[Chronicles of a Broken Land - Gli Inconsistenti]

di Benny Bromuro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - L'alba di nuovi eroi ***
Capitolo 2: *** II - Cani infami ***
Capitolo 3: *** III - Voi Non Sapete Nulla ***
Capitolo 4: *** VI - Noi Saremo Eroi ***
Capitolo 5: *** V - Non La Conosciamo Neppure ***
Capitolo 6: *** VI - Bikers ***



Capitolo 1
*** I - L'alba di nuovi eroi ***


[LA STORIA È SCRITTA CON TRATTI PALESEMENTE PARODISTICI IN RIFERIMENTO AL MONDO FUMETTISTICO E SUPEREROISTICO MARVEL, NON SI VOGLIA QUINDI FRAINTENDERE IL TENTATIVO DI BANALE DIVERTIMENTO CON QUELLO DI BANALE PLAGIO (dato che in tasca non mi entra una ceppa). Presenza di linguaggio scurrile e violenze varie sparse qua e là].
Buona lettura!
 
I. L'ALBA DI NUOVI EROI
Chronicles Of A Broken Land - Gli Inconsistenti
 
- Varcaturo, Via Ripuaria, altezza Kaluka -
 
Un’altra notte stava per finire. Insonne, come le altre.
Le sirene avrebbero dovuto gridare come delle ossesse lungo Via Ripuaria e invece il silenzio spadroneggiava in lungo e in largo, lasciando che la gente godesse soltanto del proprio respiro.
Già, nessuno parlava.
Nella prima casa del terzo viale, quello della palestra, una madre vedova stringeva la sua figlia orfana, rannicchiata in un angolo nascosto e buio oltre il divano, nel salotto.
“Va tutto bene, tra poco ci sarà il sole” diceva la donna, speranzosa che qualcosa sarebbe potuta finalmente cambiare.
“Loro ci sono anche col sole, mamma” piangeva la piccola.
“No, stai tranquilla. Andrà tutto bene, andrà tutto bene. Lo sai, alla fine della notte sono sempre stanchi. Sono meno aggressivi” la cullava lei, stringendola al petto.
Un forte rumore poco lontano da lì fece sussultare la piccola Maria, costringendola a spingersi con ancor più vigore al corpo di sua madre, che dal canto suo non riuscì più a trattenere le lacrime.
Baciava i boccoli biondi della bimba, col buio che ormai le aveva divorate.
“Il sole è vicino” ripeteva, con gli occhi spalancati e il sudore che le colava ai lati del volto. “Non piangere, amore. Ci siamo quasi. Domani andremo al bar e prenderemo una bella crostatina. Di quelle che fa Claudia e...”.
Poi una grossa esplosione deflagrò poco lontano da lì. Maria e sua madre non riuscirono a trattenere un urlo, con la madre che premeva contro i seni la piccola, tremula come l’ultima foglia secca attaccata al ramo di un albero in mezzo alla tempesta.
Qualcuno rideva, poco lontano da lì. Risate di un ragazzino.
“Sono loro...” sussurrò la donna, mordendosi le labbra con tutta la forza che possedeva, cercando di calmare l’irrefrenabile istinto di urlare.
“Dobbiamo andare via!” urlò poi, prima che la porta di casa sua fosse letteralmente divelta dai cardini. La luce dell’alba penetrò aggressiva all’interno del salotto, e subito dopo una losca sagoma dagli occhi rossi e splendenti si pose davanti all’ingresso.
“Mentalità” disse quello, ridendo.
“È uno di loro!” si disperò Maria, piangendo ancor più forte e affondando le dita nella felpa di sua madre.
Sentiva i passi di quell’essere e guardò poi la mamma negli occhi, totalmente paralizzati.
“Ci ha sentite...” sussurrò la più grande.
Maria si voltò di scatto. I suoi capelli, biondi e morbidi, si poggiarono sul braccio della più grande quando, con una sola mano, quell’essere alzò il divano e lo sbatté contro la parete di fronte, frantumando quadri e credenze
Le urla s’espansero velocemente.
“Cercavo voi, splendide…” esclamò quello, alzando i pantaloni un po’ scesi. Possedeva una voce prepuberale.
Maria strinse forte sua madre, mentre vedeva quel tipo caricare un forte pugno che avrebbe sicuramente ammazzato le due.
La donna chiuse gli occhi e premette al petto la testa della sua bambina, quando sentì dentro di sé una strana forza.
Niente di soprannaturale, era semplicemente il senso di maternità che le imponeva di proteggere sua figlia. Spalancò gli occhi, il cuore batteva come un tamburo e il sangue veniva pompato alla velocità della luce all’interno delle sue arterie.
L’adrenalina la costrinse ad agire.
Afferrò una pesante ceneriera di marmo e la gettò contro il manigoldo, che indietreggiò lentamente di qualche passo.
Aveva recuperato qualche secondo, quando si alzò in piedi.
“Scappa! Scappa in stanza!” urlò a Maria, che eseguì celermente. Allungò poi la mano, trovando l’interruttore e accendendo le luci.
“Sei... un ragazzino!” esclamò poi, osservando meglio l’aggressore: non aveva neppure tredici anni ma aveva l’atteggiamento di un galeotto con esperienza carceraria di oltre mezzo secolo.
“E te lo metto nel culo!” ribatté a tono quello, volgare come mai nessun adolescente era mai stato.
“Ma che diamine dici?! Non avrai neppure quindici anni!”.
Lo stridio dei freni di un auto poco fuori la casa della donna distrasse l’aggressore, e diede alla donna l’occasione per mettere in moto un piano che allontanasse lo scontro da Maria. Raccolse di nuovo la ceneriera e, per una seconda violentissima volta, la sbatté contro il volto del ragazzino.
Quello non perse sangue, né il suo viso parve accusare il colpo; si limitò soltanto a indietreggiare, lasciandole lo spazio per fuggire verso la porta.
“Prendimi, se ci riesci!” lo sfidò lei, scattando goffa ma motivata verso l’uscio. Due secondi dopo il suo aggressore si mise all’inseguimento, e la raggiunse, sgambettandola e facendo in modo che cadesse, proprio fuori il cancello di casa.
La donna urlò, con le lacrime in volto. Era stesa sull’asfalto, col braccio totalmente abraso per via della caduta. Vedeva quell’individuo avvicinarsi con sempre maggior cattiveria.
“Dovrei essere più gentile. Ma voi vecchi non vi meritate un cazzo” disse poi, afferrandola per il collo della felpa e sollevandola in aria.
“Ma… ma come fai… a… a fare questo? Sei solo… solo un ragazzino!”. La madre aveva difficoltà nel parlare, con la gola costretta e la paura che le faceva tremare le ginocchia. In un attimo di lucidità riuscì a guardare per bene il suo assassino: era davvero un ragazzino.
Soltanto un ragazzino.
Aveva i capelli neri, rasati sotto e sfumati man mano fin sulla fronte, dove un grosso ciuffo, riccio e impomatato, pendeva verso destra. Le lentiggini sul naso e gli occhi innocenti creavano un contrasto immenso con la cattiveria dell’espressione che assumeva.
Indossava una camicia a quadri rossi e neri, aperta ovunque tranne che al primo bottone, quello sul collo. S’intravedeva sotto una maglietta bianca e dei pantaloni aderentissimi coi risvoltini alti. Chiudeva il quadro un paio di Adidas Superstar, che anche sua figlia le aveva ripetutamente chiesto.
Vedeva il suo volto, oltre la figura losca del ragazzetto killer, nascosta dietro la porta. I suoi occhi erano spalancati e avrebbero visto la fine di sua madre.
“Ti prego…” piangeva quella, sentendo le dita stringersi sempre di più, col fiato che s’accorciava. “Mia figlia…”.
“Morirà anche lei!” esclamò poi, sorridendo. “O si unirà a noi! Lo radiamo al suolo, questo cazzo di posto!” concluse urlando.
“Tu non farai nulla!” esclamò qualcuno, a qualche metro da loro. Rumore di ferro s’univa ai versi di sforzo che quello produceva.
Il manigoldo allungò lo sguardo verso la fonte di quei rumori e, meccanicamente, la sua espressione mutò. Sembrò che avesse visto il diavolo, e invece era soltanto un giovane uomo che stava smontando il copricerchio di una vecchia Fiat Panda color ruggine dell’80.
Gli occhi del ragazzino s’illuminarono e lasciò la presa dalla donna, che si dileguò velocemente.
“Un momento… un momento e arrivo...” disse quello, accovacciato davanti alla ruota.
“Che stai facendo, aborto?” chiese quello, ridendo, mentre si avvicinava.
“Stammi lontano!” urlò, lasciando cadere un cacciavite e afferrando il copricerchi che aveva appena smontato. Fu rapido nell’utilizzarlo immediatamente come scudo per parare il pugno dell’avventore.
“Ti distruggo!” urlò quello, continuando a sferrare potenti pugni, che l’eroe schivò. Ricevette poi un calcio nel petto dall’avventore, che lo fece cadere all’indietro.
“Non farmi ridere. Insomma, mi hai visto?!” chiese quello con lo scudo in mano, guardandolo sollevarsi subito dopo. “E poi guarda te… Non ti rendi conto di quanto io sia meraviglioso?”.
“Muto, come il cesso!” urlò il più giovane, sferrando un violentissimo pugno, che il più grande schivò. L’aggressore colpì il cofano della Panda, che rispose con un tonfo sordo.
Ed era strano, perché per la violenza col quale quello l’aveva sferrato avrebbe dovuto accartocciare tutto il quarto davanti della Fiat.
“Non si scalfisce con così poco la F2017” sorrise il nostro eroe, cogliendo impreparato l’avversario e colpendolo col copricerchio, dritto sul volto.
Fu una stilettata potentissima, che sbatté l’aggressore per terra.
Il silenzio dell’alba era quasi assordante ma lui, l’eroe, l’aveva riempito coi suoi sospiri, con gli ansimi degli sforzi compiuti.
Ce l’aveva fatta.

Anzi no.

Lo vide muoversi, si rialzava velocemente e senza aver accusato minimamente il colpo.
“Ma di cosa sei fatto?!”.
“Di sogni, cazzimma e desideri!” urlò, sferrando un colpo a tradimento, dal basso, che colse sorpreso il ragazzo. Ricadde per terra, spettinato e con un forte dolore alla mandibola.
“Ragazzini bastardi…” sospirò, facendo un passo indietro.
“Mentalità, fratè”.
E il ragazzo scansò un altro grosso pugno sul muso, scivolando alle sue spalle e tirandolo a terra per le spalle. Poi si gettò su di lui e cominciò a colpirlo più e più volte sul viso, fino a quando i muscoli delle braccia non gli bruciarono.
Forse lo aveva ucciso; un po’ gli dispiaceva.
Si sollevò dal corpo di quello e cominciò a frugargli tra le tasche, non trovandovi nulla.
Incredulo, ricordò che fosse solo un ragazzino.
Come poteva possedere tanta rabbia e potenza in corpo? La cosa era strana, fin troppo.
Tirò fuori il cellulare e vide che ancora non ci fosse ricezione.
“Dannazione...” sospirò, e poi vide quello che aveva atterrato riaprire gli occhi.
“Ancora?!” esclamò, indietreggiando e afferrando il copricerchi della sua Panda.
“Non puoi sconfiggermi, fratè... A quelli come te, noi ci pisciamo addosso!” sorrideva quello, sistemando la mascella spostata, che emise un sinistro rumore metallico.
“Che cosa sei?!” chiese l’altro, stringendo i denti.
“A te che te fotte?”.
Si avvicinò minaccioso ma d’improvviso lo vide spalancare con terrore gli occhi. Gli stessi si riempirono velocemente di una calma quasi irreale, accompagnata da un sorriso di soddisfazione e pace.
“Che succede?” domandò quello nascosto dal copricerchi.
Vedeva l’aggressore totalmente immobile, con le braccia allargate. Poi sentì una voce alle sue spalle.
“Cerca di fare presto... Non potrò tenerlo così per molto”.
Il giovane si voltò impaurito, vedendo un ragazzo, suo coetaneo, in piedi su di una macchina. Aveva i capelli castani e gli occhi scuri, dilatati. Mostrava fiero sul volto un’espressione calma e rilassata.
“Ma sei cannato?!” gli chiese.
“La testa. Devi mozzargli la testa...” rispose l’altro quello, ancora sorridente, col palmo della mano destra teso in avanti, a formare dei movimenti circolari.
E quello non se lo fece ripetere due volte: afferrò il cerchio per il bordo e lo lanciò dritto contro il collo, trapassandolo da parte a parte; il taglio fu netto e la testa cadde ai suoi piedi, rovinando poi davanti alle ruote della Panda.
“Ottimo lavoro...” sorrise quello sulla macchina, che saltò agilmente giù, salvo poi mantenersi al cofano. “Cielo, mi gira la testa. Che trip...”.
Il primo raccolse il coppo e lo incastrò sul cerchio. Poi si alzò e portò le mani ai fianchi, ansimando.
“E tu chi saresti?”.
“Puoi chiamarmi L.O.O.P., se vuoi...” rispose quello, avvicinandosi.
“E... e che diamine hai fatto?”.
“Intendi il gesto con la mano?”.
“Già, quello”.
“Ehm... nulla. Tu, piuttosto, com’è che a quest’ora ti trovavi qui?”.
“Mi chiamo Vincenzo. E comunque ero ad allenarmi in Palestra e ho sentito le urla...”.
L’altro sorrise, stringendogli la mano e notando lo sguardo stanco dietro gli occhiali da vista.
“Beh, amico, sembri stanco... Dovresti andare a riposare”.
Vincenzo fece spallucce e prese le chiavi della macchina dalla tasca. “È che ultimamente non si capisce più nulla, qui a Varcaturo... Ci sono questi ragazzini violenti e...”.
“Sono androidi” rispose L.O.O.P. “Sono androidi... non hanno sangue, vedi?”.
Entrambi s’avvicinarono alla salma decapitata e si accorsero che nessun fluido fosse fuoriuscito dopo la mozzatura del collo.
“Non è normale...” disse Vincenzo.
“No. Per nulla...”.
“Hai bisogno di un passaggio?” chiese poi, salendo in auto.
“No, vivo qui vicino. Ma stai attento”.
“So cavarmela da solo...”.
“Certo...” sospirò quello, vedendolo andare via. Afferrò la testa di quello e la spaccò sull’asfalto, vedendo componenti metallici schizzare ovunque. “Ora rolliamoci una torcia e andiamo a dormire...”.

