The Future Is Sharp, Brother (No Shadow To Hide)

di Pedistalite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I ***


 

Promises made for convenience

Aren't necessarily

What we need

Truth is a word

That's lost its meaning



 

I

 

Quando apri gli occhi ti rendi conto che devi aver perso la cognizione del tempo.

Forse dormivi, o riflettevi, o avevi un incubo, o ricordavi. Non è importante.

Ma un attimo prima eri in un prefabbricato in Illinois mentre tuo fratello si accoltellava… Cristo, mentre tuo fratello si trapassava lo stomaco con una lama da dodici, Dean che cazzo hai fatto?... E un attimo dopo sei all’ospedale con una sedia di plastica sotto al sedere e l’odore di disinfettante raggrumato nella gola.

 

La mano della tua fidanzata si insinua tra le tue percezioni, (anche se tutto ciò a cui riesci a pensare è Dean, il suo sangue che non si fermava, le tue mani sulla ferita, i suoi occhi appannati, il suo bisbigliare scomposto: Sammy… Sam, io… la telefonata al 911), ne senti il calore, il contatto, prima di scoprirla sulle tue dita, nel tuo campo visivo. La mano è rosea e affusolata, porta l’anello che tu le hai regalato (perché dovete, no, volete, sposarvi) e Jessica ti stringe il polso affettuosamente. Tu risali fino ai suoi occhi. Dean, pensi, Dean non mi ha mai chiamato Sammy…

 

“Sam?” ti scuote Jessica, un po’ incerta. E forse Dean è fuori dalla sala operatoria a questo punto… Lei sembra turbata, esitante. Sa che tu e tuo fratello non siete in buoni rapporti, capisce il tuo stato d’animo, è ovvio… (Carmen, tua madre in sottofondo non fanno che piangere…) ma non si spiega perché sembri così distante. Tu… tu lo sai. Mantieni un ferreo controllo sulle tue manifestazioni emotive, sembri pacato e razionale, ma dentro di te si agita una tormenta di schegge di ghiaccio che ti si conficcano nell’anima facendola a brandelli.

“Ti va un caffè?” le chiedi, di getto, mettendoti in piedi. Non riconosci la tua voce, non ricordi quando è stata l’ultima volta che hai bevuto qualcosa, che hai mangiato, l’ultima volta che hai detto qualcosa di significativo a tuo fratello. Sbatti le palpebre, rimetti a fuoco. Jess si è alzata, per guardarti meglio, le si corruccia la fronte e i suoi occhi assumono una sfumatura acquamarina, come se volesse trattenere le lacrime, l’isteria, ma si sentisse sull’orlo di un baratro. Scuote la testa, “Vuoi che ti accompagni?”

“No,” rispondi troppo velocemente, “Scusa, ho bisogno di fare due passi, schiarirmi le idee.”

Poggi le labbra sulla sua tempia, è alta la tua ragazza, anche con solo un paio di nike infilate di corsa. Indossa una delle tue felpe con la zip, sembra incredibilmente minuta mentre se la stringe attorno al corpo. E tu pensi che in altro momento potresti eccitarti al pensiero che porta qualcosa di tuo con tanta naturalezza, vorresti strappargliela e annusare sulla sua pelle il tuo odore.

Ma abbandoni quel pensiero e ti chiedi se il caffè sarà amaro come il sapore che senti in bocca.

 

Quando ritorni verso di lei (il caffè sapeva di sangue, era dolciastro e denso, non hai potuto berlo, l’hai rovesciato nel lavandino, quando sei finito a vomitare per lo stress in uno dei bagni destinati al personale autorizzato) Jess sta abbracciando Carmen, e tua madre sta parlando con uno dei chirurghi.

Di colpo ti si ferma il cuore e pensi che ti verrà un infarto (è tutto nero, tutto attorno a te diventa labile, rarefatto, vedi solo la schiena del medico, le lacrime di tua madre e la sua espressione dolente mentre annuisce). Ti volti. Appoggi una mano alla parete. L’odore di disinfettante è ancora più forte e ti ritorna la nausea, ma non hai più nulla da rigettare.

Se tuo fratello è morto, (se è in coma, se non si risveglierà mai più), non sei ancora pronto per saperlo. Forse puoi rimandare il momento bloccando il tempo, rimanendo in eterno appoggiato alla parete, lontano da tua madre, dal medico e dalla sua verità.

Ma non è così che può andare.

 

“Sam…”

Tua madre ti costringe pazientemente a voltarti, il suo volto è segnato, ma sembra in sé quando ti dice: “Tuo fratello è fuori pericolo.”

Chiudi gli occhi.

Respiri. Respiri una seconda volta. Dentro, fuori.

Imponi a te stesso di continuare a respirare. Forse sei appena venuto al mondo. Forse stai per morire. E invece respiri. Ti sforzi. Esisti.

Come se fosse normale.

 

Sai perfettamente perché non riesci a convincerti che il peggio è passato.


***


Doveva essere l’estate del 2000 o giù di lì.

Diciotto anni da poco compiuti e una tale voglia di sbronza da spingerti a rubare le chiavi della macchina dalla tasca della giacca di tuo padre e uno degli infiniti documenti d’identità falsificati di tuo fratello (anche se ormai ha l’età legale per bere, a cosa gli servono?).

Il posto è uno come tanti. Lawrence è una cittadina piccola e i bar sono sempre gli stessi, a meno di non andare a sud, verso l’interstatale e fermarsi a uno di quelli con l’insegna al neon traballante e i camionisti che si fumano una sigaretta nel parcheggio prima della consueta rissa con qualche gang di motociclisti. Di solito quel tipo di locali ha sempre un nome innocuo, come Da Joe, o Alla Taverna, o Barbecue Bill, ma è tutta apparenza. Varcata la soglia ci sono i tavoli verdi dove gli artisti della truffa ripuliscono i malcapitati, le salette fumose in cui si nascondono i giocatori d’azzardo, i banconi di legno perennemente bagnato dove bisogna fare sempre attenzione a non dire una parola di troppo. Ma in quel periodo tu di queste cose non sai niente, sei ingenuo e alto e dritto come una freccia. Appena uscito dai libri di scuola, o dal campo di football.

 

Il Roasted Meat è il locale che avete scelto. Un postaccio della peggior specie che tra qualche anno verrà fatto chiudere da un troppo zelante ispettore della commissione d’igiene.

Ti appoggi allo sgabello con un’anca e chiedi la tua prima birra alla barista. Lei è una brunetta tutta curve dall’aria maliziosa, quando ti serve ti fa l’occhiolino e uno dei tuoi amici ti da una gomitata. Ti sforzi di non abbassare la testa o sentirti imbarazzato perché stasera non ti senti un adolescente paffuto con le mani grassocce, ma Sam. Solo Sam. E ancora non sai se è meglio o peggio. Non ti capaciti. Ma intanto hai preso la giacca di pelle che tuo padre ha regalato a Dean per i suoi diciotto anni e l’hai messa addosso. Se hai inalato l’odore di tuo fratello quando ne hai alzato il bavero e carezzato i contorni con le mani adesso non te lo ricordi più. Ti va un po’ lunga, forse è troppo larga nelle spalle, ma la riempirai bene, un giorno, anche se non sarà mai tua.

Ancora non puoi saperlo, ma quando poi ripenserai a quella notte, a quando tutto è cambiato, ti rammaricherai che sia stata l’unica volta in cui hai potuto indossarla. Penserai che quella giacca è un po’ come Dean: avvolgente e soffocante allo stesso tempo. Se fosse tua non sapresti che fartene, non la porteresti mai perché non fa parte del tuo stile da bravo ragazzo all-american-golden-boy, ma non smetti di desiderare di possederla.

 

Alla fine della serata hai bevuto talmente tanto che ti scoppia la vescica. Non sei del tutto certo che i tuoi amici non abbiano organizzato qualche scherzo alle tue spalle, che magari abbiano scommesso su quanto il piccolo dei Winchester possa bere prima di sentirsi male, ma ti diverti ad accontentarli, a farti passare bottiglia dopo bottiglia, svuotare bicchiere dopo bicchiere, osservando i loro risolini e le loro guance rosse da sotto palpebre socchiuse.

Ti alzi, ondeggi un poco e ti sembra che l’alcol si faccia di nuovo strada prepotentemente su per la gola, ma riesci a tenerlo a bada e ti controlli. Si è fatto tardi. C’è un sacco di gente, spintoni per arrivare ai bagni. Una ragazza ti si butta addosso, è ubriaca fradicia, tu la reggi per non farla cadere, ma non ti viene voglia di sbirciarle dentro il vestito.

 

Nei bagni ti accorgi che la tua immagine nel riflesso dello specchio è doppia (ti accorgi dei rumori di sottofondo oltre il chiacchiericcio), dopo che ti sei liberato ti sciacqui la faccia, metti i polsi sotto l’acqua fredda (non vuoi andartene, non vuoi uscire, quei rumori, vuoi sentirli meglio, vuoi capire…), ti giri, senti una vertigine e un rigurgito, ingoi, ti appoggi alla parete, sei di fronte a uno dei box aperti adesso (non puoi fare a meno di guardare, sei curioso, la testa ti gira, e quei rumori…).

 

Vedi due uomini (non sai cosa hai visto, sei troppo ubriaco).

Uno dei due è inginocchiato, l’altro ha la testa rivolta all’indietro, gli occhi chiusi, mantiene una mano nei capelli del compagno, stringe, tira (l’uomo con gli occhi chiusi se li aprisse potrebbe guardarti, forse sa che sei lì e non gli importa, e lo eccita).

All’improvviso ti viene duro, l’erezione ti riempie i pantaloni e non sai perché ti succede, lo trovi perfino un po’ disgustoso, certamente poco pulito (lo sai perché, vorresti che qualcuno ti facesse provare quella sensazione, vorresti affondare il tuo membro in una bocca calda, sentire la lingua sopra di te…) ti tocchi, ti infili la mano nei boxer e sei ubriaco, e non puoi farne a meno, e pensi a Molly Tomphson e a quelle sue gonne troppo corte (pensi che con un uomo sarebbe diverso, meglio, un uomo che ti mantiene i fianchi con le sue mani ruvide e decide l’inclinazione delle spinte e… oddio… ti minaccia con lo spettro dei denti, perché non ha paura di mordere…).

La sensazione non è diversa da quando ti masturbi nella tua camera o sotto la doccia, ma la consapevolezza che quell’uomo, se solo aprisse gli occhi, potrebbe vederti, amplifica le tue percezioni, la frenesia (vuoi che quell’uomo ti veda, vuoi guardarlo bene mentre fotte la bocca del suo compagno e tu fotti la tua mano). Poi abbassi lo sguardo, non ti sei mai sentito così, non sai perché provi quello che provi (lo sai… lo sai…), il tuo membro sotto le dita è spesso e rosso, ti sembra di non averlo mai avuto così duro, ti sembra che Becky Sundrise non ti abbia mai eccitato così con le sue manine e quella boccuccia a cuore dietro gli spalti dopo una partita (poi abbassi lo sguardo e vedi qualcosa, ma sei ubriaco, non sai cosa hai visto…). Ti coglie una vertigine più forte delle altre, e anche se sei sul punto di venire, ti coglie alla sprovvista un’ondata prepotente di nausea che non sai come trattenere e l’orgasmo si blocca (quello che vedi ti lascia sconvolto, non sei preparato, non te l’aspetti… niente, non hai visto niente, sei troppo ubriaco, non sai quello che vedi…).

