Riflessi di sangue

di Ayr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***



Capitolo 1
*** I ***



Lo specchio si groria forte
tenendo dentro a sé specchiata la regina,
e, partita quella, lo specchio riman vile.
-Leonardo da Vinci-

I



«Hai giocato troppe volte con la morte, Ivory, prima o poi si stancherà e verrà a reclamare quello che sei riuscito a sottrargli per troppo tempo.»
Ivory non prestò la minima attenzione alle parole dell'altro, troppo impegnato a civettare con una mezz'elfa filiforme dai grandi occhi grigi e i lunghi capelli blu; le sorrise e la ragazza ricambiò il sorriso, arrossendo violentemente.
«Mi stai ascoltando?» lo richiamò all'attenzione Brandbury, dandogli un colpetto sul gomito.
«Sì, Brand» sospirò l'altro senza nemmeno voltarsi, «Stai facendo il melodrammatico come tuo solito.»
«Il melodrammatico?» esclamò sconvolto Brandbury, «Stai per affrontare un torneo contro i migliori tra i guerrieri di Actardion: i più forti, i più astuti, i più brutali e i più sanguinari!»
«E allora?» lo interruppe bruscamente Ivory, stanco dello sproloquio dell'amico. Brandbury sapeva essere davvero logorroico e asfissiante, soprattutto quando non era d'accordo sulle sue scelte, ovvero la maggior parte delle volte.
«Stai volontariamente andando verso il suicidio!»
«Non è uno scontro all'ultimo sangue e per quanto possano essere brutali e sanguinari i miei avversari sono capace di tenerli testa. Non è la cosa più spaventosa e letale che ho affrontato fino ad adesso, so come si combatte e mi sembra di cavarmela anche discretamente. Quindi smettila di preoccuparti per me!»
Ivory e Brandbury erano cresciuti assieme: la madre di quest'ultimo aveva avuto pietà di lui quando l'aveva trovato solo, infreddolito e affamato in mezzo a una strada, abbandonato dai suoi simili ed evitato come una malattia contagiosa dagli uomini; per Sarah, invece, Ivory era sempre stato solo un bambino, in quel momento bisognoso di un pasto caldo e di un letto confortevole. L'aveva preso con sé, sotto il suo tetto, e l'aveva allevato come fosse stato figlio suo, nonostante il colore così chiaro della pelle, inconsueto anche per la razza degli Elfi.
Ivory era un elfo albino: una creatura alquanto rara e mal vista, tanto dagli uomini quanto dagli Elfi, i quali credevano che fosse un messaggero del dio dai Nessuno e Cento nomi e che portasse con sé la morte, il cui marchio era proprio quella pelle così chiara e bianca come avorio, che gli aveva dato il nome, e che somigliava troppo al pallore mortale dei cadaveri.
Brandbury era stato per lui come un fratello maggiore che l'aveva sostenuto, consolato e consigliato; ma alla veneranda età di venticinque inverni non reputava più necessario il suo aiuto e sopportava sempre meno le sue intromissioni. Nonostante questo, provava un sentimento di profonda gratitudine e affetto nei suoi confronti e non avrebbe mai avuto il coraggio di dirgli che tutta quell'apprensione lo soffocava e lo infastidiva: in fondo, era il modo con cui Brandbury esternava la propria affezione per il fratellino.
«Al vincitore verrà affidata una missione per la quale verrà pagato profumatamente, e solo gli dei del Sacrario sanno quanto in questo periodo abbiamo bisogno di soldi. Non potevo rifiutare una proposta così allettante!»
«Ma se non dovessi vincere?» domandò timidamente l'altro.
«Almeno ci avrò provato. Non possiamo permetterci di lasciarci sfuggire occasioni del genere, non in questo momento.»
Brand dovette dare ragione al fratello: il lavoro per i due scarseggiava, non c'erano campagne militari per le quali Ivory potesse partecipare come mercenario, e con l'arrivo dell'inverno, gli animali si erano rintanati per ripararsi dal freddo, lasciando a mani vuote i cacciatori. Da quasi due mesi sopravvivevano solo grazie ai guadagni di Brandbury come erborista e cerusico, che, però, guadagnava quel poco che bastava per farli vivere decentemente: vivevano in un piccolo villaggio ed erano veramente in pochi quelli che si rivolgevano a lui, solitamente contadini che avevano mal di schiena o donne che chiedevano qualcosa per non rimanere incinte o far passare il mal di testa, vecchi che cercavano rimedi per i reumatismi e il buon vecchio Curt, che viveva in fondo alla strada, dopo la piazza del mercato e che dopo gli orrori di quasi quarant’anni passati nell’esercito, la notte non riusciva a dormire e chiedeva a Brandbury sonniferi sempre più potenti.
Il giovane si massaggiò la fronte: da un lato non poteva dargli torto, ma dall'altro era seriamente preoccupato per la sua incolumità, non sapeva cosa ci si potesse aspettare da un evento del genere, soprattutto per il fatto che fosse stato organizzato niente poco di meno che dalla Regina in persona, e tutti erano a conoscenza dei suoi gusti alquanto macabri e discutibili; per quanto potesse aver promesso che non ci sarebbero state morti, nessuno poteva affermarlo con sicurezza. Era risaputo come, in realtà, finissero gli scontri del genere: in mezzo alla mischia e all'euforia generale nessuno si sarebbe accorto del baluginio di un pugnale non spuntato affondato nel costato di un avversario, e l'omicidio sarebbe stato relegato a semplice incidente che, in occasioni come questa, potevano capitare.
«Andrà tutto bene» gli assicurò Ivory poggiandoli una mano sulla spalla, «Sono un guerriero esperto e ho partecipato a tantissime battaglie nei luoghi più strani, impervi e desolati. Cosa vuoi che sia un torneo?»
Brandbury avrebbe tanto voluto avere la sua fiducia e il suo coraggio, ma dei due, era sempre stato quello più prudente e riflessivo, che ci pensava due volte prima di gettarsi in qualsiasi impresa senza prima averne valutato i pro e i contro, a maggior ragione se era a rischio la propria vita.
Ivory, dal canto suo, era sempre stato impulsivo e avventato, e anche la scelta di diventare un mercenario era giunta improvvisa ed era stata abbracciata immediatamente, senza pensarci; il suo sangue di elfo gli permetteva di essere agile, veloce e scattante e la vista acuta facilitava l'uso dell'arco e il lancio di pugnali, sempre preciso e letale.
«Che cosa altro potrei fare?» gli aveva domandato quel giorno, quando gli aveva rivelato la sua decisione, «Per gli elfi sono un abominio e per gli uomini un reietto e un miserabile. Non potrei mai aprire un'attività mia, studiare all'Accademia o entrare in una Gilda, il colore della mia pelle mi sarà sempre di ostacolo. Di un mercenario, invece, non importa da dove provenga, che faccia abbia o cosa abbia fatto in passato, ciò che conta è come sappia maneggiare una spada e che sia efficiente e letale. Alla fin fine è solo un soldato di ventura che pagato per fare il lavoro sporco al posto di altri, lo si vede una volta e non lo si rivedrà mai più, sia che sia morto in battaglia sia che vada a lavorare per qualcun altro.»
Quelle parole così amare avevano rattristato Brandbury, soprattutto per il fatto che fossero dolorosamente vere: l'unica strada possibile per Ivory era quella di mettere al servizio degli altri le proprie abilità e di essere pagato per esse, nessuno si sarebbe mai accorto che sotto l'elmo si nascondeva il volto pallido di un elfo albino, e tra le fila dei mercenari nessuno ci avrebbe badato.
Così il ragazzo era partito per Derenstor, dove era stato iniziato all'arte della spada e della guerra, e dove si era guadagnato il nome di Spettro, sia a causa del suo aspetto sia per i suoi movimenti silenziosi e appena udibili. Si era rivelato un assassino formidabile e un guerriero impavido che metteva tutto sé stesso nell'ardore della battaglia e non si risparmiava, arrivando allo stremo delle forze e continuando imperterrito a combattere, guadagnandosi l'ammirazione e il rispetto dei suoi compagni e dei suoi superiori.
Brandbury, da allora, lo aveva visto molto di rado, e sempre più sciupato e segnato dagli scontri, dalla stanchezza e dalla fatica; dietro di sé portava costantemente puzzo di morte, distruzione e disperazione, un odore misto di sudore, lacrime e sangue che non lo abbandonava mai, nemmeno nei momenti di riposo.
Il fratello aveva sempre disapprovato la scelta, ma non aveva mai fatto nulla per ostacolarlo ed impedirgli di rischiare la vita ad ogni respiro, ad ogni movimento di spada, ad ogni fischio di freccia, ad ogni caduta e ad ogni nuova carica. In fondo, era la sua vita e stava all'elfo decidere come viverla: se sull'orlo di una bava di ragnatela sospesa perennemente tra la vita e la morte, o nella sicurezza confortevole di una casa modesta ma vivibile.
Più volte si era domandato se la scelta non fosse stata dettata da qualche errore da parte sua che l'aveva spinto ad allontanarsi da lui: in quegli anni, aveva sempre cercato di non farlo sentire diverso e fuori posto, ma, forse, tutte le sue premure avevano sortito l'effetto opposto facendolo sentire ancora più escluso e bisognoso di cure particolari perché non si riteneva degno di essere trattato come tutti gli altri.
Da bambini era stato più semplice: l'ingenuità e la spensieratezza dell'età avevano permesso un rapporto spontaneo e sincero, genuino; ma con il passare del tempo la consapevolezza delle malelingue e delle voci che correvano sul conto di Ivory avevano appesantito l'atmosfera e avevano fatto chiudere il ragazzo in un guscio da cui, a volte, nemmeno Brandbury era stato capace di farlo uscire.
Il disagio dell'elfo si era sempre più acuito, sebbene cercasse di tenerlo nascosto in tutti i modi, soprattutto a sua madre. A Brand, però, non erano sfuggite le occhiate malevole e le frecciatine più o meno velate che venivano lanciate all'indirizzo del fratello e non gli era sfuggito nemmeno quanto queste lo ferissero e lo facessero soffrire. Per questo l'aveva lasciato andare: credeva che allontanarsi dalla mentalità ristretta e bigotta del piccolo villaggio per cercare il suo posto nella grande tela della dea Maras gli avrebbe giovato e l'avrebbe aiutato ad accettare sé stesso e quello che era, senza farsene una colpa e senza vederlo come un difetto o una condanna.
Ora che l'aveva di fronte a sé, alto, robusto, con le spalle larghe e la pelle segnata dalle cicatrici ma la schiena dritta e il portamento fiero e sicuro, sapeva di aver fatto la scelta giusta e che quegli anni trascorsi sui campi di battaglia l'avevano fatto maturare e crescere, sebbene avessero lasciato una piega spiacevolmente cinica e malinconica sulle labbra sottili.
«Non ti preoccupare, Brand, vincerò» gli assicurò Ivory, vedendolo ancora preoccupato, «E porterò a casa tante di quelle monete d'oro, che non saprai più dove metterle!» la promessa venne siglata da un'abbondante sorsata di idromele Rovonero e da un sorriso ampio, luminoso, incoraggiante e contagioso.




Il famoso Angolino Buio dell'autrice:
la stupenda copertina all'inizio del capitolo è stata disegnata da una mia carissima amica, per altre sue opere amene andate a fare un giretto sul suo
profilo

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Capitolo 2
*** II ***


II

«Quindi sei il migliore tra i guerrieri di Actardion...»
«Solo di quelli che hanno partecipato al torneo, Vostra Maestà» rispose Ivory, tenendo rispettosamente il capo abbassato e lo sguardo fisso sulle piastrelle di marmo bianco e nero della sala del trono.
Quando gli era stato riferito che avrebbe dovuto incontrare la Regina di persona, il suo cuore aveva perso un battito: solo pochi potevano vantarsi di aver ricevuto un simile onore; lei era estremamente selettiva e non permetteva nemmeno ai nobili di più alto rango o ai suoi stessi consiglieri di incontrarla senza un suo invito esplicito. Molto spesso il numero delle visite e i fortunati scelti, che avrebbero avuto il privilegio di parlarle, dipendevano dal suo umore, generalmente instabile e imprevedibile, peggiorato subito dopo la partenza della sorella, la quale le aveva fatto visita poco tempo prima. I medici avevano fatto risalire la causa dei frequenti sbalzi d'umore alla nostalgia e alla sensazione di mancanza dovuta alla lontananza dell'amata sorella.
Il regno del re loro padre era estremamente vasto dal momento che univa sia i suoi possedimenti sia quelli della propria consorte, l'unica figlia dei sovrani dell'antistante Regno di Damevar. Con l’approssimarsi della sua morte aveva ritenuto opportuno dividerlo tra le sue due splendide figlie: alla maggiore, Rosalba, era toccato il regno del padre, più esteso, fertile e prospero; la minore, Celeste, aveva, invece, ricevuto in dono il regno che era stato la terra natia della madre, coperto da nevi perenni ma colmo di miniere di argento e oro, l'unica ricchezza di quella distesa di ghiacci e pinete.
Periodicamente le due sorelle si facevano visita l'un l'altra, ma dopo l'ultimo incontro con Celeste, le condizioni di Rosalba erano peggiorate: era diventata più incostante, volubile, suscettibile, capricciosa ed eccentrica; non si poteva mai prevedere cosa avrebbe fatto o detto, il suo umore cambiava troppo repentinamente ed era perennemente propenso verso una rabbia, che a volte sfociava nella furia. Nessuno sapeva spiegarsi perché fosse in quello stato, né contro che cosa o chi fosse indirizzata la sua ira, nessuno osava avvicinarsi più a lei senza il suo consenso e anche solo rivolgerle la parola poteva significare la morte.
Per questo Ivory si sorprese quando sentì la Regina scoppiare in una risata cristallina, simile al gorgoglio di un ruscello di montagna.
L'elfo non resistette e osò sollevare lo sguardo per vedere a chi appartenesse una risata così incantevole e fresca: seduta su un trono di legno placcato d'oro e decorato con bassorilievi di foglie d'acanto e volute, sedeva una giovane donna vestita di un lungo abito porpora dalla scollatura profonda che lasciava intravedere i seni prosperosi e bianchissimi, messi in risalto dal monile d'oro e granati color sangue; su di esso, si intrecciavano mollemente le morbide onde rosso fuoco dei lunghi capelli, lasciati liberi da qualsiasi acconciatura ricercata e tenuti indietro da una semplice cerchietto di fiori d'oro e rubini. Non un'imperfezione guastava il delicato candore della pelle, simile a quello della neve, su cui risaltavano due magnifici occhi azzurri e una bocca dalle labbra di rosa, schiusa in una risata soave. Ivory non aveva mai visto una creatura più bella di quella: si perse nella contemplazione del suo splendore e si dissetò, fino a ubriacarsi, di quella bellezza così sublime e perfetta da sembrare irreale; per un attimo temette di trovarsi al cospetto di una creatura ultraterrena e non di una semplice regina. Non si era mai interessato agli dei, ma se mai gli avessero chiesto che aspetto dovessero avere, non avrebbe avuto dubbi nell'affermare che somigliassero alla Regina.
«Oltre che valoroso sei anche modesto...» commentò quest'ultima ricomponendosi e Ivory riabbassò immediatamente il capo, «Come ti chiami?»
«Ivory, Vostra Maestà» le rispose lui.
«Ivory» la Regina ripeté sottovoce quel nome più volte, assaporandone ogni sillaba ed ogni lettera fino a quando non decise che il loro suono era dolce e piacevole.
«Bene, Ivory, a quanto pare sei riuscito a distinguerti per abilità, coraggio ed un pizzico di fortuna in mezzo a quella turba di guerrieri grandi il doppio di te, e sei anche riuscito a prevalere su di loro. Ciò significa che sei il migliore tra questi e che sei colui che è destinato a compiere la missione» il tono della sovrana si era fatto improvvisamente grave e serio, facendo preoccupare l'elfo, «Ciò che sto per chiederti è molto pericoloso e potrebbe anche essere considerato tradimento, se prima di questo non ne fosse già stato compiuto un altro: mia sorella, dopo l'ultima visita, mi ha sottratto una cosa a me molto cara, nella speranza che non mi accorgessi della sua assenza... Si tratta di uno specchio. Ora, potrà sembrati una pretesa eccessiva o un capriccio da bambina viziata data la banalità dell'oggetto, inoltre ne possiedo a centinaia, più di quanti riesca a utilizzarne, ma quello specchio ha un grande valore affettivo per me: apparteneva a mia madre, e quando ero più piccola soleva pettinarmi ed acconciarmi davanti ad esso, è l'unico ricordo che serbo di lei, o meglio, l'unico oggetto che mi permetta di tenere viva la sua memoria. Pertanto, potrai capire quanto ci sia legata e quanto sia stato meschino da parte di mia sorella sottrarmelo senza un valido motivo e senza dirmi nulla, come una ladra... Il tuo compito sarà riportami quello specchio, nella più completa segretezza, evitando di farlo sapere a mia sorella; se lo scoprisse potrebbe addirittura scoppiare una guerra: è sempre stata molto cagionevole sia di salute sia mentalmente, e inoltre era fissata sull'idea che mia madre preferisse lei a me, ha voluto farmi un dispetto ma potrebbe considerare un'offesa personale il recupero di quest'oggetto e utilizzerebbe questa scusa per muovere guerra contro questo regno, di cui è sempre stata invidiosa. Io preferirei evitare un inutile spargimento di sangue, soprattutto per un motivo così futile», il discorso della Regina era stato intervallato da un sospiro stanco e rassegnato, come se la battaglia con sua sorella fosse stata una lunga ed estenuante campagna che doveva ancora volgere al termine, «Damevar è una terra ben diversa da Actardion, dominata da un eterno inverno e popolata da creature e bestie che non esistono nel nostro e sono perlopiù selvagge, feroci e letali: se non sarà il gelo a divorarti per primo, lo faranno loro. Inoltre dovrai riuscire a raggiungere il castello attraversando lande desolate e ghiacciai, steppe e altri paesaggi ostili e deserti, dovrai riuscire a introdurti e a scoprire dove mia sorella custodisce lo specchio, prenderlo e riportarmelo, tutto questo prima che lei se ne accorga. Ovviamente per un'impresa di tal portata verrai lautamente ricompensato: verrai accolto con tutti gli onori e ricoperto d'oro, i miei forzieri straripano di gemme e preziosi che non aspettano altro di essere donati a qualcuno dal cuore impavido e caritatevole, da un uomo coraggioso e intelligente, che non sopporta le ingiustizie ed è disposto a rischiare la vita pur di risolverle e risanare quei dissidi che possono nascere da un gesto tanto spregevole e immondo. Sei disposto ad affrontare tutto questo?» gli domandò bruscamente.
La sicurezza di Ivory era vacillata a mano a mano che la Regina aveva elencato le difficoltà che avrebbero costellato il suo cammino, ma quell'oro e quei gioielli gli erano necessari, e aveva affrontato prove ben più difficili e avversari ben più temibili delle bestie feroci e degli inverni rigidi, fu per questo motivo che rispose con voce ferma e sicura, piegando ancora di più il capo: «Ho l’onore, Madam, di essere il vostro servo più umile e ubbidiente.»
La sovrana si abbandonò ad una nuova risata di giubilo e mancava poco che corresse ad abbracciare il giovane elfo che aveva accettato senza tentennamenti il compito che gli era stato proposto.
«Verrai ricoperto d'oro, diventerai il mio favorito, nulla più ti mancherà, basterà un tuo cenno perché tutti accorrano a te ed esaudiscano ogni tuo desiderio!»
Ivory si abbandonò a quella visione di ricchezza e potere: se la Regina avesse mantenuto anche solo la metà di quello che aveva promesso, lui e Brandbury avrebbero potuto vivere il resto dei loro giorni nel lusso più sfrenato, senza più preoccuparsi di nulla; un largo sorriso si fece spazio sul volto dell'elfo, completamente assorbito in quella chimera di oro, gemme, cibi prelibati, abiti raffinati, donne e divertimento.
«Per raggiungere Damevar non ti basterà una semplice mappa» dichiarò improvvisamente la Regina infrangendo il sogno di Ivory e riportandolo brutalmente alla realtà «I nostri regni non sono segnati su alcuna mappa, in questo modo siamo protetti dalla maggior parte di coloro che vogliono invaderci: se non vedono alcuna terra al di là della propria non avranno il desiderio né di esplorarla né di conquistarla. Per raggiungere l'uno o l'altro regno, nostro padre fece costruire delle bussole per sé e nostra madre affinché potessero spostarsi tra i due regni senza che il segreto della loro ubicazione venisse compromesso. Sono bussole particolari: mostrano due sole direzioni e quando ci si trova a Actardion indicano la via per Damevar e viceversa, inoltre funzionano solo se è il sangue dei discendenti di mio padre a bagnarle. Io ne possiedo una e l'altra è in possesso di mia sorella.»
La Regina estrasse dalla scollatura del vestito un medaglione d'argento e lo sfilò, facendo passare la lunga catenella sopra la testa: si trattava di una scatolina non più grande della mano della sovrana, finemente cesellata con motivi floreali che intrecciavano rune antiche. Quando fece scattare il meccanismo, il coperchio si aprì rivelando una superficie liscia e vagamente luminosa, il quadrante non mostrava alcun grado e non c'erano lancette ad indicare direzioni che non erano segnate.
La Regina fece cenno a Ivory di avvicinarsi e l'elfo, con molta cautela e trepidazione si accostò a lei.
Con sua somma sorpresa, vide la donna mordersi un dito fino a quando non ne uscì una goccia di sangue che la sovrana si premurò di far ricadere sul quadrante vuoto; improvvisamente il vago bagliore che lo illuminava si intensificò, accecando Ivory. Lentamente la luce si modellò e si trasformò, assumendo i contorni sempre più nitidi di un reticolato simile a quello delle mappe geografiche, su cui prendevano forma montagne e fiumi, villaggi e città.
Quando gli occhi di Ivory si abituarono alla luce, ciò che gli mostravano lo lasciò completamente basito: tra le mani della Regina brillava una mappa completa di Actardion in tre dimensioni, e un sottile filo di luce, più denso e scuro, lo attraversava andando a perdersi nei picchi delle montagne del nord, indicando la via per Damevar.