 
- Varcaturo, Parco Noce, Terzo Viale –

L’attrezzatura era pronta.
Antonio strinse le cinghie degli stivaloni neri e assicurò la grossa torcia alla cintura.
Sospirò, poi grattò la barba, ormai troppo lunga.
Ricordava i tempi in cui definiva il pizzetto e radeva il resto, tutte le mattine.
A Roberta piaceva il pizzetto.
E a lui piaceva Roberta.
Erano ormai due settimane che in quella casa rimbombavano persino i suoi pensieri. La mancanza di corrente elettrica non aveva aiutato e quello strano immobilismo da parte degli addetti al ripristino lo indispettiva.
Tuttavia non osava parlare. Non parlava più.
Aveva bisogno di recuperare un po’ della sua serenità, del suo sorriso.
E l’unico modo per farlo era guardare le fotografie del matrimonio, quando, qualche anno prima, sua moglie era ancora lì, sorridente e amorevole.
Ormai erano sedici giorni che non la sentiva ridere. Sedici giorni che non andava a prenderla a lavoro, sedici giorni che non odorava i suoi capelli.
Avrebbe voluto capire, avrebbe voluto farsene una ragione, ma il fato volle che lui non trovasse né un biglietto né un cadavere.
E da un lato forse era una cosa buona. Il beneficio del dubbio certe volte aiuta a non buttarsi giù.
Infilò un paio di guanti neri e alzò il cappuccio; era pronto per scendere alla ricerca di sua moglie.
Scese di casa, torcia nella mano destra e paura nel cuore, ma tanta, tanta rabbia a muoverlo.
Non appena uscì erano tre i senzamente che gli si avventarono immediatamente incontro; stavano dilaniando il corpo ormai senza vita di un uomo anziano che s’era arrischiato oltre le mura di casa. Erano totalmente identici, come copie esatte di un ragazzino qualunque di quindici anni
“Guarda quel coglione!” aveva urlato uno di quelli.
“Ora gli facciamo vedere chi comanda!”.
“Non l’ha capito, secondo me” rispose il primo. Tutti e tre s’avventarono con estrema violenza sull’uomo, che già sapeva a cosa puntare. Il calcio della possente torcia si piantò nella tempia del primo dei cattivi, che si accasciò per terra senza forze. Antonio schivò il primo attacco da quello di sinistra e incassò quello di destra, ma fu abbastanza abile da non perdere l’equilibrio e cadere. Afferrò quindi il braccio di quello andato a vuoto e lo spezzò, sentendo quel sinistro rumore metallico che i corpi dei senzamente producevano quando li aveva ammazzati per la prima volta.
“Siete soltanto dei robot...” sussurrò, col cappuccio che cadde, a mostrare a quel mattino la sua barba incolta e il ciuffo corvino. Gli occhi castani fissarono rapidi l’altro avversario, quello che lo aveva colpito, nel tentativo di replicare sferrando l’ennesimo pugno.
Tuttavia Antonio fu più intelligente, utilizzando la testa di quello che stringeva come scudo.
Testa che finì in mille pezzi.
L’adolescente rimase stranito quando poi, nello sgomento, il calcio della torcia gli sfondò l’osso frontale, trapassandogli il cranio e facendo di quell’androide un androide morto.
Il silenzio calò sul Parco Noce nuovamente, come una calda coperta. Lui alzò il cappuccio e controllò che la torcia funzionasse ancora.
E funzionava.
Vide uno stormo che si allontanava lento e stanco, lungo la strada principale oltre le vie del parco.
Antonio doveva trovare Roberta. Doveva capire se fosse con loro.
Se l’avessero rapita.

 
- Varcaturo, Via Madonna del Pantano Sud –

Il sole fioco di mezzogiorno indicava chiaramente che l’inverno stentava ad abbandonare quei luoghi, un tempo ameni e naturali, ormai soltanto rudere di ciò che era.
Vincenzo massaggiava la mascella colpita dal grosso pugno qualche ora prima.
Lucidava il cofano della sua macchina quando il ricordo di quel ragazzo in piedi sull’auto alle sue spalle gli sovvenne alla mente.
Cosa stava facendo, esattamente, roteando quella mano?
Aveva forse dei magici poteri?
Lottare con quei ragazzini non era così semplice come sembrava. Erano ostinati e sembravano non interessarsi minimamente degli altri; gli pareva che il loro unico obiettivo fosse distruggere ogni cosa.
Poi sospirò, voltandosi. La palazzina dove viveva era ormai stata evacuata diversi giorni prima, quando l’allerta preventiva aveva consentito a chiunque ne avesse la possibilità e la voglia di scappare da quel paese.
Prima che quell’enorme campo di forza ponesse dei limiti, delle barriere attorno a un perimetro immaginario.
Era intrappolato lì dentro, Vincenzo, assieme a pochi altri superstiti. Lui aveva deciso di non abbandonare quel posto, dove c’erano i suoi progetti e le sue idee messe su carta.
I suoi hard disk erano pieni di idee rivoluzionarie, pronte a cambiare il mondo.
Ma la corrente elettrica non c’era e quindi rimanevano solo i rimasugli nella sua mente, l’unica memoria fisica su cui poteva fare affidamento.
Voleva difendere le sue idee.
Difendere i suoi posti.
Riconquistare quelle strade, in qualche modo.
Aveva visto i primi cloni apparire nelle strade qualche settimana prima, ma non aveva fatto caso davvero al fatto che fossero realmente tutti uguali l’uno all’altro.
Aveva pensato soltanto che avessero gli stessi vestiti. Una cosa che i più giovani facevano già quando non avevano tutti il medesimo volto.
Erano diventati il nemico ma lui non demordeva. Il suo sogno era quello di vedere i suoi progetti diventare realtà.
E avrebbe combattuto a testa alta per difenderlo.

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Capitolo 2
*** II - Cani infami ***


 

II. CANI INFAMI
Chronicles Of A Broken Land - Gli Inconsistenti

- Varcaturo, Via Madonna del Pantano Sud -
 
“Porca troia...” sussurrò Vincenzo tra i denti, sentendosi leccare la faccia. “Finiscila…” fece, sbracciando a vuoto, inutilmente, cercando di colpire il cane che lo aveva svegliato. Allungò la mano verso il comodino, cercando gli occhiali e non trovandoli.
“La giornata comincia bene…” fece, passando da steso a seduto. Stropicciò le palpebre e sbadigliò, aprendo lentamente gli occhi.
Ombre e macchie di colore.
Non vedeva altro.
Riuscì però a capire dove fosse collocato rispetto a ciò che lo circondava e trovare gli occhiali fu più semplice una volta svegliatosi.
Quasi totalmente.
Poggiò le lenti sul naso, col fastidioso scotch che teneva unita la parte destra a quella sinistra. Sospirò, prendendo una maglietta sporca e pulendosi il volto dalla saliva del suo cane, che lo aspettava seduto poco lontano da lui.
“Che mi guardi a fare?” gli domandò, alzandosi e accendendo la luce.
O almeno provandoci; più che altro era un suo rituale, una sorta di bene che si augurava ogni volta che si svegliava, come a dire la luce si è accesa, era tutto un incubo, o forse qualcuno ha messo a posto tutto.
E invece no.
 
Nessuno aveva messo a posto nulla.
 
Il cane si alzò e si avvicinò a lui, in cerca di calore umano. Per tutta risposta il ragazzo gli diede un colpo con la gamba, allontanandolo.
“Stupido cane. Più stupido del tuo nome!” urlò, prendendo l’orologio e fissandolo al polso. Il pomeriggio era quasi terminato, e lui aveva dormito per quasi tutta la giornata.
Mancavano poche ore e poi Varcaturo sarebbe stata nuovamente invasa dagli Inconsistenti, e il suo frigorifero era totalmente vuoto. Buttò un’occhiata alle lancette, che ormai avevano deciso di fermarsi.
“Anche tu, orologio? Vieni meno anche tu? Eppure avevamo deciso di cominciare quest’avventura assieme…” sospirò, affacciandosi alla finestra per accertarsi che non fosse già buio.
No, non mancava molto al tramonto ma avrebbe potuto racimolare lo stesso qualcosa di buono, magari delle batterie per l’orologio o un paio di occhiali buoni.
Che poi i suoi erano graduati, troppo complicati da trovare. Gli bastava del liquido per le lenti a contatto e il problema era risolto ma sembrava che qualcuno avesse già svaligiato la farmacia del paese, lasciando soltanto qualche vecchio pacco di Zigulì gusto liquirizia.
A lui la liquirizia faceva schifo.
Infilò rapidamente una maglietta rossa e un jeans, prese le chiavi della Panda e scese di casa.
Era ormai prassi, da quando l’apocalisse inconsistente era cominciata, che non appena mettesse piede di casa i suoi radar si attivassero.
Cercava di rendere le sue movenze quanto più vicine a quelle di un ninja, in modo da poter ascoltare l’eventuale avvicinarsi di qualche Inconsistente. Anche perché casa sua era lontana dal centro del paese, ne era quasi alla periferia, e camminando un po’ tra i campi era in grado di vedere la grossa cupola di energia che bloccava dentro chi era dentro.
E fuori chi era fuori.
Doveva riuscire a uscire in qualche modo. Se soltanto quel posto avesse avuto le fogne, le avrebbe utilizzate senz’alcun dubbio, per portare in salvo i suoi hard-disk con dentro gli avanzatissimi progetti che aveva studiato.
Troppa roba, troppo rumore, non sarebbe mai passato inosservato e quei mostri lo avrebbero sventrato prima che fosse riuscito a smontare il coppone dalla ruota della Panda.
Una volta nel cortile, seguito dal piccolo bastardino nero dalla folta coda, avanzò rapido verso la rimessa, salendo sul muretto accanto e arrampicandosi infine sul tetto della stessa.
Rimase radente all’asfalto rosso, cercando di capire se, nelle campagne alle spalle della sua casa, qualcuno di quei mostri si fosse avventurato in cerca di vittime da mietere.
L’unica cosa che riuscì a vedere furono i campi rimasti incolti. S’alzò poi in piedi, per controllare meglio, ma nessun movimento destò il suo sguardo.
Allora scese, aprendo il cofano della Panda. Afferrò una chiave e controllo che ogni dado fosse ben stretto, quindi si voltò ma calpestò la zampa del cane, che abbaiò dolorante, allontanandosi.
“Dannatissimo Valerio! Ma chi ti dà da mangiare?! Come ti nutri?!” urlò, sperando che nessuno lo avesse sentito.
Odiava quel cane e non capiva per quale motivo non fosse morto ancora. Liberò il cancello all’ingresso e mise in moto la Panda, sperando che la benzina non lo abbandonasse proprio in quel momento.
 
- Varcaturo, Piazza San Luca –
 
Le tracce portavano lì.
Antonio aveva seguito a distanza gli Inconsistenti ed era rimasto nascosto per diverse ore, all’interno di una macchina dai vetri oscurati, cercando di comprendere il modo migliore per agire.
E ancora lo doveva trovare.
Lui era sicuro che Roberta non fosse andata via, se l’erano promesso a vicenda.
“Troveremo il modo per farcela!” diceva lei. E lui in qualche modo le credeva, abbeverandosi della positività che quella emetteva con forza da ogni poro del suo corpo minuto.
E dopo aver ascoltato quelle parole, uscite proprio dalla bocca a cuoricino della donna che amava, Antonio non riusciva a credere che fosse fuggita come tutti quanti avevano fatto prima che la cupola si calasse su di loro.
Sembrava partisse da lì; pareva che lo zenit fosse proprio al di sopra del lucernario dell’edificio dal tetto verde e dalla croce sulla sommità.
Forse doveva attendere; recuperare un po’ di energie, mangiare quella scatoletta di tonno aperta che aveva trovato nel supermercato e sperare che gli bastasse fino a quando non si fosse digerito da solo.
Aveva fame.
L’ultima volta che aveva addentato qualcosa di commestibile le luci funzionavano ancora e non era costretto a illuminare tutto con la sua torcia.
Amava la sua torcia. Paradossalmente era l’oggetto a cui era più legato.
Sentì un rumore sinistro, come di un portone arrugginito che si spalancava.
Ne era sicuro: gli Inconsistenti stavano per fare la propria uscita. Alzò la testa e vide l’ingresso principale della chiesa aperto.
Contestualmente centinaia di ragazzini, tutti uguali tra loro, uscivano nelle strade. Avevano il volto divertito, gli occhi spalancati e pieni di vita. Parevano un esercito, tutti con la stessa camicia a quadri, abbottonata fino al collo, tutti con gli stessi jeans attillati e le stesse scarpe.
Tutti con lo stesso taglio di capelli.
Tutti con la stessa aria nella testa.
Loro erano così: inconsistenti, dato che non erano altro che aria per riempire vestiti di marca ed ego smisurati. Nessuna personalità di fondo, nessuna idea.
Pochi capisaldi, tra cui un’inaspettata aggressività, peggiorata da una maleducazione di fondo, e quella strana mania di prendere esempi sbagliati come dogmi e leggi.
“Dove sono i ragazzini?” si domandò.
Uscì rapidamente dall’automobile, sapendo che a breve sarebbe stato raggiunto, e si nascose sulla destra, nel prato ormai incolto della Piazza San Luca.
Basso, strisciò in avanti fino a raggiungere un vecchio albero. Il suo sguardo si faceva largo tra le sue radici nodose, osservando come cominciassero a ridere per motivi insulsi. Ognuno di loro era munito di cellulare, e lo teneva stretto nel palmo della mano.
Li videro poi cominciare a dare calci a un alberello dai rami secchi.
“Meglio così... saranno distratti mentre agirò...” rifletté a voce bassa.
Doveva addentrarsi in quella chiesa, per capire cosa stesse succedendo. Forse avrebbe trovato il responsabile di quella situazione.
Forse avrebbe trovato la sua Roberta.
 