Non puoi farne a meno, è genetica, è certezza, è un fatto (si, è così, non l’hai mai saputo, ma l’hai sempre sospettato…)

 

Riconosci la maglietta di Dean, nera con una stampa dei Led Zeppelin, eravate insieme in un negozio dell’usato quando l’ha comprata l’estate scorsa (non è vero, è una maglietta comune, potrebbe essere di chiunque). Riconosci la forma della sua schiena, i suoi capelli castani dalle punte più chiare, stranamente i calzini a righe che gli hai visto infilare quella mattina (non riconosci niente, sei ubriaco, non sai quello che vedi, è impossibile). Soprattutto riconosci i gemiti che gli sfuggono quando ingoia più a fondo e porta le mani sopra i fianchi dell’altro uomo, le sue mani hanno al dito il suo solito anello e al polso il suo braccialetto di caucciù, tu ce l’hai uguale e te lo guardi, perplesso (non puoi riconoscere i suoi gemiti, non li hai mai sentiti, se non quella volta, per sbaglio, lui era con una ragazza, ma pensava che tu dormissi, dormissi…)

L’ondata di nausea ritorna. È Dean. Dean sta facendo un pompino a uno sconosciuto nel bagno di un locale mentre tu ti tocchi l’uccello e lo guardi. È la cosa più disgustosa che potesse capitarti (è la cosa più eccitante che ti sia mai capitata…)

 

L’altro uomo (l’uomo che sta fottendo la bocca di tuo fratello) ti sta guardando. Te ne accorgi all’improvviso. Ti domandi confusamente da quanto lo fa, se il fatto che tu sia lì gli piace, glielo drizza di più del talento di chi lo sta succhiando. Ma ti senti sommergere dalla vergogna. Dean non si deve accorgere di te, non può sapere che l’hai visto, che sei lì (non può sapere che razza di deviato sei, a eccitarti mentre tuo fratello è in ginocchio tra le cosce di qualcun altro).

Non è colpa tua, tu non lo sapevi, non potevi immaginare, e poi non è Dean, non può essere Dean. Vorresti accertartene, forse vorresti che il ragazzo inginocchiato ti vedesse, ti guardasse, si accorgesse che non sei nessuno (ma invece devi scappare da lì, perché i gemiti sono diventati più forti, e tutto sta per finire, e non può vederti, ed è Dean, è Dean).

Per la paura l’erezione ti si affloscia. Non ti fermi nemmeno a lavarti le mani, ma chiudi la cerniera lampo di fretta e te le infili in tasca. Fuori dai bagni c’è talmente tanto fumo che ti lacrimano gli occhi, e la confusione del locale, il chiacchiericcio, la musica di sottofondo, il caldo ti fanno sentire a due passi dal collasso. Quando guardi il bancone e il vostro tavolo non riconosci nessuna faccia. Esci nel parcheggio barcollando su ginocchia inferme e non vedi più le due auto di Rob e Jimmy. Non sei in grado di guidare fino a casa, e sai già che tuo padre darà di matto quando domani mattina si accorgerà che gli hai preso la macchina senza permesso e che non hai dormito nella tua camera, ma non puoi farci niente.

Solo che Dean non può riconoscere l’Impala nel parcheggio, o trovarci dentro il suo fratellino che se la dorme della grossa per smaltire la sbronza e lo shock, quando uscirà dal locale per concludere la serata da qualche altra parte (nel letto di qualcun altro…).

Metti in moto, non sai nemmeno come ti trovi davanti al volante, ma guidi al minimo consentito, con i finestrini spalancati e la radio accesa sulla stazione più rock che riesci a trovare, pregando di non incappare in qualche controllo casuale del dipartimento dello sceriffo.

Sei esausto e ammetti con te stesso che non potrai arrivare a casa. Dopo dieci minuti bestemmi contro quei bastardi dei tuoi amici che se la sono svignata e accosti nella prima piazzola di servizio che trovi. La pompa di benzina è chiusa, ma c’è un piccolo supermercato ancora aperto, da fuori puoi vedere il commesso che ti adocchia e poi ritorna alla sua rivista con aria svogliata. Forse dovresti comprare una bottiglia d’acqua, farti cambiare una banconota e chiamare tuo padre dal telefono a gettoni per pregarlo di venire a prenderti. Ma invece, a tradimento, schizzano nella tua mente alla velocità della luce fotogrammi impazziti, ti immagini al posto dello sconosciuto e pensi che potresti morire (per l’eccitazione, la negazione, la vergogna., l’imbarazzo…) poi ringraziando dio ti addormenti di colpo con una mano sul cavallo dei pantaloni e un pugno chiuso in bocca.

 

Quando ti svegli la mattina dopo, con la bocca impastata e i segni dei denti sul dorso, sei certo che tuo padre ti stia già aspettando con le mani sui fianchi sotto al vostro portico, mentre la mamma proverà a calmarlo con qualche parola gentile.

Sai già che sarà una litigata epica, tu sei su di giri da ieri notte (da quando hai visto…) e tuo padre non ti capisce, stai crescendo troppo in fretta e lui non sa più cosa vuoi o cosa può aspettarsi da te. Dean starà smaltendo i postumi dei bagordi nel suo letto, e resterà beatamente ignaro delle sue responsabilità in questa storia (stava solo godendosi una bella serata sulle ginocchia, ma non era il tuo uccello che teneva in bocca.  E perché poi la cosa ti infastidisce?).

Lo sai e non puoi farci niente.

 

Quel giorno, dopo che tutto finisce (dopo che tuo padre ti confisca il documento falso e ti chiede chi te l’ha dato e Dean arcua un sopracciglio quando tu rimani in silenzio), tiri fuori da sotto il letto gli opuscoli per Stanford. Palo Alto. Tutto sommato la California ti sembra abbastanza lontana.

Si, sei quasi soddisfatto della tua presa di posizione, ma non riesci a sorridere.

 

Eppure quello è il momento in cui decidi che partirai.


***


Il letto d’ospedale è troppo grande, le lenzuola troppo bianche e tuo fratello troppo immobile.

Se non ci fossero le macchine a rassicurarti che è vivo, che dorme, che si riprenderà, ti convinceresti che è una statua. E forse ti sentiresti sollevato.

La tua poltroncina è vicinissima al bordo del letto, sei tentato di sfiorare uno dei suoi polpastrelli per capire se è caldo, se è vivo, se veramente esiste, ma ti trattieni. Ti senti emotivamente troppo destabilizzato per tentare una cosa del genere. Una piccola incrinature e la tua maschera di pacato funzionalismo andrebbe in frantumi.

Lo fissi, perché adesso puoi farlo. Perché Dean è nudo e non si nasconde. Perché non può schermarsi dietro ai suoi manierismi e non può impedirti di memorizzare ogni particolare. Né può venire a saperlo. Passano minuti, forse ore. È notte fonda. Hai dato il cambio a tua madre, hai convinto Jess e Carmen ad accompagnarla a casa e a riposare. Vuoi rimanere da solo con tuo fratello, perché avete tanti di quei conti in sospeso che non sapresti da che parte cominciare a saldarli, chiunque sarebbe di troppo fra di voi in questo momento. E poi, al diavolo Dean, apri quei tuoi fottuti occhi di giada e guardami. Il fatto che lui abbia provato a uccidersi… e che tu non sappia il perché… ti fa impazzire.

 

Quando Dean si sveglia ti accorgi che ha le pupille iniettate di sangue. Non sai cosa significa, se è rilevante, se è sintomatico, se è grave, sai solo che il mondo si rimpicciolisce e si condensa al centro del tuo petto, diventa come un chicco di riso, ma assume il peso specifico dell’intero universo.

 

I tuoi ricordi di quella notte sono piuttosto confusi. Sai per certo di aver sorpreso tuo fratello nel salotto buono della casa della vostra infanzia mentre rubava dell’argenteria, sai che ti ha raccontato una storia abbastanza plausibile sul dovere dei soldi a un allibratore, sai che non hai potuto lasciarlo andare da solo e quando Dean si è voltato per bisbigliare: dì alla mamma che le voglio bene, tu hai fatto la tua scelta e l’hai seguito.

“Perché?” “Perché sei comunque mio fratello.”

 

Non sai precisamente quanto è durato il viaggio in auto fino all’Illinois. Se ci pensi il mal di testa si fa talmente lancinante da sembrare una colata lavica nel tuo teschio. Non riesci a mettere in ordine i pensieri: sai che eri a Lawrence, nel vialetto della casa di tua madre, sai di aver aperto la portiera dell’Impala e sai che Dean ha messo in moto e il buio vi ha inghiottito entrambi. Ma non sai perché tuo fratello era così determinato ad andare laggiù (non sai cosa c’era, cosa lui si aspettava di trovare…). Quella notte il magazzino abbandonato ti sembra un set male allestito di un horror di serie b, hai vaghi flash delle pareti sporche, del caos, dei piccoli rumori che di solito indicano roditori e insetti rosicchiare e strisciare nell’oscurità e d’istinto ti si accappona la pelle. Poi, come una sferzata di cinghia, Dean tira fuori quel coltello… non ricordi precisamente come è successo ma la sensazione ti lascia confuso e tremante.

L’ultima cosa che sai (l’ultimo flash, impresso a fuoco nella tua memoria) è quella lama che spunta fuori dall’addome di Dean, il sangue che in gocce dense e piene gli sgorga dalla bocca.

 

Vorresti gridare, ma ti accorgi della differenza.

Razionalizzi. Questo è il presente (quello è il passato).

Dean è vivo, vivo. Lo guardi per accertartene e il sollievo è talmente prepotente da nausearti.

 

Vorresti chiedergli perché l’ha fatto, ma hai paura di saperlo. Alla fine gli fissi la bocca, è arsa.

“Vuoi qualche cubetto di ghiaccio? Lo puoi succhiare per dissetarti…” La voce ti trema. Fanculo, ti senti le guance in fiamme e anche se tuo fratello è ridotto come uno straccio, la mente ti fa un brutto scherzo e alle tue stesse parole congiura una fantasia disturbante. Scuoti la testa e ti alzi, per mostrarti indaffarato, speri che Dean non colga il tuo imbarazzo, non se ne chieda la ragione… è sempre stato così tra voi, in bilico tra tensione, familiarità, connessione, disgusto e rabbia fin da che riesci a ricordartene. E Dean ha sempre fatto finta di non capire, ha sempre scrollato le spalle e portato a casa una parata di ragazze, per rimandare i suoi incontri di altro genere ai cessi dei bar. Ma per quello che ne sai… magari ti sbagli. Magari quello che hai visto a diciotto anni è rimasto un episodio isolato. Magari te ne sei convinto perché sei malato e disturbato, ma non è vero niente e Dean non si è mai inginocchiato in vita sua di fronte a nessun altro che non sia Cristo in croce, la domenica a messa. Merda, sei proprio fottuto: Dean deve averti detto qualcosa ma tu, perso nel tuo monologo interiore, non hai sentito.

 

“Sam…” insiste tuo fratello. Ha la voce rauca, non sarà riuscito a biascicare nulla di più di qualche parolaccia. “Che succede? Perché…”

Non fa in tempo a finire. Prontamente perde i sensi.

Ti risiedi sulla poltrona perché anche se ti tremano le mani adesso non devi più nasconderlo. Ti passi le dita tra i capelli, sono un groviglio troppo lungo e umido di sudore, inizi a sentirti disgustato di te stesso (ma quella è una impressione a cui sei abituato…)

Prima di cercare di riposare con gli occhi socchiusi, pensi che sarebbe meglio se ci fosse la mamma quando Dean si risveglierà.

 

Ma non sei fortunato.

Devi aver dormito una mezz’ora, ma spalanchi gli occhi di colpo e Dean è lì. Immobile, ma sveglio. La camera sembra improvvisamente troppo piccola, troppo calda. Vorresti alzarti, spalancare una finestra, sottrarti a quell’esame minuzioso (da quanto ti fissava? Perché? Cosa non ti dice con quel suo sguardo? Non può lasciarti in pace per una volta?). Invece annuisci e ti sforzi di sorridere.