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Capitolo 3
*** III ***


III

«Che intenzioni hai?»
«Mi sembrava ovvio: vengo con te!»
«Sei impazzito! Perché dovresti venire anche tu?» Ivory gettò uno sguardo sconcertato allo zaino mezzo pieno di Brandbury. Quando era tornato a casa dopo essere stato dall'armaiolo, l'aveva trovato intento a fare i bagagli, per due.
«È un viaggio pericoloso, Brand, e la Regina ha incaricato me!» sbottò, «Non si tratta di una scampagnata, di una gita in montagna: devo attraversare due regni, e le montagne sono infestate da leoni e orsi e tigri, per non parlare dei briganti e dei malintenzionati che si trovano lungo le strade!»
«Ma potrei esserti utile!» replicò l'altro, «Sono un medico e proprio perché il viaggio è pericoloso, potresti avere bisogno di me.»
«Mi hai insegnato le tecniche principali e più semplici, Brand, riuscirò a cavarmela anche senza un cerusico appresso.»
Ivory non aveva alcuna intenzione di mettere in pericolo il fratello coinvolgendolo in un viaggio lungo e periglioso. Lui era abituato al freddo, agli stenti e ad affrontare belve feroci o briganti; ma Brand aveva sempre vissuto in quel villaggio, immerso tra i libri e le erbe, e non aveva idea di come sopravvivere all'infuori di quelle quattro mura sicure.
«Non puoi venire con me» cercò di blandirlo, «non sei abituato a questo genere di cose, rischieresti solo di mettere in pericolo la tua vita.»

Brandbury era il fratello maggiore, quello più giudizioso e prudente, e quel comportamento era così insolito per lui: prima di allora, mai si era impuntato nel voler imbarcarsi in qualcosa che fosse esplicitamente pericoloso, e Ivory si domandò il motivo di una tale insistenza e ostinazione.
«Mi sono stancato di vederti partire, senza sapere se saresti tornato!» esclamò il giovane all’improvviso, cogliendo l’altro di sorpresa, «Sei il mio unico vero amico, il mio unico affetto, l'ultimo che mi sia rimasto: mamma è morta ormai da anni e papà non si è mai fatto vedere, non ho mai avuto altri fratelli o altri parenti all'infuori di te. Permettimi di venire con te, solo per questa volta!»

Brandbury sollevò lo sguardo dal baule in cui stava rovistando, e ciò che l'elfo lesse negli occhi del fratello lo sconvolse: tra le iridi turchine erano racchiusi un dolore straziante e una preoccupazione indicibili, sedimentatisi lentamente negli anni, che si erano avvinghiati alla sua anima e avevano steso la loro patina scura su quello sguardo sempre sorridente e luminoso, adombrandolo. Quegli occhi così carichi di tristezza e apprensione lacerarono l’elfo e lo fecero sentire ancora più in colpa; la supplica del fratello gli strinse il cuore, ma per quanto comprendesse la sua sofferenza e la sua frustrazione, così come Brand non voleva perdere Ivory, quest’ultimo non poteva permettersi di perdere il fratello: non sarebbe mai riuscito a sopportare la sua assenza, il ricordo di lui sarebbe stato troppo straziate e l’accoglienza calorosa, che gli riservava ogni volta che tornava dopo una campagna, sarebbe stata una mancanza troppo grande e troppo dolorosa. Brand rappresentava un porto sicuro a cui tornare dopo essere stato trascinato in lungo e in largo dalle correnti e strapazzato dai venti impietosi; era l’unico punto fermo e sicuro della sua vita movimentata e incerta, era un faro, una guida e una roccia a cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà, ma anche un focolare domestico presso cui riposarsi e sentirsi amato…Non si sarebbe mai perdonato se fosse successo qualcosa a Brand, a maggior ragione se lui ne era la causa e avrebbe potuto evitarlo, e preferiva di gran lunga saperlo depresso ma vivo e al sicuro, piuttosto che accanto a lui e costantemente in pericolo.
«Non voglio rischiare di perderti, come non lo vuoi tu» mormorò l’elfo, sperando che l’altro capisse e accettasse la sua scelta, anche questa volta, sebbene a malincuore.
«Non voglio rimanere, non più» si imputò, invece, Brandbury, «Ho vissuto per troppo tempo questa situazione ed è diventata insostenibile: tu non hai idea dell'angoscia, della preoccupazione e del terrore che provo ogni volta che ti vedo partire; devo ingerire quantità esorbitanti di passiflora per riuscire a dormire la notte...Sono distrutto!»
Ivory non sapeva come replicare: non voleva che Brandbury venisse con lui, ma d'altro canto quel cocciuto di suo fratello si era intestardito a voler venire con lui.
Improvvisamente un’idea balenò nella sua mente: sarebbe stata una mossa meschina e crudele, ma era l'unico modo per evitare che il fratello lo seguisse.

«Va bene» concesse alla fine, «Partiremo domani mattina, all'alba. E sappi che se non ti sveglierai non ti aspetterò e rimarrai qui.»
Un largo sorriso piegò le labbra sottili del ragazzo, illuminandogli il viso.
«Grazie» mormorò, mentre finiva di preparare lo zaino.
Ivory sorrise a sua volta, ma il piano che aveva appena ideato rese il suo sorriso più amaro e triste.
Quella notte aspettò che Brandbury si addormentasse e non appena sentì il suo respiro farsi lento e regolare, sgusciò silenzioso e svelto come uno spettro fuori dalla porta, portandosi dietro lo zaino pronto che era stato lasciato all'ingresso. Si sentì un ladro e un traditore, ma si disse che era per una buona causa e che Brandbury avrebbe capito.
La luna stendeva una cortina d'argento sui tetti di legno delle casupole; non erano molte ma erano tutte ben mantenute e ordinate, segno che quel villaggio per quanto modesto, non fosse così povero, e che i suoi abitanti potevano permettersi di far riparare un tetto. Era un luogo tranquillo e pacifico, in cui Ivory si sentiva a disagio e rinchiuso, come in una gabbia, abituato agli accampamenti e ai campi di battaglia, molto più vasti e frementi tanto nell'attesa quanto nell'azione, pregni dell'odore di sangue, sudore ed eccitazione, con l'aria perennemente carica e un'atmosfera sempre tesa o rimbombante di grida, imprecazioni e incitazioni. Era il luogo perfetto per Brandbrury, invece, ugualmente pacifico, tranquillo e silenzioso, dedito allo studio e alla riflessione, abituato a comodità che in un viaggio come quello erano assolutamente impossibili da ottenere o anche solo da immaginare.

È la cosa migliore, cercò di convincersi l’elfo, sistemando lo zaino sulla spalla. Ma allora perché si sentiva così male, quasi avesse commesso un’azione turpe e imperdonabile?
Gettò un altro sguardo alla casupola, l’ultimo, e diede il suo silenzioso saluto al fratello ancora addormentato e ignaro dell’inganno. Cercò di scacciare quel pensiero insistente dalla mente e si ripeté per l’ennesima che era la sola cosa giusta da fare.
Con un sospiro iniziò ad avviarsi verso i campi che si aprivano appena oltre la locanda del vecchio Tom: il primo edificio che accoglieva i viandanti con l’invitante profumo del vino speziato e il calore delle risa e dei canti dei contadini che si radunavano lì dopo la giornata di lavoro, oppure l’ultimo che li salutava malinconicamente con la vedova Becky sulla porta stretta nello scialle e un sacchetto di paste dolci in mano, appena sfornate, da sbocconcellare lungo il cammino. A quell’ora della notte, però, la locanda era buia e silenziosa e non c’era nessuna vedova ad augurargli un buon viaggio.
Ivory estrasse da sotto la camicia la bussola che gli aveva donato la regina, fece scattare il meccanismo e il coperchio svelò la mappa luminosa e diafana, il nastro di luce scura indicava la medesima direzione di quel giorno, dalla regina, e puntava stabilmente verso nord.
La sovrana aveva corredato quel dono con uno più macabro ma essenziale: l’elfo si assicurò di avere in tasca la fialetta contenente il sangue della donna, l’unico che fosse capace di azionare la bussola. Questa, infatti, non funzionava sempre e dopo qualche giorno l’effetto del sangue si esauriva e la mappa scompariva, lasciando il quadrante vuoto e freddo come Ivory l’aveva visto la prima volta; per evitare di rimanere senza indicazioni nel bel mezzo dei Giganti di Ghiaccio, la regina aveva provveduto a rifornirlo della linfa per alimentare la bussola, e sotto il suo sguardo sorpreso, aveva praticato un piccolo taglio sul palmo della mano, facendo gocciolare il sangue in quella minuta fiala di vetro e oro, che ora il guerriero stringeva tra le dita, rassicurato dalla sua presenza.
Assicuratosi sulla direzione da prendere, Ivory scomparve, inghiottito dalle brume sfilacciate che aleggiavano sui campi.

La notte scivolava lenta e le stelle ammiccavano, volteggiando lievi nella volta celeste come fanciulle alla festa del Solstizio; per trascorrere il tempo cercò nel cielo le figure immaginarie che gli uomini avevano creato per potersi orientare e per avere una guida anche nella tenebra: la Fanciulla gli sorrideva a est, sciogliendo la sua chioma d'argento verso il Cacciatore che, affiancato dal suo Cane fedele, vegliava sulla danza turbinosa delle Sette Sorelle strette in un abbraccio, ignare della Vipera appostata ai loro piedi e schiacciata dalle zampe del Cane; seguendo il corpo sinuoso della Vipera giunse alla Brocca e al Veggente che aveva incastonata in fronte la stella più luminosa del firmamento, accanto a lui sostavano la Matriarca e il Pastore, mentre l'Ardito cavalcava contro l'Idra e mozzava le sue teste armato di Spada.
Ivory era cresciuto con le storie di quelle figure, sua madre soleva raccontargliele prima di andare a dormire e il ragazzo si imbeveva di quelle immagini siderali e fantasiose, così affascinanti e lontane. Le stelle avevano rappresentato per lui un conforto e una compagnia durante le notti prima della battaglia, quando non riusciva a prendere sonno, o mentre era il suo turno di guardia e passeggiava assorto per l'accampamento, o ancora quando era in viaggio verso casa o tornava al fronte; non mancava mai, in nessuna occasione, di alzare lo sguardo verso il cielo e di ritrovare quelle care amiche pazienti e scintillanti. Le stelle gli ricordavano casa, la madre e il calore dei suoi abbracci, il suono della voce reso flebile dalla malattia, le sue mani morbide e profumate, i suoi dolcetti del giorno di festa e le ore trascorse a rammendare i suoi abiti alla luce del focolare.

Una sera, ormai consapevole della sua imminente dipartita, gli aveva rivelato che chi lasciava questo mondo non lo faceva mai completamente, perché diventava una stella e continuava a vigilare sui suoi cari, osservandoli dall'alto e guidandoli.
L'elfo ogni notte alzava lo sguardo al cielo nella speranza di ritrovare il volto di quella donna caritatevole e immensamente buona che l'aveva accolto e cresciuto.
Brandbury aveva gli stessi occhi di sua madre e ogni volta che il mercenario incrociava per un momento il suo sguardo, aveva come l'impressione di cogliervi un frammento della donna, evanescente e subitaneo. Condividevano anche lo stesso buon cuore e sperava con tutto sé stesso che al fratello non venisse qualche strana idea dettata dalla sua generosità. 
Il suo istinto gli suggeriva che non l’inganno non l’avrebbe fermato, e il suo istinto raramente si sbagliava.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV

I suoi sensi gli suggerivano che ci fosse qualcuno- o qualcosa- che lo stesse seguendo: cercava di essere il più silenzioso possibile ma l’udito finissimo dell’elfo riusciva a captarne i passi leggeri che cozzavano contro i sassi della strada sterrata, che dal villaggio conduceva verso i Danaver, i Ciclopi di Ghiaccio, la mastodontica catena montuosa che divideva Actardion da Damevar: una successione infinita di imponenti massicci perennemente ammantati di neve, dove nessuno osava avventurarsi di sua spontanea volontà. La Porta di Lorran, che si incuneava tra l’Etrion e l’Edemor, era l’unico passaggio conosciuto, sebbene la sua esatta ubicazione fosse incerta e molti viandanti si fossero persi nella sua ricerca, trovando la morte tra quelle vette; ma, grazie alla bussola, Ivory non avrebbe rischiato di vagare tra quella distesa di roccia e neve fino ad incontrare la morte.

Nei tempi in cui la guerra dilagava su quelle terre, la Porta era stata un fondamentale punto nevralgico controllato dall’occhio attento di Volkyria, la Fortezza Nera, una roccaforte di granito e basalto di forma ottagonale con otto torri, anch’esse della medesima forma, che si innestavano ad ogni spigolo e che davano alla struttura un aspetto vagamente floreale. Con l’avvento di tempi di pace e concordia, la fortezza era stata abbandonata e non ne rimanevano che delle rovine, smangiate dal vento e dal freddo, ma ancora valide per offrire un riparo dai venti impetuosi delle tempeste di neve, che spesso spazzavano il valico, grazie ai muri spessi e solidi. L’elfo aveva pensato di fare tappa alla fortezza, che si trovava a metà strada tra i due regni, e contava di raggiungerla in due o tre mesi: doveva attraversare buona parte di Actardion e se fosse arrivato a Danilia, l’ultimo villaggio prima dei Ciclopi entro due pleniluni, sarebbe stato un grande traguardo…sempre che, durante la marcia, non fosse infastidito da briganti molto arditi o molto disperati, come quello che si ostinava a pedinarlo.
L’elfo si era scocciato: aveva cercato di ignorarlo come meglio aveva potuto, ma quel continuo scalpiccio lo innervosiva, non tanto perché avesse paura di essere attaccato e derubato- si trattava pur sempre di un mercenario e aveva visto cose ben peggiori di un brigate- ma detestava il fatto che quell’inconveniente gli avrebbe fatto perdere tempo: voleva giungere a Melinger entro il mattino, comprare un cavallo in qualche fattoria nei dintorni e giungere a Casernya entro sera, in modo da potersi concedere un pasto decente e un letto comodo; la Regina si era premurata di rifornirlo di tutto il denaro necessario per il viaggio insieme a qualche piccolo extra per soddisfare un capriccio ogni tanto. All’elfo sembrava di essere partito per una scampagnata piuttosto che per una missione: avrebbe avuto la possibilità di soggiornare in locande lungo il viaggio e persino di cavalcare, così da dimezzare il tempo; nelle campagne militari era sempre stato costretto a ritmi di marci serrati ed estenuanti e a dormire all’addiaccio, per non parlare della sbobba ripugnante che gli rifilavano da mangiare avendo pure il coraggio di chiamarlo cibo! Quell’incarico sarebbe stata una passeggiata, almeno fino a quando non fosse giunto a Damevar e allora avrebbe dovuto ideare un qualche piano per penetrare nel Palazzo della Regina Bianca scoprire dove tenesse nascosto lo specchio e riportalo; accantonò quei pensieri, per il momento si trovava ancora ad Actardion e non aveva senso angosciarsi per qualcosa che doveva ancora accadere.

I rumori si interruppero bruscamente, e quel silenzio irreale fu più preoccupante: o il suo misterioso inseguitore si era volatilizzato, oppure doveva essergli accaduto qualcosa.

La strada era circondata da campi coltivati e frutteti, e non offriva molti ripari per possibili briganti; ma questa era l’opzione più plausibile, non c’erano foreste in cui potessero annidarsi belve feroci e il villaggio non era abbastanza grande e rinomato per attirare banditi di alto calibro.
L’elfo estrasse la spada, ruotando su sé stesso con circospezione e sondò con lo sguardo la nebbia serale, che si sfilacciava e si riannodava a seconda dei capricci del vento. Questa foschia poteva risultare un vantaggio per gli aggressori, ma l’albino aveva sensi abbastanza sviluppati da poter fare anche a meno della vista.

