Who will sing for the Nightingale

di _Orlando_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


 

 

Come da regole, ricordo che questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.R.R. Tolkien. Questa storia nasce da una mia particolare ossessione. Quali implicazioni comporterebbe se, come molti appassionati di Tolkien suppongono, seppur senza alcuna conferma canonica, fosse stata Orcrist la spada utilizzata da Ecthelion nei giorni antichi? Di essa si dice che fosse una lama famosa degli elfi di Gondolin, come la sua compagna Glamdring, appartenuta a re Turgon. E dato che uno degli eroi più temuti dagli orchi, al punto che il suo nome divenne un grido di battaglia in grado di terrorizzarli (così come li terrorizzavano le due spade), fu proprio Ecthelion, la possibilità che la spada appartenesse a lui esiste, benché resti, comunque, un'idea arbitraria. Un'illazione che mi affascinava molto, però, per varie ragioni. In primo luogo perché trovavo gustoso pensare a che cosa avrebbe potuto dire Glorfindel vedendo Thorin portare la spada del compagno d'armi perduto, se si fosse trovato nella casa di Elrond nel periodo in cui vennero ospitati i nani della compagnia. Poi per i parallelismi sospesi, per la tragicità della sorte dei portatori. Ecthelion morì gloriosamente uccidendo Gothmog per proteggere Gondolin; sulla tomba di Thorin, morto dopo aver riconquistato la Montagna a Smaug, venne posta Orcrist da Thranduil, perché brillasse nel buio ogni volta che si avvicinassero i nemici, e i nani di Erebor non potessero mai più essere colti di sorpresa. Inoltre, confesso, questa storia mi permetteva di toccare sia le vicende di Thorin e Thranduil, pairing completamente crack ma che amo moltissimo, sia quelle di Ecthelion e Glorfindel, tra cui ho sempre visto di più della semplice amicizia d'armi e di cui non ho mai avuto il coraggio di scrivere perché troppo doloroso.

Naturalmente, la storia mi è sfuggita di mano, e da one-shot è diventata una mini-long. Sarà divisa in due, al massimo in tre parti. Per l'ambientazione principale (Terza Era, durante le vicende raccontate ne Lo Hobbit), ho utilizzato in parte i libri, in parte il Movieverse (a seconda di quale dei due mi tornasse più comodo, confesso). Non sapendo come segnalarlo, ho segnalato "Otherverse" anche se non so quanto sia appropriato. Per ulteriori note esplicative, e i dovuti ringraziamenti a chi sempre mi supporta in questi esperimenti, rimando alla fine del testo.

 

"The sea's evaporating
Though it comes as no surprise

These clouds we're seeing
They're explosions in the sky
It seems it's written
But we can't read between the line

Hush
It's okay
Dry your eye
Soulmate dry your eye
Dry your eye
Soulmate dry your eye
Cause soulmates never die."

 

(Placebo - Sleeping with Ghosts)

 

 

 


 

 

 

 


 

Nella quiete del tramonto di mezza estate, il principe Thorin si aggirava, le ciglia aggrottate, tra gli archi alti della casa di Elrond. E nonostante il canto delle cicale, i raggi caldi del sole e le foglie verdi, aveva l'impressione che, in quell'ora della sera, già si spargesse nell'aria il profumo dolce dell'autunno, e che le foglie si tingessero di una nota ramata, quasi a riflettere l’abbagliante luce d'ottone del cielo montano.


 

Erano scure, invece, le sale di Bosco Atro, le cui porte secoli addietro si spalancavano per accogliere un giovane e fin troppo audace principe khazad, assieme agli ambasciatori del fiorente regno di Erebor. Invano Thorin aveva cercato il re degli elfi per i lunghi corridoi di legno e pietra, sospesi nel vuoto di grandi aule boschive.

Il mio signore non può riceverti, adesso” aveva detto la guardia silvana, serrando le pallide labbra per lo sdegno che quella richiesta gli suscitava. Doveva aver ritenuto quanto mai inopportuno che un nano, benché principe, avesse avuto l’ardire di fermarlo per sollecitare la presenza del re.

Thorin si era rassegnato, quindi, ad attendere il banchetto. Tamburellando nervosamente le dita sui grandi manici della sedia che gli era stata offerta, troppo alta per uno della sua razza, aveva preso posto nella sala delle feste, le cui volte erano rese invisibili dal rampicante fogliame che cresceva sulle colonne delle caverne del sottosuolo, pallida reliquia di una più divina arte e di gloriose aule dimenticate. Una casa di legno e pietra, eppure più minacciosa nella sua manifestazione di potenza sopita che se fosse costruita di marmo e pietre preziose.

Alla fine, lo aveva visto arrivare. Indossava una veste verde, ricamata d’argento, che contrastava con il freddo splendore della pelle candida. Una corona di bacche e foglie rosse gli cingeva il capo, ed i rami si confondevano tra i lunghi capelli dorati. Teneva tra le mani uno scettro di legno di quercia. Accanto a lui, i nani si affrettarono ad alzarsi, srotolando lunghe pergamene, per poi snocciolare le formule del complesso cerimoniale khazad nel ringraziare il sovrano dell’ospitalità offerta, felice auspicio per le trattative che avrebbero dovuto svolgersi nei giorni a venire. Thorin era rimasto seduto in composto silenzio, come si addiceva a chi appartenesse alla stirpe reale, limitandosi  a salutare l’elfico re con un cenno del capo ricciuto.


 

Salendo i bianchi scalini che conducevano alla casa di Elrond, il nano tentava di nascondere a se stesso quella punta di angoscia che lo tormentava, e che andava accrescendosi man mano che la meta si faceva più vicina: come se il sentirla ogni giorno più tangibile rendesse più fisiche anche le sue paure. La Montagna, la casa perduta, idealizzata nei lunghi anni dell’esilio fino a prendere la forma di un sogno di riscatto. O di rivalsa, forse, in una partita in cui il drago non era l’unico, né forse il più importante, avversario. Ben altri erano gli spettri che affollavano la mente del nano.

I pensieri tornavano, suo malgrado, a quel giorno di più di cento anni addietro. Non era stato soltanto per intessere scambi di gemme o di vino che il principe aveva convinto re Thror a inviarlo nel bosco degli elfi insieme al piccolo gruppo di mercanti e nobili del popolo della  Montagna.


 

Era forte in lui il desiderio di poter nuovamente avvicinare re Thranduil, la cui disarmante bellezza lo ossessionava da ormai molte lune.

Era accaduto all’inizio della primavera, quando il sovrano del bosco era giunto a porgere gli omaggi al Re sotto la Montagna, la cui crescente ricchezza era stata coronata dalla scoperta, nelle profonde miniere di Erebor, dell’Archengemma. Benché trattative tra i due popoli non fossero desuete, il re degli elfi, per principio o per picca, non soleva curarsi di ciò che accadesse al di là dei confini del bosco,  e dunque era cosa a dir poco eccezionale che egli si degnasse di uscire dall’ombra dei suoi alberi e giungesse addirittura di persona nel regno dei nani. Il giovane Thorin, curioso per l’avvento della vociferata creatura, che non aveva mai visto e sulla quale racconti di tutti i generi si sprecavano attorno ai focolari della sua gente,  aveva assistito all’ambasceria alla destra del trono dove sedeva suo nonno, sorprendendo così il ghigno di crassa soddisfazione che distorceva il regale volto di Thror, mal celato dai lunghi baffi argentei.

Thranduil era apparso nell’ombra della grande sala, seguito da una piccola scorta di Sindar e Silvani. Al giovane Thorin era parso che un lampo di oro scintillante avesse squarciato le tenebre delle immense volte della Montagna, che pure splendevano di mille riverberi di gemme della luce più pura, cesellate con costante pazienza da mani sapienti nelle profondità della terra. La bellezza di Thranduil aveva colpito il suo fervido anelito di fanciullo, in perpetua ricerca di forme perfette alla forgia: più che a una creatura vivente, l’elfo che aveva davanti assomigliava a una gemma di freddo splendore, un gioiello di mithril e oro pallido, forgiato da una mano più abile di quella dello stesso Mahal. Gli occhi azzurri dell’elfo sembravano riflettere gli abissi più profondi della foresta, il loro sinistro rilucere tradiva la natura ferina dell’eterea figura. Una gemma, quella, su cui le sue dita, benché principesche, non avevano il diritto di chiudersi.

Le trattative tra i sovrani non erano andate nel modo migliore. Thror aveva negato le gemme che avrebbe dovuto offrire, seccato dall’alterigia dell’altro, dal sottile disprezzo che leggeva nello sguardo ceruleo. Non si trattava che di un incidente, per quanto spiacevole, come molti altri nelle storie di elfi e di nani, e non certo il più memorabile o il più sanguinoso. Tuttavia il lampo di volgare cupidigia, il soddisfatto gongolarsi che aveva distorto l’espressione del nobile Thror in un ghigno smanioso, aveva oltremodo preoccupato il giovane nano, come un sinistro presagio di corruzione e di morte.

Ed era quindi anche per lavare via una simile visione, oltre che per il desiderio di rivedere il volto di Thranduil,  che Thorin aveva trovato il coraggio necessario per avanzare una richiesta azzardata. Una volta trascorso il momento della collera, aveva convinto suo nonno  a farsi inviare al Bosco accompagnato da nuovi doni, per recuperare le trattative - utili, necessarie, a suo dire - col popolo elfico, accompagnato dall’ingenuo intento di riparare a un’offesa che, proprio in virtù del suo lignaggio, trovava ingiusta, seppur mossa a un elfo.

 


 

"Salute, principe Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror"


 

Il nano si voltò, bruscamente distolto dai suoi cupi ricordi, dissimulando un sussulto. Pochi scalini dietro di lui, come comparso dal nulla, l'alto elfo dai brillanti capelli dorati, quello che aveva scorto aggirarsi nella casa di Elrond, lo salutava con  un ostentato inchino.


 

“Da molti giorni la tua compagnia di tredici nani, con quel grazioso hobbit ed il saggio Mithrandir, risiede nella casa del mio stesso ospite, eppure io ancora non mi sono presentato. Perdona, ti prego, la mia scortesia. Alcuni un tempo mi conoscevano come Laurefindil di Gondolin, signore della Casa del Fiore d'Oro. Ma millenni sono passati da allora, ed il volto del mondo è troppo mutato per quel nome. Ora al Nord mi chiamano Glorfindel di Imladris."


 

"E cosa può desiderare Glorfindel di Imladris da Thorin, figlio di Thrain?" rispose il nano, incontrando lo sguardo chiaro e fermo dell'elfo, limpido e terribile come il mezzogiorno in estate. Gli riportò  suo malgrado alla mente altri occhi: azzurri anch'essi, ma del cupo, sinistro splendore di acque che scorrano nel cuore tenebroso dei boschi.

Rapido, scacciò quel pensiero.

 

"Augurarti gloria nella tua impresa. Non meriti nulla di meno." sorrise l'elfo, e le sue parole erano gentili e nostalgiche, avvolgenti come una musica sussurrata in aule vuote da secoli.


