Time after time

di Claire_Rose
(/viewuser.php?uid=1015073)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il principio ***
Capitolo 2: *** Non avere paura ***
Capitolo 3: *** Giochi del destino ***
Capitolo 4: *** La forza dell'amore ***
Capitolo 5: *** Il coraggio di rischiare ***
Capitolo 6: *** Una sola anima ***



Capitolo 1
*** Il principio ***


TIME AFTER TIME

“Niente può sconfiggere la guerra ed i suoi pregiudizi se non l’amore”
Mia nonna era solita ripetere questa frase. Mi raccontava storie sugli innamorati del suo tempo, sulle carezze date su un viso pallido e sui baci dati a fior di labbra, sul pudore dell’amore fisico e del piacere sincero che ardeva nell’anima di quegli innamorati.
Sul mio letto erano sparse le sue foto, quelle che mi aveva regalato prima di morire. Le foto con il nonno, quando si sono sposati e quando hanno avuto mia madre. Le foto di quando era una ragazzina, con le sue amiche a bordo di una Vespa. I loro sorrisi, i loro vestiti anni ’40 e le pettinature cotonate. Quella voglia di vivere che, nonostante la sofferenza della guerra appena finita, non andava via ma si faceva sempre più forte. 
Non avrei mai pensato che prima o poi avrei dovuto fare a meno dei suoi racconti, che non avrei mai più sentito la sua voce, il suo profumo il suo affetto. Dicono che le persone non muoiono davvero, se ne va il loro corpo ma la loro anima rimane con noi per sempre. Lei sarà con me fino a quando un giorno ci rincontreremo e le nostre anime si riuniranno sopra il cielo, le nuvole e oltre lo spazio, in quello spazio dove non esiste più la morte ed il dolore ma solo la pace dell’anima.
Ad interrompere i miei pensieri, fu il suono del mio cellulare. Era un sms si Carlotta, la mia migliore amica dai tempi della scuola elementare. "Hey, ci sei stasera?".
"Si, che facciamo?"
"Mi avevi promesso che saremmo andate a ballare il latino"
"Promesso?"
"SI!".
Il latino americano era la sua passione, non credo lo sappesse ballare nel modo giusto ma diciamo che cercava di applicarsi, ha dalla sua parte un fisico statuario e una movenza sensuale, perciò credo sarebbe adatta a questo genere di ballo. Il problema è che vorrebbe trascinare anche me e io non ne ero molto convinta.
"Ti passo a predere alle 21, non voglio storie"
"Ok"
Alla fine le ha tutte vinte, ma l’amicizia è anche questo. L ‘accondiscendenza.
Raccolsi tutte le foto e le riposi in una scatola di latta. 
Le 21 p.m arrivarono in un attimo, presi la mia poschette nera ci misi il telefono i soldi, le chiavi di casa e le sigarette. Ero vestita con un mini abito nero semplice, un paio di All-star e il mio immancabile giacchetto di pelle. Davanti casa mia c’era Carlotta sempre in tiro appoggiata alla sua 500 nera opaco.
“Finalmente ce l’hai fatta!” mi abbracciò forte quasi a stritolarmi.
In macchina l’atmosfera era già latina, musica raggaeton a tutto volume e le sue urla di gioia.
“Ci divertiremo!” continuava a ripetere.
Dopo aver trovato parcheggio, entrammo nel locale. Era nuovo, aperto da poco e fuori c’era la fila ma noi entrammo senza problemi perchè Carlotta conosceva il butta fuori.
Dentro il locale era illuminato con luci calde, la gente allegra si muoveva a ritmo e il Vocalist animava il tutto con frasi in spagnolo che non capivo. Al banco del bar ordinammo una piña colada, giusto per rimanere in tema. Finito il cocktail ci buttammo in pista. La musica mi avvolse, iniziai a percepire gli accenti delle note di una nota canzone raggaeton e a muvermi di conseguenza. Era divertente. Ad un certo punto si formò un cerchio e al suo interno due ragazzi iniziarono a muoversi suadentemente e a fare una sorta di spettacolo gradito a tutti. Uno dei due prese per mano la mia amica e l’altro venne da me, mi porse la mano con gentilezza e mi disse qualcosa nell’orecchio. Intanto il Dj fece partire una Bachata.
Il ragazzo mi attirò a sè, le nostre mani intrecciate si fusero in una sola, i nostri bacini si muovevano all’unisono e lui non staccava gli occhi dai miei. Una giravolta e di nuovo vicini. Finita la canzone afferrò la mia mano e ne bacio il palmo.
“Gracias muñeca!”
Gli sorrisi. Fu l’unica mia risposta.
Intanto Carlotta stava ancora ballando con l’altro ragazzo. Mi avviai verso il banco del bar con tanto di fiatone ma con soddisfazione. Chissà che forse anche io sono portata per il latino americano, alla fine è un ballo sensuale ma al momento stesso romantico. I miei pensieri vennero interrotti da una spinta che mi fece andare a sbattere contro il mio vicino al banco del bar. Mi girai e davanti a me c’era una montagna di due metri con una birra in mano e uno sguardo indispettito. 
“Che c’è principessa ti sei fatta male?” il suo tono era provocatorio. Stavo per rispondergli ma una voce dietro di me mi interruppe.
“Carlos, smettila di rompere alle belle ragazze tanto non ti calcolano”
“Tu credi?”
Si avvicina a me ed io con una mano cerco di allontanarlo.
“Per caso non ti piaccio bambolina?” la sua risata fece eco nelle mie orecchie e non ci vidi più.
“Sai non mi piacciono i disperati come te, perciò evapora”
Si avvicinò alla mio viso e con aria minacciosa mi sussurrò “non provocarmi, non ti conviene”.
Il ragazzo dietro di me si intromise e con una mano lo allontanò.
Mi accorsi che era il ragazzo con cui avevo ballato prima. Intanto il bullo mentre si allontanava mi fece il cenno che mi osserva.
“Tranquilla è innocuo” la sua voce era rassicurante come il suo sorriso.
“Non mi preoccupo dei tipi come lui, sono i soliti bulli”
“Hai un bel carattere”
“Non mi faccio mettere i piedi in testa”
Mi sorrise in segno di approvazione. Il suo sguardo era intenso, i suoi occhi neri erano racchiusi in una mandorla perfetta, la sua bocca era carnosa, perfetta per il suo viso. I suoi colori erano caldi, tipici delle popolazioni Sud Americane. Il suo corpo era statuario, allenato, semplicemente perfetto.
“Sono Javier” allungo la sua mano e io la strinsi.
