L'Elefante in Salotto

di _NimRod_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sesto - Parte prima ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sesto - Parte Seconda ***
Capitolo 9: *** Capitolo Sesto - Parte Terza ***
Capitolo 10: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 12: *** Capitolo Nono ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Prologo

 

Ottocentomila gradi.

Un forno crematorio per viventi.

Frugò sotto la sciarpa di lana nel tentativo disperato di individuare la piccola linguetta metallica della zip: appena la trovò, la strinse tra l’indice e il pollice e la fece scorrere velocemente verso il basso, aprendo il proprio parka verde militare. La t-shirt sotto la felpa era già umida di sudore e la giornata era solo all’inizio.

Non cambiò assolutamente nulla, il caldo era ancora soffocante.

In piedi nello stretto corridoio centrale del treno, il ragazzo guardò il sedile accanto a sé. La tizia con il taglio alla Semola e gli anfibi si esaminava le unghie smaltate di rosso scuro. Era quasi certo ci fosse un girone speciale dell’Inferno riservato unicamente a coloro che nell’ora di punta occupavano la seduta di fianco alla propria con giacca e borsa, costretti per l’eternità a rimanere scalzi, in piedi su braci ardenti, impossibilitati a sedersi per via delle giacche e delle borse inamovibili che ricoprivano ogni superficie rialzata del girone. Aveva un quarto d’ora scarso di treno davanti, era mattina presto e si moriva di caldo: non aveva per niente voglia di mettersi a sindacare e probabilmente dover discutere per uno stupido sedile per una questione di principio.

Sospirò rassegnato e scrutò fuori dal finestrino.

Campi e nebbia, cielo grigio e qualche casa di campagna di tanto in tanto. Nulla che potesse sollevargli il morale nella Pianura Padana autunnale. Si infilò la mano nella tasca del parka facendo attenzione a non urtare con il gomito la signora in piedi incolonnata accanto a lui ed estrasse il cellulare. Nella chat di gruppo degli amici con i quali si trovava una sera a settimana per giocare a Pathfinder stavano come ogni mattina fioccando le immagini politicamente scorrette che lui stesso, spesse volte contro la propria volontà, trovava esilaranti. Aveva un debole per il black humour.

Il treno si fermò in stazione. Altro girone per l’Inferno per coloro che si piazzano davanti alla porta del treno e fissano quelli che stanno tentando di scendere senza spostarsi per lasciarli passare. Non aveva ancora pensato a un contrappasso adatto per loro.

Una ventina di minuti di autobus e arrivò al Dipartimento. Il ragazzo costeggiò il giardinetto del piccolo cortile interno e si avvicinò a Luca, che come quasi ogni mattina stava fumando accanto alla porta in legno con il maniglione a spinta che portava alla stanza con le macchinette. Si salutarono con un cenno del mento e anche Valerio si accese una sigaretta, la terza della giornata ma la prima che potesse godersi fino in fondo: entrambe le precedenti erano state buttate a metà per l’arrivo prima del treno e poi dell’autobus.

Luca aveva ancora gli occhi arrossati per via dell’aria fredda presa in pieno volto durante pedalata lunga il paio di chilometri che separava la sua casa dal Dipartimento: la mattina, per andare a lezione, impiegava dieci minuti contro i quarantacinque di Valerio. Eppure riusciva spesso ad arrivare in ritardo.

“Hai già preso il caffè?” chiese Valerio picchiettando la sigaretta con l’indice per fare cadere la cenere a terra.

“Aspettavo te.”

“Oggi sta a me offrire. Giò è già dalle macchinette?”

“Ovvio, ci sta provando con la tipa del terzo”, rispose Luca sottintendendo terzo anno. Valerio scosse la testa con un sorriso. Giovanni era lo stereotipo vivente dello studente fuorisede meridionale che ci provava con tutte. A Valerio era simpatico mentre Luca, l’Avatar del Cinismo, lo tollerava solo a piccole dosi. Non che Giò fosse particolarmente bello, ma l’occhio azzurro e la parlantina spigliata gli davano qualche bonus aggiuntivo.

Luca spense la sigaretta nel posacenere accanto alla porta e Valerio fece gli ultimi tiri, buttandola anche lui sulla griglia metallica apposita.

Nel piccolo spazio adibito a zona ristoro il leggero brusio del chiacchiericcio di una quindicina di universitari assonnati faceva da sottofondo: solo la voce di Giovanni, dall’inconfondibile accento, svettava sopra il mormorio. La sua preda dell’ultimo anno era senza dubbio una bellissima ragazza, alta, snella, mora: stava perfino trovando divertente un aneddoto che riguardava il cane di Giovanni e la sua sorellina minore, ridendo mentre mescolava il caffè con il bastoncino di plastica. Era ammirevole come Giovanni si riferisse sempre e comunque al proprio luogo di origine con la denominazione giù da me in Terronia.

“Ciao, Vale!” gli sorrise Giò appena lo vide, interrompendo per un istante il proprio racconto e sistemandosi le frange della sciarpa nello scollo del cappotto.

“Ciao, Giò. Ci sei da Grisendi o tiri di nuovo il pacco?” Valerio si avvicinò alla macchinetta e inserì una moneta da un Euro nella fessura.

“Ci sono, ci sono. Tenetemi il posto.”

“Ci starà pensando l’altro Vale”, disse Valerio spostandosi di lato per permettere a Luca di selezionare le preferenze per il proprio caffè. La macchinetta iniziò a fare i soliti rumori inquietanti e dopo il bip che indicava che la bevanda era pronta, Luca sollevò lo sportellino di plastica trasparente e prelevò il bicchierino.

Loro tre insieme a due altri ragazzi avevano formato un bel gruppetto affiatato fin dai primi giorni di lezione: al Dipartimento di Lingue la controparte femminile era in stragrande superiorità numerica e l’aggregamento tra maschi era stato inevitabile e naturale. Il Dipartimento era distaccato sia dalla sede centrale di Lettere e Filosofia della quale faceva parte, sia dal Campus dove erano raggruppate le Facoltà scientifiche. Loro di Lingue erano un po’ dei secessionisti, isolati in quello che non si era ancora capito se un tempo fosse stato un vecchio convento oppure un deposito per carrozze: la struttura era rettangolare e seguiva il perimetro del cortile interno provvisto di giardino e panchine. Gli studenti erano davvero pochi, loro del primo anno raggiungevano la sessantina scarsa: per qualche incomprensibile motivo avevano comunque dovuto sostenere la prova di ingresso, i posti disponibili erano ottanta e avevano dunque avuto la certezza matematica di essere tutti ammessi. Nonostante la totale inutilità della faccenda, Valerio aveva avuto la soddisfazione personale di arrivare ottavo nella graduatoria del punteggio.

Il caffè era gramo come al solito, ma era indispensabile per riuscire a seguire la soporifera ora e quarantacinque di lezione di Grisendi. Valerio buttò il bicchierino vuoto nel bidone ed estrasse il cellulare dalla tasca della giacca, premendo il pulsante laterale per visualizzare l’orario.

“Andiamo in aula?”

Luca annuì e si diressero entrambi lungo lo stretto corridoio che portava all’Aula Magna, che con tutta probabilità aveva la dimensioni di un’aula normale in una Facoltà di dimensioni standard. Si sedettero nella fila poco più indietro di quella a metà distanza dalla cattedra, per poter avere un margine di cazzeggio ma non essere etichettati come fancazzisti totali. Stranamente non c’era traccia di Tino che di solito si piazzava in aula da solo e restava con il capo chino sul proprio Kindle finché qualcuno non si sedeva accanto a lui. Luca tolse la propria borsa dalla sedia non appena Paolo fece capolino dalla porta dell’aula e gli lasciò il posto.

“Tutto bene?” chiese sfilandosi il chiodo e mettendo in mostra la linguaccia dei Rolling Stones impressa sulla felpa nera. Luca si strinse nelle spalle e Valerio rispose affermativamente. Paolo si sfilò anche lo scaldacollo nero e si legò i capelli biondi e ricci in una mezza coda – mezzo chignon. Giò arrivò scivolando elegantemente in aula, stretto nel proprio cappotto blu scuro e si sedette accanto a Paolo, dandogli una pacca sulla spalla.

Tutti gli studenti si erano ormai seduti e di Tino non c’era ancora traccia. Valerio continuava a tenere occupata la sedia accanto alla propria con il parka. Il posto alla sua destra era stato di Valentino fin dall’inizio, sul ripiano c’era ancora la caricatura straordinariamente somigliante a Grisendi che aveva fatto il primo giorno e per la quale avevano riso di nascosto per tutta la lezione. Se il prof di linguistica non fosse stato così tanto simile a un bradipo e se Tino non fosse stato così scemo, con tutta probabilità Valerio non gli avrebbe rivolto la parola. Meglio di così non sarebbe potuta andare, dato che Tino era quello che gli stava più simpatico di tutto il loro piccolo gruppo. Era anche l’unico che non viveva in città e finite le lezioni prendeva il bus insieme a Valerio per ritornare in stazione, benché poi prendessero treni con direzione opposta. Tuttavia al mattino Valentino era il primo di loro ad arrivare in Dipartimento, costretto a prendere un treno che partiva prestissimo per non arrivare in ritardo.

Valerio prese il proprio cellulare e non avendo ancora avuto il coraggio di chiedere a Tino il numero di cellulare, aprì la chat privata di Facebook e scrisse un messaggio indirizzato a Valentino.

Ciao Tino oggi non vieni?

La scritta in cima alla chat vuota segnalava che era online. I tre puntini nella nuvoletta indicavano che stava digitando una risposta. All’improvviso sparirono, poi più nulla.
 


NdA

Ho voluto provare a buttare giù qualcosa che avevo in mente da qualche tempo: un qualcosa che fosse in contesto italiano, come stile dei dialoghi e ambientazione. Una sorta di "esercizio di stile" per mettermi alla prova. E voglio vedere come riuscirò a gestire certe tematiche essendo inserita nel contesto culturale di riferimento.
Un bel cambiamento, per me. Moltissimi dettagli in questo breve capitolo di presentazione sono fortemente autobiografici, quindi non sono inseriti con intenti offensivi, tutt'altro. Avendole vissute sulla mia pelle e attraverso i miei occhi, in situazioni amichevoli trovo sia anche piacevole scherzare su certi luoghi comuni.
Spero che la similitudine tra i nomi Valerio e Valentino non sia motivo di confusione, perché è a tutti gli effetti una somiglianza voluta.
Questo è un piccolo antipasto.

A presto!

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


 

 CAPITOLO PRIMO



 

 

“Titti, non va.”

Valentino aprì gli occhi di scatto. La sua sorellina era in piedi accanto al letto con aria imbronciata e stava premendo ripetutamente il dito indice sullo schermo del cellulare del fratello.

Le prese delicatamente il dispositivo dalle piccole mani e sospirò strofinandosi l’occhio destro con la mano libera: “Devi schiacciare il tasto qui di fianco, te l’ho spiegato.”

“Ma l’ho fatto!”

Premette il pulsante laterale un paio di volte e lo schermò continuò a rimanere nero. Il cavo del caricabatterie era staccato dal cellulare, le aveva raccomandato di non toglierlo se lo trovava collegato e voleva giocare, e Ilaria era sempre ubbidiente. Guardò sua sorella, già vestita e con i capelli biondi raccolti in una perfetta coda di cavallo alta. Di solito quando lui usciva per andare in stazione la bambina dormiva ancora.

“Merda!” esclamò scalciando via il piumone e catapultandosi fuori dal letto, cercando di non travolgere la sorellina che si era messa a ridere a crepapelle per la parolaccia appena sentita. Si mise a correre per l’appartamento in cerca della madre: l’orologio della cucina segnava le 07:46. La trovò davanti all’ingresso, intenta a infilarsi gli stivaletti neri.

“La sveglia non ha suonato, ho perso il treno”, disse Valentino con sguardo stralunato. “Perché non mi hai svegliato?”

“Non ricordo ancora quando hai lezione presto, Titti”, rispose sua madre con tono dolce ma con un’ombra di senso di colpa nello sguardo. “Scusami.”

Valentino si grattò la fronte cercando di riorganizzare i pensieri che gli si affastellavano nella mente senza ordine.

“Se porto io la Yaya a scuola, posso usare la macchina?”

“E chi la va a prendere tua sorella oggi pomeriggio?”

L’abitare nel buco del sedere dell’Universo aveva l’effetto collaterale di doversi spostare di almeno dieci chilometri per scorgere la prima struttura scolastica disponibile. La madre lavorava alla pro-loco del paesino, quindi non aveva problemi a muoversi a piedi. La Yaya aveva però bisogno di essere portata e venuta a prendere in macchina.

“La nonna?” rispose Valentino titubante.

La donna esibì un sorriso forzato che la fece sembrare molto più vecchia della sua età, mettendo in mostra delle rughe che nei suoi sorrisi sinceri quasi non si vedevano. Sua madre detestava chiedere favori alla suocera.

“Non puoi chiedere un passaggio a Michele? Non va anche lui all’Università lì?”

“Fa Ingegneria, è da un’altra parte completamente. E poi...” Valentino esitò, cercando di trovare le parole adatte. “Eviterei volentieri, ad essere sinceri.”