 

Thorin si era voltato del tutto, la fronte ancora accigliata, le braccia serrate attorno all’ampio torace. Nonostante le parole amichevoli che gli erano state rivolte,  si sentiva irritato da quella inaspettata, suadente dolcezza.  Non era dell’umore giusto per lasciarsi blandire: men che meno da un elfo, una razza di cui aveva dolorosamente compreso - a spese sue e del suo popolo - la natura volubile.


 

Era accaduto dopo il banchetto. Thranduil si era ritirato in silenzio, approfittando della rumorosa gaiezza delle libagioni silvane per muoversi non visto tra gli elfi danzanti, mentre nel grande salone le celebrazioni erano ancora lontane dal loro termine. Thorin aveva perso la speranza di vederlo ricomparire, lasciandosi andare, con la scusa di onorare le usanze del proprio ospite, al piacere del vino con forse troppa solerzia. A un certo punto, una guardia dai capelli intrecciati gli si era avvicinata discretamente.

Il re desidera parlarti in privato”, aveva mormorato al suo orecchio.

In silenzio, aveva seguito la figura leggiadra nel labirintico susseguirsi di corridoi della casa degli elfi. Le luci delle fiaccole gettavano ombre tremolanti sugli archi dai sottili ceselli di rune dorate, sulle alte volte aguzze, cenacoli di antico sapere, ma gli occhi del giovane principe vi si soffermavano appena, i sensi annebbiati da una non troppo lieve ubriachezza.


 

Ti sei fatto attendere” lo aveva apostrofato Thranduil, appena oltrepassata la porta dei suoi appartamenti. Il fumo dell’incenso saturava l'aria di un profumo nostalgico, mischiandosi a quello più delicato del re degli elfi, che ricordò a Thorin  l'odore della rugiada nei primi mattini d'autunno.


 

"Rientra tra le usanze degli elfi invitare i propri ospiti in sale private nel cuore della notte, di nascosto, mentre gli altri festeggiano?" aveva risposto Thorin, sentendosi improvvisamente fuori posto sotto allo sguardo ferino e attento dell’altro, che sembrava poter leggere con facilità i reconditi segreti dell’animo di chi avesse di fronte. O almeno, questa era l’impressione che suscitava al giovane nano.

Per un attimo, temette anche di essere caduto in un qualche tranello con un’ingenuità che avrebbe potuto pagare con la vita. I racconti di viandanti che non facevano ritorno dal Bosco Atro, o che facendolo perdevano il senno, tornarono alla sua coscienza dagli anni dell'infanzia.


 

Un principe di Erebor che mi viene inviato come ambasciatore. L’ultima volta che ci siamo incontrati, re Thror mi era parso piuttosto lontano dal ritenere che gli elfi fossero meritevoli di un simile onore.” gli sussurrò, suadente, Thranduil, avvicinandosi al suo volto.

Sta giocando come una fiera con la sua preda, pensò Thorin, con un misto di ancestrale timore e irrefrenabile desiderio, ma serrò le labbra, alzando il mento e decidendosi ad affrontare lo sguardo dell’elfo. A costo di restare vittima di incantesimi senza nome, avrebbe agito in modo degno del sangue che scorreva nelle sue vene, avrebbe fatto ciò che era giusto.


 

Mi sono offerto io stesso. Sono giovane, ma ritengo che le azioni di mio nonno non abbiano fatto onore ai nostri antenati in quell’occasione, e che non abbia agito negli interessi del regno che, un giorno, sarà mio. Ho insistito per essere inviato con doni per riparare a quell’errore.”

Una scintilla brillò negli occhi di Thranduil e le sue labbra si allungarono in un sorriso in cui Thorin lesse sorpresa, e, forse, ammirazione.

Ecco un principe orgoglioso persino per i canoni nanici. Il regno di Erebor sarà un giorno tuo, dici? Potrei persino augurarmelo, se dimostrerai di esserne degno la metà di quanto appari a parole. Considera le tue scuse, se di queste si tratta, accettate”


 

Il nano strinse i pugni, scacciando i ricordi.

L’elfo lo aveva ingannato, offrendogli la sua amicizia, e lui dopo quella sera si era recato molte altre volte tra le sale boschive. All’inizio soprattutto con pretesti di protocollo, quale portavoce dei khazad in accordi di confini o commerci, la cui gestione veniva lasciata volentieri alla stravaganza giovanile del volenteroso principe da parte dei nobili di Erebor. Essi erano infatti sempre restii a lasciare la Montagna, ancor più se per recarsi nelle aule degli elfi, le cui feste vivaci li lasciavano confusi e a volte persino disgustati.

Poi, però, Thorin aveva iniziato a raggiungere Thranduil anche in segreto, cavalcando da solo attraverso l’oscurità del bosco notturno, quando il contegno di attendere un’impeccabile scusa veniva superato dal troppo forte desiderio di trovarsi in compagnia dell’elfo. Era facile per lui giustificare, anche a se stesso, quegli slanci con il nobile intento di fondare le basi di una duratura pace tra i popoli del Nord, e con quello di servire il regno della Montagna.

E benché fosse certamente sincera la preoccupazione che lo attanagliava nel vedere i pensieri di suo nonno a poco a poco cedere alla brama dell’oro, c’erano indubbiamente altre ragioni a muoverlo, che egli al tempo nascondeva a se stesso, ma che ora era in grado di comprendere sin troppo chiaramente: l’elfo lo aveva corrotto, riempiendogli il cuore di torbidi pensieri che non osava confessare. Certamente tutto faceva parte di un piano meschino per raggirarlo, studiato con arte e malizia.

E la prova era stata il doloroso tradimento, lo sprezzante rifiuto che aveva ricevuto quando era corso col cuore in gola da lui, nel momento del più alto bisogno, nell’ora del drago. Fremette di rabbia, come ogni volta all'emergere di quel ricordo sempre troppo presente. Decisamente, non si sarebbe lasciato di nuovo blandire da quest’altro elfo biondo, per quanto nobile e autorevole nell’aspetto, senz’altro giunto per distoglierlo dalla sua missione, o per chissà quali altri scopi.


 

"Ti ringrazio, elfo, ma vuote sono le tue parole. Non comprendo il motivo di tanto interesse nelle nostre sorti, né dell'incoraggiare un intento da cui, al contrario, il signore di Imladris sembrava più incline a distogliermi"


 

"Elrond è saggio e gentile, ma è giovane ancora ai miei occhi. Trovo che egli sia in torto, e tenevo a dirtelo. La tua casa, al contrario della mia, esiste ancora su questa terra, ed io non posso, dunque, che comprendere il tuo desiderio e invidiare le tue possibilità di riuscita. Vi sono rovine di torri bianche sul fondo del mare, annerite dal fumo, eppure ancora rilucenti come perle, su cui coralli crescono e attinie splendenti dimorano nel silenzio di profondità senza tempo.  A pochi mortali fu concesso di camminare lungo le sue strade intarsiate di marmo. Da tempo il suo nome è stato dimenticato. Non mi sarà mai possibile, in alcun modo, farvi ritorno, per l’eternità che mi attende da vivere."


L'elfo fece una pausa, chiudendo gli occhi, e a Thorin parve che lo splendore del sole si fosse, per un attimo, affievolito "Ma hai ragione, c'è un altro motivo per cui ho a cuore le tue sorti, ed esso è legato alla spada che porti al fianco"

Con un movimento aggraziato, Glorfindel si sedette su uno degli ampi gradini di alabastro.


 

“Ho trovato questa spada io stesso, abbandonata nelle caverne dei troll. Vanteresti forse dei diritti su essa? Il signore di Imladris mi ha detto che è appartenuta alla vostra gente, ma si è ben guardato dal chiederla indietro. Vorresti, tu, comportarti diversamente?”


 

Glorfindel sorrise, ma un’ombra passò sul suo volto, e Thorin, suo malgrado, si sentì scuotere da un brivido freddo.

“Rasserena il tuo spirito, nano. E abbandona la presa sull’elsa. Non è mia intenzione toglierti la spada, ma accertarmi che tu la usi per come merita. In caso contrario, non esiterò a riprendermela, e né tu né Elrond potreste impedirmelo.”


 

“Questa spada appartenne a te, dunque? Perché non ti sei fatto avanti per reclamarla quando Gandalf l’ha mostrata al signore di queste terre, insieme alla sua? Temevi forse l’ira dello stregone?”


 

“Ti sbagli, Thorin. Non appartenne a me, ma a qualcuno che mi fu molto caro. Ti prego, siedimi accanto: quella che vorrei narrarti non è una storia breve”. Glorfindel aggrottò le ciglia, il volto contratto nel tentativo di rievocare un’istante sbiadito, di preservarlo dalla crudele inesorabilità dell’oblio. Thorin si fece avanti, esitante.

“Quanto allo stregone, non ho ragione di temerlo, come non temerei nessun altro in queste terre. Eppure ciò che il figlio di Earendil gli ha concesso non è stato un onore da poco: la spada che gli ha lasciato senza proferire parola alcuna fu quella che brandiva re Turgon, suo avo, quando cadde in battaglia nell’alta torre di Gondolin. Come possa esser giunta, unico cimelio che di lui ci resta, nella caverna di quei troll, resta per me un triste mistero. Per quanto mi riguarda, farò lo stesso, forse. La spada potrà essere tua, ma non prima di essere sicuro che tu abbia compreso il valore di quello che porti”.


 

Thorin, benché diffidente, si accoccolò sullo scalino, a debita distanza dall’elfo. Glorfindel sorrise, osservando, tra gli archi intarsiati di Imladris, gli alti picchi delle Montagne Nebbiose. Alti, aguzzi, abbaglianti di neve.


 

Le montagne, nella nebbia dell’aurora, apparivano come nubi serene.
Un’aquila gridò in lontananza, svanendo nell’ orizzonte d’amaranto, mentre Ecthelion accostava il suo flauto alle labbra sottili. Era una musica di sfere celesti quella che si diffuse nell’aria, e persino i fringuelli, nascosti tra le fronde vicine alle bianche finestre, interruppero il loro canto per udire il suono del flauto del primo nato, sopraffatti dalla troppa emozione. Ma la musica cessò dopo poche note, poiché le orecchie di Ecthelion avevano colto un suono per lui più prezioso di qualsiasi canto:  l’eco dei passi dell’aureo Glorfindel, che rapido correva tra le colonne finemente cesellate della Casa della Fonte, e saliva le bianche scale in cerca di lui. Era soltanto una questione di attimi, e presto la chioma dai capelli dorati sarebbe comparsa tra le volte delle stanze di Ecthelion.


 

Non ti aspettavo” mormorò sorridendo, e Glorfindel pensò che la sua voce assomigliasse all’argentino suono di una fonte montana “Non così presto, almeno. Cosa porta il fiero Glorfindel ad onorarmi con una visita alle prime luci dell’alba?”  agile come un felino, Ecthelion balzò giù dall’ampio davanzale su cui sedeva, avvicinandosi all’altro.

