte non sei tornato a casa di Felicity. Ho tirato a indovinare.»
«E a quanto pare hai indovinato» replicò lui, con un sorriso forzato. Era ovvio che la rottura con Felicity l’avesse sconvolto più di quanto avrebbe potuto immaginare, e Sara, nel vederlo in quelle condizioni, si sentì solo peggio.
«In ogni caso, se sei venuta fin qui per vedere come stavo, non devi preoccuparti. Sono più che sicuro che tra me e Felicity le cose si sistemeranno nel giro di pochi giorni.»
Era una menzogna bella e buona, e lo sapevano entrambi. Sara infilò le mani nelle tasche della sua giacca sportiva, mentre Oliver spostò lo sguardo sulle vetrate del palazzo.
«Volevo parlare con lei, ma ho pensato che forse sarebbe stato meglio parlarne prima con te.»
«Non ce n’è bisogno, Sara. Posso gestire questa storia da solo.»
«Ieri notte mi hai detto l’esatto contrario» protestò lei, avvicinandosi ulteriormente al vigilante. Ormai si trovavano a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, e le loro voci si erano ridotte ad un misero sussurro. «Te lo ricordi? Ci siamo dentro insieme. E io ho più colpe di te al riguardo. Perciò parlerò con Felicity, che ti piaccia o no.»
Oliver sospirò, scuotendo appena il capo. «Apprezzo il tuo gesto, ma non puoi più fare niente. Stanotte Felicity ha preso un volo diretto per Las Vegas. È tornata da sua madre.»
«E tu non gliel’hai impedito?»
«L’ho scoperto solo questa mattina quando sono arrivato qui. Felicity non si è presentata in ufficio, così ho pensato che avesse deciso di prendersi un giorno di ferie. Poco dopo, però, uno dei suoi colleghi, Curtis Holt, mi ha consegnato una… richiesta di licenziamento.»
«Da parte di Felicity?»
Oliver annuì leggermente, serrando la mascella per non mostrare la sua espressione rattristata.
Quello fu veramente un colpo basso. Sara non avrebbe mai immaginato che Felicity fosse il tipo di persona che si arrendeva di fronte alla prima difficoltà che incontrava. Di certo non si era aspettata la stessa reazione che aveva avuto Nyssa, ma al contempo, aveva anche sperato con tutta sé stessa che Felicity sarebbe stata più forte di fronte a quella notizia. Ma evidentemente si era sbagliata di grosso.
«Andrai da lei?» chiese Sara.
Il vigilante scosse il capo. «No. Se ha bisogno di spazio e di tempo per pensare, glielo darò. Presentarmi ogni mattina alla sua porta con un mazzo di rose per farmi perdonare non è nei miei piani. E in ogni caso, con Felicity non funzionerebbe mai.»



L’edificio che ospitava l’ufficio del procuratore distrettuale era lontano dal Mystery Cafè più di quanto Nyssa avesse immaginato. Si dovette quindi rassegnare all’idea che per questa volta avrebbe dovuto prendere un taxi.
Una volta dentro, chiese a una donna seduta davanti a un computer dove potesse trovare Laurel Lance, e questa le indicò una stanza dall’altra parte dell’androne. Tuttavia, quando l’Erede giunse davanti alla scrivania dell’avvocato, la trovò vuota.
D’istinto decise di voltarsi, pronta ad andarsene, ma prima che potesse farlo si ritrovò davanti la maggiore delle sorelle Lance con una tazza fumante di caffè in una mano e un plico di documenti nell’altra.
«Perché sei qui?» la schernì Laurel, posando in fretta tutto sulla scrivania.
Nyssa prese un respiro profondo. Aveva riflettuto a lungo prima di decidersi a chiarire le cose con Laurel, ma adesso che si trovava davanti a lei era tutto più difficile.
«Mi volevo scusare per quello che ho detto ieri sera. Sono stata inopportuna e scortese. Riconosco anche che non è stato per niente educato da parte mia tirare in ballo quello che è accaduto con Oliver anni fa. D’altronde, non sono fatti miei. Ti chiedo scusa.»
Laurel osservò a lungo la figlia di Ra’s negli occhi nel tentativo di scorgere un segno che le indicasse cosa c’era sotto. Non lo trovò. Nyssa era sincera e, per quanto strano potesse sembrare, era veramente dispiaciuta per il loro litigio.
Anche Laurel la era, ma l’idea di essere la prima a compiere il primo passo non l’aveva minimamente sfiorata. Le parole di Nyssa l’avevano davvero ferita e la sera precedente c’erano volute ore prima che riuscisse ad addormentarsi. Ma in fondo nemmeno lei aveva detto cose carine nei suoi confronti.
«Ti devo delle scuse anch’io. Ho capito che avevi ragione tu. Non spettava a te dirmi della gravidanza di mia sorella, ma a lei. E non avrei mai dovuto mettere in dubbio i tuoi sentimenti per Sara. So bene quanto la ami.»
A quella frase, Nyssa per poco non avvampò. «Io… non so cosa dire.»
«Non preoccuparti. Le buone amiche litigano spesso.»
Nyssa sussultò. «Cosa?» In vita sua l’unica amica che aveva avuto era stata Sara, perciò il pensiero che adesso anche Laurel la considerasse tale le faceva battere il cuore.
L’avvocato le dedicò uno dei suoi migliori sorrisi, per poi piegare leggermente la testa di lato. «Pace fatta?»
La mora annuì con forza, più felice che mai. «Pace fatta.»



Il casinò era molto più grande di come Sara se lo era immaginata. Certo, si trovava pur sempre a Las Vegas, la città simbolo del gioco d’azzardo, ma non riusciva a credere che la madre di Felicity potesse davvero lavorare in un posto simile.
Passò diversi minuti a guardarsi intorno alla ricerca di una donna che somigliasse al tecnico informatico, ma il locale era pieno zeppo di cameriere che portavano cocktail ai tavoli, e di certo stando in mezzo alla folla non sarebbe mai riuscita a trovarla.
Dopo non molto decise di andarsi a sedere a un bancone in attesa che arrivasse un barista. Ne approfittò per controllare gli ultimi messaggi che le aveva inviato Nyssa ‒ una volta scesa dall’aereo si era dedicata alla ricerca di un motel, perciò oltre ad averle detto che era arrivata e che stava bene, Sara non aveva avuto modo di ampliare la conversazione.
Il primo messaggio, inviato quattro ore prima, diceva: Io e Laurel abbiamo chiarito. Tra poco stacco dal lavoro. Se puoi chiamami per l’ora di cena, così ti racconto.
Sara si morse l’interno della guancia. Nel corso della serata avrebbe dovuto controllare i nuovi messaggi più spesso, ma ormai era tardi per rimuginarci sopra. Passò direttamente al secondo messaggio, arrivato alle 20:08: Hai già trovato Felicity?
Un rumore proveniente dal retro del bancone attirò la sua attenzione, ma Sara non alzò minimamente lo sguardo dallo smartphone. Quella mattina Nyssa aveva insistito per accompagnarla a Las Vegas per cercare Felicity, ma Sara le aveva ricordato che quel pomeriggio doveva lavorare e che non poteva permettersi di prendersi dei giorni di riposo a piacimento solo perché Josh si era preso una cotta per lei. A quel punto Nyssa aveva messo su un finto broncio e aveva incrociato le braccia come una bambina.
Infine, Sara lesse il terzo messaggio, spedito pochi minuti prima: Fammi solo sapere come stai. Sto iniziando a preoccuparmi.
Canary intravide una donna bionda spuntare dal nulla davanti a lei, perciò digitò rapidamente la risposta da inoltrare a Nyssa: Tutto okay. Stavo cercando un posto in cui dormire. Ora sono al casinò. Ti richiamo appena posso. Baci xx.
Dopo aver premuto su “Invio”, Sara infilò il telefono in tasca, e a quel punto la barista si rivolse a lei.
«Che cosa ci fa una così bella ragazza tutta sola in un posto come questo?»
Sara decise di stare al gioco. «Sto aspettando qualcuno.»
«Ne dubito.»
«Come fa ad esserne sicura?»
«Perché sei troppo giovane per frequentare i casinò. A meno che tu non sia una spia. E poi non hai staccato gli occhi un momento dal tuo cellulare, quindi o il tuo ragazzo ti ha lasciata e stai cercando vanamente di dimenticarlo affogando il dolore nell’alcol, oppure non me la racconti giusta.»
Di fronte all’astuzia della donna, Sara non riuscì a controbattere. «È vero. Mi ha beccata. Sono qui perché sto cercando una persona.»
«Se è un uomo sexy, credimi, ce ne sono parecchi.»
«A dire il vero sto cercando una persona che lavora qui, Donna Smoak. Lei per caso la conosce?»
A quel punto, la barista si irrigidì. «Chi vuole saperlo?»
«Un’amica di Felicity.»
Sara riuscì a leggere la risposta alla sua domanda negli occhi della donna.
«Felicity non mi aveva detto che aspettava amiche.»
«Infatti volevo farle una sorpresa. Sa, ho pensato che le servisse qualcuno che la consolasse dopo quello che è successo…»
«Ah, io non so niente di questa storia. So solo che mia figlia è piombata in casa mia nel cuore della notte in un mare di lacrime, e sono più che sicura che è stato un ragazzo a ridurla così. Gli uomini sono tutti uguali.» Donna porse un vassoio pieno di cocktail ad una cameriera prima di voltarsi nuovamente verso Sara. «Tu sai cosa le è accaduto, vero? Ho passato tutta la notte a cercare di farle tornare il buon umore per un motivo che nemmeno conosco. Devo sapere il nome di quello stronzo a cui devo dare una bella lezione.»
Quella era davvero la madre biologica di Felicity? Sara aveva i suoi dubbi.
«Mi dispiace, ma non sarei una buona amica se glielo dicessi. Non spetta a me farlo.»
Donna rifletté un istante sulle sue parole prima di annuire. «Hai ragione. Sì, hai proprio ragione, cara. Devo solo avere pazienza.»
«Sono più che sicura che Felicity le racconterà tutto non appena sarà pronta» azzardò Sara, nel tentativo di ammorbidirla il più possibile. «Lei dov’è?»
La madre del tecnico informatico assunse un’espressione indecifrabile, e ci volle un po’ prima che rispondesse alla domanda della presunta amica di sua figlia.«Nel retro. Non mi andava di lasciarla a casa da sola.» Poi posò uno strofinaccio sul bancone e fece segno a Sara di seguirla.



La stanza era illuminata da una lampadina che pendeva dal soffitto. Il pavimento era pieno di scatole di cartone vuote, mentre alla parete erano appesi un calendario e un bersaglio con delle freccette. Stranamente, non vi era un cattivo odore, se non quello di birra e di fumo che ormai aleggiava in tutto il locale.
Quando Sara aprì la porta, Felicity era talmente assorta nella lettura di un eBook nel suo tablet che quasi non si accorse della sua presenza.
Tuttavia, bastò che l’assassina si schiarisse la voce per riportare la bionda alla realtà. Lo sguardo che dedicò a Sara quando la vide fu dapprima stupito, ma poi si trasformò in un’occhiata carica di ira e di risentimento. «Che cosa ci fai tu qui?»
La minore delle sorelle Lance compì qualche passo incerto verso la panca sulla quale era seduto il tecnico informatico. «Dovevo vedere come stavi.»
Prima di rivolgersi nuovamente a Sara, Felicity ripose il tablet nella borsa di pelle situata al suo fianco. «Come hai fatto?» Tuttavia, prima che la bionda potesse rispondere, il tecnico riprese la parola. «No, lascia stare, ho già capito. È stato Curtis, non è così? Gli avevo fatto promettere di non aprire bocca, ma ormai lo conosco fin troppo bene. Basta che gli mostri una pistola giocattolo per far sì che ceda.»
«Non l’ho minacciato per farmi dire dove ti trovavi.» In parte era vero. Ma solo in parte. «Gli ho semplicemente detto che ora più che mai hai bisogno di una spalla su cui piangere.»
«E quella spalla saresti tu?»
Sara ignorò la frecciatina, e subito dopo sì andò a sedere accanto a lei. «So che sei arrabbiata» esordì, poggiando le mani sulle ginocchia. «Ne hai tutto il diritto. Puoi anche odiarmi, se vuoi. Ma Oliver non c’entra nulla. Non è colpa sua se negli ultimi due mesi ho tenuto la bocca chiusa. Se ve lo avessi detto subito, probabilmente tutto questo non sarebbe successo. Perciò, se c’è qualcuno con cui te la devi prendere, quella sono io.»
«Sara, io non ce l’ho con nessuno di voi» replicò Felicity, passandosi una mano sulla fronte.
«Se fosse vero non saresti tornata da tua madre nel giro di poche ore.»
«Ero spaventata. Sono spaventata. Cos’altro avrei potuto fare?»
«Credi davvero che scappare dai problemi sia la scelta migliore da prendere? Non la è affatto. Non solo è da codardi, ma non ti condurrà da nessuna parte. Peggiorerà solo le cose.» Pronunciando quelle parole, Sara si rese conto che era esattamente quello che lei e Nyssa avevano fatto: non appena avevano scoperto della gravidanza, erano fuggite da Nanda Parbat. Ma nel loro caso era diverso: se Ra’s fosse venuto a sapere del bambino, avrebbe ucciso Sara senza pensarci due volte. La loro fuga, a differenza di quella di Felicity, era giustificata dal timore di una morte certa. «Non credi che affrontare i problemi in due sia molto più facile? Oliver ha bisogno di te, Felicity. Adesso più che mai. E se davvero non ce l’hai con lui, allora dovresti prendere il primo aereo per Starling City con me e tornare a casa.»
La donna abbassò lentamente il capo, un velo di malinconia a contornarle gli occhi. «So benissimo che quando è successo quel che è successo voi due stavate ancora insieme. Infatti non ce l’ho con Oliver, né con te.» Prese un respiro profondo, trattenendo a stento le lacrime. «Ce l’ho con me stessa, okay? Perché io non sono coraggiosa come voi. Non ho un arco o una spada che mi protegga. Io e mia madre ce la siamo sempre cavate da sole, perciò il mio primo istinto è stato quello di tornare da lei. Speravo mi potesse aiutare, ma non ho avuto il coraggio di raccontarle quello che è successo. Quando hai annunciato la notizia, mi sono sentita… non lo so. Oliver è una brava persona, e sono sicura che diventerà un bravo padre. E io non solo diventerei la terza incomodo, ma sarei soltanto un peso.»
«Niente di quello che hai appena detto è vero, e lo sai.»
«Invece no. Non possiamo saperlo.»
«Felicity, ti prego.» Canary deglutì appena, puntando i suoi occhi in quelli della bionda. «Lui ti ama.»
Ma Felicity non si mosse. Dopo qualche minuto trascorso in silenzio, Sara fu costretta ad andarsene. Non sapeva se quella conversazione avrebbe avuto un risvolto positivo, ma almeno ci aveva provato. Quello che la fece preoccupare, però, fu pensare alla reazione che avrebbe avuto lei se Nyssa l’avesse abbandonata dopo aver scoperto della gravidanza. Di sicuro ne sarebbe uscita distrutta.

*

Quasi di una settimana dopo, le cose non si erano ancora sistemate. Oliver e Diggle avevano lasciato da parte il resto del Team dicendo che se la sarebbero cavata da soli. D’altronde, dopo aver scoperto della gravidanza di Sara, era logico che Oliver non le avrebbe più permesso di andare sul campo; a Roy invece aveva detto di interpretare quella pausa come un meritato riposo dopo i mesi passati al suo fianco.
In ogni caso, tutti erano sicuri che senza Felicity il Team Arrow si sarebbe sciolto molto presto. Tutti tranne una persona.



Il cellulare di Sara prese a vibrare all’improvviso, facendola sobbalzare sul divano. Chi sarà mai a quest’ora del pomeriggio?, pensò. Tuttavia, ciò non le impedì di afferrare lo smartphone dal tavolino, e successivamente di urlare a squarciagola il nome di Nyssa dopo aver letto il contenuto del messaggio.
Quando la mora la raggiunse in salotto, Sara le porse il cellulare col cuore che batteva a mille. Il messaggio era di Laurel. Diceva: S.O.S. Verdant. Sono in pericolo.



Roy corse giù per le scale dell’Arrow Cave più in fretta che poté. Dopo aver ricevuto quel fatidico messaggio, aveva iniziato a correre a tutta velocità in direzione del Verdant. Per un attimo aveva pure pensato che avrebbe potuto addirittura superare Flash.
Una volta arrivato al pianto inferiore del locale, sul volto di Arsenal si andò a formare uno sguardo confuso. «Che ci fate voi qui?»
Al sentire quella voce, Sara e Nyssa si voltarono. «Roy!» esclamarono all’unisono.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio. «Cosa…?»
«Anche tu eri qui con Laurel? Chi vi ha aggrediti?» domandò Sara, passandogli entrambe le mani sul viso per assicurarsi che stesse bene.
«Dov’è andato? Forse siamo ancora in tempo per prenderlo» aggiunse Nyssa, guardandosi attentamente intorno mentre teneva il proprio arco teso.
«Ragazze, non ho idea di cosa stiate parlando» replicò Roy, liberandosi dalla stretta di Sara. «Io sto bene. Era Oliver quello in pericolo. Mi è arrivato un messaggio da parte sua poco fa.»
Nyssa spalancò gli occhi, sconcertata. «Come, prego?»
«Si può sapere cosa sta succedendo qui?» proruppe John, mentre percorreva l’ultimo gradino della scalinata insieme a Oliver.
«Anche voi avete ricevuto quei messaggi?» domandò Canary, iniziando a comprendere quello che stava accadendo.
«Sì, e non è affatto divertente» sbuffò Dig, mostrando il proprio cellulare ai presenti. A lui era arrivato un SMS da parte di Roy.
«Io non ho mai inviato quel messaggio. Non ho nemmeno credito sul cellulare!» si giustificò Arsenal.
«Qualcuno si sta prendendo gioco di noi» affermò Oliver, per poi spiegare che il suo messaggio era stato inviato da Sara.
«Puoi dirlo forte» esclamò Laurel, che sebbene fosse appena arrivata, aveva sentito quasi tutta la conversazione. A lei era toccata la richiesta di aiuto da parte di Diggle, e così il cerchio si chiudeva.
«Qualcuno ci ha condotti tutti qui per un motivo» dichiarò Sara, con un sospiro.
«Sì, ma chi?» domandò Roy, con un’alzata di spalle.
«Ci hanno teso una trappola» confermò Nyssa, lasciando andare lentamente la presa sul proprio arco, ma senza abbassare una guardia.
«Beh, non è andata esattamente così.»
Al sentire quella voce, tutti i presenti si zittirono. Si guardarono intorno con gli occhi sbarrati, increduli che si trattasse realmente di lei. E poi, all’improvviso, Felicity sbucò dal nulla, un grande sorriso stampato sul volto.
«Felicity…» La voce di Oliver si incrinò un istante mentre pronunciava quel nome. Non gli sembrava vero che lei fosse lì davanti a lui.
La donna si mosse lentamente verso il gruppo, ma tutti erano ancora troppo scossi per dire una parola. Oliver fu il primo a rompere la distanza che li separava: la abbracciò con forza, stringendola a sé come se dovesse proteggerla da qualcuno, e lei fece altrettanto, inspirando a pieni polmoni il suo profumo. Gli era mancato tanto in quegli ultimi giorni, e adesso non voleva più lasciarlo andare. Tuttavia, quando Roy si schiarì la voce, i due furono costretti a sciogliere l’abbraccio, ma Felicity rimase comunque stretta ad Arrow.
«È un piacere rivederti, Felicity» disse John, dedicandole un ampio sorriso.
«Lo stesso vale per me, John. Mi siete mancati tutti quanti.»
Il tecnico informatico spostò lo sguardo su ogni membro del Team, e quando incontrò quello di Sara le fece un occhiolino, che la bionda ricambiò con un sorriso a trentadue denti.
Era tornata a casa. E al momento era l’unica cosa che contava.



Dopo essersi fatta una doccia calda e aver riflettuto a lungo su quella giornata, Felicity raggiunse quella che fino a pochi mesi prima era stata la sua camera da letto. Malgrado lei e Oliver vivessero insieme da un bel po’, non si era ancora abituata all’idea che nella notte lui sarebbe sempre stato lì al suo fianco. In quel momento, però, fu davvero felice di vederlo disteso sul materasso con lo sguardo rivolto al soffitto.
«Ti prego, non dirmi che c’è un ragno.»
Quando sentì la sua voce, Oliver spostò l’attenzione su di lei, dedicandole un sorriso imbarazzato. «No, no… non c’è nessun ragno. Stavo solo pensando. Tutto qui.»
Felicity annuì leggermente, per poi accomodarsi di fianco a lui. Gli prese il volto tra le mani, facendo combaciare le loro fronti, dopodiché lo baciò, assaporando ogni istante che si era persa in quella settimana di agonia.
«Perché sei scappata?» sussurrò Oliver, tra un bacio e l’altro.
Felicity rifletté a lungo su quella domanda. Doveva proprio dirglielo? Oppure avrebbe potuto tenerselo per sé e farlo aspettare ancora un po’? Non sapeva esattamente quale sarebbe stata la decisione migliore da prendere, ma alla fine scelse la strada più ovvia. «Perché avevo paura, Oliver.» Sospirò, passandosi distrattamente una mano fra i capelli. Diede così fine alla loro sequenza di baci, ma Oliver sembrò esserne sollevato: in quel modo l’avrebbe potuta guardare negli occhi mentre gli raccontava cosa l’avesse spinta ad andarsene.
«Spiegati meglio» la incitò lui, accarezzandole dolcemente la guancia destra.
Felicity iniziò a sentire gli occhi pizzicare. Non ne aveva mai parlato con nessuno prima d’ora. Era sempre stato il ricordo della sua infanzia più difficile da rievocare, ma se c’era una cosa che aveva compreso durante la conversazione avuta con Sara, era che il primo passo per avere una relazione seria con Oliver fosse raccontargli sempre la verità. «Vedi, io penso che ogni uomo, a un certo punto della sua vita, si ritrovi a dover scegliere tra la propria famiglia e la propria libertà. Insomma, non si possono avere entrambi.»
Oliver annuì piano, intuendo dove volesse arrivare. «Sì, è vero. Più volte mio padre è stato tentato di scegliere la propria libertà, ma alla fine è sempre tornato dalla sua famiglia. L’amore che provava per noi è stato più forte di tutto» rispose, alludendo alla fuga che aveva pianificato insieme a Isabel Rochev.
«Sì, beh, mio padre in realtà ha scelto sé stesso.»
L’arciere sospirò sommessamente. «Non parli mai di lui.»
«Perché fa male.»
Felicity si tolse gli occhiali, poggiandoli lentamente sul comodino. Stava trattenendo le lacrime a fatica, ma non poteva più tirarsi indietro. «Mia madre ha dovuto fare dei sacrifici per crescermi, ed è stata dura per noi due fingere che la nostra fosse una vita normale. Ho cercato di allontanarti perché non volevo che tu facessi lo stesso errore di mio padre. So bene cosa significhi crescere senza un genitore credendo che ti abbia abbandonato perché ti odiava, e non augurerei a nessuno di vivere con un tale fardello.»
Oliver le asciugò una lacrima col pollice prima che potesse raggiungere l’angolo sinistro della sua bocca. «Ehi» sussurrò, avvicinandosi ulteriormente a lei. «Non è mai stata quella la mia intenzione. Quando Sara ce l’ha detto, ho subito capito che mi sarei dovuto prendere la responsabilità delle mie azioni. Non c’è stato un singolo istante in cui abbia pensato di escludere questo bambino dalla mia vita. Però, non volevo nemmeno escludere te.»
Felicity arrossì appena a quelle parole. Aveva avuto diverse relazioni nel corso degli anni, ma prima d’ora non si era mai sentita così al sicuro come accadeva con Oliver. In ogni situazione, persino nei momenti più bui, lui riusciva sempre a trovare il modo di rassicurarla, e quel momento ne era la prova.
«Andrà tutto bene. Te lo prometto» sussurrò, stringendole dolcemente la mano. «Sarò un padre presente e un buon marito. Hai la mia parola.»
Felicity avrebbe voluto aggiungere: “Anche se questo ti obbligasse a rinunciare alla tua carica di vigilante?”, ma sapeva che non era il momento adatto. Ci sarebbe stato tempo per discuterne, più di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
«Te l’ho già detto che ti amo?» domandò, accarezzando lievemente i capelli spettinati dell’uomo.
Lui sorrise, con gli occhi che scintillavano. «Sì, almeno un milione di volte, Felicity.»
La donna, sollevata dalle parole di Oliver, si accoccolò sul suo petto, pronta ad addormentarsi. Ma prima che riuscisse a chiudere gli occhi, le parole pronunciate da Arrow le riecheggiarono nella mente. «Aspetta un secondo. Che cosa intendevi dire con “sarò un buon marito”?!»

*

Il giorno seguente, quando Oliver chiese al resto del Team di riunirsi al covo, Sara non ebbe alcun dubbio sul fatto che quella conversazione avrebbe avuto a che fare sulla sua gravidanza. Per tutto il tragitto non smise un istante di tenere la mano destra sulla pancia leggermente delineata. Non sapeva cosa le avrebbe detto Oliver adesso che Felicity era tornata, ma aveva paura.
Quando lei e Nyssa arrivarono, si resero conto che tutti gli altri erano già presenti. Nella stanza sotterranea aleggiava un silenzio inquietante, scandito solamente dal rumore del cuore di Sara, che batteva ad una velocità incredibile.
Poi, dopo qualche istante, fu Felicity a rompere quell’atmosfera pacifica.
«Vi ho fatti riunire qui perché ieri ero troppo emozionata per poter formulare una frase sensata» esordì la donna, sorridendo lievemente. «E poi, ritengo sia giusto riprendere da dove ci eravamo interrotti la scorsa settimana.»
A quel punto, Sara sentì gli sguardi di tutti fissi su di sé. Si strinse nelle spalle, sentendosi a disagio, e non osò proferire parola.
«Se preferisci possiamo parlarne in privato. Soltanto noi quattro» le propose Oliver, lanciando un’occhiata a Nyssa.
Sara, tuttavia, scosse la testa. «No, va bene così.» Si voltò prima in direzione di Laurel, poi verso Nyssa. Quest’ultima la rassicurò con un sorriso, che Canary ricambiò appena.
«So bene che di certo non cerchi la mia approvazione… insomma, sei libera di fare quello che vuoi, è ovvio. Però…» Felicity si sistemò accuratamente gli occhiali sul naso. «Voglio solo farti sapere che hai tutta la mia stima. E il mio appoggio, ovviamente.»
«Credo di non capire» la interruppe Sara, in preda a mille emozioni.
Il tecnico informatico si voltò verso Oliver, che proseguì al posto suo. «Quello che Felicity sta cercando di dirti è che per lei sarebbe un piacere se tu decidessi di renderla partecipe nella vita di… beh, del bambino» spiegò, lievemente imbarazzato.
Sara trattenne il respiro per un istante, incredula che quello che aveva appena udito fosse vero. «È così? Sta dicendo sul serio?» domandò, voltandosi verso Felicity.
Quest’ultima annuì, arrossendo lievemente. «C’è solo un piccolo favore che vorremmo chiedervi» aggiunse, avvicinandosi a Canary di qualche passo. «Per la sua sicurezza, preferiremmo che voi teneste il bambino al di fuori degli affari della Lega.»
A quelle parole, Sara si voltò istintivamente verso Nyssa, che ricambiò lo sguardo amareggiato.
«Vorrei che fosse così semplice.»
«Sara.»
La bionda si voltò verso Oliver, che adesso aveva le braccia incrociate. «Ti prego. Dicci la verità.»
Avrebbe tanto voluto farlo, ma era ancora troppo scossa per poter parlare apertamente di quanto successo. Fortunatamente, fu Nyssa a farlo per lei.
«A Nanda Parbat ci sono delle regole molto severe» esordì l’Erede, incrociando a sua volta le braccia. «Quando una persona decide di unirsi alla Lega, rinuncia automaticamente alla sua vita passata. Si ritrova costretto a dover dimenticare il proprio nome, la propria famiglia, le persone che ha amato. Tutto quanto. Far parte della Lega degli Assassini significa ricominciare da zero.»
«In pratica è una sorta di reset del cervello, giusto?»
Nyssa annuì in direzione di Roy. «Bisogna essere pronti a rinunciare ai propri ricordi per servire Ra’s al Ghul. Ma a Nanda Parbat non esistono solo l’addestramento, le missioni e gli omicidi. Si tratta di una vera e propria città, e come in ogni città le persone possono instaurare relazioni tra loro, arrivando addirittura a sposarsi. Il problema, però, è che il tradimento viene considerato uno dei peccati peggiori.»
«Non capisco. Cosa c’entra il tuo discorso con la gravidanza di Sara? Tuo padre non ha mai accettato la vostra relazione, no?» chiese Laurel, confusa.
Oliver si massaggiò le palpebre, consapevole di dove Nyssa voleva arrivare e terrorizzato all’idea di quello che Ra’s al Ghul avrebbe potuto fare se fosse venuto a sapere di quella gravidanza.
«Sì, è così, ma… è complicato. Solo perché mio padre non accetta il nostro rapporto, non significa che non sia reale. Insomma, se io e Sara nella vita vera ci sposassimo, e lui continuasse a rifiutare quello che c’è tra noi, il nostro matrimonio sarebbe comunque valido, giusto?»
Laurel annuì piano, cercando di seguire il più possibile le parole di Nyssa.
«Ecco, alla Lega le cose non sono poi tanto diverse.»
«Vuoi dire che agli occhi della Lega voi due siete sposate?»
«No, no» rispose la mora, scuotendo la testa. «Voglio dire che come stiamo insieme a Nanda Parbat, stiamo insieme anche a Starling City. Se in questo momento Sara mi tradisse con qualcun altro al di fuori di Nanda Parbat, o io tradissi lei, il tradimento sarebbe valido anche all’interno della Lega. Mi seguite?»
«Credo di sì» intervenne Diggle, preso dalla conversazione. «In poche parole, stai dicendo che se tuo padre scoprisse di Sara, la punirebbe?»
Nyssa annuì ancora, ma questa volta non riuscì a nascondere la malinconia nei suoi occhi. «A Nanda Parbat, il tradimento è punibile solo con la morte.»
Felicity rabbrividì, ma trovò subito sicurezza quando Oliver le strinse la mano.
«A maggior ragione lo farebbe con piacere perché mi odia» sbuffò Sara, che aveva finalmente trovato la forza di unirsi alla conversazione.
«È vero, mio padre è sempre stato contrario alla nostra relazione, e se scoprisse che Sara è incinta andrebbe in capo al mondo pur di ucciderla» aggiunse Nyssa.
«Tutto questo non ha senso» sbottò Arsenal, irritato al pensiero che quell’uomo potesse avere così tanto potere nelle proprie mani. «Come può essere sicuro che si tratti di tradimento?»
«Roy, io sono una donna» rispose cautamente la mora, leggermente divertita all’idea che il ragazzo non avesse capito subito l’antifona. «Il bambino non può essere mio figlio. È logico che si tratti di qualcun altro.»
Diggle scosse la testa. «Ciò non toglie che comunque Sara non ti ha tradita. Non voglio farmi i fatti vostri ragazzi, ma credo che quel che è successo risalga a diverso tempo prima dell’Assedio.»
«È vero, ma stiamo parlando di Ra’s al Ghul» lo interruppe Sara. «Di certo non si interesserà alla tempistica con cui sono avvenuti i fatti.»
Per qualche istante, nella stanza calò il silenzio. Ognuno di loro avrebbe voluto esprimere la propria rabbia, ma sapevano che sarebbe stato tutto inutile. Persino John e Roy, che non avevano alcun legame di sangue o di parentela con Sara, si sentivano coinvolti. D’altronde, erano molto più che una semplice squadra: erano una famiglia. E le famiglie restano sempre unite, sia nei momenti di gioia che nel dolore.
Nyssa, d’altro canto, era una bomba pronta ad esplodere. Se avesse potuto, sarebbe tornata a Nanda Parbat in quel preciso istante e avrebbe ucciso suo padre con le sue stesse mani. Il problema è che era troppo debole. Nonostante gli infiniti tentativi, non era mai riuscita a batterlo in un duello, e di certo non ci sarebbe riuscita ora. E poi, sapeva benissimo che una volta rimesso piede nella Lega sarebbe stata nel mirino di tutti i mercenari. Magari sarebbe anche riuscita a ucciderli tutti, ma alla fine sarebbe stata dura sconfiggere Ra’s.
Ad un tratto, però, il suo cuore prese il sopravvento e iniziò a parlare per lei.
«Mio padre non lo sa e non lo deve sapere.»
Al sentire quelle parole uscire dalla propria bocca, Nyssa si sentì sciocca e infantile. Ma non lo era. In realtà, era solo preoccupata per Sara, e lo compresero tutti. Furono ancora più stupiti nel constatare, per la prima volta da quando la conoscevano, che aveva gli occhi lucidi.
«Il problema è come farà a non saperlo quando vedrà Sara» disse Dig, scambiandosi uno sguardo con Oliver.
«Siamo venute qui proprio per questo motivo. Sapevamo che nasconderci in posti lontani non sarebbe servito a nulla. La Lega ci avrebbe comunque trovate» affermò Canary.
«Ma allora perché venire a Starling City? È il posto più ovvio in cui venire a cercarvi» protestò Roy.
«Esattamente per questo motivo siamo tornate in città. Questo è il primo e l’ultimo posto in cui penserebbero che ci potremmo nascondere. Il che lo rende l’unico luogo in cui siamo certe di restare al sicuro almeno per un po’.»
Nyssa non aveva tutti i torti, ma prima o poi la Lega le avrebbe comunque trovate. E a quel punto che cosa avrebbero fatto?
«L’unica cosa che possiamo fare è tenere gli occhi aperti» propose Arrow, scambiando un’occhiata con Sara. «Quando quelli della Lega verranno a prendervi per riportarvi a Nanda Parbat, noi li affronteremo. E combatteremo fino a quando non riusciremo ad arrivare a un compromesso con Ra’s.»
«È impossibile. Mio padre non accetterà mai una cosa simile» lo schernì la figlia del Demonio.
«Lo so, Nyssa. Ma al momento non possiamo fare altro che sperare che tu ti stia sbagliando.»


 

 

 

[1] Era da secoli che lo volevo scrivere *_*







Ebbene sì, ho fatto fare un cameo a Curtis con 2 stagioni d’anticipo perché lo adoro u.u
Per quanto riguarda il litigio Laurel-Nyssa (andiamo, voglio sapere per chi tifavate), ovviamente non volevo far fare a Laurel la figura della stronza della situazione, anzi, in questa long il mio obiettivo è quello di esplorare il più possibile il suo rapporto con Sara, e quindi la sua parte è quella della sorella amorevole, ma è anche giusto che in certi casi sia un po’ severa, se no qua se non fa la cazzuta lei non ne usciamo più. E il riferimento di Nyssa alla rabbia di Laurel verso Sara perché non le aveva detto di essere viva (2x13 per chi non se lo ricordasse) l’ho voluto scrivere perché ho sottinteso che Sara lo abbia raccontato a Nyssa lol
E dulcis in fondo… parliamo del nostro caro paparino. Era giunto il momento che Sara lo rivelasse, già nello scorso capitolo vi ho lasciati con l’ansia alle stelle e adesso avete visto la sua reazione di fronte alla notizia. Ehh Ollie, tu ti fai i problemi perché stai per diventare padre… se solo sapessi che hai già un altro figlio… xD o forse lo scoprirai? Mah! Chi lo sa. Questo spetta a me deciderlo… ;)

 

P.S. Prima o poi scriverò un missing moment sulla scena in cui Sara si è fatta dare da Curtis l’indirizzo del casinò in cui lavora la madre di Felicity, giuro.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12: That little heart ***


 

Capitolo 12: 
That little heart

 

 

 

 

Quentin aveva appena iniziato la sua pausa pranzo quando Sara mise piede all’interno della stazione di polizia. Sebbene la porta del suo ufficio fosse chiusa, la bionda riuscì comunque a scorgere dal vetro un sacchetto marrone di McDonald’s sulla scrivania del padre.
Le dispiaceva disturbarlo proprio in quel momento, ma sapeva che se non l’avesse fatto ora sarebbe stato ancora più difficile rivelarglielo. Prendi in mano il coraggio come fai ogni notte e fagli vedere chi sei!, le aveva detto Dinah quella mattina, durante l’ennesima telefonata. Ripensando alle parole della madre, Sara prese un respiro profondo, dopodiché si decise a bussare.
«È aperto» bofonchiò Quentin, pulendosi la bocca con un tovagliolo. Sara spalancò la porta proprio in quel momento, dedicando al padre un sorriso buffo.
«Oh, sei tu» esclamò lui, sorpreso. Fece per alzarsi in piedi, ma la figlia lo bloccò con un gesto della mano.
«No, ti prego, resta seduto. Finisci di mangiare.»
«Mi dispiace, se avessi saputo che saresti passata…»
«Tranquillo, ho già mangiato» mentì. In realtà non aveva fame, e probabilmente non le sarebbe tornato l’appetito fino a quando non avesse rivelato a suo padre il segreto che gli nascondeva da mesi.
«Tesoro, ti senti bene?» domandò il capitano, notando che il volto di Sara era leggermente sbiancato.
«Sì, è solo che… devo dirti una cosa.»
«Okay.» Quentin poggiò il panino sopra a un tovagliolo, masticando lentamente il boccone che aveva ancora in bocca. «Cosa c’è che non va?»
Canary si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, per poi torturarsi l’interno della guancia. Aveva rivelato il suo segreto praticamente a chiunque: lo aveva detto a Nyssa, poi a Sin, a sua madre, a Oliver, e persino a Laurel, dalla quale si sarebbe aspettata una pessima reazione; eppure, provava timore all’idea che Quentin scoprisse che sua figlia minore era incinta, e che il padre del bambino fosse lo stesso playboy che l’aveva portata con sé sulla barca affondata anni prima e che aveva reso entrambi due persone peggiori rispetto a quelle che erano state in passato. Sara l’aveva deluso più di una volta, ma adesso temeva che con quella notizia gli avrebbe dato il colpo di grazia.
«Sara?»
La bionda sussultò, alzando nuovamente lo sguardo verso il padre. Aveva finito il suo hamburger e adesso si stava godendo una tazza di caffè, segno che entro pochi minuti sarebbe dovuto tornare in servizio.
«Io… Sono incinta.»
Quentin mandò giù a fatica il sorso di liquido bollente che gli era quasi andato di traverso. Iniziò a tossire violentemente sotto lo sguardo preoccupato di Sara, che però non ebbe la forza di muovere un muscolo, consapevole che si trattava di una reazione del tutto normale.
«No, non è possibile» esclamò il capitano, scuotendo lentamente il capo. «Non può essere. Mi stai prendendo in giro. È così, non è vero?» domandò ridacchiando. «Vuoi prenderti gioco di me. Avanti, lo scherzo è finito. Se mi stai riprendendo, puoi anche spegnere la‒»
«Papà, non sto scherzando.» Come poteva comportarsi in quel modo davanti a una rivelazione simile? Come poteva pensare che sua figlia potesse scherzare su un argomento come quello?
Sara si sentiva delusa e offesa. Si sarebbe aspettata una reazione molto diversa da parte del padre.
«Sara, mi dispiace, ma fatico a crederci» ammise lui, appoggiandosi allo schienale della poltrona. «Insomma, tu stai con Nyssa, no? Ed entrambi sappiamo come funzionano queste cose.»
«È successo prima che tornassi alla Lega degli Assassini» rivelò Sara con un filo di voce. «Prima che io e Nyssa tornassimo insieme.»
Quentin si passo una mano sul viso, comprendendo in fretta il significato di quelle parole. «Oh, no…» sibilò, ma Sara riuscì comunque a sentirlo. «Bambina mia… tu…»
«Sono una stupida, lo so» rispose lei, con gli occhi gonfi di lacrime. «Avrei dovuto stare più attenta e comportarmi da adulta. So cosa penserai di tutta questa storia. Due persone come noi non possono avere dei figli. Non con la vita che conduciamo. È un atto di egoismo, ne sono consapevole, ma è stata tutta colpa mia. Oliver lo ha scoperto solo pochi giorni fa e‒»
«Non è questo, tesoro» rispose lui, scuotendo il capo. «Non è questo.»
Canary gli dedicò uno sguardo scioccato e confuso. «E allora cosa c’è che non va? Sembri… sembri turbato.»
«È che…» Quentin sospirò, dopodiché prese le mani della figlia tra le proprie e gliele strinse con forza. «Innanzitutto, con questa frase hai infranto le mie speranze sul fatto che il padre non fosse Oliver» esordì, con un pizzico di ironia. «Insomma, dopo tutte le cose che sono successe in questi anni, devo ammettere che sono rimasto molto sorpreso quando ho saputo che eravate tornati insieme sei mesi fa.»
La minore delle sorelle Lance deglutì, sentendosi improvvisamente più pesante. Non era mai piacevole rievocare ricordi del passato, soprattutto quelli riguardanti il suo tradimento nei confronti di Laurel, ma fortunatamente Quentin riuscì a scorgere nei suoi occhi il disagio che provava e non approfondì l’argomento.
«Io non so quali siano i tuoi veri sentimenti» proseguì il capitano «ma Nyssa tiene molto a te, e credo che ciò sia reciproco. Perciò, l’unica cosa che non capisco è come mai hai deciso di tenere il bambino pur sapendo che era di Oliver, visti i precedenti.»
Sara trattenne un sospiro, mentre uno strano formicolio le invase tutto il corpo.
Il primo motivo che le veniva in mente era proprio Nyssa. Come avrebbe potuto spiegargli che entrambe avevano visto in quella gravidanza l’unico pretesto per iniziare a costruirsi una nuova vita? Per anni avevano sognato di lasciarsi alle spalle la Lega degli Assassini, ma finché Ra’s fosse rimasto in vita, sapevano che sarebbe stata una follia andarsene da Nanda Parbat. Tuttavia, quando aveva scoperto di essere incinta, la prima cosa che a Sara era venuta in mente di fare era stata scappare, e quando Nyssa le aveva proposto la stessa cosa si era sentita sollevata. Almeno non avrebbe dovuto sopportare il peso della fuga da sola.
Sapeva che non si sarebbe più presentata un’occasione simile. Se Sara non fosse rimasta incinta per caso, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Magari Ra’s non sarebbe morto tanto presto come speravano, o magari Nyssa avrebbe cambiato idea, scegliendo la Lega piuttosto che stare con lei. In fondo, dopo tutto quello che aveva passato a causa di Sara, sarebbe stato il minimo che l’Erede avrebbe potuto fare, ma è anche vero che Nyssa non le avrebbe mai permesso di pensare una cosa simile, e Sara lo sapeva bene.
Non poteva dire a suo padre quelle cose. Non poteva dirgli che per anni aveva pianto all’idea che non avrebbe più avuto una vita normale, che non si sarebbe sposata, che non sarebbe più tornata a Starling City e che probabilmente non sarebbe mai invecchiata. Perché era questo quello che aveva compreso dopo sei anni nella Lega degli Assassini: la tua vita è di Ra’s al Ghul e di nessun altro. Se lui decide che devi morire, tu muori. Se sceglie invece ti liberarti, sei estremamente fortunato e puoi tornartene a casa dalla tua famiglia senza problemi. E se invece capisce che sua figlia si è innamorata di te e che in questo modo sei soltanto una debolezza, una distrazione, un inutile scarafaggio che lui non riuscirà mai ad apprezzare, allora puoi star certa che non avrai una vita facile. Ma in ogni caso, non puoi disobbedire ai suoi ordini. Ed era proprio quello che lei e Nyssa avevano fatto.
«È… È complicato, papà.»
Il capitano Lance puntò i propri occhi in quelli della figlia, e solo ora si rese conto di quanto fosse turbata. Si ritrovò a sorridere appena, mentre i lineamenti del suo volto si addolcivano. «Tesoro, non fraintendermi. Io non ce l’ho con Oliver. Beh, almeno, non più» ironizzò, ma Sara non reagì in alcun modo. «Che il padre sia Oliver oppure no, il bambino che porti in grembo resta comunque mio nipote. E non potrei essere più felice di ricevere una notizia così bella dopo tutti gli eventi terribili che abbiamo dovuto sopportare. Soprattutto tu.»
La bionda deglutì con forza, mentre una piccolissima goccia di sudore si faceva strada sulla sua tempia sinistra.
«È solo che, vedi… mi fa sentire strano pensare che la mia piccolina si sia trasformata in una splendida donna, e che stia per diventare madre. Ma al di là di questo, non c’era motivo di essere così nervosa per rivelarmelo. Hai ventisette anni, Sara. Puoi farne quello che vuoi della tua vita. Non devi rendermi conto di niente. E poi…» Quentin si strinse nelle spalle, diventando improvvisamente rosso in viso. «Sono felice all’idea che molto presto diventerò nonno.»
A quelle parole, sul volto di Sara si fece spazio un grande sorriso, e nel vederla così piena di vita, Quentin scoppiò a piangere di gioia. Non ci volle molto prima che entrambi iniziassero a singhiozzare l’uno stretto nelle braccia dell’altra, emozionati e felici come non mai.



«Papà come l’ha presa?»
Sara lasciò andare la propria borsa a terra, per poi sedersi accanto a Laurel sul divano. «Bene. Meglio di quanto pensassi.» Sospirò sommessamente, passandosi una mano tra i capelli. «All’inizio sembrava un po’ scioccato, ma poi era... era felice, credo. Lo era davvero.»
Laurel sorrise, accarezzando dolcemente la spalla della sorella. «Lo siamo tutti.»
La bionda ricambiò appena il sorriso, per poi abbassare lo sguardo. «È solo che non mi sarei mai aspettata una cosa simile. Insomma, avere un figlio in questo modo, e per di più in questo momento… all’inizio ero davvero confusa.»
«Chiunque lo sarebbe stato al tuo posto. Ma alla fine hai preso la decisione giusta. In fondo, hai sempre amato i bambini.»
«Credimi, Laurel, se non fosse stato per Nyssa a quest’ora non so cosa sarebbe successo. E poi, se devo essere sincera, quando ci siamo messe insieme ho subito scartato l’ipotesi di avere dei figli.»
«Perché sei contro l’inseminazione artificiale?» scherzò l’avvocato.
Sara scosse la testa. «Per Ra’s.» Nel ripensare a quello che il Demonio aveva chiesto di fare a Nyssa poco prima della loro fuga, Sara fece una smorfia. «Non ha mai accettato quello che c’è tra noi. Non so se sia dovuto al fatto che sono una donna, o semplicemente perché ho rubato il cuore di sua figlia. So solo che mai e poi mai ci avrebbe permesso di lasciare la Lega per passare il resto della nostra vita insieme, e adesso ho davvero paura di quello che potrebbe accadere.»
Laurel si fece seria in volto, ma Sara non se ne accorse perché aveva ancora lo sguardo rivolto verso il basso. L’avvocato attese qualche istante, dopodiché prese un respiro profondo, pronta a parlare. «So che sei preoccupata, ma ormai non puoi più tornare indietro. Tu e Nyssa siete fuggite per cercare di costruirvi una vita migliore, lontane dagli omicidi e dagli ordini di Ra’s al Ghul. E state per avere un bambino.»
Sara deglutì, stringendosi con forza le ginocchia. Non era mai stata così stressata in tutta la sua vita, e Laurel poteva leggere chiaramente nei suoi occhi quanto quella situazione la stesse mandando fuori di testa.
«Non dico che sarà facile» proseguì la maggiore «ma tutti noi siamo qui per sostenervi. Per proteggervi. E se Ra’s tenterà davvero di mettervi i bastoni fra le ruote, allora dovrà prima passare sui nostri cadaveri.»
«E lo farà» soffiò Sara, stringendosi nelle spalle. «Credimi, Laurel: lo farà. Vi ucciderà uno ad uno se necessario. Non mi perdonerà mai per quello che ho fatto.»
«Ma una nascita dovrebbe portare gioia. Capisco che non sia sangue del suo sangue, ma tu sei comunque un membro della sua setta. Anche lui ha avuto una figlia. Dovrebbe esserne felice, nonostante sia il Demonio. Okay, potrebbe comunque sembrare un tradimento nei confronti di Nyssa, ma…»
«No, non è per quello, Laurel.»
L’avvocato si irrigidì, mentre un brivido le attraversava la schiena. «Ma allora… perché ce l’ha con te?»
Canary sospirò, passandosi rassegnata una mano sul viso. «Perché gli ho portato via sua figlia.»
Stava iniziando a tremare. Dopo tutti quegli anni passati nella Lega, c’erano cose che avrebbe voluto seppellire per sempre, ma che sapeva di non poter dimenticare. L’odio che Ra’s aveva riversato nei suoi confronti era una di quelle.
«Nyssa è la sua unica erede. Sarà lei a prendere le redini della Lega degli Assassini dopo che Ra’s morirà. Nyssa è nata e cresciuta a Nanda Parbat senza mai disobbedire a suo padre, senza mai ribellarsi al suo volere. Ma poi… poi sono arrivata io, ed è cambiato tutto. Lei è cambiata. Per me. E questa è una cosa che suo padre non accetterà mai.»
A quella frase, Laurel sorrise appena. «È cambiata perché ti ama.»
«Lo so. Ma è colpa mia se Ra’s ha deciso di rivalutare la sua posizione.»
«Di che cosa stai parlando?»
Sara rispose con un’alzata di spalle. Aveva già detto troppo. «È una lunga storia. Non ha importanza adesso.»
Laurel asserì con il capo. «Hai ragione. Sai invece cos’è davvero importante?»
Davanti allo sguardo confuso di Sara, Laurel le riservò una finta occhiata maliziosa. «Pensare alla salute di quell’esserino che sta crescendo dentro di te.»
Quando la sorella pronunciò quelle parole, Sara scoppiò a ridere senza un motivo. Pensare al bambino che portava in grembo era una delle poche cose che riusciva a riportarla alla realtà.
«Dubito che tu ti sia fatta visitare da un medico, o sbaglio?»
«Direi proprio di no» rispose Canary, omettendo l’incontro con la dottoressa Kawamura.
«Bene» esclamò Laurel, afferrando il proprio cellulare dal tavolino. «Allora ti prenoto un appuntamento dalla mia ginecologa per domani.»
«Aspetta, cosa?» Sara scattò in piedi, presa alla sprovvista.
«Non vorrai arrivare al giorno del parto senza aver mai fatto un controllo, spero» l’ammonì Laurel, assumendo uno sguardo da predica tipica del suo ruolo di sorella maggiore.
«Certo che no, però… domani? Non è un po’ presto?»
«Dopo cinque mesi? Mi sa che devi rivalutare la tua concezione di “presto”» ironizzò la castana. «E comunque mi deve un favore, perciò non credo che sarà un problema farti saltare la fila» aggiunse, facendole l’occhiolino.
«Che tipo di favore?»
«Un po’ di tempo fa ho evitato che suo padre finisse in prigione. Ma non starò qui a raccontarti i dettagli, non credi ti interessi.»
Invece sì, pensò Sara, deglutendo rumorosamente. «Tu verrai con me, non è vero?»
«Domani purtroppo non posso, ho un’udienza importante che mi terrà impegnata per tutto il giorno. Ma se vuoi che venga con te possiamo scegliere un’altra data.»
«No, lascia stare. Forse è meglio che mi tolga il pensiero il prima possibile. Chiederò a Nyssa di accompagnarmi.»
Notando l’improvviso disagio che si era impossessato della sorella, Laurel le accarezzò il dorso della mano. «Sicura di potercela fare?»
«Laurel, ero nella Lega degli Assassini. Se sono sopravvissuta portando a termine missioni che venivano ritenute impossibili da molti, direi che posso superare un’ecografia.»
O almeno era quello che pensava.



«Domani?»
Sara annuì esitante. Aveva già capito dove sarebbe andata a parare quella conversazione. «Sì, domani mattina alle dieci. C’è qualche problema?»
Nyssa scosse il capo mentre si riempiva un bicchiere di succo d’arancia. «No, certo che no. Vuoi che ti accompagni?»
La bionda ruotò la testa di lato, assumendo un’espressione divertita. «Avanti, non sono stupida. Devi lavorare, non è così?»
«Scusami, davvero, mi dispiace tanto, ma Josh non mi dà tregua. Negli ultimi giorni la clientela è aumentata all’improvviso, e con l’altra barista ancora in maternità mi fanno fare un sacco di straordinari.»
«Me ne sono accorta.»
Nyssa si lasciò andare ad un lungo sospiro, per poi sedersi accanto all’amata. «Gli chiederò mezza giornata. E una volta nato il bambino gli chiederò di diminuire le mie ore settimanali nel contratto, lo giuro. Nell’ultimo periodo sono stata poco presente, e me ne rendo conto solo adesso.»
«No, non è questo il problema. È solo che…» Canary sospirò a sua volta, poggiando una mano sulla propria pancia ‒ che, piano piano, aveva quasi raggiunto le dimensioni ideali per una gravidanza al terzo mese, anche se lei era ormai entrata nella ventesima settimana già da un pezzo. «Sono solo un po’ stressata. Credo che siano gli ormoni. Ma non voglio crearti problemi al lavoro, ti hanno assunta da appena un mese e avrai già chiesto non so quanti giorni di ferie per stare dietro a me.»
Nyssa sorrise lievemente di fronte alla veridicità di quella frase; ma, d’altronde, sebbene la mora volesse con tutto il suo cuore continuare a lavorare al Mystery Cafè, Sara restava sempre la sua priorità.
«So quanto ti piaccia questo lavoro, Nyssa. Te lo leggo negli occhi ogni volta che esci da quella porta. E quando torni a casa, non importa se avete passato una brutta giornata: riesci comunque a trovare qualcosa per cui valga la pena essere felice.»
L’Erede del Demonio si strinse nelle spalle, arrossendo un poco. «È che mi fanno sentire a casa.»
«Lo so. E questo mi rende davvero, davvero felice» sussurrò Sara, sfoggiando un sorriso a trentadue denti.
«Ciò non toglie che anche tu sei la mia casa, e che mi sentirei in colpa a lasciarti andare a quella visita senza qualcuno al tuo fianco.»
«Non devi. Ce la posso fare. E poi, credo di volerlo fare da sola. Forse voglio dimostrare a me stessa che sono forte.»
«Tu sei forte» la rassicurò Nyssa, dandole un bacio sul capo. Subito dopo, prese ad accarezzarle amorevolmente i capelli.
«È buffo, non trovi?» riprese a dire Sara dopo non molto. «Ho affrontato l’oceano, assassini ricercati in tutto il mondo, l’esercito di Slade Wilson e persino l’approvazione di tuo padre. Eppure al momento è un essere che avrà a malapena le dimensioni di una mela a farmi più paura.»
Nyssa scoppiò a ridere con tutta sé stessa nel sentire quelle parole. Sara le lanciò un’occhiata torva, ma dopo non molto si ritrovò costretta ad unirsi alla risata.
«Anch’io ho tanta paura, Sara» disse Nyssa, una volta che ebbe ripreso fiato. «Più di quanto tu possa immaginare.»

*

Lo studio della dottoressa Holland si trovava in un grande edificio situato a Pennytown, e Sara ci impiegò più di un quarto d’ora per arrivarci ‒ senza contare i dieci minuti precedenti che le erano serviti per trovare un taxi; nonostante ciò, riuscì a raggiungere il luogo prestabilito con cinque minuti d’anticipo. Una volta arrivata al settimo piano, superò la sala d’attesa vuota e trovò la porta dello studio aperta; così, prese un respiro profondo e si decise a bussare.
«Sì, avanti.»
Sara entrò nella stanza con fare titubante, avvicinandosi alla grande scrivania in mogano di fronte a lei. Quando la ginecologa alzò lo sguardo, incontrando così quello della sua nuova paziente, le dedicò un sorriso raggiante e le porse la mano. «Dottoressa Stephanie Holland, piacere di conoscerla. Lei deve essere Sara, giusto?»
La bionda annuì, stringendo con forza il manico della borsa. «Sì. Sono la sorella di Laurel.»
«Ah, Laurel Lance. Le devo la vita» esclamò, mentre si alzava dalla sua postazione per andare a chiudere la porta. «Comunque, non siamo qui per parlare di sua sorella. Direi di procedere subito con l’ecografia. Prego, si accomodi pure sul lettino.»
Sara seguì le istruzioni della ginecologa e si sdraiò. Subito dopo, la prima cosa che fece fu chiudere gli occhi, gesto che, sperava, l’avrebbe aiutata a mantenere la calma il più a lungo possibile. Quando sentì il gel freddo sul proprio ventre, la bionda percepì un brivido percorrerle il corpo. Ma quel brivido non era portato dal gel, quanto dalla preoccupazione che la stava divorando da giorni.
Laurel e sua madre avevano avuto ragione dicendo che l’essere Canary avrebbe potuto mettere a rischio la gravidanza. Perché non ci aveva pensato prima? Certo, affiancare il Team Arrow era stata una buona copertura, perché in caso contrario avrebbe dovuto mettere al corrente la squadra fin da subito della gravidanza, ma era anche vero che sarebbe dovuta stare più attenta. E invece si era preoccupata solo di tenere nascosto il suo segreto.
«Dottoressa Holland» esordì la bionda, richiamando l’attenzione della diretta interessata. «Vede, io ho… svolto dei lavori abbastanza pesanti fino a non molto tempo fa. Crede che questo potrebbe influire sulla salute del bambino?»
La dottoressa, colta alla sprovvista, smise di spalmare il gel per un secondo. «Beh, sì. Ma dipende anche dal tipo di lavoro che ha svolto. Solitamente si teme in un aborto spontaneo, ma, ripeto, magari non si tratta di un impiego davvero rischioso.» Sara si pietrificò, trattenendo il respiro per alcuni secondi. «Comunque non si deve preoccupare, c’è un motivo se nell’ultimo trimestre al lavoro viene concessa la maternità. Però, se in questo periodo ritiene di aver fatto sforzi eccessivi, è comunque possibile anticipare il processo.»
La minore delle sorelle Lance deglutì, ma non ebbe il tempo di rimproverarsi nuovamente..
«Guardi, signorina Lance» esclamò la ginecologa, indicando lo schermo posto di fronte a lei. «Questo è il suo bambino.»
A Sara venne a mancare il respiro. Il mio bambino…
«Vede, questa è la testa. Qui invece ci sono le braccia, le mani, e poi le gambe… è spettacolare.»
Sara aveva la bocca completamente asciutta, motivo per cui le sue parole uscirono in un lieve sussurro. «Sta bene?»
«Sì, certo, è tutto a posto. Le misure sono perfette e non sembra ci sia alcun tipo di anomalia. Purtroppo, però, non le posso dire con certezza il sesso del bambino, perché al momento sta tenendo le gambe chiuse. Però, aspetti: guardi qui!»
Canary sbatté le palpebre un paio di volte, mettendo a fuoco la figura a cui si stava riferendo la donna. «Che cos’è? Sembra un buco nero o sbaglio?»
La dottoressa Holland le riservò un sorriso dolce. «È il cuore del suo bambino.»
Fu allora che Sara iniziò a non capirci più nulla. Aveva la testa invasa da un rumore sordo e un peso all’altezza dello stomaco. Poco dopo, la dottoressa Holland le disse di rivestirsi, le porse le fotografie dell’ecografia e la accompagnò fuori dallo studio. E Sara ebbe un dejà-vu.
Iniziò a correre a più non posso, facendosi strada tra la folla e le macchine, senza mai fermarsi davanti a nessun ostacolo. Sentiva la brezza accarezzarle il viso e l’anima, facendola sentire libera come un canarino.
Era felice. Aveva visto il cuore di suo figlio battere. Ed era felice.
Dopo qualche minuto, fu costretta a fermarsi in un vicolo per riprendere fiato, e a quel punto incominciò a piangere a dirotto. Ma questa volta erano lacrime di gioia.
Il suo bambino stava bene, ed era l’unica cosa che contava in quel momento.



Quando Nyssa rientrò dal lavoro, il suo cuore iniziò a battere all’impazzata. Aveva trascorso l’intera giornata rischiando di essere divorata dalla curiosità che provava, e adesso non vedeva l’ora di chiedere a Sara com’era andata la sua visita. Di certo, però, non si sarebbe aspettata di trovarla distesa sul divano con del ghiaccio sulla fronte.
«Cos’è successo?» domandò preoccupata, accovacciandosi di fronte alla bionda.
Quest’ultima si tirò su facendo leva sui gomiti. «Non è successo nulla. Avevo solo un po’ caldo.»
Ma Nyssa non le credette. «Sicura che sia solo questo?»
Sara annuì debolmente, stringendosi le ginocchia al petto. Poi si mordicchiò il labbro inferiore, chiuse gli occhi per pensarci su e dopo quasi due minuti si decise a rispondere a parole alla domanda di Nyssa. «Laurel aveva ragione.»
«A quale proposito?»
Canary prese la mano di Nyssa e la strinse con tutte le sue forze. «Aveva ragione a dire che sei stata un’irresponsabile a lasciarmi combattere nelle mie condizioni. Ma è stata anche colpa mia. Saremmo dovute stare più attente.»
Nyssa deglutì preoccupata. «Questo significa che il bambino…»
«No» si affrettò a rispondere Sara, scuotendo appena il capo. «Il bambino sta benissimo. Però… siamo state due incoscienti. Eravamo talmente preoccupate per Ra’s che abbiamo perso di vista l’unica persona che dovevamo proteggere da tutto questo.»
La bionda si portò istintivamente la mano libera sul ventre, iniziando ad accarezzarlo con dolcezza. «Potevo rischiare di abortire e non me ne sono nemmeno resa conto.»
Nyssa sospirò. «Mi dispiace.»
Per tranquillizzarla, Sara le dedicò un lieve sorriso. «Anche a me.»
«Se fosse successo qualcosa, io…»
«Lo so. Ti saresti presa una responsabilità non tua. Sono io quella incinta, perciò sono io che dovrei pensare al bambino che porto in grembo. Ma Starling City aveva bisogno di me ora più che mai, perciò…»
«Hai fatto quello che era più giusto per la tua città. L’hai aiutata a rialzarsi dopo una guerra violenta.»
«Mettendo a rischio la vita di mio figlio.»
Nyssa le passò delicatamente una mano tra i capelli. «Se tuo figlio è forte almeno la metà di quanto lo sei tu, allora non sarà mai in pericolo.»
Quella frase riuscì a portare un po’ di tranquillità nel cuore di Sara, tormentato all’idea che forse non sarebbe stata la madre che sperava di diventare. Ma Nyssa, come al solito, riuscì ad anticipare i suoi pensieri.
«E se te lo stai chiedendo, no, non sei una pessima madre. Sei solo stanca. E adesso è giunto il momento di pensare solamente a te e a tuo figlio.»
Sara puntò i suoi occhi in quelli dell’amata, aumentando la presa sulla sua mano. «Nostro figlio.»
Nyssa sembrò sul punto di commuoversi, ma Sara le impedì di scoppiare a piangere prendendole il mento tra le dita e dandole un lungo bacio, che servì a calmare entrambe.
«Che mi dici del sesso?» domandò la mora, con ancora la propria fronte appoggiata a quella di Sara.
«Non me l’ha potuto dire» spiegò l’altra. «Però ho visto il suo piccolo cuore battere. È stato bellissimo.»
«La prossima volta non mancherò. Non posso perdermi dei momenti importanti come questo.»
«Se ci sarà una prossima volta. Volevo accertarmi che il bambino stesse bene, ed è così, perciò non credo di aver bisogno di vedere quella donna un’altra volta.»
Nyssa rimase in silenzio per qualche istante. «Laurel ti ucciderà, lo sai, vero?»
«È per questo che non glielo diremo.»
E scoppiarono a ridere all’unisono.

*

L’appartamento di Roy non si poteva esattamente definire un porcile, perché in realtà era molto peggio. Inoltre, da quando Sara aveva chiesto ad Arsenal di ospitare Sin per un po’ ‒ più o meno tre settimane prima ‒, casa sua era diventata ancora più disordinata di quanto non fosse già.
Quella sera, Sara sapeva benissimo che non avrebbe trovato Roy in casa, poiché il ragazzo era in missione insieme a Oliver e Nyssa. Aveva scelto quel momento proprio per poter parlare da sola con Sin, perciò prese un respiro profondo e bussò.
«Chi è?» si udì dall’altra parte della soglia.
«La tua fata madrina.»
Non appena riconobbe la voce dell’amica, Sin aprì la porta all’istante, cercando vanamente di trattenere l’emozione che provava. «Ti inviterei ad entrare, ma per educazione te lo sconsiglio. C’è un macello indescrivibile qui dentro.»
«Lo immagino. Ma non sono qui per restare. Piuttosto, volevo che tu venissi con me.»
La ragazzina aggrottò le sopracciglia. «Dove andiamo?»
«È una sorpresa. Ma sappi che dovremo andarci a piedi.»
«Due giovani donne che gironzolano per le strade di The Glades di notte, da sole, e per di più senza una mazza da baseball a proteggerle? È una proposta veramente allettante.»
«Devo forse ricordarti che una delle due donne in questione ha passato sei anni nella Lega degli Assassini?»
Sin non ci pensò un secondo di più. «Okay, hai vinto. Basta che ci sia del cibo e poi andiamo dove vuoi.»



All’incirca mezz’ora dopo, Cindy e Sara giunsero nell’appartamento di quest’ultima. Senza darle alcuna spiegazione, Canary condusse l’amica in quella che un giorno sarebbe dovuta essere la camera del suo bambino, dove erano già presenti un letto e la cassettiera che Oliver aveva regalato a Sin poco dopo l’Assedio.
A quella visione, la mora si paralizzò. «Che storia è mai questa?»
«Credo che tu lo abbia capito benissimo da sola.»
«Sara, no. Non verrò a vivere con te.»
«E passerai il resto della tua vita nell’appartamento di Roy?»
«Certo che no. Anzi, sono sulla buona strada per trovarmi una sistemazione definitiva.»
Sara incrociò le braccia, assumendo un’espressione confusa. «E con quali soldi?»
Sin arrossì lievemente. «È… difficile da spiegare. Ma non posso restare qui. Non so nemmeno se a Nyssa sta bene.»
«Invece puoi. A Nyssa va benissimo che tu resti qui con noi e non vede l’ora di conoscerti.»
La mora si passò una mano tra i capelli. «Non lo so, Sara…»
«Andiamo, non farti pregare. In fondo sai benissimo anche tu che è la soluzione migliore.»
Cindy sospirò, alzando gli occhi al cielo. «Solo per qualche notte. Ma posso stare benissimo anche sul divano.»
«Beh, diciamo che questo letto in parte è il divano. Noi abbiamo solo comprato la rete, ma il materasso lo abbiamo semplicemente estratto dal cassetto del divano letto. Non sarà il massimo della comodità, ma nelle ultime settimane sono successe molte cose, e questa è stata l’unica idea che mi è venuta in mente.»
«No, non preoccuparti, è stata un’idea meravigliosa. Nessuno aveva mai fatto tutto questo per me. Grazie, grazie davvero.»
E prima che Sara potesse prevederlo, Sin si fiondò su di lei e la strinse in un abbraccio che fece sentire entrambe a casa.

*

Il mattino seguente, Sin si svegliò con un sorriso sul volto per niente familiare. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma erano anni che non aveva una camera da letto tutta sua, e il fatto che Sara si stesse preoccupando per lei a tal punto da avergliene creata una la faceva sentire amata.
Dopo aver sbadigliato ed essersi stropicciata gli occhi, si diresse nel corridoio buio a passi incerti e con lo stomaco che brontolava. Temeva di poter incontrare Nyssa, ma non si sentiva ancora pronta. E se avessero iniziato con il piede sbagliato? E se avesse detto o fatto qualcosa di sprovveduto e Nyssa l’avesse cacciata fuori di casa? Non solo avrebbe reso Sara delusa da lei, ma avrebbe anche potuto scatenare una lite tra le due, e probabilmente Canary non glielo avrebbe mai perdonato. Proprio mentre questi pensieri la invadevano, non si rese conto di essere arrivata nell’atrio, e che davanti a lei c’era proprio la donna che quella mattina avrebbe tanto voluto evitare.
In preda al panico, compì un passo indietro. «B-Buongiorno» balbettò.
«Buongiorno a te» rispose Nyssa, dedicandole un sorriso sincero. «Tu devi essere Cindy. Io sono Nyssa, piacere di conoscerti.»
In fondo non sembrava così male come credeva. Osservò per qualche istante la mano che Nyssa le stava porgendo e decise di ricambiare la stretta. In quello stesso istante, però, qualcosa nel volto dell’altra donna la fece irrigidire nuovamente.
«Sbaglio o ci siamo già viste da qualche parte?»
Sin deglutì. «Oh, beh… non saprei…»
In realtà, Nyssa sapeva benissimo chi era Sin, e non si sarebbe mai scordata il suo volto. Quando erano ancora a Nanda Parbat, Sara le parlava sempre di come aveva conosciuto suo padre a Lian Yu e della promessa che gli aveva fatto. Nyssa aveva anche visto la foto di sua figlia, e dal quel giorno si era ripromessa che, prima o poi, avrebbe aiutato quella povera ragazzina insieme a Sara. Lei stessa non aveva avuto una vita facile, ma da quando Sara era entrata nella sua vita era cambiato tutto, e il pensiero di poter aiutare un’altra giovane donna a trovare qualcosa per cui valesse la pena vivere la faceva sentire in pace con sé stessa.
«Ma sì, adesso ricordo! Eri una cliente del Slàinte, non è così?»
Nyssa sapeva anche che era stato grazie a Sin se Sara aveva scoperto del suo “quasi” lavoro in quel pub ‒ non perché Sara glielo avesse detto, quanto perché lo aveva capito da sola.
Sin deglutì con forza. A quel punto non aveva più senso mentire. «Sì. Ci sono stata giusto un paio di volte…»
«Beh, Cindyy, mi ha fatto piacere conoscerti e rivederti, ma adesso devo scappare al lavoro. Ci si vede!»
Quando Nyssa ebbe chiuso la porta alle proprie spalle, Sin tirò un sospiro di sollievo, dopodiché si diresse in cucina, dove trovò Sara intenta a preparare la colazione per entrambe.
«E così hai conosciuto Nyssa.»
Cindy si mise a sedere, ancora tremante. «Già. È davvero adorabile.»
A quel punto, Sara si voltò nella sua direzione, poggiando una mano sul fianco. «Perché hai così paura di lei? È per la storia del Slàinte?»
Sin annuì appena. «Ricordi quella volta che ti ho detto che lei lavorava là? Beh, ho ancora paura che mi possa ammazzare, visto che sono stata io a fare la spia.»
Sara scoppiò in una sonora risata. «Non le ho mai detto che sei stata tu a riferirmelo, sciocca. Puoi stare tranquilla. Il tuo segreto è al sicuro con me.»
«Sì, sì, fai la spiritosa. Ma sappi che quando dovrai svegliarti ogni notte per dare da mangiare a un bebè sarò io quella pronta a ridere.»
Sara rispose alla frecciatina con una linguaccia. Subito dopo, porse un bicchiere di latte caldo all’amica e si sedette di fronte a lei. «Allora, mi vuoi dire di quale sistemazione parlavi ieri?»
Sin sussultò dallo stupore. Aveva sperato con tutto il suo cuore che Sara se ne fosse dimenticata, e adesso non aveva idea di come tirarsi fuori da quel casino che lei stessa aveva creato. In preda al panico, fece finta di non aver sentito la domanda e iniziò a soffiare nella tazza che teneva tra le mani.
Sara attese una risposta per qualche secondo, ma dopo non molto scoppiò. «Dio, Cindy, è così difficile dirmi che hai un fidanzato?»
La ragazzina arrossì di colpo. Stupida Sin, nel giro di dieci minuti sei già alla seconda figuraccia del giorno!, pensò.
«Da cosa l’hai capito?» chiese poi, titubante.
«Da questo» rispose Sara, indicando il suo viso. «Sei diventata subito rossa quando hai accennato a un’altra sistemazione. Perciò ho fatto due più due.» La bionda poggiò i gomiti sul tavolo e intrecciò le mani sotto al mento. «Chi è? Lo conosco?»
Cindy scosse la testa in segno di diniego. «Si chiama Richard, ma per gli amici è Ricky, o Rick. È un tipo carino che ho conosciuto in un pub un paio di mesi fa. Ma onestamente non so ancora se è il mio tipo. Insomma, beve analcolici, frequenta il college e roba così. Forse non durerà. Voglio dire, siamo troppo diversi. E io troppo povera e trasandata per uno come lui. Non me la merito una persona così.»
Sin aveva parlato ad una velocità incontrollabile, ma Sara aveva capito chiaramente ogni parola.
«Ehi, non dire mai più una cosa del genere. Tu non sei una brutta persona, e meriti di trovare l’amore come chiunque altro.»
«E se dovessi influenzarlo con la mia oscurità? Sai che quei pochi amici che ho a The Glades fanno parte di brutte compagnie. Lui è veramente innamorato, Sara. Ma io non voglio che diventi come me.»
C’erano voluti anni prima che Sara lo scoprisse, ma anche Nyssa si era posta la stessa domanda quando si erano messe insieme. E adesso, Sara temeva che potesse accadere anche al suo bambino.
Non voleva che l’oscurità lo divorasse come era successo a lei quando si era unita alla Lega. Voleva soltanto che crescesse in un luogo sicuro, con dei genitori normali che lo facessero sentire amato.
Ma adesso il suo unico pensiero era aiutare Cindy.
«Non devi pensare in negativo, Sin. Ognuno di noi ha un po’ di oscurità dentro di sé. E sì, forse non avrai buone compagnie e non potrai permetterti di andare al college, ma questo non significa che tu non possa stare con qualcuno che è l’opposto di te. Anzi, magari stare con lui ti farà solo bene. Da come ne parli sembra un ragazzo con la testa sulle spalle, non come me alla vostra età.»
A quell’affermazione, Sin rise sotto ai baffi. E Sara provò un’immensa gioia nel vedere che si stava ambientando.
«Abita qui vicino?»
«No, ha un appartamento in centro. Ci sono stata un paio di volte. È un posto carino. Mi ha chiesto di andare a vivere con lui non appena mi sentirò pronta.»
«E tu sei pronta?»
La mora si strinse nelle spalle. «Non lo so. Voglio prima capire se lo amo davvero, o se per me è soltanto una cosa passeggera. Non so ancora bene cosa provo.»
«Beh, questa è una risposta che solo il tempo potrà darti. Ma sono sicura che la troverai molto presto.»




