 
 - Varcaturo, Via Ripuaria –
 
L.O.O.P. camminava in silenzio, vedendo gli alberi muoversi lentamente sotto il soffio del vento.
Era fatto come la merda ma a lui andava bene così.
Anche perché aveva notato che, quando era fatto come la merda, gli Inconsistenti non erano più un problema. Già, non aveva paura di loro dopo che si era acceso una torcia.
Univa l’utile al dilettevole del resto, non voleva morire e se per restare in vita avrebbe dovuto accendersi un paio di canne in più lo avrebbe fatto.
In più era stato fortunato a trovare quasi sei chili di roba, cercando tra le strade.
I suoi spacciatori erano stati riforniti da poco, prima che qualcosa staccasse loro la testa.
Cercava di capire per quale motivo la bamba avesse quell’effetto sulla sua mente, permettendogli di trasmettere agli altri quel senso di sballo che provava ormai quasi continuamente.
Certo, come ovvio col tempo era andato scemando.
Fatto stava però, che quando era sotto effetto sembrava riuscire a fare cose che quando era in stato normale non accadevano.
Forse se le immaginava.
Quel pomeriggio aveva fame, fin troppa per via di quel chimico che gli aleggiava nella testa, scadente come pochi, ma aveva fatto di necessità virtù e si era adattato al fatto che quando sarebbero finite le sue scorte avrebbe dovuto cominciare a sniffare colla e a bere alcool puro.
Si chiedeva soltanto perché quando era normale non riusciva a difendersi; provava a fare le stesse mosse, a girare il braccio circolarmente, in senso orario, anche a stringere gli occhi e a fare quel volto che gli veniva solo quando era fatto prepotentemente.
Quella magia si attivava soltanto quando il suo stato era alterato.
E tutto sommato gli andava bene così.
Girava per strada, cercando di capire dove trovare qualcosa da mangiare. Era arrivato al Dodecà, il supermercato più vicino a casa sua, e nonostante fosse stato ripetutamente svaligiato dai più, sperava sempre di trovarci qualcosa di commestibile.
Non appena entrò nel grosso magazzino si rese conto che senza luce, e con gli occhi stretti che si ritrovava, avrebbe avuto non poche difficoltà.
Passeggiò per i reparti, vedendo gli scaffali totalmente vuoti. Il banco frutta e verdura era stato totalmente svaligiato dai vegani ed erano rimaste soltanto alcune ceste vuote.
Camminò in avanti, verso il banco del pane.
Vuoto.
Avevano distrutto le porte ed erano entrati nelle cucine, strappando il maiale che solitamente ruotava nel girarrosto. Avevano rubato tutti i salumi e i formaggi, tutto ciò che non era scaduto era stato già portato via.
Tranne una cosa.
Sotto al bancone c’era una salamella.
“Cibo!” esclamò L.O.O.P., aggredendo l’insaccato con furia immane. Si gettò per terra, afferrando il pezzo di carne e cominciando ad addentarlo, felice come un bambino.
Non mangiava salame da un sacco di tempo, ormai e, più sostanzialmente, erano passati giorni da quando era riuscito a mettere qualcosa nella pancia.
“Dio... Io ti amo, salame... sfamami...” diceva, mentre le mandibole masticavano pezzi di carne e grasso, grani di pepe e budello esterno che il ragazzo non si era neppure preoccupato di levare.
E stette lì, fino a quando il buio cominciò ad appropriarsi anche degli ultimi frammenti di luce.
Era rimasto lì, con ancora i segni della fame in corpo e la visione celestiale di un sacchetto di farina davanti agli occhi.
Non si curò nemmeno dei rumori che provenivano da fuori, né del fatto che, col buio, gli Inconsistenti uscissero allo scoperto, pronti ad uccidere e a divellere porte blindati dai cardini.
Si sorprese, quindi, quando vide qualcuno puntargli una luce contro.
“Ma che diamine?!” urlò L.O.O.P., accecato dal fascio luminoso.
“Ma... sei tu?” domandò quel qualcuno, abbassando la torcia e saltando agilmente il bancone. Vide quel ragazzo steso per terra, coi resti di una salamella sulla pancia e il viso totalmente sporco di polvere bianca.
“Dicevo io... Tu ti fai pesantemente? Dove hai trovato la cocaina?” domandò poi, inginocchiandosi accanto a lui.
L.O.O.P. vide il copricerchi della Panda e quindi, lentamente, riconobbe il viso del vigilante che aveva aiutato la notte precedente.
“Ah, ma sei tu!” fece, sollevandosi leggermente. Vincenzo indietreggiò lentamente, vedendo la polvere bianca crollargli sul petto.
“Spacci?”.
“Non è coca... è farina. Stavo mangiando”.
L’altro si sistemò gli occhiali, prima di assumere un’espressione schifata in volto. “Mangi la farina cruda?”.
“Almeno mangio... Che ci fai qui?”.
“Cerco liquido per le lenti a contatto... in farmacia hanno portato via anche il bancone”.
“Colpa mia” sorrise a dentatura completa. “A casa dovrei averne un po’”.
“Davvero?!” esclamò infine.
“Sì... non è molto ma dovrebbe bastare, chessò, per un paio di anni”.
“A me bastano anche sei giorni! Andiamo!” fece, tirandolo per mano.
“Oh, calmo... sto tutto fumato...”.
Vincenzo si girò e lo guardò con sufficienza. “Allora avevo ragione, quando dicevo che eri completamente fatto”.
“Ma non di cocaina. Quella roba fotte il cervello”.
Lo aiutò a sollevarsi in piedi, mantenendo con una mano lo scudo e con un’altra la torcia.
“Comunque puoi chiamarmi Luca” disse il primo.
“Vincenzo...”.
E poi un rumore sinistro anticipò risate grasse ed ebeti.
“Cazzo, sono qui...” fece quello, saltando nuovamente il banco salumi e afferrando il carrello che aveva riempito con ogni cosa che gli potesse servire. “Dobbiamo andare via!” esclamò.
“Tranquillo... Se sono pochi ci posso pensare io...”.
“Ah già” ribatté quello. “Tu fai quella cosa... Che cosa fai di preciso?”.
“Non ne ho idea” sorrise quello. “Mi basta fare così con la mano e tutti si bloccano...”.
“Hai dei superpoteri?” chiese poi, stupito.
“No. Sono solo così fatto da riuscire a controllare gli altri” sorrise ancora.
“Beh, ne avremo bisogno se questi ci beccano”.
Si mossero lentamente, andando verso la zona dei vini. Luca afferrò un paio di bottiglie e le gettò nel cesto del ragazzo, facendolo voltare inorridito.
“Ma ti sembra il momento?!” fece l’altro, riuscendo a urlare a bassa voce, contro ogni possibilità fisica e acustica.
“Questi rompono tutto, fratè... Salviamo il salvabile”.
“Non possiamo portarci altro peso addosso!”.
“Vuoi dirmi che con quei bicipiti non riesci a portare due bottiglie di vino leggerissime?!”.
Vincenzo si lusingò. “Effettivamente sì, con questi bicipiti posso portare tutto” sorrise sornione. “Ma resta il fatto che se questi ci prendono ci ammazzano di botte”.
“Andiamo via, allora”.
Era tutto calcolato. Si trovavano esattamente dalla parte opposta degli Inconsistenti, decine di scaffali e il banco salumi tra di loro e l’uscita era libera.
Tutto sarebbe andato per il verso giusto se solo non avesse adocchiato una cosa.
Una delle poche cose rimaste nel supermercato e che prima di quel momento non gli sarebbero mai parse come obiettivi di un’esplorazione per il cibo.
Cibo per cani.
“Valerio...” sussurrò a se stesso, perdendo qualche secondo per decidere il da farsi. Poi ruppe gli indugi e con la mano trascinò una ventina di scatolette di bocconcini di manzo e piselli all’interno della cesta.
Infine sentì un forte rumore di giochi per cani, con quelle trombette fastidiose.
Era uno di quei polli di gomma.
E a premerlo era stato Luca che, sorridente, ripeté divertito il gesto.
Rideva, spensierato.
“C’è qualcuno!” sentì urlare dall’altra parte del grande magazzino.
“Spacchiamogli il culo!”.
“Merda di un drogato! Scappiamo!” fece Vincenzo, trascinandosi a fatica il pesantissimo cesto fino alle casse. Mancavano pochi metri, per raggiungere l’uscita.
Tuttavia ebbe un’idea di molto migliore, lanciando il coppone della ruota contro il vetro che faceva da finestrata, e che dava direttamente sul parcheggio, frantumandolo in mille pezzi.
Non si era voltato indietro, sicuro del fatto che Luca lo stesse seguendo, con quel suo passo felpato da felino tossicodipendente, ma quando arrivò in auto e rovesciò l’intera cesta nel cofano, si rese conto che quello non fosse lì.
“Oh, dannazione!”.
Vide da lontano la scena in cui gli Inconsistenti si gettavano su di lui come pazzi furiosi, pronti a ridurlo a brandelli.
E qualcosa d’inspiegabile lo spinse a non mettere in moto la fedele Panda, ma anzi, di raccogliere il copricerchi e correre nuovamente dentro.
Diede un violento colpo con lo scudo a uno dei ragazzini che aveva sulla destra, che aveva provato a inseguirlo invano e che non si aspettava di ritrovarlo alle sue spalle.
Proseguì, saltando le casse e gettandosi agilmente con lo scudo in avanti, a colpire un altro aggressore.
“L.O.O.P.! Vieni via di lì!”.
“Sono tantini, eh...” sorrise tranquillo, in totale atarassia.
Vincenzo ricordò la scena in cui proprio il ragazzo gli ordinò di decapitarli e quindi cominciò a replicare la scena della notte precedente, utilizzando l’affilatissimo copricerchi come lama del boia. Due, tre teste caddero in pochi secondi, prima che un forte pugno lo colpisse alle spalle, mandandolo a sbattere contro uno scaffale ormai vuoto. Una mensola d’alluminio gli cadde addosso poco dopo essersi reso conto che un paio di quegli Inconsistenti si stavano avventando su di lui.
Diede un colpo alla mensola e rotolò rapidamente di lato, afferrando lo scudo e lanciandolo, con un solo gesto, fluido e dinamico, andando a decapitare uno dei due.
“Testa di cazzo!” urlò l’altro, caricando il pugno e sferrandolo, mancandolo per poco. Lo scudo era lontano e lui non aveva modo di difendersi utilizzando alcuna arma.
“Ti spacco la testa, rotto in culo!” ripeté volgarmente quello, con i brufoli che crescevano sulla faccia come alberi in una foresta. Ricaricò il pugno, ma Vincenzo afferrò la mensola di alluminio e la pose davanti alla sua faccia.
Il pugno affondò nel metallo, senza riuscire a penetrarlo totalmente, però piegandolo e permettendo al giovane di colpirlo con un calcio al fianco. Quello liberò il pugno ma ormai Vincenzo era in piedi ed era saltato su di lui, aggrappandosi alla schiena e spezzandogli il collo.
Quello ricadde per terra, dando a Vincenzo un attimo di respiro, prima di girarsi e vedere il volto di un nuovo aggressore a pochi centimetri da lui.
Tuttavia il suo volto era sorridente.
Vincenzo si sporse, vedendo il viso di L.O.O.P. tirato in quella smorfia inconfondibile che assumeva quando utilizzava i suoi poteri.
Pochi secondi dopo lo scudo di Vincenzo, lanciato proprio dal compagno d’avventura, tranciò di netto il collo in due parti, trasversalmente.
Luca li aveva atterrati tutti, sempre col sorriso sulle labbra.
“Ti serve il liquido per le lenti a contatto, vero? Andiamo a prenderlo da me” fece.