Era leggermente più basso, ma la figura slanciata suscitava piuttosto l’impressione opposta in chi non li osservasse accostati. Avvolto in una tunica argentea, i lunghi capelli scuri gli incorniciavano il volto, facendo apparire il suo incarnato ancora più eburneo.


 

Il solo desiderio di udirti cantare sarebbe sufficiente, ma, come hai indovinato, non si tratta di questo, oggi.”  sospirò il signore del Fiore D’Oro, abbassando gli occhi. Nel gesto, una lunga ciocca di riccioli chiari, ancor più rilucenti nella rossa luce dell’alba, gli caddero  sul volto dai lineamenti decisi. Ecthelion la scostò dolcemente, e lo costrinse ad alzare lo sguardo, sollevandogli il mento col pollice, per scrutare attentamente gli occhi cerulei.
Nel tuo volto è impressa la mia stessa preoccupazione. Ma ti  prego, non lasciare che la paura entri nel tuo cuore, indebolendolo. E’ questo ciò che il Nemico desidera”

Glorfindel cinse la vita sottile dell’altro tra le braccia ben tornite, guardando davanti a sé. Rimase in silenzio, prima di accostare le labbra all’orecchio di Ecthelion e sussurrare piano, come temendo di essere udito da orecchie invisibili: “A volte, sogno le tue belle ciglia coperte di sangue, la tua armatura d’argento ridotta in frantumi. E tu stringi tra le mani un flauto spezzato, mentre il sangue esce copioso dalla tua bocca. Invochi il mio nome, ed io ti sollevo tra le mie braccia, ma tu sei già morto e i tuoi occhi sono vuoti. Quando accade, non posso che correre qui, per sincerarmi che fosse solo una crudele visione, e non la realtà.”


Glorfindel abbassò lo sguardo, per incontrare quello di Ecthelion e prendergli il volto tra le mani. Lo baciò delicatamente sulle labbra sottili, che però rimasero serrate. Gli occhi grigi dell’elfo lo osservavano severi, in attesa che l’altro proseguisse il discorso. Sapeva bene che non era tutto, che c’era qualcos’altro che turbava il chiaro compagno.

So che non dovrei, ma in quegli istanti, prometto a me stesso che se anche dovessi lasciar bruciare le sette cerchie di Gondolin, lasciare che i Balrog prendano i suoi sette cancelli, e gozzoviglino tra le membra dei nostri fratelli, abbandonerei ognuno di loro e la città stessa. Verrei a salvarti. Ti porterei lontano dal fuoco di Belegurth, dovessi percorrere anche tutte le strade di questa terra per i millenni a venire. Perché non c’è niente, per me, in Arda, che sia più prezioso di Ecthelion, Signore della Fonte”

Ecthelion appoggiò le mani sul petto dell’altro, spingendolo indietro. Non abbastanza, però, per liberarsi dalla presa delle salde braccia dell’elfo. “Sono gravi le parole che pronunci, Glorfindel. E anche se dettate dall’affetto, mi appaiono foriere di disgrazia. Vorrei che tu non le avessi pronunciate, e che il tuo cuore mutasse consiglio. Rivedo, in esse, l’arroganza che ha condotto alla rovina la nostra stirpe. Quando sarà il momento, sappiamo entrambi quale sarà il nostro posto. Il nostro sangue sarà ben sparso, se permetterà che la bianca torre resti salda più a lungo di anche un’ora soltanto”


 

Se questo è il tuo desiderio, promettimi almeno che potrò morire al tuo fianco. Che combatteremo insieme, fino all’ultimo respiro che ci resta su questa terra corrotta”


 

Il mio desiderio è quello di proteggere chi mi è più caro.” Mormorò Ecthelion, la voce distante, per riscuotersi subito dopo. Sorrideva, adesso, accarezzando le guance dell’altro “Ma basta adesso, con questi tristi pensieri. Sereno è il cielo su Gondolin, oggi, e verrà celebrata la grande festa d’estate: le tue preoccupazioni, invero, impallidiscono alla luce del sole. Desidero godere di ogni istante che ci è concesso insieme su questa terra, corrotta o no, perché anche l’eternità trascorsa al tuo fianco non mi sarebbe bastante.”
Lentamente, l’argenteo guerriero accostò le labbra a quelle di Glorfindel. Sentì la stretta attorno ai suoi fianchi farsi più salda, la bocca dell’altro che rispondeva, avida, al suo bacio.


 

Mi scuso per l’interruzione” Tuor, in piedi sulla soglia della grande aula dalle pareti affrescate, abbassò la testa, piegandola sulle larghe spalle. Non voleva incrociare lo sguardo del signore della Casa della Fonte. Era consapevole del tipo di relazione che legava i due guerrieri, ma  trovarlo tra le braccia del Signore del Fiore d’Oro, abbandonato con grazia femminea, gli aveva suscitato comunque un imbarazzo che temeva che i suoi occhi potessero tradire. Ancor più, forse,  temeva di scorgere nello sguardo dell’elfo il biasimo per la sua mancanza di cautela. Ecthelion gli aveva raccomandato la massima riservatezza. Nessuno sapeva che l’adan si recava, da ormai molte lune, ogni giorno tra quelle sale, alle prime luci dell’alba. Eppure, l’abitudine lo aveva portato ad abbassare la guardia, e a raggiungere le stanze del suo maestro d’armi senza prestare orecchio ai rumori, né preoccuparsi che potessero essere, come sempre, soli.


 

Glorfindel aggrottò la fronte, e le bionde sopracciglia proiettarono un’ombra sullo sguardo chiaro. “Perché lo sposo di Idril è qui?”

Ecthelion sospirò profondamente, serrando le palpebre. “Tuor, alza la testa, non hai niente di cui scusarti” la sua voce era rassicurante, modulata nel modo di chi  si rivolga a un infante.

Gli ho chiesto io di venire” continuò l’elfo, rivolgendosi al compagno “ho bisogno di un avversario, per affinare la mia arte, e similmente l’uomo necessita che il suo corpo sia sempre in esercizio e il suo braccio avvezzo a sostenere l’acciaio se vorrà essere pronto. Rapida a intorpidirsi è la carne dei mortali.”

Sul volto di Glorfindel si allungò un sorriso di scherno. Ecthelion lesse, nei suoi occhi, balenare il dubbio. “Da quanto tempo ti alleni col nobile Tuor a mia insaputa, se posso chiedere?”

Da quando egli ha attraversato le sette cerchie di mura, Glorfindel.”

L’altro allontanò la mano dal suo fianco, e mosse alcuni passi indietro. “E’ interessante notare come io sia sempre l’ultimo a conoscere il modo in cui spendi il tempo, e ancor più le tue preoccupazioni. Perché allenarsi con uno sconosciuto, con un adan, per quanto abile e fiero? Avresti potuto esercitarti con me, come abbiamo fatto nei secoli condivisi della nostra giovinezza, nell'Ovest lontano o tra le verdi fronde della Valle Segreta. Sei stato tu a confessarmi di non voler più trascorrere le tue mattine all’armeria. Avevo pensato che avessi finalmente trovato un po’ di quiete, nella calma dei Monti Cerchianti. Immaginavo che volessi dedicarti unicamente alla musica, come un tempo facevi al di là del mare. Ma il problema era forse che non mi ritenevi più un avversario al tuo livello”

Ecthelion sorrise, allungando una mano per accarezzare i riccioli chiari dell’elfo.

Ti inganni, e lo sai. Nessuno è più abile di te con la spada, ma preferisco che i nostri incontri non siano più rabbuiati dall’eco della battaglia. Con te è la gioia del tempo che ci resta che voglio condividere, Glorfindel, che si tratti di millenni oppure soltanto di ore. Quali note uscirebbero dal mio flauto se permettessi alla paura e alla disperazione di attanagliare il mio cuore? Credimi, più del suono della tua spada è assai più infausto per il nemico quello scrosciante della tua risata, che più di ogni altra cosa rallegra il mio cuore, e che proteggerò ad ogni costo.” Il pallido elfo fece una pausa, abbassando lo sguardo. “Non mi farò trovare impreparato e impotente, come lo fui tra i ghiacci di Helchalrach.”


 

C’ero io a proteggerti, durante la traversata.” Glorfindel si voltò, stringendo i pugni. “Ma forse non ritieni che la mia protezione sia sufficiente, adesso. Né per te, né, evidentemente, per me stesso.”


 

Eri solo un fanciullo a quel tempo, come me del resto. E ricordo di come rischiasti sconsideratamente la vita per recuperare il mio flauto, caduto tra le rocce aguzze di un precipizio. In quel giorno ho compreso che la spada mi sarebbe stata compagna quanto la musica, perché mai più avrei voluto esserti di peso.”


 

E così ti sei allenato a lungo, ma il tuo obiettivo anziché quello di servire il tuo popolo era piuttosto di diventare più abile di me. E da me hai voluto apprendere, sino a che non ti sono diventato inutile. No, non dire niente. Conosco la considerazione in cui ti tiene sire Turgon, e il rispetto con cui ti guardano i soldati. E conosco anche la tua ambizione. Il tuo canto è il più sublime tra gli Eledhrim, a lungo hai affinato la tua arte, e lo stesso vale per la spada. Non esiste disciplina a cui ti dedichi in cui non desideri eccellere, mio amato Ecthelion, ed è uno dei motivi per cui il mio cuore si riempie di meraviglia al solo vederti. Ora però dici che vuoi tenermi lontano dalle armi per proteggermi, ed io mi chiedo se tu invece non mi consideri, ormai, non abbastanza abile da combattere al tuo fianco. Sono forse io, adesso, il peso?” Il tono della voce di Glorfindel si fece aspro mentre indicava l’uomo, che, ancora sulla soglia, non aveva osato muovere un passo, confuso e mortificato. “Al punto da sostituirmi in segreto al nobile Tuor, come compagno d’armi?”


 

Cerca in fondo al tuo cuore, Glorfindel, e non far parlare il tuo orgoglio. Conosci bene i sentimenti che nutro per te. Saresti cieco a ritenere che una mera ambizione possa superarli in valore”


 

Dovresti già immaginare, allora, che il tuo desiderio di proteggermi ha alle mie orecchie il sapore del disprezzo, e che mi ferisce profondamente” Glorfindel si fece indietro, ricomponendosi in un saluto formale, lo sguardo rivolto ai suoi piedi.

Ma ti dimostrerò che ti inganni. Adesso, se vuoi scusarmi” Facendosi indietro, guadagnò la porta a grandi passi, senza degnare di uno sguardo l’adan che, tra le bianche colonne, aveva assistito, attonito, al diverbio di cui era stato l’involontaria causa.


