Ricochet

di Maiko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Angoscia ***
Capitolo 2: *** Ya'aburnee ***
Capitolo 3: *** Njuta ***
Capitolo 4: *** Mamihlapinatapei ***
Capitolo 5: *** Cafuné ***



Capitolo 1
*** Angoscia ***


Angòscia - sentimento intenso di ansia o apprensione che affligge l’animo per una situazione reale o immaginaria. Nella filosofia esistenzialistica, stato di turbamento metafisico che deriva all’uomo dalla riflessione sulla propria esistenza nel mondo (aesistenziale).

1.
 
Correva. La terra bagnata sprofondava sotto le suole delle sue scarpe, il suono che andava perdendosi con la moltitudine di rumori della pioggia che cadeva incessantemente.
Il cielo era plumbeo e tonante, spezzato da violenti lampi di luce bianca che tagliavano l’orizzonte opaco. L’aria era fredda e frizzante e gli pungeva le orecchie ed il naso.
Correva. I suoi piedi che affondavano nel fango e nell’erba, i passi che poi risuonavano sull’asfalto della strada deserta.
Il suo respiro era corto, affannato dal lungo tempo che aveva passato a superare alberi e case e cartelli che non aveva letto, spezzato dal tragitto senza capo né coda che aveva deciso di percorrere.
I vestiti erano zuppi e pesanti, fradici al punto tale che il gelo si era insinuato nelle sue ossa e gli aveva impacciato i movimenti ed intorpidito le dita dei piedi e delle mani.
Correva. Ancora e ancora, senza fermarsi.
I muscoli gli dolevano per lo sforzo duraturo a cui erano stati sottoposti ed il freddo era talmente tanto e talmente insistente che quasi non lo sentiva più. Il respiro si condensava in sbuffi bianchi davanti al suo viso.
L’odore della terra bagnata e dell’erba cipollina gli catturava le narici, accompagnandolo nella sua odissea senza meta e lenendo il dolore della sua mente a poco a poco.
Forse se avesse continuato a correre avrebbe dimenticato tutto ciò che non andava.

 


Spazio autrice:
Un breve esperimento che ho deciso di fare, prevalentemente per esercitarmi nell'introspezione dei personaggi (la mia parte preferita dello scrivere, devo ammettere). Non so ancora bene dove tutto ciò andrà a parare, né quali emozioni prenderò in causa, per cui allacciate le cinture e preparatevi a questo salto nel vuoto.

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Capitolo 2
*** Ya'aburnee ***


Ya'aburnee | يقبرني | - In Arabo "tu mi sotterri". Una dichiarazione d'amore che indica la speranza di morire prima della persona amata, poiché non si sarebbe mai in grado di vivere senza di loro.

2.
 