Aguzzò le orecchie, per poter captare anche il minimo respiro, ma gli rispose solo il silenzio. Poi, un gemito soffocato nella notte.

Una sensazione spiacevole gli attanagliò la bocca dello stomaco: quella voce, per quanto ovattata e lontana, gli suonava famigliare. Scattò nella direzione da cui proveniva, addentrandosi nelle nebbie. Queste lo accarezzavano e lo ghermivano con le loro dita di fumo, lasciando come ricordo del loro passaggio uno strato di goccioline sui capelli e sui vestiti dell’elfo.

Ivory arrivò nel mezzo di un frutteto, e scorse ombre muoversi furtive, staccandosi dalle sagome degli alberi per poi fondersi nuovamente con loro: erano in quattro e sembrava ne stessero trasportando una quinta, con sommo disappunto di quest’ultima.

Il mercenario rinfoderò la spada: i filari di alberi erano troppo serrati e l’avrebbero impacciato nei movimenti; estrasse, invece, un pugnale dalla lama più corta e maneggevole, che abbandonò la sua guaina in un sibilo agghiacciante.

Anche le ombre dovettero averlo sentito, perché si fermarono, in allerta.

«Forse è stato il vento» bisbigliò uno di loro. Aveva la voce soffocata, segno che doveva portare una sciarpa o una bandana per nascondere i tratti del volto, e la cadenza era tipica delle città che si affacciavano sul mare, con il loro caratteristico strascicamento delle vocali finali.

Ivory si mosse fulmineo e l’uomo si accasciò a terra con un gemito, i resti dell’ultima parola ancora rimasti incastrati nella gola. I restanti tre si allarmarono e iniziarono a scrutare febbrili quelle nebbie che celavano lame.

Il quinto, invece, aveva iniziato a scalciare e a dimenarsi, per provare a sottrarsi alla morsa, e provava a parlare, ma la sua voce era soffocata dalla tela che gli era stata infilata sulla testa. Gli uomini lo lasciarono cadere come un sacco di patate per ricorrere alle armi, che estrassero in uno stridio sincrono.

Ivory non si fece spaventare: quei pugnali spuntati non avrebbero potuto fargli nulla e gli individui parevano piuttosto inesperti, aveva avuto a che fare con avversari più temibili di tre briganti spauriti, non valeva nemmeno la pena ucciderli: il primo era stato messo fuori gioco con una semplicità disarmante.

Scivolò accanto ad uno di loro e fece sbocciare un sorriso sul polpaccio di questo. L’uomo si accasciò a terra, trattenendosi la parte lesa e Ivory ne approfittò per tiragli un calcio e fargli perdere i sensi; questi si afflosciò con un pigolio patetico.

I due superstiti strinsero convulsamente le impugnature delle loro lame e iniziarono a fendere la nebbia, quasi fosse stata essa stessa la colpevole, nella vana speranza di ferire il loro aggressore.

Ivory se la rideva sotto i baffi, nascosto dietro un albero, e gli osservava mentre si accanivano contro il nulla, ciechi e nervosi, tremando come foglie. Sgusciò tra una pianta e l’altra, per poi afferrare uno dei sopravvissuti per il braccio e farlo sparire nella nebbia, stenderlo con il pomolo del pugnale e dedicarsi all’ultimo.

Il compagno si era voltato, ma ciò che si trovò davanti fu la figura prestante dell’elfo, ingigantita dal bagaglio e resa più minacciosa dal mantello da viaggio in cui era intabarrato, che si fondeva e confondeva con i rivoli di nebbia. I capelli bianchi e la pelle diafana risaltavano contro il nero uniforme del cielo e gli occhi d’ambra scintillavano come quelli dei felini; la lama del pugnale baluginava sinistra nell’oscurità. Nel complesso appariva come una figura terribile, simile ad un vendicatore, seminatore di morte e sofferenza. Uno spettro venuto dall’oltretomba per punirlo della sua pessima condotta.

Questo dovette essere il pensiero che attraversò la mente dell’ultimo brigante, perché questi lasciò cadere il coltello e si diede alla fuga, sparendo in un soffio, senza nemmeno provare ad assalirlo.

Ivory sorrise soddisfatto e si chinò verso il malcapitato, cercò di rassicurarlo e con movimenti misurati e delicati, lo liberò del sacco.

Un odore famigliare gli invase le narici: era lo stesso profumo delle erbe che Brandbury metteva nell’armadio per tenere lontane le tarme, ugualmente penetrante e pruriginoso.

«Cosa diamine ci fai qui!» esclamò sorpreso.

Il fratello era proprio davanti a lui, intabarrato in un enorme giacca e con uno zaino ancora più grande da cui fuoriusciva la fragranza. Probabilmente aveva riesumato coperte e cappotti di lana per affrontare al meglio il rigido freddo delle montagne. I capelli biondi erano spettinati e il volto era distorto in un’espressione stranita.

«Che domande!» rispose l’altro, tornando a respirare, «Avevo detto che sarei venuto con te! Però sei partito con largo anticipo: all’alba mancheranno ancora sei ore!»

L’elfo non sapeva se urlare contro il fratello, rispedirlo indietro o ucciderlo sul posto. Forse con l’ultima opzione sarebbe stato sicuro che non l’avrebbe più seguito. Nemmeno l’inganno era riuscito, eppure era sicuro di essersi mosso silenziosissimamente.

«Ho il sonno molto leggero» disse Brand, rispondendo ai suoi dubbi, «E per quanto tu possa essere silenzioso e lieve, la porta non lo è e l’ho sentita gemere e sbattere. Credevo fosse già arrivata l’alba e mi sono precipitato fuori casa, scoprendo che era ancora piena notte» non sembrava esserla presa, nei suoi occhi non c’era alcuna traccia di rabbia o rancore.

«Ho immaginato perché l’avessi fatto» continuò, quasi stesse leggendo i pensieri dell’altro, «So che non vuoi che mi accada nulla e che preferiresti sapermi al sicuro a casa, ma io non sarei riuscito a sopravvivere un giorno di più rinchiuso in quella gabbia di legno senza sapere nulla di te. Quindi mi dispiace, ma sarai costretto a prendermi come tuo compagno di viaggio.»

«Vedo quale compagno di viaggio utile saresti. Non sono passati neanche dieci minuti e vieni aggredito dai briganti!»

«Avevo la situazione perfettamente sotto controllo» replicò Brand rialzandosi con l’aiuto del fratello. Il peso del bagaglio gravava sulle spalle e lo destabilizzava.

«Ma ti sei portato dietro l’intero guardaroba invernale?» esclamò Ivory.

«I Ciclopi sono famosi per le loro temperature rigide, e le piaghe da congelamento sono veramente brutte.»

«Quindi sei proprio convinto di volermi seguire, anche dopo quello che ti è successo? I briganti saranno il nemico meno pericoloso che dovremo affrontare» cercò di dissuaderlo, di indurlo a un ripensamento dell’ultimo momento.

«Sappiamo perfettamente entrambi che non demorderò: ti seguirò fino a Damevar, che a te piaccia o no!»

Ivory alzò gli occhi al cielo: suo fratello sapeva diventare davvero testardo e inamovibile quando si impuntava su qualcosa.

Pensandoci bene, però, forse, avere qualcuno con cui condividere il viaggio non era nemmeno un’idea tanto terribile: Brandbury avrebbe potuto fargli compagnia e distrarlo dalla fatica e, soprattutto, dalla noia dei lunghi giorni di marcia che li attendevano; inoltre era un ragazzo molto intelligente, per quanto non ancora esperto del mondo, e avrebbe potuto dargli qualche idea su come entrare nel Palazzo della Regina. Si trattava solo di tenerlo il più possibile lontano dai guai e dagli scontri.

Alla fine, sarebbe venuto lo stesso, quindi perché non approfittarne?

Con un sospiro rassegnato, l’elfo fece cenno al giovane di seguirlo.


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Capitolo 5
*** V ***



V



Sembrava che un qualche dio avesse gettato dei massi senza preoccuparsi troppo di dove sarebbero andati a cadere, dando vita ad una catena di monti frastagliati e dalle punte aguzze, simile ad una fila di denti pronti a serrare l’incosciente viaggiatore nella loro morsa letale. Le Zanne di Dorvan erano l’ingresso per i Danaver, o meglio, il punto indicato dalla bussola per accedere al massiccio. Ivory cercò di rintracciarne l’estremità superiore che andava a disperdersi nelle dense nubi bianche che ricoprivano costantemente i Ciclopi, impedendo di stabilirne l’altezza esatta, ma tutto ciò che il suo sguardo incontrò fu un bianco accecante e uniforme.  

Brandbury, accanto a lui, batteva i piedi e si stringeva nelle pesanti pellicce che lo facevano somigliare ad un piccolo orso.
«Se hai freddo ora, non oso immaginare a quando saremo nei pressi di Volkyria» commentò l’elfo, il suo sangue era più caldo di quello degli umani e ciò gli permetteva di resistere a temperature non troppo rigide. Ma nemmeno il suo sangue elfico avrebbe potuto qualcosa contro le temperature vertiginose che si registravano nei pressi della fortezza.
«Non ho freddo» rispose l’altro, «Ho solo una tremenda paura. Questi ammassi non sono molto rassicuranti, mi sembrano le fauci spalancate di una qualche belva feroce.»
«Sei ancora in tempo per tornare indietro» replicò Ivory, «Puoi sempre ritornare a Danilia e aspettarmi lì.»
«E abbandonarti proprio nel momento in cui avresti più bisogno di un compagno?» sbottò l’altro, «Ho promesso che sarei venuto con te e questo implica che ti segua fino in fondo, anche se questo significa avventurarsi per queste guglie minacciose. Inoltre, se siamo in due, abbiamo maggiore probabilità di sopravvivere.»
L’elfo scrollò le spalle e sistemò lo zaino sulla schiena, stringendo le cinghie: era tornato pesante, riempito fino all’orlo con vettovaglie a lunga conservazione, coperte e pellicce di riserva.
Ivory sparì oltre le zanne e Brandbury lo seguì a ruota, si addentrarono in una selva di pinnacoli di roccia coperti di bianco, in una distesa infinita e omogenea di neve che si squarciava in corrispondenza di crepacci e di gole, simili a ferite della terra che si inabissavano in baratri senza fondo. Si domandarono come qualcosa potesse vivere in un luogo tanto inospitale e minaccioso, e come fossero riusciti a costruirci addirittura una fortezza.
La marcia si fece lenta e faticosa: i passaggi erano stretti ed erti, a volte dovevano camminare in equilibrio su fili di roccia aggettanti su uno strapiombo, altre affondavano nella neve fino alla vita e altre ancora si trovavano costretti ad arrampicarsi e a scalare come capre i fianchi scabri e taglienti; il cibo era o troppo secco o ammollato e sempre gelido; i venti impetuosi del nord si abbattevano su di loro, penetrandogli fin nelle ossa e raggelandoli; il silenzio surreale che aleggiava sulle montagne era diventato assordante, ma non osavano alzare la voce al di sopra di un bisbiglio per paura di risvegliare qualsiasi cosa fosse rimasta sopita tra quei recessi; il paesaggio sempre uguale li nauseava e li stordiva, ma grazie alla bussola sapevano in che direzione andare. La notte trovavano riparo in qualche anfratto roccioso oppure Ivory scavava un riparo nella neve e sfruttavano l’uno il calore dell’altro per sentirsi al caldo. Spesse volte erano stati costretti a fermarsi a causa di una tempesta di neve, e in quei momenti cercavano riparo dietro a speroni di roccia e attendevano che si calmasse, ma la tempesta aveva modificato profondamente il paesaggio costringendoli a prendere altre vie; altre volte aveva nevicato e i due erano andati avanti fino a quando l’elfo non riusciva più a vedere nemmeno le immagini luminescenti della bussola, anche in quel caso il nuovo strato nevoso cambiava lo scenario ed erano costretti a ricominciare da capo, cercando di recuperare l’orientamento e scegliendo altri punti di rifermento.   
Erano esausti, raffreddati e intorpiditi dal gelo, i loro sensi si erano affievoliti, stremati dal gelo e dalla stanchezza. Fu per questo che si accorsero del leopardo un attimo prima che li attaccasse.

Stavano arrancando lungo un crinale coperto di neve, facendosi strada attraverso il manto nevoso, i vestiti fradici, la pazienza e le forze ormai al limite; procedevano in silenzio, risparmiando il fiato per la traversata e l’unico suono che accompagnava la loro avanzata era il cupo lamento del vento e lo scricchiolio dello strato di neve ghiacciata, spezzato dal loro passaggio.  
Improvvisamente Ivory percepì un movimento con la coda dell’occhio, ma pensò che la vista stanca e provata gli avesse giocato qualche scherzo e non vi badò; il movimento si ripeté e un’ombra saettò a lato del campo visivo dell’elfo, la neve si sollevò in una lieve nuvola e Ivory capì che erano in pericolo: gridò a Brandbury di buttarsi a terra e cercò di recuperare la spada tra gli strati di abiti. Riuscì a estrarla dal fodero un attimo prima che un'enorme massa bianca e soffice lo investisse e lo catapultasse nella neve.
Sopra di lui torreggiavano due occhi azzurro ghiaccio, dalle pupille ferine, e poco sotto si spalancava una bocca irta di rostri acuminati; il manto bianco era punteggiato di macchie più scure e l’elfo comprese di trovarsi tra gli artigli di un leopardo delle nevi molto affamato.
Brandbury gridò terrorizzato ma la sua voce giunse in ritardo e ovattata, quasi che l’urlo provenisse da un’altra dimensione; Ivory sperò che al fratello non venisse in mente di fare qualcosa d’altro di molto stupido.
La belva lo aveva atterrato e l’aveva inchiodato al suolo, schiena a terra, con i suoi artigli poderosi. Aveva provato a mordergli il collo, ma aveva incontrato solo uno spesso strato di abiti e pellicce senza riuscire a raggiungere la carne; ringhiando e soffiando frustrata iniziò a menare colpi con le unghie così repentinamente che Ivory non poté fare altro che proteggersi il petto e il collo per evitare che venissero squarciati.  
Tentò di opporre resistenza a quelle zampe e i lunghi artigli gli lacerarono la carne degli avambracci. Girò la testa da un lato proprio nel momento in cui i denti dell’animale si chiudevano, feroci, dove era rimasta fino ad un istante prima. Il leopardo gli lacerò il petto passando attraverso gli strati di abiti e pellicce e cercò di nuovo di mordergli la gola.  

Un sibilo attraversò l’aria e qualcosa si piantò nel collo del felino, facendolo ululare di dolore, la belva si tirò indietro e lo graffiò sulle spalle con le zampe anteriori. Un altro sibilo, e un’altra freccia raggiunse la prima.  
Il leopardo emise un verso straziante: un misto tra un gemito e un grido di rabbia, i suoi occhi color del ghiaccio si puntarono su Brand che imbracciava un arco e stava incoccando un’altra freccia.  
Intendevo proprio questo con qualcosa di molto stupido pensò Ivory; cercò la sua spada, dispersa nella neve e mentre un’altra freccia veniva scagliata, riuscì a rimettersi in piedi, ma le ginocchia cedettero e sprofondò nella neve, gocce di sangue dorato macchiarono il manto immacolato.
La belva aveva puntato al fratello e le frecce erano diventate inutili: sarebbe bastato un balzo e il leopardo sarebbe stato sull’altro, uccidendolo con un solo morso, dal momento che il giovane, per essere più agile e sciolto nei movimenti, si era liberato degli strati di pellicce, rimanendo coperto della sola giacca.
Ivory ringhiò e con uno sforzo sovraumano scattò un momento prima che lo facesse il felino. Piombò sulla schiena dell’animale, la spada alta sopra la testa e la piantò nel cranio del leopardo, affondandola con tutta la sua forza. L’animale soffiò in modo raccapricciante, gelandogli il sangue nelle vene; gorgogliando e gemendo, provò a togliersi Ivory di dosso. L’elfo perse la presa sulla spada e venne scaraventato contro un cumulo di neve. Un terribile ululato si propagò per il massiccio, un nuovo sibilo fendette l’aria seguito da un tonfo tremendo che fece tremare la terra. Quando Ivory riemerse dalla neve, il leopardo era morto e un silenzio irreale era piombato sulla montagna.

Si puntellò sul braccio sinistro, che mandò una fitta atroce, ricadde nella neve e si tastò la spalla destra, gemendo di dolore. Dovette reprimere un moto di stizza: con lui in quelle condizioni sarebbero stati costretti a rallentare. Brandbury si fiondò al suo fianco e iniziò a esaminargli le ferite, il sangue dorato dell’elfo e quello cremisi della bestia impregnavano ogni cosa e ad ogni lembo di abito che Brand scostava si rivelavano nuovi tagli: gli squarci al petto erano profondi quanto quelli sulla spalla e altre lacerazioni si aprivano sulle caviglie, dove la bestia l’aveva abbrancato con le zampe posteriori per tenerlo fermo a terra, altri tagli e ferite più piccole laceravano la pelle del collo, delle braccia e della schiena e mandavano fitte atroci e pungenti ogni volta che provava a muoversi.  
«Mi domando come tu sia riuscito a uscirne vivo» borbottò Brand.

«È stato anche grazie a te» ansimò Ivory, «Da quando sai tirare con l’arco?»
«Me l’hai insegnato tu, cretino, anni fa e io mi sono sempre tenuto in esercizio. Non si può mai sapere quando può servire un arciere.»
«Grazie» mormorò l’altro, il dolore indicibile che gli soffocava la voce.
«Mi ringrazierai quando ti avrò rimesso a nuovo» replicò l’altro, «E tu che dicevi che un’erborista non ti sarebbe servito a niente!»
Brand iniziò a trafficare con unguenti e bende, puliva le ferite con la neve e le fasciava con i brandelli di stoffa ricavati dagli abiti, Ivory stringeva i denti e cercava di sopprimere qualsiasi gemito o grido di dolore osasse affacciarsi alle sue labbra.
«Probabilmente le ferite alle caviglie ti impediranno di camminare spedito» commentò Brand, «E ti proibisco di sforzarle, se non vuoi rimanere zoppo per tutta la vita. Devi dare tempo alle ferite di rimarginarsi e di cicatrizzarti o non guarirai più!»
«Non possiamo prenderci del tempo! Non qui e non adesso!» protestò l’altro.
«Non sei nelle condizioni per decidere» replicò Brand, «Arriveremo fino a Volkyria e lì ci fermeremo fino a quando non starai meglio. Nel frattempo diminuiremo i ritmi di marcia e faremo più pause.»  
«Di questo passo non arriveremo mai a Damevar!»
«Ci arriveremo!» lo rassicurò l’altro, «E soprattutto ci arriveremo vivi!»