 

Sono profondamente dispiaciuto, nobile Ecthelion” mormorò goffamente Tuor, dopo che l’eco dei passi di Glorfindel si fu disperso per le vaste sale. “Io so  bene che il tuo desiderio è quello di proteggere la quiete dei Monti Cerchianti, e che quasi vorresti essere il solo ad occuparti della difesa, risparmiando agli altri cupi pensieri, e che per questo ci allieti ogni giorno con la tua musica. La mia sposa, benché anch’essa nel suo cuore tema il Nemico, non vorrebbe sapere che ogni giorno impugno le armi, e che lo scorrere dei miei giorni è oscurato da pensieri d’acciaio. Desidera, piuttosto, che mi prepari alla fuga, portando con me quanti più Gondolithrim potrò, ma io riterrei disonorevole abbandonare questa mura, che mi hanno accolto, adan, tra le sue cerchia, senza combattere. Ed è proprio il desiderio di saperla al sicuro, di coprirle le spalle mentre con la sua gente corre verso la salvezza, a muovermi. E so anche che benché tutto questo sia inutile, da tempo la città si sta preparando alla lotta, come una preda pronta al balzo, e che non siamo più gli unici a vigilare in silenzio, memori delle parole di Ulmo. Mi addolora che il Signore del Fiore d’Oro dubiti sulla sincerità delle tue intenzioni”.


 

Come ti ho già detto, non hai niente di cui dispiacerti.”  Rispose questi con tono indecifrabile, gli occhi abbassati sul flauto intarsiato che rigirava tra le mani. “Affinare le tecniche di spada, questa è l’unica preoccupazione che dobbiamo avere questa mattina.”

E Tuor non ebbe il tempo di alzare la testa, che già la lama di Ecthelion era puntata sul  suo collo “In guardia!”

“Vedi, principe Thorin, come anche a chi abbia vissuto per secoli fino a perderne il conto, l’orgoglio e il timore impediscano di comprendere il cuore di chi ha più vicino. E persino i compagni di vita, le anime affini divengono oggetto di diffidenza. Forse anzi è proprio nei confronti di chi a noi è più caro, che l’animo è indotto più facilmente in errore, e l’intelletto deviato per strade contorte. Sospettai di essere stato messo da parte da Ecthelion, amante e fratello, a cui ero legato da promesse inscindibili.”

Glorfindel socchiuse gli occhi, e a Thorin parve che le palpebre fossero scosse da un tremito convulso, prima che il volto dell’elfo riassumesse l’ultraterrena compostezza. “Non me ne rammaricherò mai abbastanza, eppure, ancora, sono mosso dagli effetti di quella ferita all’orgoglio:  mi chiedo infatti se non sia stato anche per provare a me stesso il mio valore che ho accettato di tornare su questa Terra di Mezzo.”


 

“Mi racconti di tempi funesti e remoti, onorandomi di confidenze che però non comprendo cosa abbiano a che fare con me e con la mia spada. Vuoi forse regalarla al tuo amato, per riparare ai tuoi errori? E’ forse l’ambito premio per chi di voi due si dimostrò infine il guerriero più abile? Curiosa, invero, è l’amicizia degli elfi. E’ anche lui qui con te nella casa di Elrond, oppure ti aspetta ai porti grigi?”


 

“Lo comprenderai presto, principe orgoglioso, poiché il racconto non è ancora finito. Sappi, per prima cosa, che la tua spada era la stessa che brandiva Ecthelion, il Signore della Fonte, nei giorni antichi in cui il mondo era giovane. Sì, non stupirti a quel modo. Eppure Elrond ti ha rivelato il suo nome: Orcrist, la Fendi-Orchi, terrore di tutte le creature di Morgoth, resa famosa dalle gesta che mi accingo a narrarti. Perché a quel mattino nefando, in cui, punto nell’orgoglio, il timore dell’inganno si fece strada nel mio cuore, fece seguito una notte ancora più cupa, e compresi che mi sbagliavo nel modo più doloroso”.


Note dell'autore: Per prima cosa, vorrei fare una (breve?) considerazione linguistica: per i flashback ambientati a Gondolin ho scelto comunque di lasciare nomi e terminologia in Sindarin, sia per questioni di uniformità del testo, e perché si tratta, comunque, di una storia narrata nella storia, sia per riflettere una mia particolare, benché assolutamente discutibile concezione. Nei Racconti Incompiuti viene detto che a Gondolin la maggior parte della popolazione parlasse Sindarin, benché in quello stesso testo e in "The Shibboleth of Feanor" si dica che Turgon avesse ristabilito il Quenya come lingua parlata all'interno della sua famiglia. Se la cittadinanza parlava Sindarin e la casa reale Quenya, resta dubbio, e lasciato all'interpretazione individuale, quindi, quale delle due lingue usassero più spesso i signori delle altre case di Gondolin, che dovrebbero collocarsi in una situazione di mezzo tra i "comuni" cittadini e la casa reale. In questo contesto, io immagino che ognuno seguisse la propria preferenza personale e in particolare mi piace l'idea che tra loro Glorfindel ed Ecthelion parlassero Sindarin, perché trovo che in ciò si rifletta un desiderio di lasciarsi alle spalle un passato che li ha segnati per sempre, in una commistione tra l'ammissione di una colpa non commessa ma che si sentono pesare sulle spalle (seppure indebitamente: di Glorfindel in "The Peoples of Middle-Earth" si dice che avesse lasciato Valinor contro il suo desiderio, solo per lealtà verso Turgon, alla cui schiera apparteneva e che non avesse preso parte al massacro di Alqualonde), e l'autoillusione di poter realmente ricominciare una nuova vita sulla Terra di Mezzo. Naturalmente, si tratta della mia particolare e soggettiva interpretazione.

La scelta di far sospettare a Glorfindel di essere considerato più debole da parte di Ecthelion è motivata dal fatto, che mi colpì anni fa, alla prima lettura, che durante l'assedio di Gondolin Glorfindel ed Ecthelion (probabilmente per una mera questione di divisione logistica dei vari reggimenti) non combattano insieme, e che sia Tuor a trovare e trarre in salvo (momentaneamente) Ecthelion ferito nel corso della battaglia; Glorfindel sopraggiungerà solo in un secondo momento. Di Tuor si dice, inoltre, che fosse legato da affetto al Signore della Fonte. E così ho pensato che Ecthelion avrebbe potuto iniziare ad allenarsi con Tuor, con l'idea di preservare Glorfindel, per quanto possibile, dal pensiero di Morgoth ed anche da eventuali missioni suicide che si fossero ritenute necessarie per salvare la città. Naturalmente, e spero si capisca dal racconto, l'avvicinamento tra l'elfo e l'adan non è inteso in alcun modo in senso romantico. Tuor è indissolubilmente legato ad Idril. Glorfindel stesso non sospetta di essere stato tradito in quel senso, ma, cosa per lui forse ancora peggiore, di essere considerato un indegno compagno d'armi.

Il titolo è tratto da "The Nightingale" di Deborah Henson-Conant.

Ringrazio Miele e Cianuro (con cui abbiamo molto discusso sulle figure di Ecthelion e Glorfindel dallo scorso inverno, ed è forse il motivo per cui la mia versione è influenzata dalla sua, benché poi prenda una strada decisamente diversa) e Rosebud, che come sempre sopportano le mie elucubrazioni e rileggono pazientemente i miei testi. E ringrazio anche Aliseia, i cui Thorin e Thranduil sono sempre nel mio cuore, insieme ai suoi meravigliosi elfi originali.

Con affetto,

 

Orlando

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***



 

Note per la comprensione dei vocaboli sindarin meno noti:
Amon Uilos = Taniquetil.

Belegurth = Melkor.
Dor-Rodyn = Valinor.
Gorn (pl. Gornhoth) = nome utilizzato dai Sindar per riferirsi ai nani in senso ostile.
Rodon (pl. Rodyn) = Vala (pl.Valar).



 

I’d give anything to hear

You say it one more time,

That the universe was made

Just to be seen by my eyes.


 

(Sleeping at last- Saturn)


 

Nell’umile cella di pietra scura dove lo avevano condotto le guardie del re del bosco, tra spesse pareti coperte di muschio, la rabbia impotente di Thorin si era accresciuta al punto di superare la disperazione.


 

Sporco di nera terra e delle viscide secrezioni dei ragni, con le gambe che tremavano per la fame, a lungo era stato trascinato in catene dalla guardia silvana per i sentieri segreti tra gli alberi. Gli stessi che aveva percorso da giovane nano, ma che adesso faticava a riconoscere, tanto si erano ammantati di ombra e terrore. In modo indecoroso, umiliante per il suo segreto lignaggio, era stato infine gettato di malagrazia ai piedi del trono di legno intarsiato. Il principe dei Khazad, riscossosi per quell’offesa dall’innaturale torpore che lo aveva colto nella foresta, aveva risollevato bellicosamente la testa, il braccio di nuovo preparato alla lotta, i muscoli tesi di un lupo pronto a balzare. Ma il respiro gli era morto in gola quando il suo sguardo aveva incontrato quello il cui ricordo lo aveva ossessionato nei lunghi anni dell'esilio. Poiché se nella memoria i lineamenti si erano fatti sfumati, assumendo i contorni del sogno, le sembianze remote di un idolo antico, adesso il re degli elfi si stagliava altero davanti a lui, reale e abbagliante, infuso di vita. La stessa bellezza spietata e immutabile, ostentata con pose sfrontate. E l’orgoglioso nano si era sentito, per un attimo, pieno di disperata vergogna per il suo aspetto lacero, per i capelli bianchi che tingevano la sua chioma e le rughe che profonde, ormai, gli solcavano il volto: i segni di una vita da esule, trascorsa lontano dal trono che gli spettava, e che aveva ridotto in frantumi le sue illusioni puerili. Esule di un destino che non aveva compiuto, ma che non di meno gli apparteneva.


 

"Chi sei, e cosa facevi tra i miei alberi con i tuoi compagni?" aveva domandato l'elfo con ostentato distacco."Come osate disturbare i miei sudditi?"

A quelle dure parole la collera nell’animo di Thorin era salita senza più freni, torcendogli le viscere e infiammandogli il volto. Non comprendeva per quale sordido intento il re stesse fingendo di non riconoscerlo. Dacché, il principe ne era certo, né i segni crudeli del tempo, né l'indegno stato, avrebbero mai potuto nascondere all'elfo l’identità di colui che aveva davanti. Aveva deciso, comunque, che non avrebbe avuto, qualsiasi cosa fosse, ciò che cercava: lo avrebbe ripagato con la stessa moneta.

"Non siamo che viaggiatori, la disperazione ci ha condotti alla tavola dei tuoi sudditi, per gli implacabili morsi della fame" aveva risposto, ostentando un tono umile che mal si accordava con lo sguardo, fattosi cupo come la notte montana, che spavaldamente sfidava quello algido e glauco del re.

Per tre volte l’elfo aveva posto la stessa domanda, per tre volte ottenendo la stessa risposta.

"Ebbene, poiché non vuoi dirmi chi sei, resterai nelle mie celle sino a che il tuo consiglio non sia mutato" aveva tuonato infine Thranduil, stremato.

E a quel punto la fiera ira dei Khazad, come troppo spesso era accaduto in passato, aveva preso il sopravvento sulla prudenza. Il pensiero del nano era corso alla propria missione, vedendola nuovamente perduta a un passo dal compimento. Fuori di sé, mentre le guardie lo trascinavano via dalla sala del trono, aveva gridato contro all’elfo parole ingiuriose, nella dura lingua dei figli di Durin.