Non è che l’idea di descrivere una visita ginecologica mi allettasse tanto, ma si trattava comunque di un passaggio importante per Sara, motivo per cui ho cercato di inserire più dettagli possibile in poche frasi.
Allora, vi state godendo l’estate? Io non molto, visto che mi sono subito ammalata -_- ma per fortuna adesso sto meglio e sono pronta a divertirmi! (E ad aggiornare le storie, ovviamente... xD)
Come al solito, se vi va, ditemi cosa ne pensate del capitolo, dopodiché… ci sentiamo tra due mesi!

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Capitolo 14
*** Capitolo 13: New alliances ***


 

Capitolo 13:
New alliances

 

 

 

 

Fin da bambina, Thea Queen era sempre stata una ragazza solare e generosa. Erano due delle doti che aveva ereditato da suo padre, anche se da quando aveva scoperto che Robert Queen non era il suo padre biologico aveva iniziato a chiedersi quali tratti avesse ereditato dalla famiglia Merlyn.
Thea non aveva ancora trovato risposta a quella domanda, ma non avrebbe dovuto attendere ancora a lungo. Non appena la ragazza giunse davanti all’ufficio di Oliver, quest’ultimo, nel vederla attraverso la porta a vetri, si pietrificò.
«Thea…»
«Ollie!» esclamò lei, gettandogli le braccia al collo. «Mi sei mancato così tanto!»
L’ex miliardario non si scompose, ricambiando il sorriso che la sorella gli stava rivolgendo. «Anche tu. Non immagini quanto.»
Thea sospirò, stringendo con forza la valigia tra le mani. «Gli ultimi quattro mesi sono stati davvero molto rilassanti. Perché non ci prendiamo un caffè? Devo raccontarti un sacco di cose! Ti ho anche portato un piccolo regalo dall’Italia. Sono certa che ti piacerà moltissimo!»
Mentire. Quella era indubbiamente una delle qualità che Malcolm Merlyn era riuscito a tramandare a sua figlia.



Oliver non ci mise molto a intuire che Thea gli stava nascondendo qualcosa, e l’illuminazione arrivò quando, parlando distrattamente con Nyssa, scoprì che in realtà Malcolm Merlyn era ancora vivo, e che era stata sua madre a mettersi in contatto con Ra’s per farglielo sapere. Da allora la Lega lo aveva cercato in ogni parte del mondo, ma l’unico avvistamento di cui Nyssa era stata messa al corrente risaliva alla notte dell’Assedio, a Starling City. Fu allora che Oliver capì tutto quanto, e si chiese per quanto ancora sua sorella gli avrebbe mentito.
La prima cosa che fece, su consiglio di Felicity e Roy, fu rivelarle la sua identità di Arrow, non solo perché fosse giusto che sua sorella lo sapesse, ma anche perché, in questo modo, Oliver avrebbe potuto testare la sua fiducia. Molto probabilmente, Malcolm aveva già rivelato a Thea chi si celava sotto a quella maschera verde, e se era davvero così allora Thea avrebbe potuto raccontargli la verità su dove aveva trascorso gli ultimi mesi ‒ e con chi. Ma Oliver si sbagliò anche questa volta, perché Thea non solo fu sorpresa di scoprire che lui era Arrow, ma non accennò minimamente ai suoi rapporti con Malcolm.
A quel punto, Oliver non riuscì più a trattenersi.
«Perché è così difficile per te dirmi la verità?»
Thea, che si trovava nel bel mezzo dell’Arrow Cave, rimase in silenzio per qualche istante, confusa. «Quale verità?»
L’uomo sospirò, mettendosi le mani sui fianchi. «Che in questi mesi non sei stata in Italia, ma chissà dove insieme a Malcolm Merlyn.»
Nel sentire quel nome, Thea spalancò le palpebre. «Ollie, posso spiegare…»
«Non ce n’è bisogno, Speedy» sbottò lui, più bruscamente di quanto pensasse.
«Beh, invece sì, visto che ti stai scaldando.»
L’ex miliardario si passò una mano sul volto sudato. «Thea, io non sono arrabbiato con te. Sono solo...»
«Ferito?» suggerì lei. «Ti senti tradito, per caso? Raggirato dalla tua stessa sorella? Beh, fratello mio, ora sai cosa si prova.»
Oliver capì dove voleva arrivare, perciò decise di anticiparla. «Questa è un’altra cosa, Thea. Non ti ho detto che ero Arrow solamente per proteggerti. Non puoi neanche immaginare quanti nemici mi sono fatto in questi anni, e quanti di loro arriverebbero a toccare le persone a cui tengo pur di vendicarsi con me.»
«Lo so. Hai ragione. Questa è un’altra cosa. E io ti sono davvero, davvero grata per quello che fai ogni notte per la nostra città. Però…» sospirò, incrociando le braccia. «Siete stati tu e la mamma a tenermi nascosto che Malcolm era il mio vero padre. E quando lei è morta e Starling City era sotto attacco, a differenza tua io non avevo più nessuno.»
«Avevi Roy.»
«No. Tu avevi Roy. E Sara. E Laurel, e i tuoi amici. Che a quanto pare sono anche gli amici di Arrow.»
Il maggiore dei due tacque, abbassando appena lo sguardo.
«Lui era l’unico disposto a credere ancora in me. Mi ha dato una chance, e poi io l’ho data a lui. E, Ollie, ad essere sincera, non me ne pento. So che non è una delle persone più buone del mondo, ma è pur sempre mio padre. E adesso fa parte della mia vita, che ti piaccia o no.»
Oliver sembrò pensarci su per qualche istante, e quando aprì nuovamente bocca, Thea rimase stupita dalle sue parole. «Voglio parlare con lui.»

*

«E siamo alla terza rapina sventata di questa settimana! Credo che abbiamo battuto il nostro record abituale.»
«Perché, ne stavamo tenendo uno?» rise Sara, avvicinandosi alla sedia di Felicity.
«Io sì!»
Nella stanza si levarono dei risolini sommessi da parte delle due ragazze, mentre Oliver e Dig si scambiarono uno sguardo d’intesa.
«Qualcosa mi dice che questa è la serata perfetta per festeggiare» dichiarò l’ex militare. «Non ne abbiamo ancora avuto l’occasione.»
«E che cosa dovremmo festeggiare? A parte non essere stati ammazzati, intendo» domandò ingenuamente Roy.
Sul volto di Oliver andò a formarsi un sorriso complice. «Tante cose.»
«Come ad esempio la nostra vittoria di stasera!» esclamò Felicity trionfante.
«E l’arrivo di due nuovi membri in squadra.»
Ci volle un po’ prima che i presenti capissero a cosa si stesse riferendo Nyssa, ma quando lo fecero rimasero tutti colpiti dalle sue parole. Sara si voltò verso di lei con gli occhi che le brillavano, pensando con gioia al bambino che portava in grembo e a quello di Lyla, che sarebbe nato entro poche settimane. Tuttavia, non ebbe il tempo di dire una sola parola perché una voce a lei familiare la fece irrigidire.
«Possiamo unirci anche noi ai festeggiamenti?»
Prima ancora che Sara potesse battere ciglio, Nyssa, Roy, John e Oliver puntarono le loro armi in direzione dell’intruso. Felicity si avvicinò titubante a Canary e le poggiò una mano sulla spalla.
«Che ci fa lui qui?» domandò il tecnico informatico.
«Non lo so» rispose Sara, la bocca semiaperta. «Ma forse Thea può darci una spiegazione.»
A quelle parole, la diretta interessata ‒ che fino ad allora era rimasta nascosta nell’oscurità della scalinata ‒ si fece avanti, mostrandosi al resto del Team.
«È colpa mia» proruppe Oliver quando la vide, abbassando l’arco. «Sono stato io a dirle di portarlo qui.»
«E perché mai avresti fatto una cosa simile?» domandò Felicity, sconcertata.
«Per ringraziarlo di essersi preso cura di mia sorella nelle ultime settimane» spiegò, cercando con tutto sé stesso di mantenere la calma. «E per chiedergli il motivo del suo ritorno a Starling City.»
«Beh, Oliver, ti ricordo che questa è la mia città. In quale altro posto sarei dovuto tornare?»
«Ti ho visto morire con i miei occhi» s’intromise Diggle, che come Nyssa e Roy non aveva ancora abbassato la sua pistola. «Come diavolo fai ad essere ancora tra i vivi?»
«Vi ricordo che il qui presente è stato addestrato dalla Lega degli Assassini. Credevate davvero che sarebbe bastata una freccia a darmi il colpo di grazia?» Fece una pausa, spostando lo sguardo su ogni persona presente nella stanza. «Voi due dovreste saperlo bene» disse, riferendosi a Nyssa e a Sara.
«Non sei il benvenuto qui, Al-Saher.»
«Ti conviene stare attenta a quello che dici, Nyssa al Ghul. Potresti pentirti delle tue parole, un giorno o l’altro.»
Nyssa digrignò i denti. Era sul punto di scoccargli una freccia nel petto, ma la voce di Oliver la bloccò.
«È una cosa fra me e te» sbottò il vigilante, furente in viso. «La mia squadra deve restarne fuori.»
«Ti sbagli, Oliver» esordì Thea. «Riguarda tutti voi in realtà.»
Nella stanza calò il silenzio per qualche istante, fino a quando Roy, che fino ad allora era rimasto in silenzio, si decise a parlare.
«A cosa ti riferisci?» domandò esitante, puntando i suoi occhi in quelli di Thea. Erano passati pochi mesi dall’ultima volta che l’aveva vista, eppure sembrava una persona completamente diversa: erano cambiate molte cose in lei, a cominciare dal taglio di capelli e la luce pura dei suoi occhi, che adesso era sparita. Nonostante ciò, la ragazza era ancora bellissima e i sentimenti di Roy nei suoi confronti non erano cambiati neanche un po’.
«Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Dell’aiuto di tutti voi» si corresse Thea.
John si scambiò un’occhiata con Oliver prima di rivolgersi nuovamente a Malcolm. «Dev’essere successo qualcosa di veramente grave per essere arrivato al punto di chiedere aiuto a noi.»
L’Arciere Nero compì qualche passo in direzione del suo interlocutore. «In realtà, signor Diggle, tecnicamente io non vi ho chiesto nulla. È stata Thea a farlo, e ad insistere affinché venissi qui.»
«Sono stata obbligata» rivelò la ragazza, incrociando meccanicamente le braccia. «Nel giro di un mese avremmo preso non so quanti aerei. Ormai non abbiamo più un posto in cui nasconderci.»
Felicity aggrottò lievemente le sopracciglia. «Nascondervi? E da chi?»
Il silenzio successivo a quella domanda fu rotto dalla voce decisa di Sara. «Dalla Lega degli Assassini.»
Sul volto di Nyssa andò a formarsi un’occhiata eloquente. «Alla fine ti hanno trovato, non è così?»
«Strano che tu non lo sapessi. Da quel che mi risulta, sei ancora l’Erede del Demonio. O forse tuo padre ha trovato una persona più degna di te a cui cedere il suo prezioso anello?» Sul volto dell’uomo si andò a formare un ghigno di sfida. «Oh, a proposito, ci tengo a porre le mie più sincere congratulazioni alla tua donna. Sai già se il figlio di Oliver sarà un maschio o una femmina, o preferite che sia una sorpresa?»
Nyssa lasciò andare la freccia subito dopo quelle parole, ma Merlyn riuscì a bloccarla a meno di un centimetro dal suo viso.
«Te l’ho detto, Nyssa» sibilò lui, lanciando la freccia a terra. «Pensa bene a quello che fai, perché presto o tardi ti pentirai delle tue decisioni.»
«L’unica decisione di cui mi pento è non averti ucciso il giorno in cui hai varcato la soglia di Nanda Parbat la prima volta.»
«Probabilmente a quest’ora le cinquecentotré persone morte a The Glades l’anno scorso sarebbero ancora in vita» continuò Sara, stringendo i pugni.
Thea si schiarì la voce, cercando di riprendere il controllo della situazione. «Non eravamo venuti qui per chiedervi un rifugio o protezione, quanto un aiuto in caso di una futura battaglia con gli uomini della Lega. Senza obblighi o secondi fini. Che ne dite?»
I presenti si scambiarono delle occhiate indecifrabili, ma nessuno di loro riuscì a dire una parola. Il silenzio che si era venuto a creare venne però infranto dalla voce di una donna che, essendo appena arrivata, non aveva idea di quello che stava succedendo.
«Cosa mi sono persa?»



«Vuoi davvero mettere la decisione ai voti, Oliver?»
Il diretto interessato si ritrovò a dover dare mentalmente ragione a Diggle: non era stata una delle sue scelte migliori. D’altro canto, però, era l’unico modo che avevano per chiudere la faccenda il prima possibile.
«Sì. Credo sia l’unica opzione che ci rimane» rispose, lanciando una rapida occhiata a Thea e a Malcolm, che li attendevano al piano superiore. Lui stesso non era entusiasta all’idea di mettersi in mezzo a Merlyn e alla Lega degli Assassini, ma al tempo stesso, sapeva che ad essere in pericolo non era soltanto Malcolm, ma anche Thea, considerato che era sua figlia. E non poteva restarsene con le mani in mano sapendo che la vita di sua sorella era in pericolo.
Nessuno si oppose a quella conclusione, perciò Oliver riprese la parola. «Bene, allora direi che possiamo iniziare.» Poggiò entrambe le mani sul tavolo, sentendo un grande peso dentro di sé. Ormai lui non era più il leader di quella squadra da un bel pezzo, perché ognuno di loro aveva dimostrato di essere forte e indipendente a modo suo; tuttavia, sapeva benissimo che la sua scelta avrebbe comunque avuto molto peso sulle loro reazioni. E questo lo spaventava.
«Per me è sì. Se dovesse presentarsi l’eventualità di dover aiutare Malcolm, non mi opporrò a fare tutto il possibile per proteggerlo.»
Prima ancora che Oliver potesse dire altro, la voce di Felicity lo fece quasi sobbalzare. «Non se ne parla! Ti è dato di volta il cervello per caso? Sai quante persone ha ammazzato quel pazzo psicopatico? Cinquecentotré, Oliver. Cinquecentotré persone innocenti. E se lo aiutiamo in questa follia suicida uno di noi potrebbe diventare il numero cinquecentoquattro.»
Arrow trattenne a stento un sospiro. Felicity aveva pienamente ragione, ma non poteva stare dalla sua parte. Non questa volta. Doveva trovare a ogni costo un modo per convincere gli altri a dargli fiducia. «Lo so, Felicity. E io non lo perdonerò mai per quello che ha fatto. Ma è il padre di mia sorella, e sappiamo benissimo che la Lega degli Assassini non si fa scrupoli a mettere di mezzo degli innocenti. Il compito di questo Team è proteggere Starling City e i suoi cittadini. Thea e Malcolm sono come gli altri, perciò non ho nessuna intenzione di tirarmi indietro.»
Felicity deglutì, inspirando profondamente. «Capisco il perché della tua scelta, ma ciò non cambia la mia. Merlyn resta comunque un bastardo che merita di andare all’inferno.»
«Io la penso esattamente come lei.»
Quando Oliver udì nuovamente la voce di Laurel, non riuscì a non alzare lo sguardo verso di lei. Essendo l’ultima arrivata, era stata messa al corrente dell’accaduto da pochi minuti.
«Che c’è? Non guardarmi in quel modo. Ti aspettavi un verdetto diverso da parte mia?»
L’ex miliardario si massaggiò lentamente la radice del naso. «No. Mi aspettavo che riuscissi a mettere da parte il tuo dolore almeno per una volta.»
«E come potrei, scusa?» ironizzò l’avvocato, con una risata nervosa. «Quel pazzo ha ucciso il suo stesso figlio. Merita di morire per mano di un centinaio, anzi no, di un migliaio di assassini esperti che riescano a fargli sentire tanto di quel dolore da costringerlo a supplicare la morte.»
«Laurel, non puoi prendere una decisione basandoti solo su quello che è successo a Tommy.»
«E tu non puoi fare lo stesso con Thea. Non fraintendermi, Ollie, io le voglio bene, ma non capisco il senso di tutto ciò. Puoi benissimo proteggere tua sorella consegnando direttamente Merlyn alla Lega.»
«No, non posso farlo. Se prendessi una decisione simile non me lo perdonerebbe mai. E non mi vedrebbe più come un fratello, ma come il mostro che ha condotto suo padre verso la morte.»
La maggiore delle sorelle Lance si imbronciò, trattenendo a stento le lacrime. Non capiva come mai Oliver fosse così volenteroso a salvare la vita a Malcolm dopo tutto quello che aveva fatto.
«Tommy sarebbe molto deluso da te» sussurrò, con la voce rotta.
Oliver annuì lievemente. «Lo so. Ma non posso fare altrimenti. Mi dispiace, Laurel.»
Subito dopo, Roy prese un respiro profondo, decidendo di dire la sua. «Sono d’accordo con Oliver. Noi difendiamo gli innocenti, e Thea è una di loro.»
«Ma non Malcolm» esclamarono Felicity e Laurel all’unisono.
Arsenal sospirò appena. «Questo è vero, ma purtroppo fa parte del pacchetto. E come ha detto lui è il padre di Thea. Si è preso cura di lei per tutto questo tempo. Non le ha fatto del male. Perciò, non credo sia così terribile come crediamo.»
«Tu sei di parte, Roy» s’intromise Sara. «Indipendentemente da come si comporta con Thea, hanno ragione loro. Merlyn non è innocente. Ma questo non deve influenzare la tua scelta.»
«Ma influenza la mia.»
Oliver si voltò in direzione di John, il quale lo stava osservando con le braccia incrociate. «So che può sembrare egoista, ma Malcolm merita un po’ di sofferenza. Probabilmente anch’io avrei preso la tua stessa decisione se fosse stato il padre di mia sorella. Ma non lo è. E io voglio che venga fatta giustizia per tutte quelle persone che sono morte a causa sua.»
Arrow rimase in silenzio per qualche istante, considerando la possibilità di dover combattere contro la Lega da solo. I voti positivi erano solamente due, mentre tre erano contro la richiesta di Malcolm.
«Sara?» disse poi, rivolgendosi alla bionda. «Tu cosa ne pensi?»
Tutti sapevano bene che lei e la sua amata non avrebbero acconsentito a proteggere Merlyn, ma Oliver serbava ancora un po’ di speranza nella madre di suo figlio.
Sara sembrò rifletterci a lungo, e alla fine le sue parole riuscirono a spiazzare la maggior parte dei presenti. «Penso che dovremmo accettare la sua richiesta.»
Quando udì quelle parole, Laurel avvertì un capogiro. «Cosa…?»
«Non sto dicendo di salvargli la vita. Sto dicendo di approfittarne. Aiutiamolo e facciamoci aiutare.»
«Ti rendi conto di quello che dici, vero?» esclamò Nyssa, che fino ad allora non aveva aperto bocca.
«Pensaci» esordì Sara, voltandosi nella sua direzione. «Malcolm è stato il braccio destro di tuo padre per diverso tempo, e ha anche molte conoscenze. È una risorsa che non ha pari. Immagina l’aiuto che ci potrebbe dare in un possibile combattimento futuro contro Ra’s.»
«Sara, è fuori discussione. Hai idea di cosa accadrebbe se ci mettessimo contro mio padre? Non solo perderemmo, ma rischieremmo addirittura di sopravvivere, e quindi di dover pagare le conseguenze del nostro doppio tradimento nei suoi confronti.»
«Non mi sembra che abbiamo molto da perdere al momento.» Sara arricciò appena il naso, pensando attentamente alle parole da usare. «La Lega non è più la nostra casa. Ma Starling City lo è. E Malcolm non è l’unico ad essere nel mirino di tuo padre.»
«Aspettate un momento» intervenne Oliver, iniziando a comprendere il punto di vista di Sara. «Vuoi dire che, se la Lega degli Assassini dovesse venirvi a cercare per la vostra fuga, lui potrebbe a sua volta aiutarci a combattere contro di loro?»
«Esattamente. Io non voglio aiutare Malcolm, ma stringere un accordo. Un’alleanza. Noi lo aiutiamo a liberarsi della Lega, ma lui aiuta noi in caso Ra’s voglia riportarci a Nanda Parbat.»
Da quel punto di vista, l’idea di Sara non era male, questo Nyssa doveva riconoscerlo. Ma era comunque un pensiero folle, perché aiutare Malcolm significava dare a suo padre un pretesto in più per fare loro del male.
«Nyssa.»
L’Erede del Demonio alzò lo sguardo, incontrando quello di Oliver.
«Ora dipende tutto da te.»
E Nyssa pregò con tutta sé stessa che la decisione che stava per prendere fosse quella giusta.



Quando Roy andò a chiamare Thea e Malcolm per dire loro che il Team aveva raggiunto un accordo, Oliver iniziò a domandarsi come avevano fatto ad arrivare a quel punto. L’anno precedente avrebbe fatto di tutto pur di uccidere Merlyn con le sue stesse mani, ma dopo tutte le cose che erano successe non se la sentiva di portare via un padre a sua sorella. Non di nuovo.
«Allora, la giuria ha emesso un verdetto?» li stuzzicò Malcolm, unendo le mani dietro la schiena.
Arrow emise un sospiro profondo. «Se si presenterà l’occasione, noi ti aiuteremo.»
Sul volto dell’Arciere Nero andò a formarsi un ghigno divertito. Era stato più facile di quanto aveva pensato.
«Ma ad una condizione.»
Malcolm, seppur scocciato, fu costretto a voltarsi in direzione della figlia di Ra’s al Ghul. «E sarebbe?»
«Prima o poi dovrai ricambiare il favore. Quando avremo bisogno di aiuto, tu userai tutte le risorse a tua disposizione per combattere al nostro fianco.»
«Indipendentemente da chi sia il nostro nemico» puntualizzò Sara.
«Siamo intesi?» concluse Oliver, puntando i suoi occhi in quelli di Merlyn.
E Al-Saher scelse di prendere la strada più conveniente per tutti. 



Più la gravidanza andava avanti, più Sara sentiva frequentemente il bisogno di andare in bagno. Era un sintomo comune, ma per lei significava molto di più: non solo il suo bambino stava bene, ma il giorno della sua nascita si stava avvicinando. Mancavano meno di quattro mesi alla scadenza, e Sara non vedeva l’ora di conoscere il piccolo essere silenzioso che stava crescendo nella sua pancia.
Una volta uscita dal bagno delle signore, la bionda si diresse verso la scalinata che conduceva al Covo, ma prima che potesse inserire il codice nella porta blindata la sua attenzione fu catturata da un rumore proveniente dalla stanza accanto.
«Thea?» esclamò nel vedere la ragazza accovacciata dietro a quello che, un tempo, era il bancone del Verdant. «Che ci fai ancora qui? Credevo che tu e Malcolm ve ne foste andati più di mezz’ora fa.»
Sara compì qualche passo nella sua direzione, e solo allora si rese conto che Thea aveva fatto cadere degli scatoloni pieni di posate a terra. «Sì, è vero, ma poi mi sono ricordata di una cosa e…»
«Ti do una mano a rimettere a posto» le rispose Canary, inginocchiandosi vicino a lei.
«Ti ringrazio.»
«Figurati. Dobbiamo solo trovare un posto migliore in cui mettere questa roba.»
«No, non mi riferivo soltanto a questo, ma anche alla proposta che avete fatto a mio padre.»
Sara si bloccò per un istante, non sapendo quali parole usare. «Cosa ti fa pensare che io abbia votato a suo favore?»
«Sesto senso» spiegò Thea. «Ma ho compreso più cose negli ultimi giorni che in tutta la mia vita.»
«Immagino» disse distrattamente Sara, poggiando sopra al bancone lo scatolone che aveva appena riempito.
«Tu sei lei, non è vero?»
Sara ci mise qualche istante per capire chi fosse “lei”. Thea stava parlando di Canary.
La bionda si ritrovò a dover sospirare. «Te l’ha detto Merlyn?»
«No, in realtà non mi ha mai detto chi si celasse dietro a quelle maschere. Ho scoperto solo ieri che mio fratello era Arrow, perciò…»
Sara non riusciva a capire come mai Malcolm avesse tenuto la figlia all’oscuro di tutto, ma non riuscì a trovare alcuna risposta. Forse era lo stesso motivo per cui Oliver non voleva fare un torto a Thea rifiutando di aiutare suo padre. Per proteggerla.
«Ascolta… prima mio padre ha detto che sei incinta. Ho capito bene?»
Canary annuì lievemente, abbassando lo sguardo sulla propria pancia. Non sapeva come avesse fatto Malcolm a venirne a conoscenza, ma non le importava. Come aveva detto lei stessa, Al-Saher aveva molte risorse. «È successo quando io e tuo fratello stavamo ancora insieme, ma ci ho messo quasi due mesi prima di scoprirlo.»
«Wow. È… una notizia bellissima. Ne sono davvero felice.»
«Anche io. E Nyssa lo è ancora di più, visto che finalmente potremo avere una vita normale.»
Thea si zittì per qualche istante, cercando di fare mente locale. «Nyssa è quella ragazza dai capelli scuri che era di fianco a te? La figlia di Ra’s al Ghul?»
A quella domanda, Sara deglutì. «Sì.»
«E come mai vi siete messe contro suo padre? Se posso chiedere, ovviamente.»
La maggiore delle sorelle Lance si strinse nelle spalle. «È complicato da spiegare, Thea. Ci sono troppe cose che non sai su di noi.»
La giovane Speedy si ritrovò a dover annuire a sua volta. «Hai ragione. E poi ti ho già fatto un sacco di domande, quindi è meglio che la smetta. Sono proprio un’impicciona!»
«Ma no, figurati. Ti capisco. Stai solo cercando di mettere insieme i pezzi del puzzle.»
«Già.»
Thea sospirò, iniziando a passarsi da una mano all’altra un bicchiere impolverato.«Sai, stavo pensando di riaprire il Verdant.»
Sul volto di Sara andò a formarsi un’espressione sorpresa. «Davvero?»
«Sì. Insomma, il nostro dovrebbe essere un ritorno definitivo, e mio padre ha ancora tanti soldi. Ci vorrà qualche mese prima che torni tutto come prima, ma credo che sia un’ottima copertura anche per voi. E pensavo che, magari, ti farebbe piacere tornare a lavorare qui.»
Quella proposta stupì Sara al punto di costringerla a rimanere con la bocca semiaperta per qualche manciata di secondi. Effettivamente, si rendeva conto solo adesso che con un bebè in arrivo non sarebbe bastato lo stipendio di Nyssa per permettere loro di vivere.
«Quando ti sentirai pronta, ovviamente» proseguì la ragazzina. «In fondo, non credo che il locale aprirà prima della nascita del bambino. Puoi aspettare qualche mese, o anche un anno o due, se preferisci. Però, sappi che la mia proposta sarà sempre valida. E poi, ti pagherò comunque anche se durante l’orario di lavoro dovrai assentarti per andare a combattere il crimine. Che ne dici?»
Sara scoppiò a ridere a crepapelle, portandosi una mano davanti alla bocca. Poi, si avvicinò a Thea e la abbracciò stretta. «Ti ringrazio, veramente. Sarai un ottima zia. Ne sono sicura.» Si scambiarono una rapida occhiata complice, e Sara proseguì: «Ma sappi che non voglio Malcolm Merlyn vicino a mio figlio. Almeno fino a quando non gli avrò insegnato a difendersi come si deve.»
Questa volta, fu Thea a mettersi a ridere. «Sono d’accordo.»
Sara delineò un sorriso, osservando attentamente i lineamenti del viso di Thea. Come aveva fatto quella bambina con l’apparecchio e le treccine che le chiedeva sempre di giocare con le bambole a trasformarsi nella donna forte che si trovava davanti a lei in quel momento?
«Sei sicura di quello che fai, non è vero?»
Thea si scostò distrattamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «È mio padre, Sara. So che è una persona orribile, ma ho già perso due genitori. Non voglio dover rinunciare anche a lui.»
In quello stesso istante, Nyssa fece il suo ingresso nella stanza, ma decise di rimanere in disparte per non intromettersi nella conversazione tra Sara e Thea. Dopo qualche minuto, quest’ultima salutò la bionda e se ne andò, e fu allora che Nyssa si avvicinò all’amata, per poi poggiarle una mano sulla spalla.
«Non ti ho sentita arrivare» disse Sara, voltandosi verso l’altra donna.
«Non volevo interrompervi, così ho cercato di non fare rumore.»
Sara le diede un lieve bacio sulle labbra. «Grazie.»
Nyssa sorrise, sfiorando il suo naso con il proprio. «Sei pronta ad andare?»
Canary annuì. «Sì.»
Quando Nyssa la prese per mano, Sara capì che non aveva nulla di cui preoccuparsi. Stava filando tutto liscio, e forse questa volta Ra’s si era davvero rassegnato a rinunciare a sua figlia. Era soltanto un’idea, ma se fosse stato vero, allora non avrebbero più dovuto vivere con la paura che potesse succedere qualcosa di brutto.
Per la prima volta dopo mesi, Sara era tranquilla. Serena. La testa svuotata dai mille pensieri negativi che l’avevano assalita nelle ultime settimane. Poi qualcosa dentro di lei si mosse e Sara si bloccò nel bel mezzo della stanza. Si portò istintivamente una mano sul ventre, mentre un urlo le moriva in gola.
«Che c’è?» domandò Nyssa, preoccupata. «Sara, cos’è successo?»
Le lacrime iniziarono a pizzicarle gli occhi, ma ciò non le impedì di trovare le parole per rispondere. «Ha scalciato» sussurrò, col cuore che batteva a mille. «Il bambino ha scalciato.»



«Sin sta dormendo?»
Nyssa si distese di fianco a Sara sul divano, porgendole una coperta. «No, non è qui. Ha lasciato un post-it sulla porta della nostra camera dicendo di non aspettarla alzate.»
«Sembra che qualcuno passerà una lunga notte» affermò la bionda, con una piccola risata. Subito dopo, prese ad accarezzare distrattamente il braccio di Nyssa con lo sguardo perso nel vuoto.
«Qualcosa non va?» sussurrò l’Erede, notando il suo malessere. «Il bambino ha scalciato ancora?»
«Oh, no. Ora piuttosto tranquillo, quindi credo si sia addormentato. Stavo solo pensando.»
«Lo so» ammise Nyssa, dandole un bacio sul capo. Trattenne a stento un sospiro mentre la sua amata le puntava contro i propri occhi di ghiaccio. «Un giorno o l’altro mio padre arriverà, Sara. Sa bene che siamo a Starling, così come sa che la nostra non è una vacanza. Ma finché non scoprirà che sei incinta, forse ci sarà ancora una speranza per salvarvi.»
Sara aggrottò la fronte, visibilmente confusa. «Che vuoi dire con “salvarci”?»
«Voglio dire che non sappiamo come potrebbe reagire. Dobbiamo essere preparate. Quando siamo fuggite gli ho detto che ti avrei liberata, così da dimenticarti definitivamente. All’epoca lo dissi solo per cercare di convincerlo a lasciarci andare, ma adesso… adesso inizio a pensare all’eventualità che una cosa simile possa accadere davvero.»
«Non se ne parla» sbottò Sara, mettendosi di scatto a sedere. «Sono sei anni che mi conosci, Nyssa. E se credi davvero che ti permetterò di fare una cosa simile‒»
«Io non ho nessuna intenzione di lasciarti andare.» A Sara venne a mancare il respiro per qualche istante nel sentire l’angoscia delle sue parole. «Non lo farei mai. Non voglio perderti di nuovo. Ma se fossi costretta a scegliere tra tornare alla Lega e rinunciare a te, o vivere al tuo fianco con una taglia sopra alle nostre teste, sai bene cosa sceglierei di fare.»
La bionda inspirò profondamente. «Ma sarebbe la decisione peggiore. Per tutte e due.»
«Lo so. Ma sarebbe la migliore per il bambino.»
Solo allora Sara si rese conto di avere qualcosa di caldo sopra alla propria pancia. Era la mano di Nyssa. Che sensazione piacevole… Non avrebbe mai potuto rinunciare a qualcosa di così prezioso. Mai.
«E se consegnassimo Malcolm alla Lega?» Canary fece una pausa, poggiando la propria mano sopra a quella dell’Erede del Demonio. «Magari tuo padre capirebbe quanto vali davvero e ti darebbe la possibilità di scegliere cosa farne della tua vita. Non guardarmi in quel modo, sai bene cosa sto cercando di dire. E se questa fosse la nostra unica ancora di salvezza?»
«Non dire così» la supplicò l’altra, guardandola intensamente negli occhi. «C’è sempre una soluzione migliore, Sara. Non possiamo vendere Al-Saher alla Lega degli Assassini, non solo perché sarebbe un gesto inutile, ma anche perché abbiamo stretto un’alleanza con lui. Arriverà il giorno in cui saremo noi ad avere bisogno di una mano, e Merlyn non potrà opporsi. Anche perché dubito che abbia voglia di mettersi contro la figlia di Ra’s al Ghul, la sua ragazza e l’uomo che un tempo l’ha quasi ucciso. Perderebbe nel giro di cinque minuti.»
A quella visione, Sara non riuscì a trattenere una risata. Si trovavano in una situazione assurda, ma essere insieme a Nyssa fla aceva sentire al sicuro. E non esisteva sensazione migliore di quella.
«Credo di avere una voglia» esordì la maggiore delle sorelle Lance, mordicchiandosi leggermente il labbro inferiore.
Nyssa assunse un’espressione divertita. «E sarebbe?»
Sara si sporse nella sua direzione, sussurrandole maliziosamente all’orecchio la risposta. «Big Belly Burger.»
Nyssa si prese la testa tra le mani, fingendosi disperata. «Ti prego, no» mugugnò, provocando l’ennesimo sorriso sul volto di Sara. «Sono le undici di sera.»
«Andiamo, non farti pregare. Sappiamo entrambe che prima o poi questo giorno sarebbe arrivato. Posso finalmente farti assaggiare il cheeseburger migliore del mondo.»
In tutta risposta, Nyssa scosse la testa e sbuffò. «Sappi che lo faccio solo perché sei incinta.»
«Sì, certo, come no» rise Sara, dandole un bacio a stampo. «Bahebak mot[1], habibti.»
La mora le accarezzò una guancia, dedicandole un sorriso dolce. «Torno subito.»



Nyssa provò una strana sensazione per tutto il tragitto dall’appartamento fino al Big Belly Burger. Era come se qualcuno la stesse osservando, ma non ne era certa. Nonostante l’ora tarda, la strada era piena di macchine che sfrecciavano a tutta velocità e di ragazzini che schiamazzavano tra loro. In mezzo a quel trambusto non sarebbe stato facile individuare degli elementi sospetti, ma in ogni caso, si convinse a non trarre conclusioni affrettate.
Una volta fuori dal fast food, con un sacchetto di carta marrone stretto nella mano sinistra, si avviò verso casa a passo spedito. Erano passati pochi minuti, ma adesso non c’era più nessuno ad affollare le strade limitrofe a The Glades, fatta eccezione per qualche taxi e un paio di uomini a passeggio con il proprio cane. A pochi isolati di distanza da casa, però, Nyssa poté finalmente confermare i suoi sospetti: qualcuno la stava seguendo. Quando fu sicura che nei dintorni non ci fosse nessun altro, con la mano libera estrasse un coltello dalla tasca dei jeans e lo scagliò dietro di lei, sfiorando appena il cappuccio indossato dall’uomo che aveva trascorso la sera a pedinarla. Quando quest’ultimo si avventò contro di lei, Nyssa lasciò cadere a terra la busta di carta ed evitò a fatica un calcio da parte dell’uomo vestito di nero. Tentò di colpirlo con un pugno in pieno viso, ma lui le bloccò entrambi i polsi, mossa non molto astuta visto che l’Erede, facendo pressione sulle braccia dell’altro, riuscì a scaraventarlo a terra, aprendosi così una via di fuga. Sapeva che non era ancora finita, ma iniziò comunque a correre a tutta velocità verso l’appartamento.
Dopo non molto, infatti, un secondo uomo sbucò da un vicolo e si scagliò su di lei, costringendola nuovamente ad un corpo a corpo. Non era un combattente particolarmente forte, ma a scuotere l’animo di Nyssa non era l’idea di poter perdere, quanto il pensiero che qualcuno fosse arrivato a Sara. Doveva tornare a casa il prima possibile. Per questo motivo, la mora trovò la forza di mettere al tappeto l’altro uomo nel giro di un paio di minuti, dopodiché riprese a correre a perdifiato. Il cuore minacciava di esploderle dal petto, ma non le importava. Doveva accertarsi che la sua amata stesse bene, e non avrebbe più permesso a nessuno di farle perdere altro tempo. Salì i gradini dell’edificio a due a due, trattenendo il respiro per la paura, e quando spalancò la porta fu felice di trovare Sara indenne di fronte a lei. Non l’aveva mai vista così confusa prima d’ora, ma a Sara bastò guardare la figlia di Ra’s intensamente negli occhi per capire cosa stava succedendo. E per un attimo, quando sentì Nyssa pronunciare quelle parole che tanto temeva di sentire, fu come se il suo cuore avesse smesso di battere.
«Ci hanno trovate.»



 

 

 

 

 

 

[1] “Ti amo da morire” in arabo.








Sono un po’ cattiva, lo so. Finisco il capitolo con un cliffhanger bello e buono, ma sono fatta così. Tanto lo sapete che aggiorno prima o poi, quindi vi basta resistere qualche settimana xD

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Capitolo 15
*** Capitolo 14: Masks ***


 

Capitolo 14: 
Masks

 

 

 

 

Nyssa non era riuscita a chiudere occhio per tutta la notte. Il solo pensiero che qualcuno avrebbe potuto fare del male a Sara l’aveva tenuta sveglia fino all’alba.
Nemmeno la sua amata aveva dormito molto, ma ciò era dovuto soprattutto al fatto che il materasso su cui si trovavano non era per niente comodo.
Quando Nyssa le aveva detto di essere stata seguita per tutta la sera, Sara aveva subito chiamato Oliver e si era diretta a casa di Laurel per assicurarsi che stesse bene. Avevano poi deciso di fermarsi a dormire da lei per precauzione, in caso qualcuno avesse tentato di attaccare la famiglia di Sara.
Oliver, invece, aveva informato Roy, intimandolo di trovare Thea e di non staccarle gli occhi di dosso, dopodiché, su richiesta da parte di Sara, chiese a Diggle di mandare Lyla in una safe house dell’A.R.G.U.S. e di sorvegliare il palazzo in cui abitava il capitano Lance. Nessuna delle due figlie volle dirgli cos’era accaduto per non farlo preoccupare, perciò avevano dovuto trovare un altro modo per proteggerlo senza che lui lo sapesse.
Alla fine, non c’erano stati altri attacchi, ma la sola idea che potesse trattarsi di qualcuno della Lega faceva contorcere lo stomaco di Nyssa.
«Andrà tutto bene» le sussurrò Sara quando i primi raggi di sole filtrarono dalla finestra, accarezzandole una guancia. La figlia di Ra’s al Ghul chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal contatto della mano di Sara sulla propria pelle, e dopo interminabili minuti di carezze e di sussurri, finalmente, si addormentò. Fu a quel punto che Sara si alzò, diede un bacio sulla fronte a Nyssa e raggiunse la sorella per vedere come stava.
«Va tutto bene?» domandò Laurel quando vide Sara sulla soglia della stanza.
«Stavo per farti la stessa domanda» rispose la bionda, poggiando i gomiti sul bancone della cucina. «Come hai dormito?»
«Bene» esordì l’altra. «Almeno fino a quando non siete piombate in casa mia nel cuore della notte entrando dalla finestra.»
Sara sorrise lievemente, cercando di nascondere il ricordo della paura che aveva provato la notte precedente.
«Scherzo» proseguì la maggiore delle sorelle Lance, avvicinandosi alla sorella di qualche passo. «Ora devo andare al lavoro, ma voi fate come se foste a casa vostra. È stata una lunga notte, perciò potete restare qui finché volete.»
«Grazie, Laurel.»
L’avvocato le dedicò un sorriso dolce. «Di niente. Magari prima passo in centrale a vedere come sta papà. E se noto qualcosa di strano te lo faccio sapere immediatamente.» Quando Sara si limitò ad annuire, Laurel riprese la parola. «Sicura che sia tutto a posto?»
Canary sospirò pesantemente. «Non lo so. Ho la testa piena di pensieri. E non ho idea di come fare per svuotarla.»
«Inizia chiamando Sin per assicurarti che abbia ricevuto il tuo messaggio e che questa mattina non torni a casa vostra, okay?» Laurel le mise entrambe le mani sulle spalle, accarezzandogliele leggermente. «Dopodiché, chiedi a Oliver di venire qui, così tu e Nyssa potrete riposare un po’. Oppure tornate a casa vostra, se preferite. Ma chiunque sia stato a pedinarvi, non credo si farà vivo molto presto, perciò potete stare tranquille.»
«Come fai ad esserne certa?»
«È una sensazione» rivelò, afferrando la propria valigetta da terra. «Devi solo tranquillizzarti. So che è una situazione difficile, ma la paura e l’ansia non miglioreranno le cose.»
Quando Laurel uscì e chiuse la porta, Sara si chiese come fosse possibile che sua sorella fosse così tranquilla in una situazione del genere. Non sapeva che in realtà quella di Laurel era una semplice maschera che sarebbe crollata prima di quanto pensasse.



Sara tornò a letto poco dopo, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare Nyssa. In realtà, sapeva benissimo che l’Erede era sveglia, ma in cuor suo sperava che fosse finalmente riuscita a dormire per più di dieci minuti.
Quando si sdraiò, ebbe fin da subito la sensazione di essere fissata dai suoi grandi occhi nocciola, così si lasciò andare ad un sospiro leggero.
«Davvero? Neanche cinque minuti?»
«In realtà ho dormito per ben trenta secondi, amore mio» sottolineò l’altra. «Mi sono svegliata non appena hai raggiunto Laurel.»
«Beh, sai come la penso. Se non dormiamo un po’ sarà solo peggio.»
«E tu sai benissimo che potrei trascorrere tranquillamente una settimana insonne senza dare di matto.»
Era vero, ma Sara sapeva anche che questa volta Nyssa sarebbe potuta impazzire prima del previsto.
«Potrebbe non trattarsi della Lega» la tranquillizzò Sara, intrecciando teneramente la sua mano con la propria. «Potrebbe trattarsi di qualcun altro.»
«Chi altro potrebbe volerci fare del male?»
«Per ora se la sono presa con te, non con me» puntualizzò la bionda. «E poi, potrebbe letteralmente essere chiunque. Abbiamo partecipato a molte missioni insieme al Team nelle ultime settimane, e tu non indossi mai la maschera. Hai mai pensato che qualcuno avrebbe potuto riconoscerti? Magari è proprio così, magari qualcuno vuole solo vendicarsi perché gli hai mandato il fratello o il capobanda in prigione. Non dobbiamo trarre conclusioni affrettate.»
Senza aggiungere altro, Nyssa si voltò dall’altro lato del letto, lasciando andare la mano di Sara e dandole le spalle.
«Te l’ho detto, Sara» proseguì, col cuore in gola. «Prima o poi arriveranno. Non importa quando, non importa come, ma arriveranno. E a quel punto non ci sarà più niente da fare.»

*

Passò una settimana da quel giorno. Nyssa non volle più parlare di quanto accaduto e Sara la assecondò. Decise anche di mentire a Sin per non farla preoccupare, dicendole che si era trattato di un semplice tentativo di furto e che avevano preferito tenerla lontana dai guai, anche se era stato un falso allarme. La ragazzina non se l’era di certo bevuta, ma per non creare problemi finse di credere alle parole di Sara.
Ora, quest’ultima si trovava seduta al bancone del Mystery Cafè, intenta a osservare Nyssa mentre serviva un cliente dopo l’altro con un sorriso raggiante stampato sul volto. Ripensando alla conversazione che avevano avuto a casa di Laurel la settimana precedente, Sara si rese conto di non aver mai visto Nyssa così scoraggiata prima d’ora. Quando le aveva detto quelle parole, era come se una parte di lei si fosse arresa all’idea di avere una vita normale. Sara aveva cercato di far trasparire il meno possibile l’angoscia che provava al solo pensiero di dover tornare alla Lega, ma anche Nyssa si stava difendendo bene. Nonostante quello che le era capitato, era riuscita a creare una maschera impenetrabile, che si rafforzava maggiormente ogni volta che si trovava fuori casa. Forse da un lato era meglio così, pensò Sara. Almeno lei aveva trovato un modo per distrarsi.
Dopo non molto, la mora si avvicinò a lei, porgendole un succo di frutta alla fragola.
Sara alzò lo sguardo nella sua direzione, colta alla sprovvista. «Quanto costa?»
«Offre la casa» scherzò Nyssa, facendole un occhiolino. Subito dopo, però, si ritrovò a dover sospirare. La tensione tra loro era ancora palpabile.
«Sembra buono» commentò Sara, rigirandosi la cannuccia tra le mani.
Nyssa annuì col capo, battendo lievemente il pugno chiuso sul bancone un paio di volte. «Allora… come ti senti?»
«Bene. Anche se ogni tanto il piccolo si fa sentire. Scalcia di continuo.»
Sentendo quelle parole, la figlia di Ra’s al Ghul sorrise ancora. Poi si pulì le mani con uno strofinaccio e puntò i suoi occhi in quelli di Sara. «Devo parlarti di una cosa.»
La bionda prese un respiro profondo, nervosa. «Ti ascolto.»
Prima di prendere nuovamente la parola, Nyssa si guardò intorno per qualche istante, dopodiché si sporse leggermente verso l’amata. «Ieri sera è successa una cosa mentre tornavo a casa dal lavoro.» Fece una pausa, aspettando che un cliente le superasse per dirigersi verso i servizi. «Scusa se non te l’ho detto prima, ma ho avuto paura.»
«Non importa» sussurrò Sara, col cuore in gola. Aveva un brutto presentimento, ma pregò fino all’ultimo che si stesse sbagliando.
Dallo sguardo di Nyssa, però, capì di aver fatto centro. Ed era quella la cosa più spaventosa.
«Mi hanno seguita. Di nuovo.»
Sara trattenne il respiro. «Ne sei sicura?»
«Sì.» Quando si accorse di aver alzato troppo la voce, Nyssa si avvicinò ancora di più a Sara. «Credo che fosse una donna questa volta. Ma non si è avvicinata troppo, è rimasta nel raggio di ottanta, forse settanta metri. O un po’ meno» sussurrò, sotto lo sguardo accusatorio di Sara. «Non te l’ho detto perché era tardi e stavi già dormendo. Non volevo farti preoccupare.»
«Non importa che ora fosse, Nys. Dovevi dirmelo.»
«Lo so.»
Sara ridusse gli occhi a due fessure. «Non hai dormito nemmeno questa notte, vero?»
«Come avrei potuto?» esclamò l’altra con un sorriso amaro.
La bionda inspirò a fondo, sentendo il proprio cuore contorcersi sempre di più. Anche lei era preoccupata, ma vedere Nyssa in quello stato non faceva altro se non alimentare le sue paure. E non voleva che la donna che amava cadesse nell’oblio a causa sua.
Sara fu costretta a riemergere dai propri pensieri quando un forte fischio si frappose tra lei e Nyssa.
«Però, dall’ultima volta che ti ho vista è cresciuto un sacco!»
Canary ci mise qualche istante per capire a cosa si stesse riferendo Josh, ma subito dopo si portò una mano sul ventre tondo e sorrise. «Si nota così tanto?»
«Giusto un pochino» ammise, rivolgendo un sorriso prima a lei e poi a Nyssa. «Allora, di quante settimane è grande il piccolo? Ormai il traguardo dovrebbe essere vicino.»
«Domani sono sei mesi» affermò la bionda, con una luce gioiosa negli occhi.
«Wow, allora è importante festeggiare questa tappa. Fortuna che domani è il suo giorno di riposo» rise, indicando l’Erede del Demonio col pollice.
Sara corrugò la fronte, stupita. «Ah sì? Non me l’avevi detto.»
«Volevo che fosse una sorpresa» ammise la mora, che nel frattempo si era voltata per preparare un caffè a Josh. «Soprattutto considerando il fatto che domani è un giorno speciale anche per un altro motivo.»
Quelle parole riuscirono a mozzare completamente il fiato di Sara. Quella settimana era stata così intensa che si era completamente dimenticata della ricorrenza imminente.
«Di che si tratta?» domandò l’uomo incuriosito.
«L’8 Ottobre è…»
«…il giorno in cui ci siamo conosciute» concluse Sara per lei.
Nyssa le dedicò un sorriso dolce, seguito da un cenno col capo. «Era il 2008. Perciò domani saranno passati sei anni dal nostro primo incontro.»
Nel notare lo scambio di sguardi tra le due donne, Josh iniziò a sentirsi in imbarazzo. «Sono molto felice per voi, ragazze. Ma credo che io e Nyssa dobbiamo tornare al lavoro» spiegò, subito dopo essersi schiarito la voce.
La figlia di Ra’s si rese conto solo in quel momento della mandria di adolescenti che era entrata nel negozio, perciò sospirò. «Ci vediamo più tardi» sussurrò, dando un bacio sulle labbra a Sara.
«Okay» si limitò a rispondere la bionda, le gote ancora arrossate all’idea che Nyssa volesse festeggiare l’anniversario del loro primo incontro.
Prese qualche respiro profondo, dopodiché afferrò la borsa, lanciò un’ultima occhiata alla sua amata e si diresse verso l’uscita del locale. La giornata era iniziata nel migliore dei modi, e probabilmente avrebbe continuato ad essere un pomeriggio tranquillo se subito dopo non avesse ricevuto quella telefonata.



«È aperto!»
Sara sbuffò, sentendo la rabbia ribollirle nelle vene. Non trarre conclusioni affrettate, pensò subito dopo, perciò si richiuse la porta alle spalle e camminò fino al salotto dell’appartamento.
«Ciao, sorellina» la salutò Laurel, dedicandole un sorriso. «Sei arrivata prima del previsto» continuò, riferendosi al messaggio che Sara le aveva inviato poco più di dieci minuti prima dicendole che sarebbe passata a salutarla.
Quando Sara era uscita dal Mystery Cafè e aveva ricevuto la telefonata di Quentin, aveva subito capito che qualcosa non andava. A quanto pare, Laurel non si era presentata al lavoro per tre giorni di fila senza dare alcuna spiegazione, e la segretaria del procuratore distrettuale si era messa in contatto col padre  per avere sue notizie. Il capitano, non sapendo nulla di tutta quella storia, si era ritrovato a dover mentire dicendo che la figlia aveva la febbre, ma subito dopo aveva chiamato Sara per chiederle di controllare cosa fosse successo a sua sorella.
E ora, Sara non era sicura che sarebbe riuscita a mantenere il controllo a lungo.
«Non c’erano taxi, perciò ho risparmiato tempo venendo a piedi.»
«Ah, giusto. È un peccato che non abbiate una macchina, sarebbe molto più comodo per entrambe. Però ogni tanto posso prestarvi la mia, se ti va.»
«Stai tranquilla, Laurel. Ora vorrei parlati di un’altra cosa.»
«Si tratta del bambino?» domandò, con una strana luce negli occhi. «Oh mio Dio, ma guardati. La pancia ti è cresciuta così in fretta! Prima non sembravi neanche lontanamente incinta, e poi boom!, tutto a un tratto è come se si fosse gonfiato un palloncino. Senza offesa, ovviamente. Avete già scelto un nome?»
«No» sospirò la bionda. «In realtà, io vorrei…»
«No? Come no? Manca pochissimo alla scadenza!»
«Laurel, adesso piantala!» sbottò Sara, usando tutta la voce che aveva in corpo.
La maggiore si pietrificò, guardando la sorella con un’infinita confusione negli occhi. Subito dopo, Sara sbuffò e spense la tv con il telecomando.
«Ehi!»
«Non dirmi ehi! Ti rendi conto di quello che stai facendo? Stai mandando a rotoli la tua vita, Laurel! Credi davvero che passare i pomeriggi a guardare la tv e mangiare patatine al formaggio come se nulla fosse sia la cosa migliore da fare? Beh, indovina un po’? Non è così. E tu dovresti saperlo meglio di me.»
Laurel, visibilmente scossa, prese qualche respiro profondo prima di rispondere. «Perché mi stai parlando in questo modo?»
«Perché papà mi ha chiamata e mi ha detto che non ti sei presentata al lavoro per tre giorni. Cazzo, Laurel, hai quasi trent’anni! Non sei più una ragazzina, non dovresti più avere bisogno di qualcuno che ti ricordi che devi andare a scuola!»
«Già, infatti non capisco perché proprio tu mi stia facendo la ramanzina» la canzonò la castana.
«Perché papà sta lavorando, ma era preoccupato per te. E se lui fosse qui, probabilmente ti urlerebbe contro più di quanto lo stia facendo io, perciò ringrazia che non sia stato lui il primo a bussare alla tua porta.»
Laurel deglutì, portandosi le ginocchia al petto. «E comunque io non ho mai saltato un giorno di scuola. Quella di solito eri tu» sussurrò, ma nonostante ciò Sara capì benissimo le sue parole.
«Lo so. Infatti non riesco a capire perché tu ti stia comportando in questo modo.»
A quelle parole, Laurel alzò la testa di scatto. «Proprio non ci arrivi, non è vero?» esclamò, l’ira ben evidente nei suoi occhi. «Certo che no, come potresti? Tu non hai perso l’amore della tua vita. Hai ancora Nyssa al tuo fianco, e chissà per quanti anni ancora resterete insieme. Tu non sai cosa significhi perdere la persona più importante che hai.»
«Laurel, io ho perso tutto.»
A quelle parole, la maggiore delle due sorelle non osò obiettare. Sapeva quanto difficile e doloroso fosse parlare dei sei anni in cui era stata via, ma sapeva anche che Sara non le avrebbe detto nulla al riguardo. O almeno non questa volta.
«Non posso dire di sapere cosa tu stia passando in questo momento. Quando Tommy è morto ti sei messa a bere, e lo capisco. Era l’unico modo che avevi per affievolire il dolore. Ma poi le cose sono cambiate, hai iniziato a frequentare gli incontri e hai ottenuto il lavoro che hai sempre voluto nell’ufficio del procuratore. Non puoi mollare proprio adesso.»
Laurel deglutì lievemente. «Sara, qual è il vero motivo per cui sei qui?»
La bionda sospirò, passandosi una mano tra i capelli. «Papà aveva paura che ti fossi rimessa a bere.» Laurel assunse un’espressione stupita. «E anche io» proseguì Sara.
«Come avete anche solo potuto pensare che…»
«Laurel, andiamo» la interruppe la sorella, facendo oscillare la borsa. «Sappiamo che può capitare. Eravamo solo in pensiero per te.»
L’avvocato aveva trattenuto le lacrime fin troppo a lungo. Ora aveva il viso paonazzo e gli occhi lucidi, ma non le importava. Desiderava solo che Sara se ne andasse per poter piangere in silenzio.
«Beh, non devi essere in pena per me. Tu stai per avere un bambino. Un meraviglioso, splendido bambino. E sarai una fantastica madre. Non avrai tempo per preoccuparti di me una volta che sarà nato.»
«Laurel… io mi preoccuperò sempre per te. Sei mia sorella.»
«Non è sempre stato così.»
Sara colse al volo l’allusione al suo passato con Oliver. Era una cosa che Laurel non avrebbe mai dimenticato,e di cui Sara non si sarebbe mai perdonata. Ma riportare a galla l’argomento adesso, dopo tutti gli anni che erano passati… forse non era un bene. Per nessuna delle due.
Dopo non molto, Canary sospirò rumorosamente. Andò a sedersi di fronte a Laurel, strinse le labbra in una smorfia e unì le mani davanti al viso.
«Senti, io voglio che mio figlio diventi come te. Ho sempre voluto avere dei bambini uguali a te.»
Quelle parole non fecero altro se non confondere ulteriormente la povera Laurel. «Sara… ma che cosa stai dicendo?»
«Sto dicendo che sei sempre stata tu quella intelligente e responsabile delle due. Non hai mai marinato la scuola, non hai mai preso un voto inferiore a una B+, e hai sempre rispettato il coprifuoco, anche dopo aver raggiunto la maggiore età.»
«Beh, quasi sempre» puntualizzò l’altra, accennando un lieve sorriso.
«Voglio che mio figlio prenda esempio da te, non da me. Non deve diventare come me. Ma non voglio nemmeno che sia tu a insegnargli il significato dell’amore, perché altrimenti crederebbe che si tratti di una cosa orribile. So che è doloroso da sentire, ma se il mio bambino crescerà con una zia alcolizzata e depressa, non sarà un bene per nessuno.»
Laurel non si sentì offesa da quelle parole, anzi, comprese perfettamente il punto di vista della sorella. «Sara, tu puoi farcela benissimo da sola. Se non vuoi che tuo figlio diventi come te per le cose che ti sono capitate quando eri nella Lega degli Assassini, beh… allora non ti devi preoccupare. Sei cambiata. Più di quanto tu possa immaginare.»
«Ti sbagli, Laurel. Ti sbagli di grosso.»
«Di certo non mi sbaglio nel dire che non ti servo io per crescere questo bambino. Non hai più bisogno di me da un sacco di tempo ormai.»
«Non è vero. Non posso farcela senza di te.»
Soltanto ora la castana si rese conto che anche Sara aveva iniziato a piangere in silenzio. Vederla in quello stato la fece sentire in colpa, ma sapeva anche che quella conversazione prima o poi sarebbe comunque arrivata. La maggiore delle due prese un respiro profondo, dopodiché si sporse in direzione di Sara e la abbracciò con tutte le sue forze.
«Sono spaventata a morte» sussurrò Canary, mentre Laurel le accarezzava dolcemente la schiena.
«Lo so. Ma io ci sarò ogni volta che vorrai» la rassicurò l’altra, tirando su col naso. «Ora però basta litigare. Non fa bene al tuo bambino.»
A Sara scappò una piccola risata, e Laurel ne fu subito contagiata. Avrebbero litigato per il resto della loro vita, ma avrebbero sempre sostenuto l’altra in qualsiasi situazione.
In fondo, erano sorelle.



«È stata una delle giornate più piene di sempre» sospirò Josh, mentre chiudeva a chiave la porta del locale.
«Già. E non ci hanno dato tregua fino all’ultimo secondo.»
«Sarà perché tutti sono attratti dalla nostra barista.»
Nyssa accettò il complimento con un sorriso, che Josh ricambiò all’istante. «Facciamo un po’ di strada insieme?» propose lei.
Il ragazzo sembro pensarci su per una manciata di secondi. «Ma sì, dai. Tanto ho la macchina parcheggiata in fondo a questa strada.»
Ormai era passato più di un mese da quando i due avevano avuto quella fatidica conversazione. Era stato strano per entrambi. Josh si era dichiarato per la prima volta in vita sua ad una ragazza, e Nyssa aveva ammesso ad alta voce che non le piacevano gli uomini. C’era voluto un po’ prima che la tensione si alleggerisse, ma ora erano diventati buoni amici oltre che colleghi.
«Allora, hai intenzione di portare Sara a mangiare fuori domani sera?»
«No, sarebbe uno spreco di tempo. Da quando è entrata nel quinto mese non riesce a stare in piedi dopo i pasti, perciò ci capita anche di cenare sul divano.»
Lui annuì, per poi lasciarsi andare ad un lungo sospiro. Nyssa attese qualche istante prima di chiedergli cosa non andasse.
«È che a volte mi chiedo se troverò mai la donna giusta per me» ammise lui, stringendosi nelle spalle. «Avrei tanto voluto diventare padre.»
«C’è ancora tempo, sai? Quando ho conosciuto Sara non ero in cerca di una relazione, eppure siamo finite insieme.»
«Già, ma voi eravate delle ragazzine all’epoca, mentre io ho appena compiuto trent’anni. A questo punto, non so se riuscirò mai a costruirmi una famiglia.»
Nyssa inspirò profondamente. «Se ti può consolare, per più di vent’anni ho pensato che una famiglia non ce l’avrei mai avuta.»
«È a causa del tuo passato?»
Lei annuì. Non aveva mai rivelato a Josh le sue vere radici, ma recentemente gli aveva fatto intendere che in realtà non era né nata né cresciuta in America. «Le cose sono cambiate soltanto dopo Sara.»
Sul volto del moro andò a formarsi un lieve sorriso. «Già. Dev’essere bello avere qualcuno al proprio fianco che illumini ogni giornata tempestosa.»
Nyssa non poté replicare in alcun modo, perché quello che accadde subito dopo non le diede nemmeno il tempo di riflettere. Tre uomini con il passamontagna si avventarono su di lei armati di coltelli, e l’unica cosa che la donna riuscì a fare fu prepararsi allo scontro.
Uno di loro tentò di colpirla in pieno viso, ma Nyssa fu più veloce: si lanciò a terra e con un calcio colpì le gambe dell’uomo, facendogli perdere l’equilibrio. Nel frattempo, il secondo individuo le tirò un pugno, che la mora parò appena in tempo, dopodiché gli afferrò il polso e lo fece ruotare con rapidità, rompendogli la mano. Poi si voltò nuovamente in direzione del primo uomo e gli diede un calcio in faccia talmente potente da fargli perdere i sensi. Ne approfittò per rubargli il coltello e prepararsi a fronteggiare gli altri due uomini.
Il terzo di loro fece finalmente la sua mossa, correndo in direzione di Nyssa con il proprio coltello puntato verso di lei. La donna, tuttavia, anticipò la sua mossa e si scansò di lato, avvicinandosi nuovamente al secondo uomo. Quando fu certa che a dividerli fossero solo pochi centimetri, affondò l’arma nel suo stomaco quanto bastava per metterlo fuori gioco. Ma ora doveva vedersela con l’ultimo assalitore.
Questi si avventò su di lei senza nemmeno darle il tempo di reagire, stringendole il collo con entrambe le braccia.
«Direi che abbiamo giocato abbastanza» sussurrò lui, in un’inglese perfetto. «Ma adesso ascolterai quello che ho da dirti.»
La figlia di Ra’s iniziò a dimenarsi a più non posso, ma non riuscì comunque a liberarsi. La presa dell’uomo era troppo stretta.
«È inutile che ti agiti. Tanto non ti lascerò andare fino a quando non arriveranno i rinforzi.»
«Rinforzi?» sibilò lei, respirando a fatica. «Quanti siete?»
Lui sorrise leggermente. «Siamo centinaia.»
Quella frase le provocò un brivido, ma Nyssa non ebbe il tempo di replicare. Subito dopo fu attratta da un rumore sordo, seguito da quello di una caduta. Fu allora che si accorse di essere libera.
Si voltò, incontrando lo sguardo terrorizzato di Josh. Nonostante se ne fosse rimasto in disparte per tutto il combattimento, ora stava tenendo tra le mani un tubo di metallo arrugginito e macchiato di sangue.
«Non sarà ai livelli di quello che sai fare tu, ma almeno l’ho colpito.»
Nyssa espirò profondamente, facendo un cenno col capo al ragazzo. Ma i guai non si erano ancora conclusi.
«Non finisce qui» bofonchiò l’uomo sotto di lei, mentre si metteva malamente in ginocchio.
«Voglio sapere chi ti ha mandato e perché» sbottò lei, stringendo più forte che poté il coltello che aveva in mano. «Potevi uccidermi, ma non l’hai fatto. Significa che chi mi cerca mi vuole viva.»
L’aggressore, con ancora indosso il passamontagna, si lasciò andare ad una lunga e amara risata, che non fece altro se non accrescere l’ira provata da Nyssa.
«Morirai comunque. È questo il tuo destino, Nyssa al Ghul. E non potrai fare niente per sfuggirgli.»
«Ti consiglio di chiudere quella bocca prima che sia troppo tardi. Non hai idea di cosa è capace la mia amica» lo sfidò Josh.
Dopo qualche istante, la pazienza di Nyssa si esaurì. Si avvicinò all’uomo e gli scoprì il volto, rivelando la sua identità.
«Io ti conosco» sussurrò lei, indietreggiando di qualche passo. «Tu sei…»
Lo osservò ancora per qualche secondo per essere certa che si trattasse realmente di lui. Ma la sua memoria non le mentiva nemmeno questa volta.
«Sei quel bastardo che stava per aggredirmi al Slàinte[1]
«Felice di essere rimasto nei tuoi ricordi, dolcezza.»
L’Erede del Demonio strinse i pugni e la mascella contemporaneamente. «Ti chiami Kurt, non è così?»
«Kurt, Alan, Walden. La mia identità cambia di continuo.»
«Ti consiglio di dirmi subito chi ti ha mandato. Altrimenti, sarò costretta a farti parlare con le cattive maniere.»
«Mi dispiace moltissimo, ma purtroppo non mi è consentito rivelarti la sua identità. Ma non ti preoccupare» soffiò, guardandola dritto negli occhi. «Lo scoprirai molto presto.»
Quello che accadde subito dopo, è qualcosa che Nyssa non avrebbe mai potuto prevedere. Ma in quella frazione di secondo, fu come se il monto si fosse rovesciato.



Felicity aveva capito che c’era qualcosa che non andava quando, grazie alle telecamere, aveva visto Nyssa entrare al Verdant di corsa. Le sue teorie furono confermate non appena la vide scendere le scale del Covo con un ragazzo privo di sensi sulle spalle.
«Oh mio Dio» esclamò Sara quando la vide.
«Cos’è successo?» domandò Oliver, fiondandosi su di lei per aiutarla a trascinare il corpo fino al tavolo di vetro.
«Siamo stati attaccati da tre uomini» spiegò, col fiato corto. «Uno di loro stava per pugnalarmi, ma Josh si è preso il coltello nello stomaco al posto mio. Dobbiamo salvarlo.»
«Sei riuscita a vederli in faccia?» chiese Diggle, mentre l’ex miliardario strappava la camicia di Josh, rivelando il suo addome pieno di sangue.
«Mi servono una sacca di sangue, un anestetico e una flebo! Nyssa, fai pressione qui» esclamò Arrow, indicando la zona occupata dal taglio profondo.
Roy lo guardò confuso. «Non sappiamo nemmeno qual è il suo gruppo sanguigno.»
«Non ha importanza. Quello di Oliver è zero negativo, perciò può essere usato con chiunque» spiegò Felicity, mentre porgeva l’occorrente al vigilante.
«Comunque sì, ho visto in faccia tutti e tre» disse Nyssa, rispondendo alla domanda di John. «E li ho riconosciuti. Credo mi stessero tenendo d’occhio già da un po’.»
«Di chi si tratta?»
La mora si voltò verso Sara. «I tre ragazzi che mi hanno avvicinata quando ero in prova all’Irish Pub. Quelli che hai quasi ammazzato. Probabilmente, già allora sapevano benissimo chi ero.»
«Figli di puttana» borbottò Canary a denti stretti.
«Sta’ tranquilla, ci ho pensato io a concludere il lavoro.»
«Non sapevo avessi lavorato in un Irish Pub» commentò Felicity.
Sara rispose al posto dell’amata. «È stato solo per un po’. Dove sono i corpi?»
«Li ho nascosti in un cassonetto tra la Quinta e la Washington. Davo per scontato che sarei tornata a riprenderli più tardi, ma adesso la mia priorità è un’altra.»
«Già, infatti. Ho bisogno che Nyssa mi aiuti a fermare l’emorragia. John, Roy, andate a recuperare quei cadaveri e portateli qui» ordinò Oliver, infilandosi un paio di guanti.
«Vado con loro» affermò Sara, dirigendosi verso il gruppetto che stava già salendo le scale. Si bloccò di fronte allo sguardo supplichevole di Nyssa, ma si affrettò a rassicurarla con un sorriso. «Tranquilla. Non mi metterò nei guai. Voi pensate a salvare Josh.»
L’Erede annuì, rivolgendo a sua volta un sorriso all’unica persona che in ogni situazione riusciva a darle speranza.



