Quella vita che non ho mai voluto.

di in rotta per il paradiso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vicende difficili! ***
Capitolo 2: *** Il modo migliore per far pace. ***
Capitolo 3: *** Amori impossibili ***
Capitolo 4: *** Distanti. ***
Capitolo 5: *** Il principio della fine. ***
Capitolo 6: *** Lacrime amare... ***
Capitolo 7: *** Conseguenze... ***
Capitolo 8: *** Memories ***
Capitolo 9: *** Senso di giustizia! ***
Capitolo 10: *** Coraggio ***
Capitolo 11: *** Risveglio. ***
Capitolo 12: *** Destino ***



Capitolo 1
*** Vicende difficili! ***



Nel quartiere di Cecco non esisteva più la speranza, quello che aveva importanza davvero era rimanere vivi e non era un'impresa facile.
Lo smog si mischiava al cielo, in inverno si creava una cappa grigia talmente scura e apatica che l'ansia ti scorreva perennemente nelle vene; sangue e ansia nel corpo come fossero un composto chimico. In estate non si poteva uscire di casa prima delle sette di sera, a trovarlo un posto per ripararsi dal caldo asfissiante dei mesi estivi. Tirando le somme, era proprio un posto di merda!
La strada principale era un incubo, testimone di troppe risse tra adolescenti di gruppi diversi della zona e troppe amicizie infrante per una discussione stupida. 
Una cosa accomunava tutti quei poveri disgraziati: erano compagni di sventura, nati e cresciuti tra una bottiglia di birra e la messa domenicale trasmessa dall'altoparlante della piccola chiesa. La cosa peggiore era che, abitando lì, ci si dimenticava di come si vivesse fuori, in un quartiere di periferia normale, dove la gente si alzava alle cinque per portare qualche spicciolo a casa, anche se con quei pochi soldi non riuscivano ad arrivare neanche alla quarta settimana del mese. Nonostante i loro problemi, erano persone oneste. In quel posto le persone non lavoravano molto, perché il viso di chi ne aveva passate tante ed era rimasto impicciato in qualche guaio ancora irrisolto, non poteva cancellarlo nessuno. La gente sapeva, la gente capiva. 
Una cosa bisognava riconoscerla: erano furbi. I grandi rubavano di tutto, dai portafogli alle macchine, "lavoravano" di notte mentre di giorno dormivano. 
Gli adolescenti si dedicavano da sempre allo spaccio di droghe; si iniziava presto, già dai 14-15 anni. Per questo i vari gruppi si scontravano finendo quasi sempre in una rissa: pretendevano il monopolio. 
I più piccoli avevano compreso subito che era meglio non fare domande, meno si sapeva e meglio si campava. 
La fermata dell'autobus era strapiena di adolescenti con le occhiaie scure e la sigaretta che penzolava all'angolo della bocca già alle sette del mattino. Andavano a scuola,  non proprio... La maggior parte arrivava, vendeva la roba a chi la volesse, poi girovagava aspettando le tre del pomeriggio per tornare nel loro mondo. Altri non si sforzavano nemmeno di salvare le apparenze, tornavano a casa un'oretta dopo che erano usciti, giustificandosi con l'autobus troppo pieno o la corsa saltata. A quelle balle non ci credeva nessuno. 

«Non fare il coglione! Andiamo a farci un giro, non avrai paura della tua dolce mammina?» lo provocava Massimiliano. 
«Ho detto di no. Smettila di rompermi il cazzo»
«Tua madre è una rompipalle, ti rovina la vita!»
L'altro lo afferrò per il colletto della camicia sgualcita, già spazientito da quelle lamentele infantili, si avvicinò a dieci centimetri di distanza dal naso dell'amico e con un tono che sorprese anche lui, gli disse: 
«un'altra parola su mia madre e ti spacco la faccia!» Questo era Cecco: un ragazzo calmo e tranquillo finché sentiva la sua famiglia minacciata, in quella circostanza era in grado di mandare all'ospedale chiunque. Massimiliano, che lo conosceva molto bene, bisbigliò un "mi dispiace", sapeva quando era l'ora di fermarsi. Cecco si passò una mano fra i capelli corvini che cadevano a ciocche davanti agli occhi chiari. 
«Senti, oggi non ci arrivo nemmeno a scuola. Pensaci tu.»
Massimiliano gli passò un piccolo astuccio e si diresse a casa, aveva un sonno bestiale. Lo avrebbe sempre negato agli altri, però era invidioso della famiglia del suo migliore amico. La madre di Cecco era giovane e molto bella, era la copia sputata del figlio e si occupava di rammendare la casa; quando tornavano il padre e i figli, preparava loro sempre un pranzo buono e si preoccupava di come andassero le cose al cantiere e a scuola. Il padre era uno dei pochi che teneva un posto di lavoro legale. Era un capocantiere ed erano più di quindici anni che vi lavorava, ormai quel posto non poteva levarglielo nessuno. Non lo avrebbe mai detto, soprattutto a Cecco, ma avrebbe volentieri scambiato le due famiglie. Si vergognava dei suoi genitori, della sua mamma alcolizzata e del padre scansafatiche che rubava alle donne anziane o ai turisti sprovveduti al centro della città. Quale uomo farebbe una cosa simile? Solo un bastardo, appunto e quella zona ne era piena.

Massimiliano trovò sua madre seduta al tavolo in cucina. Accanto a lei, solo un bicchiere di vetro e una bottiglia di vodka liscia, così forte da stenderti con un paio di bicchieri; e sua madre era già stesa, completamente ubriaca e fissava un punto indistinto sulle mattonelle biancastre del pavimento. 
Sospirò, si sentiva più triste che mai. La guardò affranto: i capelli crespi le incorniciavano il volto pallido, le occhiaie la facevano sembrare più vecchia di dieci anni, i suoi bellissimi occhi verde smeraldo erano ormai spenti, non brillavano più come qualche anno fa. Era triste, una consapevolezza atroce per un figlio. 
«Dammi questa cazzo di bottiglia!» 
Le tolse la vodka non appena vide che stava per riempirsi un altro bicchiere e questo suscitò un mormorio di disapprovazione. Quando la donna si convinse a lanciare uno sguardo al suo bellissimo figlio, Massimiliano notò che era incazzata nera. 
«Fatti i cazzi tuoi e sparisci!» lo aggredì. 
Il ragazzo fece finta di non sentire, quando aveva questi momenti non faceva distinzioni tra il figlio e il marito, non li riconosceva proprio. Spesso si domandava perché spettasse a lui una madre così, la odiava e l'amava come non mai, purtroppo doveva arrendersi all'evidenza, ovvero che sarebbe stata sempre lei la causa delle sue sofferenze. 
«Dov'è quello stronzo di tuo padre? Se avessi scelto quel riccone che mi faceva la corte, ora sarei una signora e non una pezzente! Chi cazzo me l'ha fatto fare?! Siete la rovina della vita mia!» Con uno scatto, si impossessò della bottiglia e ne scolò cinque sorsi. Come facesse a reggerli, era un mistero per Massimiliano. Per qualche secondo pensò di andarsene e di lasciarla alle sue pene, tuttavia se lo avesse fatto per davvero non se lo sarebbe mai perdonato.
«Mamma, ti prego!» 
«Vattene!» gli urlò con quanto fiato avesse in gola. Massimiliano era abituato a certe situazioni, a certe urla. La strattonò senza farle male pur di levarle quella bottiglia maledetta. Nell'urto, finì a terra e si ruppe in mille frammenti di vetro e il liquido trasparente si disperse sul pavimento gelido. 
«Guarda, guarda cos'hai fatto disgraziato!» 
Ancora più incazzata, imboccò la porta d'ingresso ed uscì, diretta chissà dove. Ora la rabbia si stava impossessando anche di lui; prese a calci una sedia, girò il tavolo rompendo anche il bicchiere, urlò. Forse stava diventando pazzo, forse avrebbe fatto la fine della madre. Sapeva dov'era il padre, sapeva che se ne era andato per non vedere quello schifoso spettacolo. Ormai la speranza che l'amore tornasse a dimorare in quella casa era sparita. La situazione era sfuggita al controllo cinque anni prima. Suo fratello era morto in un incidente con il motorino a un incrocio a causa di un guidatore ubriaco. I medici avevano tentato di tutto, ma non c'era stato più niente da fare, era deceduto durante il trasporto in ospedale. Da quel momento la famiglia si era rotta, l'amore era svanito, rimanevano solo delle ferite che niente e nessuno poteva guarire. La cosa che più gli arrecasse dolore, era pensare che il fratello maggiore fosse morto per un incidente dovuto all'alcol e la madre, invece di stare più lontana possibile da quell'assassino, era caduta vittima del suo gioco. Per Massimiliano, Roberto era morto due volte.