 

Adesso sedeva in un angolo della piccola cella, le cui volte scure erano invisibili nell’umida penombra che avvolgeva le segrete. Furente, a lungo aveva gridato, agitandosi come una fiera, rifiutando il cibo, fino a che, provato dagli stenti, aveva ceduto a un inquieto riposo, laddove il sonno non poteva aver ragione del suo tormento.

La guardia che sopraggiunse nel cuore della notte lo trovò sveglio, gli occhi spalancati nell’ombra.

"Il re desidera parlare al prigioniero in privato" sussurrò, avvicinandosi alle sbarre. E in Thorin il livore si accrebbe oltremodo nel riconoscere, alla pallida luce della lanterna, la lunga treccia dell’elfo: lo stesso che lo aveva condotto, in quel giorno lontano, per la prima volta nelle stanze di Thranduil.

"Che sottile ironia, da parte di chi rinnega di ricordare, di me, persino il nome. E se io non volessi incontrarlo?"

"Non hai altra scelta, gorn." rispose tagliente la guardia. I lunghi occhi brillarono di una scintilla, un rancore ancestrale “Il nostro re è sin troppo magnanimo. Ben altro meriterebbe la tua razza, per poter dire vendicati i torti subiti, e anche a quel punto niente potrebbe riparare l’estinguersi di un regno immortale.”

Era stato scortato per i lunghi corridoi, grottesco ripetersi del percorso che innumerevoli volte aveva seguito da fanciullo, col cuore pieno di sogni, per giungere, infine, alla medesima porta. All'interno, il re degli elfi, avvolto in una preziosa veste porpora ricamata d’argento, gli ostentava, con noncuranza, le spalle.

"Galion, lasciaci" mormorò, voltandosi appena, e il servitore scomparve in silenzio, chiudendo la grande porta di legno dietro di sé.

 

"Vedo che il coraggio non ti manca, elfo. Non temi che possa torcerti il collo, approfittando del segreto delle tue stanze?"

 

"Non ti temo, figlio di Thrain, e mai lo farò." Thranduil si voltò, e al nano parve di vedere i suoi lineamenti comporsi in una dolorosa espressione. Ma fu solo per un fugace istante, poiché d’improvviso l'elfo fu dietro di lui, accostandogli una lama alla gola.

 

"E non solo perché sei un semplice nano, che sarebbe morto prima di poter giungere a sfiorarmi gli stivali" sussurrò con ferocia, per poi allontanarsi di nuovo, e recuperare l’algido contegno.

 

"Ebbene, infine ricordi chi sono" rispose Thorin con un sorriso tagliente. "Quella deplorevole farsa nella sala del trono era forse un abile trucco per intrattenere la tua corte?"

 

“Per giorni hai disdegnato il cibo che ti ho fatto portare. Al contrario, i tuoi compagni ne hanno approfittato con sin troppa solerzia."

 

"Venefico è ogni tuo dono, anche quando si ammanti del sapore del miele" tuonò Thorin. " Non mi blandirai con del cibo, e men che meno con le parole"

 

"Non è mia intenzione blandirti, né avrei arrestato la tua missione - non illuderti che non la indovini - se non la ritenessi uno sciocco massacro, mortifero per te e i tuoi compagni, in cui rischi di gettare tutta la Valle. Ricordo un giovane nano che disprezzava l'avidità di suo nonno. Perché, ora, la stessa avidità ti conduce qui?"

 

"Sono forse io re Thror?" gridò Thorin, furente. "Non è stato il desiderio di gemme a condurmi qui, ma il dovere nei confronti del mio popolo in esilio."

 

"Non lo hai compiuto da tempo, conducendolo a una nuova pace, nelle Montagne Azzurre?" chiese l’elfo con voce solenne, aggrottando la fronte.

 

"E dovrei dunque, ora che il drago da anni è silente, pascermi di una vita da esule, imponendola al mio popolo, e lasciare che altri prendano il posto dei padri nelle antiche sale? La Montagna è dei nani. O speravi, forse, che ne saremmo rimasti lontani, lasciando l'oro agli elfi?"mormorò Thorin, la voce colma di collera trattenuta, mal celante quanto quelle parole facessero eco ai suoi stessi tormenti.

Invero, a lungo lo aveva divorato, prima di partire, il dubbio. Le Montagne Azzurre erano state un rifugio sicuro, e molti dei suoi compagni non rimpiangevano ciò che si erano lasciati alle spalle. Un regno di ricchezze, ma da difendere con la spada dai perfidi draghi del Nord: chiunque avesse udito i vecchi racconti sapeva che il temibile Smaug non era stato il primo ad accorrere al richiamo dell’oro, e che certo altre creature dell’ombra sarebbero giunte dopo di lui. E anche i più arditi avevano rinunciato all’impresa dopo l'orrido scontro di Moria, in cui centinaia dei loro fratelli erano caduti sotto ai colpi furiosi degli orchi, ed il popolo aveva perso due re. Nel ricordo la Montagna Solitaria aveva assunto, come le nobili aule di Khazad-dum, una dimensione irreale e lontana: un mito di bellezza e ricchezza mortifere, che assomigliava più alle leggende dei giorni antichi che non al desiderio nostalgico di una dimora ancora tangibile. No, non era soltanto per dovere verso il suo popolo che era partito. La sua impresa, al contrario, era stata sconsigliata da molti, considerata la follia di un giovane ingenuo, e pochi dei suoi avevano deciso di seguire i suoi passi.


 

"Accusi me di avidità, ma è un'accusa che dovresti rivolgere piuttosto a te stesso." aggiunse infine, provocando l’elfo nel tentativo di mettere fine alla sua stessa angustia. "Anche i nani conservano la memoria dell’antico re elfico che il desiderio di gemme proibite trascinò alla rovina, e condusse alla distruzione un regno immortale. E gli elfi, a quanto sembra, non traggono insegnamenti dagli errori passati."


 

"Fu l'avidità dei nani a distruggere quel regno, principe, benché i vostri racconti, per vergogna, riportino il contrario. Ti dimostrasti di miglior consiglio quando eri un fanciullo, ma è evidente che l'età non accresce la saggezza nella stirpe dei naugrim. Te lo chiedo, adesso, ancora una volta: chi sei, e verso quale meta stavi attraversando il mio regno?"


 

Thorin non proferì motto, le labbra serrate in un ostinato mutismo. Il re degli elfi a lungo lo scrutò, immobile, in attesa di una risposta. Ma gli occhi del nano rimasero fissi sul pavimento, cupi e insondabili come il cielo notturno, e così egli non poté scorgere il velo che era sceso sullo sguardo dell'altro. Colse soltanto l'inflessione dolorosa nella sua voce che richiamava le guardie, per poi sparire nell’ombra, quasi fosse fatto della stessa consistenza impalpabile.

"Portatelo via."


 

Glorfindel correva per le vie della Città Segreta, avvolte di fiamme e di fumo. Quando il sole era sceso dietro ai Monti Cerchianti, i Gondothlim si erano accinti a celebrare, come ogni anno da tempi immemori, la Festa d’Estate sotto le stelle, pallido ricordo della gioia perenne di Tirion. Ma presto un’altra luce, in un fatale istante, aveva squarciato il cielo notturno: quella funesta delle fiamme di Morgoth. Migliaia di orchi avevano stretto la città in una morsa implacabile, e con essi erano sopraggiunti Balrog a cavallo di draghi di fiamma, e lucenti serpenti di ferro e d’ottone. Sin troppo agilmente avevano perso le mura, e i guerrieri del Fiore D’Oro avevano combattuto alacremente una disperata battaglia, prima di cedere anche la piazza del Mercato Grande. Glorfindel infine, coi pochi dei suoi ancora in vita, aveva dovuto ritirarsi, impotente, nelle cerchie più alte della cittadella. Innumerevoli volte aveva cercato Ecthelion al suo fianco nel corso della battaglia, tradito da una consuetudine lunga di secoli, ma il Signore della Fonte aveva deciso di restare, coi suoi uomini, a difendere il re in prossimità del palazzo.


 

Il mio compito è quello di proteggere la Torre ed il re di Gondolin” aveva detto a re Turgon con voce melodiosa “a fianco della Casa dell’Ala, guidata dal fiero Tuor, a cui una grande amicizia mi lega. Il nemico pagherà col sangue ogni pietra insozzata dai suoi piedi immondi, e hai la mia parola che, anche se la città dovesse cadere, la tua stirpe scamperà alla battaglia. Attraverso le oscure gallerie che portano al mare la forza degli Gnomi potrà risorgere ancora. Idril, tua figlia, e il giovane Earendil vedranno di nuovo la luce del sole.”

 

Questo è quanto il mio cuore desidera, mio signore” aveva ripetuto, passando accanto a Glorfindel senza rivolgergli motto. L’animo del Signore del Fiore D’Oro a quelle parole si era riempito di angoscia, e dell’amaro sapore dell’abbandono. L’altero Signore della Fonte si offriva in sacrificio per una missione sconsiderata e mortale, senza neppure degnarlo di un saluto, quando lui non avrebbe desiderato altro che poter morire al suo fianco. Un muro di freddo distacco adesso lo separava da colui che considerava, sino a ieri, amante e fratello.

Con il cuore pesante, aveva lasciato che la sua rabbia si mutasse in ardore guerriero, e aveva combattuto senza risparmiarsi, ma invano. Le mura non avevano retto, e l’aureo elfo aveva compreso che la città era perduta.

Ma non i suoi abitanti” pensava, dirigendosi coi pochi rimasti dei suoi verso la Torre, il prezioso mantello incrostato di gemme ormai lacero e lordo di sangue di orco. La figlia del re aveva parlato di una strada segreta, tramite cui avrebbero potuto mettere in salvo gli esuli. Ma Glorfindel non aveva intenzione di cedere, non ancora. Non prima di aver lottato per ogni singola pietra, non prima di aver convinto il suo sovrano a fuggire con gli altri. Gli avrebbe coperto la fuga a costo della propria vita.

Una volta giunto nella Piazza del Re, lo scenario che gli si presentò davanti gli riempì il cuore di uno sconforto ancora più profondo. Sparuti gruppi di elfi, le cui insegne appartenevano a case diverse, combattevano semza più guida eppure ancora ferocemente contro giganti di fiamme oscure, armati di lunghe fruste incandescenti, abbaglianti nell’ombra notturna. Ma ancor più di quella scena mortifera, fu un particolare a fargli perdere il fiato: a lato della grande fontana, Tuor stava adagiando a terra il corpo di Ecthelion, in deliquio. L’animo stretto in una morsa di angoscia, si avvicinò a grandi passi, spazzando via con l'acciaio gli uruk che avessero l’ardire di ostacolarlo senza neanche notarli, cieco ad ogni altra cosa.

