Leggende del Fato: L'ombra del passato

di Vago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0: Vaghi ricordi ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Storia ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Più informazioni ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: La compagnia ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Un muro di alberi ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4.5: Troppo presto ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5: Gerala ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6: Sarnasj ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7: El Terano ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8: La costa ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9: Il re della foresta ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10: Una grotta umida ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11: L'ultimo Cavaliere ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12: Quel che deve accadere ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13: Quanto tempo ***
Capitolo 16: *** Capitolo 13.5: Capitolo inesistente ***
Capitolo 17: *** Capitolo 14: Un messaggio d'aiuto ***
Capitolo 18: *** Capitolo 14.5: Il re e il messaggio ***
Capitolo 19: *** Capitolo 15: Confidiamo nel Fato ***
Capitolo 20: *** Capitolo 16: Progenie della storia ***
Capitolo 21: *** Capitolo 17: Disperso nei campi ***
Capitolo 22: *** Capitolo 18: Le profondità del nido ***
Capitolo 23: *** Capitolo 19: Un ultimo sforzo ***
Capitolo 24: *** Capitolo 20: Il guerriero del Sole ***
Capitolo 25: *** Capitolo 21: L'orda ***
Capitolo 26: *** Capitolo 22: Un rompicapo a vapore ***
Capitolo 27: *** Capitolo 23: Un barlume di speranza ***
Capitolo 28: *** Capitolo 24: Una vecchia storia ***
Capitolo 29: *** Capitolo 25: Consiglio Divino ***
Capitolo 30: *** Capitolo 26: Quindi... ora? ***
Capitolo 31: *** Capitolo 27: Controindicazioni ***
Capitolo 32: *** Capitolo 28: Ventiquattr'ore d'inferno ***
Capitolo 33: *** Capitolo 29: Un vecchio piano B ***
Capitolo 34: *** Capitolo 30: Un nuovo mondo ***
Capitolo 35: *** Capitolo 31: Visi familiari ***
Capitolo 36: *** Capitolo 31.5: Incontrare un Doppelganger ***
Capitolo 37: *** Capitolo 32: Un piano quasi terminato ***
Capitolo 38: *** Capitolo 33: Il precipitare degli eventi ***
Capitolo 39: *** Capitolo 33.5: Non ho intenzione di morire! ***
Capitolo 40: *** Capitolo 34: Un lavoro pulito ***
Capitolo 41: *** Capitolo 35: Drago di parola ***
Capitolo 42: *** Capitolo 36: Da quattro a due ***
Capitolo 43: *** Capitolo 37: Nord, Est e Sud ***
Capitolo 44: *** Capitolo 38: Nuove armi ***
Capitolo 45: *** Capitolo 39: Sicari ***
Capitolo 46: *** Capitolo 40: Un pezzo di legno ***
Capitolo 47: *** Capitolo 41: Finchè non interferirà ***
Capitolo 48: *** Capitolo 42: Un ultimo sguardo a Ovest ***
Capitolo 49: *** Capitolo 43: Cosa?! ***
Capitolo 50: *** Capitolo 44: Cosa ci aspetta ***
Capitolo 51: *** Capitolo 45: A un passo dalla fine ***
Capitolo 52: *** Capitolo 46: Un portone aperto ***
Capitolo 53: *** Capitolo 47: Un potere soverchiante ***
Capitolo 54: *** Capitolo 47.5: Duello ***
Capitolo 55: *** Capitolo 48: Il traditore ***
Capitolo 56: *** Capitolo 49: Un piano di fuga ***
Capitolo 57: *** Capitolo 50: Toccati dagli dei ***
Capitolo 58: *** Capitolo 50.5: Ospite ***
Capitolo 59: *** Capitolo 51: Riflessi nel buio ***
Capitolo 60: *** Capitolo 52: Una lunga notte ***
Capitolo 61: *** Capitolo 53: Lacrime ***
Capitolo 62: *** Capitolo 54: Il risveglio del Corvo ***
Capitolo 63: *** Capitolo 55: Impossibile tornare indietro ***
Capitolo 64: *** Capitolo 56: Linea di difesa ***
Capitolo 65: *** Capitolo 57: La fine di un'era ***
Capitolo 66: *** Capitolo 58: Il canto funebre del vento ***
Capitolo 67: *** Capitolo 59: Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 0: Vaghi ricordi ***


 Era pomeriggio, ma la passerella era tutta vuota. Non c’era nessuno dei miei amici a giocare. Anche gli alberi sembravano silenziosi.
Ero seduto sul mio letto.
Mamma piangeva. Papà piangeva. Perché erano così tristi?
In casa c’erano anche cinque persone con il cappuccio sulla testa. Erano tutte in piedi. Era colpa loro se non potevo andare a giocare?
La mia sorellona non c’era. Era andata a un mercato per vendere le camicie che mamma cuciva tutta la settimana. Un giorno ci sarei andato anch’io, a vendere al mercato. Papà me lo aveva promesso. Aveva detto che quando avrò dieci anni potrò andare ad accompagnare la mia sorellona. Mi mancavano solo due anni.
Uno degli uomini aveva una spada che spuntava dal mantello marrone. Era come quella che avevo visto a casa di un mio amico.
Chissà com’era splendente.
Un altro uomo con il cappuccio smise di parlare e mamma urlò qualcosa come: No! No!
Magari volevano farci pagare di più.
Papà aveva detto che dovevamo pagare di più.
Due uomini si avvicinarono a me. Volevano giocare? Avevo una corda per saltare, sotto il letto.
Veloci aprirono un vecchio sacco puzzolente e me lo misero addosso. Chiudendolo.
Che brutto gioco!
Mamma urlava ancora. Volevo andare da lei. Cominciai a piangere e urlare anch’io.
Un uomo per farmi stare zitto mi tirò un calcio sulla schiena. Capii che volevano portarmi lontano da mamma e papà, così cercai di piangere più forte, muovendo le mani e i piedi per togliermi quel sacco sporco di dosso. Piansi tutte le lacrime che avevo. La gola mi bruciava come quando giocavo troppo.
Volevo i miei genitori. Volevo abbracciarli. Volevo vedere la mia sorellona e la sua collana con una piccola foglia di legno al fondo.
Qualcuno disse ancora qualcosa. Forse era papà.
Poi il sacco si alzò e mi portarono via.
Lo scalino davanti alla porta era più alto degli altri, ed io ci battei la testa. Tanto forte.
Vidi tante lucine rosse come lucciole davanti agli occhi, poi non sentii più niente.

Mi svegliai solo quando mi fecero cadere per terra. Ero ancora dentro quel brutto sacco puzzolente. Non vedevo niente, era tutto nero. Avevo tanto male alla testa, alle braccia e alle gambe.
Aprirono il sacco e la luce mi accecò.
Vedevo solo una testa nera davanti a me.
Poi mi cominciai ad abituare. Mi misi in piedi e mi guardai intorno. Avevo gli occhi secchi.
Mi avevano portato in una casa di pietra. Non ne avevo mai vista una. A Gerala non ce n’erano. Noi vivevamo sui rami degli alberi. Papà diceva che le case di pietra erano troppo pesanti e sarebbero cadute per terra.
Vicino a me c’erano le cinque persone che mi avevano portato via da casa. Si erano tolte i cappucci.
Erano quattro uomini e una donna.
- Dove sono mamma e papà?- chiesi. Volevo andare da loro.
- Sono a casa. Felici per te.- mi rispose l’uomo con la spada.
- Perché felici?-
- Perché hai una grande occasione.- rispose la donna.
- Io voglio andare a casa. La mia sorellona sta per tornare dal mercato.-
- Questa sarà la tua casa ora. Non avrai più bisogno di mamma e papà. Perché tu sei un bambino grande, vero?- disse un altro uomo.
- Io voglio andare a casa! Questo posto non mi piace!-
- Fattela piacere!- urlò lo stesso uomo con sguardo cattivo.
Mi misi di nuovo a piangere.
L’uomo con la spada, insieme a un altro mi presero dalle ascelle e mi portarono in un’altra stanza fredda.
In un angolo c’era del muschio, come quello che cresceva sul ramo dove vivevamo.
Mi fecero camminare fino a un tavolino basso, in legno scuro. Non avevo mai visto un legno così scuro.
C’erano sei carte coperte su questo. Come quelle con cui giocavamo quando fuori pioveva.
- Prendine una. Forza, prendi in mano il tuo fato e scegli la tua sorte.- mi disse ancora l’uomo con la spada.
Con le lacrime agli occhi presi la carta più bella e la alzai. Disegnato c’era un grande lupo grigio. Come quelli che vivono nella Grande Vivente e mangiano i bambini cattivi che non dormono subito, me lo aveva detto mamma.
- Fratelli! Abbiamo un erede del lupo!- esultò una persona dietro di me.
Ancora con la carta in mano mi presero e mi trascinarono fuori da quella casa, su un terreno pieno di sassi. Il sole era basso e lontano si vedeva la Grande Vivente colorata di arancione.
Mamma e papà erano laggiù. Da qualche parte.
Passai vicino a una grande statua bianca come il latte che ogni tanto ci dava la nonna. C’erano quattro uomini e due donne in armatura e sei grandi draghi spaventosi
 A Gerala, davanti alla mia casa, c’era la statua di due di loro. Uno era il grande Trado del Vento, l’altra era la bellissima Diana, tutti dicevano che ballava talmente bene da essere chiamata la Leggiadra.
Avevano salvato loro le terre.
Ma gli uomini che mi stavano trascinando non si fermarono. Entrarono dentro a delle grandi mura nere e mi spinsero dentro a un’altissima torre scura. Sopra la porta era stata messa una bellissima pietra gialla come l’oro che brillò, colpita dai raggi del sole.
Iniziò lì il mio vero incubo.
Dentro la torre mi aspettava un grosso uomo con la barba nera e la testa pelata bianchissima. Sorrideva cattivo.
Mi alzò da terra e mi fece scendere tante scale.
Mi portò in un sotterraneo buio e freddo e mi gettò in una cella.
Chiuse la porta di ferro, lasciandomi da solo nel buio.
Io cominciai a piangere e supplicarlo di farmi uscire, ma lui non mi ascoltava. Forse se ne era già andato.
Rimasi rinchiuso per tre giorni, penso, visto che l’uomo dalla barba nera mi portò tre pasti. Ma solo il quarto giorno si fermò nella cella e si sedette davanti a me.
- Tu sei un Lupo.- mi disse.
- Ma io non sono un lupo. Io sono un umano!-
- No. Tu, da adesso, sei un Lupo. Seguirai la legge del tuo branco e il volere della grande dea Oscurità.-
- Ma io non voglio! Papà mi ha detto che è Aria la dea più brava! È lei che fa andar via la pioggia e impollina gli alberi! È lei che fa danzare le foglie in autunno!-
- Tu adesso sei un Lupo. Quindi dovrai sottometterti e consacrare la tua vita a Oscurità! Hai capito!?-
Mi misi a piangere. L’uomo allora si alzò e mi tirò uno schiaffo sulla guancia tanto forte da farmi cadere.
Uscì e si richiuse la porta alle spalle.
Non riuscivo a smettere di piangere. Volevo che la mia mamma mi abbracciasse. Volevo tornare a casa dai miei amici. Non volevo essere un Lupo.
Forse erano le lacrime. Ma vidi una figura femminile, un’ombra grigia comparire sulla porta e spostarsi verso di me. Si era accucciata su una parete, e mi guardava piangere. Senza muoversi o parlare… parlare, come se un’ombra potesse emettere suoni.
L’uomo dalla barba cattiva tornò altre tre volte, portandomi un bicchiere d’acqua e un pezzo di pane e non andandosene prima di avermi tirato un ceffone.
Tutte le volte che l’uomo usciva dalla mia cella l’ombra compariva per tenermi compagnia.
Il sesto giorno l’uomo barbuto si era arrabbiato seriamente. Mi aveva colpito con i calci sulla pancia fermandosi solo quando cominciai a sputare sangue.
Quella sera, quando la figura comparve, mi trascinai disperato ai suoi piedi, continuando a piangere. Lei si sedette e mosse la sua mano come se volesse appoggiarmela sulla testa. Mi bastò quel piccolo gesto a farmi sentire meno solo.
Quando il settimo giorno l’uomo dalla barba nera mi portò fuori dalla cella in cui ero stato chiuso, la luce della sua lampada mi accecò. Lui ed un altro uomo mi trascinarono su per la scala. Non si fermarono alla porta ma continuarono a salire, sempre di più. L’uomo barbuto chiese ad un altro, seduto dietro a una vecchia scrivania, qualcosa. Non capivo cosa dicessero.
Comunque l’uomo cattivo sorrise e mi spinse in un corridoio nero. All’entrata era stata scolpita la testa di un lupo feroce.
MI fece entrare in una stanzetta, piccola, puzzava di chiuso e vecchio e tutto era coperto di polvere. Come il baule del nonno, quello che non potevo aprire perché c’erano i suoi ricordi. Mi aveva raccontato che durante la guerra era stato uno dei soldati che combattevano sotto il grande Drake e che aveva parlato addirittura con i sei eroi delle terre. Diventava però sempre triste quando parlava dei sui ricordi, perché Drake non gli aveva permesso di andare a combattere insieme a tutto l’esercito, visto che era solo un bambino.
Prima di andarsene mi diede in mano un coltello con la punta e il suo fodero.
- Verrà qualcuno a chiamarti e a portarti dove devi andare. Se non sei chiamato non dovrai uscire da questa camera.- poi l’uomo con la barba uscì e chiuse la porta con un botto.
Io mi sedetti sul letto e appoggiai il coltello sul mobiletto attaccato al muro. Quelle erano le uniche due cose che c’erano nella stanza.
Mamma non mi aveva mai lasciato usare quel tipo di coltelli. Diceva che erano pericolosi e mi sarei potuto fare male. La mia sorellona poteva già usarli, invece, perché lei era già grande.

 

Angolo dell'autore:

Oh, già. Sono di nuovo qui a pubblicare. Questa, a differenza delle altre storie che ho già pubblicato, è ancora in fase di stesura, quindi non potrò mantenere il ritmo forsennato di un capitolo al giorno come facevo prima. Tutto questo, per dirvi che dovrei riuscire a pubblicare settimanalmente il nuovo capiolo, il venerdì... Spero.

Bene, spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto. Alla prossima!

Vago.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Storia ***


 - Un bambino non dovrebbe mai passare quello che hanno fatto a me… a noi, qui dentro.- si disse Hile risvegliandosi dai suoi ricordi. Lanciò un’ultima volta il coltello in aria e lo riprese tra due dita, poi lo ripose nella tasca.
Era già vestito, aspettava solo che il servitore lo venisse a chiamare. Se non era cambiato nulla, quella mattina doveva andare nell’aula di storia.
“ È incredibile che degli assassini debbano studiare la storia… - pensò Hile - Ma dopotutto, se il direttore della setta dei Sei aveva imposto a tutti gli adepti di tutte le sette dieci lezioni sulla storia delle Terre, avrà avuto i suoi buoni motivi.”
Il servitore bussò alla porta. Con voce bassa disse: - Signore, la sua attività inizierà tra pochi minuti.-
- Grazie.-
Hile era uno dei pochi Lupi che ringraziavano la servitù per gli incarichi che svolgeva all’interno della setta.
Prese il coltello piantato nel mobile e uscì dalla stanza, diretto alla lezione.

Lo storico a cui era stato affidato il compito di spiegare ai Lupi la storia era un certo Nerga, un vecchio ingobbito con il volto pieno di rughe. Sembrava dover morire ad ogni parole che usciva dalle labbra bianche.
Era la settima volta che Hile doveva ascoltarlo, ed ogni volta gli sembrava più vecchio e moribondo.
- Ragazzi… questa è la quarta… volta che… ci vediamo…-
- Signor Nerga, questo è il nostro settimo incontro.- disse un Lupo. Hile non fece caso a chi fosse, era troppo impegnato a seguire le fessure del banco a cui si era seduto. Probabilmente era lo stesso tavolo a cui si era seduto un cavaliere dei draghi.
- Ah… allora… qualcuno può… ricordarmi dove… siamo arrivati?-
- Ci ha raccontato della conclusione della guerra detta degli elementi che vide contrapposti i Sei e il Tiranno. Ci ha spiegato che assieme al re dei nani Vroyer, spero di averlo pronunciato bene, agli storici diplomatici Drake, Nestra e Farionim, al re Foglietta I e al sindaco della Nuova Chiritai, di cui si è perso il nome, stipularono il Trattato delle Razze, che divideva il continente in cinque terre e alla rinascita dell’Ordine dei Cavalieri.-
- Bene,… hai seguito… Quindi ragazzi… Quando Ardof… e il suo drago… Erdost, Frida… e la dragonessa Seisten, Trado… e Reicant… e Vago con… Defost, finirono di… trasportare le torri… dove dormite… voi ora… e vennero istaurati… i nuovi governi… seguirono venti… anni di prosperità. Poi un nuovo morbo… detto… della squama… grigia… perché… causava nei draghi… la diminuzione… dello… spessore delle… loro squame… rendendole di… colore grigio. I draghi… erano molto… più soggetti… a malattie… e la loro… mortalità era… altissima. Dopo… un primo tentativo… di arginare la… malattia… mettendo in quarantena… in malati… e rinchiudendo… i sani… all’interno di grotte… e delle mura… nuovamente… costruite del… palazzo della… Mezzanotte… I draghi sani… tornarono… alla loro isola… natale,… lasciando… la Terra del Fuoco… disabitata. Fu allora… che i… Sei eroi… delle terre,… assieme… ai loro draghi… e a un… piccolo gruppo di… compagni… tra cui… figuravano… Fariuna,… la allora… regina dei… draghi,… il re dei… folletti Rovere e… una fata… messaggera che… si era offerta… di accompagnarli,… partirono verso… il continente… recentemente… scoperto a… sud… ovest delle terre. Lì avrebbero… cercato una… cura per… il morbo… e sarebbero tornati… sulle terre per… distribuirla. Come… ben vedete… probabilmente… non l’hanno trovata.-
Nerga accennò un sorriso ironico. Hile ipotizzò, nella sua distrazione, che quell’uomo fosse profondamente amareggiato per non essere stato scelto come Cavaliere da uno dei draghi che gli erano stati presentati.
Nerga continuò a esporre la caduta dei Cavalieri dei draghi con rinnovato vigore, descrivendo il decadimento dei governi istaurati con il Trattato delle Razze e il loro spostamento nelle rispettive terre.
Lo storico chiuse le labbra piene di saliva solo quando la campana in cima al palazzo suonò, indicando il pranzo.
Hile mangiò in silenzio la minestra che il servitore gli aveva portato, in mezzo agli altri Lupi nella sezione di mensa dedicata a loro. Pesanti tendaggi grigi li dividevano dalle altre sezioni della Setta, ognuna devota a un dio minore.
Hile posò la sua ciotola vuota nella vasca in fondo alla stanza e si diresse spedito verso il campo di addestramento esterno.
Uscì dalla porta principale e vide con la coda dell’occhio un Serpente girare l’angolo. Poi la staccionata gli occluse la vista.
La piazza creatasi tra il palazzo e le mura era stata divisa, dopo la caduta dei Cavalieri e l’insediamento della setta di Sei, in sei spicchi concentrici da un’alta palizzata in legno.
Una freccia fischiò nell’aria, tracciando un arco nel cielo e cadendo nella sezione delle Aquile. Hile sorrise. Probabilmente era arrivato un nuovo Drago da pochi giorni e qualcuno gli stava insegnando a maneggiare un arco.
Il Lupo si posizionò a una decina di metri da un manichino riempito di paglia e prese sei coltelli dalle tasche, posizionandoseli tra e dita.
Quelli erano le sue armi, mortali sia da vicino, come gli artigli dei predatori, che da lontano, se lanciati con sufficiente precisione.
Ne scagliò due in rapida successione, che si piantarono entrambi esattamente sul collo del fantoccio. Ferite mediamente mortali, le lame non erano penetrate sufficientemente da intaccare la colonna vertebrale, ma la vittima sarebbe morta dissanguata senza avere la possibilità di urlare. “Una morte decisamente atroce…” pensò Hile un po’ disgustato.
Ognuno in quella struttura aveva un suo proposito per migliorare, il suo, dato che avrebbe dovuto uccidere, era di diventare bravo a sufficienza da non far soffrire il povero disgraziato che sarebbe finito nel suo mirino.
Una spallata lo fece tornare alla realtà. Un colosso lo spostò con una mano e lanciò tre coltelli, si piantarono sul polmone destro, nello stomaco e nel ginocchio del manichino. Punti scarsamente mortali, ma terribilmente dolorosi. La vittima sarebbe rimasta a terra agonizzante per ore, facendo fatica a respirare e non potendosi muovere se non strisciando, in attesa di morire dissanguata.
Hile scacciò prontamente quel pensiero.
- Hai visto, spellicciato?- chiese il colosso.
- Si, Ernest.- rispose con lo sguardo basso Hile, andando a recuperare i propri coltelli.
Nella setta del lupo si erano create tre categorie, basate sugli anni di esperienza e il numero di incarichi, di omicidi su commissione, che avevano portato a termine. Gli “Spellicciati” erano i ragazzi che erano nella setta da meno di dieci anni e che quindi non avevano ancora ricevuto il loro primo incarico; i “Ringhianti”, che avevano portato a termine con successo una o più missioni; e i “Beta”, quelli che oltre ad aver compiuto almeno quattro incarichi erano all’interno della setta da più di venti anni.
Ernest era un Ringhiante, con due missioni alle spalle, mentre Hile era solo all’ottavo anno di addestramento.
- Che ti ha detto questa volta Ernest?- chiese un Lupo avvicinandosi ad Hile.
- Niente. Per fortuna. Rayn, ti conviene allontanarti da me per un po’… non vorrei che quel Ringhiante se la prendesse anche con te.-
- Ehi, siamo amici, no? E allora, se devo sentire Ernest blaterare per questo a me va bene. Ricorda che il lupo solitario non vive senza un branco.-
Il pomeriggio passò con la solita monotonia, sotto il caldo sole estivo.
La campana suonò altre due volte: la prima per la cena, la seconda per la preghiera serale. Al suono di quest’ultime tutti i Lupi si diressero nella stanza dedicata alla dea Oscurità, in cui una statua troneggiava nella sua terribile bellezza. Lo sguardo, al contempo duro e amorevole rappresentava pienamente ciò che Oscurità era: la punizione per chi rifuggiva il bene e la consolazione per chi invece lo cercava.
Secondo alcuni Beta, usciti in missione con adepti delle altre sette, vi era una stanza identica per ogni dio minore. E che ci fosse, poi, una sala centrale al palazzo in cui un braciere, un flauto, un masso, una ciotola d’acqua e una penna con il calamaio erano stati disposti per formare una stella a cinque punte, circondata da vasi di fiori a formare un cerchio, era risaputo. L’intento doveva essere stato quello di rappresentare, all’interno del Palazzo della Mezzanotte, il simbolo dell’Elementarismo, un pentacolo, per cui ogni punta era un dio primigenio, circondato da un cerchio, simbolo di Natura, ponte tra i primigeni e i minori ma dissimile da tutti questi, e infine un esagono, in cui ogni punta era un dio minore.
Hile piegò il capo, lodando Oscurità per la sua potenza e ripetendo ritmicamente la sua totale devozione. Fu un servitore ad avvertire che il tempo di preghiera era finito e che tutti dovevano tornare nelle rispettive camere in attesa dell’indomani. Come se ci fosse ancora bisogno di ricordarlo. Era una delle regole fondamentali della setta e l’ultimo arrivato era li dentro da tre mesi.
C’era anche una spiegazione per quella regola, l’alta torre poteva amplificare le voci al suo interno e tutta la Terra degli Eroi sarebbe stata invasa da una cacofonia di suoni che avrebbero attirato l’attenzione dei curiosi sulla struttura. La setta era probabilmente sopravvissuta in quegli anni proprio per aver mantenuto la sua segretezza. Nessuno, eccetto chi ne faceva parte sapeva qual era il centro di controllo da cui i migliori assassini prendevano ordini.
Neppure a chi ne richiedeva le prestazioni, ovviamente sotto cospicuo compenso, veniva rivelata tale informazione.
Ma dopotutto gli Stambecchi servivano proprio a mantenere le distanze tra la setta e il resto del mondo, fungendo da tramite per riferire al direttore eventuali nuovi incarichi o notizie degne di nota.
Gli Stambecchi non facevano parte della setta tradizionale, come era stata concepita all’origine. Erano un corpo a parte, addestrato a mimetizzarsi nella folla e a vivere in incognito per molti mesi, a volte addirittura anni, e a procurare impieghi per la setta sempre in maniera impeccabilmente silenziosa.
Hile si tolse di dosso la camicia e si sdraiò sul letto, ammirando il tatuaggio blu sul polso destro. Una zampa  di lupo dai lunghi artigli circondata da un esagono regolare. Il suo marchio e quello dei suoi compagni.
Come ogni sera la figura comparve sul muro alla sinistra del letto. Hile la salutò con un gesto della mano.
- Bello, dopotutto, come tatuaggio. No?-
L’ombra alzò le spalle.
- Non penso che mi sarei mai fatto un tatuaggio, se non fossi entrato qui. E tutto sommato la figura mi piace anche. Chissà cosa ne direbbe mia madre… Non penso avrebbe mai accettato una cosa simile…-
La figura piegò la testa di lato e si appollaiò sui talloni, o almeno così sembrava.
Hile le raccontò la sua giornata, la noia della lezione di storia, i pavoneggiamenti di Ernest… tutto quel che era successo, come al solito. Quello era il suo unico sfogo nella rigidezza della Setta. Dopotutto l’ombra era un’ottima ascoltatrice.
Il Lupo si addormentò parlando, in fondo sollevato per la presenza di quella compagna di sventure.

Il servitore bussò alla porta forse troppo presto, il lanciatore di coltelli non era ancora pronto ad affrontare un’altra giornata. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Più informazioni ***


 - Buongiorno ragazzi… questo è… il nostro… terzo incontro… dico bene?-
Hile appoggiò la fronte sul bancone. Un’altra mattinata ad ascoltare quel vecchio parlare dei suoi ricordi, perché dopotutto sessant’anni non sono poi così tanti. Poteva anche non essere nato all’epoca del Cambiamento, ultraottantenni non ce ne erano più molti, ma quando l’Ordine era stato ricostruito lui era di sicuro già in grado di intendere e volere. E ancora si definiva storico.
- No, si sbaglia. Questo è l’ottavo incontro. Ieri era il settimo.-
- Ah… molto bene… vedo che… sei stato… attento…-
“ Ogni volta la stessa storia. Per fortuna mancano solo altri due incontri.” Pensò il Lupo.
- Allora… oggi parleremo… di come fu… creata la… vostra setta. Quando i… sei partirono… nel loro viaggio… lasciarono in gestione… il Palazzo della… Mezzanotte… a sei discepoli… ognuno specializzato… in un'arma diversa. Questi,… non avendo… più Cavalieri… da addestrare,… decisero di… fondare… un gruppo armato… imparziale… a difesa delle… Terre. Diviso… però in… sei parti… una per ogni… discepolo. Ma con gli… anni… il corpo… divenne una… scorta per chi… poteva permetterselo… e da lì… un gruppo di assassini… a pagamento. La struttura… prese il nome… di Setta… dei Sei,… molti si… impegnarono… a far circolare… leggende macabre… sul Palazzo… per tenere… a bada… i curiosi. Così la… setta è… diventata come… la vedete… voi ora e…-
Il vecchio Nerga venne interrotto da un servo, che aprì la porta di colpo.
- Cosa… vuole?- Ansimò irato lo storico.
- Il Lupo Hile è tenuto ad andare dal Direttore. La vuole in abito.- rispose remissivo il servo, con li occhi bassi.
Il lanciatore di coltelli si alzo dal suo posto e, presa la porta, salì fino alla sua camera. Ogni adepto della setta, di qualunque sezione, aveva a disposizione un abito normale, una camicia e un paio di pantaloni comodi, simili a quelli dei cittadini, e un abito cerimoniale, o da missione. Questo variava da sezione a sezione.
Hile si mise la giacca con cappuccio coperta di pelliccia grigia di media lunghezza, un surrogato alchemico dei peli di lupo, e i pantaloni dello stesso materiale. Ripose accuratamente i dodici coltelli nelle tasche, distribuite otto sulla casacca e quattro sulle braghe, e riuscì dalla stanza.
Percorse la scala a chiocciola fino all’ultimo piano, dove il direttore sedeva tutto il giorno. Non era strano che venisse convocato, era uno Spellicciato preso di mira da diversi Ringhianti, per questo molto spesso la colpa di azioni contrarie alle regole della setta erano fatte ricadere su di lui.
Bussò alla porta.
- Un attimo!- rispose il Direttore dall’interno.
Il Lupo si sedette su una panca a lato della porta, aspettando il suo turno. Si guardò per un attimo nel grande specchio, l’unico nel Palazzo, appeso di fronte a lui. I capelli neri, tenuti rigorosamente non più lunghi di tre dita, gli occhi marrone scuro sopra una lieve cicatrice che segnava la guancia destra. Non era stato un taglio profondo, per fortuna, e la cicatrice non era nemmeno così visibile da deturpare la guancia, ma Hile pensò subito ad altro.
“ Non è una brutta idea eliminare i cognomi, in fondo. Qui dentro siamo, o dovremmo essere tutti, della famiglia dei lupi, senza distinzioni se non per anzianità…” si disse ripensando a come lo aveva chiamato il servitore.
Un ragazzo, non di certo un Lupo, uscì dalla stanza con in mano una scopa. Doveva aver combinato un bel casino se lo facevano ripulire a lui e non ai servi…
Poteva essere un Gatto o un Serpente, a giudicare dalla muscolatura…
Hile entrò nella sala del Direttore tranquillo.
- Buongiorno, Alpha.-
- Hile, siediti pure. Spero di non aver interrotto nulla di importante.-
- No, niente di che. Ero alla lezione di Nerga.-
- Saltiamo i convenevoli, tanto oramai qui dentro sei di casa… quante volte ti avrò dovuto convocare? Cento? Centocinquanta? In otto anni.-
- Non lo so. Ma oramai conosco a memoria ogni passo per raggiungere questa stanza. Mi può solo dire di cosa sono stato incolpato questa volta? Cosa ho sporcato? O rotto? O magari ho scatenato una rissa…-
- Dopo tutto questo tempo che ci conosciamo mi dai ancora del lei, mi parli ancora come se fossi un austero Alpha… Che bel nome che mi avete dato voi Lupi, le altre sezioni non sono state così fantasiose… comunque, le cose serie, questa volta non sei stato incolpato di niente. È incredibile, vero?-
- Come non sono stato incolpato di niente!? Io non ho fatto nulla! Lo giuro!-
- Calma Hile, non ti ho chiamato qui per punirti.-
- No? Davvero? E allora perché sono dovuto salire fino qui?-
- No. Vediamo se hai ascoltato Nerga… cosa successe quando i Sei partirono per il Continente?-
- Lasciarono in gestione il Palazzo della Mezzanotte a sei discepoli che lo resero prima un corpo di difesa, poi una setta di assassini. Ne ha parlato questa mattina. Non capisco però come mai abbiano lasciato una struttura quasi vuota a sei persone che non facevano nemmeno parte dell’Ordine dei Cavalieri…-
- Dei Cavalieri e dei Domatori, nell’ultimo periodo si aggiunsero anche i Compagni.-
- Compagni di cosa?-
- Dei draghi. Per ogni razza c’era un appellativo. I Cavalieri erano umani, i Domatori elfici e i Compagni nanici. Il nome completo era Ordine C. D. e C.-
- Ah…-
- Ma non divaghiamo! Prima di partire lasciarono una lettera ai sei discepoli, come li chiami tu. Quel che vi è scritto sopra è singolare, vorrei che tu lo sentissi.-
- Perché la devo sentire io?-
- Per favore, chiudi gli occhi e ascolta, poi mi potrai fare le tue domande.-
Hile fece come gli era stato detto.

- Scritto dal discepolo Zeyro, sotto dettatura di Vago Tocsin, Cavaliere dei Draghi, incarnazione del Fato e gestore della Terra degli Eroi.
Lascio questa lettera ai posteri.
Inizio dicendo che tutti gli appellativi con cui Zeyro mi ha presentato in questo documento non mi piacciono per niente. Anzi… Però me la sono cercata tutta questa rigidezza di convenevoli quindi mi tocca accettarli. Ma non è per questo che voglio lasciare questo messaggio, quindi bando alle ciance.
Il libro del Fato è uno strumento temibile e misterioso, neppure io ne ho il pieno controllo. Agisce di sua volontà e a volte mi rivela ciò di cui ho bisogno. Da lì in poi è in gioco solo la mia bravura nella decifrazione.
Ebbene, mi ha rivelato, pochi giorni fa, una sezione a me finora sconosciuta, gli Appunti del Fato, una specie di raccolta di profezie totalmente diverse dai Destini delle creature che affollano queste pagine.
Bene, proprio in questa sezione ho trovato quella che prevedeva l’arrivo mio e dei miei compagni, ma non solo. Infatti ve n’è un’altra interessante. Qui la riporto testuale, la mia analisi ve la proporrò in seguito.

“ Quando l’ombra sui lunghi monti tornerà a crescere inesorabile, sei giovani portatori di morte affronteranno un viaggio per flutti, venti e pietre. Dagli antichi ai moderni il testimone passa. Ma i piccoli non saranno soli, poiché i minori dei maggiori veglieranno e i compagni che non sono compagni li difenderanno. Nati sotto la luna più bella e riconosciuti dall’oro non prezioso, si ritroveranno dopo otto anni di servizio.”

La nostra partenza per il continente è imminente, Fariuna mi ha mandato un messaggio poche ore fa, ha abdicato in favore della figlia, un ottimo partito secondo me… Una giovane dragonessa promettente e molto intelligente. Sono sicuro che farà ciò che è meglio per il suo popolo… Rovere ha fatto lo stesso in favore di un lord che conosco poco, ma ho fiducia nel mio piccolo amico. Quasi mi dispiace per suo fratello Ercoel, si è visto soffiare il trono dei folletti per la seconda volta… I Palazzi sono ormai vuoti, l’Ordine si è estinto a causa di questo maledetto morbo. I tempi si stanno stringendo sempre più. Ho tralasciato molti dei miei incarichi per poter decifrare il significato di queste righe, con gli anni immerso nella burocrazia ho perso buona parte della mia elasticità mentale, ma qualcosa l’ho carpito.
Bene, quasi non so da dove cominciare…
La seconda parte, innanzi tutto, perché è la parte in cui devo fare più riferimenti esterni. “Sei portatori di morte” sono sei assassini, scorrendo sulla vita del buon vecchio Palazzo della Mezzanotte ho scoperto che dopo la nostra partenza, diverrà il centro per un’organizzazione di assassini. Il brutto del Fato è che se una cosa è scritta non può essere cancellata, purtroppo l’ho scoperto a spese di Frida… il bello è che il Destino può essere guidato. Dopotutto l’importante è il viaggio, non la meta. Incaricheremo quindi i nostri migliori discepoli di guidare questa struttura verso la sua sorte nel modo migliore che esiste. Il Palazzo della Mezzanotte darà per la seconda volta i natali a sei prescelti,  sei assassini, appunto, che dopo otto anni di addestramento, vedi la quarta frase, partiranno per un viaggio. Viaggio che li porterà, innanzi tutto, da noi, sul continente, o alle nostre spoglie, se moriremo prima. Questo perché, come si può intendere dalla prima frase, il demone che aveva preso possesso del Re è tornato, indebolito sicuramente ma comunque pericoloso. Almeno questo è quello che credo… ma non posso escludere che l’ombra sia un adepto che ha addestrato Reis stesso durante la sua reggenza.
Come riconoscere questi giovani, si chiederà il mio lettore, ebbene: saranno nati tutti sotto la luna piena, quella più bella, e saranno riconosciuti da una pietra di colore giallo oro, pietra che ho personalmente creato, incantato e incastonato nell’architrave della porta del Palazzo… Questa si illuminerà solo al passaggio dei prescelti.
Per quanto riguarda la parte restante… i minori dei maggiori sono convinto siano i sei dei minori, che proteggeranno i nuovi prescelti come i primigeni protessero e proteggono noi.
Ma la parte che riguarda i compagni che non sono compagni mi è oscura. Non sono in grado di capire a cosa si riferisca.
Comunque auguro buona fortuna e buon viaggio a quelli che ci seguiranno.
Che gli dei vi proteggano, sempre.
Vago Tocsin -

- Perché me lo ha detto a me?-
- Perché ho ragione di credere che tu sia uno di questi sei prescelti. Sei nato sotto la luna piena, la pietra gialla di Vago ha reagito al tuo passaggio e questo, benché valga poco, è il tuo ottavo anno all’interno della setta.-
- Magari mentre entravo nel palazzo il sole ha illuminato la pietra! E poi, come fa a sapere che io sono nato sotto la luna piena? Visto che non lo so nemmeno io.-
- Sai come la setta sceglie i nuovi adepti?-
- No.-
- Vengono scelte persone con requisiti fisici e mentali superiori alla media. Inviati della setta si adoperano per creare coppie con queste persone e a sorvegliarne i figli. Il migliore di questi viene assorbito, per così dire, dalla setta. Abbiamo tutto su di te, compreso che luna c’era quando sei nato.-
- Quindi era già scritto che io finissi qui dentro?-
- Nel libro del Fato, come ben saprai, ci sono scritte tutte le mete delle persone. Quindi anche questa. Ma forse tu intendevi un’altra cosa. No, noi non sapevamo quanti figli avrebbero avuto i tuoi genitori, come non sapevamo se saresti stato migliore di tua sorella Aurea. Vi abbiamo tenuto sotto osservazione per anni, finché non abbiamo deciso che tu eri più adatto.-
- Comunque non c’è nulla che indichi che io sono uno di questi sei prescelti.-
- Hile, è inutile che continui a negare l’evidenza. Tu sei uno dei prescelti. Non hai altra possibilità che uscire da questo posto. È scritto nel tuo destino. E ricorda che in un modo o nell’altro ti troverai coinvolto in tutto questo. E potrebbe accadere in una situazione peggiore.-
- Ma è una situazione troppo grande per me! Come faccio ad imbarcarmi in questo viaggio? Ho bisogno di più informazioni!-
- Purtroppo non so altro. Però, secondo te, come hanno fatto cinque ventenni a riunire sotto la stessa bandiera razze diverse? Come hanno fatto cinque ventenni a resuscitare dalla Volta? Come hanno fatto a sconfiggere un semidio? Te lo dico io. Erano predestinati a fare tutto ciò. Erano protetti dagli dei!-
- Non posso declinare l’offerta? È vero che questa vita non mi piace, ma partire per l’ignoto mi attira ancora meno.-
- No. È il tuo destino partire. Fatti coraggio e… mentre esci, prendi quella borsa da viaggio nell’angolo. Consideralo il mio regalo d’addio.-
- O di arrivederci.- lo corresse Hile.
- O di arrivederci. - ripeté il direttore - E, ricordati, per mezzanotte devi essere fuori dalle mura. Per raggiungere l’isola dei draghi, la vostra prima tappa, recatevi a Sarnasj. Lì troverete un marinaio, il suo nome è Gebe. I draghi dovrebbero poi conoscere il resto.- aggiunse.
Il Lupo prese la tracolla scura e uscì dalla stanza distrutto. Doveva andarsene, il suo sogno era diventato un incubo. Doveva andarsene verso l’ignoto.
Si chiuse in camera. Stava perdendo la lezione, ma dopotutto cosa gli poteva importare? Lo avrebbero punito? E come, visto che da quella notte non sarebbe stato più lì?
Hile aprì lentamente la tracolla in pelle marrone che gli aveva regalato l’Alpha. Ad occuparla c’erano soltanto uno schizzo delle terre e del continente, che, nonostante la rozzezza con cui era stata disegnata, riportava tutti i paesi esistenti, perfino i villaggi più piccoli; assieme a questa un biglietto con sopra disegnato il simbolo dell’Elementarismo, il pentacolo cerchiato e contenuto nell’esagono, in rosso, provviste sufficienti per otto giorni, all’incirca, ammassate sul fondo e un sacchetto di monete. Per la precisione cinque Laire d’oro, otto d’argento e tre Laire di rame. Dopotutto una somma non da poco, per un viandante.
Si sdraiò sul letto, esausto. Non sapeva se lo avesse scosso di più la rivelazione del suo imminente viaggio o l'apprendere che la sua nascita era stata progettata, che la sua infanzia era stata una specie di gara contro sua sorella.
La campana suonò la mensa, facendo vibrare le pareti.
Qualcuno bussò alla porta.
- Avanti.-
Rayn entrò nella stanzetta, sedendosi sul mobile. - Ehi, che succede? Perché non sei più rientrato questa mattina?-
- Niente, una sciocchezza.-
- No, seriamente. Che cosa ti ha detto l’Alpha?-
- Niente. Davvero. Va tutto bene.-
- Avanti, se andasse tutto bene non staresti qui dentro. Non ti vedevo così giù da quando Rènez… -
- Non dire un’altra parola su quella storia.-
- Va bene. Ma tu dimmi cosa ti ha detto l’Alpha.-
Hile prese un profondo respiro. - Bene. Se vuoi proprio saperlo... Mi ha detto che sono un prescelto, che devo partire entro questa mezzanotte insieme ad altri cinque ragazzi per Sarnasj, da lì prenderò una barca da un certo Gebe. Mi dovrò poi dirigere verso l’isola dei draghi e da lì, in un modo o nell’altro, arriverò sul Continente. Dove verrò addestrato dai Sei per combattere un demone che potrebbe distruggere le Terre. È sufficiente?-
- Ah, ah. Si certo. Ora dimmi cosa ti ha detto davvero. Cosa sarai costretto a pulire, questa volta?-
- Non sto scherzando. Entro questa mezzanotte questa stanza sarà vuota.-
Rayn spalancò gli occhi, incredulo. - Dai… basta. Non scherzare che non è divertente. Porco Reis, non puoi lasciarmi qui!-
- Devo lasciarti… comunque sarebbe molto peggio se dovessi partire tu e io rimanessi qui. Dopotutto gli altri Lupi ti evitano solo perché sei amico mio. Hanno tutti paura di Ernest e di quei quattro Ringhianti. Vedrai che appena me ne andrò ti verranno a cercare. Se dovessi scommettere, ti direi che i primi saranno Gerlo, Lanter e Rend. Ah, si, anche quella ragazza che ti viene dietro da anni.-
- Fantia non mi viene dietro da anni.-
- Secondo me si. Sai che percepisco certe cose.-
- Tu e le tue percezioni… quindi questo sarà davvero il nostro ultimo giorno insieme?-
- Ho paura di si.-
- Se è così, allora, esigo almeno che venga a mangiare un ultima volta con me.-
Hile si alzò dal letto, un po’ più tranquillo. - Va bene. Posso anche stare con te durante l’allenamento pomeridiano… cosa c’è oggi?-
- Eh… dovrebbe esserci lo scambio di coltelli.-
I due si diressero in mensa, scivolando silenziosi tra i Lupi concentrati sul cibo, sedendosi negli ultimo posti rimasti, fortunatamente vicini.
Lo scambio di coltelli era un esercizio a coppie, per cui un coltello veniva lanciato e afferrato dal compagno, che lo avrebbe rimandato indietro. Hile e Rayn, coppia inscindibile, erano riusciti a controllare quattro coltelli in volo, prima che uno di questo non lasciasse un profondo taglio sull’indice di Rayn. Hile si era talmente spaventato per il compagno da distrarsi, lasciando che il coltello in arrivo gli sfiorasse il viso, sotto l’occhio destro. La cicatrici che erano rimaste ricordava ad entrambi quanto fosse facile perdere il controllo su un coltello.
Quel pomeriggio arrivarono fino a tre coltelli. Non volevano dover faticare troppo, durante il loro ultimo confronto.
L’esaminatore, come al solito, camminava impettito tra le file. Era lì più che altro per far figura, non apriva bocca, e Hile era convinto che non avesse nemmeno i calli del lanciatore, che si formavano con l’uso prolungato e ripetuto dei coltelli.
La campana suonò nuovamente.
Rayn abbracciò l’amico, che ricambiò con forza.
- Vedi di tornare.-
- Vedi di non andartene tu.-
- Magari potessi… hai detto che andrai sull’isola dei draghi, vero?-
- Si. Se tutto va bene. Prima dovrò raggiungere Sarnasj… e poi ci sono i miei cinque compagni di viaggio. Ho paura che non ci siano altri Lupi… con la fortuna che ho ci sarà almeno una di quelle teste matte dei Gatti. Ci sto a scommettere.-
- Comunque, se riuscirai ad arrivare fin là, mi prendi un souvenir? Così sarai costretto a ripassare da queste parti per darmelo…- Rayn sorrise tristemente.
- Va bene. Vedrò di prenderti qualcosa.-
I due si abbracciarono di nuovo, per poi dividersi. Uno si diresse alla mensa, l’altro nella sua stanza per preparare la borsa.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: La compagnia ***


 Hile si rese conto, tristemente, di non aver così tante cose solo sue.
Aveva preso la coperta di lana, i vestiti cittadini, il mantello impolverato che non aveva mai lasciato quella stanza e il piccolo pezzo di legno che teneva sul mobiletto, quello che gli aveva dato sua nonna e con cui, gli aveva promesso, gli avrebbe fatto un ciondolo come quello della sorella.
Purtroppo la setta era arrivata prima.
Si sistemò meglio i coltelli nelle tasche e uscì dalla stanza. Chiuse la porta per l’ultima volta.

Gli altri dovevano già essere nella sala della preghiera.
Il Lupo si tirò il cappuccio coperto di pelliccia sul capo e uscì dall’edificio.
Nessuno lo fermò.
Fuori dalle mura che per tanto tempo gli avevano impedito ogni contatto, anche solo visivo, con l’esterno, rimase meravigliato. Il sole calante illuminava appena la coltre verde della Grande Vivente, facendola risplendere.
La desolazione di quella Terra, caduta in rovina, non servì a lenire quel senso di allegria che gli ardeva dentro.
Hile si sedette a terra, con la schiena appoggiata contro il muro scuro, ad ammirare il panorama e il cielo, che si stava pian piano riempiendo di stelle.
L’ombra si addensò a fianco del sedicenne.
- Visto che spettacolo? Non mi ricordavo così tante stelle in cielo…-
La figura mosse la testa, in segno di assenso.
I due restarono fermi, immobili, quasi in adorazione di quella visione. Finché l’ombra non si alzò.
- Che succede?- chiese Hile.
L’ombra mosse il dito in direzione del portone, per poi dissolversi dolcemente.
Non passarono tre secondi che uno dei due grandi battenti si schiuse quel tanto che bastava per far uscire una figura sottile, era un’ombra dai capelli lunghi stretti in una treccia, invisibile e silenziosa. Ma non per le orecchie allenate del Lupo.
- C’è già qualcuno?- chiese con voce femminile.
- Ci sono io.- le rispose Hile avvicinandosi.
- Piacere, Mea. Della setta del corvo.-
- Hile, di quella del lupo.-
Hile tese la mano, ma Mea incrociò le braccia e si inchinò.
“ Dannazione, che imbecille che sono. – pensò Hile – Lo sapevo pure che ci hanno istruiti in maniera diversa.”
- Non trovi che ci sia un po’ troppo buio, qui?- chiese Mea per spezzare il silenzio.
- Si… ma dopotutto non mi dispiace. Guarda quante stelle… te ne ricordavi così tante? Poi comunque non ho visto lampade qui intorno da accendere.-
- Non mi servono lampade.- La ragazza si chinò per terra, tracciando velocemente un simbolo tra la polvere e poi colpendolo con il palmo della mano.
- Cosa stai facendo esattamente?- Hile fece un salto indietro quando un globo lattescente gli comparve davanti agli occhi.
- Ecco qui la tua lampada.-
Il Lupo impiegò qualche secondo ad abituare gli occhi.
- Magia?-
- Si. È questa la mia arma.-
- Aspetta… Ma è questa luce o tu hai i capelli blu?-
- No, non è la luce. Se guardi bene ho anche gli occhi viola.-
- Hai ragione… ma com’è possibile? I capelli sono tinti? E per gli occhi come hai fatto? Anche quello con la magia?-
- Qui la magia c’entra ben poco. Io vengo dalla Grande Vivente, lì oramai sono anni che elfi e umani convivono…-
- Si, lo so. Io ero di Gerala… o almeno credo. Mi ricordo che il mio vicino era un elfo.-
- Comunque da questa convivenza si sono create delle coppie miste. I figli di queste coppie sono proprio una specie a parte. Riesci a distinguerli facilmente per il colore dei capelli e degli occhi.-
- Ah… e avete un nome? Come razza, intendo. Tipo umano, elfo, nano…-
- Lo stato ci classifica come Mezzelfi.-
- Uhm… solo un’ultima cosa… anzi due: si sa perché avete occhi e capelli di un colore così strano?-
- No. Non ancora, per lo meno. I genetisti della Terra del Vento sono al lavoro per capire a cosa siano dovuti… non che a me interessi particolarmente. E la seconda cosa?-
- Che sono quelle sul tuo mantello? Piume?-
- Si. Per la precisione piume di corvo sintetiche. Preparate con l’alchimia, come credo sia stata creata la pelliccia che hai addosso.-
- Ok. Non ho altro da chiederti.-
- Ora allora tocca a me fare le domande. Ma che diavolo di arma usate voi Lupi? Ne ho già incrociato qualcuno, ma non vi ho mai visto qualcosa addosso. Non penso usiate anche voi la magia. Dico bene?-
- No. Noi abbiamo questi.- Hile tirò fuori dalla casacca due coltelli.
- E come li usate?-
- Allora, ci sono due modi. Intanto vanno messi nell’incavo tra le dita, poi si possono usare nel corpo a corpo, effettivamente come gli artigli di un predatore, oppure lanciarli. Così.-
Il braccio del ragazzo si mosse fulmineo, lanciando le due lame in rapida successione verso il portone delle mura.
Un lampo, poi il rumore di ferro contro ferro.
Un elfo entrò nel cono di luce. I vestiti erano quasi identici a quelli di Hile, se non fosse stato per la pelliccia corta e nera che li ricopriva.
- Chi devo ringraziare per questo benvenuto?-
- Ti chiedo scusa. Sono Hile.-
- Un Lupo, immagino. Beh, sappi che se ci riprovi Nirghe sarà l’ultimo nome che sentirai.-
- Tu invece devi essere un Gatto, ovviamente.-
Il nuovo arrivato stava per rispondere qualcosa, ma si accorse della maga. - E la splendida ragazza dagli occhi viola?-
- Sono Mea.- disse un po’ imbarazzata il Corvo, spostando i capelli blu dietro le orecchie a punta.
- Una mezzelfa, dico bene? E se non sbaglio della setta del corvo.- continuò, spostando leggermente i due foderi che gli pendevano dalla vita.
- Indovinato entrambe le volte.-
Hile sbuffò.
Aveva ragione a detestare i Gatti.
Nirghe non disse molto di più. Si sedette, meditando in silenzio. Mea e Hile, invece, ripresero a farsi domande, questa volta però sulle sette a cui appartenevano, sulle abitudini e su tutto quello che gli veniva in mente. Dovevano solo far passare il tempo, dopotutto.
Un leggero rumore metallico. Un tintinnio appena udibile.
Nirghe aprì gli occhi e, estratta una delle due spade, indicò un punto nel buio. - Veniva per di la.-
Hile estrasse quattro pugnali, Mea, lasciata la sfera fluttuare da sola, intrecciò le dita di fronte a sé.
- State tranquilli. – disse una voce femminile – Se avessi voluto uccidervi lo avrei fatto da parecchio tempo.- Una ragazza, un’umana dai capelli castani e gli occhi verdi, entrò nel cerchio di luce. La corazza, composta di tante piccole squame di metallo così come il cappuccio, risplense alla luce lattescente. A tracolla riposavano, oltre a una borsa, un lungo arco e una faretra carica di frecce dall’impennaggio bianco.
- Da quanto tempo eri là?- gli chiese Nirghe, riponendo la spada nel fodero.
- Da prima di Hile. Lui era troppo occupato a guardare il sole tramontare e parlare da solo per accorgersi di me. E pensare che c’era ancora parecchia luce.-
- Quindi noi possiamo saltare le presentazioni… tu invece sei…- chiese Hile parecchio seccato per essersela lasciata scappare.
- Keria, un Drago.-
- Benvenuta nella compagnia.- le disse Mea.
“ Meno un’altra. Ne restano due.” Si disse Hile.
- Beh… meno componenti di questo sfortunato gruppo mancano, più mi convinco che saremo simili ai Sei… secondo me saremo solo umani, elfi o un miscuglio dei due… - Mea fulmino Nirghe con lo sguardo, ma lo spadaccino non sembrò farci caso. – Secondo me non ci saranno altre razze, oltre alle nostre.-
- Genio di un Gatto, le razze da cui pescare prescelti non sono poi così tante. Se poi aggiungi che non ci sono né nani né Bereng nella setta per via della loro impacciataggine e non ci sono folletti e fate viste le loro dimensioni… Non rimangono molte razze all’appello. Se vuoi te le dico pure: umani, elfi in generale, mezzelfi e… cos’altro? I draghi non ci sono neanche più sulle terre e i cosi, li… maledizione… gli uomini pesce della Terra dell’Acqua non si possono allontanare dall’Oasi. Se trovi qualcun altro che possa uscire da quella porta, bene, allora fammelo sapere.- rispose seccato Hile.
- Ma perché vi interessa di che razza sia un vostro compagno? Gli dei avranno pure una buona ragione per scegliere i loro prescelti in una razza invece che nell’altra, o no? In fondo anche io non sceglierei il mio campione tra i nani, se dovrà viaggiare per mezzo modo, viste le gambe per Natura corte.- disse Mea.
- Sono maschi. Hanno bisogno di un motivo per litigare. Se poi conti che c’è un’eterna faida tra Lupi e Gatti…  a proposito di questo, qualcuno di voi due sa dirmi perché è iniziata questa faida?-
- Semplicemente perché i Gatti sono degli avventati, si buttano senza ragionare. Noi abbiamo perso dei compagni grazie a questi geni.- rispose pronto Hile.
- Disse quello che arriva da una stirpe di smidollati. Riflettici, visto che voi Lupi sapete fare solo questo, magari i tuoi compagni sarebbero vivi se avessero agito di più e pensato di meno.- ribatté Nirghe.
- Ora non scannatevi a vicenda. Dovrete, dovremo, convivere per parecchio tempo, quindi non fatevi il sangue cattivo già da ora. – disse Mea. – Se proprio volete mettere in chiaro quale delle vostre due sette sia la migliore, scontratevi. Fatevi un duello o che vi pare. Basta che non vi uccidiate a vicenda. Servite entrambi… credo.-
Con sorpresa, ma neanche troppa a pensarci bene, della maga i due si posizionarono uno di fronte all’altro. Nirghe con le due spade sguainate in mano, Hile, che si era infilato frettolosamente un paio di guanti in pelle, con i sei coltelli ben stretti tra le dita, tre per mano.
- Lupetto, questo è un corpo a corpo. Non provare a rifarmi lo scherzo di prima.-
- Tranquillo Gattino. Non ho bisogno di lanciarti i miei coltelli per vincere.-
Il duello cominciò alla luce del globo magico.
Ogni fendente di spada finiva incastrato tra le lame dei coltelli o schivato dai movimenti veloci. Ogni affondo dei pugnali terminava sul freddo acciaio o nell’aria, dove poco prima si trovava il corpo dell’avversario.
Il Gatto era sicuramente più forte e veloce, ma il Lupo aveva dalla sua i l’agilità e la possibilità di movimenti inaspettati e precisi.
Era un duello perfettamente alla pari. Nessuno dei due riusciva ad avere la meglio sull’avversario.
Nonostante la loro concentrazione fosse interamente impiegata nella sfida, però, avvertirono subito lo spostamento d’aria causato dall’apertura del portone. Si fermarono assieme, riponendo le armi.
- Non sei così male… come Lupo.-
- E tu sei un buon Gatto. Devo ammetterlo…-
- Visto? Basta rischiare di uccidersi per andare d’accordo. Non c’è voluto nemmeno molto.- disse a bassa voce Mea a Keria, entrambe erano rimaste a guardare lo scontro a distanza di sicurezza. Onde evitare di essere colpite per sbaglio da un coltello o una spada scappati di mano.
- Avevi ragione. Per fortuna.-
Il gruppo, già più compatto, si girò verso la porta. Dove una sagoma indefinita li guardava, indecisa sul da farsi.
- Benvenuto tra noi matti.- disse Nirghe, stanco ma comunque uscito rinvigorito dallo scontro.
- Benvenuta. Sono una ragazza.- gli rispose la sagoma avvicinandosi, accompagnata da un leggero rumore di vetri che cozzano.
La ragazza, appesantita da una borsa strapiena di vetreria tintinnante e da un bastone, entrò nel cono di luce. I capelli biondi, tagliati corti, sembravano bianchi là dove le orecchie a punta sbucavano come due lampi neri.
- Piacere di conoscerti…  potremmo non averti fatto una buonissima impressione, prima, ma non siamo delle teste calde. Tranquilla. Il mio nome è Nirghe e questi sono…-
- Nirghe, – lo interruppe Keria – sappiamo anche presentarci da soli. Non abbiamo ancora bisogno di qualcuno che ci ricordi come ci chiamiamo. Piacere, io sono Keria. Sono della setta del drago.-
Mea ridacchiò sommessamente.
- Io sono Hile.-
- Ed io Mea.-
- Piacere… il mio nome è Seila. Sono un Serpente…-
- Benvenuta tra noi.- concluse fredda, forse per via della stanchezza, Mea.
Seila non fu di molte parole, si sedette da parte, svuotando il contenuto della borsa, disponendo boccette piene e vuote, mazzi di erbe essiccate, pestelli e ciotole in fila ordinatamente. Cominciò quindi ad avvolger tutto i degli spessi panni, per far si che nulla potesse rompersi o far rumore.
Hile tentò di iniziare un discorso, a disagio tra tutti quegli estranei. Simpatici o almeno sopportabili si, ma avrebbe preferito ci fosse stato un viso conosciuto. - A cosa ti servono tutti quei contenitori in vetro?-
- Sono stata addestrata all’uso delle erbe, medicinali ma per lo più velenose. Vedi questi? – L’elfa alzò un contenitore pieno di spilli. – vanno intinti nella miscela velenosa, in modo che il serbatoio al loro interno si riempia. Poi grazie a questa cerbottana, - continuò indicando il lungo bastone. – posso colpire obbiettivi anche molto distanti, iniettando nel loro corpo i più disparati veleni.-
L’elfa si rinchiuse nuovamente in sé stessa, tornando a concentrarsi sul suo lavoro.
- L’ultimo è in ritardo.- disse seccata Mea.
- Chi ti ha detto che non è una prescelta?- chiese Nirghe, annoiato dalla tranquillità che era calata sulla strana compagnia, così diversa dal ritmo forsennato che regnava in ogni attività dentro la setta del Gatto.
- Era così per dire. Certo che non posso sapere se è un maschio o una femmina. Non sono una chiaroveggente.-
- Non bisogna essere un veggente, per poter scommettere. – continuò Nirghe spostandosi leggermente – Per me è un umano, mi ci gioco una porzione di formaggio. Chi mi segue? Chi vuole perdere?-
- Saremmo scompensati se è un umano. Secondo me è un elfo. Dalla pelle scura, per essere precisi.- disse Hile placidamente, godendosi la freschezza della notte sul viso.
- Partecipo anch’io! -  disse Keria sorprendendo la compagnia – Siete sfortunati, tutti e due, ve lo leggo in faccia. Quindi io scommetto sull’elfo normale. Senza offesa, ovviamente.-
- Nessun offesa. Tranquilla.- rispose Seila. Ascoltando a malapena ciò che si stava dicendo.
- Siete infantili. Terribilmente infantili.- commentò Mea.
- Potremmo sembrarti infantili, ma ci sono tre porzioni di formaggio sul piatto!- rise Keria togliendosi l’arco da tracolla.
“ Bene. – pensò Hile sorridendo senza aprire gli occhi – Almeno qualcuno di simpatico c’è in questo gruppo di matti. Magari riusciremo a sopportarci a vicenda…”
Era incredibile come, nonostante anni di reclusione e lavaggi del cervello, qualcuno era ancora in grado di scherzare. Oltretutto scherzare con persone appena conosciute, perfetti estranei fino a un’ora prima.
Hile, nonostante ancora facesse fatica a credere a quel che stava accadendo, cominciò a convincersi che forse il Fato non gli era completamente contro. Non era mai stato troppo socievole, neanche nella sua vita “di prima”, ma in quel gruppo disomogeneo si sentiva a suo agio. Magari, davvero il grande Vago Tocsin aveva visto giusto su di loro. Magari.
- Dobbiamo dormire. – disse serio e composto Nirghe – Non possiamo passare la notte in bianco, o domani non riusciremo a fare più di un chilometro.-
- Decidiamo solo i turni, per chi deve stare sveglio a controllare se il nostro sesto compagno arriva. Io posso fare tranquillamente il primo.- si offrì Hile.
- Non ce ne sarà bisogno. – gli rispose Mea – Posso mettere insieme un incantesimo che ci svegli quando il portone si apre. Non è poi così difficile. Datemi solo un momento.-
- Prendi tutto il tempo che ti serve.- Keria si sdraiò per terra, facendo tintinnare le placche dell’armatura.
La maga estrasse un foglio di carta, una piuma di corvo e un calamaio pieno dalla propria tracolla, cominciò poi a tracciare diversi glifi sul quadrato bianco. Terminato il lavoro chiuse gli occhi e appoggiò due dita sulla sui simboli. Spense quindi il globo lattescente che fluttuava silenzioso e si sdraiò, accompagnata dal fruscio delle piume nere.
Silenzio. Buio. La tranquillità più assoluta. Hile chiuse di nuovo gli occhi, sistemandosi la tracolla sotto la guancia per stare più comodo. Rallentò il respiro, godendosi la freschezza di quella notte, lassù, in montagna.
Si addormentò quasi immediatamente. Non perse però mai completamente la percezione del mondo, le orecchie erano sempre vigili, pronte a carpire ogni più piccolo rumore.
Un’infinità di campane cominciarono a suonare all’unisono, vicinissime.
Hile si sedette, gli occhi spalancati e le mani premute contro le orecchie nel vano tentativo di proteggerle da quel frastuono che lo circondava, senza lasciargli via di scampo.
“ Da dove viene questo rumore?”
Anche gli altri si alzarono boccheggianti, svegliati dal frastuono etereo che riempiva la notte. Mea strappò il foglio a metà, dicendo qualcosa che però si perse tra i rintocchi.
Tutto tacque.
Il Lupo si lasciò cadere, con le orecchie in fiamme.
- Scusate. – disse Mea con un filo di voce – Devo aver dimenticato qualcosa nell’incantesimo… Comunque il portone è stato aperto.-
- Ma ora è nuovamente chiuso.- aggiunse Seila.
Nel buio ci fu un movimento. Poteva essere l’ultimo membro del gruppo. O poteva non esserlo, dopotutto erano in montagna.
Hile si fece scivolare due coltelli nelle mani, per sicurezza.
Nirghe liberò di qualche pollice la lama di una spada dalla morsa del fodero.
La corda dell’arco si tese, accompagnata da un leggero scricchiolio del legno.
Mea e Seila rimase immobili, non si alzarono nemmeno. La prima perché le sue armi non avevano bisogno di una particolare preparazione, la seconda… forse non sapeva cosa fare.
Un rumore di passi, questa volta distinto. Erano tonfi attutiti da una scarpa.
- C’è qualcuno?- chiese qualcuno.
- Dipende.- disse Keria, schiacciata contro il muro di cinta.
- Sono della setta dell’Aquila.-
- Ok. Allora c’è qualcuno.- rispose Mea alzandosi e riaccendendo il globo lattescente.
Un elfo dalla pelle avorio comparve davanti al gruppo. I capelli candidi e gli occhi rosei rilucevano alla luce magica.
- Ho vinto io. È un elfo normale.- sussurrò Keria riavvicinandosi ai compagni.
- Benvenuto. Il mio nome è Mea. Sono un Corvo.-
- Ciao… io sono Jasno.-
- Io mi chiamo Seila.-
- Il mio è Keria.-
- Io sono Hile.-
- E io Nirghe.-
- Piacere di conoscervi… ma tu, Mea vero? Hai davvero gli occhi viola?-
- Dai, ragazzi. Date il primo premio per l’attenzione al nostro amico dagli occhi rossi.- ribatté seccata la mezzelfa.
- No, no. Scusami… è che… non sono abituato a queste cose. Non me l’aspettavo…- farfugliò il Serpente.
- Sono una mezzelfa.-
- Questo… mezzelfismo? Si dice così? È una malattia come la mia? Cioè, i sintomi sono il colore di occhi e capelli?-
- E? Una malattia? No! I mezzelfi sono una razza a parte, dovuta all’incrocio di umani e elfi. Comunque tu mi sembri un elfo normale. Si, eccetto gli occhi.-
- No… gli occhi non sono l’unico sintomo della mia malattia. La mia pelle, per esempio, dovrebbe essere nera. Io sono… dovrei essere un elfo scuro.-
- Mi dispiace interrompere i tuoi festeggiamenti.- sussurrò Hile.
- Vedi, io sono un albino. I capelli, la pelle, gli occhi… sono solo i sintomi visibili di questa malattia. Sono molto sensibile alla luce solare. Talmente sensibile che se mi esponessi al sole mi brucerei.-
- È una malattia… interessante. Strana, orribile ma interessante.- commentò Seila affascinata.
- Si, si. Belle le malattie. Io ho ancora sonno. Quindi rimettiamoci a dormire. Domattina ripartiamo e voi potrete parlare di tutto quello che volete.- disse Nirghe tornando a sdraiarsi.
Jasno si coprì per bene con il mantello prima di mettersi a dormire con i suoi nuovi compagni di viaggio.
I tre rintocchi delle campane del Palazzo della Mezzanotte svegliarono i prescelti. Hile per poco pensò di aver sognato tutto. Era pronto ad uscire dalla sua stanza e far passare un’altra giornata, ma la luce accecante del sole lo fece tornare alla realtà.
Dovevano prepararsi e partire. Non potevano permettersi di perdere altro tempo. Mangiò una delle porzioni di formaggio vinte quella notte e si risistemò l’abito, controllando il filo di tutti i dodici coltelli, riponendoli accuratamente nelle tasche.
In meno di una decina di minuti erano pronti per partire.
Grazie al sole, Hile poté finalmente vedere bene Jasno.
Indossava un lungo cappotto marrone con il cappuccio che gettava un ombra totale sul volto del ragazzo, le piume di cui era coperto erano simili a quella di Mea, fatta eccezion per il colore. Un paio di guanti in pelle gli coprivano le mani e buona parte degli avanbracci.
Si misero in cammino lungo il sentiero che scendeva verso le pendici del Flentu Gar, Nirghe si era conquistato il posto in testa al gruppo e la mappa di Hile, ostentando la sua superiore preparazione sulla geografia delle Terre.
Per raggiungere la Terra del Vento, e da lì Sarnasj, sarebbero stati costretti ad attraversa buona parte dei Monti Muraglia, che accerchiavano il monte dalla cima mozzata come un muro di cinta.
Secondo il Gatto i passi e valichi erano poco accessibili, quindi avrebbero dovuto ripiegare sui tunnel nanici, scavati in grande quantità in vista della Guerra degli Elementi. L’unica incognita era la loro condizione. Non venivano perlustrati e riparati da almeno trent’anni, quindi potevano essersi verificati cedimenti e crolli che tutt’ora ostruivano il passaggio.
Il gruppo cominciò la discesa dalla montagna.
Impiegarono tre giorni per raggiungere una piccola conca alle pendici del re dei monti, vi scorreva un fiumiciattolo che, probabilmente, si sarebbe poi buttato nel Vrag.
Lo sforzo, nonostante non fosse stato mai eccessivo, li aveva stremati. Avevano tutti i muscoli indolenziti e contratti, ogni passo era una sofferenza. Nonostante gli allenamenti continui a cui si erano, o meglio non li avevano, sottoposti non erano preparati per sforzi del genere, anche visto il poco spazio che la setta gli metteva a disposizione.
Mentre Mea si prodigava a creare un riparo, Hile e Nirghe andarono a riempire le borracce, oramai completamente vuote, al ruscello gorgogliante.
- Sei sicuro che le tue gallerie non siano molto distanti?- chiese dubbioso Hile, piegandosi per raggiungere l’acqua fredda.
- Si. So esattamente dove siamo. Fidati di me. Questa sera vi mostrerò sulla tua mappa la nostra posizione, se ti fa stare più tranquillo.-
- Volevo solo essere sicuro. Il tratto in montagna è stato stroncante per le gambe. Non so te, ma io non riuscirò ancora per molto a tenere il vostro passo ed aiutare Keria ad andare avanti… Non ho tutta quella resistenza.-
- Si, certo… ma adesso dobbiamo solo seguire il ruscello. È tutto in piano questo tratto e dovremmo riuscire a riprenderci.-
- Tratti in piano o in discesa, comunque non dobbiamo fare tappe troppo lunghe. Prendi Keria, nella sua setta l’hanno addestrata ad appostamenti di ore, magari accovacciati sui rami, non alle marce.-
- Se è per questo neanche da noi ti fanno marciare.-
- Si, ma ogni setta ha un programma di allenamento ideato per potenziare determinate parti del corpo, tralasciandone poi altre. Tu sei uno spadaccino, no? Quindi avrai braccia e torso allenati per reggere e muovere le spade e le gambe abituate a muoversi, anche rapidamente. Lo stesso vale per me, dopotutto. Ma, essendo un arciere, Keria avrà sviluppato solo braccia e tronco, che sono in fondo i suoi punti di forza.-
- Andiamo… Mea avrà già finito di costruire qualcosa per dormire e il sole sta per lasciarci completamente. Non voglio rimanere allo scoperto con il buio.-
Mea, in quel poco tempo che le era stato concesso, era riuscita a creare, congelando l’umidità che permeava l’aria, due cupole di ghiaccio opaco, con una piccola apertura ciascuna per consentire l’accesso.
All’interno la temperatura era mite, incredibilmente.
Si divisero tra maschi e femmine.
Hile si sdraiò sulla coperta, in modo da distanziarsi leggermente dal terreno umido, e spostò lo sguardo sulla cupola che lo sovrastava.
Gli ultimi raggi del sole la fecero scintillare come una gemma preziosa.
Jasno già dormiva. Il suo respiro pesante riempiva la calma della sera.
Poi un ticchettio, lento, indistinto, che si fece sempre più veloce e insistente.
- Appena in tempo. Non credi?- chiese Nirghe.
- Si. Che gran fortuna avere una maga con noi.-
- Già, decisamente una fortuna… domani dovremo ringraziarla…-
- Ascolta. sembra uno strumento musicale la cupola sotto la pioggia. E ora non uscire con un “Siete troppo sentimentali voi Lupi” o cos’altro. Questa è la prima pioggia che mi sento battere sulla testa.-
- Hai una percezione troppo negativa dei Gatti. Ricorda che è stata una carta a far di noi quello che siamo.-
- Bah… io spero solo che il Fato mi abbia fatto prendere quella carta per un motivo. Nient’altro.-
- Comunque, visto com’è andata finora, io sono ottimista.-
- Sono passati tre giorni. Come fai a dirlo? Non siamo ancora nemmeno riusciti a lasciare i Muraglia.-
- Pensaci. Il nostro gruppo è stranamente unito. Ci conosciamo appena, l’hai appena detto, ma abbiamo legato. Io e te siamo riusciti a passare sopra una faida che perseguita le nostre sette da anni… e poi contaci.-
- Siamo in sei. Cosa vuoi che ci sia da contare? Come i Sei, questo è vero. Ma non credo che un semplice numero possa portarci fortuna.-
- Fortuna forse no. Però i Sei erano quattro maschi e due femmine. Si formarono due coppie, questo è risaputo, e i restanti divennero uno il governatore della terra degli eroi e l’altro un dio… con tutto il rispetto per il grande Codero, io non ho intenzione di diventare un dio, è troppo, e allo stesso modo non mi voglio immischiare nella politica.-
- Quindi tu sei convinto che, essendo tre e tre, formeremo tre coppie tra di noi e questo ci preserverà dal morire?-
- Più o meno…-
- Non ne sono così convinto. Ammettilo, ti sei preso una cotta per una di loro ed ora stai cercando in tutti i modi di convincerti che siete destinati a stare insieme per le eternità tipo fiaba per bambini. Dai, oramai ti ho scoperto. Almeno dimmi chi è la sfortunata?-
- Uno: non sarebbe sfortunata. Due: per ora non mi sono ancora innamorato, ma se ho ragione….-
- Si, vabbè, aspetta e spera.-
- Parli così perché non ti sei mai innamorato.-
- Questo non è vero. Si chiamava Renèz.-
- Allora lei ti ha scaricato.-
- No. È morta. Di malattia. La cosa comica è che fu grazie al suo sangue che trovarono la cura. Peccato che non poté essere salvata. Vedi questo coltello? – aggiunse tirando fuori una lama dalla tasca sulla gamba destra. – Ce li scambiammo poco prima che le diagnosticassero la malattia. È l’unico ricordo che ho di lei.-
- Mi dispiace… non lo sapevo.-
- Non potevi saperlo.-
Nella cupola calò il silenzio, riempito dal ticchettio insistente delle gocce d’acqua sul ghiaccio. 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Un muro di alberi ***


 Mea lasciò liquefare le due cupole e la comitiva si rimise in viaggio. Nirghe in testa, con la mappa delle Terre in mano.
Ultimi, a chiudere la fila, Hile e Keria.
Per il Drago ogni passo era una sofferenza, probabilmente, se non avesse avuto qualcuno su cui appoggiarsi non avrebbe nemmeno lasciato i Muraglia. Trascinava i piedi, rischiando di cadere ad ogni pietra o buco, e i capelli castani incollati alla fronte e agli occhi per colpa del sudore non le lascavano tregua.
Il paesaggio rimase brullo e inospitale. In fondo era per quello che la Terra degli Eroi era stata abbandonata.
Il Gatto si fermò davanti a un’apertura nel fianco di una montagna. Era abbastanza grande da permettere il passaggio a un carro.  - Questo è uno dei tunnel più grandi. Ci sono meno possibilità di un occlusione totale.-
Seppur un po’ titubante il gruppo varcò l’apertura.
- Non possiamo fermarci… almeno per un attimo? Non ce la faccio… non ce la faccio proprio più a continuare…- disse Keria con un filo di voce.
- Devi avere un calo di mana. Di energia vitale. Devi reintegrarlo.- disse Seila avvicinandosi.
- Deve dormire. Come altro vuoi fare per reintegrarglielo? Qui dentro ci siamo solo noi, e siamo tutti in uno stato pietoso. Non si può neanche fare una trasfusione.- ribatté secca Mea.
- Ci sono anche altri modi per sopperire alla carenza di mana. Gli infusi possono essere una soluzione temporanea… per esempio. Ecco, prendi questo…- Il Serpente passò una boccetta contenente un liquido viola a Keria, che la guardò preoccupata.
- Cos’è questo? Un tuo veleno?-
- Non so fare solo quelli. Io prima di tutto sono un’erborista, specializzata in veleni, questo è vero, ma conosco anche erbe non mortali, anzi…-
- Quindi posso berla tranquillamente?-
- Altrimenti non te l’avrei data.-
L’arciere ingoiò il liquido tutto in un fiato, dando due colpi di tosse quando la mistura amara gli andò di traverso.
Effettivamente un tepore comparve nello stomaco della ragazza, propagandosi per il resto del corpo, ma Keria non seppe dire se fosse stata la mistura o soltanto la suggestione.
- Mea, puoi riaccendere il tuo globo? Qui non si vede più a una spanna dal naso.- disse Nirghe ripiegando la mappa.
La maga ridisegnò il simbolo nel terriccio che ricopriva il pavimento della caverna e il globo lattescente comparve sopra la testa del Gatto, proiettando ombre sinistre sulle pareti coperte di sporgenze.
- Dobbiamo fare attenzione. – continuò il Gatto. – questi tunnel si diramano fino a formare una vera e propria ragnatela. Non dobbiamo per nessun motivo dividerci. Intesi? Se succede qualcosa urlate. Andiamo.-
- Hai bisogno di una mano?- chiese Hile a Keria.
- No, no. Ce la faccio… la brodaglia di Seila sta facendo un po’ di effetto. Credo di farcela ancora per un po’ da sola…- rispose il Drago con un mezzo sorriso.
All’interno della galleria lo scorrere del tempo era indefinito. Le ore potevano sembrare minuti o giorni, gli unici riferimenti che si potevano avere erano la stanchezza e la fame. Nirghe sembrava quasi spaventato da quella condizione, da quella specie di assenza del suo dio.
Hile dal canto suo era tranquillo. Il buio gli piaceva, al di là che Oscurità fosse la sua dea, e gli sembrava di scorgere, indefinita per colpa delle pareti, la figura comminare assieme a loro.
Ogni tanto incontravano un bivio e Nirghe imboccava una direzione senza nemmeno rallentare il passo. Il Lupo sperò che sapesse veramente dove andare.
Dormirono uno contro l’altro, per combattere la fredda umidità che permeava le rocce, facendosi svegliare dopo otto ore precise da un incantesimo di Mea. Il risveglio fu terribile come la priva volta. Le campane invasero il tunnel con prepotenza.
Jasno, che sperimentava la sveglia della mezzelfa per la prima volta, si mise seduto, stringendosi invano la testa tra le mani in un disperato tentativo di scacciare il frastuono dalla mente.
Mangiarono qualcosa velocemente e ripartirono.
- Hile?- chiamò a bassa voce Keria.
- Si? Cosa c’è?-
- Volevo solo ringraziarti per avermi aiutata.-
- Non è stato niente di che. Davvero. Mi hanno insegnato l’importanza della collaborazione ancor prima di entrare nella setta, quindi per me è normale.-
- No, è che dov’ero io nessuno si era mai preoccupato per me.-
- Dai, non esagerare.-
- Non sto esagerando. Ognuno era lasciato a sé stesso.-
- Vabbè, comunque ora stiamo andando dai più grandi eroi che le terre abbiano mai visto, quindi pensiamo a questo.-
Dalla testa della fila Nirghe urlò tanto forte da far rimbombare la sua voce su tutte le pareti. L’elfo era a terra, si stringeva la caviglia destra tra le mani. Il volto rosso era sufficiente a far capire quanto male avesse.
- Dannazione! Maledetto Reis! Ho paura di essermi slogato la caviglia. Non sapete quando male fa! Queste stramaledette pietre, se solo potessi, io…- L’ultima frase si perse tra i denti stretti in un'altra fitta di dolore.
- La nostra signora delle erbe ha forse qualche rimedio anche per questo?- chiese ironica Mea, avvicinandosi alla caviglia piegata in maniera innaturale.
La maga mosse più volte le dita tra la polvere e la sabbia che ricoprivano il suolo su cui i loro piedi poggiavano, disegnando una forma vagamente arrotondata, per poi appoggiare i propri palmi sull’articolazione. - Guarisci. -
La caviglia si mosse, producendo un suono secco. Lo spadaccino provò a muoverla cautamente.
Seila sbuffò e si rimise in marcia.
Rimasero all’interno del tunnel per tre sonni, non riuscirono a calcolare i giorni. A ogni passo la paura di incontrare il passaggio ostruito aumentava, poiché c’era un passo in più da fare per poter ritornare all’ingresso della galleria.
Per fortuna nessun ostacolo fu insormontabile e riuscirono a raggiungere l’uscita della galleria poco prima del tramonto del sole.
Passarono ancora la notte sotto la protezione della roccia, per poi ripartire solo il mattino successivo.
Ripartirono solo quando l’astro sorse di nuovo dalla lontana distesa verde che era la Grande Vivente.
Jasno si calò nuovamente il cappuccio sulla testa. Era l’unico che sarebbe stato volentieri all’interno del tunnel ancora per qualche giorno.
Non appena uscirono dalla galleria il sole li accecò con la sua luce. Costringendoli a spostare lo sguardo sul terreno per potersi abituare di nuovo all’aperto.
Davanti ai prescelti si aprì un paesaggio incredibile. La pianura si estendeva per centinaia di chilometri, per poi scontrarsi con il mare o con l’immensa foresta a nord, mentre a sud si alzavano dolci le colline verdeggianti ricoperte dalle viti della Terra della Roccia.
Nirghe aprì la mappa, studiandola per qualche istante.
- Se raggiungessimo uno di questi villaggi potremmo prendere sei cavalli. Non allungheremmo di molto la strada e con delle cavalcature impiegheremmo meno tempo per raggiungere Sarnasj… il nostro unico problema sono i soldi…-
- Il direttore mi ha dato cinque laire d’oro…- disse Keria.
- Cinquanta laire d’argento non credo basteranno per sei cavalli… se poi vogliamo risparmiare qualcosa, per avere un piccolo fondo in caso di necessità…- disse Mea.
- Non fasciamoci la testa prima del tempo. Adesso troviamo un villaggio vicino, poi vedremo cosa fare.- continuò Nirghe, ripiegando la mappa.
Si incamminarono verso nord, verso un villaggio che sulla mappa sembrava abbastanza grande da poter ospitare una buona stalla.
Lo raggiunsero nel tardo pomeriggio e rimasero scioccato da cosa gli si presentò davanti. Era una tipica città di Chiritai, edifici slanciati si innalzavano al di sopra dell’alta muraglia in legno che delimitava la cittadella.
Un’unica strada, piena di persone e carri, portava al cancello, controllato a vista da due guardie.
Ma tutto questo veniva eclissato dal terribile spettacolo che si presentava sulla palizzata. Teste dai capelli blu pendevano pallide dagli alti tronchi contro il cielo limpido. Decine di teste di mezzelfo mozzate, alcune talmente martoriate da risultare irriconoscibili. Era risaputo che gli abitanti delle Chiritai non erano di mentalità aperta, ma arrivare ad uccidere così tante persone?
Seila vomitò.
Mea istintivamente si coprì il capo con il cappuccio.
- Cosa facciamo ora?- chiese Hile, con lo sguardo a terra.
- Entriamo. – rispose decisa Mea. – Siamo stati addestrati per diventare assassini, non vittime. Non mi succederà niente. Dobbiamo però trovare un posto per cambiarci. Non possiamo passare inosservati con questi vestiti addosso.-
Un piccolo boschetto lì vicino, dal quale probabilmente la cittadella ricavava la legna di cui aveva bisogno, fu sufficiente. Quando ne uscirono potevano tranquillamente passare per turisti o lavoratori stagionali, la scelta spettava solo alle guardie. Certo, non fosse stato per le due spade, l’arco e la ragazza con il cappuccio del mantello ben calato sulla fronte.
- Nirghe, dammi una spada.- disse Hile.
- Perché? Non sai neanche usarla!-
- Non importa. Pensaci, cosa potrebbe immaginare una guardia se vede entrare un ragazzo con due spade al fianco? Ora dammene una, entreremo con un po’ di distanza uno dall’altro. O vuoi lasciarne una qui?-
A malincuore il Gatto cedette una delle sue spade, che Hile si legò prontamente alla vita.

I primi a varcare la soglia furono Nirghe e Keria, che davanti alla guardia si atteggiarono a coppietta. Poco dopo il cancello il Drago fece un gesto, ma il lanciatore di coltelli non capì cosa intendesse.
Comunque il piano procedeva bene. Keria si sarebbe appostata su un tetto, pronta a scoccare una freccia nel caso Mea fosse stata riconosciuta, mentre Nirghe si sarebbe nascosto in una via laterale.
Toccò a Seila passare e nessuno la degnò di uno sguardo.
Il Lupo trattenne il respiro. Toccava a Mea.
La testa incappucciata della maga arrivò di fronte alla guardia, che parve non notarla. Oltrepassò il portone.
sembrava fatta.
Ma da dietro la pila che sorreggeva il cancello spalancato compare un altro uomo in armatura.
I gesti erano chiari. “ Togliti il cappuccio.”
Hile si fece largo a spintoni tra la folla, correndo verso l’ingresso, e con lui Jasno, con un ingombrante cappello sulla testa. Da un tetto vicino comparve un riflesso.
La ragazza si tolse il cappuccio e una cascata di capelli neri ricadde sulle spalle.
La guardia si fece da parte.
“ Com’è possibile? – si chiese Hile. – Com’è possibile che sono riuscito a perdere i vista Mea?”
Il Lupo e l’Aquila attraversarono il cancello senza problemi.
Li accolse una puzza nauseabonda.
Senzatetto e mendicanti affollavano i lati della strada, ammassati contro le pareti luride delle case.
Hile e Jasno si riunirono al Gatto nel vicolo, mentre una figura scendeva silenziosa dal tetto.
- Cos’è successo? Dov’è finita Mea?- chiese preoccupato Nirghe.
- Sono qui!- rispose la ragazza dai capelli neri. Un glifo era stato disegnato sulla sua fronte.
- Ma come…- balbettò Hile.
Non riusciva a riconoscere nessuno dei lineamenti della mezzelfa.
- Ho avuto il tempo a lanciare un incantesimo. Non è uno dei migliori, ma crea una specie di miraggio sulla mia faccia, coprendola con il volto di un’altra persona. I questo caso la prima persona che mi è venuta in mente era una mia compagna. Ora andiamo. Non riuscirò a mantenere questa magia a lungo.-
Nessuno osò contraddirla.
Si lasciarono il quartiere povero alle spalle, entrando in una parte della città totalmente diversa. Non c’era traccia della povertà che si affollava sotto le mura.
I muri, intonacati di fresco, erano stati addirittura abbelliti da sinuose linee nere che si intrecciavano fino a creare sequenze di glifi complicati. Forse neppure l’artista sapeva il loro reale significato.
Su qualche porta risplendevano battenti laccati in argento.
- È incredibile che della gente possa vivere tranquilla, sapendo che a pochi metri da qui ci sono persone che fanno la fame…- disse inorridita Keria, guardando una porta con un basso rilievo scolpito sopra.
Giunsero in una larga piazza ovale, affacciata su un alto edificio color panna. Al di sopra dell’orologio meccanico che si muoveva inesorabile, in caratteri neri, risaltava la scritta “ Chiritai 18”.
Quella, quindi, doveva essere una delle colonie più antiche che si potesse trovare nella piana umana.
Più o meno il piano di costruzione originale prevedeva l’edificazione delle Chiritai da 1 a 23 nei primi dieci anni, per poi proseguire in base alla necessità di alloggi della popolazione, che aveva visto un notevole aumento dopo la fine della Guerra degli Elementi.
Imboccarono una delle vie di medie dimensioni che si stendevano perpendicolarmente alla via principale da cui erano arrivati.

Dal muro di una delle costruzioni pendeva un’insegna in legno a forma di sella.
- Vediamo se qui vendono solo i finimenti o hanno anche i cavalli…- disse Nirghe aprendo la porta.
Un uomo dal collo taurino era seduto su uno sgabello dietro al bancone, intento a lucidare un ferro di cavallo.
- Volete?-
- Avremmo intenzione di comprare sei cavalli robusti e veloci. Abbiamo anche bisogno di selle e finimenti.- rispose Hile guardandosi intorno.
Sulle pareti erano appesi, accuratamente incorniciati, gli attestati che dichiaravano la vittoria dei cavalli della scuderia nelle più disparate gare.
- Non ho a disposizione tutti quegli animali. Siete in una scuderia di una Chiritai, non a Gerala. Al momento ho tre cavalli e un ronzino.
- Prendiamo quei tre. Quanto vuole?-
- Per quei tre… sono ottimi cavalli. Fanno… venti Laire d’argento. Per i finimenti vi faccio due Laire.-
- Bene. Ecco i soldi.- rispose Keria appoggiando la somma sul tavolo.
L’uomo li condusse in uno stabile rinchiuso tra i muri delle case vicine, era una specie di maneggio in legno. Ne fece uscire tre cavalli, uno bianco come la neve, uno grigio piombo e uno nero notte.
- Questi sono Nergal, Fernio e Mizar. – disse indicandoli in ordine. – Le loro selle sono quella là nell’angolo.-
- Ci scusi, ma nessuno di noi sa sellare un cavallo…- disse vergognandosi Seila fermando l’uomo che già stava cercando di tornare nel negozio.
- Come non sapete sellare un cavallo! Da dove diavolo venite?! Perfino il più tonto figlio di un contadino ne ha sellato almeno uno in vita sua!-
- Ci scusi… negli ultimi anni non abbiamo mai avuto la necessità di imparare a sellarne uno…- riprese Seila con la voce bassa.
- Non importa. Facciamo così: ve li sellerò io per nove Laire di rame in più. Tre a cavallo. Mi pare una buona offerta.-
- Va bene.  Ecco a lei.- gli rispose Keria lasciandogli cadere sul palmo aperto le nove monete tintinnanti.
L’uomo impiegò meno di un minuto a sellare tutti e tre i cavalli.
- Signori, questi sono tutti vostri.- detto questo l’uomo aprì il portone che collegava lo stabile alla strada principale e se ne ritornò al suo negozio contento del guadagno.
Dopo diversi tentativi e alcune cadute, finalmente i sei riuscirono a rimanere seduti dritti sulle selle di cuoio.
I gruppi formati erano Nirghe e Seila, Mea e Keria, Hile e Jasno.
Seguendo la mappa decisero di cavalcare per lo più verso ovest, verso la grande vivente, e, una volta raggiunta questa, continuare verso nord, sulla strada per Gerala.
Dalla capitale della Terra del Vento si sarebbero poi mossi per Sarnasj.
La prima tappa sarebbe stata fino al confine della foresta, non molto lontana da loro, per riprendere le forze e riprendere il mattino seguente.

Appena furono fuori dal paese Mea lasciò cadere l’incantesimo che la mascherava cancellando il glifo.
Apparve un viso pallido e sudato. Alcune ciocche blu erano rimaste incollate alla fronte.
I cavalli partirono al galoppo verso il sole, che aveva cominciato la sua lenta discesa verso l’orizzonte.

Si accamparono poco oltre la volta verde, legando i cavalli a una radice sporgente. Quegli animali si erano rivelati ottimi destrieri e valevano tutti i soldi spesi. 

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Capitolo 6
*** Capitolo 4.5: Troppo presto ***


 Te l’avevo detto, non ho dovuto aspettare molto.
Devo di nuovo lasciarti, ma tu promettimi che resisterai. Ti prego.
E state zitti voi! Adesso arrivo!
Ci rivedremo presto. Te lo giuro.

Sono passati solo sessant’anni. Non è possibile che gli dei si siano già mossi…
È passato troppo poco tempo dall’ultima volta… il demone non può essere già tornato.
Vabbè, vedrò cos’hanno da dire Loro.
Magari c’è solo un’elezione in una delle Terre…
Si… proprio.

Certo avrebbero potuto trovare un luogo un po’ più defilato in cui incontrarsi, invece del Palazzo di Giustizia di Gerala…

Ora come al solito.

Uno: forma di elfo biondo, occhi verdi e un tatuaggio a rombo sulla guancia destra.
Facile. Ho assunto forme più complicate di questa.
Non capisco come mai abbiano scelto proprio questa forma… è così rozza.

Due… si entra.
A destra il banco di accoglienza, a sinistra i bagni… Poi ancora avanti fino all’ufficio del Giudice Maggiore. Carica creata apposta per lei.

Ora la parte migliore.
Tre. Stendi l’energumeno davanti alla porta.

Uhm… non ho regolato bene la mia forza… avrai qualche problema a mangiare, quando ti sveglierai.
Non sopporto la violenza gratuita, ma ho bisogno di sfogare un po’ di rabbia repressa.

E si entra.
Come al solito luce soffusa… giusto per creare un ambiente surreale. Come se con me questi giochetti funzionassero.
In fondo, buona parte li ho inventati io.

Vedo che ci sono già tutti. Bene. Cioè, non tanto bene, per me.
Non dovrò assistere a nessuna nomina o elezione. A quanto pare…

Guarda guarda… Si vede che il tempo passa proprio per tutti… tranne che per me, ovvio. Non ne conosco una di queste facce.
La nuova generazione… di nuovo.
Bene. Ripresentiamoci.

- Salve a voi. Potete chiamarmi con il nome di Viandante. Come vi avranno riferito, sono un mutaforma legato alla vostra società da un contratto stipulato secoli fa. Se voi, come i vostri predecessori, firmerete il mio contratto e vi impegnerete nel mantenerlo, potrete contare sulle mie abilità e sulla mia lealtà.-
Che situazione monotona. Dovrei studiarmi un nuovo discorso, così, giusto per cambiare un poco. E poi dovrei cambiare il termine mutaforma. In fondo io sono molto più di quello, sono una Musa, per l’amor del Fato.
Certo, se mi presentassi come musa, quegli idioti scoppierebbero a ridere come degli imbecilli.

Ed ecco che quel maledetto plico di fogli passa di mano in mano. I primi anni non avrei mai detto che il numero delle firme avrebbe raggiunto quel volume… speravo che la faccenda si risolvesse nel giro di pochi decenni. Invece… sono ancora qui, a prendere ordini e a svolazzare da una parte all’altra di questo mondo.
Il contratto di per sé è semplice. Loro si impegnano a fornire le cure necessarie alla musa che hanno prigioniera ed io metto a loro disposizione le mie abilità. Tutto ciò fino alla fine dei tremila anni di servizio impostimi dalla prima società, più i cinquecento aggiunti in seguito alla caduta dell’impero macedone, più mille aggiunti da… e chi si ricorda più chi li ha aggiunti? Comunque, ora, io non devo fare il minimo errore. Non manca molto allo scioglimento di quel contratto e, a quel punto, la libereranno.

- Siamo a conoscenza delle tue condizioni.- disse una voce femminile dalla penombra degli scranni.

Mi era giunta voce che la direzione era passata in mano al Giudice Maggiore. Una donna dal dubbio senso della giustizia, mi avevano detto. Ora ne ho solo la conferma.

- Abbiamo saputo che sei stato incaricato di seguire e proteggere i Sei, non è così?-

- È errato. La mia missione consisteva nel semplice seguire i Sei, senza intromettermi nelle loro decisioni. Inoltre, prima della rettifica del precedente membro Fasto, erano solo cinque le persone da pedinare.-
Ehi, notizia shock. Tanto oramai sono tutti morti e io non sono più tenuto al silenzio. Ebbene si, avete presente il buon Fasto, elfo, pelle scura, non poteva celebrare un matrimonio? Bene, lui era uno dei cinque membri della precedente società. Non era particolarmente influente, ma face la sua parte, all’epoca. In fondo, come pensavate avesse fatto il sindaco di un villaggio sperduto ad entrare in un alleanza importante come quella che guidò la rivolta contro Reis? E non tirate in ballo gli dei, perché la politica trascende anche le leggi della Natura, purché ci sia un guadagno o un buon marionettista dietro.
Se solo avessero scoperto che aiutai Vago durante la resurrezione dei suoi compagni, mi avrebbero accollato almeno altri duecento anni in più.

- In ogni caso, siamo venuti a conoscenza che la possibilità del ritorno di Reis, o del suo spirito, è reale. Sappiamo anche che un gruppo scelto è in viaggio, ma non sappiamo quale sia la sua destinazione. La tua missione è la seguente. Dovrai incontrare la squadra a Sarnasj, dove siamo sicuri dovranno fermarsi, indagare e scoprire tutto ciò che puoi sul loro conto, seguirli per tutta la durata della loro missione e, in caso di pericolo mortale, aiutarli, a costo di perdere la tua segretezza. Domande?-

Domande… che domande potrei mai avere? Per esempio come diavolo entrino in possesso di certe informazioni.
Piuttosto potrei dirvi che l’essere che minaccia le terre non è lo spirito del povero Reis, ma un demone ancestrale, che dopo aver fatto un salto, letteralmente, sulla terra, si è impossessato della mente del primo ed ultimo re, e che ora probabilmente è giusto un po’ assetato di vendetta. Potrei dirvelo, ma non lo farò, perché tanto a voi non interesserà.
- No. È tutto chiaro. Tornerò a fare rapporto a missione conclusa. Voglio credere che voi manterrete gli impegni presi.-
Ora mi giro e me ne vado… magari vaporizzandomi lentamente. È un bell’effetto speciale…
...
Forse ho sbattuto la porta con troppa foga… avrei dovuto controllarmi meglio.
Comunque… si riparte, a quanto pare…
Avrei preferito che questo giorno non fosse mai arrivato.

Allora… Sarnasj. Non è molto distante da qui.
Come dimenticarsi di quel piccolo paesino portuale… mi sembra fosse proprio lì che quel matto di Kasher dava il suo meglio… peccato sia morto senza lasciare quel suo mantello rattoppato a qualcun altro. 

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Capitolo 7
*** Capitolo 5: Gerala ***


 La Grande Vivente era enorme, certo, ma tutta uguale.
Ogni albero, arbusto, roccia, chiazza di muschio, nido era identico al precedente e al successivo. Sembra di girare in tondo.
Quando sugli alberi cominciarono ad apparire le prime case Hile si sentì stringere il cuore.
Gerala non poteva essere lontana.
Casa sua non doveva essere lontana… Era da qualche parte lassù, tra le fronde di quelle piante gigantesche… probabilmente.
Se solo si fosse riuscito a ricordare dove fosse… o come fosse fatta.
Impiegarono comunque ancora un giorno per raggiungere il cuore della capitale.
Sopra di loro potevano distinguere le case di legno nate intorno a rami larghi come uomini e i ponti di corda che si intrecciavano e correvano di tronco in tronco formando un’immensa ragnatela.
Alcune scale di corda collegavano i piani della città al terreno.
- Sentitemi… io non ce la faccio più. Non ne posso più di cavalcare e dormire per terra. Sono stanca… lasciamo i cavalli in una stalla a riposare e facciamoci un giro a Gerala. Dopotutto non abbiamo dei soldati che ci inseguono… Possiamo permetterci un pomeriggio di sosta…- disse Mea.
- Che c’è? La maga è già stanca?- chiese sprezzante Seila dal cavallo grigio.
Nirghe fece fermare di colpo il cavallo, rischiando di far cadere l’erborista. - Seila, stai zitta. Sarai stanche anche te. Mea ha ragione, non possiamo continuare di questo passo ancora per molto. Non siamo abituati a tutto questo. Dobbiamo fermarci per riprendere almeno un po’ di forze. La strada per Sarnasj è ancora lunga e gli alberi ci rallentano.-
L’elfa dai capelli biondi non osò aggiungere altro.
Ai piedi di una grossa pianta, probabilmente un rovere, a giudicare dalla corteccia, trovarono una stalla che portava dipinto, sull’insegna, un esagono regolare.
Una stalla della setta, era quello di cui avevano bisogno.
Mostrarono i polsi tatuati al padrone, che, senza dire niente, prese in consegna i tre destrieri portandoli nel recinto sul retro della baracca.
Grazie a un montacarichi arrivarono fino al piano più alto della città, da cui non si riuscivano nemmeno a distinguere i pochi elfi che camminavano sulla terra.
L’ambiente tutt’intorno assunse riflessi verdi sempre più scuri, man mano che il sole scendeva nella sua corsa. Nonostante cominciasse a far buio, elfi ed umani continuavano ad affollare i ponti sospesi, riempiendo le fronde di mormorii indistinguibili.
Ogni tanto spuntava una capigliatura blu tra la folla, che veniva inghiottita prontamente dal marasma di gente.
Hile si ritrovò un attimo spaesato in quel caos da anni sconosciuto.
Gli riaffiorarono alla mente i ricordi di quando era bambino e, probabilmente, correva su quelle strade sospese senza la paura di cadere.
“Chissà dov’è casa mia…” si disse. Ogni strada, piazza o casa sembrava quella in cui aveva passato la sua infanzia. Gli parve più di una volta di scorgere sul viso di una ragazza i tratti che gli ricordavano la sorella, ma ogni volta era solo un’illusione.
Trovarono una locanda a poco e affittarono due camere per la notte.
I letti erano in legno pieno, sistemati in stanze talmente basse che un cavallo sarebbe stato costretto ad abbassare la testa per poterci entrare, ma almeno chiedevano solo una Laira d’argento.
Hile si svegliò la mattina seguente con la schiena, il collo e le spalle completamente bloccate. SI muoveva a fatica e ogni minima torsione del busto gli procurava una fitta di dolore lancinante che gli tempestava il cervello.
Jasno si accorse quasi subito del suo tormento e offrì al Lupo il suo aiuto.
Il ragazzo albino appoggiò le mani sulle spalle di Hile e con i pollici percorse tutta la lunghezza delle fasce muscolari tese, finite le spalle e il collo spostò la sua attenzione sulla schiena del lanciatore di coltelli.
Non appena Jasno ebbe finito il Lupo si sentì come liberato da un peso enorme.
- Jasno, posso farti una domanda?-
- Se posso risponderti, certo.-
- Che arma sai usare? Non ti ho mai visto affilare una lama o cose simili… Sei tipo un mago come Mea?-
- No, niente magia. Anzi. Nella mia setta insegnano per lo più i segreti del corpo. Impari come sfruttare al maglio ogni muscolo, ogni giuntura… il tuo corpo diventa la tua arma. DI conseguenza ne impari i punti deboli, le zone dove un solo colpo può essere mortale. Come questo per esempio…-
Il ragazzo albino spostò l’indice dietro l’orecchio del Lupo, premendo con forza. Hile saltò in piedi pe il dolore.
- Va bene. Però non rifarlo. Mai più.-
I due lasciarono Nirghe solo nella stanza e scesero al piano sottostante per pagare le stanze.
Già di prima mattina l’aria era impregnata da un odore simile a quello del fieno bruciato, probabilmente prodotto dalla pipa che il proprietario masticava impietosamente.
Le ragazze erano già tutte scese.
- Dov’è Nirghe?- chiese rigida Seila muovendo appena il collo per guardarsi attorno.
- È ancora di sopra. Ora dovrebbe scendere… Sei hai mal di schiena fatti mettere a posto da Jasno, ho scoperto  che ha le mani magiche.-
- No, lascia stare. Ho appena preso un infuso di betulla nera. È un antidolorifico. Dovrebbe fare effetto tra poco.
- Io invece ne approfitto!- s’intromise Keria, che nella foga di avvicinarsi all’Aquila aveva anche urtato Mea.
Jasno non nascose la sua felicità nel poter essere utile.
Gli scalini scricchiolarono appena le scarpe del Gatto li sfiorarono.
Si concessero un veloce giro per la periferia della città, già a quell’ora gremita di gente e rumori.
Hile continuava a guardarsi intorno, cercando qualcosa di familiare. Un viso, una piazza, una via, una casa… Ma era tutto dannatamente uguale. La sua memoria non trovava un appiglio da nessuna parte.
Scesero a terra con un piccolo montacarichi e ritirarono i cavalli, partendo al galoppo verso Sarnasj.

 

Angolo dell'autore:

Rieccomi qui! Con questo angolo dell'autore volevo solo dirvi come pubblicherò i prossimi capitoli. Avrete notato che al momento non riesco a seguire una tabella di marcia per più di una settiimana che già ho cambiato idea, ebbene volevo rassicurarvi che le prossime pubblicazioni saranno peggio. Tornando seri, ho aggiunto questo capitolo questa sera perchè la prossima settimana sarò in mezzo al nulla e non potrò andare avanti con la storia, detto questo dovrei (ripeto, dovrei) riuscire ad impormi di pubblicare sempre al martedì e al venerdì mattina, blocco dello scrittore permettendo.

Ora vi saluto, buona continuazione a tutti voi!

Vago.

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Capitolo 8
*** Capitolo 6: Sarnasj ***


 Sarnasj era una cittadella portuale destinata a rimanere piccola in eterno, rinchiusa com’era tra la Grande Vivente a sud e a est e il mare dalla parte opposta. Nonostante fosse stata fondata quasi insieme a Gerala continuava a sembrare un borgo.
L’aria era satura di salsedine e l’olezzo di pesce era nauseante.
Oltre i tetti delle case si riusciva a vedere qualche sparuto albero maestro.

Ah, si! Sono queste le cose che ti fanno sentire vivo!
Non sapete per quanti anni ho sperato di poter andare a godere del profumo degli scarti di pesce.
Per chi se lo fosse perso, questa era ironia… ve lo dico onde evitare domande da persone senza il senso dell’umorismo.
Se le informazioni che mi hanno dato sono un minimo attendibili il mio incarico dovrebbe arrivare a giorni… devo solo riconoscerli.

Nei viottoli melmosi che attraversavano la cittadella l’unico suono distinguibile oltre al grido dei gabbiani era il tonfo sordo prodotto dagli zoccoli ferrati sullo strato di fango rinvigorito dalla sottile pioggerella che aveva cominciato a cadere fine e silenziosa dalla nebbia che si era alzata dal mare e che cominciava ad avvolgere tutte le forme rendendo le case simili a miraggi.
Dopo un’ora di ricerca finalmente trovarono un piccolo maneggio sporco nella periferia, sul limitare delle case.
L’uomo sozzo che la gestiva sosteneva orgoglioso di possedere l’unica stalla della città.
- Noi dovremmo prendere una nave, nei prossimi giorni. – disse Nirghe facendo attenzione a non pestare troppo letame. – Questi cavalli non ci serviranno più. Quanto ci può dare per tutti e tre?-
L’uomo studiò per un attimo gli animali in silenzio.
Con la coda dell’occhio Hile si accorse di un essere peloso che si aggirava nel retrobottega, ma lasciò perdere e tornò a concentrarsi sull’uomo.
- Eh, ragazzi. Per questi posso darvi dieci Laire d’argento… ma solo se mi date anche i finimenti. Non posso darvi di più…-
- Come non può darci di più? Solo i cavalli ci sono costati il doppio di quello che lei ci ha offerto, e poi li guardi bene. Sono tre ottimi esemplari!- sbottò Seila.
- Dieci Laire d’argento o niente. – continuò imperterrito l’uomo grattandosi i radi capelli. – altrimenti potete provare ad andare a Gerala, magari troverete qualcuno che vi offrirà qualcosa in più…-
- Va bene. Vanno bene dieci Laire.- disse a denti stretti Nirghe tirando avanti i tre cavalli per le briglie e prendendo la somma dalle mani sporche dell’uomo, che fischiò come per chiamare un cane.
Dal retrobottega uscì un essere alto e magro, con le braccia smisuratamente lunghe e un muso schiacciato da cui uscivano due canini aguzzi. L’intero corpo era coperto da una corta pelliccia marrone.
I popoli delle terre stavano cambiando, si stavano moltiplicando. I Puri di Sangue, come li chiamavano alcuni fanatici, erano sempre in numero minore rispetto alle nuove razze. I Mezzelfi erano solo un esempio di quel cambiamento.
Quell’essere in particolare, era un Demo. La sua razza era nata quasi per caso.
Ai tempi della Guerra degli Elementi alcuni demoni creati dal re ebbero la fortuna di non essere stati mandati al fronte. Furono questi esemplari che, sopravvissuti al massacro della loro specie e allo sbando che li colse alla morte di Reis, riuscirono a formare una manciata di tribù. La progenie di questi demoni, non essendo creata dalla magia, si manifestò diversa in molti aspetti dai genitori.
Il loro scopritore, un elfo partito in cerca di manufatti della guerra, li chiamò dapprima demoni a metà, ma il nome che divenne di uso comune fu la troncatura demo.
Ora quella sfortunata razza era quasi tutta assoggettata alle razze storiche. Il commercio di Demo era uno dei più floridi e non erano in pochi quelli che erano disposti a comprarne uno, vista la forza, la resistenza e la poca intelligenza che li caratterizzavano. Si mormorava da anni, da quando era iniziato il loro commercio, che dovesse essere emanata una legge che ne impedisse lo sfruttamento, ma nessuno credeva che quella voce si sarebbe mai concretizzata.
L’essere peloso prese le briglie dalla mano dell’uomo e tirò a forza i cavalli spaventati nella stalla.
Il crepuscolo era ormai passato da un pezzo, ma la luna non era ancora riuscita a sovrastare gli alti monti e il muro verde che la dividevano dal mare. I sei ragazzi si muovevano come ombre. Silenziosi, veloci, talmente leggeri che le scarpe non lasciavano nemmeno la loro impronta nel fango.
Nemmeno la vetreria di Seila emetteva rumori.
Erano invisibili a chiunque non avesse un occhio o un orecchio veramente ben allenato.
Nel centro della città le condizioni non erano molto diverse dalla periferia. Le case rimanevano squallide, le vie continuavano ad avere uno strato di melma che le ricopriva e, ammassati qua e la lungo i bordi delle strade, riposavano mucchietti di immondizia di ogni genere.
Trovarono una locanda in una delle vie che si diramavano dalla piazza centrale, quella che si affacciava direttamente sul mare, incuneata tra un’armeria e un negozio di cianfrusaglie per i pochi turisti che passavano in quella città i mesi più caldi.
Affittarono due stanze per la notte, con l’intenzione di partire il giorno seguente di prima mattina.
Hile passò la notte sul pavimento freddo, addormentandosi solo per pochi minuti prima di riaprire gli occhi.
Appena il sole sorse e le prime persone, per lo più pescatori, scesero per strada, gli fu impossibile dormire.
Il Lupo si vestì sconfortato, scendendo per strada per scrollarsi di dosso la stanchezza ed aspettare che anche gli altri si svegliassero.
L’ombra si materializzò su un muro poco lontano, stagliandosi contro l’intonaco rovinato dalla salsedine.
- Era da un po’ di tempo che non ti facevi vedere.-
L’ombra scrollò le spalle.
Hile lasciò perdere il negozio di cianfrusaglie e si portò davanti alla vetrina dell’armeria che aveva appena aperto, mentre gli ultimi pescatori raggiungevano le loro imbarcazioni e le vie tornavano vuote.
Entrò all’interno del negozio, per poter osservare meglio quello che era stato esposto. C’erano spade appoggiate su drappi verdi o rossi, frecce dal piumaggio multicolore, dardi, pugnali dalle lame ondulate o seghettate.
Solo cianfrusaglie per curiosi e turisti, nulla di più. Non c’era neanche una lama affilata.
- Scusi?- Disse in direzione del proprietario che stava lucidando uno scudo ovale con una stella rossa dipinta al centro.
- Dica.-
- Ha armi vere qui? Lame affilate?-
- No, mi dispiace. Tutto quello che ho è in mostra. Ma queste sono tutte armi da esposizione di ottima fattura. Qui può vedere l’intera serie delle camabitiche, vede? Il pugnale rituale, la spada curva per il combattimento sul cammello, addirittura l’elmo che portavano in battaglia. Non sono articoli che si trovano ovunque, questi. E poi, scusi la franchezza, ma di questi tempi il commercio delle armi non è particolarmente fruttuoso. Non sono molti quelli che hanno paura di una guerra, al giorno d’oggi, lo capirà anche lei. Inoltre, i nuovi regolamenti della Terra del Vento prevedono tasse troppo pesanti sulle armi, se non si hanno molti clienti abituali… Mi capirà…-
- Capisco, capisco… non deve scusarsi. Buona giornata.- Hile uscì dal negozio un deluso da tutto quel che aveva visto. Dopotutto non era nel più piccolo e sconosciuto paesino che la Piana Umana poteva offrire.
Fece appena in tempo a rientrare nella locanda che Mea e Keria scesero l’ultimo gradino della scala.
- Già in piedi?- chiese Mea stupita.
- Ho dormito abbastanza male questa notte. Già che c’ero ho fatto un salto dall’armaiolo qui a fianco…-
- Com’è? Secondo te ha ancora in magazzino una dozzina o due di frecce?  Non voglio partire con la paura di ritrovarmene senza.- lo interruppe Keria.
- Se le frecce ti servono per infilzare il burro ne ha quante vuoi e ancora un po’. No, lascia stare. Ha solo roba per collezionisti.-
- Che peccato…-
Passarono solo pochi minuti perché un rumore di passi insolitamente pesanti avvertisse dell’arrivo dei restanti tre membri del gruppo.
I sei non persero tempo e uscirono dalla locanda per iniziare la ricerca del marinaio di cui aveva parlato il direttore.
Di lui non conoscevano nulla. Né che faccia avesse, né se fosse giovane o anziano. Sapevano solo che il suo nome era Gebe.
Il marinaio non era poi così conosciuto come gli era stato detto, e l’assenza di Stambecchi in città non era di certo d’aiuto.
Comunque, nel pomeriggio, grazie alle indicazioni di quattro vecchietti seduti all’ombra della veranda di una casa, riuscirono a raggiungere l’abitazione di Gebe.
La casa era una catapecchia in riva al mare, praticamente costruita sulla spiaggia con assi di riciclo e paglia rubata in qualche stalla.
Bussarono.
La porta si aprì, ma all’interno non c’era nessuno che l’avesse mossa.
Un gabbiano dal tetto emise il suo strillo acuto.

Eccoli.
Mi aspettavo qualcosa di meglio… sono troppo giovani. L’altra volta, almeno, gli dei avevano avuto la decenza di fargli vivere ventun anni, prima di mandarli nel mattatoio della guerra.
E poi non ci trovo niente di così speciale in questi ragazzini. Saranno anche stati allevati in quella fucina di assassini che è diventato il Palazzo della Mezzanotte, ma non mi sembrano particolarmente… particolari.
Proviamo a prevedere qualcosa… sei ragazzi come sono sei gli dei minori, esclusa Natura. Se la mentalità degli dei non è cambiata in sessant’anni ognuno di loro sarà il protetto di un dio… ne sono sicuro. Certo mi sembra un po’ azzardato, affidarsi a dei ragazzini quando nemmeno le armi elementari sono bastate…
Questo è un bel grattacapo. Vorrei sapere cosa hanno visto di speciale in loro.
Soprattutto vorrei sapere come vogliono armarli, visto che le armi elementari rispondono solamente a coloro che sono legati agli dei primigeni… Non credo che i minori abbiano ricevuto il permesso di giocare con qualcosa di affilato.

Un’unica stanza accolse i ragazzi dietro l’ingresso.
All’interno un letto basso riposava in un angolo, in parte sopra un vecchio tappeto logoro. Un tavolino e qualche cuscino quadrato coperto di sabbia giallognola erano gli unici altri arredamenti che la sala poteva vantare.
- Chi è? – gracchiò una voce roca  alle spalle dei ragazzi. – Chi siete? Io non voglio comprare niente! Se siete dell’ufficio tasse potete anche andare al diavolo, l’ho pagato l’ultimo compendio per gli anni di servizio militare dei veterani. Come se ce ne fossero ancora oltre a me. E fatevi da parte!-
I sei si voltarono. Alle loro spalle un vecchietto alto poco più di un nano, con un cappello di lana scolorito dal sole e indurito dalla salsedine ben calato sulla testa pelata, li guardava in cagnesco. La schiena curva era coperta da una camicia che dal bianco che doveva essere stata in precedenza ora tendeva al giallo.
- No, noi non siamo dell’… forse non ha capito… lei è il signor Gebe?- chiese Nirghe al vecchio che lo guardava dal basso in alto.
- Forse. Potrei esserlo. Voi siete dell’ufficio tasse?-
- No. Non siamo dell’ufficio tasse. Siamo qui per altro. Ci manda il direttore della setta dei sei.- continuò il Gatto tirando su la manica della camicia quel tanto he bastava per mostrare il tatuaggio del profilo di un gatto in salto circondato dall’esagono.
Gli altri fecero altrettanto. Inoltre Hile tirò fuori dalla tracolla il pezzo di carta spiegazzato che gli aveva lasciato il direttore. Sperando che fosse quello il suo scopo.
Il vecchio marinaio lo esaminò un attimo, per poi tornare a guardare i ragazzi che si trovava davanti.
La bocca sdentata si contorse in una specie di sorriso.
- Quindi non siete dell’ufficio tasse!-
- Dannazione! – sbottò Nirghe. – gliel’abbiamo già detto! Siamo della setta!-

Nota mentale. Dovrei farmi affidare il ruolo di esattore delle tasse più spesso.
Probabilmente è un mestiere sottovalutato.

- Quindi vi manda il buon vecchio Pinner! E voi dovete andare sull’isola dei draghi! Giusto? Ricordo bene? È stato Pinner a dirmi vent’anni fa di costruire le barche! E non vi devo dei soldi! Allora siete i benvenuti! Entrate! Entrate! Volete qualcosa? Non pensavo sareste più arrivati.- il vecchio entrò saltellando in casa spostando a ogni passo mucchietti di sabbia.
- Vorremmo partire al più presto. Quanto tempo le serve per preparare la barca?- gli chiese Mea che non si era spinta più avanti dell’ingresso.
- Tempo? E chi ha più bisogno di tempo! Ho avuto vent’anni per prepararmi! Posso farvi partire subito! Seguitemi, forza!-
Gebe diede un calcio al tappeto, sollevando una nuvola di polvere e spostandolo quel tanto per rivelare una botola tra le assi del pavimento.
L’apri, facendo forza sui cardini arrugginiti.
Una scaletta a pioli scendeva verticale nell’interrato della casa e la sua fine era completamente avvolta dall’oscurità.
Il marinaio accese una vecchia lampada a olio con il vetro crepato e iniziò la sua discesa verso l’oscurità, sicuro di trovare sempre un gradino sotto la sua suola.
I sei ragazzi lo seguirono poco fiduciosi.

Come mai finisco sempre in situazioni così scomode?
La capacitò di mutare forma ti sarà utilissima, vedrai. Anche con le limitazioni non avrai problemi. Si, certo. Come no.
Comunque io, qualunque cosa faccia, finisco sempre sotto forma o di insetto o di sasso in una borsa o incastrato in un’armatura.

Quando la scala finì Hile si ritrovò in una piccola sala di roccia occupata quasi interamente da una specie di imbarcazione, o, per meglio dire, da due imbarcazioni di medie dimensioni posizionate una sull’altra così da formare una specie di guscio di legno ben sigillato.
Gebe appoggiò la lampada a terra e aprì quel tanto che bastava il guscio per far entrare i ragazzi al suo interno.
Solo allora il Lupo si accorse di una specie di botola che occupava tutto il soffitto della sala da cui filtrava un rigagnolo d’acqua salata. L’unico suo collegamento con il pavimento era una corda gonfia dall’acqua che la impregnava.
Il marinaio afferrò la corda con la mano callosa ed entrò nel guscio, chiudendolo al meglio che poteva.
Bastò uno strattone alla corda che la botola si aprì di colpo, riversando nella sala centinaia di litri d’acqua salata rubata al mare.
Il guscio risalì velocemente verso la superficie roteando più e più volte su se stesso e sbalzando i sei assassini e il marinaio gli uni contro gli altri senza nessun preavviso.

Non poteva trovare un modo un po’ meno da suicida per mettere le barche in mare? Non so, per esempio coprirle con un telo e tirarle in acqua quando fosse stato il momento.

Il guscio si stabilizzò solo dopo una decina abbondante di minuti.
Gebe lo aprì velocemente, facendo cadere la barca che li divideva dal cielo nelle acque increspate che nascondevano la caverna sotterranea.
Ematomi e male agli arti facevano da padroni tra i passeggeri. Comunque il marinaio non perse tempo, montando per prima cosa i due alberi con le vele e saltellando da una barca all’altra per armarle e sistemare quello che era andato fuori posto durante la risalita.
Alla fine rimasero due barche a vela male equipaggiate collegate l’una all’altra da quattro funi.
- Bene. Sotto questa botola trovate le cuccette. Sottocoperta. Lo scomparto per i viveri è a poppa. In quello scomparto là. Mi raccomando, andate sempre dritti e non virante mai per nessuna ragione. Specialmente a sud. Altrimenti vi ritroverete nel gorgo del leviatano e nessuno  è mai uscito da lì. Buona fortuna! Salutatemi i draghi!-
- No, aspetta! Tu non vieni con noi?- chiese spaventata Seila tenendosi una mano premuta contro il gomito spellato.
- Io? Mica sono pazzo! Certo che non vengo con voi! Cosa hai in testa? Ho una vita, io! E se venissi con voi, poi, chi riscuoterebbe la mia ricompensa per questi vent’anni persi? Me li sono sudati quei soldi! Ah ha! Addio maledetta Sarnasj! Con i soldi che la setta mi deve mi trasferirò! Magari a Gerala, oppure nella Terra dell’Acqua… lì ci sono le sirene. Le ho viste io, le sirene. Lo sapete? In guerra. Si, certo. Ero giovane. Però me le ricordo. Loro e quella coda da pesce. Buon viaggio!- detto questo il marinaio si buttò in acqua e cominciò a nuotare freneticamente verso la riva.

Poveraccio… purtroppo le sirene che hai visto sono i Budnear… e visti da vicino non sono bellissimi come li raccontano. Certo, se sei attratto dalle branchie e dalle squame è tutto un altro discorso.

Un silenzio pesante ricoprì la compagnia mentre le due barche venivano sospinte da una leggera brezza. Il rigenerato sconforto e pessimismo per il probabile esito di quella missione assalì tutti i ragazzi.
Il Lupo prese a camminare avanti e indietro disperato sul ponte della seconda barca. Aprì la botola del ponte e non trovò nient’altro che una piccolissima stanzetta in cui erano state ricavate quattro cuccette incassate tra le assi. Si diresse esasperato al vano per le provviste con un’orribile presentimento. Vi trovò dentro dei vasi, probabilmente dimenticati da Gebe, che contenevano ciò che restava delle sardine e delle verdure sotto aceto che vi erano state messe dentro almeno dieci anni prima.
Il sole raggiunse il suo apice e un lievissimo venticello continuava a soffiare in coda alle barche, che procedevano silenziose sulla superficie quasi liscia del mare.
Mea, Keria, Hile e Jasno si erano rassegnati all’attesa, sedendosi a prua della nave di destra e raccontandosi, a turno, tutte le battute e le storie divertenti che conoscevano, quasi fosse una gara a chi ne sapeva di più. Nirghe li ascoltava da poco lontano, seduto con la schiena contro l’albero di quella barca, intento ad affilare la lama di una delle sue spade e a ridere nel caso una battuta fosse particolarmente divertente.
Seila non si era unita a loro, reputando quel genere di passatempi soltanto degli “ stupidi giochi per bambini”.
Aveva preferito, piuttosto, passare il suo tempo a poppa a guardare la striscia di terra che si andava a rimpicciolire sempre di più.

Quando la notte avvolse le acque appena increspate dalle onde nel suo manto nero, i sei ragazzi poterono ammirare una quantità infinita di stelle punteggiare il firmamento.
Il Lupo non aveva mai pensato che ne potessero esistere così tante e rimase affascinato da quello spettacolo che Natura offriva.
- Sentite. – Disse Hile rompendo il silenzio che si era creato. – Io non riuscirò di sicuro a  chiudere occhio in uno di quei buchi. Finché il tempo tiene e il cielo non mi scarica sulla testa ogni singola goccia di pioggia esistente, io resto fuori a dormire.-
La barca dondolava lieve sulle onde che increspavano il mare, mentre le assi e l’albero scricchiolavano sommessamente nella quiete, sotto il soffio del vento che si era levato.
Hile si spostò appena per poter appoggiare meglio la schiena contro il parapetto della sua barca.
Qualcuno sull’altra imbarcazione si mosse verso la prua, accompagnato da uno strascichio sulle assi del ponte.
- Chi è?- chiese il Lupo a bassa voce per paura di disturbare il sonno dei suoi compagni, stesi dietro la botola poco lontana da lui.
- Sono io.- rispose con lo stesso tono Mea, accendendo un flebile globo lattescente.
I due si avvicinarono alle rispettive paratie, entrambi avvolti nelle loro pesanti coperte nel tentativo di scacciare l’umidità.
- Che mi dici, non riesci a dormire?- chiese Hile, perdendosi nei riflessi del globo che fluttuava tra le due imbarcazioni e lanciava i suoi riflessi nel mare sottostante.
- No. Non mi sento a mio agio in mare… non so, mi sembra di avere lo stomaco al posto sbagliato… e la cosa peggiore e che non posso farci nulla con la magia. Come stanno Nirghe e Jasno? Almeno loro dormono?-
- Si, certo. Loro non hanno problemi a stare in quei buchi. Le tue compagne, invece?-
- Anche loro non hanno problemi a dormire… Senti un po’, lo sai mantenere un segreto?-

Oh! Senti un po’!
Ora cominciano le cose interessanti!

- Si… penso di si… perché?-
- Devo chiederti il tuo parere su una cosa… una specie di mia teoria sul nostro gruppo. Però devi promettermi di non dirlo a nessuno, va bene? E non ridere.-
- Va bene, dimmi pure.-
- Allora: secondo te, io…- la voce di Mea venne sovrastata e cancellata da un rombo terribile e impietoso.
Hile si sporse il più possibile dal parapetto, urlando con quanto fiato aveva nei polmoni - Da dove arriva questo rumore?-
Mea gli fece segno di non aver capito, poi, ancora gesticolando, gli disse di andare a svegliare gli altri.
Il Lupo corse verso le cuccette e tirò i suoi compagni uno per volta, facendoli cadere a terra.

Questa dev’essere sfortuna… sono appena partiti e già si ritrovano in pericolo.

Tutti e tre corsero verso la prua della barca.
Mea alzò il globo qualche passo da terra.
Davanti alle imbarcazioni le acque cominciavano a farsi più mosse e schiumose. Il Corvo, sempre a gesti, fece capire ai ragazzi di prendere più provviste possibili dallo scomparto e salire sull’altra barca.
Quando tutti ebbero cambiato imbarcazione con le braccia piene di provviste, Keria taglio le funi che legavano le due barche.
- Che succede?- strillò Nirghe.
- Dobbiamo aver sbagliato rotta! Questo deve essere uno dei bracci più esterni del gorgo del leviatano!- gli rispose Mea.
- Non riusciremo mai ad uscirne!- urlò terrorizzata Seila, lasciando cadere parte dei fagotti che teneva in mano.
- Fatemi spazio.- disse solo la maga.
Aperta la sua sacca ne estrasse una boccetta piena di liquido nero. La mezzelfa vi intinse il dito e cominciò a tracciare sulle assi della nave segni rotondeggianti che si intrecciavano l’un l’altro, chiudendosi a cerchio intorno a tre linee parallele.
Mea ci appoggiò quindi le mani sopra, chiudendo gli occhi.
Una luce violacea illuminò la notte e la barca si levò dalle acque, fluttuando per inerzia verso il mare calmo.

Si, so già cosa state per chiedere. Non era più facile lanciare un normalissimo incantesimo?
Allora, come faccio a spiegarlo?
Vediamo…
Durante il Cambiamento il mana degli dei si è disperso sulla Terra, venendo assimilato da ogni cosa, oggetti, piante, animali, rocce… tutto. Questo ha portato anche la creazione delle razze, ma questa è un’altra storia… più o meno.
Ebbene, i primi maghi sfruttavano il mana che avevano assorbito, rilasciandolo sotto forma di incantesimi legati alla lingua del potere. Erano come laghi di mana che potevano, quando volevano, farne fuoriuscire un po’.
Più o meno ci siete?
Bene.
Ora, la maghetta, qui, non ha avuto la possibilità di assorbire quel mana, quindi non ha una riserva di mana a cui attingere, se non la propria energia vitale. È per questo che traccia quelle rune. Così come le parole prima dirigevano il proprio mana formando l’incantesimo, quei segni comandano il mana ancora contenuto nella natura.
In pratica lei ha appena ordinato all’energia magica del suo corpo, di controllare quella contenuta nel mare per far sollevare la barca.
Chiaro?
Si, lo so, è un casino.

Ogni istante che passava la fronde di Mea si imperlava sempre più di sudore e i suoi muscoli si contraevano spasmodicamente.
L’acqua ritornò calma. Qualche istante dopo la barca ricadde in mare con un tonfo, sollevando un ventaglio di spruzzi.
Mea si accasciò a terra, svenuta. Il petto si sollevava e abbassava a spasmi.