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Capitolo 3
*** III - Voi Non Sapete Nulla ***





III. VOI NON SAPETE NULLA
Chronicles Of A Broken Land - Gli Inconsistenti

 
 
- Varcaturo, Via Madonna del Pantano Sud –
 
“La bellezza di poterci vedere senza occhiali…” sussurrò Vincenzo, poggiando le lenti a contatto sulle pupille, delicatamente. L.O.O.P. guardava sorridente la scena, mentre sistemava il tabacco e un pezzetto di fumo su di una cartina.
“Secondo me fumi troppo” disse il primo, battendo le palpebre più e più volte e assaporando il piacere di poter archiviare quegli occhiali nel dimenticatoio.
“Se non fumo non riesco a fare le magie, Vincè...”.
“Già... a proposito di quelle...”.
“Non farmi domande” chiuse subito l’altro, seduto al tavolo. Leccò il bordo della cartina e cominciò ad arrotolarla.
“Volevo solo capire come fai...”.
“Nessuna domanda...”.
“Cioè... fai la faccia da scemo, ruoti la mano e tutti si bloccano… è un fatto davvero strano...”.
“Nessuna domanda...”.
“Ma voglio capire!” urlò poi.
Luca alzò la testa dalla canna con le palpebre a mezz’asta, quindi sospirò.
“Nessuna. Domanda”.
“Lo scoprirò! Dovesse essere l’ultima cosa che faccio!” esclamò. Poi si voltò, prendendo una Winston e accendendola.
Vincenzo non soleva fumare sigarette; non gli piaceva il sapore, fin troppo forte, talvolta amarognolo, con quel retrogusto che non lo faceva impazzire. No, rollava drum lui.
E lo faceva con metodo e precisione.
Ma da quando la grande cupola li aveva ricoperti aveva cominciato ad accontentarsi di ciò che trovava. Quel pacchetto di Winston Blu era tutto ciò aveva trovato di utile alla causa.
L’immagine riflessa nello specchio della sua stanza lo ritraeva con quella maschera stanca, in cui i suoi occhi verdi apparivano spenti. I capelli, ormai troppo lunghi per i suoi standard, erano colorati d’un castano che d’estate finiva per tuffarsi nel biondo.
Le labbra sottili abbracciavano il filtro della Winston col fumo che gli copriva il volto, una volta espirato.
“Ti ricordi com’era, prima che tutto cambiasse?” domandò a Luca. Quello aveva appena finito di chiudere il joint quando alzò lo sguardo.
“Ma certo che ricordo… Era tutto così tranquillo. Ricordo che la sera uscivo con i miei amici, girovagavo per tutta Napoli, qui e lì. Che bei tempi. Non ci resta che affidarci ai ricordi...” disse, accendendo la torcia e gettando nei polmoni quel fumo sporco che tanto lo rilassava.
Si grattò il lungo naso e poi prese un’altra boccata di relax, prima di continuare. “A meno che non riusciamo a fare qualcosa…”.
“Qualcosa per cosa?”.
“Per tutto questo, Vincè... Per la cupola e le sigarette che mancano”.
“Oh, beh...” sorrise quello. “Lo farei più per riprendere la linea internet…”.
“Ti ammazzi di porno, eh?” rise quello.
“No” rispose Vincenzo, col sorriso sulle labbra. Aspirò e poi tossì, ancora abituato al drum. “Internet serve a tutto…”.
E Luca annuì, accondiscendente. “Effettivamente. Potremmo comunicare con l’esterno del mondo… Ma se scavassimo? Se provassimo a uscire dal basso?” domandò poi.
“Sarebbe un suicidio. Senza mezzi di scavamento professionali ci metteremmo settimane. Inoltre se durante una ronda di cazzeggio gli Inconsistenti ci trovassero sarebbe impossibile sopravvivere”.
“Beh, dai, ce la caveremmo... Siamo bravi assieme” sorrise ancora L.O.O.P., roteando la mano davanti al viso.
“Saremmo praticamente in un tunnel, con le spalle al muro e con decine di nemici superforti a colpirci… non è strategicamente una buona idea, non pensi?”.
Quello fece spallucce. “Hai bisogno di rilassarti”.
“Ho bisogno  di vedere la Ferrari correre...”.
“Ti piace la Formula 1?”.
All’altro bastò guardarsi attorno, mostrando all’ospite decine di gagliardetti della scuderia di Maranello. “Ti basta come risposta?”.
Sorrise, Luca. “Direi di sì…”.
Quelle parole si sedimentarono, lasciando un silenzio imbarazzante che un tempo avrebbero entrambi snobbato prendendo il cellulare tra le mani.
Ma i cellulari non servivano a nulla, dato che non avrebbero potuto caricarli, senza corrente.
“Già che sei qui…” fece Vincenzo. “Potresti cenare con me. Ho preso tanta roba… forse c’è l’occorrente per fare una semplice pasta al pomodoro…”.
“Mi manca la pizza” disse quello.
“Anche a me…”.
“Però non voglio disturbare… Ho diverse cose, a casa mia, non mi sembra giusto mangiare le tue...”.
“Senza il tuo aiuto ora non potrei mangiare nulla perché non avrei i denti. E perché sarei morto…”.
“Esageri…”.
“È anche vero che senza di te forse non sarei neppure stato in pericolo… però mi fa piacere un po’ di compagnia. Siamo soltanto io e quel cane da troppo tempo, ormai…La casa è al centro dei terreni, ci sono vie di fuga… e poi qui c’è molto spazio…”.
“Vuoi che venga qui?” chiese quello.
“Ci sono altri quattro appartamenti in questo palazzo, totalmente vuoti. Se vuoi mi farebbe piacere…Cioè… capisci, no?”.
“Meglio quattr’occhi che due, certo…”.
“No, niente quattr’occhi, ora ho rimesso le lenti a contatto. Domattina, all’alba, prenderemo la Panda e caricheremo ciò che può servirci da casa tua…”.
L.O.O.P. sorrise a bocca chiusa e palpebre serrate, come suo solito.
“Ti ringrazio davvero molto…”.
“Ora è meglio che il cane salga sopra… Non vorrei che facendo il coglione come suo solito attiri quegli zombie dalle nostre parti…”.
 
 
- Varcaturo, Piazza San Luca –
 
Era ormai buio.
E quando era buio le cose non funzionavano mai per il verso giusto.
Antonio camminava rapido lungo il viale sporco della Piazza, che portava dritto nella chiesa. Un gruppo d’Inconsistenti era appena passato e il prossimo non avrebbe lasciato il cortile prima d’un minuto. Aveva abbastanza tempo per una manovra d’avvicinamento a quel posto.
E lo fece.
Scattò nell’oscurità, con la torcia stretta tra le mani e l’assoluta certezza che se fosse stato avvistato da qualcuno di quei mostri con le Adidas avrebbe rimpianto, per quei pochi minuti di vita che gli sarebbero rimasti, la mancanza di un’arma un po’ più efficace.
Non che una torcia fosse un’arma.
Tuttavia aveva imparato, durante i giorni in cui si addestrava assieme ai corpi speciali, sulle Alpi francesi, che qualsiasi cosa poteva uccidere un uomo.
E funzionava con tutti, anche con gli Inconsistenti.
La sua torcia andava più che bene, dal momento in cui la determinazione che lo nutriva era più che settata sul voler ritrovare la sua donna. Inoltre quella dose di rabbia che fluiva avrebbe sicuramente aiutato.
Sgattaiolò velocemente sulla destra, nascondendosi dietro una grossa palma. Si guardò attorno, controllando se la fondina della pistola fosse chiusa, sospirando poi perché avrebbe dovuto perdere quella stupida abitudine. Sì, stupida, dal momento in cui non possedeva alcuna pistola.
O almeno, non con sé.
L’aveva presa Roberta.
Sperava tanto che avesse consumato il grilletto sui suoi aggressori e lo stesse aspettando sana e salva da qualche parte.
La chioma corvina riluceva sotto i baci della luna, quella notte. La barba era diventata fin troppo lunga ma radersi col machete era l’ultimo dei suoi pensieri.
“Un’altra pattuglia…” sospirò, vedendo quattro individui, risvoltinati e con la camicia chiusa fino all’ultimo bottone, che abbandonavano l’edificio dall’ingresso principale, proprio dirimpetto ai cancelli da cui lui stesso era entrato.
“Li fanno in serie?” si chiese, mentre s’appiattì per terra, aspettando di potersi alzare velocemente e correre dritto. Cercò di non farsi vedere da nessuno.
Quando vi riuscì si gettò di schiena contro il muro. Sentiva dei rumori sinistri provenire dall’interno della chiesa e una grande finestra era aperta.
A più di tre metri d’altezza.
Aspettò che la successiva pattuglia fosse passata, prima di prendere una bella rincorsa e, aiutandosi con mani e piedi raggiunse il bordo della finestra. I muscoli delle braccia, in flessione per lo sforzo, cominciarono a bruciare. Tuttavia sopportò; doveva guardare all’interno di quell’edificio.
E quello che vide gli fece accapponare la pelle: tutte le panche della chiesa erano state riempite da automi, vuoti e senza volto. Erano seduti tutti dritti, in maniera ordinata, e mano a mano che una sirena suonava, un paio d’Inconsistenti prendevano quei gusci vuoti, molto simili a manichini d’alluminio, e li portavano in sagrestia.
“Nascono qui…” ragionò quello con la torcia, quando poi sentì qualcuno arrivare.
“Per la barba del dio di Cesenatico!” esclamò, lasciandosi cadere e rotolando agilmente verso destra.
Si nascose dietro un pilastro alla fine di un piccolo muretto, col cuore che batteva. Gli occhi si aprirono, le orecchie si tesero e perfino il cuore rallentò i propri battiti: Antonio era pronto a reagire.
Pochi secondi dopo prese coraggio per sporgersi quanto bastava, rendendosi conto che quattro Inconsistenti stessero percorrendo quella strada, alla destra del muretto. Alla sinistra, invece, stava passando la solita ronda.
Tecnicamente era in trappola.
Tecnicamente.
Ragionò con una velocità che non credeva di poter raggiungere, slacciò la cintura dai pantaloni e utilizzò la fibbia come rampino, incastrandola su di un chiodo piantato nella colonna.
“C’è qualcuno!” urlarono quei ragazzini diabolici, vedendo quella figura scalare la chiesa nella notte scura.
“Mentalità, ragà!” urlarono tutti all’unisono, correndo verso l’avventore.
Antonio non si lasciò prendere dal panico, anzi, prese lo slancio e si lasciò dondolare utilizzando il chiodo come perno, prima di darsi un ultimo colpo di reni per afferrare il cordolo della gronda, sul quale s’issò. Riprese la cintura e la fissò nuovamente ai pantaloni, salendo al centro del tetto; non sapeva che gli Inconsistenti avessero saltato sui muri della chiesa con la stessa facilità con cui un uomo comune muoveva semplici passi sull’erba.
Tuttavia non se ne accorse subito. Pensò d’esser salvo quando, col cielo totalmente nero e la grande croce che riluceva di blu davanti ai suoi occhi, poté perdere qualche istante per guardarsi attorno. Vedeva, in lontananza, decine di quegli esseri correre verso un punto non definito oltre l’orizzonte.
Non capiva il loro funzionamento. Del resto erano androidi e lui era un uomo troppo piccolo per tutta quella situazione.
Antonio voleva soltanto ritrovare la sua donna.
Abbassò gli occhi sul tetto a due falde, ricoperto di bitume verde e macchie di sporco, quando sei di quegli esseri balzarono su dal nulla.
“Avevi ragione, quggì” fece uno degli Inconsistenti rivolgendosi a quello che aveva accanto. “Qui sopra c’era proprio uno di quei taralli...”.
“Ma che devi fare, vestito in quel modo? Lo schiattamorto*?!” lo sbeffeggiò un altro.
Ci provò, l’uomo. Ci provò sul serio.
E non perché non avesse la possibilità di comportarsi in un qualsiasi altro modo, magari più violento, ma perché voleva davvero provare a dare fiducia a quei simil-ragazzi.
“Ragazzi, sto cercando una donna...”.
“E ci credo, cesso come sei non scoperai da anni!” esclamò uno nella mischia.
“... Si chiama Roberta, è alta circa un metro e sessanta, qualcosa in meno... Capelli neri, schiena dritta... L’avete vista?”.
“Ma che vuole ‘sto tarallo?!” dissero poi.
“Mentalità, fraté!”.
“Distruggiamolo! Solo per il tempo che ci ha fatto perdere dovremmo sparargli in bocca!” fece uno di quelli, citando Gomorra.
E fu lì che Antonio capì che chi nasce tondo non muore quadrato. Specialmente se sei stato programmato così. Si avvicinarono minacciosi e Antonio ebbe pochi secondi per analizzare il tetto e capire che lo spazio che aveva a disposizione per sopravvivere a quell’orda barbarica prepuberale fosse davvero poco. Difatti, nonostante la superficie calpestabile fosse ampia, la maggior parte era occupata dal grande lucernaio, che di giorno illuminava a festa la navata centrale della parrocchia.
Il più vicino a lui si gettò a capofitto, urlando minaccioso e pronto a sferrare un montante destro che Antonio evitò prontamente, dribblandolo verso sinistra. Aveva capito che dovesse mantenere quanto più possibile la lucidità e non permettere loro di metterlo con le spalle contro il vuoto.
Rapido prese la torcia dalla fondina e sbatté il calcio contro la nuca dell’individuo che l’aveva attaccato. Quella rispose con un tonfo metallico.
“Dannati androidi...” sospirò quello, dandogli un forte calcio sul fianco e lasciando che volasse oltre il bordo del tetto.
“Fuori uno... Allora, potremmo tranquillamente evitare tutti questi spargimenti di liquidi refrigeranti e rondelle se mi lasciaste andare via...”.
Suonava come una provocazione.
E gli Ingiusti non sopportavano le provocazioni. Due di loro si staccarono dal gruppo e colpirono più e più volte l’eroe in nero con pugni tremendi al torace e all’addome.
Il dolore era forte ma lui era stato addestrato in passato a non perdere la lucidità.
In nessun caso.
Afferrò la torcia con rapidità e premette il pulsante d’accensione: migliaia di lumen furono sparati alla velocità della luce, per l’appunto, nei sensori oculari degli avversari; riuscì ad  accecarli per qualche istante. Ebbe il tempo per afferrare per la camicia a quadri di uno dei due e lanciarlo oltre il bordo del tetto.
Sorrise, quando sentì il rumore di ferraglia provocato dalla caduta.
“E due. Vi avverto, sono un kru di Muay Thai che studia per diventare ajarn. Potrei rompervi tutte le ossa del corpo, se soltanto volessi”.
“Ma come cazzo parli?!” rise l’altro che aveva davanti, colpendolo sul muso con tanta forza da farlo ruzzolare indietro di quasi due metri, avvicinandolo pericolosamente al bordo.
“Porca troia...” sospirò Antonio, pulendosi dal sangue che colava dal labbro superiore, ormai spaccato. Recuperò la torcia e controllò che non fosse rotta quindi si rimise in piedi, vedendo l’ennesima carica partire dalla fazione meccanica di quella lotta.
L’Inconsistente saltò letteralmente all’assalto, al grido di “lotamma!**e Antonio non poté fare altro che ragionare nel modo più veloce che potesse: istintivamente, accese la torcia negli occhi del maligno che, accecato, non si rese conto dello spostamento che aveva effettuato il suo bersaglio, non fermandosi al bordo del tetto.
Cadde giù, distruggendosi in centinaia di pezzi. Antonio era difatti rotolato verso destra, colpendo con un calcio basso un Inconsistente, su entrambi i talloni, cadendo di schiena. L’eroe in nero si gettò come un falco sulla preda, penetrando nella cavità oculare col calcio della torcia.
“No!” urlò quello.
“Come se provassi dolore! Ditemi dov’è Roberta!”.
Il liquido di raffreddamento ormai gli colava sulle mani, e al quarto, quinto colpo di torcia, la metà sinistra del volto di quell’androide non era altro che parti di metallo ricoperte da quella pareva essere pelle sintetica.
Alta tecnologia.
Antonio perse un secondo di troppo tra i suoi pensieri, prima di ricevere un forte calcio al fianco, che lo fece ritornare al centro del tetto, molto vicino al lucernaio.
“Sicuramente sarà a fare la troia, la tua Roberta!”.
Antonio si rialzò, lontano dalla sua torcia. Il colpo che aveva subito fu davvero forte e, con ogni probabilità, gli avrebbe incrinato una costola se non avesse indosso la tenuta speciale con le protezioni.
“Siete rimasti in tre... io non voglio guai... Voglio solo sapere dov’è Roberta...” fece, quasi sussurrandolo a se stesso, col fiato corto. Inspirò profondamente, vedendo i tre attaccarlo con rabbia immane, tutti assieme.
E fu colpito.
Fu colpito forte.
I colpi al volto furono sette, due dei quali presi dritti sul naso.
“Muori, coglione!” ripetevano spasmodicamente, quasi come fosse un mantra.
Poi lo presero a calci nello stomaco.
 