“Piacere, Clara”.










Ciao a tutti, sono Claire Rose! Ho iniziato questa storia per puro piacere e divertimento. Ma mi piacerebbe indurre il lettore a riflettere su più spaccati di realtà. Affronto un tema abbastanza comune e delicato ai giorni d'oggi, il razzismo. Ma voglio comunque che i miei due protagonisti vi rubino il cuore con il loro amore tormentato. Accetto: consigli e critiche (ovviamente se costruttive) sia nel bene che nel male. 
Buona lettura a tutti!!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Non avere paura ***


La sua mano era così calda, i suoi occhi così rassicuranti. Dimenticarli era impossibile.
La serata era finita e io arrivata a casa mi buttai sul letto ancora vestita, guardai l’orologio erano le 3.30 a.m e io l’indomani sarei dovuta andare all’università. Al solo pensiero avevo i brividi, mi sarei dovuta alzare tra tre ore e mezzo. Mi tolsi le scarpe, indossai il mio pigiama e crollai in un sonno profondo.
La sveglia suonò presto, ancora assonnata con una spinta la buttai giù dal comodino e misi la testa sotto il cuscino. Non avevo voglia di alzarmi, stavo facendo un bel sogno. Una spiaggia, un mare limpido come uno specchio, una musica latina come cornice e lui. 
“Clara, alzati devi andare all’università” mia madre entrò in camera e aprì la finestra. 
“Non ho voglia” la mia testa era ancora sotto il cuscino.
“Ve bene passerò alle maniere forti” tolse con violenza il cuscino da sopra la mia testa e mi ritrovai accecata dalla luce del nuovo mattino.
“Sei folle mamma”
“Lo sai bene, la follia è la parte migliore della nostra famiglia”
Con gli occhi ancora impastati dal sonno, le lanciai uno sguardo di disapprovazione misto a disperazione.
“La colazione è pronta” uscì dalla mia camera con aria soddisfatta.
Mi vestì con zero voglia e mi truccai in modo tale che non si vedesse così tanto che la sera prima avessi fatto i bagordi. Bevvi un succo e mangiai due biscotti in croce. Di solito non sono una che mangiava tanto, ero sempre stata la ritardataria della situazione, perciò mangiare non era la prima cosa a cui pensassi.
Il bus arrivò in orario ed io mi misi a sedere in uno dei posti liberi, misi le cuffie e entrai in un’altro mondo.
La serata di ieri era stata così strana, ma bella. Mai avrei pensato che quel tipo di ballo mi sarebbe piaciuto, prima o poi. Aveva ragione la mia amica, che mi sarei divertita. E poi lui, il suo modo gentile di invitarmi a ballare e il suo difendermi. Non ero una a cui serviva essere difesa, me la sono sempre cavata da sola, ma mi piacque per una volta che qualcuno avesse preso le mie parti. I suoi occhi mi avevano squadrata per tutta la sera, tant’è che avevo pensato che avessi qualcosa che non andava nel viso o nel vestito.
A fine serata lo cercai, ma non lo trovai più. Avrei voluto scambiarci qualche parola in più, conoscerlo. 
Arrivai qualche minuto in ritardo alla lezione di psicologia dello sviluppo, del Prof. Bellardi. L’aula era piena ed erano tutti intenti a prendere appunti ed il professore spiegava animatamente la psicologia dell’adolescente medio. Mi sedetti accanto ad una ragazza con un cesto di capelli rossi e la pelle bianca, quasi albina. Presi dalla borsa un quaderno ed una penna e mi concentrai sulla lezione.
Finita la lezione mi recai alla macchinetta del caffè e lì trovai Carlotta che con un sorrisone mi abbraccio e nell’orecchio mi sussurrò “Te l’ho detto che ti saresti divertita”. le sorrisi.
Passò veloce la settimana, e un timido calore si stava facendo avanti, Giugno era alle porte e anche gli esami. Nell’ultimo periodo non avevo studiato molto. Ero sempre stata brava a scuola e anche il primo anno di università era andato bene con voti quasi sopra la media, mia madre era contenta e mio padre quando c’era, mi dimostrava tutto il suo orgoglio. Per i miei genitori è sempre stato importante che io studiassi e che avessi una buona cultura su tutto. Mia madre era un infermiera e mio padre un comandante dell’esercito ed era sempre in giro o in missione. Mi avevano sempre tasmesso dei valori e dei principi importanti, di fedeltà, onore, rispetto, unione familiare e amore. Quest’ultimo aspetto non è mai mancato. Ero la loro unica figlia, mi hanno sempre tenuto nell’ovatta, ma nello stesso tempo volevano che fossi forte perchè “il mondo non è tutto rose e fiori”. 
Una domenica mattina, decisi di andare a correre, avevo bisogno di adrenalina e di lasciare andare un pò di tensione. Infilai le cuffie nelle orecchie e iniziai la mia corsa. Entrai in un parco e continuai. Nelle orecchie suonava un pezzo Rock dei Foo Fighters, ‘Learn to Fly’. 
Ad interrompere la mia corsa, fu un flash. Poco lontano da me due ragazzi stavano litigando animatamente, uno di loro tirò una spinta all’altro e l’altro di tutta risposta lo prese per il colletto e gli disse qualcosa, che io non riuscì a capire. Ad un certo punto, un fischio li fermò, si girarono verso di me e riuscì a riconoscere uno di loro, era il ragazzo che avevo conosciuto al locale.
Si avvicinò a me con passo veloce.
“Ci stavi spiando?”
“No, stavo correndo e voi intralciavate la strada”
“E avevi paura che ti avremmo fatto del male solo perchè siamo stranieri”
“Non ho pensato questo”
“E perchè non sei passata oltre?”
“Devo giustificarmi con te?” Ero un fascio di nervi, nessuno doveva permettersi di mancarmi di rispetto. 
“Hai l’aria di una bambina tanto per bene” il suo tono era strafottente quasi provocatorio.
“E tu hai l’aria di un bullo che non sa fare bene la sua parte”
Scoppiò a ridere e questo fece aumentare in me il nervoso.
“Cosa c’è da ridere?”
“Sei molto sicura di te, mi piace “. 
Era serio, aveva l’espressione sicura. I suoi occhi fissavano i miei, eravamo a pochi centimetri di distanza ed ero agitata, mi metteva in soggezione il suo sguardo, così lo abbassai.
“Clara” pronunciò il mio nome e con la mano prese il mio viso e fece in modo che tornassi a guardarlo.
“I tuoi occhi sono così innocenti” ero arrossita, imbarazzata e in difficoltà.