John, Sara e Roy fecero ritorno al Covo quasi un’ora dopo, ma non a mani vuote.
«Li abbiamo messi dentro a un congelatore[2]» spiegò Sara, riferendosi ai corpi degli assalitori. «Lui come sta?» domandò, proprio mentre Nyssa finiva di cucire la ferita sul ventre di Josh.
«Stabile. Si riprenderà» rispose Oliver, passandosi una mano sulla fronte sudata.
«Ora è fuori pericolo» aggiunse Nyssa, tagliando il filo con un paio di forbici. «Adesso non ci resta altro che aspettare che l’anestesia finisca di fare il suo effetto e che Josh si svegli.»
Solo allora la figlia di Ra’s poté concedersi di trarre un sospiro di sollievo. Nonostante Josh fosse stato ferito, aveva vinto lei anche questa volta. Ma non era certa che sarebbe stata così fortunata anche quella successiva.
«Questa storia deve finire» sbottò all’improvviso, attirando l’attenzione dei presenti. «Sono stanca di non avere certezze. Voglio sapere chi mi sta cercando, e voglio esserne sicura al cento per cento.»
Tutti sapevano che la risposta poteva essere una sola, ma finché non avessero trovato delle prove, non ci avrebbero creduto fino in fondo.
Dopo qualche momento di silenzio, Dig fece un passo avanti. «Forse conosco qualcuno che può darci una mano.»



Quando misero piede nel quartier generale dell’A.R.G.U.S., sapevano che nessuno di loro sarebbe stato accolto nei migliori dei modi, ma di certo non si sarebbero aspettati di essere scortati all’interno dell’edificio con un fucile puntato alla testa. Le guardie si allontanarono da loro soltanto quando giunsero in una stanza piena di computer e di agenti dell’organizzazione, tra cui il loro capo.
«Ma guarda un po’ chi si rivede.»
John alzò il capo in direzione della donna che aveva aperto bocca, fulminandola con lo sguardo.
«Signor Diggle» esordì Amanda Waller, avvicinandosi a lui di qualche passo. «A cosa devo il piacere della sua visita? Anzi, no, mi lasci indovinare. C’entrano le sue amiche, per caso?»
La donna squadrò da capo a piedi prima Sara, poi Nyssa, soffermandosi in particolare su quest’ultima. «Signorina Lance. Signorina al Ghul. Forse dimenticate di non essere le benvenute qui.»
«Il piacere di rivederla è tutto mio» ironizzò Sara, infilandosi le mani in tasca.
«Mi chiami Raatko, direttrice Waller. Gliene sarei grata» rispose bruscamente Nyssa, fulminandola con lo sguardo.
«Io non vi devo nulla.»
«Ne è sicura?»
Amanda si voltò in direzione di Sara abbozzando un sorriso. «Ne sono più che sicura. E mi creda, signorina Lance, questo è l’ultimo posto al mondo in cui è tollerata la sua spavalderia.»
«Loro non fanno più parte della Lega degli Assassini» spiegò Dig, inserendosi nella conversazione. «So che tra voi non scorre buon sangue, ma se ne sono andate di loro spontanea volontà. Questo dovrebbe cambiare le cose.»
«Si sbaglia, signor Diggle. Il passato è passato, questo è vero, ma io sono una che non dimentica facilmente.» La donna posò il proprio sguardo sul pancione di Sara. «A proposito, signorina Lance. Noto con grande piacere che anche lei è in dolce attesa come l’agente Michaels. Il padre è Oliver Queen, per caso?»
Nyssa si frappose tra lei e Sara nel giro di un secondo, l’ira ben visibile nel riflesso dei suoi occhi.
«Le consiglio di ascoltarmi attentamente, perché non lo ripeterò una seconda volta» affermò in modo brusco, puntando il proprio sguardo in quello della Waller. «Recentemente, sono stata attaccata diverse volte da uomini ben addestrati e con un compito ben preciso, e sono piuttosto certa che voi sapete benissimo di chi si tratti.»
«Il mondo è pieno di persone che vorrebbero ucciderla, signorina al Ghul.»
«Mi faccia finire» sibilò la mora, coi pugni serrati. «Non sarò più in buoni rapporti con mio padre, ma resto sempre l’unica erede degna di diventare la nuova Testa del Demonio. Mi basterebbero una manciata di secondi per scatenare una guerra con la sua organizzazione, e sa benissimo che potrei far arrivare la metà dei miei uomini qui entro l’alba. E lei non vuole che si scateni una guerra con l’A.R.G.U.S., non è così?»
Amanda prese un respiro profondo. «Se ha davvero così tante risorse, perché non le sfrutta a dovere per scoprire chi ce l’ha con lei?»
«Ne ho abbastanza di questi giochetti» sbottò Sara, frapponendosi tra Nyssa e la Waller. «Queste persone hanno attaccato Nyssa alla luce del sole e in questo modo sono stati feriti anche dei civili. E se voi non ci date una mano a scoprire di chi si tratta, noi non riusciremo mai a fermarli e altre persone potrebbero finire all’ospedale.»
«Qui si tratta di una richiesta pacifica, Amanda» lo pregò John. «Se siamo qui è perché non sappiamo a chi altri rivolgerci.»
Per la prima volta in vita sua, Amanda Waller prese una decisione che avrebbe cambiato ogni cosa. E Sara si rese conto che, probabilmente, anche Amanda indossava una maschera di odio e crudeltà che, per la prima volta in vita sua, stava rimuovendo dalla propria pelle in quel momento per aiutare lei e Nyssa



Mentre uno dei tecnici informatici dell’A.R.G.U.S. digitava freneticamente dei codici sulla tastiera di un computer, Nyssa non poteva fare a meno di guardarlo torturandosi le unghie delle mani.
«Ehi» la richiamò Sara dopo poco, allontanandole il polso dalle labbra. «Che succede?»
«Sono solo un po’ preoccupata» ammise lei con un sospiro. «Per Josh.»
«Starà bene» la rassicurò la bionda, guardandola dritto negli occhi. «Ormai il peggio l’ha superato.»
«Lo so. Ma non riesco a fare a meno di pensare che se questi bastardi mi avessero seguita un altro giorno, probabilmente lui non si sarebbe fatto nulla.»
Sara le accarezzò delicatamente una guancia, riservandole uno sguardo triste. «Nyssa… loro sono dappertutto.»
Era vero. Quelle persone erano ovunque intorno a loro, e anche se non fossero stati mandati dalla Lega degli Assassini, si trattava comunque di mercenari ben addestrati inviati da qualcuno che le stava cercando.
Sara era ancora convinta che non si trattasse di Ra’s per svariate ragioni.
Innanzitutto, non c’era motivo per cui le avrebbe dovute attaccare. Anche se erano passati più di tre mesi da quella conversazione, Nyssa aveva detto al padre che avrebbe liberato Sara dalla setta e che sarebbe tornata a Nanda Parbat molto presto. Il massimo che avrebbe potuto fare sarebbe stato mandare qualcuno a controllare dove fosse e riportarla a casa.
In secondo luogo, gli uomini che avevano attaccato l’Erede non si erano mai presentati con indosso gli abiti della Lega, né tantomeno avevano utilizzato le loro tecniche di combattimento. Se ne sarebbe accorta fin dalla prima mossa.
Ma a Nyssa non importava chi ce l’avesse con lei, voleva semplicemente che tutta quella storia finisse. E sapeva che dopo quel favore, lei ne avrebbe dovuto uno molto, molto più grande all’A.R.G.U.S.
«Come vi ho già anticipato, abbiamo una pista.»
«Grazie per la prefazione» scherzò Sara, avvicinandosi alla Waller. «Ma perché ci ha fatto aspettare così tanto?»
Sul volto di Amanda si andò a formare un lieve sorriso. «Perché è compito dell’agente Michaels spiegarvi cosa sta succedendo.»
Lyla fece il suo ingresso nella stanza proprio in quel momento, provocando uno sguardo confuso sul volto di Diggle. «Cosa diamine sta succedendo qui?»
«John, calmati. Fra poco capirete ogni cosa.»
Sara prese un respiro profondo, scambiandosi una lunga e intensa occhiata con Lyla. Era la prima volta che si incontravano dopo il suo arrivo a Starling City, e il fatto che fossero entrambe incinta la metteva un po’ a disagio.
«Gli uomini che avete ucciso questa sera» esordì Lyla, lanciando una rapida occhiata a Nyssa «si chiamavano Kurt Wright, Chun Zhou e Amir Ousmane. O almeno, questa è l’ultima identità che hanno assunto prima di morire. Per noi, sono semplicemente gli “Avvoltoi”.»
Su un grande schermo comparvero le foto degli ultimi aggressori che Nyssa aveva dovuto fronteggiare.
«Sono tutti e tre degli ex militari che si sono congedati nel 2009 in quanto assoldati da un’organizzazione terroristica iraniana. Da allora non sono mai più tornati in America.»
«Fino a tre mesi fa» aggiunse Amanda, mostrando un’immagine che ritraeva i tre uomini seduti su una panchina in un parco della città. «Si sono mescolati tra la popolazione senza destare sospetti. Li abbiamo tenuti d’occhio a lungo, chiedendoci se stessero organizzando un attacco diretto alla città, ma poi abbiamo notato una cosa che ci ha fatti subito tranquillizzare.»
Nyssa attese qualche secondo prima di porre quella domanda. «A cosa si riferisce?»
La Waller lanciò un’occhiata a Lyla, la quale congiunse le mani in grembo. «Pochi giorni dopo il vostro arrivo a Starling, una nostra fonte ha avvistato Wright, Ousmane e Zhou in compagnia di un quarto uomo.» Si schiarì la voce, cliccando un pulsante che fece comparire l’ultima fotografia. «È stata scattata quella notte. E si può vedere chiaramente che la persona con cui stanno parlando è Maseo Yamashiro. Nientemeno che il braccio destro di Ra’s al Ghul.»
«Aspetta un secondo» sbottò Dig, puntando il dito contro la fidanzata. «Tu lo sapevi e non mi hai detto nulla?»
«Johnny, ascolta…»
«Non mi sembra il caso di dare sfogo ad una lite coniugale proprio qui, agente Michaels» l’ammonì la direttrice in tono severo. «E soprattutto, non adesso.»
Sara deglutì rumorosamente. «Avete idea di quale sia il coinvolgimento di Maseo in tutto questo?»
«Lo abbiamo capito quasi subito, in realtà. Soprattutto dopo aver intuito che voi due non sapevate nemmeno chi fossero quei tre uomini.»
«Ti riferisci a quello che è successo al Slàinte, giusto?»
Lyla si voltò verso Nyssa, annuendo. «Quel giorno, subito dopo aver inscenato quella lite con voi al pub, si sono incontrati con Maseo in un vicolo lì vicino, dal quale hanno ricevuto una consistente somma di denaro.» La donna fece una pausa, prendendo un respiro profondo. «Da allora, abbiamo perso le tracce del signor Yamashiro, ma non quelle degli Avvoltoi. Vi hanno tenute d’occhio per settimane, seguendo Nyssa al lavoro, Sara durante i pranzi con Laurel o Cindy, e‒»
«Aspettate un secondo» esclamò Sara all’improvviso, corrugando la fronte. «Voi sapete che Maseo ha assoldato dei mercenari per tenerci d’occhio da mesi, e non ce ne avete mai parlato?»
«Vi ricordo che anche voi siete membri della Lega degli Assassini. Non esiste alcun universo parallelo in cui l’A.R.G.U.S. darebbe questo tipo di informazioni ad un suo nemico» spiegò la Waller. «Tuttavia, signorina Lance, mi creda quando le dico che i miei agenti non si sarebbero fatti scrupoli a intervenire se fossero stati certi che voi due non ve la sareste cavata da sole.»
Mentre un brivido le percorreva la schiena, Nyssa incrociò le braccia per non darlo a vedere. Era come se il suo peggior incubo stesse diventando realtà.
«E perché questo Maseo avrebbe dovuto incaricare degli uomini di seguire Nyssa e Sara e di attaccarle?» domandò John, ancora più confuso di prima.
«Perché vuole diventare il nuovo Ra’s al Ghul» sussurrò la mora con un filo di voce.
I presenti si voltarono verso di lei, osservandola con attenzione. «A cosa ti riferisci?» le chiese Lyla.
«Prima di venire qui, ho giurato a mio padre che avrei liberato Sara e che avrei sposato un uomo all’interno della Lega, prima di prendere il suo posto. Ma non gli ho detto della gravidanza di Sara, né tantomeno che la mia intenzione era di non tornare mai più a Nanda Parbat. Sapevo che non mi avrebbe mai creduto, e adesso ne ho la certezza.»
«No, non è vero» s’intromise Canary. «Magari tuo padre non c’entra niente. Magari è solo colpa di Maseo. Come hai detto tu, lui vuole prendere il posto di tuo padre. Potrebbe essere questo il motivo per cui ha messo una taglia sulla tua testa: vuole screditarti agli occhi di Ra’s.»
«E credi che mi interessi? Lui lo verrà a sapere comunque prima o poi. In un modo o nell’altro.»
Sebbene Amanda ritenesse che anche quella tra Sara e Nyssa fosse una sorta di “lite coniugale”, non osò interromperle per vedere fino a che punto si sarebbero spinte. «Perciò, anche se ufficialmente siete ancora membri della Lega degli Assassini…»
«Teoricamente è come se non le fossimo più» affermò Nyssa, concludendo la frase per lei.
La Waller si ritrovò a sospirare. «Beh, direi che questo cambia ogni cosa.»
Sara inarcò un sopracciglio. «A che si riferisce?»
«A una proposta che l’agente Michaels mi ha fatto diverse volte, ma che io ho puntualmente rifiutato senza scrupoli» spiegò, puntando il proprio sguardo in quello di Nyssa. «La sua richiesta è stata quella di cancellare il nome della signorina al Ghul dai database dell’A.R.G.U.S., in modo tale che possiate lasciare il paese senza dovervi preoccupare di uccidere un intero commando di guardie della polizia.»
L’Erede del Demonio colse al volo l’allusione[3]. «Non si ripeterà più, direttrice Waller. Ma in mia discolpa, posso dire di essere stata molto meticolosa nel non ferire alcun civile.»
«Ha ragione» esclamò Sara, con un’alzata di spalle.
«L’unica complicazione è che altre organizzazioni come la CIA o l’FBI potrebbero ancora crearvi dei problemi.»
«Non si preoccupi, Harbinger» disse Amanda con un sorriso. «Sono piuttosto sicura che a questo ci abbia già pensato Felicity Smoak. Non è così?»
Sara e Nyssa si scambiarono un’occhiata complice, e anche se non risposero a parole, la direttrice capì di aver fatto centro anche questa volta.
«Non dimenticheremo l’aiuto che voi dell’A.R.G.U.S. ci avete fornito questa notte» dichiarò Sara, la mano stretta all’altezza del cuore. «Ve ne siamo grate.»
«Non lo dimenticherete affatto, signorina Lance, glielo posso assicurare. Non appena lo riterrò opportuno, sfrutterò le vostre abilità per portare a termine alcune delle nostre missioni più dure. Dopo il parto, ovviamente» puntualizzò la Waller, riferendosi al pancione di Sara. «Il signor Diggle ne sa qualcosa al riguardo.»
«Già, ma non aspettatevi un invito scritto. Probabilmente verrete rapite e portate qui dentro quando meno ve lo aspettate» le mise in guardia l’ex militare, con un pizzico di ironia.
Nyssa si voltò in direzione di Amanda, sostenendo il suo sguardo. «Aiuteremo l’A.R.G.U.S. ogni volta che avrà bisogno di noi. Ha la mia parola.»
La Waller sorrise. Il patto era sancito.



Più di due ore dopo, le condizioni di Josh non erano cambiate. Stava ancora dormendo profondamente sotto lo sguardo vigile di Oliver, e non sembrava mostrare alcun segno di volersi svegliare. Era disteso a torso nudo sul tavolo, con una benda macchiata di rosso a coprirgli l’addome e una flebo il cui liquido sarebbe terminato a breve.
Nyssa aveva ucciso molte persone nella sua vita, più di quante ne potesse ricordare, ma vedere Josh ‒ il suo capo sul posto di lavoro e amico più caro nella vita reale ‒ in quelle condizioni non faceva altro se non accrescere il suo senso di colpa, soprattutto dopo quello che aveva scoperto quella notte.
Alzò lo sguardo in direzione del cielo, incontrando una marea di stelle luminose che sembravano essere lì sempre pronte a risollevarle il morale.
«A Nanda Parbat se ne vedevano molte di più.»
Nyssa si voltò verso Sara, la quale si era seduta al suo fianco. «Forse perché tra le montagne non ci sono tutti questi palazzi.»
«Già» rise appena la bionda, portandosi distrattamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Sai, all’inizio, quando Josh ti ha offerto il lavoro, ero un po’ titubante. Insomma, non potevo fidarmi di uno sconosciuto, ma vedendoti così entusiasta all’idea di avere un lavoro ho preferito tacere.» Sospirò, stringendo la mano dell’amata con la propria. «Ora capisco perché ti sei fidata di lui fin dal primo istante. Perché è un eroe.»
Nyssa deglutì, e quando la stretta di Sara aumentò prese un respiro profondo. «Sara, lui... la verità è che Josh mi ha offerto questo lavoro perché era innamorato di me. E a dirla tutta, credo sia ancora così.»
La bionda le passò la mano libera tra i capelli. «Lo so. Voglio dire, lo immaginavo.»
«Non sei arrabbiata perché non te l’ho detto?»
«Non c’era nulla da dire.»
Nyssa aveva vissuto gran parte della sua vita senza nessuno che potesse capirla. Le cose erano cambiate con l’arrivo di Sara a Nanda Parbat, e mai come in questo momento l’Erede comprese di essere stata più che fortunata ad essersi innamorata di lei. Sara non la obbligava a rivelarle cosa le passasse per la testa, perché il più delle volte lo capiva da sola. E Nyssa aveva veramente bisogno di una persona così al suo fianco, più di quanto potesse immaginare.
Si gettò tra le sue braccia senza dire nulla, lasciandosi cullare dal calore e dalle carezze di Sara mentre si abbandonava ad un pianto silenzioso. E Sara capì ogni cosa. Capì che Josh si era dichiarato con Nyssa la sera in cui avevano tentato di rapinare il Mystery Cafè. Capì che Nyssa era rimasta scioccata da quella rivelazione, perché il pensiero che un uomo fosse innamorato di lei aveva fatto riemergere ricordi che avrebbe voluto seppellire per sempre. Capì che Nyssa non solo gli aveva svelato che quella che in principio aveva detto essere la sua sorellastra fosse in realtà la sua ragazza, ma anche che, per la prima volta in vita sua, aveva parlato a cuore aperto della propria sessualità con qualcuno. E Josh l’aveva compresa, Sara ne era certa. Perché altrimenti non si sarebbe mai spiegata il motivo per cui Nyssa stesse piangendo così tanto, se non per paura di perdere l’amico con il quale si era confidata dopo tanti anni di silenzi e di menzogne.



«Si sveglierà mai?»
Oliver premette le dita sulla radice del naso. Salvare la vita a Josh era stato più faticoso di quanto avrebbe immaginato. Aveva perso molto sangue, e se non gli avessero fatto un massaggio cardiaco appena in tempo, probabilmente il suo cuore avrebbe smesso di battere per sempre.
«Non lo so, Dig» si ritrovò a dire tra un sospiro e l’altro. «Non lo so.»
«Ancora non ho capito perché non lo abbiamo portato in ospedale.»
Il vigilante si voltò in direzione di Roy, per poi poggiare le mani sui fianchi. «Perché Nyssa non ha voluto. E poi è meglio così. Una volta sveglio, gli avrebbero fatto delle domande a cui non avrebbe saputo rispondere.»
Felicity, con lo sguardo fisso sul corpo ferito di quel povero uomo, si sentì svenire. «Ho bisogno di una boccata d’aria.»
«E io del bagno» proseguì Arsenal, seguendo la bionda lungo la scalinata.
Oliver attese che Felicity e Roy se ne andassero prima di porre quella domanda a Dig. «Sei ancora arrabbiato con Lyla?»
John sospirò sommessamente. Quando erano tornati al Covo, Sara e Nyssa avevano raccontato al Team cosa avevano scoperto quella sera, e lui non era riuscito a tenersi dentro quello che aveva provato quando aveva scoperto del coinvolgimento di Lyla. Per questo motivo, aveva chiesto a Oliver di poter parlare in privato per raccontargli tutto.
«Sinceramente? Non lo so.» Si sedette sul bordo della scrivania di Felicity, osservando con attenzione ogni goccia di liquido che cadeva dalla flebo di Josh. «Mi fa infuriare il pensiero che mi abbia tenuto nascosto un’informazione così importante su due membri della mia squadra. Su due nostre amiche» si corresse. «Ma è anche vero che all’A.R.G.U.S. sono molto scrupolosi. Non avrebbe mai potuto dirmi nulla senza ricevere delle conseguenze.»
«Ha fatto quello che doveva, John» spiegò cautamente l’amico. «Soprattutto convincendo la Waller a darvi una mano.»
Diggle si ritrovò ad annuire. «Già. L’ha tenuta al telefono per quasi un quarto d’ora prima di vincere la battaglia. All’inizio non avevo idea di chi si trovasse dall’altro capo del telefono, ma quando l’ho vista entrare da quella porta, ho capito tutto.»
«E non sapevi cosa provare.»
L’ex militare sospirò ancora. «Non sono mai stato così confuso prima d’ora. Nemmeno in missione.»
«Beh, se ti può consolare, questa è più o meno la reazione che hanno tutti quando dico loro di essere Arrow.»
I due scoppiarono a ridere all’unisono, ma quel breve momento di pace venne interrotto subito dopo dalla suoneria di un cellulare.
«È Lyla» spiegò Dig, agitando appena il telefono. «Vado di sopra a rispondere.»
«Tranquillo. Io intanto vado a cercare Nyssa e Sara.»
E in un istante, fu come se tutti si fossero dimenticati della presenza di Josh. Strano ma vero. Su sei membri che avevano passato la notte al Covo, nessuno di loro in quel momento stava vegliando sull’uomo con la vita appesa a un filo che, come d’incanto, aprì gli occhi in quel preciso istante.
Quando lo fece, Josh percepì subito un gusto metallico in bocca e la testa che gli scoppiava. Non riusciva a muovere un muscolo. Si guardò intorno, ma non riconobbe il luogo in cui si trovava.
Poi udì una voce, e qualcosa in lui si accese, come una fiamma che era rimasta spenta troppo a lungo.
«C’è nessuno?»
Provò ad alzare un braccio per chiedere aiuto, ma nulla. Le forze lo avevano abbandonato quasi del tutto.
«Ollie? Sara?»
Ma quella voce gli diede speranza. Non ne aveva mai sentita una così bella. Allora cercò di fare pressione sui gomiti per mettersi seduto, e tra un respiro profondo e l’altro, sapeva che ce l’avrebbe fatta. Ma poi i suoi occhi incontrarono quelli verdi e luminosi di lei, e Josh perse l’equilibrio senza rendersene conto, cadendo a terra come un sacco di patate.



«Stai bene?»
«Sì, grazie» rispose Josh, mentre l’uomo lo aiutava a sedersi sul tavolo. «Ma… dove mi trovo? E voi chi siete?»
«Io sono Oliver Queen, e questa è la mia amica Laurel Lance.»
Laurel Lance. Era lei la donna che aveva visto quando si era svegliato, e solo ora si rese conto di quanto fosse bella e affascinante.
Oliver fece un altro passo avanti, mettendogli una mano sulla spalla. «Ora sei in un posto sicuro, Josh. Vedrai che ti rimetterai presto.»
Ma Josh non lo stava più ascoltando. Ora i suoi occhi non vedevano altro che Nyssa, il suo sguardo preoccupato e le braccia che gli stava tendendo. Nemmeno si accorse che nel giro di un secondo lei lo stava già stritolando, perché non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di quei tre uomini che li assalivano.
«Ero così preoccupata per te» sussurrò lei, stringendolo con tutte le sue forze. «Grazie al cielo sei vivo.»
«Non tutto intero, ma… sì, vivo» rise lui, mentre la mora scioglieva l’abbraccio.
«È bello vederti sveglio» disse Sara, dandogli una lieve pacca sulla spalla.
«Ed è ancora più buffo il modo in cui l’ha fatto» s’intromise Laurel. «Devo averlo spaventato mentre scendevo le scale. Non pensavo che ci fosse qualcuno. Scusami.»
«Non importa» rispose timidamente l’uomo. «Mi ha fatto piacere svegliarmi sapendo che c’era qualcuno.»
«Oh mio Dio, si è svegliato?»
La voce di Felicity fece eco per tutta la stanza mentre scendeva le scale.
«Sì, sta bene» le rispose Oliver, mentre lei e Roy si avvicinavano al gruppetto.
«Aspettate un secondo» proruppe Josh, guardandosi attentamente intorno. «Io so chi siete voi.»
Oliver e Sara si scambiarono una rapida occhiata, mentre Nyssa scosse il capo.
«Se non lo dici ad alta voce, sarà vero comunque» lo ammonì, col tono di una madre che sgrida il figlio dopo che ha mangiato troppe caramelle.
«Un momento, chi gliel’ha detto?» domandò Roy, confuso.
«Nessuno mi ha detto niente, Arsenal» esclamò Josh, voltandosi prima verso il ragazzino, poi verso Oliver. «La mia cameriera è una maestra del karate, e lui indossa il costume di Arrow, se non l’aveste notato. Oh, ma non vi dovete preoccupare. Sono solo un po’ nerd, ma con me il vostro segreto è al sicuro.»
Nyssa piegò leggermente la testa di lato. «Per la cronaca, non è karate, ma Jeet Kune Do.»
«Come sappiamo che non dirà niente a nessuno?» sbottò Roy, non del tutto convinto. «Cosa ce lo garantisce?»
«Ora non abbiamo tempo per pensarci» esclamò Diggle, entrando nella stanza col fiato corto. «A Lyla si sono appena rotte le acque. Nostra figlia sta per nascere.»

 

 

 

 

 

[1] Dai che ve lo ricordate! Ma se così non fosse, ridate una piccola occhiata al capitolo 5.
[2] Vi chiedo infinitamente perdono per questo parallelismo con il congelatore in cui era stato messo il cadavere di Sara nella 3x02. Gomen.
[3] La mitica entrata di scena di Nyssa nella 2x13 ve la ricordate per forza.









Okay, ci siamo quasi. Sara e Nyssa stanno creando più alleanze possibili per l’eventualità di dover fronteggiare Ra’s in un futuro ormai prossimo, MA non è detto che ciò accadrà. Insomma, ormai mi conoscete, con me è tutto un mistero fino all’ultimo secondo. Quello che è certo, è che ormai mancano solo tre mesi alla scadenza della gravidanza, e che ben presto conosceremo il pargolo Queen-Raatko-Lance.
E no, non gli/le darò tre cognomi, ma sfido chiunque a indovinare quale dei tre abbia scelto ;)
P.S. Se doveste notare anche il minimo errore, fatemelo notare senza problemi. Purtroppo ho cambiato pc e ho avuto un piccolo problemino con word ^^"

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Capitolo 16
*** Capitolo 15: Six years together ***


 

Capitolo 15:
Six years together

 

 

 

 

Quando il gruppo arrivò in ospedale, più o meno venti minuti dopo, Lyla era appena entrata in travaglio. Riuscivano a sentire le sue urla dal corridoio, cosa che terrorizzò a morte John, ma ciò non gli impedì di entrare nella stanza e di sostenere la sua futura moglie mentre partoriva la loro primogenita.
Circa due ore dopo, Lisa Alena Diggle venne al mondo insieme alle prime luci del mattino. La prima persona a tenerla in braccio fu suo padre, il quale non avrebbe mai scordato il miscuglio di emozioni che aveva provato quella notte. Ma in quel momento, non gli importava più di niente e di nessuno: esistevano soltanto lui, Lyla e Lisa. E niente lo avrebbe reso più felice di aver passato una notte insonne al fianco delle due donne che amava di più al mondo.

*

Lo sbadiglio di Sara fece eco nel corridoio, attirando subito l’attenzione di Nyssa, la quale sbucò dal salotto un secondo dopo con l’indice davanti alla bocca.
«Non fare troppo rumore, o sveglierai Sin.»
«Che ore sono?»
«Le undici.»
Sara rispose con un’alzata di spalle, andandosi poi a sedere al tavolo della cucina. «Prima o poi si dovrà svegliare anche lei.»
«Sarai proprio una brava madre. Adesso ne ho la conferma.»
Mentre Nyssa si sedeva di fronte a lei e le porgeva un piatto con tre waffle ancora caldi, Sara rise sotto ai baffi.
«Abbiamo dormito solo un paio d’ore. Lei sarà andata a letto più di dieci ore fa.»
«Tu credi?» domandò l’Erede del Demonio, poggiando i gomiti sul tavolo. «Se è ancora qui, vuol dire che ieri sera sarà andata a bere da qualche parte. Poi avrà giocato a biliardo fino alle tre di notte, e a breve dovrà prepararsi ad affrontare il post-sbronza peggiore della sua vita.»
Canary inarcò un sopracciglio. «Come fai a sapere tutte queste cose?»
«Non ne ho la certezza. Sono solo ipotesi.»
«Sì, ma, intendo… come può il tuo cervello anche solo ipotizzare una cosa simile?»
Questa volta, fu Nyssa a scrollare le spalle. «Da quando siamo qui guardo molta TV» spiegò. «E poi, tra sedici anni potremmo avere un figlio ribelle come lei. Dobbiamo essere preparate a quest’eventualità.»
«Giusta osservazione» ammise la bionda, mandando giù un boccone. Subito dopo, una strana sensazione la pervase, e prima ancora che potesse prevederlo si ritrovò a singhiozzare.
Nyssa la osservò per qualche istante, fino a quando non arrivò il secondo singhiozzo e la mora scoppiò a ridere di gusto.
«Che c’è?» protestò Sara, portandosi istintivamente una mano davanti alla bocca.
«Sei divertente» ammise la figlia di Ra’s, con una strana luce negli occhi.
Canary corrucciò le sopracciglia, ma subito dopo si ritrovò a dover sorridere a sua volta. Dopo cinque anni passati a Nanda Parbat, era strano pensare che la sua vita stesse riprendendo la strada della normalità. Le erano mancati i momenti innocui come quello, e il solo pensiero che Maseo avrebbe potuto distruggere la bolla di quiete che lei e Nyssa erano riuscite a creare le faceva venire la pelle d’oca.
«Vorrei più momenti come questo.»
Al sussurro della mora, Sara alzò lo sguardo di colpo. Fino all’anno prima, quella vita l’avevano solo sognata. Ma adesso, finalmente, avevano la possibilità di ricominciare da capo, di avere una seconda occasione per diventare delle persone migliori. E Sara non avrebbe permesso a niente e a nessuno di portarle via quel desiderio che stava prendendo vita. Né a Maseo, né tantomeno a Ra’s.
«Ne avremo altri, habibti. Te lo prometto.»



«Quindi non torni per pranzo?»
Sara scosse il capo, sistemandosi il colletto della giacca di fronte allo specchio. «Non credo. Oliver ha detto di volermi parlare del bambino, e vista l’ora deduco che mangeremo qualcosa lungo la strada. Tu andrai a vedere come sta Josh?»
«Sì, tra un’ora o due magari. Bisogna solo dire a Sin che oggi resterà sola per tutto il giorno.»
«Ci puoi pensare tu? Ollie mi sta aspettando, sono già in ritardo di un quarto d’ora» spiegò la bionda, con una piccola risata.
«Ma certo» sorrise Nyssa, sistemandole una ciocca di capelli sulle spalle. «Ora vai.»
Sara le diede un bacio, dopodiché si voltò e uscì dalla porta, non prima di aver riservato un occhiolino all’amata.
Nyssa si passò una mano tra i capelli. Era stata una lunga notte, e sebbene si fosse conclusa nel migliore dei modi, l’idea di essere nel mirino di Sarab non la faceva sentire meglio.
Quando si voltò, il suo sguardo incontrò una zazzera di capelli scuri e due occhi che la scrutavano con attenzione.
«Va tutto bene?» domandò in tono fermo.
Non appena Sin si rese conto della gaffe, trasalì. «Sì. Scusami. È che vi ho sentite parlare dal corridoio e volevo sapere se è successo qualcosa.»
«Oh, no, tranquilla. Sara ha soltanto delle commissioni da sbrigare, e io devo andare a fare visita a un amico malato.»
La ragazzina annuì piano. «Capisco.»
Nyssa spostò il peso da una gamba all’altra. «Per te è un problema restare qualche ora a casa da sola?»
«No, figurati. Sono sola da tutta la vita.»
La figlia di Ra’s al Ghul colse al volo il significato di quella battuta. «Già. Sara mi ha raccontato quello che ti è accaduto. Mi dispiace per i tuoi genitori.»
Cindy rispose con un’alzata di spalle. «Fa niente. Ormai ci ho fatto l’abitudine.»
Nyssa ruotò leggermente la testa di lato, appoggiandosi contro al muro. «Sai, anch’io ho perso mia madre da piccola.»
«Ah sì?» domandò Sin, mettendosi le mani in tasca. «È uno schifo, non è vero?»
L’Erede si ritrovò a dover annuire. «Sì. Più che uno schifo» sussurrò. «Aveva l’età di Sara quando mi ha lasciata. Io ne avevo appena sette.»
«Mi dispiace.» Cindy deglutì a fatica. «Io nemmeno me lo ricordo il viso di mia madre. Mio padre diceva sempre che era morta prima che imparassi a camminare.»
«Mio padre si è sempre rifiutato di parlarmi di lei.»
A quelle parole, Sin alzò lo sguardo, puntando i propri occhi in quelli di Nyssa. Solo allora si rese conto che le due non avevano mai avuto un dialogo concreto, ma a quanto pare l’essere entrambe orfane era un buon punto per iniziare a comunicare.
«Ho preparato dei waffle» esclamò Nyssa ad un tratto, un sorriso a contornarle le labbra. «Ne vuoi un po’?»



Con grande sorpresa da parte di entrambe, la conversazione tra Sin e Nyssa proseguì per oltre un’ora al tavolo della cucina. Grazie a quella chiacchierata iniziata per caso, avevano scoperto di avere molte cose in comune.
«Hai diciotto anni, giusto? Quindi hai finito le superiori lo scorso Maggio.»
«In realtà, non ho mai concluso gli studi. Ho lasciato il liceo all’inizio del secondo anno» ammise la ragazzina. «Insomma, finché mi sballottavano da una famiglia adottiva all’altra ero obbligata ad andarci, ma poi sono fuggita e... beh, con la vita di strada che conducevo, non mi sarei mai potuta permettere di finire la scuola.»
Nyssa poggiò i gomiti sul tavolo, intrecciando le mani sotto al mento. «Beh, se ti può consolare, io non sono mai andata a scuola.»
«Suppongo che la tua situazione fosse un po’ diversa dalla mia. Cioè, non che sappia molto del tuo passato! Anzi, non so proprio niente» si corresse. «Però, Sara me l’ha detto chi sei. Ho dedotto che tu non abbia avuto una vita normale.»
«No, niente affatto» rise la donna, divertita all’idea che Cindy provasse ancora un certo timore nei suoi confronti. «Però ci sono state persone che mi hanno insegnato molte cose basilari come i calcoli, o addirittura più complesse a livelli quasi impossibili.»
Sin alzò un sopracciglio. «In che senso?»
«Diciamo che alla tua età sapevo già parlare fluentemente cinque lingue diverse.»
Cindy si paralizzò sul posto per qualche istante prima di riprendere la parola. «Non ci posso credere.»
In tutta risposta, Nyssa annuì. «Oltre all’inglese so perfettamente l’arabo, il mandarino, il giapponese e il russo.»
«Figata. Quindi puoi insegnarmi come insultare le persone in cinque lingue diverse?»
Nyssa sembrò pensarci su. «Sì, direi che si può fare. Ma solo a condizione che io possa aiutarti a scegliere le vittime.»
A quelle parole, Sin scoppiò a ridere con tutte le sue forze, trovando il coraggio di smettere solo quando le venne il mal di pancia. «Sei forte» dovette ammettere.
La figlia di Ra’s sorrise a labbra chiuse. «Anche tu.»



Da quando Sara e Oliver si erano incontrati, avevano parlato di tutto meno che del loro bambino. La prima cosa di cui avevano discusso erano state le condizioni di Josh, per poi concentrarsi sulla figura di Maseo Yamashiro ‒ che Oliver le rivelò essere un suo vecchio conoscente, raccontandole dell’anno trascorso a Hong Kong ‒ e sulla figlia di Lyla e Diggle.
Ma dopo più di tre ore di passeggiate, spuntini e spostamenti in limousine, non avevano ancora detto una parola sul loro figlio. O almeno fino a quando non capitarono di fronte a un negozio per bebè, e a quel punto Sara non riuscì più a tenersi tutto dentro.
«Perché hai voluto che ci incontrassimo, Oliver?» domandò, bloccandosi nel bel mezzo del marciapiede.
L’uomo, colto alla sprovvista, assunse un’espressione stupita. «Non è ovvio?»
«No, per niente» protestò lei, corrugando la fronte. «È da questa mattina che cerchi di evitare l’argomento, ma non possiamo andare avanti così a vita. Lo sai.»
Oliver sospirò pesantemente, per poi passarsi rassegnato una mano sul viso. «Vieni con me.»
Sara lo seguì con un groppo in gola. Ci vollero altri dieci minuti di silenzio e di camminata prima che i due arrivassero a destinazione.
«Te lo ricordi questo posto?»
Sara si guardò intorno con fare curioso.
«È il parco in cui andavamo sempre a giocare da piccoli» realizzò. «Io, te, Laurel e Tommy.»
Quando pronunciò quell’ultimo nome, Oliver ebbe un sussulto. «Già.»
Sara si lasciò cullare dalla brezza autunnale che le accarezzava il viso. I suoi occhi non vedevano altro che le persone presenti nel parco: una donna con una carrozzina azzurra che osservava vigile la propria figlia giocare sull’altalena; dei bambini rincorrersi a vicenda; un uomo giocare con il proprio cane facendogli riportare un rametto di legno; una ragazza intenta a leggere un libro con la schiena contro a un albero. Tutto ciò le sembrava terribilmente normale e inusuale al tempo stesso, perché ormai erano anni che Sara non si concedeva un momento così, in mezzo alla natura e alle persone.
«Perché mi hai portata qui?» sussurrò, con la gola secca.
«Perché credevo non ci fosse altro posto migliore per parlare» ammise Arrow, indicando una panchina poco distante.
I due si sedettero titubanti, quasi temessero di essere diventati troppo grandi per sedersi in quella panchina sacra che, da bambini, ritenevano fosse off-limits per gli adulti.
«Stanotte, quando abbiamo dovuto salvare la vita di un uomo, ho pensato che non fossi più destinato a essere Oliver Queen. La mia vita ormai è al Covo. Io sono lui, e sono fiero di esserlo. Ma a volte, nelle situazioni estreme, mi ritrovo a pensare che non riuscirei mai a gestire una vita normale.» Sospirò, abbassando inspiegabilmente lo sguardo. «Poi ho visto John diventare padre, e ho capito che diventare padre è la cosa più bella che possa capitare a una persona, ma è anche la più difficile.»
«Che intendi dire?»
«Intendo dire che, dopo quello che è capitato questa notte a Josh, ho realizzato che avere un figlio potrebbe essere un rischio. John e Lyla non conducono una vita facile, ma hanno comunque deciso di provare a costruirsi una famiglia pur sapendo che la loro bambina potrebbe diventare un bersaglio facile. Ma io non sono come loro. Io non voglio che le persone debbano pagare a causa mia.»
Sara sentì il battito del proprio cuore accelerare rapidamente. «Vuoi dirmi che hai cambiato idea? Non vuoi più fare parte della sua vita?»
«No, tutto il contrario» affermò lui, voltandosi per guardarla negli occhi. «Voglio diventare padre. Ma non voglio nemmeno vivere con la paura che qualcuno possa fare del male a nostro figlio.»
Quando la bionda intuì l’antifona, non poté fare a meno di replicare. «Questa città ha ancora bisogno di Arrow.»
«Sappiamo entrambi che prima o poi lui non esisterà più.»
«Sì, ma non adesso. Non così presto, Ollie» protestò Sara, irritandosi. «Non puoi smettere di essere un vigilante solo perché stai per diventare padre. È assurdo! Dig non lo farà, e non dovresti nemmeno tu.»
Lui sospirò ancora, scuotendo appena il capo. «Non lo so, Sara. Questa vita è complicata.»
«Lo è per tutti» lo schernì la donna.
«Lo so, ma con il coinvolgimento di Maseo, io‒»
«Adesso non devi preoccuparti di Maseo. Non è lui la nostra vera minaccia.»
Oliver inspirò a fondo. «È Ra’s.»
Sara annuì. «Finché lui non viene a sapere nulla di questa storia, non ci succederà niente. Se la nostra teoria è vera, Maseo sta cercando di riportare Nyssa a Nanda Parbat, e solo una volta fatto ciò parlerà con Ra’s della mia gravidanza. Lui vuole diventare la nuova Testa del Demonio, perciò quando Ra’s verrà a sapere che sua figlia gli ha mentito per tutto questo tempo, non ci penserà due volte a dare il titolo di Erede a Maseo.»
«Ma è solo una teoria, no?» puntualizzò Oliver, abbassando il tono di voce. «Non avete nessuna garanzia che Ra’s non sia già stato messo al corrente della situazione.»
La bionda si ritrovò a dover deglutire ancora. «No. Ma se Ra’s sapesse di noi, non credi che ci avrebbe cercate prima?»
«Magari Maseo è solo una pedina. Magari è stato proprio Ra’s a mandare quegli uomini a sorvegliarvi.»
Sara aveva cercato di scacciare quell’idea per sentirsi in pace con sé stessa, ma era un’opzione più che plausibile. E lei non aveva prove sul fatto che Ra’s non fosse coinvolto.
«Ascoltami, Ollie» esordì, mentre l’uomo si prendeva la testa tra le mani. «So che cosa stai provando in questo momento. Ci sono passata anch’io. Ci sto passando tutt’ora. Ma credimi quando ti dico che non possiamo sapere cos’abbia in serbo per noi il futuro, e che adesso l’unica cosa che possiamo fare è pensare a crescere questo bambino nella maniera più normale possibile.»
A quelle parole, Oliver sembrò riprendere speranza. «Io voglio solo il meglio per mio figlio. Voglio che abbia una famiglia che lo ami e che lo faccia sentire accettato per quello che è.»
«È proprio questo che intendevo» rivelò la donna. «Non ho mai pensato di avere l’esclusiva. Questo bambino è nostro. Né mio, né tuo, ma di tutti e due. Avrà una madre e un padre. Però, per me è importante che veda anche Nyssa come una madre. Capisci ciò che intendo?»
Lui annuì appena. «Credo di sì. Una sorta di famiglia allargata?»
«Sì. Logicamente, tu e Felicity avrete la vostra vita e io avrò la mia con Nyssa. Il bambino vivrà con entrambi, senza alcuna pressione. Ma voglio che tu sappia che questa gravidanza è davvero importante per me e Nyssa.»
«In caso contrario, dubito che avreste rischiato così tanto fuggendo da Nanda Parbat.»
Sara sorrise appena. Era contenta di sapere che Oliver poteva ancora capirla. «Quello che voglio dire è che non devi sentirti obbligato a smettere di essere chi sei ogni notte. Che tu sia pronto o meno a diventare padre, non sei costretto a rinunciare ad essere un eroe. Ma qualsiasi scelta prenderai, a me interessa solo che mio figlio abbia un padre su cui contare. E questo non significa vivere ogni giorno sotto il suo stesso tetto, o avere il suo cognome, o doverlo chiamare per forza “papà”. Significa semplicemente esserci.»
Arrow si passò una mano tra i capelli, mentre un sorriso beffardo gli si formava sul volto. «A dir la verità, mi piacerebbe molto che avesse il mio cognome e che mi chiamasse “papà”» rise, contagiando anche Sara. «Però, forse sono d’accordo sul fatto di non vivere nella sua stessa casa.»
Di fronte allo sguardo confuso della donna, Oliver si affrettò a tranquillizzarla. «Non sto dicendo che non voglio prendermi cura di lui o di lei. Dico solo che… a essere onesti, quando mi hai rivelato di essere incinta ero tutt’altro che felice. Mi sono concentrato su Felicity, sul fatto che non sarei stato un buon padre e sulla paura che un bambino sarebbe potuto essere nel mirino di tutti quelli che ce l’hanno con Arrow. E come puoi vedere, a distanza di un mese le mie idee non sono cambiate di molto.» Rise ancora, ma questa volta si trattò di una risata nervosa causata dalla paura e dalla tensione. «Sto solo dicendo che probabilmente non me lo merito un lusso simile. Mio figlio sarà ben accetto in casa mia ogni volta che lo vorrà, ma tu e Nyssa non avete mai avuto dubbi al riguardo. Lo avete amato fin dal primo istante. Perciò, non credo sia una cattiva idea farlo crescere sotto le vostre regole.»
«Oliver... quando ho scoperto di essere incinta, anch’io ero scioccata. La tua reazione è stata più che normale. Ma questo non fa di te una cattiva persona, o un padre che non merita di veder crescere il proprio figlio.»
Un gruppetto di bambini passò di fianco a loro in quello stesso momento, provocando una vena di nostalgia negli occhi di Oliver.
«Lo so, Sara. Ma dopo quello che è successo, non posso avere la sicurezza che tra me e Felicity le cose andranno sempre a gonfie vele. E poi, non potrei mai e poi mai lasciare che mio figlio cresca con una baby-sitter. Io e Felicity lavoriamo costantemente giorno e notte, invece so che voi ve ne prenderete cura fino in fondo. Perciò, niente settimane alterne o roba simile. Il bambino vivrà con voi. Mi sento più sicuro così. Tra qualche anno, magari, quando sarò finalmente pronto e avrò la certezza che le cose tra me e Felicity saranno veramente serie, ne riparleremo.»
Il lieve sorriso sulle labbra di Oliver non fece altro se non tranquillizzare Sara. «Ma certo. E, nel frattempo, potrete venirlo a prendere tutte le volte che lo vorrete.»
Dimenticarsi della Lega per qualche minuto fu un sollievo per entrambi, anche se Ra’s sarebbe comunque rimasto un problema più a lungo di quanto avrebbero potuto immaginare.



Nyssa salì i gradini della scala antincendio a due a due, facendo attenzione a non rovesciare la busta marrone. Quando raggiunse il terzo piano dell’edificio, fu lieta di trovare la finestra del salotto aperta, e così entrò.
«Se avessi bussato alla mia porta sarei venuto ad aprire» scherzò Josh con un sorriso.
«Credevo dormissi e non volevo svegliarti» spiegò la mora, avvicinandosi lentamente a lui. «Per te.»
«Che cos’è?» domandò l’uomo, prendendo tra le mani il sacchetto che Nyssa le stava porgendo.
«Zuppa calda. Dubito che avessi le forze per prepararti da mangiare.»
«No, infatti» asserì lui. «Ti ringrazio. È stato molto gentile da parte tua.»
«Dopo che mi hai salvato la vita, è il minimo che potessi fare.»
«Beh, tecnicamente hai già ricambiato il favore questa notte. Dubito che senza il tuo aiuto sarei sopravvissuto.»
La figlia di Ra’s si sedette accanto a lui sul divano, rivolgendogli uno sguardo sereno. «Ti rimetterai presto, te lo assicuro. Ma se vuoi andare a fare dei controlli, o…»
Lui scosse la testa. «No. Sono a posto così. Mi fido di te e di Oliver.»
A quelle parole, Nyssa non poté che rispondere con un sorriso.
«Che poi, chi avrebbe mai immaginato che Oliver Queen fosse Arrow? È assurdo! Voglio dire, sì, è credibile, ma è comunque una cosa fenomenale!»
«Adesso non montarti la testa. Non puoi chiedergli un autografo solo perché ti ha donato il suo sangue» ironizzò lei, per poi ritrovarsi a dover sospirare. «Sarà meglio che vada. Ho promesso ad Adam che avrei coperto il tuo turno. Lui finisce tra mezz’ora, perciò devo sbrigarmi.»
«Aspetta» esclamò lui, bloccandola per un braccio. «Cosa gli hai detto?»
«Che ti sei preso la febbre.»
Josh fece una smorfia. «Sicura di poter riuscire a stare al bar da sola per così tante ore?»
«Adam mi ha detto che se verso le otto inizia ad esserci meno affluenza, ho il suo consenso per chiudere il locale. E poi ho il tuo per quella sorpresa» puntualizzò, alzandosi in piedi.
Lui annuì appena. «Giusto. Me ne ero completamente scordato. Allora, buona fortuna!»



Sara si era diretta al Mystery Cafè non appena aveva ricevuto il messaggio di Nyssa. Alla fine era andata al lavoro per aiutare Adam, ma lasciarla da sola per quasi sei ore nel locale non era stata una buona idea. Doveva aver combinato qualche guaio dei suoi, perché l’aveva pregata di salire sul primo taxi e di raggiungerla il prima possibile. Magari aveva rotto la macchina del caffè e non sapeva come ripararla, o, peggio ancora, si era dimenticata il rubinetto aperto e aveva allagato la cucina. Decise di scacciare quei pensieri negativi solamente quando arrivò di fronte alla vetrina del locale, ma non appena mise piede all’interno del bar una strana sensazione le pervase lo stomaco.
«Nyssa?» proruppe, ma nessuno rispose.
Il locale era buio e vuoto, ma Sara poté vedere chiaramente ogni cosa al proprio posto, dalle sedie sopra ai tavoli alle confezioni di biscotti e di zucchero ben ordinate sopra al bancone.
«Nyssa?» chiamò ancora, iniziando a preoccuparsi. Poi notò una flebile luce provenire dal fondo del locale e decise di seguirla.
Prima ancora che Sara potesse capire cosa stesse succedendo, il respiro le venne a mancare dall’emozione. Nel bel mezzo del tavolo apparecchiato per due spiccavano una serie di candele profumate, adornate con dei petali di rose fresche. I piatti erano chiusi con le rispettive cloche, ma Sara riusciva comunque a sentire un buon profumo provenire da entrambi. Subito dopo, un rumore di passi catturò la sua attenzione, costringendola a voltarsi.
Nyssa indossava una camicia bianca e dei pantaloni neri che sembravano essere stati creati apposta per lei. I capelli erano spettinati a causa dell’estenuante giornata di lavoro, e il lieve trucco che si era sistemata quel pomeriggio era ormai scomparso del tutto.
Ma a Sara non importava. Prima d’ora, non l’aveva mai vista così bella e così genuina come in quel momento.
«Prima che tu me lo chieda, questa roba non è mia» esordì timidamente, indicando il proprio abbigliamento. «Josh ha un armadietto pieno di cambi in caso avvenissero dei piccoli incidenti. Mi sono rovesciata delle bevande ghiacciate addosso e queste erano gli unici indumenti che ho trovato della mia misura. Più o meno.»
«Quindi era vero che hai combinato un pasticcio.»
L’Erede si strinse nelle spalle. «In parte sì. Ma mi serviva una scusa per farti venire qui.»
La bionda sorrise, rendendosi conto solo in quel momento della musica leggera proveniente dai vari diffusori sparsi per il locale.
«Hai fatto tutto questo da sola?»
Nyssa annuì debolmente. «Non sarà il giorno in cui ci siamo scambiate il primo bacio o in cui ci siamo messe ufficialmente insieme, ma per me è mille volte più importante. E tu lo sai bene.»
A quel punto, Sara non riuscì più a resistere. Trasse Nyssa tra le proprie braccia e la baciò con tutta la passione che aveva in corpo. Le mise una mano in un fianco e l’altra tra i capelli, assaporando ogni respiro che si concedevano tra un bacio e l’altro.
Ormai non erano più le ragazzine di sei anni prima, si erano trasformate in due splendide donne che, molto presto, sarebbero anche diventate madri. Ma si amavano come il primo giorno, si desideravano come la prima notte d’amore e si capivano come la prima volta che i loro cammini si erano incrociati.
Dopo interminabili minuti di baci e di carezze, Nyssa intimò l’amata di sedersi e iniziarono a mangiare. Parlarono della loro giornata, bevvero Coca-Cola ‒ anche se Nyssa concesse a Sara mezzo bicchiere di vino, per una volta ‒ e poi, come di consueto, andarono sul tetto per guardare le stelle.
Era stata la serata più semplice del mondo, ma l’unica in grado di renderle pienamente felici.
Il miglior anniversario di sempre.

*

«Finito!»
Sara sorrise di fronte all’esclamazione di Nyssa. «Lo voglio vedere!» rispose a sua volta, con gli occhi che le brillavano.
La figlia di Ra’s al Ghul ricambiò il sorriso, dopodiché si spostò di qualche passo, permettendo così alla bionda di vedere il risultato finale di quel lungo pomeriggio di lavoro.
«Ma è… bellissimo» sussurrò, accarezzando il legno bianco del lettino.
Erano passate poco più di tre settimane dalla loro cenetta romantica al Mystery Cafè, ma in quel breve lasso di tempo avevano acquistato un sacco di cose per il nascituro. Sara aveva scelto il lettino, che sarebbe potuto essere utilizzato fino all’età dei sei anni; Oliver aveva comprato dei mobili abbinati che erano già stati messi nella camera del bambino, attualmente ancora occupata da Sin; Laurel aveva fatto scorte di pannolini, biberon e ciucci; Nyssa, invece, aveva prosciugato quasi uno stipendio solo in tutine colorate ‒ non sapendo il sesso, aveva preferito abbondare.
Sara stava quasi per entrare nell’ottavo mese, perciò si era già messa a preparare la valigia per l’ospedale. C’erano calze, bavaglini, pigiami, ma aveva la costante impressione di aver dimenticato qualcosa, un po’ come tutte le altre mamme prima di una partenza o di un avvenimento importante. Ancora non le sembrava vero che nel giro di un paio di mesi sarebbe diventata madre, e la cosa la eccitava e terrorizzava al tempo stesso.
«Speriamo che non si rompa subito» scherzò Nyssa, attirando l’attenzione di Canary.
Quest’ultima scosse la testa. «Impossibile. Hai fatto un ottimo lavoro.» Poi sospirò, portandosi una mano sul ventre. «Dobbiamo anche pensare al compleanno di Laurel. Dopo tutto quello che ha fatto per noi, una festa a sorpresa come si deve è il minimo che si merita.»
«Abbiamo ancora due settimane per pensarci» la rassicurò la mora, accarezzandole i capelli. «Adesso concentriamoci solo sul nostro bambino.»
Le due si scambiarono uno sguardo complice, finché Sara non ebbe un sussulto.
«Quasi dimenticavo» esclamò sorridente. «Ho scoperto che mia madre non ha mai buttato via la mia culla. Dopo il divorzio l’ha portata con sé a Central City, ma dice che è come nuova.»
Nyssa inarcò un sopracciglio. «A cosa ci serve una culla se abbiamo già comprato il lettino?»
«Potremmo metterla in salotto» propose Sara. «Così riusciremo a muoverci liberamente per la casa senza il timore di doverlo lasciare da solo in camera da letto. Se vogliamo guardare la tv o preparare la cena, possiamo tenerlo d’occhio costantemente.»
Nyssa sembrò pensarci su per qualche istante, dopodiché trasse a sé Sara e poggiò le labbra sulle sue, non prima di aver sussurrato: «Mi sembra un’idea perfetta.»

*

Sara uscì dall’ufficio di Laurel con un sorriso stampato sulle labbra. Era andata a trovarla per parlarle degli ultimi preparativi per la cameretta del bambino, facendole anche promettere che il giorno successivo l’avrebbe aiutata a scegliere un passeggino.
Era felice di avere il supporto della sorella. Dopo tutto quello che avevano passato dal suo ritorno in città, era certa che da adesso in poi niente le avrebbe più divise. Avrebbero sicuramente continuato a litigare per il resto delle loro vite, ma non si sarebbero mai allontanate l’una dall’altra. Di questo ne era certa.
Prese una boccata d’aria, inspirando a pieni polmoni l’aria fresca di inizio Novembre. Il sole stava iniziando a tramontare, perciò decise di tornare a casa.
Non ci sono taxi, pensò, guardandosi intorno. Non credo che una passeggiata mi farà male.
Così, si infilò le mani in tasca e prese a camminare, con un sorriso smagliante a farle compagnia. Dopo non molto, una donna con una carrozzina le passò a fianco e lei non poté fare a meno di fermarsi per guardare il bambino. Stava dormendo, ma aveva il viso di un angelo.
«Oggi sono tre mesi da quando è nato» spiegò la madre, con gli occhi che le brillavano. «Il suo gemello non ce l’ha fatta. Ringrazio il cielo che almeno il mio piccolo Sawyer sia qui con me.»
Quelle parole non erano mai passate per la mente di Sara. Il suo bambino ce l’avrebbe fatta, senza ombra di dubbio. Anche di questo era certa.
Continuò a camminare a testa alta, poggiando la propria mano sul pancione ogni volta che il bambino scalciava. Ma poi, quando improvvisamente lo sentì scalciare ancora più forte, quasi seguendo il ritmo del suo cuore, Sara capì che qualcosa non andava, e l’urlo che sentì subito dopo ne era la prova.
Si voltò, ritrovandosi faccia a faccia con un uomo poco più alto di lei. Riconobbe all’istante la divisa della Lega, restando letteralmente senza fiato. Si sentì morire. Le sue gambe si paralizzarono sul posto, ma quando il mercenario cercò di colpirla con la propria spada, Sara fu costretta ad assecondare il formicolio che percepiva alle mani e bloccò la spada con entrambi i palmi, procurandosi una ferita profonda alla mano destra.
Subito dopo, l’uomo ritrasse l’arma e tutte le persone presenti in quella strada ‒ donne, bambini, anziani ‒ iniziarono a gridare e a scappare via, il più lontano possibile, senza sapere che a quell’uomo vestito di nero non importava niente di loro. Il suo unico obiettivo era Sara, la quale lo stava osservando con uno sguardo minaccioso e i pugni serrati davanti al proprio viso.
«Ta-er al-Sahfer» esordì lui, con voce ferma. «È tempo di tornare a casa.»
Sara ebbe un déjà-vu. «Prima di convincermi a tornare a Nanda Parbat, dovrai passare sul mio cadavere.»
Sul volto del guerriero andò a formarsi un ghigno compiaciuto. «Allora lo farò.»
Canary evitò un colpo di spada appena in tempo, dopodiché gli assestò un calcio basso, seguito da una gomitata in pieno viso. L’uomo sembrò perdere l’equilibrio, così Sara ne approfittò per rubargli la spada. Subito dopo, però, le mani dell’uomo strinsero il suo collo più forte di quanto avrebbe immaginato, e l’arma cadde a terra.
«Almawt qadim[1]» sussurrò l’uomo, mentre Sara tentava vanamente di liberarsi dalla sua presa. «La takhaf[2]» aggiunse, gli occhi assetati di sangue.
Fu allora che Sara vide prima una, poi due, infine tre auto della polizia sfrecciare verso di loro. Nella prima c’era anche suo padre, ma ci volle un po’ prima che riuscisse a riconoscerlo.
Non aveva più forze. Le girava la testa, non aveva più aria. Si stava arrendendo. Perdonami, pensò, rivolgendo le sue scuse sia a Nyssa che al suo bambino. Non farà male. Lo giuro.
E poi, proprio quando Sara era convinta che il suo cuore avrebbe smesso di battere, avvertì un movimento nella pancia. Poi un altro. E un altro ancora. E quella sensazione le diede speranza.
Imitando il suo bambino, anche lei iniziò a scalciare, e continuò a farlo fino a quando, con le sue ultime forze, non riuscì a colpire il mercenario allo stomaco. A quel punto, lui lasciò la presa sul suo collo e Sara cadde malamente a terra. Il mondo intorno a lei girava come una trottola, il bambino continuava a scalciare e suo padre scese dalla volante insieme ad altri due agenti. Il guerriero era inginocchiato a terra e sputava sangue senza sosta. Allora Sara ebbe un’idea.
Si alzò in piedi, afferrò la spada e si diresse barcollante fino al mercenario che aveva attentato alla sua vita. Poi gli piantò la lama nella spina dorsale, e prima che i poliziotti potessero raggiungerli, Sara iniziò a correre dalla parte opposta. Prima di sparire in un vicolo vicino, però, sentì l’impellente bisogno di voltarsi: il combattente della Lega non c’era più, ma per una frazione di secondo lei e suo padre si scambiarono uno sguardo intenso e preoccupato. Riprese a correre, incurante di tutto.



Nyssa stava leggendo tranquillamente un libro in salotto quando la porta si aprì all’improvviso, portandola ad alzarsi di scatto e ad afferrare un coltello da sotto il divano. Si voltò in direzione dell’atrio, tenendo stretta l’arma nella mano destra. Trovò la forza di abbassarla solamente quando vide Sara con le spalle contro al muro e il volto madido di sudore.
«Cos’è successo?» domandò preoccupata, avvicinandosi alla bionda per poi metterle una mano sulla fronte.
«Mi hanno attaccata» sussurrò lei poco dopo. Aveva il respiro affannato e il cuore che minacciava di esploderle da un momento all’altro. «Un uomo… ha cercato di uccidermi.»
«Oh, no» mormorò Nyssa, sentendo la rabbia ribollirle nelle vene. «Sei riuscita a vederlo in viso?»
«No, ma…» Prese un respiro profondo, piegandosi un poco verso il basso. «Era della Lega.»
Quando Sara vide l’espressione di Nyssa farsi ancora più cupa, si affrettò a riprendere la parola. «Ho dovuto affrontarlo. Non volevo, ma ho dovuto. Se non avessi combattuto, io… lui…»
Canary si lasciò andare ad un pianto disperato, mentre la figlia di Ra’s gettò l’arma a terra e colse l’amata tra le proprie braccia.
«Scusami» sussurrò tra un singhiozzo e l’altro, nascondendo il volto nella spalla di Nyssa. «Ho dovuto, Nyssa. Ho dovuto...»
«Hai fatto quello che dovevi fare» le sussurrò l’Erede del Demonio all’orecchio, accarezzandole dolcemente i capelli nel tentativo di calmarla. Ma Sara era un fiume in piena, e Nyssa non ce la faceva più.
Con la mano libera, estrasse il cellulare della tasca e compose un numero che ormai conosceva a memoria. Quando la persona dall’altro capo del telefono rispose, Nyssa fece del suo meglio per nascondere il terrore che provava.
«Ho bisogno che tu mi aiuti a rintracciare una persona. Subito



«Hai intenzione di starmi col fiato sul collo per tutta la sera?»
Arrow digrignò i denti, trattenendo a stento il suo disperato bisogno di tirargli un pugno in faccia. «Sta’ zitto.»
Malcolm accennò un sorrisino, iniziando a giocherellare con la sedia di Felicity. «Devo dire che è molto comoda. Chissà quanto ti sarà costata.»
«Chiudi quella bocca, Merlyn» sbottò il vigilante, puntando l’indice contro il viso dell’uomo. «O giuro che…»
Un rumore di passi attirò l’attenzione dei due uomini, i quali si scambiarono uno sguardo. Nyssa comparve nel loro raggio visivo subito dopo, seguita a ruota da Sara. La figlia del Demonio camminava con passo deciso e adirato. Malcolm sapeva che avrebbe scaraventato quella rabbia su di lui, per questo decise di alzarsi in piedi e di sfidarla andandole incontro.
«Brutto bastardo!» urlò la mora, aggredendolo con tutte le forze che aveva in corpo. «Sei stato tu, non è vero? Sei stato tu?!»
Merlyn la lasciò fare, mentre sul suo viso si andava a formare un’espressione divertita. «Non so proprio di cosa tu stia parlando.»
«Mi riferisco al fatto che Maseo Yamashiro ha messo una taglia sopra alle nostre teste» spiegò, stringendo con forza il bavero della sua giacca. «E sai quando è iniziato tutto questo? Dal giorno in cui hai fatto ritorno a Starling City. Non vorrai farmi credere che si tratti di una pura coincidenza.»
«Credi davvero che Maseo Yamashiro non ti stesse tenendo d’occhio già da tempo? Andiamo, Nyssa. Non ti credevo così ingenua.»
«Lo so bene che mi controllava. Ma chissà come mai i suoi uomini hanno iniziato ad attaccarci solo dopo il tuo arrivo in città.»
«Sembrerebbe quasi che sia stato tu a dare loro il permesso di passare alla fase successiva» concluse Sara. Mentre pronunciava quelle parole, un brivido le attraversò la schiena.
Malcolm spostò lo sguardo verso di lei, per poi tornare a studiare gli occhi carichi di odio di Nyssa.
«Io non c’entro niente con questa storia, e tu lo sai bene. Anzi, lo sapete entrambe. Ma forse il pensiero che ci fosse il mio zampino rendeva le cose più facili da accettare.»
Sara si strinse nelle spalle, mentre Nyssa serrò la mascella. Non potevano essere certe che Malcolm fosse coinvolto, ma non potevano nemmeno affermare il contrario. Era un mistero che forse non avrebbero mai risolto.
L’Erede lasciò andare lentamente la presa sull’Arciere Nero, per poi allontanarlo con uno spintone.
«Non mi fido di lui» proruppe Oliver, avvicinandosi a Sara.
«Nemmeno io» ammise Nyssa. «Ma questa volta sta dicendo la verità.»
Malcolm si sistemò accuratamente il nodo della cravatta sotto lo sguardo vigile dei presenti. «Se volete togliervi dai piedi Maseo e i suoi scagnozzi, perché non lo affrontate e basta?»
«Perché non vogliamo scatenare una guerra.»
«Esistono altri modi in cui la Lega ha mai risolto i suoi problemi?»
Nyssa trattenne il respiro. Non aveva mai sentito niente di più vero. Nessuno si era mai messo contro la Lega degli Assassini senza essersi scontrato con essa. Una guerra era un ostacolo impossibile da evitare.
«Ora, se volete scusarmi, avrei un’importantissima cena con mia figlia a cui non posso mancare» li informò Malcolm, infilandosi le mani in tasca.
Sara e Oliver, seppur titubanti, furono costretti a spostarsi per permettergli di passare. Tuttavia, prima di uscire dal Covo, Merlyn si fermò a un soffio da Nyssa.
«C’è un solo modo per porre fine a tutto questo. E tu sai benissimo qual è.»

*

C’erano state notti in cui Sara non era riuscita a chiudere occhio. Era successo soprattutto tra la ventiquattresima e la ventiseiesima settimana, ma sua madre l’aveva rassicurata dicendole che lei aveva sofferto di insonnia durante entrambe le gravidanze. Tuttavia, non appena Sara aveva raggiunto il traguardo dei sette mesi, la situazione si era capovolta: ogni volta che si metteva a letto le sue palpebre si chiudevano senza che lei se ne accorgesse, e Nyssa passava ore e ore a osservarla mentre dormiva.
Nemmeno adesso la situazione era poi così diversa. Sara stava dormendo profondamente, mentre l’Erede del Demonio teneva lo sguardo fisso su di lei come se temesse che qualcuno potesse portargliela via. Tremava al solo pensiero che Sarab avesse davvero ordinato agli uomini che avevano ingaggiato di uccidere Sara. Non sarebbe stato più logico riportarle a Nanda Parbat vive? Non aveva senso.
La cosa più difficile che Nyssa aveva fatto quella notte era stata ammettere a sé stessa che Malcolm Merlyn aveva ragione. L’unico modo che aveva di scoprire la verità era incontrare Maseo. Anche se questo avrebbe significato dargli un vantaggio non indifferente.
La figlia di Ra's lanciò una rapida occhiata alla sveglia sul comodino. Segnava le quattro e trentotto. Nyssa sbuffò rivolta al soffitto, poi la sua attenzione venne catturata da una lieve vibrazione del materasso. Si voltò verso Sara, ma prima che potesse anche solo sfiorarla, percepì un altro movimento. Fu allora che capì. Non era stata Sara a muoversi. Era stato il bambino.
Emozionata e sorpresa, Nyssa si alzò in piedi lentamente, facendo del suo meglio per non svegliare l’altra donna. Si diresse verso il lato del letto in cui dormiva Sara, si accovacciò piano e osservò meravigliata il suo pancione. Non si era resa conto di quanto fosse cresciuto in così poco tempo.
Una piccola protuberanza si fece spazio nella camicia da notte di Sara. Nyssa intuì che si era trattato di un piedino. Si chiese come fosse possibile che Sara riuscisse a dormire in quelle condizioni, ma poi realizzò che la stanchezza e lo stress dovevano aver fatto la loro parte. E se nemmeno un bambino che scalciava irrequieto era riuscito a svegliarla, probabilmente non ci sarebbe riuscita nemmeno lei, perciò si decise a compiere il grande passo.
Prese un respiro profondo. Il cuore prese a batterle all’impazzata mentre appoggiava con dolcezza la mano nello stesso punto in cui aveva visto la sporgenza provocata dal piede del bambino.
«Ehi, piccolino» sussurrò, rivolta ai fiorellini bianchi stampati sul tessuto viola della camicia. «Sei parecchio agitato questa notte, eh?»
In tutta riposta, il bimbo scalciò ancora. Nyssa provò una sensazione inspiegabile all’altezza del petto. Sapeva che era una follia, ma il solo contatto della sua mano con la pancia di Sara le faceva credere che il bambino in realtà fosse dentro di lei.
«A quanto pare sei molto irrequieto, come la tua mamma» proseguì, scandendo le parole con attenzione.
Lui scalciò ancora, questa volta con più forza. E a quel punto, Nyssa crollò.
«Ascoltami bene, piccolino» esordì, iniziando ad accarezzare il pancione. «Non permetterò a nessuno di farti del male, okay? Hai capito? Dovranno passare sul mio cadavere prima di poterlo fare. Tu meriti di vivere, e anche la tua mamma. Vi proteggerò a qualunque costo. Te lo prometto. A qualunque costo
Nyssa tirò sul col naso. Le bruciava la gola, e aveva le guance rigate dalle lacrime. Non le importava. Sentiva di essere diventata un tutt’uno con Sara, e forse fu proprio quello a darle la forza di non arrendersi. Era il momento più intimo e più bello che avesse mai vissuto prima d’ora con la donna che amava, anche se lei non lo avrebbe mai saputo.
«E ti giuro che non permetterò che ti portino via da me. Sei troppo importante. E farò qualunque cosa pur di garantirti una vita tranquilla e felice. Non dimenticarlo mai.»
Nyssa sospirò pesantemente, asciugandosi le lacrime con la mano libera. Poi smise di accarezzare il pancione di Sara, e finalmente un sorriso le contornò le labbra. Il bambino aveva smesso di scalciare.


 

 

 

 

 

 

[1] “La morte sta arrivando” in Arabo.
[2] “Non avere paura” in Arabo.








Ho dovuto chiamare la bimba di Lyla e John Lisa perché in questa fanfiction Sara non è morta per mano di Thea, pertanto non avrebbe avuto senso che la primogenita della famiglia Diggle prendesse il nome di Canary.
Intanto, Maseo ha spostato il mirino su Sara, cosa che ha mandato completamente fuori di testa l’Erede del Demonio (non chiedetemi perché stia facendo un recap del capitolo a fine capitolo perché non ha senso, a quanto pare il freddo mi dà alla testa).
Secondo voi cos’ha intenzione di fare Nyssa? Ci dobbiamo preoccupare? Lo scoprirete nel prossimo episod‒ ehm, capitolo.

P.S. Dovrete pazientare fino al 15 Novembre in occasione del compleanno di Laurel!