Era già abbastanza seccante averlo come vicino di casa, quel rincoglionito. Avevano passato la notte su Whatsapp a rivangare e rinfacciarsi qualsiasi stronzata di un passato recente e non ancora del tutto sepolto. Si erano lasciati di comune accordo per disperazione a causa dei troppi litigi che, anche se non stavano più insieme, non accennavano a diminuire, benché avvenissero esclusivamente per via telematica e non più faccia a faccia. Ogni pretesto era buono, quasi si provocassero apposta pur di mantenere i contatti. Si conoscevano fin da quando erano bambini, erano diventati migliori amici da adolescenti ma avevano deciso di formalizzare la relazione solo due anni prima. Con il senno di poi non era stata la migliore delle idee, conoscersi alla perfezione rendeva complicato un rapporto sentimentale. Non c’era nulla di nuovo da scoprire nell’altra persona, bisognava solo farsi andare bene i lati del carattere piacevoli o comunque gestibili nell’ambito dell’amicizia ma insopportabili in una relazione. Un po’ come l’abitudine di Michele di rispondere ai messaggi dopo ore, di cambiare programma all’improvviso, di scordarsi gli impegni presi, di essere totalmente incapace di organizzarsi, di essere così estroverso con chiunque, di non filtrare quello che gli passava per la testa e gli usciva dalla bocca, di essere un menefreghista compulsivo… Per molti aspetti, Michele era identico al padre di Valentino. Versione edulcorata, beninteso: per quanto fosse scemo, almeno non era uno stronzo.

Con tutta probabilità si era scordato di mettere in carica il cellulare dopo averlo sbattuto sul comodino a faccia in giù in preda all’incazzatura. Valentino avrebbe voluto studiare giapponese, ma aveva rinunciato alle Università di Bologna, di Milano e di Venezia per frequentare nella stessa città di Michele. Venezia sarebbe stata probabilmente troppo dispendiosa, ma Bologna e Milano no. Si erano mollati a lezioni appena iniziate e iscrizioni già chiuse. E invece che il giapponese si era dovuto fare andar bene il russo.

“Va bene, Titti. Chiamo io la nonna. Prendi su tua sorella e ci vediamo stasera. Yaya, oggi ti porta Titti a scuola! Ciao!” concluse alzando il volume della voce sul finale per farsi sentire dalla piccola Ilaria.

“Okay!” esclamò allegra la bambina da qualche angolo della casa.

“Grazie, mammina”, disse il ragazzo dandole un bacio sulla fronte.

“Ah, Titti...” Sua madre si affacciò nuovamente in casa, prima di chiudersi la porta alle spalle. “Su con il morale. Mi raccomando.”

Valentino si strinse nelle spalle e annuì. Si diede una lavata, si vestì velocemente, caricò la sorellina in macchina e partì. Con l’adattatore, attaccò il cellulare all’accendisigari, ma dato l’amperaggio ridicolo di quella cinesata si sarebbe caricato decentemente dopo un secolo. Sua sorella scese dalla macchina e si allontanò salutandolo con la manina dopo avergli mandato un bacio. Era follemente innamorata di lui, da buona sorellina minore.

Ilaria era nata nel momento peggiore e Valentino aveva avuto il terribile sospetto fosse stato un ennesimo e ultimo tentativo da parte dei suoi genitori di ricostruire il loro matrimonio già fallito da anni. Tra tira e molla, non aveva ricordo di suo padre che vivesse in casa con loro per più di un paio di settimane consecutive. Una rischiosa trovata del cazzo da egoisti completi, considerata l’età di sua madre che diventava idiota solo quando suo padre si rifaceva vivo. Nel periodo in cui era stata concepita sua sorella, Valentino aveva approfittato del ricongiungimento apparentemente definitivo dei suoi genitori per informarli del fatto di essere gay. Con tutta probabilità, quella conferma ai sospetti di entrambi aveva dato la possibilità a sua madre di aprire gli occhi e rendersi conto di quanto fosse squallido l’uomo al suo fianco, che invece di prendere atto della cosa o respingerla, aveva cominciato a sfottere ignobilmente il proprio figlio. Fortunatamente, con la nascita di Ilaria, la mamma aveva infine trovato il coraggio di mandare definitivamente a quel paese quella merda di uomo.

Valentino aspettò che Ilaria raggiungesse gli altri bambini, si accese una sigaretta e ripartì. Non aveva mai fatto quella strada in macchina da solo, era sempre stato con Michele per consegnare le scartoffie per l’iscrizione.

Accese il cellulare: dopo l’avvio, comparve la notifica rossa sull’angolo in alto a destra dell’icona di Facebook. Aprì l’applicazione e andò nella sezione per i messaggi privati. L’altro Vale che gli chiedeva se sarebbe andato in università. Non avevano frequenza obbligatoria, ma la partecipazione alle lezioni era caldamente consigliata: un suggerimento sottile che in caso di mancato adempimento si sarebbe ripercosso in sede d’esame. In ogni caso, con quei ragazzi si era subito trovato bene. Per quanto fosse stancante uscire di casa la mattina presto e tornare per ora di cena, era sempre meglio che starsene a casa e piangersi addosso. Fece per rispondergli ma il cellulare si spense. Lo buttò sul sedile del passeggero sbuffando esasperato.

Schiacciò il pulsante dell’autoradio e gli ultimi secondi di La forza della banda lasciarono il posto al riff di chitarra Hai un momento, Dio?. Sua madre alternava Ligabue a Bennato fin da quando lui era bambino e sua sorella non era nemmeno in programma, quindi conosceva a memoria molte delle canzoni dei due cantautori. E, in particolare, “Buon Compleanno Elvis” era uno degli album preferiti della mamma: rimaneva fisso nell’autoradio per settimane intere.

Alzò il volume e abbassò il finestrino: l’aria gelida impregnata dall’umidità dei campi cominciò a scompigliargli i capelli. Valentino cantò a squarciagola dalla prima all’ultima parola della canzone, mentre la campagna scorreva di fianco a lui e l’asfalto della strada scivolava sotto l’automobile. Solo il cielo grigio-latte sembrava rimanere immobile.

 

Riuscì a trovare parcheggio a circa cento metri dall’ingresso del Dipartimento, si svuotò le tasche della giacca di pelle dalle monetine, le ficcò nel parchimetro ed espose sul cruscotto il bigliettino con l’orario. Arrivò correndo davanti alla porta dell’Aula Magna, ma scrutando attraverso la finestrella in plexiglass vide che Grisendi era già intento a blaterare di Linguistica e del suo adorato Saussure. Il Prof era celebre per non gradire i ritardatari, e Valentino stesso, uno dei primi giorni di lezione, aveva assistito a una sua sfuriata ai danni di una ragazza entrata a lezione iniziata. Sospirò tristemente e si avviò a testa bassa verso una rampa di scale che scendeva verso destra e che conduceva all’aula studio. Si sedette all’unico tavolo vuoto e attaccò il cellulare alla presa della corrente: riuscì finalmente ad accendere il dispositivo e rispose all’altro Vale.

Sono arrivato in ritardo. Sono in aula studio.

Lasciò il cellulare in carica e mise la borsa a tracolla sulla sedia per tenersi il posto. Uscì dalla stanza premendo con l’anca il maniglione della porta a vetri e si accese una sigaretta.

Una ragazza del suo anno era seduta a gambe accavallate sul portaombrelli accanto alla porta dalla quale era uscito Valentino: la conosceva di vista perché anche lei faceva russo, ma non si erano mai rivolti la parola. Indossava un cappotto nero lungo, dei jeans attillati e un paio di stivali di pelle marroni che le arrivavano appena sotto il ginocchio. I capelli, legati in una coda bassa e molle, le arrivavano ben oltre metà schiena.

Valentino le sorrise non appena lo guardo di lei incrociò il suo: “Anche tu hai saltato Linguistica, eh?”

Qualsiasi lingua si scegliesse nel piano di studi, Linguistica era in comune a tutti quelli del primo anno.

“Sì, non ne avevo voglia”, rispose la ragazza con aria annoiata. “Valentino, giusto? Ci ho messo un attimo a riconoscerti, oggi non hai quel ciuffo rockabilly. Io sono Eugenia.”

Gli porse la mano destra, con unghie lunghe ma ben curate e pitturate di verde scuro: lui la strinse. Era ghiacciata.

Conosceva il nome della ragazza: la Prof. Mirovna li chiamava sempre per nome di battesimo, storpiandone la pronuncia come nel caso di Valintìno oppure trasformandolo nel corrispettivo russo, come per Yevghyénya.

La frangia biondo cenere tagliata di netto di Eugenia le copriva le sopracciglia, focalizzando forse troppo l’attenzione sul suo naso leggermente aquilino. Nel complesso sembrava ci tenesse al proprio aspetto, tuttavia – dettaglio che Valentino aveva potuto notare già in precedenza – il modo in cui si truccava gli occhi sfumando la matita nera poco accuratamente, la faceva apparire trasandata. Come se non avesse voglia di perdere tempo a truccarsi.

“Tu li hai fatti gli esercizi di russo per oggi?” chiese la ragazza schiacciando la sigaretta che aveva lasciato cadere sul pavè del cortiletto con la punta dello stivale.

“A dire la verità volevo farli ora.”

“Hai voglia di farli insieme?”

“Volentieri”, sorrise Valentino.

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


 

 

CAPITOLO SECONDO



Tutto in lui era dolce, compreso il modo in cui faceva schioccare la lingua contro i denti e le sorrideva quando Eugenia sbagliava a coniugare un verbo.

Idyòm, non idyém. E’ la ye con i due puntini sopra. Guarda,” disse Valentino sottovoce, sfogliando il libro davanti a sé fino alla tabella dei verbi di moto e capovolgendolo in modo che la ragazza seduta di fronte a lui potesse leggere.

“Merda, è vero”, sospirò Eugenia.

“Perché hai scelto questo verbo e non hadit’ o yehat’?”

“Perché l’azione sta avvenendo in questo momento e il movimento non è con un mezzo di trasporto.”

“Brava”, le sorrise lui. Oddio, ammettiamolo: senza quei capelli castani lisci e voluminosi fissati all’indietro in modo anacronistico era proprio sensuale. Lo stile che Valentino aveva di solito non era la tamarrata con il ciuffo e i capelli più corti ai lati che Eugenia mal tollerava, i suoi capelli erano bene o male tutti della stessa lunghezza. Semplicemente, sembrava cercasse di domarli con la lacca e non con il gel. E il suo modo di tentare in continuazione di fermare i ciuffi della frangia dietro l’orecchio sinistro nonostante non fossero palesemente abbastanza lunghi, costringendolo a pettinarseli all’indietro con le dita…

Eugenia vide Valentino puntare lo sguardo dietro le sue spalle, in direzione della porta a vetri che dava sull’esterno. Il ragazzo alzò un braccio in segno di saluto e subito dopo Eugenia sentì la porta aprirsi: si voltò e vide il tizio meridionale che seguiva francese con lei avvicinarsi al loro tavolo con un sorriso raggiante. Si rigirò sconsolata abbassando la testa verso il proprio quaderno, consapevole che il tête à tête con Valentino Ferri poteva definirsi concluso.

La ragazza sentì due mani apppoggiarsi sulle sue spalle e rabbrividì: alzò la testa verso il soffitto e vide Giovanni fissarla sornione.

“Ciao”, le disse.

“Ciao”, sorrise lei forzatamente. Valentino aveva già indossato la propria giacca di pelle e si stava alzando dalla sedia con una sigaretta tra le labbra.

“Il terrone più bello del Dipartimento!” rise Valentino mettendo amichevolmente un braccio attorno al collo di Giovanni e tirandolo a sé. Che avesse avvertito il disagio della ragazza?

“Vieni a fumare anche tu?” chiese Valentino a Eugenia, che annuì.

Come aveva sospettato, c’era anche Paolo lì fuori. Aveva addirittura previsto che l’avrebbe salutata con sufficienza, e così accadde: le fece un mezzo sorrisetto e distolse immediatamente lo sguardo.

Probabilmente era tutta colpa del ciclo incombente, ma Eugenia faticò a inspirare la prima boccata di fumo per il groppo che le si era formato istantaneamente in gola a seguito della reazione di lui. Di solito non era una che si faceva problemi per situazioni del genere. Si erano beccati per caso al mercoledì universitario di un paio di settimane prima e avevano finito per scopare sul pick-up di lui, fingendosi più sbronzi di quanto in effetti fossero. Per quanto si comportasse alla Youth gone wild, motto ripreso anche dalla fiancata del suo stesso macchinone con un gigantesco adesivo fiammeggiante sul lato del cassone, il piccoletto era sponsorizzato decisamente bene dai suoi: era in affitto nel centro città e aveva un’auto costosa del tutto superflua. Eppure frequentava in un’università pubblica e sembrava che il suo parrucchiere fosse morto da anni.

A Eugenia era già capitato di baciare qualcuno con il piercing alla lingua, ma era la prima volta che sperimentava quell’aggeggio in mezzo alle gambe: dai racconti che aveva sentito, si era aspettata qualcosa di pazzesco. Invece, in sé, nulla di che: era tutto l’insieme a essere stato memorabile. L’automobile a fari spenti, accesa ma non in moto, in una strada sterrata vicino alla tangenziale, l’aria calda tenuta al minimo e gli Hardcore Superstar che facevano da sottofondo. Lui che si era scusato per dieci minuti buoni per averle smagliato i collant con l’anello che aveva al pollice e lei che quei collant vecchissimi aveva già in programma di buttarli perché avevano già i fili tirati sulla coscia sinistra e aveva cercato di arginare il danno con lo smalto trasparente. L’aveva fatta stare bene, quella notte: l’aveva fatta sentire di nuovo adolescente. Con quel viso pulito da angioletto e la bassa statura lo sembrava proprio, un ragazzino. E dopotutto lo era, così come gli altri: novelli maturati appena usciti dalle superiori. Lei era due anni indietro sulla tabella di marcia, quei ventiquattro mesi in più li aveva sprecati facendo un’università che non le piaceva e cazzeggiando. Aveva accumulato tanta di quella frustrazione e senso di inutilità da aver ritrovato la voglia di studiare. Forse, ritirarsi al penultimo anno di Scienze della Comunicazione non era stata la peggiore delle idee, con il senno di poi.