“Devo andare...”
“Non avere paura di me”
“Non ho paura”.
“Tu sei l’unica che può dirlo”.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Giochi del destino ***



Eravamo ancora uno d’avanti all’altro. Mi aveva spiazzato la sua ultima affermazione. Perchè solo io non dovevo avere paura di lui? Chi era veramente? Volevo saperlo. Dovevo saperlo.
“tu..” mi interruppe una voce stridula, quasi stonata a tratti assordante.
“Hola mi amor” 
Una ragazza di media statura, capelli neri mossi e carnagione scura si lanciò addosso a Javier. Inizio a sparare parole in spagnolo ad una velocità supersonica. La faccia di lui era quasi imbarazzata.
Ad un certo punto smise di parlare e si girò verso di me.
“Tu chi sei?” per fortuna non me lo chiese in spagnolo. Era stizzita e provocatoria.
“Lei si chiama Clara è una mia amica” Lei lo guardò stupita.
“Amica? Aah amica..” Gli fece l’occhiolino.
“Senti io devo andare” non avrei sopportato altre insinuazioni da una sconosciuta mai vista prima.
Feci per andarmene ma lui mi prese per il braccio.
“No, resta”
“Ho detto devo andare” mi sfilai dalla sua presa e ripresi la mia corsa.
Avrei voluto prenderla a schiaffi quella sfigata. Ero infastidita. Corsi forte, fino a perdere il fiato. Mi fermai ad una fontanella per bere. Mi sentivo come se avessi lasciato le cose a metà. Cercavo sempre di evitare situazioni spiacevoli e di non trovarmici e quando mi ci trovavo preferivo affrontarle, ma quel giorno non so perchè, evitai. Chi era lei? Cosa voleva dirmi con quella battuta? Forse stavano insieme, ma che senso avrebbe avuto quello di dirmi di restare? Ripresi a correre e tornai a casa. Avevo mille pensieri per la testa ero quasi ubriaca dalla confusione che avevo, ma com’era possibile che uno sconosciuto provocasse in me una reazione così? 
Nei giorni successivi mi concentrai sullo studio, o almeno ci provai. Lui mi tornava sempre in mente. Aveva qualcosa che attirava i miei pensieri, forse i suoi occhi o forse quel mistero che si celava dietro ad essi. Pensai che avrei voluto rivederlo. 
Il 22 Giungo arrivò in fretta ed io ero già dalla mattina presto all’università, dovevo dare l’esame di psicologia dinamica. L’esame si svolgeva in un aula dell’ateneo con il Prof. Rocchi e quel simpaticone del suo assistente, che tutto poteva fare tranne che quel lavoro. Era un occhioluto nanetto tutto brufoli, la sua pubertà era ancora in corso a quasi 30 anni. Mi seddetti su l’unica sedia difronte alla cattetra del professore. Iniziò con le domande, risposi concisa a quasi tutte le domande, altre necessitavano di spiegazioni più dettagliate e così non pensai a nulla, solo all’esame. Il verdetto finale fu un 28. 
Uscita dall’aula corsi fuori e telefonai a mia madre.
“Mamma ho preso 28!”
“Brava tesoro mio, lo sapevo che sarebbe andata benissimo”
“Mi ha fatto tante domande”
“Tuo padre sarà orgoglioso, chiamalo”
“Lo farò, ciao mamma” 
Composi il numero di mio padre.
“Papà ho preso 28 all’esame”
“Amore di Papà, sono rogoglioso di te”
“Grazie!” 
“Ti vorrei abbracciare”
“Anche io”
“Allora fallo”
Rittaccò. Mi girai e lui era lì. Il mio papà, che non vedevo da due mesi e mezzo era lì davanti a me. Gli corsi incontro e lo abbraccia forte e lui ricambiò con ancora più forza. Era il eroe, la mia colonna portante. Lui nonostante la distanza è sempre stato presente, non mi ha mai fatto mancare nulla. 
“Quando sei tornato?” 
“Sono atterrato circa un ora fa” 
“Davvero?”
“E sono venuto subito da te piccola Lully”
“Papà non mi chiamare così quì”
Lui sorrise. “Lully” era il mio soprannome fin da quando ero piccola. Mia nonna mi chiamava così perchè diceva sempre che somigliavo alla sua adorata sorella morta troppo presto. Si chiamava Lucilla e tutti la chiavano Lully, era alta bella e aveva gli occhi azzurri come il cielo e i capelli color oro. La descriveva così.
“Allora tesoro, dove ti porto a mangiare”
“Andiamo ‘Da Jimmy’ “
“Che Jimmy sia!”
‘Da Jimmy’ era il nostro posto; un simpatico ristorante stile rustico, gestito da un’uomo tutto pancia e con un’ umorismo tutto suo, che anche se non capivi le sue battute, ridevi lo stesso.  Ci riservava sempre il tavolo migliore, perché per lui eravamo i suoi clienti più apprezzati.
Ordinammo hamburger e patatine. Il cibo del ristorante non era come quello dei fast food, era qualcosa di semplicemente delizioso e genuino. Ci sentivamo a casa; l’arredamento era semplice, quello che lo distingueva dagli altri ristoranti erano i muri, completamente ricoperti da disegni fatti sulle tovagliette di carta su cui mangiavamo. Era usanza del ristorante che ogni cliente, vecchio o nuovo, lasciasse un ricordo di sè, così ognuno scriveva frasi o disegnava. C’erano discrete opere d’arte, il mio preferito era un porcellino seduto a tavola con coltello e forchetta tra le mani, pronto a divorare un’altro maialino sul piatto, un pò lugubre come cosa, ma apprezzavo il messaggio e lo stile del disegno.
Finito di mangiare tornammo a casa. Mia madre ci stava aspettano e quando i miei si rividero era come se non fosse passato così tanto tempo. Decisi di lasciarli un pò soli.
La sera arrivo in fretta ed io decisi di uscire con Carlotta e altri due amici, Nicolas e Luca. Andammo in un pub e predemmo delle birre.
“Allora Clà, questo 28 non ti smentisce mai” Nicolas mi sfotteva sempre, perchè prendevo sempre voti alti.
“Anche tu non ti smentisci mai, se vuoi ti presto il mio cervello” Scherzavamo sempre, nessuno dei due lo faceva con cattiveria. Ci stimavamo molto. 
“Ti voglio bene anche io amica mia” Gli feci una linguaccia e lui mi ricambiò con i sui soliti versi con la bocca.