La sua riserva è andata.
E non ha usato un quarto del mana di cui avrebbe avuto bisogno un mago per sollevarla con le sue forze.

- Fatevi da parte! - strillò Seila – Ha subito una grave perdita di mana. Se non facciamo qualcosa potrebbe non svegliarsi. Ora: vediamo… Maledizione!-
- Che c’è?- chiese preoccupato Jasno.
- Non ho gli ingredienti… non tutti. E poi mi serve un fuoco…-
- Non puoi sostituirli con qualcos’altro?- chiese Hile.
- Forse… ma tanto c’è il problema del calore… mi servirebbe un fuoco, ma come facciamo visto che siamo su una dannata barca di legno in mezzo al nulla?!-
- Forse il fuoco posso dartelo. Tu cercati i tuoi ingredienti.- gli rispose Hile, sicuro di avere un’idea.
- Va bene… allora… ho bisogno di… - Seila si mise le mani fra i capelli – Cera. Quella che ricopre l’albero può andare bene… credo. Poi, quelli ce li ho… siero di Calliopilis… quindi qualcosa tinto di blu. Qualsiasi cosa tinta di blu. Presto! Poi ancora acqua pura e un pezzo di tela.-
Mentre Jasno, Nirghe e Seila si indaffaravano per recuperare gli ingredienti poco ortodossi, Hile stava staccando alcune tavole dal ponte della nave, rompendole in pezzi più piccoli con i coltelli.

Sono curioso di vedere cosa succederà adesso…
Certo che potrei intervenire come ho fatto con Vago, quella notte. Ma non ne ho voglia.

Cinque minuti ed ebbero finito.
Il Lupo fece cadere la sua coperta in mare, ritirandola su per poi stenderla sul ponte della nave. Sopra di questa dispose i trucioli di legno che aveva ricavato.
- Finche la coperta rimarrà bagnata, la barca non prenderà fuoco.- disse, sperando che il tempo che gli offriva la coperta fosse sufficiente.
Con un acciarino accesero l’esca e Seila subito mise a scaldare una ciotola riempita con la scorta d’acqua potabile che cominciava a scarseggiare.
Appena il contenuto della ciotola si mise a bollire, l’elfa ci buttò dentro un pezzo di stoffa blu che erano riusciti a recuperare, insieme ad alcuni piccoli fiori essiccati.
La tinta blu si disperse nell’acqua.
Seila cominciò a pestare la mistura, aggiungendo alcuni mazzi di erbe che aveva prelevato dalla sua sacca e le schegge di legno cerato.
Quando il liquido prese un colore violaceo lasciò spegnere il fuoco, concentrando la sua attenzione sul pezzo di stoffa che le sarebbe servito da filtro per travasare la mistura in un nuovo recipiente.
La mano di Seila si avvicinò tremante alla bocca di Mea, poi con un movimento fulmineo e liberatorio rovesciò il contenuto della provetta direttamente nella gola della maga.
Un silenzio pesante calò sulla compagnia.

Narrami o musa di quel che ora succederà,
se la maga la sua vita vivrà
o se l’erborista condannata l’avrà…

Si, non è un granché, ma il mio compito era quello di ispirare. Non comporre. E poi la poesia non era nemmeno il mio campo.
Comunque, questa volta questa musa non vi dirà un bel niente. Certo che so come finirà, ma perché dovrei rovinarvi la sorpresa?

La barca procedeva come da sola, sospinta da un vento impercettibile.
Mea, avvolta in due coperte, giaceva in una delle cuccette. Sul ponte non si sentiva nessun rumore. Perfino il gabbiano, appollaiato sull’albero maestro martoriato dalle lame dei coltelli lanciati a ripetizione, non emetteva nessun suono. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 7: El Terano ***


 Mea riaprì gli occhi nel buio più completo. Non riusciva a muoversi come voleva, si sentiva pesante, frastornata.
Si liberò faticosamente dalle coperte che l’avvolgevano e uscì sul ponte sulle gambe insicure.
La luna si stava alzando nel cielo pieno di nubi, non si sentiva un rumore tutt’intorno se non quello delle onde contro la chiglia della nave.
- Ragazzi?- chiese insicura la maga, cercando di schiarirsi la vista appannata.
- Mea? Ehi! Tutti! Mea si è svegliata!- gridò Seila in preda all’eccitazione.
- Non urlare, amica delle piante! Mi sta scoppiando la testa!-
- Non dovresti trattarla così. – le disse Jasno da dietro, a volume più basso – Se non fosse stato per lei non credo ti saresti risvegliata.
Mea si trascino fino al parapetto, contro il quale si sedette. - Cosa è successo esattamente? Non riesco a ricordare niente…-
- Hai speso troppe energie per potarci fuori dal gorgo. Il tuo fisico non ha retto e sei svenuta. Non so se il tuo mana fosse congelato o finito. Comunque ti ho somministrato un reintegratore di emergenza, quindi non ti spaventare se nei prossimi giorni sarai debole o avrai più fame del solito. Sono solo effetti collaterali.- le spiegò l’elfa bionda.
- Abbiamo navigato per un po’ in balia delle correnti, non sapendo dove fosse esattamente l’Isola dei Draghi, e ci siamo incagliati tra degli scogli. Per fortuna la nave non ha subito danni critici, ma abbiamo comunque perso un giorno per uscire da lì.- continuò Nirghe, massaggiandosi il braccio sinistro fasciato.
- Ah… da quanto sto dormendo?-
- Da tre giorni. Per tutto questo tempo Seila ti è stata a fianco, facendo quel che poteva per farti riprendere. Da questa mattina si vede una linea scura sull’orizzonte, potrebbe essere la nostra meta.- le rispose Jasno.

È la vostra meta. Se non avessi preso io in mano il timone, a quest’ora stareste vagando dove prima del cambiamento c’era solo ghiaccio.

- Ok. Solo un’ultima cosa… cosa ti sei fatto al braccio?-
- È rimasto schiacciato tra la barca e gli scogli… si deve essere rotto. Appena arriveremo dai draghi cercherò un’infermeria.- le rispose Nirghe.
- No, ci penso io… dammi un attimo e te lo rimetto a posto.-
- No. Te lo vieto categoricamente. – le disse Seila fulminandola con lo sguardo. – Non dovrai  usare la magia per diversi giorni. E mastica questa.- aggiunse porgendole una radice rossastra.

Veleggiarono con un lieve vento in coda finché il sole non fece la sua comparsa sull’orizzonte. All’improvviso, il venticello si tramutò in una bufera che minacciò di strappare la vela e spezzare l’albero maestro che dondolava violentemente.
Un’enorme drago verde scese di quota, per fermarsi a poche dita di distanza dall’acqua.
Le imponenti ali smuovevano grandi porzioni di acqua.
Un uomo dal dorso dell’animale urlò. - Sono lord Ferengar di Isargal. Incaricato di proteggere i confini dell’isola dal re Réalta in persona. Cosa state facendo nei nostri territori?-
- Siamo in viaggio per raggiungere El Terano. Secondo il direttore della Setta dei Sei dovreste essere a conoscenza della nostra missione.- strillò Keria per superare il rumore del vento.
- Niente di tutto ciò mi risulta. Vi scorteremo fino El Terano per fare ulteriori accertamenti. Da adesso siete sotto la nostra custodia. Ora salite sui nostri dorsi.- dettò questo lord Ferengar saltò e, in un attimo, assunse le sembianze di un drago celeste.
I ragazzi salirono sul dorso squamoso dei due draghi. Il viaggio non fu per niente piacevole, i draghi sbattevano violentemente le ali e spesso e volentieri si esibivano in picchiate vorticose.
I due animali conclusero il loro volo gettandosi nella bocca di un vulcano e atterrando, dopo una vorticosa picchiata, su un terreno nero sconnesso, scavato da centinaia di migliaia di artigli.
Quando Hile poté scendere dal dorso del drago verde, le gambe non lo ressero e cadde a terra, trattenendo a stento i conati di vomito che gli salivano fin in gola.
Ci volle un po’ prima che potesse reggersi bene in piedi sul pavimento lastricato di ardesia. Le pietre riportava vistosi solchi e qua e la erano state scagliate pietre nere che, probabilmente, una volta erano un tutt’uno con la lastra su cui si reggeva.
Gli artigli dei draghi ticchettavano sul lastricato creando una cacofonia amplificata dalle pareti scavate nella roccia.
- La sala reale è da questa parte.- disse lapidario lord Ferengar, tornato in forma umana, seguito da un altro uomo che pareva mostrarsi deferente.
Camminarono per i lunghi corridoi per quella che parve un'intera giornata. Ogni angolo, svincolo, incrocio, diramazione e grotta pareva identica a quella precedente.
Finalmente il tunnel finì e i sei ragazzi entrarono in una sala enorme, al cui centro era stato sistemato un trono. Lungo le pareti si alzavano, tenui, lingue di fuoco ocra, che illuminavano appena la sala.
Un uomo camminava nervoso avanti e indietro in fondo alla sala, percorrendo con la mano la parete al suo fianco e brontolando ogni tanto qualcosa tra sé e sé.
- Signore… - disse incerto il lord, accennando un inchino – Sono arrivato con gli individui che navigavano nelle nostre acque.-
L’uomo parve accorgersi solo allora dell’arrivo del drago celeste, facendo qualche passo verso il trono e i suoi ospiti. - Bene. Puoi tornare ai tuoi compiti Ferengar. Grazie.-
I due draghi si congedarono con un inchino e ripresero  la strada dalla quale erano arrivati.

Interessante… non ho ancora avuto il piacere di conoscere il nuovo reggente dei draghi…
In fondo non ho avuto nemmeno il piacere di conoscere il suo predecessore.
È da quando Fariuna ed Erdost iniziarono il loro regno che non ho avuto contatti con questo popolo.

Nirghe spiegò al re ciò che gli aveva detto il direttore e le varie tappe del viaggio che avevano intrapreso, non gli nascose nulla, e fu sorpreso del fatto che il reggente dei draghi non lo interruppe mai una volta, o non perdesse mai la sua espressione seria di fronte a quella storia incredibile.
- Capisco. Ammetto, mio malgrado, di non sapere nulla di questa impresa, ma mi informerò. Nel mentre godetevi le bellezze di El Terano, non ve ne pentirete. Manderò alcuni dei miei servitori a farvi strada.-
Mentre usciva dalla sala del trono, Hile sentì il re dei draghi ordinare ancora a un suo sottoposto - Portami tutti i documenti di mia madre, la regina Jaery, e di mia nonna, la regina Fariuna. Portami anche il diario di mio nonno, Erdost. Li troverai nello studio del palazzo di Carent.-

Alla fine la hanno chiamata Jaery… non mi dispiace. Non che Savara non mi piacesse, come nome.
Non fossi legato come un cane a quel contratto, probabilmente avrei vissuto per un periodo alla corte di Fariuna. Era un bell’ambiente, magari avrei potuto anche riprendere per un po’ il mio lavoro originale, visti tutti gli artisti che i draghi potevano vantare. Senza contare il fatto che mi sarei potuto mettere a disposizione come consigliere a chi avrei ritenuto degno.

El Terano era un opera d’arte. Al contrario del cunicolo che avevano imboccato per raggiungere la sala del trono, quelli che si snodavano nella città vera e propria erano curati e arricchiti con statue e dipinti.
Di tanto in tanto si poteva vedere un uomo, o meglio un drago, suonare un liuto o una cetra o scolpire un blocco di pietra nera. La città era piena di vita, dalle finestre delle case si potevano vedere dragonesse intente a cucire e bambini, o cuccioli, rincorrersi tra i mobili.

Cosa vi ho appena detto? Sono artisti. Dopotutto sono una razza di predatori intelligenti e estremamente longevi. Se non avessero l’arte, probabilmente si annoierebbero a morte, chiusi in un vulcano.

Hile provò una fitta al cuore. Lui non era stato così da bambino, in realtà si ricordava appena come giocava a quell’età.

La cena venne servita su un lungo tavolo. Probabilmente erano presenti tutti i draghi più autorevoli di El Terano a quel banchetto.
Per tutta la durata della cena nessun drago, compreso Réalta, si degnò anche solo di considerare i sei ragazzi, nemmeno quando il guaritore raggiunse Nirghe per sistemargli il braccio rotto.
Quando tutti i piatti furono stati portati via e gli ospiti se ne furono andati, Réalta parlò.
- Miei cari ospiti, domattina manderò uno dei miei ufficiali a prendervi.-
- Ha trovato qualcosa?-
- Forse. Ma ho ancora degli accertamenti da fare al riguardo.-
- Molto bene, re Réalta. Non ci può già anticipare qualcosa questa sera?- disse Jasno.
- Come vi ho già detto, non ho trovato proprio tutto. Mi manca ancora un qualcosa prima di capire il quadro generale. Ho l’impressione che la situazione sia più complicata di quanto avessi immaginato al nostro primo incontro..-
- Capisco…- disse Nirghe.

I sei ragazzi andarono nelle stanze che Réalta gli aveva assegnato.
Hile non riusciva a dormire. Era preoccupato per quel che sarebbe potuto succedere il giorno seguente. Sarebbero potuti partire, andare in terre sconosciute, e … non sapeva cosa sarebbe potuto succedere dopo. Oppure si erano sbagliati e avrebbero dovuto fare ritorno alla setta.
Il ragazzo si rigirò più volte nel letto. Non riusciva a calmarsi. Provò a meditare, a distrarsi lanciando i coltelli, addirittura canticchiando una delle poche canzoni che conosceva. Era un canto religioso, dedicato alla dea Oscurità.
Tutto inutile.
L’ombra era lì, di fianco a lui, ma questo non bastava ancora a tranquillizzarlo.
Quando si stancò di stare sdraiato uscì dalla stanza, seguito da vicino dall’ombra.
Aveva sentito parlare di una grande sauna.
Era una grande sala circolare, naturale. Appena entrati dal piccolo ingresso si veniva investiti da una spessa coltre di vapore. Avvicinandosi al centro si poteva intravedere tra la nebbia un laghetto di acqua ribollente.
Hile lasciò la sua camicia fuori, facendo ben attenzione a nascondere i pugnali, e con questa lasciò anche le braghe.
Dentro la sala non si vedeva nulla. Hile si sedette nel lato opposto della porta.
All’interno della sauna, a quell’ora, c’era silenzio e ogni figura che non veniva inghiottita dal vapore si perdeva nel buio della notte.
Hile sentì i suoi muscoli sciogliersi.

Mi mancava questo posto… non tanto per la sauna, sia chiaro, in fondo in questo momento non ho nemmeno un corpo. È per il senso di calma che trasmette.
Ne avessi una portatile, forse sarei anche più bendisposto nei confronti delle mie missioni.

- Chi è? Jasno, sei tu?-
Una mano spuntò dalla foschia e toccò il braccio di Hile.
- No sono Hile … Keria? Sei tu?-
- Si. Scusa…-
- No, non mi dai fastidio.-
- Perché sei qui?-
- Non riesco a dormire, sono troppo agitato. Qui, invece, riesco a rilassarmi. Il silenzio, il buio… è piacevole.-
- Il buio? Come fa a piacerti il buio? Ho già battuto il piede contro un gradino tre volte da quando sono qui dentro!-
- Come fa a te a non piacere? Il buio è tranquillo. Mi fa sentire come… al sicuro. Se non vedi i problemi è come se scomparissero, per un momento.-
- Stiamo ancora parlando del buio? Io mi sento tranquilla solo quando ci vedo, meglio se bene.-
- Lasciamo perdere l’argomento. Allora, neanche tu riesci a prendere sonno?-
- No. Réalta mi sembra una persona, cioè un drago, a posto. Anche se non mi convince fino in fondo. Non ho mai parlato con un re prima, ma non credo che dovrebbe comportarsi… come lui. Mi sembrava freddo.-
- Si… forse hai ragione. Ma sai chi sono i suoi nonni?-
- No. Come faccio a sapere chi sono?!-
- Io ho sentito qualcosa mentre uscivamo dalla sala del trono. A un suo servitore ha detto di portargli i documenti di sua nonna Fariuna e il diario di Erdost.-
- Ne sei sicuro?-
- Abbastanza.-
- Eh … magari avessi io dei nonni del genere.-
- Perché? Conoscevi i tuoi nonni?-
- No, ma sarebbe fantastico avere nel sangue un po’ di drago, o di elfo. Magari non di nano… non sono una amante dei nani…-
- A chi lo dici… Gli elfi sono agili, veloci, aggraziati e hanno i sensi acutissimi; i nani sono infaticabili, ne hai mai conosciuto uno? Sono incredibili. Mi ricordo  che quando ero bambino ne vidi un portare sulla schiena uno zaino enorme… Mentre i draghi sono … sono straordinari, sono draghi… - aprì le braccia come per abbracciare tutta l’isola, dimenticandosi che il Drago non poteva vedere i suoi gesti –mentre noi siamo…-
- Solo umani.-
- Si. Siamo solo umani.-
- Vabbè, non deprimiamoci per questo. Tanto non possiamo cambiare. Sapevi che secondo alcune leggende i cinque erano l’incarnazione degli dei primigeni?-
- Si. Ne avevo sentito parlare. Ma, personalmente, non ci credo. Cioè, come è possibile? Gli dei avrebbero deciso di prendere sembianze umane per combattere?-
- Non lo so. Ognuno la può pensare come vuole. Pensa se anche noi fossimo delle incarnazioni! Finalmente saremmo speciali… non saremmo solo umani.-
- Io adesso non mi sento molto divino, non so te… ma lasciamo perdere. È incredibile, non siamo d’accordo su nulla. A me il buio fa star bene, a te la luce. Io non credo nelle incarnazioni, tu si. Il mio colore preferito è il nero. Il tuo sarà …-
- Il bianco.-
- Ecco, visto? Non siamo d’accordo su nulla.-
- Hai ragione, però l’importante è che andiamo d’accordo. Pensa se ci odiassimo. Anche se il tuo duello con Nirghe mi ha divertita. Dovreste rifarlo.-
- Si… io ho bisogno di dormire, altrimenti domani sarò uno straccio. Penso che questa sauna sia fantastica per rilassarsi…-
- Ciao. Ci vediamo dopo.-
- Dopo?-
- Sono le due di notte. Tecnicamente è già domani, cioè oggi.-

Hile uscì dalla grotta e riprendendo la camicia, le braghe e i coltelli, rientrò nella sua stanza, dove si stese guardando l’immobilità dell’ombra che sembrava fissarlo.
- Siamo un gruppo di sbandati, non è vero?-
L’ombra parve alzare appena le spalle, per poi sedersi sui talloni e rimanere nuovamente immobile.
Bastarono pochi minuti al Lupo per addormentarsi.

I sei ragazzi vennero svegliati da una guardia del re e vennero portati nella sala del trono, dove Réalta li aspettava chino su una scrivania coperta di carte e libri rilegati in pelle nera e marrone. Piccole volute di polvere danzavano attorno alla sua figura.
- Signore?- disse la guardia.
- Si? – chiese, poi si accorse dei ragazzi al seguito della guardia – Oh, benvenuti. Vediamo… dove l’ho messo… mentre cerco un documento voi accomodatevi pure… Vi ho fatto preparare delle sedie… Trovato!-
I ragazzi si sedettero su alcuni sgabelli trovati dietro il trono. Réalta teneva in mano un foglio su cui erano appuntati dei dati.
- Bene. Ho trovato notizie riguardanti la vostra missione in alcuni dei documenti che i miei antenati lasciarono nella biblioteca della reggia di Carent… ma, probabilmente, non vi interessa…-

Che arguzia, sire…
Passiamo alle cose serie?

Il drago si pose sul naso un paio di occhiali dalla montatura in ferro, nera, che gli conferivano un’aria molto più saggia, e cominciò a leggere.

Dal sedicesimo incontro dei reggenti delle cinque terre, a cui prendono parte i cinque cavalieri dei draghi, i regnati della Terra del Fuoco, re Rovere, signore dei folletti, l’attuale presidente di Gerala Fasto e i signori della Terra dell’Acqua Farionim e Nestra. I draghi stanno per estinguersi, La regina Fariuna e il re Erdost hanno deciso di lasciare le terre in favore dell’isola natia. Secondo I Cinque bisogna esplorare l’ovest per ottenere una cura alla malattia della squama grigia. Le terre stanno attraversando una profonda crisi e il palazzo che dovrebbe ospitare le nuove generazioni di Cavalieri appare tetramente vuoto. Si reputa necessaria una manovra drastica che colpisca tutta la popolazione.

Dal diario di Fariuna. Ho discusso a lungo con I Cinque. Concordo con loro della necessità di spostarsi. Dobbiamo mascherare la vera missione con una apparentemente utile che proporremo all’incontro dei reggenti che si svolgerà tra otto giorni. I Cinque mi hanno raccontato che, l’ultima volta che sono stati convocati nella Volta degli Dei, gli dei Primigeni e gli dei minori hanno lasciato trapelare informazione riguardanti una seconda missione. Dobbiamo migrare per proteggere non solo il mio popolo, ma anche coloro che verranno.

Dal diciassettesimo incontro dei reggenti, La missione per cercare una cura verrà attuata. La squadra sarà composta dai Cinque con i rispettivi draghi, dalla Regina Fariuna che abdicherà in favore della figlia Jaery e il re dei folletti Rovere che abdicherà in favore di lord Gells.

Dal diario di Erdost. È deciso, partiremo domani per l’ovest. Non ho paura per il mio popolo, so che si riprenderà, e so che mia figlia sarà un’ottima reggente. Ardof è sicuro che i nuovi prescelti saranno in grado di arrivare fino a noi. Io non posso essere che d’accordo con lui.

- E infine …-

Dalle memorie della regina Jaery. Ho trovato un documento dei miei genitori nel quale mi mettono al corrente di una missione. Chiunque si troverà al trono quando i prescelti arriveranno sarà tenuto a portarli sulle coste del continente a ovest delle terre. Mi piacerebbe avere io quest’onore, ma la malattia mi sta consumando in fretta. Il morbo della squama grigia è il peggior nemico che abbiamo incontrato finora. Non posso che augurare buona fortuna a questi nuovi eroi e al reggente che terrà in mano questa lettera.

- Questo è quel che ho trovato. Secondo la volontà di mia madre devo portarvi sulle coste del continente. Manderò dei servitori con alcune provviste, questa sera.-
- No, non è il caso …-
- Sciocchezze. Domani pomeriggio partiremo. Queste sono le ultime volontà di mia madre e io le rispetterò.- 

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Capitolo 10
*** Capitolo 8: La costa ***


 I servitori di Réalta avevano portato talmente tante provviste da riempire completamente le sacche dei sei compagni di viaggio.
Il sovrano e un drago violetto aspettavano nella bocca del vulcano, il re era ancora nella sua forma umana, e non accennava a voler mutare la sua condizione.
- Ci siete tutti?- chiese il re distaccato.
- Si.-
- Bene. Possiamo partire.- Réalta impiegò un attimo per prendere l’aspetto di un drago dalle squame di color giallo ocra.
I sei ragazzi si divisero sui due draghi, che in breve tempo uscirono dal cratere.
- Réalta?- disse Hile dal suo dorso – Ho sentito narrare di draghi di fuoco dalla forma di cavallucci marini. Sono mai esistiti?-
- Si. Ma si sono estinti da tempo. Erano troppo dipendenti da questa terra, non potevano allontanarsi dai vulcani per più di qualche minuto e … dovevano vivere al caldo. Quando quindici anni fa arrivò l’inverno del diavolo, è morto l’ultimo drago di fuoco. La mia razza ha subito ingenti perdite negli ultimi decenni.-
- Oh. Capisco…-
I draghi presero quota velocemente. In alto l’aria diventava fredda e rarefatta, Hile si sentì ghiacciare le ossa e pungere la pelle da milioni di spilli.
Al Lupo parve di essere colpito da centinaia di frecce di ghiaccio, quando il re dei draghi aumentò ulteriormente la velocità.

Solo dopo una decina di minuti di volo, Hile vide Mea sollevare le braccia, tenendo saldamente in mano un foglietto di carta.
Il ragazzo si sentì pervadere da un piacevole tepore.
- Grazie Mea!- sentì urlare a Nirghe, dietro di lui.
Lei fece solo un cenno con la testa.

Sapevate che le piume degli uccelli sono tra i migliori isolanti termici?
Intrappolano l’aria riscaldata dai muscoli a contatto con la pelle, in modo che il freddo non rappresenti un ostacolo al volo.
Cosa c’entra adesso questo?
C’entra eccome, visto che loro stanno sprecando energie per avere una parvenza di tepore, mentre io mi libro tra le correnti, avvolto in un piumino naturale.
Natura uno, tutto il resto zero.

Il volo durò tre giorni, tre giorni in cui il gruppo non vide altro che una distesa di acqua salata, infinita. I due draghi non trovarono una sola lingua di terra per potersi fermare a riposare e questo non fece altro che peggiorare l’umore complessivo del gruppo.
Solo con la luce arancione del sole morente si cominciò a vedere una riga scura all’orizzonte.
Ci volle comunque l’intera notte di volo perché i draghi potessero appoggiare nuovamente le zampe al suolo, su una piccola spiaggia sabbiosa divorata dalla vegetazione della foresta vicina. Lì passarono due giorni, senza muoversi se non per recuperare la poca legna necessaria a tener vivo il fuoco che avevano acceso.
Réalta e il suo servito non aprirono mai bocca per tutta la loro permanenza sulla spiaggia. Solo quando il sottoposto ebbe spiccato il volo il sovrano dei draghi decise di far sentire la propria voce.
- Buona continuazione. Che gli dei siano con voi. E se mai doveste incontrare i miei nonni, vi chiedo di salutarli da parte mia.-
Réalta ritornò alla sua forma reale.
- Scusi sire…– si azzardò a dire Nirghe, mentre la sua mano sinistra si stringeva convulsamente attorno all’impugnatura di una delle spade – Posso chiederle come mai solo ora ha cominciato a rivolgerci la parola?-
- Effettivamente vi devo porgere le mie scuse, ma dovete capire che la mia posizione… Questo per il mio popolo è un momento di grande crisi, siamo pochi, indeboliti. Non tutti si fidano di umani ed elfi e questo rende la mia posizione ancor più precaria. Per il momento la questione sulla convivenza con altre razze è ancora dibattuta, quindi non posso mostrarmi di parte, ma sono convinto che presto si giungerà a una soluzione.-
Il re dei draghi decollò, alzando un ventaglio di sabbia sui sei assassini.
- Ci detesta, vero?- chiese il Lupo sdraiandosi sulla sabbia smossa, ammirando i due draghi che si allontanavano tra le nubi.
- Decisamente.- gli rispose il Gatto, facendo altrettanto.

Concordo in pieno.
Eh… non ci sono più i bei tempi in cui Fariuna organizzava banchetti per tutti i draghi e, sotto gli influssi dell’alcol, cominciava a ridere come una matta…

- Voi cosa volete fare ora?- chiese a bruciapelo Mea, voltandosi verso la foresta.
- Incamminarci.- le rispose Hile lanciando più volte in aria un coltello.
- Per dove?- ribatté seccata il Corvo.
- Lassù. – Le rispose Keria, indicando una delle prime montagne che si innalzavano al di sopra della distesa verdeggiante – Da lì potremo avere una buona visuale sulla foresta. Poi non è nemmeno troppo distante. In una settimana dovremmo riuscire a salire sufficientemente in alto.-
Il gruppo si incamminò puntando al monte che si ergeva di fronte a loro, finché questo non venne inghiottito dal manto verdeggiante delle foglie.

No… questo non va per niente bene…
Spero sappiano quel che stanno facendo, altrimenti mi tocca rivelarmi già da ora…
Come è possibile che non ne sentano l’odore? O perlomeno i rumori. I loro sensi dovrebbero essere allenati maledettamente bene.
Ci sono otto maledetti  lupi che li stanno tenendo d’occhio e loro stanno continuando a camminare come se nulla fosse.
Devo stare allerta. Questa volta, se gli succede qualcosa, la colpa ricade su di me.

Il gruppo era a quattro giorni di cammino dalla piccola spiaggia su cui erano atterrati. Erano quattro giorni che camminavano quasi senza sosta nella boscaglia.
Il paesaggio aveva già cominciato a mutare. La temperatura si era sensibilmente abbassata e i latifoglie avevano ceduto il passo ad imponenti pini, i cui aghi ricoprivano il suolo.
Nirghe sembrò irrigidirsi per un attimo.
Bastò questo segnale a scatenare un susseguirsi di reazioni.
Seila fu la prima ad arrampicarsi su uno dei rami più spessi di un albero vicino, immergendo la punta di un ago in una soluzione verde smeraldina e caricando la cerbottana con il dardo mortale.
Mea, una volta trovata una posizione stabile, estrasse una decina di carte da una delle tasche esterne della borsa, studiandole per un secondo.

Per chi se lo chiedesse, quelle carte non sono nulla di speciale.
Purtroppo.
Sono solo fogli su cui sono state tracciate delle rune, come degli incantesimi pronti.
Si, ammetto che mi aspettavo anch’io qualcosa di più interessante di un incantesimo preconfezionato.

Keria si piazzò dalla parte opposta, incoccando una freccia e tendendo la corda dell’arco.
L’Aquila, il Gatto e il Lupo si erano portati in mezzo a una piccola radura, ben visibile dai tre alberi che ospitavano le compagne.
I pochi raggi del sole che filtravano si riflettevano sulla lama delle due spade e dei sei coltelli, ben saldi nel guanto di pelle.
Nessuno osava muoversi.
Poi arrivarono.
Otto lupi gli si avventarono contro dai pochi arbusti riuscivano a crescere ai piedi degli immensi alberi.
Non erano grandi quanto, si diceva, lo fossero gli Athur che avevano popolato la Grande Vivente, ma la loro mole incuteva comunque terrore.

Non passò molto che Hile, ferito di striscio da un’unghiata al fianco, si rese conto di essere assolutamente in svantaggio nel corpo a corpo con quelle belve.
Si arrampicò velocemente sull’albero che ospitava Keria e diede una veloce occhiata alla situazione.
Nirghe e Jasno parevano non essere troppo in difficoltà, nonostante non riuscissero a ferire gli animali che gli si avventavano contro.
Due grosse carcasse erano già stese a terra, con diverse frecce e qualche ago piantati del corpo.
Il Lupo lanciò quattro coltelli di seguito, colpendo l’occhio e il collo dell’animale che si stava preparando a colpire Jasno, e il costato di altri due.
Aquila e Gatto furono costretti ad indietreggiare.
- Cercate di non cadere… - urlò il Corvo dal suo ramo – ho bisogno della vostra energia!-

Non pensavo fosse già in grado di convogliare il mana di più persone. In fondo sta per prelevare da i suoi compagni la loro energia vitale per farla propria… non è una delle cose più facili da imparare.

Mea sollevò uno dei fogli che teneva in mano, chiudendo gli occhi.
Hile avvertì una sensazione strana, come se una mano gli avesse preso il cuore e lo stesse stringendo nella sua morsa.

Ora ti starai chiedendo: Perché diavolo non può prosciugare i lupastri della loro energia, invece dei suoi compagni?
È semplice. I lupi, come tutti gli animali, sono intelligenti. Umani, elfi, nani, folletti e compagnia bella no.
Gli animali selvatici hanno mantenuto dei meccanismi di difesa che bloccano ogni fuoriuscita di energia, o mana, inutile. È come se avessero un rubinetto automatico che li protegge.
IN questi casi si dovrebbe dire… Natura due, tutto il resto ancora zero.

Con la vista appannata il Lupo vide Keria perdere l’equilibrio.
Con un movimento veloce riuscì ad afferrarle l’avambraccio, perse però l’appoggio, scivolando indietro e rimanendo appeso al ramo, con il gomito tenuto premuto contro la corteccia dal peso dei due corpi che penzolavano a qualche metro dal suolo e la mano che lottava contro il sudore che impregnava il guanto per non perdere la presa.
La presa sul cuore si fece più salda e dal terreno si cominciarono ad alzare arbusti e radici che avvolsero nella loro stretta mortale le sei belve rimaste.
Le dita persero la presa, annaspando inutilmente nell’aria in cerca di un appiglio.
Il Lupo cadde con la schiena a terra. Il suo cervello era ancora tempestato dalle urla di nuca e polmoni quando un peso gli rovinò addosso, facendogli perdere i sensi.

Uh… che botta.
Ci vorrà un po’ prima che si svegli… 

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Capitolo 11
*** Capitolo 9: Il re della foresta ***


 Hile si svegliò con uno strano sapore in bocca.
Era abbastanza sicuro che i suoi piedi non stessero toccando terra, ma gli sembrava di muoversi, come se fosse di nuovo tornato a bordo di una barca.
Aprì leggermente gli occhi, per capire cosa fosse il tepore che sentiva sul ventre.
Tra la luce accecante che gli riempì il campo visivo riuscì a riconoscere il terreno sassoso coperto di aghi di pino giallognoli che strisciava sotto di lui velocemente.
I peli della casacca da Lupo gli sfiorarono il naso.
Un torace largo coperto di piume marroni entrò nel suo campo visivo.
- Ehi…- provò a dire con voce flebile e incerta.
Il terreno smise di muoversi all’improvviso.
Jasno scaricò a terra il corpo che portava sulla spalla come un sacco.
- Stai bene?- gli chiese la sagoma nera della testa del Serpente.
- Si… abbastanza. Cosa è successo?-
- Bevi questo.-
Il liquido tiepido che si riversò nella gola del Lupo per poco non lo fece vomitare.
Hile si mise a sedere tossendo, cercando di ignorare la fitta di dolore che saliva da gomito destro coperto da una fasciatura sporca. - Cosa è successo… prima?-
Mea si avvicinò con la testa bassa. - Ho sbagliato… più o meno. Ho utilizzato parte della vostra energia per dirigere il mio incantesimo ma ho… sbagliato. Ve ne ho chiesta troppa. Scusa…-
- Si… più o meno quello lo avevo capito. Ma dopo?- continuò Hile cercando di schiarirsi la vista passando più volte il dorso della mano sugli occhi.
Mea parve interdetta. - Poi i lupi sono morti, ma tu avevi perso troppa energia e hai perso la presa sul braccio di Keria, che ti è caduta addosso. Sei svenuto. Sono quattro giorni che dormi.-
- Ah… i miei coltelli? Li avete recuperati?-
- Si. Sono tutti nella tua tracolla.- disse il Serpente.
- Meno male… devo sapere qualcos’altro?-
- Ti sei ferito al gomito, ma non è nulla di mortale. Ah, già. Non siamo ancora arrivati. Non si riesce ancora ad avere una visuale chiara sulla foresta.- gli rispose il Gatto.
Non appena Hile riuscì a reggersi in piedi senza barcollare, il gruppo si rimise in marcia.

La testa del Lupo continuava a pulsare per colpa di un leggero e costante tintinnio, come di campanelle.
Solo dopo alcune ore, quando il sole ebbe cominciato a calare e il campanellio si fece più intenso, riuscì a capire cosa producesse quel fastidioso rumore.
Keria tremava come una foglia nella sua armatura, anche se cercava di non darlo a vedere.

Mi chiedo come abbiano fatto a non accorgersene finora. Dopotutto non è nemmeno una grande attrice.

Forse fu il mal di testa martellante che lo assillava, comunque Hile fu preso da un moto di pietà per l’arciere. Le si avvicinò e si tolse la casacca per lasciargliela.
- Ma cosa fai?- chiese infastidita Keria. Sorprendendo il Lupo.

Eh?

- Stai tremando come una foglia. Prendi questa, non ne ho bisogno.-
- Ma sei tu quello che è svenuto! Se c’è qualcuno che non deve prendere freddo quello sei tu!-

Che discorsi mostruosi. Forse mi sono abituato troppo bene ai Cavalieri, dove gli uomini erano veri uomini e le donne erano forse anche più uomini.
Ogni riferimento a Frida è puramente casuale.
Ah, si… che sono troppo giovani per tutto questo lo ho già detto? Avanti! Sono dei bambini, come fanno gli dei a pretendere che riescano ad ammazzare il demone che nemmeno le armi elementari sono riuscite a polverizzare?
Forse è tardi… forse non c’era più tempo per aspettare…
Ma, se fosse così, vuol dire che non mi godrò la mia libertà! Maledizione!
Il demone non poteva aspettare ancora un centinaio d’anni, prima di tornare a rompere?

Hile parve seccato dalla risposta del Drago.
Le mise in mano malamente la casacca in peli grigi e si portò in testa al gruppo senza più dire nulla.

Finalmente gli alti pini che impedivano di vedere la foresta sottostante e il mare, più in là, si fecero radi, lasciando scuotere dal freddo vento i rami spogli.
- Cosa stiamo cercando?- chiese Nirghe sporgendosi da una rupe e scrutando la distesa verdeggiante che si allungava a vista d’occhio.
- Non ne ho idea. Qualcosa di strano… direi.- gli rispose Hile seduto contro un tronco vicino, ancora seccato da prima.
- Mea! – riprese il Gatto, girandosi – puoi fare qualcosa?-
- Posso migliorarti la vista. Cioè, posso farti vedere meglio le cose lontane. Non molto altro.-
La maga disegnò sulle palpebre del Gatto e del Drago, che si era infilata la casacca in pelliccia, rune estremamente semplici.

Le rune sono un alfabeto fonetico, lo sapevate vero? Poi l’insieme delle rune rappresenta un suono complesso detto glifo e così via, si forma la frase.
Ik, su, è un solo suono, quindi di conseguenza la runa le lo rappresenta non è particolarmente impegnativa.
Certo che la grammatica è andata proprio in pensione. Già quando la magia era controllata dalla voce si cercava di ridurre al minimo la sintassi, ora che tutto va scritto è ancora peggio…

Spadaccino e arciere continuarono a scrutare la foresta in cerca di qualcosa che sembrasse fuori posto.
- Mea?- chiamò Hile.
- Si?-
- Puoi fare qualcosa per i miei coltelli? Nel senso, puoi farli ritornare nella mia mano una volta che li ho lanciati?-
- Posso provarci… dammi un po’ di tempo per pensarci.-
Il pomeriggio continuò a passare monotono, rotto da brevi sprazzi di conversazioni che continuavano a cadere nel vuoto.

- Ok. – disse il Gatto scendendo dalla sua postazione – Non c’è assolutamente niente di interessante. Da nessuna parte. Però si vede un albero che svetta sugli altri, laggiù. Forse c’è anche del fumo, ma non ne sono sicuro. Keria sta ricontrollando, in fondo lei ha una vista migliore della mia.-

- Hile, ci sono. Se puoi darmi i tuoi coltelli ho un incantesimo che dovrebbe funzionare.-
Il Lupo recuperò i dodici coltelli dalle tasche e li porse alla maga.
- Solo una cosa, Mea. Puoi non inciderli? Ho visto che devi segnare le cose, perché l’incantesimo si attivi, ma questi coltelli sono perfettamente bilanciati e non vorrei che perdessero questa qualità.-
- Tranquillo, non li appesantirò.-
La maga cominciò a tracciare su un foglio talmente fine da sembrare trasparente linee curve che si intrecciavano le une sulle altre in continuazione, facendo perdere l’occhio nella complessità del disegno.
- Ho solo bisogno di sapere una cosa. L’incantesimo non può rimanere costantemente attivo, ti ucciderebbe e non potresti nemmeno lanciare i coltelli perché questi ritornerebbero immediatamente nella tua mano. Devi darmi una chiave, una parola che dovrai pronunciare nel momento in cui vuoi che il coltello torni.-
- Renèz.- rispose quasi immediatamente Hile.
- Bene. Traccio quest’ultima parte e… ho finito.-

Che bello. Questi sono incantesimi ben fatti. Sei sicuro che funziona tutto, suonano bene quando vengono pronunciati e scritti sono opere d’arte. Come possono i maghi voler ridurre questi capolavori a poche righette tracciate male?

La maga prese un coltello dal mucchietto per terra, gli appoggiò sopra il glifo appena terminato e, sopra questo, un altro foglio disegnato.
- Passa!- sibilò tra i denti il Corvo.
Sul coltello comparve una forma identica a quella tracciata sul primo foglio.
- Ora proviamolo. Pensa a questo coltello e dì Renèz.-
- Renèz.-
Il coltello prese a ruotare verso la mano del Lupo come se il terreno glielo avesse lanciato.
- Ora lascialo per terra… pensa a un altro coltello e ripeti Renèz…-
- Renèz.-
Il coltello non si mosse.
- Perfetto. Ti spiego brevemente come funziona quest’incantesimo. È composto tre da parti: la prima sfrutta la tua energia per legarti ai coltelli marcati, in modo che ogni volta che richiami un coltello sarà impiegato il tuo mana e non il mio. La seconda li lega alla tua mente, in modo che solo quello su cui ti stai concentrando tornerà nella tua mano. La terza e ultima parte impone al coltello di spostarsi fino alla tua mano come se fossi tu stesso a lanciarlo. Quindi ti richiederà tanta energia quanti più sono gli ostacoli o la lontananza tra te e il coltello. Capito?-
- Si. È abbastanza chiaro.-
La maga ripeté l’operazione con gli undici coltelli rimanenti.
- Mea, hai finito con quelli?- chiese il Drago avvicinandosi alla maga.
- Si. Ho fatto. Trovato qualcosa?-
- Ora vi dico tutto. Effettivamente potrebbe essere fumo quello vicino all’albero più alto. Non ne sono sicura. In ogni caso è meglio se andiamo là, nel peggiore dei casi potremo usare i rami più alti come punto di osservazione.-

Ehi, c’è qualcuno?
Fumo, foresta… non vi dice proprio niente? Vorrei ricordarvi che nessuno di voi è un Cavaliere dei draghi di fuoco. Se finite in un incendio bruciate tutti.
E poi io che vado a raccontare a Loro? Oh, scusate. Ho provato a proteggere quei sei mocciosi, ma si sono buttati in un incendio…
Bah, cose da matti.

Il gruppo si rimise in marcia, cominciando una lenta discesa sul versante della montagna.
La foresta riprese ad infittirsi, il terreno tornò a ospitare un folto sottobosco e gli aghifogli ricedettero il passo ad albero dal tronco maestoso, talmente alti da rendere indistinguibili le foglie. Il re della foresta, l’albero maestoso che bucava la volta verde si perse nella volta verdeggiante e i sei ragazzi non poterono far altro che continuare a marciare in linea retta, per quanto possibile.
Due volte dovettero perdere un pomeriggio per scalare uno di quei pilastri viventi per accertarsi di essere sulla strada giusta.

E almeno sette volte li ho dovuti far deviare io.
Già che si fa il riassunto di uno dei viaggi più noiosi della mia vita, per lo meno diciamo tutto.
Mi mancano i tempi in cui avevo un posto in prima classe tra le squame di un drago o nella tracolla di qualcuno…
Non credevo l’avrei mai detto.

Dovettero passare quasi due settimane, prima che dal terreno cominciarono a spuntare enormi serpenti di legno che si immergevano ed emergevano tra l’erba rada, tutti convergenti in un unico punto. Una torre. Una torre di corteccia che si slanciava verso il cielo e li pareva scrutare da lontano.
Il gruppo fu rincuorato da quella vista, ma il senso di euforia che riempiva i sei cuori durò per soli due giorni, quando i piedi ricominciarono a lamentarsi per la marcia sempre più serrata e la torre di legno continuava a stagliarsi lontana e, a quanto pare, irraggiungibile.
I giorni parvero farsi più lunghi, le gambe si fecero sempre più pesanti e l’aria divenne tesa come una corda di violino.
- Com’è possibile che quel maledetto albero figlio di Reis sia ancora così dannatamente lontano? È là, porco Reis. È là da sei giorni! Siamo maledetti, non c’è un'altra spiegazione.- sbottò il Gatto, piantando le due spade nel terreno in un moto d’ira.
- E se anche lo fossimo? Maledetti da qualcuno, intendo. Cosa potremmo fare?- gli rispose Hile seccato.
- Non lo so! Non so neanche che maledizione potrebbe farci uno scherzo del genere!-
- E allora stai zitto e non ti lamentare, se non sai cosa fare!-
- Statevene zitti. Ora. Non ho voglia di sentirvi litigare come due poppanti.- sibilò Mea fulminando i due con gli occhi viola.
- Scusa… non volevam…- provò a scusarsi remissivo Nirghe.
- Ho detto che non voglio più sentirvi fiatare. Comunque nella marea di idiozie che hai detto, su una cosa puoi avere ragione. Ho cominciato l’altro ieri ha sospettare che quell’albero sia protetto da un incantesimo. Visto che di questo passo non facciamo progressi, tanto vale che ci fermiamo e mi diate un po’ di tempo per tirare giù un contro incantesimo o una cosa del genere.-
- Come vuoi. Tanto, ora come ora, qualsiasi cosa facciamo è sicuramente controproducente.- borbottò l’arciere.

La situazione sta degenerando velocemente… e dicono che la fatica fa aggregare i gruppi.
D'altronde sono anche finiti in un gran casino. E non parlo della missione, degli dei e tutta quella bella storiella lì. Dei maghi si possono dire tante cose, ma sicuramente danno la magia troppo per scontata.
Ora vedrò cosa riuscirà a fare la nostra maga mezzelfa e poi… boh. Non so ancora cosa fare. Credo che continuerò a farmi i fatti miei nelle immediate vicinanze di questi ragazzi.

- Nirghe, credo di doverti delle scuse… non volevo dire che… hai capito, no?- sussurrò il Lupo.
- Si. Siamo tutti esausti. Forse Mea ha ragione, dovremmo starcene zitti, almeno finché sarà la stanchezza a farci parlare.-
- Grazie.-

Mea lavorò per tre giorni quasi senza mai fermarsi. Continuava a scarabocchiare glifi sui fogli di carta, imprecando ogni volta che ci appoggiava le mani sopra.

Alla fine ho avuto pena di lei.
Sono troppo bravo, lo so. Ma, capitemi, io vorrei godermi la mia pensione in qualche tranquillo villaggio sperduto… quantomeno non sotto il giusto e magnanimo governo di un demone.
In sintesi ho aspettato che la maga si allontanasse dal suo materiale e ho completato il glifo che stava disegnando.
Probabilmente voleva scrivere una cosa del tipo “Rivela il maleficio che non permette alle persone di avvicinarsi all’albero e abbattilo.” O qualcosa del genere, comunque, io mi sono limitato ad aggiungere “non in possesso di capacità magiche” subito dopo persone. Ve l’ho detto che i maghi danno la magia troppo per scontata.
La ragazzina era talmente stanca che non si è nemmeno resa conto della mia modifica.

Mea appoggiò stanca le mani sull’ennesimo foglio.
Il sudore che imperlava le dita venne assorbito dalla carta giallognola.
Chiuse gli occhi. Non le rimaneva molta energia a disposizione, non sarebbe riuscita a mantenere quel ritmo ancora a lungo.
L’energia del Corvo riempì il glifo, per poi spargersi nell’aria circostante unendosi a quella che scaturiva dagli alberi e dal terreno.
Le parve di scontrarsi contro un muro. Una barriera eterea le si parava dinnanzi.
Il mana s’irrigidì contraendosi e diventando quasi tangibile.
La barriera venne colpita una, due, quattro, dieci, trenta volte. Finalmente la sua superficie s’incrinò, per poi frantumarsi.
La foresta venne invasa dalla nebbia. I sassi, gli alberi, il cielo e il terreno scomparvero, inghiottiti dalla coltre grigia.
Quando l’ambiente tornò alla normalità tutto era mutato. Il terreno si era fatto più sabbioso, gli alberi erano radi e una brezza marina portava con sé l’odore di salsedine. Il re della foresta ora svettava alle spalle della compagnia di assassini.
- Ci… ci sono riuscita…- borbottò il Corvo stringendo nel pugno l’ultimo glifo.
- Brava Mea. Sapevo che ce l’avresti fatta.- le disse Keria appoggiandole una mano sulla spalla.

Ora si mettono in cammino e lo raggiungono. Potete tranquillamente distrarvi.
Sfrutto questo momento di azione per spiegare cosa è successo.
Ho salvato la situazione.
Oltre a questo, qualcuno ha eretto una barriera intorno a quell’albero per evitare che tutte le cose che non posseggono energia magica si avvicinino.
Opera dei miei cari Cavalieri? Può darsi, ma non ci scommetterei. In fondo è un buon modo per non far avvicinare delle bestiacce, leggi i lupi di prima.
Come lo so? Ehi, riesco ad entrare nella trama del reale, volete che non sia in grado di scovare un incantesimo grosso quanto un castello in mezzo al deserto?

Il gruppo tornò a puntare il maestoso albero, che finalmente si era arreso all’idea di dover farsi avvicinare.
- Finalmente il re di questa foresta si è deciso a riceverci!- si lasciò scappare Seila, ansiosa di raggiungere la meta. 

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Capitolo 12
*** Capitolo 10: Una grotta umida ***


 Una volta raggiunta la base di quella torre vivente, il maestoso alberò apparve ancora più alto. I suoi rami si perdevano tra la volta di foglie verdeggianti e il cielo coperto dalle nubi.
- Ora cosa facciamo?- chiese Seila guardando il tronco che si stendeva a destra e sinistra per svariati metri.
- Lo scaliamo. Cos’altro vuoi fare? A meno che non ci sia una scala da qualche parte, quello è l’unico modo per salire lassù. – le rispose malamente Nirghe, aggiungendo poi, con un tono più dolce – Mea, saresti in grado di creare una corda?-
- In che senso una corda?-
- Io, Jasno e il Lupetto possiamo salire lassù. Almeno fino ai primi rami. Se tu riuscissi a creare una corda abbastanza lunga, noi potremmo portarla su con noi, per poi farvi salire in corda doppia.-
Hile tentò inutilmente di controbattere, ma il Corvo riprese subito a parlare.
- Si, posso farlo. Ma sei sicuro che riuscirete ad arrivare lassù? Posso aggiustare le ossa rotte, ma sui cadaveri non posso fare nulla.-
- Non ti preoccupare. Non cadremo. Lupetto, Jasno, andiamo?-
- Micino, io ti aspetto in cima.- gli rispose Hile.
- Io no.- disse Jasno sistemando il cappuccio.
- Come io no?-
- Io non posso. Per due motivi: non so arrampicare e, se anche imparassi ora, con la mia sensibilità al sole non riuscirei a proseguire.-
- Vengo io.- si fece avanti Keria.
- No. Stai qui. – Le disse Hile sistemandosi i guanti – Bastiamo io e il gattino. Non è necessario essere in tre.-
- Non hai capito. Vengo anch’io. Nella setta del Drago c’è una regola, o meglio, una specie di cerimonia. Noi la chiamiamo la Schiusa dell’Uovo, è una prova che ognuno di noi affronta quando si sente pronto. Appena entri nella setta vieni affidato a un assassino che ha superato la prova e rimani sotto il suo controllo finché non la superi a tua volta. La Schiusa dell’Uovo consiste nello scalare il muro di cinta della setta e colpire con una freccia la faretra dell’assassino a cui si è affidati. Io l’ho superata due anni fa, non credo che una pianta sia un problema.-
Ad Hile si accapponò la pelle, ripensando al muro scuro che lo aveva separato dal mondo per troppi anni.
- Va bene. Keria, sei dei nostri. Lupetto, sei pronto?- chiese Nirghe pronto a partire.
- Si. Ci sono.-
I tre si legarono il capo della corda di Mea alla vita e cominciarono la lenta salita.

Sarà meglio che li segua… Sta arrivando persino un temporale, com’è possibile che non sentano l’umidità nell’aria? Tra poco più di quattro ore questo posto diventerà una pozza di fango.

Drago, Lupo e Gatto scalavano la parete di corteccia studiando attentamente ogni nodo o spacco sulla superficie del tronco. Di tanto in tanto ricorrevano alle spade, ai coltelli o alle frecce per costruire un appiglio là dove non c’era.
L’ambiente si fece sempre più cupo, andando di pari passo all’avvicinarsi del rimbombo dei tuoni e all’allontanarsi del terreno.
- Sta per piovere.- disse Hile fermandosi un attimo a guardare gli squarci di nubi nere tra le fronde.
- Cosa te lo fa pensare, Lupetto?-
- Dai Nirghe. Non essere pesante, ha fatto ridere la prima volta. Ora basta. Tornando alla pioggia, dobbiamo trovare un appoggio sicuro.- disse seccata Keria.
- Facile a dirsi. Finora non abbiamo incontrato un singolo ramo in grado di reggere il peso di uno di noi.-  le rispose il Lupo.
- Abbiamo si e no venti minuti prima che inizi a piovere. Cerchiamo di salire il più possibile, magari troveremo qualcosa di decente, più in alto.- proseguì l'arceiere.
I tre continuarono la salita il più in fretta possibile, concentrandosi unicamente sulla corteccia che scorreva di fronte ai loro occhi.
Cominciarono a scendere le prime gocce dalle nubi nere.

Maledizione…
Non so cosa fare. Mi sembra un po’ eccessivo assumere le sembianze di un uccello o uno scoiattolo gigante per portarli più in alto.
Vediamo come si evolve la situazione… magari riescono a salvarsi la pellaccia da soli.

- Trovatevi degli appigli decenti e rimanete lì! Possiamo solo aspettare che smetta di piovere! Se continuassimo a salire rischiamo solo di scivolare!- urlò Hile, piantando quattro coltelli nella corteccia e appoggiandoci sopra mani e piedi.

L’acquazzone si cominciò a riversare nella foresta. Cascate d’acqua si formarono dai rami più alti e scrosciando cadevano verso il terreno.
Il tempo scorreva lento sotto l’incessante battere della pioggia.
- Io non ce la faccio più!- urlò disperata Keria stringendo la presa sull’asta della freccia.
Le sue dita cominciarono a scivolare sulla superficie bagnata e alcune lacrime si unirono alle gocce di pioggia nella loro caduta.
- Resisti ancora un po’! Sta finendo di piovere, non vedi che scende meno acqua?- le gridò in risposta il Lupo.
- Scusate… non ce la faccio più.- disse piangendo l’arciere.
Pochi secondi dopo le dita sottili del Drago persero la presa sulla freccia e il suo corpo rimase a penzoloni, sostenuto dalla corda avvolta intorno alla vita. La situazione peggiorò ancora, la sicurezza prese a scivolare, lasciando la ragazza a testa in giù mentre il node si spostava verso i piedi. Poi non ci fu più nulla da fare e Keria a cadere verso terra.
- Maledizione!- urlò il Lupo.

Maledizione!
Esisterà un uccello abbastanza grande da poter sollevare una persona? Ora per lo meno uno ce n’è ed è nero.
Devo raggiungere quella ragazzina prima del suolo.

- Hile, resta qui! Vado io!- urlò il Gatto estraendo le due spade dalla corteccia e sfilandosi dalla vita la corda. Cominciò la sua discesa toccando appena l’albero con la punta dei piedi per portarsi esattamente sopra la compagna di viaggio.
Si portò in posizione verticale, con la fronte diretta verso il terreno e le spade strette in pugno.
Un uccello nero, enorme, scese in picchiata con gli artigli pronti ad afferrare l’arciere, ma una lama si fece largo nel suo ventre, costringendolo a virare lontano.
- Schifoso animale.- sibilò lo spadaccino.
Due secondi e svariati metri dopo la sua mano riuscì ad afferrare la faretra di Keria, mentre l’altra tentava di non perdere la presa sull’elsa la cui lama vibrante era di nuovo saldamente piantata nel tronco.
I due corpi rimasero a penzoloni, ricoperti da un velo d’acqua che dalla punta dei piedi andava a cadere nel vuoto.
Un’ombra gigantesca oscurò completamente il cielo cupo.

Dannato ragazzino. E io che volevo salvare la tua compagna. Sai quanta energia mi costerà guarire questa ferita?
Questo scherzo non me lo dimenticherò, stai tranquillo. Tu prova a rischiare la vita, cosa succederà mai se io ferissi chi sta per soccorrerti?
Ora che ho perso quota tanto vale andare a controllare cosa stanno facendo quelli rimasti a terra.

Hile strinse la presa sui coltelli piantati nella corteccia e scrutò nell’oscurità bagnata in cerca delle sagome dei suoi compagni.
Non riuscì a vedere nulla. Nonostante fosse ancora pomeriggio non un solo raggio di sole riusciva a farsi strada fino al terreno.

Ma che?
Com’è possibile?
Questo è uno scherzo veramente di cattivo gusto! Ma quale imbecille se ne va in giro, quando tre persone sono sospese a decine di metri d’altezza?
Non importa. Di loro me ne occuperò dopo. Torniamo in mezzo agli scoiattoli.

Il Lupo urlò con quanto fiato aveva nei polmoni, ma non riuscì a percepire nessuna risposta.
Si girò troppo tardi per poter evitare di essere rinchiuso in qualcosa di umido. L’ultima cosa che riuscì a distinguere fu una gabbia di sbarre bianche chiudersi contro la corteccia, strappandone buona parte al proprietario.

Oh! Meraviglioso! Fantastico! Non poteva andare meglio!
Mai una volta che le cose filino per il verso giusto.
Fato, ti prego. Dimmi che non mi toccherà intervenire, ti prego!

Hile riusciva a malapena a muoversi, stretto in una sacca umida che continuava a stringersi intorno al suo corpo.
Tentò di rompere quello strano materiale con i coltelli, ma le lame scivolavano sulla sostanza viscosa che ricopriva ogni cosa.
Con la coda dell’occhio il ragazzo vide qualcosa che poteva essere l’ombra, la sua compagna di disavventure, ma non ne fu certo.
Poi la sacca si strinse ulteriormente, inclinandosi paurosamente verso l’alto.
Il Lupo tentò invano di muoversi, mentre quel liquido gli permeava i vestiti e i capelli.
La sacca tutt’a un tratto smise di muoversi, per poi piegarsi a favore della gravità.
Lentamente Hile cominciò a scivolare verso il basso, verso l’apertura di quella cosa che lo teneva imprigionato.

Forza! Ancora poco e sei fuori!
Fammi questo favore ed esci di lì da solo!

Il lanciatore di coltelli cadde pesantemente su un suolo duro e liscio. Assi di legno, constatò aprendo gli occhi.
Qualcosa di enorme lo osservava dall’alto.
Hile si alzò in piedi a fatica, cercando di togliersi quella maledetta sostanza viscida dagli occhi per poter vedere chiaramente ciò che lo circondava.
I suoi compagni stavano bene, almeno così sembrava. Erano tutti sulla difensiva, sufficientemente lontani dalla creatura che troneggiava su quel pavimento.
Il Lupo si mosse piano, allontanandosi da quella gola che lo aveva appena risputato.
Un drago enorme, molto più grande di Réalta o di quelli descritti nei libri, lo osservava immobile.

Hile per un attimo si ricordò una delle nozioni apprese nella setta e provò a identificare il ramo di appartenenza di quell’esemplare, per poter prevedere i suoi comportamenti.
Un passo indietro.
La coda è lunga quanto il corpo.
Un passo indietro.
Il muso è appuntito.
Un altro passo indietro.
Ora la cosa più importante, la tonalità delle squame.
Un passo più vicino ai suoi compagni.
Bianco sporco, come la ghiaia.
Forse le descrizioni che i suoi istruttori gli avevano dato non erano precisissime riguardo l’aspetto e le proporzioni, ma le squame non potevano mentire circa la natura del drago.
“I draghi bianchi sono creature generalmente riflessive e poco impulsive, solitamente i più veloci in volo grazie alla forma snella e alla lunga coda, catturano la preda in una singola picchiata.” Si ripeté mentalmente.
Forse non gli sarebbe saltato addosso. Forse.

Ma insomma! Ti ha risputato, non ti attaccherà adesso.
E, quantomeno, non potresti toglierti quella bava dalla giacca? Più che un lupo, adesso sembri un lumacone.

- Mi spiace per l’inconveniente, non avesse cominciato a diluviare vi sarei venuto a prendere personalmente…-

Finalmente qualcosa ha cominciato a muoversi. Odio i tempi morti.

I sei ragazzi si voltarono contemporaneamente verso la voce.
Da quella che sembrava una grotta nel tronco dell’albero uscì un anziano dai capelli bianchissimi.
Il bastone sul lato destro produceva un tonfo ogni volta che batteva sulle assi di quella che doveva essere la terrazza.
- Dicevo… sono desolato. Permettetemi di presentarmi il mio nome è Eldèro, probabilmente sono l’ultimo Cavaliere dei Draghi.- 

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Capitolo 13
*** Capitolo 11: L'ultimo Cavaliere ***


 I sei assassini rimasero in silenzio. Immobili.
I pochi secondi che passarono parvero un’eternità.
Nirghe prese coraggio. - Ha detto di essere l’ultimo Cavaliere?-
- Presumibilmente si… purtroppo. Ma entrate, vi prego. Stando qui fuori vi prenderete un malanno, bagnati come siete.-
L’interno del tronco era spazioso, ammobiliato con tavoli e armadi che dimostravano parecchi anni. In un angolo un fuoco scoppiettava in un camino in pietra.
Hile rimase un attimo sulla soglia, mentre l’anziano faceva strada ai suoi compagni attraverso tappeti e libri.
Il Lupo si tolse la casacca intrisa di saliva di drago e la appese a un nodo che sporgeva dalla parete, il quale, però, sotto la pressione della pelliccia alchemica scattò, rivelando un’imperfezione nel legno, come lo spiraglio di una porta.
Non appena le mani del ragazzo  si allontanarono lo spiraglio scomparve.

Eldèro, nel mentre, aveva radunato qualche sedia davanti al fuoco, dove ora una pentola d’acqua bolliva sommessamente.
- Ditemi, cosa vi ha portati in questo luogo? Non è da tutti spingersi fino su questo continente. Specialmente per dei giovani come voi.-
- Stiamo cercando qualcuno.- gli rispose Mea, avvicinandosi ulteriormente alla fiamma.
- Beh, spero che quel qualcuno sia io, altrimenti avete fanno un viaggio invano. Se mi è concesso un commento,  che strani abiti portate. È questa la nuova moda nelle Terre?-
- No… noi stiamo… lavorando.- gli rispose incerto Jasno.
- Ai miei tempi i bambini non si mandavano neppure a scavare gli avamposti con i nani. Figurarsi mandarli oltreoceano. Come sono cambiati i tempi…-
- Piuttosto, lei, cosa ci fa qui?- riprese Mea, curiosa.
- Sono un Cavaliere. Nessuno vi ha mai raccontato cosa è successo al nostro Ordine? L’era della squama grigia, quello fu un brutto momento. Vidi decine di miei compagni morire, uno alla volta, prima i draghi seguiti immediatamente dai propri compagni di volo. Fu una strage. I cinque eroi e pochi altri partirono in cerca di una cura al morbo, ma non fecero più ritorno. Io e pochi altri decidemmo di ritirarci su queste coste aspettando che il tempo facesse il suo corso.-
- Quindi lei è proprio l’ultimo?- chiese Seila avvilita, guadagnandosi un’occhiataccia dalla mezzelfa al suo fianco.
- Come vi ho già detto…-
- Non vorrei abusare della sua ospitalità, - disse avvicinandosi Hile – ma può rispondere ancora a delle nostre domande?-
- Certamente. È da tanto che non parlo con qualcuno, all’infuori di quel drago. Però voglio qualcosa in cambio. Voi non me la raccontate giusta, se volete sapere qualcosa, dovete dirmi chi siete veramente e perché siete arrivati fino a qui.-
- Non possiamo. – gli rispose Keria – È una storia talmente surreale che non ci crederebbe.-
- Oh! Insomma! Nella mia vita ho visto tutte le creature più strane, sono sopravvissuto agli scontri con quei diavoli dei servi di Reis, cavalco un drago, cosa volete che vi sia mai successo di così incredibile?-
- Va bene. Glielo diremo. – disse Mea portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio – Il re sta tornando. Non è morto quel porco. E noi sei siamo la cosa più vicina agli Eroi che sia mai nata dalla fine della guerra. Il Governatore della Terra degli eroi, Vago in persona, ci ha scritto una lettera, nella quale ci dice di raggiungere il continente e trovarli per poterci addestrare con loro. Le pare credibile come storia?-
- Poco. Ma mi sembri sincera, quindi voglio credervi. Cosa volevate chiedermi?- chiese serio l’anziano, puntando gli occhi neri sui ragazzi che aveva di fronte.
- Lei sa dove hanno vissuto gli eroi durante la loro permanenza qui? Potrebbero aver lasciato qualcosa per noi, forse.- gli chiese Hile.
- No. Purtroppo non ne ho idea.-
- Sa qualcosa che potrebbe aiutarci nella nostra ricerca?-
- Ancora una volta devo rispondervi di no. Però posso offrirvi la mia ospitalità, per questa notte, quantomeno. Se non altro domani, se il tempo vorrà, potrei offrirvi i servigi del mio drago per aiutarvi nella vostra ricerca.-
- Accettiamo volentieri.- rispose di getto il Lupo, ignorando gli sguardi interrogativi dei suoi compagni.
- Dopo vi mostrerò le stanze dove potrete dormire, per il momento posso offrirvi una ciotola di minestra? Sarete affamati, immagino… ancora mi ricordo quand’ero giovane come voi e mi mandavano in giro per le Terre a cavallo…-
- Si, grazie. Molto volentieri.- disse Seila interrompendo il sogno ad occhi aperti dell’anziano Cavaliere.
- Gattino, devo parlarti, ora. Ragazzi, ho bisogno che voi non facciate insospettire Eldèro per la nostra assenza. C’è qualcosa che non mi torna.- disse a voce bassa Hile non appena l’anziano si fu alzato dal suo posto e, appoggiandosi al suo bastone, uscì dalla sala.
- Tranquillo, siamo stati addestrarti per non insospettire, no? Mi fido di voi due.- gli rispose Keria, con sguardo fiducioso.
- Cosa c’è che non ti torna?- chiese Seila.
- Sai cosa si dice delle persone che non si fanno gli affari loro? – gli rispose Mea – vivono meno delle altre. Fidati e basta.-
L’erborista ammutolì sulla sua sedia, mentre Hile e Nirghe si allontanavano verso la terrazza.

Come hanno intenzione di complicarmi il lavoro, questi due?
Non ho già abbastanza da fare per conto mio?
Tra l’altro non ho più fatto rapporto a Loro da parecchio, oramai. Vabbè, mi inventerò qualcosa. Non mi farò certo incastrare da cavilli nella mia condotta.

- Il drago?- chiese Hile.
- È uscito in caccia poco dopo il nostro arrivo, ha detto il vecchio… dovresti farti un bagno, lupastro, hai un odore terribile.-
- Sai com’è, sono stato ingoiato e risputato da un drago… comunque, ho notato una cosa, quando siamo arrivati.-
- Cosa c’è che ti preoccupa?-
- Non sono sicuro che Eldèro abbia dei secondi fini, anzi, non lo credo, ma mi è parso ci fosse un ingresso nascosto all’interno di quella parete… perché nascondere qualcosa, qui dove sei l’unico a vivere?-
- Non avrebbe senso…-
- Appunto. Se per te va bene, questa notte andrei a dare un occhiata. Porterei con noi anche Mea per avere una fonte di luce che non sia una torcia… e forse anche Keria. Poi Jasno e Seila li lasciamo di guardia… così almeno quell’erborista non combina qualche casino.-
A Nirghe scappò una risatina.
- Va bene. Questa notte andremo a dare un’occhiata.-
- Hile! Nirghe! Venite! – disse Keria andando verso di loro – Dai che la zuppa diventa fredda!-
- Ehi, perché hai chiamato prima quel Lupo? È forse più forte di me?- disse Nirghe rientrando nella sala, come nulla fosse.
- No, è che… mah, lascia stare.-
- Potresti essere un’ottima donna di casa, se non sapessi uccidere.- gli bisbigliò Hile passandole accanto.
Un calcio lo colpì sulla caviglia mezzo secondo dopo.

Finirà male, questa storia…
Mi sembra quasi la prima volta che incontrai il primo re dei nani… che ricordi orribili.

La serata continuò tranquilla, dominata dalle memorie del cavaliere raccontate in cambio di informazioni secondarie sul viaggio dei sei assassini.
- Ora vi devo salutare. Non sono più giovane come un tempo e ho bisogno di far riposare le mie vecchie ossa… venite, vi mostro dove potrete dormire.-
Eldèro zoppicò fino a una porta quasi speculare all’ingresso.
- Questo rifugio una volta ospitava anche un mio compagno… posso offrirvi la sua stanza, se vi accontentate del poco spazio.-
- Non c’è problema.- gli rispose Mea sorridendo.
- Buona notte, allora. E, per favore, non toccate nulla.-

Hile guardò la figura sulla parete. Era lì, ferma, sembrava guardarlo, come al solito.
- Speriamo di trovare qualcosa di utile, questa notte.-
La figura alzò le spalle per poi confondersi piano con le ombre della parete.
Tre sagome attraversarono rapide e silenziose il salone, per poi schiacciarsi contro la parete opposta.
Altri tre paia di occhi scrutavano l’ambiente scuro in cerca di qualche movimento.
Hile premette nuovamente il nodo nella parte e spinse là dove si era creata la fessura. La porta che si aprì dava su una ripidissima scala a pioli, che pareva scendere all’interno del tronco senza mai trovare un suolo a cui appoggiarsi.
Cominciarono una lenta discesa, illuminata solo dopo parecchi minuti dal globo bianco di Mea.

Dopo quelli che parevano un’infinità di gradini, finalmente lo stretto cunicolo verticale si allargava in una saletta circolare larga poco più di una decina di passi.
Le pareti erano quasi completamente nascoste dietro librerie stracolme di libri e polvere, storte dal peso degli anni, là dove non c’erano mobili erano appese gigantografie della mappa delle Terre, alcune delle quali riportavano appunti o segni su differenti luoghi.
Una scrivania era stata sistemata quasi al centro della stanza, alla sinistra di una rastrelliera contenente sette spade avvolte ciascuna in un telo di stoffa grigia.
Sulla scrivania era stata sistemata un’altra cartina, più piccola delle altre, che riportava vistosi cerchi sul Flentu Gar, nel mezzo del deserto, sull’isola dei monaci e nel bel mezzo della Grande Vivente, a sud di Gerala. La penna d’oca con cui erano stati tracciati e un calamaio pieno di inchiostro secco riposavano lì di fianco, sopra una pila di libri dalle pagine ingiallite.
I ragni sembravano aver colonizzato solo il soffitto, risparmiando l’ambiente dello studio.

Dal condotto che portava nella sala emerse un rumore di passi rapidi.
- Chi sta scendendo? Non dovevate rimanere di sopra in ogni caso?- chiese la mezzelfa posizionandosi sotto alla scala a pioli per scorgere la figura che stava scendendo.
Si udì il rimbombo di una voce, poi Mea cadde a terra come schiacciata da una forza maestosa.
Hile e Nirghe saltarono dietro alla scrivania, con le armi in pugno.
I passi continuarono, finché Eldèro non fu entrato nella stanza.
- Maledizione, ragazzini. Vi avevo detto di non toccare niente! Ora, per favore, mettete giù quei giocattoli, prima di farvi male. Non sono abbastanza in forze per stendervi con la magia come i vostri compagni.-
- Scusa, ma non prendo ordini da chi non mi può battere.- gli rispose il Gatto.
- Va bene…- il vecchio Cavaliere parve svilito dalla risposta.
Con uno scatto improvviso, con un’agilità che nessuno gli avrebbe mai attribuito, l’anziano si portò al centro della sala.
Hile fu sorpreso da quel gesto e lanciò due coltelli in direzione degli occhi del vecchio per portarsi a distanza di sicurezza.
Le lame trafissero l’aria, mancando totalmente il bersaglio.
- Renèz.-
Uno dei coltelli invertì immediatamente la sua traiettoria, puntando verso la mano del proprietario.
Eldèro si accorse solo all’ultimo della minaccia incombente, ma con un movimento talmente repentino da non sembrare umano evitò nuovamente la lama.
I due ragazzi si buttarono contemporaneamente sul vecchio, che prima respinse le due spade di Nirghe con il bastone, poi, con un colpo dietro le ginocchia fece franare a terra il Lupo.
- Renèz.-
Il secondo coltello si staccò dal muro nel quale si era piantato e puntò rapido verso Hile.
- Lo stesso trucco non funziona due volte, con me.- disse il vecchio, intercettando la lama con il bastone.
Il coltello rimase a oscillare piantato in quel legno nodoso.
- A dopo.-
Hile sentì un dolore atroce quando la punta di legno lo colpì sulla testa, poi perse i sensi.

Ahia…
Questa faceva male…
Certo che è bello poter stare a guardare senza dover intervenire, è una bella sensazione non avere responsabilità…

Il Gatto ripose la spada sinistra nel fodero, avventandosi contro il vecchio e concentrando tutte le forze che aveva nelle braccia nel fendete diretto alle costole dell’uomo.
Di nuovo il bastone si mosse più velocemente di quanto l’occhio potesse percepire, frapponendosi tra l’acciaio e la carne.
Con una rotazione del polso, la spada cadde lontana, tintinnando per terra.
Il secondo colpo servì a far volare a distanza la seconda spada, appena riestratta.
Al terzo movimento del polso grinzoso del vecchio dagli occhi duri, Nirghe si accasciò con la punta di legno affondata nello stomaco.
- Ora mi obbedirai?-
- Non eri tu l’ultimo Cavaliere rimasto? Non eravate dalla parte dei buoni, voi?-
- Io sono l’ultimo uomo legato a un drago rimasto al mondo.- ripetè l'anziano.
Il corpo di Nirghe cadde di lato, quando il bastone lo colpì sulla tempia, facendogli uscire un rivolo di sangue.

Non ti pare di aver esagerato giusto un po’?

- So che sei qui. Forza, sali anche tu.-

Come si è accorto…

Il vecchio raccolse le armi sparpagliate per terra, per poi cominciare una lenta salita verso l’esterno. Intanto i tre corpi cominciarono a levitare, risalendo anch’essi il condotto. 

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Capitolo 14
*** Capitolo 12: Quel che deve accadere ***


 Hile aprì gli occhi con una strana sensazione.
Sentiva la bocca impastata e le gambe intorpidite, non provava quella sensazione da parecchio tempo, oramai.
L’immagine terrorizzante della cella angusta in cui era stato rinchiuso da bambino affiorò nella sua mente.
La sua vista annebbiata si ripulì quel poco che bastava per permettergli di intravedere il cielo nuvoloso coperto parzialmente da una cortina di fili marroni profumati.
 Il Lupo cercò di alzare la testa per guardare di fronte a se, ma la sua fronte batté contro qualcosa.
Keria emesse un suono e spostò la testa in avanti, facendola ricadere contro il petto.
- Non ti sembra di aver esagerato un po’ con loro?- chiese una voce maschile alle spalle di Hile.
- No. Stanno abbastanza bene. Almeno questi ragazzini impareranno ad ascoltare quello che gli adulti gli dicono.- rispose la voce di Eldèro.
Dei tonfi di legno contro legno cominciarono a risuonare sul pavimento.
Il Lupo provò a girarsi verso la fonte di quel rumore.
Con la coda dell’occhio riuscì a distinguere un uomo dai capelli ingrigiti, la guancia sinistra era solcata da una profonda cicatrice, che andava a nascondersi sotto una benda di stoffa, che copriva interamente l’occhio. Da una delle due gambe del pantalone sporgeva una punta di legno, che faceva vibrare il legno del terrazzo ogni volta che impattava con il pavimento.
Una mano salda afferrò i capelli di Hile e alzò forzatamente la sua testa.
- Questo qui si è svegliato.- disse una voce fredda, femminile.
I lineamenti erano quelli di un elfo, senza ombra di dubbio.
- L’elfa dalla pelle nera, ieri sera, mi ha messo al corrente di un paio di cose. Nulla che già non conoscessi. Però mi ha spiegato che nessuno di loro si conosceva, prima dell’inizio della missione. Provengono tutti e sei da sette diverse. Secondo te questo qui con che combatte?- disse Eldèro facendo appoggio sul suo bastone ad ogni passo.
- Ha le braccia deboli. – rispose la signora dagli occhi gelidi, stringendo il bicipite del Lupo nella sua morsa – Non potrebbe alzare una spada nemmeno con entrambe le mani. Però non mi sembra portato alla magia. Potrebbe essere una sentinella, visto che non mi sembra avere l’impostazione da arciere…-
- Io ho sempre detto che i Lupi sono più deboli di noi…- disse Nirghe da qualche parte, con una voce roca.
La mano della signora si mosse così velocemente da non lasciare tempo di reazione. Uno schiaffo colpì la faccia del Gatto talmente forte da fargli voltare la testa.
- Nessuno ti ha mai detto che non si devono interrompere le persone mentre parlano?-
Nirghe ammutolì.
- Cosa volete da noi?-
Eldèro si piegò per poter guardare dritto negli occhi il Lupo con le sue iridi nerissime - Noi? Niente. Siete stati voi a venire qui, non ricordi?-
- Non avevi detto che sei l’ultimo Cavaliere?- continuò Hile indurendo lo sguardo.
Eldèro sfregò una mano sull’occhio sinistro, talmente irritato da sembrare iniettato di sangue. - L’ho detto e te lo posso ripetere, se vuoi. Io sono l’ultimo Cavaliere. Dopo di me non ce ne saranno altri.-
- E loro chi sono?-
- Degli amici.-
- Basta. Il ragazzino mi ha stancato.- disse la signora.
Qualcosa di duro colpì il capo di Hile, facendolo ricadere nelle tenebre.

Ouch… gli rimarrà il segno…

Una doccia d’acqua gelata svegliò il gruppo.
Hile riaprì gli occhi in una pozza, con i peli sintetici della casacca che grondavano.
Dei movimenti intorno a lui lo avvertirono che anche i suoi compagni si stavano riprendendo.
- Gradirei steste zitti e mi ascoltaste.- disse Eldèro soffocando sul nascere ogni contestazione.
- Sicuramente vi starete chiedendo: Perché sono qui? Cosa vuole da noi quest’uomo? Chi sono le altre persone? Cosa ci faranno? Posso continuare così per tutto il pomeriggio. Voglio cominciare a spiegarvi alcune cose. Prima fra tutte il perché vi ho svegliati adesso. Il motivo è semplice, sono arrivati tutti i miei ospiti.-
Sei persone si portarono al fianco del vecchio.
C’erano l’uomo con la benda sull’occhio e senza una gamba, l’anziana elfa che aveva tirato lo schiaffo a Nirghe, un uomo che nonostante l’età aveva conservato un colorito rossiccio nei capelli e, di fianco a lui, una donna che in gioventù doveva essere stata bellissima, un’elfa dalla carnagione mulatta e un anziano elfo di una magrezza impressionante.
- Dicevo, ora che ci siamo tutti possiamo procedere. Accada quel che deve accadere. Debra, se fossi così gentile…-
L’elfa mulatta si mise le mani nei capelli, tirandone fuori qualcosa che sembrava maledettamente appuntito. 

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Capitolo 15
*** Capitolo 13: Quanto tempo ***


L’oggetto che la donna prese pareva essere un grosso punteruolo con una capocchia dai colori sgargianti, poteva ricordare un bulbo di un fiore.
La donna si avvicinò ai ragazzi, guardandoli per qualche secondo.
Alzò il braccio scarno e lo calò velocemente in direzione della testa di Mea, che cacciò un urlo infinito.
Hile non riuscì a sostenere lo sguardo e l’unica cosa che sentiva erano i movimenti convulsi di Nirghe che cercava disperatamente di liberarsi dalle corde.
Il Lupo trattenne a stento un conato di vomito.
Mea stava ancora urlando, ma nessuno osava guardare
Stavano perdendo il loro primo compagno perché si erano fidati troppo.
- La volete tirare ancora per le lunghe?- chiese Eldèro visibilmente scocciato.
- Che vuoi che facciamo ancora, figlio di un Reis?!- urlò Nirghe con quanto fiato aveva in corpo, senza smettere di cercare di sfilare i polsi dai nodi che li legavano.
- Tu potresti smettere di dimenarti. Non vorrei mai che un esemplare come te si rovinasse…- gli rispose l’uomo dai capelli rossi. Aveva uno sguardo strano, sembrava quello di un predatore che si avvicina alla preda.
- Per favore, non spaventare così i nostri ospiti…- lo riprese Eldèro – Comunque vorrei chiederti di seguire il suo consiglio. Poi… la mezzelfa potrebbe smettere di gridare, le mie orecchie non sentiranno più bene come quarant’anni fa ma la sua voce mi da parecchio fastidio. E… Oh, per gli Dei! Ragazza, non mi interessa vedere di nuovo la zuppa di ieri sera! Cerca di tenere a freno lo stomaco! Per favore! Cercate di calmarvi un attimo!-

Che schifo!
Seila si è fatta prendere un po’ troppo dalla situazione.

Hile girò lentamente la testa verso sinistra.
I capelli castani di Keria coprivano in parte la testa di Nirghe, sulla cui guancia risaltava un grosso ematoma. Più in là, tra il capelli blu, spuntava il volto bianchissimo di Mea. La bocca si apriva e chiudeva spasmodicamente cercando aria.
Il punteruolo dell’elfa mulatta si era conficcato nel legno, a poche dita di distanza dalle gambe del Corvo.
Seila sputò ancora qualcosa e si girò verso la scena.
Eldèro aspettò ancora qualche secondo, prima di tornare a parlare. - Bene, vi siete calmati, finalmente. Ora vorrei… scusate un attimo. – Il vecchio passò due dita sull’occhio sinistro, sempre più irritato, facendo cadere per terra una goccia nera. Quando tornò ad alzare lo sguardo, dall’occhio sinistro li osservava un iride verde come l’erba di prato – Dobbiamo perfezionare la formula. Questa sono riuscita a sopportarla per quattordici ore. Comunque, se puoi continuare…-
L’elfa si chinò lentamente sul punteruolo, accarezzando il bozzolo e dicendo con una voce dolcissima - Forza, svegliati.-.
Il bozzolo parve prendere immediatamente colore all’udire quelle parole.
Ci fu un movimento, poi si schiuse come un fiore, rivelando al cielo un cuore verde, circondato da sei petali dai riflessi sgargianti.
Il pistillo si mosse a sua volta, si alzò, stirando le braccia sottili, e guardò i sei ragazzi legati con dei luccicanti occhi da fata.
Seguì un attimo di silenzio glaciale.
La fata si alzò in volo, sorretta da due ali traslucide, e prese a piroettare intorno ai ragazzi legati, emettendo un suono simile a quello delle campanelle.
- Quindi alla fine ce l’hanno fatta. - disse l’uomo senza una gamba. – Cara, ci puoi pensare tu?-
L’elfa dagli occhi di ghiaccio alzò al cielo uno spadone con una facilità sconcertante, per poi calarlo sul gruppo.
La fune venne squarciata dal singolo colpo.
Il Lupo sentì la tensione dei nodi sciogliersi, cadendo indietro contro il pavimento. Keria gli cadde sopra il petto provocando un’ondata di dolore alla tempia destra.
Jasno saltò immediatamente in piedi, tenendo le mani pallide di fronte a sé.
- Calma moccioso.- gli disse la signora mettendo via la spada.
- Ora che sono sicuro di chi voi siate, posso spiegarvi tutto. Ma, per favore, tiratevi su voi cinque e… ragazza, tieni uno straccio, pulisciti da quel vomito, per cortesia…- disse Eldèro gettando un panno all’erborista.
- Posso riavere le mie armi?- chiese il Gatto massaggiandosi i polsi scorticati dalla corda.
- In un secondo momento. Ora ascoltateci…-
- Tu sei Ardof, vero? Ardof del Fuoco.- disse Seila interrompendo l’uomo.
- Mi lasciassi finire… no. Non sono Ardof. Comunque mi aspettavo che ci arrivaste prima, visto che non ho mai provato a cambiare nome… vedo che la storia non è insegnata così bene… comunque, mi chiamarono Eldèro in presenza dei ribelli, anche se ero, come dire… indisposto? Il mio nome di nascita è Vago, penso mi conosciate, almeno per sentito dire…-
- Vago? Vago del Fato, governatore della Terra degli Eroi?- Chiese Mea.
L’uomo senza una gamba proruppe in una risata trattenuta a stento. - Scusa… continua pure…-
- Non so chi sia peggio tra voi due… Anche quel cinico di un rettile se la sta ridendo. Diciamo di si, ma non chiamatemi in quel modo. Solo Vago. Per favore.-
- Ma allora chi sono quelli con te? Siete troppi per essere… e poi tu hai giurato di essere l’ultimo cavaliere… hai mentito?- Seila era visibilmente confusa.
Lupo e Gatto si scambiarono un’occhiata più che sufficiente per intendersi.
- Posso ripeterlo sono l’ultimo Cavaliere. Dovreste saperlo anche voi. Cavaliere è la carica data a un umano che si lega completamente a un drago. Intorno a me vedo Frida, Trado e Diana… tutti e tre sono Domatori dei draghi. Permettetemi di presentarvi la oramai deposta regina Fariuna, seconda regina dei draghi, ed Erdost. Il mio amico menomato qui, invece, è, come lo avete chiamato voi, Ardof del Fuoco. Anche lui è stato un Cavaliere, ma Erdost ha subito un processo di selvaticizzazione, per poter assumere una forma antropomorfa, che ha intaccato il legame con il suo compagno di volo. In sunto, io sono l’unico Cavaliere dei draghi qui presente. Toh, guarda, ho anche fatto le presentazioni.-

Non è cambiato di una virgola nel carattere…
E voi, perché vi sorprendete? Secondo voi, perché non sarei intervenuto, prima?
E poi dai, hanno usato gli stessi nomi dell’altra volta. Sono sicuro che in qualche redatto il buon vecchio Drake li avesse menzionati.

- Ma… - Hile aveva due dubbi che lo attanagliavano – I vostri draghi… dove sono? E, Ardof del… come ha fatto a farsi… quello?-
- Con tutte le cose che potresti chiedere a delle leggende viventi, questo è tutto quel che sai dire?- chiese Trado, forse con una nota di scocciatura nella voce.
- A parte Erdost, gli altri ci stanno attendendo alla base di quest’albero. Per quanto riguarda il mio corpo… diciamo che abbiamo scoperto che la nostra riserva di mana non è infinita nel modo peggiore. Ma infondo io dovevo una gamba ai lupi da quando ero ragazzo, quindi siamo pari, io e loro, ora.-

Non ci avete capito nulla, vero?
Beh, per quello che riguarda la sua gamba non so dirvi molto, in fondo da quando la mia missione è finita non ho avuto quasi più nulla a che fare con loro.
Per quanto riguarda la magia… avete presente il mio discorso di prima sul mana nelle cose e bla bla bla? Bene, loro sono vissuti così tanto a lungo e hanno fatto così tanto uso di mana da esaurire completamente la riserva che assorbirono durante il Cambiamento. Ora probabilmente la maggior parte di loro non riuscirebbe a far levitare una scarpa. Eccetto Vago, lui può ancora stendere le persone.

- Ed ora cosa dovremmo fare? – chiese Nirghe – ci dovreste… addestrare?-
- La nostra idea all’inizio era quella… - gli rispose Frida, senza perdere il suo sguardo duro – Ma con il passare del tempo i nostri corpi hanno perso buona parte della loro forza. Solo quel maledetto Vago ha mantenuto dei buoni riflessi. La prossima volta voglio essere io a resuscitare per volere degli dei, altro che un paio di ali.-
- Quindi noi…- chiese Keria comparendo da dietro la schiena di Hile, dove si era rifugiata dall’inizio di quel confronto di generazioni.
- Aspettate.-
- Aspettare! Aspettare? Abbiamo fatto un viaggio impossibile per arrivare fin qui!- Sbottò Nirghe.
- Se i miei conti sono giusti finirete di aspettare tra… tre, due… uno.-
La realtà si ruppe come uno specchio colpito da una pietra, lasciando spazio a un ambiente bianco come il latte.
- Zero.-
- Ammettilo. Hai tirato a caso i numeri, questa volta.- lo rimbeccò Ardof, spostando il peso del corpo sulla gamba rimasta.
- Chi lo sa…-
- Cos’è questo posto?- chiese allarmato Nirghe guardandosi intorno.
- Non saprei cosa dirti… - gli rispose Trado, massaggiandosi distrattamente il collo asciutto – Vedi, è come un anticamera per il Parco delle Anime, per il giardino che ospita coloro che sono morti…-
L’ambiente fu illuminato da un lampo.
Quattro imponenti figure si mossero là dove pochi secondi prima non c’era nulla.
- Mi stavo chiedendo tra quanto sareste arrivati…- disse Vago accarezzando il muso di un drago nero, talmente grande che la sua sola coda poteva essere lunga quanto l’intero busto del drago grigio che li aveva accolti.
- Ma scusa…-

Oh, no…
Quell’imbecille di un’elfa bionda ha di nuovo aperto bocca.
Comincio a non sopportarla.
Vediamo che domanda insulsa ha sulla lingua.

- Dimmi.- gli rispose il Cavaliere.
- Non era quello grigio il tuo drago?-

Anni di lavoro che sono entrati nella storia e questa piccola inutile ragazzina riesce a non ricordarsi una cosa base come l’accoppiamento nome del cavaliere-nome del drago-colore del drago.
Sono spiazzato.
Perché? Perché tra le centinaia di persone avete scelto proprio lei? Bella l’idea di farli allenare come assassini, avete attirato la mia attenzione, ma… lei? Avrà si e no il quoziente intellettivo di un mattone.
Forse.

- Non sapete nulla di quello che è successo durante la Guerra degli Elementi?- chiese secca Frida.
- Devi scusarla. - le rispose la mezzelfa, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio a punta – In realtà noi tutti dovremmo saperlo. Correggetemi se sbaglio. Il drago grigio, o meglio, argento, è Vanenir. Primo cucciolo della regina Fariuna nonché drago di Diana la Leggiadra. Vero? Quello nero invece è Defost, legato a…-
- Direi che noi, tutto questo, lo sappiamo già. Non abbiamo bisogno di un ripasso. Grazie.- la interruppe Vago allontanandosi dal suo compagno.
- Io avrei ancora una domanda… seria.- disse Hile.
- Dimmi.- gli rispose Ardof.
- Questo è una specie di limbo, no? Noi cosa ci facciamo esattamente, qui? Noi vi abbiamo cercato perché pensavamo ci avreste addestrati o cose del genere, però, visto che non siete più in grado di farlo, noi cosa stiamo aspettando?-
- Una guida. Vedi, noi siamo passati di qui l’ultima volta che… che siamo morti, e l’unica maniera per trovare la strada per la Volta è avere una guida. I nostri draghi sono arrivati, quindi non dovrebbe mancare molto… Una volta che saremo arrivati al cospetto degli dei, saprete cosa vi aspetta.-
Un altro bagliore illuminò gli anziani volti.
Per terra giacevano quattro oggetti singolari.
- Quelle sono le armi degli dei, vero?- chiese Keria sporgendosi per vederle meglio, ma non osò fare un passo avanti.
- Sì, sono loro. Ora dovremmo essere al completo.- le rispose Vago, chinandosi lentamente per prendere da terra un libraccio dalla rilegatura nera.
L’aria fu pervasa da un tintinnio e una farfalla luminosa si avvicinò al gruppo.

No, purtroppo per voi non sarò io la guida, a questo giro.

Hile non capì cosa successe. In un attimo al posto della farfalla comparve un uomo dal volto pallido e dagli occhi rossi. Addosso portava un’armatura splendente con strani segni incisi sopra, molto simili a quelli che Mea aveva tracciato sui suoi fogli.
- Vedo che l’armatura è tornata a te.- disse Ardof spostando avanti il pezzo di legno che aveva sostituito la sua gamba.
- Questo è quel che ha voluto il nostro signore.-
- Servitore, dimmi… non è che potresti fare qualcosa per la mia gamba? Visto che questo sarà il mio ultimo incontro con gli dei, vorrei non presentarmi in queste condizioni.-
Il servitore mosse appena la mano in direzione del Cavaliere.
Il legno prese fuoco, così come la stoffa che lo copriva. Le fiamme sembrarono addensarsi, prendere forma, fino a diventare qualcosa di molto simile a una gamba.
- Grazie mille. L’avrei fatto io, ma… non mi è rimasta molta magia, dentro...-
- Prego, seguitemi.-

Vedo che il suo carattere non è migliorato dall’ultima volta che ci siamo visti. Se non fosse uno dei servitori degli dei, ci penserei io a fargli abbassare la cresta.

Il servitore si incamminò veloce in una direzione nota solo a lui. I suoi passi erano sicuri sul pavimento lattescente e indistinto.
In lontananza, forse, si poteva distinguere un puntino grigio ed etereo.

Il paesaggio mutò improvvisamente. La monotonia candida lasciò il passo a un paradiso verdeggiante.
Sotto un sole estivo le colline coperte dai boschi sembravano risplendere come pietre preziose, l’erba ondeggiava al passaggio di un venticello brioso.
Tra i tronchi più vicini sembrò esserci del movimento, ma fu solo il passaggio di un’ombra.
Il servitore si fermò di fronte alla Volta degli Dei.
Solo un arco bianco, simile a un viticcio pietrificato, rimaneva a separarli dal tavolo a cui erano sedute sei entità.
Il servitore del fuoco non fece più un passo avanti, si inchinò e scomparve come una fiamma che muore, portando con sé l’armatura.
- Quindi l’avevi vista giusta…- sussurrò Vago ad Ardof. – Non credo rivedremo… le nostre armature. –
I Cavalieri si fecero avanti, attraversando l’arco e avvicinandosi a quelle entità così pregne di potere da rendere l’aria pesante.
Hile non riuscì a fare un passo. Sentiva le membra pesanti, come se degli enormi ceppi gli fossero stati improvvisamente legati ai polsi e alle caviglie. L’aria, se era davvero aria quella che stava respirando, entrava a fatica nei suoi polmoni e altrettanto faticosamente ne usciva.
Dal suo seggio si alzò una donna dagli occhi azzurri come il ghiaccio e dai capelli che, nati sulla nuca come da una risorgiva, le cadevano sulle spalle, andando a fondersi con l’abito limpido. – Avete adempiuto bene al vostro ultimo compito. – disse con voce cristallina – Avete permesso a questi ragazzi di raggiungere i nostri templi, cosicché potessero anche loro essere ammessi nella Volta. Siete stati preziosi. Come avrete capito, le vostre anime hanno raggiunto il loro limite e un’ulteriore permanenza nel creato vi nuocerebbe. Vi siete meritati il riposo a cui andrete incontro. –
- Quindi non usciremo più dal Giardino delle Anime, dopo questa conversazione. – Disse Ardof, guardando negli occhi la dea dell’acqua.
- No. – gli rispose Fuoco dal suo seggio.
- Capisco… è stato un onore, per tutti noi servirvi ed essere vostri templi. – Disse ancora il vecchio senza la gamba.
Le armi elementari che fino ad allora non avevano dato segni di energia si misero a brillare di una luce simile a quella del sole, fiondandosi verso le mani tese dei rispettivi proprietari.
- Voi potete andare. Il vostro compito è concluso… -
- Solo un attimo… - disse veloce Vago facendo un passo avanti. – Scusate la curiosità, ma anche in punto di morte non posso farne a meno. Devo chiedervi, perché ci hanno dovuto raggiungere? Perché noi siamo stati così importanti in questo piano divino? –
- Ancora non mi dispiaccio della mia scelta. – disse un uomo dalla pelle olivastra dal seggio posto a capotavola. – Un tempio è un luogo in cui riposa una parte dell’essenza di un dio, attraverso di esso si può accedere alla volta e raggiungere il potere più intrinseco di un elemento. Più templi un dio ha, più la sua anima è frammentata e il suo dominio debole e, anche nel caso in cui un tempio venga distrutto, il dio in questione ha bisogno di molto tempo per ristabilire la sua essenza. Non potevamo scegliere nuovi templi, se non volevamo perdere parte della nostra energia, già divisa. Abbiamo quindi optato per lasciare la scelta di sei nuovi candidati ai nostri figli, permettendogli di raggiungerci attraverso di voi. –
- Grazie per il chiarimento. Ora posso morire in pace… Vedo che in questi sessant’anni hai cambiato la forma umana in cui ti manifesti, Fato. –
I corpi dei Cavalieri e dei draghi caddero rovinosamente al suolo, lasciando sospesa in aria una nebbia soffusa e densa.
Le nebbie cominciarono a condensarsi, quelle che volteggiavano sopra ai corpi dei draghi presero la forma di piccoli rettili alati non molto dissimili da quello che furono in vita, fatta eccezione per le dimensioni, quelle che presero il posto dei Cavalieri assunsero invece una forma più antropomorfa. I lineamenti del volto non erano ben definiti, ma parevano essere quelli di uomini ancora nel pieno delle loro forze. Alle spalle di tre di loro si apriva un paio di grosse ali.
- Potete andare. I vostri compiti sono finiti.-
Il gruppo si girò, oltrepassando nuovamente l’arco e dirigendosi in direzione del bosco vicino.
Le tre figure dalle ali splendenti, accompagnate da una quarta, si fermarono vicino agli assassini.
- Purtroppo noi non abbiamo potuto far nulla. Vi chiedo, se mai incontrerete i nostri figli, di dirgli che gli vogliamo ancora bene, e raccontargli quel che avete visto. – disse un’entità con voce eterea.
- Lo faremo. – disse Keria senza esitare.
Le quattro figure raggiunsero i draghi, che precedevano il loro passo sull’erba verdeggiante.
La quinta figura rimase indietro, ammirando il paesaggio intorno con un’espressione indecifrabile dietro gli occhi che parevano due pietre preziose incastonate in quel volto bianco senza né naso, né bocca. Un volto liscio e perfetto, da cui nasceva una chioma di corti capelli neri come la pece.
La figura si avvicinò a passo lento, forse svogliato. – Tranquilli, non ho lasciato prole da salutare, io. – disse baldanzoso con una voce che sembrava quella di un ragazzino. – Voglio solo darvi due dritte. Nella stanza in cui vi ho stesi, sulla scrivania, troverete una mappa delle terre, sopra sono segnate le vecchie capitali dei regni appena nati e la nostra posizione con delle specie di macchie gialle. Tolto quello è un’ottima cartina, vi consiglio di portarvela dietro. Penso che questo possa essere tutto ciò che ho da dirvi. Buon viaggio. –
Fatto qualche passo l’entità dal viso bianco e gli occhi lucenti parve sussurrare un “Grazie anche a te” all’aria, ma Hile non riuscì a cogliere bene le parole, oppresso com’era da quella forza che lo teneva immobile.

Quell’idiota. Ringraziarmi così, davanti a tutti.
Se avessi voluto essere avvertito da qualcuno, mi sarei messo un cartello al collo con su scritto qualcosa tipo: Incredibile Musa, qui, oggi, solo per voi!
O comunque qualcosa di simile.
Dopo gliene vado a dire quattro.

L’entità scomparve nella selva rigogliosa.

- Ora, per quanto riguarda voi. – disse il Fato voltando lo sguardo verso i ragazzi immobili.
Hile si sentì crollare quando quella forza incredibile scomparve così com’era apparsa.
- Non è più compito mio istruirvi. Il tempo del mio tempio è finito.–
- Grazie Fato, ora è il mio turno. – disse un’entità girando intorno al tavolo per portarsi davanti ai giovani assassini. La figura era quella di una donna, ma nessuno l’avrebbe mai scambiata per una mortale: la bellezza era troppo accecante, la voce troppo melodiosa. – Permettetemi di spiegarvi perché siete giunti fin qui. Come prima ha detto il Fato, la scelta dei nuovi templi è ricaduta sui sei dei minori, miei fratelli. Voi siete stati scelti, ma un abisso vi separa dai primi templi. Gli dei minori non possono accedere al Libro del Fato, per cui non possono essere sicuri che la loro scelta sia ricaduta sulla persona giusta. Per ottenere la fiducia del vostro dio e il potere che vi è stato riservato, quindi, dovrete raggiungere la vostra meta e superare la prova creata per voi. Questo è quanto dovete sapere. –
I corpi senza vita dei quattro Cavalieri, assieme a quello di Fariuna, scomparvero in un baleno bianco. I restanti cadaveri si dissolsero in cenere.
- Terra, serve un sesto riferimento.- disse Fuoco.
Il dio delle vette, senza mostrare indecisione o altre emozioni, ruppe il suo avambraccio sinistro, che scomparve quasi immediatamente avvolto da un fascio di luce.
- Quel che dovevo dire, l’ho detto. – proseguì la donna – Ora partite, poiché il tempo avanza inesorabile.–
La volta si fece indistinta, come il riflesso delle nubi sulle placide acque di un laghetto quando un sasso ne increspa la superficie. L’alta volta bianca divenne verde e azzurra, il pavimento lattescente si fece legnoso.
La realtà riprese il suo posto nel mondo, trascinando a sé i sei assassini ammutoliti.
Furono interminabili i secondi di silenzio.
- La mappa… - riuscì a dire Mea. – Eldèro… Vago, ha detto di andarla a prendere. Credo serva per rintracciare i riferimenti… -
Hile si alzò meccanicamente e ridiscese in silenzio per il tronco di quell’enorme albero accompagnato dall’asettica luce del globo magico.

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Capitolo 16
*** Capitolo 13.5: Capitolo inesistente ***


 Adesso mi senti, ragazzino troppo cresciuto.
Non pensare di potermi scappare. Non ti ho lasciato il tempo per nasconderti.
Ora mi senti…

- Quindi mi hai seguito. –

Cosa?
Mi ha trovato lui?
Questo non dovrebbe essere possibile. Nessun mortale, vivo o morto che sia dovrebbe avvertirmi, figuriamoci individuarmi.

- Credo di sapere a cosa stai pensando. Non dovrei essere in grado di percepirti, vero? In effetti, per buona parte della mia vita non ho avvertito nulla di te. Credo sia stata la mia resurrezione, l’ampliamento della mia riserva di mana non deve essere stato l’unico effetto secondario. So che sei qui, però potresti… palesarti? –

Non so se una nuvola di vapore possa dirlo, ma vedere quel volto senza orifizi parlare è leggermente inquietante.
In ogni caso non ha più senso questa forma.

Un grosso corvo dal becco nero si materializzò tra gli alberi, di fronte all’entità dal volto pallido.
- Dunque è questa la tua vera forma?-

- No. Io non ho una vera forma. Diciamo che questa è quella che preferisco.-

Il corvo si lisciò le piume della coda, mettendo in risalto quell’unica penna argentata.

Non guardatemi male. Vado fiero di quella piuma.
- Sono venuto fino a qui perché sei stato un irresponsabile. C’è un motivo se non mi mostro al mondo. Non hai il diritto di intralciare il mio lavoro. –

- Ed io ti ho ringraziato in pubblico perché volevo che venissi fin qui. E poi, non ti scaldare, quei ragazzini praticamente rantolavano, non mi hanno nemmeno sentito. –

- Non sta a te decidere se ti hanno sentito o no. Ora, perché mi volevi qui? –

- Volevo ringraziarti. Immagino sia stato tu a chiamarmi alla battaglia, quel giorno nella capitale dei folletti, attraverso la pedina del re. Come, immagino, sia arrivata da te quell’ultima scarica di energia, mentre cercavo di riportare in vita i miei compagni sui Monti Muraglia. E ancora mille altre volte, però solo una volta che tutto fu finito riuscii a riassemblare i pezzi e capire. Ma da te vorrei sapere ancora una cosa. Chi sei? Sei un essere che trascende la Natura, cambi forma a piacimento, salti avanti e indietro dalla realtà alla volta… chi sei?-

- Sono conosciuto con molti nomi… - da quanto tempo speravo di avere l’occasione per dirlo! – Il Viandante è uno di questi. Ma il mio nome, il mio vero nome, quello che mi fu dato dal Fato all’origine della mia razza, è Commedia. Sono l’ultima musa rimasta.-
Va bene vantarsi, ma non diciamogli di lei…

- Una musa… non ci sarei mai arrivato. Sono stati gli dei a mandarti per proteggerci?-

Ma si, diciamoglielo. Tanto oramai è morto.
- Mettiamo le cose in chiaro. Non mi è mai stato ordinato di proteggervi. Mai. Tutto quel che ho fatto è stata una mia decisione. E poi gli dei usano i loro servitori… quasi sempre. No… mettiamola così: così come tu mi hai fatto venire qui, qualcuno ha fatto sì che uno di voi prendesse il comando di quella pietraia che chiamavate Terra degli Eroi. –

- Dunque c’è qualcuno, sulle Terre, che ha così tanto potere da poterti comandare?-

- Ora basta. Sono venuto qui, mi hai ringraziato, ti ho spiegato chi sono. Ma ci sono cose di cui non devo parlare, nemmeno a uno spirito. Quindi ricongiungiti ai tuoi compagni e dimenticati di me. Questa è stata la prima e sarà l’ultima volta in cui noi ci incontreremo. Addio, Vago. –
Che persona fastidiosa.

Il corvo parve evaporare in una nube di gas nero, che si disperse nell’aria senza lasciare traccia di sé.
- Allora… grazie ancora. Addio, Commedia. –

Fastidioso fino alla fine.
Addio, Vago Tocsin.

Ma ora basta! Devo tornare sul quel dannatissimo continente prima di perdermi quei bambocci maledetti! 

 

Note dell'autore:

Oltre a scusarmi ancora per l'inconveniente dei due capitoli mancanti, ho una brutta notizia da darvi. Ma no, dai, mettete via quei fazzoletti che ancora non ho detto nulla.

La brutta notizia è questa: non riesco a mantenere il ritmo di due capitoli alla settimana perchè ho preso quella brutta malattia del blocco dello scrittore. Con tutto questo cosa voglio dire? Che pubblicherò solo il venerdì, in modo da evitare di produrre capitoli brutti o quant'altro.

Buona lettura a tutti.

Vago

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Capitolo 17
*** Capitolo 14: Un messaggio d'aiuto ***


 Il Lupo raggiunse nuovamente la porta nascosta nel muro, fuoriuscendo da quell’oscurità che avvolgeva l’interno del tronco.
Dovette coprirsi gli occhi quando i pochi raggi del sole che filtravano attraverso le frasche gli toccarono il viso.
In mano teneva stretta la mappa arrotolata che Vago gli aveva indicato. Era rimasta là sotto, su quella scrivania, per così tanto tempo da essere totalmente ricoperta dalla polvere che aveva assunto una tonalità grigia quasi uniforme.
- Posso vederla? – chiese la mezzelfa porgendo la mano.
- Perché dovresti vederla tu per prima? – chiese seccata Seila.
- Se vuoi vederla prima tu… devi solo riconoscere l’incantesimo che c’è sopra e scoprire se indica ancora i corpi degli eroi anche dopo la loro morte. –
L’elfa bionda non rispose nulla.
- Allora. – riprese Mea tornando a porgere la mano sottile. – Vediamo cosa dobbiamo fare adesso. –
Una massa pesante si levò in aria per poi posarsi a terra quando la maga srotolò la mappa con un’attenzione quasi reverenziale.
- Bene. L’incantesimo è ancora attivo. Gli dei probabilmente volevano che avessimo questa mappa. Venite a vedere. Queste devono essere le macchie di cui parlava Vago… cinque, sei, sette… no, quella deve essere una macchia di muffa. Ci sono sei macchie sparse per il continente. –
- Questo lo potevo scoprire anch’io… - azzardò il Serpente, ammutolendo quando incrociò lo sguardo freddo del Corvo.
- Hai detto bene… sono tutti e sei sul continente. – disse Keria avvicinandosi. – Ma, noi, come ci torniamo?-
- Mea avrà di sicuro una soluzione… vero? – chiese Nirghe con una nota di preoccupazione nella voce.
- Un modo per tornare sulle Terre lo troveremo. Per adesso concentratevi sulla mappa. – li riprese la mezzelfa spostando dietro un orecchio a punta una ciocca che le era scivolata davanti agli occhi. – Le macchie. Guardatele. Sono parecchio distanti l’una dall’altra. Ce ne sono quattro sul lato occidentale dei Muraglia: una in mezzo alla Grande Vivente, una nel Bosco Nero, una dove un tempo sorgeva la Rocca del Re e una poco sopra il Passo del Messaggero, qui, non molto a sud del Flentu Gar. E poi ci sono queste due sul lato orientale, una su queste colline che guardano sulla Piana Infinita, l’altra lungo il ramo principale del Serat. –
- E con questo? Sono sei. E sono lontane. – disse scocciata Seila allontanandosi dal gruppo e dalla cartina per sporgersi dal parapetto per raggiungere il terreno lontano con lo sguardo.
- Tu hai minimamente ascoltato quello che ci è stato detto? – le urlò dietro Nirghe, irato.
- Certo che ho ascoltato… - disse immusonita l’elfa dalla pelle scura ritornando sui suoi passi.
- Allora le loro parole ti sono passate nella tua testa vuota senza lasciare nulla. – continuò il Gatto. – Ci hanno detto che non abbiamo molto tempo, e ora abbiamo visto che sono distanti l’una dall’altra. Ti sei minimamente chiesta il perché dieto la scelta di questi luoghi? Ci hai anche solo pensato? –
- Nirghe, dai, basta così. Credo abbia capito. – provò a dire Hile, cercando di raffreddare la situazione bollente.
- Lasciami finire. Sono sei luoghi. Noi siamo in sei, secondo te è un caso? Secondo te, Seila, gli dei avrebbero mai predisposto una prova unica per tutti noi al fine di valutare i singoli? –
- No, ma… -
- Ma niente. È ovvio che dovremo dividerci, prima o poi. Per questo era così importante quello che ha detto Mea, ma tu non sei capace ad ascoltare. Ora vieni qui, che non abbiamo finito. –
Il Lupo non poté che dare completa ragione allo spadaccino, sentendosi, però, nel profondo, leggermente dispiaciuto per l’erborista.
- Grazie Nirghe. – riprese Mea. – Detto questo, rimane un problema. Non abbiamo un mezzo per ritornare sulle Terre… quanto ci ha messo Réalta per raggiungere questo contenente? Qualcuno se lo ricorda?-
- Quasi quattro giorni. Però dovevano portare anche il nostro peso.- Le rispose Jasno.
- E noi… dovremmo essere a cinque, sei giorni di marcia dal mare. Dieci giorni verso quei monti, quattordici percorsi in diagonale per arrivare fino a qui… - proseguì la mezzelfa. – Io posso provare a mandare un messaggio con la nostra posizione a Réalta, ma non posso garantirvi che funzionerà o che saprà leggerlo. Comunque, per il momento, dobbiamo raggiungere una spiaggia, in modo da essere ben visibili. –

Sono tornato giusto in tempo.
Avevo già previsto problemi per il ritorno, ma in qualche modo farò. Ripeto: ora sono responsabile di questi mocciosi e non voglio un aumento della pena perché sono rimasti bloccati da qualche parte. Dovessi anche portarmeli sulla schiena mentre nuoto a stile libero.

Hile si sedette sui talloni. Era preoccupato per qualcosa, un’idea vaga gli attanagliava la mente senza lasciarsi catturare.
- Forza, andiamo. – disse Nirghe dal lato opposto della terrazza. – qui c’è una scala di corda. Credo sia abbastanza lunga da raggiungere il terreno. –
E poi c’era il problema di Seila. Continuò a rimuginare il Lupo alzandosi in piedi. Era un peso. Si era rivelata utile solo su quella barca, quando Mea svenne. Per il resto aveva seguito il gruppo come una figura immateriale, senza lasciare nulla di sé alle sue spalle.
Il lanciatore di coltelli scosse il capo e si avvicinò alla scaletta ondeggiante che scendeva inesorabile verso il lontano terreno.
- Nirghe, Keria. Questa sera dovrei parlarvi un attimo. Volevo solo avvertirvi. – ne avrebbero discusso insieme, si disse. Quella era la soluzione migliore.

Le tenebre calarono sulla foresta dense e fredde.
In un battibaleno Mea accese un fuoco che scoppiettava vivacemente e ricostruì le due cupole di ghiaccio che ospitavano le loro notti.
Hile si guardò di fianco, tra le ombre, la sagoma femminile sembrava guardarlo, immobile come il primo giorno in cui la vide.
- Speriamo che vada tutto bene. – Bofonchiò.
La figura parve alzare le spalle e piegare leggermente la testa di lato, per poi mescolarsi alle forme che la fiamma creava sul terreno non appena due serie di passi si avvicinarono.
- Cosa c’è di così importante? L’ultima volta avevi trovato una stanza segreta… - chiese il Gatto.
- Niente di così incredibile questa volta… solo, allontaniamoci un po’.-
Solo dopo alcuni secondi in cui l’unico suono che si udì fu lo scricchiolare delle foglie sotto le suole, Hile si decise a riprendere il discorso.
- Vi ho chiesto di venire qui perché ho un dubbio. Voi, cosa ne pensate di Seila? Davvero, non sto scherzando, la mia è una domanda seria. –
- Di Seila? lei è… - cominciò Keria, ma le sue parole si persero nel vento quando alzò lo sguardo per mettere insieme i pensieri.
- Quello che mi preoccupa è che possa farsi male o possa mettere in pericolo noi. – continuò il Lupo. – Pensateci. Finora si è rivelata veramente utile solo una volta, e sono passati mesi da quando siamo partiti. –
- Lupastro, sarei d’accordo con te, per questa volta. Ma non possiamo scaricarla da qualche parte come se nulla fosse. Quanto meno dobbiamo vedere se supererà o meno la prova che le proporranno gli dei. –
Keria continuò a pensare in silenzio, spostando di tanto in tanto lo sguardo tra i compagni che le stavano davanti e il gruppo raccolto intorno al fuoco alle sue spalle. – Dai, torniamo dagli altri. E per ora non preoccuparti. – disse infine. – Avremo tempo più avanti per questi problemi. –

Oh! Menomale. Almeno una che abbia un po’ di buon senso.
E questa volta mi metto anch’io nel mucchio. So che non dovrei, ma spero ardentemente che l’erborista non passi quella dannata prova. Ho già troppi problemi per conto mio, non sento il bisogno delle sue uscite geniali.


Dopo una settimana di cammino, finalmente, riuscirono ad uscire da quella boscaglia che nascondeva il sole alla terra.
L’odore del mare, della salsedine li colpì in pieno volto trascinato da una brezza fresca. Pochi metri di terra e sabbia li dividevano dalla distesa azzurra e scintillante. A est, da qualche parte, c’erano le Terre, Gerala, i Monti Muraglia e la sede della setta.
Il sole al suo culmine rischiarò il viso del gruppo e Jasno fu costretto a calarsi ulteriormente il largo cappuccio sul viso per non essere toccato da quel calore rilassante.
- Non so se Réalta tornerà… - cominciò piano Mea. – Io proverò a mandargli un messaggio, ma ci sarà bisogno di un mago dall’altra parte che lo sappia leggere. –
- Tanto siamo qui. – disse Nirghe. - Più che aspettare non ci rimane molto da fare.-
La maga stese davanti a sé un foglio e, intinta la penna nel calamo appena uscito dalla sua tracolla, tracciò glifi sinuosi lungo tutta la superficie giallastra. Non appena ebbe finito, il foglio parve arroventarsi, prendendo fuoco e scomparendo senza lasciare nemmeno la cenere alle sue spalle.
- Speriamo che lo sappiano riconoscere… comunque, se tra cinque giorni ancora non vedremo nessuno, dovremo trovare un altro modo per lasciare questo posto.- borbottò la mezzelfa.

Dopo quello che vi dirò ora, non smetterete più di ridere. Non ci credete? Bene, allora ascoltatemi.
L’incantesimo che ha lanciato era abbastanza a posto. Niente di esaltante, ma non sbagliato. Il succo era semplicemente di recapitare il messaggio scritto sul foglio a Réalta.
Certo.
Trovato il problema? No? Facciamo così, vi dico per filo e segno cosa ha scritto.
Fa sì che questo messaggio venga recapitato a Réalta.
Questo ripetuto per tutto il bordo pagina, intorno al messaggio vero e proprio.
Ancora non avete trovato l’errore?
Non state a dire "Ma io l’ho trovato", tanto non vi sento. In ogni caso, ecco la soluzione al vostro dilemma.
Il Réalta. Quell’unica parola. Proprio perché è unica.
Ora vi spiego. Finché la magia proveniva dal mana contenuto nel tuo corpo non c’erano grossi problemi con gli incantesimi. Bene o male il mana si mescolava alla coscienza del mago e ne veniva influenzata. Ora la storia è diversa, il mana viene prelevato dall’ambiente. Praticamente è come a chiedere a uno sconosciuto di fare qualcosa per te.
Dove voglio arrivare con tutto ciò e perché mi sto dilungando tanto?
Il mana utilizzato non aveva assolutamente idea di che Réalta stesse parlando. Né un re davanti, né un riferimento alla specie. Niente chiarimenti.
Probabilmente quel messaggio è stato recapitato a un contadinotto nella Grande Vivente che per tutta la sua vita vedrà una foschia viola seguirlo senza sapere che lì dentro c’è un messaggio. Réalta mi sa di dialetto elfico, devono averlo preso da lì la regina Jaery e il suo consorte, quel nome.
Vedrò di metterci una toppa io. Altrimenti questi mi rimangono imprigionati per l'eternità su questa costa.

Hile guardò il cielo. Le poche nuvole che si sovrapponevano all’azzurro viaggiavano veloci verso nord.
Il Lupo si chiese se avrebbe mai rivisto le sgargianti squame di un drago, ora che il loro contatto con Réalta era un messaggio d’aiuto affidato alla magia. 


Note dell'autore:

Ho appena notato che mi sono saltato due interi capitoli (per la precisione il 13 e il 13.5). Vi devo chiedere perdono.

Per scusarmi li caricherò entrambi oggi, quindi se tornerete indietro li troverete e, probabilmente, ci capirete qualcosa in più.

Scusatemi ancora tutti.

Vago

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Capitolo 18
*** Capitolo 14.5: Il re e il messaggio ***


 Questo è già il terzo capitolo in cui io mi sbatto da solo per quei ragazzini maledetti.
Sono diventato importante ai fini della storia, starete pensando.
No. Per niente. Sono semplicemente stato coinvolto in questa pazzia. Non era mai successo che Loro mi chiedessero di intromettermi così tanto. Qualche morte su commissione, voti truccati, ma nulla di più.
Questa cosa mi preoccupa non poco, devono aver paura di qualcosa se mi spingono a fare tanto.

Ma l’aria tra le piume riesce a scacciare ogni tensione da questo corpo. È questo il corpo che sceglierei, se perdessi la mia capacità di mutare.
Il mio riflesso scuro che scivola veloce sulle increspature del mare, mentre i venti fanno vibrare ogni piuma che riveste queste carni.

In questo momento nemmeno una freccia lanciata da una balestra potrebbe superarmi in velocità. Non ho il tempo di godermi questi minuti di libertà da ogni vincolo. Quei ragazzini lasceranno la spiaggia tra cinque giorni e non ho nessun modo per accelerare il volo di Réalta. Ho meno di un giorno per raggiungere El Terano e convincere il re a dare uno strappo a quei marmocchi fino alle Terre.
Forse, a ben pensarci, avrei fatto prima a ritrovare il relitto di quella bagnarola e trascinarlo fino a loro…

Se solo conoscessi meglio il nuovo reggente dei draghi mi si semplificherebbe il lavoro. Con Fariuna era stato facile, l’avevo conosciuta durante la mia prima visita con i diplomatici all’isola dei draghi, certo, non avrei mai immaginato che quella servitrice avrebbe mai potuto sedere sul trono di El Terano.
Ma si, di cosa mi preoccupo? Un po’ di effetti speciale e chiunque si lascia convincere. È sempre stato così, in fondo.

Guardala là, l’isola dei draghi…
Che schifo.
No, seriamente, che schifo. È uno scoglio mal cresciuto, una fornace di fango e roccia. Uno schifo.
Ora non devo fare altro che trovare Réalta…
Spero solo sia nella sala del trono, non ho voglia di mettermi a scartabellare nella Trama del Reale per cercarlo.
Si, certo. Un corvo che si butta nelle fauci di un vulcano passa sicuramente inosservato… forza, torniamo fumo e finiamo questo maledetto lavoro.

E ti pareva? Ovviamente la sala del trono è vuota. Mai una volta che il Fato mi sorrida.
Non ho tempo da perdere, prima lo trovo, prima posso uscire da quella melma che è la trama.
Vediamo… Réalta è… allora. Non è lui quello, quella coppia di draghi lasciamola da sola… vediamo se nelle latrine… no. Dove altro posso controllare?
Ah! La testa! Perché diavolo la Trama del Reale deve essere così opprimente?
Ma certo! Quella maledetta sauna bollente! Perché non ci ho pensato prima?
Eh… eccolo. Beccato!
Ora devo solo convincerlo… Facile, no?

Potrei stare dentro questa stanza per le eternità… è meravigliosa questa sensazione di tranquillità.
Ma bando alle ciance!
Vediamo… solita roba? Magari un esserino di luce, ma non una fata, altrimenti sarà un casino spiegare a quel re che sono un messaggero magico e non una mosca intelligente.
Dicevamo… ah, si. Altezza, cinque dita. Due braccia, due gambe, una coda fa sempre piacere… certo che se potessi prendere le sembianze di un drago in versione tascabile sarebbe meglio…
Lasciate perdere l’ultima parte, ve lo spiegherò più avanti cosa significa, promesso.
Una piacevole, e visibile, aurea rossa tutto intorno, due grandi occhioni che fanno pena… dovrei aver fatto tutto. Bene.

- Sto cercando il grande re dei draghi Réalta. – la vocina acuta fa sempre un certo effetto.

- Chi mi cerca?! –

Stai calmo, amico. Sembra che tu abbia visto un fantasma.
- Sono un messaggero mandato dal gruppo di assassini. I miei padroni sono sulle coste del continente a occidente delle Terre. –

- Cosa vogliono?-

Non sei particolarmente bendisposto verso gli altri, vero?
- Chiedono il vostro aiuto. La loro missione ha avuto successo, per lo meno fino ad ora, e per proseguire il loro compito necessitano di tornare sulle Terre. Inoltre… -
Pausa ad effetto che ci sta sempre bene.

- Inoltre cosa? –

Ha abboccato come un pesce.
- Inoltre mi hanno incaricato di portarle i saluti più sentiti e gli auguri della deposta regina Fariuna e del consorte Erdost. –
Boom, mettiamola sul personale. Se ora ha ancora il coraggio di rifiutare il suo aiuto a quei ragazzini, i draghi sono proprio messi male in fatto di governo.
Tra l’altro la sua arte oratoria finora si è fermata a domande quasi monosillabiche.

- Messaggero, ritorna dai tuoi padroni e digli che avranno ancora una volta il mio aiuto. –

“Digli che avranno ancora una volta il mio aiuto gne gne gne”. Non ti sembra di esagerare un pochino? La prima volta hai avuto bisogno delle pagine di un diario per farti convincere,  ora hai cambiato idea solo dopo aver “sentito” i tuoi nonni.
Ricordati che il tuo ruolo al momento si ferma a mulo da trasporto dei cieli, non crederti così importante.
- Si, re Réalta, signore dei draghi, vado a riferire il suo messaggio.-
Quanto detesto i regnanti di questo tipo. Non li sopporto.
Comunque tutto è bene quel che finisce bene, no? Speriamo…
Magari ora ritorno su quella spiaggetta e li trovo tutti sbranati da un orso, con la fortuna che ho. 

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Capitolo 19
*** Capitolo 15: Confidiamo nel Fato ***


 Il gruppo era radunato intorno alla fiamma scoppiettante circondata da un circolo di pietre. Sopra a dei bastoni piantati nel terreno rosolavano i cinque pesci che avevano abboccato quel pomeriggio, poco più in là, verso la foresta, erano state lasciate abbandonate le borracce vuote, una addossata all’altra.
Una volta finita l’acqua potabile, l’unica fonte di acqua sicura era rimasta Mea, che riusciva a filtrare quella marina eliminando il sale in eccesso. Quello che ne rimaneva era un’acqua potabile dal sapore orrendo.
Con quello erano passati quattro giorni da quando avevano lasciato il messaggio in balia della magia, confidando che il reggente dei draghi lo leggesse.
Non si potevano vedere né luna, né stelle e un brontolio lontano di tuoni faceva presagire un temporale in avvicinamento.
Hile estrasse il coltello che gli aveva donato Renèz, ammirando i bagliori rossastri del fuoco sulla lama.
Alla sua sinistra Jasno guardava il cielo scuro con il largo cappuccio che gli ricadeva floscio sulla schiena, ora che il sole non poteva toccarlo.
Alla destra del Lupo, invece, Keria era intenta a far ruotare un pesce che aveva cominciato a produrre un fumo per niente accattivante.
- Quattro giorni ci avevamo impiegato per arrivare fin qui, vero?- chiese Nirghe sdraiato al di là del fuoco.
Quella era diventata quasi una domanda rituale. Ogni sera qualcuno la riproponeva cercando conforto nella risposta.
- Si, quattro giorni.- ripose Mea dalla spiaggia sabbiosa.

Che c’è? Perché mi guardate così di storto?
Credevate che avrei fatto quello che mi ha ordinato quello zotico di un re rettile?
Con lui potevo tirare fuori una mela dal cappello e fargliela passare per un sasso raccolto sui grandi monti mangerecci delle terre del sud. Non conosceva un’acca di magia, non penso abbia mai visto un incantesimo in vita sua, fatta forse eccezione per quella roba malfatta che praticano i suoi guaritori.
Se mi facessi vedere dalla maga mi scoprirebbe in mezzo secondo.
Comunque ha detto che sarebbe venuto, no? E, allora, di cosa vi preoccupate?


- Se comincia a piovere, non farti problemi per il fuoco, lo riaccendiamo non appena ricomincia a fare bello. Tu mettiti al riparo. – disse la mezzelfa in direzione del Gatto, rimasto seduto accanto alla fiamma una volta finita cena.
- Si… -
Cercavano di mantenere il fuoco acceso il più possibile, in modo che, se il re dei draghi fosse passato sopra di loro di notte potesse vedere quella luce.
Hile rimase sdraiato a fissare il soffitto curvo ghiacciato per quella che gli parve un’eternità. Quando il respiro di Jasno al suo fianco si fece regolare, l’ombra comparve al suo fianco, di profilo, con il volto rivolto al cielo e una cascata di quelli che apparivano capelli che le ricadevano sulle spalle.
Stettero lì, in silenzio, finché il Lupo non resistette più al richiamo del sonno e si addormentò placidamente.
L’ombra scomparve poco dopo.

La sabbia vorticava violenta contro le pareti esterne delle cupole.
Le acque si fecero mosse.
Il lanciatore di coltelli e l’Aquila si svegliarono di colpo in mezzo a quel trambusto. Attraverso le pareti opache della struttura riuscirono a scorgere un enorme essere scuro che si muoveva dinoccolato.
Un Nirghe ricoperto di sabbia bagnata si fiondò al coperto poco prima che una nuova sferzata colpisse le pareti di ghiaccio, investendo il Lupo e buttandosi con la schiena contro il muro interno. Il suo torace si alzava e abbassava violentemente, mentre il Gatto cercava di regolarizzare la respirazione accarezzando il fodero della spada di sinistra.
- Cosa diavolo sta succedendo là fuori? – urlò Jasno per superare il frastuono del vento.
- Credo siano arrivati tre draghi! – rispose lo spadaccino a tono.
- Cosa vuol dire credo? – gli disse attaccato all’orecchio Hile mentre si spostava in una posizione più comoda di quella in cui era finito.
- Lupastro, se vuoi uscire tu a controllare cosa sono fai pure! Io ho visto delle cose enormi e nere che scendevano dal cielo verso di me. Va bene? Voglio sperare siano i draghi, perché, altrimenti, abbiamo dei grossi problemi.-

Classico.
Una banda di zotici, cosa vi avevo detto? Sono proprio caduti in basso…

Quando la furia dei venti si fu placata, Hile osò sporgere la testa fuori dall’ingresso della cupola, con un coltello in mano, mai ci fosse stato bisogno di difendersi da qualcosa.
Del fuoco non ne rimanevano nemmeno le braci per rischiarare l’ambiente.
Una massa ancora più scura del cielo si muoveva scomposta sulla spiaggia, ingrandendosi e rimpicciolendosi a intervalli quasi regolari.
Poi, d’un tratto, la figura si ridusse fino a raggiungere poco meno di due metri d’altezza.
Il globo lattescente di Mea comparve sull’ingresso dell’altra cupola, fluttuando sempre più in alto per riuscire a spargere la sua luce su tutta la spiaggia.
La sagoma scura si rivelò essere il frutto della sovrapposizione delle tre figure degli uomini che ora guardavano circospetti la sfera luminosa.
- Siete voi gli individui che hanno avuto l’onore di parlare con il re Réalta?-

Non è venuto nemmeno di persona quel maledetto.
Credo che, non appena sarò libero da quel contratto, metterò mano al governo dragonesco. Non posso permettere che una razza promettente come la loro sia guidata da un totale incapace di quella portata.
Che peccato che l’intelligenza non sia tra quelle qualità che si ereditano.