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Capitolo 17
*** Capitolo 16: Protecting you ***


 

Capitolo 16:
Protecting you

 

 

There’s a room where the light won’t find you
Holding hands while the walls come tumbling down
When they do I’ll be right behind you

 


«Ricapitolando, abbiamo festoni, palloncini, piatti e bicchieri... che altro? Ah, sì, ci sono anche i cappellini di carta. Eppure ho come l’impressione che manchi qualcosa...»
Nyssa osservò prima Sara, poi la lista che aveva tra le mani, e infine di nuovo Sara. «Non dimentichi la torta?»
«È vero, all’inizio mi ero scordata della torta, ma ho già rimediato. Ho chiesto ad Adam di prepararmene una domattina, così sarà pronta per l’ora di cena.»
«E da quando tu e Adam siete amici?»
«Da quando mi ha prestato il suo libro di cucina. Ci sono delle ricette che devo assolutamente provare!» Di fronte all’occhiata confusa di Nyssa, Sara si schiarì la voce. «Comunque, c’è ancora qualcosa che non quadra. Pensò che farò un salto al supermercato. Magari durante il tragitto mi verrà in mente cosa manca.»
«Vuoi che ti accompagni?»
«No, ieri sera sei rimasta al lavoro fino a tardi, perciò è giusto che ti riposi. Posso provare a chiedere a mio padre se ha voglia di venire con me.»
La figlia di Ra’s abbassò improvvisamente il volume della TV, guardando Sara dritto negli occhi. «Voi due non avete più parlato di quello che è successo la settimana scorsa, non è vero?»
Canary arricciò il naso. «No. Credo che sia rimasto scosso nel vedermi combattere con un mercenario della Lega.»
«E ti aspetti che io creda che ti farai accompagnare da lui anche se non vi parlate da almeno dieci giorni?»
Sara fece una smorfia, trattenendo a stento un sospiro. «Ti prego, lasciami andare da sola. Non puoi tenermi rinchiusa nella torre per sempre.»
«Non sto rinchiudendo nessuno. Sto solo cercando di proteggerti.»
«“Prima o poi arriveranno”» sussurrò Sara, stringendosi nelle spalle. «Sei stata tu a dirmi questa frase. E hai anche aggiunto che a quel punto non avremmo più potuto fare nulla.»
«Lo so» esordì cautamente Nyssa, poggiando una mano su quella di Sara. «Ma ciò non significa che dobbiamo smettere di essere prudenti.»
«Non dobbiamo neanche smettere di vivere, se è per questo.»
La mora ritrasse di colpo la mano, come se con quelle parole Sara le avesse dato la scossa.
«Ti invierò un messaggio non appena arriverò al supermercato, okay? E un altro quando sarò sulla via di casa. Non mi capiterà niente, lo giuro.»
Nyssa percepì un brivido attraversarle la schiena. Era strano come appena una settimana prima Sara fosse scoppiata in lacrime tra le sue braccia al pensiero di aver dovuto combattere contro uno della Lega,, mentre adesso sembrava aver ritrovato tutto il coraggio e la forza che aveva perso quel giorno. Non riusciva a spiegarsi come potesse essere così tranquilla pur sapendo di avere costantemente un mirino puntato alla propria testa.
«E va bene» soffiò l’Erede, abbozzando un sorriso. «Ma se non torni entro un’ora ti verrò a prendere.»
«Non ti preoccupare. Sarò più veloce di un fulmine» rise Sara, scoccandole un bacio sulla guancia.
«Lo spero.»
Sara fece per alzarsi dal divano, ma quando si ritrovò in piedi, fu costretta a piegarsi in due dal dolore. Si portò una mano alla schiena e l’altra sul pancione, mentre Nyssa si affrettò a sorreggerla per evitare che cadesse.
«Sara?» esclamò, spaventata. «Sara, cos’è successo?»
«N-Niente» balbettò lei, rimettendosi in posizione eretta. «Non lo so. È stato come un... Non saprei nemmeno io come definirlo. È come se qualcuno mi avesse dato un calcio alla schiena, e al tempo stesso ho percepito qualcosa qui» spiegò, toccandosi il basso ventre.
«Il bambino ha scalciato troppo forte?»
«No, è stato qualcosa di diverso. Più forte di un calcio.»
Nyssa si incupì, stringendo appena il braccio di Sara. «Stenditi.»
«Ma, Nyssa...»
«Sara, non cominciare.»
«Il compleanno di Laurel è domani.»
«Non ha importanza. Andrò al supermercato più tardi. Adesso stenditi sul divano e cerca di riposare.»
Sara non si oppose; al contrario, annuì e si fece aiutare da Nyssa per mettersi comoda. Stava già meglio, ma provava ancora una strana sensazione che non avrebbe saputo decifrare.
Nyssa le mise una mano sulla fronte. «Vado a prenderti dell’acqua» disse agitata, scomparendo in cucina. Quando tornò, aveva un bicchiere pieno nella mano destra e una busta bianca in quella sinistra.
«Sara» proruppe poi, porgendole la busta. «Hai dimenticato di spedire gli inviti per la festa.»



Oliver riemerse da una pila di scatoloni con una bottiglia di whiskey in mano e un sorriso soddisfatto.
«Com’è che all’improvviso il Verdant è così fornito?» ironizzò Dig, porgendo all’amico il proprio bicchiere vuoto.
«Dobbiamo ringraziare Thea e i soldi di Merlyn. Quando il Verdant riaprirà, avremo a nostra disposizione almeno qualche centinaia di queste ogni notte» spiegò, alzando in aria la bottiglia di vetro.
«E cosa ti fa credere che a tua sorella andrà bene?»
«Rischiamo le nostre vite per salvare quelle di persone innocenti. Tra cui la sua. Credo che questo potrebbe essere un ottimo modo per ringraziarci.»
John scosse il capo divertito. «Sai, non ti ho conosciuto nel pieno della tua adolescenza, ma credo che questa sarebbe una tipica frase del vecchio Oliver.»
Il diretto interessato rise appena. «Sto solo scherzando. Thea ha messo da parte una scatola di liquori per la squadra, tutto qui.»
«Lo immaginavo» affermò Diggle, sollevando il bicchiere ormai non più vuoto. «A cosa brindiamo?»
«A tua figlia» rispose Arrow, senza nemmeno pensarci due volte.
«E alla tua» proseguì John. «O al tuo, visto che non si sa ancora se diventerà un giocatore di football o una ballerina.»
Oliver sembrò sul punto di arrossire, ma prima che l’amico potesse accorgersene, fece tintinnare i loro bicchieri. «Affare fatto.»
Dig buttò giù un sorso di whiskey. «Ormai siamo padri, Oliver. Tutti e due. E pensare che fino all’anno scorso ero solo la tua guardia del corpo.»
«In realtà, sono quasi passati due anni dal giorno in cui mia madre ti ha ingaggiato per evitare che mi cacciassi nei guai» rivelò Oliver, osservando il fondo del proprio bicchiere. «Non riesco a credere che le nostre vite siano cambiate così tanto in così poco tempo.»
«Non dirlo a me, fratello» continuò John, scuotendo nervosamente il capo. «Non dirlo a me.»
«A proposito, mi sono dimenticato di chiedertelo prima. Come mai hai scelto il nome “Lisa” per tua figlia?»
«Io e Lyla lo abbiamo scelto insieme, in realtà» spiegò Diggle, poggiando il tumbler ormai vuoto sul bancone. «Significa “la promessa di Dio”. Volevamo che la nostra primogenita avesse un nome con un significato particolare. Le persone con questo nome sono tenaci, avventurose e incredibilmente combattive. Un po’ come sua madre.» Rise.
«Già. Sembra proprio la descrizione di Lyla.» I due si scambiarono un’occhiata. «È davvero un bel nome.»
«Grazie. E tu e Sara? Avete già pensato a un nome?»
«Sinceramente? Non ne abbiamo neanche mai parlato.»
«Oh, andiamo. Se dovessi scegliere un nome adesso, proprio ora, quale sarebbe il primo a venirti in mente?»
L’uomo sembrò pensarci su per qualche istante. «Se fosse un maschio, lo chiamerei Tommy.» Dig sorrise appena nell’udire quel nome. «Ma con tutto quello di cui mi sono dovuto occupare in questo periodo, non ci ho mai pensato seriamente. E poi è giusto che sia Sara a scegliere il nome.»
«Lo avete fatto in due, Oliver.»
«Lo so. Ma lei ha voluto questo bambino più di quanto lo volessi io. È un motivo più che valido per darle la precedenza sulle decisioni importanti.» Arrow buttò giù tutto il whiskey in un colpo solo, chiudendo gli occhi al passaggio del liquore nella sua gola. Un giorno, forse, avrebbe smesso di darsi la colpa per aver scelto Felicity al suo bambino. Ma quel giorno non era ancora arrivato. «E Alena?»
Diggle prese un respiro profondo. «È un nome che ho sentito in Afghanistan durante i miei ultimi mesi di servizio. Un villaggio era stato bombardato dai Talebani, e noi stavamo aiutando i sopravvissuti a cercare i loro cari in mezzo a centinaia di morti. Trovai una bambina ancora in fasce poco distante. Le mancavano un braccio e una gamba. Quando la madre l’ha riconosciuta, è scoppiata in un mare di lacrime, e mi ha chiesto di seppellirla in un posto lontano.»
Oliver si paralizzò sullo sgabello, scioccato. «E tu lo hai fatto?»
Dig sospirò pesantemente, passandosi una mano sul collo. «Non potevo dirle di no. Voleva che la sua bambina riposasse per sempre in un posto più pacifico. È addirittura arrivata a chiedermi di portarla in America, ma sapeva che era impossibile. L’abbiamo messa insieme agli altri bambini. È stata la cosa più difficile che mi abbiano mai chiesto di fare.»
Istintivamente, Oliver si ritrovò a pensare a quando aveva seppellito il corpo di suo padre, Yao Fei, Shado e infine Taiana. Aveva visto morire davanti ai propri occhi Akio Yamashiro, sua madre e persino Sara, ma nonostante tutto Oliver aveva sempre trovato la forza per andare avanti. Non poteva immaginare quale impatto avesse avuto in John vedere un neonato morto e mutilato e doverlo seppellire insieme a chissà quanti altri bambini sotto i sei anni.
«Io…» Si schiarì la voce, inspirando a fondo. «La bambina si chiamava Alena, giusto?»
Diggle scosse la testa. «No. Quando l’abbiamo trovata non le era ancora stato dato un nome. Alena era la sorella più grande, morta qualche anno prima per poliomielite. È stato uno di quei momenti che ti cambiano la vita. Dover dire a una donna che ha già perso una figlia che la sua bambina nata da poco è morta a causa di una bomba.» Fissò distrattamente un punto nel vuoto, ripensando con dolore agli avvenimenti di quel giorno ormai lontano. «Alena è un nome che mi ricorda quanto la vita possa essere tremenda, ma come un figlio possa rendere tutto migliore. Quella bambina era una guerriera, Oliver. E voglio che anche Lisa diventi forte come una combattente.»
«Trattandosi di tua figlia, John, sono più che sicuro che sarà una tosta.»
«E tua moglie ha acconsentito a darle quel nome pur sapendo quale storia celasse?»
«In realtà, potrei avere omesso qualche particolare» rivelò Dig, rivolto alla terza voce. «E comunque non è mia moglie. O almeno, non più.»
«Vorrai dire “non ancora”.»
Nyssa rise sotto ai baffi nello scorgere l’imbarazzo negli occhi dell’uomo. Era sempre stata brava nello scoprire rapidamente i punti deboli delle persone.
«Cosa vi porta qui?» domandò Oliver rivolto a Sara, la quale aveva la mano stretta intorno al braccio di Nyssa.
«Stavamo solo facendo una passeggiata. E poi, qualcuno ci ha avvertite che era un ottimo giorno per festeggiare» aggiunse l’Erede del Demonio, mentre faceva l’occhiolino a John.
«Beh, allora direi che si può cominciare a bere, giusto?» scherzò Sara, con un’alzata di spalle.
«Non ti preoccupare. Berrò anche per te» rispose la mora, ricevendo in tutta risposta un finto broncio da parte dell’amata.
«Per te ci vuole qualcosa di più leggero» spiegò Oliver, mettendosi le mani in tasca. «Tipo dell’acqua gassata.»
Prima che Sara potesse rispondere a dovere, il suo iniziò a squillare all’improvviso. Quando la donna lesse il numero sullo schermo, puntò l’indice in direzione di Oliver. «Devo rispondere, ma ti consiglio di trovare da qualche parte una birra analcolica prima che ritorni.»
Il vigilante trattenne una risata, mentre Sara si allontanò rapidamente dal gruppetto.
«Pronto?»
Silenzio. Nessuno rispose. Poi, dopo qualche secondo, udì qualcuno dall’altro capo del telefono schiarirsi la gola, e Sara capì all’istante chi fosse.
«Scusa se ti chiamo da una cabina telefonica, ma ho dimenticato il cellulare a casa di Rick e non mi andava di tornare a prenderlo.»
«Figurati. C’è qualcosa che non va?»
«Sì. Cioè, no. Volevo solo... parlarti di una cosa.»
Sara prese un respiro profondo, pronta ad ascoltare quello che Sin aveva da dirle.
«Ecco, io... Volevo ringraziare te e Nyssa per avermi ospitata a casa vostra nelle ultime settimane. È stato un gesto davvero generoso da parte vostra.»
«Non dirlo nemmeno. Sai che potrai sempre contare su di noi.»
Cindy sospirò sommessamente, ma Canary percepì comunque il suo malessere. «Sin, sai che a me puoi dire tutto, vero? Tu e Richard avete litigato?»
«No, anzi, tutto il contrario» si affrettò a rispondere la mora, imbarazzata. «Ho deciso di andare a vivere con lui. Insomma, di provarci.» Fece un pausa, pensando con attenzione alle parole da usare. « Sono passata poco fa a prendere le mie cose e a salutarvi, ma non vi ho trovate a casa. Ho nascosto la chiave sotto allo zerbino.»
«Sei ancora nei paraggi? Possiamo rientrare subito, se vuoi. Siamo...»
«Sta’ tranquilla, Sara. Mi trasferisco soltanto un paio di chilometri più in là. Potremmo vederci tutte le volte che vorremo» la rassicurò Sin, anche se in realtà quella più spaventata delle due doveva essere lei.
La bionda annuì convinta. «Hai ragione. Possiamo vederci quando vogliamo. E poi, tra un paio di mesi, ti insegnerò come cambiare un pannolino.»
«Passo!» Cindy scoppiò in una sonora risata, mentre a Sara cominciarono a pizzicare gli occhi. «Sarà meglio che vada. Il tempo sta per scadere.» Le tremava la voce mentre pronunciava quelle parole. «Beh, allora... ci vediamo.»
Sara avrebbe tanto voluto dirle di non andarsene, di restare a vivere insieme a loro ancora un po’, di aspettare almeno che nascesse il bambino. Anche se Sin passava la maggior parte delle sue serate in giro per la città, sia lei che Nyssa ormai si erano abituate all’idea di avere una ragazzina in giro per casa. Non erano mai state infastidite dalla sua presenza, anzi: fino ad allora Cindy non aveva fatto altro che rendere le loro giornate un po’ più semplici.
Ma Sin ormai era adulta, un’adulta pronta ad andare a convivere con il suo ragazzo. E Sara doveva lasciarla andare.
«Aspetta!» urlò all’improvviso, assicurandosi che la mora non riattaccasse. «E la tua cassettiera?»
«Puoi tenerla» soffiò Sin, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo. «Al momento non mi posso permettere un regalo per il bambino, perciò… spero potrai apprezzare comunque il gesto.»
A Sara si scaldò il cuore. «Lo apprezzo molto, Sin.» Subito dopo, la comunicazione si interruppe.
Sara mise il cellulare in tasca e si passò l’indice sotto all’occhio destro. Non avrebbe avuto alcun senso piangere. Doveva essere felice per la sua amica, la quale aveva finalmente trovato il coraggio di dare una svolta alla propria vita. Scosse il capo, ricacciando indietro le lacrime. Sii felice.
Quando Sara ebbe raggiunto nuovamente il gruppo, Nyssa stava parlando animatamente con Diggle riguardo a sua figlia, mentre Oliver teneva lo sguardo fisso sullo schermo del proprio cellulare.
«Aspetti una telefonata importante?»
Oliver, colto alla sprovvista, alzò lo sguardo spaesato. «Cosa...? Oh, no, stavo solo cercando di rintracciare Felicity. Stranamente non risponde alle mie chiamate.»
«Forse è in una zona in cui non c’è campo. Perché non riprovi?»
«Non ce n’è bisogno.»
Felicity li raggiunse a passo spedito, il fiato corto e il volto pallido. Prima che qualcuno potesse chiederle cosa le fosse capitato, lei riprese la parola.
«Dovete venire a vedere.»
I presenti si scambiarono occhiate confuse, ma non esitarono un secondo di più. Uscirono dal Verdant il più in fretta possibile, e la prima cosa che videro una volta in strada fu un’immensa scia viola squarciare il cielo sopra un palazzo. Un segnale di fumo.
Il respiro di Sara si fece affannoso.  La Lega degli Assassini, avrebbe voluto dire, ma prima che potesse tramutare quel pensiero in parole, Nyssa fece un passo avanti e guardò Oliver negli occhi, più seria che mai.
«Non vi immischiate.»
E si allontanò di corsa prima che qualcuno potesse fermarla.



«Cos’hai intenzione di fare?»
Nyssa si infilò i guanti da combattimento sotto lo sguardo accusatorio di Sara. «A te cosa sembra?»
«Mi sembra che tu voglia farti ammazzare.»
L’Erede del Demonio strinse i denti nell’udire quell’affronto. «Sono sopravvissuta alle missioni più pericolose che un uomo potesse affrontare. So badare a me stessa, Sara. Sarab non mi fa di certo paura.»
«Non è di lui che mi preoccupo» spiegò la bionda, una vena di paura nella voce. «Ma tuo padre...»
«Lui non sarà più un problema da oggi in poi.»
Sara, confusa e scioccata nel sentire quelle parole, aggrottò la fronte. «Che intendi dire?»
Nyssa contò le frecce, le ripose con cura nella faretra e se la mise sulle spalle. «Me ne occupo io. Tu resta qui.»
«No.» Sara si frappose tra Nyssa e la porta, stringendole il braccio con tutte le forze che aveva. «Se credi davvero che ti permetterò di sacrificarti per me‒»
«Sarab vuole me» soffiò la mora con decisione. «Ti ha usata solo per arrivare a me. È me che voleva fin dal principio. Se mi uccide, potrà diventare il nuovo Erede del Demonio. Ma se invece lo uccido io...»
Sara deglutì con forza, terrorizzata all’idea che Maseo giocasse sporco e riuscisse così ad avere la meglio sulla sua amata. «Non sappiamo cosa ti attende. Maseo potrebbe essersi trascinato dietro un intero esercito. E nonostante ciò, tu vuoi che io me ne stia in disparte.»
«Non saresti di grande aiuto sul campo nelle tue condizioni attuali.»
«E Oliver? Gli avevi chiesto di darci una mano in caso di necessità. Perché di punto in bianco hai deciso di giocare al lupo solitario e di andare a combattere per conto tuo?»
Nyssa si liberò dalla stretta di Sara con un forte strattone, dopodiché le immobilizzò entrambe le braccia con una mano e poggiò l’altra sulla sua nuca.
«Ascoltami bene» sussurrò, mentre gli occhi glaciali di Sara la scrutavano con attenzione. «Ho troppi cadaveri sulla coscienza. Non voglio che altre persone muoiano a causa mia. Soprattutto il padre di mio figlio.»
Sara non voleva sentire il resto di quella frase. Voleva che Nyssa la baciasse, che le dicesse che sarebbero potute scappare ancora, e ancora, e ancora, fino a quando Ra’s si sarebbe scordato di loro e avrebbe smesso di dargli la caccia. Ma Nyssa non fece nulla di tutto ciò.
«Non sto andando a morire. Sto andando a combattere per noi. Per te. Sto andando a salvarti la vita.»
«Allora permettimi di venire con te. Combattiamo insieme questa guerra.»
Canary riuscì a scorgere l’ombra di un sorriso sulle labbra di Nyssa, ma fu solo per un istante. «Ho bisogno di sapere che sarai al sicuro. Oliver e gli altri ti proteggeranno. Di questo ne sono certa.»
Sara cercò di lottare, di liberarsi dalla presa di Nyssa, ma era tutto inutile. Avrebbe tanto voluto dire qualcosa, anche solo una parola, una sillaba, ma aveva gli occhi pieni di lacrime e il cuore in gola, e così le uscì solo un lamento strozzato.
«Ti amo, Sara» sussurrò la donna dai capelli neri, divorata dal dolore. Poi, con estrema delicatezza, si avvicinò all’amata di qualche centimetro, facendole credere che l’avrebbe baciata. Si fermò a un soffio dalle sue labbra, fece pressione sul suo collo e la strinse tra le proprie braccia quando perse i sensi. La adagiò a terra con cura, scostandole i capelli dal viso per ammirare quanto fosse diventata bella. Spostò la mano ancora più in basso, indugiando sul pancione, e fu allora che capì di non potersi permettere altro tempo.



Quella notte, Starling City pareva più buia che mai. In cielo non c’erano stelle, e la luna era coperta da una coltre di nuvole. Come se l’universo già sapesse che qualcuno, quella stessa notte, avrebbe necessitato del buio per agire a proprio favore.
Nyssa arrivò in cima al palazzo con solo l’oscurità a farle compagnia. Teneva l’arco teso, pronta a scoccare una freccia contro chiunque intralciasse il suo cammino. Non percepiva il minimo rumore, ed era questo che la preoccupava più di tutto.
Sapeva che Sara era al sicuro. L’aveva portata in uno dei loro nascondigli segreti, sulla cima di un edificio a Howard Street. Nessuno l’avrebbe trovata. Nessuno le avrebbe fatto del male. Doveva solo trovare un accordo con Maseo, o eventualmente ucciderlo, e tutto si sarebbe sistemato. Tutto sarebbe tornato alla normalità.
«Ero convinto che ti saresti presentata in compagnia dei tuoi nuovi amici.»
Nyssa si voltò lentamente, inspirando a pieni polmoni l’aria gelida dell’autunno. «Sono la figlia di Ra’s al Ghul, Erede del Demonio. A differenza tua, io non ho bisogno di un esercito» disse cautamente lei, alludendo alla dozzina di mercenari che se ne stavano impalati dietro a Sarab.
«Loro sono qui solo per essere testimoni di questo incontro. Se non lo avessi capito, è stato Ra’s al Ghul in persona a chiedermi di tenere d’occhio sia te che Ta-er al-Sahfer» spiegò il giapponese.
Nyssa digrignò i denti. Le sue teorie si erano rivelate sbagliate... a metà.
«Credo sia inutile dirti che tuo padre è molto deluso dal tuo comportamento. Ma in fondo, se lo aspettava.»
«Se aveva qualcosa da dirmi, poteva anche farlo con la sua lingua.»
«Non avrebbe mai attraversato il globo solo per darti una lezione simile. Dovresti saperlo bene.»
Un sorriso amaro contornò le labbra della mora. «No, ma certo. Non muoverebbe un dito nemmeno se qualcuno lo minacciasse di uccidermi. Per questo ha mandato te. Il suo burattino.» Nyssa cercò di calcare il più possibile quella parola, attendendo una reazione imprevedibile da parte di Maseo. «Non mi stupisce che tu non sia ancora riuscito a tagliare i fili. D’altronde, c’era da aspettarselo da uno come te.»
L’uomo incrociò le mani e dedicò all’Erede uno sguardo divertito. «Giusto perché tu lo sappia, tuo padre ha sospettato che gli stessi nascondendo qualcosa fin dal giorno in cui tu e Sara ve ne siete andate. Mi ha chiesto di ingaggiare i migliori guerrieri per potervi controllare senza dare nell’occhio, e indovina un po’ come ha reagito quando ha scoperto della gravidanza di Ta-er al-Sahfer?»
Nyssa deglutì impercettibilmente, mentre Maseo la osservava con quel ghigno insopportabile.
«Sapeva che le parole non sarebbero servite con te. Sapeva che non saresti più tornata indietro.» Fece una pausa, mentre una lieve brezza gli accarezzava i capelli raccolti nella sua solita coda bassa. «Così, mi ha dato l’autorizzazione per passare alla fase due.»
«Che suppongo fosse ucciderci, giusto?»
Maseo colse l’ironia nel tono di Nyssa, ma restò serio. «No. Ra’s al Ghul voleva solo pareggiare i conti. O almeno, era così inizialmente. Adesso, invece...»
Il rumore di un tuono interruppe bruscamente la conversazione tra i due. Sarab alzò lo sguardo verso il cielo, scuro e prossimo alla pioggia. Nyssa, invece, non mosse un muscolo, pronta ad agire.
«Le cose sono cambiate.»
Maseo estrasse la katana dalla fondina e si avventò sulla donna ad una velocità quasi impercettibile. Nyssa scoccò una freccia, che Sarab parò con la propria arma; subito dopo, lui tentò di colpirla all’addome, ma Nyssa fu più scaltra e si difese con il proprio arco, spingendolo contro la resistenza della katana.
«Ritirati prima che sia troppo tardi, Sarab. Non ho voglia di perdere il mio tempo con te» lo sfidò la figlia del Demonio, con gli occhi carichi di rabbia.
«Non esiste che io perda questo incontro. Dimostrerò a tuo padre che sono degno del mio nome.»
L’uomo lasciò andare la presa, ritraendosi bruscamente e indietreggiando di qualche passo. Nyssa rischiò di perdere l’equilibrio, ma puntò i piedi a terra e digrignò i denti, visibilmente adirata.
«Io sono Nyssa al Ghul, Erede del Demonio. E ti ordino di darmi ascolto!»
Maseo non si lasciò intimidire dalle grida di Nyssa. Al contrario, sporse il mento in avanti, con aria di sfida. «Io servo Ra’s al Ghul. Non prendo ordini da un semplice guerriero come te.»
A quel punto, Nyssa divenne furente. Colpì Maseo dritto allo stomaco, per poi assestargli un gancio destro in pieno viso e rubargli la katana. Con un calcio lo costrinse a inginocchiarsi a terra, e gli puntò la lama alla gola, cosicché lui fosse obbligato a guardarla negli occhi.
«Ho dato ordine ai miei uomini di ucciderti in caso tu decidessi di uccidere me» la informò il giapponese, senza mostrare il minimo segno di terrore. «Tuo padre non potrà prendersela con un uomo morto, perciò non verrò punito per averti uccisa e aver disobbedito ai suoi ordini.» Sarab osservò fiero lo sguardo impotente della figlia di Ra’s al Ghul. «Per quanto tu possa sforzarti di raggiungermi, sono sempre un passo avanti a te. Perciò, sei tu quella che dovrebbe arrendersi dei due.»
Maseo afferrò la katana con la mano destra, mentre con quella sinistra assestò un pugno sul viso di Nyssa. I suoi movimenti furono così rapidi che l’Erede non ebbe il tempo di prevederli. L’arco di Nyssa cadde a terra, e un rivolo di sangue le uscì dal naso. Si pulì col dorso della mano, dopodiché si liberò della faretra, consapevole che la scelta migliore per fronteggiare Maseo era un corpo a corpo. Nel frattempo, l’uomo puntò la propria arma alla gola di Nyssa, capovolgendo la situazione di pochi secondi prima.
«Farà un po’ male, ma mi assicurerò che tu non muoia» spiegò l'uomo, scendendo lentamente fino all’altezza dello stomaco di Nyssa. «Forse ti resterà una cicatrice. O magari, potrebbe andarti peggio...»
«Ti consiglio di non farlo.»
Sarab avrebbe riconosciuto quella voce ovunque. Per questo motivo, anziché alzare lo sguardo per guardare la sua interlocutrice negli occhi, si limitò a sorridere sotto ai baffi.
«Felice di rivederti, Al-Sahfer. È ammirevole che tu voglia combattere nonostante la tua... situazione.»
A Nyssa si raggelò il sangue. Quanto tempo era passato da quando aveva lasciato Sara nel loro rifugio? Un’ora, forse? O molto di più? Non seppe darsi una risposta, ma quello che era certo era che Sara aveva ripreso conoscenza prima del previsto. Troppo prima.
«Allontanati da lei, o giuro che ti pianto una freccia in un occhio» lo minacciò la donna, l’arco teso in direzione del suo viso.
Maseo osservò prima Nyssa, poi Sara, e infine di nuovo Nyssa. Non aveva affatto paura di Sara, questo lo sapevano bene entrambi, ma decise comunque di ritrarre la katana e di indietreggiare di qualche passo. Non appena Sarab si fu allontanato, Nyssa si voltò in direzione di Canary, che aveva l’arco ancora puntato in direzione dell’uomo.
«Che stai facendo?» domando la figlia di Ra’s, un pizzico di preoccupazione nella voce.
«Ti salvo la vita.»
Nyssa serrò la mascella, cogliendo al volo l’allusione alle parole che aveva pronunciato lei stessa poco prima. Il suo desiderio in quel momento era di stringere Sara tra le propria braccia e di metterla al sicuro, ma ormai era troppo tardi. Non aveva idea di quello che sarebbe successo di lì a poco, ma ormai Sara non avrebbe più potuto scappare. C’erano dentro insieme.
«Bene bene» esordì ad un tratto Sarab, iniziando ad applaudire in modo ironico. «A quanto vedo nemmeno la gravidanza ti può fermare, Al-Sahfer.»
«Il mio nome è Sara Lance.»
Maseo si lasciò andare ad una risatina amara. «Già. Non sei mai stata davvero una di noi. Sei riuscita persino a raggirare la figlia del Demonio.»
«Sono stata una di voi fin troppo a lungo» lo schernì la bionda, mentre l’amata tratteneva a stento la propria collera. «E Nyssa è perfettamente in grado di prendere le sue decisioni da sola.»
«Non è quello che pensa suo padre.»
«Quello che pensa mio padre è irrilevante» s’intromise l’Erede del Demonio, mentre minuscole goccioline di pioggia si insidiavano tra i suoi capelli. «Nessuno ha il diritto di dirmi come devo vivere la mia vita.»
Per un istante, Sara provò una sensazione piacevole all’altezza del cuore. Era la prima volta che Nyssa si opponeva realmente al volere di suo padre. Era la prima volta che si ribellava a Ra’s al Ghul, e in un certo senso Sara era felice di vederla uscire finalmente dal suo guscio. Nyssa aveva trascorso la sua intera vita a subire le ingiustizie del padre, e adesso era finalmente riuscita a farsi valere. Era fiera della donna che si trovava davanti, fiera della persona che era diventata. Ma quello non era né il luogo, né tantomeno il momento adatto per dirglielo.
«Ciò non toglie che questi mesi lontano da casa ti abbiano rammollita. Se Ta-er al-Sahfer non fosse intervenuta, probabilmente a quest’ora saresti già morta. Sei una vergogna per tutti quei guerrieri che sono morti bramando l’agognato titolo che ti trascini dietro fin dal giorno della tua nascita.»
A quel punto, Nyssa non riuscì più a trattenersi. «Stai recitando alla perfezione il copione, giusto? Stai cercando di convincermi a farmi tornare a Nanda Parbat con te. So dove vuoi arrivare. Se non tornerò a casa, perderò il diritto a diventare la prossima Testa del Demonio.»
Un secondo lampo squarciò il cielo, incitando la pioggia a farsi più violenta. Alcuni degli uomini di Sarab indietreggiarono, coprendosi il volto con il braccio per cercare di contrastare il vento che si scagliava contro di loro.
«Se il problema è solo questo, allora puoi tornartene a casa vittorioso. Ti cedo il mio titolo di Erede del Demonio.»
Maseo scoppiò in una piccola risata. «Tuo padre sapeva che mi avresti fatto questa proposta.»
«Allora digli che mi hai sconfitta in combattimento. Digli che mi hai uccisa, e finiamola qui, adesso e per sempre.»
«Non è così semplice» spiegò Sarab, inspirando profondamente. «Ra’s vuole che ti riporti a casa ad ogni costo. Quello che accadrà dopo non mi riguarda. Ma devo obbedire al suo volere.»
Il temporale continuava a farsi sempre più brusco, ma né Sara, Nyssa o Maseo si mossero di un millimetro. Ogni momento sarebbe stato buono per ricominciare a combattere.
«A proposito, Al-Sahfer» riprese a dire l’uomo, voltandosi in direzione di Sara. «La Dottoressa Kawamura ti manda i suoi saluti.»
Sara si paralizzò, mentre uno strano formicolio le invase le gambe. No.
«Che cosa gli hai fatto?» domandò, stringendo con ancora più forza l’arco.
«È stato fin troppo facile convincerla a parlare. È bastato minacciarla di fare del male a suo figlio per farla cantare come una gallina» spiegò il giapponese, evitando spudoratamente di rispondere alla domanda di Canary.
«Se le hai torto anche solo un capello, ti giuro che‒»
«Come puoi anche solo credere che io abbia paura di te? Non sarei intimidito nemmeno se tu e Nyssa combatteste insieme. Come potrei temervi se non siete nemmeno riuscite a tenere testa all’agente Richards?»
«Aspetta un attimo» esclamò Sara, allentando appena la presa sull’arco. «Quel nome...»
«Sei stato tu.» Nyssa impugnò la propria spada, sentendo la rabbia ribollirle nelle vene. «Sei stato tu a mandare l’Incantatrice.»
«Abbiamo diversi infiltrati all’H.I.V.E, in caso non lo sapessi» la informò l’uomo, rigirandosi distrattamente la katana tra le mani. La voglia di combattere che aleggiava tra lui e Nyssa era palpabile nell’aria intrisa di pioggia. «Ma sfortunatamente, la Richards non era una di loro. Era una semplice guerriera che cercava vendetta per il proprio coniuge deceduto, ma ho voluto comunque darle un’opportunità. Inutile dire che me ne sono sbarazzato personalmente subito dopo il suo fallimento.»
Ecco perché riuscivo a prevedere le sue mosse, rifletté la figlia di Ra’s al Ghul. Perché Damien Darhk e mio padre hanno ricevuto lo stesso addestramento.
«C’è solo un modo per porre fine a tutto questo» gridò Maseo, cercando di farsi sentire nonostante il rumore del temporale. «È una proposta che arriva direttamente da tuo padre. Ma ho voluto aspettare che fosse presente anche la tua amata per discuterne.»
Il fatto che Sarab si rivolgesse a Sara come “la sua amata” non faceva altro se non aumentare l’ira di Nyssa, la quale era pronta a scagliare il prossimo attacco.
«Una volta nato il figlio che Ta-er al-Sahfer porta in grembo, lui ‒ o lei ‒ dovrà essere consegnato alla Lega degli Assassini, diventando il nuovo Erede del Demonio.»
A Sara mancò il fiato per parlare. Il cuore prese a batterle talmente forte da farle temere che qualcuno potesse sentirlo martellare. Era un’idea assurda. Sapeva che Ra’s la odiava con tutta la sua anima, ma sarebbe davvero arrivato a tanto? Le avrebbe tolto il suo stesso figlio, pur di farle del male? Si diede della stupida per aver pensato il contrario. Ra’s aveva fatto lo stesso con la madre di Nyssa. L’aveva privata del lusso di poter vedere la propria figlia crescere. Per quale motivo non avrebbe dovuto fare lo stesso con lei?
«In questo modo, voi due potrete essere le artefici del vostro futuro. Se vorrete vivere una vita al di fuori della Lega, tuo padre non ve lo impedirà. Ma in cambio, vuole un’anima pura con cui poter ricominciare da zero. Un’anima che abbia il sangue di due guerrieri dignitosi come Sara Lance e Oliver Queen.»
«Come fai ad essere certo che il padre sia Oliver Queen?» domandò l’Erede del Demonio, i capelli fradici appiccicati al viso.
«Non dubitare delle risorse di tuo padre. Lui sa tutto» spiegò Sarab. «Ra’s alleverà questo bambino come se fosse suo figlio, addestrandolo come ha fatto con te e preparandolo ad accettare il suo destino. E un giorno, probabilmente, gli cederà il proprio anello, permettendogli di diventare il prossimo Ra’s al Ghul.»
«È la proposta più folle e meschina che abbia mai sentito» sibilò Nyssa disgustata.
«Non era questo che volevate? Poter essere libere? Ra’s vi sta offrendo questa possibilità su un piatto d’argento. In cambio dovrete solo pagare un piccolo prezzo.»
«Un piccolo prezzo? Non siamo tutti come te, Maseo. Non tutti rinunciano ai propri figli con così tanta facilità» azzardò Sara, la voce incrinata a causa della paura che qualcuno potesse portarle via il suo bambino. Il solo pensiero le dava la nausea.
Maseo non si lasciò sfuggire l’allusione, motivo per cui puntò la katana in direzione della bionda. «Sapevo che non avreste accettato. In tal caso, Ta-er al-Sahfer, ti dichiaro colpevole di tradimento: nei confronti di Ra’s al Ghul per aver deciso di avere un bambino senza il suo consenso; nei confronti di sua figlia, Nyssa al Ghul, legittima Erede del Demonio, tua amante, per aver concepito un figlio con un altro uomo; e nei confronti della Lega degli Assassini per aver lasciato Nanda Parbat come fuggitiva. In qualità di braccio destro di Ra’s al Ghul, ordino ai miei uomini di ucciderti in questo preciso istante.»
I mercenari obbedirono all’istante. Nonostante la pioggia, la maggior parte di loro prese a correre in direzione di Sara, la quale si difese a distanza servendosi dell’arco di Nyssa. Colpì un guerriero alla gamba sinistra, uno dritto al cuore, un altro all’altezza dello stomaco. Un quarto uomo la raggiunse, e fu allora che si ritrovò costretta a dover combattere con il proprio corpo. Gli sferrò un paio di calci, colpendolo prima in un fianco e poi in mezzo alle gambe; per concludere, gli assestò un pugno sulla mascella, facendolo cadere rovinosamente a terra.
Nel frattempo, Maseo camminava lentamente verso Nyssa. Lei lo squadrò, la spada ben salda nella mano destra.
«Dovrai passare sul mio cadavere prima di fare del male alla mia amata.»
Sarab ricambiò l’occhiata, impassibile. «Questa potrebbe essere la tua ultima possibilità di riappacificarti con tuo padre. Se la sprechi schierandoti dalla parte di quella traditrice, allora non credo gli dispiacerà più di tanto se ti uccido.»
«Puoi farne quello che vuoi di me» lo minacciò la donna, puntando la lama affilata al suo torace. «Ma non azzardarti a toccare Sara!»
Maseo non attese un secondo di più. Fece roteare la propria katana, la quale si scontrò con la spada di Nyssa. Il contatto tra le due armi diede vita ad una danza di attacchi aggressivi e impetuosi, tanto che nessuno dei presenti osò mettersi tra i due. I mercenari di Nanda Parbat si avventarono tutti su Sara, la quale riuscì a tenergli testa colpendo la maggior parte di loro prima che potessero raggiungerla. E quando le frecce finirono, iniziò a lanciare coltelli e shuriken, fino a quando non ebbe sconfitto tutti i guerrieri e poté finalmente tirare un sospiro di sollievo. Ma Nyssa non aveva ancora regolato i conti con Maseo.
La lotta era addirittura più cruenta di quella di pochi minuti prima. Né Sarab né Nyssa sembravano disposti a dar tregua all’altro, e Sara non aveva idea di come aiutare la sua amata. Se si fosse intromessa, avrebbe solo rischiato di peggiorare le cose, o addirittura di venire uccisa. Allo stremo delle forze, iniziò a boccheggiare. Adesso poteva solo pregare nelle abilità di Nyssa.
Quest’ultima non si sarebbe data per vinta facilmente. Sara lo capì dallo sguardo con cui scrutava Maseo: l’avrebbe ucciso non appena ne avrebbe avuto l’occasione. E quell’occasione arrivò così all’improvviso che Sara non riuscì nemmeno a vederlo con i suoi occhi. Fu solo quando Nyssa ritrasse la spada che Sara capì.
Maseo aveva la bocca semiaperta e gli occhi spalancati dal dolore. Cadde sulle ginocchia con lo sguardo perso nel vuoto, mentre Nyssa osservava con fierezza la sua spada ricoperta di sangue. La ferita sullo stomaco di Maseo era profonda, ma non mortale. Avrebbe sofferto al punto giusto.
«Riferisci un messaggio a mio padre» sbottò l’Erede del Demonio, puntando la lama affilata in direzione di Sarab. «Digli che la prossima volta non mi limiterò a uccidere un plotone. Se qualcuno attenterà nuovamente alla mia vita o a quella di Sara, giuro che ammazzerò ogni guerriero di Nanda Parbat con le mie stesse mani, fino a lasciarlo senza uomini. E poi gli taglierò la testa e mi impossesserò dell’anello che mi spetta di diritto.»
Sara non si era accorta che la pioggia si era attenuata. Ormai si era ridotta a gocce quasi piacevoli. Faceva un caldo...
«R... R...» Maseo tossì forte, vomitando grumi di sangue. Un paio di mercenari ‒ probabilmente gli unici sopravvissuti alle frecce scagliate da Sara ‒ si avvicinarono al giapponese e lo aiutarono a rimettersi in piedi. Il sangue aveva ormai macchiato gran parte della divisa di Maseo, che riuscì a gracchiare un flebile: «Ritirata!», prima che i due uomini lo trascinassero via. Dopo pochi istanti, un terzo guerriero emerse da un gruppo di uomini privi di vita. Zoppicava, ma Nyssa lo lasciò andare per pietà. Suo padre avrebbe sicuramente ricevuto il messaggio.
Quando finalmente smise di piovere, Nyssa poté tirare un sospiro di sollievo. Riusciva a sentire i lividi e i graffi bruciare nella pelle, ma in quel momento si trattava di dolori irrilevanti. «È finita» si ritrovò a sussurrare, voltandosi in direzione della sua amata. Ma Sara non rispose.
«Sara?» domandò di fronte al suo sguardo sconvolto. «Sara, che cosa c’è? Sei ferita?»
La bionda aprì leggermente la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Le girava la testa.
No.
Sentì un impellente bisogno di bere e di gridare.
No, no, no.
Il cuore le batteva talmente forte che le parole di Nyssa le arrivarono come un eco lontano. Fu solo quando la donna le mise le mani sulle spalle e la scosse con forza che Sara riuscì finalmente a sospirare, esalando quelle parole e la paura che si celava dietro di esse.
«Mi si sono rotte le acque.»



Nyssa correva a perdifiato tra i corridoi dell’ospedale. Non sapeva dove andare. Avanzava senza una meta con Sara tra le braccia che tremava come una foglia, lasciandosi alle spalle una scia di stanze buie e desolate ‒ fatta eccezione per i pochi pazienti anziani che aveva incrociato durante il tragitto, ma loro di certo non avrebbero potuto aiutarla. La figlia di Ra’s al Ghul stava facendo del suo meglio per tenersi lontana da porte e finestre ‒ il timore che Maseo e i suoi uomini fossero ancora nei paraggi le dava il voltastomaco ‒, ma ciò aveva solo peggiorato le cose. Si era persa in un ospedale.
«È troppo presto, Nyssa» le sussurrò Sara all’orecchio poco dopo. «Non sono nemmeno alla trentesima settimana. È troppo presto.»
A Nyssa scoppiava la testa. Dove diamine erano gli infermieri quando avevi bisogno di loro?
«Lo so. È troppo presto. Ma ce la faremo, okay? Tu ce la farai.»
La bionda si lasciò sfuggire un lamento strozzato.
«Andrà tutto bene» riprese a dire l’Erede, rivolta più a sé stessa che a Sara. «Te lo prometto.»
Sara socchiuse appena gli occhi, stringendo più forte che poté la stoffa nera della tuta da combattimento dell’amata. Odorava di sangue, di morte e di Nyssa.
«Resta insieme a me» sussurrò in tono disperato, gli occhi gonfi di lacrime.
Nyssa sussultò lievemente. Non avrebbe lasciato Sara per nessun motivo al mondo. «Sì. Tu però tieni gli occhi aperti, okay?»
Sara stava davvero facendo del suo meglio, ma non ci riusciva. Nonostante le contrazioni, era come se il suo corpo stesse cercando di cadere in un sonno eterno.
«Non voglio farlo da sola» proseguì, con un tono di voce talmente basso che persino Nyssa faticò a sentire le sue parole.
Ma la donna non demorse. Salì un piano di scale il più velocemente possibile e si ritrovò in un corridoio pieno di dottori. «Forse ci siamo» esclamò sollevata.
Quando Sara si rese conto della situazione in cui aveva messo Nyssa, ormai era troppo tardi. «Ti vedranno tutti.»
«Non ha importanza.»
«Nyssa, scopriranno chi sei» balbettò la bionda, in tono flebile e preoccupato. «Almeno copriti il viso con il cappuccio e il velo.»
Ma Nyssa aveva ormai smesso di ascoltarla. O almeno, finse che fosse così.
«Ho bisogno di aiuto!» gridò la figlia di Ra’s, attirando l’attenzione dei presenti. «Le si sono rotte le acque!»
Un paio di infermiere si scambiarono un’occhiata confusa, mentre una terza donna ‒ probabilmente una dottoressa ‒ le indicò una stanza vicina e le disse di adagiare Sara sul letto.
«Bisogna chiamare un’ostetrica» affermò rivolta a una delle due infermiere, per poi tornare a guardare Sara. «Quanto tempo è passato dalla rottura delle acque?»
«Venti minuti, credo» rispose Nyssa, titubante. «Forse mezz’ora. C’è voluto un po’ per arrivare qui.»
In tutta risposta, Sara emise un grido di dolore e serrò le palpebre con fare disperato.
«Sono le prime contrazioni» spiegò la dottoressa, il cui cognome era Schwartz ‒ sulla sua targhetta c’era scritto così. «Significa che il bambino sta per nascere.»
«Ma è troppo presto» sibilò Sara, ma la dottoressa non riuscì a comprendere le sue parole.
«La scadenza è ancora lontana» ripeté Nyssa, trovando le parole adatte per spiegare la situazione. «È a malapena al settimo mese.»
«Ormai il sacco amniotico si è rotto. Non possiamo più fare nulla, se non far uscire questo bambino.»
L’ostetrica entrò nella stanza in quel preciso istante, rivolgendo un’occhiata prima a Nyssa, poi alla Dottoressa Schwartz, e infine a Sara. Nyssa era a conoscenza del motivo per cui tutti la stessero guardando in quel modo, ma non le importava. Voleva solo che il bambino nascesse senza complicazioni e che Sara si riprendesse presto.
«Ti devo togliere i pantaloni» spiegò la donna con un tono dolce. «Posso?»
Sara annuì debolmente, mentre l’ostetrica, con l’aiuto delle due infermiere, coprì le gambe della bionda con un telo, per poi toglierle prima i jeans e poi gli slip.
«Credo che noi due dovremmo andare in un’altra stanza, così da dare loro un po’ di privacy e poter... parlare» dichiarò la Dottoressa Schwartz rivolta a Nyssa.
Quest’ultima scosse il capo con decisione. «Non se ne parla. Non me ne vado finché il bambino non sarà nato.»
«È dilatata di sette centimetri» proruppe improvvisamente l’ostetrica, rivolta più a sé stessa che a qualcuno in particolare.
La Schwartz la guardò stupita. «Così tanti centimetri... in così poco tempo?»
«A quanto pare il bimbo ha parecchia voglia di uscire. Oppure le acque si sono rotte molto prima, ma viste le sue condizioni potrebbe non essersene nemmeno accorta» concluse la donna, alludendo al fatto che Sara fosse fradicia a causa della pioggia. «Dobbiamo portarla subito in sala parto.»



Quando l’ennesimo grido di Sara squarciò la quiete della stanza, ormai era dilatata di nove centimetri. Nyssa, in piedi accanto a lei, le passò una mano sulla fronte sudata e le sussurrò delle frasi incoraggianti all’orecchio.
«Oliver sta arrivando» aggiunse poi, mentre la bionda riprendeva fiato. «Dovrebbe essere qui a momenti.»
«E Laurel? E... mio padre?»
«Ci ha pensato tua sorella ad avvisarlo. Sta arrivando anche tua madre. Laurel ha detto che sarebbe salita sull’ultimo treno in partenza da Central City.»
Sara deglutì sommessamente. «Bene» biascicò poi, in preda agli spasmi.
«Non appena arriverà la prossima contrazione, dovrai spingere con tutte le tue forze» spiegò cautamente l’ostetrica, guardando Sara negli occhi. «Hai capito?»
Canary annuì in risposta, per poi stringere più forte che poteva la mano di Nyssa. Quest’ultima vrebbe voluto dirle che non se ne sarebbe andata per nessun motivo al mondo, ma sapeva che le parole non sarebbero servite. Sara sapeva che sarebbe rimasta fino all’ultimo istante. Glielo poteva leggere negli occhi.
«Forse sarebbe meglio se fosse il padre del bambino ad assistere al parto» suggerì l’ostetrica, il cui nome era ancora un’incognita per Nyssa.
Al sentire quelle parole, l’Erede del Demonio serrò la mascella con fare seccato. «Il padre non è qui al momento. E io sono la madre.»
«Okay, ma forse...»
«Se proverete anche solo ad allontanarmi da questa stanza, farò qualsiasi cosa in mio potere pur di restare qui. In questo momento, mia moglie ha bisogno di me. E io non ho alcuna intenzione di abbandonarla in un momento come questo.»
L’ostetrica stava per controbattere, ma la voce di Sara attirò completamente la sua attenzione.
«Credo... credo che sia vicina» sussurrò, iniziando ad ansimare per la paura. «Mi viene da vomitare.»
«È un sintomo assolutamente normale, Sara» la rassicurò l’ostetrica, poggiando le mani sulle sue ginocchia. «Adesso devi solo prepararti e spingere quando te lo dico io.»
Sara prese un respiro profondo. Avrebbe ricordato quel momento per il resto della sua vita. Avrebbe raccontato a suo figlio di come sua madre era rimasta al suo fianco durante tutto il parto, stringendole la mano e rassicurandola con la propria voce. Glielo avrebbe raccontato durante una domenica pomeriggio noiosa, oppure, sulla sua tomba. Questo dipendeva solo da lei.
Quando la contrazione arrivò, Nyssa spinse insieme a lei. In quell’istante, fu come se i loro corpi si fossero uniti, diventando una cosa sola. Nyssa poteva sentire quello che sentiva lei, ne era sicura. Nyssa provava il suo stesso dolore. E Nyssa, come lei, aveva tanta paura.
Continuò a spingere ancora, e ancora, e ancora, fino a quando l’ostetrica non le disse più di spingere e Nyssa allentò appena la presa sulla sua mano. Le sembrò di udire le urla di un neonato e la parola “cordone”, ma non ne era sicura.
Poi, il buio.

*

Quando aprì gli occhi, tutto ciò che vide fu una luce bianca che minacciava di accecarla.
Chiudi gli occhi e riprovaci.
Sbatté le palpebre un paio di volte, chiuse di nuovo gli occhi e li riaprì. Questa volta riuscì a mettere a fuoco la stanza ‒ anch’essa bianca e abbastanza spaziosa ‒ e la persona seduta accanto a lei.
«Laurel...»
L’avvocato si voltò di colpo, attirata dalla voce di Sara. «Finalmente» sussurrò, passandole una mano tra i capelli umidicci. «Ti sei svegliata.»
«Quanto tempo ho dormito?»
«Non saprei. Io sono arrivata un’ora fa, più o meno, e tu eri già svenuta.»
Svenuta? Non ricordava proprio nulla. Era come se si fosse appena svegliata dopo una sbronza ‒ anche se in realtà non si era mai sbronzata davvero, visto il modo quasi ultraterreno con cui riusciva a sopportare l’alcool.
«Dove ci troviamo? Cosa mi è...» Ma prima che Sara potesse concludere la frase con la parola “successo”, le tornò alla mente ogni cosa.
Il segnale di fumo. Maseo. Il combattimento. Le contrazioni. Nyssa. Il bambino. Suo figlio...
«Dov’è?» domandò, iniziando a guardarsi intorno preoccupata. «Dov’è il bambino? E dov’è Nyssa? Dove sono?»
«Calmati» ordinò cautamente Laurel, poggiandole una mano sul braccio. Le stava sorridendo. «Va tutto bene. Nyssa è con lei adesso.»
Lei. Il cuore prese a batterle all’impazzata. «È una bambina?»
«Sì. È una femmina.» Il sorriso sul volto di Laurel si ampliò a dismisura.
«È una femmina» ripeté Sara, emozionata come non mai. A quel punto, lei stessa non riuscì a contenere l’emozione e si alzò di scatto in piedi. Fortunatamente, Laurel la afferrò prima che cadesse a terra.
«Che ti salta in mente? Sei troppo debole per alzarti, adesso.»
«Ho bisogno di vederla» sussurrò flebilmente, gli occhi che le brillavano dall’emozione. «Laurel, io devo vederla.»
La donna osservò la sorella con fare preoccupato, dopodiché sospirò. «C’è solo un piccolo problema...»
Sara aveva lo stomaco vuoto, ma in quel momento era come se un grosso macigno si fosse lasciato cadere dentro di lei. Si sentiva pesante e confusa.
«Cosa le è successo?»



Oliver, Nyssa e suo padre se ne stavano di fronte a una vetrata con degli sguardi indecifrabili. Oliver aveva le braccia incrociate, Quentin piangeva, e Nyssa teneva lo sguardo fisso sul vetro.
Sara camminava a piedi nudi sul pavimento freddo dell’ospedale, sorreggendosi sul braccio di Laurel. Fu suo padre il primo a notarla.
«Oh, bambina mia!» esclamò emozionato, andando ad abbracciarla.
La bionda fu subito contagiata dall’aria malinconica di Quentin, tanto che gli occhi iniziarono a pizzicarle. «Papà...» esordì, in tono preoccupato. «Lei è... Lei non ce l’ha fatta, non è così?»
Il Capitano Lance non sembrò del tutto stupito da quelle parole, ma rispose comunque scuotendo il capo. «No. Assolutamente no, non pensarlo nemmeno. Sei stata bravissima, tesoro. E la tua bambina è stupenda» affermò, dandole un bacio sulla fronte. «Ora va’ da lei.»
Sara annuì debolmente, per poi lasciare andare la presa su Laurel e avvicinarsi lentamente a Nyssa. Quest’ultima non si mosse di un passo ‒ non ne aveva le forze ‒, ma quando Sara fu a pochi centimetri di distanza da lei, la attirò verso di sé e la strinse tra le proprie braccia come se fossero passati secoli dall’ultima volta che lo aveva fatto.
«Ascoltami bene» le sussurrò all’orecchio, in tono calmo e rilassato. «Ce l’hai fatta. Il parto è andato benissimo. Ma il problema viene adesso. Sapevamo che sarebbe comunque andata a finire così, perciò, quando la vedrai, non pensare subito in negativo. Qualunque cosa ti passi per la testa, non devi lasciarti impressionare, okay?»
«Così mi metti paura» ammise Canary, la voce leggermente incrinata.
Nyssa scosse la testa. «Non devi averne. Nostra figlia è una guerriera.»
E con una lentezza quasi maniacale, Sara si allontanò da Nyssa, prese un respiro profondo e si voltò verso la vetrata. Una schiera di incubatrici occupò la sua visuale, costringendola a doversi avvicinare ancora di più al vetro per capire quale fosse sua figlia. La riconobbe quasi subito: indossava una delle tutine che le aveva regalato Laurel, con su scritto “Mommy’s Little Princess”. Era tra le ultime file, ma Sara riuscì comunque a notare quanto fosse minuscola, in tutti i sensi.
«Quanto...»
Nyssa intercettò la sua domanda prima ancora che Sara finisse di formularla. «Poco più di un chilo. Ma dicono che si riprenderà in poche settimane.» Si avvicinò all’amata di qualche passo, per poi metterle un braccio intorno alla schiena. «E io ci credo. È una bimba forte. Si è capito fin dal primo istante.»
«Che intendi dire?»
«Sei svenuta subito dopo averla messa al mondo. Si è presentata con un pianto disperato, per poi smettere improvvisamente quando l’hanno portata fuori dalla stanza. A quanto pare si era già stancata di avere i genitori intorno.»
«Beh, mi dispiace per te, signorinella, ma per i prossimi venticinque anni ti starò col fiato sul collo» rise Sara, mentre calde lacrime le bagnavano le guance.
«Venticinque? Come mai così tanti? Io e tua madre abbiamo smesso di trattarti come una bambina già al liceo» intervenne Quentin, cercando di sdrammatizzare.
«E come risultato mi sono ritrovata a dover sopravvivere in mare aperto. Due volte» puntualizzò, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla bambina.
«Se non fosse stato per quella barca, forse ora non saremmo qui.»
Sara si sentì osservata. Nonostante quelle parole fossero uscite dalla bocca di Nyssa, il suo sguardo si posò istintivamente su Oliver, il quale se ne stava in disparte a pochi passi da loro. Non aveva proferito parola fino a quel momento, ma bastò un’occhiata affinché entrambi si capissero e consolassero a vicenda.
Nostra figlia è una guerriera. Le parole di Nyssa riecheggiavano come un’eco nella mente di entrambi, e mai come in quel momento gli sembravano più vere. Oliver avrebbe tanto voluto aggiungere: «Come la sua mamma», ma Sara avrebbe capito comunque. Così, si limitò a fare un cenno col capo.
Subito dopo, un’infermiera uscì dalla stanza e rivolse un sorriso raggiante a Sara. «Signorina...»
«Lance» la anticipò Canary, prima che dicesse “Queen”.
«Venga con me» la incitò la donna, poggiandole delicatamente una mano sul braccio. «Le faccio conoscere la sua bambina e, nel frattempo, le insegnerò a tirare il latte.»
Sara guardò Nyssa titubante, ma quando la mora le sorrise trovò il coraggio di seguire l’infermiera dentro la camera piena di bambini nati prematuramente.



Da vicino, sua figlia era ancora più piccola di quanto non sembrasse da lontano. Aveva la pelle candida come la neve e qualche ciuffo di capelli biondi e ribelli come i suoi. Era così bella...
Dopo averle insegnato a tirare il latte e averle fatto lavare le mani, l’infermiera la incitò ad avvicinarsi all’incubatrice.«Avanti, non abbia paura. La può anche toccare, se vuole.»
Sara prese un respiro profondo, sentendosi improvvisamente più pesante. Infilò la mano destra nella fessura circolare della macchina trasparente, ma si fermò prima di arrivare a toccare la sua manina. Era così gracile che al solo pensiero di sfiorarla temeva di poterle fare del male. E poi, stava dormendo così serenamente che le sarebbe dispiaciuto svegliarla.
«Dobbiamo comunque interrompere il suo pisolino per darle il latte» spiegò l’infermiera, come se le avesse letto nel pensiero. «Coraggio!»
Sara deglutì con forza. Con l’ansia alle stelle, afferrò la mano della bambina con due dita e percepì un brivido attraversarle le schiena. E con sua grande sorpresa, la piccola iniziò a muoversi. Si mise a scalciare e a muovere le braccia, per poi stringere con la poca forza che aveva la propria mano intorno all’indice di Sara. Quel gesto le fece scaldare il cuore, ma la vera sorpresa fu vedere sua figlia aprire gli occhi per la prima volta. Erano piccoli e dolci, di un colore a metà tra i suoi occhi cerulei e quelli blu di Oliver. E la stava guardando. La osservava con quegli occhietti vispi e innocenti, tanto che Sara arrivò a chiedersi se quella bambina fosse davvero sua figlia. Sembrava così tranquilla e serena malgrado tutto, a differenza della madre che aveva avuto paura durante tutta la gravidanza. Ma adesso le sembrava tutto molto più facile.



Sara rientrò nella sua stanza pochi minuti dopo, facendosi aiutare nuovamente da Laurel per evitare di perdere l’equilibrio e ritrovarsi sul pavimento.
«È stato bellissimo» dichiarò la bionda, il cuore che ancora le batteva dall’emozione. «Il parto è stato doloroso, ma quando l’ho vista... Dio, Laurel, è stato come se tutto il resto non avesse avuto più alcuna importanza. Era come se esistessimo soltanto noi due.»
«Non posso nemmeno immaginare cos’hai provato quando l’hai vista, ma spero di sperimentarlo presto» ammise la sorella maggiore, delineando un sorriso.
Sara ruotò appena la testa di lato. «In un modo o nell’altro, diventerai madre. Non voglio che mia figlia cresca senza nemmeno un cugino.»
«Puoi sempre chiedere a Thea e a Roy di darsi da fare.»
«Quando quei due avranno dei bambini, probabilmente io sarò già in pensione» ironizzò Canary con una risata. «A proposito, che ore sono?»
«Le tre del mattino. Quasi le quattro, in realtà.»
«Aspetta un momento» proruppe Sara, assimilando rapidamente il significato di quelle parole. «Non vorrai dirmi che...»
«…Tanti auguri a me!» canticchiò in risposta l’avvocato.
«Oh, no! Non ci posso credere.»
«Che c’è? Non mi dirai che ti eri dimenticata del mio compleanno?»
«No, anzi. In realtà, è proprio il contrario» rivelò la sorella minore, sbuffando sommessamente. «Ti stavo organizzando una festa di compleanno, ma io e Nyssa abbiamo avute delle... complicazioni, e di certo non mi sarei aspettata di partorire proprio oggi» spiegò scoraggiata.
«Sì, Oliver mi ha detto di quello che è successo questa notte. E Nyssa ci ha assicurato che per un po’ potrete stare tranquille.»
Sara serrò le labbra più forte che poté, stringendosi inspiegabilmente nelle spalle. «Scusami.»
«E di cosa?»
«Per il fatto che la bambina sia nata il giorno del tuo compleanno.»
Laurel inarcò entrambe le sopracciglia. «Stai scherzando, spero.»
«No.»
«Allora devono essere i postumi dell’epidurale.»
«Non l’ho nemmeno fatta, l’epidurale.»
Laurel prese un respiro profondo, sporgendosi leggermente verso la sorella. «Ti stai davvero scusando per una cosa del genere? Voglio dire, perché dovresti? Diventare zia è senza ombra di dubbio il regalo di compleanno più bello che potessi ricevere.» Poiché Sara non sembrava convinta delle sue parole, aggiunse: «E se proprio vuoi saperlo, mi importava così poco di festeggiare il mio compleanno che stavo organizzando il tuo baby shower proprio per domani. Cioè, oggi, visto che è già mattina.»
Sara spalancò le palpebre, stupita. «Che cosa?»
«Avevo già invitato tutti. Diggle e Lyla con la piccola Lisa, Thea e Roy, mamma e papà, Felicity... e ovviamente Oliver. Josh avrebbe tenuto chiuso il locale apposta per noi nonostante fosse sabato, ma poco fa gli ho inviato un messaggio dicendogli di annullare. “Ehi, scusa se te lo dico solo ora, ma la festa è annullata. Mia sorella ha partorito!” Immagino già la sua faccia quando si sveglierà e lo leggerà!»
Sara non poté fare a meno di sorridere imbarazzata. «Non so proprio cosa dire...»
«Non devi dire niente» la rassicurò la castana, stringendole le mani tra le proprie. «Sono più che sicura che avrei adorato la festa che stavi organizzando.»
«Sì, ma...»
«Niente ma» la rimproverò Laurel con un occhiolino. «Adesso hai bisogno di riposare.»
La donna si alzò in piedi, spense la luce e uscì dalla camera in silenzio. Sara chiuse gli occhi nel tentativo di dormire, ma la sua mente continuava a ricondurla a sua figlia. Non desiderava altro che stringerla tra le proprie braccia, cantarle una ninna nanna, cambiarle un pannolino o poterla allattare. Voleva fare la mamma, ma il parto prematuro avrebbe costretto quella creatura a restare rinchiusa nell’incubatrice per chissà quanto tempo ancora.
Sara inspirò profondamente. Quel profumo che tanto amava si diffuse in fretta nell’aria. Non l’aveva sentita entrare, ma anche col buio riconobbe al volo quei lineamenti che ormai conosceva a memoria.
«Posso restare un po’ qui con te?»
Sara deglutì, annuendo appena. «Non chiedo altro.»
Nyssa sorrise, andandosi a sedere accanto a lei. Poi prese a giocare con le ciocche bionde di Sara, mentre con la mano libera le accarezzava la mano. «Sono felice che sia andato tutto bene.»
«Anch’io» sussurrò la bionda. «Vorrei solo che fosse qui con noi adesso.»
«Lo so, ma dobbiamo essere pazienti. Si rimetterà, vedrai.»
Annuì ancora, questa volta con più convinzione. «È forte come te.»
Nyssa si bloccò con la mano a mezz’aria, colpita e imbarazzata da quelle parole.
«Prima hai detto che sono tua moglie» la punzecchiò poi Canary, un sorriso malizioso stampato sul viso. Nyssa riuscì a scorgerlo grazie alla luce fioca emanata dalla luna.
«Mi è venuto d’istinto. Ormai stiamo insieme da così tanto tempo che è come se fossimo sposate, non credi?»
Sara sembrò pensarci su per qualche secondo. «Non ne abbiamo nemmeno mai parlato.»
«Di cosa?»
«Del matrimonio.»
«Non è vero.»
«Intendo, da quando ho scoperto di essere incinta. Da quando siamo tornate a Starling City.»
La figlia di Ra’s si accigliò, senza perdere il tono sereno con cui si stava rivolgendo a Sara. «Vuoi farlo adesso?»
L’altra scosse la testa. «No. Adesso no. Vieni qui con me.»
Nyssa assecondò il volere di Sara e si distese accanto a lei. La bionda si accoccolò sul suo petto, poggiando la testa sulla spalla dell’amata. «L’ho chiamata Kaila.»
L’Erede del Demonio riprese ad accarezzarle i capelli, lentamente e con dolcezza. «È un bellissimo nome.»
«Per semantica, è uguale a Laurel» rivelò la donna con un sorriso. «Anche se probabilmente il suo secondo nome è ancora più bello.»
«Giusto. Dimenticavo che voi americani avete questo vizio di dare due nomi ai nascituri» esclamò la mora con una piccola risata. «E sarebbe?»
Sara esitò per un istante, ma poi si lasciò andare. «Amina.»
Nyssa si irrigidì di colpo. Non sentiva pronunciare quel nome da anni. Forse l’ultima volta era stato più di vent’anni prima.
Fu come se qualcosa dentro di lei si fosse rotto. O aggiustato, sotto altri aspetti. Non si era mai sentita così confusa prima d’ora, ma adesso ebbe la certezza che, qualunque cosa sarebbe accaduta da quel giorno in avanti, sarebbe stata legata a quella bambina per l’eternità. Sua figlia. Amina.
Scoppiò senza nemmeno rendersene conto, e i ruoli si invertirono. Questa volta fu lei ad appoggiare la testa sulla spalla di Sara, piangendo e singhiozzando ad un ritmo incontrollabile, respirando a fatica e stringendo con forza la stoffa del camicia da notte di Sara. Voleva solo piangere, e in quelle braccia sapeva che avrebbe potuto farlo senza essere giudicata.



Nyssa appoggiò il gomito sul distributore di bevande e prese un respiro profondo. Era sgattaiolata fuori dalla stanza non appena Sara si era addormentata. Aveva bisogno di riflettere.
«Finalmente ti ho trovata.»
Nyssa alzò lo sguardo di colpo, ritrovandosi faccia a faccia con la Dottoressa Schwartz.
«Ho saputo che il parto è andato bene e che il bambino è nell’incubatrice» proseguì, prima ancora che Nyssa potesse risponderle. «A proposito, è un maschio o una femmina?»
«Femmina» rispose istantaneamente l’Erede, trattenendo a stento un sorriso.
«Sono davvero felice per voi.»
Sembrava sincera. E Nyssa decise di crederle.
«Ha bisogno d’altro, Dottoressa Schwartz?»
«In effetti, sì» dichiarò l’altra, sospirando appena. «Direi che forse è il caso che anche tu ti faccia visitare.»
«Non ce n’è alcun bisogno, mi creda. Sto benone» dichiarò, nonostante avesse una ferita al braccio sinistro che le bruciava da morire e una serie di tagli e lividi sul viso, sul petto e sulle mani ‒ ed erano solo quelli visibili. Laurel le aveva portato un cambio di vestiti e un borsone in cui nascondere la sua tuta da combattimento, e solo ora Nyssa si rese conto delle macchie di sangue presenti sulla camicia viola, dovute alla mancanza di garze o cerotti che coprissero i tagli. Si chiese cosa avrebbe pensato Sara una volta sveglia se avesse visto dell’altro sangue sui suoi vestiti.
«Però... forse, se potesse fornirmi del disinfettante e delle bende, mi potrei curare da sola.»
La dottoressa acconsentì con un sorriso, facendole cenno di seguirla.


Mentre attraversava il corridoio affiancata dalla Dottoressa Schwartz, Nyssa non riusciva a smettere di pensare allo stato in cui si era trovata Sara poche ore prima, ma soprattutto al fatto che fosse svenuta subito dopo il parto. Non l’aveva mai vista soffrire così tanto, nemmeno durante i suoi primi allenamenti alla Lega degli Assassini. E si ritrovò a domandarsi se tutto quel dolore non fosse stato provocato anche da un fattore psicologico, dallo stress e dalla paura che le avevano accompagnate durante quei lunghi mesi di lontananza da Nanda Parbat.
«Sono molto profonde» commentò poco dopo la dottoressa, riferendosi alle sue ferite.
«Mi sono fatta di peggio. So badare a me stessa.»
«Non lo metto in dubbio» proseguì l’altra, porgendole una benda, una scatola di cerotti e del disinfettante. «Ma visto che sei in un ospedale, tanto vale approfittarne e medicarti prima che si infettino.»
«E se non avessi l’assicurazione medica?»
La Dottoressa Schwartz sospirò sommessamente. «Quello che tu e la tua amica fate ogni notte insieme ad Arrow... credo che sia un pagamento più che sufficiente.»
«Non ho mai parlato di un possibile coinvolgimento della mia... amica.»
Uscendo dalla sua bocca, quella frase ‒ o meglio, quella parola ‒ risultava ancora più stupida di quanto avesse potuto immaginare.
«In ogni caso, chiunque voi siate, vi ringrazio» disse la donna. Sul suo volto si formò un lieve sorriso. «Come ho già detto, potete stare tranquille. In questo ospedale siamo piuttosto riservati. Non diremmo mai nulla, nemmeno sotto tortura.»
Non può dirlo con certezza se non l’ha mai provato sulla sua pelle, pensò Nyssa, ma si morse la lingua per evitare di ripeterlo ad alta voce. Invece disse: «Non è questo che mi preoccupa. Voglio solo che vada tutto bene.»
Intuendo a cosa si stesse riferendo la mora, la Schwartz annuì lentamente. «Filerà tutto liscio. Si sistemerà tutto prima che ve ne accorgiate.»