“Ehy, come ti senti? Siamo in ospedale Dean, è tutto ok. I medici si sono presi cura di te.”

Tuo fratello non ti sorride. “Perché…” tossisce. Vorresti toccarlo, ma sai che non te lo consentirebbe. “P-perché… ospedale?” ti domanda con una delle espressioni di più onesta confusione che tu gli abbia mai visto.

“Non ti ricordi niente?”

Lui scuote la testa. Magnifico… non volevi essere tu a doverglielo dire.

Pensi che forse dovresti trovare un modo per ingentilire la verità (mentire, accampare una scusa, lasciare che sia qualcun altro a spiegargli…) ma alla fine lo guardi dritto negli occhi (i suoi sono così tersi che sembrano creati con il vetro di una bottiglia) e gli dici:

 

“Hai provato ad ucciderti con una coltellata. Ti hanno salvato per un soffio.”

 

Dean sembra pietrificato. Non sai per quanto tempo rimanete a fissarvi e poi lui inizia a scuotere la testa convulsamente. “No… io… mai…”

Non ricordi di averlo visto allo stesso tempo tanto spaventato e furioso da quando Bobby Lowson ti ha rispedito a casa con il naso rotto, un occhio nero e senza scarpe a dodici anni.

 

“L’hai fatto Dean,” lo fermi, perché non vuoi più ascoltare le sue scuse (è tutta la vita che ve le racconta, e mamma glielo ha sempre permesso) “Lo hai fatto davanti a me.”

E vorresti aggiungere: io ti ho mantenuto le mani sulla ferita, oppure: sento ancora l’odore del tuo sangue, non importa quanto mi lavi, oppure: il gemito che hai esalato quando hai abbandonato indietro la testa lo ricorderò per tutta la vita. Ma alla fine non dici altro.

 

Dean ti guarda come se tu fossi il suo nemico giurato, come se volesse farti del male: “Stronzate. È impossibile,” sibila. Continua a esercitare quel suo potere su di te, immobilizzarti con una parola, con una espressione. E per te è tutto improvvisamente troppo. Lui, la sua intensità, la sua corazza sgretolata da una lama impugnata saldamente e la sua determinazione a escluderti, a non fidarsi.

Sei stanco.

Hai avuto una settimana di merda da quando sei arrivato dalla California per il compleanno della mamma. E hai un esame da preparare. Devi ritornare alla tua vita, sposare la tua ragazza. Riprendere delle sane abitudini. Uscire da quella stanza e cominciare a respirare di nuovo.

 

“L’hai fatto Dean. Come hai potuto? Non hai pensato alla mamma, a Carmen? Vuoi farle morire di crepacuore?” ringhi la domanda con una certa, brutale ferocia. (In realtà vorresti dirgli: come hai potuto? Non hai pensato a me? Perché hai dovuto farlo davanti ai miei occhi? Non hai pensato a ciò che avrei provato io?)

 

Tuo fratello non risponde. Sembra confuso, sperduto, colpevole.

E tu ne hai abbastanza.

Lo guardi un’ultima volta. Non sai quando lo rivedrai così vulnerabile, forse mai più. Forse dovresti insistere, dovresti sforzarti di trovare il coraggio per fargli quella domanda. Vuoi sapere il motivo, vuoi sapere cosa è successo (vuoi sapere se potrebbe rifarlo…).

Vuoi sapere troppe cose e in fondo sei un codardo.

Per tutto il tempo Dean ti fissa (basta. Basta! Non fai che fissarmi senza parole. Che cosa VUOI?) senza una vera espressione.

Getti la spugna. Ti alzi. Cammini. Dal letto alla soglia sono nove passi, ti sembra di percorrerli in un istante. Accosti la porta con lentezza dietro di te, non ti senti capace di un solo gesto violento, perché se ti lasciassi andare alla rabbia non sapresti più da dove ricominciare a rimettere insieme i pezzi, continuare a esibire la tua maschera di composta razionalità.

 

Il corridoio è scarsamente illuminato e valuti confusamente quanto ci rimetterà Dean a riaddormentarsi, quando sarà abbastanza prudente rientrare nella sua stanza, quando arriverà vostra madre o la sua ragazza a permetterti di andartene veramente…  Lo spazio che c’è fra di voi è troppo e non è abbastanza. È frustrante. Stargli vicino ti sembra impossibile, ma stargli lontano ti fa paura.

Vorresti avere il coraggio di gridare maledizione perché l’hai fatto, Dean?

Ma non puoi chiederlo. Sei terrorizzato. Te lo senti nelle viscere.

 

Sei convinto che ti direbbe che è tutta colpa tua.

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Capitolo 2
*** II ***


II

 

Non è colpa tua se la situazione ti sfugge di mano.

 

La prima settimana ti sei rifiutato di rientrare in California perché Dean era ancora incosciente in ospedale (coma farmacologico, vi hanno spiegato i medici). La seconda settimana hai scartato l’idea perché Dean si era appena ripreso, ma gli si prospettava una lunga degenza (certo, potrà essere dimesso, ma il suo equilibrio psico-fisico è a rischio, non lasciatelo mai solo). La terza settimana tua madre inizia a lanciarti sguardi preoccupati e una sera, dopo cena, ti poggia una mano sulla tempia in una carezza gentile e ti dice: “Non è necessario che tu faccia tutto questo. Hai la tua vita, tesoro. A tuo fratello possiamo pensare Carmen ed io. Non devi sacrificarti.”

Ti stacchi da lei, di scatto, e ti chiedi come possa non capire. Tua madre sembra ferita dal tuo gesto, ma non te ne importa. “È mio fratello,” replichi, a nessuno in particolare, forse a te stesso. “Posso continuare a studiare anche qui. E finché lui non starà bene non intendo andarmene.”

 

Quella sera stessa, dopo che avete fatto l’amore, Jess ti informa di aver prenotato un biglietto aereo per il giorno seguente. Tu vorresti gridare, picchiarla, piangere, dirle che non può lasciarti da solo a fronteggiare la tua famiglia (Dean), che hai bisogno di lei, che se ti abbandona non la perdonerai. Ma alla fine le baci una tempia (lì, proprio dove tua madre ti ha carezzato) e le mormori dolcezze all’orecchio, la rassicuri che comprendi e che per te va bene.

Jess non sembra convinta, ti guarda come se tu fossi uno sconosciuto, lo fa spesso ultimamente.

 

Finalmente ti sorge il dubbio che il countdown sia già scattato.

Non hai avuto nemmeno il tempo di accorgertene.


***


Dean torna a casa dopo quaranta giorni dal suo ricovero (quaranta giorni da quando, in un prefabbricato abbandonato in Illinois, ha cercato di ammazzarsi).

Eppure tua madre e la sua ragazza si comportano come se fosse di ritorno da una gita, tutte sorrisi e innocue frasi di circostanza. Tu pensi che al prossimo commento sulla temperatura o la bella giornata potresti gridare, o strapparti le unghie, o impazzire e ridurre le finestre di casa in schegge con i denti per poter ingoiare la polvere di vetro… Ma non fai nulla, sorridi a tutti e tendi la mano a tuo fratello prima di racchiuderlo velocemente in un abbraccio strano e poco sentito.

Dean ti guarda come se tu fossi un alieno, non ricambia e si stacca da te con la lentezza di un ottuagenario sotto ansiolitici, gli occhi scontenti e appannati.

Ingoi un grumo cocciuto di saliva e ti domandi se lui possa sentire… poi scuoti la testa, e pur di avere qualcosa da fare, ti occupi della sacca che contiene i pochi effetti personali di Dean e la porti sopra nella sua vecchia camera. Carmen ha da rispettare i turni in ospedale e non potrebbe essere sempre presente a casa, così lei e tua madre hanno deciso che sarebbe meglio per tutti se Dean ritornasse a vivere per un po’ in famiglia (lo hanno fatto senza consultarti, e tu guardi a quella decisione con la stessa diffidenza con cui una volta hai carezzato il cane di Carl Divenson e ti sei fatto mordere una mano, devi avere sul palmo ancora la traccia dei punti di sutura).

 

La camera ti sembra poco appropriata a un ventisettenne con disturbi emotivi irrisolti. È rimasta com’era quando vivevate tutti sotto lo stesso tetto, papà era vivo e tu non avevi ancora preso nessuna decisione per il tuo futuro che includesse trasferirti in un altro stato (quando ancora non facevi sogni bagnati ricordando il cesso di un bar e la curva sinuosa di una schiena piegata…)

Adesso non vedi altro che un letto e un armadio di legno, una scrivania con qualche libro, qualche trofeo sportivo, qualche poster ingiallito. Trattieni un singhiozzo perché è tutto troppo grottesco, perché vorresti dare un pugno nel muro, perché non ti capaciti di come la tua vita possa aver fatto un balzo indietro di quasi cinque anni e tu possa trovarti di nuovo al punto di partenza: troppo vicino a tuo fratello (troppo vicino alla fiamma, e il countdown continua a scorrere…)

 

Dean ti fa sussultare quando ti tocca una scapola, senti il calore del suo palmo penetrare nella stoffa sottile della tua camicia e il tuo uccello si interessa troppo prontamente alla sensazione. Ti scosti come se fossi un isterico e poi ti scusi, per mascherare la tua vergogna. “Non farlo più,” gli dici in un tono vagamente gioviale, “Mi hai spaventato.”

Tuo fratello ti fissa con uno strano sguardo spento, di cauta inespressione, poi sposta gli occhi oltre le tue spalle e sbuffa: “Mio dio, sono di nuovo un adolescente… e pensare che la prima volta me la sono cavata per un pelo. Ripetere l’esperienza sarà uno sballo… chissà se la mamma mi darà anche il coprifuoco…”

Sorridi sinceramente stavolta, perché un moto di incondizionato affetto ti esplode al centro del petto e percorre tutto il tuo corpo. “Puoi giurarci che lo farà… sarà divertente vederti sgattaiolare da una finestra e scalare la tettoia sopra il garage, ma ti avviso che mamma non si berrà le scuse che le rifilavi allora, è diventata molto più furba e io le ho promesso di fare la spia!”

Dean ti toglie la sacca di mano e la poggia sul letto prima di iniziare a disfarla per gettare il contenuto alla rinfusa sulle coperte. Il suo tono è falsamente allegro e inizi a pensare che l’abbia fatto solo per poterti dare le spalle quando ti dice: “Beh, almeno di te mi libererò alla svelta… quando riparti? Ehy, a proposito, non ho visto Jess…”

 

Oh, già. Qui si comincia. Lo sai che non andrà bene.

“Jessica è tornata a casa, da quasi una settimana ormai. Ma io non me ne vado, ne approfitto per rilassarmi e preparare un esame difficile, sono secoli che non passo un po’ di tempo con la mamma.” Le parole ti escono tutte insieme, come se avessero fretta. Speri di essere convincente, ma sai che Dean non se la berrà. Cerchi di sorridere spontaneamente, ma la tua bocca ti sembra bloccata in una smorfia indecisa e capricciosa.

Dean è immobile, rigido, ha le spalle tese come un arco e le mani a pugno. Non sai come lo sai, perché non puoi vedergli la faccia, ma sei certo che la sua espressione sia di incandescente disappunto. E infatti quando si volta i suoi occhi verdi sono accesi di furia, come la superficie di uno specchio d’acqua increspato che fa tornare a galla tutta la melma nascosta sul fondo (cos’altro nascondi… cos’altro nascondi?).

 

“Se intendi giocare a fare la guardia al fratello instabile con tendenze suicida, sappi che non ti renderò le cose facili,” sentenzia. E ti verrebbe da ridere se lui non fosse così serio (come se qualche volta nella tua vita Dean ti abbia mai reso le cose facili…).

