Don't let me go di Switch (/viewuser.php?uid=619656)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Just another September... or not? ***
Capitolo 2: *** Chosen ***
Capitolo 3: *** Followed ***
Capitolo 4: *** What's going on? ***
Capitolo 5: *** Just the two of us ***
Capitolo 6: *** The harsh truth ***
Capitolo 7: *** Joi-lousy ***
Capitolo 8: *** Let the Battle Nexus begins ***
Capitolo 9: *** Round 1: I can't lose yet ***
Capitolo 10: *** Round 2: I'm not the same I was before ***
Capitolo 11: *** Break (1): Of Love, Friend and Fear ***
Capitolo 12: *** Break (2): Of Fear, Honor and Duty ***
Capitolo 13: *** Round 3: Old enemies ***
Capitolo 14: *** Round 4 and Finale: To glory ***
Capitolo 15: *** Don't let me go ***
Capitolo 16: *** From Isa with love ***
Capitolo 17: *** Fight on Halloween ***
Capitolo 18: *** Bad feeling ***
Capitolo 19: *** Something New ***
Capitolo 20: *** A new... friend? ***
Capitolo 21: *** Mork ***
Capitolo 22: *** Sacrifice ***
Capitolo 23: *** And life goes on... until it ends ***
Capitolo 24: *** Hallelujah ***
Capitolo 25: *** I am- You are- We are... Falling ***
Capitolo 26: *** Broken (Denial) ***
Capitolo 27: *** She promised (Rage) ***
Capitolo 28: *** Dealing with pain (Depression) ***
Capitolo 29: *** I want to know, have you ever seen the rain? ***
Capitolo 30: *** Light my fire ***
Capitolo 31: *** I believe I can fly ***
Capitolo 32: *** We will rock you ***
Capitolo 33: *** Void. What doesn't exist in mortal life ***
Capitolo 34: *** Back to you ***
Capitolo 35: *** Death and grace ***
Capitolo 36: *** Mikey's little adventure 1. My name is Sam ***
Capitolo 37: *** Mikey's little adventure 2. Where's Melissa? ***
Capitolo 38: *** Mikey's little adventure 3. Separate Twins ***
Capitolo 39: *** Mikey's little adventure 4. And then there was only one ***
Capitolo 40: *** Mikey's little adventure 5. Rollercoaster of emotions ***
Capitolo 41: *** Mikey's little adventure 6. Everything that could go wrong ***
Capitolo 42: *** Mikey's little adventure 7. I won't let you go ***
Capitolo 43: *** Mikey's little adventure 8. You found me ***
Capitolo 44: *** Yes, I do ***
Capitolo 1 *** Just another September... or not? ***
Leonardo
scivolò di lato, guardingo, rafforzando la presa sull'elsa
delle
Katana. Scricchiolarono debolmente, unendosi al suono dei piedi che
strisciavano sul parquet e al respiro cadenzato, tenuto sotto
controllo. Il suo opponente si muoveva con la stessa lentezza,
studiandolo con la sua stessa calma, danzando in circolo la sua
stessa danza.
Dannazione.
Da quando quel dannato di Raph rifletteva prima di agire? Era molto
più semplice leggerlo quando era tutto irruenza e rabbia.
Raphael
passò il pollice destro sullo tsuba del Sai corrispondente,
concentrato come non mai. Non aveva spesso occasioni di confrontarsi
con suo fratello. E lui invece adorava battersi contro Leo. In
passato aveva cercato di affrontarlo per provargli di essere migliore
di lui o quando era arrabbiato con lui e cercava di fargli capire il
suo punto di vista, a suon di pugni. Poi le cose si erano un po'
sistemate, aveva capito che scontrarsi con lui non avrebbe portato a
nulla e si era decisamente dato una calmata.
Ma
avevano una lotta in sospeso, loro due... per Isabel.
Non
che ce ne fosse più davvero bisogno: era la sua ragazza,
ormai. Da
quella notte in cui la sua insistenza e costanza l'avevano convinto a
cedere ai suoi sentimenti, a tenerla con sé; Isabel gli
aveva
dimostrato che non c'era niente di più importante al mondo
di lui,
che avrebbe rinunciato a qualsiasi altra cosa pur di stargli accanto.
Era
passato un anno, da allora; un intero anno, idilliaco e troppo bello
per essere vero.
A
volte si svegliava ancora nel bel mezzo della notte, credendo che
Isabel fosse stata solo frutto della sua immaginazione; poi la sua
mano sfiorava il corpo della ragazza rannicchiata al suo fianco,
addormentata pacificamente, e allora ci si ancorava, stringendola con
tutte le sue forze a sé, annusando la sua pelle al profumo
di
lavanda e sonno, assorbendo il suo calore con sollievo; lei mugugnava
qualche parola a caso nella sua lingua, strappandogli un sorriso
mentre si riaddormentava, stretto a lei, sereno come non era mai
stato.
Ma
nonostante tutto, sapeva che Leo provava ancora qualcosa per Isabel.
Anche se aveva assicurato a chiunque il contrario, miliardi di volte;
aveva notato il suo sguardo quando pensava di non essere visto, come
si illuminava quando si posava su di lei e seguiva i suoi spostamenti
con discrezione e attenzione.
Avevano
uno scontro in sospeso. E lui non vedeva l'ora di poterlo avere. Gli
prudevano le mani dall'eccitazione. Era tutto regolare, poteva
scontrarsi con Leo regolarmente, e avrebbe pianificato ogni mossa con
meticolosità.
“Yoroshiku
Onegaishimasu” soffiò ironico, sapendo quanto suo
fratello fosse
fissato con l'etichetta. Avrebbe seguito ogni più piccola
procedura.
Leo
sollevò un sopracciglio, incredulo, poi rispose al saluto di
rito
con un breve inchino.
“Santo
cielo, uno di voi due attacchi, per carità!”
squillò la voce di
Michelangelo, con un tono esasperato.
Sorrisero,
entrambi. Un identico stiramento di labbra verso destra. E si
lanciarono all'attacco, insieme. Leo si spostò a destra,
schivando
il colpo di Sai e Raph si inchinò giusto in tempo, evitando
le
Katana per un soffio: allungò una gamba, colpendo quelle del
fratello per fargli perdere l'equilibrio, ma quello, dopo una
capriola, ritornò in piedi. Strinsero entrambi la presa
attorno alle
armi, ricalibrando le tattiche.
Leo
sapeva che Raph aveva un ottimo gioco di gambe, perciò
doveva
muoversi più possibile, per non dargli la
possibilità di fargli
perdere l'equilibrio e atterrarlo facilmente. Raph sapeva che Leo
aveva un'ottima elevazione nel salto, perciò doveva fare
attenzione
agli attacchi dall'alto, aspettando l'occasione giusta per
atterrarlo.
Ripresero
a studiarsi, in un'infinita gara di pazienza, prima di ricominciare a
combattere, all'improvviso.
Era
come se danzassero su una melodia che nessuno poteva sentire tranne
loro, che dava loro il ritmo e gli attacchi giusti: si muovevano, si
fermavano e prendevano fiato all'unisono.
I
loro assalti e colpi erano precisi, controllati e letali, senza
nessun gesto inutile o avventato o fatto con superficialità.
Raph
voleva vincere, così come lo voleva Leo.
Il
rumore delle loro armi che scontravano le une contro le altre
riempivano l'ambiente, rimbombando in ogni dove, insieme alle
esclamazioni sfuggite in un momento di foga o di sorpresa. Raph
continuava a schivare gli attacchi, muovendosi a destra e sinistra,
mentre Leo proseguiva a girare di qua e di là, portandolo in
giro
per tutto il dojo, sperando di fargli perdere la pazienza e la
concentrazione.
La
lama della Katana sfiorò pericolosamente il suo torace, ma
con un
gesto secco la allontanò, prendendo l'occasione per provare
a
bloccarla col Sai: per un secondo ebbe l'impressione di averla
ingabbiata con lo tsuba ed esultò, internamente, ma il filo
scivolò
contro il metallo, sfuggendo alla presa. Il calcio di Leo
arrivò
nello stesso istante, colpendolo al lato della mandibola, senza
dargli il tempo di accorgersene.
Volò
all'indietro mentre mille puntini gialli esplodevano davanti ai suoi
occhi e un dolore lancinante si diffondeva per la testa. Cadde sul
pavimento, stordito, con un suono sordo. Scosse il capo per
snebbiarlo e un sorriso sardonico si dipinse sul suo viso. Leo gli
aveva teso una trappola e lui ci era caduto come un pivello; la sua
smania di batterlo aveva annebbiato le sue percezioni.
Piantò
le mani al suolo e si rialzò lentamente, andando poi a
raccattare i
Sai caduti poco distanti da lui. Il suo sguardo non si era staccato
un secondo da Leo, ma l'altro non aveva intenzione di muoversi,
dandogli tutto il tempo, come se non volesse approfittare del
vantaggio.
Come
se si sentisse dannatamente sicuro di sé.
Si
mosse a lenti passetti, calcolando la distanza tra sé e Leo,
pensando alle varie e molteplici strategie e tecniche da poter
attuare, ad una velocità mentale impressionante.
Quando
lo raggiunse, lasciando una distanza di un metro tra loro, aveva
già
ben chiara quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Leonardo
aveva nel contempo pensato alla sua, cercando di anticipare i suoi
movimenti e pensieri dopo aver incassato il primo colpo.
Un
respiro all'unisono, occhi negli occhi.
E
poi l'attacco.
Leo
corse con le Katana tese di fronte a sé, Raph aveva un Sai
in
posizione di attacco e uno in difesa: il leader però,
abbassò le
armi nel momento in cui le gambe si fletterono e diedero la spinta al
balzo, le braccia lungo i fianchi per essere più
aerodinamico. Leo
superò in volo Raph, una Katana colpì contro la
testa, parata al
volo dal Sai in difesa mentre l'altro infilzava l'aria dove un attimo
prima c'era Leo, il tutto in una frazione di secondo.
Leonardo
atterrò alle sue spalle e con una torsione del busto
attaccò con le
spade, ma i Sai bloccarono la lama tra gli tsuba, in alto, sopra le
loro teste: Raph si tese allo spasmo e con un colpo di reni
scaraventò il fratello per il dojo, in una stupenda
proiezione.
Gli
occhi di tutti seguirono il volo perfetto, la parabola ascendente e
poi il tonfo finale, cupo, guscio contro legno.
Fu
la volta di Raphael di attendere, di dare a Leo la
possibilità di
rimettersi in piedi e ritornare al suo posto.
Oh,
la voglia di attaccarlo c'era, prepotente per di più, ma lui
voleva
seguire le regole di Leo e batterlo nonostante tutto.
Lo
osservò rialzarsi, con su l'espressione più
neutra del mondo,
-niente traspariva dal suo sguardo, né rabbia né
stupore né
meraviglia, ma Leo era così, lo sapeva,- e raccogliere le
Katana
lasciate cadere nel volo, nella calma e il silenzio più
totali.
I
sospiri tesi di Michelangelo ogni tanto arrivavano alle loro
orecchie, flebili, ma si perdevano in fretta nel suono dei loro
pesanti respiri, nelle macchinazioni della mente.
Si
eguagliavano, ma non potevano davvero essere uguali. Uno dei due
doveva vincere.
Leonardo
si era riavvicinato e teneva le armi ben alte, così come
fece lui.
Avrebbero
lottato finché non fosse rimasto un solo vincitore, nessuno
dei due
voleva indietreggiare, né lo avrebbe fatto.
Un
battito di palpebre all'unisono fu il segnale, questa volta. Al
battito successivo entrambi erano già lanciati uno contro
l'altro,
veloci e silenziosi, entrambi verso un attacco diretto.
Le
lame sbatterono con un clangore metallico che mandò
scintille per la
forza dell'impatto, ognuno che cercava di forzare per colpire
l'altro.
Ferro
contro ferro che strideva, respiri e grugniti rochi per lo sforzo,
occhi decisi in occhi decisi, mascelle contratte fino a far cigolare
i denti.
“Fermi!”
La
voce di Splinter risuonò secca, spezzando ogni cosa: il
momento, la
tensione, il duello. Una semplice parola, ma come una formula magica
che metteva fine ai loro propositi bellicosi. Non si poteva
disubbidire alla sua voce né al suo ordine.
I
due allontanarono lentamente le armi, continuando a fissarsi, poi si
voltarono verso il maestro, in piedi in fondo al dojo.
“Siete
stati bravi, figlioli. Venite qui” li richiamò,
camminando avanti
e indietro sotto lo stendardo degli Hamato.
I
suoi figli si avvicinarono e si inginocchiarono rispettosamente
vicino a Michelangelo e Donatello che avevano seguito lo scontro col
maestro; poi, tutti e quattro rimasero in attesa.
L'anziano
ratto continuò col suo lento via vai, una mano sul bastone
mentre
l'altra carezzava il pizzetto meditabondo.
“Sono
certo, figli miei, che vi state chiedendo come mai io vi abbia
convocati e vi abbia chiesto una dimostrazione delle vostre
capacità
in scontri uno contro uno. Sono stato piacevolmente colpito dalla tua
vittoria su Michelangelo, Donatello, e dalla vostra situazione di
parità, Leonardo e Raphael. Ho assistito a delle ottime
prove.”
“Pura
fortuna, Donnie. Pura fortuna” sussurrò Mikey
verso il fratello,
cercando di non farsi scoprire dal maestro. Don sorrise, soddisfatto
di sé stesso, per nulla toccato dalle sue parole.
“Prove
che mi permettono di valutare il vostro livello e di potervi
così
aiutare a migliorare. Per questo.”
Il
maestro si avvicinò, frugando nelle maniche del kimono con
attenzione; ne tirò fuori degli involti neri che
poggiò sulle mani
dei suoi discepoli, con riverenza. I quattro si guardarono un
momento, perplessi, poi svolsero il panno, contemporaneamente:
quattro Kunai splendettero, il freddo acciaio che risaltava contro il
nero del panno; nell'occhiello era ferma la striscia viola. Tutti
loro sapevano benissimo il significato.
“Il
Battle Nexus? Ci hanno riconvocato?” domandò
sorpreso Donnie,
studiando il suo Kunai.
“È
quest'anno? Lo avevo scordato!” esclamò emozionato
Mikey mentre
lanciava il suo in aria, riprendendolo per la punta.
“Già,
non tieni il conto da quando non sei più il campione, eh,
Mikey?”
“Almeno
io sono stato campione, Raph! Chi è che si è
fatto battere al primo
round da Leo, invece, all'ultimo torneo?”
“Figlioli,
basta. Leonardo è il campione fino all'inizio del prossimo
torneo,
ma tutti voi avete la possibilità di mostrare quanto valete.
Il
Battle Nexus avrà luogo alla fine del mese e mi aspetto che
impieghiate il vostro tempo ad allenarvi, per poterlo affrontare al
meglio.”
Gli
occhi di Splinter brillarono di orgoglio verso i suoi figli. Tutti
loro avrebbero dato il meglio, lo sapeva. Era sereno e tranquillo,
certo che avrebbero reso onore alla loro casata e al suo maestro.
Ma
come doveva agire per l'altra questione?
Isabel
tornò al rifugio a sera inoltrata, come d'abitudine. Erano
ormai
iniziate le nuove lezioni di medicina ed erano sempre più
complesse;
non era strano che tornasse tardi, a seconda della giornata. La prima
cosa che faceva era strillare un “sono tornata” che
scuoteva le
pareti, poi passava da Don a lasciargli gli appunti della giornata,
abbracciava Mikey, o meglio prendeva un grosso abbraccio da Mikey, e
infine correva da Raph, a prendersi il suo meritato bacio di
bentornata. Il resto variava da giornata a giornata. Solo quel rito
era fisso, abitudinario.
Quando
mise piede al rifugio, quel giorno, si sentì strana, per la
prima
volta in vita sua: era tutto insolitamente silenzioso.
“Sono
tornata!” esclamò stanca, poggiando la borsa coi
libri vicino alla
porta e passando una mano sulla spalla indolenzita dal peso. Poi
scostò il ciuffo di capelli dal viso accaldato, in quel
primo giorno
di Settembre ancora completamente estivo.
Nessuno
rispose al suo saluto. Si incamminò verso il laboratorio di
Donnie,
con gli appunti delle lezioni giornaliere sotto braccio, ma lo
trovò
stranamente vuoto. Nemmeno un cenno né un segno della
presenza di
Mikey iniziarono a preoccuparla.
Che
fine avevano fatto tutti? Il maestro era di certo al suo solito
posto, avrebbe chiesto a lui.
Camminò
verso il dojo, con dei passetti frettolosi e urgenti, sperando di non
essersi sbagliata: non appena la porta si aprì venne
investita da
grida di lotta e immagini di combattimenti. Era un tutti contro tutti
furioso.
Michelangelo
stava attaccando Raphael con un attacco dall'alto, Don alle sue
spalle cercava di colpire lui, Raph era impegnato nel correre contro
Leo che a sua volta aveva una delle Katane intrappolata in un
Nunchalu di Mikey e l'altra che correva verso Don.
“Che
diamine state facendo?” strillò oltraggiata e
spaventata.
La
sua voce rimbombò per le alti pareti del dojo, fermando
istantaneamente i movimenti dei quattro mutanti: cinque paia di occhi
scivolarono fino all'entrata, dove la ragazza li osservava,
sconvolta.
“Isabel!”
Mikey lasciò all'istante ogni cosa e le corse incontro, con
le
braccia già tese e un sorrisone entusiasta, ma lei
schivò il suo
attacco.
“Ah,
no! Sei sudato, Mikey! Non ci provare nemmeno!” lo
sgridò,
tirandosi indietro, le mani ben tese per difendersi.
Lui
rise, dal pavimento dove era caduto, occhieggiandola da sotto a su.
“Cosa
state combinando?” domandò Isabel, chinandosi.
“Allenamento
intensivo. Siamo stati scelti per il Battle Nexus, un grosso
torneo!”
“Mai
grosso come l'ego di Mikey!” precisò Raph, che si
era avvicinato.
Si sporse verso lei, per prendersi il suo bacio.
“Anche
tu sei sudato! Non voglio che mi tocchi” protestò
la ragazza,
piegando la testa di lato per schivare l'attacco.
“Bugiarda!”
Le
afferrò la nuca, avvinando il viso, premendo delicatamente
le labbra
sulle sue. Isabel fece finta di ribellarsi per un attimo poi si
lasciò andare. Non si baciavano mai davanti a Leo, era una
regola
sottaciuta che entrambi seguivano, ma ormai quel giorno era andata in
quel modo e non poteva farci nulla.
“Per
favore! Non potete baciarvi davanti a me! Sono un'anima candida,
io!”
La
voce di Mikey li riscosse e si allontanarono, un po' colpevoli.
“Allora,
cos'è questo Bubble Ne... ssus?”
azzardò la ragazza, che si era
già dimenticata il nome.
Mikey
mise su una faccia offesa, come se fosse stato insultato
personalmente.
“Battle
Nexus! Un torneo di lotta multidimensionale che si tiene ogni tre
anni. Io sono stato campione, non ricordi che te ne ho
parlato?”
disse con voce pigolosa, perché lei non poteva permettersi
di
dimenticare una cosa del genere. Che affronto.
“Sì,
Mikey, hai ragione, scusami. Me ne hai parlato almeno un milione di
volte, non so come possa essermi sfuggito! E siete stati scelti di
nuovo? Quando sarà il torneo?”
“A
fine mese. Dobbiamo allenarci fino ad allora” si intromise
Leo, che
nel frattempo si era avvicinato con gli altri, al capire che
l'allenamento era sospeso causa Isabel.
“Ma
Donnie, come farai con le lezioni?” domandò ancora
lei, voltandosi
verso il genio.
“Rimarrò
un po' indietro. Ma dal mese prossimo recupererò, promesso.
Tu non
smettere di prendere appunti, però!”
Donnie,
che in genere non vedeva l'ora di tuffarsi su un nuovo libro, un
nuovo argomento, di studiare la lezione del giorno prima con
avidità
di informazioni, ecco, quello stesso Donnie, aveva lo sguardo
splendente di emozione in vista del torneo.
Isabel
li guardò tutti, uno ad uno, leggendo nei loro occhi.
“Quindi
parteciperete ad un torneo. Siete emozionati? Nervosi?”
chiese,
anche se le risposte le aveva già viste.
“Emozionatissimo!
Ti prometto che vincerò per te, mia adorata sorellina!
Sarò di
nuovo campione, solo per te!” pronunciò con enfasi
Michelangelo,
prendendosi uno scappellotto da Raph.
“Giuro
che quest'anno ti butto fuori a calci! Dovessi essere
squalificato!”
lo minacciò quest'ultimo, infastidito dal suo ghigno
canzonatorio.
“Chi
ha vinto allo scorso torneo?”
“Leonardo”
fu la risposta in coro degli altri tre, mentre il leader piegava solo
la testa umilmente.
“Io
sono arrivato alla semifinale, ma sono stato battuto da un alieno con
quattro braccia, il figlio di un amico del sensei, mentre Raph ha
fatto decisamente schifo, è finito fuori al primo round,
sembrava
che non ci provasse nemme...”
Michelangelo
si bloccò di colpo, come se avesse capito di aver appena
detto
qualcosa che non avrebbe dovuto.
Si
beccò un'occhiataccia da Leo e Don e si schiaffò
la mano in faccia
per manifestare il suo pentimento. Lo sguardo di Isabel
scivolò
verso Raphael, l'unico che non si era mosso e lesse dolore nei suoi
occhi.
Fu
un secondo fare un calcolo mentale e capire quando aveva avuto luogo
il torneo precedente: il Settembre di tre anni prima, sei mesi dopo
che lei se n'era andata, lasciandolo dopo la loro notte d'amore.
Con
una morsa allo stomaco e un forte cerchio alla testa, capì
tutto,
capì perché poi Raph non aveva dato il meglio di
sé. Ed era tutta
colpa sua. Ma se il passato non lo poteva ormai cambiare, anche se
avrebbe voluto, aveva tutto il futuro per rimarginare quella ferita
che gli aveva inflitto e lei ne avrebbe impiegato ogni istante
concesso per farlo.
Si
avvicinò e gli afferrò una mano, stringendola
forte nelle sue.
“Dite
che potrò venire a vedervi? Ci terrei ad esserci”
sussurrò, occhi
nei suoi. E lui sorrise, perché aveva capito la sua premura.
“Certo
che s...” iniziarono a dire Don e Mikey, interrotti
però da una
terza voce.
“Devo
parlarti, Isabel” esclamò Splinter, che mentre
loro
chiacchieravano si era avvicinato man mano, ascoltando in silenzio.
La
ragazza lo guardò, ma non riuscì in nessun modo a
capire cosa
volesse dirle, il perché del suo sguardo inflessibile e
impenetrabile. Sembrava che Splinter si fosse preparato a parlare con
lei e la cosa un po' le metteva soggezione.
Un
po' di magone crebbe nel petto, al pensiero di cosa potesse essere,
quella preoccupazione che si sommava a quelle che ultimamente aveva
per la testa, nascoste nel cuore. Splinter non poteva averlo
scoperto, no? No si disse, sarebbe stato più arrabbiato, di
certo.
Annuì
e fece per seguirlo, verso la stanza da meditazione, quando la porta
del rifugio si aprì e un gran vociare arrivò sin
lì, sin sulla
soglia del dojo dove si erano riuniti a chiacchierare.
La
famiglia Jones al completo apparve, radiante ed euforica: Casey stava
quasi piangendo.
“Siamo
incinti! Aspettiamo un altro figlio!” strillò
fuori di sé,
lanciando un ridacchiante Carl in aria per poi riprenderlo e farlo
volare in tondo.
April
gli colpì un braccio, mezzo offesa.
“Dovevo
dirlo io!” lo rimproverò, ma nel frattempo non
poteva evitare di
sorridere.
Si
gettarono tutti verso di loro, dimentichi di ogni altra cosa,
esultando per la bellissima notizia assieme a loro.
Le
domande fioccarono, tutte assieme e per un po' non si capì
nulla, a
chi davvero erano rivolte le risposte di April, al centro completo
dell'attenzione.
“Sì,
sto bene. Di tre mesi, abbiamo aspettato un po' a dirvelo. No, non
sappiamo ancora cosa sia. Spero davvero che sia una femmina!
Sì,
certo che ti prenderemo per fare da padrino, Mikey!”
Isabel
notò quanto era radiosa e pensò che non si era
sbagliata quando
durante i loro appuntamenti si era fatta idea che potesse essere di
nuovo in attesa; non aveva detto nulla per non metterle fretta, ma
era davvero felice di aver indovinato. Felice della loro gioia, dei
sorrisi di Casey, quelli di Carl, che alla soglia dei tre anni capiva
il significato di avere un fratello o una sorella, quelli affettuosi
e materni di April, con le mani che correvano inconsciamente al
ventre.
April
le si fece incontro.
“E
questa volta tu ci sarai! Tu ed Angel siete come delle sorelle, avete
il dovere di sopportarmi!” le disse, abbracciandola poi nella
gioia.
“Certo
che ci sarò! Non vedo l'ora di uscire a comprare ogni genere
di cosa
assieme! Vestitini, pannolini, bavaglini, tutto quello che finisce in
-ini!” la rassicurò, emozionata dalla sua offerta
di volerla
accanto. Forse era anche troppo euforica.
“Attento,
amico! Iniziano a fare da spalla alle amiche e poi vogliono un figlio
tutto loro! Non farti incastrare!” scherzò Casey
in direzione di
Raph.
Quello
si sorprese della sua uscita e il suo sguardo corse inconsciamente
verso di lei, senza averlo previsto. Fugace, un secondo, ma Isabel
forse lo attendeva e lo vide.
“Non
chiedo di meglio” lo sentì dire sottovoce e
l'emozione nel suo
petto crebbe e così il cerchio alla testa.
Rimasero
a festeggiare la buona notizia per tutta la notte, e vennero anche
Steve ed Angel e Leatherhead, e nessuno fece caso a malumori, a
pensieri taciuti e preoccupazioni, perché non facevano
rumore nella
gioia.
Note:
Buona
sera!
Eccoci
alla terza storia della serie Heart's Mutation, dopo
“September in
the rain” e “Just the way you are”.
Cosa
vi prometto in questa storia? Azione, battaglie, coppie, dolore,
emozioni, f... se volete continuo con l'alfabeto fino alla zeta, ma
penso abbiate capito!
Vi
prometto mistero, a iosa, e di provare ad emozionarvi come ho fatto
finora!
Ben
ritrovati, un abbraccio è un obbligo e un piacere!
A
presto
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Capitolo 2 *** Chosen ***
Gli
allenamenti continuarono senza sosta, sin dal giorno seguente la
notizia. Dal mattino alla sera i quattro si allenavano e
combattevano, con solo pause per mangiare, usare il bagno e una breve
ronda notturna. Il resto era sonno, solo sonno per riprendere le
forze.
In
vista del torneo ogni altra cosa era sacrificata.
Il
tempo di Don per le invenzioni e gli studi. Quello di Mikey per i
videogiochi e i fumetti. Quello di Raph per Isabel.
Lei
non doveva solo sacrificare il prezioso tempo con lui, che non era
mai comunque abbastanza, ma anche gli insegnamenti del sensei durante
gli allenamenti; perciò aveva iniziato ad assentarsi alle
lezioni
mattutine, un po' svogliata. In questo modo aveva del tempo in
più
al mattino e poteva rimanere sdraiata nel letto di Raph fino a che
non doveva alzarsi per andare a lezione; ma lui si svegliava
prestissimo per allenarsi, perciò non riuscivano comunque a
vedersi.
Alla
sera lei si sedeva nel fondo del dojo con i suoi libri e gli appunti,
sollevando di tanto in tanto lo sguardo per occhieggiare i loro
allenamenti con apprensione, senza una parola; era l'unico modo che
aveva per stare con loro, anche se per poco. Erano gli unici istanti
in cui poteva vedere Raphael a parte i pasti; la notte lui tornava
così tardi dalla ronda che era già addormentata,
abbracciata al suo
cuscino con possessività e malumore, visto che non poteva
abbracciare lui.
E
in un clima strano e teso, passarono in fretta i primi giorni.
Isabel
era così inquieta, che non si accorse dei frequenti sguardi
che
Splinter le rivolgeva, né che sembrava volerle parlare per
riprendere il discorso mancato di quella sera. O forse se n'era
accorta ed evitava apposta di farsi trovare.
“Sono
tornata!” urlò Isabel appena entrata nel rifugio a
sera tarda.
Gli
occhi si sollevarono al cielo. Con chi stava parlando? Non c'era
nessuno ad aspettarla.
Erano tutti nel dojo a sudare e
faticare come dei dannati come sempre, come i tre giorni precedenti,
come tutti quelli che sarebbero seguiti.
Lasciò
andare la borsa con malagrazia e quella cadde a terra con un tonfo
cupo per via di tutti i libri, poi fletté il collo a destra
e
sinistra per stiracchiare i muscoli tesi dalla fatica.
Era
incredibilmente stanca. Stava dormendo molto poco e molto male, con
quella sensazione di panico sempre più frequente nel petto,
con
quell'angoscia che continuava a crescere. Sapeva che avrebbe dovuto
parlare con Raphael, ma sapeva di non potere, non ancora. Non sapeva
come iniziare il discorso. Era una vigliacca. Si stava trincerando
dietro l'ansia e il tempo, aspettando cosa? Che le cose si
risolvessero? Che una bontà divina le indicasse la strada e
le
sollevasse i dubbi e le domande che si stava ponendo?
Si
incamminò mesta verso il dojo, a passetti lenti. Il rumore
delle
lotte all'interno si amplificava via via che si avvicinava e
stranamente sembrava armonizzarsi al battito del suo cuore;
aprì la
porta con tocco leggero, per non disturbare.
Non
che loro se ne potessero comunque accorgere, erano così
assorti e
concentrati che non avrebbero notato nemmeno una carica di
rinoceronti, se una fosse entrata e li avesse calpestati nella sua
furia.
Si
incamminò raso muro senza perdere un secondo con lo sguardo:
quello
di Mikey incontrò per caso il suo e il mutante le sorrise
velocemente mentre si chinava per evitare la Katana di Leo, prima di
essere riassorbito dalla lotta.
Le mancavano anche gli abbracci
di Mikey, era sempre o troppo concentrato o troppo sfinito anche per
darle i suoi fratelleschi abbracci.
Si
sedette non appena fu sicura di essere a distanza di sicurezza, anche
se con due combattimenti in simultanea non c'era davvero un'area
sicura in tutto il dojo: quei quattro erano capaci di coprire tutto
il perimetro nella loro irruenza, arrivando perfino a saltare contro
i muri se la strategia lo richiedeva.
Per
sicurezza, nel caso si fossero avvicinati troppo, si sarebbe chiusa
in una bolla protettiva.
Il
sensei seguiva i due combattimenti simultaneamente, andando avanti e
indietro sotto allo stendardo del clan, e di tanto in tanto urlava un
suggerimento se vedeva che uno dei suoi figli era in
difficoltà, ma
senza mai fare preferenze: se prima decideva di correggere Mikey per
una schivata troppo lenta e incerta, subito dopo avvisava Leo
dell'apertura che lasciava nell'attacco dall'alto, riequilibrando
immediatamente il loro scontro.
Le
coppie per quel giorno erano Leonardo contro Michelangelo e Donatello
contro Raphael, ma variavano di volta in volta, per permettere lotte
sempre diverse e istruttive contro armi e stili diversi: Mikey era
veloce e se si concentrava riusciva a tenere testa al leader senza
eccessivo sforzo, Leo faticava invece un po' a stare dietro allo
stile senza regole del fratello, anche se a mano a mano che le parate
e gli affondi si susseguivano senza sosta, sembrava migliorare sempre
più; Donatello faceva arrabbiare Raph, con il suo stile
flessibile e
che sfruttava il divario creato dal bastone, tutto il contrario del
suo irruente e praticamente a breve distanza: il genio si divertiva
molto, si leggeva sul suo volto, a tenerlo alla larga con stoccate
decise, infliggendogli danni senza farlo mai avvicinare, frustrandolo
oltre ogni dire.
Era
molto utile osservarli, si imparava moltissimo già solo
nello
studiare la loro adattabilità alle differenti sfide e
tecniche che
di primo acchito sembravano penalizzarli, ma che poi riuscivano in un
modo o nell'altro ad aggirare, con le loro forze e l'ingegno.
Osservò
attenta Raphael che, scocciato oltre modo, aspettò che il
bastone lo
colpisse per poi afferrarlo velocemente con la mano, uno dei Sai
gettato al suolo per potersi muovere agevolmente: sorrise al genio
con cattiveria, già pregustandosi la prossima mossa.
Lei
era così attenta, che non si accorse della presenza al suo
fianco
finché non sentì la sua voce.
“Possiamo
parlare, Isabel?” disse Splinter in un sussurro, che pure la
fece
trasalire.
Era
immobile, con lo sguardo ancora concentrato sull'allenamento dei suoi
figli, eppure la sua aura era avvolgente, era attorno a lei.
Inghiottì
a vuoto un magone che lei stessa non avrebbe saputo a cosa attribuire
per certo.
“Certo,
sensei.”
Splinter
le tese una mano cortese per aiutarla ad alzarsi, poi le fece strada
verso la stanzetta da meditazione, camminando raso muro in silenzio e
con attenzione, per non disturbare in alcun modo l'esercitazione. Con
la sua solita galanteria la fece entrare per prima, poi chiuse la
porta con garbo alle sue spalle.
“Siedi
pure, figliola”
suggerì quietamente, mentre si dirigeva verso le poche
candele
accese per poterne aggiungere delle altre e rischiarare meglio la
penombra.
Isabel si
inginocchiò sul
cuscino di raso rosso vicino al tavolino, poi trasse un profondo
respiro. Amava quella stanza: il piccolo bonsai di ginkgo biloba al
centro era rigoglioso, alcune delle sue piccole foglie dai tenui
colori che già vertevano verso il giallo autunnale; il
riverbero
delle fiamme creava strani giochi di luci ed ombre con i suoi rami e
le foglie, facendolo quasi apparire vivo, palpitante.
Tutto in quella stanza era fatto
per rilassarsi, molte volte si era seduta col sensei per meditare e
allenarsi spiritualmente, ma forse questa volta quello che portava
dentro non poteva semplicemente farlo sparire con un profondo respiro
e lo svuotamento della mente.
E perché, poi, il sensei
l'aveva chiamata lì? Cosa poteva mai avere di
così importante da
dirle, da assentarsi perfino dall'allenamento dei suoi figli?
Splinter
si era spostato in un angolo e trafficava con un termos di acqua
calda e due tazze, versando il liquido bollente sulla polvere di
tè
verde, mescolando poi con vigore e attenzione; le porse una tazza e
prese posto dall'altra parte del tavolo, tenendo la sua tra le mani.
Si inchinarono rispettosamente uno all'altro, prima di prendere il
primo sorso. Isabel assaporò con calma la bevanda dal
retrogusto
amarognolo, mentre una miriade di pensieri le affollavano la mente.
“Ho
notato che non frequenti
più gli allenamenti mattutini” disse Splinter
osservandola dal di
sopra del bordo della tazza dopo averne sorbito un po'.
Lei quasi si lasciò scappare un
sospiro sollevato. Possibile che fosse tutto lì quello che
lui
voleva dirle?
“Sì,
sensei. Ho pensato che
con gli allenamenti per il torneo avrei solo preso tempo e spazio e
creato fastidio” rispose, anche se era vero solo a
metà.
“Sarebbe
meglio che tu ti allenassi almeno una volta ogni due giorni o molti
dei progressi fatti andrebbero persi. E non daresti nessun fastidio,
il dojo è grande abbastanza da poter essere usato da
tutti... anche
se posso capire che qualcuno
potrebbe trovare la tua presenza una distrazione.”
Si era solo
immaginata
quell'occhiata penetrante? O in effetti Splinter forse voleva
parlarle per questioni inerenti alla sua relazione con Raphael, di
qualcosa che non poteva dire davanti agli altri?
I dubbi si stavano accumulando e
sentiva di star per scoppiare trincerata nell'ignoranza: se Splinter
non fosse stato più chiaro, da un secondo all'altro avrebbe
dato di
matto.
“Se
non è un problema allora
sì, ritornerò ad allenarmi, sensei. Non volevo
impensierirti, mi
dispiace” disse, sperando che fosse tutto lì e che
quello
chiudesse definitivamente la questione.
Lui sorrise soddisfatto,
annuendo appena col capo, come a volerle dire che non c'era niente di
cui dovesse scusarsi. Entrambi sorbirono in silenzio il tè,
con
gesti lenti; gli occhi di Isabel saettavano di qua e di là,
poi
nella tazza e di nuovo in giro, nella confusione e un pizzico di
sollievo.
“Ma
non ti ho chiamato solo
per questo, figliola. C'è un fatto molto importante di cui
volevo
parlarti da giorni, ma sembrava quasi mi stessi evitando”
spezzò
il silenzio la voce del sensei, catturando di nuovo la sua attenzione
con un violento batticuore.
Ogni sprazzo di sollievo si era
dissipato in un istante e adesso sentiva solo il battito furioso del
cuore nelle orecchie, mentre mille e più teorie le passavano
davanti
agli occhi. Cosa sapeva il maestro?
Lei
alzò lo sguardo dal fondo
torbido della bevanda e lo piantò su di lui, così
vicino eppure
così assorto da sembrare distante, mentre poggiava la tazza
garbatamente.
Il mutante frugò poi nella
manica del kimono, tirando fuori un involto di tessuto nero.
“Questo
è arrivato insieme a
quelli degli altri” disse con voce cauta, poggiandolo sul
tavolo
con un suono sordo e spingendolo verso la ragazza.
Isabel allungò una mano,
titubante; le dita afferrarono tremanti la stoffa e la svolsero con
angosciosa lentezza, svelando il gelido lucore dell'acciaio.
Guardò
il Kunai con sorpresa e cercò lo sguardo del maestro per
farsi
spiegare.
“Il
Battle Nexus è un
prestigioso torneo al quale sono chiamati i migliori combattenti di
ogni dimensione, mondo e pianeta. È una vera esibizione di
ogni
stile di combattimento presente, che permette ad ogni maestro di
misurarsi con i più forti e preparati guerrieri.
È un onore essere
scelti per parteciparvi. E tu sei stata scelta, Isabel.”
Gli occhi si spalancarono di
sorpresa. E tutto quello che fino a quel momento le aveva
attanagliato la mente, i dubbi e le paure di quel discorso vennero
relegati in un angolo, soffocati dallo sbalordimento di quella
affermazione. Era l'ultima cosa al mondo che pensava potesse
accadere.
Era stata scelta per un torneo
di lotta multidimensionale? Insieme a Leo, Donnie, Mikey, Raph...
“Io?
Ci deve essere... ci deve
essere un errore, sensei. Non posso essere stata scelta!
C'è...
qualcuno avrà sbagliato, probabilmente è per te
e...”
“Ho
controllato, figliola. La
convocazione è per te, nessun errore. Ammetto che anche io
sono
rimasto sorpreso, -non perché non ti reputi capace, ma
perché mi
era sembrato un po' presto,- ma poi ci ho ragionato sopra: credo che
nello sceglierti potrebbero aver tenuto conto del tuo potere magico
nell'amplificare la tua forza. Il tuo livello è degno di
essere
messo alla prova contro altri avversari, in quel caso”
spiegò con
sussiego lui, che si dimostrava davvero troppo calmo in confronto al
volto paonazzo e allo sbigottimento negli occhi di lei.
“Ma
sarebbe barare! Non potrei
usarlo per combattere in un torneo, non sarebbe giusto!”
protestò
con veemenza Isabel, sollevandosi un po' sul cuscino nella foga.
Lui sorrise
della sua reazione,
che di certo si era aspettato.
“No,
nel Battle Nexus non
sarebbe barare. Devi immaginare un torneo dove creature di altre
dimensioni e mondi e pianeti si riuniscono per mettere alla prova la
loro forza e la loro tecnica, usando ciò che la natura offre
loro.
Non è strano che qualcuno riesca a cambiare stazza o la
propria
massa muscolare o la propria agilità con caratteristiche che
sono
proprie della sua specie. La magia fa parte di te, non è
qualcosa
che hai acquisito o cercato solo per poter sconfiggere i tuoi
avversari, perciò non c'è niente di male
nell'usarla. Non è
barare” spiegò l'anziano semplicemente.1
Sembrava
così giusto e sensato
detto da lui, spiegato con così tanta pacatezza, ma una
piccola
parte di sé continuava a pensare che usare i poteri non
fosse
proprio pulito.
E non voleva davvero
partecipare. Non era una combattente, non era davvero una guerriera.
Era stata scelta dalla vita della lotta dalla sua necessità
di
difendersi, ma non vedeva di buon occhio dover combattere contro
qualcuno che non le aveva fatto niente per dimostrare il suo valore o
vincere un premio. Lottava solo per difendere e difendersi.
E se avesse accettato, poi,
avrebbe corso il rischio di doversi misurare contro Raphael e i suoi
fratelli, e non voleva che loro dovessero scegliere tra farle male o
perdere; o essere costretta ad usare la magia per superarli.
Senza contare che sarebbe
rimasta indietro con le lezioni, che avrebbe dovuto allenarsi
costantemente come loro, che aveva ben altro per la testa...
Prese un
grande respiro,
risoluta.
“Sensei,
se è possibile
rifiutare senza offendere coloro che mi hanno fatto un così
grande
onore, preferirei non partecipare” rispose con rispetto,
allontanando con una mano il panno nero con il Kunai, come per
scacciare via una tentazione.
Splinter non mostrò nessuna
emozione su cosa stesse pensando in quel momento, ci fu solo un
fugace scintillio nel suo sguardo che poteva dire tutto come nulla.
Eppure emanava la sua solita aura tranquilla.
“Capisco
tutte le motivazioni
che ti spingono a rispondere in questo modo. Ma vorrei che tu ci
pensassi ancora un po' su. Non devi rispondere subito. Parlane con
Raphael e gli altri, chiedi il loro parere”
replicò il maestro,
risospingendo il tessuto verso lei.
Parlarne
con Raffaello. Non
voleva parlare con lui, se avesse iniziato di sicuro avrebbe finito
per rivelargli più di quanto avrebbe dovuto, mossa dalle
paure.
C'erano così tante cose che si celavano nel suo cuore
nell'ultimo
periodo, in attesa del momento giusto in cui parlarne.
Una smorfia piegò il suo viso e
non fu abbastanza veloce da nasconderla al saggio ratto.
“C'è
qualcosa che ti turba,
Isabel? Qualcosa che non hai detto nemmeno a Raphael?” le
chiese
infatti lui, osservandola con interesse.
“No,
sensei. È tutto a posto”
mentì dopo un secondo, col cuore mortalmente colpevole.
Non che non volesse parlare,
anzi, desiderava da morire confidarsi con lui, con tutti loro, ma
prima doveva provare a risolvere da sola, senza impensierire la sua
nuova famiglia, senza scatenare in loro dubbi e paure.
“Ti
prometto che ci penserò
un po'” finì, alzandosi dal cuscino, nonostante
dentro si sentisse
inchiodata dallo sguardo penetrante dell'uomo, che leggeva dentro gli
animi con chiarezza.
Non voleva rimanere ancora, ogni
secondo era un'opportunità in più che lui potesse
capire.
Raccolse
il Kunai e il panno, poi si diresse verso la porta e la aprì
con
sicurezza, congedandosi.
Si
scontrò con le quattro tartarughe mutanti, che non avevano
fatto in
tempo a scostarsi da dietro la porta dove avevano cercato di
origliare: li osservò con lo sguardo di disapprovazione e
loro
gliene rimandarono uno colpevole e curioso.
Evidentemente
la convocazione del sensei non era passata inosservata come credeva e
sempre evidentemente l'allenamento era stato messo da parte per la
loro insaziabile attitudine a ficcare il naso.
“Come
mai il sensei ti ha...” iniziò a domandare Don,
prima di essere
spintonato via da Mikey, che le si fece incontro con gli occhioni
spalancati.
“Hai...
hai ricevuto l'invito!” strillò fuori di
sé, puntando col dito il
Kunai che lei stringeva nel pugno. L'attenzione di tutti fu sulla
scintillante arma e sui significati che racchiudeva.
“Sei
stata convocata al Battle Nexus?” domandò Raph
sconvolto, eppure
visibilmente fiero.
Lei
sorrise alle loro facce sorprese e alzò le mani per bloccare
le loro
reazioni.
“Non
ho intenzione di partecipare!” rivelò, svicolando
dal muro che le
avevano creato attorno, muovendosi verso l'uscita del dojo. Mikey le
corse dietro e si tuffò per bloccare la sua fuga, ma con un
gesto
fluido all'ultimo secondo si spostò, mandandolo al tappetto.
“Non
lotterò al torneo!” ripeté
più forte, accelerando il passo.
Forse stava usando la magia per scappare, di certo era molto veloce.
Leo
le apparve davanti, a qualche metro, con le braccia aperte per
fermarla: Isabel saltò e poggiò una mano sulla
sua spalla per darsi
la spinta, sorpassandolo in volo, atterrando come una ginnasta
dall'altra parte.
“Non
parteciperò al Battle Nexus!” ribadì
ancora una volta,
praticamente vicina all'uscita. Stava correndo, ormai. Finì
dritta
tra le braccia di Raph con un gridolino sorpreso, che la strinse
fermamente.
“Presa!
Allora, dimmi tutto: perché non dovresti partecipare al
torneo, dato
che ti hanno mandato l'invito?”
Isabel
provò a divincolarsi con vigore, ma Raphael la teneva con
tutta la
forza concessa senza farle male. Dopo qualche infruttuoso tentativo
lasciò perdere, lasciandosi andare mollemente.
“Non
mi va. Non sono pronta, va bene?” replicò
sconfitta, sperando che
la sua risposta fosse sufficiente a saziare la loro
curiosità.
“Ma
se ti hanno scelta! Significa che sei all'altezza!” si
intromise
Mikey, entusiasta, con un tono fiducioso.
La
ragazza abbassò il capo, poggiandolo contro la spalla di
Raphael.
“Si
sono di certo sbagliati” mormorò debolmente, di
colpo molto
stanca. Lui fissò la sua nuca, pensieroso, poi con un gesto
secco
sollevò il suo corpo, poggiandolo sulla spalla. Si
voltò, uscendo
dal dojo.
“Raffaello,
cosa stai...”
Il
mutante camminò velocemente, ignorando le sue proteste e le
domande
dei suoi fratelli e saltò invece fino al primo piano,
dirigendosi
verso la sua stanza. Spalancò la porta con urgenza e dopo
averla
richiusa alle loro spalle la poggiò con garbo sul letto,
sedendosi
al suo fianco.
Isabel
lo osservò in silenzio, senza sapere cosa avesse in mente.
Stringeva
ancora il Kunai nella mano, ma si sporse per poggiarlo sul comodino
accanto al letto.
“Allora,
cosa succede?” domandò Raphael, che invece non
aveva staccato lo
sguardo da lei.
“Niente.
Non succede nulla” mentì di nuovo, questa volta
totalmente
colpevole. Non le piaceva nascondergli le cose, quando la loro
relazione era iniziata aveva promesso che non se ne sarebbe
più
andata e che sarebbe stata sincera e ci credeva davvero in
ciò che
aveva giurato.
Eppure
quello che le stava succedendo, le verità che non poteva
ancora
rivelare, non le teneva per sé per sfiducia o cattiveria, ma
per
proteggere Raphael. Quando avesse avuto delle certezze, quello
sarebbe stato il momento in cui tutto sarebbe stato confessato e
spiegato, ma non era ancora arrivato.
“Perché
non vuoi partecipare
al torneo? Una motivazione vera” continuò lui
tranquillamente,
come se lei non avesse detto niente.
“Io
non sono pronta, non sono
all'altezza!” ripeté imperterrita, molto stanca
sotto il peso di
anche quella nuova situazione.
Non poteva capire, come era
logico, e lei non poteva proprio spiegargli che non aveva il tempo
anche per quello.
“Ma
se sei stata scelta!” fu
la pronta risposta di lui, come si era aspettata.
“Per
via della mia magia.
Perché posso modificare la mia forza e velocità
con la magia. Ma è
come barare! Ricordi, me lo hai detto anche tu una volta?”
“Io
parlavo di non fare solo
affidamento sulla magia, ma non c'è nulla di male ad usarla
se te lo
concedono. Non è un motivo per non partecipare, ma se
proprio ti dà
fastidio, non farne uso. Testa la tua forza normale”
asserì
fiducioso Raph, con un mezzo sorriso incoraggiante.
“ È
questo che pensi? Che
dovrei provarci sul serio?”
Aveva alzato la voce
nell'incredulità della sua affermazione e si era sporta
verso di
lui, nervosa. Ma Raphael le sorrideva con determinazione:
allungò le
mani e le poggiò sulle sue esili spalle, stringendo con
rassicurante dolcezza.
“Sono
dannatamente orgoglioso
e fiero di te, che ti abbiano convocata. Sarebbe fantastico vederti
lottare con tutta la tua forza. So che faresti una splendida
figura... ti ho allenato io o no?”
Isabel
continuò a guardare
inebetita la sua espressione splendente, chiedendosi per un istante
se non fosse impazzito. Sembrava un padre che passava in eredita al
figlio il proprio cimelio più prezioso, con le aspettative
al
massimo e una fierezza sconfinata.
“E
se accettassi e ci
trovassimo uno contro l'altra, tu saresti capace di lottare sul serio
contro di me?” gli chiese, per riportarlo alla ragione.
Forse non si era aspettato la
domanda, perché rimase senza parole, la bocca che si apriva
e
chiudeva a ripetizione, come un pesce fuori dall'acqua, la luce
emozionata che un po' svaniva al capire le implicazioni e
nell'immaginare la situazione.
“La
risposta più esaustiva
che potessi darmi!” lo canzonò lei con un mezzo
sorriso, andandogli incontro.
“No,
io...”
“Senti,
ho promesso al sensei
che ci avrei pensato su, ma penso che non cambierò idea. Io
non sono
una guerriera, tu lo sei e mi va bene così. Verrò
a vederti e a
fare il tifo, è tutto quello che voglio.”
Raphael mise su un mezzo
broncio, al vedere la possibilità di vederla lottare che si
allontanava; aveva davvero sperato di poter assistere alla
meravigliosa visione di lei che prendeva a calci nel fondoschiena i
suoi avversari da ogni dimensione: se poi qualcuno avesse osato farle
del male, lo avrebbe semplicemente distrutto.
“È
un peccato, saresti stata
grande. Ma immagino che non lasceresti mai gli studi per allenarti,
in fin dei conti, cara la mia secchiona” esalò
canzonatorio,
attirandola a sé. Si sedette a gambe incrociate e se la
strinse
contro.
“Assolutamente.
E faccio già
una gran fatica a seguire senza metterci gli allenamenti di
mezzo”
concordò lei, contenta che avesse capito, premuta contro il
suo
petto con gli occhi chiusi e un mezzo sorriso estasiato per quel
momento di intimità rubato al tempo tiranno.
“Sì,
lo so. Mi sembri così
stanca” mormorò assorto Raph, anche lui con gli
occhi chiusi e la
guancia premuta contro la sua fronte, così in pace e felice
come non
era stato negli ultimi giorni.
Isabel
trattenne appena il
fiato, un piccolo picco di batticuore la colse, che cercò di
scacciare in fretta: lui pensava che lei fosse stanca solo per gli
studi, non poteva sapere tutto il resto, non era possibile.
“Io?
Guarda che occhiaie che
hai. Cerca di non esaurirti con questi allenamenti”
cambiò
discorso, sollevando il viso e la sua maschera, svelando i segni
scuri sotto i suoi occhi per la fatica e l'addestramento.
“Ci
prenderemo qualche giorno
di pausa a metà del mese circa. Il sensei sa bilanciare bene
gli
sforzi per ottenere il meglio, e allora potremo passare un po' di
tempo assieme e io mi riposerò” la
informò lui con espressione
colpevole.
“Mi
dispiace di non dedicarti
abbastanza tempo. Ma finirà presto e staremo finalmente
assieme”
aggiunse infatti, scoccandole un bacio sulla fronte.
Sorrise,
conquistata dalla sua
dolcezza, che non mostrava mai a nessuno se non a lei.
“D'accordo,
è una promessa,
caro il mio guerriero. Ma adesso dovresti ritornare all'allenamento,
stai perdendo tempo con me e non vorrei poi tu mi possa dare la colpa
nel caso in cui perdessi.”
“Tu
sei più importante
dell'allenamento e del torneo, stupida.”
Isabel richiuse gli occhi e gli
si accoccolò contro, vinta ancora una volta, ma colpevole,
tanto,
troppo colpevole.
Le braccia di Raphael erano un
rifugio sicuro che sapevano di fiducia e amore, mentre le sue
trasmettevano solo menzogne, nascondevano troppe verità.
1: Nel
Battle Nexus ci sono
davvero razze che possono cambiare fisico o altro per agevolarsi
nella lotta. Mikey in finale si era ritrovato a combattere
contro un alieno che cambiava forma fisica diventando da piccolo e
mingherlino in un colosso muscoloso.
Note:
Salve a
tutti.
Chiedo
formalmente scusa per
l'enorme e mostruoso ritardo. Purtroppo la mia salute non brilla e
ultimamente alcune cose si sono acuite, costringendomi a mille visite
e molte cose per la testa; niente di grave, ma comunque abbastanza
per tenermi forzatamente lontana da internet e dal fandom. Adesso
sono sotto regime per rimettermi in forma, sarà un anno
lungo, ma si
può fare! Sono ottimista.
So che
forse non vi interessa,
ma volevo davvero spiegare perché mi sono assentata
così tanto. Non
è da me e per tutto questo tempo mi sentivo in difetto per
avervi
lasciato così.
Grazie per la pazienza e per
leggere la storia.
Pubblicherò
con la solita
puntualità (per ora una volta a settimana, ma spero di
velocizzare
nel futuro) e vi prometto davvero di tutto e di più in
questa
storia. Certificato!
Grazie per i seguiti, i
preferiti!
Vi
abbraccio fortissimo, mi
siete mancati.
|
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Capitolo 3 *** Followed ***
Steven
Gregson, detto Steve, anni 16, cresciuto di ben cinque centimetri nel
corso dell'ultimo anno, era un ragazzo completamente nuovo. Non era
più il ragazzino esile e fragile che era prima, oh no.
Aveva
messo su un po' di massa muscolare e una buona dose di sicurezza in
sé stesso, grazie agli allenamenti quotidiani, grazie ai
suoi nuovi
amici. La sua altra famiglia, come amava definirli nella sua mente:
quei quattro variegati e assurdi fratelli maggiori e il sensei come
un saggio e paterno nonno, anche se non avrebbe mai avuto l'ardire di
dirlo ad alta voce ai diretti interessati. Perfino con Raphael le
cose non andavano così male, si erano un po' assestate: il
gigantesco mutante non era più così tanto
scontroso come prima ed
era disponibile quando si trattava di consigli sugli allenamenti o
addirittura per fare da sparring partner, a volte.
Gli
allenamenti erano stati costanti, ogni sera: da quando suo padre era
guarito non aveva più avuto bisogno di lavorare alla
pizzeria e il
signor Giorgio aveva assunto proprio il suo genitore, con
entusiastiche aspettative di crescita nel settore e forse anche un
lavoro di direzione in una nuova succursale che avrebbe aperto a
breve; lui ormai andava a dare una mano nei finesettimana, mentre nel
resto del tempo passava le sere al rifugio, per allenarsi.
Suo
padre era tranquillo, sapeva dove stava e si fidava.
Era
stato strano quando le sue due famiglie si erano incontrate, una
serata che non avrebbe mai più dimenticato: da una parte suo
padre,
suo fratello e sua sorella, con gli occhioni spalancati e le bocche
aperte in perfetto sbigottimento, dall'altra quattro tartarughe e un
ratto mutanti con nervosissimi sorrisi e Isabel nel mezzo con lui che
faceva le dovute presentazioni. La sua famiglia aveva capito e
accettato quell'altra parte di sé, quei suoi strambi amici,
così
speciali e insostituibili, soprattutto grazie ad Isabel.
Niente
sarebbe stato possibile senza di lei, lo sapeva. La guarigione di suo
padre, per iniziare, e poi l'incontro tra la sua famiglia e loro,
resa possibile dalla sua relazione con Raphael... una parte di
sé
ancora stava male per Leo, doveva ammetterlo, ma era felice dell'aria
rilassata e felice che la coppia emanava; il leader poi sembrava aver
reagito alla cosa in maniera perfetta e lui lo conosceva ormai bene.
Il
fiero e inapprensibile leader si era un po' sciolto, era diventato un
po' più umano e la cosa sembrava in un certo senso
divertirlo; si
lasciava andare a qualche battuta in più ed era
più rilassato, cosa
che alleggeriva di molto l'atmosfera casalinga.
Gli
allenamenti con lui erano perfino più piacevoli e
coinvolgenti,
anche se ultimamente non aveva potuto usufruirne per via del torneo
per il quale si preparavano. Ma aveva deciso di andare al rifugio
ogni tanto per poter seguire i loro allenamenti, per imparare
qualcosa almeno assistendo alle loro sessioni intensive.
Camminava
con passo certo e sicuro, per le strade affollate e piene da
scoppiare: un paio di uomini in completo scuro e valigetta importante
alla mano gli andarono a sbattere contro nella loro fretta e nemmeno
si scusarono, come consuetudine nella frenetica New York. Non c'era
tempo di chiedere scusa o la calca avrebbe trascinato via il
malcapitato in pochi secondi; la cortesia era un lusso che la vita
convulsa della città non poteva permettersi.
Per
quel motivo, alla prima traversa disponibile, Steve virò e
si
allontanò dalle vie principali, preferendo un percorso un
po' più
tortuoso, ma tranquillo. Prese un bel respiro di sollievo nel vedere
poche persone camminare davanti a lui, di certo la sensazione di
spazio era rassicurante; trotterellò perciò con
più calma e
svagatezza, vagando con lo sguardo intorno, preso da sue riflessioni,
lo zainetto poggiato con nonchalance su una spalla.
Osservava
con pigro interesse i vari mondi visibili dalle finestre e sui
terrazzini, una anziana che stendeva in uno stendino in plastica,
una gatta nera che lo guardava a sua volta da un cornicione pieno di
vasi di fiori, un bambino che faceva ciondolare le gambine fuori
dalle sbarre del terrazzo, mangiando una merendina; sorrise
lievemente a tutto, godendosi la passeggiata.
Poi
i colori e le forme si confusero uno con l'altro, d'improvviso, i
punti fermi svaniti in un vortice confuso.
Un
violento impatto lo mandò a gambe all'aria col respiro mozzo
e sentì
un corpo caldo premere contro il suo con violenza: riuscì a
mettere
un piede indietro appena in tempo per non perdere l'equilibrio e
mandare tutti e due a terra.
“Mi
dispiace, io non... Steve?” disse la voce femminile,
interrompendo
le scuse con tono sorpreso.
“Isabel?”
rispose lui non appena riuscì a mettere a fuoco il
misterioso
assalitore, riconoscendo all'istante l'amica.
Sebbene
quel pallore mortale e quel lieve tremolio che la scuoteva non
potessero proprio dirsi normali e non sfuggirono ai suoi occhi.
“Scusami,
non ti avevo visto” si scusò contrita,
allontanandosi di un passo
da lui e controllando come stesse. “Spero di non averti fatto
male.”
“No,
solo sorpreso. Certo che avevi proprio una bella fretta!”
La
sua battuta scherzosa suscitò una strana reazione in Isabel:
se
possibile sbiancò ancora di più e gli occhi si
sbarrarono di quella
che sembrò paura.
“Io...
volevo arrivare presto a casa... sai sono un po' stanca e...”
tentennò in risposta, piuttosto nervosa.
Steve
riuscì a percepire una punta di panico e quasi si
rammaricò di
averle fatto in un certo senso pressione, di esserne la causa.
“Allora
facciamo la strada assieme? Stavo andando anche io al rifugio,
prometto che sarò svelto!” esclamò per
tranquillizzarla, con un
sorriso cortese.
Isabel
gli rimandò il sorriso, un po' meno aperto, ma sincero.
Si
incamminarono fianco a fianco e il ragazzo sentì la tensione
che lei
ancora emanava, come se non riuscisse o non potesse rilassarsi.
“Come...
come sta andando all'università? Tutto bene?”
domandò cauto,
provando a fare conversazione.
“Oh?
Sì, sì, stiamo già facendo laboratori,
un bel po' di dissezioni di
parti anatomiche e organi, un po' fa schifo a dire la
verità, ma
molto interessanti” rispose lei lievemente rinvigorita, come
se
stesse parlando davvero di qualcosa di coinvolgente e non delle
dissezioni di cadaveri.
“Sì,
fa un po' senso” concordò Steve, una mano
sull'addome, dove
sentiva nascere un conato di vomito al pensiero.
“Beh,
è utile, però... è un
peccato che Donnie se li stia perdendo. Gli toccherà
studiare come
un matto alla fine del torneo; certo che con quel suo cervellone non
sarà nemmeno troppo difficile.”
C'era solo
una lieve punta di
invidia nella voce della donna per l'indiscussa intelligenza di Don,
che gli faceva imparare tutto senza eccessivo sforzo.
“Adesso
è troppo concentrato
sugli allenamenti, non potresti mai distrarlo. Anche se è
strano
vedere uno così studioso come lui fomentarsi in quel modo
per un
torneo” disse il ragazzo saggiamente, sicuro di non sbagliare.
“Donnie
rimane sempre un
ninja, non solo un genio. E pare che nelle scorse edizioni del torneo
abbia perso nelle prime fasi e sia in cerca di riscatto. Si sta
allenando tantissimo, potrebbe farcela!”
“Ah,
sì, sono d'accordo. Da
parte mia è frustrante vederli allenarsi e non poterlo fare
a mia
volta... da una parte vorrei unirmi a loro, imparerei moltissimo! Ma
dall'altra so che li rallenterei e penalizzerei e non sarebbe
giusto.”
Ogni volta
che andava al dojo
rimaneva con lo sguardo incollato sulle loro meravigliose
performance, senza poter frenare una vena di emozione nel pensare a
quanto gli sarebbe piaciuto poter essere come loro. Sarebbe mai
arrivato al loro livello?
“Sei
molto gentile a
preoccuparti per loro.”
Cadde
un pesante silenzio, Steve era imbarazzato per il piccolo
complimento, Isabel stava pensando tra sé.
“Se
ti allenassi con me?” mormorò dopo pochi istanti.
“Come?”
Steve
si bloccò sorpreso e lei continuò a camminare per
qualche attimo,
prima di accorgersene e voltarsi a guardarlo.
“Possiamo
allenarci assieme. Non ho la pretesa di poter sostituire il maestro o
Leo, ma possiamo darci una mano a vicenda: io non perderei lo smalto
e tu potresti allenarti. Il sensei ti ha affidato due Tanbō,
vero?”
“Cos...
Sì, io, sì, è vero” rispose
intontito, stringendo inconsciamente
la tracolla della borsa con la mano, al cui interno stavano le
preziose armi.
Se
le era guadagnate dopo un faticoso e duro anno di allenamenti a mani
nude e quando il sensei gliele aveva affidate, con quello sguardo
fiducioso e fiero, si era sentito morire di felicità: due
Tanbō
in legno color noce, splendidi e perfetti e suoi.1
Mikey
era letteralmente esploso di gioia e non mancava mai di dargli delle
dritte su come usarli, anche se Leo cercava di frenarlo
perché non lo
confondesse più del necessario. Si era allenato da solo da
quando i
suoi amici erano impegnati con la preparazione al torneo, ma non era
stato lo stesso: l'offerta di Isabel sembrava proprio una manna dal
cielo e sarebbe stato stupito a non approfittarne.
“Ma
tu... non dovresti anche tu allenarti per il torneo? Sei stata
convocata.”
“Come
fai a sapere sempre tutto, piccola spia?”
Steve
sorrise furbetto, fiero di sé.
“Segreto.
Allora, non hai davvero intenzione di partecipare?”
“No,
non parteciperò. E non cambierò idea, anche se
qualcuno ci prova
ogni giorno” si lamentò lei, stancamente.
“Beh,
se davvero non hai intenzione di cambiare idea e se quindi non
è un
peso, accetto la tua offerta di allenarmi!”
“Oh,
ci divertiremo allora, scricciolo!” esclamò
divertita; sembrava
quasi di nuovo normale e serena.
Steve
continuò a tenerla d'occhio di soppiatto, con una strana
sensazione
addosso, mentre percorrevano l'ultimo tratto di strada prima di
arrivare alla rimessa che nascondeva l'ascensore per il rifugio; la
discesa fu stranamente silenziosa, ma nel contempo sentì la
tensione
dell'amica sciogliersi progressivamente, mano a mano che scendevano
verso il sottosuolo.
Rimase
solo una sottile aura di irrequietezza ad avvolgerla, così
lieve da
non poterla percepire se non ci si faceva davvero attenzione.
I
rumori della lotta si sentirono già all'aprirsi delle porte,
crescendo di intensità all'avvicinarsi al dojo.
Quando
entrarono ne furono completamente investiti, una babele di rumori e
grida, che contornavano una lotta variegata e variopinta, varie
sfumature di verde che sfrecciavano davanti ai loro occhi in tutta la
loro velocità e furia.
Mikey
contro Raph. Leo contro Don. Concentrati così tanto da non
aver
percepito l'arrivo dei due umani; il sensei invece fece loro un cenno
con la testa, frettoloso, prima di tornare a concentrarsi sulle
lotte.
Il
suo sguardo si incupì in un secondo e incontrò
quello sorpreso di
Raphael, fermo al centro del dojo.
Michelangelo
era sparito.
Un
secondo prima era lì che ruotava i Nunchaku e faceva
impazzire il
fratello, un secondo dopo era sparito alla vista con un balzo,
approfittando del passaggio di Leo e Don che combattevano tra loro.
Si
voltarono entrambi, cercandolo con lo sguardo, e la loro
perplessità
contagiò anche gli altri, che si erano intanto accorti di
cosa fosse
successo.
“Dove
diamine...” iniziò a sbraitare Raph, girando in
tondo per
percepire il fratello.
Un'ombra
nera cadde dal soffitto, repentina e improvvisa, e un forte tonfo
riempì il silenzio, legno contro metallo.
I
Tessen di Isabel splendevano alla luce, aperti nella loro gelida
bellezza per parare l'attacco dei Nunchaku di Mikey: il mutante
sorrideva alla sua sorellina, provando a forzare sulle sue armi per
farle perdere la presa.
“Oh,
non ancora” mugugnò Don esasperato, il cui lamento
però si perse
nel rumore dell'assalto successivo.
Mikey
era infatti saltato e nel contempo si era lanciato contro la ragazza,
facendo ruotare con violenza i Nunchaku, tanto da non riuscire
nemmeno a percepirli a occhio nudo: solo il sibilo feroce faceva
intuire la velocità con cui giravano.
Isabel
scartò a destra per allontanarsi da Steve, -inchiodato con
gli
occhioni azzurri sbarrati di sorpresa e paura,- poi piroettò
all'indietro, parando con un Tessen un colpo al volo diretto allo
stomaco scoperto, prima di atterrare qualche metro più in
là
carponi e col fiato corto, gli occhi attenti e vigili.
Michelangelo
era scomparso di nuovo.
Isabel
si alzò in un secondo e nello stesso momento
lanciò con un solo
gesto i Tessen all'indietro, alle sue spalle: si sentì il
loro
fruscio morbido fendere l'aria nel volo aggraziato, che tutti si
ritrovarono inconsciamente a seguire; con un tocco sordo le punte
acuminate incontrarono il legno dei Nunchaku, sradicandoli con forza
dalle mani del mutante e le quattro armi caddero al suolo con un
tonfo, i Tessen infilzati nei manici con forza.
Mikey
aveva un ghigno deluso, mentre ciondolava a testa in giù da
una
trave del dojo, aggrappato come un'edera.
“Scendi
giù! La devi piantare! E non ci pensare nemmeno ad
attaccarmi a mani
nude” lo sgridò Isabel, avvicinandosi a grandi
passi al punto dove
lui era appeso, guardandolo da sotto a su; c'era una sfumatura
abbagliante nei suoi occhi che non gli piacque.
Mikey
deglutì a vuoto, poi slacciò le gambe e si
lasciò cadere a terra,
atterrando agilmente davanti alla furente donna; Isabel emanava una
certa elettricità, cosa che lo spinse ad un gesto estremo,
per non
rischiare che lei lo fulminasse all'improvviso: allungò le
braccia e
l'abbracciò, con trasporto.
“Lo
sai che non ti farei mai del male, sorellina adorata. Lo faccio solo
per te” si scusò, stringendola forte, per
prevenire qualsiasi
scatto da parte sua.
Uno
scappellotto gli arrivò dritto sulla nuca, dolorosissimo,
strappandogli un grido.
“Ti
ho già detto di smetterla! Brutto idiota!” gli
urlò contro Raph,
continuando a colpirlo in testa.
“Ahi!
Ma io sto... ahia... cercando di... piantala! Sto cercando di fare
quello che nessuno qui sembra intenzionato a fare: convincerla a
partecipare al torneo!” si difese Mikey allontanandosi da
loro e
dalla mano aggressiva del fratello. Si massaggiò la testa
con
cipiglio offeso.
“Aggredendola
ogni due per tre? Sai che non funzionerà” si
intromise Don,
l'allenamento ormai abbandonato per seguire l'inatteso sviluppo.
“Sì,
beh, io almeno faccio qualcosa. Tutti voi volete che partecipi quanto
me, me l'hai detto proprio tu, Raph” disse il giovane,
guardandolo
di soppiatto, ancora ben lontano.
Perché
di certo Raphael l'avrebbe strozzato per aver confidato quella cosa a
voce alta.
Isabel
li guardò tutti, con quelle occhiaie scure che era sempre
più
difficile nascondere.
“Mi
fa piacere che mi vogliate con voi al torneo, non sapete quanto, ma
non fa per me. Ho già deciso di non partecipare e non
cambierò
idea, Mikey, anche se ti ringrazio della premura. Sono troppo...
stanca, incasinata, presa da altro per pensare a dovermi preparare
per una cosa così grande. Ma prometto che tiferò
per voi con tutto
l'entusiasmo che ho.”
Lesse
nei loro occhi la scintilla di comprensione, anche se quelli di Mikey
non riuscirono a nascondere quella vena di ribellione, che le faceva
temere che forse avrebbe provato ancora a dissuaderla.
“Adesso
vado in camera a cambiarmi, a dopo” esclamò
Isabel, voltando loro
le spalle e uscendo dal dojo.
Si
udì un sonoro schiaffo nel silenzio e un urletto di Mikey.
“Se
le dai ancora fastidio giuro che te la spacco quella testaccia,
idiota!” si sentì la voce minacciosa di Raph.
“Michelangelo”
squillò in contemporanea la voce autoritaria di Splinter. Il
giovane
si voltò verso il padre, già colpevole, senza
sapere bene perché.
Ma se il sensei lo chiamava in quel modo c'era di certo un motivo per
cui esserlo.
“Hai
abbandonato la lotta senza una buona motivazione. Fare il giro del
dojo di corsa fino all'ora di cena ti aiuterà a capire
perché non è
stata una buona idea” lo informò con pacatezza,
senza ammettere
repliche.
Mikey
lasciò andare uno sbuffo affranto, prima di voltarsi e
mettersi a
correre, boccheggiando per tutte le obiezioni che avrebbe voluto dire
per quella palese ingiustizia.
Gli
altri tre lo guardarono correre con un lieve ghigno, scuotendo la
testa.
La
risata sincera di Steve attirò l'attenzione di tutti.
“Scusate”
disse quello riprendendo fiato. “È
che Mikey è... proprio...” ridacchiò
più forte.
“Un
idiota” finì Raph, senza aspettare che lui dicesse
la sua.
“Beh,
dai, non fa le cose con cattive intenzioni” lo difese il
ragazzino,
con ancora il sorriso sulle labbra.
Stavano
tutti seguendo il povero mutante che correva in circolo per il dojo,
come una scheggia verde, nera e arancio. Per lo meno sembrava
divertirsi. Mikey era il più veloce e trovava divertente
correre per
poterlo dimostrare.
“No,
infatti. Le fa perché è stupido”
ribadì il concetto suo
fratello, con le braccia conserte.
“Credo
che per oggi gli allenamenti saltino, senza Mikey” disse Don,
occhieggiando il sensei. Quello gli restituì uno sguardo
pacato,
annuendo morbidamente.
Mancava
solo un'ora alla cena, un po' di pausa non avrebbe nuociuto.
“Perfetto.
Potremmo allenare un po' Steve. È venuto fin qui, possiamo
fargli
recuperare un po' di tempo perso” propose Leo con entusiasmo,
con
somma indignazione da parte degli altri due fratelli. Nessuno di loro
aveva intenzione di rimanere nel dojo un minuto di più.
Il
ragazzino arrossì lievemente al leggere quei palesi pensieri
sulle
loro facce, davvero allarmato di poter dare loro fastidio.
“Eh,
no, non c'è problema! Isabel si è offerta di
allenarsi con me
mentre voi siete impegnati” minimizzò subito, per
rincuorarli.
“Se
al sensei va bene” aggiunse in fretta, pensando di dover
chiedere
il permesso.
“Mi
sembra un'ottima idea” sorrise Splinter, piacevolmente
sorpreso.
“Ehy,
è a me che devi chiedere il permesso, scricciolo”
disse Raph,
afferrandolo per il collo all'improvviso. Lo strinse in un braccio
mentre con l'altro gli strofinava la testa.
“Tu
vuoi allenarti con Isabel, da solo, furbetto? E cosa ci facevi con
lei? Siete arrivati insieme” lo torchiò, per
niente serio, solo
con una gran voglia di dargli fastidio.
Steve
però non poteva vederlo in viso e si stava spaventando per
davvero.
Una parte di lui trovava Raphael ancora minaccioso, altro che cinque
centimetri in più e sicurezza in sé.
“No,
io no, è stata lei a propormelo! L'ho incontrata per caso...
stava
correndo a casa come una pazza e mi è venuta a sbattere
addosso,
io...” si difese sempre più paonazzo, provando a
svicolare dal
braccio muscoloso di Raphael.
Quello
ne ebbe pietà e lo lasciò andare, trattenendosi
dal ridere.
“Vedi
di fare da bravo, scricciolo. Ti tengo d'occhio” lo mise in
guardia, puntandogli un dito contro.
“Non
sono uno scricciolo!” Si offese Steve, appiattendosi i
capelli
scarmigliati con le mani.
“E
sono anche più alto!” aggiunse fiero, senza motivo.
Raph
rise e anche Leo e Donnie non riuscirono proprio a trattenersi, anche
se senza alcuna cattiveria. Mikey passava lì vicino e rise
anche
lui, mentre correva. I cinque iniziarono a battibeccare, senza
accorgersi dell'occhiata cupa del loro maestro, che cercava di
afferrare qualcosa di misterioso, passato inosservato agli altri.
La
cena venne gentilmente preparata da Isabel e Steve, per quella sera,
che concessero un po' di riposo ai quattro: Mikey si
presentò a
tavola appena in tempo, stravolto e sudato per la corsa, e
trangugiò
tre porzioni enormi di pasticcio di carne prima di ritenersi
vagamente soddisfatto.
Mentre
i due umani pensavano a riordinare, gli altri si preparano per la
ronda notturna, soffocando sbadigli stanchi.
“Ehy,
Steve, appena hai finito andiamo. Ti accompagniamo a casa”
disse
Leo, entrando nella cucina, pronto per il giro.
Il
ragazzo asciugò le mani sullo strofinaccio, mentre Isabel
riponeva
gli ultimi bicchieri nello scolapiatti, poi cercò il suo
zainetto
con lo sguardo.
Isabel
si avvicinò alla porta per salutarli, assieme al sensei.
Raph stava
infastidendo Steve, perciò non le stava prestando molta
attenzione.
Ci
fu uno sguardo brevissimo tra lei e Don, invece, come uno scambio di
pensieri: lui occhieggiò verso Raph in una domanda muta e
lei scosse
brevemente la testa, in segno di diniego. E Don si accigliò.
Veloce.
Nessuno poteva essersene accorto.
Poi
l'ascensore si chiuse sulle loro facce, portandoli su.
Nel
silenzio, Isabel sospirò lievemente, stanca, davvero stanca.
Si
avvicinò alla cucina per riporre lo strofinaccio che ancora
teneva
tra le mani.
“Spengo
in cucina e poi salgo a coricarmi” informò a voce
alta, già
pensando a tutt'altro, senza nemmeno controllare dove fosse il
maestro.
“Se
non ti dispiace, preferirei che parlassimo un po', prima”
esclamò
la sua voce autoritaria, senza mostrare inflessioni. Eppure il sangue
le si ghiacciò nelle vene.
Si
voltò, sorpresa, ma lo sguardo deciso che
incontrò nel viso di
Splinter non ammetteva rifiuti, non lasciava scampo.
Annuì
e lo precedette in cucina, dirigendosi senza esitazione al mobiletto
delle spezie, per prendere il barattolo del tè. Sentiva che
di
qualunque cosa il sensei volesse parlare, necessitava di un
tè caldo
per poterlo affrontare.
L'anziano
aspettò pazientemente che lei scaldasse l'acqua e la
versasse nelle
tazze, e che si sedesse, senza dire una parola, in quieta attesa.
Isabel
si ancorò convulsamente alla tazza bollente, dilaniata da
una
sottile paura, incapace di prendere per prima la parola. Il vapore le
finiva dritto in faccia, rendendo tutto indistinto.
“Ho
notato vari segnali, figliola. La tua ansia, il tuo pallore,
quell'aura di tensione che ti avvolge, ma non ci avevo dato molto
peso. Ero troppo preso dagli allenamenti per accorgermene e avevo
dato la colpa allo studio, minimizzando la cosa... ma adesso non ne
sono più sicuro. So che stai nascondendo qualcosa”
affermò certa
la voce del sensei, vorticando assieme al tè verdognolo.
Isabel
trattenne il respiro, presa in castagna. E non alzò la
testa,
nonostante tutta la sua attenzione fosse per lui. Sapeva che non
avrebbe potuto sfuggire a quello sguardo penetrante che sembrava
leggere dentro.
“Che
cosa sta succedendo? E non mentirmi questa volta, per favore”
incalzò lui, gentilmente e fermamente.
La
cucina pareva un luogo piccolo, piccolo, da cui non sarebbe potuta
scappare. Era lì e doveva parlare con lui.
Chiuse
gli occhi, meditabonda, cercando il coraggio.
Trasse
un grosso respiro.
“Qualcuno
mi sta controllando, sensei” rivelò con un
sospiro, attendendo con
terrore la sua reazione, tesa come una corda di violino. Lui si erse
dalla sorpresa e preoccupazione, affilando lo sguardo e tendendosi
verso di lei.
“Chi?
Da quanto? Raccontami ogni cosa!” le ordinò, con
una voce
imperiosa che però tradì la sua paura.
Si
era aspettata quella reazione, si era aspettata quelle onde di furore
che il sensei aveva iniziato ad emanare.
“Da
qualche settimana” iniziò a raccontare, sollevata
sempre più
parola dopo parola. Aveva tenuto quel segreto così a lungo,
vivendo
nella paura, che liberarsene fu come levarsi una scheggia di vetro
dal cuore dopo anni di patimenti.
“È
successo per caso. Stavo tornando a casa, chiacchierando con delle
amiche di università, quando una sensazione penetrante mi ha
colpita: qualcuno mi stava osservando. Ho pensato che fosse solo un
passante o qualche amico che magari mi aveva scorta da lontana e ho
cercato di scacciare via la sensazione... ma lo sai, sensei, ho
vissuto sempre da preda, conosco la sensazione di un cacciatore che
sta tenendo d'occhio la sua, ed era proprio quella: il panico
soffocante che ti tiene incollato al suolo senza respiro per attimi
infiniti e poi il sangue che inizia a correre furiosamente nelle
vene. Freddo. Sangue freddo.
Da
quel giorno, non ho fatto altro che sentire quello sguardo attorno,
costantemente, senza tregua. Ho cercato di far perdere le mie tracce,
ma mi seguono dappertutto. Sono tranquilla solo perché so
che
nessuno può entrare qui grazie alla magia delle pietre
Y'Lyntian.
Solo qui sono al sicuro, solo qui sono schermata. Ma ho iniziato ad
avere paura, lo confesso. ”
Il
volto di Splinter era livido di rabbia trattenuta, che cercava di non
mostrarle. Oh, era così arrabbiato da non accorgersi che il
controllo sulle sue emozioni era spezzato, che lei poteva sentire
tutto.
“Non
hai scorto nessuno? Non hai percepito nulla coi tuoi poteri?”
sembrò quasi urlarle contro.
“No.
Ne ho cercato la fonte, ma invano. Ho provato a fare qualche
incantesimo per tracciare le sue coordinate o capire chi fosse, ma
senza successo. E proprio per questo credo che chiunque sia abbia dei
grandi poteri egli stesso: è come se mi seguisse da lontano
e
nonostante io cerchi di schermarmi non riesco a sfuggirgli. E non so
nemmeno cosa possa volere da me... la mia magia? O magari è
qualche
organizzazione che vuole studiarmi o fare degli esperimenti
o...”
“Potrebbe
essere qualcuno del tuo regno? Un mago venuto a cercarti, qualcuno
del tuo seguito?” domandò Splinter, cercando di
calmarsi per farla
calmare, anche se la luce feroce nel suo sguardo non si era placata.
“No,
non credo. Sono stata al regno in primavera per il rito di potere
della terra, per favorire la prosperità, e non ho percepito
niente
di strano, nessuna sensazione negativa. Il mio inseguitore
è...
penetrante. Emana un'aura ostile e pressante, una che non conosco,
come se stesse cercando di testarmi, di torchiarmi, di spingermi allo
scoperto.”
Splinter
si alzò dal posto e iniziò a camminare a piccoli
passetti nervosi,
in circolo, meditando nel frattempo tra sé.
“Perché
non ce ne hai parlato? Perché non ne hai parlato con
Raphael?” la
accusò, nemmeno molto velatamente. La stava sgridando e lei
lo
sapeva.
Sorrise
tristemente, piegando la testa di lato.
“Maestro,
sappiamo entrambi com'è fatto Raffaello: se sapesse che sono
seguita
entrerebbe in paranoia e diventerebbe iperprotettivo. Non dormirebbe
né riposerebbe pur di scoprire chi mi minaccia e non so cosa
gli
farebbe una volta trovato. Non voglio allarmarlo, non voglio
scatenare la sua parte rabbiosa e insicura finché non ne so
di più.
Ecco perché non ho detto nulla. Volevo cercare di capire da
sola,
volevo prima avere qualche dato tra le mani, qualche certezza o
almeno una teoria. Perché... Raffaello è una
furia che nasce con un
solo soffio, ma difficile da spegnere.”
Il
maestro rimase assorto, carezzando il pizzetto. Sorrise solo per un
secondo al sentire la sua ultima frase, perché lo aveva
pensato
spesso anche lui. E capì le sue paure, anche se avrebbe
voluto
sapere prima un pericolo simile.
“Voglio
che tu stia al rifugio, d'ora in poi...” iniziò a
dire, severo,
voltandosi a guardarla.
“Ma
le mie lezioni! Non posso mancare, sensei. Sono importanti. Per
voi!”
lo interruppe Isabel con foga, poggiando i palmi sul tavolo per
sollevarsi un poco. Lui la osservò intensamente, ma lei
sostenne il
suo sguardo.
“Tu
sei più importante. E finché non ne sapremo di
più...”
“Ti
prego! Manca così poco. Tutto il lavoro fatto, per potervi
aiutare,
per esservi d'aiuto... non posso lasciare adesso! Potrebbe non essere
niente!”
Ansimò
riprendendo fiato, decisa a non demordere. Avrebbe tanto voluto non
aver parlato, in quel momento: sapeva che ne sarebbe nata una
tragedia, che avrebbero cercato di proteggerla e tutto il resto, ma
non credeva che lo studio ne sarebbe andato di mezzo, che le avrebbe
proibito di uscire per... quanto? Sempre? Finché non
avessero
scoperto chi la inseguiva? E se non l'avessero scoperto mai?
Sentì
il respirò roco di Splinter, che sembrava preda di tormenti
e dubbi
come i suoi.
“Puoi
frequentare le lezioni. Ma voglio che torni subito qui una volta
terminate, almeno finché non ne sappiamo di più.
E Leonardo verrà
informato della situazione e ti farà da guardia”
concesse alla
fine, con uno sguardo secco, non discutibile.
Isabel
spalancò la bocca, sorpresa.
“No!
Non... no...”
Non
poteva coinvolgere Leo dopo tutto quello che era successo. Se avesse
cominciato a stare troppo con lui, senza che Raphael sapesse
perché,
sarebbe successo il finimondo. E non poteva dirlo ancora a lui, anche
se il sensei sapeva, se non voleva trovarsi chiusa in camera per
sempre sotto la sua protezione.
E
non voleva comunque che Leo si sentisse in dovere di proteggerla...
non voleva riscatenare nulla, non voleva stargli tra i piedi e farlo
star male.
“Sensei,
sono capace di proteggermi, lo sai. Starò attenta e
tornerò
immediatamente qui una volta finite le lezioni. Non c'è
bisogno di
allarmare gli altri. Per favore!” supplicò con
tutte le sue forze,
provando a smuovere la sua decisione.
“Isabel,
io spero tu sappia che ti amo come una figlia. Non ti ho adottata
formalmente, il tuo cognome è sempre quello dei tuoi
genitori, ma è
come se lo avessi fatto. I miei figli ti considerano come una sorella
acquisita e spero che tu mi consideri come un padre.”
I
suoi occhi si inumidirono, di commozione. C'era un tono affettuoso
nella severità della sua voce. Sapeva che teneva a lei,
certo che lo
sapeva. Splinter era il padre che si era scelta, che l'aveva scelta,
l'unico che potesse affiancare la figura di suo padre, nel suo cuore.
Annuì
dolcemente, sconfitta.
“Voglio
sapere che stai bene, che tornerai sana e salva a casa. E se devo
incorrere nella tua disapprovazione per farlo... lo farò. Le
mie
disposizioni sono queste, sta a te scegliere: al rifugio tutto il
tempo o alle lezioni controllata da Leonardo.”
Non
le avrebbe detto altro. Lo sapeva. Inchinò il capo.
“Come
desideri, sensei. Se non ti è troppo disturbo ragguaglia tu
Leo”
soffiò atona, alzandosi dal posto.
“Desidero
solo il tuo bene, Isabel” disse la voce di Splinter con
affetto,
bloccando la sua camminata verso l'uscio.
“Lo
so... padre” rispose spalancandolo e uscendo con passo svelto.
Un
segreto era stato svelato e se da una parte ne era felice, -si
sentiva sicura ad averlo condiviso col maestro,- dall'altra le
sembrava che tutto si stesse solo complicando, che le risposte
fossero sempre più lontane.
E
in fondo c'era ancora un'altra cosa da affrontare, lo sapeva.
Presto
o tardi, con assoluta certezza.
1:
Il Tanbō è
un bastone di legno
molto corto, solitamente un terzo del Bō (60 cm) ma in genere la
lunghezza si può scegliere per essere più adatta
a chi la usa. Ci
sono varie tecniche per la difesa e l'attacco ed è un'arma
molto
discreta. Si può usare anche come precursore della ninjato,
per
apprendere le tecniche di spada. Steve ne ha due di 35 centimetri, ma
a volte ne usa uno solo.
Note:
Buon
giorno a tutti!
Sono
ancora in ritardo, scusate. Non sto ad assillarvi coi miei problemi,
ma purtroppo non ho proprio potuto mettere il capitolo prima.
Perdono.
Grazie
per la vostra pazienza e la vostra comprensione, non ne sono degna.
Un
mistero è infine venuto a galla, anche se so che non era
quello che
volevate davvero sapere! Ma in questa storia non ci sono pochi
misteri e anche se questo è venuto fuori, chissà
come evolverà.
E'
una storia lunga e complessa, abbiate la pazienza di vedere come
entra nel vivo. ^_^
Un
abbraccio fortissimo
Grazie
mille per seguire la storia!
|
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Capitolo 4 *** What's going on? ***
Una
settimana corse via e la metà di Settembre era
già arrivata,
eppure tutto sembrava così statico, costantemente identico,
alla soglia della sopportazione: allenamenti, ronde,
sonno.
I
quattro mutanti erano quasi al
limite, le loro potenzialità affinate
dall'intensivo
addestramento, ma fiaccati dallo sforzo senza fine né soste.
Michelangelo non mancava di lamentarsi ogni giorno per tutti i
videogiochi e i fumetti che non era riuscito a leggere in quegli
ultimi quindici giorni e il sensei rispondeva sempre che dovevano
solo pazientare ancora un poco.
“Ma
la pausa ci sarà, vero? Non credo di farcela fino alla fine
del
mese” si lagnò a voce alta, scansando un colpo di Bō
verso la faccia.
“Sì,
e ho una sorpresa per la vostra pausa” rispose enigmatico
Splinter,
facendo distrarre il figlio, che si prese la successiva sferzata del
bastone dritta in testa, facendo scoppiare a ridere un esausto
Donatello.
Raphael
e Leonardo erano troppo intenti a sfidarsi con intenti omicidi per
accorgersene, cercando di prevaricare uno sull'altro. Emanavano
un'aura spessa e minacciosa che suggeriva di non avvicinarsi a loro
nemmeno per sbaglio.
In
un angolino del dojo, Isabel e Steve si allenavano assieme,
più
svagatamente e senza fretta, ad un ritmo consono per entrambi: prima
un po' di meditazione, dove prepararsi per le strategie e la
lucidità
mentale, poi esercizi di parate e affondi, infine un breve scontro
amichevole, niente di troppo complesso. Certo,
Steve trovava più difficile allenarsi con lei che non con
Leo o il
sensei: era pur sempre una donna e non riusciva a colpirla, o
toccarla più di tre secondi senza arrossire.
“Se
qualcuna ti desse fastidio a scuola, come faresti?” lo
sgridò,
mentre lui svicolava dalla sua presa con la faccia rossa e il respiro
corto.
“Io...
io non posso picchiare una ragazza!” si difese, prendendo dei
grandi respiri per calmarsi. Isabel si avvicinò e gli
tirò un
buffetto sulla testa, corrucciando le sopracciglia.
“Sbagliato.
Se una ragazza vuole farti del male fisico, hai tutto il diritto di
difenderti. Se queste sostenitrici della parità dei sessi
vogliono
attaccare un'altra persona, si prendano anche le conseguenze. Non
c'è
maschio o femmina: c'è solo un avversario. Non ti sto
dicendo di
stenderle per forza, ma difenditi e rendile inoffensive!” gli
spiegò con sussiego, agitandogli un dito davanti alla
faccia.
Poi
prese i Tessen nelle mani, ma senza aprirli, usandoli come clavette
per un attacco frontale.
“Non
vedermi come una donna, forza, difenditi” esclamò
in
contemporanea, allarmandolo sempre di più.
Steve
trattenne il respiro e strinse la presa sul Tanbō,
sollevandolo in difesa: uno dei Tessen venne deviato con successo,
mentre l'altro gli correva ancora dritto verso la faccia;
strizzò
gli occhi, aspettando l'impatto con un filo di terrore. Dopo alcuni
istanti di silenzio si arrischiò a socchiudere una palpebra
titubante, occhieggiando la situazione: il Tessen era ad un
centimetro dal suo naso, immobile.
“Non
devi solo bloccarmi! Dovevi rimandarmi indietro l'attacco, colpendo
con più forza” lo sgridò Isabel, che
aveva fermato il colpo
giusto in tempo.
Il
ragazzo annuì sollevato, lasciando andare il respiro teso.
“Sei
troppo gentile con le donne! Ti faranno a pezzettini”
continuò
lei, appoggiando il ventaglio sulla sua fronte per rimarcare il
rimprovero. “Ma ne farai innamorare parecchie.”
Steve
avvampò come un fuoco, cercando di schermarsi dal suo
sguardo in
imbarazzo.
“No,
io non...” farfugliò confuso; “...loro
non pensano... mi trovano
strano...”
Isabel
gli sorrise, sicura, certa di ciò che stava dicendo. E gli
strofino
i capelli con una mano, adesso che ancora ci arrivava: quello
scricciolo stava crescendo così in fretta che sarebbe
diventato un
gigante in un battito di ciglia. E avrebbe avuto frotte di ragazze a
corrergli dietro.
Ripresero
l'allenamento, pronti a occupare quelle ore con profitto, prima della
cena.
Isabel
tornava ormai a casa appena finite le lezioni già da una
settimana,
boicottando i laboratori o le lezioni extra nel padiglione di
veterinaria, ma Raphael non sembrava essersi accorto
dell'inusualità,
per fortuna. O meglio, si era accorto che lei passava le sere a casa,
ma non aveva dato peso alla cosa in maniera negativa, anzi;
ovviamente perché non sapeva la verità dietro
quei suoi rientri
anticipati.
Leo
che la scortava come un'ombra la mattina mentre si recava alle
lezioni e lo stesso Leo che appariva appena prima della fine delle
stesse, puntuale, per proteggerla e controllarla.
Come
si sarebbe arrabbiato Raffaello se l'avesse saputo. Quanto avrebbe
dato di matto, quando probabilmente l'avrebbe scoperto.
Sbuffò
per il peso dei libri, sistemando meglio la tracolla sulla spalla per
riequilibrarsi, nel tragitto verso il rifugio. Una intera giornata
senza laboratori voleva dire più libri di testo da portarsi
dietro
ed erano decisamente pesanti. Senza contare tutti gli appunti presi e
i Tessen in ferro che se la ridevano della sua fatica.
Caracollò
sotto il peso e il sole battente, fortunatamente smorzato da una
lieve brezza di metà Settembre: non mancava molto
all'equinozio
d'autunno, per fortuna; non vedeva l'ora che arrivasse un po' di
freddo e che le foglie iniziassero a cadere. Amava l'autunno.
Certo,
se quel clima di paura non si fosse sciolto presto, probabilmente non
avrebbe mai potuto uscire per goderselo, costretta a nascondersi
prima ancora che il sole tramontasse. Chi mai poteva essere il suo
misterioso inseguitore e che poteva mai volere da lei? Ci aveva
pensato così tanto e così a lungo, ma non era
arrivata a niente,
solo teorie, solo paure. E il pensiero di prendere qualcosa di
così
evanescente e misterioso si faceva sempre più difficile; ma
allora,
quando sarebbe tutto finito?
Sollevò
distrattamente lo sguardo, individuando con la coda dell'occhio
l'ombra scura che saltava sui cornicioni dei palazzi mentre la
seguiva, silenziosa e invisibile.
Era
grata a Leo e al maestro per la loro premura, ma si sentiva in
gabbia. Forse quanto si sentiva nel mirino predatore del suo
misterioso inseguitore, la stessa sensazione di costrizione, a cui
non era abituata; aveva vissuto sempre sola, senza dover rendere
conto a nessuno, e a volte il loro affetto soffocante la spiazzava,
la disturbava. Stava ancora imparando a vivere e convivere con
quell'enorme famiglia dai legami così stretti.
Per
Leo, poi, sentiva una specie di senso di colpa. Si rammaricava che
fosse stato messo al corrente e gli fosse stato affidato un incarico
così impegnativo e distraente, mentre lui doveva impegnarsi
ad
allenarsi, invece. Sentiva di sottrargli tempo prezioso, di potergli
dare fastidio, e non le piaceva.
Prese
il telefono dalla taschina del giubbottino smanicato e compose il
numero, assorta. Lo portò all'orecchio e attese; da lontano
udì un
trillo familiare, che si ripeté a lungo prima che
l'interlocutore
rispondesse.
“Pronto!”
strillò la voce nel suo orecchio, parecchio alterata.
“Ciao,
Leo” rispose a sua volta.
“Cos'è
successo... perché... hai sentito qualcosa?”
farfugliò sempre più
veloce il leader, e anche se non poteva vederlo sapeva che si stava
guardando freneticamente attorno, sul chi vive.
“No,
calmati. Ti ho chiamato per parlare un po'. Non mi piace che te ne
stia lassù da solo, nell'ombra, a controllare
attorno” lo
rassicurò Isabel in fretta, per metterlo a suo agio.
Sentì
un sospiro rincuorato, dall'altra parte del ricevitore.
“Se
mi chiami è ovvio che pensi al peggio! Non c'era davvero
bisogno”
la sgridò subito, facendole un po' rimpiangere di averlo
chiamato in
effetti.
“Va
bene, se non vuoi parlare con me, allora chiudo”
ribatté offesa,
allontanando l'apparecchio dalla testa.
Un
“aspetta, aspetta” urlato nel ricevitore le
arrivò all'orecchio
e riavvicinò il telefonino con un sorriso dispettoso.
Poi
restò un po' ad ascoltare un flebile fruscio, solo quello.
“Di
cosa volevi parlare?” soffiò infine Leo,
arrendevole.
Isabel
continuava a guardare davanti a sé la strada colma di gente,
facendo
la gimcana con scioltezza ed eleganza. Con la testa non era davvero
lì, era sul tetto ampio e libero insieme a Leo.
“Volevo
ringraziarti. E chiederti scusa. Mi dispiace di averti invischiato in
questa cosa, credimi non avrei voluto” confessò,
evitando con una
scartata a destra una fila di turisti che veniva contro di lei.
“Se
è solo per questa sciocchezza lo chiudo io il
telefono” si sentì
rispondere, in tono stizzito.
“Sono
seria! Non volevo che perdessi tempo dietro a me, solo per un dubbio
e proprio tu, che...”
Non
sapeva continuare la frase, sapevano entrambi come finiva in fondo.
Ci
fu lo statico della chiamata in sottofondo per qualche attimo, pieno
di imbarazzo. Poi la voce titubante di Leo chiese:
“È
per quello allora? Se io non fossi stato... non ti saresti sentita in
colpa, allora?”
“No,
cioè sì. Voglio dire, certo che sì.
È solo che mi sembra di
approfittarne, mi sembra sbagliato e voglio essere sicura che tu stia
bene.”
Lo
sentì sbuffare, sottilmente.
“Sei
seguita e ti preoccupi per questo? Per me? Non è proprio la
cosa da
fare per farti dimenticare.”
Fu
il suo turno di trattenere il fiato, presa di sorpresa. Leo aveva
assicurato a Raph che non provava più niente per lei, -li
aveva
sentiti parlare,- ma sembrava differente in quel momento quello che
lui intendesse.
“Senti,
non devi fare quella faccia. Sì, la vedo anche da
quassù. Mentirei
se ti dicessi che non provo più nulla per te,
-sì, lo so cosa ho
detto,- ma quello che provo è in un certo senso cambiato,
non ho
detto una bugia. Io tengo a te, e tengo alla tua felicità;
sono
felice di vedere te e Raph assieme, e sono sincero. Perché
siete
entrambi importanti, vi amo entrambi. E finché voi starete
bene, io
starò bene. Perciò smettila di preoccuparti per
me, come se io
fossi una ragazzina che piange la notte per un amore non
corrisposto”
la riprese con foga, e fu quasi certa che la sua voce l'avesse
sentita dal vero, da quanto alta fosse.
Rallentò
un po' per lasciare che un elegante uomo d'affari la superasse e la
smettesse di colpirla alla coscia con l'angolo della sua valigetta
nera. Solo per puro istinto non si voltò per guardare
palesemente in
alto e provare così a vedere l'espressione di Leo, anche da
lontano,
per sapere se fosse sincero.
“No,
io non intendevo... vorrei solo che non fosse così
complicato e non
voglio darti fastidio e approfittare del tuo buon cuore.”
“Ma
non è complicato. Va tutto bene. E non approfitti di
nulla... sono
stato contento quando il sensei mi ha affidato l'incarico, a dire la
verità. Non per la situazione, quella mi ha preoccupato
molto, ma
perché posso esserti utile. Avevo paura di perderti, in un
certo
senso. Che mi evitassi per l'imbarazzo, che ci allontanassimo. Posso
invece esserti d'aiuto e questo mi rende felice. Siamo una famiglia,
no?”
Il
tono di Leo era assolutamente sincero. E dolce. Com'era stata stupida
a farsi prendere da tutte quelle paturnie e stupidaggini per la
mente, quando in realtà era così semplice e
genuino il sentimento
di Leo. Si vergognò quasi della figura stupida che aveva
fatto, di
fronte alla splendida persona che era l'amico; aveva pensato con
egoismo solo a quello che lei pensava potesse dargli fastidio, ma lui
era ad un altro livello, era migliore, era speciale.
“Hai
ragione. Scusa se non ci sono arrivata prima. E grazie. Sei
decisamente un perfetto e sagace leader, sono contenta che vegli su
di me da lassù.”
“Ma
figurati: tu chiama, io appaio. E poi diciamolo, mi è andata
anche
bene: mi prendo delle brevi pause dagli allenamenti. Gli altri tre
finiranno per stramazzare, di questo passo.”
Ridacchiarono
entrambi, ricordando come Mikey si fosse addormentato dentro al
piatto di purè la sera prima a cena. Poi Isabel venne presa
da un
dubbio, perciò davvero curiosa chiese:
“Non
si sono accorti che sparisci?”
“Il
tragitto è breve e manco per poco, in fin dei conti. Con
delle
banali scuse me la cavo e il sensei mi dà una mano spesso,
dandomi
dei compiti da svolgere da solo, perciò no, tranquilla,
nessuno ha
capito nulla” si affrettò a rassicurarla, calcando
inconsciamente
il tono su quel nessuno, che invece era un certo qualcuno che lei non
voleva sapesse.
“Suona
sbagliato e immorale detto così”
soffiò Isabel, quasi tra
sé.
“Perché
non glielo hai detto?” l'accusò sottilmente la
voce di Leo, così
penetrante da farsi strada fino al cervello, fino alla parte dove
dimorava il senso di colpa.
Il
nome non era nemmeno necessario, era palese che parlavano di lui.
“Perché
so quanto è insicuro. So quanto è protettivo. E
dovresti saperlo
anche tu. Che se glielo avessi detto in questo momento starebbe
rivoltando la città come un calzino, senza riposare nemmeno
un
secondo fino a trovare chi mi sta seguendo. O che mi terrebbe chiusa
al rifugio sotto il suo sguardo ventiquattro ore su ventiquattro per
sapermi al sicuro, o probabilmente ancora un miscuglio di queste due
cose finché non sverrebbe per un esaurimento, per lo stress
e il
poco sonno, per la paura costante che se lo mangerebbe, travestita da
rabbia. Raffaello vuole proteggermi, lo capisco, ma è il
primo da
proteggere. Da sé stesso e tutte le sue paure che non se ne
sono
ancora andate, che sono sempre lì. E quella di perdermi
gliel'ho
instillata io, non posso alimentarla ancora.”
Aveva
promesso di proteggerlo e lo avrebbe fatto. E non l'avrebbe mai
lasciato, non si sarebbe mai più allontanata da lui, per
nessun
motivo al mondo. Ma la paura di Raffaello non si poteva cancellare
solo con una promessa.
“Ecco,
se però fai la sdolcinata su Raphael con me, te lo chiudo
davvero il
telefono in faccia” fu la risposta stizzita e improvvisa di
Leo,
per niente seria, che le strappò una risatina sorpresa.
“Sul
serio, lo capisco. Ho vissuto con Raph da sempre, lo conosco meglio
di chiunque altro... anche perché la metà dei
suoi scatti d'ira
erano contro di me, non potevo fare altrimenti se non cercare di
capire perché. So che è insicuro e hai ragione in
tutte le tue
ipotesi, però... lui merita di saperlo. Lui ha il diritto di
saperlo. Sei la sua ragazza, sei la persona che ama di più
sulla
faccia dell'intero pianeta, e lui dovrebbe sapere che forse sei in
pericolo, che c'è un problema che ti riguarda. E poi
lasciargli
affrontare la cosa a modo suo.”
Isabel
sbuffò incredula col naso, con un'espressione
così comica che
parecchie persone che arrivavano dall'altro verso la guardarono con
curiosità.
“Mi
stai chiedendo di dargli fiducia? Di pensare che potrebbe anche
sorprendermi nei suoi atteggiamenti e comportarsi più
razionalmente?” domandò scettica, pensando che
fosse impazzito.
“No,
sicuramente uscirà come una furia dopo averti chiusa a
chiave in
camera e picchierà chiunque gli appaia davanti con una
espressione
lievemente corrucciata. Senza alcun dubbio è proprio come un
invasato che si comporterà. Ma ha diritto di sapere, di
farsi
bagaglio di metà di quella paura che ti attanaglia e
supportarti. Se
io fossi lui, se avessi scelto me... io vorrei che la ragazza che amo
non mi nascondesse nulla, nessuna cosa.”
“E
se quello che vuole nasconderti fosse per il tuo bene, per non farti
star male?”
“Se
ti fa star male, perché dovresti affrontarlo da
sola?” mormorò
Leo, con sentimento.
Isabel
sorrise malinconicamente, con una lieve stretta al cuore.
Perché
c'era una profonda verità nelle sue sagge parole.
“Devi
smetterla di essere così perfetto! Anche nei ragionamenti,
sei
frustrante! Non si può parlare con te!”
sbottò piccata, lieta di
sentire una lieve risata dall'altra parte.
Svoltò
l'angolo per il vicoletto che l'avrebbe portata al garage con
l'entrata dell'ascensore, ma un'ombra calò giù
assieme alla
scaletta antincendio, con un colpo. Leo era attaccato con le gambe, a
testa in giù, il telefonino ancora premuto contro l'orecchio.
“Perché
ho ragione. Comunque se vuoi sei ancora in tempo a lasciare
quell'idiota di mio fratello, io so già tutto, non hai
bisogno di
dire nulla” la punzecchiò, con una strizzatina
d'occhio, tutto
fuorché serio.
Lei
scosse la testa, trattenendo una risata.
“Dovremmo
scappare molto lontano, allora. Raffaello ti cercherebbe fino alla
fine del mondo per staccarti la testa, e forse non risparmierebbe
nemmeno me” rispose per le rime, mentre lui scendeva dalla
scaletta
e le si faceva vicino ed entrambi chiusero la chiamata.
“L'Amazzonia
va bene? È enorme, non ci troverà mai!”
“Ci
sono stata, sai? Tanto tempo fa” lo informò,
strizzando gli occhi
per un improvviso cerchio alla testa, che se ne andò veloce
come era
arrivato.
Erano
arrivati intanto al garage, nella soffusa e fresca penombra
polverosa, disseminata di macchine e furgoni su cui Donnie ogni tanto
metteva mano, in cerca di pezzi.
C'era
anche la nera moto di Raph in un angolo, che scintillava maligna nei
tubi argentei nella sua direzione.
Leo
scendeva sempre per primo, senza farsi scorgere. Isabel doveva invece
aspettare tranquilla per almeno una decina di minuti, senza
allontanarsi dal perimetro del garage, dove era al sicuro.
Lì dentro
la sensazione di panico che la pressava all'esterno era già
diminuito, anche se solo una volta nel rifugio vero e proprio si
sentiva a suo agio, completamente schermata.
Dondolò
da una gamba all'altra sul posto con un po' di agitazione,
controllando l'orologio con frenesia, impaziente che il tempo
passasse. Infine, con sollievo, chiamò l'ascensore e ci si
infilò
in fretta dentro, lasciando andare un sospiro quando le porte si
chiusero e iniziò la discesa morbida.
Ripensò
con un sorriso alla strana chiacchierata che aveva avuto con Leo. Era
felice di averne avuto l'occasione, era felice di aver capito come si
sentisse, cosa provasse, ed era stata una stupida a comportarsi in
maniera imbarazzata con lui. Nemmeno lei voleva che si creassero
tensioni, che potessero allontanarsi. Leo era come un fratello, e
prima o poi tutto sarebbe scomparso anche nel cuore di lui e lui
l'avrebbe considerata una sorella a tutti gli effetti, ne era certa.
E
poi le tornarono alla mente le sue parole ed erano così
giuste. Era
ora che parlasse con Raphael, che quel segreto che teneva da
così
tanto tempo uscisse fuori.
Pregando
che tutto andasse bene.
Le
porte si riaprirono sul rifugio tutto illuminato e un gran vociare,
dall'altro lato del piano terra.
“Sono
tornata!” strillò, contenta di vedere
così tante facce. Mikey si
staccò dal gruppo e le corse incontro, con le braccia
già
spalancate.
“Cosa
succede?” riuscì a chiedere la povera ragazza
stretta nella sua
morsa, occhieggiando gli altri mutanti e la famiglia Jones seduti
nell'area video, con patatine e bibite nelle mani. Si accorse di
Angel e Steve solo ad una seconda occhiata.
“È
un maschietto!” le annunciò April toccando con
mano amorevole il
piccolo rigonfiamento nella pancia, e un gran sorriso.
“Cos...
congratulazioni!”
Si
districò dalla presa di Mikey e corse incontro ai futuri
genitori,
presentando i suoi auguri con gli occhi umidi di felicità.
Carl le
si attaccò ad una gamba, farfugliando un sacco di parole
pasticciate, con le guancine rosse.
“April
voleva davvero davvero una femmina, ha chiesto al dottore di
controllare per bene l'ecografia almeno cinque volte”
raccontò
Casey, mentre lei prendeva in braccio Carl, che le si gettò
al collo
felice.
“Oh,
non dovevi dirlo” lo sgridò la moglie, arrossita
per le risatine
dei suoi amici. “E comunque, il bimbo sta bene, mi interessa
solo
quello” finì, con tono amorevole, gli occhi
brillanti.
“La
prossima sarà una femmina” la confortò
Casey, con un bacio sulla
fronte.
“Quale
prossimo? No, stop, chiuso. Non ci pensare nemmeno!” fu la
risposta
secca, che suscitò ancora di più
l'ilarità nel gruppo.
“A
me ha detto che ne vorrebbe almeno cinque e che li allenerebbe
nell'hockey sul ghiaccio” buttò lì
Raph, con un gran sorriso
dispettoso.
April
lo guardò sospettosa, valutando se fosse uno scherzo o meno.
Poi
sorrise anche lei.
“Mi
ci vorrebbero solo cinque piccoli Casey per casa, come se non mi
mandaste già ai matti tu e Carl, che ormai butta
giù qualsiasi cosa
alla sua portata con colpi di peluche. Me lo farai diventare un
teppista!”
“Un
vigilante, vuoi dire. E tu, amico, dovresti imparare a non scherzare
con una donna incinta. Io non vado certo a dire ad Isabel quello che
mi dici sui figli!”
Isabel
spalancò gli occhi, tirata in causa, mentre Casey si beccava
un
pugno arrabbiato da Raph, che evitò in ogni modo il suo
sguardo.
Don
invece la guardava palesemente, comunicando silenziosamente con lei.
Isabel fece finta di nulla e guardò altrove: lo avrebbe
detto a
Raph, doveva solo cercare il momento giusto. Donnie doveva cercare di
capirlo.