“Loro sono Valerio e Paolo”, disse Valentino rivolto alla ragazza.

“Eugenia”, fece lei stringendo la mano al primo. La porse anche al secondo, curiosa di vedere come avrebbe reagito.

Lui la prese e le sorrise radioso: “Piacere!”

Hobbit del cazzo. Con quei capelli da Telespalla Bob, poi. Coglione. Nano coglione con i capelli da coglione. Lo guardò con aria schifata e Paolo diventò serio in un istante.

Degli altri due presenti, nessuno si era accorto dei falsi convenevoli che erano avvenuti a tre passi di distanza: Valentino era troppo intento a parlare e Valerio sembrava non volersi perdere una sola sillaba che usciva dalle labbra dell’altro.

“La scena della casa sul lago mi ha frantumato il cuore. Non ricordo l’ultima volta che ho pianto così per una serie tv. E del confronto con Diane alla conferenza, vogliamo parlarne?”

Non li avrebbero nemmeno calcolati, Eugenia ne era certa.

“Non fare lo stronzo con me”, disse la ragazza, sottovoce. Paolo strabuzzò gli occhi, la prese per la manica del cappotto e la tirò piano indietreggiando di qualche metro. Eugenia si pentì subito del proprio exploit cautamente istintivo dettato dall’orgoglio: lui le avrebbe detto con aria annoiata che avevano scopato solo una volta e di non rompergli le palle. Era ovvio. Aveva fatto la figura della psicopatica illusa e sfigata.

“Stronzo, io? Scusami tanto se ti ho offesa, non volevo rovinarti la piazza con il James Dean della bassa modenese. Sono tutto fuorché stronzo.”

“Stavamo studiando.”

“Avete saltato entrambi Linguistica per studiare, quindi.”

Eugenia fece una risatina ironica: “Non mi hai più cagata di striscio e fai il geloso?”

“Io non ti ho capita, Eugenia. Non ho davvero capito nulla del tuo comportamento. E’ stata una cosa una tantum? Vorresti continuare? Ti piaccio, ti faccio schifo? E chi lo sa? Non ti ho più cagata perché non ho capito se ti andasse di essere cagata da me. Sì, potrei essere geloso. Ma potrei esserci anche rimasto male per non avere avuto riscontri da te, di nessun tipo. Potrei essere seccato nel vederti con un altro, farmi da parte e sentirmi dare dello stronzo. Potrei essere tante cose, in effetti.”

“Se quello che volevi erano risposte, perché non mi hai fatto domande?”

Paolo infilò le mani nelle tasche dei jeans e si strinse nelle spalle: “Mi riesce meglio fare le cose piuttosto che parlarne a voce.”

Eugenia sbuffò, buttò la sigaretta finita a terra e gli porse la mano con il palmo rivolto verso l’alto.

“Cosa vuol dire?” fece Paolo, confuso.

“Dammi il tuo cellulare.”

Il ragazzo le mise il proprio telefonino sulla mano; Eugenia lo sbloccò, premette ripetutamente per alcuni istanti i pollici sullo schermo e riconsegnò il cellulare al proprietario.

“Se non ti riesce parlare a voce, scrivimi. Adesso hai il mio numero.”

Paolo guardò imbambolato la ragazza mentre ritornava verso l’ingresso dell’aula studio dandogli le spalle; inspirò profondamente cercando di rilassarsi e normalizzare il battito del proprio cuore. Valerio e Valentino avevano interrotto la conversazione quando Eugenia era passata accanto a loro a passo spedito e si erano messi a fissare Paolo. Tino - alto, snello e leggermente curvo come suo solito - aveva le sopracciglia aggrottate: espressione molto più seria di quella di Valerio, che sembrava solo incuriosito.

Perché Valentino lo stava guardando a quel modo? Era la prima volta che lo vedeva così incupito. Gli fece quasi paura. Forse era davvero interessato anche lui a Eugenia, forse c’era stato qualcosa tra loro e lei gli aveva mentito.

Paolo deglutì e si avvicinò lentamente agli altri due.

“Tutto ok, Paul?” chiese Valerio.

Paolo lo ignorò, rivolgendosi a Valentino: “Ascolta, io non ho voglia di affrontare situazioni imbarazzanti. Vorrei conoscere meglio Eugenia. Non so cosa tu abbia intenzione di fare ma ti chiedo di tenere in considerazione questo particolare.”

Il viso di Tino si addolcì, ma non sorrise: “Ti sei interessato a lei molto in fretta.”

Era più forte di lui, Valentino non riusciva a evitare di essere protettivo nei confronti delle donne, nonostante non ne avessero quasi mai bisogno, ma nemmeno di essere diffidente verso il genere maschile, anche quando non ce n’era motivo. Se ne rendeva conto, eppure non poteva uscire da quella fissazione mentale.

“Ci conoscevamo già”, disse Paolo, nel tentativo di essere il più cristallino possibile.

“Capisco. Allora terrò in considerazione la cosa.”

“Allora… Siamo a posto?” Il ragazzo biondo sorrise timidamente.

“Siamo a posto”, ripeté Valentino senza rispondere al sorriso.

“Bene. Vado a Letteratura Spagnola. Ci becchiamo dopo.”

Quando Paolo fu sparito oltre la porta dall’altro lato del cortiletto, Valerio sospirò: “Sei un sadico.”

“Perché?” chiese Tino fingendo di non capire a cosa stesse alludendo l’altro.

“Ti diverte fargli credere di essere davvero una minaccia?”

“Forse un po’ sì.”

Valentino non stava mentendo, stava solo omettendo una parte di verità: temeva che esplicitando il fatto di non essere per nulla interessato alle ragazze in senso fisico, uno con l’assetto mentale di Paolo potesse cambiare radicalmente visione su di lui. La scarsa perspicacia del ragazzo giocava a suo favore, in questo caso.

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


 

Il problema non erano Eugenia e Paolo come persone, conosceva entrambi in modo estremamente superficiale e non poteva certo definirli amici. Ciò che l’aveva innervosito era stato rivedere, in un lampo durato un istante, una replica in versione etero della più ricorrente dinamica tra sé e Michele. Valentino che se ne andava esasperato e Michele che rimaneva a fissarlo inebetito, con la faccia di uno senza la minima idea di cosa sia appena successo.

Valentino era il primo ad ammetterlo: era ipersensibile, esageratamente permaloso e spesso si intestardiva su dettagli che avrebbe potuto lasciar perdere in tutta tranquillità. Si rendeva conto lui stesso di essere un gran rompicoglioni, quando ci si metteva. Tuttavia, piuttosto di tenersi tutto dentro e soffrire, preferiva esternare il proprio disagio, anche a costo di litigare e soffrire ancora di più.

Avevano deciso di chiuderla di comune accordo neanche tre mesi prima, quando Michele gli aveva dato la prova definitiva di non aver capito che tra persone innamorate serve spesso una certa dose di omertà a fin di bene.

 

Per Valentino, l’avere finalmente compreso e accettato fuori da ogni dubbio e imbarazzo il motivo per il quale non riusciva a dare tutto se stesso in una relazione con una ragazza era stato un sollievo: non aveva nulla che non andava come aveva creduto – o finto di credere - fino ad allora, ma semplicemente non era per le ragazze che provava attrazione. A livello concettuale per scopi onanistici, Valentino trovava eccitante la visione di qualsiasi tipo di coppia, così come non aveva mai avuto grosse difficoltà nelle rare occasioni in cui aveva consentito a una ragazza di agire su di lui per via manuale oppure orale. Era pura meccanica e lui era dopotutto in piena età da tempesta ormonale.

Il fatto che passasse la maggior parte del tempo ad arrovellarsi su come trovare scappatoie per non doversi trovare in certe situazioni mentre i suoi compagni di liceo sembrava non vivessero per nient’altro, l’aveva cominciato a preoccupare.

Il problema si era palesato in maniera definitiva quando si era trovato a tutti gli effetti a letto con una ragazza. Il destino, che sa essere tanto spietato quanto banale, aveva voluto tuttavia che l’ultima della schiera di morosine nonché fattore scatenante dell’epifania di Valentino fosse stata Milena, forse l’unica davvero innamorata di lui e non del suo aspetto. Era l’unica sua compaesana della classe del liceo, erano compagni di banco, si facevano andata e ritorno in bus insieme, al pomeriggio si trovavano per studiare. Nonostante avessero fatto le elementari e catechismo insieme, vivessero nello stesso paesino e avessero la stessa età, non avevano mai avuto un rapporto molto stretto prima di iniziare il liceo.

Averla nuda accanto a sé, nel suo letto, e accarezzare per la prima volta le parti intime di una ragazza, accarezzando con la punta delle dita la parte più interna, calda e bagnata… Non gli faceva schifo. Lei era stupenda, sentirla ansimare mentre lo baciava languidamente poteva essere quasi eccitante. Avrebbe potuto continuare così all’infinito. Ma era quasi eccitante, e da lì a poco Milena gli avrebbe chiesto di fare l’amore e lui avrebbe dovuto essere pronto. E non lo era, non lo era nemmeno lontanamente. Avrebbe dovuto iniziare a toccarsi con la mano libera, forse? Sarebbe davvero cambiato qualcosa? La Mile era proprio carina, l’avrebbe coccolata e sbaciucchiata per ore. Era come accarezzare un gattino per fargli fare le fusa. Che avessero un legame d’amicizia troppo stretto per riuscire ad andare oltre? Lei non sembrava affatto preoccupata dalla cosa.

“Mile?” disse Valentino sottovoce, allontanando la bocca dai baci della ragazza.

Lei mugolò sommessamente in risposta.

“Non credo di riuscirci.”

Milena, nel sentire quelle parole, si irrigidì. Valentino doveva inventarsi una bugia, tipo l’essere sotto antibiotici, l’essere stanco e stressato per la scuola. Soffrire di disfunzione erettile. Oppure dirle che non voleva rovinare la loro amicizia. Mi piace un’altra. E’ un periodaccio. Mia mamma sta per rientrare e non voglio che ci scopra. E’ la prima volta anche per me, sono un po’ agitato. Non sei tu, sono io. Ansia da prestazione. Una balla qualsiasi. Se la sarebbe meritata? Esco con le ragazze perché sono loro a chiedermelo e non voglio che ci rimangano male per un mio rifiuto. Parlo con loro ore intere perché non voglio finire in certe situazioni. Però, quello che tu hai da dirmi mi interessa sul serio, Mile. Perché ti voglio bene davvero. E stare con te mi piace. Mi piaci tu. Ma non riuscirei a innamorarmi di te, come di nessun’altra.

Valentino deglutì e decise di essere sincero, anche se era ormai troppo tardi: “E’ come se tu fossi un gattino.”

Si era rivestita in fretta e furia, in lacrime; Valentino l’aveva seguita in boxer, giù per le scale e fino in strada, cercando di fermarla in tutti i modi possibili senza farle del male, ma lei continuava a divincolarsi e a piangere disperata. La riuscì ad abbracciare, lei gli tirò una sberla e lui la strinse di nuovo a sé.

“Lasciami andare”, gemette Milena. Valentino rimase in silenzio, tentando di trovare qualcosa da dire. Sarebbero state tutte stronzate. L’aveva presa in giro, pur sapendo perfettamente ciò che lei provava per lui aveva continuato a tirare la corda. Si sarebbe meritato ben di peggio di uno schiaffo. Lasciò la presa.

E mentre la ragazza diventava sempre più piccola correndo lontano da lui, Valentino rimase a fissarla in mutande sul marciapiede appena oltre il cancello della propria abitazione.

“Cazzo, altro che Beautiful!”

Valentino si asciugò gli occhi con il dorso della mano, si voltò e alzò lo sguardo verso la finestra al secondo piano dalla quale era venuta l’esclamazione.

Michele, sporto sul davanzale della finestra della propria camera con una sigaretta tra l’indice e il medio, gli stava sorridendo divertito: “Vieni su, dai!”

“No.”

Ai tempi, lo stile di Michele consisteva in uno strano misto tra emo e punk: aveva la frangia accuratamente piastrata ma era troppo pigro per ossigenarsi le due dita di ricrescita castana.

“Te ne vuoi stare lì in mutande?”

Valentino annuì. Passava una macchina sì o no ogni ora e i vicini l’avevano visto migliaia di volte in mutande fin da quando era bambino. Michele compreso.

“Vuoi una paglia, almeno?”

Valentino annuì nuovamente, rientrò oltre il cancello, si avvicinò alla siepe che divideva le loro case e prese al volo il pacchetto di sigarette che Michele aveva lasciato cadere dall’alto. Lo aprì e all’interno trovò anche l’accendino.

“Mollato dalla Milena, eh?”

Valentino si sedette sull’erba del minuscolo giardino davanti casa, stringendosi le ginocchia al petto. La girandola piantata nel prato della casa dei vicini oltre la cancellata al di là della strada si muoveva lentamente. Il cane del pissing estremo – come lo chiamavano Valentino e Michele - lo stava fissando con il muso allungato infilato tra le sbarre in ferro battuto: quel bassotto nero si faceva letteralmente la pipì addosso per l’emozione ogni volta che ci si avvicinava, mettendosi a pancia all’aria e cominciando a spararsi getti di urina addosso. Solitamente era esilarante e a Valentino faceva ridere il solo pensiero. Ma non quel giorno.

“Avete litigato?” continuò Michele. A giudicare dal suo tono spensierato, era palese non gliene importasse nulla. Era solo curioso.

“Sì, abbiamo litigato.”

“E per cosa?”

“Le ho fatto credere di essere qualcuno che non sono.”

“Oh, Titti, questo non è proprio da te. L’hai scopata?”