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Capitolo 6
*** VI ***


 

VI

La Fortezza Nera spiccava prepotentemente sul paesaggio circostante, bianco e uniforme, e le sue torri di pietra svettavano alte fino al cielo, sfidando le vette aguzze che l’accerchiavano. 
Brand tirò un sospirò di sollievo, fino all’ultimo aveva temuto che la bussola si fosse sbagliata e sarebbero stati condannati a vagare per quelle montagne fino a quando la morte non li avesse presi, Ivory per primo. 
Le ferite erano peggiorate, nonostante le costanti cure di Branbury: lo sforzo della marcia non aveva permesso che si rimarginassero del tutto e l’erborista temeva che potessero essersi infettate, Ivory era accasciato contro di lui, caldo, prostrato dalla febbre che l’aveva colto una settimana dopo l’uccisione della belva. La pelliccia di leopardo lo avvolgeva e lo proteggeva dal freddo, un trofeo meritato per quello scontro, ma Barnd si domandò se fosse stato davvero l’elfo ad uscirne vincitore. 
«Siamo quasi arrivati» fece forza all’altro, trascinandolo verso la roccaforte, «Resisti!» 
Arrancarono nella neve che gli arrivava a metà coscia e più volte il giovane soccombette al peso dell’altro sprofondando nel manto soffice. 
Quando ormai pareva aver perso ogni speranza, Brand riuscì a toccare le fredde pareti dei muri della fortezza e si abbandonò contro di esse, iniziò a visitare Ivory per riprendere fiato e si accorse che la febbre si era alzata, l’elfo era scosso da tremiti convulsi e biascicava parole senza senso, galleggiante in un limbo sospeso tra lucidità e delirio. Era stata una follia pretendere che continuasse a camminare, ma sarebbe stato ancora più folle se si fossero fermati nel mezzo delle montagne, senza nessun riparo sicuro e un punto di riferimento a cui aggrapparsi. Volkyria era la loro ancora di salvezza per non affogare in quel mare di neve e roccia, che pian piano li aveva consunti, costringendoli a procedere senza sapere esattamente in che direzione stessero andando. Brand si era affidato completamente alla bussola e l’aveva consultata quasi febbrilmente, con il terrore di rimanere intrappolato tra quelle guglie. La prima volta che gli si era spenta in mano si era disperato: aveva iniziato a piangere e aveva stretto convulsamente la bussola tra le dita, aveva iniziato a scuoterla, ad aprirla e a richiuderla più volte, l’aveva esaminata in ogni dettaglio, alla ricerca di qualcosa che permettesse di farla funzionare di nuovo, temette di averla rotta e un sentimento irrazionale e indicibile si impossessò di lui, un misto tra frustrazione, impotenza, rassegnazione, rabbia, stanchezza e disperazione, tutto quello che aveva accumulato in quei giorni si era condensato in un delirio allucinato che l’aveva portato sull’orlo di un crollo emotivo. Aveva afferrato i pochi barlumi di lucidità che gli rimanevano, si era aggrappato ad essi e si era trascinato fuori dallo sconforto distruttivo in cui era caduto. Aveva chiesto ad Ivory cosa fare e questi aveva iniziato a parlare di sangue e di una boccetta di materiale ematico della regina, nascosto da qualche parte. Brand fu sicuro che stesse vaneggiando, ma quando trovò la fiala di cui parlava nei recessi dello zaino, si domandò che razza di macabro incantesimo contemplasse l’uso di sangue per far funzionare una bussola. Lasciò scivolare qualche goccia sul quadrante grigio e l’immagine precisa e dettagliata della regione si modellò sotto i suoi occhi, lasciandolo senza parole: non aveva mai visto qualcosa del genere. 
Rincuorato aveva ripreso la marcia, trascinandosi il corpo sfatto e spettrale dell’altro, più volte aveva temuto che potesse spirargli tra le braccia e aveva cercato in tutti i modi di contrastare la morte che accarezzava e vezzeggiava Ivory, gettando la propria ombra sul suo viso. 
Le torri erano state sbriciolate dal tempo e dall’incuria, frammenti alti cinque volte Brand erano disseminati attorno alla piana; anche le basi non erano state risparmiate: la roccia si era sgretolata per il gelo aprendo dei varchi nella corazza di pietra. Brand ne trovò uno, e caricandosi Ivory sulle spalle, penetrò nella fortezza: lo accolsero stanze vuote e tetre, buie e pregne di umidità, ma quantomeno il gelo sconcertante dell’esterno era stato stroncato dalle spesse pareti di granito. 
Adagiò Ivory sul pavimento polveroso e iniziò a controllare le ferite: con suo sommo sollievo nessuna si era infettata, sebbene stessero impiegando più tempo per guarire; lo avvolse in coperte e pellicce, privandosene per tenere lui al caldo. 
Mentre sistemava l’ultima pelliccia sentì qualcosa afferrargli il polso: era una mano di Ivory resa scheletrica dalla fatica e dalla malattia, sotto la pelle impalpabile si riusciva a intuire il reticolo di vene, simili a fili d’oro intessuti nel pallore innaturale. 
«Avevi ragione» mormorò, ogni parola che gli costava uno sforzo enorme. Ma stava per morire, sentiva il canto seducente della nera signora chiamarlo a sé e sentiva il bisogno di dire quelle parole e ringraziare Brand per tutto quello che aveva fatto per lui, prima che fosse troppo tardi. 
«Avevi ragione» ripeté, «Per troppi anni ho giocato con la morte e l’ho sfidata e adesso si è ripresa la sua rivincita. Dopo avermi messo alla prova con il leopardo, ecco che mi fa crepare nel modo più assurdo e indegno per un guerriero…» 
«Sta zitto !» gli intimò l’altro facendogli ingollare un preparato amarissimo per far abbassare la febbre. 
«Grazie» biascicò Ivory, «grazie per essere venuto con me. Avevi ragione anche su questo punto: una volta che sarò morto, avrai la possibilità di concludere la missione al posto mio!» 
«Smettila di dire stronzate!» sbottò l’altro, «Non morirai, non se sarò io a curarti, e quando sarai guarito, sarai costretto ad ammettere che avevo ragione anche sul fatto che avere un erborista sia utile e indispensabile.» 
Ivory strinse la mano i Brand, «Da quando sei diventato così ottuso?» domandò. 
«E da quando tu sei diventato così melodrammatico?» lo rimbeccò l’altro, «Le tue ferite non si sono infettate e basteranno un po’ di caldo e di riposo per rimetterti in sesto. Sei un guerriero! Il tuo corpo è abituato a privazioni ben maggiori, è stato indebolito dall’attacco della belva e adesso sta lottando per tornare forte come prima. Mi dispiace deluderti, ma non morirai.» 
Brandbury aveva ragione: nel giro di un paio di settimane Ivory si era perfettamente rimesso, la febbre era scomparsa e le ferite avevano avuto il tempo di cicatrizzarsi, per gli elfi i tempi di guarigione erano più rapidi e in un mese gli sfregi che deturpavano il petto e la spalla del guerriero si erano ridotti a sottili segni biancastri. 
Trascorse un’altra settimana di convalescenza, in cui Ivory era irrequieto e desideroso di partire: misurava con ampie falcate il perimetro della stanza, simile ad un animale in gabbia, e scalpitava e fremeva per tornare tra la neve e gli speroni rocciosi.  
Fu quasi con gioia e rinnovato entusiasmo che ripresero la marcia. Le tappe erano diventate meno forzate, per evitare che ci fossero ricadute, ed entrambi avevano i sensi all’erta per cogliere qualsiasi suono diverso dal fischio del vento e qualsiasi movimento che non fosse la danza lenta e leggiadra della neve. 
Fortunatamente, non fecero altri incontri spiacevoli e in una trentina di giorni, secondo i calcoli molto approssimativi di Brand, continuamente scompaginati dalle tempeste di neve e dalle nuvole basse che coprivano il sole, raggiunsero un varco che si apriva tra le punte acuminate e sfrangiate dei Ciclopi e lasciava trapelare il bacio tiepido del sole: erano riusciti a raggiungere l’altro lato della Porta.  
Abbandonarono l’incubo dei Ciclopi, ritrovandosi su un promontorio roccioso che si allungava sul Regno di Damevar. 
La loro delusione fu grande e si sentirono sbeffeggiati dal destino: un’altra distesa infinita di neve e ghiaccio li accolse, punteggiata qua e là da quelli che dovevano essere villaggi, ma per la maggior parte disabitata. Il colore dominante era il bianco, che si confondeva con quello del cielo, rendendo l’orizzonte indistinto e uniforme. Altre montagne e altre gole movimentavano la distesa, rendendola una grottesca prosecuzione dei Danaver, anche se meno minacciosa e aguzza.  
Se si fosse riusciti a non perdersi in quel dedalo di roccia, ci avrebbe pensato il regno di Damevar con la sua uniformità e il suo biancore opprimenti a portare chiunque su ciglio della follia. Fortunatamente erano ancora in possesso della bussola, e avevano sangue abbastanza per essere guidati in quel delirio candido, impedendogli di perdere la direzione e il senno.  
Un nastro fiordaliso che risaltava come una cintura azzurro sull’abito di una giovane donna, attraversava il mare bianco e immobile, spezzando la monotonia, e gemmava in lacrime color zaffiro, dove s’apriva in laghi dalle placide acque cristalline: si trattava dell’Amias, la loro destinazione. 
Nei pressi dell’omonima Gola, sarebbe dovuto sorgere il Palazzo della Regina Bianca, un minuscolo puntino blu elettrico che nuotava nell’inverosimile vastità di rilievi e depressioni della mappa luminescente. 
Quell’immensità li scoraggiava e li deprimeva, sentivano la mancanza della primavera sempiterna di Actardion, dei suoi frutteti, dei suoi campi biondi, delle fattorie e dei villaggi di legno e pietra, del sole caldo e accecante, che poco aveva a che fare con quest’ombra pallida e malata che a malapena riusciva a diradare le nebbie che ammantavano il fiume, e si domandarono quando avrebbero potuto ritornarvi. 
Avevano impiegato circa quattro mesi solo per raggiungere Damevar, e un altro mese di marcia li separava da Ebana, il Palazzo di Ghiaccio, residenza della Regina Bianca. 
La prospettiva non era delle migliori e lo scenario non migliorava di certo la situazione: era un paesaggio inquietante e opprimente, bianco e immoto; se Ivory avesse dovuto dare un volto all’oltretomba, non avrebbe esitato ad associarla ad esso.

 

 

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Capitolo 7
*** VII ***


VII

Ivory si schermò con una mano: il riverbero del sole sulla neve lo accecava e gli impediva di vedere con chiarezza, sullo sfondo glauco del cielo gli pareva di cogliere i contorni sbiaditi di una costruzione imponente ma non avrebbe saputo dire con certezza se si trattasse del castello della Regina Bianca o di un'allucinazione. Stavano camminando da così tanto tempo che non si sarebbe sorpreso di avere le traveggole.
I rantolii di Brandbury si fecero sempre più vicini, segno che stava arrancando verso di lui.
Era stato capace di sorprenderlo: quel ragazzo calmo e riflessivo era sopravvissuto al viaggio, resistendo alle tempeste di neve, alle notti di gelo e ai leoni di montagna; aveva marciato per giorni senza emettere un lamento, aveva dormito all'addiaccio senza protestare e aveva mangiato pane raffermo e carne troppo salata senza fare troppo lo schizzinoso. Si era dimostrato molto più tenace, resistente ed elastico di molti suoi commilitoni.

L'elfo gettò uno sguardo al fratello: il volto era coperto da una spessa sciarpa di lana grezza e il capo era riparato da un cappuccio imbottito di pelliccia, di lui si riuscivano a vedere solo gli zigomi arrossati dal freddo e gli occhi, che parevano ancora più chiari e freddi nella luce sfumata della valle.
Brandbury si trascinò fino ad un albero gelato, dai rami lunghi e sottili, simili ad artigli, e si lascio cadere nella neve.

«Dimmi che siamo quasi arrivati, ti prego, anche se è una bugia» ansimò, stremato.
«Siamo quasi arrivati» lo accontentò l'elfo.
«Davvero?» replicò speranzoso l'altro.

«Se la vista non mi inganna quell'edificio che si intuisce sullo sfondo dovrebbe essere Ebana, la Fortezza di Ghiaccio.»
Brandbury tirò un sospiro di sollievo: non ne poteva più di camminare: l'avanzata si era fatta molto più difficile e faticosa dal momento che ad ogni passo affondava nella neve fino a metà coscia, e la paura di cadere nel burrone lo teneva sul lato interno, dove il manto nevoso era più alto e morbido.
Ivory estrasse la mappa e sul quadrante apparve chiara e lucente l'immagine di una costruzione possente, irta di torri sottili e acuminate, ricamate di guglie e pinnacoli, preceduta da un ponte sospeso sulla cascata che si gettava nello strapiombo: il Varco di Amias, l’ingresso alla maestosa Ebana. Prima di raggiungerlo, però, avrebbero dovuto superare i Guardiani: un altro ponte, sorretto da due mastodontiche statue di troll del gelo, scolpite nel granito e rivestite di una sottile e costante patina di ghiaccio e brina, che faceva somigliare i pilastri alle creature originali; l'impalcato era costituito dalle loro braccia muscolose che da un alto s’intrecciavano in una salda stretta fino a fondere le mani tra loro, e dall’altro affondavano le dita di pietra nelle pareti del burrone.
«Preferisci Ebana o Dalysium?» domandò l'elfo, mettendo a confronto i palazzi delle due Regine.

«Sono entrambe molto belle ma di una bellezza diversa: Dalysium è calda, accogliente e sovrabbondante per certi aspetti, interamente ricoperta d'oro e circondata da giardini magnifici; Ebana è fredda, distante, diafana ed effimera ma affascinante e incantevole, la paragonerei a quella contessa sdegnosa a cui hai cercato di fare la corte qualche mese fa.»
«Addirittura!» lo prese in giro Ivory, «Se non fossi diventato un erborista, saresti stato un ottimo poeta.»
Brandbury arrossì e non solo per il freddo: la poesia e la musica erano sempre state la sua passione e il suo diletto, nei momenti liberi o di noia si divertiva ad abbozzare qualche verso, ma nulla di troppo serio e nulla che gli sarebbe valso l'ingresso all'Accademia dei Bardi; sapeva strimpellare un liuto e conosceva a memoria tutte le ballate di Biancospino, un poeta delicato e sublime che narrava strazianti storie di amori tragici, ma non aveva mai preso seriamente in considerazione l’idea di diventare un cantastorie giramondo.
«Quella contessa non era niente di che, in realtà» riprese il discorso Ivory calciando un cumulo di neve che si dissolse in una pioggia di candidi fiocchi, «Aveva un collo troppo lungo e un naso troppo adunco»
«Ma gli sei corso dietro per ben due settimane!» gli fece notare l’altro.
«Solo perché era piuttosto ricca e potevo approfittarne per avere qualche regalo»
si difese l’elfo.
«Non ti facevo così opportunista!» lo prese in giro Brand.

«In guerra e in amore tutto è lecito!» citò Ivory, sebbene la frase non c’entrasse completamente con il contesto.
Ma la trovava tragicamente veritiera: quando in inverno la fame divorava lo stomaco e il freddo tranciava le dita dei piedi, solo la bontà di cuore di qualche dama, signora dei possedimenti che stava attraversando per tornare a casa, l’aveva salvato da morte certa. Aveva sfruttato il suo fascino e il suo carisma per affascinarle e farsi ospitare, in attesa che una giornata particolarmente fredda o piovosa terminasse e lasciasse il posto a condizioni più favorevoli per riprendere il viaggio.
Le campagne militari si snodavano per tutta Actosia e non sapeva mai dire con assoluta certezza dove sarebbe finito e quanto gli sarebbe occorso per tornare a casa dopo il congedo. Una volta aveva impiegato addirittura un anno per tornare, quanto avevano richiesto i suoi servigi all’estrema propaggine nord del regno, per sconfiggere una ciurma di pirati che minacciava la città di Samanar e i suoi fiorenti commerci.
Le dame si erano sempre dimostrare molto disponibili nei suoi confronti: mai avevano negato un pasto caldo e un letto comodo all’affascinante guerriero dagli occhi d’ambra e i capelli bianchi, e Ivory, sapendolo, non aveva perso occasione per dare sfoggio a tutto il suo fascino e la sua galanteria. Non li avrebbe lesinati nemmeno con la Regina Bianca e avrebbe sfruttato tutte le sue risorse per riuscire a ottenere il suo favore e la sua attenzione, sempre che la donna fosse attratta da guerrieri dalle orecchie a punta e la pelle diafana.
Giunsero ai Guardiani quando il sole stava declinando all'orizzonte, infiammando il cielo e insanguinando le due statue: due giganti di pietra terribili, minacciosi e bellissimi, uno scultore aveva plasmato la roccia in modo da conferire ai due troll un volto arcigno e per nulla amichevole, corredato di un paio di zanne di alabastro, che spuntavano dalle labbra sottili, mentre le braccia erano saldamente legate tra loro, in continuità. Sullo sfondo, Ebana aveva assunto una forma più chiara e distinta: si pavoneggiava nello splendore evanescente e arrossiva lievemente, sfiorata dai raggi dell'astro morente; Ivory poteva ritrovare le guglie e i pinnacoli che fino a quel momento aveva visto solo sulla mappa e Brandbury si mise a contare le torri, sormontate da cupole di vetro colorato che spandevano nell'aria vespertina un caleidoscopio di colori vivaci e sorprendenti.
«È immenso!» si lasciò sfuggire sorpreso, e l’elfo accolse quel commento con un sorriso amaro: più il palazzo si sarebbe rivelato vasto e labirintico, più sarebbe stato difficile scoprire dove tenesse custodito lo specchio.
Ivory iniziò a saggiare il terreno attorno ai piedi enormi dei troll, che facevano da base per i pilastri del ponte, e a scandagliarlo attentamente con il suo sguardo dorato: in quel punto il sentiero si riduceva ad una lingua larga un paio di metri che si intrufolava e si incuneava tra le gambe del troll e la parete di roccia; il terreno pareva cedevole e il passaggio stretto e difficoltoso, dovevano contorcersi per riuscire a percorrerla, stando attenti a non cadere nell’abisso che rasentava la pietra granitica del piede.
«Vuoi passarlo adesso?» domandò Brand notando i movimenti dell’altro.
«Volevo approfittare delle ultime ore di luce disponibili» rispose.