Sara fu svegliata da un rumore lieve ma deciso, simile a quello provocato da un picchio mentre becca il tronco di un albero. Riuscì solo a borbottare un roco “Chi è?” prima di iniziare a stropicciarsi nervosamente gli occhi.
La porta si aprì di uno spiraglio. «Posso entrare?» sussurrò una voce maschile che conosceva molto bene.
«Certo che sì.»
Oliver si richiuse lentamente la porta alle spalle, impegnandosi con tutto sé stesso a non fare il minimo rumore. «Ti ho svegliata?»
«No» mugugnò la bionda, per poi chiedergli che ora fosse.
«Le sei e un quarto» rispose prontamente Oliver, andandosi a sedere sulla poltrona. «L’infermiera mi ha detto di dirti che tra poco ti verrà a chiamare per, beh...»
L’uomo si passò una mano tra i capelli con fare imbarazzato. Sara inarcò un sopracciglio.
«Per tirare il latte?»
Oliver esitò, ma poi si ritrovò ad annuire.
«Sai, non è una parolaccia. Puoi dirlo tranquillamente.»
«Lo so, ma... insomma, noi due non stiamo più insieme.»
Sara trattenne a stento un sospiro. «È cambiata ogni cosa.»
Arrow annuì ancora, ma questa volta distolse subito lo sguardo da Sara.
Negli ultimi mesi, le loro vite si erano complicate in una maniera quasi incredibile. Non solo l’anno precedente Oliver aveva scoperto che Sara, la sua Sara, era ancora viva, ma anche che si era unita ad una setta di assassini e che aveva avuto una lunga relazione con la figlia di Ra’s al Ghul. E come se non bastasse, dopo averci riprovato per l’ennesima volta e aver capito che non erano fatti l’uno per l’altra, sia lui che Sara avevano cambiato rotta, lei tornando insieme a Nyssa e Oliver dichiarandosi finalmente a Felicity. E adesso lui e Sara avevano avuto una bambina. Sembrava quasi di essere in un film.
«Sarei dovuto venire con voi» esclamò all’improvviso Arrow, prendendosi la testa tra le mani. «Non dovevo lasciarvi andare a fronteggiare gli uomini della Lega da sole. Io e Dig stavamo per raggiungervi, ma poi Felicity ci ha ricordato che noi non facciamo parte della Lega degli Assassini, che non abbiamo idea di come funzionino le cose a Nanda Parbat e che avremmo solo rischiato di peggiorare le cose.»
«Ed è così» confermò Sara. «Non devi fartene una colpa, Oliver. Avete fatto bene  a non intervenire. Avreste solo rischiato di mettere le vostre vite in pericolo. E, probabilmente, avreste reso la nostra situazione ancora più complicata.»
L’uomo si ritrovò a dover annuire, seppur scoraggiato. «Immagino che Nyssa se la sia cavata.»
«Eccome, se se l’è cavata» aggiunse Sara, con una piccola risata.
«Però, se ti avessimo impedito di andare con Nyssa, forse non avresti partorito così presto» ipotizzò Oliver.
«O forse doveva semplicemente andare così.»
Arrow tirò su col naso, ripensando al momento in cui Nyssa gli aveva indicato un punto preciso oltre quel maledetto vetro. «Da quando l’ho vista non riesco a non preoccuparmi per lei. È così indifesa...»
«Lo so» ammise Sara. «Ma è bella tosta» continuò, le lacrime che le pizzicavano gli occhi. «I dottori dicono che si rimetterà presto. Sono speranzosi. E lei molto combattiva.»
Il vigilante non riuscì a trattenere un sorrisino. La mela non cade mai tanto lontana dall’albero, pensò. «Come i suoi genitori» disse. Senza attendere una risposta da parte di Sara, proseguì: «Nyssa mi ha detto che l’hai chiamata Kaila.»
La bionda annuì debolmente. «Sì. Anche se devo ammettere di essere stata un po’ egoista. Non ti ho nemmeno chiesto se avessi già pensato a un nome.»
«Beh, è un bene che tu non l’abbia fatto, perché probabilmente sarei rimasto in silenzio.»
«È solo che quando l’ho vista, il cuore ha iniziato a battermi forte e non ci ho capito più niente» aggiunse Sara con occhi sognanti. «Era così innocente e bella e calda... E quando ha aperto gli occhi la prima volta il nome mi è uscito di getto, come se dentro di me avessi sempre saputo che sarebbe stata una femmina e che le avrei dato quel nome e‒»
«Sara» la interruppe dolcemente Oliver. «Non devi affatto giustificarti. Hai scelto un nome bellissimo» spiegò contento. «Kaila Queen. Suona bene, no?»
«Suona benissimo.»
«Sempre che tu sia d’accordo a farle prendere il mio cognome, sia chiaro.»
«Ne abbiamo già parlato. Avrà il tuo cognome. E tu avrai ancora un po’ di tempo per pensare ai nomi dei tuoi prossimi bambini» ironizzò Sara. «Perché tu e Felicity avrete dei figli giusto?» Glielo chiese come se fosse logico, ma in realtà era un’eventualità a cui non aveva mai pensato. Non avrebbe avuto senso per lei e Nyssa avere altri figli ‒ rischiare di mettere in pericolo la vita di un figlio era già troppo per loro ‒, ma aveva dato per scontato che sarebbe stato Oliver a dare un fratello o una sorella alla loro primogenita.
«Non lo so. Non abbiamo mai parlato di bambini. E nemmeno di matrimonio, se è per questo» ammise lui con un sospiro. «Però, forse...»
«Forse è arrivato il momento di compiere il passo successivo» lo incitò la bionda. «Sempre se tu sei pronto, ovviamente.»
Oliver inspirò profondamente, per poi tenderle la mano per aiutarla ad alzarsi. «Adesso non riesco a pensare ad altro che a nostra figlia.»
Sara sorrise a labbra strette e afferrò la sua mano.

*

Kaila Amina Queen era nata all’una e trenta del 15 Novembre 2014 ‒ ben nove settimane prima della data prevista per il parto. Nessuno si sarebbe aspettato che arrivasse con così tanto anticipo, ma già a poche ore dalla sua nascita, aveva dimostrato a tutti di essere una vera guerriera. Aveva i capelli chiari come quelli della madre e la boccuccia a forma di cuore come quella del padre, gli occhi celesti e il nasino a patata; crescendo, i capelli le si sarebbero leggermente scuriti e i suoi occhi avrebbero acquisito una tonalità di verde simile a quella di sua zia Laurel. Ma nessuno ‒ nessuno ‒ ne era al corrente, perché il futuro era ancora incerto e misterioso.
Per adesso, non potevano fare altro se non restare uniti per tentare di proteggere quella vita preziosa e indifesa che aveva tutto il diritto di essere vissuta.
Era l’unica cosa che contava, e lo avrebbero fatto insieme.
Come una famiglia.














Ok.
Voi non potete capire quanto questo capitolo sia importante per me. Non potete nemmeno lontanamente immaginare da quanto tempo avrei voluto scriverlo, quante idee mi sono venute in questi anni, quanto coraggiosa sia stata a non buttare giù nemmeno una bozza perché ho sempre avuto questo capitolo ben chiaro nella mente ed ero certa che sarebbe stato lunghissimo ed emozionantissimo. (È lunghissimo ed emozionantissimo, vero?)
Finalmente è nata. Vi ho voluti trollare fino all’ultimo facendovi credere che fosse un maschietto, e invece... vi presento una Sara Lance in miniatura!
Non ho altro da dire, se non che per me è stato davvero un onore aver premuto “invio” per mostrarvi, finalmente, questo importantissimo capitolo, che non solo è dolcioso grazie all’entrata in scena di Kaila, ma anche perché segnerà un’importante svolta per la storia.
In che senso, chiedete? Beh, questo lo dovrete scoprire da soli ;)

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Capitolo 18
*** Capitolo 17: Everything for her ***


 

Capitolo 17: 
Everything for her

 

 

 

 

A Sara erano sempre piaciuti i bambini. Sempre. E si era sempre chiesta come sarebbe stato avere un bambino tutto suo.
Fin dai tempi del liceo, fantasticava spesso su come sarebbero stati i primi giorni di vita di suo figlio, sulle emozioni che avrebbe provato nel sentirlo piangere per la prima volta e, soprattutto, su come sarebbe stato tenerlo stretto tra le braccia per ore e osservarlo mentre dormiva.
Ma adesso, a distanza di oltre dieci anni da quelle fantasie, non poteva fare nulla di tutto ciò, perché la sua bambina era rinchiusa in una maledetta incubatrice.
Cosa avrebbe fatto se le cose si fossero complicate? Se i medici le avessero detto che Kaila avrebbe dovuto trascorrere dei mesi in ospedale? Sarebbe riuscita a stare lontana da sua figlia per così tanto tempo?
«È normale amare così immensamente qualcuno che è venuto al mondo da meno di dodici ore?»
Una coccinella prese a volare davanti a Sara, andandosi a posare sul dorso della sua mano. Eppure non è periodo di coccinelle, si ritrovò a pensare, osservando ammaliata l’insetto rossastro.
«Lo so benissimo, tesoro mio» rispose dolcemente Dinah, adagiando la propria mano su quella della figlia. Quel contatto indusse la coccinella a volare via e a uscire dalla stanza, sotto lo sguardo dispiaciuto di Sara. «Ho provato la stessa cosa quando siete nate tu e tua sorella.»
«Ma per te è stato diverso» sottolineò la bionda. «Sono state gravidanze volute. Nel mio caso, invece...»
«Non dire un’altra parola» sussurrò Dinah, chiudendo istintivamente gli occhi. «Non dire nulla di cui in futuro potresti pentirti di aver detto.»
La bionda serrò la mascella. «Sto solo dicendo che adesso, al pensiero di aver dato alla luce una bambina, sento il cuore esplodermi di gioia. Ma ripensando a sei mesi fa, a quando ho scoperto di essere incinta, mi rendo conto solo ora di non aver amato il mio bambino come avrei dovuto. Ero così...»
«Confusa» concluse la madre per lei. Poi sospirò pesantemente. «Bambina mia, ne hai passate tante. Più di quante un essere umano dovrebbe sopportare. Eppure adesso sei qui a preoccuparti per la tua bambina come se le peripezie vissute negli ultimi mesi non fossero mai avvenute.»
«È che non riesco a pensare ad altro» rivelò Canary, la voce leggermente incrinata. «Voglio solo che si riprenda in fretta e che possa venire a casa con noi. Vorrei così tanto abbracciarla, mamma, ma non posso, e non riesco a non pensare che la colpa, in un certo senso, sia anche mia.»
«Amore mio, quello che provi in questo momento è del tutto normale» la rassicurò Dinah, accarezzandole amorevolmente la fronte. «Credi che lo stress provocato dall’aver tenuto nascosta la gravidanza possa aver anticipato il parto. Può darsi di sì, così come può darsi di no. Forse non lo sapremo mai. Ma quello che so per certo, è che non è colpa tua.» La donna prese un respiro profondo, ritraendo lentamente la mano. «Tutti hanno dei ripensamenti, tesoro, credimi. Tutti quanti. Nessuno è mai convinto fino all’ultimo secondo di aver fatto la scelta giusta. Non si nasce genitore, lo si diventa. E credimi se ti dico che anch’io, a mio tempo, ho avuto dei dubbi sulle mie qualità di madre.»
«Beh, non avresti dovuto averne. Sei stata ‒ e sei ‒ una madre fantastica.»
Un sorrisetto complice andò a contornare le labbra di Dinah. «Già. Questo lo dici tu. Ma forse non sai che quando ho cambiato il primo pannolino di Laurel ho sprecato due confezioni intere prima di imparare come si faceva. O che quando avevi due anni hai battuto la testa nella vasca da bagno e ho temuto il peggio.»
«Non me lo ricordo» ammise la bionda.
«Eri troppo piccola, ma per me è come se fosse accaduto ieri. Laurel era all’asilo, tuo padre era rientrato da poco dopo una dura nottata di lavoro, e tu ti eri sporcata dalla testa ai piedi mentre ti davo da mangiare. Ero stanchissima, tesoro. Avevo da poco iniziato a lavorare all’università e nei giorni precedenti mi ero dovuta dividere tra le correzioni dei test e voi due. Viaggiavo di continuo, non avevo un minuto per respirare e tuo padre aveva tra le mani un caso che lo teneva occupato giorno e notte. Nonostante fossi affaticata, decisi comunque di non svegliarlo e ti portai di sopra per farti un bagno. Ho riempito la vasca e ti ho lavata per bene, intrattenendoti con una paperella di gomma e con degli schizzi d’acqua che a malapena ti bagnavano le dita. Ridevi di continuo e ti eri messa a giocare con la paperella, perciò ho pensato che, forse, se avessi riposato le palpebre per un secondo, soltanto uno, non sarebbe successo nulla. Purtroppo, però... non si trattò solo di un secondo.»
Dinah ebbe un forte tremito, ma fece del suo meglio per non darlo a vedere. Il solo ricordo di quel giorno, a distanza di più di vent’anni, riusciva ancora a metterle i brividi.
«Fui svegliata da un forte tonfo. Quando aprii gli occhi la prima cosa che vidi fu la vasca piena di sangue e il tuo corpicino che galleggiava a testa in giù. Prima che potessi fare qualunque cosa, tuo padre ti tirò fuori dall’acqua e ti portammo di corsa in ospedale. Fortunatamente, riprendesti i sensi lungo il tragitto, e quando i medici provarono a chiederti cosa fosse successo, tu risposi facendo spallucce. Non ricordavi più nulla, ma avevi riportato una piccola ferita sulla nuca. Ecco perché l’acqua si era macchiata di rosso.»
«Mi hanno messo i punti sulla ferita?»
Dinah trasalì. «Allora te lo ricordi?»
«No. Non l’incidente. Ma ricordo di aver provato un prurito indescrivibile al collo per non so quanto tempo.»
«Una settimana. Eri davvero sollevata quando te li hanno tolti. Mi sorprende che ti sia rimasto impresso questo particolare.»
«Già, ma fino a non molto tempo fa era solo un ricordo confuso. Credo di essermene convinta solo quando Nyssa ha notato la cicatrice quando stavamo‒[1]»
Sara si zittì di colpo, mordendosi forte la lingua prima di dire qualcosa di inopportuno. Sua madre sembrò leggerle nel pensiero, perciò si limitò a soffocare una risatina prima di continuare. «Il punto è che tutti commettiamo errori. Nessuno è perfetto, Sara. Nemmeno io. Ho sempre pensato di essere un disastro come madre, e quell’incidente ne è stato la prova. E prima che tu possa provare a giustificarmi, sì, è vero, ero molto stanca, ma ciò non toglie che non avrei dovuto staccarti gli occhi di dosso nemmeno per un istante. I bambini sono veloci e costantemente alla ricerca di pericoli, non dimenticarlo.»
«Lo terrò a mente.» Mentre lo diceva, Sara annuì, ma dentro di sé pregò con tutta sé stessa di non dover mai sperimentare lo spavento che aveva dovuto provare sua madre con lei. Tuttavia, con i due genitori ribelli che si ritrovava, dubitava fortemente che Kaila sarebbe stata lontana dai pericoli. La sua unica speranza era quella che sua figlia somigliasse a Nyssa almeno un po’.
«La morale della storia, è che non esistono gravidanze giuste o sbagliate. Solo perché nel vostro caso si è trattato di un incidente, non significa che non amerai Kaila nel modo in cui io ho amato te e tua sorella, né tantomeno che devi sentirti in colpa per aver deciso di non abortire nonostante... le complicanze, ecco.»
E nel vocabolario di Dinah Drake Lance, “complicanze” era sinonimo di “qualunque tipo di casino in cui tu ti sia messa con la Lega degli Assassini”.
«Grazie, mamma.» Sara sorrise lievemente. «Non so cosa farei senza di te.»
Dinah ricambiò il sorriso. «Faresti indubbiamente la cosa giusta, tesoro mio.»

*

A distanza di due giorni dal parto, Sara aveva ricevuto un sacco di visite. Oltre a Dinah, Laurel e Oliver, erano andati a trovarla anche Josh e Adam, Sin e Richard ‒ che finalmente aveva avuto l’onore di conoscere ‒, alcuni colleghi di Laurel, Dig e Lyla con la piccola Lisa e, nonostante i precedenti, anche Curtis, l’amico di Felicity.
L’unico che mancava all’appello era suo padre. Ecco perché quel giorno, quando lo vide fermo sulla soglia, rimase completamente stupita nel vederlo.
«Puoi darci qualche minuto?» sussurrò rivolta a Nyssa, che in quel momento la stava aiutando a mangiare qualcosa.
La figlia di Ra’s al Ghul si fermò con il cucchiaio a mezz’aria, guardando prima Quentin, poi Sara.«Va bene» annuì, per poi prendere il piatto di minestra tra le mani e poggiarlo sul comodino. Mentre usciva dalla stanza, il Capitano Lance le fece un cenno col capo, che Nyssa ricambiò appena. L’uomo si rivolse poi alla figlia con fare esitante.
«Puoi finire il tuo pranzo, se vuoi. Se ti serve una mano...»
«C’è qualcosa che devi dirmi?»
Quentin tentennò. Ci volle qualche secondo prima che trovasse le forze per riprendere la parola.
«Hai una bimba davvero bellissima.»
«Non è di Kaila che mi vuoi parlare» lo punzecchiò la bionda. «È dall’altro giorno che cerchi di evitarmi. Sarai passato a vedere come stavo giusto un paio di volte da quando sono qui.»
L’uomo si ritrovò a sospirare, per poi avvicinarsi lentamente al letto della figlia. Si massaggiò pensieroso il mento, con un accenno di barba che gli graffiava il palmo della mano. «È che non mi aspettavo di vederti là.»
Sara non ebbe bisogno di fare mente locale. Sapeva benissimo a cosa si stesse riferendo il padre.
«Sono passate quasi due settimane, ormai.»
«Lo so. Ma era da parecchio che non ti vedevo in azione, sai?»
«Ho riposto la maschera di Canary appena due mesi fa.»
«Hai ucciso quell’uomo davanti ai miei occhi, Sara. Per quanto io sia felice di sapere che sai difenderti da sola, è sempre un shock per un genitore veder fare una cosa simile dalla propria figlia.»
«Se non l’avessi ucciso io, lui avrebbe ucciso me» sibilò Sara a denti stretti, sentendosi inspiegabilmente irritata.
«Non è questo il punto, Sara. Non è stato come uccidere gli uomini di Slade Wilson. Ti trovavi in una zona residenziale, ed eri senza maschera. Chiunque avrebbe potuto vederti.»
«Nessuno mi ha vista, te lo posso assicurare.»
«Come lo sai?»
«La Lega mi ha insegnato molte più cose di quante tu possa immaginare.»
Quentin serrò la mascella, visibilmente contrito. «Ciò non toglie che nelle tue condizioni avresti dovuto almeno provare a chiedere aiuto prima di agire da sola.»
«E a chi, papà? Alla polizia? A te? Hai idea di quello che avrebbe potuto farvi quell’uomo da solo
«Non m’importa quello che mi avrebbe fatto, Sara. Insomma… non è questo il punto, tesoro. È normale che la tua priorità in quel momento fosse difenderti, ma non riesco ad accettare il pensiero che tu mi abbia tenuto nascosta la verità per così tanto tempo.»
E a quel punto le fu tutto più chiaro. «Quindi è per questo che sei arrabbiato. Perché non ti ho detto che la Lega ci stava dando la caccia.»
«Io non sono arrabbiato, Sara. Sono solo... frustrato. Dispiaciuto. E spaventato.»
Quentin inspirò profondamente, per poi prendersi la testa tra le mani. «E se quel giorno non avessimo ricevuto la segnalazione di un passante? E se quell’uomo ti avesse fatto del male? E se ti avesse‒»
«Basta, papà» ordinò Canary, poggiandogli una mano sul braccio. «Ho capito. E sono davvero mortificata. Non avrei dovuto tenerti all’oscuro di tutto, ma avevo paura che...»
Sara esitò, ma bastò il suo sguardo per far capire a Quentin l’antifona.
«Bambina mia» esordì il capitano, stringendo la mano della figlia con tutte le sue forze. «Devi smetterla di preoccuparti così tanto per me.»
«Sei mio padre. E hai problemi di cuore» sussurrò, il labbro inferiore che tremava appena. «Sarebbe stato egoista da parte mia fingere che dopo la mia partenza non fosse successo nulla. Avevo paura che per te sarebbe stato troppo difficile sopportare l’idea che Ra’s al Ghul mi stesse perseguitando.»
«Di nuovo» sottolineò Quentin. «Direi che ormai ci ho fatto l’abitudine.»
Sara sorrise amaramente, abbassando appena lo sguardo. «Scusami. Non volevo farti stare in pensiero.»
E a quelle parole, Quentin sentì il cuore esplodergli nel petto. «Quale padre non lo sarebbe per le proprie figlie?»

*

«Quanto tempo resterai ancora in ospedale?»
Sara fece una smorfia, osservando indispettita l’ago della flebo inserito nel suo avambraccio. «Pochi giorni. Una settimana, forse.»
«Così tanto? Siete qui già da quattro giorni.»
«Lo so, ma la Dottoressa Schwartz vuole tenermi sotto osservazione. Dice che sono debole e che potrebbero ancora sorgere delle complicazioni.»
Oliver deglutì sommessamente. «E Kaila?»
Sara si bloccò, sentendo lo sguardo di Oliver fisso su di lei. «Non ne ho idea. Ma spero che la dimettano presto.»
«Già. Anche io. Ora però mi potresti spiegare come mai oggi sei di così cattivo umore?»
«Perché non riesco a capire il motivo di tutta questa apprensione, Ollie. La Schwartz ci sta col fiato sul collo continuamente. Ricorda costantemente a Nyssa di cambiare le sue medicazioni e a me di non staccarmi la flebo dal braccio.»
«E perché mai dovrebbe dirti di non‒» Lo sguardo eloquente di Sara gli fu più che sufficiente per capire. «Dio, Sara. Dimmi che non l’hai fatto davvero.»
«Non l’ho fatto» rispose prontamente lei.
Il vigilante sospirò, passandosi una mano sul viso con fare rassegnato. «Quante volte?»
«Tre... O quattro, forse. Mica le ho contate.»
«Hanno ragione a dire che sei debole. Mangi solo le barrette che ti compra Laurel ai distributori automatici.»
«Il cibo dell’ospedale non è dei migliori, dovresti saperlo bene. E poi non è colpa mia se ho poco appetito.»
«Allora cerca di non attirare troppo l’attenzione, altrimenti penseranno che qualcosa non va e ti terranno qui a vita.»
«Perché effettivamente qualcosa non va, Ollie» puntualizzò lei, serrando la mascella. «Ogni volta che voglio andare a trovare Kaila, devo sempre pensare a questo stramaledetto ago che ho conficcato nella pelle. Se me lo tolgo, ci impiego molto meno ad arrivare alla nursery. Tutto qui.»
Oliver guardò Sara dritto negli occhi, ispezionando quelle iridi cerulee tanto forti quanto tormentate da una caverna di segreti che ancora doveva scoprire. «So bene che non è questo il motivo, Sara. E lo sai anche tu.»
Canary abbassò di poco lo sguardo e deglutì. «La Lega degli Assassini mi perseguita. Nostra figlia è in un’incubatrice. E io e Nyssa, beh... non so se riusciremo mai ad avere una vita normale. A questo ci credi?»
Arrow poggiò i gomiti sulle ginocchia, per poi piegarsi leggermente in avanti. «Ascoltami, Sara» esordì, sospirando appena.
«Ultimamente iniziate tutti le frasi così. Mi devo preoccupare?»
L’uomo delineò un sorriso. «Per nessuno di noi è facile. Prendi John, per esempio. Anche lui ha avuto da poco una bambina, e pensa a quanti nemici può essersi fatta Lyla in tutti questi anni all’A.R.G.U.S. So che la tua situazione con la Lega è totalmente diversa, però... non sei sola. Non lo sei mai stata. Tutti noi amiamo qualcuno a tal punto da volerlo proteggere da ogni pericolo, ma è impossibile. Io stesso mi sono chiesto svariate volte se non sarebbe stato meglio per questo bambino non sapere che io fossi suo padre. Ma poi, vedendo John, Lyla e Lisa, ho capito che noi due non avremmo potuto fare cosa migliore di questa.» Poggiò la propria mano sopra a quella di Sara, stringendola forte. «Abbiamo avuto una bambina. Hai messo al mondo un essere umano che molto presto potrà camminare, parlare, vivere. E chi lo sa, magari diversamente da noi due riuscirà a finire il college.»
«Farò tutto ciò che è in mio potere per far sì che questo accada» ironizzò la bionda, nonostante avesse le guance rigate dalle lacrime.
«Il punto è che ci sarà sempre qualcuno che vorrà ferirci, ecco perché dovremo essere pronti. Non voglio turbarti, Sara, ma non sappiamo cosa abbia in serbo il futuro per la nostra famiglia. Tutto potrebbe filare liscio come l’olio, oppure...»
«Dobbiamo essere preparati» ripeté lei con un filo di voce.
«Esatto» annuì Oliver. «Per questo voglio che decidiamo adesso che cosa faremo quando la situazione precipiterà. Se precipiterà» si corresse il vigilante. «Dobbiamo pensare a Kaila e al suo futuro. Tu sei sua madre, e io sono suo padre. Non voglio costringerti a scegliere adesso, ma se hai capito cosa intendo, saprai anche prendere la decisione giusta per il suo bene.»
E Sara, che negli ultimi mesi aveva desiderato che quel momento non arrivasse mai, strinse la mano di Oliver con tutte le forze che aveva in corpo.

*

Tornare a casa fu più strano di quanto avesse immaginato. La luce del sole filtrava attraverso la finestra, illuminando leggermente la stanza. Tutto era rimasto al proprio posto, eppure sentiva che mancava ancora una tassello per completare il puzzle.
Si bloccò sulla soglia, irrigidendosi dalla testa ai piedi.
«No. Non ce la faccio.»
Sara fece un passo indietro, scuotendo il capo con disgusto. «Non ce la faccio, Nyssa. Devo tornare in ospedale. Devo andare a prenderla.»
«Calmati, Sara» la ammonì la mora, stringendo le mani intorno alle sue spalle. «Prendi un respiro profondo.»
Sara obbedì, ma non cambiò nulla. Aveva ancora un forte mal di testa, e il pensiero che sua figlia si trovasse a chilometri di distanza da lei le faceva venire il voltastomaco.
«È da sola, Nyssa» disse col cuore in gola. «L’abbiamo lasciata là da sola.»
«Sara, non è sola. Ci sono un sacco di infermiere e di medici a tenerla d’occhio costantemente. Non le capiterà nulla. E poi, noi potremo restare lì tutto il giorno. Dobbiamo tornare a casa solo per dormire e per darci una rinfrescata.»
Ma Sara non voleva saperne di calmarsi. Anche se era trascorsa più di una settimana, la Lega poteva essere ancora nei paraggi, e avrebbero potuto fare del male alla sua bambina in qualsiasi momento. Scoppiò a piangere in silenzio, mentre il peso della paura che provava aumentava a dismisura.
Nyssa la strinse tra le proprie braccia, dandole un bacio sul capo tra un singhiozzo e l’altro. «Non permetterò che le accada qualcosa» sussurrò, mentre una lacrima solitaria le accarezzava il viso. «Te lo giuro sulla mia stessa vita.»

*

Nei giorni successivi, Sara e Nyssa trascorsero alternativamente del tempo in ospedale per vegliare su Kaila. Poiché era tornata al lavoro, Nyssa si recava allo Starling General perlopiù al mattino, e di conseguenza a Sara toccava il pomeriggio. Dopo pochi giorni, le due raccontarono a Oliver dei loro timori e il vigilante si offrì di fare il turno di notte.
In questo modo, Kaila aveva due occhi puntati su di lei ventiquattro ore al giorno. E sarebbe stato così ancora per molto tempo.

*

Sara si svegliò di soprassalto, il cuore che le batteva talmente forte da farle mancare il respiro. Si passò una mano sulla fronte sudata, scostandosi delle ciocche ribelli che le si erano appiccicate sulla fronte. Faceva un caldo tremendo, ma era dicembre e sarebbe stato stupido togliersi il pigiama.
Quando notò i primi raggi dell’alba farsi spazio tra le fessure della finestra chiusa, Sara comprese che non era notte fonda, e che la causa del suo risveglio improvviso non era stato un brutto sogno.
Si voltò verso il comodino e prese la sveglia tra le mani. Segnava le 07:03 di mattina. A quel punto, la donna tirò un sospiro di sollievo.
Il gran giorno era arrivato.



Dal giorno in cui era nata, gli occhi di Kaila avevano cambiato colore. Sara ne era certa, perché la prima volta che li aveva visti le avevano ricordato gli occhi di Oliver; adesso, invece, era come se si stesse specchiando. Aveva due grandi, profondi occhi cerulei come i suoi. E ormai la stava guardando incuriosita da oltre dieci minuti.
La sera precedente, quando Dinah aveva scoperto che Kaila sarebbe stata dimessa il giorno successivo, si era precipitata in stazione per prendere l’ultimo treno in partenza per Starling City. «Non avrò più lezioni fino a lunedì,» aveva spiegato alla sua secondogenita, «perciò verrò a darvi una mano un paio di giorni. E poi, Nyssa sarà impegnata con il lavoro, perciò ti serviranno due braccia in più. Credimi, tesoro, finché non prenderete il ritmo giusto, sarà dura abituarsi ad avere un bebè in casa.»
Sara non la pensava allo stesso modo. Nel momento in cui aveva stretto sua figlia tra le braccia, aveva sentito il cuore scaldarsi. Fin dal principio, era sempre stata consapevole del fatto che crescere un bambino non sarebbe stato facile, ma c’erano tante persone pronte ad aiutarla, sua madre in primis. Né Nyssa né Oliver avrebbero permesso a qualcuno di sfiorarla, e sapeva che era così anche per il resto del Team Arrow.
All’improvviso, Kaila starnutì. Fu un rumore lieve, a malapena udibile, e subito dopo sul suo visino si formò un piccolo sorriso. E Sara capì di non avere nulla da temere.



Come d’accordo, Dinah rimase da loro nei due giorni successivi. Dormì sul divano letto, preparò la colazione per tutti e badò alla bambina nel pomeriggio, così che Sara potesse riposare. Malgrado non volesse ammetterlo, badare a una bambina ventiquattro ore al giorno era più stancante di quanto avesse immaginato.
Visto il suo passato da babysitter, Canary non ebbe problemi a cambiare pannolini e a fare il bagnetto, ma non poteva considerarsi altrettanto brava con l’allattamento. Rispetto agli altri neonati, Kaila non mangiava molto, e quando arrivava il momento era difficile farla attaccare al seno. Probabilmente si era abituata ai ritmi dell’incubatrice, ma Sara si era ripromessa che l’avrebbe allattata almeno fino ai sei mesi, ed era determinata a realizzare quel proposito.
«Ricorda di evitare gli ammorbidenti profumati quando fai il bucano. La pelle dei bambini è molto sensibile.»
«Lo so, mamma. Me l’avrai già ripetuto almeno cinquanta volte» rise Sara, passando a Dinah la sua valigia.
Quest’ultima sorrise nostalgica, dandole un buffetto sulla guancia. «Hai ragione, tesoro. È che ancora non riesco a crederci.»
«Che sei diventata nonna?» ironizzò la bionda.
Sua madre scosse la testa. «Che la mia bambina si sia trasformata in una donna.»
Sara cercò di nascondere il più possibile la nostalgia che provava. Era stato bello rivedere sua madre, ma ora doveva andare avanti senza di lei. Anche lei era una mamma adesso, e questo voleva dire solo una cosa: doveva imparare a cavarsela da sola.
«Ti chiamerò tutti i giorni. Almeno una volta al giorno. Intesi?»
Sara sorrise e annuì, per poi stringere sua madre in un abbraccio. Dentro di sé, sapeva che non appena Dinah avrebbe preso quel treno sarebbe cambiata ogni cosa.

*

Nonostante avesse trascorso quasi tre settimane nell’incubatrice, Kaila era ancora molto leggera. Pesava appena tre chili, ed era alta cinquantatre centimetri. Sara si augurava che avesse ereditato i geni di Oliver e che diventasse più alta di quanto lo fosse lei.
La cosa che più le piaceva di sua figlia erano le sue guance paffute. Non appena gliele sfiorava, Kaila iniziava a ridere e le sue guance assumevano un colorito rosato che le faceva scaldare il cuore. Dalla prima volta che l’aveva vista, era diventata ancora più bella.
Era anche una bambina molto precoce. Nonostante avesse appena ventidue giorni di vita, riusciva a ridere e a sbattere perfettamente le palpebre come avrebbe fatto un bambino di sei mesi. Ed era davvero tranquilla. Dormiva dalle dieci di sera alle sei di mattina, e difficilmente scoppiava a piangere. Ma l’avevano portata a casa da appena tre giorni, perciò Sara non era sicura di conoscere tutte le sue abitudini.
Aveva appena finito di allattarla quando Nyssa entrò nella camera da letto. Si fermò sullo stipite della porta ad osservare Sara dare delle piccole pacche sulla schiena della bambina.
«Sbaglio o qualcuno oggi ha mangiato più del solito?»
Sara sorrise trionfante. «È rimasta attaccata per mezz’ora di fila. Abbiamo una vincitrice.»
«Giusto in tempo per la colazione. Uova al tegamino, muffin ai mirtilli o french toast?»
Canary spalancò di colpo le palpebre. «Hai davvero preparato i muffin ai mirtilli?»
Nyssa annuì, dedicandole un sorriso malizioso. «Mi sembra di ricordare che una volta mi hai detto che tua madre te li preparava sempre quando tornavi a casa dopo aver trascorso del tempo in ospedale. Ho fatto centro?»
Sara si mordicchiò il labbro inferiore, per poi dare un bacio appassionato all’amata. «Altroché, arciere dei fornelli. Ora però muoviamoci o si raffredda tutto.»



La mattinata proseguì in tranquillità. Mentre Nyssa faceva le pulizie di casa, Sara diede da mangiare a Kaila una seconda volta, le cambiò il pannolino prima di pranzo e le scattò alcune foto che inviò a Oliver e a Laurel.
Poco dopo pranzo, lei e Nyssa si distesero sul divano a guardare un film, ma nel giro di venti minuti Sara sbadigliò quattro volte. La figlia di Ra’s spense il televisore subito dopo il quarto sbadiglio senza dire una parola.
In tutta risposta, Sara la guardò confusa. «Ma che fai? Erano mesi che volevo vedere quel film.»
«È “Sex and the City”. L’avrai visto almeno cento volte. Ti sei persino portata dietro il dvd quando ci siamo trasferite.»
«Chi se ne frega. Non lo ridanno quasi mai in TV.»
Sara si sporse in direzione di Nyssa per afferrare il telecomando, ma quest’ultima, approfittando del fatto di essere più alta dell’amata, si mise in ginocchio sopra al divano e alzò il braccio verso l’alto.
«Fammi almeno arrivare alla scena in cui Samantha è nella vasca da bagno. Lo sai che è la mia preferita» la pregò Sara, che stava disperatamente tentando di strapparle il telecomando dalle mani.
«Te la farò vedere dopo che ti sarai fatta una bella dormita di almeno un paio d’ore.»
D’istinto, Sara si bloccò. «E perché mai...»
«Sono state tre settimane pesanti, e negli ultimi tre giorni avrai dormito sì e no sei ore a notte. Ti alzi presto per dare da mangiare a Kaila, ti prendi cura di lei per tutto il giorno e vai a dormire tardi. Ti meriti un po’ di riposo.»
Sara sembrò pensarci su per qualche istante, per poi scuotere lentamente il capo. «Non mi va di lasciare Kaila da sola per così tanto tempo. Si è appena abituata a me.»
«Di certo non si dimenticherà chi sei solo perché starai per un po’ nella stanza in fondo al corridoio. E poi non sarà per niente sola. Mi prenderò cura io di lei mentre tu riposi.»
La bionda esitò ancora una volta, ma poi si ritrovò a dover sospirare. Dopotutto, così come Kaila si stava abituando a lei, era giusto che si abituasse anche alla presenza dell’altra sua madre. E di sicuro, anche Oliver avrebbe preteso la stessa cosa molto presto. Doveva mettersi in testa che Kaila non era sua figlia, ma la loro.
«E va bene» concesse, ruotando appena la testa di lato. «Ma solo per un paio d’ore.»
Nyssa sorrise fiera, per poi darle un bacio a fior di labbra. «Andata.»
«Dovrei riuscire a svegliarmi in tempo per la prossima poppata, ma se così non fosse, dovrai darle da mangiare scaldandole il latte come ci ha insegnato mia madre. Vado a prendere il tiralatte.»
Sara saltò giù dal divano, ma si fermò prima di raggiungere la cucina. «Sicura di riuscire a badare a lei da sola?»
Non lo aveva detto perché non si fidasse di lei, quanto perché, a differenza sua, Nyssa non aveva mai avuto a che fare con un neonato. Sapeva che per qualsiasi evenienza l’avrebbe svegliata, ma non voleva che lo facesse solo perché si sentiva in obbligo nei suoi confronti.
In tutta risposta, l’Erede del Demonio inarcò un sopracciglio con fare confuso. «Se sono sopravvissuta ai Talebani, alla mafia giapponese e all’esercito di Deathstroke, non credi che possa resistere di fronte a un pannolino sporco e a qualche rigurgito?»
Sara scosse la testa divertita. Come aveva potuto sottovalutare così tanto la donna che amava?


Nyssa, al contrario, si era sopravvalutata un po’ troppo.
Andrà tutto bene, si era detta. È solo una neonata. Non sarà poi così difficile. Ma in realtà, prendersi cura di Kaila sarebbe stato più che difficile.
La parte più dura fu realizzare di essere diventata madre. Perché sì, nonostante fosse passato quasi un mese dalla nascita di Kaila, Nyssa non aveva compreso che cosa volesse dire essere genitore fino a quel momento. Prima d’ora non aveva mai avuto occasione di prendere in braccio sua figlia, di cantarle una ninna nanna o di osservarla così da vicino. In quegli ultimi giorni, mentre lei era al lavoro, erano state Dinah e Sara a prendersi cura della piccola. Ma adesso avrebbe potuto finalmente recuperare il tempo perso.
Kaila sembrava preferire la culla al lettino. Probabilmente il motivo era che il letto, in confronto alla culla, doveva parerle immenso. O forse la preferiva semplicemente perché c’era una giostrina con dei peluche appesi che la attraeva particolarmente.
Sembrava serena, perciò, dopo averla osservata per qualche minuto, Nyssa decise di approfittarne per leggere un libro e meditare. Era da un po’ che non si concedeva del tempo per sé, e finché Kaila sarebbe stata tranquilla, non avrebbe avuto alcun senso punzecchiarla. Tuttavia, non appena raggiunse la libreria, la bimba iniziò a mugolare.
«Che cosa c’è, piccolina?» domandò la mora, quasi sussurrando. «Ti fa male il pancino?»
Da quando era arrivata a casa, Kaila aveva già rigurgitato il latte due volte, ma Dinah gli aveva spiegato che era normale. La cosa migliore da fare subito dopo averle dato da mangiare, era tenerla tra le braccia per qualche minuto e cercare di farle fare un ruttino prima di metterla distesa, e in caso avesse iniziato a lamentarsi, avrebbero dovuto farle dei massaggi sulla pancia.
Nyssa ci provò, e Kaila sembrò stare meglio quasi subito. La guardò per un po’ coi suoi occhietti vispi ‒ e glaciali come quelli della sua mamma ‒, ma proprio quando Nyssa fu sicura di averla scampata, la bimba iniziò a piangere.
«No, no, no...» bisbigliò, accarezzandole la pancia più velocemente di prima. «Così sveglierai la mamma. Avanti, piccola, smetti di piangere.»
Ma Kaila non ne voleva sapere. Più i secondi passavano, più il suo pianto aumentava, e dopo non molto iniziò anche ad urlare. Fu allora che Nyssa si rese conto di un particolare per niente privo di importanza.
Aveva paura.



Amina Raatko era diventata madre all’età vent’anni. Lei e Ra’s al Ghul si erano conosciuti quasi per caso, ignari del fatto che il loro destino fosse già stato scritto da un bel pezzo. Amina era rimasta incinta poco tempo dopo il suo arrivo a Nanda Parbat, e quella notizia sembrava aver rafforzato il suo rapporto con Ra’s. Tuttavia, quando quest’ultimo le aveva rivelato cosa fosse davvero Nanda Parbat, ormai era troppo tardi.
La sua primogenita, Nyssa, era nata in un fresco giorno di primavera. Era venuta alla luce strillando, con un ciuffo ribelle di capelli neri e un’immensa voglia di vivere. Nyssa non era certa di chi avesse scelto il suo nome, ma sapeva che sua madre l’aveva amata fin dal primo istante in cui l’aveva stretta tra le braccia. Era sicura che fosse stato un sentimento reciproco.
Nyssa Raatko era diventata madre all’età di ventinove anni, ma di prendere in braccio sua figlia non ne voleva sapere. Negli ultimi quindici anni aveva ucciso alcuni dei mercenari più pericolosi di sempre, ma la sola idea di stringere Kaila tra le braccia le faceva venire la pelle d’oca.
Era terrorizzata. Non voleva farle del male, o rischiare di farla cadere, o addirittura di farla piangere più di prima. Non voleva rovinare tutto, ma non poteva nemmeno starsene con le mani in mano, poco ma sicuro.
Con estrema delicatezza, Nyssa allungò una mano in direzione del corpicino di Kaila. La bambina smise di piangere per un secondo, uno soltanto, e la guardò. Aveva la boccuccia dischiusa e il viso tutto rosso, e Nyssa si rese conto di non aver mai visto qualcosa di così bello in tutta la sua vita. Un attimo dopo, però, la bimba ricominciò a strillare, e fu allora che l’Erede del Demonio trovò la forza di tirarla fuori dalla culla. D’istinto la strinse forte a sé ‒ così forte che temette di schiacciarle i polmoni ‒, per poi compiere qualche passo incerto verso la cucina. E se avesse scaldato troppo il latte? O troppo poco? E se invece l’avesse fatto cadere? L’ultimo dei suoi pensieri era svegliare Sara ‒ era quella l’unica ragione per cui in quei cinque minuti di caos aveva resistito all’idea di chiederle aiuto ‒, e di certo non si sarebbe arresa proprio adesso.
Dopo aver messo a scaldare il latte a bagnomaria, impresa che si rivelò più facile di quanto avesse immaginato, Nyssa si concesse un sospiro di sollievo. Un istante dopo si ricordò che Kaila stava ancora piangendo a dirotto e che doveva inventarsi qualcosa per calmarla. Prese allora a cullarla dolcemente, ma ciò sembrò solo peggiorare la situazione.
Sapeva cosa stava cercando di fare. Il suo era una sorta di richiamo. Kaila continuava a lamentarsi perché voleva che fosse Sara a prenderla in braccio, non Nyssa. Probabilmente non sapeva nemmeno chi fosse quella stana donna coi capelli scuri che era sempre insieme alla sua mamma.
«Beh, che ti piaccia o no, anche io sono tua madre» si ritrovò a sussurrare la mora, incredula di averlo detto davvero.
La verità era che, sebbene a Sara volesse dimostrare il contrario, Nyssa non era per niente pronta a fare la madre. Si era detta che sarebbe stato facile, che non ci sarebbero stati problemi, perché in fondo se Sara era riuscita a sopravvivere per due giorni interi ce l’avrebbe fatta anche lei; ma niente di tutto ciò era mai stato vero, Nyssa lo sapeva benissimo. E forse la prima persona a dover convincere che ce la poteva fare era sé stessa.
L’ennesimo vagito della bambina fece riemergere Nyssa dai propri pensieri. Ormai era arrivata allo stremo delle forze.
«Senti un po’, signorina» esordì, puntandole il dito contro. «Capisco che essere rinchiusa in una scatola trasparente deve essere stata un’esperienza traumatica per te. Ma adesso non puoi approfittare della tua bellezza per comprarti le persone. Va bene, qualche capriccio ti è concesso, dopotutto sei la figlia di Sara Lance. Però, non devi‒»
Come se si fosse improvvisamente svegliata dopo aver fatto un lungo sogno, la figlia di Ra’s al Ghul spalancò di colpo le palpebre, le orecchie tese.
Niente. Non sentiva assolutamente niente.
Kaila aveva smesso di piangere ‒ di nuovo ‒, e adesso la stava fissando ‒ di nuovo ‒ con i suoi occhi incuriositi.
Nyssa abbassò senza volere l’indice, e la bimba seguì il movimento con lo sguardo. Fu allora che la mora capì.
«Ti piace questo?» domandò, più a sé stessa che a Kaila. Senza attendere nemmeno un sospiro come risposta, Nyssa iniziò a muovere il dito a destra e a sinistra, dapprima lentamente, poi veloce come un fulmine.
«Bastava davvero così poco? Veramente?» esclamò stupita, senza smettere di muovere l’indice neanche per un secondo. «Che poi, cosa c’è di così carino in un dito, eh?»
Ma ormai non aveva più importanza. Kaila era tranquilla e apparentemente divertita. E nonostante negli ultimi venti minuti avesse passato l’inferno, Nyssa si rese conto che quella era l’unica cosa che contava.



Sara si svegliò più o meno quattro ore dopo. Quando aprì gli occhi, la prima cosa che le venne in mente di fare fu voltarsi in direzione del lettino. Era vuoto.
In preda al panico, Canary si alzò di scatto dal letto, col cuore che batteva a mille e le gambe che le tremavano. Si diresse di corsa in salotto, e fu quando ne varcò la soglia che vide qualcosa che minacciò di farle esplodere il petto. In senso positivo, per una volta.
Nyssa era in piedi vicino alla finestra, la luce del tramonto a illuminarle i lineamenti del viso. Stringeva Kaila tra le braccia, cullandola dolcemente. Aveva gli occhi lucidi e la osservava come se fosse la cosa più preziosa che avesse mai visto. Le stava cantando una ninna nanna in russo, e forse fu proprio sentire la sua amata cantare che fece sciogliere il cuore di Sara.
Non appena la piccola si fu addormentata, Nyssa si avvicinò lentamente alla culla, per poi adagiarvela dentro con cura. Ci volle un’altra manciata di secondi prima che la mora notasse la presenza di Sara sullo stipite della porta.
«Si è addormentata?» domandò quest’ultima in un sussurro.
Nyssa annuì, per poi farle un cenno col capo. Sara la seguì in cucina con un sorriso malizioso.
«Non ti ho sentita arrivare» rivelò poco dopo l’Erede del Demonio, con un tono di voce eccessivamente rilassato.
«Strano, considerato che la prima volta che mi sono avvicinata di soppiatto a te mi hai quasi tagliato la gola[1]» ironizzò la bionda. A quanto pare, anche l’invincibile Nyssa al Ghul aveva un punto debole: sua figlia.
A quelle parole, Nyssa inarcò un sopracciglio divertita. «Ho passato tutto il pomeriggio insieme a lei. Le ho dato da mangiare, le ho cambiato il pannolino, e poi abbiamo anche giocato con il carillon che le ha regalato Thea. Le piace molto.»
«Già, è davvero carino» confermò Sara. «Mi sarebbe piaciuto vedervi.»
«Anche a me. Forse, se non avessi dormito per quattro ore filate, non te lo saresti persa.»
«Lo terrò a mente per la prossima volta.»
«Sarà meglio.»
«Però, se mi fossi svegliata prima, magari non ti avrei sentita cantare.»
Nyssa si bloccò, colta in flagrante.
«È stato bellissimo ascoltarti» ammise la bionda, anche se ciò non fece trattenere Nyssa dall’arrossire. «Era una ninna nanna? Scusa, ma il mio russo è un po’ arrugginito.»
«Diciamo che non ho mai avuto abbastanza tempo per insegnartelo adeguatamente» rise l’altra. «Comunque, sì. Me la cantava sempre mia madre quando avevo gli incubi da piccola. Parla di una bambina coraggiosa che scappa dalla sua cameretta perché ha paura dei mostri sotto al letto. Così si mette a correre, e a correre, e a correre, fino a quando non si rende conto di essere riuscita ad attraversare un fiume con la sola forza delle sue gambe. È una canzone popolare che ha come scopo quello di far capire ai bambini che è giusto avere paura, e che a volte sono proprio le nostre paure più grandi a darci la forza di affrontare le situazioni peggiori a testa alta.»
«Mi piace molto» rivelò Sara, sinceramente stupita. Adorava sentire Nyssa parlare di sua madre. Se avesse potuto, l’avrebbe ascoltata parlare di lei all’infinito, perché era una delle poche persone che era riuscita a conoscere Nyssa quando era ancora una bambina, prima che diventasse l’Erede del Demonio. «Magari, quando Kaila sarà grande, potresti insegnarle un po’ di russo. Sono sicura che le piacerebbe molto poter comprendere il significato di questa ninna nanna.»
«Piacerebbe molto anche a me» confessò la mora con un sorriso.
«Quindi, se non ho capito male, è andato tutto bene.»
«All’inizio non è stato facile. Continuava a strillare e non avevo idea di come farla smettere. Poi ho capito che aveva solo bisogno di un po’ di attenzioni. E di sua madre. Così, le ho involontariamente puntato il dito contro come fai tu con tutti di solito, e ha funzionato. Deve aver riconosciuto il segnale.»
Sara scoppiò a ridere, ma si trattenne quanto bastava per non svegliare Kaila. «Non è vero. Io non faccio mai così.»
«Sicura? Perché a me risulta il contrario.»
Sara scosse la testa, dopodiché abbassò appena lo sguardo. Non si era lasciata sfuggire la vena di amarezza nella sua voce. «Anche tu sei sua madre, Nyssa. Lei lo sa.»
La figlia di Ra’s si strinse nelle spalle. «E se così non fosse?»
Sara le dedicò uno sguardo confuso, inducendola a proseguire. «Kaila ha un padre e una madre che la amano da morire. E se gli bastasse il vostro amore? Non voglio fare la parte della matrigna cattiva, ma non potrò nemmeno costringerla a chiamarmi “mamma” se non vorrà farlo.»
Canary inarcò nuovamente un sopracciglio, più confusa di prima. «Tu vuoi essere chiamata “mamma”?»
Nyssa prese un respiro profondo, come se da quella risposta dipendesse tutto il suo futuro. «Certo che lo voglio. Ma...»
«Niente ma» l’ammonì Sara, facendosi improvvisamente seria. «Ne abbiamo già discusso. I bambini sono intelligenti, più di quanto noi potremmo mai immaginare. Kaila riuscirà a comprendere la situazione, un giorno. Ne sono più che sicura. E poi, ci saranno un sacco di persone pronte a sostenerci. Oliver in primis.»
Nyssa fece una piccola smorfia. «E se Oliver cambiasse idea?»
«A cosa ti riferisci?»
«All’essere una madre inadeguata» sussurrò la mora, quasi impaurita dalle sue stesse parole. «Non posso sapere se sarò all’altezza delle sue aspettative. O delle tue. Oggi ho avuto fortuna, ma chi mi assicura che sarà così anche domani?»
«Ehi, nessuno si aspetta niente da te, habibti» esclamò Sara, accarezzandole il braccio sinistro. «Perché all’improvviso sei così esitante?»
L’Erede si portò una mano di fronte alle labbra, mentre i primi segnali di un imminente pianto si facevano strada lungo il suo corpo. «È che ho paura» rivelò con un filo di voce. «Tanta paura. E non possiamo sapere cosa succederà la prossima volta che ci troveranno» proseguì la mora, con voce tremante.
Era la prima volta che Nyssa abbassava il suo scudo dopo l’attacco di Sarab, e Sara si rese conto di quanto fosse stata stupida a non aver compreso subito quale fosse il vero problema che la divorava da dentro.
«La amo tantissimo, Sara, dico davvero. E voglio costruire una famiglia con te, essere una madre insieme a te. Ma sono pur sempre la figlia del Demonio. E se questo dovesse pesare in qualche modo su nostra figlia, non me lo perdonerei mai.»
Sara trattenne il respiro e le lacrime. Per una volta, toccava a lei essere forte per la sua amata. Per una volta, doveva essere lei a prenderle il viso tra le mani e a rassicurarla. E così fece.
«Da quando ho scoperto di essere incinta, tu sei stata la mia roccia. Non so cos’avrei fatto senza di te. Ti sei fatta in quattro per me, ti sei rivoltata contro il tuo stesso padre per me. Per noi. E adesso non devi avere dei ripensamenti solo perché siamo state attaccate. Troveremo il modo di sconfiggere Sarab, hai la mia parola. Ma questo non deve in alcun modo farti credere che sarai una madre inadeguata, o che il tuo passato potrà in qualche modo metterla in pericolo, perché non è così.» Fece una pausa. Inspirò a pieni polmoni, dopodiché espirò, tentando vanamente di rendere la situazione meno stressante. «La verità è che ognuno di noi la sta mettendo in pericolo. Io, tu, Oliver. Nessuno di noi ha avuto una vita facile, e tutti ci siamo fatti dei nemici in questi anni. Perciò, non fartene una colpa se hai avuto un passato orribile, né tantomeno cercare prenderti l’esclusiva, perché qui ci sono altri due candidati perfettamente in grado di darti del filo da torcere. Chiaro?»
Quella frase sembrò far illuminare il volto di Nyssa, anche se solo per una frazione di secondo. Tuttavia, ciò non bastò per farla smettere di piangere. Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla voce di Sara e dal suo tocco delicato che le sfiorava la pelle; dopodiché nascose il viso nell’incavo del suo collo, più indifesa che mai.
«Come ha detto Oliver, non possiamo sapere cos’avrà in serbo per noi il futuro. Potrebbe andare tutto per il meglio, oppure no. Ma in ogni caso, non sarà colpa tua. Ho visto come la guardavi, e credimi, non tutte le madri guardano il proprio figlio nel modo in cui tu stavi guardando Kaila. È chiaro che le vuoi bene, e l’amore può vincere su tutto. Sei stata tu a insegnarmelo, ricordi?»
Nyssa annuì debolmente. Sara le passò una mano tra i capelli, iniziando ad accarezzarglieli dolcemente.
«Allora smettila di sottovalutarti. E la prossima volta che nostra figlia piange, falle vedere di che pasta sei fatta. Domani e ogni giorno che verrà.»
A quelle parole, la figlia del Demonio trovò la forza di allontanarsi dall’amata quanto bastava per guardarla negli occhi.
«Vuoi farmi fare il poliziotto cattivo?» domandò, ridendo sotto ai baffi.
Canary ruotò appena la testa di lato, scostandole una ciocca di capelli dalla guancia bagnata. «No. Voglio che tu sia la madre protettiva e premurosa che so che diventerai.»
In quel momento, Nyssa ebbe l’impressione che il suo cuore si stesse sciogliendo come la neve in un giorno di sole. Osservò per qualche istante gli occhi pieni di amore e di sincerità della sua amata prima di catturare le sue labbra con le proprie. Sara ricambiò il bacio senza alcuna esitazione, poggiando la mano destra sul cuore di Nyssa.
«E so anche che non sarà facile, ma ce la caveremo. Ci sai fare coi bambini.»
«Quella in realtà sei sempre stata tu.»
«Ti sbagli» ribatté la bionda, scuotendo il capo. «Io ho un passato da baby-sitter e da cugina maggiore alle spalle. Sapevo cambiare pannolini prima ancora di iniziare le superiori. Tu invece non hai mai avuto a che fare con un bambino in vita tua, eppure da sei mesi a questa parte ti sei sempre data da fare come se questo bambino fosse stato il tuo.» Sara afferrò la mano di Nyssa e se la portò al ventre ormai piatto, in ricordo di quel pancione di cui entrambe si erano tante innamorate. «E Kaila è tua, Nyssa. E quando tutta questa faccenda sarà risolta, ti prometto che farò tutto il possibile per renderlo ufficiale. Perché lei è tua figlia, e il mondo intero merita di saperlo.»
La figlia di Ra’s sorrise a labbra strette, lasciandosi cullare dalla stretta rassicurante di Sara. Tirò su col naso, si passò il dorso della mano sulle guance e come per magia tornò ad essere la Nyssa di sempre. La donna più bella, forte e autoritaria che Sara avesse mai conosciuto.
«Te l’ho già detto che ti amo?»
Canary finse di ragionarci sopra. «Stiamo insieme da qualche anno, però... no, non mi pare proprio.»
Nyssa sorrise e scosse la testa allo stesso tempo, per poi stringere le mani di Sara tra le proprie.
«Prima hai detto qualcosa riguardo a Oliver» azzardò poco dopo, accarezzandole le nocche. «Ti va di parlarne?»
Sara si bloccò per un istante, colta di sorpresa. Sapeva che quel momento prima o poi sarebbe arrivato, ma aveva sperato con tutta sé stessa di sbagliarsi. Percepì qualcosa dentro di lei sgretolarsi.
I ruoli stavano per invertirsi di nuovo.
«Forse è meglio se ci sediamo.»
Seppur confusa, Nyssa seguì il suggerimento di Sara, senza mai lasciare andare le sue mani. Quando furono sedute al tavolo della cucina, la bionda prese un respiro profondo, fino a riempirsi i polmoni d’aria.
«Stavo cercando il momento giusto per parlartene» esordì poi, lo sguardo teso. «Oliver è convinto della sua posizione. Non cambierà idea, ne sono certa. Ma io non ho ancora preso una decisione. È troppo difficile.»
«Amore, non so nemmeno di che cosa stai parlando» sussurrò Nyssa, stringendole le mani per incitarla a proseguire.
«È che...»
Le morì un singhiozzo in gola, ma fu talmente inaspettato che Sara stessa sussultò. Nyssa se ne accorse, perciò smise di parlare e attese che Sara fosse pronta a riprendere la conversazione. Non ci volle molto.
«Vuole dare la bambina in adozione.»
La reazione di Nyssa fu istantanea, quasi automatica. Si alzò di scatto in piedi, facendo strisciare la sedia sul pavimento. «Che cosa?»
«Aspetta, lasciami spiegare» la pregò Sara, prendendo un altro respiro profondo. «Quando ero ancora in ospedale, quando ancora non sapevamo se Maseo se ne fosse andato da Starling City, Oliver mi ha chiesto se avessimo mai pensato a un piano B.»
«Che tipo di piano B?» domandò Nyssa inquieta.
«Cosa fare se la questione con la Lega degli Assassini diventasse troppo complicata. Come comportarci se...»
«Se qualcuno minacciasse nuovamente noi o nostra figlia» concluse l’Erede per lei. «Immagino ci abbiamo pensato tutti e tre, almeno una volta.»
Sara esitò, ma poi fu costretta ad annuire. «Ma non abbiamo mai trovato un punto di accordo. Oliver crede che sia il momento di farlo.»
«E lui ha proposto l’adozione.»
Sara annuì di nuovo, questa volta con meno entusiasmo.
«E tu cosa ne pensi?»
Canary incrociò le braccia, mentre l’immagine della prima volta che aveva visto sua figlia si faceva spazio tra i suoi ricordi. Era stato amore a prima vista. Con la sua boccuccia a cuoricino e i suoi capelli chiari come il grano, Kaila era riuscita a conquistarla fin dal primo istante. Come avrebbe potuto rinunciare a lei? Dove avrebbe trovato il coraggio di dire addio alla sua unica figlia dopo così poco tempo? Il solo pensiero le faceva venire il voltastomaco.
Sara contrasse la mascella. «Non ho nessuna intenzione di darla via. Per nessun motivo al mondo.»
Nyssa rifletté attentamente sulle parole di Sara, e non ci mise molto a emettere un verdetto. «Io sono d’accordo con lui.»
Sara alzò di colpo lo sguardo, ferito e confuso.
«Credo che sarebbe la cosa migliore per Kaila» proseguì la figlia di Ra’s, mantenendo un tono di voce rilassato.
«Non riesco a capire.»
«Ascolta, Sara...» Nyssa sospirò, passandosi una mano sul viso. «Lasciare un figlio è un sacrificio estremo. Me ne rendo conto. In questo momento, nemmeno io avrei il fegato di metterla tra le braccia di due perfetti sconosciuti. Ma se tutta questa faccenda dovesse risolversi nel peggiore dei modi, vorresti davvero esporla in questo modo? Rischieresti di mettere la sua vita in pericolo solo perché non vuoi lasciarla andare?»
«Il fatto è che fin dal principio eravamo consapevoli che era un rischio. Tutti e tre» puntualizzò la bionda, guardandola dritto negli occhi.
Nyssa si strinse nelle spalle, sentendosi indirettamente colpevole. «Lo so. E passeremo il resto delle nostre vite a chiederci se sia stata la decisione giusta. Ma sai cosa? Non troveremo mai una risposta. Però, possiamo fare del nostro meglio per far sì che ne sia valsa la pena.»
Questa volta, fu Sara a sentire le lacrime pronte a cadere. Nyssa la abbracciò prima che ciò accadesse, e Sara ricambiò la stretta senza fiatare.
«Ho bisogno di tempo per pensarci» sussurrò poco dopo, con voce tremante.
«Come hai detto tu, dobbiamo essere tutti d’accordo» le ricordò la mora, poggiandole una mano sulla nuca. «Non devi prendere una decisione adesso. Non puoi.»
Sara annuì sulla sua spalla, e fu in quel momento che si rese conto che Nyssa aveva ragione.
Probabilmente, su tutto quanto.







[1] Un giorno capirete... ma quel giorno non è oggi xD






Ok, sono un po’ in ritardo (un po’ tanto), ma a mia discolpa posso dire che: tra la scuola e le simulazioni, due piccoli interventi, la patente, l’aver ricevuto tanti bei regali che mi portano via un sacco di tempo, e l’arrivo di un bebè, direi che questi ultimi tre mesi sono stati un po’ movimentati xD
Sappiate che da qualche mese sto anche lavorando ad un altro progetto collegato a questa long che ‒ spero ‒ vi piacerà, motivo per cui ogni tanto mi dedico un pochino meno ai capitoli e più all’altro progetto. E no, per adesso non vi dirò nulla perché sono malefica e mi piace lasciare un po’ di suspense. Amatemi.
L’unica cosa che vi posso dire, è che ci sono veramente un sacco di riferimenti (soprattutto in questo capitolo) che capirete solo dopo aver letto l’altro mio progetto :3
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, che Kaila vi sia piaciuta (a me piace un sacco) e che queste due vi piacciano sempre di più, che alla fine è la cosa più importante di tutte.
Un saluto da zia Jade <3

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Capitolo 19
*** Capitolo 18: My only, real treasure ***


 

Capitolo 18: 
My only, real treasure

 

 

 

 

Oscurità.
Tenebre.
Demoni.
Era questo ciò di cui si nutriva ogni notte, ciò che lo manteneva ancora in vita dopo tutti quegli anni sulla Terra.
«Quando la luna splenderà nel cielo, il nuovo Dio risorgerà.»
Teneva tra le mani un libro impolverato e malridotto, scritto in una lingua antica, addirittura più vecchia di lui. Lo aveva riletto così tante volte da riuscire a scovarne i significati più profondi, nascosti dietro la china secca e un po’ sbavata.
«Mostrerà ai propri seguaci la sua vera forma, rivelandosi per ciò che è davvero: un essere superiore e onnipotente. Per questa ragione, solamente i veri fedeli continueranno a seguirlo nel suo viaggio, e le loro anime verranno premiate per questo nobile gesto.»
Rivolse lo sguardo verso il cielo, immobile e silenzioso. Quella notte era più buio che mai, con una sola, minuscola stella a illuminare l’universo.
L’ultima speranza.
«I corrotti, invece, verranno puniti. I traditori uccisi. E gli infedeli... torturati.» Abbassò lentamente le palpebre, lasciando che il vento gli accarezzasse il viso. Iniziò quindi a recitare la profezia a memoria. «Gli verrà confiscato ogni bene. Saranno costretti a veder morire i propri cari. Si sentiranno esclusi dal resto del mondo. E quando inizieranno a implorare la morte, il Dio li torturerà con la sua spada. Espierà i peccati dai loro corpi e li farà rinascere. Ma nessuno di loro sopravvivrà davvero. Ognuno di loro andrà all’inferno.»
Aprì di colpo gli occhi, così chiari e minacciosi, e li puntò contro la luna piena. Anche lei lo fissava dall’alto, impassibile. Perché la luna sapeva ogni cosa.
«Un inferno chiamato vita.»
Chiuse il libro e sorrise alla luna.
La profezia si stava avverando.

*

«Vorrei che restasse così per sempre.»
Nyssa si voltò verso Sara, guardandola di sbieco. «Vuoi dire ferma? Perché se è quello che intendi, mi spiace deluderti, tesoro mio, ma nel giro di qualche mese si muoverà così tanto che faticherai a tenerla d’occhio.»
Sara scosse il capo in segno di diniego, accarezzando con un dito la guancia di Kaila. «Così... piccola.»
Sarebbe rimasta a osservarla mentre dormiva per ore, Nyssa glielo poteva leggere negli occhi. Dopotutto, come biasimarla? Kaila sembrava un vero e proprio angioletto.
L’Erede del Demonio si avvicinò all’amata, poggiandole le mani sulle spalle. «Lei sarà sempre piccola» le sussurrò all’orecchio, per poi darle un bacio sulla guancia. «Ma vederla crescere sarà la parte più bella dell’essere genitori. Non credi?»
Sara annuì appena, senza staccare gli occhi da sua figlia nemmeno per un istante. Le sembrava quasi incredibile pensare che meno di sei mesi prima aveva scoperto di essere incinta, mentre adesso sua figlia stava dormendo serenamente davanti a lei. Il tempo era proprio volato.
«Credi che dovremmo farle i buchi alle orecchie?» domandò Sara poco dopo, tornando seria.
Nyssa corrugò la fronte, confusa. «Perché dovremmo?»
L’altra rispose con un’alzata di spalle. «Non lo so. Tu ce li hai dalla nascita.»
Quel ragionamento non aveva alcun senso dal momento che lei era cresciuta in un contesto e in un ambiente completamente diversi, ma la figlia di Ra’s decise di assecondare la sua amata. «Sarebbe carino, ma forse dovremmo aspettare ancora qualche anno. Dopotutto, non possiamo sapere se lei li vorrà oppure no.»
Canary ruotò leggermente la testa di lato. «Hai ragione. Non so come mi sia venuto in mente.»
Nyssa trattenne a stento un sospiro di sollievo. Tuttavia, prima che potesse dire un’altra parola, Sara le mise le braccia al collo.
«Il battesimo, invece? Insomma... la vogliamo battezzare? O forse sarebbe meglio lasciare che sia lei a decidere quale strada prendere?»
«Beh, io credo che...»
«E cosa potremmo regalarle per il suo quinto compleanno? Sai, a quell’età i bambini chiedono un sacco di cose impossibili, tipo un pony o un’astronave... Oh, aspetta, ci sono! Un cucciolo!»
«Sara, no.»
«Hai ragione, potrebbe essere allergica ai cani. Allora che ne dici di un coniglietto? O magari un gatto?»
Con una rapidità quasi impercettibile, Nyssa attirò Sara verso di sé e la baciò con così tanta veemenza da spaventarla. Malgrado ciò, la bionda assecondò il bacio con le palpebre spalancate, confusa e preoccupata.
«Perché...?»
«Dovevo trovare un modo per calmarti» rivelò Nyssa poco dopo, a un soffio dalle sue labbra. «E per farti tacere» aggiunse con un sorrisino.
Sara rispose con un sospiro. «Ho ricominciato con la mia parlantina nervosa, non è vero?»
«Giusto un pochino. Stavi diventando irritante» ammise l’Erede. Subito dopo prese le sue mani tra le proprie, stringendogliele dolcemente.
«Habibti, ascolta» esordì, accarezzandole le nocche con i polpastrelli. «Tra una settimana è Natale. E il tuo compleanno. E voglio che tu possa trascorrere una giornata intera facendo quello che vuoi in completa tranquillità.»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Voglio arrivare al punto in cui capisci che ti stai facendo del male» spiegò la donna, accarezzandole la guancia con il dorso della mano. «Ricordi qual è stata la prima cosa che ti ho insegnato quando sei arrivata a Nanda Parbat?»
«A meditare» rispose prontamente Sara, un velo di malinconia negli occhi. «A liberare la mente dai fantasmi del mio passato. A trovare la mia pace.»
Nyssa annuì fiera. «Esattamente. Ed è quello che voglio che tu faccia anche adesso.»
Sara abbassò il capo, sentendosi in colpa. Perché continuava a riempirsi la testa di pensieri? Era questo che succedeva quando diventavi madre? No, per lei era sempre stato così, ma ultimamente la situazione era peggiorata. E Nyssa, ovviamente, se n’era accorta.
Fin dal loro primo giorno insieme, Sara aveva sempre sostenuto di essere un peso per lei. Perché era l’ultima arrivata. Perché era un bersaglio facile. Perché sapeva di essere la sua debolezza più grande. Perché era una distrazione. Perché era una donna.
Nyssa aveva sempre smentito tutto ciò, ma in cuor suo, Sara sapeva che era vero. Se Nyssa non l’avesse mai trovata, probabilmente ora non si sarebbero trovate in questa situazione. Probabilmente non avrebbe costretto Nyssa a scegliere di schierarsi dalla sua parte, ribellandosi così al volere di suo padre.
Sara si allontanò dalla culla, muovendo alcuni passi incerti verso il corridoio. Si fermò sulla soglia e si voltò in direzione della sua amata.
«Scusami.»
«Non è a me che devi le tue scuse. Lo sai.»
Certo che lo sapeva. «Come potrei perdonarmi tutte le cose che ho fatto?»
«Vuoi dirlo a me?» ironizzò la mora, sforzandosi di sorridere. «Lo so come ti senti, Sara. Credimi. Lo so. Sono sua madre anch’io. E se dovesse capitarle qualcosa, non me lo perdonerei mai.»
«Ne sono consapevole. L’ultima volta che abbiamo avuto questa conversazione sei riuscita a convincermi con le tue parole.»
«L’ultima volta che abbiamo avuto questa conversazione è stato tre mesi fa, e tu non mi sembravi molto contenta all’idea che io mi sacrificassi per voi.»
Sara esitò per un istante. «Non mi riferisco alla conversazione che abbiamo avuto dopo il ritorno di Thea e... di Merlyn. Intendo quello che mi hai detto pochi giorni prima del parto.»
Nyssa ci impiegò qualche istante per capire di cosa stesse parlando la sua amata. E quando lo capì, spalancò d’istinto le palpebre per lo stupore.
«Quindi non stavi dormendo» sussurrò, incredula di fronte a quella rivelazione.
Sara sorrise con fare malizioso sotto lo sguardo impotente di Nyssa. Quest’ultima si portò lentamente una mano davanti alla bocca. Possibile che Sara si fosse davvero presa gioco di lei in quel modo? Sapeva bene quanto fosse sempre stato difficile per lei esternare i propri sentimenti, e nonostante in quegli anni avesse mostrato più volte il suo lato amorevole, non le piaceva l’idea che Sara l’avesse spiata in un momento così intenso e non le avesse fatto capire che fosse sveglia.
Si sentiva terribilmente indifesa. E anche un po’ derisa.
«Avanti, Nyssa. Esprimiti» la punzecchiò Sara, avvicinandosi a lei con estrema lentezza. «Cos’è che ti infastidisce di più?»
Nyssa indietreggiò a sua volta, e prima che potesse rendersene conto, si ritrovò con le spalle al muro.
«Il fatto che sia riuscita a prendermi gioco di te? Oppure...»
Sara le mise una mano sulla guancia e l’altra sulla nuca, fermandosi a un soffio dalle sue labbra.
«L’idea che ti abbia scoperta senza il tuo muro a proteggerti?»
La figlia di Ra’s al Ghul si mordicchiò impotente il labbro inferiore. Odiava quella situazione. Sara sapeva perfettamente che le piaceva avere il controllo della situazione. Sapeva anche che doveva essere lei a decidere quando uscire dal suo potente e impenetrabile guscio, e mostrarsi così per la donna generosa e sdolcinata che in realtà era.
«Entrambi» rivelò, rilassando la mascella.
«Non puoi avere il controllo su tutto, Nyssa al Ghul» le sussurrò la bionda all’orecchio, per poi lasciarle una scia di baci e di morsi lungo il collo.
«Potrei iniziare ad abituarmi all’idea» concesse l’Erede, afferrando Sara in vita e attirandola a sé. «Habibti.»
La baciò, costringendola ad alzarsi in punta di piedi per poter raggiungere le sue labbra. Trattenne il respiro e iniziò a muovere entrambe le mani lungo la schiena di Sara, accarezzandogliela con estrema dolcezza, su e giù, su e giù, su e giù. Sara si strinse di più a lei e Nyssa le mise una mano sotto alla maglietta, instaurando un contatto con la pelle della sua amata, scatenando una serie di intensi brividi lungo la sua colonna vertebrale, fino a quando...
Sara aprì gli occhi di colpo e si staccò da lei nel giro di un secondo, ergendo il suo muro.
«Devo andare» bisbigliò, nonostante lo sguardo implorante della mora. «Ho una bambina da allattare e tu un bagno da pulire.»
Nyssa espirò profondamente mentre Sara si allontanava da lei indietreggiando. Aveva lo sguardo fisso su di lei e sembrava soddisfatta. Subito dopo, prese una Kaila ancora addormentata in braccio, ma prima di andarsene le dedicò un’altra, intensa occhiata.
«E comunque, sappi che non dimenticherò mai quello che hai detto quella notte, habibti» disse la bionda, scostandosi una ciocca di capelli dal viso. «Sono certa che questo vale anche per nostra figlia.»
Le scoccò un lungo bacio sulla guancia, dopodiché si diresse verso la camera da letto con un sorriso soddisfatto.
Nyssa ci mise qualche istante per elaborare l’accaduto. Poteva ancora sentire il gusto di Sara in bocca e il collo pizzicare a causa dei suoi morsi. Sorrise senza nemmeno rendersene conto, ma quando il suo sguardo si posò sull’orologio appeso al muro, sul suo viso si fece spazio un piccolo broncio.
«Ma non è l’ora della poppata» rifletté tra sé e sé. «E Dinah ci ha consigliato di non svegliare mai la bambina mentre dorme...»
E quando capì che Sara si era presa gioco di lei per la seconda volta, ormai era troppo tardi.
«Sara! Torna subito qui, razza di muhtal[1] che non sei altro!»