Devo resistere. Devo resistere per rivedere il tuo volto, Roberta.
Devo resistere per poterti riabbracciare di nuovo.
 
Quelli furono i pensieri che attraversarono la sua mente in quell’istante, e si fermavano sul bordo di quella strada lunga e tortuosa che era la vita.
Quei ricordi, ormai legati con sottili fili di seta a quella che era un’ostinata voglia di non dimenticare, erano la benzina che mettevano in moto il suo motore.
Antonio non sarebbe morto.
Non quella notte, almeno. Non prima di aver ritrovato la sua bimba speciale.
 
Si alzò di scatto, come rinvigorito da una forza invisibile; i tre indietreggiarono, non aspettandosi quella reazione così viscerale.
“Ditemi dov’è!” urlò poi, sfondando quel muro con un calcio dritto nel petto dell’Inconsistente centrale, che cadde all’indietro.
Parò poi il calcio di quello di destra e gli afferrò la gamba, ruotando velocemente sul proprio asse e lanciandolo oltre il bordo del tetto.
“Quattro!” urlò, ormai rinfrancato. L’adrenalina fluiva nelle sue vene rapida, raggiungeva il cervello, annullava il dolore del pugno che incassò subito dopo nello stomaco e gli permise di contrattaccare, afferrando per il collo l’Inconsistente e spingendolo contro l’altro che si stava appena risollevando.
“Voi non sapete nulla! Siete soltanto dei robottini nelle mani di qualche stupido sadico!”.
Si avvicinò minaccioso ai due e li sollevò per il collo, sbattendo con rabbia le loro teste fino a quando, tra le mani, non rimase più niente di riconoscibile.
“Voi non sapete nulla...” ripeté, col fiatone. Buttò fuori l’ansia con un lungo sospiro, era tutto finito. Vide l’alba avvicinarsi lentamente oltre le case. Andò a raccogliere la torcia e sospirò.
“Gli hanno scheggiato il vetro, porca puttana...”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
* - Schiattamorto: Becchino. Si riferisce al fatto che Antonio sia vestito completamente di nero, proprio come chi lavora come impresario funebre.
** - Lotamma: anche lutamma o lota, nel gergo dialettale partenopeo rappresenta la melma, la fanghiglia. Chiaramente dispregiativo.

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Capitolo 4
*** VI - Noi Saremo Eroi ***


 
IV. NOI SAREMO EROI
Chronicles Of A Broken Land - Gli Inconsistenti
 
- Varcaturo, Via Ripuaria –

Il sole splendeva vivo in quella che sembrava una scena di un film western.
Via Ripuaria era lunga parecchi chilometri e univa Qualiano al mare, passando proprio per la piccola cittadina di Varcaturo.
Tuttavia, da quando la grande cupola era caduta su quel posto niente era più lo stesso: la pioggia non cadeva, la corrente elettrica era stata interrotta e nessuno più riusciva più a trovare speranze per il futuro.
Luca e Vincenzo erano nella Panda di quest’ultimo e camminavano lentamente lungo la strada dissestata. Alcune macchine erano rimaste al centro della carreggiata. Il secondo, che guidava la Fiat, fece slalom tra pezzi d’asfalto divelti dalla strada e rottami di qualche automobile disposti in maniera casuale.
“Il fatto è che quelli camminano per strada e fanno danni. Distruggono, colpiscono, consumano e se ne vanno...” aveva osservato Vincenzo, mentre guidava la macchina a passo d’uomo.
“Come le locuste”.
“Sì, quelle. Per curiosità: hai fumato?”.
“No, sono lucido, ma ho uno spinello in tasca, pronto per l’evenienza”.
Vincenzo annuì. “Non l’avrei mai detto ma sono felice di sentirtelo dire”.
Luca sorrise e guardò un grosso pneumatico, forse di un trattore, lanciato in cima a un albero sulla destra.
“Che animali...” sospirò poi.
“Gli Inconsistenti, dici? Hai ragione. Certe volte mi chiedo le motivazioni dei loro comportamenti”.
“Già...”.
“Che bisogno c’è di fare tutto questo?!”.
Luca si voltò, guardando per un attimo gli occhi verdi del guidatore. Lasciò che il silenzio s’appropriasse di quella scena, prima di fare quell’affermazione che più di tutte aveva attraversato di lungo il suo inconscio.
“La domanda che mi pongo, sopra ogni cosa, è perché non siamo scappati via anche noi, prima che la cupola cadesse”.
La sua voce si sedimentò per un attimo nella testa del compagno d’avventura e un briciolo di consapevolezza prese a crescere nella mente di Vincenzo.
“Io lo so, il perché. Almeno parlo per me”.
“Ah si?” chiese l’altro, aggiustando il ciuffo castano con le mani.
“Quando tutta la mia famiglia è fuggita io mi sono volutamente opposto... Dico spesso che l’ho fatto per i miei progetti, per i computer e tutto il resto ma tutti sappiamo benissimo che ho fatte sedici copie su altrettanti dispositivi delle cose più importanti...”.
“Allora sei soltanto un masochista” sorrise quello.
“No. Mi ero soltanto stancato di essere soltanto una parte del tutto... Voglio viaggiare per conto mio, distaccarmi dal concetto d’insieme, e smentire ciò che tutti pensano: io non sono soltanto il figlio di mio padre”.
“Vuoi risaltare? È per questo che ti sei rovinato la vita? Mi pare stupido...”.
“No, non è questo. O meglio, forse sì” sorrise, voltando verso destra e imboccando la discesa dove viveva Luca. “Il punto è che non volevo più essere l’ennesimo elemento di quella famiglia gigante e piena di problemi insensati... Io...”.
L’altro rimaneva in silenzio, aspettando il continuo della frase.
“Voglio camminare con le mie gambe, e il fatto d’esser rimasto qui è più o meno un modo per farlo...”.
“Sì, ma ti sei precluso la libertà di poter uscire da qui dentro. Io mi sento un topo in gabbia”.
Vincenzo sorrise. “Precluso?! Caspita, non ti facevo capace di utilizzare simili termini”.
Anche Luca emulò il sorriso. “Allora non hai capito con chi hai a che fare...”.
Vincenzo parcheggiò davanti la vecchia abitazione dell’amico ma qualcosa li fece preoccupare: al centro del cancello vi era una breccia enorme, larga quasi un metro e mezzo.
“Hanno... hanno piegato l’acciaio...” osservò Luca, avvicinandosi senza minimamente preoccuparsi di nulla. Cacciò le chiavi di casa e la canna, accendendola.
“Che è successo, Luca?” domandò l’altro, turbato alla vista dello spinello. Decise che fosse saggio staccare il copriruota dalla Panda, in caso d’evenienza.
L.O.O.P. entrò nel giardino di casa sua, un tempo florido e ben curato e ora incolto, con grossi buchi nel terreno.
“Zeus!” urlò poi.
“No, hai sbagliato divinità, Luca. Il boss al giorno d’oggi è un altro, se proprio vuoi credere in qualcosa...”.
“No, Zeus è il mio cane” fece guardandolo per un attimo. Tirò dentro un respiro di verde follia e poi gettò fuori l’ansia. “Zeus!”.
“Avevi un cane?” domandò Vincenzo.
“Sì, un dobermann di qualche anno... Ma so che a te i cani non piacciono” rispose invece l’altro, senza neppure voltarsi.
“No, a me i cani piacciono. È che non mi piace il mio”.
“Sono stati gli Inconsistenti, a entrare. È sicuro”.
“Sapevo che avrei fatto meglio a staccare il coppone. Fuma velocemente che non si sa mai...” aveva risposto l’altro, abbassando immediatamente la voce e piegandosi sulle ginocchia.
“Io sono già operativo, Vincé. Entriamo con attenzione”.
Aderirono alla parete di casa, entrambi.
“Vai avanti tu...” suggerì Luca, fermandosi. L’altro sbuffò.
“E certo, vado sempre avanti io, così se succede qualcosa è Vincenzo a prendersi i cazzotti!” esclamò lui a bassa voce, passando tuttavia avanti.
“Hai lo scudo...”.
“Sì, va beh, quindi ho lo scudo e...” poi si bloccò. Si voltò per fare cenno all’amico di fare silenzio, che poi spense la canna con la punta delle dita e la infilò di nuovo in tasca; la porta infatti era aperta e si sentivano dei rumori al suo interno.
Un ultimo sguardo tra i due, seguito da un cenno d’intesa, e Vincenzo entrò lentamente in casa. La porta fortunatamente non cigolò e lui si ritrovò a strisciare per terra, nascosto da un mobile a mezz’altezza, per poi fermarsi prima del piccolo passeggio che lo avrebbe portato nel soggiorno.
Si voltò nuovamente, spalle contro il mobile, e utilizzò il copriruota come specchio, appurando che non vi fosse nessuno all’interno del salotto. Si voltò, e rotolò dietro il bracciolo del divano, posto al centro della sala, sentendo poi Luca avvicinarsi lentamente a lui.
Fu lì che entrambi udirono un rumore provenire dalla cucina, la cui porta si trovava alla destra del salotto.
Altro cenno d’intesa, i loro occhi si scontrarono e poi si chiusero contemporaneamente.
Luca gli fece segno d’avanzare e Vincenzo sospirò ruotando gli occhi, per poi rotolare verso il muro accanto alla porta.
Gli bastò pochissimo, guardò ancora L.O.O.P. e poi utilizzò di nuovo la tecnica coppone/specchio per vedere chi fosse l’intruso.
E Luca non riusciva a comprendere cosa potesse arraffare un aggressore in quella cucina se non il cibo. Ma non sapeva spiegare a se stesso come mai uno di quegli esseri che definiva come Inconsistenti si stesse nutrendo di cibo umano nella sua cucina.
Fu Vincenzo a chiarire ogni dubbio: il suo sguardo mutò, l’espressione divenne corrucciata e la sorpresa esplose nei suoi occhi quando s’accorse che non fosse uno di quegli automi in fase prepuberale a svaligiare la dispensa di Luca, quanto una ragazza dai lunghi capelli neri e la frangetta che scendeva ripida sulla fronte; Vestiva con una strettissima tutina di spandex rossa e una bandana sulla testa, dello stesso colore
La luce però rifletté sulla superficie lucida del copriruota e lasciò alla donna la possibilità d’individuare i nuovi arrivati.
“Chi diavolo siete?!” urlò, con ancora un pezzo di pane raffermo tra i denti. Luca vide Vincenzo rotolare davanti alla porta, lanciando lo scudo in cucina e spalancare stupito gli occhi: non poté guardare infatti ciò che l’altro apprese con meraviglia insospettabile.
Uno shuriken partì rapido e andò a conficcarsi contro la parete alle loro spalle.
“Ma che cazz...” sussurrò L.O.O.P., che avanzò leggermente vedendo poi Vincenzo rimettersi in piedi.
“È una ninja, Luca! Usa il tuo potere!”.
E fu lì che quello fece un balzo e guardò negli occhi per un attimo esatto la ladra affamata. Gli occhi castani dei due si scontrarono, poi quelli del ragazzo si concentrarono sulla fetta di prosciutto ormai andato a male che a quella pendeva fuori dalla bocca.
Fu quel secondo di sussultò che permise a quella di lanciare il suo sai proprio contro quello, che aveva appena alzato la mano.
Fortunatamente Luca aprì le dita e lasciò passare la punta centrale dell’arma tra l’indice e il medio, trovandosi però bloccato con la mano contro la parete, dove il sai si era conficcato.
“Luca!” aveva urlato Vincenzo. Si voltò per un attimo, vedendo la ninja correre in loro direzione. “Sei una donna! Io non picchio le donne!” disse, allungando le mani davanti a lui.
Quella sferrò un calcio basso al proprietario della Panda, ma quest’ultimo fu abile a saltarle addosso, afferrandole le mani e chiudendola in un abbraccio stretto da cui difficilmente si sarebbe liberata.
“Che schifo!” urlò quella. “Non mi toccare!”.
Cercava di divincolarsi, la donna, e Vincenzo guardò Luca provare a liberarsi dal sai, senza però alcun successo.
E poi la moretta diede una gomitata sull’addome di Vincenzo, divincolandosi; lo colpì infine con un pugno sul muso e lo lanciò in cucina, dove inciampò accanto al suo copriruota.
Poi saltò agilmente, dando un calcio sul volto di L.O.O.P. e facendogli perdere i sensi.
Fu semplice per lei tirare il sai fuori dalla parete e recuperare gli shuriken, prima di sparire in meno di cinque secondi.