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Capitolo 2
*** Il modo migliore per far pace. ***


Cecco aveva girato tutto il quartiere, però del suo migliore amico non c'era traccia. Che si fosse messo in un vicolo a litigare con quelle teste di cazzo dell'altro gruppo? 
Arrivò al vecchio parco, uno spazio grande dove si riunivano i ragazzi per una partita a calcetto, mentre le ragazze ci andavano per guardare quelli più in vista della zona. Uno scivolo arrugginito e un'altalena cigolante erano rimasti sullo sfondo di un posto desolato dove ai bambini non era permesso giocare, a causa dei timori delle mamme che sapevano che nel pomeriggio il vecchio parco si popolava di giovani scansafatiche e poco raccomandabili. Di Max neanche l'ombra. C’era un parcheggio in una via interna, dove qualche volta si divertivano a improvvisare una rissa oppure quando si nascondevano per fumare i primi tempi. Era diventato il loro posto segreto: quando volevano stare soli, si rifugiavano sempre lì e solitamente accadeva quando qualcosa era andato storto. 
Infatti lo trovò. Massimiliano stava seduto sul muretto a gambe incrociate, mentre osservava la sigaretta che teneva tra l'indice e il medio. Accanto a lui, una birra quasi vuota. Lo avrà ripetuto mille volte a quel testone di non mischiare fumo e alcol! 
«Che ci fai qui?» 
«Volevo stare da solo...» parlava piano Massimiliano, scandiva tutte le parole a bassa voce e Cecco intuì subito che non era del tutto lucido. 
Rimasero in silenzio. Faceva finta di non saperlo, però le voci nel quartiere giravano; voci dei vicini di casa che sentivano le urla della madre contro il marito quando era ubriaca, il rumore di qualcosa finito a terra e andato in frantumi... E quelle voci erano giunte anche alla famiglia di Cecco e Benedetta. 
«Vorrei aiutarla, ma non posso...» disse Massimiliano. 
«Non puoi continuare a fare finta di niente, ti sta distruggendo!» 
«Per te è troppo facile parlare, la tua famiglia è perfetta...». 
Il ragazzo avrebbe voluto ribattere, però sapeva anche lui che la sua era una delle famiglie più "normali", ma non si sarebbe mai aspettato che gli venisse rinfacciato. Per questo motivo la mattina gli aveva fatto quella scenata... E quella gelosia da parte del suo migliore amico lo ferì, quasi quanto era ferito Massimiliano. Avrebbe voluto rispondergli nel peggiore dei modi, prenderlo a pugni, addirittura sputargli in faccia, invece senza neanche una parola se ne andò e nessuno provò a fermarlo. 
Di tornare subito a casa proprio non ne aveva voglia. Arrivò nella parte popolare della zona, dove sorgevano per l'appunto case popolari: si trattava di condomini di quindici piani. Era lì che voleva arrivare nonostante tutti i piani da fare a piedi, perché di quegli ascensori diroccati proprio non si fidava. Prese un respiro prima di perdersi un polmone tra le scale infinite di quei palazzoni. Il portone in ferro era sempre aperto, sulle mura decine e decine di scritte senza senso che avevano solo il compito di imbrattare quel cemento una volta nuovo. Nomi di ragazzi della sua età, o meglio i loro soprannomi; ne lesse alcuni per evitare di pensare ai piani che avrebbe dovuto ancora salire: Lupo, Zar, Principe erano scritti su ogni piano, come se stessero a significare che erano loro che comandavano. Finalmente arrivò in cima, era pieno di spade e preservativi, era il posto in cui si iniettavano la roba nelle vene oppure scopavano. Fece una smorfia con la bocca, dal pacchetto di Chesterfield estrasse una sigaretta e l'accese. Fumava tranquillo mentre guardava la città scorrere sotto i suoi occhi. 

Massimiliano si dava del coglione da due giorni. Come aveva potuto dire quelle cose a Cecco, al suo migliore amico? E conoscendolo, proprio non capiva perché non lo avesse preso a pugni! No, in realtà lo sapeva molto bene: aveva scelto di andarsene per la prova della grande amicizia che li legava. 
Erano due giorni che non lo vedeva, un po' perché si erano evitati e un po' perché preferivano rimanere in casa sotto le coperte. Sapeva di doversi far perdonare e non sarebbe stata un'impresa semplice. 
Arrivò senza quasi accorgersene al vecchio parco. Una ragazzina stava seduta di spalle sull'altalena dondolandosi delicatamente e spingendosi in alto con le gambe. «Dovresti essere a scuola!». 
Benedetta voltò la testa di scatto spaventata, poi gli sorrise. «Non dirlo a mio fratello o mi ammazza!» 
Massimiliano si avvicinò e iniziò a spingerla, non c'era niente di male in quel gesto quasi fraterno, ma se Cecco lo avesse saputo si sarebbe acceso come una miccia. Erano un paio d'anni che Massimiliano guardava quella ragazzina in modo diverso: prima era solo la sorellina del suo migliore amico, ora era una bella adolescente da proteggere dai maschi senza scrupoli della zona. Anche per lui era una sorellina minore... 
Alcuni giorni sentiva di non potersi lamentare della sua vita, spesso accadeva quando girava il quartiere con Cecco tenendo tra le dita l'ultima sigaretta da dividere, quando cazzeggiavano o guardavano storto altri ragazzi e a volte si finiva in una scazzottata; quelle risate, quegli sguardi e quei tagli lo facevano sentire bene, in quei momenti gli sembrava di essere vivo. 
In altri giorni aveva il respiro più pesante, proprio come il peso che aveva legato al cuore. Non gli riusciva un sorriso neanche se avesse assistito al due di picche rifilato a colui che gli stava proprio sulle palle.
Si chiedeva, in quei giorni, se ci fosse una via di fuga da quella realtà... Si domandava perché non potesse abitare in un quartiere normale, alzarsi la mattina per andare a scuola, uscire il pomeriggio con gli amici, tornare a casa mentre faceva buio e sedersi al tavolo con la sua famiglia a cenare. Aveva le risposte: non poteva abitare in un quartiere normale perché la sua famiglia occupava una casa popolare, con quali soldi avrebbero vissuto altrimenti? Non poteva alzarsi la mattina presto e fare quello che ci si aspettava da lui, perché aveva lasciato la scuola. Non poteva girare con gli amici perché era uno di quei ragazzi poco raccomandabili, nullafacenti, teppisti e perciò avevano timore di lui, purtroppo notava il modo in cui lo guardavano gli altri e come biasimarli? Se lui fosse stato una persona "normale", l'avrebbe pensata allo stesso modo. Non tornava a casa quando facesse buio, perché spesso si trovava a girare di notte per sfuggire a una delle solite crisi della madre. Lui non aveva una famiglia, quando si posizionavano al tavolo per la cena c'era solo silenzio... 
E adesso non aveva neanche più l'amicizia di Cecco. È strano pensare a certi legami: avrebbe fatto qualunque cosa per lui, persino donargli un rene se ce ne fosse stato bisogno e sapeva per certo che anche lui avrebbe agito allo stesso modo. La loro amicizia era certezza, forse l'unica che aveva. 
Guardò il cielo bianco e grigio: era in armonia con il suo umore. Sentiva la rabbia crescere a ogni respiro; davanti a lui solo un quartiere semivuoto, con quel freddo la gente rimaneva chiusa in casa. Iniziò a camminare, ogni passo era più veloce del precedente, finché quella camminata non divenne una corsa. 
Correva come se stesse scappando da un mostro, ma se quel mostro faceva parte di lui che senso aveva correre?
Avrebbe dovuto fermarsi, pensare e sistemare le cose invece continuò a spingere i muscoli fino allo stremo, passo dopo passo, con il vento freddo che gli rendeva il tutto ancora più difficile, però non gli importava. Guardava dritto davanti, osservava la grandezza di quei palazzi, pensava a sua mamma e al suo papà, pensava alla sua vita, pensava a Cecco. Correva, ma i pensieri non gli lasciarono scampo. 
Passò davanti al suo appartamento e a quello del suo migliore amico, arrivò al vecchio parco dove gruppi di ragazzi lo fissavano perplessi. Non ce la faceva proprio più. 

Cecco non riusciva a rimuovere il presentimento che ci fosse una faccenda che gli lasciava l'amaro in bocca. Voleva che fosse lui a fare il primo passo ed esigeva delle scuse, poi si ricordò l'ultimo secondo nel quale lo aveva visto ormai due giorni prima: i capelli scompigliati, la bottiglia di alcol quasi vuota, l'odore di sei o sette sigarette nell'aria aperta, quello sguardo vitreo, spento, vuoto... 
Sentiva di odiarlo in quel momento eppure l'affetto che lo legava al suo migliore amico era più forte e sapeva che aveva bisogno di lui, non poteva far finta di nulla come faceva Massimiliano perché il suo silenzio lo avrebbe pagato molto caro. 
Chissà dove poteva essere in quel momento. Cento pensieri orribili gli attraversarono la mente. Quelle quattro fermate che lo separavano dal suo quartiere gli sembrarono infinite, smaniava per scendere, non riusciva a rimanere seduto sul sedile. Lasciò il posto a sedere a una donna che teneva per mano una bambina e attese il suo turno per uscire. Avrebbe fatto quel mezzo chilometro a correre pur di non rimanere un minuto di più su quell'autobus. Le porte si aprirono e nemmeno il tempo di respirare che già correva a cercare il suo migliore amico. 
Non ragionava, andava appresso alle sue gambe le quali lo stavano portando al posto in cui lo aveva trovato un paio di giorni fa. Il parcheggio gli sembrava più triste del solito, sperava di trovarlo seduto sul muretto a fumare, però di lui non c'era traccia. La bottiglia che si era scolato per ubriacarsi e, probabilmente, dimenticare era in frantumi lì vicino; sulla colonna bianca annerita dal tempo c'erano numerose impronte di scarpe, aveva sicuramente preso a calci qualsiasi cosa potesse farlo sfogare. Sentiva il cuore sprofondargli nel petto, aveva bisogno di lui e lui lo aveva lasciato solo. Cominciò di nuovo a correre nonostante il fiatone e la richiesta vitale dei polmoni di ricevere più ossigeno. Vide qualcuno venirgli incontro. Quando furono abbastanza vicini Cecco riconobbe Maria, la migliore amica di sua sorella. 
«Cecco, Massimiliano... Sta facendo a botte... Sono due...». 
Poche parole sconnesse avevano realizzato la paura di Cecco. Stronzi bastardi, due contro uno! Aveva un'idea precisa di chi potessero essere poiché avevano molti conti in sospeso ed era giunta l'ora di saldarli. La rabbia gli accecava la vista, era come se davanti agli occhi avesse calato un velo nero che gli permetteva solo di andare a tastoni nella confusione dei suoi pensieri. 
Era abituato a correre e per quello fu fortunato, arrivò al vecchio parco in meno di cinque minuti. La scena che gli si prospettò davanti era brutta: un ragazzo alto più di Massimiliano lo teneva per le braccia in modo che non potesse muoversi e, di conseguenza difendersi; l'altro meno basso e molto meno muscoloso del compagno, lo stava riempendo di pugni allo stomaco, al petto e al volto. Quel viso affascinante da ragazzo bello e complicato era ricoperto di segni rossi e di sangue uscito dal labbro spaccato e dai pugni sul naso. La rissa doveva essere iniziata tra Massimiliano e il ragazzo che continuava a picchiarlo, era evidente che avesse preso molti cazzotti sul viso anche lui e perciò era intervenuto l'amico: quel ragazzetto dall'aspetto molto più minuto di Massimiliano non riusciva a tenergli testa. 
Bastardi! Con tutta la furia che gli aveva fatto gonfiare le vene sul collo e sulle braccia, prese il ragazzetto con uno strattone e lo buttò a terra. Ci vollero solo pochi secondi per riuscire a mettersi a cavalcioni sopra di lui e iniziare a tempestarlo di pugni sul volto. A ogni colpo il loro sangue si mischiava e più sangue vedeva e più era incontrollabile. Anche l'altro finì a terra e Massimiliano, incazzato nero, lo prese a calci e a pugni. Il parco era pieno di ragazzi e nessuno era intervenuto: vigliacchi, codardi, gente che non dovrebbe esistere! La furia di Cecco cresceva a ogni pensiero di questo genere. Dopo che entrambi si furono sfogati, si misero in piedi e li lasciarono lì, che qualcuno li aiutasse e li portasse in ospedale. 
Non si dissero una parola, Massimiliano si teneva la parte del costato appena sotto al petto, era conciato male, però niente a che vedere con quei due stesi a terra ansimanti e distrutti. 
Il suo migliore amico gli circondò le spalle con un braccio e andarono via. 
Il modo migliore di fare pace.