“Sentite prossima settimana è il mio compleanno, quindi siete pregati di essere tutti liberi”
Tra qualche giorno sarebbe stato il complenno di Carlotta e, come tutti i santi anni, voleva organizzare una festa nella sua villa in collina. 
“Ovvio, 22 anni si compiono una volta sola” Luca era cotto di lei dall’asilo e ogni cosa che lei diceva era sempre giusta.
“La mia idea è...”
“Fare una super festa in villa” Incanlzò Nicolas con tono annoiato.
“Se vuoi non ti invito” Carlotta era stizzita. 
“Te la prendi sempre”
Iniziarono a battibeccarsi, come al solito. Tra quei due c’era stata una mezza storia qualche anno fa, finita quasi subito per “differenze caratteriali inconciliabili”, anche se secono me erano semplicemente uguali. 
“Smettetela di discutere, andremo tutti alla sua festa in villa e ci divertiremo tanto come tutti gli anni”
“Grazie amica mia almeno tu mi dai soddisfazione” Carlotta lanciò un occhiataccia a Nicolas che alzó gli occhi al cielo.
Mentre loro facevano piani per il compleanno, io uscì per andare a fumare una sigaretta.
Fuori faceva freddo per essere Giugno; addosso avevo solo un golfino e stavo congelando.
“Freddo eh?” Mi girai e un ragazzo con tratti su americani si avvicinò a me.
“Abbastanza..”
“Ce l’hai da accendere?” Gli porsi l’accendino.
Guardandolo meglio mi accorsi che aveva un’aria familiare. Ci pensai. Era il ragazzo che litigava l’altro giorno con Javier.
“Tu sei il ragazzo che litigava con un’altro, qualche giorno fa”
“Litigavo con quell’idiota di mio fratello”
“Javier”
“Come lo conosci?”
“Ci siamo conosciuti in un locale”
“Ah ma sei tu!” Si fermò ad osservarmi in attenzione dalla testa ai piedi.
“Sono io cosa?”
“Mio fratello mi ha parlato di te, Clara giusto?”
“Si sono io”
“Javier dovrebbe arrivare tra poco, io comunque sono Pablo” 
Ci stringemmo la mano. Javier aveva parlato di me a suo fratello ed in più stava per arrivare al pub. Coincidenza o destino? Avevo il cuore a mille; lo avrei rivisto e non sapevo cosa fare. Rientrare e fare finta di nulla o aspettarlo? Se lo aspetto faccio la figura di una che ha perso la testa per lui e se rientro potrei passare per quella che se ne frega. Cosa avrei dovuto fare?

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La forza dell'amore ***


Ed eccolo lì, si avvicinava a noi con passo svelto. Indossava una camicia nera con i primi bottoni aperti, dove si poteva intravedere il suo petto. Al collo portava una catenella d’argento con una medaglietta, tipo quella che hanno i militari. I Capelli neri erano tutti scombinati, ma con una logica. Era sexy.
Si fermò davanti a noi e salutò suo fratello pugno contro pugno e a me mi diede un bacio sulla guancia. Rimasi quasi sconvolta. Il mio imbarazzo era palese, avevo le gote in fiamme.
Liquidò suo fratello parlando in spagnolo, così ci lasciò soli.
“Scusami per l’altra volta”
“Non ti preccupare. È solo che la tua amica è stata un pò acida”
“Lei è così, ha le manie di orotagonismo”
“La conosci da tanto?”
“Siamo cresciuti insieme. Lei è partita per l’Italia qualche anno prima di me e poi ci siamo ritrovati quì”
“Di dove sei?”
“Colombia, Bogotà”
“Mio padre è stato spesso in Colombia”
“Gli è Piaciuta?”
“Si”
“Per me è il paese più bello del mondo, ma ci ha rovinato la vita”
I suoi occhi diventarono tristi, quasi vuoti. Avrei voluto abbracciarlo.
“Cosa vuol dire?”
“Muñeca, sono storie che non mi piace raccontare alle ragazze su cui devo fare colpo”
“Tu vuoi fare colpo su di me?” 
Si avvicinò di più a me e mi sfioro il viso con il suo palmo caldo.
“Mi piacerebbe” 
I nostri visi erano a pochi centimenti di distanza, il suo palmo ancora sulla mia guancia e i nostri respiri guasi affannati. Sfiorò le mie labbra con il pollice; con l’altra mano mi prese per i fianchi e mi avvicinò ancora di più a se. I suoi occhi erano fissi suoi miei; leggevo la sua voglia di baciarmi e di stringermi a sè. 
“Clà!” ci saccammo in un nano secondo. Imbaeazzati entrambi, facemmo finta di nulla.
Nicolas guardava me, poi Javier, poi me e di nuovo Javier.
“Dimmi Nic!”
“Non mi presenti il tuo amico?”
Il tono era un misto tra curiosità e gelosia.
“Lui è Javier, Javier lui è Nicolas”
Si fecero un segno con la testa, in segno di saluto. Entrambi si guardavano male, come se fossero in competizione.
“Noi stiamo andando via”
Prima che riuscissi a rispondere, si intromise Javier.
“La riporto io a casa”
“scusa se permetti non lascio la mia amica con uno sconosciuto”
“Nemmeno io la lascerei con un idiota come te”
“Stai attento a come parli”
I due si avvicinarono, con la voglia di fare a botte negli occhi. Mi misi nel mezzo ero furiosa.
“Smettetela!” li allontanai pingendoli l’uno dalla parte opposta dell’altro. Dietro di noi Carlotta e Luca erano esterrefatti.
“Ci vediamo domani ragazzi”
Nicolas se ne andò furioso. Nello sguardo di Carlotta e Luca lessi disapprovazione e paura. Se ne andarono ed io rimasi sola con Javier.
“Avresti preso a cazzotti il mio amico?” alzai di poco la voce, per darmi un tono autorevole.
“Lo avrei fatto volentieri”
“Ma smettila!” Ci mettemmo a ridere.
“Vieni ti porto in un posto”
Mi prese per mano e ci avviammo. Cosa stavo facendo? Avevo lasciato i miei amici per andare via con uno sconosciuto, sexy, ma sconosciuto. Non avevo paura però, lui mi infondeva sicurezza. Non facevo caso al fatto che fosse di un paese diverso dal mio; sapevo cosa volevano dire gli sguardi dei miei amici, sapevo le loro idee sugli “stranieri” e sapevo anche che me l’avrebbero fatta pesare. Io non ho mai avuto problemi con le persone di nazionalità diverse, mio padre con il suo lavoro, ne ha viste di popolazioni differenti e mi ha sempre trasmesso valori come il rispetto per noi stessi e per gli altri, indipendentemente dal colore della pelle. 