Valentino accese la sigaretta che si era messo tra le labbra, aggrottò le sopracciglia e guardò verso l’alto: Michele gli stava sorridendo e teneva il mento appoggiato al palmo della mano. Di solito non affrontavano certi argomenti, le rare volte in cui capitava Michele era sempre piuttosto evasivo.

“Lo trovi divertente?”

“No, ci mancherebbe. E’ che me l’aspettavo sarebbe successo, prima o poi. Ti sei nascosto per troppo tempo in mezzo al gregge sotto quel costume da agnellino.”

“Ma stai zitto. Credi davvero che dei capelli da stupido ti rendano così originale? Sei uguale a migliaia di altri coglioni convinti di essere unici e fantastici”, sbottò Valentino innervosito.

“Non hai capito. Non si tratta di essere uguali o diversi, i miei sono solo capelli. Non fanno soffrire né me stesso, né gli altri. Anzi, al contrario: mi piacciono e mi fanno sentire bene. Mica perché mi rendono diverso, ma perché ho quindici anni e se non faccio stronzate con i capelli a questa età, non le farò mai più. Dovresti provare anche tu a fare qualcosa che ti faccia star bene. Qualcosa che non ti costringa a piagnucolare rannicchiato in mutande nel giardino davanti casa.”

Valentino sospirò e strappò una manciata di fili d’erba: “L’ho umiliata. Ho cercato di renderla felice e sono solo riuscito a farla piangere.”

Non sentendo più Michele ribattere alla discussione, Valentino alzò nuovamente lo sguardo verso la finestra: non c’era più nessuno. Gettò a terra l’erba strappata e appoggiò la fronte alle proprie ginocchia nude ripiegate contro al petto. Dopo qualche minuto sentì un tonfo sordo alla propria destra e si voltò: sull’erba giacevano un paio di pantaloncini grigi della Nike, un paio di scarpe da ginnastica della stessa marca, una maglietta gialla e blu con la stampa del numero 46 e un casco, il casco che Michele gli prestava sempre quando lo caricava dietro alla sua Vespa gialla fatiscente.

“Alza il culo, Ferri”, disse Michele con tono perentorio, facendo roteare le chiavi del veicolo attorno al dito indice e con il casco stretto sotto il braccio.

Valentino lo squadrò dal basso verso l’alto: “Dove vuoi andare?”

“Ti porto a parlare con la Milena, così ti togli il pensiero e la pianti di fare il tragico. Non mi piaci quando hai delle stronzate per la testa.”

“Non so nemmeno cosa dovrei dirle.”

Michele, che stava masticando vistosamente una gomma a bocca aperta, fece una risatina e inarcò le sopracciglia: “Che sei frocio, magari?”

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quarto ***


Valentino sentì il rumore di un’auto fermarsi e spegnere il motore. Premette ripetutamente il tasto per abbassare il volume del portatile e rimase in ascolto, posando l’evidenziatore aperto accanto al libro.

Silenzio.

Si spinse all’indietro facendo scorrere le ruote della sedia sul parquet della propria camera e raggiunse la finestra: scrutò oltre il vetro, attento a non esporsi troppo. L’auto di Michele era parcheggiata davanti al vialetto della casa vicina. Si aprirono entrambe le portiere anteriori e lo stomaco di Valentino si attorcigliò su se stesso alla vista di quella checca viscida di Claudio Lorenzi. Michele stava ridendo di gusto e raggiunse l’amichetto trotterellando attorno alla propria automobile.

Valentino si alzò, prese il primo libro a portata di mano dalla scrivania, spalancò la finestra e lo scagliò in direzione dei due, che sobbalzarono all’unisono quando il tomo precipitò sull’erba a un paio di metri da loro.

Appena Michele vide Valentino alla finestra, scosse la testa e tirò l’altro per un braccio. Claudio stava guardando anche lui verso la finestra, ma non accennava a voler proseguire lungo il vialetto.

“Vaffanculo!” esclamò Valentino mostrando il dito medio.

“Ferri, non renderti patetico”, gli sorrise Michele con aria compassionevole.

“Lo sapevo che c’era quella merda di mezzo!”

Claudio si staccò dalla presa dell’altro con un movimento brusco del braccio: “Perché non vieni un attimo giù?”

“Volentieri!”

Valentino sbatté i vetri della finestra, afferrò l’Ibanez nero a cinque corde appoggiato alla libreria e uscì a passo svelto dalla propria camera: si trovò di fronte la madre, con uno sguardo spaventato in volto e la sorellina con i capelli ancora umidi dal bagnetto in braccio. Le guardò entrambe negli occhi per qualche istante e deglutì, sentendosi investire da un’ondata di panico che aveva sommerso e diluito l’adrenalina del momento. Dovette stringere il manico del basso anche con l’altra mano e sistemare il corpo sulla spalla, dato che il peso dello strumento si era fatto improvvisamente concreto.

“Titti, sei arrabbiato?” cinguettò Ilaria.

“Valentino, lasciali stare.”

“Mi aveva giurato che non gli piaceva.”

“Che differenza può fare, se non state più insieme?”

Valentino sentì la gola contrarsi e gli occhi riempirsi di lacrime: “Me l’aveva giurato. Ma io lo vedevo come si guardavano, certe volte.”

La mamma gli sorrise dolcemente: “La gelosia è un sentimento infame, fa male sia al soggetto che al ricevente. Assolutamente peggio dell’odio, che logora soltanto chi lo prova.”

Il ragazzo sospirò e si diresse verso la porta d’ingresso: la fissò per qualche istante e appoggiò il basso contro al la parete prima di aprirla. Michele lo stava aspettando seduto sul bordo del vaso di pietra all’inizio del vialetto, soppesando il voluminoso libro che Valentino gli aveva tirato.

“Mi volevi proprio ammazzare con Guerra e Pace, un mattone sarebbe stato meno pericoloso. Letture leggere come al solito, eh?”

“E’ per un esame. In realtà è molto bello, te lo consiglio”, disse Valentino.

“Hai un modo molto particolare di consigliare libri”, sorrise Michele porgendogli il libro.

Valentino lo prese, facendo attenzione a non sfiorare le dita dell’altro. “Scusami per la sclerata.”

Michele diventò serio in un istante.“Ti scuso. Vorrei solo non sentirmi alla Big Brother is watching you, è triste e doloroso per entrambi. In più mi crea delle rotture di scatole non indifferenti con Claudio, e tu sai meglio di chiunque altro quanto poco mi goda scoglionarmi. Sì, mi sono consolato in fretta. C’è altro?”

“Lo porti già in casa?” chiese freddamente Valentino.

“I miei sono fuori. Domani comunque lo sapranno dato che i vicini si saranno allertati per gli schiamazzi. Ascolta, io capisco perfettamente che sapermi con qualcun altro ti infastidisce più del fatto che non stiamo più insieme. Io vorrei che tu restassi single per sempre, figurati. Immaginarti con qualcuno che non sia io mi fa venire voglia di rimettermi con te, pur sapendo che non andiamo d’accordo. Credo di essere tornato indietro un buon ottanta percento di volte per questo motivo, un dieci per cento perché sei bello e il restante ulteriore dieci percento perché mi facevi tenerezza. Però funziona così, il successivo prende il posto del precedente e ogni volta si ricomincia da capo. Cerca di non essere triste per me, non ne vale la pena.”

Sempre così schietto da essere irritante, Michele si alzò e si avviò verso casa propria. Valentino tornò in camera, abbassò completamente la tapparella della finestra esattamente in corrispondenza della stanza da letto di Michele e si raggomitolò sul letto. Quante notti d’estate passate a chiacchierare seduti pericolosamente sul davanzale. Quante volte si erano guardati e desiderati prima di trovare il coraggio di creare qualcosa insieme. Come motivo per ritornare indietro non aveva nominato l’amore, ma sulla questione dell’amore e dei ti amo avevano discusso talmente tante volte che Valentino si era fatto andare bene a fatica che Michele non lo esprimesse a parole e che avesse un modo tutto suo di dimostrarlo, fatto di carezze e sorrisi. Da sbronzo sì che glielo diceva, continuamente, ma non contava. A Michele bastava bere un paio di birre di troppo per perdere i già scarsi freni inibitori che possedeva. La litigata definitiva era stata proprio per una frase infelice detta da ubriaco, che fatalmente comprendeva anche Claudio.

I cuori sono stati infranti. Come quando durante una partita a Hearts sul PC sei costretto a giocare cuori non avendo altra scelta. Come Quando Fuori Piove. L’aveva mandato al diavolo, a quel paese, a fare in culo. Dovunque l’avesse mandato, Michele era sempre tornato indietro. Fino ad allora.

Meglio così. Chi se ne frega, alla fine. Morto un Papa se ne fa un altro. Inutile piangere sul latte versato. Si chiude una porta, si apre un portone. Qui una volta era tutta campagna e non ci sono più le mezze stagioni. Stronzate, tutte stronzate.

Pianse sommessamente con il cuscino premuto sopra la testa, immaginandosi di sentire rumori che nella realtà era impossibile arrivassero fino alle sue orecchie.

La mamma si sdraiò accanto a Valentino e lo abbracciò da dietro; Ilaria si infilò sotto il suo bracciò e si accoccolò contro il petto del fratello. I capelli della bambina sapevano di camomilla.

“Tra quanto passa?” chiese lui, sottovoce.

“Appena decidi di smetterla di starci male”, rispose la madre.

 


 N. d. A.

Toccata e fuga per aggiornare, per colpa del periodaccio infernale non ho nemmeno tempo per rispondere alla valanga di recensioni che mi avete lasciato. Ma giuro che nel weekend mi metto in pari, continuo a rileggerle e ad andare in brodo di giuggiole soffrendo contemporaneamente per non riuscire a scrivere in risposta. Per ora un collettivo, simbolico ma assolutamente sincero GRAZIE, GRAZIE E MILLEMILA VOLTE GRAZIE. Non avete idea, non potreste mai riuscire a immaginare quanto mi rendiate orgogliosa, garantito.

A (molto) presto!

N.


 

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Capitolo 6
*** Capitolo Quinto ***



Valerio rimase a fissare lo schermo del portatile.

Erano belle parole, certo, davvero incoraggianti. Ma era pur sempre un rifiuto, l’ennesimo rifiuto.

Nessuno che gli avesse detto che la sua trama faceva cagare o che scriveva di merda: solo non rispetta la nostra linea editoriale, seicento pagine sono davvero tante per un esordiente e le spese di tipografia sarebbero troppo alte, siamo una casa editrice appena nata e la Sua opera è troppo di nicchia o altre supposte indorate. Perché era proprio lì che Valerio se le ficcava, quelle e-mail.

Ormai quel romanzo lo repelleva fisicamente, l’aveva tessuto, tagliato e cucito troppe volte, l’aveva steso dall’inizio alla fine nel giro di cinque mesi, aveva impiegato il doppio del tempo per sistemarlo e a ogni rilettura lo ritrovava più stupido e vomitevole. Aveva finito con l’odiarlo.

Chiuse la scheda della casella di posta elettronica e tornò a guardare pigramente Facebook: Valentino non era connesso da tre ore. Il vero problema, però, era che Valentino non era connesso con l’Universo da almeno tre giorni: parlava a malapena e una sorta di fasulla accondiscendenza apatica si era sostituita alla sua gentilezza abituale. Tutti hanno i propri scazzi, non c’è nessun bisogno di trattare gli altri con sufficienza.

Paolo era già terrorizzato da Valentino e gli girava più alla larga del solito, Giovanni sembrava non essersi accorto di nulla, a Luca non poteva importare di meno: gli unici che a quanto pare soffrivano le sue rispostine insipide e le sue sigarette spente a metà con lo scopo di evitare ogni tentativo di indagine erano Eugenia e Valerio stesso. Era quasi imbarazzante rimanere ad aspettare il treno accanto a lui mentre tremava per il freddo fissandosi la punta delle scarpe in silenzio, vederlo prendere nervosamente appunti senza alzare la testa per la durata dell’intera lezione, guardarlo perdersi nei propri pensieri mentre tutti gli altri ridevano e scherzavano, sentirlo tirare su con il naso in continuazione senza capire se fosse per un raffreddore o meno.

Valerio rimise nel pacchetto la sigaretta che gli penzolava dalle labbra dal momento in cui aveva letto la mail di rifiuto e aprì la finestrella della conversazione con Valentino.

Cosa cazzo hai in questi giorni?

Abbassò lo schermo del portatile, si alzò dalla scrivania e uscì dalla propria stanza.

Li trovò già spiaggiati sul divano del salotto, con il televisore acceso: la mamma dormiva e il papà aveva la gatta accucciata sul pannetto che teneva sulle gambe.

“Vale, mi porteresti una bottiglia d’acqua, per favore? La micia brontola se mi alzo.”

Valerio prese la bottiglia d’acqua dal frigorifero in cucina e la porse al padre. Si sedette sul tappeto, con la schiena appoggiata al bordo del divano e un braccio allungato per accarezzare la gatta. La verità era che Bianca non si sarebbe mai mossa da dov’era se qualcuno non l’avesse presa in braccio, e suo padre l’aveva sicuramente messa sul divano prima di coricarsi. Era più di un anno che non riusciva più a saltare e nelle ultime settimane non camminava quasi più ed era diventata incontinente, per quel poco che mangiava e beveva. Stavano rimandando da troppo tempo il momento di prendere quella decisione, e considerando che la gatta aveva la stessa età di Valerio era una decisione abbastanza difficoltosa.

“Cosa ti va di guardare?” chiese l’uomo.

“Quello che vuoi tu.”

“La mamma dorme e sul quattro danno casualmente Arma Letale.”

“E allora che Arma Letale sia”, sorrise Valerio.