- Si, siamo noi.- Gli rispose Mea uscendo lentamente dalla sua cupola, pronta a rispondere a qualunque azione i draghi avrebbero intrapreso.
- Il nostro signore ci ha ordinato di scortarvi fino alle coste delle Terre. –
- Volete partire immediatamente? – chiese scettica Keria uscendo a sua volta sulla sabbia. – o preferite riprendervi dal vostro ultimo viaggio, prima di ricominciare a viaggiare?-
- I nostri bisogni vengono dopo gli ordini del sovrano. Partiamo ora. – continuò l’uomo facendo un passo avanti in direzione delle assassine.

Le cupole si dissolsero in una nuvola di vapore che sbrilluccicava alla luce del globo, senza lasciare traccia della loro esistenza. Le borracce si riempirono di acqua al sapore di pesce e le bisacce vennero appesantite un poco dai pochi viveri che i draghi avevano portato per le persone che avevano incontrato Réalta.
Partirono di lì a poco puntando verso est. Da qualche parte, davanti a loro, si doveva stendere la Piana Umana, seguita dalla catena dei Monti Muraglia e, ancora oltre, dal deserto.
Piovve.
Piovve per due giorni consecutivi.
Alla fine della seconda notte di viaggio Mea si era arresa, esausta, nel cercare di proteggere i suoi compagni dalla mole d’acqua che dal cielo precipitava nel mare passando, durante il tragitto, lungo i volti e negli abiti oramai zuppi.
Le squame di drago su cui sedevano risplendevano ogni volta che il cielo cupo veniva squarciato da un lampo e il mondo tremava a ogni tuono fragoroso che riempiva l’aria.
Hile dovette aggrapparsi con più forza alla spina cervicale del drago violetto su cui era seduto per non cadere quando Jasno, alle sue spalle, cercò una posizione più comoda su quel dorso duro, squamoso e viscido.
Davanti a lui, in testa, si apriva la strada tra le correnti un drago dalle squame rosse come il fuoco vivo.

Il sole sorse solo quando, finalmente, le coste delle Terre divennero visibili e i campi dorati da mietere parvero risplendere come un suo riflesso sulla Piana Umana.
I draghi atterrarono bruscamente, facendo urlare di dolore le escoriazioni che tappezzavano le cosce e i polpacci degli assassini, che appoggiarono incerti i piedi a terra.
I draghi si scrollarono di dosso le ultime gocce che si erano infilato tra le squame, per poi riprendere forma umana.
Tornò a parlare l’uomo della prima notte. Alla luce del sole il suo portamento risultava fiero, il mento puntava al cielo, lasciando bene in vista la gola, e lo sguardo passava da un ragazzo all’altro freddo e distante.
- Il nostro signore vi manda anche i suoi auguri per la riuscita della vostra impresa.-
- Ha lasciato detto altro per noi?- chiese la maga con voce dura.
- No. Con il vostro permesso, noi abbiamo terminato il nostro compito e il viaggio di ritorno non è breve.-
Un drago rosso e uno viola spiegarono le loro immense ali e, sollevando la sabbia dal terreno in vortici, si alzarono in volo puntando il muso verso nord.
Sulla spiaggia i sei assassini rimasero soli con un giovane. Non dimostrava più di vent’anni, in quella forma.
- Dovete perdonare mio fratello. Lui è a capo del movimento che vuole impedire una nuova collaborazione tra la nostra razza e la vostra. È convinto che il morbo della squama grigia sia stato un complotto da parte di umani ed elfi per sterminare la mia specie. Come avrete capito, io, invece, non sono così complottista… - le labbra del drago si incresparono in un sorriso. – Perdonate la mia scortesia. Non mi sono ancora presentato. Il mio nome è Vanenir II, quartogenito della casata reale. Prima avete conosciuto mio fratello Salema, il secondogenito. Réalta lo avete già conosciuto. Per quanto riguarda il terzogenito della nostra famiglia… il morbo ce lo ha portato via oramai quindici anni fa…-
- Quindi tu saresti uno dei nipoti di Erdost e Fariuna?- chiese Hile guardando con nuovi occhi il giovane sorridente che stava in piedi di fronte a lui.
- Precisamente.-
- E potresti diventare anche il re dei draghi?- chiese Seila in un impeto di curiosità.
Un silenzio pesante cadde come un masso.
- Diciamo che c’è una recondita possibilità. – le rispose il drago con il sorriso sbiadito. – Ovviamente prima di me, in linea successione, c’è, ovviamente, Réalta e, se mai ne avrà, i suoi eredi. Poi sarebbe il turno di Salema. Ed infine ci sarei io. Diciamo che, perché io arrivi a quel trono, ci dovrebbe essere uno sterminio nella mia famiglia… oppure avrei bisogno di forti sostenitori dalla mia parte.- ora il suo sorriso si era fatto amare e gli occhi si erano velati.
- Grazie di tutto, Vanenir II. – gli disse Mea incrociando gli avambracci davanti al petto e inchinandosi in segno di rispetto.
- Per gli amici dei miei nonni, solo Vanenir. È stato un onore conoscervi, spero che i nostri destini si incrocino di nuovo, in futuro. Che il vento soffi sempre verso la vostra meta. –
Un drago dalle squame gialle come il sole si alzò in volo e si diresse verso le due lontane figure nere che si stagliavano nel cielo.
- Allora qualche drago in gamba esiste. Ce ne fossero di più come lui…- disse Nirghe voltando le spalle al mare e scrutando la pianura davanti a sé.

Ce ne fossero di più come lui, dici…

- Ora però abbiamo un problema più grande… disse Hile facendo qualche passo incerto verso l’entroterra. – Dove andiamo?-
- Non stai accelerando leggermente i tempi? – gli chiese Keria avvicinandosi zoppicante.
- In che senso?- chiese il Lupo voltandosi verso l’arciere.
- Guardati le gambe.-
I pantaloni da cittadino era strappati in più punti sull’interno, il tessuto era intriso d’acqua e aveva assunto una tinta rossastra. Sotto gli strappi si potevano vedere chiaramente lembi di pelle arrossata che non riusciva più a coprire tutta la carne viva dell’interno coscia.
- Perché non sento male? – chiese incredulo il lanciatore di coltelli sedendosi sul terreno con le gambe distese di fronte a sé per poter guardare meglio il macello mal coperto dal pantalone.
- Ringrazia il freddo delle quote che abbiamo raggiunto. – gli rispose la mezzelfa tranquilla. – Non appena comincerai a scaldarti vorrai morire.-
- Io proporrei…- Jasno smise un attimo di parlare quando gli sguardi dei suoi compagni di viaggio si voltarono all’unisono in direzione del suo cappuccio – Io proporrei di accamparci qui finché Mea e Seila… se possono… finiscano di curare le nostre ferite… poi potremo ripartire, no?-
- Certo.- gli ripose risoluta la maga.

Vabbè, mentre la maghetta tira di nuovo su le cupole io vi intrattengo con i profondi pensieri filosofici che ho partorito durante questo fantastico viaggio appena fatto.
L’acqua è maledettamente bagnata.
No, davvero. Non sto scherzando. Ero un sasso nella borsa di Mea e sentivo l’umidità infiltrarsi nelle mie ossa.
E ripeto, ero un maledetto sasso.
Meno male che hanno avuto il buon senso di chiudere le mappe in una bottiglia di vetro, altrimenti ne sarebbe rimasta una melma schifosa.
Oh, guarda! Hanno già finito con il campo! Come passa veloce il tempo quando si parla della pioggia!
Eh… quella fanghiglia in mano a Seila non mi ispira per niente, spero per loro che non sia da mangiare, altrimenti non ci sarà bisogno del demone per farli fuori.

Hile si mosse appena all’interno della cupola. Mea aveva maledettamente ragione. Le sue gambe, ora pulsavano e gridavano di dolore come se qualcuno le avesse gettate nel fuoco.
La maga aveva fornito una specie di primo soccorso, chiudendo i tagli più profondi e sistemando le infezioni più gravi, poi Seila si era messa a impastare alcune erbe, dicendo che conosceva la ricetta per un unguento che avrebbe accelerato notevolmente il processo di guarigione.
Ora stavano facendo una specie di processione per ricevere la propria dose di pomata.
L’aria si riempì di un urlo mal soppresso di Nirghe.
Il Lupo cominciò a sudare freddo. L’ultima volta che aveva gridato di dolore nemmeno se la ricordava, li avevano addestrati a sopportare qualunque cosa e un urlo non poteva voler dire nulla di buono.
Il Gatto rientrò nella cupola con le gambe larghe e gli occhi lucidi di lacrime. Nirghe si lasciò cadere faccia avanti sulla coperta stesa a terra, gemendo quando le cosce toccarono la lana ruvida.

È in questi momenti che ringrazio di poter non avere un corpo fisico.
Voi avete mai visto uno sbuffo di fumo arrancare per il male alle gambe? Si? Diavolo, fatemela conoscere, che se la rivendo mi metto a posto per la vita con i soldi… se avessi bisogno di soldi.

Hile diede uno sguardo in direzione di Jasno, che non accennò a volersi alzare. Il ragazzo prese un respiro profondo e si portò in piedi, arrancando faticosamente prima sull’uscio del riparo in ghiaccio, poi dall’erborista, che gli mise in mano un pugno di una sostanza melmosa dall’odore nauseabondo.
- Spalma questa ovunque ci siano delle ferite. Per dopodomani anche le più gravi dovrebbero essersi rimarginate. –
Il Lupo fece come gli era stato detto, sperando che quella pomata nauseabonda dal colorito marrone scuro non peggiorasse la condizione delle sue gambe martoriate.
Il balsamo era freddo, quasi piacevole sulle slabbrature della carne che pulsava a ogni battito del cuore. Per un momento ad Hile parve di essere ritornato in piena salute, non sentiva più né dolore né intorpidimento, poi la pomata cominciò a reagire al contatto con la carne viva.
In un attimo il lanciatore di coltelli capì cosa aveva spinto Nirghe a urlare. Gli parve che una colonia di scorpioni gli fosse stata gettata sulle ferite, e che questi avessero cominciato a colpire ripetutamente le zone già rovinate con chele e pungiglioni.
Il dolore pizzicante divenne quindi bruciante, come se quella colonia avesse improvvisamente deciso di prendere fuoco e lasciarsi divorare dalle fiamme in quelle spaccature delle cosce.
All’assassino salirono le lacrime agli occhi, mentre ogni muscolo si irrigidiva in tensione, come la corda di un arco giunta al suo limite.
Ci vollero diversi minuti, prima che il dolore si placasse. Solo allora Hile si alzò piano da terra e, adagio, provò a raggiungere la cupola che lo avrebbe ospitato per la notte.

Voi mi conoscete, no? Normalmente sono particolarmente curioso riguardo alle cose che mi circondano. Beh, credo che per questa volta farò un’eccezione, non credo di voler davvero sapere cosa c’è dentro quella fanghiglia. Sarà miracolosa finché vuoi, ma gradirei farne a meno, grazie.

Cosa?
Non volete venire a conoscenza delle incredibili cose accadute nei due giorni in cui questi ragazzini hanno camminato a gambe larghe?
Vabbè, come preferite. Allora ve lo riassumo brevemente.
Non è successo nulla.
Direi che sono stato sufficientemente breve.
Per lo meno quella mistura ha funzionato, non sono ancora come nuove, ma almeno non ci sono tagli profondi due dita dentro la carne della coscia.

Era arrivato il momento di decidere cosa si sarebbe fatto da lì in avanti. Hile guardò i pantaloni che portava indosso, sotto gli strappi del tessuto si poteva ancora vedere la pelle arrossata là dove prima era stata scorticata.
- Io vi ho già detto cosa penso.- disse secco Nirghe – Dovessimo muoverci assieme impiegheremmo dei mesi per raggiungere tutte le posizioni. E, poi, se sono delle prove quelle che ci attendono, sarebbe stupido andare tutti insieme per dimostrare il nostro valore come assassino. No?-
Il silenzio calò sui sei ragazzi in cerchio. Nemmeno Mea osò dire qualcosa.
- Ma… - cominciò a dire Seila – Come facciamo a sapere dove andare?-
Il pugno di Nirghe si strinse impercettibilmente, mentre i suoi muscoli si irrigidivano. Avrebbe voluto saltare alla gola dell’erborista, dopo quella domanda. Come potevano sapere, loro, cosa fare?

La comincio a trovare pesante. Davvero.
Normalmente cerco di farmi piacere tutti, ma lei è insopportabile, dai.
Potrei paragonarla a un riccio di castagna che ti si infila nello scarpone e, a ogni passo, ti ricorda di essere lì per darti fastidio.
Insopportabile.

- Io avrei un idea… - disse l’arciere con un filo di voce, abbozzando un sorriso incerto. – Però se non vi convince il mio ragionamento fermatemi. Noi siamo destinati ad arrivare alla nostra prova, quindi se prendessimo la mappa, la dividessimo in sei parti e ognuno ne prendesse uno, il Fato ci metterebbe in mano la nostra meta, no? –
Hile si stupì di quanto quel ragionamento, per quanto fosse privo di fondamento, filasse. Poi un dubbio gli attraversò la mente. – Mea, se strappassimo la mappa, l’incantesimo svanirebbe?-
La maga prese in mano la cartina, studiandola con occhio attento per una manciata di secondi.
- Questa è stata incantata con la prima forma di magia, quindi non c’è il rischio di cancellare o rompere la runa strappandola. Se è stata fatta bene non dovrebbero esserci problemi se la dovessimo rompere.
Con il passare dei minuti l’idea di Keria prese sempre più piede, alla fine sei pezzi di carta ingiallita caddero a terra.
Ognuno ne prese uno, in silenzio, senza guardare quale meta fosse presente sul quello stralcio di cartina.
Solo quando tutti ebbero in mano il loro pezzo le direzioni vennero rivelate.
A Hile era capitata la macchia sui Muraglia, poco a nord rispetto al passo del messaggero che collegava le terre orientali a quelle occidentali.
- No! Non mi piace! Non è giusto! La mia è la più lontana! – si mise a piagnucolare Seila – Non ci arriverò mai! –
Mea si spazientì, facendo un passo avanti.
Il Lupo si preparò a fermare la maga, temendo che volesse colpire Seila. Per fortuna non successe nessuno degli scenari che Hile si era immaginato. La maga strappò dalle mani dell’erborista il suo pezzo di mappa, lasciandole il suo con un moto d’ira repressa.
Il lanciatore di coltelli diede un altro sguardo alla sua meta, sospirando.
“Non ci resta che confidare nel Fato…” fu il suo unico pensiero.

Ti dirò un piccolo segreto. Non è mai una buona idea confidare nel Fato, è una carogna. Guarda dove sono finito io a fidarmi di lui. 

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Capitolo 20
*** Capitolo 16: Progenie della storia ***


 Il gruppo si divise in due.
Nirghe e Seila avrebbero preso la prima strada verso nord, mentre gli altri avrebbero continuato verso est per raggiungere le rispettive mete.
- Una volta superata la prova, ci dirigiamo tutti alla setta. Intesi? – disse Nirghe mettendosi la tracolla in spalla e sistemandosi addosso i vestiti da civile sgualciti.
- Vedi di non perderti. – gli rispose il Lupo.
- Io sarei più preoccupato per la tua sorte. – ribatté il Gatto.
 I gruppi si divisero senza altri convenevoli, puntando ognuno verso il punto che la sua mappa indicava.

Hile, Mea, Jasno e Keria incontrarono la Via del Sale, la strada che da dalla prosperosa città di Derout al margine occidentale delle terre raggiungeva le pendici dei Muraglia, poco più di un’ora e mezza dalla loro partenza.
- Chi è il più vicino? – chiese Mea tirando fuori da una tasca il suo pezzo di mappa accuratamente piegato.
- Credo io. – le rispose Jasno da sotto il cappuccio. – La mia macchia è in questo campo vicino a... Zadrow, questo piccolo paese qui. –
- Zadrow? – chiese stupita Keria.
- Si, qui c’è scritto questo. –
- Quello è il paese in cui sono cresciuti Ardof del Fuoco e Trado dell’Aria! Mentre ci passiamo accanto potremmo andare a vederlo, non ci porterebbe via cosi tanto tempo… -
- Vedremo quando ci passeremo vicino. – le rispose la maga. Intanto incamminiamoci, non voglio stare troppo tempo nella Terra della Roccia. –
La Piana Umana si stendeva a distesa d’occhio, piatta. L’unica cosa che si alzava verso il cielo erano le coltivazioni o i boschetti circoscritti che erano riusciti a crescere. Ben pochi dei villaggi che si affacciavano sulla strada erano affollati, della maggior parte non rimaneva che un gruppo di ruderi.
- Non doveva essere abitata dal popolo dei nani, questa terra? Finora i pochi abitanti che abbiamo incontrato erano umani. – chiese Hile guardandosi intorno.
- Da quanto so, i nani hanno prosperose città nel sottosuolo, il cui unico ingresso è nascosto da qualche parte sui Monti Muraglia. Temo che non ne vedremo molti, da quando è dilagato il morbo della squama grigia, il re dei nani ha emendato una legge per cui il suo popolo non può uscire da confini sotterranei del suo impero. Quindi se vedrete un nano sappiate che molto probabilmente sarà un individuo allontanato dalla comunità.–
Impiegarono tre giorni per raggiungere il primo bivio che si incamminava verso sud. Su un cartello rovinato dalla pioggia e dagli escrementi di uccello erano riportati i nomi delle città che si sarebbero incontrati lungo il percorso. Zadrow era tra questi, seguito da una breve nota recitante: “ Città natale degli Eroi”.
- Laggiù c’è un altro cartello.- disse Keria. – Vado a vedere cosa c’è scritto.-
L’arciere si allontanò rapida dal gruppo.
- Tu non sei un po’ curiosa di vedere dove sono nati Ardof del Fuoco e Trado dell’Aria? – chiese Hile alla mezzelfa.
- Li abbiamo incontrati di persona, non vedo come possiamo chiedere di più. Sarei curiosa di visitare i cunicoli dove si era rifugiata la resistenza, oppure l’avamposto davanti al quale hanno combattuto i demoni di Reis. Zadrow è solo un paese come altri. –
- Allora, - disse Keria ritornando – in pratica un carro passa ogni ora per portare i turisti fino al paese. Il prezzo per il viaggio sarebbe di cinque Laire di rame a persona, non è molto, e poi ci risparmieremmo un bel pezzo di strada…-
- Se vuoi andare a Zadrow, facciamolo. Non che mi cambi molto, almeno potrò chiedere informazioni al conducente. – le rispose la maga.
Dopo una trentina di minuti, un carro comparve sulla strada, trascinato in avanti da una coppia di muli grigi.
Non appena il carro fece inversione di marcia sulla strada principale, riprendendo la via del ritorno, Mea chiamò il conducente a gran voce.
- Posso esserle utile?-
- È lei che trasporta le persone fino a Zadrow?-
- Si, volete usufruire del servizio? Per tutti voi sarebbero due Laire d’argento. –
La somma cadde dalla mano dell’arciere, per poi venire direttamente inghiottita dal borsello dell’uomo.
La carrozza ripartì lenta verso sud, lungo la strada che pareva essere stata percorsa centinaia di volte.

Quasi mi mancava questo paesaggio. Quasi.
Mi ricordo ancora i primi tempi dopo il Cambiamento. Allora non avevo molto tempo libero, tra i giovani Cavalieri, la nascita di città che volevano autogestirsi e quei quattro che si sono fatti la scampagnata fino all’isola dei draghi.
Sono passati solo sessant’anni, ma mi sembra passato molto più tempo, da quando il mantello rattoppato di Kesher si muoveva alla luce delle torce e i bambini ridevano alle sue battute.
Sto diventando uno schifosissimo sentimentale. Dovrei farmi curare.

I campi coltivati si susseguivano continuamente, le spighe quasi pronte ad essere mietute ondeggiavano lievi a un vento pacato.
 Poi, in lontananza, una cittadina coprì una piccola porzione di orizzonte.
Le prime ville si presentarono a bordo della strada, avevano l’aria di essere state costruite da ricchi cittadini per potersi permettere di passare i mesi più caldi immersi nella natura, piuttosto che all’interno delle mura cittadine.
Infine, il centro abitato si fece più nitido, vicino. Le case, una volta probabilmente appartenute a contadini, ora si presentavano ricche sotto le pitture sgargianti che ne rivestivano le pareti esterne, mentre ben pochi dei fienili e delle stalle che affollavano la periferia svolgevano ancora il loro compito.
Il carro si fermò nella piazza principale della cittadina. Attorno vi erano solo case una ammassata all’altra, in alcuni punti si potevano ancora intravedere assi o travi appartenenti alle strutture originarie.
Al centro della piazza, ricoperto da vasi di terracotta colmi di fiori, riposava un ceppo d’albero sufficientemente grande da poter ospitare un carro. Gli anelli si susseguivano uno dopo l’altro, larghi, a testimonianza della fertilità di quella terra.
- Cosa ci consiglia di visitare?- chiese Keria entusiasta al conducente poco prima che questi ripartisse.
- In fondo a quella via potete trovare la casa in cui nacque Trado dell’Aria. Se invece state cercando negozi, la via sulla destra è quella che fa per voi. Lì potrete trovare la birra artigianale di Zadrow, anche se mi sembrate un po’ troppo giovani per bere, e la bottega di uno dei mastri vasai più conosciuti nelle due Terre occidentali. – le rispose l’uomo indicando due vie vicine sul lato opposto della piazza. – Altrimenti, se vi ritenete fortunati,  proseguendo per la via maestra potrete vedere la casa in cui visse Ardof del Fuoco, ma non è mai stata restaurata, è poco più di un rudere ora come ora. –
- La ringrazio. Buona giornata! – disse ancora Keria, per poi tornare dai suoi compagni.
- Visto che sei voluta venire qua, cosa vuoi andare a vedere? – le chiese la mezzelfa mentre cercava di leggere un cartello su una panchina a lato della piazza.

Ve lo dico ora cosa c’è scritto lì sopra o ve lo dico dopo?
Vabbè, lo farò ora.
Vi avverto già da ora che avrete bisogno di un piccolo sforzo di memoria.
Il cartello in questione recita: “ Viene tramandato da generazioni che Ardof del Fuoco, in gioventù, solesse passare le sue giornate seduto su questa panchina. Vietato toccarla in quanto reperto.”
Bene, ora, a parte il fatto che la panchina in cui si sedevano Ardof e famiglia era dalla parte opposta della piazza, vorrei deviare la vostra attenzione sul fatto che quel pezzo di ferro non avrà più di quindici anni.

Ora che ci penso, parlando dei miei cari vecchi amici, immagino che i più arguti di voi si siano chiesti: Ehi, ma i genitori di Ardof pensavano che il loro caro figlio fosse lì con loro e gli avesse dato pure dei nipoti! Come avranno reagito?
Ora, sono uscito poco negli ultimi sessant’anni, ma qualcosa ve lo so dire ancora. In principio dei Cavalieri si conosceva solo il nome seguito dall’epiteto e nessuno si stupì più di tanto dell’esistenza di due Ardof. Poi l’Ardof contadino si trasferì in mezzo alla piana umana, ora dovrebbe esserci una cittadina o una Chiritai, ora non mi ricordo bene. Solo dopo una ventina d’anni il cognome degli “eroi” venne alla luce, ma tutti quelli che potevano ricordarsi di un Ardof Neghyj trasferito erano già morti, genitori compresi. Praticamente ora c’è una famiglia Neghyj che si pensa sia imparentata con l’eroe. Nulla di più.

- Non è che non mi interessino le cose… turistiche. Ma credo che questa sia una piazza bellissima, se avete intenzione di fare un salto nella via delle botteghe… - disse Hile camminando piano mentre, con lo sguardo, passava in rassegna il muro di una casa vicina. Lì, su una targhetta in ferro arrugginita, con un incisione sbiadita, era stata scritta la frase “ Come commemorazione per il decimo anniversario della morte del girovago, nonché cantastorie e teatrante, Kesher, la confraternita cittadina dei teatranti di Zadrow offre questa targa.”

Si sono spesi parecchio, non c’è che dire…
Scherzi a parte. Non pensavo che durante il mio soggiorno nei pressi dell’Accademia fosse diventato così famoso.

- Da quanto mi ricordo Trado del Vento visse nella Grande Vivente dopo il Cambiamento. Potremmo andare a vedere la casa di Ardof del Fuoco, magari possiamo trovarci qualcosa di interessante! – rispose l’arciere a Mea.

Il gruppo si incamminò quindi per la via maestra, che continuava verso sud tagliando la cittadina a metà e perdendosi tra le colline gialle e le villette sparse.
Solo dopo una ventina di minuti abbondanti di cammino, sulla sinistra, comparve una vecchia fattoria cadente. Sembrava stonare in mezzo a quel paese così turistico e appariscente.
Le pareti presentavano numerosi rattoppi, diverse persiane pendevano o mancavano completamente e la paglia che copriva il tetto sembrava a prima vista marcescente.
- Siamo sicuri che sia questa? – chiese Jasno guardando la catapecchia da sotto il suo cappuccio.
- Quell’uomo ci aveva avvisati che era in stato di abbandono. – gli rispose Keria, con uno sguardo dubbioso negli occhi verdi.
- Così però mi sembra esagerato. Non capisco come possano lasciar andare in malora un luogo importante come questo… - continuò l’albino.
Fu Mea a fare il primo passo sul sentiero in terra che portava all’ingresso, facendo attenzione a non mettere i piedi nelle pozze di fango che costellavano la via.
A fianco dell’ingresso, poterono accertarsi, in una timida vernice nera, era stato scritto un “Neghyj” insicuro.
Hile aprì la porta piano, sbirciando all’interno della casa cercando di cogliere un qualsiasi movimento.

Che schifo!
Scusate, ma quando ci vuole ci vuole. Da quant’è che non danno una pulita qui dentro? Ci sarà una nuova civiltà evoluta tra uno strato e l’altro di polvere.

La casa era ammobiliata come se qualcuno ancora ci vivesse, ma uno strato di sudiciume ricopriva quasi tutto il mobilio e il tappeto che copriva gran parte del pavimento al di là dell’ingresso.
I quattro entrarono circospetti, silenziosi come se stessero per concludere un incarico sotto le vesti di assassini.
- Scusate… C’è qualcuno? – chiese timida Keria, guardandosi attorno.
Non arrivò nessuna risposta dalla casa.
Il gruppo fece ancora qualche passo incerto sulle assi consumate del pavimento. Hile portò involontariamente una mano a uno dei dodici coltelli.
Il Lupo sapeva che non avrebbero dovuto continuare a camminare tra le stanze, ma i suoi piedi si muovevano come da soli.
La prima sala che incontrarono fu una specie di soggiorno. Una stufa riposava in un angolo, con a fianco una catasta di legna. Poche sedie sparse e un tavolo scuro occupavano il centro della stanza.
Dal soffitto pendevano lunghe ragnatele impolverate.
- Chi è? – urlò una voce dall’ingresso.
L’istinto fu più veloce del pensiero. Un coltello tagliò l’aria in direzione dell’uscita e della figura nera che su essa sostava.
Hile si pentì subito dell’azione.
– Renèz. – La lama invertì la rotta a due passi dal volto della figura, per essere ripresa dalle dita abili.
- Ho chiesto, - continuò con voce tremolante la figura – chi siete. Rispondetemi. Cosa siete venuti a fare qui? –
- Ci deve perdonare. – le ripose Mea facendo due passi in direzione della porta. – Non pensavamo che questo posto appartenesse a qualcuno. Siamo viaggiatori ed eravamo venuti a Zadrow per poter visitare la casa che diede i natali a uno dei più famosi eroi dal Cambiamento. –
- La casa non è aperta ai turisti. Ora andatevene. – la voce della donna sull’ingresso si fece dura.
- Signora, non volevamo causarle tanto disturbo… ci può dire almeno chi è? – riprese la mezzelfa facendo un ulteriore passo avanti.
- Andatevene. –
Il gruppo attraversò nuovamente la porta, venendo abbracciato dalla luce del sole non appena la soglia venne lasciata alle spalle.
- Solo i mezzelfi hanno i capelli blu e gli occhi viola, vero? E nascono dall’incrocio di umani ed elfi. – chiese Hile con un filo di voce alla maga.
- Si, ma perché ti interessa? –
Il Lupo si fermò a metà della stradina che li avrebbe riportati sulla via maestra, voltandosi in direzione della casa e della donna che li osservava dall’uscio con sguardo severo.
- È sua questa casa, non è vero? –

Se ha fatto un ragionamento compiuto tutto da solo potrei seriamente pensare di preparargli una torta.
Potrebbe non essere un ragazzino idiota, o, per lo meno, potrebbe non essere solo quello.

- Sì. È casa mia. Ora andatevene. –
- I suoi genitori la salutano. Volevano che lei sapesse che le vogliono ancora bene… - Hile riprese la strada, allungando il passo per raggiungere i suoi compagni.

Gli devo una torta…

Seguì un momento di silenzio in cui i quattro assassini ebbero il tempo di raggiungere la strada principale e imboccarla per dirigersi verso il villaggio.
- Voi non potete conoscere i miei genitori. Non sapete nemmeno chi sono io. – urlò ancora la donna con una strana nota nella voce.
- Tu credi? – le chiese Hile voltandosi di nuovo. – Noi quattro siamo stati sul continente, ci siamo andati per incontrare i Sei eroi. Con loro siamo andati nella Volta e lì li abbiamo visti morire. Sono morti davanti ai nostri occhi e i loro fantasmi, prima di scomparire, ci hanno chiesto di salutare i loro figli. Tu sei la figlia di Ardof del Fuoco e Frida dell’Acqua, non è così? Comunque, buon pomeriggio.
Il gruppo riprese il cammino senza dire altro.
- Non ti sembra di essere stato un po’ troppo brusco?- chiese il Drago al Lupo.
- No. Ha fatto bene. – le rispose la maga. – Lei è sicuramente la figlia degli eroi e non ci avrebbe mai ascoltato se Hile non avesse fatto così. –

Povera donna… provo uno strano senso di pena per lei. Non è normale, questa cosa. Dovrei farmi visitare da un bravo medico.
Sapete, non l’avevo mai vista prima. Deve essere nata sul continente, dopo il mio addio definitivo ai Cavalieri…

Un rumore veloce di passi si avvicinò sulla strada.
- Fermi! – urlò la donna.
- Possiamo fare qualcosa per lei? – chiese Jasno voltandosi appena.
- Posso… posso offrirvi un tè? Avrei… delle cose da chiedervi. - 

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Capitolo 21
*** Capitolo 17: Disperso nei campi ***


 Stupendo. Anzi, meraviglioso.
Non è che mi dispiaccia conoscere la grande figlia di uno dei eroi e bla bla bla, ma… demone? Guerra? Male infinito? Viaggio per mezzo mondo? Vi dicono niente?
Ora scusatemi ma devo fare una cosa, voi evitate di farvi ammazzare da un tè troppo caldo, mi raccomando.

La donna condusse i sei assassini al paese, lasciandosi alle spalle la piazza principale e imboccando la via dove, a quanto aveva detto il carrozziere, doveva esserci la casa dove nacque Trado.
Cartelli colorati ne indicavano l’ingresso, accanto al quale una specie di biglietteria distribuiva foglietti di carta alla decina di persone che affollavano la strada.
La donna proseguì senza nemmeno voltare lo sguardo, imboccando una via tra le case che conduceva a un piccolo giardino racchiuso da quattro pareti. Estrasse quindi una chiave dal borsello che portava a tracolla e aprì una porta sulla parete di destra.
- Vi chiedo scusa per il disordine, ma non mi aspettavo ospiti… - disse la donna entrando nella prima stanza subito oltre l’ingresso e appoggiando il borsello su un tavolino coperto di fogli scritti, molti dei quali riportavano in fondo lo stemma della comunità umana della Terra delle Rocce.
In poco tempo una teiera in terracotta colma d’acqua era stata posata sulla stufa accesa, mentre un vasetto pieno di foglie essiccate aveva trovato un suo posto sul tavolino, che in parte era stato sgombrato.
- Prego, accomodatevi… - disse ancora a disagio la donna, rigida sulle gambe mentre la mano sinistra accarezzava continuamente il dorso della destra.
I quattro assassini presero posto, mentre cinque tazze vuote e una zuccheriera vennero portati sul tavolo.
- Posso chiederti come ti chiami? – chiese Keria mentre la donna spostava nuovamente la pila di fogli cercando un posto in cui non fossero d’intralcio. – I tuoi genitori non ci hanno detto il tuo nome prima di andarsene… -
- Io… il mio nome è Niena. Niena Neghyj. –
- Come il Cavaliere dei draghi che sopravvisse alla guerra degli elementi. Comunque io sono Keria, mentre i loro nomi sono Jasno, Mea e Hile. – proseguì l’arciere.
- Avrei… così tante cose da chiedervi… - disse incerta Niena passandosi una mano tra i capelli blu – Solo un attimo, l’acqua per il tè sarà calda.
Una manciata di foglie caddero dal contenitore nell’acqua bollente, poi un coperchio in terracotta le nascose alla vista.
Tre colpi rimbombarono contro la porta.
- Scusatemi ancora un attimo… -
Una vecchietta con uno scialle rosso in lana si presentò sull’uscio non appena la porta venne aperta. Appeso al gomito grinzoso cadeva un cesto intrecciato coperto da un panno.
- Signora Gramere, cosa posso fare per lei? –
- Niente, questa volta. Ho visto che ha degli ospiti e ho pensato di portarle una torta. Sa, non avevo altro da fare… -
- È stata gentilissima! Posso lasciarle qualcosa in cambio? Ha bisogno di qualcosa? – chiese Niena prendendo il cesto dalle mani della vecchia.
- No, no. Stai tranquilla. Bene. Buona giornata, io torno in casa, questa umidità non fa bene alle mie vecchie ossa… -
- Buona giornata anche a lei, signora Gramere. –
La porta venne richiusa piano e il tavolo dovette ospitare il nuovo acquisto.
All’interno del cesto riposava una crostata ancora calda sulla quale risaltava una marmellata scura.

Avevo promesso una torta ed ecco la loro maledetta torta.
Non sia detto mai che non mantengo la parola data.
Eh, si. Se ve lo steste chiedendo io so cucinare, e anche abbastanza bene. Mi ricordo che una volta per potermi avvicinare con forma umana a un signorotto di un posto dimenticato dovetti lavorare nelle sue cucine come capocuoco per dei mesi. Non l’incarico più divertente che mi abbiano mai affidato, ma anche lì imparai qualcosa.
Scusate, mi sono lasciato prendere la mano. Ora basta parlare della mia crostata e andiamo avanti, che devo anche far rapporto a Loro e trovare lo spadaccino e quel cataclisma semovente travestito da erborista.

- Quindi voi… siete stati sul continente? E avete visto i miei genitori? –
- Si. Noi facciamo parte… di un organizzazione particolare e siamo stati incaricati di trovare i Sei sul continente nel caso fossero stati ancora vivi. – Cominciò a raccontare Mea prendendo un sorso del tè dal colore rosso. – Abbiamo avuto fortuna, in un mese siamo riusciti a trovare l’abitazione di Vago del Fato e, da lì, abbiamo raggiunto la Volta degli Dei. Purtroppo non abbiamo avuto molto tempo per parlare con gli Eroi. –
- Raccontatemi come erano. Stavano bene? E cosa vi hanno detto? –
- Mi sembra fossero in salute. – le rispose Keria – A dir la verità Vago è riuscito a catturare tutto il nostro gruppo senza che noi potessimo far nulla. –
- È sempre stato un uomo incredibile, lui… - concordò Niena.
- Comunque gli altri Eroi mi pare stessero bene. Ardof del Fuoco, tuo padre, solo non aveva una gamba e portava una benda sull’occhio. – continuò l’arciere.
- Lo so. Si è procurato quelle ferite poco prima della mia partenza. È stato trovato disarmato da un gruppo di lupi dei monti e mia madre non arrivò in tempo per salvare la sua gamba. –
- Dopo di che ci siamo ritrovati nella Volta degli dei… è un posto strano. – disse Jasno prendendo un pezzo della crostata dal cestino. – Lì gli Eroi hanno parlato con gli dei primigeni quasi alla pari, per poi… morire. Gli dei si sono congratulati con loro e li hanno lasciati andare. Abbiamo però visto i loro fantasmi entrare nel Giardino delle Anime. Ed è stato qui che Ardof, Frida, Trado e Diana ci hanno chiesto di portare i loro saluti ai loro figli, nel caso li avessimo mai incontrati. Ci hanno detto esplicitamente di dirvi che vi vogliono bene. –
- Capisco, grazie per avermelo detto. Sono contenta che se ne siano andati in pace. –
- Ma dimmi, come hai fatto tu ad arrivare fin qui? – chiese curioso il Lupo sporgendosi in avanti sulla sua sedia.
- Vedete, io sono nata su quel continente. Lì ho passato i miei primi ventidue anni di vita. Furono i nostri genitori a proporre a me e a Mero, il secondo figlio di Trado e Diana, di venire qui nelle Terre per farci una vita normale. Quella è stata l’ultima volta che i miei genitori e i loro draghi misero piede sulle Terre, quel giorno li abbracciai sapendo che non li avrei più rivisti… -
- Grazie per avercelo detto. – le disse Hile con voce dolce non appena vide una lacrima splendente nell’occhio della donna.
- Scusatemi… Voi, voi dove dovreste andare, ora? Avete una meta o vi spostate dove il vento vi porta? – riprese Niena passandosi il palmo della mano sulla palpebra.
- Stiamo cercando qualcosa. – le rispose Mea. – Per ora tutto quello che abbiamo è una mappa con dei segni sopra. Il più vicino dovrebbe essere nelle campagne qui intorno, per questo ci siamo spinti fino a Zadrow. –
- Posso… posso aiutarvi? Ci abito da almeno quindici anni in questa zona, posso vedere la vostra mappa? –
Jasno parve titubare a quella richiesta. La sua mano rimase ferma a mezz’aria per qualche secondo con la tazza in ceramica stretta tra le dita. Nemmeno i capelli candidi osavano muoversi. Poi il fondo della tazza tintinnò contro il piattino appoggiato sul tavolo e l’elfo si voltò per prendere il suo pezzo di mappa dalla borsa appesa allo schienale della sedia.
- Ecco, tenga. – furono le prime parole che disse, porgendo il pezzo di carta ingiallita alla padrona di casa, che lo prese con attenzione.
- Questa mappa è vecchia, non è così?-
- Già… - le rispose Mea spostando una ciocca di capelli blu dietro l’orecchio a punta. - È appartenuta ai tuoi genitori. Ce la hanno affidata loro per continuare nel nostro viaggio. –
- Capisco… Vabbè, dove dovete andare? Su questa macchia qui? –
- Si. – disse telegrafico Jasno.
- Se qui c’è Zadrow e questa è Derout, le proporzioni non sono troppo deformate. Dovrebbe essere il campo di grano del signor Marveri. È facile da trovare, se tornate sulla strada che porta alla casa di mio padre e guardate verso ovest, vedrete una specie di collinetta coperta di vitigni, la dovete attraversare, dalla parte opposta c’è una piantagione di grano, il campo visto dall’alto è una specie di triangolo storto. Lo riconoscerete subito, ne sono sicura. Posso rendermi utile in qualche altro modo per voi? - finì di dire Niena.
- Per il momento no. – le rispose Mea con un sorriso, mentre riprendeva lo stralcio di mappa dalle mani della signora di fronte a lei. – Mai avessimo ancora bisogno di te ripasseremo da queste parti. Per ora è stato un piacere conoscerti, buona continuazione. E scusaci per il modo in cui ci siamo fatti trovare. –
- Dovrei essere io a scusarmi… Allora buon viaggio. – disse Niena sistemandosi la crocchia mentre si incamminava verso l’uscio. La porta si aprì silenziosa, lasciando arrivare lo sguardo sul cortile esterno.
- Come diceva sempre Erdost, che il vento soffi nella vostra direzione. – aggiunse ancora la mezzelfa guardando i quattro ragazzi uscire.
- E anche nella tua. – le rispose di getto il Drago.
La porta si chiuse alle loro spalle quando attraversarono l’arco e tornarono a camminare per la strada in direzione della piazza centrale.

Tutto sommato è andato tutto bene… E io che ero già pronto a fermare chissà quale cataclisma.
Forse sono leggermente stressato ultimamente. Dovrei prendermi una pausa, se potessi. Beh, se tutto va bene appena ognuno di loro raggiungerà la sua meta io dovrei avere un po’ di respiro. Avanti, saranno anche stati addestrati da assassini, ma sono ancora dei mocciosi. Voglio sperare che gli dei minori abbiano il buon senso di allenarli di persona in qualunque cosa vogliano allenarli.
Questo è anche un bel casino.
Vi spiego, o almeno ci provo.
È una domanda che mi ronza nella mente da un po’ di tempo: io so per certo che i minori non hanno armi elementari o simili, il Fato non gli lascia creare dei servitori tutti loro, figuratevi se li fa giocare con qualcosa di appuntito o affilato. Quindi, che possono dare a questi sei ragazzini? Mi infastidisce profondamente il non sapere cosa siano i compagni che non sono compagni o quel che è.
E non stupitevi, ho accesso a tutte le predizioni del Libro del Fato. O, per lo meno, quelle che mi riguardano da vicino. Se il Fato non avesse dato questa abilità alla cosa più vicina a un suo servitore, gli avrei tirato un ceffone.

Sulla piazza del paese i quattro ragazzi si guardarono.
- Io vado, vi ho già fatto perdere fin troppo tempo. – disse Jasno sistemandosi la borsa a tracolla.
- Aspetta, non dimenticarti questo. – gli disse Mea porgendogli il pezzo di mappa che aveva preso dalle mani di Niena.
- Io ho ancora i soldi che mi aveva lasciato il direttore. – disse Hile cercando il sacchetto di monete. – una moneta d’oro dovrebbe bastarti per raggiungere il Flentu Gar, una volta finito qui. – continuò, lanciandogli la moneta, che risplese alla luce del sole in discesa.
- Fai attenzione. – gli disse ancora Keria sorridente.

Jasno guardò i suoi compagni ripartire verso est, in direzione dei monti illuminati da una calda luce rossastra, per poi spostare il suo sguardo sullo stralcio di mappa che teneva in mano.
L’Aquila si mise in cammino. Ben presto le case rimodernate del paese scomparvero ai lati della strada, cedendo il passo a campi e collinette coltivate. Sulla sua destra, dopo una distesa infinita di spighe dorate comparve un vigneto, le cui foglie verdeggianti ricoprivano il versante di una collinetta solitaria.
I passi dell’assassino incappucciato si diressero verso di questa, lottando ben presto contro il fango che risucchiava gli stivali fino quasi a farli scomparire nel terreno.
Gli ci volle più tempo del previsto per raggiungere la cima di quel vigneto dove, davanti a lui, ora, si stendeva una distesa di campi desolata.
Jasno diede un ultimo sguardo alla mappa.
Il campo giallo triangolare era ben visibile di fronte a lui, ma la sua estensione gettò nello sconforto il ragazzo. Poi il sole morente gli fece un ultimo regalo, qualcosa scintillò poco sotto la sua posizione, qualcosa di grande e decisamente fuori posto.
Non ci volle nemmeno la metà del tempo per completare la discesa. Le suole parevano volare sopra la fanghiglia, a volte perdendo la presa e scivolando, ma Jasno riusciva sempre a mantenere l’equilibrio. Lui sapeva che il suo corpo non l’avrebbe mai tradito.
Il sole tramontò, lasciando il passo alla flebile luce di una luna crescente.
L’Aquila si tolse il cappuccio, passandosi una mano tra i capelli candidi tenuti attaccati in ciocche dal sudore.
Gli occhi rossi guardarono esterrefatti l’oggetto posto di fronte a loro, lì, disperso nei campi.
La mano pallida corse lungo il bordo liscio, nero come la notte.

Ok, questo è… particolare. Sì, è decisamente particolare.
Se gli dei volevano fare qualcosa di appariscente decisamente ci sono riusciti.

Una porta. Una porta in marmo nero posta in mezzo a un campo.
Jasno ci fece un giro attorno, cercando di capire quale potesse essere il suo scopo, ma questo continuava a sfuggirgli.
Infine prese il coraggio a due mani, girò il pomello dorato e fece ruotare la porta sui cardini nascosti.
Oltre non c’era nulla. Il buio avvolgeva ogni cosa, impedendogli di capire cosa potesse attenderlo oltre quella soglia.
I piedi quasi si mossero da soli e in meno di tre passi il corpo dell’elfo albino venne inghiottito dalle tenebre.
La porta si richiuse alle sue spalle, per poi sparire lentamente, lasciando il posto a spighe identiche a quelle che le circondavano.

Vabbè, non ho tempo ora di pensare a una porta. Ho visto cose più strane nella mia vita.
Ora passiamo alle cose serie, il prossimo che dovrebbe raggiungere la sua meta dovrebbe essere… il cataclisma. Seila. Sempre ammesso che sia riuscita a raggiungere la sua destinazione.
Va bene. Devo andare verso la vecchia sede del Palazzo della Mezzanotte, mi sembra. 

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Capitolo 22
*** Capitolo 18: Le profondità del nido ***


 Nirghe tamburellò velocemente le dita sull’elsa della spada al fianco destro.
Dietro di lui la Grande Vivente avvolgeva qualunque cosa, con tronchi larghi molto spesso più di due metri che si susseguivano identici.
La poca luce che filtrava dai rami lontani permetteva di vivere a un sottobosco spoglio, solo uno strato di erba soffice e pochi, sparuti, cespugli erano riusciti a sopravvivere tra quei colossi che si allungavano verso l’alto cielo.
Finalmente il dritto bastone lucido comparve da dietro un tronco, seguito dall’erborista che gettava svogliatamente un piede dopo l’altro.
- Se non ti dai una mossa ti lascio qui. Non ho tempo da perdere qui nella Vivente. –
- Dai, sto facendo tutto quello che posso. Non è colpa mia se non cammino tanto… - gli rispose il Serpente fermandosi per l’ennesima volta.
- Senti, ora non ricominciare a lamentarti. La tua meta non è molto distante da qui, ancora una giornata e dovremmo raggiungerla. –
- Se lo dici tu… -

Sono maledettamente indietro. L’altro gruppo ha praticamente fatto il doppio della strada.
In ogni caso lo spadaccino ha ragione, lo spiazzo dove sorgeva il Palazzo della Mezzanotte non è molto distante, direi addirittura a mezza giornata di cammino… per una persona normale. In questo caso potrebbero anche impiegarci il triplo del tempo.

La sera la passarono avvolti dalle imponenti piante e Seila non perse l’occasione per lamentarsi di quanto le facessero male le piante dei piedi e del fatto che non aveva le erbe per i suoi impacchi serali.
Nirghe si dovette allontanare dal fuoco che danzando gettava ombre tremolanti sulla corteccia per non esplodere in un moto di rabbia.
Quando l’oscurità si impadronì di ogni forma e colore il Gatto si fermò, piantando le sue lame nel terreno per sfogare la frustrazione che gli rodeva l’anima. SI sedette quindi sui talloni stringendo le else tra le dita.
Non la riusciva più a sopportare, Seila. Ogni parola che diceva era una parola di troppo nella sua testa e mai una volta che non fosse una lamentela.
Nirghe non riusciva a capire a quale allenamento avessero sottoposto l’erborista negli otto anni in cui era stata all’interno della setta per lasciarla uscire così fiacca. Perfino i Lupi erano più sopportabili di quell’elfa.
Lo spadaccino provò a regolare la sua respirazione per far sbollire il marasma di emozioni ribollenti che gli stringeva la gola. Solo quando fu certo che non avrebbe colpito il Serpente si rialzò, tornando verso il fuoco.
La mattina nata da quella notte mite i due assassini ripresero il passo sull’erba umida di rugiada senza scambiarsi una parola.

Solo dopo mezzogiorno un largo spiazzo si aprì di fronte a loro. L’erba, là dove c’era, era bassa e sembra che nessuna pianta avesse intenzione di affondare le proprie radici in quel terreno.
Quasi al centro dello slargo, sotto il sole oramai pomeridiano, una botola riposava in mezzo al nulla. Di fianco a questa, bruciato dal calore e dalle intemperie, un cartello cercava di spiegare come vivessero i ribelli al tempo della guerra, rinchiusi nei cunicoli che percorrevano le profondità dell’intera foresta.
- Ecco. Ti ho portata dove dovevi andare. Ora, purtroppo, dobbiamo salutarci, io ho ancora la mia meta da cercare. – disse secco Nirghe voltando di scatto le spalle all’elfa bionda.
- Ma cosa dovrei fare io qui?! – gli urlò dietro l’erborista allargando le braccia come per abbracciare la radura.
Nirghe non poté trattenersi, non completamente, per lo meno. Si voltò di scatto e, probabilmente, pensò, i suoi occhi in quel momento bruciavano di rabbia. – Senti, io non so tutto. Però so fare due più due nella mia testa. Qui c’è la tua meta, siamo spersi nel nulla, ci sono solo alberi qui intorno. L’unica cosa degna di una qualsivoglia nota è quella stramaledetta botola nel mezzo del niente! Non è difficile da capire, o mi sbaglio? –

Ragazzi, l’aria si è fatta elettrica.
E poi quel qualsivoglia in mezzo alla frase mi ha fatto accapponare la pelle. È stato un po’ come sentire una madre chiamare per nome e cognome suo figlio, sai già che non finirà bene la faccenda.
Per il resto io non so aiutare, al momento. Le creazioni degli dei hanno due caratteristiche: non emettono energia magica particolare se non attivate e non hanno un fato. Quindi perché ve lo dico? Perché non sono in grado di trovarle. Sarebbe come cercare un libro in una biblioteca quando quell’unico libro non è nell’indice. L’unico modo che avrei per riconoscerlo è controllarli uno per uno finché non trovo quello incriminato.
Sto perdendo il filo del discorso… è sto cominciando a rivalutare il ruolo di bibliotecario.
Comunque quello che volevo dire è che se non ce l’ho davanti agli occhi non so trovare la prova posta dagli dei.

- Ma io non voglio andarci da sola! Chissà cosa c’è la sotto! E poi guarda, è pure chiusa con il lucchetto! – continuò Seila con le lacrime agli occhi tirando un calco a un vecchio lucchetto arrugginito che teneva chiuso il coperchio per terra.
Nirghe reagì d’istinto. La mano corse all’elsa della spada e in un attimo la lama scintillante fu estratta, calante verso il terreno.
La ruggine del lucchetto cedette, spezzando l’acciaio rovinato dalle intemperie.
- Ecco. Ora non è più chiuso. – le disse rinfoderando la spada.
Il Gatto non la lasciò nemmeno fiatare, voltandosi nuovamente e partendo a passo rapido verso la foresta che li avvolgeva.
Ben presto le urla alle sue spalle si fecero troppo flebili per essere distinte dai rumori degli animali che popolavano quelle fronde.

Nirghe guardò un’ultima volta la sua parte di mappa. Riconosceva la zona, era la porzione orientale della Grande Vivente e la sommità nord della catena dei Monti Muraglia.
La sua macchia cadeva esattamente nella zona più fitta della foresta, nel Bosco Nero dove le comunità degli elfi dalla pelle scura si erano insediati subito dopo il Cambiamento.
Ripassò mentalmente le nozioni che aveva appreso, sperando che quel che cercava fosse ancora in funzione.
Poi guardò l’albero alla sua destra. Non perché quella pianta fosse particolare rispetto alle altre, ma per il montacarichi che scendeva dai suoi rami sorretto da un’impalcatura in legno.

Alla fine di quella salita infinita, ad attenderlo, il sole illuminava con i suoi caldi raggi tre vie di rami intrecciati che si incontravano là dove il montacarichi si fermava.
- La Strada Sospesa… - mormorò lo spadaccino guardandosi intorno.
Aveva letto parecchio di quella strada naturale che, passando di albero in albero, collegava ogni punto della Grande Vivente come una rete stradale. Da quel momento poteva andare dove voleva senza pericolo, si diceva, nei libri, che nemmeno gli Athur, prima di estinguersi, fossero in grado di salire fin lassù.
Un cartello gli indicò la via giusta, indirizzandolo verso la sua destinazione.

Il sole continuava a battere indolente sulla Strada Sospesa. Quattro giorni senza che una sola nuvola lo coprisse o attenuasse i suoi raggi.
Nirghe passò il bordo del cappuccio sulla fronte per asciugare le gocce di sudore che gli cadevano sugli occhi.
Quello era il motivo per cui era fallita l’idea di trasformare quell’opera naturale in un centro di scambi. Il caldo, il caldo torrido che si smorzava solo quando d’inverno la neve copriva ogni cosa.
Il Gatto si fece coraggio e proseguì nel su cammino. Non doveva mancare molto alla Piazza Nera. Aveva sentito dire che ogni strada, alla fine, si congiungesse lì con le altre e che da lì si potesse raggiungere qualunque parte della Grande Vivente.

Indovinate perché l’hanno chiamata Piazza Nera.
Volete una mano?
Vabbè, ve la do comunque. Indovinate sopra quale parte di questa foresta è nata…

Sono stanco. Non tanto del caldo, quello nemmeno lo sento, ma di questa inattività. La mia esperienza, se mi ha insegnato qualcosa, è che se c’è troppa calma in giro qualcosa di maledettamente problematico si sta avvicinando.

La piazza era molto più grande di quanto avesse letto nei suoi libri di geografia. I rami che la costituivano partivano tutti dal centro, sviluppandosi come una spirale per quelli che potevano essere sessanta metri di raggio.
Là dove la piazza nasceva si era formato una specie di bozzo.
La superficie legnosa era percorsa da linee sinuose bruciate dal sole. I segni erano simili a quelli che Mea tracciava sui suoi fogli, ma parevano essere nati direttamente nel legno, piuttosto che essere stati lasciati da qualcuno.
La mente di Nirghe si affollò di immagini, ricordi in cui la mezzelfa disegnava su quei fogli giallognoli i simboli sinuosi che le davano potere,  il volto concentrato e il ciuffo blu che le ricadeva sulla fronte.
Lo spadaccino scosse la testa per ritornare alla realtà.
Quello era il luogo indicato, ne era sicuro. Che avesse sbagliato a salire sulla Strada Sospesa? Magari la sua meta era sotto di lui, all’interno del Bosco Nero.
Il Gatto fece qualche passo avanti, con l’intento di gettare uno sguardo al terreno sotto di lui.
Non fece in tempo a raggiungere il bordo della piazza che i rami sotto le sue suole cedettero all’improvviso.
Il cielo fu rinchiuso in un anello di legno e Nirghe si ritrovò pochi metri più in basso, all’interno d quella che pareva essere un nido di un grosso uccello, oppure una cappella circolare. Di fianco a lui una struttura in pietra stonava con l’ambiente circostante, ma l’assassino non ebbe tempo per riconoscere la forma, perché i rami cedettero nuovamente, facendo ricominciare la sua caduta verso il suolo.
Lontano, forse troppo lontano, presero forma un gruppo di tende. Al centro dello spiazzo una colonna di fumo grigia saliva da un falò sul quale un grosso pentolone era stato posto.
Poco lontano pochi cavalli erano legati a un giovane tronco.
Qualcosa di metallico rifletté la luce del fuoco da terra, ma lo spadaccino non capì cosa potesse essere. Tutto quello che poteva avvertire in quel momento era il vento che gli fischiava attorno in quella caduta vertiginosa.

Bene, anche lui è andato.
So di essermi dimenticato qualcosa, ne sono sicuro. Facciamo un piccolo riepilogo.
Il gruppo della maga dovrebbe essere quasi arrivato ai Monti Muraglia, se non hanno trovato intoppi. Loro non mi spaventano troppo, finché le ultime due rimarranno insieme non saranno in pericolo.
L’elfo albino è nella porta. Non è in pericolo, per il momento.
Lo spadaccino sta per raggiungere la sua prova sotto di me e, anche se avesse dei problemi, non potrei intervenire.
Il cataclisma è in una zona relativamente tranquilla della Vivente. Deve solo decidersi a raggiungere la sua prova.
Certo. Non mi resta che fare rapporto. Ecco cosa devo ancora fare. Posso fare un salto ora da loro, tanto mi serve un secondo,  poi posso tornare a quei mocciosi. 

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Capitolo 23
*** Capitolo 19: Un ultimo sforzo ***


 La strada sassosa continuava a salire mentre i piccoli pini che la costeggiavano si facevano sempre più radi.
Hile si voltò indietro di colpo, facendo sbattere l’arco che teneva a tracolla contro qualcosa dentro la bisaccia, forse la borraccia.
La luce del sole sembra rincorrerli. Era mattina inoltrata, ma ancora non c’era traccia dei caldi raggi su quel versante dei Muraglia. A valle le prime colline cominciarono a risplendere grazie alla rugiada che si era posata sulle larghe foglie delle viti e sugli acini scuri oramai ben vicini alla loro raccolta.
Un tornante e una trentina dei metri più in basso il Drago e il Corvo arrancavano lungo il sentiero in terra e pietre, spingendo con le mani sulle ginocchia ogni volta che un masso si presentava come gradino naturale.
Nonostante fossero mesi che viaggiavano assieme, c’era ancora un abisso di differenza tra lui e le due ragazze per quel che riguardava la forza nelle gambe.
Il Lupo si era fatto lasciare gli oggetti più pesanti, in modo da consentire al gruppo un passo più svelto di quello che avrebbero tenuto altrimenti.
L’assassino si sistemò la corda dell’arco in modo che appoggiasse sulla sua clavicola, poi tornò a guardare il panorama. Una grossa nuvola bianca gettava la sua ombra sulla terra, gettando oscurità su tutto quello che si trovava sul suo cammino.
Avevano avuto fortuna. Due giorni dopo la loro partenza da Zadrow avevano incontrato una carovana di mercanti che avevano assoldato due Aquile e un Serpente come scorta. Bastò far vedere il tatuaggio sul polso per assicurarsi un passaggio fin sotto le pendici dei Muraglia.
Maga e arciere arrivarono al piccolo spiazzo nel quale si era fermato il Lupo.
- Volete fermarvi un attimo a riprendere fiato? – chiese Hile sistemandosi la tracolla contro il fianco.
- No… non voglio farti perdere tempo… - gli rispose Keria con il fiato corto. – Vuoi che mi riprenda il mio arco? Ti da fastidio? –
- No, lo tengo io, tranquilla. Dai, tanto la giornata è ancora lunga e non abbiamo una scadenza, da quanto so. Riposatevi un poco. –
Non si sarebbero dovuti fermare, Hile lo sapeva, ma anche se avessero continuato non sarebbero andati molto lontani. Per lo meno lì dov’erano c’era ancora ombra e un dolce venticello fresco.

Non era un percorso così complicato. Una qualunque famiglia cittadina avrebbe potuto arrivare al passo in una giornata di cammino, ovviamente scarica dai bagagli. Hile calcolò che, da solo e con solo il peso dei propri oggetti, ci avrebbe potuto impiegare poco più di quattro ore a percorrere i millecinquecento metri di dislivello che separavano la sua meta dalle colline sottostanti.
Le sei ore che impiegarono, pensò il Lupo, erano tutto sommato un buon tempo, probabilmente frutto anche dei mesi di marce giornaliere.
Le sacche caddero accanto a una roccia mentre il sole batteva sulla terra sterile e sulle pietre rossicce del passo. Poco più di una decina di metri in piano divideva il versante occidentale da quello orientale delle Terre.
Sulla parete che limitava a nord il passo, una ripida scala scavata nella roccia saliva verso una torre in mattoni, un belvedere che permetteva allo sguardo di spaziare sul paesaggio per decine di chilometri.
Al centro del pianoro una statua alta più di un metro e mezzo dominava il luogo sulla sua pedana.
La scultura era in marmo bianco, bellissima nonostante lo sporco che si era depositato negli anfratti e negli incavi della pietra. La figura era quella di una fata dalle membra esili, le punte dei piedi toccavano appena la base mentre il braccio destro si allungava verso il cielo. Le ali erano state fermate completamene distese e lo sguardo puntava verso le alte nubi. A completare la statua, era stata scolpita una borsa da viaggio a tracolla della fata ingigantita.
Hile girò intorno a quell’opera d’arte, fermandosi accanto a una targa incastonata nel marmo.
“ Con questa statua voglio ricordare la fata che passò per questo passo per portare ai ribelli orientali gli ordini del Cavaliere Ardof, rischiando perfino la sua vita nell’impresa. Voglio sperare che chi passi da questo luogo in futuro possa esserne ispirato. Vago Tocsin, governatore della Terra degli Eroi.”
- Hile, a terra! – urlò una voce alle sue spalle.
Il cervello non ebbe il tempo di elaborare il messaggio, ma anni di addestramento avevano reso i suoi muscoli scattanti. Le gambe si piegarono in una frazione di secondo mentre le mani correvano ai due pugnali conservati nei foderi alla cintura. Gli altri dieci erano accuratamente riposti assieme all’abito da cerimonia nella sacca.
Il Lupo fece correre lo sguardo tutto intorno.
Il tempo pareva essere stato rallentato mentre il cuore dell’assassino batteva ritmico e rumoroso nel suo petto.
Un’ascia da boscaiolo passò là dove poco prima si trovavano le spalle del ragazzo.
Dietro di lui la grassa pancia di un nano copriva una porzione di cielo.
Era do solo? Si. No, c’erano altre due ombre dalle spalle larghe.
Sulla parete di fronte al lanciatore di coltelli si condensò per poco più di un secondo la figura, alzando tre dita, per poi tornare a confondersi tra le ombre delle rocce.
Erano solo tre, ne aveva la conferma.
Mea e Keria si mossero veloci verso le sacche, almeno loro non erano ancora state attaccate.
Le lame vennero estratte completamente dai foderi.
Hile ruotò il busto verso destra, facendo compiere una larga mezzaluna al primo coltello sotto la prominente pancia che lo sovrastava. Le gambe lo spinsero lontano dal fiotto di sangue che uscì dalla ferita mentre l’aria si riempiva di urla incomprensibili.
Come avevano potuto prenderlo alla sprovvista? Si era distratto, non era rimasto in guardia. Non sarebbe più successa una cosa del genere.
I sensi tornarono ad acuirsi.
Un rumore di passi riverberò nella terra a destra.
Doveva fidarsi dei suoi compagni di avventura e rimanere concentrato.
Si abbassò di nuovo e una spada corta e larga gli fischiò sul capo.
Tornò a muoversi contro il suo obbiettivo, ignorando la freccia che frusciò a pochi centimetri dal suo viso per andare a colpire la gola del secondo aggressore.
Hile saltò in alto, lanciando un coltello verso la fronte della sua preda.
Una palla di fuoco illuminò il campo di battaglia, incenerendo una freccia in volo e colui che l’aveva scagliata.
La testa del nano armato di ascia risentì del contraccolpo della lama piantata nel cranio, lasciando il mento alto e la gola in vista.
Il coltello ancora stretto tra le dita si fece largo tra le vene e i muscoli, andando da disegnare un profondo solco che ben presto prese a ospitare copiosi zampilli di sangue che usciva a ritmo con i battiti sempre più lenti di quel cuore morente.
Il tempo riprese a scorrere normalmente agli occhi del Lupo.
- Da dove diavolo sono comparsi, quelli? – chiese Hile voltandosi verso le compagne di viaggio.
Mea si portò fin sul limitare del piano, là dove il sentiero riprendeva in discesa verso il versante orientale. – Credo di potertelo dire io. Qui sotto c’è un campo montato. Credo fossero reietti del regno nanico. –
Il lanciatore di coltelli si sedette di fianco al cadavere della sua vittima, pulì la lama dei coltelli dal sangue e li mise nei rispettivi foderi. Poi intinse l’indice e il medio nel liquido vermiglio che ristagnava nella ferita al collo, offrendo quella preda a Oscurità come segno del proprio impegno. La sua prima vittima. La prima preda che colpiva. Si sentiva leggermente disorientato, ma non provava null’altro nell’animo a quel pensiero.
Poco distante Keria pianto con forze la punta di una freccia sotto lo sterno della sua vittima, mentre la mezzelfa poggiava un foglio con un glifo tracciato sopra sulla fronte del cadavere carbonizzato.
Quando tutti ebbero finito i loro rituali, tornarono a guardarsi in silenzio.
- Credo che qui ci dovremmo salutare.- disse Hile gettando uno sguardo alla scalinata che portava al belvedere. Quella, probabilmente, era la sua strada.
Il ragazzo venne preso alla sprovvista quando ricevette i due abbracci successivi. Erano compagni di viaggio da tempo, avevano condiviso esperienze di tutti i tipi, ma non si erano mai lasciati al contatto fisico, forse anche per via dell’impronta che la setta aveva dato loro.
Il Lupo, dopo gli ultimi saluti, non poté far altro che guardare la schiena della maga e dell’arciere allontanarsi con il sole alle spalle.

L’ombra si condensò al suo fianco, con il profilo rivolto a est.
- Che ne dici? Puliamo questo disastro e ci incamminiamo? – chiese Hile spostando lo sguardo verso i cadaveri che avevano trascinato contro la parete rocciosa perché non dessero fastidio.
La risposta dell’ombra fu un’alzata di spalle.
Al ragazzo parve che la figura stesse guardando qualcosa nelle Terre dell’Est e che quel gesto celasse forse una preoccupazione. Ma si tolse dalla testa quei pensieri, aveva capito da tempo che quell’ombra non era altro che una proiezione dei suoi pensieri, che altro poteva essere?
I corpi dei tre nani caddero pesantemente sul fianco del monte, rotolando per diversi metri di dislivello per poi perdersi tra gli arbusti.
Hile prese quindi un respiro profondo guardando la scalinata di fronte a lui e, in cima a questa, la torre che si alzava verso il cielo.
Mise il piede destro sul primo scalino e cominciò la salita, mentre l’ombra si dileguava alle sue spalle.


Detesto queste situazione. Non le sopporto.
Già ringrazio che non mi abbiano aggiunto anni di pena per qualche cavillo.
Quei maledetti si ricorderanno che io sto seguendo una missione non proprio facilissima? No, ovviamente.
Scusatemi, non ci starete capendo nulla.
Potrei lasciarvi così, confusi, ma poi non riuscireste a starmi dietro.
In sintesi: Sono entrato nel palazzo di giustizia di Gerala, qui mi Loro mi hanno accolto con un posto vuoto. Cosa significa? Che hanno fatto fuori un membro scomodo. Quindi gli ho fatto rapporto sull’andamento della mia missione. Mi sono girato e ho aperto la porta. E loro mi hanno bloccato.
Maledizione. Non solo mi hanno affidato un’altra missione disgustosa, ma, tra l’altro, non posso neanche portarla a termine ora che non ho troppe preoccupazioni, tipo una guerra in corso. “Devi aspettare il nostro segnale” hanno detto. Quindi, oltre che fare da mamma a quei sei mocciosi, dovrò tenere anche le orecchie dritte per sentire se nel bel mezzo della Grande Vivente viene suonato un tamburo con un diametro di quindici metri.
Si, hanno voluto fare le cose in grande.
Questa storia finirà malissimo. Me lo sento.
Comunque, vediamo di raggiungere la Piana Infinita, dovrebbero essere lì le ultime due.


La discesa dai monti fu particolarmente tranquilla per le due assassine. Non incontrarono altri campi di reietti lungo la loro strada e riuscirono a raggiungere le prime colline prima che il cielo si incupisse completamente.
La mattina seguente anche loro si dovettero salutare. Mea sarebbe salita verso Nord, dove, da qualche parte su quelle colline, si nascondeva la sua meta; Keria avrebbe invece continuato verso Est, seguendo per un breve tratto le sponde del fiume Serat dove, così diceva il suo pezzo di mappa, qualcosa l’avrebbe attesa.
L’arciere guardò per un attimo la compagna che si allontanava, scendendo velocemente la dolce discesa in mezzo all’erba alta, poi guardò di fronte a se. In meno di una giornata avrebbe raggiunto la linea azzurra che brillava in mezzo alla pianura di fronte a lei. Bastava un ultimo sforzo, nulla, in confronto di quello che aveva fatto per arrivare fin lì. 

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Capitolo 24
*** Capitolo 20: Il guerriero del Sole ***


 Hile guardò la torre in mattoni che gli cresceva davanti. Non voleva perdere tempo, un dio minore lo aveva scelto e quantomeno non voleva farlo attendere.
Attraverso l’arco si poteva intravedere una scala a chiocciola immersa nella penombra. Il Lupo si guardò attorno. L’ombra non pareva intenzionata a comparire.
Il lanciatore di coltelli oltrepassò l’arco sperando di non aver preso un abbaglio e non aver sbagliato posto.
La scala saliva inesorabile ed a ogni passo i gradini in legno sostenuti da uno scheletro di ferro scricchiolavano rumorosamente
La salita durò più del previsto, ma il Sole, alla fine, si decise a comparire dalla botola che portava al terrazzo posto in cima alla struttura.
Ad accoglierlo fu uno splendente sole di mezzogiorno, all’apice del suo cammino. Tutto intorno una foschia rendeva indistinto il paesaggio, quasi fosse un dipinto in cui i contorni erano stati lasciati nebulosi.
Qualcosa non era giusto.
Il Lupo guardò il cielo limpido. Aveva lasciato Mea e Keria nel primo pomeriggio e, da allora, non aveva fatto altro che arrivare al belvedere, entrare nella torre e salire quella maledetta scala. Non poteva aver impiegato quasi un giorno a salire quegli scalini, per quanti fossero. Così come il tempo non poteva essere tornato sui suoi passi.
Hile si voltò e, alle sue spalle, non riuscì a trovare la botola dalla quale era entrato.
Per sicurezza si mise addosso la casacca da assassino, la pelliccia alchemica di lupo, sistemando accuratamente i coltelli nelle otto tasche e fece un sopralluogo del balcone.
La sommità della torre era una circonferenza quasi perfetta, pavimentata con pietre lisce e racchiusa da un anello di merli in mattone che si sollevavano fino all’altezza della vita.
Niente occupava il pavimento, ora che la botola era scomparsa.
Sporgendosi dai merli il terreno non si riusciva a scorgere per via della cortina indistinta e immobile che si era impadronita della terra.
Un raggio di sole parve farsi più intenso al centro del balcone e Hile si infilò velocemente i guanti. Se quella era la sua prova, difficilmente sarebbe stata una partita a dadi.
Una figura antropomorfa di pura luce nacque da quel raggio di Sole. Sarà stata alta quasi tre metri, stimò il ragazzo.
La pelle della creatura prese a splendere con intensità crescente, mentre un largo scudo rettangolare e uno spadone enorme si plasmavano nelle sue mani. Bene presto la luce emanata da quell’essere fu così accecante da far abbassare gli occhi al Lupo.
Tre secondi passarono pesantemente, tre secondi in cui la figura non si mosse, tre secondi in cui Hile ebbe paura a respirare. Poi, senza accennare a produrre un suono, la creatura parve muoversi.
Il Lupo si mosse appena in tempo per evitare lo spadone che piovve sulle pietre del pavimento.
Il ragazzo alzò gli occhi, ma rimase accecato prima ancora di capire e elaborare dove fosse il suo avversario.
Strinse sei coltelli tra le dita, acuendo l’udito per poter percepire dove fosse la creatura.
Ci fu un fruscio lieve, appena accennato. Un secondo dopo Hile si trovò senza fiato con la lama dello spadone premuta contro il fianco sinistro.
Cadde a terra, dopo diversi metri di volo. I suoi polmoni non volevano saperne di incamerare aria e il fianco gli pulsava, lanciandogli fitte intermittenti di dolore.
Provò a ritrovare la calma. Da quel suo errore poteva scoprire qualcosa.
Tenne lo sguardo fisso sul suo addome, costringendosi a non alzarlo per nessuna ragione.
Un taglio profondo si era aperto sopra l’anca, obliquo. Questo voleva dire che il suo avversario colpiva tenendo la punta della spada rivolta verso il basso.
Un altro fruscio appena percettibile.
Hile tentò di evitare quello che sapeva essere un altro fendente indietreggiando rapidamente.
La punta della spada lo colpì alla gamba destra, non provocandogli però una ferita eccessiva.
Aveva quasi capito come evitare i colpi. Ma se non avesse scoperto velocemente come contrattaccare sarebbe sicuramente morto, se non per mano di quell’essere, dissanguato dalla ferita al fianco.
Un terzo fruscio.
Il Lupo si gettò in avanti, rotolando sul terreno.
La spada provocò uno spostamento d’aria sopra di lui, mancando però il bersaglio.
L’assassino si fermò contro qualcosa di morbido. L’immagine dell’essere si fece strada tra i suoi pensieri e la mano destra si mosse scattante, pugnalando quella che doveva essere una caviglia con i tre coltelli che teneva stretti.
Un liquido colò sul guanto, ma la creatura non emise neppure un gemito.
Hile si rialzò velocemente. Poteva ferirlo. Poteva vincere quella sfida.
Il taglio al fianco mandò una fitta particolarmente dolorosa, ma il ragazzo cercò di rimanere concentrato.
Abbassò lo sguardo. La sua ombra lo precedeva, ingrandendosi poco alla volta.
Era dietro di lui.
Corse fino a raggiungere i merli, sospirando nel vedere l’ombra ridursi notevolmente.
Non era veloce, quella cosa. Poteva prenderla alla sprovvista.
Lasciò cadere un coltello per terra, cominciando a seguire il limitare del balcone a passo svelto.
Contò quindi passi, poi fece cadere un altro pugnale. Continuò così, finché non gli rimase solo uno dei due foderi alla cintura pieno.
Aveva nove coltelli lungo tutto il perimetro del belvedere.
Controllò l’ombra sotto di sé. L’essere di luce lo stava inseguendo.
Hile attraversò la piazza di corsa, con il capo basso per evitare eventuali colpi di quella spada distruttrice.
Raggiunto il capo opposto della circonferenza guardò per una frazione di secondo il cielo terso. Ce l’avrebbe fatta a sconfiggere quella cosa. Un leggero capogiro gli offuscò la vista.
Doveva resistere ancora un poco.
Con la mano destra strinse il pugnale rimasto, con la sinistra cominciò a tenere premuta la camicia e la casacca contro la ferita che non pareva essere intenzionata a smettere di sanguinare copiosamente.
L’ombra cominciò ad allungarsi. Finita la pietra del pavimento cominciò a risalire i mattoni dei merli.
Quello scudo che aveva intravisto prima lo avrebbe protetto da qualsiasi attacco frontale, si disse il Lupo, ma la schiena non era protetta.
- Rènez. – disse concentrandosi sul pugnale che aveva lasciato al capo opposto, dopo aver calcolato che la creatura fosse all’incirca al centro del balcone.
Il pugnale non arrivò alla mano del ragazzo, qualcosa si era messo sul suo cammino. Hile lasciò la magia di Mea scemare, smettendo di richiamare a sé quel pugnale.
Percorse in fretta, quindi, un quarto del bordo. Lascando giusto il tempo al colosso per voltarsi verso di lui.
La sua debolezza era la poca intelligenza, si disse Hile richiamando due coltelli dalla parte opposta.
Di nuovo nessuno dei due riuscì a raggiungere la mano.
La luce emanata dalla creatura parve farsi più flebile.
Hile continuò a seguire la sua strategia. Richiamò a sé coltello per coltello, esultando dentro di sé ogni volta che le sue dita si chiudevano nell’aria perché la lama non l’aveva raggiunto.
Quando il nono coltello non arrivò la luce si era fatta così debole da poter essere sopportata dagli occhi.
Il Lupo alzò lo sguardo verso il suo rivale.
Il colosso continuava ad avanzare inesorabile, continuando a calpestare un liquido simile ad acqua, quello che doveva essere il sangue che gli stillava dalla schiena.
Hile accarezzo il manico del coltello che teneva in pugno. Dagli intarsi riconobbe che era quello che gli aveva regalato Renèz.
Strinse quella lama con tutta la sua forza e si gettò contro l’essere luminoso.
Lo spadone si mosse per colpirlo, ma il ragazzo si gettò a terra prima che questo potesse colpirlo.
Il pugnale colpì tre volte. Per prima cosa affondò nel ginocchio sinistro del colosso, poi lasciò un profondo solco dal basso verso l’alto nell’addome. Infine Hile saltò più in alto che poté, affondando a due mani quella lama nel cranio dell’essere.
Caddero entrambi, uno sull’altro.
La testa del ragazzo si fece sempre più pesante mentre il corpo della sua preda si dileguava in un fitto polviscolo di luce. Alla fine, sul belvedere, rimase solo il ragazzo attorniato dai suoi coltelli.
Tutto intorno l’ambiente si fece nero.

Quando Hile riaprì gli occhi la prima cosa che vide fu un soffitto. Un soffitto in pietra lucida, splendente.
Il ragazzo si mise a sedere.
Era in una stanza. Sparsi sul tappeto su cui era appoggiato c’erano tutti i suoi coltelli, mentre in un angolo era appoggiata la sua borsa da viaggio.
La stanza era maledettamente chiara. Le pareti e il soffitto erano bianchi, illuminate da un fuoco freddo che scoppiettava in un camino incassato nella parete di destra e da una lampada, appoggiata su una scrivania in legno rosso. Il tappeto, per terra, riportava ricamato con incredibile maestria una notte in cui l’enorme luna piena e le stelle parevano essere quelle vere.
Il Lupo si alzò in piedi, tastandosi il fianco. L’unico segno rimasto della ferita era il sangue incrostato nella trama del tessuto della camicia.
Un’altra cosa singolare che attirò l’attenzione dell’assassino fu il fatto che non ci fossero né porte, né finestra in quell’ambiente.
Un’idea colpì Hile come un fulmine a ciel sereno. Non poteva essere morto, quella non era la Volta… ma, allora, dov’era? E perché le sue ferite erano guarite? Quanto tempo era passato da quello scontro?
Il ragazzo cominciò a camminare istericamente avanti e indietro sul tappeto, cercando di calmare i battiti accelerati del proprio cuore e le pulsazioni delle sue tempie. Il cuore gli batteva, no? Quindi non poteva essere morto.
L’ombra si materializzò a fianco del camino, in piedi, come se avesse la spalla destra appoggiata sulla cornice in pietra del focolare.
- Hai visto che bel posto in cui sono finito? Ora vorrei solo sapere cosa dovrei fare, porco Reis. Almeno mi avessero lasciato un biglietto con su scritto “ Hai fallito la tua prova, ora dovrai rimanere rinchiuso qui dentro per le eternità”, sarei stato più felice. Almeno non sono qui da solo…–
- Cosa pensi di fare, ora? –
- Cosa vuoi che faccia! Niente! Non ci sono né porte né finestre. Sono chiuso qui dentro senza via di fuga! –
Il Lupo fermò la sua camminata isterica di colpo. Un campanello di allarme suonò nella sua testa. Qualcosa non quadrava e lui non se ne era reso subito conto.
In quella stanza c’erano solo lui e la sua ombra. Non riusciva a spiegarsi da dove arrivasse quella voce.
- Chi sei? Perché non ti vedo? – riuscì a chiedere.
- Scusami, parlare in questo modo deve essere fastidioso. Ora vengo da te. –
La figura al fianco del camino parve prendere consistenza e cominciare man mano a staccarsi dalla parete. Poco a poco i lineamenti si fecero più distinti mentre l’ombra si tramutava in una figura tridimensionale.
Bastarono pochi secondi per far sì che la figura indistinta sul muro si tramutasse in una donna abbronzata. I lunghi capelli neri scendevano sciolti dietro la schiena mentre due occhi policromi osservavano il ragazzo divertiti. Il destro era azzurro come un ghiacciaio, il sinistro, color pece.
Le labbra della donna si incresparono in un sorriso mentre lei fece qualche passo avanti facendo ondeggiare alle sue spalle l’abito bianco come la luna.
- Perché non parli più con me? – chiese lei storcendo la testa di lato.
Hile non riusciva a respirare. Le immagini dell’ombra che lo aveva accompagnato da quando la setta lo aveva inglobato e quelle della statua nella sala di preghiera dei Lupi continuavano a sovrapporsi sull’immagine di quella donna che gli stava di fronte.
- Avanti, prova a dire qualcosa. – Lo incitò la donna con voce beffarda.
- Tu non puoi… non puoi essere… l’ombra, la mia… - balbettò con gli occhi sgranati il Lupo senza riuscire a muovere nemmeno un passo.
- È una storia un po’ lunga. Hai voglia di ascoltarla? – continuò la donna andandosi a sedere sull’unica sedia dietro la scrivania. – Devi scusarmi se non ti offro un posto per accomodarti, ma normalmente non ricevo visite. Facciamo così: io comincio a spiegarti qualcosa, poi, quando ti sarà tornata la parola, potrai farmi tutte le domande che vuoi. Penso di dover cominciare le presentazioni, Hile. Come penso avrai capito il mio nome è Oscurità e sì, penso di essere quella dea che hai cominciato a pregare… quanti? Otto, nove anni fa. Passiamo allora al motivo per cui sei qui. Questa, stai tranquillo, non è una prigione, possiamo dire che sia il mio angolo di spazio privato. Ti ho fatto arrivare fin qui per spiegarti cosa è successo e per poterti parlare per una volta faccia a faccia. –
- Ma tu non puoi essere la mia… la mia ombra. – Hile non riusciva a pensare a null’altro all’infuori del fatto che la figura che l’aveva accompagnato esistesse per davvero.
- Vuoi cominciare da quello? Come preferisci. Io ti ho scelto quando ancora non eri nato, ho riposto in te la mia fiducia, e non riuscivo a sopportare che il mio campione non avesse nessuno a consolarlo. Io sono l’oscurità, dimoro in ogni ombra e in esse mi manifesto pur non potendo assumere forma fisica nel Creato. Quello che voglio che tu sappia fin da subito, è che non ti lascerò mai solo finche un solo filo d’orbe proietterà la sua ombra sul terreno. –
La donna si alzò dal suo posto, andando ad appoggiare dolcemente la mano sul capo del Lupo.
Hile avvertì una sensazione familiare, la stessa che provò nella cella, nei suoi primi giorni da assassino, quando la figura si chinò su di lui. Un senso di protezione lo avvolse come una calda coperta, liberandolo per qualche secondo dal senso di oppressione che lo aveva cominciato a divorare da quando si era svegliato in quella stanza.
- La prova… l’ho superata? – chiese Hile chiudendo gli occhi per poter godere appieno di quel tocco paradisiaco.
- Secondo te? – gli chiese di rimando Oscurità tornando al suo posto.
- Non lo so. Dipende. – Nella mente di Hile riaffiorò per qualche istante un vecchio ricordo, un’esercitazione di assassinio che non aveva superato perché non aveva colto la reale missione che gli era oggetto della prova. – Se la prova consisteva solamente nello sconfiggere quella cosa di luce, forse l’ho superata, se non sono morto. Se invece non era quello l’obbiettivo a cui dovevo puntare, allora hai riposto le tue speranze nella persona sbagliata. –
- Mi piace come risposta. Bravo. In realtà, non era tanto l’uccidere l’avversario, quanto il metodo con cui lo si è fatto. Per questo ho chiesto a mia sorella la possibilità di usare uno dei suoi Guerrieri del Sole. –
- Ma nelle Scritture c’è scritto che voi dei  minori non possedete servitori o armi. – protestò Hile.
- Infatti. Ognuno di noi ha sviluppato dei propri metodi di difesa. Chi trappole, chi guerrieri, ma sono tutte marionette senz’anima né coscienza. Nessuna delle nostre creazione può essere minimamente paragonata ai servitori o alle armi elementari. –
- Tornando sulla mia prova… -
- Certo. Lascia che mi congratuli con te, perché l’hai superata. Sei riuscito a utilizzare le ombre per poter battere il tuo avversario. Hai usato la tua intelligenza e ogni asso nella manica che avevi per uccidere un essere superiore a te come forza e potere. Ora so che posso donarti il potere di cui avrai bisogno, ma sappi che dovrai accudirlo per farlo sbocciare in tutta la sua potenza. –
Oscurità allungò una mano in orizzontale, con il palmo della mano rivolto verso il pavimento. Le ombre che danzavano nella stanza a ritmo del fuoco parvero farsi viscose, colando sul pavimento fino a raggiungere il fianco della dea. Dall’ammasso oscuro che si formò qualcosa di solido cominciò a prendere forma, dapprima indistinto, poi via via sempre più dettagliato.
Quando la dea ebbe finito, sul pavimento alla sua destra giaceva una cucciolo peloso, dal  lungo pellame grigio e il muso nero come una notte senza stelle.
- Questo è un Athur grigio, il grande lupo delle foreste che abitava la Grande Vivente fino a non molti anni fa. Questo è anche il tuo compagno che non è un compagno, nonché la fonte del potere che ti ho donato. Fanne buon uso. –
Hile prese in braccio il cucciolo, guardandolo stralunato. Un animale. Il compagno che gli dei dovevano donargli era un animale. Non riusciva a capire come quella palla pelosa potesse aiutarlo nell’impresa che lo aspettava.
- Probabilmente non potremo più parlare per molto tempo. Hai ancora qualche domanda da farmi, prima di tornare sulle Terre? –
- Solo una. Tu sei la dea dell’Oscurità, colei che danza nelle ombre, colei che opprime i malvagi e da sollievo ai bisognosi. Perché le pareti bianche? –
La donna scoppiò in una risata cristallina, sincera.
Oscurità si sistemò il vestito bianco, per poi rivolgere di nuovo lo sguardo all’assassino. – Ho scelto il bianco per questo posto, perché è dove regna la luce che le ombre si fanno più intense. –
- Grazie. Continuerò a vederti, d’ora in avanti? –
La stanza si fece indistinta intorno al ragazzo.
- Finché ci sarà un filo d’erba a gettare la sua ombra sulla terra, io sarò con te. – fu la risposta lontana.

Hile si trovò di nuovo sul belvedere.
La nebbia che avvolgeva il panorama si era dispersa, permettendo così allo sguardo di spaziare sulle terre circostanti.
Il cucciolo di lupo si mosse in braccio a Hile, emettendo un leggero borbottio dalla gola.
L’assassino raccolse velocemente i coltelli ancora sparsi per terra, per poi scendere nuovamente al Passo del Messaggero.
Potevano essere passati dei giorni, da quando aveva lasciato Mea e Keria, così come potevano essere trascorse solo poche ore.
Il sole risplendeva basso a Est, messaggero di un nuovo giorno.
La figura comparve poco lontana dalla scala.
- Non ti deluderò. – gli disse il ragazzo, ricevendo in risposta solo una scrollata di spalle.
Avrebbe preso un sentiero poco lontano, decise, che percorreva il crinale dei Monti Muraglia arrivando fino al Flentu Gar. Quella era la strada più veloce per raggiungere il punto di ritrovo. 

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Capitolo 25
*** Capitolo 21: L'orda ***


 Seila guardò di nuovo la botola per terra.
Erano passati tre giorni da quando Nirghe l’aveva lasciata lì, da sola.
Cosa pensavano? Che lei da sola fosse in grado di sconfiggere qualcuno? I Serpenti avevano bisogno di preparativi lunghi, non potevano combattere quando volevano.
Delle risate sguaiate risuonarono poco lontane. Ad accompagnarle c’era un rumore di diversi scarponi che battevano contro il terreno e un suono di ferro contro ferro.
Erano tanti gli uomini che si stavano avvicinando.
Il Serpente si guardò intorno. Nella radura non c’era un solo posto per nascondersi e se fosse rientrata nella Grande Vivente non sarebbe riuscita, probabilmente, a ritrovare quel posto.
L’erborista guardò con disgusto la botola davanti a lei. Poi l’aprì e si fece largo con le lacrime agli occhi tra le spesse ragnatele che costellavano il cunicolo che si presentava oltre l’apertura nel terreno.
La botola si richiuse alle spalle dell’elfa poco prima che un gruppo di uomini entrasse all’interno della radura.
Seila avanzò a tentoni, muovendo la lunga cerbottana nel buio, con grosse lacrime che le rigavano il viso e le cadevano dal mento sulla camicia. La mano sinistra, intanto, tastava il muro. Un urlo acuto uscì dalla sua bocca quando incontrò un’ampia ragnatela che ostruiva tutto il passaggio.
Solo dopo parecchi metri nella più totale oscurità la mano dell’elfa bionda andò a toccare un freddo anello in ferro, una porta in legno riposava sotto questo.
L’elfa tirò con quanta forza aveva in corpo, smuovendo quel battente quel poco che bastava per far filtrare un’innaturale luce blu nel corridoio.
Il Serpente scivolò nella stanza dalla quale la luce proveniva.
Sul soffitto, pendente, un’unica, lunga stalattite luminosa scendeva verso il pavimento, dove ristagnava un sottile velo d’acqua.
Sulla parete della sala circolare, oltre a quella dalla quale era entrata Seila, riposavano due porte identiche.
- C’è qualcuno? – urlò a gran voce l’erborista, sentendo solo il rimbombo delle sue parole contro le pareti umide.
Seila provò a fare qualche passo avanti, cercando di evitare di mettere il piede nelle pozzanghere melmose che costellavano il suolo.
Una brezza parve soffiare per una frazione di secondo all’interno della sala. Poco dopo una delle due porte si aprì, lasciando lo sguardo spaziare nel nero più scuro che si possa immaginare. Nulla si riusciva a cogliere oltre quella soglia.
Poi una figura si fece avanti lentamente. La testa era larga, mentre il corpo pareva ondeggiare, colpito dalla luce della stalattite azzurra.
Una mano guantata oltrepassò la cornice della porta.
Seila saltò indietro, cercando disperatamente la porta dalla quale era entrata, ma trovando solo una liscia parete che non lasciava nemmeno sperare in uno spiraglio.
Un corpo ricoperto di lunghe piume comparve nella grotta.
- Ma che… -
- Jasno? – chiese il Serpente con le spalle premute contro la parete umida.
- Seila? Che ci fai qui? – chiese di rimando l’elfo albino, facendo qualche passo verso il centro della sala e scoprendo il capo dal cappuccio.
- Questo è il posto dove dovevo andare! Sei tu a essere entrato dal muro! Ma non dovevi andare a sud tu? – continuò l’elfa bionda staccandosi di pochi passi dal muro.
- Si… Esattamente, dov’è che siamo? Io sono entrato in una porta in mezzo a un campo… lascia perdere, è una lunga storia. Comunque, che posto è questo? –
- Non lo so… Io sono entrata in una botola per terra, c’era un corridoio con tantissime ragnatele. E poi ho trovato una porta sulla parete e sono entrata qui. –
- Quindi siamo in una grotta sotto terra? Sotto la Grande Vivente? –
- Credo di si… - Seila, a piccoli passi, aveva raggiunto il compagno. Incerta se quello che aveva davanti a sé fosse davvero Jasno.
- Che caos… - fu l’unico commento dell’Aquila.

La terza porta si aprì di colpo, sbattendo violentemente contro la parete.
La cortina buia riposava anche dietro a quel battente.
- Pensi che dovremmo entrare? – chiese Seila con un filo di voce, portandosi alle spalle di Jasno.
Un tonfo riverberante scaturì dall’ingresso, spandendosi nella grotta azzurra e facendo sobbalzare i due assassini.
Pochi secondi di silenzio. Tre, quattro. Poi un altro tonfo.
Due secondi. Un altro tonfo. Seguito da un quarto, un quinto, sesto, sempre più vicini, sempre più rapidi.
Poi tre figure umane uscirono dalla porta, seguite da altre quattro e altrettante dietro quest’ultime. In meno di due secondi la grotta venne riempita da trentacinque uomini magri, scarni, con lunghi capelli unti che ricadevano sulle camice logore e spade sbeccate strette tra le dita scheletriche.
- Cosa facciamo? – chiese Seila stringendo tra le mani le piume sintetiche dell’abito dell’Aquila.
In tutta risposta Jasno fece qualche passo indietro, allargando leggermente le braccia per prepararsi a qualunque cosa potesse accadere.
Una goccia d’acqua cadde dalla stalattite azzurra. Quando andò ad impattare contro la pozzanghera, il suono che produsse rimbombò nel silenzio della sala.
Quegli uomini scarni alzarono gli sguardi vacui verso i due assassini. Le iridi spente non tradirono nessun pensiero quando le spade si levarono verso il soffitto e le gambe si mossero sul pavimento bagnato.
Jasno saltò in alto, atterrando poi sul torace di un uomo, che cadde con le spalle a terra e il collo già torto.
L’aquila non perse tempo a guardare il cadavere. Afferrò un braccio che gli stava transitando vicino in quel momento con una presa d’acciaio. Con un movimento fluido si alzò facendo leva sull’arto che teneva in pugno fino a rompere l’articolazione della spalla. L’avambraccio sinistro, nel mentre, era già corso sotto il collo dell’uomo per interrompere il flusso di sangue al cervello.
Una spada gli sfiorò il fianco poco prima che l’elfo albino potesse ruotare per utilizzare la sua ultima vittima come scudo.
Il corpo del secondo uomo cadde a terra, ma l’elfo dai capelli bianchi si era già portato lontano.
Afferrò la testa di un uomo di fronte a sé, per poi utilizzarla da perno per poter portare le gambe all’altezza del collo di un secondo combattente. Le mani impiegarono meno di un secondo a rompere le prime due vertebre su cui si erano appoggiate, nello stesso tempo le gambe si chiusero intorno il collo del secondo uomo, trascinandone il volto contro il pavimento.
Jasno si rialzò velocemente, scrollando dagli stivali il sangue misto ad acqua e polvere. La ferita al fianco cominciò a mandare periodici segnali di dolore al cervello dell’assassino.
Un grido acuto distolse l’attenzione dell’elfo dall’obbiettivo che aveva preso di mira.
Seila era con le spalle strette contro il muro e la lunga cerbottana in pugno, tenuta di fronte a lei per cercare di tenere a distanza i quattro uomini che l’avevano raggiunta.
La mano bianca di Jasno colpì di taglio il retro del collo del primo uomo, facendolo crollare a terra e finendolo con una tallonata sul setto nasale. Saltò quindi fino a porta i piedi sul torace del secondo, fratturandogli qualche costola con il calcio che lo gettò contro i suoi compagni, che mise a tacere con poco meno di una decina di violenti pugni su volto e giugulare.
L’Aquila alzò il volto dai cadaveri, pulendosi le mani insanguinate nella giubba dell’ultima vittima.
- Riesci a fare qualcosa per fermarli? – chiese quindi l’elfo albino guardando l’erborista tremante.
- Io ho bisogno di tempo! Non ho dei veleni pronti, sarebbero marciti tutti! –
- A parte il fatto che tu, sapendo che c’era una prova, potevi preparare qualcosa. Adesso vedi di fare qualcosa, io cercherò di tenerteli lontani il più a lungo possibile. Di quanto tempo hai bisogno? –
- Io, cioè, non lo so… -
- Ascoltami! Il veleno che prepari in meno tempo. Va bene quello. Non mi interessa se ammazza o stordisce,  ho solo bisogno che lo prepari ora. – Jasno sentì una vena sulla tempia destra cominciare a pulsare. Non gli capitava spesso di arrabbiarsi fino a quel punto, ma in quell’occasione c’era in gioco la sua vita .
L’aquila si voltò, dando un rapido sguardo agli uomini ancora in piedi, che non parevano turbati dai cadaveri riversi sul pavimento.
Ventisette uomini ancora in grado di combattere. Contò l’assassino. Solo otto riversi per terra.
- La tua cerbottana sopporta i colpi? – chiese l’elfo senza voltarsi.
- Si… -
- Va bene. Tu cerca di calmarti. Dimenticati di chi c’è intorno a te e fai quello che devi. Io ti prendo in prestito la cerbottana. –
- Va bene… - gli rispose l’elfa bionda con voce tremante.
Jasno afferrò con forza la lunga canna, roteandola sopra la testa mentre correva contro i suoi avversari per imprimere maggior forza.
Non gli era mai piaciuto combattere con il bastone o le catene. Non si riusciva quasi mai a mettere a tacere una vittima immediatamente, per questo preferiva combattere a mani nude. Urlò con quanto fiato aveva in gola per attirare l’attenzione di quegli uomini, poi estremità della cerbottana colpì il primo corpo.
Jasno si compiacque nel vedere che quegli uomini avevano abboccato alla sua esca, perdendo di vista l’elfa inginocchiata per terra e intenta a scartabellare tra vasetti e provette in cerca di ciò che le serviva.
Il bastone colpì un polso, fratturandolo e facendo volare lontano la spada che poco prima quella mano impugnava.
Poi una stoccata sullo sterno di un uomo che cercava di colpirlo alle spalle, seguita da una sotto il mento di un avversario che gli si era parato davanti, fatale.
L’Aquila smise di sopprimere la foga che quel combattimento gli faceva ribollire nell’anima. Quella foga era nemica di chi combatteva a mani nude, poiché inibiva le capacità di ragionamento e di logica necessari per colpire con accuratezza l’obbiettivo. In quel momento, però, era la sua miglior risorsa.
Le piume dell’abito accentuava i volteggi dell’elfo albino in quella sua danza mortale. Il bastone roteava veloce, talvolta disegnano nell’aria archi vermigli di sangue.
I piedi si muovevano leggeri sul pavimento bagnato, facendo appena increspare l’acqua della pozzanghera quando questa si trovava sotto la suola dello stivale.
Le spade venivano per lo più deviate da quel tornado di legno.
Jasno riuscì a creare uno spazio vuoto attorno a sé. Non esisteva più un’orda di nemici, ma un’unica massa indistinta che andava colpita. Nulla più.
La frenesia del combattimento lo avvolgeva, quella danza caotica parve diventare quasi una forma d’arte.
- Maledizione! –
Una voce acuta riverberò nella stanza.
I piedi dell’elfo cercarono di continuare quei movimenti casuali che avevano seguito fino a poco prima, ma l’idea di ritmo li ostacolò in quest’impresa.
Il bastono rallentò, non volendo rimanere tra quelle dita non più concentrate sul combattimento.
Una spada si fece largo nella coscia sinistra, un’altra sulla schiena, all’altezza dei reni.
Con un ultimo colpo disperato Jasno si fece largo tra la folla che lo avvolgeva, incespicando sulla decina di cadaveri che aveva lasciato dietro di sé e segnando il suo percorso con una striscia di sangue.
- Che succede? – chiese irato con l’erborista, sputando qualcosa che gli sembrava sangue. Non sapeva dire se suo o di una delle sue vittime.
- Mi manca la polvere di calcite! Tutto quello che ho fatto finora non è servito a niente! –
- Tu mi hai distratto per questo? Alchimia di base. La facciamo anche noi. Siamo in una schifosa grotta e ogni singola goccia d’acqua contiene calcare. Fatti andare bene quello e non distrarmi di nuovo. –
Il respiro gli usciva affannoso, la gamba destra pareva non reggerlo più bene e qualcosa di viscido gli scorreva lungo la schiena, ma non provava dolore.
Guardò per una frazione di secondo la cerbottana sporca di sangue che teneva in pugno. Sembrava non aver subito nessun danno dal combattimento appena finito.
Cerco di prendere un respiro profondo, che si trasformo quasi immediatamente in un colpo di tosse.
Le gambe iniziarono a correre di loro iniziativa.
L’Aquila saltò, per poi atterrare con i piedi premuti sul torace di un uomo e la punta del bastone conficcato poco sotto il setto nasale.
L’elfo sentì nuovamente il sangue ribollire nelle sue vene, il senso di pesantezza che gli aveva attanagliato le viscere si smorzò, rendendo i movimenti più rapidi e fluidi.
I muscoli cominciarono a cantare una ballata di guerra frenetica.
Il bastone si muoveva apparentemente contro ogni legge della fisica, passando di mano in mano senza mai smettere di ruotare o anche solo rallentando la sua corsa.
Gli uomini cadevano uno dopo l’altro, alcuni rimanevano bocconi a terra, la maggior parte si rialzava, ma Jasno non ci prestava attenzione. Quella danza lo aveva completamente inebriato e a lui null’altro interessava, se non continuarla.
La stanchezza prese per qualche secondo il sopravvento. La gamba sinistra cedette per una decina di centimetri, prima che la muscolatura fermasse la caduta.
Una delle quattordici spade rimaste non perse l’occasione per lasciare un profondo solco sulla spalla destra.
Jasno cercò di restituire il favore, ma tutto quel che riuscì a fare furono due parate incerte.
Il suo corpo aveva raggiunto il proprio limite. Aveva consumato ogni riserva di energia in suo possesso, aveva dato fondo a ogni sua risorsa.
I muscoli si ricordarono come provare dolore, inondando il cervello dell’assassino di urla insostenibili.
Uno straccio umido venne premuto sugli orifizi dell’Aquila nel momento preciso in cui qualcosa di vetro si frantumò contro il pavimento.
La luce azzurra della stalattite assunse una tonalità verde per diversi secondi.
Inizialmente gli uomini rimasti in piedi parvero solo rallentati dalla nebbia che si stava condensando, poi i muscoli cominciarono a contrarsi e i primi cominciarono a cadere a terra.
Trenta frenetiche pulsazioni del suo cuore, contò Jasno, prima che l’ultimo uomo non cadde. Altre dieci prima che lo straccio venne sollevato dalla sua bocca.
Jasno si sentì pesante. Maledettamente stanco.
Vide ancora le orecchie scure di Seila comparire tra i capelli biondi. Poi i suoi occhi persero contatto con il mondo e i muscoli smisero di pulsare.

Seila si guardò intorno spaesata. Non era rimasto nulla della caverna in cui si trovava pochi secondi prima, né di Jasno, che era accanto a lei.
Era in una stanza bianca, anonima. Una gigantografia della cartina delle Terre era incorniciata sulla parete di sinistra, mentre di fronte a lei un uomo le dava le spalle, guardando dall’unica finestra un paesaggio boschivo, pacifico.
L’uomo si voltò, sorridendo con una chiostra di denti lucenti. Indossava abiti eleganti, sopra gli occhi chiari lunghi capelli neri erano stati pettinati all’indietro.
L’uomo si avvicinò a Seila, senza mai smettere di sorridere o perdere l’aurea di perfezione che lo circondava.
- Ciao Seila. – esordì.
- Ciao… tu chi sei? –
- Ammetto che la statua che mi hanno eretto non mi rende giustizia… bene, lascia che mi presenti. Il mio nome è Ordine, cara Seila. –
- Ordine… il mio dio? Proprio lui? –
- Temo di essere proprio io. Sai perché sei arrivata qui? –
- Sono morta? Ho sbagliato qualcosa nel veleno? –
- No. Proprio perché sei riuscita in mezzo a un combattimento a miscelare le giuste dosi sei qui. Sei riuscita a trovare un tuo ordine in mezzo al caos della battaglia, hai portato la calma nel tuo animo mentre ovunque infuriava la tempesta. Ti sei meritata la mia fiducia. Seila. Lascia che ti offra il potere che avevo riservato per te. –
L’uomo prese con due dita uno dei capelli che riposavano inerti sul suo capo, strappandolo con un colpo deciso.
Sul palmo della mano pulita, il capello crebbe in lunghezza e larghezza, aprì gli occhi mentre piccole squame color ocra ricoprivano il corpo indifeso.
Un serpentello aprì infine gli occhi per ammirare il mondo intorno a sè.
- Sai cos’è? – chiese ancora l’uomo.
- È un serpente… -
- Non solo. È un serpente del Deserto Rosso, anche detto l’Incubo dei Camabiti. Il suo veleno è il più letale al mondo. Ma non solo, lui sarà il tuo compagno che non è un compagno e in lui riposa il potere che ora ti dono. Abbine cura e rendimi fiero di te. –
- Grazie… - riuscì solo a dire Seila prendendo tra le mani il piccolo serpente.
- Ora non temere e va, i tuoi compagni ti attendono. E non aver paura per il compagno che era con te nella grotta, di lui avrà cura Caos. Alla prossima volta, Seila. –
La stanza svanì come svanisce un sogno.
L’erborista si ritrovò nella stessa grotta azzurra, attorniata solo da pozzanghere e fango. Dei corpi che l’avevano infestata fino a poco prima non era rimasta traccia.
Il piccolo serpente ocra si mosse tra le mani della ragazza, studiando la sala mentre la lingua tastava l’aria.
L’elfa bionda raccolse le boccette sparse e, presa la borsa e la cerbottana, aprì l’unica porta rimasta nella sala, ritrovandosi nella radura in cui tutto era cominciato.
Il serpentello, intanto, la seguiva silenzioso.

- Stai fermo ancora un attimo. –
Un coro di voci risuonò nelle orecchie di Jasno mentre la ferita sulla schiena bruciava come tizzoni ardenti.
Quando il dolore finì le voci, più lontane, dissero – Va bene. Ora puoi alzarti. –
Jasno abbandonò il parquet  su cui si era svegliato per guardarsi attorno. Era in una stanza. Le pareti ospitavano macchie di colore sparse casualmente e una scrivania ingombrava buona parte dell’ambiente.
Una donna lo osservava da poco lontano. Sul viso candido risaltavano due occhi marroni come la corteccia degli alberi, scuri, profondi.
Le labbra bianche si incresparono in un sorriso mentre una mano affusolata passò in mezzo ai lunghi capelli rossi che si muovevano come saette su quel capo.
La figura femminile era cinta da un abito elegante color azzurro.
Jasno non ebbe dubbi su chi avesse di fronte. Si inginocchiò e piegò il capo in segno di rispetto.
- Jasno, perché ti comporti così? – chiese la donna facendo qualche passo avanti.
- Perché tu, Caos, sei la mia signora. –
- Avanti, ci sono qualche centinaia di adoratori che si inginocchiano di fronte alle mie statue ogni giorno. Lascia questo onore a loro e stai dritto di fronte a me. – gli rispose la dea con quella voce così particolare.
Jasno si alzò insicuro, passando una mano sullo strappo nel tessuto del pantalone, sorprendendosi non sentendo il buco lasciato dalla spada che lo aveva infilzato.
- Non preoccuparti. Ci ho pensato io a rimetterti in sesto. Non sarò Natura, ma sono ancora capace di mettere a posto un essere vivente. –
- Caos, perché sono qui? –
La dea sorrise con le labbra sottili. – Jasno, tu hai combattuto. Hai sentito la mia musica. A un primo ascolto anche la mia voce potrebbe provocare fastidio, ma a un pubblico più attento non può scappare la sinfonia. La stessa sinfonia che hai suonato tu, quella che non segue ritmi o direttori ed è meravigliosa proprio per questo. –
Una musica eterea riempì la stanza mentre Caos volteggiava in perfetta sinfonia con gli strumenti che si inseguivano e si accavallavano, urlavano e ammutolivano.
Jasno riconobbe immediatamente quella melodia. Era la stessa musica che aveva avvertito nelle sue vene mentre combatteva.
L’orchestra impazzita si fermò nel momento in cui Caos smise di danzare.
- Jasno, tu hai visto la bellezza del caos, hai danzato sull’onda della follia e del sentimento vedendone la bellezza. Tu mi hai dato la certezza di aver scelto la persona giusta. Lascia che ti offra in dono il tuo compagno che non  è un compagno. –
I lunghi capelli di Caos parvero venir risucchiati verso il soffitto, comprimendosi verso l’interno.
La dea mise quindi le mani all’interno di quelle rosse saette impazzite, tirandone fuori un uovo grigio, grosso poco più dei pugni dell’assassino.
- Jasno, qui riposa il compagno che ti seguirà nella tua danza e in cui è riposto il potere che voglio donare. Quando il tempo sarà matura tutto ti sarà più chiaro. – disse la dea porgendo l’uovo al ragazzo.
Caos baciò la fronte dell’elfo. – Accetta anche la mia benedizione e non temere, io sarò sempre con te. Ora raggiungi i tuoi amici e buona fortuna per il tuo futuro. Che il Fato sia con te. –
- Grazie, Caos. –
La stanza perse la propria consistenza poco a poco, lasciando il posto a un campo dorato di spighe.
L’Aquila guardò la collina ricoperta di viti di fronte a sé. Poi un movimento all’interno del guscio catturò la sua attenzione. 

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Capitolo 26
*** Capitolo 22: Un rompicapo a vapore ***


 Mea guardò il buco che le si apriva davanti.
L’ingresso della capitale dei draghi nel periodo in cui il loro dominio si stendeva sulla Terra del Fuoco.
La mappa non lasciava spazio a incertezze. Era lì che doveva entrare, la sua prova la aspettava all'interno di quel tunnel, ne era sicura.
Il buco scendeva ripido per una ventina di metri, per poi piegare e assumere un andamento orizzontale.
Il globo lattescente illuminò i battenti di una porta. Il tempo l’aveva consumata, scurendo il legno e ossidando gli intarsi in bronzo che la ricoprivano. Spesse ragnatele ostruivano per buona parte il passaggio.
Mea evocò piccole fiammelle fluttuanti che pulissero per lei il cammino, poi si avvicinò alla porta.
I cardini non erano in buone condizioni, ma ciò non impedì al battente di destra di schiudersi quel tanto che bastava per lasciar passare la mezzelfa.
La stanza che l’accolse era rettangolare, più larga che lunga. Su entrambi i lati si aprivano due entrate che davano su piccole stanze in cui erano stati messi barili e scatole di varia grandezza. Niente di quello che vi era riposto suscitò l’interesse della maga.
Mea si portò una ciocca dei capelli blu dietro l’orecchio a punta, per poi concentrarsi sulla porta che l’avrebbe portata alla stanza successiva.
I battenti si aprirono completamente senza troppo sforzo.
Un lungo corridoio si aprì di fronte a lei. Di fronte all’ingresso dal quale era entrata, un portone identico senza battenti permetteva di entrare all’interno di una foschia nera. Un discorso uguale valeva per ciascuna delle cinque porte che si affacciavano su entrambe le pareti laterali.
Dodici porte contando anche quella che l’aveva portata lì. Contò.
Mea si guardò alle spalle, ma l’atrio dal quale era passata si era perso all’interno della foschia.
La mano del Corvo corse agli incantesimi che teneva nella tasca più esterna della borsa, pronta a utilizzarli in caso di necessità.
La maga provò a far passare la mano sinistra attraverso la porta che aveva appena attraversato. Quella nebbia non le sembrava un semplice incantesimo per celare qualcosa, ma non si sarebbe mai aspettata quello che accadde in seguito.
La mano ricomparve tra i montanti del terzo ingresso a sinistra.
La mezzelfa prese con sé solo due incantesimi per sicurezza, lasciando la sua sacca per terra, a fianco della prima porta. Entrò quindi nell’ingresso a fianco a sé.
Si ritrovò sull’uscio della stessa porta dalla quale era sbucata la sua mano poco prima.
Provò quindi a rientrare, uscendo, rispetto alla sacca che aveva lasciato sul pavimento, dalla quinta porta sulla sinistra.
Mea lasciò perdere le porte, ritornando al punto di partenza attraverso il corridoio per tutti i suoi diciassette metri di lunghezza.
Era china sulla sua borsa, in cerca del gesso che sapeva esserci, disperso da qualche parte tra le sue cose, quando un tonfo metallico riempì il corridoio, interrompendo la sua ricerca.
La mezzelfa si voltò piano, con la fronte che pian piano si imperlava di sudore e le orecchie a punta che fremevano.
La ciocca blu ricadde sugli occhi della maga, ma lei non ci prestò attenzione.
Dalla porta sul lato opposto comparve pian piano un’enorme testa corazzata, dalla quale nascevano due lunghe corna metalliche che puntavano in direzione della parete dalla quale erano appena uscite.
Il drago di ferro fuoriuscì per tutti i suoi cinque metri di lunghezza dalla porta, ergendosi nel corridoio.
L’animale mosse un paio di volte la mandibola contornata da una chiostra di denti scintillanti, prima di avvicinarsi ulteriormente a Mea.
La maga estrasse velocemente un incantesimo d’attacco, battendo violentemente il palmo della mano sinistra sul foglio.
Una lancia eterea si plasmò di fronte a lei, per poi partire a gran velocità contro la testa corazzata.
La lancia magica si dissolse non appena toccò la coriacea protezione dell’essere metallico, parve venire frantumata in migliaia di scaglie, che scintillavano attorno all’imponente figura come gocce d’acqua.
Il drago parve non aver fatto caso all’attacco, continuando a fissare con gli occhi rossi fiammeggianti la mezzelfa.
Poi, di colpo, il corpo ingombrante della creatura scattò in avanti, con le fauci spalancate che lasciavano intravedere un bagliore dorato in fondo alla gola.
Mea fece appena in tempo a gettarsi oltre la porta, cadendo nel corridoio poco lontano dalla zampa posteriore sinistra dell’essere.
Fu allora che si accorse di un enorme dettaglio.
Il drago meccanico non aveva le ali. Al loro posto, due larghi buchi si aprivano, mostrando l’interno del corpo.
Il ventre della creatura era per lo più cavo, l’unica cosa che lo occupava era una specie di caldaia dorata, simile a quelle che gli abitanti delle Chiritai utilizzavano per far muovere i loro macchinari, dalla quale si diramavano sei tubi che si allungavano verso il resto del corpo.
La zampa si mosse pesantemente quando il drago cominciò a voltarsi verso la sua preda.
La maga si lanciò nuovamente verso la porta, uscendo, come in precedenza, nell’ultima porta della parete, a sei metri da quella zampa che prima aveva visto così vicina.
Mentre l’ingombrante animale meccanico si voltava nella sua direzione, Mea riuscì a ritagliarsi qualche secondo per riflettere.
Quel mostro che si trovava davanti doveva essere animato dalla caldaia che ardeva nel suo petto, se fosse riuscita a distruggere anche solo uno dei tubi avrebbe potuto passare in vantaggio. Prima però doveva far suo quel terreno di gioco.
Rientrò nella porta alle sue spalle prima ancora che il drago fosse riuscito a girarsi completamente.
Uscì dall’angolo opposto. La porta dalla quale era entrata era sul muro alla sua sinistra, la sua borsa era ancora intatta nell’angolo di fianco a sé.
Prima a destra.
Si disse la mezzelfa, per poi rientrare nuovamente nell’ingresso.
Uscì dal punto di partenza, la sua sacca riposava accanto ai suoi piedi.
Avrebbe voluto prendere appunti, ma se si fosse fermata per prendere un foglio sicuramente il drago metallico l’avrebbe raggiunta.
Corse quindi alla prima porta alla sua sinistra, entrandoci.
Quarta a sinistra.
Rientrò.
Seconda a destra.
La maga perse un secondo a ripassare mentalmente la sequenza. In quel secondo la testa del drago si fece maledettamente vicina.
Mea indietreggiò fino ad essere completamente inglobata dalla foschia nera alle sue spalle.
Terza a destra.
Il corpo dell’essere le impediva di vedere la parete opposta. Il buco che si apriva su quel fianco era però bene in vista.
La mezzelfa non perse tempo. Strinse saldamente l’incantesimo che aveva in mano e ci appoggiò il palmo sinistro sopra.
Se fosse riuscita a far sviluppare un calore sufficientemente elevato all’interno del ventre di quel drago, probabilmente la caldaia sarebbe esplosa.
La palla di fuoco che aveva richiamato partì a velocità sostenuta in direzione del buco. Lo centrò, passò attraverso le tubature più alte e uscì dall’apertura sul fianco opposto, ma qui non si fermò.
Entrò all’interno della porta opposta, ricomparendo per poco tempo al fondo della sala nel tragitto che l’avrebbe portata dall’ultimo ingresso sulla sinistra a quello sulla destra. Di nuovo la palla di fuoco scomparve per un breve istante, per riapparire dalla prima porta sulla sinistra e scomparire in quella a destra. L’ultima cosa che Mea vide fu la palla di fuoco che terminò la sua corsa scomparendo contro il muso corazzato dell’animale metallico, dopo essere uscita dalla prima porta. Poi la coda del drago la falciò in pieno petto scaraventandola all’interno dell’ingresso alle sue spalle.
La mezzelfa si rialzò, vomitando sangue misto ad altri liquidi che non volle riconoscere.
La maga si guardò attorno, cercando di scacciare le nozioni sui danni agli organi interni. Sotto il seno destro qualcosa le face talmente male da farle salire le lacrime agli occhi, ma lei provò a non farsi distrarre.
Si era spostata di una sola porta verso il fondo del corridoio.
Quarta a destra.
Mea si lanciò nuovamente nella porta, scappando dalla coda che tornava nuovamente al suo posto, distesa dietro al corpo dell’animale.
Seconda a sinistra.
Il muso del drago si voltò rapido verso di lei, dalla bocca e dalle narici si alzavano volute di vapori bollenti che alzavano la temperatura della stanza in maniera sensibile. Le zanne si serrarono come una trappola mortale, ma l’aria fu l’unica cosa che cadde nella loro morsa metallica.
Mea uscì dall’ultima porta sulla destra.
Fece un rapido ripasso mentale. Aveva collegato ogni entrata e uscita nella stanza eccetto una. L’unica porta che non aveva ancora testato era quella collocata sul muro in fondo al corridoio, porta che, probabilmente, era sia entrata che uscita di sé stessa.
Aveva disegnato nella sua mente la complicata geografia di quella stanza, finalmente i pressanti esercizi di memorizzazione a cui l’avevano sottoposta fin da bambina avevano dato i loro frutti.
Ora non le rimaneva che surriscaldare quel drago meccanico senza rifare l’errore del precedente tentativo.
Un conato di vomito e sangue la colse alla sprovvista, mentre il petto tornava a farle male.
Mea si sentì mancare mentre la fronte si imperlava di sudore e la vista le si annebbiava.
Non poteva svenire in quel momento, altrimenti sarebbe stata spacciata.
Cercò di ritornare i posizione eretta, cercando di calcolare quando la distanza tra lei e le zanne di ferro si sarebbe fatta pericolosa.
Non aveva più di cinque secondi.
Batté nuovamente la mano sul foglio di carta, indirizzando la palla di fuoco in direzione della porta alle sue spalle.
L’incantesimo sfrecciò tra le due porte più vicine alla parete d’ingresso, per poi entrare dalla prima a destra e uscire da quella iniziale, andando a dissolversi contro il dorso del drago.
Uno e tre secondi.
Avrebbe dovuto provocare un’esplosione all’interno del ventre, se voleva avere una possibilità di sopravvivere.
Attraversò nuovamente l’ultima porta sulla destra, uscendo dalla prima a sinistra. Si portò quindi di fronte alla porta centrale.
Il drago metallico si voltò stoico verso di lei, riprendendo la sua avanzata.
Mea guardò il foglio di carta che stringeva nel pugno. Si stava consumando. I bordi cominciavano ad arricciarsi e la carta si stava increspando. Materiali così delicati non riuscivano a sopportare bene il passaggio di una così grande quantità di mana.
Al massimo tre incantesimi, poi non avrebbe più potuto utilizzarla.
Il drago superò le quarte porte e il suo passo tonante riempì di nuovo l’aria.
Era il momento.
La prima palla di fuoco partì in direzione del primo ingresso a sinistra.
Un secondo.
Uscì dalla quarta porta a sinistra, attraversando il corridoio ed evitando per poco più di una spanna la coda dell’animale meccanico.
Tre secondi.
Entrò nella quarta a destra.
Un secondo.
Uscì dalla seconda sinistra, sfrecciando di fronte al muso del drago.
Un secondo e mezzo.
La seconda palla di fuoco partì in direzione della porta d’ingresso, mentre il foglio con il glifo tracciato sopra si sbriciolava tra le dita sottili della mezzelfa.
Un secondo e mezzo.
Il primo incantesimo entrò nella seconda porta a destra, il secondo in quella all’inizio del corridoio.
Mea cadde in ginocchio, mentre i passi del drago avanzavano e la sua vista si faceva sempre più incerta.
Un secondo.
Le due magie uscirono rispettivamente dalla quarta porta a destra e dalla quarta a sinistra.
Un secondo e mezzo.
Gli incantesimi centrarono i buchi sui fianchi del drago.
La temperatura si alzò vertiginosamente nel corridoio mentre il ventre e la gola dell’essere meccanico si accendevano dell’esplosione.
Quello che ne seguì fu solo un rumore di ferraglia spaccata che ricadeva sul pavimento in pietra sonoramente.
La maga cadde faccia avanti tossendo disperatamente, ora che l’aria non voleva più entrare nei suoi polmoni.
Fosse stata più attenta non sarebbe successo nulla. Quella maledetta bestia lenta non l’avrebbe colpita.
Ancora una volta il sangue di mezzelfo tinse di rosso il pavimento.
Poi tutto si fece nero.

Mea si accorse subito che qualcosa non andava. Respirava bene.
Il petto non le faceva più male e, finalmente, i pensieri scorrevano nella sua mente fluidi.
Si alzò piano, appoggiandosi su una vetrata cristallina che dava su quelle che, almeno credeva, erano le Terre viste dal cielo.
I Monti Muraglia si stendevano sotto i suoi piedi, a divisione tra il lato occidentale e quello orientale del continente. Distingueva anche i fiumi che scorrevano placidi dalle alte vette fino al mare scuro.
Solo le più grandi città erano visibili, pur sembrando, da quell’altezza, piccoli ammassi scuri.
La Grande Vivente risplendeva rigogliosa sotto il sole che la irraggiava da qualche parte sopra alla maga.
Null’altro nella stanza era degno di nota come quel pavimento.
- Bello, non trovi? –
Mea si voltò di corpo, con le orecchie arrossate per non essersi accorta dell’altro occupante di quella stanza.
- Spazio… - riuscì solo a far uscire la maga dalla sua gola.
- Purtroppo temo che sia il mio nome. – le rispose l’uomo di fronte a lei. Portava un completo marrone coperto da una lunga giacca verde smeraldo dalle finiture azzurre.
- Come stai? – continuò l’uomo avvicinandosi di qualche passo alla mezzelfa. – Spero di aver fatto un buon lavoro con il tuo polmone. –
- Sto bene… Era perforato, vero? –
- Dire perforato è poco. Non rimanevano che brandelli di tessuto tra le costole incrinate. Forse ho esagerato a schierarti contro un drago a vapore, ma, in fondo, non potevo nemmeno farti misurare con un lagnoso bambino che scappa oppure un grosso insetto dalla corazza impenetrabile, no? –
- Quindi quell’affare era la mia prova. L’ho superata? O sono morta? Non credo di essere stata molto lucida nell’ultimo minuto di combattimento… -
- Cos’hai fatto per battere quella macchina? – chiese Spazio a sorpresa, passandosi una mano tra i capelli castani.
- Ho sfruttato quelle maledette porte per far sì che le due sfere infuocate si scontrassero nel ventre del drago e sviluppassero sufficiente calore provocare la rottura della caldaia… -
- Si. Esatto. Mio fratello Tempo sarebbe orgoglioso di te, hai calcolato perfettamente i tempi di percorrenza e sei riuscita a sincronizzarti nonostante fossi allo stremo delle tue forze, ma non è per questo che sei qui. Io mi devo complimentare con te per essere riuscita a sfruttare il gioco di portali che ho creato, hai piegato la struttura spaziale di quel corridoio per far sì che il tuo avversario fosse sopraffatto da un potere minore del suo. Ed è per questo che mi sono convinto di poter desiderare altra protetta all’infuori di te. Come ti hanno detto, noi minori abbiamo riservato un compagno e un potere ai nostri prescelti e io, ora, ho intenzione di donarti il tuo compagno che non è un compagno. –
Spazio attraversò il pavimento trasparente con una mano, ritirandola a sé con qualcosa stretta tra le dita.
Un uovo grigio puntinato di nero riposava sul palmo del dio, immobile.
- Qui dentro riposa il tuo compagno. Dovrai averne cura, perché è in lui che è contenuto il potere che ho deciso di donarti. –
- Spazio… io non credo di esserne degna. In fondo sono quasi morta nella tua prova, non mi sento abbastanza potente da essere la protetta di un dio… - disse Mea cominciando ad arricciarsi la ciocca di capelli blu che le cadeva davanti agli occhi intorno alle dita.
- Allora accetta questo dono e dimostrami che mi sto sbagliando. Mea, potrò anche mostrarmi a te con sembianze umane, ma in me risiede tutto lo spazio di questo mondo, io sono ovunque, in ogni passo fatto e non fatto, in ogni strada e soffio di vento. Non aver paura di non essere all’altezza, perché sei già salita molto più in alto delle persone che abitano quel mondo là sotto. –
La mezzelfa alzò lo sguardo, incrociando lo sguardo limpido del dio. Con un gesto deciso si rimise la ciocca dietro l’orecchio a punta e prese dalle mani del dio l’uovo che le porgeva.
- Cercherò di non deluderti. – gli disse ancora.
- Lo so. –
La stanza con il suo pavimento etereo si dissolsero, lasciando spazio a un paesaggio collinare illuminato da un sole limpido.
L’uovo tra le mani della ragazza si lasciò sfuggire un suono.


Note dell'autore:

Funfact: probabilmente vi sarà sembrata strana o fuoriluogo una delle prime frasi di Spazio (quella sul bambino lagnoso e l'insetto gigante, per intenderci), dovete sapere che l'ho messa lì perchè questa è stata la terza volta che provavo a tirare giù una prova decente per Mea (maledetta magia!) e nelle prime due stesure doveva catturare un bambino che scappava su una spiaggia infinita oppure confrontarsi con un insetto gigante. Fortunatamente sono finite entrambe nel cestino in favore di questa versione un po' più steampunk.
Fine del funfact.
Bene, spero vi sia piaciuto il capitolo, se avete voglia lascate un commento e ogni critica sarà bene accetta.
Buon proseguimento a tutti, ci vediamo la prossima settimana!
Vago 

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Capitolo 27
*** Capitolo 23: Un barlume di speranza ***


 Finalmente! Un viso conosciuto!
Vi mancavo, ammettetelo.
Ho cercato per tutta la Trama del Reale e lei è l’unica che sono riuscito a trovare. Cosa vuol dire? Che gli altri cinque sono finiti da qualche parte fuori da questa realtà. Cose di tutti i giorni.
Comunque non mi sembra in fin di vita o in lutto, vuol dire che se la sono cavata anche senza di me.

Keria stava seguendo il corso di uno degli affluenti del Serat.
A sud le pareva di scorgere le prime dune del Deserto Rosso, mentre di fronte a sè, la Prateria Infinita si stendeva per centinaia di chilometri senza l’accenno di un rilievo.
L’arciere si chiese se, nei tre giorni da quando era rimasta sola, gli altri avessero trovato la loro prova.
Il sole venne inghiottito dalle alte cime dei Monti Muraglia e la pianura venne avvolta da una fredda foschia umida.
Keria si fermò in una zona di terreno asciutta, guardando il fiume che scorreva imperterrito verso oriente.
Avesse avuto una zattera, avrebbe anche potuta farsi trasportare dalla corrente, ma da quando aveva lasciato le colline ai piedi delle montagne non aveva incontrato un solo bosco.
La ragazza si inginocchiò sull’argine del fiume, guardando per pochi secondi gli occhi verdi incorniciati da un viso smunto e abbronzato che la stavano fissando.
L’immagine si dissolse quando le sue mani affondarono tra i flutti per portare un po’ d’acqua sulle guance sporche.
Una nuvola passò in cielo in quel momento, gettando la sua ombra su Keria, ma, non appena lei fece per alzare lo sguardo, sopra di sé vide solamente una gigantesca mano d’acqua che dalla superficie del fiume si levava per incombere su di lei.
Le dita trasparenti la afferrarono, trascinandola sul letto di quell’affluente, ma non fermandosi lì.
L’arciere continuava a sprofondare senza riuscire a divincolarsi, i suoi polmoni reclamavano disperatamente ossigeno mentre le increspature chiare della superficie si facevano sempre più distanti.