«A me sembra pericoloso» iniziò il giovane inarcando un sopracciglio, scettico. Ivory alzò gli occhi al cielo: ecco che iniziava a ribattere e criticare, come suo solito.
«Più andiamo avanti oggi, meno strada avremo da fare domani» replicò.
«Non potremmo attraversarlo con la luce del giorno?» non demorse l’erborista. Quel tratto gli sembrava poco stabile e alquanto infido, non che temesse che potesse crollare da un momento all’altro- aveva sostenuto quegli enormi troll per secoli- ma aveva paura che con la soffusa luce crepuscolare non avrebbero visto qualche insidia celata, magari un cumulo di neve meno resistente, o qualche buca o cedimento nascosti.
Ivory sospirò e ignorò le proteste dell’altro, sondò cautamente il terreno con uno stivale, accertatosi della sua stabilità, mosse un passo e invitò Brandbury a fare altrettanto.
Il ragazzo rimase fermo, a braccia conserte, deciso a non proseguire: era stanco che l’altro non prendesse mai in considerazione quello che diceva e persistesse nel fare di testa sua, era umiliante e frustrante e Brandbury non riusciva più a sopportarlo; che si arrangiasse da solo, dal momento che teneva in così gran conto le sue opinioni! Lo inchiodò con uno sguardo risentito, mentre l’elfo proseguiva senza preoccuparsi di accertarsi che lo stesse seguendo o meno: probabilmente aveva dato per scontato che Brandbury, come suo solito, gli sarebbe corso dietro, ricapitolando e rinunciando alle sue considerazioni. Ma questa volta, non gliel’avrebbe data vinta, e rimase fermo e saldo nella sua posizione, simile per immobilità alle statue del ponte.
Improvvisamente, Ivory mise un piede in fallo: la zolla si sbriciolò sotto il suo stivale, lasciandolo privo di appoggio, si sbilanciò e perse l’equilibrio, spalancò gli occhi, incredulo, mentre le sue mani iniziarono a mulinare in cerca di un appiglio, ma le dita scivolarono sullo strato di brina che ricopriva la pietra, senza riuscire ad agguantarla. Sotto lo sguardo stupefatto di Brandbury, l’elfo cadde e scomparve alla sua vista, inghiottito dall’abisso.

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Capitolo 8
*** VIII ***


VIII

Il terrore si dipinse sul volto di Brandbury che scattò verso il fratello, allungò spasmodicamente un braccio, mentre sentiva le gambe cedere e il corpo scivolare sulla neve; le sue dita si chiusero e per un attimo temette di stringervi solo aria.

Invece, afferrò qualcosa di solido e morbido: Ivory penzolava sul precipizio, appeso per il polso alla mano di Brandbury, sotto di lui l’Amas scorreva impetuoso, spinto dalla forza della cascata, le pareti di roccia crollavano a precipizio e si scheggiavano in spuntoni simili a punte di lancia e ugualmente letali; se non l’avesse afferrato in tempo sarebbe rimasto infilzato come un maiale sullo spiedo.
Il ragazzo deglutì, si puntò con i piedi nel manto nevoso, e pregando tutti gli dei che conosceva, iniziò a strisciare nella neve, trascinando con sé l’altro. Si muoveva lentamente, stando attendo a non far franare il terreno e stringendo convulsamente il polso del fratello, senza preoccuparsi di fargli male; aveva tutti i sensi all’erta, attenti a percepire ogni più piccolo movimento sotto di lui e a fare il passo successivo di conseguenza: aveva paura che il terreno riservasse qualche altra brutta sorpresa, che non reggesse e facesse cadere entrambi nel precipizio. Le lacrime gli ostruivano la vista e aveva la mano sudata, il suo cuore batteva a mille e uno spiacevole ronzio gli invadeva le orecchie, non riusciva a respirare e aveva il terrore che qualsiasi movimento superfluo o avventato, anche il più insignificante, avrebbe condannato entrambi a morte.
A fatica, Brand indietreggiò fino a quando il braccio e la testa di Ivory non spuntarono oltre l’orlo scheggiato del burrone; l’elfo si issò sulla sponda con l’altro braccio e facendo leva su di esso, spinse il resto del suo corpo oltre l’orlo. Lo slancio non fu sufficiente e ricadde, Brandbury sentì uno strattone e si vide trascinare verso il burrone, la paura gli svuotò mente e polmoni, disperato afferrò anche con l’altra mano quella di Ivory e si inchiodò al manto nevoso con la punta degli stivali; sotto lo strato di neve la pietra sbeccata offrì un pertugio dove andò ad incastrarsi il piede del ragazzo, frenando la caduta di entrambi. L’erborista si cocesse un secondo per riprendere fiato, poi, nuovamente, strisciò sulle ginocchia, trainando l’altro, e nuovamente la testa bianca di Ivory fece capolino oltre l’orlo. Ancora, l'elfo appoggiò l’altro braccio sulla neve e puntellandosi alla parete si diede la spinta: questa volta fu troppo impetuoso e lo slancio lo proiettò contro Branbury, travolgendolo.
Il ragazzo si ritrovò schiacciato dal corpo dell’altro, a breve distanza dal suo viso: Ivory sorrise e un lampo di gratitudine ne incendiò lo sguardo dorato.
«È l’ultima volta che ti salvo la vita» ansimò, togliendosi di dosso il peso del fratello. «La prossima volta che avrai un’altra di queste idee geniali ti lascerò al tuo destino!»
L’elfo, per tutta risposta, scoppiò a ridere. Brandbury si rialzò e gli gettò una breve occhiata, domandandosi cosa avesse tanto da ridere: aveva rischiato la morte e rideva sguaiatamente, sdraiato sulla neve e tenendosi la pancia.
«Io, a volte, non ti capisco proprio» mormorò, spazzolandosi i vestiti. Aveva il viso cinereo per la preoccupazione e chiazzato di rosso per il freddo e lo sforzo, gli occhi traballavano e le iridi chiare annegavano nelle lacrime, ma non avrebbe dato ad Ivory la soddisfazione di vederlo piangere.
L’altro si ricompose e si mise a sedere, qualche lucciola di ilarità indugiava ancora nei suoi occhi.
«Rido, perché nemmeno oggi sono morto» rispose «Sebbene, per un momento, abbia creduto che fosse davvero arrivata la fine...E una fine piuttosto biasimevole per un prode guerriero.»
«Che ti sia di lezione!» lo rimbeccò l’altro, trasformando la sua apprensione in rabbia. «Non sei morto oggi, ma continuando a comportarti così succederà molto presto.»
Brandbury era arrivato al limite: la fatica e la stanchezza del viaggio, l’ansia e la preoccupazione per lo stesso e per il fratello l’avevano logorato a tal punto che bastava un nonnulla per farlo scattare; ma la possibilità così reale e concreta di perdere il fratello l'aveva scosso nel profondo, lasciandolo spezzato e tremante, e il fatto che fosse causa della sua stupida presunzione rendeva il tutto più insopportabile. Si sentiva vuoto e spento, senza più forze né impulsi, si sentiva condotto e sostenuto dalla sola inerzia.
Dopo aver raccattato lo zaino, il giovane riprese la marcia verso il palazzo, senza aggiungere né una parola né uno sguardo all'altro e lasciando l'elfo spiazzato: si aspettava una sfuriata, una di quelle tipiche paternali noiosissime, in cui ripeteva quando fosse sconsiderato e incosciente, di come si prendesse gioco della morte, di come questa avrebbe reclamato il suo pagamento una volta che avesse smesso di divertirsi con lui… insomma le stesse identiche filippiche che gli ripeteva da almeno cinque anni; e invece, dopo quel breve e lapidario commento, Brandbury aveva innalzato un muro di silenzio tra i due e vi si era barricato, volgendogli le spalle e riprendendo a camminare. La sua furia di Brand ridusse anche Ivory al silenzio: lo seguì remissivo, il volto basso e lo sguardo concentrato sugli stivali ricoperti di neve.
Il cielo si era scurito e il suo colore era virato verso un macabro color sangue, il disco rosso del sole mostrava solo le ultime propaggini della sua fronte e bucava con i suoi raggi i batuffoli di nubi che si rincorrevano nell'aria crepuscolare, avrebbero avuto ancora un paio di ore di luce e Brand non era intenzionato a passare la notte su quella lingua di terra cedevole: avrebbero potuto tornare indietro, ma sarebbe stato inutile aver proseguito, oppure avrebbero potuto superare i Guardiani e riposare oltre le loro gambe di pietra, dove la strada ritornava larga e spaziosa, abbastanza da non farli rasentare l’orlo del dirupo.
Si appiattirono contro la parete di roccia e strisciarono dall'altra parte, passando tra questa e la gamba del troll. Brandbury continuava ad ignorarlo e si limitava ad indicargli i punti meno scivolosi con un laconico cenno del capo, senza aggiungere altro.
Questa volta, il guerriero temette di averla combinata grossa: lo spavento per il giovane doveva essere stato davvero enorme e sconvolgente, Ivory stesso aveva temuto di morire. Solo in quel momento si era reso conto di quanto avesse rischiato e di come fosse stata fondamentale la presenza dell'altro, se non ci fosse stato Brand a quest'ora sarebbe stato un ammasso di carne e pellicce smembrata nell'Amas: Brandbury gli aveva salvato la vita. E lui non l'aveva nemmeno ringraziato.
Quella consapevolezza lo colpì come un pungo allo stomaco e lo fece vergognare profondamente di sé: da quanto era diventato così insensibile e meschino da non ringraziare nemmeno chi gli aveva appena salvato la pelle? Si morse le labbra mortificato e arrabbiato con se stesso, Brandbury aveva tutte le ragioni per avercela con lui.
«Grazie» mormorò, ma gli rispose solo l'ululato del vento che scivolava attraverso le fenditure della roccia.
Con l'approssimarsi della notte, questo si era alzato e ora spazzava la piana superiore sollevando mulinelli di neve e detriti, ma i due erano protetti dalla gola e ne ricevevano una misera bava.
Brandbury sgusciò con un piccolo salto fuori dallo scomodo passaggio, si sedette nella neve, nel punto più lontano dal precipizio, appoggiò la schiena alla scarpata ed estrasse un tozzo di pane dallo zaino.
Ivory lo imitò e si lasciò cadere accanto a lui, umile e contrito.
«Ho capito» mormorò dopo un po'. Il silenzio gli era diventato insopportabile e voleva che Brand gli tornasse a parlare, anche solo per insultarlo e rimproverarlo: quel mutismo gelido e acre gli faceva male più di un colpo di spada o di freccia, scivolava dentro di lui e lo raggelava, lento e straziante, terribile.
«Che cosa?» domandò l'altro con voce atona. Non aveva più voglia di discutere con Ivory, le sue parole erano rimaste inascoltate e inutili, non aveva più le forze per tentare di inculcagli una briciola di buon senso, era stanco di essere considerato meno di niente, di essere dato per scontato, di non contare nulla se non nella misura in cui serviva al fratello. Lui lo amava incondizionatamente e avrebbe dato tutto se stesso, si preoccupava e soffriva per lui, cercava in tutti i modi di proteggerlo e di sostenerlo, stando attendo a non soffocarlo troppo, ma trovava avvilente vedere ricambiato in quel modo il suo affetto e il suo impegno: sembrava quasi che all'altro non importasse nulla di lui, che lo considerasse solo un fastidioso impedimento quando non appoggiava le sue idee, e un utile compagno di viaggio quando cedeva e lo seguiva docilmente.
Non metteva in dubbio l'affetto di Ivory, sapeva che gli voleva bene, ma il suo atteggiamento egoista e menefreghista lo faceva infuriare; gli sarebbe bastato un piccolo gesto, che lo ascoltasse anche solo una volta, mettendo in pratica quello che gli diceva e allora si sarebbe ritenuto soddisfatto...Non chiedeva tanto.
«Ho capito di aver sbagliato» continuò Ivory, «E che tu, come sempre avevi ragione.»
«Allora perché non mi hai dato retta?» non c'era rabbia nella sua voce, quella era sbollita un momento dopo essersi accesa, ma solo una profonda ed incommensurabile delusione, quasi avesse perso ogni speranza.
Ivory non rispose subito, in realtà non sapeva che cosa dire, si prese qualche momento per riflettere e dentro di sé trovò la risposta: l’aveva fatto per dimostrare che aveva ragione, che non era più uno sbarbatello e che era diventato un uomo, capace di cavarsela da solo e non più bisognoso dell’aiuto del fratello, voleva fargli capire come quelle scelte fatte, che lui disapprovava tanto, gli avessero permesso di crescere…Ma come al solito, aveva solo dato prova della sua avventatezza e della sua arroganza.
«Mi dispiace» balbettò Ivory, e gli dispiaceva davvero, per tutte le preoccupazioni che dava al fratello, per tutte le volte che aveva cercato di riscattarsi ma era caduto nello stesso errore, per tutte le volte che aveva voluto mostrargli che si sbagliava ma aveva fallito miseramente.
«Io non contesto la tua scelta di essere diventato un soldato e non disprezzo nemmeno tutte le tue idee, ammiro il tuo coraggio e il tuo ardore, ma vorrei che ogni tanto mettessi da parte il tuo orgoglio e mi ascoltassi… Io non dico le cose per impedirtele di farle, perché voglio ostacolarti, ma le dico solo per proteggerti, perché sei l’unica cosa che mi è rimasta e che mi sarebbe troppo doloroso perdere.»
Ivory sollevò lo sguardo e incrociò quello adamantino del fratello, ogni traccia di rabbia e delusione era svanita ed era tornato il solito sguardo luminoso e sorridente di sempre.

 

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Capitolo 9
*** IX ***


IX

Ebana danzava in equilibrio sullo strapiombo delle cascate dell’Amias: il palazzo si estendeva su entrambe le sponde, e le due parti erano collegate da un esile ponte in pietra bianca, ricamato di galaverna e stalattiti, sotto il quale rombava e schiumava il fiume, gettandosi con un salto maestoso nella piana sottostante.
Le due alte e sottili torri in vetro, sostenute da uno scheletro nascosto di acciaio e fondamenta di pietra, catturavano la luce del sole e la rifrangevano come schegge di ghiaccio. E come il ghiaccio, infondevano un’idea di fragilità e caducità, come se bastasse sfiorarle per vederle crollare in mille pezzi.
Ivory e Brandbury non avevano mai visto edifici del genere: ad Actardion erano tutti costruiti in pietra o legno, rivestiti poi da materiali più preziosi, e il palazzo stesso sotto lo strato di oro zecchino, celava una volgare e rozza muratura comune. Ebana, invece, pareva essere stata forgiata direttamente nel cristallo, appariva leggera e volatile, come un fiocco di neve.
Si trovarono proprio sotto il Varco, accanto a loro la cascata mandava spruzzi e gorgoglii, mentre davanti ai loro occhi torreggiavano gli imponenti pilastri di pietra che sorreggevano il sottile arco candido. Oltre a questo si riusciva ad intuire una foresta irta di guglie e di archi rampanti, di torrette e di guardiole, accarezzata dall’Amias che scorreva placido e pigro tra le costruzioni, tutte rigorosamente in vetro o direttamente scolpite nella pietra.
Arrivarono davanti ad una delle postazioni di guardia che si trovavano incassate nei pilastri del Varco. Il soldato, avvolto in una scintillante armatura smaltata di bianco, li scrutò con interesse: non erano molti i viaggiatori che si avventuravano fino a quel luogo inospitale e freddo.
«Chi siete e cosa volete?» domandò brusco.
Ivory schiuse le labbra per rispondere, ma Brandbury lo precedette.
«Siamo solo umili poeti girovaghi, messere, e vorremmo sottoporre la nostra arte all’orecchio di Vostra Maestà. Sappiamo che ha un’eccellente gusto ed è molto esigente, per questo siamo giunti fino a lei.»
L’elfo guardò stranito l’altro, mentre snocciolava con garbo e indifferenza la sequela di bugie e parole affabili e ricercate; si chiese quando avesse ideato una storia simile e quante volte l’avesse ripetuta e aggiustata per farla sembrare il più credibile possibile.
La guardia parve tentennare e Ivory temette che l’inganno non fosse riuscito: suonava inverosimile che due poeti si fossero spinti in quei recessi, mossi dal solo desiderio di cantare versi al cospetto di una regina che viveva in mezzo ai ghiacci.
«Dovrò chiedere alla regina se posso lasciarvi passare. Non si vede molta gente da queste parti, soprattutto stranieri.»

E sparì, lasciando i due imbambolati nella neve. L'elfo e l’umano si scambiarono uno sguardo, increduli.
«Secondo me non ha funzionato» sentenziò il primo, battendo i piedi per scaldarsi, «cosa ti è saltato in testa di dire?»
Brand sorrise, un sorriso storto e sornione che l’altro non gli aveva mai visto, e lo inquietava.
«Se ogni tanto non pensassi solo alle armi, alle battaglie e alle donne, ma ascoltassi i pettegolezzi che circolano, soprattutto quando viene in visita la Regina, sapresti che vengono cercati sempre i musici e i menestrelli migliori. La Regina adora la musica e la poesia, non resisterà alla rospettiva di conoscere due nuovi poeti. Le piace avere l'eslusiva e la possibilità di mostrare le sue nuove scoperte ad altri. Purtroppo è molto rigida nel suo giudizio: una volta ha abbandonato il banchetto in suo onore nel bel mezzo della portata principale, perché le sembrava che i musicisti stessero scuoiando un maiale invece che suonare» il giovane scoppiò a ridere per un avvenimento di cui solo lui era a conoscenza, lasciando l’altro ancora più interdetto, «Per di più, quei musicisti erano venuti appositamente da qui ed erano i preferiti della Regina!»
Da quelle poche parole Ivory comprese quanto fosse volubile e capricciosa anche questa donna, esattamente come la sorella, e non gli fu difficile immaginare che fosse stata capace di rubare lo specchio, per dispetto o ripicca. Non si sarebbe sorpreso se la guardia fosse tornata dicendo di ritornare da dove erano venuti.
Invece, quando l’uomo ricomparve, con somma sorpresa di Ivory, li introdusse nel lungo corridoio di pietra che collegava la postazione di guardia al palazzo vero e proprio. All’interno del pilastro, le pareti sudavano e l’aria era calda e densa; i due stavano soffocando sotto gli strati di abiti di lana e pellicce, e pian piano iniziarono a liberarsene. Si inerpicarono per un’erta scaletta, stretta e dai gradini piccoli e scivolosi per l’umidità. Al caldo e al sudore si aggiunsero il respiro affannoso, le guance purpuree e lo sguardo stranito.
Finalmente giunsero nelle sontuose stanze di Ebana, e rimasero accecati dalla luce fulgida che si riverberava e si sfilacciava nei mille colori dell’arcobaleno, invadendo ogni spazio: le pareti di vetro lasciavano entrare tutto quello che riuscivano a catturare- e che il pallido cielo coperto di nubi lasciava trapelare- e lo moltiplicava, rifrangendolo in miliardi di schegge. Faceva quasi male, e i due furono costretti a socch
iudere gli occhi. La seconda cosa che li lasciò senza fiato fu la stranissima sensazione di camminare sospesi nel vuoto, poggiando i piedi sull’aria: i pavimenti erano fatti di vetro e lasciavano intravedere i piani sottostanti, con gli stessi lunghi corridoi di cristallo e di luce.