 

***

 

Ilaria allungò la mano verso il pacchetto di sigarette appoggiato sul tavolo, certa che suo fratello e la Milena non se ne sarebbero accorti, impegnati com’erano a chiacchierare. Valentino lo spostò fuori dalla portata della bambina: “Tra qualche anno, previa mia approvazione.”

Milena, intenta a pettinare Ilaria seduta sulle sue gambe, strabuzzò gli occhi e fulminò Valentino: “Titti intende dire che fumare è sbagliato e fa molto male a tutte le età, vero?”

“Sì, quello”, rispose Valentino accendendosi una sigaretta.

“Come te li faccio i capelli?” disse Milena tentando di cambiare argomento.

“Come Elsa per favore!”

Valentino sospirò: “Pensavo ti fosse passata la fissa, Yaya.”

Ilaria scosse la testa energicamente e si immobilizzò subito dopo per permettere a Milena di iniziare a intrecciarle i capelli.

“Oggi mi ha fermata Francisco al supermercato e mi ha chiesto di te”, fece la ragazza.

Francisco, all’anagrafe Francesco Della Vedova, era un simpatico signore che aveva passato la cinquantina, fan sfegatato dei Modena City Ramblers e tutto sommato di bell’aspetto: aveva vissuto buona parte dell’infanzia e tutta l’adolescenza in Argentina e, nonostante fosse nato in Italia da genitori italiani emigrati in un secondo momento, avesse in effetti trascorso nemmeno dieci anni in Sud America e avesse finito per tornare in Italia e sposare un’italiana, si sentiva a tutti gli effetti un argentino. A Valentino stava particolarmente a cuore, quel simpatico signore: per quanto fosse a tratti strambo, in più di un’occasione l’aveva identificato come una figura paterna più influente del proprio padre biologico. In una cosa i due uomini si assomigliavano: l’abitudine di affibbiare a Valentino dei soprannomi. Benché Flaco e Delgado di Francisco fossero descrittivi tanto quanto i vari Fnòch, Culàn e Buliccio (sintomatico della discendenza genealogica genovese della famiglia Ferri) del padre di Valentino, questi ultimi sembravano avere stranamente una valenza meno affettuosa. L’unico problema relativo al rapporto con il signor Francisco era emerso negli ultimi tempi e poteva essere identificato in un certo Della Vedova junior, detto anche Miguelito, meglio conosciuto come Michele.

“Cosa ti ha chiesto?” disse Valentino schiarendosi la voce.

“Se stavi bene.”

“Potrebbe chiedermelo lui dato che abita a due pareti di distanza.”

Milena sospirò senza alzare gli occhi dai capelli biondi di Ilaria: “Ce l’hai anche con lui, adesso? Proprietà transitiva?”

“Io non ce l’ho con nessuno.” Valentino si strinse nelle spalle: “Dico solo che oggettivamente avrebbe potuto chiedermelo di persona.”

“Spero uscirai presto da questa fase polemica, non sembri neanche tu. E’ già un po’ che vi siete mollati, non capisco il perché del tuo comportamento passivo-aggressivo solo ora.”

Titti spense la sigaretta nel posacenere e appoggiò gli avambracci sulla superficie in legno del tavolo della cucina di casa propria, mettendosi a torturare la cover del cellulare: “L’altra sera ho avuto l’impressione che lui fosse in una fase successiva a quella in cui sono rimasto io. Non tanto perché ha trovato già un altro, da lui me l’aspettavo. E’ che l’ha affrontata da adulto, come se non avesse più la voglia di perdere tempo con qualcosa che non lo faceva stare bene. Da ragazzi ci si sguazza in questa roba, lo struggersi e i drammi sono d’obbligo, sono i problemi maggiori della vita di un adolescente. Vedere Michele che ragiona e si veste da adulto e pensare a Michele che soltanto qualche mese fa si è presentato all’esame di maturità con la stessa maglia di Dookie che aveva a quindici anni, questo mi ha fatto incazzare. Io non mi sono evoluto e mi sento davvero un coglione in questa situazione.”

“Secondo me sbagli a sentirti in difetto. Tu il salto l’hai già fatto anni fa e probabilmente eri troppo piccolo per sentire lo stacco, ma non è un mistero per nessuno che tu abbia gestito la crescita di una bambina in modo paritario a tua mamma. Tra di voi ci sono stati dei problemi proprio perché Michele era ancora un ragazzino e tu no. Stai male e la stai vivendo così soltanto perché hai un carattere differente dal suo, punto e basta. Ti sta sul cazzo esserti reso conto di non aver avuto un gran ruolo nella maturazione fulminea di Michele, ma lui era il tuo moroso e quello di farlo crescere non era né il tuo compito, né il suo momento, evidentemente.”

“Non lo so”, sospirò Valentino, perplesso. Attivò distrattamente lo schermo del proprio cellulare e vide la notifica di un messaggio su Facebook.

“Mi ha scritto un mio compagno di università”, disse di nuovo a Milena.

“Se è carino, presentamelo.”

“E’ della mia riva del fiume, mi spiace.”

“Ma basta! E’ un’epidemia!” rise Milena.

“Quale fiume?” chiese incuriosita Ilaria.

Valentino guardò Milena, che annuì e disse: “Non è un fiume vero. Si usa quando devi dire se ti piacciono le femmine o i maschi.”

“Ma a voi due piacciono i maschi, allora siete dalla stessa parte.”

“Dalla mia parte ci sono i maschi a cui piacciono i maschi e le femmine a cui piacciono le femmine, dall’altra le persone tipo la Mile, la mamma e il papà. Capirai meglio quando inizierai catechismo, Don Pietro è bravissimo a spiegare la differenza”, fece Valentino dopo aver composto il messaggio.

 

Ti spiego domani.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sesto - Parte prima ***


 

Evitò per un soffio di impattare contro un trio di ragazze che gli avevano tagliato la strada sbucando dalla folla, bloccandosi sul posto e sollevando istintivamente verso l’alto le due birre medie che stringeva tra le dita: i polpastrelli facevano poca presa sulla plastica inumidita dalla condensa e un urto di qualsiasi natura sarebbe stato fatale. La paranoia che la mamma gli aveva fatto venire fin dal tempo delle sue prime uscite del sabato sera si era sedimentata nel suo inconscio, rendendo un gesto automatico il tenere l’apertura dei bicchieri coperta dalla mano. Riflettendo razionalmente, le probabilità che un malintenzionato sprecasse una dose di una non meglio identificata droga nei cocktail di Valentino era prossima allo zero, ma sempre meglio essere prudenti.

“Scusa!” esclamò una delle ragazze, voltandosi verso Valentino.

“Tutto ok”, rispose lui.

La tizia fece marcia indietro e si avvicinò a Valentino inclinando leggermente la testa verso sinistra.

“Te non eri mica uno del gruppo che ha suonato prima? Quello con la chitarra al contrario?”

Basso. Basso per mancini. “Sì, esatto.”

“Non si sentiva bene come le altre chitarre.”

Per forza, non essendo una chitarra… “L’acustica non era un granché, in effetti”, sorrise Valentino.

“Mi sono divertita, non avevo mai ballato quella musica. Siete stati bravi!”

Guardandola meglio, quella ragazza non doveva avere più di quindici anni e beveva il suo Mojito come se fosse succo di frutta. Aveva i capelli biondi stirati e perfettamente divisi da una riga al centro della testa, lunghi fin sotto al seno coperto da una canotta bianca che aveva più scollatura che stoffa. Non poté fare a meno di pensare a Ilaria da lì a una decina d’anni.

“Grazie. Sentire queste cose è la soddisfazione più grande per me, addirittura meglio della birra gratis.”

“Suonate ancora qui in giro prossimamente?”

“Sì, passiamo un po’ tutte le Feste dell’Unità, i locali all’aperto e le Feste della Birra della zona. Se guardi la nostra pagina Facebook ci sono le date.”

“Okay”, disse dopo aver succhiato un po’ di cocktail dalla cannuccia. “Non è che posso lasciarti il mio numero?”

Valentino pensò di nuovo a Ilaria da lì a una decina d’anni, scosciata e scollacciata, intenta a fare l’ochetta con ragazzi molto più grandi di lei.

“Sei un po’ piccola e sarei già impegnato. Mi spiace.”

La ragazzina si strinse nelle spalle e sparì nella folla, Valentino sospirò e proseguì il proprio cammino.

L’essere più alto della media gli permise di individuare il divanetto dov’era seduto Michele piuttosto facilmente e si avvicinò seguendo il tragitto più breve.

Milena, palesemente brilla, gli si parò davanti e gli puntò il dito in direzione del volto: “E’ giunto il momento. Non ti sei dimenticato, eh?”

“Posso portare la birra al mio moroso, prima?”

“Sì, ma poi sei mio.”

Valentino girò intorno a Milena e raggiunse il divanetto. “Per te”, disse porgendo a Michele la birra che aveva preso per lui.

Michele svuotò il bicchiere di Negroni che aveva in mano, lo appoggiò sul tavolino e strinse tra le dita quello offertogli da Valentino: “Sei il mio Barone Birra!”

“Mi hai ascoltato? Sono stato bravo?”

“Sei sempre il migliore”, sorrise Michele. Valentino doveva ancora abituarsi a vederlo senza piercing al labbro inferiore e al sopracciglio sinistro. Aveva subito lo stesso trauma quando l’anno precedente si era rasato i capelli da un giorno all’altro per farseli crescere del proprio colore naturale: nei periodi immediatamente successivi ai cambiamenti drastici, Valentino faticava a farseli piacere.

Si allentò il cravattino nero e aprì i primi due bottoni della camicia con la mano non occupata dalla seconda birra: la combinazione letale dell’umidità della bassa modenese in pieno agosto e dei faretti del palcoscenico l’aveva disintegrato dal caldo. I capelli sembravano reggere ancora decentemente, nonostante tutte le volte che aveva dovuto asciugarsi la fronte durante l’esibizione.

“Faccio una cosa con la Milena e poi possiamo andare, ok?”

Michele diede il proprio nulla osta con un sonoro rutto e un pollice alzato; Valentino prese per mano Milena e la condusse di nuovo in mezzo alla gente, verso il piccolo palco dal quale era sceso una quarantina di minuti prima.

Appena trovò un punto tranquillo, si fermò e guardò la ragazza negli occhi: “Ribadisco che non sono d’accordo con questa cosa. Conosco bene Gatto, è un ottimo amico tanto quanto è un pessimo partner.”

Milena si strinse nelle spalle: “Ho solo voglia di divertirmi un po’.”

“Non ti sei già divertita abbastanza da quando è finita con Simo?”

“Evidentemente no”, rispose lei, improvvisamente seccata.

Valentino si strofinò gli occhi stanchi con il dorso della mano: “Scusami, mi è uscita male. E’ solo che mi fa soffrire vederti fare così.”

“Dovrei starmene in casa a piangere? Non posso permettermelo, non ho tempo da perdere. Il giorno dopo la maturità ero già a studiare per il test di Medicina, sto passando quella che dovrebbe essere l’ultima estate di libertà della mia vita sopra i libri e la sera voglio soltanto pensare ad altro, bere e fare la scema. So quello che sto facendo e sono quasi certa sia uno dei modi migliori di affrontare la situazione nella quale mi trovo.”

Valentino non disse nulla in risposta, con tutta probabilità continuare a criticare le sue scelte non le sarebbe stato d’aiuto: non potendo in nessun modo renderla felice come lei avrebbe voluto, era perlomeno in grado di fare sì che Milena si sentisse un po’ meno triste. La prese nuovamente per mano e la guidò fin dietro il palco.

Davide “Gatto” Catelli aveva quella spavalderia tipica dei frontman di quei gruppi musicali che non rientravano nemmeno nelle spese del metano per andare a suonare nei locali dove venivano chiamati: è necessaria una certa abilità per attirare e intrattenere un pubblico che non sa nemmeno quale sia il nome della band che è appena salita sul palco.

Era in piedi, con le mani nelle tasche e la punta della cravatta infilata nel taschino della camicia, intento a parlare con Fabio il batterista e Luso il chitarrista davanti al baule aperto della Punto: appena vide Valentino, si allontanò dagli altri due e lo raggiunse.

“Lei è Milena, la mia amica che ti dicevo.”

“Ma la conosco, è la nostra groupie numero uno”, sorrise Gatto tendendole la mano. “Davide, piacere. Devi lasciarti offrire qualcosa da bere, ci segui sempre ovunque, è il minimo. Mi offendo se rifiuti.”

“Allora mi tocca accettare”, rispose Milena stringendogli la mano.

Nel vederli girargli le spalle per dirigersi verso il chiosco dei cocktail, Valentino si sentì uno squallido pappone.

“Gatto”, disse. L’altro si voltò. Valentino lo guardò fisso negli occhi e Gatto annuì.

Salutò gli altri due ragazzi e si avviò verso il punto in cui aveva lasciato Michele: durante il tragitto svuotò il bicchiere di birra e lo buttò nel primo bidone lungo il percorso.

Fece appena in tempo ad accendersi una sigaretta prima che la scena che si trovò davanti superato il muro di gente lo paralizzasse.

 


N.d.A.

Mi ero ripromessa che non l'avrei fatto anche in questa storia, e invece ecco qui un capitolo flashback. Non riesco a ridurre alcune situazioni del passato dei personaggi ad accenni nella narrazione principale, cosa abbastanza strana dato che il dono della sintesi scorre potente in me (spesso più di quanto gradirei). 
Oltre a un marchio di fabbrica che mi continuo ad augurare non sia troppo fastidioso per il lettore, in questa prima parte avete potuto essere spettatori di una mia pessima esibizione in "Descrivere gente che fa spostamenti ripetuti in uno spazio circoscritto": non pensavo mi avrebbe causato così tanti problemi. Spero di riuscire a smussare un po' l'impressione meccanica in fase di revisione: arrivata al punto di voler sbattere la testa sulla tastiera mi sono convinta a lasciare tutto così, per il momento.
Ma passiamo alle cose interessanti: voi. Perché ringraziarvi non è mai abbastanza. Come al solito voglio dedicare un po' di tempo esclusivamente alle risposte per le recensioni quindi salvo imprevisti ci si sente domani o dopodomani.
A presto!