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Capitolo 3
*** Amori impossibili ***


Non era la prima volta che quei due testoni facevano a botte né era una clamorosa novità, ma Benedetta aveva visto raramente Massimiliano conciato così male: con un occhio gonfio, il sangue raggrumato sul naso e che ancora colava dal labbro inferiore. La ragazza aveva quasi pena per loro e per il loro udito, ora gravemente danneggiato dai rimproveri della madre. Entrambe erano impegnate a ripulire i pochi graffi di Cecco e tutte le ferite del suo migliore amico il quale era considerato ormai un membro della famiglia. 
Benedetta si soffermò a guardarlo: lo aveva sempre considerato un ragazzo irraggiungibile, perciò già da tempo gli aveva affibbiato l'appellativo di "amore impossibile". Chi non ha mai avuto il proprio?
Ad aggravare la situazione, bisognava anche specificare che era il migliore amico di suo fratello maggiore. Ogni volta che lo guardava rimaneva quasi incantata, beccandosi spesso uno sguardo di rimprovero e avvertimento da parte di Cecco. Non sapeva il motivo, però suo fratello non mandava giù l'idea di vederli insieme, forse a causa dell'istinto protettivo fraterno. Per lei non aveva senso: sarebbe dovuto stare più tranquillo sapendola tra le mani di un amico fidato anziché di uno sconosciuto! 
A questo pensava Benedetta mentre puliva il sangue che gli ricopriva le labbra, ma non riusciva a non pensare a che sapore potessero avere, come sarebbe stato sentire il suo respiro mescolarsi con quello di lui; non lo avrebbe scoperto mai... Quanti pensieri per un amore impossibile! 
Massimiliano era seduto sul divano e la sorellina del suo migliore amico era appoggiata sul bracciolo alla sua destra, sporta in avanti verso di lui. Da quella posizione si intravedeva il seno morbido e cresciuto da poco, era così difficile non far cadere uno sguardo! Avrebbe resistito, per lui stesso, per lei e per il rispetto nei confronti del suo migliore amico! Si concentrò sul suo viso da adolescente: quelle labbra dischiuse e il modo in cui si mordeva il labbro, concentrata a ripulirgli le ferite, le poche lentiggini che le cospargevano il naso, gli occhi uguali a quelli di Cecco, i capelli lunghi legati in uno chignon disordinato... Quanto era bella agli occhi suoi quella bambina cresciuta nel giro di un annetto... Fantasticava con la mente, lei vestita esattamente come quel momento a preparare la cena, lui che le circondava il busto e le baciava una guancia e, perché no? Un bambino che giocava sul tappeto in salone e un'altra bimba che cresceva nel suo ventre... 
Santo cielo, quanto avrebbe voluto baciarla, sentirla solo sua... 
Sapeva già come la pensava al riguardo lui: gli aveva intimato più volte di stare lontano dalla sua sorellina, non voleva vederla patire una vita da povera, preferiva che si innamorasse di un tipo di un'altra zona magari conosciuto a scuola. Perché non poteva essere lui a renderla felice? Perché non poteva proteggerla? Quando gli altri ragazzi, anche quelli più grandi la guardavano, voleva andare là e ordinare loro di non gettarle neanche più uno sguardo perché non poteva immaginare che qualcuno la facesse soffrire, che lei si concedesse a uno stronzo che non avrebbe mai capito quanto fosse fortunato. 

Cecco proprio non aveva voglia di andare a scuola. Si tirò la coperta fin sopra la testa e chiuse gli occhi, sperando che Morfeo fosse clemente e in effetti lo sarebbe stato, se solo sua madre non avesse urlato dalla cucina che la colazione fosse pronta! Sbuffò sonoramente e svegliò la piccola di casa, che ormai di piccolo non aveva nulla. Dormiva tranquilla raggomitolata su se stessa come quando aveva sette anni. Le accarezzò i capelli e la svegliò dolcemente. 
La madre, nonostante potesse dormire di più la mattina, si alzava sempre alla stessa ora per scaldare loro il latte, con la scusa che i suoi adorati figli avrebbero dato fuoco all'intera cucina. 
Dopo la solita guerra per chi dei due dovesse usare prima il bagno, in tempi record uscirono di casa per dirigersi all'unica fermata dell'autobus della zona. Su una cosa erano uguali a tutti gli altri adolescenti: le facce bianche, le occhiaie scure e gli occhi imbrattati di sonno erano comuni a tutti i ragazzi. 
«Mostriciattola?» la chiamò Cecco. 
«Che vuoi?» 
«Ce l'hai il ragazzo?» le chiese di punto in bianco, accendendosi una sigaretta e guardando le nuvole scure in cielo. 
Benedetta sussultò a quella domanda e un volto le invase prepotente la mente. Deglutì a fatica cercando di scacciare quell'immagine dai suoi pensieri. 
«Non mi piace nessuno» gli rispose a tono. 
«Stai lontana da Max!» le ordinò, come se le avesse letto nella mente. 
«Siamo amici! Cosa cavolo vai a pensare?» 
«Meglio così» chiuse il discorso. 
Aspirò l'ultimo tiro di sigaretta e gettò la cicca per terra. 
Quando ne parlava con Maria, la sua migliore amica, non capiva il motivo del suo silenzio; avrebbe dovuto chiederglielo dopo aver sentito questa conversazione e dopo aver visto lo sguardo autoritario del fratello. 

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Capitolo 4
*** Distanti. ***



CAPITOLO 4.
La tranquillità della sera prima era un preavviso prima della nuova ondata di urla e pianti isterici. Quella donna era una calamità: non sapevi mai cosa aspettarti.
  Erano state le sue grida a svegliarlo dal sonno leggero. Inveiva contro il marito, colpevolizzandolo per quella misera vita e lo accusava anche di volerla abbandonare. Massimiliano, ancora steso sul suo letto, si era coperto gli occhi. Non era la prima né sarebbe stata l'ultima volta che si sarebbe svegliato tra quelle violente e burrascose litigate. 
Inizialmente i vicini suonavano al campanello, visibilmente allarmati e preoccupati per quei toni di voce alti e rabbiosi, tuttavia ci avevano impiegato poco per capire e avevano smesso di impicciarsi. In quei momenti Max sperava che il pavimento lo inghiottisse oppure sognava di svegliarsi in un altro posto; sogno mai realizzato. Fanculo anche ai desideri! 
La porta della stanza si spalancò violentemente. Il padre era un uomo possente, con pochi capelli bianchi e la faccia perennemente incazzata. Anche ora il suo viso era una maschera di rabbia.
«Me ne vado! Sennò stavolta l'ammazzo a quella stronza!»
Trenta secondi dopo la porta d'ingresso venne chiusa così forte da far tremare tutti i 60 metri di casa.
Si era alzato controvoglia, già gli giravano i coglioni! La rabbia si tramutò subito in tristezza, gli bastò vedere la madre seduta su una sedia in lacrime, sembrava un fiume in piena.
«Che è successo stavolta?»
«Tuo padre è solo un bastardo!»
«Perché?» le domandò quasi disperato.
«Non far finta di non saperlo! Io so tutto, capisco che vuole liberarsi di me e sicuramente siete anche d'accordo!»
Che aveva fatto di male? In una vita precedente era stato così spregevole da meritarsi tutto questo?
«Quante stronzate... Perché vorrebbe liberarsi di te?» cercò di farla ragionare. Non aveva bevuto molto: la bottiglia era vuota o piena per metà, questione di punti di vista.
«È evidente: si scopa un'altra!»
Fra tutte quelle che aveva detto, questa era la cazzata più grossa di tutte.
«Dove pensi che lui passi le notti? A casa di un amico? No! Sta a casa di un'altra donna, una bella e prosperosa».
L'odio nella voce della donna sorprese il figlio; era abituato alla rabbia, alla malinconia, non all'odio vero e proprio. Il cambiamento che vedeva in lei giorno dopo giorno lo destabilizzava. Non poteva far altro che restare a guardare, mentre la sua vita faceva sempre più schifo.
«Ne sei sicura?» chiese titubante.
Credeva fossero solo sue paranoie, però se non fosse stato così...
"Già, cosa faresti se scoprissi che tuo padre si scopa un'altra quasi ogni notte, mentre tu soffri come un cane?" gli domandò una vocina impertinente nella sua testa.
"Non lo so"
«L'ho seguito» ammise imbarazzata.
Il cuore di Max si fermò per due secondi per poi prendere a battere più forte. 
Non ci credeva, non voleva crederci; può arrivare un uomo ad essere così bastardo? Si aggrappò alla speranza, alle fantasie di una donna instabile e alcolizzata. Un po' le credeva, solo un po' però. 
Cecco detestava la scuola, la considerava inutile e non riusciva a prestare attenzione alle parole di un insegnante. Il suo banco era accanto alla finestra, dove la libertà gli sembrava più vicina e perciò la vita era ad un passo; almeno finché qualcuno non lo richiamava all'attenzione e tutta la vita si allontanava.
                                  Era brutta la sua classe: le mura bianche ed asettiche gli rendevano il sonno facile e dormire diventava un'opzione da prendere in considerazione. Quell'edificio malmesso era una prigione e il suo quartiere era solo una gabbia più grande! La cronaca nera, di cui sentiva vagamente parlare ai tg, aveva le sembianze di quei palazzoni e le facce di chi le abitava. Avrebbe volentieri fatto partecipare altri alle sue vicende, almeno tutti si sarebbero resi conto di quanto fosse complicata la rinascita per quelli come lui. Inutile negarlo, sentiva su di sé il peso dei pregiudizi… E lentamente sentiva di annegare. Ascoltava i consigli di coloro che vivevano nella sua stessa zona. Gli consigliavano di godersi la bella vita e lui li lasciava parlare. Li conosceva uno per uno e non poteva non pensare che un giorno, avrebbe letto i loro nomi sulla pagina della cronaca nera del quotidiano. Le giornate che passava con Massimiliano erano monotone, sembrava come se qualcuno si divertisse a spingere il tasto replay del telecomando. 