La guardia li guidò in quel labirinto trasparente, attraverso volte istoriate con motivi floreali e porte di pietra bianca decorate con bassorilievi di marmo. In quel palazzo tutto era bianco o trasparente e riprendeva gli stessi colori del ghiaccio e della neve esterni, quasi fosse costituito esso stesso di neve e ghiaccio; era un dedalo di porte e corridoi che si dipanavano identici tra loro, un luogo in cui perdersi fisicamente e mentalmente nei propri deliri. A Brandbury quel luogo metteva a disagio: lo stordiva e lo confondeva, gli trasmetteva un senso di algida austerità che lo soffocava e gli toglieva il respiro; mal sopportava tutto il chiarore e il candore dominanti. Si domandò come qualcuno potesse vivere in un posto tanto freddo e luminoso, sopportando la luce intensa e quasi artificiale e la solidità effimera di quelle pareti di vetro. Gli dava l’impressione di una gabbia, in cui qualcuno avesse voluto chiudersi dentro volontariamente, e abbellire per rendere più piacevole la prigionia.
Anche Ivory osservava il palazzo, ma per impararne la struttura: scrutava con interesse ogni porta e ogni corridoio domandandosi se lo specchio potesse essere custodito in quelle stanze, cercava scale nascoste e porte camuffate, passaggi segreti e pareti ingannevoli dietro cui potesse celarsi l'oggetto.
La guardia si arrestò davanti ad un portone a due battenti, decorato con le immagini di alberi lussureggianti e fiori esotici, che solo nelle serre di Dalysium potevano essere ritrovati. Non potendo permettersi fiori e piante in rami e petali, la Regina Bianca si era accontentata di surrogati in pietra e cristallo.

L’uomo aprì il portone, creando un piccolo spiraglio, vi infilò la testa e iniziò a confabulare con qualcuno dall’altra parte, probabilmente un’altra guardia; annuì svariate volte prima di spalancare del tutto il portone e immettere i due nell’imponente, incredibile e maestosa sala del trono.
Si trattava di un locale circolare, con al centro una piattaforma di marmo su cui era adagiato un trono che pareva fatto di ghiaccio. Quest'ultimo catturava e risucchiava i colori delle vetrate intrappolandoli nei raggi dell’alto schienale, simile per forma ad una coda di pavone. La piattaforma era collegata all’anello più esterno del pavimento in vetro -sotto cui scrosciava tumultuoso l’Amias- da passerelle di cristallo, che destabilizzavano e confondevano il visitatore, non sapendo dove l’accogliesse il pavimento e dove l’attendesse il vuoto. Una vertigine colse i due fratelli, e la paura di cadere strinse loro la bocca dello stomaco, provocandogli un vago senso di nausea.
Erano circondati da un cerchio di venti colonne di tufo bianco, invase da rampicanti di cidonia di pietra e vetro rosso, che sostenevano una cupola in cui erano stati raccolte tutti le screziature dell’arcobaleno e frammentate in una cacofonia di tasselli di cristallo, che creavano un caleidoscopio quasi allucinato di luci e colori che li colpì come un pungo e li stordì, lasciandoli boccheggianti.
«Benvenuti» mormorò una voce gentile e soave, ed entrambi impiegarono qualche momento per capire da dove provenisse, cercando di riemergere da quel delirio vertiginoso.
Sul trono di ghiaccio sedeva, altera e composta, una giovane donna, dalla bellezza delicata e fragile, avvolta in un vaporoso abito bianco, ricamato di minuscoli cristalli. Aveva lo sguardo di una bambina, e scrutava con interesse e meraviglia i nuovi arrivati, con una ingenuità e una spontaneità disarmanti. Tutto in lei sprigionava innocenza e candore: la pelle delicata di un
bianco perlaceo, le labbra piegate in un tenue sorriso, le lentiggini che spruzzavano il naso elegante e l’azzurro fiordaliso degli occhi. L’unica nota di colore era la folta capigliatura rossa, lasciata sciolta sulle spalle e trattenuta da una tiara di fiori d’argento e perle che accarezzava dolcemente la fronte alta e nobile.
Se la sorella era fuoco, passione, voluttà, seduzione e fascino e i suoi capricci erano quelli di un’amante esigente; la Regina Bianca era neve pura, soffice e delicata, fragile ed evanescente, e le sue pretese erano quelle di una bambina viziata, abituata al lusso. Pur essendo così simili nei tratti principali del volto, nel taglio degli occhi e pur avendo lo stesso naso, lo stesso rosso dei capelli e lo stesso azzurro degli occhi, non avrebbero potuto essere più diverse e antitetiche.

«Benvenuti!» ripeté la donna a voce più alta.
«Lascia parlare me!» soffiò Brand all’orecchio dell'altro, mentre si genuflettevano di fronte alla regina.
«Mi è stato riferito che siete dei poeti» continuò, una scintilla che le accendeva lo sguardo.

«Qui per servirvi» rispose teatralmente Brand, esibendosi in un inchino esagerato. La Regina parve apprezzare e scoppiò in una risatina delicata e ilare, trattenuta a stento dalla mano ricoperta di pizzo.
«Come vi chiamata e da dove venite?
» domandò curiosa. Quei due rappresentavano per lei solo una novità, un trastullo e un diversivo fino al momento in cui non si sarebbe stancata di loro e li avrebbe gentilmente cacciati da palazzo. Sia Ivory sia Brandbury lo sapevano, e se il primo sperava che il secondo avesse una minima idea di cosa fare, quest’ultimo sperava che la sua idea e il suo piano funzionassero, e che la farsa durasse abbastanza a lungo per permettere il compimento della missione.
«Siamo Rododendro e Biancospino, mia signora. Non proveniamo da nessun luogo e da tutti: siamo nomadi, e il mondo è la nostra casa.»

Ivory cercò di trattenersi dallo scoppiare a ridere per l’assurdità dei nomi, e si chiese quale dei due fosse stato destinato a lui.
«E vi procurate da vivere poetando?» volle sapere la donna. Quei due la incuriosivano e la divertivano, soprattutto quello più mingherlino, dai capelli biondi e gli occhi azzurri, buoni e ridenti. L’altro aveva lo sguardo più truce e le iridi dorate come quelle di un felino, la sua pelle era di un pallore spettrale e i suoi capelli erano candidi come la schiuma dell’Amias; aveva un aspetto meno canonico e più esotico, a tratti inquietante, sebbene ugualmente attraente.
«Ci proviamo, mia signora» ridacchiò Brand, «Ma non tutti sono disposti ad ascoltare due girovaghi dalle scarpe bucate e il volto consunto, senza una dimora né un soldo, con la testa tra le nuvole e gli occhi tra le stelle.»
«Per questa sera consideratevi miei ospiti, sono proprio curiosa di sapere cosa hanno da offrire questi poeti girovaghi che sanno usare espressioni così belle e delicate e che hanno nomi così buffi e…floreali» l’ultima battuta fece scoppiare la giovane in una risata cristallina a cui seguì quella di Brand e quella più titubante di Ivory, che non riusciva a comprendere appieno cosa fosse successo.

Le uniche certezze dell’elfo erano che -almeno per quella sera- avrebbero avuto un pasto caldo e forse un letto comodo, e che l’idea strampalata di Brandbury aveva loro aperto le porte del palazzo, e forse, anche la possibilità di non vedersele immediatamente chiudere in faccia.

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Capitolo 10
*** X ***


X

Durante il banchetto, Brandbury aveva intrattenuto la Regina raccontando della loro vita di poeti girovaghi. Era sta inventata sul momento, e densa di avventure divertenti e tragiche, molte delle quali erano un calco dei racconti di guerra e degli aneddoti di Ivory, rivisitati in chiave romanzata e scevri dei particolari più macabri e sanguinolenti. La donna aveva trascorso la serata sorridendo all’altro e spesso la sua risata cristallina era risuonata nella sala dagli alti soffitti, illuminando le sale vuote e silenziose.

Da allora, Celeste continuava a ricercare la compagnia di Brandbury, o come aveva scelto di chiamarsi, del cantore Biancospino: la divertiva il modo in cui era capace di giocare con le parole e di costruire espressioni sagaci o evocative, sorprendendola con formule innovative e ingegnose e incantandola con versi musicali e delicati.

Biancospino amava le parole, così come Celeste, e quell’interesse in comune li avvicinò sempre di più portandoli a scoprire che condividevano tanto la passione per la poesia quanto per qualsiasi altra forma d’arte. Iniziarono a trascorrere i pomeriggi a discorrere di poeti, pittori, scultori e menestrelli. La Regina Bianca era un’avida lettrice e non avendo la possibilità di altri svaghi in una terra per la maggior parte ghiacciata, aveva letto una quantità esorbitate di libri e si divertiva a confrontare le sue letture- decisamente più sconfinate e approfondite- con quelle dell’altro, che si limitava a piluccare qualche libro scovato in una biblioteca o rileggeva sempre lo stesso.

Facevano lunghe passeggiate, e mentre l’uno le narrava di una vita mirabolante e fittizia, l’altra confidava la sua esistenza monotona e noiosa, divisa tra i suoi doveri di Regina e lunghe ore morte, trascorse tra le pagine crepitanti di un libro di poesie. Le uniche distrazioni che le erano concesse erano le visite alla sorella e quelle poche che aveva l’onore di ricevere; ma anche questi minuti piaceri erano minati dall’onere di governare un regno e amministrare un territorio tanto vasto quanto problematico, perennemente oppresso dalla neve e dal ghiaccio e che fondava la propria ricchezza sulle miniere, invidiate e desiderate da molti. Nei momenti di maggiore sconforto, iniziava ad elencarle le sue preoccupazioni, i suoi crucci e le sue ambasce, gli rivelava i grandi sacrifici che aveva compiuto in segreto, senza che il suo popolo lo sapesse. Durante quelle lunghe ore di conversazione si dimostrò una regina premurosa, solerte e attenta, e una sorella affettuosa e gentile, preoccupata per la salute dell’altra. Confidò a Biancospino di come fosse impensierita e angosciata per il carattere volubile, lunatico e irascibile della sorella, che era peggiorato dopo la morte della madre e si era inasprito con il passare degli anni, minando la sua salute fisica e mentale.

Brandbury era sempre disponibile ad ascoltarla, e la Regina trovò in lui un confidente e un amico fidato, al quale poter aprire il proprio cuore e affidare i suoi pensieri, le sue pene e le sue aspirazioni. Quel ragazzo gentile e generoso, avvenente e colto, aveva fatto colpo sulla donna, stuzzicandola con le sue parole accorte e confortanti e i suoi versi dolci e leggiadri, e conquistandola con il suo fascino e il suo sguardo buono e luminoso, i lunghi capelli biondi leggermente ondulati e l’ombra di barba dorata che era spuntata dopo mesi di viaggio senza potersi radere, e che gli dava un’aria trasandata e vissuta, perfettamente in sintonia con il personaggio che aveva deciso di interpretare.

Al ragazzo spiaceva ingannare in quel modo quella fanciulla e temeva il giorno in cui sarebbe venuta a conoscenza della realtà; per il momento approfittava del favore che riscuoteva presso di lei e cercava di distrarla come poteva e accontentarla in tutto; il suo animo caritatevole l’aveva spinto a cercare di rendere più sopportabile quell’esistenza tanto grigia e travagliata.

Lentamente aveva conquistato la sua simpatia e la sua fiducia, e a poco a poco era penetrato nei recessi più profondi della sua mente e del suo cuore: la ragazza aveva aperto le porte invitandolo ad entrare e Brand non si era lasciato sfuggire un’occasione simile, nella speranza che nel tumultuoso mare di pensieri vorticosi e confessioni mormorate a mezza voce, le sfuggisse anche lo specchio, il suo potere e la sua ubicazione.

Con il passare del tempo, la complicità e l’intesa divennero qualcosa di più intenso e profondo di una semplice amicizia, evolvendosi in modo inaspettato per entrambi: la Regina scoprì di amare quel misterioso cantore venuto dal mondo e di desiderare di vivere il resto della sua vita con lui; era convinta che con Biancospino al suo fianco, l’esistenza non sarebbe stata tanto penosa, e la sua solitudine sarebbe stata allietata dalla sua compagnia, dal suo supporto e dal calore dei suoi baci.

Dal canto suo, nemmeno Brandbury era rimasto indifferente alla bellezza eterea e deliziosa della ragazza: l’aria da eterna bambina lo intrigava e lo attraeva, soprattutto perché era associata ad una mente sveglia e matura, scattante e curiosa, sempre pronta ad imparare pur parendo esperta in tutto.

Le conversazioni con lei erano piacevoli e stimolanti, il suo modo di pensare e la sua visione del mondo lo intrigavano, l’avrebbe ascoltata per ore. Amava il suono della sua voce, soave e fresco come un refolo di vento primaverile, e la sua risata argentina e i grandi occhi azzurri, perennemente persi in un punto che andava oltre quella realtà. Più volte aveva stretto tra le sue le mani di lei, tanto piccole, morbide e fragili, e più di una volta l’aveva avvolta in un abbraccio, nella speranza di assorbire un poco delle sue pene.

All’inizio aveva visto quella relazione solo come un’opportunità per ottenere in maniera più semplice e veloce delle informazioni sullo specchio, ma il tanto tempo trascorso assieme, i lunghi discorsi e la fiducia cieca e speranzosa con cui si era completamente affidata a lui, l’avevano trasformata in qualcosa di più: in una creatura da proteggere e da sostenere, come lo era suo fratello Ivory, a cui si era accorto di essersi affezionato.

Fu in una fredda sera, riscaldata appena dal torpore del camino di marmo bianco e rosa, che la Regina ebbe il coraggio di esternare il proprio sentimento. Brand stava leggendo per lei e la donna pendeva dalle sue labbra, rannicchiata al suo fianco, i piedi scalzi sul pavimento di vetro e una leggera veste da camera rosa cipria a coprirne le forme acerbe. Lentamente avevano raggiunto un’intimità profonda, e il contatto tra i due era diventato spontaneo e quasi anelato. Quando la Regina Bianca si trovava con il cantore, svestiva i suoi panni di sovrana e diventava semplicemente Celeste, una ragazza profondamente innamorata. 

Seguiva i movimenti delle labbra del giovane che si piegavano e si modellavano sulle parole sussurrate appena al suo orecchio. Erano piene e sempre piegate in un sorriso trasognato, e davano l'impressione di essere calde e morbide, come la voce di lui. Erano diventate la sua ossessione, e si sorprese a domandarsi come sarebbe stato baciarle.

Con cautela e paura si avvicinò a lui, il profumo familiare della sua pelle l’avvolse in un abbraccio inebriante, e fremendo come una foglia d’autunno ai primi venti dell’inverno, si allungò verso le sue labbra. Il respiro di lui le solleticava la pelle e la faceva rabbrividire. Si gettò senza pensarci sull’orlo di quei cigli di velluto rosa, e intrappolò con un timido bacio, l’ultima parola della ballata.

Brandbury si irrigidì, colto di sorpresa da quel gesto così inaspettato, e dopo un primo momento di confusione, rispose al bacio tanto tenero e disperato assieme; avviluppò tra le sue braccia il corpo gracile e tremante di lei e accolse la morbidezza e il sapore dolceamaro di quelle labbra. La fece sussultare iniziando a esplorare con la lingua la sua bocca, all’inizio con cautela e delicatezza, poi con sempre maggiore bramosia, avvinto dal fuoco della passione che quel bacio aveva acceso in entrambi. Le afferrò la nuca e affondò la mano nella folta chioma color del tramonto, trascinandola verso di sé, e lei si lasciò condurre docilmente, soggiogata dalla fiamma che le ruggiva dentro. Celeste prese coraggio e gettò le braccia al collo di lui, aggrappandosi alla sua camicia per cercare di non precipitare in quel baratro di piacevoli sensazioni che l’avevano travolta, invadendola con il loro dolce calore.

Si scostarono per riprendere fiato, e parve che riemergessero da un’altra dimensione distante e irraggiungibile: avevano entrambi il respiro accelerato e le guance imporporate e sorridevano come due ebeti, senza riuscire a trovare qualcosa da dire per riempire il silenzio pesante e denso che era calato tra loro, rotto dai singhiozzi dei ciocchi brucianti.

«Non rimarrò qui per sempre» mormorò alla fine Brand, triste. Non voleva illudere ulteriormente la donna, tutte le bugie che aveva già accumulato gli stringevano il cuore e gli appesantivano l’animo, macchiandolo in maniera nascosta ma indelebile e rendendo sempre più difficile continuare quella messinscena.

«Ma ora sei qui, e nessuno ti impedisce di rimanervi per sempre» sussurrò lei, la voce rotta e tremante.

«Rododendro scalpita per ripartire, rimanere in uno stesso luogo troppo a lungo lo rende nervoso e intrattabile»

«Lascialo partire da solo» lo pregò lei, «Non sei obbligato ad andare anche tu. Io ti amo, Biancospino, e non sopporterei di vederti andare via, mi si spezzerebbe il cuore e porteresti con te uno dei frammenti più grandi»

Brand accarezzò dolcemente il volto della ragazza, innaturalmente bello e perfetto, assimilabile a quello delle statue di marmo, con lo stesso profilo scolpito dalla mano sapiente dell’artista e reso privo di imperfezioni. Sfiorò con le labbra ciascuna delle lentiggini che ricoprivano il naso e le guance di lei, e si fermò con più fervore, dolcezza e amarezza sulla sua fronte alta e bianca.

«Anche io ti amo» confessò e solo quando udì quelle parole lasciare la sua bocca, si accorse della verità racchiusa in esse: l’amava profondamente, ma non come un’amante o una moglie, quanto come una sorella minore da difendere e accudire; proprio per questo non voleva farla soffrire e preferiva troncare sul nascere una relazione che mai avrebbe avuto un futuro. Lui apparteneva ad Actardion, al suo negozio di erborista, ai suoi libri e al suo piccolo orticello di piante medicinali, di cui iniziava a sentire la mancanza e a cui sperava di riuscire a tornare, un giorno. 

Per un momento, prese seriamente in considerazione l’idea di abbandonare tutto e vivere per sempre in quel castello di cristallo, ma non vi era alcuna possibilità: una volta preso lo specchio la Regina avrebbe scoperto l’inganno e il tradimento l’avrebbe spezzata e distrutta più di questo; inoltre Brand non si sentiva pronto a vivere in quell’enorme prigione di cristallo, dove la primavera era un artificio e il tempo trascorreva sempre uguale a sé stesso, rinchiuso tra le stesse mura che a poco a poco avrebbe iniziato ad odiare.

«Io appartengo al mondo» sussurrò alla fanciulla, giocando con i suoi capelli, «E per troppo tempo ho vissuto senza legami veri e senza vincoli, non riuscirei a rimanere qui: mi sentirei incatenato e il mio affetto verrebbe corrotto dal fastidio per le catene, non sarebbe mai un amore pieno e completo, perché aspirerei sempre a quel mondo che ho abbandonato a malincuore.»

Quelle parole avevano reso Celeste triste e cupa, il suo volto si era spento e come tramutato in pietra, fissava sconsolata le loro mani intrecciate, e calde lacrime iniziarono a bagnarle il volto.

«Non piangere» la consolò luì, catturando con il pollice quelle stille salate, gli dispiaceva immensamente farla soffrire, ma preferiva amareggiarla in quel modo piuttosto che in uno più doloroso e turpe, come il tradimento. Continuava ad ingannarla, cercando di salvare sé stesso e l’immagine che lei aveva di lui: aveva scelto di farle credere che l’avrebbe abbandonata, come un cantore volubile, e non che sarebbe fuggito come un subdolo traditore. Così facendo, l’avrebbe preservata da una sofferenza più grande e imperdonabile.