 

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Capitolo 8
*** Capitolo Sesto - Parte Seconda ***


 

Valerio ascoltò con attenzione ogni singola parola del racconto di Valentino, senza tuttavia riuscire minimamente a empatizzare con lui. Non avendo mai vissuto nulla del genere gli era impossibile sentirsi coinvolto emotivamente e non era da escludersi che nella parte più oscura, putrida ed egoista del proprio cuore, in fondo in fondo, un po’ ci godesse.

“Mi dispiace”, mentì Valerio.

Fetta!” rispose Valentino con il primo sorrisetto dopo giorni, meno amaro di quanto Valerio si sarebbe aspettato. Alzò gli occhi verso le scritte luminose arancioni del tabellone della fermata dell’autobus e, dopo aver tirato su con il naso, aggiunse: “Ancora tre minuti.”

La pioggia era così fine e leggera da essere in balia dell’aria: fregandosene della forza di gravità, l’acqua quasi nebulizzata cadeva orizzontalmente, rendendo di conseguenza inutile la copertura in acciaio e plastica trasparente sotto la quale si trovavano i due ragazzi, un’anziana signora infreddolita e una madre sudamericana con un passeggino.

“Vederti giù di morale non mi rende felice. Mi infastidisce parecchio, anzi.”

“Passerà. Alla fine dei conti, passa sempre tutto.”

Il viso di Valentino era magro, dai lineamenti affilati: il naso dritto e le sopracciglia naturalmente sottili erano intonati all’insieme. Erano invece fuori dal coro i suoi occhi castani e il sorriso, dolci e morbidi come la sua voce, come il suo modo di parlare calmo e pacato.

“Scusami, in questi ultimi giorni sono stato una merda. Mi sono sentito come se si mi fosse salito soltanto ora il male di una botta presa mesi fa, avevo voglia di medicarmi la ferita da solo rendendo però le persone che mi stanno intorno ben consce della mia sofferenza. I miei modi di elemosinare le attenzioni altrui sono sempre molto stupidi.”

Salire sull’autobus nei giorni di pioggia era come tentare di infilare un libro nello scaffale già pieno della libreria, eppure l’avere la guarnizione dell’uscita dell’autobus che si apriva e chiudeva a un centimetro dal naso di Valerio era uno scotto degno di essere pagato. Perfino l’odioso riscaldamento a manetta unito al calore del motore in coda all’autobus era reso più sopportabile grazie alla sensazione del corpo di Valentino premuto contro al proprio. Dal canto suo, Valentino avrebbe voluto scusarsi per la vicinanza obbligata, ma era consapevole che per Valerio il contatto era tutt’altro che causa di fastidio. E alla fin fine, anche a lui non dispiaceva. Avrebbe dovuto comunque scusarsi, fingendo di non rendersene conto, in modo da non creare situazioni imbarazzanti? Oppure starsene zitto e lasciare che la condizione di tensione omertosa si acuisse ancora di più? Nel suo ruolo di Regina di Cuori infranti, qualsiasi azione o non-azione avesse compiuto nei confronti di Valerio sarebbe stata sbagliata o comunque fraintendibile. Ignorare l’interesse palese di Valerio significava prenderlo in giro. Intraprendere qualcosa a livello fisico significava usarlo per necessità fisiologiche. Lasciare uno spiraglio per un eventuale percorso sentimentale non sarebbe sembrato credibile e sarebbe stato interpretato come una necessità fisiologica camuffata. Una bella situazione del cavolo. Valentino sospirò, cercando inutilmente di sistemarsi i capelli umidi con la mano che non stava stringendo la sbarra di ferro del bus. Era frustrante. Avrebbe fatto meglio a sorvolare su tutto quanto, a evitare la sceneggiata dell’anima in pena, a non confidarsi. Magari adesso Valerio provava compassione e pena nei suoi confronti. Con Michele era sempre stato tutto molto semplice, lui di problemi non se ne faceva mai: se ne fregava di tutto e tutto andava bene, non c’era ostacolo che non potesse essere superato con un’alzata di spalle. Era il suo maggior pregio ma anche il suo più grande difetto. Aveva reso l’inizio della loro storia una vera passeggiata, ma la stessa leggerezza nell’affrontare l’epilogo era stata fuori luogo. Aveva alzato le spalle e detto “Ok”.

Michele era stata la soluzione più comoda, l’unica a portata di bicicletta. L’amore era stata la conseguenza, non il punto di partenza. Michele non era uno stronzo insensibile, era soltanto rimasto più lucido, evitando di cadere in una iper-idealizzazione nobilitante del loro rapporto. Al contrario di Valentino.

Le luci delle auto, dei lampioni, si rifrangevano attraverso le gocce che scorrevano sulle lastre di plexiglass dei finestrini, scomponendosi in puntini luminosi nell’oscurità. Le giornate stavano diventando troppo corte. Il traffico congestionato dalla pioggia aveva allungato i tempi della corsa dell’autobus, ma i ragazzi avevano comunque un buon anticipo sull’orario di partenza dei rispettivi treni. Valerio sospirò. Il fatto che Valentino non tentasse minimamente di spostarsi lo stava mettendo in agitazione. Probabilmente voleva soltanto mantenere una posizione vantaggiosa per potersi sistemare i capelli con il riflesso del finestrino. Era appena uscito da una storia importante, inutile farsi strane idee o sperare di essere nei suoi pensieri, aveva sicuramente altre vicissitudini da gestire, approfittare della sua fragilità sarebbe stato da infami. A meno che non fosse lo stesso Valentino a volerlo, in tal caso sarebbe stato Valerio a essere sfruttato per sopperire a qualche mancanza. Non sarebbe nemmeno stato spiacevole sotto un certo punto di vista, ma per il resto… Non era esattamente ciò che stava cercando. Per quello c’erano le App attraverso le quali aveva da tempo sperato di trovare altro rispetto a quello che realmente offrivano, senza ottenere alcun risultato.

Le porte dell’autobus si aprirono con uno sbuffo sommesso davanti all’ingresso della stazione, Valerio smise di massacrarsi il labbro inferiore con i denti e scese con un piccolo balzo, sistemandosi la fascia della tracolla sulla spalla.

Arrivati sulla piattaforma che separava i binari con direzioni opposte, Valentino si accese una sigaretta: il treno di Valerio era già arrivato e attendeva di inglobare gli ultimi passeggeri prima della partenza.

“Vado. Ci vediamo lunedì”, sorrise Valerio.

Valentino si avvicinò alla porta del treno che aveva appena attraversato Valerio: “Domani sera suono all’Arci **** che c’è vicino alla nostra sede. Se vuoi venire, l’Eugenia mi ha detto che se non va da suo papà lei c’è. Immagino che di conseguenza si materializzerà anche Paolo.”

“Se riesco a convincere qualche mio amico, volentieri. Non vorrei tenere il lumino tutto il tempo”, rispose l’altro, consapevole che sarebbe andato da solo e che la presenza di Paolo e dell’Eugenia, soli o in coppia, era tutt’altro che importante.

Valentino divenne improvvisamente euforico, anche i capelli disastrosi sembravano aver cessato di essere motivo di tedio: “C’è anche una mia amica, non sarai comunque da solo. Allora spero di vederti domani. Ciao, Vale!”

“Ciao, Tino.” Valerio cercò di mantenere la cordialità senza lasciarsi sopraffare dall’entusiasmo. Quando la porta si richiuse automaticamente tra di loro, non poté evitare di sorridere inebetito. Nemmeno i taglietti che gli torturavano le labbra erano un problema.

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Capitolo 9
*** Capitolo Sesto - Parte Terza ***


 

 Mise in pausa la partita e tese l’orecchio nel silenzio della propria casa vuota. Un secondo trillo di campanello, più prolungato del primo, confermò il sospetto di Michele che ci fosse qualcuno alla porta. Bevve un sorso dalla bottiglia di birra, appoggiò il controller dell’Xbox sul copriletto e infilò la prima felpa che si trovò sotto mano sopra la maglietta. Scese le scale e guardò attraverso lo spioncino: un uomo adulto che suonava alla sua porta alle otto e mezza di venerdì sera. L’oscurità gli impediva di distinguere con precisione di chi si trattasse.

“Chi è?” chiese.

“Vittorio.”

Porco zio. Michele appoggiò la fronte alla porta in legno e si maledisse per aver fatto capire al visitatore indesiderato che c’era qualcuno in casa. Se avesse tirato una testata abbastanza forte, forse sarebbe svenuto e avrebbe risolto il problema. Prese un profondo respiro e aprì con un sorriso volutamente fasullo.

Un uomo distinto, alto, con una mano nella tasca dell’impermeabile e con le chiavi della macchina che roteavano intorno all’indice dell’altra gli sorrise in risposta, molto cordialmente: “Ciao, Michi. Sai se c’è qualcuno in casa mia?”

Michele si sporse oltre la porta e guardò a sinistra, verso l’abitazione accanto: “Pare di no, è tutto spento.”

“Mio figlio è con te?”

Il ragazzo fece schioccare la lingua e scosse la testa.

“Quando torna?”

“Non lo so di preciso, mi dispiace.” Non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di comunicargli che la loro storia era finita.

Il padre di Valentino ridacchiò sommessamente.

“Le mie chiavi non entrano più nella serratura.”

“Sarà l’umidità, senza dubbio. Non lascia tregua in questo periodo dell’anno da queste parti. Legno dilatato, ruggine, cilindri poco oliati. Dovrebbero cambiare i serramenti per evitare una serie di incidenti fastidiosi.”

Nessuno dei due aveva la minima intenzione di abbassare lo sguardo o togliersi il sorrisetto di compatimento dalla faccia: le volte in cui erano stati costretti a relazionarsi se l’erano sempre giocata in quel modo, con un fuoco incrociato di frecciatine sarcastiche e insofferenza. Michele non poteva certo tirare un pugno a un uomo adulto e il papà di Valentino si tratteneva dal prendere a ceffoni un ragazzino che nemmeno era figlio suo, per quanto maleducato fosse.

A confronto con Ferri senior, Milena gli stava perfino simpatica. Avrebbe sopportato due miliardi di serate con la Milena in mezzo alle palle piuttosto che un solo istante nelle vicinanze di Vittorio Ferri: la ragazza era ingenuamente ignara del fatto che il suo unico problema agli occhi di Valentino consisteva nel fatto di non essere un maschio, Michele aveva impiegato anni per capirlo. A Titti dispiaceva non poterla amare, non solo per lei, ma anche per se stesso. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, era stato sotterrato davvero abilmente.

Michele avrebbe tollerato di più una stoica e testarda mancanza di accettazione da parte del padre di Valentino: vedere la persona che amava mentre veniva costantemente presa di mira da un idiota senza poter fare niente di sostanziale era straziante. Titti non aveva problemi a rispondergli assecondando la presa per il culo: più Valentino gli dava corda, più suo padre rincarava la dose. Forse, ma Michele ne dubitava, il signor Ferri era così imbecille da credere davvero che fosse divertente, che buttarla sul ridere servisse a rendere il tutto più piacevole, ma nella realtà dei fatti sviscerare ogni dettaglio della sfera privata del proprio figlio adolescente e ridicolizzarlo era imbarazzante e umiliante. E Michele era quasi certo che l’intento fosse realmente quello.

“Ti sarai anche dato una ripulita, ma rimani sempre il solito coglione strafottente.”

Nel sentire quelle parole inaspettate, Michele incrociò le braccia davanti al petto e si appoggiò con la spalla allo stipite della porta. Senza smettere di sorridere.

“Mi sono sempre chiesto perché abbia scelto te, con tutti i froci che ci sono in giro.”

In quel momento, sotto il portico di casa dei Della Vedova, in uno dei loro rari faccia a faccia senza nessun altro intorno, quei trent’anni di differenza sembrarono stranamente effimeri. Un po’ come la pioggerellina fine che impestava l’aria, impossibile da ignorare, ma quasi impalpabile.

“Sono uno dei più carini della provincia.”

“Anche quello più a portata di mano.”

“Quando la pelle tira, che sia per la prima moldava che passa o per l’amichetto vicino di casa... Capisci cosa voglio dire, no? Dopotutto, siamo uomini.”

“Mio figlio lo sarebbe stato, se non me l’avessi fatto diventare un finocchio come te.”

Michele strabuzzò gli occhi e si trattenne dallo scoppiare a ridere in faccia all’uomo: “Sono abbastanza certo che non funzioni così.”

Il padre di Valentino sospirò esasperato. “Digli di venire giù, per favore. Ho una cosa da dargli.”

“Valentino non è qui. Davvero.”

“Gliela puoi fare avere tu, allora? L’ho trovata l’altro giorno durante il trasloco.”

Michele annuì debolmente prendendo la fotografia che il signor Ferri gli aveva allungato. La guardò e sorrise. Valentino, tra i tredici e i quattordici anni, che rideva estasiato verso l’obbiettivo mentre abbracciava il bassista Faso, suo idolo incontrastato.

“Ci avevi portati tu a Modena al concerto”, disse Michele.

“Avevo dovuto accontentare Valentino, mi aveva preso per sfinimento.”

“E’ un cagacazzo professionista quando si impegna.”

“Abbastanza. Adesso vado. Volevo farlo io, ma se riesci a dargliela da parte mia… Sarebbe gentile.”

Michele annuì di nuovo. Dopo averlo ringraziato, il padre di Valentino si avviò verso la propria automobile, sotto la pioggia.