Il padre gli lanciò il giornale della mattina sul divano.
 «Cerca di non fare la stessa brutta fine!»
                                      Max si era assopito da poco meno di mezz'ora dopo una notte nella quale non era riuscito a dormire bene. Socchiuse le palpebre, visibilmente infastidito dal fascio di luce proveniente da fuori la finestra. Raccolse il giornale e lesse il titolo della cronaca: “La vita di un giovane stroncata dall'eroina”.  
                                                   Il ragazzo si accese come un fuoco d'artificio e iniziò a inveire contro quell'uomo. Un'altra litigata, altre parole, un altro replay. Succedeva sempre la stessa cosa.  
                                        Massimiliano buttò uno sguardo all'orologio, se avesse continuato a discutere con suo padre avrebbe sicuramente fatto tardi. Imboccò la porta di casa e la sbatté con furia, tanto più distrutto di così quell'appartamento non poteva essere. Imprecò a causa del padre che aveva e si accese una sigaretta per calmarsi, perché lo attendevano al vecchio parco.

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Capitolo 5
*** Il principio della fine. ***


Doveva recarsi in quel posto per incontrare il ragazzo che gli forniva la roba. Forse era meglio così, perché se fosse rimasto a casa sarebbe finita male. Pensava che prima o poi sarebbe successo, era inevitabile dal momento che suo padre neanche lo conosceva e non sembrava che fosse suo figlio. Fino a un paio di anni fa, questa consapevolezza lo feriva mentre ora lo innervosiva sempre di più.
Gettò la quarta cicca di sigaretta sotto l'acqua della fontanella centenaria del parco e cercò con lo sguardo il suo amico. Lo intravide in compagnia di altre due persone accanto allo scivolo arrugginito dal tempo. Si avvicinò furtivamente a causa del suo istinto perché non si fidava più di nessuno, ne aveva incassate troppe di pugnalate.
Dopo essersi nascosto dietro a un grande albero, sbirciò la situazione. Le altre due persone che stavano con il ragazzo che avrebbe dovuto vendergli la roba, erano gli stessi con i quali lui e Cecco avevano fatto a botte pochi giorni prima. Anche a distanza Max riusciva a scorgere i lividi violacei sui loro volti e tutti i tagli che coloravano le loro braccia.
«Basterà togliere di mezzo lui per ottenere il monopolio… Siete sicuri?» domandò scettico il ragazzo.
A Massimiliano scattarono i sensi di pericolo: erano lui e Cecco che si occupavano dello spaccio di droghe…
«Certo! Poi se il suo amichetto non dovesse recepire il messaggio, ci occuperemo anche di lui».
Un ghigno crudele e uno sguardo di complicità scattò tra i due. Il cuore di Max iniziò a pompare più forte e il respiro diventò più pesante. Capì istantaneamente che stavano macchinando qualcosa contro lui e Cecco. Cercò nei loro occhi un briciolo di dubbio e di paura, però non ne trovò. Quei tre facevano sul serio e il panico si impossessò di lui. Volevano tentare di ammazzare il suo migliore amico per soldi e per vendetta!
Gli invasero prepotentemente il cervello le parole di colui che considerava amico. Aveva sempre consigliato loro di cambiare vita, perché questa li avrebbe condotti a un bivio: galera o cimitero.
Doveva avvisarlo prima che fosse troppo tardi e aveva poco tempo! Aveva sempre saputo che quelli come loro non avrebbero mai potuto vivere una vita facile. Quelli come loro avevano il destino scritto in faccia e negli occhi.
Non poteva rimanere fuori da quella storia, non poteva restare senza il suo migliore amico e perciò doveva correre più veloce. Le gambe scattarono da sole, i polmoni si gonfiavano per facilitargli la respirazione, il cuore pompava più forte.
Poi la strada, il semaforo rosso per i pedoni, il suono ripetuto del clacson di quella maledetta macchina, lo stridio dei freni.
Avrebbe dato la sua vita per salvare quella del suo migliore amico. Chiuse gli occhi mentre il vento gli sferzava contro.
Fu un attimo…

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Capitolo 6
*** Lacrime amare... ***


Erano passati due mesi da quel tragico incidente. Come ogni pomeriggio, Cecco e Benedetta aspettavano il loro turno per entrare nella camera di Massimiliano. Rimanevano pazientemente seduti nella sala d'aspetto ad attendere che i suoi genitori uscissero per lasciarli entrare.
I dottori continuavano a ripetere che le condizioni del ragazzo rimanevano stabili e che questa fosse una buona notizia, tuttavia i loro occhi fuggivano sempre quelli colmi di lacrime dei familiari. Un pomeriggio, nel quale Cecco si trovò ad assistere a quella quotidiana scena, esplose.
«Cosa significa che le sue condizioni sono stabili? È in coma da due mesi! Quando cazzo si sveglierà?»
Benedetta, che era accorsa non appena aveva udito le urla del fratello maggiore, ascoltò la risposta e cadde in lacrime sul pavimento, seguita dalla madre di Max che urlava e piangeva nello stesso momento. Il marito della donna inveì contro l'uomo, il quale aveva risparmiato loro la reale condizione di suo figlio senza alcun diritto. Solo la forza di Cecco riuscì ad acquietare il padre del suo migliore amico che altrimenti rischiava di alzare le mani contro il medico.
Nonostante la speranza che avessero potuto nutrire, in cuor loro tutti capivano che la ripresa di Max sarebbe stata un miracolo e nessuno credeva più ai miracoli…
Il padre abbracciò la moglie che si reggeva a stento al muro bianco. L'unica cosa positiva che aveva recato l’incidente di loro figlio fu il loro riavvicinamento. A che prezzo? La vita aveva donato loro due bellissimi figli, uguali nei tratti somatici e opposti nel carattere. Ora non ne avevano più. Erano stati così pessimi come genitori da dover togliere loro tutto ciò che aveva davvero valore?
«Si riprenderà… Noi dobbiamo essere forti, almeno quando si sveglierà potremo dargli la serenità che gli abbiamo sempre negato» provava a confortarla quell'uomo rude che si era dimostrato davvero devastato da quanto fosse accaduto.
«Nessuno ci porterà indietro nostro figlio! Lo hai sentito il dottore?» urlava tra le lacrime.
Lui le afferrò il volto e le disse di smettere di piangere, perché Max si sarebbe svegliato.
Cecco e Benedetta entrarono come ogni pomeriggio nella stanza dove il loro più caro amico riposava. Vederlo ogni giorno attaccato a quei tubicini e con una veste bianca addosso, lui che detestava il bianco più di ogni altro colore, li destabilizzava. Non riuscivano a comprendere cosa potesse essere scattato nella mente di quei due bastardi per compiere quel gesto folle. Cecco era venuto a conoscenza di quello che era realmente accaduto solo perché il ragazzo che forniva loro le consegne richieste, si era pentito e gli aveva raccontato tutto senza omettere nessun fatto. Il pugno che gli assestò sul volto riuscì a rompergli il setto nasale e spaccargli un labbro. Aveva giurato a se stesso che avrebbe fatto vendetta e quei due avrebbero pagato con dolore il peso delle loro azioni!
Guardò il suo migliore amico poi volse lo sguardo alla sua sorellina. La osservava mentre lei non staccava gli occhi da Massimiliano, nonostante le lacrime silenziose le scavassero le guance. Lei era cambiata: parlava poco, mangiava poco, studiava tanto. Affogava il suo dolore la sera, quando nessuno poteva sentirla piangere, quando pensava che lui stesse dormendo e non potesse ascoltare i suoi singhiozzi. Lui non riusciva più a dormire la notte, quando chiudeva gli occhi e un lieve senso di stanchezza lo inghiottiva faceva degli incubi orribili. Si svegliava di soprassalto, con il cuore a tremila e i capelli e la pelle madidi di sudore. Lo stava uccidendo la conoscenza di sapere che Max stava in quelle condizioni per salvare lui. Avrebbe cambiato vita; lo doveva a sua sorella la quale aveva perso il ragazzo che amava, lo doveva al suo migliore amico dal momento che si era sacrificato e lo doveva a se stesso, perché su quel letto d'ospedale avrebbe dovuto esserci lui…
«Devi essere forte, non puoi arrenderti ora! Sei sempre stato forte, devi tornare a stare con noi…» gli diceva tra le lacrime Benedetta.
«Che stai facendo? Non può sentirti…»
«Ti sbagli! Lui percepisce tutto ciò che lo circonda! Noi dobbiamo dargli forza!»
Cecco non rispose. Alcune notti, quando si svegliava in preda ai brutti sogni, vedeva il letto di Benedetta vuoto ma disfatto. Non ci impiegava molto a comprendere che neanche lei riusciva a dormire serenamente e preoccupato si alzava per controllare dove stesse e soprattutto a fare cosa. La trovava nel piccolo salottino, davanti al computer vecchio che neanche funzionava bene a leggere attentamente delle pagine Internet. Le cose che gli aveva appena detto erano il frutto di notti insonni. E chi era lui per smentire quelle deboli speranze?
Un’infermiera si affacciò nella stanza e sorrise a quei due ragazzi che vedeva ogni giorno.
«Come state?» chiese loro gentilmente come tutti i giorni.
«Siamo venuti a trovarlo. Ora ce ne andiamo» le rispose Cecco.
«Non preoccupatevi. Vi lascio stare altri dieci minuti»
«È vero che lui sente la nostra presenza e quello che gli diciamo?» domandò Benedetta senza neanche distogliere lo sguardo da Massimiliano.
«Certamente e sono convinta che si sveglierà!»
«Non è vero e lo sapete! Ci state mentendo tutti!» strillò furiosa Benedetta. Se ne andò dalla stanza in lacrime e attraversò tutto il corridoio sotto gli sguardi incuriositi di dottori e persone estranee. Uscì nel parcheggio e prese a calci secchi, vasi e panchine. Il dolore la distruggeva.
«Ti chiedo di scusarla, non è arrabbiata con te…» disse imbarazzato Cecco.
«Cosa pretendi? Sente di aver perso il ragazzo di cui è innamorata… Il suo comportamento è giustificato»
«Ti ringrazio per la comprensione»
«Ti lascio sola con lui» gli disse l'infermiera chiudendo la porta.
Il ragazzo strinse la mano di Massimiliano e lo guardò con gli occhi lucidi. Come erano arrivati fino a quel punto?
«Scusami amico mio per tutto questo. La vita fa schifo senza di te, la vita che facevamo insieme e che ci sembrava sopportabile, ora è un incubo! Ho smesso con le cose che ci hanno portato a tutto questo… Ti devo la vita, è come se fossi mio fratello e non riesco a vederti bloccato in questo letto d'ospedale».
Gli spasmi del pianto represso erano violenti e gli occhi velati e rossi di lacrime gli rendevano la vista offuscata. Gli stringeva forte la mano perché sperava che gli rispondesse anche solo con un semplice movimento della dita, almeno avrebbe saputo che lui lo stesse ascoltando. Le lacrime sgorgavano e gli segnavano il viso, guardava il soffitto per cercare di smettere e per darsi un contegno.
«Non te l'ho detto tante volte, ma ti giuro che ti voglio bene!»
Piegò il viso sul letto e continuò a piangere senza freni, senza dignità e senza quella forza che lo aveva sempre contraddistinto. Una mano gli accarezzò la nuca in un gesto di solidarietà e Cecco comprese che l'orario inoltrato delle visite era terminato e che doveva salutare colui che considerava ormai un fratello.