Arrivammo in una piazza quasi deserta, al centro una fontana animava il tutto con spruzzi d’acqua.
Lui si sedette su una panchina e così feci anche io.
“Vedi quella fontana?” Annuì. “Da piccolo quando venni in Italia, quella fontana mi ricordava casa, perchè ce n’è una uguale nella piazza della mia città. Non vivevo in una bella casa con mobili, letti e cucina. Vivevo con mia madre e i miei due fratelli in una specie di catapecchia, tipo una favelas. Avevamo alcuni materassi vecchi e umidi, un fornello e qualche pentola presa nella discarica vicino casa. Non avevamo niente, solo l’amore che ci dava nostra madre. Ma alla fine non ci serviva nulla di materiale, ci divertivamo a giocare scalzi per strada con un pallone mezzo bucato con altri ragazzi come noi. Quella era la nostra vita e ci andava bene così”.
“Perchè mi racconti tutto questo?”
“Perchè voglio che tu sappia che non sono il principe azzurro, non ho macchine lussuose con cui portarti nei migliori ristoranti del mondo”
“Non voglio niente di tutto ciò”
“Io non sono quello giusto per te. Tu sei italiana, avrai studiato, sarai colta, non avrai mai fatto sacrifici e sarai cresciuta in una bolla di cristallo”
“Sì sono italiana, non ho mai vissuto in una favelas e sì, ho studiato e sto studiando. Ma questa è discriminazione tua nei miei confronti. Non mi importa se tu non puoi darmi il lusso o qualsiasi altra cosa materiale. Io vivo di sentimenti da quando sono nata. E non permetterti di giudicare la mia vita fino ad ora, se non mi conosci”.
Feci per alzarmi, ma lui non me lo permise. Prese il mio viso tra le mani e io poggiai le mie mani sul suo petto.
“Lo sai che non sarà facile” la sua voce era un sussurro.
“Non mi sono mai piaciute le cose semplici”
Dopo un attimo in cui i nostri occhi si fusero, le nostre labbra si sfiorarono e in un secondo diventarono un tutt’uno. Le nostre lingue presero fuoco e i nostri corpi tremavano , un pò per il freddo ed un pò per la passione. Riprendendo fiato, tornammo a guardarci intensamente. I suoi occhi parlavano, mi esprimevano la voglia di amare e di essere amato. Tornammo a baciarci. Credo di non aver mai provato una sensazione così pura. Era come se per la prima volta mi sentissi nel posto giusto, al sicuro.
Passammo tutta la notte, fino alle prime luci dell’alba a parlare, a baciarci, ridere e scherzare. 
Rientrai in casa alle 5 a.m, erano tutti ancora a dormire ed io ero su di giri. Pensavo a lui e a tutto ciò che era. I suoi occhi, le sue labbra, i capelli e la sua voce che emanava calore. Mi sentivo una sedicenne in piena adolescenza che fa i conti con i primi amori. Mi buttai sul letto ancora vestita e immersa nei miei pensieri, che si tramutarono in sogni, appena mi addormentai.
Mi svegliai alle 13 p.m, l’ora di pranzo; e mi chiesi perchè nessuno mi avesse svegliato. Mi alzai, ero ancora vestita con jeans e maglietta. Decisi di mattermi addosso il pigiama, per fare sembrare che avessi dormito, come dormo tutte le persone normali. Andai in cucina, i mei genitori erano intenti a leggere una ricetta al camputer. I fornelli erano accesi e la cucina era invasa da un profumo delizioso.
“Buongiorno Tesoro” mio padre mi diede un bacio sulla fronte. Mia madre mi lanciò uno sguardo assassino. E lì capii, che si era accorta che ero rientrata alle 5 a.m,  che dopo avremmo avuto una lunga chiacchierata e che mio padre non sapeva niente perché lei mi aveva coperta.
“Che state preparando?”
“lasagne al pesto e pollo arrosto con patate” incancalzò mia madre, quasi scorbutica.
Ad un certo punto squillò il cellulare di mio padre, che andò a rispondere e si chiuse nel suo studio.
“Ti sembra il modo Clara?” ecco che inizia la guerra.
“Mamma l’ho fatto solo questa volta”
“Se tuo padre lo sapesse non ne sarebbe contento”
“Lo so. Non succederà più” cercai di tagliare corto, ma lei non aveva ancora finito.
“Chi era quel ragazzo che ti ha accompagnato?” Spalancai gli occhi incredula.
“Mamma mi stavi spiando?”
“No, ti stavo aspettando” 
“Sei rimasta sveglia fino le cinque del mattino?”
“No, casualità ha voluto che proprio a quell’ora ero andata a bere in cucina e così mi sono affacciata alla finestra e vi ho visto”
“Mamma mi dispiace se ho fatto così tardi, ma ho anche 22 anni non posso sorbirmi i tuoi scleri se per una volta ho fatto le cinque” il mio tono era quasi esasperato.
“Potrai fare quello che vorrai quando vivrai per conto tu”
“Dici sempre la stessa cosa, sei ripetitiva”
“Mi dici chi era quel ragazzo?”
“Smettila mamma”
Mio padre rientrò in cucina, con una faccia triste e rassegnata.
“Che è successo?” Entrambe eravamo spaventate e preoccupate, non lo avevamo mai visto così provato.
“Hanno attaccato la base in Siria, sono morti almeno ciento militari tra quelli USA, Francesi e Italiani”
Ero bloccata, quasi non riuscivo a respirare. Mia madre si dovette sedere.
“Devo partire subito, per gestire tutte le controversie che si sono create, devo motivare i militari rimasto e attuare un nuovo piano”
“Ma sei arrivato ieri” Ero preoccupata, non volevo che partisse. Egoisticamente, non l’avrei mai lasciato andare, ma quello era il suo lavoro. Il suo dovere.
“Tesoro tornerò presto” mi sorrise accarezzandomi la guancia.
“Se tornerai” mia madre scoppiò in lacrime.
“Tornerò, è una promessa”
“Non sei tu che decidi Paolo!” il dolore nella sua voce era potente, quasi assordante che ti spaccava il cuore. Mio padre ci attirò a se entrambe e ci stringemmo in un lungo abbraccio immerso nelle lacrime, nella disperazione e nella speranza.