Michele ritornò in casa e si sfilò il cellulare dalla tasca dei pantaloni della tuta. Andò in cucina, si accese una sigaretta e avviò la chiamata.

Milena iniziò la conversazione con un sì? carico di diffidenza.

“Sei a Bologna?”

No, sono a casa.

“C’è Valentino lì con te?”

Non sono affari tuoi.”

Modo non troppo carino per dire che sì, Valentino era con lei.

“Va bene”, sospirò Michele. “Dunque, è passato Vittorio e mi ha dato una cosa da far avere a Valentino. La passi a prendere te?”

Dice di lasciargliela sotto lo zerbino.”

Michele guardò perplesso i bordi già ondulati della vecchia fotografia: “Digli che non sarebbe il massimo, si rovinerebbe peggio di così.”

Cassetta della posta.”

“Ok, ciao.”

Chiuse la chiamata e rimase per qualche istante a occhi chiusi, inspirando ed espirando a fondo per farsi passare il nervoso che gli stava quasi per arrivare alle tempie. Lui non si incazzava mai, tutto gli scivolava addosso. I problemi nella vita erano altri. Venire prima preso a pesci in faccia ed essere poi trattato con sufficienza come ringraziamento era qualcosa che non scalfiva nemmeno Michele Della Vedova, il solito coglione strafottente. Aveva voluto tutelare Valentino in tutti i modi possibili conoscendo alla perfezione il rapporto che aveva con il padre, rimettendoci lui stesso senza nessun obbligo di farlo, e l’altro gli parlava tramite la sua amichetta.

Chiuse lo sportellino metallico della cassetta della posta di casa dei Ferri dopo aver fatto scivolare la fotografia nella fessura. Si incamminò lungo il marciapiede e raggiunse l’incrocio con il cappuccio della felpa ormai fradicio. In fondo alla via, le luci al primo piano della casa della Milena erano accese.

Rabbrividì e si strinse nelle spalle, avviandosi verso casa propria. Andava bene così. Lui non era il tipo da scenate.

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Capitolo 10
*** Capitolo Settimo ***


 

Valentino singhiozzava a testa bassa, Michele guardava per aria con espressione annoiata: il Don, fieramente impettito in mezzo ai due ragazzini, salutò il padre di Michele con un gelido buonasera. Li teneva entrambi bloccati stringendoli per la spalla, cosa che a Francisco non stava piacendo un granché.

“Si sono picchiati di nuovo?” chiese l’uomo dopo aver spostato lo sguardo dalle mani grassocce di Don Pietro ai suoi occhi acquosi.

“Non esattamente. Gradirei parlare anche in presenza della signora Ferri.”

Valentino si mise a uggiolare più forte e Michele gli tirò una manata sul braccio.

“Credo sia uscita. Cos’avete fatto?” chiese rivolto ai bambini, cominciando a preoccuparsi. Per qualche ignoto motivo a Francisco passò per la testa che Michele e il suo amico avessero crocifisso un animale, ma l’azione più violenta che gli aveva visto compiere su altri esseri viventi era portare il cane dei vicini a farsi la pipì addosso a forza di complimenti e carezze, per poi arrivare loro stessi non troppo lontani a una situazione simile per le risate. Erano una coppia buffa, quei due. Il primo, magro come un chiodo e perennemente ingobbito, aveva uno sguardo dolce che non si spostava quasi mai da terra, incorniciato da un paio di occhiali da vista troppo pesanti e impegnativi per un ragazzino di quell’età, che scivolavano in continuazione lungo il setto nasale. Miguelito, il suo bambino, fiero e impettito nonostante quella manciata di chili in più che si portava dietro dall’adolescenza, con il suo solito sorriso furbetto con il quale poteva prendere in giro chiunque tranne il suo papà. Dopotutto, la faccia da schiaffi da qualcuno doveva pur averla presa.

“La catechista mi ha riferito di averli visti baciarsi nel parco giochi dell’oratorio.”

Il padre di Michele non poté evitare che il proprio sopracciglio sinistro si sollevasse.

“Stavamo solo scherzando”, sospirò Michele, scocciato.

Il Don ignorò il ragazzino: “Quest’anno sarebbe il termine del cammino per il sacramento della Cresima, signor Della Vedova.”

L’uomo incrociò le braccia e scosse la testa aggrottando le sopracciglia: “Cosa intende?”

“Non vorrei fosse sintomo di altro. E’ mio dovere consigliarle di arginare il problema sul nascere.”

Francisco avrebbe potuto sminuire la situazione calcando la mano sul dettaglio più palese, facendola passare per una ragazzata. Altro? Hanno tredici anni, Don. Cerchiamo di essere un pochino concreti, per una volta. Ci siamo passati pure noi. Una giustificazione da padre spaventato dal confronto, che pur di non avere problemi incolpa un’entità astratta come la pubertà. Si sarebbe evitato davvero un sacco di menate e probabilmente il Don avrebbe chiuso un occhio sulla faccenda, nessuno si sarebbe fatto male.

Eppure non era nel suo stile, nemmeno lontanamente. Il Valentino del futuro ci si sarebbe rivisto parecchio.

“Credo di non aver capito bene. In che modo la sessualità di mio figlio dovrebbe essere un problema? Perché devo vedere il suo migliore amico in lacrime sulla mia soglia di casa? Si è scomodato a venire fin qua con l’intenzione di umiliarli come si deve, vero? Lei è soltanto un tramite, se qualcosa nella condotta di questi due bambini non fa piacere a Dio nostro Signore, sono certo che nella sua infinita onnipotenza sarà in grado di prendere tutti i provvedimenti del caso. Dovrebbero pentirsi per un gesto così pieno d’amore? Allo stesso modo in cui a me e a mia moglie era stato chiesto di pentirci per aver avuto il nostro unico figlio al di fuori dal sacramento del Matrimonio? Avremmo dovuto pentirci della gioia più grande della nostra vita, secondo la vostra logica malata.”

“Ci sono regole da rispettare, signor Della Vedova. E le conseguenze delle vostre scelte come genitori sono evidenti. Non è già questa una prova della Divina Provvidenza?”

Michele vide gli occhi verdi del padre spalancarsi e il suo viso perdere l’espressione da simpatico bonaccione che aveva solitamente: pregustò i pochi istanti di silenzio irreale che facevano da preludio alla tempesta, approfittando del momento favorevole per divincolarsi dalla presa del Don e trascinare Valentino per un braccio su per le scale, entrando in camera propria. Chiuse la porta, accese lo stereo e alzò il volume del cd dei Linkin Park fino a coprire il litigio che stava avvenendo al piano di sotto.

“Piantala di piangere”, disse a Valentino, che nel frattempo si era raggomitolato contro l’armadio con le ginocchia al petto.

“Se non mi fan fare le Cresima, mia mamma mi ammazza.” Si tolse gli occhiali e cominciò a strofinarsi gli occhi. “E poi se lo viene a sapere la Chiara, mi molla di sicuro.”

Michele si coricò sul letto faccia al soffitto e sospirò: “Non dovevi chiedermelo se era un problema.”

“E tu non dovevi dirmi di sì.”

“Quindi adesso è colpa mia? Sai che cazzo me ne frega della Chiara, a me?”

“E’ colpa tua perché sei un ciccione di merda. Potevamo nasconderci sullo scivolo come ti avevo detto, ma tu sei troppo pigro.”

“Solo i fifoni si nascondono”, disse stringendosi nelle spalle.

Valentino si alzò dal pavimento e si stese accanto a Michele. Non era colpa sua e un era mai stato di merda. Stare vicino a lui lo faceva sentire al sicuro.

“Io ho paura.”

“E di cosa?”

“Di tutto. Sbaglio sempre, in tutto quello che faccio. Mi dispiace averti messo nei casini, volevo solo capire cosa si provava.”

“Ti ho aiutato volentieri a capirlo.”

Rimasero qualche istante in silenzio, fissando entrambi il lampadario bianco che pendeva sopra i loro occhi.

“Mi ero sempre chiesto perché tua mamma non avesse il vestito normale da sposa nelle foto del matrimonio, sai?” disse Valentino dopo essersi schiarito la voce.

“Si sono dovuti sposare in comune, e come hai visto a mio papà non è mai andata giù”, sorrise Michele. “Vedrai, andrà tutto bene. Fidati di me.”

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Capitolo 11
*** Capitolo Ottavo ***


 Valerio diede una banconota da dieci euro alla ragazza seduta al tavolino all’entrata del locale, la quale li ripose con cura nella cassettina e gli porse in cambio la tessera appena compilata con i dati del modulo di adesione.

“Grazie e buona serata”, sorrise lei avvolta nella sua sciarpa di lana rossa.

Valerio non le rispose immediatamente: la sua attenzione fu catturata dalla voce di Valentino che, dall’interno del locale, cantava al microfono sopra a un’allegra base ska.

...Spero tu vorrai cagarmi almeno un poco. Vuoi metterti con me, guardarmi male e dirmi ancora: ‘Fanculo a te, sei troppo un cesso, tua mamma gonfia banane giganti - a mazzi da sei!’”

“Si stanno facendo il sound-check da soli”, disse la ragazza vedendo l’espressione perplessa di Valerio. “E’ da un’ora che cantano canzoni idiote, per fortuna abbiamo aperto poco fa e non li ha sentiti nessuno. Li conosci?”

Che cosa vuoi - io farei di tutto solo per un poco di petting… Gatto, tira su la chitarra del Luso qui!

“Sarei credibile se dicessi di no?”

La ragazza ridacchiò e Valerio entrò un po’ timoroso nel locale vuoto: appena lo vide, Valentino agganciò il microfono sull’asta e trotterellò in mezzo ai tavoli per raggiungerlo.

“Sei arrivato presto”, disse affannato aggiustandosi la fascia del basso sulla spalla. Teneva la tracolla parecchio corta, la punta superiore del corpo dello strumento era all’altezza del suo sterno. Non che fosse una sorpresa, avendo già notato la postura da concerto di Valentino e il suo basso da mancino nelle foto di Facebook. Ma dal vivo sembrava ancora più strano. “Dovevi chiamarmi fuori, così ti passavo la mia tessera e entravi senza pagare. A noi non l’hanno controllata.”

“Non è un problema.”

“Allora fatti segnare quello che prendi sul nostro conto, per favore.” Valentino si grattò nervosamente la fronte. “Poi ti devo parlare di una cosa. Sei hai pazienza rimandiamo a dopo il concerto. Intanto siediti a quel tavolo vicino alla console, ok? La ragazza è la mia amica Milena.”

Il ragazzo che prima si trovava alla postazione del fonico aveva nel frattempo preso il posto di Valentino davanti al microfono: “Giustamente è quasi Novembre e siamo in pianura padana, ma pensavo che mancasse ancora qualche settimana alla Sagra della Salsiccia.

Tino era di norma di una tranquillità disarmante, strano vederlo così agitato.

Solo per oggi fave Conad in offerta in Corsia 6!”

“Devo parlarti anch’io”, disse Valerio tutto d’un fiato prima che l’altro si allontanasse e mollasse un pugno sul braccio del ragazzo al microfono per poi rispedirlo alla console.

Valerio si sedette al tavolo indicato e sorrise in risposta alla ragazza che lo stava fissando allegra.

Gli sorrise amichevolmente. Il rossetto opaco rosso fuoco le donava, benché il contrasto tra la sua pelle pallidissima e i capelli corvini la facesse apparire vagamente spettrale.

“Non ascoltare quello che dice Gatto, è il buffone del gruppo. Non riesce proprio a evitare di essere imbarazzante”, disse Milena.

L’altro si girò verso di loro e fece l’occhiolino: “Adoro prendere in giro Valentino, un giorno riuscirò a farlo incazzare.”

Il tizio chiamato Gatto ricordava vagamente Nick Cave ai tempi della copertina di From Her to Eternity, ma aveva dei lineamenti più gradevoli e decisamente meno equini. I capelli neri come la pece e gli occhi blu erano sempre un abbinamento efficace, e a Valerio sembrò che Milena non fosse del tutto immune a quel fascino. Aveva sbuffato e scosso la testa infastidita quando il ragazzo aveva parlato, ma appena quest’ultimo si era rimesso a maneggiare con la console, lei si era messa a fissarlo uno sguardo quasi malinconico.

“Prendiamo qualcosa da bere al bancone?” le chiese Valerio.

Milena ritornò dal suo viaggio mentale oltre le nuvole e sorrise dolcemente: “Certo.”

Ordinarono due birre e si sedettero sugli sgabelli davanti alle spine. Dopo aver fatto incontrare i due boccali, la ragazza si portò la birra alle labbra e deglutì: “Allora, cosa mi dici di questo Titti universitario?”

“Titti?” ripeté Valerio divertito.

“Sì, scusa, noi lo chiamiamo così.”

“E’ un tipo molto serio, ma anche divertente. Non so come faccia a reggere gli spostamenti in treno, con quegli orari. Io sarei devastato.”

“Abitiamo in un buco di culo. Io mi sono dovuta trasferire a Bologna, infatti. All’inizio ho provato a fare avanti e indietro, ma era improponibile.”

Valentino si stava esibendo in una versione semplificata – e anche decisamente stonata - di In un giorno di pioggia, suonata con una chitarra, un basso e una batteria.

I tuoi esulti parlano lingue straniere, si addormentano soli - sognando i tuoi cieli, si ritrovano persi in paesi lontani - a cantare una terra di profughi e santi. E’ in un giorno di pioggia che ti ho conosciuta, il vento dell’Ovest rideva gentile...

“Non c’è nessuno del vostro paese che fa l’università qui e potrebbe prenderlo su in macchina?”

Milena fece un sorrisetto tirato: “Se rispondessi di no ti mentirei.”