“È una minaccia?” non puoi fare a meno di ribattere, divertito, senza nascondere una vena polemica, “Perché non sono più un adolescente insicuro, e adesso una frase del genere…” ti fermi, perché il tuo stesso battito ti assorda. Ti senti la lingua improvvisamente secca, appiccicata al palato. Un sudore gelido ti ricopre la schiena. Sei terrorizzato all’idea di cosa stavi per dire con la stessa naturalezza con cui respiri (…mi fa venire voglia di dimostrarti una cosa o due) e il fiume di emozioni che dilaga dentro di te ti spezza il fiato (per il desiderio… per l’imbarazzo…).

Dean ti osserva con quella strana sua espressione, quella che ha sempre indossato come una maglietta comoda ogni volta che doveva prenderti in giro o dimostrarti chi era il fratello maggiore, chi era il più furbo, il più figo, il più bravo con le ragazze, il migliore. E tu ti mordi la lingua e non sai come chiudere il discorso senza aprire un vaso colmo di vermi. Perciò scuoti la testa e trovi rifugio nella razionalità: “Non litighiamo,” quasi lo implori. “Sei appena tornato a casa. Non litighiamo, Dean.”

 

Tuo fratello ti guarda incredulo, come se invece di quella preghiera si fosse aspettato un pugno.

Poi si da una scrollata e si mostra indaffarato a sistemare la sua roba.

“Come ti pare,” biascica. E per lui è come se tu avessi cessato di esistere.

Per cui ti ritiri sui tuoi passi e quando esci fai attenzione a chiuderti la porta alle spalle.

Nel corridoio, appoggiato alla parete, prendi un respiro e ti chiedi come farai a reggere alla tensione.

 

Alla fine, con un certo funereo presentimento, ammetti che ciò che c’è tra di voi (incomprensione… rabbia… affetto malcelato… paura…) è esattamente come la superficie quieta di un lago alpino (come Dean, come gli occhi di Dean…).

 

Su cui intende abbattersi un uragano.


***


La convivenza è strana.

Non sei convinto che restare sia stata una buona idea. Ma sai anche che non puoi andartene.

Per cui fai del tuo meglio per sopportare lo stato attuale, in attesa di sviluppi.

 

Vostra madre è molto discreta, vi lascia tranquilli. Ama trascorrere del tempo con te e Dean, ma se uno di voi due per una qualche ragione si sottrae, lei non insiste e non fa domande. Di questa fortuna hai già approfittato fin troppe volte.

Jess ti chiama tutte le sere, tu le telefoni ogni volta che durante il giorno ti senti esplodere il cervello. È dolce e comprensiva, ti chiede spesso quando pensi di tornare da lei, se desideri che prenda un aereo e venga a stare un po’ con voi, ma entrambe le idee sono impraticabili per varie, differenti ragioni, così non le dici mai di no, ma fai del tuo meglio per cambiare discorso, sperando che prima o poi la smetta.

Carmen invece non è mai stata più a disagio. Attorno a Dean sembra camminare in bilico su gusci d’uova e quasi sempre mantiene un’espressione vagamente contrita che non rende facile conservare in casa un’atmosfera seppur apparentemente leggera.

 

Dean sembra essere indifferente a tutto e a tutti.

È educato con vostra madre, affettuoso con la sua ragazza, decente nei tuoi riguardi, ma è finto, impostato, insincero.

E tu aspetti di vederlo crollare, cedere, offrire le sue vere inquietudini (ma questo non avverrà mai, tuo fratello non è abituato a mostrarsi vulnerabile…).

 

Una sera non ce la fai più e lo raggiungi sotto al portico. È tardi e Dean sta sorseggiando pigramente una birra, seduto sugli ultimi gradini, ma quando si accorge del tuo arrivo è tutto fuorché rilassato.

 

Ti siedi accanto a lui e ti appoggi con la schiena al corrimano per poterlo guardare.

Gli chiedi: “Parliamo.”

Dean ti osserva come se gli avessi appena suggerito di ingoiare benzina. Fa schioccare la bocca e replica: “Nah, amico non sono ancora pronto per scambiarmi con te i segreti del cuore…” sogghigna, allo stesso modo in cui da ragazzino ti raccontava barzellette che tu non capivi, (erano barzellette sporche e lui aveva già infilato le mani sotto la gonna di Polly Simmson, mirando alla seconda base, mentre tu ancora pensavi che le ragazze fossero una specie aliena che ti rubava le merendine e tirava i capelli).

Alla vista di quelle labbra piene curvate in un sorriso evocativo, un calore spiacevole ti si accende nello stomaco, divampando lentamente. Dovresti ritirarti, non sei equipaggiato per una conversazione veemente. La rabbia rende più difficile controllare i tuoi impulsi. Invece tieni duro, con i comandi bloccati sull’autodistruzione.

 

“E quando sarai pronto per dirmi i tuoi segreti?” chiedi con calma, lentamente, senza risuonare aggressivo, ma senza cedere nemmeno un millimetro del poco vantaggio che hai su di lui (l’hai sorpreso, non se l’aspettava, forse non pensava che avessi gli attributi per quella domanda…).

Dean s’irrigidisce tutto. Sembra che un’asta di metallo si sia appena solidificata lungo la sua spina dorsale per come si raddrizza sullo scalino. Dimentica la birra e guarda i fari di un’auto di passaggio. “È un modo di dire Sam, non prendermi alla lettera.”

 

Sam… Sammy…

Mio fratello non mi chiama mai Sammy. Perché dovrebbe essere importante?

 

“Voglio saperlo, Dean. Voglio sapere come stai, cosa hai pensato. Perché l’hai fatto?”

 

Hai sempre cercato di non fare quella domanda. Vostra madre te ne ha pregato, perché lui non era pronto a parlarne. Ma stanno passando i giorni e niente sembra cambiare e Dean utilizzerà la cautela della mamma come scusa per continuare a tacere e fare finta di niente, e tu questo non puoi permetterlo.

Dean schizza in piedi e tu lo segui nel movimento, senza nemmeno pensare, lo fermi. La tua mano è enorme chiusa attorno al suo braccio, ne senti le ossa lunghe sotto la pelle, sotto la manica della camicia. Il calore dentro di te si amplifica, sembra animarsi di intelligenza propria, prendere il controllo delle tue azioni. “Dean…” insisti.

 

“Lasciami andare, Sam,” ribatte tuo fratello rabbiosamente.

 

Non sai cosa ti spinge a perseverare, di sicuro la follia. “Dimmi la verità,” gli intimi.

E ora che siete entrambi in piedi, all’ombra del patio, nascosti alle luci elettriche del viale e delle altre case, ringrazi di essere più alto di lui e ti sporgi per incombere. “Devo sapere perché…”

 

Dean si divincola con uno scatto feroce, ma tu non lo prendi come l’avvertimento che è.

Sei cieco, stupido, distratto dal suo odore, dalla vicinanza. E allunghi di nuovo le mani.

 

Riesci a sfiorare appena un lembo della sua camicia, prima che il suo pugno ti colpisca lo zigomo.

La pelle non si lacera, ci è andato leggero, ma fa dannatamente male.

 

E Dean sembra ricoperto da un’armatura di metallo rovente quando ti getta un’occhiata colma di disprezzo e ringhia: “No significa no Sam. Qualcuna delle tue ragazze dovrebbe avertelo insegnato.”

Poi si china a recuperare la bottiglia sul gradino, infila una mano in tasca e rientra in casa.

 

Stordito, ti passi i polpastrelli sul volto, con un tocco lieve. Una scarica di dolore ti percorre lungo le terminazioni nervose. La tua mano scivola lungo il collo, i tuoi pettorali, il tuo stomaco, indugia sul fianco, curvandosi. Finalmente (sospiri di beatitudine) ti concedi di poggiarla sul cavallo dei pantaloni.

 

Sei sbalordito, (e perché, in fondo? Non è una sorpresa. Non è la prima volta…) e non sei pronto ad affrontare la realtà di avere un’erezione.


***


Il giorno seguente decidi che è più prudente evitare Dean e perciò te ne rimani rinchiuso in camera a studiare per il tuo esame il più a lungo che puoi. Ne esci solo quando hai fame, nel primo pomeriggio, per arraffare un tramezzino al tonno e un avanzo di arrosto. Ma in serata tua madre viene a chiederti se ti va di cenare tutti insieme.

“C’è anche Carmen, ho preparato la pasta,” ti invita, con un tono premuroso.

No, ne fai volentieri a meno. Ma quando glielo dici lei sembra rattristarsi, carezza il copriletto prima di sedersi sul bordo del materasso. È ancora una donna bellissima, pensi mentre la guardi, elegante e minuta, ma con un carisma che è impossibile da ignorare.

Dean ha preso da lei: gli stessi occhi un po’ languidi, inavvertitamente malinconici, gli stessi lineamenti delicati, che su tuo fratello contrastano e si fondono con il modo in cui si muove, il suo saper alludere con un sorriso ambiguo e confondere continuamente le acque, mascherando debolezze e gesti affettuosi, esibendo una non proprio autentica spacconeria… (il suo essere uomo, in quel suo modo tutto particolare, che fa venire in mente agli altri uomini tanti pensieri sporchi…)

 

Scuoti la testa, perché non puoi lasciar andare le tue considerazioni a briglia sciolte. Non in quella direzione. Non quando tua madre è nella stessa stanza.

“Mi dispiace,” le dici, e menti, “Mi sento un po’ sotto stress, è la tensione per l’esame. Devo proprio studiare, mamma.”

Lei annuisce, ma ad un solo sguardo capisci che non ti crede completamente. Infatti ti chiede: “Centra qualcosa tuo fratello?”

 

Ti metti sulla difensiva, inavvertitamente. Ti irrigidisci e ti mostri molto occupato a segnare un appunto su un capitolo che devi ancora finire. “Che intendi?” le domandi, con calibrata semplicità.

Mary scuote la testa, “Niente in particolare, ma è tutto il giorno che Dean si comporta in modo strano. È successo qualcosa? Avete litigato?”

Ti volti verso di lei, dimenticandoti che sullo zigomo si vede una leggera traccia giallastra. E tua madre trasale, “Vi siete picchiati?”

 

Ti viene da sorridere (se solo fosse così semplice…).

“No, mamma. No, sta tranquilla. Non è come pensi. È stata colpa mia, ho insistito troppo. Avrei dovuto capirlo che non intendeva parlare e invece… ho sbagliato.”

 

Tua madre ti carezza lo zigomo contuso, ha una mano tiepida e sottile, leggera. “Tesoro, di qualunque cosa si tratti, ci sta male anche lui…”

 

Improvvisamente la camera ti sembra troppo piccola, la carezza di tua madre troppo pressante. “Beh, gli sta bene. Mi ha dato un pugno,” ribatti al volo, sperando di riuscire bene nell’imitazione di un adolescente lamentoso.

Tua madre scuote la testa, ti appoggia la mano sul petto, sopra al cuore. “È più di questo,” sussurra, come se temesse di parlare a sproposito. “Qualunque cosa di irrisolto ci sia tra voi, non sei il solo a soffrirne. Lo vedo da come ti guarda, quando è convinto che nessuno se ne accorga. Lo sento da come parla di te agli altri. Quando esci da una stanza, segue la tua schiena con gli occhi. Tuo fratello ti ama,” conclude. Si ferma sulla soglia, prima di uscire e lasciarti al tuo studio, al tuo rifugio. Sembra incerta, come se volesse aggiungere ancora qualcosa. E tu istintivamente preghi che se ne vada e basta, perché sei troppo impegnato a digerire quelle prime rivelazioni.