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Capitolo 7
*** Conseguenze... ***


Nonostante fosse passato del tempo, il dolore di Benedetta era rimasto inalterato. Quando avevano ricevuto quella tragica notizia, il giorno dopo l'accaduto da alcune voci dei vicini, era scoppiata in lacrime. Non riusciva a capacitarsi di cosa fosse accaduto.
Quella mattina erano montati nella vecchia Stilo di famiglia diretti all'ospedale. Ricordava che il silenzio era opprimente e veniva frantumato solo dai suoi singhiozzi; la radio sempre accesa, quel giorno rimase muta senza emettere alcuna frequenza.
Al suo contrario Cecco era rimasto apparentemente calmo, non aveva versato una lacrima e non era riuscito a proferire parola. Sul momento, dentro quella vecchia Stilo, Benedetta odiò il fratello perché erroneamente pensava non gli importasse dell’accaduto a causa del suo temperamento calmo. Poco a poco, comprese di essersi sbagliata: notò gli impulsi nervosi della gamba la quale si muoveva involontariamente a scatti, le chiazze rosse dal collo si espandevano alle orecchie, la vena che pulsava in maniera incontrollabile… Cecco stava inglobando dentro di sé dolore e rabbia, non riusciva ad esprimerlo ed era anche peggio del dolore visibile di Benedetta. Quei 20 o 30 minuti di tragitto sembrarono infiniti a tutti, sembrava che il destino facesse loro i dispetti trascinandoli davanti a semafori rossi o in zone con un basso limite di velocità.
Nella sala d’aspetto del policlinico non si aspettavano di trovare i genitori di Max in quelle condizioni: distrutti dal dolore e dai sensi di colpa, stretti in una morsa comune a entrambi; non si erano mossi da lì, non avevano dormito né mangiato. Informarono la famiglia di Cecco che Massimiliano non si era svegliato, che lo avevano operato alla gamba d'urgenza e che era in coma. Il pugno che Cecco sferrò al muro, gli aprì tutte le nocche in modo tale che il sangue riuscisse ad imbrattare le pareti bianche. Aveva continuato a colpire il cemento con altri colpi finché il padre non lo bloccò.
«Non è giusto…» continuava a ripetere.
Benedetta si era accasciata sulla sedia verde senza riuscire a smettere di piangere. Aveva perso Max e lo avrebbe perso un po' di più giorno dopo giorno. Come sarebbe riuscita a sopravvivere a quella fitta lancinante al cuore?
Erano trascorsi giorni e i suoi occhi diventavano sempre più vuoti e inespressivi, non trasparivano emozioni eccetto la disperazione. Le labbra sempre distese in un tenero sorriso, ora erano una linea sottile curvata all’ingiù. Benedetta era cambiata, non si truccava più per sembrare più carina, non tentava più di coprire le occhiaie né colorare quel viso pallido. Non trovava la necessità se non aveva la possibilità di incontrare Max, seppur per caso… Quando aveva l’intenzione di prepararsi con più cura, era solo perché doveva dirigersi all'ospedale e ogni giorno poteva essere quello buono per il suo risveglio.
I giorni scorrevano lenti, senza alcuna importanza e senza alcun miglioramento.
Benedetta stava peggio ogni giorno, tuttavia la sua speranza non accennava a diminuire. Era orribile ricordare quel giorno, quei fatti e tutti i cambiamenti. Era primavera inoltrata e le giornate iniziavano ad essere calde e soleggiate. Cecco notava il cambiamento della sorella e non poteva non sentirsi in colpa. Forse, se non avesse tenuto il suo migliore amico lontano da sua sorella, sarebbe andata diversamente. Forse lei lo avrebbe tenuto lontano dai guai e magari non sarebbe successo tutto questo. Sentiva un macigno pesantissimo sul cuore, come se la colpa fosse sua. E sentiva il bisogno di chiedere scusa. Inspirò ed espirò un paio di volte prima di parlare con la sua sorellina; se ne stava sul divano, intenta a guardare disattenta una serie televisiva vecchia di dieci anni.
«Usciamo a fare due passi?» le domandò mentre le accarezzava la nuca.
Benedetta lo guardò e con un sorriso fiacco, declinò l'invito.
«Non puoi continuare così!»
«Sto seguendo un programma, non vedi?»
«Andiamo! Non sai neanche su quale canale è sintetizzato il televisore!»
Cecco perdeva spesso la pazienza quando i piani che aveva in mente, non rispecchiavano la realtà.
«Che vuoi? Chi ti ha chiesto niente? Lasciami stare!»
Il ragazzo rimase colpito dalla freddezza della voce della ragazzina. Qualche settimana prima, non si sarebbe permessa di rispondergli in quel modo e lui, sicuramente se lei lo avesse fatto, le avrebbe dato uno schiaffo sul volto. Adesso non riusciva neanche ad affrontare quel dolore tramutato in rabbia, che lentamente la stava trasformando. Gli occhi di sua sorella lo minacciavano di non oltrepassare quel confine sottile di rabbia e dolore.
Benedetta si alzò e lo sorpassò come se fosse un estraneo, come se quella tragedia non avesse colpito e distrutto entrambi. La ragazza entrò in camera e si chiuse la porta alle spalle violentemente. Cecco si scompigliò i capelli e imprecò, non sarebbe dovuta andare così.

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Capitolo 8
*** Memories ***


Tra le mani stringeva un bicchiere di vetro, mentre fissava il liquido trasparente all'interno. Gli occhi venivano offuscati dalle lacrime, senza che lei riuscisse ad impedire al dolore di sgorgare all’esterno. Dopo l'accaduto, aveva giurato a sé stessa che sarebbe cambiata e avrebbe impedito qualsiasi azione potesse mettere Max in imbarazzo.
Ora, osservando l'ennesimo bicchiere che si scolava, percepiva il suo fallimento e la sua promessa infranta. Forse era questo il motivo per il quale Massimiliano non trovava la forza di svegliarsi. Lo sguardo le cadde su una cornice che ritraeva quella famiglia unita e sorridente. Erano trascorsi solo sei anni, non tantissimi, eppure non c’era cosa che non fosse rimasta inalterata: i suoi figli non erano più accanto a lei, uno non sarebbe più tornato e l'altro avrebbe seguito la stessa strada; suo marito non la stringeva più come nella foto; lei era diventata brutta, con qualche capello bianco e delle rughe precoci rispetto ai suoi quarant'anni.
Una lacrima le sporcò la guancia di trucco nero, finché quella singola goccia divenne un pianto impetuoso carico di dolore e amarezza. Raccolse dal comodino la piccola foto, guardandola con disprezzo; se tutto era cambiato in peggio, lo stesso destino avrebbe dovuto patire quel piccolo scatto di felicità. In preda a una crisi di nervi, la scagliò contro la parete ingiallita dal tempo e, a causa dell'urto, il vetro andò in una decina di frammenti che squarciavano i loro volti e le loro labbra distese. Rabbrividì… Che gesto folle degno di una donna folle! Cercò di ricomporre i vetri, provocandosi tagli sulle mani, il suo sangue era rosso scuro, le sembrava sangue marcio, cattivo… Ascoltò il battito frenetico del suo cuore, chiuse gli occhi: le sembrò di non riuscire a resistere oltre, l'accarezzò in modo vellutato l'idea di chiudere gli occhi e lasciarsi invadere da una pace mai provata. Si alzò barcollando, la testa le girava vorticosamente a causa dell'alcol, tuttavia cercò di raggiungere il piccolo balcone. Soffiava un vento fresco, forse troppo, considerando che fosse primavera; il cielo era coperto solo da nuvole bianche che non facevano filtrare i raggi del Sole, quel bianco era apatico, riusciva solo a dare una sensazione di soffocamento. Volse gli occhi in basso: non avrebbe avuto scampo se si fosse buttata. Quella era l’unica certezza che le serviva per darle il coraggio per compiere quell'ultimo e folle gesto…