“Steve
è un bel nome, se ne state cercando uno per il
bambino” si
intromise Steve nella conversazione, cercando di sotterrare la
momentanea gaffe il più in fretta possibile.
“Ma
sentilo, il ragazzino, che si fa i complimenti da solo” disse
April, voltandosi per arruffargli i capelli. Era un po' il vizio di
tutti, perché lui arrossiva come un matto e cercava di
riappiattirli con foga, come un gattino che si lisciava il pelo.
“Ci
penserò su. Mi piace il tuo nome” gli disse poi,
con un sorriso
dolce. “C'è ancora molto tempo, ma non so davvero
scegliere. Devo
cercare il libro dei nomi che avevo preso quando aspettavo
Carl.”
“Mmm,
questo potrebbe iniziare con la A. Carl ha la stessa iniziale di
Casey, sarebbe carino se il secondo avesse la tua” se ne
uscì
Mikey con entusiasmo.
“Mio
padre si chiamava Arthur” disse la voce di Isabel, tra
sé, ma si
accorse che l'avevano sentita tutti e la guardavano sorpresi. Era la
prima volta che ne parlava.
“Attur”
ripeté il piccolo Jones, cercando di compitare bene.
“Non
che io voglia suggerire... stavo solo pensando ad alta voce”
si
affrettò a spiegare, agitando una mano con imbarazzo.
“No,
è davvero bello. Lo terrò a mente.”
Isabel
si aprì in un grosso sorriso grato, mentre Carl con le
manine le
schiacciava le guance per farle fare buffe smorfie.
Gli
allenamenti non ebbero luogo per quella sera e l'enorme famiglia si
prese un po' di tempo per festeggiare la notizia, per la quale Mikey
preparò perfino una torta, biscotti e ogni altro genere di
golosità.
Era quello che sorrideva più di tutti e forse, e
soprattutto, era
perché avevano finalmente un po' di pausa e di svago.
Nella
preparazione e nell'allegro caos, nessuno si accorse che Splinter e
Leo erano scomparsi per qualche attimo.
Nel
silenzio ovattato della saletta da meditazione, i raggi di sole
entravano tiepidi e gentili dalle finestre, illuminando dolcemente le
prime foglie ingiallite, che sembravano ancora più gialle
per
effetto della luce.
Leonardo
rimase incantato ad ammirare i giochi di ombre e luce, in attesa
sulle ginocchia.
Splinter
stava camminando avanti e indietro, in profondo raccoglimento e il
figlio non se la sentì di interrompere il flusso dei suoi
pensieri,
perciò rimase in silenzio in attesa che fosse lui a
rivolgergli le
domande, quando fosse stato pronto. Solo dopo qualche istante il
sensei se ne accorse e si voltò verso di lui.
“Dimmi,
figliolo” lo spronò, con un cenno del capo.
“Ho
seguito Isabel con attenzione, ma finora non ho percepito nulla.
Né
una presenza né una minaccia, niente di niente”
riportò Leo, con
forse più veemenza di come lo avesse detto nei giorni
precedenti.
Perché
era la stessa cosa che ripeteva da una settimana e niente era
cambiato. Nessuno stava seguendo Isabel. Alzò lo sguardo
sull'espressione tesa di Splinter e capì esattamente cosa
stesse
pensando, perché anche lui lo aveva pensato spesso, durante
le
ronde, durante i pedinamenti: che Isabel si fosse sbagliata?
Non
era possibile che lei gli avesse mentito, -a quale scopo lo avrebbe
fatto?- ma pensare che potesse essersi sbagliata era lecito.
Splinter
si ricordava chiaramente della paura che lei aveva manifestato, non
era finta, non era falsa: Isabel pensava sul serio di essere seguita;
ma se così non era, e tutto faceva supporre che non lo
fosse, allora
quella paura poteva essere solo una manifestazione inconscia di
qualcos'altro. Forse stanchezza. Forse stress.
Sospirò
sottilmente, quasi impercettibile.
“Per
ora continueremo a stare all'erta, Leonardo, solo per essere certi
che non ci sia davvero nessun pericolo che la minaccia. So di
chiederti molto, figliolo, ma...”
Leo
lo interruppe alzando una mano.
“Lo
faccio perché voglio farlo, padre”
ribatté gentile, eppure fermo.
Era
vero, voleva farlo. Per sapere che niente potesse farle del male. Per
sé stesso. E un po' anche per Raph, per proteggerla al posto
suo.
Splinter
annuì con uno scintillio fiero nello sguardo.
“Bene.
Adesso torniamo alla festa, abbiamo una nuova vita da
celebrare”
mormorò soddisfatto e sorridente, precedendolo verso la
porta.
Note:
Buon
giorno a tutti!
Grazie
per le vostre belle parole, sono molto felice di ricevere la vostra
premura. Sto bene, il problema che mi affligge è al fegato,
sto
seguendo la cura che mi hanno dato e poi vedremo. L'importante
è un
atteggiamento positivo! ^__^ e grazie anche a voi lo sono!
Dunque,
cose importantissime: i misteri si infittiscono! Non c'è lo
scontro
Leo-Raph che molti si aspettavano, perché in
realtà non c'è nessun
conflitto: Leo ha chiuso con Isabel, per quanto ancora provi qualcosa
per lei. È felice per loro ed è felice di poter
essere utile!
Non
è un amore? Ah, che uomo perfetto! Che donna fortunata
quella che se
lo acchiappa... e se vi dicessi che poi la trova nel... spoiler! :P
Invece:
Isabel è impazzita? Si è immaginata tutto? E cosa
sa il fantomatico
e perfettissimo Donnie che gli altri non sanno?
Domande,
domande, domande! Ma tra poco, alcune cose verranno fuori. Per altre,
invece, dovremmo solo pazientare.
Vi
ringrazio di cuore per leggere, seguire la storia. A chi l'ha messa nei
preferiti. A chi commenta, con meraviglioso affetto.
Vi
mando un gigantesco abbraccio pieno d'amore!
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Capitolo 5 *** Just the two of us ***
La
festa per la lieta notizia di casa Jones si protrasse per tutta la
notte e l'euforia rimase ad aleggiare nella casa anche per i giorni
seguenti. Era stata una vera e propria celebrazione.
Isabel
si era persa quella per Carl, quindi non sapeva quanto potessero
essere chiassosi e euforici nel celebrare un nuovo arrivo nella
famiglia: c'era Mikey che un po' faceva il buffone in giro e un po'
continuava ad abbracciare April, Isabel ed Angel, cercando di sentire
nel pancione della mamma se il piccolo si muovesse e Casey e Raph che
lo tenevano alla larga dalle loro donne, tra le risate generali.
Angel si era lasciata scappare una mezza battuta sul fatto che
nessuno stesse propriamente cercando di difendere lei, al che Steve e
Donnie erano insorti, mettendosi a sua difesa dall'uragano
Michelangelo.
Splinter
sorrideva bonario e felice abbracciando tutta la sua famiglia con lo
sguardo. E c'erano brindisi e dolci e risate e un'atmosfera
così
tenera e affiatata. Era la più strana, variegata famiglia,
eppure la
migliore del mondo. Isabel ne era certa e per quella sera,
riuscì a
scordare ogni altra cosa, miracolosamente.
Tre
giorni dopo, alla fine dei consueti allenamenti, Splinter richiese la
loro attenzione.
I
quattro figli si sedettero ubbidientemente sulle ginocchia, con le
facce tese ed esauste: Mikey ciondolava per la stanchezza e Don di
tanto in tanto, senza farsi vedere, lo rimetteva dritto con una
spinta leggera. Se si fosse addormentato di colpo, a faccia in
giù,
sarebbe stato ilare e irrispettoso allo stesso tempo.
Splinter
richiamò anche Isabel e Steve, che dopo essersi scambiati
un'occhiata curiosa, si diressero diligentemente verso di loro,
prendendo posto ai lati dei quattro ninja, di fronte allo stendardo
del clan.
Splinter
li osservò uno ad uno, pazientemente, con snervante calma.
“Gli
allenamenti, per adesso, sono finiti” annunciò
infine, con un
sorriso tenue. Attese le loro reazioni, che non si fecero attendere:
Michelangelo spalancò gli occhi che fino a qualche istante
prima si
chiudevano per la stanchezza e un grosso sorrisone nacque sul suo
viso.
“Sì!”
esultò tirandosi un po' su, lanciando i pugni in aria. Poi
si
accorse che tutti lo osservavano in silenzio e ilarità e si
risedette con vago imbarazzo e un lieve rossore.
“Scusate”
mormorò a mezza voce, occhieggiando la faccia ancora seria
del
sensei. Il saggio ratto si schiarì la gola con sussiego,
facendo
finta che l'interruzione non ci fosse stata, e continuò.
“Ci
prenderemo una pausa di cinque giorni, e al nostro ritorno faremo
solo dei brevi allenamenti la mattina ed esercizi di meditazione la
sera.”
“Ritorno
da dove?” chiese Donatello, a cui la menzione non era
sfuggita.
Splinter
sorrise morbidamente, prendendosi qualche attimo per godersi la
curiosità nel fondo del loro sguardo.
“Per
cinque giorni si terrà una celebrazione nella dimensione
Nexus per
favorire un buon auspicio per l'imminente torneo; ci saranno
banchetti, spettacoli di tecniche e bravura e soprattutto tanto
relax. Il Daimyo ci ha invitato personalmente, anche se non
è una
celebrazione aperta a concorrenti; la nostra famiglia gode di una
certa popolarità in fin dei conti.”
Nessuno
capì mai se si stesse riferendo alla lotta contro Draco e
l'ultimate
ninja o invece al fatto che nella famiglia Hamato c'erano stati ben
quattro campioni del Nexus, uno dei quali ancora in carica, ma non ci
pensarono in effetti poi molto: erano tutti euforici per la splendida
notizia e si sorridevano l'un l'altro con incredulità e
allegria.
Mikey era definitivamente saltato su con un balzo, gridando di
contentezza, improvvisamente molto meno stanco e sonnolento.
“Bene.
La partenza sarà domani mattina, avete la sera libera per
prepararvi
e preparare i vostri bagagli; l'allenamento intensivo finisce oggi.
Siete stati bravissimi, figli miei” mormorò il
maestro, il sorriso
così fiero che si sentirono inorgogliti e molto
più forti.
Si
stavano alzando tutti, con già in testa le liste di cosa
avrebbero
messo nei loro zaini, -Mikey aveva intenzione di portarsi tutti i
fumetti che non aveva avuto il tempo di leggere, per esempio, e una
lista infinita di videogames,- quando il maestro si accorse che
Isabel non si era alzata.
“Sono
invitata anche io?” chiese, quando i loro occhi si
incontrarono.
Splinter
annuì con convinzione.
“Certo,
e anche Steven, se lo vuole.”
Il
ragazzetto spalancò gli occhioni azzurri, in imbarazzo per
l'onore
di essere incluso nella famiglia.
“Vorrei
venire, ma ho la scuola e i miei fratellini a cui badare” si
scusò,
un po' triste per l'occasione che sfumava davanti alla sua faccia. Se
però avesse rinunciato a quella celebrazione, e avesse
adempiuto ai
suoi doveri di studente e di fratello maggiore, suo padre lo avrebbe
poi lasciato andare a vedere il torneo, che era quello che desiderava
di più.
Isabel
stava dondolando un po' sul posto, come se fosse a disagio.
“Nemmeno
io posso venire” sussurrò dopo qualche istante,
attendendo le
reazioni con timore. Si sollevarono parecchi
“COSA?” che
rimbombarono nel dojo, assordandola.
Per
diverse motivazioni, indubbiamente, Leo e il sensei aspettavano una
giustificazione da una parte e Mikey e Raph volevano sapere
perché
dall'altra. Solo Don se ne stava neutrale, come suo solito.
“Ho
un esame molto importante tra tre giorni e non posso mancare”
iniziò a spiegare, bloccando le loro interruzioni con un
gesto
perché la lasciassero continuare.
“È
un test per poter entrare in un corso speciale che inizierà
da
Ottobre, un corso con molti più laboratori e un periodo di
apprendistato in una clinica privata. Io devo entrarci. I posti sono
limitati!”
“Ma
puoi entrarci con la magia” protestò Mikey quando
infine capì che
poteva intervenire.
“Sì,
ma non voglio. Voglio mettermi alla prova, voglio capire se posso
farcela sul serio o se finora quello che ho fatto è stato
solo
barare!” saltò su lei, infervorandosi parola dopo
parola. Captò
lo sguardo di Splinter, che le chiedeva di poterle parlare da sola,
ma non avrebbe potuto senza destare sospetti.
Incredibilmente,
però, fu Raphael a darle l'occasione: prese per un braccio
Don e per
uno Mikey e li tirò lontano da loro, confabulando sottovoce
coi suoi
fratelli.
Il
sensei e Leo li osservarono per qualche secondo, confusi, poi si
avvicinarono ad Isabel, che intanto si era alzata.
“Figliola,
non è bene che tu resti qua. Anche se non è
successo niente ancora,
non significa che non potrebbe, e proprio mentre non ci
siamo”
disse l'anziano padre, con voce severa, ma bassa il tanto per non
essere sentito dagli altri.
“Lo
so e credimi, maestro, non è un capriccio. Io devo davvero
fare quel
test e devo entrare in quel corso! Starò a casa per studiare
per due
giorni e il giorno dell'esame uscirò solo per le ore
necessarie,
ritornando di corsa qui una volta finito. Lo prometto. E poi non
uscirò più finché non
tornate!” sussurrò lei in fretta,
occhieggiando preoccupata il piccolo gruppetto che si riavvicinava.
“Leo
dovrebbe rimanere qua con te, allora” fu la risposta pacata,
che si
era aspettata, ma che trovava orribile solo da pensare.
Raphael
avrebbe avuto molto da ridire e di certo si sarebbe accorto che
qualcosa non andava.
“No!
Posso rimanere da sola! Starò molto attenta, lo
giuro” ribatté
spazientita, assolutamente contraria alla cosa.
“Per
favore!” sibilò strozzata, vedendo che il sensei
non sembrava
voler cedere.
Mikey,
Raph e Don erano ormai arrivati vicino a loro, perciò
Splinter
rimase in silenzio, come assorto. Forse perché quello che le
voleva
dire non poteva davanti a loro.
“Credo
che sia meglio che tu venga con noi. Non è bello che tu
rimanga qua
da sola” rispose infine, soppesando le parole con cura per
non
lasciarsi scappare nulla.
“Se
Isabel rimane a casa, io posso rimanere con lei” disse una
voce
volenterosa e squillante. Che però non era di Leo, come si
era
aspettata, ma di Raphael.
Il
suo fidanzato la guardava con un luccichio furbo nello sguardo, poi
si rivolse direttamente al maestro, perorando la sua casa.
“Posso
farle compagnia e una volta finito l'esame possiamo raggiungervi con
il portale. Io so come usarlo ormai.”
“È
un'ottima idea!” esclamò sin troppo entusiasta
Michelangelo,
mulinando le mani in aria. Iniziarono tutti a capire perché
Raphael
avesse tirato via i suoi fratelli e cosa potesse aver detto loro.
“È
una soluzione perfetta per tutti! Isabel potrà fare l'esame,
a cui
ci terrei a dare un'occhiata più avanti, e Raphael potrebbe
aiutarla
occupandosi dei pasti, ovviamente riposandosi anche. E una volta che
l'esame sarà finito, potranno raggiungerci
entrambi!” perorò con
convinzione e praticità Donatello.
Raph
li aveva convinti a sostenerlo nella sua causa, per poter stare da
solo con Isabel.
Il
sensei sorrise sotto i baffi e anche Leo trovò difficile
rimanere
serio. Ed entrambi sapevano che non era un'ottima idea, e di cose da
dire in contrario ne avrebbero avute parecchie, ma furono inteneriti
dalla sottile insistenza di Raphael. Il maestro in particolar modo,
che li aveva tenuti in stanze separate per il quieto vivere, anche se
non era stato felice di farlo.
Li
tenne sulla corda per parecchi minuti, riflettendo in silenzio teso,
e loro non avevano proprio il coraggio di interromperlo: se pure
pensavano di farlo, bastava un'occhiata del sensei, carica di
pensieri, e subito desistevano, per non peggiorare la situazione.
“Va
bene, Isabel, puoi rimanere” concesse alla fine, suscitando
un moto
di gioia nel suo cuore. “E Raphael può restare con
te. Ci
raggiungerete non appena l'esame sarà finito: lui
verrà a prenderti
all'Università e creerete immediatamente il portale per il
Nexus”
continuò innocentemente, senza aggiungere altro.
Sembrava
una clausola innocua, ma Isabel sapeva che voleva essere sicuro che
non le accadesse nulla. Raphael però non sapeva, e sembrava
sul
punto di dire qualcosa, perciò lei si affrettò ad
accettare per
entrambi.
“Grazie,
sensei! Seguiremo tutte le raccomandazioni!”
affermò con vigore,
cercando di non sorridere per il sollievo. Vide con la coda
dell'occhio che Raphael annuiva per esprimere lo stesso concetto.
Splinter
annuì, dando loro un po' di fiducia. Sapeva che Isabel non
avrebbe
infranto la sua promessa e che anche Raphael avrebbe seguito alla
lettera la sua raccomandazione, per dimostrargli di essere
affidabile, così da avere più tempo da solo con
lei in futuro,
probabilmente.
“Spero
che tu passi l'esame” mormorò incoraggiante alla
ragazza, con una
pacca sulla testa.
Dopo
ci fu in grosso via vai, sembrava di stare in un immenso formicaio:
tutti che si affaccendavano da una parte all'altra, prendendo
ciò
che era necessario per quella gita inattesa eppure particolarmente
gradita. Mikey indossava al collo un grosso ciondolo viola, e se ne
andava in giro pavoneggiandosi e chiedendosi se gli ospiti della
festa avrebbero notato la sua collana di campione del Battle Nexus.
“Credo
che dovrebbero essere ciechi per non accorgersene” fu la
risposta
sospirata di Don, anche lui impegnato a riempire il suo zaino con
tutti gli appunti che Isabel aveva preso durante quel mese di
lezione, di certo con l'intento di leggerli per
“rilassarsi”.
Stranamente,
Raphael non disse nulla dell'arrogante vantarsi del fratello, che in
un'altra occasione lo avrebbe di certo fare uscire dai gangheri: era
troppo occupato nel cercare di buttarli fuori di casa il prima
possibile, adoperandosi perciò a dare una mano
perché si
sbrigassero.
“Lo
sai che partiremo comunque domani, vero?” chiese Leo, che
seguiva i
suoi movimenti da una parte all'altra del dojo con apprensione.
“Sì”
rispose Raph distratto, con le mani impegnate ad infilare a forza i
vestiti del fratello nella borsa, “ma voglio essere sicuro
che non
torniate indietro per qualcosa che avete scordato!”
Leo
ridacchiò e lo lasciò perdere. Al peggio avrebbe
avuto la sua roba
spiegazzata, ma almeno Raph sembrava contento.
I
bagagli furono pronti piuttosto in fretta e una sontuosa cena fu il
giusto modo per salutarsi. Mikey, la cui euforia sorpassava di molto
la stanchezza che aveva accumulato, si era messo ai fornelli con una
passione invidiabile, preparando tutti i suoi piatti forti; Isabel
gli diede una mano, contagiata dal suo entusiasmo e la sua euforia.
La
tavola era colma da scoppiare. Tra pizze con ogni genere di
condimento sopra e pasticci di carne e verdure, patate fritte in ogni
forma e con ogni salsa, patate arrosto, bistecche alte mezzo palmo e
perfino un dolce glassato di proporzioni astronomiche, era quasi
impossibile vedere le facce degli altri commensali alla tavola.
Steve
rimase a cena assieme a loro, facendo onore alle portate nel bel
clima disteso che precedeva una bella sorpresa, una gita rilassante
davanti a sé: Mikey faceva progetti su quel posto che
avrebbe
visitato o quell'altro dove avrebbe sfoggiato il suo ciondolo, Leo e
Don chiedevano al sensei informazioni sulla celebrazione e sugli
ospiti.
Isabel
e Raphael se ne stavano quieti, in silenzio, ascoltando. I loro
sguardi si incontravano spesso al di sopra di tutto il resto e
sembravano comunicare. E il pensiero di quei giorni da soli
emozionavano e spaventavano con la stessa intensità.
“Siete
pronti, figlioli?” domandò Splinter, in piedi sul
pontile di legno
del laghetto, al centro del rifugio.
Era
già l'alba e tutti si erano alzati di buona lena, avevano
fatto
colazione e si erano preparati per partire. Donnie aveva un borsone
di cuoio a tracolla, e Leo uno zaino che teneva su una spalla sola,
mentre la borsa per il sensei la teneva in mano, con attenzione.
Di
Mikey, invece, non c'era traccia.
Osservavano
tutti verso l'alto per aspettare il momento in cui sarebbe apparso,
ma c'era solo silenzio dal piano superiore.
“Vuoi
sbrigarti ad andartene?” urlò spazientito Raph,
occhieggiando
arrabbiato la porta della camera del fratello come se fosse tutta
colpa sua.
E
quella, incredibilmente si aprì, e un trafelato Michelangelo
ne uscì
fuori, trascinando una borsa così enorme da essere
comicamente
impossibile; ogni passo si fermava per tirare a sé il
bagaglio, che
faceva un forte rumore di trascinamento sordo.
“Stai
scherzando?” fu la replica in sincrono di Don e Raph, nemmeno
l'avessero programmato.
Mikey
li guardò e sorrise, poi continuò nel suo duro
lavoro per tirare il
bagaglio verso la scaletta.
“Michelangelo,
non hai davvero intenzione di portare dietro quella montagna di cose,
vero?” domandò pacato Splinter, assurdamente calmo.
“Ma
sensei, i miei fumetti e i videogiochi… non posso lasciarli
qui!”
sbuffò il figlio con fatica, continuando a tirare.
“Sono
sicuro che se ne lascerai a casa, vediamo, almeno il novanta per
cento, non succederà loro niente. D'altronde ci saranno
molte
persone che vorranno conoscerti e sentire... la storia della tua
vittoria, non credo avrai molto tempo per leggere o giocare.”
Mikey
si illuminò alle parole lusinghiere di Splinter e si
fermò per
riflettere con un grande sorriso in volto: sapevano tutti che stava
fantasticando selvaggiamente.
“Va
bene, mi hai convinto! Arrivo subito!”
Fece
fare un dietrofront alla borsa con un altro forte rumore, poi si
affrettò a ritrascinarla nella stanza, dalla quale provenne
un gran
tramestio frettoloso.
Leo,
Don e Raph sospirarono, scuotendo la testa.
“Abbiamo
tutto il tempo per salutarci, perlomeno!” saltò su
Isabel,
avvicinandosi per poterli abbracciare.
Il
primo fu Splinter.
“Mi
raccomando, figliola” disse solo, mentre la stringeva. E
Isabel ci
lesse ben più di un avvertimento in quella singola frase.
Annuì con
solennità, rimandandogli un sorriso.
Donnie
fu il successivo, un abbraccio sentito, eppure stranamente meccanico.
Sentì il suo fiato caldo sfiorarle l'orecchio, quando si
chinò di
più per parlarle.
“Approfittane.
Sarete da soli, devi dirglielo.”
Conciso.
E saggio come suo solito. Una mano le batté sulla schiena in
un muto
gesto di incoraggiamento e lei inconsciamente strinse più
forte la
presa, inspirando a fondo. Voleva dirgli che non era un buon momento,
che probabilmente era meglio attendere la fine del torneo, ma non
poteva senza scoprirsi troppo, senza iniziare una discussione. E il
pensiero che probabilmente fosse stato Don ad aver approfittato
dell'insistenza di Raphael perché stessero da soli e lei
potesse
così parlargli, non le sembrò tanto assurdo.
D'altronde
glielo aveva detto fin dal primo giorno, che doveva parlarne con lui.
Che lui doveva sapere.
Se
solo non fosse stato così complesso.
Leo
la abbracciò, e come il fratello, anche lui ne
approfittò per darle
un consiglio.
“Stai
attenta” soffiò velocemente, prima che lo sguardo
attento di Raph
potesse accorgersi di qualcosa. E lei non poté in alcun modo
rispondergli, ma sperò che il suo sguardo riuscisse a
parlare per
lei.
Con
un gran tramestio, Mikey arrivò e lasciò andare
il bagaglio,
strappò Isabel dalle sue braccia, dandole forse l'unico
abbraccio
che non avesse nessun altro significato, se non l'affetto e il
desiderio di rivedersi al più presto. Caldo e sincero.
Rassicurante.
Leo
ne approfittò per avvicinarsi a Raphael, e gli
batté una mano sulla
spalla in segno di saluto.
“Stalle
dietro, mi raccomando” mormorò, innocentemente.
Raph
sorrise, un sorriso sghembo e furbo. “Non ho bisogno che me
lo dica
tu.”
Si
batterono il pugno, mentre Leo gli rimandava il sorriso, scuotendo la
testa.
Il
momento dei saluti era finito e i quattro si apprestarono a partire;
Leo precedette il gruppo verso il muro tra la porta del rifugio e
quella dell'ascensore: con un gesso blu scuro iniziò a
disegnare uno
strano simbolo sui mattoni gialli, con sicurezza.
Era
un cerchio, al cui centro spiccava un quadrato con un punto; in senso
orario disegnò quattro frecce che infilzavano il cerchio e
che
terminavano con quattro simboli differenti; intorno altri sei
simboli, tra i quali riconobbe due esagrammi dell'Iching e quattro
lettere orientali.1
Una
volta finito, Leo fece segno a Donatello, che si avvicinò
con in
mano un secchio d'acqua presa dal laghetto: la gettò ai
piedi del
muro, con un gesto fluido. Poi, tutti si misero a mano giunte, come
in preghiera, e recitarono una nenia indecifrabile, che
risuonò nel
silenzio spesso. La pozza d'acqua iniziò a ribollire, e
più la
nenia proseguiva e si intensificava, e più quella vibrava,
finché
non si sollevò per magia dal terreno, come dotata di vita
propria, e
si inerpicò su per il muro, risalendo come un sinuoso
serpente
d'acqua: virò appena più su del simbolo e come
una cascata lo
ricoprì, creando un arco perfetto, liquido, che si
illuminò ed
iniziò a pulsare, in un vortice di colori.
Isabel
sentì l'energia magica che emanava, avvolgente e calma, e ne
fu
estasiata. Quasi fu pentita di non aver accettato l'invito e di non
potersi fiondare immediatamente dall'altra parte di quel passaggio,
per poter vedere quella dimensione misteriosa e così
invitante.
Gli
altri invece, si voltarono per salutare con una mano, poi uno ad uno
lo attraversarono, inghiottiti dal vortice in un bagliore rosato:
quando l'ultimo scomparve nel varco, quello crollò su
sé stesso, e
l'acqua di cui era composto si sparse sul pavimento, con un gocciolio
secco.
Il
passaggio era scomparso.
Isabel
e Raphael rimasero in silenzio ad ascoltare il suono delle gocce, con
gli occhi ancora sul muro che gli altri avevano
“attraversato”.
“Immagino
che tocchi a noi pulire, giusto?” domandò
sarcastica Isabel,
gettandogli un'occhiata di sbieco.
Raphael
incontrò il suo sguardo e sorrise.
“Non
ci penso nemmeno!”
Allungò
le braccia e la tirò su, poggiandosela su una spalla. Isabel
prima
strillò indignata, poi ridacchiò.
“E
cosa avresti in mente?”
“Oh,
molte cose” rispose lui, allontanandosi da lì.
“Mangiare
assieme, guardare un film assieme, fare il bagno assieme, dormire
assieme” iniziò ad elencarle, senza preoccuparsi
di abbassare la
voce. Era così rilassante non dover rendere conto a nessuno,
non
doversi trattenere per il quieto vivere.
“Ehi!
Io devo studiare!” protestò Isabel, tirandogli un
colpetto sul
piastrone, di ammonimento.
Raph
rise e mentre la trasportava in cucina, alzò un attimo il
viso per
guardarla.
“Forse
ci sarà del tempo anche per quello!”
Raphael
in realtà le lasciò molto tempo per studiare, a
dispetto della sua
battuta. Per quella prima giornata le concesse tutto il tempo libero,
che lei aveva passato nel laboratorio di Don a ripassare con molto
impegno. Di lui non aveva avuto molti segni, se non verso l'ora di
pranzo quando si era presentato con un bel vassoio colmo di
tramezzini per lei, che poi però si era seduto a mangiare
assieme,
approfittandone per chiacchierare un po'.
Poi
era sparito di nuovo.
Solo
prima di cena, quando ormai tutte le vene, le arterie e i vasi
linfatici non avevano più alcun segreto per lei, era
riapparso nel
laboratorio, chiedendole di continuare a studiare in cucina. Isabel
raccattò in fretta i suoi libri e si diresse un po'
dondolante per
il peso verso l'altra parte del rifugio, verso la stanza dalla quale
usciva un delizioso aroma: lì, trovò Raphael ai
fornelli, intento a
preparare la cena per entrambi, senza volere il suo aiuto: le chiese
di sedere al tavolo della cucina per studiare, così che
potessero
stare assieme.
Concentrarsi
sulle funzioni del pancreas fu piuttosto complesso, perché
il suo
sguardo si alzava più del dovuto per controllare i movimenti
del
mutante: era così bello vederlo muoversi a proprio agio in
cucina,
con naturalezza e serenità, in un clima così
famigliare e intimo da
far strizzare il cuore di gioia. L'unico momento in cui lo aveva
disturbato, era stato quando si era alzata e gli si era avvicinata in
punta di piedi, per poi sfilargli la maschera dal viso con un
movimento fluido: Raph aveva imprecato per la sorpresa, poi,
voltatosi per fronteggiarla si era ritrovato davanti il suo sorriso
di scuse e un bacio a stampo.
Era
trotterellata al suo posto in fretta, prima che lui potesse reagire,
con la sua maschera rossa stretta nella mano; lui di tanto in tanto
si voltava a guardarla corrucciato per quel suo agguato, ma Isabel
rideva dietro il libro di anatomia, contenta di poter vedere i suoi
occhi.
Cenarono
assieme, e dopo Raph riuscì a convincerla a guardare un
film,
stretti nel divano nonostante fosse tutto per loro.
C'era
un silenzio innaturale per il rifugio vuoto, ma era un silenzio
rassicurante, un silenzio felice, dove i suoni del film che avevano
scelto si spargevano con naturalezza, rendendo ogni momento
più
intimo, mentre loro si coccolavano sul divano.
Era
così bello essere solo loro due, godersi una serata
così intima da
essere nostalgica, come quelle che passavano al villino magico, tanto
tempo prima.
Prima
di andare a letto, Isabel fece un veloce ripasso di un paio d'ore, e
anche in quel caso Raphael non trovò niente da ridire: si
era
immaginata che volesse passare tutto il tempo con lei, che avrebbe
insistito, che l'avrebbe presa in giro per essere una
“secchiona”,
invece aveva reagito nella maniera completamente opposta. Come il
maturo uomo che era le aveva lasciato il suo spazio da dedicare allo
studio, consapevole che per lei fosse importante.
Spense
le luci al pianterreno e si incamminò verso la scaletta
antincendio,
era troppo stanca per cercare di saltare direttamente al primo piano,
e si diresse verso la stanza di Raphael; un'occhiata all'orologio le
disse che era già molto tardi, ma non tanto da trovarlo
addormentato.
Invece,
quando aprì l'uscio, lui era sdraiato sul letto ancora
vestito, ma
l'inconfondibile rumore di motosega le disse che sì, era
profondamente addormentato.
Ridacchiò
sottovoce, chiudendo la porta dietro di sé. Facendo
attenzione si
avvicinò al letto e sfilò la vestaglia che aveva
tenuto per tutto
il giorno sul pigiama; stare a casa aveva indubbiamente il vantaggio
sulla scelta dell'abbigliamento.
Si
distese al suo fianco e sentì il suo corpo irrigidirsi nel
sonno,
come se l'avesse percepita. Con un sorriso felice, si fece strada tra
le sue braccia, sollevando il braccio che teneva appoggiato sul
materasso e poggiandosi con cortesia su quello piegato che sosteneva
la testa: si tese silenziosamente verso il collo, posando le sue
labbra nell'incavo, il suo posto. Il suo rifugio, il suo mondo.
Si
lasciò cullare dal suo respiro e dal battito del suo cuore,
dal
calore della sua mano che la cingeva.
E
ogni cosa poteva aspettare.
1:
Il simbolo è proprio quello per aprire il portale che
compare nella
serie 2003. più giù ho messo una foto, nel caso
non fossi riuscita
a descriverlo per bene.
Note:
Buon
giorno!
Sto
cercando di essere puntuale, scusate se non sempre mi riesce. Ma ci
provo, davvero.
Allora,
vi do una rassicurazione, prima che mi linciate: il momento della
verità, l'altra verità, non è lontano.
Anzi, è vicinissimo. Non
vi tedierò ancora, lo giuro!
Sto
giocando troppo con i vostri nervi, volevo rassicurarvi.
E
poi, Mikey! So che sembra sempre il solito infantile bambinone, ma vi
assicuro che vi sorprenderà; dategli fiducia.
Insomma,
anche farlo più maturo significa doverlo fare mantenendolo
IC,
perciò tempo al tempo.
La
collana che indossa è un dono del Daimyo per attestare il
suo ruolo
di campione quando ha dovuto ripetere il match contro il suo sfidante
disonesto: in genere al campione viene data una coppa. Mikey aveva
anche quella, ma si è rotta quando Karai ha distrutto il
rifugio.
Prometto
che il prossimo capitolo arriverà in settimana!
Grazie
davvero, amo la vostra costanza, il vostro affetto, il vostro
sostegno.
Grazie
ai preferiti, a chi legge e chi commenta!
Abbracci!
P.s.:
MC1119 mi ha mandato un disegno, fatto quando in JTWYA avevo fatto la
richiesta! E io lo voglio condividere con voi! Grazie mille per il
disegno! Mi piace molto e lo terrò con cura!
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Capitolo 6 *** The harsh truth ***
Le
nozioni di medicina si erano affollate nella sua mente per tutta la
notte, mischiandosi ai sogni: immagini di sangue che finirono
inevitabilmente per trasformarsi in incubi truculenti, pieni di urla
e rosso, rosso ovunque. E poi il pianto di un bambino.
Si
svegliò di colpo col fiato corto, sollevandosi di scatto sul
letto,
il corpo ricoperto di sudore. Si voltò mentre prendeva
grossi
respiri per cercare di calmare il battito impazzito del cuore, ma il
posto al suo fianco era vuoto, le lenzuola ancora stropicciate:
allungò una mano, tremava addirittura, e la
poggiò per percepire la
temperatura. Era freddo.
Raphael
doveva essersi alzato già da molto.
Invece
di preoccuparsene, comunque, ne fu sollevata: sentiva che era meglio
che lui non avesse assistito a quel brusco risveglio; portò
le gambe
al petto e le circondò con le braccia, seppellendo la faccia
nel
riparo improvvisato. Il suo respiro affannato rimbombava ancora,
sottofondo dei suoi pensieri.
Cosa
aveva sognato? Perché lo aveva sognato? Ricordava un gran
magone,
una sensazione di panico e poi dolore, tanto dolore. Troppo dolore.
Una
fitta al cuore e alla testa la costrinsero a trattenere il fiato per
qualche secondo, e nel silenzio fitto di battiti saltati,
sentì il
suono ritmato di passi che si avvicinavano; passò
velocemente le
mani sul viso, tirando via tutte le preoccupazioni, e lo
sollevò
proprio mentre la porta della camera di apriva: entrò per
primo un
gran vassoio colmo di pietanze, seguito dal grosso mutante col
sorriso imbarazzato, che la guardava colto sul fatto.
“Ti
sei già svegliata” mormorò un po'
deluso Raphael, che
evidentemente aveva avuto la mezza idea di farlo lui.
Un
piccolo sorriso le stirò le labbra, nel vedere il tenero
disappunto
sul suo viso.
“Se
vuoi mi sdraio e faccio finta di dormire” rispose
cospiratoria,
mentre lui chiudeva la porta con una mano, tenendo lo stracolmo
vassoio in equilibrio perfetto con l'altra.
“Ma
piantala” fu la replica frettolosa, che la fece
incredibilmente
scoppiare a ridere.
Le
sensazioni del sogno svanivano ad ogni suo passo verso di lei, come
se la sua sola presenza la facesse sentire tranquilla, al sicuro. In
pochi istanti ogni cosa era dimenticata e perfino il ricordo del
brusco risveglio si perse nel suo sorriso e nel bacio che le diede
sulla fronte, mentre le porgeva il vassoio con galante cortesia.
“La
sua colazione.”
C'era
uno strano miscuglio di piatti tra la colazione americana e quella
italiana, -si trattenne davvero dal ridere al vedere la tazza di
caffelatte e poi le uova strapazzate col bacon,- eppure era tutto
così bello da essere perfetto. C'era anche una candida
margherita
poggiata al lato, vicino alla sua mano.
“Hai
usato la mia moka?” domandò curiosa, mentre
osservava nella tazza
il colore del suo caffelatte.
Raphael
storse appena la bocca, mentre si sedeva di fronte a lei, oltre il
vassoio poggiato sul letto.
“Io
quella cosa la odio” ribatté feroce, che comunque
corrispondeva ad
una risposta positiva.
Isabel
assaggiò la bevanda un po' titubante, ma non era
così male come
aveva pensato all'inizio.
“Lei
ti odia di più. Da quando hai rischiato di farla esplodere
la prima
volta che l'hai usata” lo punzecchiò, ridacchiando
nella tazza al
vedere la sua espressione mezza offesa.
Con
una mano prese una generosa forchettata di uova strapazzate e lo
imboccò con un sorriso: Raphael fece una smorfia dubbiosa,
poi però
la lasciò fare e addentò con voracità.
E per pareggiare, prese la
fetta biscottata alla marmellata di albicocca e la portò
alla bocca
di lei, che dopo un sorriso imbarazzato, le diede un morso deciso,
imbarazzata.
C'era
silenzio, mentre si imboccavano a vicenda, sereni, e lui che
stranamente rimaneva quieto, godendosi quegli istanti che
appartenevano solo a loro, con calma.
Poi
il vassoio scomparve, messo da parte dalle mani veloci di Raphael, e
l'uomo si sporse per prendere un bacio, dalle sue labbra che ancora
sapevano di albicocca; e ben presto il bacio divenne troppo
coinvolgente e la distanza tra loro era nulla, compressi uno contro
l'altro.
Si
staccò solo per tempestare il suo viso di piccoli baci,
scendendo
giù verso la spalla, col proposito di non lasciare nemmeno
un
centimetro di pelle intonsa.
“Oggi
sei mia, tutta mia” ansimò contro il suo collo,
strappandole un
brivido e una risatina.
“No,
solo per un po', poi devo tornare a studiare” rispose per le
rime,
pensando ad un'esagerazione. Ma Raphael non stava scherzando.
Smise
di baciarla e si allontanò, e prese la sua mano destra,
poggiandosela sul petto. Isabel sentì il battito accelerato
del
cuore e si sentì avvampare, al pensiero di essere la causa
del suo
batticuore.
Raphael
non era attento alle sue sensazioni, impegnato com'era a prendere
qualcosa dalla tasca del pantalone, nervoso come poche volte lo aveva
visto; non vide cosa ne tirò fuori, ma si
avvicinò alla sua mano
ancora poggiata sul suo petto e trafficò attorno al suo
polso, le
mani enormi che cercavano di legare qualcosa di troppo piccolo, e nel
silenzio, l'agitazione crescente non lo aiutava.
Quando
ci riuscì, gli spuntò un grande sorriso in volto.
“Oggi
è solo nostro. Buon anniversario, Isa”
dichiarò, prendendo la sua mano
e avvicinandola al suo viso per svelarle la sorpresa.
Al
polso di Isabel c'era un bracciale di cordini neri intrecciati, in
una bellissima trama
di
nodi decorativi e al centro, due pietre naturali scolpite in forma di
tartarughe, i musi a toccarsi in un bacio: una verde e una bianca
come il latte.
Isabel
continuò a guardare il suo regalo con emozione crescente, ad
osservare i giochi di luce sulle due tartarughe, sui decori incisi
nella pietra che formavano i loro gusci e i loro tratti.
Ed
erano loro due, quelle tartarughe.
“Te
ne sei ricordato” esalò commossa, stringendo la
presa nella sua
mano.
Se
n'era più che ricordato. Erano settimane che progettava
quella
giornata nella mente, anche se non avrebbe mai potuto immaginare la
fortuna sfacciata che gli era capitata nel poter stare da soli
proprio nel giorno del loro anniversario.
Avrebbe
eretto una statua per il Daimyo, prima o poi.
Gli
occhi splendenti di lei nel guardarlo e nel guardare il bracciale, lo
ripagavano di tutte le notti in cui era stato sveglio a pensare a
come passare quella giornata, a cosa regalarle, a dispetto della
stanchezza che gli allenamenti gli avevano procurato.
C'era
un luccichio amorevole nel modo in cui guardava le due tartarughine
in pietra che lo fece sorridere.
“C'è
un vecchio, a Chinatown, che possiede un negozio di gioielli e
anticaglie. In passato gli abbiamo fatto un favore e ci conosce per
come siamo. Sono andato da lui a cercarti un regalo, volevo che fosse
speciale, ma non c'era niente che mi facesse pensare a te, che fosse
adatto. Sono rimasto ore lì dentro, per parecchi giorni, col
naso
attaccato agli espositori.
Così
lui mi guarda e dice: 'posso sapere cosa stai cercando?' E io alzo
gli occhi e rispondo: 'il regalo di anniversario per la mia ragazza.'
Lui
scoppia a ridere, quel vecchio sdentato, e non smette per un bel po'
e io penso che ci rimarrà secco. Poi si calma e mi chiede:
'tu hai
una ragazza?' Non sembra derisorio, solo curioso, così non
mi
arrabbio, ma rispondo facendo spallucce. Il vecchio si zittisce e
sembra rifletterci, poi scompare nel retro del negozio per qualche
secondo e torna con questo, tenendolo con cura.”
Raphael
smise un attimo di raccontare per osservare bene il bracciale, e
passò un dito assorto sulle pietre fredde.
“Ha
detto che è molto antico e molto prezioso. Sono due giade,
una verde
e una bianca e hanno molti poteri e molti significati. Ho capito
subito che era perfetto per te. Ma quando l'ho preso, ho dovuto
comunque dirglielo: 'la mia ragazza non è una tartaruga
mutante'. Il
vecchio ha riso più forte di prima, mi ha davvero
spaventato. E poi
col suo sorriso sdentato ha detto: 'non l'ho mai pensato. Ma di certo
ha il cuore di una tartaruga. Questo le porterà fortuna'. 1
Ti
piace?”
Isabel
non aveva parole per esprimere quanto le piacesse e quanto fosse
emozionata. La mano nella sua tremava e l'unico modo che aveva per
farglielo capire, senza tradire quel tremore nella voce, fu lanciarsi
verso di lui e abbracciarlo.
Quello
stupido, perfetto e insospettabilmente romantico mutante, che le
aveva rubato il cuore.
“Ti
amo” gli sussurrò all'orecchio, stringendolo forte
a sé, in
ginocchio sul letto.
“Anche
io, secchiona. E oggi ho progettato l'intera giornata per noi e non
ti lascerò un momento da sola. No, non potrai
studiare” la bloccò
lui, al vederla staccarsi con una faccia orripilata al solo pensiero.
“Non
potresti comunque imparare in un giorno solo cose che non sai e se le
sai ti basterà un ripasso veloce stasera. Perciò
niente libri. Oggi
staremo solo tu e io, assieme. Ho detto ai Jones di non farsi vedere
e anche allo scricciolo. Gli ho anche dato Klunk in affido”
rivelò
con un sorriso furbo nel vedere il luccichio di comprensione negli
occhi di lei.
Poi
Isabel sorrise, vinta da tutta la sua orchestrazione.
E
il bacio di prima riprese esattamente dove si era interrotto, con la
stessa passione. Le labbra facevano male nel mordersi e baciarsi, ma
era un dolore dolce, era un dolore paradisiaco.
“Aspetta,
devo darti il mio regalo” riuscì a dirgli in un
momento in cui
dovettero per forza lasciarsi per riprendere fiato, con disappunto.
Ma Raphael non la lasciò andare.
Con
un gesto delicato la spinse con la schiena contro il letto e si
sdraiò al suo fianco.
“Non
c'è fretta. Ho già tutto quello che
voglio” le mormorò
all'orecchio, prima di morderlo.
Isabel
strillò e poi rise e con un colpo di gambe si
portò sopra di lui,
chinandosi poi a baciarlo.
Le
parole non erano più necessarie. I baci, le carezze, gli
sguardi,
avrebbero detto il resto.
L'anniversario
fu più di come si fosse immaginata. Forse perché
in realtà non si
era aspettata niente.
Raphael
era stato molto impegnato e credeva che se ne fosse anche
dimenticato, e comunque nella più rosea delle sue
aspettative, si
era immaginata un'uscita notturna per i tetti di New York. E quello
c'era in effetti stato, a notte fonda, ma era stata solo la
coronazione di una giornata perfetta.
Raphael
si era davvero impegnato. Il rifugio, tanto per iniziare, era
completamente trasformato: addobbato con piante e fiori presi da
chissà dove, aveva preso l'aspetto di una giungla profumata.
All'inizio
ne rimase così sorpresa da farle quasi male alla testa, ma
poi si
accorse di come ogni cosa fosse messa in una precisa coreografia, che
creava un ambiente rassicurante e intimo. Non sembrava nemmeno
più
il rifugio, ma quasi di stare all'aperto.
Era
stupita di ogni dettaglio che Raph aveva pensato e si chiese se non
ci fosse lo zampino di April, qua e là. I petali di rosa per
terra
per esempio, quello le sembrava decisamente qualcosa che solo
un'altra donna poteva pensare.
E
il percorso floreale l'aveva portata al laghetto, sulla superficie
del quale galleggiavano fiori di loto nelle loro verdi foglie carnose
e candele accese.
E
Raphael aveva preparato una sorta di picnic sul ponticello, e
lì
l'attese con un sorriso.
Ogni
cosa in quella giornata fu perfetta. Il loro picnic, le chiacchiere,
un film e le risate libere e l'intimità e i gemiti che
nessuno dei
due dovette trattenere, perché c'erano loro, solo loro.
La
notte, seduti a guardare il cielo sul cornicione di un alto
grattacielo, entrambi si ritrovarono a pensare che quella giornata
era stata troppo corta, ma non lo dissero. Il pensiero che
già
l'indomani, dopo l'esame di lei, dovessero raggiungere gli altri e
dire addio a quella dolce privacy che avevano assaporato troppo poco,
li rendeva un po' tristi.
Perciò
accantonarono ogni altra cosa che non fosse il godersi la reciproca
compagnia e parlare di cose frivole, di cosa probabilmente stessero
facendo gli altri in quel momento e di quanto Mikey stesse
sicuramente pavoneggiandosi con chiunque.
Sotto
un cielo stellato e una luna crescente, nella prima notte di Autunno,
non era il tempo per parlare di altro.
Quando
l'indomani Isabel si svegliò, lo fece di soprassalto come il
giorno
prima. Ed ebbe l'impressione che forse il sogno fatto potesse essere
lo stesso, ma non riusciva a ricordarlo con precisione. Era solo la
sensazione di dolore, che ricordava.
Che
fosse per l'ansia dell'esame, che si sentiva così pressata?
O per
tutte le cose che ancora teneva dentro e la stavano logorando, pian
piano?
Il
braccio che la cingeva, però, il giorno prima non c'era. Si
voltò
ancora con il magone e incontrò gli occhi scuri di Raphael
che la
osservavano con sorpresa e un po' di sonno infranto.
“Hai
fatto un brutto sogno?” le chiese con la voce impastata,
tirandola
di nuovo giù e stringendosela contro.
Isabel
poggiò le labbra sul suo collo e inspirando il suo odore,
che le
ricordava l'autunno, a poco a poco si calmò.
“Non
lo so. Non me lo ricordo” confessò, chiudendo gli
occhi.
Ed
era vero. Anche sforzandosi le uniche cose che ricordava erano enormi
foglie verdi, sangue e un pianto. Smise di provarci quando si
accorse che le veniva mal di testa e nausea, che non facevano che
accrescere il fastidio.
“Sei
nervosa per l'esame?” domandò la voce roca di lui,
che lei sentiva
rimbombare nel suo petto.
Scosse
la testa per negare, ma uno starnuto di lui per i suoi capelli che lo
solleticavano la fecero smettere, con un sorriso.
Poi
Raph sospirò. O forse sbadigliò.
“Adesso
facciamo colazione e ti sentirai meglio.”
A
dispetto del suo proposito, però, non si mosse per alzarsi.
Anzi,
l'abbracciò più forte, passandole una mano sulla
schiena
distrattamente.
Passarono
interi minuti di silenzio, scanditi solo dai respiri sereni.
“Non
ho voglia di alzarmi” confessò il mutante alla
fine, anche se era
ben ovvio.
“Nemmeno
io” lo rincuorò Isabel, accoccolandosi di
più.
“Perché
dopo colazione tu andrai a fare l'esame, e io verrò a
prenderti alla
fine e andremo dagli altri. E vuol dire che è tutto
finito” rivelò
lui, con un tono di voce che Isabel definì nella mente imbronciato.
Ma non lo
disse, sorrise e
basta.
Ed
era d'accordo col sentimento che provava.
Se
ne stette lì ad abbracciarlo, come riprova. E forse si
sarebbe
addormentata cullata dal battito del suo cuore e dalla dolcezza della
sua affermazione, se lui non avesse continuato, dopo qualche istante:
“Se
solo potessimo vivere da soli.”
Spalancò
gli occhi. Era stato poco più che un sussurro, un sospiro
innocente
rubato ad una fantasia momentanea. Ma era una porta aperta verso un
altro mondo, per lei.
“Cosa?”
chiese incerta, scostandosi un po' per poterlo guardare in viso.
Raphael
sembrò sorpreso della sua reazione.
“Ho
detto che non sarebbe male se potessimo vivere assieme”
ripeté,
solo lievemente in imbarazzo; perché gli occhi di lei lo
guardavano
mentre lo diceva ed erano lucidi di meraviglia.
“Io
e te? Da soli? Dici sul serio?”
“Sì,
lo so che non è possibile, ma sarebbe un sogno! Mi
mancherebbero gli
altri, sarebbe… strano, ma ti confesso che l'ho sognato.
Essere
padroni dei nostri spazi, non doversi nascondere per darci un bacio e
tu non dovresti più sgattaiolare di nascosto nella mia
camera…
avremmo una camera nostra e...” si interruppe arrossendo
vistosamente nel vedere il sorriso sul volto di lei. Forse pensava
che lo stesse prendendo in giro.
“Lascia
perdere. Era solo una fantasia” chiuse scocciato, forse in
imbarazzo per ciò che aveva ammesso. La lasciò
andare freddamente e
si voltò di schiena, ignorandola.
“No!
No io… c'è il villino. La magia è
sempre attiva. Non ho più
avuto il coraggio di andare a vederlo, ma… è
sempre lì.
Probabilmente bisognerà ricostruirlo da zero, ma sarebbe
nascosto
agli occhi degli altri e per noi sarebbe perfetto”
spiegò Isabel,
sollevandosi sulle braccia per poter scorgere almeno un po' le sue
espressioni, via via che capiva cosa lei volesse dire.
Raphael
si alzò a sedere di scatto e si voltò nello
stesso momento dalla
sua parte. Gli occhi splendevano.
Il
villino. Non ci aveva più pensato. Nemmeno lui c'era
più andato,
sebbene Isabel gli avesse detto che con la collana degli amanti al
collo anche lui poteva entrarci senza problemi. Era rimasto come in
stand by, il villino, nella sua mente. Fermo al tempo in cui si erano
conosciuti e innamorati; e poi era stato distrutto come le sue
convinzioni su quell'amore, quella notte infame.
Quando
ancora non sapeva troppe cose, di lei.
Vivere
al villino con Isabel sarebbe stato magnifico. Anche troppo bello per
poter essere immaginato.
“Stai
parlando sul serio? Se mettessimo a posto il villino… tu
vorresti
vivere assieme a me?” domandò trattenendo la
frenesia fino al
momento in cui lei non avesse risposto affermativamente.
Isabel
annuì con le guance rosse di emozione, con un sorriso
splendido.
Le
sue mani si tesero a cercarla, a cercare le sue.
“Ci
vorrà del tempo. Ma appena finito il torneo possiamo
chiedere a Don
di fare il progetto e chiedere a Casey una mano. Anche gli altri si
metteranno in mezzo, vedrai. E Mikey cercherebbe di farsi fare una
camera per sé, per venire ad importunarci!”
Isabel
rise del suo entusiasmo. Era così bello vederlo infervorato
per quel
progetto. Un loro progetto, per il loro futuro.
Lui
l'abbracciò, ridendo con lei.
“Vivere
assieme. Non lo avrei mai immaginato” sospirò
felice contro la sua
fronte.
“Forse,
un giorno, potremo anche allargare la famiglia, fare dei
figli”
continuò, nel suo mondo di sogno. Lo aveva detto con un tono
così
bramoso e innocente, da gonfiare il cuore.
E
fu quello, il momento in cui quello di Isabel si fermò. E
non era
sicura che avesse poi ripreso a battere, nei momenti seguenti in cui
deglutiva a vuoto il suo magone, trattenendo i tremori.
Era
arrivato il momento. Perché quella era l'occasione che
aspettava da
settimane e che avrebbe dovuto creare lei stessa in quei giorni di
solitudine, come le aveva detto Don; e invece le si era presentata da
sola, su un piatto da argento, e lasciarla scappare avrebbe voluto
dire dover affrontare la questione più avanti, con
più fatica.
Ma
non avrebbe mai creduto che si presentasse in quel momento di sogni e
progetti, rendendo tutto solo più difficile.
“Raffaello”
esalò con sforzo immane.
E
lui si accorse della sua voce seria, e la lasciò andare.
Solo
che guardare nei suoi occhi ignari e preoccupati, fu anche peggio.
Strinse le mani sui suoi avambracci, cercando la forza.
“Noi…
non possiamo avere figli” svelò, infine, lasciando
andare ogni
parola con difficoltà.
E
lo sguardo di Raphael si adombrò sempre più, ad
assorbire ognuna di
quelle parole.
“Come...?”
riuscì a chiedere inebetito, mentre la verità si
faceva strada
infine nella sua mente.
“I
nostri cromosomi non sono compatibili. C'è una differenza
minima,
che non permette di formare un feto. Un bambino. Abbiamo fatto
centinaia di test, te lo assicuro, ma...”
“Abbiamo?”
domandò ancora in trance, poi capì all'istante.
Donnie. Certo, come
non sospettare che lui lo sapesse.
“Da
quanto lo sapevate, tu e Don?”
Sembrava
calmo mentre lo chiedeva. Anche troppo in effetti. Ma il magone che
la attanagliava non si affievolì e sembrò solo
crescere di
intensità, ad ogni verità svelata, finalmente.
Perché
lei lo sapeva, lo sentiva, il desiderio nascosto di Raphael di avere
dei figli. Di essere padre. E sentiva che non era giusto che gli
fosse negato. Si sentiva come se fosse colpa sua e una violenta
emicrania la scuoteva, per punirla.
“Quasi
due mesi. Quando ho iniziato a sospettare che April fosse incinta,
quella domanda che non ci siamo mai fatti è spuntata fuori:
possono
umani e mutanti avere figli? E… no, non possiamo.”
Vederlo
così statico, senza reazioni, era peggio che fronteggiare un
suo
scatto d'ira.
Ma
lui si sentiva freddamente calmo. Al pensiero che qualcosa si stesse
sgretolando dentro di sé.
Aveva
sempre sospettato che lui e i suoi fratelli non potessero avere
figli. Non avevano mai avuto le compagne adatte, per cominciare, e
con le umane c'era la differenza di base che perfino lui riusciva a
capire. Eppure ci aveva sperato. Nel profondo, ci aveva sempre
sperato.
E
quando lei era apparsa e aveva rivoltato la sua vita come un calzino,
la speranza era accresciuta. Lei l'aveva nutrita col suo amore e
l'idea di avere un figlio che avesse quegli occhi scuri e quel
sorriso, lo aveva tenuto sveglio per molte notti.
Invece
era tutto vano.
Non
sarebbe mai successo. Non sarebbe mai successo e non era colpa di
Isabel, ma il pensiero che lei lo sapesse da così tanto un
po' lo
ferì.
E
vederla lì immobile ad aspettare una sua reazione, con gli
occhi
timorosi e lucidi, lo rendeva solo più furioso.
“E
non me lo hai detto perché credevi che sarei impazzito? Che
avrei
pianto?” la aggredì, allontanandosi da lei e
scostando il lenzuolo da
dosso. In un istante fu in piedi, a camminare avanti e indietro
stringendo i pugni, con profondi respiri per cercare di calmarsi.
“Stavo
cercando il momento giusto! Pensavo che durante l'allenamento per il
torneo non fosse...” cercò di spiegarsi lei, ma
lui si sentiva
troppo arrabbiato per percepire la sincerità delle sue
parole.
Arrabbiato perché gli era stato strappato un sogno e reagire
con la
rabbia era meglio che affrontare la delusione.
“Sono
scuse, Isabel. Stavi cercando ancora una volta di scappare dai
problemi. Dalla responsabilità!” la
bloccò, dicendo cose che non
pensava davvero. Prendersela con lei sembrava così semplice.
Anche
Isabel si era alzata e lo fronteggiava col viso paonazzo per la sua
reazione, il letto a dividerli.
“Ah,
no! Non mettermi più a paragone con ciò che ero!
Non riuscivo a
dirtelo perché non volevo rompere i tuoi sogni, Raffaello! I
nostri.
Perché io lo so che desideri un figlio! E non potertelo dare
mi
rende...”
Lo
vide alzare una mano per interromperla, e l'espressione del suo viso
trasmetteva dolore e una presa di coscienza.
“No,
cazzate. Non c'è niente che non vada in te. Sono io il
problema. Se
tu volessi potresti benissimo avere tutti i figli che desideri,
no?”
Era
lui quello sbagliato. Era lui quello difettoso. Il mostro.
Se
l'avesse schiaffeggiata le avrebbe fatto meno male, sicuramente. E
ormai la furia si era impadronita anche di lei, perciò
alzare la
voce era diventato un bisogno per cercare di farla uscire.
“E
cosa vorrebbe dire? Che dovrei uscire da qui e andare col primo che
passa e farmi mettere incinta? Che dovrei lasciarti e mettermi con un
umano e fare figli per essere felice? Non ricominciare con queste
stronzate, Raffaello! Mentirei se ti dicessi che non voglio dei
bambini, ma io desidero avere i nostri figli. Portare in grembo i
tuoi figli e crescerli e nutrirli e amarli. I tuoi. I nostri. Di
nessun altro, con nessun altro.”
Non
le importava se aveva gli occhi umidi di lacrime e lui poteva
benissimo vederli e se tremava di indignazione ed emozione repressa.
Non
gli avrebbe permesso di lasciarla di nuovo per le sue stupide idee
sul saperla felice con un essere umano e con dei figli. Non voleva
niente del genere, se non era con lui.
Raphael
sembrò quasi cedere. Lo vide vacillare alle sue parole dette
col
cuore, all'amore che trasmettevano. Sarebbe bastato separare la
distanza che quel letto metteva tra loro e abbracciarsi e cercare
conforto per quel dolore l'uno nelle braccia dell'altro. Insieme non
c'era nulla che non potessero superare.
Ma lui si allontanò invece all'indietro, aumentando
quella
distanza.
“Io
voglio restare un po' da solo” mormorò. E non
attese nessuna
risposta, ma si diresse alla porta velocemente e una volta aperta,
sparì dietro di essa, uscendo dalla stanza e dal rifugio.
Isabel
rimase immobile a fissare l'uscio. Corrergli dietro sarebbe stato
semplice, ma avrebbe portato solo ad altre urla e altri rimproveri.
Si
lasciò andare sul letto senza forza, e dopo aver rotolato
sulla
schiena osservò il soffitto senza vederlo poi davvero. Nel
giro di
un'ora avrebbe dovuto sostenere un esame importante e lei aveva solo
voglia di raggomitolarsi nella coperta e smettere di pensare e cedere
alla paura.
Ma
non lo avrebbe fatto. Si alzò controvoglia e si
preparò, saltando
la colazione; la sola idea di mangiare la nauseava.
E
nel tragitto verso l'università, e quando si
presentò alla classe
designata, e perfino mentre svolgeva il test nel silenzio generale
insieme agli altri centoventi studenti, il pensiero di Raphael non
l'abbandonò un attimo. Dove potesse essere e cosa stesse
facendo.
Aveva
paura che volesse allontanarla ancora, che cercasse di convincerla a
lasciarlo per farsi una famiglia altrove. Perché era sicura
che
avesse di nuovo ceduto ai dubbi, con quella nuova rivelazione. E che
si stesse dannando per non essere capace di creare con lei una
famiglia.
Le
due tartarughe di pietra del bracciale scintillavano ogni volta che
muoveva la mano sul foglio, gettando giù le risposte.
Non
seppe cosa avesse scritto, se aveva poi davvero risposto
correttamente alle ottantacinque domande del test; ricordava solo le
parole confuse che ballavano davanti ai suoi occhi e la penna che
scriveva e grattava rumorosamente, ma non era certa che fosse stata
poi lei a manovrarla.
Firmò
in calce e consegnò i fogli, al primo richiamo del docente.
Poi uscì
in fretta, senza aspettare un paio di sue amiche che l'avrebbero
riempita di domande su come fosse andato l'esame, perché non
aveva
proprio voglia di far finta di voler chiacchierare.
L'aria
stava diventando più frizzante e lei non aveva con
sé nemmeno un
giubbino. Si passò le mani sulle braccia per scaldarsi, con
frenesia. Al primo vicolo cieco disponibile, virò
all'interno senza
attirare l'attenzione, guardandosi poi alle spalle e in alto per
controllare che non ci fosse nessuno.
Un
paio di balzi e raggiunse la scala antincendio, che scalò
poi con
maestria fino a raggiungere il tetto.
Lui
doveva essere da qualche parte. Doveva andare a prenderla e portarla
al Nexus. Non poteva essere scomparso ed essersene dimenticato.
Attese, anche se lì in alto il freddo era più
intenso.
Rimase
ad attendere, per molto.
Seduta
su un cornicione riparato da una cisterna d'acqua, guardava un pezzo
di città dall'alto, quella visibile nel recinto di
grattacieli che
le bloccavano l'orizzonte: una fetta di caos e viavai, e file di
macchine da non vederne la fine, che camminavano lentamente, tanto da
farle chiedere se non sarebbe stato meglio, per i passeggeri,
scendere direttamente e continuare a piedi; nei marciapiedi il solito
traffico variopinto di gente dalle più varie etnie,
mescolate
assieme in una o nell'altra direzione, pochi quelli che si fermavano
a dare un'occhiata distratta alle vetrine, troppo presi dalla meta
che dovevano raggiungere.
Si
lasciò trasportare con la mente nelle loro faccende. Ne
seguì uno
con gli occhi che trotterellava nervoso con un mazzo di fiori in
mazzo, che cercava di tenere al riparo dagli scossoni e i colpi della
folla; forse stava andando dalla persona che amava o forse al
compleanno di sua madre, ma non avrebbe potuto mai scoprirlo,
perché
sparì inghiottito dalla gente e poi lontano, dietro un
palazzo che
le bloccava la visuale.
Ci
rimase un po' male, ma poi gli occhi catturarono una bambina che con
il monopattino rosa sfrecciava al lato del marciapiede, incurante dei
molti piedi che pestava e degli improperi che riceveva, e rideva.
Una
bambina d'acciaio, senza dubbio. Una bambina col carattere di
Raphael, sprezzante e coraggiosa.
Sospirò.
Perché
non potevano avere figli? Perché un uomo come lui, nato per
fare il
padre, che avrebbe dato infinito amore alla sua creatura e l'avrebbe
protetta da tutto e tutti, perché lui non poteva avere
quella gioia?
Non era giusto. E la vita era stata già troppo ingiusta con
lui.
“Ehi”
sentì una voce chiamare, che la strappò dalle sue
riflessioni con
forza.
Non
aveva percepito la sua presenza.
Voltò
il capo e lo vide, immobile alle sue spalle, che la guardava. E non
sapeva cosa dire. Il sollievo di vederlo l'aveva lasciata spiazzata.
Raphael
sembrava teso quanto lei e forse non era solo per le accuse che le
aveva rivolto nella sua rabbia e delusione.
“Andiamo,
è tardi” esalò, tendendole la mano.
La
prese, per tirarsi su, ma poi non la lasciò andare e lo
costrinse a
camminare al suo passo, a sentire il calore del suo tocco. Solo un
passo indietro, ma connessa con quel contatto. E lui non
cercò di
scostarsi.
Non
dissero niente mentre camminavano sui tetti. E Isabel non sapeva come
tutto si sarebbe risolto se non ne avessero parlato; ma di certo una
volta nel Nexus, non avrebbero avuto la tranquillità e
l'intimità
necessaria per poter parlare.
Raphael
la stava guidando verso due giorni di tensione, circondati dal resto
della famiglia e sconosciuti che avrebbero riempito ogni istante,
senza lasciarli da soli.
Solo
dopo un po' si accorse che stavano camminando da troppo e che avevano
già sorpassato tre vicoli adatti per aprire il portale per
la
dimensione parallela.
Dove
la stava portando?
Si
lasciò condurre, curiosa, ma non ci volle molto per capire.
Quel
quartiere lo conosceva come le sue tasche, per tutte le volte che lo
aveva percorso nel poco tempo di libertà, con Shadow alle
calcagna.
E
rivedere quella porta bruciata, quando scesero infine dai tetti, le
diede un tuffo al cuore.
L'entrata
del villino. La maniglia era arrugginita e il legno nero e spaccato.
E
non sapeva cosa potesse esserci dall'altra parte e aveva una gran
paura di scoprirlo.
Raphael
si voltò a guardarla e strinse più forte la presa
nella mano nel
vedere lo scintillio di timore nei suoi occhi.
“Ho
chiamato Don e gli ho detto di trovare una scusa per noi,
perché non
li raggiungeremo. In fondo me ne doveva una” le
raccontò, forse
perché aveva capito che lei si stesse facendo mille domande.
“Vieni”
sussurrò convincente, appoggiando la mano sulla maniglia.
Un
passo. Fu necessario un solo passo, e un battito perduto.
Verde.
Fu verde, la prima cosa che si parò davanti agli occhi. Così rigoglioso e lussureggiante da lasciare spiazzati:
l'erba era
altissima e c'erano parecchi fiori gialli e rossi tra il verde, che
creava una specie di barriera. Il giardino, dopo l'incendio, era
rinato più florido di prima.
Raphael
fece da apripista, scostando l'erba ai lati col braccio e creando una
breccia col corpo massiccio.
Si
fermarono davanti alla casa e il dolore la colpì,
così come aveva
pensato. Il piano superiore non c'era più, solo alcuni
spuntoni di
travi carbonizzate che indicavano che c'era stato, in passato, un
continuo verso l'alto. Il piano terra era più integro,
violentemente
percorso da striature nere che si erano mangiate porzioni di muri; ma
sembrava essersi conservato meglio e forse, dentro, qualcosa poteva
essersi salvato.
Raphael
tese una mano e iniziò ad indicare.
“Al
piano terra metteremo la cucina e la sala, forse identici a come
erano prima, mi piacevano quelle vetrate enormi”
dichiarò con
sicurezza. Isabel si voltò a
guardarlo con
gli occhi spalancati, ma lui era attento a quello che stava spiegando
e non la notò.
“Potremmo
fare anche uno studio per te e tutti i tuoi libri, e una palestra
anche piccola per permettermi di allenarmi. Al piano superiore le
stanze da letto, una grande per noi e poi un paio per gli ospiti,
sono sicuro che ne avremmo più spesso di quanto vogliamo. E
i bagni,
uno per piano, forse anche due al piano di sopra, perché uno
mi
piacerebbe metterlo adiacente alla stanza da letto, con una vasca
enorme.
Fuori
una bella veranda per le sere estive in cui daremo le cene per quei
rompiscatole numerosi e rumorosi e il gazebo dove potrai sederti a
leggere nelle sere, avvolta nella tua coperta.”
Si
fermò e si girò a guardarla.
“E
potrai adottare tutti gli animali che vuoi, cani, gatti, anche
scimmie e tartarughe se ti va, ti prometto che terrò il
giardino
sempre in ordine” concluse, allungando la mano libera per
asciugarle la lacrima che era scappata.
Era
tutto risolto. Quella era la risposta di Raphael, l'unica che non si
era aspettata.
Si
gettò tra le sue braccia, e lo strinse con foga e
commozione,
poggiando la fronte sul suo petto.
Avrebbero
costruito il villino e vissuto assieme. Un progetto per tutta la
vita. E non era importante la mancanza di figli, perché
entrambi si
bastavano, erano tutto ciò che desiderassero.
1:
il vecchio è un cinese che ha dato un anello magico a Casey
quando
ne cercava uno per April per la proposta, con delle inattese
conseguenze. Settima stagione “back to the sewer”
episodio
quattro “the engagement ring”.
Note:
Salve!
Sono
abbastanza in tempo, questa volta. Ho ritardato solo di un giorno,
perché internet non voleva collaborare. Scusate!
Allora:
eccola, la verità. La dura verità, come dice il
titolo. Umani e
mutanti non possono avere figli e la cosa è dolorosa per
entrambi.
C'è quasi da sperare che Don si sia sbagliato, vero? Fanno
una
tenerezza questi due, soprattutto Raph che ne avrebbe voluti tanti.
Ma
assieme possono davvero tutto!
Presto
arriveranno i capitoli del Nexus e tra mille combattimenti questi
momenti di introspezione penserete di esserveli sognati; ma prima
c'è
ancora una piccola parentesi.
Grazie
con l'inchino per leggere, seguire, preferire e commentare la storia!
Una gioia continua! Vi adoro!
Buone
feste, a presto!
|
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Capitolo 7 *** Joi-lousy ***
Fare
progetti per la nuova casa per due giorni interi fu paradisiaco, con
mille disegni improponibili in cui ognuno di loro cercava di fare
capire all'altro la disposizione delle camere e come le avrebbe
volute arredare, tra risate e abbracci, baci e litigi.
Meno
bello fu riaccogliere a casa il resto della famiglia al termine della
vacanza, e sostenere lo sguardo del sensei che li avrebbe fulminati
all'istante se solo ne avesse avuto la possibilità.
Nonostante
la furia che si poteva leggere nei suoi occhi, comunque, il saggio
genitore rimase quieto e si informò su come stessero con
cortesia,
prima di richiamare Isabel nella stanza da meditazione per poter
parlare in privato.
La
ragazza captò di sfuggita lo sguardo preoccupato di Raphael,
che
probabilmente pensava volesse sgridarla per non essere andati al
Nexus, e si affrettò a fargli un cenno per rassicurarlo,
prima che
decidesse di intervenire e prendersi responsabilità che non
aveva.
Era
quasi certa di cosa volesse parlare Splinter.
Si
divincolò con garbo dall'abbraccio affettuoso di Mikey e
seguì il
sensei, evitando gli sguardi di Leo e Donnie, curiosi per due motivi
differenti, entrambi detentori di due segreti differenti.
Oltrepassò
il dojo e si infilò nella stanzetta zen subito dopo
Splinter,
chiudendo la porta alle sue spalle. Il maestro la invitò a
sedersi
sui cuscini con un gesto della mano e fece lo stesso, con studiata
calma.
“Avevi
promesso che saresti venuta al Nexus, Isabel”
pronunciò dopo
interminabili attimi in cui si era limitato a fissarla, per fiaccare
ogni sua difesa.
Non
che ce ne fosse bisogno: lei si sentiva già in colpa per
aver
infranto la promessa. Aveva fatto il diavolo a quattro e promesso che
se l'avesse lasciata a casa per l'esame, poi li avrebbe raggiunti
immediatamente; e invece si era rimangiata la sua parola, anche se il
motivo per cui lo aveva fatto non glielo faceva rimpiangere poi
molto.
Ma
si meritava quel rimprovero, perciò piego il capo in
contrizione.
“Mi
dispiace, sensei. Sono sorti dei problemi e...”
“Eri
in pericolo?” la interruppe la voce preoccupata dell'anziano,
e il
cuore si strinse in una morsa, un po' più colpevole.
“No!
No, sto bene, non è successo nulla. Ma io e Raphael dovevamo
sistemare una faccenda importante ed è venuta fuori proprio
adesso.
Se avessi lasciato perdere, le cose tra noi avrebbero potuto
deteriorarsi irreparabilmente” spiegò concitata,
arrossendo suo
malgrado.
Non
voleva che il sensei fraintendesse, che potesse pensare che fosse
stato un semplice litigio tra innamorati o peggio ancora una scusa
per poter passare del tempo da soli: loro due stavano costruendo
assieme le basi per il loro futuro e dovevano stare attenti che fin
dall'inizio fossero stabili e forti o tutto sarebbe crollato, un
giorno.
Splinter
la osservò negli occhi, scavando in profondità
mentre lei parlava,
come a voler leggere la verità; poi stette in silenzio
mentre si
carezzava il pizzetto, ma continuando a fissarla.
“E
quando sei uscita, ti sei sentita ancora seguita?” chiese
quindi,
lasciando perdere l'argomento precedente, cosicché lei
intuì che le
avesse creduto.
Ci
pensò su un attimo, perché era una cosa che le
era completamente
passata di testa, tra tutti gli avvenimenti recenti. Ma poi,
ragionò,
lei era rimasta all'aperto e scoperta per ore, quando aveva atteso
Raphael sul tetto del palazzo dopo l'esame e non aveva percepito
nulla, nemmeno un piccolo segno di malizia o di quell'ansia del
sentire uno sguardo su di sé.
Allora
non vi aveva fatto caso, presa dai pensieri di Raphael e del loro
litigio, tanto da dimenticarsi che si era sentita seguita e che
avrebbe in realtà dovuto stare nascosta; ma ragionandoci a
mente
fredda si accorse che non c'era stata alcuna minaccia.
Niente.
Era rimasta visibile come un bersaglio e non aveva percepito niente.
“No,
non ho avvertito nulla. È stato tutto tranquillo”
rivelò quasi un
po' sorpresa.
Gli
occhi del maestro, invece, scintillarono di trionfo. E dato che lei
non aveva il coraggio di chiedergli a cosa fosse dovuto, forse
sarebbe rimasta col dubbio, se proprio il sensei non avesse aperto
bocca per spiegarle, tranquillamente.
“Io
e Leonardo ci stavamo chiedendo se potesse essere possibile che la
sensazione di essere seguita non fosse un sintomo di qualche stress.
Leonardo ti ha pedinata per molto tempo, ma non ha mai sentito niente
o visto qualcuno, perciò forse questo qualcuno non
è mai esistito.”
Isabel
rimase attonita ad ascoltare, mentre il cervello lavorava.
Di
certo di problemi ne aveva avuti parecchi in quell'ultimo periodo ed
era stata molto stressata, ma così tanto da immaginarsi
addirittura
le cose? Una sensazione così angosciante come quella di
essere
tenuta d'occhio come una cavia da laboratorio, come una preda, poteva
essersela soltanto immaginata?
Il
cuore le diceva di no, che non aveva sbagliato, che era troppo
abituata a quella percezione per poterla confondere con
qualcos'altro, ma la mente e la ragione, oltre alle parole sensate di
Splinter, le dicevano che sì, non era affatto strano che
potesse
essersi sbagliata, a causa del forte stress.
In
fondo, non poteva essere che quel giorno che attendeva Raphael non
avesse sentito nulla, perché si era liberata di un peso
enorme
dall'anima nell'avergli finalmente rivelato quel segreto sui figli?
“Credo
che tu abbia ragione, credo che fosse solo la mia immaginazione.
Avevo molti pensieri per la testa, ultimamente”
confessò allora,
anche se incerta, in imbarazzo per il pensiero di poter aver alzato
un polverone per nulla, allarmando anche loro.
“Se
tu stai bene, io sono felice. È valsa la pena di darti
aiuto, se ne
sentivi il bisogno, che fosse reale o meno” la
consolò lui,
intuendo i suoi pensieri.
“Desideri
che Leonardo continui a seguirti, per sicurezza? Forse sarebbe
meglio, per essere completamente certi” incalzò,
come a volerle
far capire che non c'era nulla di male nel dubitare di una
percezione.
Isabel
scosse la testa con foga, negando con tutte le sue forze.
“No,
no. Per una settimana non ho lezioni, in attesa che correggano i
test, perciò uscirò solo per poco, per andare a
trovare April e
Angel o per fare un po' di spesa. Non c'è nessun
bisogno!”
Sorrise
rincuorata. Lui aveva di certo ragione, perciò sarebbe
potuta uscire
finalmente da sola senza creare alcun fastidio a Leonardo e senza
nascondere nulla a Raphael.
Sì,
si sentiva decisamente meglio.
Splinter
sembrò confortato nel vederla così positiva e
tranquilla e sorrise
anche lui.
Quando
Isabel uscì dal dojo, lasciando il sensei nella stanzetta a
meditare
un po' in santa pace, dopo giorni in cui non aveva avuto molti
momenti liberi, trovò quattro tartarughe mutanti che
l'attendevano,
senza provare nemmeno a fare finta del contrario.
“Mi
ha rimproverato un pochino perché non siamo andati al
Nexus”
confidò con un sorrisetto, guardando soprattutto Raphael che
le fece
un occhiolino di rimando.
C'era
Donnie a destra, nel cui sguardo poteva leggere un velo di
curiosità
per sapere se lei avesse parlato con Raphael e gli avesse detto del
problema dei cromosomi, e Leo a sinistra, che moriva per sapere se
c'erano stati ancora sensazioni di essere seguita e se non fosse per
quello che non li avevano raggiunti. Ma entrambi non volevano fare
domande che avrebbero potuto scatenare una guerra se quei segreti
fossero venuti fuori e qualcuno non ne fosse al corrente.
Mikey,
nel mezzo, con un gran sorrisone furbo, esclamò:
“Perché
voi due non siete venuti? Ne avete approfittato perché
eravate da
soli, ammettetelo!”
Isabel
arrossì e rise, mentre il nostalgico rumore dello
scapaccione di
Raphael contro la testa del fratello riecheggiava nel rifugio,
seguito dal suo lamento.
“Bentornati
a casa” disse la donna, ridacchiando davanti alle loro facce
sorprese.
Di
certo vivere insieme a Raph sarebbe stato meraviglioso, ma le
sarebbero mancati quei momenti familiari con gli Hamato al completo.
Nei
giorni seguenti, le sessioni di allenamento si modificarono come
aveva preannunciato il sensei prima della partenza: allenamenti
mattutini, con sparring a coppie per non perdere la forma fisica, e
meditazione alla sera, a volte individuale ed altre in gruppo, per
fortificare anche lo spirito in vista del torneo.
Era
di certo una preparazione più leggera, eppure la tensione
andava via
via crescendo, man mano che il giorno del torneo si avvicinava, si
poteva leggere negli atteggiamenti che i quattro avevano nei loro
momenti di svago: Donnie leggeva per ore la stessa pagina di un
libro, senza girare mai e i suoi occhi andavano da destra a sinistra
e viceversa, ma non scendevano mai; Michelangelo giocava ai
videogiochi, ma dopo due minuti perdeva la vita, finendo in game over
dopo nemmeno cinque minuti di gioco, continuando a riavviare e
sbuffare per ore, senza avanzare di un livello; Leonardo affilava e
puliva le Katana con meticolosità e ossessione,
perché non si
potevano di certo rendere più affilate e lucide di quanto
non ci
fosse riuscito alla seconda passata, eppure continuava imperterrito,
con lo sguardo vitreo come se non le vedesse davvero; Raphael,
infine, si sfogava con ciò che era decisamente il suo
passatempo
preferito: prendere a pungi il sacco da boxe. Ore dopo ore, l'unico
suo svago era colpire quel povero sacco logoro e consunto dai suoi
colpi, fino a che i muscoli non dolevano e le nocche si sbucciavano.
Isabel
li osservava impotente insieme al sensei, chiedendosi come dovesse
fare. La meditazione serviva anche a sconfiggere l'ansia pre torneo,
ma era ovvio che non stesse funzionando a dovere: c'era una
competizione tale in casa, con un campione in carica, uno del passato
e due sfidanti che volevano quel titolo, che perfino mangiare era
diventato stancante, con la pressione guerriera che i quattro
emanavano.
Avrebbe
voluto fare qualcosa per distrarli, ma non sapeva cosa. Solo per
Raphael, alla fine, poteva essere una buona distrazione: la sera, a
letto, riusciva a fargli dimenticare l'ansia, semplicemente
abbracciandolo e parlandogli del loro progetto. Gli parlava di quante
stanze avrebbero avuto al pianterreno, della sua palestra personale
dove avrebbero messo il suo fidato sacco da boxe e della cucina
spaziosa che aveva in mente, o della sala da pranzo enorme, per poter
dare delle belle cene in famiglia. Raphael ascoltava attento,
annuendo silenziosamente quando si trovava d'accordo o intervenendo
quando lei esagerava nelle descrizioni, come quando gli disse che
voleva una giraffa in giardino. La riprendeva per le sue idee folli e
le suggeriva una modifica qui e là, mentre lei sorrideva per
essere
riuscita nel suo intento di distrarlo.
Quello
per il momento era il loro progetto, il loro segreto, da custodire
tra le pareti della camera e le coperte del letto; ne avrebbero
parlato anche agli altri, dopo il torneo. Ma per adesso era solo
loro, da nutrire e cullare assieme, come una loro creatura.
A
meno di due giorni dal torneo, la situazione al rifugio era diventata
oramai insostenibile. I quattro fratelli quasi non si parlavano tra
di loro, non tanto per malumori o per sentimenti di rivalsa, quanto
perché ognuno assorbito in un proprio mondo, fatto di
tecniche e
possibili scenari di lotte, tanto da dimenticare la realtà
che li
circondava.
Splinter
attese la fine dell'infruttuoso e più disastroso esempio di
meditazione che avessero mai avuto fino a quel momento, per
richiamarli all'ordine.
“Figli
miei, siete stanchi e tesi, lo capisco, ma dovete cercare di non
cedere a queste sensazioni. Comandatele con la mente”
consigliò
loro, bonario.
“Ma
sensei, non sappiamo cosa fare. Il pensiero va sempre verso il
torneo” spiegò Michelangelo, facendo spallucce per
la loro
giustificata tensione.
“Lo
so. Perciò vi offro io la soluzione: dovrete intrattenere
degli
ospiti” annunciò il maestro, sorridendo alle loro
facce sorprese.
Poi,
senza una spiegazione, iniziò ad incamminarsi verso
l'entrata del
dojo, con la sua camminata felpata. Solo dopo qualche istante in cui
i quattro si voltarono a guardarsi uno con l'altro attoniti, capirono
che dovevano seguirlo.
“Quali
ospiti, sensei?” domandò Mikey, trotterellandogli
dietro con
malcelata curiosità.
Splinter
sorrise nel vedere che ogni traccia di tensione era sparita dai loro
occhi, sostituita dall'interesse per sapere.
“Il
Daimyo me li ha affidati, perché mi assicuri che arrivino al
torneo.
Sono partecipanti come voi e sono terrestri” rispose, senza
però
spiegare nulla per davvero, mettendogli solo ancora più
domande in
testa.
Erano
arrivati al laghetto, intanto, e lì il maestro si era
fermato,
poggiandosi al suo bastone. I quattro si guardarono intorno, come a
voler scorgere qualche segno o qualche minaccia, la presenza di
qualcuno, ma non c'era nessuno. Che dovessero aspettarsi qualche
portale che avrebbe condotto i loro ospiti lì da loro?
“Ma
sensei, non avranno paura di noi?” domandò
giustamente Don, un po'
pensieroso, esprimendo un pensiero che era passato un po' nelle menti
di tutti, Mikey compreso, dopo la prima sorpresa iniziale.
Splinter
sorrise anche di più, se ciò era possibile,
enigmaticamente.
“Loro
vi conoscono già” rivelò, gettandoli
sempre più giù nel loro
pozzo di elucubrazioni.
Un
vociare soffuso arrivò alle loro orecchie e dopo pochi
istanti la
voce di Casey fu ben udibile, dal vano dell'ascensore che stava
evidentemente scendendo.
“Siamo
quasi arrivati!” lo sentirono urlare, nitidamente.
“Sono
bendati, non sono sordi!” lo sgridò la voce di
April, alterata.
Risero
un pochettino e una parte della tensione nel sapere chi fossero quei
misteriosi ospiti, che però li conoscevano bene,
svanì. L'ascensore
arrivò a terra e con un sibilo morbido le porte si aprirono,
svelando il gruppetto celato all'interno; con l'aiuto di Casey e
April i quattro umani entrarono nel rifugio e si tolsero le bende,
mettendo a fuoco i loro visi sorpresi.
Esclamazioni
di giubilo si alzarono da entrambe le parti, insieme a saluti e
sorrisi.
Raphael
aveva sempre pensato che rivederla gli avrebbe procurato una fitta di
rabbia e dolore atroce invece, posando lo sguardo su Joi, si sorprese
di non provare nulla, assolutamente nulla. Anzi, solo sollievo per
quel nulla.
Eppure
vederla a casa sua, dopo quello che c'era stato, non gli faceva alcun
piacere.
Leo,
Don e Mikey erano impegnati a salutare e riabbracciare Adam, Faraji e
Tora, e nessuno di loro perciò si accorse del suo fastidio,
e le
voci si sommavano creando un gran caos.
“Non
sapevamo che anche voi partecipaste al torneo!”
esclamò Mikey,
contentissimo, strapazzando un po' Tora, che durante l'allenamento
con gli Shisho era stato quello più legato a lui.
Gli
altri quattro accoliti sorrisero in imbarazzo.
“Noi
non sappiamo nemmeno cosa aspettarci dal torneo. È la prima
volta
che siamo invitati a partecipare e abbiamo capito solo che
sarà
molto competitivo e ci sarà gente da molte dimensioni. Non
sappiamo
nemmeno come arrivarci” ribatté Faraji, con la sua
voce profonda.
“Sì,
ma è solo di noi che dovete preoccuparvi!” si
pavoneggiò Mikey,
facendoli scoppiare a ridere, anche se lui era estremamente serio.
“Di
certo siete diventati davvero alti dall'ultima volta che ci siamo
visti” disse Tora, che ormai faceva una certa fatica a
guardarli in
viso, “ma siete anche così bene
allenati?”
Michelangelo
sembrava sul punto di dire qualcosa di vanitoso come suo solito, ma
poi all'ultimo sembrò ripensarci e sorrise.
“Vedrete
al torneo.”
“Il
viaggio è stato stancante?” si intromise il
maestro, che di certo
non aveva dimenticato le buone maniere come i suoi figli.
“No,
stiamo tutti bene, grazie” rispose Joi, prendendo parola per
la
prima volta. La sua voce era musicale proprio come Raphael la
ricordava, con quel leggero accento che aveva sempre pensato avesse
radici francesi.
“E
grazie anche dell'ospitalità. Avete cambiato casa,
è molto bella”
aggiunse, dando un'occhiata meravigliata intorno.
Il
vecchio rifugio che loro conoscevano, in cui avevano soggiornato per
alcuni giorni alla fine della guerra combattuta assieme contro lo
Shredder Tengu, non era di certo così bello e spazioso e
aerato come
quello, ultima avanguardia degli Y'Lyntian.
“È
un piacere avervi come ospiti. Ora, se i miei figli hanno ripreso un
po' di buon senso, vi mostreranno le loro camere, dove potrete
sistemarvi per questi giorni. Casey, hai portato i letti in
più che
ti ho chiesto?”
Casey
scattò sull'attenti in segno affermativo.
“Sì,
nel retro del furgone. Sono di un amico che ha un hotel a Brooklyn,
mi doveva un favore” assicurò, con un sorriso che
lui reputava
smagliante, per essere riuscito a fare un favore a sua volta al
sensei.
Quello
gli rimandò un inchino col capo di gratitudine che Casey
gradì
moltissimo.
Mentre
tutti chiacchieravano e iniziavano a incamminarsi verso il piano
superiore, la voce di Joi risuonò ancora.
“Se
la mia presenza crea problemi, posso dormire in un hotel. Sono
l'unica donna, in fin dei conti” disse, senza guardare
nessuno in
particolare.
Ma
di certo si era accorta che la sua presenza non era stata accolta con
lo stesso entusiasmo e che Raphael, seppur cortese, si teneva alla
larga.
“Nessun
problema. Sono sicuro che Isabel non avrà alcun problema a
dividere
la sua stanza con te” la rassicurò il maestro.
A
Raphael scappò quasi da ridere. Era certo che Isabel avrebbe
avuto
ben più di un problema quando si fosse trovata Joi nella sua
camera.
E nel suo territorio.
“Chi
è Isabel?” domandò Adam, che tese il
collo verso l'alto come a
voler cercare la misteriosa persona.
“Nostra
sorella” saltò su Mikey, spiegando tutto e niente.
I quattro
ospiti infatti corrucciarono la fronte, confusi.
“Avete
una sorella?”
Non
era stato nessuno in particolare a porre la domanda, sembrò
quasi
che l'avessero pronunciata tutti insieme, con lo stesso tono
meravigliato.
“No,
intende cognata” corresse Don, ma la sua risposta
sembrò generare
solo più confusione. O forse ancora più sorpresa.
Gli
sguardi corsero quindi verso Leonardo e Raphael, gli unici due che,
ad esclusione, c'entravano qualcosa.
“Uno
di voi si è sposato?” chiese Tora, con un garbo
così attento che
sfociava inesorabilmente verso l'incredulità.
Il
pollice di Leo si tese in direzione di Raphael, con fare annoiato.
“Lui.
Ma è fidanzato, non sposato” mise al corrente
chiaramente,
sottolineando per bene che in fin de conti la loro relazione non era
ufficiale per nulla e che quindi poteva anche soffiargliela ancora.
Ovviamente
Raphael la prese per quello che era, una provocazione innocua, e lo
lasciò perdere. Era più interessato a quello
scintillio strano
nello sguardo di Joi al sentire la rivelazione e una parte di
sé,
profonda e maligna, aveva tanta voglia di sorridere soddisfatta.
Pensava, forse, che lui sarebbe rimasto per sempre legato al suo
ricordo, a leccarsi le ferite in eterno? Forse le cicatrici di quei
tempi sarebbero rimaste eccome, senza Isabel.
L'ascensore
si richiuse in quell'istante con un sibilo e iniziò a salire
morbidamente.
“Eccola
di ritorno, doveva fare delle commissioni. Vi
piacerà” assicurò
Mikey, che sembrava si stesse divertendo un mondo, con tutte quelle
persone per casa. Di certo la festa era assicurata, nella sua testa.
Attesero
quindi l'arrivo dell'ultima partecipante. Raphael era quasi teso. Non
sapeva come dovesse comportarsi, non sapeva nemmeno se era giusto
stare a rimuginare così tanto per come dovesse comportarsi.
Quando
le porte dell'ascensore si riaprirono per la seconda volta in dieci
minuti, Isabel ne uscì convinta con delle buste
sottobraccio, ma si
fermò di colpo al vedere la piccola ressa a pochi metri da
lei,
tutti fermi in pose statiche mentre la fissavano.
Lo
sguardo scivolò veloce a destra e sinistra,
studiò i visi e la
situazione, poi si soffermò sul sensei:
“Sono
una minaccia?” chiese spiccia, piuttosto seria. Si avvertiva
una
certa elettricità nell'aria che non faceva presagire niente
di
buono.
“No,
no, Isabel, tranquilla. Sono nostri ospiti.”
Isabel
sembrò rilassarsi, anche se gli sguardi insistenti di quelle
persone
la infastidivano. Sembrava quasi che si aspettassero che uscisse
qualcun altro, addirittura qualcos'altro, dall'ascensore, come un
mostro o un mutante.
Non
poteva sapere come fosse vicina al vero, perché i quattro,
al sapere
che dentro l'ascensore c'era la fidanzata di Raphael, si erano
immaginati di tutto, ma non che ne uscisse fuori un'umana. Una bella
umana.
Isabel
si avvicinò al gruppo e Don e Leo le presero le buste dalle
mani,
mentre Mikey l'unica cosa che prese fu il suo consueto abbraccio.
“Sono
amici che parteciperanno al torneo e resteranno con noi fino ad
allora” spiegò intanto Splinter, mentre lei,
lasciata infine
andare da Mikey, si avvicinava per le presentazioni.
“Sono
Faraji, molto piacere” disse un bell'uomo scuro,
indubbiamente di
origini africane, stringendole la mano. Aveva occhi neri e corti
capelli dello stesso colore, e un portamento fiero, da guerriero.
Il
successivo era un omone enorme, alto e muscoloso, esattamente come
Raphael: era completamente glabro, senza capelli o peli sul viso se
non le sopracciglia e con gioviali occhi neri. Le sorrideva con garbo e
le strinse la mano con delicatezza, presentandosi:
“Sono
Adam, piacere.”
“Io
sono Tora” esclamò il terzo uomo, che non era
basso, ma in
confronto ai primi due lo sembrava. Era un giapponese dai lunghi
capelli scuri tenuti in una coda alta e una barba corta ai lati e
lunga al centro; gli occhi a mandorla erano scuri.
Infine
arrivò all'unica donna del gruppo, una bellissima bionda con
stupefacenti occhi verdi, troppo bella persino per poterci credere.
Non c'era un segno di imperfezione nel corpo statuario e ben allenato
eppure aggraziato, così come nel viso perfetto, nelle labbra
piene,
negli zigomi alti.
“Sono
Joi, molto lieta.”
“Isabel,
il piacere è mio” ribatté affabile,
stringendole la mano con
sicurezza.
Non
ci fu un attimo libero, per quella sera.
Gli
ospiti vennero sistemati nelle camere: Faraji con Leo, Adam con Don,
Tora con Mickey e Joi con Isabel, dato che non poteva condividere la
camera con Raphael, che era stato il suo partner durante il periodo
nel Ninja tribunal. Le altre tre coppie però si erano
riformate e le
chiacchiere si sprecavano da tutte e due le parti, sia durante la
cena che durante il giro notturno per i tetti di New York, di certo
il tour della città più inusuale che potessero
fare.
I
quattro umani sembravano trovar divertente quel correre da tetto a
tetto, mentre i quattro padroni di casa erano lieti di mostrare loro
come si muovessero e come vivessero, per bene. C'erano anche Isabel e
Steve con loro, il ragazzino era stato invitato per conoscere gli
ospiti e non stava nella pelle al pensiero di essere in un certo
senso incluso nel gruppo, benché palesemente inesperto e
l'unico a
non aver ricevuto un invito per quel fantomatico torneo; era Isabel a
controllarlo per assicurarsi che non cadesse giù, come una
mamma
apprensiva.
La
visita guidata fu lunghissima e stancante, tanto che al rientro, dopo
i gentili saluti, il gruppo si divise nelle varie stanze e si
ritirò
direttamente a dormire; perfino Steve venne messo in mezzo, preso di
peso da Raph, col quale avrebbe diviso la stanza per quella notte.
Isabel
rimase ad ascoltare il respiro tranquillo di Joi, tesa. C'erano
così
tante cose che voleva sapere, che voleva chiedere, ma non sapeva come
avrebbe potuto; cosa c'era stato tra la bella bionda che dormiva nel
letto accanto al suo e Raphael? E perché tra loro i rapporti
erano
così gelidi? E perché gli occhi verdi della donna
l'avevano seguita
per tutta la sera e la notte, scrutandola come una preda?
Sospirò
debolmente, pregando che quelle domande, e le teorie che ne
conseguivano, la lasciassero in pace quel tanto da poter almeno
dormire.
Il
giorno seguente, il dojo era affollato e risuonava di grida e rumori
di lotta fin dal primo mattino. I mutanti e gli umani erano riuniti
per una sessione di allenamento in comune, niente di troppo serio che
avrebbe svelato la propria tecnica di combattimento, ma giusto un
riscaldamento per il torneo del giorno dopo, con nuovi avversari per
variare un po'.
Isabel
e Steve assistevano seduti in un angolo, con occhi attenti.
C'era
uno scontro a quattro tra Leo e Donnie e Tora e Joi da una parte, uno
tra Mikey e Adam e un altro tra Raph e Faraji, decisi dal sensei per
mischiare un po' le tecniche e le coppie, e stravolgere così
il
consueto modo di pensare.
Era
estremamente interessante. Benché desiderosi di vincere,
nessuno
sembrava propenso a mostrare prematuramente le proprie carte,
perciò
lo scambio di attacchi e difese era piuttosto rigido e prevedibile,
eppure in qualche modo si riusciva a percepire lo stile di ognuno di
loro, impresso nelle mosse e nei movimenti del corpo: la
meticolosità
di Tora, la possanza di Adam, la tecnicità di Faraji e
l'eleganza di
Joi.
Isabel
e Steve ne parlavano tra di loro mentre osservavano gli scontri,
facendo teorie sulla potenza di ognuno e immaginando quali sarebbero
stati gli esiti se si fossero trovati a combattere tra di loro nel
torneo. Steve sosteneva che Leo avrebbe vinto di nuovo,
indubbiamente, e Isabel gli scompigliò i capelli per
dispetto,
facendolo indietreggiare mentre cercava di coprirsi la testa.
“Ho
saputo che anche tu sei stata invitata al Nexus” disse una
voce a
pochi passi da loro, sorprendendoli. Si bloccarono entrambi e si
voltarono verso l'interlocutore, sorpresi.
Joi
stava ritta di fronte a loro, sovrastandoli e scrutando Isabel con
quei freddi occhi verdi. Steve non lo vedeva nemmeno.
Era
bellissima anche con la tuta da combattimento e i capelli
legati in una coda alta che rendeva il suo viso più affilato
e
predatore.
“Sì,
è vero. Ma non ho accettato” rispose cortesemente,
mentre il
ragazzino al suo fianco, indisturbato, si lisciava i capelli senza
perdere una parola tra le due.
Isabel
era troppo impegnata a sostenere quello sguardo pressante, per poter
gettare uno sguardo alle sue spalle e vedere se gli altri si erano
accorti della mossa di Joi o della sua assenza dall'arena.
Lo
scintillio negli occhi verdi variò, repentinamente.
“Puoi
ancora cambiare idea. Perché non ci sfidiamo, solo per una
prova?”
propose la donna, con un sorriso serafico in volto, che però
le
diede i brividi lungo la schiena.
Stava
giocando con lei. La stava punzecchiando, tirando in limiti
consentiti, ma sfidandola con i gesti e lo sguardo.
Sarebbe
stato così semplice cedere alla maligna voce nel suo cuore
che le
diceva di accettare e di usare la magia per umiliarla, ma non sarebbe
stato da lei. Perciò ricambiò il sorriso
affabilmente e si alzò
per poter parlare con Joi allo stesso livello.
“Grazie
per il tuo invito, ma non fa per me.”
Con
un cenno della testa cortese, le fece capire che si stava congedando
e si allontanò quindi verso l'entrata, con Steve che, capita
l'antifona, si era accodato alla sua scia. Si voltò solo una
volta
che fu alla porta, per controllare alle sue spalle: Joi era ritornata
in campo e stava per avvicinarsi a Raphael per chiedere uno scontro,
ma l'uomo si era ritratto velocemente, mettendo quanta più
distanza
possibile tra loro.
Il
giorno passò velocemente, ma benché il torneo
stesse avvicinandosi
sempre di più, nessuno mostrò il
benché minimo segno di
apprensione, troppo impegnati a festeggiare nella cucina stracolma
con una grande cena, con i consueti mutanti, i nuovi ospiti, la
famiglia Jones al completo con un euforico Carl che smaniava per
poter giocare con tutte quelle persone e Angel, di ritorno dal lavoro
part time che faceva per poter pagare gli studi
all'Università.
I
Jones ed Angel non sarebbero andati al torneo come spettatori,
perciò
ne approfittarono per salutare per bene i loro amici e augurar loro
buona fortuna.
“Pensi
che quest'anno ce la farai, Donnie?” domandò Angel
sottovoce, con
un pugno di incoraggiamento verso il suo braccio. Il genio
arrossì
un pochino, al ricordare le figuracce che aveva fatto nei tornei
precedenti, alcune piuttosto stupide. Ma non sarebbe successo
quell'anno, si era preparato per bene e non avrebbe fatto stupidi
errori.
Le
sorrise fiducioso in risposta e Angel sembrò rincuorata.
“Io!
Io vincerò!” si intromise Mikey tra i due, con la
sua solita
euforia. Don mise su una faccia annoiata che fece scoppiare Angel a
ridere, poi la ragazza diede un bacio ad entrambi sulla guancia.
“Buona
fortuna a tutti e due!”
I
festeggiamenti non si prolungarono troppo, i lottatori avevano
bisogno di una buona nottata di sonno, perciò non erano
nemmeno le
dieci, quando Splinter si congedò, sottintendendo che anche
loro
dovessero fare lo stesso.
Isabel
accompagnò Joi alla camera, poi ritornò sui suoi
passi e fermò
Raphael che entrava nella sua stanza.
“Tutto
bene?” gli chiese, rimpiangendo la mancanza di privacy di
quei
giorni, che non aveva permesso loro di parlare.
Raphael
approfittò dell'assenza di tutti gli altri per abbracciarla
e
affondare il viso tra suoi capelli, stringendola fin dove
consentito.
“Adesso
sì” mormorò nel suo orecchio. Isabel
ridacchiò imbarazzata, ma
lo strinse con lo stesso ardore, deliziata dal battito accelerato del
suo cuore.
“Adesso
devo andare, non voglio certo essere il motivo per cui domani
perderai!” disse poi, allontanandolo e facendogli una
linguaccia.
Raphael
sorrise.
“Bacio
portafortuna?” chiese, senza esitazione.
“Pensi
di aver bisogno di fortuna?” ribatté Isabel,
sorpresa. Raphael era
superstizioso, ma non quando si trattava delle sue abilità.
“No,
ma di un bacio sì!”
La
risata di Isabel si infranse sulle sue labbra, nel bacio d'amore che
le rubò.
“E
adesso fila a dormire, prima che cambi idea!” la
minacciò quando
la lasciò andare, con la mano già sulla maniglia.
Isabel
tornò verso la sua stanza, costeggiando il pianerottolo ad
anello,
ma già non sorrideva più.
Raphael
non si era accorto di nulla, fortunatamente, ma lei aveva visto
perfettamente quegli occhi verdi che li spiavano tornare in fretta
dentro la camera, quando si erano separati.
Joi
li aveva spiati. E quando entrò nella stanza la
trovò già nel
letto con le coperte tirate su fino al viso, che le dava le spalle.
Ma
che bella sceneggiata. Non le sembrava una cattiva persona, e in
genere non sbagliava su quel genere di sensazioni, allora cosa c'era
dietro il suo strano comportamento nei suoi confronti?
Si
coricò silenziosamente e spense la luce, sperando che la sua
mente
non lavorasse tutta la notte su quelle domande, facendola dormire
poco come la notte prima.
Un
fruscio alla sua destra l'allarmò, facendole tendere le
orecchie.
Nel silenzio perfino girarsi nel letto faceva un rumore assordante.
Sospirò e cercò di rilassarsi, ma la voce di Joi
glielo impedì.
“Perché
stai con Raphael?” domandò nel buio, come se
stesse continuando un
discorso precedente, come se quella domanda così, nel nulla,
non
fosse strana.
Isabel
sorrise, felice che la donna si stesse svelando un po'.
Si
alzò e afferrò il suo cuscino preferito, poi si
diresse verso la
porta e solo allora accese la luce: Joi spalancò gli occhi,
e questa
volta erano sorpresi e non glaciali. Mostrò anche a lei il
sorriso
rimasto celato fino a quel momento dal buio.
“Perché
lo amo” rispose semplicemente, aprendo la porta.
“Buona notte”
finì, uscendo dalla stanza e chiudendosela dietro,
lasciandola a
rimuginare su quelle semplici parole.
Raphael
stava guardando ossessivamente il soffitto, sdraiato sul letto con le
braccia piegate dietro alla testa, chiedendosi se avrebbe mai potuto
prendere sonno. Da solo la tensione per il torneo si era ripresentata
e più pressante che mai.
Almeno
gli altri avevano qualcuno con cui parlare finché non si
addormentavano.
La
porta della sua camera si aprì di colpo e di colpo si
richiuse,
spaventandolo: si tirò su a sedere, ma non c'era nessuno.
Che
se lo fosse solo immaginato? Troppa tensione e stanchezza?
Si
risdraiò con un sospiro, che divenne in un secondo un urlo
strozzato. Sulla sua testa galleggiava una donna a testa in
giù, coi
capelli scuri che fluttuavano selvaggiamente, stretta ad un cuscino a
mo' di koala. Lo stava osservando corrucciata.
“Ma
sei pazza? Cosa ci fai in camera mia? E come ti viene in mente di
apparire così?” la sgridò, allungandosi
per provare ad
afferrarla.
Isabel
si spostò di un metro, continuando a guardarlo al contrario.
“Cosa
è successo tra te e Joi?” chiese mortalmente
seria, apparendo
perfino più spaventosa.
Raphael
serrò la mascella, pietrificato.
“N-niente.
Perché pensi che sia succes-” rispose con la voce
affettata, senza
nemmeno esserne conscio.
“So
che è successo qualcosa. A parte il nervosismo tra voi, so
che ti
piaceva. Me l'hanno detto April ed Angel quando ci stavamo ancora
conoscendo” replicò lei, per niente convinta.
Raph
imprecò tra i denti, silenziosamente. Quelle due pettegole.
Andare a
dire una cosa del genere ad Isabel, quando era ancora la sua allieva.
Certo, allora non potevano immaginare tutto quello che sarebbe successo
dopo e la nascita della loro relazione, ma non era una scusante.
“So
che anche lei ricambiava, ma che dopo che la vostra missione
è
finita, lei se n'è andata via dopo qualche giorno e tra voi
non c'è
più stato nemmeno un saluto. E tu la stai evitando.
Perciò,
Raffaello, ti ripeto la domanda: cosa è successo davvero tra
voi
due?”
Il
mutante deglutì a vuoto, messo alle corde. Non c'era
possibilità
che lei desistesse, ora che era così infervorata. Ma non
voleva
parlarne. E di certo non con lei. Ma Isabel non conosceva rifiuti.
“Te
lo dirò se scendi giù” concesse,
tendendo una mano verso l'alto.
Isabel
l'afferrò e dopo essersi girata in volo, atterrò
sul materasso,
stringendo ancora il cuscino. Poi gli fece un cenno col capo,
perché
parlasse.
Raphael
trasse un grosso sospiro, come se stesse ripescando da qualche parte
le parole, i ricordi o il coraggio.
“La
verità è che non è successo
assolutamente niente” disse,
seccamente. Isabel serrò le labbra con disappunto, pensando
ad una
presa in giro, ma lui la bloccò.
“Non
sto mentendo. Joi mi piaceva: forse perché era l'unica
donna del gruppo, forse
perché siamo stati segregati assieme per mesi, forse
perché era
quella con cui passavo più tempo. Mi piaceva. E io le
piacevo, o
perlomeno è quello che mi ha fatto capire. Ma dopo che
è tutto
finito, e che abbiamo avuto del tempo per parlare, la verità
è
stata ben chiara: non le piacevo abbastanza per superare la
paura.”
Isabel
rimase ad ascoltare, confusa, lo sguardo via via sempre più
adombrato. Non le piaceva sentire Raphael declamare il suo interesse
per un'altra donna, anche se del passato, e non le era chiara la
spiegazione che le aveva dato.
Raphael
si accorse della sua confusione, perciò respirando a fondo,
come se
facesse male solo dirlo, continuò:
“Lei
non riusciva a toccarmi. A baciarmi. E se ci provavo io si tirava
indietro. Non le piacevo abbastanza per superare il disgusto per
ciò
che sono. Così se n'è andata scusandosi e non ci
siamo più
parlati.”
Non
voleva dirlo con quel tono così amareggiato, ma in fondo la
ferita
era sempre lì, incisa assieme alle altre, pronte a
riaprirsi. Joi
era stata la prima a farlo sentire davvero un mostro.
Gli
occhi lucidi di Isabel, e le sue braccia strette convulsamente al
cuscino per il dolore, lo consolarono. Nel tempo aveva capito che non
era colpa di Joi, che non doveva essere semplice per un'umana, che
c'erano troppe differenze, troppe paure. Fino a che non era apparsa
lei, Isabel.
Tese
una mano verso la sua guancia e la carezzò con amore.
“Sai,
quando la prima volta tu mi hai baciato è stato allo stesso
momento
emozionante e spiazzante. Perché tu hai colmato lo spazio
tra noi,
l'hai riempito senza esitazione e hai poggiato le tue labbra sulle
mie con naturalezza, come se fosse normale. L'hai fatto sembrare
giusto. Perfetto. E io non mi sono sentito più un
mostro.”
Isabel
sorrise teneramente tra le lacrime, commossa dalla confessione.
Non
ce l'aveva con Joi. Un po' riusciva a capirla. Nemmeno lei si era
innamorata di Raphael al primo sguardo, non sarebbe stato possibile.
Ma aveva ceduto poco a poco al suo buon cuore, alle sue insicurezze,
alla sua testardaggine, alla sua irruenza; e un giorno aveva scoperto
che era bellissimo dentro e fuori, così com'era,
perché se n'era
innamorata per come era. E forse era strana, ma lei trovava Raphael
estremamente attraente.
Forse
Joi non era arrivata a quel livello, forse per loro due era successo
tutto troppo in fretta e lei aveva avuto paura. Le dispiacque per la
donna, ma non poté evitare di pensare che grazie a
ciò Raphael era
suo, adesso. Le cose sarebbero potute essere diversamente,
altrimenti.
Lasciò
andare il cuscino e abbracciò Raphael invece, posando teneri
baci
sulle sue labbra, decisa a rimanere con lui per la notte.
E
al diavolo il passato. E al diavolo Joi. E al diavolo anche il
torneo.
Note:
Salve,
ci sono milioni di note, perciò parto:
Faraji,
Adam, Tora e Joi fanno parte della quinta stagione della serie 2003,
universo che io uso quando scrivo. Siccome l'ho visto in inglese,
stavo facendo delle ricerche per capire come tradurre delle cose,
quando ho trovato detto che non esistono stagioni tradotte in
italiano dopo la quarta. Voi avete visto la quinta, la sesta e la
settima del 2003? Esistono in italiano? Altrimenti mi vedo costretta
a fare un piccolo riassunto.
Questi
quattro umani sono dei compagni di ventura durante la quinta
stagione: insieme alle turtles vengono rapiti dal Ninja Tribunal,
ovvero quattro maestri di arti marziali, per poter essere allenati
contro una nuova minaccia che sta per abbattersi, il risveglio di
Shredder Tengu, che è lo Shredder originario.