La Regina sospirò e asciugò le guance con il dorso delle mani.

«Mi sto comportando come una bambina» si scusò con un sorriso appena accennato.

«Ti stai comportando come un essere umano» replicò lui rispondendo al sorriso con un altro non meno mesto.

«Posso chiederti un favore?» domandò con voce sommessa la donna, Brand annuì.

«Finché non deciderai di partire, non abbandonarmi. Ho bisogno di te: sei il mio conforto, il mio sostegno e il mio sole, che illumina questa vita altrimenti fredda e spenta. Senza di te sarei perduta. Mi hai trovato nel labirinto tetro della mia esistenza e mi hai condotto fuori, verso un prato fiorito invaso dalla luce del sole, e voglio godere di questo sole e di questo prato finché ne avrò la possibilità, assorbendo tutta l’energia vitale che può donarmi, in modo che rimanga qualche scintilla per quando non ci sarai più.»

«Te lo prometto» rispose lui, guardandola con intensità negli occhi, «E tu promettimi che cercherai di vivere ogni momento in cui rimarrò qui come se fosse l’ultimo.»

Celeste annuì e i due suggellarono il loro patto con un bacio straziante e dolcissimo.

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Capitolo 11
*** XI ***


XI

Stavano passeggiando, come ogni pomeriggio, lungo i viali che si snodavano tra gli alberi in fiore del giardino di Celeste, il suo orgoglio e la sua sfida più grande: un’enorme serra in cui i migliori ingegneri e i migliori botanici erano riusciti a ricreare il clima perennemente mite di Actardion e permettere, così, la crescita delle piante e dei fiori che fiorivano nel regno della sorella; in questo modo aveva trasferito nel cuore dell’inverno, una scheggia di primavera e un piccolo frammento dei luoghi della sua infanzia, da cui si era dovuta allontanare a malincuore, richiamata dai suoi doveri di figlia, principessa e regina.
Si fermarono ai piedi del mandorlo, splendido nella piena esplosione rosata della sua fioritura; era l’albero preferito della donna, e più volte Brand l’aveva sorpresa sotto i suoi rami, intenta a leggere o con lo sguardo perso nelle azzurrità infinite del cielo. Si accoccolarono tra le radici, nel cantuccio che era diventato loro, e la regina iniziò ad accarezzare distrattamente la mano dell’altro, stretta nella sua.

«Mi trovi bella?» domandò improvvisamente, lasciando Brand spiazzato. Il giovane non ebbe nemmeno tempo di pensare ad una replica che la regina continuò, senza attendere risposta: «La bellezza è l’ossessione di mia sorella, farebbe qualsiasi cosa per mantenerla. Ha paura del tempo perché a poco a poco strappa uno stralcio di bellezza e lo brucia, consumandola tutta. Ed è sempre stata gelosa di me, della mia giovinezza e del mio aspetto, sebbene entrambi non siano troppo dissimili dai suoi…»
Brand le sollevò il mento con delicatezza e fissò il suo sguardo in quello di lei: le iridi fiordaliso si erano tramutate in un mare in tempesta, sconvolto da marosi e nuvole grigie, che ne oscuravano la limpidezza.

«Sei preoccupata per tua sorella o per te?» le chiese a bruciapelo.
«Per lei!» rispose subito la donna indignata per una simile domanda, ma sotto lo sguardo indagatore di Brandbury si trovò costretta a ritrattare, «Per entrambe, in realtà. Ho paura che questa follia colpisca anche me e mi renda come lei: ossessionata da qualcosa che non si può controllare, che non si può fermare…Almeno fino ad adesso» mormorò.

«Cosa intendi?» domandò l’altro, incuriosito. La regina si morse le labbra; aveva parlato troppo, trascinata dall’ondata dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri.
«Nulla» provò, ben sapendo quanto fosse inutile e sciocco quel tentativo, ormai quelle parole erano sfuggite dalla sua bocca e non potevano più essere rimangiate.
Lo sguardo intenso e penetrante di Biancospino la perforava e la denudava, rendendola debole e vulnerabile; ma, paradossalmente, si sentiva al sicuro e protetta: poteva fidarsi di lui, confidarsi, non l’avrebbe giudicata.
Strinse la presa sulla mano dell’altro e il suo sguardo si incupì ancora di più.
«Promettimi che non lo dirai a nessuno, nemmeno al tuo amico cantore» mormorò, supplicando Brand con gli occhi, questi promise e la Regina lo condusse lontano dal giardino fino alla sua camera da letto.

Brandbury rimase interdetto, non riuscendo a comprendere le intenzioni della donna, mai l’aveva condotto in quella stanza e sebbene avessero messo le cose in chiaro fin dall’inizio, temeva che a Celeste non bastassero più i suoi baci e pretendesse un altro genere di attenzione, a cui lui non era preparato.
La Regina, però, lo abbandonò sul letto a baldacchino dalle cortine di seta azzurro polvere, e sfiorò la parete di fronte, completamente vuota. Questa girò silenziosamente su sé stessa, rivelando uno specchio quadrangolare circondato da una cornice di volute fiorite rivestite di bronzo dorato; sembrava molto antico e aveva la superficie leggermente ossidata. Non era uno specchio degno di una regina, troppo rovinato e troppo piccolo, riusciva a catturare appena l’intero ovale della donna, e si domandò come un oggetto tanto insignificante fosse tenuto in così gran conto e così segreto, dal momento che era stato celato dietro una parete.
Capì, e dentro di sé esultò di gioia.
«Ora mi crederai pazza» ridacchiò l’altra, «Come molti altri prima di te, del resto…»
«Non mi permetterei mai» le assicurò lui con un sorriso affabile.
«Non importa» continuò lei, «Dopo questa storia inizierai a pensarlo. Non posso biasimarti, sembra incredibile persino a me che ho avuto l’occasione di testarlo in prima persona…»

La Regina si graffiò appena al di sotto dell’occhio e una linea rosseggiante sottile quanto un capello sbocciò sul suo zigomo, Brand rimase sconcertato: perché aveva fatto un simile gesto? Aveva forse davvero perso la ragione? Stava per precipitarsi dalla ragazza ma questa lo fermò.
«Non ti preoccupare, serve per dimostrarti che questo non è uno specchio qualsiasi. Guarda!»
Brand continuava a non capire e guardava confuso Celeste mentre si voltava verso lo specchio.
Bastarono pochi secondi perché il graffio scomparisse completamente, lasciando la sua pelle liscia e perfetta come era sempre stata, senza nemmeno una lacrima di sangue.
«È incredibile!» esclamò Brandbury stupefatto ed entusiasta, «Quello specchio può guarire!»
«Mi dispiace deluderti» lo raffreddò lei, «Ma questo specchio non può guarire, o meglio può far scomparire solo i segni di una ferita, vecchia o nuova che sia, e può nascondere i segni della malattia, ma si limita a far riassorbire le cicatrici e a far rimarginare i graffi, non cura. È capace solo di rendere la pelle priva di qualsiasi bruttura o imperfezione. Questo specchio rende chiunque vi si rifletta più giovane e bello, assorbe il corso degli anni e annulla il tempo, lasciando tutto in uno stato di assoluta ed imperitura perfezione.»

Brand era rimasto senza parole, mai aveva visto un oggetto simile e non credeva che ne esistessero, fino a quel momento.
«Questo specchio apparteneva a nostra madre e lei lo lasciò ad entrambe, ma mia sorella, scoperto il suo potere, se ne appropriò e ne divenne ossessionata. Trascorreva le sue giornate specchiandosi e, con mio sommo orrore, scoprì che lo specchio poteva anche celare le mostruosità date dal vizio e dal peccato. Una sera, la sorpresi mentre contemplava la sua immagine riflessa, ma la donna nello specchio non era lei, non era nemmeno una donna: era una bestialità deforme e ripugnante, un accumulo di tutte le nefandezze che aveva commesso, di tutte le oscenità e le efferatezze che lo specchio aveva assorbito lungo gli anni assieme ai sensi di colpa e alla sofferenza, senza lasciare su di lei alcun segno. A poco a poco si trasformò in un’invasata: lo specchio l’aveva inaridita, assorbendo anche la sua umanità e il suo senno, rendendola folle e violenta, spietata e crudele, non più un essere umano ma un mostro! Lo specchio aveva assorbito la sua anima, lasciandola solo un involucro bellissimo ma completamente vuoto! Dopo quella vista atroce, vedendo lo stato in cui si trovava, decisi di sottrarglielo, convinta che allontanando lo specchio, lei sarebbe guarita dalla sua morbosa dipendenza.»
Brand era rimasto a bocca aperta: non credeva più che fosse una buona idea restituire lo specchio alla Regina Rossa, quell’oggetto l’aveva alterata e deteriorata, trasformandola in una dea: bellissima ma terribile, indifferente verso il resto del mondo e concentrata solo su sé stessa e sulla soddisfazione dei suoi capricci.
«Mi fido di te: so che comprendi la pericolosità che questo specchio cela e so che il tuo animo è tanto puro e tanto buono da non subirne il fascino, ma giurami che non lo dirai a nessuno!» si assicurò la donna, «Se qualcuno, uno qualsiasi, dovesse venire a conoscenza della sua esistenza e del suo potere lo desidererebbe per sé e farebbe di tutto per averlo…Come ho fatto io del resto, sebbene per una buona causa…»
Il giovane capiva: quello specchio rappresentava un’arma capace di ingannare e vincere il tempo, di mutare le apparenze e di rendere reali i più grandi desideri di un uomo: essere bello e giovane per sempre; chiunque l’avrebbe voluto tra le mani e si sarebbe giunti persino ad uccidere per entrarne in possesso.
«Mia sorella si è macchiata di crimini indicibili per poterlo tenere nascosto, e non oso immaginare cosa accadrebbe se altri ne venissero a conoscenza: ci sarebbe il caos!»
Brand non stentava a credere a quello che la donna gli aveva rivelato, non era difficile immaginare uno scenario di guerra come i tanti che gli aveva raccontato Ivory: uomini che avrebbero ucciso altri uomini per entrarne in possesso, spargendo fiumi di sangue e seminando morte e distruzione. Si trucidavano l’un l’altro per molto meno, e quello specchio rappresentava un motivo ben più valido e concreto.

Ma se si trattava di un oggetto tanto pericoloso e ingannevole, perché la Regina non l’aveva distrutto? Era la soluzione migliore e la più semplice, perché si era limitata a sottrarlo all’altra e a nasconderlo?
Quelle domande si affacciarono prepotentemente alla mente di Brand e lo lasciarono perplesso: sarebbe bastato romperlo, ridurlo in mille pezzi e la sua minaccia sarebbe scomparsa. Perché la Regina non ci aveva pensato?
E se l’aveva immaginato, perché non l’aveva attuato? Non desiderava, forse, salvare la sorella dalla sua bramosia? Allora perché non distruggere direttamente l’oggetto verso cui era rivolta? In questo modo avrebbe aiutato l’una e avrebbe scongiurato il pericolo che altri cadessero nello stesso attraente tranello.
Che fosse rimasta anche lei avvinta dal fascino del potere dello specchio?

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Capitolo 12
*** XII ***


XII

Ivory era intenzionato a scoprire come funzionasse lo specchio: sapeva che donava giovinezza e bellezza, ma temeva che la sottraesse ad altri. 
Da quando Brandbury era diventato intimo della regina sembrava essersi ammalato: era diventato pallido e spento, la sua abituale vitalità si era affievolita, e la scintilla che gli accendeva lo sguardo si era estinta. Era preoccupato per l'incolumità del fratello e voleva capire il cambiamento fosse collegato, in qualche modo, allo specchio. Quest'ultimo era un artefatto affascinante e pericoloso, come Brandbury gli aveva spiegato, e non stentava a credere che fosse coinvolto. 
Il fratello gli aveva confessato ogni cosa in gran segreto, con voce tremante e smorzata, rompendo la promessa fatta a Celeste di non farne parola con nessuno; ma l'urgenza e l'apprensione con cui gli aveva sussurrati quella scoperta, non erano dovute all'angoscia per il tradimento, bensì alle proprietà dello specchio stesso. Brandbury credeva che l'oggetto racchiudesse un'aura malvagia e velenifera, capace non solo di rendere chi vi si specchiava dipendente ma anche spingendolo ad azioni spietate per il suo possesso. Il ragazzo, però, non aveva saputo dire quale fosse il meccanismo che sottendeva tale potere.  
L'elfo attraversò i corridoi a passo sostenuto, alla ricerca della camera da letto della regina, dove sapeva essere custodito lo specchio; Brand gli aveva rivelato anche quel particolare, dimostrando come la sua strategia fosse stata meravigliosamente efficace.
Come il fratello, anche lui era diventata una presenza abituale e scontata: nessuno più lo fermava chiedendogli dove fosse diretto o impedendogli l’accesso a determinati locali del palazzo, e arrivò senza alcun ostacolo fino all’ala est, dove si trovava la stanza, sita in modo che la Regina potesse ricevere il tiepido bacio dei primi raggi del sole. Era una zona più spartana, dove le vetrate si limitavano a ricoprire una sola parete, mostrando squarci dell’Ansa dell’Amias e del villaggio di Bucaneve, che sorgeva nei suoi pressi; i soffitti erano stuccati e decorati con motivi floreali e il pavimento era di legno chiaro, così come le porte che si affacciavano sul corridoio. Quella parte non era fatta per sorprendere l’ospite e lasciarlo senza fiato ma era stata concepita come un luogo che donasse pace e serenità, senza alcuna pretesa di affascinarlo e suggestionarlo con arditi giochi di luce.
Un urlo disumano, risuonò improvvisamente per i corridoi silenziosi, non una guardia presidiava quell’ala del palazzo e Ivory fu l’unico ad udirlo. Il sangue gli ghiacciò nelle vene: aveva riconosciuto la voce di Brandbury.
Si precipitò verso il luogo da cui era provenuta e non appena aprì la porta della stanza da letto della regina, rimase pietrificato dalla scena che gli si parò davanti: Brandbury era riverso sul letto, sotto di lui sbocciavano fiori cremisi che insanguinavano le lenzuola, gli occhi e la bocca erano spalancati in un muto grido di sorpresa. Sopra di lui, torreggiava la Regina Bianca, simile all’angelo della morte: la pelle era di un pallore cadaverico e i lunghi capelli rossi simili a fili di sangue strisciavano sull’abito crema, su cui fiorivano gocce amaranto; tra le mani stringeva un lungo spillone, di quelli che si usavano per fermare i cappelli.
La donna si voltò, aveva gli occhi rossi e gonfi e calde lacrime rigavano le guance, sciogliendo il trucco. Aveva un aspetto diverso, non solo per il fatto che fosse sfatto e distrutto, ma pareva più maturo, quasi che in una notte fossero trascorsi dieci anni: il suo viso aveva perso la freschezza e l’innocenza infantile, ed era diventato più simile a quello di una donna che aveva superato l’acerba indecisione delle forme della giovinezza.
«Non volevo» mormorò, guardando inorridita le proprie mani e lo spillone macchiato di sangue, con cui aveva squarciato la gola del ragazzo. 
«Non volevo» ripeté meccanicamente, con voce atona e flebile. Aveva cominciato a tremare vistosamente e lo spillone le cadde dalle dita frementi con un tintinnio cristallino, che risuonò lugubre nel silenzio tombale della stanza.
«Non volevo!» urlò infine, tremando convulsamente, «Ma ho dovuto! Ne avevo bisogno! Lo specchio, lo specchio ne aveva bisogno! E io avevo bisogno dello specchio!»
Ivory temette che avesse perso completamente la ragione e stesse vaneggiando. La vide incespicare verso la parete dove era appeso uno specchio quadrangolare dall’elaborata cornice dorata e la superficie leggermente ossidata; era un oggetto piuttosto squallido e banale, ma pareva avere una grande importanza per la donna.
Non appena vi si specchiò, il suo volto si spianò e ringiovanì: davanti allo sguardo stupefatto dell’altro, la pelle tornò liscia e perfetta, luminosa e serica, le rughe si distesero e le labbra riacquistarono la loro bellezza seducente. Il tempo pareva essersi cristallizzato su quel viso in un attimo di eterna giovinezza e sublime bellezza.
«Una vita in cambio di una vita» sussurrò lugubre con lo sguardo fisso alla superficie riflettente, «è il tributo di sangue che lo specchio richiede, e Biancospino è stato il pagamento.»
Ivory ebbe una fugace visione del riflesso della donna e ciò che vide lo lasciò senza parole: l’immagine che lo specchio restituiva era quella di un mostro in cui il tempo impietoso aveva scavato la pelle e la carne, mentre il vizio, il peccato e le azioni truculente e imperdonabili avevano corrotto e consunto il volto rendendolo irriconoscibile, e riducendolo ad un ammasso di carne putrida, purulenta, molle e crepata di rughe, pregna di sangue. Tutte le brutture dell’animo della Regina erano imprigionate in quel riflesso, e di lei si aveva solo l’ingannevole immagine dolce, gentile e innocente. Quella visione disgustosa continuava ad alternarsi in un macabro gioco di maschere e volti con il riflesso del volto perfetto della regina, lasciando l’elfo paralizzato dall’orrore e dalla meraviglia.
«Fui io a scoprire il segreto dello specchio» iniziò la donna, «e feci l’errore- il madornale errore- di rivelarlo a mia sorella. Glielo mostrai, perché mi credesse e non mi considerasse una pazza come credevano tutti: davanti ai suoi occhi ringiovanii di due anni, lasciandola senza parole e senza fiato. Avevo scoperto il segreto per l’eterna giovinezza e una bellezza imperitura! Da allora lo specchio divenne per lei un’ossessione: aveva paura del tempo, che corre senza chiedere, che passa e ti investe, lasciandoti a terra sanguinante, senza rimorsi né sensi di colpa, che va sempre avanti passa oltre e sparisce. Le faceva paura la vita, così irraggiungibile, piena, incontrollabile, e la morte che ne sarebbe seguita con il disfacimento della bellezza che avrebbe portato con sé. Guardava con orrore i giorni che trascorrevano inesorabili e che portavano via un frammento della sua avvenenza. A poco a poco si sarebbe ridotta ad un cumulo di rughe e pelle cadente e quella visione la terrorizzava» la donna riprese fiato, cercando di controllare il tremore delle mani e della voce, «Fu lei, però, a scoprire il tributo di sangue, e con esso il segreto per la vita eterna: lo specchio non si limita a concedere giovinezza e splendore, annullando il trascorrere dei giorni e degli anni, ma assorbe la linfa vitale di chi viene ucciso davanti a lui e la restituisce a chi vi si specchia. Fu così che iniziò la spirale di sangue che avvolse mia sorella: la sua prima vittima fu nostra madre, e da allora il terrore per la vecchiaia, e con essa della morte, la trascinò in un vortice di perdizione e omicidi. Lei, però, rimaneva sempre pura e bellissima, il suo riflesso a nascondere le sue malvagità.
Io fuggii, terrorizzata da quello che mi sorella era diventata, e mi ritirai in questi luoghi impervi e inospitali, ma candidi e intonsi. L’incubo della vecchiaia e della morte, però, raggiunse anche me, e con essa, la smania per lo specchio e il desiderio irrefrenabile di specchiarmi, anche solo per un momento, anche solo per riprendermi due anni di vita e rubarli al passato e alla morte. Periodicamente tornavo da mia sorella e ne approfittavo per usufruire del potere dello specchio. Con il passare del tempo, però, l’effetto iniziò a svanire più in fretta e le mie visite si fecero più frequenti e ravvicinate. Mia sorella cominciò a sospettare che non fossero dettate solo dall’affetto fraterno e dalla nostalgia, l’assillo l’aveva inasprita e inaridita, bruciandole ogni sentimento e rendendola fredda, spietata e crudele, ma nel contempo aveva acuito la sua attenzione, quasi fino alla paranoia; era gelosa del suo tesoro e l’ossessione per esso l’aveva quasi spinta sull’orlo della follia.» la regina sfiorò la cornice, e qualche lacrima di sangue rimase impigliata tra gli intricati arabeschi di bronzo dorato, «Le ho sottratto lo specchio, dicendo a me stessa che era per il suo bene, che l’avrei salvata…Ma la verità è che lo volevo tutto per me, soprattutto ora che il suo effetto ha iniziato a svanire rapidamente. Credevo che sarei stata capace di resistere al suo potere, che avrei potuto farne a meno. Avevo negli occhi ancora l’immagine agghiacciante di mia sorella. Ma il terrore della morte era più forte e ha preso il sopravvento, trascinandomi nel mio incubo peggiore»
Ivory era rimasto immobile, troppo sconvolto e incredulo anche solo per pensare: non poteva credere che Brand fosse morto, la sua mente si rifiutava di concepire un simile pensiero, e lo rigettava con disgusto e orrore; era troppo assurda e inaspettata, inconcepibile. Il suo sguardo non riusciva a staccarsi dagli occhi vitrei del ragazzo, puntati verso il soffitto a cassettoni. Le rivelazioni della donna gli sembravano folli, i vaneggiamenti di una mente malata e questo serviva a rendere l’assassinio di Brand più insopportabile. La regina seguì il suo sguardo e scivolò verso il ragazzo, prese ad accarezzarlo dolcemente, sfiorando le guance fredde e le labbra sottili, a cui tante volte aveva strappato un bacio.
«Non toccarlo!» sibilò l’elfo, minaccioso, la mano che scattò automaticamente verso l’elsa di una spada inesistente. Dovendosi fingere un cantore aveva lasciato le sue armi nel baule della sua stanza, sotto chiave.
La regina lo ignorò, «Non mi crederesti se ti dicessi che lo amavo» le sue dita iniziarono a giocare con i capelli biondi dell’altro, sporchi di sangue, «Eppure è così: era l’unico che riuscisse ad andare oltre il mio bel viso e a vedere che cosa fossi veramente.»
«Una strega psicopatica e omicida?» sputò con vemenza Ivory, fremente di rabbia. L’immobilità data dalla sorpresa e dal dolore si era trasformata in una furia cieca che ribolliva e schiumava come la cascata dell’Amias: avrebbe ucciso quella bestia disumana e vendicato la morte dell’amato fratello.
La regina non parve averlo udito, o lo ignorò deliberatamente, e con una delicatezza e una dolcezza sorprendenti abbassò le palpebre del ragazzo.
«Non volevo ucciderlo, ma l’ho sorpreso mentre cercava di distruggere lo specchio. L’ho fermato in tempo, prima che la mia fonte di vita eterna venisse frantumata» la lama sottile e affilata di uno stiletto spuntò tra le dita ingioiellate della donna, «Conosceva troppe cose, ho fatto l’errore di rivelargli troppi segreti. Non ho pensato che questo potesse rivoltarsi contro di me» la donna si rigirava l’arma tra le dita. Ivory stava cercando febbrilmente qualcosa per contrastarla, ma lo spillone era rotolato troppo lontano da lui e non aveva con sé nemmeno una lama.
«Purtroppo lo stesso vale per te: mi spiace doverti uccidere, ma sei a conoscenza di troppe informazioni e non posso permettermi che vengano diffuse. Spero tu possa capir e e perdonarmi.»
La regina si slanciò verso Ivory, ma l’elfo aveva anni di addestramento e campi di battaglia alle spalle, e schivò con facilità il fendente della donna, le afferrò il polso e volando alle sue spalle le torse il braccio, costringendola a mollare la presa. Qualsiasi tentativo di gridare e chiamare aiuto venne prontamente soffocato dalla mano dell’altro premuta contro la sua bocca.
La regina cercò di divincolarsi, ma la presa del guerriero era ferrea e stretta, come una morsa. Celeste, allora, fece scattare la testa all’indietro e colpì il volto dell’altro con tutta la forza che aveva. Ivory fu costretto a liberarla, stordito dal colpo. Sangue dorato, caldo e vischioso gocciolava dal setto rotto.
«Sei un mostro!» sibilò.
«I miei crimini sono uguali ai tuoi: quante persone innocenti hai ucciso, quando volte hai peccato di lussuria, di invidia o di ingordigia? Non sei esente da desideri di denaro e di potere più di quanto lo sia io, e la brama ti ha portato a uccidere, rubare o ingannare. Non sei migliore di me!»
La regina scattò verso il pugnale caduto a terra e lo lanciò verso l’elfo, che lo schivò con agilità. La lama andò a conficcarsi nella parete, lacerando la carta da parati; la donna si gettò su Ivory con le ultime armi che le rimanevano a disposizione: le unghie e le mani.
Caddero entrambi a terra e Celeste avvolse le lunghe dita curate sulla gola dell’altro, togliendogli il fiato: Ivory boccheggiò in cerca d’aria e cercò di allontanare la donna, seduta a cavalcioni sul suo petto. Afferrò i polsi della donna, cercando di allentare la presa, i suoi polmoni iniziarono a bruciare per la mancanza d’aria.
Con uno sforzo sovraumano, riuscì a strappare quegli artigli lontano dal suo collo e a scaraventare la donna lontano da lui, contro il tavolo da toeletta. Lo specchio che lo sovrastava andò in frantumi.