*

La Queen Consolidated era ancora più imponente di quanto ricordasse. Passava quasi tutto il giorno chiuso dentro il suo ufficio, perciò vedere con i propri occhi la maestosità dell’impero costruito dalla sua famiglia dall’esterno lo rendeva orgoglioso. E un po’ spaventato.
In terza elementare andava a trovare suo padre al lavoro quasi tutti i giorni. All’uscita da scuola, l’autista non riusciva quasi mai a portarlo a casa; le piccole soste alla Queen Consolidated per salutare Robert si rivelavano sempre ‒ sempre ‒ delle scuse per sgattaiolare nell’ascensore e nascondersi nell’ufficio di suo padre.
Adorava quell’ufficio. C’erano le penne colorate, una ciotola di caramelle al limone e tante, tantissime foto di lui e papà. Adesso che l’ufficio era diventato suo, Oliver aveva rimosso le caramelle e le foto, ma aveva tenuto le penne colorate. Sperava tanto che un giorno anche sua figlia sarebbe andata a trovarlo in quell’ufficio, e che anche lei avrebbe passato ore e ore a disegnare con quelle penne mentre il suo papà lavorava al computer.
«Testa rivolta verso l’altro, mani nelle tasche, cravatta con un nodo perfetto... sembri uscito da un episodio di “Law & Order”.»
Oliver si voltò, un piccolo sorriso stampato sulle labbra. Sara sorrise a sua volta, per poi lanciare uno sguardo alla carrozzina che stava spingendo. Oliver si sporse quanto bastava per vedere il visino sereno di Kaila mentre dormiva.
«Diventa sempre più bella ogni giorno che passa» confessò il vigilante, con un’intensa luce negli occhi.
«Tale madre, tale figlia, giusto?»
Sara rise alla sua stessa battuta, mentre Oliver scosse la testa divertito.
«Sara Lance, non cambi proprio mai.»
«Disse quello sempre vestito di verde.»
Oliver abbassò lo sguardo, poggiando una mano sul proprio petto. «Ti riferisci alla cravatta? È il mio regalo di Natale da parte di Felicity. Dice che è un modo per ricordarmi che la città ha bisogno di Arrow anche alla luce del sole.»
Sara sembrò pensarci su per qualche istante. «Beh, devo dire che il suo ragionamento non fa una piega.»
«Già. È proprio da Felicity. E a proposito di Felicity, stavamo pensando di festeggiare il Natale a casa nostra quest’anno. Sempre che tu e Nyssa non abbiate già altri impegni.»
«No. Certo che no. Quali altri impegni dovremmo avere?» domandò, iniziando a dondolare lentamente la carrozzina avanti e indietro.
«Beh, credevo che, essendo il tuo compleanno, aveste programmato qualcosa. Dopotutto, immagino siano passati anni dall’ultima volta che lo hai festeggiato.»
Sara prese a tossire nervosamente, ma riuscì a calmarsi nel giro di qualche secondo. Se solo sapessi come ho festeggiato i miei ultimi compleanni alla Lega, Ollie...
«No... In effetti, no. Sono anni che non festeggio» mentì. «Ma ormai sono adulta, Ollie. E sono una mamma. Non ho più bisogno di festeggiare il mio compleanno.»
«Tutti hanno bisogno di festeggiare il proprio compleanno. A qualsiasi età.»
«A quanto pare, non io» replicò, sistemando la copertina di Kaila in modo che le riparasse tutto il corpicino. «Da quando c’è lei, non ho altre priorità.»
Oliver avrebbe tanto voluto dire che lo stesso valeva per lui, ma sapeva che sarebbe stata una menzogna. Kaila era sua figlia, e la amava con tutto il suo cuore, ma non era la sua unica priorità. C’erano Arrow, la Queen Consolidated, l’aver scoperto che Thea aveva stretto un legame con Merlyn, la Lega degli Assassini, e Felicity. Anche se avrebbe fatto i salti mortali per lei, anche se avrebbe ucciso per lei, Kaila non era l’unica persona a dominare i suoi pensieri al momento. Non poteva nemmeno confidarsi con John, perché sapeva che l’amico avrebbe sicuramente cercato di giustificarlo dicendo che era normale, che era umano e padre, e che ci sarebbero sempre state cose peggiori di un pannolino sporco a invadergli la mente. Dopotutto, sicuramente anche Sara aveva altri pensieri per la testa. Tra la Lega degli Assassini che le stava alle costole e Laurel che rischiava di ricadere nell’alcolismo, non doveva essere stato facile per lei ritrovarsi con una bambina a cui pensare ventiquattro ore al giorno.
Ma era felice. Immensamente felice. Oliver glielo poteva leggere negli occhi. Perciò, quando Sara gli spiegò il motivo per cui aveva voluto incontrarlo, a Oliver si spezzò il cuore.
«Ricordi quello che mi hai detto in ospedale?»
«Di non fidarti delle infermiere e di non toccare il pasticcio di patate per nessun motivo al mondo?»
Sara scosse il capo, abbozzando un sorriso. «No, idiota. Mi riferivo all’altra cosa.»
Oliver si infilò nervosamente le mani in tasca, il petto all’infuori a causa dell’aria che stava trattenendo.
«Oh.»
«Ne ho parlato con Nyssa» proseguì Sara, con voce tremante. «E... avevi ragione tu. Sì, insomma, se la situazione precipitasse... credo che dovremmo dare Kaila in adozione.»
L’uomo annuì, deglutendo sommessamente. «È stata Nyssa a farti cambiare idea?»
Questa volta, fu Sara a trattenere il respiro. «Più o meno. Diciamo che ho capito che sarebbe la cosa migliore da fare. Non voglio che cresca con il peso dei fardelli del nostro passato sulle spalle. Merita di più.»
«Sono d’accordo con te» sorrise Arrow a labbra strette.
Sara ricambiò a fatica il sorriso. Aveva lo stomaco sottosopra. «Però, se dovesse accaderci qualcosa, Ollie... Kaila dovrà sparire. Letteralmente. Voglio che sia lontana da Starling City e da chiunque possa ricondurla a noi. E voglio che cresca insieme a qualcuno che non le faccia mancare nulla, che la tratti come se fosse la sua stessa figlia, e che non le riveli mai ‒ Oliver, mai ‒ chi fossero i suoi genitori. Voglio che abbia una famiglia che la ami davvero e che le dia tutto quello che noi non potremo darle perché...»
Lasciò la frase a mezz’aria, troppo sconvolta per riuscire a pronunciare quella parola.
«Perché a quel punto noi saremo morti» concluse Oliver per lei, altrettanto scosso.
Canary annuì con forza, mentre le lacrime scorrevano leggere sul suo viso. «Avere un figlio ti cambia la vita. E come ha detto Nyssa, essere genitori significa essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di garantire ai propri figli una vita migliore. E io non voglio costringere Kaila a vivere con i nonni o le zie perché i suoi genitori sono morti in battaglia. Non voglio che cresca pensando che sia successo tutto a causa sua, peggio ancora con un mirino sulla testa. Non posso farle questo, Ollie. Proprio no.»
Prima che Sara potesse aggiungere un’altra parola, Oliver si avvicinò a lei e la strinse con tutte le forze che aveva in corpo. Sara spalancò le palpebre distrutta, mentre il padre di sua figlia le metteva una mano sul capo.
«So quanto è difficile» rivelò l’uomo, sussurrando quelle parole con un immenso dolore al petto. «Per questo dirò a Felicity di cercare le persone più affidabili e più adatte a crescere nostra figlia. Okay?»
Sara annuì a fatica tra un singhiozzo e l’altro. Anche Oliver avrebbe tanto voluto scoppiare a piangere, ma non poteva. Doveva essere forte per Sara. E per Kaila.
«E ti prometto che farò del mio meglio per evitare di arrivare a quel punto. Sono certo che lo stesso vale per Nyssa. Preferirei che fosse lei a diventare la madre di Kaila in maniera ufficiale piuttosto che darla in adozione a due perfetti sconosciuti. E anche se fosse, prima di costringerci a rinunciare a nostra figlia, Maseo dovrà passare sui nostri cadaveri. Te lo prometto.»

*

Sara fu svegliata da qualcosa che le solleticava il naso, ma non avrebbe saputo dire cosa fosse. Sapeva solo che quel qualcosa era decisamente fastidioso. E sgradevole.
Essendo ancora nella fase di dormiveglia, si voltò dall’altra parte, mettendo la testa sotto alle coperte. Il prurito al naso sparì nel giro di qualche minuto, segno che, con ogni probabilità, si era trattato semplicemente di un sogno. Tuttavia, prima che potesse riaddormentarsi di nuovo, la vigilante fu colpita da un’aria gelida che le fece rizzare i peli delle braccia. Qualcuno le aveva tolto le coperte di dosso.
In preda alla rabbia, la donna aprì gli occhi di colpo e scattò a sedere in men che non si dica, desiderosa di scoprire chi aveva osato svegliarla. Ma prima che potesse muovere anche solo un dito, si ritrovò faccia a faccia con Nyssa.
«Eid milad sayid, habibti.»[2]
La figlia del Demonio sorrise, uno di quei sorrisi che riuscivano sempre a scaldarle il cuore, e si affrettò a baciare Sara prima che quest’ultima potesse arrabbiarsi con lei.
Dopotutto, come avrebbe potuto? Certo, la sua ragazza l’aveva svegliata di prima mattina, ma era pur sempre il suo compleanno. E il giorno di Natale. E poi, i risvegli di Sara erano sempre meravigliosi quando la prima persona ad occupare il suo raggio visivo era Nyssa.
Dopo pochi istanti, le due lasciarono andare esitanti le labbra dell’altra, congiungendo le mani e le fronti.
«Shukran jaziilan, habibti»[3] rispose la bionda con uno sguardo complice.
Non si spiegava come mai lei e Nyssa comunicassero ancora in Arabo. Capitava quasi ogni giorno nonostante non vivessero più a Nanda Parbat e non fossero più obbligate a parlare quella lingua; eppure, continuavano a farlo. Forse perché potevano capirsi solo loro, il che rendeva tutto più intrigante. O forse, semplicemente perché era diventata un’abitudine. Una bellissima abitudine.



Più o meno diciassette baci e nove frasi dolci dopo, Nyssa convinse Sara a dare inizio ai festeggiamenti. Senza dare spiegazioni, la figlia di Ra’s al Ghul coprì gli occhi dell’amata con le proprie mani e la condusse in salotto. Kaila stava ancora dormendo, perciò aveva ancora un po’ di tempo per mostrare a Sara la sua sorpresa prima che la bimba reclamasse il suo latte.
«Quando siamo venute a vivere qui, non mi sembrava che il corridoio fosse così lungo.»
«Spiritosa. Sto cercando di allungare il tragitto per depistarti» spiegò Nyssa, ripetendo le stesse identiche parole che Sara le aveva detto due anni prima.
«Immaginavo» ammise la bionda tra sé e sé, sorridendo all’idea che Nyssa stesse ricreando la caccia al tesoro che Sara aveva organizzato per il suo ventisettesimo compleanno.
Poco dopo, Nyssa si fermò e ritrasse le mani, per poi poggiarle sulle spalle dell’amata.
«Diamo inizio alla festa» sussurrò a un soffio dall’orecchio di Sara, mentre quest’ultima apriva lentamente gli occhi.
La cameretta di Kaila era illuminata soltanto dalla luce che filtrava attraverso la finestra. Da quando Sin se n’era andata, la stanza sembrava più vuota di prima: avendo rimesso a posto il materasso, a parte la cassettiera di Sin c’era soltanto il mobile che Oliver aveva comprato per la bambina. Per questo motivo, Sara non ci mise molto a individuare l’intruso. Sopra alla cassettiera c’era una busta colorata, contenente, senza ombra di dubbio, il primo indizio.
«“In questo giorno così bello, ti regalerei un gioiello.”»
Sara si voltò in direzione di Nyssa con la fronte aggrottata.
«Fai sul serio?»
«Finisci di leggere il biglietto prima di trarre conclusioni affrettate.»
La bionda scosse lentamente il capo con fare rassegnato. «“Ma siccome siamo al verde, dovrai accontentarti di alcune perle.”»
Di fronte allo sguardo confuso dell’amata, Nyssa alzò gli occhi al cielo. «Sì, okay, non siamo davvero al verde, ma mi serviva una rima.»
«Meglio così. Dunque, le perle... Di quali perle starà parlando la mia Neisse
Nyssa rispose con una smorfia di disgusto. Odiava quel soprannome, Sara lo sapeva bene. Se lo era inventata lei tanti anni prima, e sebbene non le piacesse neanche un po’, ogni tanto si rivolgeva a Nyssa con quel nomignolo solo per il gusto di stuzzicarla.
«Se mi chiami ancora così, giuro che ti farò passare il peggior compleanno della tua vita.»
«Sì, certo, come no. Hai detto così anche l’ultima volta, e sappiamo benissimo entrambe com’è andata a finire.» Nyssa arrossì lievemente, e la bionda sorrise sotto ai baffi. «Ora basta con le minacce. Mi devo concentrare» disse poi, rileggendo attentamente le parole scritte nel pezzo di carta. «Le perle... saranno i miei orecchini? No, troppo banale. Eppure il primo indizio è sempre il più facile...»
Nyssa inarcò un sopracciglio. «Ah, sì? E chi l’ha deciso?»
In tutta risposta, Canary ruotò la testa di lato. «Sono le regole base della caccia al tesoro, Neisse. Però davvero, adesso basta distrarmi.»
L’Erede del Demonio alzò gli occhi al cielo. Non ci sarebbe voluto molto prima che la sua amata le chiedesse aiuto, perciò si appoggiò allo stipite della porta, in attesa del momento decisivo.
Sara iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza vuota, ripetendosi quelle due righe nella testa, ma non riuscì a risolvere l’enigma. La parola “perla” era piuttosto generica, e di certo non sarebbe riuscita a decifrare il suo significato nascosto in così poco tempo.
«Okay, a meno che tu non mi abbia comprato delle ostriche, non ho la più pallida idea di che cosa siano queste perle di cui parli.»
«Ostriche? Hai idea di quanto costino? Ovvio che non ti ho comprato delle ostriche. Però ti stai avvicinando.»
«Peccato. Mi era quasi venuta voglia di ostriche.»
Sara rifletté a lungo sulle parole di Nyssa, e si chiese quali perle avessero in casa ‒ tralasciando gioielli vari, ma quelli erano da escludere. Forse il gioiello a cui si riferiva era Kaila? Dopotutto, si poteva considerare la loro perla. Ma no, Nyssa era più astuta di così. Sicuramente la metafora era più semplice di quanto pensasse, ma avrebbe dovuto usare la logica per arrivarci.
«Ti do un indizio: non è un regalo di Laurel.» Strano ma vero, avrebbe voluto aggiungere, ma riuscì a trattenersi. E dopo non molto, Sara ebbe come un’illuminazione.
All’incirca tre mesi prima, Nyssa era tornata a casa dal supermercato con una serie di soprammobili per abbellire la casa. Tra i tanti oggetti di varie forme, Sara ricordava di averne visto uno a forma di conchiglia. E dove si possono trovare le conchiglie se non vicino all’acqua?
Non appena ebbe preso tra le mani la conchiglia che ormai risiedeva sul bordo della vasca da bagno, Sara sorrise trionfante. All’interno, oltre a tre perle lucide, vi trovò un foglietto ripiegato.
«“Hai scovato il primo indizio, ma non prenderlo per vizio. Se il prossimo post-it vorrai trovare, in discesa dovrai andare.” Questo mi sembra molto più difficile da interpretare.»
«Davvero? E io che credevo che le cacce al tesoro fossero facili» ironizzò Nyssa, ricevendo un’occhiataccia dall’amata. «Forza e coraggio, habibti. Te ne restano ancora quattro.»



Mentre Sara si diede da fare per trovare i restanti bigliettini, Nyssa andò a preparare la colazione e a tenere d’occhio Kaila. Le premonizioni della bionda si erano rivelate attendibili: gli indizi diventavano sempre più difficili man mano che il numero di biglietti aumentava.
Dopo aver compreso che la discesa del secondo post-it si riferiva alle scale del palazzo, Sara decifrò altri due biglietti nel giro di dieci minuti ‒ il terzo recitava: “Ora che sei qui, si sarà fatto mezzodì. Siccome sei stata audace, ti meriti una Versace”, e si riferiva a una finta Versace che Sara aveva comprato tempo prima da un venditore ambulante in Ecuador e che custodiva gelosamente all’interno della cabina armadio, mentre nel quarto c’era scritto semplicemente: “Vieni da me e ti offrirò un caffè”.
Così, Sara raggiunse Nyssa in cucina, e senza dire nulla si ritrovò con una tazza di caffè bollente tra le mani.
«Se sei già qui, vuol dire che sei stata veloce» la punzecchiò la mora.
«Da bambina non avrò fatto parte degli scout come mia sorella, ma ero comunque brava a scovare gli indizi.»
«Già. Me ne sono accorta.»
A quell’esclamazione, Sara sorrise sotto ai baffi. «Anche tu te la sei cavata.»
«Vuoi scherzare? A differenza tua ci ho messo un’ora solo per capire i primi tre indizi. Tu ne hai decifrati altrettanti in un terzo del tempo.»
«Vero, ma nel tuo caso sono stata un po’ cattiva. Avevamo un’intera fortezza da esplorare.»
«Come dimenticarlo. Mio padre per poco non ci beccava nel Santuario. Come ti è venuto in mente di nascondere quel biglietto nel Pozzo di Lazzaro?»
Sara rispose con un’alzata di spalle. «Volevo vedere se l’inchiostro simpatico era resistente all’acqua.»
«E a proposito di inchiostro simpatico...» esordì Nyssa, lasciando la frase a metà.
Sara la guardò confusa, per poi spostare l’attenzione sul suo caffè. Fu allora che notò un bigliettino ripiegato all’interno della tazza.
«Non sapevi più dove mettere i post-it?»
«Volevo vedere fino a che punto avresti afferrato i miei suggerimenti.»
Nyssa si stava dimostrando parecchio abile nella caccia al tesoro, questo Sara doveva riconoscerlo.
«“Che sia estate o inverno, il mio amore per te resterà sempre eterno. Ci sei quasi, uccellino mio: vola in alto nel cielo e fammi sentire il tuo cinguettio.” Sei seria?»
Questa volta, fu Nyssa ad alzare le spalle. «Dicevi che il primo indizio deve essere il più facile. Adesso siamo quasi alla fine. Che ti aspettavi?»



Dopo aver riflettuto per dieci minuti abbondanti sulla frase poetica ‒ e molto, molto sdolcinata ‒ di Nyssa, Sara capì che c’era solo un posto nell’appartamento in cui un uccellino si sarebbe potuto alzare in volo: il balcone.
E proprio lì, appeso alla ringhiera con un pezzo di nastro adesivo, Sara trovò l’ultimo indizio.
«“Finalmente ce l’hai fatta! Mi hai fatto diventare matta. Adesso possiamo festeggiare, e i regali, finalmente, scartare.”»
«Mabrook[4], habibti. Hai completato la caccia al tesoro.»
Quando Nyssa la abbracciò da dietro, Sara rabbrividì. Dopo tutti quegli anni insieme, l’inaspettato contatto con la sua pelle le faceva ancora questo effetto.
«Se il mio tesoro sei tu, direi che ne è valsa la pena.»
A quel punto, Sara baciò con passione le labbra sorridenti di Nyssa, la quale la strinse forte a sé per evitare che cadesse, premendo il proprio corpo sul suo, quasi fossero una cosa sola. Era da tanto che non passavano un momento così: soltanto loro, senza temere di essere beccate, senza pensieri per la testa al di fuori della loro bambina.
«Il miglior compleanno di sempre» sussurrò la bionda, a un soffio dalle labbra della sua amata.
«Sicura? Perché mi sembra di ricordare che due anni fa‒»
«Shh. Non possiamo più parlare di certe cose ad alta voce adesso. Abbiamo una bambina.»
Nyssa scosse il capo divertita. «Torniamo dentro, allora. Sono sicura che la nostra bambina ci stia aspettando.»
Era vero. Kaila si era appena svegliata, e stava aspettando con ansia di vedere un viso familiare. E quando entrambe le sue mamme si sporsero sulla sua culla, la piccola regalò loro un grande sorriso.
«Qualcosa mi dice che non vede l’ora che tu apra i suoi regali» la punzecchiò Nyssa mentre prendeva in braccio la bambina.
«Mi sa che è proprio così» concesse Canary, accarezzando dolcemente la testolina bionda di sua figlia. «Ma voi due siete i miei regali più grandi.»
La figlia di Ra’s al Ghul sorrise a labbra strette, gli occhi lucidi quanto bastava per far capire a Sara che aveva fatto centro nel suo cuore anche questa volta. «Adesso però basta con le frasi fatte. Apri i tuoi regali prima che cambi idea e decida di restituirli tutti.»



L’albero di Natale sembrava ancora più imponente con tutti quei pacchi a circondarlo ‒ ce ne saranno stati poco più di una dozzina, ed erano solo i regali che Sara e Nyssa si erano fatte reciprocamente.
«Sarà il sesto pacchetto che mi fai aprire» sottolineò Sara mentre scioglieva un perfetto fiocco rosso.
«È Natale, habibti. E anche il tuo compleanno.»
«Lo so, ma comunque non ci siamo mai fatte così tanti regali prima d’ora.»
«Forse perché non avevamo uno stipendio. Perché hai quella faccia?»
«Come facevi a sapere che la volevo?!» domandò Sara, con un tono a metà tra l’incredulità e la curiosità. Teneva tra le mani una tazza fosforescente, di quelle che si illuminano in base all’umore di chi le tocca; nel mentre osservava Nyssa con occhi confusi e, al tempo stesso, carichi di gioia.
«In realtà, non lo sapevo. Classica fortuna da principiante» azzardò la mora, facendole l’occhiolino.
Canary le diede un pugno sulla spalla. «Bugiarda. Mi hai spiata mentre sfogliavo il catalogo di Toys Are We alla ricerca di un giocattolo carino da comprare a Kaila. Almeno abbi la decenza di ammetterlo.»
Nyssa scosse lievemente il capo, allargando le braccia con fare teatrale. «A quanto pare non ha più senso nascondertelo. Mi hai beccata.» Un sorriso fece capolino sulle sue labbra. «Se ti può consolare, credo che anche nostra figlia avesse capito che ti piaceva quella tazza. L’hai guardata con occhi sognanti per oltre cinque minuti.»
«Stavo calcolando quanti soldi avrei dovuto mettere da parte per comprarla. Novanta dollari per una semplice tazza mi sembra esagerato.»
«Eppure non mi sembra che tu mi stia implorando di restituirla» la stuzzicò maliziosamente l’Erede del Demonio.
«No, infatti, amore» ammise Sara, scoccandole un bacio sulla guancia.«La adoro. E adoro te. Ti amo.»
«E non hai ancora visto l’ultimo regalo» affermò Nyssa, poggiandoglielo sulle ginocchia. «Forza, aprilo.»
Sara non se lo fece ripetere due volte. Le erano sempre piaciuti i regali, ancor di più quelli fatti con tutto il cuore, come quelli di Nyssa. Quando aprì la scatola, gli occhi le si illuminarono nuovamente. Questa volta, però, Nyssa poté giurare di aver visto Sara trattenere a fatica le lacrime.
All’interno della scatola c’erano due t-shirt e un body. Sulla prima maglietta era stata stampata la parola “Me”, mentre sul body c’era scritto “Mini Me”. Ma forse fu la frase sulla seconda maglietta a darle il colpo di grazia.
«“Me’s other half”» ripeté Sara ad alta voce. Trattenne il fiato per un paio di secondi, per poi sospirare pesantemente. «È così sbagliata...»
«Che intendi dire?»
Sara puntò i propri occhi lucidi in quelli dell’amata. «Perché tu non sei la mia metà. Tu sei... tutto.»
Fu quasi impercettibile. In una frazione di secondo, Sara si sporse in avanti e afferrò nuovamente le labbra di Nyssa con le proprie. Si allontanò poco dopo, senza nemmeno dare alla figlia di Ra’s il tempo di metabolizzare quanto accaduto.
Nyssa rimase a bocca aperta, il respiro leggermente irregolare. Poi, una volta riordinate le idee, scosse il capo contrariata. «No... insomma, no. Come posso essere il tuo tutto? E Kaila?»
Sara corrugò la fronte confusa. «Kaila? Kaila chi?» Il sorriso che si formò sul suo volto subito dopo costrinse Nyssa ad alzare gli occhi al cielo.
«Sei sempre la solita.»
«Andiamo. Un giorno nostra figlia si dovrà pur vantare di aver acquisito la simpatia almeno da uno dei suoi genitori. No?»
«Non cambi mai.»
La mora incrociò le braccia e si voltò dall’altra parte, fingendosi arrabbiata. Per un istante, Sara abboccò all’amo e cercò di accarezzarle il capo con una mano; tuttavia, prima che potesse farlo, Nyssa le afferrò di colpo la mano e se la portò alla guancia. Sara fu colpita da quel gesto, ma nel giro di poco si rasserenò.
«Habibti, lo sai. Sai che tu e Kaila siete le persone più importanti della tua vita.»
«Lo so. Sei una brava mamma.»
«Continuate a ripetermelo tutti, ma io non ne sono così sicura.»
Nyssa s’incupì. «Tu sei una brava madre, Sara» ripeté l’Erede, seria come non mai.
«Come fai ad esserne così sicura?»
«Tu non abbandoneresti mai tua figlia, a meno che non fossi costretta a farlo. E non metteresti mai la mia vita prima della sua.»
Nyssa attese una conferma da parte di Sara, ma ricevette solo un’occhiata esitante. «Perché tu non lo faresti mai, giusto?»
Sara annuì lentamente, ma dentro di sé non sapeva nemmeno lei come si sarebbe comportata se si fosse trovata in una situazione del genere. In fondo, Nyssa aveva ragione: Sara non avrebbe mai abbandonato sua figlia, e l’avrebbe sempre messa al primo posto. Lo stesso valeva per Nyssa, ovviamente. Ma a differenza sua, Sara sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di scegliere di sacrificare una delle due per salvare la vita all’altra. Dopotutto, Kaila era sua figlia, ma Nyssa era l’amore della sua vita.
Solo allora si rese conto che, forse ‒ forse ‒, se aveva acconsentito all’idea di Oliver, era perché così non avrebbe mai dovuto scegliere tra Kaila e Nyssa. Se le cose con la Lega si fossero complicate, avrebbero dato Kaila in adozione, salvandole la vita, e lei avrebbe potuto concentrarsi su Nyssa e sulle loro questioni in sospeso con Ra’s.
Però, a quel punto, Kaila non avrebbe più fatto parte della sua vita. E questa cosa non le andava proprio giù.



Poco prima che Nyssa riuscisse a scartare i suoi regali, Kaila attirò improvvisamente l’attenzione su di sé con un pianto assordante. Dopo averle cambiato il pannolino e dato da mangiare, Sara tornò in salotto con la bambina in braccio più o meno mezz’ora dopo.
«Siamo o non siamo una coppia perfetta?»
Nyssa si voltò, e quando vide Sara e Kaila sfoggiare la t-shirt e il body personalizzati che gli aveva regalato, non riuscì a trattenere una risata.
«Siete proprio carine» ammise la mora, affrettandosi a scattare una foto per immortalare quel momento.
Con un gesto teatrale, Sara si scostò i capelli con una mano, rispondendo con un accattivante: «Lo sappiamo. Ma adesso basta con i complimenti. È il tuo turno.»
«È normale che abbia paura di quello che potresti avermi regalato?»
«Dipende. Di che cosa hai paura, Neisse?»
Nyssa inspirò a pieni polmoni, trattenendosi dal rispondere all’amata con un’adeguata frecciatina. «Ti consiglio di darmi quelle scatole prima che cambi idea.»
«Fidati di me, non cambieresti idea per nulla al mondo.»
La figlia di Ra’s al Ghul inarcò un sopracciglio. «Tu dici?»
Sara rispose con un’occhiata misteriosa, dopodiché iniziò a cullare Kaila mentre Nyssa scartava i suoi regali. Oltre a un inspiegabile set di freccette e a un romantico kit di lanterne galleggianti, Nyssa si ritrovò tra le mani un grembiule bordeaux con una frase ricamata sopra.
«“Best Mom Ever”» ripeté l’Erede ad alta voce. «Mi hai rubato l’idea, ammettilo.»
«Certamente. Nel corso degli anni ho acquisito il potere della telepatia. Non lo sapevi?»
«Sono sorpresa. E a che cosa sto pensando in questo momento, Miss Telepatia?»
«Stai pensando a...» Sara si portò l’indice e il medio della mano destra alla tempia, chiuse gli occhi e finse di concentrarsi, come se stesse davvero cercando di entrare nella mente di Nyssa con tutte le sue forze.
«Oh. Ma che sorpresa.»
Nyssa ruotò leggermente la testa di lato, fingendosi incuriosita.
«Qualcuno vuole baciare di nuovo la sottoscritta.»
«Non dare per scontato che riceverai un bacio da parte mia. Dipende dalla qualità degli altri regali.»
Sul volto di Sara si formò un sorriso soddisfatto. «Fortuna che ho ancora due assi nella manica.»
L’Erede del Demonio scartò l’ultimo regalo con fare divertito, lanciando qualche occhiata all’amata di tanto in tanto. Non appena si rese conto di avere tra le mani una scimitarra, i suoi occhi iniziarono a brillare.
«Ti piace?»
Nyssa strinse la mano destra intorno all’impugnatura in legno, messa in risalto dalle estremità in ottone. La lama lucida presentava una curvatura molto pronunciata, ideale per provocare ferite profonde e mortali.
«È leggera ed efficace» ammise la donna, agitando l’arma con cura. «Di certo non è una spada economica, o che si trova facilmente in giro. Non è nemmeno lontanamente simile a quelle della Lega. Perciò, la domanda che mi viene naturale porti è: dove l’hai presa? E come?»
Davanti allo sguardo impressionato di Nyssa, Sara non poté fare a meno di pensare a quanto fosse stato difficile trovare quella scimitarra.
«Diciamo che l’aiuto di Oliver e Felicity è stato essenziale» ammise la bionda. «Il fornitore di Arrow è un uomo esperto, gli basta guardare negli occhi una persona per capire di cosa ha bisogno. Mi aveva proposto una spada meno costosa di questa, ma quando gli ho mostrato la tua arma, si è reso conto che non eri il tipo da Gladio.»
«Direi proprio di no» asserì la figlia di Ra’s con una risata. «Non oso immaginare quanto ti sia costata.»
«Non preoccuparti del prezzo. Piuttosto, rispondi alla mia domanda.»
Nyssa, con ancora gli occhi pieni di amore, annuì decisa. «Sì. Mi piace molto.» Ripose con cura la sua nuova arma all’interno della scatola, dopodiché dedicò all’amata uno sguardo incuriosito. «E il tuo secondo asso nella manica?»
Sara prese un respiro profondo. «Chiudi gli occhi.»
L’Erede del Demonio seguì gli ordini e attese. Sentì Sara alzarsi in piedi, adagiare Kaila nella sua culla, frugare da qualche parte all’interno della stanza e poggiarle qualcosa di ruvido sulle gambe. Nyssa attese un nuovo comando di Sara prima di riaprire gli occhi; quando lo fece, ritrovandosi un album di fotografie tra le mani, il respiro le venne a mancare.
«Ma è...»
Non ebbe le forze di terminare la frase. Passò delicatamente il palmo della mano sulla superficie ruvida dell’album, adornato di perline colorate e fiorellini ormai appassiti. Lo aprì e si soffermò a leggere una frase scritta sulla prima pagina. Alla mia donna, partner e madre di mia figlia.
Nyssa si lasciò andare, permettendo alle lacrime di bagnarle il viso, lasciando che i ricordi e le paure sfociassero sulle sue guance come un fiume in piena. Si voltò verso Sara, scoprendo con stupore che anche lei stava piangendo.
«Come hai fatto?»
Sara tirò su col naso e la strinse in un abbraccio. Poggiò la testa nell’incavo del suo collo e pianse, piansero insieme fino a che non ebbero più lacrime da versare, ma ciò non impedì loro di allontanarsi l’una dall’altra.
«Mi è venuta l’idea quando è nata Kaila» spiegò Sara, scossa dai singhiozzi. «Ho pensato che tua madre sarebbe stata felice di conoscerla. E poi mi sono ricordata dell’album che avevate realizzato quando eri piccola, e del fatto che tuo padre se ne sia sbarazzato non appena ha saputo della sua esistenza, e così... ho voluto provarci. So che non sarà mai la stessa cosa, ma‒»
Nyssa poggiò entrambe le mani sulle guance di Sara e le sfiorò la punta del naso con la propria. Canary rimase immobile, in attesa che l’amata dicesse qualcosa. Invece, quest’ultima scosse il capo.
«Habibti... va bene così» sussurrò, col cuore che batteva a mille. «È il regalo più bello che mi potessi fare.»
«Meno male» disse Sara, lasciandosi andare a un sospiro di sollievo. «Non sai quanto ci ho impiegato per realizzarlo.»
«Non l’album, stupida» replicò Nyssa, con un sorriso. «Tu.»
Sara arrossì, e a quel punto Nyssa non poté resistere alla tentazione di baciarla.
«Buon compleanno, mia amata» bisbigliò a un soffio dalle sue labbra.
«Lo è, Nyssa. Lo è davvero.»

*

L’appartamento di Felicity si trovava a Highbury Avenue, in una delle tante zone residenziali di Starling City. Non era molto distante da casa di Sara, ma ci vollero comunque più di venti minuti per arrivarci.
«Forse, se avessi guidato io, saremmo arrivati un quarto d’ora fa» puntualizzò Laurel, mentre scendeva dall’auto.
«Non è colpa mia se abbiamo trovato cinque semafori rossi lungo il tragitto» ribatté Quentin, visibilmente scocciato.
«Hai detto così anche l’ultima volta, o sbaglio?»
«Laurel, smettila di punzecchiarlo. L’importante è che siamo arrivati sani e salvi, giusto?» suggerì Sara, cercando consenso negli occhi di entrambi.
«È sempre meglio andare piano quando è buio, soprattutto con una neonata in macchina» spiegò Quentin, cercando di autogiustificarsi.
La maggiore delle sorelle Lance si trovò costretta ad alzare gli occhi al cielo. «Forse hai ragione.»
«È la prima volta che ti sento pronunciare questa frase» aggiunse scherzosa una quarta voce.
Laurel si voltò, ritrovandosi faccia a faccia con Felicity. «Non abituartici» replicò l’avvocato, stringendo l’amica in un abbraccio.
«Non lo farò, puoi starne certa. Piuttosto, dov’è quel piccolo angioletto che non piange quasi mai?» domandò Felicity, avvicinandosi alla carrozzina di Kaila.
«Si è appena addormentata» spiegò Nyssa sottovoce. «Ma sono sicura che si sveglierà in tempo per l’ora di cena.»
«A proposito di cena, possiamo rimandare i convenevoli a più tardi? In questa busta c’è un polletto che non vede l’ora di essere cucinato.»
Le sorelle Lance si scambiarono un’occhiata, per poi scoppiare a ridere all’unisono.
«Non cambi mai, papà!»



Il famoso pollo alla cacciatora di Quentin Lance sarebbe stato pronto all’incirca un’ora e mezza dopo il loro arrivo a casa Smoak. Nel frattempo, Nyssa aiutò John a preparare la tavola e Oliver spostò alcuni mobili per rendere la stanza più spaziosa. Thea e Roy arrivarono poco dopo e diedero una mano in cucina.
Intanto, Sara e Lyla si erano spostate in camera da letto per allattare le bambine. Kaila mangiò per una mezz’ora abbondante, mentre Lisa scoppiò a piangere dopo soli dieci minuti di poppata.
«Fa sempre i capricci dopo mangiato» spiegò Lyla, non appena fu riuscita a calmare la piccola. «Non riesco a capire perché.»
«È un periodo stressante per te?»
«Lavoro per Amanda Waller, Sara. Sono sempre stressata.»
Sara delineò un sorriso. «Credo che Lisa percepisca la tua agitazione. La scorsa settimana ho portato Kaila dalla pediatra, che mi ha sconsigliato di allattare la bambina quando sono troppo nervosa o agitata. I neonati riescono a sentire le emozioni dei genitori, e questo può farli a loro volta innervosire.»
«Tu dici?»
Sara annuì, per poi indicare Lisa con un cenno del capo. «Tua figlia piange perché sente le tue preoccupazioni. Anche con Kaila mi succede spesso, per questo a volte lascio che sia Nyssa a darle da mangiare. Lei è molto più brava di me a tenere nascoste le emozioni.»
«Lisa non ha ancora imparato a mangiare con il biberon, ma forse potrei fare un tentativo con John. Anzi, no, mi rimangio quello che ho detto. Lui è mille volte più emotivo di me, perciò la situazione non farebbe altro che peggiorare» rise la donna.
«Qual è il problema con Amanda? C’è qualcosa che posso fare per aiutarti?»
Lyla scosse il capo, per poi guardare sua figlia negli occhi. «Vuole darmi una promozione.»
Sara attese qualche istante prima di rispondere. «Ed è un problema per te?»
«No, certo che no. Insomma, Johnny non ha un lavoro, perciò dipende tutto da me. Un aumento mi farebbe solamente comodo. Però...» Si lasciò andare ad un sospiro. «Le nostre vite sono pericolose. E a volte mi capita di pensare all’eventualità che uno di noi non torni a casa, e a quel punto... cosa ne sarà di nostra figlia?»
Era per quel motivo che Oliver aveva tirato in ballo l’adozione, pensò Sara. Mai come in quel momento si pentì di aver avuto dei ripensamenti. Lyla aveva ragione, e forse era quella la vera causa del suo stress.
«Tu e Nyssa... e Oliver... non ci pensate mai?»
Sara trattenne a stento un sospiro. «Di continuo» ammise. «Ma la vita è fatta anche di questo. Di paure e di rimorsi. E, Lyla, onestamente io darei la vita pur di sapere che mia figlia sarà al sicuro fino all’ultimo dei suoi giorni. Ma non sarà mai così, e forse il primo passo per allontanarla dal pericolo è farsene una ragione.»
«Non ti seguo. Come fai ad essere così tranquilla sapendo che un tuo vecchio nemico potrebbe rapirla e usarla come ostaggio, o addirittura‒»
«Ucciderla?» Sara rimase in silenzio per qualche istante. «Faccio del mio meglio per non pensarci.»
Lyla serrò la mascella, visibilmente turbata. «Non posso lasciare il lavoro. Ma non voglio nemmeno che sia Johnny a farlo. Non sarebbe giusto.»
«No, infatti. Le nostre bambine saranno sempre in pericolo, Lyla. Insomma, hanno dei vigilanti come genitori! Come potrebbero non esserlo?» Un piccolo sorriso di assenso si fece spazio sulle labbra di entrambe. «Perciò, credo che l’unica cosa che possiamo fare è sperare. Non appena sarai pronta, va’ da Amanda e chiedile in cosa consiste la tua promozione. E se ti farà sentire più sicura, chiedile un lavoro da ufficio.»
«Non sarà per niente facile abbandonare il campo dopo tutti questi anni, ma‒»
Lyla fu interrotta per la seconda volta, questa volta da Felicity.
«Indovinate un po’? È pronta la cena!» esclamò l’hacker, per poi dileguarsi in corridoio subito dopo.
Le due donne si scambiarono un’occhiata divertita, e Lyla sorrise all’amica. «Grazie della chiacchierata. Ora ci aspetta una cena impegnativa.»



La cena fu lunga e piena di risate. Anche se il pollo alla cacciatora di Quentin era stato il piatto più atteso della serata, tutti si erano dati da fare. Oliver aveva preparato un purè di patate delizioso, mentre Nyssa aveva cucinato i suoi famosi falafel, polpette fritte a base di legumi. John aveva portato l’eggnog, Thea i brownies e Laurel il pane di mais.
«Non so voi, ma a mio parere il purè di Oliver ha dato del filo da torcere al pollo del capitano Lance» esclamò ad un tratto Roy, nel tentativo di punzecchiare Quentin.
«Davvero? Ho vinto la sfida?» chiese ironicamente Arrow.
«Rallenta, cappuccio verde. Sbaglio o eri proprio tu quello che si infiltrava a casa nostra perché adorava la cucina di papà?» s’intromise Sara.
«Già, ben detto!» proseguì Laurel, tenendo il gioco alla sorella. «Al liceo ogni domenica mi imploravi di venire a cena a casa mia. Non riuscivo a capire se volevi fare colpo su di me o su mio padre!»
Il gruppetto scoppiò in una sonora risata. Oliver alzò le mani in segno di resa, ma prima che potesse aggiungere altro, il suono del campanello attirò l’attenzione dei presenti.
«Chi sarà mai?» domandò Thea, passandosi distrattamente una mano tra i capelli.
«Probabilmente saranno i bambini del quartiere. È l’ora dei canti natalizi!» esclamò Felicity, visibilmente allegra. «Torno tra un secondo.»
Felicity si alzò da tavola e andò ad aprire la porta. Tornò nella sala da pranzo letteralmente pochi secondi dopo, ma non da sola.
«Consegna espressa da parte di Babbo Natale!»
Sara alzò lo sguardo e incontrò quello di una persona che conosceva bene. Sin. Aveva gli occhi lucidi, ma non tristi. Sembrava felice. Sara aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ci riuscì. Aveva la testa piena di pensieri e lo stupore le fece bloccare le parole in gola.
D’istinto, Oliver si alzò per andare a salutare i nuovi ospiti. «Sono contento che siate venuti» disse, abbracciando prima Sin, poi Richard.
«Il piacere è nostro. Grazie davvero per averci invitati» rispose Richard, scambiando un’occhiata complice con la fidanzata. «Però, ecco… ci dispiace avervi interrotti nel bel mezzo della cena.»
«Oh, no no no, abbiamo finito! Anzi, stavamo giusto per spostarci in salotto per aprire i regali di Natale!» continuò Felicity, rivolgendosi a tutto il gruppo. «Chi vuole aprire le danze?»
«La padrona di casa, ovviamente» scherzò Dig, facendole un occhiolino.
Il tecnico informatico assunse un’espressione compiaciuta. «Beh, se proprio lo desideri… sono pronta! Sappiate che se non mi avete fatto un regalo, non avrete diritto alla tazza di cioccolata calda che avevo promesso.»
«Questo non lo avevi specificato» sottolineò Roy, puntandole l’indice contro.
I presenti risero, e subito dopo si sedettero tutti intorno all’albero di Natale, come richiesto da Felicity. Mentre quest’ultima iniziava a scartare i propri regali, Sara approfittò del fatto che Richard stesse parlando con Roy e si avvicinò a Cindy con un piattino in mano.
«Sono gli avanzi di questa sera» spiegò la bionda, per poi sedersi accanto all’amica. «Se avessi saputo che saresti venuta ti avrei preparato quella torta alle fragole che tanto ti piaceva.»
«Abbiamo già mangiato dai genitori di Rick, ma grazie comunque. E poi, beh… volevo che fosse una sorpresa.»
«Ti è riuscita bene» ammise Sara con un sorriso. «In ogni caso, non puoi dire di no ai falafel di Nyssa e ai brownies.»
«Questo è vero» dovette ammettere la mora. «Accetto volentieri questo dono.»
Sara rise a labbra strette. Le mancava vedere Sin ogni giorno, ma sapeva che se lo avesse ammesso, probabilmente l’avrebbe messa in una posizione difficile. Invece, decise di porle la domanda più corretta e scontata.
«Allora, come procede la convivenza?»
«Direi bene. Insomma, stasera ho conosciuto i suoi e sono molto gentili. E affettuosi. Fin troppo per i miei gusti.»
Sara scosse il capo divertita. «La solita vecchia Sin.»
«Che vuoi che ti dica? Tu e Rick siete gli unici da cui accetto degli abbracci.»
«Ed è giusto che sia così» ironizzò Canary. «Lui sa… di noi?»
«No. Non gli ho detto che siete dei vigilanti. È per questo che non volevo venire, ma Felicity ha insistito.»
«Tranquilla. Non è facile che ci lasciamo sfuggire qualcosa in presenza di civili.»
«Hai ragione. Ma non voglio essere d’intralcio. Insomma, mi fido di lui, ma se per qualche ragione venisse a sapere del vostro segreto e lo raccontasse a qualcuno… non credo che me lo perdonerei mai.
Sara osservò Sin dritta negli occhi per qualche istante, rimanendo in silenzio. Nel giro di poche settimane si era trasformata in una giovane donna responsabile, e lei non se n’era nemmeno accorta. Si sporse verso di lei e la strinse forte, accarezzandole amorevolmente la schiena. «Non cambiare mai. Hai capito?»
Sin corrugò la fronte. «Come potrei? Io sono unica!»
Sara rise ancora, questa volta riuscendo a contagiare anche Sin. «Hai ragione. Nessuno è come te.»
A turno, tra una tazza di cioccolata calda e l’altra, i presenti si scambiarono i regali – ovviamente le persone a riceverne più di tutti furono Kaila e Lisa –, fino a quando sotto l’albero rimase una sola scatolina.
«Manca ancora un regalo» disse Oliver, afferrando il pacchetto.
«Per me?» domandò ingenuamente Thea, rivolgendo uno sguardo complice al fratello.
«No» rispose lui, scuotendo il capo. «Per te.»
Sara alzò lo sguardo, confusa. «Cosa…?»
«Aprilo» la spronò il vigilante. «È da parte di tutti noi.»
«Ollie, devo preoccuparmi?»
«Avanti, aprilo e basta!» esclamò Laurel, fingendosi spazientita.
Sara si scambiò un’occhiata confusa con Nyssa, la quale la incitò ad aprire il pacchetto con un cenno del capo. Quando ne vide il contenuto, Sara sgranò istintivamente gli occhi.
«È uno scherzo, spero.»
«Cos’è? Sono curioso anch’io» rivelò Roy, sporgendosi leggermente verso Sara. «Ho contribuito alla spesa, ma alla fine non so cosa ti abbiamo regalato.»
In tutta risposta, Thea gli diede uno schiaffo sulla nuca, facendogli sfuggire un piccolo grido di dolore. «Sei il solito idiota, Roy.»
«Ragazzi, davvero» riprese a dire Sara, sventolando un paio di chiavi di un’auto. «Cosa significa?»
«Secondo te cosa potrebbe significare?» la punzecchiò nuovamente Laurel.
«No» sentenziò Sara, scuotendo lentamente il capo. «Non se ne parla.»
«Eh?»
«Non posso accettare, Laurel. È un regalo troppo impegnativo.»
«Beh, se tu non la vuoi, posso sempre accettarla io» propose Nyssa, strappandole le chiavi di mano. «Sono sicura che a Kaila non dispiacerebbe se la portassi a fare un giro domani mattina.»
«Il seggiolino per neonati era incluso nel prezzo!» scherzò Sin, cercando di sdrammatizzare.
«Con quale patente? Quella falsa di Nanda Parbat?»
«Ti ricordo che guido meglio io con la mia patente falsa che tu con quella vera, habibti.»
«Per la cronaca, il regalo era per entrambe» sottolineò Oliver.
«Non ha importanza, Ollie. Non possiamo accettare, punto.»
«Perché no, tesoro?»
«Perché è una spesa troppo grande, papà. Un’auto? Veramente? Io e Nyssa abbiamo ancora un debito da saldare con Laurel per l’appartamento. Ci vorranno mesi, se non addirittura anni. Aggiungere una macchina al conto non risolverà il problema, lo peggiorerà.»
«Sara, questo è un regalo, non un prestito» spiegò dolcemente Diggle, poggiandole una mano sulla spalla.
«È vero. È un regalo da parte di tutti noi. E non è carino rifiutare un regalo» concluse Felicity, con un occhiolino.
Canary si lasciò andare ad un lungo sospiro. «Io vi ringrazio di vero cuore, però... non voglio più essere un peso.»
«Ma tu non sei affatto un peso, bambina mia» la rimproverò Quentin. «Se lo abbiamo fatto vuol dire che potevamo permettercelo, ma soprattutto che desideravamo farlo.»
«Sì, è vero. E poi è un’auto usata – un’auto in ottime condizioni, ma pur sempre usata –, perciò non si è trattato di una spesa così grande.»
Questa volta, fu Felicity a tirare uno schiaffo a Roy, ma il ragazzo non emise alcun lamento e asserì il colpo.
«Comunque, se foste così gentili da seguirci fuori, il vostro regalo dovrebbe arrivare a breve, perciò potremmo-»
«Felicity» esclamò Sara, costringendo la ragazza a lasciare la frase a metà. «Cosa intendi esattamente dicendo che il nostro regalo sta arrivando
Un attimo dopo, il suono di un clacson attirò l’attenzione dei presenti, spronandoli ad uscire all’esterno dell’abitazione. Ad attenderli c’era una Mercedes-Benz grigio platino che sembrava tutt’altro che usata, e nel mentre il conducente al suo interno li stava salutando animatamente con la mano. Dopo non molto, la persona in questione spense l’auto, raggiunse il gruppetto e lanciò il secondo paio di chiavi a Nyssa, che le afferrò al volo.
«Mamma...?» sussurrò Sara, incredula.
«Piaciuta la sorpresa?» domandò Dinah, stringendo la figlia minore in un abbraccio.
«Sì... sì! Insomma, credevo che avresti passato le feste con...»
«Con Jeff?»[5]
Sara annuì piano, in attesa di una risposta da parte della madre.
«Scherzi? Non mi sarei mai persa il primo Natale della mia nipotina! A proposito, dov’è? Voglio prenderla in braccio! Siete così tanti che per imparare tutti i vostri nomi dovrete darmi tempo almeno fino a Capodanno!»
Sara inspirò profondamente. Non serviva che sua madre aggiungesse altro: lo aveva capito dal suo sguardo che lei e Jeff si erano lasciati. Eppure, Dinah sembrava felice, perciò arrivò alla conclusione che, probabilmente, lo aveva lasciato lei. E, probabilmente, c’entrava il fatto che fosse diventata nonna. O forse il motivo era un altro, ma non le importava granché. Sua madre era lì con lei il giorno del suo compleanno, completando il pezzo mancante del puzzle.
«Io mi sento pronta a guidarla» affermò Nyssa, cingendo l’amata per le spalle.
«E io mi sento pronta a iscriverti a scuola guida.»
«Stai scherzando? Non riuscirai a convincermi. Piuttosto, è più probabile che Kaila riesca a prendere la patente prima di me.»
Sara rise sotto ai baffi, per poi poggiare il capo sulla spalla dell’amata. «Sono felice.»
Nyssa sorrise a sua volta, mentre un fiocco di neve andò a posarsi dolcemente sulla punta del suo naso.
«Non volevo sentire altro.»










[1] “Imbroglione/a” in Arabo.
[2] “Buon compleanno, amore mio” in Arabo.
[3] “Grazie mille, amore mio” in Arabo.
[4] “Congratulazioni” in Arabo.
[5] Qualcuno di voi se lo ricorda? Ovviamente no xD anyway, era il vecchio-nuovo compagno di Dinah che è stato nominato nella 2x14.





Sono viva! È passato un bel po’ e non ci crederete, ma sono viva ahahaha
Capitolo molto soft, ma direi che ci voleva dopo tutti questi mesi di pausa.
Vi chiederete, ma quell’album? Questo sarà probabilmente uno dei misteri irrisolti di questa long LOL
Ovviamente scherzo. Ulteriori informazioni verranno fortine in seguito, in un mio progetto futuro, ma per ora... dovrete attendere ;)
Inoltre, chi sarà il misterioso Dio di cui si parla all’inizio del capitolo? Beebo, il Dio della guerra, forse? (No va beh, questo è un crossover con LoT, ma è un’altra storia xD) E la profezia?
Lo scopriremo nella prossima puntata!
...o forse no xD

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Capitolo 20
*** Capitolo 19: Secrets ***


 

Capitolo 19: 
Secrets

 

 

 

 

«Kaila Amina Queen: torna subito qui!»
Il rimprovero di Sara echeggiò nel corridoio vuoto sovrastando gli urletti allegri della figlia, la quale non sembrava avere alcuna intenzione di fermarsi.
«Ehi, non lo ripeterò una seconda volta!»
Inaspettatamente, la piccola si sedette, si voltò verso la madre e sorrise. Sara trasse un respiro di sollievo, certa di aver convinto la bambina ad ascoltarla. Al contrario, Kaila ignorò la raccomandazione della madre e, approfittando di quel momento di distrazione, riprese a gattonare a tutta velocità verso la propria meta.
In quello stesso istante, Nyssa aprì la porta del bagno, guardandosi intorno confusa. Poi, ritrovandosi Kaila ai propri piedi, non poté fare a meno di sorridere di fronte a quella scena ormai divenuta quotidiana.
«Ora non posso nemmeno più fare i miei bisogni tranquilla?» rise, prendendo in braccio la bambina.
«Come può gattonare così velocemente a soli sette mesi?»
«Perché nostra figlia è precoce, Sara» affermò la mora, accarezzando dolcemente la testolina bionda di Kaila. «Prima te ne renderai conto, meglio sarà per tutti noi.»



Era passato un anno da quando Sara e Nyssa avevano lasciato la Lega degli Assassini. Non avevano più ricevuto minacce, né tantomeno visite inaspettate da parte di Maseo. Ma stavano costantemente all’erta, perché il timore che potesse accadere qualcosa alla loro bambina le accompagnava ovunque, giorno e notte.
Sara scosse lentamente il capo, cercando di scacciare quel pensiero dalla testa. Doveva restare concentrata a ogni costo. Scese dall’auto, si richiuse la portiera alle spalle ed entrò nella boutique.
«Era ora!» esclamò una voce, nell’udire il tintinnio della porta d’entrata. Era Thea.
«Ti stavamo aspettando. Che fine avevi fatto?» continuò Laurel.
Sara salutò con un abbraccio prima la sorella, poi Thea. «Anche per me è un piacere vedervi, ragazze. Ma vi ricordo che ho sempre una figlia, e la babysitter ci ha messo più tempo del solito ad arrivare.»
«Babysitter?» domandò Thea, confusa.
«Oliver» rispose Laurel, alzando gli occhi al cielo.
«Esattamente. Nyssa ci raggiungerà più tardi quando finirà il suo turno.»
«Lo stesso vale per Lyla» replicò Thea. Subito dopo, il suo cellulare emise una vibrazione: la ragazza lesse rapidamente il messaggio appena ricevuto, dopodiché sospirò. «Ci conviene andare ai camerini. Felicity voleva che arrivassimo tutte prima di iniziare a provare degli abiti, ma a quanto pare l’attesa la sta facendo impazzire!»



«Che te ne pare?»
Sara si voltò in direzione Laurel, studiandola dall’alto in basso. Indossava un abito blu corallo, aderente quanto bastava per evidenziare le sue forme ed elegante al punto giusto. Le spalline erano contornate da una serie di perline bianche che si abbinavano alla collana di perle che aveva scelto per l’occasione.
«Ti dona. Ma non è un po’ troppo corto?»
«Guarda che il matrimonio è a luglio, mica in pieno inverno!»
«Hai ragione. Allora mettilo insieme agli altri possibili vincitori.»
Laurel fece un segno di vittoria con la mano, mentre Sara sorrise tra sé e sé.
«Vieni, ti aiuto a slacciare la zip.»
Senza farselo ripetere due volte, Laurel si avvicinò alla sorella, dandole le spalle.
«Non riesco a credere che Oliver e Felicity stiano per compiere il grande passo.»
«Nemmeno io» ammise Sara, lasciando trasparire un pizzico di nostalgia nella voce. «E pensare che da adolescente ero convinta che tu e Ollie un giorno vi sareste sposati.»
«Già» sussurrò Laurel, lo sguardo perso nel vuoto. «Ma, forse... forse è meglio così.»
Sara corrugò la fronte, ma sua sorella non poteva vederla. «Che intendi dire?»
Laurel scosse in fretta il capo. «Nulla, nulla. Piuttosto, hai trovato un vestito che ti piaccia?»
«Non ancora. Ce ne sono moltissimi, ma sono anche parecchio costosi.»
«Non devi per forza prenderne uno qui. Ci sono molti altri negozi più economici in città.»
«Sì, lo so, ma è anche vero che Felicity ci teneva all’idea che tutte noi uscissimo da qui con un abito nella borsa.»
«Sono sicura che capirà» concluse Laurel, sistemando il vestito sull’appendiabiti.
Fu allora che Sara si accorse di qualcosa che non aveva notato prima. Sulla spalla sinistra di Laurel spiccava un enorme livido bluastro apparentemente recente. Doveva fare un male cane.
«Che hai combinato?»
Sua sorella finse di non aver sentito. Sara attese in silenzio una risposta che non arrivò; dopo non molto, spazientita, alzò un poco la voce per attirare la sua attenzione.
«Laurel?»
«Uhm? A che ti riferisci?» domandò lei in modo vago, infilandosi velocemente la maglietta.
«Alla spalla. Sembra che ti abbia investita un tram.»
Laurel rimase in silenzio per qualche istante. «Ah, quello. Non è niente. Me lo sono fatta cadendo dalle scale, ma sto bene.»
Sara poggiò la mano sulla spalla della sorella, la quale si ritrasse con un lamento.
«Sì, lo vedo» la schernì Canary. «Sei andata a farti vedere da un medico?»
«Perché avrei dovuto?»
«Perché è grave, Laurel. Potrebbe–»
«Ti ho detto che sto bene. Caso chiuso» sentenziò la donna, per poi uscire dal camerino. «Vado a vedere a che punto sono Felicity e Thea. Vieni con me o vuoi restare qui a provare altri vestiti?»



Sara si richiuse la porta alle spalle con un pesante sospiro. Nonostante avesse provato più di venti abiti, non era riuscita a trovarne nemmeno uno che si addicesse alle sue esigenze. Aveva pur sempre una bambina da allattare, perciò il suo obiettivo era quello di trovare un vestito comodo, non troppo scollato e, possibilmente, in linea con le sue possibilità economiche.
La donna si tolse le scarpe e gli occhiali da sole; si stiracchiò leggermente, dopodiché si distese finalmente sul divano.
«Ehilà, jamila[1]» sussurrò Nyssa, porgendo all’amata un bicchiere di vino. «Scusa se non sono riuscita a venire, ma il bar continuava a riempirsi di clienti e sono dovuta restare per aiutare Josh.»
«Non preoccuparti. Non è stata una giornata poi così bella» affermò la bionda, bevendo il vino in un sorso solo.
Nyssa le mise una mano sulla gamba, accarezzandogliela dolcemente. «Vuoi parlarne?»
«Non c’è molto di cui parlare. È che ho una sorella idiota, ma ormai è un dato di fatto.»
L’Erede del Demonio trattenne a stento un sorriso. «Che ha combinato Laurel stavolta? Ti ha di nuovo detto che sei troppo bassa per indossare abiti lunghi?»
«No.» Sara si fece seria, puntando gli occhi in quelli di Nyssa. «Ho paura che si stia cacciando in qualche guaio.»
Nyssa rizzò istintivamente la schiena. «Che intendi dire?»
«Mentre la aiutavo a togliere un vestito, mi sono resa conto che aveva una contusione alla spalla. E non è il tipo di livido provocato da una semplice caduta dalle scale come vuole farmi credere lei, ma il genere che ti procuri in uno scontro corpo a corpo... uno scontro serio
La mora sembrò rifletterci su per qualche istante. «Pensi che qualcuno le stia facendo del male?»
«Non lo so. Magari si è trattato di un episodio isolato, ma è stato comunque abbastanza traumatico da spingerla a tacere. Insomma, sappiamo entrambe che Laurel andrebbe in capo al mondo pur di risolvere un caso. Non vorrei che per sbaglio si fosse immischiata in qualche casino e ora non riesca più a uscirne.»
«Se vuoi posso indagare. Magari a me dirà qualcosa.»
Sara scosse leggermente il capo. «No, sa bene che verresti subito a dirmelo. Dovrò trovare un altro modo per scoprire cosa le sta succedendo.»
Nyssa rimase in silenzio per un istante. «Okay, habibti» disse poi, passandole una mano tra i capelli. «Come vuoi tu.»
Sara annuì piano, stringendo involontariamente la presa intorno al bicchiere. «Voglio solo che stia bene.»

*

«...e così, ho pensato: perché dovrei accettare un aumento quando passo già le mie giornate chiusa in università? Non sono mica così ingenua!»
Sara rise tra sé e sé, scuotendo leggermente il capo. «Non cambi mai, mamma.»
«Certo che no, tesoro. Ricordi cosa dicevo sempre a te e a tua sorella quando eravate piccole?»
«Che non dobbiamo cambiare per nessuno, se non per noi stesse» rispose prontamente la bionda, sorridendo a quel ricordo.
Anche se Sara non poteva vederla, Dinah annuì. «Esattamente. Sono proprio queste le parole che ho usato, anche se Laurel se le dimenticava sempre!»
Sara sospirò, passandosi una mano sulla fronte. «Già, a proposito di Laurel...»
La pausa di Sara suscitò in Dinah una brutta sensazione. «È successo qualcosa?»
La bionda non rispose subito. Stava facendo la cosa giusta? Non ne era del tutto convinta. Forse, con Dinah, Laurel si sarebbe aperta; ma al tempo stesso, Sara non era sicura che dirglielo fosse la decisione migliore.
«Lei sta bene, non è vero?»
Sara chiuse gli occhi, e in quel momento comprese che non aveva senso far preoccupare Dinah, anzi, così facendo avrebbe solo peggiorato la situazione. Che stupida, pensò.
«Sì... sì. Ma certo che sta bene. Solo che... ultimamente mi sembra un po’ giù di morale.»
«Ma è naturale, tesoro. Oliver si sta sposando con una donna che non è lei. Sappiamo entrambe che nel profondo lei lo ama ancora.»
«Non credo sia questo il motivo, mamma. Quando ha scoperto che ero incinta ne è stata felice. E poi, dopo quello che è successo a Tommy...»
«Sì, Tommy... hai perfettamente ragione. È stata una perdita dolorosa. Però, è anche vero che Oliver è sempre stato molto importante per entrambe. Le serve solo un po’ di tempo per abituarsi all’idea.»
Sara sapeva perfettamente che c’era qualcos’altro sotto, ma preferiva che sua madre continuasse a credere che il problema di Laurel fosse il matrimonio di Oliver piuttosto che darle altri pensieri. Avrebbe scoperto da sola cosa le stava accadendo.
«Comunque, tornando al discorso di prima, ti stavo dicendo che ho rifiutato questo aumento e...»
«Sì, ma perché? Insomma, secondo me era una buona opportunità. Avresti dovuto accettare.»
Dinah si lasciò andare ad un pesante sospiro. «Diciamo che ho dei nuovi piani.»
Canary inarcò un sopracciglio, confusa. «Che intendi dire?»
«Voglio dire che stavo pensando di... trasferirmi. Anche se ci sentiamo per telefono quasi tutti i giorni, da quando sei tornata non abbiamo trascorso molto tempo insieme. In più, adesso sono nonna! Perciò...»
«Vuoi trasferirti a Starling City?» domandò Sara, la voce ridotta a un sussurro. Prese il silenzio di sua madre come una risposta affermativa. Non le sembrava vero.
«L’anno accademico sta per finire, e io non me la sento di invecchiare in quel college. Piuttosto, voglio passare gli ultimi anni della mia vita insieme alle mie figlie e alla mia nipotina.»
«Mamma, ma cosa dici! Lo sai che vivrai ancora a lungo.»
Non appena ebbe pronunciato quella frase, Sara provò una strana sensazione all’altezza del petto. «Perché tu vivrai ancora a lungo... giusto?»
«Sono in perfetta salute, se è questo che intendi. Semplicemente, mi sono accorta che gli anni trascorrono in fretta. Kaila ha già sette mesi, e in un battito di ciglia compirà sette anni. Il tempo passa, amore mio, e io non voglio perdermi nulla. Non più.»
«Non ti perderai più nulla, mamma» promise Sara, portandosi una mano sul cuore. «Hai la mia parola.»



Faceva caldo. Troppo caldo.
Le temperature si erano alzate di punto in bianco, ostacolando la vita di molti lavoratori costretti a trascorrere intere giornate in divisa, magari in un locale con il condizionatore rotto.
Nyssa faceva proprio parte di quella categoria di persone. La Lega l’aveva addestrata a tollerare temperature molto più alte, ma doveva ammettere che il calore di Starling City era... particolarmente afoso.
«Fa troppo caldo» sospirò la mora, asciugandosi il sudore dalla fronte con il braccio.
«Siamo a giugno inoltrato. Dovevamo aspettarcelo» replicò Adam, sbucando dalla cucina con una teglia di biscotti.
«Certo che dovevamo aspettarcelo. È per questo motivo se negli ultimi due mesi avrò ripetuto almeno un milione di volte che bisognava comprare un condizionatore nuovo. Non è vero, Josh?»
Nel sentir pronunciare il proprio nome, il diretto interessato rizzò le spalle; subito dopo, si mise ad asciugare una serie di bicchieri bagnati, il tutto fischiettando allegramente un motivetto.
Nyssa si voltò nella sua direzione e si mise a fissarlo. Dopo non molto, sentendosi in soggezione, Josh alzò gli occhi al cielo. «Okay, va bene, è colpa mia. Avrei dovuto acquistare un condizionatore quando me l’hai suggerito tu, così ora non ci staremmo sciogliendo come dei ghiaccioli.»
L’Erede inarcò le sopracciglia.«Dici davvero? Non ti inventi una balla del tipo: “Non avevamo abbastanza soldi per ripararlo o per comprarne uno nuovo?”. Sono colpita.»
«La nostra barista ha ragione, Joshua. Datti da fare a cercare un rimedio» lo stuzzicò Adam.
Josh gli puntò il dito contro in modo tutt’altro che minaccioso. «Non mi provocare, Roger. E sì, provvederò presto a rimediare al mio errore, ma di certo non lo faccio per te.»
Nyssa rise tra sé e sé. Vedere i due cugini fingere di litigare la rallegrava sempre. Da piccola, si era spesso chiesta come mai suo padre non le permettesse di giocare con dei bambini della sua età. Lo aveva capito crescendo, e la risposta che si era data era agghiacciante: se avesse avuto un’infanzia fatta di giochi e di amici, per suo padre sarebbe stato difficile trasformarla nella macchina da guerra che era diventata. Invece, Nyssa era cresciuta in mezzo alle spade e al sangue, lontana dagli altri bambini e dall’amore che una famiglia qualunque sarebbe in grado dare ai propri figli. Era diventata un’assassina, un’Erede destinata a portare avanti l’attività del padre.
Esattamente come voleva Ra’s.
Fu esattamente in quel momento, mentre guardava Josh e Adam, che Nyssa capì quanto fosse importante crescere con un complice. Che fosse un fratello, un cugino, o semplicemente un amico, Nyssa sperava che anche sua figlia potesse crescere con qualcuno al suo fianco sempre pronto a guardarle le spalle.
«Ehi» sussurrò improvvisamente una voce davanti a lei. «Ti siamo mancate?»
La voce di Sara la distrasse da quei pensieri. Nyssa sorrise alla sua amata, dopodiché spostò lo sguardo su Kaila, intenta a mordicchiare un massaggiagengive a forma di manina.
«A dire il vero, stavo proprio pensando a voi due.»
La bionda le rivolse un sorriso malizioso. «Ah, sì? E cos’hai in mente?» Si sporse sul bancone per darle un bacio. «Ti prego, dimmi che vuoi portarci al mare.»
«Mi spiace, ma in questo momento non posso proprio concederle delle ferie. Come vedi, il locale è affollato» s’intromise Josh, allargando le braccia intorno a sé con fare teatrale.
«Sì, lo vedo» rise Sara, di fronte alla sala semi-vuota. «Giornata fiacca?»
«Esatto, e indovina il motivo? I clienti stanno iniziando a diminuire perché il capo non ha ancora fatto riparare il condizionatore» ribatté Nyssa. «Fortunatamente, la temperatura dovrebbe abbassarsi di nuovo tra qualche giorno, e forse torneremo alla normalità.»
Istintivamente, Sara toccò la fronte di Kaila. Era leggermente sudata. «Effettivamente, fa caldo qui. Se fossi in loro, anche io mi dileguerei dopo pochi minuti.»
«Sei venuta qui per un caffè, o per farmi la predica?» domandò ironicamente Josh, abbracciando Sara di slancio.
«Nessuna delle due cose. Siamo venute a salutare la mamma» rispose, indicando Kaila.
A quelle parole, Josh si piegò sulle ginocchia e sorrise alla bimba. «Mamma mia, quant’è cresciuta... ciao, Kaila!» esclamò, accarezzandole la manina con l’indice. «È da tanto che non ci vediamo. Hai già detto la tua prima parolina?»
«Sì. È stata “mamma”» sorrise la bionda, accarezzando la testolina della figlia.
«Uau. Ne sarai stata felicissima.»
«A dire il vero, l’ha detto rivolta a Nyssa.»
Josh stava per dire, “davvero?”, ma si trattenne. Era decisamente stupito.
«Non fare quella faccia. È di mia figlia che stiamo parlando» disse Nyssa, accovacciandosi a sua volta di fronte a Kaila.
La bambina, visibilmente felice, lasciò cadere sul passeggino il suo prezioso massaggiagengive. «Ma-ma!» esclamò, allungano le manine paffute in direzione di Nyssa.
«Sì, amore» rispose lei, baciandogliele una ad una. «Sono la mamma.»
Sara non poté fare a meno di sorridere. Vedere Nyssa nei panni di madre la faceva sentire strana, ma felice. Anni prima, quando l’aveva conosciuta, non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe abbassato il suo scudo protettivo per una bambina. Ma vedendola ora, con gli occhi lucidi per l’emozione, Sara capì che non avrebbe mai dovuto dubitare dell’amore materno Nyssa. Anche se non aveva avuto l’occasione di trascorrere molto tempo con sua madre, Amina era comunque riuscita a insegnarle tanto in quei pochi anni passati insieme a lei. Ne era certa.
Nyssa alzò lo sguardo in direzione di Sara. Notò che la stava fissando con ammirazione. «C’è qualcosa che non va?» chiese, mentre Kaila stringeva con forza i suoi indici.
Sara scosse il capo. «No. Va tutto alla perfezione.»