Per
farla breve, loro otto stanno a stretto contatto per un paio di mesi
in cui vengono allenati e si formano subito delle
“coppie”: Leo
con Faraji, Adam con Don, Tora con Mikey e Joi con Raph. (vai tu a
vedere perché proprio lui con la donna!)
Comunque,
Raph cade quasi immediatamente per lei, 'sto bietolone, e ad un certo
punto ci prova anche, chiedendole se una volta finito tutto lei
voglia andare a trovarli a New York. Lei fa intendere che prima
devono pensare alla battaglia, ma che non le dispiace. Poi
però, non
succede nulla. Nel senso che nelle stagioni successive di lei non si
sa più nulla e la si rivede solo al matrimonio di April e
Casey come
invitata, ma lei e Raph non si calcolano di striscio (slang delle mie
parti per dire che non c'è nessun contatto né una
frase tra loro. disinteresse puro.)
Che
a me va benissimo perché, anche se non la odio, non mi
è mai
piaciuta, e men che meno con Raph, e ho potuto inventarmi questa
scena tra loro che giustifichi come mai non c'è stato nulla.
E
perché Raph fosse così amareggiato e ferito.
Addio
Joi, benvenuta Isabel. (tra l'altro, ho scoperto che ho sempre
scritto male il suo nome, è con la i e non la y.)
Se
avete dei dubbi sulla storia chiedete pure e io spiegherò
per bene!
Comunque,
su youtube ci sono le stagioni 5, 6 e 7 in inglese, se potete
guardatele.
Dal
prossimo capitolo ci sarà il nexus e ci saranno
perciò tantissimi
combattimenti, misteri, vecchi amici, vecchi antagonisti, nuovi
personaggi!
Io
metterò tante foto per facilitarvi le cose e spiegare;
è complesso
gestire così tanti personaggi e combattimenti, spero di non
deludervi!
Dopo
questa chilometrica spiegazione vi lascio, un grosso abbraccione!
Grazie dal profondo del cuore per continuare a seguire la storia,
grazie a chi commenta con affetto!
A
presto
P.S.:
iniziate a prepararvi per il tifo per sostenere il vostro preferito,
chi vincerà il torneo? :) ah, potrebbe anche non essere una
turtles,
eh!
Un nuovo disegno di MC1119, su JTWYA, il
momento in cui Leo realizza i suoi sentimenti. mi piace moltissimo come
hai reso la scena, grazie di cuore! Sono felicissima!
|
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Capitolo 8 *** Let the Battle Nexus begins ***
Attorno
al tavolo della cucina quella mattina c'era un gran silenzio, le
facce affondate nelle tazze e nei piatti, ma gli occhi vigili e
attenti. Perfino Mikey, che solitamente ciarlava da presto e si
scofanava otto o nove ciambelle, era teso e quieto e aveva mangiato
solo un paio di pancake con un po' di miele.
Isabel
assaporava con calma la sua tazza di caffelatte, l'unica che facesse
una colazione di vago stampo italiano; con lo sguardo sopra il bordo
della tazza teneva d'occhio gli altri e pensava.
Quelle otto
persone stavano per sfidarsi in un prestigioso quanto competitivo
torneo, che fossero tesi era il minimo; e se gli ospiti erano ben
scusati, dato che non sapevano cosa aspettarsi, i quattro mutanti che
ormai vi avevano partecipato ben tre volte non erano per quello meno
nervosi.
Poi
i suoi occhi scuri incontrarono brevemente quelli di verdi di Joi, ma
quest'ultima distolse lo sguardo in fretta.
Non sapeva cosa
pensasse della sua sparizione della notte prima, se sapesse o
sospettasse che era andata nella camera di Raphael, e non le
importava; con quella domanda, col suo strano comportamento, Joi le
aveva fatto capire che forse quello che provava per Raphael non si
era assopito. E vedendo lei, un'umana, stare con lui, forse anche un
po' della paura se n'era andata.
Ma Raphael era suo. E non le
avrebbe permesso di riavvicinarlo.
Nella
strana atmosfera tesa tutti finirono di mangiare e si alzarono per
andare a prendere i loro bagagli, niente più che uno zaino
per
ognuno, stando bene attenti ad avere con sé il Kunai
dell'invito.
Splinter, Isabel e Steve li attendevano vicino
all'entrata, tra essa e la porta dell'ascensore precisamente, e il
maestro ne approfittava per disegnare nel muro il simbolo per il
portale, con un gesso blu: questa volta però,
disegnò due simboli,
distanziati un metro l'uno dall'altro.
Arrivarono.
E
gli otto sfidanti si scissero senza una parola in due gruppi: i
mutanti da una parte e gli umani dall'altra.
“La
fase di qualificazione del torneo ha luogo oltre le mura esterne
della città, per cui noi non potremo seguirle. Andrete
avanti... e
vi farete onore, lo so. Fate sì che possiamo vedervi al
Battle
Nexus” disse Splinter, osservando con particolare attenzione
i suoi
figli.
Leo
si fece avanti e congiungendo le mani gli fece un piccolo inchino,
poi una volta rialzato, si portò vicino al padre, anche lui
con le
mani in preghiera: entrambi iniziarono una nenia soffusa, difficile
da capire, e la pozza d'acqua che Splinter aveva precedentemente
gettato a terra iniziò a sobbollire e vibrando, seguendo le
sollecitazioni del loro canto, si inerpicò sul muro creando
l'arco
luminoso, pulsante di vita propria.
Sentirono i quattro umani
trattenere il respiro di fronte a quel prodigio, con gli occhi
spalancati di sorpresa.
I
due portali vorticavano in loro attesa, uno di fianco all'altro.
“Noi
andremo da questa parte” esclamò Leo puntando
quello di destra,
rivolto ai suoi fratelli. Dopodiché si voltò
verso gli altri
accoliti, che aspettavano delle direttive.
“Il
vortice vi porterà al posto del primo scontro. I vostri
avversari
potrebbero essere già lì o arrivare poco dopo di
voi. In bocca al
lupo.”
E con quell'ultimo augurio, Leo oltrepassò il proprio
portale, sparendo alla vista.
Dall'altra parte anche Faraji,
dopo aver salutato con cortesia per la loro ospitalità, si
infilò
nel suo portale, in una luce rosata.
E
mentre gli altri si apprestavano a seguirli, Raphael ne
approfittò
per salutare Isabel.
Un bacio. Niente di sconvolgente, niente di
eclatante, ma fu la naturalezza con cui lo fece, anche se c'erano gli
altri, anche se c'era Joi. Ma a lui non importava nulla di
Joi.
Isabel arrossì per la sua irruenza, sorpresa.
“Ci
vediamo al palazzo del Daimyo” le sussurrò
all'orecchio, come una
promessa.
“Ci
conto” le urlò invece lei, per raggiungerlo prima
che
oltrepassasse il portale. E forse il sorriso che gli aveva visto in
viso se l'era solo immaginato, ma le scaldò il cuore.
I
portali si richiusero quando Tora e Don furono oltre, gli ultimi
delle loro file. Collassarono su sé stessi e si liquefarono
in due
pozze innocue sulle mattonelle gialle.
Steve
pareva un po' preoccupato.
“Dobbiamo
viaggiare anche noi così?” domandò dopo
qualche istante,
perplesso.
Splinter gli sorrise tranquillo.
“Noi
siamo ospiti, abbiamo un portale diverso ad attenderci. Ma prima
dobbiamo prepararci, no?” chiosò particolarmente
contento, il
sorriso che andava allargandosi sul suo muso.
Il
flusso azzurro del portale li trascinò con la sua
impetuosità verso
l'uscita, nel vortice azzurro che era il tramite tra i passaggi.
Ormai erano abituati. Se la prima volta ne erano stati sopraffatti
tanto da finire poi col sedere per terra una volta fuori, con
l'esperienza delle loro volte successive avevano capito come
attraversare il passaggio in sicurezza, godendosi il breve
tragitto.
Il secondo portale apparve alla fine del flusso,
splendente e dalla forma ovale, differente da quello di
entrata.
“Pronti,
ci siamo!” urlò Leo, il primo ad arrivare. La
corrente lo spinse
oltre, immediatamente.
Uscì
in una radura, controllando con occhi attenti nelle vicinanze, mentre
compiva dei passetti per lasciare campo libero agli altri: Mikey,
Raph e Don apparvero nell'ordine, anche loro perfettamente in piedi e
guardinghi.
Il portale scomparve con un debole fruscio, ormai
dimenticato.
“Questo
posto sembra sempre lo stesso” disse Raphael, studiando
circospetto
i dintorni.
In effetti non poteva essere lo stesso posto delle
loro lotte preliminari passate, ma l'aspetto dei terreni fuori dalle
mura della città sembrava costantemente identico: boschetti
bassi e
ombrosi che si aprivano su radure brulle e ricche di sterpaglie, e
poi rovine, rovine di statue e costruzioni sgretolate che giacevano
in mezzo all'erba, che raccontavano di grandi fasti del passato ormai
perduti.
Donatello aveva sempre desiderato sapere a quale epoca
e popolo appartenessero quelle rovine, senza aver però mai
potuto
trovare davvero il tempo.
In
basso, rispetto a dove si trovavano loro, lontana e piccola, la
città
del Nexus splendeva di fulgida bellezza, cinta da alte mura e
abbracciata dalle due cascate che cadevano alle sue spalle.
“Sembra
che siamo arrivati per primi” constatò
Michelangelo, che pareva
fin troppo rilassato, una volta scoperto di essere
soli.
“Arriveranno”
esclamò Leo, tenendo d'occhio i dintorni per scorgere
qualcosa.
“Stavo
pensando: quanti gruppi di quattro sfidanti possono esserci al Battle
Nexus? Non sarebbe orribile se venissimo accoppiati con gli altri
accoliti per questo?” chiese Donatello, un po' amareggiato.
La
sua domanda causò un'ondata di panico e gli occhi si
cercarono nel
silenzio.
“Beh,
prima o poi dovremo affrontarli. Ma non credo che saranno loro per
ora, sarebbero già qui, non credete?” disse Leo,
con
confidenza.
In effetti essendo partiti in contemporanea,
sarebbero stati già lì con loro; invece
continuavano a guardare
l'area che li circondava in attesa, ma non c'era una presenza,
nessuno in vista.
“Io
ho sempre pensato che forse una volta dovremmo provare a venire
ognuno per conto proprio” affermò Raphael
convinto. “Per
metterci alla prova da soli.”
“E
sai che ridere se poi noi vinciamo e tu non passi nemmeno le
qualificazioni, Raphie?” ridacchiò la solita voce,
che nemmeno
alle porte di un torneo smetteva di trovare divertente punzecchiare
suo fratello.
“Tu
prega di non trovarmi alle preliminari, Mikey. Chissà che ti
può
succedere, senza nessuno che possa testimoniare!” fu la
risposta,
nemmeno troppo astiosa, ma di certo minacciosa.
Michelangelo
sorrise con quel suo fare fastidioso, spostandosi un po' da Raphael,
percependo la portata delle sue parole. E in un clima di attesa come
quello facevano anche più paura.
“Smettetela
voi due!” li riprese Leo, con lo sguardo però
rivolto altrove,
scrutando tra i tronchi del sottobosco con gli occhi ridotti a
fessura.
In quel momento, con un sibilo morbido, un secondo
portale si aprì sulla radura, turbinando su sé
stesso impazzito:
dal fiotto di luce abbagliante iniziarono ad uscire i loro sfidanti,
nell'agitazione crescente.
“Ma
dai! State scherzando?” tuonò Raphael sconvolto,
all'improvviso,
mentre Mikey scoppiava a ridere e rise talmente tanto che quasi perse
l'equilibrio.
I
loro avversari erano di una dimensione aliena, probabilmente, e il
loro aspetto ricordava in tutto e per tutto quello di quattro grosse
e inquietanti…
“Blatte!”
esalò Raph, che ancora non ci credeva. Le risate di Mikey si
fecero
più forti.
I
quattro erano indubbiamente degli scarafaggi, dalle antenne alla
corazza coriacea, alle mandibole che colavano un liquido vischioso
mentre schioccavano nella loro direzione. Gli occhi glauchi
brillavano di intelligenza e pericolosità.
Solo la loro stazza
era decisamente anormale, quasi due metri di mostruoso insetto,
più
alti perfino di Raphael.
Quest'ultimo
era assurdamente turbato, lo sguardo che saettava folle verso gli
enormi insetti.
E se Mikey non avesse smesso immediatamente di
ridere come un folle della sua fobia lo avrebbe ucciso.
Il
portale alle loro spalle svanì come era arrivato e i quattro
insetti
si alzarono sulle zampe posteriori, più robuste e grandi
delle
altre, arrivando ad un'altezza vertiginosa. Li osservavano dall'alto
in basso con aria predatoria.
“Possono
alzarsi anche in piedi!” esalò strozzato Raph, che
ormai se ne
fregava se Mikey o gli altri potevano percepire la sua paura.
“Ok,
ragazzi, uno per ciascuno. Scegliete il vostro!”
ordinò Leo
all'istante, gettandosi contro il suo avversario.
Non che la
scelta fosse difficile: quei grossi insetti erano tutti uguali ai
loro occhi.
Gli otto sfidanti si divisero in quattro coppie e
così Raph si trovò da solo a fronteggiare una
versione
pantagruelica della sua più enorme paura e vergogna.
E
tuttavia lui non si sarebbe arreso ad essa.
Deglutì a vuoto.
Spiccò
una corsa veloce, diretto a testa bassa contro il suo opponente, ma
quello con un verso stridente da far accapponare la pelle, si
riabbassò pancia a terra e lo caricò a sua volta.
Lo scontro
fu violentissimo e Raphael venne sbalzato indietro per metri, la
mente che lavorava febbrilmente nell'incredulità mentre il
cielo
fuggiva fugace davanti al suo sguardo, prima di sbattere pesantemente
contro il tronco di un albero.
Ricadde al suolo con un tonfo
doloroso, sollevando spirali di polvere. Riprese fiato con ampi
respiri nervosi.
Si
rialzò più in fretta che poté, ma il
suo avversario stava già
correndo contro di lui, con l'intenzione di schiacciarlo tra il
tronco dell'albero e il suo corpo mostruoso: fu preso da uno sprazzo
di panico e gli lanciò uno dei suoi Sai contro a folle
velocità.
L'arma fendette l'aria morbidamente con la sua punta
acuminata, ma con un clangore metallico sbatté contro la
schiena
spessa del mostro, rimbalzando e finendo al suolo, distante.
Riuscì
a scansarsi appena in tempo, gettandosi di lato per terra e l'insetto
finì la sua corsa contro lo stesso albero contro cui aveva
sbattuto
anche lui, con un tonfo molto più forte.
Doveva essersi fatto
male, a giudicare dalla violenza dell'impatto. Ne avrebbe potuto
approfittare per attaccare, anche con un Sai solo.
Ma lo
scarafaggio si scostò rapidamente e si voltò per
cercarlo, intonso,
senza nemmeno un graffio.
Raphael
strinse la presa sul Sai rimastogli.
“Qual
è il loro dannato punto debole?”
strillò arrabbiato, osservando
per un momento gli altri scontri.
Si accorse che anche i suoi
fratelli sembravano in grande difficoltà: quei dannati
insettoni non
erano solo eccessivamente fuori misura, ma anche molto resistenti.
“Non
credo che ne abbiano!” rispose Don, poco distante, che
evidentemente lo aveva sentito.
Stava facendo del suo meglio per
cercare di colpire la lucida corazza dello scarafaggio, ma a parte il
sordo rumore del bastone che si propagava attorno, non sembrava
sortire nessun danno.
E così i Nunchaku di Mikey e perfino le
Katane di Leo.
Se
si trovavano così tanto in difficoltà fin dal
round preliminare, si
metteva male per l'intero torneo.
Il problema del round
preliminare a quattro era che, anche se era in gruppo coi suoi
fratelli, ognuno doveva battere il proprio sfidante da solo. Ognuno
doveva pensare per sé.
Gli
arrivarono alle orecchie i rumori delle altre lotte attorno a lui, ma
non poteva più distrarsi per controllare: il suo avversario
si era
rimesso all'attacco, veloce come prima: riuscì ad evitare
per un
soffio, ma una delle sue antenne lo afferrò per la caviglia
e lo
sollevò in aria, sbattendolo poi contro il terreno con
forza.
Strinse i denti per il dolore dello scontro, ma non era
finita, perché si senti sollevare ancora e probabilmente
sarebbe
stato lanciato ancora al suolo, forse anche con più violenza.
Si
contorse per arrivare al piede e poter staccare la sua antenna, ma
era spessa come una corda e dura come l'acciaio, ricoperta di spine
che gli ferirono le mani. Graffiò con le unghie, mentre
già veniva
sbalzato all'ingiù, prossimo allo scontro: nella
disperazione mirò
con la punta del Sai e colpì con ferocia, anche se sapeva
che
probabilmente si sarebbe colpito da solo.
La
punta slittò con un suono stridulo sul rivestimento coriaceo
dell'antenna e lo scarafaggio stridette in pena, slegando le sue
spire per il dolore: Raph ricadde al suolo, rantolando e riprendendo
fiato.
Allora qualche punto debole ce lo avevano anche loro!
Si
rialzò con un ghigno malefico, gliele avrebbe strappate
quelle
antenne, ma prima che potesse fare anche solo una mossa, una zampata
allo stomaco lo rispedì in volo, mozzandogli il respiro.
Rimase
al suolo, questa volta. Con la rabbia crescente nel petto e il
respiro corto.
Non poteva essere sconfitto nel round
preliminare, non esisteva nell'universo una cosa possibile. Non
avrebbe mai più avuto il coraggio di guardare in viso il
maestro,
mai più.
E aveva giurato che quell'anno avrebbe vinto, che era
il suo anno, perciò arrendersi così presto era
semplicemente
escluso. A costo di smantellare la lurida corazza di quei cosi a mani
nude e morsi.
Stava
per rimettersi in piedi, quando un grido di trionfo e un tonfo
prodigioso risuonarono nella radura. Si mise a sedere con meraviglia
e vide Don che esultava, mentre il suo opponente giaceva schiena a
terra qualche metro più in là, incapace di
muoversi o rigirarsi,
sconfitto.
Si accorse di lui e gli mandò un sorriso splendido,
fiero di sé.
“È
lo stomaco! Il loro punto debole è lo stomaco! La loro
corazza è
morbida in quel punto!” urlò nella sua direzione,
con le mani
attorno alla bocca per farsi sentire.
Raphael
ricambiò il suo sorriso.
Quel geniaccio di Don. Si sarebbe
dovuto guardare da lui, al torneo. Era davvero ben preparato e anche
troppo scaltro.
Con un colpo di reni e le mani piantate a terra
fu in piedi e pronto alla lotta. Ora che sapeva dove colpire, non
aveva nessuna scusa in caso di fallimento.
Doveva colpire allo
stomaco, ma quel coso stava sempre pancia a terra… come
avrebbe
potuto fare?
Si
lanciò contro di lui e lo colpì col Sai per farlo
arrabbiare, su
ogni parte del suo corpo dove riuscì ad arrivare: lo
scarafaggio
stridette di furore e provò a colpirlo a sua volta, ma Raph
schivava
velocemente per non dargli modo di prenderlo.
Spiccava via via
salti sempre più alti, per indurlo ad alzarsi ancora in
piedi, ma il
bestione non cadeva nella sua trappola: faceva versi di rabbia e
impazienza, ma sembrava sapere che lui stava mirando al suo punto
debole.
Raphael
schivò una scudisciata di un'antenna e si portò
indietro di qualche
metro per pensare, riprendendo fiato.
Sentiva le gocce di sudore
scendere velocemente lungo il collo.
Se il bestione non voleva
alzarsi, voleva dire che doveva arrivare al suo stomaco in altro
modo.
Lanciò
al suolo il Sai rimastogli e fece scrocchiare le mani una con
l'altra. Poi fece qualche rimbalzo sul posto e sciolse i muscoli del
collo, preparandosi alla mossa successiva.
Bene. Era una cosa
che lo schifava da morire, solo il pensiero, ma che doveva fare.
Si
accorse distrattamente che anche Leo era riuscito a battere il suo
avversario, ma non ci fece troppo caso, era concentrato solo
sull'insetto di fronte a sé.
Spiccò
la corsa, a testa bassa, prendendo velocità, caricando con
tutta la
sua furia: il suo opponente si accorse delle sue intenzioni, le sue
antenne frustavano l'aria impazzite aspettando il suo arrivo,
schioccando rumorosamente.
Mancava pochissimo allo scontro,
entrambi avrebbero colpito assieme. Le antenne erano alte,
già
pronte a colpire, quando la tattica di Raphael variò: si
tuffò al
suolo in scivolata, strisciando con la schiena contro il terreno e
sollevando la polvere che coprì la sua mossa.
Riuscì
ad infilarsi al di sotto della creatura, proteggendosi il viso con le
braccia dalle sue zampe acuminate: fu un bene, perché
riuscì anche
ad evitare di respirare troppo il suo cattivo odore. Rimase a
guardare per un istante la penombra e il suo stomaco grigio che
pulsava, provocandogli il disgusto.
Piantò
i piedi contro la sua superficie molliccia e viscida, e le mani sopra
la testa, al suolo.
Gridò quando fece forza, con un colpo di
reni, che scaraventò lo scarafaggio in aria di qualche
metro. Lo
guardò piroettare mostruosamente nell'aria e fu in piedi
prima che
toccasse terra: con un salto raggiunse la sua altezza e lo
colpì
allo stomaco con un calcio, spedendolo a sbattere contro uno degli
alberi lì vicino.
Riatterrò ammortizzando con le ginocchia,
poi fu di nuovo in piedi, a guardarsi intorno. Anche Mikey aveva
sconfitto il suo avversario e c'erano quattro enormi scarafaggi
riversi a terra, privi di sensi.
Ci
fu un istante di silenzio totale, mentre i quattro fratelli si
cercavano con lo sguardo, tutti sollevati.
L'arbitro
Gyoji apparve nella pura aria come suo solito, con la sua trasparenza
eterea; non avevano mai capito che creatura fosse Gyoji, talmente
incorporeo da potergli vedere attraverso, coi suoi vestiti simili
alla tenuta dell'arbitro di Sumo sulla terra, il viso bianco
perennemente inespressivo. Era inafferrabile come l'aria, e
galleggiava proprio in essa, senza peso, con le gambe
incrociate.
Sapevano solo che era dappertutto e vedeva tutto
quello che succedeva nel torneo, svolgendo il suo compito di arbitro
con precisione e affidabilità.
In
quel momento teneva uno stendardo in una mano, su cui vi erano gli
strani simboli che formavano l'alfabeto della dimensione Nexus e uno
Yin Yang disegnato proprio in cima.
“L'incontro
preliminare di gruppo è stato completato in 73.1
Quargon” annunciò
con la sua voce morbida, mentre lo piantava al suolo.
“I
Blattoden sono eliminati dalla competizione!” aggiunse,
agitando il
ventaglio da battaglia che portava sempre, il Gunbai, di fronte a
sé.
Un portale ovale apparve a mezz'aria, vicino ai quattro scarafaggi
che si rimettevano a fatica in piedi, pronti ad andare via.
“È
un piacere rivederti, Gyoji” salutò Leo,
avvicinandosi all'essere
fluttuante.
Era complesso capire se lui fosse felice di vederli,
data la sua espressione monotematica, ma la sua voce sembrò
lieta
quando parlò, agitando il ventaglio ancora una volta.
“Il
piacere è mio. Il mio signore vi sta aspettando con vostro
padre a
palazzo.”
Un
secondo portale apparve di fronte a loro, differente dagli altri: la
sua superficie lucente non vorticava impazzita come le altre, ma
splendeva di statico bagliore, rasserenante.
Lo attraversarono
con un senso di sollievo nel petto, al pensiero che si erano
qualificati anche quell'anno per poter competere.
Alla
fine del tunnel sbucarono sulla terrazza del palazzo del Daimyo, che
si affacciava direttamente sull'arena: riuscirono a vedere l'immensa
folla accorsa per assistere alla competizione seduta sugli spalti,
chiedere a gran voce l'inizio del torneo, con i tifi esultanti che
entravano sotto pelle.
“Ehi,
ma quelli non li conosciamo?” domandò Mikey
occhieggiando verso il
basso, dove tutti gli altri partecipanti che avevano superato le
qualificazioni attendevano, tutti con il collo verso l'alto, verso
loro, in attesa.
Diede di gomito a Raphael per fargli vedere di
chi stava parlando, ma la voce del Daimyo attirò anche la
sua
attenzione.
“Bentornati
al Battle Nexus, onorati ospiti. Avete reso onore a vostro padre
ancora una volta” li salutò, con un breve inchino.
Il Daimyo
sembrava non cambiare mai, costantemente identico, dalla punta dei
capelli bianchi ai vestiti sontuosi dall'aria giapponese; i guanti di
metallo argenteo scintillavano alla luce del sole e portava la
maschera dorata in foggia di viso di demone antico, come al solito.
Si
inchinarono anche loro, in segno di rispetto.
“Ero
certo che sarebbero passati” disse Splinter, apparendo dalle
sue
spalle e rivolgendo loro uno sguardo fiero e un sorriso.
Dietro
di loro c'era il seguito del Daimyo, le donne e gli uomini coi volti
pitturati come attori del teatro Kabuki e vestiti con kimono, e poi
due ragazzini che parlottavano tra loro. Uno coi capelli biondi e uno
rossi.
“Steve!”
lo chiamò Leo, sorpreso di vedere con chi
stava
parlando.
Steve si voltò al richiamo e sorrise verso di
loro.
“Leonardo!”
esultò contento il ragazzo al suo fianco, con un gran
sorriso.
L'ultimate Ninja, il figlio del Daimyo, era felicissimo
di rivederlo. Era cresciuto ancora dall'ultima volta che l'aveva
visto, era più alto anche di Steve, ma rimaneva sempre lo
stesso
ragazzino felice che era diventato dopo la sua rinascita: corti
capelli rossi, splendenti occhi verdi e orecchie a punta per
completare l'aria sbarazzina.
“Vedo
che tu e Steve avete già fatto conoscenza, Ue”
constatò Leo,
felice di rivederlo quanto lo era lui.
Ue, Ue-sama com'era
chiamato a palazzo, sorrise anche di più. Lui e Steve
dovevano avere
pressapoco la stessa età, doveva essere veramente felice di
avere
qualcuno coetaneo con cui parlare e relazionarsi.
Annuì
nella sua direzione.
“Sì,
Steve mi stava parlando dei suoi allenamenti. In futuro io e lui
potremmo entrare nel Battle Nexus e sfidarci, non sarebbe
fantastico?” esultò, facendo scintillare gli occhi
verdi di
emozione.
Steve arrossì alle sue parole, all'idea che un giorno
potesse essere scelto come guerriero al prestigioso torneo. Non
sarebbe mai potuto diventare così bravo.
“Anche
se, non è giusto che lui sia allenato da te e dal tuo
maestro! Siete
una famiglia di campioni, potrei non farcela!”
continuò il figlio
del Daimyo, storcendo la bocca in una piccola smorfia di disappunto
che fece scoppiare a ridere Leo.
C'erano anche Mikey e Don
insieme a loro, che scherzavano coi due ragazzi, ma Raphael invece
continuava a guardarsi attorno in cerca di qualcuno.
“Sensei,
dov'è Isabel?” chiese leggermente apprensivo,
perché proprio non
riusciva a scorgerla.
“Sta
arrivando. Le donne del seguito del Daimyo le stanno dando una mano a
vestirsi” rispose Splinter con un sorriso furbo sul muso.
“Vestirsi
per co… oh.”
Apparve
dalla porta. Una donna in uno splendido kimono rosso, rosso come il
sangue. Delicati decori di fiori bianchi si inerpicavano sulle lunghe
maniche e sulla parte sinistra del corpo, partendo dal bordo del
vestito; in vita era stretto da un Obi verde scuro con decorazioni
floreali scure, nelle tonalità che sfociavano nel nero,
creando un
bel contrasto con la fascia color panna al di sotto di esso e con il
colletto bianco sotto il Kimono.
Era un tripudio di eleganza e
bellezza.
La
donna si avvicinò a piccoli passetti con ai piedi Tabi
bianchi e
Zori rossi, arrossendo sotto il suo sguardo.
Isabel sorrideva
nervosamente, mentre si avvicinava. I capelli castani erano raccolti
in una complicata crocchia alla base delle nuca e decorati con un
Kanzashi con fiori di stoffa rossi e bianchi.
Era
ancora più nervosa, quando si fermò di fronte a
Raphael.
“Era
di Tang Shen” disse per riempire il silenzio teso. Stava
gesticolando, come suo solito.
“Il
maestro ha chiesto al suo padre adottivo se poteva avere il suo
Kimono per le cerimonie, per me” finì, con la voce
strozzata.
Sembrava che fosse l'idea di avere qualcosa di Tang
Shen, più del fatto che indossasse un Kimono, ad
emozionarla. Come
se possedesse qualcosa che apparteneva ad una Dea.
“Ti…
ti piace? Non sono strana?” domandò dopo qualche
istante, dato che
lui non parlava.
Raphael
si aprì in un sorriso e si chinò su di lei,
sussurrando qualcosa al
suo orecchio.
Avvampò all'istante, prendendo la sfumatura
sanguigna del vestito.
“Da
come è arrossita quello che le stai dicendo è di
certo poco
pulito!” esclamò Mikey, che come gli altri aveva
notato l'arrivo
di Isabel. E se solitamente avrebbe lasciato tutto per andare ad
abbracciarla e dirle che era bellissima, per stavolta rimase
tranquillo ad osservare le reazioni del fratello davanti a quella
sorpresa.
Ci
fu uno scoppio di risa che la imbarazzò ancora di
più, mentre
guardava Raphael che ritornava a posto con uno scintillio nello
sguardo.
“È
ora, amici” annunciò il Daimyo, scostandosi da
loro e
avvicinandosi al bordo della terrazza per guardare verso gli sfidanti
che l'attendevano là in basso.
Era
il momento del discorso di apertura.
Alzò le braccia in alto
per chiedere il silenzio dalla folla di spettatori emozionata e dai
partecipanti che lo salutavano con orgoglio.
E silenzio fu,
spesso e penetrante.
“Guerrieri,
avete viaggiato dalle moltitudini degli universi e io vi offro il mio
benvenuto al torneo del Battle Nexus!
Di coloro che non hanno
superato la battaglia, io riconosco la loro audacia e il loro
coraggio, e a coloro che hanno passato il round preliminare io dico
congratulazioni.
E siate pronti per la prossima lotta, perché è
arrivato il momento:
Che il Battle Nexus cominci!”
Alzò
il bastone magico, il War staff, che indicava la sua posizione di
comando, verso il cielo: si illuminò di azzurro e la sua
energia
magica salì verso l'alto, dove esplose in variopinti e
formidabili
fuochi d'artificio e coriandoli colorati che caddero sulla folla
esultante e gli sfidanti urlanti.
Il
torneo era iniziato.
Note:
Scusate
per il ritardo, dovevo aggiornare ore fa, ma non vi sto a tediare.
Ci
sono tantissime note, perciò iniziamo!
Allora,
da questo capitolo e per tutta la durata del torneo la sezione note
mi servirà per le spiegazioni sulle fasi del torneo, sui
metodi per
sorteggiare gli sfidanti e sulle schede per spiegarvi i vari
personaggi che vengono dalla serie. Ce ne sono un bel po'.
Per
questo capitolo:
La dimensione Nexus è una sorta di centro
delle dimensioni, connessa a tutte le altre. Però da quel
poco
mostrato c'è solo una città cinta da mura e
addossata a due
cascate; per il resto è solo terra brulla, montagne e
vegetazione
dove spiccano ruderi e rovine, di qualche vecchia civiltà.
Mi sono
sempre chiesta cosa possa essere successo.
Il
palazzo del Daimyo si affaccia direttamente sull'arena, e in una
finestra più sotto c'è l'infermeria, credo in
modo che anche quelli
sconfitti che poi finiscono lì, possano continuare a seguire
il
torneo.
Il resto della cittadina si sviluppa tutto intorno a
queste costruzioni.
Gyoji
è ispirato alla figura dell'arbitro del Sumo. Sia l'aspetto
dei
vestiti che il ventaglio che usa, sono presi direttamente dal Gyoji.
Così come il vero Gyoji del sumo, la sua figura è
onorevole e si
premunisce che le regole vengano osservate assolutamente.
Il
Daimyo, o meglio l'Ultimate Daimyo, è il signore della
dimensione
Nexus. È molto anziano, ma non saprei dire quanto. Ha i
capelli
bianchi e quando non porta la maschera dorata in volto, si riesce a
vedere il suo viso e i suoi occhi verdi.
Ue-sama,
Ue, è suo figlio, in passato l'Ultimate Ninja. Era adulto e
anche
malvagio, tanto da provare a prendere il trono di suo padre cercando
di ucciderlo. C'è stato un viaggio dimensionale che l'ha
fuso con un
drago e varie vicissitudini che alla fine hanno portato alla sua
rinascita in forma di bambino, con la memoria cancellata. Adesso
è
un bravo ragazzo e adoro che lui e Steve possano essere amici.
Il
suo nome non viene mai detto nella serie, figurava solo nel concept
del personaggio. L'ho trovato su TMNTpedia.
Il
kimono è formato da varie parti, tantissime a dire la
verità. L'Obi
è la fascia che stringe in vita, rigida, che poi viene
annodata in
varie figure sulla schiena, e sotto di essa c'è una fascia
più
morbida chiamata datejime. I Tabi sono i calzini con la separazione
infradito e gli Zori i sandali. Il Kanzashi è un ornamento
per
capelli, a volte molto elaborato, con fiori di seta, perline,
placchette in metallo.
Ho
fatto un disegno al volo per farvi vedere come io l'ho pensato,
perdonatemi perché è davvero brutto.
Ok,
il torneo sta iniziando! L'emozione (la mia) è a mille. Sono
capitoli complessissimi, anche per la mole di personaggi che tornano
dal passato o che io ho inventato.
Spero di riuscire a farvi
piacere il torneo.
Credo
di aver dimenticato qualcosa, ma adesso proprio mi sfugge! Nel caso
metterò qualche edit!
Grazie di tutto cuore!
A presto
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Capitolo 9 *** Round 1: I can't lose yet ***
Il
boato della folla esultante ed eccitata era assordante e inebriante,
come energia che entrava sottopelle, elettrizzando ogni muscolo. La
voglia di lottare era a mille, come il batticuore.
I
coriandoli stavano ancora volteggiando nell'aria come pioggia
colorata e leggiadra, quando Leo si voltò verso i fratelli.
“Dobbiamo
andare. Il primo round sta per iniziare!” annunciò
di colpo,
sostenuto, per cercare di non cedere all'ansia pre-lotta.
Gli
altri tre annuirono nella sua direzione, anche loro tesi e
concentrati. Si inchinarono al Daimyo e al sensei, poi Raphael si
sporse per un bacio a fior di labbra con Isabel.
Non
c'era bisogno di nessun augurio o raccomandazione, ogni parola era
implicita in quel lieve contatto.
Ue
li precedette per far loro strada verso l'arena, portando anche Steve
con sé. Il gruppo si scisse e i quattro mutanti e i due
ragazzi si
diressero verso l'interno del palazzo, voltandosi solo di tanto in
tanto per gettare loro delle occhiate rassicuranti. O forse erano
loro stessi in cerca di rassicurazione.
“Noi
prendiamo posto, figliola” mormorò Splinter
gentilmente,
mostrandole i cuscini posti dal seguito del Daimyo, vicinissimi al
bordo del terrazzo. Avrebbero avuto la migliore vista sull'arena
lì
su, come Dei onniscienti.
Isabel
si avvicinò a passetti lenti e guardò
giù verso il folto gruppo di
partecipanti che ormai non stava più prestando attenzione a
loro; li
osservò parlare in piccole squadre, studiandoli. C'erano
forme di
vita dalle fattezze più diverse: animali antropomorfi,
ibridi tra
più razze, perfino un alieno gelatinoso. Era un tripudio di
colori e
mescolanze cromatiche.
Non
le fu difficile individuare gli unici con sembianze umane,
lì in
mezzo: Faraji, Adam, Tora e Joi avevano passato con successo la fase
di qualificazione e adesso parlottavano tra loro con emozione,
guardandosi attorno.
Isabel
sospirò flebilmente, mentre prendeva posto al fianco del
sensei,
preoccupata per il torneo.
O
forse anche per qualcos'altro.
“Ora,
Steve, vedrai qualcosa di grandioso!” asserì
Michelangelo
entusiasta, mettendo un braccio attorno alle spalle del ragazzino per
pilotarlo verso la sorpresa.
Donnie
alzò gli occhi al cielo.
“Lascialo
in pace, Mikey!” provò a contestare, invano.
Stavano
camminando per il padiglione dei campioni del passato, un'enorme sala
circolare che conteneva le statue di tutti i campioni del Battle
Nexus esistiti e anche le repliche delle loro armi o dei loro elmi.
Steve
cercò di vederne il più possibile, mentre Mikey
lo trascinava
letteralmente di peso per il corridoio, impedendogli di godersi
appieno la visione. Con una brusca frenata infine l'amico si
fermò e
lo lasciò andare.
“Tadan!
Eccomi qua!” esclamò con teatralità,
allungando le braccia di
fronte a sé con smania. Aveva un sorriso a trentadue denti,
mentre
mostrava il suo tesoro.
Steve
stiracchiò il collo indolenzito e guardò quello
che voleva vedesse,
con curiosità: una gigantesca statua d'ottone di
Michelangelo in una
posa plastica con le braccia al cielo e il viso esultante. In
realtà
poteva essere una qualunque di loro tartarughe mutanti, erano tutte
identiche in fin dei conti, ma il ghigno sul volto d'ottone era
inequivocabile, così come i Nunchaku scolpiti ai lati della
cintura.
Il
vero Michelangelo si pavoneggiava a pochi passi da lui, copiando la
posa della sua statua con orgoglio.
“Se
non la smetti dopo che ti avrò ucciso ti farò
impagliare in quella
posa. E ti metterò in salotto!” lo
minacciò Raph spazientito.
“È
solo invidia la tua” replicò l'altro, per niente
toccato.
“Non
sei il solo ad avere una statua” disse Raph, facendo
spallucce.
Al
fianco di quella di Michelangelo, infatti, c'erano quella di Leo a
destra e quella del sensei e del maestro Yoshi a sinistra.
“Sì,
ma non c'è la tua!”
“Ma
perché ogni volta è sempre la stessa storia con
voi due?” sbottò
spazientito Donatello, prendendo per il colletto Steve, per portarlo
lontano da lì. Ue li seguì e anche Leo, lasciando
Mikey e Raph a
battibeccare mentre li seguivano, verso l'uscita.
I
ragazzini si fermarono all'inizio delle scale che dal padiglione
scendevano fin nell'arena. Non sarebbero scesi più
giù, entrambi
sentivano che avrebbero dovuto mettere piede in quel luogo speciale
solo il giorno in cui sarebbero stati scelti per lottarvi e non
prima.
Si
salutarono con degli auguri sinceri, entrambi rivolti a Leo,
scatenando così l'indignazione degli altri tre. Solo dopo
che Mikey
ebbe strapazzato un po' Steve, scherzosamente, l'augurio venne esteso
a tutti.
“Corriamo.
Non possiamo perderci l'inizio!” esortò Ue,
precedendolo nel
percorso inverso.
I
quattro li guardarono andare via con un sorriso in volto, ma quando
si voltarono per scendere le scale per l'arena, era già
scomparso.
La
moltitudine di esseri alieni e di altre dimensioni si parò
loro
immediatamente, e anche se si sforzarono per capire quanti di quelli
conoscessero, ce n'erano davvero troppi per riuscire a fare
chiarezza. Nel primo round si sfidavano trentadue contendenti,
perciò
a parte loro quattro, c'erano altre ventotto forme di vita
lì sotto,
che scalmanavano e palpitavano nell'attesa dell'inizio.
Misero
finalmente piede sul pavimento ocra del ring circolare, e una scossa
di eccitazione li pervase. Gli occhi corsero intorno, tra le pelli
rosa e le squame rosse, tra le pellicce e la consistenza gelatinosa e
infine riconobbero due orecchie da coniglio, un paio da gatto, forse
anche un corno, laggiù, ma prima che potessero provare a
dirigersi
verso quei punti, una voce li richiamò.
“Leonardo!
Siamo qui!” esclamò Faraji, avvicinandosi a grandi
passi con tre
persone alle calcagna. Anche loro gli si fecero incontro, e i due
gruppi si incontrarono quasi al centro dell'arena.
Faraji,
Tora, Adam e Joi sorridevano contenti, forse di rivederli, forse
perché fieri di avercela fatta alle preliminari. Forse
perché le
loro erano le uniche facce amiche in una distesa di esseri
così
diversi.
“Ce
l'avete fatta” dichiarò il leader, nemmeno poi
tanto sorpreso. Per
qualche attimo aveva avuto timore che l'inatteso o l'aspetto dei loro
opponenti potesse averli intimoriti e fatti deconcentrare fino a
perdere, ma in realtà sapeva bene che gli altri accoliti
erano in
gamba e ben allenati.
Ce
l'avrebbero fatta, però, contro i più che
preparati avversari che
erano arrivati fino a quel punto? Non sapeva nemmeno se ce
l'avrebbero fatta loro. Sottovalutare un nemico solo perché
era il
campione in carica non gli sembrava una mossa intelligente.
Il
mormorio eccitato degli altri partecipanti arrivò alle loro
orecchie, facendogli capire che l'inizio si stava avvicinando; era
spettacolare come decine, se non centinaia di alieni e creature dalle
più diverse dimensioni potessero capirsi e trovarsi a
proprio agio,
nonostante le differenti caratteristiche fisiche e ambientali. Non
importava se una razza nel suo pianeta avesse un'atmosfera
differente, o un'altra una gravità particolare, un'altra
ancora una
temperatura specifica, lì nel Nexus coesistevano tutte senza
alcun
problema, senza bisogno di attrezzature, probabilmente grazie alla
magia del Daimyo.
Perciò
anche comunicare tra di loro era possibile e semplice.
“D'accordo,
sapete cosa dovete fare: disperdiamoci!” ordinò
Leonardo, che
sentiva che l'inizio era fin troppo vicino. Non c'era un secondo da
perdere.
Si
accorse delle occhiate stranite dei quattro umani e si
affrettò a
spiegare:
“Nel
primo round lo sfidante è casuale. Non appena il Daimyo
darà
l'avvio, l'arena si trasformerà e tutti gli sfidanti
verranno
appaiati a seconda della persona che si ha più vicino.
Perciò
dobbiamo separarci, per non rischiare di sfidarci da subito tra di
noi.”
I
quattro accoliti spalancarono gli occhi di comprensione e annuirono
con vigore. La strategia era in effetti senza pecche, di certo
studiata nelle volte precedenti in cui erano stati lì.
Si
salutarono con un cenno della testa, mentre i fratelli batterono il
pugno a quattro, con un sorriso fiducioso.
“Ci
vediamo più tardi” mormorarono in contemporanea,
mentre si
separavano in quattro direzioni differenti.
Camminarono
scrutando i dintorni e gli esseri tesi come loro, mentre di tanto in
tanto osservavano con la coda dell'occhio lassù, per
controllare i
movimenti del Daimyo e predire il momento esatto dell'inizio. Il
saggio padrone di casa stava parlando con il sensei, mentre Isabel,
Steve e Ue, seduti in posizione seiza, seguivano i loro spostamenti.
Donatello
si muoveva con calma, studiando le persone che incontrava con occhio
attento: un essere che sembrava un centauro dall'aria molto
riflessiva e più in là quello che sembrava un
ammasso informe di
terra con una parvenza di faccia, e anche un lupo umanoide.
Stava
pensando a quale sarebbe stato meglio affrontare nel primo round,
valutando con logica i punti deboli e quelli di forza di ognuno.
“Donatello”
lo chiamò una voce alle sue spalle, facendolo trasalire,
facendogli
perdere la concentrazione.
Si
voltò timoroso e forse anche un po' emozionato.
“Jhanna”
mormorò incredulo, studiando la donna aliena davanti a
sé.
Era
identica all'ultima volta in cui l'aveva vista. Fiera negli occhi
scuri, splendente la sua pelle azzurra, i capelli blu dalla
pettinatura simile ai dreadlocks della terra di nuovo lunga e folta.
Erano passati sette anni, ma lei era perfettamente identica.
Il
sorriso tenue che aveva in volto, diretto verso di lui, solo quello
era nuovo.
“Stai
benissimo” esalò scioccamente, col cervello un po'
bloccato. “Non
sei cambiata affatto.”
“Tu
sei diventato più alto, Donatello” fu la risposta
senza fronzoli
di lei. Era davvero da Jhanna essere così diretta.
Aveva
tante cose da chiederle, ma in realtà rimasero in silenzio
per molti
istanti. Troppi.
“Non
pensavo di vederti qua al Battle Nexus” se ne uscì
cercando un
argomento di conversazione, ma pentendosi all'istante per la sua
stupidità.
Jhanna
era una guerriera formidabile, così forte da essere stata
scelta dal
suo popolo per sfidare la precedente regina per richiedere il diritto
al trono, e tanto abbastanza da riuscire a sconfiggerla. Lui lo aveva
visto coi suoi occhi, sapeva quanto fosse preparata.
Un
suono vibrante si diffuse nell'aria, attirando la loro attenzione e
quella di chiunque altro.
Il
gong stava ancora tremolando, mentre il Daimyo riportava il bastone
davanti a sé; ora che aveva richiamato
il loro interesse, lo sollevò al cielo con
solennità, mentre
si illuminava d'azzurro.
“Che
la competizione inizi!”
L'energia
magica del War Staff saettò come un fulmine fino al centro
dell'arena, colpendo con vigore: si divise e corse in ogni dove
vorticando, segnando i confini del ring circolare che si affossava
lentamente. I partecipanti barcollarono leggermente mentre la
piattaforma calava e si assestava e il pavimento si trasformava da un
caldo ocra in pietra in gelido acciaio; pareti dello stesso materiale
iniziarono ad innalzarsi, bloccando gradualmente la visuale dei
guerrieri. Alcuni, di certo alla prima esperienza nel Battle Nexus,
si lasciarono prendere dal panico e iniziarono a girare in tondo, per
il nervosismo.
Infine
tutto si fermò e tutto ciò i partecipanti
potevano vedere erano tre
pareti grigie che li chiudevano insieme ad un altro contendente, fino
a lasciare scoperto solo il cielo.
“Guerrieri,
il primo round cominci!”
Donnie
osservò con apprensione l'ambiente limitato e il suo
sfidante per il
primo round.
Jhanna
invece sembrava deliziata che lui fosse il suo avversario, a
giudicare dallo scintillio negli occhi scuri mentre lo guardava.
Leonardo
non stava cercando un rivale in particolare, quando si era separato
dai suoi fratelli. Anzi, aveva fatto del suo meglio solo per sfuggire
a facce già conosciute, per non doversi confrontare con loro
troppo
presto; aveva infatti evitato di avvicinarsi ad Usagi anche se lo
aveva intravvisto da lontano, preferendo una zona dove c'erano molti
alieni che non conosceva affatto.
Quando
le pareti dell'arena si erano sollevate separandolo dagli altri,
quindi, era stato sicuro che per quella prima lotta avrebbe
incontrato una faccia nuova. Ma quando il viso e la montagna che era
Al'Din gli si parò di fronte, seppe di avere sbagliato.
Il
gigante azzurro gli sorrideva nella sua cortesia, ma sembrava solo
minaccioso. Era il figlio di un caro amico di Splinter, D'Jinn, in
passato anche lui uno sfidante del torneo. Come il padre era enorme,
con quattro braccia muscolose e una coda spessa che poteva muovere a
suo piacere come un arto in più. I capelli biondi erano
raccolti in
un codino e dello stesso colore erano i peli sulle spalle e le
braccia.
Era
un avversario leale e onorevole, ma mentre prendeva le armi, Leo si
chiese per quale assurdo colpo di sfortuna dovesse competere sin
dall'inizio contro colui che aveva sfidato alla finale del torneo
precedente, battendolo solo per un soffio.
Raphael
si era tenuto alla larga soprattutto al gruppo di umani,
perché
evitare Joi era la sua priorità, per quel giorno. Se fosse
stato
fortunato non si sarebbe scontrato con lei in nessun modo e alla fine
del torneo avrebbe potuto dirle addio e non rivederla mai
più nella
sua vita.
Gli
dava fastidio sentire il suo sguardo addosso, perché
sì, sapeva che
lei lo guardava di continuo, come se stesse cercando il momento
giusto per avvicinarlo e parlargli.
Peccato
che lui non avesse niente da dirle.
Era
quasi a metà dell'arena quando il primo round era iniziato e
i muri
avevano iniziato a sollevarsi attorno a lui, escludendolo insieme al
suo avversario: con un'occhiata valutò la sua forza e si
preparò
mentalmente per lo scontro imminente, presentendo che non sarebbe
stato molto facile.
Era
piuttosto grosso, ma non era quello a preoccuparlo, quanto la spessa
corazza che lo ricopriva, come un'armatura medievale, dalla testa ai
piedi: le sue fattezze al di sotto non erano visibili.
Solo
due fiammeggianti occhi scuri sotto la visiera dell'elmo.
Michelangelo
stava sorridendo al suo opponente.
All'inizio,
quando si era diviso dai suoi fratelli, aveva trotterellato dietro
Raph senza farsi scoprire, con un ghigno in volto e una mezza idea di
stargli appiccicato per potersi scontrare con lui sin dal primo
round. Stava già pregustandosi la sua faccia scocciata e
scioccata,
quando si era fermato per controllare di aver visto sul serio una
persona che conosceva.
E
in quel preciso momento le pareti si erano sollevate e il suo
avversario era già scelto, dal fato: di certo non sembrava
tanto
amichevole, né ammaliato dal suo sorriso.
Era
un lupo umanoide, o per meglio dire, assomigliava ad alcune
rappresentazioni terrestri dei licantropi: la forma indubbiamente
umana, ma ricoperta di folto pelo marrone, il viso era un muso di
lupo con le fauci ghignanti, le mani erano corredate di artigli
affilati. Gli arti inferiori avevano grandi zampe a quattro dita e
uno sperone appuntito.
Gli
ringhiava contro sempre più, al vedere il suo sorriso, come
se ne
fosse innervosito. Di certo si prospettava uno scontro tutt'altro che
piacevole.
Isabel
aveva il batticuore.
Il
gong che il Daimyo aveva battuto per decretare l'inizio era a pochi
passi da loro e aveva sentito quasi fisicamente le vibrazioni e il
rimbombo puro, che per un attimo avevano annullato ogni altra
percezione.
E
se non si era persa nemmeno uno spostamento delle persone là
sotto,
al vedere il terreno tremare sotto i loro piedi e le pareti
dell'arena sollevarsi e dividerli, tutta la sua attenzione si era
focalizzata solo sui suoi amici, solo per loro.
L'arena,
una volta completa, aveva la forma di un fiore a otto petali, ognuno
dei quali diviso a metà, creando in tutti sedici spazi
triangolari
dove trentadue sfidanti avrebbero gareggiato in uno scontro uno
contro uno.
Teneva
sott'occhio i suoi amici: Leo col suo sfidante gigantesco e dall'aria
particolarmente forte; Don che avrebbe lottato contro una stupenda
donna aliena dall'aria esperta; Mikey che stava girando in tondo al
lupo umanoide che gli era capitato come avversario e per finire,
anche se in realtà era quello per cui era più in
apprensione,
Raphael che si trovava ad affrontare un essere ricoperto da testa a
piedi da un'armatura, o forse il suo corpo era proprio fatto
così.
Aveva
diretto solo un'occhiata distratta per gli altri. Aveva intravvisto
Adam rinchiuso con un essere esile e secca dalla pelle color sabbia,
forse femminile; Tora stava salutando con cortesia e un inchino il
coniglio umanoide che sarebbe stato il suo opponente, che sembrava un
samurai; a Faraji era capitata una sorta di creatura gelatinosa,
della quale si faticava a capire una qualsiasi forma mentre Joi
avrebbe combattuto contro un centauro alieno dall'aria malinconica.
Gli
altri otto scontri non li aveva nemmeno guardati, c'era
già troppo
a cui stare attenti solo per seguire quelli con la giusta
concentrazione.
Ovviamente,
laggiù, ognuno pensava solo a sé stesso e non
poteva sapere cosa
gli altri stessero affrontando, ma sapeva che i quattro fratelli, in
una piccola parte del loro cervello, si stessero augurando che anche
gli altri ce la facessero.
E
anche lei, nel suo piccolo, pregò e tifò per
loro. Se solo…
perché si sentiva inquieta?
Leo
e il suo sfidante si stavano studiando, girando in tondo, dopo
essersi salutati con un inchino. Lui e Al'din si conoscevano e c'era
un buon rapporto di rispetto tra loro. Sarebbe stato uno scontro
onorevole.
Il
grosso omone aveva una forza sovrumana e una buona agilità.
Di certo
non poteva rilassarsi nemmeno per un secondo.
Ricordava
perfettamente quanto era stato difficile batterlo alla finale del
torneo precedente, quanto fino alla fine il risultato fosse stato
incerto, dato che era molto forte.
Al'din
scattò in avanti coi pugni alzati e attaccò
contro la sua testa.
Era anche molto veloce. Leo scansò il colpo torcendo il
busto a
destra, e nel contempo calò con forza le Katana contro il
braccio:
la lunga coda azzurra dell'alieno saettò e lo
colpì dritto al
petto, scaraventandolo indietro. Sbatté contro un muro del
ring con
un impatto secco e cadde a terra, immobile per qualche secondo.
Si
era dimenticato della sua coda, che errore imperdonabile e stupido.
Rantolò
per qualche secondo, pensando velocemente mentre riprendeva fiato.
“Mi
sono allenato ancora e ancora, da quando mi hai battuto”
sentì
dire alla voce profonda dell'amico, a pochi metri da sé.
No,
non sarebbe stato per niente facile.
Jhanna
aveva tirato fuori il congegno della sua terra che le avrebbe
permesso di combattere: era un piccolo cilindro meccanico, di certo
solo un piccolo esempio dell'avanguardia tecnologica del mondo dal
quale proveniva; aveva dei pulsanti luminosi del colore del sangue:
ne premette uno e due raggi luminosi presero forma dai suoi bordi,
formando un bastone d'energia dello stesso colore vermiglio dei
pulsanti; una delle due estremità terminava con una lama
ricurva
ripiegata su sé stessa.
“Non
eri diventata la regina del tuo mondo?” domandò
Donatello con voce
soffocata, impegnato a parare il repentino attacco della donna. Il
suo bastone in legno e quello di lei di energia producevano un suono
sordo quando si toccavano, e un leggero sfrigolio elettrico.
“Il
mio mondo è cambiato, Donatello” rispose la donna,
piegandosi in
avanti per scansare il colpo di Bō
contro la sua testa. I dread fluttuarono nell'aria, evitando il legno
per un millimetro.
“Quando
ho sconfitto Moriah ho ricevuto il ruolo di governatrice del mio
pianeta” iniziò a raccontare, mentre continuava ad
attaccare con
tutta la sua furia e a scansare con maestria.
“Ho
condotto il mio popolo per cinque anni e nel frattempo ho fatto in
modo che alcune cose cambiassero. Il potere non passa più di
madre
in figlia, non ci sarà più nessuna Moriah
cresciuta nell'illusione
di poter tiranneggiare i suoi sudditi perché destinata a
regnare!”
Con
una capriola riuscì ad arrivare al suo fianco e a colpire
con forza
la sua arma con la propria: il mutante perse la presa sul Bō,
che
volò nell'aria e
cadde al
suolo,
lontano.
Don
fece un veloce quadro della situazione con orrore. Era disarmato e
poteva sentire lo spostamento di Jhanna, che si dirigeva con tutta la
sua velocità contro di lui. Si tuffò a terra
all'ultimo secondo,
per puro istinto di sopravvivenza.
Lo
stile di combattimento di Jhanna era fantastico ed eclettico, e
lei era indubbiamente una delle più forti guerriere che
conoscesse.
Eppure
non poteva assolutamente permettersi di perdere, nemmeno se contro
un'avversaria così formidabile. Aveva promesso che
non avrebbe perso come un idiota ai primi round del torneo e aveva
tutte le intenzioni di mantenere fede alla parola data a sé
stesso.
Mikey
continuava a saltellare in tondo come un grillo,
evitando le zampate
veloci
e crudeli del suo opponente. Era svelto e aggressivo. Pura potenza e
furore e i suoi artigli acuminati saettavano fendendo l'aria, diretti
contro il suo viso, i suoi occhi, il suo collo scoperto.
Michelangelo
era bravo a scansare, veloce tanto quanto lui, rapido, mentre i
Nunchaku ruotavano nelle sue mani nell'attesa del momento migliore
per
attaccarlo.
E
nel contempo sorrideva come suo solito.
Il
suo avversario gli ricordava tanto Raphael. Irruente e senza pensieri
che non fossero lottare e lottare. Almeno a come era Raphael prima.
Sarebbe
stato così semplice vincere usando quella rabbia e quella
foga
contro il suo proprietario come aveva fatto in passato con suo
fratello; sarebbero bastate un paio di frasi ad effetto per
punzecchiare e lui era bravissimo a farlo.
Ma
sentiva che non sarebbe stato giusto. Onorevole avrebbe detto Leo.
Con Raphael era un altro conto, erano fratelli in fondo, darsi
fastidio era quasi un obbligo.
Avrebbe
vinto con la sua sola tecnica. Con la sua sola forza.
Nello
spazio angusto c'era solo silenzio. Raphael non parlava mai contro un
avversario in una competizione così ufficiale e il suo
opponente
sembrava dello stesso avviso. O
forse non poteva parlare.
Sembrava
in fin dei conti una sorta di armatura vivente, non si sarebbe
sorpreso se al suo interno non ci fosse stato nulla. Solo
uno spirito, solo un'anima.
Come
diavolo si batteva una cosa del genere? Combatteva con una lunga
lancia da giostra medievale, lunga almeno due metri, che usava
per colpirlo senza dargli modo di avvicinarsi troppo. Proprio il
genere di combattimento che lui detestava.
Cercava
di evitare in ogni modo i suoi attacchi dolorosi
simili a stoccate, ma tutto ciò che otteneva era la crescita
della
distanza tra loro.
Correva,
saltava, scivolava, provando a superare quella barriera
impenetrabile, ma il cavaliere lo teneva sempre lontano con un colpo
deciso all'ultimo
secondo,
che non solo lo faceva cadere o volare via, ma che lo infastidiva
sempre più, minando via via la sua pazienza.
C'era
Isabel lassù a guardarlo. Non poteva fare figuracce. Non
poteva
assolutamente fallire.
Lei
seguiva tutto con occhio attento. Lo sguardo saettava veloce nei
piccoli cubicoli dove loro lottavano, alcuni vicini tra loro, alcuni
dislocati da tutt'altra parte; e mentre spostava l'attenzione tra i
loro vari scontri, non poté impedirsi di soffermarsi di
sfuggita
sugli altri combattimenti, alcuni dei quali già finiti: Adam
aveva
avuto parecchie difficoltà e alla fine la sua avversaria lo
aveva
battuto con un colpo della sua arma diretta contro il petto; il
gigantesco umano era stato avvolto da una luce azzurra prima di
essere colpito e poi era scomparso, lasciando solo la sua vittoriosa
nemica nello scomparto dell'arena.
“Quando
sta per essere inferta una ferita grave o mortale, l'arena riconosce
il pericolo e trasporta il guerriero nell'infermeria. Ovviamente vuol
dire che ha perso, ma in questo modo non riporterà ferite
letali”
sentì la voce di Splinter spiegare, forse perché
si era accorto
della sua perplessità.
Si
sentì rincuorata. Nessuno si sarebbe fatto davvero male, se
non
nell'orgoglio.
C'erano
parecchi spazi in cui c'era solo uno sfidante, ormai: Faraji,
il coniglio che aveva combattuto contro Tora, l'essere gelatinoso e
anche una specie di golem.
Joi
se ne stava sola nel suo a guardare verso di loro, l'unica cosa che
potesse vedere.
Un
brivido corse
giù per la
schiena di Isabel, al sentire quei freddi occhi verdi su di
sé. E
forse era impazzita, ma le parve di percepire anche un'altra minaccia
in sottofondo, qualcosa che aveva già provato prima.
Leo
e Al'din combattevano con foga. Era difficile evitare di essere
colpito da quella montagna di muscoli, ma si era ripromesso di
riuscirci, perché anche il più piccolo colpo lo
avrebbe mandato
definitivamente in infermeria, squalificandolo dal torneo. Sapeva
bene che ognuno dei suoi pugni aveva la forza di smuovere anche una
montagna.
Al'din
sembrava gioire del loro scontro. Era un'anima buona, lo sapeva, che
gradiva moltissimo una buona lotta tra amici, per fortificare il
legame e lo spirito. Che poi entrambi volessero vincere, quello era
un altro paio di maniche.
L'approccio
più giusto era nel cercare una breccia nella sua difesa per
poterlo
attaccare dall'alto con le Katana: allora la protezione sull'arena
avrebbe riconosciuto la minaccia delle sue lame e avrebbe trasportato
via Al'din.
Solo
che non c'era una breccia nella sua difesa. Al'din era molto
preparato e sapeva bene quali fossero i suoi punti deboli: ecco
perché la coda interveniva sempre per spazzare via i suoi
attacchi,
con precisione tecnica.
Leo
inspirò a fondo, riprendendo fiato dopo l'ennesimo affondo
andato a
vuoto; aveva fatto appena in tempo a tuffarsi in una capriola
all'indietro per scansare un pugno e ora stava a qualche metro di
distanza a fare il quadro della situazione.
Se
lui era già stanco e accaldato, Al'din non dava invece
nessun segno
di fatica. Non stava nemmeno sudando, mentre le gocce scendevano
copiose lungo il suo collo.
A
lungo andare lui si sarebbe stancato e lo avrebbe preso in pieno. Era
solo questione di tempo.
Ma
come diamine lo aveva battuto al torneo precedente? Era quasi certo
che fosse dovuto solo ad un errore di distrazione dell'omone, ormai.
Non si spiegava altrimenti.
Di
certo perdere contro l'uomo contro cui aveva combattuto alla finale
precedente sarebbe stato onorevole, ma non era nei suoi pensieri.
Si
rimise in posizione eretta e cambiò la presa nell'elsa della
Katana
destra: la impugnò al contrario e la sollevò in
alto, caricando col
braccio all'indietro, come se volesse scagliare un giavellotto.
Con
uno sforzo sovrumano la lanciò contro Al'din, diretta contro
la sua
gamba: la spada fendette l'aria senza sforzo, la lama così
affilata
da non creare nessun attrito e il gigante blu la osservò per
una
frazione di secondo, per
prendere le misure. La coda saettò con uno schiocco sordo e
cozzò
contro la Katana, deviando la sua traiettoria senza fatica: la spada
cadde a terra, tintinnando dolcemente.
“Non
avrai pensato che funzionasse, Leonar...”
pronunciò sorpreso
l'uomo, voltandosi lì dove un istante prima era la tartaruga
umanoide.
C'era
solo il nulla. In un frammento di secondo Leonardo era scomparso dal
suo campo visivo, perfino dagli angoli ciechi ai lati, come se non ci
fosse mai stato.
“Mi
serviva solo per distrarti!” urlò una voce dal
cielo.
Il
mutante calava contro di lui con tutto il suo peso, l'unica Katana
rimasta ben salda tra le mani, diretta contro la sua testa. Era
troppo tardi per fermarlo, ormai.
Al'din
sorrise, mentre la luce azzurra lo avvolgeva, portandolo lontano.
“Me
l'hai fatta ancora” sentì dire, mentre la spada
trafiggeva lo
spazio ormai vuoto, andando a graffiare contro il pavimento
d'acciaio.
Riprese
fiato con ampi sospiri e poi, finalmente, alzò lo sguardo al
cielo.
Leonardo
Hamato aveva passato il primo round con successo.
Il
tipo aggressivo di Mikey gli stava dando filo da torcere. Era fin
troppo agile per i suoi gusti e se non era stato ancora colpito da
uno dei suo artigli era stato solo per puro miracolo.
In
più, l'idea che fosse un vero licantropo lo aveva sfiorato
un paio
di volte, perciò si rammaricava che i suoi Nunchaku non
fossero
d'argento, così lo avrebbe battuto più in fretta,
e nel contempo
temeva di essere morso. Non voleva trasformarsi in un lupo mannaro
alla successiva luna piena. La sola idea di una tartaruga
mutante/lupo mannaro era scioccante. Anche se, l'idea di avere una
pelliccia… no, non poteva pensarci sul serio.
Deviò
un artigliata con un colpo deciso di Nunchaku e con l'altro lo
attaccò alle gambe, dritto contro il ginocchio. Il lupo
saltò
repentinamente, mandando in fumo il suo tentativo.
Poi
gli ringhiò addosso, innervosito dall'attacco
così vicino. Cominciò
a colpire in successione, in preda ad uno scatto d'ira violento, ed
era sempre più veloce e preciso.
Mikey
indietreggiava velocemente, l'unica cosa che gli riuscisse di fare.
Se lo avesse preso nella sua furia non ci sarebbe stato scampo. E
quanti passi mancavano alla fine dello spazio, comunque? In pochi
secondi si sarebbe trovato con le spalle al muro.
Ad
ogni passo il magone al petto cresceva e con esso la sensazione di
panico. C'era il sensei a guardarlo. E il Daimyo. E Isabel con Steve.
E poi lui era un campione del Battle Nexus, non poteva perdere in
quel modo al primo round.
Stese
uno dei Nunchaku di fronte a sé, tenendolo per le due
estremità: il
pugno del licantropo lo evitò e corse verso la sua faccia.
Mikey
incrociò di colpo le braccia e ingabbiò il polso
dell'altro nella
catena, stringendo forte; poi, con un balzo atletico, saltò
oltre la
schiena dell'avversario, torcendo l'arto all'indietro e facendogli
così compiere una capriola.
Il
lupo gridò di dolore nel suo volo e rovinò
a terra con un guaito potente. Si stava già voltando con le
zanne
sguainate per affrontarlo, ma il Nunchaku calò dall'alto,
impietoso:
la luce blu lo trasportò via prima dell'impatto, un po'
strapazzato
ma incolume.
Mikey
si passò le mani sul viso, sollevato, poi le alzò
al cielo,
trionfante.
Il
secondo Hamato, Michelangelo, aveva passato il primo round.
Jhanna
non si era trattenuta per un secondo.
Dopo
averlo disarmato si era gettata in attacchi incalzanti con la sua
arma di energia, che Don aveva evitato con sempre più
difficoltà.
La donna lo teneva impegnato per impedirgli di riavvicinarsi al suo
Bō, lasciandolo così senza difesa. Alla sua completa
mercé.
Ormai
non aveva molte alternative, se voleva vincere.
Si
lanciò contro Jhanna nello stesso secondo in cui lei lo
attaccava e
dopo essersi abbassato per scansare una stoccata contro la testa, si
era rialzato in fretta e si era gettato contro di lei, afferrando il
bastone di energia: con uno sfrigolio elettrico le mani iniziarono a
bruciare a contatto con la fonte aliena, ma Don non lasciò
andare la
presa.
“Sei
impazzito?” domandò la donna, che provava a tirar
via l'arma per
staccarla dalle sue mani, per impedirgli di farsi male.
“Io
non posso perdere!” esclamò lui, strappandogliela
con un secco
gesto deciso. Il mutante fece volteggiare il bastone nella mano,
assicurandosi una migliore stretta sul manico.
Jhanna,
sbalzata via dal contraccolpo, non ebbe modo di evitare la sua stessa
arma che le correva incontro.
“Mi
piacerebbe rivederti più tardi, Donatello”
mormorò con una voce
per nulla sconfitta, già per metà avvolta dal
bagliore azzurro
dell'arena.
Scomparve.
Donatello si ritrovò a stringere il nulla nella mano e il
suo viso
corse senza volere verso l'enorme finestra dell'infermeria dove
Jhanna, appena apparsa, lo stava guardando.
Arrossì,
suo malgrado.
Donatello
Hamato si era qualificato al primo round.
Raph
si piegò in due, col respiro mozzo. Il colpo di lancia
dritto contro
lo stomaco non era riuscito proprio ad evitarlo. Il cavaliere
approfittò del momento e alzò repentinamente
l'arma al cielo per
calarla con forza contro il suo guscio: se non si fosse spezzata
nello scontro, lo avrebbe di certo mandato al tappetto. Sembrava
essere diretto esattamente contro il suo collo, appena sopra il bordo
del guscio.
Raphael
prese un grosso respiro e trattenne il fiato.
Con
uno sforzo inumano, ignorando le fitte di dolore all'addome, si
alzò
di scatto e lasciò andare il Sai sinistro, che cadde a terra
dimenticato. La mano si sollevò contro la minaccia e
afferrò
dolorosamente la lancia, fermando la sua corsa.
Il
cavaliere provò a strattonare per liberarla dalla sua presa,
ma
Raphael stringeva, stringeva così forte che la mano era
impallidita
e le vene pulsavano tra le nocche per lo sforzo.
Un
mezzo sorriso gli incurvò le labbra.
Sempre
tenendo ferma la lancia nella morsa della mano, separò la
distanza
tra loro con un solo gesto, con un solo balzo, e lo attaccò
verso
l'apertura della visiera col Sai rimastogli, tenuto come un pugnale.
Il
cavaliere e la sua arma svanirono nella luce azzurra prima che
potesse fargli davvero male e rimase da solo a prendere fiato,
dimentico del dolore e ogni altra cosa che non fosse l'inebriante
sensazione di vittoria nello stomaco.
Ora
che era tutto terminato riuscì a sentire di nuovo il fragore
della
folla e le urla di incitamento che fino a qualche istante prima erano
state cancellate dalla concentrazione.
Era
inebriante. Erano assordanti.
Sollevò
lo sguardo verso la terrazza, ed era lontano, ma il suo sguardo
felice fu sicuro di averlo visto. Isabel sorrideva solo per lui.
Raphael
Hamato aveva passato con successo il primo round.
Note
dal torneo:
Il
padiglione dei campioni passati è una costruzione circolare
che
ospita tutte le statue dei vincitori del Battle Nexus. Hamato Yoshi,
Splinter, Michelangelo ne hanno avuta una nella serie 2003, poi nella
mia serie ho fatto anche vincere Leonardo, perciò anche lui
ne ha
una. Ma solo qua, eh!
Nella
foto del capitolo precedente, questa sala è nella
costruzione
tondeggiante che si vede a sinistra, contrapposta al padiglione
medico, in pratica.
Dunque,
il primo round ha già avuto luogo. La selezione, come detto
da Leo,
è casuale: quando si alzano le pareti lo sfidante che rimane
nello
spazio assieme a te diventa il tuo avversario. Perciò loro
si
disperdono.
Ad ogni
round il metodo di selezione e anche la forma dell'arena
cambierà,
perciò io dovrò spiegarlo ogni volta. Ci sono le
foto sotto di come
si forma la prima arena.
La
posizione seiza è la posizione giapponese del stare seduti
sulle
gambe, richiesto in casi formali come questo. Se agli uomini
è
concesso anche sedere con le gambe incrociate, per le donne
è
ritenuto sconveniente.
Jhanna.
La formidabile Jhanna. È un'aliena che i nostri hanno
incontrato
nella quarta stagione. È caduta sulla terra in seguito ad un
attacco
a tradimento della donna che stava cercando ed è finita
vicino alla
fattoria Jones dove i quattro si trovavano in campeggio.
Jhanna
stava cercando Moriah, la regina del suo pianeta, per scontrarsi con
lei in combattimento: se avesse vinto avrebbe preso il potere dalle
sue mani, dato che era una tiranna. Ovviamente Donnie il galantaruga
è quello che si da più da fare per aiutarla e
alla fine le cede
anche la sua brandina quando deve riposare: Jhanna va via prima che
si svegli, lasciandogli la sua coda di capelli da guerriera tagliata
proprio in quel momento, come pegno.
Insomma,
i due credo che si piacessero. Anche se, a rigor di precisazione,
Donnie ha avuto momento simili con troppe ragazze nella serie, sto
marpione!
D'jinn
è lo sfidante che Splinter trova nell'episodio il duello dei
duelli
1. È un omone fortissimo, ma anche onorevole, grande amico
di
Splinter.
Il
figlio è una mia invenzione, ovviamente. Identico al padre e
in
competizione con Leo. Al precedente torneo Leo l'ha battuto vincendo
il titolo di campione.
Salve
a tutti!
Il
torneo entra nel vivo! Chi ha scommesso che le turtles avrebbero
passato il primo round può anche passare dal proprio
allibratore per
ritirare i soldi della sua vincita!
Ma
chissà se andrà avanti così! Attenti
su chi scommettete!
Scusate
il mostruosissimo ritardo! Sono mortificata! Chiedo il vostro perdono
con infinito dolore! Spero stiate tutti bene!
Vi
posso mandare un enormissimo abbraccio?
Sììì, vi adoro!
|
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Capitolo 10 *** Round 2: I'm not the same I was before ***
Isabel
stava trattenendo ancora il fiato, col cuore in tumulto che premeva
nella gola. Avrebbe voluto gridare dalla contentezza, gettando al
vento la sua aria di compostezza, ma si trattenne lì davanti
al
Daimyo e al suo seguito.
Avevano
vinto. Non che non avesse creduto in loro, ma gli scontri erano
sembrati difficilissimi e i loro avversari così preparati,
che aveva
avuto paura che non ce l'avrebbero fatta, non tutti per lo meno.
Donnie, in particolare, glielo aveva fatto temere, più di
tutti,
perché sembrava conoscere la donna che aveva battuto.
Ma
poi, quando Raphael aveva sconfitto il cavaliere e si era voltato a
cercare il suo sguardo, da quel momento in poi la sua attenzione era
stata solo per lui.
E
solo il cielo sapeva quanto avrebbe voluto scendere per abbracciarlo.
Non
si era accorta che tutti gli spazi dell'arena contenevano ormai solo
uno sfidante, che tutti gli scontri erano già finiti.
Le
pareti acciaio iniziarono a calare e ad essere riassorbite dal
pavimento, tornato del solito colore ocra: i guerrieri che avevano
passato il primo round si guardarono fugacemente attorno, per
controllare chi ce l'aveva fatta.
Il
Daimyo alzò lo scettro al cielo, come tributo per loro.
“Guerrieri,
elogio le vostre vittorie ottenute fin ora. E adesso, preparatevi per
il prossimo round, il secondo!”
Una
bolla azzurra apparve al centro dell'arena, innalzandosi dal
pavimento e salendo verso il cielo: poi si espanse e inglobò
tutti i
vincitori, alcuni abituati, altri perplessi, finché non
scomparvero
dal suo interno.
Infine,
sparì essa stessa in piena aria.
Isabel
si voltò verso il sensei, e forse la preoccupazione che
sentiva era
dipinta sul suo volto, perché il saggio maestro
allungò una mano e
la poggiò su una delle sue, per rassicurarla.
“Stanno
bene. L'energia del Daimyo li tiene un momento sospesi nel tempo,
mentre l'arena viene modificata per il secondo incontro. Per noi
stanno passando interi minuti, ma loro non si accorgono nemmeno del
trascorrere di un secondo: tra poco ricompariranno e riprenderanno la
lotta” le spiegò tranquillamente, lui che aveva
già provato quei
momenti e quelle sensazioni, da partecipante.
Isabel
sorrise, lasciando andare il fiato dal sollievo e le voci dei due
ragazzini al suo fianco le arrivarono all'orecchio, attirando la sua
attenzione: Steve e Ue stavano confabulando animatamente sugli
incontri appena avvenuti, facendo le loro considerazioni su quanto
visto.
Ovviamente
si sperticavano maggiormente in lodi per Leonardo e la sua vittoria
contro il suo enorme avversario che, da quanto aveva capito, era
stato suo opponente anche al precedente torneo, alla finale.
Quei
due erano entrambi accaniti fan di Leo, avrebbero dovuto fondare un
fanclub per lui.
“Raffaello
è stato davvero fantastico. Vincerà
lui” si intromise nel loro
discorso, giusto per vedere le loro reazioni.
Ue
si limitò a stringere le labbra in una linea sottile, non
osando
contraddire una persona che non conosceva bene, mentre Steve
spalancò
gli occhi di meraviglia e poi alzò un sopracciglio
scetticamente.
“Lo
dici solo perché sei innamorata di lui! È ovvio
che tu lo
sostenga!” sbottò senza ritegno il moccioso, lui
che se lo poteva
permettere.
Isabel
sorrise furbescamente.
“Allora
devo pensare che voi siate innamorati di Leo?”
domandò trattenendo
le risate, mentre loro arrossivano e si inalberavano per la sua presa
in giro.
Steve
iniziò a dirgliene di tutti i colori, abbassando la voce
perché il
sensei e il Daimyo non lo sentissero, e lei in un primo momento
scoppiò a ridere, poi si congelò, dimentica di
tutto: c'era il
gelo, ad avvolgerla.
Uno
sguardo freddo. Freddo e glaciale. Si sentiva scrutata, spiata e
tenuta sott'occhio. Ovunque si voltasse c'erano solo quegli occhi,
che la pressavano sempre più, ingabbiandola nella loro morsa
soffocante.
“Ehi!
Mi stai almeno ascoltando?” scoppiò la voce di
Steve, alterata,
infrangendo quella sgradevole sensazione.
Isabel
sgranò gli occhi, come sorpresa di trovarselo di fronte e si
guardò
velocemente attorno: i due uomini al suo fianco stavano finendo di
parlare tra loro, mentre i due ragazzini la guardavano straniti e
ancora un po' arrabbiati, chiedendosi palesemente cosa non andasse
in lei.
Era
tutto normale. Il boato e le grida della folla multicolore che
incitava per l'inizio del secondo round e le bandiere che garrivano,
perfino il vento sul viso, era tutto come poco prima. Che si fosse
immaginata tutto?
Il
gelo, l'oblio, la paura?
Da
una parte voleva parlarne con Splinter, ma le sembrava di star
nuovamente ingigantendo la situazione. Come quando si era sentita
seguita a New York. Ma d'altronde era impossibile essere seguita sia
laggiù che lì, in un posto nuovo;
perciò doveva esserselo davvero
immaginato.
Era
nel posto d'onore del Daimyo, era normale che qualcuno del pubblico
potesse aver guardato fin lassù e che lei avesse frainteso
l'intensità di quello sguardo.
Trasse
un profondissimo respiro per calmarsi e sentì il flebile
formicolio
del sangue che correva nelle vene, dopo quell'istante di puro
terrore.
Che
sciocca. Ultimamente stava davvero reagendo eccessivamente per ogni
cosa. Doveva darsi una calmata.
“Allora,
mi senti?” sbottò stizzito Steve, tirandole un
colpetto leggero
sulla fronte.
Era
rimasta a fissarlo in trance per interminabili attimi e lui se prima
si era infastidito, poi si era preoccupato della sua improvvisa
apatia.
Sentirono
entrambi un crepitio sferzare l'aria e gli sguardi furono attratti
dall'energia magica del bastone del Daimyo che colpiva nuovamente
l'arena: corse in circolo mentre la piattaforma si riaffossava e
trasformava nuovamente in gelido acciaio, i muri che sorgevano dal
nulla innalzandosi verso il cielo, dividendo lo spazio ottagonale del
ring in otto spicchi triangolari, perfetti e identici l'uno
all'altro.
Non
c'era alcuna traccia però dei partecipanti.
Ancora.
Con
lo stesso bagliore azzurro piccole chiazze apparvero dal pavimento,
due per ogni sezione, e i guerrieri sorsero da esse, emergendo dal
nulla. Erano già appaiati, dal caso questa volta.
Sentì
un mormorio eccitato dal lato dei ragazzini, ma non vi stava
prestando attenzione.
Ci
aveva messo pochi attimi per individuare Raphael, la sua pelle verde
scuro balzava subito agli occhi, e ancor di meno per sentirsi preda
di uno strano nervosismo: nel triangolo che sarebbe stato lo scenario
del loro scontro, Joi e Raphael si guardavano in silenzio, e perfino
da quella distanza poteva sentire la tensione che li divideva.
Il
colpo di gong risuonò nell'aria, ma Raphael lo
percepì solo
distrattamente. C'erano gli occhi verdi a tenerlo incollato al suolo
e concentrato.
C'era
uno scintillio predatorio nello sguardo di Joi che gli impediva di
muoversi, perfino di respirare.
Aveva
sperato che fosse stata sconfitta nel primo round. Aveva sperato di
non trovarsela di fronte nemmeno una volta. Aveva sperato di non
dover mai combattere contro di lei.
Ma
alla fine, quando le cose andavano nella direzione sperata? Mai.
La
donna prese l'arma che teneva legata in vita, un Kyoketsu-shoge: una
lunga corda assicurata ad un'estremità con un laccio e
dall'altra ad
un coltello a doppia lama, simile ad un Kunai.
Teneva
stretto in una mano il laccio che in genere serviva a legare l'arma
al corpo e con l'altra faceva roteare il coltello con un sibilo
minaccioso, senza staccare lo sguardo dal suo.
Raphael
non si fece pregare per sguainare i suoi Sai e mettersi in posizione
di attacco, imprecando mentalmente che le cose non andassero anche
peggio.
A
due cubicoli di distanza, Leonardo stava piegando il capo verso il
suo avversario, con un sorriso soddisfatto per lo scontro che lo
aspettava da lì a pochi secondi: aveva sempre desiderato
potersi
confrontare contro Faraji in un vero duello, quando erano stati
compagni durante l'allenamento con il ninja tribunal.
E
ora ne aveva l'occasione.
Nel
fondo dello stomaco aveva sempre sentito la pressione di scoprire chi
fosse il migliore tra loro, perché Faraji era stato l'unico
che
aveva sentito al suo livello di tecnica. Un desiderio infantile di
mettersi alla prova per stabilire un traguardo personale. Solo che il
vecchio Leo non avrebbe mai chiesto uno scontro senza alcun motivo
che non fosse appunto quella curiosità nel fondo della mente.
Ma
il nuovo Leo avrebbe gioito e approfittato dell'occasione
presentatagli.
In
un altro cubicolo triangolare, due tartarughe umanoidi si scrutavano,
senza aver ancora messo mano alle armi.
Mikey
sorrideva così tanto che probabilmente gli sarebbe rimasta
una
paresi facciale per sempre se non avesse smesso all'istante, mentre
Don si limitava a ricambiare il suo sguardo euforico con uno affilato
e apparentemente rilassato, seppure guardingo.
Sapeva
perfettamente che Michelangelo stava gongolando per aver avuto la
fortuna di trovarsi lui di fronte, certo che sarebbe stato una
bazzecola batterlo.
“Ehilà,
fratello. Bello trovarti qui” chiosò infatti
felice l'altro,
dandogli certezza dei suoi pensieri.
Mikey
si sentiva già la vittoria in tasca.
Donatello
allungò la mano oltre le spalle e prese il Bō
con presa salda: lo fece volteggiare senza sforzo in circonferenze
perfette nell'aria e attorno al corpo, attorniato dal sibilo morbido
simile a folate di vento.
Fermò
il bastone di colpo, poggiato contro un braccio.
Poi
sorrise apertamente e sfacciatamente, un sorriso che non si vedeva
spesso sulla sua faccia.
“Il
piacere è tutto mio, fratellino”
mormorò soavemente.
Negli
spalti e nel posto d'onore tutti trattenevano il fiato per
l'eccitazione crescente. C'erano altri cinque scontri che sembravano
promettenti, -come quel coniglio samurai che si sarebbe sfidato con
un essere con quattro braccia, ognuna che impugnava una sciabola
affilata,- ma Isabel non aveva occhi che per la battaglia di Raphael
e Joi, che si studiavano in silenzio.
Di
tanto in tanto gettava un'occhiata anche verso Leo e aveva sobbalzato
al vedere Donnie contro Mikey, desiderando tanto di poter seguire la
loro lotta che prometteva faville, ma non riusciva proprio a staccare
lo sguardo da Raphael.
Aveva
un'orribile sensazione nel fondo dello stomaco, e forse non era solo
per quell'ansia di essere spiata.
Mikey
sapeva che non gli sarebbe potuta andare meglio per quel secondo
round. Avrebbe dovuto combattere contro uno dei suoi fratelli e,
fortuna delle fortune, era il suo fratello maggiore più
docile e
facile da battere. Sarebbe stata una passeggiata.
Perciò
non riusciva proprio a smettere di sorridere. E sapeva che non
avrebbe dato sui nervi a Donnie come avrebbe potuto fare con Raph, ma
anche il genio aveva un limite di sopportazione piuttosto labile.
Aveva
già messo mano ai Nunchaku e li faceva roteare con
spavalderia,
attendendo il momento giusto per attaccare; stava in realtà
aspettando che fosse Donnie a fare la prima mossa per poter prendere
le giuste misure e calibrarsi al suo stile.
Ma,
dato che il genio sembrava sulla difensiva, pareva che toccasse a lui
smuovere un po' le acque.
Mikey
si lanciò contro il fratello con uno scatto deciso e
colpì col
Nunchaku dritto contro le sue gambe, mirando alla sua
stabilità: una
volta a terra sarebbe stato molto più semplice batterlo.
Ma
con un tocco sordo del suo bastone, Don parò l'attacco e con
un
gesto fluido usò l'altra estremità per caricare
contro la testa di
Mikey: con una sterzata rapida quello scansò e
indietreggiò di un
metro.
Il
suo sorriso non aveva ceduto di un millimetro.
“Sai,
Donnie, sono contento che tu sia arrivato al secondo round. Ero
preoccupato da morire che ti avessero buttato fuori al primo, come
è
già successo... molte volte” lo
punzecchiò, senza ritegno.
Voleva
che Don perdesse le staffe e la concentrazione e se per riuscirci
doveva essere un po' cattivo col suo fratellone, beh, lo sarebbe
stato.
Poi
si sarebbe fatto di certo perdonare.
Ma
Don gli rimandò il sorriso sereno di prima, senza fare una
piega.
“Voglio
dire, chi se lo sarebbe immaginato? Magari avresti avuto anche una
possibilità di vincere, se non ci fossimo dovuti scontrare
così
presto” continuò allora, sempre con quel tono
fastidioso.
Suo
fratello si portò all'attacco, con una stoccata dall'alto,
che Mikey
evitò scartando repentinamente a destra, poi ingaggiarono
una lotta
furiosa di parate e affondi, e per quanto Mikey cercasse di trovare
un angolo cieco per poterlo colpire sul serio, dovette ammettere che
Don era bravo.
Più
bravo di come si era immaginato, di quanto aveva visto negli
allenamenti. Che Don si fosse trattenuto apposta per non scoprire le
sue carte troppo presto?
Mikey
voleva vincere, doveva vincere.
Avrebbe
funzionato la carta del fastidio, se avesse continuato a
punzecchiarlo?
“Sono
davvero contenta di poter lottare contro di te, Raphael”
disse Joi,
mentre evitava un attacco deciso contro la sua testa, senza nessuno
sforzo.
Aveva
iniziato a combattere subito, Raphael. Perché voleva che
finisse
tutto al più presto possibile. E perché Joi aveva
iniziato a
parlare immediatamente e lui non voleva stare ad ascoltarla. Ma
avrebbe dovuto.
“So
che mi stavi evitando” continuò la donna, mentre
con poche mosse
scartava i suoi violenti attacchi, indietreggiando per lo spazio
triangolare dove erano confinati.
Raphael
non rispose. Come non aveva risposto fino a quel momento.
Non
aveva niente da dirle.
Si
lanciò contro di lei con più veemenza, con uno
stupendo gioco di
finte per poterla mettere alle strette, ma Joi era molto brava nella
difesa e sembrò leggere nella sua irruenza, riuscendo ad
evitare per
un soffio di essere colpita.
“Era
da tanto che volevo parlarti, Raphael” esclamò,
parando uno dei
Sai nella fune della sua arma. Lui indietreggiò per
impedirle di
ingabbiarlo e la fissò da una discreta distanza, con sguardo
affilato.
“Volevo
parlare di quello che è successo tra noi. Di quanto ti abbia
pensato. Di quanto sia stata male, per ciò che è
stato” insisté
Joi, che non sembrava davvero molto concentrata nella lotta.
E
quello infastidiva moltissimo Raphael.
Voleva
che lei desse il suo massimo, se proprio doveva stare lì a
cianciare. Voleva batterla senza nessun rimpianto, da nessuna delle
due parti.
Come
un desiderio di rivalsa, ma anche di chiusura.
Con
uno sbuffo sonoro percorse la distanza che li separava e
caricò coi
Sai, senza esitazione: Joi ne evitò uno e parò
l'altro con la sua
arma, poi sembrò stufarsi dell'andamento della lotta e del
suo
silenzio e con una spinta decisa lo allontanò da
sé e poi passò
finalmente all'attacco.
Facendo
ruotare il Kunai sopra la testa, diede corda e lo gettò
dritto di
fronte a sé ripetutamente, in lanci mirati e veloci:
Raphael, preso
alla sprovvista, si piegò a destra e a sinistra per eludere
gli
assalti. Eppure sorrise. Quello era lo scontro che cercava.
“Mi
sei davvero mancato, Raphael” confessò Joi al
vedere il suo
sorriso soddisfatto.
Leonardo
e Faraji erano avviluppati in una perfetta serie di attacchi e
parate, in un tripudio di tecnicità epica, tanto da sembrare
una
danza con un ritmo ben preciso.
Gli
occhi di molti erano calamitati su di loro e non solo perché
Leo era
il campione in carica. Stavano dando uno spettacolo di perfezione che
nessuno dei due sembrava deciso a far sfigurare.
“Sai,
Leonardo, sono davvero contento di potermi misurare contro di te. Era
una cosa che desideravo da tempo” confidò Faraji,
attento alla
traiettoria delle sue Katana.
Leo
sorrise brevemente mentre parava la lama della spada dell'altro con
una delle sue, felice di sapere che il sentimento di competizione era
lo stesso per entrambi.
L'arma
di Faraji era uno spadone a due mani dall'elsa elaborata rossa e
dorata in foggia di dragone, forse il retaggio delle origini
dell'uomo: era un'arma letale e stupenda e il suo proprietario sapeva
maneggiarla alla perfezione.
Leonardo
sapeva che non sarebbe stato semplice battere Faraji e la certezza di
vittoria era davvero lontana.
Avrebbe
dovuto stupire e stupirsi per poter vincere.
Il
tintinnio metallico delle loro armi risuonava ad ogni collisione tra
loro, assordante. Così forte da coprire i denti che
stridevano tra
loro nella morsa di furia, così forte da coprire il suono
del
batticuore per lo sforzo fisico.
Leonardo
si accorse che la loro lotta era diventata un po' troppo prevedibile
e che di quel passo nessuno dei due avrebbe mai prevalso sull'altro.
E lo scontro non poteva decisamente finire in parità.
Faraji
eseguì una spettacolare sequenza di affondi e stoccate
letali e
potenti, che lo fecero indietreggiare a grandi passi per la violenza
che si abbatteva contro di lui, in cerca dello spazio adeguato per
poter contrattaccare.
D'un
tratto, con un suono sordo e quasi inaudibile, il guscio
toccò la
superficie del muro, impenetrabile. Leonardo era spalle al muro,
nello spazio in cui le due pareti, incontrandosi, formavano un angolo
acuto.
Faraji
sembrò sorridere nel vederlo lì dove
probabilmente voleva chiuderlo
fin dall'inizio dalla lotta, dato che i due muri così vicini
avrebbero impedito a Leonardo di muovere con facilità le sue
Katana.
E
Leo mantenne solo per un secondo la faccia impassibile che aveva
dipinto in volto, prima di aprirsi in un grande sorriso.
Che
Faraji notò solo troppo tardi, quando ormai stava
già calando la
sua spada contro di lui.
Leonardo
saltò agilmente e rimbalzando sulle superfici attigue si
diede una
spinta sempre più in alto, tuffandosi poi oltre il suo
avversario
con un carpiato in avvitamento: con un colpo a forbice
centrò la
spada di Faraji dall'alto e la fece cadere dalla sua presa.
Una
volta atterrato alle sue spalle, Leo concesse a Faraji di voltarsi,
perché potesse guardarlo in viso. L'uomo sembrò
sorpreso dalla sua
mossa vincente, ma non dall'ultimo gesto onorevole.
“È
stata una bella lotta. Grazie, amico” mormorò il
mutante prima di fendere
la lama nella sua direzione, grato di vedere il sorriso di Faraji in
risposta, che esprimeva lo stesso concetto.
La
luce azzurra brillò portandosi via Faraji prima che venisse
colpito,
lasciando un vincente Leonardo da solo, a riprendere fiato.
Mikey
dovette ammettere che si stava divertendo.
Niente
stava andando come si era immaginato, dato che pensava di poter
buttare fuori Don facilmente, però era proprio per quello
che si
stava divertendo.
Donnie
stava dando il 100%, concentrato e determinato come non lo aveva mai
visto prima e lo scontro tra loro era uno dei migliori che avesse mai
avuto coi suoi fratelli. Di certo il migliore che avesse mai avuto
con Donnie.
E
perciò il sorriso che prima era stato canzonatorio, era
diventato di
contentezza.
Mikey
era molto veloce, i suoi attacchi si basavano soprattutto sulla
rapidità e l'imprevedibilità, perciò
Don era estremamente cauto e
sulla difensiva, coprendo con la lunghezza del suo bastone la
superficie del corpo per impedirgli di colpirlo con la punta del
Nunchaku, che avrebbe fatto male dato il rinforzo in ferro.
Però
continuare a difendersi non lo avrebbe portato alla vittoria, Don lo
sapeva. Stava aspettando il momento perfetto, la breccia nella
tecnica di Mikey che lo avrebbe portato in vantaggio.
Nel
frattempo, tutto ciò che si sentiva nel loro cubicolo era il
ticchettio sordo dei legni del Bō e quello dei Nunchaku, ogni volta
che si scontravano con violenza. Mikey aveva smesso di parlare per
punzecchiare Donnie, tanto sapeva che non avrebbe ottenuto niente con
quella tecnica. Forse non avrebbe avuto più nemmeno effetto
contro
Raphael, dato che ormai era diventato più tranquillo grazie
ad
Isabel.
Dannazione,
la carta del fastidio era la sua arma segreta!
Di
nuovo, si lanciò contro le gambe di Don con stoccate secche
dei
Nunchaku, mirando agli stinchi con precisione, ma il Bō bloccava
ogni attacco all'ultimo secondo senza sforzo; dopo una parata,
Donnie girò velocemente il bastone e attaccò
contro la sua testa,
ma Mikey lo bloccò inaspettatamente con la catena di un
Nunchaku,
lasciando cadere l'altro per la sorpresa.
Poi,
preso da un'idea improvvisa, avviluppò la catena attorno al
Bō,
bloccandolo nelle spire metalliche saldamente.
Il
suo sorriso durò solo mezzo secondo e non fu mai brillante
come
quello sul viso di Donnie.
Il
genio sembrò aver atteso quel momento da tutta una vita: con
uno
scatto energico ruotò il busto in una proiezione perfetta e
usando
il bastone come leva scagliò Michelangelo nell'aria, dritto
contro
il muro d'acciaio dell'arena.
Mikey
strillò a pieni polmoni, sia durante il volo che al momento
dell'impatto, e poi si accasciò a terra con un grugnito di
dolore e
imbarazzo, con un tocco sordo del guscio contro il pavimento.
Respirò
a fondo e in un paio di secondi riuscì a voltarsi per poter
guardare
verso l'alto, pronto a riprendere la lotta, ma ormai era già
decisamente troppo tardi: Donatello torreggiava su di lui, il bastone
dritto contro la sua testa, appena sollevato per mettere più
forza
nel colpo.
Sorrideva,
ma non era derisorio, solo fiero. Soddisfatto di sé.
Mikey
sospirò, chiudendo gli occhi al vedere il Bō calare
repentinamente
contro la sua faccia, implacabile: la luce azzurra dell'arena lo
avvolse prima della collisione, portandolo fuori da lì,
verso
l'inevitabile sconfitta.
Donnie
rimase da solo, in piedi, a guardare verso il punto in cui il suo
fratellino era scomparso, assorto.
Ci
volle qualche istante perché la verità lo
colpisse, infine: aveva
vinto contro Mikey.
Con
un grido di giubilo sollevò le braccia al cielo, con un
delizioso
calore al centro del petto che poche altre volte aveva provato.
Orgoglio,
caldo orgoglio. E fierezza.
Isabel
si portò le mani alla bocca, sopraffatta dall'emozione.
Si
era voltata un attimo, un secondo solo dalla lotta tra Raph e Joi che
infuriava senza pietà, e aveva assistito agli ultimi attimi
tra Don
e Mikey: Donnie aveva trionfato con una mossa fluida e sicura, che
forse nemmeno lui aveva pensato funzionasse, data la sua evidente
sorpresa mentre esultava.
Era
così felice per lui, così fiera di lui.
Ma
c'era un altro fratello di cui occuparsi, al momento.
Si
voltò verso il Daimyo e Splinter, con sguardo preoccupato.
“Posso
andare da Mikey, sensei? Vorrei vedere come sta”
domandò, senza
preavviso.
Era
vero che lo scontro di Raphael non era ancora finito e che rischiava
di perdere la fine, ma sentiva che Mikey aveva bisogno di qualcuno
della famiglia vicino a sé.
Il
maestro spalancò per un secondo gli occhi, ma al vedere la
genuina
preoccupazione di lei annuì solamente; ad un gesto della
mano del
Daimyo, una delle donne del suo seguito si avvicinò a
passetti
eleganti e si inchinò con rispetto.
“Porta
la nostra ospite all'infermeria, presto” ordinò
poi, indicando
verso Isabel.
Lei
si alzò con un po' di fatica per via della posizione sulle
ginocchia
che le aveva addormentato le gambe e del Kimono che un po' la
impacciava, ma con un sorriso di gratitudine e un grazie si
accodò
alla donna, più veloce che poté.
Quella
non parlò mai durante il tragitto, ma la sua cortesia si
notava dai
gesti e dalla delicatezza che emanava, mentre le faceva strada;
scesero per due rampe di una meravigliosa scalinata in marmo,
splendida come ogni dettaglio della magione del Daimyo, e infine la
donna si fermò alla fine di un lungo corridoio, davanti ad
una porta
color noce e con un inchino cortese le fece segno di entrare.
Isabel
ringraziò con un inchino profondo quanto il suo e
aprì l'uscio con
decisione: per un paio di secondi fu un tripudio di razze aliene e
multidimensionali, -tutti gli sconfitti fino a quel momento,- che si
erano voltati a guardarla, sorpresi nel vedere qualcuno entrare
nell'infermeria.
Sorrise
nervosamente mentre voltava lo sguardo attorno, finché non
trovò quello che cercava: Mikey era in piedi sul cornicione
dell'enorme apertura nel muro che permetteva la visuale sull'arena.
Si
incamminò verso di lui e poggiò una mano sulla
sua spalla, per
annunciare la sua presenza.
“Sei
stato bravissimo, Mikey” mormorò con tono
consolatorio, convinta
di trovarlo in preda alla tristezza.
Ma
lui si voltò e sorrideva splendidamente.
“Isabel!”
chiocciò felice, abbracciandola con trasporto, rischiando di
soffocarla con la sua irruenza.
Lei
ridacchiò rincuorata tra le sue braccia, ricambiando
l'affetto.
“Questo
si chiama perdere con stile” gli disse poi.
Mikey
la lasciò andare e fece spallucce, indicando poi verso il
basso,
verso l'arena.
“Guardalo,
come si fa ad essere arrabbiati?” esclamò puntando
verso Don, che
esultava ancora con un sorriso smagliante e soddisfatto.
Isabel
rise insieme a lui, occhieggiando anche lei il genio festivo, solo
nella sua limitata arena, che guardava a sua volta verso di loro. Gli
fecero un segno di saluto.
Poi
lo sguardo vagò brevemente sui solitari vincitori che
attendevano
pazientemente nei loro cubicoli e infine arrivò ad uno dei
pochi
scontri ancora in corso: Raphael e Joi erano ancora allacciati in una
battaglia furibonda, così concentrati da essersi dimenticati
di
tutto il resto.
Isabel
si irrigidì inconsciamente, mentre quel magone tornava,
prepotente.
Mikey
l'afferrò con un braccio e se la strinse contro, con affetto.
“Sei
preoccupata? Lo sai, vero, che Raphael ti ama?”
sussurrò
comprensivo, avendo percepito le sue preoccupazioni.
Isabel
annuì piano, commossa dalla sua premura.
“Deciditi
a rispondere, Raphael!” tuonò Joi, aggredendolo
con furia. Il
mutante scansò a destra e con una capriola si
allontanò di poco,
abbassando poi la testa per evitare il successivo attacco.
“Vorrei
che potessimo discutere e risolvere questa tensione!”
continuò la
donna, che non gli lasciava scampo, né nella pressione
fisica né in
quella mentale.
Raphael
si rialzò e si scagliò contro di lei con un Sai,
puntando contro la
sua gola, ma Joi si piegò in una perfetta capriola
all'indietro
all'ultimo momento, elegantemente; con un piede colpì la
mano di
Raphael e gli fece volare via l'arma per il contraccolpo.
“Mi
dispiace davvero molto per come mi sono comportata in
passato”
confessò mentre si rialzava, con un'espressione di sincera
contrizione.
“Mi
dispiace di averti ferito.”
Lui
si limitò ad inspirare con forza, per nulla impressionato
dalla
piega degli eventi, ma rafforzando invece la presa sull'unico Sai
rimastogli.
Si
scontrarono ancora e ancora, e per ogni scusa di Joi, c'era uno
sbuffo di Raphael.
Ma
se la donna era sempre più appassionata nello scusarsi, lui
era
sempre meno arrabbiato, solo scocciato.
Voleva
solo mettere un punto a tutto quello.
Aspettò
che Joi lo caricasse con la sua arma, pazientemente. Facendo
scivolare il piede di pochi millimetri evitò il Kunai e con
un gesto
secco afferrò la corda con la mano, con presa salda: con uno
strattone violento tirò e fece perdere l'equilibrio alla
donna, che
cadde al suolo ai suoi piedi.
Velocemente
bloccò le sue braccia con la fune della sua stessa arma e
Joi, oltre
la sorpresa, sembrò intimorita dall'enorme figura che
torreggiava su
di lei.
Raphael
si chinò, pronto ad usare il Sai per batterla
definitivamente. Ma lo
fermò appena prima di colpirla, inaspettatamente.
“Va
tutto bene, Joi. Non ho bisogno di scuse. Sono felice, adesso.
Davvero felice” le disse sinceramente, con un breve sorriso.
La
cosa successiva che Joi vide fu la luce azzurra dell'arena che la
avviluppava e quando quella scomparve, era in un posto nuovo,
circondata da moltissimi guerrieri. Un uomo in tunica bianca si
avvicinò per poterla controllare, per assicurarsi che non
fosse
ferita.
Joi
lo rassicurò con un gesto della mano e sospirò.
Era
stata sconfitta. Si voltò verso la grande apertura che dava
sull'arena e
sussultò al vedere Michelangelo e Isabel che guardavano
verso di
lei.
L'altra
donna la guardava con quegli occhioni scuri di una dolcezza
fastidiosa. Ebbe quasi il mezzo impulso di dirle una bugia su lei e
Raphael per rivalsa.
“Hai
lottato benissimo. Non ho staccato gli occhi dalla vostra lotta per
un secondo” confessò Isabel, forse nel tentativo
di farla sentire
meglio.
Joi
sbuffò sottilmente, piegando la testa di lato. Si
voltò e iniziò
ad incamminarsi verso l'uscita dall'infermeria a passo spedito.
Poi,
di colpo, si fermò con la mano sulla maniglia.
“Ho
perso contro di te. E non abbiamo nemmeno combattuto”
esclamò,
prima di aprire la porta e sparire oltre.
Isabel
guardò confusa verso Mikey, che fece spallucce.
Dagli
spalti arrivò il boato della folla in tumulto e si voltarono
immediatamente, per capire cosa stesse succedendo: tutti gli incontri
erano terminati, lasciando gli otto vincitori ognuno nel suo spazio
ad esultare verso loro e gli spalti con orgoglio.
Leonardo,
Donatello e Raphael avrebbero continuato il torneo.
Note
dal torneo:
La
seconda arena è un ottagono diviso in otto sezioni
triangolari (come
una deliziosa pizza!)
In
ogni spazio sorgono dal pavimento due sfidanti, grazie al potere del
Daimyo: le accoppiate sono decise completamente dal caso (o forse il
Daimyo lo decide, ma fa finta di nulla? XD)
Ho
messo una foto per aiutare nella comprensione, nel caso non sia
riuscita a spiegarmi per bene.
L'arma
di Joi è una Kyoketsu-shoge,
leggermente modificata. Una Kyoketsu-shoge originale ha ad una delle
estremità della corda un anello in ferro e dall'altra un
coltello a
doppia lama e una piccola lama ricurva verso l'interno. Quella di Joi
ha un laccio da una parte, che lei usa per legarla alla vita e
dall'altra un Kunai.
Note
di me:
Salve
a tutti.
Chiedo
innanzitutto scusa a tutti voi che seguite la storia per essere
scomparsa per più di un mese, sono mortificata. So che siete comprensivi con
me e so di non meritarmelo. Purtroppo i problemi di salute mi
tengono lontana, ma non ho smesso di pensare a voi e alla storia
nemmeno per un secondo. Io finirò questa storia e questa
serie, ve
lo prometto.
E
spero di non dover approfittare della vostra pazienza ancora.
Grazie
di cuore, sapere che dopo tutto questo tempo ancora siete qui con me
mi riempie di gioia!
Abbracci
a tutti
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Capitolo 11 *** Break (1): Of Love, Friend and Fear ***
L'arena
scomparve repentinamente, mentre le grida di giubilo e il tifo degli
spettatori riecheggiavano ancora con fragore.
Isabel
vide Leo, Raph e Don guardarsi intorno e accorgersi l'uno degli
altri, con dei grossi sorrisi fieri per essere ancora tutti
lì: nel
mezzo secondo in cui i primi due si resero conto della mancanza di
Mikey, sollevarono automaticamente le facce verso l'infermeria e
incontrarono lo sguardo del fratello battuto, al suo fianco.
Leo
salutò con la mano, mentre Raph ghignò contento e
canzonatorio.
Mikey gli rivolse una linguaccia con tutto l'ardore possibile.
Da
sopra le loro teste, udirono d'improvviso squillare una voce, che
Isabel non aveva ancora sentito fino a quel momento. Gyoji prese
parola, rivolto verso i partecipanti.
“I
seguenti guerrieri avanzeranno ai round finali della competizione:
Leonardo,
della terza dimensione, Terra.
Trebor,
della dimensione Philliun.
Usagi,
della seconda dimensione, Terra.
Donatello,
della terza dimensione, Terra.
Wraiti,
della dimensione...”
Mikey
e Isabel stavano assistendo alla proclamazione degli otto vincitori
che avrebbero avuto accesso al terzo round, ognuno declamato per nome
e per il luogo d'origine, così che tutti potessero
conoscerli. E
sapere i nomi per le scommesse che ne sarebbero conseguite.
Notando
lo sguardo confuso di Isabel, si affrettò a spiegarle.
“Adesso
annunciano i nomi e le dimensioni dei finalisti e poi daranno una
pausa perché possano riposarsi un po' prima della prossima
gara.”
Isabel
distolse lo sguardo dall'arena e lo puntò verso di lui,
splendente.
“Vuoi
dire che posso andare da Raffaello?” domandò
emozionata, già
fuori di sé. La sua mano corse verso il braccio di Mikey,
afferrandolo stretto.
“Sì,
non appena-”
“Andiamo,
portami da lui!” lo interruppe quella, trascinandolo
già via.
Le
ultime frasi di Gyoji arrivarono alle loro orecchie sempre
più
ovattate.
“Gli
otto finalisti devono presentarsi alla base dell'arena, esattamente
tra 1 megaquargon!”
Isabel
lo aveva già trascinato oltre la porta dell'infermeria,
quando la
sentì esclamare confusa: “Quanto è un
megaquargon?”, facendolo
scoppiare a ridere.
Una
volta fuori però, lei sembrò confusa sulla strada
da prendere,
perciò Michelangelo prese il comando e la scortò
fino all'entrata
del palazzo, chiacchierando nel frattempo con lei e lamentandosi per
essere già fuori dalla competizione, anche se non gli
dispiaceva poi
così tanto aver perso contro Donnie.
Ma
aveva scommesso davvero tanto su sé stesso! Aveva i soldi
per rifare
la scommessa?
Arrivarono
alla scalinata principale, proprio di fronte all'entrata. Isabel
scrutò le persone che si intravvedevano al di là
del grande portone
e riconobbe Raphael, poggiato contro il muro con nonchalance.
Si
gettò letteralmente giù per le scale, con piccoli
balzelli a piedi
uniti per via del Kimono, tanto che perfino Mikey si
preoccupò di
sgridarla.
“Ehi!
Piano o ti romperai l'osso del collo!”
Isabel
arrivò in fondo incolume e si affrettò a coprire
la distanza fino a
Raphael, gettandoglisi praticamente tra le braccia. Quello non
aspettava altro: la sollevò per la vita in aria, con un
grosso
sorrisone felice.
Quando
la rimise a terra la strinse a sé e la baciò
appassionatamente,
intensamente.
Erano
persi nel loro mondo, fino a che una voce petulante non
arrivò alle
loro orecchie.
“Piantatela
di essere schifosamente felici in pubblico, voi due! Mettete a
disagio le persone tristi come me!”
Raphael
si allontanò riluttante da Isabel, ma mentre la teneva
ancora tra le
braccia, si voltò verso il fratello a pochi passi da loro,
con un
ghigno cattivo in volto.
“Tu
sei triste perché sei un perdente, Mikey!”
chiosò contento,
gongolando un po'. Isabel gli tirò un colpetto di
disapprovazione al
braccio, ma lui fece finta di nulla.
Michelangelo
sorrise ancora di più alla sua uscita, con un perfetto
aplomb.
“Farai
meglio a pregare di non trovarti Don contro, al prossimo round.
È
diventato la versione Rambo di sé stesso e non ti
darà tregua
finché non avrà vinto. Tartaruga
avvisata...” gli confidò
cospiratorio, ignorando i suoi tentativi di dargli sui nervi.
Era
lui che dava sui nervi a Raph e non viceversa.
“Certo,
certo, se ci credi tu...”
“Raffaello!”
lo sgridò Isabel, decisa a mettere fine al loro battibecco.
Il
mutante si irrigidì appena per il suo tono, poi sorrise.
“Ok,
ho di meglio da fare che stare qui a discutere con te. Io e Isabel
andiamo in giro per il mercato e tu non sei invitato,
ovviamente!”
Sussultò
al sentire il pizzicotto contrariato che lei gli rifilò in
un
braccio, ma di nuovo fece finta di nulla. Mikey era ancora lì che li
guardava
con espressione contenta.