Dovrebbe essere una cosa scontata, ovvia, sapere di avere l’affetto del proprio fratello… ma tra te e Dean, sempre in bilico tra rivalità e fraintendimenti, non sei mai riuscito ad esserne sicuro.

Tua madre sembra leggerti nel pensiero. E sorride, triste. Gli occhi tersi piegati all’ingiù.

 

“Tuo fratello ti ama. Come tu ami lui.”

 

La guardi, per un attimo pensi che lei sia una sconosciuta. Poi sbatti le palpebre, rifletti su ciò che ha detto. Il calore, prepotente e doloroso che ti invade e si allarga dentro di te ogni volta che pensi a Dean, è più violento del solito, inarrestabile. Sembra che ti stia liquefacendo gli organi interni. E sei grato di non avere tuo fratello davanti, perché in un tale stato d’animo non sai cosa potresti fargli.

Sospiri, ma è più un gemito. Ti ama. Tu ami lui.

 

E non è quello un pensiero maledettamente spaventoso?


***


Crescendo tu e Dean non siete mai stati molto vicini. Troppa differenza d’età, troppa differenza di carattere, ha sempre commentato vostra madre, un po’ sconsolata.

 

Tu sei stato un bambino paffutello, molto dolce e timido, hai avuto la pre-adolescenza classica del bravo ragazzino studioso, che se la cava negli sport ma eccelle in tutte le altre attività extracurriculari che riguardano l’uso della matematica e il cervello. Non sei mai stato particolarmente popolare fino ai sedici anni, ma poi hai iniziato a crescere in altezza, fino a diventare imponente e solido come una quercia (così una volta tuo fratello ti ha detto: sei una quercia Sam, smettila o crescerai anche le radici…) e i tuoi compagni di scuola ti hanno voluto nella squadra di basket. All’inizio non sapevi che fartene delle tue braccia lunghe, non avevi coordinazione e non riuscivi a correre in uno sprint senza arrotolarti nei tuoi piedi fuori misura. Ma è bastato qualche mese di tortura per renderti conto di poter far funzionare correttamente il tuo nuovo corpo (non sei più un nanerottolo che si può nascondere dietro un libro e un taglio di capelli troppo lunghi) per diventare qualcuno di completamente diverso. La vostra squadra non ha mai vinto tanto come negli anni in cui tu ne sei stato il capitano, le ragazze più belle e le cheerleaders più sfacciate ti tendevano agguati negli spogliatoi o nello sgabuzzino del bidello, e per te è stato facile dimenticare tutte le volte in cui si accorgevano di te solo perché eri il fratello di Dean: l’altro Winchester, quello figo.

 

Dean… Dean invece è sempre stato un bambino bello di una bellezza disarmante. Un po’ timido  e alle volte un po’ capriccioso, ma buono e protettivo e sempre sorridente. Crescendo, ha attraversato tutte le fasi tipiche della ribellione adolescenziale: dalle sigarette, alle birre, ai tagli di capelli strani, ai giubbotti chiodati, ai piercing (c’è stata perfino quella volta in cui ha detto di volersi fare un tatuaggio e vostro padre l’ha minacciato e costretto a dormire un’intera settimana in cantina, così, a scopo preventivo) alla moto, comprata di terza mano con i risparmi accumulati in anni di lavoretti estivi e l’aiuto della mamma.

Sul finire dell’adolescenza, qualche mese prima del diploma, si è ripulito e ci ha dato un taglio con la storia del bello e dannato. Tu non l’hai mai saputo da lui, perché non parlate di queste cose, ma voleva sposare la sua ragazza storica e dimostrare alla famiglia di lei di essere un tipo responsabile. Lei, da quanto hai capito sentendo parlare con un certo sollievo i tuoi genitori fra loro, non ha accettato la sua proposta e Dean, forse per leccarsi le ferite in solitudine, ha passato quell’estate in una blanda imitazione di Dannis Hopper in Easy Rider.

Poi, di ritorno da quella specie di vacanza, ha cominciato con le ragazze.

Una trafila infinita di ragazze: più grandi, più giovani, bionde, more, rosse, belle, meno belle, provocanti, discrete, ovvie, speciali, insignificanti, volgari, intelligenti, sensibili, insomma di qualunque genere. Bastava che respirassero. Ne cambiava una ogni settimana, (tu una volta per divertirti un po’ ne hai calcolato la media ed è venuto fuori che ne scaricava una e rimorchiava un’altra ogni 5,6 giorni), e ogni volta spergiurava che fosse vero amore.

Non sei poi così sicuro che tuo fratello fosse conscio di mentire platealmente, ma tutte quelle Thiffany, Brittany, Cassie, Melanie, Rondha e via dicendo, ti facevano una gran tristezza (soprattutto ti facevano bollire il sangue per la gelosia. E gli uomini… pensavi, con gli uomini ha chiuso?).

 

Poi è arrivata Carmen.

 

Di lì a poco tu sei partito per Stanford.


***


Dean e Carmen sono sempre stati una splendida coppia: affiatati, complici, bellissimi e intonati.

Lei si è dimostrata fin da subito quel tipo di ragazza con un senso dell’umorismo un po’ spietato e la capacità di essere appropriata e sfacciata insieme, a seconda dei contesti.

Più di una volta hai notato la sua assoluta compostezza ai pranzi di famiglia, pensando che con un atteggiamento del genere tuo fratello si sarebbe stufato di lei in un paio di settimane… per poi doverti ricredere un pomeriggio di quei primi tempi che loro stavano insieme ufficialmente, quando li hai sorpresi sul divano del salotto, mentre la mamma era dalla vicina per un the e papà dormiva al piano di sopra. Dean la schiacciava nei cuscini della poltrona e aveva le mani sotto il suo vestito, probabilmente dentro le sue mutandine, pensi con un fremito. (Dean che le sussurrava frasi innocue, prima di tramutarle in qualcos’altro, parole banali, all’improvviso sordide: Dio com’eri educata con la mia famiglia, così perbene. Avrei voluto piegarti sul tavolo da pranzo davanti a loro… vedere la faccia che avrebbe fatto mio fratello… Carmen che ridacchiava, come una bambina cattiva, e replicava con un tocco di lingua sulla sua mandibola: la prossima volta che ti senti ispirato, Dean Winchester, non ti trattenere…)

Non hai voluto ascoltare di più quella volta, sei sgattaiolato fuori senza farti sentire. Loro non hanno mai sospettato che avessi potuto udirli, ma tu da quel momento hai sempre avuto una certa difficoltà a guardare Carmen negli occhi.

E l’hai odiata. Ferocemente.

Ti sembra di odiarla tutt’ora, di tanto in tanto. Sebbene tu abbia Jess, e sia subentrata l’abitudine.

 

Pensi che non si lasceranno mai. Che siano perfetti insieme.

E non dovrebbe importarti, perché stai per sposarti.

 

Ma ti importa.

 

E ti chiedi perché lei possa avere qualcosa che a te è crudelmente negato.
 

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Capitolo 3
*** III ***


III

 

La bomba esplode una sera a cena.

Tuo fratello si riempie un bicchiere di vino bianco (e tu pensi che è strano, perché lui è più un tipo da birra, e ultimamente non beve molto, si tiene una bottiglia in mano per compagnia, la sera sul portico, ma tu ti guardi bene dal raggiungerlo, e dopo l’ultima litigata non vi parlate granché, perché quello è il vostro modo di reagire alle cose: la negazione.) poi si schiarisce la gola e dice, a voce alta e chiara: “Io e Carmen ci siamo lasciati”.

 

Stai ancora metabolizzando quello che ha appena detto, che Dean è già andato ben oltre. Abbassa un po’ la testa e si alza in piedi. Tua madre lo fissa come se temesse di vederlo crollare in briciole, “Tesoro, come mi dispiace. C’è qualcosa che possiamo fare per-”

Dean la zittisce, con un movimento repentino della mano, ed è insolito per lui essere scortese con la mamma. “No,” replica troppo in fretta, “E poi c’è dell’altro.” Prende un respiro profondo, e tu fai lo stesso, perché ti sembra di dover affrontare in apnea un muro d’acqua ostile.

 

“Ascoltate, voi due avete fatto del vostro meglio, e lo so che siete preoccupati, ma io non ne posso più. Parto. Ho già chiuso l’officina a tempo indeterminato. Ho bisogno di schiarirmi le idee e di passare un po’ di tempo da solo.”

 

“Dean, ma ti sembra prudente…” esclama vostra madre con una voce flebile.

Tu ti alzi di scatto e poggi i palmi aperti sul tavolo: “Non se ne parla proprio,” ringhi senza riuscire a trattenerti.

 

Dean ti fissa, la rabbia si allarga nei suoi occhi con la velocità di uno strappo. “E chi sei tu per impedirmelo, fratellino?” ribatte in un tono che è velenoso quanto beffardo, ma che nasconde una ragnatela d’insicurezze pronte a divorarlo vivo come vermi su un cadavere.

Ti rifiuti di lasciarti provocare, perché sai che Dean si sentirebbe meglio se riuscisse a litigare con te, e mantieni il punto: “Questo non si può negoziare,” sibili. “Da solo non vai da nessuna parte. Perché lo sconsigliano i tuoi medici,” cominci ad enumerare rabbiosamente, “perché faresti ammalare la mamma per la preoccupazione, e perché ultimamente non sei stato esattamente il ritratto dell’equilibrio.”

E forse l’ultima parte è un colpo basso, ma avrai tempo di pentirtene più tardi.

 

Dean trema dall’indignazione, e tu ammetti che avere tuo fratello minore che detta legge nella tua vita deve essere piuttosto frustrante, ma non per questo alleggerisci il carico delle tue parole.

Approfitti della sua collerica immobilità per intrappolarlo contro lo schienale della sua sedia e incombi su di lui, per una volta senza preoccuparti di avvicinarti troppo (tic-tac-tic-tac… il countdown non si ferma mai…).

“Se scopro che sei sparito durante la notte, come un ladro, ti vengo a cercare. E quando ti trovo, perché ti trovo stanne certo, ti darò la lezione che meriti.”

Wow, ed è davvero un po’ troppo da sceriffo del vecchio west, e tu non sei certo di avere il carisma necessario per essere credibile con una frase del genere, ma Dean sembra deflagrare sotto i tuoi occhi, abbassare lo sguardo sui suoi piedi (sui vostri fianchi vicini, che quasi si sfiorano… e per la madonna spostati, che diavolo aspetti?) e mugugnare tra i denti: “Beh comunque non puoi tenermi qui…”

 

Qualcosa dentro di te s’intenerisce, si riscalda, ma non è quel calore vigliacco e bastardo, è un’altra sensazione, è affetto senza limiti. Vorresti carezzargli la nuca, ma pensi che Dean ti strapperebbe le dita a morsi se tu ci provassi, così ti accontenti a incontrare i suoi occhi, “Non ho detto che devi per forza restare qui.”

Tuo fratello si lascia guardare, ricambia questa strana specie di connessione che si è instaurata tra di voi inavvertitamente, ma sembra labile come le ali di una farfalla morente. E i secondi sembrano allungarsi in un filo sottilissimo che poi si spezza. Dean distoglie lo sguardo per primo e ti chiede, confuso, “Ma allora, come…”

 

Tu ti sforzi di continuare a sorridere, ma puoi sentire la corda tendersi intorno alla gola. Reggi ancora il cappio tra le tue dita. Sta a te decidere se liberarti o strozzarti, ma alla fine realizzi che in verità non hai poi molte opzioni. Speri almeno che il tuo collo si spezzi alla svelta.

 

Ti sforzi di continuare a sorridere, ma sai che il risultato è un po’ artificioso.

“Quando partiamo?”