Benedetta sentiva il cuore frammentarsi ogni qualvolta pensava a Max. A volte la invadeva il pensiero di dimenticare anche solo un piccolo particolare che lo rendeva speciale e diverso, come la sfumatura delle iridi castane quando il Sole mostrava la sua maestosità, il tono della voce che si addolciva quando le parlava, il sorriso sarcastico quando Cecco la sgridava… Quanto le mancava… Ogni attimo, ogni secondo malediceva il coraggio mancato nel dimostrargli i suoi sentimenti. Aveva versato lacrime giorno e notte finché non le erano terminate.
Trascorreva le mattine a scuola evitando le domande degli insegnanti, curiosi di conoscere la motivazione del suo miglioramento che, tuttavia, comprendevano non fosse dovuta a un fatto piacevole. Aveva riempito i quaderni di appunti, dal momento che i genitori non erano riusciti ad acquistarle tutti i libri che le servivano; si sforzava di rimanere concentrata, finché le parole iniziavano a dissolversi e si limitava ad ascoltare mormorii distanti anni luce. Non c’era mattina alcuna che non si pentisse di essere entrata in classe, nonostante ciò il giorno seguente era sempre la prima.
Massimiliano sarebbe stato fiero di lei: le aveva sempre ripetuto che aveva la testa per continuare a studiare, che così facendo sarebbe diventata qualcuno e che sarebbe riuscita a cambiare vita. Lei rideva non credendo alle sue parole, però quando Max mutava la voce in un tono autoritario, Benedetta gli assicurava che, se ce l’avesse fatta, lo avrebbe portato via e gli avrebbe donato un nuovo inizio. A sentire quelle parole, Max s'incupiva ma cercava di abbozzare comunque un sorriso, dicendo che il proprio era un destino già segnato, ma il suo poteva cambiarlo, riscriverlo e cambiargli la trama. La ragazzina pensava che preferiva non essere nessuno piuttosto che perderlo e, solo se lo avesse perso si sarebbe impegnata per cambiare la sua vita. Ora percepiva la necessità di ripagare quella promessa e giurò che avrebbe studiato per diventare qualcuno di importante.

Cecco era sdraiato su una panchina al vecchio parco. Era la terza sigaretta che fumava nell'arco di venti minuti, tuttavia non riusciva davvero a calmarsi. Esattamente in quel posto, circa dieci anni prima, aveva conosciuto il suo migliore amico.
Erano i primi tempi che bazzicava per il quartiere dopo il trasferimento di tutta la famiglia. Aveva solo sette anni e tanta voglia di unirsi ai bambini che vedeva dirigersi da qualche parte con il pallone in mano. Ricordava di essere molto timido e di non aver trovato la forza di domandare al bambino, proprietario della palla da calcio, se avesse potuto giocare insieme a loro. Si limitava a guardarli sfilare sotto casa sua ogni giorno alle 16.30 del pomeriggio. Andò avanti così per dieci giorni, finché decise di aspettarli sotto casa con la speranza che qualcuno gli chiedesse di diventare loro amico; quando passarono nessuno fece caso a lui, tranne un bambino con i capelli ricci, il quale notò la tristezza e il broncio che il suo volto aveva intrapreso. Cecco pianse, perché non comprendeva il motivo per il quale nessuno lo invitasse a giocare, inoltre pensava che non si sarebbe mai fatto un amico in quel nuovo quartiere. Dopo un mese, tentò nuovamente di attenderli sotto casa e stavolta, quando passarono, si pose di fronte a loro.
«Chi sei?» gli domandò un bambino.
«Cecco! Sono nuovo…».
Gli altri ragazzini stettero in silenzio ad aspettare che continuasse, però la timidezza stava prendendo il sopravvento.
«Perché non vieni a giocare con noi?» gli propose uno di loro.
Quando alzò lo sguardo per incontrare quello di chi che gli era venuto in soccorso, riconobbe lo stesso sguardo curioso ed espressivo del bambino con il quale aveva scambiato uno sguardo quasi un mese prima.
Ora, di quello sguardo non era rimasto apparentemente nulla…

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Capitolo 9
*** Senso di giustizia! ***


Cecco osservava la routine degli altri ragazzi scorrere sotto i suoi occhi, finché udì le risate sguaiate di un gruppetto di ragazzini. Li conosceva bene: Alberto, Carlo e Lorenzo erano stupidi quindicenni che si divertivano a prendere in giro solo chi non dava loro corda.
L'anno prima avevano accerchiato Benedetta e l'avevano spaventata con sguardi maliziosi e battutine volgari; solo quando la videro con gli occhi lucidi dalla paura, se ne andarono ridendo e soddisfatti per il loro scherzo. Quando Cecco e Massimiliano l’avevano trovata che piangeva nella cameretta che dividevano, lei raccontò loro tutto e il giorno dopo scovarono il gruppetto per “scambiare due chiacchiere”. Difatti l'episodio non si era più ripetuto.
Volse lo sguardo nella direzione in cui stava indicando Alberto, il capo del gruppetto: il loro bersaglio era un ragazzo più basso e minuto di loro, forse troppo per un maschio della loro età. Cecco pensò che il loro entusiasmo infantile fosse dovuto all’aspetto rachitico del misterioso ragazzino. Socchiuse gli occhi nel tentativo di associarlo a un nome o ad un volto conosciuto, tuttavia riconobbe di non averlo mai visto e dedusse che fosse nuovo della zona.
«Questo quartiere è popolato da poveracci!» urlò Alberto per farsi sentire.
Lo sconosciuto se ne stava seduto su una panchina, incurante delle loro voci fastidiose, a cimentarsi nella lettura di un libro mentre tra i piedi reggeva una busta del supermercato.
Molti ragazzi smisero di svolgere le loro attività pur di godersi interamente la scena. Cecco si concentrò sull’esile figura del ragazzo, solo così comprese il reale motivo di quelle battute. Indossava un berretto da baseball che gli copriva gli occhi, una maglietta grigia più larga di almeno una misura, dei jeans scoloriti e un paio di scarpe vecchie e logore.
«Ragazzino, quei vestiti li hai rubati a tuo zio?» domandò sarcasticamente Carlo.
Finalmente alzò lo sguardo dalle pagine del libro e si guardò intorno, cercando di capire a chi si stessero rivolgendo. Cecco provò compassione per lui, non avrebbe tardato molto a capire di chi si stavano burlando. Il ragazzo li osservò e sorrise loro scuotendo il capo, poi tornò al suo romanzo. Quella reazione stupì tutti e diede fastidio ai tre galletti.
“Interessante…” pensò Cecco.
«Se non te ne fossi accorto, non sono della tua taglia!» riprovò Alberto.
«Fai schifo!» continuò Lorenzo.
Spazientito dalle loro dicerie, chiuse il libro con forza.
«E voi avete il sarcasmo di mia nonna!»
Alberto, convinto di trovare il supporto dei suoi due amici, si avvicinò al ragazzetto prendendogli con violenza la busta e iniziando a frugare all’interno. Si prese una spinta talmente violenta da star quasi per perdere l'equilibrio. Alberto gli andò contro con l'intento di iniziare una rissa, tuttavia l'altro, sveglio e molto svelto, lo colpì in faccia con il libro. Da dietro, Lorenzo lo spinse sul cemento e lo circondarono. Lo alzarono con violenza, bloccandogli le braccia.
«Vediamo la tua faccia, stronzetto!» e gli tolsero il cappello.
I capelli nascosti sotto il berretto scesero a ciocche morbide e ondulate lungo la schiena, rivelando un volto dai tratti morbidi e femminili. Tutti dovettero riordinare le idee per capire che quel ragazzo così esile, fosse in realtà una ragazza...
«A me non importa che tu sia una ragazza! Devi imparare chi comanda in questo quartiere e a chi devi portare rispetto!» disse indispettito l'unico ragazzo che lei era riuscita ad atterrare.
«Alzeresti le mani contro una ragazza? Che uomo di merda!»
Lo schiaffo che il ragazzo le stava per dare se lo sarebbe ricordato per molto tempo, tuttavia continuò a guardarlo con astio. Chiuse gli occhi involontariamente quando vide che stava per colpirla, però il dolore non arrivò. Quando li riaprì, notò che davanti non aveva più nessuno e che quel tipo era spiaccicato sulla panchina, bloccato da un ragazzo molto più alto e robusto.
«Chiedile scusa o il braccio te lo spezzo!»
Il quindicenne digrignava i denti nello sforzo di non urlare per il dolore, ma il suo orgoglio non lo fece parlare. Cecco detestava che non gli venisse data ragione, perciò gli torse ancora di più l'articolazione. L’altro lanciò un urletto soffocato e sussurrò le sue scuse alla ragazza rimasta in silenzio.
«Ti possono bastare le sue scuse?» si rivolse alla giovane sconosciuta.
«S-sì…» balbettò in risposta.
I tre ragazzi raccattarono il loro amico dall’asfalto e se ne andarono umiliati davanti a molti ragazzi del quartiere. Tutti conoscevano Max e Cecco e ne stavano alla larga, soprattutto da quando Max non c’era più…

Qualcuno bussò alla porta. La donna si voltò per assicurarsi che stessero colpendo proprio la porta del suo appartamento, tuttavia non andò a verificare chi fosse perché troppo concentrata nel realizzare il suo proposito.
«Apri! Lo so che sei dall'altra parte!»
La madre di Max confuse la voce con il tono acuto della signora del piano superiore, la quale s'impicciava sempre dei problemi altrui. Le lacrime ripresero a scorrere al pensiero che la sua famiglia fosse sulle labbra di chiunque nel quartiere. Le poche volte che usciva per comprare delle provviste, incrociava sempre qualcuno (conosciuto e non) che le domandava delle condizioni fisiche di “quel povero ragazzo così bello”. Lei divulgava, non voleva che Massimiliano diventasse argomento di piazza. Nuovamente guardò i piani sottostanti e l'asfalto, il quale sembrava prometterle che l'avrebbe presa, che non sarebbe rimasta ferita e che non avrebbe sentito nulla.
«Cristo santo! Apri questa cazzo di porta!»
Un colpo più violento dei precedenti la fece desistere per cacciare chiunque stesse compiendo tutto quel baccano. Attraverso lo spioncino, riconobbe la madre di Cecco e le aprì.
Era vestita con una tuta e aveva i capelli legati, ciononostante di fronte al suo carisma si sentiva ancora più brutta e trasandata. Tra le mani aveva un piatto di carta coperto con della carta stagnola, ma negli occhi scintillava un guizzo di paura mista al terrore.
«Ho pensato che non avessi voglia di rimanere sola»
«In realtà…»
La madre di Cecco era furba ed era conscia che l'altra stava per rifilarle una scusa per mandarla via, perciò le consegnò il piatto con un dolce sorriso.
«Cos’è?» le chiese scettica.
«Un ciambellone. È buonissimo accompagnato con un caffè!»
La donna comprese che non fosse giusto non farla entrare, quindi si scostò per lasciarla passare. L'altra ne approfittò per controllare se qualcosa fosse fuori posto: notò la foto stracciata e il vetro frantumato. Quando il marito di lei l'aveva chiamata pregandola di tenere la moglie sotto controllo, aveva pensato fosse un po' esagerato. Vedendo le sue condizioni, gli occhi gonfi di pianto e quel disordine sul pavimento, ringraziò il cielo che l’avesse informata prima che fosse stato troppo tardi.
«Come stai?»
«Non ce la faccio più!» le rispose mentre iniziò a piangere a dirotto.