“Come
se volessi fare da terzo incomodo nella coppia diabete. No, grazie,
raggiungerò Tora e Adam e mostrerò loro i
dintorni” esclamò
allontanandosi da loro, salutandoli distrattamente.
“Cerca
di non attaccare briga con nessuno e di arrivare in tempo per il
terzo round!” si raccomandò poi, quando era
già discretamente
lontano.
Raph
sbuffò dal naso, come se le raccomandazioni di Mikey fossero
sciocche.
“Lui
deve stare attento. Ogni volta, ad ogni torneo, si mette nei guai con
un alieno diverso.”
Si
voltò verso Isabel, ancora stretta nel suo abbraccio.
“Andiamo?”
Lei
annuì felice e una volta mano nella mano, i due si
incamminarono giù
per la stradina che portava per la cittadella che sorgeva attorno al
palazzo del Daimyo e all'arena.
Donatello
stava camminando per le stradine affollate concentrato solo sul
bigliettino che teneva in mano. Per quel motivo sbatté un
paio di
volte contro alcuni passanti, affrettandosi a scusarsi con
sollecitudine.
Poi
l'attenzione ritornava al biglietto, sui caratteri alieni che non
sapeva proprio decifrare. In tutte le volte che era stato al Nexus,
non gli era mai venuto in mente di creare un dispositivo per tradurre
simultaneamente le scritte in altri alfabeti dimensionali. Beh, lo
avrebbe fatto una volta tornato a casa, per certo.
In
quel momento però, doveva assolutamente cercare di capire
cosa quel
miscuglio di trattini e curve volessero dire, alzando ogni tanto la
testa per vedere se qualche scritta fuori dai locali combaciasse con
gli scarabocchi.
Quel
messaggio gli era stato consegnato da uno dei servitori del Daimyo,
pochi minuti prima, quando stava per lasciare l'arena con tutti gli
altri.
Con
un po' di imbarazzo, appreso che non capiva per niente cosa ci fosse
scritto, Don aveva dovuto chiedere all'uomo se poteva tradurre per
lui.
“Ti
aspetto al locale chiamato Mipanur. Jhanna” aveva letto
quello con
volto impassibile. Con un sorriso contento per aver compreso di avere
un appuntamento con Jhanna, Don si era fatto indicare la strada e
quali segni sul foglio componessero il nome del locale,
incamminandosi poi immediatamente dopo aver ringraziato.
E
tuttavia era da un bel po' che vagava e vagava, senza riuscire a
capire dove andare. Che avesse sbagliato strada?
Controllò
con occhio attento sia a destra che a sinistra, cercando di far
combaciare le insegne con la scritta e infine, con un mezzo grido di
esultanza, trovò esattamente il locale che cercava: a
sinistra,
proprio dopo un carretto di quelli che parevano frutti alieni, sotto
la stessa scritta che cercava a caratteri cubitali, di un acceso
color giallo.
Ripiegò
il messaggio e lo infilò nella taschina della tuta,
incamminandosi a
passo spedito e baldanzoso. Aprì le porte in ferro ed
entrò,
fermandosi poi per controllare gli avventori: due alieni arancioni
chiacchieravano tra loro con suoni gutturali ad un tavolo poco
distante, mentre al bancone del bar, che si ergeva proprio al centro
della stanza in forma semi-ovale, c'erano molti più clienti,
in
piedi a sorseggiare e parlare tra loro. In un angolo una piccola
orchestra di fiati suonava una musichetta allegra, ma non invadente.
Lo
sguardo vagò velocemente sulle pareti in pietra dall'aria
rustica e
sulle piccole rientranze che formavano privati separé,
alcuni dei
quali occupati da coppie in atteggiamenti romantici.
Fu
in una di quelle rientranze che intravvide l'aliena dalla pelle blu
che stava cercando. Jhanna, che si era accorta della sua entrata,
stava guardando diretta verso di lui, staticamente in attesa. Ovvio,
lei non era il tipo di donna che cercava di attirare le attenzioni.
La
raggiunse con pochi passi e salutò con un gesto della mano
impacciato. Sentiva la gola secca e deglutì a vuoto, ma
ancor di più
si sentiva idiota per essere così nervoso.
Ma
gli occhi scuri di Jhanna lo facevano davvero sentire teso.
“Sono
felice che tu sia venuto, Donatello” lo salutò
lei, le piene
labbra blu incurvate in un piccolo sorriso cortese.
Il
mutante si sedette di fronte a lei e immediatamente un alieno con
squame rosse e una cresta ossea nella fronte si avvicinò
loro,
poggiando con cortesia due boccali con un liquido violetto al loro
interno.
Jhanna
parlò fitto con l'uomo per qualche secondo in una lingua che
lui non
capì, poi quello se ne andò e li
lasciò da soli. Don fu contento
che lei avesse ordinato per entrambi, perché non avrebbe
saputo come
farlo da solo, né cosa chiedere. Quella bevanda violetta
poteva
anche essere benzina, per quello che ne sapeva.
Non
era così improbabile che qualcuno di quegli alieni bevesse
qualcosa
di simile alla benzina terrestre, in fin dei conti.
Nel
silenzio più puro e imbarazzante, entrambi bevvero dai
boccali; con
somma sorpresa, Don scoprì che la bibita sapeva di
melagrana, con un
retrogusto amarognolo.
Centellinò
la bevanda, prendendo tempo.
Era
felice di poter parlare con Jhanna, dato che lei era sparita dalla
sua vita senza nemmeno un saluto: si era sempre chiesto cosa ne fosse
stato di lei e se stesse bene, ma dopo sette anni senza un contatto,
non sapeva proprio come iniziare a dialogare, come rompere il
ghiaccio, cosa gli fosse concesso chiedere.
“Bello
questo posto. Sembra la cantina di Star Wars!”
esclamò di getto,
dandosi uno sguardo attorno.
Captò
lo sguardo di Jhanna farsi curioso, le sopracciglia incurvate.
“Quale
guerra stellare?” domandò confusa, cercando di
ricordare.
Don
si accorse dell'incomprensione e ridacchiò tra sé.
“No,
scusa, è una cosa del mio pianeta.”
Jhanna
prese per buona la sua spiegazione, perché non
insisté, poi rimase
a guardarlo mentre arrossiva per la stupidaggine con cui se n'era
uscito, che lo faceva sentire ancora più nervoso.
Quando
c'era da agire e aiutare qualcuno in pericolo, lui sapeva cosa fare,
era sempre attento alle mosse e alle altrui esigenze, ma doveva
ammettere che quando si trovava a parlare da solo col genere
femminile, tutta la sua intelligenza gli si rivoltava contro,
rendendolo solo più conscio e imbranato.
Fu
come al solito Jhanna a tagliare via le indecisioni, con quel suo
carattere deciso che per fortuna non si era smorzato col tempo.
“Non
credevo ti avrei più rivisto, Donatello, ma ne sono
felice.”
Lui
quasi si strozzò nell'ingollare il sorso, sorpreso dal tono
accorato
di lei. Quel sorriso e quella dolcezza non gli erano familiari, in
Jhanna: l'aveva conosciuta in un momento in cui per lei esisteva solo
lo scontro contro Moriah e la preparazione per esso. Non aveva mai
sorriso né mostrato tenerezza, nel loro incontro,
perciò era strano
vederla in atteggiamenti normali e pacifici, con un sorriso tenue e
affabile.
Ma
gli piaceva, quella Jhanna. E si scoprì curioso di saperne di
più su
di lei, perciò si schiarì la gola e disse:
“Anche
io sono contento. Mi sono chiesto spesso come stessi, cosa ti potesse
essere successo… raccontami, hai detto di essere diventata
la
regina del tuo pianeta, e dopo?”
La
donna non sembrò turbata dalla sua domanda, era stata lei a
menzionare la cosa durante la loro lotta, in fin dei conti.
Fissò il
liquido violetto dentro il bicchiere, come se ci stesse ripescando
dentro le sue memorie.
“Avendo
sconfitto Moriah acquisii il diritto a regnare sulla mia gente, non
lo chiamerei proprio essere una regina, ma le decisioni spettavano di
certo a me. C'era così tanto da fare: Moriah e la sua
famiglia
avevano prosciugato le risorse del popolo e affamato i più
poveri
fino a farli morire di stenti. La sua condotta aveva così
accresciuto anche l'indice di criminalità, che in una razza
orgogliosa e propensa alla lotta come la mia, sfociava in vere e
proprie guerre armate contro chi aveva anche solo un tozzo di pane
più di te.
È
stato difficile, all'inizio. Ricostruire tutto, risanare la fiducia
della gente, ridistribuire le ricchezze e le terre e riportare tutto
ad un livello accettabile di sopravvivenza. Ma ci siamo messi
d'impegno e con forza e costanza ce l'abbiamo fatta.
Dopo
abbiamo discusso a tavolino per cambiare alcune cose…
ricordi
quando tu mi dicesti che sceglievate i vostri leader con dei voti e
che io ti risposi che era di certo equo, ma noioso? … Beh,
mi
sbagliavo.
Abbiamo
introdotto un sistema simile al vostro, anche se la parte dello
scontro fisico non è stata eliminata del tutto: i candidati
vengono
scelti dal popolo e dopo alcune votazioni, i finalisti devono
confrontarsi in una battaglia… in questo modo gli sfidanti
saranno
fidati e le nostre tradizioni guerriere non andranno perdute.
Ecco
perché io non governo più: sono stata battuta
alla finale
dell'ultima elezione e quando mi è stata offerta l'occasione
di
partecipare al Battle Nexus mi sono sentita libera di
parteciparvi.”
“Sei
stata battuta? E il nuovo regnante com'è? Ha le tue stesse
idee per
il benessere del tuo pianeta?” domandò Don
leggermente
sconcertato, perché davvero la parte del combattimento non
aveva
molto senso per lui in un'elezione.
Sembrava
più il tipo di mondo che si addiceva a Raph.
Jhanna
sorrise, incontrando il suo sguardo e leggendoci la sua premura per
un pianeta che nemmeno conosceva.
“Sì.
È mia sorella. Abbiamo le stesse identiche idee e visioni su
cosa
sia giusto e cosa no, ma lei è stata più forte
nel combattimento.
Perciò sono stata fiera di passarle il governo, so che
sarà
all'altezza e forse anche meglio: ha aperto una rotta commerciale con
altri mondi per alcune delle nostre tecnologie, che sono il nostro
orgoglio.”
Aveva
parlato con così tanta fierezza, per la sua gente, per sua
sorella,
per i loro pregi, che si era illuminata in volto.
Don
occhieggiò distrattamente il congegno che lei aveva poggiato
sul
tavolo, quel cilindro che si era precedente trasformato nella lancia
di energia che aveva usato per combattere, ma che sapeva potesse fare
ben di più: poteva tradurre simultaneamente qualsiasi
linguaggio,
comunicare anche a grandissime distanze con altri congegni simili,
creare bolle di contenzione statica. Il mondo di Jhanna doveva essere
davvero avanzato e più di una volta lui si era chiesto fino
a che
punto.
“Sono
contento. Sembra un bel posto, il tuo pianeta, mi piacerebbe poterlo
visitare un giorno.”
Gli
era sfuggito, di cuore. Un desiderio sfuggito dalle sue labbra, ma
che sembrava una richiesta, a ben pensarci. Sperò che lei
non la
prendesse per il verso sbagliato, fraintendendola.
Quello
che non si era aspettato era che il sorriso di Jhanna diventasse
più
ampio, di trionfo.
“Vieni
con me sul mio pianeta, Donatello. È quello che volevo
chiederti,
fin dall'inizio” mormorò, lo sguardo scintillante
nel suo.
Così
scintillante che nonostante stesse bevendo, Donatello si
ritrovò a
deglutire a vuoto, la gola arida.
Jhanna
vide l'aria spaesata di lui e si affrettò a spiegarsi.
“Non
ho mai incontrato uno come te.”
“Verde?”
“Speciale.”
Non
sapeva esattamente che colore avesse quando arrossiva, ma Don seppe
che non era verde oliva né rosso. Si sentiva la faccia in
fiamme e
immaginò di essere di un livido verde scuro.
“Sei
intelligente e allo stesso tempo forte eppure anche dolce... non
esistono uomini come te sul mio pianeta. Ti piacerebbe, potresti
studiare tecnologia aliena che non hai mai immaginato e allenarti con
alcuni dei guerrieri più forti dell'universo. E
noi… potremo
conoscerci meglio.”
C'era
incredibilmente caldo, nella stanza. Sul suo viso. O nel suo petto.
Forse
aveva smesso di respirare mentre assorbiva incredulo la confessione
così sentita e sincera della splendida donna davanti a
lui… e lui
che diamine aveva fatto per attirare le sue attenzioni? Non poteva
essere tutto uno sbaglio?
Respirò
a fondo e aprì la bocca per provare a rispondere, a dire
qualunque
cosa che spezzasse quel silenzio imbarazzato in cui l'aveva lasciata.
Ma più pensava a quanto la situazione la stesse mettendo a
disagio,
meno sembrava capace di spiccicare parola.
Ma
Jhanna non era affatto a disagio.
“Le
mie attenzioni ti stanno infastidendo, non è
vero?” indovinò con
voce tranquilla.
“No!
No, io… non sei tu. Sei fantastica e io non so davvero
perché tu
sia così interessata a me, non so che-”
“C'è
qualcuno nella tua vita, Donatello, ho ragione?”
Per
un secondo Don poté giurare che tutto si fosse fermato, le
chiacchiere che non capiva degli alieni attorno a loro, la musica
allegra e flautata dell'orchestrina, il rumore dei cocktail mesciuti
dal barista con tre braccia dietro al bancone. E con un sospiro
incredulo, lasciò andare un segreto che si era tenuto dentro
da
un'eternità, qualcosa che nemmeno i suoi fratelli avevano
mai
capito.
Ma
che non era sfuggito agli occhi attenti di Jhanna, che quando lo
guardavano, erano attenti ad ogni sfumatura che tutti gli altri
semplicemente non notavano.
“Ecco,
sì… c'è una persona che è
molto importante per me, per la quale
farei qualunque cosa” confessò con imbarazzo,
grattandosi il collo
con fare nervoso.
“Una
persona fortunata.”
Il
sorriso di Donatello si fece amaro, per un attimo.
“Non
lo sa. Non potrà mai esserci nulla e io non voglio
perderla.”
Era
strano confessare finalmente quel sentimento e ancor più
strano
farlo davanti a Jhanna. Si sentì un po' indelicato nel
declamare il
suo amore per un'altra persona di fronte all'unica che aveva mostrato
interesse per lui.
Ma
Jhanna non parve turbata dalle sue parole, solo molto confusa.
“Se
provi dei sentimenti per questa persona, perché non ti batti
per
prendertela? Non esistono nel vostro mondo i duelli per
amore?”
sbottò a voce alta, sbattendo con troppa forza il boccale
contro il
tavolo.
Don
fu sorpreso solo per il primo mezzo secondo, poi si ricordò
delle
inclinazioni belliche della razza di Jhanna e nella mente gli
passò
l'idea che forse lì non solo le diatribe politiche si
risolvessero
con una lotta; probabilmente perfino per decidere una compagna o per
conquistare quella scelta c'erano dei duelli e il più forte
vinceva
l'amore della bella.
“Non
mi piacerebbe vincere l'affetto di una persona con la forza”
ammise
delicatamente, cercando di non offenderla.
Jhanna
ridacchiò e Donnie pensò che la sua risata avesse
proprio un bel
suono caldo.
“Allora
non posso cercare di ottenere il tuo sfidando questa misteriosa
persona” disse con sguardo malizioso, che lo fece avvampare
completamente.
Il
ghigno soddisfatto della sua reazione gli fece sospettare che Jhanna
si stesse divertendo a metterlo in imbarazzo, tutto sommato.
E
quello era un altro aspetto di lei che non conosceva.
“Ma
se vorrai mai cambiare idea, e vorrai darmi una chance, sarai sempre
il benvenuto nel mio mondo, Donatello” aggiunse con dolcezza,
una
dolcezza che mostrava solo a lui.
Si
sentì profondamente lusingato e con un timido cenno del capo
annuì
e le sorrise.
“Sì,
forse un giorno, perché no?”
Isabel
e Raphael avevano gironzolato per le viuzze della cittadella e si
erano fermati di qua e di là a guardare le varie bancarelle
e i
negozi, con entusiasmo. La donna aveva comprato dei souvenir che
aveva riposto nella tasca nascosta della manica del Kimono.
E
nel mentre avevano chiacchierato e Isabel aveva raccontato tutto
quello che aveva visto dall'alto e si era informata su quello che lui
aveva provato durante gli scontri, ascoltando con attenzione ogni sua
parola.
Era
stata brava fino a quel momento. Raphael sorrideva e non si era
accorto di nulla.
Del
suo sorriso forse un po' troppo entusiasta, delle sue spalle tese,
dello sguardo che vagava un po' troppo in giro, guardingo.
La
pressione che sentiva le bloccava anche il respiro, perciò
far finta
di nulla la stava dilaniando: da quando aveva messo piede fuori dal
palazzo del Daimyo, quello sguardo si era rifatto vivo.
Insistente.
Avvolgente. Aggressivo.
Uno
sguardo freddo che la braccava, seguiva ogni suo passo e movimento,
la testava; freddo e verde. Non seppe perché quel colore le
fosse
venuto alla mente, ma quando chiudeva gli occhi e respirava a fondo
per impedirsi di urlare, era un verde intenso e glaciale a pitturare
la sua paura.
Si
accorse che Raphael aveva rallentato il passo per gettare un'occhiata
verso un angolo della piazzetta che stavano attraversando: c'era un
folto gruppo di vari alieni che confabulava tra loro a voce alta,
passandosi sacchetti e foglietti.
“Le
scommesse si fanno serie, da adesso” disse Raph, tirando
avanti con
indifferenza.
“Oh,
e visto che sei in finale mi consiglieresti di puntare su di
te?”
gli domandò, cercando di isolare il senso di disagio per
focalizzarsi solo su di lui.
“Io
vincerò questo torneo. Ma non ti farò puntare un
soldo nelle
scommesse, scordatelo!” attestò fin troppo serio,
stringendo la
presa sulla sua mano.
Isabel
rimase piacevolmente colpita dal suo evidente disgusto per le puntate
clandestine e sorrise sinceramente, mentre gli trotterellava dietro a
piccoli passetti.
Per
un paio di secondi persino il magone si era sciolto, solo per poi
tornare più prepotente che mai.
Le
sembrava quasi di sentire una presenza seguirla passo passo, ad una
distanza indietro, ma troppo vicino.
E
quando sentì davvero un suono di passi dietro a loro, si
irrigidì
inconsciamente.
“Credi
davvero di poter vincere, piccoletto?” tuonò una
voce potente alle
loro spalle, roca e minacciosa.
I
sensi di Isabel scattarono e un'esplosione di adrenalina corse per le
vene, con un movimento sciolto lasciò andare la mano di
Raphael e
afferrò i Tessen infilati nell'Obi, saltando al contempo
all'indietro: aprì i ventagli liberando il bordo tagliente,
fendendo
l'aria contro il suo avversario.
Ci
fu uno scoppio di urla improvvise e un gran tafferuglio: un paio di
mani la afferrarono al volo per la vita, mentre la visuale era
affollata da canne di fucili di fattura aliena.
Il
gigantesco triceratopo umanoide che aveva quasi colpito al collo la
guardava con sorpresa mista a ilarità, le grandi manone a
tre dita
in alto in segno di pace; le guardie che lo accompagnavano, invece,
non sembravano affatto divertite e continuavano a puntare le loro
armi contro Isabel, statiche e attente.
“Scusa,
Trax, la mia ragazza sa essere aggressiva quando vuole”
sentì dire
a Raphael, che ancora la teneva a mezz'aria. Il grosso alieno sorrise
bonario.
Isabel
abbassò le armi lentamente, mentre il cervello iniziava a
capire.
“Vi...
conoscete” constatò stupidamente, sentendosi
avvampare.
Raphael
la appoggiò al suolo con garbo e lei mise via i Tessen, con
un gesto
meccanico. Le guardie abbassarono i loro fucili, cautamente,
continuando però a tenerla d'occhio.
“Questo
è Traximus, una vecchia conoscenza del Battle Nexus e un
caro amico.
Trax, lei è Isabel, la mia aggressiva ragazza” li
presentò,
ridendosela.
Lei
gli tirò un buffetto offeso al braccio, prima di allungare
la mano e
afferrare quella tesa dell'alieno, che ricambiò con una
stretta
gentile ma sicura.
Traximus
era un triceratopo umanoide poco più alto di Raphael e
ugualmente
muscoloso, con la pelle arancione scuro e una cicatrice rossa sopra
l'occhio sinistro; era particolarmente elegante nel suo bell'abito
dalle tonalità terrose, di certo retaggio del suo pianeta.
“Sei
un Triceraton” constatò Isabel, invece di una
formula di rito o un
saluto. Traximus sorrise e annuì, Raphael invece si
voltò verso di
lei con un'espressione sorpresa, poi sollevò le sopracciglia
in
preda all'illuminazione.
“Oh,
sì! L'invasione della terra da parte dei
Triceraton… ecco come fai
a conoscerli. Ma noi non ci conoscevamo ancora, dov'eri tu durante
l'incursione?” le domandò con premura, calcolando
a ritroso che
stavano parlando di quasi otto anni prima.
Isabel
aveva quindici anni, allora.
“Stavo
scappando da Gregor, ero arrivata in Nuova Zelanda. Non c'erano molti
Triceraton laggiù, ma seguivo le notizie dell'invasione ai
notiziari
locali. Avrei voluto fare qualcosa, ma non potevo usare i miei poteri
senza rivelare la mia posizione” raccontò lei e
Raphael fu felice
di vedere che non c'era l'ombra dei fantasmi del passato nel suo
sguardo.
“Mi
dispiace per quello che la mia gente vi ha fatto” si
scusò con
sincerità Traximus. “Vi assicuro che non
accadrà mai più niente
del genere.”
“Trax
è il nuovo primo ministro dei Triceraton e lui è
un tipo in gamba,
leale e onesto, anche se dal suo brutto muso non sembra”
aggiunse
Raph, ridendosela.
Isabel
si sentì ancora più in imbarazzo per come si era
comportata,
soprattutto perché era stata solo una reazione per il suo
nervosismo
per il sentirsi spiata.
“Oh,
scusa se ti ho attaccato, mi dispiace molto. Non era mia
intenzione-”
Traximus
la interruppe con un gesto cortese della mano, accortosi della sua
vergogna.
“Nessun
problema. Mi fa piacere sapere che Raphael ha trovato una donna che
gli sappia tener testa e che lo possa togliere fuori dai guai, ogni
volta in cui ci si infilerà.”
Sorrise
della faccia indignata dell'amico, il sorriso di prima ormai sparito.
“Posso
invitarvi a bere
qualcosa insieme e scambiare un po' di chiacchiere?” aggiunse
sinceramente.
Raphael si
illuminò alla
richiesta, non vedeva l'amico da molto tempo e non gli sarebbe
dispiaciuto accettare il suo invito, ma era con Isabel e non sapeva
se lei se la sarebbe presa.
Si voltò a guardarla,
aspettando una sua risposta, sperando segretamente che lei
acconsentisse.
“Perché
voi due non andate
da soli? Sono sicura che avrete moltissimo da raccontarvi e io ne
approfitterò per raggiungere il sensei: mi ha richiesto una
pomata
per una vecchia ferita che vendono esclusivamente qua al Nexus e sono
sicura che sarà contento di averla il prima
possibile” affermò la
donna pacatamente.
I due
uomini sembrarono
colpiti dalla sua uscita, e si preoccuparono entrambi che in
realtà
non fosse solo un gesto di cortesia.
“Sei
sicura che-”
“Se
vi ho disturbato, io-”
Isabel li fermò agitando le
mani, sorridendo sinceramente.
“Mi
farebbe davvero piacere
se voi due andaste a parlare dei bei vecchi tempi assieme. Io devo
davvero andare” assicurò con voce accorata.
“È
stato un grande piacere
conoscerti, Traximus. Sono sempre felice di conoscere gli amici di
Raffaello.”
L'alieno ricambiò il sorriso
e la stretta di mano di lei, con gentilezza. Poi Isabel di
voltò per
salutare Raphael, che ancora sembrava titubare della situazione.
“Sicura
che non vuoi che ti
accompagni?” le chiese preoccupato. Lei scosse la testa con
decisione.
“Comportati
bene” gli
disse sporgendosi per dargli un bacio a fior di labbra, che
però lui
trasformò in un bacio passionale stringendola a
sé.
“E
non fare tardi al terzo
round” riuscì a dire quando lui la
lasciò, con le guance rosse
per l'imbarazzo.
Raphael si limitò a
rispondere col suo mezzo ghigno pieno di confidenza, poi raggiunse
Traximus e si incamminò con lui, chiacchierando animatamente.
Isabel rimase a guardarli un
attimo con un gran sorriso, un delizioso senso di felicità
nel
cuore.
D'improvviso,
il respiro le si
mozzò in gola e mentre il panico cresceva nel petto si
trovò a
cercare di inalare l'aria con fatica. Stava tremando.
La pressione maligna di prima
si era moltiplicata, intossicando l'aria tutto attorno. Era ovunque.
Era più forte.
Con uno scatto deciso si
incamminò più veloce che poté, diretta
verso il palazzo del
Daimyo: doveva fare in fretta, doveva mettersi al sicuro.
Lasciare Raphael indietro e
allontanarlo da sé era stata una mossa intelligente, ma
sperò
davvero di farcela a mettersi in salvo prima che quella cosa,
qualsiasi cosa fosse, la prendesse.
Note:
Allora,
nella serie tra il
secondo round e il terzo c'è stata una pausa. Non so se sia
una cosa
consueta o solo una situazione necessaria dato quello che accadeva al
Nexus in quel momento, ma ho voluto mettere una pausa anche nella mia
storia.
Così si possono vedere anche
delle interazioni oltre alle lotte.
Adoro il modo in cui hanno
rappresentato il mercato, molto pittoresco e colorato. Vi metto
alcune foto.
Mi
è piaciuto moltissimo
scrivere “l'appuntamento” tra Don e Jhanna: lei
è una diretta e
decisa e fa quello che vuole quando vuole. Le piace Don e non glielo
manda certo a dire.
Ma Donnie a quanto pare ha già
qualcuno nel cuore. Scommetto che non ve lo aspettavate!
Il
personaggio di Traximus è
uno dei miei preferiti, di certo è il mio Triceraton
preferito (al
secondo posto metto Zog, grandissimo guerriero). Ho pensato di
renderlo il nuovo primo ministro, dopo che lui e i ribelli hanno
sconfitto Zanramon e gli hanno tolto il potere; si era dimostrato
onesto e giusto, tanto che perfino il braccio destro di Zanramon
aveva deposto le armi e si era unito a lui.
Traximus era fedele al primo
ministro, all'inizio, ma mise in questione la politica oppressiva del
nuovo governo e perciò venne imprigionato nell'arena del
mondo dei
Triceraton e divenne un gladiatore per il divertimento altrui. Con
gli anni Traximus perse volontà e il senso dell'onore, che
riacquistò solo dopo l'incontro fortuito con le turtles.
Nello scontro contro di loro,
lui e i suoi compagni si rifiutarono di combatterli, e quando le
turtles riuscirono a fuggire creando un gran caos, Traximus e gli
altri ne approfittarono per scappare.
Successivamente le reincontra
al Nexus durante il torneo e viene sconfitto da Raphael, e poi aiuta
quest'ultimo a salvare Splinter dai sotterranei del palazzo.
Quando la repubblica dei
Triceraton invade la terra, Traximus e alcuni ribelli sono riusciti
ad infiltrarsi, con lo scopo di fermare la pazzia di Zanramon.
Ovviamente le turtles si uniranno a loro, più che volentieri.
Tanto amore
per Trax!
Con il
discorso degli anni a
ritroso, mi sono accorta che non ho detto quanti anni abbiano in
questa storia e se non avete voglia di farvi il conto, ve lo dico io:
Casey 32,
April 31,
Leo, Raph, Don e Mikey 24,
Isabel 22,
Angel 21,
Steve 16,
Carl 3.
Le
scommesse per il torneo
proseguono:
CartoonKeeper
punta su Don
vincente; Altair invece su Leo; Sarajane mi è sembrata
indecisa tra
Don e Raph, ma ci mette in mezzo anche Leo… chi pensate
vincerà?
Si aggiunge Gru, anche lei
punta su Don!
Dopo la
pausa uno potrebbe
anche salutarci!
Mancano il terzo round, il
quarto e poi la finale… qualcuno arriverà fino a
lì, qualcuno di
loro potrebbe anche vincere? Cosa accadrà?
Ultimo, ma
non ultimo, un
disegno stupendo della bravissima Sarajane, che adoro e che poverina
esaspero tantissimo!
Ha una pagina tutta sua su fb,
che cresce pian piano: passateci, ci sono i suoi meravigliosi
disegni:
https://www.facebook.com/pages/Sarajane/386563768158774?fref=ts
Un mega
abbraccio affettuoso,
grazie per continuare a seguire la storia, per i vostri bellissimi e
dolci commenti, per i nuovi preferiti!
|
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Capitolo 12 *** Break (2): Of Fear, Honor and Duty ***
Isabel
camminava velocemente, facendo attenzione ai ciottoli della strada
per non inciampare con gli Zori, su cui non era pratica a muoversi.
Sorpassò
varie bancarelle e un gremito gruppo di persone che stava
contrattando sul prezzo dei prodotti, ma non stava prestando caso a
nessuno; continuava a tenere lo sguardo fisso davanti a sé,
nella
confusa babele di colori e forme che sfrecciavano via, il respiro
sempre più corto.
Era
divorata dal panico. Una sensazione antica che risvegliava in lei
orribili ricordi, immagini della sé stessa bambina che
fuggiva via
dalla morte, rannicchiata in cunicoli bui trattenendo il fiato,
terrorizzata da qualsiasi suono, qualsiasi sguardo.
Strizzò
gli occhi, cercando di scacciare via la sensazione di bruciore agli
angoli, il respiro corto e accelerato che non riusciva a fronteggiare
il bisogno di ossigeno; tutto stava diventando sfocato e l'angoscia
la pressava nella sua morsa, intorpidendole gli arti.
Doveva
farcela. Era cresciuta, era forte. Non poteva sprofondare di nuovo
nel baratro dell'inquietudine come la sé bambina.
Ma
se non poteva vedere cosa la stesse braccando, come poteva lottare?
Sollevò
appena il bordo del Kimono e cercò di spiccare una corsa, ma
lo Zori
destro sbatté contro un ciottolo sporgente e perse
l'equilibrio:
allungò automaticamente le mani in avanti per potersi
salvare con
una capriola, ma le lunghe maniche del Kimono le sventolavano davanti
al viso, complicando le cose.
Non
aveva nemmeno pensato a fluttuare, era già rassegnata a
sbattere
violentemente al suolo.
Due
braccia la afferrarono al volo e la tennero stretta con forza e
sicurezza, ben più di quanto consentito.
Isabel
voleva ringraziare e allo stesso tempo rimproverare lo sconosciuto
che l'aveva salvata e che si stava prendendo un po' troppe
libertà
nell'abbracciarla. Quando riuscì a prendere un respiro
abbastanza
profondo per acconsentire alla sua voce di non tremare per la paura
che ancora sentiva, lo allontanò da sé con garbo,
ma decisione.
“La
ringrazio, ma-”
Si
bloccò interdetta nel vedere il volto di Leo a pochi
centimetri dal
suo, felice di vederla, ma preoccupato da qualcosa.
“Stai
bene?” le domandò premurosamente. Il suo sguardo
vagò dietro di
lei, alla ricerca di qualcuno.
“Sì,
grazie. Io… stavo tornando al palazzo, ma mi sono persa e mi
sono
fatta prendere dal panico” spiegò, cercando di
suonare
convincente. Leo riportò solo un secondo lo sguardo su di
lei per
valutare le sue parole, poi continuò a scrutare per la
stradina
stracolma di gente, assorto. La sua domanda successiva era scontata
perciò non suonò troppo accusatoria alle sue
orecchie.
“Dov'è
Raph?”
“Si
è fermato a chiacchierare con un vecchio amico che ha
incontrato.
Forse lo conosci, un Triceraton di nome Traximus”
spiegò lei,
nascondendo i pugni chiusi dentro le ampie maniche.
La
sensazione di pressione sul cuore era diminuita nel momento in cui
era andata a sbattere contro Leo, ma non era sparita: da qualche
parte, quello sguardo glaciale e verde continuava a trattenerla nella
sua morsa.
“Uno
di quei bestioni mi ha buttato fuori al primo round”
grufolò una
voce profonda e nasale, piuttosto seccata.
Isabel
si voltò verso il rinoceronte umanoide che aveva parlato e
solo in
quel momento si accorse che Leo non era solo: cortesemente curiosi e
in silenzio, al suo fianco, c'erano il coniglio che aveva visto
battersi contro Tora, il rinoceronte di prima e una gatta umanoide.
Tutti e tre erano vestiti con Kimono da Samurai del Giappone feudale,
anche se le loro fogge diverse indicavano una certa differenza di
classe; avevano tutti al fianco una coppia di spade, una lunga e una
corta.
Leonardo
doveva essersi reso conto della sua maleducazione, perché si
affrettò a presentarli, come si conveniva.
“Loro
sono amici da una differente dimensione della terra: Usagi
Miyamoto”
indicò il coniglio, che si inchinò con rispetto:
la sua Hakama era
nera, mentre l'Hakamashita azzura aveva dei distintivi circolari con
uno stemma a tre cerchi neri sul petto e sulle maniche; il suo pelo
era bianco e gli occhi gentili scuri, e le lunghe orecchie erano
legate in alto da una striscia di tessuto.
“Tomoe
Ame.” Questa volta fu la donna gatto a inchinarsi. Il suo
Kimono
era della stessa forma di quello di Usagi, ma più elaborato:
interamente viola scuro, di tessuto pregiato, gli stemmi ricamati con
filo robusto che formavano l'impronta stilizzata di un animale, forse
un panda; la sua postura era elegante, gli occhi castani intelligenti
e magnetici e il pelo dall'aspetto morbido color beige creava un bel
contrasto con i lunghi capelli neri, -le orecchie da gatta
spuntavano tra tutto quel nero, appuntite e vigili.
“E
lui è Gennosuke Murakami.”
Il
rinoceronte non si chinò quanto gli altri, ma
piegò appena il capo.
Il suo Kimono era il più logoro e consunto, grigio chiaro
con la
Hakama nera, gli stemmi così consumati che si faticava a
capire per
bene il disegno impresso; la sua pelle era grigia scura e strizzava
gli occhi in continuazione, forse per focalizzare bene; quello che
più si notava era che il grande corno sul suo naso era stato
tagliato di netto, a pochi centimetri dalla base.
Tutti
e tre avevano quattro dita per mano, una in più di Leonardo
quindi,
ma una in meno degli esseri umani.
Si
inchinò profondamente in segno di rispetto, usando il loro
rituale
per presentarsi.
“Molto
lieta di conoscervi. Gli amici di Leonardo sono i miei.”
“Io
sono Isabel C-”
Usagi
la interruppe con un gesto cortese.
“Leonardo-san
ci ha già parlato molto di voi, Isabel-sama”
sentì dire alla
donna gatto. La voce di Tomoe era squillante e sicura.
Isabel
spalancò un attimo gli occhi, sorpresa dalla loro
formalità e
dall'appellativo inatteso.
“S-sama?
Cosa… cosa gli hai raccontato, Leo?” lo
sgridò mentre quello
sussultava in imbarazzo, cercando di fermare un suo possibile scatto.
“Io…
solo la...”
“Leonardo-san
ci ha detto che siete una regina, non è la
verità?” domandò
confusa Tomoe, occhieggiando dubbiosa verso il mutante, non credendo
possibile che l'amico avesse potuto mentire.
“Sì,
io… sì, è vero” ammise suo
malgrado, capendo che stava solo
complicando le cose. “Ma davvero non c'è nessun
bisogno di
formalità o titoli, solo Isabel va bene. E il tu.”
Sorrise
alle loro facce sorprese, Tomoe sembrava dubbiosa di riuscire a fare
una cosa del genere, le si poteva leggere in viso.
“O
come si usa dalle vostre parti, potete aggiungere un -san, se vi fa
sentire meglio.”
La
sua ultima frase sembrò metterli un po' più a
loro agio, e Isabel
si chiese quanto rigida potesse essere l'etichetta dei Samurai, se
non riuscivano ad accettare di lasciar perdere i titoli nemmeno se
richiesto.
“Leonardo-san
ci ha anche detto che sei stata scelta per il Battle Nexus,
Isabel-san, ma che hai scelto di non partecipare” si
intromise
Usagi, che pareva dispiaciuto di non avere avuto la
possibilità di
vedere come combatteva.
Lei
sorrise con aria mortificata, incassando appena le spalle. Non voleva
giustificarsi ancora e non sapeva come avrebbe poi potuto; aveva
semplicemente avuto altro per la testa e la sensazione che non
dovesse accettare quell'invito.
Perché
non si sentiva degna. Pensava ancora che ci dovesse essere stato uno
sbaglio nel suo invito, perché lei sapeva che non era al
livello dei
partecipanti. Prima era stata solo un'idea, ma dopo averli visti
combattere dal vivo era stata un'amara certezza.
“Ho
visto però il tuo combattimento contro Tora, Usagi-san, sei
stato
molto bravo” si affrettò a dire, per non sembrare
maleducata nel
non aver risposto.
“Sia
Tomoe che Usagi parteciperanno al terzo round. Sono quasi sicuro che
qualcuno di noi si scontrerà con uno degli altri”
aggiunse Leo,
con una strana aura di competizione.
“Contando
anche Raphael-san e Donatello-san, io sono certo che
accadrà”
rimbeccò Usagi, che aveva lo stesso sorriso pieno di
anticipazione
che piegava le labbra di Leo.
“Io
sono fuori, ma questo non mi impedirà di
scommettere!” intervenne
Gennosuke, mentre tirava fuori da una manica un sacchetto che fece
tintinnare con aria predatoria.
“Vuoi
scommettere anche tu, signorina?” aggiunse, puntando verso
Isabel.
Lei
strabuzzò per un attimo, presa di sorpresa dall'insolita
offerta.
“Non
sta bene chiedere una cosa del genere ad una lady, Gen” lo
rimproverò Usagi corrucciando le sopracciglia.
“E
conoscendola, punterebbe su Raph, comunque”
proseguì Leo, con tono
lievemente seccato, occhieggiando verso di lei.
“Il
che è uno spreco di soldi perché lo
butterò fuori il prima
possibile.”
Isabel
lo pizzicò nel braccio brevemente, arricciando il naso come
faceva
sempre quando le faceva perdere le staffe.
“Non
vuoi ancora finirla di rivaleggiare con lui?”
“Mai.”
Isabel
sollevò gli occhi al cielo, ma gli angoli della sua bocca
erano
incurvati all'insù, trattenendo il sorriso rassegnato al
vederne uno
canzonatorio sul viso di Leo.
“Basta
che non vi facciate male.”
“Non
posso prometterlo… ahia!”
Ci
fu un leggero coro di risatine.
Era
bello stare lì a chiacchierare con loro, Usagi, Tomoe e Gen
sembravano delle belle persone e di certo avrebbe voluto fare loro
molte domande sia sul loro mondo, -una dimensione ancora immersa nel
periodo feudale, ma con animali antropomorfi, sembrava
incredibilmente interessante,- sia sul torneo e sulle loro lotte; ma
non poteva.
Sentiva
un ronzio fastidioso nella testa, come se una forza stesse cercando
di penetrare la sua barriera mentale, scontrandoci contro per creare
una breccia e invadere così la sua mente.
E
faceva male.
Era
un dolore fisico in mezzo alla fronte che le faceva balenare una
miriade di puntini gialli nel campo visivo, che provava a scacciare
via strizzando gli occhi di tanto in tanto, senza attirare troppo
l'attenzione.
Non
poteva rischiare che Leo se ne accorgesse, così com'era
stata
attenta che Raphael non lo notasse; non poteva preoccuparli in quel
momento. Alla fine del torneo, o se uno di loro fosse uscito prima,
allora li avrebbe messi al corrente e avrebbe cercato il loro aiuto.
Il
pensiero che uno di loro potesse distrarsi per colpa sua e perdere
non era semplicemente giusto.
Doveva
solo andare via da lì e rifugiarsi nella sicurezza del
palazzo del
Daimyo, nell'abbraccio protettivo che emanava.
Perciò
doveva congedarsi.
“É
stato davvero un piacere conoscervi e non vedo l'ora di vedervi
lot-”
“Perché
non rimani con noi? Non manca molto al terzo round, ma potresti farci
compagnia” propose Leo, interrompendola.
“No,
davvero. Stavo tornando a palazzo, il sensei mi starà
aspettando,
ormai” mentì, certa che in realtà il
maestro non sapesse nemmeno
dove fosse.
“Allora
potremmo accompagnarti noi-”
“No,
sul serio. Sono sicura che non vedi i tuoi amici da molto e che avete
tanto da dirvi. Godetevi la passeggiata, il palazzo non è
distante
da qui.”
Leo
sembrava sul punto di ribattere ancora e Isabel si chiese se non
avesse poi mangiato la foglia e avesse capito che c'era qualcosa che
non andava. Forse solo a livello inconscio, dato che non le aveva
chiesto nulla nello specifico.
Ma
non l'avrebbe lasciata andare, se il suo sesto senso da ninja
continuava a dirgli che c'era qualcosa che non andava.
Per
tutta la conversazione, comunque, oltre allo sconosciuto sguardo
glaciale, erano stati gli occhi di Tomoe a non abbandonarla. Caldi e
intelligenti, la scrutavano con cortesia.
“Posso
accompagnare io Lady Isabel” si propose la donna gatto,
all'improvviso.
Isabel
non sapeva da dove iniziare a dissentire, se da quel Lady o se per
l'offerta, ma non ebbe il tempo di immettersi nella conversazione:
Usagi, al sentire che Tomoe voleva andarsene sembrò
adombrarsi,
anche se cercò di riprendere immediatamente la sua
compostezza.
“Sei
sicura? Non sei obbligata a farlo” intervenne Leo, che forse
aveva
inteso lo stato d'animo dell'amico.
Tomoe
annuì vigorosamente, ma con grazia.
“Nessun
obbligo. Mi farebbe piacere accompagnare Lady Isabel al palazzo. E
poi, anche io vorrei rientrare prima per meditare” rispose
con
cortesia.
Tutto,
in Tomoe, emanava compostezza. Non rigidità, ma elegante
decoro,
ligia alla sua educazione rigida, cortese nei gesti, ma decisa.
Isabel
aveva già capito che dovesse essere una guerriera
formidabile, non
era una consuetudine per una donna essere riconosciuta come Samurai,
perciò Tomoe doveva essere straordinariamente dotata.
Eppure,
nel modo in cui lo sguardo scintillava nel guardare Usagi, Isabel
comprese che in fondo era semplicemente una donna.
“Sarei
felice se Tomoe-san si volesse unire a me, allora” si
ritrovò a
dire, inaspettatamente. Sentiva, istintivamente, che la donna gatto
era fidata e leale e voleva conoscerla meglio. Si sorprese nel vedere
il sorriso spuntare sul viso di Tomoe e ne rimandò uno
identico.
Leonardo
e Usagi si scambiarono un'occhiata lievemente dubbiosa, ma entrambi
fecero spallucce, capito che non c'era niente da poter sindacare.
“Allora
ci vediamo al terzo round, Tomoe” disse il coniglio
antropomorfo,
con uno sguardo speranzoso.
Quella
piegò appena la testa ai suoi amici.
“Spero
di poter lottare contro uno di voi. A dopo, Usagi.”
Isabel
fece finta di nulla, ma aveva notato che nessuno dei due,
rivolgendosi all'altro, aveva usato suffissi onorifici di nessun
genere, il che indicava una certa intimità. E i loro
sguardi…
certo, era la sua piccola vena romantica a farglielo vedere, ma si
chiese cosa potesse esserci tra loro due. Poi si ricordò che
non
erano fatti suoi, anche se la domanda rimase nella sua mente,
fluttuante.
Si
inchinò con garbo anche lei, anche se più
profondamente. Al gesto,
Usagi sembrò trasecolare e si inchinò ancora di
più, interdetto.
“È
stato un piacere conoscervi. Seguirò il tuo prossimo
combattimento
con attenzione, Usagi-san, e in bocca al lupo a tutti e due.
Arrivederci anche a te, Gennosuke-san.”
Il
rinoceronte umanoide fece un buffo verso col naso, mentre si
inchinava un po' anche lui, poi i due gruppetti si separarono, gli
uomini continuarono nella direzione originale, occhieggiando solo
distrattamente verso di loro, mentre le due donne presero la
direzione inversa, verso le alte mura dell'arena.
Per
un po' risuonò solo il rumore dei loro passi sulla
pavimentazione
irregolare. Isabel era assorta nel focalizzare quella sensazione, nel
cercare di afferrare da dove provenisse: sapeva solo che si era
rimessa in moto insieme a lei, seguendola con discrezione ora che era
con Tomoe; chiunque fosse, o qualunque cosa fosse, voleva lei e lei
soltanto e ogni volta che un'altra persona le si avvicinava allentava
un po' la morsa, ma senza lasciarla andare mai completamente.
“Mi
dispiace se vi ho imposto la mia presenza, Lady Isabel”
pronunciò
sottilmente la voce di Tomoe, riportandola nella stradina affollata.
Si voltò per guardare l'altra, ma quella guardava dritta di
fronte a
sé, il mento alto e le spalle in dentro, marzialmente.
“No,
no, Tomoe-san, sono io a dovermi scusare per averti quasi obbligata
ad accompagnarmi. Ma sono contenta di poter passeggiare con te. Ma
per favore, niente lady, niente voi, va bene?” si
affrettò a
rassicurarla, gesticolando con nervosismo.
Tomoe
gettò uno sguardo fugace nella sua direzione, perplesso e
affilato.
Poi scosse la testa e i lunghi capelli neri ondeggiarono con grazia.
“No,
Lady, non posso farlo. La differenza di rango è
troppa.”
Isabel
sbuffò impercettibilmente col naso. Aveva già una
tremenda
emicrania e la testardaggine della donna gatto non la stava aiutando;
certo, anche lei poteva semplicemente smetterla di insistere, ma nel
profondo desiderava poter diventare amica di Tomoe, non essere
trattata come una sua superiore.
“Ma
se io e te avessimo lottato nel Nexus, allora mi avresti visto come
una tua pari, giusto?”
Tomoe
non rispose, stava pensando intensamente se avrebbe mai potuto fare
una cosa del genere; inclinò appena il capo di lato e Isabel
lo
prese come una risposta affermativa.
“Allora
un giorno mi piacerebbe davvero potermi misurare con te. E una volta
che mi avrai sconfitta potremmo essere semplicemente amiche”
esclamò pacificamente, con un grande sorriso.
Tomoe
sussultò per un secondo, presa di sorpresa.
Sembrò arrossire
lievemente, ma non ne era troppo sicura.
Camminarono
di nuovo in silenzio e Isabel si chiese se non l'avesse offesa con le
sue richieste; stava offendendo tutta la sua cultura, in fin dei
conti.
Il
silenzio, però, la innervosiva. Nel silenzio il tormento di
essere
spiata e seguita era intollerabile.
“Posso
farvi una domanda ardita, Lady?” chiese Tomoe, titubando per
la
prima volta. Non si era comunque voltata a guardarla, come se fosse
già troppo irrispettosa.
Alla
risposta affermativa di Isabel, continuò:
“Leonardo-san
nutre dei sentimenti per voi, ve ne siete accorta?”
Isabel
non pensava che avrebbe osato così tanto; doveva esserle
costata
tutta la sua determinazione.
“Sì,
lo so.”
La
sua brusca risposta non era stata intenzionale e se ne pentì
immediatamente, temendo di aver offeso Tomoe. C'era una certa
rigidità aggiunta nel suo modo di camminare che le fece
capire che
aveva ragione.
“Leo
è un caro amico e tra di noi abbiamo parlato di quel
sentimento. Io
non posso corrisponderlo, purtroppo, il mio cuore è
già di un
altro” seguitò con più dolcezza,
richiamando così la sua
attenzione. Le rivolse un sorriso di scuse, per averla offesa.
“Raphael-san”
precisò la Samurai, che evidentemente lo sapeva
già. Lei si limitò
quindi solo ad annuire.
“Mi
dispiace per Leonardo-san, ma è bello che voi possiate
scegliere con
chi stare anche se la vostra differenza sociale è
così elevata”
mormorò Tomoe, quasi sovrappensiero.
Isabel
si mordicchiò un labbro, riflettendo se avrebbe mai avuto
l'ardire
di chiedere cosa ci fosse tra lei e Usagi.
“Nel
tuo mondo c'è molta attenzione per la classe sociale e
l'onore,
vero?” indovinò facilmente, dato che era identico
al loro Giappone
feudale. Sapeva come si svolgessero i matrimoni a quel tempo e come
le famiglie influenti si sposassero in altre famiglie potenti. Un mondo
troppo inflessibile e severo, che non
riusciva a comprendere.
“Per
un Samurai l'onore è tutto. Non solo il proprio, ma anche
quello
della propria famiglia e quello della famiglia della persona che
sposa; non sono ammesse macchie, il disonore si lava con
l'Harakiri.”
C'era
così tanta durezza nella sua voce, che per un attimo Isabel
si
dimenticò perfino del misterioso inseguitore, ferita dalla
tristezza
della nuova amica. Era come se fosse rassegnata a dover vivere
quella vita, rassegnata a non avere niente di ciò che voleva.
Doveva
chiedere.
“Usagi-san
è un Samurai, non è vero?”
Tomoe
si fermò sorpresa e Isabel la sorpassò senza
accorgersene, poi si
voltò a guardarla. C'era un velo di diffidenza negli occhi
di Tomoe,
forse perché era stata scoperta, così facilmente.
Non si era
davvero accorta di come fosse evidente quello che provava per il
coniglio?
“Usagi
è un Ronin, un Samurai senza padrone. Da molti viene visto
come un
Samurai senza onore, per non essersi suicidato alla morte del proprio
signore. È destinato ad errare da solo fino alla morte,
vivendo una
vita povera e faticosa” raccontò tra i denti,
arrabbiata dalle
sue stesse parole.
Tomoe
stimava Usagi, Ronin o no, lo si capiva benissimo. Tomoe
probabilmente amava Usagi, onore o meno.
E
Isabel questo poteva capirlo. L'amare qualcuno al di là
della
ragione, delle differenze, del lecito.
Se
avesse potuto fare qualcosa per loro... le faceva male assistere ad
un amore che non poteva sbocciare a causa delle disparità
politiche
e sociali.
Ma
lo scintillio serio nello sguardo di Tomoe le disse che non avrebbe
accettato una sua intromissione, nemmeno se avesse potuto; avrebbe
continuato per la sua rotta, anche se forse l'avrebbe portata lontana
da Usagi, anche se probabilmente l'avrebbe vista sposata a qualcuno
che non amava, che non avrebbe mai amato.
Perché
era quello che ci si aspettava da lei.
Sentì
uno sconfinato rispetto per lei e anche tanta tristezza.
Il
palazzo era ormai vicinissimo, le alte mura sovrastavano i tetti
delle case, svettando verso il curioso cielo rosato del Nexus, che le
faceva ancora una strana impressione.
Ormai
il silenzio era sceso ancora tra loro, ma era un silenzio intimo, di
confidenze strette al cuore che le legavano; era un silenzio
avvolgente.
Il
grande portone apparve di fronte a loro, maestoso e tempio di
sicurezza, per Isabel.
Si
fermò solo quando fu sotto l'arco della porta, prendendo un
gran
respiro sollevato, sentendo quella morsa crudele sciogliersi appena,
allentare ancora un po' la presa.
Tomoe
non si era persa un secondo, con quegli occhi felini e intelligenti.
“Desiderate
che vi accompagni sopra, Lady?” domandò con
cautela, valutando la
sua reazione.
Era
come se la Samurai avesse capito che c'era qualcosa che non andava.
Come se sapesse.
Aveva
presentito qualcosa, aveva sentito quel gelido sguardo e la sua
malizia?
“No,
Tomoe-san, grazie; devo solo salire alcune rampe di scale. Grazie per
avermi accompagnata fin qui, ho apprezzato molto la tua
compagnia.”
L'altra
donna si inchinò profondamente e Isabel la imitò,
rialzandosi però
velocemente. Anche se un contatto fisico non era ben visto,
afferrò
una mano di Tomoe tra le sue e la strinse forte.
“Un
giorno verrò a trovarti nel tuo mondo e potremo lottare,
Tomoe-san.
E allora saremo amiche. Fino allora arrivederci e in bocca al lupo,
per ogni cosa” le disse con un gran sorriso, lasciando
l'altra
spiazzata e in imbarazzo per la sua irruenza, o forse per l'offerta.
Isabel
agitò la mano in segno di saluto e scappò verso
le scale, senza
esitazione. Non c'era nessuno in giro per il palazzo, nessuno dei
contendenti, nessuno del personale di servizio.
Solo
un silenzio spesso e lo scalpiccio dei suoi sandali sui gradini in
marmo, sempre più veloce.
Sì,
si sentiva più al sicuro dentro al palazzo, ma la presenza
non era
lontana e lì, da sola, le sembrava quasi che le stesse alle
spalle,
terrorizzandola. Cercò di salire sempre più in
fretta, senza
voltarsi mai indietro, concentrata solo nell'arrivare in alto, nel
raggiungere il sensei e il Daimyo prima possibile, come se ne andasse
della sua vita.
E
forse non era nemmeno così improbabile.
Cento
gradini e altri ancora, col respiro corto e il batticuore che premeva
senza più alcun controllo contro le costole, giù
per le vene; ad un
certo punto si aiutò anche con la levitazione, per essere
ancora più
veloce, per soffrire meno lo sforzo.
Con
l'impressione di grandi mani che volevano afferrarla che la spronava
a non fermarsi, neanche per un secondo.
Percorse
il corridoio verso la terrazza praticamente volando, occhieggiando il
rettangolo luminoso verso l'esterno come fosse una terra promessa; e
proprio per quello la sensazione di essere presa fu ancora
più
prepotente, più aggressiva.
Oltrepassò
la porta con un tuffo deciso, come un corridore spezza il traguardo,
poi si fermò improvvisamente, riprendendo fiato.
Il
Daimyo e Splinter erano ancora seduti dove li aveva lasciati,
impegnati in una fitta conversazione mentre sorseggiavano una tazza
di tè, completamente ignari di lei.
Ma
tutto, o quasi, era finalmente sparito.
Solo
in un angolo della sua mente, quel verde intenso continuava ad
esistere, a dirle che non sarebbe stata al sicuro per sempre.
Si
voltò verso la porta, scrutando al di là con un
brivido per la
schiena.
Adesso
sapeva che non se lo era immaginato, che c'era davvero qualcuno che
la stava tenendo d'occhio e che l'aveva seguita fin lì.
“Isabel,
figliola, già di ritorno?” attirò la
sua attenzione la voce del
maestro, guidandola verso di lui.
Rivolse
loro un sorriso, mentre prendeva posto al suo fianco.
“Sì,
sensei. Raffaello ha incontrato un vecchio amico e li ho lasciati
soli perché potessero parlare. Steve dov'è,
invece?”
“Ue
lo ha accompagnato a fare un giro per il palazzo, voleva mostrargli
tutti i suoi posti preferiti e la sua stanza” rispose
divertito e
commosso il Daimyo, che evidentemente era felice che suo figlio
avesse un nuovo amico della sua età.
Isabel
sperò che Steve non attaccasse a Ue il brutto vizio di fare
il
detective, che per lui era quasi una seconda natura.
Stava
per attirare l'attenzione del maestro per riferirgli tutto
ciò che
aveva percepito nella sua uscita, ma la voce squillante del ragazzo
la interruppe.
“Isabel!”
Steve
si precipitò al suo fianco, euforico e felice. Tutto quel
mondo lo
emozionava, lo intrigava: voleva esplorarlo, conoscere ogni cosa.
Sembrava che il giro del palazzo lo avesse meravigliato e reso ancora
più smanioso.
“Cosa
ti sei persa! Ci sono almeno trecento stanze e devi vedere la loro
palestra! E la stanza di Ue è un tempio delle arti marziali,
ne ha
centinaia, e sono stupende! E-”
La
voce del Daimyo interruppe lo sproloquio del ragazzino, anche se
senza alcuna cattiveria.
“È
arrivato il momento del terzo round. Gyoji, raduna gli otto
finalisti” ordinò all'etereo servitore, che con un
inchino
scomparve in una bolla di luce.
Steve
e Ue si erano seduti al suo fianco con trepidazione, gli sguardi
già
verso l'arena ancora vuota, parlottando tra loro, mentre il sensei e
il Daimyo se ne stavano impettiti ad aspettare il momento in cui i
guerrieri sarebbero apparsi.
Isabel
aveva perso il momento per parlare. E in fondo, lì col
Daimyo, la
sensazione era diventata solo un flebile fastidio, non c'era nessuna
possibilità che chiunque fosse potesse decidere di fare una
mossa
proprio in quel momento.
Non
c'era alcun motivo di preoccuparsi. Sarebbe rimasta lassù
per tutta
la durata del torneo, senza allontanarsi mai per nessun motivo, e una
volta terminato, avrebbe parlato con il sensei e il Daimyo, con
Raphael e tutti gli altri e avrebbe raccontato loro tutto, cercando
il loro aiuto.
Niente
l'avrebbe smossa da lì, per nessun motivo. Sperava.
Note:
Seconda
parte della pausa.
Isabel
incontra dei nuovi amici, ma che per noi sono vecchie conoscenze.
Usagi,
Tomoe e Gen, dal fumetto Usagi Yojimbo. Non so quanti di voi abbiano
letto i fumetti ( e se l'avete fatto palesatevi, non conosco nessuno
e io li adoro.)
Personalmente,
i personaggi che io muovo sono basati più sul fumetto
che sulla
loro versione animata e c'è differenza.
Usagi
nel cartone è piuttosto rigido, sembra quasi un manichino;
mentre
nel fumetto è più sciolto, anche simpatico, con
una punta di
sarcasmo che non guasta. Ha a cuore le persone più
sfortunate ed è
implacabile contro i cattivi e si relaziona benissimo coi bambini e
gli animali. È comunque sempre ligio all'onore e si fa in
quattro
per aiutare chi è in difficoltà, ma come ogni
samurai, ha delle
regole di codice ed etichetta da seguire. Anche se un ronin, Usagi
continua a vivere secondo l'onore dei samurai.
Gennosuke
è anche lui un po' diverso. O meglio, la facciata di persona
menefreghista e avida di soldi è identica, peccato che nel
fumetto
venga approfondito il suo personaggio e si riesca a capire che
è
solo una maschera. Che c'è di più nel suo
personaggio. Non mi
vergogno a dirvi che io lo adoro, nasconde così tante buone
qualità
e un gran cuore. Fa il cacciatore di taglie, perciò la sua
strada si
incrocia spesso con quella di Usagi, con somma disperazione di
quest'ultimo che ogni volta viene invischiato nelle sue beghe e si
trova quasi sempre a rimetterci soldi e fatica. Ma sono un'accoppiata
geniale!
Tomoe
Ame è completamente diversa nel cartone. Sembra una un po'
idiota,
non molto capace a difendersi da sola (perciò ancor meno
capace di
proteggere il suo signore) e anche un po' petulante. (Appare
nell'episodio della terza stagione: the real world part 1.)
Invece
nel fumetto Tomoe è una donna fenomenale. Una delle poche
donne a
cui è concessa una vita da samurai e di presenziare alle
riunioni
formali del suo signore, nonché primo capitano delle sue
truppe. Lei
e Usagi si sono scontrati in lotta tre volte: la prima da bambini, ha
vinto lei. Da adulti, senza ricordare quell'episodio da bambini, si
sono risfidati ed è finito in parità. E della
terza non viene
mostrato l'esito. Comunque si ritiene che la sua tecnica e quella di
Usagi si equivalgano, perciò non è da
sottovalutare.
È
dedita a proteggere Lord Noriyuki, il suo signore, da varie
cospirazioni, a volte anche con l'aiuto di Usagi. É severa,
ma
giusta, divertente, anche dolce e comprensiva e tuttavia ostinata e
agguerrita. Mi piace il suo personaggio.
Shippo
lei e Usagi da morire, vorrei tantissimo che finissero assieme, ma
non so se succederà. Loro mostrano via via sempre
più attaccamento
uno all'altra, ma ci sono tante cose che fanno capire che forse non
si metteranno assieme. (e Usagi viene disegnato un po' troppo
sciupafemmine nel fumetto, troppo troppo.)
Il
giappone in cui si muovono è praticamente identico al
nostro, nel
periodo feudale. Ci sono perciò le caste dei Samurai, le
stesse
etichette guerriere, gli stessi credo; l'unica cosa diversa
è
appunto che al posto degli umani ci sono degli animali antropomorfi,
tutto qua.
(In
alcuni fumetti, le turtles, soprattutto Leo, finiscono in questo
mondo, con ovvie conseguenze: in uno, Mikey si chiede come mai ci
siano degli animali antropomorfi come conigli e rinoceronti, ma altri
come i cavalli sono ancora animali e vengono usati come mezzo di
trasporto. Ah, Mikey, sempre il solito dal buon 1984!)
I
samurai portano due spade, una corta e una lunga: la prima è
chiamata Wakizashi, la seconda è la katana. Insieme vengono
chiamate
Daishō,
cioè
lungo-corto. La katana era portata al fianco, nella parte opposta al
braccio dominante, mentre la Wakizashi era portata davanti
all'addome, in quanto ritenuta “guardiano
dell'onore”, ossia la
lama con cui il samurai compiva l'harakiri.
L'harakiri
o seppuku è la pratica giapponese del suicidio rituale. Il
samurai
che aveva perso in battaglia, il cui signore era morto o aveva perso
i suoi favori, doveva suicidarsi per far sì di non perdere
l'onore:
dato che credevano che l'anima risiedesse nel ventre, lo tagliavano
con la Wakizashi, con un taglio prima orizzontale da sinistra verso
destra e poi verso l'alto. Tutto, per mostrare la purezza dell'anima.
In molti casi c'era un altro uomo che aiutava il samurai,
decapitandolo nel momento di massimo dolore, perché non lo
mostrasse
in volto.
Anche
le donne delle famiglie samurai potevano fare Harakiri se la famiglia
veniva svergognata o se erano prese come ostaggi per evitare di
essere stuprate o torturate: in quel caso però, il taglio
era nella
giugulare, perché il ventre di una donna era la culla della
vita ed
era irrispettoso tagliarlo.
L'Hakamashita
è una sorta di giacca giapponese, quasi un kimono
più corto. In
genere non arriva oltre il bacino, perciò può
essere usato in
coppia con l'Hakama, un pantalone
piuttosto ampio, a pieghe.
In
giappone l'etichetta è importante, soprattutto nel modo di
parlare.
Ci sono vari modi che prevedono formalità di gradi diversi a
seconda
della persona con cui si parla e i suffissi per rivolgersi a qualcun
altro sono praticamente obbligatori. Anche tra amici, anche tra
famigliari.
Il
-san è neutro e rispettoso, perciò è
il più usato. -Sama, il
suffisso che usa Tomoe all'inizio con Isabel, indica un grande
rispetto, è come rivolgersi a qualcuno chiamandolo vostra
maestà.
In genere si usa per parlare ad una persona di rango reale o nobile.
(A
Lady Isabel ho riso tantissimo, non mi ricordavo di averlo scritto e
mi fa venire in mente Atena dei cavalieri dello zodiaco! XD)
Il
cognome di Isabel. Viene interrotta mentre sta presentandosi, ma non
c'è niente dietro. In realtà veniva detto
già nella prima storia,
ma lo eliminai in fase di correzione, perché non era
essenziale. Non
lo è nemmeno adesso in effetti. Comunque, più
avanti verrà detto.
Non è niente di che, nessun mistero.
Ok,
scusate per le note lunghissime, ma ci tenevo a spiegare bene questi
personaggi che adoro e un po' del loro mondo. Sono certa che alcuni
queste cose le sapevano già, ma sempre meglio spiegare.
Siamo
alla fine della pausa. Isabel ha paura, ma aspetta la fine del torneo
per poterlo infine dire a tutti e cercare il loro aiuto e nel
frattempo noi vediamo chi ci sarà nel prossimo round. Se vi
fate i
conti sapete già tutti gli otto sfidanti (i nomi dei
personaggi
inventati sono nel capitolo 11) tranne uno che ancora non ho
nominato.
Quindi,
adesso si ritorna a lottare!
Le
scommesse continuano (ragazze, mi fate morire, vi adoro!): alcuni di
voi cercano di fare considerazioni logiche del perché e
percome uno
o l'altro debba vincere, mentre altri vanno a simpatia! In entrambi i
casi: grazie, la vostra partecipazione mi commuove.
Piwy
si aggiunge e punta su Donnie anche lei (ha un nutrito fan club!)
Perdonatemi per l'imbeccata, ma per ora la persona di cui Don
è
innamorato non si saprà, posso solo dirvi che è
davvero davvero
cotto!
Grazie
ancora e sempre a chi legge, a chi commenta, ai preferiti e i
ricordati. Alla terza storia ho l'impressione che vi siate un po'
stufati, perciò grazie. Chi sopravviverà fino
alla quarta? Beh, io
la serie la voglio mettere tutta, spero di rimanere sempre
all'altezza delle aspettative e che fino alla fine convinca. L'happy
ending per tutti è alla fine della serie, in fondo.
Un
grandissimo abbraccio! A presto
|
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Capitolo 13 *** Round 3: Old enemies ***
Gyoji
apparve alla base dell'arena in una bolla di luce azzurra, circondato
dagli otto finalisti:
Leonardo,
Donatello, Usagi, Tomoe, Raphael, un alieno dalle fattezze da
lucertola, un altro che pareva un uomo fatto di terra e rocce, e un
Triceraton dall'aria aggressiva.
Ci
fu un silenzioso scambio di sguardi tra tutti e otto, e qualche
sorrisino sfuggito tra vecchi avversari che si rincontravano.
C'era
una tale anticipazione, una sottaciuta aura di competizione che li
attraversava tutti, mentre quietamente aspettavano l'inizio, alzando
ogni tanto il capo per guardare verso gli spalti o il posto d'onore.
“Benvenuti,
nobili guerrieri, alle fasi finali del torneo del Battle
Nexus”
disse prontamente Gyoji che ancora galleggiava in mezzo a loro,
alzando le braccia al cielo: al centro dell'arena si sollevò
un
anello di energia azzurra, fluida, che ribollendo si espanse e
crebbe, materializzandosi in una piattaforma di spesso acciaio di
forma ottagonale, imponente, enorme.
Fluttuava
a qualche metro dal suolo, eppure solida, stabile.
Un
nuovo fiotto di magia si elevò dalla sua cima e il fluido
azzurro si
condensò questa volta in un'arena più piccola,
quadrata, divisa da
due pareti che correvano per i suoi angoli, creando quattro cubicoli
triangolari perfettamente identici.
I
nuovi spazi dove avrebbero combattuto.
“Per
poter iniziare, tutti gli scontri dovranno essere determinati da
un'estrazione casuale” continuò Gyoji, agitando il
suo ventaglio
elegantemente, creando da nulla una sfera azzurra della stessa
materia liquida e tuttavia incorporea che aveva formato la nuova
arena.
La
bolla galleggiava a mezz'aria, la sua superficie si increspava e
vorticava pigramente, calamitando la loro attenzione.
Ci
fu un intenso e silenzioso scambio di sguardi tra tutti e otto, come
a voler decidere chi si sarebbe avvicinato per primo, ma poi tutti
assieme mossero un passo in avanti per raggiungere la sfera:
allungarono un braccio e lo tuffarono nella materia aliena, senza
esitazione.
Otto
mani estrassero otto Kunai, velocemente.
Poi
ognuno aprì le dita per controllare il colore del cordino
attaccato,
con curiosità e trepidazione; erano quattro: rosso, viola,
giallo e
verde lime e ognuno di essi appaiava due Kunai. Due guerrieri
abbinati dal caso e da un colore.
Leonardo
guardò il cordino rosso sventolare dall'asola del suo Kunai,
con
apparente calma. Adesso che conosceva il suo colore avrebbe solo
dovuto controllare chi possedesse l'altro e il suo avversario sarebbe
stato chiaro e lo scontro praticamente alle porte: alzò lo
sguardo
per controllarsi attorno e per prima cosa si voltò verso i
suoi
fratelli.
Una
vocina piccola e punzecchiante nella sua testa sperava che fosse
Raphael ad avere l'altro rosso, per poterlo battere e finalmente
avere una rivalsa su di lui; fu quasi deluso quando vide che il suo
cordino era viola, e dal modo in cui Raph sollevò le spalle,
capì
che anche suo fratello doveva aver sperato di poter lottare contro di
lui.
Don
possedeva il giallo, perciò anche lui era fuori discussione.
E se da
una parte era deluso di non potersi misurare coi suoi fratelli,
dall'altra ne era sollevato, sperando in cuor suo di poter superare
tutti assieme quella fase.
Continuò
a cercare il suo sfidante con lo sguardo, ma fu quello a trovare lui:
con un leggero tocco sul suo braccio, Tomoe attirò la sua
attenzione.
“Leonardo-san”
mormorò mostrandogli il Kunai col cordino rosso che teneva
in mano.
Leo
si riprese subito dalla sorpresa e le rivolse un inchino cortese, che
lei si premunì di imitare; solo con la coda dell'occhio
riuscì a
vedere Usagi e si accorse che guardava verso di loro.
Il
suo amico era preoccupato per lo scontro tra lui e la donna che
segretamente amava?
Avrebbe
voluto avere il tempo per poterlo tranquillizzare, avrebbe voluto che
lui potesse assistere alla battaglia e tifare per lei, ma Usagi
sarebbe stato impegnato nella sua lotta. Intravvide il colore giallo
nel suo Kunai e seppe anche contro chi il coniglio si sarebbe
scontrato.
Gli
mandò un breve sorriso, prima che Gyoji si avvicinasse:
bastò un
minuscolo gesto della mano e lui e Tomoe si smaterializzarono in
pulviscolo infinitesimale, per poi rimaterializzarsi nel cubicolo
dell'arena.
Usagi
rimase ad osservare lo spazio vuoto che avevano occupato per ancora
qualche secondo, prima di scuotere la testa e rivolgersi intorno,
incontrando lo sguardo di Donatello: sorrise nel vedere il giallo
nella sua mano, identico al suo.
E
il mutante ricambiava il sorriso sorpreso e compiaciuto.
Si
inchinò al suo vecchio amico e gli si fece incontro,
svanendo
assieme a lui nel momento in cui furono vicini, diretti al loro
spazio per la lotta.
Raphael
rimase con gli ultimi tre guerrieri: la lucertola aliena, l'essere
terroso e infine il Triceraton.
Mozar.
Quanto
desiderava che fosse lui il suo sfidante. Se aveva ancora una
briciola di fortuna da utilizzare per il torneo, allora voleva
intensamente impiegarla per potersi scontrare contro Mozar, con tutte
le sue forze.
Si
avvicinò a piccoli passi, scrutando i pugnali che
stringevano nelle
mani, cercando una traccia di colore.
La
lucertola aliena aveva il cordino verde lime, e così l'uomo
di
terra.
Raphael
si voltò trionfante verso il Triceraton, che sventolava il
suo Kunai
col laccio viola, un sorriso impaziente sul viso.
Aveva
decisamente fortuna.
Gyoji
li smaterializzò all'istante e un millesimo di secondo dopo
si
trovarono circondati dalle alte mura dell'arena, uno di fronte
all'altro.
Non
seppero se il gong avesse già suonato o meno,
perché da quel
momento non percepirono più nulla.
Raphael
percepiva solo Mozar.
Mozar
l'ex braccio destro di Zanramon, a sua volta ex primo ministro della
Repubblica dei Triceraton. Un vecchio nemico.
Non
era cambiato molto, anzi praticamente nulla: la pelle color sabbia e
la benda sull'occhio sinistro e il braccio meccanico che partiva dal
gomito in giù nella parte sinistra, erano perfettamente
identici.
Solo la sua tenuta era diversa dalla vecchia divisa di quando era
comandante, ora vestiva una tuta marrone scuro con l'effige della
Repubblica, con un po' d'orgoglio.
Avevano
combattuto così tanto contro Mozar, quando erano capitati
sul
pianeta del professor Honeycut mentre loro lo cercavano e quando poi
i Triceraton avevano invaso la terra, che per molto tempo Raph aveva
sinceramente sognato di prenderlo a pugni. Poi, inaspettatamente, si
era ribellato alla follia di Zanramon e aveva giurato
fedeltà a
Traximus, diventando un loro alleato. E in quel caso, anche se ancora
lo avrebbe volentieri preso a pugni, era diventato più
difficile.
Un
vecchio nemico, passato dalla loro parte.
Mai
si sarebbe aspettato di trovarselo di fronte al Battle Nexus.
Mozar
aveva come arma una grossa ascia bipenne, piuttosto affilata.
Fortunatamente le regole e la magia dell'arena non avrebbero permesso
che lui si ferisse.
E
nemmeno lui avrebbe permesso a quella cosa di toccarlo.
La
sua intenzione era di poter finalmente e legalmente prendere a pugni
Mozar sul muso da triceratopo, con soddisfazione e una piccola punta
di vendetta.
Mozar
sembrava avere le sue stesse intenzioni, perché senza una
parola e
un secondo di più sollevò l'ascia al cielo e si
gettò in un
attacco violento e deciso contro di lui, fendendo l'aria: Raph si
spostò all'indietro con una capriola perfetta e una volta
lontano
mise velocemente mani alle armi, giusto in tempo per il secondo
attacco del suo avversario, che riuscì a deviare con gli
tsuba dei
Sai.
Mozar
si sbilanciò leggermente verso sinistra, ma prima che Raph
potesse
approfittarne, quello alzò il braccio meccanico e
cercò di
centrarlo in pieno viso: il mutante lo colpì allo stomaco
con un
calcio, svicolando da quella situazione pericolosa.
Qualche
metro di distanza e i due si osservarono.
Raphael
sapeva di essere in svantaggio: Mozar sembrava non avere nemmeno un
angolo cieco, un dannatissimo punto debole. Alla destra l'ascia
tagliente e alla sinistra il braccio metallico dalla gran forza e
potenza.
In
più, la perfetta preparazione militare di Mozar che non gli
avrebbe
lasciato scampo.
L'alieno
infatti non voleva lasciargli troppo tempo per pensare o riposarsi:
fece roteare l'arma nella mano e si scagliò nuovamente
contro di
lui, caricando con ferocia.
Raph
sentì le vibrazioni del terreno ad ogni passo, mentre
aspettava il
momento giusto: saltò nel momento stesso in cui l'ascia
calava
contro la sua testa, e grazie alla spinta colpì con forza
con le
punte dei Sai verso il basso; ci furono sprizzi di scintille quando
incontrarono il metallo del braccio artificiale, alzato in posizione
di difesa.
Raph
ringhiò.
Mozar
lo allontanò con una spinta prima che potesse riprovarci,
mandandolo
quasi a sbattere contro la parete dell'arena; Raph rallentò
la
velocità con una serie di avvitamenti a mezz'aria, toccando
la
superficie coi piedi, illeso.
E
se la testa e la rabbia gli dicevano di attaccare ancora,
immediatamente, l'istinto invece gli suggeriva di fare dei piani,
prima, di cercare una strategia che gli permettesse di oltrepassare
la difesa perfetta di Mozar.
Donnie
era sempre stato affascinato dall'etichetta da Samurai che Usagi
aveva cucita addosso: i suoi modi, il suo linguaggio, la sua
mentalità. Eppure come fosse al contempo sorprendentemente
aperto a
tutto quello che un viaggio dimensionale comportava.
Lo
rispettava, sinceramente.
Certo,
non aveva mostrato da subito la sua ammirazione, anzi: la prima volta
in cui si erano incontrati lo aveva nemmeno molto velatamente
accusato di aver aggredito Leo e aveva cercato di picchiarlo. Al
ricordo gli venne da sorridere del malinteso, ma allora era davvero
molto arrabbiato e sospettoso verso il coniglio antropomorfo e quasi
fuori di sé.
Poi
tutto era stato chiarito in fretta quando Usagi aveva in
realtà
curato Leo, e lo scontro tra loro era stato evitato.
Fino
a quel momento.
Non
si era mai nemmeno chiesto se avrebbe potuto battere Usagi, prima di
quell'istante, -sapeva che era incredibilmente forte e con una
tecnica formidabile; ma voleva batterlo, doveva batterlo.
Usagi
si inchinò leggermente, prima di sfilare la Katana dal
fodero con un
movimento fluido e veloce, puntandola poi contro di lui: Don strinse
la presa sul Bō e lo
fece
volteggiare nella mano, un delicato e dolce sibilo.
Un
inchino veloce, un sorriso per entrambi. E poi l'attacco in
simultanea.
Gli
affondi di Usagi erano precisi ed eleganti, stoccate decise,
traiettorie nette, pressoché invisibili da quanto fossero
veloci;
quelli di Don sinuosi e armoniosi, complesse danze tra lui e il suo
bastone, inscindibili uno dall'altro.
Il
Samurai affondò in avanti con la lama, ma lui
scansò il colpo
saltando in alto con l'aiuto del bastone, come leva: volò
nell'aria
in una perfetta parabola e con una stoccata decisa puntò
contro la
schiena del coniglio, il Bō estensione stessa del suo braccio. Usagi
si voltò in tempo per percepire la minaccia, e ruotando su
sé
stesso, riuscì ad evitare il colpo, rotolando qualche metro
più in
là.
Entrambi
si fermarono per un secondo, il respiro più pesante per lo
sforzo, e
poi senza esitare si rilanciarono uno verso l'altro; Usagi si
abbassò
e nel contempo sventolò la Katana contro il mutante, che si
difese
velocemente riportando il bastone vicino al corpo: la lama
slittò
contro il legno portandosi via un paio di schegge, ma senza arrecare
nessun altro danno.
Il
filo della Katana di Usagi era affilato, tanto da poter tagliare un
albero come fosse burro, ma Donatello sapeva muovere il Bō come se
facesse parte del suo corpo: sinuoso e sfuggente, veloce e
resistente, flessibile, ma indistruttibile. Sapeva come piegarlo alla
sua volontà perché fosse protezione e offesa allo
stesso tempo,
cambiando impugnatura o forza in una frazione di secondo.
Prenderlo
alla sprovvista era praticamente impossibile.
Usagi
sapeva già quanto fosse forte, quanto fosse preparato, ma
valutarlo
in prima persona era tutta un'altra cosa.
Avrebbe
dovuto dare fondo a tutta la sua tecnica per poter vincere.
La
lama della sua spada produceva un suono secco ogni volta che si
scontrava contro il legno del bastone, lasciando solo piccolissimi
segni, tacche impercettibili, prima che Donatello si accorgesse della
minaccia e deflettesse la sua arma per non essere in svantaggio.
Guardingo.
Ma rapido nell'afferrare i cambiamenti e agire di conseguenza.
Donatello
voleva vincere.
Un
gran clangore di metallo contro metallo riempì lo spazio del
cubicolo, e una pioggia di scintille sprizzò per lo scontro:
Leo
spinse via la Katana di Tomoe bloccata tra le sue, poi si
allontanò
di qualche passo.
Si
erano lanciati l'uno contro l'altra dopo un inchino cortese, ma senza
nessun'altra esitazione; non c'era bisogno di parole tra loro.
Leonardo rispettava Tomoe e sapeva che per lei era lo stesso.
Una
muta fiducia reciproca.
A
dover ben ricordare però, quando si erano incontrati per la
prima
volta non era stato lo stesso: Tomoe lo aveva scambiato per una spia
di Lord Hebi e lo aveva attaccato per proteggere Lord Noriyuki,
chiamandolo “feccia ninja”. Aveva dovuto disarmarla
per far sì
che lei lo ascoltasse e capisse che non voleva far loro del male, ma
che era invece un loro amico.
Con
che ferocia e ardore si era battuta.
Tomoe
era una Samurai al pari di Usagi, in quanto a bravura. Avrebbe dovuto
essere l'erede della tecnica “pioggia battente”
della sua
famiglia, se solo non fosse stata una donna: suo padre aveva
preferito designare suo fratello come successore del loro Dojo,
nonostante non fosse bravo come lei. E poi le aveva proibito di
lottare contro di lui, perché non si sapesse che lei poteva
sconfiggere il nuovo maestro della tecnica senza molto sforzo.
Tomoe
si batteva come un uomo in una società che sottovalutava le
donne,
mettendoci perciò il doppio della fatica e dell'impegno.
Leonardo
lo sapeva perché Usagi glielo aveva confidato, e la
rispettava anche
per quello.
Al
momento lei gli stava dando parecchio filo da torcere. Aveva una
guardia alta e serrata e gli attacchi erano sporadici e ponderati, e
proprio per quello più intensi.
Niente
era scontato nel loro scontro: chi avrebbe vinto e come avrebbe
vinto. Sottovalutare Tomoe sarebbe stato un errore davvero
imperdonabile.
Così
come pensare che impugnare due spade contro una fosse un vantaggio.
Lei
era fulminea e agile, ermetica e attenta.
Leo
si gettò in un attacco frontale con le due spade in
simultanea, che
Tomoe evitò facilmente con una schivata breve e sollevando
la Katana
di fronte al viso per deflettere la lama; poi lo allontanò
da sé e
con un gesto repentino fu il suo turno di attaccare, con un colpo di
spada che sembrava una falce crescente: Leo se ne accorse solo per il
momentaneo bagliore che l'acciaio rifletté nella sua discesa.
Saltò
all'indietro con una capriola all'ultimo secondo: sentì lo
spostamento d'aria e la sua pressione contro il viso, ma nemmeno per
un istante riuscì a vedere materialmente la spada.
Tomoe
si riallontanò con un'espressione delusa, ma anche
consapevole.
Sapeva
già in partenza che lo scontro con Leonardo non sarebbe
stato
semplice.
“Però,
che belle combinazioni” gongolò contento
Michelangelo, sporgendosi
per guardare bene. Era appena arrivato sulla terrazza d'onore del
Daimyo, palesemente in ritardo.
“Mikey!
Dov'eri finito?” esclamò sorpresa Isabel,
sollevando il capo per
guardarlo in viso.
Lui
le sorrise, mentre spostava Steve senza riguardi per potersi sedere
vicino a lei, a gambe incrociate.
“Oh,
mh, ho perso tempo al mercato” rispose vago, riportando
l'attenzione sull'arena. Controllò con occhio attento i
quattro
scontri, tre dei quali di particolare rilevanza.
Il
rumore delle lotte arrivava fin lassù, lo stridore del
metallo, il
cigolii del legno.
“Non
mi aspettavo queste accoppiate, a dire la verità. Non so
proprio chi
potrebbe vincere” esalò preoccupato, corrucciando
le sopracciglia.
“Addirittura?”
domandò Isabel, sorpresa dal suo tono serio.
“Certo.
Usagi e Tomoe sono davvero forti e preparati, il loro livello non si
può prevedere. E Mozar oltre alla potenza ha anche il
desiderio di
rivalsa... senza contare che Raph è stupido e si
farà perciò
batter- ahia!”
Isabel
strinse più forte la presa nel pizzico che gli aveva dato,
arricciando il naso con sufficienza, prima di lasciarlo andare.
“Quindi
stai dicendo che Leo, Raph e Don potrebbero perdere tutti in questo
giro?” domandò incredulo Steve, con i suoi
occhioni azzurri
spalancati.
Mikey
fece spallucce, dato che la risposta certa non l'aveva.
“Certo,
se ci fossi stato io, non ci sarebbe stato alcun dubbio su chi
avrebbe vinto” disse con vanagloria e un sorriso derisorio.
“Infatti
stai qua, Mr. Campione!” lo punzecchiò Steve con
una linguaccia,
spostandosi di lato per evitare una sua pacca.
Ue
stava in silenzio, ma non si perdeva nemmeno una battuta, estasiato
dalla loro familiarità, ridendosela sotto i baffi.
Isabel
sorrise alla loro scenetta, ma poi riportò in fretta lo
sguardo
verso il basso, verso quel verde scuro che era tutto il suo mondo,
allontanando l'altro verde, freddo e spento, nel fondo della sua
mente.
Raphael
aveva passato ogni istante da quando era entrato nel suo spazio
evitando gli attacchi di Mozar, con tutta la sua concentrazione.
Il
colosso a tre corna non gli aveva lasciato un attimo per respirare,
nemmeno un secondo di pausa; aveva continuato a fiaccare la sua
resistenza con attacchi continui e in successione, sempre intensi,
mai scontati. Aveva scartato, si era piegato, aveva eluso, aveva
corso, ma Mozar con feroce precisione era sempre stato un passo
dietro lui, pressante.
E
ogni volta in cui era stato lui ad attaccare, ogni colpo era andato
inesorabilmente a vuoto o peggio, era stato bloccato
dall'onnipresente braccio metallico, che Mozar muoveva senza alcuno
sforzo come fosse uno scudo, tagliandogli via ogni
possibilità di
vincere.
Stava
riprendendo fiato, tenendosi alla larga dal Triceraton, la mente che
lavorava a mille; la sentiva fumare, la sentiva surriscaldassi per la
pressione che lo schiacciava.
Mozar
continuava ad avanzare e lui indietreggiava.
Un
passo avanti, due passi indietro.
Per
non essere messo all'angolo.
Il
fischio dell'ascia che fendeva l'aria era sempre più vicino,
diretto
verso la sua testa.
Non
aveva molto spazio di manovra, alle spalle; c'era ancora qualche
metro dietro, ma non poteva continuare ad indietreggiare. Alla destra
le due pareti di univano nell'angolo e nemmeno lì era
consigliabile
spostarsi. A sinistra c'era ancora un piccolo varco, ma Mozar
ovviamente si sarebbe aspettato che si muovesse proprio in quella
direzione.
Attese
con i muscoli tesi che il bestione sollevasse ancora la sua ascia per
attaccarlo e poi scattò repentinamente in avanti, tenendosi
basso:
sentì il sibilo della lama, ma lui ormai si era
già tuffato verso
il suolo, strisciando sul guscio con rapidità, proprio in
mezzo alle
sue gambe, evitando la lunga coda.
Si
fermò con una strisciata secca e si rialzò prima
che il Triceraton
potesse voltarsi, ancora sorpreso dalla sua mossa imprevista.
Saltò
a piè pari e calciò forte la sua schiena, con
tutto il suo peso:
Mozar perse l'equilibrio e barcollò in avanti, sbilanciato
anche
dalla pesantezza del braccio artificiale. Stava per cadere sull'ascia
e infilzarsi, quando la luce azzurra dell'arena lo avvolse e lo
trasportò al sicuro, nell'infermeria.
Mozar
aveva perso, con le sue stesse mani.
Raphael
riprese fiato, un piccolo sorriso agli angoli della bocca, forse
incredulo che una cosa così semplice avesse funzionato. Si
voltò in
fretta verso il palazzo e sollevò lo sguardo verso l'alto,
cercando
quello amato.
Il
suo portafortuna. Il motivo per cui non poteva perdere, non poteva
sbagliare.
Leonardo
e Tomoe danzavano da molto,
ormai. Una bellissima sequela ritmata di stoccate
e parate, scivolate elusive e volteggi, lame che si scontravano.
Nessuno
dei due aveva mai parlato, mai spezzato quell'atmosfera sottile con
discorsi futili; ogni cosa era espressa dai loro stili di lotta.
Leonardo
era intimamente felice di potersi misurare con lei, di poter
constatare quanto fosse forte, il suo livello di tecnica; e Tomoe
stava mettendoci tutta sé stessa, rendendo lo scontro ancora
più
vero e indimenticabile.
Non ne avrebbe mai dimenticato nemmeno un secondo, nemmeno se avesse
perso. Cosa che, però, non era disposto a fare.
Nemmeno
per un'amica.
Parò
un affondo e scivolò a destra, mettendo dello spazio tra
loro: Tomoe
si lanciò in avanti ancora, già pronta a reagire.
Leo
sollevò solo la spada destra e la calò
velocemente contro di lei,
che però non si fece trovare impreparata; con una torsione
repentina
del polso fermò la lama con la sua, decisa.
Il
colpo fece volare la spada di Leonardo e solo allora Tomoe si accorse
che lui l'aveva lasciata andare ben prima dello scontro: l'aveva
diretta contro di lei, ma poi l'aveva lasciata andare per la forza
cinetica conservata, mentre lui intanto stringeva la presa a due mani
su quella che gli era rimasta.
L'attacco
fu veloce, violento e imprevisto. Tomoe era ancora sbilanciata a
sinistra e non poté reagire, mentre la lama calava verso il
suo
viso: sparì nella luce blu dell'arena, immediatamente.
Non
ne era sicuro, ma gli era parso di vederla sorridere, prima di
scomparire. Onorevole anche nella sconfitta.
Nel
cubicolo di Donatello e Usagi la lotta proseguiva ancora, senza
respiro. Ignari di cosa fosse successo ai loro amici, anche loro ce
la stavano mettendo tutta per vincere.
C'era
una sottile vena di ossessione che stava alimentando la foga di Don,
che quasi non prendeva fiato tra un attacco e l'altro, cercando di
fiaccare l'amico dalle orecchie lunghe.
Usagi,
invece, era composto al suo solito e anzi, sembrava aver letto
nell'insolita irruenza del mutante che qualcosa non andava.
Quell'impazienza, quell'insofferenza nell'attaccare non erano normali
in Donatello.
E
più lui l'eludeva, più sforzo ci metteva l'altro
per stargli
dietro, stancandosi il doppio.
Il
suo Bō gli fischiava costantemente attorno, mirando ai suoi punti
vitali. E lui schivava a destra e sinistra per evitarlo, concentrato
solo sulla difesa.
Don
affondò in avanti, ma Usagi si spostò velocemente
a destra e con
una piroetta su sé stesso ripartì all'attacco
verso la sua schiena:
la Katana si scontrò col legno, il bastone era stato portato
rapidamente alle spalle e poi si sollevò verso l'alto, ma lo
evitò
con una capriola.
Don
si voltò e il Bō era di nuovo al suo fianco, ben stretto
nella
presa. Ricominciò la lotta, ancora silenziosa, ancora
spasmodica.
Finché,
il bastone non colpì Usagi sopra la mano e fece volare via
la
Katana, mentre il coniglio tratteneva una smorfia di dolore per il
colpo.
Ci
fu un intenso sguardo tra i due, carico di anticipazione.
Don
stette attento alle mosse dell'amico, per controllare se stesse o
meno mettendo mano alla spada corta che portava contro l'addome. I
movimenti di Usagi furono troppo rapidi, ma quando lo vide armeggiare
qualcosa, Don non si fece altre domande e partì anche lui
alla
carica.
Usagi
lanciò con forza ciò che teneva in mano, contro
la sua faccia: con
un movimento del bastone parò senza alcuno sforzo,
lasciandolo
cadere a terra con un tintinnio cupo.
Per
niente metallico.
Donatello
osservò con sorpresa il fodero della Katana giacere al suolo
e
troppo tardi si accorse del suo errore: sollevò in fretta lo
sguardo, ma le mani di Usagi erano già sul Bō, proprio al
centro.
Con una torsione del busto lo fece piroettare e Don ruotò
bruscamente assieme ad esso; cercò di non lasciarlo andare,
ma perse
la presa con troppa facilità, mentre i muscoli delle braccia
dolevano per l'improvvisa contorsione.
Cadde
al suolo, o meglio ci fu proprio scaraventato.
L'ultima
cosa che vide, prima della luce azzurra, fu Usagi che dirigeva contro
di lui il suo stesso bastone, con un timido sorriso di scuse in
volto.
Poi,
le pareti dell'infermeria si composero attorno, mentre la
luminescenza scompariva, e i guaritori gli andarono incontro con
preoccupazione-
Don
sospirò rassegnato, lasciando andare le spalle.
Aveva
perso, ancora. E non sapeva perché, ma faceva ancora
più male delle
altre volte.
Isabel
aveva trattenuto il fiato, mentre Don scompariva.
Aveva
visto il fugace scintillio di delusione nel suo sguardo, prima di
essere trasportato via.
Era
contenta per Usagi, era stato davvero bravo, ma le dispiaceva da
morire per quel suo fratello che ce l'aveva messa davvero tutta per
vincere.
Dall'imprecazione
tra i denti che sentì scappare a Mikey, capì che
anche lui era
sconvolto dall'esito dello scontro.
Voleva
andare in infermeria e consolare Don. E dirgli che era stato bravo,
che era stato magnifico.
Ma
aveva paura ad abbandonare la terrazza. Con un profondo senso di
vergogna, quindi, rimase lì, a guardare Leo e Raph esultare
per le
loro vittorie, in attesa del successivo round.
Note
dal torneo:
Salve
a tutti.
Eccoci
di nuovo nel vivo della competizione.
Via
con le note.
Mozar
è un triceraton incontrato durante la stagione 2 e 3. Quando
le
turtles vengono trasportate per sbaglio nel pianeta del dottor
Honeycut, sia i Triceraton che la federazione stanno cercando il
robot per alcuni suoi progetti e i nostri quattro eroi si trovano nel
mezzo per cercare di aiutarlo. Mozar è il braccio destro del
primo
ministro Zanramon e si comporta ovviamente male coi nostri. Sembra
spregevole, ma in realtà ha un grande senso dell'onore ed
è leale a
colui al quale ha giurato fedeltà. Ma dato che Zanramn non
è
onorevole, Mozar si rende conto e decide che ne ha abbastanza,
unendosi a Traximus e alla resistenza una volta per tutte.
Quindi
era un nemico, ma infine è passato dal lato giusto. Io
però non gli
perdono di aver torturato Don per carpirgli informazioni, povero il
mio cucciolo.
E
proprio di Don parliamo: ha perso. Vedo già il vostro
dispiacere, ha
un fanclub davvero nutrito. Caspita, sono dispiaciuta. Ce l'ha messa
tutta, davvero!
Anche
Tomoe ha perso. Ma sono felice che sia piaciuta a molti, se lo
merita. Insomma se qualcuno leggerà il fumetto ne
sarò anche più
contenta. Mi è piaciuto mettere un po' di alri mondi nella
storia.
Tra
due capitoli il torneo sarà finito! Ah, mi spiace, ma allo
stesso
tempo non vedo l'ora. Ci sono ancora tantissime cose da narrare!
A presto!
Uh,
oggi ho trovato questo disegno nella mail… non è
dolcissima oltre
che talentuosa, Sarajane? Sì lo è!
Grazie
mille, ti adoro! e voi passate nella sua pagina! https://www.facebook.com/pages/Sarajane/386563768158774
E
a tutti un mega abbraccio! Grazie ancora e sempre!
|
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Capitolo 14 *** Round 4 and Finale: To glory ***
I
quattro vincitori, ancora ignari di come fossero andati gli altri
scontri, attendevano con pazienza ognuno nel loro spazio. In fondo
allo stomaco c'era una certa adrenalina per la gioia di essere
arrivati alla semifinale, ma ognuno di loro cercava di mostrarsi
contenuto.
Il
ring si illuminò della sua luce azzurrina, improvvisamente,
inglobandoli nella sua luminescenza e trasportandoli via. Riapparvero
mezzo secondo dopo alla base dell'arena, mentre quella, ancora
avvolta dall'energia, aveva ripreso a trasformarsi: le due pareti che
dividevano il quadrato per i suoi angoli si erano dissolte nel nulla,
lasciando tutto lo spazio vuoto, aperto.
Intanto,
Raph e Leo si stavano scambiando un ghigno compiaciuto al vedersi
l'un l'altro, pregustandosi chissà quale incontro futuro
mentre,
alla vista di Usagi, entrambi compresero che Don non ce l'aveva fatta
e ne furono dispiaciuti; la vittoria del loro amico mitigò
solo
appena quella sensazione.
“Sono
contento di rivederti, Leonardo-san” esclamò il
coniglio, con un
sorrisino.
Era
un secolo che il Samurai voleva scontrarsi contro il suo amico, sin
dal primo torneo in cui si erano incontrati, in cui Leo era
però poi
stato avvelenato dall'Ultimate ninja, costringendo la loro lotta ad
essere sospesa; dopo di allora, non si erano più incontrati
in
nessun round, mai più. Come se una sorte birichina non
volesse farli
lottare uno contro l'altro, nonostante loro lo desiderassero.
A
volte era stato Usagi a finire prematuramente fuori nei primi round,
altre volte Leo; in definitiva non c'erano mai state le premesse per
un loro incontro deciso dal fato ed entrambi non avevano voluto
forzare in alcun modo quel destino.
Ma
non aspettavano altro, in realtà.
Perciò
tutti e due stavano pensando che quello forse era il momento di
svolta. Anche se, Leo desiderava molto lottare anche contro Raph, a
dire il vero.
Ma
in fondo, chi diceva che non poteva scontrarsi con entrambi?
Uno
nella semifinale e poi uno in finale, ovviamente con la sua piena
vincita in entrambi.
Fattibile.
Il
gong risuonò dall'alto e tutti e quattro sollevarono gli
occhi al
cielo per osservare il Daimyo che, in piedi, era rivolto verso loro.
“Nobili
guerrieri, il vostro valore vi ha condotto fino a questo momento con
successo, mi congratulo. Le semifinali sono di fronte a voi e
perché
possiate raggiungere l'arena della finale, dovrete lottare con ancora
più convinzione, perché sarà difficile.
Il
quarto round vi aspetta.”
In
quel preciso momento Gyoji si avvicinò a loro e con un gesto
elegante del ventaglio fece apparire al suo fianco un portale ovale
di luce, pulsante ed etereo, identico a quello che li aveva portati
lì.
Leonardo,
Raphael e Usagi sapevano già cosa sarebbe successo.
Avrebbero
attraversato il portale di luce, che li avrebbe immediatamente
trasportati dentro l'arena, esattamente di fronte al proprio
avversario.
Ci
fu un secondo in cui si scambiarono un fugace sguardo di augurio,
prima di incolonnarsi uno dietro l'altro, mentre la lucertola
umanoide già spariva nel vortice azzurrino.
Il
Daimyo si risedette compostamente al fianco di Splinter, con lo
sguardo ancora sui guerrieri che si avvicinavano al portale.
Ovviamente,
tutti erano curiosi di sapere quale sarebbero state le combinazioni,
perché in un modo o nell'altro, almeno uno scontro sarebbe
stato tra
due fratelli o due amici, perciò l'anticipazione era
palpabile.
Erano
ormai passati tutti e in un secondo sarebbero apparsi nell'arena,
perciò trattennero il fiato.
Almeno
finché un suono di passi non attirò la loro
attenzione verso le
loro spalle.
Donatello
e Tomoe apparvero dalla porta colossale, con esitazione.
Isabel
sorrise felice nel rivedere la donna gatto, ma lo sguardo cupo di Don
le smorzò l'entusiasmo. Il genio non mostrava apertamente il
disappunto che sentiva, ma c'era un flebile e inequivocabile
scintillio del fondo dei suoi occhi che non poteva mascherare.
Mikey
si alzò dal suo posto e gli andò incontro e
quando lo raggiunse
poggiò le mani sulle sue spalle, con un sospiro.
“Sei
stato in gamba, Donnie, davvero. Ma io avevo scommesso su di te!
Tutto quello che mi era rimasto! Dov'è finito Don rambo, eh?
Come
hai potuto farmi questo, fratello?” sbottò
scuotendolo con forza,
in preda al dispiacere.
Con
un tocco sordo un bastone si schiantò sulla sua testaccia,
strappandogli un urletto indignato e sorpreso.
“Sensei”
si lagnò voltandosi, una mano che toccava la parte lesa,
dove un
piccolo bernoccolo si poteva già sentire.
Splinter
lo guardò da sotto a su con quel suo sguardo che sembrava
tranquillo, ma che sapeva far vergognare.
“Hai
scommesso al mercato, Michelangelo?” domandò
pacatamente.
Il
figlio fece una smorfia, preso in castagna, e non trovò
meglio da
dire che farfugliare sotto la sua aura di disapprovazione.
“No!
Io stavo solo... era un modo di dire, sensei... io non...”
“A
casa riparleremo di questo argomento, Michelangelo”
continuò il
maestro, e Mikey lasciò andare un piccolo verso che
assomigliava
tanto a disperazione e pentimento.
Poi
il saggio ratto si voltò verso Don, che era rimasto in piedi
al loro
fianco, quasi senza respirare; ci fu uno spesso silenzio, in cui la
paura di Don di essere rimproverato crebbe a dismisura.
“Sei
stato bravissimo, figliolo. La tua tecnica è cresciuta e tu
con
essa. Sono fiero di te” disse invece suo padre, con un tono
dolce.
Donnie
sgranò gli occhi e qualcosa sembrò scivolargli
giù dalle spalle,
che portò molto più indietro fieramente,
rincuorato.
Sorrise
al padre, poi a tutti loro.
Lui
e Tomoe presero posto vicino ai ragazzi, la donna gatto alla sinistra
di Isabel, nonostante le proteste di Mikey.
“Tutto
bene, Lady Isabel? domandò sottovoce una volta al suo
fianco, seduta
in una perfetta posa seiza, la schiena rigida.
Per
un secondo lasciò perdere il magone e quella sensazione di
paura,
sopraffatta dalla sorpresa; Tomoe era appena stata battuta, avrebbe
dovuto pensare a quello, ma sembrava invece più interessata
a
sincerarsi di come lei stesse.
Come
se avesse capito più di quanto lasciasse intendere.
Si
voltò a guardarla, ma la guerriera teneva lo sguardo dritto
verso
l'arena, concentrata.
“Sì,
grazie” mentì con convinzione. Era tra amici e
nessuno poteva
toccarla lassù con loro.
Mancava
poco ormai alla fine e allora avrebbe finalmente detto la
verità.
Leonardo
ghignò contro il suo avversario. Sì,
ghignò.
Una
volta uscito dal vortice si era trovato di fronte a Raphael, a sua
volta estremamente compiaciuto.
Non
aveva desiderato altro che trovarselo di fronte, in fin dei conti. A
lui non importava poi molto di lottare contro Usagi, era solo
Leonardo che vedeva come un ostacolo.
Il
coniglio, intanto, stava salutando il suo avversario con un inchino,
a qualche metro di distanza da loro.
Ma
non vi fecero caso. Tutto ciò che interessava loro era la
competizione che li pressava. Non sarebbe andata come durante gli
allenamenti, in cui nessuno dei due riusciva a sovrastare l'altro e
finivano in parità decretata da Splinter per poter dar loro
un po'
di respiro.
Uno
di loro avrebbe vinto. Uno di loro avrebbe perso.
Semplice
e inevitabile.
Misero
mani alle armi, stringendo le else con forza e precauzione, fino a
far scricchiolare i fili intrecciati che le componevano. Occhi negli
occhi per non perdersi nemmeno il più piccolo movimento, la
variazione di luce che avrebbe dato il via al loro scontro.
Niente
più che la manifestazione tangente di quel momento in cui le
loro
menti avrebbero messo all'erta ogni muscolo.
Sentirono
già i rumori forti della lotta di Usagi e della lucertola,
impegnati
in una vera battaglia pochi passi più in là;
nonostante fossero
assordanti, nessuno di loro due sembrò nemmeno sentirli.
Iniziarono
senza un vero motivo a spostarsi in circolo, come facevano sempre
quando si allenavano, come a saggiare le distanze, per calibrare le
tecniche.
Fu
un secondo in cui le palpebre batterono all'unisono, a decretare
l'inizio.
Entrambi
corsero uno verso l'altro con le armi ben alte, pronti: Leo
colpì
verso le gambe velocemente, ma Raph saltò abbastanza in alto
da
evitare l'attacco e nel contempo allungò i Sai verso la sua
testa,
evitati con una torsione del busto verso destra.
Raphael
riatterrò e si lanciò in una sequela continua di
affondi, evitati e
parati con facilità dal fratello, che nel contempo cercava
di
indietreggiare quel tanto da avere un buon spazio di manovra: i Sai
erano più corti, perciò più adatti
alla lotta a breve distanza,
mentre le spade erano sempre bloccate dalla sua vicinanza.
Saltò
all'indietro con alcune capriole e per qualche secondo
recuperò il
fiato, mentalmente contando la metratura, inquadrando quanto i
muscoli tesi delle gambe di Raph ci avrebbero messo per riavvicinarlo
a lui.
Si
lanciò in una nuova offensiva e già il fratello
era diretto contro
di lui, pronto: cercò di fargli perdere l'equilibrio
più volte,
senza successo; Leonardo sapeva di dover fare attenzione alle sue
gambe e si muoveva a piccoli saltelli ritmati per impedirgli di
colpirlo.
Raph
scansò l'affondò contro l'addome di una spada e
ingabbiò l'altra
che gli aveva quasi lacerato il petto con il Sai: approfittando
dell'inusuale fortuna girò in fretta il polso per bloccarlo,
ma un
brivido lungo la schiena lo avvertì del pericolo.
Lasciò
andare immediatamente la spada, facendo slittare il Sai per la sua
lama e nel contempo si abbassò, inconsciamente: il piede di
Leonardo
passò qualche centimetro sopra la sua testa, fortunatamente
senza
colpirlo.
Lui
si rimise in piedi mentre il leader si allontanava un po', seccato
perché la sua trappola non aveva funzionato. Raph lo
guardava con un
sorriso sardonico in volto per averlo capito appena in tempo ed aver
evitato così la sicura sconfitta.
Stettero
solo qualche secondo fermi, come sempre aspettando quel qualcosa che
dava il via ad entrambi. Prima di lanciarsi ancora.
Lo
scontro spade contro Sai fu fragoroso, metallico e con sprizzi di
scintille: cercarono tutti e due di forzare sulle braccia per
spingere via l'altro, ma finirono per essere sbalzati entrambi
all'indietro dalla foga; riuscendo a non perdere l'equilibrio, si
rifiondarono uno contro l'altro e ripeterono la scena, tra lo
stridore del metallo.
Leo
mise nella spinta la giusta dose di forza per non lasciarsi
sopraffare, non di più: quando vide la vena pulsare nel
collo di
Raph, allora si scansò di colpo con una piroetta bassa a
sinistra,
mentre l'altro, lanciato dalla sua stessa forza ormai senza barriere,
volava letteralmente e inesorabilmente contro la parete dell'arena.
Raphael
si scontrò con un forte boato e un grugnito di dolore. E
nonostante
sentisse la testa spaccarsi in due e avesse la vista semi annebbiata,
si rialzò immediatamente e si spostò con tutta la
sua energia di
lato, senza nemmeno guardarsi indietro. Quando sentì le
spade di Leo
grattare contro il muro a qualche passo da lui, lì dov'era
stato
pochi secondi prima, seppe di aver fatto bene.
Agitò
la testa per scrollare via anche un po' di dolore, cercando di
riprendere in fretta le percezioni: continuava a spostarsi
all'indietro, senza fermarsi per paura che Leo fosse solo ad un passo
di distanza.
Strizzando
gli occhi si accorse di avere di nuovo controllo della vista e appena
in tempo per vedere le Katane scendere in perfette parabole contro la
sua testa; bloccò le spade e calciò via il
fratello, riprendendo
fiato.
Leonardo
sembrava estremamente compiaciuto per il suo attacco andato quasi a
buon fine; si era rinvigorito nel vederlo vagare alla cieca, nel
sapere che in qualche modo era riuscito a fargli almeno un minimo
danno.
Batterlo
sembrava molto più facile.
Perciò,
su di giri, decise che non avrebbe dovuto concedergli il tempo per
pensare ad una tattica per prenderlo in contropiede; lo
incatenò in
una raffica di assalti continui.
Raphael
si limitò incredibilmente solo a scansare. Nemmeno a parare.
Solo a
scansare a destra e sinistra, prendendo un ritmo costante, in
sincrono col respiro.
Stavano
danzando come facevano sempre quando lottavano su quella melodia
guerriera che gli altri non potevano sentire.
Destra,
sinistra, scarto all'indietro. Destra, sinistra, destra, sinistra,
scarto all'indietro.
Quasi
un valzer.
Se
Leo però ne forzava la cadenza per provare a colpirlo, Raph
invece
ne assecondava senza sforzo le battute, aspettando il momento
opportuno.
Il
momento giusto per spezzare il ritmo.
Leonardo
lo spingeva sempre più verso il muro dell'arena e lui,
docile,
seguiva la direzione.
Non
aveva una vera strategia in mente, forse stava solo seguendo un
impulso.
Destra,
sinistra, scarto all'indietro.
Destra,
sinistra, destra, sinistra, scarto all'indietro.
Destra,
sinistra... e poi la musica si ruppe.
Raphael
si abbassò al suolo e con una piroetta colpì le
gambe di Leo che,
ancora abituato al ritmo che stavano seguendo, venne colto di
sorpresa e perse l'equilibrio: cadde rovinosamente sul fratello,
già
pronto con la schiena a terra e i piedi in alto; scaraventò
il
leader con violenza contro il muro alle sue spalle e poté
giurare di
aver sentito lo scrocchio del suo guscio al momento dell'impatto.
Leo
strusciò contro la parete e crollò a terra,
malamente.
Per
qualche istante aveva smesso perfino di respirare, per il dolore e la
forza dello scontro.
Com'era
stato stupido. Si era fatto incatenare in un ritmo prevedibile, come
una preda ipnotizzata da un serpente; prima ancora di rendersene
conto si era trovato a pensare in uno schema, facilmente tracciabile.
Sentì
il fratello vicino ormai e uno sconforto lo prese, misto ad un po' di
rabbia. La mano di Raphael gli afferrò il braccio prima che
potesse
anche solo pensare di muoversi e sentì il gelido acciaio dei
Sai
contro il polso, che lo incatenava alla parete. Il resto del corpo
era bloccato dal fratello e dal suo peso.
Fissò
dritto nei suoi occhi, mentre lo colpiva al petto con l'altro Sai,
senza una parola o esitazione.
Non
c'era rabbia, non c'era sconfitta. C'era rispetto. Da entrambe le
parti.
Leonardo
scomparve nella luce, repentinamente.
Raphael
non si mosse di un millimetro, nonostante la vittoria. O proprio per
essa.
Aveva
battuto Leo, non preda della furia; e nemmeno da rancore. O
disperazione.
Lo
aveva battuto con la sua tecnica e con la calma.
Si
sentiva così fiero di sé. E forse,
capì, si sarebbe sentito fiero
anche se avesse perso contro il fratello, perché il Raph
scavezzacollo che non sapeva perdere era sparito da un pezzo.
Si
alzò infine, dandosi un'occhiata intorno, alla ricerca del
suo
avversario nella finale: la lucertola umanoide lo guardava a sua
volta, immobile.
Usagi
era stato battuto. Qualcosa gli diceva che quella lucertola fosse da
non sottovalutare, se era riuscita a battere un Samurai valoroso come
l'amico.
Gyoji
apparve in mezzo all'arena levitando e con uno dei suoi movimenti
dissolse sé stesso e loro nella pura aria.