“Siete la mia vita, nessuno mi porterà via da voi. Neanche il male più potente. L’amore vince su tutto”
Quel momento, speravo non finisse mai. Eravamo una cosa sola e sarebbe stato così per sempre. La guerra è una cosa troppo vuota e priva di senso per poter competere con la forza di un sentimento come l’amore.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Il coraggio di rischiare ***


Mio padre indossò la divisa, preparò il borsone con l’aiuto di mia madre e il tutto si svolse in un clima triste e teso. Nessuno disse una parola. Mia madre continuava ad asciugarsi le lcrime che scendevano sul suo viso stanco. Io mi sentivo impotente, inerme, quasi inutile. La vita ci mette davanti a tanti ostacoli e tante scelte, sta a noi saper gestire tutto ciò e saper onorare i valori che ognuno di noi a acquisito nel corso del tempo. Mio padre era un uomo d’onore, ha sempre mantenuto salda e integra la sua moralità e il suo senso del dovere. Mi è sempre piaciuto questo aspetto di lui, mi rendeva orgogliosa sapere che lui combatteva per il bene del nostro paese e per salvare altri paesi in difficoltà. Qualche anno fa gli proposero di ricoprire un ruolo più amministrativo, che comprendeva la firma di scartoffie e fare presenza fissa agli eventi importanti, tipo quelli ministeriali. Lui rifiutò categorico, voleva essere un supporto per i suoi militari, voleva operare sul terreno in conflitto e voleva svolgere il ruolo per cui sarebbe stato utile davvero. Lui è il mio eroe, la mia forza ed il mio profondo orgoglio. 
Arrivò il momento di salutarci, una macchina nera lo stava aspettando sotto casa.
“Puoi sempre ripensarci..” mia madre lo implorò piangendo.
“Tesoro lo sai che non posso” mio padre era triste, ma cercava di mantenere saldo il suo aspetto di uomo duro e irremovibile.
“Ci hai promesso che tornerai, ricordalo” lo abbracciai forte, come se fosse l’ultima volta. Ma non lo sarebbe stata. Io lo sapevo.
“Tornerò e vi prometto che non ripartirò mai più” 
Ci abbracciamo un ultima volta, tutti e tre, e uscì dalla porta di casa. Lo seguii fino alla macchina, ancora in paigiama ma non mi importava.
Salì e abbassò il finestrino.
“È una promessa” disse uscendo il braccio fuori dal finestrino e incrociando le dita, come segno di promessa. E io risposi con lo stesso segno.
La macchina partì, non smisi di guardarla finchè in fondo alla strada, girò ad un incorcio e sparì.
Rientrai in casa con fatica. Era così vuota senza di lui. Era l’anima della casa. Ormai si erano fatte le 3.30 p.m e nè io nè mia madre avevamo fame. Lei si chiuse in camera sua ed io la lasciai sola. Era sempre così quando mio padre partiva, rimaneva in coma una settimana e poi piano piano si riprendeva. La vita di mia madre era fatta di attese, lunghe attese che sembravano non dovessero finire mai.
Presi in mano il mio cellulare, c’erano due messaggi, uno di Carlotta e uno di Javier. Decisi di aprire prima quellp di Javier.
“Hey mi muñeca, è stata la serata più bella da quando sono arrivato in Italia. Gracias mi luz”
Sorrisi da sola come una scema. Le mie gote presero fuoco e insieme a loro tutto il mio viso. 
Non sapevo come rispondere, avrei voluto dirgli così tante cose che racchiusi tutto in un semplice
“Sono io che ringrazio te, per essere ciò sei”
Sentivo dentro di me una moltitudine di sensazioni. Ero triste per mio padre, ma felice perché avevo incontrato javier ed arrabbiata con i miei amici per come si erano comportati. A proposito, il messaggio di Carlotta, non sembrava un messaggio carino. Iniziai a leggere.
“Io non so cosa ti sia saltato in mente ieri sera. Chi cazzo è quello? Non è nemmeno italiano. Lo sai cosa penso ‘mogli e buoi dei paesi tuoi’. Ci hai lasciato per uno sconosciuto che per giunta voleva menare Nicolas. Io ti voglio bene, lo sai. Ti appoggio per qualsiasi cosa. Quando ti sei lasciata con Leo io c’ero e ti sono stata vicino. Sono stata la prima a dirti rifatti una vita, ma con un italiano che abbia almeno una cultura in comune con te. Io ti do i consigli e ti sto vicino, ma alla fine ognuno do noi è artefice del proprio destino. Stai attenta”
Qual’era il problema, la nazionalità? Lei ha sempre avuto scatti di razzismo per chiunque avesse colori, culture e usanze diverse dalle sue. Era un suo limite ed io l’ho sempre rispettato, nonostante non condividessi minimamente, ma più di farglielo notare non potevo fare altro. È solo che lei deve capire che la vita è mia e nemmeno lo conosce Javier e perciò i discorsi stanno a zero. Non le risposi, non meritava considerazione quel messaggio. Avrei affrontato il discorso faccia a faccia.
Mi vestii in frettq, presi la borsa e le chiavi del motorino. Scesi le scale di corsa e mi recai al motorino, lo accesi e diedi gas. Io e Carlotta non abitavamo molto lontano, ci misi quindici minuti per arrivare alla sua villa in collina. Suonai al citofono fuori dal cancello e mi rispose una voce femminile.
“Chi è?”
“Sono Clara, un amica di Carlotta”
Si aprì il cancello ed io entrai con il motorino in un piazzale sterrato. Parcheggiai poco distante dall’ingrassp della villa. Suonai nuovamente il campanello del portone. Si aprì ed accogliermi c’era la domestica Joselyn. Era una dolce donnina minuta di nazionalità fillippina, con lunghi capelli neri raccolti in uno chignon e grandi occhi scuri molto espressivi. Sorrideva sempre ed era un piacere vederla, ti metteva allegria. 
“La signorina l’aspetta in camera sua”
“Grazie Joselyn”
Senza nemmeno togliermi il giacchetto di pelle, salii velocemente le lunghe scale per portavano al piano superiore, dove c’erano circa 5 camere e due bagni. Sì, era una famiglia molto benestante. 
Bussai alla porta di camera sua.
“Avanti” entrai e lei era seduta a cambe incorociate sul letto. Non si mosse e mi fece cenno di chiudere la porta e sedermi accanto a lei.
“Ciao Totta”
“Ciao Clà”
“Ho letto il messaggio..”
“Mi sono ricordata stanotte chi è quel ragazzo. È quello con cui hai ballato alla sera al locale latino”
“Esatto”
“Clà voglio essere sincera con te. Sai che non ti ho mai detto bugie”
La guardai incuriosita. Cosa mi voleva dire?