Le lenzuola profumavano di fresco ed erano calde del sole che le aveva asciugate; l’aria portava con sé l’odore dei gelsomini appena sbocciati e una dolce brezza primaverile. Il cielo riecheggiava dei cinguettii allegri delle rondini che tornavano a nidificare.
La finestra spalancata si apriva su una stanza luminosa e pulita, su un letto appena rifatto e sul cesto in cui la donna stava ritirando la biancheria. Canticchiava una canzone, vecchia come il tempo e gentile come lo scorrere di un ruscello, ma sottovoce per non disturbare la quiete del cortile. Era una donna anziana, ingobbita dalle lunghe fatiche che la vita le aveva fatto affrontare e tuttavia serena dello scorrere dei giorni.
Le sue mani e braccia erano una ragnatela di rughe sotto le maniche rimboccate della camicetta leggera; i suoi capelli erano corti e ricci, di un castano troppo vivido per essere naturale e assai diverso da quello che aveva portato in gioventù; i suoi occhi, parzialmente nascosti dalle corte ciglia, avevano da tempo acquistato una patina grigiastra che aveva offuscato l’azzurro del cielo in cui si era tante volte specchiato; il suo volto era disteso e un piccolo sorriso le piegava le labbra sottili, rosee sull’incarnato colorato dai primi accenni di abbronzatura.
Era talmente diversa da com’era stata un tempo, ma non per questo il caldo sentimento che gli aveva da sempre stretto il petto in sua presenza si era affievolito. I suoi occhi ancora si illuminavano alla vista della donna con cui aveva scelto di passare la vita, come se nemmeno un giorno fosse trascorso nel loro piccolo mondo. La loro salute era divenuta cagionevole ed incerta, le loro figlie avevano avuto figli ormai in età universitaria, tanti e tanti inverni erano trascorsi dal loro matrimonio.
Nulla di ciò li aveva cambiati. Avrebbero potuto passare millenni ma a lui sarebbero sempre parsi una manciata di istanti come sabbia nel vento. L’amore passionale della stoltezza giovanile era passato in fretta e altrettanto in fretta era stato sostituito dal profondo rispetto che provavano l’uno per l’altra e dalla necessità di aversi accanto ogni giorno.
Mentre osservava la donna della sua vita armeggiare con mani tremanti i lembi di un lenzuolo, pensò non fosse mai stata così bella.
Si avvicinò, il passo incerto dall’età che gli piegava la schiena, e posò le proprie più grandi e ferme mani sulle sue con gentilezza. Lei gli sorrise – lo stesso sorriso di cui si era innamorato più di cinquant’anni prima.
Assieme tutto era più semplice e il tempo che li avvolgeva sembrava un lontano sussurro.
Strinse le sue mani, accarezzò col pollice il dorso ruvido e pallido di quella che portava il suo anello. Si chiese se mai ne avrebbe sentito la mancanza.
Si sporse verso di lei, con la sua chioma riccia che gli solleticava il mento, e le posò un bacio sulla fronte.
I giorni avrebbero potuto aspettare.

 


Spazio autrice:
Credo che questa raccolta abbia preso una piega un poco diversa dalla mia idea iniziale, seppur io tuttora non sappia bene quali temi, emozioni o situazioni andrò a toccare.
Questo "Ya'aburnee" in particolare ha molta importanza per me, in questo momento, a causa di alcune cose che stanno succedendo nella mia vita e a cui non sono ancora pronta. È stato davvero deprimente scriverne, ma spero comunque che riusciate a percepire il significato che ho voluto infondere al testo e ad apprezzarlo.

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Capitolo 3
*** Njuta ***


Njuta - In svedese indica un profondo apprezzamento, un sentimento di gratitudine e gioia, od il trarre qualcosa di positivo da un'esperienza.


3.
 