“Porca troia...” sussurrò Vincenzo, rimettendosi in piedi a fatica. “Ci ha fatto il culo a strisce...”.
Luca aveva appena aperto gli occhi, massaggiandosi la mano.
“Ti ha fatto male?” chiese ancora l’altro.
“No. Non tanto. Forse il calcio in faccia... E tu? Ti ha dato una brutta gomitata nello stomaco”.
“No, i miei addominali sono acciaio, cocco... Ma chi diamine era?” disse, avvicinandosi all’amico. Si rimisero entrambi in piedi e si guardarono attorno.
“Ha... ha mangiato tutto il cibo!” esclamò Luca, aprendo tutte le ante dei mobili. “Anche quello avariato! Qui non c’è più nulla di commestibile!”.
Passò qualche secondo e poi Vincenzo spalancò gli occhi. “Oddio!” esclamò.
“Che c’è?!” si voltò l’altro preoccupato.
“E se la ciccioninja avesse mangiato il cane?!”.
Luca sbuffò. “Prendiamo ciò che possiamo e torniamo a casa. La scorta di fumo dovrebbe essere nella mia stanza”.
“A meno che non abbia mangiato anche quella...” ribatté infine l’altro portando le mani ai fianchi.

Caricarono la macchina con legna da bruciare, un sacchetto di caramelle e qualche cassa d’acqua che non era stata razziata.
“Dovremmo cominciare a vandalizzare anche noi la zona e a razziare le case” fece Luca. “Potremmo trovare del cibo”.
“O degli esseri viventi impauriti a cui non potremmo levare il mangiare. No, meglio di no”.
“Non credi che la nostra sopravvivenza sia più importante? Ora come ora non possiamo più guardare in faccia a nessuno”.
Quello fece cenno di no.
“Io non farò mai del male alla gente. Gli Inconsistenti sono la più brutta piaga che questo posto abbia mai affrontato dopo il traffico estivo per il mare...”.
“Gli Inconsistenti sono peggio, Vincé...” sorrise Luca, massaggiandosi la guancia.
“Io proteggerò la gente di Varcaturo”.
“Sei un supereroe”.
Tre metri dopo Vincenzo inchiodò, proprio davanti al supermercato che avevano visitato il giorno prima. “Noi! Noi siamo supereroi!”.
“Eh?! Ma che stai dicendo?!”.
“Tu hai i superpoteri, io sono meraviglioso... Noi siamo supereroi! Dobbiamo prenderci la responsabilità di liberare Varcaturo dagli Inconsistenti e dalla cupola!”.
“Noi dobbiamo sopravvivere per fare tutto ciò. E se non mangiamo non possiamo andare avanti, te ne rendi conto o no?”.
Si voltò e lo guardò negli occhi, mettendogli una mano sulla spalla. “Senti... Ho mai preso decisioni sbagliate?”.
“Certo! Sei rimasto sotto questa cupola a morire come me!”.
“La penso come te, non ho mai preso decisioni sbagliate. Ecco perché dovremmo difendere questa gente e diventare dei supereroi”.
Luca guardava scettico Vincenzo.
“È la nostra svolta! Solo noi possiamo fare una cosa del genere. Altrimenti Varcaturo sprofonderà nell’oblio!”.
Luca annuì debolmente, convinto dal senso del dovere del compagno. “Forse hai ragione. Ma ne siamo in grado?”.
“Siamo in grado di fare tutto ciò che vogliamo. Ci serve solo più allenamento e coordinazione. E se tu imparassi a utilizzare i tuoi poteri anche quando non sei strafatto sarebbe meraviglioso. Dovremmo trovarci dei nomi...”.
“L.O.O.P.” ribatté repentino l’altro.
“Che poi è come ti sei presentato! Allora già lo avevi deciso! Vedi?!”.
“No...” sospirò l’altro. “È che... mi chiamavano così già da prima. Sai, per il fatto delle canne eccetera...”.
“Io sarò Vince... lantes! Vincelantes! Vincenzo e vigilante, con la esse! Perfetto! Sono un fottuto genio! Vedrai che con la mia meravigliosa abilità e agilità e i tuoi poteri faremo faville!” rideva il primo.
Silenzio.
“Oggi hanno fatto cilecca” osservò quello che non guidava
“No, oggi hai cincischiato...” sospirò infine l’altro, rimettendo in moto. “Come se fossi stato ipnotizzato dai suoi occhi, come se ti avesse impietrito...”.
“Ma quali occhi e occhi... io guardavo quella fetta di prosciutto...”.

Tornarono a casa un'ora prima del tramonto, in modo da poter sbrigare le ultime faccende prima che gl'Inconsistenti facessero la propria uscita. Anche quel pomeriggio Vincenzo aveva levato alzato il cofano della panda e aveva stretto viti e bulloni. Luca era invece alle sue spalle, seduto per terra, mentre accarezzava Valerio.
"Sei davvero convinto di questa faccenda degli eroi, Vincelantes?".
"Sembra quasi che tu mi stia prendendo in giro. E comunque sì! Abbiamo la responsabilità di farlo!".
Luca sorrise, stringendo il cane e fissando gli occhi castani sulla schiena dell'amico.
"Che c'è ora? Non mi voglio girare ma ti sento ridere".
"Pensavo, niente".
"È che da solo non potrò mai farcela, L.O.O.P..."fece l'altro, strofinando le mani in una pezza umida. Chiuse il cofano e si sedette accanto a lui. Valerio allungò il muso verso di lui ma Vincenzo lo scacciò. "Cane di merda... Dicevo, se lo facciamo assieme, potremmo liberare Varcaturo dagl'Inconsistenti".
I loro sguardi s'incrociarono, i loro sorrisi sbocciarono contemporaneamente.
"Certo" s'arrese quello, nuovamente.
"Prima non mi sembravi convinto, ecco perché ne riparliamo".
"È che non mi è mai venuto in mente di pormi sopra agli altri...".
Vincenzo sorrise. "Oh beh, io sono costantemente sopra gli altri, quindi non ci sarebbe nessuna novità sostanziale...".
E Luca emulò il sorriso. "Modestino...".
"E allora ci serve un'idea!".
Rimasero in silenzio per diversi secondi, vedendo il sole abbandonare definitivamente il cielo di quel giorno. Rientrarono in casa e mangiarono, e salirono sulla terrazza; parlarono del più e del meno, sussurrarono qualche parola in silenzio e si resero conto che, a ogni esplosione che quegli automi senza religione provocavano, una parte del loro orgoglio rimaneva ferito.
"Deve finire. Li sconfiggeremo tutti" suggerì Vincelantes, con lo sguardo serio. Passò una mano tra i capelli mentre il freddo della sera lo costringeva a stringersi nelle spalle. L.O.O.P. aveva fumato, si limitò ad annuire silenzioso.
"Domani" riprese l'uomo con lo scudo. "Domani mattina scenderemo per le strade e cominceremo a recuperare il nostro armamentario...".
"E di notte usciremo per le vie. Silenziosi e indomabili".
"Gli Inconsistenti non si salveranno!" esclamò poi, col cielo stellato unico protagonista di quella sera, buia abbastanza da nascondere la grande nuvola nera che stava per aggredire il paese di Quarto.

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Capitolo 5
*** V - Non La Conosciamo Neppure ***




V. NON LA CONOSCIAMO NEPPURE

Chronicles Of A Broken Land - Gli Inconsistenti
 
- Varcaturo, Parco Noce, Terzo Viale –
 
Antonio aprì gli occhi.
Fortunatamente li riaprì anche quel mattino.
Era tutto intirizzito; come sempre aveva dormito nudo e si era scoperto.
Forse per via di quel brutto sogno, che si ripeteva costantemente ogni notte e che lo costringeva a svegliarsi di soprassalto, in apnea, coi polmoni che bruciavano e le lacrime agli occhi.
Sì, naturalmente sognava Roberta.
Sbuffò, gli addominali si contrassero non appena passò da steso a seduto e prese un grosso respiro. L'aria lì dentro era viziata ma non poteva permettersi di levare le assi di legno dalle finestre. Non poteva aprirle, altrimenti gli Inconsistenti sarebbero entrati durante le ore notturne.
Poggiò i piedi sul pavimento congelato, puntellando i gomiti sulle ginocchia e lasciando che la testa cadesse tra le mani.
Era stanco.
Stanco di quell'inferno in cui stava vivendo.
Era un uomo troppo piccolo per avere tutte le risposte che cercava ma doveva combattere costantemente con la sua voglia di lasciarsi andare, di perdere le speranze e gettare tutto al vento.
Era sicuro che, con Roberta al suo fianco, tutto sarebbe stato migliore. Anche quel purgatorio infame e senza via d'uscita, che puntava a sfiancare la ragione e portava i pochi ostinati superstiti a convivere a braccetto con la paura del buio.
Tuttavia voleva trovare la sua donna con così tanta ostinazione che la sua stessa assenza costituiva di fatto la benzina che gli consentiva di andare avanti con tutta la forza che avesse in corpo.
Si sollevò in piedi, facendo mente locale: la notte precedente si era tenuto volutamente lontano dalla chiesa di Varcaturo, vera e propria officina di fabbricazione per quelle bestie robotiche adolescenti; aveva invece cercato i pezzi di ricambio per la propria torcia, qualche cosa di commestibile e dei paragomiti.
Gli ultimi non era riuscito a trovarli.
 
Mosse qualche passo stentato, coi muscoli che gli dolevano; andò direttamente in bagno, aprendo l'acqua della doccia chiaramente fredda e cercando in qualche modo di non morire assiderato.
Alla fine riuscì anche a lavarsi, asciugando i capelli neri e fermandosi davanti allo specchio.
Era rotto, per via dei pugni che aveva tirato sul vetro qualche settimana prima. Tuttavia la sua figura gli si stagliò contro, notevolmente smagrita e pallida.
Aveva fame.
Indossò un'aderentissima maglia di cotone bianca, a maniche lunghe, e i pantaloni della sua tuta da combattimento. Aveva del pane raffermo, lo bagnò con dell'olio e lo mangiò, quindi prese a smontare la torcia da combattimento che solitamente gli faceva compagnia durante le sue ricerche e le sostituì il vetro.
Si chiedeva come avrebbe potuto fare senza la sua fedele amica; l'ultima che gli era rimasta.
 
 
- Varcaturo, Via Ripuaria –
 
"Dovremmo cominciare ad attrezzarci..." diceva Vincenzo, camminando con relativa tranquillità al centro della strada. "È mezzogiorno e ancora non abbiamo un equipaggiamento adeguato... Se non ci sbrighiamo non ce la faremo mai per il tramonto...".
“Tranquillizzati...” faceva quell’altro, rilassato e con passo calmo; guardava il cielo oltre la cupola ricoprirsi di nuvole bianche. “C’è tempo”.
“No, non c’è tempo!” esclamò l’altro, come sempre più elettrico. “Dobbiamo prendere delle armi, delle protezioni, dobbiamo crearci una divisa! Per ora abbiamo solo il supernome!”.
Luca sorrise e cominciò a ragionare. “Di armi io non ne ho bisogno…” fece, passando davanti all’incrocio che, ante cupolam, era sempre bloccato dal traffico.
“Ricordi qui?” domandò Vincenzo, con quel sorriso nostalgico che in quei giorni stava sfoderando in continuazione.
“Un giorno rimasi un paio d’ore bloccato qui” rispose l’altro. “C’era un pullman che non riusciva a passare”.
“Quando passavano…”.
“Sì, quando passavano. E generalmente quando passavano non mi servivano” rise l’altro.
“Ma è chiaro!”.
“Ricordo che un giorno non passarono. Aspettai diverse ore prima di rendermi conto che avevo perso già troppo tempo…”.
“Beh…” rispose infine l’altro, chiudendo quel discorso. “È ormai chiaro che Napoli abbia voluto dimenticarsi di noi… Ora più che mai”.
Triste, come pensiero, ma vero. Per quale motivo la polizia, i carabinieri, l’esercito, non facevano nulla per liberarli da quella prigionia così surreale?
“Beh, tu hai quella tua cosa con la mano, io ho il copricerchi… Le armi ci sono”.
Luca si fermò e guardò con espressione corrucciata il compagno d’avventura, puntandogli addosso gli occhi scuri.
“Davvero vuoi combattere gl’Inconsistenti con il pezzo di una ruota della tua Panda?”.
“Che vorresti dire?! Mi sono allenato giorni interi per lanciare il copriruota con quella precisione; potrei colpire una mela sulla tua testa, usando il mio scudo”.
“Quanto può essere resistente?! È plastica dura!”.
“Plastica dura e ostinazione italiana al servizio della mia famiglia dal lontano millenovecentonovantaquattro. E non ci ha mai lasciati a piedi”.
L.O.O.P. sospirò. “Curioso come tu sia più affezionato alle macchine che al tuo cane”.
“Sono gli esseri viventi in generale che mi stanno sul cazzo, Luca. E cerca di non entrare nella mia lista nera”.
“Ricevuto” sospirò l’altro, voltandosi all’improvviso quando delle urla si levarono al cielo.
Entrambi si avvicinarono al parcheggio del negozio d’abbigliamento accanto al grosso supermercato che avevano accanto e videro un cerchio di persone, tutte dalla pelle scura. Formavano una sorta d’arena, nella quale combattevano a mani nude due individui.
“Stanno facendo a botte!” osservò Luca. “Dobbiamo intervenire!” aveva esclamato, prendendo l'accendino e lo spinello dalla tasca dei pantaloni.
“Fermati, fermati…" rallentò l'altro.
I loro occhi s'incontrarono e lo sguardo di quello col joint tra le labbra pose quella domanda che la sua bocca non ebbe il coraggio di fare.
Vincenzo capì.
"Vedi quanti sono?! Ci ammazzerebbero!”.
“Che diamine di eroe vorresti essere, scusa?!” ribatté quell’altro. “E poi quegli esseri sono notevolmente più forti di questo gruppetto d'extracomunitari...".
L'altro portò le mani ai fianchi e sorrise.
"Vai, allora. Risolvi, eroe".
Luca lo guardò e annuì. L'accendino bruciò la punta della canna e la boccata di relax invase i suoi polmoni, risalendo fin sopra e ristagnando nel cervello per qualche secondo.
Fu un attimo, Luca diventò L.O.O.P. e si avvicinò alla saifa urlante, interrompendoli con un’insana gentilezza.
“Ragazzi, ragazzi... Che sta succedendo qui? Cerchiamo di stare calmi”.
Tutti lo guardarono. Tutti, tranne i due che lottavano; quelli continuavano a darsi pugni d’incredibile potenza.
“Che vuoi?” domandò uno, che parlava un italiano stentato. Non era altissimo ma aveva larghe spalle e forti bicipiti che s’intravedevano sotto il tessuto del maglioncino infeltrito che indossava. La barba a stento faceva contrasto sulla pelle scura. Sulla sua testa, piccoli riccioli s’intrecciavano scomposti.
“Che fate?” domandò il bianco, col sorriso tranquillo sul volto e la canna che gli pendeva dalle dita.
Poi vide il duellante di destra sferrare un cazzotto terribile al volto dello sfidante, mandandolo per terra e fuori combattimento.
“Vediamo chi re! Chi comandare! E io vinto! Suragi re di Varcaturo!” urlò il campione, raccogliendo i denti dell’altro e lanciandoglieli contro.
L.O.O.P. si voltò verso Vincenzo, che rispose sorridendo. Gli fece poi cenno di andare avanti, cercando di capire dove volesse andare a parare.
“Tu sei Suragi?” chiese Luca, più rilassato, mentre i corpi di quelli si ammassavano davanti a lui.
“Io Suragi! Io re di Varcaturo”.
“Io sono L.O.O.P. e difendo questo posto dagli Inconsistenti”.
Lo vide spalancare gli occhi, con la sclera opaca. Focalizzò per qualche secondo il new-era rosso, poggiato sulla testa, e intanto il vociare aumentava.
Inconsistenti? Bambini di ferro?!esclamò Suragi, sistemandosi meglio il cappellino sulla testa.
“Sì, quelli”.
“Noi chiamiamo loro bambini di ferro. Loro uccidono noi di notte. Avere paura”.
Luca abbassò il volto. “Proteggeremo tutti. Proteggeremo anche voi” fece, allungando la canna verso quello, che strinse gli occhi e sorrise a mezza bocca, accettandola.
“Noi fratelli aiutiamo te. Stare tuo fianco quando avrai bisogno”.
Suragi restituì la canna a Luca, che fece un altro tiro. La ripassò e li salutò, tornando da Vincelantes.
Quello guardava stranito.
“Hai davvero fumato con chi porta la droga in queste zone?”.
Luca sorrise e annuì. “Solo amore, se amore sai dare...” fece.
“Molto gay, come frase di chiusura. Avrei preferito qualcosa più d’effetto”.
“Accontentati. La sartoria è lì” sospirò l’altro.
 