***


State viaggiando ormai da quasi una decina d’ore. Avete fatto un paio di soste e vi siete scambiati il posto alla guida. Adesso stringi il volante, mentre Dean sceglie la colonna sonora per il mangianastri dell’Impala, anche se tu in fondo pensi che sia una vergogna non dotare quell’auto almeno di un lettore cd… le canzoni non sono poi meglio, vengono dalla gloriosa raccolta degli anni della giovinezza di papà, e sembrano più appropriate a un vecchio locale degli anni settanta che non a due ragazzi in viaggio senza una meta precisa.

Segretamente sei convinto che Dean stia scappando da se stesso, dallo spettro di ciò che ha fatto (dalle conseguenze, dalla verità…). Ammetti che ti infastidisce, ma sei costretto a chiederti quali sono le tue motivazioni, e sai che non sono altrettanto giustificabili. Hai abbandonato i tuoi esami di questo semestre, la tua ragazza e i progetti del vostro matrimonio. Hai cambiato la stabilità del tuo futuro prestabilito per questa specie di folle road-trip senza battere ciglio, e questo ti fa dubitare del tipo di persona che credevi di essere stata fino ad oggi.

Fissi Dean, lui ricambia lo sguardo, per la prima volta da che riesci a ricordare negli ultimi tempi, e improvvisamente ti senti euforico, soddisfatto, compiuto. Tutto questo… per stare insieme a tuo fratello. E non hai la più vaga idea di come possa finire.

 

Non sai perché lo ribadisci, forse è il tuo istinto nel ricercare sempre una spiegazione alle cose, forse è un senso vago di autodistruzione, più probabilmente è puro autolesionismo, ma alla fine apri la bocca e dici: “Lo sai che prima o poi dovremmo parlarne.”

 

Sorprendentemente tuo fratello sorride. È un sorriso quasi meschino e tu provi un’ombra di paura.

“Non aspettarti niente da me, Sam.”

Dean scuote la testa e il vento che entra nell’abitacolo dal finestrino aperto ti riempie le narici dell’odore del suo gel per capelli. Vorresti aspirare a fondo, senza vergognarti. Vorresti solo che lui sapesse… ma ti contieni, fingi uno starnuto, cambi discorso. “Il vetro, amico. Non mi voglio prendere un accidente.”

 

Tuo fratello ti accontenta, borbottando tra i denti qualcosa sulle femminucce troppo delicate. Poi reclina la testa e prova ad addormentarsi, fino alla prossima ora, fino al prossimo motel.


***


Caffè e colazione a una stazione di servizio.

È una di quelle mattine come ne avete avute decine di altre finora. Quelle che passate decidendo dove andare, puntando a caso su una cartina stropicciata e litigando per l’ultima fetta di torta, per le canzoni da ascoltare, per il posto in cui fermarsi. Non ti sei mai sentito così bene con te stesso, e sai che non può durare. Sai che i guai sono dietro l’angolo e non si tratta esattamente della versione innocua di un piccolo dramma di famiglia. No, voi Winchester fate tutto in grande, non vi trattenete. E se cominci a pensarci…

 

Noti che Dean sorride alla cameriera, è una di quelle signore di mezza età, con i capelli tinti raccolti in una coda disordinata e il grembiule perennemente macchiato. Non è uno dei suoi sorrisi alla potrei fotterti fino al paradiso, ma uno di quelli gentili, rispettosi, destinati alla mamma o alle signore in chiesa la domenica.

La donna sembra stupirsi, ma poi annuisce e vi lascia le ordinazioni sul tavolo. Continua a guardare Dean, anche mentre ti poggia davanti il tuo caffè e la colazione.

Non ha senso esserne gelosi. Non è una sconvolgente novità che tuo fratello riesca ad incantare con un sorriso a mezza bocca: è colpa di quel suo modo di essere sfacciato e fragile, che fa desiderare alle donne di tutto il mondo di nutrirlo con soffici leccornie appena sfornate e coccolarlo e tenerlo al caldo e amarlo per tutta la vita. Nemmeno tu sei immune da quel tipo di effetti collaterali, solo che hai sempre dovuto soffocare l’istinto di avvolgere tuo fratello con il tuo corpo per proteggerlo da se stesso. (Non è normale. Non è sano… E perché poi dovrei volere questo da lui? Non lo sai, e, dannazione, in fondo sei arrabbiato!)

 

Naturalmente ti auguri che Dean non immagini nulla di tutto questo. E sei così preso dalle tue considerazioni che quando lui allunga un paio di dita per toccarti sul polso e ottenere la tua attenzione, rovesci il caffè e ti scotti.

“Merda,” esclami, asciugando il tavolo alla bell’e meglio con una manciata di tovaglioli di carta, “Ero distratto. Vado a sciacquarmi le mani,” gli dici mentre ti alzi. Le tue uova si fredderanno.

 

Quando ritorni dal bagno, trovi Dean che chiacchiera con la cameriera, un refill di caffè e due fette di dolce al posto delle omelettes che avevi scelto. Del disastro che hai provocato, nessuna traccia.

Tuo fratello finge di nulla, e intanto ti allunga davanti il piatto. Sorride fra sé e non puoi fare a meno di trovarlo bellissimo.

 

Non sai perché lo sai, ma sei certo che quei pezzi di torta siano omaggio della casa.


***


Il primo, vero incidente ti capita senza che tu possa prevederlo, e ti rendi conto che la tua sicurezza, il tuo equilibrio, la tua contentezza in cui ti sei beatamente (falsamente) cullato non erano altro che una impressione.

Esci dal bagno del motel in cui vi siete fermati per un paio di giorni. Siete in Illinois e ammetti che non c’è molto da vedere, ma più vi allontanate da casa e più Dean sembra stare meglio, perciò non ti lamenti. Non dai voce alle tue preoccupazioni su cosa fare, dove andare, come guadagnare i soldi di cui vivere quando il conto sulla carta di credito si sarà esaurito.

Tuo fratello sembra essere più sereno, ed è l’unica cosa che conta. È l’unico motivo per cui hai accettato di fare questo viaggio. Sebbene tu abbia sempre rifiutato per principio l’idea di vivere alla giornata (ma si tratta di Dean, di poter stare con lui, respirare il suo odore nei vestiti che lavate insieme nella stessa lavanderia automatica…).

 

Sei completamente bagnato e hai l’asciugamano attorno ai fianchi, con un’altra spugna ti stai tamponando i capelli lunghi sul collo, ma senti le gocce che ti scivolano in piccoli rivoli sulla pelle, in percorsi indistinti sulla schiena.

Dean è di spalle, si sta cambiando la maglietta, gli hai lasciato fare la doccia per primo.

All’improvviso si volta e grida: “Attaboy, Sammy!” e con uno scatto ti atterra. Non sai che diavolo gli abbia preso (ma ti ha chiamato Sammy e la cosa ti rende inspiegabilmente felice…), ma Dean sta ridendo e tu ti senti di nuovo un ragazzino, così in un istante siete aggrovigliati in una lotta giocosa, come una coppia di cucciolotti. Quello è il tuo primo errore.

Il secondo è scivolare sopra di lui, per schiacciarlo e costringerlo ad arrendersi.

Il terzo è bloccargli le mani.

 

Hai la bocca vicino alla sua bocca, senti il suo petto solido premere contro il tuo. Ansate. E tu sei nudo, perché l’asciugamano attorno ai fianchi si è spostato in un groviglio imbarazzante.

Sei fottuto. E lo sai.

 

Gli occhi di Dean si aprono in sorpresa e tu freneticamente salti in piedi, pur di sottrarti a quella posizione. Il senso di colpa potrebbe schiacciarti, ma è più impellente il bisogno di allontanarti. Preferisci non sapere se ha sentito la tua erezione contro la coscia. Preferisci considerare l’intera faccenda uno stupido incidente. Queste sono le conseguenze della tua scelta. Le hai considerate, te le aspettavi. Ma non credevi che sarebbe stato tanto difficile.

 

Non ve lo dite. Non è necessario, e sarebbe troppo sconsolante.

Si tratta di un tacito accordo.

Da quel momento in avanti quando uno di voi due fa la doccia, l’altro esce a fare due passi.


***


La prima volta che lo noti, ti dai del paranoico.

 

Capita per caso, è un pomeriggio piovoso e, tra il caldo e il tasso di umidità, ti sembra che tutta Peoria galleggi in un banco di nebbia. Non hai niente da fare e finché il tempo non si aggiusta avete deciso di restarvene all’asciutto. Perciò sei distratto e vagamente assonnato quando prendi una bottiglia di birra dal minifrigo. Dean è pigramente sdraiato sul suo letto, guardando una replica di un incontro di baseball. Tu hai le mani sudate e la bottiglia ti scivola, cade sul pavimento economico e si spacca. È un piccolo disastro, tu imprechi e ti assenti, vai a cercare nel bagno uno straccio, oppure uno degli asciugamani usati, per poter rimediare.

 

Non te lo aspetti (e sei colpito, e ti dai dello stupido, perché accidenti, avrei dovuto pensarci…).

Dean è fermo, accanto al lago di birra, a piedi nudi.

Ha lo sguardo fisso. E i suoi occhi sembrano così vuoti che all’improvviso ti convinci che saresti in grado di specchiartici dentro.

Ti si accappona la pelle.

 

Pensi che lui guardi una delle schegge più grosse con troppo interesse.

 

Speri che sia un caso, e scuoti la testa per scacciare brutti pensieri.

Ma succede ancora.

 

Saltuariamente sorprendi Dean a poggiare il lato liscio di un coltello da cucina sul suo polso, e non hai più scuse per convincerlo a mangiare cinese, o hamburger o pizza pur di non fargli usare le posate (il giorno in cui te ne accorgi per la prima volta, il diner è semi vuoto e tu sei appena andato al bagno per lavarti le mani, ma ti fermi al bancone per chiedere alla cameriera di portarvi dell’altro caffè, così Dean non riesce a vederti da dove si trova seduto, e tu lo puoi osservare di soppiatto. Quando vedi la lama sulla sua pelle… quel suo modo un po’ distratto di giocare con la sua vita… è come un pugno nello stomaco, è come piegarsi in due e pregare di venire risparmiati, è come il peso di una tagliola che sta per decapitarti. E pensi: Dean ti prego non andare da nessuna parte. Resta con me.)

Dovresti parlargliene apertamente, chiedere spiegazioni. Perché se la faccenda è così seria, allora Dean ha bisogno di aiuto: uno psicologo, un gruppo di supporto, un consultorio, una terapia, un’assistenza professionale.

Ma tuo fratello non raccoglie nessuna delle tue allusioni, ignora tutte le tue proposte al dialogo.

(Ti dici che potrebbe andare peggio, cerchi di tranquillizzarti, di convincerti che è una tua esagerazione e che, per dio, Dean non è pazzo, non vuole morire, non lo farebbe mai… ma, al diavolo, ti sbagli. Dean l’ha già fatto. E forse vuole morire. E non hai idea delle probabilità che potrebbe rifarlo. E in fondo la tua stessa paura ti immobilizza. Potrebbe andare peggio, ti dici, potrebbe essere più grave… ma inizi a non crederci più.).

 

Una mattina lo trovi nel bagno a tracciare con il rasoio a mano la linea della sua giugulare, pensi che potresti sfondare il muro con un pugno, per la frustrazione, la rabbia repressa, il terrore atavico di perderlo. Invece ti trattieni sullo stipite, gli chiedi se sta bene.

 

Ti accontenti quando ti risponde con un’alzata di spalle.


***


Nonostante questo, le cose vanno discretamente.

Si, certo, sei costretto a razionalizzare e bloccare quasi tutti i tuoi impulsi primari, e oramai neppure negare funziona… perché l’oggetto delle tue speculazioni, (delle tue marce fantasie…) ti è sempre davanti. Ma non ti lamenti.