Il mattino presto era tinto di indaco, con alcune stelle che baluginavano timidamente nello schiarirsi del cielo; l’orizzonte era una linea di luce gialla che preannunciava il sorgere del sole.
La ragazza seguì le altre donne tra le camere della risaia, la lunga veste annodata sotto le ginocchia per evitare che la terra e l’umidità mattutina la imbrattassero troppo e le maniche tirate su fino ai gomiti.
La pianura risuonava del cinguettio degli uccelli annidati tra i radi alberi al limitare dei campi; più in là, dall’altra parte del sentiero sterrato su cui avevano appena iniziato a circolare i primi carri della giornata, gli uomini zappavano la terra incolta e la preparavano per i mesi freddi.
L’aria fresca le solleticava le braccia nude mentre poggiava il sacco di corda ai propri piedi e, con una certa inesperienza, si accingeva ad osservare le donne più anziane e ad imitarne i gesti. Al suo fianco, piegata sui fasci di riso con la fronte aggrottata, una nonna dai lunghi capelli bianchi raccolti in una crocchia grezza canticchiava una bassa nenia e arricciava le labbra di tanto in tanto, come se stesse rimembrando un qualcosa del passato che voleva piegarle gli angoli della bocca in un sorriso; I suoi occhi erano più scuri della terra bagnata dalla pioggia e ricoperti da una sottile patina azzurra che pareva infastidirle lo sguardo, il viso un intricato ricamo di rughe che le disegnavano ombre sulla fronte pallida; accarezzava i fusti con fare esperto, percorrendoli con le dita tremanti dall’età fino alla base e tirandoli con presa salda per toglierli alla radice. Alcune ciocche argentee sfuggirono alla costrizione della corda e le solleticarono il volto, mosse dalla brezza tiepida che si era alzata dal meridione; la donna se le sistemò dietro le orecchie senza scomporsi, le labbra ancora tirate in concentrazione, e sul suo anulare i primi raggi del sole illuminarono il caldo oro della fede nuziale. Alzò gli occhi, severi e attenti, e li posò su di lei.
La ragazza avvertì il viso bruciare dall’imbarazzo e abbassò lo sguardo, approfittando degli alti fusti tutti intorno per nascondersi tra le cariossidi; la vergogna dell’essere stata colta in fragrante le fece sudare le mani e, solo dopo parecchi secondi di pensieri miseri sulla propria goffaggine, osò tentare un’occhiata all’anziana donna di fianco a sé: i suoi occhi incontrarono un sorriso aperto e quasi del tutto privo di denti ed uno sguardo divertito.
Il suo viso si piegò dalla sorpresa quando comprese il motivo di tutte quelle rughe che la nonnina ostentava agli angoli della bocca. Sorrise a sua volta, timidamente e con le guance imporporate da ciò che era rimasto del suo imbarazzo, e si accinse a riprendere il lavoro con una certa leggerezza nel petto; al suo fianco, l’anziana donna tornò ad intonare la melodia priva di parole ed il suono si perse tra le foglie di riso nel calore del mattino.
 

Spazio Autrice:
Dopo sei settimane senza WiFi ho potuto finalmente pubblicare questo piccolo capitolo che sono riuscita a macinare; ammetto che si è praticamente scritto da solo e differenzia un bel po' dal mio progetto iniziale, ma non per questo me ne ritengo insoddisfatta. Non faccio pronostici per gli ultimi due, perciò, dato che non so nemmeno se seguiranno quella vaga idea che ho nella mente.

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Capitolo 4
*** Mamihlapinatapei ***


Mamihlapinatapei - In Yagan (lingua degli indigeni della Tierra del Fuego) indica un profondo sguardo tra due persone che desiderano ardentemente qualcosa, ma che entrambe sono riluttanti ad intraprendere.

 
4.
 