Io questa scena credo di averla già vista.
Vabbè. Anche l’ultima è andata.
Mi chiedo quanti di loro riusciranno a non lasciarci le piume… Lo spadaccino è forte e anche quello albino ha del potenziale…
Ma ora non importa, tanto quelli che ce l’hanno fatta li rivedrò al Flentu Gar quando gli dei avranno finito  con loro.
Spero solo che il cataclisma naturale venga fermata. Almeno per non mettere in pericolo la sua vita, ora che la situazione comincerà a peggiorare.

Infine, la presa dell’acqua scomparve e la ragazza si ritrovò a cadere per i quasi quattro metri che la sparavano da un duro e sconnesso terreno roccioso.
Keria fu pervasa da un dolore atroce in tutto il corpo. Gambe e braccia riportavano numerosi ematomi e graffi, la schiena, là dove aveva impattato con il suolo, le bruciava e dalla tempia sinistra un rivolo di sangue scorreva fino a giungere al mento, dal quale cadeva sotto forma di gocce scarlatte.
L’arciere si mise a sedere cercando di pulirsi il lato della testa con la manica della camicia che portava addosso.
Era caduta in una caverna, nella quale l’unica fonte di luce era un candelabro a tre bracci che riposava silenzioso al centro della sala.
La ragazza si rialzò faticosamente in piedi, percorrendo tutto il perimetro della sala in cerca di un’uscita o di qualcosa fuori posto, ma non ebbe il tempo di finire l’ispezione che un rumore di passi comparve alle sue spalle.
Keria riuscì a voltarsi, ma non ad evitare la lama nera che le trapassò il ginocchio sinistro, facendola cadere a terra.
L’arciere rotolò indietro automaticamente, ma non ebbe il tempo di guardare in faccia il suo aggressore, l’unico pensiero che in quel momento albergava nella sua mente era sopravvivere.
Si rialzò, tastando l’articolazione oramai inservibile in cerca della lama che l’aveva trafitta, ma trovando solo un profondo taglio che la squarciava da parte a parte.
Sfilò l’arco da tracolla e, utilizzandolo come sostegno, si trascinò fino al candelabro. Voleva vedere i suoi nemici e quel dannato buio la metteva in agitazione. Ne aveva paura da sempre. Da quando aveva memoria aveva paura di rimanere da sola in una stanza senza una candela accesa, poi, da quando l’avevano portata nella setta troppi anni prima, i giorni nelle segrete oscure del palazzo erano rimasti impressi nella sua mente.
Quei ricordi le fecero accapponare la pelle.
Accelerò il passo, avvicinandosi sempre più a quelle fiammelle che facevano scintillare la scia cremisi che la ragazza si lasciava alle spalle.
Keria si lasciò cadere di fianco alle candele. Senza perdere tempo strappò la manica sinistra della camicia per fasciare il ginocchio trapassato e rallentare, quantomeno, l’uscita di sangue.
Prese quindi in mano quell’unica fonte di luce, sollevandola sopra la testa in modo che i tremolanti raggi delle fiammelle potessero spandersi per qualche metro in più.
Una figura nera rimaneva immobile appena all’esterno del cerchio di luce. Era in piedi, dritta, indistinta nella penombra che la avvolgeva. La spada che teneva in mano nemmeno brillava alla fioca luce.
La ragazza strinse i denti e si alzò di nuovo. In una mano l’arco che la sosteneva, nell’altra il candelabro ben levato.
Non appena il cerchio di luce si mosse verso di lui, l’aggressore balzò indietro con uno scatto repentino.
Più l’arciere cercava di avvicinarsi a lui, più questi scappava.
Qualcosa a destra scintillò.
Keria continuò a inseguire l’uomo trascinando la gamba pregna di sangue.
Quando ebbe appurato che quell’essere non era mai, nemmeno una sola volta, entrato nel cono di luce, si fermò.
- Se hai paura della luce, vediamo se così ti ammazzo. – borbottò strappando un pezzo di tessuto dalla manica rimasta, arrotolandolo sulla punta di una freccia e incoccando il dardo.
Non appena la fiammella della candela fu sotto allo stoppino, questo prese fuoco, dardeggiando davanti agli occhi della ragazza.
Keria perse l’equilibrio sull’unica gamba d’appoggio quando le dita lasciarono la corda tesa, ma la freccia volò dritta  e precisa.
L’uomo si schivò appena in tempo, ma non fu così veloce da evitare che il suo braccio sinistro venisse illuminato dal dardo infuocato che impattò contro la parete umida della grotta.
L’arto, nel secondo in cui venne illuminato, parve dissolversi in una nube scura che venne inghiottita dall’oscurità dell0ambiente.
L’arciere riprovò il colpo, ma l’uomo non si lasciò cogliere impreparato una seconda volta, evitando il dardo fiammeggiante senza perdere null’altro del suo corpo.
Keria raccolse da terra il candelabro e qualcosa, di nuovo, scintillò alla sa destra.
La ragazza si trascinò in quella direzione, sperando di trovare qualcosa che potesse uccidere quell’uomo.
Quasi si mise a piangere quando, di fronte a sé, non trovò altro che un’armatura impolverata, che ancora stringeva nei guanti di ferro una spada e uno scudo rotondo.
Anche se quella spada fosse stata in grado di uccidere la creature, lei sarebbe morta lo stesso, lo sapeva. Non era mai stata in grado di combattere nel corpo a corpo da quando si ricordava, con nessun tipo di arma.
Presa da un moto di rabbia prese in mano l’elmo e lo scaraventò in direzione dell’uomo, che non si diede nemmeno il disturbo di spostarsi. Il pezzo di ferro lo attraversò senza problemi.
Keria non poté più trattenere le lacrime che le affollavano gli occhi.
Non poteva vincere. Non avrebbe potuto vincere nemmeno se fosse arrivata in quella stanza senza tutte le ferite provocate dalla caduta.
Le tre candele non sarebbero durate in eterno e appena l’ultima fiammella si fosse spenta niente avrebbe potuto tenere lontano da lei quell’uomo, che, nonostante fosse monco del braccio, continuava a rimanere in piedi, dritto, subito oltre il limitare del cerchio di luce.
Tra i singhiozzi isterici la ragazza cominciò a lanciare in direzione del nemico pezzi dell’armatura, inutilmente.
Prese uno spallaccio in mano, pulendolo con la manica strappata per vedersi un’ultima volta in viso. Si era rassegnata all’idea di morire in quel posto fuori dal mondo.
Lanciò lo spallaccio con rabbia.
Non sarebbe dovuto finire così. Non se lo meritava.
Lo spallaccio sberluccicò per un istante alla fioca luce del candelabro.
L’uomo fece un passo verso destra per evitare il pezzo di ferro.
L’arciere si passò il dorso della mano sugli occhi per schiarirsi la vista. Perché aveva schivato quell’ultimo pezzo?
Poteva esserci un’ultima via per salvarsi. Tanto, a quel punto, non aveva più nulla da perdere. Non poteva cadere più in basso di quel baratro in cui era caduta.
SI sedette a fianco a dell’armatura, con il candelabro di fronte a sé.
Si tolse la camicia per poi prendere pezzo per pezzo le piastre della corazza e pulirle al meglio dallo strato di sudiciume che le ricopriva.
Erano ancora opache, ma, per lo meno, mostravano ancora qualcuna delle qualità del ferro.
L’ultimo pezzo che la ragazza lanciò nella stanza fu lo scudo rotondo che roteò più volte in aria, prima di cadere a terra e inondare la sala con il suo suono riverberante.
Stracciò infine la camicia ricoperta di polvere, avvolgendone i brandelli su tre frecce dall’impennaggio rovinato.
I tre dardi vennero scagliati uno dopo l’altro velocemente, le tre punte dardeggianti arrivarono al culmine della loro parabola, per poi ridiscendere verso il centro della sala.
L’uomo si scansò per evitare le frecce, ma non poté far nulla contro lo scintillio dell’elmo alla sua destra, come del bracciale di fronte a lui e dello stivale alle sue spalle.
Fu solo un baluginio abbozzato, durato poco più di un secondo, ma quello scintillio sparpagliato per la stanza riempì di speranza l’animo disperato della ragazza.
L’uomo si dissolse in una nube prima che le frecce impattassero contro il terreno.
 Keria si lasciò cadere indietro, respirando affannosamente.
Il suo corpo le faceva male, ovunque.
Sul torso nudo risaltavano le sbucciature e i graffi che si era fatta durante la caduta. La benda stratta intorno al ginocchio trapassato era madida di sangue.
Con un ultimo sforzo l’arciere si mise addosso la maglia metallica con cappuccio che contraddistingueva i Draghi.
L’ambiente circostante si fece fumoso. Keria si preparò a perdere i sensi, ma la sua coscienza rimase dov’era.

Una stanza si materializzò al posto della caverna.
Due specchiere ricoprivano le due pareti laterali a destra e sinistra. Al centro dell’ambiente era stata sistemata una scrivania, sulla quale il candelabro della grotta sosteneva tre alte fiamme danzanti.
Dal soffitto pendeva un lampadario composto da centinaia di piccole gocce sfaccettate di cristallo trasparente.
Keria si sentì come se stesse ancora annegando nel fiume. Ogni ferita che portava sulla pelle sembro trapassata da lame ghiacciate.
Quando quell’esperienza terminò, la ragazza tolse cautamente la benda insanguinata dall’articolazione, alzando il pantalone per poter vedere la ferita. Ferita che era scomparsa senza lasciare dietro a sé nemmeno la più piccola cicatrice.
L’arciere si alzò in piedi, spostando ripetutamente il peso da una gamba all’altra per assicurarsi che tutto fosse tornato alla normalità.
- Benvenuta. – disse una voce alle sue spalle.
Keria si voltò, mentre gli occhi verdi cercavano la fonte di quella voce.
Una donna dalla pelle candida la guardava sorridendo. Le labbra fini scoprivano appena una chiostra di denti bianchi, mentre i capelli dorati stretti in una treccia ricadevano su un abito blu scuro. Su quel volto pallido l’occhio destro risaltava nella sua scurezza, mentre il sinistro azzurro si sposava perfettamente con il viso perfetto.
- Tu… tu hai progettato quella prova? Luce, dimmi, hai deciso tu come testarmi? – chiese la ragazza sentendo le lacrime salire di nuovo verso gli occhi.
- Si. Ammetto di essere io l’artefice di questa prova. Ma lascia che ti spieghi perché ti ho fatto passare tutto quello. – le rispose la dea avvicinandosi leggiadra e stringendo il Drago, che stette rigida tra quelle braccia. – Ti ho indebolita, ti ho messa in difficolta, portata allo stremo, solo per far si che tu capissi. Che tu capissi qual è il vero potere del mio elemento. È per questo che ora sei qui. Hai capito che qualunque cosa può rispendere, se una fiammella la illumina. Anche l’ultimo pezzo di ferro può brillare se gliene si dà l’opportunità. –
- Ma io non sono un pezzo di ferro! Sono caduta per metri, quella cosa mi ha trapassato un ginocchio! – gridò piangendo la ragazza mentre il petto sobbalzava.
- Lo so. Ascolta, io volevo essere sicura che il mio prescelto fosse abbastanza forte da sopravvivere alle peggiori avversità. Tu eri debole e indifesa, sovrastata da quel nemico che non conoscevi, però lo hai sconfitto. Questo grazie solo a quella fiammella di speranza che ti ha fatto brillare l’anima. È questo il bello della luce, può essere riflessa, può passare di superficie in superficie senza mai perdere la sua sfolgorante bellezza, anzi, aumentandola. Tu mi hai dimostrato quanto vali e io ho intenzione di far riflettere da te la mia luce. –
Keria singhiozzò più forte, abbandonandosi a quell’abbraccio e cingendo con le braccia il corpo della dea.
- Ancora una cosa. – continuò Luce concludendo quel contatto. – Voglio donarti un compagno che ti accompagnerà nel tuo viaggio e nel quale risiede il potere che ho destinato a te. –
La dea bionda chiuse il pugno su una delle tre fiammelle del candelabro, allargando la stretta poco a poco. Infine porse all’arciere un globo di cristallo perfetto, attraverso il quale le figure si vedevano nitide.
- Non avere paura, Keria. Anche se potrai non crederci, io farò tutto quello che è in mio potere per aiutarti nel tuo viaggio. –

La ragazza vide svanire la stanza sotto i suoi occhi. Si trovò sulla sponda del Serat, nella zona di terra asciutta da cui tutto aveva avuto inizio.
Il globo nella sua mano brillava alla luce del sole come una gemma. 

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Capitolo 28
*** Capitolo 24: Una vecchia storia ***


 Nirghe si ritrovò a cadere tra gli alti tronchi, il buco dal quale era caduto non si riusciva a distinguere tra i rami, integri e spezzati, che lo sovrastavano.
Le due lame si piantarono nella corteccia più vicina, frenando il ragazzo nel suo precipitare.
Il Gatto rotolò tra gli aghi di pino secchi. Quando si rialzò, estrasse le spade dal tronco dell’albero che stillava resina e le ripose nei foderi.
Si guardò intorno.
L’aria era umida, fresca, colma dell’odore di pino. La temperatura era mite e, nonostante i raggi del sole non riuscissero a penetrare la volta frondosa, riuscivano a illuminare fievolmente il terreno.
Non era nel posto giusto.
Non era nemmeno nel momento giusto.
La Piazza Sospesa sovrastava il cuore del Bosco Nero, ma, dov’era caduto lui, la vegetazione non era così fitta come nella porzione settentrionale della Grande Vivente.
L’aria montana arrivava fin lì, quindi i Monti Muraglia non potevano essere lontani.
Doveva essere nelle propaggini orientali della foresta, almeno a due giornate da dove era arrivato.
La posizione sfalsata non era l’unica cosa che lo turbava. Dell’afa soffocante che lo aveva avvolto fino a pochi minuti prima non era rimasto nulla, sembrava piuttosto un clima autunnale, umido e fresco.
Una brezza proveniente da sud portò alle narici del Gatto odore di fumo.
Nirghe non dovette camminare troppo per imbattersi in un accampamento. Una trentina di uomini si muovevano all’interno del perimetro delle tende squadrate. Diverse rastrelliere di legno ospitavano foderi infangati e aste scheggiate, stese tra i rami più bassi ondeggiavano lievemente delle corazze in cuoio scuro.
L’odore di sudore, a quella distanza, riusciva a coprire quello del fumo che si levava dal largo falò centrale.
L’ingresso dello spadaccino nel campo non produsse altro che qualche sguardo stanco degli uomini che incrociarono il suo cammino.
I corpi armati che non avessero un ruolo di difesa delle città erano stati banditi da una delle prime leggi dopo la Guerra degli Elementi. Tutto quello non sarebbe mai dovuto esistere.
Un quarantenne avvolto in una tonaca verde acceso lo superò con passo svelto.
- Scusi? – lo chiamò Nirghe inseguendolo – Lei è un mago della Terra? –
L’uomo si voltò con un sorriso stanco stampato in faccia.
- Dimmi figliolo. Cosa posso fare per te? –
Figliolo. Neanche suo padre lo aveva mai chiamato così, per quel che ricordava.
- Dovrei chiederle alcune cose… se ha un minuto da spendere. –
- Ma certo ragazzo. Dai, vieni un attimo nella mia tenda. –
Lo spazio tra le pareti di tela era angusto. Il mago si sedette sulla branda storta a lato, invitando il suo ospite ad accomodarsi su uno sgabello in legno scuro.
- Un giovanotto della tua età non dovrebbe portare due pesi così grandi. – continuò l’uomo alludendo alle due spade appoggiate per terra.
- È una lunga storia, la loro. Le sembrerà una domanda strana, ma dove state andando? –
- Ci stiamo dirigendo verso l’avamposto dei Monti Muraglia. I soldati rivogliono vedere le loro famiglie e, onestamente, credo vogliano lasciare questa zona il prima possibile, con tutto quello che hanno visto. –
- Da quanto non vedete i vostri cari? – continuò Nirghe con un presentimento che gli nasceva nel cuore.
- Oh, oramai sarà passato più di un mese da quando li abbiamo lasciati. Come mai tutta questa curiosità, figliolo? –
- Perché… - Nirghe non sapeva cosa rispondere a quell’uomo dal sorriso perenne. – Mi sarebbe piaciuto combattere con voi! –
Il Gatto si vergognò di quello che era appena uscito dalla sua bocca.
- Mi spiace per te, ma oramai il Re è sconfitto e non ci sarà bisogno di combattere per anni. –
Nirghe provò a non far trasparire i suoi pensieri dal volto.
Non aveva più dubbi. Quello non era più il suo tempo.
- Mi piacerebbe sapere ancora una cosa… Lei sa dove… -
Il suono di un campanaccio e le urla degli uomini non permisero al ragazzo di finire la sua domanda.
Il mago uscì in fretta dalla tenda, cercando nella foresta attorno cosa avesse potuto mettere in allarme i soldati. Nirghe rimise le spade al loro posto al suo fianco e si portò nel campo a sua volta.
Le rastrelliere veniva depredate delle armi che ospitavano, le corazze di cuoio cadevano pesantemente a terra dai rami su cui erano state stese. Gli uomini correvano per raggiungere il perimetro della tendopoli, accompagnati dallo sferragliare delle poche parti metalliche delle armature.
Dopo pochi secondi cadde il silenzio.
Un fruscio nel sottobosco annunciò l’arrivo di un ragazzino dagli abiti leggeri che correva disperatamente verso i suoi compagni.
- Cos’hai visto. – gli chiese quello che doveva essere il capitano del plotone.
- Demoni. Altri demoni. Sono tanti e stanno venendo da questa parte, credo abbiano fiutato il nostro odore. –
Il silenzio si fece ancora più opprimente.
Le mani del Gatto corsero alle else, pronte ad estrarre le lame.
La terra riverberò dei passi di decine di corpi. I rami più bassi vennero spaccati, i piedi calpestavano qualunque cosa si trovasse sul loro cammino.
Alla fine gli ultimi arbusti vennero spaccati e una moltitudine di corpi neri si riversò nel campo.
Alte picche svettavano sopra le teste dei demoni, reggendo un vessillo con una corona dorata al centro.
Nirghe ebbe paura. Il cuore gli batteva nel petto a un ritmo forsennato, le mani sudavano e il respiro si era fatto più accelerato.
Aveva letto molto dei demoni del re durante la guerra, aveva avuto modo di vedere i Demo più volte nella sua vita, ma quegli esseri che ora gli stavano di fronte erano troppo per lui.
Le prime linee di uomini e demoni si scontrarono in un fragore di metallo contro metallo. Le prima urla di guerra e di morte risuonarono tra gli alti tronchi che guardavano immobili la scena di morte.
Il mago della terra urlò qualcosa a gran voce, il terreno si smosse, ma i demoni non parvero colpiti dall’incantesimo, così diverso da quelli che usava Mea.
Le due spade lasciarono i foderi in una frazione di secondo e il Gatto si gettò contro il nemico.
Erano forti, quei mostri. Molto più forti di quanto avesse appreso studiando i tomi messi a disposizione dalla setta.
Le loro spade calavano implacabili e pesanti, Nirghe riusciva appena a deviare quei colpi.
Tutto a un tratto lo spadaccino si trovò di fronte a un demone che sorreggeva un vessillo. La spada sinistra falciò l’aria, terminando la sua mezzaluna sul tessuto nero, che cadde a terra stracciato quando la seconda lama decapitò il demone urlante.
La picca non rimase per molti secondi nel fango, perché un secondo demone, gettate le armi e incurante della battaglia, lo risollevò verso il cielo.
Erano troppi. Cento, centocinquanta, nel mezzo del caos generale nessuno avrebbe potuto valutarne il loro numero.
I cadaveri crescevano, più umani ed elfi che di demoni. Il rapporto tra le due cataste era pessimo.
I demoni ronzavano come uno sciame intorno ad un assembramento centrale, senza lasciare a nessun combattente la possibilità di avvicinarsi a quel nucleo denso. Gli stendardi cadevano a terra e venivano issati ritmicamente.
Il Gatto nella furia della battaglia si trovò vicino al mago.
- Se solo ci fossero i draghi qui… - borbottò l’uomo.
Draghi.
Il reggente dei draghi, durante la Guerra degli Elementi, era Fariuna. Ripassò mentalmente lo spadaccino cercando di non perdere il ritmo che aveva raggiunto. Alla fine degli scontri tutto il popolo si era trasferito a Est, quindi non potevano essere di qualche utilità.
Chi altro poteva salvare i superstiti?
I sei.
La scarica di ottimismo che ne seguì lo irrorò di una nuova energia.
Una testa dalla pelle nera volò lontana dal corpo, lasciando una scia di sangue viscoso alle sue spalle. Le lame non si saziarono con quello scarno bottino, andando prima a mutilare un corpo delle sue braccia, poi trapassando il torace di un terzo demone, giunto troppo vicino.
- Sentimi bene. – disse Nirghe in direzione del mago – Prendi tutti quelli vivi e mettetevi in salvo. So come ucciderli. –
- Ma, figliolo! –
- Fai quello che ti ho detto! Sono quello che ha più probabilità di sopravvivere, qui in mezzo. –
Il mago si allontanò, urlando qualcosa che l’elfo ignorò.
I sei… dopo la fine della guerra si erano dedicati a spostare i palazzi dalle loro sedi alla vetta del Flentu Gar. Se davvero era passato più di un mese dalla morte di Reis, la sua meta sarebbe dovuta essere il Palazzo dalla cupola dorata.
Doveva solo far sì che quei demoni seguissero lui e non la ritirata dei soldati.
Il vessillo si alzò nuovamente da terra, stracciato in più punti e sporco di sangue e fango.
La bocca di Nirghe si deformò in un ghigno. Quantomeno si sarebbe divertito.
Il ragazzo si gettò nuovamente nel vorticare di corpi neri.
Le ferite che riportava su braccia, gambe e fianchi erano lievi e il sangue usciva appena, ma la loro quantità lo impacciava un poco nei movimenti. Forse, avesse pensato prima a quel piano, si sarebbe trovato a fronteggiare quella schiera di esseri con un vantaggio maggiore, ma oramai era tardi per pensieri del genere.
Un altro cadavere cadde sul suo percorso.
Lo spadaccino mise tutta la sua forza di volontà in un ultimo scatto finale. Le lame entrarono e uscirono dal petto del demone che in quel momento reggeva uno stemma del Re in meno di due secondi, venendo poi immediatamente riposte nei loro foderi.
Ora doveva correre.
Raccolse da terra l’asta, caricando a testa bassa chiunque gli si parasse davanti e continuando a correre verso Ovest.
I demoni caddero nella trappola, dimenticandosi dei feriti e dei soldati in fuga per gettarsi all’inseguimento del ragazzo.
Nonostante l’ingombro della moltitudine di corpi nello spazio ristretto tra i tronchi, i demoni guadagnavano terreno velocemente, urlando come bestie in caccia.
Solo dopo diverse decine di minuti di corsa, senza fiato e con i muscoli in fiamme, Nirghe lasciò cadere a terra il vessillo, per continuare la sua fuga. Alle sue spalle il sottobosco continuava a fremere per il passaggio dei suoi inseguitori.
Nirghe cominciò a preoccuparsi seriamente quando un’idea si fece largo tra i suoi pensieri. E se avesse sbagliato a calcolare i mesi?
Se fosse arrivato al Palazzo del Mezzogiorno in un periodo precedente o postumo all’arrivo dei Sei sarebbe morto. L’unica cosa che impediva alle sue gambe di fermarsi era la paura che quegli esseri gli incutevano.
 Di fronte a lui la luce solare si fece più intensa. L’intreccio dei rami si era fatto meno serrato e la vegetazione era meno fitta.
La parete principale del Palazzo si mostrò di fronte ai suoi occhi come in un sogno.
Alle sue spalle i passi si erano fatti troppo vicini, ma, in quel momento, di fronte a lui, il portone della struttura si aprì, facendo uscire una decina di figure.
Ce l’aveva fatta.
Con un ultimo sforzo l’elfo si issò su uno dei rami più bassi che intersecava il suo percorso, salendo quindi il più possibile.
I demoni lo superarono, riversandosi nella radura pochi metri dinnanzi a loro.
Nirghe cercò di regolare il respiro. La testa gli pulsava, i muscoli delle gambe tremavano violentemente.
Il Gatto alzò lo sguardo in direzione dei ventenni che, davanti a lui, si erano gettati con le armi in pugno contro i demoni.
Fu uno scontro impressionante e solo da quella prospettiva lo spadaccino riuscì a distinguere la pelle scarlatta di un goblin tra le teste nere dei soldati reali. Poteva essere lui il motivo per cui le magie in precedenza non avevano funzionato.
Un'ombra oscurò il cielo, rimanendo sospesa sopra la cupola scintillante.
Un drago nero batteva le possenti ali e il suo Cavaliere guardava la scena impassibile dalla sua sella.
Poi ci fu la fiammata.
I demoni caddero inceneriti al suolo, Ardof fu colpito in pieno petto e volò per diversi metri indietro.
Nirghe si lasciò cadere.
Poteva aver fatto un disastro. Poteva aver modificato il passato delle Terre, poteva aver condannato Ardof del Fuoco a morte.
Avrebbe voluto avere più tempo per pensare alle conseguenze di quel che aveva fatto, ma la fiamma scaturita da ventre del drago lo stava per raggiungere. A quella velocità non sarebbe nemmeno riuscito a toccare il suolo da vivo.
Lo spadaccino chiuse gli occhi, mentre il calore cominciava ad avvicinarsi alla sua pelle.

Cadde su un pavimento duro.
Improvvisamente la temperatura si abbassò.
Il Gatto schiuse piano le palpebre, constatando di essere sdraiato su un pavimento in marmo bianco come la luna.
Si alzò piano.
La camicia e i pantaloni erano tagliati in più punti, ma la pelle sotto era intatta. Nessuno dei tagli che i demoni gli avevano procurato aveva lasciato un segno.
Si guardò intorno.
La mobilia era scarna. Un tappetto copriva la parte centrale del pavimento e, poco più in là, su una scrivania riposavano tre clessidre di diversa dimensione assieme a numerosi fogli, a una penna e a un calamaio.
Sulla parete di destra era stata dipinta con minuzia una meridiana, le cui ore erano adornate da viticci rampicanti e animali d’ogni genere.
- Ti piace questo posto? –
Nirghe si voltò di scatto. Alle sue spalle era apparso un uomo di mezz’età, dai verdi occhi scintillanti e la fronte solcata da tenui rughe.
- Ho fallito, non è così? – chiese lo spadaccino con lo sguardo basso.
- Perché dici così? –
- Perché per cercare di salvare una manciata di soldati ho ucciso Ardof del Fuoco. Ho fatto un disastro. –
- E se invece ti dicessi che non hai ucciso nessuno? Era il destino di quei demoni incontrare la spada di Ardof, così come era il destino del Cavaliere del Fuoco incontrare le fiamme del drago nero. Era tutto già scritto da tempo, da prima ancora che tu nascessi in quanto idea. Ciò che invece non era stato deciso era la sorte di quei soldati. Potevano sopravvivere o morire indifferentemente e la storia non ne avrebbe risentito, visto che in seguito avrebbero comunque raggiunto i primi prescelti, ma tu hai deciso di salvarli. Sei stato bravo Nirghe. Anzi, sei stato doppiamente bravo. –
Il Gatto alzò lo sguardo dal pavimento. – Doppiamente? –
- Precisamente. In base ai pochi indizi che hai carpito dall’ambiente hai subito capito dove ti trovavi, per questo mio fratello si sarebbe congratulato con te, per non parlare della perfetta analisi della situazione. La mia prova non era difficile, in realtà. Questi demoni non erano nemici particolarmente ostici come quelli che hanno incontrato i tuoi compagni. Ma ho deciso di portarti là per vedere come ti saresti districato tra le pieghe del tempo, per capire se avresti potuto gestire il potere che ti ho riservato. –
- Tempo, mio signore… Mi stai dicendo che nonostante i danni che ho fatto ho superato la prova? –
- Si. Si, Nirghe. Hai elaborato il periodo in cui ti trovavi, hai riportato alla memoria cosa successe allora e hai saputo sfruttare ciò che avvenne per vincere. Per me questo è sufficiente per convincermi che sei degno. Lascia allora che ti affidi il tuo compagno che non è un compagno. Abbine cura, perché dentro di lui si cela il potere che ho deciso di donarti. Fanne buon uso. –
Da terra si sollevò un polviscolo che, compattandosi sempre più, prese la forma di un piccolo gatto dal pelo nero come la pece. Il dio lo prese piano e lo adagiò tra le mani dello spadaccino.
- Tempo… grazie per la fiducia. –
La stanza cominciò a svanire lasciando il posto alla Piazza Sospesa, mentre il dio sorrideva con uno sguardo che si sarebbe potuto dire affettuoso.


Note dell'autore (importante):

Grandi notizie, almeno per me. Finalmente i miei esami sono finiti, per ora quantomeno, e potrò farmi un mesetto di vacanze.
Purtroppo per voi il mio genere di vacanza molto spesso implica la totale assenza di connessione internet, apparecchi elettronici e, in ogni caso, prese elettriche.
Oh, già. Dovrete rimanere senza di me fino ad (almeno) il 19 di agosto.
Vi vedo già tutti in lacrime per questa notizia.
Per farmi perdonare, però, visto che sono magnanimo o sadico, a voi la scelta, ho deciso di mettere qui sotto l'apertura del prossimo capitolo, quello che chiuderà questa quest dei compagni, possiamo dire.
Bene, mi sono dilungato a sufficienza.
Grazie a tutti per essere arrivati fino a qui, buon proseguimento e buona lettura.
Vago.


Capitolo 25: Consiglio divino

- È un peccato. – disse il Fato passando il suo sguardo tra gli dei minori – Mi dispiace per voi che non tutti i vostri prescelti abbiano superato la prova, ma soprattutto mi duole ammettere che il demone, essendo riuscito ad avvicinarsi così tanto a quei ragazzi, abbia guadagnato un vantaggio su di noi. –
Gli dei primigeni rimasero in silenzio ad osservare la scena, seduti sui loro scranni.
Natura era rimasta in disparte, in pena per i suoi fratelli e le sue sorelle che temevano più di chiunque altro nella Volta che le loro scelte potessero portare alla vittoria del demone.

Cosa diavolo mi sono perso?
Cosa è successo? Si sono accorti che Seila non era all’altezza? Però perché hanno parlato del demone? Qualcosa mi sfugge e io detesto non sapere tutto. 

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Capitolo 29
*** Capitolo 25: Consiglio Divino ***


- È un peccato. – disse il Fato passando il suo sguardo tra gli dei minori. – Mi dispiace per voi che non tutti i vostri prescelti abbiano superato la prova, ma soprattutto mi duole ammettere che il demone, essendo riuscito ad avvicinarsi così tanto a quei ragazzi, ha guadagnato un vantaggio su di noi. –
Gli dei primigeni rimasero in silenzio ad osservare la scena, seduti sui loro scranni.
Natura era rimasta in disparte, in pena per i suoi fratelli e le sue sorelle che temevano più di chiunque altro nella Volta che le loro scelte potessero portare alla vittoria del demone.

Cosa diavolo mi sono perso?
Cosa è successo? Si sono accorti che Seila non era all’altezza? Però perché hanno parlato del demone? Qualcosa mi sfugge e io detesto non sapere tutto.

- Non possiamo fare nulla per loro? – chiese Oscurità, gettando un rapido sguardo in direzione della finestra della Volta che dava sulle Terre – Non possiamo avvertirli in qualche maniera? –
- Non è il caso. – le rispose il Fato. – Il demone potrebbe approfittare di una nostra materializzazione nel Creato e allertare i nuovi prescelti li allontanerebbe solo dalla loro meta. Possiamo solo rimanere in disparte a guardare. Il compito dei cinque degni si è fatto ora più arduo.–
- Ma, genitori! Dobbiamo dirgli che uno di loro è stato scelto dal demone! In questo momento potrebbero anche non giungere mai alla loro meta! – si infervorò Tempo, facendo qualche passo avanti, in direzione degli dei primigeni.

Vi prego! Fermatevi tutti un attimo!
Cosa sta succedendo? Ditemelo! Sono io quello che deve tenerli d’occhio, quindi ho il diritto di sapere a quale pericolo sono stati messi.
Avanti! Sapete tutti che ci sono anch’io qua!

- Cinque di loro hanno superato la vostra prova. A loro avete lasciato un compagno e un potere unico. Ora abbiate fede nelle loro capacità e rimanete in disparte, così come dovreste sempre fare.-
- Il Fato ha ragione. – disse Acqua alzandosi dal suo posto. – Quello che dovevate fare lo avete fatto. Ritornate a vegliare sul Creato e sui vostri protetti e non abbiate paura per loro, perché i mortali hanno l’abitudine di rialzarsi rafforzati dopo ogni ostacolo. Li avete scelti, ora guardateli splendere. –
Gli dei minori se ne andarono uno dopo l’altro, silenziosi, assorti nei loro pensieri. Svanirono facendo sembrare la Volta troppo vuota.
Natura diede un ultimo sguardo ai genitori, indecisa se parlare o meno. Poi, senza fiatare, scomparve, lasciando dietro di sé solo un vago profumo floreale.

- Commedia. Seguimi. – disse il Fato, uscendo dall’anello candido della struttura per avviarsi verso il Parco delle Anime.

Quel nome mi perseguiterà in eterno.

- Ti ho portato qui per metterti al corrente di cosa sta succedendo. –

- Avevo inteso qualcosa del genere. E ricordati che non sono più il tuo Commedia da millenni, oramai. Se proprio devi chiamarmi con un nome, fammi il piacere di utilizzare Viandante. Ora dimmi il perché di quel consiglio. –

- Le prove si sono tutte concluse e solo cinque dei sei prescelti si sono rivelati adatti. Il demone ha colto l’opportunità, intercettando quello non degno e presentandosi a lui come essere divino. Il non adatto probabilmente non sa di esserlo, come non sa che verrà portato a tradire gli altri, ma è comunque il più grande pericolo che si porrà sulla strada di quei ragazzi. –

- Avvertiteli. Lo avete già fatto in passato, che problema c’è? Oppure dimmi chi è il ragazzo che non ha superato la sua prova, ci penserò io a renderlo inoffensivo. Ho le mani talmente tanto sporche di sangue che non si vedranno questi schizzi. –

- Non possiamo avvertirli direttamente. Il demone potrebbe sfruttare la confusione che si creerebbe per metterli uno contro l’altro, o per renderli inermi. No, non dobbiamo lasciargli questa possibilità. E tu hai un altro compito che ti attende, non devi in nessun modo sapere cosa avverrà ora. –

- Quindi io dovrei aiutarli a proseguire, perché questa è la mia missione là, sapendo che uno qualunque di loro un bel giorno si sveglierà in fiamme, con ali nere e voce cavernosa, il cui unico obbiettivo è quello di sterminare qualunque creatura vivente sulle Terre. Ottimo. Sai, stavo cominciando ad annoiarmi della mia vita. Quindi, riassumendo, perchè sarei qui, ora? –

- Devi essere pronto ad ogni evenienza. La trama del reale freme, il mio libro si è fatto incerto. Nemmeno io so predire cosa succederà da adesso in avanti. Abbi cura di quei ragazzi anche per noi. –

- Quindi avete interrotto i pochi giorni al secolo in cui non ho una missione per dirmi di continuare a fare la badante. Bene. Bel lavoro. Ora, Fato, se non ti dispiace ho degli anni di schiavitù da scontare per liberare un altro dei tuoi preziosi servitori. Ci si vede. –
Quando è troppo, è troppo.
Io me ne vado da qui. Non bastava tutto il carico che Loro mi hanno buttato addosso, ora ci si mettono anche gli dei. Mai una volta che quei dannati servitori si sporchino le mani.
Terre, sto arrivando. Abbiamo un po’ di lavoro da portare a termine.
E mi devo pure continuare a sorbire quell’impiastro di Seila. L’unica nota positiva è che, se è lei la traditrice, il demone ha già perso. Quella ragazza è più pericolosa per gli alleati che per i nemici.

Angolo dell'Autore:
E rieccomi qui dopo la pausa estiva, spero quantomeno di essere tornato con il botto. Da adesso in avanti dovrei riuscire a continuare con il solito ritmo del capitolo il venerdì mattina.
Bene, mi sono dilungato abbastanza come al mio solito. grazie a tutti quelli che leggeranno queste parole per la fiducia, buona lettura e buoa continuazione.
Vago

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Capitolo 30
*** Capitolo 26: Quindi... ora? ***


 Hile guardò il lupo zampettargli davanti sul sentiero sassoso contornato da licheni e sporadici ciuffi d’erba.
Era passata quasi una settimana da quando aveva lasciato il Passo del Messaggero e la cima mozzata del Flentu Gar incombeva su di lui.
Una traccia appena accennata risaliva sul crinale, segnalata solamente dagli ometti di pietra lasciati sulle rocce dai pochi cacciatori che battevano quella zona.
Il lanciatore di coltelli si sistemò la borsa e prese a risalire la china, puntando sempre verso il signore di quella catena montuosa. Là, probabilmente, qualcuno lo stava già aspettando.
Il lupetto continuò a zampettare scodinzolante sul sentiero che avevano percorso fino ad allora.
- Ehi… lupo. Vieni qui. –
Hile guardò pensieroso il cucciolo mentre tornava sui suoi passi. Doveva dargli un nome, non poteva continuare a chiamarlo lupo o tu.
La pelliccia grigia si strofinò contro la gamba dell’assassino, quando quel figlio dell’Oscurità lo raggiunse.
- Buio. Che ne dici di questo nome? –
Il lupo continuò a strusciarsi sulla gamba, fermandosi solamente quando la mano del lanciatore di coltelli accarezzò la sua testa.

La vetta mozza del Flentu Gar era brulla come quando l’avevano lasciata. Nulla sembrava cambiato nonostante fossero passati dei mesi dalla loro partenza.
Hile si guardò intorno, in cerca di un segnale.
Tutto era immobile sullo spiazzo. Le case di pietra rimanevano grigie e silenziose, per la maggior parte con i muri crollati sotto il peso degli anni.
L’alto muro del Palazzo della Mezzanotte incombeva su ogni cosa, mentre i ruderi del Palazzo del Mezzogiorno aspettavano l’ora in cui sarebbero crollati, non più in grado di sorreggere la cupola dorata che aveva perso ogni brillantezza.
Uno sbuffo di vento spazzò la polvere dal terreno facendo ondeggiare un cencio color terra annodato sul battente di una delle poche porte rimaste in piedi.
Una figura nera e lontana comparve sulla cima della muraglia scura.
Il Lupo balzò dietro a un cumulo di macerie, osservando la sagoma. Questa si tolse da tracolla quello che poteva sembrare un arco, poi, dopo pochi movimenti, riscomparve oltre il muro.
- Deve essere il rituale dei Draghi. – disse l’assassino in direzione del lupo, intento ad annusare le pietre contro le quali si era seduto.
Hile si diresse quindi verso il pezzo di stoffa, aprendo la porta piena di schegge di legno ed entrando nella stanza scura, nella quale l’unico fascio di luce che penetrava dalla finestra sul muro posteriore faceva splendere i turbini di polvere che riempivano l’aria.
- Era ora che arrivassi. – disse una voce dalla parete di destra.
Un gatto nero uscì dall’ombra, per fare un giro intorno ai nuovi arrivati e ritornare con calma nel punto da cui era partito.
Nirghe si alzò da terra, avvicinandosi al Lupo con uno sguardo annoiato.
- Da quanto sei qui? – chiese il lanciatore di coltelli, facendo qualche passo nella stanza per vederne meglio l’interno spoglio.
- Quattro giorni. Cominciavo a credere che non foste riusciti a superare la vostra prova, a questo punto. –
- Mi spiace. – gli rispose il Lupo sedendosi per terra sotto la finestra e facendo accucciare Buio sulle sue gambe. – Ma io la mia prova l’ho superata. Non ti libererai così facilmente di me. A proposito, la tua com’è andata. –
- Hai presente quando quell’ultimo drappello di demoni attaccò il Palazzo del Mezzogiorno a guerra finita? –
- Si. –
- È stata colpa mia. –
- Ah… Bene. –
Nella stanza ricadde il silenzio. Dopo tutti quei giorni passati in solitudine era difficile ricominciare delle conversazioni.

Mea guardò in alto.
Il sole aveva da poco superato l’apice della sua parabola, iniziando così una lenta discesa che lo avrebbe portato a morire alle spalle dell’Isola dei Draghi.
Di fronte a lei si apriva un sentiero coperto di morbida terra che proseguiva dritto sul pendio per quelli che potevano essere venti metri di dislivello, per poi scomparire dopo una secca curva a sinistra dietro un masso fratturato dalle intemperie.
La sagoma scura del piccolo corvo si stagliava controluce nel cielo limpido. Venne raggiunto da un rapace che dopo qualche lento cerchio sopra le vette dei monti, scomparve nuovamente verso il versante opposto.
Qualcosa scintillò verso il mare meridionale, come un diamante lanciato in aria, ma subito quel fenomeno svanì com’era comparso.
Mea riprese il cammino, facendo ben attenzione a ogni passo per la paura di scivolare su quel suolo friabile.

Era quasi ora che arrivassero.
Cominciavo ad annoiarmi a stare qui, fermo, appollaiato su un tetto, scomodo, a pulirmi le penne.
Noia a parte, devo capire chi diavolo sia l’infiltrato. E che il Fato vada per la sua stramaledetta strada, non ho intenzione di condannarmi ad altri mille anni di schiavitù, magari sotto i magnanimi ordini del demone. Devo solo capire chi potrebbe essere stato scelto dal demone.
Maledette limitazioni! Perché non posso leggere quei loro maledetti animali? Sarebbe più facile, avrebbero scritto in faccia “Animale di origine divina” oppure “Ehi, guardami, sono stato mandato qui dal demone per uccidervi tutti”. Sarebbe chiedere troppo?
Dannazione.
Comunque per come stanno adesso le cose non posso farci niente, se non aspettare che si riuniscano tutti in questo posto allegro.
Ma, se io fossi un demone assetato di potere e vendetta… in parti più o meno uguali con una briciola di megalomania, chi sceglierei come mio araldo?
Che bella parola, araldo. Erano secoli che non la utilizzavo.
Comunque, se fossi Follia non sceglierei mai Seila, sarebbe un azzardo troppo rischioso affidare a lei la mia sorte. No, decisamente è un no.
Mea nemmeno, è troppo sveglia e ligia, dubito si farebbe infinocchiare da quattro parole dolci, anche se fosse la bocca, come se avessero una loro bocca, di un dio. Impossibile.
Jasno non è male come idea, come anche Keria, Nirghe e Hile. Tutti e quattro sono forti e mediamente intelligenti. Per di più Gatto e Lupo si contendono il ruolo di capogruppo, mi stupisce non si siano ancora scontrati su qualche decisione.
Probabilmente sceglierei uno di loro due, anzi, sicuramente. Ma quale? Non saprei dire…
E se non fosse uno di loro? Dopotutto sono anche quelli che avevano più possibilità di passare la loro prova. E, per questo motivo, Seila torna papabile.
Maledizione! Se avessi una testa antropomorfa mi scoppierebbe!
Alla fine mi sono fatto un monologo mentale. Il buon vecchio Saggio sarebbe fiero di me, se non fosse morto come tutti gli altri.

Keria raggiunse la vetta brulla del Flentu Gar.
La ragazza si guardò velocemente intorno, cercando di far evitare allo sguardo l’imponente muro scuro. Notò subito lo straccio annodato su una porta alla sua sinistra.
Fischiò per un secondo abbondante, osservando il cielo terso in cui volteggiavano due piccoli uccelli scuri.
Uno scintillio brillò tra l’azzurro luminoso, poi un essere grosso poco più di un cucciolo di cane atterrò di fronte all’arciere.
Le sue squame parevano diamante, talmente lucide da riflettere l’ambiente circostante come piccoli specchi sfaccettati.
Keria lo guardò sorridendo, per poi spostare la sua attenzione sul guanto che le copriva la mano destra. Se lo sfilò, studiando ancora lo strano fenomeno che l’aveva colpita.
La pelle fin sull’avambraccio era diventata di un trasparente opaco, così come i tessuti sottostanti, facendo intravedere ciò che c’era dall’altra parte come attraverso una lente appannata.
Il Drago strinse più volte le dita, non riuscendo a capacitarsi di come le fosse potuta accadere una cosa del genere.
Il guanto tornò al suo posto, per poi appoggiarsi sulla porta segnata.
La stanza che attese l’arciere oltre quelle assi di legno martoriate era spoglia, illuminata unicamente dai pochi raggi che filtravano da una fenditura sul muro opposto. Due grosse figure scure si mossero.
Da qualche parte sopra la sua testa un corvo ruppe il silenzio gracchiando.

Forse è il caso che cambi forma. Non è il caso che il primo suo simile che il corvo di Mea vede in vita sua sia io.
Sai che casino poi a spiegargli che non tutti i corvi di questo mondo sono come me?

Jasno si asciugò il sudore che imperlava la sua fronte coperta dal cappuccio.
Il sentiero proseguiva di fronte a lui costeggiando una parete rocciosa a strapiombo alla ricerca di una salita più facilmente percorribile.
Sopra la sua testa la sua piccola aquila compiva ampi cerchi.
L’elfo strinse la presa sul bastone che aveva raccolto pochi giorni prima e si rimise in marcia, ansimando sotto quegli abiti opprimenti irradiati di calore da un sole che non aveva intenzione di abbassarsi o farsi coprire da una nuvola di passaggio.
Probabilmente i suoi compagni erano già arrivati.
Il Flentu Gar si innalzava poco più a nord, l’avrebbe raggiunto certamente il giorno successivo, si disse, continuando a mettere un piede davanti all’altro, mentre malediceva la scomodità di quella sacca che si portava appresso.

Tra le rocce macchiate di muschio qualcosa si mosse, poi la testa del serpentello ocra fece capolino, guardando con i suoi piccoli occhietti scuri la sua compagna che arrancava lungo il percorso.
Seila si fermò nuovamente in mezzo al tracciato, piegata a metà dal fiatone.
I piedi le bruciavano dentro agli stivali, le ginocchia quasi non ne volevano sapere di continuare a portare avanti il peso del corpo della ragazza e della vetreria che affollava la bisaccia.
Con gli occhi appannati l’elfa bionda guardò in alto, dove la parete scoscesa della montagna si interrompeva bruscamente, lasciando il posto al profilo scuro di alcune abitazioni fatiscenti.
L’erborista si sedette pesantemente su un masso poco distante, bevendo a gran sorsate dalla borraccia che teneva con sé.
Il serpentello si avvicinò, strusciandosi contro la gamba della compagna come ad incoraggiarla a continuare il suo cammino.
Il camminò continuò frammentato da pause via via sempre più frequenti con l’avvicinarsi della punta mozzata del re dei Monti Muraglia.
Quando Seila raggiunse la tanto attesa meta i piedi si spostavano trascinati, con la punta delle calzature ricoperta da un fitto strato di polvere grigia strappato al sentiero.

Il gruppo si riunì di fronte alla porta segnata. Buona parte degli sguardi continuavano a cadere sul cucciolo di drago che sonnecchiava a terra accanto alla sua padrona.
Hile fece scorrere il suo sguardo sui suoi compagni.
I volti erano segnati e sporchi delle più disparate cose, i capelli  blu di Mea quasi sembravano essersi ingrigiti, tanta la polvere che li ricopriva.
Tutti avevano rammendato velocemente i pantaloni strappati dal viaggio sul dorso dei draghi e questo li rendeva ancor più simili a dei mendicanti di quanto le fatiche che avevano fatto per ricongiungersi lì non avesse già fatto.
Il Lupo contò tre animali a terra, oltre il suo compagno, e due in aria. Quindi erano riusciti tutti a superare la loro prova.
Il silenzio era cupo, velato da un’evidente stanchezza. Nessuno dei sei assassini sembrava avere intenzione di cominciare una conversazione.
Jasno aprì la bocca più volte, indeciso se far sentire la sua voce o meno. Poi si permise di fare una domanda. – Quindi… ora? Cosa facciamo? –
Il silenzio si fece ancor più teso. 

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Capitolo 31
*** Capitolo 27: Controindicazioni ***


 Seila si guardò intorno spaesata. I suoi compagni sapevano sempre cosa fare, l’avevano sempre saputo da quando erano partiti.
Jasno guardava il terreno da sotto il cappuccio, con lo sguardo adombrato e il labbro inferiore torturato dagli incisivi superiori.
Nirghe guardava Mea, con una scintilla speranzosa negli occhi, lei in tutta risposta continuava a rigirarsi la ciocca blu di capelli tra le dita esili.
Hile faceva scorrere il suo sguardo tra i compagni, spostando ripetutamente il peso del corpo da una gamba all’altra.
Keria continuava a tendere e rilasciare la corda dell’arco scaricando su quell’oggetto la sua tensione.
La domanda di Jasno aveva avuto un effetto spropositato sul gruppo e i secondi passavano inesorabilmente lenti.
Il serpentello cominciò a girare attorno alle caviglie dell’erborista, fremente. Fu in quel momento che l’elfa bionda ebbe come un’illuminazione. Non era come nella setta, non stava ricordando cose studiate a memoria, era invece qualcosa di molto simile a una visione durata meno di un secondo.
Ordine, ecco qual era il potere all’interno del suo compagno. Le aveva donato la possibilità di rendersi utile. Per una volta poteva davvero aiutare gli altri.
- Ehm… - iniziò la ragazza incerta – E se andassimo sull’isola dei monaci? Dopotutto, se fossi un dio e volessi nascondere qualcosa, lo metterei in un posto del genere… -
Ci fu un momento di silenzio ancor più pesante. Nessuno poteva credere che quelle parole fossero uscite dalla bocca di Seila.
Nirghe fu il primo a riprendersi dallo sconcerto. – Lupastro, nello studio di Vago c’era una cartina. Vero che l’isola dei monaci era stata evidenziata? –
- Si… Si, l’aveva cerchiata più volte. Credi che possa essere quella la nostra prossima meta? – gli rispose l’altro di rimando.
- Bene. Visto che non abbiamo idee migliori direi che è deciso. Prepariamoci e partiamo. – chiuse il discorso il Gatto, borbottando un “bel lavoro, Seila” mentre si allontanava.
L’erborista si sentì al settimo cielo, l’avevano ringraziata! Aveva fatto qualcosa di utile! Aveva deciso, non sarebbe più stata un peso.

Maledetti dei. Ho capito cos’avete in mente e lasciate che vi dica che siete degli esseri orribili.
Capisco tutto, non eravate sicuri né se avreste scelto i prescelti giusti, né su quando il demone sarebbe ricomparso, ma questo non vi sembra esagerato?
Ora capisco perché li avete presi così giovani, poveri ragazzi.
E voi non preoccupatevi, continuate pure a leggere e dimenticatevi di questa parentesi, avrò tempo per spiegarvi tutto dopo… molto tempo.

Il gruppo si concesse due giorni di riposo prima di ripartire. Ora che avevano deciso la loro meta successiva non restava altro a cui pensare se non il mezzo che gli avrebbe permesso di attraversare quella fascia di mare che si frapponeva tra le Terre e l’Isola dei monaci.
La mappa che la setta aveva affidato agli assassini tornò alla luce dopo mesi segregata chiusa in una bottiglia di vetro.
Mea rimase china sulla carta sgualcita per più di un minuto, intenta a studiare ogni segno tracciato da quell’inchiostro scuro. Infine la mezzelfa si decise a rompere il silenzio.
- Guardate qui. La strada migliore per raggiungere l’isola sarebbe questa. – Il dito affusolato della maga tracciò una linea lungo la catena dei Monti Muraglia, per poi fermarsi su un pallino nero sulla costa meridionale. – La città portuale di Norua sarebbe il migliore punto di partenza, però... c’è un problema. –
Il Corvo ripiegò accuratamente la mappa, intanto una ciocca di capelli blu le ricadde sulla fronte tesa.
- Qual è il problema, questa volta? – chiese Keria scocciata.
- Vedete, questa zona del mare è stretta tra due promontori lunghi decine di chilometri. I venti si incanalano e queste acque sono costantemente scosse da cavalloni che distruggerebbero qualsiasi imbarcazione di piccole dimensioni. –
- Quindi siamo punto e a capo. – disse Hile facendo qualche passo in direzione del versante occidentale per scaricare la frustrazione accumulata.
- No. Abbiamo ancora una possibilità. Non dobbiamo per forza fare tutto da soli. – La mappa passò nelle mani di Nirghe e, da lì, nella sua sacca. Mea quindi si voltò in direzione del Lupo – In fondo è una città portuale e, anche non ci fossero degli Stambecchi in zona, abbiamo ancora dei soldi da parte, potremmo semplicemente affittare una barca con un minimo di equipaggio e toglierci così il problema delle correnti.
Piedi e zampe si rimisero in marcia verso sud, calpestando i terrosi sentieri che costellavano il fianco del Flentu Gar e dei massicci vicini, intanto, in cielo, due figure scure volteggiavano lente, avvicinate ogni tanto da uno scintillio diamantino.

Vi lascio immaginare quali incredibili avventure costellarono questo viaggio, denso di incontri con terribili marmotte e, sporadicamente, qualche stambecco dalle lunghe corna.
Una noia, soprattutto sommata al fatto che con ben tre cuccioli di animali divini in cielo le correnti mi erano precluse per non farmi scoprire. Quindi sono tornato al buon vecchio sasso nella borsa.
In ogni caso, quella là davanti, in fondo a questa maledetta valle, è Norua. Basta dare uno sguardo a quei meravigliosi fumi grigi che fuoriescono dalle ciminiere, per capire quanto sia gettonata come meta turistica.

Il gruppo di assassini si accampò poco fuori le mura cittadine, in un boschetto sopravvissuto alla pesante deforestazione che aveva colpito tutte le colline attorno, che ne portavano ancora i segni.
Il ghiaccio delle cupole assunse una tonalità verdastra, per renderle meno visibili nella vegetazione.
I ragazzi si avviarono quindi in direzione dell’alta cinta in muratura, il cui unico accesso dalla terraferma era un maestoso arco sovrastato da una spessa grata in ferro pronta a calare per isolare la cittadina.
Dalla guardiola una guardia cittadina controllava annoiata i pochi gruppi in ingresso. Ogni tanto una fiaschetta scintillante bagnava le labbra dell’uomo, spandendo un odore forte nella piccola costruzione in assi scure.
- Ora? Come ci muoviamo? – chiese Jasno sistemandosi il cappello largo sulla fronte.
- Dividiamoci. – gli rispose il Corvo – Abbiamo quasi finito le provviste e dobbiamo fare un sopralluogo sul porto. Senza contare il fatto che dobbiamo cominciare a cercare uno Stambecco della zona. –
- Ci penso io alle provviste. – disse l’Aquila allontanandosi di un passo dal resto del gruppo.
- Io posso aggregarmi a Jasno. Magari mentre giriamo per la città riusciremo anche a trovare un affiliato della Setta. Che ne dici Seila? Vieni con noi? – disse Keria sistemandosi sulla schiena l’arco e la faretra.
- Si… Si, certo… - le rispose insicura l’elfa bionda.
Hile alzò guardò in direzione dell’arciere, stupito da quel comportamento così insolito. Lo sguardo che ricevette come risposta chiarì i suoi dubbi. Gli occhi verdi della ragazza sembrarono voler dire “La tengo d’occhio io”.
Il Lupo si grattò distrattamente il capo, assorto nei suoi pensieri. Tutti i suoi compagni erano cambiati da quando si erano salutati prima delle prove, ma Seila era migliorata parecchio. Forse l’incontro con gli dei le aveva dato una scossa, in senso buono.
La voce di Mea riportò il lanciatore di coltelli alla realtà. – Bene. Noi tre quindi andiamo al molo. Ci ritroviamo questa sera alle cupole. –
- Trovate una nave decente! – disse ancora Keria mentre si allontanava, con una mano sollevata in segno di saluto.
A ben pensarci, si disse il Lupo, anche Mea e Keria erano cambiate dalla prova. La maga si era fatta più fredda e calcolatrice, al contrario il Drago aveva una luce diversa negli occhi, sembrava più sicura di sé e non solo perché poteva contare sulla protezione di un cucciolo di drago.

L’aria nella zona meridionale di Norua era pregna di salsedine, ma dell’odore di pescato che appestava Sarnasj non c’era traccia.
La banchina piastrellata si allungava per un centinaio di metri, da questa si allungavano moli in legno ai quali erano ormeggiate diverse imbarcazioni di media stazza.
Il porto era stretto tra due alti promontori, in punta ai quali, da entrambi i lati, si alzavano due alti fari in mattoni.
Hile si guardò intorno spaesato, in cerca di un appiglio nella loro ricerca.
Un gruppo di marinai abbronzati entrò rumorosamente nello stabile dei carpentieri.
- Andiamo a controllare lì? – chiese Nirghe passando lo sguardo sui tetti delle abitazioni circostanti.
All’interno della struttura decine di uomini lavoravano attorno allo scheletro di un’imbarcazione a due alberi. L’aria era satura del rumore delle seghe sulle assi e del ritmico battere dei martelli sulle teste dei chiodi.
I tre assassini si diressero a passo svelto verso tre uomini che tranquilli parlottavano incuranti del frastuono.
- Scusate, avremmo bisogno di alcune informazioni riguardo a delle barche. Possiamo chiedere a voi? – chiese Mea sfoggiando un’aria innocente.
Uno dei tre uomini nerboruti borbottò un “ci penso io”, avvicinandosi ai ragazzi per ascoltare le loro richieste.
- Avete bisogno di una barca, dite? Andiamo fuori a parlare. –
Quando il rumore assordante che accompagnava la costruzione di una nave si fu placato l’uomo si fermò.
- Mi sembrate un po’ troppo giovani per potervi permettere una di queste. –
Hile decise di prendere parola. Lo infastidiva dover rimanere all’ombra di Mea. – Certo, ma… vede, non è per noi la nave. Non proprio, almeno. Siamo gli apprendisti di un fabbro di Gerala e vede… lui crede che costruendo una fucina sull’isola dei monaci i suoi lavori avrebbero una fattura nettamente migliore, sa, senza tutto il trambusto cittadino. –
- Un fabbro, dite? –
- Si, certo. Queste sono due delle sue ultime spade. – continuò il Lupo mostrando con un gesto i due foderi alla vita di Nirghe. – Vede, noi abbiamo solo un problema… ci ha mandati qui per due ragioni, la prima è informaci se in città ci siano navi sufficientemente grandi per poter trasportare tutti i suoi attrezzi, la seconda… lui vorrebbe che noi andassimo a fare un primo sopralluogo sull’isola. Sa, per controllare che non ci siano problemi di nessun tipo. –
- Quindi cosa volete da me, ora? – chiese con il volto corrucciato l’uomo, incrociando le braccia sul petto largo.
- Abbiamo bisogno di un’andata e un ritorno per l’isola dei monaci, per una decina di persone. – gli rispose seccamente Nirghe.
- Per così poche persone, senza merci, per giunta, nessuno scomoderebbe un battello a vapore. La vostra unica possibilità è la Lancia delle Onde, quella laggiù. Ma vi verrà a costare sulle dieci Laire d’oro, a testa. Non credo che abbiate così tanto denaro con voi. –
L’uomo rientrò nel capanno a passi pesanti, lasciando i tre assassini ammutoliti sulla banchina a fissare l’alto albero maestro dell’imbarcazione ondeggiare.
- Speriamo che gli altri abbiano avuto più fortuna. – borbottò Nirghe, incamminandosi a passo svelto verso l’interno della città, lanciando solo un breve sguardo alla ripida scalinata che alla sua sinistra s’inerpicava sulla roccia per proseguire come sentiero fino alla fine del promontorio.

I sei ragazzi si riunirono davanti alle cupole di ghiaccio poco prima del tramonto. Le provviste erano state sistemate in un angolo, pronte per essere smistate, mentre un fuoco scoppiettava in una bassa buca nel terreno.
- Com’è andata? – chiese Keria buttando un altro ramo preso dalla fascina tra le fiamme.
- Malissimo. – le rispose la maga – Non riusciremmo in nessun modo a prendere una di quelle barche come delle persone normali. –
- Beh, allora le uniche buone notizie le abbiamo noi. – riprese l’arciere – Seila ha trovato su una porta in fronte alla piazza principale un battente esagonale con il simbolo degli Stambecchi. Purtroppo la casa era chiusa e non siamo riusciti a parlare con nessuno, ma potrebbe esserci qualcuno che può aiutarci lì… -

Maledizione.
Sapevo che sarebbe stato meglio eliminare quel maledetto affare. Non ci sono più inviati della Setta in questa città da anni e, probabilmente, quel battente arriva da una bancarella sudicia di qualche stramaledetto mercato.
Ora è tardi per preoccuparsi di questo. Ci metterò una toppa più avanti.

Buio drizzò le orecchie, scoprendo leggermente i denti affilati. In quel preciso istante Hile sentì una strana sensazione. Il suo corpo si era messo in allerta, esaminando ogni ombra che si muoveva nella vegetazione attorno e ogni minimo suono. Il cuore accelerò i suoi battiti e le mani corsero ai coltelli più vicini.
- Io vado a controllare una cosa. – disse solamente, per poi alzarsi e spostarsi silenzioso nella direzione indicatagli dall’istinto.
Il corvo di Mea volò sopra al ragazzo, appollaiandosi su un ramo in alto per scrutare nel buio appena calato.
I sensi di Hile si fecero acuti e, in quella condizione, il bosco parve illuminarsi di una strana luce.
Passi, più di due persone sicuramente e un fruscio alle sue spalle simile a quello prodotto da un piccolo animale. Nulla di cui preoccuparsi.
Buio rizzò i peli sul dorso, snudando la dentatura candida.
Fu allora che sei uomini comparvero dalla vegetazione, circondando l’assassino e avvicinandosi lentamente con catene e piedi di porco stretti tra le mani.
Non erano né combattenti esperti, né tantomeno addestrati, ma la loro stazza poteva sopperire a questa mancanza.
Quattro coltelli partirono rapidi, ma solo uno si riuscì a piantare nel collo taurino di un uomo, senza nemmeno fermarlo.
Hile scattò in avanti, saltando sul petto dell’aggressore più vicino e conficcando due pugnali sotto la mascella.
Colante di sangue l’uomo riuscì ancora a stringere nella mano callosa il collo del Lupo e a scaraventarlo a terra, poi Buio chiuse la mascella sulla gola già martoriata e il corpo imponente cadde a terra tra rantolii e zampilli di sangue.
La dimostrazione di forza parve non colpire il resto della banda. In men che non si dica un secondo uomo si era gettato sul corpo del ragazzo, premendo con una gamba sullo stomaco dell’avversario a terra mentre era intento a cercare di calare il pezzo di ferro che teneva tra le mani sulla testa dell’assassino.
Hile sentì la sua fronte imperlarsi di sudore. Avvertiva dentro di sé che il suo compagno non poteva raggiungerlo. In quel momento c’erano solo lui, quell’uomo e il piede di porco che cercava di rompere la barriera delle sue braccia per raggiungere la sua testa.
Nessun coltello poteva essergli utile, nessuno si era conficcato in modo tale che, se richiamato, potesse affondare nelle carni dell’aggressore.
L’asta di ferro guadagnò ancora qualche centimetro.
Una freccia fischiò nell’aria, finendo poi per trapassare da tempia a tempia la testa dell’aggressore, che cadde pesantemente sul torace del Lupo.
Da un cespuglio vicino, senza produrre il benché minimo rumore, comparve Nirghe con le spade sguainate, che si tinsero di rosso quando attraversarono il torace di un terzo uomo.
Jasno saltò da un ramo a una quindicina di metri di altezza, atterrando sulle spalle di un quarto bandito, che cadde a terra con il collo già torto.
Tre aghi avvelenati si conficcarono sul collo del penultimo uomo, che in otto secondi cadde in ginocchio in cerca d’aria.
L’ultimo bandito cercò di allontanarsi dalla bolgia frettolosamente.
- Renèz. – disse digrignando i denti Hile, compiacendosi quando avvertì la lama che affondava nel polmone destro dell’uomo.
Le spade gemelle del Gatto si chiusero attorno al collo del sopravvissuto, facendo fiottare il sangue vermiglio sull’erba scura.
- Meno male che eravamo noi Gatti quelli impulsivi. – disse lapidario Nirghe pulendo le lame nella camicia dell’ultimo uomo ucciso.
- Grazie… per tutto questo. – gli rispose il Lupo con lo sguardo basso, mentre richiamava a sé i coltelli.
- Non ringraziare me, piuttosto tieni le tue parole per Mea. –
- Perché? –
Seila sbucò da dietro un tronco con la cerbottana stretta in pugno.
Il Gatto la guardò con un’ombra di noia negli occhi, poi tornò a concentrarsi su Hile. – Per fortuna lei ti ha visto e ha visto loro, altrimenti non saremmo mai arrivati in tempo. –
- In che senso visto? –
Il Gatto indicò con un dito un ramo, sopra al quale un corvo gracchiò. – A quanto pare lei può vedere attraverso quegli occhi.

Il gruppo si riunì nuovamente intorno al falò. Il lanciatore di coltelli non riusciva ad alzare lo sguardo sui volti dei compagni.
- Scusatemi. – riuscì a pronunciare con le labbra secche.
- Questo dimostra che questi animali non sono qui solo per farci compagnia. – disse Mea. – Stiamo cambiando. Hile, tu perché te ne sei andato, prima? –
- Non lo so. Ho sentito come… la frenesia della caccia. Riuscivo a percepire i passi di quegli uomini, potevo quasi vederli. Ma non so come mai abbia deciso di andare da solo… -
- Questo non è successo solo a te. – gli disse con un sorriso tenero Keria posandogli le mani sulle spalle. – A quanto pare il nostro legame con i compagni è molto più profondo. Mea vedeva attraverso gli occhi del suo corvo, Nirghe non si è mosso nel più assoluto dei silenzi e poi guardalo, non l’ho mai visto così annoiato e sonnecchiante, sta diventando come uno di quei grassi gatti da salotto, Jasno non ho idea di come abbia fatto a non ammazzarsi saltando da quel ramo e… Seila ci ha detto che sul Flentu Gar l’intuizione che la nostra prossima meta fosse l’isola dei monaci ce l’ha avuta all’improvviso, inoltre il veleno che ha utilizzato prima non è una mistura di erbe. Era la sua saliva. Luce mi aveva detto che i nostri compagni nascondono un potere, il mio non l’ho ancora scoperto, a meno che non sia questo braccio, ma questi sono sicuramente i vostri. –

Non mi piace.
Non intendo il discorso, sia chiaro. Quello l’ha fatto per bene.
Non mi piace questa controindicazione dei compagni. Avanti, sonnolenza, manie di controllo, perdita dell’autocontrollo, questi sono tutti effetti indesiderati. Probabilmente dovuti al fatto che ragazzo e compagno stanno cominciando a sincronizzarsi.
No. Non credo che siano questi i poteri che gli hanno promesso. Direi piuttosto che sono un altro ostacolo sul mio percorso, perché dovranno imparare a tenerli a bada.

- Va bene. – disse dopo qualche secondo di silenzio Hile sollevando il capo. – Il piano per domani, quindi, qual è? – 

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Capitolo 32
*** Capitolo 28: Ventiquattr'ore d'inferno ***


 Le cupole si liquefecero di prima mattina, irrorando le radici della macchia vegetale vicina di fredda acqua.
Keria guidò il gruppo tra le vie della cittadina portuale procedendo a passo svelto, sempre sicura della direzione, mentre Jasno saltava di tetto in tetto accompagnato dall’aquila e dal corvo, in cerca di qualche pericolo.
Sarebbe stato molto più comodo e meno appariscente se quel compito fosse toccato a Mea, forte del fatto che poteva vedere il mondo attraverso gli occhi del suo compagno, ma la maga, dopo minuti di domande sul motivo per cui non volesse farlo, aveva confessato imbarazzata e seccata che ogni volta che tornava in sé veniva colta da delle emicranie sempre più lancinanti. Aveva passato l’intera notte cercando una soluzione al problema, purtroppo senza riscontrare risultati.
Hile si inciampò più volte sulla pavimentazione delle strade, disorientato dalla quantità di suoni  e odori che lo circondavano e gli affollavano i sensi. Il pesante sentore di salsedine, l’acre odore del fumo che si levava dalle ciminiere che si stagliavano sulla sua testa, le voci dei fabbri e degli alchimisti che aprivano le loro botteghe e negozi, il battito dei cuori, il fruscio dei vesti, il tintinnio attutito della vetreria di Seila, il tonfo dei passi sulla pietra. Solo Nirghe riusciva a sottrarsi ai suoi sensi, con un respiro impercettibile e dei passi leggerissimi.
Avrebbe dovuto abituarsi in fretta a quella nuova condizione, se aveva intenzione di non mettere di nuovo in pericolo i suoi compagni.
Svoltarono ancora un paio di volte, finché, di fronte a loro, non si aprì una piazza.
Dalla parte opposta un tempio dedicato agli dei primigeni svettava maestoso, fregiato di intarsi d’oro sulle statue marmoree. Dal portone d’ingresso i primi fedeli cominciavano a entrare nel luogo sacro per pregare affinché la loro giornata fosse produttiva.
Il Drago si fermò di fronte al battente in ferro che riposava sul massiccio portone scuro di un’anonima casa intonacata.
Bussò tre volte, poi rimase immobile e in silenzio in attesa di una risposta.
La porta si aprì senza quasi nessun rumore, ma Hile si accorse immediatamente che il cardine superiore non era stato oliato bene, visto che sforzava leggermente.
Ad accoglierli ci fu un sorriso rassicurante di un elfo sulla trentina. Gli occhi neri guizzavano tra i volti dei ragazzi che avevano bussato, un completo rosso scuro copriva un corpo atletico e, a completare il quadro, i capelli neri erano stati pettinati all’indietro, su questi risaltava una ciocca argentata.
Hile squadrò il proprietario di quella casa, stupendosi di come una persona così distinta potesse essere al servizio della Setta.
- Posso aiutarvi? – chiese l’elfo senza riuscire a mascherare un certo fastidio nella sua voce.
Mea non disse nulla, arrotolò semplicemente la manica della camicia fino a metà dell’avambraccio, mostrando così l’esagono con all’interno la sagoma frontale di un corvo di fronte che portava tatuato sul polso destro.
Gli altri fecero altrettanto.
L’elfo sbuffò visibilmente scocciato, facendosi da parte e invitando gli assassini ad entrare.
- Cosa può fare uno Stambecco per la Setta? – chiese non appena si fu chiuso la porta alle spalle.
- Dobbiamo andare sull’isola dei monaci. Puoi aiutarci? – chiese Keria accomodandosi su una sedia messa a disposizione dall’ospite.
Lo Stambecco si andò a sedere su una poltrona ricoperta da stoffa rossa, versandosi in un bicchiere un liquore scuro. – Come mai dovete andare in quel posto? Da quanto ne so io là non ci sono uomini da uccidere. –
- Per una volta non è questa la nostra missione. – gli rispose Hile.
- Comunque, sarà un bel problema. Non credo che troverete una barca adatta a voi senza spendere un capitale. Quanto importante è, per voi, questa cosa? – l’elfo prese una lenta sorsata da bicchiere, guardando pensieroso il fondo del liquore.
- Parecchio. – disse Keria decisa.
- Allora ci divertiremo parecchio. La nostra migliore possibilità è rubare una barca dal porto. Siamo sette e mi sembra evidente che voi non sappiate minimamente come si arma una barca di quelle dimensioni, quindi la nostra unica possibilità è la Lancia delle Onde, la barca di Gantel. –
- Come pensi come possiamo riuscirci? – chiese Nirghe sporgendosi dalla sua sedia.
- Abbiamo solo due problemi: le guardie sui fari gemelli che controllano il traffico navale e la grata sottomarina all’uscita dei promontori. Possiamo superarli entrambi, ma dovremo agire assieme. Siete sicuri che lo volete fare? Guardate che ci andranno di mezzo delle vite. –
- Ne andranno di mezzo molte di più, se non andiamo su quell’isola. – gli rispose Nirghe sporgendosi ancor di più verso l’ospite. – Ora, se hai un piano per noi, è il momento di dirci cosa dobbiamo fare. –
L’elfo sospirò stanco, finendo in un solo sorso il liquore rimasto, poi tornò a posare i suoi occhi stanchi sui giovani assassini.

Hile si sporse dalla roccia dietro la quale si era nascosto, tenendo d’occhio la vela bianca spiegata che si stava lentamente avvicinando dalla costa. I suoi compagni, lo Stambecco e gli animali che gli avevano donato gli dei lo aspettavano su quel ponte, nascosti sotto la coperta della notte.
Avevano levato l’ancora, ora era arrivato il suo momento.
Il Lupo si avvicinò al faro sul promontorio di destra velocemente, percorrendo silenzioso il sentiero che lo collegava al porto. Dall’altra parte di quell’insenatura, nei pressi del secondo faro, Nirghe probabilmente stava facendo lo stesso.
Doveva essere un lavoro veloce e pulito.
Hile appoggiò l’orecchio alla robusta porta in legno scuro, chiudendo gli occhi per concentrarsi sui suoni che il suo udito carpiva.
Quattro voci e un solo paio di piedi che camminavano. Qualcosa di squadrato rotolò su una superficie in legno. Dei dadi su un tavolo.
Se lo Stambecco gli aveva dato le informazioni giuste, la campana dall’arme era situata al secondo piano di quella struttura, dopo una corta rampa di scalini.
I giocatori avrebbero perso tempo ad alzarsi dalle loro sedie, il più veloce sarebbe stato quello in piedi.
Con un calcio del Lupo la porta si spalancò. Non appena lo sguardo poté posarsi sulla guardia ferma al centro della stanza, il primo coltello lasciò le dita dell’assassino, conficcandosi tra gli occhi sgranati dell’uomo.
I tre rimasti si alzarono caoticamente. Due presero le spade abbandonate ai piedi del piccolo tavolo tondo, il terzo corse a rotta di collo in direzione della rampa, ma la sua intenzione venne stroncata da una lama alla base della nuca.
Gli ultimi due sopravvissuti si fecero prendere da panico, abbandonando le armi e scappando oltre i corpi dei compagni morti per avvisare la città del pericolo.
Hile tornò a provare le strane sensazioni che l’avevano avvolto nel bosco. Poté sentire i cuori delle due guardie battere all’impazzata, mentre un misto di odori gli riempì le narici, l’odore della paura, si disse. La gioia della caccia cominciò così a scorrergli nelle vene, facendogli ribollire il sangue e splendere gli occhi.
L’assassino si lanciò in avanti, stringendo tra le dita guantate i coltelli.
La schiena del primo uomo venne squarciata come dagli artigli di un animale, sporcando di sangue il pavimento di pietra del faro, il secondo uomo venne atterrato dal peso del ragazzo, ma non ebbe il tempo di urlare, perché un lama rapida gli aprì una voragine sotto la gola.
Hile si rialzò dal cadavere, pulendosi i guanti insanguinati nella camicia di quest’ultimo e richiamando a sé i coltelli.
Dalla larga finestra che dava sul mare poté vedere la Lancia delle Onde superare la punta estrema dei promontori. Senza il suono delle campane dall’arme dei fari nessuno si era prodigato nell’alzare la grata sommersa che impediva l’accesso, o l’uscita, delle navi in quel tratto di mare.
Un odore di nuovi uomini lo raggiunse.
Il cambio di guardia.
Hile si voltò, trovando di fronte a sé tre guardie con la spada sguainata che spostava lo sguardo tra il ragazzo e i corpi riversi a terra. Il quarto probabilmente era già corso a dare l’allarme a voce. Come conferma di ciò, con uno stridore di ferro contro ferro, la grata sorse dai flutti, levandosi per almeno tre metri sopra le onde.
Dall’altro faro la campana cominciò a suonare fragorosa, seguita dall’accensione di decine di lampade al porto.
Nirghe doveva aver già lasciato l’altra struttura.
Il Lupo ripose i coltelli nelle rispettive tasche, in modo da avere le mani libere per potersi muovere al meglio. Se avesse tardato ancora non sarebbe più riuscito a raggiungere la barca dei suoi compagni.
L’assassino si mosse veloce in direzione degli uomini armati che si frapponevano tra lui e l’uscita.
La prima guardia cadde sotto i piedi del ragazzo, che non rallentò la sua corsa nemmeno quando il filo di una spada si fece strada tra la muscolatura della sua schiena.
Due secondi più tardi Hile superò la soglia di quel faro, lasciandosi alle spalle i tre uomini sbigottiti e una scia di sangue. Corse a capofitto fino al limite estremo della scogliera, senza fermarsi neppure quando il sentiero sotto i suoi piedi scomparve tra le rocce aguzze.
Un passo. Due passi. Tre passi.
Per l’ultima volta il piede del ragazzo toccò la terraferma, per poi affidare quel corpo al vento, in una caduta disperata verso il mare.
Le onde, però, non riuscirono a gremire neppure i piedi del ragazzo, che venne avvolto da un vento umido e da questo venne portato fin sul ponte della Lancia delle Onde.
- Grazie Mea. – riuscì a dire, una volta che si fu sdraiato sulle assi di legno  con il fiatone.
- Ma stai perdendo sangue! – disse una voce femminile lontana, ma Hile non ci fece caso, abbandonandosi al sonno che gli annebbiava la mente.
Avvertì appena Buio avvicinarsi al suo volto.

Hile si svegliò ore dopo sdraiato in una delle cuccette della nave. Dalla botola che portava sopraccoperta filtravano i raggi arancioni di un sole nascente.
L’assassino si alzò piano massaggiandosi la testa che pulsava.
- Complimenti, sei quasi riuscito a lasciarci la pelle. – disse una voce vicina.
Nirghe era seduto a terra, con la schiena appoggiata alla parete e gli occhi socchiusi, le sue labbra erano piegate in un sorriso divertito.
- Mi puoi fare un rapido riassunto? – chiese il Lupo tornando a sdraiarsi e chiudendo gli occhi.
- Ti sei lanciato dalla scogliera, Mea ti ha fatto prendere al volo dal vento grazie alle tue energie, ma, visto che ti sei fatto aprire la schiena, sei arrivato qui mezzo morto e quasi dissanguato. Mea ti ha rimesso un minimo in sesto e ti abbiamo portato qui sotto. Tutto questo circa… sei ore fa. –
- Ottimo… Ma, la prossima volta, teniamo presente i cambi di guardia. –
Il Gatto ridacchiò sommessamente.

La botola si aprì quasi un’ora dopo, facendo intravedere la sagoma scura della testa di Keria controluce.
- Datevi una mossa voi due. Siamo quasi arrivati. – disse la voce dell’arciere.
Hile risalì incerto sulle sue gambe la scala a pioli che lo separava dal ponte sotto lo sguardo divertito di Nirghe, ancora seduto sulle assi di legno del pavimento.
All’esterno il rosso sole mattutino stava sorgendo dalla linea dell’orizzonte, facendo splendere il mare come se fosse invaso da mille scintille.
Lo Stambecco guardava le onde che si frantumavano contro la prua della nave da dietro il timone, saldo tra le sue mani, mentre la sua capigliatura curata si era lasciata cadere sotto il vento marino carico di salsedine.
- Ti sei ripreso ragazzino? – chiese senza degnarlo di uno sguardo l’elfo.
- Abbastanza. – gli rispose il Lupo mentre percorreva i metri che lo separavano dalla punta della nave.
Lontano, di fronte a loro, l’isola dei monaci si mostrava come una sottile riga nera in contrasto con l’azzurro increspato del mare. Sui due alberi della Lancia le vele candide si gonfiavano, trascinando a velocità sostenuta la chiglia sui flutti agitati dal vento.
Un ora, si disse il Lupo. Un ora e sarebbero arrivati a destinazione.
Buio gli si avvicinò rapido, appoggiano il fianco ricoperto di folto pelo grigio sulla gamba dell’assassino.

L’ancora calò sollevando un ventaglio di spruzzi.
A una ventina di metri di distanza, sull’alto promontorio che s’innalzava dal mare, una scala scavata nella pietra risaliva la parete verticale.
 - Voi prendete la scialuppa e andate avanti. – disse lo Stambecco assicurandosi di aver stretto a sufficienza un nodo. – Io cerco un’insenatura dove nascondere la barca e vi raggiungo. –
Senza troppi convenevoli i sei assassini fecero calare la scialuppa sulle onde, remando in direzione dell’isola sotto lo sguardo attento dell’elfo che ritirava a bordo l’ancora.

Hile, raggiunta la cima di quella scoscesa parete rocciosa, guardò la distesa azzurra sotto di lui.
In lontananza cinque battelli si avvicinavano rapidi, lasciando alle loro spalle dense scie di fumo grigio che si innalzavano verso il cielo. Stavano senz’altro inseguendo le vele della Lancia delle onde e da quella distanza difficilmente erano riusciti a scorgere la scialuppa staccarsi da quello scafo per puntare l’isola.
Il Lupo si guardò i vestiti zuppi e rammendati, ripromettendosi, se mai sarebbe tornato nella civiltà, di trovarne di nuovi. Si voltò quindi in direzione dei compagni di viaggio, rendendosi per la prima volta davvero conto di quanto quell’ininterrotto viaggiare li avesse segnati.
I volti era tutti, senza eccezione, magri e infossati, gli occhi erano segnati dalle poche ore di sonno o dalle troppe ore di veglia. I corpi secchi erano coperti dai fantasmi di quelli che erano abiti di buona qualità, alla camicia di Keria mancavano le maniche, il largo cappello di Jasno ricadeva floscio sul capo dell’Aquila.
L’assassino si chiese come mai non li avessero ancora scambiati per mendicanti.
- Mea… - la timida voce di Seila ruppe il silenzio che era calato sul gruppo. – Sai che ci avevi detto delle emicranie che ti vengono dopo aver… guardato attraverso gli occhi del tuo corvo? –
- Si, e allora? – chiese la maga mentre si voltava per guardare in faccia l’erborista.
Il Serpente abbassò lo sguardo a terra. – Ho… ho avuto un’altra intuizione, sulla barca. Credo... credo che questo possa aiutarti. –
Seila porse al Corvo una bottiglietta trasparente, piena di una sostanza dall’acceso colore rosso.
- Come dovrebbe funzionare? – continuò Mea imperterrita, guardando dubbiosa la mistura .
- È solo un infuso… però se ne prendi un sorso al giorno dovrebbe toglierti quel problema. –
La maga si accostò la bottiglia alle labbra, facendo scorrere il liquido nella sua gola. Prese quindi un profondo respiro.
Gli occhi di Mea divennero vitrei, persi nel vuoto. Solo dopo diversi secondi tornarono al consueto colore viola.
- Bel lavoro. – disse infine. – Per ora funziona. Se l’effetto continua dovrai prepararmene altra. –
Hile sorrise fiducioso di quel gruppo e tornò a posare il suo sguardo sulla lontana riga scura che erano le Terre. Ventiquattr’ore prima erano laggiù, talmente allo sbando da essere disposti ad affidarsi completamente a uno Stambecco trovato per volere del Fato, mentre ora la loro meta si era fatta talmente vicina da essere tangibile.

Per fortuna è finita.
Questa è ufficialmente stata la giornata peggiore degli ultimi vent’anni. Ventiquattr’ore d’inferno.
Non so come facciate voi a rimanere rinchiusi in un guscio di carne che non può rinunciare ad avere il terreno sotto i piedi. È maledettamente limitante.
In ogni caso è finita e la Lancia delle Onde sta bruciando davanti ai miei occhi da pesce. È un peccato, lo ammetto, era una buona nave, una delle migliori che mi sia capitata da timonare negli ultimi tempi. Purtroppo non ho il tempo per piangerla, non adesso, quantomeno.
Spero riescano a trovare il proprietario di quella casa in tempi brevi. Non credo sia molto contento di essere stato legato e imbavagliato nella sua cantina. Dovrei però congratularmi con lui per l'ottimo liquore. Era davvero di qualità.
Ammetto di essermi anche divertito in tutta questa faccenda, è stata un bello svago, questa fuga rocambolesca, dovrei farlo più spesso… Magari la prossima volta, però, controllerò gli orari dei cambi di guardia.
In ogni caso, il passato è passato e nessuno  è ancora morto, quindi mi considero soddisfatto del mio operato. Ora, però, devo raggiungere di nuovo quei marmocchi.


Angolo dell’autore:

Questo è un momento importante, per me almeno.
Perché?
Perché da adesso in poi non sono nemmeno sicuro io di quello che avverrà. Questa non è la prima volta che scrivo questa storia ma, per varie vicissitudini, sono stato costretto a ricominciare da capo la stesura di questo secondo capitolo delle Terre. Finora non mi ero mai scostato molto dal primo tracciato che avevo segnato, ma ora sono arrivato a un punto estremo, non sono mai andato oltre questa situazione, quindi non ho la benché minima idea di quali direzioni prenderanno i prossimi capitoli.
Per “festeggiare” questo evento ho deciso di riprendere in mano i miei vecchi appunti cartacei, tradurli in lingua corrente e scrivere qui tutto quel che era e non è più oppure quel che sarebbe potuto essere ma non lo è stato. Vi siete persi? Ottimo.
Da adesso in poi scriverò cose non totalmente pertinenti alla storia principale, quindi siete liberi di alzarvi e uscire, non preoccupatevi, non perderete nulla di vitale se ciò non vi interessa.
Per voi tutti, invece, che siete arrivati a questo punto, grazie per la fiducia.
Senza indugio ecco che inizio.

1)    La prima stesura era tutta in prima persona attraverso gli occhi di Hile. Poi mi sono reso conto che era un suicidio e ho riscritto tutto, salvando da quella versione solo il primo capitolo, quello del rapimento, per intenderci.
2)    Inizialmente gli animali legati ai settori della setta (scusate il gioco di parole) dovevano essere il lupo, il corvo, la capra (non so come mi fosse venuta in mente), il drago, il pipistrello e l’orso, legate rispettivamente ai coltelli, ad arco e frecce, al combattimento a mani nude, alla spada, alla cerbottana e al combattimento con il bastone. Poi, probabilmente, mi sono accorto che la magia poteva essermi leggermentissimamente utile e ho rivoluzionato tutta la baracca.
3)    La prima idea come power-up per gli assassini erano delle gemme da inserire in una specie di altare nel cuore del Flentu Gar. Poi ho avuto l’illuminazione dei cuccioli e ho scartato tutte le altre possibilità.
4)    Niena e Mero (i figli rispettivamente di Ardof e Frida e Trado e Diana) sono nati in quest’ultima stesura, tra l’altro a capitolo già finito e pronto per essere caricato sul sito. Ah, si, loro saranno importanti, forse.
5)    A proposito di cose nate in una notte di lavoro: Il personaggio di Vanenir II è nato in venti minuti, nei successivi dieci ho deciso quale sarebbe stato il suo ruolo. Tutto questo grazie a una riflessione su una recensione.
6)    Questo non sono sicuro di volerlo scrivere. Avrete presente Commedia? Il nostro simpatico Viandante di quartiere? Bene. All’inizio non era una musa, non era ironico, non era nulla di tutto quello che è ora. Inizialmente era un mutaforma che, per noia, seguiva le avventure dei personaggi, facendo commenti seri e delucidazioni di tanto in tanto. Era una noia mostruosa. Poi mi sono preso a schiaffi da solo e l'ho trasformato in quel che è ora.


ATTENZIONE, CONTENUTO PARTICOLARMENTE CRITICO.


In conclusione di questo “speciale”, voglio lasciarvi un commento del Viandante che, dopo una lunga e tormentata riflessione, ho deciso di tagliare da questo capitolo appena caricato.

“Svoltarono ancora un paio di volte, finché, di fronte a loro, non si aprì una piazza.
Dalla parte opposta un tempio dedicato agli dei primigeni svettava maestoso, fregiato di intarsi d’oro sulle statue marmoree. Dal portone d’ingresso i primi fedeli cominciavano a entrare nel luogo sacro, per pregare affinché la loro giornata fosse produttiva.

Detesto questo genere di templi. Per più di un motivo, tra l’altro.
Gli dei, i miei capi immortali, non hanno mai chiesto che fosse eretto in loro onore un posto del genere, ma soprattutto non hanno mai chiesto a nessun mortale di farsi loro portavoce, nemmeno ai sei Cavalieri, invece guarda un po’ lì. Cinque, sei, otto… Ben nove devoti sacerdoti pronti a fare qualsiasi cosa debbano fare dei sacerdoti.
Voglio solo sperare che questa storia non finisca male…

Il Drago si fermò di fronte al battente in ferro che riposava sul massiccio portone scuro di un’anonima casa intonacata.”

Non ero sicuro che questo commento potesse essere appropriato alla storia, quindi ho optato per lasciare a voi lettori l’ardua sentenza.

FINE DEL CONTENUTO PARTICOLARMENTE CRITICO


Questi erano più o meno tutti i grandi cambiamenti che ho apportato andando avanti con la storia.
Prima di chiudere questo capitolo nel capitolo, vorrei fare un appello a tutti voi. Mi fareste un piacere immenso se mi scriveste un vostro parere nelle recensioni, per favore criticatemi, perché da ora in avanti ho più possibili strade per proseguire e potrei aggiustare un po’ il tiro con il vostro contributo.
Detto ciò, grazie a tutti, di nuovo, per la fiducia. Ci vediamo la settimana prossima.
Vago.

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Capitolo 33
*** Capitolo 29: Un vecchio piano B ***


 - Seila, hai avuto un’altra delle tue illuminazioni su dove dobbiamo andare ora? – chiese la maga voltandosi verso il Serpente, che piegò il capo verso il terreno, dispiaciuta. – Non importa. In fondo non puoi controllarle. Non ci resta che mettere sottosopra questo posto. –
Si divisero a coppie per poter coprire una zona più ampia. Se mai qualcuno avesse trovato qualcosa, il segnale per avvertire gli altri era far volare in cielo il compagno in modo che indicasse la posizione.
Hile guardò scettico Keria che si arrampicava su un albero secco.
- Forse mi starò ripentendo… - disse il Lupo – Ma cosa speri di ottenere? Mea ha già controllato attraverso gli occhi del suo corvo tutta l’isola. Se ci fosse qualcosa di visibile dall’alto già lo sapremmo. –
- Ti ho già detto che voglio solo controllare una cosa e le tue spalle non arrivano abbastanza in alto. –
Il Drago si alzò in piedi su uno dei pochi rami rimasti a quella pianta morta, intanto il rettile di diamante guardava la compagna da terra con i neri occhi lucenti.
Hile si chiese come l’arciere potesse essere così fiduciosa. Niente era stato facile, fino ad allora, perché mai a quel punto avrebbero dovuto avere un colpo di fortuna. Ma, evidentemente, alla ragazza ciò non importava.
Il Lupo si sedette a terra, aspettando che Keria scendesse da quella pianta. La mano destra corse involontariamente a uno dei coltelli nelle tasche.
Hile lo estrasse, guardandone i riflessi sulla lama. Era quello di Renèz. Non aveva quasi più pensato a lei, negli ultimi tempi. Forse erano accadute troppe cose per poter ripensare al passato.
Un’idea spiazzò il ragazzo. La stava lentamente dimenticando. Il suo volto stava diventando fumoso nella sua memoria e la sua voce si mischiava a quella dei suoi compagni di viaggio. Il suo ricordo gli aveva fatto compagni per così tanto tempo all’interno delle mura della setta ed ora che ne era uscito lo stava abbandonando.
Forse era giusto così. Lei era morta e nessuno l’avrebbe potuta riportare indietro, quindi, forse, avrebbe fatto meglio a lasciarla andare una volta per tutte.
Il guanto in pelle si strinse sul coltello, mentre la fronte del ragazzo si corrucciò al passaggio di questi pensieri.
- Ehi, Hile. Sei ancora con noi? – la voce di Keria lo riportò alla realtà.
Il Lupo rimise a posto la lama, appoggiando una mano sulla testa di Buio e alzandosi da terra.
- Si, certo. Hai trovato qualcosa di interessante? –
- Rovine. Ce ne sono parecchie poco lontano da qui. Avevo intravisto una colonna, prima, ma non ne ero sicura, era questo che volevo controllare. –
A meno di mezz’ora di cammino, in mezzo a una piana infestata da alte erbacce e spessi rovi, si levavano le rovine diroccate di una decina di strutture in pietra levigata.
I resti di una strada comparvero sotto le suole dei due assassini. Questa serpeggiava tra le mura crollate di quello che doveva essere un dormitorio e una stalla di cui era rimasto solamente uno dei muri portanti.
Hile guardò con una nota di amarezza negli occhi il triste spettacolo che lo circondava, continuando a camminare in silenzio.
La via andò a morire di fronte all’alta colonna grigia che Keria aveva intravisto, l’unica sopravvissuta di quelle che costituivano il porticato di un edificio sacro. L’altare e la navata centrale erano state inghiottite dalle macerie del tetto e del campanile che, probabilmente, inizialmente si innalzava per una ventina di metri dal suolo.
Quello era tutto ciò che rimaneva dei monaci a cui l’isola doveva il suo nome, dei ruderi, nulla più.
Hile fece un rapido sopralluogo del tempio, ma non trovò nessun indizio che potesse lasciargli intuire che lì, sotto quelle macerie ricoperte dalla vegetazione, si nascondesse ciò che stavano cercando.
- Peccato… pensavo che qui avremmo trovato qualcosa di utile. – disse Keria perdendo il suo sorriso. Gli occhi verdi si velarono per colpa della speranza infranta.
Il Lupo venne colto alla sprovvista da una pugnalata al petto, a quella vista.
- E dai, non ti preoccupare. La prossima volta avremo più fortuna. – le disse, dandole una pacca affettuosa sulla spalla muscolosa.
L’arciere tentò un sorriso forzato, non riuscendo nel suo intento.
- O forse no. – proseguì Hile.
- Come no? – chiese il Drago voltandosi sorpresa.
- Il corvo di Mea. Devono aver trovato qualcosa. Bene, vorrà dire che la prossima volta noi saremo più veloci. –
Il lanciatore di coltelli puntò direttamente in direzione del piccolo volatile nero, lasciandosi alle spalle le rovine di quel posto.

Mea era seduta per terra con la schiena contro una roccia. Gli occhi bianchi rimanevano fissi a fissare un punto lontano di fronte a lei.
La bocca della maga si mosse, ma la voce parve provenire da molto più lontano.
- Jasno e Seila stanno arrivando. Saranno qui tra una decina di minuti. –
- E Nirghe? – le chiese il Lupo.
- Sta controllando che non ci sia altro qui intorno. –
La maga voleva aspettare che fossero presenti tutti per metterli al corrente di quello che avevano trovato e Hile si arrese a quell’evidenza.
Il ragazzo si sedette a terra, accarezzando distrattamente il dorso di Buio mentre con lo sguardo cercava di trovare il motivo per cui era lì.
Hile quasi saltò in piedi quando gli occhi di Mea tornarono viola.
- Allora? – chiese il ragazzo.
- Stanno arrivando. – gli rispose la maga.
Due minuti dopo Il largo cappello di Jasno comparve della rocce, accompagnato dal lento volo del suo aquilotto.
- Bene. Ora che ci siamo tutti, seguitemi. – disse quindi il Corvo alzandosi e allargando il braccio destro perché il suo compagno potesse riposare le sue ali su un trespolo sicuro.

Nirghe alzò lo sguardo annoiato dal masso sul cui si era seduto. Lì vicino, su una parete rocciosa che tagliava la collina, si apriva una grotta nella quale risplendevano piccoli frammenti di quelle he dovevano essere squame di drago.
- Quindi questa è la cosa più vicina agli dei che c’è su quest’isola? – chiese Keria guardando nella penombra per cercare qualcosa di valore.
- Emana un’aura magica non indifferente. Non so dirvi di che tipo di magia si tratti, ma è l’unica traccia che sono riuscita a trovare. –
Il Gatto si alzò in piedi, raggiungendo i compagni a passo lento. – Tra l’altro, questa è l’unica grotta che sono riuscito a trovare nei dintorni. –
- Voi siete già entrati? – chiese Hile accostandosi a Keria per avvicinarsi all’ingresso.
- No. Non ancora. – gli rispose la maga.
- D’accordo, allora sbrighiamoci a trovare qualcosa. –
Il gruppo entrò con attenzione in quel riparo roccioso, sotto lo sguardo attento dei compagni. A Hile parve di avvertire un brivido, non appena ebbe superato quella soglia, ma non ci prestò particolare attenzione.

È stato bello conoscervi.
Chissà, forse un giorno ci rincontreremo. Dopotutto io ho tutta l’eternità per aspettarvi.
Spero solamente che gli dei sappiano cosa stanno facendo…

Il Lupo fece qualche passo all’interno della grotta, ammirando i frammenti di squame verdi che splendevano a terra.
Per due volte il sole venne oscurato, gettando la caverna nella penombra.
- Hai trovato qualcosa, Mea? – chiese Jasno passando una mano sulle pareti incise.
- È un incantesimo stranamente recente… però una magia del genere non esiste più da… quarant’anni, almeno. Un posto del genere non dovrebbe esistere. – gli rispose la maga. – In ogni caso non sono stati sicuramente gli dei a crearlo… con tutte queste rune potrebbe quasi sembrare un sigillo. –
- Ragazzi… credo che abbiamo un problema più grosso del demone, ora come ora. – disse Nirghe indietreggiando di qualche passo, con gli occhi sgranati fissi sull’ingresso.
 - Cosa… - Hile non riuscì nemmeno a terminare la domanda. All’esterno, giorni e notti si alternavano minuto dopo minuto. Le giornate correvano e le foglie dei pochi alberi visibili ai piedi di quell’altura si ingiallivano a vista d’occhio.
- Maledizione! – sbraitò il Corvo voltandosi rapidamente. – Usciamo immediatamente di qui, ma dobbiamo farlo assieme. Altrimenti dall’uscita del primo a quella dell’ultimo potrebbero passare giorni, se non mesi. –
I sei assassini si misero frettolosamente uno accanto all’altro, con la fronte diretta verso quel mondo esterno che si muoveva troppo velocemente.
- Ora. – disse solo Mea. Assieme a lei, tutti i suoi compagni colpirono come un muro trasparente, eretto per non permettergli di scappare.
- Ed ora? – Seila cominciò a respirare affannosamente, sopraffatta dallo sconforto e dalla preoccupazione.
- L’unica cosa che posso fare è cercare una falla nel sigillo. Se riuscissi a trovare un’imperfezione, forse, potrei rompere questa gabbia che ci tiene rinchiusi. –
Hile si sedette a terra con un tonfo sordo.
Non si meritavano quella fine. Non era giusto nei loro confronti.
Il Lupo si guardò intorno, cercando di evitare di posare il sguardo sull’ambiente esterno che pareva impazzito.
Nirghe si era seduto in un angolo in fondo alla grotta e lì rimaneva immobile, con gli occhi persi nel vuoto senza mostrare il benché minimo accenno di un sentimento. Erano vuoti, estraniati dalla situazione in cui si trovava il Gatto.
Seila fissava l’esterno con espressione incredula. Serrava ritmicamente le palpebre e i pugni, forse cercando di provocare un’intuizione che potesse portarli fuori da quel posto.
Jasno aveva tolto il largo cappello, gettandolo a terra in un moto di stizza, per poi passarsi la mano guantata tra i capelli candidi.
Keria si era andata a sdraiare contro la parete opposta all’ingresso, per poi concentrare tutte le sue attenzioni sulla mano e sull’avambraccio che aveva appena liberato dagli abiti. Cercando di capire fino a che punto quel cristallo aveva modificato il suo arto.
Mea, infine, camminava lenta rasente alla parete, percorrendo con un dito affusolato i glifi impressi nella roccia in cerca di un’imperfezione in quella trappola.
Non rimaneva nulla del gruppo con cui era partito, pensò amaramente il Lupo raccogliendo da terra una piccola squama iridescente rimasta pressoché intatta. Forse loro erano cresciuti, o forse gli dei li avevano fatti cambiare perché potessero essere più adatti al loro destino, fatto sta che nessuno era rimasto sé stesso.
- L’ultima spiaggia contro Reis. – disse all’improvviso Jasno alzandosi da terra e sollevando una nuvola di polvere che, illuminata dalla luce di due giorni, tornò a posarsi sul terreno.
Mea parve esser l’unica a non prestare attenzione a quelle parole.
- Cosa? – chiese Keria portandosi in posizione seduta.
- Mio nonno. Mio nonno quando ero bambino mi diceva che combatté come arciere fin dalla prima battaglia della Guerra degli Elementi. Mi sono ricordato ora di una storia che mi raccontò. Diceva che gli era giunta notizia dai ribelli che, se mai i cavalieri non fossero riusciti a uccidere il Re, Drake il Diplomatico avrebbe potuto ancora imprigionarlo. Era solo una voce che girava tra i plotoni, ma si diceva che tre Cavalieri della prima generazione fossero stati mandati in missione a Sud, mentre le razze si mobilitavano per raggiungere i Monti Muraglia. Magari era questa la prigione che crearono per il demone ed ora noi ne siamo rimasti intrappolati. –
Le parole dell’elfo albino non fecero altro che peggiorare l’umore generale. 

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Capitolo 34
*** Capitolo 30: Un nuovo mondo ***


 In quel mondo a parte passarono circa due giorni. Hile e un sempre più svogliato Nirghe furono costretti a interrompere Mea nella sua ricerca per farla mangiare un pasto completo e farla riposare.
La mezzelfa, non appena venne costretta a sdraiarsi, cadde in sonno agitato. Sei ore dopo riaprì gli occhi segnati per tornare al suo lavoro.
La situazione continuò a peggiore sempre più. Le poche parole che venivano dette erano per lo più monosillabi riferiti al cibo, gli sguardi rimanevano per tempi sempre maggiori persi nel guardare una parete o il pavimento.
Circa quindici ore dopo il Corvo ruppe il suo silenzio.
- Ho subito bisogno di qualcuno qui. –
Hile si fece avanti, avvicinandosi alla maga e alla runa su cui aveva appoggiato il palmo della mano.
- Guardala. Prima che l’incantesimo venisse completato, una scheggia di roccia si è staccata da questa runa. Questo è l’unico punto in cui possiamo intaccare l’incantesimo. Devi rompere queste incisioni partendo da questo punto, basta che spezzi una sola linea… -
Mea fece qualche passo indietro, abbandonandosi per terra, tra la polvere, con gli occhi chiusi.
Hile prese un coltello, piantandone la punta là dove il Corvo gli aveva indicato. Con una serie di torsioni e lenti movimenti le prime pietruzze cominciarono a cadere sul terreno.
Improvvisamente le pareti della grotta risplesero di una luce abbagliante, che scemò in meno di un secondo.
- È rotto. Il sigillo è rotto. – disse con voce stanca la maga provocando una frenesia dimenticata in quella prigione.

Nirghe si caricò sulle spalle la compagna, raggiungendo gli altri assassini sull’uscio.
Jasno si sistemò sulla fronte il cappello impolverato e Keria si rinfilò il guanto alla mano destra, preparandosi per uscire.
I cinque sguardi si incontrarono per pochi istanti.
- Ora. – disse Nirghe.
I piedi superarono la linea che li divideva dal mondo esterno.

Chi lo avrebbe mai detto. Allora anche quel brocco di Trado faceva parte del grande piano.
La domanda più importante, ora, è cosa devono fare. Per tutto il tempo in ci sono rimasti lì dentro non ho avuto notizie né da Loro, né tantomeno riguardanti il demone. Sono in una posizione di stallo ed è maledettamente fastidioso.
Ma, soprattutto, avranno trovato il poveraccio che ho rinchiuso in cantina? No, perché per poter usare quella maledetta casa, ho dovuto mettere fuori servizio il suo proprietario chiudendolo nella cantina. Almeno si sarà potuto consolare con la sua collezione di liquori d’annata.

Hile si sentì pervadere da qualcosa. Anche se sapeva che non era possibile, la sensazione che provò poteva essere descritta in una sola maniera, come se il tempo lo avesse avvolto in una coperta melmosa per poi trafiggerlo con centinaia di migliaia di secondi solidificati.
La mente del ragazzo vagò spersa, cercando di dare un significato a quella sensazione, senza riuscirci.
Pochi secondi dopo si lasciarono la caverna alle spalle.
L’ambiente disabitato che avevano lasciato non era mutato più di tanto. La vegetazione aveva guadagnato terreno nella sua inesorabile battaglia contro i ruderi di un epoca passata, ma al di là di quel dettaglio nulla era mutato.
Hile si voltò verso i suoi compagni e per poco non cadde a terra.
Capelli e unghie erano cresciuti a dismisura, gli abiti si erano consumati, facendosi sempre più logori e laceri e barbe incolte si erano insediate sui volti del Gatto e dell’Aquila..
Ci volle un momento per riuscire a capire la situazione e per riprendersi dallo sgomento iniziale.
- Cosa c’è successo? – chiese Seila cadendo indietro mentre si fissava le mani senza riconoscerle.
- Credo che abbiamo recuperato il tempo perso. – le rispose Keria, passando le sue dita tra i lunghi capelli castani che le ricadevano fino ai piedi. – Ma dovremo aspettare che Mea si svegli, per averne la certezza. Intanto, Hile, mi presteresti un coltello? Non li sopporto lunghi. –
Il Lupo gliene porse uno distrattamente, cercando con lo sguardo una forma che potesse appartenere al suo compagno. Intanto, con un colpo secco della lama, i capelli dell’arciere tornarono a non raggiungere le spalle.
- E adesso cosa facciamo? – continuò l’elfa bionda.
- Speravo che ce l’avresti detto tu. – le rispose Hile. – Comunque, per il momento, sarà meglio rimetterci in sesto e aspettare che Mea si riprenda. Poi dovremo cercare i nostri compagni, non penso che abbiano lasciato l’isola. –

Finalmente sono riusciti a uscirne. Tutto sommato poteva andare anche peggio.
E poi ho avuto anche un po’ di tempo da dedicare a me stesso, non mi ricordavo quanto fosse piacevole il corpo dei polpi, seriamente, le ossa sono sopravvalutate. Non capisco come mai tante creature abbiano puntato su di loro.

Keria andò a sedersi a fianco del Lupo, guardando Nirghe sdraiarsi contro la roccia che ospitava l’ingresso alla trappola in cui erano caduti.
- Dovremmo fermarci per un po’. – disse infine.
- Cosa? Perché dovremmo farlo proprio ora? – le chiese il lanciatore di coltelli confuso.
- Guardaci. Te ne sarai accorto anche tu, è come se ognuno di noi avesse dimenticato quello che ha imparato nella setta. Io non ho mai sentito parlare di un Gatto che preferisse sonnecchiare, piuttosto che fare qualsiasi altra cosa, e tu… -
- Io cosa? – Hile sapeva perfettamente dove l’arciere voleva arrivare, ma fece finta di esserne allo scuro.
- Avanti, hai fatto solo dei grandissimi casini da quando siamo tornati dalle nostre mete. Non eri tu che studiavi qualsiasi cosa, persino i tuoi compagni, prima di agire? E anche dopo aver ponderato ogni possibilità, comunque, ne parlavi con noi. Adesso senti un maledetto odore nell’aria e gli corri dietro. Ma questo non si limita solo a te e a lui.  –
Al Lupo fece male sentire quelle parole con di fronte quei due occhi verdi pieni di tristezza. – E voi altri? -
Keria prese un attimo fiato, spostando lo sguardo sulla pianura sottostante - Mea è diventata intrattabile, nervosa e saccente, fosse ancora quella che ho conosciuto, ci avrebbe spiegato cosa cercare in quella caverna e ci avremmo impiegato la metà del tempo ad uscirne, almeno. Jasno è indeciso, sempre. Non hai notato che ultimamente è confusionario? È tranquillo, poi un secondo dopo lo vedi arrabbiato, inizia un qualunque lavoro, poi si ricorda di qualcos’altro e lascia tutto a metà, non so cosa gli sia preso. Poi…–
- Le uniche che non sembrate cambiate siete tu e Seila. – continuò Hile, spostando la sua attenzione sull’alfa bionda, intenta a stringere i capelli in una treccia.
- Non proprio. Seila ha quelle sue… intuizioni. Mentre io… ho questo braccio, se solo sapessi a cosa servisse. – l’arciere guardò infastidita l’avambraccio di cristallo celato sotto alla benda che sostituiva la manica strappata.
- Prima o poi lo scoprirai. – gli rispose il lanciatore di coltelli.

Sono migliaia di anni che mi chiedo perché gli dei abbiano creato le zanzare. Davvero.
Nonostante le abbia osservate attentamente e ne abbia assunto la forma, non le riesco a capire. Saranno anche loro uno scarto di lavorazione, come il demone. Non credo ci possa essere un'altra motivazione alla loro esistenza. A meno che gli dei non fossero particolarmente di cattivo umore, quel giorno.
Come la noia. Di chi è la noia? Di Natura? O forse del Fato. Qualcuno dovrà pure avere potere sulla noia.
Direi che è di Natura. Le sono sempre piaciuto creare situazioni ricorrenti. Se c’è silenzio, qualcuno tossisce, se cala il silenzio qualche genio comincerà a parlare del tempo… Se ti annoi cominci a parlare da solo di cose senza la minima importanza. E io mi sto annoiando come non mai. O forse no, dopotutto mi sono annoiato parecchio nella mia vita.
Non voglio dire che farsi massaggiare dalle onde di un mare cristallino nella forma di medusa non sia piacevole, cioè, lo è molto per le prime… vediamo, quarantottore. Certo che le ventidue settimane seguenti diventano meno piacevoli. Centocinquantasei giorni a non fare altro che pulsare in un corpo al novantotto percento d’acqua.
Potrei diventare plancton, così, tanto per cambiare. O magari un’ostrica. Sono anni che non provo più a fare una perla come si deve.
Ti prego, mezzelfa, rimettiti in piedi in fretta.

Sedici ore dopo Mea  si risvegliò stordita.
La testa le pulsava e un fischio acuto le trapassava il cervello come l’asta di una freccia.
Si mise a sedere a fatica guardandosi intorno. La vista era appannata, come se un velo di brina si fosse posato sui suoi occhi, donando all’ambiente l’aspetto di un sogno.
Lentamente le immagini si fecero più nitide, di pari passo con lo scemare del suono che le riempiva le orecchie.
Qualcosa era cambiato, nel paesaggio, nei suoi compagni, in lei.
Il cielo sopra la sua testa risplendeva cristallino come una placido lago, sotto i raggi di un caldo sole di fine estate.
Erano riusciti ad uscire dalla caverna.
Il suo corpo era stato adagiato sul suolo, su di una pozione di terra morbida, e protetto da una coperta di fili blu.
La sua vista si schiarì ulteriormente, permettendo alla maga di riconoscere in quella coperta i suoi capelli.
Tutto attorno a lei si era creato fermento e una cacofonia di suoni e voci ovattate cercavano di raggiungere la sua coscienza.
- Come stai? Ti sei ripresa? – Una voce lontana riuscì ad arrivare alla mente annebbiata della mezzelfa.
- Ora mi riprendo. – rispose lei, passandosi il dorso della mano sugli occhi e graffiandosi la guancia con qualcosa.
- Aspetta, ti aiuto ad alzarti. – La voce di Nirghe fu accompagnata da un paio di mani che, prese saldamente le braccia di Mea, la sollevarono da terra.

Diario personale del Viandante.
Oggi è il… non ne ho idea. Ho perso il conto dei giorni secoli fa.
Passare attraverso un sigillo temporale quando si è svenuti provoca al risveglio postumi simili a quelli di una sbornia.
Mettete che mi serva saperlo, in futuro.

- Cosa mi è successo? E dove sono i nostri compagni? – chiese la maga non appena riuscì a reggersi in piedi con le sue sole forze.
- Abbiamo recuperato gli anni persi nella trappola. – Le rispose Keria avvicinandosi con sguardo preoccupato.
- E i compagni? – ripeté la mezzelfa.
- Non lo sappiamo. – disse Nirghe, alle sue spalle.
Gli occhi viola di Mea, in un istante, si fecero bianchi, mentre la sua fronte si aggrottò in un’espressione concentrata.
Quando la maga ritornò in sé un’emicrania la colpì violentemente, facendola cadere in ginocchio, con le palpebre e i denti serrati e le mani premute sulle tempie, cercando di tamponare il dolore.
Seila corse alla boccetta di medicinale che aveva preparato, ma quello che ne uscì fu solo una polvere grigia seguita da un odore marcescente.
- Te ne preparerò altra! – disse agitata l’erborista, cercando con mani tremanti nella sua sacca gli ingredienti necessari per la mistura.
- Non farlo adesso. – disse secca Mea – Ora mi riprendo. Non è niente. Il mio corvo si stava avvicinando a noi, credo che anche i vostri compagni stiano facendo altrettanto. –
Una luce scintillante parve provenire dalla parte opposta della collina rocciosa  dalla quale si erano liberati, seguita a breve da un’ombra incombente che oscurò il sole per alcuni secondi.
Da qualche parte, vicino, un ululato risuonò per poi diffondersi su tutta l’isola.

Finalmente gli ingranaggi di questo piano scadente hanno ricominciato a girare.
Forse è il caso che mi prepari anch’io per partire.

Hile guardò le Terre stagliarsi sull’orizzonte del mare, mentre i venti di quel canale davano vita a onde spumeggianti.
Molti metri sotto di lui, abbandonato alle onde, galleggiava il relitto della barchetta che li aveva accompagnati su quelle sponde.
Una grossa testa pelosa gli si affiancò, ricevendo in risposta qualche carezza sulla nuca.
Il garrese dell’Athur grigio aveva raggiunto la vita del suo compagno e le bianche zanne che sporgevano dal muso facevano concorrenza in lunghezza con un grosso pugnale.
Hile guardò Buio con un misto tra timore e apprezzamento, ora avrebbe potuto contare su qualcos’altro di letale che non lo avrebbe mai tradito, oltre ai suoi coltelli.
Il Lupo si allontanò dal promontorio, voltandosi verso i suoi compagni, venendo pervaso da un senso di tranquillità. Nulla li avrebbe potuti ostacolare, ora.
Un drago alto quasi tre metri risplendeva sotto quel sole caldo grazie alle sue squame di diamante. Sul suo dorso già si erano sistemati Keria e Nirghe, che cercavano di far salire il Serpente sull’insolito destriero. Lo spadaccino, intanto, teneva sulle ginocchia il suo gatto nero, divenuto grande quasi quanto una lince.
A fianco di quello spettacolo Jasno cercava una posizione sicura sul dorso dell’aquila, sorretta dalle possenti zampe. Le ali si spiegarono in un attimo per i loro due metri di lunghezza, coprendo una larga porzione del terreno.
- Hile, siamo pronti. – disse Mea accomodandosi sul dorso cristallino del drago.
Il lanciatore di coltelli andò a posizionarsi alle spalle di Jasno, sulla schiena piumata della maestosa aquila.
Lì a fianco il corvo della maga strinse tra gli artigli il serpente ocra, che aveva raggiunto il metro e mezzo di lunghezza.
Buio si fece prendere controvoglia dalle dita artigliate dell’aquila marrone, mentre questa dava poderosi colpi d’ala per sollevare il carico da terra.
Partirono così sistemati in direzione delle Terre, riavvicinandosi a un mondo che era andato avanti senza di loro. 

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Capitolo 35
*** Capitolo 31: Visi familiari ***


Vista dal cielo, la distesa del mare pareva una tavola piatta.
Le ali dei compagni si gonfiavano, riempite dal vento che pareva volerli sospingere verso le Terre.

Bastarono quattro ore ai sei assassini per raggiungere il porto di Norua, la città dalla quale si erano imbarcati per finire in trappola. Accanto alla banchina riposava, ondeggiando dolcemente, un’enorme nave dallo scafo scintillante, persino dall’altezza a cui si trovava, Hile poté riconoscere tre alte ciminiere ergersi dal ponte superiore.
Poco oltre, si stupirono nel veder sollevarsi da terra una struttura ovale. Giunto a un centinaio di metri dal suolo, il pallone si fermò, ancorato al terreno da poche funi tese.
Nessuno parve notare le tre figure sorvolare la città fortificata.
Avevano deciso di tornare alla setta. In quel momento non avevano idea di quanto tempo fosse passato, di quante cose fossero cambiate e di cosa, adesso, dovessero fare.

Da quando l’Ordine è morto non avrei mai pensato di avere di nuovo l’onore di alloggiare tra le squame di un drago. Quasi mi mancava il senso di oppressione che provoca.
Ma non credo che questo vi interessi.
Piuttosto, mentre questi ragazzini sono rimasti rinchiusi in una caverna, il mondo qui fuori ha fatto passi da gigante, seriamente. Per me hanno puntato un po’ troppo sul vapore, ma questa è una scelta loro.

Le tre ombre sorvolarono la distesa della piana umana, toccando le colline coperte dai grappoli d’uva non ancora maturi, per infine posarsi sul profilo frastagliato dei Monti Muraglia.
Nonostante, giunta l’ottava ora di volo ininterrotto, le velocità dell’aquila e del drago cominciarono a scemare, i due compagni non accennarono neppure al volersi fermare, continuando il loro viaggio in direzione della cima mozza del Flentu Gar.

Le zampe si posarono pesantemente sul terreno sassoso.
Nulla era cambiato da quando se ne erano andati. Il Palazzo del Mezzogiorno continuava ad essere il fantasma di quello che fu, sotto il peso della sua storia e della cupola dorata che con il tempo si era opacizzata, mentre la struttura gemella si innalza verso il cielo protetta dalle mura scure che ne delimitavano il confine. Opposti a questi, riposavano solo i ruderi delle poche case costruite in quel posto inospitale e, dietro a queste, come un gigantesco scheletro bianco, i resti candidi del palazzo che ospitò il governo di quella terra centrale.
I sei compagni si accucciarono tra le macerie delle case, lontani dagli sguardi di chiunque, e da lì non vollero muoversi.
Hile guardò con un moto di ribrezzo l’alto portone che rappresentava l’unico accesso, in quelle mura impenetrabili. Non avrebbe mai creduto possibile di volere di proposito entrare di nuovo in quella struttura.
Il gruppo si avvicinò a quell'ingresso lentamente.
La sicurezza che li aveva accompagnati nei cieli fino a quel momento sembrò essere svanita nell’aria non appena quel gigante scuro tornò a gettare la sua ombra sul loro cammino.
Mea si fece largo tra i suoi compagni senza aprir bocca, piazzandosi dritta davanti al legno scuro e consumato dagli anni del portone e fissandolo con aria di sfida. Le nocche della mezzelfa si posarono quattro volte su quella superficie, si presero quindi una pausa per poi tornare a battere per sei volte.
Un silenzio teso fu l’unica cosa che seguì quel gesto.
Hile spostò il peso sulla gamba destra, per poi passarlo alla sinistra, mentre il suo sguardo restava fisso sulla scena di fronte a lui.
Quello era il codice per il rientro di una squadra, lo era sempre stato da quando la setta fu costruita, dall’altra parte delle mura due assassini di guardia avrebbero dovuto rispondere e aprire il passaggio.
Il Corvo riprovò nuovamente, questa volta battendo più forte sulla superficie rovinata.
Quattro, pausa, sei.
Ancora nessuna risposta dall’interno.
Hile si mise istintivamente sull’attenti, mentre il suo udito sondava l’ambiente circostante. Un fruscio sulle pietre attirò la sua attenzione, per poi essere seguito da un sibilo.
Il Lupo si volto di scatto, mettendo in allerta i suoi compagni.
Gli occhi del lanciatore di coltelli videro appena uno scintilli metallico proveniente da una delle piccole finestre di un rudere poco distante, prima che la falce argentea tracciata da una delle spade di Nirghe si frapponesse tra il suo sguardo e una lama che si stava avvicinando velocemente.
Il coltello cadde sul terreno brullo tintinnando.
- Deve essere un problema di tutti i Lupi, quello di lanciare coltelli contro il portone quando c’è qualcuno davanti. – disse ironico il Gatto abbassando la spada.
- Passami un attimo quella lama. – gli rispose Hile ignorando la provocazione.
Il lanciatore di coltelli si rigirò la lama tra le mani, saggiandone il filo e le forme. Non ne aveva mai visto uno forgiato in quella maniera. La base era la stessa che utilizzava lui, ma il materiale era talmente leggero da sembrare legno. Il polpastrello dell’assassino passò più volte sul filo, facendone cantare l’affilatura, soffermandosi sull’incisione che riportava una zampa artigliata rinchiusa in un esagono regolare, il segno dei suoi fratelli.
Con un movimento repentino lanciò il coltello in direzione della finestra dalla quale aveva visto lo scintillio.
Non ne seguì nessun rumore, nessun tintinnio, nessun clangore di ferro contro pietra.
Passarono due secondi, poi la lama di nuovo tornò a volare in direzione di Hile.
Il Lupo lo riafferrò tra le dita sicure.
Non poteva passare il pomeriggio a giocare con un altro lanciatore.
Rispedì al mittente il coltello, facendone seguire uno dei propri.
Di nuovo nessun rumore giunse il risposta.
Hile ritornò sull’attenti, sondando l’aria con l’udito in attesa di un segnale.
Dei tonfi leggeri, accompagnati dal rotolare del pietrisco sulla terra, si mossero, avvicinandosi al gruppo.
Un uomo comparve da dietro il muro in pietra diroccato, addosso portava la pelliccia sintetica grigia, simbolo della setta del lupo, il capo era coperto dal cappuccio, mentre nelle mani guantate stringeva i due coltelli.
- È il momento di capire qualcosa in più. – disse Mea camminando verso l’assassino che le veniva incontro.
- Renèz. – borbottò Hile.
Il coltello lasciò la mano sinistra del Lupo, tornando dal suo proprietario.
- C’è un mago tra di voi? – chiese l’uomo raggiungendo Mea. – O, meglio, chi siete? Tutti voi. Non sono molte le parsone che vengono in questa Terra, specialmente portandosi dietro un mago e un lanciatore di coltelli. –
- Siamo assassini. – gli rispose Mea guardandolo freddamente con gli occhi viola – No, siamo adepti della setta. Vorremmo sapere perché nessuno ha intenzione di aprirci il portone. –
- Non credo che voi siate davvero assassini. – gli rispose il Lupo mettendo via la lama che ancora stingeva tra le dita.
- Perché non lo dovremmo essere? – gli chiese Mea con aria di sfida.
- Perché non ci sono missioni attualmente in corso. E perché non c’è più nessuno ad aprire quel portone dall’interno da almeno quattro anni. –
- Come potremmo entrare, allora? – continuò la maga.
- Sentite, non vi ho ancora ucciso perché mi incuriosite, ma non crediate che vi dirò come accedere al palazzo… o come lasciare questa vetta da vivi. –
Hile si spazientì a quelle parole.
- Ascolta, fratello. Noi siamo adepti, te lo giuro sul mio tatuaggio. – Il lanciatore di coltelli si arrotolò la manica per mettere in mostra il proprio marchio.
- Splendida copia, è fatta proprio bene, te lo concedo. Ma non posso credervi comunque. La setta tiene nota di tutti gli assassini in uscita, e al momento non ce ne sono. Già mi stupisce che siate venuti a conoscenza della nostra esistenza e dell’esistenza di questo posto, ma vi consiglio di non mettere a prova la mia pazienza. -
- Ascoltami, farò qualsiasi cosa per provarti che non ti stiamo mentendo. – riprese Hile esasperato. Fiutava nei suoi compagni un profondo disagio, per un attimo anche Nirghe parve abbandonare il suo stato dormiente, facendo accelerare il battito del suo cuore e permettendo a una goccia di sudore di comparire sul suo collo.
- Ditemi quando siete partiti. – lo sfidò il Lupo.
- Noi… maledizione! Non lo so. Abbiamo avuto dei problemi durante… -
- Basta. – lo interruppe l’uomo estraendo tre coltelli dalle tasche. – Smetti di parlare. E non mi interessa se sei stato addestrato da un Lupo o da cos’altro. Io sto solo eseguendo il mio compito. –
La spada di Nirghe si frappose tra le lame e il volto di Mea, che era sbiancata improvvisamente.
- Renèz. Maledizione, Renèz. Quando ero ragazzo, c’era una ragazza di nome Renèz tra i Lupi. È grazie al suo sangue che trovarono la cura alla sua malattia! –
La pressione dei coltelli sul piatto della spada si allentò, per poi sparire.
- Come fai a conoscere quel nome? –
- Lo conosco perché sono un Lupo! Il mio nome è Hile e sono stato iniziato alla dea Oscurità quando avevo otto anni. –
- Non è possibile. Non c’è nessun Hile nella setta. –
- C’è stato un Hile. Sono dovuto partire, a quanto pare, più di quattro anni fa, ma sono ancora un Lupo. –
- Però non puoi essere tu quell’Hile. –
- Perché non dovrei essere io? –
- Perché lo conoscevo. E tu non puoi essere lui. – l’uomo si tolse il cappuccio, rivelando i capelli chiari.
Il cuore del Lupo perse un colpo.
- Sei Rayn, vero? Hai una cicatrice su un polpastrello della mano destra. –
L’uomo rimase per un momento allibito, incapace di proferire parola. Poi gettò le braccia al collo dell’assassino, stringendolo in un abbraccio.
- Non credevo che ti avrei ancora rivisto. – gli disse l’uomo senza sciogliere quel contatto.
Hile restituì la stretta, poi si scostò un poco.
- Potremo parlare, più avanti. Ma ora abbiamo bisogno di parlare con l’Alfa. –
- Si, capisco. Scusatemi tutti per prima. – Rayn si fece largo nel gruppo, dirigendosi a passo deciso verso il portone.
La mano guantata si posò su una delle pietre che costituivano il montante della porta, spingendola all’interno della muraglia.
Con un clangore metallico il pesante battente si aprì a sufficienza per far passare una persona.
- Vai. - Disse il Lupo ad Hile. - L’Alfa non si è spostato. Tra un’ora finirò il mio turno di guardia, potremmo vederci, dopo. –
- Si, certo. – gli rispose l’assassino, per poi fermarsi su quella soglia. – Solo una cosa, Rayn. Tu ora sei un… Ringhiante, vero? –
- Si. Ma mancano solamente quattro anni perché diventi un Beta. –
- Quindi sono stato via otto anni. Più o meno. – bofonchiò Hile attraversando quel portale.
Due imponenti cilindri metallici chiusero il battente alle loro spalle.
All’interno di quelle mura nulla sembrava essere cambiato. Né il piazzale, né l’ingresso scuro sul quale svettava la chiave di volta gialla che aveva sancito il loro destino.
Gli scalini si susseguivano uno dopo l’altro, infiniti.
Ritmicamente, nelle pareti, comparivano gli ingressi per le diverse ali del palazzo.
Ad Hile, per un momento, parve di essere tornato indietro nel tempo, quando ancora era uno Spellicciato come gli altri, dentro quella struttura.
Il gruppo salì in silenzio fino all’ultimo piano, dove li accolse il grande specchio a muro che aveva visto passare decine di assassini di fronte a lui.
Il Lupo guardò per un attimo il suo riflesso, stentando a riconoscersi. In quella cornice dorata, a guardarlo, c’era un volto abbronzato e magro, incorniciato da una chioma di neri capelli sporchi e da corta barba incolta. La cicatrice sotto l’occhio desto quasi non si riusciva a riconoscere.
I pensieri del ragazzo vennero interrotti da due colpi secchi sulla porta che si apriva sul muro di fronte.
- Abbiamo venticinque anni, ora. – ragionò Hile ad alta voce.
I suoi compagni non dissero nulla, ma un velo di inquietudine coprì gli assassini.
La porta dell’ufficio si aprì, rivelando l’uomo che vi stava dietro. Il direttore della setta indossava un completo scuro. I corti capelli neri si erano ingrigiti, ma gli occhi grigi erano rimasti immutati su quel volto.
Il direttore rimase per un momento interdetto.
- Voi… siete i sei prescelti, vero? –
- Si. – gli rispose seccamente Mea. – Siamo noi. –
- Entrate, per favore. Ne avrete di cose da dire. –

Che posto opprimente questo palazzo. È come se queste mura avessero assorbito tutto il male di questi ultimi anni e ora ne fossero sature.
So che per voi, esseri tridimensionali, è difficile capire cosa ho appena detto. Provo a farvela semplice. Immaginate queste pareti fatte di spugna. Bene, voi potete rovesciarci dentro dell’acqua, e per un po’ le pareti saranno in grado di assorbirne, poi, ad un certo punto, non potranno più contenerne e l’interno della struttura si allagherà di acqua stagnante.
Più o meno è così che funziona, solo trasportato in cinque dimensioni e un pezzo della sesta.