Isabel
premeva le mani una contro l'altra dall'agitazione.
Raphael
era in finale. Il battito del cuore accelerato le rimbombava nella
gola, mentre cercava di respirare a fondo per non lasciarsi sfuggire
un gridolino estasiato.
Mikey
aveva grugnito, invece, nel vedere il suo collerico fratello vincere.
Si aspettava forse una ripicca in caso di vittoria? Raphael
gliel'avrebbe fatto pagare per tutte le volte in cui si era vantato
di essere il campione del Nexus.
In
quel momento tutta la concentrazione di lei era per lui, in attesa di
vederlo riapparire, tanto che perfino la misteriosa presenza che la
stava spiando era messa in secondo piano, solo un flebile fastidio
nel retro della mente, dove ancora provava ad entrare.
Leonardo
si appoggiò al muro dell'infermeria, scrutando al di
là dell'enorme
finestra, concentrato sull'ultima trasformazione dell'arena: una
piattaforma circolare si creò con la magia al di sopra di
quella
quadrata in cui aveva combattuto poco prima, ma questa volta in
legno: quattro fontane in pietra gettavano acqua all'interno,
circondando così la pedana presente, anch'essa tonda, che
sarebbe
stata il ring effettivo dove Raph e il suo avversario avrebbero
lottato.
Una
mano si poggiò sulla sua spalla, spezzando la sua attenzione.
“Nemmeno
questa volta abbiamo potuto lottare, Leonardo-san”
sospirò Usagi,
mettendosi al suo fianco.
“Già”
esclamò lui, lasciando andare le spalle.
“Evidentemente questo è
l'anno di Raph” concesse un po' a malincuore. Non si poteva
dire
che non gli stesse andando tutto troppo bene. Decisamente troppo.
Visto che si era preso la ragazza, avesse almeno lasciato agli altri
qualcos'altro per consolazione.
“Non
ne sarei così certo. Il suo avversario è un
guerriero molto infido.
Non so se ce la farà” lo avvertì il
coniglio, con lo sguardo
affilato.
E
se Usagi diceva una cosa del genere, c'era da credere che non stesse
scherzando.
Si
accorsero entrambi dello scintillio azzurrino al centro dell'arena
che annunciava la ricomparsa dei lottatori.
“Andiamo.
Seguiremo la finale dalla terrazza del Daimyo, assieme a tutti gli
altri” esortò, facendo strada all'amico.
Gyoji
prese parola, ad un cenno affermativo del Daimyo verso il quale si
era voltato.
“I
finalisti di questo torneo: Trebor, della dimensione Phillun e
Raphael, della terza dimensione, terra!”
La
folla esplose in urla ancora più forti durante la loro
presentazione, divisi in fazioni più o meno nette, di certo
a
seconda di cosa avevano scommesso.
I
due contendenti si scambiarono un cenno della testa uno verso
l'altro, che valse come stretta di mano; il Daimyo, seduto nel suo
posto d'onore alzò al cielo lo scettro.
“Iniziate!”
tuonò, suonando il gong.
Raph
prese i Sai nelle mani, senza staccare gli occhi dal suo avversario.
Trebor
invece non diede segno di essersi nemmeno mosso. I suoi enormi occhi
neri erano fissi uno verso l'alto e l'altro verso sinistra, dandogli
un aspetto grottesco. La sua pelle era ricoperta di squame verde
chiaro e la sua testa era schiacciata e larga; il suo corpo sottile
ed esile non sembrava propriamente quello di un lottatore. Ma se era
arrivato in finale doveva essere più forte di come apparisse.
Era
quello che contava di scoprire.
Raphael
si gettò a testa bassa con le armi sguainate, repentino:
Trebor non
si mosse comunque, i suoi occhi ancora puntati in due direzioni
diverse.
E
d'improvviso, scomparve nel nulla.
Un
secondo prima era lì a fissare contemporaneamente il cielo e
il
pavimento, un secondo dopo era sparito nella pura aria.
“È
così che inizia” sussurrò tetramente
Usagi ormai nella terrazza,
a Leonardo che era seduto al suo fianco. Il leader continuava a far
saettare lo sguardo velocemente per la piattaforma, cercando uno
sprazzo della presenza della lucertola.
Non
c'era. Era come svanito nell'aria.
“Ed
è così che finisce, se non stai
attento” concluse il coniglio,
anche lui assorto nonostante sapesse bene, per esperienza, che non
c'era modo di vedere Trebor.
L'attacco
di Raph finì nel vuoto e si fermò inquieto,
voltandosi di qua e di
là più veloce che poté: lo sguardo
spaziò per tutta l'arena, ma
non incontrò nessun'altra figura se non la propria.
Il
respiro si fece un po' accelerato per l'agitazione, ma si impose di
tenerlo sotto controllo.
Mancò
un battito quando qualcosa di viscido e spesso si
attorcigliò
attorno alla sua caviglia, in un secondo: si sentì
strattonare da
una forza prodigiosa e non se l'era aspettato, perciò
volò
letteralmente senza sforzo.
L'unica
cosa che sentì fu lo scontro di un pugno contro il suo corpo
lanciato a folle velocità, dritto contro lo stomaco: i
polmoni si
svuotarono per il dolore e lo shock e cadde a terra quando la cosa lo
lasciò andare, tossendo per poter respirare ancora.
Era
talmente impegnato nel cercare di non vomitare da non aver sentito il
boato della folla nel momento dell'impatto, e ancora stavano urlando
come degli ossessi, ma lui tossiva così forte che gli
rimbombava
nella testa.
Piantò
le mani a terra cercando di rialzarsi, ma uno schiocco umido
sferzò
l'aria e lo colpì alla nuca, rimandandolo a terra.
Come
diamine faceva a sparire? E cosa stava usando per colpirlo?
Rotolò
via prima che potesse attaccarlo ancora, ignorando il bruciore dei
colpi e la vertigine; cercò un riparo, ma lo schiocco
tuonò di
nuovo nell'aria e una frustata lo prese dritto contro la faccia,
sbalzandolo all'indietro.
Questa
volta sentì il pubblico trattenere il fiato collettivamente,
ma era
più impegnato a cercare di atterrare per il verso giusto: si
torse
all'indietro e riuscì a cadere in piedi, il viso che pulsava
dolorosamente. E lo sentiva viscido.
Si
impose di continuare a muoversi, ma si sentiva sciocco a girare in
tondo per l'arena, scappando da un nemico invisibile.
Invisibile.
La
parola lo colpì e rimase a galleggiare nella sua mente,
mentre altri
dettagli prendevano forma. Ancora pochi secondi per mettere i
pensieri nel giusto ordine.
“Sì!”
urlò all'improvviso, scartando a destra. “ Sei un
dannat-”
Lo
schiocco arrivò in contemporanea al colpo al collo, che gli
fece
perdere l'equilibrio: ruzzolò a terra, con un'imprecazione.
“Sei
un dannato camaleonte” esalò, faccia contro le
mattonelle gialline
del pavimento.
“Quindi
mi stai colpendo con la tua viscida lingua!”
sbottò arrabbiato e
disgustato, rialzandosi con un gesto solo, velocemente.
Il
rumore secco risuonò ancora e Raph si gettò di
lato in capriole
evasive; non sapeva dove fosse, ma sapeva che quando sentiva quel
rumore doveva spostarsi all'istante. Solo che si chiedeva: come
avrebbe potuto vincere con una strategia del genere?
Si
fermò e tese le orecchie, cercando traccia del suono.
Trattenne il
fiato per focalizzarsi meglio e frenare anche un po' il battito del
cuore e gli parve di aver captato un secondo suono, che prima non
aveva notato.
Un
morbido fruscio.
Ci
si ancorò con tutta la concentrazione seguendolo,
letteralmente,
passo passo. Fruscio, veloce, veloce, lento. Poi si fermò.
Gli fu
facile anticipare lo schiocco della lingua, finalmente: si era
già
lanciato a destra, quasi in contemporanea al suono.
Era
riuscito a prevedere il suo attacco, perciò, invisibile o
meno,
adesso era alla pari con lui.
Doveva
quindi cercare una strategia che non fosse solo tuffarsi di qua e di
là per evitare i suoi attacchi.
Di
nuovo, si fermò e smise di respirare, acuendo i sensi.
Fruscio,
fruscio. Silenzio. Schiocco.
Saltò
all'indietro e si distanziò con due capriole, ritornando in
posizione.
Era
vicino al bordo dell'arena, però, e lo scroscio della
fontana alle
sue spalle lo disturbava un po'. Perciò non
riuscì a percepire il
suono di passi, ma solo quello della lunga lingua: non avrebbe fatto
in tempo a scansarsi.
Con
una risoluzione dell'ultimo secondo, lasciò andare il fiato
e rimase
immobile.
Chiuse
gli occhi.
Un
sibilo gli correva incontro.
La
frusta si attorcigliò contro il suo polso
e lo strattonò con
violenza, sollevandolo dal suolo; di nuovo, sfrecciò
nell'aria come
un proiettile. Mantenne la calma e afferrò con la mano la
disgustosa
lingua, stringendo forte la presa; poteva giurare di aver sentito un
sussulto nella molle appendice, di sorpresa.
Ruotò
come possibile il corpo, tenendolo perpendicolare.
Il
pugno di Trebor lo prese al petto di sfuggita, mentre il suo calcio
invece colpì la lucertola dritta in faccia, con tutto il suo
peso
moltiplicato per la velocità acquisita.
Il
suo avversario ritornò visibile nel momento dell'impatto e
lo videro
volare brutalmente verso le pareti; la forza non era sufficiente, ma
fu abbastanza per mandarlo a bagno nell'acqua attorno alla
piattaforma.
Riemerse
con un rantolo spaventato e si issò velocemente sul terreno,
completamente bagnato.
“Adesso
è un po' difficile che tu riesca a renderti
invisibile” constatò
Raph, con un mezzo sorriso.
Trebor
si rialzò gocciolando copiosamente sul pavimento e
capì anche lui
che non sarebbe stato possibile. Metà della sua strategia
era
scomparsa.
I
suoi occhi scompagnati ruotarono ognuno per conto proprio e Raphael
pensò che tutto sommato non gli dispiaceva così
tanto non averlo
guardato in faccia tutto il tempo; era parecchio disturbante.
Il
simil camaleonte aprì la bocca e srotolò la lunga
lingua, color
giallo malato, così veloce che non la vide: la
sentì avvicinarsi al
braccio, ma non riuscì a scansarsi in tempo.
Si
sentì come punto da un grosso insetto e ringhiò
infastidito. Trebor
si mantenne sempre a debita distanza, dove sapeva che lui non poteva
raggiungerlo.
Se
ci avesse provato, comunque, avrebbe avuto tutto il tempo per tenerlo
alla larga usando la sua “arma” incorporata.
Raph
lasciò andare un sospiro piuttosto calmo. Più
seccato che
arrabbiato.
Corse
alcuni passi in avanti e attese il momento in cui Trebor si difese
facendo schioccare la lingua: si tuffò immediatamente contro
di lui
e la afferrò a mezza distanza, stringendo forte.
La
lucertola antropomorfa non riuscì a soffocare il grido di
dolore.
Raphael
tirò con tutta la sua forza l'esile corpo a cui era
attaccata, che
saltò in aria come un tappo fuori da una bottiglia di
champagne: il
pugno già pronto colpì dritto in faccia e il
povero avversario
venne risospinto indietro alla stessa velocità; si
fermò con uno
strattone violento, dato che il mutante non aveva lasciato andare la
presa, e il corpo rimbalzò ancora una volta contro di lui,
come uno
yoyo grottesco.
Raph
lo colpì ancora, ma ebbe pietà e stavolta non con
la stessa
violenza di prima: Trebor gemette per il dolore e gli occhi ruotarono
nelle orbite senza freno, mentre finalmente toccava terra, con un
tonfo sordo.
La
tartaruga mutante prese un Sai con la mano libera, continuando a
tenerlo per la lingua. Si avvicinò a passi veloci, ma tanto
Trebor
non sembrava davvero più in grado di combattere: quando fu
sopra al
suo corpo disteso, Raph sollevò l'arma sulla testa.
Il
momento fu così breve che non stava pensando propriamente a
niente.
Non c'era il tempo.
Il
colpo calò con forza e lo avrebbe portato dritto alla
vittoria. Il
suo avversario era a terra, esausto, ormai sconfitto.
Sparì
in un secondo nella luce azzurra, lasciando nell'arena solo Raphael,
vincitore del Battle Nexus, ancora chino per la portata dell'attacco.
Il
torneo era concluso e lui aveva davvero vinto.
Era
tutto finito.
Una
luce verde e abbagliante lampeggiò improvvisa, fredda e
letale,
correndogli incontro.
Note
dal torneo:
Salve
a tutti.
Pensavo
di riuscire ad essere in tempo stavolta, ma non ce l'ho fatta per due
giorni. Mannaggia.
Comunque:
Capitolo
tutto combattimenti, semifinale e finale assieme. Ho
cercato di essere molto secca nella narrazione per trasmettere queste
scene che si svolgono una dietro l'altra, senza respiro.
Ci
tengo a ricordare che tutto quello che è successo dal
capitolo 8
fino a ora fa tutto parte della stessa giornata, l'ultimo di
Settembre.
Che
si concluderà col prossimo capitolo.
Alla
fine, come molti hanno previsto, c'è stato lo scontro
Raph-Leo! Era
dal primo capitolo in cui c'era il loro allenamento che
questo nuovo incontro era predetto, alla fine. Vedo il loro modo di
lottare uno contro l'altro come una danza e di questo dobbiamo dare
la colpa al film 2007, dove c'è davvero una loro battaglia: ogni
volta
che lo guardo io ho un ritmo tribale in testa, è troppo
perfetto e
cadenzato.
“To
Glory” è il titolo della canzone dei
“Two steps from hell” che
ha fatto da sottofondo al capitolo per me, la musica che scandisce
la lotta di Raph e Leo. Almeno nella mia testa.
Il
torneo è finito. E Raph ha vinto!
Quasi
nessuno aveva scommesso su di lui, povero amore!
Note
di me:
Ah,
che faticaccia. Combattimenti, combattimenti, combattimenti. Me li
sogno la notte.
Dopo
questo scrivo di loro che se ne vanno in vacanza, guardate. XD
Volevo
ringraziarvi di cuore per il vostro sostegno, la vostra dolcezza. Grazie di
leggere, seguire, commentare. Mi riempite di gioia.
Benvenuti
a nuovi lettori, grazie a chi mette le storie tra i preferiti e i
ricordati, chi mi reputa all'altezza di essere una degli autori
preferiti!
Vi
adoro!
Ho
creato una pagina fb connessa a questo profilo, grazie a Cat che mi
ha dato l'idea: è nuova e non ci sto molto, ma chi vuole
può
entrare in contatto con me chiedendomi l'amicizia. Al momento sono
sprovvista di pc perciò non ci sarò per un po',
ma appena posso
arrivo e vi assillo! ^___^ (nome non veritiero, ma Fb mi chiedeva
assolutamente un nome e cognome “reali”. Abbiate
pazienza! XD)
https://www.facebook.com/isabel.zanitti.1?fref=ts
E
niente, grazie. Abbraccione mega dal profondo del cuore!
|
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Capitolo 15 *** Don't let me go ***
L'arena
brillò di verde, dolorosamente. Una luce impossibile da
sostenere,
che feriva gli occhi; i più li socchiusero, cercando di
vedere cosa
stesse accadendo: un raggio mortale correva verso Raphael che, ancora
inginocchiato dalla foga del colpo portato, sembrava incapace di
reagire in tempo.
Lo
avrebbe preso in pieno e tutti si chiedevano se quell'energia mistica
fosse letale. Non faceva parte della competizione, perciò la
magia
dell'arena l'avrebbe trasportato via prima di poter essere ferito?
Non
mancavano che pochi centimetri all'impatto di quella luce malsana,
quando una figura ancora più luminosa apparve, imponente nel
Kimono
rosso sangue, due Tessen nelle mani già aperti che
riflettevano il
verde del raggio sconosciuto e la sua bianca brillantezza: Isabel
sventolò le sue armi come una stoccata contro la minaccia e
la
defletté in due direzioni opposte, assorbendo l'energia e
disperdendola contro i muri dell'arena.
Ci
furono due esplosioni in contemporanea, quando i raggi
più
piccoli cozzarono contro le pareti, sollevando polvere e detriti.
Raphael
si era rialzato e guardava in trance la schiena di Isabel, ferma,
rigida. Arrabbiata.
Ci
mise qualche attimo prima che realizzasse che lei lo aveva salvato da
un attacco probabilmente letale e un minuto buono perché
invece si
rendesse conto che si era teletrasportata nell'arena dal posto
d'onore.
“Cos-
non puoi entrare qui!” la sgridò, cercando di
capire.
Isabel
non gli rispose. Rimase altera e silenziosa, i Tessen chiusi stretti
tra i denti. Con le mani libere cominciò a trafficare con i
nodi
dell'Obi, districandoli come meglio poteva.
“Cosa
stai... vuoi risponderm-”
La
voce morì nella gola di Raphael quando, dopo aver sciolto
l'Obi e
averlo piegato con cura, Isabel sfilò il Kimono e la
sottoveste
bianca, restando in intimo.
Con
tutta la calma del mondo piegò anche quelli e tolse i Tabi e
gli
Zori, ponendo ogni capo sopra l'altro, chiudendoli tutti in una bolla
protettiva.
“Cosa
stai facendo? Sei impazzita?” le urlò, sconvolto
dai suoi
atteggiamenti e dalla sua apparente calma. Era seminuda nell'arena
del Battle Nexus, davanti a centinaia di esseri di ogni dimensione,
senza contare tutta la sua famiglia e il Daimyo.
“È
il Kimono di Tang Shen, non voglio che si rovini” rispose lei
con
un tono ovvio, come se lui dovesse sapere perché si stava
comportando così.
Si
era voltata a guardarlo, infine, e Raphael riconobbe quello sguardo
arrabbiato e concentrato, che altre volte aveva visto nel suo viso.
Quella risoluzione, ma anche quella luce di paura.
Isabel
si girò verso il punto da cui il raggio era arrivato,
dandogli
nuovamente le spalle.
“Avanti,
mostrati!” gridò poi dal fondo dei suoi polmoni e
la sua voce
riecheggiò nell'arena, rimbalzando ovunque, spaventando gli
spettatori ormai silenziosi e tesi in attesa di risposte.
Non
erano certi che non facesse tutto parte dello spettacolo, ma
sembravano percepire la tensione che li scuoteva, che era reale.
Raph
stava per aprire bocca per chiederle spiegazioni su cosa stesse
accadendo e cosa lei sapesse, quando un enorme boato fece tremare il
terreno: la parete di fronte esplose e i detriti e la polvere corsero
incontro a loro, letali come proiettili, frammisti a gocce d'acqua di
una delle fontane ormai frantumata, che spargeva il getto impazzito
ovunque.
Isabel
innalzò uno scudo e attese col cuore in gola che il fumo si
diradasse per poter identificare il suo nemico.
Un
gigante di acciaio e roccia apparve, camminando con scatti cigolanti,
con una piccola pietra scintillante incastonata nella fronte e uno
degli enormi bracci dotato di una lama affilata: era alto
più delle
mura dell'arena e ad ogni suo passo la terra tremava.
Isabel
ghignò amaramente. Un golem imperiale, non credeva che ne
avrebbe
mai visto uno.
“Continui
a nasconderti” mormorò tra sé,
abbassando lo scudo e aprendo i
Tessen, già in posizione di attacco.
“Cosa
credi di fare? Quel coso ha cercato di uccidere me!”
urlò Raphael
portandosi al suo fianco, alzando un braccio per bloccarla.
“Appunto”
soffiò lei, furiosa. “Voleva attirare la mia
attenzione.”
Con
un salto lo scavalcò e corse verso la creatura, pronta a
combattere.
“Daimyo!
Dovete fermare questa pazzia! È
oltraggioso!” esclamò Splinter, tenendo d'occhio i
suoi discepoli
con preoccupazione. Non era il solo: Don, Leo, Mikey, Steve e tutti
gli altri seguivano l'improvvisa lotta con curiosità e ansia
assieme.
Isabel
era scomparsa in un istante nel percepire la minaccia contro Raphael,
e solo in quel momento si erano resi conto di come fosse stata
silenziosa e strana durante quella giornata; Leo e il maestro si
stavano dannando l'anima al pensiero che forse lei avesse percepito
qualcosa di cui non aveva fatto parola per non farli preoccupare.
Il
venerabile Daimyo impugnò immediatamente il suo bastone,
pronto a
trasportare tutti nell'arena; lo alzò sicuro, chiudendo gli
occhi
per concentrarsi. Ma non accadde nulla.
Li
riaprì sorpreso e spaventato.
“Non
posso, Splinter-san. C'è una barriera che li isola, un
grande potere
in atto” rivelò suo malgrado, con voce grave.
Splinter
sospirò e riportò l'attenzione verso i suoi
figli, con
preoccupazione.
“Isabel!”
urlò Raphael, correndole dietro. Lei si era gettata in un
attacco
frontale, con i Tessen aperti. Scivolò tra le gambe della
creatura,
arrivando alle spalle: provò a infilzare le stecche di
metallo nella
roccia, ma venne risospinta all'indietro.
“Va'
via! È
me che vuole!”
gli rispose, scansandosi appena in tempo, prima che il passo del
gigante la schiacciasse.
Raph
ribatté con un ringhio adirato, conscio che lei gli stesse
tenendo
nascosto qualcosa, poi si gettò a testa bassa, i Sai ben
stretti nei
pugni: con un salto prodigioso colpì all'altezza dell'addome
del
golem, ma le punte delle armi slittarono e stridettero contro la dura
roccia senza lasciare nemmeno un graffio.
Ricadde
a terra con un tonfo secco e si spostò con un balzo,
evitando così
di essere colpito dal gigante che continuava a camminare a grandi
passi mentre sventolava di qua e di là il braccio munito di
spada,
fendendo l'aria; dovevano essere veloci e fulminei per non essere
colpiti, nemmeno per sbaglio.
Il
golem non era una creatura senziente, si muoveva solo per il volere
del suo creatore, ma proprio per quel motivo li seguiva con
un'ossessione implacabile, gli occhi vitrei sempre incollati su
Isabel, la sua preda. Raphael era un moscerino fastidioso, in
realtà,
ma dato che lo stava attaccando, era diventato un ostacolo da
rimuovere per arrivare al suo obiettivo.
Ad
ogni passo crepe profonde straziavano il pavimento, e correre era
sempre più difficile; se non avessero fatto attenzione, una
caduta
accidentale li avrebbe resi prede inermi.
Raphael
si lanciò in un nuovo attacco, saltando più in
alto per raggiungere
la pietra sulla testa del golem; dovette scartare il braccio con la
spada a metà percorso, ma non si era aspettato l'attacco
dell'altro
arto e il pugno di roccia lo colpì, ed essendo gigantesco,
non ci fu
un punto del suo corpo che fu risparmiato: volò come un
proiettile
contro il muro e sbatté malamente, e cadde poi con un tonfo
nell'acqua intorno alla piattaforma, sollevando spruzzi fino al
cielo.
“Raffaello!”
urlò Isabel spaventata, gli occhi d'improvviso bianchi. La
magia
scorreva libera nel suo corpo, che iniziò di nuovo a
brillare.
Schizzò
in avanti e colpì contro la gamba del mostro, che esplose al
solo
tocco in miliardi di frammenti: il golem perse la presa sul terreno,
barcollò vertiginosamente e poi crollò al suolo
con un boato
enorme, facendo tremare la terra.
Isabel
si dovette inchinare per non cadere lei stessa per le scosse, poi
scattò in avanti e corse verso il bordo dell'arena,
scrutando
l'acqua di nuovo statica alla ricerca del suo amato.
“Raffaello?”
chiamò preoccupata, inginocchiandosi.
Per
qualche secondo ci fu silenzio, poi con un gorgoglio la superficie
dell'acqua si infranse e Raphael riemerse, scrollando la testa come
un cane. Isabel lasciò andare un sospiro rincuorato.
“Stai
bene?”
“Sì,
solo molto bagnato. Ma almeno mi sono tolto la bava di camaleonte da
dosso” le rispose mentre si issava sul bordo, al suo fianco.
Si
passò le mani sulla faccia, poi la guardò per
controllare come
stesse lei.
“Hai
perso la calma?” domandò al vedere i suoi occhi
bianchi, a cui
ancora non riusciva ad abituarsi del tutto.
“Solo
un pochino” ammise Isabel con un sorrisino, senza tuttavia
lasciar
andare il suo potere.
Raphael
diede un'occhiata alle spalle, verso il golem crollato al suolo che
recuperava pian piano le energie, illuminato di verde: i detriti
staccatisi dal suo corpo stavano volando verso di esso, attirati dal
potere magico; scheggia per scheggia, la gamba di pietra si stava
ricompattando e non mancavano che pochi istanti prima che ritornasse
alla carica.
“Cosa
sta succedendo, Isa?” le chiese velocemente, eppure con tutta
la
preoccupazione necessaria.
Isabel
si morse il labbro, abbassando lo sguardo.
“Qualcuno
mi ha tenuto d'occhio, nell'ultimo mese. Mi ha spiata, mi ha seguita.
Non so perché e non so chi sia, ma ha deciso alla fine di
agire”
confessò, così come avrebbe dovuto fare fin
dall'inizio.
Avvertì
le ondate di rabbia e paura che Raphael iniziò ad emanare e
un
tremore la scosse, sottilmente.
“Perché
non me ne hai parlato prima?” lo sentì chiedere,
con un tono più
ferito che arrabbiato.
“Non
volevo distrarti dal torneo. Lo so che è sciocco, ma volevo
aspettare di sapere chi fosse, volevo essere sicura di non essermi
immaginata tutto. Alla fine del torneo te l'avrei detto.”
Trattenne
il respiro, colma di rimorso. Sapeva già da tempo che aveva
sbagliato a nascondergli la verità, ma non era pentita di
averlo
fatto; aveva dato a Raphael la possibilità di pensare solo
al torneo
e aveva vinto grazie a quella serenità d'animo.
Non
avrebbe mai pensato che la misteriosa presenza si sarebbe manifestata
alla fine di esso, nel momento in cui lui aveva vinto, prendendolo di
mira per farla uscire allo scoperto.
“Sei
riuscita a colpirlo. Dobbiamo collaborare se vogliamo
batterlo”
disse Raphael, con voce calma.
Isabel
fu così sorpresa di non essere rimproverata, che perse la
concentrazione sui suoi poteri e la luminescenza attorno al suo corpo
scomparve, e i suoi occhi tornarono del loro colore castano.
“Io
attirerò la sua attenzione e tu colpirai con la magia nel
centro
della fronte. Se questo golem è come quelli che hai
sconfitto in
passato, esploderà e diventerà polvere”
continuò il mutante,
alzandosi in piedi.
Le
tese una mano, a cui lei si aggrappò con forza per tirarsi
su, grata
del tocco caldo, del contatto.
“Quando
sarà tutto finito, aspettati una tirata d'orecchie.
Testarda”
soffiò Raphael quando l'ebbe accanto, guardando
però di fronte a
sé: il golem si stava rialzando con scatti rigidi, la gamba
ormai
ricomposta, come se Isabel non l'avesse nemmeno scalfita.
“Vai!”
urlò imperioso, allontanandosi da lei.
Raphael
corse di nuovo incontro alla creatura, stringendo forte le armi:
scansò un pugno che andò a schiantarsi contro il
pavimento e colpì
il braccio di roccia, inutilmente. Più che farlo arrabbiare,
non
aveva alcuna speranza di far alcun danno a quel mostro.
Isabel
si era rivestita di potere. Gli occhi di nuovo vuoti e splendenti, il
corpo leggermente luminescente, corse praticamente non vista alle
spalle del golem, volando poi fino alla sua testa. Nelle mani i
Tessen chiusi catalizzavano la sua magia, attraversati da
elettricità
pura.
Aspettò
il momento giusto. Raphael stava facendo del suo meglio per attirare
completamente la sua attenzione, forse anche troppo: la pietra sulla
fronte del gigante si illuminò di verde, con un sibilo
minaccioso.
Isabel
decise di intervenire prima che fosse troppo tardi. Scese in
picchiata, fendendo l'aria con la punta dei Tessen, sempre
più
luminosa, sempre più veloce.
La
pietra emise il suo raggio mortale appena prima che la raggiungesse e
nello stesso istante il braccio tagliente del golem la colpì
in
pieno, scaraventandola all'indietro: cadde
al suolo, strisciando per qualche metro sulla superficie sconnessa e
dura, graffiandosi ogni centimetro della schiena.
Guardò il cielo rosa sopra
di sé, sempre più arrabbiata, gli occhi di nuovo
normali.
Sentiva
bruciare da qualche
parte all'altezza della spalla destra, sentiva qualcosa di caldo
bagnarle la pelle e gocciolare al suolo.
Strinse i denti e ingoiò il
grido di dolore che premeva per uscire, perché non aveva il
tempo
per lamentarsi. Si rialzò lentamente, cercando di non
forzare la
spalla, dove lo squarcio causato dal mostro pulsava e bruciava da
impazzire. Il Kanzashi si era rotto durante lo scontro e i capelli si
erano sciolti, sparpagliati sulla schiena, e alcune ciocche si
appiccicarono al sangue che le ricopriva la pelle, copioso.
Doveva
sconfiggere il golem. E
non aveva sparato il raggio, prima di colpirla? Come stava Raphael?
“Dobbiamo
scendere ad aiutarla! È
in pericolo” strillò Mikey, che si stava sporgendo
fin dove
possibile, arrivando a toccare la barriera invisibile che isolava
l'arena. Avevano assistito ad ogni istante, così come
chiunque fosse
presente, senza capire, con la paura nel vedere che il nemico era
reale, che attaccava per uccidere.
Voleva
raggiungerli. Così come lo volevano gli altri.
“Perché
la protezione
dell'arena non funziona? Perché non viene trasportata via
prima di
essere ferita?” esclamò sconvolto Don,
occhieggiando con
preoccupazione il lungo taglio sulla spalla e sul braccio di Isabel,
dal quale usciva un lungo rivolo di sangue che imbrattava il
reggiseno candido e gocciolava sul pavimento.
La tensione di Splinter era
palpabile, così come quella del Daimyo, impegnato a
discutere coi
suoi sacerdoti per arrivare alla radice del problema, per poter
forzare la barriera imposta da un estraneo sulla sua arena e fermare
quella oltraggiosa battaglia.
“Dov'è
Raphael?” domandò
Leo, all'improvviso.
Gli occhi di tutti corsero per
lo spazio esiguo, finché non trovarono ciò che
stavano cercando.
Ci fu un grosso urlo strozzato,
unanime, e un grido di orrore di Mikey.
Isabel era
di nuovo in piedi,
alle spalle del golem. Ma non era al sicuro. La creatura si stava
voltando verso di lei, con quella sua andatura rigida.
Dov'era Raphael? Era l'unica
domanda che galleggiava nella sua mente. Più forte e
importante del
dolore.
Riuscì a spostarsi a destra,
girando nella stessa direzione della creatura perché non la
vedesse,
sorreggendo il braccio per non forzare la spalla.
Vide del nero, in fondo. Nero e
verde. Ma c'era anche del rosso.
Rosso come il suo. Rosso come il
sangue che gocciolava lungo il suo braccio.
E perché Raphael era a terra?
Si
lanciò in avanti, ignorando
il bruciore, senza pensare a quella mostruosa creatura che la stava
cercando e che non ci avrebbe messo molto a trovarla, e corse verso
il corpo disteso al suolo, con un orribile magone che le mangiava il
cuore.
Ad ogni passo, il rosso era
sempre più inteso. Era tutto intorno al corpo. Era sul corpo.
Come riuscì ad arrivare al suo
fianco senza inciampare, dato il tremore che aveva iniziato a
scuoterla, fu un mistero.
Sbatté
le ginocchia a terra con
violenza, quando fu al suo fianco. Ma non percepì nessun
dolore.
Allungò le mani verso Raphael,
gli occhi ricolmi di lacrime.
Quelli vitrei di lui
guardavano il cielo, senza poterlo vedere. Un grosso squarcio
trapassava il suo torace da parte a parte, lì dove c'era
stato il
suo cuore. C'era sangue, troppo sangue.
E lui era immobile. Spento.
Le mani
tremarono nel toccarlo.
Il suo sangue colava su quello di lui con un gocciolio tetro,
mischiandosi.
“Raffaello?”
chiamò, la
voce rotta e spaventata, mentre gli circondava il viso con le mani.
Il calore lo stava abbandonando,
non c'era più un alito di vita.
“RAFFAELLO!”
urlò fuori di
sé.
Chiunque poté sentire il suo
urlo straziante.
Un secondo
dopo era rivestita di
una luce bianca, impossibile da sostenere. Colpì con le mani
il
petto del mutante e una scossa di potere passò dal suo corpo
all'altro, continua.
Lo avrebbe riportato in vita. Le
fosse anche costata la sua.
Le onde bianche e calde
raggiungevano Raphael e lo avvolgevano, ma ritornavano indietro,
senza guarirlo.
“Ti
prego” singhiozzò
Isabel, come una nenia.
Ad ogni ondata di magia di
guarigione che ritornava al suo corpo, realizzava con orrore che non
poteva guarirlo, che era... che Raphael ormai era...
Un raggio
verde brillò
nell'arena, contro di lei.
Si infranse in mille petali
contro lo scudo innalzato all'ultimo secondo, sprizzando scintille
come un fuoco d'artificio.
Isabel non si era voltata verso
la minaccia. Aveva smesso di brillare e stava stringendo la mano di
Raphael tra le sue, premuta contro le labbra.
Era freddo. Era già così
freddo.
Sotto lo
sguardo attonito degli
spettatori, -sconvolti nel vedere per la prima volta un'uccisione
nell'arena del Nexus,- Isabel incrociò le mani del suo amato
sul
petto, poi si alzò lentamente.
Si voltò verso il golem e alzò
lo sguardo e allora li videro.
I suoi occhi completamente
rossi, che piangevano stille di sangue.
Lo scudo
cadde, Isabel iniziò a
camminare verso la creatura, ma ad ogni passo profonde crepe
apparvero, le mattonelle si sbriciolarono come sotto una tremenda
pressione.
La luce che la avvolgeva era
rossa.
Marchi lividi apparvero in
complessi ghirigori e disegni lungo il suo corpo, salendo dalle
gambe, rivestendola tutta, dello stesso colore di quella luce malsana
che la circondava.
Un
altro passo e un'altra porzione di pavimento si sgretolò in
polvere
finissima. Un forte vento si innalzò all'interno della
barriera, in
spirali taglienti, inglobando la polvere nel suo tumulto.
Il
golem non poteva percepire la minaccia, non sentiva la paura che un
altro avrebbe legittimamente avvertito nel vedere quella creatura
marchiata di sangue venirgli incontro, ma la sentì
avvicinarsi; la
pietra verde sulla sua fronte brillò e con un ronzio
sparò un
raggio mortale: la massa di energia si abbatté su di lei, ma
si
disperse senza lasciarle un graffio, innocua.
Le
striature rosse sul suo corpo brillarono più forte, insieme
a quegli
occhi minacciosi. Isabel continuava a camminare verso il golem,
sgretolando ad ogni passo l'arena, disperdendo senza sforzo i raggi
che il mostro aveva iniziato a spararle contro, a ripetizione.
Finché
non arrivò ai suoi piedi.
Seguendo
un comando mentale del suo padrone, il golem lasciò perdere
gli
attacchi con la magia e sollevò al cielo il braccio munito
di spada,
che calò di colpo su di Isabel, immobile a guardare verso
l'alto. La
pietra smussata e affilata si fermò contro il suo braccio
nudo
alzato per difendersi, una crepa apparve nel punto dello scontro e
iniziò a diramarsi su fino al braccio: esplose in sabbia,
finissima
e impalpabile.
Il
golem indietreggiò.
Non
poteva provare paura, ma indietreggiò.
Isabel
si sporse con calma e lo toccò in punta di dita, con quelle ondate scure di
magia che
parevano fiamme dell'inferno.
Un
secondo.
In
un secondo il gigante di roccia si dissolse al contatto, in una
sottile spirale di polvere nera che rimase a galleggiare nelle folate
di vento. Isabel si sollevò a mezz'aria, mentre la polvere
le
gravitava attorno, e il vento cresceva e il pavimento e l'arena si
frantumavano anch'essi.
L'acqua,
la pietra, il legno svanirono nella pura aria e masse di energia
scura apparivano al loro posto, sempre più violente.
Isabel
era il nucleo di quel tifone che avrebbe mangiato tutta l'arena.
“Cosa
sta succedendo?” domandò Leonardo sconvolto. Il
suo sguardo vagava
impazzito dal corpo di Raphael steso a terra a Isabel, centro di un
tornado impazzito di magia che stava consumando tutto ciò
che la
circondava.
Non
aveva mai visto quegli occhi rossi sul suo viso. Non l'aveva mai
vista usare un tipo di magia simile.
“Isabel
ha perso il controllo” sibilò grave Splinter,
anche lui ferito,
incredulo, straziato dal dolore. “Sta diventando come un buco
nero
che assorbe e distrugge tutto.”
Il
silenzio accolse la sua teoria, un silenzio di dolore.
“La
barriera, Splinter-san, è caduta!”
annunciò d'improvviso il
Daimyo, afferrando nuovamente il suo bastone. Guardò verso
il saggio
ratto, come a chiedergli che volesse fare. Andare nell'arena in quel
momento significava rischiare la loro vita.
Non
ci fu dubbio sulle facce dei presenti: dovevano scendere e aiutare
Isabel, quali fossero state le conseguenze.
Ad
un gesto dello scettro del Daimyo, una bolla azzurra racchiuse tutti
i presenti, trasportandoli all'interno dell'arena.
Non era
rimasto già più nulla.
Le pareti, il pavimento dalle
mattonelle gialline, il rigagnolo d'acqua gettato dalle fontane e
quelle stesse. Era tutto scomparso, dissolto nella pura aria,
assorbito dal corpo rosso che levitava a qualche centimetro dove
prima era stato il suolo.
Solo il posto dove giaceva il
corpo di Raphael era rimasto intonso, come un santuario intoccabile.
La bolla
azzurra apparve e
scoppiò, rivelando i suoi ospiti: si coprirono tutti il viso
per
resistere alle folate di vento; Tomoe venne risospinta da una
particolarmente potente, ma Usagi fu veloce ad afferrarle la mano e
riportarla accanto a sé.
“Isabel!”
urlò Splinter,
cercando di sovrastare il rumore delle sferzate, simile ad un
lamento.
Lei non diede segno di averlo
sentito, ma tutti persero presa sul terreno e scivolarono
all'indietro di qualche metro.
“Isabel!”
chiamarono allora
tutti insieme, provando a far diventare le loro voci una sola, per
poterla raggiungere.
Il loro richiamo si perse
ancora, nel vento che iniziò ad ululare più forte.
“Non
ci sente o non vuole
sentirci” strillò Donatello, mentre le code della
sua maschera si
sbriciolavano per effetto della magia.
Quanto ancora sarebbe stato
prudente rimanere, prima di essere cancellati dall'esistenza?
“ISABEL!”
chiamò una terza
voce, una voce che non avrebbe dovuto esserci.
Si voltarono tutti, si voltò
anche lei.
Raphael era alle loro spalle, ma
guardava solo Isabel, strizzando gli occhi per sostenere il vento.
Era vivo, era illeso.
Lo sguardo di ognuno scivolò
incredulo verso destra, verso il corpo ancora a terra e poi di nuovo
sulla figura in piedi, e poi ancora sul corpo. Erano entrambi
Raphael.
Allora quello in piedi di fronte
a loro era forse uno spirito?
Quel
Raphael si avvicinò a
grandi passi verso di lei, ignorando le sferzate di energia, il
pavimento consumato, la polvere che volteggiava nell'aria; con un
grande sforzo riuscì a raggiungerla, a resistere alla
terribile
pressione che emanava.
A non rabbrividire mentre
sosteneva quello sguardo di sangue, così glaciale.
Il vento si placò e lei
ridiscese al suolo, sollevando il viso per guardarlo ancora. Una mano
si tese e lo toccò, sfiorò la sua guancia e
lì rimase quando sentì
che era reale.
“Raffaello?”
chiese, ma la
voce di Isabel era diventata profonda e graffiante come se provenisse
da un'altra dimensione.
Raphael
coprì la sua mano e le
sorrise.
“Sono
io” disse,
stringendo forte la presa. La mano di lei tremò nella sua.
Si voltò a guardare il corpo
disteso alla sua sinistra, poggiato sul pavimento, ricoperto ancora
di sangue; Raphael seguì il suo sguardo e vide quell'altro
sé.
Rabbrividì, sottilmente.
“Quello
non sono io. Non so
cosa sia, ma non ero io. Io sono qui, sono vero. Sono vivo”
la
rassicurò, spostando le loro mani intrecciate sul cuore,
contro il
battito impazzito che lo scuoteva.
“Torna
da me, Isa” supplicò,
incapace di sostenere ancora quegli occhi rossi, divorato dalla paura
di ciò che lei stava diventando.
“Raffaello”
singhiozzò lei,
gettandosi tra le sue braccia.
I marchi
scuri scomparvero dal
suo corpo, il vento cessò e la polvere si adagiò
a terra e Raphael
seppe, senza bisogno di allontanarla da sé per guardarla in
viso,
che i suoi occhi erano tornati normali.
La strinse forte, cercando di
calmare il suo tremore, poggiando piccoli baci sui suoi capelli.
Un suono di passi lo costrinse a
sollevare lo sguardo, sulla sua famiglia e i suoi amici; erano tutti
sollevati, spaventati e increduli allo stesso momento. Mikey,
quell'idiota, si deterse una lacrima di sollievo.
“Sono
vivo. Mentre combattevo
mi sono ritrovato in infermeria, prima che il raggio mi colpisse: ho
visto quell'altro me apparire dal nulla nello stesso istante e venire
colpito al posto mio. Ma non so dirvi come sia successo”
spiegò
loro, continuando a carezzare la testa di Isabel.
“Non
è ancora finita.
Chiunque abbia creato quel golem è ancora là
fuori” esclamò
Splinter grave, ma i suoi occhi scintillavano di conforto nel vederli
tutti e due sani e salvi.
“È
qui, sensei. È qui” sibilò Isabel,
allontanandosi da Raphael,
guardandolo sottilmente coi suoi occhi castani. C'erano tracce di
pianto, ma erano di nuovo caldi e normali.
Il
Daimyo prese il comando e alzò lo scettro in aria,
minaccioso.
“Palesati,
chiunque tu sia! Come osi interrompere il Battle Nexus e attaccare i
miei ospiti?” Il cielo si oscurò, nuvoloni neri si
addensarono
sul palazzo e l'arena, attraversati da fulmini.
Al
di sotto apparvero cinque figure, sospese a mezz'aria. Nessuno di
loro era in posizione di attacco o di minaccia, ma emanavano comunque
un'aura di potere.
“Shi-
Shisho?” balbettò incredulo Mikey, riconoscendo
nelle figure i
loro maestri del Ninja Tribunal.
Chikara-Shisho
stava al centro, bella e pericolosa come sempre, i lunghi capelli
bianchi intrecciati in una complessa acconciatura e il corpo sinuoso
fasciato in un Kimono verde.
Alla
sua destra c'erano Kon-Shisho, sottile e misterioso, -coi capelli
argentei e un abbigliamento guerriero,- e Juto-Shisho, con le sue
solite enormi maniche svolazzanti. Alla sinistra il silenzioso e
gigantesco Hisomi-Shisho e il sempre sorridente e rotondetto Antico,
piccolissimo in confronto agli altri.
Li
guardarono tutti, da sotto a su, meravigliati.
“Perdonateci,
Ultimate Daimyo. Siamo stati costretti dalle circostanze ad agire in
maniera brutale” disse la donna, in fase di discesa insieme
agli
altri. I cinque toccarono terra, con leggiadria e possanza, senza
staccare gli occhi da Isabel. Quelli di Chikara erano verdi,
completamente verdi e luminosi, freddi.
Isabel
rabbrividì, riconoscendo all'istante quella sensazione.
“Quali
sono queste circostanze?” domandò il saggio
padrone di casa; non
voleva scatenare una guerra interdimensionale con i maestri del Ninja
Tribunal, rinomati e rispettati, ma se non avessero fornito una
valida spiegazione si sarebbe creata una frattura tra i loro
rapporti.
“Isabel
Charmillion” rispose Kon, alzando il dito contro di lei.
“Io?
Ma siete impazziti? Mi avete seguito, mi avete spiato e costretta ad
essere protetta per poter uscire di casa, senza nessun
motivo!”
“E
ti abbiamo attaccato e poi abbiamo mandato un invito al Battle Nexus
e inviato anche Joi per farti ingelosire e convincerti ad accettare,
per farti combattere” rivelò Chikara, con evidente
fastidio sul
volto per tutti i problemi che aveva creato loro. “Siamo
stati
costretti ad attaccare ciò che hai di più caro,
per farti uscire
allo scoperto.”
Raphael
ringhiò di rabbia, bloccato immediatamente da Isabel.
“Cos'è
quello?” domandò irosa, indicando il corpo a terra
che lei aveva
scambiato per il vero Raphael, perdendo il senno.
“Un
clone. Niente più che un guscio vuoto, un'illusione. Tra
qualche ora
scomparirà nel nulla” rispose Kon, maestro dello
spirito. Una cosa
del genere era una sciocchezza per lui.
“Perché
avete preso di mira Isabel?” domandò Splinter,
facendosi avanti il
più velocemente possibile. Osservò con rinnovato
astio i quattro
maestri, che già in passato avevano agito in modi che lui
non si
spiegava. Ma non si sarebbe mai aspettato dall'Antico un
comportamento del genere. Non da colui che era stato il padre
adottivo di Yoshi e Tang Shen.
“I
suoi poteri sono instabili. In un futuro prossimo perderà il
controllo e ucciderà e cancellerà tutto
ciò che la circonda”
spiegò Chikara, con voce grave.
“No!
Non è vero!” urlò Isabel, sconvolta.
Non
le piaceva quella donna. Il suo sguardo, la sua voce, tutto di lei la
metteva in allerta.
“Sì,
lo è, purtroppo. Kon ha visto ciò che
accadrà, non c'è da
sbagliarsi.”
L'uomo
al suo fianco fece un passo avanti e con un gesto elegante delle mani
fece apparire un piccolo portale di vento, sulla cui superficie
increspata apparvero pian piano delle immagini sempre più
nitide:
il nulla, il nulla nero e vuoto apparve e al centro di esso c'era Isabel, con dei marchi rossi che le solcavano il corpo, avvolta
dalle fiamme; e tutto attorno a lei era distrutto, il fuoco consumava
qualsiasi cosa toccasse, e urla strazianti riempivano l'aria.
“No!
NO! Non sono io! Smettetela!” gridò la vera
Isabel, scuotendo la
testa. Indietreggiò, sconvolta, strizzando gli occhi per non
guardare.
Quando
li riaprì erano di nuovo rossi e una sferzata di energia
colpì Kon,
spezzando la sua concentrazione; il vortice scomparve e così
la sua
immagine del futuro.
“I
tuoi poteri non sono mai stati stabili, Isabel Charmillion. Ma non
hai mai costituito una minaccia, finché non hai incontrato
loro”
intervenne Chikara, indicando verso i cinque mutanti che erano la sua
famiglia.
“Ora
che hai qualcosa da proteggere, ora sei anche una bomba ad
orologeria. Il tuo potere bolle e ribolle, nutrito dal loro affetto,
ma se qualcuno oserà toccarli, se qualcuno di loro
verrà ferito o
ucciso, tu esploderai e non potrai più controllarlo. Farai
del male
a chi ami, cancellerai tutto ciò che ti circonda.”
“No,
no, non è vero, no” ripeteva tra i denti Isabel,
indietreggiando
ancora. Si scontrò con Raphael, che allungò le
braccia per
stringerla. Il suo abbraccio era caldo e rassicurante, ma proprio per
quello la faceva sentire ancora più sporca e instabile.
Quella
sensazione di nulla e orrore che l'aveva riempita quando aveva perso
il senno poteva ancora sentirla sulla pelle. Era intossicante, era
pericolosa.
“Se
non ti allontanerai ora da loro, finirai per ucciderli. Tra meno di
un anno” sentenziò la donna dai freddi occhi
verdi, come un
verdetto di morte.
Allontanarsi
dalla sua famiglia? Lasciarli per sempre per non far loro del male?
“Noi
possiamo insegnarti a controllare quel potere. Dovrai venire via con
noi se non vuoi rischiare di distruggere tutto ciò che hai
di caro.”
La
voce di Chikara scivolò tra loro, ma le parole dette vennero
recepite dopo qualche istante, tra lo sgomento generale.
“Volete
prendere Isabel come discepola?” esclamò Raph,
semi arrabbiato,
stringendola inconsciamente più forte. Non avrebbe permesso
che la
portassero via, mai.
“In
un certo senso. Vogliamo contenere il suo potere, insegnarle a
spegnerlo. Per il bene del mondo intero.”
Sembrò
a tutti un'esagerazione, poi però si ricordarono di essere
al centro
di un'arena dissolta in pochi istanti dalla sua magia, e non poterono
nascondere un brivido giù per la schiena.
“Vengo
anche io” esclamò Raphael, percependo la reticenza
di Isabel nel
prendere una decisione.
Non
voleva andare via, ma nemmeno essere la causa del loro male futuro.
“No,
impossibile. L'allenamento a cui verrà sottoposta
è particolare e
chi non ha poteri non può seguirlo”
negò con vigore Chikara,
decisa.
“Ma
io ho l'Università e aiuto Don a seguirla e-”
“Potrai
continuare a studiare al nostro dojo, ti lasceremo il tempo per
rimanere al passo con gli studi e forniremo a Donatello lo stesso
tipo di supporto che tu gli fornivi. Non sentiranno nemmeno la tua
mancanza.”
“Quando?
E per quanto tempo dovrò allenarmi con voi?”
incalzò Isabel,
sempre più sconfitta ad ogni parola che la donna le
rivolgeva. La
stava schiacciando psicologicamente, ribatteva ad ogni sua negazione
con parole sensate e razionali, e i sensi di colpa e la sensazione di
essere sporca, di avere qualcosa di sbagliato in sé,
crescevano ad
ogni secondo in più.
Eppure
l'idea di andarsene, l'idea di allontanarsi da Raphael era
insostenibile per lei.
“Adesso.
E per qualche mese,
di certo. Padroneggiare gli insegnamenti che ti impartiremo
richiederà dei mesi; quanti, dipenderà tutto dal
tuo impegno e
dalla tua costanza. Meno ti impegnerai, più a lungo starai
con noi”
rispose Kon, secco.
Mesi.
Mesi lontano da Raphael.
Non
voleva lasciarlo. Ignorò chiunque e si voltò
verso di lui, che in
silenzio pensava quanto lei a cosa sarebbe stato meglio fare e cosa
invece voleva il suo cuore.
Isabel
gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte.
Le
sue unghie gli perforarono la pelle, si ancorarono alla sua carne con
violenza, con disperazione. Avrebbero dovuto strapparla via da lui
con forza, se volevano riuscirci.
Lei
non lo avrebbe lasciato. Non lo avrebbe abbandonato, nemmeno contro
la sua volontà.
“Non
ti lascio. Non me ne vado. L'ho promesso, te l'ho promesso”
ripeté come una nenia contro il suo collo, il corpo che tremava
sottilmente.
“Lo
so” le sussurrò Raphael, carezzandole la testa.
E
poi, improvvisamente, la scostò da sé e la tenne
lontana, per
quanto lei cercasse di riavvinghiarsi con tutta la sua forza.
Le
circondò il viso con le mani.
“Guardami,
Isabel” chiese con fermezza. Lei smise di combatterlo e
rimase ad
osservare i suoi occhi scuri, che amava, e poggiò le mani
tremanti
sulle sue.
“Lo
so che non mi lasceresti mai. Lo so che non vuoi più
andartene, che
non mi vuoi abbandonare. Lo so. Ma devi andare. E io ti
aspetterò.
Perché so che tornerai” soffiò fuori
fiducioso. Si sporse e le
baciò le labbra morbidamente, un casto bacio a suggellare la
promessa.
La
lacrima sfuggita gli finì sul pollice, luminosa e solitaria,
quando
lei strizzò le palpebre mentre annuiva.
Non
voleva andare via, ma doveva.
Raphael
la tirò verso di sé e la strinse forte, più di prima, più
di quanto consentito, e il battito del suo cuore non era stato
più
impazzito.
“Continuerò
a lavorare sulla nostra casa mentre non ci sei. La troverai
già
pronta quando tornerai” le promise, così
sottilmente che nessuno a
parte lei poteva averlo sentito.
“No,
aspettami. La faremo assieme. Non tarderò molto.”
Staccarsi
da Raphael fu doloroso, ma necessario o avrebbe cambiato idea
all'istante. Si voltò verso gli Shisho, passando con stizza
il dorso
della mano sul viso.
Perché
loro non meritavano di vedere le sue lacrime.
“Verrò
con voi. Ma voglio almeno vedere la premiazione di Raffaello,
prima”
annunciò, decisa.
Gli
occhi verdi di Chikara splendettero di trionfo.
“E
sia” concesse con il sorriso amaro di chi aveva vinto.
Mostrarsi
magnanima verso la sua richiesta era il minimo che potesse concedere.
Isabel
rifiutò le cure dei guaritori del Nexus e lasciò
invece che fosse
Raphael a guarirla con la sua magia, godendosi ognuno dei baci che le
rubò per poi restituirlo sul suo corpo, in un silenzio timoroso e riverenziale. Poi
infilò nuovamente il
Kimono di Tang Shen, ma i capelli rimasero sciolti.
Mano
nella mano si incamminò con Raphael verso il luogo della
premiazione.
Sulla
terrazza c'erano già tutti, e anche il Ninja Tribunal, in
attesa.
C'era un gran silenzio teso, anche lassù, e sguardi cupi che poco
si
addicevano ad una cerimonia di premiazione.
Si
recò verso il sensei e gli altri, mentre Raphael si portava
di
fronte al Daimyo.
Si
sforzò di sorridere, anche se dentro, al pensiero di doverli
lasciare, si sentiva morire. Si voltò per guardare verso il
centro
prima che loro potessero dirle qualcosa, ma sentì le loro
mani
poggiarsi sulle sue spalle e trattenere quelle lacrime che pungevano
gli angoli dei suoi occhi fu sempre più difficile.
“Raphael,
della terza dimensione, Terra, io ti incorono Campione del Battle
Nexus” disse il Daimyo con solennità, appoggiando
sulla sua testa
una corona intrecciata di alloro; il capo della dimensione si sporse
poi verso uno degli uomini del suo seguito, che teneva uno
scintillante trofeo e lo consegnò nelle mani del vincitore.
Raphael
lo sollevò al cielo per mostrarlo alla folla che esultava,
ma il suo
viso esprimeva tutto tranne che gioia.
Il
suo sguardo non si staccò mai da Isabel e lei fece del suo
meglio
per applaudire con intensità e mostrargli un sorriso fiero
per la
sua vittoria.
E
mentre le acclamazioni continuavano, quella voce fredda
risuonò,
spezzando anche il più piccolo frammento di
felicità.
“Dobbiamo
andare” disse Chikara, rivolta verso Isabel. Un portale di
luce si
aprì su quello che pareva un antico palazzo giapponese, per
quel
poco che si poteva vedere da quella piccola finestra dimensionale.
Isabel
guardava Raphael, ma sapeva che la donna si stava rivolgendo a lei. Si
voltò
verso la sua famiglia e li abbracciò uno ad uno, ascoltando
le loro
raccomandazioni sussurrate all'orecchio, i loro “ci
mancherai” e
“torna presto” e “ti vogliamo
bene”. E i loro abbracci erano
culle protettive che non volevano lasciarla andare, che le facevano
già sentire la nostalgia.
“Aspetteremo
il tuo ritorno, figliola” sussurrò Splinter,
stringendola
teneramente. Ormai piangeva senza ritegno tra il suo pelo morbido,
anche se non avrebbe voluto salutarli con le lacrime.
Il
maestro la allontanò da sé e le
asciugò, con un sorriso
affettuoso. Poi la voltò delicatamente, perché si
accorgesse di
Raphael alle sue spalle, con il trofeo ormai abbandonato al suolo
vicino ai suoi piedi.
Era
il momento di salutarlo. Ma salutarlo voleva dire che lo stava
davvero lasciando, che se ne stava andando per davvero.
Le
grandi mani si tesero e afferrarono le sue. Rimasero a guardarsi
negli occhi per interminabili istanti, e gli altri sparirono, tutti
quanti sparirono.
C'erano
solo loro due.
“Avevo
grandi progetti in mente per la fine del torneo, avevo una sorpresa
pronta, qualcosa di spaventoso e grandioso allo stesso tempo”
le
disse, poggiandosi le sue mani sul petto e stringendole forte. Isabel
sentì il suo battito a mille pulsazioni al minuto e qualcosa
di duro
e piccolo nella taschina all'altezza del cuore; ma era troppo
impegnata a perdersi nelle sue parole.
“Ma
possiamo aspettare. Io so che tornerai e tu sai che io sono qua ad
aspettarti. Non preoccuparti di nient'altro.”
Isabel
sorrise, sinceramente. E fu grata che anche lui la stesse salutando
con un sorriso identico.
Si
tese in punta di piedi e lo baciò, il suo campione, la sua
roccia,
il suo punto fermo in una vita che a volte ruotava un po' troppo.
“Tornerò
prima che tu possa anche solo sentire la mia mancanza.”
Lo
lasciò andare, restia, e si diresse a grandi passi verso il
portale
e gli Shisho che l'attendevano lì accanto. Chikara le fece
segno di
entrare per prima e lei infilò una mano nella finestra
interdimensionale.
“Ci
vediamo presto” esclamò, voltandosi un secondo per
rivolgere a
tutti loro un grande sorriso, forzato o meno.
Poi
attraversò il portale, rigidamente, senza più
voltarsi; gli Shisho
la seguirono uno dietro l'altro, senza guardare né salutare
nessuno
di loro. Solo l'Antico, l'ultimo a passare, si girò per un
istante
verso Splinter e gli rivolse uno sguardo di scuse, che però
il ratto
mutante ignorò.
E sparirono, lo stralcio di Giappone scomparve quando il portale si
richiuse su sé stesso, lasciandoli a guardare nel punto dove
era
stato.
Si
era portato via Isabel, se l'erano portata via.
Raphael
sentiva ancora i fischi e le urla della folla festante, e la corona
di alloro gli cingeva la testa a ricordargli che era campione e la
coppa ai suoi piedi scintillava fiera ora che le nuvole scure si
stavano dissipando, lasciando che la luce di quel cielo rosa
filtrasse di nuovo.
Ma
non era felice.
Era
il campione, aveva ai suoi piedi una folla adorante e il rispetto di
centinaia di guerrieri. Ma non era felice.
Note
dal torneo (ultime):
Raphael
ha vinto il torneo, ma deve salutare Isabel,
“requisita” a viva
forza dal ninja tribunal. Fin dall'inizio erano loro a tenerla
d'occhio.
Il
ninja tribunal è un gruppo di quattro maestri del ninjitsu,
riunitisi in tempi antichi per sconfiggere lo Shredder Tengu, un
demone che è poi l'originale Shredder. All'inizio insieme a
loro
c'era anche l'originale Oroku Saki, il più valoroso del loro
gruppo
di cinque, ma poiché fu corrotto dal potere del demone e ne
divenne
la nuova incarnazione, gli altri quattro dovettero combatterlo e ne
smembrarono il corpo per impedire la sua risurrezione.
Dato
che però un suo risveglio era predetto, presero come
discepoli le
quattro tartarughe e Joi, Adam, Faraji e Tora per allenarli per quel
compito.
Sono
chiamati Shisho, un'antica parola giapponese per
“maestro” o
“insegnante”, che denota rispetto. Sono esseri
umani diventati
immortali e posseggono poteri inimmaginabili, imparati con secoli di
studi e sacrifici. Possono tutti trasformarsi nei loro avatar
spirituali, dei draghi.
Chikara
Shisho è l'unica donna del gruppo. Ha i capelli bianchi e
gli occhi
verdi, splendenti. È la maestra ninja della forza,
può volare,
lanciare raggi, ha poteri di telecinesi e controllo sulla natura.
Ha
un carattere un po' rude e diretto e sembra essere il leader del
gruppo. La sua arma è il Kanabo, una enorme mazza ferrata
che lei
muove con facilità.
Hisomi
Shisho è gigantesco e non parla mai. È calvo, con
gli occhi
arancioni, luminosi.
È
il maestro ninja della furtività, proprio perciò
non parla mai,
segue le tre S del ninjitsu della furtività: speed, secrecy
and
silence (velocità, segretezza e silenzio).
Ha
un carattere paziente, ma la sua presenza silenziosa sa anche essere
minacciosa. Le sue armi sono due Tessen.
Kon
Shisho è alto e sottile. Ha i capelli argentati e gli occhi
bianchi,
splendenti.
È
il maestro ninja dello spirito, ha poteri di precognizione e
può
controllare il vento.
Il
suo carattere è tagliente, le poche volte che interviene sa
essere
incisivo. Le sue armi sono due Katana.
Juto
Shisho è alto quanto Kon, ma di corporatura normale. Ha
capelli neri
e gli occhi luminosi blu. Il suo Kimono ha le maniche lunghissime e
svolazzanti.
È
il maestro ninja delle armi. Il
suo carattere non è definito, interviene troppo poco per
delinearlo.
Di certo è coraggioso e risoluto. Le sue armi sono
tantissime, tutte
nascoste nelle maniche del suo Kimono e padroneggia praticamente
qualsiasi arma.
L'Antico
(Ancient one) viene accolto nel ninja tribunal alla fine della quinta
stagione, quando Shredder Tengu viene di nuovo sconfitto. I membri
del tribunal però lo chiamano Il Giovane (Young one).
L'Antico
ha trovato Hamato Yoshi quando quello era un bambino e chiedeva
l'elemosina per le strade, poco dopo la fine della seconda guerra
mondiale. Capita la potenzialità di Yoshi, l'Antico decide
di
prenderlo con sé e insegnargli l'arte del ninjitsu (anche
Yukio
Mashimi, un amico di Yoshi, viene preso, ma solo per l'insistenza di
quest'ultimo).
Tang
Shen era un'altra bambina che lui accolse nella sua casa e della
quale sia Yoshi che Yukio si innamorarono.
Poi,
Tang Shen venne uccisa da Yukio per gelosia e Yukio morì per
mano di
Yoshi in cerca di vendetta; alla fine, perse anche l'ultimo dei suoi
figli adottivi, quando Shredder uccise Yoshi perché sapeva
che era
un guardiano degli Utrom.
Reputa
Splinter e le turtles come la sua famiglia, come un bizzarro nipote e
quattro assurdi pronipoti.
È
un piccolo cinese, coi capelli bianchi e gli occhi castani,
rotondissimo e saggio. A dispetto del suo aspetto è veloce e
molto
forte. Sa essere punzecchiante quando vuole e ha un discutibile senso
dell'umorismo. Adora mangiare.
Ha
più o meno gli stessi poteri degli Shisho, ma è
molto più giovane
di loro, che hanno almeno settecento anni, perciò
avrà tutto il
tempo di eguagliarli. Non si sa il suo avatar spirituale, né
se
possa prenderne la forma.
(Anche
Leo, Don, Raph e Mikey possono diventare i loro avatar spirituali,
che sono dei draghi; mentre gli altri quattro accoliti possono solo
manifestarli in spirito, -un orso, un lupo, un falco e un leone,- ma
non ne prendono la forma.)
Ecco
la svolta, un momento decisivo della storia: Isabel deve andare via,
deve imparare a controllare i suoi poteri prima che esplodano e
cancellino tutto. Ce la farà?
La
separazione non è semplice per nessuno, ma Raph si dimostra
più
maturo di come ce lo aspettiamo.
Eh,
di cose da raccontare ce ne sono ancora. Perciò salutate
Isabel e
andiamo avanti, que serà, serà.
Fiu,
vi giuro non vedevo l'ora che il torneo terminasse. Adesso altre
avventure ci attendono e altri misteri.
Mi
inchino di gratitudine, grazie per leggere, seguire, commentare,
preferire.
Un
enormissimo abbraccione per tutti. Ma non troppo, c'è caldo!
|
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Capitolo 16 *** From Isa with love ***
All'indomani
del torneo, tutto sembrò così effimero.
Le
lotte, la competizione, la voglia di vincere. La vincita stessa.
Il
nuovo trofeo di vetro scintillante faceva bella mostra di sé
su una
mensola della stanza del sensei, accanto a quello di Leo e alla
collana di Mikey; dopo averlo poggiato lì, al suo ritorno,
Raphael
non gli aveva degnato un'occhiata più del necessario.
Tutta
la sua concentrazione, ogni briciolo della sua mente, era impegnato
nel processo di accettazione dell'assenza di lei.
Era
semplicemente impossibile. Il pensiero di non vederla, di non averla
accanto, di non sentirla, minacciava di schiacciarlo ogni secondo;
era troppo da sostenere.
Incredibile
come in così poco tempo, in un solo anno in cui erano stati
assieme
e avevano vissuto sotto lo stesso tetto, -erano diventati davvero una
coppia,- lei fosse diventata praticamente necessaria, l'altra
metà
di sé.
E
adesso avrebbe dovuto abituarsi a non averla accanto. A non vederla
intrufolarsi nella sua camera ogni notte con una faccia colpevole, ma
felice da morire; a non svegliarsi con lei avviluppata nelle sue
coperte, stretta ai cuscini che ogni volta gli rubava senza ritegno;
a non poterla stringere e baciare ogni volta che voleva, strappandole
un sorriso e uno strilletto sorpreso.
Si
era assuefatto a lei e alla felicità che gli dava e la sua
mancanza
era dolorosa come l'astinenza da una droga.
Anche
gli altri membri della famiglia erano rimasti turbati dal modo in cui
quella giornata che avrebbe dovuto essere di festa era finita:
nessuno si era aspettato l'entrata in scena degli Shisho, né
che si
prendessero Isabel senza molte cerimonie, e facendole anche troppa
pressione psicologica, sparendo nel nulla senza offrire spiegazioni
dettagliate.
Mikey
aveva un gran musone, Donnie stava per le sue e Leo era insolitamente
silenzioso; nonostante i propri pensieri, comunque, erano tutti tesi
a capire come comportarsi con Raphael.
Sembravano
camminare tutti sui carboni ardenti. Eccessivamente premurosi,
eccessivamente zelanti e propositivi, eccessivamente in mezzo ai suoi
piedi con un sorrisone fin troppo finto e troppe proposte tutte solo
per lui.
Raphael
fece del suo meglio per resistere a tutto quello, in quell'inizio di
Ottobre davvero deprimente. Gli costava tutto il suo autocontrollo e
dosi di pazienza che non sapeva nemmeno di avere, ma incredibilmente,
agli occhi degli altri, si comportava con apparente naturalezza e
tranquillità.
Era
solo un po' più ombroso, un po' più silenzioso.
Le
giornate scivolavano via tra allenamenti e ronde, di nuovo a ritmi
normali; Don aveva ripreso a studiare, recuperando in pochi giorni le
lezioni che si era perso in un mese; Mikey aveva finalmente il tempo
per poter giocare ai suoi videogames preferiti e leggere i fumetti
che aveva accumulato e Leo aveva rincominciato ad allenare Steve con
l'aiuto del maestro.
Raphael
si impegnava moltissimo sia nelle esercitazioni che nel
pattugliamento notturno e per il resto del tempo semplicemente
spariva nel nulla.
Usciva
la mattina poco dopo la colazione e rientrava a metà sera,
appena
prima del tramonto, ricoperto di sporco e con un'aria stanca, ma
assurdamente sereno.
I
suoi spostamenti non erano ovviamente passati inosservati, men che
meno il suo inusuale buon'umore, -si erano tutti aspettati che
ritornasse scontroso e collerico ora che lei era lontana,-
perciò
con bisbigli a mezza voce si scambiavano pareri su cosa potesse
esserci sotto e su cosa sarebbe stato meglio fare.
“Io
lo seguo” attestò Michelangelo il decimo giorno in
cui quella
scena si ripeteva, mentre confabulava con Leonardo. Raphael era
appena uscito dal rifugio senza una parola, e i due fratelli avevano
osservato il tutto da dietro le colonne dall'altra parte del piano
terra.
“No,
ti scoprirà. Andrò io”
ribatté il leader, che come Mikey moriva
dalla voglia di sapere cosa stesse combinando Raph.
Donatello
uscì dal laboratorio, attirato dalle loro voci sempre
più concitate
mentre ancora decidevano, dato che erano praticamente lì
fuori.
Rimase per qualche secondo a guardarli, appoggiato allo stipite in
silenzio, capendo tutto ciò che gli serviva da pochi scambi
di
battute.
“Nessuno
di voi lo seguirà” intervenne a un certo punto,
facendoli
trasalire.
Si
voltarono entrambi e lo guardarono come due bambini sorpresi a rubare
la marmellata, poi fecero la stessa identica espressione consapevole.
“Tu
sai dove va!” esclamò Leonardo.
“Tu
sai cosa sta facendo!” sbottò Michelangelo, in
contemporanea.
Donatello
sorrise, ghignò leggermente, davanti ai loro occhi curiosi.
E si
godette un momento quella aura di attesa che emanavano, mentre
aspettavano che lui confessasse loro quel segreto.
Certo,
la motivazione maggiore era sapere se Raphael stesse bene o meno,
oltre alla curiosità.
“Lasciatelo
in pace. Sta bene. Lasciategli la libertà di reagire a modo
suo, coi
suoi tempi e i suoi spazi” li ammonì un po'
più serio, perché
capissero che non stava scherzando.
“Mi
assicuri che non stia facendo nulla di pericoloso o stupido?”
domandò Leonardo con zelo.
“Sì,
te lo assicuro. Ma non pressatelo e non stressatelo, se
vorrà dirvi
cosa sta facendo lo farà lui stesso.”
Michelangelo
mise il broncio, per qualche secondo. Lui voleva sapere cosa stesse
facendo Raph e si preoccupava anche per come stesse.
“Più
tardi lo chiamo per ricordargli che stasera siamo a cena da April,
comunque. Non voglio che se ne dimentichi” esclamò
dopo averci
pensato un po' su.
Donnie
sorrise e lanciò un'occhiata divertita a Leo, prima di
rispondergli.
“Ok,
ricordaglielo tu. Ma limitati solo a quello, ok?”
Mikey
rispose affermativamente, ma lo scintillio irriverente nel fondo del
suo sguardo diceva tutt'altro.
Il
trillo del forno riecheggiò nella cucina, insistentemente.
Una donna
indaffaratissima caracollò nella stanza, già
fuori di sé.
“Arrivo,
arrivo, stupido tacchino!” sbraitò April,
spegnendo con un giro
della manopola il forno rovente.
Si
infilò i guanti e aprì lo sportello, sfilando in
fretta la teglia;
la poggiò senza molta grazia sul ripiano della cucina,
stando ben
attenta a non scottarsi.
Si
stiracchiò piano, soffocando un mugugno. Il rigonfiamento
dei suoi
cinque mesi di gravidanza era bello evidente e prominente e le dava
parecchi problemi nel muoversi.
Nella
sua cucina dagli spazi ristretti di certo.
Stava
pungolando la crosta con una forchetta per saggiare la cottura,
quando il campanello trillò. Lasciò andare gli
attrezzi sul tavolo
e si precipitò alla porta di casa, per quanto il mal di
schiena le
consentisse.
Un
altro scampanellio risuonò nel corridoio, appena prima di
poter
aprire.
“Sì,
ho capito! Sono incinta, non sorda!”
“Mamma!”
strillò una vocina dall'altra parte, piuttosto entusiasta.
April
aprì la porta al suo sorridente primogenito, in braccio ad
una Angel
piuttosto provata.
“Siamo
a casa” annunciò la giovane donna, con un sospiro.
Carl
si gettò tra le braccia di sua madre, mentre Angel chiudeva
la
porta, grata finalmente di essere tra le mura domestiche e potersi
così rilassare.
Il
piccolo scoccò un baciò appiccicoso sulla guancia
di April, prima
di lanciarsi in una descrizione della sua giornata, con la sua vocina
acuta e pigolante.
“Ho
fatto lo scivolo e l'altalena e sono andato in alto, nella casetta di
legno e giù e un bambino voleva il mio posto, ma io sono
velocissimo
e sono primo, primo e Mark ha detto: io sono più veloce, ma
ho vinto
io e-”
“Ehi,
ehi, campione, cerca anche di respirare, ok?” lo interruppe
la
madre, studiando tutte le macchie di sporco sulla maglia, miste alle
strisciate d'erba sul fondo del pantalone.
“Raccontami
tutto mentre ti ammollo nella vasca e cerco di strofinare via quello
strato di fango dalla tua faccia” esortò,
trascinandolo verso la
stanza da bagno.
“Angel,
puoi controllare il tacchino, per favore?” domandò
a voce alta,
sovrastando il fiume in piena di parole che suo figlio riversava alla
velocità della luce.
Spogliarlo
fu abbastanza complesso, dato che il piccolo si dimenava come una
lucertola, mentre mimava la discesa in piedi che aveva fatto
giù per
lo scivolo. Alla fine riuscì a farlo entrare nella vasca e a
farlo
sedere sul fondo, il rubinetto già regolato sulla
temperatura più
giusta.
“Il
tacchino è perfetto” disse Angel entrando nel
bagno, assistendo
alla scena.
“Quell'altra
cosa che tu sai è pronta?” le chiese
misteriosamente, annuendo a
Carl che intanto le stava domandando se avesse visto la sua scalata
della casetta di legno, spruzzando acqua e sapone tutto intorno.
“Sì,
è nel frigo. Vedrai che sorpresa”
ribatté April strofinando forte
la schiena del bambino, pensando con un sorriso alla torta decorata
con Ben 10 e i suoi alieni e panna verde, sapientemente nascosta
nello scomparto in alto del frigo.
Una
volta finito di lavare la piccola peste, fu altrettanto difficile
asciugarla e rivestirla con abiti puliti.
“Dai,
papà sta arrivando!” lo esortò,
infilandogli la maglia prima a
rovescio per la foga e poi risistemandola con poche mosse ben
studiate.
Un
rumore di chiavi che giravano nella toppa arrivò alle loro
orecchie,
proprio in quel momento.
“Papà,
papà, papà” chiocciò
euforico Carl, sgusciando dalle grinfie
della madre e correndo come una scheggia verso la porta di casa.
L'uomo
che la aprì e vi entrò venne placcato da una
pallottola verde e
nera che gli abbrancò le gambe e iniziò a
ciarlare senza freno,
agitandosi fin al punto di farlo quasi cadere.
“Ehi,
campione!” esclamò Casey, sollevando il piccolo
fagotto in aria
senza alcuno sforzo e facendolo volteggiare. Gli strilli del piccolo
misti a risate sfrenate riempirono il corridoio.
“Di
chi è il compleanno? Chi compie tre anni giusto
oggi?” domandò
l'uomo, lanciandolo in aria e poi riprendendolo al volo.
“Io!
IO!” ridacchiò il bambino.
“Cavernicolo,
mettilo giù prima di fargli sbattere la testa contro il
soffitto e
renderlo scemo come te” intervenne Angel, seguita dalla
risata di
April.
Prima
che Casey potesse rispondere a tono, una voce chiamò dal
salotto.
“Ehi,
di casa? C'è nessuno?”
“Zio
Mikey!”
Carl
svicolò dall'abbraccio paterno e atterrò con un
piccolo tonfo sul
tappetto, trotterellando poi velocemente verso la fonte della voce:
due tartarughe mutanti erano appena entrate dalla finestra, mentre la
terza aiutava l'anziano topo.
“Zio
Leo! Zio Donnie! Nonno Spinter!” urlò Carl
correndogli incontro.1
Michelangelo
si inginocchiò e prese l'abbraccio con trasporto: il bambino
dapprima sorrise, poi iniziò a ridere, quando il mutante
iniziò a
fargli il solletico.
Carl
si divincolò ancora ridendo e si gettò tra le
braccia degli altri,
prendendosi fiero i loro auguri e i loro abbracci.
“Il
mio regalo, il mio regalo, il mio regalo” strillò
felice,
studiando la busta viola che Don teneva in una mano.
“Ti
piacerà da matti. L'ho modificato io stesso” gli
assicurò il
genio con un sorriso.
“Spero
tu non abbia creato un vero orologio che trasforma mio figlio in
alieni” lo minacciò April tra i denti, attenta a
non farsi sentire
da Carl.
“No,
tranquilla. Quasi sicuramente non succederà.”
Don
si scansò per evitare una pacca costernata dell'amica, con
un gran
sorriso, poi si rivolse di nuovo al bambino che attendeva con tutta
la pazienza possibile. Gli occhi gli scintillavano così
tanto che
avrebbe lanciato raggi laser nel giro di pochi istanti.
“Aspettiamo
zio Raph per darti il regalo, per te va bene?”
domandò, sapendo
tuttavia di fargli un gran torto.
Carl
morsicò il labbruccio tra i denti, concentrato in grandi
pensieri.
Poi annuì vigorosamente, senza dire una parola.
“Dov'è
Raph?” intervenne April, davvero preoccupata.
Quando
erano ritornati dal Nexus e avevano raccontato ai loro amici umani
cos'era successo e perché Isabel non fosse con loro, le due
donne
avevano dato di matto e April, forse anche per colpa degli ormoni,
era quasi partita per il Giappone per andare a riprenderla.
La
tristezza nel sapere l'amica lontana era tanta e April alternava quel
sentimento con la rabbia verso gli Shisho e la paura che Isabel non
tornasse i tempo per il parto, come era successo la prima volta. Il
dottore aveva intuito lo stato d'ansia in cui viveva e le aveva
consigliato riposo, prescrivendole una gravidanza a rischio che
richiedeva pace e tranquillità, ma niente le avrebbe
impedito di
preoccuparsi per Raph.
“Eh,
sarebbe bello saperlo” sbuffò Mikey, che quando
aveva telefonato
al fratello aveva provato a scoprire cosa stesse facendo, rimediando
solo un “fatti i fatti tuoi”.
“Sarà
qui tra poco, doveva-
Il
campanello trillò, interrompendo Don.
“Non
può essere lui, non entrerebbe dalla porta”
continuò il genio
dopo qualche istante, intuendo il pensiero comune.
Casey
andò ad aprire e quando tutti sentirono il cortese “buonasera,
signor Jones” e il consueto “Non
chiamarmi signor Jones,
mi fa sembrare vecchio”, capirono
che era Steve alla porta.
E che evidentemente ci provava
gusto a contraddire Casey, dato che era probabilmente la centesima
volta che gli diceva di chiamarlo semplicemente per nome.
Il
ragazzino arrivò in
soggiorno con stampato sul viso un sorrisone enorme dei suoi e un
pacchetto involto in carta gialla a righe sotto un braccio. Lo
allungò verso il bambino, i cui occhi già
scintillavano.
“Buon
compleanno, Carl!”
Il piccolo lo afferrò e strappò
la carta quasi contemporaneamente, tra strilli praticamente a
ultrasuoni.
“Cosa
si dice a chi ti fa un
regalo, Carl?” lo interruppe la voce di April, con quel tono
inequivocabilmente petulante da madre.
Il bambino
rimase un attimo
interdetto e sollevò gli occhi verso il ragazzo in imbarazzo.
"Grazie
tan-
È
2x2! Grazie, Steve!”
Carl
agitò in aria il pupazzone dell'alieno alto venticinque
centimetri
con le giunture snodate e poi si fiondò verso il ragazzo per
stringerlo forte e ringraziarlo.
“Gioca
con me! Gioca con me! Tu sei l'alieno cattivo e io ti
sconfiggo!”
Casey
intervenne per salvare Steve, già attaccato senza
pietà dal pugno
di plastica del giocattolo e dal suo frenetico figlio.
“Dopo
cena potrai tortura- ehm, giocare con tutti quanti, Carl!”
“Ma
dobbiamo aspettar-”
Un
rumore attirò l'attenzione di tutti verso la finestra, dove
un paio
di mani verde scuro si aggrapparono al cornicione e un grosso
faccione dello stesso colore apparve: Raphael si issò con
rapidità,
atterrando sul pavimento del salotto con un piccolo tonfo.
Un
secondo dopo un bambino gli si gettò tra le braccia, senza
dargli
nemmeno il tempo di salutare. O di capire qualcosa, data la
velocità
con cui parlava.
“Santo
cielo, come sei sporco!” intervenne April con un tono
disgustato,
allontanando il suo figliolo lavato di fresco dall'abbraccio.
Raph
era così ricoperto di sporco, fango e polvere che la pelle
verde era
diventata quasi nera e la tuta nera era diventata quasi bianca.
Fece
un sorriso colpevole, osservando distratto la situazione in cui si
trovava, poi batté le mani sulle braccia e il petto,
liberando una
nuvola densa di pulviscolo.
“No!
No! Fila a darti una lavata, prima che decida di farti il bagno io
stessa!” lo minacciò la padrona di casa,
mortalmente seria.
“Carl
lava lo zio Raph!” esclamò il bambino,
afferrandolo per una mano
all'istante e trascinandolo verso il bagno.
Raphael
ci provò anche a ribellarsi, ma non venne ascoltato nemmeno
per un
secondo dal piccolo Jones.
Ovviamente
non permise a Carl di fargli il bagno, ma sotto la sua sorveglianza
lavò la faccia e le mani e tolse la tuta per scuoterla con
vigore
fuori dalla finestra: gli occhioni verdi del bimbo si illuminarono al
vedere il suo carapace, come ogni volta.
“Anche
io posso avere il guscio, zio Raph?” domandò,
esattamente come
ogni volta.
Il
mutante alzò gli occhi al cielo, mentre passava uno straccio
umido
sulla tuta.
“Cosa
te ne fai?” ribatté, invece del consueto “no,
grazie al
cielo”, provando a capire perché ne
fosse così tanto
affascinato.
“Mi
posso nascondere dentro se non voglio fare il bagno e mangiare le
carote e mi difendo quando Mark mi da i pugni” fu la genuina
risposta del piccolo.
“Non
hai bisogno del guscio per difenderti o nasconderti: di' a Mark di
smetterla o un mostro verde gli farà una visita in piena
notte. E
con tua madre non funziona, credimi.”
Raph fece una smorfia,
mentre tirava su la zip, finendo di vestirsi.
Carl
ridacchiò, poi scese dal water su cui era rimasto
appollaiato e gli
corse incontro, pretendendo di essere preso in braccio.
“Zio
Raph non è un mostro” disse, semplicemente, mentre
piegava con
interesse le braccia del giocattolo di 2x2.
Il
sorriso sul volto di Raph non fece rumore, non fu visto da nessuno.
Raggiunse
gli altri, nella cucina addobbata a festa con palloncini e striscioni
colorati, attirato dal chiacchiericcio degli altri.
Era
sicuro di aver sentito il suo nome, perciò stavano
probabilmente
parlando di lui, ma quando entrò sembrò essere
scattato il piano di
sicurezza e li trovò tutti intenti a discutere del tempo e
di come
le mattonelle gialle della cucina riflettessero magnificamente la
luce del sole.
Scosse
la testa incredulo, mentre Don gli mandava un'occhiata divertita.
La
cena fu una normale cena, cucinata con amore da April: ridacchiarono
e chiacchierarono, mangiarono e gustarono, ringraziarono e gradirono;
fu al momento del dolce, che alla vista della megatorta di Ben 10,
Carl diede di matto, infilando le dita nella glassa verde che
componeva il suo nome.
Quando
poi scartò i restanti regali, con la faccia sporca di panna,
andò
in visibilio.
“Io
ti auguro davvero che quell'omnitrix modificato non trasformi mio
figlio, Don” ribatté April preoccupata, osservando
Carl che
ingaggiava una lotta contro mostroMikey e mostroSteve, grazie
all'aiuto del suo orologio, che fortunatamente non era davvero
pericoloso.
Farlo
stancare fu piuttosto dura.
Andò
avanti per ore a giocare e ridacchiare, finché intorno a
mezzanotte
non crollò finalmente, addormentato tra le braccia di
Michelangelo.
Con
cura, il piccolo venne portato a letto, mentre il resto della squadra
dava una mano a rimettere in ordine e a lavare i piatti.
Casey
era sceso per gettare la spazzatura e Raph era andato con lui per
sovraintendere dall'alto. April, capita l'antifona, si
limitò a
raccomandare al marito un “non tornare tardi e non
metterti nei
guai!”
Un
giro di pattuglia come ai vecchi tempi poteva concederglielo ogni
tanto, purché non ridiventasse un'ossessione.
La
donna sospirò, guardandoli sparire oltre la porta.
“Notizie
di Isabel?” chiese, una volta in cucina.
Lo
scambio di sguardi teso rispose perfettamente alla domanda.
“No,
nemmeno una parola in due settimane” attestò Don,
passando un
piatto a Steve per asciugarlo.
“Io
ricevo gli appunti delle lezioni ogni giorno, ma non so come ci
arrivino, né se sia lei a mandarli.”
“È
possibile che Isabel sia troppo pressata dagli allenamenti per
potersi mettere in contatto” esclamò Leo, che
trafficava con la
teiera per servire il tè.
“Povero
Raph” esalò affranta Angel.
“E
povera Isabel” fece eco Mikey. “Scommetto che gli
Shisho la
stanno torchiando come hanno fatto con noi, lasciandola distrutta,
senza nemmeno avere la forza di scriverci.”
Tutti
sapevano che non era un'esagerazione e che la durezza e la
severità
degli Shisho erano impietose.
Non
riuscivano nemmeno ad immaginare a quali allenamenti fosse
sottoposta, ma sapevano che non erano di certo una passeggiata. Lei
poi, a differenza loro, era da sola.
“Se
entro la prossima settimana non avremo notizie, contatterò
l'Antico”
sentenziò secco Splinter, appoggiando sul tavolo la tazza di
tè che
stava sorseggiando.
Gli
altri annuirono grati, sapendo che se il maestro aveva preso una
decisione, tutto sarebbe andato per il meglio.
“Pensate
che Raph stia davvero bene?” domandò quietamente
April, a nessuno
in particolare.
Si
era seduta a tavola e carezzava distrattamente il ventre,
sovrappensiero; l'altra mano era stretta sul manico della tazza di
latte caldo, -il medico le aveva tolto la teina e la caffeina,- ma
non ne aveva bevuto un sorso.
“Sì,
sono sicuro di sì” rispose premurosamente Don.
“Raph è cambiato
tantissimo, ve lo assicuro. Certo non vorrà parlarne per ora
e
probabilmente sarà un pochino più taciturno, ma
è maturato e sta
affrontando bene la cosa. È incredibilmente sereno e pronto
a
sopportare la lontananza, nonostante sia stata una cosa
inaspettata.”
Furono
tutti sollevati da quelle parole.
“Io
però continuo a tenerlo d'occhio” aggiunse Mikey
dopo qualche
istante, cocciuto.
Infine
si prepararono tutti a tornare a casa, proprio mentre Casey e Raph
tornavano, ma April insisté che Steve e Angel fossero
accompagnati.
Il
ragazzo non fece molte storie, ma la giovane donna mise su una faccia
costernata.
“Dai,
Ape, non dici sul serio!” sbottò, pensando che la
seconda
gravidanza stesse rendendo l'amica un po' troppo apprensiva. Lei
c'era cresciuta, per strada, ed era capace di difendersi da sola.
“Certo
che sì! Non hai sentito di tutte le sparizioni degli ultimi
tempi?”
ribatté piccata l'altra, riferendosi alla misteriosa
scomparsa di
cinquantasette persone nelle settimane precedenti, che il
telegiornale si premuniva di ricordare ogni giorno, con toni
allarmati.
Non
ci fu verso di farle cambiare idea. Mikey e Don si offrirono di
accompagnare gli amici a casa prima della ronda, mentre Leo avrebbe
accompagnato il maestro, la cui vecchiaia iniziava un po' a farsi
sentire.
Raph
iniziò la ronda da solo. Con Casey era solo andato a fare un
giro
spensierato per i tetti nel tentativo di spolverare un po' la forma
afflosciata del neopapà, mentre in quel momento
iniziò il
pattugliamento vero e proprio, correndo con molta più
libertà e
velocità.
Il
caso delle sparizioni stava impensierendo molto anche loro,
d'altronde cinquantasette persone in tre settimane erano troppe anche
per New York city, perciò stavano sul chi vive; fino a quel
momento
non avevano scoperto nulla, comunque.
E
nemmeno quella sera andò meglio: solite rapine sventate, un
tentativo di effrazione a Noho e una gang molesta che aveva provato
ad allungare le mani su una donna; risolse ogni problema a suon di
pugni, come consuetudine, poi tornò verso casa.
E
lui si muoveva come un'automa, senza prestare attenzione a niente.
C'era
un sottofondo nella sua mente che pensava sempre ad Isabel. A come
stesse, cosa stesse facendo, a quanto gli mancasse. Ma sapeva che
stare a casa a piangersi addosso non l'avrebbe riportata indietro e
che lei lo avrebbe preso a calci se lo avesse fatto.
Perciò
aveva promesso a sé stesso che avrebbe impiegato le sue
giornate
lontano da lei nel modo più produttivo possibile.
E
intanto pregava ogni sera di poterla sentire presto, che lei si
facesse sentire in qualche modo.
A
volte stringeva forte la collana degli amanti nel pugno, gemella di
quella che portava lei: si illudeva che lei potesse sentirlo e la
lontananza sembrava meno dura, quasi sopportabile.
Arrivò
al rifugio che mancava ormai un'ora circa all'alba.
Quando
entrò occhieggiò per un secondo il divano con la
mezza intenzione
di sdraiarcisi sopra, era così stanco che il pensiero di
dover
salire fino al primo piano era già faticoso di suo; ma se
avesse
dormito lì, le domande asfissianti dei suoi fratelli
sarebbero state
anche peggio.
Salì
controvoglia la scaletta e si recò verso la sua stanza,
sbadigliando
rumorosamente.
Finalmente,
finalmente sarebbe andato a dormire. E l'avrebbe sognata, come ogni
notte.
Si
era bloccato con la mano ancora sulla maniglia, l'attenzione
calamitata da una busta color porpora poggiata sul comodino.
E
non c'era nulla del genere quando se n'era andato quella mattina.
Si
fiondò e l'afferrò con frenesia, strappando la
carta con cura, ma
anche velocemente.
C'erano
un paio di fogli bianchi dentro, ricoperti di fitte scritte nella sua
bella calligrafia ordinata.
Respirò
a fondo e lentamente, cercando di fermare il tremore alle mani.
Lo
sguardo scorse velocemente sulla carta, smanioso, assimilando ogni
parola con bramosia. Sorrise, un paio di volte, piegò la
bocca in un
sogghigno amaro ad un certo punto, per tutto il tempo i suoi occhi
scintillarono.
Arrivato
alla fine ne voleva ancora, ancora, perciò la rilesse, con
la stessa
foga, con la stessa impazienza.
E
le stesse sensazioni lo assalirono.
La
premura di Isabel nell'assicurargli che stava bene, la solitudine che
trasudavano le descrizioni delle sue giornate tra studi e
allenamenti, la rigida disciplina degli Shisho. Non lo diceva
apertamente, ma tra le righe Raphael capì che si sentiva
sola, che
non si preoccupavano minimamente di darle anche un po' di affetto o
calore.
Solo
l'Antico a volte andava a trovarla o le rivolgeva la parola al di
fuori degli addestramenti e per lei già quello pareva
sufficiente
per essere felice.
Si
stava impegnando con tutta sé stessa per poter imparare
tutto e
subito e poter finalmente tornare a casa.
C'era
così tanto entusiasmo nelle sue parole, che Raphael volle
crederci
che stesse andando tutto bene.
E
se lei ce la stava mettendo tutta, lui non sarebbe stato da meno.
Strinse
un po' più forte la lettera, ma attento a non stropicciarla,
poi la
portò al viso e l'odore di lavanda misto a inchiostro lo
avvolse,
dolorosamente. E le ultime parole si impressero a fuoco nella sua
mente:
"Da Isa, con amore."
Ce
l'avrebbero fatta.
1:
Carl pronuncia Splinter come Spinter perché ha
difficoltà col suono
“spl” composto da tre consonanti consecutive.
Note:
Salve!
Eccoci
qua con un capitolo “normale”, che farà
da introduzione a nuovi
misteri. Mi fa strano non mettere più foto e spiegazioni
dettagliate
come durante il torneo! XD
Non
seguiremo Isa mentre è via, la storia deve seguire le
turtles, come
è giusto che sia. Questo è il loro mondo, in fin
dei conti.
Sapremo
come se la sta passando dalle lettere che manderà, ma non
è un
punto focale per la storia.
Grazie
per l'entusiasmo che mostrate, vi adoro! Questa storia ha superato le
100 recensioni! GRAZIE! Mi inchino alla vostra dolcezza!
Sono
anche davvero felice di aver stretto amicizia con le gentilissime
persone che mi hanno contattato su FB; abbiate solo pazienza, al
momento ci sono pochissimo.
Mega
abbraccione a tutti
|
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Capitolo 17 *** Fight on Halloween ***
La
famiglia fu felice di sapere che Isabel aveva scritto e che c'era un
messaggio per ognuno di loro; ovviamente Raphael non fece leggere
loro la lettera, ma riportò a voce ogni frase e
raccomandazione.
“Dai,
fammi vedere!” aveva sbottato Michelangelo, con la fronte
corrucciata, al sentire ciò che Isabel aveva scritto per lui.
“No.
Ha detto davvero che la devi smettere di seccare e di chiudere la
bocca! Non ti fidi?” aveva ribattuto il fratello, tenendo la
lettera alla larga dalle sue grinfie.
Il
loro tira e molla era andato avanti per una buona ora, prima che
intervenisse il sensei e Raph si decidesse a riportare il vero
messaggio per Michelangelo.
Era
corroborante, vederlo agire come sempre. O almeno pareva.
Ogni
sera usciva di ronda con il consueto trasporto, ogni mattina
ritornava al rifugio e rileggeva la lettera, ancora e ancora; Isabel
aveva scritto che gliene avrebbe mandata una a settimana,
perciò
aspettava e nel frattempo si marchiava ogni sua parola nella mente.
Lui
non poteva in nessun modo risponderle e quello lo tormentava fino
all'ossessione, al pensiero di non poter alleviare la solitudine di
lei, di non poter in alcun modo farle sapere quanto gli mancasse,
togliendogli perfino il sonno.
Non
che non avesse con che tenersi impegnato. Oltre al suo progetto
segreto, ben inteso.
Leo
stava tenendo tutti in stato di all'erta, per la questione delle
misteriose sparizioni. Dopo un'altra settimana, erano scomparse altre
dieci persone, facendo salire il totale a sessantasette; queste
ultime erano ragazzini dall'età progressivamente decrescente.
Era
quello, a destabilizzarli: la mancanza di uno schema preciso.
Si
erano informati tramite le incursioni non esattamente legali di Don
nei file segreti della polizia e avevano scoperto ciò che
avevano
sospettato fin dall'inizio: le sparizioni erano tutte diverse una
dall'altra. Le persone scomparse erano tutte diverse tra loro,
facendo escludere l'idea di un serial killer troppo zelante.
Erano
praticamente di qualsiasi etnia, di ogni sesso, di età
differenti,
diversi background e personalità; non era possibile cercare
un
comune denominatore che facesse capire lo schema dietro, se uno
c'era.
Perciò
cercare di proteggere future vittime, o sapere cosa fosse successo
agli scomparsi, era complesso. L'idea che potessero essere tutte
persone che si erano date alla fuga era invece abbastanza ridicolo.
La
ronda notturna era diventata un pattugliamento a tappeto, nonostante
tutto, nella assurda speranza di arrivare a qualcosa di concreto,
prima o dopo.
E
intanto il tempo passava, la paura nella città cresceva,
mettere un
freno a pensieri e nostalgia non era possibile.
Le
televisioni erano sintonizzate sull'ennesimo telegiornale della
giornata, nel silenzio circospetto della zona video. Nel divano di
fronte Splinter, Leonardo e Donatello erano seduti composti con
l'attenzione completamente sugli schermi, Michelangelo invece
ascoltava immerso per metà nella lettura di un fumetto,
seduto
scompostamente su una delle poltrone, e Raphael stava colpendo il
sacco da boxe assicurato alla colonna poco più a destra, ma
comunque
attento alle parole del mezzo busto impomatato:
“...
un tamponamento a catena sulla terza strada ha bloccato il traffico
per mezza giornata nelle prime ore della mattinata; ancora ignoto il
motivo per cui l'auto che ha scatenato l'incidente sia finita fuori
strada: Marsten Robert, alla guida, e sua moglie Rebecca sono
deceduti sul colpo.
Inquietante
invece la notizia che il loro figlio di sei mesi, nella macchina al
momento dell'impatto, sia scomparso dal luogo dell'incidente. I
vigili del fuoco e la polizia accorsi prontamente hanno escluso che
sia rimasto vittima dell'infortunio e non ci sono tracce che dicano
altrimenti. Il seggiolino era vuoto, ma assolutamente intonso. Se
qualcuno ha notizie del piccolo Thomas Marsten, contatti la polizia.
Quello che ci chiediamo è: chi può prendere un
neonato da una
macchina incidentata? E se chi l'ha fatto voleva solo aiutare il
bambino, allora si faccia avanti.
Per
ora la polizia non divulgherà ulteriori...”
Leonardo
pigiò un tasto del
telecomando, zittendo all'istante la voce squillante del giornalista.
“Donnie,
che cosa non
divulgherà la polizia?” domandò con gli
occhi fissi sullo
schermo, dove l'uomo continuava ad aprire e chiudere la bocca come un
pesce dentro una boccia; nelle scritte che scorrevano sotto la sua
faccia c'erano le ultime notizie, come il ritrovamento di due barboni
morti probabilmente per overdose di droga.
Il fratello
aveva preceduto la
sua richiesta: aveva afferrato il portatile abbandonato al suo fianco
e pigiava sui tasti con velocità, focalizzato sul monitor
con
sguardo affilato; Leo sapeva cosa stesse facendo, ma per questa volta
era d'accordo nell'infrangere un paio di regole e leggi, per cercare
di capire.
Le dita di Don rallentarono un
attimo, dopo una lunga sequenza di tasti, poi spostò il
mouse con
calma.
“Sembra
che non sia stato
davvero un incidente: il signor Marsten era brutalmente ferito al
collo ed è deceduto ben prima dell'impatto. Pare dal morso
di un
animale, anche se ancora non riescono a capire quale possa essere. La
donna invece è stata uccisa da una serie di violente
artigliate,
soprattutto sul torace e sulle braccia” riassunse gravemente,
mentre scorgeva i file segreti della polizia.
“Perché
allora l'hanno fatto
passare per un incidente?” domandò Mikey,
appoggiando il fumetto
sulla gamba, con un dito all'interno come segnalibro.
“Per
non diffondere
allarmismi. Un animale o creatura che squarta due Newyorkesi non
è
proprio una notizia da diffondere al momento, con l'isteria che
queste sparizioni stanno già diffondendo” rispose
Leo, che nel
frattempo aveva abbandonato il telecomando e si era sporto verso Don
per leggere con lui i file.
“E
il sospetto che quel
bambino possa essere stato sbranato... non aiuta” aggiunse il
genio.
“Quindi
abbiamo gente che
scompare e una bestia che attacca gli umani... c'è un
nesso?”
chiese soffocata la voce di Raphael, ansimante per il continuo
colpire il sacco con un ritmo preciso e cadenzato.
Donnie si passava una mano sulla
testa, perso in ragionamenti.
“Un
nesso. La creatura ha
catturato o ucciso tutte quelle persone? Improbabile che finora non
si siano ritrovati resti da nessuna parte... e poi, non è
detto che
tutte le persone sparite siano connesse. Alcuni di loro potrebbero
essersi dati alla fuga per loro problemi personali, approfittando
dell'occasione, sicuri di diventare solo un numero in più
tra gli
scomparsi per sviare i sospetti: un paio potrebbero essere stati
uccisi da qualcuno estraneo alle sparizioni sempre per lo stesso
motivo. Ma quelli rimanenti sono comunque troppi. Ho solo teorie per
adesso, ma non riesco a trovare collegamenti.”
Sembrava
stanco, il genio,
sconfitto da troppe idee per la testa e poche risposte concrete. Le
zone scure sotto gli occhi testimoniavano quanto sonno avesse
già
perso, lo scintillio in essi quanto bruciasse la sua sete di sapere.
La necessità di trovare il bandolo di quella matassa.
Perché nessuno sembrava al
sicuro, in quel clima di incertezza. Nessuno dei loro amici umani.
Casey, April e Carl, Angel e soprattutto Steve. Facevano i turni per
tenerli d'occhio, si raccomandavano che stessero attenti, insistevano
perché stessero solo in luoghi affollati e mai in giro di
notte, ma
quell'ansia che li attanagliava non li abbandonava comunque. Quella
paura che quel misterioso ignoto se li inghiottisse assieme agli
altri.
“E
allora che si fa?” chiese
Michelangelo, nel silenzio teso e stanco. Lo scambio di sguardi tra
il genio e il leader non passò inosservato.
“Pattuglieremo.
Cercheremo e
pattuglieremo ancora, finché non riusciremo a capire cosa
sta
succedendo” attestò Leo, con la muta approvazione
del sensei.
Mancavano
dieci giorni ad
Halloween, ma New York era già praticamente in festa.
Ovunque
c'erano l'arancio e il nero, scheletri di plastica e zucche nelle
vetrine di qualunque negozio e fantasmi e pipistrelli finti che
penzolavano dalle insegne. Un forte odore di dolciumi permeava ogni
angolo, incredibilmente.
Perfino
l'allarme per le
improvvise sparizioni non riusciva a smorzare l'americanissimo amore
per la festa di Halloween, e benché la guardia fosse ben
alta,
nessuno aveva davvero intenzione di rinunciare a bussare di porta in
porta per il consueto “dolcetto o scherzetto”;
genitori
apprensivi si erano comunque organizzati per pattugliare e
controllare i gruppetti di marmocchi in costume.
Uno di quelli era Casey Jones,
che continuava a tediare la sua povera moglie April: insisteva a
voler portare le sue fidate mazze da Hockey mentre avrebbe fatto il
giro delle case con il piccolo Carl.; la donna negava con tutte le
sue forze ogni volta che l'argomento veniva fuori, -più
spesso di
quanto desiderasse,- quasi sempre mentre stava dando delle modifiche
al costume del bambino: per quell'anno sarebbe stato Ben 10, che suo
figlio adorava.
“Io
porterò le mazze! Mi
vestirò da giocatore di Hockey!” insisteva l'uomo,
tenendosi alla
larga dalla moglie, seduta scomodamente davanti alla macchina da
cucire, che gli lanciava sguardi fiammeggianti.
“E
cosa c'è di pauroso? A
parte la palese stupidità?” ribatté
velenosa, appuntando un paio
di spilli sul tessuto verde intenso.
Casey sollevò gli occhi al
cielo, perché la risposta a quella frecciatina non era
consigliabile
da dire ad una fiera donna incinta di quasi sei mesi.
“Allora
sarò un giocatore di
Hockey zombie, va bene?”
April
continuò ad aggiustare
l'orlo del costume, limitandosi ad uno sbuffo stizzito col naso.
Casey allungò le braccia in avanti e imitò il
gorgoglio tetro di
uno zombie, strascicando un piede; lei roteò gli occhi al
cielo,
attenta a non pungersi con gli spilli.
“Sì,
ha senso che uno senza
cervello come te si vesta da zombie” concesse con uno sbuffo.
“Puoi
andare, ma promettimi che non farai stupidaggini, non peggiori del
tuo solito!”
“Mi
conosci, Ap. Sai che non
devi preoccuparti” assicurò l'uomo sollevando le
braccia al cielo,
già più rincuorato. In
realtà April si sentiva doppiamente
ansiosa.
Il marito
catturò
quell'angoscia nel fondo dei suoi occhi; si avvicinò a
grandi passi
e si inchinò al suo fianco, prendendo di sorpresa una mano
tra le
sue.
“Io
e Carl staremo benissimo,
vedrai! È per te che sono preoccupato, starai da sola a casa
ad
aprire la porta a sconosciuti.”
April emise uno sbuffo leggero
col naso. Era felice della premura che Casey le riservava, ma voleva
prenderlo un po' in giro.
“Pericolosi
bambini
sconosciuti.”
“Tesoro,
non scherzo. Non sai
mai chi potrebbe esserci dall'altra parte della porta, ma questa
volta, con tutte queste sparizioni... forse sarebbe meglio se stessi
a casa assieme a te.”
“E
deludere Carl che non vede
l'ora di andare in giro? No, non mi sembra giusto. Potrei chiamare
Angel e chiederle di rimanere con me per Halloween.”
“Credo
che abbia già un
impegno col suo nuovo ragazzo, quel Kevin. Mi ha chiesto un parere
per un vestito da vampira per una festa a cui devono andare.
Perciò
rimango io qui con te.”
“E
chi porterà in giro Carl
per fare dolcetto e scherzetto? Ci odierà se
dovrà rinunciarci.”
“Steve
si occuperà di lui. E
ovviamente ci saranno altri quattro zii verdi che li seguiranno a
poca distanza.”
“Sul
serio staresti tranquillo
in questo modo?”
“So
che i ragazzi
preferirebbero morire che permettere che succeda qualcosa a Carl.
Staranno attentissimi, persino più del solito per colpa
delle
sparizioni e per quella misteriosa creatura. Ormai non pensano ad
altro.”
C'era
stato, nei giorni
precedenti, un picco di allarme in città, scatenato da
misteriosi
avvistamenti di creature. No, di attacchi di una creatura. Il panico
era dilagato in seguito alla dichiarazione di un ragazzo che
sosteneva di essere scappato all'aggressione di un mostro che
lo aveva seguito di notte, per le vie della città;
l'opinione
pubblica si era immediatamente divisa in due nette linee di pensiero:
da una parte i complottisti che vedevano questa nuova minaccia come
il segno di qualcosa di grande dietro le quinte, come sempre per
colpa del governo o degli alieni, mentre dall'altra menti
più pacate
pensavano che fosse solo lo scherzo di chi si divertiva ad aggiungere
paura in un clima già abbastanza teso.
Intanto la
guardia si alzava, le
ronde non autorizzate di vigilanze private crescevano a vista
d'occhio e la fiducia nel prossimo svaniva velocemente, senza che
potessero farci nulla.
Il tempo
volò tra le mani. E in
un batter d'occhio Halloween era arrivato; paura o meno. Dubbi o
meno.
Le strade erano piene fin dalle
prime ore del mattino di persone vestite a maschera, in un'assurda
gara al costume più bello o più spaventoso:
c'erano migliaia di
rivisitazioni di Dracula e della mummia, dei fantasmi e almeno un
milione di zombie, di ogni genere. Prometteva di essere una gran
bella festa, nonostante tutto.
Alle sei in
punto un sonoro
bussare interruppe una animata discussione nell'appartamento della
famiglia Jones: un secco rumore di passi si avvicinò alla
porta,
mentre la voce di una donna strillava: “Carl! Non ho finito
di
vestirti!”
Steve spalancò i suoi occhioni
azzurri di sorpresa, quando un enorme giocatore di Hockey zombie
aprì: la sua pelle era di un malsano verde spento e uno
degli occhi
penzolava fuori dall'orbita.
“Davvero
bel costume, mister
Jones!” si congratulò con un sorriso, dopo il
primo attimo di
smarrimento.
Casey zombie trasformò il
ghigno che doveva essere spaventoso in seccato.
“Ti
ho detto di non chiamarmi
signor Jones!” urlò indignato, al ragazzo che
intanto era già
entrato nell'appartamento.
Uno
scalpiccio veloce li allertò
della minaccia: un secondo dopo un piccolo fagotto verde e marrone si
fiondò contro il ragazzino, nella sua frenetica gioia.
“Steve!
Guarda, guarda,
guarda! Sono Ben 10!” strillò a pieni polmoni,
agitando il
bracciale luminoso al polso sinistro e indicando la maglia su cui era
stampato un grande dieci. April aveva schiarito appena i suoi capelli
con una polvere apposita per il trucco, per renderlo vagamente
castano scuro.
I suoi occhioni scintillavano di
gioia ed emozione e saltellava sul posto nell'impazienza.
“Oh,
ma dov'è il tuo costume,
Steve?” domandò April arrivando nel corridoio.
Sembrò davvero
sorpresa di vederlo vestito con i consueti jeans e la felpa
decisamente troppo grande per lui.
“Oh,
no, io non mi vesto mai
per Halloween.”
Aveva detto
una cosa di troppo.
Lo scintillio negli occhi di Carl si infranse, mentre lo guardava
scioccato e deluso.
Il ragazzo si sentì morire
secondo dopo secondo, senza sapere che fare o dire per rimediare
all'ormai danno. April si accorse del rossore delle sue orecchie e
gli corse in aiuto.
“Oh,
vuoi dire che non hai
trovato un costume che ti stesse bene? Vieni, deve esserci una
vecchia maschera da mummia di Casey nel fondo dell'armadio. Lo
aggiusteremo un pochino.”
Il rossore
assalì Steve
completamente, un rosso pomodoro vivente, e balbettò qualche
parola
di ringraziamento mista a degli educati rifiuti. April gli sorrise
affettuosamente mentre lo trascinava verso la stanza da letto,
contenta di aver capito quale effettivamente fosse il problema: Steve
probabilmente non aveva mai festeggiato propriamente Halloween; forse
con l'assenza della madre non c'era stato nessuno a preparargli un
costume e ad incoraggiarlo, forse suo padre non aveva potuto
accompagnarlo a fare “dolcetto o scherzetto”,
impegnato col
lavoro.
Tirò fuori le scatole colme dal
fondo dell'armadio, dove suo marito aveva accumulato tutti i costumi
per la festività usati negli anni.
“Allora,
adesso vediamo di
aggiustarlo per la tua misura” propose sicura, sovrastando le
grida
entusiaste di Carl dietro di loro.
Casey
rollò gli occhi al cielo,
perlomeno quello visibile sotto il trucco, al sentire tutto il
chiasso provenire dalla camera. A quel povero ragazzo sarebbe venuto
un gran mal di testa prima ancora di iniziare a fare il giro delle
case.
Uno scampanellio lo riscosse e
si precipitò ad aprire la porta. Un coro di
“dolcetto o
scherzetto” di voci infantili lo investì e lui
cercò di fare del
suo meglio per risultare più spaventoso possibile.
Lanciò un
gorgoglio tetro e deambulò tetramente verso di loro, ma le
risatine
incerte dei bambini non furono certo il risultato che aveva sperato.
I bambini ormai non erano più
impressionabili come una volta.
Prese la
grande ciotola
portadolciumi e afferrò una grossa manciata di caramelle
miste che
distribuì alla ballerina, al piccolo dracula biondo, alla
creaturina
di Frankenstein, ad un grosso bambino-robot e a Spiderman. Ognuno di
loro tese il proprio sacchetto e seguì la distribuzione con
occhioni
attenti e golosi.