“Quel ragazzo non ha una bella fama” sospirò e continuò il suo discorso. “Fa parte di una banda di Latinos, che vanno a ammazzare la gente in metropolitana e a rubare nei negozi”
Il mio cuore iniziò a battere forte. Non uscivano parole dalla mia bocca, ero atterrita, sconvolta e incredula. Javier, il ragazzo a cui mi ero aperta a cui avevo lasciato un pezzo di cuore. Un ragazzo di cui mi ero fidata, si era dimenticato di dirmi chi era veramente. 
“Ne sei sicura? Se questa è una bugia..”
“Non lo è” il suo tono era deciso e i suoi eocchi erano sinceri, a tratti preoccupati. “Ti ricordi del ragazzo con cui ho ballato io quella sera? Dopo ci siamo messi a parlare e mi ha raccontato che lui faceva parte della banda e che poi se n’è andato perché voleva una vita diversa e adesso studia medicina. Mi ha raccontato che sono una banda di sanguinari violenti che non risparmiano nessuno”
“Ne sei sicura?” Riuscii a malapena a trattenere le lacrime. Sentivo un peso nel petto. I suoi occhi non mi erano sembrati di un sanguinario violento; erano puri, sinceri, privi di cattiveria. Non potevo essermi sbagliata. Dovevo capire, avevo bisogno di sapere la verità. Mi alzai di scatto. 
“Sai dove vivono?”
“Clà, cosa vuoi fare?”
“Dimmelo” Lei sapeva. Non mi avrebbe fermata. Odiavo essere presa in giro, lui mi doveva delle spiegazioni.
“Ti prego..” Mi afferò per un braccio ed io lo scostai con violenza.
“Sto aspettando” mi conoscev, lo sapeva che prima o poi avrebbe dovuto parlare, senza tante storie.
“Nel Quartiere Catena, c’è un bar che si chiama ‘Lolitas’..” Non la feci finire ed uscii dalla porta a passo svelto. Lei mi seguì. 
“Non ci vai da sola in quel posto” mi urlò a squarciagola.
“Invece si. Ti chiamo dopo”
Mi strattonò all’indietro e quasi caddì. 
“Che cazzo fai?” ero furiosa come poche volte lo ero stata.
“Non fare l’eroina che non sei, questo non è un gioco. Quelli ti ammazzano”
“Smettila di giudicare chiunque, di fare la saputella e lasciami stare” Uscii e sbattei la porta così forte che rimbobò in tutto il giardino.
Montai in sella al mio motorino e mi avviai verso il quartiere più pericoloso della città. Parcheggiai il motorino nel parcheggio della stazione. A passo spedito arrivai davanti al bar ‘Lolitas’. Tirai un sospiro ed entrai. Il bar era quasi deserto, c’erano solo il barista ed un uomo probabilmente ubriaco, che dormiva su un tavolo. Mi avvicinai al bancone e mi rivolsi al barista.
“Mi scusi per caso conosce Javier Ramirez?” il tipo stava concentrando tutte le sue attenzioni nel pulire un bicchiere. Distratto dalla mia domanda, alzò gli occhi e mi guardò accigliato o forse quella era la sua espressione di sempre. 
“Ines, esta chica està buscando Javier” (Ines, questa ragazza sta cercando javier)
Da una porta spuntò la ragazza che mi aveva guasi dato della zoccola al parco. Mi guardo incredula
“Che ci fai quì?”
“Mi pare sia un posto pubblico questo, o sbaglio?” la ragazza alzò su un sopracciglio e squotè la testa in segno di disapprovazione.
“È un posto per noi latini, gli italiani non sono ben accetti tesoro. E comunque Javier non c’è”
“Bene lo aspetterò quì” 
“Oggi ha da fare”
“Non importa”
“Senti carina, non sei la benvenuta quì”
“Senti carina, già l’altra volta non ti ho detto niente, dopo che hai insinuato che io fossi un puttana. Perciò vai a fare il tuo lavoro e lasciami in pace”
Stava per rispondermi, ma il suo viso divenne pallido, nonostante avesse una carnagione scura. Abbasso gli occhi ed entrò dalla porta da cui era uscita. Mi girai e vidi entrare tre uomini, ben piazzati con tatuaggi ovunque, anche in faccia. Uno di loro aveva una cicatrice sul volto ed un dente d’oro. Mi spostai per farli passare e mi sedetti ad un tavolino in disparte. I tre ordinarono delle birre e si misero a confabulare tra di loro nei tavolini fuori al bar.
La ragazza uscì di nuovo dalla porta e si rivolse a me.
“Senti questo non è un posto sicuro sarebbe meglio tu andassi” stavolta il suo tono era più calmo, quasi implorante.
“Capisco ma io devo parlare con Javier, almeno dimmi dove lo posso trovare. Non posso mandargli un messaggio perché non ho soldi nel telefono, sennò lo avrei già fatto”
“Non posso dirti dov’è..” si fermò a pensare. “ok lo chiamo io”. Si allontanò da me e rientrò nella porta di prima. Ne uscì dopo pochi minuti.
“Sta arrivando. Ci causerai dei problemi, io lo so” se ne andò borbottando tra sé e sè.



Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Una sola anima ***


Ero seduta al tavolo dentro il bar, osservavo quei tipi fuori, parlavano tra loro in spagnolo e si erano già bevuti due birre a testa. Vidi arrivare Javier, che si fermò davanti al tavolo di dei tre uomini. Parlavano nella loro lingua  perciò non capii quello che dicevano. Mi vide dentro, salutò i tipi ed entrò. La sua faccia era tesa e preoccupata. Si sedette davanti a me.
“Cosa ci fai quì?” mi osservava accigliato.
“Voglio parlarti”
“Sì, ma non quì”
Facemmo per alzarci, ma uno degli uomini, quello con la cicatrice entrò e si diresse verso di noi.
“Javier, non mi presenti la tua amica” l’uomo aveva una voce roca, quasi gutturale; aveva un forte accento spagnolo. Javier era in difficoltà, non sapeva nè cosa dire, nè cosa fare.
“Lei è Clara.. adesso dobbiamo andare”
“Aspetta” l’uomo lo fermò, posando una mano sulla sua spalla. “siediti” gli ordinò.
“Dobbiamo andare” Javier tentava di trattenersi, ma vidi la sua mascella diventare tesa.
“Va bene” il tipo iniziò a ridere e alzò le mani in segno di resa. Rivolse lo sguardo verso di me e mi squadrò. I suoi occhi erano un buco nero avevano il veleno dentro. Javier mi prese per mano e mi trascinò fuori.
Mentre camminavamo a passo svelto, Javier borbottava qualcosa in spagnolo.