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Capitolo 10
*** Coraggio ***


Benedetta detestava la sala d'attesa degli ospedali più di qualsiasi altra stanza. Le incuteva ansia e le provocava uno stato mentale agitato, forse causato da tutto quel bianco asettico che la circondava oppure dall'odore pungente del disinfettante. Odiava di meno quella stanza quando non era sola, poiché smezzava gli stessi stati d'animo con il fratello maggiore, quindi avvertiva di meno quel forte senso d'impotenza che la opprimeva. Quel pomeriggio nessuno sarebbe andato a trovare Max in ospedale, chi per un motivo e chi per un altro, tuttavia lei non voleva correre il rischio che lui si svegliasse e non trovasse nessuno; a tale scopo aveva falsificato la firma della madre che “autorizzava la figlia ad uscire un'ora prima da scuola per una motivazione famigliare.”
Con i mezzi pubblici aveva impiegato un'ora e mezza per raggiungere la clinica e ora era lì ad attendere l’apertura dell'orario delle visite per i conoscenti e gli amici.
Un'infermiera con il camice verde le domandò se stesse aspettando per vedere qualcuno, la ragazzina acconsentì e le comunicò il nome dell'interessato.
«È il tuo ragazzo?»
A quella domanda, Benedetta abbassò lo sguardo affranta e imbarazzata. «No, è solo il mio migliore amico e quello di mio fratello…» le rispose accennando un sorriso.
«Penso di aver capito di chi stai parlando. Sai, dovresti aprirgli il tuo cuore… Lui percepisce ciò che gli accade intorno e magari la tua confessione potrebbe donargli la volontà di aprire gli occhi».
Non rispose, intenta a pensare a come tutti riuscissero così facilmente ad individuare i suoi sentimenti più reconditi per Massimiliano.
«Come hai fatto a capirlo?»
«Cosa, tesoro?» le disse l'infermiera confusa.
«Che gli voglio bene…»
La donna, la quale non poteva avere più di trentacinque anni, abbozzò un sorrisetto.
«Dagli occhi malinconici che hai. Dicono che sono lo specchio dell'anima ed è vero. Quando mi hai risposto che era il tuo migliore amico, sembrava stessi convincendo solo te stessa, sembrava che ti stessi rassegnando. Non farlo, dagli una possibilità…»
Erano giunte davanti la porta della camera di Max, l’infermiera la salutò e Benedetta entrò.

Massimiliano era steso sulle lenzuola bianche ed era coperto fino al busto da una trapunta leggera bianca. L'idea che lui potesse svegliarsi e vedersi circondato dall'unico colore che detestava per poi imprecare, strappò un sorriso dalle labbra della ragazza. Anche in quelle condizioni, pensò che fosse bellissimo: i capelli castani erano arruffati, le palpebre erano serrate e impedivano la vista delle iridi scure che, grazie alla luce, si schiarivano divenendo brillanti, la pelle pallida gli concedeva un fascino quasi nobiliare, inoltre metteva in risalto il colore rosato della bocca carnosa. Per lei, nessun ragazzo era alla sua altezza né mai lo sarebbe stato.
Accanto al muro era adagiata una sedia di legno, la prese e l'avvicinò al letto. Aveva condotto delle ricerche sulla sua condizione ed era venuta a conoscenza che bisognava farlo reagire agli impulsi esterni per velocizzare il suo processo di ripresa.
«Ciao Max, oggi solo io sono riuscita a venire a trovati, però non devi rimanerci male. Sentiamo tutti la tua mancanza… Sono cambiate tante cose da quando sei qui: Cecco è a pezzi, il suo mondo non ha senso se non sei con lui; i tuoi genitori sono sempre qui fuori, aspettano che tu apra gli occhi. In realtà, è l'unica cosa che aspettiamo tutti…».
La voce di Benedetta s'incrinò per lasciare libero sfogo ai singhiozzi. Nel vederlo così inerme e indifeso, le si spaccava il cuore.
«Che stupida! Dovrei darti la forza di svegliarti e invece non sono capace di fare niente. Perdonami…» gli disse tra le lacrime.
Appoggiò la propria mano su quella più grande di Max e la fronte sul suo braccio, nell'intento di coprirsi il volto. Inspirò ed espirò cercando di calmarsi e con il dorso della mano si asciugò il viso.
«Sai, ho seguito il tuo consiglio. Ho deciso di cambiare scuola, ho finalmente scelto qual è la mia strada. Diventerò medico e salverò molte vite! Riusciremo a cambiare strada io, te e Cecco».
La ragazza sembrò trovare nuovamente il buonumore mentre gli raccontava la sua novità. In quel frangente, le loro dita rimasero strette l'una alle altre; come fosse la cosa più semplice del mondo incastrare le loro dita, i loro cuori, la testa di lei sulla spalla di lui… D'altronde l'amore nient’altro è se non un gioco a incastro…
Il silenzio occupò la stanza e il cuore di Benedetta iniziò a battere freneticamente. L'unico motivo che la spinse a volergli confidare i suoi sentimenti, fu la speranza che si potesse svegliare.
«Sono mesi che mi pento di non avertelo detto, magari se te lo avessi fatto notare sarebbe andata diversamente… È impossibile, lo so, però…»
Benedetta abbassò lo sguardo sulle loro mani, sognando che potessero rimanere così tutta la vita.
«La verità è che ti amo…» gli disse in un sussurro.
Sperò che questo bastasse, tuttavia non bastò e gli occhi di Max rimasero chiusi, mentre lei scoppiò in lacrime. Per un attimo, uno solo, le sembrò che le sue dita venissero strette più forte, però non diede peso a quel gesto frutto della sua fantasia. Forse...

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Capitolo 11
*** Risveglio. ***


Dopo la visita di Benedetta, l’infermiera si affacciò nella stanza per controllare le condizioni del ragazzo. Non era molto convinta che la ragazzina avesse trovato il coraggio di aprirgli il proprio cuore, tuttavia sapeva che il destino giocasse sempre tutte le sue carte nel momento più propizio. Il viso di Massimiliano era più disteso, più colorito e le sue labbra sembravano accennare ad un debole sorriso.
«Furbetto, avresti potuto darle un segno che la stessi ascoltando, no?». Un sussurro sfuggì dalla bocca del paziente, il quale lasciò la donna interdetta che corse fuori dalla camera con l’intenzione di avvisare il medico. Non lo aveva immaginato, Massimiliano si stava svegliando! Quel ragazzo era una forza della natura: molti dottori dell’ospedale, che avevano assistito alle sue visite, erano dell'opinione che non avesse scampo e che la sua ripresa sarebbe stata degna di un miracolo.
«Dottore! Dottore, un miracolo!» urlò, facendo voltare tutto il personale presente nel corridoio.
Il medico, abile primario con quasi trent'anni di carriera, la guardò confuso senza capire il motivo del suo entusiasmo.
«Cosa intendi?»
«Il ragazzo della camera 61! Presto, venite!».
Il primario la seguì attraverso i corridoi continuando a non comprendere, ma non appena spalancò la porta, riconobbe il ragazzo investito. Una sensazione positiva s'impadronì di lui, forse provocata da una diversa sistemazione del braccio sinistro di Max, dalla mano depositata sul petto, dalla testa leggermente girata verso l'unica finestra chiusa. Percependo dei passi sul pavimento Massimiliano spalancò le palpebre, tuttavia le richiuse istantaneamente per via dell’eccessiva luce.
«Chiama immediatamente i suoi genitori. Questo è davvero un miracolo!»
«Si sbaglia…»
«Cosa intendi?»
«Dottore, questo non è un miracolo: questo è l'amore!».
L’infermiera lasciò la stanza con gli occhi lucidi, camminando a passo svelto per avvisare i suoi familiari. L'uomo quasi non voleva credere a ciò che i suoi occhi gli facevano vedere, temendo fosse solo uno scherzo, tuttavia il ragazzo sbatteva le palpebre molte volte nel tentativo di abituarsi alla luce.
«Come ti senti?»
Il ragazzo cercò di rispondere, però la voce non accennava ad uscire, quindi tentò di rispondere con le movenze della bocca e dello sguardo.
«Devo visitarti per attestare le tue condizioni».
Max acconsentì e richiuse gli occhi.