“Ecco
a voi, andate, monelli!”
I bambini iniziarono a filare
via già con la mente verso il prossimo carico di caramelle
da
richiedere, quando uno di loro sembrò ripensarci e si
bloccò poco
prima di raggiungere le scale. Si voltò verso la porta, con
le
sopracciglia corrucciate.
“Il
tuo costume fa schifo, signore” disse con una smorfietta e
una vocina petulante.
“Ehi!
Torna qui, vedrai come
ti faccio spaventare, moccioso” ribatté Casey
offeso, anche se il
piccolo dracula, ormai lontano, non poteva sentirlo.
“Wow,
guardate, è così che
si fa il genitore a quanto pare” chiosò una voce
alle sue spalle,
piuttosto divertita. Mikey lo guardava con un gran sorrisone, dopo
averlo apostrofato, circondato dai suoi fratelli vicino alla
finestra.
“Beh,
certi bambini sono
davvero troppo sfacciati.”
Casey
chiuse la porta e appoggiò
la ciotola di dolciumi con calma, nonostante il tono seccato, e poi
si voltò a guardare gli amici.
“Vedo
che anche quest'anno
avete deciso di vestirvi da tartarughe mutanti ninja”
sospirò
ironico, facendo ballonzolare l'occhio finto mentre scuoteva la
testa.
“Quando
uno è bello non si
può costringerlo a coprirsi, no?” gli rispose
Mikey, con uno
sguardo ammiccante. Leo stava sorridendo della sua vanagloria e Raph
ruotava gli occhi al cielo. Don si guardava intorno, assorto.
“Steve
non è arrivato?
Eravamo proprio dietro di lui” chiese, tendendo ancora il
collo per
cercare la presenza del piccolo amico.
“April
ha insistito per
vestirlo a maschera. E sapete che non si può dire di no a
quella
donna” sospirò Casey, facendo spallucce.
Proprio in
quel momento uscirono
fuori dalla stanza da letto una donna incinta, un piccolo Ben 10 e
una mummia piuttosto impacciata, avvolta in almeno venti metri di
bende. I tratti somatici non erano nemmeno lontanamente
riconoscibili.
Steve sembrò sorpreso nel
vederli tutti lì in attesa, ma poi si aprì in un
gran sorriso. O
almeno a loro parve.
“Non
vale! Voi non vi siete
mascherati!” mugugnò soffocato sotto i giri di
garze.
“Cosa
dici? Non vedi com'è
bello il mio costume da tartaruga mutante ninja? Guarda i dettagli,
ammira la perfezione!” esclamò Mikey mettendosi in
pose plastiche,
facendo scoppiare tutti a ridere.
“Spero
che tu non faccia nulla
del genere mentre siamo in giro” lo rimproverò
Raph, il primo a
ritornare serio. Ovviamente si beccò una linguaccia come
risposta e
nulla più.
“Ok,
ragazzi, sarà meglio
andare. La parata sta per cominciare e i dolcetti finiranno
presto”
intervenne Don, occhieggiando verso l'orologio.
Carl
strillò entusiasta e si
affrettò ad afferrare la mano di Steve, per poi trascinarlo
con
vigore verso la porta, sordo alle raccomandazioni dei genitori.
“Fai
da bravo, Carl.”
“Rimani
sempre con gli zii e
non allontanarti per nessun motivo.”
“Ascolta
quello che ti dicono
e ubbidisci.”
“E
prima di andare dai un
abbraccio alla mamma, forza!”
Carl fece
un veloce dietrofront
alla richiesta di April e si fiondò tra le sue braccia,
strofinando
il musetto monello contro il suo collo. La presa della madre era
forse un po' troppo forte, un po' troppo apprensiva, e il bimbo si
divincolò dopo pochi secondi; April lo lasciò
andare, mezzo
sorpresa lei stessa dal suo comportamento.
“Mi
raccomando, ragazzi”
sussurrò mentre li osservava avvicinarsi alla porta. Le
sorrisero
tranquillamente, come a volerle dire che non c'era nulla di cui
dovesse preoccuparsi.
Carl
afferrò una mano di Steve
e una di Don e iniziò a tirarli con tutta la forza del suo
piccolo
corpicino.
In pochi istanti erano usciti
tutti dal palazzo, dritti in strada, i coniugi Jones lasciati con
saluti e promesse per l'orario di rientro.
“Allora,
prima guardiamo per
un po' la parata e poi andiamo a bussare a qualche porta per le
caramelle?” domandò Don, chinandosi leggermente su
Carl.
“Sìììì!”
rispose quello
entusiasta, lanciando in aria le mani che ancora trattenevano quella
del mutante e quella di Steve.
“Ma
che bella famigliola
felice” chiosò teatralmente Mikey, poco dietro
loro. Lo
scappellotto di Raph lo raggiunse dritto in testa, nemmeno troppo
scontato.
Già
una stradina più avanti
l'euforia di Halloween li colpì dritto in faccia. Migliaia
di
persone in maschera si riversavano da ogni angolo, seguendo la
colorata e macabra processione nel village, piena di scheletri
luminescenti e zucche intagliate nelle forme più spaventose,
a
decorare carri e carri che sfilavano tra le urla di giubilo.
C'era ogni genere di maschera:
da interpreti di telefilm o cartoni animati a quelli dei videogiochi,
ai più classici costumi della festività come i
vari dracula, le
mummie e ogni genere di personaggio in versione zombie, tra cui
perfino principesse Disney e animali antropomorfi.
Il caos era ovunque, una babele
di suoni e voci, grida e risate e giochi di luce che abbagliavano,
giocolieri fenomenali che danzavano col fuoco accendendo il tramonto
e l'odore di dolci aveva scacciato via lo smog, per quella sera,
mettendo una gran fame a chiunque prendesse un bel respiro speziato,
dal vago retrogusto di cannella.
Raphael era
emozionato quanto
gli altri, anche se non lo dava a vedere. Dopo anni passati ad odiare
Halloween finalmente si era riappropriato del sentimento di
libertà
che gli dava, grazie ad Isabel. Halloween gliela ricordava con
più
forza, gli faceva sentire la sua mancanza come un pugno allo stomaco.
Ma era anche felice. Sapeva quanto magica potesse essere quella
festa, sapeva cosa si aggirava all'insaputa di tutti, attorno a loro.
Occhieggiò distrattamente intorno, cercando di vedere
l'invisibile,
magari anche lui poteva, ma no, lui era magico come un sasso. Anzi
no, pensò stringendo nella mano la pietra della collana, un
sasso
era perfino più magico di lui.
Con un mezzo sorriso e
continuando a guardare verso l'alto come a voler vedere tutto
l'universo, affrettò il passo per rimanere dietro i suoi
fratelli,
già tutti assorbiti dalla festa e dalle bancarelle.
Cercarono
di vedere tutto senza
però farsi travolgere dalla calca, per evitare il rischio di
rimanere imbottigliati: si tennero sul ciglio della strada, Don
prese Carl sulle spalle per permettergli di guardare bene tutto e il
bambino continuò a strillare di felicità per
tutto il tempo mentre
cercava di raccogliere con le piccole mani i coriandoli arancioni e
neri che venivano sparati dai carri della sfilata.
“Voglio
un palloncino! Un
palloncino!” disse ad un certo punto, osservando con
meraviglia un
plotone di quelli salire al cielo, rilasciati da una compagnia di
ballerini vestiti da scheletri danzanti.
“Zio
Mikey, per favore!”
insisté, accortosi che gli altri sembravano restii a
comprarglielo.
Michelangelo
non poteva
resistere a Carl. Era già di suo un tenerone che adorava i
bambini,
ma quello era anche un suo nipote, in un certo senso, perciò
lo
adorava oltre ogni altra cosa al mondo.
Si sciolse in un gigantesco
sorriso, solo per Carl.
“Te
ne prenderò uno enorme. E
bellissimo. Aspettami qua!” assicurò, voltando il
capo per cercare
dove poterne comprare uno. In un secondo era già corso via
verso un
baraccone all'altro angolo della strada, schivando i pedoni con
difficoltà.
Raph
sospirò.
“Gli
vado dietro. Sarebbe
capace di perdersi” sbuffò, incamminandosi nella
sua direzione.
Andava piano per evitare le
persone che andavano nel verso contrario e che più di una
volta gli
si strinsero attorno, ma buttava sempre l'occhio verso la figura di
Mikey, impegnato a parlare al venditore con toni concitati e gesti
per indicare quale palloncino volesse, per non perderlo di vista.
“Wow,
signore. Che bel
costume!” chiocciò una vocina ammirata.
Raphael guardò in basso verso
il piccolo maghetto col capello a punta che lo osservava con occhioni
sgranati e la bocca aperta. Sulla fronte aveva disegnata una saetta
con una matita per il trucco nera.
Gli sorrise e gli fece un
occhiolino complice.
“Grazie,
piccolo. Anche il
tuo.”
Uno strillo
echeggiò nella
notte, improvviso. E qualcuno urtò Raph senza cerimonie, con
una
forza che avrebbe mandato a terra una persona più esile di
lui.
Era consuetudine avere una
scazzottata o due durante le festività, una ben triste
realtà date
le offerte di alcolici che i bar e i pub effettuavano per attirare la
clientela, perciò il mutante non ci fece caso più
di tanto. In
pochi istanti sarebbero intervenute le forze di polizia che
pattugliavano lì intorno e tutto si sarebbe sgonfiato e
risolto con
due ubriaconi che si abbracciavano dimenticandosi del litigio.
Mikey gli
si fece vicino col
filo di un palloncino a forma di pipistrello stretto in una mano, ma
dalla velocità con cui camminava sembrava tutto meno che
tranquillo.
Osservava oltre le sue spalle, con le sopracciglia corrucciate.
D'istinto, o forse per quel
brivido nella schiena nel vedere la preoccupazione di Michelangelo,
Raphael torse il busto con foga e allungò il pugno chiuso
all'indietro, verso una minaccia che non conosceva: si
scontrò
contro qualcosa, o qualcuno, e un verso gutturale gli riempì
le
orecchie.
“Raph!
Giù!” strillò il
fratello contemporaneamente, a pieni polmoni.
Si
tuffò in avanti e afferrò
per il colletto il bambino vestito da mago, che era rimasto per tutto
il tempo lì impalato con la bocca aperta, e si chiuse a
conchiglia
su di lui; una capriola e una strisciata sulle ginocchia e finalmente
si fermò a qualche metro, mentre il bimbo strillava come un
ossesso
tra le sue braccia, perforandogli un timpano.
E vide la minaccia che aveva
scampato.
Una creatura giallo malato dalla
pelle squamosa, col volto deforme e la bocca ripiena di file di denti
appuntiti che faceva schioccare nella sua direzione, più
precisamene
verso il piccolo tremante che ancora teneva stretto a sé.
Poteva
essere solo un tizio in
maschera dalle abilità sorprendenti nel trucco e un'ottima
recitazione con lo scopo di spaventare nella notte più
paurosa
dell'anno, ma Raphael non ci credette nemmeno un secondo. C'era un
luccichio di follia e aggressività negli occhi completamente
neri
che gli disse che non era una finzione.
E poi, scorrendo velocemente lo
sguardo attorno, si accorse che c'erano altre creature identiche,
dalle lievi differenze cromatiche, ma indubbiamente della stessa
specie: brancolavano velocemente di qua e di là,
avvicinandosi ai
bambini che passeggiavano, allontanandoli dai genitori.
Una macchia
di rosso tra le
gambe di alcuni passanti lo allarmò ancora di più
e si rese conto
che c'era qualcuno a terra, in un angolo, e uno di quegli esseri
stava portando via una bambina che si dimenava e scalciava con tutte
le sue forze, terrorizzata.
Possibile che nessuno se ne
fosse accorto?
“Leo!
Sta prendendo una
bambina, lì alla tua destra!” urlò a
squarciagola, cercando di
sovrastare le grida e i rumori e la musica.
E
incredibilmente ci riuscì. Ma
nulla andò come sperato: tutte le persone attorno a loro
sentirono
il suo grido e si accorsero sia del rapimento, che dell'uomo a terra
e infine delle creature che di soppiatto cercavano di portare via i
piccoli. Ce n'erano tante da non riuscire a contarle, mischiate alla
folla.
Le urla si sommarono, urla di
paura, urla di terrore.
E il caos si scatenò in un
istante. Genitori che cercavano i loro figli e scappavano in ogni
direzione, ragazzi spavaldi che si gettarono contro le creature con
sprezzo del pericolo, ricacciati però indietro senza nessuno
sforzo;
le grida, gli spintoni, la calca che premeva e spingeva: si
ritrovarono al centro di un flusso imponente senza potersi muovere e
Leo cercava di non perdere il contatto visivo con la bimba che si
allontanava sempre più tra le braccia del mostro.
“Piccolo,
come ti chiami?”
domandò Raph al bambino, tenendo un tono calmo.
Il maghetto tirò su col naso e
lo guardò in viso, con gli occhioni azzurri ricolmi di
spavento.
“B-Billy.”
“Ok,
Billy, dopo ti porterò
dai tuoi genitori. Per adesso attaccati al mio collo e non staccarti
per nessun motivo. Capito?” ordinò, passandoselo
sulla schiena con
un gesto sciolto del braccio, impegnato con l'altro ad aprirsi un
varco a forza tra i corpi che gli premevano contro nella direzione
opposta.
Un mugolio un po' annacquato fu
la risposta coraggiosa del bimbo. Le sue corte braccia strinsero
forte forte, le mani si intrecciarono sulla sua gola rischiando di
strozzarlo, ma il mutante non disse nulla. Era fiero di quel bambino.
Con uno
scatto deciso spiccò
una corsa verso il più vicino gruppetto di nemici, due di
quelle
creature che cercavano di afferrare delle persone in fuga,
approfittando del caos. Spiccò un salto e atterrò
dritto contro di
loro, senza frenarsi: il grido che lanciarono fu uno stridore
insopportabile che nulla aveva di umano e Raph indietreggiò
sorpreso
e confuso, scuotendo la testa. Billy mugugnò anche lui, ma
non
lasciò andare la presa, come gli aveva promesso.
Raphael allungò un calcio sul
petto del mostro alla sua destra e lo mandò a terra,
spegnendo quel
suono insopportabile: l'altro però, cambiò
intonazione nel suo,
modulandolo come un richiamo e improvvisamente si trovarono
accerchiati.
“Ti
prometto che ti riporto a
casa, Billy. Resisti ancora un po'” mormorò Raph,
cercando di
suonare fiducioso, iniziando a girare in tondo per non lasciare
angoli ciechi ai suoi avversari.
Leo si
ritrovò inghiottito
dalla folla urlante, che lo spingeva sempre più lontano da
Don, Carl
e Steve e soprattutto dalla bambina che doveva assolutamente salvare.
Digrignò i denti dalla
frustrazione e cercò di puntare i piedi a terra, ma
inutilmente.
Persa la pazienza, decise di saltare più in alto che
poté, senza
pensare alle conseguenze: usò lo stomaco di un tipo
corpulento lì
affianco per darsi la spinta e si lanciò in aria, saltando
via dalla
calca come il tappo allentato di una bibita gassata.
Un coro di
grida lo accompagnò
nella traiettoria, ma Leonardo era troppo impegnato a calcolare una
parabola sicura per prestarvi attenzione; smorzò la
velocità con
un paio di capriole, che avrebbero anche modificato leggermente la
direzione in un punto che lui aveva già scelto.
Sbatté con le punte
dei piedi contro un palazzo basso che costeggiava la strada e
allungando una mano strusciò contro il muro, scivolando
verso il
basso; atterrò illeso al suolo, in un punto dove ormai
più nessuno
passava.
“Donnie!
Attento a Carl! Vado
a prendere la bambina!” urlò senza guardarsi
indietro, già
lanciato verso destra, verso il suo obiettivo. L'ultimo punto in cui
aveva visto quegli occhi scuri e terrorizzati chiedergli aiuto.
Donatello
non aveva bisogno
della sua raccomandazione. Era già impegnato a tenersi alla
larga da
quegli esseri e contemporaneamente a non perdere il contatto con
Steve o Carl: il bambino sulle spalle lo teneva
fermo a sé premendosi le sue gambe contro il torace e il
ragazzo per
mano, stringendo forte la presa per contrastare la spinta della ressa
impazzita.
Riuscì a trascinare sé stesso
e loro al di fuori della calca, ansimando per lo sforzo.
“Ok,
adesso fac-” un urlo
soffocato lo interruppe e il mutante cadde su un ginocchio, lasciando
andare la mano di Steve per proteggere inconsciamente il bambino: con
uno strattone deciso lo fece scivolare davanti e si chiuse a
conchiglia su di lui, ermetico.
Il resto Steve non lo vide.
C'erano tanti di quei mostri attorno a loro, piombati repentinamente.
Don si era alzato e aveva
calciato all'indietro velocemente, colpendone uno per creare una
breccia e gli altri si erano fatti più vicini e aggressivi,
ringhiando coi loro denti appuntiti e le bocche sbavanti.
“Steve,
scappa! Prendi Carl e
scappa!” urlò il genio, lanciandogli letteralmente
il bimbo tra le
braccia, prima di una piroetta volante contro due creature.
Il ragazzo voleva lottare,
sentiva le mani formicolare e una scossa di adrenalina corrergli per
gli arti, ancorandolo al posto; ma qualcosa non lo faceva muovere.
Forse paura, forse incertezza. Le braccia erano strette attorno a
Carl, i piedi incollati al suolo, gli occhi spalancati seguivano
Donatello e la sua lotta furibonda, così aggressiva,
così
disperata.
“Corri,
Steve! Corri!”
Il grido
rauco del mutante
risvegliò qualcosa in Steve e si ritrovò
già lanciato in avanti,
quando il cervello si riconnesse: saltò con tutte le sue
forze il
muro compatto di creature, usando il corpo di una a terra come
trampolino e volò letteralmente sopra di loro; strinse
più forte
Carl tra le braccia, ma il piccolo non si lamentò.
Atterrò goffamente e
sbilanciato, ma fu subito in piedi, anche senza usare le mani:
scattò
rapidamente e corse, corse da morire, lanciando solo un'occhiata
indietro. Donatello era accerchiato e combatteva senza riserve.
Un profondo senso di vergogna e
paura gli attanagliava le viscere, mentre sfrecciava nella notte
così
forte che le bende del costume si disfacevano, sventolando.
Michelangelo
si era accorto
della minaccia per primo, eppure non era riuscito a fare nulla per
impedirla. Era rimasto a guardare, scioccamente, con un palloncino
stretto nella mano.
L'aggressione, i mostri che
fuoriuscivano da chissà dove, mescolandosi facilmente agli
scheletri
e ai vampiri in maschera, a tutti quei travestimenti. Era stato fin
troppo perfetto per poter pensare ad una coincidenza.
E visto che non aveva dato
l'avviso da prima, doveva cercare il modo di rimediare. Di contenere
quei cosi perché non si disperdessero ancora, combatterli e
renderli
inoffensivi.
Ma erano
tanti.
Un centinaio circa, a volersi
fidare del conto a mente in un momento di panico. Si gettò
contro il
gruppetto più vicino, con i Nunchaku già stretti
nelle mani, pronti
all'azione.
Il palloncino fluttuava sopra la
sua testa, libero verso il cielo, già confuso col nero della
notte.
Ne avrebbe comprato altri dieci a Carl, una volta finito tutto.
Leonardo
non aveva perso di
vista le tracce della bambina, nemmeno per un secondo. Nonostante il
caos attorno, le persone che fuggivano attorno a lui spintonandolo
senza attenzione, le grida e i mostri che apparivano da ogni angolo,
con intenti ben poco pacifici. Avrebbe voluto battere ognuno apparso
sulla sua strada, ma non poteva permette che prendessero la bambina;
quale sarebbe stato il suo destino, se non l'avesse salvata?
Diventare cibo? Diventare un
sacrificio?
Corse
più forte, il piccolo
gruppetto di creature era poco davanti a lui, ancora qualche metro e
l'avrebbe raggiunta. Scansò due uomini che correvano nella
direzione
opposta, incuranti del trucco delle loro maschere che colava per il
sudore, per la paura, e Leo si chiese dove fosse finita la polizia,
in quel momento che ne avevano più bisogno.
Ma non aveva
tempo per pensare alla riposta, c'era quasi, era il momento di agire.
Col fiatone
strinse i denti e
spinse ancora i muscoli, pronto ad un balzo: a mezz'aria le mani si
chiusero sicure sulle else delle spade e le sguainarono senza rumore.
Atterrò con un grido minaccioso proprio di fronte alle due
creature
misteriose: una aveva le squame rosse ed era più piccola, l'altra giallo spento era grossa e più muscolosa, con
una
strana membrana verticale nei freddi occhi neri.
Leo
provò un brivido lungo la
schiena, inaspettatamente.
Lo dissimulò in fretta e alzò
la punta della lama contro il mostro più vicino.
“Dammi
la bambina” ordinò,
scrutando negli occhi del mostro che la teneva in braccio.
Lo stridio
che uscì dalla sua
bocca poteva essere una risata, ma era così graffiante che
Leo non
poté impedirsi di tapparsi i fori auricolari con il dorso
delle
mani, per evitare di perdere il senno.
La creatura rossa si lanciò
contro di lui nello stesso secondo, immune all'effetto confusionario
di quel suono: Leo si accorse solo in quel momento che le sue mani
erano dotate di lunghi artigli neri retrattili, e nonostante la
sorpresa di vederseli arrivare dritto in faccia, riuscì a
scansarsi
in tempo, evitando di farsi colpire. Non poteva rischiare di essere
ferito, non sapeva se fossero intrisi di veleno o altre sostanze.
Si
arrischiò ad abbassare le
mani, ma quel suono prolungato e violento lo investì,
offuscandogli
la vista per un istante: arretrò immediatamente, tappandosi
di nuovo
le orecchie, con disperazione.
Anche la bambina tra le braccia
del mostro aveva le mani premute contro la testa, con un viso
sofferente e spaventato. Cosa poteva fare per aiutarla?
Quello stridio aveva un effetto
istantaneo sul cervello e il sistema nervoso che gli impediva quasi
di pensare, non poteva combattere con le orecchie scoperte.
Cosa fare?
Intanto la
creatura rossa lo
attaccava senza sosta. Era più piccola dell'altra,
più veloce e
agile e Leo capì che non era un caso che lavorassero in
coppia:
mentre uno stordiva la preda, l'altro ne approfittava per assalirla.
Quello giallo, si accorse infatti, non aveva artigli con cui
attaccare.
Non poteva continuare a
scansare. E forse aveva avuto un'idea.
Si
abbassò per evitare un nuovo
assalto, attento che le lame fossero una rivolta verso l'interno e
l'altra verso l'esterno, ma con le spade ancora nelle mani che
premevano sulle orecchie: usando le punte dei piedi ruotò su
sé
stesso velocemente, come una trottola munita di lame, sempre
più
svelto. Non si fermò nemmeno quando sentì il
metallo scindere la
carne, nemmeno quando un nuovo grido, di dolore questa volta,
riecheggiò così forte da spegnere il primo.
Quello era
il momento che
Leonardo aspettava, senza esserne conscio. Smise di ruotare e si
rialzò in piedi, lanciato contro il mostro giallo, a
dispetto del
senso di stordimento che il suono stridente e la rotazione gli
avevano causato; prima che quegli potesse reagire, lo colpì
ad
un'estremità con la punta della Katana, senza
pietà: il grido
straziante della creatura fu acuto, ma completamente differente
rispetto a prima.
La colpì con tutto il peso del
suo corpo e le mani cercarono disperatamente di strappare la bambina
dalla sua presa ferrea. La sorpresa e il dolore gli resero le cose
più semplici, e la strinse tra le braccia prima ancora di
accorgersene.
Sentì
il calore del suo corpo e
il tremore che la scuoteva.
Non pensò nemmeno per un
momento che lei potesse abbracciarlo, singhiozzandogli nel collo.
“Va
tutto bene, tesoro. Ti
riporto subito a casa” sussurrò piano,
accarezzandole la testa.
Aveva perso la tiara del suo costume da principessa nel tragitto e la
complicata treccia che portava si stava disfacendo.
La creatura
rossa e quella
gialla, entrambe ferite, ma solo superficialmente, si erano
già
rialzate ed erano ancora più aggressive e ancora
più rabbiose; una
fila di bava violacea colava dalle loro bocche e gli artigli di
quella rossa non erano mai stati più lunghi e affilati.
Le sue spade giacevano al suolo,
metri di distanza da loro.
Mantenere la sua promessa poteva
essere più difficile di quanto pensasse.
Steve era
orgogliosissimo della
sua velocità. Essendo sempre stato un nerd e con un
carattere molto
dolce e gentile, era la vittima preferita dei bulli sin da quando era
entrato alle elementari. Ovviamente non era mai riuscito a
difendersi, perciò a furia di scappare per anni era
diventato così
veloce che ormai nessuno riusciva a prenderlo.
Di quello ne era stato certo
fino a qualche istante prima.
Carl tra le
braccia lo
appesantiva, certo, ma non così tanto perché lo
raggiungessero. E
invece era proprio ciò che era successo: aveva corso con
tutte le
sue forze, scartato con maestria le persone che gli andavano
incontro, cambiato strada e vicoli così tante volte da
esserne
nauseato, eppure due di quei mostri, rossi come il sangue, piccoli e
agili, erano riusciti a stargli dietro.
Alla fine, prima che potessero
afferrare le code delle bende che si disfacevano dal suo costume e
intrappolarlo, fu lui stesso a fermarsi, con uno scarto deciso che
mandò in confusione i suoi inseguitori: si infilò
in un vicolo
chiuso alla destra.
Era in penombra e piccolo e
maleodorante. Strizzò gli occhi intorno, freneticamente.
“Carl,
ti metto giù per un
attimo. Stai dietro di me qualunque cosa accada, va bene?”
Il bambino scese docilmente,
stranamente quieto.
“Tu
cosa fai?” domandò,
osservandolo mentre si chinava per raccogliere un tubo di metallo dal
terreno.
“Io
combatto” fu la
risposta, semplice, mentre rumore di passi e due respiri pesanti
riecheggiavano all'imboccatura del vicolo, già vicini.
Ce n'erano
tanti. Non importava
quanti ne colpisse, quanti ne buttasse giù, continuavano a
rialzarsi, continuavano ad arrivare.
Raphael non si era risparmiato
per un secondo eppure non sembrava vederne la fine. Billy lo stava
strozzando sempre più nello spasmodico tentativo di non
cadere e la
stanchezza si faceva già sentire.
Attaccò coi Sai due mostri che
si stavano avvicinando troppo, ma quelli avevano già capito
il suo
modo di combattere e riuscivano a prevedere le sue mosse.
E si compattavano, cercando di
accerchiarli e stringerlo sempre più.
Ruotò
il busto per evitare che
prendessero Billy, ma il bambino urlò per lo spavento
improvviso,
stringendo ancora di più la presa nelle braccia.
“Basta!
Voglio andare a casa!”
Raphael inspirò con difficoltà,
dolorosamente.
“Sei
tu il mago, Billy. Fai
una magia” disse rauco, senza distrarsi dal combattimento.
“Ti
prego, ti prego falli
sparire!” mormorò il bambino, ormai al limite.
Un sibilo
acuto riempì l'aria,
insostenibile, irritante. Le creature ne furono quasi attratte e
senza un suono, senza una spiegazione, lasciarono andare
ogni proposito bellicoso e sollevarono la testa al cielo.
Poi, tutte assieme, scapparono
lungo la strada, ordinatamente.
Ci volle qualche istante perché
Raphael si riprendesse dallo stupore.
“Cosa...?”
La stessa
scena si era ripetuta
con Donatello, con Leonardo, con Steve e con Michelangelo. Mikey era
stato l'unico a reagire immediatamente e a correre dietro le
creature, cercando di tenere il loro passo. Per quanto potesse essere
veloce, però, non riuscì a non farsi distanziare.
Ma erano solo un centinaio di
metri in fin dei conti, non li avrebbe persi di vista, avrebbe
scoperto dove andavano.
L'ultima
delle creature si era
infilata in un vicolo sulla sinistra e lì Mikey
girò una volta
arrivato.
Si fermò bruscamente, osservò
sconvolto il vicolo chiuso da alti muri, assolutamente vuoto.
Il respiro pesante, gli occhi
scivolarono spasmodicamente attorno alla ricerca di un passaggio, un
portale, qualunque cosa. C'era solo lui nel vicolo e mille domande
senza risposta.
In lontananza, i rintocchi di
una chiesa battevano la mezzanotte.
Note:
Buona sera.
A volte ritornano, direte voi.
Chiedo scusa dell'enorme
ritardo.
Finalmente
ho comprato un pc
nuovo e posso tornare a scrivere. Non sapete come sono felice. Mi
siete mancati molto, mi è mancato scrivere, mi è
mancato
pubblicare. Ho fatto un po' di correzioni a mano, ma è
perfino più
difficile dover riscrivere tutto dai fogli.
Ora finalmente potrò essere
regolare negli aggiornamenti.
Sono
tornata con un capitolo su
Halloween proprio nella notte di Halloween, nemmeno a farlo apposta.
Spero mi perdoniate e che il
capitolo vi piaccia.
Vi
abbraccio forte, mi auguro
che stiate tutti bene!
Buon
Halloween
|
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Capitolo 18 *** Bad feeling ***
Nella
sicurezza del rifugio, Leonardo camminava a grandi falcate avanti e
indietro vicino al laghetto, parlando nel telefonino.
“Sì...
allora va tutto bene? … Meno male, eravamo un po'
preoccupati, ma
se mi assicuri che sta dormendo... sì, domani ti spieghiamo
meglio.
Per ora l'importante è che Carl stia bene e anche voi. Ok,
buona
notte, a domani. Saluta Casey.”
Chiuse
la chiamata con un sospiro, stringendo forte il telefono nella mano.
Con una virata decisa si diresse verso il laboratorio alla sua
sinistra, con una già potente emicrania, ciliegina sulla
torta di
quella assurda nottata.
Donnie
sedeva alla scrivania con aria stanca, ma non per quello rilassato:
frugava nei meandri di internet facendo volare le dita sulla
tastiera, nervosamente. Raphael era poggiato contro uno scaffale
ricolmo di riviste scientifiche e fogli sparsi, con le braccia
conserte e lo sguardo assorto; poco distante, Mikey osservava tra le
librerie dando loro le spalle, forse più per distrarsi che
per
altro. Il sensei li aveva raggiunti una volta saputo del pericolo
incorso quella notte e sedeva sull'unica altra sedia della stanza,
mentre i suoi occhi saettavano da un figlio all'altro.
Tutti
avevano gettato comunque un'occhiata verso Leo quando era entrato
nella stanza, prima di ritornare alle posizioni e alle faccende di
poco prima.
“Carl
sta dormendo tranquillo e anche April e Casey stanno bene” li
informò il leader, avvicinandosi alla scrivania.
Sembrarono
tutti rassicurati dalla notizia, anche se nessuno lo espresse a
parole.
“Anche
Billy. Sono riuscito a riportarlo dai suoi genitori, sembrava stare
bene, solo un po' spaventato” disse Raphael, senza guardare
nessuno
in particolare. Gli doleva la gola e il collo scricchiolava
dolorosamente ad ogni gesto, a causa degli strattoni del bambino.
Leo
annuì brevemente alla notizia, rincuorato.
“Anche
la bambina. Non so come reagirà nei prossimi giorni... suo
padre è
ancora in ospedale, non so quanto gravi siano le sue
condizioni”
aggiunse, ultima notizia di quel quadro generale davvero
agghiacciante.
Quando
tutto era finito e quei mostri erano scomparsi, New York aveva dovuto
fare i conti con i feriti, a decine, e i dispersi. C'erano volute due
ore solo per contattare tutti i genitori dei bambini ritrovati e per
capire se qualcuno fosse o no stato rapito. Ancora, alle prime luci
dell'alba, si contavano le persone e un'idea chiara di cosa fosse
successo non c'era.
Il
panico si era scatenato immediatamente. Era stato l'ultimo atto che
aveva scoperchiato il vaso, già pieno per l'isteria delle
sparizioni
precedenti: nei talk show e nei telegiornali, potenti e politici di
dubbie moralità istigavano a non rimanere inermi, a prendere
in mano
armi e scendere in piazza per proteggere i cittadini, per proteggere
i propri cari. E una moltitudine di pazzi armati, -senza ragione, ma
solo paura,- aveva accolto quegli appelli e pattugliava le strade a
gruppi compatti; nell'odio, nell'ignoranza, nel sospetto.
“Io
li ho seguiti” iniziò a dire Mikey, ancora voltato
di spalle. “Gli
sono andato dietro con tutta la mia velocità, erano ad un
secondo di
distanza, ma quando li ho raggiunti e sono entrato in quel vicolo non
c'era più nessuno.”
Sembrava
che si stesse scusando, come a voler dire che lui ce l'aveva messa
tutta. Non capiva come potessero essergli sfuggiti da sotto le mani.
“Sei
stato bravo, Michelangelo” lo rincuorò il sensei,
che si era
accorto di quel suo sentimento di sconfitta. “Se questi
mostri sono
spariti nel nulla non è colpa di nessuno. È
probabile che avessero
già un piano di fuga pronto.”
“Non
sappiamo nemmeno cosa siano, in fin dei conti. Se fossero alieni, ad
esempio, potrebbero semplicemente essere tornati alla loro navicella
madre” si intromise Don, continuando però a
guardare dritto nello
schermo del computer, strizzando un po' le palpebre.
“Alieni?”
domandarono in coro i fratelli.
“Io
pensavo fossero demoni” disse Mikey.
“Io
credevo fossero una razza modificata geneticamente”
ribatté Raph.
“Io
che venissero da un'altra dimensione” spiegò Leo.
Don
sollevò lo sguardo dal computer e si decise infine a dar
loro un po'
della sua attenzione.
“Belle
teorie. Potrebbero essere una di queste cose o anche nessuna. Alieni
o una razza del sottosuolo finora mai scoperta o demoni usciti
proprio per Halloween o ancora esseri di un'altra dimensione. Le
teorie sono infinite. Così come i motivi per cui volessero
quei
bambini e solo i bambini: per mangiarli? Per schiavizzarli? Per un
sacrificio? Non sappiamo niente e non sappiamo da dove iniziare a
cercare delle risposte.”
“Qualche
cosa la sappiamo: erano differenti, per esempio. Ce n'erano alcuni
rossi che attaccavano con artigli, mentre quelli gialli emettevano
una sorta di suono che mandava in confusione le prede”
constatò il
leader, ricordando con nitida chiarezza la lotta e l'aspetto dei
mostri. Quelle squamette che ricoprivano il loro corpo e quegli occhi
lucidi e neri, così freddi.
“Probabilmente,
a voler cercare di dare una definizione con le nostre regole
biologiche, era per differenziare i due generi: i gialli sono maschi
e i rossi femmine. Anche se non so se abbiano davvero dei generi
distinti” definì Don, che si era già
fatto una teoria da sé.
“Ma
io ne ho visto anche uno blu, diverso dagli altri, più
piccolo e
sottile” intervenne Raph.
Mikey
annuì alle sue parole, anche lui aveva visto quello di cui
stavano
parlando.
“Forse
hanno un genere che nel nostro mondo non esiste o, più
probabilmente, quello era un individuo non ancora maturo. Magari una
volta cresciuto cambia colore nel genere prefisso”
teorizzò ancora
il genio. Ormai era lanciatissimo in speculazioni e il suo cervello
stava cercando di ricordare se in natura esistessero casi del genere.
Nella natura terrestre. Altrimenti l'ipotesi degli alieni non era poi
così campata per aria.
Doveva
informarsi e investigare, ancora e ancora.
“Dobbiamo
scoprire chi sono e cosa vogliono.”
“Come
faremo a pattugliare con tutti quei gruppi di vigilanza che stanno
spuntando fuori minuto dopo minuto?” domandò
Mikey, distogliendolo
dalla sua riflessione.
Le
strade erano piene in ogni più piccolo angolo e sarebbe
stato facile
scambiare loro per il nemico, se fossero stati avvistati.
“Dobbiamo
continuare comunque, essere solo più cauti del solito.
Più
invisibili. Non arriveremo a nulla se non investighiamo e non
possiamo starcene rinchiusi qua sotto in eterno”
attestò Leo,
ovviamente deciso. “Speriamo solo di trovare delle risposte,
il
prima possibile.”
Splinter
sospirò, sottilmente, ma udibile.
Era
sempre stato terrorizzato all'idea di cosa potesse fare il mondo di
fuori ai suoi figli se li avesse scoperti, per quello fin dall'inizio
non aveva voluto che uscissero. Ma ormai erano grandi, di pericoli ne
avevano affrontati a frotte e loro si erano mostrati degni e
preparati e in gamba e lui non poteva più frenarli. E poi,
non tutto
là fuori era malvagio: Casey e April, Angel e Steve, Isabel,
erano
la prova del buono negli umani.
Sorrise per dissimulare
qualsiasi preoccupazione, ottimista verso di loro.
Aveva
fiducia.
Nel freddo
della prima settimana
di Novembre, le notti erano ormai completamente gelide. Le tute da
combattimento erano diventate un po' più spesse e le maniche
decisamente più lunghe, il tessuto progettato da Don per la
loro
realizzazione era leggero, ma anche coprente, perfetto per quella
stagione.
Tuttavia, segnava moltissimo le
forme del corpo.
I quattro
mutanti non se n'erano
mai resi conto come in quel momento, mentre osservavano il
mingherlino corpo fasciato dal tessuto nero. Ok, a voler essere
buoni, Steve non era più così esile come quando
lo avevano
conosciuto, c'era una buona muscolatura in via di sviluppo, ma in
confronto alle loro stazze spiccava troppo la sua magrezza.
In effetti, in confronto a molti
ragazzi della sua età era ben proporzionato e perfino un po'
più
muscoloso della media; in qualche altro anno di allenamento sarebbe
diventato un vero atleta.
Il
ragazzino resisteva
stoicamente alle loro occhiate, sapendo bene cosa stessero pensando.
Aspettò con tutte le forze un loro commento, ma poi, si
disse, molto
meglio che non ce ne fossero. Si sentiva già così
strano a stare
sul tetto di un palazzo, fasciato in una delle loro tute e coi suoi
Tanbō assicurati alla
schiena, a
osservare dall'alto la città immersa
nell'oscurità autunnale.
Forse
perché nemmeno nelle sue più rosee fantasie si
era mai aspettato
che lo portassero con loro di ronda, prima o dopo. C'era sempre stata
dell'esitazione in lui, che non era passata inosservata agli occhi
degli amici; un dettaglio che poteva definire il confine tra la vita
e la morte, in pattuglia.
Ma
qualcosa era cambiato, quella notte di Halloween.
Aveva
affrontato le sue paure, si era fermato e aveva combattuto. Per Carl,
che gli era stato affidato.
Non
era stato facile, la paura se l'era mangiato vivo ogni secondo che si
era trovato di fronte quei mostri; ricordava perfettamente come il
tubo di metallo continuasse a tremare nelle sue mani, mentre li
attendeva nella penombra del vicolo e la secchezza nel fondo della
gola, le gambe molli. L'angoscia di non farcela.
Del
resto non ricordava molto. Era tutto confuso, immagini che balenavano
di colpo davanti ai suoi occhi e suoni improvvisi: mani artigliate
che graffiavano, attaccavano e urla, Carl che gridava incitamenti e
piangeva allo stesso tempo, rosso delle squame, rosso di paura e lui
aveva combattuto, con tutte le sue forze, senza risparmiarsi, senza
pensare. Tutta la tecnica imparata era scomparsa in un secondo e lui
aveva combattuto di pancia, di istinto.
E
in qualche modo ce l'aveva fatta, aveva resistito finché
quelle
creature non erano scomparse di colpo, allontanandosi da lui in tutta
fretta. Donatello lo aveva trovato stretto a Carl, spaventato, ma
vittorioso. Era diventato un guerriero, quella notte.
E
si era guadagnato il diritto di andare di ronda con loro.
Anche
se lui, ancora, non si sentiva pronto per nulla. Non si sentiva
più
coraggioso o più preparato e anzi, aveva una gran paura di
fare una
brutta figura e deludere le loro aspettative.
Erano
lì, impettiti, ad aspettarsi chissà cosa. Mentre
lui era sicuro che
sarebbe caduto di sotto al primo salto tra due palazzi.
“Allora”
prese la parola Leo, ovviamente con la sua aria da leader,
“questa
è la tua prima ronda, Steve. Ci sono delle regole, alcune le
imparerai col tempo e con gli errori, ma su tre non transigo: uno,
rimani sempre con uno di noi; due, non gettarti in una lotta senza
aver pensato bene ai pro e i contro e alle varie vie di fuga, e
questo ci porta al tre: se pensi che il nemico sia troppo forte per
te, scappa. Tutto chiaro?”
Steve
annuì furiosamente ad ogni parola e anche alle pause
respiro, rigido
come uno stoccafisso. Era un fascio di concentrazione e
determinazione. Nonostante le loro attese nei suoi confronti,
riusciva a leggere negli occhi degli amici anche una profonda fiducia
che non avrebbe infranto.
“Perfetto,
incominciamo.”
Leo
in testa, i quattro si lanciarono in avanti, senza alcun tipo di
comando; erano così affiatati ormai che le parole erano
superflue.
Percorsero i pochi metri fino al bordo del tetto e si lanciarono nel
vuoto senza esitazione: librarono nell'aria elegantemente e
atterrarono perfettamente sul palazzo di fronte.
I
loro occhi ritornarono a scrutarlo da lontano, eppure lui riusciva
perfettamente a vederci tutti i loro incitamenti.
“Forza,
Steve” urlò Leo, come un comando.
La
cosa pareva davvero davvero stupida, a Steve. La sua prima prova di
salto e nessuno sarebbe stato al suo fianco? E se la rincorsa o la
spinta non fossero state abbastanza e lui fosse caduto di sotto?
L'avrebbero
preso in tempo? L'avrebbero preso e basta?
Don
gli fece un gesto col pollice su e Mikey un grande sorriso.
Oh,
avrebbe voluto vedere i loro sorrisi sciogliersi quando lo avrebbero
raccolto dall'asfalto di sotto. Quanti metri era alto quel dannato
palazzo? Trenta? Quaranta?
La
fifa stava decisamente prendendo possesso del suo corpo, mandandolo
nel panico. Senza rendersene conto aveva iniziato a respirare sempre
più velocemente e i contorni sbiadivano e sfocavano e niente
sembrava avere senso.
“Se
non vieni qua immediatamente, ti lancerò personalmente di
peso”
gridò un grosso vocione, che schiarì all'istante
quel magone.
Raphael
non stava scherzando affatto. Non era incoraggiante come gli altri,
ma forse proprio per quello più utile in quel momento.
Respirò
a fondo, il ragazzino, e strinse e chiuse le mani a pugno infinite
volte, cercando di imbrigliare la paura quel tanto che bastava.
E
accadde.
I
piedi si mossero sul cemento e si ritrovò proiettato in
avanti senza
averlo nemmeno deciso: il bordo era sempre più vicino, la
paura
c'era ancora, ma non riusciva più a fermarlo;
puntò un piede sul
cornicione e spiccò il salto. Le sue mani e le sue gambe
mulinavano
sgraziatamente, lo sapeva, ma tutto ciò che gli interessava
davvero
era non schiantarsi giù.
La
forza di gravità lo richiamava e l'aria lo sosteneva, in
egual
misura.
Il
contatto col terreno fu brusco come se l'era aspettato,
sbatté i
piedi duramente e cadde a terra, ma un paio di mani fortunatamente lo
afferrarono, evitandogli danni ben peggiori.
“Non
è stata male, come prima volta” esclamò
Don, rimettendolo in
piedi. Che, purtroppo, gli dolevano da morire.
Fece
finta di nulla e camminò solo un po' zoppicante, sentendosi
abbastanza fiero. Perlomeno di essere ancora vivo. La paura si stava
dissolvendo e lui ci era riuscito, aveva davvero saltato tra due
palazzi, sfidando il vuoto. Si sentiva davvero fiero.
“Lavora
un po' sull'atterraggio, magari” aggiunse Raph, con un
sorriso.
Steve
immaginava che fosse tutto lì, per quel giorno. E invece Leo
ordinò
un giro completo di ronda, di punto in bianco.
“Se
pattugliamo è meglio dividerci” disse Raphael, che
si era fatto
via via più distratto.
“No,
meglio rimanere uniti per oggi” lo contradisse il leader, che
ovviamente pensava al fatto di avere Steve con loro.
“Ok,
voi fate pure le mamme chiocce. Ci vediamo al rifugio”
esalò il
fratello, ormai già lanciato in una corsa. Sparì
alla vista in un
attimo, saltando con agilità gli ostacoli sul suo cammino.
Un
paio di sospiri riecheggiarono nella notte.
“Non
prendertela, Steve, ok? Non ha niente a che fare con te” lo
rassicurò Mikey, che continuava a guardare nel punto in cui
suo
fratello era sparito.
Lo
sapevano tutti che più tempo passava, più la
pazienza di Raphael si
assottigliava. Sapeva di dover attendere, e i primi periodi,
benché
i più duri, era stato bravissimo. Ma più i giorni
si accumulavano,
più la speranza svaniva. Di riuscire a farcela, di vederla,
che lei
tornasse.
Una
lettera a settimana non era abbastanza. Non poterle far sapere quanto
gli mancasse era agonia. La aspettava, fiducioso, e ogni giorno che
passava quella fiducia si sgretolava, pian piano.
Si
muovevano tutti in punta di piedi, quando era nei paraggi. Ma lui non
scattava, diventava solo più silenzioso, un po' malinconico.
Di
ronda preferiva stare da solo, lo immaginavano sedersi su un
cornicione a guardare il cielo, con sospiri infelici.
Nessuno
poteva farci nulla, nessuno sapeva che fare per distrarlo, per far
passare il tempo più velocemente.
“Ma
lei tornerà, no?” domandò Steve,
timidamente.
Non
era come nel caso di sua madre, in fondo. Lei era morta, ma Isabel
prima o poi sarebbe tornata, per quanto la sua mancanza potesse fare
male. E faceva male.
“Certo
che tornerà! Non voglio nemmeno immaginare il casino che gli
piazzerebbe il sensei, se solo provassero a trattenerla
laggiù più
del dovuto!” esclamò Mikey, con foga.
“E
non appena avrà finito non ci sarà nulla che la
tratterrà lontana
da Raph, puoi starne certo” aggiunse Leo, con un sorrisino.
“Non
sappiamo che addestramento stia affrontando, di certo non è
semplice” finì Don, facendo spallucce.
Rincuorati
dalle loro stesse parole, decisero di proseguire quella ronda.
Raphael se la sarebbe cavata perfettamente, in fin dei conti.
Una
volta acquisita la fiducia necessaria, Steve si dimostrò in
gamba
come pensavano; era agile e scattante, e veloce, propenso ad essere
furtivo e invisibile. Un ninja nel senso più puro del
termine,
quelli che si fondevano nelle ombre, maestri dello spionaggio.
Ovviamente
approfittarono del giro per tenere gli occhi aperti. Si imbatterono
in molti gruppi di vigilanze di quartiere, dovettero fare attenzione
il doppio per non essere scorti, ma era tutto di guadagnato
nell'addestramento di Steve; cercarono comunque di tenersi lontani
dal centro, pensando di trovare meno gente, in realtà non
cambiava
poi molto, ce n'era tanta ovunque.
Steve
cominciò a provarci gusto, dopo qualche ora. Sovrastava le
vite
degli altri, passeggiando sulle loro teste, nell'oscurità,
vegliando
su di loro. Non avrebbe potuto farlo sempre, la scuola non poteva
marinarla, ma il finesettimana non gli sarebbe affatto dispiaciuto
volare sui tetti con i suoi amici e aiutarli.
Sempre
se si fosse dimostrato degno.
“Silenzio.
C'è qualcuno nel vicolo” sussurrò Leo,
accucciandosi dietro il
cornicione. Dalla stradina sotto di loro provenivano dei rumori
sordi, che qualcuno cercava di attutire. Per alcuni secondi non si
udì più nulla, poi di nuovo un leggero
sferragliare gli arrivò
fino alle orecchie.
Seguendo
l'esempio del leader si sollevarono tutti di poco per sbirciare oltre
il parapetto in pietra, quel tanto che bastava per rendersi conto di
cosa stesse accadendo: nella penombra, un gruppo di uomini stava
trafficando all'uscita secondaria di un negozio di elettronica,
andando e tornando con le braccia cariche di pacchetti e mercanzia
verso il furgone parcheggiato proprio all'ingresso del vicolo cieco.
Erano in cinque, armati con mazze e catene, tutti piuttosto grossi e
guardinghi.
“Ok,
non si aspettano un attacco a sorpresa” sussurrò
Leo
riaccucciandosi dietro il cornicione. “Abbiamo un grosso
vantaggio,
attaccheremo dall'alto.”
“Cos-
io- io no, vero?” tentennò Steve, gli occhioni
così sbarrati di
paura che ci si riflettevano le luci dei palazzi dentro. E che si
vedesse quella paura non gli importava nemmeno più di tanto.
Si
scontrò coi loro sorrisi fiduciosi, che adesso iniziavano a
spazientirlo.
“Sta
a te decidere. Intanto tieni questa, nel caso in cui tu decida prima
della fine” esclamò Donatello, poggiando la
maschera nera che
aveva creato sul suo viso, su cui si adattò perfettamente.
Era
semplice e levigata, senza fronzoli o decori.
Era
gelida contro la sua pelle.
“Scendiamo
leggeri e senza rumore” disse Leo, alzandosi. Gli altri
seguirono
silenziosamente il suo esempio e tutti insieme si portarono al
parapetto, attenti a non farsi scorgere. Uno a uno iniziarono a
scendere.
“Non
farci aspettare troppo, ok?” bisbigliò Mikey,
mandandogli un
occhiolino prima di lasciarsi andare nel vuoto.
Steve
rimase lì, i corti respiri che traeva fra i denti
rimbombavano nello
spazio angusto della maschera, riscaldandogli il viso. Tutta la sua
concentrazione era serrata attorno a ciò che accadeva di
sotto, tesa
a percepire il minimo cambiamento.
“I
mostri! Sono tornati i mostri!” gridò qualcuno
all'improvviso,
spazzando il silenzio. Altre grida concitate seguirono e un gran
trambusto di pacchi lasciati cadere e plastica e metallo che si
infrangevano a suolo.
Scalpiccio
di passi frettoloso e rumori di lotta. Nuove voci, nuove persone, dei
rinforzi. La sua immaginazione galoppava sfrenata... cosa stava
accadendo là sotto? Loro non potevano essere nei guai, erano
troppo
forti, troppo allenati per essere sconfitti da una banda di
ladruncoli, no? Ma se...
Lui
avrebbe potuto aiutarli in qualche modo? O sarebbe diventato solo un
peso o una distrazione una volta sceso?
La
testa gli scoppiava da morire, il cuore batteva così forte
nel petto
da bloccargli quasi il respiro.
Un
altro grido si levò alto verso il cielo, scuotendolo.
Strinse
forte i denti e si alzò, no, letteralmente si
gettò giù dal
palazzo, prima che qualsiasi altro pensiero potesse frenarlo; i primi
istanti di vuoto furono paura, poi l'adrenalina prese il sopravvento
e niente l'avrebbe davvero più fermato.
“Cowabunga!”
urlò nella notte, avvitandosi su sé stesso per
frenare la caduta.
La
risata di Mikey riecheggiò da qualche parte sotto di lui.
Questa
volta l'atterraggio fu quasi perfetto, senza contraccolpi; Steve si
rialzò, ma non era più Steve, in un certo senso:
era il guerriero
nato dentro di lui, che non aveva nome, né la sua
indecisione o le
sue paure.
Leo,
Don e Mikey stavano lottando poco distanti da lui e con la coda
dell'occhio vide i rinforzi arrivati che davano loro filo da torcere;
forse erano un decina, non ne era sicuro.
“Un
altro mostro! Maledetti schifosi!” grugnì uno di
loro, lanciato
contro il ragazzino.
Steve
schivò con facilità il tubo di ferro che l'uomo
impugnava,
mandandolo a sbattere contro il muro dello stretto vicolo.
“Sono
un umano, idiota!” esclamò arrabbiato.
“E loro non sono mostri!”
I
suoi Tanbō apparvero letteralmente nelle mani, tanto veloce li aveva
afferrati: il resto fu confuso, ma allo stesso tempo incredibilmente
nitido; gli uomini si accorgevano di lui e lo caricavano, era
piccolo, era fragile, ma lui riusciva ad evitarli con una semplice
torsione, con una schivata minima, e i bastoni nelle sue mani
stoccavano come saette verso le loro braccia, verso le giunture. Li
voleva rendere inoffensivi, non davvero infierire su di loro.
Era
attorniato da grida sorprese e di dolore. Non si aspettavano che
quell'esserino potesse creare così tanto scompiglio. Piccolo
come
una formica, pungente come un'ape.
L'adrenalina
scorreva senza freni, era potente, era forte.
La
realtà lo colpì duro in faccia sotto forma di
pugno e si trovò a
volare, poi sbatté contro la parete alle sue spalle, con uno
scricchiolio sordo. Il fiato gli si spezzò in gola per il
dolore.
“Steve!”
gridò Don spaventato, pronto a soccorrerlo. Il braccio di
Leo
apparve dal nulla, bloccando il suo scatto repentino. Il leader
scosse la testa davanti ai suoi occhi confusi, perentorio.
Era
una prova in cui non dovevano intervenire.
Il
ragazzino al suolo cercava di snebbiare la mente, mentre un uomo lo
caricava approfittando della sua debolezza: faceva ruotare una
pesante catena di ferro in una mano, che fischiava come il vento.
Steve
non si alzò. Non ne aveva il tempo.
Si
appiattì ancora di più contro il terreno e spinse
contro il muro
con le mani, lanciandosi raso terra. Passò attraverso le
gambe
dell'energumeno come un proiettile, uno dei Tanbō stretto in una
mano. Colpì dritto contro un ginocchio e il suo aggressore
si
accasciò per il dolore, lasciando andare la sua arma.
Steve
riprese fiato, sollevandosi lentamente. Sentiva solo il proprio
respiro. Si voltò piano per studiare i dintorni e
incontrò con lo
sguardo i suoi tre amici, ritti in mezzo agli uomini svenuti, che lo
osservavano a loro volta.
C'era
un sorriso obliquo sui loro visi, che pian piano si aprì.
Steve
sentì il Tanbō cadergli di mano, adesso che l'adrenalina
svaniva e
tutto assumeva i contorni della realtà. Tremava.
Non
dissero nulla, loro, si avvicinarono in silenzio e lo abbracciarono a
turno e quello bastò a dire tutto, a fargli capire tutto.
Non si
sentiva meglio o peggio, un eroe o un paladino, ma sentiva di aver
fatto la differenza, anche se di poco, quella notte.
Aveva
avuto così tante emozioni, tutte assieme, da sentire la
stanchezza
addosso tutta di colpo. Per fortuna la serata era giunta al termine,
i ragazzi non avrebbero mai continuato a trascinarlo ancora in giro,
ne era sicuro. Lo avrebbero riportato a casa e poi l'indomani
avrebbero discusso al dojo di quella sua prima uscita di ronda,
valutando i pro e i contro.
Anche
se lui sapeva che non avrebbe dormito nemmeno un minuto dopo
quell'esperienza.
Donatello
gli tolse la maschera dal viso per valutare se avesse riportato
danni, ma un urlo improvviso distolse lui e gli altri da ciò
che
stavano facendo.
Fu
un lungo, prolungato grido che spense ogni altro suono nei dintorni.
Agghiacciante. Terrorizzato.
Leonardo
scattò già prima che si fosse spento, mentre
Mikey sembrò titubare
un attimo prima di decidersi a seguirlo.
“Rimani
qui” ordinò infine il genio, rimettendo la
maschera nera nelle
mani del ragazzino e accodandosi ai suoi fratelli.
Sparirono
oltre il bordo del vicolo, diretti approssimativamente verso la fonte
dell'urlo, a nord. Stavano correndo in bella vista, ma ben attenti a
non essere scorti, correndo da ombra ad ombra, trovando riparo dietro
auto e furgoni parcheggiati.
“Leo!”
chiamò una voce dall'alto.
Raphael
correva sopra le loro teste, qualche metro più avanti.
“Sono
loro!” li informò, accelerando poi l'andatura. I
tre fratelli
saltarono su alla prima scaletta antincendio disponibile, seguendo la
sua scia.
Non
c'era più nessuna voce, nessun altro urlo a segnalare dove
fossero o
cosa stesse accadendo; solo Raph sembrava sapere dove andare, forse
li teneva d'occhio da un po', forse li seguiva da ore.
Videro
la sua ombra sparire oltre il tetto di un palazzo e poi uno stridio
sordo, che già ben conoscevano. Premendosi le mani contro le
orecchie raggiunsero il punto.
Nello
spiazzo sotto di loro, Raphael cercava di resistere a quel suono
straziante e nel contempo di non perdere di vista le creature. Erano
loro. Rosse e gialle, squame e artigli, così come le
ricordavano;
solo il loro numero differiva, perché questa volta erano
pochissime,
sei al massimo. Tre per ogni colore.
Una
di loro teneva tra le braccia squamose un bambino di due anni circa,
svenuto, probabilmente colui che aveva gridato poco prima.
“Donnie,
come facciamo a combattere?” urlò Leo al di sopra
dello stridio,
premendo più forte le mani contro i fori auricolari.
Il
genio forse era preda del suono, perché sembrava confuso,
con lo
sguardo spento. Assorto o ipnotizzato.
“Dobbiamo...
coprire... gli auricolari! Gli auricolari del cellulare!”
mormorò
mentre cercava di trovare la soluzione.
Con
fatica riuscirono ad afferrare i Shellcell dalle taschine e a sfilare
gli auricolari collegati, posizionandoli poi nelle orecchie:
immediatamente il gorgoglio della creatura si affievolì,
anche se
rimase comunque perfettamente udibile. Pure, sembrava che smorzandolo
riuscissero a rimanere focalizzati più a lungo.
Non
sapendo quanto potessero resistere, decisero di agire: entrarono in
scena con un balzo, aiutando Raph che era palesemente in
difficoltà,
nonostante il numero esiguo; strizzò gli occhi nella loro
direzione
e si accorse degli auricolari che indossavano. Mentre i tre fratelli
si lanciavano contro le creature, anche lui seguì la loro
idea per
difendersi dall'attacco sonoro.
Il
mostro che teneva il bambino indietreggiò, mentre gli altri
si
avvicinarono ferocemente, quelli rossi con i lunghi artigli delle
mani sguainati, quelli gialli armonizzando i loro stridii per provare
a confonderli ulteriormente.
Si
divisero in due gruppi, Leo e Mikey da una parte contro le creature
artigliate e Raph e Don contro le altre: neutralizzarle entrambe era
l'unico modo per arrivare a qualcosa.
Si
chiesero tutti e quattro se fossero gli stessi contro cui avevano
combattuto la volta precedente, perché nessuna delle loro
mosse
andava a segno, come se le loro tecniche fossero ormai state
assimilate e imparate: le creature evitavano con facilità
ogni loro
attacco e arrivavano sempre più vicini a colpirli, fiaccando
le loro
difese.
Non
si erano accorti quanto caos stessero creando, quanto rumore
producessero. Dovevano capire che sarebbe stata solo una questione di
tempo prima che qualcuno si accorgesse di loro, così
esposti. Ma fu
solo quando le sirene della polizia riuscirono a oltrepassare gli
stridii dei mostri e la protezione degli auricolari che lo capirono;
erano praticamente arrivati.
Si
distrassero solo un attimo, un frammento di secondo, ma fu
più che
sufficiente: la creatura che stringeva il bimbo scappò
repentinamente e le altre la seguirono per proteggere la sua fuga,
continuando a gridare.
“Non
devono scappare!” ordinò Leonardo, correndogli
dietro.
Si
gettarono all'inseguimento, ognuno con la propria andatura,
perché
lasciarli andare non era un'opzione accettabile: Mikey era in testa e
pompava i muscoli delle gambe allo stremo, nonostante bruciassero da
morire. Non li avrebbe persi, non di nuovo.
I
mostri scartavano velocemente ogni ostacolo e cercavano una via di
fuga con disperazione, l'agitazione era percepibile dal cambiamento
nel loro verso: si era trasformato in un sibilo acuto e irritante, il
suono che avevano sentito prima che sparissero la notte di Halloween.
“No!
No, dobbiamo prenderli!” urlò il leader,
presagendo lo stesso
scenario.
Un'ombra
nera cadde dal cielo; per la sorpresa le creature si bloccarono e il
loro richiamo si interruppe di colpo, mentre valutavano il da farsi,
presi tra due fuochi.
La
figura nera li teneva sotto controllo con i Tanbō pronti, i capelli
biondi scossi dal vento.
Non
seppero da quanto Steve fosse dietro ai mostri, ma furono
così
contenti di vederlo: la sua apparizione non prevista li aveva
spiazzati quel tanto che bastava a permettere loro di raggiungerli;
li accerchiarono senza esitazione, anticipando qualsiasi loro mossa.
Il
sibilo di prima, però, non era sparito. Lontano, flebile,
arrivava
ancora alle loro orecchie, nonostante avessero gli auricolari; la
creatura con in braccio il bambino fu la prima a reagire: la videro
tremare sul posto, il viso rivolto verso l'alto.
Meravigliati
dalla sua reazione si affrettarono ad osservare anche le altre e
tutte tremavano, qualcosa sembrava scuoterle dall'interno, facendo
tremolare la loro carne violentemente.
C'era
qualcosa di sbagliato. Qualcosa di sbagliato nelle loro espressioni
spaventate che diede loro il magone.
E
poi, nel silenzio attonito, esplosero. In volute di fumo nero,
scoppiarono una ad una, lasciandosi dietro solo polvere impalpabile.
Qualcuna aveva lanciato un leggero grido, ma troppo sommesso per
essere udito.
Deglutirono
tutti a vuoto, senza accorgersene. Un moto di raccapriccio scorse
nelle loro vene, ma non riuscivano a muoversi.
L'ultima
creatura stringeva ancora il bimbo, ma con disperazione questa volta.
Abbassò il capo e lì guardò e c'era
confusione nel nero dei suoi
occhi e paura. Poi, esplose anch'essa nel nulla, senza aprire bocca.
Mikey
si tuffò immediatamente in avanti per salvare il bambino che
cadeva
come al rallenty verso il suolo, strisciando guscio a terra per fare
prima: lo afferrò e lo strinse a sé, fermandosi
ansimante al centro
della scena.
C'era
silenzio attorno e confusione nelle loro teste. Quello a cui avevano
appena assistito li aveva sconvolti e scossi più di quanto
pensassero.
C'era
qualcosa di sbagliato.
I
Tanbō
sono bastoni, in
genere un terzo dei Bō.
Quelli di Steve sono due di 35 cm.
Note:
Buonanotte
a tutti.
È
sempre un piacere pubblicare un nuovo capitolo.
Voglio
rassicurarvi su una cosa: non ho intenzione di pubblicare una volta al
mese o perfino meno: voglio ritornare a mettere un capitolo a
settimana. Ci sto lavorando e io giuro che ce la farò.
Perciò, vi
do fiduciosamente appuntamento a martedì prossimo.
Passando
alla storia, le creature sono riapparse. Prima lotta di Steve, il
piccolo vigilante. E poi, un nuovo mistero.
Ho
fatto un disegno per farvi vedere come li ho immaginati, abbiate
pietà che è pessimo.
Vi
ringrazio della vostra costanza, delle belle parole, per la vostra
gentilezza. Questa storia non è nulla senza di voi.
Abbraccione
infinito
|
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Capitolo 19 *** Something New ***
“...
nella notte si sono verificate altre sparizioni, poco prima della
mezzanotte: Stefanie Mcgunnson di due anni, da Tribeca; Mark Stolson
di un anno, dal Queens, e una donna incinta di sette mesi, Elizabeth
Miller, dall'Upper est side. Le loro famiglie sono molto preoccupate
ed esortano chiunque possa avere loro notizie a farsi avanti; la
polizia per ora non ha indizi concreti e pare che non ci siano
testimoni che possano fornirne. Di certo queste sparizioni vanno ad
accumularsi a tutte quelle dei giorni pass-”
Un click interruppe la voce del
giornalista e i televisori si spensero tutti contemporaneamente.
Rimasero a guardare il nero degli schermi, per alcuni minuti.
Nonostante
tutto c'erano stati
altri rapimenti, nonostante tutto ancora non era finita.
Erano stati sciocchi a non
pensare che potessero essercene altri fuori quella stessa notte, che
potessero essersi divisi in gruppi per coprire più spazio.
“Pensate
che anche gli altri
siano esplosi?” domandò timidamente Mikey, nel
silenzio.
Se lo erano
chiesto tutti, in
effetti. Dopo quello che era successo, a cui avevano assistito, non
potevano non domandarselo.
Ognuno si era chiesto cosa fosse
successo, se fosse stato reale. Donnie, ovviamente, era stato quello
che aveva formulato più teorie nella sua mente, eppure
ancora non
sapeva se parlarne con i suoi fratelli.
Per
esempio, quell'esplosione
avrebbe anche potuto non essere un'esplosione in fin dei conti.
Poteva essere un sistema di teletrasporto, anche se... quella paura
nei loro occhi non sarebbe stata giustificata. E perché poi
lasciare
il bambino lì?
No, no, molto improbabile.
Ma se fosse stato un meccanismo
di difesa? Un modo per non essere presi, autodistruggersi per non
cadere in mani nemiche; in quel caso, anche se premeditato, la paura
sarebbe stata logica.
Ma esplodevano sempre? O solo se
messi alle strette? E quel sibilo... ok, non aveva molte più
certezze rispetto agli altri, anzi, forse solo più domande.
“Potrebbe
darsi” sussurrò
infine a voce alta, facendo spallucce.
Ricadde
immediatamente il
silenzio, la mente di nuovo alla serata. Steve sedeva con loro,
più
muto del solito, una benda a fasciargli la mano dopo che Don l'aveva
controllato per bene e aveva trovato un'escoriazione sul palmo.
Era stata una nottata di
emozioni continue, al limite della tachicardia.
Si era occupato lui di riportare
il bambino a casa, dopo che il genio aveva fatto delle ricerche per
sapere chi fosse, e a lasciarlo sul portico senza essere visto,
evitando soprattutto la pattuglia di polizia che era arrivata
chiamata dai genitori spaventati.
Una notte stressante, una notte
strana. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a vedere la paura in
quelli dei mostri, all'improvviso. Come se gli stessero chiedendo
aiuto.
Qual era il
confine tra buoni e
cattivi? Erano così sicuri che quei mostri lo fossero,
cattivi?
“Stanotte
abbiamo salvato un
bambino, e tanto basta. Dobbiamo cercare di capire cosa sta
succedendo, però, perché le cose potrebbero non
essere come
pensiamo. Per oggi va bene così. Da domani riprenderemo a
pattugliare e cercheremo risposte, tenendo in conto quello che
abbiamo scoperto questa notte. Ma non fatevi influenzare, non
ancora”
disse pacatamente Leonardo, sentendosi pressato ad un discorso da
leader, inconsciamente.
Le sue parole sembrarono essere
effettivamente ciò di cui avevano bisogno, sembrarono
rincuorati
nonostante il silenzio permeasse ancora.
Steve rimase a dormire da loro
dato che il giorno dopo sarebbe stata festa a scuola e avrebbero
potuto parlare tranquillamente della sua prima ronda e della sua
prima lotta, perciò si congedarono e andarono a dormire,
anche se i
sogni di tutti furono tormentati da occhi neri colmi di paura.
Per alcuni
giorni ci fu relativa
calma, insolita calma.
Tanta da far pensino pensare che
la minaccia fosse definitivamente scomparsa, che i mostri si fossero
volatilizzati quella stessa notte davanti ai loro occhi. Nessun
annuncio di scomparsi o di avvistamenti, un silenzio tombale e
inquietante.
Questo non
voleva dire però che
loro non dovessero pattugliare. Divisi per coprire più
spazio, ogni
sera correvano per i tetti con occhi e orecchie attenti a non perdere
nemmeno un suono o qualcosa di strano.
I soliti crimini si consumavano
tra le strade, perfino in tempi di paura come quelli. Anzi, le
più
infime forme di vita approfittavano della situazione proprio per
perpetrare i loro misfatti impunemente, convinti che tutto fosse
più
semplice.
Perciò a loro toccava
assicurarsi che innocenti non ci andassero di mezzo e allo stesso
tempo cercare ancora prove, essere recettivi a qualsiasi cosa.
Poco prima dell'alba si
incontravano sul tetto di un palazzo abbandonato, e con calma
facevano il punto della nottata, scambiandosi informazioni e teorie.
Il piccolo Steve non aveva ancora ripetuto la ronda, a causa della
scuola, ma per il fine settimana sarebbe stato dei loro.
Michelangelo
stava volando da
tetto a tetto, piuttosto facilmente. Da quando era iniziata la ronda
non aveva fatto altro, non c'erano stati casi in cui lui avesse
dovuto intervenire; la mezzanotte era già dietro l'angolo e
sentiva
un pochino di stanchezza. No, non era vero, era noia. Si stava
annoiando e con la mente era già seduto sul divano a premere
il
pulsante del telecomando per scorrere i canali in cerca del suo
cartone preferito; o seduto a giocare con l'ultimo videogioco che non
aveva ancora finito o a riscorrere i suoi amati fumetti dall'inizio.
Invece era costretto a stare al
freddo, da solo, con l'umidità che entrava nelle ossa.
Se fosse stato fortunato non sarebbe
successo nulla per quella notte e in un paio d'ore il suo sogno
sarebbe diventato realtà.
Uno strillo
solitario infranse
il silenzio e il suo sogno, tutto in un secondo. Si spense in un
pianto fragoroso, da bambino, e dopo pochi istanti anche quello
morì,
senza preavviso.
Mikey sospirò sonoramente,
prima di invertire il senso di marcia e correre più veloce
che
poteva. La mano era già sul Shellcell, sui tasti di chiamata
rapida
in conferenza.
Risposero un pronto, un
dimmi e un grugnito.
“Emergenza,
raggiungetemi a
Noho” mormorò velocemente, chiudendo senza nemmeno
aspettare le
loro risposte.
Si infilò in Bond Street e
raggiunse la grande Lafayette Street in pochi istanti, poi
virò a
destra e cercò per bene nel punto dove pensava di aver
sentito il
grido.
Il telefono
trillò
all'improvviso, facendolo trasalire.
“Tu
sei sicuro che siano
loro?” domandò Don quando premette il pulsante di
risposta.
“E
si dice per favore” lo
sgridò all'istante la voce arrabbiata di Raphael.
“Da
che parte di Noho?”
chiese più pratico Leo.
Mikey
odiava davvero molto la
chiamata in conferenza, soprattutto perché i suoi fratelli
non
rispettavano mai il proprio turno, ma parlavano tutti assieme,
sempre.
“Sono
sulla Great Jones street
e non sono sicuro, ma ho sentito-”
Si
interruppe al sentire uno
scambio di gorgoglii sommessi poco più avanti e
cercò di capire da
dove arrivassero, ma con le voci degli altri tre nelle orecchie non
era per niente facile. Continuavano a ciarlare, a chiedergli
spiegazioni, a inveire...
“State
zitti!” sbottò
spazientito. Saltò il divario con il palazzo di fronte con
un grande
balzo, usando uno spesso filo teso tra i due come ponte, poi
acuì
nuovamente l'udito.
“Per
rispondere alla tua
domanda, Donnie, sono loro” esalò infine, gli
occhi fissi sotto di
sé.
Erano
quattro questa volta. Due
attendevano in strada, facendo da palo, mentre gli altri due si erano
arrampicati fino al terrazzo del primo piano e per quel che poteva
vedere, stavano cercando di far passare un bambino svenuto dalla
finestra per portarlo via.
Dato che quella era la cosa più
importante, si gettò direttamente nel terrazzo, prendendo
alle
spalle uno di loro: lo afferrò e lo scaravento fuori con un
solo
gesto, senza molte cerimonie; l'altro sbarrò gli occhi di
sorpresa
e, il bambino ancora stretto nelle braccia, iniziò ad
indietreggiare
per cercare una via d'uscita.
“Lascialo
andare
immediatamente!” esclamò Mikey lanciandoglisi
addosso. A mente
fredda di certo gli sarebbe sembrata una scemenza, ma vedere il
bambino così piccolo e indifeso nelle braccia di
quell'essere, nella
sicurezza della sua camera piena di peluche che era appena stata
violata, gli aveva dato alla testa.
Il mostro barcollò senza
appigli e un secondo dopo ruzzolava per il pavimento con dolore,
mentre Michelangelo afferrava al volo il bimbo, a mezz'aria. Lo
appoggiò cautamente nella sua culla, prima di voltarsi a
cercare la
figura della creatura, che strisciava lentamente verso la finestra.
“Fuori
da qui!” urlò,
spingendola di malagrazia. Si voltò ancora una volta
indietro, per
assicurarsi che il bambino stesse bene, ma a parte sincerarsi che
respirasse non poteva fare poi molto.
Prese in
fretta il telefono
dalla tasca, digitando tre cifre.
“911,
qual è l'emergenza?”
disse la voce affabile dall'altra parte.
“Un
bambino è stato aggredito
al 9 di Great Jones street, primo piano. Fate in fretta”
mormorò
gettandosi fuori dalla finestra.
“Pronto?
Chi parla, cos'è
succ-” provò a chiedere la centralinista, prima
che lui chiudesse
la chiamata. I quattro mostri erano raggruppati nella stradina,
impegnati in una fitta conversazione o almeno quella che pareva una
conversazione, con scambi di suoni gutturali e stridii.
Non appena
si accorsero della
sua presenza, tutti e quattro scattarono verso l'imboccatura della
via, all'unisono; Mikey premette quel dannato pulsante sul telefono
per l'ennesima volta quella notte.
“Si
stanno spostando, verso
Lafayette a sud” spiegò ai fratelli, mettendosi
sulle loro tracce.
“Perfetto”
risposero i tre
contemporaneamente, il suono dei loro respiri affaticati per il
ricevitore.
Li seguiva
a terra, ma mentre
lui cercava di mescolarsi nelle ombre, i mostri correvano per la via
in piena vista, suscitando lo sgomento di chi li vedeva. Ci furono
parecchi strilli e perfino un piccolo tamponamento, quando una
macchina aveva frenato per evitare i quattro mostri che gli correvano
incontro per la strada, a tutta velocità.
“Maledetti”
aveva imprecato
Mikey tra i denti.
“Stanno
girando per Bleecker
Street, sulla sinistra” comunicò al telefono,
senza nemmeno sapere
se gli altri fossero ancora in linea.
Svoltò
anche lui e li avvistò pochi metri davanti a sé.
Un'ombra nera cadde dal cielo
davanti a loro, seguita all'istante da un'altra, deviando la loro
strada: Leo e Raph erano minacciosi con le loro armi in pugno.
Le creature si diedero una
veloce occhiata attorno e poi alle spalle, dove lui e l'appena
arrivato Don stavano avanzando; in un secondo scartarono alla loro
sinistra, verso un'imboccatura che non sapevano dove avrebbe portato.
I quattro fratelli li seguirono
a poca distanza, decisi a non farseli scappare. E sembrava
più
facile del previsto: si erano infilati nello spiazzo tra due palazzi,
una sorta di piccolo patio chiuso su tre lati, tranne il cunicolo da
cui erano entrati, al momento sorvegliato da loro.
Si avvicinarono cautamente, alla
stessa velocità con cui quelli indietreggiavano.
Donatello
fece un passo avanti
più degli altri, le mani in alto come un pregiudicato preso
con le
mani nel sacco.
“Cosa-
cosa siete? E cosa
volete?” domandò con voce calma, fermandosi e
tenendo sempre le
mani bene in vista.
I mostri
sembrarono spaventati
dal suono della sua voce. O forse dal suo tentativo di approccio. Si
guardarono uno con l'altro, scambiandosi un sibilo basso.
Ma Don aveva già capito una
cosa essenziale: loro avevano capito cosa aveva detto. Senza
possibilità di sbagliarsi.
“Perché
rapite i bambini?”
incalzò allora, velocemente.
I sibilo
dei mostri si trasformò
immediatamente in un gorgoglio graffiante e le loro facce espressero
una rabbia improvvisa e brutale: due di loro si gettarono contro di
lui all'istante, furiosi.
“Don,
giù!” ordinò
Raphael, mettendosi davanti coi Sai già alti. Uno di loro si
fermò
in tempo, l'altro andò dritto contro l'arma e Raph lo
sentì
sussultare quando si infilzò violentemente nel braccio della
creatura.
Con un grido di dolore strappò
letteralmente l'arto dalla lama, lasciando una scia di sangue scuro
sul pavimento.
“Vogliamo
solo capire!” urlò
Donatello, che si era già rialzato e aveva afferrato il
fidato
bastone in una mano.
Le creature ringhiarono ancora e
l'unica gialla aprì la bocca, modulando la voce in quel suo
suono
ipnotico e stordente. Le mani corsero immediatamente alle orecchie
per provare a resistere.
Stavano di
nuovo per mettere
mano agli auricolari, come la volta precedente, quando il verso si
trasformò nel sibilo conosciuto e temuto da entrambe le
parti.
Otto paia di occhi si
spalancarono di paura, mentre quattro corpi iniziavano a tremare.
Volevano fare qualcosa per loro,
ma cosa? Cosa stava accadendo davvero?
Quattro esplosioni in simultanea
in fumo nero e le creature scomparvero nel nulla, come già
accaduto.
E nonostante fosse già
accaduto, non lo rendeva meno orribile.
Donatello
iniziò a vagare a
testa bassa per lo spiazzo a piccoli passetti. Rimasero per qualche
istante ad osservarlo, poi Mikey non ce la fece e domandò
quello che
stavano pensando tutti.
“Cosa
cerchi, Donnie?”
Lo pronunciò un po' titubante,
come se temesse che la sanità del fratello fosse andata a
farsi
benedire.
“Le
tracce di sangue della
creatura. Sono scomparse. Se ne trovassi anche solo una potrei
analizzarla.”
Dopo la frettolosa spiegazione
il genio ritornò a cercare in tondo, scrutando il terreno
con
insistenza.
“Ce
n'è un po' sul mio Sai,
se ti può-”
Raphael non riuscì a finire la
frase che suo fratello gli si era già gettato addosso e gli
aveva
strappato l'arma di mano, cercando contemporaneamente nella piccola
borsa che portava a tracolla. Ne tirò fuori un paio di
vetrini e si
sbrigò a bloccare il frammento di pelle trovato sui Sai tra
di essi.
“Te
li stavi portando dietro?”
domandò incredulo Michelangelo, mentre Raphael si riprendeva
la sua
arma e la ripuliva con disgusto.
“Sì,
per prendere un campione
appena possibile” rispose il genio, tenendo il vetrino tra le
mani
come una reliquia. “Devo correre a studiarla, prima che possa
scomparire.”
Qualsiasi parola fu inutile,
perché Don era già sparito verso il rifugio, con
tutta la velocità
possibile.
E facendo
fede alla parola data,
iniziò a studiare immediatamente quel campione di pelle e
sangue,
timoroso che potesse davvero volatilizzarsi nel nulla come i mostri.
Quando tornarono a casa, lo
trovarono già nel laboratorio immerso fino al collo in
alambicchi e
provette, con le occhiaie ben visibili attraverso gli occhialetti per
il fumo.
Leatherhead arrivò mezz'ora
dopo, chiamato dal genio per dargli una mano.
“Bene,
ce lo siamo giocato”
commentò Michelangelo, con un sospiro.
“Speriamo
almeno che riesca a
scoprire qualcosa” mormorò stanco Leo.
Ovviamente,
trattandosi di
Donatello, la ricerca divenne praticamente un'ossessione. Per cinque
giorni filati non mise piede fuori dal laboratorio, nemmeno per
mangiare o dormire.
“Dai,
Don, stacca per stasera”
lo pregò Mikey, entrando nella stanza come un uragano.
Il fratello alzò lievemente la
testa e grugnì in risposta, prima di ritornare a
concentrarsi sul
lavoro.
“Genio,
ascoltalo per una
volta” fece eco Raphael, che lo aveva seguito nella sua
crociata.
Donatello
ignorò anche lui e
continuò a studiare i vetrini al microscopio, come se non
fossero
nemmeno lì.
Uno sbuffo sonoro si udì per la
stanza.
“Stasera
c'è la cena da
April, vuoi perdertela?” infierì Leonardo, appena
arrivato.
La menzione
della cena sembrò
scuoterlo per un attimo e si sforzò di dare loro la sua
attenzione.
“Ditele
che mi spiace molto,
ma per oggi non posso venire” si scusò,
sinceramente. Era diviso
tra il desiderio di una pausa, di una deliziosa serata in famiglia, e
l'ossessione di trovare una risposta quanto prima.
Vide che i suoi fratelli avevano
aperto nuovamente la bocca.
“Sul
serio, solo per questa
sera, ok?”
Accolsero la sua supplica e
quella muta di Leatherhead e sconsolati andarono via dal rifugio,
diretti verso casa Jones.
April e
casey ormai
organizzavano una cena in famiglia almeno una volta a settimana, per
stare tutti assieme, dicevano, ma per poterli tenere d'occhio e
sapere le ultime novità, realmente.
April era ormai vicina al
settimo mese di gravidanza e ormai era messa forzatamente a riposo:
si annoiava moltissimo a casa e in più stava in ansia per
tutti
loro, un connubio deleterio per lei. La trovarono intenta a inventare
qualcosa su un progetto in carta blu, seduta al tavolo della cucina.
“Cosa
fai?” domandò Mikey,
chinandosi per darle un bacio sulla guancia.
“Progetti
per il futuro. Una
volta nato il bambino stavo pensando di riprendere con le invenzioni.
Mi manca la scienza, sapete?” confessò un po'
timidamente, un
sogno a lungo seppellito.
Il second
time around era la sua
casa, adorava il vecchio negozio di suo padre, ma non le dava la
stessa gioia che le invenzioni le davano, come quando faceva da
assistente a Stockman. Era da molto che ci pensava e aveva deciso che
dopo la gravidanza avrebbe impegnato il tempo perso a creare progetti
e poi avrebbe costruito una compagnia di tecnologia, prima o dopo,
con l'aiuto di Donatello.
Si accorse in quel momento della
mancanza dell'amico.
“Dov'è
Don?”
“Sta
lavorando sul campione,
ancora” fu la laconica risposta di Raph, scontata.
Sospirarono tutti,
simultaneamente.
Arrivarono anche Angel e Steve,
e Casey ritornò dal lavoro con il piccolo Carl per mano, che
impazzì
di gioia nell'averli tutti a casa. Ovviamente la cena fu chiassosa
come sempre finché il bambino era sveglio e voleva giocare
con tutti
loro, prima che crollasse addormentato intorno alle nove di sera.
Dopo averlo messo a letto,
finalmente poterono parlare degli ultimi avvenimenti, delle teorie
che ognuno di loro formulava, di cosa progettavano di fare.
Soprattutto per le ronde.
“Se
Donnie è troppo
impegnato, potrei darvi una mano io per un po'” propose Angel
candidamente, mentre sorseggiava una birra.
“E
le lezioni?” domandarono
in coro i mutanti.
“Per
due settimane ci sarà
una specie di mostra nel campus, le lezioni sono sospese.
Sarò dei
vostri per un po' e toglierò un po' di ruggine da
dosso!”
“Un
po' tanta ruggine”
mormorò Raph sottovoce, ma la donna lo sentì e
gli mollò un pugno
sul braccio.
“Di
certo non farò squadra
con te!” esclamò, con una linguaccia.
La nuova
strana squadra si
incontrò per la prima volta due notti più tardi.
Angel aveva
rispolverato la sua vecchia tenuta che aveva usato quando si allenava
con loro, anni prima; aveva faticato un po' per rientrare nella tuta
nera con striature viola scuro, ma sarebbe morta piuttosto che
confessarlo. Chiudeva il corredo la sua maschera nera coi fregi viola
e la sua coppia di Tonfa1
in
legno verniciato.
“Allora,
scricciolo, come ti
trovi a gironzolare con questi fessi?” chiese, punzecchiando
Steve,
a voce ben alta per farsi sentire da Raphael.
“Ehy,
le domande qua le
facciamo noi, carina. Chi è Kevin?” si intromise
Michelangelo,
spostando di peso il ragazzino in impaccio. “E sappi che se
non mi
piace non ci uscirai più.”
Angel
ridacchiò di gusto, poi
rollò gli occhi al cielo, anche se lui non poteva vederli.
“Studia
giurisprudenza, al
terzo anno, e gioca a baseball nel fine settimana”
iniziò a
raccontare prima che l'altro la interrompesse.
“Irrilevante.
Com'è?
Simpatico? Prepotente? Ti tratta bene?”
“Stiamo
uscendo solo da un
mese e mezzo, non è nulla di serio per adesso. E credi
davvero che
gli permetterei di farmi del male?”
Mikey non
rispose alla replica
piccata dell'amica, anche se un nome gli era balzato alla mente. Si
ricordava del male che Simon le aveva fatto anni prima, anche se non
era stato male fisico, quindi sì, aveva sempre paura delle
persone
con cui usciva Angel.
Era la sua piccola sorellina.
“No,
sei tosta. Ma se ci
fossero problemi, chiamami” disse con un sorriso, lasciando
che lei
lo abbracciasse. “E comunque devo davvero vedere questo Kevin
prima
di approvarlo.”
“Tranquillo,
se non passerà
il test 'cosa faresti se conoscessi dei mutanti' lo
scaricherò
immediatamente” lo rassicurò lei, lasciandolo
andare.
“Ok,
basta chiacchiere per
adesso. Dobbiamo pattugliare, Donnie mi ha scritto che oggi
è
probabile che qualche creatura esca allo scoperto. Pensa di aver
scoperto uno schema dietro” disse Leonardo, rimettendoli in
riga.
“La
percentuale è solo del
49%, ma non è male per iniziare. Ci divideremo in tre
squadre per un
paio d'ore, poi ci rincontreremo quassù e riprenderemo a
pattugliare
tutti assieme. Domande?”
Tutti negarono vistosamente,
perciò si scissero in silenzio. Leo e Steve da una parte,
Mikey e
Angel da un'altra e Raphael verso una terza.
La giovane
donna si emozionò a
poter di nuovo zampettare per i tetti della città, dopo anni
interi
di inattività. Ovviamente Mikey era il compagno migliore in
quel
caso, perché la sfidava a compiere imprese impossibili e
sempre più
articolate e due ore volarono letteralmente, tra volteggi e capriole.
Ritornarono sul tetto
dell'incontro in men che non si dica e trovarono già il
leader e il
ragazzino ad aspettarli.
“A
rapporto, signore! Tutto
tranquillo, signore!” tuonò Mikey pomposo, per far
ridere Angel.
“Oh,
piantala! Raphael non
risponde al telefono, stiamo andando a cercarlo” lo
sgridò
l'altro, secco. Ripercorsero i passi a ritroso del fratello
scomparso, fino ad arrivare all'ultimo punto in cui erano sicuri
fosse stato per certo.
“Deve
essere qui intorno e
speriamo non gli sia successo nulla!” disse Leonardo,
sparpagliandoli nei dintorni. Scrutarono tutti per bene nelle vie
principali e nelle viuzze, tenendo le orecchie aperte per qualsiasi
rumore sospetto come una sirena di ambulanza o quella della polizia.
Fu Steve a
sentire per primo il
cicaleccio in sottofondo. Portò all'orecchio il telefonino e
compose
il numero di Leo, continuando ad avvicinarsi.
“Sono
io. C'è un gruppo di
vigilanza di quartiere sotto di me, all'imboccatura di un vicolo,
stanno parlando di un mostro che avrebbero messo alle strette...
indoviniamo chi possa essere?”
Leo ridacchiò sommessamente nel
ricevitore, ma si fermò subito al pensiero del guaio in cui
si era
cacciato quell'idiota e di come loro avrebbero potuto salvarlo.
Raggiunsero
tutti il ragazzino
in un attimo, che intanto non si era perso una parola di ciò
che
succedeva sotto.
“Allora”
iniziò ad
informarli, “pare che all'incirca mezz'ora fa un'ombra sia
calata
giù da un tetto e abbia gironzolato un po' qua in giro. Uno
dice di
aver visto una brutta lucertola arrabbiata, un altro un ranocchio con
gli occhi spiritati e- smettetela di ridere, non ho finito!- e
l'hanno inseguito fino a costringerlo in questo vicolo, dove pare
essersi infilato in quella porta laggiù in un momento di
stupidità
o non so proprio perché non abbia semplicemente scalato la
parete
fino alla libertà. Da un secondo all'altro faranno irruzione
e lo
prenderanno e chissà come andrà a
finire.”
Leo sospirò, stanco.
Quello stupido idiota gli
toglieva ogni volta almeno dieci anni di vita.
“Ok,
suggerimenti?”
“Ci
penso io, ma poi mi fate
picchiare Raph” esclamò Angel, lasciando i Tonfa e
la maschera sul
tetto. Si gettò silenziosamente oltre il parapetto e discese
senza
un rumore lungo il muro, agile come un tempo. Le era mancata
l'adrenalina e la libertà delle ronde coi suoi amici, troppo
presa
dallo studio, ma adesso che li aveva riassaporati, non le sarebbe
dispiaciuto ogni tanto accompagnarli quando le fosse stato possibile.
Chissà che avrebbe detto Kevin,
di quel passatempo, pensò ridacchiando tra sé.
Arrivò
al suolo silenziosamente
e si nascose in un'ombra, appiattendosi contro il muro.
Scivolò
quasi raso terra e raggiunse senza farsi vedere la porticina rossa in
fondo al vicolo, ben attenta a non fare un rumore. Poi batté
leggermente contro il metallo, una volta sola.
“Raph?
Sono Angel, non
muoverti da lì” sussurrò piano.
Dall'interno le arrivò un
piccolo colpo in risposta, secco.
Angel trasse un profondo
respiro, mentre la mano calava giù la zip della tuta, e
sfilò poi
la parte superiore del corpo, perché non sembrasse troppo
sospetta.
Sotto aveva solo una canottiera senza maniche che non la copriva
affatto dal gelo.
Intanto le voci si facevano
sempre più vicine, i passi rimbombavano sul terreno.
Angel si
alzò con un movimento
fluido ed emerse dalle ombre, sotto i loro occhi attoniti.
“C'è-
c'è qualche problema?”
domandò titubante, fingendo un'innocenza che non aveva
più da anni.
Gli uomini ammutolirono all'istante, ma i loro occhi parlarono anche
troppo.
E Angel capì di aver
sottovalutato un po' il problema. Aveva pensato che vedere un'umana
avrebbe rassicurato e disperso gli uomini, non aveva pensato che
vedere una giovane donna all'apparenza indifesa in un vicolo buio
potesse scatenare turpi pensieri in alcuni di loro.
Bella pensata, Angel, davvero.
Ancora non aveva capito come pensassero quei vili bastardi?
Ci fu un
veloce scambio di
sguardi tra di loro, alcuni titubanti, altri pressanti, convincenti.
Erano solo in sei, ma Angel non voleva davvero che i suoi amici
intervenissero rischiando di far saltare tutto e di farsi vedere. Ma
batterli tutti da sola... che seccatura.
“Sei
sola? Possiamo
accompagnarti noi” si offrì uno degli uomini, con
un tono di voce
così lascivo che si sentì sporca solo a sentirlo.
Non riuscì a
dissimulare un brivido di disgusto che le scosse le spalle.
“È
con me, grazie per
l'interessamento. Non abbiamo bisogno di niente”
esclamò una voce
chiara e limpida dietro di lei. Steve apparve dal nulla e
l'afferrò
con possesso, senza staccare gli occhi dagli uomini.
Dopo il primo attimo di
sgomento, Angel si accodò alla recitazione e lo
abbracciò con
trasporto, togliendo l'attenzione da tutto il resto.
Gli uomini non erano ovviamente
impressionati dal ragazzino, anche se il suo sguardo era molto truce,
ma sembrò che la sua entrata in scena avesse rischiarato un
po' le
loro menti. Fu però la successiva frase del mingherlino, a
convincerli definitivamente a desistere da qualsiasi cosa gli
passasse per la mente.
“Hanno
chiamato i tuoi
fratelli, stanno venendo a prenderci” disse in tono
fintamente
casuale alla giovane donna, ignorando loro.
Quelli si
diedero una rapida
occhiata e comunicarono a gesti e sguardi, guardinghi.
“Noi-
noi andiamo. State
attenti, ragazzi” dichiarò stentatamente uno di
loro, mentre i due
giovani già non li ascoltavano più, persi in un
mondo tutto loro.
Il gruppetto indietreggiò fino all'imboccatura del vicolo,
gettando
solo ogni tanto uno sguardo verso di loro, forse pieno di invidia;
quando oltrepassarono la via, cadde il silenzio.
Rimasero in ascolto finché non
furono certi che non ci fosse più nessuno.
“Lasciami
andare, lasciami
andare!” sussurrò strozzato Steve, cercando di
divincolarsi. Angel
osservò il suo volto paonazzo e in un moto di
pietà lo liberò
dalla sua morsa, osservandolo poi mentre si reggeva al muro e
respirava a pieni polmoni, ancora rosso da far male. Tremolava anche
un po', il suo bislacco eroe.
“Ben
fatto, ragazzi. Perfetto,
Steve! Devi lavorare un po' su questa tua fobia delle donne,
però”
sentirono dire a Leo, che scendeva insieme a Mikey.
“Non
ho- è solo che- ...mi
imbarazza, ok?” farfugliò quello, riprendendo
ancora fiato.
Angel
ridacchiò e, sotto
istigazione di Michelangelo, abbrancò ancora una volta il
ragazzino
e gli scoccò un bacio su una guancia, a tradimento. Steve
era ad un
passo dallo svenire quando Leo glielo strappò di mano.
“Basta!
Non è un giocattolo!”
“Se
non va con Kevin, uscirò
con te, Steve!” chiosò la donna, scoccandogli un
bacio da lontano.
“Ok,
recuperiamo Rapheronzolo
e chiudiamola qui per questa notte, va bene?” propose stanco
il
leader, usato come scudo dal ragazzino per non essere assaltato
ancora.
Il fratello uscì dalla porta al
sentire le loro voci, ma non trovò nulla da dire per
scusarsi o
giustificare in che modo si fosse cacciato in quella situazione. E fu
fortunato che Angel e Mikey fossero impegnati a dare fastidio a Steve
e che Leo lo fosse a difenderlo, perché si
risparmiò battute
derisorie e domande imbarazzanti, almeno all'inizio.
Tornarono
verso casa facendosi
dispetti e scambiandosi battute.
Quello che era successo quella
notte era stato abbastanza strano anche per i loro standard e le
spiritosaggini passavano dal Raph rinchiuso come un topo in un
piccolo magazzino al piccolo Steve versione Macho.
Uno sbuffava rollando gli occhi
al cielo, l'altro illuminava la notte arrossendo a intermittenza.
“Ehy,
avete visto?” domandò
d'un tratto Mikey, nel bel mezzo di una risata.
Osservarono nel punto indicato e
se dapprima non videro nulla, si accorsero poco dopo delle macchie
scure che cercavano di nascondersi tra le ombre dei palazzi, qualche
isolato più avanti.
C'era qualcosa di sospetto in
atto e non si erano dimenticati affatto della possibilità
che i
mostri potessero apparire quella notte.
Si
avvicinarono cautamente,
smettendola con gli scherzi per concentrarsi sulla missione, Leo in
testa per coordinare gli spostamenti. In pochi minuti arrivarono
sopra di loro e si ritrovarono a strizzare gli occhi nella penombra
per cercare di capire con cosa avessero a che fare.
C'erano cinque ombre di sotto,
che quasi barcollavano. Poteva essere un gruppo di ubriaconi o cinque
amici che avevano alzato troppo il gomito per qualche motivo.
Rimasero ad osservarli per pochi secondi per sincerarsi che fosse
tutto tranquillo, decisi ad andarsene immediatamente a casa.
E lo avrebbero fatto, se un
sibilo non si fosse alzato dalla strada, troppo familiare e
spaventoso.
Solo Angel
non lo conosceva e
non provava quella paura sottopelle. Si gettarono immediatamente di
sotto e raggiunsero le figure immediatamente eppure silenziosamente,
per non essere scorti prima del previsto.
Misero a fuoco tre mostri gialli
e due rossi che camminavano a fatica, quasi trascinandosi con dolore.
Uno di loro ne sorreggeva un altro in palese difficoltà. Ad
ogni
passo i loro corpi tremavano e riuscirono a sentire il loro respiro
corto e sofferto.
“Aspettate
un attimo” esalò Leonardo,
d'un tratto.
Le creature non sembrarono
spaventate da loro, si voltarono lentamente alle sue parole, con
quella paura già negli occhi neri.
Non ci fu tempo per chiedere
niente o per reagire: di nuovo, i mostri esplosero in volute di fumo,
con solo il tempo di guardarsi tra di loro, con terrore.
Quattro esplosioni e non rimase
più niente. Quattro esseri svaniti nel nulla.
Rannicchiato
a terra, uno dei
mostri gialli tremava di paura, gli occhi chiusi per non vedere.
Attesero impotenti per minuti, interi minuti, e poi continuarono a
guardare la figura spaventata con una rivelazione nella mente: per la
prima volta, uno di loro si era salvato.
Volontariamente? Una casualità?
O una trappola?
1: I Tonfa
sono dei bastoni con
un impugnatura verso la fine. In pratica sono quei manganelli che si
vedono addosso ai poliziotti nelle serie americane. O perlomeno sono
simili. Possono essere ruotati in molte posizioni e sono molto
versatili. Angel ne ha due neri, di 50 cm.
Note:
Buona sera
a tutti.
Scusate il ritardo, ma di un
giorno, solo per un giorno! Ce l'avevo quasi fatta!
Passando alla storia: adoro
quando mi tirate fuori teorie e domande, vi adoro. Mi fate sentire
quanto vi coinvolga e ne sono felice.
Continuate così!
Per adesso
i misteri rimangono,
ma tra pochi capitoli alcune cose verranno svelate!
Riuscirò a sorprendervi ancora?
Speriamo!
Vi rinnovo
l'appuntamento per
mercoledì prossimo (sperando di non tardare di un giorno
come
stavolta) con tutta la fiducia possibile.
Grazie
enormemente e di cuore.
Abbraccione
P.s.:
guardate cosa ha creato
quel genio di Sarajane! Quattro tavole per SITR, non sono bellissime?
Grazie, tesoro!
Ne metto due ora, due la
prossima volta.
La sua
pagina fb, passateci,
cresce sempre più più il suo talento:
https://www.facebook.com/Sarajane-386563768158774/?fref=ts
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Capitolo 20 *** A new... friend? ***
C'era
un perfetto silenzio nel laboratorio.
Donatello
dietro ad un bancone ricolmo di fialette, vetrini e microscopi
intento a sperimentare e miscelare, Leatherhead ad uno accanto che
studiava fogli pieni di formule e scritte fitte, con gli occhialini
sul muso rugoso. Tutti e due indossavano il camice bianco da
laboratorio.
Lavoravano
davvero bene assieme, proprio perché entrambi rispettavano
il
silenzio dell'altro, la concentrazione necessaria per lavorare con
nozioni e oggetti così sensibili e complessi. Non parlavano
quasi
mai, nel laboratorio.
Si
passavano ogni cosa in silenzio: fogli, alambicchi, vetrini e
provette; tutto in silenzio.
Leatherhead
si sistemò un po' meglio gli occhialini sul muso, poi
strizzò gli
occhi dietro di essi per la stanchezza; focalizzò ancora un
paio di
volte i dati che stava studiando, poi si spostò verso la
scrivania e
il computer acceso, digitando velocemente sulla tastiera.
“Donatello,
puoi venire a vedere?” chiese, rompendo per la prima volta la
quiete.
Era
di certo molto stanco, ma non riusciva a decifrare per bene le
colonne di dati e i numeri e le lettere continuavano a confondersi
tra di loro.
L'amico
poggiò cautamente le fiale che teneva nelle mani e che stava
studiando in controluce, poi si avvicinò e diede un'occhiata
allo
schermo.
Attimi
in cui tutte le informazioni si divisero e poi assemblarono nel suo
cervello.
L'illuminazione.
Se
quei dati erano esatti, il DNA della creatura era indubbiamente
incompleto, ma quelli sembravano proprio marcatori al-
Voci
urlanti interruppero il filo dei suoi pensieri, bruscamente.
Arrivavano da fuori, dall'alto.
Allarmato,
senza sapere ancora perché, il genio uscì in
fretta dal laboratorio
e Leatherhead gli andò dietro, per sicurezza. Stettero sul
chi vive
sulla porta, tenendo d'occhio le entrate.
Il
fracasso era sempre più forte e più vicino,
riuscivano a
distinguere delle voci, adesso.
Poi,
le porte dell'ascensore si aprirono e una babele si riversò
nel
rifugio, voci alte e concitate. Don era già allarmato, ma
quando si
accorse che erano Raph e Leo a urlare contro Mikey, il livello di
stress schizzò alle stelle; si era già gettato in
avanti per
intervenire e capire, -era così preoccupato da non aver
quasi notato
la presenza di Steve e Angel che ammutoliti seguivano la
discussione,- ma tutta la sua determinazione svanì quando
vide la
sconosciuta figura legata che Michelangelo teneva per un braccio,
quasi difendendolo dalle aggressioni dei fratelli.
“Sei
completamente matto!” urlava Raphael fuori di sé.
“Devi
ascoltarmi, non possiamo permettertelo!” gridava Leonardo,
arrabbiato.
E
continuarono, cercando di farlo ragionare. Uno si passava le mani in
testa freneticamente nell'agitazione, l'altro gesticolava ad ogni
parola con vigore.
Donatello
scivolò tra di loro e si fermò di fronte alla
creatura, come in
adorazione verso qualcosa di sacro. Alzò le mani, ma non si
azzardò
a toccarla, rimase invece ad osservarla da vicino, ciò che
poteva
vedere che non fosse coperto dalla maschera di Mikey usata per
bendarlo.
“Ne
avete trovato uno... uno vivo... non ci credo, posso-”
iniziò a
balbettare per riuscire ad esprimere tutte le sue domande tutte in
una volta. Poi si bloccò, spalancò gli occhi e
successivamente
corrugò le sopracciglia.
“Perché
è nel nostro rifugio?” urlò voltandosi
verso Mikey, unendosi al
coro interrotto poco prima.
Prima
che gli altri due riprendessero, il fratello insorse.
“Perché,
dove credi che avrei dovuto portarlo? Dovevo lasciarlo
lassù?”
sbottò squadrandoli uno ad uno a turno.
“Non
è esploso e non ha fatto altro che rimanere rannicchiato per
quattro
ore, senza nessuna intenzione di muoversi o di tornare da dove
è
venuto, perciò non potevamo seguirlo. E allora ditemi cosa
avremmo
dovuto fare!”
La
sua sfuriata era così giusta che non trovarono niente con
cui
ribattere, anche se la rabbia non si era assopita per nulla.
“Non
può stare qui, è un mo-”
Don
si bloccò nel bel mezzo della frase, fulminato da
un'occhiata gelida
di Mikey. E si rese conto da solo che quella parola era stata meglio
non averla pronunciata.
“Loro
rapiscono i bambini, come possiamo fidarci...”
Michelangelo
avanzò di un passo, continuando a tenere la creatura per un
braccio,
fermamente. C'era una strana aura di serietà nel suo sguardo
che
avevano visto poche altre volte sul suo viso.
“C'è
qualcosa che non sappiamo o che non abbiamo capito. C'è
qualcosa che
non va. Loro non sono... non so spiegarlo. Sento che non sono
malvagi.”
I
tre fratelli sembrarono insultati personalmente dalle sue parole, lo
guardarono come se fosse pazzo.
“Tu
sen- tu senti che non sono malvagi?” urlò
incredulo Raphael,
balbettando per la fretta di parlare. “Ma sei completamente
matto?
Hanno aggredito un uomo, ucciso, hanno rapito centinaia di persone, e
bambini! Cosa ti ha fatto pensare che non siano malvagi?”
“Io
non so spiegarlo. È solo una sensazione. Ma è una
sensazione
giusta, lo so. Questo... questa creatura non ci farà del
male.”
“Mikey,
ti prego, cerca di ragionare!” lo supplicò Leo, ma
lui non si
mosse dalle sue convinzioni. C'era uno scisma evidente.
Da
un lato il mutante col mostro, dall'altra un muro compatto di
disapprovazione.
“Leatherhead,
hai ancora la gabbia in cui mettemmo Donatello?”
domandò
Michelangelo, continuando a fissarli.
Il
genio venne trafitto da una fitta di dolore e di rimorso. Quando lui
si era tramutato in un mostro, dopo essere stato per caso infettato
da un mutante creato da Bishop, i suoi fratelli non lo avevano
abbandonato. Anche se era diventato cattivo e aggressivo e aveva
perfino cercato di mangiarsi Mikey.
E
non era così semplice pensare che fosse naturale, dato che
essendo
il loro fratello era ovvio che non lo avrebbero abbandonato. Sapeva
che quella era solo una delle motivazioni.
In
realtà loro non avrebbero lasciato nessuno, neppure un
estraneo, in
quelle condizioni.
E
Michelangelo ne stava dando prova; nonostante non sapesse quale fosse
il problema della creatura, non l'avrebbe lasciato perdere, se
pensava che qualcosa non andasse.
Vide
Leo aprire la bocca per controbattere e si sporse per dire la sua, ma
la voce imperiosa del sensei interruppe tutti.
“Basta,
figlioli.”
Non
essendosi accorti che fosse lì con loro, trasalirono tutti e
voltandosi lo trovarono ritto vicino alla porta del dojo, gli occhi
scuri ricolmi di concentrazione e severità; non sapevano
nemmeno da
quanto fosse lì, se avesse seguito tutta la storia.
Il
suo sguardo era tutto su Michelangelo.
“Sei
sicuro?” chiese, solamente.
Il
figlio annuì solennemente, quasi rispondendo più
a qualcosa di
mentale, qualcosa che gli altri non avrebbero mai sentito.
Il
saggio ratto inclinò appena la testa, assorto in
riflessioni, poi la
sollevò nuovamente.
“Va
bene. Michelangelo ha la mia approvazione” disse
tranquillamente,
osservandosi attorno come a voler incoraggiare a contraddirlo se ci
tenevano, ma i suoi figli, dopo essersi guardati sorpresi l'uno con
l'altro, sembrarono decidere di non farlo.
“Leatherhead,
per favore, quella gabbia” incalzò Mikey, con
gentilezza,
smuovendo il loro grosso amico che per tutto quel tempo era rimasto
in silenzio a seguire la vicenda con apprensione.
Intanto,
la creatura gialla era rimasta in uno stato assolutamente catatonico.
Non si era mossa, non si era ribellata, non aveva emesso un suono e
benché sembrasse capire che parlassero di lei, non si era
curata
delle loro voci né dei loro toni.
Non
si era nemmeno mai ritratta dal contatto della mano di Mikey, come se
essere in cattività non gli interessasse minimamente.
A
capo chino, con le spalle basse, come se non stessero decidendo della
sua vita.
Leatherhead
tornò con una grossa gabbia circolare di vetro e acciaio,
-molto
tecnologica,- la posò al centro del rifugio, vicino al
laghetto, e
poi rimase in attesa. Tutti erano in attesa.
Michelangelo
sembrava non curarsene. Si mosse in avanti e trascinò con
sé il
mostro, che lo seguì docilmente; gli tolse la bandana dalla
testa,
ma quello la teneva bassa e nessuno riuscì a vederlo in
volto. Per
ultimo sciolse i nodi della corda che legava i suoi polsi,
spingendolo verso l'entrata della gabbia con un tocco gentile della
mano.
Il
mostro mise un piede dentro la sua prigione, remissivo, forse nemmeno
conscio di
cosa
significasse.
“Aspetta”
urlò improvvisamente Don, avvicinandosi alla struttura,
mentre
frugava freneticamente nelle tasche del camice; Mikey bloccò
la
camminata della creatura prendendola per un braccio e si
voltò a
guardare il fratello con sorpresa.
“Prima...
prima voglio un campione del suo sangue” dichiarò,
togliendo il
cappuccio di una siringa con gesto pratico.
Il
grido della creatura fu improvviso e per quello più
spaventoso.
Osservò con occhi sbarrati la siringa, come se fosse uno
strumento
di tortura, e gridò e gridò con un sibilo
stridente, divincolandosi
dalla presa di Mikey con foga: gli sfuggì facilmente, data
la
sorpresa, e si rifugiò sul fondo della gabbia,
rannicchiandosi
contro il vetro dall'altra parte rispetto all'entrata, più
piccolo,
sempre più piccolo.
Michelangelo
chiuse la porta con un tonfo e di colpo il grido cessò. La
creatura
li osservò
sospettosa dal
suo punto, di nuovo tranquilla, ma guardinga.
Donatello
guardò
prima il mostro
rinchiusosi praticamente spontaneamente e poi Mikey, con
un'espressione sbigottita.
“Ci
vuole solo un po' di pazienza, ok?” mormorò
l'altro, chiedendo
tempo per risolvere tutto.
“Ti
occuperai di lui e rimarrai qui sempre, senza allontanarti mai,
nemmeno per una ronda. È una tua responsabilità,
Mikey. Non
sbagliare” pronunciò Leo solennemente, ancora
molto dubbioso nei
confronti di tutta quella situazione e perfino di suo fratello.
E
così fu. Lui solo rimase lì a fissare la figura
accovacciata,
mentre gli altri si dispersero, chi tornando al laboratorio, chi
nella propria stanza o nel dojo, chi semplicemente a casa.
Si
lasciò andare al suolo, stanco, davvero stanco.
Cosa
diamine gli era preso? Difendere così uno dei loro nemici?
Portarlo
a casa e scontrarsi coi suoi fratelli in quel modo?
Perché?
Quando
lo aveva visto rannicchiato
ad aspettare di esplodere, gli si era stretto il cuore. Non aveva
reagito o urlato o cercato un modo per evitarlo, no. Aveva invece
atteso la morte, quasi desiderandola.
E
Michelangelo aveva sentito che c'era qualcosa di sbagliato in tutto
quello. Aveva sentito il desiderio di proteggerlo, di capire cosa
avesse portato una creatura che lottava con quella foga e quella
disperazione a desiderare di morire.
Erano
davvero cattivi, si era domandato?
“Ehy,
come ti chiami? Io sono Michelangelo” disse, dal nulla,
rivolto
verso la gabbia. La figura accovacciata trasalì al suono
della sua
voce e, senza muoversi, ringhiò sottilmente.
“Come?
Non sono riuscito a capire” incalzò il mutante,
avvicinandosi alla
gabbia.
Di
nuovo, un tetro gorgoglio si levò, più arrabbiato
di prima.