E insieme si avvicinarono alla saracinesca. I catenacci erano stati strappati dai fermi, che a loro volta erano stati divelti dallo scalino.
“Sono passati di qui” fece Vincelantes, imbracciando meglio il coppone. Luca lo guardò mordersi le labbra.
“Corriamo il rischio di trovare qualche Inconsistente che dorme” continuò l’altro.
“Beh, ho fumato fino a pochi minuti fa, possiamo farcela”.
Vincenzo si girò e guardò divertito il compare. “Dobbiamo discutere del fatto che devi essere perennemente fatto per fare questo lavoro...”.
“Le cose non sarebbero cambiate lo stesso” sorrise.
“Piano: io alzo la saracinesca e tu lo blocchi coi tuoi poteri, poi io lo decapito. Prendiamo le stoffe e torniamo a casa; dopodiché posiamo tutto e poi passiamo alle protezioni...”.
“Una cosa alla volta. Pronto?” chiese il castano. L’altro sospirò e si fermò.
“Forse sarebbe meglio cominciare dalle protezioni, no? La sicurezza è la cosa più importante del resto...”.
“Siamo qui, non perdiamo tempo” rispose infine Luca, alzando la saracinesca e cominciando a ruotare preventivamente la mano destra.
Quando però si resero conto che all’interno del piccolo negozietto non vi fosse nessuno non poterono fare altro che sorridere.
“C’eravamo preparati al peggio” sorrise L.O.O.P., abbassando la mano e guardando il compare in armi, che portò invece le mani ai fianchi.
“Dobbiamo essere sempre pronti al peggio...”.
“Sì, ma qui non c’è nessuno...”.
L’odore era pungente, lì dentro. Luca guardò le pareti, totalmente ricoperte da tessuti in raso di vari colori, e si concentrò particolarmente su rotoli di nastro che pendevano sulla sinistra.
Il bancone era grande, a U, in legno, e divideva il retrobottega dalla zona in cui venivano serviti i clienti.
S’avvicinò proprio al banco, carezzando la superficie ruvida e graffiata su cui un abito da sposa era stato poggiato, un tempo candido e vergine e ora sporco e sgualcito.
“Credo che le stoffe siano sul retro” osservò Vincelantes, muovendosi rapido verso il bancone e saltandolo agilmente.
“Sborone...” sussurrò Luca, seguendolo, altrettanto agilmente.
Atterrarono nel retrobottega, dove vi era un grosso tavolo avvitato al muro con tre macchine da cucito sopra, evidenti postazioni adibite alla produzione d'abiti.
Dall’altra parte della camera, invece, vi era un banco più scuro, quasi del tutto graffiato, in cui un grosso pezzo di pelle da conciare era stato tagliato in tante piccole striscioline.
“Non vedo nessun tessuto, tranne quel rotolo di pelle lì” disse Luca.
“E non saremo i primi eroi sado di Varcaturo, sappilo”.
Luca inarcò le sopracciglia, quasi divertito. “Beh, lì c’è un abito da sposa”.
"Sono più tipo da frac e panciotto ma devo ammettere che con le spalle che mi ritrovo farei un figurone..." ribatté, avvicinandosi al vestito e facendo per prenderlo tra le mani, quando poi una voce lo bloccò.
“No!” sentirono urlare. Vincenzo vide dei rocchetti di cotone rimbalzargli sul petto, lanciati con poca forza. Li guardò rotolare per terra senza capire bene ciò che stesse succedendo.
“Mi hanno... mi hanno appena attaccato?” chiese. Luca faceva evidente fatica a comprendere la situazione, un po’ per quel buio fin troppo soffuso nel quale il retrobottega era totalmente immerso, un po’ per i suoi sensi appannati dal joint che aveva condiviso qualche minuto prima col re dell’Africa nera; guardò i rocchetti di cotone beige rotolare sul pavimento e poi alzò gli occhi verso Vincenzo.
“Ora che dovrei fare? Cioè, sono diventato superforte?” si chiese quello. “Se fosse stato un Inconsistente a colpirmi ora avrei dovuto avere dei buchi nel petto”.
“Sono rocchetti di cotone, non proiettili di una calibro dodici...”.
“Dovevo stare più attento!” urlò poi l’altro. Luca si voltò curioso, cercando chi avesse teso loro quel futile agguato.
I suoi occhi vagarono per il piccolo retrobottega, quando la luce fu rifratta da un paio d’occhi nascosti tra i piedi delle sedie, sulla sinistra.
S’accovacciò sulle ginocchia, vedendo poi quel paio d’occhi, quel grosso paio d’occhi scuri ma vividi e impauriti.
“Hey, ciao” sorrise Luca, bonariamente. Quella, terrorizzata, ritrasse le gambe al petto, stringendole con le braccia.
“Vai via! Non farmi del male!”.
Luca si voltò e guardò Vincenzo, facendo spallucce.
“Spostati, ti faccio vedere io come si fa” disse quello, muovendo via la sedia che li divideva e fissandola bene negli occhi.
“Noi non vogliamo...”.
“Stai zitto e uscite da qui!” fece l’altra, lanciandogli sul volto altri rocchetti di cotone, ancora imbustati. Vincenzo rimase impassibile, guardò Luca e sospirò.
“Lei è sulla mia lista nera”.
“Levati di qui e lascia parlare me” fece l’altro, inginocchiandosi totalmente. Quella puntò gli occhi nei suoi, fissando poi le labbra sorridenti e il ciuffo di capelli ben dritto sulla testa.
“Piacere, Luca” disse quello. “E non voglio farti del male”.
“E neppure io!” esclamò Vincenzo, irritato. “Mi hai tirato seicento rotoli di cotone addosso!”.
“Chi siete?” domandò quella.
“I buoni! Siamo i fottutissimi buoni che stasera devono difendere gli ingrati come te e tutti gli altri!” ribatté ancora l’altro, irritato.
Luca sospirò. “Fratè, stai scafonando...”.
 “Io?! Questa non è capace neppure di attaccare decentemente un nemico, se gli lancia del cotone contro!”.
“Ha paura, era logico che ti attaccasse... In ogni caso...” si girò verso la ragazza “... stiamo cercando dei materiali per fare dei costumi. Non pensavamo che ci fosse qualcuno e così siamo entrati...”.
“Questa era la sartoria di mia madre...” sospirò quella, uscendo finalmente dal suo nascondiglio. “Almeno prima che... prima che...” e poi pianse nuove e lunghe lacrime nere, che sciolsero ciò che rimaneva del suo mascara, accumulandosi sul mento appuntito.
“Basta così” interruppe Luca. Le tese la mano e l’aiutò ad alzarsi in piedi. Vincenzo vide uno spettro davanti a sé, con gli occhi scavati e il colorito pallido.
Smagrito il volto, i vestiti sembravano essere di qualche misura più grande.
“Io sono Mery” fece, guardando negli occhi L.O.O.P.
“Piacere mio” sorrise quello. Gli piacevano i suoi occhi.
“State…” singhiozzò. “State cercando dei tessuti?”.
Vincenzo annuì. “Anche se avremmo dovuto cercare prima delle protezioni”.
Luca si voltò a fissarlo per un attimo, quindi sospirò e rispose alla ragazza.
“Sì… Staremo provando a crearci delle uniformi. La questione è che non le sappiamo cucire né mettere assieme, a dire il vero… Non siamo veri e propri sarti…”.
“Diciamo che io con le misure me la cavo…” aggiunse l’altro.
“Sta’ zitto... Tu potresti darci una mano?”.
Entrambi sentirono il respiro irregolare della ragazza, che quasi rantolava, poi abbassò la testa.
“In cambio potremmo darti del cibo e dell’acqua. Magari potresti stare da noi…” fece Luca, portando la mano al mento di quella e sollevandolo.
Vincenzo invece spalancò gli occhi.
“Ma che diamine?! Vieni un momento!” esclamò, tirandolo fuori dal negozio per un istante.
La luce del giorno mancava di calore ma investì completamente i loro corpi.
Quello con lo scudo era alterato.
“Ma ti sembra il caso?! Non la conosciamo neppure! Potrebbe essere un’inconsistente!”.
“Non ho mai visto un’Inconsistente donna, Vincenzo. E poi è più grande…”.
“Potrebbe essere che gli esemplari donna siano più grandi”.
“Ma sta morendo di fame!”.
“Non la conosciamo neppure!”.
“Sì ma ci potrebbe aiutare coi costumi e poi…”.
“Non – la – conosciamo – neppure. Stop”.
“Mi piace”.
Vincenzo si zittì immediatamente. Guardò i suoi occhi sfuggire al confronto col suo sguardi e quindi sospirò.
“Beh... Non la conosciamo… neppure…”.
L.O.O.P. si voltò, fissando il vecchio Conad con la saracinesca totalmente distrutta e portò le mani ai fianchi.
“Non… non è semplice…”.
“Ora come ora è più semplice perdersi d’animo e buttarsi su qualcuno… Trovare un po’ di calore nelle persone che non vogliono ucciderti. Ma non sappiamo se lei sia una brava persone e invitarla nella nostra base può essere rischioso. Non la conosciamo neppure” ripeté, per l’ennesima volta.
“Ho visto nei suoi occhi qualcosa di buono, Vincenzo. Qualcosa che non avevo mai visto”.
L’altro si guardò le mani, sporche e ruvide. Si limitò soltanto a sospirare quando subito dopo Luca si voltò verso di lui.
“Ti chiedo di fidarti di questa mia sensazione”.
Poi gli pose la mano, cercando complicità nel suo sguardo.
Complicità che trovò.
Vincelantes strinse la mano di L.O.O.P. e entrambi annuirono.
“Non conoscevi neppure me” ribatté l’altro sorridente. “Ma non ho mai provato a ucciderti”.
L’altro scosse la testa, poco convinto. “Fino a ora…”.
Sorrisero entrambi e rientrarono nel negozio, vedendo la ragazza ammassare diversi tessuti l’uno sull’altro e poggiarli sul bancone.
“Immagino abbia accettato” sorrise Luca al compagno. Quella si voltò e afferrò un metro flessibile gommato.
Li guardò soltanto dopo aver preso una valigetta piena di ago e filo, quindi parlò.
“Prima mangiamo e poi vi faccio i costumi. Saranno pronti il prima possibile” sorrise leggermente, sotto gli occhi addolciti di Luca.