“Capisco”, disse Valerio cercando di non apparire troppo infastidito. Si schiarì la voce senza alzare gli occhi dalla schiuma della birra: “Potrebbe venire qui, stasera?”

Il locale stava lentamente iniziando a popolarsi. Non aveva nessuna intenzione di passare la serata in uno stato di allerta alla ricerca di una faccia che aveva visto solo in versione bidimensionale, spulciando in modo vergognoso sul profilo Facebook di Valentino.

“Non te lo so dire. Non l’ho mai capito fino in fondo, quel ragazzo. Credo non abbia mai voluto farsi capire.”

“Il solito tipo misterioso, ribelle e problematico, immagino. Di quelli che vanno un casino.”

“Tutt’altro. Michele è di una lucidità e determinazione disarmanti. Credo non abbia mai voluto farsi capire da me”, disse Milena.

“E’ assurdo. Dal momento in cui ho messo piede qui dentro, mi sono trovato tra persone che ne sanno più di me riguardo a quello che sta succedendo. Io non vi ho nemmeno mai visti.”

La ragazza sorrise: “Se Valentino chiede a qualcuno di andarlo a sentire suonare, può significare soltanto una cosa. Lo conosciamo abbastanza bene.”

“Ma io non lo conosco quasi per niente. E lui non conosce quasi per niente me.”

“Forse non ti sta facendo l’elenco dei suoi piatti preferiti e non ti sta dicendo quali capitali europee ha visitato, ma direi che guardando verso quel palco potresti avere una diapositiva piuttosto precisa di questa parte della sua vita. Fanno un genere che sta tornando di moda in questi ultimi tempi ma lo suonavano anche quando non se lo cagava nessuno, non si pubblicizzano per niente perché non hanno ambizioni assurde, è soltanto per divertimento. Hanno dovuto imparare a farsi i suoni da soli perché non potevano permettersi di dividere i cachet già ridicoli con un fonico esterno, raramente i locali gli fornivano fonici di fiducia. Anche se è soltanto una passione senza pretese, ci tengono davvero: tutti vestiti e pettinati alla stessa maniera, con una strumentazione di tutto rispetto e un’ottima capacità di esecuzione. Se ti avesse soltanto detto che suona in una band senza renderti partecipe, sarebbe stata una conoscenza molto più superficiale.” Milena abbassò lo sguardo sul boccale che teneva tra le dita, e proseguì: “Il problema è che Valentino tende a essere indiretto, quando manifesta le proprie emozioni e i propri pensieri. Cerca di portarti a intuire ciò che deve esprimere senza riuscire a farlo in modo esplicito. Per come lo conosco io, credo che questo sia il suo più grande difetto.”

 

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Capitolo 12
*** Capitolo Nono ***


“Mia mamma è incinta”, disse Valentino.

Michele impiegò qualche istante a elaborare l’informazione.

“Di chi?” chiese continuando a premere i tasti sul controller.

Valentino proseguì facendo lo stesso: “Di mio papà, pare.”

“Sono tornati insieme?”

“Lui ritornerà a stare a casa in settimana, quindi penso di sì.”

“Dovrò dire a mia mamma di mettere il materassino qui in camera.”

Valentino appoggiò il controller sul materasso del letto del Michele, senza essere minimamente infastidito dal K.O. appena subito a Tekken. “Stavolta sembra diverso. Sono andati dal dottore insieme e balle varie, l’hanno presa bene tutti e due. Pensa che è stato lui a chiamarmi, me l’ha detto piangendo. Era felice. Magari è un nuovo inizio e potremmo riuscire a essere una famiglia normale.”

“Sarebbe carino. Quanti anni ha l’Irene?”

“Quarantuno. Perché?” chiese aggiustandosi gli occhiali sul naso.

“Da quello che so non è il massimo avere un bambino così tardi. Possono esserci dei problemi gravi.”

Valentino si strinse nelle spalle: “Vedremo come va.”

“Ho scaricato la nuova di Lost, la guardiamo?”

“Devo beccarmi con la Benny tra un quarto d’ora.”

“Allora la guardo da solo e poi te la racconto.”

“Vai a cagare.”

Il ventilatore ronzava sommessamente alla sinistra dei due ragazzini. L’attenzione di Valentino venne catalizzata dal livido viola-rossastro sul collo dell’amico, spuntato dal colletto della t-shirt nel momento in cui si era chinato per collegare lo schermo del televisore al portatile. Da quando si era invasato con la pallavolo l’anno prima, Michele aveva messo su due spalle impressionanti. Se solo ne avesse avuto voglia avrebbe potuto farla pagare con gli interessi a tutti i bambini che l’avevano infastidito fin dalla scuola materna.

“Cos’hai sul collo?”

“Un succhiotto.”

Valentino ridacchiò: “E chi te l’ha fatto?”

“Gatto grande.” Brutalmente sincero, classico di Michele.

“Il fratello di Davide? Ma a Settembre va in quinta.” Aveva tre anni in più di loro, era maggiorenne, aveva la patente e la macchina. Era troppo grande.

“Infatti se magari potessi non dirlo in giro sarebbe fantastico. Specialmente a Gatto piccolo.”

“I tuoi lo sanno?”

Michele si avvicinò alla finestra e la aprì: l’aria umida e bollente dell’estate cominciò a irradiarsi per la camera. Si accese una sigaretta e lanciò il pacchetto in direzione di Valentino. “Sapere cosa?”

“Che esci con i ragazzi.”

“Mi stai chiedendo se gliel’ho detto o vuoi sapere se l’hanno capito?”

“Non lo so, è uguale.” Valentino prese una sigaretta.

“Come non lo so?” sorrise Michele. “Lo sai, non è uguale.”

“Mi puoi rispondere e basta?”

L’altro sospirò: “Dal momento in cui lo accetti credo non ci sia bisogno di cercare approvazione da esterni. Non mi piace nemmeno troppo il termine accettare, più che altro prendere coscienza. Che l’abbiano capito o meno non mi cambia nulla.”

“Ti fa male sapere di essere diverso dagli altri?”

“Io non sono diverso da nessuno. Faccio quello che mi sento di fare, come più o meno tutti”, disse Michele. “E non fa male. Tutt’altro.”

Valentino i avvicinò alla finestra, accese la sigaretta e si voltò verso Michele, il quale lo stava fissando sornione. Le sopracciglia ad angolo molto marcate – che sarebbero risaltate ancora di più quando, da lì a poco, Michele avrebbe cominciato a ossigenarsi i capelli - gli conferivano costantemente un’aria tra il meditabondo e l’irritato. O tra il derisorio e il provocatore, quando sorrideva. Come in quel momento.

“Cosa c’è?”

“Dimmelo tu.”

“E’ che credo sia un po’ troppo grande per te.”

“Prendo atto del tuo pensiero.”

“Sei il mio migliore amico, è giusto dirtelo.”

“Apprezzo la tua sincerità.”

Valentino guardò l’orario sul cellulare, spense la sigaretta appena accesa e si schiarì la voce. “Devo andare.”

“Ok. Passa un buon pomeriggio, Ferri.” Michele si buttò sul letto e fece partire la puntata di Lost. Valentino pensò fosse un vero pezzo di merda.

 

La ragazzina si precipitò fuori dalle porte dell’autobus non appena si aprirono. Aveva la pelle del viso e delle spalle arrossata e sotto la canottiera azzurra non indossava né il pezzo sopra del costume né il reggiseno. Quando gli gettò le braccia al collo, Valentino poté sentire il leggero profumo di cloro che le permeava i capelli. Le accarezzò la schiena e la strinse piano contro di sé. Era magra e fragile. Troppo magra e fragile.

“Ti sei divertita in piscina?” le chiese.

“Sì!” disse Benedetta. “Ma mi mancavi tu.”

“Hai voglia di un gelato?”

La ragazzina annuì e gli diede un bacio sulla guancia.

Seduti sulla panchina davanti alla gelateria, la Benny smise di sgranocchiare la cucchiaiata di granita alla menta e prese un respiro: “Vale, ti posso dire una cosa?”

“Certo.”

“Oggi la Fabi e la Cate mi hanno chiesto se io e te stavamo insieme. Io gli ho detto di sì, spero non ti dispiaccia.”

“Hai fatto bene.”

“Davvero?”

“Sì.”

La ragazzina si strinse nelle spalle: “Però loro mi hanno detto che dato che non abbiamo ancora limonato è strano dire che stiamo insieme.”

“Questa mi sembra una vaccata”, rispose Valentino leccando la goccia di gelato sciolto che stava per raggiungere le dita con le quali reggeva il cono.

“Anche secondo me”, fece lei guardandosi le punte delle Converse. “Quante ragazze hai già baciato?”

“Qualcuna.”

“Ci stavi insieme?”

“Dipende.”

“Perché non hai ancora baciato me?”

“Non me l’hai mai chiesto.”

“Certe cose non bisogna farle perché vengono chieste. Devono succedere… così.”

Valentino sorrise e sentì il cuore iniziare a battere forte. Non era emozione, era ansia. Gli succedeva sempre. Le mise la mano libera dal cono sulla nuca, accarezzandole i riccioli biondi. Appoggiò le labbra su quelle di lei, fresche e dolci. La lingua della ragazzina era gelida e a Valentino venne in mente la “ghiaccio-lingua” di Scrubs nel peggiore dei momenti. Chiuse gli occhi con tutte le proprie forze per scacciare il pensiero e non scoppiare a ridere. Il gelato gli stava colando sulle dita e sicuramente se quel bacio fosse durato ancora a lungo gli sarebbe sgocciolato sui pantaloncini. Quando era ancora viva, la nonna gli aveva raccontato più di una volta di quanto fosse costantemente sclerata la mamma quando era in attesa di lui, magari si sarebbe infuriata nel vederlo tornare a casa con i pantaloncini freschi di bucato già macchiati di gelato. Avrebbe dovuto da quel momento in poi cercare di trovare un metodo più sgamato per i calzini che usava per pulirsi e che appallottolava per poi ficcarli tra le doghe e il materasso, in attesa di metterli all’ultimo nel mucchio della biancheria già separata appena prima che la mamma facesse la lavatrice. Non era mai stato ripreso per quell’uso improprio anche se di tanto in tanto si ritrovava il sotto del materasso sgombero da calzini, tuttavia era meglio non rischiare, considerando in più che alla mole dei suoi vestiti si sarebbero aggiunti quelli del padre. E anche quelli del fratellino, da lì a qualche mese.

“Fa’ vedere se hai la lingua verde!” disse Benedetta quando il bacio si fu spento.

Valentino tirò fuori la lingua e la ragazzina fu delusa nel constatare che no, non era verde. Appoggiò la testa al petto del ragazzo che aveva la mano imbrattata di cioccolato e fior di latte ma i calzoni fortunatamente intonsi.

Benedetta sospirò: “A cosa pensavi prima?”

Era quasi certo che ai miei calzini sborrati non sarebbe stata la risposta corretta. Michele l’avrebbe detto, Michele non mentiva mai: nei casi peggiori si limitava a essere evasivo o rispondeva con altre domande. Se i suoi genitori gli avessero chiesto cos’aveva sul collo, gli avrebbe detto la verità. Risposta del tutto legittima, a conti fatti: era palese si trattasse di un succhiotto, la domanda posta in quel modo era solo un test per vedere se sarebbe stato così spavaldo da mentire spudoratamente oppure così coraggioso da dire la verità.

“Che sapevi di menta.”

Una bugia che faceva ridacchiare la ragazza che si sta abbracciando non può essere una bugia così grave.

“Sto bene con te, Vale.”

“Anch’io.”

 


 N. d. A.

Mi cospargo il capo di cenere, mi inginocchio a terra con a fronte appoggiata al pavimento e invoco perdono per questa pausa esageratamente prolungata, ma sono stati due mesi intensi. Più di quanto gradirei sopportare, ad essere sinceri. 
Ma parliamo di cose interessanti.
Ancora indietro nel tempo, ancora più o meno la stessa dinamica, ma il motivo di questa scelta è semplice: quali possono essere i problemi standard della vita intorno ai quindici anni se non le varie vicissitudini amorose? Ovviamente mi riferisco alla vita reale senza scossoni devastanti, qui non c'è nessuno che si trasferisce in America e se ne va a fare baldoria. Sto cercando di dare sempre più informazioni sulla psicologia dei ragazzi, scolpendoli pian piano in modo da dare davvero l'impressione che siano personaggi a trecentosessanta gradi. Ci tengo molto che soprattutto Valentino e Michele espongano i propri lati d'ombra e i propri versanti luminosi, a costo di apparire ripetitiva. Sarà piuttosto importante nel presente della narrazione.


Come sempre, gli strafalcioni, le espressioni fortemente localizzate (vedi "sgamato" che ha incredibilmente accezioni opposte tra loro a seconda del contesto) e le volgarità nei dialoghi e nella prosa contaminata dalla mente dei personaggi sono voluti. Mi scuso con i lettori di Reggio e Modena perché temo di avere spolverato con un po' troppo Parmigiano la portata. Sono assolutamente disponibile per qualsiasi consiglio di lessico.

In questo periodo di apparente inattività ho in realtà cominciato la revisione cartacea della storia fino ad ora. Rivedendo i vecchi capitolo mi sono resa conto che ci sarà probabilmente una sovrapposizione temporale non chiarissima per le età dei protagonisti rispetto al capitolo che si concentra sul rapporto di Valentino e Milena: per completezza segnalo che il presente capitolo racconta eventi avvenuti prima (quattordici-quindici anni), mentre in quello pubblicato precedentemente hanno tra i quindici e i sedici anni.
Come cartina di tornasole usate tranquillamente il colore di capelli di Michele, è il punto di riferimento fondamentale ed è impossibile sbagliare.

Grazie e a presto.

N.

 

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