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Capitolo 13
*** XIII ***


XIII

Una pioggia di frammenti di vetro investì Celeste, e la donna temette che lo specchio si fosse rotto. Fortunatamente, questo era rimasto illeso e le restituiva lo sguardo acceso di ira e di sete di sangue dell’elfo albino: i suoi occhi dorati brillavano come quelli di una belva ferita e le labbra erano distorte in un ghigno famelico: voleva vendetta e non si sarebbe ritenuto soddisfatto fino a quando non avesse saziato la sua brama.
Con un solo movimento estrasse il pugnale dalle assi della parete, mentre la regina recuperò lo spillone: era in evidente svantaggio; ma come aveva ucciso il ragazzo, poteva uccidere anche lui, sebbene si fosse rivelato un combattete abile ed esperto. Probabilmente, si trattava di un mercenario o di un criminale che aveva offerto la propria spada per avere salva la vita; il colore della sua pelle non gli avrebbe permesso di avere un lavoro più onesto o meglio retribuito.
Chiunque fosse, però, non era da sottovalutare, e la regina avrebbe dovuto giocare d’astuzia.
Con uno scatto si rimise in piedi, decisa a recidere la gola di quel ficcanaso dagli occhi d’ambra. In quel momento, la stava studiando con attenzione, carpendo ogni suo movimento e analizzando ogni sua mossa.
Celeste si fiondò sull’avversario, lo spillone puntato alla giugulare dell’altro, ma all’ultimo fece una finta, sorprendendolo, e regalandogli una lacrima dorata, che gli accarezzò lo zigomo candido.
Ivory, però, si riprese immediatamente dallo stupore, maledicendosi per aver sottovalutato quella donna: l’aspetto di ragazzina innocente l’aveva destabilizzato e tratto in inganno, impedendogli di colpire come avrebbe voluto: non era convinto di voler fare del male a quella creatura delicata e celestiale.
Ma la creatura tanto angelica non demorse e provò un nuovo attacco, spinta dalla disperazione di eliminare quello scomodo testimone. Questa volta, Ivory non si lasciò ingannare, schivò il colpo e con un’abile contromossa disarmò la donna e la spinse contro la parete su cui era appeso lo specchio. Il fiato di lei si condensò in una nuvola di vapore che andò ad appannare la superficie lucida. In uno scherzo grottesco, lo specchio restituì il suo profilo abominevole e veritiero, che andò a fondersi con l’altro, quasi lo specchio volesse mostrare le due nature della donna: quella ingannevole, bellissima e ingenua, e quella reale, spietata e incattivita dal desiderio. La regina provò a divincolarsi, dibattendosi furiosamente e provò a colpire Ivory, ma l’elfo aveva imparato dai propri errori e si teneva a distanza dalla testa scalpitante della donna e dalle sue unghie. Le mise una mano sulla bocca, impedendole di chiamare le guardie e soccorrerla e cercò di ignorare i denti di lei che cercavano di scavarsi una via per la libertà.
Senza alcun rimpianto né esitazione, Ivory trafisse la Regina al fianco, immergendo il pugnale fino all’elsa nelle sue carni; viscido sangue cremisi colò lungo il manico, e imbevve le dita e la camicia. L’elfo ruotò il pugnale e sangue schizzò sul suo volto e sullo specchio, che catturò l’espressione distorta dalla sorpresa e dal dolore della donna.
Lasciò la presa, e il corpo della regina si accasciò a terra, lasciando una scia di sangue sulla carta da parati; la bocca, lasciata finalmente libera, emise un gemito di dolore sommesso, che si spense quasi subito, assieme all’ultima scintilla di vita, prontamente catturata dallo specchio.
«Una vita in cambio di una vita» commentò lapidario.
Ivory sollevò lo sguardo e incrociò quello della sua immagine riflessa, sebbene non fosse propriamente lui: gli anni di guerre, fatiche e privazioni erano scivolati via lasciando al loro posto pelle liscia e serica, priva delle cicatrici e delle rughe; il suo naso era stato sistemato e il taglio provocato dallo spillone si era rimarginato senza lasciare nemmeno una cicatrice, non una goccia di sangue sporcava il suo volto. Era diventato più giovane e più bello, e per un attimo Ivory accarezzò l’idea di approfittare di quel potere e recuperare un paio di anni. La tentazione era seducente e la possibilità di attuarla così vicina e allettante: sarebbe bastato continuare a specchiarsi e lo specchio avrebbe fatto da sé.
L’elfo sollevò una mano e accarezzò lentamente l’immagine riflessa, spostando poi le dita verso il suo viso e percorrendolo tutto come se fosse la prima volta che lo toccasse e lo vedesse: con sua somma sorpresa, aveva perso ogni forma di imperfezione e di bruttura, la pelle era morbida e setosa, il naso aveva smesso di sanguinare e i lividi e i graffi provocati dalla lotta erano scomparsi, i segni dei duri allenamenti erano svaniti, perfino i calli alle dita e le cicatrici che correvano sulla schiena e sul petto si erano volatilizzati; era diventato perfetto e puro, quasi che né il tempo né la fatica lo avessero sfiorato. Assaporò quell’assaggio di eternità, e se lo godette fino all’ultima goccia.
La sensazione di invincibilità e di onnipotenza che quello specchio donava era incredibile.
Il tempo era stato, da sempre, il più grande terrore dell’uomo, troppo lento e troppo debole, per uscire indenne da questo incontro di forze impari; ma Ivory disponeva di un’arma che avrebbe potuto vincere lo scontro e donargli vita eterna ed eterna giovinezza: grazie a quello specchio avrebbe potuto ingannare la morte e vincerla, sottraendosi per sempre al suo sguardo.
Dietro il suo splendido volto Ivory, scorse il corpo senza vita di Brand: la Morte era legata indissolubilmente allo specchio, era intrecciata strettamente agli arabeschi della cornice e intessuta nella superficie riflettente. Solo con la morte ci sarebbe stata la possibilità di ricevere la vita, rubando il tempo di un altro per concederlo a se stessi, appropriandosi indebitamente di anni di vita per poter vivere un giorno in più.
Il richiamo della vita immortale era seducente e attraente come quello delle sirene, e come esso, nascondeva dietro la melodia armoniosa e le promesse attraenti, gli scogli e i cumuli di ossa spolpati; era un richiamo che puzzava di morte, pericoloso non perché letale, ma perché lusinghiero e ingannevole.
Ivory a fatica riusciva a discostarsi dal pensiero di poter vivere per sempre, di poter fare tutto quello che desiderava e spadroneggiare su quelle terre ormai prive di governo e di una guida, di poter commettere le più turpi nefandezze e di rimanere sempre puro e bello, senza che i sensi di colpa, le preoccupazioni e la miseria lo sfiorassero con le loro dita scheletriche, lasciando i loro indelebili marchi. Lo specchio rappresentava tutti i peccati e i desideri che non aveva mai avuto il coraggio di commettere,
ma che ora si palesavano vicini e raggiungibili; quasi poteva toccarli e palparli e saggiarne la consistenza: avrebbe potuto avere oro a profusione, donne in abbondanza, domini e terre da governare e sfruttare, avrebbe potuto appagare i suoi desideri più vili, più reconditi e più sordidi. Sarebbe stato il più ricco e il più vezzeggiato, si sarebbero inchinati al suo cospetto e nessuno avrebbe più osato insultarlo o deriderlo per il suo aspetto; avrebbero avuto paura di lui e l’avrebbero rispettato, non avrebbero mai osato mettersi contro di lui, bellissimo e perfetto, capace di vincere il tempo e di ingannare la morte. Sarebbe stato onnipotente e immortale, come un dio, e come tale sarebbe stato idolatrato e venerato, temuto e amato.
A fatica riuscì a distogliere lo sguardo da quelle visioni e a posarlo sul cadavere del fratello. Tutto quello sfarzo e quella potenza richiedevano un prezzo e lo specchio era molto esigente: per poter vivere eternamente si era costretti a provocare una strage, a circondarsi di morti e potenziali vittime sacrificali. Le relazioni umane sarebbero state sacrificate in nome dell’immortalità, e proprio come un dio, si sarebbe diventati soli e lontani, circondati da esseri troppo abietti e troppo deboli per meritarsi di sopravvivere.
Lo specchio aveva reso folle la Regina Rossa, costringendola a uccidere la propria madre, e aveva sviato la Regina Bianca, obbligandola, crudelmente ad assassinare l’uomo che amava, lasciandole sole nei loro deliri.
Con orrore, Ivory, si rese conto che lo specchio agiva solo in funzione di sé stesso, per soddisfare la sua insaziabile fame di sangue e di morte, e affascinava l’indole avida e suscettibile dei mortali con la promessa di poter sconfiggere la loro più grande paura: la caducità della vita.
Era uno strumento che mai sarebbe dovuto esistere: nessuna creatura sarebbe stata in grado di resistere ad una tale possibilità, così allettante, così desiderata, così vicina e fattibile. Per quanto gli costasse fatica ammetterlo, Ivory comprese che la soluzione migliore sarebbe stata distruggerlo. Un potere troppo grande e troppo incontrollabile era racchiuso in esso: il più grande desiderio di un uomo era incarnato in un riflesso, che secondo una macabra e perversa legge del contrappasso, invecchiava e si abbruttiva al posto dell’originale, scambiando i volti della realtà e della menzogna, e fondendoli fino a confonderli.
Lentamente alzò il braccio, la mano che reggeva il pugnale tremava e calde lacrime iniziarono a scorrergli lungo le guance: non piangeva per Brandbury, non piangeva per la regina e nemmeno per tutte le persone che dovevano essere morte a causa dello specchio; piangeva per sé stesso, perché rompendo quello specchio sarebbe tornato ad essere il mercenario albino coperto di cicatrici- visibili e nascoste- che era un tempo, umiliato ed escluso per il suo aspetto, a cui erano state precluse tutte le possibilità a causa del colore della sua pelle. Se avesse rotto lo specchio, non avrebbe più avuto l’occasione di diventare quello che aveva sempre desiderato essere, avrebbe frantumato una vita di agi e di onore, in cui sarebbe stato guardato con rispetto e ammirazione e non con disgusto o scherno; avrebbe reso vano persino quel viaggio tanto lungo e faticoso, lasciando volare via la sua possibilità di diventare ricco. Ma se avesse riportato lo specchio alla Regina, quello avrebbe continuato a richiedere vittime e la donna a procurargliele.
Un singhiozzo vergognoso uscì dalle labbra spaccate, gli sembrava meschino piangere, ma non poteva farne a meno: distruggendo quello specchio avrebbe infranto i suoi sogni, ma non rompendolo avrebbe distrutto sé stesso.
Era disposto a pagare un prezzo così alto, un tributo di sangue per un capriccio e un desiderio egoistici?
La Regina Rossa e la Regina Bianca lo erano state ed erano diventate l’ombra di loro stesse, ossessionate dal trascorrere del tempo e dal bisogno di un giorno in più, da vivere nell’ansia costante di guadagnarsi quello dopo, annullando la propria vita per poterla prolungare. Ivory non era disposto ad un tale sacrificio, non se significava doversi trasformare in un mostro e perdere coloro che amava.
Gettò un lungo sguardo a Brand, quell’amatissimo fratello che non aveva mai avuto l’opportunità di ringraziare per il sostegno e il conforto silenziosi che gli aveva sempre offerto, per la sua disponibilità e il suo amore incondizionato che andava oltre la sua pelle innaturalmente bianca, e gli diede l’ultimo saluto.
Si abbandonò contro la parete, ricercando il suo sostegno e il suo supporto: non aveva la forza e la volontà per compiere un simile atto; si morse le labbra, cercando di trattenere l’urlo disumano di dolore e disperazione che si arrampicava lungo la gola, lacerandola.
Con uno sforzo sovraumano, affondò la lama, lo specchio si crepò e si infranse in mille pezzi.


Ringraziamenti:

È la prima volta che scrivo dei ringraziamenti al termine di una mia storia, ma in questo caso sono doverosi.
Ringrazio innanzitutto Chiara, la prima lettrice ed estmatrice di questa storia (nonché l'artista mirabile della sua copertina), che mi ha supportato e sostenuto in ogni fase della stesura, sopportando pazientemente i miei deliri, i miei dubbi e le mie idee e che è stata tanto gentile da leggere e sistemare lo scritto, perfezionandolo e limandolo.

Ringrazio sentitamente anche Nirvana e Morgengabe che mi hanno seguita e sostenuta in queta avventura, leggendo e commentando OGNI capitolo, facendomi percepire la loro presenza e il loro supporto. È un piacere scrivere per persone del genere, entusiaste, presenti e gentilissime.
Vi sono profondamente grata, per aver investito il vostro tempo nel leggere e recensire questa storia.

Ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite o le preferite (Elgul, GothicGaia, TotalEclipseOfHeart e Sophia99) e tutti i lettori silenziosi che hanno seguito questa storia nell'ombra.

Grazie di cuore a tutti



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