«Lo so che dire “mamma” è stato più facile per te, amore. Siamo in vantaggio numerico. Però, ti scongiuro, dì anche “papà”. So che puoi farcela.»
Kaila osservò Sara con un’espressione confusa, ma fu solo per un istante; non appena Laurel si sedette di fronte a lei con un omogeneizzato alla frutta tra le mani, il suo unico pensiero fu quello di spalancare la bocca.
«Ha fame, non lo vedi?» disse Laurel, affrettandosi ad aprire il barattolo. «E anche tanta, a quanto pare. La allatti ancora?»
Sara sbuffò, lasciando cadere il cellulare sul seggiolone di sua figlia. «Sì, ma da quando abbiamo iniziato con le pappe, riesco ad allattarla solo un paio di volte al giorno. A quanto pare il cibo vero le sta piacendo più del latte della mamma.»
«E non ti sembra una cosa normale?»
«Sì, però... mi piace allattarla. Ho paura che quando smetterò di farlo, il nostro legame non sarà più lo stesso» ammise, accarezzando dolcemente la manina di Kaila.
«Smettila di dire fesserie. Interrompere l’allattamento può essere traumatico, questo è certo, ma non cambierà niente tra di voi.»
«Tu dici? A volte ho l’impressione che invece non mi ascolti più. So che è ancora piccola, eppure mi sembra piuttosto avanti per la sua età. Non capisco perché‒»
«Se stai per dirmi, “non capisco perché non dica ‘papà’”, ti fermo subito. Anche io mi rifiuterei di ascoltarti se mi puntassi costantemente contro il tuo cellulare.»
«Hai ragione, ma lo faccio per Oliver. Anche se vede la bambina praticamente ogni giorno, ho paura che si stia perdendo troppe cose. È per questo che cerco sempre di non fargli mancare dei video della bambina.»
Per un istante, Laurel smise di dare la merenda a Kaila e spostò l’attenzione su sua sorella. «Sicura che sia solo questo?»
La bionda si strinse nelle spalle. «A che ti riferisci?»
«Mi riferisco al fatto che Kaila abbia chiamato “mamma” Nyssa, ma non lo abbia ancora fatto con te.»
Canary serrò la mascella. Odiava quando sua sorella aveva ragione. Non poteva negare l’evidenza. Non più.
«Sono penosa se rispondo di sì?»
«No, niente affatto.»
In preda alla vergogna, Sara si prese la testa fra le mani. «Non sono gelosa, se è questo che pensi. Al contrario, sono felicissima che sia stata Nyssa a vivere questa esperienza per prima. Però, vedi... Ho come il terrore che, se scomparissi, per lei non cambierebbe nulla. Avrebbe te, Nyssa, e Oliver e Felicity. Kaila è circondata da persone che le vogliono bene e che darebbero la vita per lei, e di questo sono molto grata; ma, al tempo stesso, sta crescendo troppo in fretta, e sono terrorizzata all’idea che possa dimenticarsi di me.»
In quell’istante, Laurel capì ogni cosa. «Quindi, è questo che ti preoccupa davvero» sussurrò, come se temesse che Kaila potesse comprendere la sue parole. «Hai paura che se succedesse qualcosa con la Lega, tua figlia potrebbe dimenticarsi di te.»
Il silenzio di Sara bastò come risposta affermativa. Stava trattenendo le lacrime a fatica.
«Mi sento così egoista.»
«Non lo sei. Vuoi solo passare il resto della vita insieme a tua figlia. È totalmente comprensibile, Sara» affermò, poggiando la mano sopra a quella della sorella. «Ma devi metterti in testa che lei è la tua bambina. Avrà sempre bisogno di te. E sono certa che in nessuna circostanza ti dimenticherebbe. Anche perché, dubito che Nyssa lo permetterebbe.»
A quel pensiero, Sara non poté fare a meno di accennare un sorriso. Prima che potesse dire qualcosa, però, Laurel la anticipò, dando voce alle sue paure.
«Se invece accadesse qualcosa ad entrambe, beh... allora, forse in quel caso sarebbe diverso.»
Sara sospirò sommessamente. «Io e Nyssa abbiamo già parlato di questa... eventualità.»
Canary non diede alcun segno di voler approfondire l’argomento, e Laurel, per rispetto nei suoi confronti, decise di non andare oltre. Invece, appoggiò il contenitore ormai vuoto sul tavolo ed esclamò: «Finito!»
Di fronte all’allegria della zia, Kaila sorrise. Le erano da poco spuntati i suoi primi dentini, e Sara non poté fare a meno di pensare a quanto fosse graziosa quando rideva.
«Sei pronta a ricevere un po’ di coccole dalla zia? Sì che lo sei» affermò Laurel, prendendo in braccio la nipote. «Sì che lo sei» ripeté, accarezzandole il pancino con la punta del naso. Kaila rise ancora, e questa volta riuscì a contagiare anche sua madre.
«È proprio un amore» sussurrò la maggiore delle sorelle Lance, osservando attentamente la bimba in viso. «Somiglia molto a te quando eri appena nata.»
«Sicura di ricordare bene? Avevi appena compiuto due anni.»
Laurel sorrise a labbra strette. «È vero. Ma non dimenticherei mai la prima volta che ho visto il dolce viso della mia sorellina.»
A quelle parole, Sara arrossì lievemente. Il suo rapporto con Laurel era decisamente migliorato nell’ultimo anno. Era contenta di vedere che erano tornate ad essere unite come una volta. Anzi, forse ora era anche meglio, perché non c’era nessun ragazzo a dividerle.
Kaila interruppe quel momento magico iniziando a divincolarsi tra le braccia di Laurel. «Che c’è, vuoi che ti giri dall’altra parte?»
«Sì, ultimamente le piace osservare il mondo intorno a lei.»
«Ho capito. Ti accontento subito, principessa.»
Tuttavia, prima che Laurel potesse portare a termine la silenziosa richiesta della nipote, una fitta al braccio destro la costrinse a fermarsi.
«Che succede?» domandò Sara, confusa.
«Niente. Credo di avere preso la scossa.»
Ma Sara non riusciva a crederle. Perciò, prima che sua sorella potesse aggiungere altro, le afferrò il polso e le tirò su la manica della camicia, rivelando un taglio profondo. Laurel non si oppose in alcun modo, forse perché Kaila era ancora tra le sue braccia. O forse, aveva semplicemente capito che non poteva più mentire a sua sorella. Forse.
«Dio, Laurel...»
«Prima di giudicarmi, lasciami spiegare.»
«Spiegare? Spiegare che cosa, Laurel? Che qualcuno ti sta facendo del male e non vuoi dirmelo?»
L’avvocato spalancò leggermente la bocca, compiendo un passo indietro. «È questo quello che pensi?»
«Cos’altro dovrei pensare? Davanti a delle ferite simili, non ci sono molte alternative: o ti stanno facendo del male, oppure sei tu quella che si sta auto infliggendo dolore.»
Laurel prese a cullare Kaila come se niente fosse, ma era visibilmente turbata. E addolorata.
Sara si passò una mano sul viso, dopodiché, sospirò. «Voglio solo sapere cosa ti sta succedendo, Laurel. Sono preoccupata per te.»
La donna prese ad accarezzare lentamente la testolina bionda della nipote. Stava cercando disperatamente una via di fuga da quella conversazione, ma sapeva che con Sara non avrebbe mai funzionato. Non questa volta. Così, si voltò nella sua direzione, imbronciata. «Se ti fosse importato realmente di me, non avresti dovuto attaccarmi in questo modo.»
«Hai ragione. Sono io quella che ti sta urlando contro. Però, mi sembra di ricordare che quando abbiamo accompagnato Felicity in quella boutique, e ti ho chiesto come ti fossi procurata quella contusione ‒ con un tono di voce assolutamente calmo ‒, tu mi abbia mentito spudoratamente dicendomi che eri caduta dalle scale.»
«Già, perché gli incidenti domestici non capitano a nessuno, vero?»
«Vorresti farmi credere che anche questa lesione sia frutto di un “incidente domestico”? Davvero mi reputi così stupida, Laurel? È una ferita da taglio. Si vede benissimo. Ed è anche piuttosto recente. »
L’avvocato sospirò pesantemente, per poi mordersi l’interno della guancia. Cos’altro avrebbe potuto dire? Ormai Sara non si sarebbe più bevuta le sue menzogne. C’erano solo due modi per porre fine a quella conversazione: la prima, era rivelarle la verità. Ma Laurel non era ancora pronta, e scelse la via più facile.
«Sai, avevi ragione, poco fa» esordì, mettendole Kaila tra le braccia. «Non c’è niente da spiegare.»
Sara strinse la bambina con forza, per poi rivolgere un’occhiata amareggiata alla sorella. «Ci stai buttando fuori? Davvero?»
«No. Mia sorella e mia nipote saranno sempre le benvenute in casa mia. Ma se devi venire qui solamente per giudicarmi, allora non scomodarti nemmeno a varcare quella porta.»
Sara sapeva che Laurel non lo pensava davvero. Si stava semplicemente arrampicando sugli specchi pur di non rivelarle cosa le stesse capitando. Ciò nonostante, non si oppose al suo volere e se ne andò, sbattendosi la porta alle spalle.



Dopo la conversazione accesa che aveva avuto con Laurel, Sara non se l’era sentita di tornare subito a casa. Avvertendo la necessità di sfogarsi, si era diretta nell’unico luogo in cui avrebbe potuto farlo senza che qualcuno le facesse delle domande. Sapeva che a Oliver non piaceva l’idea che le bambine trascorressero del tempo al Covo, ma era troppo arrabbiata e aveva bisogno di calmarsi.
Siccome Kaila si era addormentata prima che arrivassero al Verdant, Sara riuscì ad allenarsi senza distrazioni. Considerando il fatto che erano passati mesi dall’ultima volta che aveva eseguito la salmon ladder, e che nel mentre aveva partorito, era ancora piuttosto in forma.
La successiva mezz’ora la passò ad allenarsi con il Muk Yan Chong[2] di Oliver, fino a quando Kaila non si svegliò e Sara fu costretta ad interrompere l’allenamento. Si passò un asciugamano sul corpo sudato, per poi estrarre il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Erano le cinque del pomeriggio. Se non se ne fosse andata in quel preciso istante, avrebbe rischiato di incontrare Thea o una delle sue bariste.
Una volta fuori dal locale ‒ la cui riapertura era stata inaugurata appena due mesi prima ‒, Sara prese una boccata d’aria fresca. Si sentiva decisamente meglio. «Pronta a tornare a casa, piccola?» disse poi, rivolta a sua figlia. «So che sono stata un po’ brusca con zia Laurel, poco fa» proseguì, come se Kaila potesse capirla. «Ma sono preoccupata per lei. E ho paura che se non intervengo al più presto, potrebbe cacciarsi in guai seri.» 
Kaila, ovviamente, non la stava ascoltando. Al contrario, stava cercando con tutte le sue forze di afferrare le scarpine rosa che la sua mamma le aveva messo ai piedi prima di uscire di casa. Ma Sara era troppo presa dal suo discorso per accorgersene.
«Un giorno, quando avrai una sorella o un fratello, capirai quello che sto provando. Spero solo che nessuno di voi due si ritrovi immischiato in una brutta situazione. Ecco, siamo arrivate.»
Sara infilò la chiave nel portone del palazzo, ma quando si voltò per sollevare il passeggino, Kaila le dedicò una lunga occhiata silenziosa.
«Che cosa c’è, amore?»
Sara si accovacciò davanti a lei, ma la bimba rimase in silenzio ancora per qualche istante. Poi, senza una ragione precisa, allungò le manine in direzione di Sara e le poggiò sulle sue guance.
«Mam-ma!» esclamò contenta. Subito dopo, iniziò a darle dei leggeri schiaffetti, che Sara interpretò come delle carezze ‒ nientemeno che una richiesta di attenzioni e di coccole.
«Sei proprio una ruffiana, lo sai, sì?»
Ma nonostante le parole appena pronunciate, Sara prese a sbaciucchiarle le guance e l’incavo del collo. Kaila iniziò a ridere, cercando inutilmente di coprirsi il viso con le manine, ma in questo modo peggiorò solo la situazione, perché Sara si mise a solleticarle i polpastrelli delle dita, accrescendo la sua risata.
In quel momento, con la risata di sua figlia in sottofondo, Sara si sentì improvvisamente più leggera. E anche se fu solo per pochi secondi, tutti i problemi sembravano essere spariti come per magia.

*

«Preparatevi, amici e parenti: Kaila Queen sta per compiere i suoi primi passi a bordo del suo fantastico girello! Sei pronta amore?»
Kaila osservava confusa il cellulare della mamma. Proprio non capiva perché Sara le puntasse contro quell’aggeggio nero praticamente ogni giorno.
«Uno, due...»
«...tre!» concluse Nyssa, facendo il suo ingresso nel salotto proprio in quel momento.
Tuttavia, il risultato non fu quello sperato da Sara: Kaila rimase immobile nella sua posizione, attratta dai giocattoli a ventosa posti sul girello. Dopo non molto, Sara spense la registrazione con fare rassegnato.
«Niente da fare» sbuffò, appoggiando il telefono a terra. «Ormai è entrata ufficialmente nella fase della ribellione.»
«Sii paziente, habibti. Ogni bambino ha i propri tempi.»
Fu allora che Sara alzò finalmente lo sguardo in direzione di Nyssa. Indossava un paio di leggings neri e una t-shirt viola, e aveva le scarpe da ginnastica ai piedi.
Nel vederla vestita così, Sara inarcò un sopracciglio.
«Dove stai andando?»
Nyssa si passò una mano tra i capelli, servendosi dello schermo del cellulare come specchio. «Al lavoro.»
Sara annuì appena, per poi rivolgere nuovamente la sua attenzione alla figlia. «Credevo ti toccasse il turno del pomeriggio, oggi.»
«È così» confermò l’altra donna. Quando capì che Sara non avrebbe aggiunto altro, l’Erede del Demonio si accovacciò di fianco a lei.
«Avevo pensato di andare ad allenarmi un po’, prima. Ti dispiace?»
Canary scosse il capo, lo sguardo ancora fisso su Kaila. Nyssa capì che stava evitando il contatto visivo con lei di proposito, perciò le poggiò una mano sul capo.
«Se non ti va, basta dirlo. Posso resta‒»
«No. È giusto che tu vada.» Le sembrò di aver usato un tono troppo brusco, ma Nyssa non reagì in alcun modo. Forse se l’era immaginato. «Tra il lavoro e Kaila, ultimamente non abbiamo avuto molto tempo per allenarci. Verrei volentieri con te se non dovessi occuparmi di lei» aggiunse.
«Puoi ricominciare ad allenarti quando vuoi, Sara. E quando quel giorno arriverà, mi assicurerò di essere a casa per poter badare a Kaila mentre tu spaccherai il culo a qualche manichino.»
A quell’affermazione, Sara non poté fare a meno di sorridere. «Promesso?»
«Promesso» rispose Nyssa, lasciandole un bacio sulla fronte. Subito dopo, diede un bacio anche a Kaila, si infilò un giubbotto di pelle e se ne andò senza dire altro.
Sara sospirò pesantemente, per poi passarsi una mano sul viso. Erano passati diversi giorni da quando lei e Laurel avevano litigato, e nessuna delle due aveva osato fare il primo passo per sistemare le cose. A Sara non piaceva discutere con sua sorella, ma non le piaceva nemmeno pensare che le stesse nascondendo qualcosa di importante. Come se non bastasse, lo stress stava avendo la meglio su di lei al punto tale da farla innervosire per ogni minima cosa, come era successo poco prima con Nyssa.
Canary scosse il capo con l’obiettivo di scacciare via i pensieri negativi. Doveva cercare di rilassarsi un po’. Così si alzò, afferrò il telecomando e accese il televisore.
«Vuoi guardare i cartoni animati insieme alla mamma, tesoro?» domandò, passando velocemente da un canale all’altro alla ricerca di qualcosa di interessante da vedere. Prima che Sara potesse prevederlo, Kaila compì un paio di passi nella sua direzione, rivolgendole un grande sorriso soddisfatto.
«Non ti piace proprio essere ripresa, vero?» Sara le accarezzò piano la testolina bionda. «Direi che tuo padre dovrà rassegnarsi all’idea di perdersi la maggior parte delle tue prime volte.»
Mentre pronunciava quelle parole, Sara aveva smesso di fare zapping e si era inconsciamente bloccata sul notiziario del Canale 52. Non erano state le parole della reporter ad attirare la sua attenzione, quanto l’immagine che aveva occupato lo schermo della TV.
Una donna ‒ o meglio, una vigilante ‒ con indosso una maschera e un costume di pelle simile al suo.
«È passato quasi un anno dall’ultima volta in cui la vigilante conosciuta come Canary è stata vista in azione. Ovviamente, la sua improvvisa uscita di scena non è passata inosservata ai cittadini di Starling City. Ma la notte scorsa, questa donna è intervenuta per sventare un importante traffico di droga nel quartiere di The Glades. La somiglianza con Canary è evidente. Sarà un ritorno definitivo, oppure si tratta semplicemente di un’emulatrice?»
Sara si avvicinò al televisore per esaminare meglio quella foto. La vigilante non indossava una parrucca, ma la sua maschera...
Non può essere.
Sara si portò una mano davanti alla bocca.
E in un istante, capì tutto quanto.



«Ollie, guarda com’è carina!»
Oliver alzò lo sguardo in direzione di Thea, per poi spostare l’attenzione su sua figlia. Poiché Thea si era scordata di mettere il bavaglino a Kaila mentre le stava dando da mangiare, la bambina si era sporcata di crema di riso, perciò la zia si era affrettata a pulirla e a cambiarla con uno dei body di riserva che le aveva dato Sara. Ora, Kaila ne indossava uno con dei motivi a forma di coniglietto, con tanto di fascia per capelli abbinata a forma di orecchie di coniglio.
Nel vederla vestita in quel modo, Oliver non riuscì a trattenere un sorriso divertito.
«Hai ragione, Speedy. È adorabile.»
Come se avesse compreso le parole del padre, Kaila sorrise a sua volta; subito dopo, Thea le porse il biberon con l’acqua, osservandola con fare amorevole mentre beveva.
«Non mi hai ancora detto come mai sei passata con la bambina» disse Oliver, distraendo la sorella dai propri pensieri.
«È stata Sara a chiedermi di portarla qui. Ha detto che aveva delle commissioni urgenti da sbrigare» spiegò la ragazza. «Aveva provato a telefonarti, ma è scattata la segreteria. Sperava che tu o Felicity aveste un paio d’ore libere per badare a Kaila.»
«Probabilmente il cellulare non prendeva» spiegò lui, premendosi la radice del naso con il pollice e l’indice. «Lo farei volentieri, ma oggi io e Felicity abbiamo una riunione molto importante a cui non possiamo mancare. Perciò, credo proprio che dovrai essere tu a prenderti cura di lei.»
A quelle parole, Thea spalancò le palpebre. «Io? M-ma non mi sono mai presa cura di un bambino. A malapena so cambiare un pannolino!»
Oliver si fermò di fianco alla sorella, un plico di documenti stretto sotto all’ascella destra. «Sono sicura che farai un buon lavoro, Speedy» la rassicurò l’uomo, dandole una pacca sulla spalla. «O forse, dovrei chiamarti zia Thea?»
Oliver accarezzò la guancia di Kaila, per poi lasciarle un bacio sul capo. Non appena suo fratello fu uscito dall’ufficio, Thea sospirò rivolta alla nipote.
«Sarà una giornata divertente, insomma.»



Sara spense il motore della moto e si tolse il casco. Aveva i capelli spettinati a causa del vento. Il suo cellulare vibrò, ma era troppo presa ad osservare l’edificio che si ergeva di fronte a lei per accorgersene.
Scese dalla moto e si diresse a passo spedito verso il portone sul retro. Sapeva che una volta varcata quella porta non avrebbe più potuto tornare indietro. Nonostante questa consapevolezza, prese un respiro profondo ed entrò, pronta ad andare fino in fondo a quella questione.
Non appena ebbe messo piede all’interno di quello che sembrava un garage, Sara si guardò intorno. Le luci erano spente; ad illuminare appena l’ambiente erano i flebili raggi del sole che filtravano dalle finestre laterali.
Compì alcuni passi incerti verso una scala di metallo, ma prima che riuscisse a raggiungere il primo scalino, Sara si ritrovò col naso a un centimetro dal muro.
In una frazione di secondo, Sara si voltò sferrando un calcio, ma la persona che l’aveva spinta riuscì ad evitarlo prontamente. Era troppo buio per vedere il suo aggressore; era solo un’ombra. Meglio, pensò, considerando che alla Lega le avevano insegnato a trarre vantaggio dall’oscurità. A quel punto, sferrò un gancio destro, e si rese conto che il suo aggressore aveva indietreggiato. Sara approfittò del fatto che avesse abbassato la guardia e si avventò su di lui; tuttavia, prima che potesse raggiungerlo, una mano si strinse intorno al suo braccio.
Sara riconobbe all’istante quella stretta, e si calmò. Un attimo dopo, le luci si accesero e si ritrovò faccia a faccia con Nyssa.
Le due si dedicarono una rapida occhiata, ma Sara non disse nulla; invece, si voltò, incontrando lo sguardo della persona che aveva azionato l’interruttore della luce.
Laurel.
«Che storia è questa?»
«Sara, ti posso spiegare...»
«No, Nyssa» ringhiò Sara, puntandole l’indice contro. «Non stavo parlando con te.»
Sentendosi tirata in causa, Laurel si strinse nelle spalle, a disagio. «Okay, Sara. Ora ti racconto tutto. Però, ti prego, non ti arrabbiare.»
«Se non lo avessi capito, io sono già arrabbiata, Laurel.»
«Sì, hai ragione. Ma non prendertela con Nyssa. Sono stata io a chiederle di farlo.»
L’Erede del Demonio s’incupì. «Non ho bisogno che tu prenda le mie difese.»
«No, infatti. È dalla tua bocca che lo voglio sentire» proseguì Canary, rivolta alla sorella. «Sempre che tu abbia il coraggio di dirmi la verità. Oppure vuoi farmi credere che non sei tu la donna vestita di pelle che se ne va in giro fingendosi Canary?»
A quelle parole, Laurel trasalì. Ma quando Nyssa le lanciò un’occhiata, capì cosa doveva fare.
«Non ti mentirò di nuovo. Tanto ormai non avrebbe senso.»
Laurel prese un respiro profondo, passandosi una mano sul braccio. «È iniziato tutto l’anno scorso, quando Oliver non ha voluto che venissi con voi a cercare l’Incantatrice. Te la ricordi quella sera, vero?»
Sara trattenne a stento un sospiro. Ricordava tutto quanto. «Sì, ed ero d’accordo con Oliver sul fatto che non fosse una buona idea portarti sul campo. Non ho espresso la mia opinione allora, ma ora sai cosa penso.»
L’avvocato annuì piano. «Lo immaginavo. È per questo che ho chiesto a Nyssa di mantenere il segreto. Sapevo che se te l’avesse detto ti saresti infuriata.»
Al sentir nominare la sua ragazza, Sara chiuse gli occhi. La infastidiva pensare che Nyssa non gliene avesse parlato, ma in quel momento doveva mantenere i nervi saldi e fronteggiare Laurel. Con Nyssa avrebbe fatto i conti più tardi.
«E ora che l’ho scoperto per conto mio, invece? Che tipo di reazione ti aspettavi?»
Sua sorella abbassò lo sguardo. «Speravo di ricevere il tuo appoggio.»
Appoggio? Come avrebbe potuto darle il suo appoggio per una cosa del genere? Con quale coraggio avrebbe potuto sostenere sua sorella a diventare una vigilante, consapevole che avrebbe messo a rischio la propria vita giorno dopo giorno? Se Laurel aveva davvero creduto che sarebbero bastati pochi mesi di addestramento per entrare nel Team Arrow, allora si era sbagliata di grosso. E se aveva pensato anche solo per un secondo di potersi paragonare a sua sorella minore, allora si era sbagliata una seconda volta. A differenza sua, lei e Nyssa erano state addestrate dalla Lega degli Assassini per anni. Si trattava di due cose completamente diverse.
Sara non sapeva come comportarsi. Da un lato, avrebbe voluto tirare un pugno al muro, ma dall’altro provava solo un desiderio impellente di ridere, una di quelle risate nervose che ti aiutano a trattenere le lacrime. Soltanto allora, con la rabbia che minacciava di prendere il sopravvento su di lei, Sara realizzò cosa fosse davvero quello che aveva creduto essere un garage. Era la loro stanza degli allenamenti ‒ anche se forse il termine “base segreta” sarebbe stato più appropriato, considerato che, probabilmente, nemmeno Oliver era al corrente della situazione.
Un attimo dopo, Sara risalì i gradini che la dividevano dal portone d’uscita e se ne andò.
Si sentiva presa in giro. Si sentiva tradita. Non solo da Laurel, ma anche dalla donna con cui in quegli anni aveva condiviso il letto e il proprio amore.
Non sapeva cosa fare, né tantomeno cosa pensare. Voleva solo salire in sella alla sua moto e sfrecciare via, veloce come un fulmine. Ma prima che riuscisse a raggiungere il mezzo, una voce la costrinse a bloccarsi.
«Sara!»
Non si voltò. Non ce n’era bisogno: poteva sentire chiaramente i passi di Nyssa alle sue spalle. Sapeva che probabilmente le sarebbe corsa dietro, ma aveva sperato fino all’ultimo che non lo avrebbe fatto.
Quando l’Erede fu a pochi passi da lei, Sara inspirò a pieni polmoni. «Che cosa vuoi?»
Nyssa attese qualche istante prima di rispondere. «Parlare.»
Il vento fece ondeggiare i suoi capelli. Stava arrivando un temporale. «Come ci hai trovate?» aggiunse, incurante del cielo nero.
«Ti ho seguita.»
La risposta le uscì in un sussurro, ma Nyssa lo sentì comunque. Dopo non molto, Sara si voltò di scatto, puntando i propri occhi in quelli dell’amata. «Credeva davvero di ricevere il mio appoggio?»
«Sono stata io a dirle questo.» Nyssa sospirò sommessamente, unendo le mani in grembo. «Quando ho capito che eri preoccupata per tua sorella e che stavi indagando, ho provato a convincerla a raccontarti tutto prima che fosse troppo tardi. Le ho detto che, se lo avesse fatto, magari non ti saresti arrabbiata e le avresti mostrato il tuo supporto. Non mi ha ascoltata. Evidentemente, ha deciso di giocarsi quella carta proprio oggi.»
«Già. Tipico di Laurel.»
«Non a caso è un avvocato» aggiunse la mora.
Ma Sara non accennò minimamente un sorriso.
«E questo posto?» domandò invece, allargando le braccia.
«È un vecchio box auto in disuso. Quando lo abbiamo trovato, era praticamente vuoto, così abbiamo portato un sacco da boxe e degli attrezzi per allenarci.»
«Sì, ma certo» borbottò Sara, facendo una smorfia con le labbra. La mora se ne accorse, ma fece finta di niente.
«Ti va di tornare dentro e di parlarne?»
Mentre pronunciava quelle parole, Nyssa accennò un sorriso. Sapeva che probabilmente non sarebbe servito a nulla, ma doveva almeno tentare.
Sara scosse il capo senza pensarci due volte. «No. Ho visto e sentito abbastanza.»
Prese un altro respiro profondo, sentendosi sempre più pesante. Sarebbe esplosa da un momento all’altro, ne era certa. Ma poi incontrò gli occhi nocciola di Nyssa e si perse nel suo sguardo.
«Mi hai mentito» disse all’improvviso Sara, sentendo la rabbia ribollirle nelle vene. «Come quella volta che non mi hai detto che stavi cercando un lavoro. Mi hai fatto preoccupare in un modo che va oltre l’immaginabile. Eppure, l’hai fatto di nuovo. E questa volta, con la complicità di mia sorella.»
«L’ho fatto solo per proteggerti» replicò Nyssa, avvicinandosi ulteriormente alla sua amata. Ma Sara indietreggiò, scuotendo leggermente il capo.
«No. La verità è che è nel tuo DNA. Sei Nyssa al Ghul, ricordi? Mentire. Rubare... uccidere. Sono le tue specialità.»
«Stai esagerando» replicò l’Erede del Demonio. Le si inumidirono gli occhi e non poté fare nulla per impedirlo. Sapeva che non era la sua Sara a parlare, ma quelle parole erano comunque riuscite a ferirla. «Parli così perché sei accecata dalla rabbia. Ma io ti ho insegnato a controllarla. Non lasciare che la collera prenda il sopravvento su di te solo perché si tratta di Laurel.»
Effettivamente, Sara non pensava davvero quello aveva detto, ma quando si era resa conto di aver pronunciato quelle parole, ormai era troppo tardi. Voleva solo stuzzicare l’orgoglio di Nyssa, ma come al solito, aveva superato ogni limite.
«Sai cosa ti dico, Sara? Non mi va di fare il poliziotto buono. Per una volta, starò al tuo gioco. Perciò, se davvero mi reputi una ladra e una falsa, allora tu sei una codarda.»
«Ah, sì? E che cosa avrei fatto per meritarmi questo titolo?»
Nyssa le rivolse un’occhiata eloquente. La risposta era ovvia.
Sara annuì debolmente, un sorriso amaro a contornarle le labbra. «Capisco. Ce l’hai ancora con me perché due anni fa sono tornata a Starling City senza dirtelo.»
«Senza dirmelo, Sara? Sei fuggita da Nanda Parbat nel cuore della notte. Mio padre ha messo una taglia sulla tua testa per questo, e io mi sono fatta il culo per evitare che ti uccidesse con le tue stesse mani. Sono persino arrivata a liberarti dai tuoi doveri nei nostri confronti. Hai idea di quali conseguenze abbia avuto tutto ciò nella mia vita e nel rapporto con mio padre? Ti sei mai chiesta a cosa andassi incontro schierandomi dalla tua parte?»
Sì, Sara se l’era chiesto diverse volte, ma non aveva mai avuto il coraggio di parlarne con Nyssa. Quando l’Erede l’aveva lasciata andare, Sara sapeva che sarebbe stata lei a pagare le conseguenze delle sue azioni.
Non era giusto, lo sapeva benissimo. Ma cos’altro avrebbe potuto fare?
«Conoscendoti» continuò Nyssa, «se non fosse che hai messo al mondo una figlia, scapperesti anche ora. Perché è questa la tua natura, Sara. Fuggire dai problemi piuttosto che affrontarli. Lo hai fatto quando sei salita sul Queen’s Gambit; lo hai fatto quando sei tornata a Starling City. E, se potessi, lo rifaresti anche in questo preciso istante. Perché la realtà ti spaventa.»
Sara sapeva che, in fondo, era vero anche questo. In quel momento avrebbe soltanto voluto sparire per un po’, andare in un posto lontano da tutto e da tutti per riflettere. Ma Nyssa non le diede il tempo di perdersi nei suoi pensieri.
«Quindi sì, sono ancora arrabbiata per il tuo comportamento sconsiderato. Puoi biasimarmi per questo?»
D’istinto, Canary serrò la mascella. «No, non ti biasimo. Però io ero tornata per tenere d’occhio mia sorella. Per proteggerla. Non per metterla in pericolo.»
«Cosa vuoi che ti dica, Sara? Laurel è una donna adulta. Mi ha chiesto un favore, e io ho deciso di aiutarla proprio perché è tua sorella. E anche se tu non approvi, è giunto il momento di aprire gli occhi.
Laurel ha seguito per mesi la maggior parte delle missioni del Team Arrow, senza poter mai fare qualcosa. Come credi potesse sentirsi all’idea che sua sorella, il suo ex fidanzato e i suoi amici fossero tutti addestrati, tranne lei? E non giocarti la carta di Felicity, perché sai benissimo che svolge comunque un ruolo importante pur restando seduta davanti a un computer.»
Percependo delle goccioline farsi strada tra i suoi capelli, Nyssa fece una pausa, alzando lo sguardo verso il cielo. Aveva iniziato a piovere, ma nessuna delle due se n’era accorta. Nyssa non se ne curò e riprese la parola subito dopo.
«Perché non lo capisci? Laurel vuole solo essere come te. Vuole diventare un’eroina, come te. Non perché sia gelosa, ma perché ti ammira. È così difficile da accettare?»
Sara si morse l’interno della guancia, ricacciando indietro le lacrime.
Era stanca. Stanca di piangere, stanca di litigare; ma soprattutto, era stanca di vivere nel terrore all’idea che una persona a lei cara potesse fare una brutta fine.
Ormai erano entrambe fradice dalla testa ai piedi, ma nessuna delle due osò muovere un muscolo. Fu proprio in quel momento che Sara ebbe un déjà-vu: tornò con la mente alla fatidica notte in cui, mesi prima, avevano combattuto contro Maseo e alcuni membri della Lega degli Assassini. Poco dopo, Sara aveva dato alla luce la sua primogenita.
«E se ci fosse stata Kaila al posto di Laurel?» azzardò, inspirando a pieni polmoni l’odore della pioggia. «E se fossi tornata a Starling City per proteggere nostra figlia?»
«È un’ipotesi poco plausibile» ribatté la figlia di Ra’s.
«Lo so. Ma per un secondo, uno soltanto, fingi che sia andata così. E ora, al posto di Laurel, ci sarebbe nostra figlia lì dentro. Come dovrei sentirmi all’idea che mi hai tenuta all’oscuro del fatto che hai addestrato nostra figlia?»
«Non è la stessa cosa» ripeté la mora. «Non potrà mai essere la stessa cosa. Ma, se proprio vuoi saperlo, la mia posizione non cambia. Se Kaila avesse trent’anni e mi chiedesse di allenarla perché l’idea di essere l’unico membro della sua famiglia a non potersi difendere la disturba, come potrei non assecondarla?»
Sara abbassò lo sguardo e scosse il capo un paio di volte, consapevole che quella conversazione non l’avrebbe condotta a nulla. «Se davvero la pensi così, allora significa che ci sono ancora molte cose di cui dobbiamo discutere. Ma questo non è né il luogo, né il momento adatto per farlo. Continuate pure con il vostro addestramento.»
Sara si voltò, pronta a salire in sella alla sua moto; tuttavia, prima che potesse infilare la chiave, la voce di Nyssa la bloccò per una seconda volta.
«Dovunque tu vada, non dimenticare mai chi sei e da dove vieni, Ta-er al-Sahfer.»
Al sentire il suo nome nella Lega degli Assassini, Sara rabbrividì. Una volta acceso il motore, sentì il bisogno impellente di voltarsi, ma riuscì a resistere. Non ce n’era bisogno. Sapeva che Nyssa sarebbe rimasta lì ad osservarla fino a quando non si fosse allontanata abbastanza da diventare una piccola macchia nera offuscata dalla pioggia.















[1] “Bella” in Arabo.
[2] Meglio conosciuto come “uomo di legno” o “bambola di legno”. Ricordate l’attrezzo di legno con affissi dei paletti orizzontali che utilizzava Oliver per allenarsi? È proprio lui.





Hello friends, so che è da un sacco che non mi faccio viva, ma è sempre – sempre – colpa dell’università. Posso però affermare con certezza che “grazie” alla quarantena ho ripreso un po’ il ritmo, e spero davvero di non dovervi fare attendere troppo per il prossimo capitolo.
Dunque, che posso dire? Dopo un salto temporale di sei mesi, la piccola Kaila sta crescendo, Oliver e Felicity stanno per sposarsi e Laurel ha inconsciamente iniziato una guerra con sua sorella xD
Saretta è un po’ irritante in questo capitolo, me ne rendo conto, ma, hey!, mica siamo tutti perfetti – e poi un po’ di litigi sparsi qua e là ci stanno, se no dov’è la suspense? ;)
Grazie a chiunque abbia letto e a presto! (Prometto che non vi farò aspettare un altro anno per il nuovo capitolo ^^”)

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Capitolo 21
*** Capitolo 20: Sisters ***


 

Capitolo 20:
Sisters

 

 

 

 

Thea Queen non aveva esperienza con i bambini.
O meglio, non aveva esperienza con dei bambini così piccoli. Ecco perché era andata nel panico non appena Kaila aveva iniziato a strillare senza ragione, minacciando di perforarle i timpani da un momento all’altro.
«Roy, non so cosa fare» disse la ragazza, con fare supplicante. «Le ho dato da mangiare un’ora fa. Perché piange così tanto?»
«Hai controllato che il pannolino non sia da cambiare?» suggerì Arsenal.
Thea gli riservò un’occhiata esasperata. «Roy...»
«Okay, ho capito» ridacchiò lui, intuendo l’antifona. «Su, forza. Dalla a me.»
La ragazza non se lo fece ripetere due volte: mise la nipote tra le braccia del fidanzato, il quale prese a tastare la consistenza del pannolino, e iniziò a mordicchiarsi nervosamente l’unghia del pollice destro.
«Sì, direi proprio che qualcuno qui ha fatto la popò» spiegò Roy, in tono calmo. «Scommetto che una volta cambiata starai subito meglio.»
Roy si allontanò con la bambina che ancora strillava tra le braccia, mentre Thea, esausta, si lasciò cadere sul letto.
Quello era uno di quei momenti in cui si chiedeva se sarebbe mai stata in grado di fare la mamma. Certo, aveva appena vent’anni, perciò avrebbe avuto ancora diversi anni per pensarci. Però... ce l’avrebbe davvero fatta senza l’aiuto di sua madre?
Thea sbuffò, coprendosi gli occhi con un braccio. Non erano rare le volte in cui pensava a sua madre; anzi, ultimamente la sognava di continuo. Era per questo se nell’ultima settimana aveva faticato a chiudere occhio. Ma ora, dopo aver badato a Kaila per quasi due ore, si sentiva sfinita. E si lasciò andare.
Tuttavia, non appena percepì una presenza familiare, Thea riaprì gli occhi. Roy era disteso di fianco a lei, un sorrisetto beffardo a contornargli le labbra.
«Scusami. Non volevo svegliarti.»
«Oddio, mi sono addormentata? Quanto ho dormito?» chiese Thea, alzandosi di scatto.
«Un quarto d’ora, più o meno» rispose lui. «Forse venti minuti.»
«E dov’è Kaila?»
«Frena, Speedy» sussurrò Roy, passandole una mano sul braccio. «Sta bene. Si è addormentata poco dopo che le ho cambiato il pannolino. Sono rimasto un po’ con lei per assicurarmi che fosse davvero crollata.»
Senza nemmeno rendersene conto, Thea tirò un sospiro di sollievo. Poi, non appena il suo cuore riprese a battere a un ritmo regolare, si coricò nuovamente sul letto con lo sguardo rivolto al soffitto.
«Questa tua improvvisa ansia» esordì Roy, «è per caso legata a tuo padre e... a quello che è successo con la Lega degli Assassini?»
Thea si passò distrattamente una mano sul viso. «Può darsi.»
Arsenal annuì piano. «Vuoi parlarne?»
La giovane Queen si strinse nelle spalle. Non aveva poi così tanta voglia di parlare, ma al tempo stesso, non se la sentiva di far preoccupare Roy. Erano tornati insieme da poco, perciò avevano ancora tanto da recuperare, e di certo tenergli nascoste le sue preoccupazione non era il modo migliore per ricominciare.
«A dire la verità, sì» mentì, portandosi le mani sulla pancia. «È che ultimamente non posso fare a meno di pensare a come sarebbe la mia vita oggi se mamma non fosse morta.»
Roy assimilò il significato di quelle parole nel giro di pochi secondi. «Moira è stata una figura essenziale nella tua vita. Ti è stata vicina dopo il naufragio del Gambit. Avevi soltanto lei. Ed è morta da appena un anno. È naturale che tu senta la sua mancanza.»
«No, non è solo questo.»
Thea si voltò in direzione di Roy. Aveva le sopracciglia corrugate.
«Ecco, vedi... se lei fosse ancora viva, probabilmente io non sarei mai andata via da Starling con Malcolm. E forse, se non lo avessi fatto, la Lega...»
Thea lasciò la frase a mezz’aria, ma Roy capì all’istante a cosa si riferisse.
«Credi davvero che la tua parentela con Malcolm possa influire sulla vita di Kaila?»
Arsenal attese una risposta che non arrivò, perciò, proseguì. «Thea, una cosa del genere non la devi nemmeno pensare. È vero, Malcolm è nel mirino della Lega da diversi anni, ma questo non significa niente, È con Nyssa e Sara che Ra’s al Ghul ha dei conti in sospeso. È per questo se sono state attaccate da Maseo e dagli altri mercenari. Tu non c’entri nulla.»
Thea annuì, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore. «Lo so, ma... a volte ho come un brutto presentimento. Mi sembra che le nostre vite siano diventate improvvisamente perfette. Troppo perfette. È come se temessi che potrebbe andare tutto all’aria da un momento all’altro. Ma forse, è solo un semplice presentimento.»
Roy le mise una mano sulla guancia, per poi lasciarle un bacio sulla punta del naso. «Sì, sarà sicuramente così. Non hai niente di cui preoccuparti.»
Thea lo osservò in silenzio per alcuni istanti, una strana sensazione all’altezza dello stomaco. «Forse hai ragione.»



Sara passò una mano tra i capelli soffici di Kaila. Erano biondi come i suoi, ma a differenza sua, le crescevano ad una velocità impressionante. Una delle tante qualità che aveva ereditato dalla famiglia Queen.
Dopo aver affrontato Nyssa, Sara era andata a riprendere la bambina da Thea. Una volta a casa, aveva giocato un po’ con lei; poi avevano cenato e fatto il bagnetto insieme ‒ cosa che a Kaila era piaciuta molto, considerando che la madre l’aveva intrattenuta con delle bolle di sapone. E ora, dopo aver bevuto un po’ di latte materno, dormiva serenamente nel suo lettino.
Sara si perse ad osservare il suo visino perfetto per un tempo che le sembrò interminabile, fino a quando una voce dietro di lei attirò la sua attenzione.
«Ehi.»
Sara strinse le mani sulla ringhiera del lettino. Contò fino a dieci prima di rispondere. «Ehi.»
Nyssa si avvicinò a lei di qualche passo, ma prima che riuscisse a sfiorarle la schiena con le dita, Sara si voltò, incontrando il suo sguardo. Erano talmente vicine che poteva sentire il suo respiro solleticarle il collo.
«Mi dispiace» esordì la mora, con uno sguardo triste.
Sara dischiuse appena le labbra. «Anche a me» replicò.
Nyssa accennò un sorriso speranzoso. «Andiamo di là, così evitiamo di svegliarla.»
Sara annuì appena. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. La seguì fino alla cucina, dove Nyssa mise a bollire dell’acqua. «Vuoi del tè? O una camomilla?»
«Direi che è meglio la camomilla.»
L’aria era ancora tesa tra loro, ma non avrebbero litigato di nuovo. Questa volta, si sarebbero chiarite. Lo facevano sempre.
Entrambe attesero in silenzio che l’acqua arrivasse a ebollizione. Poi, Nyssa prese due tazze dalla dispensa, vi versò dentro l’acqua bollente e aggiunse le bustine di camomilla.
Quando Sara si ritrovò davanti la tazza fumante, la strinse tra le mani e sospirò.
«Non pensavo davvero quello che ho detto.»
La figlia di Ra’s al Ghul prese a soffiare dentro la tazza; poi, dopo non molto, la appoggiò davanti a sé. «Lo so. Eri solamente arrabbiata.»
«Non avrei comunque dovuto dirlo» proseguì la bionda, con le mani chele  tremavano.
«Beh, se è per questo, sono davvero una ladra e un’assassina» affermò Nyssa, abbozzando un timido sorriso.
«Già, ma non sei una bugiarda.»
Sara si portò la tazza alle labbra. Aveva la gola completamente asciutta. Mandò giù un paio di sorsi e si sentì subito meglio; poi, per farsi coraggio, allungò il braccio in direzione di Nyssa e afferrò la sua mano.
«Ti chiedo scusa.»
Nyssa abbassò lo sguardo sulle loro mani, ricambiando la stretta senza pensarci due volte. «Sei perdonata.»
Sara arrossì leggermente, un po’ per l’imbarazzo, un po’ perché la bevanda era riuscita a scaldarla. «Com’è andata oggi al lavoro?»
Senza che potesse prevederlo, l’Erede del Demonio scoppiò a ridere. «Tu non vuoi davvero sapere com’è stata la mia giornata.»
«No, decisamente» ammise Sara, asciugandosi le palpebre umide. «Voglio solo che mi racconti esattamente cos’è successo.»
Nyssa prese un respiro profondo. Subito dopo, lasciò andare la presa sulla tazza e strinse le dita di Sara con entrambe le mani. «È iniziato tutto quattro... forse cinque mesi fa. Una sera, mentre ero al lavoro, Laurel mi ha telefonato chiedendomi di andare a casa sua il prima possibile. Non ha aggiunto altro, ma ho subito capito che era successo qualcosa di grave. Mi sono precipitata da lei e l’ho trovata distesa sul divano a pancia in su. Quando le domandai cosa fosse successo, non rispose. Si limitò ad alzare la maglietta. Era piena di lividi.»
Sara ebbe un sussulto. Nyssa allentò la presa sulla sua mano e le chiese se qualcosa non andasse, ma l’amata scosse il capo.
«Va’ avanti.»
Nyssa trattenne a stento un altro sospiro. «Mi raccontò di aver sentito una donna urlare in un vicolo mentre stava rientrando a casa. Stava per essere aggredita da un uomo, perciò Laurel non ci ha pensato due volte e si è gettata contro di lui. Tuttavia, essendo buio, non si era accorta della presenza di altri due uomini. Quando li vide, era troppo tardi.
L’hanno presa a calci nello stomaco fino a farle perdere i sensi, e quando si è svegliata era sola. Camminava a fatica, ma è riuscita a compiere le poche centinaia di metri che la dividevano dal portone del palazzo. A mio parere, era già un miracolo che non avesse delle costole rotte.»
Sara ritrasse la mano e la mise sul tavolo. Deglutiva a fatica. Alla fine, la sua più grande paura si era rivelata veritiera: qualcuno aveva fatto del male a Laurel.
«Dopo... cos’è successo?» chiese ad un tratto, con voce tremante.
«Abbiamo parlato. Le dissi che doveva farsi vedere da un medico, ma non ha sentito ragioni. Rispose che aveva chiamato me proprio perché sapeva che ero una persona discreta e brava con le medicazioni. Ovviamente, c’è voluto un po’ prima che si rimettesse completamente.»
Sara si morse l’interno della guancia con fare nervoso. «Com’è possibile che nessuno di noi si sia accorto che qualcosa non andava?»
«Perché tua sorella ha giocato bene le sue carte. Si è data malata per una settimana dicendo che aveva la febbre. Ma, naturalmente, non era vero.»
Nyssa non poté fare a meno di notare il sorrisino di Sara. Era l’espressione tipica di chi aveva capito tutto quanto.
«Ora ricordo» disse infatti la bionda. «Quella volta ha fatto di tutto affinché io e mio padre non andassimo a trovarla. Diceva di avere paura di attaccarci dei germi. È stata piuttosto insistente, perciò io e papà abbiamo rispettato la sua volontà, ma la verità è che entrambi ci siamo sentiti in colpa all’idea di averla lasciata a casa da sola considerato che stava male.»
«Già. E invece, sono andata a controllarla ogni giorno» rivelò la figlia di Ra’s, mandando giù un altro sorso di camomilla.
«Hai vegliato su di lei» constatò Sara, ancora rossa in viso. «Grazie.»
Nyssa poggiò nuovamente la tazza sul tavolo, rivolgendo la sua attenzione all’amata. Le brillavano gli occhi. «Non ringraziarmi. È proprio in quella settimana che è iniziato tutto» spiegò, lasciandosi andare ad un pesante sospiro. «Laurel mi disse che si era stancata di sentirsi impotente, e che da qualche mese stava pensando di intraprendere un percorso di arti marziali. Sapeva, però, che né tu, né Oliver, le avreste dato il vostro consenso. Ed è per questo che quella sera, in preda alla rabbia e al dolore, ha contattato me e non voi.
Non sono riuscita a dirle di no. Laurel mi pregò di non raccontarti nulla, e così feci. So che invece avrei dovuto parlartene subito, ma sapevo anche che, se lo avessi fatto, non mi avresti mai dato il tuo consenso. Così, le ho dato retta. E quando ho deciso di tenertelo nascosto, sapevo benissimo a cosa andavo incontro. Per cui, hai tutto il diritto di essere arrabbiata con me.»
L’Erede abbassò lo sguardo, dispiaciuta, ma Sara le alzò subito il mento con un dito.
«Volevi solo evitare di dirmelo perché altrimenti avresti dovuto schierarti con una di noi, voltando le spalle all’altra. Perciò, hai preferito optare per una via di mezzo. O forse mi sbaglio?»
Nyssa annuì ripetutamente, un’espressione sorpresa stampata sul viso. «Esattamente. Era quello che volevo evitare.»
Sara fece scivolare la propria mano nell’incavo del collo di Nyssa. «Non volevi deludere Laurel, ma non volevi nemmeno metterti contro di me. È comprensibile.»
«Già, ma è stato snervante riuscire a conciliare tutto» ammise la mora. «Ci allenavamo sempre prima o dopo il lavoro, ma era comunque difficile trovare il momento migliore per non destare sospetti. Poi, quando ho realizzato che Laurel era pronta ad entrare in azione, mi ha praticamente costretta a darle un’occasione sul campo. Avrei voluto dirle di no, ma sarebbe stato insensato. E così, tutto il mondo ora sa di una nuova vigilante che sta seguendo le orme di Canary.»
Nyssa piegò la testa di lato, aumentando il contatto con la mano di Sara. Era calda, probabilmente a causa della tazza fumante che aveva tenuto tra le mani fino a poco prima, ma non le importava.
«A proposito» disse ad un tratto, «come hai capito che si trattava proprio di tua sorella? A parte le sue numerose ferite, ovviamente. Anzi, no, aspetta un attimo. Domanda migliore. Come sapevi che ero coinvolta anche io?»
Sara sospirò a sua volta. «Dalla maschera.» Fece una pausa, iniziando ad accarezzarle dolcemente il collo. «Il mese scorso, mentre stavo riordinando l’armadio, ho trovato il borsone con il mio costume e, in preda a un momento di nostalgia, l’ho aperto. O meglio, l’ho completamente svuotato. E mi sono accorta che mancava la maschera di riserva che tenevo nascosta in una delle tasche interne.
Quando ho visto la foto di Laurel in televisione, è stata la prima cosa che ho notato. Era identica alla mia. E poi, ho ripensato a quello che mi avevi detto quando me l’hai mostrata la prima volta, tanti anni fa. Dicesti che era un pezzo unico, come il resto del mio costume. Non ci ho messo molto a fare due più due.»
Nyssa annuì piano, come se quella fosse la spiegazione che si aspettava. «Sapevo che lo avresti capito da sola. Sei sempre stata molto intelligente, habibti.»
«Non è questione di intelligenza. La verità è che non ti sei impegnata più di tanto per evitare che io lo scoprissi» spiegò la bionda. «Perché tu volevi che io lo scoprissi da sola, piuttosto che lo venissi a sapere da una di voi due.»
«Hai fatto centro anche su questo.» Nyssa si alzò in piedi e si avvicinò a Sara, per poi inginocchiarsi di fianco a lei. «Questa storia è durata più di quanto avevo previsto. E so che sei arrabbiata, anche se adesso non lo dai a vedere. Ma devi dare una possibilità a tua sorella. Parlale. E se dopo sarai comunque certa di non volerla sostenere, allora mi tirerò indietro anche io» spiegò, baciandole le nocche delle mani. «Sarò sempre dalla tua parte, amore mio.»
«Hai ragione. Le parlerò» assicurò la bionda. «Ho soltanto una paura tremenda che possa succederle qualcosa di brutto, capisci?»
Nyssa sorrise dolcemente, ripensando a quante volte avesse provato quella paura nei confronti di Sara. «Sì, lo capisco. Per questo ti resterò accanto, qualunque strada sceglierai di prendere.»
Prima che Nyssa potesse prevederlo, Sara le gettò le braccia al collo e la strinse forte. Iniziò a singhiozzare silenziosamente, nascondendo il viso nella sua spalla. Dopo un primo momento di stupore, l’Erede del Demonio prese ad accarezzarle la schiena nel tentativo di calmarla.
«È stata una giornata pesante» disse poco dopo, lasciandole un bacio sulla guancia. «Dovremmo andare a dormire.»



Mezz’ora dopo, Sara si trovava distesa nel letto con lo sguardo rivolto verso il soffitto. Stava aspettando che Nyssa uscisse dalla doccia. Non le andava di addormentarsi senza di lei. Non quella sera.
Come se le avesse letto nel pensiero, la figlia di Ra’s al Ghul fece il suo ingresso nella stanza proprio in quel momento. Dopo essersi infilata un pigiama corto, Nyssa si distese accanto a Sara, la quale poggiò la testa sopra alla sua spalla. Si accoccolò meglio contro di lei, inspirando il profumo di Nyssa. Da quando se n’erano andate da Nanda Parbat, non era più incenso misto a cannella, ma semplicemente cannella, complice anche il suo bagnoschiuma. Nel frattempo, Nyssa iniziò ad accarezzarle i capelli con dei movimenti lunghi e lenti.
Rimasero in silenzio in quella posizione per diversi minuti, fino a quando Sara ruppe l’atmosfera che si era venuta a creare con un sospiro.
«Non abbiamo mai litigato così tanto prima d’ora.»
Nyssa chiuse gli occhi, senza smettere di accarezzare i capelli dell’amata. «È la vita, Sara» disse semplicemente. Poi, aggiunse: «Se fossimo d’accordo su tutto, sarebbe troppo semplice. Non credi?»
«Già. Dimenticavo che noi due non siamo fatte per le cose facili» sussurrò Sara, delineando un sorriso. «Ma è comunque un ostacolo che dobbiamo superare. Se non siamo in sintonia su qualcosa, è meglio trovare subito un punto d’accordo per evitare che le cose si complichino più avanti.»
«Ti riferisci a un eventuale futuro addestramento di Kaila, vero?» azzardò la mora, ripensando a ciò che l’amata aveva detto quel pomeriggio.
«Sì» rispose Sara. «Non ne abbiamo mai parlato.»
«Vuoi farlo ora?»
Canary si mise a sedere, e Nyssa interpretò quel gesto come una risposta positiva.
«Voglio andare a dormire sapendo che abbiamo risolto tutto» spiegò la donna, spostando lo sguardo sulla figlia. Dormiva serenamente. «Ci ho pensato tutto il pomeriggio, Nys. Non voglio che nostra figlia impari a uccidere. Ma insegnarle a difendersi... non vedo perché no, se anche Oliver è d’accordo.» Fece una pausa, per poi sospirare sommessamente. «A patto che sia tu ad allenarla.»
A quelle parole, Nyssa inarcò un sopracciglio. «Va bene. Ma perché proprio io?»
Sara incontrò il suo sguardo, ruotando leggermente la testa di lato. «Perché sei la persona più paziente che io conosca. E so che farai un buon lavoro. Insomma, considera quello che hai fatto con mia sorella. La stai aiutando a trasformarsi in un’eroina.»
Per la seconda volta quella sera, Nyssa prese ad osservare l’amata con uno sguardo stupito. «Allora non sei contraria fino in fondo» constatò, rivolgendole un’occhiata maliziosa.
«Più o meno. Diciamo che mi sto abituando all’idea di formare un trio di vigilanti sexy con voi due» scherzò Sara.
«Però, sarebbe proprio divertente lavorare con le sorelle Lance nello stesso momento!» esclamò Nyssa. Poi, non appena Sara ebbe abbassato la guardia, iniziò a solleticarle i fianchi.
«Smettila, o sveglieremo Kaila!» l’ammonì la bionda, trattenendo a fatica le risate e le lacrime.
Nyssa si bloccò all’istante. «Hai ragione» le bisbigliò vicino all’orecchio. «Scusami.»
«Sei perdonata. Per la seconda volta.»
Sara le mise una mano sulla guancia, ammirando i suoi lineamenti. «E poi, non dimenticare che sei stata tu ad addestrare le sorelle Lance.»
«Tuo padre mi ucciderà sicuramente per questo» disse Nyssa, dandole un buffetto sul naso. «Buonanotte, amore mio.»
«Buonanotte» rispose Sara, chiudendo d’istinto gli occhi. Dopo non molto, però, ripensando alle parole appena pronunciate da Nyssa, li riaprì di colpo.
Oh, merda, pensò, col cuore che batteva a mille. Non aveva mai pensato alla reazione che avrebbero avuto Quentin e Dinah una volta scoperto di Laurel. Ma era un problema a cui avrebbe pensato un altro giorno.
Un passo alla volta.

*

Oliver strinse il nodo della cravatta con un sospiro. Aveva la fronte sudata, ma non avrebbe saputo come asciugarla ‒ di certo, non con la manica dello smoking: Felicity lo avrebbe ucciso se avesse rovinato l’abito.
Prima che l’uomo riuscisse a trovare qualcosa ‒ qualsiasi cosa ‒ per togliersi il sudore dalla faccia, qualcuno bussò, interrompendo le sue ricerche.
«Avanti.»
La porta si aprì lentamente, segno che la persona dall’altra parte era nervosa quanto lui.
«Sei pronto?»
Oliver si grattò distrattamente la testa. «No» disse poi, portandosi le mani sui fianchi. «Ma sto sudando come un cammello. Avresti un fazzoletto a portata di mano?»
«No» replicò Quentin, richiudendosi la porta alle spalle. «Ma ho un asciugamano» aggiunse, porgendoglielo.
«Come facevi a sapere che‒»
«Non ce n’è stato bisogno» lo interruppe il capitano. «Quando io e Dinah ci siamo sposati, ho sudato così tanto che avrei potuto riempire una piscina» esclamò, abbozzando una risata. «Quel giorno, mi sono ripromesso che, se avessi avuto un figlio, gli avrei portato un asciugamano prima che Dinah lo accompagnasse all’altare.»
Dopo essersi asciugato la fronte, Oliver ripiegò l’asciugamano e lo appoggiò su una sedia. «Grazie, Quentin. Qualcosa mi dice che mio padre non avrebbe fatto la stessa cosa.»
«Vuoi che ti dica cosa avrebbe fatto tuo padre? Se fosse qui, sono certo che ti darebbe una bella pacca sulla spalla, dicendoti che è fiero di te.»
«Può darsi» concesse Arrow, tenendo lo sguardo rivolto verso il basso. «Ma se lui fosse qui, probabilmente non avrei una figlia, e non starei per sposare Felicity. Forse, perdere i miei genitori era il prezzo da pagare per avere una vita... felice, per così dire.»
«Ehi, non dire così» l’ammonì Quentin, mettendogli una mano sulla guancia. «Per me sei come un figlio, Oliver. E non lo dico solo perché sei il padre di mia nipote. Ma, in veste di genitore, ti posso assicurare che Robert e Moira non vorrebbero che ti colpevolizzassi. Devi voltare pagina. Questo non significa dimenticarli, o non essere triste: significa semplicemente pensare a ciò che ti dà la forza di alzarti dal letto la mattina, e non lasciare che quel pensiero positivo venga sopraffatto dai sensi di colpa per qualcosa che ormai appartiene al passato.»
Oliver corrugò leggermente la fronte. «Come fai a trovare sempre le parole giuste al momento giusto? Esiste un manuale, per caso?»
«Ho avuto due figlie, Oliver» rispose Quentin, rivolgendogli un’occhiata eloquente. «Abbiamo visto tanti cartoni animati con dei messaggi profondi. Ti fanno credere che quei programmi siano per i bambini, ma in realtà insegnano tante cose anche agli adulti.»
L’ex miliardario scosse il capo con un sorriso. «Avrei dovuto aspettarmelo.»
«Non preoccuparti. Vedrai che passando del tempo con Kaila imparerai tanti aneddoti anche tu» assicurò il capitano, sorridendo a sua volta. «Ora, però, dobbiamo andare. Non vorrai rischiare che la sposa arrivi prima di te.»
«Felicity me lo rinfaccerebbe a vita» affermò Oliver, seguendo l’uomo verso l’uscita della stanza. Tuttavia, senza una ragione precisa, Quentin si bloccò, il pomello della porta stretto tra le mani.
«Sai, sono felice che tu e Felicity vi siate trovati.»
Oliver ruotò leggermente la testa di lato. «Lo dici solo perché non avresti voluto che sposassi Laurel. O Sara.»
«No» rispose l’uomo, scuotendo il capo. «Al contrario. Saresti stato un genero fantastico.»



Quando raggiunse l’altare con la mano di Thea stretta intorno al suo braccio, Oliver provò una sensazione strana in tutto il corpo.
Non sapeva come fosse possibile, ma era inspiegabilmente calmo. Forse perché sua sorella era al suo fianco, o forse era dovuto al fatto che Diggle, il suo testimone, lo stava aspettando all’altare con un sorrisetto divertito. La vera agitazione iniziò quando i presenti si voltarono verso il portone d’accesso, con uno sguardo stupito sul volto.
Felicity, priva di occhiali e coi capelli legati in uno chignon basso, indossava un abito bianco che la rendeva ancora più meravigliosa di quanto già non fosse. Attraversò la navata con il bouquet stretto tra le mani e un sorriso a trentadue denti. E non appena ebbe lasciato andare la mano di sua madre per posizionarsi di fronte a Oliver, il cuore iniziò a batterle talmente forte che temette che non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere fino al cosiddetto: “Lo voglio.”
«Sei bellissima» sussurrò il suo futuro marito. Ma Felicity aveva già le guance rigate dalle lacrime.
«Non riesco a fermarmi» ammise, in preda all’ansia. «Non riesco...»
«Felicity» la bloccò Oliver, accarezzandole la spalla destra. «Possiamo chiedere al ministro di saltare i convenevoli, se ti fa stare più tranquilla.»
Dopo un primo momento di confusione, il tecnico informatico scosse la testa. «No» disse, più decisa che mai. «Voglio godermi ogni singolo istante.»
A quelle parole, Oliver non poté fare a meno di scoppiare a piangere a sua volta. Quentin aveva ragione: i suoi genitori gli mancavano da morire, ma stava per sposare la donna che amava, e sua figlia lo stava osservando a pochi metri di distanza. Come avrebbe potuto permettere ai fantasmi del suo passato di rovinare un futuro così bello?
Così, prima ancora che il ministro potesse dire una parola, prese il viso di Felicity tra le mani e la baciò.



Dopo la cerimonia, i neosposi avevano condotto gli invitati all’aperto, dove era stato allestito un vasto buffet. C’erano pietanze di tutti i tipi: dalla pasta alla verdura fresca, dal sushi ai tramezzini, probabilmente c’era cibo sufficiente a sfamare mezza Iron Heights.
«Queste tartine sono deliziose.»
Sara alzò lo sguardo in direzione di Nyssa, intenta ad assaggiare stuzzichini di ogni tipo. Non appena si rese conto che la sua amata la stava osservando con un’espressione divertita, la figlia di Ra’s al Ghul si accigliò.
«Cosa c’è?» domandò, confusa.
La bionda fece spallucce. «Niente. Sono solo felice di vederti così.»
«Così come?»
«Normale» rispose Sara, alludendo al loro passato a Nanda Parbat. «Felice» aggiunse subito dopo, sorridendo.
Nyssa arrossì appena, sorridendo a sua volta. Dopo tutto quel tempo, non si era ancora abituata all’idea che lei e Sara stessero conducendo una vita normale ‒ o, perlomeno, una vita lontana dagli omicidi e dalle rigide regole imposte dalla Lega degli Assassini. A volte, le sembrava di vivere in un sogno; altre, invece, quasi dimenticava di essere nata in una setta e di essere ancora l’Erede del Demonio.
Come se non bastasse, Maseo non si era più fatto vivo dalla notte della nascita di Kaila. Era strano ‒ troppo strano ‒, ma negli ultimi mesi aveva fatto il possibile per non sollevare l’argomento. Sapeva che anche Sara, nel suo silenzio, era preoccupata, così come sapeva che, se ne avessero parlato a voce alta, avrebbero soltanto peggiorato la situazione. Potevano solo godersi il tempo che avevano a disposizione con la loro bambina, anche se nessuna delle due era certa di quanto ne avrebbero avuto. Ma qualunque cosa sarebbe successa dopo, erano pronte. E, cosa più importante, erano insieme.
Nyssa scosse la testa nel tentativo di allontanare i pensieri negativi; poi, senza una ragione precisa, afferrò un’altra tartina e la porse alla sua amata.
«Vuoi assaggiare? È con i gamberetti.»
Sara stava osservando un punto fisso davanti a lei con Kaila stretta tra le braccia. Rimase in silenzio per alcuni istanti prima di rispondere.
«Magari dopo, grazie. Volevo portare la bambina da Oliver e Felicity, così che possano scattare qualche fotografia con lei.»
Nyssa seguì lo sguardo di Sara fino agli sposi, seduti in mezzo al prato. «Sicura che sia solo questo?»
Kaila iniziò a dimenarsi, segno che non voleva più essere tenuta in braccio. Sara la mise a terra prima che iniziasse a piangere.
«Devo parlare con Laurel» aggiunse, con un sospiro. « Ho rimandato questa conversazione troppo a lungo. È giunto il momento di chiarire.»
Nyssa annuì, masticando lentamente la tartina che Sara aveva rifiutato. «Sono d’accordo. Come ho già detto, questa storia è andata avanti per troppo tempo.»
Kaila iniziò a compiere dei passetti incerti davanti a sé, le manine strette in quelle della madre che, alle sue spalle, la stava aiutando a non perdere l’equilibrio.
«Augurami buona fortuna» esclamò Sara, ruotando la testa in direzione di Nyssa.
«Andrà tutto bene, habibti» la rassicurò la mora, sorridendole dolcemente. «Fidati di me.»
Sara si fidava, ma non ebbe il tempo di replicare perché Kaila la stava conducendo ‒ o meglio, trascinando ‒ dalla parte opposta. Questa volta, fu Nyssa a riservare all’amata uno sguardo divertito. Dopo pochi istanti, qualcuno le toccò il gomito, provocandole un brivido lungo la schiena.
«Champagne?»
Nyssa osservò il flûte per alcuni secondi prima di rispondere. «Volentieri.»
Quentin le porse uno dei due calici, per poi guardare nella sua stessa direzione. Kaila non aveva ancora imparato a mantenere l’equilibrio, perciò, ogni tanto, si lasciava cadere volutamente a terra, per poi rialzarsi più decisa di prima.
«Kaila sta diventando un bel peperino, non è così?»
«Come sua madre» azzardò Nyssa, mandando giù un sorso di spumante.
Il capitano abbozzò una risata, osservando la figlia minore stare al passo della nipote. «È vero. Da piccola, Sara non stava mai ferma. È sempre stata uno spirito libero. Come sua madre, per l’appunto.»
«Sì, l’ho sentito dire.» Nyssa prese un respiro profondo, stringendo il flûte con entrambe e mani. «Somiglia molto anche a lei, capitano.»
Quentin si voltò verso la donna, sorpreso. «A che ti riferisci?»
«Il suo coraggio. La sua determinazione. La sua impulsività. Sono tutte caratteristiche che deve a lei.»
Quentin non replicò alle parole di Nyssa, ma sorrise sotto ai baffi. Era sempre stato consapevole del fatto che, caratterialmente, la sua secondogenita somigliasse più a Dinah che a lui; in compenso, Laurel aveva ereditato la maggior parte dei suoi pregi e difetti, perciò aveva sempre pensato che i conti fossero stati pareggiati con l’arrivo di Sara.
Ma la verità era che, nonostante tutto, Sara era ancora la sua bambina. Sarebbe sempre stata la sua bambina. E sentir pronunciare delle parole simili dalla persona che probabilmente la conosceva meglio di chiunque altro, non poteva che scaldargli il cuore.
«È una bella cerimonia» disse a un tratto la mora, intuendo che il capitano si fosse perso nei propri pensieri.
«Già. Oliver e Felicity si sono dati un gran da fare» rispose Quentin, spostando lo sguardo sugli sposi. «A proposito, quando toccherà a voi due?»
Nyssa iniziò a tossire nervosamente. Subito dopo, realizzò che, se in quel momento avesse avuto dello champagne in bocca, probabilmente lo avrebbe rigettato tutto. Fortunatamente, non era così, perciò riuscì a darsi un contegno con maggiore facilità.
«Come, prego?»
«Insomma, quando hai intenzione di fare la proposta a mia figlia?» proseguì Quentin, chiarendo il concetto. «State insieme, da quanto? Sei anni? E avete anche una bambina. Mi stupisce che non lo abbiate fatto prima.»
Nyssa drizzò la schiena, sospirando. «Io e Sara abbiamo parlato di matrimonio tante volte, ma eravamo consapevoli che, probabilmente, non saremmo mai riuscite a coronare il nostro sogno. In altre parole, sapevamo che non ci saremmo potute sposare nella Lega degli Assassini. Non con il consenso di mio padre.»
«Ma ora non siete più alla Lega» sottolineò Quentin, con uno sguardo eloquente. Poi, fece tintinnare i loro bicchieri e mandò giù il resto dello champagne tutto d’un sorso.
In quel momento, Nyssa realizzò che Quentin aveva ragione. Dopo essere fuggite da Nanda Parbat, lei e Sara avevano parlato di matrimonio solo una volta, quando era nata Kaila. Ma poi, non erano più tornate sull’argomento. Dopotutto, sarebbe stato assurdo anche solo pensarci. Come avrebbero potuto sposarsi con la consapevolezza di essere ricercate da Ra’s al Ghul?
Ma era anche vero che, adesso, Nyssa era libera ‒ per così dire. Se avesse voluto sposarsi, Ra’s non avrebbe potuto ostacolarla in alcun modo, di questo ne era certa. Perciò, forse, Quentin non aveva tutti i torti: nessuno poteva impedirle di fare la proposta a Sara. Tantomeno suo padre.
Nyssa sorrise a labbra strette, poggiando audacemente una mano sulla spalla del capitano.
«Grazie, Quentin.»