E se quel mattino si era chiesto se mai avrebbe potuto riaccogliere il compagno tra le braccia, poiché la sua brama di eccellere non aveva esitato a calpestare un sodalizio che durava da secoli, adesso, a un passo da una fine che appariva ad ogni istante più certa, il suo orgoglio era stato soverchiato dal sentimento che portava nel cuore, giacché -in quell’istante lo comprese- nulla avrebbe potuto realmente spezzare ciò che lo legava al Signore della Fonte.

Quando lo raggiunse, gli sollevò cautamente la testa, ancora coperto dall'elmo, prendendola tra le mani. Il braccio sinistro era stato lacerato da un colpo di frusta, e nella mano contratta in modo innaturale, coperta da un guanto d’argento, stringeva ancora un flauto spezzato. Il volto di Ecthelion era cinereo, impregnato di freddo sudore, e teneva gli occhi fissi verso il cielo notturno, come scrutando stelle lontane. Ma non c'erano stelle nel cielo, oscurato dal fumo della battaglia: ogni luce li aveva ormai abbandonati..

"Ecthelion" lo chiamò sussurrando, sconvolto, e l'altro si scosse, la vita tornò ad animare il suo volto. Gli occhi grigi e profondi del Signore della Fonte si volsero su di lui, ma il suo sguardo sembrò attraversarlo.

"Glorfindel" mormorò sorridendo "Perdonami. Neppure questa volta ho saputo proteggerti. Perderai la tua casa per la seconda volta. "Con tocco lieve sfiorò i riccioli luminosi dell’altro, ed il volto sporco di polvere e solcato di lacrime.

"Perché sciocco, hai voluto combattere senza di me?"

"Perché tu potessi vivere mentre io combattevo. E tu, perché credi che ti abbia allontanato dal mio fianco in battaglia? Perché sei qui? Porta in salvo Idril e Tuor, fuggite. La figlia del re conosce la strada.. O tutto sarà stato vano."

"Sono invero uno sciocco, poiché lo comprendo troppo tardi. Ma tu non sei da meno, se pensi che me ne andrei senza di te. Vivere o morire, non m'importa, desideravo solo essere al tuo fianco"

Ecthelion, con le poche forze che gli rimanevano, sollevò il capo. Accostò le labbra a quelle del compagno, e posò la fronte sulla sua.


 

"Glorfindel, ti prego, vai. Questa terra ha bisogno di te. Tieni alta la testa, e il nome dei Noldor. E noi potremo rivederci, un giorno, nell'Ovest, se questo è il volere di Eru."

Il Signore del Fiore d’Oro accarezzò le guance pallide e straziate di colui che era stato il più bello tra i Noldor, e si preparò a sollevarlo tra le braccia, deciso a portarlo in salvo a qualunque costo.

 

In quel momento, una creatura di nere fiamme si avvicinò alla schiera dei Gondothlim. Era più alto e terribile dei suoi perfidi compagni, un mostro di fuoco e tenebra: Gothmog, Signore dei Balrog, secondo alcuni, progenie di Belegurth stesso. La sua ombra coprì per intero gli uomini di Egalmoth dell’Arco Celeste, giunti, spinti da un folle coraggio, sino alla Cittadella. Combattevano in fiero silenzio a fianco di Tuor e della Casa dell'Ala, contro i sette draghi di fuoco che avevano circondato la Piazza del Re, senza retrocedere di un passo davanti alla morte. I loro corpi venivano scaraventati a terra, fantocci senza peso, dalla folle belva dagli occhi di brace. Glorfindel sentì, per la prima volta, la soffocante morsa della paura avvolgergli il petto e spezzargli le gambe. Comprese che ogni lotta sarebbe stata vana. Nondimeno, si preparò all'attacco, frapponendosi tra il gigante e il corpo dell'amante, poiché mai avrebbe assistito, da vivo, alla morte di Ecthelion.


 

"Signore della Casa dell'Ala" gridò, la voce ferma di chi non tema la morte, rivolgendosi al nobile Tuor che era accorso al suo fianco, preparandosi anch’egli ad attaccare la bestia. "A te affido la vita del Signore della Fonte. Promettimi che lo trarrai in salvo, che lo condurrai oltre le Sette Cerchie, sino.." Non poté continuare, poiché un colpo assestato sotto allo sterno gli mozzò il respiro, ed egli cadde in ginocchio, impotente.

Ecthelion, infatti, gridando di rabbia, lo aveva colpito senza riserve, e si era scagliato, raccolte le ultime forze, verso l'orribile creatura. Spiccò un balzo, ed a Glorfindel parve che un lampo dell'argento più puro rischiarasse la piazza ormai fetida, e che la luce di nuovo squarciasse le tenebre, quando la minuscola figura del guerriero si proiettò, la lama affilata di Orcrist stretta nella mano destra, contro l'immensa creatura, colpendola al petto. Il Balrog ruggì di dolore, e la speranza si riaccese nella piazza di Gondolin, mentre i suoi movimenti scomposti facevano sussultare la terra. Ma fu solo un attimo, poiché con un movimento delle grandi ali di fiamma Gothmog scaraventò a terra il Signore della Fonte: il braccio colpito perse la stretta sull'arma, che precipitò a terra con un tonfo sordo accanto al corpo martoriato.

Il Signore della Casa del Fiore d’Oro si era rialzato, cieco di rabbia e disperazione, andando incontro alla bestia immonda, i cui artigli si protendevano, avidi di morte, pronti a finire colui che aveva osato sfidarlo. Non avrebbe permesso che Ecthelion perdesse la vita. Non gli avrebbe permesso di sostituirsi a lui. Spettava a Glorfindel proteggerlo, come gli aveva giurato millenni addietro, prima di fuggire dalle Terre Beate. Ad ogni costo lo avrebbe sottratto alla sorte dei Noldor.

"Ecthelion!" Gridò, avventandosi contro al Signore dei Balrog, gli occhi accecati dal fumo, la bocca amara di lacrime. E a Glorfindel parve che il compagno si fosse voltato verso di lui. Incrociò il suo sguardo per un ultimo, lunghissimo istante, e fu in quel momento che sentì la sua voce argentina risuonargli nel cuore. L’aureo guerriero se ne sentì avvolto, e il suo spirito fu colmo di quello dell'amante, dei suoi pensieri, di quella lacerante pena che era anche la sua.

"Ti avevo promesso che sarei stato io a proteggerti, questa volta, e così sarà. Ma se il messaggero di Ulmo potrà riscattare gli esuli, un giorno forse ci rivedremo sui colli delle Terre Immortali. Promettimi che vivrai sino a quel giorno. Io ti aspetterò lì."

"Non lascerò che tra le nostre vite si frappongano le lunge ere del mondo, ti porterò via adesso" aveva gridato, ma la sua voce si era persa nel fragore della battaglia. Perché Ecthelion si era rialzato e, dopo aver incontrato per l'ultima volta lo sguardo dell'amato, si era lanciato, privo di spada, contro al Balrog. La punta del suo elmo d’argento, cesellata nelle sapienti forge degli esuli, si conficcò nel ventre fetido della bestia. Gothmog, sbilanciato, sprofondò con fragore nelle acque cristalline della grande fontana, che per l’ultima volta zampillarono argentee, richiudendosi sul Signore della Fonte che, cadendo, il mostro aveva trascinato con sé.

"Ecthelion" gridò Glorfindel lanciandosi in avanti, attraversando la soffocante coltre di effluvi oscuri che, con un un sinistro boato, si era sollevata dalla fontana. Quando raggiunse le acque, esse erano divenute un abisso tetro, nero di fumo e fetido di sangue. Ma non c'era più traccia del nobile Ecthelion, perché si era inabissato per sempre insieme al nemico, e mai più il suo canto celeste avrebbe risuonato nella Terra di Mezzo. Sulla Piazza del Re, ora che le truppe di Belegurth avevano perso la loro guida, cadde il silenzio.

Tuor, che insieme a Egalmoth aveva bloccato l'avanzata degli orchi, corse in soccorso del Signore del Fiore d’Oro, afferrandolo con le braccia salde sotto le ascelle, poiché in un impeto di folle disperazione si stava gettando nelle buie acque nel vano tentativo di liberare l'amato.

"Ti chiedo perdono mio signore Glorfindel" disse piangendo "perché adesso il Signore della Fonte è morto, e con esso tutta la bellezza dei Noldor, ed io, che per suo volere l'ho affiancato al tuo posto, non ho saputo coprirgli il fianco. Vorrei non essere mai giunto a Gondolin, se il mio arrivo ha contribuito alla fine del Signore della Fonte. E perdonami ancora, adesso, se ti chiedo di abbandonare ogni cosa e seguirmi: non è per mia vece che parlo, ma perché questa era la sua volontà. Ecthelion era valoroso e saggio, e sapeva che non a caso un Rodon pronuncia le sue parole: a lungo si era preparato per il giorno fatale, e se con la sua vita o con la sua morte avesse potuto salvare la Città Nascosta, questo era il suo desiderio. Non renderlo vano. Quanto a me, farò lo stesso: porterò la mia sposa e mio figlio, ed il venerabile Turgon al di là delle Sette Cerchie, e con essi anche l’aureo Glorfindel, perché così ho promesso a Ecthelion, Signore della Fonte, che oggi è morto per la salvezza della stirpe degli Gnomi, e per proteggere colui che amava sopra ogni cosa."

"Ebbene è anche te che ha protetto, sciocco, e con te la speranza di riscatto per una stirpe che lo ha trascinato, senza macchia, nella sua sorte maledetta, avvelenando ogni suo respiro sino a precipitarlo nelle fauci della morte! Era dunque questo, Ecthelion, il prezzo per vedere di nuovo la luce di Tirion? Con quanto altro sangue innocente i signori dell’Ovest esigeranno di lavare l’offesa che gli abbiamo mosso?"


 

Il nano, nel buio della stretta cella, ricordava, suo malgrado, le parole dell'elfo di Imladris. Poiché, nonostante avesse ostentato un freddo contegno, quel racconto di morte, sussurrato nell’ombra della fresca sera odorosa di gelso, lo aveva colpito oltremodo. Il terrore lo aveva colto, come se anche le alte colonne tra cui sedevano si reggessero su equilibri impossibili, e la quiete irreale della casa di Elrond non attendesse che di essere squarciata dalle fiamme di Morgoth. Aveva pensato, da principio, che si trattasse di un racconto inventato, uno di quei canti dei tempi antichi di cui gli elfi amavano esibire la conoscenza. Ma troppo terribile era il volto del narratore, ed il principe più volte aveva dovuto distogliere lo sguardo da quello dell'altro, in preda allo smarrimento e alla nausea, dacché nei suoi occhi rivivevano le stesse fiamme che descrivevano le sue parole.


 

"E dunque ti mettesti in salvo, grazie al compagno che credevi ti avesse abbandonato?"aveva chiesto il nano dopo un lungo silenzio. Poiché la voce di Glorfindel si era spenta, sopraffatta dall'emozione.