La notte fuori dall’albergo era gelida e crudele; il vento sferzava impetuoso tra le vie della città ed ululava tra le tegole dei tetti, costringendo gli avventori dei locali a fare rientro nelle proprie case in tutta fretta, chi ne possedeva una, od urgendo quei poveri sfortunati che non avevano un posto dove stare a cercare un letto in cui poter dormire.
La donna si strofinò le braccia intorpidite e gettò un’occhiata alla hall semivuota, impreziosita di fiori e tessuti esotici ogni dove, quando il suo sguardo fu catturato dalla figura elegante seduta ad una delle poltrone: in un lungo vestito rosa antico, ricco di merletti e nastri dorati, vi era una bellissima donna che pareva avere solo qualche anno in più di lei; il suo viso era un ovale perfetto dall’incarnato bronzeo, incorniciato da una cascata di boccoli castani che le scendevano in morbide onde fin sulle spalle; i caldi colori della pelle e le fattezze del suo viso le dissero che doveva trattarsi di un’ispanica. Per una frazione di secondo, pensò di non aver mai visto nulla di così incantevole.
Quando, poi, spiò i suoi occhi, li trovò già indirizzati su di lei: due pozze di nocciola talmente splendenti da sembrare ambra liquida, tiepidi ed avvolgenti come mai ne aveva guardati. Avvertì lo stomaco torcerle piacevolmente nella pancia ed il rossore salirle al viso, e nemmeno per un istante il pensiero di interrompere quello scambio di sguardi indiscreto le attraversò la mente.
La donna dalla carnagione scura piegò poi le labbra – piene, perfette – in un dolce sorriso e si scostò una ciocca dietro l’orecchia; la giovane pensò di poter sentire il cuore fare una capriola a quella semplice vista e rise a sua volta, silenziosamente, lasciando che la frangia dorata le nascondesse un po’ il viso imbarazzato. Giurò di non aver mai provato nulla del genere in vita sua.
Era questo ciò che sua madre le aveva narrato essere amore a prima vista, quando ancora era solo una bambina? Era una sensazione di felicità così pura che pensò non avrebbe mai più provato un’emozione simile. Erano queste le farfalle nello stomaco? Era questo l’innamoramento di cui aveva letto tante volte nei romanzi rosa?
Poi il suo fidanzato le afferrò gentilmente l’avambraccio, chiedendole se avesse bisogno di qualcosa prima di salire nelle loro stanze, e la ragazza fu riportata alla realtà, dove entro pochi mesi sarebbe divenuta moglie di un uomo che rispettava ma non amava. L’amarezza la sconvolse più di quanto avesse mai fatto da quando si era resa conto di provare attrazione per le donne, molti e molti anni prima. Perché si sentiva così triste, tutto ad un tratto, dopo soltanto uno sguardo?
Finse che il pizzicore che sentiva agli occhi fosse solo stanchezza, quando rivolse un’ultima occhiata alla giovane e nei suoi trovò riflesso lo stesso rammarico. Scosse la testa e lasciò che lui la guidasse via.
Ben presto quella minuscola scintilla di illusione che aveva veduto sparì dietro alle porte di un ascensore.

 


Spazio autrice:
Era da un bel po' che pensavo di scrivere un capitolo sul mamihlapinatapei; onestamente era il progetto iniziale per il capitolo tre, successivamente rimandato quando la storia lì aveva preso una piega un poco diversa. Ammetterò che mi è piaciuto così tanto scriverne da arrivare a sfiorare le seicentocinquanta parole... Inutile dire che ho dovuto fare dei tagli non proprio indifferenti! Il nucleo del capitolo, comunque, è intatto.
Per quanto riguarda il tempo e l'ambientazione, posso dire che variano da flashfic a flashfic; mamihlapinatapei è ambientata all'incirca nella seconda metà del milleottocento, quando ancora la donna non poteva decidere per il proprio destino e nessuno poteva pubblicamente mostrare interesse per una persona dello stesso sesso. Spero, dunque, di essere riuscita a rendere per iscritto una parte di quei sentimenti una donna qualunque potrebbe aver provato in quel secolo.
Qui lo dico e mai più lo nego: la sintesi non è mai stata il mio forte e scrivere con un limite di cinquecento parole è una tortura che mi sono autoinflitta.
Al prossimo e ultimo capitolo; grazie per essere arrivati fin qui!

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Capitolo 5
*** Cafuné ***


Cafuné - in portoghese brasiliano indica l'atto di passare teneramente le dita tra i capelli di qualcuno.

5.