Keria raccontò per filo e per segno ogni passo che avevano compiuto nel loro viaggio.
Il direttore, finita la spiegazione, rimase in silenzio, guardando con uno sguardo nuovo i sei assassini che si trovava di fronte.
- Quindi siete rimasti rinchiusi in una grotta per circa sei anni… - il direttore interruppe il suo discorso per un momento. – Sarà il caso che vi aggiorni su cosa è successo negli ultimi tempi. Nelle Chiritai hanno prodotto una polvere esplosiva, ma finora non siamo ancora riusciti a produrne qualcosa di utilizzabile in maniera sicura. In compenso, le macchine a vapore stanno facendo passi da gigante. Ma questo non penso vi interessi. Immagino non sappiate della grande migrazione. –
La risposta fu una scossa di capo.
- Vedete, cinque anni fa, inspiegabilmente, il Gran Visir dell’Oasi ha deciso di spostare la popolazione, andando ad edificare una nuova città sotto il Gorgo del Leviatano. Da allora non abbiamo notizia della razza dei Budnear. Poco più di sei mesi dopo le fate abbandonarono i loro nidi, preferendo trasferirsi all’ombra della Grande Vivente. Bande di nani e umani si sono fatte sempre più pericolose e presenti, costringendo anche noi ad adottare misure di sicurezza più serrate. Infine, tre anni fa, la lega dei piccoli popoli ha abbandonato la Piana Infinita per spostarsi nel pianoro a ovest, quindi ora il versante orientale delle Terre è disabitato, per quanto ne sappiamo. –
- Perché c’è stato tutto questo movimento? – chiese Mea corrucciando la fronte.
- Non lo sappiamo con esattezza, ma, secondo quello che ci hanno riferito, una specie di cappa oppressiva si sta spandendo dal Deserto Rosso. –
- Quindi è lì che il demone si sta nascondendo. – disse Nirghe.
- Forse. Però questo ci porta a una nostra scoperta interessante. Tra i rapporti degli incontri governativi nella Terra degli Eroi e tra alcuni scritti dei Sei che siamo riusciti a recuperare delle informazioni. I draghi e l’Ordina lavorarono per un periodo assieme per creare un’arma contro un’eventuale ritorno del demone. Il problema è che non ho trovato altro su questo progetto se non il nome che gli diedero: Progetto Giara. Ho avuto modo di discuterne con i draghi, ma ultimamente non ricevo più notizie da loro. –
- Quindi dovremmo tornare sull’Isola dei Draghi? – chiese Keria dubbiosa.
- Non saprei dove altro indirizzarvi, in questo momento. Se voi siete d’accordo, posso provare a chiedere un passaggio per voi. Ovviamente fino ad allora potrete usufruire delle stanze di questo palazzo e vi fornirò degli abiti nuovi, credo che questi abbiano fatto strada a sufficienza. –
Il direttore prese una bacchetta dalla sua scrivania e la batté contro un piccolo gong dorato, riempiendo la stanza del suo suono.
- Avanti, permettetemi di mostrarvi dove potrete dormire questa notte. Sono sicuro che un letto vi farà piacere, dopo tanto viaggiare. –

Ho capito. Mi metto in viaggio.
Questo sarà un altro dei capitoli della mia vita da piazzare nel grande raccoglitore “Cose che detesto fare”.
Prima o poi me la pagheranno, tutti Loro. Quella sarà la prima volta che mi sporcherò le mani di sangue di mia volontà.

Hile uscì dalla struttura un’ora dopo, guardando il sole morire oltre il bordo del muro che si allungava tutto intorno a lui.
Una figura lo raggiunse, affiancandolo.
- Hai voglia di raccontarmi qualcosa del tuo viaggio? – gli chiese Rayn guardandolo con un sorriso accennato sulle labbra.
- Certo. Possiamo intanto incamminarci verso il cimitero? –
- Va bene. Senz’altro. –

Hile si fermò davanti a una piccola lapide in pietra, interrompendo il suo racconto al loro ritorno dal continente.
- Vuoi che ti lasci un attimo solo? – chiese Rayn serio.
- No. Non voglio starci molto. –
L’ombra si materializzò su una lapide vicina, guardando in disparte la scena.
Il Lupo passò un dito sulle incisioni che solcavano la pietra, pulendole dalla vegetazione e dallo sporco che si era sedimentato.
Il simbolo dei Lupi copriva la maggior parte della superficie, poco sopra di questo, in lettere semplici, era stata inciso il nome “Renèz”.
Hile passò un ultima volta le dita su quel nome, cercando di riportare alla mente quei pochi ricordi che possedeva della ragazza che giaceva sotto di lui.
Il Lupo estrasse il coltello che gli era stato regalato, guardando il riflesso dei propri occhi nel metallo.
- Sai. – disse infine rompendo il silenzio. – Ultimamente ci ho pensato parecchio e… credo sia arrivato il momento di lasciarla andare. –
Hile scavò un piccolo buco nel terreno alla base della lapide, seppellendoci dentro il coltello.
- Bene, andiamo? – chiese infine il lanciatore di coltelli all’amico d’infanzia, rimettendosi in piedi e voltandosi verso quel viso familiare.

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Capitolo 36
*** Capitolo 31.5: Incontrare un Doppelganger ***


 Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento. Non sarei potuto fuggire da questo incarico per sempre.
Ripassiamo questo maledetto piano.
La famiglia reale dei draghi, al momento, è composta solamente da tre individui. Réalta, Salema e Vanenir II.
Per fortuna ho avuto l’occasione di incontrare tutti e tre, durante questo viaggio. Sarà un lavoro semplice, in fondo.
Eccola laggiù, quell’isola orribile. Non ho fretta di arrivarci, anzi, potrei allungare un po’ questo volo, visto che durante il ritorno le mie ali saranno sicuramente più pesanti.
Intanto, forse, è il caso che vi dica qualcosa in più.
Iniziamo dalla trappola per il demone. È stato un tiro mancino degli dei, avevano bisogno di tempo per trovare altri prescelti, nel caso questi attuali avessero fallito tutti la loro prova. Solo che, adesso, si sono trovati con sei ragazzini e i loro compagni cuccioli che, se lasciati agire, si sarebbero fatti ammazzare in mezzo secondo, quindi hanno cercato un modo per fargli saltare la parte noiosa del racconto, diciamo.
Sentite che meraviglia il vento che soffia tra le piume.
Facciamo un accordo: voi fate una cosa per me e io vi svelo un mio piccolo segreto.
Cominciate voi. Cercate di guardare attraverso i miei occhi questo mondo.
Prendete un respiro profondo e ammirate il mare scuro sotto di me, solcato dalla mia ombra scura. Il vento soffia da sud-est, placidamente, sospingendomi appena in questo volo e arruffandomi le piume della coda.
Ascoltate l’aria fischiare attraverso queste orecchie, mentre il sole mi scalda il dorso.
Adesso capite perché amo la forma di volatile? Non ci fossero le ossa, sarebbe la perfezione fatta materia. Purtroppo dubito che potrei volare a queste velocità in una forma del genere.
Assaporate ancora un attimo questo odore di mare. Chiudete pure gli occhi, se volete.
Che meraviglia, non trovate?
Va bene, mi avete intrattenuto abbastanza, e una promessa va mantenuta.
Vediamo… certo! Vi avevo detto che prima o poi vi avrei spiegato perché non ho mai assunto la forma di drago.
Da dove posso cominciare?
Facciamo che partire dall’inizio. Nel senso dall’inizio dei tempi.
La mia razza venne creata assieme ai servitori. Ricevemmo diversi poteri per compensare l’assenza di un dominio materiale, una specie di premio di consolazione, tra questi posso elencarvi il fatto di non invecchiare, la possibilità di trasformarsi, l’Ispirazione, ovvero il dono che fa di noi delle Muse. Ciò che il Fato non poté mai darci fu il fuoco puro.
Non vi farò andare a rispolverare la genesi del mondo da parte degli dei, preferisco farvi un riassunto. Ogni creatura senziente è composta da due elementi, l’Ambiente e la Vita. L’Ambiente, possiamo dire, è l’elemento affine, mentre la Vita è il Fuoco che pulsa nelle vene. In noi Muse convivono tutti e quattro gli elementi, più una goccia di Fato che ci permette di ricombinarli a piacimento.
Bene, i draghi sono le uniche creature in cui l’Ambiente e la Vita coincidono, in cui entrambi sono Fuoco.
Dove voglio arrivare, allora… è come se io avessi quattro palline colorate da abbinare a piacimento, però ne ho solo una per tipo. Questo vuol dire che non potrò mai, in nessun modo, mettere insieme due palline rosse per diventare un drago.
Questa è la versione facile.

Intanto, ridendo e scherzando sono quasi arrivato alla mia destinazione.
Potrei volarci intorno per un po’. Magari, alla decima settimana, potrei convincermi che la fine del periodo sul mio contratto è molto più importante di qualunque vita, ma non sono così tanto ottimista.
Avanti Viandante! Non fare il bambino come se avessi appena cent’anni. Finisci questo stramaledetto lavoro e tira dritto. Come al solito.
Forza. Ecco la bocca di El Terano.
Un bel respiro e buttati dentro.
I vapori sono maledettamente caldi, ho come l’impressione che si stia preparando ad eruttare.

Bene, ripassiamo tutto. Salema è quello ben piantato. Il torso largo, la mascella leggermente sporgente, dei capelli per i quali il suo parrucchiere sarebbe da impiccare… i vestiti. Già. Credo che quelli che aveva indosso l’ultima volta che l’ho visto possano andare bene.
Ricordati l’impostazione. Pancia in dentro e petto in fuori, sguardo di sfida e mento alto come se avessi il torcicollo.
Come diavolo fa a camminare così? Non si riesce a vedere nemmeno dove si stanno mettendo i piedi. Chi li capirà mai i reali orgogliosi del loro maledetto status.
Ottimo. Si alzi il sipario, si va in scena.
La sala del trono. Réalta ogni tanto un po’ di tempo dovrà pure passarlo lì, no?
Devi sembrare naturale, Viandante.
Che fastidio! Questa maledetta posizione mi sta facendo venire per davvero il torcicollo. Provate a mantenerla un attimo, vi sfido. Dopo un po’ cominciano pure a far male gli occhi.
Vediamo, la sala del trono è la prossima porta sulla destra.

Ovviamente non c’è nessuno.
Io mi chiedo come faccia a un regno un re introvabile.
Sarà di nuovo nella sauna. Potrei scommetterci. Ma tanto vale chiedere.
Maledizione! Vanenir sta venendo da questa parte!
Continua a sembrare naturale. Immedesimati nel personaggio.

- Fratello. – disse il giovane drago incrociando il percorso del secondogenito.

Ed ora?
Un cenno del capo. Si, mi sembra che possa andar bene.

È andata. Anche questa è andata.
Toh, guarda. Una guardia.
- Devo parlare con il nostro signore. – Lo aveva chiamato così sul continente, no? – Dove lo posso trovare? –

- Re Réalta al momento si trova nella sala termale. –

Chi lo avrebbe mai detto.
Ora? Dovrò ringraziarlo? No, non credo. Salema non mi sa di uno che ringrazia. Tiriamo dritti, che facciamo prima.
Non mi ricordavo tutte queste guardie… che ci siano delle tensioni interne? Con un sovrano del genere, la cosa non mi stupirebbe più di tanto.
Eccoci arrivati.
Non so se riuscirò ancora a rilassarmi immerso in quella calda nebbia, quando avrò finito qui.
Avanti, entriamo.

Ottimo, siamo anche soli.
Sarà ancora più facile, così il mio lavoro.
Eccolo lì davanti, Réalta. Non riesco a riconoscere in lui nemmeno una scintilla della luce che risplendeva nei suoi nonni.

- Salema, perché sei venuto qui? –

Quanto amore fraterno sento nella sua voce. Questi tre draghi mi fanno rimpiangere quelle meravigliose dinamiche tra Rovere ed Ercoel.
Ora scusatemi, ma devo tornare al presente. E farmi un attimo serio.
Posso raccontarvi una storia?

- Fratello? -

Da giovane, quando ancora mi facevo chiamare Commedia, conobbi una musa particolare, tra le tante che incrociai.
Dico particolare perché non era portato per inventare, anzi, devo dire che non aveva un briciolo di personalità. Però compensava facendo il lavoro sporco.
Il suo nome era Mito e viaggiava raccontando agli umani dei mostri e delle bestie fantastiche che gli dei scartarono durante la Creazione.
Perché vi sto raccontando di lui?
Perché la prima volta che lo incontrai, mi raccontò di una leggenda su una creatura particolare. Il Doppelganger.
Ne restai affascinato, all’epoca. Non tanto perché quel mostro potesse cambiare forma, avanti, quello lo facevo anch’io a occhi chiusi, ma per la diceria secondo cui, se qualcuno vede il proprio doppio, per lui è un presagio di morte imminente.
Certo, allora non avrei mai creduto che questa nozione mi potesse mai interessare personalmente, visto il mio campo di competenza.

- Salema? Perché non parli? –

Stai un secondo zitto. E guardati in faccia.
Voglio farmi un regalo, un biglietto di prima classe nella Trama del Reale per poter assistere a questo spettacolo.
Che si spengano le luci e si alzi il sipario, l’ultimo atto sta per cominciare.

Il corpo robusto del secondogenito prese a mutare. I muscoli definiti lasciarono il posto a una figura più snella, i lineamenti squadrati del viso si addolcirono con deliberata lentezza, mentre i capelli corti acquistarono alcuni centimetri in lunghezza.
Réalta guardò con sguardo allibito l’uomo che stava dritto di fronte a lui. Era la sua copia perfetta.
Il re dei draghi si alzò dalla panchina in pietra sulla quale si era seduto, indietreggiando lentamente per allontanarsi dal suo sosia e confidando che la fitta coltre di vapore e la poca luce della sala potessero celarlo agli occhi del mondo.
- Nessun Réalta uscirà da questa sala, quest’oggi. –
- Ti prego… no! Sono un re, qualcosa questo vorrà dire anche per te! Posso darti quello che vuoi, qualunque cosa! Chiedi, devi fare solo questo! –
- Mi disgusti. Non hai un briciolo di dignità dentro di te. Tu, qui, morirai, qualunque cosa dirai non potrà salvarti. Ti voglio lasciare due possibilità: puoi alleggerire la tua coscienza qui, ora, con me e poi morire come a testa alta come un drago che si rispetti, oppure voltarti e fuggire, ma ti assicuro che non riuscirai a raggiungere quella porta. –
Réalta cominciò a singhiozzare, tempestando il suo sosia di frasi sconclusionate e preghiere brontolate a denti stretti.
Nella mano del doppione comparve come dal nulla un pugnale. Il coltello era lungo e affusolato, talmente splendente da sembrare fatto d’argento.
- Ti prego… no. –
Realtà si voltò di scatto, correndo disperatamente sul pavimento viscido di pietra e puntando la porta chiusa che lo separava dalla salvezza.
I piedi nudi persero aderenza, facendo cadere in avanti il corpo del sovrano di quell’isola.
La lama si aprì un varco in quella schiena senza imperfezioni o cicatrici, andando a spaccare a metà il grosso cuore che pulsava nel petto sottostante ancor prima che il volto curato colpisse la pietra.
Piccole fiamme guizzarono fuori dalla ferita, cercando di avvolgere il pugnale che già stava evaporando.
Il piccolo inferno che ardeva nel petto del sovrano ormai privo di vita si spense velocemente, soffocato dall’umidità della stanza e dal sangue ribollente che invase la ferita.
- Non hai recuperato il tuo orgoglio nemmeno con il tuo ultimo respiro. – disse con uno sguardo tra lo schifato e il rattristito il sosia, mentre lentamente riprendeva le fattezze di Salema.
L’unico occupante rimasto vivo in quella sala lasciò cadere sul cadavere due piccole squame rosse brillanti, per poi dirigersi nuovamente verso la ragnatela di corridoio che costituiva le strade della capitale.

Un lavoro pulito.
Schifoso ma pulito. Praticamente ho fatto il disinfestatore.
Fatemi solo uscire da questo vulcano maledetto, che ho bisogno di una boccata d’aria, prima di dovermici rituffare. 

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Capitolo 37
*** Capitolo 32: Un piano quasi terminato ***


I sei assassini si ritrovarono fuori dalle mura del Palazzo della Mezzanotte cinque giorni dopo il loro arrivo.
Indosso, i nuovi abiti che gli avevano dato sembravano fuori luogo, sopra quei corpi che ancora mostravano gli effetti del lungo viaggio.
Rayn aveva avuto il permesso per poter salutare nuovamente l’amico, ma i pochi minuti che gli erano stati concessi stavano per scadere e l’alta struttura scura lo stava per reclamare nuovamente.
- Tornerai? – chiese il Lupo dai capelli chiari poco prima di rientrare nel circolo delle mura.
- Non lo so. Spero però di incontrarti di nuovo, davvero. –
Rayn diede un ultimo abbraccio all’amico d’infanzia, per poi scomparire alla sua vista dietro il pesante portone.

Il direttore non aveva ricevuto notizie incoraggianti dall’isola dei draghi.
La popolazione era in subbuglio per la morte del re e la corona stentava a trovare una nuova testa su cui posarsi.
La notte precedente, Vanenir II era riuscito a mandare una lettera al direttore, spiegando, per quanto possibile, in poche righe quanto la situazione fosse drastica.
- Siete sicuri di volerlo fare? Dopotutto la politica dei draghi non è affare nostro. – disse Nirghe guardando i due affusolati draghi bianchi che li aspettavano sul limitare della Terra degli Eroi.
- Se davvero i Sei hanno costruito un’arma contro il demone, dobbiamo riuscire a trovarla. A qualunque costo. – gli rispose Mea.
Hile accarezzò il capo del suo lupo, cercando di mantenersi obbiettivo in quella situazione. Ultimamente, il non farsi trasportare dagli eventi gli risultava estremamente difficile.
Mea aveva ragione, i compagni ancora non gli avevano svelato quale fosse il potere che nascondevano e, in quel momento, di certo non avevano le capacità o il potere di contrastare un demone millenario.
Dovevano andare, anche se questo voleva dire gettarsi nel mezzo di una guerra civile e sviare dalla loro missione.
I due draghi bianchi si scostarono, sorpresi, all’arrivo del rettile di cristallo di Keria. Facendosi inquieti davanti a quella creatura.
- Tranquilli. – gli disse l’arciere avvicinandosi. – Non è un drago normale, ma non per questo dovete temerlo. –
- Non mi inquieta la sua natura, ma la mente che possiede. Non ha l’intelligenza dei draghi. – le rispose uno dei due.
Keria non seppe come rispondere a quella affermazione, ritirandosi nuovamente in silenzio.
- Porgete i miei saluti a Vanenir. Che il vento possa sempre soffiarvi a favore. – disse il direttore in direzione dei draghi.
- Lo faremo. Adesso però dobbiamo partire, perché l viaggio è lungo e gli scontri imperversano. Voi verrete con noi? –
- Si. – rispose Mea decisa.
- Bene. – disse ancora il drago, per poi accucciarsi con il ventre premuto contro il suolo.
- Questa storia non mi dice nulla di buono. – borbottò Nirghe in direzione del Lupo.
- Quando mai siamo andati incontro a cose facili? – gli rispose Hile, senza fermare il suo passo.

Il tempo fu clemente con i viaggiatori. Le nuvole temporalesche si tennero a distanza in quel cielo sconfinato, mentre tre draghi, un’aquila e un corvo solcavano i venti in direzione nord, verso quell’isola vulcanica che, avvicinandosi, sembrava sempre più un segno di cattivo presagio.

La bocca del vulcano si spalancò sotto i loro piedi, seguita dalla picchiata che i draghi compirono per entrarci.
L’aria era calda, umida e intrisa dell’odore dello zolfo. Quella montagna doveva aver eruttato recentemente.
Il pavimento nero, scavato dalle centinaia di artigli comparve sotto le zampe dei draghi, permettendo a questi di interrompere il loro volo che ormai da troppo tempo affaticava le loro ali.
I due rettili umani si ritrassero, diminuendo nelle loro dimensioni e acquistando la forma umana di un uomo e una donna.
Un rumore di passi svelti riempì quella sala per alcuni secondi, seguito dalla comparsa della longilinea figura di Vanenir.
- Ben tornati, Sera e Redet. Vedo che le miei preghiere sono state ascoltate e anche voi siete venuti. – disse infine voltandosi verso i sei assassini.
- Il direttore della Setta dei Sei le manda i suoi saluti. – disse la donna chinando il capo.
- Dovrò ringraziarlo per tutto il lavoro che ha fatto… - disse tra se e se il quartogenito della casata reale.
- Vanenir… - Keria ebbe un attimo di esitazione, non sapendo bene come comportarsi di fronte a quella figura – lei sa perché siamo venuti fin qui? –
Il drago si voltò verso l’arciere, sobbalzando di fronte alla mole cristallina del compagno, ma non facendo commenti al riguardo. – Il vostro direttore mi ha informato di tutto e, per quanto mi è stato possibile, ho già cominciato a lavorare al vostro problema… Voi siete al corrente di cosa sta succedendo qui? –
- Non conosciamo ancora i dettagli. – gli rispose Mea.
- Allora seguitemi. Vi dirò tutto mentre camminiamo. –
Il quartogenito della casata reale imboccò a passo spedito il tunnel dal quale era arrivato, preceduto dalle due guardie che avevano condotto fin lì i sei assassini. A chiudere la fila, svettava imponente la mole cristallina del drago di Keria.

- Vedete, - disse Vanenir dopo qualche minuto di pesante silenzio – la situazione della mia razza è critica. Meno di una settimana fa mio fratello Réalta è stato assassinato, il suo aggressore ancora non è stato catturato e gli ingranaggi della successione al trono si sono inceppati. In tempi normali, dopo due giorni di lutto, Salema avrebbe dovuto rivendicare la sala del trono e cominciare il suo periodo di reggenza… -
- Cosa è successo perché questo non avvenisse? – chiese Mea con la fronte contratta in un’espressione concentrata.
- Alcune guardie, sotto incantesimo, hanno giurato che l’ultimo drago che abbia visto il mio defunto fratello vivo sia stato Salema. A complicare la faccenda, sul cadavere sono state ritrovate delle squame che corrispondono a quelle di mio fratello in quanto colore. Salema e Réalta non sono mai stati in buoni rapporti, ma non posso nemmeno immaginare che il secondo della mia famiglia possa aver compiuto un atto tanto barbaro. –
- Che ripercussioni sta avendo questo fatto sul tuo popolo? – continuò la mezzelfa.
- Molti si sono lamentati. Sacche di resistenza si sono formate per tutta l’isola, impegnandosi ad ostacolare quest’incoronazione. Diciamo che Salema non è mai stato particolarmente bravo a farsi ben volere dal popolo, così una porzione di nobili e famiglie meno influenti hanno avanzato la proposta che sia io ad assumere il comando della mia specie. Solo un attimo. –
Le mani di Vanenir corsero a un mazzo di chiavi che portava appeso alla vita, scegliendone sicuro una e inserendola nella serratura della porta davanti alla quale si era fermato.
Il meccanismo scattò con un clangore metallico, lasciando alla porta di aprirsi e folla che occupava il corridoio di riversarsi in una grossa sala a misura di drago.
Sulla destra si apriva un’altra porta, ignorata da Vanenir, che preferì invece puntare in direzione della scrivania che era sistemata davanti al muro opposto.
- Vi dicevo. – riprese non appena si fu seduto su una poltrona ricoperta da una splendida stoffa rossa intessuta di fili argentei – Che sia stato o meno Salema a commettere questo terribile atto, ora il regno è spaccato a metà. Le famiglie schierate con mio fratello sono per la sua politica isolazionista o, nel peggiore degli scenari, aggressiva nei confronti di coloro che abitano le Terre, la restante porzione di popolo vede invece in me la possibilità di tornare ad avere rapporti con il mondo oltre le acque di questo mare. Il vero problema in tutto questo è che non è più solo se Salema ha ucciso Réalta o meno, dopotutto mio fratello non è mai stato un buon sovrano e non credo che nessuna delle fazioni lo rimpiangerà, ma che genere di politica si seguirà adesso. –
- Adesso, come pensi di muoverti? – gli chiese Nirghe, torturando con le dita l’elsa di una delle sue spade.
- Innanzitutto voglio vedere ancora molte albe. Sono già stati sventati tre tentativi di omicidio nei miei confronti, da quando è scoppiato questo putiferio. Come secondo punto, ho intenzione di raggiungere, ancora in possesso del senso della vista, la biblioteca privata reale, dove dovrebbero essere custodite le informazioni per cui siete venuti fin qui. Per il momento, intanto, posso chiedervi di fermarvi qui come miei ospiti? –

Vanenir II si allontanò a passo svelto dalle piccole stanze in cui era riuscito a sistemare quegli adepti della setta e gli animali che li seguivano ovunque. Il principe rabbrividì al ricordo di quel drago dalle squame così anormali. Ne era certo, non faceva parte della sua razza, nel suo petto non batteva il cuore di un vero drago. Loro due erano profondamente diversi.
Le due guardie lo seguirono silenziose, attente a non disturbare i pensieri del drago che volevano veder salire al potere. Loro erano il primo e la secondogenita di una delle cinque famiglie più ricche dell’isola dei draghi, una delle poche che aveva mantenuta intatta la stirpe dei draghi dell’aria, facendo si che le loro squame rimanessero candide erede dopo erede, e non avevano intenzione di lasciare a Salema il controllo sulle loro terre. Non dopo la sua presunta colpevolezza nell’omicidio del precedente sovrano e gli attentati al fratello minore.
Vanenir si fermò di fronte a una porta, sicuro.
- Potreste aspettare qui fuori per un attimo? Devo assolutamente fare una ricerca tra i beni di mia madre ed è una cosa molto personale. –
Le due guardie acconsentirono a quello sguardo così gentile, non rinunciando, però, al pararsi davanti a quell’ingresso, proibendo a chiunque l’accesso a quella stanza.
Il quartogenito della casata reale si chiuse alle spalle il battente, lasciandosi scappare un sospiro di sollievo, per poi guardarsi intorno.
Non entrava in quella stanza da anni, da quando sua madre era morta per colpa del morbo e suo fratello aveva tinto le fiamme reali. Tutto era rimasto come lo avevano lasciato, il letto a baldacchino che aveva ospitato la regina Jaery durante i suoi ultimi mesi di vita, ora supportava solo un denso strato di polvere, sedimentata negli anni fino a rendersi un’unica coltre grigia. Nessun ragno abitava le viscere di quella montagna, per questo il soffitto appariva così insolitamente pulito.
Il principe si portò al muro opposto all’ingresso, guardando la porta in legno, dubbioso, poi si decise a parlare.
- Avanti, fatti vedere. –

Essere comandati a bacchetta, che meraviglia.
Ogni tanto mi chiedo perché lo sto facendo, davvero. Non sono un cane, non sono un maledetto cavallo e non sono uno di quei dannatissimi animali da fattoria. Sono una musa, per l’amor del Fato! Dove diavolo è finita la mia dignità?
Oh, già. Chiusa in una gabbia in diamante e drogata assieme a Lei.
Ora zitto e scodinzola.

Un uomo si materializzò lentamente di fronte al drago. I lineamenti sottili del viso erano incorniciati da una chioma di capelli corvini, su cui svettava una ciocca argentea. Gli occhi scuri non poteva nascondere l’enorme quantità di anni che avevano visto susseguirsi, mentre delle sottili labbra chiare accennavano un sorriso ironico. La figura slanciata era stretta in un abito nero che pareva essere stato cucito direttamente sulla pelle, tanto era attillata la stoffa.
- Mi ha chiamato? – chiese l’uomo piegando la testa di lato.
- Avanti, sai benissimo la risposta, Viandante. –
- Ha ragione, signore. Mi dica, qual è l’incarico che vuole affidarmi a nome del Consiglio? –

Che io sappia, Vanenir II è l’unico esponente della razza dei draghi ad essere riuscito ad entrare nelle Loro fila.
Non fossi soggetto ad ogni suo capriccio, mi complimenterei con lui per aver raggiunto questo obbiettivo a una così giovane età.
Purtroppo non è così.

- Dovrai fare come ci siamo accordati al nostro ultimo incontro. Ricordati, non voglio vittime tra le mie fila, al massimo posso tollerare dei ferimenti non letali. –
- Le ricordo, signore, che io sono tenuto ad eseguire i suoi comandi finché questi non vadano a collidere con la mia missione principale. –
- Lo so molto bene, Viandante, e non ho intenzione di perdere delle pedine preziose come quei sei assassini. Ti darò io il segnale per iniziare, fino ad allora, resta in attesa. –
Il principe guardò l’uomo dissolversi nuovamente nell’aria mentre era intento ad inchinarsi.
- Ucciderne ancora uno per il bene di tutta la mia razza. È un prezzo che sono disposto a pagare, finché il mio popolo non metterà in dubbio la mia autorità. – borbottò, tornando a muoversi in direzione dell’uscita.
Non aveva intenzione di passare un solo minuto ancora in quella stanza che gli ricordava sua madre.
Sorrise alle due guardie e riprese a camminare svelto tra i cunicoli. Doveva organizzare ancora molto, perché quella insensata guerra civile finisse. Gli era giunta voce che il più piccolo della covata di una famiglia di suoi sostenitori era stato rapito nel vicino vulcano di Isargal, dove un certo lord Ferengar stava portando avanti una campagna a favore di Salema. La situazione a Carent non era molto migliore, nonostante avesse ottimi rapporti con il lord di stanza lì, sacche di resistenza dell’altra fazione cercavano quasi quotidianamente di far inceppare la grande macchina che era quella città.
Vanenir accelerò il passo, passandosi una mano tra i capelli. I draghi potevano essere la razza migliore esistente, sotto ogni punto di vista. Erano forti, intelligenti, estrosi, molto più delle altre razze, per non parlare che la loro aspettativa di vita era quasi il triplo di quella di un qualunque bipede delle Terre, ma tutto questo veniva vanificato dalla cocciutaggine e dalla chiusura mentale che sapevano dimostrare.
- Sera, potresti andare a dire ai miei cuochi che, questa sera, avremo degli ospiti a cena? Io devo andare a parlare con loro. –
La dragonessa si inchinò velocemente, per poi scomparire in un corridoio laterale producendo appena dei leggeri tonfi, durante la sua corsa.
Non doveva sbagliare nemmeno una parola, il destino di quell’isola dipendeva da quello.
Vanenir aprì l’ennesima porta, attirando su di sé gli sguardi dei sei assassini che lo aspettavano nella stanza e ricambiandoli con un sorriso cortese.
Loro erano il suo asso nella manica.

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Capitolo 38
*** Capitolo 33: Il precipitare degli eventi ***


 Il principe dei draghi si avvicinò ai suoi ospiti a passo lento. Il sorriso cercava di trasmettere calma, ma gli occhi di quel drago tradivano una profonda stanchezza.
Hile lo squadrò per un attimo. Non riusciva ancora a capacitarsi che quello fosse un drago. Un pensiero fisso, martellante lo aveva accompagnato da quando erano atterrati nuovamente su quell’isola, i draghi potevano essere il peggior nemico in cui si sarebbe mai potuto imbattere.
Percepiva la loro forza, ma, con quegli aspetti e quelle movenze, l’intera popolazione dell’isola avrebbe potuto invadere le Terre senza che nessuno se ne accorgesse.
Il Lupo ringraziò gli dei che, almeno fino ad allora, quella razza avesse dimostrato quantomeno una sopportazione nei loro confronti.
- Spero che le stanze che i miei servitori vi hanno fornito siano di vostro gradimento. – La voce del quartogenito riscosse il lanciatore di coltelli dai suoi pensieri.
- Si, certo. – gli rispose Mea, cordiale.
- Ottimo. Ne sono lieto. Purtroppo non sono ancora riuscito ad introdurmi nella biblioteca, in quanto quella porzione di città è sotto il controllo della fazione di mio fratello, ma, almeno, permettetemi di scusarmi invitandovi a cena. Avrete modo di conoscere alcune tra le più importati famiglie di questo regno. –
- Non c’è bisogno di scusarsi. – gli rispose Keria sorridendo – E noi saremo lieti di accettare l’invito. –
- Perfetto. Vorrei però chiedervi alcuni favori personali… - Vanenir parve esitare, poi con voce leggermente più bassa e veloce aggiunse – Dovrei chiedervi di lasciare le vostre armi e i vostri… compagni di viaggio qui. Potrebbero mettere non a loro agio gli altri ospiti, sapete, qui a El Terano non siamo abituati a vedere un lupo o un’aquila di quelle dimensioni oppure un drago… di questo genere. Inoltre, saranno presenti draghi in cui ripongo la mia totale fiducia, non credo che possano presentarsi problemi. –
- Non ci saranno problemi. – continuò tranquillamente Mea.
- A questa sera, allora. Vi manderò una delle mie guardie a chiamare. –
Il principe si dileguò velocemente dalla sala, lasciando gli assassini di nuovo soli.

Io sono la stramaledetta ultima musa libera, maledizione. Sono una specie a rischio di estinzione, dovrebbero proteggermi, non sfruttarmi per sciocchezze come queste e mettermi in pericolo.
Giuro che se muoio, in un modo o nell’altro divento un fantasma e li perseguiterò tutti.
Finirà malissimo questa storia.
Cambiando discorso. I draghi mi sembrano indisposti verso il compagno di Keria. Se solo potessi leggere di lui nella Trama del Reale potrei scoprire cosa c’è che non va, ma, ehi, è una creazione divina, quindi niente fato e un bel buco nella Trama.
Stupendo.
Tra l’altro, se quella montagna di cristallo fosse di produzione del demone e Keria fosse quindi la traditrice, mi ritroverei a dover combattere contro un drago. Ottimo.

- Non dovremmo intrometterci negli affari dei draghi. – disse distrattamente Nirghe sedendosi pesantemente su un divano e prendendo ad accarezzare il dorso del gatto nero che gli era salito sulle gambe – Dopotutto abbiamo già sufficienti problemi, non vedo perché dovremmo farci carico anche di quelli di un’altra razza. –
- Vanenir è stato gentile, finora con noi. Non vedo perché dovremmo rifiutare un alleato del suo calibro. – gli rispose Jasno guardandolo indispettito.
- Sentite. – intervenne Mea portandosi al centro del cerchio che si stava formando – Questa non è questione di alleati o problemi. Abbiamo bisogno delle informazioni in possesso di Vanenir, adesso non dobbiamo preoccuparci di altro. –
- Avanti, tu speri di aver bisogno di quelle informazioni. – ribatté Hile scocciato facendo un passo avanti. – Gli dei ci hanno dato dei compagni e dei poteri e noi siamo arrivati qui perché non siamo ancora riusciti ad usarli. Davvero credi che troveremo la soluzione definitiva per eliminare il demone dentro quegli appunti? Avanti, davanti a tutti noi, almeno una volta ammettilo. Siamo disperati, altrimenti non saremmo qui. –
- Abbassa il tono, lupastro. – Gli disse il Gatto alzandosi in piedi, con evidente scontento del suo compagno.
Buio rizzò il pelo, indirizzando un sordo ringhio di gola in direzione dello spadaccino, mentre il corvo, con quattro rapidi battiti d’ala si andò a posare sul dorso del drago di cristallo, lontano dal vivo della discussione.
- Basta! – Una voce rotta riempì la sala.
All’unisono tutti smisero di parlare, voltandosi ammutoliti.
- Basta. – ripeté  a voce un po’ più bassa Keria con gli occhi lucidi. – Ora smettetela tutti. Non ne posso più. Da quando siete diventati così? Guardatevi, non valete la metà di quando siamo partiti, prova o non prova, dei o non dei. Hile, da quando sei diventato così cinico? Davvero credi che non ci rendiamo conto di quanto la nostra situazione sia disperata? Nirghe, quand’è che hai cominciato a guardare solo te stesso? E Mea. Smettila. Smettila ora. Siamo i tuoi compagni, non delle pedine tra le tue mani. Hile l’avrà detto nel modo sbagliato, ma un fondo di verità c’era. Diciamoci le cose in faccia per come sono e cerchiamo una soluzione assieme, altrimenti tanto vale che ognuno vada per la propria strada. –
Il silenzio che seguì a quell’affermazione fu pesante. Le pareti di pietra lavica sembrarono stringersi e farsi più cupe. Mentre ognuno cercava di fare qualcosa per alleviare quella sensazione di imbarazzo che li aveva colpiti.

Finalmente qualcuno glielo ha detto.
Ben fatto ragazza.
Comunque, per il momento, è il caso che io vada a fare un rapido sopralluogo della sala da pranzo.
Non si sa mai e vorrei evitare una “fuga dal porto di Norua, parte seconda”. Sono sufficientemente sfortunato da solo, non ho bisogno di altre complicazioni.

Tre ore dopo, una guardia aprì cautamente la porta della sala in cui erano stati lasciati gli ospiti, insospettita dal silenzio tombale che la riempiva.
Una decina di occhi si puntarono sul drago, che deglutì, visibilmente in soggezione.
- Signori… se voleste lasciare qui le vostre armi e seguirmi… - La guardia deglutì nuovamente, facendo sobbalzare il prominente pomo d’Adamo che spuntava dal collo esile.
Le lame in acciaio tintinnarono, battendo le une contro le altre, per poi raggiungere il pavimento in pietra.
- Sappiamo già che l’invito non è esteso ai nostri compagni. – Disse Mea precedendo qualsiasi cosa volesse dire il drago.
- Bene… allora, se volete seguirmi… -
La guardia guidò i sei assassini per le vie di El Terano, senza mai smettere di scaricare la tensione che quel compito gli provocava torturandosi le mani. Non provò mai a voltarsi in direzione degli ospiti, nonostante percepisse i passi di solo cinque di loro.

Hile guardò il drago che li stava guardando. Sembrava agitato, come se non avesse mai fatto nulla del genere nella sua vita.
La mano destra corse distrattamente a una delle tasche in cui riposavano i coltelli, in cerca di conforto da quel contatto freddo, ma le dita scivolarono sulla tasca vuota.
Avevano deciso di indossare gli abiti da cerimonia per quella serata, ma la pelliccia alchemica nuova gli risultava ancora ruvida e rigida sulla pelle, facendogli rimpiangere la comoda camicia intonsa che aveva lasciato nella stanza che gli avevano lasciato.
In delle piccole nicchie nelle pareti, a intervalli sempre più brevi, comparivano busti scolpiti. Alcuni rappresentavano volti che si sarebbero potuti dire umani, mentre altri, la maggior parte, riportavano musi squamosi dalle fauci spalancate e dallo sguardo fiero.
Un’imponente portone a due battenti ruppe la perfezione della parete.
- Il principe Vanenir II vi aspetta oltra questa porta… - disse fermandosi il drago, senza mai smettere di torturarsi le mani.
- Grazie. – gli rispose Keria gentilmente.
La guardia ebbe un momento di esitazione, come se non sapesse bene come comportarsi, poi sorrise timidamente e se ne andò quasi di corsa per il corridoio.
- Pronti per fronteggiare i nobili? – continuò l’arciere voltandosi verso i suoi compagni, che, in risposta, abbassarono lo sguardo e si ostinarono a non aprire la bocca.
Keria si lasciò scappare un sospiro stanco.
- La smetteranno, prima o poi, vero? – le chiese a bassa voce Seila, accarezzandosi la treccia bionda che le ricadeva sulla spalla sinistra.
- Lo voglio sperare. – le rispose la ragazza dagli occhi verdi, per poi spingere i battenti ed entrare a testa alta nella sala.
Una trentina di fronti si sollevarono dalla candida tovaglia che ricopriva il lungo tavolo di pietra scolpita, per voltarsi in direzione dei nuovi arrivati.
La sala cadde nel più assoluto dei silenzi, facendo credere a Keria di aver addirittura sbagliato stanza.
Fu Vanenir a rompere il ghiaccio, alzandosi in piedi dal suo posto a capotavola e dirigendosi a passo deliberatamente lento verso i suoi ospiti.
- Siete arrivati perfettamente in orario. – disse il quartogenito senza abbandonare il suo sorriso – Mi sono permesso di assegnarvi i posti in modo che possiate avere conversazioni che vi aggradino, durante la cena. –
Non appena il principe arrivò di fronte ai sei assassini fece dietrofront, tornando a dirigersi verso la tavolata e invitando gli ospiti a seguirlo.
- Mea, se non sbaglio sei stata istruita alle arti magiche, la famiglia Revertrof sta svolgendo da decenni studi sull’argomento, sono sicuro che ti troverai a tuo agio. –
Vanenir lasciò che la mezzelfa si sedesse accanto a un uomo dai capelli grigi cenere, sul cui volto era appoggiato un paio di spesse lenti applicate su una montatura di bronzo splendente, per poi spostarsi.
- Jasno, il Direttore mi ha informato che hai vissuto i tuoi primi anni nel Bosco Nero. Il signor Vahe sta redigendo un trattato su quella zona, sono sicuro che gli potrai essere molto utile. –
Di nuovo il principe si mosse intorno al tavolo.
- Seila, vorrei presentarti il signor e la signora Hartuon, voi condividete le conoscenze nell’arte dell’erboristeria. –
Il drago raggiunse il capo del tavolo opposto alla sua sedia.
- Keria, Nirghe, vorrei presentarvi le famiglie Janke e Latar, nonostante siamo in tempi di pace, i componenti di queste famiglie sono anni che collaborano per migliorare le nostre conoscenze in fatto di metallurgia e forgiatura. So che voi siete abili combattenti con la spada e l’arco e credo possiate interessarvi alle nostre versioni di queste armi. –
Vanenir superò il drago che sedeva capotavola piegando il capo in segno di rispetto e proseguì sul lato opposto.
- Infine, Hile, avete passato diversi mesi oltreoceano, sul Continente. Ti vorrei presentare Karver Marja, ho personalmente designato lui come capitano per una squadra di esplorazione su quella terra inesplorata. Sarà sicuramente lieto di ascoltare la vostra storia. –
Hile si sedette accanto al robusto drago dagli occhi azzurri come il ghiaccio mentre il principe, sempre sorridendo, ritornò al suo posto, per poi battere velocemente le mani per richiamare nella sala le serve.
Nel posto di fronte a lui, il Serpente gli lanciò un’occhiata disperata, mentre l’anziana dragonessa che le sedeva a fianco già le parlava delle ricerche che aveva portato avanti.
Tredici bellissimi donne entrarono quasi danzando, portando ingombranti vassoi o caraffe straboccanti ai commensali. Ad ogni loro passo, le vesti dai colori sgargianti svolazzavano alle loro spalle.

E pensare che una volta anche Fariuna era una di loro.
Incredibile dove sia arrivata quella dragonessa, partendo da questo livello. Poco ma sicuro, non era una persona comune.
Ammetto di essermi ispirato ai suoi lineamenti, per questa forma.

Il Lupo ebbe ben poco tempo da dedicare alle pietanze gustose e all’ottimo vino che continuavano a riempire il suo piatto e il calice. Il capitano Marja si era rivelato davvero interessato al suo viaggio, tempestandolo di domande e richieste di chiarimenti su quella terra ancora sconosciuta.
La cena proseguì serenamente, con le serve che volteggiavano attorno ai posti occupati accompagnate dal vociare dei commensali che, nonostante il tempo continuasse a passare, non sembrava aver intenzione di diminuire.
In un attimo accadde qualcosa, Hile se ne rese conto appena. Una serva aveva estratto un coltello da sotto la veste, puntando Vanenir che era impegnato in una discussione con una giovane dragonessa che portava un lucente abito porpora.
La mano del Lupo corse alla prima tasca della veste, di nuovo scoprendola vuota.
- Salema deve regnare! – la voce cristallina della dragonessa riempì la sala, facendo gelare i presenti. Pochi passi separavano quella lama dal corpo del quartogenito.
Non c’era abbastanza tempo per far qualcosa.
Seila e Keria erano disarmate, Mea avrebbe impiegato troppo tempo per disegnare un incantesimo, Jasno e Nirghe erano troppo lontani per poter intervenire.
Lo sguardo di Hile corse al coltello in argento che riposava lì a fianco.
Lo strinse tra le dita, cercando in una frazione di secondo una via libera per un punto vitale della serva, non trovandolo.
Il tempo parve fermarsi, mentre il suo cuore batteva innaturalmente lento. Keria aveva ragione, non doveva essere impulsivo.
Il lanciatore di coltelli guardò di fronte a sé. Seila. Il Serpente, ora, era sempre armata.
- Seila, metti della saliva sul coltello. Ora! –
L’erborista non osò ribattere a quell’ordine, eseguendolo con gli occhi sbarrati.
La lama poté finalmente lasciare le dita dell’assassino, roteando velocemente in aria sopra le pietanze e le teste di quelle alte cariche.
Fu un attimo. Il pugnale della serva non arrivò mai al principe, perché quel pezzo di argenteria colpì la mano che lo impugnava, facendolo cadere tintinnando a terra.
La serva, accortasi di essere in pericolo, scappò velocemente verso la porta.
La stanza, intanto, si riempì di schiamazzi e strilli, mentre i draghi più giovani abbandonavano i loro posti per inseguire l’aggressore.
Hile si precipitò da Vanenir, raggiungendo Mea.
- Grazie mille… - disse il principe tenendosi la mano destra sul petto che si alzava e abbassava velocemente.
- Tu stai bene, vero? – gli chiese la maga.
- Si… non è riuscita a raggiungermi. Ora però dobbiamo trovarla. – continuò il drago alzandosi e facendo ricomparire il suo sorriso sulle labbra sottili.
- Non penso riuscirà ad allontanarsi molto. – gli rispose Hile. – Sul coltello che l’ha ferita Seila ha messo un veleno mortale. Se anche riuscisse a scappare, non potrebbe sopravvivere. –
- Capisco… - Vanenir si lasciò cadere di nuovo sulla sedia, mentre un nugolo di nobili si mobilitò per raggiungerlo e accertarsi delle sue condizioni.
Lì accanto, Mea sembrò indecisa su cosa fare. Dopo alcuni secondi parve prendere una decisione, chiamando a sé i suoi cinque compagni di viaggio.
- Questa situazione sta sfuggendo di mano ai draghi. – disse la mezzelfa a bassa voce. – Da quanto ho capito questo è il primo attentato così evidente nei confronti di Vanenir e lui, sicuramente, non potrà continuare a far finta che non stia succedendo nulla. –
- Quindi siamo finiti nell’occhio del ciclone… - commentò pensieroso il Gatto passandosi il palmo della mano destra sul volto.
Una serie di occhiate truci si puntarono sullo spadaccino, che parve offendersi.
- Ho capito. Dobbiamo aiutarli perché sono bravi, belli e simpatici. Non mi sono lamentato, questa volta. Come volete muovervi? –
- Se davvero il veleno che è contenuto nella saliva di Seila le è entrato in circolo, non può essersi allontanata di molto. Cerchiamola. In ogni caso, tra un’ora ci ritroviamo qui. – continuò la maga, guardando a turno, negli occhi, gli assassini che aveva davanti.
Keria si lasciò scappare un sorriso di sollievo, mentre si dirigeva verso la porta dalla quale era scappata la serva. Era riuscita a farli ragionare, finalmente.

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Capitolo 39
*** Capitolo 33.5: Non ho intenzione di morire! ***


Angolo (?) dell'autore:
Quanto tempo! Era da un po' che non mi facevo sentire.
Ho un paio di cose da dire, ma ci sarà tempo più tardi. Per il momento volevo sfruttare questo atipico angolo dell'autore per mettervi in guardia su questo capitoletto.
Allora: giusto due informazioni di base e poi vi lascio leggere in pace.
In questo capitolo mi sono lasciato prendere un attimo la mano con una scena leggermente sanguinolenta. Niente roba eccessiva, sia chiaro, non sarei nemmeno in grado di scrivere scene troppo gore. Mi sono riscoperto leggermente sadico verso i miei personaggi, ecco tutto.
Vabbè, mi rifarò sentire qui infondo. Buona lettura a tutti.
_______________________________________


Come potrebbe andare meglio?
Ho fatto esattamente quello che mi ha ordinato e, ovviamente, ci ho rimesso.
Ora devo assolutamente cambiare forma e dirigermi verso l’esterno. Non ho intenzione di rimanere ad El Terano, con tutto il trambusto che ne seguirà.
Cerchiamo di non dare nell’occhio. Un volto comune, abiti comuni, corporatura comune. Il solito.
Maledizione, detesto le forme materiali. Sono troppo fragili.
Tra l’altro la mano che quel moccioso mi ha colpito è tutta intorpidita.
Vediamo, per uscire di qui… devo andare da questa parte.
Sarà una lunga strada. Quella maledetta sala da pranzo era praticamente al centro della città.
Che fastidio, però, questa mano. Non capisco cosa le sia preso. Avrò sbagliato qualcosa nell’assumere questa forma…
Ma il polso mi faceva già male, prima?
Bah. Sono troppo vecchio per queste cose, mi pare evidente.
Comunque Vanenir ha avuto quello che voleva. Ora potrà far fare a chiunque qualunque cosa ordini, spero ne sarà contento.

L’uomo si scansò dal centro del corridoio, per lasciare il passo a due giovani draghi che correvano cercando la serva che aveva attentato alla vita del loro principe.

Che diavolo è successo?
Per un attimo ho perso il controllo sulla Trama del Reale. Non capisco, non dovrebbe succedere una cosa del genere. Dannazione, sono in perfetta forma.
L’ultima volta che mi è accaduto ero reduce da cinquantaquattro ore di combattimento ininterrotto e avevo due frecce conficcate nella schiena. Non mi pare di essere in una condizione così disastrata.
Sarà meglio uscire di qui. Alla svelta.


L’uomo cominciò a correre sempre più velocemente per i corridoi deserti della capitale dei draghi, serrando ritmicamente la mano a pugno per cercare di scacciare l’intorpidimento che l’avvolgeva e che stava risalendo lentamente verso il gomito.
Accelerò ulteriormente il passo, rendendosi conto di essere stato totalmente schiacciato dalla  Trama del Reale.
- Fato, per una volta, dammi una mano. – si lasciò sfuggire a denti stretti, mentre il braccio destro a stento rispondeva ai suoi comandi.

Ora comincio a preoccuparmi seriamente non

L’uomo perse per un momento l’equilibrio, scivolando di lato e sbattendo la spalla contro la dura roccia che si stava facendo via via sempre più grezza.

Uomo. Chiamarmi uomo. Se mai ne uscirò vivo da qui, giurò che scriverò con il sangue il mio nome in quella maledetta trama.
Eccola l’uscita ora basta che


L’uomo, in meno di un secondo, si ridusse alle dimensioni di un grosso pennuto scuro, che si levò verso il cielo attraverso il camino del vulcano.
Per un attimo un ala smise di battere, facendogli perdere una dozzina di metri di quota, ma, riscossosi, riuscì a recuperare l’altitudine persa e ad uscire dalla bocca.
Il corpo scuro dell’uccello cadde rovinosamente al suolo, rotolando sulle rocce aguzze e lasciando dietro a sé una scia di una sostanza bluastra.

Toh. Ho pure sbagliato il colore del sangue.
Sono proprio messo male se ho fatto un errore del genere.


L’uccello gemette, allargando le ali per portarsi con il ventre verso il cielo.

Ora un piccolo sforzo. Ho bisogno di un organismo facile da analizzare.

Il volatile fu scosso da alcuni spasmi, per poi tornare a una forma umana. In poco più di due secondi un elfo dai capelli scuri comparve sulle rocce vulcaniche. Il tatuaggio a forma di rombo che portava sulla guancia sembrava uno scarabocchio mal riuscito, tanto era approssimativo. Il braccio destro e una buona porzione del torace erano oramai inservibili, mentre quel male continuava a propagarsi in quelle carni.
Gli occhi scuri rimasero per un attimo fissi verso le nubi che correvano veloci nel cielo.

Sarebbe bello farla finita qui. Tutto sommato.
Niente più missioni, o mocciosi da seguire. Finalmente potrei riposarmi.
Sarebbe anche il perfetto finale per questa commedia, ucciso dalle persone che dovevo proteggere, posso immaginare le risa della platea.
Mi sono sempre chiesto dove finirò, quando lascerò questo mondo. Sapete che noia crepare qui e ritrovarsi di nuovo davanti al Fato? Io un’altra delle sue paternali non ho voglia di sorbirmela.
E poi c’è lei.
Non posso abbandonarla là. Piuttosto rinuncio ai miei poteri.


L’elfo fu scosso da un fremito, mentre il cuore batteva sempre più veloce nel suo petto.

Andate tutti a cagare. Non ho intenzione di morire, né qui, né tantomeno ora.
Maledetti ragazzini. Non riuscite a cavarvela da soli, ma siete in grado di ammazzare un essere millenario. Bel lavoro.
E questa è già la seconda volta.
Basta. Ora devo solo liberarmi di questo maledetto veleno. Perché  è un veleno, no?
So già che farà un male infernale.


La figura riversa sul fianco di quell’imponente vulcano parve sfocarsi. Tutto attorno il pietrisco cominciò a saltare sul terreno, mentre la roccia su cui si appoggiava si disgregò fino a diventare una finissima sabbia.
Ogni molecola di quella creatura si mise a vibrare, sempre più velocemente.
In poco più di un minuto piccole fiammelle si accesero tutto intorno, mentre la sabbia generata si cristallizzava in grani di vetro splendente.
Quel corpo non parve voler diminuire la velocità di vibrazione neppure quando, consumati gli abiti leggeri che indossava, la schiena e le gambe nude cominciarono a raschiare sul terreno.
Le rocce vennero irrorate da un liquido nero, più scuro di qualsiasi altro materiale esistente.
Dalla gola dell’elfo proruppe un urlo disperato mentre le fasce muscolari si strappavano e consumavano in quell’azione disperata e un vapore denso si levava dalle carni martoriate.
Una lacrima cristallina sgorgò dall’occhio sinistro dell’elfo, invaso dal sangue riversato dalle decine di capillari che erano esplosi al suo interno.

Vi odio! Vi odio tutti!
Se non ci fosse stata lei non sarei mai arrivato a tanto!

Fato! Aiuto! Non ho intenzione di morire!


Le ossa di quel corpo persero ogni sorta di rivestimento che possedevano, colpendo ripetutamente e una velocità impressionante le rocce, la sabbia e il vetro che le aspettavano.
Le sue urla si fecero sempre più disperate.
Per un attimo la velocità di vibrazione parve rallentare, ma in meno di un secondo tutte le molecole recuperarono la perdita.
I minuti passavano inesorabili. Il liquido scuro scorreva viscoso sul terreno, seguendo le insenature e gli incavi naturali delle rocce vulcaniche per scendere verso valle, mentre il vapore, esauritosi, aveva smesso levarsi verso il cielo.
Con un ultimo, disperato sforzo, gli ultimi brandelli materiali di quel corpo accelerarono ulteriormente, per ricongiungersi al resto del liquido in una pozza creatasi diverse decine di metri più in basso, senza lasciare traccia della loro esistenza


Eccomi. Questo sono io. O meglio, questa è quella che potremmo definire la mia vera forma.
Una pozza di inchiostro nato direttamente dal sangue del Fato, lo stesso inchiostro con cui riempì le pagine del suo libro, unita a una coscienza.

Io sarò fuori gioco per parecchio tempo. Non sperate di rivedermi molto presto, ho consumato ogni briciola di energia che avevo per disintossicarmi.
Sono arrivato a disgregarmi fino ad arrivare alla mia materia base per sopravvivere.
Sono inerme, completamente inerme. Ma almeno sono vivo.
Se tutto va bene, tra tre anni potrò di nuovo prendere una forma in grado di spostarsi autonomamente. Fino ad allora… sarò uno spettatore degli eventi. DI cosa dovrei lamentarmi? Dopotutto è quello che ho sempre desiderato, no?
Quanto vorrei potermi lasciare alle spalle i mortali e riprendere ad essere un essere libero…



Angolo dell'autore (quello normale):
Rieccomi qui. Spero che questo capitolo così fuori dalla norma vi sia piaciuto.
Perchè tutta questa loquacità dopo tanto tempo di silenzio, vi starete chiedendo. O forse no. In tal caso lo chiedo io per voi.
Ultimamente sono stato leggermente preso da quella cosa orribile che è la vita reale, calando anche come qualità, lo ammetto.
Vorrei sfruttare quest'occasione per ringraziare tutti voi che siete arrivati fin qui, facendo salire il contatore di visualizzazioni su ogni capitolo. Per me è sempre magnifico vedere quel numeretto salire anche solo di un'unità.
Ora farò una cosa orribile, una cosa che trovo sia quasi un reato qui, su EFP.
No, non metterò in pausa questa storia.
No, non vi chiedo di segnalare la storia tra le scelte (che diavolo, questa in confronto a quelle là sembra un pandino parcheggiato di fianco a una ferrari, non so se rendo l'idea).
No, quello che sto per fare è molto peggio di tutto ciò. Mendicherò recensioni. Lo so, non dovete dirmelo, so perfettamente che esiste un girone all'inferno per quelli come me.
Ora torno un attimo serio e vi spiego cosa intendo con la frase qui sopra. Come vi ho detto un mesetto fa (come vola il tempo!) gli ultimi capitoli sono quasi un esperimento su come la trama potrebbe andare avanti, perchè, dannato io, non programmo niente con delle scalette, scrivo di getto. Ho quindi un bisogno immenso (e non sto scherzando, questa volta) di avere dei pareri sulla piega che sta prendendo la vicenda. Non mi interessa se vedrò fioccare bandierine rosse o bianche, anzi le critiche costruttive sono la miglior cosa che possa ricevere, non mi importa se siete pessimi recensori, io sono sicuramente peggiore in quel ruolo, vorrei solo sapere la vostra opinione sulla storia, sui personaggi e lo spazio che do loro e, perchè no, su questa saga(?), quest(?) dell'isola dei draghi che sta per volgere al termine.

Ora chiudo, questo angolo sta diventando una casa intera e rischia di essere più lungo del capitolo stesso.
Buona continuazione a tutti, alla settimana prossima!
Vago. 

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Capitolo 40
*** Capitolo 34: Un lavoro pulito ***


 I sei assassini si ritrovarono nuovamente nella sala da pranzo.
La folla di nobili e alte cariche che l’aveva invasa si era ridotta, facendo apparire quella stanza molto più ampia di quanto fosse realmente.
Vanenir stava discutendo animatamente con due draghi, che dimostravano trenta e cinquanta anni, in quel corpo, mentre ad ampi gesti cercava di scacciare un medico, intento a controllare che il principe non fosse stato ferito o avvelenato in alcun modo.
- L’avete trovata? – chiese Mea con uno sguardo insolitamente serio.
- No. Né noi, né i draghi. Sembra che quella serva sia scomparsa, nonostante il veleno di Seila. – le rispose Hile.
- Ora cosa succederà? – chiese Seila spaventata, accarezzandosi la treccia bionda.
- Vanenir mi ha parlato, prima. Vuole chiederci un favore. – continuò la mezzelfa, riportando la ciocca blu dietro l’orecchio.
- Quindi ha deciso di cominciare anche lui a combattere? Dubito che voglia chiedere a degli assassini consigli su una politica pacifica, dopo quello che è successo. – le rispose il Gatto, spostando il suo sguardo sul principe dei draghi, che pareva non aver intenzione di smettere di discutere.
Hile fece qualche passo indietro, andandosi a sedere su una delle sedie del tavolo ancora imbandito. Aveva voglia di colpire qualcosa, qualsiasi cosa. Sentiva una rabbia profonda stringergli il petto, la sua preda gli era scappata.
Prese qualche respiro profondo, cercando di rallentare i battiti del suo cuore impazzito.
Non doveva lasciarsi trasportare.
Tutti stavano facendo del loro meglio per combattere quella situazione e lui non voleva essere da meno.
Alzò un attimo lo sguardo, cercando di ignorare quel malessere che si portava dentro.
Nirghe stava guardando una sedia, indeciso se assecondare quella strana sensazione di noia che provava e sedersi, o meno.
Mea aveva lo sguardo perso, il volto era immobile, fatta eccezione per le labbra che si muovevano impercettibilmente, come per rivelare al mondo quali fossero i pensieri che l’assillavano.
- Stai bene? –
Il Lupo sobbalzò, colto di sorpresa. Era stato talmente rapito dai suoi pensieri da essersi completamente isolato dal mondo circostante.
- Si… abbastanza. –
Keria lo guardò con uno sguardo preoccupato. – Sei pallido e hai la fronte imperlata di sudore. Non si direbbe per niente che stai bene. –
- Tranquilla, non è niente. Tra poco starò sicuramente meglio. –
L’arciere, poco convinta, si tolse il guanto destro, appoggiando delicatamente la mano di cristallo sulla fronte del compagno di viaggio.
Hile si irrigidì a quel contatto, non sapendo, però, se fosse colpa dello strano materiale di quella mano o di Keria.
- Almeno non hai la febbre. – continuò il Drago, tornando a nascondere l’arto sotto la stoffa.
- Come va con quel braccio? – gli chiese il Lupo, cercando di cambiare discorso.
- Bene, anche se non ho ancora capito cosa gli sia successo. Se non l’avessi visto, ti direi che è normale, fatto in carne e ossa, non in… cristallo? – l’arciere poggiò il palmo sinistro sull’avambraccio opposto, come per proteggerlo.

Una serie di passi veloci si avvicinarono.
Vanenir, circondato da quattro robusti draghi, aveva raggiunto il gruppo di assassini con uno sguardo triste negli occhi. Tra di loro Hile riconobbe Karver Marja, il drago a fianco del quale aveva cenato.
- Dovrei parlarvi, ma in privato. Potete seguirmi? – la voce del principe pareva carica di dubbi.
Il gruppo ebbe un fremito, come se si trattasse di un unico essere che si era appena risvegliato da un profondo torpore.
Mea, dopo un attimo di esitazione, fece un passo in direzione del drago, spostando la ciocca blu che le era caduta sulla fronte. – Certamente, sire. –
Vanenir non parve intenzionato a rallentare il passo. Uscì rapidamente dalla sala da pranzo, lasciandosi alle spalle lo stuolo di persone di spicco che lo avevano occupato da quando il suo aggressore era scappato, puntando sicuro per i corridoi finché non giunse a una piccola porta coperta da una lamina di metallo lucente. Un battente bronzeo riposava all’altezza degli occhi, sormontando una piccola serratura.
Sugli stipiti erano stati scolpiti due piccoli bassirilievi.
Quello sulla destra ritraeva un anziano drago che, nella maestosità della sua vera forma, guardava le quattro figure umane di fronte a lui, l’unica donna del gruppo risaltava, porgendo un oggetto che teneva in mano al rettile che aveva di fronte, i tre uomini alle sue spalle risultavano invece quasi in disparte dal vivo della scena.
Sullo stipite di sinistra, invece, la scena risultava più confusa. Un assembramento di corpi ricopriva la maggior parte della base del bassorilievo, corpi scolpiti deformi e incastrati gli uni sugli altri, in alto, invece, figure di draghi accoppiati riempivano il cielo della scena. Ai lati, come esenti dalla follia e dal caos generali, rimanevano due distinte figure, da una parte una donna austera, dalla fluente chioma che cadeva sull’armatura, dall’altra quello che poteva sembrare un uovo con una mano poggiata sopra.
Vanenir non si fermò nemmeno per un istante. Prese una chiave fine dalla catenella nascosta sotto l’abito e la infilò nella fessura sulla porta, facendola girare tre volte.
I cardini girarono silenziosi, permettendo l’accesso alla stanza che si apriva al di là di quel muro.
Un tappeto dai colori sgargianti ricopriva il pavimento, ospitando due divani su un lato e una scrivania sul muro opposto. Due porte si aprivano sulla destra, chiuse da battenti molto più sobri rispetto a quelli che avevano appena superato.
Il principe si sedette pesantemente su un divano, non concedendosi nemmeno un attimo per riprendere fiato.
- Questa stanza è protetta da incantesimi antichi quanto la mia dinastia. Nessuno all’esterno può vederci, sentirci o anche solo percepire la nostra presenza con mezzi magici. Non badate ai miei compagni, sono tra i draghi più fedeli che abbia mai conosciuto. Ora passiamo agli affari seri, Salema ha superato ogni limite, potevo accettare delle ostilità da parte della sua fazione finché non si sarebbe deciso un successore, ma su un attentato del genere non posso sorvolare. Non posso permettere che una questione familiare vada ad intaccare la fiducia che il mio popolo ripone nella casata reale. Sono costretto a chiedere i vostri servigi, non è un mistero quale sia il ruolo della vostra setta, né tantomeno quali richieste arrivino quotidianamente al vostro direttore. Ora, io, qui, voglio chiedervi di mettere al mio servizio le vostre abilità, per il bene del mio popolo. Ho bisogno che uccidiate mio Salema, dev’essere un lavoro pulito, senza evidenze che dimostrino che è stato un draghicidio, io, in cambio, vi prometto sul mio onore e su quello della mia stirpe che voi non sarete incolpati di alcunché, inoltre sarò per sempre vostro debitore. –
Hile si guardò intorno. Agitato. Non era la missione in sé, a preoccuparlo, già numerose volte in quel viaggio le sue mani si erano sporcate di sangue, ma in quel caso si trattava di un principe dei draghi. Era diverso. Inoltre era il suo stesso fratello a commissionare quell’omicidio.
- Questo lavoro cosa comporterà? – chiese improvvisamente la mezzelfa.
- Io diventerò sicuramente re, senza un rivale. I conflitti si smorzeranno, anche se non sono così pazzo da credere che da un giorno all’altro tutte le ostilità si placheranno, riconquistarmi la fiducia del mio popolo richiederà parecchio tempo. Per quanto riguarda voi, subito dopo la mia incoronazione vi porterò nella biblioteca privata e cercherò tutto ciò che vorrete perché possiate continuare il vostro viaggio. –
- Va bene. – continuò Mea. – Quando dobbiamo farlo? –
- Domani notte. Io sarò impegnato a Isargal in un dibattito con un lord locale, centinaia di draghi saranno presenti. Mi raccomando, non lasciate tracce del vostro passaggio. –
- Noi sappiamo fare il nostro lavoro. Ci vedremo quindi per la sua incoronazione. –
- Ci conto. Uscendo di qui, Garay, potresti far vedere le stanze di mio fratello ai nostri ospiti? –

Quindi, alla fine, Vanenir ha scoperto le sue carte.
È incredibile come sia riuscito a raggiungere la vetta senza sporcarsi le mani. Lui adesso è e rimarrà candido.
Non so davvero se rimanerne schifato o congratularmi con lui. Potrei quasi accostare la sua intelligenza a quella di Vago…
Guardate! Se mi concentro posso creare delle bolle sulla mia superficie!


Hile guardò un’ultima volta i suoi compagni di viaggio prepararsi. Nella sala per gli ospiti regnava solo una tensione palpabile.
- Siete sicuri di quello che state per fare? – chiese Nirghe accarezzando il dorso del suo gatto.
- Si. Voi sareste solo d’intralcio. – gli rispose Mea.
- Mea, sei sicura di non avere bisogno nemmeno di un palo? – continuò Keria alzando un sopracciglio, mentre con gli occhi verdi guardava la maga.
- No. Se staremo attenti non dovremmo avere problemi. Sono sicura che noi tre basteremo. –
- Fate solo attenzione… - concluse lo spadaccino a bassa voce.
Tre figure uscirono rapide dalla stanza. Le suole battevano impercettibilmente sul pavimento, mentre le schiene curve si confondevano alla perfezione con le pareti scure.
Sul soffitto, gli specchi che irroravano di luce solare i cunicoli di giorno, brillavano appena grazie alla luna, che doveva essere quasi al suo culmine nel cielo.
Non incontrarono guardie sul loro percorso, come gli aveva detto Vanenir, e arrivarono in un batter d’occhio all’ultimo svincolo. Pochi metri più avanti si apriva la stanza di Salema.
Mea prese un coltello di Hile in mano, glielo aveva chiesto in prestito apposta per quel lavoro. Per terra traccio velocemente un intricato intreccio di linee, posandoci sopra il palmo aperto appena fu finito senza mai perdere di vista le tre guardie che controllavano la porta.
Uno sberluccichio percorse le pietre che costituivano la pavimentazione del corridoio, scomparendo sotto i piedi delle guardie.
La maga si avvicinò circospetta ai tre draghi, dai quali non provenne nessuna risposta, nemmeno quando la mezzelfa si piazzò davanti a loro.
- Andate, io resto a controllare che nessuno per sbaglio rovini il glifo. –
I suoi compagni fecero un rapido cenno con il capo, aprendo appena la porta alle spalle delle figure pietrificate e intrufolandosi rapidi all’interno della dimora di Salema.
Jasno ripassò mentalmente le indicazione che il drago al servizio di Vanenir gli aveva dato.
La casa di Salema si sviluppava su due piani e la sua stanza da letto si trovava al secondo piano, seconda porta a destra.
L’Aquila salì velocemente le scale che nascevano alla sua sinistra.
Salema era sospettoso, li aveva avvertiti quel drago. Non permetteva a nessuno di rimanere in casa con lui mentre non era sveglio.
Seconda porta sulla destra.
La poca luce che arrivava nella casa entrò nella stanza da letto buia dallo spiraglio che si aprì.
L’elfo albino si avvicinò rapido al secondogenito addormentato nel largo letto, coperto da una stoffa rossa. Con mani sicure cinse il torace del drago, là nei punti dove sapeva che non sarebbero rimasti i segni della pressione delle dita.
Alle sue spalle la terza figura si mosse.
Sulla parete di fronte al letto un’imponente ritratto guardava immobile la scena. La donna e l’uomo dai capelli rossi immortalati sembravano assenti, come se sapessero perfino loro cosa sarebbe successo da lì a poco.
Seila intinse la punta di un lungo e fine spillo in una boccetta che teneva con cura celata nella piccola sacca che si era portata dietro, poi, in un attimo e con un movimento repentino la mano, dell’elfa bionda si avvicinò al petto del drago.
Lo spillo si fece largo tra le fibre dei muscoli, evitando nella sua discesa le costole e arrivando a piantarsi nel cuore di quel drago, per poi tornare fuori con la stessa rapidità con cui era entrata.
Passarono due secondi, poi il torace del principe cominciò ad alzarsi e abbassarsi sempre più spasmodicamente finché, all’improvviso, non cessò di muoversi.
Jasno avvicinò un piccolo specchietto alla bocca del corpo sdraiato accanto a lui, controllando che non andasse a formarsi della condensa sulla superficie lucida.
Nulla.
Per un attimo l’Aquila provò un profondo senso di schifo nei confronti dell’uomo che fu quel cadavere. Era morto per colpa sua, in fondo, per una colpa che andava molto al di là di essere in gara con suo fratello per il trono.
La sua sfiducia verso i suoi sottoposti l’aveva lasciato solo e indifeso, la decisione di non ritornare alla sua forma reale nemmeno durante il sonno aveva reso ancor più facile quel lavoro.
Jasno e Seila si allontanarono rapidi dalla camera da letto, scendendo nuovamente le scale e raggiungendo Mea nel corridoio subito dopo essersi assicurati di aver chiuso accuratamente la porta d’ingresso.
La maga impiegò meno di un secondo a grattare il glifo che aveva tracciato sulla pietra e a rompere così l’incantesimo sulle guardie, che ripresero a svolgere il loro compito inconsapevoli di quello che era successo.

Che finale squallido. Non ho avvertito nulla.
I draghi stanno perdendo sempre più punti ai miei occhi, sono diventati da una delle razze più incredibili che io abbia mai visto a una di quelle più infime. Non riesco a spiegarmi questa loro precipitazione culturale.


Hile si alzò nuovamente dal divano, facendo quattro passi in avanti per smorzare l’agitazione che gli rodeva il cuore, si volse nuovamente verso i suoi compagni.
Keria dormiva scomposta, con la guancia destra appoggiata al bracciolo blu del divano, i capelli castani le cadevano sugli occhi chiusi come una cortina.
Il gatto di Nirghe si era acciambellato sul dorso dell’imponente drago di cristallo, il cui respiro caldo e regolare riempiva la stanza e ne alzava la temperatura.
Lo spadaccino alzò appena lo sguardo dalla lama che stava pulendo con un panno, controllando che la porta fosse ancora chiusa.
Il Lupo tornò nuovamente al suo posto, sedendosi adagio per non svegliare l’arciere e appoggiando il palmo della mano sulla nuca di Buio, che, in tutta, risposta emise un mugolio dal profondo della gola.
L’aquila e il corvo avevano trovato un trespolo sulla lunga coda del drago di Keria, mentre il serpente di Seila era scomparso tra le gambe del divano.
Era passata più di un’ora da quando i suoi compagni erano usciti dalla stanza. Non potevano essere stati scoperti, era un lavoro troppo semplice perché ci fossero dei problemi.
E se Salema avesse fatto resistenza? Oppure una delle guardie poteva averli intercettati.

La porta si aprì un poco, silenziosa, ma non abbastanza. Il suono dei cardini sembrò riempire il corridoio deserto.
Nessuno osò muoversi, finché il viso di Mea non comparve nel cono di luce che gettava la lampada appesa al soffitto della sala.
L’aria parve improvvisamente farsi più leggera tra quelle pareti di pietra.
Le labbra di Nirghe si incresparono in un sorriso di sollievo, mentre riponeva la lama che oramai scintillava nel suo fodero. – Bene. – disse poi alzandosi – Non credo che rimanere ancora svegli sia una buona idea, io vado nella mia stanza. Ci vediamo domattina, pronti a partire da questa città. –
Il gatto si stirò la schiena sul dorso del drago, per poi saltare a terra e seguire il suo compagno oltre la porta che li avrebbe condotti nella stanza da letto che era stata loro assegnata.
Fecero il loro ingresso nell’atrio comune anche Jasno e Seila, guardandosi intorno, come se non sapessero chi ci fosse realmente ad aspettarli in quella sala.
Hile scrollò delicatamente la spalla dell’arciere, che in tutta risposta sollevò di qualche centimetro la fronte dal bracciolo, aprendo un occhio quel tanto che bastava per capire cosa stesse succedendo.
- Allora? – disse il Lupo alzandosi dal suo posto.
- Tutto fatto. Facile e pulito, come avevamo previsto. – gli rispose la mezzelfa.
- Bene. Vanenir ne sarà felice. – le rispose Keria sedendosi meglio.
- Già… sicuramente. – borbottò Jasno, che con passo leggero si stava dirigendo verso la sua camera da letto.
Il gruppo si congedò velocemente, ognuno perso nei suoi pensieri, lasciando l’atrio vuoto e silenzioso mentre la fioca luce della fiammella morente della lampada andava spegnendosi.

Angolo dell'autore:
Niente paura, non sarà un angolo come quello del capitolo scorso.
Volevo solo avvertirvi che questo capitolo non mi ha convinto per niente. Volevo dargli un'atmosfera particolare, quasi di un sogno, vista la facilità con cui sono arrivati al loro obbiettivo, ma il risultato finale mi ha lasciato l'amaro in bocca. A freddo, poi, ci darò sicuramente una ripassata e vedrò di sistemare questa cosa che ho creato.
Più nel breve periodo ho deciso di pubblicare un'altro capitolo prima di venerdì prossimo, così da finire il prima possibile questa saga che, nonostante contenga alcuni dei capitoli che più mi è piaciuto scrivere (33.5, 32), non mi ha convinto fino in fondo. Mi pare quasi di essere tornato alla microsaga dell'Oasi degli Uomini Pesce, per chi ha letto anche l'altra storia.
Bene, ogni tanto date un'occhio al mio profilo perchè sicuramente tra domenica e lunedì comparirà il capitolo 35.
Vi lascio con una domanda, secondo voi, come farò a sopravvivere con il Viandante in poltiglia per ben tre anni?
Alla prossima.
Vago 

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Capitolo 41
*** Capitolo 35: Drago di parola ***


 Con il riflesso dei primi raggi di un sole nascente le vie di El Terano si affollarono di agitazione.
Draghi, sia nella forma umana che in quella reale si spostavano da una parte all’altra della città, perché la notizia potesse spandersi il prima possibile.
Salema era morto nel sonno.
Un corriere venne mandato immediatamente al vulcano di Isargal, dove s’intromise in un acceso dibattito che già nelle prime ore del mattino infiammava la popolazione della città, portando la funesta notizia.
Vanenir parve sconvolto dalla notizia, al punto di lasciare immediatamente il suo scranno, scusandosi con poche parole, per dirigersi immediatamente a constatare il fatto, sotto lo sguardo attonito dei suoi sudditi e quello incredulo del lord che gli sedeva di fronte.
Il regno vide il caos nelle ore successive.
Numerose fazioni si levarono, chi sosteneva un complotto ai danni del secondogenito, chi dell’intera famiglia reale. Numerosi draghi passarono sotto la bandiera di Vanenir mentre altri la abbandonarono, proclamandosi neutrali finché non fosse stata fatta luce sull’avvenimento.
Le comunicazioni tra le città s’interruppero mentre le tensioni aumentavano, senza far mancare scontri tra la popolazione cittadina e i signorotti della città.
Un altro dei punti di riferimento del regno era venuto a mancare.

Vanenir percorse a passi veloci le vie della capitale, con il volto inscrutabile, giungendo infine di fronte all’abitazione del fratello maggiore.
Quattro draghi erano fissi di fronte all’ingresso, impedendo alla folla che andava accalcandosi tra le pareti di avvicinarsi al luogo della morte.
Il principe si fece avanti, venendo immediatamente riconosciuto e fatto entrare con qualche parola di condoglianze.
L’interno dell’abitazione era perfettamente in ordine. Nulla pareva essere fuori posto o mancante.
In un angolo del salone un drago stava parlando con una serva.
Il quartogenito si diresse verso di lui, lanciando una rapida occhiata alle due figure che si aggiravano al piano superiore.
- Scusi? Posso scambiare due parole con lei? – chiese il principe in direzione del drago con indosso il completo scuro.
Quello si voltò visibilmente scocciato per essere stato interrotto, ma la sua espressione mutò immediatamente quando si rese conto di chi avesse di fronte.
- Pri… principe Vanenir II. Mi permetta di porgerle le mie più sentite condoglianze per la sua perdita. Cosa posso fare per lei. –
- Immagino che voi della commissione abbiate già cominciato ad indagare sull’accaduto. –
- Certamente, signore. Come di prassi. –
- Ottimo. Può spiegarmi brevemente cosa è avvenuto? –
- Venga con me. – disse il drago incamminandosi verso le scale. – La serva che stavo interrogando era l’addetta alla sveglia di suo fratello, è stata lei, questa mattina, a trovare il cadavere ed avvertire i soccorsi. –
Vanenir si guardò alle spalle, studiando per qualche seconda la dragonessa che era rimasta fissa nell’angolo dove l’incaricato della commissione l’aveva lasciata.
I lunghi capelli biondi incorniciavano un volto pallido, segnato dalle lacrime.
Il principe tornò a posare lo sguardo davanti a sé. Non gli erano mai interessate le abitudini discutibili del fratello, finché fossero rimaste chiuse tra le pareti della sua dimora.
Il drago con il completo scuro raggiunse la cima delle scale, per poi prendere una lampada accesa dalle mani di un suo collega e spostare un pesante drappo nera che copriva l’ingresso alla camera da letto.
- Abbiamo già fatto i controlli preliminari. I medici non sono stati in grado di rilevare segni di lotta o ferite sul corpo del principe Salema. Anche il suo organo del fuoco era intatto. –
- Quindi esclude un’aggressione? – continuò Vanenir, avvicinandosi cautamente alla salma del fratello adagiata sulle lenzuola scarlatte del suo letto, mentre la luce della lampada illuminava il viso insolitamente rilassato.
- Quantomeno abbiamo eliminato la possibilità che ci sia stata un’aggressione fisica. Se fosse stato ferito mortalmente da una lama, le fiamme contenute nel suo organo sarebbero fuoriuscite dalla ferita. –
- Capisco, devo però essere certo che non si sia trattato di omicidio. La pregherei di controllare anche l’eventuale presenza di veleni o altre sostanze nocive all’interno del corpo. Usufruisca pure, se lo ritiene utile, dei servigi di lady Marghet Hartuon. So inoltre che nel gruppo dei miei ospiti ci sono un’erborista e una maga di pregevole bravura, sono sicuro che anche loro saranno bel liete di poter aiutare in una situazione critica come questa. –
- Certo, principe Vanenir. –
- Io devo andare. – disse infine il quartogenito avviandosi verso la porta d’ingresso a passo lento – Devo dare notizie al regno. I funerali e l’incoronazione non si celebreranno finché la situazione non sarà chiara. Buon lavoro. –
- Grazie, signore. –
Vanenir uscì velocemente dalla casa, rallentando il suo passo per scambiare due parole con i draghi della commissione al lavoro.
Uscito dall’abitazione e dalla folla che occludeva la strada si diresse verso la propria dimora, concedendosi un sorriso soddisfatto. Tutto era andato come pianificato e non gli dispiaceva posticipare la sua ascesa al trono di un paio di giorni, se questo gli garantiva il favore di un’altra fetta della popolazione.

I sei assassini vennero svegliati da insistenti colpi sulla porta dell’atrio, che riverberavano tra le pareti in pietra.
Jasno fu il primo ad arrivare alla porta d’ingresso, mentre i suoi compagni uscivano lentamente dalle rispettive camere da letto.
Dalla parte opposta di quella soglia, ad aspettarlo, c’erano due guardie che, sopra i paramenti in cuoio, sfoggiavano un drappo nero che dalla spalla sinistra cadeva fino al gomito sottostante.
Hile percepì un’ombra di inquietudine nascere nell’elfo albino, ma l’Aquila non lasciò trasparire nulla.
- Vanenir ci ha mandati a chiamare? – chiese Jasno fingendo perfettamente di non essere a conoscenza degli avvenimenti di quella notte.
- No. Salema è morto nel sonno e la commissione ha richiesto la presenza degli ospiti del principe che portano il nome di Mea e Seila. – gli rispose il drago di destra quasi meccanicamente.
- Oh… ne sono molto addolorato. Mea e Seila sono qui… solo, di che commissione sta parlando? – l’assassino continuò a interpretare la sua parte in maniera impeccabile.
- La commissione si occupa degli eventi ritenuti sopra le righe all’interno del regno. Tra questi compaiono anche la morte di uno degli eredi al trono. –
- Grazie per il chiarimento… tra poco penso saranno pronte per seguirvi. –
Seila fu la prima a varcare la soglia ed entrare nel corridoio, seguita dalla maga, che lanciò un’occhiata preoccupata ai suoi compagni.
Poco prima che la porta si chiudesse alle loro spalle, un pezzo di carta cadde lieve sul pavimento.
Il rumore dei passi delle due guardie si fece sempre più lontano, finché nemmeno le orecchie di Hile riuscirono a riconoscerlo.
Keria si fece avanti preoccupata, chinandosi per raccogliere il foglietto da terra. Su una delle due facce la mezzelfa aveva tracciato un cerchio spaccato quasi a metà da una linea che andava ad arricciarsi ai suoi estremi.
L’arciere lo posò sul divano, fissandolo come se da un momento all’altro dovesse prendere vita e scappare da quella stanza.
- Secondo voi… - disse poi la ragazza dagli occhi verdi – le hanno scoperte? –
- Non credo. – le rispose Jasno dirigendosi verso la porta aperta della sua camera, dove l’enorme aquila lo guardava con gli occhi scuri. – Io sono stato l’unico a toccare direttamente Salema. E poi, Mea ci farà sapere qualcosa, no? – aggiunse indicando con un cenno del capo il foglietto.
- Vanenir ci ha anche promesso che non avremmo avuto ripercussioni. – aggiunse Hile appoggiando una mano guantata sulla spalla dell’arciere. – Sa che potremmo far incriminare anche lui per questo casino. –
I minuti passarono silenziosi e infiniti.
Pian piano la tensione all’interno di quelle quattro pareti divenne palpabile e i compagni preferirono scomparire dalla vista degli assassini. Persino il grosso drago di cristallo si rintanò in una delle camere, nascosto dall’ombra agli occhi delle quattro persone che non osavano lasciare l’atrio, in attesa di notizie.
Tutt’a un tratto, una densa nebbia dello stesso colore del mare si addensò sopra il pezzo di carta, provocando un’immediata reazione da parte dei quattro assassini.
Keria appoggiò delicatamente la punta dell’indice e del medio sulla superficie del foglietto, facendo ben attenzione a non toccare le linee scure tracciate sopra. In tutta risposta, la nebbia si mise a turbinare sopra al cerchio. Lentamente, quindi, si cominciò a definire un volto molto simile a quello della maga.
Una voce eterea proruppe da quell’immagine. – Vanenir ci ha fatte convocare per dare una mano alla commissione. Potremmo dover rimanere qui per diverse ore, ma siamo sicure che non ci tratterremo fino a questo pomeriggio. – Il volto si girò per un momento di lato, mentre la bocca recitava la formula di chiusura del messaggio.
La nebbia scomparve in un attimo, portando con sé il simbolo d’inchiostro sulla quale si era posata.
- Visto? Nulla di cui avere paura. – disse Nirghe visibilmente sollevato, mentre tornava a sdraiarsi sul suo letto, cercando di ritagliare uno spazio per la sua testa sul cuscino su cui il grosso gatto nero riposava indisturbato.

Le ore passavano monotone, gli unici che provarono a rompere il lento e monotono avanzare del tempo furono due servitori, che portarono, visibilmente in soggezione di fronte a quei non draghi, un carrello con un pranzo curato nascosto da un rettangolo di stoffa candido, scusandosi a nome di Vanenir per non essere riuscito a ritagliare un poco di tempo da dedicare loro.
Finalmente a sera inoltrata, a giudicare dalla flebile luce riflessa dagli specchi, la porta dell’atrio si riaprì, lasciando entrare le due figure slanciate delle assassine.
Mea si lasciò cadere stanca sul divanetto, passandosi le dita esili tra i capelli blu.
- Novità da là fuori? – chiese Keria avvicinandosi alla maga.
- Abbiamo fatto tutto quello che ci chiedevano. Ovviamente in nessuno dei nostri controlli sono uscite prove di un omicidio… o draghicidio, o quel che è. I membri della commissione ci hanno detto che proseguiranno gli accertamenti  per tutta la notte, quindi per domani Vanenir dovrebbe essere incoronato re. –
Mea allargò il braccio, cercando di sedersi meglio.
Da un angolo della sala il corvo sbattè velocemente le ali, fiondandosi su quel trespolo. La maga prese tra due dita un pezzetto di carne avanzato sul carrello rimasto nella stanza, avvicinandolo al becco nero del corvo, che lo deglutì in un momento.
- Quindi abbiamo finito qui. Finalmente. – disse Nirghe alzandosi da terra e riponendo la spada che teneva stretta in mano nel suo fodero.
- Si. – gli rispose Seila mentre cercava di togliersi i guanti dalle mani. – In un giorno o due potremo andarcene. –
- Avete mai pensato che tutta questa storia del Progetto Giara potrebbe non portarci da nessuna parte? – disse Hile rompendo l’attimo di silenzio che si era creato.
- Almeno abbiamo un re che ci deve qualche favore. I sei vinsero la guerra grazie ai draghi, no? – gli rispose di rimando Mea.
- Speriamo ci sia una guerra, allora. – ribatté poco convinto il Lupo, andando ad aprire la porta d’ingresso per accertarsi che il corridoio fosse vuoto come i suoi sensi gli stavano dicendo.
Il mattino seguente un corriere bussò personalmente alla porta degli assassini, con un invito ufficiale alle celebrazioni che avrebbero riempito il pomeriggio dell’intero regno.

Due guardie, subito dopo il pranzo semplice che gli venne servito, andarono a prendere gli ospiti del principe, scortandoli in una sala notevolmente più in basso, rispetto al livello dell’intera città.
Le pareti erano roventi, la pietra sembrava essere stata abbandonata appena la sala era stata scavata, come se i draghi che ci avevano lavorato avessero rinunciato a rifinire quell’opera. Ogni tanto, a tratti, colate di metalli spendenti adornavano le rocce grezze, rilucendo alla luce riflessa che giungeva fin lì, nelle viscere della terra. I sei assassini vennero quindi guidati fino alla gradinata laterale che li avrebbe portati al posto loro riservato.
Hile guardò verso il pavimento, non appena giunsero in cima alla scalinata. Almeno venti metri li dividevano dai draghi che si erano meritati l’onore di assistere alla scena a pochi metri da dove la celebrazione si sarebbe svolta.
I vestiti cerimoniali della setta, con i loro colori scuri, si addicevano perfettamente agli abiti che li circondavano.
Tutt’a un tratto il vociare sommesso che riempiva l’aria viziata smise, mentre le centinaia di sguardi dei presenti si voltarono verso il corteo che lento avanzava.
Due imponenti draghi dal collo corto e dai lunghi artigli precedevano il passo di una bara scura, sorretta da sei figure antropomorfe. Ultimo, in coda, era ben riconoscibile Vanenir, cinto in un vestito nero come la notta, che procedeva a capo chino.
In fondo alla sala, in mezzo a un’ampia porzione vuota, li attendeva un drago con indosso un mantello marrone, forse fuori luogo in quel momento.
- Principe Salema! – la voce del drago con il mantello marrone si spanse nella sala riverberando tra le pareti – Possano le tue fiamme ardere per sempre, accompagnando i draghi nel loro cammino per i prossimi secoli! –
I due draghi nella loro forma reale scavarono in pochi secondi una fossa perfettamente rettangolare, profonda poco più di un metro.
La bara fu calata lentamente all’interno del buco, rimanendo perfettamente a filo con il pavimento circostante.
- Principe Vanenir II. Tu, drago di sangue reale accogli sulle tue spalle il fardello della tua famiglia.  – proseguì il drago imperterrito con la voce tonante. – Accogli sulle tue spalle le vite di tua madre, la regina Jaery, di tuo fratello, il re Réalta , e del tuo fratello, il principe Salema. Piegati sulle tue ginocchia su questa pietra nata dal fuoco e accogli il peso di chi ti ha preceduto! –
Vanenir si inginocchiò lentamente, sotto lo sguardo attento dei presenti.
Il drago in piedi di fronte a lui scostò il mantello, rivelando un fodero altro quasi quanto il suo stesso corpo. La lama scintillò non appena fu liberata dalla stretta del cuoio.
- Vanenir II, prendi questa lama e libera le fiamme che ancora ardono nel petto di chi per ultimo ci ha lasciati. –
Ad Hile parve di veder le mani del principe tremare, mentre si allungavano per prendere la lunga elsa che gli veniva porta.
Vanenir parve esitare per un momento, poi, con uno sforzo incredibile impresso sul volto, calò la punta della lama nel centro della bara. Quasi immediatamente fiamme rosse come rubini avvolsero la lunga lama, divorando la bara e salendo verso il cielo.
- Ed ora, Vanenir II, fa sì che questa stanza in cui dimora chi venne prima di te e la sala del trono che riposa sopra di noi diventino parte delle tue fiamme. Versa il tuo sangue per il tuo regno. –
- Ho letto qualche frammento, alla setta, riguardo l’incoronazione del re dei draghi. – disse sottovoce Mea mentre Vanenir si dirigeva a passi lenti e calcolati verso un pozzo scuro, che si apriva in un angolo della sala, circondato da corpi accalcati – Loro non hanno una corona, o uno scettro, per loro i metalli non hanno lo stesso valore che gli diamo noi. –
Il principe dei draghi raggiunse il pozzo, estraendo dalla cintola un piccolissimo stiletto argentato, a stento visibile, che conficcò con forza nel palmo della mano sinistra.
Un rivolo vermiglio sgorgò dalla ferita, seguendo il lento ritmo del cuore da rettile che batteva in quel petto, per poi cadere verso l’oblio.
Passarono i secondi. Poi un gorgoglio profondo si levò dall’abisso, seguito da una colonna di fuoco giallo, giallo, si ricordò improvvisamente Hile, come le squame del principe nella sua vera forma.
La colonna continuava a prorompere dalle viscere della terra, indisturbata, mentre il nuovo re dei draghi tornava sulla tomba di suo fratello, dove la spada riposava storta nella fossa.
- Vanenir II, assumiti da adesso le responsabilità di un sovrano, sacrifica il tuo sangue e il tuo fuoco per il tuo popolo, agisci per lui, vivi per lui, perché il popolo dei draghi possa splendere nella sua grandezza. Alzati lo sguardo e ammira il tuo regno. –
 Vanenir si voltò, facendo scorrere il suo sguardo lungo tutti i presenti.
- Prometto, sull’onore della mia famiglia, che tutto ci che farò, lo farò per il mio popolo. –
Uno scroscio di applausi riempì l’aria, mentre il re dei draghi usciva dalla sala per raggiungere il suo trono.
Le ore passavano, ma la fiumana di gente non pareva voler diminuire, davanti a Vanenir. Solo in tarda nottata i sei assassini poterono accedere alla sala del trono.
Alle pareti, ora, alte lingue gialle come il grano maturo guizzavano lungo la pietra, illuminando a giorno la stanza. Vanenir sedeva stanco sul suo seggio, isolato in mezzo alla stanza, ma non appena li riconobbe, il suo sguardo si illuminò di una nuova luce.
- Non ho dimenticato la mia promessa e i miei debiti nei vostri confronti.  Permettetemi di assolvere immediatamente ai miei doveri. – disse Vanenir, alzandosi in piedi.
Il drago li condusse a una sala poco lontana, dove centinaia e centinaia di libri erano stipati su scaffali intarsiati e ricchi di particolari.
Vanenir si mosse rapido tra quei corridoi vuoti, permettendosi, ogni tanto, di sfiorare con la punta delle dita i dorsi dei tomi che superava. Svoltò poche volte, fino a fermarsi di fronte a una raccolta di fini quaderni rilegati.
L’occhio vigile del regnante passò lungo le copertine, fino a soffermarsi su una in particolare.
- Il vostro direttore mi ha informato che questo progetto a cui lavoravano i Cinque e i miei predecessori vide la luce poco prima della loro partenza. – la mano del drago prese tre quaderni dallo scaffale, facendo alzare una cortina di polvere. – Se hanno segnato qualcosa, sicuramente si troverà in queste relazioni. Se mi date una decina di minuti proverò a cercare qualcosa che vi possa riguardare. –
Vanenir prese possesso di una scrivania lì vicina, iniziando a studiare con una velocità e un’attenzione encomiabile ogni singola pagina.
- Ecco! – la voce del drago si spanse per tutta la biblioteca silenziosa, facendo sobbalzare gli assassini alle sue spalle. Poi aggiunse a voce più bassa – Leggete. “ Finalmente il progetto che Vago ha ideato è stato ultimato. Sono soddisfatta di quello che, di nuovo, il lavoro congiunto di draghi, elfi e umani ha dato i suoi frutti. Il Progetto Giara verrà custodito dai nani nella loro roccaforte storica, nella sala magnifica che riposa sotto il Flentu Gar. Ordinerò di costruire un passaggio che dal  palazzo del governo scenda fino a Izivay Magnea, spero che nessuno mai debba utilizzarlo.”… M spiace non aver trovato di meglio. –
Vanenir tornò a riporre i quaderni al loro posto, riprendendo la via verso l’uscita.
- Se posso aiutarvi ancora in qualche maniera, non esitate a farmelo sapere. – aggiunse il re dopo un attimo di silenzio.

Mi sto annoiando!
Non ce la posso fare a rimanere così degli anni! Voglio il cielo, voglio il mare, voglio degli arti da muovere!
Se solo avessi una testa la sbatterei da qualche parte. 

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Capitolo 42
*** Capitolo 36: Da quattro a due ***


 Attenzione.
Se non avete letto il capitolo pubblicato domenica, vi consiglio caldamente di andare a recuperarlo.
Buona lettura a tutti. 

 

 Mea si alzò dal suo posto, muovendo impercettibilmente le labbra mentre decine di pensieri le turbinavano nella mente.
Sapevano dov’era il loro obbiettivo, ma se si fossero imbarcati nuovamente per un viaggio verso i Monti Muraglia, avrebbero perso un’altra settimana per rincorrere una chimera.
- Il problema sarebbe solamente che l’energia potrebbe non bastarci, quindi? – chiese Nirghe.
- Si. – gli rispose la mezzelfa – Posso far comparire il sostituto solamente in un posto che ho già visitato e muoverlo richiede un costante flusso di energie. –
- Non puoi fare come sul continente? Prenderne anche da noi? Dopotutto non è necessario arrivare fino in fondo in una volta sola, possiamo sempre ripartire da dove ci siamo fermati non appena avremo recuperato. – s’intromise Keria appoggiando una mano sulla spalla della maga.
- Non so nemmeno io quanta strada riusciremmo a fare, ma tanto vale tentare. – concluse Mea visibilmente indecisa.
La maga tracciò una piccola stella a sette punte sulla fronte di ognuno, compresa la sua, per poi concentrare le sue attenzione su un grosso foglio che si era fatta portare da Vanenir.
L’incantesimo che stavano per provare era complesso, Hile lo poteva intuire dall’attenzione maniacale che la compagna di viaggio riservava per quel lavoro.
Buio gli si avvicinò piano, toccando il palmo della mano dell’assassino con la punta del muso, ricevendo in risposta delle carezze distratte sulla nuca.
Mea tracciò le ultime linee, sollevando il capo soddisfatta dal suo lavoro. – Preparatevi. – disse semplicemente, per poi appoggiare il proprio palmo sul foglio.
Il mondo si tinse di rosso, mentre le pareti di pietra lavica scomparivano, per far posto alle pareti di una casa diroccata.
Hile cercò di guardarsi attorno, ma gli occhi parvero non voler obbedire ai suoi comandi. Riconobbe, tuttavia, la finestra della casa in cui si erano ritrovati dopo la prova.
- State calmi e non muovetevi per nessun motivo. I vostri corpi reali sono ancora legati a voi. – disse la voce di Mea permeando l’ambiente.
Lo sguardo del sostituto si mosse assieme al corpo, dirigendosi in direzione della porta d’ingresso. Il sole colpì la figura antropomorfa dalla pelle lattescente, che si diresse, senza soffermarsi sulle alte mura nere, verso il retro della casa dalla quale era uscita.
I ruderi candidi infestati dal muschio di quello che fu il palazzo del governo della Terra degli eroi si stagliarono di fronte ai sei assassini, malcelati dalle rovine delle case che gli erano sorte tutto intorno.
Numerose crepe costellavano le pareti e il tetto spiovente in più punti aveva ceduto sotto il peso della natura e del tempo, facendo rovinare a terra i coppi e le pietre che ora costellavano il pavimento.
- Cosa stiamo cercando esattamente? – chiese la voce di Seila, eterea.
- Una scala, o una porta. Qualcosa che possa condurci all’antica roccaforte dei nani. – le rispose Mea, facendo muovere la testa del sostituto in modo da avere una buona visuale su tutto il salone in cui erano entrati.
- Izivay Magnea, era così che si chiamava la sala, vero? – domandò Nirghe tutt’a un tratto.
- Si, perché? – continuò la maga.
- Ho notato una targhetta su una porta, poco fa. Alla nostra destra. – proseguì lo spadaccino.
Poco lontano, a fianco di una porta in legno marcescente, caduta a terra e ricoperta da detriti, una targhetta riposava storta attaccata a uno dei suoi estremi al muro. Su di questa, un’incisione riportava il nome della grande sala nanica.
- Complimenti per la vista. – si dovette complimentare Hile. – Scendiamo? –
I piedi lattescenti del sostituto si posarono sugli scalini sconnessi oltre quella soglia, scendendo con attenzione nella penombra verso l’oblio, con la sua sola pelle ad illuminargli blandamente la via.
Hile provò a tenere i suoi sensi all’erta, ma l’assenza dei suoni e degli odori che avevano invaso il suo cervello nelle ultime settimane  lo faceva star male, come se improvvisamente avesse perso qualcosa.
Le pareti, man mano che si scendeva, si riempivano sempre più di piccole stalattiti gocciolanti, mentre insetti dall’esoscheletro trasparente comparivano e scomparivano tra gli scalini in pochi secondi.
Dopo un silenzio che parve eterno, la voce di Mea proruppe. – Io non riesco più a mantenere il sostituto. Hile, comincio a utilizzare le tue energie, non esagerare e avvertimi appena ti senti sfinito. –
Il Lupo avvertì qualcosa di inspiegabile. Si era quasi abituato a quella condizione di spettatore etereo, ma avvertì distintamente un colpo al costato, vero, materiale.
- Tutto bene? – chiese ancora la maga, con un tono decisamente più preoccupato di prima.
- Si… tranquilla. – rispose il lanciatore di coltelli senza fiato.
Continuarono a scendere inesorabilmente per delle ore, rimbalzandosi ritmicamente il fardello di mantener vivo quel corpo a proprie spese.
Un piede lattescente non trovò più uno scalino, facendo perdere l’equilibrio di quel corpo, che cadde in avanti.
Hile provò a portare le mani al viso, ma quel tentativo fu completamente inutile perché quegli arti non vollero saperne di obbedire ai suoi comandi. Non avvertì, però dolore.
- State tutti tranquilli. Non possiamo avvertire gli stimoli esterni del sostituto. – disse Mea con voce calma. – Credo che siamo arrivati alla nostra destinazione… -
Il corpo lattescente si alzò lentamente da terra. Sotto i suoi piedi, nel piccolo cerchio di luce che rischiarava l’ambiente, si poteva riconoscere un pavimento levigato da una mano abile, mentre alle sue spalle, le scale che li avevano portati fin li nascevano in un muro adornato da una lamina d’oro coperta da uno spesso strato di polvere e ragnatele.
- Dove possono aver messo questo progetto? – chiese Keria.
- Non dovrebbe essere nascosto. Dopotutto nessuno, oltre ai diretti interessati, sarebbe dovuto venire a conoscenza di tutto questo. – Hile cominciò a parlare lentamente, come se stesse solamente pensando ad alta voce.
- E con questo cosa vorresti dire? – gli chiese Nirghe, irritato.
- Mea, - continuò il Lupo, ignorando il Gatto – Vai verso il centro della sala. Se io avessi usato questo posto per conservare qualcosa, l’avrei riposta al centro o, al massimo, dalla parte opposta dell’ingresso. –
Il corpo riprese a muoversi, abbandonando la sicurezza del muro per avventurarsi verso l’ignoto.
Ad ogni passo la tensione cresceva, mentre nell’oscurità nulla pareva aspettarli.
Tutt’a un tratto, come all’improvviso, un tavolo in pietra venne toccato dal bagliore del sostituto. Su di questo, impilati accuratamente, c’erano decine di libri e fogli ingialliti.
- Mea… - la voce di Seila arrivò fievole, insicura.
Il corpo si sporse sui fogli, frugando con dita sicure tra le pagine in cerca di qualcosa di importante.
- Mea… -
Lo sguardo del sostituto si spostò poco più a destra, dove comparve una grossa figura coperta da un lenzuolo marrone.
- Mea! Non ce la faccio più! – La voce del Serpente prese decisione, prorompendo nelle orecchie dei suoi compagni.
- Scusa, ho esagerato. – disse la mezzelfa imbarazzata. – Nirghe, è il tuo turno, te la senti? –
- Certo. – rispose lo spadaccino risoluto.
Con un gesto rapido il drappo cadde a terra, facendo sollevare una nuvola densa di polvere. Sotto di questo, un’urna scura riposava sopra a un foglio scritto a mano, che Mea prese immediatamente.
“ Purtroppo le mie peggiori previsioni si sono avverate. Non so ancora quale viaggio vi abbia portato fin qui, non so se gli dei vi abbiano donato i loro poteri o la loro protezione. Tutto ciò che so, è che il demone è nuovamente una minaccia e nessuno ha potere a sufficienza per fermarlo. Tu che stai leggendo, quella che vedi di fronte a te è il prodotto di mesi di studio e lavoro, il Progetto Giara.”
- Mea, cambia ora. –
- D’accordo. Jasno, puoi resistere qualche minuto ancora? –
- No, mi dispiace. – fu la risposta dell’Aquila.
- Mea, prendi le mie energie. Ce la posso fare. – intervenne sicura Keria.
- Va bene. Mi raccomando, non esagerare. –
“ Non sono sicuro che questa cosa che abbiamo costruito possa funzionare, dopotutto i poteri del demone sono ben superiori a quelli di qualunque mortale. Sono voluto rimanere ottimista, portando a termine questo progetto, e, in onore di ciò, vi lascio le istruzioni per poterlo utilizzare. Per far si che non possa essere utilizzato in maniera inappropriata, il Progetto Giara ha bisogno di una chiave di attivazione: il sangue di Frida, Ardof, Trado e Diana. Mi conosco fin troppo bene per credere di poterne lasciare di mio.”
- Mea, basta così. –
- Tocca a me, ora. – fu la risposta della maga.
- No, tu devi concentrarti per muovere il sostituto, lo farò io. – ribatté Hile.
“ Lo scopo del progetto è imprigionare il demone in un sigillo totale al suo interno. L’incantesimo che vi è impresso farà si che qualunque cosa venga fatta entrare al suo interno si trovi immersa in un luogo dove il tempo e lo spazio non esistono. Per far ciò è necessario pugnalare il demone con lo stiletto che ci troverete dentro. Mi spiace che questo fardello sia ricaduto su di te, dopotutto sarebbe stato compito nostro eliminare per sempre la minaccia che il demone comporta.
Vago”
La scena scomparve in un istante, riportando gli assassini all’interno della capitale del regno dei draghi.
Hile aprì gli occhi a fatica, respirando a pieni polmoni, in cerca di ossigeno.
Il grosso muso di Buio comparve sopra di lui, toccandogli la guancia con la punta umida del naso.
- Come possiamo ottenere il sangue dei cinque, se i loro corpi sono svaniti davanti a noi? – chiese Keria alzandosi insicura in piedi.
- Deve esserci qualcosa oltre a quello. Dopotutto, per quello che abbiamo visto finora, Vago è sempre stato avanti di tre passi rispetto a tutti, deve aver previsto una simile eventualità. – le ripose il Lupo.
- La domanda non è come prendere quel sangue. No, la vera domanda è perché non si è incluso nella chiave di attivazione. – fu la risposta secca della maga.
Il momento di silenzio che ne seguì fu atroce.
- Lupetto. Ti ricordi il discorso che ti feci appena partimmo, sui Monti Muraglia? –
- No, è passato davvero troppo tempo. Ma cosa c’entra ora? –
- Ti dissi che siamo in sei e, se tutto fosse andato come accadde con i Sei, avremmo formato tre coppie. –
- Ora ricordo, e continua a sembrarmi una tua vana speranza. Non riesco a capire dove vuoi arrivare. –
- Il punto non è questo. Il fatto è che i Sei erano quattro maschi e due femmine e si formarono due coppie, Vago salì al governo della Terra degli Eroi e Codero divenne un dio. Le due coppie sono la chiave, non è il sangue di quei quattro, ma dei loro figli che dobbiamo cercare. Per questo non si è incluso, non era così ottimista da pensare che avrebbe potuto lasciare eredi. –
I cinque sguardi sgomenti rimasero fissi su Nirghe, che sembrò imbarazzarsi all’improvviso.
- Scusa, perché mai avresti dovuto fare un discorso del genere, quando siamo partiti? – fu la prima domanda di Keria.
- Ecco… lascia stare. Avevo dei grossi problemi, all’epoca. Ma non cambiamo discorso. Dobbiamo trovare quel sangue e andare a recuperare quel vaso, ora. - 

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Capitolo 43
*** Capitolo 37: Nord, Est e Sud ***


 Il nuovo re dei draghi parve ben lieto di sapere che quei pochi appunti che aveva recuperato fossero stati utili alla causa, aggiungendo che tre dei suoi uomini migliori sarebbero stati a loro disposizione per portarli fin sulle coste delle Terre, dove avrebbero potuto continuare il loro viaggio.
Fu così che, appena il sole sorse per la seconda volta da quando il regno dei draghi aveva di nuovo un regnante, quattro imponenti figure si librarono in volo dalla bocca del vulcano di El Terano, con il fedele Karver Marja in testa e il drago di cristallo a chiudere in coda.
Come comandato da Vanenir, la scorta superò il largo tratto di mare che separava l’isola dal continente abitato, facendo cadere la loro ombra anche sulle burrascose acque del gorgo del leviatano, al cui centro il profondo mulinello inghiottiva qualunque cosa fosse stata talmente sventurata da finire nel suo abbraccio mortale.
La costa comparve all’improvviso, dopo una notte in cui nessuna nuvola osò oscurare una luna piena che si rifletteva sulle acque del mare.
I draghi atterrarono leggeri, nella piana, smuovendo l’erba  che ricopriva il terreno con le folate generate dal lento battere delle ali, per poi riprendere una forma umana non appena i loro passeggeri furono scesi.
Hile sentì un fremito nei muscoli delle gambe, una sensazione strana, esterna, come se provenisse da qualcosa esterno al suo corpo ma, al contempo, dentro di lui. Batté un paio di volte il tallone destro sul suolo, cercando di scacciare quella sensazione.
Di fronte a lui, intanto, i due sudditi di Vanenir ripiegavano diligentemente le coperte che avevano ricoperto le dure squame dei loro dorsi, in modo da evitare di ferire quegli ospiti che si erano rivelati così importanti per il loro regnante. Karver, intanto, si avvicinò solitario agli assassini, con passo risoluto.
- Qui le nostre rotte si dividono. – disse a voce moderata. – La mia mi porterà oltre il mare, dove voi già avete messo piede, quindi non credo avremo ancora modo di vederci. Che il vento soffi sempre nella vostra direzione. –
- E nella tua. – lo interruppe Mea.
Il capo esploratore parve compiaciuto della risposta datagli, come se non si aspettasse che un’altra razza potesse utilizzare i rituali di saluto dei draghi. – Non credo di dovervi ricordare che il mio signore conta sul vostro silenzio. –
- Noi non abbiamo intenzione di romperlo, così come ci comanda il codice della setta, ma contiamo che Vanenir mantenga fede all’amicizia che ci ha promesso. – gli rispose Keria.
- Sono sicuro che così sarà. Vi saluto, la strada che ci separa delle nostre case è tanta e non abbiamo tempo da sprecare. Buon viaggio. –
Karver si voltò, tornando ad assumere la sua reale forma dalle squame candide, per poi decollare nella stessa direzione dalla quale era arrivato, seguito dai suoi sottoposti.
Il Lupo si guardò intorno, passando continuamente lo sguardo tra i suoi compagni e la pianura toccata dai primi raggi di un sole mattutino.
Nirghe sembrava agitato, così come Buio e il grosso gatto che parevano non aver apprezzato il viaggio per aria.
- Non abbiamo tempo per saltellare da una parte all’altra delle Terre per prendere tutto, dovremo dividerci, in un modo o nell’altro. – disse la maga rompendo il silenzio.
- Abbiamo bisogno del sangue di Niena, che sappiamo si trova, o almeno abitava, a Zadrow. – continuò Jasno – E sappiamo anche che l’urna è sotto la Terra degli Eroi. Due gruppi da tre dovrebbero bastare per far tutto, ci potremmo trovare poi al Passo del Messaggero e, da lì, arrivare al versante orientale. –
- Però ci serve anche il sangue di Mero. – disse Hile, facendo un passo avanti. – Io e Nirghe potremmo dirigerci a nord, verso la Grande Vivente; Keria, Seila, voi potreste arrivare nella Terra degli Eroi in un attimo a dorso di drago; mentre Mea, Jasno, voi potreste andare a Zadrow. Facendo così, se Niena sapesse dirci dove abita ora Mero, potremmo raggiungerlo in un attimo, sarebbe sufficiente un messaggio da parte di Mea come quello che ci ha mandato ad El Terano. –
- Si potrebbe fare. – brontolò Mea a voce a malapena udibile – Ma se Mero si trovasse, mettiamo, a Norua, voi due avreste fatto molta strada inutilmente. –
- Meglio quello che dover perdere tempo dopo. – continuò il Lupo.
Mea non parve completamente convinta da quel piano, ma si limitò ad abbassare il capo. – Va bene. Preparerò un incantesimo di risposta per ognuno di voi. –

Non temete, io sono ancora qui, sull’isola.
Figuratevi se sono riuscito a condensarmi a sufficienza per arrivare fino a loro.
Sarà decisamente una lunga permanenza, qui, la mia.


Hile ripose il foglio di carta che gli era stato dato sul fondo della sua borsa. Davanti a lui, intanto, con poderosi battiti d’ali il drago di cristallo sollevava la sua mole da terra per puntare verso i lontani Monti Muraglia, che parevano nulla più di una linea scura, da quella distanza.
- Tenetevi comunque fuori dalla Grande Vivente. – disse Mea assicurandosi che la sua borsa fosse ben chiusa, prima di salire sul dorso della maestosa aquila appollaiata lì a fianco – Non voglio che perdiate tempo ad entrare e uscire da là. Vi avvertirò il prima possibile, sperando che Niena sappia dove si trovi adesso Mero. –
- Tranquilla. Vedrò di tenere a bada la nuova testa calda del gruppo. – Le rispose Nirghe indicando con un cenno del capo il lanciatore di coltelli.
- Sarà meglio. Comunque vi farò avere nostre notizie al più presto. – la mezzelfa con un salto agile prese posto dietro Jasno.
L’aquila allargò le imponenti ali color rame, alzando il becco al cielo e preparandosi a partire verso est. Il corvo, intanto già disegnava ampi cerchi nell’aria sopra di loro.

- Perché hai deciso una cosa del genere. – chiese scocciato lo spadaccino non appena i due volatili non furono altro che puntini tra le sporadiche nubi – Con l’aquila di Jasno o il drago di Keria avremmo potuto raggiungere qualsiasi punto delle Terre in meno di due giorni di viaggio. Cosa vuoi fare, davvero? –
- Correre. – fu la risposta gelida del Lupo.
- Cosa vuoi dire? –
- Sento che qualcosa in me sta cambiando, così come lo avverto in tutti voi. Non è più solo una questione di istinti o sensi acuti, so che c’è qualcos’altro. E credo che tu sia nella mia stessa condizione. –
- Non riesco a capire perché, allora, non ne hai parlato anche agli altri. –
- Perché ho paura. Ho paura di quello che stiamo diventando. Seila produce veleno, Jasno ha un odore strano, che non ho sentito su nessun’altro e tu, prima non riuscivo ad avvertire i tuoi passi, ma ora è come se non esistessi, non sento nemmeno il battito del tuo cuore. –
- Non hai parlato di Mea e Keria. –
- Loro non mi preoccupano. Mea si sta impegnando per rompere il guscio che gli si è creato attorno, mentre Keria non mi sembra… diversa da prima. Quindi l’hai sentito anche tu. –
- Non lo so. Non ancora, almeno. Ora, comunque, cosa vuoi fare? –
- Da quando siamo arrivati sento che le mie gambe vogliono correre. Ho scelto te come mio compagno perché credo che anche tu avverti questa sensazione. –
Nirghe non rispose. Teneva lo sguardo basso, mentre il peso del corpo veniva spostato ritmicamente da un piede all’altro.
- Va bene. Andiamo. –
Hile non se lo fece ripetere. Il primo piede si staccò da suolo in un attimo, per poi riposarsi sull’erma  con un leggero tonfo per far spazio alla falcata successiva.
Nirghe, Buio e il gatto scattarono poco dopo.
L’aria fischiava intorno al volto del Lupo, riempiendo le sue narici di centinaia di odori. Il cuore batteva innaturalmente piano mentre l’assassino correva molto più velocemente di quanto un normale umano non potesse fare.
Nirghe, curvo, comparve alla sua sinistra, guardandolo con gli occhi chiari.
Non c’era più bisogno di parole, il loro corpo aveva cominciato a mutare da quando avevano superato la prova.
La piana scorreva rapida sotto le loro suole, mentre, lontano di fronte a loro, la Grande Vivente attendeva il loro arrivo.

Keria guardò verso la terra. Vigneti e campi coltivati si contendevano il suolo, intervallati sporadicamente da piccoli paesi più o meno fortificati.
Le ali traslucide del drago battevano ritmicamente per sostenere il corpo imperioso.
Sul viso dell’arciere comparve un sorriso timido. Tra tutti i compagni che avevano ricevuto, il suo era nettamente il più incredibile e magnifico.
Alle sue spalle, Seila si mosse appena, mentre il serpente strisciava sul suo grembo per allontanarsi il più possibile dal baratro che seguiva alle squame cristalline che li sorreggevano.

Mea prese un profondo respiro, per poi chiudere gli occhi viola.
In un attimo il mondo cambiò radicalmente, perdendo molte sfumature, ma acquistando una nuova prospettiva.
Il corvo deviò leggermente la sua rotta, per lasciarsi accarezzare da una calda corrente ascensionale che gli gonfiò le piume delle ali e della coda.
Avrebbe voluto lasciare il suo corpo per sempre, gli bastavano quelle sensazioni attutite per farle desiderare che quelle ali fossero le sue, ma un sentimento martellante la portava sempre nelle sue vesti.
A fianco a sé avvertiva chiaramente un’altra coscienza, che pareva compenetrare la sua e in quei punti di contatto lei vedeva e sentiva quello che vedeva e sentiva il corvo.
L’attenzione della maga fu colta da uno stormo di piccioni che passò lì vicino. In tutta risposta il corvo virò rapidamente, raggiungendo i volatili dalle piume grigie e irrompendo nella loro formazione, facendoli disperdere per qualche secondo.
La mezzelfa era estasiata da quelle sensazioni, se solo avesse avuto una bocca, avrebbe voluto urlare la sua felicità verso quel cielo che faceva da sfondo alle evoluzione che le inebriavano la vista, facendo mescolare il sole alla terra.
A ovest, intanto, buie nubi temporalesche si avvicinavano veloci, come a voler rincorrere la sua coda.

Hile si fermò all’ennesimo gruppo di rovine che si presentò sul loro percorso.
Due giorni di corsa li aveva portati in vista degli altri tronchi e della volta verde degli alberi più giovani.
L’aria era umida, fredda e il vento che soffiava da ovest portava con sé un vago sentore di salsedine e pesce.
Nirghe lo raggiunse un paio di secondi dopo. – Perché ti sei già fermato? Qualcosa non va? –
- Credo che stia per arrivare un temporale. Non so quando potremo trovare un altro riparo, credo ci convenga fermarci qui, almeno finché non avrà spiovuto. –
- Li senti, anche tu, vero? –
- Credo di si. Odore di un gruppo di persone, sudore, fumo e forse anche sangue. Ma, finché  non ci verranno a disturbare, io non ho intenzione di cercare problemi. –
- Non l’avevo sentito il fumo… Comunque, cerchiamoci un tetto che non rischi di caderci sulla testa, forza. Queste case saranno abbandonate da almeno trent’anni, guarda che rovi sono cresciuti su queste pareti. - 

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Capitolo 44
*** Capitolo 38: Nuove armi ***


 Hile controllò ancora una volta la stabilità del muro, prima di appoggiarcisi.
Avevano trovato una piccola casa a due piani, nel mezzo di quel paese fantasma e, nonostante il secondo piano fosse irraggiungibile a causa del crollo della scala che vi ci portava, il tetto sembrava essere in condizione di poter resistere ad un acquazzone.
Nirghe si sedette di fronte a lui, con le spalle rivolte alla porta malconcia che li proteggeva dalla aria che si stava raffreddando, all’esterno.
- Decisamente non siamo più normali. Quanti chilometri avremo percorso, negli ultimi giorni? Eppure non ne sto risentendo, e non può essere tutto merito dell’allenamento. – disse all’improvviso il Gatto rompendo il silenzio.
- Oramai io non sono più un umano, come tu non sei un elfo, da parecchio tempo. Quello che mi preoccupa è che stiamo continuando a mutare e non so dove tutto questo ci porterà, alla fine di questa faccenda. –
L’unica risposta che il Lupo ricevette fu una silenziosa scrollata di spalle.
Buio si avvicinò piano, accucciandosi al fianco del suo compagno, mentre lo sguardo intelligente teneva sotto controllo le pareti di quel rifugio.
Nell’aria, intanto, continuava ad aleggiare sempre più marcato il puzzo delle persone che avevano avvertito non appena erano arrivati.
Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere sul terreno e sugli scheletri di quelle case, mentre un lampo illuminò il mondo con la sua luce per una frazione di secondo.
La porta d’ingresso venne aperta all’improvviso e le otto persone che entrarono all’interno della struttura parvero interdette nel vedere che fosse già occupata da qualcuno.
Il rombo di un tuono terribilmente vicino riempì il cielo e fece tremare la terra.
Hile si alzò in piedi, sapendo che i suoi occhi non lo avrebbero tradito neppure nella penombra che era calata non appena il sole era stato inghiottito dalle nubi.
- Spero che la nostra presenza qui non vi dispiaccia. – disse tranquillo il Lupo, mentre Nirghe si alza da terra per voltarsi verso i nuovi arrivati.
Un piccolo tuono provenne dall’ingresso, accompagnato da una fiammata. Il Gatto cadde su un ginocchio, mentre dal polpaccio destro un rivolo di sangue cominciava a scorrere verso il pavimento.
Sei uomini si fecero avanti in quello che fu il salone di quell’abitazione, brandendo lunghi coltelli e cose simili a dei tubi di ferro dal manico di legno.
Hile non provò a dire altro. Prese rapidamente otto coltelli, tenendone quattro per mano, per poi avventarsi verso il gruppo che gli si parava davanti.
La mano dal quale era nato lo scoppio cadde a terra con un clangore metallico dell’oggetto ad accompagnarla. Il corpo sgozzato di quell’uomo li ricoprì poco dopo.
Nirghe provò a rialzarsi, estraendo una spada dal suo fodero.
Un lampo colpì nuovamente il suolo, illuminando per un attimo la stanza e le persone che vi erano all’interno.
Per un attimo il Lupo fu cieco. Mentre le sue pupille cercavano di riadattarsi all’oscurità, un secondo scoppiò fuoriuscì da un altro tubo in ferro, colpendo nuovamente il Gatto, che cadde schiena a terra con un lamento.
Il tuono che ne seguì fece da sottofondo alla morte di un uomo, che si trovò un coltello piantato nella gola, mentre un suo compagno cercava disperatamente di tenere alla larga il grosso lupo che gli si avventò addosso con le grosse zampe grigie e le zanne snudate.
Il gatto nero si posizionò davanti al suo compagno, con la pelliccia della groppa sollevata e i denti affilati in mostra.
Hile si voltò appena in tempo per vedere una canna puntata in direzione del suo viso.
Ci fu un terzo scoppio, ma la fiammata fu ben diversa dalle due precedenti. Il tubo di ferro esplose, portando con se l’impugnatura di legno e la mano dell’aggressore, che venne azzannato alla gola dall’Athur grigio.
L’assassino ripensò per un attimo a quello che il direttore gli aveva detto riguardo la pericolosità di quella nuova polvere esplosiva.
I due superstiti, si voltarono verso la porta, cercando la salvezza sotto la pioggia scrosciante.
Un pugnale corse silenzioso e letale nell’aria, andando a colpire il più lento dei due alla base del cranio, facendolo cadere riverso del fango.
Il Lupo partì all’inseguimento dell’ultima preda rimasta, accompagnato dal suo compagno.
Corse sicuro nell’oscurità che man mano aumentava, seguendo l’odore di paura e sudore che l’uomo lasciava dietro di sé e il suono bagnato dei suoi passi sul terreno.
La preda fu in vista. Hile appoggiò per un secondo la mano destra a terra, in modo da darsi uno slancio maggiore di quello che avrebbe potuto offrirgli la sola forza delle sue gambe, per superare i pochi metri che lo dividevano dal corpo davanti a lui.
 Con un balzo gli fu addosso, mentre Buio lo precedeva per tagliargli qualsiasi via di fuga. Due pugnali si fecero largo tra i muscoli della schiena, mentre un terzo aprì un profondo taglio alla base della gola dell’uomo.
Hile prese fiato, cercando di calmare il sangue che gli ribolliva nelle vene. Intanto, la pioggia gli cadeva addosso battente, scorrendogli veloce sul corpo e sui vestiti.
Non appena i muscoli tesi smisero di tremare, il Lupo riprese i pugnali, pulendoli dal sangue negli abiti dell’uomo, per fare ritorno alla casa e controllare le condizioni di Nirghe.

Il Gatto respirava a fatica, sui suoi vestiti si erano disegnati fiori rossi di sangue.
Nelle ferite circolari che erano nate sulla gamba e sulla spalla destre, erano penetrate due palline di ferro.
- Questo farà sicuramente più male a te che a me. Ora ci sarebbero utili Mea e Seila… -
Hile spogliò della camicia il cadavere più vicino, strappandola per farne tante strisce di tessuto. Con un coltello, poi, accuratamente, fece leva sulle sferette per farle uscire dai muscoli in cui si erano rintanate.
Nirghe soppresse un urlo quando la prima fu estratta.
Il Lupo tamponò immediatamente la ferita con i brandelli della camicia per evitare che troppo sangue ne fuoriuscisse.

Il mattino seguente il sole tornò ad illuminare la piana e i ruderi che su questa sorgevano.
Hile si alzò in piedi indolenzito, guardando lo spadaccino che, febbricitante, dormiva disteso per terra. Accanto a lui, il grosso gatto nero sonnecchiava raggomitolato su se stesso, era rimasto al suo fianco per tutta la notte, senza mai lasciare quella postazione.
Le bende cominciavano già a tingersi di carminio là dove le ferite erano state inflitte.
Il Lupo uscì per un attimo dalla casa, guardando in direzione della Grande Vivente. Non era lontana, probabilmente l’avrebbe raggiunta in mezza giornata e, con un po’ di fortuna, in sette ore sarebbe arrivato a Gerala. Se fosse andato a prendere dei medicamenti in città, però, avrebbe lasciato solo Nirghe per due giorni e in quelle condizioni non se la sarebbe potuta cavare.
Il naso umido di Buio gli toccò il palmo della mano, mentre quegli occhi intelligenti guardavano quelli del suo compagno.
- Tu potresti trasportarlo, vero? –
L’Athur si sedette, appoggiando la grossa testa grigia sul fianco dell’assassino.
- Potrebbe funzionare. – disse ancora Hile, guardando un’ultima volta i lontani tronchi, prima di rientrare nella struttura e prepararsi per il viaggio che li stava attendendo.
Nirghe non sarebbe sopravvissuto per più di un giorno e mezzo, in quelle condizioni, si doveva sbrigare, gli altri non gli avrebbero mai perdonato se lo spadaccino fosse morto.
Mentre il Lupo assicurava il corpo dell’amico al dorso del lupo grigio con i vestiti che aveva recuperato dai cadaveri, dalla borsa dello spadaccino cadde un piccolo cilindro di legno, attorno al quale dei sottili fili blu erano stati legati. Il lanciatore di coltelli lo infilò nella tasca vuota della sua casacca, quella che una volta era occupata dal pugnale di Renèz, ci avrebbe prestato attenzione più avanti.
Dieci minuti dopo fu pronto per partire. Il gatto nero gli salì sulla spalla destra, destabilizzandolo per un momento, ma, non appena si fu abituato allo scompenso di peso, scattò in avanti, imprimendo tutta la forza che poteva nei passi cha andavano a colpire il terreno fangoso.
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Sento un fremito nella Trama del Reale… è strano. Non è una cosa che si avverte tutti i giorni.
Mi ricorda quando Vago si sacrificò per far resuscitare i suoi compagni…

Un uomo dalla carnagione pallida passeggiava tranquillamente sul versante del vulcano di El Terano. I capelli neri gli coprivano in parte gli occhi verde scuro, mentre sulle labbra esangui, circondate da un paio di baffi corti e da un pizzetto accennato, si disegnava un sorriso di meraviglia.
La lunga giacca nera copriva gli abiti grigi di pregevole fattura, svolazzando alle spalle dell’uomo ad ogni suo passo su quella roccia.
L’uomo si diresse sicuro in direzione della pozza scura che ristagnava tra le insenature delle rocce, senza però smettere di ammirare il paesaggio intorno. Infine, giunto alla sua meta, si abbassò fino a far appoggiare un ginocchio sul terreno.
- Come ti sei ridotto… - con una mano a coppa raccolse una parte della sostanza nera che gli si presentava davanti, facendola poi ricadere per diventare nuovamente un tutt’uno con la pozzanghera.