Fuggii dalla città in fiamme, ma non a lungo ancora calpestai le terre a est del mare. Mai avrei potuto accettare quel sacrificio per me stesso, ma nondimeno avrei condotto la stirpe di Turgon alla salvezza, come era suo desiderio. Aiutai gli esuli a fuggire, ultimo a coprire la retroguardia. Combattevo, ora lo comprendo, cercando quella morte che, forse, avrebbe potuto ricongiungermi a colui che avevo perduto. Mille volte avrei preferito vivere con lui per tutte le ere a venire in un mondo di tenebra, che luminosa mi sarebbe apparsa se rischiarata dalla luce argentea di Ecthelion, piuttosto che accettare la via verso la salvezza al prezzo della sua vita. E fu così che giunse anche la mia ora, lontano dalle mura splendenti, tra le gole dei monti che ciò che rimaneva dei più alti tra gli elfi attraversavano in cenci, incedendo incerti verso la speranza del mare. Un grande Balrog, sfuggito all'assedio, comparve dagli abissi rocciosi di un alto passo montano. Fui io ad attaccarlo, ingaggiandolo in una lunga lotta dai picchi più alti sino alle più tetre profondità della terra, dando la vita in cambio di quella della mia stirpe."

 

"Sono fantasiosi, invero, i racconti degli elfi, se giungono persino a vantare, ancora in vita, una morte gloriosa" aveva risposto il nano, mascherando con un sorriso di scherno l'inquietudine che, come una coltre di piombo, gli era scesa sul cuore.

 

L’elfo si riscosse, e il velo di morte sparì dagli occhi cerulei, che tornarono a volgersi verso Thorin. "È grazie al volere dei Signori dell’Ovest che tornai dalla morte, come ai Priminati è concesso quando essi giudichino che sia il giusto momento. E rividi, infine, il profilo celeste di Amon Uilos stagliarsi alto contro l'orizzonte, poiché Ecthelion in verità aveva fatto la sua previsione. E così il giovane Earendil, figlio di Tuor e di Idril figlia di Turgon, riuscì, primo fra tutti, ad attraversare il mare per chiedere aiuto e perdono. I Rodyn stessi scesero in guerra contro il Nemico, confinandolo oltre i cancelli del Sole, e riaccolsero gli esuli, dopo millenni di esilio, riscattando la sorte maledetta dei Noldor."


 

Thorin aggrottò le ciglia, dubbioso."Affermi che il tuo popolo riuscì, a prezzo di grandi sacrifici, a scampare alla morte, e a ottenere l’agognato perdono, al punto che infine fosti, come sostieni, addirittura richiamato dalle aule dei morti. Eppure perché adesso sei qui con me, e calpesti nuovamente questa terra sconvolta dall’ombra?”

 

Glorfindel chinò il capo, e le bionde ciocche nascosero a Thorin il volto dai lineamenti gentili. Ma il nano riuscì comunque a scorgere gli occhi dell’altro, che si erano fatti opachi e insondabili, del colore del mare che rifletta un cielo in tempesta.

Non solo per il voto di Ecthelion e per amore dei figli di Finwe mi battei per la vittoria, ma poiché se avessimo fallito, temevo che mai a Dor-Rodyn sarebbe stato concesso il ritorno di colui che io amavo, macchiato della medesima colpa dei suoi fratelli" rispose in un freddo sussurro, e in quelle parole parve riecheggiare l’eco di un odio remoto, di uno spirito fiero che nessun perdono avrebbe domato. "E fui invero richiamato dall'ombra, eppure mai più il fato crudele volle che incontrassi Ecthelion, poiché il suo essere risiede ancora nelle aule di Mandos. Troppo terribile fu la sua morte, e lunghi cicli del mondo dovranno trascorrere prima che possa liberarsi delle tenebre che lo hanno straziato, se mai lo farà prima che i cerchi del tempo giungano al termine. E in quei giorni nessuno sa quale sarà la sorte degli elfi, se vivranno al di fuori del tempo nella grazia di Eru o se spariranno insieme ad Arda, alla quale appartengono. Poiché l’immortalità che le altre razze ci invidiano forse non è che una vita più lunga."


 

Il sussulto del nano a quelle parole non sfuggì all'elfo, e il suo volto si illuminò di un sorriso caldo e gentile. "Un figlio dei naugrim sa bene che anche il più lucido dei metalli con il tempo si consuma fino a divenire polvere." disse, ed il sangue si gelò nelle vene di Thorin, poiché, per un lungo e terribile istante, gli parve che quello sguardo attento e ceruleo, fisso su di lui, avesse il potere di metterlo a nudo, privarlo di ogni difesa, spiando i suoi più nascosti segreti.


 

"Un giorno mi fu offerto di tornare" continuò Glorfindel, volgendosi ad osservare le stelle che iniziavano a sorgere nella volta celeste, "messaggero dell’Ovest tra i pochi degli elfi rimasti e tra i Secondogeniti, per prestare il mio aiuto contro il risorgere dell'Ombra. Accettai senza esitare, poiché amare per me restano le Terre Immortali, di cui sono due volte esule, e nessun luogo potrò chiamare casa, se non risuona del divino canto di Ecthelion."


 

"Qual è mai, dunque, l'Ombra di cui parli? Non si tratta forse che di antiche guerre, il cui ricordo si perde nelle profondità del tempo, materia di leggenda?" Chiese Thorin, la gola stretta in una morsa, perché conosceva già la risposta.


 

"Troppe volte fu detto del Nemico che era sconfitto, e troppe volte è risorto. Sei giovane, nobile Thorin, eppure erede di una stirpe gloriosa, depositaria di grande sapere. Senza dubbio, anche i Khazad sono consapevoli che non vi sarà vittoria duratura contro l'Ombra, perché essa permea il mondo, ed il suo regno continuerà sino alla fine di Arda, per quanto, con le nostre forze, possiamo limitarlo. A lungo ho combattuto sperando di rivedere un giorno Ecthelion, ma sono trascorsi millenni, e nessuna certezza mi è data"

"Ma una reliquia, almeno, ha fatto ritorno" disse Thorin alzandosi in piedi e sfilandosi dal fianco la spada, la cui elsa brillò argentea al chiaro di luna, risvegliando dolorosi ricordi, e la porse all'elfo con un gesto solenne. "Troppo spesso si dice dei nani che essi siano avidi, gelosi dei loro averi. Come hai detto tu stesso, appartengo alla nobile stirpe di Durin, e benché l'amore per le gemme e le armi forgiate con abile arte sia in noi grande, ancor più alto è il legame del sangue, che lega un fratello a un altro fratello. E proprio in virtù di esso comprendo che non era a me che questo oggetto era destinato. Riprendila, elfo, poiché i miei padri non desidererebbero che la tenessi per me, né che fossi debitore ad uno della tua razza."

Glorfindel si alzò a sua volta. Al chiaro di luna l'oro dei suoi capelli si era fatto opalescente, traslucido. Forti erano le spalle dell'elfo, ed egli sovrastava il principe dei Khazad con la sua statura, superiore a quella di molti altri tra i Priminati, eppure in quella notte più che mai parve a Thorin che avesse l'effimera consistenza di un sogno, riflesso ingannevole di un mondo scomparso. Glorfindel sorrise.

"Dimostri un cuore gentile e degno, ed ora molte cose mi sono più chiare" rispose, e la sua voce calda e cullante avvolse Thorin, che pure si sentì sopraffare da una nostalgia di cose mai conosciute, gli occhi brucianti di lacrime dimenticate. Con la punta delle dita, Glorfindel accarezzò l'arma, estraendola dal fodero scuro, ripercorrendone con occhi attenti ogni intaglio sottile.

"Eppure, ancor più il mio cuore mi dice che devi tenerla. La spada è tua, Thorin Scudodiquercia, e che tu possa, con essa, riconquistare una patria perduta, e proteggere ciò che ti è caro.”


 

La mano del figlio di Thrain corse istintivamente all'elsa: trovandola vuota, rabbrividì ancora una volta di rabbia. Naturalmente, gli elfi del reame boscoso gli avevano tolto ogni arma, compresa la spada del leggendario guerriero. Sul volto del nano si dipinse un sorriso amaro. L'elfo della casa di Elrond aveva voluto ammonirlo per il suo presunto orgoglio, impressionandolo con racconti terrifici degli antichi giorni. Ma cos'altro avrebbe dovuto mostrare a chi lo aveva disconosciuto ancora una volta, persino nel ricordo, accogliendolo come un nemico, senza risparmiarsi di farlo perquisire come l'ultimo degli orchi, e, infine, portandogli via persino quell'arma di cui avrebbe dovuto mostrarsi degno? Non tutti i tradimenti erano inautentici e, se vi erano stati alcuni elfi di alti intenti e di nobile cuore, non si trattava certo del suo carceriere.


 

L'aria fredda del Nord era ammorbata dal soffocante grigiore del fumo, mentre il popolo di Erebor si ritirava, fuggendo le aule occupate dalla bestia, rotolando nel fango, fiero lignaggio caduto in disgrazia. Il principe Thorin gridava ordini a fianco di Thrain, nella speranza di trovare un riparo da quell’inferno fiammeggiante. Ma già egli stesso era smarrito, in preda alla più cupa disperazione.

Come avrebbero mai potuto riprendere la Montagna?

Quando vide comparire gli elfi del bosco al seguito di re Thranduil, che cavalcava la grande alce con portamento altero, i lunghi capelli disciolti fermati soltanto da una corona di rami, aveva sentito la morsa attorno al suo cuore allentarsi, e la speranza riaccendersi. Si era slanciato in avanti, dimentico di dove si trovasse, incurante degli occhi del suo popolo, complice la spessa cortina di fumo. “Aiutateci” aveva gridato in modo scomposto “Aiutami” aveva ripetuto al re degli elfi, “il drago è penetrato nelle nostre aule! Dobbiamo..” ma le parole gli erano morte in gola, perché gli occhi di colui che aveva creduto amico, e verso cui sentimenti ancor più profondi nascondeva nel cuore, si erano fatti gelidi e cupi come gli antri della foresta.

 

Ciò che vedi non è che il risultato dell’avidità di tuo nonno, principe, e non sprecherò vite degli elfi per la gloria dei nani, in una missione dall’esito infausto: neppure nei giorni antichi avremmo potuto combattere una belva appena impadronitasi della sua tana, in uno scontro frontale.”

 

Non è la sua tana, quella che tu chiami tale, ma invero sono le aule della stirpe di Durin. Dovremmo disonorare i nostri antenati, abbandonandole al volere di un essere immondo, servo del male? E voi spezzereste le vecchie alleanze, lasciandoci soli contro al nemico? Quanto a me, non una, ma mille volte darei la mia vita per proteggere la casa dei padri, e la gloria della mia stirpe”aveva rispose il nano, la voce roca per la cenere che gli riempiva i polmoni, amara di delusione. Avrebbe preferito affrontare il dolore provocato da mille lame affilate, piuttosto di quello che gli avevano inferto le parole dell’elfo, poiché troppo profondi era divenuti, in lui, l’affetto e la devozione per quella creatura.