Quando Cecco aveva ricevuto la chiamata dal padre del suo migliore amico, non riusciva a riporre fede nella verità che gli era stata detta e gli era balzato in testa che fosse solo uno scherzo di pessimo gusto di qualche idiota. Per soffocare il suo dubbio, aveva distanziato il cellulare dall’orecchio per verificare che fosse proprio il suo numero. Solo dopo essersi accertato di ciò, udì la voce incrinata dall'emozione, i ripetuti singhiozzi e la voce gioiosa, particolari che qualche secondo prima non era stato in grado di captare. Una goccia gli cadde sul polso con il quale reggeva il telefono e, abbassando lo sguardo, si rese conto che fosse una lacrima e tante altre gli stavano rigando le guance. Chiuse gli occhi mentre mentalmente ripeteva “grazie” innumerevoli volte, ciononostante sapeva che neanche un milione di parole sarebbero potute bastare per sdebitarsi con un Dio che, per una volta, aveva avuto cura di loro.
«Vengo subito!»
Nonostante suo padre fosse rincasato da soli venti minuti dal lavoro, Cecco lo pregò affinché lo accompagnasse. L'uomo rimase sbigottito dall'euforia di quel figlio che sembrava essersi svegliato da una morte interiore, un sonno brutto che sembrava non avesse via d’uscita.
«Che succede?»
«Papà, Max s'è svegliato!» urlò il ragazzo.
L’espressione confusa dell'uomo si tramutò in una colma di felicità, tanto che anche i suoi occhi si inumidirono. Sentendo le urla arrivare dal salotto, la madre pensò che padre e figlio stessero discutendo, quindi andò da loro chiedendo spiegazioni.
«Cara, prendi le chiavi della macchina che ho lasciato in cucina. Massimiliano si è svegliato!»
Mentre la donna eseguiva ciò che le aveva chiesto il marito, Cecco avvertì Benedetta di non tornare a casa bensì di aspettarli alla fermata dell'autobus. Non le accennò niente, poiché voleva rimediare ai suoi errori e quello sarebbe stato il primo passo. Confidò il piano ai suoi genitori e salirono in macchina. Quando la ragazzina salì a bordo della vecchia Stilo, tempestò di domande tutta la famiglia, soprattutto Cecco, tuttavia nessuno le annunciò nulla; il fratello maggiore, pur di farla stare zitta anche soli cinque minuti, le rivelò che si stavano dirigendo all'ospedale. «Ci sono stata meno di due ore fa e Max è sempre lo stesso!»
Già, perché la visione che aveva ora di lui era in quel letto che neanche gli apparteneva… Non voleva ammetterlo, però si stava arrendendo al fatto di non vedere più il suo sorriso. A quel pensiero, si voltò verso il finestrino per non far vedere ai famigliari i suoi occhi riempirsi di lacrime. Pensò che si stavano recando alla clinica perché c’erano state delle variazioni sulle sue condizioni, niente di più. I loro genitori avevano volti troppo seri per sperare in qualcosa di meglio. Probabilmente Cecco si stava illudendo di qualcosa che esisteva solo nella sua testa e dopo le sarebbe toccato anche l'arduo compito di doverlo confortare, però chi avrebbe confortato lei?

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Capitolo 12
*** Destino ***


I genitori bussarono alla porta prima di entrare. Non era la prima volta che si trovavano lì, tuttavia nessuna visita era mai stata così colma di gioia, di buoni propositi e di nuovi inizi... Avanzarono di qualche passo per potersi chiudere la porta alle spalle. Dopo le opportune visite, il dottore era andato loro incontro giusto per riferire che il ragazzo era fuori pericolo, ma che avrebbero dovuto trattenerlo ancora un paio di giorni per ragioni di sicurezza. Quella notizia aveva risvegliato un’emozione di sollievo che sfociò nell'ennesimo pianto da parte di entrambi. Ora si stavano presentando di nuovo al figlio con gli occhi gonfi di chi ha appena terminato di piangere e di chi continuava a farlo.
«Massimiliano…» lo chiamò la donna.
Il ragazzo volse lo sguardo su di loro e sorrise.
«Ciao» bisbigliò.
Calò un lungo silenzio nella camera, sembrava che tutte le parole esistenti non fossero abbastanza.
«Figlio mio, perdonami… Ho rischiato di perderti dicendo cose orribili!»
Nonostante si fosse ripromesso di non versare una lacrima, l'uomo si coprì gli occhi e il viso assunse un colore bordeaux; decise così di mostrarsi debole di fronte a un figlio che, a volte, aveva odiato. La madre gli accarezzò i capelli ricci, non riuscendo ad evitare il pensiero che suo figlio fosse incantevole. D’altro canto, Massimiliano non ricordava i suoi genitori così magri né tantomeno così uniti. Forse a dargli quella sensazione inaspettata erano le fedi nuziali incastrate all’anulare sinistro di entrambe le loro mani, oppure il braccio di suo padre che circondava la vita della madre. La guardò negli occhi, brillavano di una luce diversa, tutta nuova. «Pensavo che non ce l'avreste fatta a rimanere insieme…» disse Max senza peli sulla lingua.
«Ti stavamo per perdere…» ripeté la donna, come se queste brevi parole potessero spiegare tutto il dolore che avevano provato e con il quale avevano vissuto per due lunghissimi mesi.
Lui chiuse gli occhi e sorrise di nuovo.
«Scusaci: siamo stati pessimi genitori, non ti abbiamo saputo dare niente se non tutti i nostri problemi… Forse era destino che questo accadesse, forse avevamo bisogno di qualcosa che ci unisse. Io avevo bisogno di ritrovare me stesso per ritrovare anche voi. Non vi abbandonerò più!»
«Immagino di essere stato un pessimo figlio per voi…»
In quel momento, suo padre compì un gesto che Massimiliano non si sarebbe mai aspettato: gli prese la mano e, guardandolo negli occhi, gli disse:
«Sei un dono del cielo e, da oggi in poi, ti ameremo come non siamo mai riusciti a fare».
La madre si asciugò col dorso della mano l'ennesima lacrima e sorrise davanti a quel quadretto familiare che tanto assomigliava allo stesso di qualche anno fa. Certo, niente era rimasto uguale, ma ora erano pronti a riparare tutti i cocci devastati per ricostruirli. Insieme.
«Ti va di iniziare di nuovo come una famiglia?»
Il ragazzo versò due lacrime, non di più.
«Sì!»

Cecco bussò alla porta della camera 61. Aveva inventato una scusa a Benedetta affinché lo aspettasse nella sala d'attesa, voleva farle una sorpresa e renderla felice dopo troppo tempo.
Il cuore gli batteva all'impazzata, sembrava un treno che andava a massima velocità sui binari, perché non sapeva a cosa sarebbe andato incontro: chissà se stesse dormendo o se fosse sveglio, chissà come lo avrebbe guardato dopo tutto quel tempo… Per un attimo, gli balzò nella mente che Massimiliano potesse odiarlo per ciò che gli era capitato. E il suo rancore, no, non sarebbe riuscito ad affrontarlo. Il timore gli stava per opprimere la gioia che traspariva dal suo muscolo cardiaco, doveva constatare coi propri occhi chi fosse diventato il suo migliore amico. Abbassò la maniglia e aprì la porta. Alzando lo sguardo dal pavimento, s'imbatté in quello luminoso di Max; dischiuse le labbra in un'espressione di stupore, tuttavia la vista non tardò ad offuscarsi. In quel momento, non capì più se il cuore gli stesse sprofondando nello stomaco oppure se battesse così forte da voler quasi uscire dal petto; non capiva se nel cielo splendesse il Sole o se fosse coperto da spesse nuvole scure; e non comprendeva perché anche Max stesse piangendo.
«Amico mio…» lo chiamò Cecco.
E così, nell’infinità di un solo attimo, si ritrovarono e piansero per tutto quello che di sbagliato c’era stato nella loro vita, per tutte le volte che non avevano potuto farlo.
«Fratello!» lo corresse Massimiliano.
Il ragazzo si avvicinò al letto, dal momento che era rimasto immobile sull'uscio della porta; gli strinse la mano e lo guardò: era decisamente più magro, con il viso scavato e pallido, i capelli ricci più arruffati del solito… Sì, era il suo migliore amico, colui a cui avrebbe donato anche un rene o un polmone, non aveva importanza rimanerne con uno solo finché erano in due in quella vita incasinata!
«Non te l'ho detto spesso, ma… »
«Ti voglio bene anche io, testa di cazzo!» scherzò Max per smorzare la tensione.
«Siamo patetici!» rispose Cecco sorridendo tra le lacrime.
«Dov’è lei… ?» domandò l'altro a disagio, non sapendo quale sarebbe stata la sua reazione.
«A proposito di Benedetta, scusami. Ho fatto tante stronzate, ma ho capito che l'unico che può renderla davvero felice sei tu. Prenditi cura di lei, amico mio!»
Gli sorrise e lo informò che tra qualche minuto avrebbe fatto venire la sorella.
«Ti vengo a prendere dopodomani per portarti a casa!» e si chiuse la porta alle spalle.

Negli attimi che seguirono l'arrivo della piccola Benedetta, Max si sentiva nervoso e imbarazzato. Cosa le avrebbe detto? Come le avrebbe dichiarato i suoi sentimenti? Si conoscevano fin da bambini, era così strano! Sentiva lo stomaco attorcigliarsi, chiudersi e provocargli dolore. Le avrebbe dato un dolce bacio, puro e casto come lei, tutto per farle capire quanto fosse indispensabile per lui.
La porta si aprì lentamente e la ragazzina entrò con lo sguardo basso di chi non si aspetta nulla di diverso.
“ O la va o la spacca! “ pensò, forse così sarebbe riuscito a stupirla; o forse avrebbe dovuto attendere di tornare nel loro quartiere, portarle una rosa e dichiararsi nel modo più romantico e antico possibile? Massimiliano non avrebbe resistito altri due giorni, voleva sentire il suo profumo, il sapore delle sue labbra, voleva sentirla solo sua finalmente.
«Ti amo!»
Benedetta spalancò gli occhi e alzò la nuca per guardare se davvero quel suono lontano fosse arrivato proprio da lui. Era là, a due passi da lei, appoggiato sullo schienale del letto. Sbatté le palpebre più volte, forse la vista le stava giocando dei brutti scherzi; ora le stava sorridendo, il volto più roseo, probabilmente anche troppo. La ragazzina si coprì il viso, incredula nel vederlo in tutta la sua bellezza. Andò accanto a lui, gli accarezzò una guancia e le vennero i brividi nel toccare la sua pelle calda, quasi normale. D’istinto lo abbracciò, affondando nelle lunghe braccia di quell'amico che non era poi così amico.
«Non so cosa dire… »
«Dimmi solo che mi ami, ne ho bisogno… » la pregò Massimiliano.
«Certo che ti amo! » gli confessò, singhiozzando ancora di più.
Il ragazzo le asciugò tutte le lacrime, era una cosa bellissima e come tutte le cose belle, non si rendeva proprio conto dell'effetto terapeutico che gli faceva. Appoggiò le labbra sulle sue, sussurrandole che l'amava. Era quello che provava e glielo avrebbe ricordato ogni giorno della loro vita.

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