Ti odio. Mi sono ridotto così perché nessuno ha mai mosso un dito per aiutarmi.
Stavo morendo.
Stavo morendo per colpa degli stessi idioti che dovrei aiutare, sotto ordine di mortali che si credono dei, solo perché siete troppo impegnati per salvare una musa imprigionata.
Ho dato fondo alle mie abilità per sopravvivere. Ho fatto solo quello che dovevo e di certo non l’ho fatto volentieri.
Ma tu dovresti saperlo, no?


L’uomo si alzò in piedi passandosi un palmo sulla gamba per pulire il pantalone dallo sporco che aveva raccolto da terra.
- Ti credi tanto vecchio, ma non sei ancora abbastanza maturo. Io ti ho fatto il dono più grande che potessi immaginare, non ti ho legato a niente e nessuno, sei la quintessenza della libertà. Se volessi potresti addirittura uccidermi, e io non potrei fermarti. Come puoi riservarmi tutto quest’odio, dopo tutto quello che ho fatto per te? –

Continui a non capire. Non puoi capire.
Ho assistito al genocidio della mia specie. Ho visto i miei amici, i miei fratelli morire uno dopo l’altro. Passione, Melodia, Passione, Mito, Tragedia, sono tutti morti. E tutto questo è avvenuto perché non siete intervenuti.
Cos’hai fatto per me, tu?


- Ti ho dato la vita. Credi non abbia pianto quando ho visto la razza più bella che ho mai creato venire decimata? Ma non sono potuto intervenire, perché null’altro che le loro scelte li portarono a quel finale. Proprio come le vostre scelte portarono te e… -

Non nominarla. Non osare dire il suo nome.

- La decisione di fuggire vi permise di rimanere in vita. Non prendertela con me, per le scelte che presero loro. Comunque, non sono qui per far valere le mie ragioni. Ho bisogno che tu torni ad essere il mio servitore così come quando ti creai. –
Nel polso dell’uomo si aprì una ferita, dalla quale un viscoso liquido nero cominciò a fuoriuscire, per poi colare nella pozza.
Il liquido scuro prese a ribollire, contraendosi e spandendosi. Cominciò quindi a prendere una forma riconoscibile, si definirono le gambe e le braccia, la testa fu il passo successivo. I capelli scuri si delinearono sul capo dell’elfo che si stava creando, mentre una ciocca argentata comparve come un fulmine sul cielo scuro.
- Ascolta. – disse l’uomo appoggiando una mano sulla spalla dell’elfo esile. – Ho bisogno che tu porti quei sei ragazzi alla loro meta. Conducili per mano ai loro poteri, proteggili e, insieme, sconfiggete il demone perché non possa più nuocere al Creato. –
- Perché io. Sai meglio di me che, nonostante tutto lo schifo che porto in questo corpo, non mi rifiuterò, ma dimmi solo questo: perché io? Avete quattro servitori, lassù. Senza contare che siete tornati in possesso delle vostre armi elementari. Io sono una musa, mi creasti per portare l’arte e l’ispirazione nel mondo, non per combattere. –
L’uomo si lisciò il pizzetto, mentre gli occhi scuri correvano lontani, come per afferrare una risposta soddisfacente. – Mettiamola così. Io mi fido di te. Sei una meravigliosa incognita, sai giocare con le regole che ti vengono imposte e finora ne sei uscito sempre vincitore. Tu sei l’unica cosa che Follia non conosce e per questo hai un potere immenso. –
- Rendimi immortale, allora, fai in modo che il veleno non possa nuocermi e le lame non possano trafiggermi! Allora andrò danzando verso il demone per infilzarlo su quel maledetto stiletto che quei sei ragazzini hanno trovato. Oh, già che ci sei, non è che potresti dirmi chi di loro è il traditore? Sono convinto che prevenire sia meglio che curare. –
- La paura della morte ti rende molto più pericoloso di quanto tu creda. Inoltre non ti dirò mai il nome del traditore, perché, per ora, ancora non sa di esserlo. Lascia che il Fato faccia il suo corso, come è giusto che sia. –
- Quindi? Ora mi lasci qui con una pacca sulla spalla a sistemare tutti i casini che sono successi nelle ultime ventiquattr’ore? Sai, mi sono tenuto aggiornato. Uno di loro sta morendo e… per favore, no. Eccone un altro che vuole rivedere il Parco delle Anime. –
- No. Non ti lascerò con una pacca sulla spalla. –
L’uomo con la giacca nera si avvicinò all’elfo, stringendolo in un abbraccio, mentre quello si irrigidì a quel contatto, senza né ricambiare, né ritirarsi.
- Commedia, fai del tuo meglio. –
- Fato, tagliati quel pizzetto. –
L’uomo scomparve in un attimo, lasciando l’elfo dai capelli neri solo tra le rocce vulcaniche. In cielo, intanto, due imponenti figure volavano, compiendo larghi cerchi sopra la capitale del regno.

Si riparte, quindi. E dovrò combattere, evidentemente.
Mi dispiace, ma credo che sia arrivato il mio momento. Avanti, non ho una mezza possibilità contro il demone, sono una musa, un mutaforma, non un combattente.
Ora sarà meglio che vada a sistemare i casini che si sono creati in mia assenza, non vorrei che papino tornasse a rimproverarmi.


Un corvo si levò in volo dall’isola dei draghi, puntando in direzione della Grande Vivente.


Angolo dell'Autore
Salve a tutti!
Questo sarà un angolo un po' diverso dal solito, visto che non parlerò di questa storia.
Questa setttimana ho raggiunto un traguardo che non avrei mai potuto neanche immaginare di poter vedere: Il primo capitolo della prima storia che ho pubblicato ha raggiunto l'incredibile numero di 1000 visualizzazioni, si, proprio mille, non mi è scappato uno zero di troppo.
Ho quindi deciso che era doveroso ringraziare chi ha reso possilbile tutto e ciò e questo angolo è probabilmente il modo migliore che ho per raggiungere più lettori possibile.
Bando alle ciance, quindi, e passiamo alle cose serie:
Grazie, grazie davvero a tutti voi per aver posato un mattone dell'alta struttura su cui mi trovo ora.
Buona lettura a tutti, non ho intenzione di dilungarmi oltre. Ci vediamo venerdì prossimo con un nuovo capitolo.
Vago 

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Capitolo 45
*** Capitolo 39: Sicari ***


 Jasno guardò verso il terreno, dove tra i campi riuscì a riconoscere la strada che aveva percorso anni prima per raggiungere la propria prova.
Diede una leggera gomitata a Mea, facendola ritornare in sé.
- Tieniti. – disse solamente l’elfo albino, guardando un’altra volta verso il terreno, poi si lasciò cadere oltre l’ala bronzea dell’aquila verso il lontano suolo.
Il vento gli fischiava tutto attorno, inghiottendo ogni altro suono. Le piume del suo abito sbattevano le une contro le altre, mentre la caduta lo portava sempre più vicino ai campi e alle colline coltivate.
L’assassino allargò braccia e gambe, frenando appena la caduta vertiginosa, cercando di godersi appieno quegli ultimi istanti di volo.
Un artiglio saldo gli cinse la vita, interrompendo quella caduta.

Arrivarono alle porte di Zadrow poco dopo, con il caldo sole pomeridiano che ancora scaldava i muri delle case.
La cittadina pareva non essere cambiata quasi per nulla nei due anni che erano passati da quando Mea ci aveva messo piede la prima volta. Alcuni umani camminavano per le vie laterali, tra le case, intenti nei più disparati compiti, mentre sporadiche famigliole occupavano la piazza principale, accompagnate dal suono di un violino che poco lontano donava al vento le sue note.
L’aria era serena, così fuori luogo secondo la mezzelfa, la cui mente continuava a volare in direzione del demone, cercando di ipotizzare in che modo potessero fermare un essere così potente, se mai l’urna degli eroi avesse fallito.
I due assassini percorsero a memoria la via che li avrebbe condotti alla casa di Niena, evitando scrupolosamente le bancarelle che costellavano entrambi i lati della strada.
In cielo, intanto, i due imponenti volatili controllavano la situazione.
L’insegna dai colori accesi che indicava la casa dove nacque Trado passò sopra di loro, intenti ad evitare la folla che lì si accalcava.
Mea svoltò sicura, imboccando una stradina secondaria che l’avrebbe portata al cortile interno su cui si affacciava l’ingresso della casa della figlia di Ardof e Frida.
Un gruppo particolarmente rumoroso si fermò per qualche secondo sulla strada, per poi riprendere a camminare.
La mezzelfa si diresse verso la porta che le si parava davanti. Le assi di legno seccate dal sole apparivano ricoperte di sottili schegge appena rialzate dalla superficie.
La maga bussò tre volte, rimanendo poi immobile davanti a quell’ingresso.
Dall’interno dell’abitazione si levarono alcuni rumori. Qualcosa di pesante cadde a terra, producendo un tonfo sordo quando impattò sul pavimento, seguì poi il tintinnio di vetro contro vetro. Infine, la serratura della porta scattò.
Il volto di una donna comparve nel piccolo spiraglio che si aprì. Gli occhi viola scrutavano l’esterno, mentre una cortina di capelli blu e bianchi ricadeva su quella fronte che cominciava ad incresparsi di rughe.
- Niena? – chiese insicura Mea, cercando di riconoscere nei lineamenti della proprietaria di quella casa quelli della figlia di due degli eroi.
- Voi… voi siete quei ragazzi che hanno incontrato i miei genitori, vero? – la voce che proveniva da dietro le assi era stanca.
- Si. Siamo noi. Siamo tornati qui perché avremmo bisogno di un favore. – le rispose la mezzelfa, sforzandosi di sorridere in maniera rincuorante.
La porta si richiuse, mentre lo stridore di qualcosa di metallico avvertì i due assassini che il catenaccio che ancora teneva chiusa la porta stava per essere tolto.
Ci fu un attimo di silenzio seguito dal cigolio dei cardini che di nuovo ruotavano su se stessi.
Dalla casa uscì la donna, l’abito sgualcito che indossava si intonava perfettamente al caos che regnava alle sue spalle.
- Entrate, ora. – disse gelida.
La porta si richiuse velocemente, seguita dal catenaccio che tornava nella sua sede e dalle mandate di chiave.
- Perché tutta questa sicurezza? – chiese Mea buttando un occhio in direzione delle finestre coperte da assi di legno inchiodate alla cornice.
- Sedetevi, per favore. – le rispose Niena cadendo pesantemente su una sedia vicina. – Dovete sapere che circa sette mesi fa Mero è stato ucciso. Ci tenevamo in contatto e, nelle sue ultime lettere, mi diceva spesso che delle figure scure lo seguivano, finché… finché non trovarono il suo cadavere ai piedi degli alberi che sorreggono Gerala, con tutte le ossa rotte e i polsi e le caviglie legate. –
Mea trattenne a stento un imprecazione. Senza Mero non potevano entrare in possesso di tutto il sangue di cui avevano bisogno. Si morse il palato, avrebbe trovato una soluzione più tardi.
- Quindi, credi che ora verranno a cercare te? – Le chiese Jasno, sporgendosi dalla sedia.
- No, lo stanno già facendo. Stanno seguendo lo stesso andamento che hanno tenuto con Mero, è da un mese abbondante che continuo a vedere delle figure scure negli angoli delle strade o sui tetti. –
- Sai dirmi quante sono? Sei mai riuscita a vederle distintamente? – chiese Mea, con un bruciante bisogno di conoscenza che le rodeva lo stomaco.
- No, non sono mai riuscita a vederli, però… -
La frase di Niena non raggiunse mai nella sua completezza le orecchie della maga. Una mano poderosa pareva averle stretto la nuca, trascinandola a sé attraverso le pareti e i corpi delle persone vociferanti che infestavano come scarafaggi la piazza del paese.
Il vento cominciò a fischiare tutto attorno, mentre il sole fu, per un momento, coperto da un’immensa macchia scura.
L’ala sinistra si abbassò appena rispetto all’asse del corpo, accompagnando i movimenti della coda per dirigere quel corpo lontano dalla corrente che aveva incontrato.
“Cosa hai fatto?” chiese la mezzelfa cercando di abituarsi velocemente a quell’improvviso cambio di corpo. Fino ad allora non le era mai capitato di entrare nel suo corvo senza un comune accordo.
La coscienza del suo compagno era agitata. Sotto di loro scorrevano veloci le strade di Zadrow, mentre in cielo, tra le nubi, un’aquila volteggiava.
Il corvo prese quota, mentre il suo sguardo andava ad individuare, una dopo l’altra strane figure che si muovevano tra i tetti delle abitazioni.
Tre forme era a due abitazioni dalla casa di Niena, le altre due erano decisamente più lontane, quasi al limite meridionale della cittadina.
“Chi sono?” continuò Mea cercando di mettere a fuoco la scena, provando a calcolare i minuti che li separavano dai due gruppi. In tutta risposta un’ondata di angoscia e irrequietezza si riverso su di lei.
Non era un buon segno.
“ Ascolta, io avverto gli altri. Tu rimani a controllarli, se succede qualcosa di nuovo… fai quello che ha appena fatto.”
La maga si alzò da terra di scatto, respirando a grandi boccata l’aria stantia della casa.
Aveva la testa in fiamme, mentre un sordo dolore proveniva dalla spalla destra.
Si guardò intorno. Jasno e Niena la guardavano preoccupati. Di fronte si presentavano il tavolo colmo dei più disparati oggetti e una sedia rovesciata, accanto alla quale riposavano i cocci di quella che fu una tazza, immersi nel tè che fino a poco prima stava sorseggiando.
- Stai bene? – chiese la donna non appena Mea fece per alzarsi.
- Sei in pericolo. – fu la risposta secca della mezzelfa, che si mise in piedi con non poca fatica.
Un rivolo umido le arrivò a bagnare la punta delle dita. Sangue vermiglio le stava colando da un piccolo taglio sulla spalla destra lungo tutto il braccio.
- Un pezzo della tua tazza ti si è conficcato quando sei caduta. – fu la risposta di Jasno al suo sguardo interrogativo.
Con uno sbuffo di stizza la maga tornò a parlare. – Sono cinque. Tre più vicini e due decisamente più lontani. I primi saranno qui a momenti. –
Un rumore sordo sui coppi del tetto mise tutti in allerta.
- Niena, nasconditi. Li terremo occupati noi. – disse Jasno, aprendo e chiudendo più volte la mano per prepararsi a quello che sarebbe potuto essere uno scontro pericoloso.
Ci furono due colpi sulla porta, seguiti da un silenzio tombale.
I secondi passavano lentamente, accompagnati dal regolare battito del cuore degli assassini e dal colare del sangue di mezzelfo.
Un colpo decisamente più forte fece cedere le assi di legno dell’ingresso, permettendo alla luce del sole pomeridiano di farsi strada verso l’interno dell’abitazione.
Entrarono tre figure ricoperte da una folta pelliccia nera. Potevano, a prima vista, apparire come dei semplici Demo, seppur più proporzionati e di dimensioni più contenute.
Le creature fecero qualche passo in avanti, fiutando l’aria come segugi e ignorando completamente i due assassini.
Il primo dei tre, il più vicino, balzò in avanti, utilizzando il tavolino come trampolino per lanciarsi in direzione del nascondiglio dove Niena, immobile, rimaneva rintanata.
Jasno si mosse rapido, afferrando con la presa salda la caviglia della creatura e sbattendola violentemente contro il pavimento con l’articolazione ormai inservibile.
Mea prese sicura uno dei fogli che teneva pronti in caso di emergenza, appoggiandolo sul petto dell’essere e tenendolo premuto con tutta la forza che riusciva a convogliare nel braccio ferito.
Il torace della vittima parve espandersi per un attimo fino al suo limite, per poi tornare alle consone dimensioni.
Dalla testa riversa della creatura, rivoli di sangue scuro cominciarono a uscire da ogni orifizio che riuscivano a trovare.
Le due creature rimaste parvero interdette da quella reazione, poi, decise le loro priorità, si voltarono verso la porta in cerca di salvezza, inseguite da quelli che sarebbero dovuti essere i loro obbiettivi.
Il primo si riuscì ad arrampicare fino a un tetto, per poi continuare la sua corsa indisturbato tra i comignoli, mentre il secondo preferì procedere in mezzo alla folla che si accalcava.
- Resta con Niena, nel caso arrivassero gli altri due. A loro ci penso io. – disse l’Aquila, sollevando un braccio verso il cielo. L’imponente pennuto di color bronzo lo raccolse con gli artigli poderosi, sollevandolo da terra.
L’aquila procedeva spedita, volando a pochi metri dalle sommità delle abitazioni. Quando fu sufficientemente vicina Jasno lasciò la presa, lasciandosi cadere.
Per quei pochi secondi di volo, l’assassino riuscì nuovamente a sentire la musica che risiede nel caos.
Il vento gli fischiava attorno, accompagnato da decine di voci e dai coppi spostati dalle zampe artigliate sotto di lui.
Il suo corpo parve volersi piegare a una danza su quel tempo, roteando apparentemente senza controllo.
Le dita si serrarono su un collo. Sfruttando la mezza capriola che stava per concludersi, Jasno riuscì a portare a terra l’aggressore in fuga, colpendolo prima con palmo sul viso, per poi finirlo sotto il peso delle sue suole.
L’assassino non si fermò. Voltatosi, riprese a correre verso il sopravvissuto..
I suoi occhi lo percepivano distintamente, come una nota stonata nella banda che sotto di lui si agitava.
Nonostante, però, lo fosse riuscito ad individuare, i loro passi erano troppo diversi per poterlo raggiungere.
Sollevò il braccio destro, mentre, di fronte a lui, solo tre passi lo dividevano dalla fine del tetto.
Piede destro.
Piede sinistro.
Destro sulla grondaia storta per darsi lo slancio e poi solo l’aria tra lui e il terreno.
La folla era rimasta alle sue spalle, mentre l’essere correva rapido verso sud, dove, tra le colline, sorgeva la casa di Ardof del Fuoco.
Gli artigli del suo compagno si presentarono immancabili ad agguantarlo.
Qualcosa scintillò, volando parallelo al suolo, per poi conficcarsi nel ginocchio della creatura.
Jasno le fu addosso in un attimo, senza darle la possibilità di riprendere il vantaggio perso, prendendo saldamente la testa pelosa tra le mani e rompendo le vertebre cervicali con un rapido gesto.
- Hile? – chiese l’Aquila prendendo in mano il coltello sporco di sangue che era caduto a terra.
Due figure arrivarono di corsa dalla strada, mentre un corvo si posò su uno steccato vicino, piegando la testa di lato nell’osservare la scena.
- Chi sei? – chiese uno dei due. Indosso portava l’abito da cerimonia dei Lupi, inconfondibile, mentre alle sue spalle l’altro poteva essere un Serpente, vista la dimensione della borsa che stringeva a sé.
- Dovrei essere io a chiedervelo, visto che siete stati voi ad intromettervi nell’inseguimento. –
Il corvo gracchiò, infastidito.
- Comunque, il mio nome è Jasno. – riprese l’elfo albino, sistemandosi il largo cappello che portava sul capo. – Sono un Aquila della setta dei Sei. –
- Non mi risulta che le Aquile seguano un addestramento che comprende l’uso di animali. – ribatté il Lupo, forse intimorito dall’enorme volatile che si stava posando al suolo in quel momento.
Jasno arrotolò la manica quel tanto che bastava per mostrare il suo tatuaggio. – Diciamo che io sono un caso particolare. Piuttosto, voi chi siete? E cosa ci fate qui? –
- Siamo in missione per conto della divisione meridionale della Setta. Il nostro incarico era quello di eliminare i tre sicari che hanno provocato la morte di un uomo a Gerala. -
- Divisione meridionale? – Jasno non riuscì a capire a cosa si riferisse l’assassino di fronte a lui.
- Da quanto sei in missione? Sei mesi? Come puoi non sapere dello sposamento della sede? –
Il Serpente, che fino ad allora si era tenuto in disparte, proruppe in una fragorosa risata, mentre si avvicinava all’Aquila, come per studiarlo.
- No. Sono quasi tre anni che porto avanti la mia missione e, l’ultima volta che ho visto il direttore, nessuno si è degnato di avvertirmi. Posso sapere di cosa state parlando? –
- Tre anni? Com’è possibile che una missione duri così a lungo? .
- Questo non è un problema tuo. Ora… -
Il discorso di Jasno fu interrotto dal gracchiare insistente del corvo che, lasciata la staccionata, lo raggiunse saltellando.
- Anzi, venite con me. Potremo parlare in un altro luogo, tanto il vostro compito, qui, è finito. –
L’assassino riprese la strada per il centro di Zadrow, puntando verso la casa dove aveva lasciato Mea e Niena.
Alle sue spalle, i due compagni ripresero il volo. 

 

Angolo dell'autore (in ritardo):

Informazione di servizio, la prossima settimana il capitolo uscirà con un giorno (ora più, ora meno) di ritardo. Lo staff (io) si scusa per il disagio.

Buona lettura a tutti.

Vago

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Capitolo 46
*** Capitolo 40: Un pezzo di legno ***


 Seila si raggelò.
Davanti a lei, la torcia che Keria stringeva in pugno era l’unica fonte di luce che le permetteva di vedere lo scalino su cui il suo piede si sarebbe dovuto appoggiare, mentre in suo guanto destro seguiva il profilo della parete umida che accompagnava il lento discendere di quella scala.
Ai suoi piedi il suo compagno strisciava silenzioso.
Avvertiva una strana sensazione, simile a quelle che precedevano le visioni che l’avevano accompagnata da quando aveva superato la prova di Ordine, ma centinaia di volte amplificata.
Vide qualcosa. Un albero, era chiaramente un albero.
La visione si fece più nitida, finché non riuscì a riconoscere i volti delle piccole bambole che riposavano tra le radici e i rami di quella pianta rigogliosa.
La visione si fece sempre più chiara, arrivando al punto di permettere all’erborista di contare le singole foglie che andavano a formare quelle fronde.
Seila trattenne il fiato, mentre la realtà prese di nuovo il sopravvento sui suoi sensi.
- Keria, dobbiamo sbrigarci. E abbiamo bisogno di Hile. Ho avuto una visione. –
L’arciere si girò confusa, ma perse ogni voglia di controbattere quando vide lo sguardo preoccupato che albergava negli occhi dell’elfa bionda che le stava alle spalle.
- Va bene. – fu la risposta del Drago.



Dopo otto ore di corsa ininterrotta, Hile raggiunse finalmente i piedi degli alberi che sostenevano il peso di Gerala.
Su un maestoso tronco lì vicino, le ombre si condensarono, fino a formare la figura di una donna.
- Quanto tempo. – disse il Lupo cercando di riprendere fiato. – Ora scusami, ma devo trovare un dottore al più presto. –
La figura indicò con un dito sottile un punto alla sua destra. In quella direzione, seminascosta dal buio che cominciava a calare, riposava un montacarichi.
- Grazie. –
La figura si dileguò con una scrollata di spalle.
Il gatto di Nirghe scese con leggerezza dalla spalla del lanciatore di coltelli, per dirigersi verso la pedana lignea.
Con tutte le forze che gli erano rimaste, Hile afferrò la corda che gli si trovava davanti, cominciando a tirarla per far raggiungere al montacarichi almeno il primo livello della città.

L’assassino sbucò in una piccola piazza della periferia della città.
Erano poche le persone che a quell’ora ancora la occupavano, mentre sempre in numero maggiore si presentavano alcuni elfi intenti ad accendere le lampade sorrette da alti pali ai lati delle vie.
Un medico. Ho bisogno di un medico. Si disse il Lupo, guardandosi intorno disperato, mentre sguardi tra il curioso e il terrorizzato si posavano su di lui e sui due animali che gli stavano appresso.
- Ragazzino, se vuoi che il tuo amico viva, seguimi. – gli sussurrò un uomo avvolto in un mantello scuro, passandogli accanto e proseguendo per la sua strada come se nulla fosse.
Aveva un odore strano, si rese conto Hile, ma non sembrava un odore malvagio.
Il lanciatore di coltelli lanciò uno sguardo al Gatto che, legato al dorso di Buio, rantolava a fatica.
Quella era la sua unica possibilità.
Seguì l’uomo che, a passo insolitamente svelto, si stava allontanando su di una passerella i cui lati erano assediati dal muschio.
L’odore delle decine di persone che ogni giorno la percorrevano impregnava quel legno consumato, inondando le narici dell’assassino con la stessa intensità di un pugno.
L’uomo raggiunse l’ennesima piazza e senza nemmeno voltarsi, girò a sinistra, su di una strada laterale decisamente meno trafficata durante il giorno.
Quell’inseguimento silenzioso durò quasi dieci minuti, scoccati i quali, senza far trasparire nulla, l’uomo con il mantello si fermò davanti alla porta di una piccola casa. Tre scalini separavano l’ingresso dal piano dello spiazzo su cui si affacciava, dei quali l’ultimo era di due dita abbondanti più alto degli altri.
L’uomo si voltò, scrutando il gruppo che lo aveva raggiunto con gli occhi bianchi come la neve.
- Qui abita un abile dottore con sua moglie. Sono sicuro che potrete trovare tutto quel che vi serve, in questa casa. –
L’uomo riprese a camminare, dirigendosi nella direzione da cui era arrivato.
Hile gli afferrò il polso destro, fermandolo.
- Chi sei e perché ci hai aiutati? – chiese il Lupo.
L’uomo sorrise, mettendo in mostra la dentatura perfette e passandosi una mano tra i capelli neri che gli coprivano la fronte fin sotto le sopracciglia. – Qualcuno ha voluto che lo facessi. Siete importanti, per essere dei mocciosi. –
L’uomo si liberò dalla morsa che lo teneva, per poi tornare nuovamente ad allontanarsi.

No. Decisamente occhi bianchi e capelli neri non mi piacciono come accostamento. Penso tornerò al buon vecchio ciuffo candido, la prossima volta che assumerò una forma antropomorfa.

Hile rimase immobile davanti a quell’uscio per diversi secondi, indeciso se davvero valeva la pena di affidare alle parole di uno sconosciuto la vita di uno dei suoi compagni di viaggio.
Le nocche impattarono quattro volte contro la porta.
Seguirono attimi di silenzio carichi di tensione. Buio pretese il collo in avanti, drizzando le orecchie, mentre sordi e piccoli tonfi lontani cominciavano a farsi avvertire.
La serratura scattò e da dietro il pannello in legno comparve una umana dai lunghi capelli neri con indosso una vestaglia azzurra. Non avrà avuto più di trent’anni.
Hile la guardò un attimo, non ancora del tutto convinto di quello che stava facendo. Poi prese coraggio e parlò. - È qui che abita un dottore, vero? –
- Si, ma… - la donna si pietrificò alla vista del grosso lupo dal manto grigio che la osservava dalla strada.
- Non si preoccupi. È perfettamente addestrato e non attacca le persone. – mentì l’assassino. – Ma il mio amico è stato ferito e ha bisogno di cure immediate. –
La donna era in preda al panico. Lo dicevano i suoi occhi, che continuavano a rimbalzare tra il ragazzo dai capelli sporchi che aveva davanti e l’animale che a pochi passi la scrutava con gli occhi scuri. Poi vide il corpo del secondo ragazzo, riverso sul dorso del lupo.
- Venite dentro. Avvertirò mio marito che questa sera non andrà a dormire presto. –
Hile si permise un sospiro di sollievo.
L’interno della casa era ben curato. Nel salone che oltrepassò per raggiungere il letto messo a disposizione dalla padrona di casa riposavano due poltrone e una macchina da cucire, di fianco alla quale erano impilate ordinatamente decine di camicie e pantaloni bisognosi di rattoppi. Alle pareti erano stati appesi i più disparati oggetti, da una spada che doveva aver visto la Guerra degli Elementi a una squama di drago incorniciata, probabilmente tutti provenienti dal baule vissuto che era stato sistemato in un angolo.
Hile adagiò, con la collaborazione del suo compagno, Nirghe sul letto.
La fronte dello spadaccino scottava, mentre grosse gocce di sudore seguivano i lineamenti del viso, cadendo sulle coperte candide.
Su di un piccolo comodino lì a fianco, era stato appoggiato un piccolo ritratto che presentava un umano e una mezzelfa che si tenevano per mano, mentre, davanti a loro, una ragazzina quindicenne dai capelli neri sorrideva, stringendo nelle mani il vestito verde che portava indosso.
Da una stanza vicina arrivò un uomo corpulento dall’importante barba castana che gli ricopriva la metà inferiore del viso.
Anche lui ebbe un sussulto nel vedere il lupo e il gatto al capezzale del suo nuovo paziente ma, vista la non curanza con cui la moglie si affaccendava al loro fianco, superò la paura che gli incutevano, accostandosi al ragazzo che giaceva sul letto.
- Brutta faccenda le ferite da armi da fuoco. – disse l’uomo sollevando con mani delicate le bende di fortuna intrise di sangue che coprivano i fori sul petto nudo dello spadaccino. – Come se le è procurate? -
- Siamo stati aggrediti da alcuni banditi, volevano rapinarci e sono arrivati al punto di attaccarci con quelle armi. –
- Cosa siete voi… girovaghi? Cara, ho bisogno di disinfettare la ferita, e metti preparami un ago per chiudere le ferite. –
- Qualcosa di simile. – gli rispose il Lupo guardando la donna che li aveva accolti allontanarsi.
- Non è più sicuro girare in piccoli gruppi, di questi tempi. Con tutti quei problemi che si stanno avendo oltre i Muraglia, i governi non riescono più a contenere le bande di banditi sulle nostre terre. –
- Dall’altra parte dei Monti Muraglia? – chiese Hile, alzando lo sguardo sul volto del medico.
- Si. Secondo delle fonti non proprio ufficiali, le terre orientali sono coperte da una nube che tutti definiscono come malvagità gassosa. Purtroppo non riesco neanche ad immaginare cosa possano voler intendere con questo. –
Le mani leggere del medico si muovevano con precisione all’interno delle ferite, assicurandosi che nulla fosse rimasto all’interno, prima di richiudere i lembi di pelle. Sua mogli, intanto, si dedicava a far calare la febbre di Nirghe, cambiando costantemente l’asciugamano bagnato che gli aveva appoggiato sulla fronte.
Lavorarono quattro ore, intorno a quel letto, consumano una ventina di candele per mantenere sempre un’illuminazione sufficiente per essere certi di aver fatto un buon lavoro.
Finalmente il medico alzò il capo dalle bendature fresche, guardando Hile con gli occhi stanchi.
- Sei stato fortunato. I proiettili non hanno prodotto danni gravi e il tuo amico ha delle buone difese contro le infezioni. Non ci resta che aspettare e, se la febbre comincia a scendere, potrei dirti che ha una buona possibilità di sopravvivere. Ora scusatemi, ma vado a lavarmi le mani. –
Il Lupo rimase seduto sulla sedia che gli avevano lasciato, mentre il gatto nero si alzava dal pavimento per andare ad accoccolarsi al fianco del suo compagno privo di coscienza.
- Quindi, tua madre era una mezzelfa? – chiese Hile rivolto alla donna che sedeva dalla parte opposta del letto.
- Si, come fai a saperlo? –
- Ho solo visto il ritratto qui di fianco. – rispose l’assassino. – Tu, però, non hai nessuno dei suoi tratti. –
- I figli di mezzelfi non hanno nessuno dei tratti caratteristici di quella razza, se solo uno dei genitori lo è. Però tutti mi dicono che ho il viso molto simile al suo… -
- Sono ancora vivi, i tuoi genitori? –
- No, purtroppo sono morti cinque anni fa, a sei mesi l’uno dall’altra. Ma, dopotutto, avevano superato i sessant’anni, non erano proprio dei giovinastri. –
La donna si chinò per cambiare l’ennesimo asciugamano, facendo comparire uscire dal colletto della vestaglia un piccolo ciondolo di legno legato all’estremità di una collana.
Hile si irrigidì.
Il suo cuore prese a battere in maniera forsennata mentre la sua mente non riusciva a credere a quello che i suoi occhi gli dicevano di vedere.
- Scu… scusa… Avrei bisogno di parlarti un attimo fuori, da solo… - gli disse l’assassino con voce tramante.
- Cosa c’è che non puoi dirmi qui. –
- È una cosa complicata… molto complicata. E non vorrei non dovertela dire di fronte a tuo marito… -
La donna alzò lo sguardo preoccupata. – Cosa c’è di così importante? –
- Ti prego. Fidati di me. –
La donna sospirò, guardando il corpo del ragazzo che giaceva su quelle coperte, ora macchiate di sangue, quindi si alzò e, superato il letto, si diresse verso il salone.
Hile raccolse da terra la tracolla.
- Caro, dammi un attimo il cambio con gli asciugamani. – disse ad alta voce prima di uscire sulla via sospesa.
All’esterno l’ambiente era blandamente illuminato da decine di lampade poste a quattro metri le une dalle altre. Numerose lucciole volavano tra i rami, mentre piccoli pipistrelli le inseguivano sbattendo le ali scure.
- Allora? Devi dirmi che siete banditi anche voi? Che il tuo amico si è provocato quelle ferite tentando un furto? –
- Ti chiami Aurea, vero? –
La donna sussultò. - Come puoi conoscere il mio nome? –
Il Lupo frugò per un attimo tra le tasche della sua borsa, finché le sue dita non toccarono il ruvido pezzo di legno che si era portato dietro durante tutto il suo viaggio.
Non se ne era mai separato, da bambino, da quando sua nonna glielo aveva dato. Era stato solo un caso, o un disegno del Fato, che glielo avevano fatto tenere in tasca la sera in cui gli Stambecchi della setta erano arrivati per prenderlo.
Lo tirò fuori, mostrandolo alla donna che gli stava davanti.
- Io mi chiamo Hile… penso di essere tuo fratello. –
Aurea rimase rigida, con i pugni stretti e le braccia attaccate ai fianchi. Una lacrima le rigò la guancia, mentre la mascella fine si contraeva.
Alla fine la donna scoppiò in lacrime, gettando le braccia al collo del ragazzo di fronte a lei.
Non poteva credere a quella storia, ma quel pezzo di legno non poteva esserselo procurato in nessun’altro modo. La loro nonna paterna l’aveva ricavato personalmente dal manico del suo bastone da passeggio.
Non riusciva a riconoscere nessuno dei tratti del fratellino di otto anni che aveva perso nel ventenne che stringeva tra le braccia, ma non riusciva comunque a sciogliere quell’abbraccio o fermare le lacrime che le annebbiavano la vista.

Che teneri…
No, non mi aspettavo una scena strappalacrime da famiglia ritrovata. In realtà non mi aspettavo nemmeno che quella scimmia lancia coltelli riconoscesse la sorella.
Comunque, tutto è bene quel che finisce bene, no?
Ottimo, oggi ho salvato la vita di Nirghe e fatto riavvicinare due fratelli, direi che la mia buona azione annuale l’ho fatta. Posso ritenermi soddisfatto.


- Cosa ti è successo? E dove sei stato in tutti questi anni? Devi raccontarmi tutto quanto. –
Il sorriso di Hile si increspò al pensiero di dire a sua sorella che aveva intrapreso la carriera di assassino.
I due rientrarono nella casa, tornando al capezzale di Nirghe.

Ci vollero ancora diverse ore prima che la temperatura corporea dello spadaccino tornasse alla normalità, alle quali si aggiunse un’altra mezza giornata prima che riuscisse ad aprire gli occhi.
- Dove sono? – fu la prima cosa che il Gatto disse, guardandosi intorno.
Hile sorrise divertito. – Ti ho salvato la pelle. Siamo a Gerala, nella casa del medico che ti ha impedito di morire. –
- Ah. – fu il commento dello spadaccino.
Quella sera una nebbia bluastra si addensò sulla sacca di Nirghe.
Hile estrasse velocemente il foglio che gli aveva lasciato Mea, appoggiando il palmo sul disegno che vi era tracciato sopra.
Nella nebbia comparve il volto della mezzelfa.
- Abbiamo trovato Niena e con lei diverse informazioni nuove. Dei mostri simili ai Demo stanno cercando i discendenti dei sei e sono già riusciti a uccidere Mero, inoltre abbiamo scoperto da un Lupo e un Serpente che abbiamo incontrato che la Setta, visto quello che sta succedendo sul lato orientale delle Terre, si sta spostando in due sedi separate, una a Sud, nella città di Derout, e una a nord, lungo il corso del Vrag all’interno della Grande Vivente. –
La maga fece una pausa, mentre il suo sguardo fu attirato da qualcosa che Hile e Nirghe non poterono vedere.
- Ora abbiamo il sangue di Niena, - riprese il volto – ma senza quello di Mero non possiamo utilizzare la Giara. Niena, però, ha delle buone notizie per noi. –
I lineamenti di Mea scomparvero, per lasciare il posto a quelli di una donna più anziana.
- Se parlo a questa sfera possono sentirmi? – chiese la donna guardando di lato, poi si voltò verso i due assassini. – Io e Mero siamo nati sul Continente e siamo arrivati nelle Terre solo quando eravamo già adulti. Trado e Diana, però, hanno avuto un altro figlio, Sergant. È nato qualche mese dopo la fine della guerra e non ha seguito i nostri genitori nel loro viaggio. Io non l’ho mai conosciuto, ma so da quello che ci raccontavano da bambini su di lui, che si era fatto una famiglia nella Terra del Vento. –
Il volto di Mea riprese il suo posto nella nuvola bluastra. - È difficile che Sergant sia ancora vivo. Potrebbero essere passate due o tre generazioni da quando i Sei lasciarono le Terre, però, se davvero si era fatto una famiglia, è possibile che un po’ del suo sangue sia ancora presente in uno dei suoi nipoti. Posso creare un incantesimo in grado di individuarlo, ma avrò bisogno dell’aiuto di tutti voi per poter coprire tutto il lato occidentale. Troviamoci nella Terra degli Eroi, lì decideremo come muoverci. –
La nebbia si dissolse non appena la maga smise di parlare.
- Mai una cosa facile, vero? – chiese il Gatto tornando a sdraiarsi.
- Già. Ora, mentre tu ti riprendi, devi spiegarmi una cosa. –
Nirghe guardò il Lupo con uno sguardo interrogativo.
- Mentre ti portavo qui, dalla tua borsa è caduto questo. Che diavolo è? –
Hile tirò fuori dalla tasca in cui l’aveva riposto il cilindro di legno attorno al quale erano stati legati i fili blu.
Lo spadaccino provò ad allungare un braccio per prendere l’oggetto , ma una fitta alle ferite appena cucite gli impedirono di arrivare al suo obbiettivo.
- Non sono affari tuoi. – gli rispose sulla difensiva.
- Fammi tirare ad indovinare. Quelli sono capelli di mezzelfo, vero? E, visti tutti i mezzelfi con cui abbiamo avuto la fortuna di poter parlare, punterei sul fatto che sono i capelli di Mea. Ora, perché diavolo sono li? So che ci sono degli incantatori che con i capelli delle persone possono fare dei sortilegi, se fosse così, non ti lascerei uscire vivo da questa casa. –
Il gatto nero che fino ad allora era stato buono sul letto si alzò, rizzando i peli sul dorso. In tutta risposta Buio alzò la testa, snudando le zanne.

Che sia quindi lui il traditore? Non me lo sarei aspettato, o per lo meno, non mi sarei aspettato che si sarebbe fatto scoprire per una cosa del genere.
Per quanto riguarda quei capelli… so che il voodoo misto alla magia può fare un po’ di danni, ma non credo che il demone abbia intenzione di giocare con le bambole. Se è davvero lui a volere quei capelli, di sicuro Mea è in pericolo.


Nirghe abbassò il capo, cercando le parole giuste per rispondere a quell’accusa. 



Angolo dell'Autore:
Ciao a tutti, come promesso anche questa settimana sono riuscito a caricare il nuovo capitolo, nonostante l'isolamento dalla tecnologia durato quattro giorni.

Non so quanti dei lettori che sono arrivati fin qui siano anche degli autori. O meglio, quanti autori sono arrivati fin qui come lettori. Le poche parole qui di seguito sono per voi, per tutti gli altri, non preoccupatevi, non scriverò nulla di criptico che non può essere compreso da coloro che non pubblicano storie, solo potrebbe non interessarvi. Voi lettori, che siete il motivo principale per cui noi autori scriviamo, potete tranquillamente saltare oltre la riga bianca che seguirà e saltarvi a piè pari questo paragrafo, non perderete nulla di importante.
Bene, autori e curiosi che siete arrivati fin qui. Scrivendo questo capitolo ho provato una sensazione che non avvertivo da tempo. Non so quanti di voi, scrivendo, sappiano esattamente dove la loro storia li portera e quanti, come me, hanno ben chiari solo alcuni episodi, mentre in altri momenti si comportano quasi come degli estranei davanti alle frasi che stanno partorendo.
Ebbene, questo capitolo è uno di quelli che aspettavo con ansia di poter mettere nero su bianco. Sapevo che sarebbe dovuto essere così fan da quando aprii per la prima volta word, misi quell'accenno sul pezzo di legno, in uno dei primi capitoli, proprio perchè volevo che tutto riconducesse a questo momento ed è stata una soddisfazione immensa poter vedere le immagini nitide di questo incontro che mi affollavano la mente divenire parole su questo foglio digitale.
Se non vi è mai capitata una siuazione simile, davvero, vi auguro di provarla, perchè la sensazione che si prova dopo aver messo l'ultimo punto a un capitolo di questo tipo è cento volte più intensa e gratificante di quella che si prova per aver terminato un capitolo "normale".
Io vorrei chiudere qui questa parentesi, la cui unica utilità è stata quella di essere una valvola di sfogo per l'eccitaizone che provo io ora.

Se ne avete voglia, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo... particolare. Si, credo che particolare sia la parola giusta.
Bene, a venerdì prossimo con un nuovo tassello di questa storia. Cosa vuole davvero Nirghe? Chi lo ha mandato? A cosa gli servono quei fili? Restate sintonizzati per avere le risposte.
Alla prossima.
Vago 

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Capitolo 47
*** Capitolo 41: Finchè non interferirà ***


 Hile continuò a guardare l’assassino che, davanti a lui, rimaneva in silenzio con gli occhi nascosti dalla frangia scura.
Le dita della mano destra continuavano a rimbalzarsi il piccolo oggetto di legno, mentre la sinistra era nascosta dentro una delle tasche dell’abito, appoggiata al freddo acciaio del coltello che lì riposava.
Il Lupo non poteva credere a quello che aveva davanti. Se davvero Nirghe aveva intenzione di utilizzare quei capelli per un incantesimo, non gli avrebbe permesso di fare null’altro.
La porta era alle spalle della sedia su cui era seduto, le due spade le aveva affidate ad Aurea, in modo che il Gatto non avrebbe potuto in nessuna maniera prenderle per difendersi. Avesse provato a scappare, da quella distanza, non sarebbe riuscito a scendere dal letto senza ritrovarsi un pugnale conficcato nel cranio.
Il gatto nero continuava a gonfiare il suo pelo, restando ritto sulle quattro zampe sopra al letto.
- Nirghe, rispondimi. Per favore, dimostrami che mi sono sbagliato. –
Le labbra dello spadaccino si piegarono in un sorriso, mentre una risata contenuta cominciò a fargli sobbalzare il petto fasciato. Bastò un suo tentativo di sedersi meglio per far mettere in guardia l’assassino al suo fianco.
Una lacrima cadde sulla guancia del ragazzo fasciato.
- Perché stai ridendo? Cosa c’è di così tanto divertente? –
Nirghe sollevò il capo verso il soffitto, continuando a ridacchiare, quasi in maniera disperata.
- Stai tranquillo, lupetto. Quelli non li tenevo per fare un incantesimo, o meglio, non un incantesimo per come lo intendi tu. –
- Maledizione, Nirghe! Dimmi qualcosa di sensato! Davvero non capisci in che situazione ti trovi? – Hile non riuscì a trattenere l’urlo  che riempì le pareti della stanza.
- Hile, puoi anche calmarti. Ti dirò tutto, te lo prometto. –
Nirghe prese un lungo respiro, asciugandosi la lacrima che gli aveva rigato la guancia, mentre l’assassino alla sua destra tornava a sedersi composto sulla sua sedia.
- Quello che hai in mano è un cilindro in legno di tiglio. Alla setta, ad ogni nuovo Gatto viene affidato un mentore che gli insegni l’arte della spada, il mio me lo regalò quando gli dissi che sarei dovuto partire per una missione e, probabilmente, non sarei mai tornato. Quando me lo mise in mano, mi disse che l’aveva ricevuto da una sacerdotessa di Natura che aveva salvato durante una delle sue missioni, lei gli spiegò che il tiglio aveva proprietà magiche legate all’amore e che, se gli avesse legato qualcosa dell’amata intorno, il loro legame si sarebbe rafforzato. –
Hile alzò un sopracciglio. – Vuoi dirmi che ti eri innamorato del tuo mentore? –
- Diavolo, no! – esclamò disgustato il Gatto, facendo poi una smorfia a causa della fitta di dolore proveniente dalla spalla fasciata. – Io non ci ho mai creduto a quella roba, avanti, solo perché il tiglio ha le foglie a forma di cuore, dovrebbe avere il potere di far innamorare le persone? Però ho deciso comunque di tentare, tanto, male che poteva andare, non sarebbe successo nulla. –
- Quindi torno a credere che ti sia invaghito di Mea. –
- Quando eravamo sulla barca, diretti all’isola dei draghi, e avevamo appena superato il Gorgo del Leviatano, ero maledettamente in pensiero per lei, avevo paura che non ce la potesse fare. Lì mi sono reso conto di quanto tenessi a lei… -
- È tutto qui? – chiese sorpreso Hile – Seriamente? Abbiamo viaggiato per mezzo mondo assieme, visto gli dei, i draghi, i sei, io ho ritrovato mia sorella nonostante la probabilità minima di incontrarla e tu ti fai mettere con le spalle al muro dopo che ti ho salvato la pellaccia solo perché non volevi dirmi di esserti innamorato di quella maledetta maga? –
- Si. – fu la risposta gelida di Nirghe, che abbassò nuovamente il capo.
Il Lupo lanciò il cilindro di legno in direzione del letto. – Per me non funziona. – disse solamente, prima di alzarsi per uscire dalla camera da letto e raggiungere Aurea nel salone, che aspettava preoccupata la fine della discussione.
- Lo credo anch’io… - fu la risposta sommessa dello spadaccino, mentre stringeva con forza il cilindretto nel palmo della mano.

Le ferite che si erano aperte sulla spalla e sulla gamba dello spadaccino impiegarono tre giorni per smettere di sanguinare e permettergli di scendere dal letto sul quale era stato segregato dall’operazione.
Hile aveva passato le sue ore di veglia a raccontare alla sorella cosa era diventata la sua vita dal giorno in cui lo avevano portato via da quella casa, sorvolando sul motivo della loro missione e sulle vite che aveva strappato durante il suo viaggio con quelle stesse mani. Non voleva congedarsi da lei lasciandole un’immagine così cruda del fratello appena ritrovato.
I due assassini ripartirono dalle passerelle di Gerala non appena il sole mattutino riuscì a penetrare nella fitta coltre di foglie che li sovrastava.
Fu difficile, per il Lupo, salutare la sorella, l’unica parente che, aveva scoperto, gli era rimasta. Un abbraccio saldo fu la risposta di Aurea, che lo strinse al petto cingendolo con le braccia.
- Tornerai farci visita? Ho ancora così tanto da chiederti. – chiese la donna, sciogliendo la sua stretta.
- Non lo so. Non credo. – Fu la risposta del Lupo. – Comunque, abbi cura di te. È stato bello poterti rivedere ancora una volta.
Il lanciatore di coltelli si voltò, allontanandosi dalla sorella e dal medico che, sull’uscio di casa, osservava la scena con uno sguardo imperturbabile.
Non appena raggiunsero nuovamente il terreno, Hile guardò il suo compagno di viaggio.
- Com’è messa quella gamba? –
- Posso camminare. –
- Per ora Buio ti porterà sulla groppa, saremo rallentati, ma almeno non rischi di nuovo di morire. – Il Lupo di preparò a ripartire verso est, ma la mano del Gatto sulla spalla lo trattenne.
- Quello che è successo su… che rimanga tra noi. –
- Finché non interferirà con quello che dobbiamo fare, io non me ne interesserò più. –
Il lanciatore di coltelli scattò in avanti, cominciando la sua corsa verso la Terra degli Eroi, costeggiando i giovani alberi che costituivano il confine tra la Grande Vivente e la Piana Umana che si allungava verso Sud fino al lontano mare.
Sulla sua spalla, il gatto nero si teneva saldamente con le unghie alla casacca di grigia pelliccia alchemica, combattendo contro gli scrolloni che riceveva per non cadere e continuare a farsi trasportare verso la meta di quel gruppo. 

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Capitolo 48
*** Capitolo 42: Un ultimo sguardo a Ovest ***


 Keria arrivò nuovamente al termine del pianoro spoglio. Il suo sguardo si posò sul paesaggio che centinaia di metri sotto i suoi piedi si stendeva a vista d’occhio.
Tra le verdi vallate intervallate dai picchi brulli serpeggiava il sentiero che li aveva accompagnati lontano dalla setta. Più avanti, in parte nascoste dai bassi monti ai piedi dell’imponente vetta mozzata del Flentu Gar, si alzavano le ultime colline. Continuando ad avanzare fin dove lo sguardo poteva arrivare, il panorama era, a Sud, pieno della piatta distesa della Piana Umana, mentre a Nord il paesaggio si scuriva, tingendosi del colore delle chiome dell’immensa foresta.
La loro missione stava prendendo una piega orribile.
L’arciere, dopo un ultimo sguardo al sentiero sottostante, si voltò tornando in direzione della casa che era stata scelta per essere il loro riparo.
Erano riusciti a portare in superficie la giara e lo stiletto che gli avrebbero permesso di sigillare per sempre il demone, ma erano ancora ben lontani dall’averlo già trafitto con quella lama sottile.
La mano sinistra dell’arciere si appoggiò sullo scuro muro di cinta che le impediva la vista sull’alto Palazzo della Mezzanotte. Il guanto strisciava contro le pietre consumate di quella struttura.
L’arrivo di Mea non aveva portato altro che notizie peggiori.
Innanzi tutto la morte di Mero, il cui sangue era l’unica sostanza che gli avrebbe permesso di accedere al potere dell’oggetto che avevano recuperato. Non restava che sperare che la visione di Seila avesse ragione.
A questa notizia orribile si era aggiunto poi il fatto che la setta se ne era andata dalla Terra degli Eroi. Il direttore nemmeno si era scomodato di informarli di tale decisione, sicuramente non si aspettava che, una volta terminata la loro missione sarebbero tornati da lui.
La ragazza dagli occhi verdi raggiunse il drago di cristallo, che riposava accucciato ai piedi dell’imponente statua bianca che campeggiava al centro della piazza principale di quella Terra.
Il ventre della creatura cristallina era innaturalmente freddo, così diverso da quello dei draghi che li avevano portati più volte sul loro dorso. Forse, si disse Keria, era per quello che il suo compagno non aveva ancora sputato fuoco.
L’arciere gli si sedette su una zampa, appoggiando la schiena contro il possente polpaccio. Sopra i capelli castani della ragazza, il cielo cominciò a tingersi del rosso della sera, mentre una timida luna cominciava a mostrarsi per contendersi la volta celeste con le stelle e le grosse nuvole arancioni che viaggiavano placide, sospinte da una brezza lieve.

Mea ripose lo stiletto all’interno del vaso che teneva tra le gambe. Non riusciva a credere che il successo della loro missione fosse interamente riposto in all’interno di quell’oggetto di terracotta, così fragile che sarebbe bastato un nonnulla per mandarlo in frantumi.
Le dita esili della mezzelfa percorsero la bocca della giara per tutto il suo perimetro, studiando ogni singola, piccola imperfezioni che incontravano.
L’incantesimo che le era stato imposto era perfetto in ogni sua sfaccettatura, chiaro e conciso nel più minuto particolare.
Qualunque essere fosse stato pugnalato da quello stiletto sarebbe stato risucchiato immediatamente all’interno di uno spazio creato appositamente dentro al vaso, per questo non c’era nemmeno bisogno di un coperchio, così facilmente apribile, per sigillare il demone. Se solo fossero riusciti a trapassare il suo corpo, nulla avrebbe potuto liberare ancora quell’essere, nemmeno la rottura fisica della sua prigione.
Vago, però era stato previdente. Aveva creato al contempo una scappatoia, mai uno dei nuovi prescelti fosse stato imprigionato all’interno di quella trappola. Bagnando nuovamente la prigione con il sangue che ne fungeva anche da chiave, la giara avrebbe espulso qualsiasi cosa al suo interno, per questo motivo, in un foglietto conservato accanto allo stiletto lucente, l’eroe dal drago nero consigliava di spaccare il vaso non appena il demone fosse al suo interno e spargerne i cocci, in modo che fosse impossibile per chiunque riunirli tutti e bagnarli con quel sangue.
Mea rabbrividì al pensiero di quanto la magia potesse essere potente.
Teneva tra le gambe una delle armi più pericolose mai create, così, come se nulla fosse.
La maga si alzò scossa, riponendo delicatamente la giara a terra, per poi riavvolgerla nella coperta strappata che l’aveva seguita da quel giorno in cui l’avevano iniziata a quella missione.
Si diresse quindi verso l’esterno, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare Seila, che dormiva placidamente per terra mentre il serpente ocra vegliava su di lei con i suoi piccoli occhi scuri.
Jasno sarebbe dovuto tornare a momenti.
Da quando, quattro giorni prima, erano arrivati nella Terra degli Eroi, l’Aquila era partita in perlustrazione ogni pomeriggio, in cerca dei due compagni che ancora non li avevano raggiunti, volteggiando sulle colline e sulle alte chiome al di là dei monti.
La mezzelfa passò accanto all’imponente drago di cristallo, ammirando ancora una volta quell’imponente corpo traslucido. Dietro di lui, l’alta statua dei sei con i rispettivi draghi troneggiava sulla piana desolata, assediata da chiazze di muschio e sporadici nidi abbandonati dagli uccellini nati mesi prima.
Lontano, contro il cielo terso, una figura scura si stava avvicinando, come sospinta dai raggi del sole alle sue spalle.
Una manciata di minuti dopo, il maestoso rapace dalle piume bronzee appoggiò le zampe sul terreno, chiudendo le ali contro il corpo per permettere al suo compagno di scendere agevolmente.
Un’ombra scura si lanciò dal dorso dell’animale, atterrando silenziosa sul pietrisco e correndo in direzione delle case diroccate.
- Li hai trovati? – chiese Mea, correndo incontro all’aquila.
- Si. Hile ha detto che ci raggiungerà presto. Ora abbiamo però un problema più serio. –
Jasno scese con un balzo dal dorso del suo compagno, tornando poi a voltarsi verso la massa scura che occupava quello spazio assieme a lui.
Keria, intanto, si era alzata dal suo giaciglio, raggiungendo gli assassini che parevano confabulare animatamente.
- Cosa succede? – riprese Mea con un tono decisamente più preoccupato, mentre la mano destra correva a spostare il ciuffo di capelli blu che le era caduto davanti agli occhi.
- Hile e Nirghe sono stati attaccati, circa una settimana fa. Hile se l’è cavata senza problemi, Nirghe no. Un medico gli ha prestato le sue cure, ma durante la loro corsa le sue ferite si sono riaperte. Il lupo di Hile lo ha trasportato per tutto ieri, per fortuna io li ho trovati in tempo. –
Mea non fece domande, guardando preoccupata Jasno calare il corpo avvolto nella coperta che aveva trasportato fin lì.
Keria li raggiunse di corsa, aveva fiutato che qualcosa non andava.
La maga aprì delicatamente i lembi della coperta sporca.
Al suo interno, tremante e madido di sudore, c’era il Gatto. Due gigli di sangue si erano andati a disegnare sulla spalla e sulla gamba sinistre, impregnando la fasciatura, gli abiti e la lana soprastante.
- Keria, vai a svegliare Seila. Ho bisogno anche di lei. – disse la mezzelfa voltandosi verso l’arciere, che era arrivata al suo fianco – Jasno, mi aiuti a portarlo al coperto? Avremo bisogno anche di un fuoco. –
Il respiro dell’elfo era rotto da rantoli affaticati. Le palpebre non si sforzavano nemmeno per cercare di schiudersi, permettendo così alla luce di raggiungere le iridi scure.
Jasno, con la massima delicatezza possibile, sollevò quel corpo ferito, trasportandolo attentamente verso la porta aperta, mentre il gattone nero alle sue spalle lo seguiva mesto.
Mea li precedeva, diretta alla catasta di rami secchi che avevano raccolto nei giorni precedenti per far fronte alle notti che, man mano che le settimane passavano, si facevano sempre più fredde, a quell’altitudine.

La fiamma illuminava tremolante le pareti di pietra.
Uno spiffero gelido nasceva dalle crepe della porta marcescente per correre fino alla finestra, sulla quale una coperta era stata sistemata in modo da sopperire alla mancanza di quel vetro che decenni prima era andato distrutto per colpa delle intemperie.
Mea si voltò in direzione dell’Aquila, che stava nutrendo quel fuoco scoppiettante con i rami secchi appartenuti ai pini che costellavano i fianchi di quei monti, prima sporadici, poi sempre più comuni man mano che si scendeva di quota.
L’odore di aghi bruciati invase per un attimo l’ambiente, per poi sparire, portato via da quelle correnti fredde che tagliavano la stanza.
La maga tornò a guardare il Gatto, sdraiato accanto a lei.
Rune, disegnate con inchiostro nero come la notte,  comparivano sopra le bende fresche che coprivano le ferite. Sotto la stoffa umida, riposavano impiastri di erbe macinate e resina, accuratamente spalmati sui resti di una cucitura medica di buona realizzazione.
Il sangue aveva smesso di sgorgare, ma la febbre, nonostante le cure della maga e dell’erborista non si erano interrotte per tutta la notte e la mattinata, non accennava ancora a scendere.
Seila, sdraiata contro la parete lì vicina, riposava dopo la notte passata al capezzale di Nirghe, mentre il suo compagno osservava il ferito curioso, strisciandogli intorno, come attratto dall’odore delle piante medicinali che gli erano state spalmate addosso.
La porta si aprì velocemente, per poi richiudersi in meno di un secondo.
In piedi, sull’uscio, Keria guardava i suoi compagni di viaggio.
- Qualcosa si sta avvicinando. – disse semplicemente.
Mea si alzò, con uno scatto, allargando il braccio per richiamare il suo compagno dalla pietra sporgente che aveva decretato sarebbe stata il suo trespolo.
Appena fuori dall’ingresso, la maga sussultò, trovandosi di fronte l’imponente muso cristallino del drago dell’arciere, che fissava la porta con gli immensi occhi glaciali.
Drago e Corvo raggiunsero di corsa il bordo estremo di quella terra abbandonata.
Il sole aveva raggiunto e superato il suo culmine, illuminando e facendo scintillare le fronde che componevano la volta della Grande Vivente, ancora al massimo del suo rigoglioso splendore.
Sul fianco del Flentu Gar, due figure scure risalivano veloci tra le rocce il crinale, saltando di masso in masso con la stessa grazia delle fiere che sui monti marchiavano il loro territorio.
La mezzelfa tentò di aguzzare la vista in direzione delle creature, ma il riverbero dei raggi del sole sulle pietre le impediva di mettere a fuoco le loro figure.
Guardò il corvo sul suo avambraccio, che silenzioso e intelligente osservava le vallata che si aprivano sotto di lui.
Con un leggero movimento della spalla, la maga fece decollare il suo compagno, fondendo immediatamente la propria coscienza con la sua.
Il mondo assunse nuove tonalità.
Il vento prese a cantare, fischiando attraverso le piume delle ali e della coda, mentre il sole pareva attenebrarsi, rendendo più chiaro ciò che succedeva nel mondo.
Il volatile scuro virò leggermente a sinistra, sorvolando le rocce inospitali e i sentieri appena riconoscibili.
Le figure si fecero sempre più vicine. Il loro pellame parve schiarirsi, diventando nero che pareva essere sempre più chiaro, fino a raggiungere una tonalità che si sarebbe potuta descrivere come bianco sporco, attraverso gli occhi di quel volatile.
Dal becco del corvo proruppe un gracchio acuto, che parve spandersi in ogni direzione, là, in quel cielo che sembrava non porre limiti al suo percorso.
La creatura più alta si fermò nella sua risalita, sollevando il capo dal terreno e drizzando la schiena per portarsi in una posizione eretta. La pelle chiara del volto comparve da sotto la pelliccia che lo proteggeva dai venti gelidi che a momenti spazzavano le rocce, mentre un braccio si levò in aria.
Un altro gracchio fu la risposta del corvo, che continuò ad avvicinarsi alle due creature. Queste, senza attendere oltre, ripresero la loro risalita, saltando di masso in masso per raggiungere la vetta mozza.

Gli occhi della mezzelfa tornarono del consueto colore viola, voltandosi verso l’arciere che le stava accanto con lo sguardo preoccupato che saltava tra la valle e la maga.
- È Hile che sta arrivando. – fu la risposta di Mea allo sguardo interrogativo che le venne indirizzato.
- Hile? Come può essere lui? Hai visto cosa sta facendo? –
- Gli chiederemo come fa non appena sarà arrivato. Tanto, se continua di questo passo, non dovrebbe impiegare più di due ore a raggiungerci. Piuttosto, torniamo da Nirghe, è lui che adesso ha bisogno della nostra attenzione. –
La maga si voltò in direzione del rifugio, seguita dall’ombra del suo corvo che le volteggiava pochi metri sopra la testa.

Hile saltò sulla roccia di fronte a sé.
Sempre meno metri lo separavano dalla Terra degli Eroi.
Si voltò un’ultima volta nella direzione dalla quale era arrivato.
Dietro al folto pelo grigio di Buio si apriva la valle che avevano appena superato e, ancora oltre, alle spalle delle vette più o meno alte che avevano scollinato, il sole continuava a calare inesorabile verso il mare che scintillava in lontananza.
Quella, probabilmente, sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe potuto guardare il lato occidentale delle terre, per lo meno con quegli occhi.
Tornò a posare il suo sguardo verso l’alto, dove il suo cammino lo avrebbe portato.
Sapeva che là, all’ombra del palazzo della setta, i suoi compagni di viaggio lo aspettavano. Non aveva dubbi che Mea e Seila erano in grado di guarire Nirghe, nel periodo di tempo che lui aveva impiegato per valicare quei monti.
Sapeva che le condizioni del Gatto non gli avrebbero permesso di raggiungere con le sue sole forze, ma lui aveva rifiutato di farsi portare in groppa al grosso Athur, finendo così con il far riaprire le ferite suturate poche giorni prima e ricadendo nella febbre che lo aveva già colto quasi una settimana prima.
L’arrivo di Jasno il giorno successivo al completo collasso dello spadaccino fu una manna dal cielo per il Lupo.
Hile appoggiò nuovamente le mani guantate sulla superficie ruvida del masso su cui era arrivato. Assaporò per un attimo l’umidità della roccia attraverso i polpastrelli nudi, lasciandosi inebriare dall’odore montano di pino e aria frizzante che permeava l’ambiente.
Riprese poi a risalire, balzo dopo balzo, falcata dopo falcata, verso la vetta, con i salti attutiti di Buio alle spalle.

Non sono per niente sicuro di quello che sto andando a fare.
Continuo a credere che non sono fatto per la battaglia.
Detesto il sangue, gli sbudellamenti, le urla e quel caos di corpi e acciaio che si intrecciano, o meglio, sono uno spettacolo meraviglioso, ma solo se lo osservi sospeso a un centinaio di metri dal suolo in una forma che non può essere perforata, tagliata, bruciata, pestata o colpita per sbaglio da un nano lanciato in aria e fidatevi, quest’ultima non  una bella sensazione.
Non posso far altro che guardare questo ragazzo, cosa lo spinge ad andare avanti. Non c’è ancora nessuna guerra in atto, il demone è poco più di uno spauracchio per questi esseri dalle brevi vite, eppure si stanno per gettare nella bocca del nemico.
Il mondo sta diventando più pazzo di me, evidentemente. 



Angolo dell'Autore (immaginatemi con un cappello natalizio in testa):

Questo è un capitolo particolare, dopo secoli che non lo facevo ho ripreso a guardare i dettagli. Questa volta, ho preferito (come molto caldamente consigliato da Oldkey, a cui devo buona parte delle recensioni che ho accumulato fin ora) rallentare la narrazione, non è successo nulla, in fondo, concentrandomi sui dettagli. Credo che i combattimenti continuerò  a descriverli con frasi brevi e concise, mi danno l'idea di descrivere meglio le azioni concitate che si susseguono tra un fendente di spada e un lancio di coltello, ma altresì credo che sui capitoli di viaggio me la debba prender più comoda, godendomi il panorama.
Fatemi sapere cosa ne pensate di questo esperimento.
Ma passiamo alle cose serie!
Buon Natale a tutti!
Anche sotto le feste non penso smetterò di lavorare, quindi rimanete sintonizzati, perchè non penso prenderò pause e, mai ci fossero intoppi o cambiamenti, ve lo farò sapere.
Ancora Buon Natale, quindi. Ci vediamo la settimana prossima!
Vago 

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Capitolo 49
*** Capitolo 43: Cosa?! ***


 Nirghe aprì gli occhi lentamente.
La luce rossastra che illuminava il soffitto in pietra che stava osservando gli penetrò le pupille, costringendolo a socchiudere le palpebre finché la sua vista non si abituò a quell’illuminazione.
Si sentiva debole, spossato.
Le braccia e le gambe erano innaturalmente rigide, mentre il petto non riusciva a espandersi completamente, come se fosse stato stretto in una morsa.
Un peso si mosse appena sul ventre dello spadaccino, reagendo al suo tentativo di divincolarsi dalla stretta che lo teneva fermo.
Con una lentezza esasperante, il mondo circostante cominciò a riappropriarsi dei suoni, degli odori e delle sensazioni che sembrava aver smarrito al risveglio del Gatto.
La pelle di Nirghe si accorse pian piano della lana che premeva su ogni parte del suo corpo, avvolgendolo in un caldo abbraccio asfissiante.
Con uno sforzo sovrumano, l’assassino si portò in posizione seduta, con evidente disappunto del suo compagno, che fu costretto ad abbandonare il suo sonnecchiare per balzare sul freddo pavimento.
La coperta cadde afflosciandosi sulle gambe dello spadaccino, lasciando solamente al fuoco il compito di scaldare il torso nudo.
Nirghe si guardò attorno, mentre sprazzi di memoria apparivano evanescenti nella sua mente, sovrapponendosi alle immagini che i suoi occhi registravano in quel momento e le sensazioni che il suo corpo avvertiva.
Una benda pulita gli fasciava strettamente il petto, da sotto di questa, dove sapeva esserci la ferita, proveniva un pungente odore erbaceo.
Avevano da pochi giorni lasciato Gerala e il fitto della Grande Vivente era ormai un ricordo. Correvano senza fermarsi, mentre lui cercava di non far pesare troppo il leggero zoppicare che lo coglieva ogni volta che il piede destro poggiava sul suolo.
Il fuoco scoppiettava sommesso, mentre il cuore del Gatto batteva innaturalmente lento, come se il tempo avesse rallentato la sua corsa per permettere alla mente dell’assassino di rimettersi in pari con gli avvenimenti che lo avevano coinvolto.
Alcune delle suture che gli erano state fatte si erano strappate per gli sforzi fisici degli ultimi giorni. Di quando in quando del sangue fresco tingeva di carminio le vesti cittadine che portava addosso, ma lui si era rifiutato categoricamente di lasciarsi portare sul dorso dal lupo di Hile. Avrebbe solo rallentato il loro viaggio e, in quel momento, non potevano permettersi ulteriori perdite di tempo.
Alla sua destra, una figura scura si mosse lentamente, sporgendosi verso di lui.
Il dolore alle due ferite si era fatto troppo insistente ed era di più il tempo in cui sgorgava sangue di quello in cui aveva un momento di tregua. Il Gatto poteva sentire la febbre alzarsi, i muscoli farsi più deboli e la sacca divenir sempre più pesante, ma si era imposto di non arrendersi a nulla, nemmeno al suo corpo, e non aveva intenzione di cedere dopo così poco tempo dalla loro partenza.
La sua sacca, i suoi abiti, le sue cose. Dove erano finite? Si guardò intorno, alla ricerca dei suoi oggetti, senza trovarli. La sagoma a destra si stava lentamente delineando, un viso magro, lunghi capelli e un paio di orecchie appuntite che da questi comparivano.
La febbre aveva preso il sopravvento. I suoi muscoli si rifiutavano di muoversi ancora, mentre la sua mente cadeva in un oblio sempre più profondo. Avvertiva appena gli scrolloni del viaggio o la presenza della coperta in cui era stato avvolto. Di tanto in tanto gocce di acqua fresca gli cadevano nella gola irritata che, a fatica, le inghiottiva.
Si sentiva sporco, quasi appiccicoso, mentre ciocche di capelli sporchi costretti in spesse ciocche gli ricadevano sugli occhi.
Una sagoma scura era calata dal cielo. Era immensa, talmente maestosa da oscurare il sole con la sua sola mole. Aveva perso il contatto con la pelliccia calda che lo aveva accompagnato fino ad allora, per essere adagiato su un soffice materasso. Dopodiché non ricordava nulla.

Ragazzo mio, tu hai dei seri problemi. E te lo dice un esperto.
Seriamente, sei uno straccio. Ma non uno di quegli stracci da cucina, direi piuttosto un cencio passato da padre in figlio in una famiglia di fabbri, lavato rigorosamente in acqua melmosa e poi abbandonato in una tana di topi.
Stai proprio uno schifo.
Decisamente tutte queste complicazioni non gioveranno al mio compito. Spero solo che il suo cervello torni normale prima che arrivino dal demone, altrimenti le fazioni saranno composte da quattro prescelti senza poteri contro il demone e il suo traditore contro un pezzo di carne mandato al macello. Ovviamente senza contare l’esercito che, sicuramente, Follia si sarà creato in questi anni.

Due grandi occhi viola lo fissarono preoccupati.
- Stai bene? – chiese una voce ovattata.
Il tempo riprese il suo normale corso con la stessa repentinità con cui scoppia una bolla.
Nirghe guardò la mezzelfa con sguardo confuso, mentre la bocca impastata cercava di produrre suoni che non avevano intenzione di uscirne.
- Nirghe, stai bene? – chiese nuovamente la mezzelfa, avvicinandosi ancor più.
Il Gatto impiegò qualche secondo per concentrarsi e non far trasparire dalla voce il guazzabuglio di pensieri e emozioni che gli invadevano l’anima. Poi, con vece debole, parlò. – Si. Sto bene. –
Lo spadaccino tentò di distogliere lo sguardo dalle viola iridi della maga, voltando la testa goffamente per guardarsi intorno.
Era nella Terra degli Eroi., in nessun altra parte delle terre venivano utilizzati tetti spioventi coperti da quelle pesanti e piatte pietre di luserna che lo sovrastavano. L’aveva portato lì Hile? Oppure il demone alato che aveva sognato era arrivato veramente?
Il lento pulsare del sangue contro le tempie gli rendeva sempre più difficile pensare.
- Nirghe. – riprese la mezzelfa con voce calma. – Non distrarti. Prova a concentrarti ancora un attimo su di me. –
Il Gatto dovette fare un’enorme sforzo di volontà per voltarsi verso Mea.
- Dov’è la mia borsa? – chiese. Non riusciva a pensare ad altro e il pensiero che potessero aver trovato anche loro il piccolo talismano in legno di tiglio lo inquietava non poco.
- È tutto di là. Tranquillo. Ora però devi ascoltarmi. Riesci a capire cosa dico? –
L’elfo fece un cenno d’assenso con il capo.
- Bene. Io e Seila ti abbiamo curato, ma è possibile che le infezioni e la febbre ti abbiano causato dei danni. Prova ad alzare il braccio destro, forza. –
Il braccio si alzò in aria, finché la benda non oppose troppa resistenza al suo movimento, bloccandolo poco oltre la metà del suo percorso verso la testa.
- Va bene. Ora controlliamo anche la gamba. –

Hile era fermo, in ginocchio, con lo sguardo puntato verso il terreno.
Era nata dell’erba, là dove avevano scavato.
Sullo scuro muro del palazzo l’ombra di Oscurità lo guardava senza muoversi, dritta, in piedi, con la testa leggermente piegata di lato.
Il Lupo alzò lo sguardo.
La grigia lapide che gli stava davanti lo faceva sentire inquieto ed ora, il suo animo non sapeva più cosa fare. Aveva provato a rinunciare a quell’unico oggetto che le ricordava Renèz, il suo coltello, ma la tasca vuota era una pallida imitazione del buco che avvertiva dentro di sé.
Non era mai riuscito, davvero, a staccarsi dal suo ricordo, nonostante ci avesse provato, non riusciva a lasciarla andare.
Il palmo destro andò ad appoggiarsi sulla terra, nel punto in cui sapeva essere nascosta la lama scintillante sui cui era ancora impressa la runa creata da Mea.
Avrebbe potuto recuperarla, portarla di nuovo con sé in quel viaggio, oppure lasciarla lì, combattendo ancora per staccarsi da quel ricordo doloroso.
L’assassino si volt verso destra, in cerca di conforto nella vista di quella sagoma della sua signora.
L’ombra rimase immobile, impassibile, continuando a fissare la scena di fronte a sé con il distacco di chi non vuole interferire.
Le orecchie di Hile avvertirono un leggero tonfo alle sue spalle, mentre il vento portava con sé un odore dolce.
Oscurità si dileguò una frazione di secondo dopo, confondendosi con le ombre gettate dalle imperfezioni dei mattoni sul muro scuro del palazzo.
- Cosa stai guardando? – chiese Keria voltandosi per guardare lo stesso muro che Hile stava ancora fissando.
- Nulla, non ti preoccupare. –
Il Lupo fece per alzarsi da terra, ma la seconda domanda dell’arciere lo fece desistere.
- Era qualcuno che conoscevi? –
- Era una cara amica. – fu la risposta glaciale del lanciatore di coltelli, che, finalmente decisosi, si rimise in piedi, spolverando i pantaloni di pelliccia alchemica che lo proteggevano dalle fredde correnti montane.
- È stata colpa della malattia che ci ha colpiti qualche anno fa, vero? –
- Si. Lei è stata l’ultima a morire per colpa di quel morbo. È stato grazie al suo sangue che hanno trovato una cura. –
Hile si voltò, passando velocemente lo sguardo sulla distesa di pietre tombali che lo circondava. Erano centinaia, grigie, mute, per la maggior parte coperte da rampicami o muschio come a testimoniare di come a nessuno interessasse un assassino che non può più uccidere.
Lì, in quel silenzio, riposavano ai piedi delle lapidi decine di else a cui era stata tolta la lama, pugnali sbeccati, ampolle rotte e frecce spezzate, ultimi doni che gli assassini rimasti in vita offrivano ai loro fratelli caduti, chi per mano dei banditi o delle guardie cittadine, chi stroncato dalla Natura e dalle sue malattie.
Uno schiocco secco riempì l’aria, rimbombandogli nelle orecchie e facendolo sussultare.
Alle sue spalle, senza dire nulla, Keria aveva estratto una freccia dall’impennaggio grigio dalla piccola faretra che portava sempre al suo fianco, spezzandola a metà.
- Cosa stai facendo? – chiese il Lupo quasi irritato.
Keria piantò con forza la punta in ferro del dardo spezzato nel terreno, poco più di una decina di centimetri dalla pietra tombale su cui troneggiava il simbolo dei lupi, riponendo poi l’altra metà nella faretra.
- La ringrazio. – gli rispose il Drago alzandosi in piedi. – Se non ci fosse stata lei, io non avrei mai potuto cominciare questo viaggio. Mi rimaneva meno di una settimana di vita quando trovarono la cura. –
- E quella freccia? – continuò a chiedere Hile, addolcendo il tono.
- È una nostra usanza. Metà al caduto, metà al vivo. Anche se la freccia è rotta, è comunque un unico oggetto, quindi ovunque vada il vivo, il caduto sarà come presente. –
- È un bel rituale. –
- E voi? Avete qualche usanza? – chiese Keria, allontanandosi dalla tomba per dirigersi in direzione del portone socchiuso.
- Da noi, se un Lupo muore combattendo stringendo un pugnale tra le mani, la lama di quel coltello va rovinata e lasciata sulla sua tomba. Questo perché se anche da morto tieni stretto un pugnale, vuol dire che non hai ancora perso la voglia di combattere. –
- Dai, ora andiamo. – continuò l’arciere passando il pollice di cristallo sul nome inciso nella lapide. – Nirghe si è svegliato e Mea vuole fare il punto della situazione, prima di dirigerci verso le terre orientali. –
I due assassini si allontanarono dalle zolle d’erba che, ostinate, avevano deciso di nascere su quel terreno sterile, oltrepassando il portone appena socchiuso senza nemmeno dare un ultimo sguardo alla chiave di volta gialla che aveva sancito, anni addietro, il loro destino.
Ai piedi della bianca statua degli Eroi, Buio riposava accucciato. Sulla sua groppa si era posato il corvo di Mea, che controllava l’ambiente con lo sguardo attento.
In alto, tra le nubi bianche che correvano veloci,  un’imponente sagoma scura compiva ampi volteggi sulla vetta mozzata, al suo fianco, di tanto in tanto, qualcosa brillava come un diamante esposto ai raggi del sole.
Hile si avvicinò alla casa diroccata con passo deciso.
A fianco dell’ingresso, là dove il tetto spiovente gettava la sua ombra, stava seduto Jasno con il cappello a tesa larga ben calato sulla fronte e la schiena premuta contro il muro in pietra.
- Jasno, entri anche tu? – chiese Keria guardando l’elfo albino ai suoi piedi.
- Certo. Vi stavo aspettando. – rispose lui.
La porta si aprì cigolando facendo così entrare i raggi di quel sole pomeridiano che illuminarono le volute di polvere, cenere e fumo che riempivano la stanza illuminata dal fuoco rinchiuso da un camino in parte crollato.
Mea si alzò non appena si accorse del loro arrivo. Nonostante la poca luce, le occhiaie sotto i suoi occhi viola erano ben visibili.
Nirghe si voltò verso l’ingresso. La casacca in nera pelliccia alchemica sembrava diventata troppo grande per il suo corpo, il volto era smunto, ancora pallido e gli occhi erano come vacui, appannati. Una zazzera sporca gli ricedeva pesante sulla fronte, nascondendo in parte le sopracciglia scure.
Seila venne svegliata da una leggera scrollata sulla spalla. Lei si era permessa un solamente un paio di pause da quando il Gatto era stato portato da loro.
Il morale era basso, lo si poteva avvertire nell’aria, lo si vedeva dagli atteggiamenti e dagli occhi di tutti i presenti.
Mea gettò ancora qualche pezzo dei rami di pino rimasti nel fuoco, scatenando una pioggia di scintille, poi si sedette ai piedi della finestra coperta dal pesante tendaggio.
- Allora. – disse passandosi una mano sul volto, come per togliersi di dosso la stanchezza che l’assaliva – Ora che siamo tutti presenti e coscienti, decidiamo il da farsi. Innanzi tutto Niena e Mero, come vi ho già detto Niena è stata disponibile e ci ha lasciato prelevare tre fiale del suo sangue invece, purtroppo, Mero è stato trovato prima da quelli che credo siano dei servitori del demone. –
- Niena ci ha parlato però di Sergant. – Sentenziò Jasno, lasciando cadere il cappello a terra. – Il primo figlio di Trado e Diana è rimasto sulle terre e potrebbe aver avuto figli. C’è quindi la possibilità che il sangue di uno dei suoi discendenti sia ancora in circolazioni. Sperando che basti quello. –
- Io… - lo sguardo della mezzelfa si perse per un attimo, poi la maga riprese a parlare. – Sono convita che potremmo rintracciare un suo discendente, con la mia magia, ma servirà una quantità enorme di energia per farlo funzionare al meglio. –
- Aventi, diglielo. – borbottò Keria in direzione del Serpente.
Seila prese fiato, poi alzò lo sguardo timorosa. – Io… io ho avuto una visione. –
Gli sguardi di tutto il gruppo si puntarono sull’erborista che esitò ancora. – C’era un albero immenso e delle bambole appoggiate qua e là… e avevano delle facce, le bambole. A terra erano appoggiate quelle di due elfi, uno con la pelle chiara e un arco bianco e l’altra con la pelle scura. Poi il tronco saliva e si divideva. Da una parte c’era una bambola orribile, con le braccia e le gambe legate da corde e la testa storta, sopra di lui tutti i rami erano secchi, dall’altra c’era la bambola di un elfo dai capelli scuri, accanto a quella di una bella donna umana. Sopra di loro era stata sistemata solo la bambola di una mezzelfa legata a quella di un uomo penzolante. Sopra di lei  il ramo si divideva ancora in due, da una parte c’era una donna dai lunghi capelli neri, dall’altra parte una bambola con i capelli corti, con un coltello conficcato a fianco e un’ombra scura alle sue spalle. –
Gli sguardi si spostarono come un unico animale su di Hile che continuava a guardare allibito l’erborista.
Keria, al suo fianco, si scansò d’istinto, nonostante Seila già le avesse raccontato per filo e per segno quello che aveva visto.


Avrei dovuto fare i compiti a casa. Perché diavolo non ho controllato l’albero genealogico di ognuno di questi mocciosi? Eppure di tempo ne ho avuto.
Avrei potuto far quello, piuttosto che rimanere a mollo nel mare per due anni sotto forma di polipo.
Idiota! Viandante, sei un emerito idiota!
Maledizione! Come puoi esserti lasciato sfuggire una cosa del genere? È un dettaglio enorme! È un palazzo in mezzo al deserto e tu non lo hai visto!
Idiota!


- Cosa?! – fu l’unica parola che riuscì a pronunciare il lanciatore di coltelli.


Angolo dell'Autore:

Oggi non mi dilungherò molto.
Vorrei solo augurarvi un buon anno a tutti, ci vediamo nel 2017.
Vago chiude, alla prossima. 

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Capitolo 50
*** Capitolo 44: Cosa ci aspetta ***


 Hile non riusciva a muoversi, sentiva i muscoli rigidi e tesi, mentre il suo cervello cercava di dare una spiegazione a quello che Seila aveva appena detto.
Sul muro alle spalle di Mea apparve l’ombra, o almeno così apparve agli occhi del Lupo.
Non poteva essere Oscurità, non era mai apparsa in presenza di altre persone. Non poteva essere lei.
Tutti gli sguardi erano puntati su di lui, come se fosse stato uno di quei Demo giocolieri che i circhi girovaghi si portavano dietro tra una fiera e l’altra.
Seila si stava sbagliando. Si doveva sbagliare.
I suoi bisnonni non potevano essere Trado e Diana, quei Trado e Diana.
Non era possibile. Non era possibile in nessun modo. Dopotutto lui era un semplice umano, un normale e comunissimo umano.
Il lanciatore di coltelli spalancò gli occhi, colpito da un ricordo che tornò rapido e vivido nella sua mente.
La Grande Vivente. Gerala. La casa di sua sorella. Il letto su cui avevano operato Nirghe. Il mobilio essenziale e le pareti in legno scurito dal tempo. Il comodino accanto alla sua sedia. Il ritratto. Quel ritratto.
Un uomo atletico con cui la sua memoria non riusciva a far combaciare i ricordi del padre da cui era stato separato, sua sorella che non avrà avuto più di sedici anni e una mezzelfa. Sua madre era una mezzelfa.
Se lei aveva i tratti di una mezzelfa, i suoi genitori, i nonni che Hile non aveva mai conosciuto, dovevano essere stati entrambi mezzelfi oppure uno un elfo e l’altro un umano. Se così fosse stato, allora suo nonno materno poteva essere Sergant. Il figlio che Diana concepì durante la Guerra degli Elementi.
La storia che andava a formarsi nella mente del lanciatore di coltelli continuava ad assumere tratti sempre più terribilmente surreali e, al contempo, orribilmente reali.
Non poteva essere imparentato con gli Eroi. Non era possibile. Lui era un semplice umano.
- Hile. – La voce di Keria lo svegliò dai suoi pensieri. – Ci riesci a credere? Tu puoi essere la chiave per sconfiggere il demone una volta per tutte! –
Il Lupo la guardava inebetito, con lo sguardo vuoto e incredulo. Il mondo gli sembrava incredibilmente distante, come una copia sbiadita di sé stesso.
Mea si alzò dal suo posto, avvicinandosi a lui con passo pesante.
La mano guantata si mosse più veloce dell’occhio e un sonoro schiaffo raggiunse il viso del lanciatore di coltelli, che si riebbe.
- Io… io non posso essere imparentato con Trado e Diana. È impossibile. Seila si deve essere sbagliata. –
- Controlliamo. – rispose Mea con uno sguardo di sfida negli occhi viola.
La coperta che copriva la finestra si gonfiò, finché il corvo non riuscì ad entrare nella stanza. Nel becco nero teneva stretto il corpo senza vita di un topo.
Mea raccolse il vaso da terra, tirandone fuori prima le istruzioni, poi lo stiletto.
- Jasno, potresti portarmi una delle fiale di sangue che ci ha lasciato Niena? – continuò la maga, mentre riponeva il foglio di carta ingiallita in una tasca della sua sacca, appoggiata lì vicino.
Una goccia di liquido vermiglio colò lungo tutta la lunghezza della lama scintillante dell’arma, cadendo poi all’interno della giara.
- Hile, avanti. Non farti pregare. – concluse la mezzelfa porgendo il vaso e lo stiletto al Lupo.
Hile, incerto e spaventato, prese con mano tremante uno dei suoi coltelli, incidendosi la punta dell’indice sinistro e spremendo con due dita la falange per far cadere poche gocce sull’arma la cui impugnatura era ancora stretta nella mano sicura di Mea.
Non accadde nulla, neppure quando l’ultima goccia abbandonò la sicura superficie metallica per tuffarsi verso quel mondo ignoto che era l’interno del vaso.
Nessun lampo, nessun barlume di magia o scintilla di mana osò mostrarsi.
La maga non lasciò trasparire nessun pensiero, nessuna emozione, nessun dubbio, il suo volto era una maschera inespressiva. Appoggiò a terra la giara con cura e si voltò tenendo in pugno lo stiletto.
Una stoccata rapida e precisa, non servì altro alla punta dell’arma per trapassare con una facilità inaudita i muscoli del piccolo corpo senza vita che era stato abbandonato sul pavimento.
Il topo parve sussultare, poi ogni suo tessuto si mosse. La pelliccia grigia si sollevò, mostrando la cute sottostante che si sollevava e abbassava ritmicamente.
La piccola creatura senza vita perse consistenza, mentre, lentamente, piccoli fiocchi di quella che sembrava cenere si sollevava dal corpo per turbinare all’interno del vaso.
I due secondi che passarono sembrarono un’eternità. Nessuno osava parlare, ma sguardi più che eloquenti saltavano come conigli indecisi tra il vaso e il volto di Hile, che, momento dopo momento, sbiancava sempre più.

Avanti, mocciosi. Non costringetemi a mostrarmi, non ancora, per lo meno.
Se non riuscite a costringerlo, legatelo e trascinatevelo dietro per mezzo continente. Quella sì che è una tecnica che funziona sempre.

Mea tornò di fronte al Lupo, che guardava di fronte a sé con lo sguardo perso e vuoto.
Si accovacciò, guardando fissa con gli occhi viola quelli neri del lanciatore di coltelli. – Ora ci credi? Ora riprenditi, che ci servirai, quando saremo arrivati a destinazione. –
La maga si alzò senza dire più nulla, avviandosi verso la porta, per poi uscire all’esterno.
Uno ad uno, tutti gli assassini la seguirono. Troppo assorti nei loro pensieri per dire qualcosa.
Prima Keria, che gettò solamente un rapido sguardo in direzione del compagno.
Jasno la seguì, con le iridi rosa fisse sul legno dell’ingresso e le mani guantate che si accarezzavano vicendevolmente.
Infine Seila. Il Serpente non osava alzare gli occhi dal pavimento, così come non provava nemmeno a raddrizzare la schiena curva e il capo chino, come se la vergogna che provava per aver raccontato la sua visione fosse un peso eccessivo per le su esili spalle.
Hile continuò a non muoversi. I pugni stretti erano premuti contro le ginocchia e la mandibola rimaneva serrata.
- Sai, - disse una voce rompendo il silenzio quasi sacro che era calato. – Me ne sarei andato anch’io… ma sono bloccato qui. –
Nirghe tornò a sdraiarsi nel giaciglio che era stato preparato per lui, chiudendo gli occhi.
- Immagino che dovrei ringraziarti, mi hai di nuovo tirato fuori dalla fossa. – riprese il Gatto dopo qualche secondo di pausa. – Immagino anche che tu adesso abbia una tempesta di roba nella testa e l’ultima cosa che ti andrebbe di fare è ascoltarmi. Comunque, per me, l’hai presa un po’ troppo male. Sei per un quarto elfo, davvero incredibile, pensa che io lo sono per intero. Tuo bisnonno era uno degli eroi, puoi vantartene con i tuoi amici lupastri, e allora? Non credo che tu, dopo oggi pomeriggio, sei diverso da ieri, a parte il fatto che abbiamo scoperto che sei un’enorme fiala piena di sangue per attivare la trappola per il demone. –
Hile non rispose, mosse appena il capo in direzione dell’assassino che gli stava parlando, ma i suoi occhi sembravano non vederlo.

Aver messo un piede nella fossa ti ha fatto bene. Dovrei quasi ammazzare tutti quelli che mi affidano da proteggere all’inizio della missione come prassi, se questi sono i risultati.
Per quanto riguarda quella sottospecie di muffa dalle sembianze umane che sta lì immobile… fossimo da soli potrei giocare sul fargli credere di essere in un sogno, o una roba tipo visione divina come feci con quel vecchiaccio sui Muraglia. Purtroppo non ho né il tempo, né l’occasione per farlo, quindi dovrà arrangiarsi come ogni persona normale.
Mi spiace per lui, ma tra i vantaggi di essere un prescelto non compare il diritto a un terapeuta personale.


Passarono minuti interi riempiti solamente dal silenzio.
Nirghe respirava lentamente, permettendosi qualche rantolo quando il bendaggio sul petto gli spezzava il fiato.
- Prendi. –
Il Gatto impiegò qualche secondo a capire cosa stava succedendo. Qualcosa di scuro roteava verso di lui, appena illuminato dal fuoco del camino che, lentamente, stava morendo.
La mano si mosse, ma il gatto nero fu più veloce. Con un balzo intercettò l’oggetto e, preso tra le piccole zanne, lo sottrasse alla sua traiettoria, per poi deporlo a fianco del suo compagno con un leggero movimento della coda dritta.
L’elfo prese tra due dita il cilindro da terra, guardandolo per un secondo, confuso.
- L’ho preso io prima che Jasno ti caricasse sulla sua aquila.. Meno gente lo vede e si fa domande, meglio è. –
- Grazie… credo. – Lo spadaccino infilò l’oggetto di legno in una tasca dei pantaloni che portava sotto la coperta, assicurandosi che fosse ben in fondo.

All’esterno dell’abitazione, Keria sedeva su un masso sul limitare della vetta mozzata.
Davanti a lei si stendeva la Prateria Infinita, che, piatta come una tavola, si stendeva a vista d’occhio, coperta solamente  da erba e bassa vegetazione che, da quell’altitudine, altro non sembrava se non un unico tappeto strappato all’autunno.
Lontano, sul lato meridionale, là dove dovevano esserci le alte dune del Deserto Rosso, imponenti nubi nere parevano ammassarsi, come un cattivo presagio lasciato a monito di chi fosse talmente stolto da avvicinarsi a quel luogo. E loro sarebbero entrati volontariamente nelle fauci di quella belva antica e sconosciuta.
Dei passi leggeri risuonarono alle sue spalle, annunciando l’arrivo di una figura esile al fianco dell’arciere.
- Non so se Hile riuscirà a rendersi utile, una volta che saremo arrivati. Faremmo meglio a prelevargli del sangue ora e lasciarlo qui, sarebbe più sicuro per lui, se rimane in questo stato. – disse Mea guardando fissa di fronte a sé. Il pennuto sulla sua spalla sinistra si grattava distrattamente l’ala con in becco scuro, disinteressato di tutto quello che gli avveniva attorno.
- Si riprenderà. Ne sono quasi certa. – le rispose il Drago, voltandosi verso la mezzelfa con un sorriso sincero sul volto. – Solo… non capisco perché sia rimasto così sconvolto da quello che ha scoperto Seila. Dopotutto, questa cosa non cambia in nessun modo quello che noi pensiamo di lui, no? –
- Non lo so. – fu la riposta scoraggiata della maga. – Non so cosa possa star pensando adesso, ma, se per domani mattina non si sarà ripreso, andremo avanti senza di lui. Non possiamo perdere altro tempo. Ne abbiamo perso fin troppo durante il nostro viaggio, sul Continente, dai draghi, sull’isola dei monaci ed ora qui. Dobbiamo proseguire. –
- Chissà cosa ci aspetta, una volta che saremo là. – disse ancora Keria spostando nuovamente lo sguardo sul paesaggio sotto di lei.
- Nemmeno questo so. - 

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Capitolo 51
*** Capitolo 45: A un passo dalla fine ***


 Il Lupo diede un ultimo sguardo alla stanza che li aveva ospitati fin quell’ultima notte.
Sulla finestra rotta rimanevano alcuni resti della coperta che l’aveva nascosta fino a pochi minuti prima. Le ultime braci nel letto del camino tentavano disperatamente di rimanere accese, ma lentamente andavano adombrandosi, divenendo sempre più simili alla cenere e ai pezzi di carbone che le circondavano.
Null’altro tradiva il loro passaggio per quel luogo.
Hile inspirò profondamente, guardando l’ombra sul muro che, immobile, lo fissava a sua volta, o almeno così pareva.
Nirghe si era ripreso rapidamente. Tutto merito degli infusi di Seila e degli incantesimi curativi della maga, che avevano lasciato niente più di solchi rosa sulla pelle dello spadaccino.
Tutti erano pronti per partire, fuori, sulla piazza principale della Terra degli Eroi. Perfino Buio, che sembrava non aver intenzione di fermare lì il suo viaggio.
Gli avevano chiesto di scegliere, se seguirli ed essere pronto a qualunque cosa si sarebbero trovati davanti o abbandonare la missione, lasciandogli prelevare il suo sangue per poter attivare la trappola.
Il lanciatore di coltelli si guardò le mani.
Aveva paura. Un sentimento che non avvertiva da parecchio tempo in maniera così forte.
Ma non aveva paura del demone, non aveva paura né del viaggiò né dei mostri che si sarebbero potuti mettere sul loro cammino. Era spaventato all’idea di fallire, di tradire le speranze che i suoi compagni riponevano in lui.
Non era un eroe come i Sei, non riusciva nemmeno a capire come il sangue di due di loro potesse scorrere ancora nelle sue vene.
Lui era stato addestrato come assassino, gli avevano insegnato ad uccidere delle persone senza mostrare pietà o rimorso. Quello che stavano portando avanti oramai da anni, non doveva essere compito loro.
Il Lupo uscì dalla casa.
Il sole mattutino illuminava appena la distesa piatta che gli si apriva davanti e il Palazzo della Mezzanotte gettava la sua lunga ombra scura verso i territori occidentali.
Alla sua destra, Jasno e Mea erano occupati a legare saldamente le loro borse al torace piumato dell’aquila, che stava immobile con le ali spalancate per facilitargli il compito.
Il drago di cristallo scintillava, colpito da quei raggi mattutini, pronto a spiccare il volo verso la loro prossima destinazione.
Doveva prendere una decisione in fretta, non lo avrebbero aspettato per tutta la mattinata.
Guardò ancora una volta le mura scure del palazzo dove era cresciuto.
Troppe persone dipendevano da quella missione. Rayn, sua sorella, i suoi compagni, persino Niena, che, fiduciosa, gli aveva lasciato il suo sangue.
Non voleva deludere le aspettative di nessuno. Sarebbe partito, in quella maniera, per lo meno, se avesse fallito, avrebbe fallito provandoci.
L’ombra, appena riconoscibile sul butterato muro di pietra della casa, parve soddisfatta della conclusione alla quale era giunto il suo protetto, per poi svanire rapidamente.
- Hai deciso cosa vuoi fare? – chiese Mea, scoccandogli nulla più che una fugace occhiata, per poi tornare a concentrarsi sui pochi bagagli che aveva di fronte a sé.
- Verrò con voi. –
Sul volto della maga parve comparire un sorriso, che venne subito soffocato.
- Bene. – fu la risposta posata della mezzelfa – E vedi di dormire, durante il viaggio. Sono più scure le occhiaie che porti sotto gli occhi che le tue iridi. –
Partirono poco dopo e nessuno fece commenti sulle ultime ventiquattrore, come se quel discorso fosse diventato un tacito tabù da rispettare.

Il terreno scorreva rapido sotto al gruppo.
La folta pineta che riposava ai piedi di quel versante dei muraglia oramai non era altro che una linea scura, così come le ultime colline che cercavano di strappare terreno alla piana che si stendeva verso oriente.
Il drago di cristallo scintillava sotto la coperta che proteggeva le cosce dei suoi passeggeri dalle squame affilate. Alle sue spalle, volava l’aquila, sospita dal vento che in quel momento soffiava, gonfiandogli le ali.
Il lupo, remissivo, rimaneva immobile a penzoloni tra gli artigli del pennuto bronzeo, oscillando appena ogni volta che le ali o la coda del compagno che lo sosteneva si muovevano per aggiustare la rotta.
Hile chiuse gli occhi, appoggiando la fronte contro la schiena di Keria, che davanti a lui guardava fissa l’orizzonte.
Il Lupo avvertì appena il serpente ocra muoversi alle sue spalle, per posizionarsi meglio tra le gambe dell’erborista, poi l’oblio si impadronì dei suoi sensi, mentre il lento battito di quelle ali traslucide che sostenevano il loro peso lo cullava dolcemente e la calda aria che proveniva dal mare si sostituiva a quella fredda della montagna.

Sono sempre meno convinto di quello che sto facendo.
Potrei lasciar perdere tutto, scappare, nascondermi. Probabilmente questi mocciosi falliranno la loro missione e, prima che Loro si rendano conto dell’accaduto, il demone starà già marciando con le sue truppe su Gerala.
Potrei poi sfruttare il trambusto che seguirebbe per liberare Lei e scappare lontano, dove nessuno potrebbe ucciderci o imprigionarci.
Dopotutto, non riesco a capire come mai gli dei tengano così tanto a questo posto, a questo lembo di terra. Se Follia aspira solamente a giocare a fare il re, non capisco perché dovremmo impedirglielo.
Perché prenderebbe potere, ovvio. E tornerebbe di nuovo nella Volta. E gli dei lo caccerebbero di nuovo scombussolando il Reale. Così tutto andrebbe a ripetersi.
Io spero solamente che Vago sapesse cosa diavolo stava facendo. Spero che quel maledetto vaso funzioni a dovere e non sia solamente un bel soprammobile.
Ah, ovvio. C’è ancora il traditore. Ovviamente. Tanto non ho già abbastanza variabili da prendere in considerazione.
Come possono pensare che possa risolvere la situazione, questa volta, quei maledetti dei?


Il lanciatore di coltelli si svegliò nel momento stesso in cui le possenti zampe sfaccettate del drago toccarono il suolo.
Le poche chiazze d’erba che infestavano il terreno danzavano sotto la musica di un leggero venticello che soffiava da sud e portava con se granelli di sabbia rossa rubata alle dune.
- Cosa è successo? Perché ci siamo fermati? – chiese il Lupo alzando il capo per vedere oltre il pesante mantello che avvolgeva Keria.
- Una cittadella. – gli rispose Mea balzando giù dal dorso dell’aquila. – Sembra che ci sia una cittadella in mezzo al deserto, con al centro un forte. La nube nera che copre questo lato delle Terre sembra avere il suo epicentro li. –
- Ma è dall’epoca dei Camabiti che nessuno prova più a vivere nel Deserto Rosso. – provò a protestare Hile.
- Ci siamo fermati per questo, lupastro. Mea manderà il suo corvo in avanscoperta, in modo che potremo arrivare preparati il più possibile. – disse Nirghe lasciandosi scivolare sul piumaggio bronzeo con evidente fatica.
Non importava quanto tentasse di nasconderlo. I movimenti, le espressioni, persino le intonazioni tradivano il Gatto su quanto, in realtà, fosse provato.

Le cupole di ghiaccio opaco scintillavano sotto gli ultimi raggi del sole.
La calda giornata stava volgendo al termine, lasciando spazio a una notte dal clima decisamente più rigido.
Hile portò una mano a uno dei coltelli, in cerca di conforto e sicurezza da quel freddo metallo incantato dalla mezzelfa.
Mea stava finendo gli ultimi avanzi della cena. Accanto a lei ardevano i pochi pezzi di legno che avevano portato dai Monti Muraglia, mentre a terra riposava una borraccia vuota.
La maga era stata inamovibile sulle sue decisioni. Avrebbe fatto volare il suo corvo in direzione della cittadella solo di notte, permettendosi la luce di un solo sasso incantato stretto tra gli artigli del suo compagno. Se mai lo avessero individuato avrebbe gettato il pezzo di pietra luminescente, scomparendo nelle tenebre.
La mezzelfa impiegò pochi minuti a finire il pasto che le avrebbe concesso energia sufficiente per passare la notte assieme alla coscienza del suo corvo, per poi voltarsi rapidamente verso i suoi compagni di viaggio. – Mi affido a voi. Tenterò di non tornare in me fino all’alba, quindi qui non sarò altro che un peso. –
Gli occhi viola si fecero bianchi, mentre il corpo slanciato della maga si accasciò come privo di vita. A pochi metri di distanza, il corvo gracchiò, afferrando come una preda il sasso luminescente che gli era stato posato di fronte e spiccando il volo verso sud, dove nessuna luce tradiva la presenza della sua meta.
Hile guardò l’innaturale, piccola luce blu allontanarsi sotto la luce bianca della luna, attenuata dalla cappa nera che copriva il cielo.
Nessuno, nell’accampamento, osò parlare. Erano tutti tesi, lo vedeva nei gesti, lo fiutava nell’aria. L’odore era lo stesso che avvertiva quando qualcuno provava paura.
La cittadella era a un passo da loro e là, al protetto da quelle mura, poteva aspettarli il demone, il motivo per cui erano partiti.
Forse lasciar andare da sola Mea in avanscoperta non era stata l’idea migliore, ma, in quel momento, il Lupo non riuscì a trovare un'altra soluzione.
Sospirò.
Probabilmente, il giorno successivo, tutto sarebbe finito.



Angolo dell'autore:

Ciao a tutti.
Oramai non mi rimane ancora molto da dire su questa storia... o forse sì. In fondo, ci sono ancora molte cose lasciate in sospeso. Il Demone e i suoi combattenti, lo stiletto, il traditore e il fatto che, questa volta, i combattenti sono solamente sei, non un esercito.
Ma a tutto cercherò di dare una degna conclusione.
Non era però questo, ciò per cui ho aperto questo angolo, ci sono un paio di punti che volevo discutere con voi.
Il primo riguarda la storia di per sè. Inizialmente, avevo programmato la sua fine intorno al capitolo 50, come la precedente, ma, arrivato a questo punto, noto come i capitoli dedicati al Viandante e gli ultimi, più lenti e descrittivi, stiano allungando questo viaggio. E niente, questa era una mia riflessione degli ultimi tempi, volevo giusto condividerla con voi.
Il secondo punto è leggermente più... "interattivo", diciamo. Immaginatemi per un momento con la faccia seria mentre vi guardo negli occhi, bene, più o meno questo è lo spirito per leggere queste righe. Purtroppo la vita reale ha un'incidenza anche sul mio lavoro, sono un'universitario e, da natale, sono entrato nel momento caldo della sessione esami. Per riuscire a portare comunque un capitolo alla settimana, ultimamente, lavoro di notte (Ora, mentre scrivo queste righe sono le 3:18 precise). Per me, scrivere è una valvola di sfogo non indifferente, ma al contempo so che la stanchezza porta a un calo di prestazioni in qualunque cosa. La parte interattiva inizia qui, vorrei chiedervi, se notate che questi ultimi capitoli siano in calo come qualità, di darmi un colpo (o meglio, una padellata dietro la nuca), io me ne farò una ragione e abbasserò il ritmo. Basta veramente poco, un messaggio nella mia casella di posta e, per amor di questa storia che ci sta accompagnando da quasi un anno (Un anno!), abbasserò il tiro e me la prenderò più comoda, anche per portare a voi lettori qualcosa comunque di (una seppur bassa) qualità.
Bene, vi ho trattenuti fin troppo.
Buona continuazione a tutti.
Ci vedremo la settimana prossima.
Vago 

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Capitolo 52
*** Capitolo 46: Un portone aperto ***


 Il deserto era immenso, infinito. La blanda luce cianica della pietra che sentiva stretta tra gli artigli riusciva a mala pena a illuminare i granelli di sabbia che scorrevano veloci solo a un paio di metri sotto quel corpo piumato.
L’oscurità era totale. Mea non riuscì a capire come i Lupi potessero venerarla con tanta sicurezza, lei stava volando a vista, senza reali punti riferimento e certezze sulla sua rotta.
L’unica bussola che riusciva a tranquillizzarla era nella sua mente. Aveva speso due ore quel pomeriggio, prima che atterrassero, per memorizzare la direzione e le distanze che avrebbe dovuto percorrere.
Per un attimo lo sguardo del corvo si allontanò dal terreno, puntando nella direzione opposta.
Quando era partita, la cappa fumosa che copriva il cielo permetteva alla luce delle stelle di raggiungere il terreno come un bagliore soffuso, mentre la luna era ancora riuscita a conservare la sua forma definita.
Ora che la cittadella si era fatta più vicina, dei piccoli astri che riempivano il nero velo della notte non vi era più nessuna traccia, mentre della bianca mezzaluna crescente che doveva essere arrivata quasi al suo apice, non c’era quasi più traccia, tradita solamente da un vago bagliore che rischiarava le nubi là dove la loro coperta si faceva più sottile.
Un inaspettato soffio di vento sollevò un ventaglio di sappia, facendo incastrare i piccoli granelli tra le piume scure.
Uno scuro muro di pietra grigia comparve come all’improvvisto, rischiarato dalla poca luce che si spandeva dagli artigli del volatile. Il corvo virò velocemente per non impattare contro l’ostacolo, continuando a rasentare la superficie butterata in cerca di un ingresso.
Mea sapeva che sarebbe stato enormemente più facile scavalcare quel muro, ma la pietra che stavano trasportando li avrebbe resi facili bersagli per eventuali arcieri.
Un imponente arco ruppe la solida facciata muraria. Due massicce ante avrebbero dovuto chiudere la breccia, ma riposavano allargate, spalancate verso l’interno e assediate da mucchietti di sabbia alla base, segno che era passata almeno una tempesta del deserto dall’ultima volta che erano state smosse.
Le vie interne della cittadella erano insolitamente pulite. Erano poche le piccole dune che si erano create contro i muri delle bianche case dal tetto piatto, così come erano fin troppo visibili i ciottoli piatti che disegnavano l’intrico di strade che si diramavano dalla via centrale.
Era una città florida, o, per lo meno, lo era stata.
Non vi era anima viva. Non una guardia che stesse facendo la sua ronda o stesse sonnecchiando nella guardiola in pietra a lato dell’ingresso. Non un cane, un cammello o una serpe delle sabbie si aggiravano nella fredda notte del deserto.
Al pensiero dei serpenti, Mea fece alzare ancora di un metro il suo compagno dal terreno. I serpenti del deserto, simili a quello che aveva ricevuto in dono Seila da Ordine, erano anche detti Denti della Gorgone. Il loro veleno, uno dei più pericolosi conosciuti, era in grado di far rapprendere i liquidi all’interno del corpo in cui è stato iniettato, costringendo la vittima a divenire una rigida statua di sé stessa, finché, con il tempo, solo i liquidi rappresi sarebbero rimasti, a monito di chi avesse preso sottogamba la pericolosità degli animali che cacciavano tra quelle sabbie rosse.
La via maestra procedeva dritta, diramandosi a intervalli regolari a destra e a sinistra in piccoli viuzze cieche, il cui unico scopo era rendere accessibili le abitazioni che lì sorgevano.
Quello che doveva essere il centro della cittadella era occupato dai resti di un’oasi e, a fianco del letto prosciugato di una risorgiva e dei cadaveri di alte palme, si stagliava alto verso il cielo tetro un palazzo.
La struttura non era ricercata. Le pareti bianche non tentavano nemmeno di superare in altezza le mura, dal tetto piatto cadevano flosci i rami dei rampicanti che avevano cercato di trovar lì dimora, mentre dalle piccole feritoie che costellavano i muri non filtrava nemmeno la più flebile luce di candela.
Uno sbuffo di vento si insinuò in quelle vie, spostando appena i mucchietti di sabbia e accompagnando al becco scuro del corvo un odore stantio di polvere.
Le ali nere sbatterono più volte con foga, facendo allontanare dal terreno quel corpo piumato per permettergli di osservare con più attenzione la sommità del palazzo.
Una densa nube di fumo scuro scaturiva dalla pietra senza aver bisogno di crepe o trafori per potersi insinuare, salendo verso il cielo dove si sarebbe ricongiunta con la spessa coltre di nuvole che la stavano aspettando.
Le vie, a quell’altezza, si erano fatte indistinte, appena toccate dal bagliore del sasso incantato, mentre nessuna creatura parve volersi mostrare.
Il corvo perse nuovamente quota, sfrecciando come una freccia oscura tra le case, guardando attraverso i vetri rigati delle finestre e gli usci socchiusi in cerca di vita, pur dormiente.

Hile si tolse la coperta di dosso, per poi uscire all’esterno del riparo poco prima che il sole sorgesse dal lontano e piatto orizzonte. Al suo fianco sia Nirghe che Jasno ancora riposavano placidamente.
L’aria era ancora fredda, ma non tanto pungente quanto quella che soffiava sulla vetta tronca del Flentu Gar.
Le cupole di opaco ghiaccio luccicavano appena sotto i primi raggi rossi di un sole che, non molto tempo dopo, sarebbe stato inghiottito dalla coltre nera che offuscava il cielo. Questa pareva essersi fatta più fitta durante la notte, stendendo le sue propaggini sempre più verso ovest.
Il Lupo camminò piano sul terreno arido, affondando appena nella sabbia che riposava sotto le sue suole.
Il ventre del drago di cristallo si muoveva ritmicamente, come un enorme mantice, e ad ogni respiro piccole volute di granelli rossicci si alzavano davanti al muso della creatura.
Buio raggiunse il suo compagno, aggirando il falò ormai spento che li aveva accompagnati fino a tarda notte.
Mea doveva essere in dirittura d’arrivo. Non era una sciocca e non avrebbe mai volato di giorno su quella città. Se non si fosse fatta vedere entro l’alba, era probabile che qualcosa di terribile le fosse successo.
Il lanciatore di coltelli appoggiò la mano sinistra sulla nuca dell’Athur grigio seduto al suo fianco, accarezzando il folto pelo che la ricopriva, mentre con lo sguardo perlustrava il paesaggio che gli stava di fronte.

Keria si girò su un fianco destro, lasciandosi alle spalle la parete della cupola.
A fianco a lei, giaceva il corpo della maga, immobile. Si notava appena il petto alzarsi e riabbassarsi. Oltre a quello, Seila non sembrava muoversi.
All’esterno un rumore attutito di passi sulla sabbia l’avvertì che uno dei suoi compagni di viaggio si era svegliato.
Lo sguardo dell’arciere tornò a posarsi sul volto circondato da capelli blu che le stava davanti. La notte ormai li aveva lasciati e ben presto il sole si sarebbe ripreso il suo posto nel cielo, il fatto che non fosse ancora tornata l’agitava non poco.
Il Drago si guardò la mano sinistra, stringendo le dita più volte per formare un pugno.
Ogni volta che guardava quel suo arto di cristallo sentiva crescere sempre più la sensazione che tutto quel viaggio fosse solo un sogno, che presto si sarebbe svegliata nel suo letto, nella setta.
Gli occhi di Mea si spalancarono improvvisamente, facendo trasalire Keria , mentre il suo corpo si alzava di scatto per assumere una posizione seduta.
Il respiro della maga era affannato, ma non sembrava star soffrendo.
L’arciere, con il cuore che batteva all’impazzata, si tirò su a sua volta. – Tutto bene? –
- Non ero mai stata per così tanto tempo fuori dal mio corpo. – fu la risposta della mezzelfa.
- Hai trovato qualcosa? –
- Non ne ho idea. – fu la risposta gelida del Corvo.
Dall’esterno cominciò a farsi sentire del movimento, segno che il corvo di Mea era stato avvistato.

Non trovo nulla. Non c’è nulla nella Trama del Reale di quella cittadella, nemmeno la cittadella.
Non è normale. Non è per niente normale. Lì non dovrebbe esserci altro che sabbia ricoperta di sabbia.
Dovrei fermarli… o almeno avvertirli.
No, non ancora. Se mi mostro ora, con il demone così vicino, rischio di compromettere quel poco di vantaggio che, secondo il Fato, ho.
E perché mi sto preoccupando per loro? Dannazione! Ho già abbastanza problemi ad assicurare la mi sopravvivenza, non devo distrarmi pensando a questi mocciosi!

Mea uscì dalla sua cupola, seguita da Seila. Gli altri assassini erano già all’esterno, con le sacche a terra, pronti per partire.
La maga li guardò con sguardo grave, mentre alle sue spalle l’incantesimo che manteneva le cupole venne rotto e queste evaporarono velocemente sotto un sole, seppur coperto, sempre più caldo.
- Il fumo arriva sicuramente da quella cittadella… ma là non ho trovato nessuno. Sembra abbandonata, anche se non da molto. Potrebbe essere una trappola, ma il demone non dovrebbe essere a conoscenza della nostra esistenza. –

Quanto ti sbagli.
Lui è fin troppo a conoscenza di cosa siete voi sei… o cinque, visto che ha perfino manipolato uno di voi.


- Se andassimo in quella cittadella, - disse Nirghe con voce lenta – anche se non trovassimo il demone, tu potresti fermare quel fumo? Almeno fermeremmo la sua avanzata verso i Muraglia. –
- Forse. Dipende cosa lo genera. Però qui arriva la notizia peggiore che ho. Oltre quella cittadella, non abbiamo un'altra meta. Potremmo vagare per mesi nel deserto, senza trovare nient’altro. –
- Praticamente, stai dicendo che dobbiamo andarci per forza? – chiese Seila guardando con gli occhi spaventati la maga.
- Si. Secondo me, si. –
Nessuno provò a ribattere. Non perché mancassero le obiezioni, ma per l’assenza di soluzioni migliori.
Hile si volse verso il deserto, tentando di indovinare la posizione della loro meta, troppo lontana per essere vista perfino dai suoi occhi migliorati.

Il drago, il corvo e l’aquila spiccarono il volo non molto tempo dopo.
Del campo che aveva ospitato i sei assassini non rimaneva altro che i carboni del falò, ma anche questi, ben presto, sarebbero stati colpiti dall’insaziabile voracità del deserto.
Hile sentiva una stretta alla bocca dello stomaco, un terrore profondo gli stava avvolgendo le viscere.
Qualcosa gli stava dicendo che quella era la strada che li avrebbe portati dal demone e quel qualcosa si faceva sempre più opprimente man mano che il drago cristallino su cui era seduto macinava chilometri su quelle dune.
Il sole, alla loro sinistra, stava per essere coperto dalla fitta coltre nera. 

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Capitolo 53
*** Capitolo 47: Un potere soverchiante ***


 I tre compagni alati atterrarono di fronte all’ingresso della cittadella.
Il grigio muro di pietra che gli stava di fronte era anonimo, ma inquietante nella sua altezza, come un gigante che incombe su una pianura.
I sei assassini varcarono il portone aperto con passo cauto, avanzando lentamente e scrutandosi attorno in cerca di movimenti che tradissero la presenza di qualcuno. I compagni li seguivano, fiutando l’aria o volteggiando sulle loro teste.
Le case bianche si susseguivano per diverse centinaia di metri, vuote e silenziose, per poi aprirsi nella piazza centrale.
Mea si guardò attorno. Quella notte, con la poca luce che aveva portato con sé, non era riuscita a riconoscere le tre strade maestre che si snodavano nelle altre direzioni cardinali, probabilmente per ricongiungersi ad altrettanti ingressi.
Il palazzo, alla offuscata luce del sole, pareva più tozzo di quando la maga non avesse immaginato. Le pareti squadrate ispiravano un senso di perenne robustezza alla struttura, dando l’impressione che quel palazzo potesse durare per sempre.
Le pareti non salivano perfettamente verticali, ma andavano a stingersi verso la cima, che sarebbe dovuta essere a punta, se i costruttori non si fossero fermati, edificando il piatto tetto decine di metri più in basso.
Una moltitudine di piccole feritoie alte e strette si aprivano allineate sulle quattro mura, mentre l’unica imperfezione sulla facciata principale era l’ingresso ad arco a sesto acuto, preceduto da una lunga tettoia di pietra levigata che copriva per una mezza dozzina di metri la strada.
Tutta la città, senza nessuna eccezione, risplendeva di un candore degno della neve montana.
Su questo candore, si stagliava l’alta colonna di fumo nero che saliva dritta verso la volta celeste.
I sei si avvicinarono alla porta chiusa che li avrebbe portati all’interno del palazzo.
Jasno spinse i battenti in legno, facendo frusciare le piume marroni del suo abito e smuovendo i battenti.
Avevano deciso di indossare gli abiti cerimoniali, che, comunque, avrebbero fornito una protezione maggiore rispetto ai sottili abiti cittadini con cui viaggiavano.
Le ante si aprirono senza rumore, rivelando un largo salone. Per terra riposava un tappeto di fili intrecciati fino a formare la figura di un uomo con le mani levate verso un sole splendente e i piedi piantati in quella che doveva essere sabbia. Sopra di questo, dal soffitto, pendeva un enorme candeliere di ferro, che sembrava essere stato costruito prendendo come modello la chioma di una palma rovesciata. Le candele poste su di questo erano intonse, come se nessuno avesse mai provato nemmeno ad accenderle.
Ai lati della sala, in incavi ovali all’interno delle pareti, erano accuratamente riposte strane armi delle più disparate forme e misure, da piccoli pugnali con il manico a forma di serpente a lunghe spade dalla lama piatta e ricurva, fino a sottili lance dalle punte triforcate e le aste adorne di piume colorate.
In fondo alla sala, una scalinata portava a un balcone che ospitava due porte, chiuse.
Gli assassini si avviarono in quella direzione.
Il drago di cristallo, all’esterno, ruggì. Un ruggito tonante che andò a spegnersi fin troppo velocemente in un mugolo.
I sei prescelti e i cinque compagni che erano con loro si voltarono quasi all’unisono, per poi correre velocemente all’esterno per vedere cosa avesse provocato quel verso. Preoccupati di cosa li avrebbe attesi.
Il rettile cristallino aveva il corpo premuto contro il terreno, vincolato da imponenti catene che ne avvolgevano le ali e le zampe. Attorno a lui, dalle dimore che fino a pochi minuti prima risuonavano vuote e silenziose, uscivano decine e decine di esseri antropomorfi che, in un batter d’occhio, circondarono la piazza, inglobando l’oasi prosciugata e la tettoia dell’ingresso.
Mea e Jasno riconobbero immediatamente i musi animaleschi di quelle creature, così come gli arti troppo lunghi e magri e il sottile manto di corti peli neri che ricopriva quei corpi là dove non erano nascosti da leggere armature. Identici in tutto e per tutto a quegli esseri che avevano cercato di aggredire Niena a Zadrow.
La nube che fuoriusciva dalla sommità del palazzo virò il suo percorso, scendendo rapidamente e circondando il corpo dell’aquila e del corvo, costringendoli a terra con le ali inutilizzabili.
La nube non si fermò, dirigendosi contro la creatura più vicino che riuscì a trovare, invadendogli la bocca, le narici ed ogni orifizio che poté trovare.
La colonna smise di fuoriuscire dal tetto piatto, ma non per questo l’afflusso di quel fumo si arrestò.
La coltre di scure nubi che copriva il cielo parve venir sospinta da un vento furioso, che la spinse verso la cittadella, liberando il cielo per occupare quel corpo fisico.
Il sole tornò a splendere radioso sul terreno.
Il corpo rimase fermo per qualche istante, rigido, con le braccia e le gambe allargate e il capo piegato per mostrare il volto al cielo limpido.
Poi la bocca si mosse.
- Ben venuti. Vi stavo aspettando. –
Mea strinse al petto il vaso che teneva tra le mani, come per proteggerlo.
- Avanti, non siate così stupiti. Sono stato già battuto dai mortali una volta, non commetterò di nuovo lo stesso errore una seconda. -

Mortali. Bene, non sa di me.

I sei assassini rimasero immobili, terrorizzati dalla sola presenza dell’essere che avevano davanti.
- Non dovevate uccidermi? Fermarmi? – il demone fece un passo avanti – Questi anni di debolezza mi sono stati utili. Ho imparato dai miei errori: vi ho portati qui, attirandovi con un’esca grande come il cielo, ho capito come introdurmi in un corpo diventando un tutt’uno con esso, mischiandomi al suo sangue e alle sue carni, per superare i limiti che quello di Reis mi imponeva, non vi ho nemmeno ostacolati quando avete preso quell’arma, perché, così, l’avreste portata a me perché potessi distruggerla. Non sono più lo stesso Follia di un tempo. –
Gli occhi dell’essere scintillarono di una luce terrificante, mentre la distanza tra lui e i prescelti si riduceva sempre più.
- Perché ci dici tutto questo? – urlò Mea nella sua direzione.
- Perché non mi importa se sapete qualcosa, o tutto. Io, qui e ora, vi batterò. Una volta che gli ultimi templi degli dei non potranno fermarmi, potrò marciare oltre quelle montagne e riprendermi ciò che è mio. –
- Non riuscirai a ucciderci tutti. – gli rispose Nirghe, estraendo le due spade.
- Hai capito male. Io non voglio uccidervi. Oh, no, non ci penso nemmeno. Se vi uccidessi, darei la possibilità agli dei minori di rifugiarsi in altri templi, che si metterebbero sul mio cammino. No, non voglio assolutamente uccidervi. –
Il demone puntò una mano contro il gruppo. Da questa, con una ferocia animalesca, proruppe lo stesso fumo che aveva oscurato il cielo, serpeggiando nell’aria ed evitando i sei assassini per raggiungere e imprigionare i tre compagni rimasti liberi.
- Perché non ci imprigioni come hai fatto con loro? – continuò Mea, lasciando il vaso nelle mani di Seila e estraendo lo stiletto dal suo interno.
- Perché non voglio solo sconfiggervi, voglio eliminare ogni vostra speranza di vittoria. So che quello stiletto ha il potere necessario per imprigionarmi per le eternità, ma so anche che non riuscirete a pugnalarmi con quell’arma. Provateci, però, voglio vedervi fallire e comprendere quanto vi sono superiore. –
Due fiale di sangue vennero versate sulla lama splendente, per poi colare all’interno della giara.
Il pugnale passò quindi di mano, arrivando a Jasno, che lo strinse con tutta la forza che aveva.
- Non preoccupatevi, nessuno dei miei sudditi interferirà. Sarebbe troppo facile, altrimenti. – aggiunse Follia allargando le braccia come per abbracciare la folla che li circondava.
Una freccia volò rapida, ma venne intercettata dalla mano della creatura.
Come all’alzarsi di un sipario, dopo di quell’attacco disperato dell’arciere tutto si mise in atto, come se i sei prescelti si fossero appena destati da un torpore che li aveva avvolti all’arrivo del demone.
Hile e Nirghe senza dir nulla, si gettarono assieme contro con quel nemico, il primo con i pugnali stretti tra le dita, il secondo con le lame delle spade dritte davanti al corpo.

Aspetta. Non ancora.
Potrebbero risvegliare i loro poteri, quali che siano.
Non è ancora il tuo momento.