Quando Kaila ebbe raggiunto la sua meta, Sara non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. Le piaceva stringere le sue manine quando tentava di camminare. Le piaceva ancora di più il significato di quel gesto: lei era la sua mamma, e l’avrebbe sempre sorretta prima di un’eventuale caduta. Ma era anche vero che non era facile starle dietro, e come se non bastasse, in quel momento aveva un altro pensiero che voleva togliersi dalla testa.
«Guarda un po’ chi è arrivata!»
Di fronte all’esclamazione di Felicity, Kaila emise un gridolino di gioia. Subito dopo, la bimba allungò le mani in direzione del padre.
«Ti sono mancato, piccolina?» domandò Oliver, prendendola in braccio.
«Tanto. Non la smetteva di fissarti» rispose Sara. Difatti, Kaila si perse subito nello sguardo del padre, che aveva iniziato a fare delle facce buffe con l’intento di farla ridere.
«Giusto in tempo per le foto!» aggiunse Felicity, accarezzando dolcemente le guance della bambina.
Oliver annuì alla moglie, per poi rivolgersi nuovamente a Sara. «Perché non vai a chiamare anche Nyssa? Adesso il fotografo si è preso una pausa, ma pensavamo di iniziare a scattare qualche fotografia insieme ai parenti non appena tornerà.»
«Cioè tra una decina di minuti, più o meno» concluse la moglie per lui.
Sara sembrò pensarci su per alcuni istanti. «Sì, è una splendida idea» acconsentì. «Prima, però, devo fare una cosa.»
Oliver annuì ancora, questa volta guardando Kaila. «Okay. Noi ti aspettiamo qui.»
Sara sorrise a labbra strette; dopodiché, col cuore che batteva a mille, si voltò. Non ci mise molto a individuare sua sorella: era seduta da sola a un tavolino distante dagli altri, il cellulare in una mano e un bicchiere pieno nell’altra.
Andrà tutto bene, si ripeté nella testa. Ma non ne era certa nemmeno lei.
Quando la sorella si sedette di fronte a lei, Laurel non alzò subito la testa. Ma Sara non demorse. Non poteva ignorarla per sempre. E infatti, dopo non molto, Laurel sbuffò, lasciando cadere il cellulare sul tavolino.
«Perché sei qui?» Aveva un tono tutt’altro che amichevole.
Canary deglutì, rivolgendole uno sguardo dispiaciuto. «Perché non voglio rinunciare al nostro rapporto. E alla nostra amicizia.»
Anche se cercava di non darlo a vedere, Laurel rimase colpita da quelle parole. Pochi istanti dopo, sospirò.
«Nemmeno io.»
C’era ancora tensione tra loro, ma era un inizio. Sara abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Non sapeva cosa dire. Dopo un tempo che le sembrò interminabile, Laurel riprese la parola.
«Ti racconterò esattamente com’è andata.»
«Non serve. Nyssa mi ha già spiegato tutto.»
Quando si rese conto del tono brusco che aveva utilizzato, Sara chiuse gli occhi in segno di pentimento. «Scusami, non intendevo... vorrei sentire anche le tue motivazioni, ovviamente.»
Laurel prese un respiro profondo, appoggiando le mani sulle ginocchia. «Ti avrà detto anche che sono stata aggredita, allora.»
«Sì» sussurrò Sara, ripensando con orrore a quello che la sorella aveva dovuto patire.
«E che sono stata io a chiederle di non dirti nulla.»
Canary annuì piano, e Laurel sorrise amaramente.
«Beh, effettivamente non c’è molto altro da dire. Sai già tutto.»
La maggiore delle sorelle Lance mandò giù un sorso d’acqua, per poi posare il bicchiere vuoto davanti a sé. «Non dovevo coinvolgere Nyssa, me ne rendo conto» disse ad un tratto «ma non sapevo a chi altro rivolgermi.»
Sara scosse il capo. «No, hai fatto la cosa giusta, invece. Vorrei dirti che se fossi venuta da me avrei accettato la tua proposta, ma mentirei. Non avrei mai acconsentito. Non perché non creda che tu possa diventare una buona guerriera, ma perché volevo che restassi lontana da questo mondo. E, soprattutto, non voglio che tu ti faccia male.»
«Lo so, e ti voglio bene per questo. Però, dopo tutte le cose che sono successe...»
Laurel prese a massaggiarsi la radice del naso con il pollice e l’indice, riuscendo così a ricacciare indietro le lacrime. «Quando ho chiesto a Nyssa di addestrarmi, non sapevo fino a che punto mi sarei spinta. Ero arrabbiata. E spaventata. Ma poi, con il passare dei giorni, mi sono resa conto che avrei potuto farcela davvero. Non dico di potermi paragonare a te o a Oliver, ma nel mio piccolo, vorrei fare la differenza. E grazie a Nyssa, sto realizzando questo proposito.»
Sara prese un respiro profondo. Chiuse gli occhi per alcuni istanti, e quando li riaprì, Laurel la osservava con uno sguardo speranzoso. Non avrebbe potuto negarle quella felicità dopo tutto ciò che aveva passato. Non di nuovo.
«Nyssa aveva ragione» esordì, puntando i propri occhi in quelli della sorella. «Sei una donna adulta. Hai tutto il diritto di fare quello che vuoi. E io non sono nessuno per metterti i bastoni tra le ruote.»
«Non è vero» contestò Laurel, accarezzandole dolcemente la mano. «Sei la mia sorellina. Che vita sarebbe senza una sorella come te a guardarmi le spalle?»
Sara non poté fare a meno di ridere, e Laurel la seguì a ruota. Anche se sua sorella aveva cercato di allontanarla, in quel momento Canary fu felice di non essersi mai arresa. Ne era valsa la pena.
«Capisco perché tu mi abbia attaccata, quando l’hai scoperto» disse ad un tratto Laurel. «Probabilmente, anche io sarei esplosa se fossi stata al tuo posto.»
«Non è vero» protestò Sara. «Quando ti ho detto di essere Canary, tu non hai battuto ciglio.»
«Beh, avevo scoperto da poco che mia sorella era tornata dal regno dei morti dopo sei anni. Direi che vederti combattere fosse la cosa che meno mi preoccupava a quel tempo.»
La maggiore delle sorelle Lance abbozzò nuovamente una risata, ma questa volta, Sara rimase seria.
«Il punto è che, quando sono tornata, superati lo shock e i litigi iniziali, siete stati tutti comprensivi con me. Per il fatto che non vi avessi contattati prima, per la mia affiliazione alla Lega degli Assassini... per Nyssa. Con tutto quello che voi ‒ che tu hai fatto per me, avrei dovuto semplicemente mettere da parte le mie paure e stare dalla tua parte. E invece, come al solito, la mia testardaggine ha avuto la meglio. Perdonami, Laurel.»
Sara tirò su col naso, dando alla sorella l’ennesima prova di quanto fosse dispiaciuta per come erano andate le cose. Laurel si alzò in piedi di colpo e si sporse verso di lei, per poi stringerla tra le sue braccia. Sara ricambiò la stretta, nascondendo il viso nella spalla della sorella.
«Sono io che ti devo delle scuse» ammise la maggiore. «Ho cacciato mia sorella e mia nipote da casa mia. Sono una persona orribile.»
«Facciamo finta che non sia successo nulla, okay?» propose Sara, accarezzando la guancia destra di Laurel. «Anche perché, abbiamo cose più importanti a cui pensare.»
«Ah, sì?» domandò l’avvocato, confusa.
«Dobbiamo capire come dirlo a Oliver, alla mamma e poi a papà.»
«Oh, cavolo. E io che stavo facendo del mio meglio per non pensare a quel giorno» ironizzò Laurel, portandosi la mano sulla fronte.
«Se sono sopravvissuti alla notizia della mia gravidanza, sicuramente sopravvivranno anche a questo» la rassicurò la sorella, con una piccola risata.
«Sopravvivere a cosa? Ai tacchi a spillo? Perché, se state parlando di questo, ho portato delle scarpe da ginnastica di ricambio.»
Le sorelle Lance si scambiarono un’occhiata divertita, per poi rivolgere l’attenzione a Thea.
«A dire il vero, anche noi ci siamo attrezzate» rispose Laurel, con un occhiolino. «Piuttosto, te l’hanno detto che quest’abito ti sta una favola?»
Effettivamente, l’abbigliamento di Thea era quello che probabilmente risaltava di più tra gli invitati: indossava una tuta elegante color rosso scarlatto, abbinata a un paio di orecchini con dei rubini che, presumibilmente, erano appartenuti a Moira.
A quel complimento, Thea non poté fare a meno di arrossire. «Ti ringrazio. Quando l’abbiamo provato al negozio non ne ero molto convinta.»
«Fortuna che Felicity ti ha persuasa a comprarlo, allora» esclamò Sara, accarezzando dolcemente il braccio di Thea. «Già che ci siamo, posso rubarti un paio di minuti per dirti una cosa?»
«Ma certo. Di che si tratta?»
«Stavo pensando di ricominciare a lavorare» rivelò la bionda, incrociando distrattamente le braccia. «Sempre che la tua proposta sia ancora valida, ovviamente.»
«Per me non è un problema, anzi, sarei felicissima di riaverti al Verdant. Ma ne sei proprio sicura? Kaila è ancora piccola e al locale resta aperto fino all’alba. E poi, se Oliver e Nyssa saranno impegnati con il loro “lavoro notturno”, chi si prenderà cura di lei?»
«Ho già pensato a tutto. Mia madre si trasferirà a Starling City entro la fine dell’estate, perciò potrà darmi una mano.»
«Non lo sapevo. Sbaglio o è ancora giovane per andare in pensione?»
«Stava valutando l’ipotesi della pensione anticipata, ma, nel frattempo, siamo riuscite a convincerla a chiedere il trasferimento alla Starling City University» spiegò Laurel, mettendo un braccio intorno alle spalle della sorella.
«È una bellissima notizia, ragazze. Beh, allora, che ne dici di venire a fare una prova la settimana prossima? Senza impegno, ovviamente» propose Thea a Sara. «Insomma, non che tu abbia bisogno di una prova, visto che hai già lavorato al Verdant. Però, credo sarebbe utile per te, in modo da poter riprendere il ritmo. Perciò, se dovessi avere dei problemi, sentiti libera di non presentarti. Possiamo sempre rimandare.»
Sara sorrise a labbra strette, poggiandole una mano sulla spalla. «Sarebbe grandioso, Thea. Credo che Laurel e mio padre saranno felici di aiutarmi fino a quando mia madre non si sarà trasferita. Non è così?»
Canary fece un cenno alla sorella, la quale rispose con un sorriso a trentadue denti.
«Certo che sì.»
«Perfetto! Allora è deciso» esclamò Thea, abbracciando Sara di slancio. «Sono così contenta di riaverti nel mio staff.»
«E io sono contenta di riavere un lavoro» rise la bionda. «Sai, non è facile vivere con uno stipendio solo e una bambina piccola. E poi, dobbiamo ancora risarcire Laurel per l’appartamento che ci ha comprato.»
L’avvocato alzò gli occhi al cielo. «Te lo avrò ripetuto un milione di volte: non voglio che mi restituiate nemmeno un centesimo. Avevo semplicemente messo da parte dei soldi per iniziare una vita con Tommy, ma poi...»
Laurel fu costretta a lasciare la frase a metà, in quanto fu interrotta dalla vibrazione del cellulare di Thea.
«È Ollie» spiegò la ragazza. «Ci vuole tutti riuniti per le foto di famiglia.»
«Okay, allora diamo una sistemata qui e ti raggiungiamo» disse Sara, indicando il tavolino con lo sguardo.
A quelle parole, Laurel corrugò la fronte, ma attese che Thea si fosse allontanata prima di aprire bocca. «Devo solo riprendermi il bicchiere, mica fare le pulizie di primavera.»
Sara sospirò, per poi incontrare lo sguardo della sorella. «A proposito di quello che hai detto poco fa riguardo a Tommy... è assurdo da parte mia pensare che questo tuo bisogno di combattere i criminali abbia a che fare con lui?»
Laurel deglutì, per poi prendere un respiro profondo. Sua sorella la conosceva molto bene, non poteva negarlo.
«Ti svelo un segreto, sorellina» esordì, prendendo Sara sottobraccio. «Da quando Tommy è morto, ogni decisione importante della mia vita, l’ho presa pensando a lui.»
Sara annuì, per poi iniziare a incamminarsi verso gli sposi insieme alla sorella. «Laurel, io... non riesco neanche a immaginare quanto sia difficile per te.»
«Non devi farlo. Ti basti sapere che il solo pensiero di poter impedire che altre persone vengano uccise mi aiuta ad alleviare il senso di colpa. E per adesso mi basta.»
Sara si bloccò nel bel mezzo del prato, sotto lo sguardo confuso della sorella. Subito dopo, piegò il mignolo nella sua direzione.
«Pace fatta?»
Laurel osservò il dito di Sara per alcuni istanti, dopodiché sorrise. «Pace fatta» disse, lasciando che i loro mignoli si incrociassero.















Non mi sembra vero di essere qui a meno di due mesi dall’ultimo aggiornamento. Wow! Ma, in fondo, è il minimo che possa fare considerando che devo farmi perdonare per tutti i mesi di attesa ^^’’
Far litigare le sorelle Lance non è una cosa che mi piaccia così tanto, ma credo che fosse necessario. Il fatto che Sara faccia incavolare Laurel è un po’ rito di passaggio della serie, perciò ho pensato che sarebbe stato innovativo che questa volta fosse Laurel la ‘pecora nera’ ‒ o canarino nero?
Anyway. Gli ultimi capitoli sono stati meno movimentati rispetto ai precedenti, ma vi prometto che già dal prossimo torneremo ai soliti combattimenti.
See ya in two months! (Hopefully)
P.S. Si sta bene senza Ra’s e i suoi scagnozzi alle calcagna delle nostre bimbe, non è vero? c:

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Capitolo 22
*** Capitolo 21: Back in action ***


 

Capitolo 21:
Back in action

 

 

 

 

Dopo aver riposto gli ultimi pasticcini nella vetrinetta espositiva, Nyssa osservò il proprio operato con un sorriso soddisfatto. Nelle settimane precedenti le era toccato spesso il turno serale; per questo motivo, aveva dimenticato quanto fosse bello iniziare la giornata circondata da tavolini puliti e dall’odore di croissant appena sfornati.
Non appena si fu accertata di non aver dimenticato nulla, Nyssa si diresse verso la porta d’entrata, per poi girare il cartellino appeso al vetro da “chiuso” ad “aperto”. Non c’era ancora nessuno fuori dal bar, perciò era il momento ideale per fare colazione; tuttavia, proprio mentre stava tornando dietro al bancone, la porta si aprì, con il suono del campanello ad annunciare l’arrivo del primo cliente della giornata.
La figlia di Ra’s al Ghul rimase stupita nel constatare che si trattava della sua allieva.
«Laurel?» esclamò, confusa. «Cosa ci fai qui a quest’ora?»
L’avvocato andò a sedersi silenziosamente in uno degli sgabelli del bancone, un sorriso misterioso a contornarle le labbra.
«È successo qualcosa?» proseguì l’Erede, aggrottando la fronte.
Laurel scosse il capo. «No, va tutto bene. Mi sono solo svegliata più presto del solito e ho pensato di passare a salutarti» spiegò, incontrando lo sguardo della sua interlocutrice. «E sono qui anche per un caffè macchiato, ovviamente.»
Nyssa la osservò incerta per alcuni istanti. «Beh, se è solo per questo, te lo faccio subito» affermò, per poi dirigersi verso la macchinetta del caffè.
«Questo, e... volevo anche dirti che io e mia sorella ci siamo chiarite.»
«Lo so. Sara me l’ha detto.» Nyssa mise il coperchio sopra al bicchiere di carta in cui era contenuto il caffè, dopodiché lo porse a Laurel.
«Ecco, mi stavo chiedendo... che ne diresti se proponessimo anche a lei di venire ai nostri allenamenti? È dal giorno del matrimonio di Oliver e Felicity che ci penso.»
A quelle parole, Nyssa arricciò il naso. «Forse è ancora presto, Laurel. Diamole il tempo di digerire la cosa.»
«Sì, forse hai ragione» concesse la maggiore delle sorelle Lance. «Mi sa che mi sto esaltando un po’ troppo» aggiunse, porgendo a Nyssa i soldi del caffè.
«Quanto a Oliver? Dubito che non si sia ancora fatto due domande sull’identità della nuova vigilante.»
«Glielo dirò il prima possibile, promesso. Ora, però, c’è mio padre in cima alla lista» spiegò l’avvocato, con un sospiro. «Temo che possa avere una reazione simile a quella di Sara.»
«Io, invece, credo che sarà molto comprensivo» affermò l’Erede del Demonio, con un sorriso. «Insomma, se ha superato il fatto che tua sorella facesse parte della Lega degli Assassini, credo che ormai possa incassare qualunque colpo.»
«Lo spero. Ha pur sempre problemi di cuore, e non voglio dargli troppe preoccupazioni.»
«Hai ragione. Ma questa è una cosa che non potrai tenerti per te ancora per molto.»
Laurel si strinse nelle spalle, riflettendo sulle parole di Nyssa. Aveva ragione su tutto ‒ o quasi, visto che nessuna delle due poteva prevedere quale sarebbe stata la reazione di Quentin.
Da un lato, Laurel era terrorizzata all’idea di rivelare il suo segreto a così tante persone; dall’altro, non vedeva l’ora di togliersi quel peso. Quello che era certo era che adesso, oltre a Nyssa, c’era anche Sara a sostenerla. E questo bastava a tranquillizzarla almeno un pochino.
«Ora è meglio che vada» disse ad un tratto, alzandosi in piedi. «Grazie del caffè.»
«Se hai novità chiamami.»
Laurel prese a indietreggiare senza mai staccare gli occhi da Nyssa. «Sarà fatto» concluse, per poi voltarsi verso l’uscita.
Quando lo fece, però, complice anche la mancanza di visuale, andò a sbattere contro qualcosa. Inizialmente pensò che si trattasse del vetro della porta, ma poi si rese conto che era una persona.
Josh.
«Oh mio Dio, perdonami!» esclamò l’avvocato, coprendosi la bocca con una mano. «Stavo parlando con Nyssa e mi sono distratta. Non so dove ho la testa in questo periodo. Ti sei fatto male?»
Josh prese a massaggiarsi il naso con l’indice e il medio, ma smise di farlo non appena vide lo sguardo preoccupato di Laurel. «Non è niente. Sono cose che capitano.»
«Sicuro? Perché ho degli amici molto bravi a curare le ferite. Dovresti saperlo bene.»
L’uomo non poté fare a meno di trattenere una risata. «Allora te lo ricordi?»
«Hai sentito la mia voce, ti sei spaventato, e sei caduto a terra davanti ai miei occhi. Come potrei dimenticare una scena simile?»[1]
«Non hai tutti i torti, effettivamente» ammise lui, abbozzando un sorriso.
«Allora... non è suonata la sveglia, questa mattina?»
«Cosa? Oh... no, a dire il vero non sono nemmeno di turno, oggi. È solo che ieri ho dimenticato il cellulare nel retro, così sono venuto a riprenderlo» spiegò Josh, grattandosi distrattamente la testa.
«Capisco. Io invece devo proprio scappare, altrimenti farò tardi al lavoro» concluse la donna, indicando con un cenno del capo l’orologio appeso al muro. «Buona giornata!»
«Ma certo. Anche a te.»
Laurel lo salutò con un mezzo sorriso prima di uscire dal bar. Josh la guardò andarsene, dopodiché raggiunse Nyssa dietro al bancone: stava asciugando una tazza con uno strofinaccio.
«Giornata fiacca, eh?»
«Abbiamo aperto da soli cinque minuti» sottolineò la mora, senza mai staccare lo sguardo dall’oggetto che teneva tra le mani.
«Vero.»
Subito dopo, Nyssa mise la tazza a posto, piegò lo strofinaccio e afferrò un croissant alla crema dall’espositore, pronta a gustarsi finalmente la sua colazione. Josh non le aveva tolto gli occhi di dosso per tutto il tempo, e questo le fece capire che stava per chiederle un favore.
«Risparmiami i convenevoli e vai dritto al punto.»
Dopo un primo momento di esitazione, Josh prese un respiro profondo, pronto a sganciare quella bomba. «Tua cognata... è occupata?»
A quel punto, Nyssa si voltò verso di lui con un sopracciglio inarcato. «Chi? Laurel? E da quando sarebbe mia cognata?» domandò, fingendosi confusa.
«Beh, è come se lo fosse, no?»
Nyssa prese un respiro profondo. Perché ultimamente aveva l’impressione che tutti volessero che lei e Sara convolassero a nozze? Era un segno del destino, forse?
«Comunque, ha perso il suo ragazzo due anni fa nel terremoto» proseguì, ignorando le parole di Josh. «Era una relazione seria.»
«Oh» rispose semplicemente lui.
La donna diede un morso al suo croissant. «Non dirmi che sei interessato a lei.»
E poi, ci hai messo così poco tempo a dimenticarmi?, avrebbe voluto aggiungere, ma non era il caso. Dopotutto, se Josh si fosse trovato una ragazza, per lei sarebbe stata più una liberazione che un dispiacere.
«Non lo so» rispose l’uomo, facendo il vago. «Forse.»
«Sta’ attento, Josh» lo ammonì la mora. «I Lance mordono.»
«Grazie dell’avvertimento, ma non mi farò avanti con una donna fresca di lutto.»
«Saggia decisione.»
Josh uscì dal bancone, per poi dirigersi verso la porta che conduceva sul retro. «Vado a prendere il mio cellulare.»
Poi, convinto che Nyssa non potesse sentirlo, aggiunse sottovoce: «È solo che non riesco a togliermi dalla testa la sua voce.»
Ma Nyssa lo sentì e sorrise sotto ai baffi.



Fin dalla nascita, Lisa Diggle aveva dimostrato di essere una bambina molto vivace. Le piaceva fare la nanna con il suo papà, tirare i capelli della sua mamma e, soprattutto, giocare con la sua amica Kaila.
Fortunatamente per lei, Sara e Lyla si incontravano spesso per permettere alle bambine di stare insieme. Un po’ come quel pomeriggio.
«Ci credi che le nostre figlie tra poco compiranno un anno?»
Sara alzò lo sguardo in direzione di Lyla, rivolgendole un sorriso che lasciava trasparire una lieve nostalgia. «Già. Il tempo è proprio volato.»
Seduta sul tappeto di casa Diggle, Sara prese a guardarsi intorno intenerita: l’appartamento era tempestato di foto di Lisa, e c’erano peluches da tutte le parti.
«Lisa ama i pupazzi» spiegò Lyla, seguendo il suo sguardo.
«Anche Kaila. Ma ora è più interessata a morderli piuttosto che a usarli per giocare.»
«È nella fase dentini?»
Sara annuì, accarezzando la testolina di sua figlia. Kaila era intenta a osservare Lisa mentre cercava di inserire delle formine colorate dentro a un cubo di legno.
«Dopo il matrimonio di Oliver e Felicity, ha avuto la febbre alta per un paio di giorni. Ero preoccupata, ma la pediatra mi ha rassicurata dicendo che, molto probabilmente, stava per uscirle un dentino. E aveva ragione. Spuntano come funghi.»
A quelle parole, Lyla scoppiò a ridere. «È proprio vero. Per adesso, Lisa ne ha solo quattro. In compenso, la settimana scorsa ci ha regalato i suoi primi passi.»
«Davvero? È meraviglioso!»
«Ormai vuole fare tutto da sola, come tenere il cucchiaino della pappa, oppure il biberon. Ovviamente sporca dappertutto, ma sono felice che abbia questa determinazione.»
Sara alzò le spalle con un sorrisino. «Beh, con due genitori come voi, che ti aspettavi?»
«Forse non hai tutti i torti» concesse Lyla, ridendo ancora. «Lisa, perché non fai provare anche Kaila?»
La bimba alzò la testa, scrutando la madre con i suoi grandi occhi marroni. Poi, spostò lo sguardo sulla formina che teneva in mano. Era un triangolo blu. Sembrò pensarci su per qualche istante, e dopo aver rivolto a Kaila un sorrisino, gliela porse.
«Grazie, Lisa» disse Sara, accarezzandole la guancia sinistra con il palmo della mano. «Sei molto gentile.»
«Di solito è gelosa dei suoi giochi, ma con Kaila diventa un’altra bambina» spiegò Lyla, osservando la figlia con uno sguardo affettuoso. «Sai, mi piacerebbe avere un altro figlio, ma John non ne è convinto. Credo voglia aspettare ancora un po’.»
«John è un bravo padre» affermò Canary, «ma le nostre vite sono... molto complicate.» Subito dopo, sospirò. «John lo sa. Per quelli come noi, il futuro è incerto. Possiamo contare solo sul presente. E ora il vostro presente è Lisa.»
«Penso di capire dove vuoi arrivare.» Lyla sospirò a sua volta, passandosi una mano tra i capelli. «In questo momento, la nostra priorità è Lisa. Se non siamo d’accordo entrambi, significa che non è il momento adatto per mettere al mondo un altro figlio. Vorrà dire che aspetterò.»
Sara delineò un mezzo sorriso. «Non c’è fretta.»
Lyla annuì piano, per poi osservare Sara con uno sguardo incuriosito. «E voi, invece? Avete dei progetti?»
La bionda scosse il capo. «Non proprio. Ho sempre pensato che sarebbe stato Oliver a dare un fratello o una sorella a Kaila. Ma, come ho detto poco fa, la vita è incerta. L’unica cosa di cui sono sicura, è che io e Nyssa siamo d’accordo sul nostro futuro. Sarebbe bello avere altri figli, ma siamo pur sempre due ex membri della Lega degli Assassini, perciò... non ci abbiamo mai pensato seriamente. E poi, Kaila ha completato la nostra famiglia. È come se la sua nascita avesse chiuso un cerchio.»
Lyla sorrise sotto ai baffi, visibilmente toccata dalle parole di Sara. «È bello che vi sentiate così» affermò, stringendole la mano. «Sono molto felice per voi, ragazze.»
Sara sorrise a sua volta, arrossendo appena. Anche lei era felice, e sperava con tutto il cuore che quella felicità non le venisse mai portata via.
Un attimo dopo, un rumore attirò la sua attenzione. D’istinto, Sara ritrasse la mano e si voltò di scatto in direzione della porta.
«Va tutto bene?» domandò Lyla, osservando attentamente i lineamenti di Sara. Teneva lo sguardo fisso sulla maniglia.
«Ho sentito dei passi» spiegò la bionda poco dopo, voltandosi nuovamente in direzione di Lyla. «Ma li ho riconosciuti.»
Non appena Sara ebbe pronunciato quelle parole, la porta si aprì di colpo.
«Indovinate un po’ chi ha fatto la spesa?»
John fece il suo ingresso nella stanza con tre buste di carta tra le mani e un sorriso a trentadue denti. Subito dopo, si richiuse la porta alle spalle con un calcio, attirando l’attenzione delle bambine. Quando si rese conto che si trattava di suo padre, Lisa spalancò la bocca dalla felicità e iniziò a gattonare rapidamente verso di lui. Fu in quel momento che l’uomo si rese conto della presenza di due ospiti.
«Oh, Sara! Non sapevo ci foste anche tu e Kaila.»
«A dire il vero, passavamo di qui per caso. Sono andata a prendere un paio di cose in farmacia, e siccome dista pochi isolati da qui, ho pensato di venirvi a trovare» spiegò la donna, avvicinandosi a lui. «Vuoi una mano con la spesa? Credo che Lisa voglia che tu la prenda in braccio» affermò poi, indicando la bambina con lo sguardo. Teneva le manine strette sull’orlo dei jeans di John, e non sembrava intenzionata a lasciar andare la presa.
«Sì, ti ringrazio. Metti pure tutto in cucina.»
Sara obbedì, dileguandosi nella stanza accanto. Nel frattempo, John prese in braccio la figlia, mentre Lyla si mise a giocare insieme a Kaila e alle formine che avevano intrattenuto le bambine per tutto il pomeriggio.
La tua mamma è proprio unica, pensò l’agente dell’A.R.G.U.S., osservando i capelli biondi di Kaila, identici a quelli di Sara. Chissà a che tipo di addestramento è stata sottoposta...
«Sei proprio carina» disse invece, ricevendo una smorfia da parte della bimba.
«Quando fa così è perché non mi vede nei dintorni da un po’ di tempo» spiegò Sara, tornando in salotto. «Lo fa sempre, ma se poi riconosce i visi delle altre persone presenti, di solito non scoppia nemmeno a piangere.»
«Lisa invece potrebbe venire rapita e non se ne accorgerebbe nessuno» dichiarò John, dando un bacio sul capo alla figlia. «Ormai è già un’adolescente che odia passare del tempo con i suoi genitori.»
«Non è del tutto vero. Quando sei tornato, sprizzava gioia da tutti i pori» s’intromise Lyla.
«Certo, però non è nemmeno scoppiata a piangere quando sono uscito di casa. Diciamo che, anche se sente la nostra mancanza, si adatta facilmente.»
«Il mio scricciolo invece preferisce strare con la sua mamma. Non è vero, amore?» rise Sara, prendendo la figlia in braccio.
«Non sarebbe neanche poi così strano. Dopotutto, sei la persona che passa più tempo insieme a lei» affermò Lyla, dando a Kaila un buffetto sulla guancia.
«Giusto. Ma forse mi cerca solo perché sa che sono l’unica che può darle ancora un po’ di latte» esclamò Sara, scoppiando a ridere subito dopo.
«Beh, sicuramente è un punto a tuo favore» confermò Dig, abbozzando un sorriso. «Quindi, prende ancora volentieri il latte materno?»
«Sì, altroché. Non è molto, ma lo vuole ancora» spiegò Canary, dando una rapida occhiata allo schermo del cellulare. «Ora che mi ci fai pensare, è quasi ora di cena per lei.»
«Perché non vi fermate qui da noi? Così, dopo la pappa, le bambine potranno giocare ancora un po’» propose Lyla. «Che ne dici, Johnny?»
«Dico che sarebbe un’idea grandiosa» replicò lui.
«Vi ringrazio, ragazzi. È stata una giornata piacevole, ma Nyssa ha finito il turno poco fa e le ho chiesto di passare a prendermi. Ormai dovrebbe arrivare a momenti.»
A quelle parole, John sorrise a labbra strette. «Alla fine, sei riuscita a convincerla a iscriversi a scuola guida?»
Sara scosse il capo con un’espressione divertita. «Purtroppo no, ma Felicity mi ha assicurato che la sua patente è vera.»
«Quindi, o ti ha mentito, oppure a Nanda Parbat avete degli amici potenti» rifletté l’uomo a voce alta.
«Punterei sulla seconda» concluse la bionda, avviandosi verso la porta.
Tuttavia, prima che potesse compiere un altro passo, il suo cellulare e quello di John presero a squillare nello stesso momento. Il che poteva voler dire soltanto una cosa.
«Felicity» sussurrò Sara, prima ancora di aver letto il messaggio.
«Che succede?» domandò Lyla, confusa.
Diggle lesse rapidamente il messaggio, dopodiché si rivolse alla moglie. «L’altro giorno, il capitano Lance ci ha messi al corrente del fatto che, da alcune settimane, in città sta circolando una nuova droga. La polizia ritiene che sia addirittura più potente della Vertigo.»
«Si chiama “Labyrinth” e, come suggerisce il nome, le persone che la assumono cadono in stato confusionale e sono convinte di essere rinchiuse in un labirinto o in una stanza priva di vie d’uscita. Finiscono per impazzire nell’arco di mezz’ora, e la maggior parte di loro, alla fine, non riesce a sopportare il peso delle allucinazioni e compie il gesto estremo» continuò Sara. «Mio padre ha chiesto a Felicity di aiutare la polizia a scoprire dove viene prodotta questa droga.»
«E l’ha trovato. Il loro nascondiglio è in un appartamento abbandonato» concluse Diggle per lei. «Oliver è già sul posto, ma non ha idea di quante persone dovrà affrontare. Perciò, Felicity ci ha inviato le coordinate per andare ad aiutarlo.»
«Va’, Johnny» lo esortò Lyla, togliendogli Lisa dalle braccia. «Hanno bisogno di te.»
L’uomo non se lo fece ripetere due volte; diede un bacio a Lisa e Lyla, salutò Sara con un cenno del capo e uscì di corsa dall’appartamento.
«Tu non vai con lui?»
Canary scosse il capo. «Non sono ancora tornata sul campo, in realtà» rivelò, trattenendo un sospiro. «Ho ricevuto il messaggio anche io perché Felicity ha insistito affinché creassimo un gruppo, così che, in caso di necessità, potessimo avvisare il resto del Team in un attimo.»
«Capisco. Allora, vuoi aspettarli qui? O preferisci che ti riaccompagni a casa?»
Sara esitò per un istante, dopodiché spostò lo sguardo su Kaila.
«A dire il vero, se potessi darmi un passaggio fino al Covo, te ne sarei molto grata.»



Quando Sara giunse davanti alla porta che conduceva alla ex fonderia, si rese conto che qualcuno era arrivato prima di lei. E quel qualcuno stava già inserendo il codice per aprirla.
«Dig?» esclamò la donna, stupita. «Cosa ci fai qui? Non dovevi andare ad aiutare Oliver?»
John si voltò, incontrando lo sguardo confuso di Sara. «È quello che stavo per fare, ma Felicity mi ha richiamato per dirmi che Roy era stato il primo ad arrivare, e che ormai avevano già messo al tappeto tutti quanti. Non aveva senso recarmi là, perciò mi ha chiesto di venire al Covo.»
«Ha fatto lo stesso con me.»
Sara si voltò, ritrovandosi a pochi passi da Nyssa. Quest’ultima la abbracciò, per poi dedicarle uno sguardo preoccupato.
«Dov’è Kaila?» domandò la figlia di Ra’s, prendendole il viso tra le mani.
«Con Lyla» la rassicurò Sara. «Mi ha accompagnata fino a qui, ma le ho detto di tornare a casa con le bambine.»
A quelle parole, l’Erede si rilassò. «Capisco. Stavo venendo a prenderti quando ho ricevuto il messaggio di Felicity, perciò ho fatto dietrofront.»
«Lo immaginavo.»
Subito dopo, Sara si accorse che dietro a Nyssa c’era un’altra figura che era rimasta in silenzio fino a quel momento.
Laurel.
«Beh, direi che ci siamo tutti» sentenziò John, spalancando la porta. «Forza, andiamo di sotto a fare il punto della situazione.»
Le tre donne lo seguirono in silenzio lungo la scala di metallo. Lungo il tragitto, Sara osservò la sorella con la coda nell’occhio. Qualcosa la turbava, poteva sentirlo. Ma non era né il luogo, né il momento adatto per fare domande.
Una volta giunti al piano sotterraneo, John, Nyssa, Sara e Laurel furono molto sorpresi di trovare Oliver e Roy in piedi di fianco a Felicity.
«Come, siete già di ritorno?» domandò Diggle, avvicinandosi a loro di qualche passo.
«È stata una missione più facile del previsto» dichiarò Oliver, dando ad Arsenal una pacca sulla spalla. «L’aiuto di Roy è stato prezioso, ma non si trattava di uomini particolarmente pericolosi. Penso che fossero delle semplici pedine.»
«A che ti riferisci?» chiese Nyssa, incrociando le braccia.
«Sembrerebbe che gli spacciatori che hanno rivendicato la produzione della Labyrinth abbiano poco più di vent’anni, e, soprattutto, sono senza precedenti» s’intromise Felicity, facendo apparire sugli schermi dei computer le fotografie di due ragazzi. «Dopo avervi contattato, ho subito informato la polizia, e il capitano Lance mi ha aggiornata proprio adesso sulle generalità di questi delinquenti.»
«Vuoi dire che qualcuno potrebbe avere usato dei ragazzini come scudo?» esclamò Laurel, con un’espressione disgustata sul viso.
«Di sicuro, non sono del tutto innocenti» spiegò Roy, poggiando l’arco sopra al tavolo. «Però, dubito che siano stati loro a distribuire la droga in città. Veniva prodotta in un monolocale abbandonato in pieno centro, e quando siamo arrivati abbiamo trovato soltanto loro due. Sono più dell’idea che lavorassero per conto di qualche pezzo grosso che, in qualche modo, è riuscito a convincerli a prendersi interamente la colpa.»
Oliver compì alcuni passi in avanti, fermandosi esattamente al centro della stanza. «Quello che è certo, è che adesso se ne occuperà la polizia. Scusate se vi abbiamo fatto venire qui per niente. Felicity ha delle dita veloci, e prima che avessi il tempo di oppormi, aveva già inviato il messaggio.»
«Siamo un Team, Ollie» affermò Sara, stringendo un braccio intorno alla vita di Nyssa. «E poi, ha fatto bene a chiamarci tutti. Se qualcuno di noi fosse stato al lavoro o non si fosse potuto muovere, ci sarebbero stati gli altri.»
Diggle annuì, trovandosi d’accordo con le parole di Sara. «Giusta osservazione.»
Roy si schiarì leggermente la voce, attirando l’attenzione di Oliver. «Quindi, se non c’è altro da aggiungere, possiamo tornare a casa?»
Prima che Arrow potesse replicare, Laurel fece un passo avanti, attirando l’attenzione dei presenti. «A dire il vero, visto che siamo tutti qui, vorrei approfittarne per parlarvi di una cosa.»
Quando udì quelle parole uscire dalla bocca di Laurel, Sara capì tutto quanto. Ecco perché, pochi minuti prima, sua sorella le era sembrata strana. Era arrivato il momento di dire la verità.
Un attimo dopo, Oliver corrugò la fronte, ruotando appena la testa di lato. «Va bene. Ti ascoltiamo.»
Laurel prese un respiro profondo, per poi voltarsi in direzione di Sara. Adesso che aveva l’appoggio di sua sorella, si sentiva più forte, ma sapeva che non sarebbe stato comunque facile convincere Oliver a prenderla sul serio. Sara le fece un cenno col capo, come per dirle di riprendere la parola. E Laurel si fece coraggio.
«Vi volevo parlare della nuova vigilante» esordì, iniziando a massaggiarsi nervosamente le mani. «Quella che somiglia a Canary.»
«L’ho vista al notiziario qualche giorno fa» disse Felicity, iniziando a digitare qualcosa sulla tastiera del computer. Subito dopo, mostrò ai presenti una fotografia ritraente la donna. «Sembra una tosta. Ma credo che se si fosse trattato di una tua emulatrice con un doppio fine, ti avrebbe già cercata» aggiunse, rivolgendosi a Sara.
«Personalmente, non credo che dovremmo preoccuparcene» replicò la minore delle sorelle Lance, cercando di mantenere un tono neutro.
«Se non rappresenta una minaccia per il Team, per quel che mi riguarda, può fare ciò che le pare. Purché non ci sia d’intralcio» affermò Oliver, voltandosi verso la moglie.
«Come ho appena detto, dubito che voglia qualcosa da noi» proseguì il tecnico informatico. «So che temi possa avere a che fare con la Lega degli Assassini, ma non devi dimenticare che quello che facciamo è importante. Ed è naturale che ci siano degli emulatori sparsi per la città. Sapevamo che sarebbe successo, prima o poi.»
«Felicity ha ragione, Oliver» affermò John, incrociando le braccia. «Non deve per forza volere qualcosa da Sara. O da noi. Può darsi che si tratti‒»
«Sono io l’emulatrice» disse ad un tratto Laurel. «Sono io la donna della foto» aggiunse, come se il concetto non fosse abbastanza chiaro.
Per Laurel, il silenzio che seguì fu una riposta forte e chiara. Tutti, a parte Nyssa e Sara, la fissavano scioccati. E confusi.
Improvvisamente, iniziarono a tremarle le gambe. Aveva immaginato che sarebbe stato difficile ottenere l’approvazione dei suoi compagni di squadra, ma non credeva che sarebbe andata a finire così. Oliver aveva la bocca semiaperta, mentre Diggle teneva le mani davanti al naso. Roy e Felicity, invece, si guardavano con uno sguardo sconvolto.
«Tu?» chiese Oliver, la voce ridotta a un sussurro. «Ti prego, dimmi che non fai sul serio.»
«Sono serissima» proseguì l’avvocato, serrando appena i pugni. Stava riguadagnando un po’ di forza, ma si sentiva comunque piccola e indifesa, come una formica.
Lui annuì piano, chiudendo gli occhi per un paio di secondi. Quando li riaprì, si lasciò andare a un pesante sospiro.
«Chi ti ha addestrato?»
Laurel attese alcuni istanti prima di rispondere, ma prima che potesse dire una parola, Nyssa si fece avanti.
«Sono stata io.»
Oliver socchiuse le palpebre a due fessure, osservando la sua interlocutrice con uno sguardo visibilmente ferito.
«E avete fatto tutto questo alle mie spalle? Alle nostre spalle?» Oliver si prese la testa fra le mani, portando le labbra verso l’interno. Poi, rilassò lentamente le braccia, pensando alle parole giuste da dire. «Non fingerò di non sapere perché tu l’abbia fatto, Laurel. Quello che invece non capisco, è come tu abbia potuto fare una cosa del genere senza prima‒»
«Discuterne con te?» proseguì Nyssa, con aria di sfida. «Era questo che volevi dire?»
Oliver si morse la lingua. Se avesse risposto affermativamente, nessuno sarebbe stato dalla sua parte. In fondo, anche lui era consapevole che Laurel era una donna adulta, libera di prendere le sue decisioni da sola. Quello che non poteva sopportare, era l’idea che le persone che amava potessero essere messe in pericolo.
Su questo, lui e Sara erano molto simili.
«Se può farti stare meglio, anche io ne ero all’oscuro fino a pochi giorni fa.»
Arrow si voltò in direzione di Sara. Aveva sperato fino all’ultimo che almeno lei non fosse coinvolta, ma era comunque ovvio che avrebbe preso le difese di sua sorella e della sua ragazza.
«Non è una questione di chi lo sia venuto a sapere prima» spiegò Oliver, cercando di mantenere un tono di voce calmo. «Si tratta di mettere a rischio la propria vita e quella di chi ci sta intorno. E con tutto quello che abbiamo passato nell’ultimo anno, mi ferisce sapere che proprio tu le abbia dato corda» concluse, puntando il dito in direzione di Nyssa.
«Ehi» esclamò Canary, frapponendosi tra Oliver e Nyssa. «Nemmeno io ne ero contenta, all’inizio. Ma poi Laurel mi ha fatto capire che è stata una sua scelta al cento per cento. E l’ho accettato.» Come feci io a mio tempo, pensò. «E se Nyssa ha acconsentito ad addestrarla, l’ha fatto solo per proteggerla. Se avesse rifiutato, credi che Laurel si sarebbe arresa tanto facilmente? Sai anche tu che non è così, Ollie. E sai anche che è stato molto più sicuro avere Nyssa al suo fianco, piuttosto che uno sconosciuto.»
Oliver non poté replicare in alcun modo. Sapeva che Sara aveva ragione, ma sapeva anche che le loro vite erano molto pericolose. E lui voleva bene a Laurel, perciò il pensiero di vederla nei panni di vigilante non gli piaceva neanche un po’.
«Gli ultimi due anni sono stati molto difficili, per me. Tu lo sai meglio di chiunque altro.»
La voce di Laurel si propagò all’interno del nascondiglio, attirando nuovamente l’attenzione dei presenti.
Oliver inspirò profondamente. Sapeva già dove sarebbe andata a parare.
«La morte di Tommy. Il ritorno di Sara. L’alcolismo. I rapimenti. Tutto questo mi ha segnata, Oliver. E se non fosse stato per Nyssa, probabilmente dopo essere stata aggredita per l’ennesima volta avrei ricominciato a bere. Invece, lei mi ha insegnato a usare le mie debolezze e la mia rabbia per diventare più forte.»
Laurel espirò, iniziando a sentirsi sempre più leggera. Ma c’era ancora una cosa che sentiva il bisogno di dire.
«Abbiamo già discusso una volta riguardo al mio ruolo nel Team, ma non voglio litigare di nuovo con te. Voglio solo che tu capisca che sono una donna adulta, Oliver. Questo significa che non ho bisogno della tua approvazione. Ma, nonostante tutto... la voglio. Perché in questo momento della mia vita, averti dalla mia parte è la cosa più importante.»
Arrow rimase in silenzio per diversi istanti. Poi, compì un gesto che scatenò lo stupore di tutti. Strinse Laurel in un abbraccio, e fu talmente improvviso che persino l’avvocato ne rimase sorpresa.
«Non mi serviva un abbraccio.» Nonostante le lacrime le stessero facendo pizzicare gli occhi, Laurel cercò di fare la dura.
«Invece sì» replicò lui, sciogliendo la stretta. «Avevi bisogno di un abbraccio. Avrei dovuto dartelo molto tempo fa.»
«Vale anche per noi» s’intromise Felicity, alzandosi dalla sua postazione. «Ti vogliamo bene, Laurel. E ti supportiamo.»
«Siamo dalla tua parte» proseguì John, rivolgendole un sorriso.
A quel punto, Laurel non riuscì più a trattenersi: scoppiò a piangere come una fontana, riuscendo a trattenere a stento i singhiozzi, mentre un sorriso faceva capolino sul suo viso.
«Grazie, ragazzi. Siete gli amici migliori che potessi desiderare.»
«Siamo una squadra, giusto? E poi, due mani in più fanno sempre comodo» aggiunse Roy. «A questo proposito, credo che anche Thea sarebbe elettrizzata all’idea di entrare a far parte del Team.»
Oliver abbozzò una risata, per poi farsi subito serio. «Non ci pensare neanche. Sto già facendo un enorme sforzo in questo momento, figuriamoci permettere a mia sorella di combattere insieme a noi» proseguì l’uomo. «E poi, se andiamo avanti di questo passo, tra poco non avremo più spazio per mettere dei nuovi costumi nelle teche.»
«Effettivamente, questo posto è diventato parecchio affollato nell’ultimo anno» esclamò Felicity, avvolgendo un braccio intorno alle spalle di Sara.
«Aspetta un momento» disse Laurel, riflettendo sulle parole pronunciate da Oliver. «Questo significa che mi lascerai venire in missione con voi?»
L’uomo annuì piano. «Ma sarai la nostra ultima risorsa. Questo significa che potrai venire con noi solo quando avremo bisogno di rinforzi. Altrimenti, resterai in panchina» spiegò lui. «Intesi?»
Laurel sorrise a labbra strette, ma dentro di lei si sentiva come se le stessero esplodendo dei fuochi d’artificio nel petto. «Intesi.»
Oliver ricambiò il sorriso, per poi rivolgersi all’Erede del Demonio. «Dopotutto, se ti ha addestrata Nyssa, non può che aver fatto un buon lavoro.»
La mora non si scompose; osservò in silenzio il vigilante avvicinarsi a lei e allungare il braccio destro nella sua direzione.
«Siamo a posto?»
Nyssa espirò, osservando la mano di Oliver per alcuni istanti. Poteva sentire lo sguardo supplichevole di Sara fisso su di lei, perciò fece la cosa più ovvia.
«A posto» disse, ricambiando la stretta.
«Aspettate, cosa diremo al capitano Lance?» domandò ad un tratto Felicity. «Insomma, lui conosce l’identità di ognuno di noi, perciò immagino si insospettirebbe se non gli dicessimo chi è la nostra nuova aiutante.»
«Pensavamo di dirglielo non appena se ne fosse presentata l’occasione» spiegò Sara, voltandosi in direzione della sorella. Quest’ultima intercettò il suo sguardo preoccupato e le dedicò un mezzo sorriso.
«Tranquilla. L’ho già detto io a papà.»
Sara la osservò confusa. «E che cosa ha detto?»
Laurel si strinse nelle spalle, assumendo un’espressione compiaciuta. «Che ero in gamba già prima.»

*

«Okay, i pannolini ci sono. I suoi giochi preferiti, anche. Invece qui ci sono un paio di body di ricambio, il biberon e il latte. Non dovrei aver dimenticato nulla.»
«Sara, sta’ tranquilla. Anche se mancasse qualcosa, a due passi da qui c’è un minimarket dove si trova di tutto.»
«Hai ragione. Non ci avevo pensato.»
Sara passò a Quentin la borsa con tutto l’occorrente per trascorrere la notte insieme a Kaila. Subito dopo, la bambina si accoccolò sulla spalla di Sara, la quale prese a cullarla dolcemente.
«Ha già sonno?» domandò Quentin, poggiando il borsone sul divano.
Sara scosse il capo con un sorrisino. «No. Ha capito che sto per andarmene e vuole le coccole.»
Kaila strinse le manine attorno alle punte dei capelli della sua mamma, per poi chiudere gli occhi. Sara prese a canticchiarle una canzoncina che Quentin non conosceva, ma vedere sua figlia comportarsi in quel modo gli faceva sciogliere il cuore.
Era bellissima, e la maternità l’aveva resa ancora più bella. Il legame che avevano lei e Kaila era intenso. Non aveva mai visto una complicità simile tra un genitore e un figlio prima d’ora, nemmeno con Dinah e le loro figlie.
A volte, Quentin dimenticava che Sara era stata lontana da casa per anni, costretta a uccidere per conto di un’organizzazione di assassini. A volte, era come se fosse nata semplicemente per quello: essere madre. Ed era indubbiamente una delle cose che sapeva fare meglio.
«Va tutto bene?»
Quentin sbatté le palpebre un paio di volte, tornando alla realtà. «Sì, stavo solo pensando a una cosa» spiegò, strofinando le mani davanti a sé. «Allora... agitata per il primo giorno di lavoro?»
«Un po’. Ma, in realtà, non dovrei nemmeno esserlo. Insomma, ho già lavorato al Verdant, e prima ancora all’Oblivion. È come se il destino mi stesse dicendo che devo fare la barista.»
«Non è vero» replicò Quentin, mettendole una mano sulla guancia. «Tu puoi essere ciò che vuoi, bambina mia. Hai ancora tutta la vita davanti.»
Sara spostò lo sguardo su Kaila, che la osservava attentamente con i suoi occhi cerulei. Non appena si accorse che anche sua madre la stava guardando, Kaila sorrise, lasciando intravedere i due dentini centrali superiori. E Sara non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
«Ho già tutto quello che voglio.»
Quentin annuì, come se la risposta fosse ovvia. Anche lui non avrebbe potuto desiderare di più.
«Beh, tesoro mio, è arrivato il momento di andare dal nonno» disse ad un tratto Sara, porgendo la bimba a Quentin. «Sono sicura che vi divertirete un mondo.»
«Ci puoi scommettere. A meno che tua figlia non decida di fare la popò non appena uscirai da quella porta.»
La bionda accennò una risata. «Probabile. Questa marmocchia è imprevedibile» scherzò, accarezzandole dolcemente i capelli. «Comunque, non eri costretto a tenerla per tutta la notte. Nyssa uscirà dal lavoro tra qualche ora. Se cambi idea, sei sempre in tempo per dirle di venire a riprenderla.»
«Scherzi? Mi fa molto piacere passare un po’ di tempo con la mia nipotina. E poi, domani mi sono preso la giornata libera, così potrete dormire tranquille e venirla a riprendere all’orario che è più comodo per voi.»
«Papà» lo schernì lei. «Promettimi che, se dovesse essere troppo stancante, chiamerai Laurel per farti aiutare. O Nyssa.»
Quentin sospirò, per poi portarsi una mano sul cuore. «E va bene, lo prometto. Ma non devi preoccuparti per me, tesoro. Sto alla grande. Ora è meglio che tu vada, altrimenti tarderai al tuo primo giorno.»
«Non sarebbe la prima volta» esclamò la bionda. Subito dopo, diede un bacio a Kaila e si diresse verso la porta d’uscita.
Non appena le sue dita entrarono a contatto con la maniglia fredda, però, si bloccò. Rimase in quella posizione per alcuni istanti, dopodiché, prese un respiro profondo e si voltò.
«Scusa se non ti ho detto di Laurel.»
A quelle parole, Quentin delineò un mezzo sorriso. «Non devi scusarti, tesoro. Laurel mi ha spiegato tutto per filo e per segno.»
«Quindi, ti ha detto anche che abbiamo litigato?»
L’uomo annuì. «Sì, e sono contento che vi siate chiarite. Ma sono ancora più contento del fatto che tu l’abbia messa in guardia. Io non ho avuto il coraggio di farlo.»
«Non è servito a nulla, però. È testarda, lo sai bene.»
«È una Lance» sottolineò Quentin. «E poi, sapendo che Nyssa le copre le spalle, sono più tranquillo.»
«Anche io» affermò Sara. «Sarà meglio che scappi.»
«Direi proprio di sì» esclamò lui, lasciandole un bacio sulla guancia. «Buona fortuna, bambina mia.»
Sara avrebbe voluto dirgli che non era più una bambina, ma guardando Kaila, capì che sarebbe stata una bugia.



«Eccovi qui, finalmente.»
Felicity pronunciò quelle parole proprio mentre Oliver, Roy e Diggle stavano scendendo la scala di metallo in fila indiana. Non appena i tre uomini furono a pochi passi da lei, si scambiarono delle strane occhiate che fecero insospettire il tecnico informatico.
«Non è un caso che siate arrivati nello stesso momento. Perché ho la sensazione che mi stiate tenendo nascosto qualcosa?» proseguì la donna, riducendo le palpebre a due fessure.
«Non siamo passati dal Big Belly Burger senza dirtelo, se è questo che intendi» replicò Roy, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Felicity.
Subito dopo, però, la bionda si rivolse direttamente ad Arrow, scatenando su di lui tutta la sua frustrazione.
«Oliver! Perché non me lo hai detto? Sai quanto ami i loro hamburger.»
«È stata una decisione dell’ultimo minuto. Anzi, a dire il vero, Dig e Roy sono passati alla Queen Consolidated e mi hanno praticamente costretto a salire in macchina» si giustificò l’uomo, alzando le mani.
«Posso confermare» s’intromise John, con un sorrisetto sulle labbra.
«Beh, almeno potevate portarmi qualcosa. Che ne so, delle patatine fritte» protestò Felicity, fingendosi arrabbiata.
«A dire il vero, ci avevamo pensato, ma siamo scappati non appena abbiamo ricevuto il tuo messaggio» proseguì Oliver, avvicinandosi ulteriormente a lei.
«Oh, giusto. Ma dove ho la testa?»
Felicity ruotò la sedia di scatto, per poi battere velocemente le dita sulla tastiera alla ricerca di qualcosa.
Oliver si posizionò di fianco a lei, poggiando una mano sullo schienale della sua sedia. «Questo significa che sono perdonato?»
«Solo per questa volta» rispose la donna, senza distogliere lo sguardo dai computer. «Ecco qui.»
Un attimo dopo, sugli schermi comparvero le foto di tre uomini e una donna.
«Chi sono queste persone?» domandò Roy.
«John Cohen. Luke Piler. Grant Edwards. E Maya Wang. Un docente universitario, un miliardario, un consigliere comunale e un avvocato. Sono tutti scomparsi nelle ultime quarantotto ore» spiegò Felicity, voltandosi verso Arsenal.
«E la polizia pensa che ci sia un collegamento?» chiese John.
«Non lo pensano. Ne sono più che certi» proseguì la donna. «Quando si sono resi conto che non c’era niente che potesse collegare queste persone tra di loro, hanno nuovamente interrogato i familiari, e indovinate un po’? La moglie di Edwards ha rivelato loro di aver trovato uno strano pacchetto nella cassetta delle lettere.»
Roy corrugò la fronte. «E che cosa conteneva?»
Felicity prese un respiro profondo prima di rispondere. «La Labyrinth.»
Diggle assunse un’espressione confusa. «La droga?»
Il tecnico informatico annuì, suscitando ulteriore confusione nei tre uomini.
«E che cosa c’entra con Edwards? O con le altre persone scomparse?» proseguì Roy.
«Dopo la testimonianza della moglie, la polizia ha deciso di indagare più a fondo. Anche la figlia di Cohen ha affermato di aver trovato della droga sopra allo zerbino, ma, pensando che si trattasse di un brutto scherzo, l’ha gettata via. Hanno controllato anche a casa di Piler e della signorina Wang, che vive da sola. E hanno trovato altra Labyrinth.»
«Non può essere un caso. Chi li ha rapiti deve averla lasciata lì per un motivo.»
L’intromissione di quella quinta voce attirò l’attenzione dei presenti.
«E tu quando sei arrivata?» domandò Felicity, ruotando appena la testa di lato.
Nyssa, in piedi dietro di loro, incrociò meccanicamente le braccia. «Sono qui da un po’, a dire il vero.»
«Non ti abbiamo sentita arrivare» commentò Roy. «Hai delle piume al posto dei piedi?»
«Sono cresciuta nella Lega degli Assassini» replicò lei. «Ti servono altre spiegazioni?»
Arsenal si grattò distrattamente la testa. «Giusta osservazione.»
«Okay, quindi...» riprese a dire Oliver. «Abbiamo qualche indizio su chi possa averli rapiti? E, soprattutto, perché?»
«Negativo. La polizia sta indagando, ma non hanno idea di chi‒»
Felicity fu costretta a bloccarsi a causa della suoneria del suo cellulare. Quando lesse il nome della persona che la stava chiamando, inarcò le sopracciglia. «Capitano Lance, la metto in vivavoce.»
«Sintonizzatevi su un canale qualsiasi, purché ci sia un notiziario. Adesso.»
Quentin parlava a voce bassa, ma era chiaro che qualcosa l’aveva scosso. Felicity si affrettò ad obbedire.
L’immagine che occupò lo schermo subito dopo le provocò un brivido lungo la schiena. C’erano quattro persone imbavagliate e legate a delle sedie in una stanza semibuia, illuminata semplicemente da una lampadina che pendeva dal soffitto. Ai loro piedi, un quantitativo di C-4 che sarebbe stato sufficiente a radere al suolo un intero isolato. Sembrava una scena da film dell’orrore.
«Sono loro» sussurrò Oliver, osservando i loro volti. «Le quattro persone scomparse.»
«Il loro rapitore sta trasmettendo il video in diretta» spiegò Felicity, un velo di speranza negli occhi. «Non dovrei metterci molto a rintracciarlo. Datemi solo qualche minuto.»



Per essere un giovedì sera, il Verdant era più pieno di quanto ricordasse. O forse, semplicemente, Sara non era più abituata a stare in mezzo a così tante persone. Si trattava perlopiù di ragazzi giovani, di età media sui venticinque anni, divisi tra la pista da ballo e il bancone, dove la nuova barista stava facendo del suo meglio per stare al passo con gli ordini.
Nonostante fosse fuori allenamento, Sara era ancora brava a preparare cocktail. Sapeva che Thea l’avrebbe assunta in ogni caso, ma voleva comunque fare del suo meglio per soddisfare i clienti. E ci stava riuscendo alla grande.
Dopo aver preparato quello che probabilmente era il centesimo drink della serata, la bionda approfittò di un momento di tranquillità per riprendere fiato. Fu in quel momento che si rese conto di quanto fosse bello poter staccare la spina da tutti i problemi. Kaila le mancava un sacco, ma sapeva che era in buone mani. Nyssa stava probabilmente rientrando a casa in quel momento, si sarebbe fatta una doccia e sarebbe andata a dormire. E, soprattutto, non c’era nessun mercenario dietro l’angolo pronto ad ucciderle.
Quando Sara rialzò lo sguardo, il suo cellulare emise una vibrazione. Era la terza nel giro di mezz’ora, ma non aveva avuto un attimo di respiro fino a quel momento, perciò non era ancora riuscita a controllare. Approfittando di un’altra manciata di secondi senza potenziali clienti nei paraggi, estrasse il telefono dalla tasca posteriore dei jeans e iniziò a leggere i messaggi ricevuti.
Il primo era di suo padre, il quale la informava che Kaila si era addormentata serenamente. Il secondo e il terzo, invece, erano di Felicity.
«Però, i miei clienti ti hanno dato un gran da fare, non è così?»
Quando Sara alzò lo sguardo, si ritrovò faccia a faccia con Thea. Inizialmente, non rispose; poi, dopo un attimo di scombussolamento, fece un sorriso forzato.
«Sì. Sono... molto numerosi.»
Sara si portò una mano sulla fronte sudata. Socchiuse gli occhi, riflettendo attentamente sul contenuto dei messaggi ricevuti da Felicity.
«Ti senti bene?» domandò Thea, aggrottando le sopracciglia. «Non hai una bella cera.»
«In effetti, mi gira un po’ la testa.»
«Siediti un po’» propose la ragazza, mettendole una mano sulla spalla. «Probabilmente, il caldo e la musica alta non sono d’aiuto.»
«Sto bene» rispose Sara, poggiando la propria mano su quella di Thea. «Ho solo ricevuto un messaggio da...»
Prima ancora che Sara potesse concludere la frase, Thea annuì. «Ho capito.» Si avvicinò ulteriormente alla bionda, per poi sussurrare: «C’è anche Roy?»
«Non lo so. Immagino di sì. Felicity ha inviato a tutti gli stessi messaggi.»
Thea rimase in silenzio per alcuni istanti, dopodiché, annuì ancora. «Va’.»
«Come dici?»
«Vai di sotto a vedere cosa sta succedendo.»
Sara le dedicò un’espressione stupita e, al tempo stesso, confusa. «Ma, la mia prova...»
«Sei già assunta» la rassicurò la ragazza, abbozzando un sorriso. «Ma, in questo momento, la città ha più bisogno di te di quanto ne abbia il Verdant. Sono sicura che i clienti sopravvivranno con una barista in meno. Anche se si tratta della migliore.»
A quelle parole, Sara non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
«Grazie» sussurrò, stringendo Thea in un abbraccio.
«A te» rispose lei, riservandole uno sguardo fiero. «Dì solo a Roy che se torna di nuovo a casa con un occhio nero, la prossima volta sarò io a sostituirlo.»



Sara si diresse verso la porta che conduceva all’Arrow Cave più in fretta che poté, dopodiché scese le scale di corsa, con il cuore che batteva a mille. Quando giunse al piano sotterraneo, la prima persona che vide fu Nyssa, in piedi di fronte all’armadietto delle armi. Poiché non si aspettava di vederla, Sara si bloccò sull’ultimo gradino, stupita; ma non appena la figlia di Ra’s incontrò il suo sguardo, si gettò tra le sue braccia senza pensarci due volte.
«Ho letto i messaggi soltanto adesso» sussurrò Sara, col viso nascosto tra i capelli scuri della sua amata.
«Non dovevi venire. Era una serata importante per te.»
«È stata Thea a darmi il via libera» spiegò, ritraendosi. Nyssa le dedicò uno sguardo dispiaciuto, per poi accarezzarle dolcemente una guancia.
«Siete riusciti a rintracciare quel pazzo?»
«Non ancora. Ma Felicity è sulla strada giusta» rispose una voce maschile.
Sara si voltò in direzione di Oliver, intento a riporre le frecce nella faretra. Aveva già indosso il costume di Arrow.
«Sarà meglio che inizi a cambiarti anche tu, Nyssa. Potremmo dover entrare in azione da un momento all’altro.»
«Oh-oh...»
«Che succede?» domandò Oliver, avvicinandosi rapidamente a Felicity. «Ci sei riuscita?»
«Non esattamente» rispose lei, con uno sguardo preoccupato. «Credo che il rapitore abbia capito che stavo cercando di violare il suo firewall, e ora sta tentando di mettersi in contatto con noi.»
L’uomo sospirò sommessamente, ma prima che potesse aggiungere altro, Nyssa lo anticipò.
«Quante possibilità ci sono che si tratti di una trappola per rintracciarci?»
Oliver le rivolse un’occhiata confusa, ma non osò interromperla.
Il tecnico informatico inarcò un sopracciglio. «A che ti riferisci?»
«Non ha chiesto un riscatto, ma nonostante ciò, non ha ancora ucciso le persone che ha rapito. Non vi sembra un po’ sospetto?»
«Credi che volesse semplicemente attirare l’attenzione su di sé?» azzardò Diggle.
«No. Credo che volesse attirare l’attenzione di una persona in particolare.» L’Erede si voltò in direzione di Oliver, incontrando il suo sguardo. «La tua.»
Arrow rimase in silenzio per alcuni istanti, per poi poggiare una mano sulla spalla di Felicity.
«Lascialo fare.»
«Ne sei sicuro?»
«Se quello che dice Nyssa è vero, e quest’uomo sta cercando me, allora credo non ci sia altro modo per rintracciarlo se non quello di parlare direttamente con lui.»
«Come facciamo a essere certi che stia cercando di farsi notare proprio da Arrow?» sottolineò Roy.
«O vuole Arrow, oppure la polizia. Altrimenti, non mi spiego perché mai rischierebbe di esporsi così tanto solo per parlare con chi sta cercando di trovarlo.»
«Nyssa ha ragione. Sa chi siamo.» Felicity sospirò pesantemente. «Posso modificare le nostre voci, come sempre, e...»
La voce di Oliver la interruppe. «Pensi di riuscire a rintracciare il segnale mentre parleremo con lui?»
La bionda sospirò ancora. «A questo punto, non ne sono più sicura. Ma farò il possibile.»
Dopo aver digitato una serie di codici, Felicity si voltò un’ultima volta in direzione del marito.
«Quando vuoi, Oliver.»
L’uomo prese un respiro profondo, per poi annuire. «Sono pronto.»
A quelle parole, Felicity premette un tasto; rimase con il fiato sospeso per un tempo che le parve interminabile. In verità, non ci volle molto prima che una voce sconosciuta catturasse la loro attenzione.
«Finalmente. Ormai avevo perso le speranze.»
Nyssa e Sara si scambiarono un’occhiata complice. La teoria dell’Erede era corretta: quell’uomo voleva farsi trovare.
«Con chi sto parlando?»
«Era da tanto che aspettavo questo momento» proseguì l’uomo, ignorando la domanda di Oliver. «Che tu ci creda o no, non sono un tuo nemico. Al contrario; siamo dalla stessa parte.»
«Ne dubito. Io non me la prendo con gli innocenti» puntualizzò Arrow.
«Innocenti? Credi davvero che queste persone siano innocenti? No... sono come tutti gli altri criminali che hai catturato o torturato in passato.»
Oliver fece una smorfia di dissenso. Subito dopo, Felicity gli fece un gesto con la mano per incitarlo a proseguire la conversazione.
«E quale crimine avrebbero commesso per meritare di essere legati e imbavagliati ad una sedia, per di più in una stanza piena di esplosivi?»
In tutta risposta, l’uomo scoppiò a ridere. «Ogni cosa a suo tempo, caro il mio Giustiziere. Prima, permettimi di presentarmi.» Dopo essersi schiarito la voce, aggiunse: «Sai, all’inizio non lo ritenevo un dettaglio importante, ma, dopo averci riflettuto a lungo, ho scelto un nome in codice che mi consente di essere facilmente associato a te.»
«Sarebbe?»
«Bow. Perché una freccia non può funzionare bene senza un arco, giusto?»
«Sbagliato. Le frecce possono essere scagliate anche con una balestra, ma a dirla tutta, hanno una propria efficacia anche da sole.»
Non appena Oliver ebbe pronunciato quelle parole, Felicity gli dedicò un’occhiataccia, per poi mimare con le labbra la parola “assecondalo”.
«Mi ferisce sapere che la pensi così. Ma spero che dopo la mia proposta cambierai idea.»
«Proposta? Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Se non l’avessi ancora capito, è solamente grazie a te se io esisto. In questi anni, senza nemmeno saperlo,  tu mi hai ispirato. E adesso, l’unica cosa che voglio è fornirti il mio aiuto. Sempre che tu sia disposto a incontrarmi di persona.»
Oliver prese a massaggiarsi la radice del naso con il pollice e l’indice, trattenendo a stento un sospiro.
«Se libererai quelle persone, verrò ovunque tu voglia.»
«Questo è fuori discussione» sentenziò Bow. «Vediamoci tra mezz’ora sul tetto del Plaza Hotel. Ti spiegherò tutto, e riuscirò a convincerti che queste persone non sono quelle che credi. Ah, un dettaglio importante: vieni da solo, altrimenti li farò saltare in aria.»
«Come faccio a essere certo che non li ucciderai prima del nostro incontro?»
L’uomo attese alcuni istanti prima di rispondere. «Perché sono un uomo di parola.»
La comunicazione si interruppe subito dopo. A quel punto, Felicity si lasciò andare a un sospiro di sollievo.
«Sei riuscita a rintracciarlo?» domandò Oliver, speranzoso.
«Sì, ma non è stato facile. Non sarà un informatico, ma ci sa fare» spiegò la donna, passandosi una mano sulla fronte sudata. «Si tratta di un edificio tra la Ventiquattresima e la Johnson. Il problema è che è abitato.»
Arrow prese un respiro profondo, dopodiché si voltò in direzione del resto della squadra, che aveva assistito all’intera conversazione in silenzio.
«Anche se non possiamo esserne sicuri al cento per cento, è altamente probabile che quest’uomo lavori da solo, ma non sappiamo altro su di lui. Quello che è certo, è che stanotte un palazzo potrebbe saltare in aria, e questo comporterebbe la morte di molte persone. È una situazione estremamente delicata» spiegò, guardando a turno negli occhi tutti i presenti. «Per questo motivo, avrò bisogno di più aiuto possibile. Diggle, Roy, voi due libererete i prigionieri di Bow, li metterete al sicuro, e aspetterete istruzioni da Felicity per disinnescare le bombe.»
«Ma certo. D’altronde, il mio secondo nome è “artificiere”» ironizzò il tecnico informatico.
«Lungo il tragitto, contattate Laurel, spiegatele cos’è successo e ditele di raggiungervi. Lei dovrà pensare a sgomberare il resto dell’edificio. Ci sono solo quattro piani, perciò non dovrebbe impiegarci molto» proseguì Oliver, per poi voltarsi in direzione di Sara e Nyssa. «Voi due, invece, verrete con me.»
A quelle parole, Sara sussultò. «Cosa...? Vuoi che venga anche io?»
«Sì. Ho bisogno che mi copriate le spalle. Resterete nascoste in modo che Bow non vi veda, ma se la situazione dovesse precipitare, interverrete.»
«In più, avrà sicuramente il detonatore con sé» precisò Felicity. «E ha appena interrotto la comunicazione video, perciò non possiamo più vedere cosa sta succedendo alle persone rapite. Dovete fare presto.»
«Andrà tutto bene» la rassicurò Oliver, dando alla moglie un bacio sul capo. «Voi iniziate a incamminarvi, ma assicuratevi che Bow se ne sia andato prima di intervenire» aggiunse, rivolto a John e a Roy. «Sara, Nyssa, andate a cambiarvi. Non abbiamo molto tempo.»
Le due donne annuirono; tuttavia, prima che Sara riuscisse a recuperare il proprio costume, Nyssa le strinse il braccio, costringendola a voltarsi.
«Ne sei sicura?» chiese la mora, guardandola negli occhi.
Sara sapeva benissimo a cosa si riferiva. Erano passati mesi dall’ultima volta in cui aveva preso parte a una missione, ed era fuori allenamento.
Ma Canary non aveva dubbi.
Così, ricambiò lo sguardo dell’amata, per poi delineare un sorriso.
«Mai stata più sicura in vita mia.»










[1] In caso non ve lo ricordiate, nel capitolo 14 Josh è stato ferito, Nyssa l’ha portato nell’Arrowcave dove è stato curato da Oliver; poi, quando si è svegliato, ha sentito la voce di Laurel e ha provato ad alzarsi, ma essendo senza forze è caduto a terra.










Capitolo (in parte) dedicato a Laurel *.* ma questa volta senza litigi <3 :P
Also, vi chiedo scusa se non ho aggiornato prima come avevo previsto – sì, ovviamente è (di nuovo) colpa dell’uni –, ma, hey!, alla fine torno sempre, ed è questo che conta... no? xD
Grazie a chiunque abbia letto e... a presto!

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