 

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Capitolo 6
*** VI - Bikers ***



VI. Bikers
Chronicles Of A Broken Land - Gli Inconsistenti

 
- Varcaturo, Via Madonna Del Pantano Sud, Base Operativa di Vincelantes e L.O.O.P. –
 
“Oggi abbiamo recuperato un sacco di provviste” analizzava Vincenzo, davanti al portabagagli aperto della sua Panda. “Abbiamo preso addirittura una batteria carica da un auto ribaltata”.
Mery sorrise, afferrando una cassa d’acqua che avevano trovato in una casa abbandonata. Era pesante e la trasportò con fatica fin vicino l’ingresso del palazzo, mentre Valerio circolava tranquillo nel giardino.
Salì il primo scalino, la ragazza, esile e paonazza per lo sforzo, fino a quando Luca la raggiunse alle spalle e le tolse il peso dalle mani.
“Uff... Ce la facevo, tranquillo...” fece poi, vedendo l’altro sorridere gioviale.
“Non preoccuparti, ne sono sicuro. Se vuoi potresti andare a prendere qualcos’altro...”.
“Va bene” annuì. Si voltò e ritornò da Vincenzo, che intanto aveva già preso dodici buste, la suddetta batteria e uno scatolo pieno di legna.
Mery spalancò gli occhi, accorrendo rapida da lui.
“Ti aiuto” fece, cercando di raccogliere qualcosa dalle sue braccia. Tuttavia colui che si nascondeva dietro la maschera di Vincelantes declinò con orgoglio l’offerta.
“Ce la posso fare da solo, tranquilla”.
“Volevo soltanto aiutare” ribatté quella.
“Non preoccuparti”.
“Mi dite tutti di non preoccuparmi ma vorrei darvi una mano con le cose che posso fare anche io...”.
“Ci staresti dando una mano coi costumi, a dire il vero” rispose prontamente Vincenzo, cominciando a salire le scale a fatica.
“Sì, ma certo, ma certo”.
“A che punto sono?” chiese l’altro, coi muscoli che scoppiavano.
“Beh, per ora sto facendo un po’ di organizzazione... Sai, col materiale che mi ritrovo per le mani e il resto devo fare un po’ di calcoli...”.
“Purtroppo devi fartelo bastare”.
Quella sospirò.
“Sì, ci sto provando pure... È che sicuramente avrò bisogno di voi per le misure e... Beh, temo che dovrò coprire con delle toppe a meno che...”
“A meno che cosa?”. Vincenzo si bloccò sulle scale, con tutto addosso. Fu allora che Mery prese l’iniziativa e lo liberò da un paio di buste.
“A meno che non utilizziate dello spandex, ecco”.
“Ancora con questa storia del sado, porco mondo!”.
“Qualcuno sta parlando di sado?” chiese poi Luca, scendendo le scale dal piano superiore. Liberò gran parte del carico di Vincenzo, che guardò storto il compagno d’avventure.
Quell’occhiataccia diede a Luca l’opportunità di capire che non fosse una discussione sui gusti sessuali.
“I costumi?” domandò poi.
“Ragazzi, non posso creare dei costumi col tessuto normale! Se davvero siete dei supereroi, e fate quello che avete detto di fare, gl’Inconsistenti distruggeranno i vostri costumi non appena vi toccheranno...”.
“Non mi toccheranno mai” fece sornione il padrone di casa.
“Lo spandex è elastico abbastanza da resistere alle sollecitazioni. Inoltre mantiene la temperatura corporea costante e...”.
Luca guardò gli occhi della ragazza, chiari nonostante la pelle olivastra, quindi inarcò le sopracciglia.
“Come mai sei così esperta di latex?” domandò.
Quella si voltò immediatamente, avvampando con violenza.
“Già!” esclamò poi Vincenzo. “Non è che latex di qua, latex di là, sei una mistress o una cosa del genere?!” sorrise allusivo.
“Ma che state dicendo?!” fece, avanzando rapidamente e salendo la rampa di scale che la divideva dall’appartamento che Vincenzo le aveva riservato.
I due si guardarono, confusi.
“Colpa tua” additò il padrone di casa, continuando a salire gli scalini, raggiungendo e superando Luca, che all’affermazione spalancò gli occhi.
“Io?! Tu eri allusivo!”.
“Tu hai aperto il discorso!”.
“Tu hai detto la parola mistress!”.
“Beh?!”.
“Beh, è una femmina! Si vergognano di dire che hanno voglie strane!”.
“Finitela!” sentirono urlare dal piano di sopra.
Sorrisero entrambi e rincasarono.
 
Ormai in quella casa il silenzio la faceva da padrone.
Vincenzo sapeva che le cose non sarebbero cambiate a breve senza l’intervento di qualche folle volenteroso, e lui, assieme a Luca, possedeva il profilo giusto.
Levò i vestiti e li piegò ordinatamente sul mobile del bagno quando ormai anche l’ultimo raggio di sole aveva detto addio all’ennesima giornata lampo, dove era proprio la luce della sfera luminosa alta nel cielo a creare un timer mentale prima che gli animali si svegliassero dal proprio riposo.
Nudo, aprì l’acqua della doccia. Si fermò davanti allo specchio, aspettando invano quel minuto e sperando che diventasse calda.
Ma senza una caldaia funzionante non accadeva.
Quindi anche quel giorno, come ogni giorno, Vincenzo prese forza e coraggio e cercò di calmare l’istinto di uscire fuori da quel bagno sporco e sudato, lavandosi con l’acqua gelida.
Quando finì si gettò nel caldo abbraccio dell’accappatoio, più che intirizzito, coi muscoli tonici e i capelli bagnati.
Ciò che mancava non era una caldaia funzionante; ciò che mancava era la corrente.
E la corrente mancava perché la cupola d’energia era caduta anche sui cavi, spezzandoli di netto e isolando Varcaturo.
Bisognava rimuoverla.
E siccome avevano già provato a toccarla, venendo praticamente respinti, come da un campo di forza, e dopo aver vagliato varie ipotesi per uscire da lì, anche scavando, si erano resi conto che c’era bisogno di qualcosa di più drastico.
Hacker com’era, sarebbe riuscito a entrare nei sistemi di videosorveglianza della chiesa e magari capire se l’intero sistema dell’innesco della cupola fosse elettrico oppure avesse anche un tantino a che fare con la magia.
Non era tipo che riusciva a credere a quelle cose, era fin troppo razionale e pragmatico e la magia era per quei tipi che ti facevano sparire il cellulare e te lo facevano riapparire dietro l’orecchio.
Se avevi fortuna.
Tuttavia pensava a L.O.O.P. e non riusciva a darsi altra spiegazione; come diamine avrebbe potuto fare quello, se non utilizzando la magia?
“Forse sono davvero superpoteri…” sussurrò tra sé e sé. Asciugò velocemente i capelli e si ritrovò fuori al balcone.
Le luci erano spente e il freddo s’era steso nell’aria stanco e prepotente, quando le prime urla moleste s’erano levate nel cielo scuro di quell’inverno.
Varcaturo era sotto la mercé di quegli animali, anche quella sera.
Che poi, ritornava al pensiero della cupola: se l’alimentazione fosse stata magica non avrebbe potuto farci nulla, avrebbe dovuto ucciderne la fonte, a meno che non fosse stata una bella donna, la causa di tutto quel problema.
Perché sostanzialmente, Vincelantes doveva essere un eroe playboy, gli piaceva quell’idea.
Tuttavia, se invece fosse stata elettrica la matrice della cupola, gli sarebbero bastati pochissimi minuti per mettere a posto una bomba a impulsi elettromagnetici, in grado di spegnere per qualche secondo il generatore d’energia che alimentava la cupola e permettere a tutti di uscire.
Doveva succedere di giorno, senza gl’Inconsistenti tra i piedi, e poteva utilizzare la batteria che aveva trovato quel giorno.
Poi qualcuno che batteva le nocche sulla porta e quando andò ad aprire vide che erano i suoi unici due vicini di casa.
“Ragazzi…”.
“Stiamo aspettando te per mangiare qualcosa” disse Mery, gioviale.
Lo sguardo di Luca s’intenerì, Vincenzo lo vide sorridere in direzione di quella, che neppure s’accorse dell’espressione del ragazzo.
“Sì, entrate, ho tutto qui…” disse l’altro. Fece strada nella casa buia. Mery cercava di carpirne qualche particolare con lo sguardo, inutilmente.
Tutto troppo scuro.
Vincenzo fece strada fino alla cucina, dove dello scatolame era ben ordinato sulla tavola.
I tre si guardarono, presero tre scatolette di tonno e divisero un barattolo di fagioli.
E con la fame non totalmente assopita s’addormentarono vicini, sul letto del ragazzo con lo scudo.
 
 
- Varcaturo, Via Ripuaria –
 
E se invece non fosse mai riuscita a uscire da Varcaturo?
 
Era questa, la domanda che Antonio si poneva. Si muoveva come un’ombra nella notte, mentre gl’Inconsistenti gironzolavano per Varcaturo, pattugliandone le strade disastrate.
 
Non può essere morta. Questi animali non possono averla uccisa e lei non sarebbe scappata via da me. Sarebbe rimasta qui, tuttalpiù avrebbe finito col rimanere all’esterno della cupola, tanto vicina da farsi vedere. Avrebbe lasciato qualche traccia di sé, qualche scritta, qualche cartello… Lei non può essere morta e non può essersi scordata di me!
Lei è ancora qui dentro ed è in pericolo!
 
Questi erano i pensieri che circolavano nella testa dell’uomo con la torcia.
Via Ripuaria non era particolarmente affollata quella sera. La raggiunse da nord, da Via Madonna del Pantano, dove abitava. Aveva impiegato più di un’ora per percorrere quei settanta inutili metri, dato che le ronde diventavano sempre più frequenti sulle strade secondarie.
La principale, invece, godeva di parecchio silenzio.
Fu quasi confortevole vedere l’Alfa 156 ribaltata, poco oltre la rotonda, andando verso il mare. Non sapeva di chi fosse, poteva solo immaginare che il proprietario dovette essersi fatto parecchio male quando, durante lo scontro col palo della luce che lo aveva fatto ribaltare, l’automobile carambolò a venti metri, rotolando.
Aveva spulciato quell’auto più di una volta, cercando provviste e risorse.
Batterie per la sua torcia, magari.
Invece no.
Quel giorno decise di allungarsi verso il mare, in una zona che in quel capitolo nero della sua vita non era mai andato a esplorare.
Fu quando sentì una voce sguaiata che il Punitore si mise all’erta.
Saltò rapido oltre le inferriate di una villa, passando attraverso i lauri e atterrando malamente sull’erba.
 
“O quggì! Staje ‘t fox!”.
 
Sbuffò, Antonio. “Come cazzo parlano, ‘st’Inconsistenti. Cose che neppure al Cocoricò dodici anni fa…”.
 
“Ua! T’laiv, o frat” rispose un secondo.
“O’ frat mij carnal!” aggiunse un altro. “Nisciun ce mett rint o CARCR”.
“Chill’è o’riposo re’liun, a babbucc’”.
 
Rabbrividì, il ragazzo.
“Per un pelo…” fece.
Ed effettivamente erano passati vicinissimi. Tuttavia qualcos’altro attirò l’attenzione dell’uomo in nero.
Si rimise in piedi, pulendosi dal terreno. Aveva preso una brutta botta all’anca ma non ci pensava.
No, perché davanti a sé aveva otto Harley-Davidson, tutte lucide, tutte messe a nuovo.
E la cosa era strana, dato che gli unici veicoli ancora interi al di sotto della cupola erano custoditi gelosamente sotto la protezione di fucili a pompa o di qualsiasi semiautomatica.
Invece quelle motociclette erano lì, sui propri cavalletti, l’una accanto all’altra.
Si avvicinò a quelle motociclette e ne carezzò la superfice lucida. Passò poi la mano accanto al motore, sentendo il calore attraverso i guanti.
“Funzionano”.
S’immaginava già in sella a uno di quei bolidi, e probabilmente avrebbe dovuto rubarne uno al più presto. Tuttavia era sicuro che nella casa che aveva davanti avrebbe potuto trovare qualcosa di più.
Afferrò la torcia e si abbassò.
I superstiti non erano molti, sotto la cupola. Chiunque avesse la possibilità di sopravvivere agli Inconsistenti e contemporaneamente mantenere una Harley ancora intera non doveva essere una persona qualunque.
E lì c’erano quasi dieci motociclette.
Forse dieci persone dalla potenza straordinaria. Forse sapevano di Roberta.
Percorse l’intera lunghezza della parete basso sulle ginocchia, con le mani sulla torcia e il sudore che gli imperlava la fronte. Arrivato all’angolo riuscì a percepire le voci di quelle persone: non erano pochi. Ne riusciva a contare almeno tre differenti.
Gettò lo sguardo oltre, verso il muro più lungo dell’abitazione. Lì c’era qualcuno che stava discutendo di meccanica.
 
“Sì, lo so che la mia moto si sente da lontano, ma è per via della frizione…”.
“Quel rumore metallico dà fastidio” ribatté quello che gli stava accanto.
“Vuol dire che funziona, allora”.
I due discutevano e non si erano accorti di Antonio. Lui li guardava gesticolare vistosamente, indossando jeans sdruciti e giubbotti di pelle. Il primo, quello con la frizione rumorosa, era più bassino.
Portava i capelli castani pettinati ordinatamente da una parte, ma la barba di qualche giorno sul volto allontanava da lui la figura da bravo ragazzo. Naso schiacciato, occhi scuri e labbra carnose, manteneva tra le mani una bottiglia di Tennent’s e una grossa catena d’acciaio pendeva da un moschettone attaccato ai suoi denim.
“Se deve dare fastidio, allora funziona” riprese l’altro, quello più alto e sottile, col ciuffo castano arricciato sulla fronte.
Antonio continuava ad ascoltare le loro parole, cercando di sporgersi quanto bastava per identificarli.
“Scè… Poi com’è andato a finire con quello?”.
“Quello quale?”.
“Il tizio che inviava le polaroid della banana a Kekka”.
Antonio lo vide sbuffare. “L’ho lasciato lì per terra…E deve ringraziare che la gente di Marano non può entrare nella cupola”.
Ma il dito di Antonio premette per sbaglio sul pulsante e la luce si accese; i due si voltarono rapidi e spalancarono gli occhi.
Non impiegarono molto tempo prima di metterlo fuori combattimento e catturarlo.

 

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