Il demone evitò con una facilità sorprendente gli affondi che tentavano di colpirlo. Spostava appena i piedi su quella pavimentazione disconnessa, deviando la spada a mani nude quando questa si avvicinava troppo al corpo coperto dalla corta pelliccia e da una sottile armatura di cuoio.
La creatura non si scompose mai, fronteggiando i fendenti e gli affondi che tentavano di ferirlo con uno sguardo divertito nei piccoli occhi.
La gambe magre si mossero di fianco per fargli evitare la sfera infuocata che correva verso di lui a gran velocità, facendogliela evitare e impedendogli di rimanere carbonizzato al suo passaggio come la fila di corpi alle sue spalle.
Il varco nell’arena di corpi si chiuse velocemente.
Tre pugnali vennero lanciati nella sua direzione, ma nessuno incontrò il suo obbiettivo.
- Renèz. – borbottò Hile.
Il demone si spostò appena, evitando il ritorno delle lame, senza smettere di evitare i colpi di spada.
Hile riprese i pugnali, stringendoli saldamente tra le dita guantate mentre pensava alla mossa successiva.
Era terrorizzato. Le sue orecchie non riuscivano percepire alcun suono da quell’essere, né il rumore dei passi, né il battito del cuore, mentre il puzzo che avvertiva poteva essere descritto solamente come l’odore del male. Le sue narici avvertivano solo quello, talmente forte da coprire interamente l’odore di paura che proveniva dai suoi compagni di viaggio.
Alle spalle del demone comparve Jasno che, fulmineo, tentò di far calare lo stiletto sulla creatura.
Solamente l’aria venne colpita dalla lama scintillante, perché il corpo era già lontano.
Nelle retrovie, Keria incoccò rapidamente otto frecce, scoccandole rapidamente una dopo l’altra, cercando di seguire la danza di quel nemico che sembrava non prenderli nemmeno sul serio.
Nessuna delle punte in metallo riuscì a perforare quelle carni.
Seila, impacciata dal peso che portava in braccio, estrasse una fiala piena di un liquido verde dalla sua borsa.
- Nirghe, allontanati! –
La fiala volò in aria, colpendo il terreno dove, poco prima, si era fermata la creatura per duellare con lo spadaccino, corrodendo le pietre che componevano la strada e liberando una voluta di fumo grigio.
Mea tentò di ostacolare il demone. Prese due foglietti e li appoggiò a terra, premendoci contro i palmi delle mani.
Dal terreno alle spalle di quel nemico così potente sorsero due pilastri di roccia, che l’essere evitò con facilità.
Follia, però, parve infastidito da quel gesto.
Quel corpo si mosse a una velocità ancora superiore a quella che aveva raggiunto fino ad allora, raggiungendo la maga in pochi secondi e gettandola a terra con un possente colpo alla testa.
Nirghe urlò, avventandosi contro il demone. La spada sinistra calò dall’alto, ma venne facilmente evitata. Con uno scatto felino il braccio destro dello spadaccino si mosse contro l’addome della creatura, impugnando lo stiletto.
Nuovamente il colpo perforò solo l’aria.
Il demone si era già spostato in direzione di Jasno che, riconoscendo la propria inferiorità nei confronti di quel nemico, tentò di allontanarsi.
Una mano salda gli trattene un braccio, mentre un pugno potente come il dardo di una ballista lo colpiva in pieno volto, facendogli volare via il cappuccio e mostrando al bollente sole del deserto la candida pelle macchiata di sangue dell’elfo albino, che cadde a terra come un sacco con un rantolo pietoso.
Follia schizzò via, evitando quattro pugnali e una freccia, per raggiungere Keria.
L’arco del Drago si spezzò come un fuscello sotto il primo colpo di quella creatura inumana, una raffica di pugni al tronco della ragazza dagli occhi verdi la gettarono a terra, coperta dal sangue che le era fuoriuscito dalla bocca.
Il demone si voltò in direzione dei tre sopravvissuti. Il volto animalesco distorno in un espressione mostruosa.
Seila era dritta, in piedi, tremante, con il vaso stretto tra la mani rigide, incapace di compiere un qualsiasi movimento.
Nirghe si avventò nuovamente contro la creatura, mettendo tutte le energie che possedeva per raggiungere la massima velocità che Tempo gli aveva donato. Le punte dei piedi toccavano appena il terreno.
La prima spada tentò un fendente laterale.
Hile li raggiunse con un balzo.
Un pugnale cercò di perforare il collo della creatura.
La seconda spada cercò l’affondo.
Nella mano del Lupo comparve lo stiletto, che corse veloce e preciso verso la schiena del demone.
Nessun colpo riuscì a toccare quel corpo.
Follia prese con un gesto fulmineo le teste dei due assassini, stringendoli in una morsa d’acciaio tra quelle dita per poi sbatterle con una violenza inaudita l’una contro l’altra.
Lupo e Gatto caddero a terra, appena coscienti, con i capelli intrisi del loro sangue mischiato dal colpo.
Il demone si voltò verso Seila, sorridendo e avanzando a passo lento verso quella preda immobilizzata dal terrore.
Jasno tentò di sollevarsi, senza riuscirci. Il viso gonfio e bordeaux, ustionato dai caldi raggi del sole, su cui ricadevano i capelli bianchi sporchi di sangue.
Mea batté una mano contro il terreno.
Una colonna di fuoco proruppe nella piazza, ma Follia la evitò senza degnarla di troppa attenzione, senza interrompere la sua avanzata, che procedeva come la marcia trionfale di un conquistatore.
Keria sollevò appena il capo. La bocca e il collo erano inzuppati del suo sangue vermiglio, gli arti parevano essere incapaci di muoversi.

È finita. Devo intervenire.
Fato, non so cosa mi succederò quando morirò, ma stai pur certo che verrò a prenderti a calci in culo.
Niente piuma bianca. Niente ciuffo candido o altro. Non voglio lasciare la mia firma su questo corpo.
Ora non sono né il Viandante, né tantomeno Commedia. Non voglio essere ricordato per questo.
Sarò semplicemente ciò che mi ha chiesto di essere il Fato, questa volta.


Dei passi batterono sulla strada.
Una creatura nera, fumosa, dagli occhi splendenti come il sole di mezzogiorno fece la sua apparizione sulla piazza, comparendo dal nulla.
Il suo corpo scuro era indistinto, avvolto da spire di fumo che si muovevano come fiamme nere attorno alle sue forme.
Nulla, sul suo volto, era riconoscibile ad eccezione degli occhi brillanti.
Lo spettro di fumoso si fece avanti con passo veloce, piegandosi appena per raccogliere lo stiletto dalle mani intorpidite del Lupo.

Ancora non capisco quali dovevano essere i poteri donati a questi mocciosi.
Era ovvio che sarebbero andati al macello, nelle loro condizioni.


Follia parve sorpreso dall’apparizione del nuovo arrivato, perdendo interesse nel Serpente.
La creatura si voltò, piegando la testa di lato, sorridendo. – Tu… cosa sei? Eri là, quando mi cacciarono dalla Volta degli Dei, così come mi pare di averti avvertito anche quando fui sconfitto nella mia sala del trono. Cosa sei, tu, creatura così simile a me? –
- Il Servitore del Fato. –
Lo spettro fumoso scattò in avanti fulmineo, con l’arma incantata stretta in pugno e gli occhi gialli stretti fino a divenire due fenditure orizzontali. 

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Capitolo 54
*** Capitolo 47.5: Duello ***


 Il demone si spostò di lato, evitando l’affondo, che non arrivò.
Lo spettro si era fermato a metà della sua carica, mettendosi in posizione difensiva, con lo stiletto davanti al corpo.
Follia lo guardò con genuina sorpresa negli occhi scintillanti.
- Non sapevo che il mio caro genitore avesse creato qualcuno su cui scaricare i propri compiti. – La creatura piegò la testa di lato accennando un sorriso divertito sul grugno animalesco.
- Non credo si fiderà mai a lasciarmi leggere quel libraccio. – gli rispose lo spettro, tendendo i muscoli delle gambe e piegando impercettibilmente le ginocchia. – Ora voglio farti una domanda io. –
Il demone si allontanò un poco dal suo rivale, tirando un calcio sul costato a Jasno, che tentava di alzarsi carponi, facendolo rotolare su se stesso per un paio di volte accompagnato da un gemito disperato.
- Come hai fatto a nascondere questo posto e le tue creature alla Trama del Reale? –
- Ho utilizzato me stesso come materia prima. Ogni mattone, ogni corpo è stato creato partendo dalla mia essenza. –

Ecco perché non riuscivo a rilevare nulla.
Follia resta pur sempre della stessa pasta degli dei minori e come loro non fa parte del piano del reale. È stato talmente calcolatore da utilizzare la polvere in cui si era disgregato per ricostruire tutto questo.


Il Servitore si lanciò in avanti, tentando un colpo al ventre della creatura.
Follia fece un passo a sinistra, ma si accorse troppo tardi che la mano di fianco a sé era disarmata.
Lo stiletto ora correva verso la gamba sinistra della creatura e per poco non la colpì, se questa non avesse fatto un balzo indietro.
- Capisco perché ti abbiano mandato qui… - disse il demone, allungando una mano in direzione dei soldati alla sua sinistra.
Una spada venne lanciata nella sua direzione, per poi essere afferrata da una presa sicura.
Follia optò per il contrattacco, fendendo l’aria di fronte a sé con quella lama.
Lo spettro si spostò di lato, evitando il colpo e tentando una stoccata, il cui unico scopo era far aumentare le distanze tra i due duellanti.
- Ti assicuro che non hai capito nulla. – fu la risposta del Servitore.
Il demone si lanciò di nuovo in avanti, euforico.
Prima un fendente orizzontale all’altezza del cuore, schivato facendo un passo indietro.
Poi un secondo fendente di ritorno, più basso, evitato facilmente con un balzo laterale.
Infine una stoccata dritta al ventre.
Lo spettro non parve volerla evitare.
Si gettò contro al suo avversario, disgregandosi in una nuvola di polvere che turbinò intorno alle braccia asciutte della creatura, per poi tornare a solidificarsi alle sue spalle.
Lo stocco tentò di insinuarsi tra le scapole coperte dal cuoio e dalla corta pelliccia, ma Follia riuscì a fare un passo avanti, evitando per poco quel colpo che avrebbe sancito la fine del duello.

Ce la posso fare.
Sono superiore a lui, basta che riesca a coglierlo impreparato.

Il demone si voltò, i suoi occhi erano cambiati. La scintilla che vi ardeva dentro non era più pregna di boria e autocompiacimento, piuttosto sembrava ira quella che ora li abitava.
- Come fai ad avere un corpo e allo stesso tempo non averlo? Dimmelo! –
La spada tornò a sibilare nell’aria, tentando di troncare il collo dello spettro.

Si sta agitando.
Ora posso fare quello che mi riesce meglio.


La lama passò da parte a parte quel collo avvolto nel fumo, senza incontrare la benché minima resistenza.
Follia sorrise, ma il volto animalesco si contrasse di nuovo quando il suo avversario si portò la mano sinistra al capo, afferrandolo e sollevandolo di una spanna per dimostrargli che la spada non aveva tagliato nulla di vitale.
- Regalo di papà. – gli rispose baldanzoso il Servitore.
Il demone urlò, avventandosi nuovamente contro quell’essere che gli stava davanti.
Questo non si spostò, si ridusse prima nella forma di coniglio, osservando la lama volare sopra la sua testa, per poi scomparire nuovamente in una nube polverosa.

Non sono impazzito. Non completamente, per lo meno.
Il coniglio è uno degli animali con il battito cardiaco più veloce esistente. Se a questo aggiungo dei polmoni sovrasviluppati, ottengo un corpo carico d’aria ossigenata che posso sfruttare come…

Il demone si guardò intorno confuso, senza riuscire a trovare il suo avversario.
Un sibilo lo mise in guardia.
Sopra di lui, lo spettro stava cadendo in picchiata a velocità folle, lasciando dietro di sé una scia di condensa, mentre il suo petto gonfio si sgonfiava rapidamente.

…Propulsione.


Follia si gettò di lato, rotolando sulla strada di pietre, per evitare la lama sottile che lo stava mirando.
La nube di polvere raggiunse il terreno al posto del corpo, spargendosi per un attimo sul terreno per poi tornare ad aggregarsi in una forma riconoscibile.
La nebbia che avvolgeva il corpo dello spettro si fece più tetra. Gli occhi gialli si socchiusero, mentre la mano destra stringeva il pugnale.
- Tutto questo deve finire, Follia. Sei sopravvissuto a fin troppe cose, per i miei gusti. A proposito, senti ancora male per quella caduta dalla Volta? –
- Taci! Stai parlando con un dio, maledetto servitore! –

Devo farla finire per davvero, ora.
Devo prenderlo di sorpresa con qualcosa di folle, se voglio avere la possibilità di colpirlo con lo stiletto.
Spero di aver fatto bene i miei conti…


Il Servitore caricò Follia, con il braccio destro stretto contro il corpo, pronto a far scattare avanti l’arma.
Il demone si scansò, evitando la lama e piantando la propria nel ventre del suo avversario.
La mano sinistra dello spettro comparve dalla cortina di fumo, stretto in quel pugno riposava lo stiletto, pronto ad affondare nella gamba destra del demone.
Qualcosa cadde a terra, poi la lama sottile si conficcò nelle carni di quell’essere.

È finita.
Abbiamo vinto.
E chi se ne frega se ho un buco in pancia, guarirà.
È davvero finita.
Ce l’ho fatta.
Hai visto Fato! Ce l’ho fatta!


Il grugno del demone si contorse in un sorriso.
- Tutto qui? -



Angolo dell'Autore:

Si, è da un po' che non mi faccio sentire.
Diciamo che questi ultimi capitoli (compreso il prossimo) li ho prodotti tutti in preda ad un attacco d'ispirazione (malattia rara, purtroppo!) nel giro di tre giorni circa, quindi nelle ultime settimane il mio unico impegno come autore era quello di aggiornare la storia sul sito e... controllare ogni tanto come fossi messo a visualizzazioni e recensioni.
Tutta questa bella premessa è un modo prolisso per dire che ora potrò tornare a scrivere con i miei soliti tempi biblici e portarvi, possibilmente, capitoli un po' più lunghi e pregni di avvenimenti (non che in questi ultimi non succeda nulla, anzi, ma una media di tre o quattro pagine a capitolo mi sembra un poco bassina, tutto qui).

Passiamo al capitolo, nonchè alle cose serie.
So di essere una scarpa quando si tratta di combattimenti, ma questo in particolare ho cercato di renderlo al meglio, che dite, ne è uscito qualcosa di buono?
Per di più ho voluto strafare, i buoni hanno perso. Su tutta la linea, vorrei aggiungere. Probabilmente l'avrò già detto millemila volte, ma l'idea di rompere i clichè e gli schemi mi affascina da sempre. Sono riuscito a stupirvi, almeno un poco? Oppure già avevate letto le mie intenzioni e non ho dato una scossa così inaspettata come credevo?
Infine il finale.
Dopo un combattimento sia sul piano fisico che psicologico, in cui il Demone si è sbottonato, ha messo a nudo buona parte del lavoro che ha prodotto per raggiungere questo obbiettivo, finalmente, il traditore ha agito.
Ultime possibilità, piazzate le vostre scommesse perchè poi i botteghini chiudono. Il titolo del capitolo che uscirà la prossima settimana è "Il traditore", chiuderò quindi anche questa traccia rimasta in sospeso.
In ogni caso nel prossimo angolo dell'Autore cercherò di spiegare come ho scelto il traditore e quali ragionamenti di... "metanarrativa" (non credo questa parola esista, ma prometto che la userò solo questa volta) ho fatto per arrivare a lui.

Infine a tutto questo, vorrei fare per una volta l'Autore decente.
Vi ringrazio tutti per essere arrivati fin qui, per avermi letto fin ora e, di tanto in tanto, per avermi aggiunto alle vostre liste di storie da ricordare. Già vedere quei numeretti crescere è un buon feedback, per me, ve lo posso assicurare.
Inoltre, vorrei ringraziare qui, sulla piazza del paese, OldKey e EragonForever, seriamente, grazie per tutte le recensioni che mi avete lasciato fin ora.

Io qui vi saluto, ci si vede la settimana prossima, con il finale sempre più alle porte.
Vago 

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Capitolo 55
*** Capitolo 48: Il traditore ***


 Lo spettro si voltò, sconvolto. I suoi occhi erano spalancati, come due fari su quel volto scuro.
La nube che lo avvolgeva perse buona parte della sua consistenza, divenendo un pallido fumo grigiastro.
- Ops. – ghignò il demone – Non l’ha fatto apposta. –

Dovevano dirmi chi era il traditore anni fa. Tutto questo non sarebbe mai successo e io non sarei qui a mascherarmi da spiedino inutilmente.
L’avrei ucciso velocemente, avrei fatto tutto talmente bene che non avrebbe sentito nulla. Forse avrei pure seppellito il corpo sotto una tomba con il suo nome inciso sopra.
Merda.
Io lo sapevo che quel cataclisma ambulante non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.


Seila era in piedi, immobile, con le mani tremanti.
Ai suoi piedi, il suo serpente le sfregava le squame gialle contro le caviglie, strisciando tra i cocci infranti del vaso che avrebbe dovuto imprigionare Follia.
- Io… cosa ho fatto? Non volevo! Perché l’ho fatto? –
Lo spettro parve non udire nemmeno la voce dell’erborista, tornando a voltarsi verso il suo avversario.
- Come hai fatto? Gli dei mi avevano avvertito che avevi sfruttato una breccia in uno di loro, ma ancora adesso non capisco come tu abbia fatto. –
La creatura piantò con forza inaudita la punta della spada al suolo, lasciando il Servitore schiacciato tra il terreno e la sua mano, ancora stretta sull’elsa.
Il volto dello spettro non tradì nessuna emozione.

Per l’amor del Fato! Che dolore!
Maledetto Fato, non potevi farci immortali come quegli altri dannati servitori? No, mi raccomando, fai in modo che una freccia vagante, un proiettile, un sasso o una maledetta spada impugnata da un demone millenario possano ucciderci, mi raccomando.
Ora devo solo far finta di essere un servitore come quegli altri, cosa vuoi che sia rimanere qui con il ventre aperto per un paio d’ore. Tra l’altro non posso neanche disgregarmi nella mia materia come sull’isola dei draghi, sarei troppo vulnerabile in quello stato.


- È stato facile, fin troppo. Quella mortale non è nemmeno riuscita a superare la prova di Ordine, perché mai avrei dovuto sprecare l’opportunità? Ho speso un’infinità di forze, ma ne è valsa la pena, mi sono mostrato a lei con una forma che ricordasse vagamente mio fratello, ho generato dalla mia materia un animale che potesse riferirmi ciò che succedeva e, allo stesso tempo, indirizzarli dove volevo io semplicemente provocandogli delle allucinazioni. Dopotutto è stato facile copiare ciò che stava succedendo agli altri prescelti. –
- Perché ti sei dato tanto da fare, se comunque con il potere che hai ora li avresti potuti battere comunque? –
- Non volevo lasciare nulla al Caso. Non questa volta. Sapevo della trappola su quell’isolotto, che progettò per me quell’inutile Ordine di Cavalieri e cercai di sfruttarlo a mio favore, guadagnando due anni per lavorare al mio esercito. Scoprii attraverso di loro di questa nuova minaccia che incombeva su di me, quest’arma maledetta, - Follia si sfilò dalla gamba la lama, non curandosi del sangue misto a particolato nero che zampillò fuori. – e decisi che era il caso di liberarsene, mandandoli a prenderla al posto mio. Cercai di eliminare ogni eventuale problema liberandomi della chiave, ma, ovviamente, quella mortale, l’unica non rimpiazzabile, si salvò. Decisi quindi di agire, donandogli una nuova speranza, rivelandogli che c’era un altro modo per attivare la trappola. –
- Perché? È stata una mossa avventata la tua. –
- Una mossa avventata che ha portato a un’altra mossa avventata. Avere quell’arma gli ha fornito la sicurezza necessaria per gettarsi qui, nel mio territorio. Alla fine, quel vaso è stato distrutto, i prescelti sono inservibili e nulla può ancora ostacolare la mia marcia. Ora, perdonami, la nostra conversazione è stata interessante, ma ho altro che mi aspetta. –
Dalla mano del demone fuoriuscì la nube nera che albergava in quel corpo, riversandosi nella ferita aperta dello spettro, che non poté trattenere un urlo di dolore. Pareva che centinaia di calabroni gli stessero strappando le viscere con i loro pungiglioni.
Follia lasciò la presa sulla spada, allontanandosi in direzione del suo traditore.

Cosa succede? Perché non riesco a disgregarmi?
Sono bloccato in una forma materiale! Perché? Perché le mie capacità metamorfiche non mi lasciano disgregare?
Fato, maledetto dio inutile! Vieni qui e rimettimi a posto!
Fato! Vieni!


- E tu, mio piccolo asso nella manica… - la mano sporca di sangue della creatura accarezzò la guancia di Seila, lasciando una scia di sporco là dov’era passata. – Non avrei mai potuto vincere senza di te. –
- Io non voglio aiutarti! – gli urlò il Serpente in faccia, ancora immobilizzata.
Follia sospirò, raccogliendo da terra il serpente ocra e accarezzandogli il capo squamoso, a quel gesto, la paralisi che avvolgeva l’assassina parve dissolversi. – Ma tu mi hai già aiutato. Ora, cosa pensi succederà? I tuoi presunti “amici” vorranno ancora vederti, dopo quello che hai fatto? Non credo proprio… Ti voglio dare una possibilità, visto quanto ti sei rivelata preziosa. Scappa, le porte sono aperte e sono certo che riuscirai a sopravvivere là fuori, oltre il deserto. Dopotutto, ti ho anche donato poteri non indifferenti, mia piccola traditrice velenosa. –
Gli occhi dell’erborista si riempirono di lacrime. Con la vista offuscata guardò a terra, dove tra la polvere, la sabbia e gli schizzi di sangue erano sparsi i cocci del vaso che Mea le aveva affidato.
Le sue gambe si mossero da sole, correndo nella stessa direzione dalla quale erano arrivati, sotto lo sguardo esterrefatto dei pochi compagni che ancora non avevano perso i sensi.
Nessuno dei soldati del demone le sbarrò il percorso, anzi, la compagine si aprì, lasciandole un corridoio sgombro in cui potesse passare.
- Voi raggiungete il resto dell’esercito. A questi fastidiosi scarafaggi ci penso io. – aggiunse con voce gelida il demone in direzione del suo esercito, che si apprestò immediatamente a seguire il comando, sgomberando la piazza in meno di un attimo.

Devo andarmene di qua. Ora o mai più.

Il corpo dello spettro si inarcò all’indietro. Le spalle e le piante dei piedi premettero con forza sul terreno dove era rimasto incastrato, mentre le ossa rinforzate della vita spingevano contro l’elsa della spada, che, infine, non riuscì più a rimanere ancorata al suolo.
La lama cadde con un clangore metallico sulla strada e Follia ebbe appena il tempo di voltarsi, per vedere un corvo nero volare via velocemente, lontano dal campo di battaglia dove era stato sconfitto.

Che schifo di situazione.
E io dovevo essere l’arma segreta contro quel coso? Ma scherziamo?
E ho pure perso una parte dei miei poteri. Devo capire cosa mi stia bloccando.
Ma prima devo trovare una soluzione efficace alla faccenda. Ho un demone in gran forma e un fantomatico esercito di creature semi divine che marciano contro le terre, lui conosce i miei poteri e non ho nessun arma che possa mettere il punto finale al suo capitolo.
Amo così tanto il mio lavoro…



Hile aprì gli occhi all’interno di  una cella. Cinque gabbie di ferro erano state portate all’interno della sala principale del palazzo e ognuna era occupata da uno dei suoi compagni.
Eccetto Seila.
L’immagine del vaso che cadeva dalle sue dita per frantumarsi a terra lo colpì come un pugno allo stomaco.
Aveva le mani legate dietro la schiena da qualcosa di metallico, mentre i piedi erano imprigionati da due grossi ceppi di ferro.
Notò solo allora i cinque compagni, stretti da catene nere e ammassati l’uno sull’altro in un angolo della sala.
A frapporsi tra le gabbie e gli animali donati dagli dei, dritto, in piedi, c’era un soldato creato dal demone.
Il Lupo era riuscito a cogliere degli spezzoni del discorso, durante il combattimento che aveva seguito la sua sconfitta, venendo a conoscenza di come aveva fatto Follia a utilizzare l’erborista per i suoi scopi, di come li aveva giocati e di cosa volesse fare, ora che non c’era più nessun prescelto a fermarlo.
- Oh, finalmente siete di nuovo tutti qui fra noi. Bene. Ho voluto ritardare la mia partenza per darvi poche informazioni riguardanti il vostro soggiorno qui. – il demone sorrise, mettendo in mostra le candide zanne, prima nascoste dalle sottili labbra animalesche. – I pasti non vi saranno serviti, probabilmente morirete entro dieci giorni, ma a quel punto, anche nascessero altri prescelti, non potrebbero fermarmi. Mi spiace, ma le vostre armi sono state distrutte, tutte. Non potevo permettere che i miei preziosi ospiti si potessero ferire. –
Lo sguardo della creatura si soffermò su qualcosa di metallico che reggeva tra le dita. Poi continuò il suo monologo in tono sommesso, quasi stesse parlando tra sé e sé. – Certo, è stato un peccato rovinare un così bell’incantesimo, ma non potevo permettere a uno di voi di richiamare a sé queste pericolose armi, no? Buon soggiorno e addio, prescelti. –
Il demone si voltò, uscendo a passo spedito dalla porta principale per poi continuare lunga la strada che gli si aprì davanti.
Nirghe urlò la sua frustrazione, facendo riverberare la sua voce nell’ampia stanza.

 

 

 Angolo dell'Autore:

Come promesso, eccomi qui.
Si, Seila ha tradito. Avete letto bene.
Questa volta ho voluto puntare sulla scontatezza.
Anzi, proprio perchè era scontato fosse lei, l'ho scelta. Ho lasciato tracce, di cui parlerò dopo, che conducessero a lei, mentre altri particolari erano sistemati per sviare, ma, a un controllo attento, tutti questi sviamenti sono spiegabili.


Iniziamo con Seila. Lei non ha superato la sua prova, o meglio, l'ha superata solo grazie a Jasno, che a quel punto già aveva compreso l'essenza del Caos.
Qui ho inserito il primo, grande, importante indizio su chi fosse stato plagiato. Non perdete tempo a scartabellare tra i vecchi capitoli, vi faccio un breve riassunto ora. Tutti gli dei minori si sono manifestati con due caratteristiche fondamentali in contrapposizione tra loro, Andiamo in ordine più o meno logico.
Oscurità si è manifestata con la carnagione scura, i capelli neri, la veste bianca come la luna e gli occhi policromi, il destro color ghiaccio e il sinistro nero come la pece. Sua sorella Luce si è invece presentata come una donna dalla pelle candida e il sorriso smagliante, avvolta in un abito scuro, i suoi occhi, anch'essi policromi, erano uno color pece, il destro, e l'altro azzurro, il sinistro.
Tempo e Spazio potevano trarre in inganno, li ho descritti poco, fin troppo poco, e questo sarà un particolare che, ora che me ne sono reso conto, aggiusterò. In ogni caso, entrambi dimostravano con i loro corpi e i loro abiti il loro legame con l'elemento. Su questo punto faccio il Mea Culpa, avrei dovuto legarli meglio tra di loro.
Infine, più importante, Ordine e Caos. Dimenticatevi per un attimo il capoverso precedente e prestate attenzione a Luce e Oscurità.
Caos si è manifestata con una donna dagli occhi profondi, con saette scarlatte come chioma e, cosa più importante, un abito elegante e dal colore freddo addosso, adesso, a mesi di distanza da quando descrissi questa scena, direi quasi un abito da sera.
Ordine, o meglio, Follia, si manifestò invece perfettamente in ordine. I capelli ben pettinati, il viso curato e un vestito elegante addosso in perfetto, scusate la ripetizione, ordine. Non condivideva nulla con Caos.
Con il passare del tempo misi più in quadro quelli che sarebbero stati i destini dei miei personaggi e, tracciato tutto il percorso di Seila, cominciai a mettere più indizi.
Innanzi tutto le visioni, nessun'altro aveva sviluppato abilità simili, se il veleno era confondibile, quelle lo erano di meno.
Ora voi potreste dirmi: eh, ma il drago di Keria sull'isola dei draghi...
Si, avete ragione, non era ben visto. Ma è comunque un drago nato dalla magia di un dio, un essere completamente magico figlio della luce, se vogliamo essere poetici.
Per concludere questa piccola lista, se ci pensate, ogni informazione utile ai fini del viaggio è sempre stata fornita da esterni, che fosse il direttore della setta o i Sei, mai dalle visioni, che li hanno condotti prima in trappola, poi alla chiave per attivare il Progetto Giara ma solo per farli gettare nelle fauci del nemico.
So che sto dimenticando parecchio, ma 300 pagine di storia sono troppe per essere ricontrollate tutte in cerca dei miei stessi indizi. Se ne avete trovati altri che io mi sono perso per strada, fatemelo sapere!

Ora passiamo al lato di meta-narrativa. (lo so, avevo promesso che non l'avrei più usata questa parola, ma questa è davvero l'ultima volta)
Ho creato consciamente delle aspettative sul traditore, Commedia mi è stato di grandissimo aiuto in questo, e nei primissimi capitoli, all'inizio di questo viaggio, non ero sicuro su chi far ricadere questo fardello.
So perfettamente che, su sei protagonisti, qualcuno diventa leggermente "meno protagonista" degli altri, così era per Codero ed è ricapitato anche questa volta. Non sapevo, quindi, se dare più importanza a un personaggio che fino ad ora non era riscito a ritagliarsi il suo angolo o se rendere il tradimento più profondo, affidandolo a un personaggio che si fosse reso amichevole agli occhi dei lettori. Avanti, se nella Guerra degli Elementi un Vago o una Frida si fossero rivelati malvagi, ci saremmo rimasti tutti male.
Alla fine decisi di dare a Seila un'incarico enorme, ed eccoci giunti qui.

Io, a questo punto, vi saluto. Alla settimana prossima, grazie a tutti voi per essere arrivati fin qui e grazie (si, ci ho preso l'abitutdine, non guardatemi con quegli sguardi stupiti) a OldKey, La ragazza imperfetta e EragonForever (che mi segue con un piccolo scarto di capitoli) per le recensioni che mi hanno lasciato, è anche grazie a voi se posso migliorare come autore.
Vago

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Capitolo 56
*** Capitolo 49: Un piano di fuga ***


 - Mea, puoi liberarci dalle manette? Non sento serrature, credo le abbia create il demone intorno ai nostri polsi. – disse Nirghe, una volta che si fu calmato ed ebbe ripreso fiato.
- Forse. Ma sicuramente non in queste condizioni. Non ho nulla per tracciare l’incantesimo sul pavimento… Aspettate, se riuscissi a grattare i polpastrelli sul terreno con abbastanza forza, potrei usare il mio sangue. Dovete solo darmi un po’ di tempo. – La maga cominciò immediatamente a muovere le spalle e i muscoli della schiena, strusciando la punta delle dita contro il liscio pavimento in pietra levigata.
- Mea, fermati. – disse Hile, senza ricevere risposta
– Mea! Fermati! – urlò il Lupo, riuscendo ad attirare l’attenzione della maga.
- Che c’è? Se non comincio subito, non riusciremo ad uscire in tempo da qui. –
- Sei l’unica tra noi che sa usare la magia. Non possiamo permetterci che tu ti rovini le dita adesso. -
- Hai qualche idea migliore? –
- Si. Ho ancora un coltello incantato, sui Muraglia. Devo solo richiamarlo fin qui. –
- Sono centinaia di chilometri! Lo sforzo potrebbe ucciderti! – ribatté la mezzelfa, scioccata.
- Se io non dovessi farcela, puoi tornare a rovinarti le dita. Avete avuto fiducia in me, quando siamo partiti, ora riponine ancora un po’. –
Nessuno degli assassini osò rispondere. Né la maga, né i restanti tre che avevano assistito muti alla discussione.
Il Lupo voltò per dare le spalle alla porta, per poi chiudere gli occhi, cercando di concentrare ogni sua attenzione sul coltello che aveva lasciato sulla tomba di Renèz.
- Io sono sicura che ce la farai. –
La voce di Keria raggiunse le orecchie di Hile, facendo comparire un sorriso rassicurato sul suo volto.
- Renèz. – disse a bassa voce il lanciatore di coltelli.


Dannazione!
Questa maledetta ferita sta continuando a sanguinare! Da entrambe le parti!
Fato, maledetto dio infame, non startene lì a fare l’eremita e scrutare con quel tuo sguardo borioso il Creato. Vieni qui e dimostrami che ci tieni davvero a tutto questo.
Mi avevi quasi convinto, con quel discorsetto sull’Isola dei draghi.
Merda, ho perso troppa quota, così non riuscirei nemmeno a superare il Passo Marino.
Oh, certo. Voi non lo conoscete. I cartografi si sono dati da fare dopo la Guerra degli Elementi. Il Passo Marino è l’ultimo valico a Sud prima che i Muraglia muoiano nel mare. È il più basso e il più vicino sia a me, che alla società.
Devo solo riuscire a superarlo. Dopodiché… dopodiché dovrò trovare delle armi nuove per quei mocciosi, se il loro destino è sconfiggere il demone, anche averli mantenuti in vita è stata una scelta azzardata, ma senza armi non potranno fare granché.
Maledetto sangue! Smettila di colare!



Una zolla cominciò a tremolare, mentre i granelli di terriccio rotolavano giù per il pendio della gibbosità che si stava creando.
Una lama d’acciaio sporca di terra tornò a vedere il cielo limpido, ora libero dall’oppressione della nube che si era ritirata.
Il coltello, non appena si fu liberato dalla tomba in cui era stato sepolto, si librò nell’aria, mentre il glifo che era stato impresso sulla sua superficie fremeva di magia.
Come dotato di intelligenza propria l’arma incantata schizzò verso il cielo, superando velocemente l’imponente palazzo dalle mura scure e il muro che lo circondava, dirigendosi a velocità folle verso oriente.
La lama tagliava l’aria, fischiando tra le correnti che incontrava senza mai virare od ondeggiare, nemmeno quando i feroci venti d’altura o le possenti brezze provenienti dal mare gli impattavano contro con tutta la loro forza.
Stormi di uccelli rompevano la loro formazione al passaggio di quel proiettile splendente, per poi ricomporsi non appena quel sibilo tornava ad essere un tutt’uno con il silenzio.


Ci sono.
Ci sono.
Passo Marino.
Non mi ricordavo che respirare fosse così faticoso…
Ora… devo solo raggiungere una città.
Il terreno è sempre stato così vicino?
Maledizione.
Questo farà sicuramente più male a me che a lui.
E questa è già la seconda volta che mi capita, non capisco se sono io che perdo colpi o è l’universo che ha aumentato il suo grado di sfida nei miei confronti.


Un corvo cadde a terra pesantemente, rotolando sui sassi più e più volte, mentre le sue membra si contorcevano e alle sue spalle una scia di sangue indicava chiaramente quale fosse stato il suo percorso.


Hile sentì la testa pesante.
Le dita delle mani formicolavano, muovendosi appena sotto l’ordine del cervello sempre più annebbiato del Lupo.
Non per questo, però, ridusse la concentrazione che stava impiegando.
Sentiva che il coltello si stava avvicinando, poteva avvertire che la linea invisibile che lo legava alla sua mano si faceva sempre più solida man mano che il tempo passava. DI pari passo, però, il suo corpo si appesantiva e la sua mente perdeva lucidità.
Aveva estromesso completamente i suoi sensi dal mondo esterno, rinchiudendosi in una bolla d’oscurità in cui nulla potesse disturbarlo o fargli del male. In quell’oscurità, però non riuscì a riconoscere l’ombra che gli aveva tenuto compagnia così tanti anni.

Il coltello descrisse il culmine della sua parabola, precipitandosi nella sua curva discendente verso il portone aperto di quel bianco palazzo dal tetto piatto.
Attorno all’arma la temperatura cresceva sempre più, mentre le dune rossastre del deserto si cominciavano a delineare nella loro rotondità.

Una fitta lancinante nacque dal palmo destro dell’assassino, risalendo lungo il braccio e per poi colpire violentemente la mente quasi assopita.
Hile aprì gli occhi e, immediatamente, le vertigini presero il sopravvento sulla realtà, distorcendone la luce e le forme.
Cercando di ignorare il senso di nausea che lo stava attanagliando, il Lupo strinse tra le dita addormentare la fredda lama del coltello che gli si era piantata nella mano e, poco centimetri per volta, lo fece uscire dalla ferita.
L’arma cadde per terra, riempiendo l’ambiente con un suono metallico riverberante.
Sentiva la bocca impastata e le parole che provò a pronunciare uscirono dalle sue labbra impasticciate. – Mea, tieni. –
Il coltello roteò una decina di volte in direzione della gabbia della mezzelfa, per poi cadere al suo interno.
Hile si lasciò cadere di lato contro il liscio pavimento, il petto si espandeva e contraeva affannosamente mentre alle sue spalle, con centro la sua mano, un giglio rosso stava sbocciando sulla pietra.
Mea si trascinò fino al coltello, stringendolo tra le dita esili e premendo con tutta la forza che riusciva ad esercitare contro il pavimento. Chiuse poi gli occhi, disegnando mentalmente il glifo che avrebbe aperto quei ceppi che la tenevano imprigionata.
La punta in acciaio si mosse lentamente, lasciando un solco alle sue spalle e stridendo ogni volta che incontrava un punto più solido sul suo percorso.
Di tanto in tanto, sotto gli occhi speranzosi e spaventati del Gatto, del Drago e dell’Aquila, la lama produceva qualche scintilla, ma nulla riuscì a distrarre la maga dal suo lavoro.
Le curve linee non erano precise, più di una volta il tratto era incerto o tremolante, ma Mea, più di quello che aveva fatto in quelle ore di lavoro, non poteva fare.
Il Corvo guardò un’ultima volta l’intreccio di solchi che ora gli stava di fronte, stringendo alle sue spalle le mani sul manico del coltello che ancora stringeva in pugno.
Con un sospiro appoggiò la fronte sul glifo, richiamando a sé la magia.
Il simbolo sul pavimento risplendette per un attimo, poi sia i ceppi alle caviglie, che quelli ai polsi si dissolsero per tornare polvere nera.
Una sorte simile toccò alle gabbie che affollavano la stanza e alle catene che imprigionavano i compagni.
Hile si alzò a fatica, sentiva le membra pesanti come la pietra e la vista offuscata. Il taglio che bucava il suo palmo non aveva intenzione di smettere di sanguinare, mentre le dita non sembravano volersi muovere.
I cinque assassini si avvicinarono cautamente al portone d’ingresso, osservando cosa si prospettasse davanti a loro.
Erano poche le guardie rimaste in città, il Demone doveva essere convinto che non sarebbero mai riusciti a fuggire dalle sue gabbie.
Alcuni di quei mostri dai musi animaleschi, facevano la ronda per la strada maestra che si apriva davanti all’ingresso, probabilmente imitati da altri gruppi nelle tre direzioni cardinali rimanenti.
Poche teste si riuscivano a riconoscere sui tetti, probabilmente arcieri intenti a sorvegliare gli anfratti in cui qualcuno potesse essersi nascosto.
- Non riusciremo a far uscire il drago di Keria da qui senza essere notati. – disse Nirghe spostando il suo sguardo dal portone d’ingresso alla mole cristallina del compagno, i suoi capelli erano mischiati a sangue rappreso, un profondo taglio si apriva sul suo zigomo sinistro e l’indice e il medio della mano destra risultavano gonfi e violacei. – Sarebbe un obbiettivo indifeso mentre striscia verso l’esterno. –
- Vorrei farti notare che lui, almeno, ha le squame. Noi non abbiamo nemmeno più le nostre armi. – sibilò Jasno scocciato, le parole uscivano stentate dalle labbra gonfie contorniate dalla pelle bruciata dal sole, i capelli bianchi erano macchiati e teneva la schiena curva, cercando di non distendere i pettorali, facendoli sforzare sulle costole.
Il Lupo cercò di parlare, ma un improvviso capogiro lo costrinse ad appoggiarsi alla parete alla sua destra, facendo colare su di questa il suo sangue fresco.
- Mea, non puoi renderci invisibili, in qualche modo? O trasportarci fuori di qui? – chiese Keria. Il suo petto ricoperto di sangue si alzava ed abbassava rapido e a scatti. Il suo tronco pendeva verso destra, come se non volesse appoggiare il suo peso corporeo sulla gamba sinistra.
- In condizioni normali sarebbe difficile, ma ora… Non posso fare quasi nulla, al massimo posso provare ad utilizzare incantesimi di bassa lega. – L’occhio sinistro della mezzelfa era chiuso sotto la bluastra palpebra gonfia, il suo gomito opposto era innaturalmente piegato di lato, su di questo qualcosa di rigido premeva contro la manica.
- Come facciamo ad uscire di qui, in queste condizioni? Persino quel maledetto servitore è stato sconfitto! – urlò Nirghe, piegandosi immediatamente su se stesso, colto da una tosse insistente.
- Dovremmo… Hile! – Un grido nacque spontaneo dalle labbra della maga.
Il lanciatore di coltelli era scivolato silenziosamente a terra, rimanendo seduto sul pavimento, con la testa appoggiata contro il muro, respirando a fatica.
Hile riuscì a produrre un mugugno, cercando di comunicare agli altri assassini di non preoccuparsi per lui, ma non riuscì ad ottenere l’effetto sperato.


Un corpo riverso in una pozza di sangue rimaneva immobile sul sentiero, con la sua linfa vitale che, sempre con minor intensità, zampillava fuori dal taglio che gli trapassava il ventre.
Il tatuaggio romboidale che gli svettava sulla guancia pallida appariva ancora più scuro di quando in realtà già non fosse.
Due ombre si posarono su di lui, una più alta, l’altra decisamente meno, per poi fermarsi ad osservarlo.


Il Lupo riaprì gli occhi appannati. Sentiva una stretta fasciatura stringergli il palmo e la fronte, i pensieri sembravano essersi fatti leggermente più chiari nella sua mente.
Davanti a lui la scena non era per niente incoraggiante.
Buona parte dei vestiti che avevano portato fino ad allora sotto le vesti cerimoniali erano stati ridotti in brandelli, per poter fasciare le fratture e le ferite che ancora non sembravano voler smettere di sanguinare.
Il lanciatore di coltelli provò a concentrarsi, cercando di ignorare il dolore pulsante e la stanchezza che lo stavano avvolgendo, cercando di stimare le condizioni in cui versavano.
Alla sua sinistra c’era Jasno, curvo con la fronte verso il pavimento. Doveva avere qualche costola rotta, non sembrava avere però problemi a respirare, se non per il dolore. La sua carnagione sembra essere sbiancata leggermente, forse grazie a un blando incantesimo di guarigione.
Accanto a lui Mea rimaneva immobile con le gambe incrociate, intenta a fissare il suo corvo di fronte a lei. Aveva coperto con una benda improvvisata l’occhio gonfio, cercando di proteggerlo dallo sporco e dalla sabbia sollevata dalle sporadiche raffiche di vento che si facevano strada attraverso il portone d’ingresso. Teneva il braccio destro rigido contro il ventre, lasciando la manica rovinata della veste a penzolare mollemente al suo fianco, priva di un arto da contenere. Doveva essere rotto, poteva avere anche l’osso esposto, se la sua vista, prima di svenire, non l’aveva tradito.
Nirghe era forse quello che dimostrava meno ferite. Il capo era stato interamente fasciato, come anche l’orecchio e lo zigomo sinistri, ma il bendaggio non sembrava essere stato sporcato recentemente di sangue, mentre le quattro dita della mano destra erano state immobilizzate assieme da una stecca improvvisata e strette insieme.
Infine, a concludere il cerchio creatosi, Keria aveva il petto e il ventre vistosamente fasciati, ma la sua respirazione non sembrava averne giovato molto. Una costola rotta doveva aver perforato un polmone, oppure uno dei suoi organi interni doveva essersi rotto, riversando al suo interno il sangue che non aveva vomitato. Forse, tra tutti, era quella in condizioni più gravi.
Hile cercò di non pensare alle conseguenze di quelle diagnosi approssimative.
Sentì alle sue spalle il respiro caldo di Buio, ma questo non bastò a rassicurarlo.
Mosse le labbra, piano, cercando di articolare una frase. – Cosa ci è rimasto? –
Sguardi sorpresi si girarono verso di lui.
Fu Nirghe a rispondergli. – Il tuo coltello, al massimo un paio di incantesimi inutili e i nostri compagni, ancora più inutili. Mea non riesce ad entrare nel suo corvo per andare a controllare la situazione all’esterno e Jasno non è in grado di sollevare le braccia, figuriamoci combattere. –
- Se solo riuscissimo a distrarre a sufficienza le guardie da far uscire di qui il mio drago e l’aquila, loro potrebbero portarci via. – disse Keria, con la voce di chi ha già ripetuto la stessa cosa fino alla nausea.
- Se il tempo di cui hai bisogno è di tre secondi, allora, forse, è fattibile, più di quello non credo che qualcuno potrebbe sopravvivere. – ribatté seccato il Gatto.
- Non possono uccidermi, se non mi prendono. – gli disse Hile, accennando un sorriso stanco per niente rassicurante.
- Cosa pensi di fare? – il tono della maga non riusciva a nascondere la paura e la frustrazione che provava.
- Vi darò il tempo di scappare. Voi raggiungete la setta e metteteli in guardia. Cercate almeno di non morire. – Hile si alzò a fatica, la benda sulla sua mano non riusciva già più a fermare lo sgorgare del sangue, salì quindi sulla groppa di Buio, accarezzandogli il pelo grigio.
L’Athur si diresse verso l’ingresso, preparandosi per balzare all’esterno di quel palazzo e iniziare a correre per evitare i dardi che gli avrebbe lanciato contro.
Nirghe lo raggiunse con il suo gatto nero sulla spalla e il pugnale stretto nella mano sinistra.
- Cosa pensi di fare? – gli chiese il Lupo, guardandolo torvo.
- Ho le gambe ancora abbastanza sane da poter correre, magari non riuscirò di nuovo a eguagliare il tuo compagno, ma qualche spada riuscirò ad evitarla. E, poi, tu non puoi usarlo questo. – concluse sollevando la lama sporca di quell’unico coltello rimasto integro.
- Voi tre, - proseguì lo spadaccino voltandosi verso gli assassini rimasti fermi al centro della sala. – non avrete molto tempo per uscire. Appena vedete che le guardie sono distratte, spiccate il volo. Se non potete passare a prenderci, lasciateci qui. –
- Cosa vi sta passando per la testa! Siamo arrivati qui in sei, non voglio che ne escano solo tre! – cercò di ribellarsi Keria, con la voce rotta.
- Mea, mi fido del tuo giudizio. – concluse il discorso il Gatto, tornando a voltarsi verso l’esterno.
- Prima di uscire voglio dirti una cosa. – borbottò Hile stringendo le gambe attorno alla vita dell’Athur.
- Cosa? – gli rispose Nirghe, protendendo leggermente il busto in avanti.
- Sono ancora convinto che quel pezzo di legno non funzioni. –
- Lo credo anch’io. Comunque è stato un piacere combattere al tuo fianco. –
- Dovremmo rifarlo, prima o poi. – gli rispose ancora il Lupo, sorridendo leggermente.
Il lupo e lo spadaccino scattarono insieme in avanti, lasciandosi alle spalle il portone d’ingresso e prendendo due strade differenti.
Dodici guardie a terra. Contò rapido Nirghe stringendo il pugnale, mentre il suo compagno aumentava la presa delle sue unghie sottili sulla casacca in corta pelliccia.
Le tre creature che stavano pattugliando la parte di piazza alla destra del palazzo puntarono immediatamente l’Athur, cominciando a rincorrerlo a velocità inumana tra le vie laterali, con le spade pronte a ferirlo.
Sette guardie non si mossero, rimanendo fisse nella strada maestra, pronte in caso dovessero attaccare.
Le due rimanenti rimasero un attimo spaesate quando il Gatto gli piombo addosso di corsa, graffiandone appena una con la lama sporca e continuando a correre verso la strada principale a sinistra del palazzo.
Dai tetti intorno le prime piogge di frecce cominciarono a cadere, troppo rarefatte per poter colpire i due corpi che si stavano muovendo sotto di loro.
Hile si infilò in una strada alla sua sinistra, zigzagando tra i muri delle case inseguito dai tre combattenti che non avevano intenzione di lasciarlo andar via. Prese quindi di nuovo a sinistra, sbucando sulla strada dalla quale erano arrivati in città e trovandosi di fronte il gruppo di creature rimasto immobile al suo posto.
Il lupo riuscì ad evitarle appena, facendosi però ferire alla coscia posteriore dal filo di una di quelle lame ricurve. Incespicò per un metro, per poi riprendere a correre.
Sopra di lui, l’assassino combatteva con il suo corpo per riuscire a non cadere a terra.
Nirghe si voltò di scatto verso destra, arrampicandosi malamente su di un tetto più basso, dandosi lo slancio dall’incavo di una finestra dal vetro in frantumi.
Sui tetti il numero di arcieri era molto maggiore di quello che avevano previsto, così come quello dei combattenti che affollavano tutto il perimetro del palazzo.
L’aquila riuscì a prendere il volo, risalendo velocemente nel cielo con stretti cerchi sopra la piazza.
Fu quindi il turno del drago di strisciare fuori dall’arco d’ingresso con Mea sul dorso squamoso.
Una freccia riuscì a penetrare nella coscia di Hile, facendogli perdere l’appiglio sul pelo grigio che si muoveva sotto di lui e facendolo rovinare a terra.
Buio non poté continuare la sua corsa, tornando indietro con le zanne snudate in direzione delle dieci guardie che si avvicinavano al suo compagno a lunghe falcate.
La testa del rettile cristallino parve la punta di una lancia, mentre il suo corpo caricava la massa di corpi che si stava radunando sulla strada principale.
Nirghe continuò a correre sui tetti, cercando di avvicinarsi all’assassino a terra per poterlo aiutare in qualche modo, ma tutto quello che poté fare fu vedere quattro differenti spade farsi strada prima nelle carni del lanciatore di coltelli, poi in quelle del suo compagno, lasciando i loro cadaveri a terra, riversi nel loro stesso sangue.
Un ricordo travolse il Gatto, facendogli spalancare gli occhi e imperlare la fronte di sudore. Era stato un idiota. Conosceva a memoria ogni dettaglio della storia delle Terre e non si era ricordato di come i Sei persero la loro prima battaglia contro i demoni del Re.
Guardò verso il cielo, dove già tutto era avvenuto.
Il corpo traforato dell’aquila cadeva privo di vita verso il suolo, con Jasno e Keria impotenti poco più in alto e il corvo di Mea intrappolato sotto una delle sue ali che combatteva per liberarsi dalla presa di quel cadavere.
Lo spadaccino si gettò a capofitto in direzione di Mea.
Le membrane trasparenti delle ali del drago su cui la maga era seduta erano state squarciate più volte, così come più volte le spade si erano fatte strada nel ventre del compagno.
L’aquila cadde a terra con un tonfo e, poco lontano, la raggiunsero anche i due corpi degli assassini, ora riversi scompostamente in una pozza di sangue al suolo.
Il rettile volante, cadde infine su un fianco, trascinando con sé la maga e imprigionando violentemente la sua gamba tra il fianco squamoso e la strada ciottolata.
Le spade non si fecero scrupolo a martoriare anche quel corpo.
Gli occhi del Gatto si riempirono di lacrime mentre, tutto intorno, il tempo pareva rallentare per far durare il suo dolore ancora più a lungo.
Sentiva tutto intorno a sé le corde degli archi tendersi, mentre le punte in metallo delle frecce lo puntavano con il loro presagio di morte da tutte le direzioni.
Alle sue spalle i due combattenti che era riuscito a lasciarsi alle spalle stavano ora arrampicandosi per tornare sullo stesso livello del loro obbiettivo.
Il gatto nero saltò giù dalla spalla del suo compagno quasi con tranquillità, atterrando leggero sulle zampe e voltandosi, in modo da fissare Nirghe con i suoi occhi gialli.
- Aiutami… - lo supplicò Nirghe, piangendo.
Lo spadaccino era disperato, non riusciva a vedere altro che disperazione, intorno a lui.
Il gatto prese la rincorsa, avventandosi con un balzo contro il petto dell’assassino.



Angolo dell'Autore:
Eccoci quindi al primo dei molti capitoli in versione large. E lo sto dicendo avendo appena smezzato un capitolo perchè, forse, 18 pagine in un colpo solo sono tantine.
Ma lasciamo tempo al tempo, o meglio, a Nirghe.
Ora posso ammetterlo a cuor leggero, adoro uccidere i miei personaggi, specialmente se non c'è in giro qualcuno in possesso del libro del Fato.
Far sì che uno o più personaggi principali muoiano è strano, per un autore. Apre decine e decine di possibilità davanti e, prima o poi, mi deciderò a scegliere di percorrere la strada più oscura.
Io non voglio espormi troppo, non ancora, per lo meno. Nei prossimi capitoli accadranno cose davvero importanti per il futuro, magari non ve ne potrete rendere subito conto, ma ho un piano chiaro in mente e tutti i tasselli che ancora vagano e potranno finalmente posizionarsi al loro posto per concludere il grande quadro finale.
Apro e chiudo in un attimo una parentesi per i ringraziamenti, perchè non saranno mai abbastanza. OldKey, la ragazza imperfetta ed EragonForever (quando giungerai a queste pagine) grazie e tutti voi per il tempo speso a leggermi e recensirmi. Ma non solo, grazie a tutti voi, lettori silenziosi, che seguite il mia storia capitolo per capitolo e date un senso alle ore di lavoro che impiego per produrla.
Alla settimana prossima.
Vago  

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Capitolo 57
*** Capitolo 50: Toccati dagli dei ***


 Il corpo di Nirghe fu pervaso da una sensazione opprimente.
Il suo compagno parve disgregarsi in pulviscolo, turbinandogli attorno e infiltrandosi in ogni poro di quel corpo martoriato.
L’assassino si sentì riempire da una nuova energia, mentre il dolore soffuso che lo avvolgeva scemava velocemente e i suoi sensi tornavano ad acuirsi come prima, forse più di prima.
La veste si strappò i più punti, così come la benda che teneva ferme le quattro dita e quella che gli avvolgeva il capo.
Le frecce ripercorsero l’arco che avevano tracciato, per ritornare al loro posto nelle faretre. Le strade sottostanti mutavano velocemente, liberandosi dei cadaveri che la occupavano.
Il drago di cristallo si rialzò in piedi, puntando la coda contro il palazzo e caricandolo a gran velocità, mentre le lame splendenti sotto il sole desertico risanavano gli strappi delle membrane alari e i fori nel suo ventre.
L’aquila tornò in aria verticalmente, caricando nel suo tragitto i due passeggeri e liberando il corvo dalla sua presa, per poi ridiscendere a stretti cerchi verso l’ingresso della costruzione, dove il drago si stava infilando strisciando.
Hile rotolò sul dorso del suo compagno, che decise di tornare sui suoi passi, scambiando in tacito accordo il ruolo di inseguiti per quello di inseguitori con le guardie che li avevano rincorsi fino ad allora.
Il mondo si mosse sotto i suoi piedi, trascinandolo indietro, sui tetti piatti, poi sulla strada, per poi farlo tornare al sicuro tra le bianche pareti del palazzo.
- Dovremmo rifarlo, prima o poi. – gli rispose ancora il Lupo, il sorriso che si stava andando a disegnare sul suo volto si tramutò in un istante in una smorfia di paura. L’assassino rotolò giù dalla groppa della sua cavalcatura per la sorpresa, cadendo a terra pesantemente.
Una voce femminile alle sue spalle gridò ad un’intensità insopportabile.
- Cosa sta succedendo!? – chiese confuso Nirghe guardandosi intorno spaesato. Avvertiva il suo corpo diverso e una nuova fiamma ardeva nel suo petto.
Non riusciva a capire come potesse essere tornato lì, in quell’esatto momento, dopo il tentativo di fuga miseramente fallito che si era appena concluso.
All’esterno sentiva i pesanti passi delle guardie che perlustravano le strade.
- Ditemi qualcosa! Cosa sta succedendo? – chiese di nuovo il Gatto, questa volta la nota che tingeva la sua voce era di terrore.
- Nirghe, sei tu? – chiese Mea facendo un passo incerto avanti.
Hile, lì accanto cercava di alzarsi in piedi appoggiandosi al muro.
- Certo che sono io! –
- Cosa ti è successo? – continuò la maga facendo un ulteriore passo in avanti, il suo unico occhio viola in grado di vedere di fronte a sé stava studiando l’assassino che aveva di fronte.
- Cosa mi è… - Nirghe notò cosa lo stava facendo sentire diverso.
Dagli strappi della veste fuoriusciva una pelliccia nera decisamente non di origine alchemica. Le punte degli stivali erano state forate da sottili artigli bianchi, così come quelli che spuntavano dai polpastrelli pelosi che comparivano dalle maniche strappate.
Lo spadaccino alzò il pugnale che stringeva ancora in pugno, rivolgendo verso di sé il piatto della lama per potersi vedere in faccia.
Sull’acciaio comparvero due occhi gialli contorniati da un muso animalesco, che fissavano l’assassino con intensità penetrante. Sopra di questi due grosse orecchie si muoveva in tutte le direzioni con agitazione.
- Cosa mi è successo? – riuscì poi a dire, osservando le piccole zanne che si snudavano ad ogni sua parola.
- Ti ricordi qualcosa di particolare? Hai fatto qualcosa? – continuò la maga, sempre più vicina.
Nirghe raccontò di come il loro tentativo fosse fallito miseramente, di come era rimasto solo tra i nemici, di come, infine, il suo compagno gli era saltato addosso, scatenando quella cosa.
Mea lo guardò truce, controllando tra il pelo se davvero, come sosteneva, le ferite erano scomparse.
- Deve essere questo il potere che ci avevano promesso gli dei, però… puoi tornare normale? – chiese la mezzelfa, allontanandosi dalla creatura che gli stava seduta di fronte.
Il Gatto chiuse gli occhi, corrucciando la fronte, ma tutto quello che ottenne fu un movimento ondeggiante della coda affusolata che gli stava ritta dietro la schiena. Si era quasi arreso alla sua totale impotenza di fronte a quella condizione, quando avvertì qualcosa dentro di sé, era una presenza che, vedendosi scoperta, non provò nemmeno a ritirarsi.
Alcune immagini gli comparvero davanti agli occhi, assieme a sensazioni, suoni, odori. Incredibilmente, agli occhi di Nirghe, tutto fu più chiaro.
La creatura aprì nuovamente le palpebre, con uno sguardo diverso nelle pupille gialle.
Si passò la lingua sulle labbra, in un gesto che gli parve naturale, in quel momento.
- Ho capito. – disse solamente.
Il pulviscolo scuro che aveva visto poco prima fuoriuscì come fosse stato vapore dalla sua pelle, facendo sgonfiare i muscoli, ritirare il pelo e riassumere proporzioni elfiche a quel corpo.
Il gatto nero guardava il suo compagno con i suoi occhi penetrati, andando ad accoccolarsi tra le sue gambe.
Il corpo di Nirghe era tornato normale, senza più ferite o segni della battaglia in cui era stato sconfitto.
- Cosa hai capito? – gli chiese Jasno.
Alla sua sinistra Keria respirava sempre più a fatica, sempre più bisognosa d’ossigeno.
- Mi ha spiegato come funziona, per quanto ne sa lui. – disse lo spadaccino accarezzando il dorso del suo compagno. – C’è un muro che ci separa da loro, se entrambi riusciamo a romperlo, possiamo divenire una cosa sola. Il potere che gli dei minori ci hanno voluto donare è complicato da spiegare… –
- In che senso? – lo guardò torvo Hile, appoggiando la nuca contro il muro alle sue spalle.
- Appena decidiamo, di comune accordo, di rompere quel muro, i nostri corpi vengono inondati dall’enorme riserva di energia del nostro compagno, questa viene utilizzata per curare le nostre ferite e ci acuisce le capacità che abbiamo sviluppato. Ecco perché, prima, riuscivo a sentire i passi delle guardie, all’esterno. Inoltre, evidentemente, riusciamo a controllare, almeno in parte, l’elemento del nostro dio, credo. Io vi ho visti morire uno dopo l’altro, ed ora vi ho qui di fronte a me. Devo aver portato indietro il tempo, non so dare un’altra spiegazione a quello che ho visto. Lui mi ha anche messo in guardia su qualcosa: c’è una sottile parete di questa energia che separa le nostre coscienze, se terminassimo tutta l’energia che abbiamo, le nostre due menti si unirebbero completamente, impedendoci di far tornare i nostri corpi alla normalità, per sempre. –
Il silenzio cadde sulla sala.
Hile provò a capire il significato di quelle parole.
Gli dei gli avevano messo in mano un'incredibile arma a doppio taglio, potevano sfruttarla come meglio credevano, rischiando però di rimanerne bruciati se avessero esagerato.
Il Lupo guardò l’Athur grigio sdraiato al suo fianco, chiedendosi se anche loro sarebbero riusciti a liberare quel potere, magari senza dover assistere di nuovo alla loro sconfitta.
- Andiamo. – borbottò Nirghe alzandosi in piedi.
Il gatto nero si stiracchiò svogliatamente, muovendo la coda un paio di volte. Si protese quindi indietro, per poi balzare contro l’assassino che, davanti a lui, gli dava le spalle per guardare l’ambiente al di fuori del portone d’ingresso.
L’attimo che impiegò il compagno ad avvolgere lo spadaccino fu quasi impercettibile e, là, dove fino a poco prima c’era l’assassino, ora stava dritta la creatura dai tratti felini.
- Cosa hai intenzione di fare? – chiese a voce alta Mea, alzandosi in piedi.
- Ora come ora sono l’unico che ha una possibilità di sopravvivere, là fuori. Non volate, caricate a testa bassa il varco nelle mura e proteggete le ali del drago. Se ne avrò la possibilità, vi raggiungerò fuori. Voi, piuttosto, cercate di non far morire Keria, che è più di là che di qua. –
L’arciere non provò nemmeno a controbattere. I capelli castani le rimanevano attaccati a ciocche alla fronte sudata, mentre la sua carnagione si faceva sempre più pallida.
- Ci rivediamo dopo. –
Il Gatto scattò fuori dall’ingresso.
Superò le due guardie a sinistra, che prontamente iniziarono ad inseguirlo, per poi curvare verso destra, puntando alle tre creature che controllavano il lato opposto della piazza.
Sentiva i muscoli delle gambe sprizzare potenza da ogni poro, mentre le sue orecchie avvertivano i passi dei suoi inseguitori fare da sottofondo al sibilo del vento che lo avvolgeva, insinuandosi tra la pelliccia che gli ricopriva il corpo.
Prese il primo vicolo a sinistra, accelerando ulteriormente la sua andatura per evitare il nugolo di frecce che stava per piombargli addosso.
Nuovamente a sinistra.
La strada principale si aprì di fronte a lui, lasciandogli vedere il muro di corpi delle guardie, che parvero un attimo spaesate.
Dodici guardie. Ventiquattro serie di passi che lo rincorrevano.
Nirghe poteva avvertire ogni singola suola colpire il terreno.
Ritornò nella piazza centrale, tornando a lasciarsi la mole del palazzo alla sua sinistra.
Le pupille gialle caddero per un attimo sugli artigli che gli ornavano le dita delle mani, mentre un dubbio che non sentiva completamente suo si faceva strada tra i suoi pensieri.
Sarebbero bastati, se fosse stato costretto a combattere? Aveva forse sbagliato a lasciare il pugnale a Hile?
Il muso del drago comparve dall’ingresso, uscendo velocemente e caricando a testa bassa la via principale, mentre sul suo dorso rimanevano rintanati i quattro assassini e i loro compagni.
Il Gatto balzò su un muro, scalfendo l’intonaco bianco con gli artigli dei piedi e dandosi un ulteriore slancio per raggiungere il tetto soprastante.
Era riuscito a portare lontano la prima linea di controllo dal suo posto, ma, in cuor suo, sapeva che altre guardie pattugliavano le vie più lontane dal centro della città e sicuramente si erano già preparate a ricevere la carica di quel drago di cristallo.
Se qualcosa fosse andato storto, avrebbe dovuto riavvolgere di nuovo il tempo, per mettere una pezza là dove erano stati trovati in fallo.
No, non poteva.
Un sentimento forte gli riempì il petto, una muta costatazione lo avvertì che non avrebbe potuto rifarlo in tempi brevi.
I tetti si susseguivano rapidi. Un arciere che non si alzò in tempo fu calciato giù dalla sua postazione, ma questo non fece rallentare la creatura felina che correva a rotta di collo.
Una guardia comparsa da dietro una casa riuscì a fiancheggiare l’imponente rettile cristallino, alzando la sua spada in direzione dell’ala traslucida.
Un paio di possenti artigli furono più rapidi del braccio della creatura, tranciandole il busto prima che la lama potesse calare.
L’imponente drago continuò la sua carica fiancheggiato dall'Athur, procedendo a lunghe falcate verso il portone, ancora aperto, che gli avrebbe permesso di uscire dalla stretta di quelle mura.
Tredici guardie si pararono sul suo percorso, puntando le punte delle spade contro il ventre indifeso del rettile.
I metri che dividevano i due schieramenti si fecero sempre meno. Buio tentò uno scatto, per precedere il drago e aprirgli una breccia, ma il cadavere che era riverso ai suoi piedi lo ostacolò, facendogli perdere secondi preziosi.
Dal cielo il numero di frecce si ridusse fino quasi ad esaurirsi, ma di pari passo il numero di combattenti a terra aumentava.
Dal dorso dell’imponente rettile alato un grosso dardo scuro si gettò contro la fila di spade pronte all’impatto imminente. L’aquila dal piumaggio bronzeo strinse con forza le spalle di una delle guardie con gli artigli, per poi scaraventarla mezza dozzina di metri indietro. Il rapace virò velocemente, falciando il terreno con l’ala possente.
Il trambusto che creò fu sufficiente per attirare l’attenzione di quelle creature, che tentarono di atterrare il volatile che, veloce, gli turbinava attorno, colpendo di tanto in tanto le armature leggere con le ali e il becco, mentre gli artigli afferravano tutto ciò che era nella loro portata per gettarlo a terra.
Jasno guardò di fronte a sé la distanza tra di loro e quel muro di creature che si faceva sempre più piccola, poi i suoi occhi, da sotto il cappuccio che di nuovo era tornato a coprire i capelli candidi, notarono un particolare che fino ad allora gli era sempre sfuggito.
Il suo compagno non stava colpendo alla cieca, sperando di creare uno spiraglio in quel muro.
Il battere dei piedi sul terreno era una base, su cui si inserivano le urla stridule di quelle creature e il tonfo dei corpi atterrati, l’assolo degli stridii dell’aquila completava il quadro. Era la stessa musica che avvertiva durante la caduta vorticosa quando si gettava in volo, così come quando inseguiva le prede e i suo piedi impattavano sul terreno disconnesso, e il suo compagno la stava ballando alla perfezione, divenendo parte dell’orchestra che la suonava.
L’elfo albino si alzò in piedi, continuando a tenere il braccio sinistro premuto contro il petto che ad ogni inspirazione gli tempestava il cervello di dolore. I suoi piedi erano piantati saldamente sulle scapole del drago che si muovevano ad ogni falcata.
- Che vuoi fare? – gli urlò alle spalle Mea, perdendo per qualche secondo di vista il corpo di Keria che impallidiva a vista d’occhio.
- Credo di potervi aprire un passaggio. – fu la riposta dell’assassino, che con un salto incerto si gettò contro il muro di guardie intente a tentare di colpire l’aquila che le assediava.
Non appena le suole toccarono il terreno, il petto dell’elfo fu pervaso da un scarica più forte delle precedenti, ma Jasno si rimise comunque in piedi immediatamente, senza mai perdere di vista la totalità della scena che si muoveva davanti a lui.
Prese il tempo di quel ballo, tredici corpi si muovevano a terra, tredici lame fendevano l’aria e il piumaggio bronzeo si muoveva flessuoso negli ampi spiragli di silenzio tra una nota e l’altra.
Un calcio colpì al petto il primo guerriero che si presentò sul suo percorso, mandandolo a terra, per poi tornare ad appoggiarsi sulla strada e permettere al corpo di ruotare ed evitare così la traiettoria di una spada.
Il suo ingresso aveva alterato appena la musica stonata che stavano suonando, aggiungendosi alla melodia già impostata, piuttosto che cercare di variarla, sfruttando così i momenti muti per poter risuonare.
Poco a poco anche il bruciore che gli scaldava il volto e il fitte alle costole si confusero con il turbinio di pensieri e immagini che riempivano la testa di Jasno.
L’assassino si spostò a sinistra, colpendo con i piedi prima un ginocchio, poi una vita.
Si spostò di nuovo, per poi abbassarsi e rialzarsi immediatamente dopo per afferrare con la mano destra un polso e romperlo con una veloce torsione.
Si spostò di nuovo, così assorbito dalla melodia da non accorgersi della polvere che tutto intorno a lui si alzava e della mole del drago sempre più vicina.
Un calcio a sinistra, poi uno dietro, dove una spada cercava di calare.
Due passi a sinistra e una rotazione leggera del busto.
Un braccio troppo lungo falciò tre guardie, sbattendole contro il muro di una delle case ai lati della strada maestra.
Un passo indietro, per evitare il sibilo minaccioso di una lama, per poi afferrare la mano che la impugnava.
Le unghie dell’Aquila si fecero strada nella carne di quella creatura, bagnandosi del suo sangue, per poi scaraventarla con forza per terra.
Le costole smisero di dolere e i sensi dell’assassino si acuirono ulteriormente.
Quella danza si stava per concludere e non molti musicisti erano rimasti ad accompagnarla.
Con un ultima mezza giravolta, le due lunghe braccia piumate falciarono quattro guardie che avevano avuto la malsana idea di avvicinarglisi, per terra, intanto, bianchi artigli che spuntavano dagli scarponi raschiavano contro le pietre che costituivano il manto stradale.
Il drago di cristallo fu costretto a deviare appena per passare nella breccia di corpi che la creatura piumata aveva creato, mentre le sue pesanti zampe calpestavano a morte le creature inermi a terra.
Hile si rese conto troppo tardi che Keria si era accasciata su un fianco, scivolando dal dorso del suo compagno. Tentò ancora di afferrarla, ma la sua mano si chiuse troppo tardi sulla manica della camicia e il peso della compagna lo trascinò con sé a terra.
Alle loro spalle si cominciarono a sentire i passi affannati delle dodici guardie che si erano allontanate nel tentativo di fermare Nirghe.
Il Lupo si guardò velocemente intorno, cercando di trovare una via d’uscita.
Jasno era ancora immerso nel suo combattimento, attorniato dalle otto guardie che non erano state travolte.
Il Gatto non si riusciva a vedere, doveva essere ancora su uno di quei tetti che li sovrastavano.
Poteva però contare su Buio, che l’aveva raggiunto.
Keria non sarebbe sicuramente riuscita a fuggire da sola, a stento teneva gli occhi aperti.
Hile cercò di alzarsi in piedi il più velocemente possibile, ma le sue gambe tremavano sotto il suo stesso peso. Con uno sforzo di volontà enorme riuscì a caricare il corpo dell’arciere sul dorso del suo compagno.
- Portala fuori di qui, adesso. – gli disse, dandogli una pacca affettuosa sul fianco, per poi voltarsi verso le guardie che, oramai, lo stavano per raggiungere.
Strinse il pugno intorno al manico di quell’ultimo pugnale che gli era rimasto, mentre a lunghi passi, indietreggiava senza nemmeno cercare di voltarsi.
L’Aquila stava spostando il suo combattimento sempre più vicino alla breccia nelle mura, inconsapevole del suo compagno di viaggio in difficoltà alle sue spalle.
Keria riuscì a schiudere le sue palpebre nel momento esatto in cui Hile perse l’equilibrio, cadendo rovinosamente sul terreno. Sopra la sua testa spuntarono per qualche breve attimo due ampie orecchie pelose che, arrivate al culmine del balzo, tornarono a nascondersi oltre il limitare dei tetti.
L’arciere si sentì terribilmente inutile. Ogni movimento dell’Athur sotto di lei le faceva inondare gli occhi di lacrime, che cadevano sulla pelliccia grigia a cui si aggrappava con tutte le sue forze.
Avrebbe voluto poter essere utile, in qualche modo, ma, anche se il suo arco non fosse andato distrutto, le sue braccia non sarebbero comunque riuscite a tendere la corda e scoccare il dardo.
Le lacrime di dolore si mischiarono a quelle di tristezza, mentre dalla sua bocca si levava un mormorio sommesso.
Non riusciva nemmeno a gridare per attirare l’attenzione di chi avrebbe potuto aiutare Hile.
Era inutile, in quello stato, e non bastavano tutta la sua forza di volontà e il desiderio di poter aiutare per riuscire a farle muovere quegli arti che sentiva sempre più pesanti e lontani.
La mezzelfa si ritrovò sospesa a due metri dalla strada, lei e il suo corvo da soli, a poco più di una trentina di metri dall’uscita.
Hile rotolò su un fianco, voltandosi con il ventre premuto contro il terreno.
Non riusciva più a vedere il grosso drago di cristallo, mentre il suo compagno si allontanava rapido con il suo carico.
Mea doveva già essere in salvo, al di là delle mura.
Jasno e Nirghe si sarebbero salvati, forti dei loro poteri, non si doveva preoccupare per loro.
Buio avrebbe completato sicuramente il suo compito, così anche Keria sarebbe arrivata lontano da quelle creature, là, sicuramente, Mea sarebbe riuscita a curarla e impedirle di morire, ne era certo.
A quel punto, poteva anche lasciarsi avvolgere dal torpore che lo stava assediando, era soddisfatto di sé stesso, era arrivato più lontano di quanto avesse mai anche solo sperato ed era convinto che i suoi compagni di avventura sarebbero riusciti a uccidere il demone, in un modo o nell’altro.
Sul muro della casa al suo fianco si condensò l’ombra, che gli si accovaccio accanto, con i lunghi capelli che si andavano a fondere con le spalle come se il suo capo fosse in realtà coperto da un cappuccio.
- Spero di averti resa orgogliosa. – borbottò Hile, mentre le sue orecchie avvertivano i tonfi dei passi alle sue spalle e il suo corpo avvertiva le vibrazioni del terreno sempre più marcate. 




Angolo dell'Autore:

Bene, per ora li ho voluti salvere, questi sei poveri assassini.
Non male come potere, vero?
Questo angolo potrebbe risultarvi corto, ma, vi assicuro, sarà pregno di notizie, perchè ho deciso che al termine del prossimo capitolo rimarrò in silenzio.
Perchè?
Perchè sarà un capitolo diverso, un X.5 che, credetemi, è il più importante di uno qualsiasi dei 50 precedenti. Importante per il futuro, per il Viandante e, se mi continuerete a dare fiducia, anche per voi.
Tornando al presente, Hile si è lasciato andare, per permettere la fuga ai suoi compagni di viaggio, certo, ma ciò non toglie che si è arreso all'imponente flusso degli eventi che lo ha investito. Per quanto riguarda gli altri... sono quasi in salvo.
So che vi sto delundendo con un angolo così breve, conciso e poco confuso. Mi rifarò con il prossimo, ve lo prometto.
Ora devo lasciarvi, ma non prima dei ringraziamenti. OldKey, la ragazza imperfetta, EragonForever per quando arriverai qui, grazie a tutte voi per il tempo speso a recensirmi, e grazie a tutti voi che mi leggete e mi date un buon motivo per continuare a scrivere, ovviamente.
Alla settimana prossima, ordunque.
Vago. 

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Capitolo 58
*** Capitolo 50.5: Ospite ***


 L’elfo con il tatuaggio romboidale sulla guancia aprì gli occhi lentamente, temendo cosa quelle pupille avrebbero potuto vedere.
Quel corpo era sdraiato orizzontalmente, ne era quasi certo, su un materiale morbido.
Il livello di sangue all’interno del sistema circolatorio era pericolosamente basso, ma sufficiente a mantenerlo cosciente.

Devo crearne di nuovo immediatamente… basterò sacrificare qualcosa di non strettamente necessario.
L’appendice è perfetta, poi… parte del fegato, un rene, la milza è inutile e… perché no, posso fare a meno di un paio di costole, tanto è solo una soluzione temporanea.


Gli occhi si aprirono completamente, lasciando alla vista di quell’elfo la possibilità di imbattersi in un soffitto composto da listarelle di legno di pino.

Una casa… strano.
È qui che le muse arrivano, una volta morte?
Non penso, il Fato non ha tutto questo buon gusto in fatto di costruzioni.
Questo vorrebbe dire che sono vivo, per qualche motivo, e che questo è il mio corpo di emergenza nel caso dovessi perdere i sensi. Ottima scelta.
Ora alzati, piano. Hai superato sbronze peggiori.


Il corpo si alzò lentamente, ruotando la testa a destra e sinistra per potersi fare una veloce idea dell’ambiente.
Era una stanza piccola, oltre alla branda su cui era seduto ospitava solamente due bassi comodini e un secchio d’acqua.

La ferita…

Il petto era fasciato da un bendaggio bianco, appena macchiato dal sangue dalla tonalità scura.
Un volto comparve dalla porta al fondo della stanza per poi, visto l’ospite cosciente, scomparire in tutta fretta, prima ancora che questi potesse chiedergli qualcosa.

Umano, credo.
Perché sono finito tra gli umani? L’ultima volta ero sui Muraglia e… ovvio, assi di pino. Sono ancora sui Muraglia.
Quindi il Fato non c'entra nulla con tutto questo. Figurati, fosse stato lui a salvarmi le piume non avrebbe sprecato l’occasione per farmi una delle sue paternali.
Quanto mi mancano gli altri componenti della mia specie, almeno poteva suddividere le sue frustrazioni su tutti noi.

Due minuti dopo un uomo possente entrò nella stanza. La barba scura e i capelli lunghi una spanna incorniciavano un viso bruciato da sole, su cui erano stati come incastrati due neri occhi profondi.
Il torace largo era coperto da una giacca in pelliccia, cucita da una mano di certo non esperta.

La mandibola è a posto? Le corde vocali? L’esofago?
Aspetta… non mancherò qualche parte importante, tipo il collo. Spero di non aver fatto un errore così grossolano, non di nuovo.
Forse è il caso che smetta di aprire e chiudere la bocca e mi decida a parlare.


- Voi… mi avete salvato? –

Non male come modo per iniziare una conversazione.

- Per fortuna sembri star bene. Avevo paura che avessi qualche problema nella testa. – L’uomo sorrise bonariamente, forse sgonfiando il petto teso.
- Immagino che questo risponda alla mia domanda. Vi sono incredibilmente grato per quello che avete fatto. –

Ora però devo lasciarvi, ho ancora dei mocciosi in mano a un demone millenario, ho perso parte dei miei poteri, ho una ferita che non riesco a risaldare e, evidentemente, la Trama del Reale ha deciso di farmi il broncio e non farmi entrare!

L’elfo tentò di alzarsi in piedi, ma una fitta alla ferita gli percorse tutto il torso, costringendolo a ripiegarsi su sé stesso.
- Ti ci vorrà ancora un bel pezzo prima di poter tornare a muoverti. Come ti sei fatto una ferita del genere? –
- Banditi. Maledettissimi banditi. Io ne sono uscito così, ma sicuramente loro non riusciranno più a raccontarlo. –
- Strano che tu ne abbia incontrati di così violenti qui. È da un bel pezzo che le bande hanno lasciato i Muraglia. –
- Ho fatto parecchia strada, prima di svenire, speravo di poter raggiungere Norua o una delle Chiritai più vicine, ma, evidentemente, non ce l’ho fatta. –
- Beh, il Fato ti deve aver sorriso, visto che mia figlia ti ha trovato. –
- Non credo che il Fato si sia disturbato tanto per me. –
- Non dirmi che fai parte di uno di quei nuovi gruppi che sostengono che non ci siano dei a vegliare su di noi. –
- Fidati, nessuno crede nella loro esistenza più di me… beh, forse c’è qualcuno sul mio livello. Ma non importa! –
- Non devi essere ancora completamente lucido, vero, ragazzo? In ogni caso, non posso rifiutare ospitalità a uno nelle tue condizioni, puoi rimanere qui, se vuoi, finché non ti sarai rimesso. Dimmi, come ti chiami? –
- Io sono Comm… Vian… -

Maledizione! Ora cosa gli dico? Normalmente sono in condizione di poter fare il vago e andarmene, lasciando un velo di mistero sulla mia identità, ma ora... Sono più indifeso di un criceto a cui hanno tagliato le unghie.

- Comvia, signore. Lei, invece è? –

Comvia? Seriamente?
Sei una dannatissima musa, ispiri i più grandi poeti da… da quando sei stato creato, e tutto quello che ti viene in mente quando ti viene richiesto di tirar fuori un nome non sai fare di meglio?
Mi faccio schifo.


- Io, – disse impettito l’uomo – sono Garad Donier e questi, – aggiunse spingendo bonariamente nella stanza due bambini – sono i miei figli. Il maggiore è Razer, mentre la più piccola è Lucya, è stata lei a trovarti. Per quanto riguarda mia moglie Tarmia, lei è di sotto che prepara la cena, avrai modo di conoscerla più tardi. –
- Allora, - disse l’elfo sorridendo in direzione della bambina – grazie Lucya per avermi salvato. Potresti solo dirmi per quanto tempo sono rimasto incosciente? –
- Ti abbiamo trovato ieri sera e hai dormito per tutta la notte e la mattinata. Saranno passate si e no una ventina di ora. – gli rispose l'uomo.

Ottimo, i mocciosi non possono essere andati troppo lontani, se sono riusciti a scappare, ovvio.
Il demone avrà raggiunto le sue truppe e si starà dirigendo verso i Muraglia a piedi, suppongo. Otto giorni, non credo di aver più tempo di così, prima del suo arrivo.

- Signor Donier, le vorrei fare alcune domande ma… preferirei se i suoi figli non fossero presenti. –
L’uomo corpulento parve interdetto, ciò nonostante diede un colpo sulla spalla dei due bambini, che, lenti, si apprestarono ad uscire.
- La ringrazio. –
- Per favore, dammi del tu. E chiamami per nome. Non sono un esattore del governo. –
- Va bene. Volevo sapere quali sono le mie condizioni. So che la mia ferita è grave, ma vorrei sapere quanto, esattamente. –
- Beh, ragazzo. Onestamente la tua resistenza mi ha stupito, così come la tua fortuna. Hai un bello squarcio che ti trapassa il ventre, ma sembra che non abbia intaccato nessun organo vitale. –

Ovvio che non abbia danni interni.
Di certo non vado a combattere il demone con un corpo in possesso di cose inutili come stomaci, reni, fegati o altre strutture molli pronte ad essere perforate nelle più disparate maniere.


- La ferita, però, rimane grave. Hai perso molto sangue e sembra che gli squarci che hai sulla pancia e sulla schiena non vogliano richiudersi. Mia moglie ha fatto il possibile, ma ti ci vorrà del tempo per guarire. –

Male.
Posso riassemblare in parte le vene che mi percorrono la pancia per evitare di perdere altro sangue, ma, se non posso disgregarmi in polvere o fumo, non posso nemmeno spostare la ferita sui corpi fisici che assumo.
Morale: Per ora sono costretto a tenermi un bel buco vicino all’ombelico… che non ho mai, perché è uno spreco di spazio.


- Grazie ancora, allora. Vorrei poi avere il piacere di ringraziare tua moglie di persona, in questo caso. –
- Sicuramente ne avrai l’occasione. Ora, scusami, ma ho ancora del lavoro da fare di sotto. Ti porteremo la cena, quando sarà pronta. –
- Spero di non portarvi troppo disturbo. –
- Figurati, la nostra casa è sempre aperta ai viandanti. –

Non capisco se tutto questo sia stato predisposto dal Fato o sia semplicemente un brutto scherzo del Caso…
Dannazione, il Fato non ha potere su di me. Non può aver predisposto tutto questo, visto che mi muovo al di là del suo sguardo.


L’elfo tornò a sdraiarsi sulla branda, chiudendo le palpebre.

Ogni tanto mi piacerebbe poter dormire, anche solo per perdere qualche ora.

Piedi. Piccoli piedi di bambino.
Odio i bambini, di ogni razza e forma.
Quante ore saranno passate da quando mi hanno lasciato solo?
Oramai neanche le conto più, non ne vale la pena.


L’elfo aprì gli occhi guardando di fianco a sé, dove, con una ciotola in legno in mano, lo guardava un bambino che avrà avuto poco più di sette anni. La zazzera castana ricadeva su due occhi identici a quelli del padre, ma questi non erano incastonati su una pelle così tanto abbronzata.
L’elfo sorrise, mostrando la sua chiostra di denti bianchi, mentre le sue mani prendevano delicatamente la ciotola colma di minestra e il cucchiaio intagliato che in essa riposava.
- Grazie… Razer, giusto? –
- Si, signore. –

Se solo quella maledetta Trama del Reale la smettesse di respingermi, mi farebbe un enorme piacere.
Il mio lavoro contiene già incognite a sufficienza, non ho bisogno di nuove domande come: “Chi sarà mai il tizio di fronte a me?” oppure “Chissà chi, in un porto affollato, è un pericoloso attentatore pronto a falciare qualche decina di civili?”.
Ho bisogno di risolvere questo problema il più presto possibile.
E se solo il Fato si decidesse a scendere un attimo, potrebbe spiegarmi perché sono stato ridotto in questo stato.


Il bambino continuava a rimanere immobile al capezzale dell’ospite, incerto su cosa avrebbe dovuto fare.
Fu quindi l’elfo a cercare di smuovere le acque. – Dimmi, Razer, che lavoro fa il tuo papà? –
- Lui fa tutto. Va a caccia, taglia la legna, si prende cura dell’orto e ogni tanto insegna qualcosa a me e mia sorella. Mi ha insegnato lui a scrivere. –
- Che bravo che è. E dimmi, cosa piace fare a te? –
- Il mago! –
L’elfo rimase per un secondo sconcertato, per poi riprendersi con un sorriso tra l’ironia e il cinismo. – Davvero? Ti piace fare il mago? Che magie conosci? –
Razer si guardò rapidamente intorno e i suoi occhi splendettero quando incontrarono sul loro percorso un pezzo di stoffa avanzato dal bendaggio. – Questo me l’ha insegnato mia mamma. – disse il bambino prendendolo con le piccole mani.
Razer fece sventolare un paio di volte il pezzo di stoffa davanti al suo naso, per poi stringerlo nel pugno grassoccio.
- Soffiaci sopra. – continuò l’aspirante prestigiatore.
L’elfo non perse il suo sorriso, si sporse lentamente in avanti cercando di non far notare la mancanza delle costole più basse della cassa toracica diede uno sbuffo sul pugno proteso verso di lui.
Il volto di Razer si fece più concentrato, mentre la mano sinistra descriveva lenti cerchi su quella destra, chiusa intorno al pezzo di stoffa.
- E uno, due, tre… il fazzoletto più non c’è! –
Il pezzo di stoffa cadde goffamente nella manica della camicia del bambino, mentre questo apriva il suo pugno per far vedere all’ospite la magia che si concludeva. Non fu però quello ad attirare l'attenzione dell'ospite sdraiato, bensì le piccole scintille di mana azzurro che scaturirono da quelle dita, per poi spegnersi dopo pochi istanti nell'aria.
- Ma che bella magia! – disse l’elfo sorridente, con il rombo tatuato sulla guancia sformato dalle pieghe del volto.
- La mia mamma è molto più brava di me a fare le magie. Sa anche far comparire delle luci più grandi. –
- Sai, anch’io so fare qualche magia. Ne vuoi vedere una? –
- Si! –
L’elfo appoggio delicatamente la sua mano destra sul volto del bambino, che si irrigidì a quel contatto.
- Pronto? Tre, due, uno… -
Sul viso del bambino si andò a creare un guscio bianco, con solamente tre fori a deturpare la superficie perfetta. Due V rovesciate si aprirono all’altezza degli occhi e un largo sorriso comparve sotto la protuberanza del naso.

Forse questo non ve l’ho mai spiegato.
I miei poteri metamorfici vanno leggermente al di là del semplice cambiare la mia forma, io posso controllare ogni molecola del mio essere, molecole che si rigenerano fin troppo lentamente, se mi è permessa una critica.
Comunque, non ho limiti nell’usare queste molecole… beh, a parte la mia nuova impossibilità di disgregarmi. Dicevo, posso utilizzare le mie molecole sia per creare strutture biologiche che compongono i miei corpi, sia per materializzare oggetti al di fuori della mia forma fisica, come il pugnale che ha ucciso Réalta, per fare un esempio.
Potrà essere uno spreco, privarmi della materia prima di aver totalmente riparato le mie ferite, ma mi sento particolarmente buono, oggi, verso la famiglia che mi ha salvato da morte certa.
Vorrà dire che rinuncerò a cinque centimetri di altezza, da adesso a quando mi sarò rimesso a posto.


Razer si portò le mani alla testa, tastando la maschera che si reggeva sia sulle sue orecchie che sulla nuca e gli copriva interamente il volto.
Se la tolse lentamente, voltandola, in modo da vederla di fronte.
- Wow! Che magia incredibile! –
- Vai, fagliela vedere ai tuoi genitori. Penso di riuscire a finire questa buonissima minestra anche da solo. –
Il bambino scomparve in un battibaleno, lasciando l’elfo solo nella stanza a stringere tra le mani la ciotola di legno quasi vuota.

Ancora non capisco come mai sia finito qui.
Sono troppo vecchio per credere nella fortuna e a maggior ragione non posso nemmeno sperare che il Fato mi abbia portato fisicamente qui, prendendomi in braccio o trascinandomi fin davanti a quella bambina.
La prima domanda che devo pormi è: Perché ho scelto il Passo Marino? Cosa mi ha portato a scegliere quella via piuttosto che il Passo del Messaggero, più vicino sia a me che alla Chiritai 18, una delle prime tappe che questo gruppo ha passato.
Secondo: Cosa mi ha davvero fatto il demone? La ferita è grave, ma sono sopravvissuto a cose ben peggiori. Che effetti secondari ha sul mio corpo quel colpo? Che, attraverso quella porzione di materia che mi ha inserito all’interno, possa controllarmi? No, non può essersi propagata.
Quella polvere deve essersi depositata tutto attorno alla ferita, impedendomi di rimarginarla. Ecco perché il buco non si chiude, ho un'enorme crosto di materia divina che copre tutta la parte ferita.
Ma ancora non capisco perché non posso disgregarmi e accedere alla Trama del Reale.
Non riesco a capire.
Sono dannatamente certo che…


Un colpo di tosse cristallino sottrasse l’elfo al flusso di pensieri che lo teneva lontano dalla realtà.
Sotto lo stipite della porta della stanza, restava dritta, in piedi, una donna magra, così diversa dall’uomo che aveva accolto il risveglio dell’elfo. I lunghi capelli castani le cadevano in placide onde lungo le spalle e gli occhi chiari sembravano piccole pietre preziose.
- Devi essere Tarmia, suppongo. – disse l’elfo, tornando a sorridere. – La tua minestra era ottima. –

Io questa donna l’ho già vista.
Nel senso, non vista fisicamente. Devo averla incontrata da qualche parte nei meandri della Trama. Il mio accesso sarà anche bloccato, per ora, ma quello che ho già letto è riposto da qualche parte nella mia memoria. Ora devo solo trovare quella parte.

- Si, sono io. Sono felice che tu sia ancora qui tra noi. Il Fato deve avere ancora dei piani per il tuo futuro. –

Fato, Fato, Fato!
Per l’amor del… di me stesso! Lasciatelo un po’ stare, che quel maledetto dio non ha tempo per il suo unico servitore libero rimasto, figurarsi per voi mortali. Ha praticamente smesso di guardarvi da quando ha finito di scrivere i vostri destini su quel libraccio.


- Ho paura che il Fato abbia fin troppi piani per il mio futuro… e di questo passo non sono sicuro di poterli vedere tutti. –
- Sciocchezze, se sei destinato a far qualcosa, in un modo o nell’altro ci arriverai. Ricorda che a noi mortali non rimane che goderci… -
- Si, certo. Non rimane che goderci il viaggio in attesa della meta che ci è stata assegnata. L’ho ripetuta anch’io centinaia di volte questa frase. –
La donna parve sinceramente stupita dal comportamento dell’ospite.

Oh, no. Non avrò esagerato?
Per una volta che ho trovato dei mortali ospitali non vorrei essermi giocato malissimo le mie carte.


- Non pensavo che qualcuno dei giovani d’oggi conoscesse queste sfumature dell’Elementarismo. Dimmi, quale ordine ti ha istruito? –
- Tutti e nessuno, in realtà. Ho viaggiato molto e a lungo e ho avuto modo di incontrare i più svariati tipi di persone. È come se avessi… incontrato anche gli dei, in qualche modo. –
- Perché gli dei crearono i servitori? – chiese a bruciapelo la donna con uno sguardo di sfida negli occhi.
- Per lasciar loro il compito di gestire gli elementi nel Creato dalle loro sedi, situate nel palazzo del Sole e in quello della Luna. –
- Nel simbolo della nostra religione, negli angoli superiori dell’esagono che circonda il cerchio e il pentagramma, quali dei minori vengono individuati? –
- Facile, in alto, Luce a sinistra, Oscurità a destra, coloro che provengono da cielo. Sui due angoli mediani troviamo Tempo a sinistra e Spazio a destra, infine nei due angoli inferiori sono situati Ordine sulla sinistra e Caos sulla destra. –
- Mi stupisce la tua conoscenza così profonda. Sono poche le persone che hanno queste nozioni e poteri simili ai tuoi. –
- Non è nulla di che, in realtà. Ciò che incuriosisce me, invece, è come una donna come te ne sia in possesso. Da quanto ho potuto vedere anche tu sei particolarmente colta in materia e, da quanto mi ha detto tuo figlio, dovresti essere in possesso di qualche tipo di potere. –
- Io, in realtà… Sono stata iniziata all’ordine del Fato, da giovane, ma decisi di sposare Garad prima di prendere i voti superiori e diventare sacerdotessa. – La donna sembrava imbarazzata da quella confessione. – E, non ho chissà che poteri. Ogni tanto riesco ad accendere piccole luci intorno a me, ma non sono nulla di incredibile. Credo che anche il piccolo Razer li abbia ereditati. –

Ecco perché mi ricordavo di lei, è stata una chierica del Fato.
Ogni tanto mi divertivo a controllare quanti adepti riuscisse ad agganciare un ordine rispetto agli altri. Devo dire che i chierici del Fuoco erano sempre in sovrannumero, mentre quelli della Terra non se la passavano così bene, però, che volete farci, i gusti sono gusti.
Certo, fossi Codero me la prenderei un po’, con tutto quello che ha fatto per loro.


- Al contrario, sono poche, oramai, le persone che possono vantare di possedere una forma di magia innata. Quindi, essendo stata formata dall’ordine del Fato, immagino sarai a conoscenza della leggenda per cui anche il Fato aveva dei servitori. –
- Me ne parlò il mio maestro, ma… non credo a quella leggenda, perché mai un dio con quel potere avrebbe dovuto generare un’intera razza di servitori? –
- Per rendere più variegato il mondo, immagino.  Ma ad interrogativi del genere, credo che solo il Fato potrebbe avere l’ultima parola. In ogni caso,  al momento ho solo una certezza: La vostra ospitalità è preziosa. –
- Non possiamo rifiutare assistenza a chi il Fato mette sul nostro cammino, non trovi? È stata una piacevole discussione, la nostra, ma ora devo mettere a letto i bambini. –
La donna si voltò, scomparendo nuovamente alla vista dell’elfo, che tornò ad esser solo, rinchiuso tra le quattro pareti della stanza.




Comunicazione di servizio:
A causa di un allontanamento di due giorni di Vago dal mondo civilizzato, le risposte ai messaggi e alle recensioni di sabato e domenica potrebbero arrivare con un ritardo tra una e dieci ore.
Perdonatemi l'inconveniente, spero che questo capitolo sia sufficiente per rimediare alla mia presenza saltuaria. 

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Capitolo 59
*** Capitolo 51: Riflessi nel buio ***


 Keria avvertì i suoi muscoli irrigidirsi improvvisamente.
Il materiale cristallino che si era impossessato dell’avambraccio e della mano sinistra parve prendere il sopravvento su qualunque cosa trovasse attorno a sé, impadronendosi della manica della camicia sporca e strappata e risalendo rapido verso il gomito, per poi puntare alla spalla e, da lì, spandersi lungo tutta la superficie di quel corpo morente.
L’arciere si sentì soffocare, avvolta in stretta di cristallo fin troppo serrata.
Sentì qualcosa muoversi alle sue spalle, cosa che parve avvertire anche l’Athur a cui era aggrappata, che rallentò fino quasi a fermarsi, incerto sul da farsi.
Il sole arrivò a metà della sua discesa e la scura ombra delle mura di cinta della cittadella raggiunse il corpo riverso di Hile.
Il Lupo alzò un’ultima volta il capo verso la breccia aperta nelle mura, pronto a ricevere i colpi di spada delle guardie che lo stavano per raggiungere. La bendatura sul palmo della sua mano non riusciva più ad arrestare l’emorragia, facendo sì che il sangue dell’assassino scorresse ad irrorare la strada.
In cielo qualcosa baluginò, colpito da un raggio di quel sole rovente.
Il drago doveva essere partito, si disse il Lupo. Dovevano essere in salvo, gli altri.
Poi accadde qualcosa che Hile non riuscì a spiegarsi.
Buio lo raggiunse, ringhiando alla folla che li stava per raggiungere.
La creatura dai tratti felini balzò giù da un tetto, atterrando agile sulla strada per raccogliere qualcosa di grosso da terra, per poi correre con quel peso in spalla in direzione del portone spalancato, seguito dall’essere ricoperto da lunghe piume bronzee.
Il baluginio si fece più intenso e persistente, mentre, sul terreno, comparvero nervature di luce simili a quelle che si riflettono sul fondale di uno specchio d’acqua.
Un vento prorompente cominciò a spazzare il terreno, sollevando ondate di sabbia dai mucchietti che riposavano contro le mura delle case.
Dal cielo discese lentamente una creatura che sembrava di origine divina. I contorni sembravano indistinti, avvolti e sovrapposti a un’aura dorata.
Alle spalle di quell’essere celestiale qualcosa si muoveva, mantenendola in aria.
Hile ne fu rapito, i suoi occhi sembravano non aver intenzione di staccarsi da quella forma eterea che, lenta, sembrava discendere verso di lui.
I passi alle spalle dell’assassino si fecero lenti, incerti, seppur costanti e diretti con mirabile stoicismo verso la sua schiena.
Una mano traslucida si protese verso di lui, avvicinandosi sempre di più a lui.
Buio cominciò a ringhiare, rizzando il pelo e accovacciandosi, pronto a balzare in avanti e fendere le sue prede con gli artigli e le zanne.
Il Lupo parve rinsavire di colpo. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata, incurante del fatto che così facendo aumentava la quantità di sangue persa dalla ferita sulla mano.
L’assassino si rese improvvisamente conto della sua situazione, di quello che gli stava davvero per accadere. Il continuo viaggiare, il venire a contatto con così tante specie diverse senza mai poter davvero conoscere qualcuno, l’essere sempre e solo assieme a quelle cinque persone con cui condivideva il destino lo avevano reso come sordo al mondo intorno a lui, come se la sua vita fosse stata rinchiusa dalle pareti traslucide di una bolla. Aveva perso la voglia di continuare quel viaggio, di farsi trascinare e sballottare in giro per le terre dal destino che gli aveva affibbiato quella profezia.
La figura lucente che gli stava di fronte però, l’aveva come risvegliato da quel letargo in cui era caduto, riempiendogli di nuovo l’animo di una speranza per il futuro che aveva perso tempo addietro, quando ancora la sua vita era limitata alle mura scure del Palazzo della Mezzanotte.
I passi alle sue spalle si fecero troppo vicini. La creatura celestiale, al contrario, era ancora sospesa a un paio di metri sopra di lui, troppi per poterlo aiutare.
Hile si rigirò di nuovo, tornando con il petto rivolto verso il cielo, protetto solamente dal pugnale sollevato stretto in pugno.
- Non voglio morire. Non voglio morire. Non voglio morire! – borbottò l’assassino con le lacrime agli occhi, mentre, disperato cercava di trascinarsi verso il suo compagno.
Aveva appena riottenuto la voglia di vivere e non aveva intenzione di andare nella Volta con i rimpianti che, solamente ora, si rendeva conto l’avrebbero inseguito come spettri.
La tormenta di sabbia e polvere intorno al Lupo si fece più fitta, mentre, di fronte a lui, la prima spada calava inesorabile, risplendente della meravigliosa luce che avvolgeva la creatura celestiale.
Il terreno parve sollevarsi, o forse era lui a sprofondare, come inghiottito da acque tempestose. Hile non seppe dirsi cosa stava succedendo.
Si ritrovò solo, avvolto dall’oscurità. Nonostante questo però riusciva a vedere perfettamente quelli che dovevano essere i suoi arti, nonostante una folta pelliccia premeva contro le maniche della casacca e dalle mani che ne fuoriuscivano, da cui nascevano artigli bianchi.
Sotto agli stivali oramai distrutti dalle zampe troppo grandi che si erano trovati a dover contenere, si muovevano, come riflessi sul mare, candide linee serpeggianti.
Intorno a lui comparvero all’improvviso una decina di figure bianche, come ombre tridimensionali di qualcuno che non c’era. Queste si muovevano goffamente, guardandosi attorno, come alla ricerca di qualcosa che non riuscivano a trovare.
Qualcos’altro si materializzò in quell’ambiente nero delimitato al suo confine da un immenso muraglione candido e perturbato nella sua piattezza da sporadici parallelepipedi bianchi e da quelle figure umanoidi che sembravano non notarlo.
Una candida figura femminile prese forma accanto all’assassino, guardandolo con il volto privo di lineamenti, fatta eccezione per il naso.
- Oscurità…. – disse timoroso Hile, non sapendo come comportarsi di fronte a quella manifestazione – Che posto è questo? –
- Questo, – disse la figura muovendo la mascella, ma senza rivelare una fessura dalla quale quelle parole potessero provenire – è il mio regno. Sei dall’altra parte delle ombre. –
- Come posso esserci entrato? –
- È il potere che ti ho riservato. In quanto mio araldo ho intenzione di lasciarti la porta per questo mondo aperta, ma ora sbrigati, mantenere il tuo corpo fisico in questa dimensione ti prosciugherà velocemente delle tue energie. –
- Spiegami un ultima cosa, cosa posso fare, da questa parte? –
- Ogni creatura nel Creato produce un’ombra, queste figure bianche. Tu, sei invece entrato qui con tutto il tuo corpo, ciò vuol dire che esisti solo tu, per ora, non hai una tua ombra. Da qui non puoi ferire nessuno, non puoi interferire con le ombre, ma puoi muoverti, per poi tornare nel Creato in un luogo diverso da quello in cui sei entrato. L’unico vincolo che devo importi è che puoi solo utilizzare come portale un luogo dove non batte il sole o una qualunque fonte di luce. –
- MI stai dicendo che posso utilizzare le ombre delle cose nel mio mondo per entrare e uscire da qui. –
- Precisamente. Oh, Hile, io sono sempre orgogliosa di te. –
La figura bianca scomparve, lasciando l’assassino da solo con quei manichini candidi che ancora si ostinavano a cercarlo.
Il lanciatore di coltelli si guardò un’ultima volta gli arti, così sproporzionati e animaleschi, pensando a come gli era parso Nirghe, la prima volta che l’aveva visto in quella forma.
Una decina di muscoli si mosse sul suo capo, muscoli che, almeno in teoria, dovevano aver fatto ruotare le orecchie appuntite lateralmente.
Si mise quindi a correre, nella direzione in cui, almeno secondo le forme umanoidi e bestiali che riusciva a riconoscere, doveva esserci il portone delle mura.
Un muro bianco gli si parò davanti, talmente immenso che Hile si chiese come avesse fatto a non notarlo prima.
Vi appoggiò le mani pelose sopra, senza avvertire nessuna sensazione da quel contatto.
“È il deserto assolato.” Questa certezza lo avvolse con forza dal profondo.
- Buio, come posso uscire da questo mondo? – chiese l’assassino, parlando con il suo compagno che, ora, sapeva essere all’interno del suo corpo.
Emozioni e sensazioni assediarono il suo cervello, istinti animaleschi e ragione umana si intrecciarono, mostrandogli un’immagine chiara.
Il Lupo guardò il terreno nero ai suoi piedi, espirando tutta l’aria che aveva nei polmoni.
Il suolo parve avvolgergli le caviglie, inghiottendolo  rapidamente e trascinandolo verso il mondo concreto.
Una grossa creatura dal pellame grigio comparve dalla strada, sorgendo dall’ombra che l’alto muro gettava su di essa. Di fianco a lui si apriva il portone aperto che i suoi compagni di viaggio avevano già varcato, alle sue  spalle, invece, oltre al gruppo di combattenti che ancora guadavano spaesati l’ambiente intorno a loro, la creatura celestiale si alzava lentamente verso il cielo, confondendosi con l’aria tremolante, non meno sorpresa dei suoi nemici.
Il Lupo, forte della nuova energia che pulsava in lui, si lanciò oltre la breccia che lo divideva dal deserto.
Il sole gli accecò gli occhi acuti non appena varcò l’arco di pietra, ma la creatura continuò a correre in linea retta, con il solo intento di mettere più distanza possibile tra sé e quella cittadina che li aveva intrappolati tra i suoi edifici.
Un grumo scuro comparve davanti a lui.
Ombre.
Le vedeva distintamente, nonostante i contorni delle dune si mischiavano ancora con il cielo in un indistinto rosso misto a blu.
Le puntò, con la certezza inspiegabile nella mente che là c’erano i suoi compagni.

Il deserto scorreva rapido sotto il viso della maga.
Due braccia innaturalmente forti la stringevano, mentre un paio di piedi unghiati comparivano e scomparivano ritmicamente davanti ai suoi occhi.
Sentiva il sole caldo batterle sulla nuca, mentre  ondate di sabbia si scontravano contro il suo fianco, come se qualcosa le stesse sollevando con la sua mole.
Si concentrò, avvertendo sopra di sé il suo compagno volare indisturbato, solitario in quel cielo terso.
Fu un attimo di buio, poi la sensazione del vento tra le piume le diede la certezza che il suo corvo l’aveva accettata nel suo corpo.
La cittadella era ormai lontana alle loro spalle, poco più di un rettangolo scuro sull’orizzonte ondulato, mentre la gande catena montuosa davanti a loro si faceva sempre più vicina, stagliandosi nella sua imponenza e nascondendo il sole calante alle sue spalle.
Sotto il suo ventre, tre figure si muovevano rasoterra.
Vide il suo corpo, portato in braccio dalla creatura felina in cui si era trasformato Nirghe, e poco sopra, alla sua sinistra, volava veloce un enorme volatile dall’apertura alare e dalla lunghezza del corpo innaturali.
Quegli occhi non riuscivano a vedere null’altro intorno a loro.
Mea si rintanò in un anfratto di quella mente che la ospitava. Cercò di non pensare a nulla, né passato, né presente, né futuro.
Si soppresse, cercando di concentrarsi unicamente sulle sensazioni che quel corpo le trasmetteva.
Il volo continuò a lungo, interrompendosi solamente quando anche la corona dorata di raggi di luce che avvolgeva la vetta del Flentu Gar si spense.
Solo allora il corvo si avvicinò al terreno, sul quale i primi, timidi ciuffi d’erba avevano messo radici.
La mezzelfa si riebbe pochi secondi dopo essere stata adagiata a terra dalla creatura felina, che, nel frattempo aveva preso nuovamente le sembianze elfiche di Nirghe.
Mea non parlò, si mise semplicemente seduta, con lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé.
Gli attimi di silenzio che caddero sui tre assassini fu eterno, rotto solo dal sibilo del leggero vento che accarezzava il terreno.
- Secondo voi… Hile e Keria sono riusciti a scappare? – chiese Jasno con un filo di voce, scoprendo il capo dal cappuccio strappato che gli nascondeva la fronte.
Nessuno osò dare una risposta.
“Forse”, pensò la maga.
Dopotutto il drago di cristallo era scomparso sotto i suoi occhi, forse Keria era riuscita a salvarsi e a salvare anche il Lupo.
O forse era morta.
L’ultima volta che il suo sguardo si era posato sull’arciere, lei era appena cosciente e nessuno le aveva mai detto cosa sarebbe successo al proprio compagno se si fosse morti.
Gli antichi trattati su cui aveva avuto modo di mettere le mani, parlavano di un legame talmente profondo tra i Cavalieri e i loro draghi che se uno veniva a mancare, l’altro non sarebbe riuscito a sopravvivere.
Che valesse la stessa regola anche per loro? Ed era a senso unico? Oppure se fosse stato ucciso il suo corvo, lei ne avrebbe risentito?
Non era pronta a quello che stavano affrontando. Non aveva risposte per nulla di quello che stava vedendo.
La sua mente non era fatta per quello che le stava toccando vivere.
Lei non voleva avere a che fare con dei, demoni e profezie, non voleva essere coinvolta in qualcosa che non poteva essere studiato e compreso. Perché non poteva essere tutto meravigliosamente sensato come la magia? Correlazioni tra causa ed effetto, sfruttare cose esistenti per ottenere il risultato sperato, plasmare la materia rispettando le leggi naturali.
Tutto semplice, una volta apprese le basi.
- Io… io non credo di avere le forze per creare un riparo, questa notte. Mi dispiace. – disse solamente la mezzelfa, tornando ad appoggiare il capo per terra, mentre i suoi occhi viola puntavano la volta celeste sopra di lei, sulla quale sembravano ricamate quelle centinaia di migliaia di stelle che splendevano.



Angolo dell'Autore:
Probabilmente, ultimamente ho visto troppi video di Sabaku no Maiku.
Non so se l'esperimento che proverò oggi avrà successo o meno, ma tentare non costa nulla, dopo tutto.
Perché ho parlato di Sabaku? Nonostante non abbia neanche lontanamente il suo seguito, la sua preparazione e le sue capacità, nonostante io mi stia rapportando con una piattaforma completamente diversa da YouTube, voglio provare a rendere questo angolo dell’autore molto più interattivo.
Le recensioni sono bene accette, come al solito, loro e le storie costituiscono la base di questo sito. Mi piacerebbe, però, ricevere da voi, anche sotto forma di messaggio privato, suggerimenti anche non inerenti alla storia in sé o per sé, chiarimenti, o anche solo vostre impressioni sul lavoro che sto facendo, sullo stile, sui personaggi o, che so, qualsiasi cosa vi passi per la testa. Una volta un ragazzo mi chiese persino un parere sul nome da dare al suo continente immaginario, a me, uno degli ultimi arrivati in questa sezione.
So di non “lavorare” proprio come tutti gli altri autori, mi concentro su una storia per volta e cerco di essere estremamente puntuale con le pubblicazioni, neanche stessi serializzando un lavoro professionale. Vorrei sapere cosa ne pensate anche a riguardo di questo argomento, potrei anche scoprire che, per voi lettori, è più intrigante avere tante storie aggiornate saltuariamente, piuttosto di una sola a cadenza settimanale.
Scusatemi se scarico su voi il compito di farmi migliorare, ma non saprei a chi altro chiedere.

Ma cambiamo discorso.
Chi di voi non scrive, potrebbe non sapere come la vita reale influenzi la storia.
Ebbene, io ho in mente determinate scene per questa storia, sviluppi che ho deciso al primo capitolo… tutte cose che non riesco a scrivere perchè, evidentemente, vanno oltre le mie capacità espressive. Davvero, ultimamente sto facendo una fatica incredibile a buttare giù quella manciata di righe giornaliere.
Sono arrivato alla conclusione che, no, sarò anche l’archetipo del cinismo, ma decisamente non sono portato per il romanticismo…

Cambiando nuovamente discorso e buttando altra carne al fuoco:
Per me è arrivato anche il momento di farmi un paio di conti in tasca.
Siamo arrivati, ridendo e scherzando, al cinquantanovesimo capitolo. Sono riuscito a pubblicare ben 59 capitoli in poco più di un anno. Questa storia, lo avvertirete anche voi, è arrivata al suo limite, si deve concludere e, come vi ho detto, ho provato a fare i compiti a casa.
Otto capitoli. 8 capitoli.
Tutto dovrebbe finire in solamente otto capitoli, compreso un Epilogo simile a quello della mia storia precedente, che è anche l’unico capitolo “.5” in programma, l’unico che dedicherò solamente al Viandante.
Ora è troppo presto per ringraziarvi tutti, per dire le ultime parole sul mio lavoro passato e cominciare a guardare al futuro. Sento però nell’aria che quel momento si sta avvicinando a lunghe falcate.

Per ora, grazie a tutti voi per avermi accompagnato finora in questo viaggio, spero siate disposti a rimanere anche per lo sprint finale.
Vago 

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Capitolo 60
*** Capitolo 52: Una lunga notte ***


 Quando il sole scomparve completamente, lasciando il posto a una pallida luna, Hile perse completamente la pista che aveva seguito fino ad allora.
Si trovò solo, in mezzo al deserto, con quella gelida aria notturna che si insidiava sotto la casacca strappata e la sua pelliccia, facendolo rabbrividire.
Poteva continuare a correre nella stessa direzione che aveva seguito fino ad allora, ma avrebbe potuto, se non perdersi, imbattersi nell’esercito del demone.
La creatura dalla folta pelliccia grigia si fermò, sondando l’ambiente circostante con tutto ciò che possedeva, cercando di avvertire qualche flebile odore o il fruscio di una veste sulla pelle.
Nulla.
Intorno c’era solo il deserto, che sembrava non aver intenzione di lasciarlo andare.
Non aveva nulla per accendere un fuoco, non aveva un riparo e, presto, i morsi della fame e della sete si sarebbero fatti sentire. Fortunatamente, Natura sembrava voler essere clemente con lui, evitando di scatenare tempeste di sabbia in quel momento già difficile.
L’assassino si sedette a terra, avvolgendo con le braccia le gambe rannicchiate, per cercare di scaldarsi, in attesa del sorgere del sole.


Riesco a tenermi in piedi. Non è molto, ma me lo farò bastare.
Ah, la luna splende su di me, gli animali dormono, io sono appena sgattaiolato fuori da una casa senza svegliare nessuno, questa si che è vita.
È un peccato dover lasciare un letto comodo, per una volta che non devo passare la notte su un ramo o sotto un sasso a controllare qualcuno.
Certo, avrei preferito ripartire senza un buco in pancia, magari con i miei poteri di nuovo funzionanti, però non posso aspettare ancora.
Non so dove sono quei mocciosi, non so quanto tempo impiegherà il demone ad arrivare e non ho idea di come non morire tra atroci dolori. Come potrei essere più sereno di così?



Folate di sabbia si abbatterono sul volto canino di Hile, insinuandosi tra i peli e nelle cavità delle grandi orecchie appuntite che nascevano sul suo capo, svegliandolo.
Passi.
Passi leggeri sulla sabbia, corti e affaticati, forse, dal doversi muovere su quel terreno poco compatto che reclamava i piedi fino alle caviglie.
L’assassino si alzò in piedi lentamente, scrutando con tutti i suoi sensi quell’oscurità solo minimamente intaccata dal bagliore azzurrognolo della luna crescente che lo sovrastava.
Le iridi scure non riuscivano a distinguer nessuna forma stagliarsi sul fondale ondulato delle dune.
Le narici ispiravano a fondo l’aria fredda, ma non riuscivano a cogliere nessun odore nuovo. Sabbia, piccoli animali, il suo sudore, null’altro.
Le orecchie, però, continuavano ad avvertire l’incedere lento di quei passi.
Il suo nemico poteva vederlo?
No, i passi si stavano avvicinando ma non sembravano puntarlo direttamente.
Che fosse uno dei soldati del demone?
Possibile, non li avevano uccisi tutti, anzi, erano molti quelli rimasti in vita. Uno di loro poteva essergli corso dietro, cercando di non lasciarlo scappare.
Doveva solo rimanere immobile e in silenzio, così facendo avrebbe potuto prenderlo alla sprovvista ed evitare uno scontro inutile.
La mano troppo grande faticò ad entrare in una delle poche tasche rimaste integre dell’abito, chiudendosi attorno all’impugnatura di quell’ultimo pugnale che gli era rimasto. Certo, aveva nuove armi, ora. Gli artigli che gli ornavano le dita, combinati ai nuovi sensi e riflessi che il suo corpo aveva acquisito si potevano rivelare fatali, ma il contatto del suo palmo contro il freddo e sicuro acciaio gli dava un senso di sicurezza senza pari.
Un altro suono si sovrappose allo strascichio dei passi in avvicinamento, un verso, lamentoso, forse singhiozzante, ma troppo basso e roco per essere riconoscibile.
Le dita nude dei piedi dell’assassino, fuori dagli stivali distrutti e appoggiate sulla sabbia, avvertirono il rotolare i granelli smossi sempre più insistentemente.
La voce si fece più chiara  nel silenzio della notte.
Non era certamente umana, poteva forse essere il verso dei soldati del re? Qualcosa tra il senziente e l’animalesco?
Poco importava all’assassino quale fosse la risposta giusta, in quel momento. Dopotutto, i cadaveri non possono parlare.
I passi si fecero vicinissimi. Eccoli, di fronte a Hile, certamente inconsci della sua presenza nell’oscurità della notte. Ed ancora gli occhi lupeschi dell’assassino non riuscivano a distinguere la sagoma di quell’essere che gli doveva stare davanti, nonostante il tenue bagliore della luna fosse stato fino ad allora sufficiente a permettergli di riconoscere per lo meno il terreno sotto i suoi piedi.
La voce e i passi incorporei lo superarono, passandogli accanto e dandogli la certezze che gli occhi, se davvero li aveva, di quel corpo erano ciechi in quel buio.
Il Lupo scattò in avanti, muovendosi in modo da portarsi alle spalle di quel nemico.
Qualcosa non andò come calcolato.
Il muso della creatura lupesca sbattè contro qualcosa di largo e piatto. Uno scudo tenuto sulla schiena? Oppure una conchiglia, o un guscio.
L’impatto tra i due corpi li fece cadere entrambi a terra.
L’essere invisibile parve trovarsi in difficoltà a causa del peso dell’enorme scudo che portava sul dorso, dibattendosi tra la sabbia per cercare di rialzarsi.
Hile non si lasciò sfuggire l’occasione che gli si era presentata.
Gettò le mani di fronte a sé, tastando il terreno per cercare quel corpo, che ancora non riusciva a vedere, nonostante i pochi centimetri che lo separavano dal suo viso.
Finalmente le dita della mano sinistra si strinsero su di un braccio interamente coperto da una spessa e rigida corazza fredda. L’avambraccio andò a premere sul petto dell’essere che, nonostante la corazza che lo copriva, si poteva sentire muovere.
Era finita.
Il braccio destro si alzò verso il cielo stellato, con il pugnale stretto in pugno, per poi calare con forza e rapidità.
Se quell’essere invisibile aveva anche solo minimamente forma umana, la lama si sarebbe andata a conficcare nella sua carotide, senza lasciargli nessuna speranza.
- No, ti prego! –
Una voce umana, più umana dei borbottii che avevano raggiunto le orecchie del Lupo, seppur c’era qualcosa di strano nel timbro. Era acuta, riverberante, lontana.
Ormai era tardi per rimediare.
Il pugnale concluse il suo arco, ma la sua punta cozzò contro una porzione di armatura che non sarebbe dovuta essere lì, sotto il mento. Nessuna corazza avrebbe dovuto avere parti così limitanti per i movimenti, come un collare.
La presa dell’assassino si fece più serrata sia sull’avambraccio che sul petto, quando una mano gli cinse il polso, cercando di allontanarlo.
Ancora, la luna che si stagliava sui Muraglia non riusciva ad illuminare i lineamenti di quell’essere riverso sotto di lui.
- Cosa sei? – Ringhiò il Lupo, sentendo montare dentro di sé una diffidenza animalesca.
- Non te lo posso dire! –
- Non sei nelle condizioni di non rispondere. –
L’assassino cercò di riportare alla memoria ogni razza a lui conosciuta, ma nessuna di loro poteva corrispondere alle forme che riconosceva di quel corpo.
Troppo slanciato per un nano, decine di volte troppo grande di un rappresentante dei popoli del sottosuolo, di cui i Bereng erano i più grossi, da quanto sapeva. I camabiti si diceva essere comuni esseri umani, non potevano spiegare quel guscio che portava sulla schiena.
- Va bene, ma non mi uccidere, ti prego. So che ti sarà difficile da credere, ma sei in pericolo, se abiti nel deserto. Il demone che portò alla Guerra degli Elementi è tornato e io sono una delle poche persone che può fermarlo, ti prego, devi lasciarmi andare, ti sto dicendo la verità! –
Una sua compagna era ancora viva?
- Mea, Keria? Chi sei? –
- Come sai il mio nome? Hile, Nirghe, Jasno? Sono Keria, perché non mi riconosci? Perché non riesco a vederti? – la voce dell’essere sotto il Lupo era macchiata di emozioni diverse, paura, felicità, terrore.
- Keria calmati, adesso. Sono Hile. Cosa hai addosso? – Il Lupo cercò di sembrare calmo, togliendo poco a poco la pressione esercitata nella presa.
- Non lo so. Ho paura. È successo nella cittadella, quando ti ho visto spacciato. Il mio drago mi ha detto che mi avrebbe protetto ad ogni costo però… però non sento più nulla. Prima vedevo dei bagliori e ti ho riconosciuto, sei avvampato e poi… poi sei scomparso. Pensavo fossi morto. Per un po’ ho seguito, credo volando, i nostri compagni, poi si è fatto tutto buio. Mi sono resa conto troppo tardi che il mio corpo non sentiva più nulla, calore, dolore, nulla. Ho sentito appena, ora, la tua presa su mio braccio. –
- Keria, ascoltami. Io non riesco a vederti, capisci? Prima di capire chi tu fossi, ho provato ad ucciderti, ma sei protetta da una corazza. Devi aver avuto accesso al tuo potere. Ora fammi un favore, separati dal tuo drago, torna te stessa. –
Non arrivò nessun suono alle orecchie dell’assassino, neppure il respiro dell’arciere ancora sdraiata a terra.
- Non vuole lasciarmi. Mi ha detto che ha intenzione di proteggermi da qualunque cosa. –
- So che il tuo compagno mi sente, così come Buio sente la tua voce. Puoi lasciare il suo corpo, non ci sono pericoli, qui, e se ci fossero, sarei in grado di proteggerla anche da solo, senza bisogno del tuo intervento. –
Ci fu un fremito sulla sabbia, i granelli rossi scivolarono cominciarono a saltellare tutto intorno a dove doveva esserci il corpo trasformato di Keria.
Fu un attimo.
Per un solo secondo gli ultimi raggi della luna illuminarono blandamente la figura di fronte a Hile, prima che la pelle cristallizzata ritornasse, poco a poco, del consono colore roseo, ritirandosi in direzione della mano sinistra.
Il Lupo riuscì ad imprimersi nella mente ciò che vide. Erano gli stessi lineamenti celestiali dell’essere angelico che gli aveva teso la mano. La pelle e le carni traslucide continuavano a mostrare una forma umana, nonostante le due grosse ali che da quel dorso si aprivano rigidamente. Gli occhi cristallizzati, prima di tornare verdi, sembravano vuoti, persi e ciechi, più simili a quelli di una statua che quelli di un essere vivente.
Nel momento in cui alle spalle dell’arciere ricomparve tra il vorticare della sabbia la mole del drago, Keria cadde in ginocchio, singhiozzante.
- Stai bene? – le chiese il Lupo, facendo un passo verso di lei.
Il Drago non rispose, si protese in avanti, abbracciando le gambe della creatura ferale che aveva di fronte, con il respiro rotto e le guance rigate dalle lacrime che cadevano a terra, per poi essere risucchiate voracemente dalle sabbie del deserto.
Hile s’irrigidì a quel contatto, incerto su cosa fare.
Guardò nuovamente ai suoi piedi, dove la nuca scura dell’arciere sobbalzava. Per un attimo gli sembrò di rivedere Renèz, ma fu solo un lampo nella sua mente, immediatamente soppresso da una coscienza. L’assassino non riuscì a capire se avesse voluto cancellarlo lui o fosse stata opera di Buio.
Si chinò per cingere le spalle di Keria, che, a quel contatto,  gli appoggiò la fronte contro la spalla, distruggendo così ogni freno che tratteneva il terrore che le aveva stretto le viscere e scoppiando un pianto disperato.
Il drago cristallino rimase in disparte, ma non distolse mai lo sguardo dalla sua compagna, ancora non certo che qualcuno avrebbe potuto proteggerla come poteva lui.
Passarono decine di minuti senza che nulla variasse. Il Lupo non osava sciogliere la stretta delle sue braccia, l’arciere non sembrava aver intenzione di smettere di piangere e il drago rimaneva immobile, con il collo fieramente rivolto verso il cielo e le ali a riposo strette contro il corpo.
La luna scomparve dietro alle alte vette dei monti e l’assenza dei primi raggi rossi dell’alba fece sì che l’ambiente perse ogni definizione anche per i gialli occhi di Hile.
I singhiozzi di Keria si cominciarono a placare, mentre il suo respiro si faceva poco a poco sempre più regolare.
- Grazie. – disse piano, per poi accasciarsi addormentata tra le braccia dell’assassino.
Il sole si decise, finalmente, a sorgere dall’orizzonte piatto, illuminando con i suoi raggi infuocata la gelida aria desertica.
Il Lupo si alzò, tenendo in braccio l’arciere priva di coscienza, poi volgere il suo sguardo verso il rettile alato che si stagliava imperioso e lucente davanti a lui.
- Grazie per avermi dato ascolto. – disse l’assassino. – Posso chiederti, ora, un altro favore? Sono convinto che, non appena il sole sarà abbastanza alto, potrò rintracciare i nostri compagni di viaggio, so che non sono il tuo compagno, ma puoi servirmi, finché non saremo arrivati da loro? –
Gli occhi cristallini del drago scrutarono il muso lupesco coperto da una corta pelliccia grigia di Hile, la coda alle sue spalle, intanto, spazzava l’aria, sollevando nubi di sabbia.
Dopo un’attesa che al lanciatore di coltelli parve eterna, finalmente il compagno si mosse, piegando le quattro zampe per permettere al suo ventre di toccare il terreno.
- Grazie. – gli disse ancora il Lupo, balzando su quel dorso squamoso e sistemandosi con Keria di fronte raggomitolata di fronte a sé, in modo che non potesse scivolare in alcun modo. Spostò quindi lo sguardo a nord, dove la pianura si estendeva per centinaia di chilometri senza un accenno di altura.
Il drago cristallino sbattè con foga un paio di volte le ali immense, sollevando la sua mole da terra e puntando verso il cielo limpido.
Gli occhi di Hile riuscirono a catturare qualcosa.
Ombre. Tante, lontane.
Man mano che il sole procedeva nel suo tragitto, le forme che vedeva si separavano le une dalle altre, definendosi sempre più. Ne contò quattro non troppo distanti, a nord ovest rispetto a lui, e, più lontano, il suo sguardo si imbatté in un conglomerato scuro senza forma.
Una nuvola passeggera?
No, il cielo era terso.
Il bosco che aveva ospitato l’Oasi di Farionim?
No, troppo vicina ai Monti Muraglia.
Hile rabbrividì. Se quello fosse stato l’esercito che avrebbero dovuto combattere, neppure con i loro nuovi poteri avrebbero potuto avere la possibilità di sopravvivere a uno scontro simile.


Angolo dell'autore:
- 7 capitoli (ricordarmi quanto sono vicino alla fine non può che incentivarmi a dare il meglio in questo sprint finale)

Voglio provare a dare una continuità a quello che ho detto la volta scorsa sull'interattività, quindi anche qui voglio provare a chiedervi un parere, oh, miei lettori.
Volgete un attimo lo sguardo al futuro. Questa storia è terminata, ho finito anche di revisionate tutti i cento e più capitoli pubblicati finora (si, non appena finirò qui, ho intenzione di prendermi una settimana per risistemare tutti i capitoli, correggendone, se riuscirò, circa 15 al giorno) e sto per pubblicare l'ultimo "libro" di questa mia trilogia dichiarata.
Ho un dubbio: il titolo. Ci sto riflettendo da diverso tempo e non riesco a venirne a capo. La prossima storia, questo posso diverlo, servirà a chiudere tutto ciò che ho lasciato inconcluso sul mio cammino, vedrà solo tre personaggi principali con diverse turbe mentali e chiuderà probabilmente per sempre questo mio lavoro durato, ad ora, qualcosa come sei anni da quando posi la prima parola (che fu Ardof, se volete saperlo).
Ecco il mio dubbio. Non so se il sottotitolo migliore sia:
- Figli della Storia
- Figli della Trama
- Appendici della Trama (in quanto l'appendice di un libro serve a concludere discorsi accennati nell'opera principale)

Vorrei sapere cosa ne pensate, ovviamente in futuro avrò comunque l'opportunità di cambiarlo, se arrivasse un'idea migliore.