“Roar?
Grrrrr? Oppure hai detto Groooar?” scherzò, per
non cedere alla
stanchezza e allo sconforto.
La
creatura sembrò infastidita e si sporse in avanti
repentinamente,
premuta contro il vetro a pochi centimetri da lui: gli
mostrò i
denti e latrò più forte, con uno stridio che fece
vibrare le pareti
pericolosamente.
Mikey
indietreggiò per un secondo; poi inaspettatamente sorrise.
Il
mostro ne sembrò ancora più irritato
e con un gelido bagliore negli occhi scuri
tornò a
accucciarsi dall'altra
parte, ignorandolo completamente.
“Non
fare così. Ti voglio aiutare” lo
supplicò allora, addolcendo un
po' il tono.
Ma
non ottenne più risposta e nemmeno un sussulto o un gesto
qualunque
che gli facessero capire che lo stava ancora ascoltando.
Sospirò,
chiudendo un secondo le palpebre. Sapeva già di essersi
infilato in
qualcosa di molto più grande di lui, qualcosa che non sapeva
se
sarebbe mai stato in grado di gestire. Chi lui, Michelangelo il
buffone? Ridicolo.
“Hai
fame?” domandò a voce alta, sollecitato dal
gorgoglio del suo
stesso stomaco. A quell'ora in genere mangiava sempre un boccone,
prima di infilarsi a letto.
Ovviamente
non ci fu una risposta, già lo sapeva.
Si
allontanò piano verso la cucina, continuando a occhieggiare
di tanto
in tanto verso la gabbia per sincerarsi che la creatura non
approfittasse della sua assenza per cercare di forzarla; era robusta
e aveva sostenuto attacchi ben peggiori quando era stato Don-mostro a
starci dentro, ma temeva che quell'essere avesse altre carte nella
manica, come il suo urlo ultrasonico, che forse poteva spaccare lo
spesso vetro.
Agguantò
in fretta tutto ciò che poteva dagli scaffali e dal frigo,
allungando spesso il collo oltre la porta per sorveglianza, e
tornò
in fretta vicino alla gabbia, caracollando sotto il peso della roba.
Il
mostro non si era mosso di un millimetro, ma sperava di poterlo
irretire con il profumo del cibo.
Mikey
premette un pulsante di un piccolo telecomando che Leatherhead gli
aveva affidato e una piccola finestrella si aprì alla base
della
struttura, grande abbastanza per poter far passare le cibarie.
Iniziò
ad infilarci dentro tutto ciò che aveva: fette di pane,
frutta,
sacchetti di patatine e perfino il cartone della pizza con ben due
fette ai funghi che stava conservando per la colazione.
Qualcosa
doveva pur piacere a quell'essere, sempre che mangiasse le loro
stesse cose.
E
se invece si nutriva per davvero di bambini? Solo il pensiero lo
nauseò con disgusto e gli fece passare completamente
l'appetito.
Rimase
attento ad ogni possibile movimento che indicasse un interesse del
mostro, ma sembrò tutto vano: o non mangiava quel genere di
cose o
non mangiava affatto.
E
dopo due ore infruttuose, di silenzio e immobilità e morsi
della
fame, ne fu quasi completamente certo.
Come
si era pentito di avergli dato la sua adorata pizza, chiusa
là
dentro, sprecata e destinata ad ammuffire. Avrebbe potuto
riprendersela, ma nonostante sapesse che la creatura non l'avrebbe
toccato se fosse entrato nella gabbia, non era così stupido
da non
mettere in conto almeno uno 0,1% di possibilità che potesse
rivoltarglisi contro.
Era
improbabile, ma non impossibile.
Si
strofinò lo stomaco indolenzito con una mano, sospirando
stancamente. Non sapeva nemmeno se avesse più fame o
più sonno;
socchiuse gli occhi, una volta, due, controllò che l'essere
non si
muovesse, batté ancora le palpebre, controllò
ancora e ancora e
ancora.
Si
risvegliò con un grugnito sonoro, confuso.
Quando
si era addormentato? Schioccò la lingua contro il palato dal
sapore
pastoso, mentre gli occhi pulsavano dentro le orbite; stava cercando
di fare mente locale, ma essere sdraiato sul freddo pavimento non lo
aiutava di certo.
Si
tirò su di scatto, fulminato. La creatura, la vigilanza, la
gabbia!
Occhieggiò
spaventato attorno e al di là del vetro e molte cose assieme
lo
colpirono, nello stesso istante.
Per
prima, la figura rannicchiata nell'angolo, ferma e piccola, con le
braccia a proteggere le gambe e il viso nascosto in quel riparo
improvvisato; Michelangelo si sporse ancora, silenziosamente, per
cercare di capire; gli pareva troppo calmo. Solo quando il suo quieto
respirare gli indicò che l'essere stava dormendo, si
rilassò.
Allora
lo sguardo si spostò sulle bucce di banana e i torsoli di
mela poco
distanti dalla creatura, coi segni ben evidenti della sua dentatura
aguzza; un bel pasto a giudicare dalla piccola montagnola
accatastata. La fame aveva infine vinto la reticenza della paura.
Mikey
si concesse un piccolo sorriso, di conquista. Una piccola conquista,
vero, ma lo rendeva felice.
Infine,
notò la scatola un po' schiacciata e malconcia che giaceva
vicino ai
suoi piedi, al di fuori della gabbia; all'inizio, nella fretta di
sincerarsi che il suo ospite non fosse scappato, non ci aveva
praticamente fatto caso: il cartone della pizza che lui aveva
infilato nella gabbia per il suo nuovo amico, donata con tanta
fiducia, stava inerme sul pavimento.
Michelangelo
si staccò dal vetro e si chinò con prudenza,
curioso: aprì la
scatola e le due fette di pizza erano lì, intonse e ancora
buone
nonostante fossero fredde, pronte da mangiare.
Si
sedette sul pavimento e ne afferrò una, addentandola poi con
voracità; la mozzarella era gommosa come aveva immaginato e
i funghi
un poco stantii, ma lui la trovò buonissima.
Sorrideva,
tra una fetta e l'altra, gettando ancora lo sguardo sulla figura
addormentata.
C'era
speranza, non si era sbagliato. C'era del buono oltre le squame, i
denti aguzzi e l'incomprensione.
C'era
speranza.
Fu
una lotta di pazienza e resistenza, ad aspettarlo.
Era
un continuo scontrarsi con il silenzio e l'indifferenza dell'essere,
nonostante tutti i suoi tentativi, nonostante lui il silenzio lo
continuasse a riempire di parole e parole, monologhi infiniti, per
cercare di vincere la sua fiducia.
Chi
dei due avrebbe ceduto per primo?
Se
lo chiedevano tutti, nel rifugio, ovviamente in silenzio.
Leonardo
continuava ad osservare la situazione, guardingo, nel caso qualche
emergenza fosse accorsa; non riusciva ancora a fidarsi, lui. L'idea
di avere un potenziale nemico in casa lo teneva sveglio e lo rendeva
irrequieto.
Anche
Raph era ancora contrario alla cosa, ma a differenza del leader,
aveva deciso di non metterci bocca e di farsi presente solo nel caso
in cui qualcuno gli avesse annunciato un problema; in quel caso lo
avrebbe risolto a modo suo e poi avrebbe detto a Mikey un bel
“te
l'avevo detto”.
Splinter,
responsabile padre, non aveva certo lasciato le cose nelle mani dei
suoi figli. Sì, si fidava del giudizio di Michelangelo, ma
supervisionava di tanto in tanto la situazione, solo per essere
sicuro.
E
a lui, e ai suoi occhi saggi, non sfuggirono cose che ai suoi figli
potevano sembrare solo dettagli insignificanti, tanto da smarrirli
nella frazione di un secondo e non registrarli.
Lui,
vedeva come di giorno in giorno l'attenzione della creatura fosse
sempre più focalizzata su Michelangelo; se all'inizio era
stato
indifferente e restio, via via che le chiacchiere del mutante lo
avvolgevano, il suo sguardo si era spostato sempre più dal
nulla
verso di lui. In modo sottile, ma attento. Lo si poteva notare da
come la schiena si irrigidiva se Michelangelo prendeva una pausa
troppo lunga o se spariva per andare un attimo in cucina o al bagno:
allora l'essere gettava fugaci occhiate allarmate, come a voler
controllare dove fosse, come a voler riprendere il contatto con lui.
E
se quello poteva passare in sordina, come non accorgersi che si
abbandonava al sonno solo quando anche il figlio crollava per la
stanchezza di parlare o che pian piano si fosse spostato sempre
più
vicino al lato dove lui stava, pochi centimetri al giorno, sempre di
più.
Si
era accorto, suo figlio, di quei piccoli cambiamenti? Ne dubitava, ma
trovava confortante come nonostante tutto Michelangelo non
demordesse, non si distraesse con nulla anche se sapeva quanto amasse
videogiochi e fumetti, quanto trasparisse l'importanza che dava a
quella creatura e al suo desiderio di aiutarla.
Era
fiero di lui e fiero di come, anche se in maniera meno palese degli
altri, anche lui fosse cresciuto in uno splendido uomo.
Riusciva
a sentire la stessa speranza che animava il figlio e sperò
che
avesse ragione.
Donnie
sembrava quasi felice di avere la creatura. Non era preoccupato che
potesse fuggire, sapeva che la gabbia era resistente, -ci aveva
passato un bel soggiorno quando si era trasformato in mostro, ed era
certo della sua solidità,- ma smaniava all'idea di poterlo
studiare.
Quell'essere era un mistero per lui. Il campione che avevano trovato
in passato si era disintegrato, da solo, poco tempo prima.
Aveva
solo capito che il suo DNA sembrava più complesso di
qualsiasi cosa
studiata prima, prima di perderlo, e adesso voleva saperne di
più.
Chi
era, cos'era quella creatura? Cosa cercava? Era nel suo DNA la
soluzione, ma non poteva avvicinarglisi per scoprirlo. Sembrava
provare una paura infinita per tutta la sua attrezzatura medica e il
solo vedere una siringa scatenava in lui un attacco di panico che lo
faceva rintanare nel fondo più lontano della gabbia con
vigore.
Michelangelo
lo aveva sgridato per averci anche solo provato, e alla fine Don si
era visto costretto a studiare l'essere solo dall'esterno, osservando
i suoi comportanti e ciò che poteva dedurre della sua
costituzione
solo dallo sguardo.
Annottava
tutto ciò che scopriva, macinando teorie.
La
creatura assomigliava agli umani e a loro, struttura ossea simile se
non identica e muscolare solo leggermente meno sviluppata; il corpo
era ricoperto di squame, ma non dappertutto, i palmi delle mani e le
piante dei piedi erano di una colorazione aranciata che appariva
morbida e liscia, probabilmente come la pelle degli umani.
Mangiava
solo due volte al giorno e sembrava avere un disperato bisogno di
acqua: ne consumava dieci litri al giorno e se ne riceveva di meno,
anche di poco, sembrava cadere in uno stato semiletargico
finché non
poteva assumerne in quantità.
Quello
che più lo affascinò, comunque, furono tre
strisce nella sua
schiena, che poté osservare solo da lontano, di quello che
sembrava
morbido pelo giallo. Non ci aveva fatto caso da subito,
poiché il
colore era dello stesso giallo intenso delle squame, ma poi in
controluce aveva visto la peluria brillare e si era accorto della
stranezza.
Era
un essere palesemente acquatico, non avrebbe dovuto avere peluria di
nessun genere; e poi, era sicuro che gli esseri come lui che avevano
incontrato prima non l'avessero. Poteva esserci un minimo margine
d'errore, ma in cuor suo sapeva di avere ragione.
Allora
era il loro mostro ad essere diverso? O gli altri di un'altra specie?
Qualcosa
gli diceva che quella creatura che sedeva quietamente nel loro
rifugio era un'eccezione e che non avrebbe portato nulla di buono.
E
quanto, quanto aveva ragione.
Le
ronde continuarono strenuamente. Ovviamente, senza Mikey e Don,
coprire più spazio era complicato e più
stancante. Angel e Steve si
univano spesso al gruppo per rimpiazzarli, fornendo assistenza; il
ragazzo aveva acquisito molta più fiducia e Angel aveva
rispolverato
la sua vecchia forma fisica in tutto il suo splendore.
Si
era reinnamorata della vita notturna, tanto da chiedersi come mai
l'avesse abbandonata del tutto, e si era ripromessa di trovare un po'
di spazio a vigilare, anche quando la sua presenza non fosse stata
necessaria.
Correvano
divisi in due gruppi e pattugliavano fino ad un'ora prima del sorgere
del sole cercando, tra i vari crimini comuni nella loro bella
città,
segno di quelle creature.
“Non
è più sparito nessuno”
esclamò una notte Leonardo, entrando nel
laboratorio velocemente.
Donatello
alzò gli occhi dagli appunti che stava trascrivendo dal
quaderno al
computer e diede uno sguardo veloce all'orologio a muro di fronte a
sé. Erano le quattro del mattino.
“Aspetta,
cosa hai detto?” domandò d'un tratto, non certo di
aver capito
bene.
“Ho
detto che i rapimenti si sono interrotti. Nessun bambino sparito
nell'ultima settimana, niente di niente” gli
ripeté l'altro, grato
che finalmente gli avesse dato attenzione.
Ma
Don si era già e di nuovo perso in pensieri suoi, con lo
sguardo
fisso nel vuoto.
Le
sparizioni si erano interrotte... voleva dire forse che i mostri
erano spariti? Che la minaccia era scomparsa? No, troppo strano.
Allora forse avevano raggiunto il loro scopo, quale che fosse. Ma
se...
“Terra
chiama Donnie! Ci sei?” lo interruppe Leonardo spazientito,
schioccandogli le dita davanti al viso.
“S-sì,
stavo pensando al perché le creature possano essere
scomparse e mi
sono un attimo estraniato.”
“Non
sono spariti, ma non hanno più preso nessuno.”
“Eh?”
Leonardo
rollò gli occhi al cielo. Era troppo stanco e stizzito dal
poco
sonno per sopportare quel discorso a spezzettoni. Si sedette sulla
sedia di fronte alla scrivania e prese un bel respiro.
“Le
creature sono ancora in giro per la città: piccoli
gruppetti, poco
più di coppie che vagano per tutta la notte, tutte le notti.
Come
alla ricerca di qualcosa. Vagano e vagano, ma non rapiscono nessuno.
Poi, d'improvviso, esplodono tutte senza lasciare traccia. Nel
nulla.”
Donatello
si era figurato l'immagine nella mente piuttosto bene, esplosioni
comprese.
Deglutì
innervosito e corrucciò la fronte, mentre nuove teorie e
idee si
formulavano nella sua mente. E ce n'era una che, anche se poteva
sembrare assurda, per lui aveva perfettamente senso.
“Stanno
cercando il nostro” disse a voce alta, e dal suono non
sembrava
troppo male come ipotesi nemmeno al di fuori della sua testa.
Leo
aggrottò un sopracciglio, preso alla sprovvista.
“Il
nostro cosa?”
“Il
nostro mostro” rispose il genio sollevandosi dalla sua sedia
e
correndo verso la porta, aprendo l'uscio appena per dare un'occhiata
fuori. Leo sapeva che stava osservando Mikey e la creatura, anche se
entrambi a quell'ora erano sprofondati nel sonno. Mikey si era
perfino portato il materasso dalla sua camera per poter riposare
meglio quando il sonno lo coglieva all'improvviso.
“Stai
dicendo che stanno tutti cercando di localizzarlo? Che piomberanno a
casa nostra?” urlò sgomento, realizzato il
problema.
La
sua più grande paura... non avrebbe retto ad un'altra
incursione nel
loro rifugio. Era il loro covo, la loro casa, il loro santuario. Non
avrebbe permesso a nessuno, mai più, di profanarlo.
“No,
no. Non è possibile che nessuno ci rintracci. Non conosco
queste
creature né i loro poteri fino in fondo, ma mi fido del
potere di
Isabel e delle pietre degli Y'Lyntian. Però mi chiedo
perché per
loro sia così importante trovarlo, al punto da lasciar
perdere ogni
altra cosa... è un capo? È
indispensabile?” disse Donnie,
scostandosi dalla porta e ritornando a rivolgere la sua attenzione
sul fratello.
“Ma
è solo una teoria, non sappiamo per certo se vogliono il
nostro
mostro.”
“Sì,
è solo una supposizione. Ma pensaci, tutto torna: una
settimana
senza sparizioni, una settimana che il nostro ospite
è con
noi. Ed è strano, diverso da quelli che abbiamo incontrati
finora.
Non è esploso e presenta particolarità e
differenze solo sue. È
una chiave importante.”
“Una
chiave per cosa?”
“Non
lo so. Non lo saprò finché non potrò
studiarlo meglio. Finché non
potrò analizzare il suo DNA.”
Ci
fu un attimo di silenzio nel laboratorio, quando il tono concitato di
Don si spense. Aveva alzato un po' il tono, dalla frustrazione di non
sapere, di non avere certezze, quando le loro risposte erano tutte a
pochi metri da loro.
“Allora
forse è arrivato il momento di scoprire la
verità” suggerì
Leonardo, l'espressione seria e tesa.
E
Donatello sapeva che aveva assolutamente ragione.
Michelangelo
non era mai stato uno dal sonno leggero, tutt'altro. Una volta preso
sonno, era molto difficile svegliarlo, a meno che la fame non lo
spingesse a cercare cibo alle ore più strane della notte o
del
giorno; per ogni altro motivo comunque, non si sarebbe mai svegliato
spontaneamente, nemmeno se qualcuno lo avesse chiamato o fosse
entrato in camera sua sbattendo la porta e ribaltando ogni cosa sul
suo cammino.
Era,
indubbiamente, uno dal sonno di piombo. Alla faccia del suo
allenamento ninja.
Eppure,
qualcosa nel suo stato onirico era disturbato
Un
fruscio leggero.
Nulla
di importante, ma che non avrebbe dovuto esserci.
Si
risvegliò prontamente, strizzando appena gli occhi alla luce
asettica del rifugio e si tirò su con fastidio, come se
già sapesse
di dover arrabbiarsi.
“Cosa
stai facendo?” domandò rocamente alla figura
vicina alla gabbia.
Donatello
non trasalì nonostante fosse stato preso in castagna, con la
mano
tesa in alto verso la manopola di sicurezza posta sul bordo della
gabbia; il congegno che la inondava di gas soporifero.
Non
che ce ne fosse davvero bisogno, la creatura all'interno era ancora
mezzo addormentata e non aveva mai dato nessun problema.
Allora
cosa aveva in mente di fare, Donatello?
“Lo
sai. Basta aspettare, Mikey” rispose quello, continuando ad
allungarsi verso l'alto.
Il
fratello si alzò velocemente e fu subito al suo fianco, la
mano
stretta in una morsa ferrea attorno al suo braccio. Stringeva con
forza e gli occhi saettavano arrabbiati.
“Cosa
stai facendo?” ripeté più minaccioso,
anche se sapeva già la
risposta.
Don
scrollò il braccio per liberarlo dalla sua morsa, per nulla
intimorito.
“Non
sentirà nulla. Dormirà per un paio d'ore e io
potrò prendere
finalmente un campione. Andiamo, Mikey, basta aspettare! È
ora di
trovare le risposte che ci servono!”
“No!
Non ti avvicinare! Per te potrà essere nulla, ma stai
mettendo a
rischio la fiducia che sto cercando di guadagnare!”
urlò
contrariato Mikey mettendosi davanti alla gabbia, schermandola col
suo corpo.
“Non
se ne accorgerà nemmeno!”
“Basta
anche solo l'intenzione! Io gli ho promesso che non gli avremmo fatto
del male. Gliel'ho promesso!”
I
toni delle loro voci si erano fatti così alti e concitati da
richiamare l'attenzione degli altri membri della famiglia, che
accorsero repentinamente con facce preoccupate: se già era
strano
che Donnie alzasse la voce arrabbiato, era ancora più strano
che lo
facesse con Mikey; i soliti battibecchi non contavano, ora facevano
sul serio, si urlavano in faccia con rabbia e frustrazioni, entrambi
per motivazioni valide in un certo senso.
Nessuno
dei due aveva pienamente torto.
Per
quel motivo nessuno intervenne, ma rimasero tesi ad osservare la
scena, indecisi se agire o meno, ognuno però pronto a farlo
se ce ne
fosse stato bisogno. Perfino la creatura era ormai sveglia e vigile,
gli occhi scuri spaventati che saettavano dal suo aggressore al suo
salvatore, pietrificata al suolo.
“Mi
dispiace, Mikey, davvero, ma non possiamo stare qui a non fare nulla
mentre tu cerchi di fare amicizia con lui. Potrebbe essere tardi! E
noi dobbiamo sapere!”
“No!
Mi serve più tempo! Non posso tradirlo, tu non
cap-”
Michelangelo
si interruppe sorpreso, spalancando enormemente gli occhi. Poi
abbassò lentamente lo sguardo e Don, incuriosito dalla sua
reazione,
guardò anche lui cosa potesse aver attirato la sua
attenzione: la
mano gialla del mostro spuntava oltre la finestrella, aggrappata
gentilmente alla caviglia del mutante.
Quando
fu certo che si erano accorti della sua presenza, la creatura lo
lasciò andare e aprì il palmo, spostandolo verso
Donatello: gli
occhi neri oltre il vetro, così vicini, erano puntati su di
lui,
comunicativi.
Il
genio si sentì così spiazzato, confuso, da non
riuscire a reagire
prontamente. Rimase in silenzio a fissarli, quasi ipnotizzato.
“Tu
vuoi... posso prendere un campione?” domandò
quietamente, forse
timoroso di poterlo spaventare se avesse osato alzare la voce.
L'essere
piegò appena la testa di lato, prima di annuire lentamente.
Mikey
sussultò meravigliato, mentre il fratello si alzava
freneticamente
dal suo posto.
“Torno
subito! Vado a prendere le fialette!” esclamò
emozionato,
trottando verso il laboratorio più velocemente possibile.
La
mano non si mosse, tesa oltre la finestrella, con fiducia.
Michelangelo
si inchinò e l'afferrò, saldamente. La creatura
tremò, scossa dal
contatto, ma non la ritrasse. I suoi occhi saettarono verso il
mutante, confusi.
“Sei
sicuro? Non sei costretto. Nessuno ti costringe a farlo”
mormorò
Mikey, stranamente triste.
L'essere
annuì per la seconda volta, stringendo un poco la presa
nella mano.
“Grazie”
sussurrò Mikey sinceramente, sorridendogli con gratitudine.
Continuò
a tenerlo stretto, anche quando Don tornò con la sua
valigetta e si
accucciò al loro fianco, e tastò il braccio alla
ricerca di una
vena, sfiorando con il dito le piccole squame della sua pelle.
L'essere fu stoico, non si mosse nonostante l'evidente fastidio sul
suo volto, e tremolò solo un pochino.
Quando
vide l'ago della siringa, strizzò gli occhi e
girò il capo,
sussultando appena. Mikey, impotente, poté solo stringere
più forte
la mano, per fargli sentire di essere accanto a lui.
Era
così umano, le sue emozioni erano così vere, e
lui sentiva di aver
finalmente stabilito un contatto.
Il
prelievo fu veloce e Don fu il più delicato possibile, poi
raccolse
le fialette ricolme di vischioso liquido rosso scuro nelle mani e
corse via verso il laboratorio in fretta e furia, smanioso di
analizzarle. Rivolse uno sguardo grato verso la creatura, prima di
sparire oltre la porta.
Michelangelo
rimase accucciato, con la mano gialla stretta nella sua. Non aveva
intenzione di lasciar andare quel contatto che aveva faticosamente
guadagnato. Non avrebbe permesso che andasse tutto sprecato, che la
sua fatica e quella scintilla di fiducia si perdessero nel secondo
successivo, nel nulla.
“Andrà
tutto bene” sussurrò fiducioso e speranzoso.
Note:
Donnie
è diventato un mostro nella stagione 4 della serie 2003,
episodio 23
“adventure in turtle sitting”. Povero Don, tutte a
lui.
Leatherhead aveva creato una gabbia di vetro e acciaio
molto resistente, con un sistema che la inondava di gas soporifero
per tenerlo buono quando impazziva. Comunque cercò di
mangiarsi
Mikey, almeno una volta. XD
Note
di Switch:
Buona
sera. O buona notte?
Sono
molto felice di “rivedervi”, non so dire quanto.
Ma
prima mi sento in dovere di scusarmi per il ritardo, il più
grande
che io abbia mai fatto, e ne sono dispiaciuta. Davvero profondamente
mortificata.
Vi
assicuro che ho pensato spesso a tutti voi che la seguite e che
magari vi siete chiesti che fine avessi fatto e se l'avrei mai
finita; e vi stra-assicuro che la finirò.
Ho
solo bisogno di un po' più di tempo, ma la serie la
finirò
assolutamente.
Grazie
a chi non l'ha abbandonata e la seguirà ancora.
Inchino
di gratitudine.
E
megaabbraccio di benritrovati!
|
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Capitolo 21 *** Mork ***
Dopo
quel momento, qualcosa cambiò, effettivamente.
Seppur
sempre quieto, l'essere si dimostrò più affabile
nei confronti di
Michelangelo: appena sveglio si sedeva proprio di fronte alla
finestrella e aspettava che anche lui si svegliasse; poi, ascoltava
con vivido interesse tutto quello gli diceva, ondeggiando appena la
testa a intervalli, come in cerca di una posizione migliore.
Perché
lo capiva benissimo. Di quello, Mikey ne era certo. Se solo fosse
riuscito a sentire a sua volta ciò che il suo nuovo amico
aveva da
dire.
A
volte, nel bel mezzo di un suo monologo, notava che l'essere
schiudeva le labbra e pronunciava parole che non si potevano sentire,
come se lui la voce non ce l'avesse, ma volesse lo stesso parlare.
Moriva
dalla voglia di sapere cosa volesse dirgli. Era diventata la sua sola
ossessione.
Ci
si scervellò per qualche giorno, un tormentato chiodo fisso
che non
lo lasciava.
Fu
nel bel mezzo della notte che gli venne un'idea. Munito di portatile,
fece ricerche e si esercitò per ore, nel silenzio, seduto
ritto sul
materasso; ripeté e ripeté, finché non
fu certo di ogni segno e
ogni posizione, finché non gli venne automatico farlo.
E
al mattino, privato del sonno, ma euforico come non mai,
aspettò che
la creatura si svegliasse, per mostrargli la sua sorpresa: l'alfabeto
con le mani, con il quale avrebbero potuto comunicare.
Michelangelo
ci aveva provato ad imparare l'alfabeto dei segni dei sordomuti, ma
non ci era riuscito; era troppo complesso e vasto e profondo
perché
potesse riuscirci da solo e in così poco tempo e poi provare
anche
ad insegnarlo a lui.
L'alfabeto
con le mani invece ricreava i segni delle lettere con le dita,
perciò
era più immediato e semplice e contava di poterglielo
insegnare
facilmente.
L'idea
che l'essere potesse non sapere come si scrivessero le parole non lo
aveva nemmeno sfiorato.
Con
gli occhi scintillanti di aspettativa, iniziò a spiegargli
le basi;
ogni parola che pronunciava, la formava lentamente e pazientemente
con le mani, un lento discorso solitario, nel silenzio, mentre quelle
volavano libere nell'aria.
Era
difficile, dato che lui aveva tre dita a differenza degli umani e
della creatura, però si aiutò con dei disegni e
sperò che quello
bastasse.
Si
impose di non squittire di gioia quando l'essere compose la prima
lettera, una a caso, di certo quella che si ricordava meglio, ma era
l'iniziale del suo nome e lo lusingò e sorprese
contemporaneamente.
Si
accorse da come le sue mani tremavano di quanto desiderasse parlare
con lui, ma non riuscisse ad esprimersi come voleva; sembrava come un
bambino pieno di idee e meraviglia, ma con troppa poca
capacità
dialettica per potersi esprimere.
Toccava
a lui dargli la possibilità di farlo.
E
intanto, nel fondo dello stomaco spingeva giù la paura
dell'esito
delle analisi. Erano passati tre giorni e ancora non sapevano nulla;
Donnie gli aveva spiegato che già in un laboratorio normale
il tipo
di analisi che dovevano compiere richiedevano molto tempo,
perciò
nel loro studio improvvisato lui e Leatherhead ci avrebbero impiegato
forse il doppio del tempo, se erano fortunati.
Non
che lui avesse fretta. Aveva paura di sapere la verità.
Aveva
fiducia nel suo nuovo amico e in quello che pensava di lui, ma se le
analisi avessero rivelato una realtà agghiacciante e fossero
stati
costretti a combatterlo o peggio eliminarlo?
Era
un pensiero che lo tormentava, senza che lo mostrasse mai a nessuno.
Passò
più di una settimana, dopo il decimo giorno aveva anche
smesso di
contarli, perché tutta la sua attenzione era impegnata
altrimenti;
era un maestro che insegnava al suo discepolo, era come un padre che
insegnava al figlio.
E
si sentiva incredibilmente appagato nel farlo. Ogni nuovo
miglioramento, anche microscopico, lo inorgogliva, lo faceva sentire
bene. I progressi della creatura era molto lenti e difficili, ma
imparava, a poco a poco; era frenata da qualcosa, ma non riusciva a
capire cosa.
Sperò
che col tempo e la pratica quell'esitazione sparisse e che finalmente
riuscisse a dirgli tutto ciò che desiderava.
Mikey
era accucciato davanti alla gabbia e cercava di spronarla a ripetere
le lettere del suo soprannome, ma l'unica che riusciva a fare era la
M.
“Ok,
la I non è difficile. È più facile
della M, un dito verso il
cielo!” esclamò, sollevando sia quello che lo
sguardo verso
l'alto.
Trasalì
quando si accorse che Donatello era in piedi dietro di lui, con
alcuni fogli in mano. Non si era accorto minimamente della sua
presenza, né lo aveva sentito arrivare.
L'espressione
scura sul suo viso gli gelò il sangue nelle vene, ma il
fratello non
guardava lui, solo e profondamente la creatura.
Si
fece coraggio, doveva sapere.
“Donnie
allora, cosa hai-”
Don
non lo ascoltò nemmeno e si avvicinò invece alla
gabbia, a grandi
falcate: i fogli gli caddero dalle mani, quando si allungò
per
premere il pulsante che la apriva, e spalancò la porta con
un gesto
deciso.
Michelangelo
si alzò spaventato, sicuro che il fratello stesse per fare
del male
al suo nuovo amico, ma si fermò quando lo vide solo
allungare una
mano verso di lui e guidarlo dolcemente al di fuori della sua
prigione, in un silenzio tesissimo.
Il
genio sembrava combattuto. E incredibilmente triste.
Come
chiamati a raccolta da forze misteriose, anche Leo e Raph arrivarono,
unendosi a loro nel silenzio, e infine il sensei uscì dal
dojo,
facendo ticchettare il bastone mentre si avvicinava a passi leggeri.
Tutti
rimasero in attesa, senza osare proferire parola.
“Donnie,
dimmi cosa sta succedendo” supplicò Michelangelo
col magone, e
confuso.
“È...
un umano. Qualcuno ha mutato gli umani rapiti, Mikey. È un
umano”
confessò Donatello mortificato, incredulo egli stesso di
quanto
stava dicendo.
Gli
umani rapiti, i bambini rapiti, trasformati in mutanti, in creature
abbiette, costrette a morire senza possibilità di scampo.
Esplodendo
in fumo nero tra rantoli di paura.
Mikey
tremò di indignazione e rabbia.
Un
umano. Forse un bambino. Il suo amico era un umano rapito e
trasformato per... perché?
Lo
afferrò e lo strinse in un abbraccio, senza pensarci,
perché tutto
era così ingiusto, tutto era così sbagliato.
“Non
ti ricordi chi sei?” domandò quietamente
Michelangelo.
Lui
e la creatura sedevano sul pavimento, vicino al laghetto. Una mano
gialla sfiorava lentamente l'acqua, sporgendosi con attenzione oltre
il bordo.
Era
libero di girare per il rifugio, adesso. Da quando avevano capito,
nessuno di loro se l'era sentita di tenerlo ancora in gabbia. Dopo
aver capito.
Anche
se ancora non sapevano quali orrori avesse vissuto.
L'umano
mutato ne sembrava felice, anche se era difficile capire bene i suoi
pensieri; ma quello scintillio di tranquillità mentre
carezzava la
superficie fresca dell'acqua, quello esprimeva tutto ciò che
c'era
nel suo cuore.
Alla
sua domanda, però, sembrava essersi spento. Come adombrato.
“Non
te lo ricordi, vero?” indovinò allora, con un tono
incolore. Il
lento ciondolio della sua testa glielo confermò.
Aveva
dimenticato ogni cosa. Il suo nome, chi fosse prima di diventare il
mostro di qualcuno, tutto ciò che gli apparteneva. Aveva una
famiglia, degli amici, qualcuno che lo stava disperatamente cercando?
Chi
poteva aver fatto una cosa simile? Una cosa così abietta e
terribile?
“Allora
bisogna trovarti un nome” disse Mikey sovrappensiero.
“Uno corto
e facile... magari con... con... cosa ne dici di Mork? Ha la mia
stessa iniziale.”
La
creatura si fermò e tirò la mano fuori
dall'acqua, sorpreso.
Poi
sorrise. Naturale, umano. Un semplice stiramento degli angoli delle
labbra verso l'alto, ma che comunicava ben altro. Il primo sorriso
che gli aveva visto fare, da quando era lì.
“Era
un sì? Lo prendo per un sì. Molto piacere, Mork,
sono Mikey”
mormorò felice, tendendogli la mano.
Mork
tese la sua bagnata e la strinse, titubante.
La
lieve e quieta penombra del laboratorio, rischiarata da alcune
lampade sulla scrivania, era rassicurante. C'era un gran silenzio,
ogni macchinario era spento e in stato di riposo; Don attendeva che
ci fossero tutti, ma leggeva nei volti dei presenti l'impazienza che
li divorava.
Avrebbe
aggiornato Mikey più tardi, si disse.
“Allora,
siamo qui per fare il punto della situazione” li
informò, andando
avanti e indietro per la stanza. Il sensei era seduto su una delle
sedie, solenne, mentre nell'altra c'era Leonardo, che lo ascoltava
con intensa attenzione. Raphael era poggiato ad uno scaffale, con le
braccia conserte. C'era anche Leatherhead, dietro uno dei tavoli,
intento a rimettere a posto alcuni appunti in cartelline catalogate
con targhette bianche.
“Come
avete sentito, il nostro ospite è un umano. Non
c'è dubbio su
questo. È difficile da spiegare, ma il suo DNA è
come stratificato,
al momento: la sua base è indubbiamente umana, ma qualcuno
ha
mescolato e aggiunto particelle di DNA non sue e questo l'ha portato
a mutare” spiegò Donatello, nel modo
più semplice che gli
riuscisse.
Non
avrebbe potuto spiegare ai suoi fratelli la complessità di
ciò che
aveva scoperto, con termini che non avrebbero mai capito.
“Per
fare una cosa del
genere... chi può avere competenze simili?”
“Non
ho mai visto nulla del
genere. Probabilmente non conosciamo l'autore di questo
scempio.”
“Ok,
questo è umano, ma come fai a dire che anche gli altri lo
fossero?”
domandò ancora Leo, nella sua sete di sapere.
“Non
ne sono sicuro, ovviamente. Ma la mia teoria è che tutti
fossero
umani mutati e che continuassero a rapire altri umani per essere
sottoposti allo stesso trattamento: sempre più giovani e per
questo
ci deve essere un motivo; forse, per una sorta di
instabilità nei
primi esperimenti.”
“Cosa
intendi dire?”
“Teorizzo
che il motivo per cui abbiano rapito così tante persone e
sempre più
giovani fosse per una questione di rigetto nel trattamento. Credo che
le loro cellule non resistano e ad un certo punto collassino,
portandoli a distruggersi. Hanno bisogno di sempre nuove cavie, di
nuovi esperimenti umani.”
“Pensate
a tutti quelli che sono esplosi. Erano centinaia! I bambini... i
bambini scomparsi.”
“Sì,
probabilmente molti di quelli erano bambini. E non sappiamo nemmeno
come poterli identificare, come sapere quanti ancora sono in vita.
Deve esserne rimasto ancora qualcuno.”
“Ma
allora perché hanno smesso di rapire altre
persone?”
“Perché
hanno già quello che cercano. O almeno lo avevano, sospetto
senza
esserne consci. Il nostro ospite. Il nostro ospite è la
chiave. È
l'unico che non è esploso, probabilmente è
l'unico stabile , ciò
che gli serve per stabilizzare il processo di mutazione.”
“Allora
non dobbiamo permettergli di trovarlo. Dobbiamo fermarli prima che lo
trovino o chissà quanti altri mutanti potrebbero
creare!”
“Se
sapessimo dove trovarli... dobbiamo interrogare il nostro ospite,
forse sa qualcosa.”
“Non
sa niente e non ricorda nulla. Probabilmente non ricorda neanche dove
lo hanno portato quando è stato rapito” disse
Michelangelo,
entrando nella stanza a passo spedito.
Sembrava
teso e molto stanco. Emanava un'aria seria e rabbiosa.
“Sta
dormendo” esclamò, rispondendo ad una domanda che
nessuno aveva
fatto, ma stavano tutti pensando.
Leo
si alzò dalla sedia e gliela porse, colpito dal tono sfinito
della
sua voce; Mikey la accettò con gratitudine e ci si
lasciò andare
sopra con un sospiro sonoro.
Si
accorse che tutti aspettavano in silenzio che parlasse,
perciò
trasse un profondo respiro e si fece forza.
“Sembra
che non abbia nessun tipo di memoria, come se il suo cervello fosse
bloccato da qualcosa. O forse l'orrore di quello che gli hanno fatto
gliel'ha fatto scordare. Non so nemmeno quanti anni abbia, potrebbe
essere uno dei bambini, non ricorda neanche il suo nome... l'ho
chiamato Mork” raccontò con un sorriso mite,
schiacciato dal
disgusto di quelle parole.
“Allora
cosa facciamo?”
“Io
devo continuare a studiare i campioni, per vedere se scopro
qualcos'altro. E se riesco a trovare una cura. Voi dovete pattugliare
le strade e cercare altri mutanti, provare a scoprire da dove vengono
e chi li ha cambiati. E Mikey deve rimanere con Mork. Devi
proteggerlo e tenerlo d'occhio e magari provare a scoprire se gli
torna in mente qualcosa.
Adesso
che sappiamo la verità, non possiamo in nessun modo perdere
altro
tempo. Dobbiamo salvare gli umani sopravvissuti e cercare un modo per
riportarli alla normalità. E fermare una volta per tutte chi
c'è
dietro a tutto questo” spiegò Don, con
praticità.
Il
sensei annuì ad ogni parola, d'accordo col suo pensiero; il
suo
sguardo serio passò sui suoi figli e fu soddisfatto nel
vederli
tutti concentrati e ansiosi di mettersi in moto.
La
salvezza di quelle persone era nelle loro mani e lui sapeva che
nessuno di loro si sarebbe mai arreso, lasciandoli nei guai.
Mikey
si era affezionato a Mork.
Sin
dall'inizio aveva sentito che c'era in lui più di quello che
appariva ed era felice di aver avuto ragione; nel tempo passato
assieme, poi, si era davvero legato a lui e alla sua sorte,
prendendolo più a cuore di quanto volesse.
Perciò
non voleva che gli accadesse nulla di male. Voleva che potesse
ritornare
normale e riabbracciare la sua famiglia.
Dal
canto suo, l'unica cosa che poteva fare era però solo
stargli
accanto. Continuare a parlargli e fargli sentire di esserci,
stimolarlo ad esprimersi e provare a saperne di più su di
lui.
Aspettava
con ansia il giorno in cui avrebbe potuto aver un discorso completo
con Mork e sentire tutto ciò che aveva da dire.
Avevano
deciso che avrebbe dormito nella camera di Mikey, in una branda di
fortuna vicino al suo letto, finché fosse rimasto con loro;
certo,
non avevano abbassato la guardia solo perché avevano
scoperto fosse
un umano mutato, avevano sempre paura che chiunque lo avesse reso
così, potesse anche comandarlo a distanza, prima o poi,
prendendoli
tutti di sorpresa. Perciò stavano guardinghi, ma nelle
ombre, per
non creare ancora più sfiducia o angoscia nel loro ospite.
Era già arrivato Dicembre, da qualche
giorno.
Le
festività di Natale erano così vicine,
fisicamente, ma anni luce di
distanza dalle loro menti.
Il
freddo si era fatto più intenso, in superficie
già c'erano addobbi
ovunque, la rinnovata calma nelle sparizioni si era riflessa nel
pensiero che fosse già tutto finito e perciò
tutti pensavano in
grande, festeggiavano in grande, avevano già accantonato la
paura e
la prudenza, scioccamente.
Fortunatamente,
c'era chi continuava a pattugliare nelle ombre. Anche nell'apparente
calma.
Leo
aveva già girato mezza città, con nervosismo
crescente. Possibile
che fossero davvero scomparsi? Possibile che non ce ne fosse
più
traccia? Saltò con facilità sul tetto del palazzo
di fronte, sempre
ben attento alle strade sottostanti, scrutando per bene nelle ombre.
Raph
era impegnato a pattugliare da un'altra parte e Angel e Steve non
c'erano per quella sera; avevano pensato di chiedere a Casey se
volesse unirsi a loro come una volta, ma con il lavoro, un bambino
piccolo e una moglie incinta del secondo aveva già il suo
bel da
fare. Ovviamente li tenevano sempre informati su cosa stesse
succedendo, almeno una volta a settimana alle loro consuete cene in
famiglia.
Era
l'unico modo per renderli partecipi senza metterli in pericolo.
Mikey,
che stava dietro Mork, aveva saltato molte cene, con suo grande
rammarico.
Si
chiese se ora che sapevano chi fosse Mork avrebbero mai potuto
portarlo con loro. Ma, si disse, meglio non rischiare; April incinta
non era di molto più stabile di una creatura mutata,
purtroppo.
C'era
così tanto stress attorno a loro, che la poverina ne subiva
le
conseguenze, col suo carattere apprensivo e troppo amorevole. La
lontananza di Isabel, tutti i rapimenti, la paura per loro e poi il
non poter fare niente; una donna tenace e combattiva come April era
ovviamente logorata dall'attesa.
Mancava
poco al parto e cercavano tutti di non stressarla più del
necessario. Avrebbero di certo risolto tutta quella situazione per
allora, anzi, di certo in tempo per il natale.
Si
dirigeva verso Midtown, a passo spedito. Non c'era niente di strano,
pensò saltando una fila di luminarie tra due palazzi, che
lampeggiavano ad intermittenza di vari colori abbaglianti; un
gruppetto di ubriaconi stava cantando stornelli volgari due traverse
più giù e c'era il solito via vai di macchine; da
una finestra
lontana, sentì una mamma che cercava di calmare il pianto
del suo
bambino.
Non
si allarmò come avrebbe fatto qualche settimana prima.
Sapeva che
ormai le creature non stavano più cercando di rapire
bambini, ma
solo di mettere le mani su Mork; perciò continuò
dritto per la sua
strada, sorpassando un'insegna luminosa di sconti su giocattoli e
decorazioni e scavalcando una fila di ghirlande innevate sul tetto di
una terrazza.
Se
si fermava, anche solo per un secondo, una sferzata di vento gelido
lo investiva e gli ghiacciava il sudore addosso, facendogli venire i
brividi.
Continuò
a correre e ancora, e poi di colpo si fermò, con una brusca
frenata.
Tornò sui suoi passi e scrutò per bene nelle
ombre, lontano,
cercando di mettere a fuoco.
Era
certo di aver intravvisto qualcosa, ma magari andando così
velocemente...
Lo
vide, di nuovo. Un flebile movimento sotto un lampione, prima di
scomparire nell'oscurità poco più avanti.
Leonardo
si gettò immediatamente all'inseguimento, cercando di non
perderlo
di vista. Poteva essere un ladruncolo qualunque, poteva anche non
essere niente di pericoloso, ma non avrebbe nuociuto sincerarsene di
persona.
In
pochi istanti arrivò alla coda di ciò che stava
seguendo, e al
primo sguardo si accorse immediatamente che era chi stava cercando:
uno dei mutanti, rosso, che si muoveva furtivo di ombra in ombra, con
le orecchie tese e attente.
Era
la prima volta che ne incontrava uno da solo e stranamente, la cosa
non lo rallegrava affatto. Si erano decimati così tanto da
non
essere più abbastanza da girare nemmeno in coppia?
Quanti
ne erano sopravvissuti?
Spaventato
dalla prospettiva di perderlo e non poterlo mai scoprire, Leo
accelerò il passo e si gettò davanti, per cercare
di fermarlo.
Fermarla, Donnie aveva detto che quelli rossi dovevano essere
femmine, se non ricordava male. Anche se non avevano certezze.
L'unica
cosa che sapeva per certo è che erano più
aggressivi dei gialli.
La
sua comparsa improvvisa fece sobbalzare la creatura, che
indietreggiò
e sguainò le unghie affilate contro di lui, nello stesso
istante.
Gli
soffiò contro, in quello che sembrava un un ringhio basso.
“No!
Aspetta, non voglio combattere!” esclamò Leonardo,
interrompendo
il suo repentino attacco.
La
creatura rimase ad osservarlo con gli occhi neri spalancati e
dubbiosi, un po' nei suoi occhi, un po' sulle sue spade ancora sulla
schiena.
Sembrava
sorpresa dalla sua reazione.
Leo
lo prese come un segno positivo e fece per avvicinarsi; la sola
intenzione scosse i nervi della creatura che reagì
violentemente:
con un grido rauco si lanciò in avanti, fendendo l'aria con
gli
artigli neri e taglienti. Leo indietreggiò in tempo e
continuò a
schivare i suoi attacchi, con mosse fluide e veloci.
“Aspetta!”
mormorò in fretta scivolando a destra. “Voglio
parlare” continuò
slittando a sinistra.
La
creatura non lo ascoltava affatto e con una furia crescente lo
costringeva sempre più ad indietreggiare, col fiatone
stretto nella
gola.
Leo
non voleva sguainare le spade, nemmeno per difendersi; sarebbe stato
un segnale sbagliato, ma non poteva nemmeno continuare a schivare
all'infinito. Quanto tempo ancora rimaneva alla creatura?
Forse
non avrebbe dovuto distrarsi.
Gli
artigli trovarono la sua carne e la dilaniarono con
facilità,
strappandogli un urlo di dolore. Si era fortunatamente schermato col
braccio al percepire la minaccia, ma adesso il suo avambraccio
sanguinava copiosamente, gocciolando sull'asfalto scuro.
Avrebbe
potuto impugnare le spade, dalla rabbia, e ripagarla con la stessa
moneta, ma non lo fece.
La
creatura continuava a guardare la sua ferita e la sua espressione, ma
non ne sembrava felice; non le era sfuggito che lui non aveva mai
sguainato le armi.
“So
cosa sei” disse Leo, con un sospiro sofferto. “Sei
un'umana.”
Gli
occhi neri si spalancarono enormemente di sorpresa e per un secondo
la difesa si abbassò. L'essere rimase immobile a fissarlo,
mentre
inconsciamente, le enormi unghie si ritraevano.
“Voglio
aiutarti. Credimi. Voglio aiutarti a tornare normale”
mormorò
convincente, tenendosi con la mano l'avambraccio ferito.
Lesse
nel suo viso tormento e dubbio e si meravigliò di quanto
fosse
semplice capire cosa passasse nella sua testa, nonostante non potesse
esprimersi a parole. Era quello che Mikey aveva cercato di fargli
capire.
“Non
abbiamo ancora la cura, ma stiamo aiutando già uno come te.
Potrebbe
volerci un po', ma ci riusciremo.”
Era
così fiducioso, -e perché avrebbe poi dovuto
dubitare delle
capacità di Donnie?- che sembrò averla convinta.
Almeno così
pareva dallo stato rilassato delle sue spalle e dalla luce diversa
nei suoi occhi.
Un
debole e flebile sibilo riempì il silenzio ed entrambi
trasalirono.
La creatura alzò lo sguardo al cielo, incominciando a
tremare
violentemente.
“NO!
Andiamo via!” strillò Leo, ugualmente spaventato,
allungando una
mano per afferrare la sua.
La
trascinò di peso, lontano da lì, nell'assurda
idea che scappando
avrebbe potuto salvarla. Non incontrò resistenza dall'altra
parte,
ma la mano tremava così tanto che anche lui ne era scosso.
Corsero
a perdifiato per stradine e vicoli, ignorando il sibilo sempre
più
forte.
Di
colpo, la creatura si fermò e lui perse contatto con la sua
mano. Si
voltò sorpreso e la vide che lo osservava con un'enorme
paura negli
occhi, ormai incapace di fermare quel tremolio diffuso in ogni
cellula.
Eppure,
e fu la prima volta che lo vide, gli stava sorridendo.
Lo
turbò più di quanto volesse ammettere. Lei
allungò le mani e
afferrò le sue e sembrava ringraziarlo per averci almeno
provato,
perché per un frammento di istante a qualcuno era importato
di lei.
“Non
arrenderti. Possiamo aiutarti. Possiamo-”
La
creatura chiuse gli occhi. Esplose in una voluta di fumo nero e Leo
si ritrovò a stringere il nulla, con un graffiante dolore
nel petto.
Ogni cosa sembrava vana. Una vita umana poteva essere sacrificata in
quel modo?
Non
era giusto. Non era per nulla giusto.
“Leatherhead,
vieni a vedere un momento” chiamò Donatello,
girando la rotellina
del microscopio al quale stava lavorando da ore.
Cercare
di risalire ad ogni componente del DNA di Mork non era facile, per
niente. Era stratificato, mescolato e rimescolato all'inverosimile; e
se non capivano come fosse fatto, trovare una cura per riportarlo
alla condizione di umano era impossibile.
Il
grosso amico, anche lui in camice da laboratorio, si
avvicinò,
incuriosito da ciò che poteva avere scoperto. Donatello si
scostò e
gli permise di guardare anche lui, allungandosi per prendere una
cartellina appoggiata poco distante.
“Le
femmine dei coccodrilli sono più aggressive,
vero?” domandò quasi
casualmente.
“Sì,
quando devono difendere i cuccioli” rispose incredulo
Leatherhead,
che aveva già capito cosa volesse mostrargli.
“E
il coccodrillo ha un'ampia gamma vocale, no?”
incalzò Don,
maledicendosi mentalmente per non aver pensato prima ad una
possibilità del genere.
Di
nuovo, l'amico rispose positivamente. Sollevò la testa dal
microscopio e Don vide
un po' dell'antica rabbia affiorare nel suo sguardo: un solo secondo
in cui i suoi occhi si strinsero a fessura per poi tornare normali.
“Come
è possibile una cosa del genere?”
ringhiò cupo, arrabbiato, molto
arrabbiato.
Michelangelo
aveva fatto comprare da Angel un set di carte educative per bambini,
coi disegni di oggetti con accanto una bella e grossa lettera della
loro iniziale e i numeri fino a dieci; con quelle, cercava di aiutare
Mork a comunicare con lui.
E
c'era riuscito. Anche se tutto ciò che aveva scoperto era
che non
sapeva nulla di sé.
Solo
che il suo nome era M37. O meglio era stato M37, probabilmente il
numero identificativo di quando era stato trasformato in quello che
era in quel momento.
Mikey,
impietosito, gli aveva assicurato che quello non era il suo nome. Lui
era Mork, solo Mork.
Non
avendo ricordi, tutto ciò che Mork conosceva, e
apparentemente
adorava, era Mikey.
Adorava
ascoltarlo, adorava imparare tutte le sue avventure che l'altro amava
ripetere all'infinito, adorava provare tutto ciò che gli
piaceva:
cibi, giochi, persino guardare i programmi della tv al suo fianco,
gioendo delle sue espressioni divertite.
Però,
ultimamente trovava anche la presenza degli altri abbastanza
tollerabile. Permetteva a Donatello di visitarlo e di fargli dei
prelievi, non si innervosiva se anche Leo, Raph o il sensei erano
nella stessa stanza, e non aveva alcun timore di Leatherhead.
Sembrava
invece apprezzare molto la compagnia di Steve e Angel, che si erano
fatti convincere da Michelangelo nell'avvicinarsi a Mork, ma non gli
piacevano quanto gli piacesse Mikey, comunque.
Il
suo atteggiamento sembrava più vitale e allegro, e ormai
nessuno
pensava davvero che Mork avrebbe potuto arrecare loro danno o provare
a scappare.
Tutti
si chiedevano come sarebbe stato una volta ritornato umano e se si
sarebbe mai dimenticato di loro.
Era
con loro già da più di tre settimane e
già qualcuno, Mikey per
esempio, gli voleva bene come ad un fratellino. E anche gli altri non
erano indifferenti alla sua storia e al suo destino, benché
imbarazzati dal modo in cui lo avevano accolto.
Mikey
stava guardando con attenzione le lettere che Mork metteva a terra,
sovrappensiero, quando sentì dei passi approcciarsi; si
voltò con
sorpresa nello scoprire che con Donnie c'era anche Leatherhead e che
sembrava irrequieto.
Entrambi
si fermarono vicino a loro e Mikey vide con la coda dell'occhio che
anche Raph, -seduto fino a qualche momento nella zona video immerso
nei fatti suoi,- si era voltato per seguire la scena, sorpreso dalle
loro espressioni e dalla loro fretta.
“Mork”
esclamò Don serio, “non ti ricordi davvero nulla?
Magari di alcuni
laboratori segreti?”
Il
tono urgente sorprese il mutante giallo e fece insorgere
Michelangelo.
“Ehy,
piano, cosa-”
“Nemmeno
se dico Bishop?” disse Leatherhead con un basso ringhio, gli
occhi
nuovamente a fessura per pochi istanti.
“Cosa?”
strillarono contemporaneamente Mikey e Raph, che al sentire quel nome
si era gettato verso di loro.
Ma
nessuno prestò loro attenzione. Mork aveva lanciato un grido
nello
stesso momento e, terrorizzato, aveva indietreggiato, portando le
mani alla testa.
Il
gorgoglio che usciva dalla sua bocca sembrava una richiesta di aiuto.
Mikey
si avvicinò per provare a calmarlo, ma voleva anche sapere.
“Cosa
sta succedendo?” domandò, lottando per provare
anche solo ad
avvicinarsi.
“Mork
ha il DNA di Leatherhead e anche tracce di mutageno, nel suo.
Sappiamo solo di una persona che li ha entrambi”
spiegò Don,
arrivato alla soluzione per primo.
Il
coccodrillo umanoide sbuffò, con stizza.
“È
come se fosse mio figlio. È come se fossero tutti miei
figli”
sentenziò seriamente, ancora più arrabbiato di
prima. Ammetterlo a
voce alta era differente che pensarlo.
Il
pensiero che Bishop potesse aver fatto del male a così tante
persone
con il suo DNA lo faceva impazzire, l'idea che così tanti ne
fossero
morti, dopo aver sicuramente provato le pene dell'inferno nei suoi
laboratori, gli infiammava l'animo rischiando di bruciargli la
ragione e scatenare in lui un violento attacco animale.
Mork
smise di combattere e si calmò, all'istante. Guardava
Leatherhead,
solo Leatherhead.
“Sai
dove possiamo trovare Bishop?” gli chiese quello, il
più
gentilmente possibile.
L'umano
mutato sembrava combattuto tra un'atavica paura e il desiderio di
parlare; sentiva una sorta di rispetto per lui, come se i suoi geni
risuonassero nel profondo richiamati dalla sua presenza. Voleva
davvero compiacere suo “padre”.
Ma
non poteva. Scosse la testa con forza, ritraendosi sempre di
più,
spaventato, terrorizzato. Non voleva lasciare la sicurezza del
rifugio, non voleva lasciare loro. Non voleva, non poteva.
Leatherhead
sembrava perdere la pazienza ogni secondo che passava senza riuscire
a sapere nulla e stava davvero facendo violenza su sé stesso
per non
scattare violentemente dalla frustrazione.
Doveva
andarsene e calmarsi. Anche Don sembrò essersene accorto,
perché
saltò su all'improvviso e lo prese per un braccio, iniziando
a
trascinarlo lontano.
“Pensaci,
Mork, per favore. Pensaci intensamente. Torniamo dopo per continuare
la chiacchierata” esclamò frettolosamente,
portando via l'amico
coccodrillo, più lontano possibile da lì.
Calò
il silenzio. Michelangelo cercò di far calmare Mork, ma
quello
sembrava troppo scosso per ascoltarlo.
“No,
tranquillo, cosa ti prende?”
“Gli
prende che sa la verità. E non vuole dircela”
disse Raphael,
seccato. Lui non se n'era andato e li osservava lì impalato,
con le
braccia conserte.
Mikey
si interruppe e lo guardò e anche Mork sembrò
sorpreso dalla sua
affermazione.
“Sì,
tu sai qualcosa. Ma sei troppo vigliacco per dircela”
incalzò
Raphael crudele.
“Raph!”
lo aggredì Mikey, ma il fratello non sembrò
intimorito dal suo tono
minaccioso.
“Cosa?
Dobbiamo continuare a non fare nulla perché lui ha paura?
Davvero?
Dopo che tu l'hai difeso e aiutato, e Donnie che si sta sfinendo per
trovare una cura per salvarlo, lui rimarrà lì a
non fare nulla e a
continuare a mentire? Bella gratitudine. Bella riconoscenza!
Evidentemente non ha imparato nulla. Evidentemente è ancora
un
mostro.”
Se
ne andò, lasciando le sue parole di sdegno e cattiveria ad
aleggiare
nelle loro teste. Michelangelo non sapeva come scusarsi per quello.
Non era nemmeno colpa di Raphael, a conti fatti.
Mork
sembrava sul punto di una crisi, sconvolto e ferito, e anche quello
non era colpa di nessuno.
“Lui
non ce l'ha davvero con te” disse con voce calma, sospirando
appena.
“È
arrabbiato, ma non con te. È solo che aspettare lo sta
logorando e
vuole qualcosa da fare per tenersi occupato. Ma questo non vuol dire
che non abbia anche a cuore il tuo bene, è solo che non
riesce a
mostrarlo. Da quando Isabel è lontana, lui non riesce ad
esprimersi
come vorrebbe. E lei gli manca tanto da renderlo pazzo.”
L'umano
mutato sembrò confuso dalle sue parole, ma il tono accorato
lo calmò
e scacciò via il senso di disagio che sentiva fino a poco
prima.
Compitò
alcune lettere con le mani, velocemente. Un solo nome, una domanda.
Mikey
sorrise malinconicamente.
“Isabel
è la ragazza di Raph” spiegò con
dolcezza. “La persona più
importante per lui” finì, con una mano sul cuore.
Mork
fu colpito dal gesto e lo ripeté, appoggiandosi la mano sul
torace.
“Sì,
la persona più importante. Anche tu ne avrai una,
sicuramente.”
Rimase
un momento assorto, poi annuì alle parole di Mikey. E
qualcosa
adombrò il suo sguardo, per un istante.
Poi,
si allungò per raccogliere le carte con le lettere da terra
e in
fretta le dispose, facendone cadere un paio per la frenesia.
“La-
bo- r... laboratorio? Tu sai dov'è il
laboratorio?” domandò
sorpreso Mikey, sentendo un brivido giù per la schiena
all'idea che
qualcosa di così oscuro per Mork fosse scritto con quelle
belle
lettere infantili e colorate.
Quello
annuì, lentamente, socchiudendo gli occhi al ricordo di
qualcosa.
“E
puoi indicarcelo?” insisté il mutante.
Mork
spalancò gli occhi neri e trafficò di nuovo con
le carte, ancora
più freneticamente di prima. Mikey attese col magone che
scrivesse
tutto, prima di sbirciare.
“Vi
mostrerò la strada” lesse alla fine, incredulo.
C'era
determinazione nello sguardo di Mork, una bruciante determinazione.
Note:
Salve
a tutti! O meglio buona nottata.
Sono
tornata dopo tanto e sono rimasta stupita dal trovarvi ancora tutti
qui ad aspettarmi; grazie mille, sono felicissima. Grazie, grazie
mille.
Allora,
adesso sappiamo cosa sono le creature e la verità getta una
sfumatura cupa su tutta la faccenda. Ci sarà davvero Bishop
dietro
tutto questo?
Prossimo
capitolo scopriremo e sapremo, promesso. E poi chissà
cos'altro ci
attende.
Taaaaante
cose ancora.
A
presto
Abbraccione
|
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Capitolo 22 *** Sacrifice ***
L'aria
della notte li avvolgeva, la sua oscurità li nascondeva.
Per
quanto fosse possibile per un gruppo così ampio nascondersi.
Leo, Raph e Don erano a capo
della missione, Mork era la guida designata, sotto la supervisione di
Mikey; Angel e Steve erano pronti a seguire le direttive e
Leatherhead chiudeva quella strana comitiva, con uno sguardo torvo e
fosco che faceva paura.
Era
inusuale che Leatherhead si unisse a loro, in ronde o battaglie, ma
quella volta era diverso, era personale. Non avrebbe abbandonato quei
poveri umani mutati col suo DNA e non avrebbe perdonato Bishop per
averlo fatto; avrebbe dato il suo contributo e avrebbe lottato fianco
a fianco ai suoi amici, per far finire una volta per tutte quella
storia.
Nemmeno
Mork avrebbe dovuto essere in giro, quella notte. Non era sicuro,
non era saggio.
Essendo
un obiettivo del loro nemico, qualcosa che voleva, bramava, per
completare la sua missione, sarebbe dovuto rimanere nella sicurezza
del rifugio, schermato finché tutto non fosse finito.
Ma
Mork non aveva voluto.
Si
era imputato, si era arrabbiato, aveva fatto il diavolo a quattro,
per guidarli di persona fino al covo segreto; ne aveva fatto un punto
d'onore.
O
forse, ma il pensiero era cattivo e chi lo aveva pensato si era
pentito subito dopo averlo formulato, forse Mork li stava portando
verso una trappola.
Sembrava
mosso da un desiderio, una necessità, che fino a qualche
giorno
prima non aveva manifestato.
Avevano
messo a punto il piano in fretta e furia appena due giorni prima, una
volta capito che lui li avrebbe portati al laboratorio dov'era
“nato”, ma senza lasciare
comunque niente al caso. Erano
in numero così elevato anche per quello, per coprire ogni
punto
cieco e dividersi i compiti, nonché per sovrastare la sicura
maggioranza numerica di cui Bishop disponeva.
Sperando
che potesse in qualche modo bastare.
Steve
era fresco e inesperto, ma agguerrito come non mai e davvero
promettente; Angel era un po' arrugginita, ma assolutamente al loro
livello, e oramai aveva ripreso quasi del tutto la sua precedente
forma fisica.
Non
vedevano l'ora di vederli entrambi all'opera.
Si
erano spostati verso la periferia a bordo del furgone, stipati in
silenzio, seguendo l'unica indicazione che Mork aveva voluto dargli:
allontanarsi dalla città.
Le
abitazioni si erano fatte più distanti e basse e gli spazi
verdi più
ampi; l'incurante folla cittadina si era trasformata in invadente
curiosità da paese,
tutto
sembrava decisamente più calmo. Troppo calmo.
Anche
Mikey era stranamente quieto, preoccupato solo per Mork.
Ad
un cenno dell'umano mutato si erano fermati e avevano occultato il
veicolo, perché non fosse troppo visibile; Mork si era messo
allora
in testa al gruppo e aveva fatto segno di seguirlo.
La
zona in cui si trovavano era la periferia commerciale, come la
chiamavano: completamente occupata da enormi magazzini e capannoni di
fabbriche e industrie, ognuna ben recintata con un grande spazio
attorno per i veicoli commerciali.
Non
c'erano abitazioni in quel quartiere, non c'era anima viva per molti
chilometri.
E
tuttavia non sarebbe stato facile muoversi.
Si
spostarono furtivamente nelle poche zone scure, evitando le
telecamere di sorveglianza e i faretti di ogni capannone che
sorpassavano, finché Mork non si fermò
bruscamente e fece loro
cenno di nascondersi. Poi, con un dito un po' tremante, nascosti
dietro alcuni cespugli al limitare della strada, indicò un
grande
caseggiato, poco distante.
L'industria
farmaceutica Hessencare.
Un
enorme complesso di costruzioni in stile moderno, tutta specchi e
acciaio, che si dipanava per metri e metri a perdita d'occhio: era
circondato da un terreno altrettanto vasto, chiuso da alti cancelli e
inferriate, ben illuminato da fari potenti.
Si
accorsero immediatamente delle telecamere e delle guardie, in gran
numero, che sorvegliavano la proprietà.
“Avrei
avuto dei dubbi, ma tutta questa sorveglianza è davvero
troppo
sospetta” sospirò Leonardo, che come gli altri per
qualche istante
aveva ritenuto impossibile che quella fosse la loro meta.
“Ma
non possiamo comunque entrare per controllare, sono davvero
troppi”
mormorò Don, che scrutava con gli occhiali ad infrarossi la
struttura e il perimetro, per cercare una breccia dove poter entrare.
Non
c'era un punto cieco, purtroppo.
Pensò
in fretta ad un diversivo, ad un piano per poter distrarre le guardie
e poter così permettere loro di intrufolarsi, ma una mano
gli batté
sulla spalla, richiamando la sua attenzione. Mork indicò
sé stesso
e poi la costruzione.
“Puoi
farci entrare?” chiese Mikey, dando voce ai suoi gesti.
L'umano
mutato annuì e attese poi la loro risposta. Fu Leonardo a
dare il
cenno affermativo, mettendosi subito nella sua scia.
Scivolando
tra la bassa vegetazione che costeggiava il terreno, oltrepassarono
due lati della costruzione, raggiungendo il retro: sfociava su un
piccolo fiumiciattolo malsano e ancora infestato dagli insetti,
immerso nell'oscurità. Rifletteva le luci dei faretti
alogeni, delle
stelle nel cielo.
Sentirono
lo scrosciare dell'acqua e il tanfo marcescente.
Mork
ci entrò dentro senza indugio, controllando poi alle spalle
perché
anche loro lo seguissero. Ci fu qualche leggero brontolio,
perché
l'acqua era davvero gelida.
Fecero
più fatica a muoversi per contrastare la corrente e nessuno
aveva
ancora capito dove stessero andando. Sapevano solo che costeggiavano
il fiumiciattolo, seguendone il corso.
Mork
si fermò all'improvviso, di fronte ad un imboccatura: un
grande
tunnel che sputava un rigagnolo puzzolente nel fiume, alto e largo
tanto da permettere il passaggio di una persona.
Accortosi
che tutti sembravano dubbiosi e perplessi, l'umano mutato si
voltò
verso Mikey e iniziò a spiegargli velocemente, facendo
volare le
mani: fu un po' difficile capire, data la scarsa visibilità.
“Questo
è un passaggio per i ...” cominciò a
tradurre Mikey,
interrompendosi un secondo alla ricerca della parola giusta.
Prigionieri non gli piaceva. Mostri ancora di meno.
“È
un passaggio che le creature usano per entrare ed uscire
indisturbati, quando devono spostarsi per obbedire agli
ordini.”
Si
era tenuto volontariamente sul vago e se n'erano accorti tutti.
Mork
aveva un'espressione affranta, ma sembrava infastidito dalla loro
pietà.
Si
infilò nel tunnel, guidandoli verso la strada giusta.
L'interno
era umido e nauseante. Cercarono di non toccare le pareti ricoperte
di viscidume che sperarono fosse solo muschio, e andarono avanti
nella completa oscurità, col solo suono di passi acquosi a
spezzare
il silenzio.
Non
si azzardarono ad accendere una fonte di luce, per paura che qualcuno
potesse scorgerla e accorgersi della loro presenza; camminavano tanto
vicini da seguire le orme l'uno degli altri, seguendo il flusso fino
alla meta.
Dopo
qualche minuto il percorso sembrò salire, una lieve pendenza
verso
l'alto, e ad un certo punto trovarono sulla loro strada degli
scalini: Mikey ci era andato a sbattere contro violentemente e ci si
era quasi schiantato sopra, fortunatamente salvato da Mork.
Risalirono,
con solo il lieve frusciare dei piedi in sottofondo.
C'era
un'innaturale calma che rendeva nervosi, che faceva tendere i sensi
fino allo spasmo, come nell'attesa che una minaccia piombasse loro
addosso da un momento all'altro.
Non
c'era nessuno in verità, ed era proprio quello a renderli
più
irrequieti: se quello era un tunnel usato dalle creature, la loro
assenza voleva solo dire che ormai erano scomparsi tutti e non c'era
più nessuno da salvare.
E
il pensiero dava loro la nausea.
Infine,
e finalmente, sbucarono nuovamente alla luce, da una botola nel
pavimento di un sotterraneo: si arrampicarono con circospezione,
strizzando gli occhi per riabituarsi al chiarore. Erano in una stanza
quadrata impiegata probabilmente come magazzino, a giudicare dalla
moltitudine di scatoloni accatastati in un angolo; era molto sporca e
in disuso, probabilmente non era usata se non dalle creature.
Non
c'erano rumori provenienti dall'esterno.
“Adesso
che si fa?” domandò quietamente Mikey. Tutti gli
occhi si
voltarono verso il mutante giallo, anche loro in attesa.
Mork
non li disattese e con passi veloci si avvicinò alla porta,
tentennando solo per un attimo con la mano sulla maniglia: sembrava
ascoltare qualcosa che loro non potevano sentire. La abbassò
lentamente, sbirciando dallo spiraglio sempre più grande.
La
strada doveva essere sgombra, perché oltrepassò
l'uscio e fece loro
cenno di seguirlo, con sicurezza.
Il
corridoio in cui sbucarono era completamente bianco e asettico,
illuminato in alto da faretti alogeni e vuoto, -un'enorme galleria
vuota dall'aspetto vagamente fantascientifico.
Su
di esso si aprivano molte porte, ma non c'era nessuno in vista.
Il
gruppo compatto si mise in marcia con attenzione.
Era
un vero labirinto. Svoltarono direzione infinite volte, sinistra,
destra, sinistra, dritto e ancora sinistra; se avessero mai dovuto
tornare indietro per la stessa strada, nessuno sarebbe mai riuscito a
ricordarsela, nemmeno Donnie.
Il
puzzo di agenti chimici permeava l'ambiente e più di una
volta
dovettero soffocare un principio di starnuto che non era prudente
fare. Chissà se erano poi davvero così soli.
Arrivati
all'ennesimo svincolo, Mork si fermò d'improvviso e si
appiattì
contro la parete.
“Cosa
succede?” domandò Leonardo.
Al
gesto di Mork si sporse velocemente per controllare e con la stessa
velocità si ritrasse indietro. Sembrava preoccupato.
“C'è
una porta con chiusura di sicurezza oltre questo corridoio e a quanto
pare c'è una telecamera proprio di fronte. Ho visto degli
uomini in
camice al di là dei vetri, che facevano avanti e indietro
con
frenesia” raccontò alla squadra, con
praticità
Era
ovvio che se quella porta era così ben sorvegliata, dietro
doveva
esserci ciò che stavano cercando.
Mork
iniziò a spiegare, guardava Leo, ma era ovvio che era Mikey
a dover
interpretare i suoi segni.
“Oltre
la porta è pieno di telecamere ogni tre metri”
iniziò a spiegare
infatti quello. “Ci sono molti laboratori, ognuno ben
sorvegliato e
difficile da raggiungere senza essere scoperti. Molti uomini lavorano
e fanno avanti e indietro da uno all'altro. Nessuno può
entrare
senza essere identificato.”
“Allora
come facciamo a passare? Dobbiamo andare da quella parte,
no?”
chiese Angel, sporgendosi appena per controllare anche lei. Lei e
Steve indossavano due maschere nere per nascondere i loro tratti, ma
si premunì comunque di non essere scorta.
Non
potevano dare l'allarme prima del tempo.
Mork
alzò un dito verso l'alto e tutti lo seguirono con lo
sguardo:
proprio sopra la sua testa c'era la grata del sistema di
ventilazione.
“I
tunnel di ventilazione sono sicuri?”
Il
mutante giallo rispose affermativamente al leader; nessuno avrebbe
mai pensato a far installare telecamere nei tunnel dell'aria,
perché
non pensavano che qualcuno potesse superare l'entrata ben sorvegliata
e arrivare sino a quel punto senza essere scoperto.
“Se
riusciamo a trovare un computer, posso entrare nel sistema di
sicurezza e disattivare le telecamere” esclamò
fiducioso Don,
dando una pacca affettuosa alla borsa che portava a tracolla,
sicuramente piena delle sue stramberie scientifiche.
Fu
lui il primo a salire: Raph gli fece da scaletta con le mani
intrecciate e il genio svitò in fretta le viti che fissavano
la
grata, passandola poi ai fratelli perché la poggiassero
silenziosamente a terra; Leatherhead prese allora Mork e lo
aiutò a
salire, lui che avrebbe dovuto guidarli.
Mikey
lo seguì a ruota e poi tutti gli altri, Steve dovette essere
aiutato
da Donnie, finché a terra non rimase che Leatherhead.
Il
coccodrillo umanoide controllò per bene la struttura, poi
sospirò
con irritazione.
“Non
ci passo” soffiò frustrato, per un momento gli
occhi a fessura.
Don
sporse la testa dal tunnel al sentire la sua voce, preoccupato.
“Dovrai
aspettare finché non avrò disattivato le
telecamere. Allora
cercherò di aprire a distanza anche la porta e potrai
raggiungerci”
provò a rassicurarlo, sperando che bastasse.
Se
Leatherhead avesse perso la testa e si fosse gettato contro la porta
con tutta la sua furia, addio piano di segretezza e
furtività.
L'amico
non rispose subito, respirava pesantemente, forse per calmarsi.
“Va
bene, aspetterò qui” concesse dopo qualche minuto.
“Ma fai in
fretta, Donatello.”
“Forse
qualcuno di noi dovrebbe restare qua con lui” propose
Leonardo da
qualche parte alle sue spalle. Anche Steve sembrò dello
stesso
avviso a giudicare dal pigolio di approvazione che fece.
“No,
no, andate avanti. Aspetterò” fu la laconica
risposta di
Leatherhead, forzatamente stoica.
Lo
lasciarono lì, a guardare verso l'alto, verso loro che si
allontanavano, chiedendosi se fosse poi la cosa giusta.
Dovevano
sbrigarsi.
Muoversi
per i condotti non fu facile, c'era caldo nonostante passasse un
fiotto continuo di aria; era stretto e soffocante e dovettero
arrancare in fila indiana cercando di non produrre nessun rumore,
perché le sottili pareti di acciaio zincato propagavano il
suono in
quell'angusto spazio in maniera pericolosa.
Se
possibile, il sistema di ventilazione era persino più
intricato dei
corridoi: all'ennesima svolta, la pazienza iniziò a
vacillare e si
sentivano sottovoce imprecazioni, probabilmente di Raphael.
Ogni
tanto sorpassavano una grata e ci gettavano un'occhiata curiosa, ma
distratta, mentre andavano avanti, giusto per controllare: si
accorsero del via vai di quelli che sembravano dottori e ascoltarono
frammenti delle loro conversazioni; non sembravano positivi, c'era un
generale dissenso e da quel poco che sentirono, sembrava che di
lì a
poco avrebbero tutti abbandonato quel lavoro, volenti o nolenti.
Preoccupati
anche da quella novità, cercarono di fare ancora
più in fretta.
Mork
si bloccò proprio in prossimità di una di quelle
grate e ci guardò
attraverso, come per esserne sicuro: con frenesia richiamò
l'attenzione di Don, gesticolando fuori controllo.
“Dice
che qua sotto c'è un grande computer che puoi usare per
entrare nel
sistema” spiegò frettolosamente Mikey.
“È uno dei laboratori
principali.”
Donnie
strizzò gli occhi per controllare tra le sbarre e mettere a
fuoco
l'ambiente sotto di loro: c'era una fioca luce che illuminava
parecchie attrezzature mediche e una postazione informatica niente
male; sembrava non esserci nessuno al momento.
“Ok,
si scende signori!” disse, mentre trafficava con le viti.
“E
signora” aggiunse poi, rivolto ad Angel.
“Signorina!
Ancora per molto!” ribatté quella sottovoce,
piccata.
Senza
far rumore appoggiarono la grata all'interno del condotto e uno ad
uno scivolarono giù, chi da solo, chi preso al volo; Mork e
Mikey
erano ancora sopra, gli altri si davano già occhiate attorno.
“Ehi,
cosa aspettate?” domandò Leo torcendo il collo
all'insù. Mikey
sporse la testa oltre il bordo, con espressione un po' confusa.
“Mork
vuole che lo segua poco più avanti. C'è qualcosa
che vuole
mostrarmi. Torniamo subito” disse al fratello, lasciandolo
poi lì
preoccupato senza dargli il tempo di rispondere.
Leonardo
sbuffò mezzo irritato, Donnie correva già alla
grande postazione
informatica poco più avanti, mentre gli altri tendevano le
orecchie
a tutti i rumori esterni.
Mikey
si accodò docilmente alla scia di Mork: gli aveva fatto
segno che
c'era qualcosa che doveva assolutamente fare e che voleva che fosse
con lui; non dovettero andare molto lontano, solo una decina di metri
per il condotto e si trovarono di nuovo sopra una grata.
Questa
volta sembrava dare su una piccola stanzetta in penombra, un pertugio
di pochi metri quadrati, apparentemente insignificante. Ma che non
doveva esserlo, dato che Mork smaniava per entrarci.
Mikey
accorse in suo aiuto e, in assenza di attrezzi adatti, si
limitò a
scardinare la grata con un calcio, pregando che non facesse troppo
rumore.
In
realtà, non ci fu nessun rumore quando cadde.
Michelangelo
scivolò giù e capì, dalla consistenza
morbida sotto i piedi,
perché. Allungò le mani per aiutare Mork a
scendere e quando il
mutante umano trovò l'interruttore della luce, finalmente
capì:
c'era una montagna di vestiti gettati e impilati alla rinfusa,
stipati in quella specie di sgabuzzino, quasi fino al soffitto.
“Cosa
diamine-”
C'erano
vestiti femminili e maschili, da adulti e bambini, giubbotti e
copertine, lasciati con noncuranza a marcire, sporchi e usati.
“Oh”
sospirò Mikey, cominciando a capire.
Mork
aveva iniziato a scavare tra la pila, annusando di tanto in tanto
l'aria.
“Sono
i vostri vestiti, sono le vostre cose” mormorò il
ninja,
dispiaciuto.
Gli
dava un senso di fastidio e nausea vedere tutte quelle cose, quei
ricordi, il possesso di qualcun altro, gettato via in quel modo, come
se non importasse.
Come
non era importato delle loro vite.
“Posso
aiutarti?” domandò quietamente.
Mork
non sembrò averlo sentito, troppo impegnato a rovistare e a
gettare
da una parte i vestiti dove aveva già cercato, con frenesia.
Solo in
quel momento Mikey si accorse che sotto gli abiti c'erano oggetti e
gioielli, chiavi e alcune cianfrusaglie.
Il
mutante giallo ci tuffava le mani dentro con disperazione, prendeva
qualche oggetto che attirava la sua attenzione e lo studiava
speranzoso, per poi abbandonarlo con dolore e amarezza un secondo
dopo. Ripeté la stessa cosa ancora e ancora, sempre
più angosciato
e infuriato minuto dopo minuto.
Sembrava
quasi che ci stesse cercando l'anima lì dentro.
“Mork,
ti prego, dimmi cosa stai cercando. Ti voglio aiutare” lo
supplicò,
cercando di attirare la sua attenzione.
Quello
si fermò di colpo e si voltò a guardarlo, una
mano che stringeva un
braccialetto. La allungò verso il suo viso e la
aprì,
mostrandoglielo: era un semplice bracciale d'argento, un modello
classico, con una piastrina al centro di forma semisferica, come se
fosse la metà di un cerchio perfetto, su cui era incisa una
piccola
e stilizzata “S”.
Dopo
nemmeno un secondo lo strinse di nuovo forte e si poggiò la
mano sul
cuore.
E
Mikey si ricordò e capì.
“La
tua persona speciale. È della tua persona
speciale?” domandò,
mentre Mork si ancorava all'oggetto con angoscia e affetto, forte
forte da far male solo a guardarlo.
Annuì,
sollevato.
“Allora
ti ricordi chi sei, adesso? Ti ricordi il tuo nome?”
Mork
scosse la testa con vigore, infastidito dalle sensazioni che le sue
domande, e le sue aspettative, gli suscitavano. La mano libera
volò
nell'aria freneticamente, dalla smania di comunicare.
No,
gli disse, ricordava solo lei. E non ricordava nemmeno il nome di
lei, solo il suo viso. Un bel viso angelico. E che era bella e
combattiva, ma anche tanto dolce. E lui, Mork, voleva solo
rincontrarla.
Mikey
sentì un tuffo al cuore per l'accorata, seppur silenziosa,
confessione dell'amico, che anelava di poter tornare normale e
ritornare dalle persone amate. Forse più di quanto potessero
immaginare.
“Ti
riporterò da lei, Mork. Contaci!”
Donnie
aveva connesso il cavo del palmare al computer centrale, crackare la
password era stata una vera bazzecola, e da qualche minuto stava
viaggiando nella sua rete per cercare i blocchi di sicurezza e i
codici del sistema di sorveglianza di tutta la struttura.
Il
tutto senza farsi scoprire e rintracciare dal proprietario del
computer.
Stava
digitando così in fretta, ed era focalizzato sullo schermo
così
intensamente, che parlare con lui era fuori discussione.
Donnie
era nella rete, era la rete, in quel momento.
Gli
altri si erano divisi per la stanza in penombra. Leo e Steve
sorvegliavano con attenzione la grande porta che comunicava con
l'esterno, occhieggiando dal piccolo oblò che nessuno si
avvicinasse, mentre Raph e Angel ammazzavano il tempo frugando
attorno, attirati soprattutto dalle attrezzature mediche e dalle
grandi teche piene di un liquido sconosciuto che probabilmente
avevano contenuto i mutanti.
Ce
n'erano di grandi e di piccole, alcune alte tanto da ospitare un uomo
adulto, altre non più grandi di un neonato.
Fu
verso una di quelle, che Raph venne attratto. Era una teca piccola e
in uno degli angoli del laboratorio, nella più completa
oscurità;
eppure era quasi sicuro che ci fosse qualcosa, ne sentiva la
presenza.
Quando
si avvicinò, dovette strizzare gli occhi per focalizzare, ma
gli era
parso che qualcosa galleggiasse nel liquido scuro; recuperò
il
shellcell e azionò l'opzione luce, puntandola poi verso la
teca: un
piccolo corpicino fluttuava al suo interno, completamente ricoperto
di squame giallognole e una leggera cresta ossea che partiva dal naso
e, percorrendo la testa, arrivava fin nella schiena. Gli occhi erano
chiusi e un tubo per la respirazione gli forniva l'ossigeno di cui
aveva bisogno; da piccole bollicine che fuoriuscivano dalla sua
bocca, si accorse con sollievo che era vivo.
Uno
dei loro esperimenti, era ancora vivo.
Doveva
avere meno di un anno, era così piccolo, troppo piccolo.
Un
nome gli affiorò improvvisamente alla mente. Thomas Marsten.
Uno dei
primi bambini rapiti. I suoi genitori erano stati uccisi e lui era
stato portato via; avevano sempre sospettato fossero state le altre
creature, ma trovarselo lì, mutato, era stato un colpo al
cuore.
Solo
da mesi, solo per sempre. Non aveva più una famiglia.
Uno
stupido, egoistico desiderio gli salì dal fondo dell'anima.
Quando
tutto fosse finito, avrebbe voluto prenderlo con sé. Anche
se non
fossero riusciti a ritrasformarlo in essere umano, lui lo avrebbe
voluto prendere con sé e crescerlo e amarlo; Isabel lo
avrebbe amato
come se fosse suo, lo sapeva. Come se fosse stato loro figlio.
Sorrise
tra sé, inconsciamente.
“Cosa
c'è?” domandò Angel, avvicinandosi
anche lei.
Raph
le mostrò il piccolo e lei si adombrò alla scena,
commossa alla
vista del poveretto tutto solo e probabilmente segnato da
ciò che
aveva dovuto passare.
“Povero
tesoro. Dobbiamo assolutamente salvarlo. E sono sicura che Donnie
saprà curarlo.”
Ne
era fermamente convinta. Don avrebbe aggiustato tutto.
Prima
dovevano solo farla pagare a Bishop, ovviamente. E una volta per
tutte.
Il
genio esultò sottovoce, proprio in quel momento, mentre
ancora
digitava al computer.
“Sono
riuscito a disattivare il sistema di sorveglianza!” li
informò
entusiasta. “Ancora un altro attimo e riuscirò ad
aprire la porta
per Leatherhead. E ho anche trovato informazioni utili per poter
forse invertire il processo di mutazione!”
“Allora,
come andiamo qua?” chiese Mikey, apparendo dal condotto di
aerazione. Scese con un solo balzo, poi aiutò Mork a calarsi
nella
stanza.
“Abbiamo
finito! Abbiamo campo libero adesso” annunciò Don,
premendo gli
ultimi pulsanti. Disconnesse il suo palmare e lo ripose nella borsa,
al sicuro, prima di voltarsi verso gli altri.
“Adesso
dobbiamo solo ritrovare Leatherhead e-”
Una
sirena esplose nell'aria, interrompendo le sue parole.
Rimbombò
dappertutto, ritmata e assillante, sempre più alta.
“Cosa
succede?” gridò qualcuno per sovrastare il rumore.
“Sta
succedendo qualcosa! Stanno tutti scappando via!”
esclamò Leo
controllando fuori.
“Cosa?”
“Siamo
noi. Ci hanno scoperto” indovinò Donatello,
gettando un'occhiata
di sbieco verso il computer. Forse non era stato così
attento come
aveva pensato.
Leo
si spostò dalla porta con fare risoluto.
“Non
ce ne andremo senza aver sconfitto Bishop” disse.
“Corriamo a
prenderlo.”
Schizzarono
fuori dalla stanza tutti in simultanea, avvolti dal suono regolare
della sirena e da una luce rossa e pulsante che illuminava i
corridoi: questa volta in testa c'era Don, che li guidava sicuro;
aveva la planimetria della struttura ben stampata nella mente, dopo
averla vista sul computer.
Correvano
con tutta la loro forza, in un gruppo compatto e allo stesso passo.
Arrivavano delle urla ovattate, da lontano, ma non gli diedero troppo
peso finché, svoltato un angolo, non si trovarono di fronte
a degli
uomini in camice da laboratorio, che stavano cercando di fuggire
nella direzione da cui loro provenivano: entrambi i gruppi si
bloccarono sorpresi, studiandosi da lontano.
“Non
credo che vogliano combattere. Forse vogliono solo scappare”
mormorò Leo, osservando il modo in cui tremavano sul posto e
occhieggiavano oltre le loro spalle, verso la salvezza.
Il
leader si limitò a guardare per un secondo i suoi compagni e
incredibilmente fu come se avesse dato loro un'ordine: si allinearono
tutti lungo il muro, lasciando un grande varco nel corridoio.
I
dottori, o quello che erano, rimasero basiti. Quella breccia, quel
gesto, era troppo perfetto per essere reale. O forse una trappola?
Leonardo
attirò la loro attenzione e mosse appena la testa, per
dargli segno
di passare. Dovette assistere al loro scambio di sguardi increduli e
spaventati, nel silenzio teso che si era creato, ancora e sempre
scandito dal suono ritmato della sirena.
“Forza!”
tuonò all'improvviso Raphael, scuotendoli fin nelle ossa.
Il
gruppo si lanciò in avanti, stimolato dalla paura, e li
sorpassò di
volata, senza guardarli nel timore che potessero cambiare idea; solo
una donna, l'ultima della fila, si attardò o forse aveva
già notato
la piccola figura gialla: rallentò i passi, davanti a Mork.
E
lo osservò con profondo rimorso, con profondo dispiacere. I
loro
occhi forse si scambiarono qualche parola, qualche messaggio,
perché
la donna, prima di scappare via, esalò sentitamente:
“Mi dispiace.
Ci dispiace.”
Poi
sparì, cercando di raggiungere gli altri suoi colleghi che
ormai
avevano già svoltato l'angolo.
Si
scossero in fretta da quella sensazione di fastidio e Mikey fu il
primo a voltarsi verso Mork per sincerarsi che stesse bene: l'umano
mutato stese un momento le labbra in un fantasma di un sorriso e si
prodigò nel rassicurarli in fretta.
Eppure
sentivano che non era vero.
Ripresero
la corsa, accantonando quel momento in un angolo per quando avessero
avuto il tempo per riparlarne. Non potevano farsi sfuggire Bishop,
per nessun motivo al mondo.
Non
incontrarono nessun altro e la loro meta si avvicinava ad ogni passo;
ne erano inconsciamente tutti certi, perché le mani corsero
verso le
armi, senza averci davvero pensato.
Si
fermarono, davanti ad una grande porta d'acciaio.
“Siete
tutti pronti?”
Un
coro compatto rispose affermativamente alla domanda del leader, senza
tentennamenti.
Si
scagliarono contro la porta, scardinandola dalla sua posizione: cadde
a terra con un gran fragore che si propagò ovunque, assieme
alla
sirena d'allarme.
“Bishop!
Vieni fuori!” urlò Leo, per sovrastare tutto quel
rumore.
La
sirena si interruppe in quello stesso momento e quando la porta ebbe
smesso di vibrare sul pavimento, ci fu un innaturale silenzio.
Gli
occhi saettarono per l'enorme stanza, illuminata solo per
metà:
c'era qualcosa, nel buio in fondo, che loro non potevano vedere.
Sembrava
un laboratorio, ma grande, molto più grande di quelli visti
fino a
quel momento, con un ampio soffitto e attrezzature piccole e moderne
comandate da un computer potentissimo e all'avanguardia.
Un
lieve rumore di passi scompagnati raggiunse le loro orecchie. Fuori
ritmo, sgraziato.
Mork
sussultò sul posto e si ritirò all'indietro,
cedendo ad un lieve
impulso di terrore.
Leo
strinse più forte la presa sulle else e così
fecero gli altri con
le proprie, sul chi vive.
“Vi
stavo aspettando” disse una fredda voce.
Un
uomo, forse era un uomo, emerse dall'oscurità e sorrise nel
guardarli.
Ma
non era Bishop.
“Tu
chi diamine sei?” sbottò incredulo Raph, lasciando
andare la
guardia alta dalla sorpresa.
Anche
se forse la domanda, e sarebbe stata ironica se l'avesse detta,
sarebbe dovuta essere: “tu cosa diamine
sei?”.
Metà
del corpo dell'uomo era mutata in qualcosa di grottesco, o forse era
solo l'abissale differenza dalla parte normale a renderlo
così
evidente: per metà era un uomo esile e alto, con radi
capelli neri e
un occhio dello stesso colore, l'altra metà era un colosso
di
muscoli sproporzionato, ricoperto da squame verde scuro, con un
occhio giallo e denti acuminati che spuntavano direttamente dalla
guancia.
Il
suo sorriso sghembo e inquietante si allargò ancora,
nell'accorgersi
della loro sorpresa.
“Io
vi conosco, tartarughe, ma ovviamente so che voi non mi conoscete.
Perché dovreste? Meglio pensare che ci sia Bishop dietro a
tutto.
Bishop può farlo, Bishop ne è capace!”
C'era
qualcosa di graffiante nella sua voce che assomigliava al ruggito di
una bestia ferita.
Mork
era sempre più terrorizzato, come se quella voce
risvegliasse in lui
ricordi che non voleva, sensazioni che detestava. Mikey se ne accorse
e si affrettò a liberare una mano dall'arma per poggiarla
sulla
spalla dell'amico per tranquillizzarlo. O almeno provarci.
L'uomo
avanzò verso di loro e quello non fece che allarmarli: non
sembrava
avere armi con sé, ma non per quello potevano sottovalutarlo.
“Il
mio nome è Philip Hersen, sono un dottore, ed ero uno dei
ricercatori di Bishop, molti anni fa” iniziò a
spiegare
tranquillamente.
“Io
c'ero, quando siete arrivati nell'area 51 con quel mostro di vostro
fratello, per cercare una cura” disse, indicando verso
Donatello.
Il
genio trasalì.
“Ero
nei laboratori che contenevano i campioni di Leatherhead, le
informazioni sul vostro mutageno e tutto ciò che aveva a che
fare
con i mutanti creati da Bishop per la missione per rapire il
Presidente per ottenere nuovi fondi. Io c'ero. Io sapevo.”1
Erano tutti troppo sconvolti per
replicare e in più volevano sapere, perciò
attesero che spiegasse
ancora.
“Poi,
grazie alla vostra
incursione, la base venne fatta esplodere, ricorderete sicuramente il
conto alla rovescia del dispositivo di autodistruzione; eravamo
addestrati anche per quello, doveva filare tutto liscio. Ma non fu
così. Bishop teneva a quei campioni più che alle
vite dei suoi
uomini; sono rimasto indietro, per cercare di recuperare tutto il
possibile prima che il laboratorio esplodesse.
Superfluo dirvi che non ci
riuscii. Le fiale dei campioni furono le prime a saltare per il
calore delle fiamme generate dall'esplosione e i liquidi mi
investirono tutti assieme, freddi, eppure nocivi, sulla pelle ormai
bruciata. E questo è quello che sono diventato.
Sono mutato e sono
sopravvissuto.
Bishop era introvabile e io
dovevo trovare un modo per tornare normale-”
“Tornare
normale?” tuonò
arrabbiato Mikey, spezzando quel momento di quiete. “Che cosa
hai
fatto a queste persone? Come ti sei permesso?”
“Io
dovevo trovare una cura!”
si difese il dottore, allargando il braccio mutato. “Io non
potevo
aspettare ancora e non posso provare le cure sperimentali su di
me”
continuò con voce folle, un rivolo di bava al lato della
bocca.
L'iride dell'occhio giallo cambiò forma, da tonda a fessura
decine
di volte in pochi istanti.
Capirono immediatamente che
c'era qualcosa che non andava in quell'uomo. Nella sua testa.
Se fosse una conseguenza della
mutazione o un problema già presente da prima, non seppero
dirlo, ma
era certo che c'era una vena di instabilità che rendeva la
situazione ancora più precaria.
Sembrò
accorgersi delle loro
occhiate, sembrò capire cosa stessero pensando.
“Ero
un brillante dottore. Ero
il migliore! Guardate cos'ho fatto, tutto da solo, io.”
“Cosa
hai fatto?” domandò
con voce bassa Angel, senza accusa o rabbia. Voleva farlo parlare,
voleva sapere fin dove si era spinto, quante persone avevano dovuto
pagare la sua pazzia.
Non potevano attaccarlo,
nonostante la voglia che ne avevano, perché prima dovevano
avere
tutte le informazioni che avrebbero potuto portarli al salvataggio di
Mork e dei superstiti.
“Ho
preso prima i barboni,
nessuno si accorge se spariscono i barboni. Ma non andavano bene: i
loro corpi rigettavano il mio sangue e morivano prestissimo: iniziai
ad abbassare sempre più l'età delle mie cavie,
sempre più,
cercando la resistenza e la mutazione perfette.
I ragazzini sembravano perfetti.
Ottenni finalmente delle mutazioni stabili ed ero pronto a creare un
contro-siero che avrebbe potuto farmi tornare normale, ma scoprimmo
che i nuovi soggetti non erano così forti come credevamo: le
loro
cellule sopportavano meglio la trasformazione, ma acceleravano e
vibravano sempre più velocemente, creando una
disintegrazione
improvvisa. Continuò per mesi.
Finché non mi accorsi che M37
era il soggetto perfetto. Longevo, in salute, diverso!”
Mork
sussultò violentemente e
indietreggiò ancora, e Mikey abbandonò
completamente le armi per
poterlo stringere a sé: tremava così tanto che
temette si stesse
per disintegrare, ma era solo paura, sconfinata e orribile paura.
Cosa aveva ricordato? Cosa aveva
passato?
“Come
si chiama davvero?”
domandò il mutante all'uomo, riluttante per l'odio che
provava,
ma sinceramente curioso.
“M37”
ribatté il dottore,
freddamente. “Grazie per averlo riportato.”
“Qual
è il suo nome?” urlò
arrabbiato Mikey.
Hersen piegò la testa,
infastidito, e gli rivolse uno sguardo malevolo.
Lui e tutti gli altri erano solo
dei collaterali fastidiosi in tutta quella faccenda e se ne sarebbe
liberato al più presto.
“M37.
Restituitemelo, adesso!”
Michelangelo lasciò andare Mork
e lo nascose dietro le sue spalle, recuperando le armi abbandonate al
suolo.
“Mai!”
Si
gettarono tutti contro il
dottore, assieme. Il tempo delle chiacchiere era finito e ora che
sapevano tutto, avevano capito tutto ciò che fino a quel
momento era
mancato alla storia. E non era stato affatto piacevole.
Hersen non sembrò sorpreso dal
loro attacco improvviso, né si scompose: schioccò
due dita, secco.
Dalle ombre emersero delle altre
creature, ma diverse da Mork e dalle altre viste: più
piccole ed
esili, la loro pelle era completamente blu. Mikey si ricordò
di
averne vista una, la prima volta che erano apparsi.
Ringhiavano rumorosamente contro
di loro e sguainavano lunghi artigli neri con ferocia.
“Questi
sono... scarti.
Soggetti mutati troppo velocemente e completamente senza controllo.
Sanno solo attaccare e uccidere” li informò Hersen
quasi
divertito, mentre si faceva da parte.
Incominciò
uno scontro
agguerrito. Da una parte il gruppo variegato di tartarughe e umani,
dall'altra umani mutati con sete di sangue.
Erano tanti e più pericolosi di
come potessero sembrare. Velocissimi e agili, attaccavano alle spalle
e ai punti vitali con precisione e violenza. In breve si ritrovarono
tutti accerchiati e avvinghiati in una battaglia ferocissima.
Non volevano colpire quelle
povere vittime che non sapevano ciò che facevano, ma non
potevano
nemmeno lasciarsi ammazzare per pietà. Tutto quello che
potevano
fare, mentre pensavano ad una soluzione migliore, era difendersi.
Mikey
cercava di lottare e al
contempo proteggere Mork, ma era sempre più difficile,
cercavano di
allontanarlo da lui per portarglielo via e lui non poteva
permetterglielo.
Come conseguenza delle sue
continue distrazioni venne ferito ripetutamente, alle braccia e in
faccia, al fianco e ad una gamba. Eppure non indietreggiò
nemmeno
per un attimo.
Continuava a far roteare i
Nunchaku impazziti, cercando di colpire i suoi avversari senza fargli
troppo male.
Non aveva tempo per controllare
come stessero gli altri, anche se era preoccupato. Sentiva i rumori
delle lotte tutto attorno, crudeli e graffianti.
E una risata folle in
sottofondo, che metteva i brividi e il magone.
Steve era
in coppia con
Leonardo, e non se la cavava troppo male grazie alla sua
velocità;
Angel combatteva con splendore; Don e Raph erano ovviamente al pieno
della forma; tutti cercavano di non disperdersi, ma di costringere
tutti gli avversari in un unico punto.
Donnie aveva qualcosa in mente.
All'improvviso,
un sibilo
modulato spezzò la concentrazione, arrivando dritto al
petto. Era
una richiesta di soccorso, dritta verso il cuore.
Mork cercava di dibattersi,
trattenuto di forza dalla presa ferrea della mano mutata del dottore,
ormai pienamente soddisfatto. Nella mano buona teneva invece una
siringa già piena di uno sconosciuto liquido giallo.
Mikey sussultò sconvolto, non
si era accorto che Hersen si era avvicinato ed era infine riuscito a
prendere Mork; cercò di liberarsi dagli attacchi per andare
ad
aiutarlo, ma le creature blu incalzavano frenetiche e implacabili,
per niente interessate a quello che stava per succedere al loro
compagno.
Il lamento gutturale dell'amico
si fece più intenso, mentre la siringa si avvicinava al suo
collo.
Un ringhio
intenso rispose al
suo richiamo, così forte che fece vibrare le pareti, e il
pavimento
sussultava per le vibrazioni di qualcosa in avvicinamento: dalla
porta irruppe Leatherhead completamente fuori di sé, una
furia dagli
occhi a fessura.
Si gettò immediatamente verso
il dottore, al salvataggio di suo figlio.
Hersen trasalì, preso alla
sprovvista, ma non ebbe il tempo di reagire: l'enorme mole di
Leatherhead lo investì in pieno, dopo aver falciato un paio
di
creature blu nella sua furia, e gli fece perdere la presa su Mork,
mandandolo a sbattere contro la parete in fondo con
brutalità.
I nemici ancora in piedi gli si
gettarono immediatamente contro, accrescendo solo ancora di
più la
furia del coccodrillo mutante: dalla sua gola nacque un ruggito
ancestrale, che scosse ognuno di loro fin nelle ossa. I piccoli
mutanti lo lasciarono immediatamente andare e si ritrassero con
timore e reverenza, con uno sguardo smarrito e spaventato che
suscitava pietà.
Mikey si
era intanto tuffato
verso Mork e lo aveva tratto verso di sé, controllando che
non fosse
ferito; a parte l'evidente stato di paura nel quale versava, sembrava
stare bene.
Si
voltarono tutti alla ricerca
del dottore e si meravigliarono nel vederlo ancora riverso a terra,
un lieve tremolio a scuoterlo: la siringa che stringeva poco prima
era conficcata nella sua gamba e il liquido circolava liberamente nel
suo corpo.
Sussultò scosso da spasmi
violenti e un rivolo di bava colò giù dalla bocca
aperta, aperta
per urlare di dolore: gli arti si contorsero e sotto i loro occhi
attoniti il suo corpo mutò ancora, violentemente; la pelle
si tinse
di sfumature cupe, quasi nere, le squame divennero più
grandi e
affilate e la mutazione si espanse anche nella parte sana: grosse
creste ossee emersero lungo le braccia e sul viso, lacerando i
vestiti e il camice da laboratorio che indossava in più
punti, e
infine spuntarono anche lungo la schiena.
Hersen gridava fin dal fondo dei
polmoni per il dolore, dimenandosi violentemente. I suoi occhi
sembravano ancora più folli di prima.
Rimasero
tutti impietriti a
guardarlo, non sapendo che fare. Perfino Donnie, che con le nuove
competenze mediche che aveva acquisito poteva fare qualcosa, non si
arrischiò ad avvicinarsi per paura che il dottore potesse
attaccarlo, sovrastato dal dolore.
Di colpo,
le urla cessarono e
così la mutazione. Hersen rimase accasciato al suolo,
prendendo
grandi respiri sofferti e graffianti, ancora tremante.
Scoppiò all'improvviso in una
grassa risata e, mentre si guardava sconvolto e alienato, quella
divenne più sguaiata e folle, stridula tanto da mettere i
brividi.
Si tirò su con sforzo notevole,
ancora visibilmente scosso, e si strappò via la siringa
dalla gamba
senza un fiato.
“No,
è sbagliato, non è
così, non va bene così”
farfugliò fuori di sé, ridacchiando
senza controllo.
Frugò
freneticamente nelle
tasche del camice e poi osservò deliziato il piccolo
telecomando che
ne tirò fuori.
“Non
è così, bisogna rifarlo
da capo” mugugnò completamente fuori di testa,
premendo una serie
di pulsanti.
Accaddero molte cose
contemporaneamente: esplosioni fragorose scossero la struttura e li
mandarono quasi tutti a terra per il contraccolpo; Hersen rideva, la
terra tremava.
Grandi pezzi di pareti
crollarono, mentre le detonazioni si facevano sempre più
frequenti e
sempre più vicine.
“Ha
innescato una sequenza di
autodistruzione immediata, senza conto alla rovescia.
Crollerà tutto
tra poco e ci seppellirà tutti!”
esclamò Don in tono urgente,
tirando già via Angel e Steve.
Una deflagrazione esplose vicino a
loro, rimandandoli tutti al suolo per l'onda d'urto; grandi crepe
corsero per il soffitto, sbriciolandolo.
“Dobbiamo
andare via!” urlò
Leo, rimettendosi in piedi e cercando di evitare i detriti che si
schiantavano al suolo.
C'erano tanti motivi per
restare: per scoprire la verità su Mork, per trovare altre
informazioni sulla sua mutazione, per salvare gli altri umani mutati,
ma non avrebbero avuto tempo, lo sapevano. L'intero edificio stava
crollando su sé stesso e li avrebbe portati giù
con sé, se non si
muovevano in fretta.
Iniziarono a d avvicinarsi
all'uscita, a ranghi serrati.
Una intensa
vibrazione corse
sotto i loro piedi, all'improvviso.
Mork si gettò verso Mikey e lo
spinse via con tutta la sua forza, sbalzandolo lontano; nello stesso
istante una frana cadde con violenza lì dove la tartaruga
mutante
era stata poco prima, seppellendolo completamente.
Mikey osservò con occhi
sbarrati e increduli, riprendendo fiato. Poi, compreso cos'era
successo, si rialzò e si gettò verso i detriti
con urgenza,
provando a spostarli con mani tremanti.
“Mork!
Mork, dove sei?”
gridò angosciato, ferendosi nel cercare di sollevare
l'enorme
porzione di parete che lo copriva.
Altre esplosioni detonarono
attorno a loro.
Si unirono
tutti per cercare di
salvare il loro amico, in fretta, mentre Michelangelo chiamava sempre
più straziato il suo nome; Leatherhead intervenne e con
immane
sforzo riuscì a sollevare appena il detrito, quel tanto che
servì
all'altro per scivolare al di sotto e controllare.
“L'ho
visto!” arrivò
soffocato alle loro orecchie. “Sollevate ancora un po'!
Presto!”
Puntellarono i piedi al suolo e
spinsero con tutta la loro forza per alzare la parte di soffitto
ancora un poco.
Mikey
grugnì per lo sforzo e
sentirono massi rotolare al di sotto, e poi il loro fratello ne
uscì
fuori, strettamente agganciato a Mork: l'esile mutante era ricoperto
di ferite e polvere, e sangue.
“Mork.
Mork, rispondimi”
esalò sconvolto, stringendolo delicatamente. Gli occhi
chiusi
dell'amico non facevano presagire niente di buono.
Cercò di sentire il suo
battito, di capire se fosse ancora...
“Mork,
ti prego.”
Quello sussultò debolmente, al
richiamo del suo nome. Gli occhi neri si schiusero appena e un mezzo
sorriso gli piegò le labbra nel vedere Mikey.
Inspirò a fatica, poi
tossì un grumo di sangue.
“Ti
porto via. Andrà tutto
bene.”
Mork
voltò il capo verso
Leatherhead, anche lui inginocchiato lì accanto; l'enorme
coccodrillo tremava e i suoi occhi, seppur addolorati, erano tornati
normali.
L'umano mutato inspirò ancora a
fondo, poi melodiò un sibilo basso e straziante, un canto
del cigno.
Leatherhead trasalì nel
sentirlo, perché per lui era più esplicito di
mille parole. Abbassò
il capo e iniziò a singhiozzare, le grandi spalle scosse dal
tremore
impietoso.
Mikey
sembrò capire anche lui,
perché cercò di sollevarlo per portarlo via il
più in fretta
possibile. Mork lo fermò con la mano malferma e un sorriso
di
gratitudine.
Con fatica gli porse il
bracciale trovato poco prima. Poggiò allora una mano sul suo
petto,
per indicarlo. Poi la portò al suo petto.
E Mikey, anche se addolorato e
straziato, capì.
Era diventato anche lui la sua
persona speciale.
Strinse
forte la mano di Mork e
cerco di ricambiare il sorriso, anche se ormai piangeva e lui poteva
vederlo. Il tempo di un tocco e poi gli occhi neri si chiusero e con
una lieve, delicata esplosione il suo corpo si dissolse in fumo nero,
disperdendosi nell'aria.
Mikey rimase per un attimo a
guardarla volteggiare, lontana, sempre più lontana, poi si
accasciò
e pianse, disperato.
Una mano si
poggiò dolcemente
sulla sua spalla.
“Dobbiamo
andare” mormorò
Leo facendogli forza, porgendogli l'altra per aiutarlo ad alzarsi.
Don e Raph si occupavano di
Leatherhead, e tutti premevano per andare via di lì al
più presto.
Ormai quasi tutto era crollato e l'edificio continuava a collassare
ad una velocità impressionante.
Leo si voltò un secondo, prima
di varcare la porta, e si accorse che Hersen non c'era più.
Era
scappato chissà quando, approfittando della loro distrazione.
Riuscirono
ad uscire per un
soffio, andando a ritroso nel complicato labirinto di corridoi,
mentre le pareti collassavano quasi loro addosso, e cercando di
evitare le esplosioni che li avvolgevano.
Non ebbero tempo per fare
nient'altro. Con una stretta al cuore Raph pensò al piccolo
Thomas,
ma ormai non poteva più fare niente. Digrignò
forte i denti per la
sua impotenza. Cercò di convincersi, per alleviare il
dolore, che non sarebbe sopravvissuto nemmeno se lo avessero preso, le
sue cellule non erano stabili; ma in realtà non si
sentì affatto
meglio.
Ripresero
fiato, guardando da
lontano la grande azienda Hessencare divorata dalle fiamme e crollata
al suolo. Il fuoco splendeva aranciato nella notte, tingendolo di
tinte brillanti.
Si sentivano incredibilmente
inutili. Si sentirono sconfitti e impotenti.
Non erano riusciti a far niente,
non erano riusciti a salvare nessuno.
Mikey piangeva e Leatherhead era
distrutto.
“Hersen
non è morto, vero?”
domandò Donnie a Leo, a voce bassa.
Il leader guidava il gruppo
verso il furgone, con passo stanco e sfiduciato.
“No.
E credo che sentiremo
ancora parlare di lui” rispose, con un'espressione
preoccupata.
Ritornarono a casa lentamente,
senza parlare.
Quella notte non l'avrebbero mai
dimenticata.
Passarono
velocemente i giorni
che mancavano a Natale. Una manciata di giorni e la
festività gli
arrivò dritta in faccia, che la volessero o meno.
Mikey, ovviamente ma
stranamente, quell'anno non la attendeva.
Aveva passato le giornate
precedenti in un malanimo torpore, apatico e vuoto. Aveva pianto,
molto, si era fatto tante domande che non avevano trovato risposta,
aveva formulato molti se e molti ma,
maledicendosi per
come erano andate le cose.
A nessuno era passato
inosservato il suo comportamento e quasi tutti avevano già
provato a
tirarlo su di morale, senza grandi risultati.
Quasi tutti.
Era il
giorno prima della
vigilia e i preparativi nel rifugio fervevano alla grande: per quel
natale non sarebbero andati alla fattoria Jones per festeggiare come
tutti gli anni, perché rischiare di rimanere bloccati dalla
neve con
una April incinta di sette mesi non sarebbe piaciuto a nessuno. E se
il bambino avesse deciso di nascere prima?, pensavano tutti con
terrore.
Mikey non stava aiutando
affatto. Se ne stava per i fatti suoi a rimuginare, svicolando le
loro richieste di essere coinvolto.