La stanza era di un bianco accecante; persino con le tapparelle abbassate e soltanto la luce della lampada al neon a rischiarare l’ambiente quel colore non aveva nulla di naturale. Come in ogni camera d’ospedale l’aria era pregna dell’odore del disinfettante e dei medicinali.
La sedia su cui era seduto ormai da quasi undici ore ininterrotte era talmente scomoda da avergli fatto addormentare gli arti inferiori, ma l’idea di alzarsi e andarsi a sgranchire le gambe con il rischio che ora potesse accadere lo distruggeva. Sedeva stancamente con lo sguardo rivolto al bianco – bianco, bianco, bianco – delle lenzuola fresche, i bip dei macchinari che a quel punto erano diventati un semplice e confortante rumore di sottofondo. Dal corridoio oltre la porta aperta i suoni dei passi frettolosi degli infermieri gli tenevano compagnia.
Sfiorò con le dita la mano pallida dell’uomo steso sul letto, ma non osò alzare gli occhi sul suo viso; non ancora. Faceva tutto troppo male, talmente tanto che era certo di aver oramai esaurito ogni lacrima durante la veglia che aveva tenuto. Eppure come poteva anche solo pensare di lasciare il suo capezzale?
La mano sotto la sua ebbe un fremito e lui alzò gli occhi sul volto smunto e dalla barba incolta dell’uomo che amava; non era pronto. Non sarebbe mai stato pronto.
Resisti ancora un po’. Dio, fallo smettere. Non andartene. Non voglio che tu soffra. Fa che non provi più dolore. Portalo via. Non lasciarmi.
I dottori lo avevano chiamato la sera prima per dirgli che era giunta l’ora; lo avevano addormentarlo per evitare che soffrisse.
Avrebbe voluto potergli dire addio. Perché non lo aveva fatto? Perché era peggiorato così?
Il suo viso era disteso, sembrava tanto sereno. Ma era ora, non era così? Lo sentiva nelle viscere. Il dolore era sempre più forte, immenso, ingestibile.
Gli strinse la mano, ne carezzò il dorso con le dita che tremavano incontrollatamente.
Le lenzuola bianche – bianche, bianche - si alzavano ed abbassavano a ritmo col suo debole respiro. Avrebbe voluto farlo cessare lui stesso.
L’orologio ticchettava, ancora e ancora. Tic toc. Tic toc. Tic toc. Dalla tapparella filtrava un po’ più di luce, ma il bianco era comunque fastidioso, ripetitivo, predominante.
Poi, così come erano stati esalati fino ad un istante prima, i sospiri si fermarono. Alzò lo sguardo su quel volto così pallido ed emaciato, sulle palpebre e labbra dischiuse nell’ultimo scintillio di vita prima della morte. Era successo. Era finita.
Deglutì, i propri occhi rossi che bruciavano e tornavano a gonfiarsi come se già non lo avessero fatto abbastanza. Portò una mano a quel viso che un tempo era stato così vivo e ne accarezzò il naso, le guance, la fronte. Infilò le dita tra i ricci neri e li lisciò con reverenza e dolcezza, come tante volte aveva fatto. Sarebbe stato così per sempre. I suoi capelli erano morbidi e ancora profumavano dello shampoo che aveva usato due giorni prima. Lavanda, considerò con labbra tremanti. Attorcigliò le ciocche sulle dita e pianse.
 

Spazio autrice:
Eccoci giunti alla conclusione di questa breve raccolta. È stata, devo dire, una bella esperienza! Mi è piaciuto potermi immedesimare in così tanti personaggi e provare le loro emozioni, seppure il più delle volte siano state di triste carattere.
Ho preso il termine "Ricochet" dall'omonimo titolo della canzone degli Starset rilasciata questo inverno, mia personale fonte di ispirazione per i primi due capitoli; la parola deriva dal francese ed ha come significato "rimbalzo", che rappresenta perfettamente l'idea che avevo per la raccolta, ovvero il saltare da un'emozione all'altra.
Partendo con Angoscia, quindi con uno stato mentale di estremo tormento, si passa a Ya'aburnee, che descrive il sentimento di malinconica dolcezza verso la persona amata e che guarda al lato sereno della morte; a seguire si ha Njuta, un semplice momento di allegria e spensierata gioventù che indica il punto più alto che l'arco possa raggiungere, e subito dopo Mamihlapinatapei prende l'innocenza della prima cotta e le da un gusto amaro, segnando la discesa inesorabile della curva. Infine, questa Cafuné torna alle emozioni più dolorose e da la chiusura perfetta per la raccolta così come l'avevo pensata. Da qui il nome ricochet.
Ora, nonostante io mi sia dilungata anche troppo, vorrei concludere ringraziando Megara X per le sue recensioni ed il suo supporto! Grazie mille anche a tutti i lettori silenziosi che sono arrivati fino a questo punto; mi auguro di ritornare a breve con nuove idee.
Maiko.

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