“Si può sapere che cazzo ti è saltato in mente?”
“Io..”
“Tu cosa? Volevi farmi una sorpresa? Bhe, non mi è piaciuta. Questo non è un posto per te. Non devi più venire”
“Hai finito?” risposi. Lui corrucciò le sopracciglia. “Intanto, stai calmo. Secondo di poi abbi il coraggio di dirmi chi sei veramente”.
Spalancò gli occhi, incredulo. 
“Io non giudico mai nessuno, ma almeno sii sincero e dimmi chi sei veramente”
“Cosa vuoi sapere?” si rassegnò.
“Parlami della banda dei Latinos” Ci gurdammo. Nei suoi occhi leggevo vergogna, desolazione e dolore.
“Quando arrivai quì avevo 12 anni e questo quartiere era già pieno di latino americani. Chi veniva dal Perù, chi dal Cile, dalla Colombia e dal Brasile. Un giorno giocavamo a palla, io e mio fratello, così si avvicinò a noi quell’uomo di prima e ci iniziò a parlare del più e del meno. Fatto sta che dopo qualche giorno iniziai a frequentare la sua Banda. Crescendo iniziai a compiere delle azioni..”
Deglutì. Sentivo il suo affanno e la sua difficoltà a proseguire.
“Quali azioni?” Non volevo farlo stare male, ma io avevo bisogno di sapere.
“Iniziai a fare piccole rapine. La Banda era la più potente di tutto il quartiere. Erano loro che comandavano quì e lo fanno ancora. Non ho mai ammazzato nessuno, ma loro ne hanno tanti di morti sulla coscienza”
“Lavori ancora per loro?”
“No, ho deciso da tempo di prendere un altra strada”
“E perchè gli porti rispetto, hai quasi paura di loro”
“Non ho paura di loro e non gli porto rispetto. Loro hanno mio fratello”
“Come?” La situazione era veramente critica.
“l’altra volta, quando ci hai visto litigare era per loro. Gli vogliono fare compiere una rapina in Banca con kalashnikof e pistole”
“Oh mio dio!”
“Sto cercando di farlo ragionare, ma lui è ostinato. È già andato via di casa e ormai lo vediamo a malapena. Mia madre è disperata”
“Dobbiamo fargli cambiare idea”
“Dobbiamo?” chiese stupito.
“Si, l’unione fa la forza”
“Clara tu non ci devi entrare in questa storia” Alzò la voce.
“Tu non decidi per me, io ti voglio aiutare”
“Non riesce a farlo ragionare la sua famiglia e credi che ci riuscirai tu?”
Non avevo risposta a quella domanda. Era vero che io non ero nessuno per poter aiutare suo fratello, ma io avrei trovato il modo; ma ancora non sapevo quale.
“Ti prego non escludermi. Io non ho paura” ero sicura di me.
“proprio questo mi spaventa”.
Prese il mio viso tra le mani, appoggio la sua fronte sulla mia e chiuse gli occhi, il mio istinto mi porto atogliere le sue mani dal mio viso ed appoggiare le mie sul suo viso. Alzai la sua testa, in modo che mi guardasse negli occhi. Sentivo il suo respiro così vicino e il suo calore così rassicurante. 
“Andrà tutto bene” sussurrai e ci sciogliemmo in un bacio rassicurante, avvolgente e protettivo.
Mi prese per mano e ci recammo a casa sua; era un piccolo appartamento molto carino, pulito e accogliente. Non c’era nessuno in casa. Mi portò nella sua stanza.
“Voglio farti conoscere la mia vita” Prese un album di foto da un cassetto del comodino, vicino al letto e lo aprì. Nel frattempo ci sedemmo sul suo letto ed iniziammo a sfogliare l’album di foto. Foto di famiglia, con sorrisi e occhi sereni.
“Guarda, quì eravamo al mare. Mio fratello aveva circa 5 anni e questa è mia cugina Maria”
La foto raffigurava tre bambini in primo piano tutti in costume, abbracciati in posa per la foto. I loro sorrisi erano luminosi e puri, come solo i bambini possono avere.
“Questa è mia madre..”
“Ha gli occhi di chi ha lottato tanto..”
Lui non rispose e si fece serio in volto. “ho detto qualcosa che ti ha dato fastidio?”
“Lei è la donna più forte che conosca. Ha lottato contro se stessa per mantenere un briciolo di rapporto con mio padre, ha lottato per noi, per assicurarci una vita degna. Si è tolta quasi la dignità pur di continuare ad amare un uomo che la picchiava. Poi un giorno ha messo davanti se stessa e ce ne siamo andati via”
“Tu hai molto di tua madre allora..”
“Io ho fatto tanti sbagli.. non sono neanche un quarto di quello che è lei..”
“hai la stessa forza, la grinta e la determinazione di voler cambiare le cose. E ci riuscirai”
Mi guardò. I suoi occhi dicevano mille cose imsieme, avevano emozioni contrastanti. Lui prese l’album dalle mie mani e senza togliermi gli occhi di dosso, lo posò sul comodino. Mi prese il volto e lo avvicinò a sè. Mi baciò con delicatezza. Ci sdraiammo e lui sopra di me, iniziò a baciarmi il collo e poi di nuovo la bocca, mi stringeva a se mi voleva e desiderava. Gli tolsi la maglietta e ammirai i suoi pettorali e le sue spalle. Sfiorai la sua pelle d’orata, che al mio tocco si irrigidì. A sua volta mi sfilò la maglietta e il reggiseno. Con le sue mani avvolse il mio seno e lo baciò con passione. Tolti anche i restanti abiti, mi continuò a baciare con sempre più foga. Io sentivo dentro di me la voglia di averlo, lo desideravo. Ad un certo punto smise di baciarmi ed ad un orecchio mi sussurò “sei sicura?”.
“Si amore” e ci baciammo ancora.
Lui con delicatezza entrò dentro di me e sentii delle vibrazioni assolutamente indescrivibili. Non era solo sesso, era qualcosa di più; un interconnessione tra due persone che stanno scoprendo il vero semtimento dell’amore. Quell’amore che va oltre il colore, la nazione, la cultura, la violenza e i pregiudizi. Un amore che è più forte di tutto e di tutti. 
Mai avrei pensato di provare emozioni così profonde, eravamo un’anima sola. Il suo respiro era il mio, la sua pelle fusa con la mia e il coro dei nostri cuori, ci avvolgeva la timida luce del sole che trapassava le tende bianche.
“te amo” il suo sussurrò mi entrò nelle vene e arrivò dritto al cuore.
“anche io”.











Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3659968