Ringrazio infine OldKey (come ha detto lei per prima, mia primissima follower), laRagazzaImperfetta ed EragonForever per quando giungerà qui. Ringrazio anche voi, lettori silenziosi, per darmi la possibilità di fregiarmi del titolo immeritato di scrittore.
Alla settimana prossima.
Vago 

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Capitolo 61
*** Capitolo 53: Lacrime ***


 Non c’era modo per Jasno di trasportare due persone in volo, così come la sua aquila non riusciva a portare sul suo dorso tutti e tre gli assassini.
Il drago di Keria, in quel momento, si sarebbe rivelato incredibilmente utile. Pensò Mea.
I duri artigli che ornavano i piedi dell’Aquila si strinsero attorno alle spalle della mezzelfa. Diverse folate di vento le scompigliarono la chioma blu, mentre i suoi piedi perdevano pian piano aderenza con il terreno, per poi lasciarselo definitivamente alle spalle.
Ogni corrente d’aria che incontravano faceva ondeggiare vertiginosamente il corpo della maga, sospeso a decine di metri dal suolo.
L’iride viola si scostò nuovamente dal terreno che sotto di lei scorreva veloce e sul quale una macchia scura correva altrettanto rapidamente, per posarsi sul paesaggio che le andava incontro e sulle vette illuminate dal sole.
Il suo corvo le sfrecciò accanto, procedendo in una linea retta quasi perfetta, corretta solo saltuariamente da un’impercettibile movimento della coda o delle ali.
Perché lei non ci riusciva?
Perché non era ancora riuscita a liberare il potere che le era stato donato?
E perché era così debole? Tutti i suoi compagni avevano continuato a combattere, nonostante fossero feriti, nonostante i loro corpi fossero appena in grado di mantenerli coscienti. Lei non riusciva a fare niente, senza la sua magia era più inutile di una pietra. Così come lo era ora, appesa come un salame in stagionatura, incapace persino di contrapporsi ai deboli venti che si imbattevano sul suo corpo martoriato.
Il braccio destro aveva smesso di formicolarle da ore, ormai. Non che questa fosse una buona notizia, visto che non avvertiva assolutamente nessuna sensazione da quell’arto stretto tra le bende sporche di sangue e terra.
L’occhio coperto dal bendaggio che le avvolgeva il capo pulsava ritmicamente, di pari passo con le pulsazioni del suo cuore.
Era inutile, così. Non sarebbe riuscita nemmeno ad attivare l’incantesimo più semplice che conosceva.
Il corvo le passò nuovamente accanto, come un oscuro dardo piumato.
Doveva ottenere quel potere. Non poteva rimanere indietro. Doveva guarire, doveva far ricaricare la sua riserva di mana e doveva sconfiggere il demone ed il suo esercito. Aveva la magia dalla sua parte, doveva avere abbastanza potere per farlo.
Una folata di vento più forte delle altre fece oscillare  violentemente il suo corpo, trascinando la mente della maga al presente.
Jasno, sopra il suo capo, si era portato in posizione quasi verticale, nel disperato tentativo di rallentare il suo volo.
Perché? Cosa aveva visto di così terribile da fargli prendere la decisione di fermarsi?
Il suo unico occhio in grado di vedere cercò di mettere a fuoco l’ambiente, sperando di trovar qualcosa, senza però notar nulla. Vedeva il paesaggio di fronte a lei sfocato, come se l’avesse guardato attraverso una lente appannata e rotta.
Tutto accadde all’improvviso.
Qualcosa di solido si frappose sulla loro strada e i due assassini non poterono far altro che cozzarci contro.
La prima cosa che Mea riuscì a sentire fu la contrazione involontaria degli artigli dell’Aquila, che si fecero strada tra la carne delle sue spalle. Solo in un secondo momento il suo corpo impattò contro quel muro invisibile.
Il braccio rotto venne pressato tra il suo petto e quella superficie ruvida, facendola urlare di dolore e tingere di sangue fresco la benda che lo fasciava.
La sua mente si offuscò per qualche secondo. Per un momento desiderò di poter perdere coscienza, solamente per poter fuggire da quella tortura infernale in cui le sembrava di essere precipitata.
Non sentiva nessun movimento, sopra di lei, come se Jasno avesse rinunciato a sbattere le sue ali. Ciò nonostante non riuscivano nemmeno a precipitare.
Qualcosa di appuntito le graffiò il collo, per poi afferrarle il colletto della sua veste strappata e trascinarla verso l’alto con ben poca cura delle sue condizioni.
Finalmente, dopo un tempo incalcolabilmente lungo, Mea si sentì issare oltre la cima di quell’ostacolo, mentre la sua fronte venne accolta da qualcosa di morbido.
Voci. Voci ronzavano attorno alle sue orecchie, ma non le riusciva a interpretare, come se stessero parlando lingue straniere.
Alla fine, anche il dolore al braccio si fece sordo e il lento e costante colare delle lacrime che inzuppavano la benda sul suo occhio divenne lontano.
Poi tutto si fece scuro.


Mi devi un servigio.
Che diamine vuol dire mi devi un servigio!?
Vi sto già servendo cosa volete di più? Ho un maledettissimo contratto con voi che mi obbliga a obbedire a ogni vostro maledettissimo, orrido e malato ordine, e tu osi ancora dirmi che ti devo un servigio perché sto cercando di salvare lo scalpo a te e a quegli altri ratti sotto cui agisco?
Mi fate schifo.
Avete avuto solo fortuna.
Avete avuto solo fortuna che sia stato io quello lasciato in libertà. Fosse stata lei al mio posto, dopo il secondo mese di questa vita vi sareste ritrovati le vostre città rase al suolo da fiamme inestinguibili e la vostra progenie maledetta per sempre.
Ringraziate solo che questa musa che controllate sia stata creata con un indole così remissiva.

Respira, Viandante. Calmati e rifletti.
Sei vivo, riesci a muoverti e sei sufficientemente lucido.

Ho recuperato tutto. Il direttore della setta è stato così magnanimo da aprirmi le porte dell’armeria. Pensate quanta bontà d’animo.
Due spade, dodici coltelli da lancio, arco e frecce, incantesimi preparati, fogli nuovi e inchiostro. Per fortuna non ha fatto domande sul perché non abbia preso della vetreria e una cerbottana.
Le porte della Trama mi si stanno schiudendo poco a poco, per fortuna. Almeno so che non è un problema permanente, per quanto la mia degenza possa essere lunga tornerò in carreggiata.
Per ora posso leggere solamente le persone che mi trovo davanti, o, per lo meno, quelle con il Fato meno intricato. È comunque un buon passo avanti dall’essere all’oscuro di tutto.
In questo momento, però, vorrei sapere com’è la situazione nella zona calda.
I mocciosi saranno ancora vivi? Il demone sarà già arrivato ai piedi dei Muraglia? Troppe variabili mi sfuggono.
Sarà un lungo viaggio quello che mi si prospetta davanti.



La mezzelfa aprì lentamente gli occhi.
Il braccio destro era intorpidito, le dita di quella mano nemmeno le percepiva.
Il sole l’abbagliò per diversi secondi, mentre il suo occhio lottava per riconoscere le figure che vedeva sopra di sé.
Quattro volti, due dei quali decisamente non erano umani.
- Stai bene? – chiese qualcuno.
Una voce, femminile. Doveva essere Keria.
Cosa ci faceva lei lì? Quando li aveva raggiunti?
Ed Hile? Era arrivato con lei?
Mea provò ad alzarsi, ma un improvviso capogiro la travolse. Solo un paio di braccia magre le impedì di ritornare sdraiata.
- Non ti sforzare troppo. – continuò l’arciere.
- Come ci avete raggiunti? – la maga avvertì appena la sua stessa voce, tanto flebile era. Sentiva la lingua secca e le labbra pesanti, come se non avessero voglia di muoversi per lasciarla parlare.
- Hile ci ha guidati fin qui. Fossimo arrivati tardi chissà cosa vi sarebbe potuto accadere… - Keria accompagnò delicatamente la schiena della mezzelfa finché non raggiunse la posizione eretta.
- Cosa… - borbottò Mea, cercando di mettere a fuoco il terreno che doveva esserci oltre la frangia blu che le ricadeva sull’occhio.
- L’esercito del demone è pochi chilometri davanti a noi. – le rispose il Lupo, con una voce resa più roca dalla forma che aveva assunto. – Li ho visti, sono centinaia di combattenti, tutti in marcia verso i Muraglia, e voi stavate per volarci sopra. –
La maga rimase in silenzio, seduta a terra con il capo chino.
- Dobbiamo solo aggirarli. – la voce era di Nirghe, ne era sicura, e non era modificata dalla sua trasformazione – Ora che abbiamo con noi il drago di Keria non sarà un problema. –
- Nirghe, - di nuovo la roca voce di Hile alla sua sinistra – anche se riuscissimo a superare i Monti Muraglia senza farci scoprire, cosa pensi che potremmo fare? Se ho inteso bene le ombre che vedo, il demone non impiegherà più di tre giorni a raggiungere i territori occidentali. Sono troppi per chiunque, poteri o non poteri. Come pensi potremmo fermarli? –
Se solo avesse potuto, Mea avrebbe piegato ancor di più la fronte verso il terreno.
Si era lasciata prendere dalla foga con cui i suoi compagni l’avevano trascinata in quella fuga, che aveva perso di vista il loro obbiettivo.
Non era una gara a chi, per primo, avrebbe raggiunto i Muraglia. Il loro compito era stato sempre, fin dall’inizio di quel viaggio, quello di fermare il demone. Ed avevano fallito, fino ad allora.
- Hai detto che il demone ha ancora tre giorni di viaggio, davanti a sé? – Di nuovo la voce di Nirghe alla sua destra.
- Credo… - Hile non era per niente sicuro di quell’informazione.
- Fermiamoci, per oggi. – ribatté il Gatto.
- Cosa? – La voce acuta di Keria trapanò il timpano sinistro della mezzelfa, facendole accapponare la pelle.
- Nirghe, ti sei bevuto completamente il cervello? – disse ancora il Lupo, sconcertato della serietà con cui l’aveva detto.
- Per niente. Ascoltatemi, non servirebbe a nulla, adesso, ripartire. Tanto non sappiamo dove andare. Per di più Mea sta sempre peggio e, a meno che non riesca ad accedere al suo potere in questo esatto momento, sono sicuro che non potrebbe sopportare altre sei ore di viaggio senza far peggiorare ulteriormente le sue condizioni. Fermiamoci adesso, riposiamo questo pomeriggio e questa notte, domani ripartiremo quantomeno meno stanchi e raggiungeremo quelle maledette montagne laggiù. Va bene? –
Di nuovo cadde il silenzio sul gruppo.
- Servono provviste e acqua. – disse dopo un paio di interminabili minuti Hile, alzandosi. – Credo di poter cacciare qualche coniglio, anche da solo. Ho visto un braccio minore del Serat, qui vicino, non so però dove potremmo metterla quell’acqua. Servirà poi anche della legna per il fuoco… –
Passi rapidi e leggeri si allontanarono dalla maga.
- Mea, tu riposati un poco. Al resto ci pensiamo noi. – le disse Keria con voce calma, mentre le sue braccia le accompagnarono la schiena fino a quando non toccò il terreno.
Il Corvo resistette cosciente per pochi secondi, poi, quando le sue palpebre divennero troppo pesanti per rimanere aperte e i suoi sensi troppo offuscati per fornirle informazioni utili sul mondo intorno a lei, si lasciò cadere nel morbido abbraccio del sonno.

Fu uno scrosciare d’acqua lento e costante a svegliarla, al quale si sovrapponeva, di tanto in tanto un’imprecazione imprigionata tra le labbra strette.
Mea si alzò lentamente.
Il braccio destro non tentava nemmeno di dare segni di vita, inerme ed inerte, stretto dalla fasciatura intrisa del suo stesso sangue.
Il terreno sotto di lei era cambiato, così come il sole era riuscito a superare il culmine della sua corsa e aveva cominciato la sua lenta discesa verso il Continente.
Cos’era successo, mentre era addormentata?
Percepiva il suo compagno volare da qualche parte sopra la sua testa.
Davanti a lei Hile lanciò con rabbia un paio di pezzi di legno a terra, imprecando per l’ennesima volta. Il suo compagno, intanto, sonnecchiava placido al suo fianco, con la grossa testa grigia appoggiata alle zampe anteriori.
Solo allora il Lupo parve notare che la maga si fosse svegliata.
- Oh, ben tornata tra noi. Spero di non averti svegliata io. –
- Dove siamo? –
- Visto che non potevamo portarci l’acqua dietro, siamo andati noi da lei. –
- E gli altri? –
- Nirghe e Jasno stanno pulendo la nostra cena. Keria è andata a lavarsi poco fa. –
Solo allora Mea notò la piramide di rametti e trucioli alle spalle del Lupo.
- Hai bisogno di una mano, con quelli? – chiese la maga alzandosi incerta in piedi.
- No, posso farcela anche da solo. Tu cerca di riposarti. –
L’assassino raccolse da terra i due pezzi di legno che aveva gettato poco prima, posizionandoli uno sull’altro e cercando di produrre brace a sufficienza per accendere quel falò.
I minuti passavano e ancora dalle mani di Hile non si levava nemmeno un filo di fumo.
Il Corvo si accovacciò, appoggiando l’indice della mano sinistra sul morbido terreno e tracciando un paio di fluide linee che, intrecciandosi,  andavano a chiudere un cerchio. CI appoggiò quindi il palmo sopra, facendo attenzione a non rovinare il suo lavoro.
Una calda scintilla guizzò alla base della legna, là dove riposava l’esca in attesa di essere accesa. Quel poco calore fu sufficiente a far nascere un timido fuocherello che, pian piano, mangiati i fini filamenti dell’esca, prese a lambire i trucioli che erano stati sistemati sopra di questa.
- Mea, cosa hai fatto, maledizione? – disse iracondo il Lupo, voltandosi verso di lei, ma la sua espressione cambiò immediatamente quando vide la fronte sudata della maga e il bendaggio nuovamente irrorato da sangue fresco. – Dannazione, non dovevi farlo. Guarda come ti sei ridotta… -
- Non è niente… Ho solo sbagliato un pochino a dosare le mie energie. – gli ripose la mezzelfa con la voce rotta dal respiro affannato.
Il sole impiegò ancora un’ora a raggiungere le vette dei Monti Muraglia ma, non appena fu sopra di loro, lunghe ombre cominciarono a correre lungo tutta la Piana Infinita, coprendo con la loro oscurità tutto ciò che fino a poco prima si era crogiolato sotto i caldi raggi pomeridiani e facendo perdere di vista al Lupo le ombre che gli indicavano la posizione dell’esercito del demone.
Su quel fuoco ormai scoppiettante si cuocevano lentamente le quattro prede che Hile era riuscito a catturare, mentre i cinque assassini rimanevano seduti in cerchio intorno a questo, ognuno perso nei suoi pensieri.
La bianca luce lunare cominciava ad illuminare il lontano e piatto orizzonte, dalla parte opposta, intanto, gli ultimi caldi raggi di sole scomparivano dietro le vette più basse.
Non appena gli ultimi avanzi scomparvero e le ossa furono sotterrate per non attirare animali selvatici, Mea si alzò, dirigendosi lentamente in direzione del rumore sommesso del fiume.
Aveva bisogno di rinfrescarsi e rimanere un attimo da sola per pensare.
Raggiunta la sassosa sponda di quel ramo del Serat, la maga si abbassò, intingendo la mano sinistra in quelle fredde acque e portando le poche gocce che erano rimaste sul suo palmo al viso, cercando di ripulirlo dallo sporco che doveva averlo ricoperto.
Il suo compagno la raggiunse poco dopo, atterrando su di un ramo marcescente trasportato dalla corrente per chissà quanto tempo, per poi essere abbandonato tra quelle rocce.
La mezzelfa cercò di portarsi altra acqua alle guance, fallendo miseramente nel tentativo e perdendo per qualche istante l’equilibrio.
Grosse lacrime cristalline cominciarono a colarle dall’occhio destro, mentre la benda che ancora le copriva il sinistro tumefatto si inzuppava di quelle che da lì cercavano di raggiungere il terreno.
Non riusciva nemmeno a pulirsi il volto da sola, come avrebbe potuto essere di qualche utilità ai suoi compagni?
Guardò in direzione del suo compagno, quasi interamente confuso con le ombre della notte.
- Perché non mi presti il tuo potere? – gli chiese, come aspettandosi una risposta da quell’animale divino.
- Perché non mi presti il tuo potere! – ripeté a voce più alta, in preda al pianto.
Un paio di mani sulle sue spalle la fecero sussultare.


Ed ora che cosa dovrei fare?
Già, bell’idea dirigerti verso i Muraglia, Viandante, complimenti, se solo non fosse che questi monti si estendono per qualche migliaio di chilometri da nord a sud e per almeno un centinaio da est a ovest.
Ovvio, come puoi non trovare qualcuno, qui.
Fermati e ragiona.
Ponendo che il Fato è più forte di Follia e che quei mocciosi siano davvero destinati a sconfiggere, se non uccidere, quel demone squilibrato, loro sono riusciti a scappare. Vorrei sapere come, ma sarà un problema che mi porrò quando potrò tornare a scandagliare la Trama del Reale in lungo e in largo.
Dove potrebbero essersi diretti? Sanno che il Palazzo della Mezzanotte è vuoto, ma la Terra degli Eroi è anche il percorso più veloce per raggiungere le maggiori città.
Avessi una moneta a venti facce ora la tirerei.
Farò che seguire il mio istinto, sperando che anche quello non si sia rotto assieme ai miei poteri.



Angolo dell'autore:
Bene, ho solo dodici ore di ritardo. Poteva andare molto peggio.
Comunque, passiamo al vero Angolo dell'autore, accantonando la sua versione disperata.
- 6
Bene, io non so bene di cosa parlarvi, adesso. Sto lottando con i miei blocchi, con il poco tempo e con il mio desiderio di non far finire mai questa storia, e questi pensieri mi distraggono da quello che effettivamente dovrei chiedere a voi, miei giudici, giurie e carnefici.
Facciamo una follia. Proverò a fare il fanboy, ruolo che non mi sono mai visto bene addosso.
Coppie o, in lingua forse a voi più consona (ma a me lontanissima) ship tra personaggi.
Mi sono costretto a piazzare degli apostrofi rosa, perchè queste storie sono il mio campo di prova. Cerco di spaziare in lungo e in largo per testare tecniche narrative, per migliorarmi e per imparare cose nuove, il romanticismo, ahimè, esiste e devo essere minimamente in grado di gestirlo. La mia domanda della settimana è quindi questa:
All'inizio di questo viaggio (perchè di un viaggio si tratta), quali coppie vi eravate immaginati? Io, ovviamente, creando i personaggi avevo già immanginato i possibili sviluppi, ma vorrei sapere da voi se avreste voluto vedere qualcosa di diverso da quel che è successo, finora, per lo meno.
Oh, giusto. Ho un'altra domanda per voi, ancora più importante. Visto che mi sto preparando per la grande era della revisione, preferite un formato come quello che utilizzo ora con l'allineamento a sinistra, oppure trovate più ordinato e leggibile il giustificato?
Ringrazio OldKey, LaRagazzaImperfetta, EragonForever e (new entry, ma non troppo, vista la data della prima recensione che mi ha lasciato) Laly of the Moonlight. Inoltre, come al solito, ringrazio tutti voi che mi leggete.
Io concluderei qui, a questo punto.
Ci vediamo la settimana prossima.
Vago 

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Capitolo 62
*** Capitolo 54: Il risveglio del Corvo ***


 Mea si voltò di scatto a quel contatto.
Davanti a lei una figura scura rimaneva dritta, ferma, sorpresa dalla reazione repentina di quel corpo martoriato.
La maga si alzò goffamente, cercando di rimanere in equilibrio sui sassi sconnessi su cui appoggiavano i suoi piedi.
- Che c’è? – chiese con voce dura.
- Io… io volevo solo controllare che stessi bene. – le rispose la figura davanti a lei.
Nirghe. Era la voce di Nirghe.
- Sto bene. – gli rispose secca.
- Non si direbbe, visto le urla che hai tirato. Avevamo paura che ti si fosse riaperta la ferita o ti fosse successo qualcosa di peggiore. –
- Sto bene, ho detto. E prima non era niente. –
- Senti, - disse il Gatto, accompagnato dal fruscio della sua veste lacerata e sporca, segno che si era chinato o seduto sulle pietre della banchina – so che ti da fastidio non poter far nulla, ma… Adesso, semplicemente, non puoi far nulla. Sei debole, ferita e non puoi utilizzare i tuoi incantesimi. Per ora, finché non riuscirai ad ottenere i tuoi poteri, lascia fare a noi. –
Mea non rispose, si voltò invece dalla parte opposta in silenzio.
- Ascolta, ti prego. – Nirghe non sapeva cosa fare o dire, in quella situazione – Almeno dimmi qual è il problema che ti assilla. Magari, tutti assieme potremmo aiutarti a risolverlo. –
La maga si voltò di scatto, in modo da permettere all’occhio non coperto di mettere a fuoco la figura scura dell’assassino.
– Come potreste aiutarmi? – chiese gelida – Voi ce l’avete fatta da soli, potete usare il vostro potere a comando, ora. Evidentemente, se dopo tutto quello che ho passato io non ci sono riuscita, mi sembra ovvio che Seila non sia stata l’unico errore di valutazione degli dei. –
- Come fai a dirlo? Il tuo compagno è lì, davanti a te, perché non dovresti trovare un punto d’incontro con lui e, insieme, accedere al vostro potere. Dopotutto tu… -
- Io cosa? Perché dovrei essere per forza speciale come voi altri? –
- Tu sei sempre stata quella più vicina ad ottenerlo, quel potere.  Ogni volta che il tuo compagno ti permetteva di vedere il mondo attraverso i suoi occhi,  credo foste sempre ad un passo dal rompere quel muro che vi divide. –
- E allora perché non l’abbiamo buttato giù? Dimmelo, visto che sembri sapere come funziono persino meglio di me. –
- Credo perché, nonostante lui si fidasse di te al punto di accoglierti nel suo corpo, tu non sia mai stata disposta a fare altrettanto. Mea, sii sincera con te stessa, non hai mai permesso a nessuno di avvicinarsi abbastanza per conoscerti davvero, nemmeno con le persone con cui hai viaggiato per degli anni. Dovresti aprirti, dovresti provare a fidarti di qualcuno, secondo me. Comunque, se davvero stai bene, io torno al falò. –
Nirghe si alzò da terra, pulendosi i pantaloni stracciati con qualche pacca a mano aperta, per poi avviarsi verso la rossa luce del fuoco che danzava nell’oscurità.
- Non posso. – disse ancora Mea.
- Non puoi cosa? – ribatté il Gatto fermandosi, ma senza voltarsi.
- Non posso fidarmi, non posso aprirmi. Non credo nemmeno di sapere come si faccia. –
- Dire agli altri cosa pensi davvero sarebbe un buon inizio. –
- Non posso. –
- Come non puoi? – sbottò Nirghe voltandosi – Piuttosto dì che non vuoi. Noi altri siamo sempre stati sinceri su tutto, sei tu quella che cerca di tenersi in isolamento. Solo tu. Vuoi che sia io a sbatterti l’evidenza in faccia? Bene. Potresti cominciare a parlare con noi, non blaterando solo ordini o tuoi piani, ma dicendoci quello che davvero pensi. Non credo che a qualcuno, qui, interessi di più il tuo sapere che te. –
- Dovrei parlarvi? E di cosa? Cosa vorreste sapere su di me? Che mi detesto perché sono uno schifo di mezzelfo, cacciato in metà delle città delle Terre? O forse perché ho imparato tutto dai miei libri, senza poter mai toccare con mano quello che avevo appreso dalle righe di testo? – La voce della maga si incrinò – Forse ti interesserà sapere che detesto questo compito che ci è stato affidato, così casuale, così oscuro e imprevedibile. Oppure, sicuramente vorrai sapere che odio con il profondo del mio spirito quel corvo che mi fissa, mi fissa e mi fissa, libero dai vincoli a cui sono sottoposta, che si rifiuta di darmi la possibilità di combattere ancora, di essere utile a voi. E ancora, odio Spazio, perché mi ha messo alla prova solamente per spedirmi in giro per le Terre come carne da macello, senza possibilità di sopravvivenza. –
Mea cominciò a singhiozzare, mentre il tono della sua voce continuava ad alzarsi, superando il gorgoglio dell’acqua e rompendo la quiete della notte.
Nirghe provò ad intervenire, ma la maga non gli permise nemmeno di aprir bocca.
- E se devo continuare, sono stanca di non essere abbastanza. Sono stanca di dover faticare, di dover fare solo affidamento sul cumulo di nozioni che ho nella testa per essere al livello degli altri. Io odio, detesto dovervi guardare mentre fate cose che io non posso fare, così come odio ogni singola ignobile emozione che provo, così fastidiosamente invasive. E non detesto solo loro, io odio Seila, per non essere stata all’altezza della sua prova, odio Keria, perché non l’ho mai vista perdersi d’animo, odio Jasno, perché è l’unico che deve combattere oltre che con il mondo anche con il suo corpo, perché è l’unico che dovrebbe lamentarsi e invece non lo fa, odio Hile, perché sarebbe dovuto essere fondamentale per sigillare il demone, ed odio te, perché… perché credo di provare qualcosa e non so come gestire questa situazione e ne ho paura. –
Il Gatto rimase interdetto, cercando di elaborare quello che aveva appena sentito. Il suo cuore accelerò i suoi battiti mentre la mano destra, meccanicamente, si introdusse nell’unica tasca della casacca rimasta integra per permettere alle sue dita di stringersi intorno al cilindretto di legno che lì riposava.
- Scusa… non volevo dire che… lascia stare, fai finta che non abbia detto nulla. – disse ancora il Corvo, calmandosi un poco.
Lo spadaccino rimase rigido, immobile. Era sicuro di aver capito bene le parole della mezzelfa, perché allora stava così male? Il suo sogno si era realizzato, perché non riusciva ad essere felice come avrebbe dovuto?
Si decise infine a fare qualcosa, avanzando goffamente verso la maga, per poi stringerla in un abbraccio stretto.
Mea non riuscì di nuovo a trattenere le lacrime, che irrorarono nuovamente la benda sull’occhio sinistro e corsero lungo l’abito del Gatto.
Un rapido rumore alle spalle di Nirghe ruppe il silenzio della notte, ma non quell’abbraccio.
Lo spadaccino sentì il corpo della maga sobbalzare, per poi gonfiarsi tra le sue braccia, divenendo morbido sotto le sue dita. Qualcosa di rigido, là dove prima si appoggiava il naso della mezzelfa, cominciò a premere contro la sua pelle, minacciando di bucarla.
- Nirghe… non sento più freddo. –
- Io… io non credo di c’entrare. – gli rispose l’assassino, cercando di fa allontanare il proprio petto da quello spuntone senza mettere in allarme il Corvo, che sembrava essersi finalmente calmata.
Centinaia di spilli ardenti sembrarono prender di mira i due corpi avvinghiati, aumentando il loro numero e l’intensità del pungolio man mano che i secondi avanzavano.
- Cosa sta succedendo? – chiese la maga con voce terrorizzata.
- Non ne ho idea. Tu devi solo rimanere calma, sono sicuro che non ci succederà nulla di male. –
Nirghe arrivò al limite della sua sopportazione del dolore. Si trovò a desiderare di avere ancora qualche brandello di pelle addosso, quando quella tortura sarebbe finita. Se sarebbe finita.
Poi tutto cessò così come era iniziato all’improvviso.
Lo spadaccino sentì la sua schiena scaldarsi rapidamente, mentre davanti ai suoi occhi era comparso un terrorizzato volto di Jasno illuminato da una danzante luce rossa.
L’Aquila fece appena in tempo ad alzarsi in piedi, che gli spilli ripresero a martoriare il corpo del Gatto e, a giudicare dalle espressioni intorno a lui, le sue membra non erano le uniche ad essere tartassate da quella punizione.
Questa volta gli spilli furono più violenti, ma la tortura fu più breve. Il caldo bagliore del fuoco scomparve per far spazio a un gelido vento battente.
La luna si rese visibile al gruppo nei suoi ultimi momenti di dominio sul cielo, mentre est i primi raggi del sole illuminarono lo scuro muro di cinta del Palazzo della Mezzanotte.
Nirghe sciolse lentamente l’abbraccio che ancora lo legava alla maga, i suoi occhi, intanto, guizzavano da una parte all’altra in cerca di capire cosa fosse successo.
Quella era la Terra degli Eroi, non c’erano dubbi. La vera domanda era perché fossero arrivati proprio lì, con tutta la superficie del mondo a disposizione.
Lo spadaccino fece un passo indietro, mentre il sole si decise infine a sorgere, rischiarando l’alba e gettando la sua luce sul lato orientale delle Terre. Davanti a lui c’era Mea, in piedi.
Un lungo piumaggio nero ricopriva il suo corpo, ondeggiando morbido al vento, il suo volto era irriconoscibile poiché là dove le piume non nascondevano le forme, un grosso becco scuro si era impossessato dei lineamenti, lasciando appena lo spazio necessario ad esistere a due piccoli e lucidi occhi color pece.
Brandelli di quelle che furono fasciature cadevano ora molli attorno alla fronte e all’ala destra della creatura.
Il corvo alzò lentamente le mani artigliate al cielo, facendo splendere le lunghe piume che ricoprivano le braccia alla calda luce mattutina.
- Questo… questo è davvero il mio potere? – chiese con voce tremante la maga.
- Mea, - disse Hile alzandosi da terra, dove ancora era seduto – perché ci hai portati qui? –
La creatura piumata si voltò verso il lanciatore di coltelli, gli occhi neri parvero volerlo trapassare, tanto erano profondi. – Io… non ne ho idea. Lui, il io compagno, mi ha detto di fidarmi e… io credo di averlo fatto. Ho sentito delle lame nel mio corpo e lui mi ha portato da voi, poi nuovo ha chiesto la mia e, questa volta, il volo in cui mi ha trascinato è durato di più e mi, ci ha portati… fin qui. –
- È ovvio che ne sai quanto noi, quindi. – continuò Hile, pulendosi i pantaloni dalla terra. Buio lo raggiunse, sedendosi al suo fianco.
- Io non credo che il motivo per cui siamo qui sia il nostro problema principale… - Keria si era portata verso il confine orientale della Terra degli Eroi ed ora guardava i suoi compagni con occhi sbarrati.
Ai piedi dei Monti Muraglia, si stendeva una distesa di corpi scuri e armi scintillanti, la rossa luce solare non faceva che rendere ancora più infernale quella scena. La massa avanzava inesorabile, seguendo un punto isolato che capeggiava l’esercito e gli batteva il passo da seguire.
Erano migliaia, centinaia di migliaia di demoni pronti alla battaglia, nessun esercito sarebbe mai riuscito a fronteggiarli e uscirne vittorioso.
Le gambe di Nirghe cedettero, facendolo crollare in ginocchio.
Hile rimasero immobile, incapace di chiudere gli occhi.
Mea fissava allibita la piana, mentre le piume che la ricoprivano si disgregavano lentamente andando a ricomporre il corpo del suo compagno.
Keria si era nuovamente allontanata per raggiungere il suo drago, per poi sedersi su una delle possenti zampe cristalline.
Jasno si sedette sulle sue caviglie, rimanendo appollaiato mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto.
Il Lupo si sentì di nuovo sprofondare nell’abisso dello sconforto. I libri che era stato costretto a studiare parlavano di numeri simili, durante la Guerra degli Elementi, ma, almeno, allora potevano vantare su un’alleanza delle maggiori razze, su unità mostruose, draghi, maghi addestrati e una trappola a tenaglia. Loro erano in cinque. Solamente cinque assassini contro gli stessi esseri che arrivarono ad un passo dall’uccidere tutti i sei eroi leggendari che avrebbero poi sconfitto Reis.
Mea non era minimamente, come maga, al livello di potere dei Sei. Il drago di Keria, per quanto potesse essere maestoso, non valeva la metà di un vero drago. I poteri che avevano ricevuto erano troppo dispendiosi, in termini di energia, per essere utilizzati più volte consecutivamente.
Da quanto il Gatto aveva detto, sarebbe riuscito a riavvolgere il tempo di appena un minuto, se si fosse trovato in una situazioni critica, prima di rimanere senza forze.
Il potere di Keria, da quanto aveva capito, la proteggeva come una barriera indistruttibile, ispirando in chi gli stava intorno nuova speranza, ma nulla più.
Il potere che gli aveva concesso Oscurità gli avrebbe permesso di intrufolarsi tra le linee nemiche o fuggire in sicurezza, ma non era certo di quanto tempo sarebbe resistito in quella dimensione, se avesse portato con sé i suoi compagni di viaggio.
Forse solo Jasno si sarebbe potuto trovare a suo agio nella bolgia di corpi che li avrebbe accolti, ma anche lui aveva dei limiti di resistenza.
Al Lupo comparve un amaro sorriso sulle labbra.
Ogni volta che facevano un passo avanti si ritrovavano su quella vetta mozzata ed ogni volta non erano abbastanza forti per fronteggiare quello che quello che sarebbe venuto.
Erano partiti da dentro quelle mura, come perfetti sconosciuti.
Erano tornati lì dopo aver incontrato i draghi, i Sei, gli dei, dopo aver ricevuto un dono dagli dei minori e aver perso anni di vita in una grotta.
Avevano poi partecipato all’assassinio di un attendente al trono e all’incoronazione di un loro alleato, si erano dovuti confrontare con nuove tecnologie e aveva ritrovato sua sorella.
Infine, erano partiti verso est, consapevoli che davanti a loro c’era il demone ad attenderli.
Ogni volta che tornavano, non avevano speranze di uscire vittoriosi da quello che li aspettava dopo. Però, inspiegabilmente, ogni volta si ritrovavano lì. Vivi.
Questa volta, però, la loro fortuna li doveva aver abbandonati.
- Quanto siamo disperati? – chiese a bruciapelo la maga, tastando ogni parte del suo corpo per assicurarsi che nulla fosse mutato permanentemente dalla sua trasformazione.
- C’è davvero bisogno di chiederlo? – le rispose il Lupo, voltandosi per non dover più vedere lo spettacolo che gli si presentava di fronte.
- Non è la risposta che voglio avere. Ho bisogno di sapere quanto siamo disperati. Credete di avere possibilità contro di loro? Se così è, allora possiamo combattere, altrimenti… ho una soluzione estrema per proteggere tutte le persone dalla guerra. – ripeté la mezzelfa con la voce indurita.
- Davvero hai una soluzione? – disse Nirghe voltandosi.
- È estrema. Dovete essere sicuri di quel che andremo a fare. Nulla sarà più come prima, se tutto andrà per il verso giusto. –
Seguì un momento di silenzio, nel quale gli occhi viola di Mea passavano in rassegna i visi contratti dei suoi compagni di viaggio.
- Io non ho intenzione di suicidarmi tra quei soldati – disse infine il Gatto – e ho intenzione di fidarmi di te. –
- D’accordo. Ho bisogno solo di un paio d’ore per creare un incantesimo adatto, poi avrò bisogno di tutti voi. –

Hile fece scorrere il suo palmo guantato sullo scuro muro di cinta del Palazzo della Mezzanotte, mentre avanzava a passo lento verso il lato occidentale.
- Chi lo sa, magari quel cilindro di legno è davvero servito a qualcosa. – Disse il Lupo non appena la figura del Gatto comparve davanti a lui, seduto su un masso ad osservare la volta verde della Grande Vivente.
- No… non credo. – gli rispose lo spadaccino, prendendo dalla tasca il pezzo di legno per poi portarlo all’altezza degli occhi – Dopotutto è solo un pezzo di legno con dei capelli attorcigliati sopra. –
- Tu ci credi davvero, che Mea può fermare da sola quell’esercito? –
- Ci spero. Tanto, se quello non funzionerà, saremo comunque morti. –
- Siamo in due, allora… -
I due assassini rimasero in silenzio, immobili, mentre davanti a loro il sole cominciava a calare verso il mare, illuminando di rosso le verdi foglie della foresta e i campi di grano che, a sud, si stendevano a vista d’occhio serpeggiando tra le colline e i pochi, piccoli paesi rimasti abitati.
- Da quassù, tutto questo sembra così insignificante. – disse dopo alcuni minuti Nirghe, sospirando.
- In che senso? –
- Gli umani, gli elfi, i draghi, i nani… tutti. Sono talmente piccoli che nemmeno si riescono a riconoscere. Le più grandi città che abbiamo visitato sono puntini scuri, davanti a noi. Perché dovremmo rischiare la nostra vita per loro? Perché loro dovrebbero valere così tanto? È perché siamo predestinati che dobbiamo sacrificarci per degli sconosciuti? O forse perché siamo solo degli idioti? –
- Non lo so. Ma è in momenti come questo che mi rendo conto di quanto vorrei tornare di nuovo sul Continente, esplorarlo, scoprire se, dal Cambiamento, qualcun altro ci vive… Per il momento so solo che non voglio morire. –
- Non mi dispiacerebbe andare di nuovo oltremare. – disse una voce alle loro spalle. Keria, silenziosa, aveva raggiunto il Gatto e il Lupo, lasciando il suo compagno cristallino solo ad osservare l’esercito in avanzata. – Mea ha finito e Jasno è appena tornato dal suo volo. Mancate solo voi. –

Mea era dritta, in piedi, al centro esatto di un’enorme glifo largo quanto una piazza, là dove sette raggi si univano. Decine e decine di linee si intrecciavano in cerchio, intersecandosi per formare motivi ricorrenti lungo tutta la lunghezza della circonferenza. Subito all’esterno della forma, piccoli fonemi della lingua del potere si susseguivano longilinei.
- Bene. – disse la maga uscendo dal cerchio, facendo attenzione a non rovinare il suo lavoro. – Ora che ci siete tutti possiamo cominciare. –
- Cosa dobbiamo fare? – le chiese lo spadaccino.
- Non mi chiedete cosa ho preparato? Non mi fate domande? –
- Ho detto che mi fido. – le rispose seccamente il Gatto. – Ora dicci a cosa ti serviamo. –
- Va bene. Devo dirvi solamente un paio di cose. Questo è un cerchio evocativo maggiore, per farlo funzionare avrò però bisogno di attingere alle vostre forze. Ora devo darvi le brutte notizie: non sono certa che, anche spremendovi fino all’ultima goccia di energia, riuscirò a portare a termine l’incantesimo, nonostante questo non dovete per nessun motivo unirvi al vostro compagno. Questo sì amplierebbe la vostra riserva, ma non sarei in grado di fermarmi in tempo e rimarreste bloccati in quella forma, se quel che ci ha detto Nirghe è vero. –
- Va bene. Non ricorreremo al potere che ci hanno dato gli dei. – disse Hile alzandosi la frangia con una mano – Avanti, ora disegnaci l’incantesimo sulla fronte come l’ultima volta. –
La mezzelfa intinse uno stecchino nel fango umido che teneva un mano, tracciando il glifo per la condivisione dell’energia sulla fronte dei suoi compagni.
- Andrà tutto bene. – le disse Keria, mentre lasciava ricadere i capelli castani sugli occhi verdi.
Mea le sorrise in risposta, passando a sporcare la fronte candida di Jasno.

- Ho finito. – la maga gettò a terra lo stecco sporco, tornando a voltarsi verso i suoi compagni. – Siete ancora certi di volerlo fare? –
- Credo che qui, tu sia la meno sicura. – le rispose Nirghe, sorridendo divertito.
- Va bene, allora cominciamo. Sedetevi a terra, così eviterete di farmi troppo male, se doveste cadere. –
La mezzelfa si inginocchiò davanti all’imponente incantesimo, appoggiando i palmi aperti sulle spesse righe tracciate.
Il petto della maga si riempì d’aria fino al suo limite, per poi lasciarla uscire lentamente. Infine, le palpebre si chiusero sugli occhi viola.
Hile sentì immediatamente la mano della magia stringersi sul suo petto, stringendogli il cuore nella sua morsa.
Un sacrificio necessario, la sua vita non era altro.
Tutto attorno, grazie all’energia che la maga incanalava attraverso le sue mani, la sabbia, la polvere, i sassi, parti di muratura appartenuti alle case e al muro di cinta si levavano in aria, turbinando con violenza attorno al cerchio evocativo.
Qualcosa, al centro esatto dell’incantesimo, cominciò a formarsi.



Angolo dell'Autore:

-5    Sto riuscendo a rimanere nella mia tabella di marcia, cosa strana, visto che non ci sono mai riuscito in tutta la mia vita.
Obiettivamente, ma neache tanto, mi sto divertendo a lasciare questi finali in sospeso, non riesco però ad immaginarmi voi come possiate effettivamente vederli. Ogni tanto mi rendo conto che io so già cosa ci sarà oltre quel punto finale, so cosa pensa ogni personaggio e come cercheranno di togliersi dalle situazioni in cui li inserisco, voi, vorrei sperare, non avete questa possibilità. Io ho cominciato a seguire questa via narrativa sperando di attirare maggiormente la vostra attenzione e farvi ipotizzare cosa verrà in seguito, in modo da non limitare la mia storia al semplice capitolo settimanale, ma estenderla anche alle vostre elucubrazioni. Fatemi sapere se ho centrato l'obbiettivo oppure ho fallito.
Per ora non ho molto da dire, se non chiedervi cosa pensiate stia facendo Mea in questo momento e che piani abbia.
Alla settimana prossima con la risposta.
Vago 

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Capitolo 63
*** Capitolo 55: Impossibile tornare indietro ***


 Sassi e pietruzze si strinsero attorno al pulviscolo vorticante, formando man mano che salivano un perfetto scheletro di, almeno, due metri d’altezza.
La sabbia turbinante si addensò su di questo, ricoprendo ogni osso roccioso che trovava sul suo percorso e accrescendo la massa di quel corpo in formazione.
Infine, le rocce più grosse, i pezzi di mattone rotti, le tegole spaccate e i calcinacci che ancora portavano con sé rimanenze di cardini di ferro si incastrarono gli uni con gli altri per formare una corazza in grado di proteggere il friabile interno.
Due dardi, rossi come l’incandescente lava di un vulcano, si accesero nelle due piccole fessure che erano rimaste scoperte sul volto.
La creatura piegò la testa di lato, facendo scricchiolare e frantumando i pezzi del suo guscio che si frapponevano al completamento di quel movimento.
Una crepa nacque sotto un abbozzo di naso, allargandosi e richiudendosi un paio di volte.
Le dieci dita delle mani si piegarono più e più volte, facendo cadere a terra schegge di pietra miste a sabbia e polvere.
Hile si sentì mancare, ma non seppe dire se la causa fosse la creatura che si muoveva davanti a lui o l’incantesimo che continuava a richiedergli energie.


Un grosso volatile dal nero piumaggio cadde a terra rovinosamente. Una benda insudiciata gli fasciava la vita, mentre a tracolla portava una scura borsa di pelle consumata, che produsse un vibrante rumore metallico non appena toccò il suolo.

Questo non va per niente bene.
Proprio per niente.
Non sentivo la Trama del Reale vibrare così violentemente da… dalla mia nascita.
Neppure quando il mondo rischiò il collasso per via della morte di Terra, le ripercussioni sulla Trama furono così violente.
Cosa sta succedendo lassù?
Spero non sia Follia, altrimenti non ho idea di come fronteggiare un potere del genere.
Quei mocciosi possono aver sbloccato i loro poteri? No, non è possibile. Cioè, non è possibile che siano quei poteri la causa di tutto questo casino. Gli dei minori non hanno neanche assieme tutto questo potere, figuratevi i loro araldi sul piano materiale.
Il mondo non sta nemmeno finendo, solo in quel caso gli dei possono palesarsi fisicamente, come successe alla fine della guerra.
Io non capisco, non capisco proprio per niente cosa possa produrre una simile vibrazione di energia.
So solamente che se non è dalla mia parte, io me ne scappo il più lontano possibile.


L’uccello scuro si rimise faticosamente in piedi sulle zampe, per poi spiccare nuovamente il volo con un paio di possenti colpi delle ali.


L’essere di pietra aprì un’ultima volta la bocca, per poi portare il suo sguardo penetrante sulla maga che gli stava di fronte, con i palmi sudati ben premuti sulla terra.
- Sei sicura di quello che mi stai chiedendo di fare? – La voce della creatura era tonante, possente, rude come una frana montana.
Gli occhi viola della mezzelfa si alzarono dall’incantesimo, fissando direttamente quelli rossi di fronte a sé. – Si, non vedo altra soluzione. –
L’essere roccioso parve sospirare, mentre i suoi occhi si adombrarono un attimo quando si voltarono verso oriente. Fece qualche passo avanti, dirigendosi verso il limitare del cerchio di evocazione, per poi fermarsi di colpo arrivato alla sua fine.
- Giusto. Sono stato evocato. Non posso uscire dai limiti del cerchio. – Borbottò la creatura scuotendo le spalle.
- Ti chiederei… di fare in fretta. – gli disse Mea incespicando sulle parole – Non potrò mantenere l’incantesimo attivo ancora per molto. –
- Oh, certo. Ti chiedo scusa. –
L’essere portò una mano parallela al terreno, dal quale sorse prima un’asta rocciosa, poi la testa di una pesante mazza.
La mano destra si strinse sull’impugnatura, per poi essere raggiunta dalla sinistra.
La terra tremò all’abbattersi della testa del martello. Una crepa nacque là dove le rocce erano state colpite per poi proseguire e allargarsi verso nord e verso sud.
La frattura cominciò a correre lungo la cresta dei Monti Muraglia, tanto veloce quanto violentemente si scuoteva il terreno.
Un rumore profondo si levò dalle viscere dei monti, un boato simile al gorgoglio di gola di una bestia mastodontica riempì l’aria e si propagò per tutte le Terre.
Hile si portò le mani alle orecchie, mentre le lacrime riempirono i suoi occhi.
Si sentiva privo di ogni forza. L’aria entrava a fatica nei suoi polmoni, la  sua vista era offuscata, come se un velo di nebbia fosse calato sulle sue iridi.
Di fianco a loro, gli edifici cominciarono a crollare uno dopo l’altro. Prima le case già intaccate dal tempo, poi le robuste mura del Palazzo della Mezzanotte e del Mezzogiorno. Infine, con un rombo, il bianco palazzo del governo collassò su se stesso.
La terra si spaccò definitivamente, i Monti Muraglia vennero percorsi da un’ultima, impetuosa scossa di terremoto, prima di cominciare a franare all’interno di una frattura sempre più larga.
Il Lupo alzò lo sguardo a fatica, sentendo la presa della magia allentarsi sul suo torace.
– Non ancora! Posso resistere ancora un po’! – urlò con quanto fiato aveva in corpo in direzione della maga.
Il terremoto diminuì di intensità e la crepa che divideva la catena montuosa ridusse drasticamente la velocità con la quale si allargava, per poi quasi fermarsi all’ampiezza di circa cinque metri.
Un’ultima onda di energia riverberò negli incantesimi che collegavano i quattro assassini a Mea. La terra sobbalzò con una violenza inaudita e il versante occidentale delle Terre fu spinto con forza verso oriente, simile a una gigantesca nave che prende il largo, lasciandosi cadere alle spalle decine di macerie che finirono sul lontano fondale marino.
Un paio di centinaia di metri più in basso, il sole tramontante fece splendere una parte del dorato serpente d’oro che coronava la nanica Izivay Magnea, ora divisa sui due versanti del crepaccio.
La mazza della creatura si sollevò da terra, mentre i suoi occhi dardeggianti guardavano intristiti l’enorme porzione di terra che si allontanava nel mare, lasciando dietro di sé una scia di acqua ribollente illuminata dalla rossa lava sgorgante dalle profondità della terra.
- Spero che tu abbia ragione, giovane maga. – disse l’essere roccioso voltandosi verso la mezzelfa.
- Era l’unica soluzione che sono riuscita a trovare, Codero. –
La creatura si irrigidì.
- Non Codero. Lui è morto il giorno in cui io sono rinato. Sono Terra e lo rimarrò fino alla fine dei tempi. Ora congedami, i tuoi compagni non riusciranno a mantenermi su questo piano ancora per molto. –
Nel momento esatto in cui le mani sporche della maga lasciarono il terreno, il colosso di sabbia e roccia rovinò a terra in frantumi, riducendosi a un mucchio di macerie.
Hile si lasciò cadere indietro, assaporando l’aria che, finalmente, ritornava ad entrare facilmente nel suo corpo.
- Invocare Terra. – disse con voce rotta dalla stanchezza Nirghe – Ovvio, perché non ci abbiamo pensato prima? –
- Non ho evocato Terra, – rispose Mea senza voltarsi – non esiste un incantesimo così tanto potente. Ho chiesto il suo potere in prestito per separare i versanti dei Monti Muraglia, in modo che l’esercito del demone non potesse arrivare nelle Terre a ovest. –
- Certo, non si può evocare un dio. – proseguì il Gatto, sorridendo – Però si riesce benissimo a modificare un continente. –
- Si sta facendo buio. – disse la mezzelfa rialzandosi – Dobbiamo cercare un posto per la notte… Jasno! Che cosa hai fatto!? –
Il Lupo si rialzò di scatto, voltandosi, pronto al peggio.
A terra, disteso con le braccia larghe, il petto ricoperto di piume bronzee di Jasno si alzava ed abbassava freneticamente.
- Perché lo hai fatto? Vi avevo detto chiaramente quello che sarebbe successo! –
- È piacevole il sole sul viso… - rispose la creatura.
- Sai cos’hai appena fatto? Ti sei maledetto da solo! – continuò la maga, disperata.
- Avevo già deciso che cosa avrei fatto. – Le rispose l’Aquila portandosi il posizione seduta – Io sono maledetto da quando sono nato, costretto ad aver paura del sole e del suo tepore. Ho deciso quando ci hai detto quale sarebbe stato il prezzo da pagare per quell’energia in più, cosa avrei fatto. È vero, non avrò mai più la mia vecchia vita, il mio vecchio corpo e la mia vecchia malattia, ma ho saputo dalla prima volta che ho provato il mio potere, che il cielo mi avrebbe reclamato. Ho solo deciso che la mia scelta sarebbe dovuta essere anche un vantaggio per voi. –
Passi lenti e regolari interruppero la discussione.
La stessa creatura fumosa che aveva affrontato il demone stava avanzando sulla Terra degli Eroi, dirigendosi con gli occhi trasognati verso il precipizio che ora segnava il confine delle terre abitate.
La cortina di pulviscolo scuro che circondava il corpo color pece era pesante, quasi melmosa, come se quel fumo faticasse a levarsi in aria.
Sulla spalla sinistra portava una grossa e consumata sacca in pelle marrone, su cui si potevano riconoscere le forme rigide degli oggetti al suo interno.
Il servitore del Fato si fermò su ciglio del dirupo, facendo spaziare il suo sguardo sul mare dinnanzi a lui e sul profilo delle terre che si stavano allontanando.
La sacca cadde a terra con un rumore metallico, mentre la mano destra della creatura passò sul suo capo, in un gesto di incredulità.
- Davvero? – domandò ad alta voce il servitore, senza voltarsi verso i suoi interlocutori – Davvero, con i poteri dei sei dei minori a disposizione, avete chiesto a Terra, il dio Terra, quel Terra di spaccare a metà questo continente per bloccare l’esercito? Voi siete matti. Pazzi da legare. –
La creatura si voltò di scatto, fissando con i suoi gialli occhi splendenti i cinque assassini.
- Sapete, vero, che questo non farà altro che rallentarli? Probabilmente già ora Follia sarà al lavoro per creare qualcosa in grado di trasportare il suo esercito. –
- L’ultima volta tu l’hai quasi battuto, magari se adesso… - Provò a dire Keria, ma venne prontamente fermata dalla mano dello spettro.
- Non ci sarà un secondo duello, per me. Follia ha vinto l’ultima volta, si è preso parte dei miei poteri. Inoltre, senza il sigillo con cui lo avevate affrontato l’ultima volta, non ho nessun modo per fermarlo davvero. Forse, però, voi potreste esserne in grado, se non vi uccidete da soli prima. Dopotutto siete predestinati, no? –
Il servitore prese da terra la sacca, rovesciandone il contenuto sui resti dell’incantesimo di Mea. - Io, ad ogni modo, vi ho portato delle armi. Starà a voi decidere cosa farne. –

Per una volta sono stato quasi completamente sincero.
Sono sicuro di non essere minimamente in grado di uccidere Follia.
Sono certo che quel demone fuori di testa stia già costruendo con sé stesso come materia prima o esseri volanti o navi per trasportare il suo esercito.
E sono dannatamente convinto che quei cinque siano più matti di me.
Non sono però convintissimo che il loro destino sia quello di uccidere Follia. Non sono nemmeno sicuro che l’influenza che il Fato ha sui mortali possa avere ripercussioni anche su di coloro che non sono legati al suo libro.


- Tu cosa farai, ora? – chiese Nirghe facendo qualche passo verso il dirupo.
- Ho ancora dei compiti su queste Terre, quando Follia tornerà ad essere una minaccia imminente mi andrò a suicidare cercando di far scappare più gente possibile. –
Il servitore fece un passo nel vuoto, cominciando a cadere verticalmente lungo il costone di roccia. Quando, però, Hile raggiunse il ciglio del dirupo, di quell’essere non vi era più traccia.

Detesto questa mia nuova condizione.
Adoravo potermi dileguare diventando fumo, era comodo, pratico e soprattutto non richiedeva un precipizio dal quale gettarsi.
Rivoglio i miei poteri e voglio prendere a calci in culo Follia.
Per ora, l’importante è che quei mocciosi pensino di non avere supporto. Questo darà più spazio di manovra a me e loro saranno invogliati a fare le cose ragionandoci prima sopra.


La notte calò gelida sulla vetta mozzata, ora disseminata di macerie sparse.
Nulla era rimasto in piedi. Non un edificio, non un palazzo, nemmeno le mura scure che avevano separato gli assassini dal resto del mondo per anni.
Hile sentì Keria accostarglisi ancor più, nel tentativo di scaldarsi con la pelliccia grigia che ricopriva il suo corpo.
Cosa doveva pensare di lei?
Per ora, quella, era ancora una domanda superflua, dato che le loro vite erano appese alla tela di un ragno sconquassata da folate tempestose.
Si sarebbe preoccupato della sua vita quando sarebbe stato certo di averne ancora una negli anni a venire.
Il Lupo chiuse nuovamente gli occhi, cercando di trovare una posizione comoda per riposare contro il ventre freddo del drago cristallino, che li riparava con la sua mole dal vento battente che si era levato.
Poche ore dopo, il sole sorse lontano, combattendo per superare in altezza l’enorme isola che ora si stagliava in lontananza. I suoi raggi caldi si infransero sulle squame trasparenti del rettile volante, generando una moltitudine di punti luminosi sui corpi rannicchiati dei cinque assassini, svegliandoli.

Hile ricontrollò un’ultima volta il filo di ognuno dei suoi nuovi coltelli, lanciandone ognuno un paio di volte in aria in modo da abituarsi al bilanciamento che gli era stato dato, così diverso da quelli che lo avevano accompagnato durante tutto il suo viaggio.
Tredici coltelli.
Dodici donatogli dal Servitore del Fato e quello incantato che anni addietro gli aveva donato Renèz.
Guardò poi il suo abito stracciato in più punti. Solamente quattro tasche erano rimaste sufficientemente intatte per poter essere ancora in grado di contenere qualcosa.
Buio lo fissava da poco lontano con i suoi occhi neri, quasi curioso di vedere cosa il suo compagno avrebbe fatto.
Alla fine, Mea raggiunse il gruppo che la stava aspettando, il suo corvo guardava davanti a sé dal suo trespolo sulla spalla della maga.
- Siete sicuri di volerlo fare? – chiese di nuovo la mezzelfa, gettando verso est uno sguardo fugace.
- Non importa quante volte lo chiederai, ormai è troppo tardi per tornare indietro. – le rispose Nirghe, con i palmi felini appoggiati sulle else delle spade appese ai suoi fianchi.
Jasno, intanto, si continuava a fissare le braccia e le gambe con una mutezza triste, stringendo più volte quelle dita nascoste dalle piume che non riusciva a riconoscere pienamente come sue.
- Va bene. – disse infine la maga prendendo un profondo respiro.
Volse poi il suo sguardo al suo compagno, appollaiato sugli ultimi brandelli rimasti di quello che fu il suo mantello di piume nere alchemiche.
Il corvo si dissolse in una nuvola di polviscolo, avvolgendo ed assediando il corpo della mezzelfa per permetterle di mutare.
- Io sono pronta. – la voce di Mea uscì gracchiante dal becco color pece che le occupava quasi interamente la metà inferiore del suo volto – Jasno, te la senti di venire? Tu sei l’unico che ha consumato anche le energie del suo compagno durante l’incantesimo, dopotutto… -
- Si, sto bene. Voglio arrivare fino alla fine. – le rispose L’Aquila, alzandosi in piedi lentamente per poi avvicinarsi maggiormente ai suoi compagni facendo attenzione a non sbattere contro le imponenti ali traslucide che nascevano dalle scapole del corpo cristallizzato di Keria.
- D’accordo. Speriamo che il servitore abbia ragione su di noi. –
La sensazione di essere trafitti da migliaia di spilli roventi ricomparve, durando ancor meno, però, dell’ultima volta, come se la maga si impratichisse sempre più con quel potere ogni volta che lo sfruttava.
I cinque esseri dai tratti animaleschi scomparvero, facendo calare un silenzio tombale su quella terra spaccata dal potere degli dei e costellata dai resti ormai decaduti di storie passate. 

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Capitolo 64
*** Capitolo 56: Linea di difesa ***


 Uno spettro fumoso osservava la pianura dinnanzi a sé con i suoi occhi splendenti da una delle ultime collinette che sancivano la fine dei Monti Muraglia.
A poco più di quattro ore di cammino da lui una massa di corpi scuri calpestava il terreno lasciando profondi solchi nella terra.
Passi leggeri si levarono alle sue spalle.

Detesto questi momenti.
Adesso vorrei scapparmene lontano, persino combattere contro Follia mi sembra un’idea più rilassante di quello a cui sto per andare incontro.


Lo spettro sospirò, facendo ondeggiare appena la coltre di nebbia densa che lo avvolgeva.
- Non vuoi chiedermi nulla? – disse una voce maschile alle sue spalle.
- A cosa servirebbe chiedere qualcosa, se si sa già che non si otterrà nessuna risposta soddisfacente? O, ancora meglio, se si sa che il tuo interlocutore sa già quali sono le domande che vorresti porgli? –
- Va bene. Questo vuol dire che dovrò darti il buon esempio. – continuò l’uomo con il pizzetto nero, sedendosi al suo fianco – Da dove avresti cominciato, se io non fossi io e tu non fossi tu? –
Lo spettro sospirò ancora una volta, cercando di concentrarsi cu ciò che i suoi occhi vedevano.
- Mi avresti detto di addestrare meglio il nuovo Terra, non è così? Beh, sai, è ancora giovane come dio, non posso ancora chiedergli di conoscere a pieno ciò che può e ciò che dovrebbe fare. –

Detesto anche questi monologhi.
Ecco da chi abbiamo preso noi muse.


- Potresti almeno insegnargli le basi! – gli sbottò voltandosi il servitore – I mortali possono fare quel che vogliono, per quanto mi riguarda. Spaccare continenti, spostare montagne, uccidersi tra loro, piazzare feste a caso durante l’anno o quant’altro, ma gli dei no, non hanno queste libertà. In tutto questo tempo, potevate prendervi cinque minuti per spiegare a quel maledetto Terra che se manifesta sé stesso su questo piano rischia di strappare la Trama del Reale. Dopotutto quanto tempo mai ci vorrà per imparare a controllare un avatar come quello che ho davanti? –
- Commedia, - gli rispose tranquillamente l’uomo al suo fianco – per lui nulla è facile, ora. Non è normale divenire un dio, sentirsi sommersi dai poteri che da ciò derivano è una cosa che reputo coerente. –
- Non riesco a capire i tuoi discorsi, Fato. Forse è passato troppo tempo dall’ultima volta in cui hai passato del tempo tra i mortali, a contatto con la tua Trama. –
- Non devi preoccuparti di ciò che non puoi controllare. Piuttosto, hai intenzione di pormi la seconda domanda o devo farmela da solo? –
- Fai quello che preferisci. –
- Guarirà. La tua condizione è solo una temporanea contromisura del tuo essere per evitare che la materia di Follia si mescoli alla tua sostanza e ti corrompa. Quando i tuoi corpi fisici avranno eliminato ogni traccia esterna a loro, potrai tornare a disgregarti come prima. –
- Buono a sapersi. – fu la risposta gelida dello spettro.

Ottimo!
Lo sapevo, non poteva aver intaccato i miei poteri, non poteva aver così tanto potere quella sottospecie di demone.
Devo solo aspettare, cosa vuoi che siano un paio di decenni?
Sono così felice che, se non fosse il Fato quello a fianco a me, lo potrei persino abbracciare.


- Vattene, ora. – disse ancora il servitore fumoso al suo interlocutore, dopo qualche attimo di silenzio – Non credo che il gioco che sta per cominciare possa piacerti… Spero di poter vedere ancora quell’orribile pizzetto del tuo avatar, dopo oggi. –
L’uomo si rialzò, cominciando ad allontanarsi a passo lento, finché i tonfi sordi dei suoi piedi sul terreno non vennero coperti dal silenzio.


I cinque assassini comparvero nelle propaggini di un boschetto ai piedi dei Monti Muraglia orientali. Davanti a loro, oltre gli ultimi tronchi degli alberi che cercavano di strappare un altro po’ di terra alla Piana Infinita, si stendeva l’esercito nero in marcia verso sud, capeggiato da una figura solitaria.
- Come ci possiamo muovere? – chiese Keria con la voce cristallina che le donava l’unione con il suo compagno, stringendo tra le dita l’elastico legno del suo arco.
- Come abbiamo deciso. – le rispose Nirghe alle sue spalle. – Quell’esercito, senza il demone, non ha una sola possibilità di raggiungere la Terra dell’Aria e quella della Terra. Siamo stati cresciuti e addestrati come assassini, con questi poteri quanto potrebbe essere difficile uccidere rapidamente quel maledetto. –
- Va bene. Cercherò di fare la mia parte al meglio. – gli rispose con voce più ferma l’arciere.
- Mea, quando te la senti, noi siamo pronti. Keria… non credo tu abbia più di una possibilità. – Hile strinse l’ultimo pugnale incantato nella mano sinistra.
Loro erano l’ultima linea che poteva difendere tutti quelli che vivevano ignari di tutto sull’altra metà del continente.
Se loro fossero morti fallendo, presto il terreno si sarebbe coperto di cadaveri e intriso di sangue.
Non dovevano permettere che una situazione del genere diventasse realtà e lui avrebbe fatto la sua parte.
Un brivido gli percorse la schiena, forse un segnale che il suo compagno era d’accordo con lui.
- Lo so… lo so. – fu la risposta del Drago.
- Andiamo. – disse Mea sospirando. – Speriamo solo che gli dei siano ancora al nostro fianco. –
Gli spilli tornarono ad assediare i corpi degli assassini, facendoli sparire dalla collinetta e lasciando Keria sola tra gli alberi.

Che il gioco cominci, allora.

Hile si ritrovò a poche centinaia di metri davanti al comandante di quell’esercito in avanzata. Al suo fianco stavano dritti il Gatto e l’Aquila.
- Speriamo che Mea non ci abbia sopravvalutato. – disse Nirghe, estraendo con le dita a metà tra l’umano e il felino le due spade che riposavano ai lati della sua vita.
L’esercito si bloccò a un gesto impercettibile del suo condottiero, che alzò lo sguardo verso i tre assassini.
Loro non poterono riconoscere le espressioni del suo viso, da quella distanza, ma quel muso animalesco si contrasse in un ghigno.
Il demone scattò in direzione di coloro che si erano posti sul suo percorso lasciandosi alle spalle i suoi soldati, ancora immobili, obbedienti al suo ultimo ordine.
Il distacco che separava le due fazioni fu quasi istantaneamente eliminato. Follia non perse tempo, avventandosi con la spada che teneva stretta in pugno contro il Gatto.
Lo spadaccino si sorprese nel riuscire a parare il colpo e sopportare la pressione che la lama nemica fece sulle sue.
- Sei migliorato. – constatò il demone arcuando ancor più le labbra per ampliare il suo ghigno – Forse avrei dovuto uccidervi la prima volta, ma sopperirò ora al mio errore. –
La spada del demone calò ancora due volte in rapida sequenza, ma Nirghe riuscì a resistere a quei colpi senza farsi spezzare la guardia.
- E dove sono le vostre compagne? Avreste dovuto fare come loro, tenere alla vostra vita, scappare. –
Follia si voltò all’improvviso puntando la sua spada contro l’Aquila, che lesse il movimento avventato, rispondendo con un elegante movimento laterale che si concluse con un colpo di pugno alla vita, evitato facilmente.
- Siete molto migliorati, questo vorrà dire che dovrò fare sul serio, con voi. –
Nei piccoli occhi di quel volto animalesco si accese una fiammella tra il divertito e l’iracondo, mentre i movimenti di quella creatura aumentavano in velocità, precisione e potenza.
Nirghe cercò di colpire il suo avversario alla vita con entrambe le spade, mentre, dalla parte opposta del bersaglio, Hile tentava di conficcare il pugnale tenuto nella mano sinistra tra le scapole protette dall’armatura scura.
Follia sgusciò via con facilità dalla trappola che stava per chiudersi su di lui, tentando una stoccata verso l’Aquila che era rimasta a pochi passi di distanza.
La spada affondò nel vuoto mentre il corpo ricoperto dalle piume bronzee si librava in aria poco sopra la sua testa per poi ridiscendere su di lui, mancandolo.
Un primo calciò colpì la pancia di Jasno, mandandolo a terra.
Il Lupo fiutò l’odore del demone alle sue spalle appena in tempo per abbassarsi ed evitare l’ampia spazzata della lama nemica.
Nirghe provò a cogliere l’occasione per tentare un affondo appena sopra la schiena del compagno, ma già il suo obbiettivo si era spostato, arrivandogli a fianco.
La spada che l’assassino teneva nella mano sinistra fermò appena in tempo quella che si stava dirigendo a gran velocità verso il suo fianco, ma non fu abbastanza rapido per evitare il colpo dell’elsa che lo colpì al petto.
Il Gatto rotolò per terra, per poi rialzarsi immediatamente, con i peli ricoperti della secca terra di quel posto, non potendo far altro che guardare Hile che, con uno scatto laterale cercava di artigliare l’addome del demone con la mano destra.
La lama nemica tagliò appena qualche pelo della folta pelliccia grigia dell’assassino, il cui colpo, però, non andò a segno.
Jasno tentò di nuovo un colpo, avvicinandosi zigzagando per poi spazzare una grande porzione di terreno con l’ampia ala.
Follia evitò il colpo indietreggiando.
All’improvviso, un muro di pietra massiccia comparve alle sue spalle, bloccandogli la via di fuga.
Il Gatto e il Lupo colsero l’occasione immediatamente, precipitandosi entrambi sul loro nemico.
Il demone si abbassò evitando con facilità le due spade che si stavano andando a chiudere sulla sua testa, indirizzando invece la punta della sua spada contro il volto del Lupo che si stava precipitando verso le sue gambe.
L’assassino dal pelo grigio svanì nel terreno a pochi centimetri dalla lama mortale.
Il balzo in avanti della creatura non le impedì di ricevere un taglio sulla gamba sinistra, impartitogli da Hile mentre fuoriusciva dall’ombra che il muro creato gettava sul suolo.
Il ghigno sul volto del demone scomparve completamente.
La sua spada si diresse veloce come mai prima di allora verso l’Aquila, conficcandosi però in un nuovo muro appena sorto.
Dall’alto un grosso volatile scuro continuava incessantemente a sorvolare in stretti cerchi il campo di battaglia.
Dalla bocca della creatura eruppe un grido d’ira, mentre, di nuovo, si voltava verso il Gatto, assediandolo con le sue stoccate.
Improvvisamente, la mano sinistra dell’assassino perse la sua presa salda sull’elsa che impugnava, facendo volare quella spada a una decina di metri da lui. Il colpo successivo si fece strada tra gli addominali del Gatto, facendolo accasciare a terra con la mano disarmata premuta sulla ferita dalla quale zampillava sangue. Un violento calcio alla nuca gli fece perdere i sensi.
- Cane! – urlò il demone infuriato.
Hile provò ad intervenire, tentando di costringere il demone a sforzare maggiormente la gamba che erano riusciti a ferire.
Si avventò con la stessa foga di un animale in caccia sulla sua preda, per poi sparire nell’ombra che il demone gettava ai suoi piedi.
Quando sorse da quella del secondo muro comparso, si trovò però con il freddo metallo di quella lama nemica affondato nella spalla mentre Follia lo guardava con aria di superiorità mentre tornava completamente dal mondo delle ombre, per poi cadere a terra boccheggiante, con uno squarcio che, dalla spalla destra, scendeva per una spanna e mezza sul torso.
Un terzo muro di pietra sorse per proteggere Jasno, che provò ad utilizzarlo come rampa dalla quale gettarsi sul suo obbiettivo.
Di nuovo mancò la presa.
Non riusciva a leggere i movimenti di Follia, non riusciva ad avvertire la musica di quel combattimento e danzarci sopra.
Cercò di aggirare più volte il suo nemico, cercando in lui una falla utilizzabile.
Provò quindi un’altra spazzata con l’ala destra, per poi avventarsi con il duro becco verso il petto avversario.
Un violento colpo dell’elsa alla base del collo lo fece cadere a terra quasi immobilizzato da dolore dilagante.
- Maledetto, muori! – urlò ancora il demone, colpendo più volte il volto dell’assassino a terra davanti a lui con la sua suola.

Questo non va per niente bene.
Sembra di vedere un leone combattere contro dei grassi gatti nati e vissuti nella casa di una qualche anziana senza figli.
Devo trovare il modo di fargli guadagnare tempo. Il loro piano potrebbe funzionare solo se Follia è sufficientemente distratto da qualcosa.
Se c’è qualcosa che so far bene, oltre parlare, è distrarre la gente. Cosa volete che sia farlo anche con un demone millenario?

La creatura guardò verso l’alto, dove il grosso volatile cercava di allontanarsi per essere fuori pericolo, prese quindi la rincorsa e, dopo essersi dato un’ultima spinta contro uno dei muri sorti dal suolo, saltò verso il cielo con una forza tale da far sembrare che stesse volando.
Nonostante gli sforzi di Mea, una mano salda si chiuse sulla sua coda, facendole perdere il suo bilanciamento.
Una seconda mano le strinse l’ala sinistra, impedendole di sbatterla ancora e costringendola a precipitare vorticosamente verso il terreno.
Lo schianto le mozzò il fiato, ma la maga riuscì a mantenere ancora la lucidità necessaria per appoggiare la mano sul foglietto che teneva appeso alla vita e far sorgere un nuovo muro che la separasse dal suo avversario.
Il Corvo si trascinò indietro, lasciando dietro di sé una scia di sangue luccicante, sotto quel sole caldo.
Follia la raggiunse con poche falcate, calando sulla sua testa la sua spada lucente.
L’aria risuonò di un clangore metallico.
Lo spettro fumoso aveva raccolto da terra una delle spade del Gatto, utilizzandola per bloccare il colpo diretto alla maga.

Appena in tempo.

- Avevi detto che non saresti venuto. – disse con il fiato rotto Mea, guardando con gli occhi socchiusi la figura nera che stava sopra di lei.
- Posso sempre andarmene, se vuoi. – le rispose il servitore con un sorriso forzato sul viso appena abbozzato sotto la cappa fumosa, senza staccare i suoi occhi lucenti dal suo avversario. – E per quanto riguarda te, finto dio, non ti sembra scorretto prendertela con chi non è al tuo livello? –




Angolo dell'Autore:
- 3
Vi è mancato questo angoletto al fondo della storia con il suo inesorabile conto alla rovescia?
Forse è giunto il momento, per me, di spiegarvi un paio di cose tecniche che gironzolano per la mia mente.
Le serie di storie, a mio avviso, devono essere collegate tra loro, ma non solo per via dei personaggi o dell'ambientazione. Mi sono convinto che il tipo di storia debba rimanere più o meno sempre lo stesso. In questo caso, giunto ormai in dirittura d'arrivo anche con questa seconda avventura, posso dire che ho reso la frase "Non importa la meta, ma il percorso che si compie per arrivarci" come motore centrale della narrazione, persino il libro del Fato e il destino si basano su questa concezione.
Perchè questa premessa: Io ho scelto di raccontarvi principalmente un viaggio, il combattimento contro Follia, per quanto sia il fine per cui tutto è iniziato e per quanto cercherò di renderlo inaspettato nelle sue dinamiche ai vostri occhi, in realtà non è altro che il passo finale di questa avventura che sta finendo.
Non so se sono riuscito a far passare la concezione che ho di questa serie attraverso le poche righe che ho battuto.
In ogni caso, in futuro, sperimenterò sicuramente anche altro che, magari, non avrà nulla da spartire con i continui spostamenti che vi ho mostrato negli ultimi mesi.

Ora, però, passiamo alle cose serie: Quanto sono pippe i nostri cinque assassini? Per la seconda volta si sono lasciate buttare al tappeto dal Demone.
Mi piacerebbe sapere voi cosa vi aspettate che avvenga adesso, tanto non ci sono risposte sbagliate, solo quelle meno giuste della mia.

Dulcis in fundo continuo a ringraziare OldKey, la ragazza imperfetta, EragonForever, Laly of the Moonlight e tutti voi che mi leggete e fate crescere il contatore delle visualizzazioni su ogni capitolo. Grazie a tutti voi per darmi un valido motivo per continuare a seguire questa mia passione.

Alla settimana prossima, buona continuazione, buona Pasqua e pasquetta a tutti voi.
Vago

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Capitolo 65
*** Capitolo 57: La fine di un'era ***


 Devo solo guadagnare tempo.
Basta rimanere sulla difensiva e potrebbe risolversi tutto senza troppi arti mozzati.


- Ti ho già battuto una volta, Servitore del Fato. Credi davvero di avere la meglio su di me, questa volta? La mia essenza ribolle in ogni goccia del sangue di questo corpo. – ribatté il demone cercando di ricomporsi.
- Credo di poter svolgere il mio lavoro. –
La spada della creatura animalesca tentò ancora un paio di volte di raggiungere la maga, ma venne sempre ostacolata.
- Va bene, penserò prima a te. –
Lo spettro e il demone si scambiarono un paio di colpi rapidi, con l’unico obbiettivo di mettere tra uno e l’altro un metro abbondante che gli permettesse di studiarsi a vicenda senza che potessero colpirsi.
- Dovresti capire quando è ora di fermarsi, Follia. – disse il servitore ad alta voce – Hai mancato di nuovo il tuo obbiettivo, sei imprigionato su questo pezzo di continente alla deriva. Arrenditi e potrai continuare a odiare gli dei per le eternità. Non costringermi a ucciderti. –

No, non mi viene bene per niente la parte dell’eroe, avanti, non sono minimamente credibile in questo ruolo.
Io non dovrei nemmeno essere qui. Non sono mica io il povero predestinato che papino ha deciso avrebbe dovuto uccidere questo esaltato con complessi d’inferiorità.
Dovrei invece essere su un ramo comodo, ad osservare la scena e fare commenti sarcastici sullo scontro, quello è il mio ruolo da sempre.
Perché mi ostino a rimanere?


- Non mi ucciderai. –
Follia scattò in avanti, tentando un affondo, schivato con un rapido movimento laterale, seguito immediatamente da un fendente verticale della spada avversaria, anch’esso evitato con un veloce spostamento.
Il demone evitò facilmente la palla di fuoco che correva nella sua direzione, gettandosi contro il suo obbiettivo principale, per poi scambiare con lui una decina di colpi, alla ricerca di un punto debole della sua guardia.
- Sai qual è la tua debolezza? – Chiese all’improvviso lo spettro facendo risplendere i suoi occhi di una luce ancora più intensa – Non hai immaginazione. –
Lontano, nel cielo, un arco di legno si flesse fino al suo limite, puntando il dardo che in esso riposava verso il terreno.

Devo giocarmi il tutto per tutto, se questa cosa va male, mi meriterò il titolo di stupido per il resto della mia vita… che potrebbe essere più corta del previsto.

La mano destra del servitore si aprì, lasciando cadere a terra la spada che impugnava. Un istante dopo quelle dita già stringevano il polso destro di Follia, cercando di tener lontana la lama.
- Cosa vuoi fare? Rimanere qui a trattenermi per le eternità? –
- No, giusto il tempo necessario. –
Una freccia venne scoccata una trentina di metri più in alto, sibilando nell’aria con intensità anormale e dirigendosi dritta e sicura verso il capo del demone.
Le piume su quell’asta di legno tremavano sotto la violenza del vento che le circondava.
Un secondo prima che la freccia raggiungesse il suo obbiettivo, lo spettro avvertì un movimento anormale sotto le sue dita, poi Follia si voltò in maniera innaturale verso sinistra per agguantare con la mano libera il dardo.
L’asta di legno di si ruppe sotto la stretta di quelle dita sottili.

Oh, ma dai! Non vale!
Chi diavolo si distruggerebbe un articolazione in quel modo?
Per favore!

Il servitore lasciò la sua presa, ormai inutile, per precipitarsi ad afferrare nuovamente la sua arma.
Davanti a lui, il demone sorrideva divertito, mentre il suo braccio destro pendeva mollemente lungo il suo fianco, con le ossa della spalla vistosamente lontane dalla loro normale posizione.
- Così io non avrei immaginazione? Ora scusami, ma queste intromissioni stanno cominciando ad infastidirmi. –
Follia si diresse rapido in direzione di Mea, poggiandole un piede scalzo sul torace e spingendo su questo, per darsi lo slancio verso il cielo.
Come un freccia scoccata da una ballista, la creatura sfrecciò verso il debole scintillio in cielo dal quale era stato scoccato il dardo, per poi avvinghiarsi all’essere cristallino che, disperato, sbatteva le ali per cercare di allontanarsi.
I due corpi, coinvolti in una lotta disperata, precipitarono a terra per poi scontrarsi con essa generando un tonfo sordo. Lì, Keria rimase immobile, con il ventre affannato e il volto di cristallo solcato da una crepa che dal sopracciglio destro scendeva fino al mento.
Follia si rialzò, stringendo nella sua mano la coda da rettile dell’ultimo assassino ancora in grado di essere un fastidio.
Hile provò a trascinarsi verso la scena, ma il taglio che gli squarciava il petto lo costrinse a terra rantolante.
Ci furono dei movimenti disperati tutto intorno il luogo dello schianto.
Mea cercò di portarsi su di un fianco, con un anomalo incavo al centro del petto.
Il Gatto tentò di alzarsi in piedi, reggendosi sull’unica spada rimasta tra le sue mani, ma ricadde immediatamente faccia avanti, con un rivolo di sangue che gli colava continuo dal ventre e i capelli sulla nuca intrisi della sua rossa linfa vitale.
Jasno mugugnò qualcosa, paralizzato sul terreno con il corpo pervaso da un vago tremore.
Il demone sorrise compiaciuto, poi, con forza inaudita, fece roteare sul suo capo il corpo di cristallo dell’arciere, per  farlo quindi sbattere nuovamente sul terreno.
- Ora, nuovamente, possiamo riprendere il nostro duello, servitore. –
Il demone si avventò contro lo spettro fumoso, con la spada stretta nella mano sinistra, cercando di colpirlo prima alla spalla, poi alla vita, infine alla testa.
Lo spettro ridusse le sue dimensioni, per assumere brevemente l’aspetto di un corvo che volò rapido per una decina di metri, prima di riprendere il suo aspetto originario.
- Che c’è? Perché non torni a disgregarti come al nostro primo scontro? – chiese ridendo il demone, prima di tornare all’attacco.

Non lasciare che le emozioni prendano il sopravvento. Sei tu quello il cui compito è infastidire gli altri, non il contrario.
E poi lo fai da millenni, lo batti sull’esperienza.

- Sarebbe troppo facile batterti in quel modo! – gli rispose il servitore.
I colpi di Follia si fecero sempre più violenti e ravvicinati, dal cozzare delle due lame cominciarono a levarsi scintille che cadevano a terra, trascinando con sé le schegge metalliche delle spade staccatesi con gli urti.
Il tallone dello spettro incontrò una pietra sul suo cammino, che lo fece cadere a terra con il volto rivolto verso il cielo. Ora, sopra di lui, il demone spingeva con tutta la forza che possedeva sulla sua arma, posta come una ghigliottina e incapace di raggiungere il collo nero solamente per via della lama avversaria frapposta.

Quindi questa dovrebbe essere la mia fine? Io speravo di morire in un modo un po’ più… spettacolare, con fuochi, fulmini, saette e tante lacrime, magari in un luogo insolito come il palco di un teatro abbandonato, dopo un duello all’ultimo sangue che si è andato a risolvere  con la morte di entrambi.
Questo posto fa schifo per morire, nessuno qui costruirà mai una statua in mio onore!
Ed è tutta colpa di…
Maledizione! È tutta colpa di Seila, che si è rivelata essere più dannosa per i suoi alleati che per i suoi nemici!
Ma io posso ancora salvarmi, devo solo togliere le redini alla mia lingua… che questo corpo non ha, ma questa è solo un’inezia.

- Sai, almeno in punto di morte vorrei poterlo dire a qualcuno. –
Lo sguardo del demone mutò. – Qualunque cosa dirai non ti salverà la vita. –
- Non ho intenzione di salvarmi a parole. Non questa volta. Sai, io ho sempre mentito, a te e a quei mocciosi inutili. Io non sono il Servitore del Fato. –
- Perché dovresti mentirmi così spudoratamente in punto di morte? –
- Perché è la verità. Non sono un servitore, posso morire malissimo per qualsiasi motivo, come uno di quegli schifosi umani. Regalo di mio padre. –
- Allora perché saresti dovuto venire a combattermi, se non sei asservito a lui? Se davvero sei un’immortale che può perire, dovresti tenere alla tua vita più di qualunque altra cosa. –
- Mi sono lasciato fregare. Il Fato è riuscito a raggirarmi e mi ha convinto a fare questa pazzia, ma, sai, solo ora ho capito come mai lui era così sicuro di sé. È maledettamente intelligente, quel vecchio, è sempre riuscito ad aver la meglio su tutti, persino su noi che non siamo legati a nessun destino. –
- Cosa stai farneticando? Dimmelo! – la saliva della creatura raggiunse il volto dello spettro, colando sulla pelle nera in direzione del terreno polveroso.
- Vedi, ho capito una cosa solamente ora, dopo millenni che ce l’ho davanti agli occhi. Il Fato può controllare anche noi attraverso le interazioni che abbiamo con i mortali e tu… tu, Follia, ti sei fatto fregare peggio di me. Ed è tutta colpa delle tue scelte. –
- Dimmi chiaramente cosa intendi! Come può il Fato aver potere su di me? Come!? – la pressione sulla lama dello spettro divenne più intensa, facendo sì che la spada del demone riuscisse a guadagnare qualche centimetro verso il collo avvolto dal fumo nero che gli stava sotto.

Ancora poco…
Fato, sto avendo piena fiducia in te, fai solo che non sia malriposta.


- Parla! – urlò nuovamente Follia, mentre una vena di quel corpo si gonfiava vistosamente sul lato sinistro del collo.
- Va bene. Ti ho detto fin dall’inizio che avrei vuotato il sacco. Se, per esempio, il destino di qualcuno fosse curare e offrire un riparo a un viandante morente sui Muraglia e tu fossi l’unico viandante morente in circolazione, il Viandante morente, come potrebbe il destino di questo qualcuno compiersi, se non coinvolgendoti? –
- Tu vuoi morire prima, non è così? Non c’è nessuno che dovrà curarmi, io li ucciderò tutti, porterò il caos incontrollato e distruttore ovunque e quando finalmente sarò di nuovo in forze prenderò il posto che mi spetta nella Volta degli dei. – la voce del demone ora sembrava essersi calmata, come se lui fosse certo di quel che stava dicendo.
- Avresti potuto far tutto quello che volevi, avresti potuto assicurarti la vittoria, se solo avessi capito che eri condizionato dal Fato degli altri. Guardati attorno, perché sono ancora tutti vivi, quei mocciosi? Perché tu, signore della distruzione sregolata, li hai risparmiati? Perché non sono destinati a morire qui per mano tua. Avresti potuto cambiare persino le pagine del libro del Fato se solo ti fossi opposto, ma, ormai, per te, è troppo tardi. –
- Non è tardi. Ho tutto il tempo del mondo! – Follia fece una pausa nel suo discorso, cercando di riprendere il controllo di sé, ma i suoi occhi lampeggiavano di ira – Ora ucciderò te, poi loro, uno ad uno e, alla fine, non ci sarà più nessuno ad ostacolarmi. –
- Io ho un nome in mente. – disse ancora lo spettro.
Una chioma bionda comparve sulle spalla destra del demone, che urlò quando una chiostra di denti bianchi si fece largo nelle carni che stava possedendo.
Follia si dimenò, perdendo completamente l’interesse che, fino ad allora, lo aveva guidato nella direzione dello spettro fumoso, per concentrarsi sulla figura che aveva interrotto il loro discorso. Questa cadde a terra, per poi rialzarsi lentamente, senza dire una parola o emettere un suono.
- Tu. Tu! Cosa credi fare! –
Un’elfa dalla carnagione scura come la pietra lavica gli stava di fronte, curva in avanti, con il viso smunto e gli occhi incavati, spenti. I capelli biondi le cadevano sporchi sulla fronte e sul collo, nulla rimaneva della treccia che li aveva sempre tenuti stretti.
Le labbra scure e sottili dell’elfa era spaccate in più punti dall’arsura e sporche del liquido viscoso fuoriuscito dalla spalla morsa.
- Sono stato fin troppo generoso lasciandoti in vita. Tu sarai la prima a uscire dal proprio cammino predisposto. –
Lo spettro provò ad alzarsi da terra, con la spada dritta davanti a sé, ma il fendente del demone fu più veloce. Uno schizzo di sangue cadde sul terreno, poi il corpo dell’erborista cadde sulla terra davanti agli occhi dei cinque assassini paralizzati, con la gola solcata da un profondo taglio dal quale sgorgavano fiotti di vivido sangue rosso.
- Sono stata utile? – borbottò in un gorgoglio l’elfa, con le iridi opache fisse verso il cielo terso sopra di lei.
Gli occhi del servitore si accesero di uno splendore ancor più accecante, mentre il suo sguardo cadeva sul corpo morente di Seila.
- Sconfitto dalla tua eccessiva attenzione ai dettagli e da un cadavere mosso dal rimorso. – disse lentamente lo spettro dirigendosi a passi pesanti verso Follia – Che finale ridicolo, l’avrei dovuto ispirare io. Ti sei abbassato a svolgere il lavoro di un sottoposto del Fato. –
- Io ho vinto, io l’ho uccisa! – gli rispose il demone, falciando l’aria con la spada per pulirne la lama dal sangue rimasto.
- Lei ti ha ucciso prima di morire. Non avresti dovuto darle in dono il veleno della serpe delle sabbie, vista la tua condizione. –
- Cosa stai insinuando. –
- Sei rimasto rintanato nel deserto senza nemmeno tentare di conoscere  le cose che ti stavano attorno. – il servitore continuò ad avanzare inesorabile, con la punta della sua spada che quasi toccava il terreno, tanto era tenuta bassa – Il veleno delle serpi che abitano quelle dune rapprende il sangue e i liquidi corporei a tal punto da renderli duri come la pietra. Ora rispondimi, tu dove ti sei infilato per controllare quel corpo? Ormai sei solo una statua che parla ed io un buffone che prende tempo. Non è un finale comico? Entrambi abbiamo visto i più grandi eroi affrontare le tue manie di potere e, alla fine, l’ultimo scontro si è svolto tra una Musa, una statua e un morto che cammina. –
- Io non sono morto, non basterà un semplice veleno a fermarmi. –
Il corpo del demone sembrò inarcarsi per qualche secondo, per poi tornare alla sua postura originale. La sua pelle si gonfiò per un attimo sotto la pressione esercitata sulle pareti delle vene, per poi ritirarsi fino al suo stato iniziale
- È inutile, ora siamo in due a non poterci disgregare. Spero tu soffra le pene dell’inferno qui, immobile ed immortale. Sentirai le tue carni decomporsi lentamente, seguite dallo sbriciolarsi delle ossa e tu sarai ancora cosciente, rinchiuso in un intrico di sangue pietrificato, incapace di parlare o andartene. Lei ha vinto, tu ti sei creato la tua prigione da solo. –
Follia non rispose, ma i suoi occhi lampeggiarono di odio.
- Chissà, magari tornerò a farti visita, di tanto in tanto, per ricordare i bei vecchi tempi in cui nessuno dei due riusciva a prevalere.
Il servitore proseguì per la sua strada, dirigendosi con stanchezza verso i cinque assassini agonizzanti, per poi aiutarli a rimettersi in piedi, uno dopo l’altro, fasciando le ferite aperte e porgendo alla maga un foglio sul quale aveva tracciato sul momento con una calligrafia meravigliosa un sinuoso glifo in sangue vermiglio.
I compagni lasciarono quei corpi, facendo riprendere ai quattro prescelti che potevano ancora la loro forma originale.
Il gruppo mal assemblato, infine, si avvicinò alla salma dell’erborista, sotto lo sguardo d’ira di Follia, intrappolato nel corpo immobile di un demone.



Angolo dell'Autore:
-2
Ho grandi notizie, o forse no. Starà poi a voi deciderlo.
Ho praticamente finito in sottofondo tutta la stesura, mancherà forse una pagina all'ultimo punto che apporrò su questa storia. Per il momento, almeno.
Non è ancora il momento, per me, di guardarsi alle spalle. Voi, dopotutto, avete appena assistito alla sconfitta di Follia e alla morte, definitiva, di Seila, vorrei lasciarvi ancora un attimo per metabolizzare il tutto.
Posso dirvi che abbiamo chiuso un grande capitolo, con oggi. Il Demone è stato sconfitto, il nemico che ha messo in moto le vicende di ben due storie non potrà più essere un reale pericolo per nessuno.
I prossimi due capitoli avranno toni malinconi, lenti, tristi. Saranno come un'ultima melodia funebre non solo per chi è morto, ma anche per questa storia, che si accinge a spegnersi.
Il primo servirà a lasciare un finale a tutti i personaggi che ho maltrattato nei miei mesi di lavoro, il secondo... il secondo sarà un epilogo perfettamente in linea con il primo che scrissi, ormai più di un anno fa.
Spero vi sia piaciuta questa soluzione che ho trovato, io ho sempre detto che Seila avrebbe avuto modo di brillare, prima o poi.
Ci vedremo, spero, la settimana prossima.
Vago 

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Capitolo 66
*** Capitolo 58: Il canto funebre del vento ***


 - Mi sono trattenuto qui fin troppo. – disse lo Spettro dopo un silenzio eternamente lungo. – Se non vi dispiace, mi prenderei io in carico la sepoltura di questo corpo. –
Nessuno rispose, né alcuno fiatò quando il Servitore del Fato raccolse da terra il cadavere dell’erborista, per poi dirigersi lentamente con la salma tra le braccia verso la porzione di Monti Muraglia rimasta su quel lato del continente.
Nessuno osò ancora muoversi, come se la maledizione che si era insinuata nelle vene del demone avesse raggiunto anche i corpi degli assassini.
Keria alzò lentamente le braccia fino a portarsi le mani alle spalle, per cercare conforto nel suo stesso abbraccio. Una lacrima cristallina come le squame del suo drago nacque nel suo occhio destro, per scorrere lungo la ferita che le deturpava il volto e, infine, cadere a terra dal suo mento.
Lontano, l’esercito oscuro che aveva marciato per chilometri dietro il proprio signore senza mostrare segni di cedimento o stanchezza, ora rimaneva immobile come un’unica massa rigida. Nessun soldato pareva neppure respirare, come se il compito di ognuno di loro fosse solamente quello di mantenere la formazione che aveva assunto nel momento in cui il loro condottiero li aveva abbandonati, lasciando loro il suo ultimo ordine.
- Cosa farete ora? – chiese Nirghe, piegandosi per raccogliere a terra la spada dalla lama martoriata che aveva tenuto testa all’arma del demone, per poi riporla con attenzione maniacale all’interno del suo fodero – Non abbiamo più un motivo per rimanere qui, ma non abbiamo nemmeno una buona ragione per tornare nella Setta che ci ha voluti lasciare indietro. –
Non una voce osò mostrarsi per rispondergli.
- Ho bisogno di un momento da solo per mettere insieme le idee. Scusatemi. – concluse con la stessa voce sommessa il Gatto, allontanandosi dal luogo che li aveva visti perdere il loro scontro, per dirigersi verso la vicina macchia di alberi. Alle sue spalle, lo seguiva silenzioso e leggiadro il suo compagno sanguinante, con il petto perforato da una ferita identica a quella dello spadaccino.


Perché sono qui?
Perché ho deciso di farlo?
Non mi sarei dovuto far coinvolgere, tutta questa storia mi ha fatto perdere di vista il mio vero ruolo, quello di suscitare un sorriso in chi mi ascolta.
Dopo tutto questo tempo, mi chiedo se sappia ancora come rompere un momento serio.
Fin da quando ci siamo conosciuti, abbiamo sempre rispettato il nostro tacito accordo: Tu ti infilavi nei peggiori guai immaginabili, io ti guardavo tirartene fuori a forza, cercando di distrarti con le mie osservazioni. E tu ridevi. Ridevi e squartavi corpi, però che bella era quella risata.
Da quando sei nelle loro mani, invece… mi tocca fare il lavoro di tutti e due, senza riuscire a farne nessuno bene.
Ci fossi stata tu, qui, al posto mio, questa ragazza non sarebbe morta, ne sono certo. Purtroppo, sono altrettanto certo che se fossi stato io quello drogato e rinchiuso in una prigione di diamante, al mio risveglio avrei trovato un mondo in guerra con sé stesso solo perché non hai saputo tenere a freno il tuo sangue bollente.
Mi sto perdendo nei ricordi, però. Non è giusto nei confronti di questa povera mocciosa.
E tu, Fato, perché hai scelto questa via? Non avevi un modo migliore per far finire tutto?


- No. – disse una voce alle sue spalle.
Un uomo in abito scuro avanzò nella penombra dei resti della parte orientale di Izivay Magnea. Ad ogni suo passo, ogni volta che le suole dure delle sue scarpe eleganti battevano contro il pavimento in pietra, il suono che produceva rimbombava contro quelle pareti che, quasi un secolo prima, erano state levigate dalle abili mani degli artigiani nanici che abitavano quei monti.
- Perché? – chiese voltandosi lo spettro, che aveva rinunciato alla coltre di nebbia che gli avvolgeva il corpo.
- Perché non sono stato sufficientemente fantasioso, oppure perché, all’epoca, non sapevo a cosa saremmo dovuti andare in contro o, ancora, perché la mia mano e il mio inchiostro si sono mossi più veloci del mio intelletto. – L’uomo dal pizzetto nero si accovaccio accanto alla salma, pulendo con il polpastrello inumidito del pollice destro una guancia incavata dell’elfa morta dal sangue e dalla terra rappresi.
- Stai per caso ammettendo le tue colpe? – chiese quindi lo spettro, alzando lo sguardo verso il suo interlocutore.
- No, non lo farei mai di fronte a te. – gli rispose l’uomo con un sorriso triste sul volto – Sai, non credo tornerò a pestare questo suolo per molto tempo. Tu hai avuto fiducia nei miei piani, io voglio avere fiducia nei mortali e in voi. Voglio farti una domanda, prima di andarmene, l’unica a cui non so dare una risposta: perché l’hai portata qui, con tutto il Creato a disposizione? –

Già, perché qui?
Però, a questo punto potrei chiedermi anche perché non qui. Oppure perché non un po’ qui e un po’ non qui.
Sto temporeggiando, lo so.
Ho paura che, questa volta, dovrò rispondergli seriamente.


- Perché è comico, è l’ultima beffa che posso fare a quel montato di Follia. Non solo è stato ucciso dal suo stesso araldo, ma ora gli occhi morti di quest’araldo che si era dimostrato inutile fino alla fine, potranno guardare, finché rimarrà qualcosa di loro, le vite che ha salvato. E poi è un bel posto, forse un pochino polveroso e dimenticato, ma i nani ci sapevano fare ai bei vecchi tempi. Tra l’altro, che fine hanno fatto i nani negli ultimi decenni? –
- Io non ti capirò mai fino in fondo, Commedia. Abbi cura di te e fai un buon viaggio. –
- Non dovresti trattarmi sempre così, anche tu sei… - lo spettro alzò nuovamente lo sguardo, ma al suo fianco non trovò nessuno – Sei un grandissimo stronzo ed io sto parlando di nuovo al vento.  –

In questo momento sento la mancanza di Melodia.
Lui sì che ci sapeva fare, gli davi un filo d’erba e sapeva comporti in un momento una briosa ballata primaverile o una rilassante sinfonia estiva.
Me lo vedrei benissimo, ora, qui davanti, intento ad ingabbiare i venti marini perché suonino per te, tra le rocce, una canto funebre, come se l’intero continente si tramutasse per l’occasione in un organo ciclopico dalle canne di pietra.


Lo spettro nero si riebbe dopo pochi secondi di silenzio. - Forza Viandante, è ora di fare un bel rapporto a Loro. E magari ricordagli che il tuo contratto sta scadendo… Buona eternità, Serpente Seila, salvatrice dell’umanità. –
Un corvo nero si levò dalla caverna sul lato della rupe che, centinaia di metri più in basso, si gettava nel mare, per dirigersi in volo verso occidente.


Un fuoco si accese tra gli alberi per rendere meno buia la notte.
Hile si strinse le ginocchia tra le braccia, facendo perdere il suo sguardo tra le fiamme danzanti. Dalla parte opposta della piccola pira, Nirghe e Mea sedevano insolitamente vicini.
Il Lupo sospirò. Provava un profondo vuoto dentro di sé e si rendeva conto che il suo cervello sembrava rallentato, come non riuscisse ad elaborare quel mondo che intorno a lui cambiava.
Gli altri due punti cardinali introno al falò erano occupati rispettivamente da Keria, seduta sulla coda traslucida del suo drago, e da Jasno, avvolto nel suo manto di piume bronzee.
Sul ruvido tronco di un albero vicino, una sesta ombra senza proprietario osservava la scena, non notata dagli occhi di tutti meno quelli di Hile, che non riuscivano a perdere di vista le forme femminili della figura accovacciata.
Lo scoppiettio della legna non perfettamente secca che bruciava continuava a rimanere da ore l’unica fonte di suono in quella notte scura.
Avrebbero dovuto festeggiare, brindare, tornare nella civiltà con il sorriso sulle labbra a raccontare a chiunque fosse stato a portata d’orecchio la loro storia. Nessuno, però, sembrava essere dell’animo giusto per far cose del genere.
Erano stati sconfitti, feriti e ridotti a moribondi da quel nemico che erano stati incaricati di uccidere.
E Seila aveva anche perso la vita per colpa loro, perché non avevano avuto fiducia in lei, perché non erano andati a cercarla non appena erano riusciti a liberarsi.
Avevano sbagliato tutto fin dall’inizio. Avevano sbagliato i loro movimenti, le loro scelte si erano rivelate frutto delle macchinazioni del loro nemico e avevano abbandonato a sé stessa l’unica persona che si era rivelata in grado di salvare tutti da quella minaccia.
Il Lupo si alzò dal suo posto in luttuoso silenzio, addentrandosi tra gli alberi finché il fuoco alle sue spalle non fu null’altro che un puntino luminoso. Ad accompagnarlo c’erano solamente i passi leggeri del suo compagno dal pelo grigio.
Lucide lacrime scintillanti come piccoli diamanti cominciarono a rotolare lungo le sue guance, riflettendo lungo il loro percorso i pallidi raggi lunari che riuscivano a farsi strada tra le fronde.
- Perché Oscurità? Perché io? Perché mi hai scelto, se già sapevi che ti avrei delusa? –
La sagoma femminile si condensò su un masso lì accanto.  La chioma indistinta le ricadde sulla sua spalla quando piegò il capo di lato, come se quel movimento fosse sufficiente per rispondere alla grandinata di domande dell’assassino.
- Questa volta non mi basta, questa volta non mi è sufficiente il tuo silenzio. Ti prego, spiegami perché mi hai voluto far questo! –
La figura scosse le spalle, riportando la testa in posizione dritta.
- Smettila di stare lì, per favore! Non sono più quel bambino che hai raccolto in quella cella, adesso ho qualcuno accanto. Ti chiedo solo risposte. – Un folto pellame cominciò a ricoprire il corpo del Lupo, mentre lui continuava a parlare incurante – Perché hai voluto puntare su un cavallo perdente? –
La sagoma si mosse silenziosa attraverso le superfici, passando dalla roccia alla corteccia, muovendosi attraverso il terreno che qua e la si fregiava di ciuffi d’erba e sottobosco.
- Hai detto che mi saresti stata sempre accanto, perché? Perché hai avuto pietà di me? –
Le tenebre della notte divennero come tentacoli di un essere mostruoso, che si attorcigliarono saldi attorno alle gambe del Lupo singhiozzante, trascinandolo pian piano verso il terreno, sotto il terreno.
In breve, il nero manto della notte divenne candido quando anche la testa dell’assassino venne fagocitata dai sassi, un bianco telo sul quale la luna sembrava una macchia scura dalla quale si aprivano sbavature grigie.
Accanto a lui si materializzò una figura femminile dall’uniforme tinta grigia.
Hile fece per aprire la bocca, per permettere alla sua lingua di continuare a formulare le centinaia di domande che gli affollavano la mente, ma quel corpo che quasi si confondeva con l’ambiente circostante fu più rapido.
Un paio di salde braccia gli circondarono il torso e le spalle, stringendolo in un caldo abbraccio.
L’assassino perse ogni freno che si era imposto, scoppiando in lacrime.
- Io, - disse la figura con voce calma e gentile, senza sciogliere il contatto che aveva creato con il suo araldo – non ho mai avuto pena di te. Mi hai sempre resa orgogliosa e non hai mai tradito le mie aspettative. Non puoi farci nulla, se non era compito tuo mettere fine a questa guerra. –
La creatura dai tratti ferali e la figura femminile rimasero stretti in quell’abbraccio per qualche secondo, poi lei si decise a fare un passo indietro, alzando con una mano il muso del Lupo che aveva davanti, in modo tale che gli occhi scuri puntassero sul suo volto privo di lineamenti.
- Adesso torna dai tuoi compagni. – gli disse ancora, pulendogli con un dito gli occhi dalle ultime lacrime che ancora si attardavano a cadere – Ti staranno aspettando. Vai e goditi ciò che il futuro che hai preservato ha in servo per te. –
Il terreno, se terreno si poteva chiamare quello su cui si appoggiavano i piedi dell’assassino, tornò a reclamare il suo corpo, riportandolo nella cupa oscurità della notte.
Hile cadde in ginocchio a terra, mentre le dimensioni del suo corpo tornavano a ridursi e, accanto a lui, il suo compagno tornava distinguibile.
Un rumore leggero di passi, attutito dal rado sottobosco, raggiunse le sue orecchie.
Una mano sottile si appoggiò sulla sua spalla, mentre Buio fece un paio di passi indietro per lasciar posto al nuovo arrivato.
- Stai bene? – chiese Keria sporgendosi in avanti per permettere ai suoi occhi verdi di incontrare quelli adombrati del compagno di viaggio.
- Certo. – le rispose il Lupo alzandosi.
- Dispiace anche a noi che sia successo quel che è successo, ma adesso non è utile a nessuno scappare via come hai fatto. – continuò il Drago con la voce dura.
- Sarà, ma questo non toglie che avrei potuto far di più. Dopotutto mio bisnonno non era il grande Trado dell’Aria? Non dovrei avere nelle vene il sangue di un eroe? –
- Io, non so cos’altro avremmo potuto fare. – gli rispose a voce bassa l’arciere dal volto sfregiato da una sottile cicatrice obliqua, stringendogli le spalle in un abbraccio e appoggiandogli la fronte sulla spalla sinistra.
Hile rimase immobile, senza né staccarsi da quel contatto, né ricambiare il gesto.
- Per quanto possa valere, secondo me hai fatto tanto. Ci hai salvati in tante occasioni, mi hai salvata più e più volte, spesso patendone le conseguenze. Chi lo sa, se non ci fossi stato qui, magari saremmo morti tutti, non solo Seila… -
- Dovremmo andare. Gli altri ci staranno aspettando. – le disse il lanciatore di coltelli, cercando di allargare la braccia per far sciogliere la stratta, invano.
- Sto bene, qui. Aspetta ancora un momento. – fu la risposta del Drago, che strinse ancor più l’abbraccio e fece aderire la chioma castana alla guancia del compagno di viaggio.
Dovettero passare un paio di minuti perché Keria decidesse di essere soddisfatta di quel contatto e lo sciogliesse.
- Sai, prima di tornare di là, dovrei dirti ancora una cosa. – riprese l’arciere alzando il capo.
- Cosa? Non credo che tu possa dirmi qualcosa che possa farmi sentir meglio. –
L’assassina si mosse in fretta, appoggiando le sue labbra sottili su quelle del ragazzo di fronte a lei, che rimase paralizzato da quel gesto inaspettato.
Keria fece un passo indietro con un sorriso abbozzato sul viso. – Se tu volessi, mi piacerebbe poter esplorare con te il continente, ora che possiamo. –
L’arciere, quindi, si voltò, tornando a camminare in silenzio tra gli alberi.
Il Lupo, quando si fu ripreso dall’esperienza inaspettata, prese a ripercorrere la traccia che aveva lasciato per raggiungere quel luogo, finché il rossore del fuoco non tornò a scaldargli il viso sporco.
Non gli fu rivolto molto più di un paio di sguardi dagli assassini che, ancora in silenzio, sedevano intorno al fuoco come se lui si fosse alzato un secondo prima. Persino Keria sembrava essersi dimenticata di ciò che era appena successo.
Hile riprese il suo posto accanto alle fiamme, facendo nuovamente perdere il suo sguardo nei guizzi rossastri.
Fu l’Aquila a rompere il silenzio. – Io non tornerò con voi nelle Terre. – disse semplicemente.
- Perché? Non abbiamo più nulla che ci trattiene qui! – Keria si alzò in piedi, facendo risuonare la sua voce acuta nella notte.
- Non… non credo ci sia ancora posto per me, di là. Per il momento credo rimarrò qui, per eliminare ogni singolo soldato del Demone, poi… non so cosa farò. –
- Non è necessario che ti sacrifichi ulteriormente! Troveremo un modo, ci sarà qualcuno che possa… - cercò di ribattere il Drago, venendo interrotta bruscamente da un gesto della mano artigliata del compagno di viaggio.
- No. Nessuno può far qualcosa per me. Sapevo a cosa sarei andato incontro e ora ne devo accettare le conseguenze. Farò quel che devo e poi… il Fato mi condurrà dove devo andare. –
Nessuno provò ancora a controbattere e il silenzio tornò a cadere tra gli alberi mentre l’arciere tornava a sedersi.
- Voi, invece? Cosa farete? – tornò a dire Jasno dopo una pausa.
La voce del Gatto si levò bassa, incerta, come se l’assassino si ricordasse appena come si faceva a parlare. – Voglio una casa in un posto tranquillo. Nient’altro. Non ho intenzione di sentire ancora parlare di dei e assassini, non voglio più dover usare queste spade… voglio soltanto una vita tranquilla. –
- Davvero pensi di poter vivere normalmente, dopo tutto quello che abbiamo visto e fatto? – I piccoli occhi scuri da rapace dell’Aquila brillarono come divertiti.
- Non lo so. Non mi rimangono soldi da parte, non so fare nient’altro che uccidere, ma se noi… sei siamo riusciti a sconfiggere quel porco schifoso, non vedo perché io non possa ripartire da zero. –
- Voi altri, cosa avete in mente? –
- Voglio andarmene, lontano. Non voglio più aver nessuno sopra o sotto di me che possa rimanere invischiato nelle mie scelte. Esplorare il Continente, vorrei fare quello finché ne avrò la possibilità. – gli rispose il Lupo, senza distogliere lo sguardo dal fuoco.
- Mea, Keria? – continuò Jasno per punzecchiare la conversazione.
- Non lo so. – gli rispose l’arciere. – Forse sto solo aspettando di scoprire se qualcuno mi sta aprendo o meno una porta. – Sul viso della ragazza comparve un fugace sorriso, che scomparve con altrettanta rapidità.
- Io so che ora sono stanca e ho bisogno di dormire. Domattina deciderò cosa fare della mia giornata… e così via. – Mea si sdraiò a terra, sancendo così la fine della discussione.

I primi raggi del sole cominciarono a filtrare tra le fronde, cadendo sulle braci spente del falò coperte da uno spesso strato di cenere grigia.
Il primo a lasciare l’abbraccio degli alberi fu Nirghe, che si diresse sicuro verso il corpo rigido della creatura dai tratti animaleschi, che lo fulminò con il suo sguardo carico d’odio.
Un rumore di passi leggeri lo raggiunse alle spalle, facendolo voltare.
- Dovremmo cambiare copione, ogni tanto. – disse il Gatto.
- In che senso? –
- Io vado da qualche parte per starmene da solo, tu mi segui e finiamo a parlare di cose. Se non facciamo attenzione, potrebbe spargersi la voce che Gatti e Lupi possono andare d’accordo. –
- Non dobbiamo permetterlo in nessun modo. – gli rispose Hile raggiungendolo con un sorriso tirato sul viso. – Tu e Mea andrete via insieme, vero? –
- Questa è l’idea generale. Partiremo tra qualche ora e… cercheremo di tirare avanti. Non abbiamo ancora discusso su dove andare, mi piacerebbe Gerala, ma non sono sicuro che una grande città possa ospitarci, considerando anche il fatto che, ora, la setta ha una sede anche nella Grande Vivente. –
- Quindi questa è l’ultima occasione che ho per salutarti. –
- Se la vuoi mettere così… potremmo provare a tenerci in contatto. –
- Non credo che dove andrò io ci sarà modo di tenersi in contatto con qualcuno. –
- Parliamo di cose più importanti, piuttosto. Keria vuole venire con te, vero? –
- Più importante? Questo? –
- Non rispondermi con delle domande. –
- Vorrebbe, ma non so se ho il coraggio di accettare qualcuno con me. –
- Ah. – fu la risposta asettica di Nirghe, che tornò a voltarsi in direzione del corpo pietrificato.
- Davvero non dici niente a riguardo? –
- Io la mia scelta l’ho fatta. Solo, se verrà con te, ricordati che non ti starà né sopra né sotto. –
Il Gatto tornò a dirigersi verso la macchia verde, lasciando il lanciatore di coltelli solo sotto lo sguardo furente di Follia.
Un paio di ore dopo i cinque assassini si ritrovarono sullo spiazzo poco al di fuori del bosco, disponendosi in cerchio sotto il sole mattutino.
- Questo, quindi, è un addio. – disse Mea, spostando ritmicamente il suo peso da un piede all’altro
- Buona fortuna. – fu la risposta di Jasno, che fece un passo indietro – Magari il destino ci farà ritrovare, prima o poi. –
L’Aquila parve scappare dagli sguardi che si erano posati su di lui, alzandosi in volo e dirigendosi in tutta fretta verso nord, dove, ancora dritti, in piedi, rimanevano immobili i soldati nemici.
Hile sospiro guardando la creatura dalle piume bronzee stagliarsi contro il cielo terso, riducendosi velocemente fino a diventare poco più di una sagoma scura.
- Avete bisogno di un passaggio fino alle Terre? – chiese l’arciere alzando lo sguardo sull’elfo e la mezzelfa che le stavano davanti. – Il mio drago può trasportarci tutti, se volete. –
Mea le sorrise in risposta, abbassando però lo sguardo verso terra. – No, tranquilla. Dobbiamo ancora decidere cosa fare. E poi… ho un paio di ali e il mio dono che possono riportarci di là. –
- Va bene… - Keria incrociò le braccia all’altezza del petto.
- Davvero finisce tutto così? – chiese Hile all’improvviso, infrangendo l’attimo di imbarazzo che si era creato.
- In che altra maniera potrebbe finire? – gli disse di rimando il Gatto. – Non credo ci sia un Ordine decaduto disposto a farsi ricostruire da noi… quattro. –
Il Lupo proruppe in una triste risata, incrociando le dita delle mani dietro il capo e portando la fronte verso il cielo. – Beh, potremmo anche prenderci in carico un Ordine, ma ci servirebbe comunque un quinto per prendere in gestione il governo di una terra… -
- Buon viaggio. – tornò a dire con voce e sguardo seri Nirghe, facendo passare il suo braccio destro sopra le spalle della mezzelfa al suo fianco, per poi stringerla a sé.
- Anche a voi. Magari davvero ci ritroveremo, un giorno. – continuò il Lupo.
I passi pesanti del drago cristallino che si avvicinava fecero tremolare il terreno.
- Mi mancherete. – disse Keria, voltandosi verso il suo compagno. – Andiamo Hile? –
- Certo… buona fortuna, qualunque cosa deciderete di fare. –
Il Lupo e il Drago salirono sul dorso squamoso del rettile traslucido che, con un possente battito d’ali, si levò in volo, puntando il muso spigoloso verso ovest.
Non appena lo spadaccino e la maga non furono più distinguibili, l’arciere scoppiò a piangere.
- Staranno bene, vedrai… - provò a confortarla Hile.
- Potranno anche star bene, ma perché è dovuto finire tutto così? –
- Non lo so. Ma abbiamo vinto, dovremmo esserne felici. –
Keria parve non sentire nemmeno le parole dell’assassino alle sue spalle.
- Ascolta, devo chiederti una cosa. – Il Lupo prese un profondo respiro prima di continuare il suo discorso. – Vorresti venire con me sul continente? –
La ragazza si volto di scatto, puntando i suoi occhi verdi gonfi di lacrime sul viso del lanciatore di coltelli. La cicatrice bianca che le attraversava il viso venne illuminata dal sole. – Davvero? Davvero mi vuoi accanto? –
- Voglio provarci. – Hile ebbe un attimo di esitazione, poi si sporse in avanti, appoggiando le sue labbra su quelle dell’arciere. La sua mano destra, lentamente, senza farsi notare, si infilò in una delle poche tasche rimaste integre, permettendo alle dita di stringersi attorno alla lama di un coltello, che scivolò fuori dal tessuto strappato per cadere oltre il fianco cristallino del drago e precipitare verso il mare lontano.
Il sole fece splendere il glifo che incantava la lama poco prima che questa tagliasse i flutti e si inabissasse, per sempre.



Angolo dell'autore:
-1, ciò significa anche che questo è l'ultimo capitolo narrativo di questa storia.
Non voglio ancora rubarvi tempo per parlare di questo viaggio, per i ringraziamenti finali, le lacrime, la commozione e tutto quel che si dovrebbe fare una volta giunti al completamento di una storia con questo ammontare di capitoli. No, a quello ci penserò la prossima volta.
Oggi voglio dilungarmi su ben altri argomenti. Ormai mi conoscete, mi scuserete quindi se la tirerò per le lunghe.
Ultimamente, tra lo studio per potermi definire un giorno ingegnere, la stesura delle ultime battute di questa storia e l'ideazione di un proseguo dell'avventra di Dungeons and Dragons che sto masterando, mi sono ritrovato un pensiero profondo nel cervello. Si, purtroppo ogni tanto anch'io cado in tentazione e rifletto.
Spesso non sono sicuro del mio lavoro e cerco di capire se sto facendo abbastanza o meno attraverso i numeretti impersonali che il sito mi mette a disposizione, questo però non mi ha aiutato particolarmente, anzi.
Sia chiaro, non mi reputo neppure degno della nomea di scrittore, non per niente mi definisco con tutti, fuori o dentro il web, come uno scribacchino, ma il leggere che i miei ultimi capitoli non raggiungono le 30 visualizzazioni mi ha lasciato l'amaro in bocca.
Vi sto raccontando questo, perchè, ieri, mi sono dato finalmente del cretino. Mi sono ricordato che in dei vecchissimi Angoli dell'autore della prima storia avevo già detto qualcosa su questo tema e sono andato a prendere il numero di cui parlavo e... beh. Allora arrivavamo a 15 visite scarse, cresciute poi fino alle 83, di quel capitolo, attuali.
Parlo, per dimostrarvi con che autore ridicolo avete a che fare, uno che si preoccupa di quante persone lo leggono piuttosto che godersi il fatto che sta facendo quello che gli piace.
Beh, posso chiudere dicendovi che non smetterò sicuramente di scrivere, neppure se dovesse rimanere una sola persona a leggermi.
Ed ecco che posso collegarmi a un discorso un poco più serio.
Io ho finito questa storia, ho tutto pronto, da parte, da pubblicare. Utilizzerò le prossime due o tre settimane per mettere in quadro tutte le mie pubblicazioni, correggerle, revisionarle, aggiornarle al mio stile maturato se è necessario.
Intanto, se siete interessati, pubblicherò forse un paio di racconti decisamente più corti e meno impegntivi di questi, persino lontani dalla sezione fantasy, ma questa è un'altra storia.

Vi ringrazio, quindi, per essere arrivati fin qui.
Grazie lettori invisibili per darmi la vostra fiducia, grazie OldKey, La ragazza imperfetta, EragonForever per le recensioni che mi hanno fatto crescere in tutto questo tempo. Grazie a tutti voi.
A venerdì prossimo, con i ringraziamenti ampliati e l'ultimo capitolo.
Passo finalmente la palla al Viandante per i titoli di coda.
Vago 

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Capitolo 67
*** Capitolo 59: Epilogo ***


 Un elfo con un tatuaggio romboidale sulla guancia entrò nella stanza sotterranea con un passo pesante.
L’orlo della lunga giacca scura che portava sopra a dei vestiti anonimi svolazzava leggermente all’altezza delle sue ginocchia.
Si diresse quindi sicuro verso la parete in diamante, per appoggiandoci violentemente la fronte contro.
Chiuse quindi gli occhi mentre dalla sua bocca si levava un lungo sospiro.

È passato qualche anno, dall’ultima volta che sono stato qui da te e, di nuovo, non so come cominciare se non come un “Che schifo”.
Questa volta non mi sono divertito, per niente. Non mi sono seduto ad ammirare guerre tra draghi e demoni, incantesimi complessi e meraviglie di un mondo nuovo.
No…
Ho visto la morte, la sconfitta, sono stato sconfitto e privato di una parte di me. Ancora, l’unico modo che ho per descrivere questo viaggio è con le parole “Che schifo”.
Te lo avevo detto, l’ultima volta. La magia non sarebbe rimasta per aspettarti e, ormai, manca poco alla sua completa sparizione.
Gli dei minori hanno finalmente smesso di giocare a fare gli irresponsabili, o forse sono stati costretti, non saprei dirti. Anche loro, alla fine, si sono scelti dei templi e gli hanno donato dei poteri. O meglio, si sono scelti degli araldi, per come li chiamano loro.
È divertente vedere come, ormai, ogni volta che ti lascio per un po’ di tempo in più, i mortali riescano a beffare la morte. L’altra volta attraverso la riscrittura dei capitoli del Libro del Fato, questa volta giocando con il tempo. Sono sicuro che l’universo ci stia odiando, per tutto il casino che succede qui intorno.
L’ultima volta che arrivai qui davanti a raccontarti le mie avventure, mi ricordai solo dopo di essere in forma di fumo e quindi non visibile, beh, sai, per un po’ non avremo questo problema. Spero di essere guarito per quando sarai fuori, ma non posso prometterti nulla.
Ho avuto anche modo di incontrare qualche persona importante, ma nessuno di loro ti sarebbe andato a genio.
Il nuovo re dei draghi, per esempio.
Credo che lui si possa definire come la tua antitesi per eccellenza. Ha elaborato un piano minuzioso per eliminare due suoi fratelli, pur di raggiungere il trono. Lo sappiamo entrambi che le persone di questo tipo ti hanno sempre annoiata.
Ti avevo anche promesso che avremmo esplorato questo nuovo mondo in lungo e in largo, ma ho paura che, se i mortali continuano di questo passo, non rimarrà molto da visitare.

L’elfo si allontanò dalla parete della prigione, facendo qualche passo verso il muro opposto con gli occhi puntati verso il soffitto e le mani dietro la schiena.

Sai, nostro padre non ci sa fare per niente.
Non ci guarda per degli anni, non si presenta quando hai bisogno, ci lascia nelle peggiori condizioni poi, per qualche strana ragione, decide che gli servi ancora, quindi ti salva, ma solo per mandarti in bocca a una belva ancora più grossa e cattiva della precedente.
Vuoi fare un pochino a cambio con me?
Sono solo una ventina d’anni di servizio, non molti, rispetto a tutti quelli che mi porto sulle spalle. Tu fai qualcosa qui fuori e io mi prendo il mio meritato riposo lì dentro.
Se solo potessi proporre questo scambio a Loro… non glielo proporrei. Decisamente non glielo proporrei, perché so già come andrebbe a finire.
Fermami se sbaglio. Cioè, sei immobilizzata e addormentata, non puoi fermarmi, però se sbaglio fai finta di potermi fermare.
Tu ascolteresti quello che avrebbero da dirti, guarderesti il contratto, inizieresti a cercare la più piccola scappatoia poi, circa due secondi dopo tutto ciò, ti annoieresti.
Ora arriva la parte che preferivo di te.
A quel punto avresti fatto comparire nelle tue mani qualcosa di grosso, pericoloso, affilato, ma al contempo bello a vedersi.
Uno spadone in oro, per esempio.
Spadone in oro sulla cui lama io avrei fatto comparire le parole “Con amore”, ma questa è un’altra storia.
Comunque, ora, tu e il tuo spadone avreste fatto una strage in quella stanza, sporcando di sangue le pareti delle case fino a tre vie di distanza.
Infine, grondante di sangue dalla testa di quella forma fino ai suoi piedi, con la tua arma ancora stretta in pugno, avresti sospirato, ti saresti girata e avresti detto qualcosa come “Hai visto Commedia? Qualcosa da aggiungere?” per poi ricordarti che io sono imprigionato in una prigione di diamante apribile solamente da un mortale che ha firmato il mio, nonché tuo, contratto.
A questo punto avresti perso le eternità colpendo questa parete e urlando come una disgraziata, interrompendoti solo per uccidere un povero sfigato che, allarmato dai suoni, sarebbe sceso a controllare cosa stesse succedendo.
No, decisamente non sarebbe una buona idea affidare la mia libertà alla tua capacità di sottostare al volere di altri.


Mi chiedo, ora che Follia è fuori gioco finché la materia continuerà ad esistere, cosa ne sarà di me.
Ho saputo che i draghi torneranno sulle Terre e che il loro nuovo re entrerà a far parte della Loro cerchia.
Onestamente mi stupisce il fatto che prima non lo considerassero uno dei loro, visto che mi hanno ordinato espressamente di obbedirgli, ma, evidentemente, c’era troppa burocrazia in mezzo.
I punteggi finali sono, quindi: Noi che ne usciamo comunque sconfitti, cosa che vale anche per Follia, per le due generazioni di prescelti e per la parte orientale di questo continente. Dalla parte dei vincitori invece vanno Loro, ovviamente, i draghi e la setta degli assassini, che sicuramente da ora in poi prenderà sempre più potere.
Dovremo lasciare questo posto non appena ti sarai liberata da questa gabbia e da questa forma. Impiegheranno ben poco tempo per capire quanto io gli sia indispensabile e immediatamente cercheranno un pretesto per riottenere i miei servigi.


L’elfo si voltò nuovamente verso il lucido diamante con una rapida mezza giravolta sui talloni, facendo ondeggiare intorno al suo corpo la giacca, in un gesto talmente teatrale da sembrare essere stato studiato e provato centinaia di volte.
La mano destra del mutaforma fece per muoversi verso il suo ventre, come preparazione di un inchino, per poi bloccare di colpo la sua corsa.
La sua bocca si flesse in un triste sorriso.

Sono stanco, forse troppo.
Non pensavo che sarei mai arrivato al punto di dirlo, ma il mondo è diventato un palco troppo grande perché io possa continuare la mia esibizione ed il mio eterno monologo.
E sono un codardo, ma non nel senso in cui me lo hai sempre detto tu.
Per un attimo ho pensato che sarebbe stato bello lasciarmi morire, finalmente. Sarebbe stato di una facilità infinita lasciarmi alle spalle tutti questi problemi e raggiungere i nostri fratelli e le nostre sorelle, ovunque essi siano ora.
Ancora adesso mi chiedo cosa mi abbia davvero trattenuto dal sedermi e dall’aspettare lo spannung della mia vita, forse il momento di più alta tensione che abbia mai vissuto…
Fossi accanto a me, a questo punto, mi avresti già picchiato a sangue dandomi del piagnone, come potrei poi darti torto?
Ma prova a metterti nei miei panni. Non possiamo invecchiare, ma ciò non vuol dire che l’incedere degli eventi sulla nostra pelle non ci appesantisca.
Hai ragione, sono proprio un frignone.
Quanto tempo sarà passato da quando sono entrato? Quanto me ne lasceranno ancora, prima di richiamarmi a Loro?
Sai, ora che le vette dei monti sono diventate un luogo ancor più inospitale, pare vogliano spostare tutto di nuovo lassù. Chissà se nel tuo riposo tu possa vedere ciò che ti sta intorno, sentire il mondo che si muove sotto di te e percepire chi ti sta accanto.
Me lo racconterai, quando potrò di nuovo sentire la tua voce.
Adesso perdonami, ma devo lasciarti di nuovo.
Non manca molto e, quando tornerò da te, sarà preceduto da uno di Loro, pronto a liberarti.
Abbi ancora un pochino di fede in me, conserverò con tutte le mie forze quel briciolo di follia che servirà a farti sorridere almeno ancora una volta.




Angolo dell'autore:
Eccoci qui, infine. -0, potrei dire.
Mi trema la mano nello spuntare la voce "Completa".
Questo che è appena finito è stato un viaggio stupendo e vi devo ringraziare tutti, uno per uno, per avermi accompagnato.
In primis, coloro che, forse, posso dire di conoscere meglio.

OldKey
laragazzaimperfetta
EragonForever

Coloro che mi hanno aiutato a crescere in tutto questo tempo grazie alle loro recensioni. Non vi ringrazierò mai a sufficienza.
Ma vi avevo parlato di ringraziamenti ampliati, la settimana scorsa, eccoli dunque di seguito. Sono i numeretti asettici a cui sono, spero, riuscito a dare un nome, grazie al fatto che loro hanno avuto sufficiente fiducia in me da aggiungere la mia storia alle preferite, ricordate o seguite. Alcuni di loro camminano accanto a me da una vita, da quando ho cominciato due anni fa, forse, altri si sono appena uniti. Beh, poco importa, ora.

Easter_huit
terry5
Lolo_
da capo ancora
Laly of the Moonlight
MaDeSt
mihoko_imaginative

Grazie anche a voi per avermi dato un segno tangibile della vostra presenza e fiducia.
Inoltre, grazie a tutti quelli che sono arrivati qui e che non ho potuto nominare.

Volgiamo ora il nostro sguardo al futuro.
Le prossime settimane saranno strane, proverò a pubblicare testi che sono più simili a prove di stile che non a storie. Non so nemmeno quante ne riuscirò a pubblicare, rendetevi conto di quanto sia incerto sul da farsi.
Inoltre, come anticipato, revisionerò dal primo capitolo della Guerra degli Elementi, fino all'ultimo di questo Ritorno dell'Ombra, in modo nascondere gli strafalcioni narrativi e grammaticali che mi sono lasciato alle spalle.
Finito tutto ciò, sperando di aver intanto trovato anche il tempo di averne tirato giù, almeno, i primi capitoli, comincerò a pubblicare l'ultima storia ambientata nelle Terre, o, per lo meno, l'ultima storia della trilogia principale.
Cosa posso dirvi a riguardo, in modo da stuzzicare ancora un po' la vostra curiosità?
Sarà diversa. Costruita ancora come un viaggio, ma con molti meno attori sul palcoscenico. Per la precisione, gli attori principali saranno tre (per poi ampliarsi a quattro nella seconda metà, se fila bene come nella mia testa): Il Viandante, un assassino di draghi e un tizio in fuga dal mondo. E l'altra musa, quando finalmente sarà libera.

Bene, mi sono trattenuto a sufficienza.
Grazie a tutti voi per queste 67 settimane assieme, spero di rincontrarvi tutti quando riprendero questo mio lavoro.
Vorrei potervi dire "a venerdì", ma ancora non so quale venerdì sarà.
Quindi alla prossima.
"Sia la strada al vostro fianco, il vento sempre alle vostre spalle, che il sole splenda caldo sul vostro viso e la pioggia cada dolce nei campi attorno finché non ci incontreremo di nuovo."
Vago

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