Tu e Dean state iniziando a diventare fratelli di nuovo. State scoprendo una forma di confidenza, di complicità, di comprensione che non hai mai creduto possibile.

Quando ti guarda, credi di riconoscere i suoi stati d’animo, ti destreggi fra i suoi cambi d’umore, fra le sue omissioni, le sue paure, le sue vulnerabilità mascherate da sfacciato egocentrismo.

Rimorchia le ragazze nei bar, e la gelosia ti divora. Ma sei capace di capire che sarai tu a lasciare la città con lui, nella vostra auto. Non sai per quanto ancora ti potrà bastare. Ma per il momento, cautamente, eviti di chiedertelo.

 

Sai già che non può durare, te lo ripeti da settimane: una fottuta convivenza sarebbe impegnativa per chiunque in una situazione come la vostra, senza bisogno di parametri incestuosi a complicare le cose…

 

Ogni volta che vi fermate a mangiare in un diner qualunque, se Dean ha tra le mani un coltello, l’esperienza si ripete: in un flash ti senti catapultato ancora in quel prefabbricato, risenti il sapore della polvere sotto la lingua e credi di avere il sangue di tuo fratello sotto le unghie (ti chiedi cosa stia pensando, certi giorni sei quasi certo che possa rifarlo, sei terrorizzato all’idea di non poterlo prevedere, di dovergli sopravvivere…).

Poi un raggio di sole colpisce i suoi occhi e lui fa una smorfia comica di fastidio, oppure ingoia un boccone troppo grosso e inizia a tossire, oppure schiocca le dita davanti al tuo sguardo perplesso e attira la tua attenzione con un Dude… spazientito.

E improvvisamente ti sembra di poter sopportare qualunque cosa: Dean è vivo, è qui. Ora. Esiste.

La vita in qualche modo ha senso.

Sai di essere pieno di buone intenzioni, ma ti illudi. E il pensiero ti distrae.

 

Infatti non sei ancora pronto quando la merda sale davvero a galla.

 

È colpa del ragazzo: è alto e ha le spalle larghe, ride come se non avesse una sola preoccupazione al mondo e ha le fossette. Se avesse qualche chilo di muscoli in più e un taglio di capelli più lungo, potresti arrivare a dire che ti somiglia.

Questo ti sembra intollerabile.

 

Stringi l’avambraccio di Dean, prima che lui possa allontanarsi con lo sconosciuto in un posto appartato. E non ti importa che siete nel bel mezzo di un locale pieno di facce poco amichevoli in un posto sperduto della provincia di Fort Wayne quasi a metà strada fra Toledo e Indianapolis, e che teoricamente non hai diritto di veto su chi tuo fratello vuole scoparsi.

Incombi su di lui e non ti vergogni quando gli chiedi: “Che hai intenzione di fare?”

Dean ti osserva con uno strano sguardo, come se avesse paura, ma la rabbia fosse troppo incandescente per trattenersi: “Che ti importa? Ci danziamo attorno da settimane, e io sono stanco di questa mascherata! Non sono uno psicopatico in cerca di un modo per punirsi. Non voglio che qualcuno mi faccia male, e tranne rare eccezioni, non mi faccio eccitare dal dolore.”

Sembra irradiare energia violenta, bollente. E le sue labbra sono umide, non puoi fare a meno di guardargliele.

“Lui…” ti indica con il mento in un gesto altezzoso il ragazzo, che aspetta al bar con le mani in tasca e un bicchiere davanti, “… e tutti quelli come lui… non sono un modo per autodistruggermi. Ma ho bisogno che qualcuno mi fotta fino a spegnere il cervello.”

La tua presa s’intensifica, perché non capisci (non puoi impedirti di pensare che se anche si scoperà quel ragazzino insipido, sarà l’impronta della tua mano che porterà domani intorno al polso. E non ti può bastare). Non capisci… di cosa diavolo sta parlando.

 

“Tu non smetti mai di guardarmi. Ogni singolo istante di ogni giorno, sei sempre lì, Sam. Con i tuoi occhi intenti e le tue espressioni comprensive e le tue fottute mani gentili! Non so che farmene di te!” grida, e sai che sta volutamente esagerando, che non pensa ciò che dice perché è fuori controllo, e ha paura e deve ferire te prima che tu possa ferire lui… però fa male.

 

Dean respira come gli mancasse il fiato, poi ti sfida, con un gusto tagliente nel dire la frase più brutale che potrebbe concepire. E tu non ti sorprendi quando si spinge con il petto contro di te e soffia: “Sei curioso Sam? Posso spiegartelo più chiaramente, se ancora non ti è chiaro… ciò che intendo fare con lui. Come intendo prenderlo in bocca e succhiarlo… mmm… vuoi i dettagli? Puoi guardare, se vuoi.”

 

Forse nella perfetta teoria di come dovrebbe svolgersi questo showdown nelle sue intenzioni, a questo punto tu dovresti dargli un pugno, declamare qualche frase disgustata e abbandonarlo a se stesso. Invece gli poggi le mani sulle spalle e lo costringi a spingersi su di te, sul tuo corpo. Così che lui non possa negare, non possa fingere, in futuro, di non aver notato l’erezione che ti gonfia i pantaloni.

 

È il ragazzo a rompere il momento.

Dean ha gli occhi grandi e tondi come quelli disegnati di una bambola.

Lo sconosciuto (è giovane, e tu hai sempre voglia di picchiarlo, ma non è colpa sua, è solo nel posto sbagliato, al momento sbagliato, con la persona sbagliata…) tossicchia, quasi in imbarazzo.

“È colpa mia,” dice cincischiando con una bottiglia ancora da aprire, “Non avevo capito che fosse impegnato.” Ti osserva, come per rendersi conto se si stia guadagnando un buon motivo per farsi dare quel pugno, poi scuote la testa (e Dean è sempre immobile, come in trance, come se non lo credesse possibile…) “Siete carini. C’è la possibilità che vogliate compagnia?” ammicca, non è il tuo genere (non che tu abbia un genere quando si parla di uccelli. L’unico che ti interessa, nella logica deviata del tuo cervello bacato, è apparentemente quello di tuo fratello…), ma in linea teorica comprendi l’happeal che può esercitare.

“Non ci interessa, sparisci,” replichi, fin troppo franco, ma non hai tempo da perdere e non cerchi la rissa, non c’è aggressione nel tuo tono.

“Come vuoi fratello,” ribatte con un’alzata di spalle, “Un consiglio: tieni gli occhi aperti, il tuo ragazzo è una bomba. Una di quelle che vuoi disperatamente farti esplodere in faccia.”

 

Scuoti la testa. E ne hai le palle piene. Letteralmente.

 

Il punto è che non potresti essere più d’accordo.


***


Dean ha qualcosa da dirti e tu lo osservi spostare il peso da una gamba all’altra e rosicchiarsi un’unghia prima di schiarirsi la voce.

Se tu fossi asessuato (e meno incazzato), lo troveresti tenero. Allo stato attuale invece vorresti solo poter avere la libertà di leccare l’angolo della sua bocca e scoprire se mantiene ancora il sapore del suo drink. Ma la tensione è troppo alta, e le parole che vi siete scambiati al locale ancora appannano lo spazio tra di voi.

 

Lo osservi appoggiarsi allo stipite del bagno: la vostra è una camera di motel come tante altre, pulita ma piccola, con due letti e due comodini, un armadio che voi raramente usate perché preferite non disfare i bagagli (del resto non avrebbe senso, non vi trattenete in un posto mai più di tre giorni…) e un calorifero sotto la finestra.

Non sai perché, ma vieni assalito da un profondo senso di desolazione (non potrai mai avere Dean, ne parlerete e lui ti guarderà disgustato e si allontanerà da te. Hai paura. Sei terrorizzato. E perché, al diavolo, perché provi quello che privi?).

 

Dean abbassa la testa e tossicchia, poi ti lancia uno sguardo e di nuovo ti sfugge, “Insomma qualche volta mi piacciono gli uomini,” dichiara, in tutta la sua composta dignità.

Dio, se non fossi alle soglie di un momento catartico, ti verrebbe da ridere. Se si trattasse soltanto di quello… Scuoti lentamente la testa e lasci che un ciuffo di capelli ti ricada sugli occhi. “Non penso che sia il punto, Dean. Dobbiamo parlarne. Voglio sapere come stai, cosa hai pensato. Perché l’hai fatto?” ripeti, glielo chiedi come hai già fatto sotto il portico di casa di vostra madre, a Lawrence (e intendi ovviamente il coltello, il tentato suicidio… la paura ti attanaglia lo stomaco e pensi di sentirne le unghie conficcarsi nella tua carne…).

E lui, adesso come allora, si irrigidisce e ti da le spalle.

Insisti, “Non mi importa con chi vai a letto. Lo so da quando avevo diciotto anni, e non è mai stato quello il problema.”

Dean si volta e ha gli occhi troppo in ombra per poter capire… ma da come si mantiene nelle spalle supponi che stia cercando di fingere una spavalderia che non prova davvero in questo momento.

“Come…” ti domanda.

E tu vorresti rispondergli: perché ti ho visto nel cesso di un bar, mentre lo succhiavi a uno sconosciuto e non ho avuto il coraggio di tornare a casa quella notte. Ma le parole ti muoiono nella carotide, prima ancora di arrivarti in bocca.

“Lo so e basta. E non m’importa. Sei mio fratello e non c’è niente che potresti fare per costringermi a smettere di amarti, ma devi spiegarmi che cosa è successo quella notte, perché io non riesco a ricordare e ogni volta che ci provo, vedo solo il coltello che ti entra nel petto e il sangue che mi impregna i vestiti mentre cerco di non farti morire.” Improvvisamente tutti i sentimenti che tieni bloccati dentro di te ti si riversano addosso come una grandinata. Ti senti così disperato che potresti scoppiare a piangere come un bambino, “Dean ti prego…”

 

“Non mi ricordo,” esordisce. Ha gli occhi di giada sul punti di incrinarsi e tu vorresti potergli consentire di mantenere le sue inquietudini per sé, ma non è così. Lo osservi, non vuoi essere invadente, vorresti poter rispettare di più il suo bisogno al silenzio, ma non ce la fai. Cerchi di non perderti nemmeno la cadenza del suo respiro, ma Dean quando comincia è come un motore alla massima potenza, senza pilota: arrabbiato e spaventato e vulnerabile. “Volevi saperlo, no? Questa è la verità. Non ricordo nulla di quei giorni. Cosa è successo prima, cosa ho pensato quando l’ho fatto… alle volte sento ancora l’impressione del manico del coltello nel mio palmo, e credo di poter rimandare il tempo all’indietro, di potermi fermare, di poterlo evitare. Anche solo di capire… ma non succede mai.”

Tu l’ascolti, mentre ti parla per la prima volta onestamente di ciò che è accaduto quella notte. E Dean è lì, improvvisamente così vicino che ti senti quasi appagato semplicemente del calore che trasla dal suo corpo al tuo, come una cosa viva.

 

“Forse non ero io. Forse era qualcun altro. Io non voglio uccidermi, io non l’avrei mai fatto. È

possibile che qualcun altro abbia preso possesso del mio corpo Sammy?”

Non te lo puoi impedire, dovresti controllarti meglio, ma spontaneamente gli chiedi: “Da quando mi chiami Sammy?” e una strana sensazione di dejavù ti assale, ti riporta a quegli infausti giorni prima che Dean si accoltellasse. E ti sembra che forse tu gliel’abbia già chiesto, forse dovresti ricordartelo…

Dean sembra ancora più confuso. “Non lo so. Mi sembra di averlo sempre fatto, come un’abitudine. Ma se mi fermo a pensarci, so che non è così. Non ti ho mai chiamato Sammy. Mai. E ora non riesco a smettere.”