Così facilmente mi abbandoni alla sorte, così poco ti importa del mio popolo, di così scarso valore l’amicizia che mi hai dimostrato?” mormorò, mentre sul suo animo cadeva una coltre di piombo. Se gli elfi, loro ultima speranza, non li avessero aiutati, sarebbero stati davvero perduti, condannati all’esilio ed alla rovina.

Il male è già penetrato in quelle aule, impadronendosi di tuo nonno, e attirando altro male!” sibilò il re degli elfi, e la sua imperturbabile maschera si ruppe: gli occhi glauchi si incendiarono sotto alle ciglia, aggrottate in una smorfia d’angoscia, deformando la grazia eterea della fronte d’alabastro. “Hai dimostrato saggezza, non lasciare che l’impetuosità della giovinezza prenda il sopravvento sulla ragione: guida il tuo popolo lontano, in modo che possa vivere oggi, e poter divenire nuovamente glorioso all’alba di un nuovo giorno. Non è nel potere degli elfi ribaltare le sorti di questa battaglia, anche se senza riguardo per i miei sudditi li condannassi alla morte, gettandoli tra le fauci di Smaug. Né la tua vita mi è meno cara, perché io pensi di aiutarti a perderla in una missione senza ritorno.”


Thorin serrò la mascella. Quel giorno aveva dato all’elfo del codardo, gridando parole amare, rese taglienti dalla disperazione. E poi se ne era andato, divenuto da principe glorioso nient’altro che un esule in stracci in un giorno soltanto. Ma più di ogni umiliazione, bruciava in lui il veleno di quella ferita, la disillusione di quel tradimento che aveva mandato in frantumi i suoi sogni di fanciullo. Aveva creduto all’affetto dell’elfo, e questi lo aveva ripagato con indifferenza e freddo distacco, non esitando ad abbandonarlo al suo destino. Inutilmente si era ammantato di belle parole. E nelle lunghe giornate in cui a testa bassa aveva lavorato alla forgia, al soldo di qualche fabbro della stirpe degli uomini, aveva ripetuto i suoi giuramenti di vendetta. Ma quando il tentativo folle di riprendere Moria costò la vita di suo nonno e la scomparsa di Thrain, quando vide il campo di battaglia intriso del sangue dei nani, coperto degli innumerevoli corpi mutilati dei suoi fratelli, e si trovò ad essere l’unica guida di quel popolo martoriato, decise che la vita della sua gente sarebbe stata per lui più preziosa di tutte le gemme di Arda, e che l’avrebbe preservata a costo di non poter preservare la gloria dei figli di Durin, e di coprirsi, re senza trono, di vergogna.


 

“Ancora immerso nei tuoi cupi pensieri? Quando il cuore di un nano potrà abbandonare il rancore?” La voce di Thranduil si insinuò nella sua mente, interrompendo le sue riflessioni, mentre la figura dell’elfo scivolava nella cella, come emersa dall’ombra stessa.

 

“Cosa vuoi? Non hai ancora finito di tormentarmi? A sufficienza ormai la tua presenza ha funestato i miei giorni. Conosco sin troppo bene il tuo modo di agire, e le tue parole non mi ingannano più, dacché gli eventi mi hanno rivelato la tua vera natura: a lungo ti sei mostrato mio amico ma, nell’ora del bisogno, non hai esitato a voltarmi le spalle”

 

“Ti inganni, attribuendomi la causa della tua malasorte e credendo che vi fosse una scelta laddove non ve n’era alcuna. Se anche avessimo combattuto, a nulla sarebbe valso il sacrificio del mio popolo, le cui forze venivano ingigantite dalle tue fantasie di fanciullo. Né tu, adesso, saresti qui per reclamare le tue aule, poiché, rincuorato dall’aver ottenuto supporto, ti saresti gettato tra le fauci del drago.”

 

Il re degli elfi si era chinato sul nano, gli occhi abbaglianti di luce siderea.

“Eppure, ancora non mi hai detto il tuo nome” mormorò in un sussurro, accostandosi arditamente al volto dell’altro. Thorin avvertì il respiro del re sulle sue labbra, tiepido e triste come il sole di una primavera che non aveva vissuto. E nonostante avesse di fronte nient’altro che l’essere verso cui da tempi immemori coltivava il proprio rancore, solo con indicibile sforzo riuscì a non cedere all’impulso di annullare la dolorosa, straziante distanza che lo separava dall’elfo, e premere la bocca contro la sua.

Ricordava sin troppo bene il sapore di quelle labbra, poiché solo pensiero era stato per lui un veleno in grado di fiaccargli lo spirito e spezzargli il respiro. E di precipitarlo nel dubbio, facendo vacillare i suoi più cocciuti intenti. Ma cedere era una debolezza in cui il fato non gli aveva concesso di indulgere, o mai avrebbe avuto la forza di condurre il suo popolo senza esitare, o senza impazzire. Complice l’orgoglio della stirpe dei Khazad, aveva giustificato con il tradimento la propria sconfitta, e per più di un secolo aveva sepolto quei ricordi: di quando ancora tra l’intrico di rami del regno degli elfi comparivano le stelle, e la notte aveva il profumo della foresta, di capelli argentei che rilucevano su una pelle eburnea alla luce lunare. E di un corpo d’alabastro stretto tra le sue braccia, di gemiti sussurrati e promesse di eternità smarrite tra gli alberi, e poi appassite come le foglie in autunno. Troppo a lungo li aveva sepolti, allontanati dalla coscienza, al punto che la realtà si confondeva con l’immaginazione della sua giovinezza, e più non sapeva come distinguerle. Vi era davvero stata un’epoca in cui aveva tenuto tra le braccia quella creatura?

Di nuovo, sentì risuonare nella sua mente il commiato dell’elfo di Imladris.

Vai, ma ricorda le mie parole, poiché invero la brama dell'oro può rendere ciechi, e così l’orgoglio, ma a perderti sopra ogni cosa sarà la paura che porti nel cuore."

 

“Ebbene, mi chiedi chi sono, eppure non posso risponderti. Ed è questo ciò che realmente mi spinge a tornare verso la Montagna. Motivazioni che appartengono a me solo, e non al mio popolo. Non mi nasconderò più, attribuendoti ancora la colpa della rovina dei nani, che tu ne partecipi o meno. Non ho fatto ritorno per la brama di oro o di gemme, o di un regno che mi spetta per diritto di sangue, e neppure per la nostalgia di una patria perduta, né per riscattare la mia gente da un’immemore colpa, ma per me e per me soltanto”.

Inspirò profondamente, poiché l’aria continuava a mancargli, e le vertigini lo avevano colto. Chiuse le palpebre, e rimase a lungo in silenzio, in attesa che ciò che doveva esser detto si facesse strada attraverso gli intricati peripli del suo animo.

Riaprì infine gli occhi, deciso a liberarsi di ogni timore. Thranduil era davanti a lui, una muta domanda scritta nei grandi occhi, e per Thorin fu come vederlo per la prima volta, ammantato di sfolgorante bellezza. E non vide solo il freddo splendore degli Eledhrim, riflesso delle prime stelle del mondo, immutabile come le sfere celesti, né solo la potenza tenebrosa e indomabile della foresta, in agguato costante negli occhi di brace. Vide anche una creatura di carne e di sangue, il cui animo portava i segni dolorosi delle lunghe ere di Arda, e i cui lineamenti narravano di tormenti senza nome né tempo, di vittorie pagate a prezzo di scelte impossibili, e il cui capo portava il peso crudele della solitudine. Thorin sorrise, mentre il battito impazzito del suo cuore a poco a poco tornava a farsi lento e potente.

“Invero è questo ciò che ho realmente lasciato nelle alte aule della casa dei nani: me stesso. E Mahal sa se non preferirei piuttosto affrontare tutti i Balrog di Morgoth, eppure troppo a lungo ho creduto di poter mancare a questo confronto. Poiché più di ogni altra cosa temo quella tenebra che ha divorato Thror, la malia dell’oro di Erebor che come un veleno corrode la mente e spezza la tempra della mia stirpe. Ma se non l’affronto, essa avrà vinto comunque, condannandomi a un’esistenza miserevole, trascorsa a tremare per il timore della mia stessa ombra. Non vi è, come vedi, altra scelta per me, se non quella di sconfiggere ciò che si cela in quella montagna, o morire nel tentativo. E, paragonato a questo, confesso che il drago mi appaia ben poca cosa”

Il volto di Thranduil si illuminò, squarciando l’espressione di disdegnoso contegno. Egli chinò il capo, chiudendo le palpebre sulle pupille iridescenti velate di lacrime, sussurrando con voce commossa “Bentornato, Thorin Scudodiquercia.”



 

Note dell’autore: Con prevista ma comunque imperdonabile latenza ecco la seconda parte di questa storia. La prossima, che purtroppo tarderà anch’essa, sarà l’ultima. Ho scritto questo capitolo pensando, oltre ovviamente ai Racconti Perduti, all’Athrabeth Finrod ah Andreth (HoME, vol.10), specie per il dialogo tra Glorfindel e Thorin, e ad essa mi sono attenuta per quanto riguarda gli accenni alla sorte degli elfi alla fine di Arda.

Per quanto riguarda la scelta dell’uso del Sindarin, rimando alle note del primo capitolo. Ho lasciato “Eärendil” nella sua forma Quenya perché non mi sono note possibili forme sindarinizzate, se non del tutto ipotetiche, e “Noldor” perché la forma sindarin “Golodhrim” non era usata, stando a “Quendi and Eldar” (HoME, vol. 11), dagli esuli per descrivere se stessi, in quanto percepita come poco lusinghiera. Avrei potuto usare la forma (G)Odhellim, ma mi sembrava artificioso. Stessa cosa per “Arda”.

Per ciò che concerne l’incontro tra Thorin e Thranduil, ho mischiato le suggestioni del film e del libro, ispirandomi maggiormente ai dialoghi di quest’ultimo perché trovavo significativo che il re degli elfi chiedesse al nano cosa facesse nella foresta, e ho giocato un po' col fatto che nel libro sembri (o finga di) non conoscerlo, mentre nel film sa benissimo chi sia.


 

Come sempre, ringrazio Miele e Cianuro e Rosebud efp per il betaggio amorevole che dedicano alle mie storie. “La Caduta di Gondolin” di Miele e Cianuro - con cui già avevamo in comune una simile concezione di Glorfindel ed Ecthelion - ha contribuito molto ad arricchire e stimolare il mio immaginario sugli esuli, oltre ad essere un testo splendido che consiglierei a chiunque di leggere. Il mio immaginario Thorinduil invece è inevitabilmente influenzato dalle storie e dagli headcanon di Rosebud efp e di Aliseia, con le quali a lungo ci siamo scambiate considerazioni in merito: è a loro che dedico questa storia.

Infine, grazie a chi commenta, segue o soltanto legge, ed in particolare a Losiliel, che ha avuto la bontà e la pazienza di segnalarmi anche alcuni refusi, mostrando un immeritato interesse per questo modestissimo testo e contribuendo a renderlo migliore.


 

Con affetto,


 

Orlando



 

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