“Mi piace,” replichi in fretta. Perché è la verità. Daresti qualsiasi cosa per sentirti sempre chiamare così, con quella nota di affettuosità canzonatoria che sembra rendere tutto possibile. “Non mi da fastidio.”

 

Senti che questo è un momento che dovrei ricordare per sempre. E non sai cosa ti spinge ad abbandonare ogni remora, ogni prudenza.

Ti avvicini di più, senti il contorno del suo corpo che si tratteggia lungo il tuo, e l’anticipazione ti sembra sublime. “Dean…”

 

“Non ero io, Sam. Eppure ero io. Come se fossi un altro me stesso, di un altro posto. E quando mi sono svegliato in quel letto d’ospedale mi sono sentito… solo, differente. Ho cominciato a provare delle sensazioni che prima mai…”

“Che sensazioni?” lo incalzi. Non sai se avrai un’altra occasione, questa la devi sfruttare fino in fondo.

“Ero arrabbiato con papà, per esempio. Senza una ragione ero arrabbiato per come mi ha cresciuto, per come è morto, per le responsabilità che ha fatto ricadere su di me: e non ha senso, vero? Voglio dire, è stato un padre capace, presente, onesto. Non ho nulla da rimproverare alla sua memoria… ma non riesco a frenare queste ondate di rabbia, di dolore, come se lo avessi perso nel più orribile dei modi, come se sapessi che qualcosa di mostruoso gli è capitato per colpa mia…” Si asciuga rabbiosamente una lacrima. Solo una, rotonda e perfetta. È bello, nella proporzione dei suoi lineamenti, come una statua di un tempio classico.

“La mamma invece… Ero sorpreso di vedere la mamma. Ogni volta che mi sorrideva, che mi abbracciava, mi sembrava di vivere in una realtà parallela, come se non fossi abituato alla sua presenza, come se lei non esistesse. Da quando mi sono risvegliato, tutta la mia vita mi sembra sbagliata, strana, differente da come dovrebbe essere: l’officina, Lawrence, Carmen. Tutto. Tranne te. Solo questo è normale. Solo questo riconosco: tu ed io e la strada davanti a noi. Perchè Sam?”

 

E tu non lo sai.

Vorresti potergli rispondere qualcosa di vero. Ma le parole non sono abbastanza.

 

Allora lo baci.

 

E il countdown… il maledetto countdown che ti ossessionava da settimane risuona nel tuo cervello, con la chiarezza minacciosa dello scocco di una campana.

 

Ti chiedi confusamente quando avverrà l’ultimo rintocco.



 

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

Non riesci bene a spiegarti come sia successo.

Anni e anni di controllo faticosissimo, infiniti e tortuosi auto-condizionamenti e tutto si conclude in un momento.

Si, un momento.

Sei talmente terrorizzato di ciò che hai fatto che il tuo bacio si può riassumere in un maldestro appoggiarsi di labbra. Fai due passi indietro, sei così sbilanciato che inciampi e se Dean non ti afferrasse per la camicia, andresti a finire per terra.

Hai gli occhi sbarrati e il cuore a mille, e pensi che per tuo fratello sia la posizione perfetta per un pugno ben assestato: ha il vantaggio fisico, il movente e perfino la ragione in via di principio.

Cristo, hai baciato Dean.

Sei veramente un coglione idiota.

 

“Ascolta i-” provi a dire, per migliorare la tua situazione (ma sei in una posizione indifendibile, come diavolo puoi giustificarti?).

Dean ha ancora la mano affondata nella stoffa della tua camicia, tu ti senti in precario equilibrio ed è una novità osservarlo dal basso, mentre cerchi di mantenerti stabile sulle ginocchia piegate e divaricate.

 

“Se questo è un gioco…” ti dice Dean, e stringe di più, senti le nocche a contatto con il tuo torace attraverso la flanella (ma non dovresti) e la sensazione ti eccita.

Però non capisci.

Un flusso di emozioni troppo complesse, violente e velocissime ti penetra come spilli: ogni puntura aggiunge una sfumatura di consapevolezza.

 

Poi Dean infila un ginocchio fra le tue gambe e tu senti il suo respiro contro la tua guancia.

Ti mantiene alla sua mercé, ti costringe a fare affidamento su di lui, sulla stabilità del suo corpo caldo, per rimanere in piedi. E tu glielo concedi (cazzo, è il minimo, dopo quello che hai fatto…).

“Se questo è un gioco per te…” ripete, e non ti sembra di aver mai visto i suoi occhi più verdi e allo stesso tempo più bui (come se la superficie di quel lago alpino fosse stata travolta da una bufera e ora il fango dovesse riposarsi sul fondo… ma è impossibile, impossibile! Niente sarà mai più limpido come prima…)

Dean chiude l’altra mano attorno al tuo collo e tu continui a boccheggiare e tutto si sta consumando nel giro di pochi secondi, ma non riesci a dire una sola parola. E ti sembra di essere bloccato, con tuo fratello tra le cosce, per un secolo.

 

“… potrei anche ucciderti,” mormora, guardandoti la bocca e poi afferrandoti la nuca con violenza, strattonandoti e dandoti finalmente (finalmente, cazzo…) il bacio che hai sempre voluto.

 

Stavolta non esiti. Non ti soffermi a farti domande (come: ma allora anche lui? Oppure: da quanto andava avanti? Oppure: questo non è normale, siamo entrambi sbagliati?). Ci sarà tempo in un secondo momento.

 

Dean è vivo, è caldo, il suo sapore t’invade. La tensione dei suoi muscoli sotto le tue dita, il modo in cui vi afferrate, vi spingete l’uno sull’altro, vi baciate, come se non ne avreste mai più occasione, come se il mondo finisse, come se le lingue, i denti e le bocche non fossero abbastanza.

Di più. Ancora. Si, così…

Vorresti strappargli i vestiti a morsi, vorresti che lui si lasciasse prendere contro la parete. Ma non credi di essere pronto. Ti sembrava fantascienza fino a un minuto fa.

 

Gli infili una mano sotto la maglietta, lungo la schiena, ma il tuo vuole essere un gesto tenero, di conforto, vuoi rassicurare, calmare, amare per tutta la tua vita.

 

“Dean…” bisbigli, temi di poterlo incrinare con un tono troppo alto, con un gesto sbagliato. “Dean, ehi, aspetta.”

 

“Ho bisogno di te, Sammy,” confessa lui, di fretta, inciampando con la lingua su qualche consonante. “Non so perché, ed è così sbagliato ma… ho bisogno di te. Solo di te. Mi credi?”

 

Se gli credi?

Che domanda ridicola. Potresti dire che siete così diversi e vi siete sempre capiti così poco, che non hai molta esperienza nel riconoscere le menzogne di tuo fratello, (potresti dirgli che sono mesi che lo preghi di parlarti, di raccontarti cosa è successo quella notte, di dirti la verità…) ma in realtà non è così ora: al di là di ciò che vi separa, esiste una corrente tra di voi, una connessione che vi lega, per la quale in questo preciso istante potresti giurare di leggergli nella mente.

 

“Ti credo.”

Ma ciò che davvero gli stai dicendo è: mi fido.

 

Ed è la più assoluta delle verità. Questo è il fratello che ti ha rubato la tua prima carta di credito, che se l’è svignata il giorno del tuo diploma, che si è portato a letto la tua ragazza la sera del ballo di fine anno. È il fratello che scommette e perde grosso, che mente su quasi tutto, quasi continuamente, quasi a chiunque. Questo è il fratello che ha appena lasciato Carmen, ha chiuso l’officina ed è partito senza una meta per le strade d’america.

È lo stesso fratello che ti ha insegnato a guidare, ad allacciarti le scarpe, a giocare a baseball e a fumare se ti andava. Quello che ha picchiato Bobby Lowson per averti rotto il naso e rubato le scarpe a dodici anni. Quello che ami da tutta la vita, come non potresti amare nessun altro, in nessun posto.

Il più figo, il più forte, il più furbo, il più sveglio dei fratelli maggiori di tutto il mondo.

E, che dio ti aiuti, non c’è niente che possa essere fatto per farti smettere di provare quello che provi.

 

E le parole sono troppo fuorvianti, e quello che dovete affrontare è troppo enorme, e forse siete sbagliati, deviati, destinati al fallimento, ma non c’è nulla di diverso che puoi fare se non riprendergli la bocca. È calda, screpolata, riconosci il suo sapore e ti chiedi come è possibile trovarlo tanto giusto e tanto sbagliato nella stessa misura.

Potresti essere completamente felice, e invece Dean allunga la mano dentro ai tuoi pantaloni e ti dice: “Esiste l’eventualità che questa non sia l’unica conclusione possibile?”

 

Il tuo cervello ci mette qualche momento di troppo a collegare le sinapsi, perché la mano di tuo fratello è grande e ti stringe come una morsa, ti preme alla base del membro, per non farti venire (o forse per farti male, sei duro come una roccia e potresti anche esplodere…). Una stretta particolarmente enfatica ti costringe a raccapezzare i tuoi pensieri e cerchi di riflettere alla svelta per rispondergli ciò che pensi e non ciò che forse vuole sentirsi dire.

“Questa è l’unica conclusione possibile per me. L’alternativa sarebbe continuare a fingere di non provare quello che provo, ma adesso…” (e pensi: dio dopo aver respirato il tuo respiro e morso l’angolo della tua bocca, fino ad avere in gola il tuo sapore, non potrei mai. Non potrei mai più.)

 

Dean non ti lascia concludere, in fondo speri che trovi lui stesso quella evenienza troppo orribile per contemplarla. Ti si spinge contro e non sai chi dei due avrà il coraggio di fermarsi, ma dovete.

C’è troppo ancora da dire, da chiarire, ci sono i sintomi di stress post traumatico che tuo fratello continua a manifestare, ci sono i tuoi incubi ogni volta che Dean si avvicina ad un oggetto affilato… soprattutto ci sono i vostri ricordi confusi di quella notte, il modo in cui Dean si riferisce a quegli eventi che non riesce a mettere a fuoco, come se ad averli vissuti fosse stato qualcun’altro…

 

Non ero io, Sam. Eppure ero io. Come se fossi un altro me stesso, di un altro posto.

 

Ti chiedi cosa significa, se lo capirai mai… ti chiedi, in un lampo di paura accecante se, senza quella esperienza, Dean avrebbe mai avuto questi impulsi verso di te, questi sentimenti…

Sarebbe successo lo stesso, prima o poi?

 

Dean si sfila la maglietta in un movimento fluido e ti riscuoti solo quando la fibbia dei suoi jeans sbatte contro in pavimento in un clang tra di voi.

Puoi guardare, ti è concesso.

Puoi perfino toccare…

Ma in qualche modo non sarà mai abbastanza, avrai sempre il dubbio. Tuo fratello, se non avesse provato ad uccidersi senza ricordarsene più il perchè, ti avrebbe mai desiderato, avrebbe mai avuto bisogno di te, come tu di lui (in un contesto di vita puramente normale)?

La risposta è terrificante. Ignori la domanda e ti riprometti di non pensarci mai più.

 

Esiste un posto, in uno qualunque degli universi paralleli e distinti, in cui tu non hai bisogno di lui?

 

L’amore basta. E alle volte non basta.

Non c’è modo di saperlo.

Mentre Dean porta le mani lungo il tuo petto e passa la lingua sulla tua mandibola in anticipazione di ben altro, pensi che puoi accontentarti.

 

Indipendentemente da tutto il resto, il legame di sangue è per sempre.







 

Come on and lay with me

Come on and lie to me

Tell me you love me

Say I'm the only one



 

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