Stava
pensando, mentre guardava
lo schermo vuoto della tv, quando gli arrivò uno
scappellotto dritto
contro la nuca, con uno schiocco secco.
Offeso e sorpreso si voltò a
controllare chi l'avesse colpito, anche se non c'erano poi molte
scelte. Raph lo guardava con fare annoiato.
“Ho
bisogno di una mano,
andiamo” disse asciutto.
Mikey fece per aprire bocca e
rifiutare, anche malamente, ma il fratello era già arrivato
all'ascensore e lo aspettava con impazienza. Non voleva una mano con
le decorazioni, allora.
Allettato
dall'idea di
allontanarsi da lì e vedere anche cosa volesse Raph, si
alzò e lo
raggiunse, ma con tutta calma. Salirono in silenzio e una volta
raggiunto il garage, Raphael inforcò la moto e gli
passò un casco,
invitandolo a raggiungerlo.
A Mikey piaceva la moto, ma gli
piaceva di più guidarla; ovviamente Raph non gli avrebbe mai
permesso di condurla mentre era con lui, perciò prese posto
dietro e
si preparò mentalmente alla guida spericolata del fratello.
L'aria era gelida e pungente e
le strade ingombre di neve. Sembrava quasi brillare nella notte,
illuminata dalle luci dei lampioni.
Anche Central Park, dove si
fermarono, era ricoperta dalla neve.
Raph scese
con decisione e
iniziò ad incamminarsi verso un punto preciso, verso la
fontana
Bethesda. Mikey si strofinò le braccia per il freddo e il
fiato
caldo si condensava in candide nuvolette mentre osservava suo
fratello.
Quello si era inchinato e
accumulava la neve con meticolosità, assorto.
“Cosa
siamo venuti a fare?”
domandò Michelangelo, confuso.
“Un
pupazzo di neve” fu la
laconica risposta. “Inizia a lavorare.”
Mikey
aggrottò le sopracciglia
con sdegno, perdendo un po' la pazienza.
“Ma
sei matto? Perché dovrei
aiutarti?”
“Per
la tua sorellina.”
Ammutolì
all'istante. C'era
così tanto amore nella voce di Raph, quando parlava di
Isabel.
Stava formando una sfera di
neve, accucciato al suolo.
“Ti
ricordi di Gilbert? Isabel
ha promesso, o meglio desiderato, di fare un pupazzo di neve assieme
ogni natale. Mi ha chiesto di farlo anche quest'anno, anche se lei
non ci sarà” spiegò con forzata
indifferenza, che non lo convinse
minimamente.
Isabel non ce l'avrebbe fatta a
tornare per Natale. Lo aveva scritto nella sua lettera, profondendosi
in mille scuse, con dolore palpabile anche nelle parole scritte.
Sapevano che Raph ne soffriva,
anche se cercava di non darlo a vedere.
“Ho
pensato che avresti potuto
aiutarmi tu per quest'anno, al suo posto.”
Incredibilmente, e per la prima
volta dopo molti giorni, Mikey si sentì commosso. Si
sentì smosso
dal suo stato di torpore, si sentì vivo.
Si
inchinò anche lui e iniziò
a lavorare, seguendo le direttive di Raph, piuttosto precise; ci
misero qualche ora, senza parlare se non per le istruzioni sul
pupazzo di neve, e quello che ne venne fuori, fu agghiacciante come
sempre.
Raph ne sembrò soddisfatto, lo
guardava con orgoglio e commozione; non poteva impedirsi di pensare a
lei. Le sarebbe piaciuto il nuovo Gilbert dal nostalgico sorriso
sbilenco.
“Ti
manca, vero?”
La domanda di Mikey si perse nel
freddo, condensata in nuvoletta leggera.
Raphael si
era spostato vicino
agli alberi in fondo e si era inchinato di nuovo. Lo seguì
perplesso, anche perché il fratello sembrava di nuovo
indaffarato
con la neve.
“Ha
detto che a Marzo lei e
Don prenderanno la laurea e che per allora sarà a casa. L'ha
promesso. Devo solo aspettare ancora un po'”
mormorò Raph,
impegnato a pressare la neve con le mani.
Mikey quasi sobbalzò per la
notizia, che lui non aveva ancora detto a nessuno. E il cuore adesso
bruciava, bruciava di emozione. Sorrise di gioia, pura.
“Cosa
fai?” gli chiese,
molto più euforico di prima.
Su una piccola palla, il
fratello ne poggiava una persino più piccola.
“Faccio
un piccolo Gilbert,
per Shadow.”
Sollevò un attimo lo sguardo e
si accorse della confusione sul viso di Mikey.
Sembrò divertito.
“Shadow
era un piccolo gattino
che Isabel adottò, molti anni fa. Il primo essere che si
è permessa
di amare dopo molto tempo. È morto nel tentativo di
proteggerla da
un attacco di Gregor e lei ancora non se lo perdona e ancora le
manca” raccontò con voce sin troppo mite, per una
cosa così
orribile.
La mano di Mikey toccò
inconsciamente il bracciale che ormai portava al polso sinistro, il
bracciale di Mork. Lo aveva guardato spesso, ci si era ancorato
spesso nel dolore, lo portava sempre con sé.
Perché bruciava da
morire il rimorso e gli mancava, molto.
Si chiese se poi Raph non lo
avesse portato per mostrargli proprio quello, in fin dei conti. Per
mostrargli di come la vita continuasse, di come si dovesse andare
avanti.
D'improvviso si rese conto di
quanto stesse gelando e l'idea di tornare al rifugio ad aiutare a
decorare lo solleticò invitante.
“Torniamo a casa?”
Raphael si
rialzò e si pulì le
mani sulle gambe, osservando le sue creazioni con soddisfazione.
“Sì,
ma prima-”
Lo colpì velocemente con una
grossa palla dritta in faccia e poi scappò via ridendosela
della
grossa.
Mikey si tolse la neve dal viso e con un urlò di battaglia
si mise alle sue calcagna, pronto
a iniziare una lotta epica, sotto lo sguardo folle dei due Gilbert.
Poi, stanchi e contenti
sarebbero tornati al rifugio, e lui sarebbe ritornato quello di
prima.
Forse solo un po' più cresciuto.
1: la
storia di Don mostro e di
loro che si infiltrano nell'aria 51, base di Bishop, per costringerlo
a trovare una cura per lui è nella quarta stagione, episodi
24 e 25
“Good Genes” part 1 e 2.
In fondo Donnie era mutato per
colpa di Bishop, era logico cercare lui.
Note:
Buona notte. O buon giorno?
Salve.
Felicissima di pubblicare, avete
appena letto il capitolo più lungo di questa storia, fino ad
ora. 23
pagine!
La morte di
Mork è stata un
duro colpo, almeno per me, lo adoravo molto. Sapendo poi tutta la sua
storia dietro, ancora di più. Un giorno forse anche voi la
scoprirete.
Hersen è un cattivo a cui sono
molto affezionata. Lo odio tantissimo ovviamente, il mio affetto
viene dal fatto che ci ho messo un grande sviluppo psicologico dietro
che per ora si è appena accennato, ma in futuro...
Tornerà, come teme Leo? Eh,
chissà.
Questo capitolo è una sorta di
perno. Un giro di boa, posso chiamarlo così?
Abbraccione
immenso,
Grazie di cuore
|
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Capitolo 23 *** And life goes on... until it ends ***
I
mesi del nuovo anno si susseguirono, a volte con rapidità, a
volte
con lentezza stagnante.
Gennaio
fu freddo e insolitamente calmo, almeno dal punto di vista degli
ultimi tempi appena trascorsi per loro: avevano controllato in lungo
e in largo, ma non avevano trovato alcuna traccia di Hersen, la
fabbrica era stata completamente distrutta e le autorità
avevano
brancolato nel buio; non c'erano state più altre sparizioni
sospette
e la gente sembrò dimenticarsi in fretta della paura che li
aveva
attanagliati fino a poco prima, come se fosse stato tutto solo un
brutto sogno.
Ma
non lo era stato.
Mikey
lo sapeva, se lo ripeteva continuamente, mentre giocherellava col
bracciale al polso.
Che
quel mostro era ancora a piede libero, che ci avrebbe riprovato di
nuovo da qualche parte, che sarebbe riapparso dalle ombre nelle quali
si era rintanato prima o dopo.
E
lui lo avrebbe atteso, aveva molte domande da fargli e un nome e una
storia da scoprire.
Comunque,
anche senza quei pensieri, avevano avuto il loro bel daffare: avevano
seguito, combattuto e sgominato un'intera banda di rapinatori che
aveva compiuto tre colpi alla banca centrale in meno di due
settimane; solo dopo averne sconfitto tutte le branche avevano
scoperto che stavano accumulando soldi per costruire una sorta di
organizzazione criminale che avrebbe fatto impallidire i Purple
Dragons.
Cosa
che non avevano permesso loro e che non avrebbero permesso a nessun
altro.
Febbraio
era stato il mese più frenetico, per tutti.
Si
avvicinava sempre più la fine della gravidanza di April e,
per
assurdo, quello più spaventato sembrava Casey: aveva montato
e
rimontato la culla prima appartenuta a Carl almeno quattro volte,
aveva comprato montagne di pannolini; fatto, disfatto e rifatto la
borsa per l'ospedale innumerevoli volte e continuava a tenere
d'occhio con ossessività April per essere sicuro che non le
venissero le doglie e lui non fosse pronto.
Lei
lo lasciava stranamente fare e quando Angel le chiese come mai non lo
avesse ancora sgridato, aveva risposto che per lo meno si teneva
impegnato e scaricava la tensione, in maniera innocua; era
già
successo, appena prima del parto di Carl, ma allora per sfogarsi
usciva la notte di ronda ed era molto più pericoloso.
Ora,
da bravo papà, cercava di tenere sotto controllo la
situazione e
cercare di non farlo pesare su nessuno, nemmeno su Carl.
Il
piccolo chiedeva sempre quando sarebbe arrivato il nuovo fratellino,
ma non sembrava aver ben capito bene come sarebbe successo e cosa
avrebbe comportato.
La
casa era ormai pronta per accogliere il bambino e così la
famiglia
Jones.
Tutti
attendevano ormai solo il momento.
Anche
le turtles. Stavano attenti allo squillo del telefono anche mentre
erano di ronda, mentre combattevano contro ladri e delinquenti e
feccia; attendevano e stavano all'erta, in trepidazione.
E,
finalmente, arrivò la chiamata. Un 21 di febbraio, al calar
del
sole.
La
voce trafelata dall'altra parte della cornetta era di un ansioso
Casey, che aveva urlato solo un “sta nascendo!”
mentre le urla e
i rumori in sottofondo facevano capire che stesse guidando in tutta
fretta verso l'ospedale.
Erano
arrivati sul tetto del palazzo di fronte al Saint Vincent in un
batter d'occhio e si erano messi ad attendere con impazienza.
Nonostante il freddo, nonostante il desiderio di trovarsi con i loro
amici ad aspettare tutti assieme.
Angel
e Steve si erano fiondati dritti all'ospedale e si erano fatti
dirigere verso il piano giusto: avevano trovato la madre di Casey che
distraeva Carl, fuori dalla sala parto.
La
grintosa nonna Jones aveva messo i ragazzi al corrente di cosa
avessero detto i dottori quando avevano accolto April e che Casey era
all'interno con lei.
Il
tempo, benché ansioso, fu riempito dalle chiacchiere di
Carl; Steve,
ad un certo punto, aveva preso il telefono e digitato un numero ben
familiare.
Leo
aveva risposto emozionato dall'altra parte, ma non era l'annuncio
della nascita come si aspettava; era invece una chiamata in
conferenza, così da poter essere tutti partecipi: ci furono
molte
chiacchiere, Carl che chiedeva loro di raggiungerli, Nonna Jones che
si informava di come stessero e una sorta di scommessa clandestina
per indovinare che nome avrebbero messo al bambino.
Il
tempo passò più velocemente, tutti assieme. Anche
se il travaglio
durò alcune ore e tutti si chiedevano come stesse April e
come
stessero andando le cose in sala parto; quando, dopo due ore e mezza,
Casey apparve dalla doppia porta con in braccio un fagottino di
coperte, Steve quasi lasciò cadere il telefono
dall'emozione.
Perfino attraverso il ricevitore gli altri lo sentirono annunciare
con voce fiera: “Vi presento August Jones”.
Ci
furono schiamazzi di gioia che si udirono per tutta la notte e
allarmarono i più. April uscì dalla sala solo
mezz'ora dopo,
stravolta ma visibilmente felice; Casey le passò il neonato
e prese
in braccio Carl per mostrargli da vicino il fratellino e
perché
potesse salutare e abbracciare la madre; sorrideva anche lui, e
allungava le manine per accarezzare August.
Dopo
aver fatto gli auguri e le congratulazioni, Steve e Angel andarono
via per permettere ad April di riposare nell'intimità della
sola
famiglia Jones.
Nella
strada del ritorno incontrarono gli altri e mostrarono loro le foto
del nuovo nato, tra battutine per la palese somiglianza e sorrisi
felici.
Ovviamente,
organizzarono una grande festa.
Quando
April uscì dall'ospedale col bambino, i suoi amici le fecero
trovare
una bella sorpresa, pensata fin nei minimi dettagli: si erano tutti
premuniti perché lei non dovesse muovere nemmeno un dito e
si
godesse invece i regali e tutto il buon cibo preparato per
festeggiare. Tutti avevano potuto finalmente stringere il bambino e
prenderlo in braccio e parlargli per la prima volta: August aveva i
capelli neri, tanti capelli neri, e gli occhi avevano quel velo che i
neonati mantenevano per i primi mesi di vita, ma sembravano azzurri.
Un piccolo Casey in miniatura.
Per
la famiglia di mutanti quello era un nuovo umano da amare, proteggere
e che non li avrebbe mai guardati con paura e disprezzo. Un nuovo
componente della loro stramba famiglia.
Il
resto del mese passò in fretta tra visite e notti insonni
dei -di
nuovo- neo-genitori, foto di gruppo e chiacchiere, tante chiacchiere
sul futuro.
E
Marzo infine e finalmente arrivò.
Difficile
dire chi fosse più agitato. Se Donnie per la laurea
imminente,
Raphael per il ritorno di Isabel o tutti in generale per entrambe le
cose.
Oltre
alle ronde, alle visite ai Jones, agli allenamenti di Steve, si
iniziarono i preparativi per quella che prometteva di essere la festa
più grande mai organizzata dalla famiglia Hamato: c'erano
almeno due
liste lunghe due metri di cose da fare e da comprare e altre tre
liste segrete di regali e sorprese che stavano pianificando a
gruppetti per i due festeggiati. Ovviamente, le giornate furono
così
frenetiche che quasi non c'era il tempo per respirare.
Il
rifugio era sempre più ingombro e rumoroso, c'era sempre un
gran via
vai e a tutte le ore si puliva, si riordinava, si decorava, si
organizzava; si stava spandendo una certa maniacalità per
quella
festa che sfociava quasi nell'ansia.
Don
era sempre irrequieto. Si chiesero se dormisse e se si stesse
nutrendo di qualcos'altro che non fosse caffè, dato che non
si
fermava mai e lavorava e lavorava nel suo laboratorio, che aveva
ormai pulito e messo a posto almeno tre volte. Sembrava quasi che
dovesse farci la festa, lì dentro. Non era mai stato
più ordinato.
Sapevano
che aspettava il momento in cui avrebbe ricevuto la laurea e sapevano
che ogni giorno che passava senza riceverla lo gettava nel caos e
nella disperazione; si chiedeva se l'avrebbe poi ricevuta per
davvero: lui non era mai andato fisicamente
all'università... e se
si fossero accorti dell'errore? E se alla fine nemmeno la magia
avesse potuto aiutarlo e lui fosse rimasto a bocca asciutta? Avrebbe
fatto più male, dopo anni di illusioni.
Perciò
no, Don non stava propriamente dormendo e non riusciva a stare fermo,
perché da fermo l'ansia lo attanagliava più forte.
Gli
altri non sembravano dubitare nemmeno per un momento che la laurea
sarebbe arrivata e quello da una parte lo faceva sentire meglio e
dall'altra lo innervosiva di più. Si era imposto di evitare
tutti
per non scaricare contro di loro la sua frustrazione, che anche lui
sapeva essere immotivata.
L'altro
componente ad essere relativamente quieto era Raphael, ma quello lo
sapevano tutti; che sotto sotto non dormiva dall'agitazione, ma che,
come sempre, faceva finta di nulla davanti a loro. Stoico fino alla
morte, Raphael.
Pregarono
tutti che Isabel tornasse presto, perché finalmente lui
sarebbe
ritornato ad essere più aperto e comunicativo, la versione
migliore
di sé che solo grazie a lei poteva esistere.
Quello
che non sapevano, era ciò che faceva nel tempo che restava
da solo.
A parte il pattugliamento e gli allenamenti, ovviamente.
Leggeva
e rileggeva le lettere che lei gli aveva mandato, tenute tutte con
maniacale cura e attenzione: le sapeva a memoria ormai, ma le
sfogliava e risfogliava come se il contatto con esse potesse
avvicinarlo di più a lei, la potesse riportare da lui.
E
ripensava a tutto quello che aveva passato e che era stato bravo a
nascondere agli altri. O no?
Si
erano accorti del dolore e dell'ansia che lo aveva lacerato per tutto
quel tempo?
Dell'insonnia,
della rabbia, della paura... della mancanza dilaniante e straziante
di lei che lo aveva accompagnato ogni giorno?
Ottobre
era stato orribile, ma aveva cercato di tenersi occupato ed era stato
bravo.
A
Novembre si era illuso che fosse sul punto di tornare, che sarebbero
bastati pochi giorni ancora e l'avrebbe rivista e stretta e amata; ma
la speranza si era affievolita all'avvicinarsi di
Dicembre,
col freddo che lei amava e quelle sporadiche lettere che non
bastavano a colmare la distanza, la lontananza, l'assenza.
La
sognava ogni notte, bramava di sentire il suono della sua voce, di
poterla guardare, di poterla toccare.
Non
sapeva come ancora non fosse diventato pazzo, ma di certo ci era
andato vicino spesso. Era riuscito a resistere solo perché
sapeva
che sarebbe tornata da lui, che tutti quei mesi sarebbero sembrati
nulla il giorno in cui lei sarebbe riapparsa davanti a lui.
Gennaio
era arrivato e passato lentamente e Febbraio aveva portato il piccolo
August e lui non aveva fatto altro che pensare a quanto Isabel
sarebbe stata felice di poterlo stringere tra le braccia e gioire
assieme ai loro amici per la nascita del loro secondo figlio.
Non
riusciva ancora a credere che finalmente fosse arrivato Marzo e che
mancasse poco.
E
paradossalmente sembravano più lunghe e interminabili degli
ultimi
mesi.
Ma
finalmente, tutto sarebbe tornato come prima e c'erano così
tante
cose che li attendevano nel futuro e lui aveva pronte tante sorprese,
una grande come una casa, e una piccola, ma forse persino
più
grandiosa.
Arrivò
ancora una lettera, una sera sul finire del mese. La aprì
con smania
eppure attento a non rovinarla, con la paura che quello che vi
avrebbe trovato scritto potessero essere cattive notizie.
Invece,
dentro c'erano vergate solo tre frasi con grafia emozionata:
“Torno
domani,
non
vedo l'ora di rivederti,
ti
amo, Isabel.”
L'urlo
che aveva lanciato dovevano averlo sentito fin su nella strada;
quando si fiondò fuori dalla stanza trovò i suoi
fratelli accorsi
al suo grido, con le facce spaventate. Oh, quanto in fretta si
trasformarono in sorrisi quando diede loro la buona notizia.
E
la frenesia crebbe e crebbe. Se Isabel stava per tornare, significava
che la laurea stava per arrivare e quello gettò Donnie
ancora più
nel panico; Mikey era indietro con le pietanze e si chiuse
praticamente in cucina per cercare di farcela in tempo, Leo
reclutò
Steve e Angel per dare una mano al suo fratellino.
E
Raph?
Raph
vagliava con la mente i mille scenari che gli si paravano davanti.
Cosa
avrebbe detto quando l'avrebbe rivista? Solo il pensiero gli seccava
la gola fastidiosamente.
Come
si sarebbe comportato? Perché l'istinto gli diceva di
afferrarla e
portarla lontana da tutti nello stesso istante in cui avrebbe varcato
il rifugio e baciarla, ascoltarla, stringerla e amarla, ma la mente
gli diceva che non sarebbe stato carino e che avrebbe dovuto
condividerla con tutti gli altri per tutto il tempo della festa.
Lei,
lei sarebbe stata felice di vederlo, no? Le era mancato come lei era
mancata a lui?
Un'ondata
di agitazione lo colpì. E anche lui cadde nella frenesia che
aveva
colpito Don e iniziò a fare mille cose per tenersi
impegnato,
sperando che le ore passassero più velocemente.
Donnie
passò la notte nel laboratorio. Spazzolava con cura il
vestito che
avrebbe messo l'indomani, appeso ad uno scaffale di una libreria,
impilava con cura tutte le provette sulla scrivania, ordinava i
fascicoli nelle cartelline dello schedario e ripassava a mente tutti
i progetti su cui stava lavorando. E intanto trangugiava
caffè a
tazze, incapace di rilassarsi.
Verso
le tre del mattino si sentì un po' stanco, ma non
tornò alla sua
stanza; si sedette invece alla sedia della scrivania e
appoggiò un
attimo le braccia sulla superficie e poi la testa sopra di esse.
Continuò a fissare il bell'abito che April e Casey gli
avevano
regalato, finché lo sguardo non si appannò di
sonno, trascinato
presto in un sogno bellissimo che lo vedeva protagonista, intento a
leggere il discorso davanti a umani, tanti umani, che si stavano
laureando quel giorno assieme a lui. I visi rivolti verso di lui
erano attenti ed emozionati e nessuno mostrava disgusto o paura nel
vederlo, ma solo tanta ammirazione. Tutti si alzarono in piedi per
applaudire e Donnie vide la sua famiglia che partecipava fiera e poi
c'era anche quella persona speciale, che lui amava, che lo applaudiva
e lo acclamava con occhi felici e innamorati, rendendo tutto solo
più
bello.
Donatello
si svegliò di colpo, sobbalzando sulla sedia. Si accorse di
dove si
trovasse e sospirò, stiracchiandosi per sgranchire la
schiena
indolenzita; dormire in laboratorio, grande idea.
Si
fermò di colpo con le braccia ancora in alto, gli occhi
calamitati
da qualcosa sulla scrivania che la notte prima non c'era: una grande
busta gialla sigillata con ceralacca rossa dall'aria molto ufficiosa.
Allungò
le mani e la studiò con emozione, soffermandosi dapprima
sulla bella
grafia che componeva il nome del destinatario, in grande:
“Sig.
Donatello Hamato”.
Non
voleva affrettarsi, voleva gustare ogni istante, perciò
aprì con
cura la busta e tirò fuori i fogli di pergamena che
conteneva,
passando le dita sulla trama ruvida, gustandosi il contatto, l'odore,
la consistenza; allora, e solo allora lesse cosa c'era scritto.
Il
sorriso sul suo viso divenne sempre più grande e il suo
colorito
sempre più verde scuro dall'imbarazzo; con gli occhi lucidi
di
emozione saltò su e corse fuori dal laboratorio, diretto
verso il
dojo dove, lo sapeva, Splinter era già in meditazione, per
mostrargli per primo quel miracolo.
Anche
Raphael si svegliò di soprassalto, quella mattina. Si era
coricato
tardissimo e aveva preso sonno anche più tardi, e nonostante
non
fossero passate che poche ore, si svegliò di colpo, con una
strana
sensazione alla bocca dello stomaco. L'avrebbe chiamata nausea.
Si massaggiò il torace con
fastidio, cercando di capire se fosse solo ansia poi, capito che
ormai non sarebbe più riuscito a dormire, si alzò
e si stiracchiò
con cupi scricchiolii in sottofondo; c'erano tante cose da fare.
Angel e
Steve arrivarono fin
dalla mattina, mentre Casey nel primo pomeriggio per dare una mano
con alcuni decori da mettere in alto; poi arrivarono April, Carl e
August e Nonna Jones; Leatherhead e il professor Honeycutt si
presentarono assieme e si precipitarono a congratularsi con Donatello
per il traguardo ottenuto con così tanta fatica e nonostante
la sua
condizione di mutante. Don era già emozionato e orgoglioso e
i
complimenti non poterono che renderlo ancora più felice.
Il
festeggiato era già vestito
di tutto punto con il completo nero che i Jones gli avevano regalato
e sovraintendeva i lavori e aiutava dove possibile con
celerità; gli
altri si cambiarono per la festa non appena ebbero terminato con i
preparativi, per non sporcarsi.
Raph, come i suoi fratelli,
indossava un bell'abito giacca e cravatta scuro, ma tirava sempre con
fastidio il colletto della camicia per cercare di respirare meglio;
non era il genere di vestiario che preferiva, ma per quella festa
sarebbero tutti stati eleganti e anche lui voleva essere al meglio.
A sera,
finalmente, tutto era
pronto. Dal soffitto pendevano festoni e luci sapientemente disposte
per creare soffusi e gradevoli effetti; Casey aveva portato alcune
piante in vaso per smorzare l'effetto tecnologico della sala e per
creare ambiente, e una grande tavolata era stata imbastita proprio
vicino al laghetto, colma di ogni genere di leccornia: da stuzzichini
salati ad un tripudio di antipasti, per passare poi a piatti caldi
dalla carne al pesce e una composizione di verdure dai meravigliosi
abbinamenti cromatici. In un tavolo a parte c'erano deliziosi dolci e
pasticcini e una enorme torta a tre piani decorata da Mikey.
Tutti si servirono un cocktail,
nell'attesa che la festa vera e propria iniziasse.
Raphael
fece del suo meglio per
evitare le chiacchiere, perché tutti sembravano volergli
solo
chiedere come si sentisse e se fosse nervoso. Certo che era nervoso.
Gli sudavano le mani così tanto che il bicchiere rischiava
di
scivolargli ogni secondo, ma non voleva parlarne e non voleva che
loro continuassero a chiederglielo: lo faceva sentire ancora
più
agitato e sudava solo di più.
Sgusciò
via dal gruppetto della
famiglia Jones e si avvicinò a Don che stava sequestrando un
bicchiere a Steve, di qualcosa che probabilmente non avrebbe dovuto
bere.
“Ok,
ma quando ci sarà il
brindisi per la tua laurea posso berne almeno un goccio?”
sentì
dire al ragazzino, solo leggermente piccato.
Il genio sospirò e gli passò
un bicchiere di quella che pareva gazzosa, con mezzo sorriso.
“Forse.
Vediamo. Probabilmente
no.”
“Dai,
Donnie, per oggi non
fare l'apprensivo. Controlleremo che non si ubriachi, ma un po' di
spumante non puoi negarglielo” lo difese Raph, allungando il
suo
flute al ragazzo.
“Ha
sedici anni!”
“Quasi
diciassette! A Maggio!”
insorse Steve ergendosi più alto che poté, gli
occhi già brillanti
senza aver bevuto ancora nemmeno un sorso.
Don
rollò i suoi al cielo.
“Avrai
solo quel bicchiere,
per tutta la festa!” acconsentì alla fine.
“E attento che ti
tengo d'occhio!”
Steve annuì con un gran sorriso
e poi si voltò per ringraziare Raphael.
“Aspetta
ad assaggiarlo, prima
di ringraziare.”
Il ragazzo portò il bicchiere
alle labbra e buttò giù un grande sorso, poi fece
una faccia
disgustata che cercò di dissimulare con una scrollata di
spalle.
“Non
dirlo a Donnie, ok?”
disse quando riuscì a parlare, restituendogli il bicchiere e
ingollando invece la gazzosa per scacciare il cattivo sapore.
Raph rideva forte, ma gli
promise di mantenere il silenzio.
Più
in là, Leo e il sensei
parlavano amabilmente con Angel, Honeycutt e Leatherhead e avevano
attirato nella conversazione anche Donatello, visibilmente in
imbarazzo; stavano parlando di lui, ovviamente. Mikey faceva buffe
smorfie ad August mentre teneva in braccio Carl e chiacchierava con
April, premuroso. Casey stava ascoltando consigli della madre con
espressione un po' rassegnata.
La serata scorreva
piacevolmente, ma sottopelle tutti sentivano una certa ansia.
L'attesa era snervante, perché non sapevano il momento in
cui lei
sarebbe apparsa. E come sarebbe apparsa, poi? Arrivando da una delle
entrate o spuntando dal nulla lì in mezzo a loro?
Un'improvvisa
luminescenza rischiarò il rifugio e attirò
l'attenzione di tutti:
le voci si spensero di colpo e tutti gli occhi furono sul portale che
andava formandosi al centro della sala, sempre più grande.
Trattennero
il fiato, in attesa, con un magone di emozione nel petto che faceva
male.
Avrebbero
esultato, si sarebbero lanciati verso di lei, l'avrebbero abbracciata
e si sarebbero fatti raccontare ogni cosa, cercando di recuperare il
tempo perso.
Una
figura femminile emerse dal portale, elegante. Chikara li osservava
quietamente, altera.
Lei
non era attesa e di certo non gradita, ma forse Isabel aveva invitato
anche loro alla festa e non potevano essere scortesi.
Attesero
che si spostasse e permettesse il passaggio della festeggiata, ma lei
non si mosse, né mostrò intenzione a farlo: li
osservò tutti con i
suoi occhi glaciali, soffermandosi di più su Raphael.
Lui
era già sull'orlo di una crisi di nervi, veder apparire
Chikara-Shisho invece di Isabel era stato un colpo, se poi la donna
avesse insistito per tenerli separati o qualsiasi altra cosa avesse
in mente, quella volta non sarebbe stato zitto.
La
donna aprì appena le labbra e trasse un profondo respiro.
“C'è
stato un incidente, questa mattina, sul monte Fuji, si è
verificato
un violento terremoto e una scolaresca si trovava in pericolo a causa
del cedimento di alcuni massi: Isabel è intervenuta per
aiutare e
salvare i bambini, ma una seconda frana l'ha investita ed è
stata
trascinata fino a valle, senza avere il tempo di reagire.”
La
sua voce ultraterrena scivolò nel silenzio denso e attonito,
quasi
schiaffeggiandoli. Nessuno voleva spezzarlo, avrebbe significato
rendere quelle parole vere. Aspettavano quasi che lei sorridesse e
dicesse loro che era tutto uno scherzo. Come se fosse possibile da
una come lei.
“Cosa-
cosa vuol dire?” riuscì infine a balbettare
Splinter, cercando di
trattenere il tono più fermo possibile.
“Isabel
Charmillion è morta questa mattina, all'alba. Non abbiamo
potuto
fare nulla per salvarla” disse Chikara e riuscirono a sentire
una
punta di dolore o forse rimorso nella sua voce.
Si
scostò, finalmente, e dal portale emersero altre figure; Kon
e Juto
oltrepassarono la barriera luminosa col volto teso e contrito e anche
loro si spostarono: un'enorme figura fece allora la sua comparsa, tra
le braccia un corpo molto più piccolo.
April
urlò e non fu la sola. Si sentì rumore di vetri
infranti, da
qualche parte.
Il
gigantesco Hisomi teneva in braccio il corpo esile e martoriato di
Isabel.
Bianco
e livido, solcato da innumerevoli cicatrici. Il corto kimono che
indossava lasciava intravvedere gli enormi sfregi che correvano per
le sue gambe, per le sue braccia, lungo la sua gola, persino sul
viso.
Eppure
era bella anche nella morte.
Raphael
si mosse nel silenzio, e si avvicinò; Hisomi gli porse con
gentilezza il corpo e lui fu sconvolto dal freddo che emanava, dalla
sua rigidità. Aveva perso sia la collana degli amanti che il
bracciale che le aveva regalato per l'anniversario; le cicatrici
erano più profonde e lunghe sulla gola e le braccia, forse
non aveva
fatto in tempo a ripararsi, anche se ci aveva provato.
Accarezzò
la pelle cerulea con orrore, sfiorò le labbra violacee con
struggimento.
Sussurrò
qualcosa sottovoce, straziato, stringendola più forte.
“SHISHO!”
urlò Leonardo, tremando visibilmente.
“Com'è possibile? Come-”
“Non
abbiamo potuto fare nulla” rispose Kon, impassibile alla sua
accusa
velata.
“Era
affidata a voi. Ce l'avete portata via con la forza e poi non l'avete
protetta!” li biasimò Splinter con livore,
facendosi avanti perché
nessuno dei suoi figli perdesse la testa.
“Ci
dispiace. Mi dispiace” mormorò l'Antico, l'ultimo
ad essere
apparso dal portale, guardando negli occhi l'amico ratto, parte della
sua famiglia.
Piangeva,
l'unico tra gli Shisho a piangere.
“Andate
via. Via!” ordinò Splinter fuori di sé,
così arrabbiato e
sconvolto da non curarsi di trattenere il tono iroso.
I
cinque maestri riattraversarono il portale senza una parola e quello
poi scomparve, rilanciandoli nella soffusa e normale luce del
rifugio.
C'era
un innaturale silenzio, troppo straziante, ancora confuso.
Lacrime
cadevano e singulti lo riempivano e gli occhi sfioravano con timore
il piccolo corpo della loro amica, con il desiderio angosciante che
fosse solo tutto un brutto sogno, un incubo.
Tra
i singhiozzi di dolore e le urla e i perché gridati contro
il fato,
solo una voce non si era sentita, l'unica che avrebbe dovuto urlare
più delle altre: Raphael era ginocchia a terra, e la
stringeva
spasmodicamente tra le braccia e la cullava, la cullava, sconvolto.
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Capitolo 24 *** Hallelujah ***
“Love
is not a victory march,
it's
a cold and it's a broken
Hallelujah”
Il
primo cumulo di terra cadde con un tonfo sordo sulla superficie
legnosa, ma il rumore si perse nel forte picchiettio della pioggia
incessante, che trasformava tutto in fango appiccicoso e greve.
Persino le emozioni.
Pioveva.
Pioveva incessantemente da quando lei non c'era più, o forse
quella
era solo una loro impressione.
La
seconda palata di terra colpì la bara al centro, ma i rivoli
d'acqua
continuavano a scioglierla, trasportandola ai lati, giù fino
al
fondo della profonda buca. Sembrava che riempirla avrebbe richiesto
ore e ore di sforzo immane, sotto l'acquazzone battente, ma
Michelangelo non ci pensava nemmeno: continuava a infilare la pala
nel cumulo fangoso e a sollevare gli enormi impasti densi e pesanti e
a gettarli in silenzio, le lacrime che cadevano dentro la buca
insieme alla terra, tirando su col naso il rivolo di muco che
minacciava di scendere dal troppo pianto.
Non
aveva voluto che nessuno l'aiutasse, nessuno. Solo lui doveva farlo,
traendo forza dal dolore dei muscoli tesi nel sollevare la pesante
terra impastata dalla pioggia, cercando inconsciamente di non
pensare, disperatamente di non soffrire, senza successo.
Non
sollevò lo sguardo nemmeno una volta, per guardare gli altri
riuniti
attorno alla bara come un muro impenetrabile, vicini tanto dallo
sporcarsi con gli schizzi di fango, lontani nel dolore, ognuno che
affogava nel proprio, incapace di pensare agli altri.
Subito
alla sua destra c'era April che piangeva disperata contro la spalla
di Casey, anche lui commosso e con gli occhi lucidi, e August e Carl
tra le loro braccia che non capivano, non potevano, ma che comunque
rimanevano quieti e straniti, influenzati dall'aura di dolore e
lacrime che li circondava, ovunque attorno a loro.
Tra
il ticchettio della pioggia contro gli ombrelli neri si
sentì un
singulto, tra i pianti muti, e Donatello allungò il braccio
alla sua
sinistra, afferrando la stoica Angel che fino a quel momento si era
trattenuta con tutta la sua forza, con le mani strette a pugno
così
forte che i palmi sanguinavano, i denti serrati per non urlare; il
gesto del mutante la vinse, infine, e scoppiò a piangere
senza
ritegno, stretta nell'abbraccio dell'amico che nascondeva il suo viso
contro il petto, carezzandole la testa con la mano.
Le
lacrime di Don caddero silenziose sui capelli corvini di lei,
splendendo come perle, una dopo l'altra.
Il
maestro piangeva anche lui, poggiato al bastone con sofferenza, come
se il peso del dolore fosse troppo per poter essere sostenuto dal suo
vecchio corpo. L'orrore di aver perso ancora una persona cara gli
serrava il cuore con una disperazione tale, che quasi faticava a
respirare. Non era solo il suo dolore, che sentiva, ma anche quello
dei suoi figli, dei loro amici, come se fosse palpabile.
Leonardo
stava ritto, con gli occhi pieni di lacrime fissi sulla bara e
piangeva quietamente. Steve,
invece, vicino a lui, singhiozzava con poco ritegno, passandosi ogni
tanto un pugno arrabbiato sopra gli occhi per snebbiare la vista,
inutilmente.
Leatherhead,
che aveva condotto l'omelia e il commovente discorso funebre,
inframmezzato di pause per asciugare le lacrime, stava singhiozzante
alle spalle di Mikey, vicino alla lapide che sarebbe stata messa alla
fine sulla tomba.
Solo,
tra tutti, Raphael se ne stava ai piedi della buca, spento,
catatonico. Non piangeva, non muoveva un muscolo, non reagiva a
nessuno stimolo esterno, non gli importava nemmeno della pioggia che
lo ricopriva, non batteva nemmeno le palpebre. Il suo dolore era
troppo grande persino per essere espresso con gesti o parole, con
lacrime, con un urlo, con disperazione e azioni umani e normali,
concrete.
Non
era questione di cosa sentisse, quanto di cosa non sentisse. Non
sentiva più nulla, né calore o freddo,
né respiri o suoni, la
pioggia che lo bagnava: nulla, nulla, non sentiva più nulla,
non gli
importava di nulla; non erano necessari, non erano veri.
Niente
era come quel dolore, non esisteva più niente, se non quel
dolore.
Qualche
mano aveva provato ad afferrarlo, a stringerlo, a cercare di lenire
la sua sofferenza con un abbraccio, ma si era scansato senza una
parola, per poi ritornare immobile a fissarla, a fissare l'oscuro
sarcofago che la celava alla sua vista, laggiù nella buca.
C'erano
solo lui e quella bara, nella tenebrosa sera coperta da nubi nere, e
il suo sguardo vuoto non si staccò per un attimo dalle lente
zolle
di terra bagnate che la ricoprivano, che seppellivano poco a poco la
donna che amava.
Isabel,
poggiata in quella bara come se dormisse. Isabel, sepolta sotto tre
metri di terra. Isabel, sola, al freddo e al buio, per sempre.
Senza
di lui.
Il
tempo venne scandito dal rumore della terra che riempiva la buca, dal
ticchettio incessante della pioggia sugli ombrelli e dai singhiozzi;
e da un silenzio, pesante, di quelli densi di dolore e sofferta
inquietudine.
Michelangelo
gettò l'ultima palata di terreno e poi livellò il
fango con la
pala, come un automa, col respiro corto per la fatica, bagnato da
capo a piedi e ricoperto di lacrime; poi, si voltò verso
Leatherhead.
Era
il momento della lapide.
Leatherhead
la afferrò gentilmente, con le manone enormi, come se non
pesasse
niente: una enorme lastra della dimensione della buca fangosa, in
marmo bianco.
La
poggiò al suolo, con la sua innata premura, premendola
contro il
fango con delicatezza, come se stesse poggiando la vera Isabel: nome
e cognome erano seguiti dalle date di nascita e di morte, incise
nella pietra, e sotto in piccolo, il messaggio che tutti avevano
scelto per lei, seguito dallo stemma degli Hamato.
“Figlia,
sorella, amica amata.
Speranza
e dolcezza, per sempre nei nostri cuori.”
Raphael
lesse le incisioni in
trance, le gocce di pioggia che scivolavano sulla pietra lucida con
indifferenza, senza lasciarsi niente dietro; quelle parole, quelle
parole non volevano dire niente, non spiegavano niente di
ciò che
era Isabel, ciò che significava, come fosse fatta, del suo
carattere
e di ciò che aveva portato nella sua vita.
Non si poteva riassumerla in
così poco, non si poteva nemmeno in molto. Non si doveva.
Sentì
il tramestio di passi
acquosi che si avvicinavano a lui e indietreggiò, senza
guardare
nessuno, perché non lo toccassero, perché non lo
sfiorassero. Non
voleva sentire niente, nessun contatto fisico, nessun suono, nessuna
emozione; solo il gelido nulla, solo il freddo oblio.
Avrebbero spezzato tutto,
avrebbero permesso alla realtà di prenderlo, infine.
Con un veloce dietrofront diede
loro le spalle e corse verso la casa per primo, poi su per la scala
in legno e come un fulmine nella stanza da letto al primo piano,
sbattendo la porta, chiudendoli tutti fuori, provandoci a far
rimanere fuori anche lo strazio.
Sentì
rumori di passi e
qualcuno bussare e voci chiamare il suo nome, ma si premette con
forza le mani contro le orecchie, le unghie incisero la carne della
nuca nella disperazione e strizzò convulsamente le palpebre,
isolandosi da tutto, sprofondando giù, sempre più
giù.
Quel nome, quell'altro nome, che
amava, che faceva parte di lui, ormai, nessuno lo avrebbe
più
pronunciato. Nessuno lo avrebbe più chiamato così.
April
strinse la mano a pugno e
batté ancora una volta contro la porta, con delicatezza.
“Raph,
tesoro, posso entrare?”
domandò con voce un po' nasale dal pianto, quando nessuno le
rispose; rimase ad osservare il legno scuro, attendendo, ma ci fu
solo silenzio, forse persino più di prima.
Afferrò la maniglia e la
abbassò, anche se non le era stato dato il permesso, ma la
porta non
si mosse e ci sbatté contro, inutilmente.
“Raph...”
esalò affranta,
con i palmi poggiati contro il legno, sconfitta, sofferente e
indecisa su come dovesse comportarsi.
“Tesoro,
lascialo stare un po'
da solo. Credimi, è meglio così”
mormorò Casey, poggiandole una
mano sulla spalla.
Gli occhi
verdi appannati di
lacrime di lei incontrarono quelli azzurri offuscati dal dolore di
lui e lì si fermarono.
“Perché
è successo, Casey?
Perché? Erano felici, erano finalmente felici. Si sarebbero
rincontrati, sarebbero stati insieme per sempre. Perché
è successo?
PERCHÉ?” strillò fuori di
sé, cedendo, alla sua impotenza, alla
sofferenza, alla crudeltà della vita.
Casey allungò le braccia in
tempo per afferrarla e la strinse contro di sé,
più forte che poté,
e le lacrime di April macchiarono la sua giacca scura, dall'altra
parte.
“Non
lo so. Davvero non lo so”
sussurrò carezzandole la schiena, provando a fermare i suoi
singhiozzi.
Non ci
furono molte altre parole
pronunciate nella casa, quel giorno. Rimasero tutti assieme nel
salone, con gli sguardi spenti e le lacrime ancora vive, con solo la
voglia di stare vicini, mentre lassù, al piano di sopra,
l'unico che
ne avesse davvero bisogno, stava da solo col suo dolore, soffocato
fino a morirne.
Splinter
stava in piedi alla
finestra, scrutando fuori nell'oscurità della notte, verso
il marmo
bianco che sembrava quasi scintillare, sotto il pino al limitare del
bosco, alla fine dello spiazzo dietro alla casa: decidere di
seppellire Isabel alla fattoria Jones era stata la scelta
più
giusta, avrebbe riposato in pace e loro sarebbero potuti andare alla
sua tomba quando volevano, senza problemi.
E, in ultimo, il pensiero che
fosse lontano da loro, in un posto distante da raggiungere, in un
certo senso gli dava l'illusione che avrebbe fatto meno male, a lungo
andare. Forse.
Si
voltò ad osservare la sua
famiglia, o quello che ne era rimasto dopo quella frattura: delle
anime afflitte e una, lassù, da sempre quella più
fragile, forse
rotta per sempre.
Come avrebbe potuto risanare una
ferita così profonda? Con quale insegnamento e massima
avrebbe mai
potuto lenire quel dolore?
Come, quando il suo anziano
cuore minacciava di fermarsi per non dover soffrire ancora?
La notte
passò, ma nessuno
dormì davvero. L'alba grigia e piovosa sorprese i volti
tirati e le
occhiaie vivide, gli sguardi sofferti che brillarono appena di muta
consolazione nel vedere di non essere i soli, nel condividere tutti
la stessa emozione.
Ci fu una colazione silenziosa e
leggera, nessuno aveva davvero voglia di mangiare, o parlare, ma
stare assieme era naturale, cercare un conforto nella vicinanza
reciproca era implicito; perciò si sedettero tutti assieme
al
vecchio tavolo in pesante legno di noce della tenuta, con le ciotole
di cereali e le tazze di caffè, in silenzio.
Gli occhi,
quelli sì, si
parlavano. Sussurravano parole di conforto, un abbraccio virtuale,
una lacrima condivisa quando si accorgevano che anche gli altri erano
lucidi.
Tutti si accorsero della
mancanza di Raph, ma sorvolarono sulla cosa: avevano provato ad
entrare nella sua stanza, a chiamarlo per raggiungerli, a gettare
giù
la porta dalla preoccupazione, anche, ma avevano ricevuto solo uno
strillo disumano che li minacciava di andarsene, poi più
niente.
Solo un
paio di occhi, invece,
si accorsero della mancanza di Leo, ma fecero finta di nulla, per non
attirare l'attenzione.
Don si voltò verso la finestra,
assorto, occhieggiando il grosso nuvolone nero che li serrava con la
sua cappa, quasi senza muoversi. Sapeva che era stupido pensarlo, e
poco razionale, ma sembrava davvero che la nuvola non si fosse mai
mossa da quando erano arrivati, gettando loro addosso litri ed
ettolitri di pioggia a non finire.
Pioveva sempre, da quando lei
non c'era più. O forse era davvero solo la loro impressione.
Una grossa
goccia si infranse
sul suo braccio, cadendo da una foglia alla quale era rimasta
abbarbicata fino all'ultimo, fino a piegarla col suo peso.
Leonardo non alzò lo sguardo
per vedere se gliene sarebbero arrivate altre, non era importante. La
sua attenzione era tutta per la tomba bianca, eterea nel grigiore
mattutino.
Aveva così tanto da dire, ma
perché poi? Chi lo avrebbe ascoltato, ormai?
Eppure doveva, sapeva che non
sarebbe andato avanti, altrimenti. E forse non ci sarebbe riuscito lo
stesso, ma provarci non gli avrebbe nuociuto.
Prese un
grosso respiro,
mandando giù un nodo in gola che minacciava di rendere la
sua voce
più fragile di come volesse apparire.
“Sai,”
iniziò titubante,
mormorando al vento e alla fine pioggerella che lo abbracciava,
“l'hai rotto. L'hai spezzato, forse per sempre. E io cosa
dovrei
fare? Come posso aiutarlo, se sto affondando anche io? Come hai
potuto farcelo, Isabel? Come?”
Strinse le
mani a pugno, forte,
tanto da farsi male con le unghie. Le riaprì quando si
accorse che
la carne pulsava dolorosamente, ad un passo dallo spaccarsi. Ma non
si sentì meglio.
Sapeva di sembrare accusatorio,
di starsela prendendo con lei che non poteva difendersi, lei che di
certo non avrebbe voluto abbandonarli, non questa volta.
Una lacrima solitaria sfuggì al
suo controllo.
“Proverò
a recuperare ciò
che resta di lui, a rimetterlo insieme, a ricomporlo, ma non posso
prometterti nulla, lo sai, vero?” sussurrò
abbassando il capo,
lasciando che le lacrime cadessero insieme alle grosse gocce di
pioggia che si schiantavano giù dal pino.
La partenza
dalla fattoria fu
silenziosa come il loro arrivo e altrettanto bagnata.
C'erano abbracci, come
all'arrivo, e parole mormorate sottovoce, spezzate da un singulto,
per farsi coraggio.
Le macchine erano all'ingresso,
coi motori accesi, ma loro erano tutti a terra a stringersi, a
confortarsi, a promettersi di vedersi il giorno dopo o quello dopo
ancora, nella disperata ricerca di contatti, nell'illusione che il
vedersi, il promettersi di esserci, non li avrebbe mai potuti
separare. Come se la morte si potesse ingannare per una promessa.
La porta di
casa si aprì, e non
era premeditato, ma tutti si voltarono, molto più tesi:
Raphael uscì
fuori, infagottato nel suo cappotto scuro, col bavero alzato fin
sulla testa, per non essere visto.
Camminò nel silenzio verso la
macchina, scindendo senza sforzo la loro piccola folla, che si
aprì
inconsciamente al suo passaggio, forse risospinta indietro dal suo
dolore: un paio di mani si tesero, alle sue spalle, ci provarono a
raggiungerlo, a toccarlo, ma vennero frenate, forse dalla sfiducia
del proprietario o per la sua cappa impenetrabile di sofferenza, che
sembrava renderlo intoccabile.
Si
infilò nel retro del furgone
senza una parola o uno sguardo a nessuno, sbattendo la porta con un
gesto secco, che risuonò più del dovuto nel
silenzio.
Ci furono occhiate addolorate,
dopo, ma nessun altro mormorio, nessuno a voler spezzare l'atmosfera
tesa.
Si salutarono, gli ultimi
abbracci, poi salirono nelle auto e partirono in fila indiana,
allontanandosi sempre di più dalla fattoria, da lei.
Michelangelo
sedeva dietro, con
Raphael, quieto. I suoi occhi non si erano staccati per un momento
dal fratello, che se ne stava rannicchiato in un angolo, coperto dal
cappotto da capo a piedi, immobile, spento.
Voleva fare qualcosa per lui,
qualsiasi cosa, -stava combattendo contro l'impulso di alzarsi e
andare ad abbracciarlo, perché sapeva che di certo lo
avrebbe
ucciso,- ma cosa mai poteva fare per lui?
Non c'era niente che avrebbe
potuto riportare a Raph la voglia di sorridere, -di vivere,
addirittura; lo sapeva, lo sentiva, nei suoi respiri che sapevano di
oblio e morte, di niente e dolore.
Quello che sentiva lui, Raph
doveva provarlo moltiplicato per mille, e se lui non aveva
più
voglia di sorridere, mai più, come poteva suo fratello
andare
avanti?
Il viaggio
fu lungo e corto: il
silenzio lo rese interminabile, il dolore cancellò gran
parte del
loro ricordo; si ricordavano solo di essere partiti, una distesa
vuota nel tragitto, frammenti confusi imbevuti di sofferenza, e poi
il momento in cui le gomme stridettero, nella frenata, nel garage.
Un paio di
sospiri sfuggiti alla
tensione, di parole che non trovarono mai la forza di uscire fuori, e
sguardi confusi e disorientati che si cercavano. La portiera di
dietro si aprì e Raph scese: sembrava quasi che non si
muovesse, ma
facesse fare tutto il lavoro alla gravità, come se
contrastarla lo
avesse
potuto fermare
definitivamente.
Con pochi passi si avvicinò
alla serranda e la aprì, il picchiettio delle gocce di
pioggia più
intenso che rimbombava dentro il garage semi vuoto.
Leo si
mosse per seguirlo, per
non lasciarlo uscire, ma il braccio di Don si parò
all'altezza del
suo torace, fermandolo: lo sguardo addolorato del genio gli suggeriva
di non farlo, di lasciarlo stare, e il suo gesto si perse, non visto.
Raph varcò la soglia e sparì nella notte, senza
dire nulla, senza
guardarli, anche se sapeva fossero lì.
Rimasero a guardare il quadrato
di strada bagnata e oscura incorniciata dalla porta del garage, con
la preoccupazione ad aggiungersi al tutto.
Donatello
entrò nel laboratorio
e cercò a tentoni l'interruttore della luce. In genere ci
metteva un
solo secondo a trovarlo, a volte riusciva a muoversi anche al buio,
ma era molto stanco e provato, il suo cervello non pensava con la
fluidità normale.
La lampadina al neon sfarfallò
un paio di volte, poi inondò di luce asettica la stanza,
perfettamente in ordine così come l'aveva lasciata.
Si
avvicinò stancamente alla
scrivania, e l'occhio cadde sul pezzo di carta nuovo di zecca,
arrivato appena due giorni prima, con
sua grande gioia.
Eppure sembrava successo un
secolo prima.
Sollevò l'attestato della sua
laurea, col suo nome ben vergato in oro e le firme
dell'università,
e la lettera dei complimenti allegati che tanto lo aveva emozionato.
Niente, niente di tutto quello
sarebbe stato possibile senza di Isabel.
I fogli
tremarono nelle mani e
li lasciò andare, per non stropicciarli nella foga, nel
dolore. Con
un veloce dietrofront ritornò sui suoi passi e
uscì dal
laboratorio, deciso: si avvicinò al laghetto e
salì sul pontile in
legno, poi si sedette sulla sua superficie, con lo sguardo puntato
sull'entrata principale e quella per il garage, subito alla destra.
E attese.
E solo dopo qualche attimo si
accorse che Mikey era con lui, lì vicino seduto sulla nuda
roccia, e
Leo, che dall'alto aspettava con loro, in piedi sul bordo del
corridoio del primo piano.
Aspettavano
Raphael. Perché
Isabel non c'era più e sarebbe toccato a loro dargli ogni
sostegno e
aiuto possibile perché potesse, se non superarlo, almeno
riprendere
una parvenza di normalità.
Sentirono tutti la presenza del
sensei, poggiato con pazienza al suo bastone, anche lui con loro
nella muta attesa.
E attesero. L'unica cosa che
potessero fare.
Attesero.
Note:
La canzone
Hallelujah, che per
me fa da sfondo a tutto questo capitolo, nella sua prima stesura era
una canzone religiosa; la versione a cui faccio riferimento io,
però,
parla di tutt'altro: parla di amore e sesso, di disperazione e
perdita; è un inno all'amore materiale, all'estasi
dell'orgasmo e
alla sofferenza nel perdere tutto.
Perché l'amore non è una
marcia vittoriosa, è un freddo ed è un infranto
Alleluja.
https://www.youtube.com/watch?v=xR0DKOGco_o
Permettetemi
di ringraziarvi
come sempre e abbracciarvi forte.
|
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Capitolo 25 *** I am- You are- We are... Falling ***
Attesero.
Ma
l'attesa che prima era fiduciosa si trasformò fin troppo
presto in
angoscia.
Nel
momento stesso in cui capirono che Raph non sarebbe tornato.
Non
c'era stato un istante definito, un qualcosa di secco e tangibile che
glielo avesse fatto capire. Era stato il tempo a suggerirlo, quando i
minuti erano diventate ore, che poi si erano accumulate in giorni.
Quando
il terzo giorno dalla sua uscita dal garage sorse, iniziarono a
capire che Raphael non era semplicemente uscito per rimanere da solo
a pensare.
Capirono
che si era smarrito.
Non
fisicamente, -sapeva di certo ritrovare la via di casa,- ma
nell'anima.
Raph
si era perso, aveva perso sé stesso, e la paura che non
avrebbe più
varcato la soglia del rifugio, che potesse aver preso una decisione
sbagliata, si fece prepotentemente strada in loro.
Il
dolore del lutto li rese anche più apprensivi e guardinghi,
e nel
momento stesso in cui i loro sguardi si erano incrociati nella
consapevolezza, avevano già deciso: dovevano
cercarlo e riportarlo indietro.
La
prima scelta logica fu cercare di rintracciarlo col telefonino, ma si
accorsero alla prima chiamata che era fuori servizio. Spento, rotto o
gettato chissà dove, ma inutile sia per chiamare sia per
tracciare
il segnale per poterlo scovare. Si chiesero se Raph lo avesse fatto
apposta, per non essere trovato.
Istituirono
in fretta delle squadre di ricerca, ancora più preoccupati.
Se era
vero che non era difficile nascondersi anche in piena vista, -ben
più
di una volta avevano camminato tra gli umani, quando erano vestiti,
senza problemi,- non di meno più tempo passava fuori,
soprattutto in
uno stato d'animo così instabile, più
possibilità c'erano che
Raphael potesse essere visto e catturato. E non volevano immaginare
che guerra ne sarebbe nata, perché un Raph in quello stato
avrebbe
potuto far fuori mezza città prima di essere colpito.
Leo,
Don e Mikey presero a pattugliare dalle prime ombre del tramonto fino
a che il sole non era completamente sorto, rovistando New York fin
dalle sue fondamenta, senza tralasciare il più piccolo e
infimo
angolo, il bidone più nascosto.
Durante
la giornata erano Casey, Angel e Steve a proseguire le ricerche, e
sebbene anche April si fosse offerta, dover accudire due bambini le
prendeva già ogni tempo ed energia, perciò la sua
richiesta venne
gentilmente rifiutata.
A
lei e Splinter toccava lo strazio maggiore, l'impotenza di fare
qualcosa che si sommava al dolore, mentre aspettavano notizie.
La
prima settimana passò in un soffio, nella spasmodica
ricerca, nella
speranza che andava affievolendosi. Nessuno osava dire quelle parole,
ma la paura era in ogni cuore.
Non
c'era nessun segno di lui, nessuna notizia di avvistamenti di persone
strane o sospette, ma la moto era ancora nel garage, Raph doveva
essere ancora in città.
Dove,
dove nella stramaledetta e immensa New York poteva essere? E come
stava vivendo, solo, avvolto dal dolore?
Tutti
si facevano le stesse domande, ma le tenevano per sé.
Continuavano
ad andare fuori a cercarlo con un sorriso fiducioso e la paura nella
mente, perché a volerla tirare fuori avrebbe potuto
contagiare gli
altri, senza sapere che si era già diffusa coi loro silenzi,
come un
cancro malevolo.
La
seconda settimana passò, portando solo più
stanchezza e dolore, più
domande e timori, senza fine. C'erano occhiaie scure sotto i loro
occhi e silenzi ancora più spessi.
E
così tante recriminazioni, ognuno che si dava le colpe, in
cuor
proprio.
Leo
pensava che avrebbe dovuto vegliare meglio su di lui, lui che sapeva
quanto stesse soffrendo, lui che poteva capirlo meglio di tutti.
Invece si era fatto distrarre dal suo dolore, dal suo egoista dolore
per averla persa, e non aveva pensato a nient'altro che a sé.
Don
si malediceva per aver fermato Leo che voleva correre dietro a Raph,
quel giorno. Se non lo avesse fatto, se gli avesse permesso di
seguirlo e parlarci, forse tutto quello non sarebbe successo; Leo
avrebbe saputo cosa fare, avrebbe saputo arrivare al cuore ferito di
Raph, lo avrebbe protetto. Era tutta colpa sua, che lo aveva fermato,
se il leader non aveva potuto salvarlo.
E
Mikey... Mikey si stava perdendo, come Raph.
Silenzioso,
teso e nervoso, non sembrava nemmeno più lo stesso ragazzone
sempre
allegro che allietava le loro giornate coi suoi scherzi, ma solo una
malanima presenza che si trascinava nel rifugio senza pace, con lo
sguardo spiritato.
Il
momento in cui si sarebbe rotto non era lontano e quando successe,
alla fine terza settimana di sparizione di Raph, nessuno ne fu
davvero sorpreso.
“Basta!
Basta! BASTA! A cosa serve fare piani, ricerche, stare qua a non fare
nulla?” sbottò una mattina in cui erano nel
laboratorio a studiare
le mappe coi territori marchiati, appena rientrati dalle loro
ricerche infruttuose.
Leo
stava segnando le zone controllate nella notte e Donnie stava
cercando di venire a capo di un sistema di tracciamento basato sul
mutageno, molto complesso già solo a giudicare dal progetto,
sul
quale stava letteralmente sputando sangue.
Entrambi
voltarono lo sguardo stanco verso Mikey, calmo, lo sguardo di chi
già
si aspettava una scena simile: stava camminando avanti e indietro
come un folle, con le mani che mulinavano nell'aria, le occhiaie
sotto gli occhi di un violento verde intenso e lo sguardo
più cupo
che gli avessero mai visto in viso.
“Non
possiamo rimanere così! Tre settimane! Tre settimane!
Sparito! E noi
ce ne stiamo qua!” sbraitava senza senso, sempre
più infervorato.
“Cosa
vorresti fare?” domandò quieto Leo, cercando un
punto di incontro
in quello che prometteva essere uno sclero con tutti i crismi.
“Io
esco! Continuo a cercarlo! Non posso sprecare del tempo prezioso,
devo cercarlo!” urlò Mikey fermandosi, lo sguardo
folle carico di
determinazione.
Corse
verso la porta, ma Leo lo bloccò afferrandolo per il
braccio, con
fermezza.
“Mikey,
è pieno giorno, non puoi uscire.”
“E
invece sì! Se Raph è lì fuori anche io
posso andarci, e cercarlo
e... e scusarmi e aiutarlo e...”
Si
passò le mani in faccia, premendo contro gli occhi con forza
e
impotenza, respirando a fondo.
“Mikey,
sai che non è colpa tua, vero? Non è colpa tua se
Raph è andato
via” disse con voce dolce Donnie, avvicinandosi a loro due.
Sia
Leo che Mikey lo guardarono e lessero nei suoi occhi lo stesso
sentimento di colpa che loro sentivano, condivisero il peso di
sentirsi tutti responsabili.
“Se
io avessi capito... ero con lui nel retro del furgone, ho sentito il
suo dolore, ma ho avuto paura di avvicinarmi, paura di un suo scatto.
Se non fossi stato vigliacco, se avessi saputo aiutarlo, potevo fare
qualcosa, qualsiasi cosa, ma...”
“Non
è colpa tua. Non è colpa di nessuno. Non
è nemmeno colpa di Raph,
se si è perso” mormorò triste Don.
“Ho
paura. Ho paura che sia...”
Non
riuscì a finire la frase, ma quello che intendeva lo
capirono
perfettamente, il leader e il genio. Perché quella stessa
paura
infettava le loro menti e i loro cuori.
“Sta
bene. Raph sta bene” ripeté Leonardo, ma Mikey
riuscì a capire
che lo diceva più per convincere sé stesso.
“E
lo troveremo presto” aggiunse Donnie, sforzando un sorriso
che tirò
le pieghe della stanchezza accumulata.
Nel
silenzio teso che seguì, i tre non poterono fare altro che
abbracciarsi, una stretta fugace nella speranza di dissipare il
timore, che quelle parole fossero vere.
Forti
di quella speranza, di quel momento di fratellanza a tre a cui
mancava purtroppo un componente, che volevano con loro al
più
presto, si rimisero immediatamente al lavoro, forse persino con
più
foga di prima: il sonno e il riposo avrebbero atteso per quando Raph
sarebbe stato di nuovo con loro, nella sicurezza del rifugio.
E
ancora dovettero scontrarsi con la realtà, che non lasciava
scampo:
erano troppo pochi per poter scandagliare a fondo l'immensa
città
che era New York e tutti i suoi angolini più nascosti e
segreti in
cui poteva essere il fuggitivo.
E
se qualcuno lo avesse preso, poi? Loro non l'avrebbero mai saputo. Se
Raph era stato scoperto, di certo era finito nelle mani del governo
per esperimenti, e il tutto era stato insabbiato con
facilità; loro
come avrebbero mai potuto salvarlo, in quel caso?
Donatello
era quello che pensava più di tutti alle varie opzioni, e
quella lo
assillava forse un po' più delle altre; si infiltrava sempre
più
spesso e sempre più a fondo nei computer del governo, fino a
spingersi nelle branche delle organizzazioni che nemmeno il governo
stesso sapeva che esistessero, sfidando sempre più la
fortuna e la
sua bravura nel non essere scoperto: leggeva e scartellava i loro
file fino in fondo per riuscire a trovare anche il più
piccolo
indizio che potesse fargli capire che lo stato avesse preso suo
fratello.
E
il sonno era sempre più utopia.
Leo
lo sapeva. Sapeva cosa stesse facendo e quanto rischio stesse tenendo
in bilico sulle sue dita ogni volta che usava il computer, ma non
poteva biasimarlo e non riuscì a trovare il coraggio di
dirgli di
smetterla, perché se lui avesse avuto anche solo la
metà
dell'intelligenza di Donnie, avrebbe fatto esattamente lo stesso.
Tutto
pur di trovare Raphael. Tutto pur di estirpare quell'ansia e quella
paura dall'anima.
La
verità era che non era più stabile di Mikey,
anche se cercava di
farsi forza, per far forza agli altri, ma sentire anche il loro
dolore, sentire che anche il sensei stesse cedendo poco a poco, nel
suo mutismo, nel suo sguardo fosco che pregava per il ritorno del
figlio, lo stava logorando ogni giorno di più.
Come
poteva essere un leader ed un sostegno, se si lasciava andare
giù?
Un
mese tondo dal funerale si affacciò sul mondo.
E
ancora nessuna nuova notizia, niente, niente a cui appigliarsi.
Il
dolore ancora fresco li colpiva ad ondate, quando il sorriso di lei
riaffiorava nelle loro menti, quando una frase che aveva pronunciato
riecheggiava nella memoria; si chiedevano spesso cosa avrebbe fatto
lei in quella situazione, se avrebbe saputo trovarlo, al loro posto.
E la risposta era sempre sì, perché lei aveva
saputo sempre come
trovarlo e come arrivare al suo cuore.
Non
erano riusciti a piangere come avrebbero dovuto per il lutto,
preoccupati dalla sparizione di Raphael, ma era sempre lì,
fresco e
sanguinante, pronto a rituffarli nello strazio non appena tutto fosse
finito.
Donnie
ci pensava spesso, a lei. Non poteva fare molto per evitarlo, c'erano
decine di suoi bigliettini in giro per il laboratorio, appuntati
sulle superfici più disparate: uno sulla cartellina degli
appunti,
per ricordargli un esame ormai dimenticato nel tempo, ma molto
importante nel momento in cui lei lo aveva scritto, uno sul pc per un
appunto su una ricerca, un altro su un vecchio tostapane solo per
lasciargli un buon giorno, uno ancora vicino alle provette per
chiedergli di controllare la reazione di un esperimento a cui avevano
lavorato assieme molto tempo prima. Erano tutti ancora lì a
parlargli, come se fosse lei a farlo.
Non
li aveva mai buttati, non sapeva nemmeno perché, e in quel
momento
sapeva che non l'avrebbe fatto mai più, perché
voleva illudersi
ogni giorno che lei fosse ancora lì a lasciarli per lui con
un gran
sorriso, prima di andare a lezione. Anche se era masochistico e
faceva male da morire.
Ma
doveva distrarre lo sguardo, per focalizzarsi sul problema
più
impellente, mettendo il dolore per lei in secondo piano.
Non
voleva nemmeno immaginare quanto stesse soffrendo Raphael in quello
stesso momento e cosa quel dolore potesse spingerlo o lo avesse
spinto a fare.
Si
dannava per trovare una soluzione. Avrebbero dovuto essere molti di
più per trovarlo. E infine, una sera, picchiandosi forte la
mano
contro la fronte per la sua stupidità e per non averci
pensato
prima, si buttò fuori dal laboratorio e cercò i
suoi fratelli, già
pronti per uscire per le ricerche, in piedi vicino all'entrata. Lo
osservarono avvicinarsi trafelato eppure illuminato ed entrambi si
congelarono sul posto, attendendo che parlasse.
“Il
Professore!” esalò esagitato. I due gli rivolsero
un'occhiata
dubbiosa per la sua salute mentale.
“Il
Professore! Il capo dei senzatetto! Lui e gli altri possono darci una
mano a cercare Raph! Possono andare dovunque e fare domande che noi
non possiamo!”
Si
guardarono tutti e tre, con la stessa espressione di
incredulità per
la loro palese, palese stupidità; nessuno di loro aveva
pensato al
loro vecchio amico che aiutava i barboni di New York: era anziano e
molto saggio, e dato che nessuno sapeva il suo nome, lo chiamavano
semplicemente Il Professore; aiutava chiunque fosse in
difficoltà e
non aveva mai chiesto loro se fossero davvero tartarughe giganti o
solo in costume, perché sembrava non curarsene. Dato che
tutti lo
stimavano, era in un certo senso diventato il capo dei senzatetto,
nell'utopistica comune che avevano formato su un'isola adibita a
discarica: riciclavano tutto ciò che era possibile e
smaltivano
ecologicamente il resto, offrendo un lavoro e una casa a chi non
aveva più niente.
Probabilmente
aveva una rete di informazioni e contatti in tutta la città.
Di
certo qualcuno di loro aveva sentito qualcosa di strano, qualcosa di
sottaciuto.
Una
volta fuori dal rifugio, si divisero e Donnie corse per avvisare Il
Professore, in tutta fretta: naturalmente ottenne una piena
collaborazione e con molta sollecitudine; il vecchio amico
sembrò
essersi accorto della sua premura e della sua preoccupazione e con un
veloce passaparola ordinò a tutti i senzatetto della
città di
riportare ogni possibile avvistamento o notizia a lui il prima
possibile.
Avevano
mille occhi e mille orecchie in più. Donnie non
poté non sentirsi
più speranzoso e persino un po' euforico. Sentiva che era
solo
questione di tempo, poco tempo, e qualcosa sarebbe successo, e la
vita si sarebbe rimessa in moto, riportandogli notizie di Raphael.
Invece
non fu così facile.
Se
avevano immaginato che in poche ore avrebbero ritrovato il fratello,
dovettero fare presto i conti con la realtà: decine di
avvistamenti
sospetti, ma tutti buchi nell'acqua; persone che scappavano da
persecutori, due delinquenti in cerca di un rifugio dopo una rapina e
anche alcuni maniaci, ma niente di lontanamente simile al loro
fratello.
Erano
stati vaghi, a ben pensarci, e nell'immenso passaparola molte cose
dovevano essere state modificate e cambiate; ritornarono dal
Professore per chiedergli di specificare l'aspetto di Raphael, senza
timore: avrebbe potuto dire che fosse un uomo in costume, per non
destare allarmismi, ma era importante che qualsiasi avvistamento di
una persona con un aspetto diverso dal normale fosse segnalato.
In
poche ore la voce era arrivata ad ogni senzatetto e stranamente tutto
ritornò esattamente come prima che li contattassero: nessuna
nuova,
nessuna pista.
Raphael
era ancora a New York? Era ancora vivo? Era salvo?
Continuavano
a chiederselo, ma le risposte diventavano via via più cupe e
sfiduciate.
Mikey
stava cercando di andare avanti senza impazzire. Senza cedere al
dolore. Ma era difficile.
Così
tanta sofferenza, in così poco tempo.
Mork.
Isabel. E Raph.
Prima
l'impotenza per non aver salvato chi contava su di lui, poi
l'ineluttabilità nell'aver perso per sempre colei che era
come una
sorella e infine il non sapere cosa ne fosse di suo fratello. Era
troppo, troppo.
L'unica
consolazione che aveva, era che il continuo cercare lo teneva
impegnato tanto da non pensare e la mattina crollava sfinito a
dormire, lasciando che il dolore lo cogliesse nel sonno.
Perciò
correva e correva, fino a quando restava senza fiato, pregando di
trovare traccia di Raph, per alleviare almeno un poco la sua
sofferenza.
Gli
piaceva l'aria della notte, era fresca e leggera. Ormai un poco
più
umida e calda, essendo alla fine di Aprile: presto ci sarebbe stato
caldo torrido e l'estate era sempre più vicina.
Il
sole iniziava a tramontare sempre più tardi,
però, e lui si agitava
per la frustrazione quando attendeva che calasse il buio per poter
uscire e mettersi alla ricerca: una volta fuori, respirava a fondo,
rilassando appena la tensione, e poi si lanciava immediatamente per
la città con tutta la sua foga e la sua energia.
Notte,
dopo notte, dopo notte.
Quella
notte, il telefonino di Mikey trillò, per la prima volta da
molti
giorni. Rispose dopo qualche squillo, piuttosto svogliato, certo che
fosse solo una seccatura.
“Pronto?”
Ascoltò
la voce dall'altra parte che riprendeva fiato, trafelata.
“Donnie,
sei tu?” domandò, mezzo allarmato.
“Respira,
non ho capito niente!”
Si
bloccò nel bel mezzo di un tetto, con una brusca frenata. La
sua
faccia esprimeva una gamma di emozioni che variava dal sorpreso al
preoccupato, inframmezzato da angoscia.
“Sei
sicuro?” esclamò a voce alta, molto alta e
turbata. “Sì, sono
vicino. Vado io. Sei sicuro, vero?”
Chiuse
la chiamata e ficcò il telefono nella taschina e si
lanciò di nuovo
in avanti, più veloce di prima.
Non
era la prima volta che rispondeva ad un avvistamento e ci si recava
per primo perché era più vicino,
perciò avrebbe dovuto essere
ormai vaccinato contro l'illudersi, ma ogni volta non poteva evitare
di cascarci e sperare che fosse la volta buona.
Avevano
specificato l'aspetto di Raph ai senzatetto, avevano messo in chiaro
cosa stessero cercando, perciò non era possibile che fosse
un altro
falso avvistamento.
Continuò
a ripeterselo nella mente nella sua folle volata verso il posto.
Aveva una buona sensazione nel petto, che gli diceva che era lui.
Il
palazzo verso cui stava andando era certo di conoscerlo, era quasi
certo che c'entrasse lei, anche se in quel momento di urgenza gli
sfuggiva il nesso.
Corse.
E corse ancora. Corse così forte che il vento gli fischiava
nei fori
auricolari, confondendo ogni altro suono. Alla prima scaletta
antincendio che fu disponibile spiccò un salto poderoso e
l'afferrò,
issandosi su con una foga mai avuta prima.
Si
fermò alla fine, riprendendo fiato e scrutando con
attenzione
attorno. Era lì. Doveva essere lì. Don non si
sbagliava mai e
quella non doveva essere la prima volta. Non in quel momento in cui
ritrovare Raph era diventato necessario come respirare.
Di
colpo si ricordò perché quel palazzo gli fosse
familiare e si
rammentò di quando lui e gli altri avevano trovato Raphael
addormentato sotto una coperta, con una spalla fasciata, mettendosi
poi a farfugliare di una misteriosa ragazza dal bacio magico. Era il
posto in cui lei lo aveva guarito, la prima volta in cui si erano
incontrati.
Non
poteva essere un caso.
Lo
sguardo captò un movimento di fronte a sé,
dall'altra parte del
tetto.
Si
mosse per raggiungere qualsiasi cosa fosse, svelto, ma non troppo da
allarmare la figura. Non voleva essere notato prima di capire se
fosse o meno suo fratello.
Si
fermò a qualche passo, silenzioso. C'era un uomo a pochi
metri,
grosso, enorme, che gli dava la schiena. Eppure lo riconobbe.
Riconobbe il cappotto che aveva indosso quando era sparito, anche se
persino alle flebili luci capì quanto fosse sporco;
riconobbe la sua
figura enorme e la linea tonda nelle spalle che indicava il bordo del
guscio.
Era
Raphael. Lo aveva trovato.
Era
sul cornicione del tetto, barcollante,
le braccia appena spalancate, come ali timorose di aprirsi.
Il
viso era piegato verso il basso, lo sguardo incollato al marciapiede
sotto di sé, calamitato da un desiderio sul fondo dello
stomaco.
“Raphie?
Ehy, fratello” lo chiamò Michelangelo, cercando di
non far tremare
il tono, di emozione repressa e paura.
Raphael
non sembrò sorpreso di sentire la sua voce dal nulla, non
sussultò
né si meravigliò, ma sollevò appena la
testa, torcendola poi per
gettare una fugace occhiata alle sue spalle.
Sorrise,
follemente.
“Mikey”
biascicò, mangiandosi via metà del suo nome.
Così ubriaco non lo
aveva mai visto.
Si
voltò con un movimento azzardato, dondolando un po' troppo
sul
ciglio sottile che lo separava da un volo mortale di ottanta metri, e
lo guardò con ancora quel ghigno squilibrato sul viso.
Si
fissarono per interminabili secondi, Mikey che faceva mentalmente le
supposizioni di quanto ci avrebbe impiegato se si fosse tuffato verso
di lui e lo avesse afferrato per le gambe. Sarebbe riuscito ad
arrivare in tempo?
“Cosa
fai?” ridacchiò senza senso Raph. Senza aspettare
una risposta si
voltò di lato e iniziò a camminare sul cornicione
a passetti
cadenzati, barcollando un po' troppo per i gusti di Mikey, che lo
vedeva allontanarsi da sé sempre più e
così anche le chance di
salvarlo.
“Ti
stavo cercando” rispose accorato, ma la risposta
scatenò ancora di
più l'ilarità del fratello.
“Io
non ero perso.”
Sorrise
scioccamente, continuando a ciondolare di qua e di là sulla
sottile
striscia di cemento. Mikey si morsicò un labbro per non
mettersi ad
urlare.
Vedere
Raph in quello stato era straziante, era sbagliato. In
quell'instabile altalena di follia e dolore.
“Dove
sei stato allora? Cosa hai fatto?”
Si
disse che farlo parlare era la scelta migliore, che mentre lo teneva
occupato, avrebbe cercato di avvicinarsi piano piano, un millimetro
per volta, per poi lanciarsi in uno sprint finale. Allungò
le dita
dei piedi e cercò di seguire il movimento con il resto del
corpo,
senza farsi scorgere.
Raphael
strizzava appena gli occhi, provando a ricordare. Era tutto molto
confuso e non era sicuro di niente.
“Non
lo so” rispose facendo spallucce, scrollando via quel
fastidio che
provava a cercare di focalizzare.
“Ma
sì che lo sai, provaci. Sono solo curioso di sapere cosa hai
fatto e
cosa hai visto, non ci vediamo da così tanto”
incalzò Mikey col
batticuore, cercando di rendere la sua voce più tranquilla
possibile.
“Ho
camminato” farfugliò Raph incerto, raccogliendo
frammenti di
memoria. “Ho camminato tanto. E ho bevuto.”
Il
tono vagamente rilassato si adombrò di colpo, come se
qualcosa che
non avrebbe voluto ricordare lo avesse assalito all'improvviso.
Il
vero motivo per cui aveva camminato, il vero motivo per cui aveva
bevuto.
L'alcol
serviva per disinfettare e nel cercare di suturare la ferita nel suo
cuore ne aveva buttato giù a litri.
Alcol
per cancellare. Alcol per superare. Alcol per dimenticare.
Ma
lei c'era sempre, non importava quanti bicchieri bevesse, quante
bottiglie svuotasse: lei era lì ogni volta che batteva le
palpebre,
ad ogni respiro, e finché avesse vissuto ci sarebbe rimasta,
rendendolo sempre più pazzo di dolore.
Aveva
barcollato da bettola in bettola, tra sprazzi di allucinante delirio
e pochi momenti sobri, cercando di sfuggire al dolore. A volte aveva
dimenticato il suo nome anche per giorni, una volta perfino cosa
fosse, ma lei, lei non l'aveva scordata mai.
Si
fermò di colpo, il viso corrucciato in una smorfia di
dolore. Iniziò
a urlare, stringendosi la testa tra le mani, dondolando ancora
più
pericolosamente verso il vuoto.
Mikey
si lanciò in avanti di qualche passo, ma si
bloccò immediatamente
quando vide gli occhi folli del fratello spalancarsi e fissarlo con
orrore.
“Vai
via!” gli gridò contro, urlando
così forte che sentì quasi la sua voce spezzarsi
dalla foga.
“No,
Raph, ascolta: ti stanno tutti cercando, ti stiamo tutti aspettando.
Il sensei, i nostri fratelli, April e Casey e i bambini e Angel
e-”
Raph
si allontanò di un passo e il cuore di Mikey si strinse in
una morsa
dalla paura; bastava un secondo, la leggerezza di un appiglio incerto
e suo fratello si sarebbe sfracellato al suolo sotto i suoi occhi.
E
non poteva permettersi di perdere anche lui. Non ce l'avrebbe fatta a
sopportarlo.
“Andiamo
a casa. Prendi la mia mano e torniamo a casa” lo
supplicò,
allungandosi appena verso di lui.
L'altro
si mosse, non sapeva se per accettare la sua offerta o allontanarsi
ancora, né se quello che accadde fu voluto o un caso: Raph
si
sbilanciò all'indietro e un'espressione sorpresa si dipinse
sul suo
viso; in un secondo un sorriso tenue gli piegò le labbra,
gli occhi
si chiusero e le braccia si spalancarono come ali, assecondando la
sua caduta verso il nulla.
Mikey
si tuffò in avanti e senza pensarci due volte si
lanciò nel vuoto,
a volo d'angelo: Raphael cadeva a peso morto a qualche metro da lui,
ma il suo viso sembrava sereno, anche troppo. Aveva perso conoscenza.
Mikey
si contorse e si assottigliò più che
poté, per assecondare l'aria
ed annullare l'attrito e cadere più veloce di lui: forse fu
magia,
ma per un istante si sentì fuso con l'aria e quasi in potere
di
manipolarla.
Ancora
pochi istanti. Pregò di riuscire a prenderlo in tempo. Il
cuore
pompava forte il sangue nella testa, rischiando di annebbiargli la
concentrazione.
Distaccò
velocemente una mano dal corpo e si allungò verso di Raph,
tendendosi allo spasmo. I rumori cupi della strada al di sotto si
facevano sempre più forti, sempre più vicini.
La
mano tremante si chiuse finalmente sulla manica del cappotto scuro e
con un gesto secco e urgente lo attirò a sé: lo
strinse forte, più
forte che poté.
Con
uno sguardo svelto cercò di fare il punto della situazione e
mentre
ancora cadevano, senza pensare davvero, tese l'altro braccio verso il
vuoto, in cerca di un appiglio: le dita si chiusero su freddo
acciaio, il contraccolpo per il suo peso più quello del
fratello lo
fece urlare dal dolore e uno sciocco secco risuonò nella
notte. Ma
la loro caduta si era fermata.
Rimase
a penzolare per qualche secondo, nonostante lo strazio che la spalla,
probabilmente lussata, gli mandava implacabile.
Era
un dolore necessario. Gli diceva che era vivo. E che aveva preso
Raph.
Issò
faticosamente entrambi sulla scaletta antincendio che li aveva
salvati e si lasciò cadere sulla fredda grata con sollievo,
cercando
di non muovere troppo il braccio infortunato, prendendo fiato con
affanno, come se avesse corso.
Raphael
respirava penosamente nel suo abbraccio, ma era ignaro di tutto, ma
era incolume. Quella
sua aria
indifesa strideva così tanto con quello che era appena
successo che
Mikey sentì la voglia di urlare, di urlare dal fondo dei
polmoni,
per l'angoscia.
Invece
lo tenne stretto a sé, scosso da tremori impietosi. Aveva
paura.
Aveva avuto la dannata paura di perderlo.
Scoppiò
a piangere senza ritegno, stringendolo ancora più forte, via
via più
sollevato nel sentirlo vivo e reale, di averlo ritrovato. Non smise
di piangere e non lo lasciò andare, mentre aspettava
l'arrivo dei
suoi fratelli, dei suoi pilastri; uno dei quali, purtroppo, si stava
sgretolando tra le sue braccia.
Note:
Buona
notte a tutti.
Allora,
in questo capitolo si parla del Professore e due righe su di lui
bisogna spenderle: appare per la prima volta nella prima stagione,
episodio 9 “Garbageman. Lui e molti altri senzatetto vengono
rapiti
e portati in un'isola adibita a discarica e costretti dal
“Garbageman” a lavorare nei rifiuti, in una sorta
di catena di
lavoro per riciclare le cose utili e costruire un impero che non
sprechi più nulla. Detto così sembra molto bello,
ma in realtà
quell'uomo è solo un folle che li tiene lì contro
la loro volontà
e si fa obbedire con la violenza.
Quando
le turtles lo battono, i senzatetto decidono di rimanere lì
comunque, e di costruire una sorta di comune che segua le idee buone
del Garbageman, come quella di riciclare, perché la gente
butta e
spreca anche cose che possono ancora funzionare.
Il
Professore è una sorta di capo-spirituale e quindi lui che
parla per
tutti e che ha confidenza e gli incontri con le turtles, soprattutto
con Donatello.
Non
ho molto altro da aggiungere, se non che, credetemi, io sono la prima
a soffrire tanto per ciò che sta accadendo.
Vedere
Raph cadere sempre più giù, spezzato, e Mikey
confuso e
preoccupato, e gli altri che si dannano per lui, mi fa male; ma devo
confessare che questi momenti di fratellanza, di affetto palese tra
loro, li adoro con la stessa intensità.
Come
adoro voi.
Grazie
davvero di cuore,
un
enorme abbraccio
|
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Capitolo 26 *** Broken (Denial) ***
Leo
e Don si incontrarono a mezz'aria, sopra il tetto di un palazzo.
Venivano da due direzioni differenti, ma andavano entrambi verso la
stessa.
Non
si fermarono a parlare, continuarono a correre e nel frattempo si
scambiarono le informazioni, tra i respiri a denti stretti.
“Notizie
da Mikey?” domandò Leo, saltando distrattamente un
cornicione.
“No,
niente. Probabilmente era un altro falso allarme o ci avrebbe
chiamato subito” rispose Don sconsolato, appena un passo
dietro a
lui.
Entrambi
ci avevano quasi sperato, che quella fosse la volta buona. Ecco
perché si erano gettati in quella corsa, mandando Mikey in
avanscoperta per non perdere la traccia. Avevano sperato di trovare
finalmente Raph, ma a conti fatti l'aspettativa calava ogni secondo
in più che passava e ormai stavano correndo solo per
raggiungere il
fratello e farsi raccontare quale falso allarme fosse stato quella
volta.
Arrivarono
al palazzo in fretta, e si bloccarono sul tetto e si guardarono
attorno, e anche se entrambi riconobbero il luogo familiare, erano
troppo presi dal cercare freneticamente Mikey per fermarsi e lasciare
che il ricordo li sovrastasse; anche se era lì proprio
dietro agli
occhi, anche se la sua risata risuonava già nelle loro menti.
“Mikey?”
chiamò Don preoccupato, camminando intorno per cercare
qualche
traccia.
C'era
uno strano, innaturale silenzio.
“Io
lo chiamo. È strano che non ci abbia aspettato”
esclamò Leo, già
col telefonino premuto contro l'orecchio e lo sguardo d'attesa.
Un
lieve trillo conosciuto risuonò nell'aria. Donnie
affinò l'udito e
ne seguì il suono fino ad un parapetto e, convinto che
venisse da
sotto, si sporse in fuori e diede un'occhiata in basso con sguardo
attento. C'erano le luci al neon di alcuni negozi di fronte che gli
confondevano la vista e una cupa oscurità che faceva
contrasto nella
scaletta antincendio che si abbarbicava al palazzo dove si trovava:
gli parve di vedere un barlume di arancio sventolare brevemente, ma
passò in fretta e non era certo.
Ma
lo squillo proveniva proprio da lì.
Fece
un gesto verso Leo, che nel frattempo chiuse la chiamata, ed entrambi
si issarono sul cornicione, scivolando poi velocemente giù
per la
scala antincendio senza dare nell'occhio. Oltrepassarono più
di
dieci piani prima di intravvedere le due figure accasciate contro la
ringhiera del quattordicesimo piano, strette una all'altra,
apparentemente svenute.
Volarono
per gli ultimi metri che li separavano da loro, in preda al panico,
chiedendosi se non stessero semplicemente immaginando di vedere Raph.
Eppure lo vedevano entrambi, non c'era da sbagliarsi.
Michelangelo
aprì gli occhi quando atterrarono sulla piattaforma, in
stato semi-
confusionale: un braccio era inerme contro il suo corpo, l'altro
stringeva il fratello ritrovato a sé con tanta disperazione
da fare
pietà. Sia Don che Leo fecero finta di non aver visto i
segni di
pianto sul suo viso, per non metterlo a disagio.
Mikey
scrollò la testa e al vederli un sorriso di speranza gli
illuminò
il viso. Lesse nei loro tutte le domande che si stavano facendo e
schiarì appena la voce, prima di parlare.
Sembrava
trattenere una grande sofferenza.
“L'ho
trovato che camminava sul cornicione. Ho provato a parlarci, ma non
era propriamente in sé e... è caduto, e l'ho
preso al volo.”
“È
caduto?” domandò sottilmente Leonardo, a cui non
era sfuggita
l'esitazione del fratello.
Mikey
rabbrividì e sussultò, strizzando gli occhi per
il dolore della
ferita.
“Non
sono sicuro” confessò con un sussurro tetro,
abbassando il capo.
“Mikey,
la tua spalla” esclamò Don, avvicinandosi per
esaminare il bozzo
nella parte sinistra del suo corpo. “È
lussata.”
“Controlla
prima lui, Donnie. Non credo che stia bene.”
Il
genio esaminò in fretta Raphael, ma con precisione: battito,
cornea,
reazioni. Non gli sfuggì nulla.
“Beh,
almeno non è disidratato. Deve aver bevuto tutto l'alcool
del nord
America” sospirò sconsolato alla fine.
“È svenuto per ora, ma
non credo abbia altro.”
“Ce
la fai a camminare, Mikey? Torniamo al rifugio. Don ti
rimetterà a
posto e ci occuperemo tutti di Raph. E il sensei sarà felice
di
sapere che l'abbiamo trovato.”
Il
fratello annuì piano, ma sembrò difficile per lui
lasciare andare
Raph. Allentò la presa lentamente e permise a Leo di
prenderlo in
braccio, saldamente. Don aiutò invece Mikey, fornendogli
supporto
dalla parte sana, aiutandolo ad alzarsi e poi sorreggendolo mentre
iniziavano a camminare piano.
Il
ritorno fu lento e difficoltoso, Don cercava di non forzare
l'andatura per non provocare ulteriore dolore al povero Michelangelo,
che resisteva stoicamente, mentre Leo era rallentato dal peso di
Raphael.
Nessuno
osò parlare, c'erano troppa angoscia e pena a serrare le
labbra. Gli
occhi scivolavano spesso sul volto di Raph, cercando di leggere cosa
avesse passato nelle pieghe del viso, tra le piccole rughe di dolore
che prima non c'erano, sotto lo strato scuro di stanchezza
accumulata; ma distoglievano sempre lo sguardo, incapaci di fissarlo
troppo a lungo per non soccombere al senso di tristezza e strazio che
li assaliva.
Avevano
Raph, sì, ma a che prezzo? Era poi davvero sano e salvo?
Arrivarono
al rifugio quasi un'ora dopo, stanchi e provati come poche altre
volte, schiacciati da preoccupazioni che il sollievo non riusciva a
sollevare.
Quando
le porte dell'ascensore si aprirono, un paio di occhi scuri li
accolse, in attesa.
Sembrava
quasi che Splinter sapesse già che stavano arrivando; non
c'era
sorpresa nel vederli, né nel scorgere Raphael con loro, come
se
avesse già sentito la sua presenza avvicinarsi prima ancora
di
sapere.
Loro
misero piede nel rifugio e lui si fece loro incontro, i vecchi occhi
a scrutarli uno per uno, pieni di sofferenza, nel vedere la ferita di
Michelangelo, nel vedere quanto stanchi fossero, quanto persi
fossero, i suoi figli.
Poggiò
una mano sulla testa di Raphael, con amore, ma la ritrasse quasi
immediatamente, e l'espressione sofferta sul suo viso crebbe,
mescolata a una grande preoccupazione.
Nel
delirio onirico e alcolico in cui suo figlio era sprofondato, persino
in quello stato, era riuscito a sentire il suo tormento e lo
smarrimento il cui versava, un dolore così grande da
confonderlo; il
suo spirito era spezzato e fragile, impossibile da avvicinare.
Con
un cupo gesto fece segno a Leonardo di andare dietro i suoi fratelli,
che intanto si stavano avvicinando al laboratorio: la spalla di Mikey
sarebbe stata rilocata nella sua giusta posizione e poi il braccio
sarebbe stato fasciato per impedirgli di muoverlo per almeno una
settimana.
Per
Raph, Donnie non sapeva ancora cosa avrebbe dovuto o potuto fare. A
parte l'evidente tasso alcolico in cui sguazzava, non sembrava aver
nient'altro che avrebbe potuto curare.
Non
sapeva come curare un cuore che soffriva, non lo aveva studiato.
Dopo
aver aiutato Mikey, si avvicinò alla barella in cui il Leo
lo aveva
poggiato e con occhio clinico studiò il volto tirato e le
sopracciglia corrucciate anche nell'incoscienza; la pelle verde che
poteva vedere era sporca e chiazzata e il lurido cappotto emanava un
forte odore di alcol e qualcos'altro di rancido che non voleva
davvero sapere cosa fosse.
Con
fatica iniziò a togliergli l'indumento poi, con una
bacinella e una
spugna, deterse il suo viso e le parti scoperte, sotto lo sguardo
attento di Leo che non si era allontanato, ma non era nemmeno
intervenuto, assorto in chissà quali pensieri.
Mikey
respirava pesantemente per il dolore, seduto sulla sedia, ma nemmeno
il suo sguardo aveva mai lasciato il fratello.
Ci
fu un istante in cui i tre si osservarono inquieti, prima di
riportare gli occhi su Raphael.
Non
c'era niente da fare per loro, se non attendere.
Ancora.
Il
mondo girava, vorticava e si ribaltava costantemente.
Riusciva
a sentirlo anche ad occhi chiusi, oltre il sapore di birra e vomito
incollato al palato e all'emicrania pulsante che stringeva la sua
testa; lo sentiva e gli dava la nausea.
Sotto
le dita sentì qualcosa di morbido e in uno sprazzo di
lucidità si
chiese dove diavolo si fosse accasciato quella volta. Un mucchio di
sacchi della spazzatura, probabilmente.
Aprì
piano e faticosamente le palpebre, strizzandole più volte
per la
luce.
No.
Oh no.
Si
tirò su di scatto e si guardò freneticamente
attorno, ignorando il
capogiro e la voglia di rimettere che l'aveva assalito: il suo
sguardo atterrito corse intorno, sulle attrezzature mediche e
meccaniche e lui non doveva essere lì. Perché era
lì?
Captò
la figura di Mikey con la coda dell'occhio, in silenzio su una sedia
a fissarlo senza osare muoversi o parlare, come un cacciatore
timoroso di spaventare un tenero cerbiatto.
Non
stava nemmeno respirando.
Come
un flusso doloroso, un insieme di ricordi lo investì e in un
attimo
ricordò cosa era successo. Non tutto, nemmeno lui avrebbe
potuto
ricordare tutto, l'alcol nel suo corpo aveva parlato e agito per la
maggior parte del tempo, ma si rammentò l'essenziale:
l'arrivo di
Michelangelo, il suo tentativo di portarlo a casa e la caduta nel
nulla.
Caduta?
Era davvero stata una caduta?
Il
suo respiro era accelerato e impanicato, mentre tutto quello, e lei,
ricadevano sulle sue spalle. Nel suo cuore. Un dolore così
forte da
impedirgli di respirare appieno, di pensare appieno, di poter fare
qualsiasi cosa che non fosse morire lentamente anche lui.
Doveva
andare via.
Si
gettò giù dal letto e le gambe traballarono solo
un poco su quella
maledetta terra che non voleva smettere di vorticare, ma lui se ne
fregava e aggrappandosi a qualunque cosa finché non fosse
stato
stabile, iniziò a guadagnare terreno verso la porta.
“Raph!
No, aspetta!” urlò Mikey andandogli dietro,
stringendo i denti per
il dolore.
Raphael
riuscì a sgusciare oltre la porta prima che il fratello
potesse
prenderlo e fece per correre verso l'entrata del rifugio, bloccandosi
dopo pochi passi nel vedere Leonardo ritto e silente lì
davanti, con
l'espressione seria e irremovibile.
“Fammi
uscire” gracchiò rauco Raphael, ignorando la sua
gola in fiamme.
Donatello
apparve nel suo campo visivo, trafelato e con un'espressione
preoccupata. Notò solo in quel momento che nessuno dei suoi
fratelli
aveva la maschera e che tutti avevano un'aria stanca e profonde
occhiaie scure.
E
la cosa non lo faceva sentire affatto meglio. Ma, scoprì,
non gli
faceva sentire nulla. Non gli importava e quello era ben più
grave,
in fin dei conti.
Lui
voleva solo andare via. Più lontano possibile, lontano da
lì,
lontano dai ricordi di lei.
Mosse
ancora qualche passo verso l'entrata, ma Leo scosse la testa
lentamente, come a dirgli di non provarci nemmeno.
Dolore.
Dolore e panico. Dolore, panico e un po' di rabbia.
Il
respiro sempre più veloce e corto, mentre lo sguardo correva
freneticamente attorno, in cerca di una via d'uscita.
“Raph,
ti prego, non stai bene! Lascia che ti...”
La
mano di Don lo toccò, lo afferrò per un braccio,
ma lui lo scostò
con un brusco strattone, allontanandosi da lui.
Il
suo sguardo preoccupato e ferito non gli disse niente, non gli
trasmise nessuna emozione.
E
poi ne sentì su di sé un altro, all'apparenza
calmo, ma guardingo e
spesso.
Il
maestro era sulla porta del dojo, attento ad ogni sua mossa,
comprensivo e ferito quanto gli altri.
Si
sentì ancora più in trappola, era circondato,
erano tutti lì, non
lo avrebbe lasciato andare via, non gli avrebbero permesso di
scappare ancora. Da sé stesso e dal dolore.
Girò
in tondo per qualche istante ancora, poi scartò verso la
scala per
il piano superiore e ci si arrampicò come un invasato,
arrivando al
pianerottolo in pochi istanti: corse verso la sua stanza, ci si
tuffò
dentro e sbatté la porta dietro di sé,
così forte che sussultarono
tutti all'unisono.
Il
suono di qualcosa che strisciava disperatamente contro il legno della
porta arrivò alle loro orecchie, spezzando ancora di
più i loro
cuori.
Poi,
silenzio e confusione.
Groppo
in gola che faticava a scendere e sguardo smarrito su ognuno di loro.
Un sospiro pesante, pesante come la morte.
Leo
fece solo un gesto con la testa a Don, e quello lo seguì
all'istante, verso la scaletta, verso loro fratello.
La
segregazione volontaria di Raphael non durò molto. Dopo aver
provato
in tutti i modi a convincerlo ad aprire la porta con le parole,
gentili, disperate e preoccupate, si erano risolti ad usare la forza,
nel timore che si lasciasse morire lì dentro di inedia: Don
scardinò
la porta con pazienza, una sera, mentre Leo supervisionava, all'erta
nel caso in cui Raph decidesse di provare a scappare.
Se
la gentilezza non arrivava al cuore malato di Raph, allora si
sarebbero fatti strada con la forza.
Ma
la belva all'interno non si lasciò domare solo
perché il suo
rifugio era stato violato.
Raph
si batté e si batté con tutta la disperazione che
lo riempiva per
non lasciarsi trascinare via. E li cacciò e si
rannicchiò
nell'angolo più buio e lontano della sua tana.
Non
importava quante volte provassero a parlare con lui, quante volte
avessero provato ad abbracciarlo, a farlo mangiare, a farlo bere,
Raphael non ascoltava nessuno e non voleva niente, se non essere
lasciato in pace. In pace nel dolore.
Passarono
i giorni, in quel clima teso e straziante.
Arrivarono
chiamate, di April e Casey, da Angel e Steve, sollevati nel sentire
che finalmente Raphael era stato trovato ed era al sicuro, ma
sconvolti nel sentire le ultime: si offrirono di raggiungerli per
aiutarli e vedere coi loro occhi come stesse e dare il loro supporto,
ma i mutanti si videro costretti a rifiutare, almeno per il momento.
Era
meglio lasciare a Raphael lo spazio e il tempo per aprirsi e sapevano
già che non sarebbe stato facile, e sapevano che avere
ancora più
gente attorno sarebbe stato controproducente.
Perciò
ringraziarono e rifiutarono. E promisero che avrebbero tenuto tutti
informati sugli sviluppi e ringraziarono ancora per il loro aiuto nel
cercarlo, per tutto l'impegno.
Si
rendevano conto di sembrare in qualche modo ingrati e di starli
escludendo, come se non fossero parte della famiglia, ma nessuno come
loro conosceva e sapeva come trattare Raphael, loro che c'erano
cresciuti assieme e conoscevano ogni sfumatura del suo carattere.
Fu
una gara di pazienza. Ancora e ancora.
Fu
una gara di resistenza. Di urla a muso duro e tentativi e lotte
disperate, ancora e ancora.
Donatello
uscì una sera dalla stanza di Raphael, strofinando la tuta
con
stizza, togliendo quelle che sembravano grandi macchie di spinaci.
Si
accorse solo dopo qualche momento della presenza di Michelangelo,
ormai completamente guarito, che aspettava fuori dalla porta, teso.
“Com'è
andata?” domandò con tono basso e preoccupato.
Niente più di un
sibilo asciutto.
“Come
sempre. Non ha toccato nemmeno un goccio d'acqua o cibo e non dorme
da non so quanto. Sta rannicchiato in un angolo, con gli occhi
spalancati nel buio, senza parlare. Ma se provo ad avvicinarmi per
dargli da mangiare scatta come una furia, distruggendo tutto
ciò che
gli capita sotto mano e si ferisce e... Dovrò sedarlo,
almeno
riuscirò a nutrirlo tramite flebo” rispose cupo
Donnie, spazzando
ancora la tuta distrattamente. Poi, si allontanò verso il
laboratorio, con passo lento e sconsolato.
Mikey
rimase a guardare la porta, con l'amaro in bocca. Raphael era al di
là, solo e distrutto.
Cosa
diamine poteva fare?
Aprì
lentamente e strizzò gli occhi, cercando di abituarsi in
fretta alla
penombra: tutto era attorniato da una soffusa oscurità, che
inghiottiva ogni cosa, come se fosse un buco nero. Con la luce che
entrava dalle sue spalle riuscì a intravvedere il contorno
del letto
e del comodino; lo sguardo vagò sull'enorme
quantità di oggetti
sparsi sul pavimento, pesi, un guantone, il sacco adagiato su un
fianco e vuoto, con la sabbia sparsa disordinatamente tutto intorno.
Infine
lo vide: una figura rannicchiata nell'angolo, che stringeva le gambe
con le braccia tanto forte che i muscoli erano perennemente tesi. La
testa era nascosta tra le ginocchia, forse per via della luce.
“Raph?”
chiamò titubante, accostando appena l'uscio, per far
sì che potesse
vedere, ma che non gli desse fastidio.
Lo
vide muoversi appena, poi lo scintillio fugace di due occhi, che lo
fissavano dalla semi oscurità.
Camminò
lentamente verso di lui, calpestando praticamente ogni cosa; infine
si inchinò, quietamente, per non spaventarlo.
“Ciao,
fratello” mormorò a disagio, conscio solo a
metà di ciò che
stava facendo. Aveva paura. L'aura che Raph emanava era così
spessa
e graffiante da poter essere percepita anche a quella distanza.
Avrebbe
potuto saltargli alla gola o trafiggersi con un'arma, in un secondo
di pazzia. Fortunatamente Don gli aveva sequestrato i Sai e tolto
ogni oggetto letale dalla stanza, pensò, spostando
lentamente i
Nunchaku verso la schiena.
Gli
occhi continuavano a fissarlo, fermi e spenti. Gli davano i brividi.
“Don
dice che non vuoi mangiare. Sai che non ti fa bene?”
domandò
preoccupato.
Raph
non rispose. Ovviamente, che cosa si era aspettato? Che solo
perché
lui aveva deciso di andare a parlargli improvvisamente suo fratello
decidesse di reagire? Che idiozia. Nessuno in quella casa poteva
dargli una smossa, nemmeno il sensei, che pure ci aveva provato e
riprovato fino allo sfinimento. Solo Isabel sapeva arrivare al cuore
di Raph, ma era proprio per la sua perdita che lui soffriva.
Ma
non si sarebbe arreso lo stesso.
“Siamo
tutti molto preoccupati, lo sai? Abbiamo tanta paura di perderti...
io ho paura di perderti” confessò straziato, non
sapendo che altro
fare.
Udì
un sospiro e gli occhi scomparvero, nascosti di nuovo nel rifugio tra
le ginocchia.
“Vai
via, Michelangelo” sentì dire, con una voce fredda
e roca.
Il
suo labbro tremolò. Michelangelo. Raph non lo chiamava mai
col suo
nome completo. Sempre Mike o Mikey, in genere il secondo, anche
quando era arrabbiato. Perché usando il suo diminutivo
trasmetteva
il suo affetto, anche se non apertamente.
Provò
ad impuntarsi, anche se la voce gli tremava.
“No!
Rimarrò qui con te, anche se vuol dire stare al buio e non
mangiare,
finché tu non lo fara-”
“VAI
VIA!” urlò Raph, sollevando la testa, con gli
occhi che
scintillavano di rabbia.
Lo
vide scattare e indietreggiò, istintivamente. Lo avrebbe
colpito?
La
luce della stanza si accese ed entrambi strizzarono gli occhi, mentre
Raph ritornava a nascondersi, con ancora più veemenza.
“Mikey,
per favore, esci” sentirono la voce di Leo, dalla porta, con
calma.
Michelangelo
non se lo fece ripetere due volte, si alzò e si diresse
verso
l'uscita, evitando di pestare gli oggetti a terra, poi si
voltò, per
dare un'ultima occhiata al fratello, lì dove lo aveva
lasciato:
Raphael era un ammasso informe di arti avvinghiati spasmodicamente
tra loro, che odiava la luce e loro che erano entrati nel suo buio
dolore, di prepotenza.
La
mano di Leo si poggiò sulla sua spalla, richiamando la sua
attenzione: gli fece un cenno verso la porta, con un veloce
stiramento di labbra per rassicurarlo. Uscì di fretta,
chiudendosi
la porta dietro, con ansia.
Leo
rimase fermo. Ritto e immobile ad osservare Raph. Incrociò
le
braccia al petto, con un sospiro angoscioso.
“Stavi
per colpire Mikey?” chiese, nel silenzio greve che attorniava
entrambi.
Raph
non rispose e non si mosse, come se non lo avesse sentito. Come se
non fosse nemmeno lì.
“Non
puoi continuare così! Reagisci maledizione!” gli
urlò contro,
perdendo la calma.
Raphael
sollevò appena la testa e poté scorgere gli occhi
incavati e
foschi.
“Vattene.”
Una
sola parola, come diamine poteva essere così dannatamente
fredda da
gelargli il cuore? E tuttavia così fastidiosa da fargli
salire il
sangue al cervello?
“Così
potrai continuare a crogiolarti nel tuo dolore, facendo la
vittima?”
sputò con rancore, incurante del tremolio che scuoteva le
sue
spalle.
“VAI
FUORI!” strillò ormai fuori controllo Raph,
sollevando la testa e
il busto, nello scatto d'ira.
Finalmente
riuscì a guardarlo in viso, a vedere le profonde occhiaie
che
cerchiavano gli occhi tetri e vuoti. E lui vide le sue, identiche.
Anche se a lui mancava l'aria malaticcia, disidratata e incavata del
fratello.
“Se
vuoi che me ne vada devi buttarmi fuori di peso... se ci
riesci, ovviamente” ribatté con un ghigno cinico.
Raph
lo guardò con odio, dal pavimento, stringendo le mani a
pugno.
“Lasciami
in pace! Vai via, vattene!” ripeté, con un tono di
voce sempre più
alto, sempre più roco.
“Isabel
non avrebbe voluto che ti riducessi così”
soffiò fuori Leo, in
risposta.
Raphael
spalancò gli occhi, inorridito. Si alzò, anche
sin troppo
velocemente per uno con quella sfumatura sul viso e gli si
accostò
d'improvviso.
Lo
afferrò per il colletto e Leo sentì il suo odore
rancido di sudore
rappreso, di chiuso e muffa. Di morte.
“Non
pronunciare mai più il suo nome!” gridò
fuori di sé, alzando il
braccio per colpirlo. Ma si fermò, con la mano stretta a
pugno che
tremava.
“Perché?
Pensi che solo perché era la tua ragazza, tu abbia
l'esclusiva su lei
e il dolore della sua perdita?” rispose Leo beffardamente.
Il
pugno lo colpì in pieno viso, con uno scricchiolio cupo
nella parte
del naso.
“Tu
non sai niente! Stai zitto! Non sai niente!”
Ad
ogni parola Leo ricevette un pugno, su ogni parte in cui il fratello
riuscì ad arrivare. Passò il dorso della mano
sulla bocca, poi
sputò a terra il sangue misto alla saliva. Raphael doveva
avergli
spaccato qualche dente.
“Io
l'ho amata quanto te! Solo perché lei ha preferito te non
significa
che tu sia il solo a soffrire!” rispose accorato, senza
provare
nemmeno a contrattaccare.
Raph
ringhiava, barcollando sulle gambe malferme.
“Stai
zitto! Zitto! Zitto!”
Un
calcio colpì Leonardo in pieno petto, mozzandogli il
respiro,
spingendolo all'indietro, contro il muro. Raph si avvicinava
minaccioso, digrignando i denti, con gli occhi spiritati.
L'avrebbe
di sicuro ucciso.
“Non
manca solo a te! Non sei il solo che sta soffrendo! Mikey piange da
solo, la notte. Donnie cerca di trattenere le lacrime ogni volta che
legge distrattamente uno dei suoi appunti lasciati nel laboratorio,
con la sua bella calligrafia ordinata. Il sensei piange in silenzio
nel dojo, durante la meditazione. Io non riesco più a
trovare una
ragione per cui dovrei continuare a uscire là fuori e
salvare la
gente... non mi frega più di niente. Niente ha
senso.”
Un
nuovo pugno lo colpì alla mascella, facendogli chiudere gli
occhi
dal dolore per qualche secondo. Provò a muovere la mandibola
e si
accorse che cigolava, sinistramente.
“Chiudi
quella cazzo di bocca! Non sai niente! Non sapete niente! Lei
è...
solo mia!” urlò Raph, con già il pugno
pronto per un nuovo
attacco.
Ma
il colpo improvviso di Leo lo prese in pieno volto, prima ancora che
potesse muoversi. Indietreggiò, con un ringhio di sorpresa e
dolore,
impallidendo un poco.
“Lei
era. È
morta,
Raph. E non c'è niente che possa cambiare la
realtà!” asserì,
secco e asciutto.
Raphael
lo guardò, livido di rabbia, poi notò le lacrime
che scendevano dai
suoi occhi, quiete. Le osservò scendere lungo le sue guance,
per poi
staccarsi dal mento e cadere giù, sul pavimento della sua
camera. In
silenzio. Solo il gocciolio delle lacrime.
Con
un tremore impietoso, Raphael si lasciò cadere in ginocchio,
stanco.
“Lei
è tutto. Lei è tutta la
mia felicità. Tutto il mio senno, tutto il mio senso. È-
è- era...”
Tutto
divenne nero e si accasciò
su sé stesso, il resto della frase impigliato alle labbra,
ma non
ancora ammesso.
“Ti
dico che stavano urlando fino a qualche istante fa! Ho paura che Raph
possa averlo ucciso!” strillò Mikey a Don,
ascoltando con
apprensione il silenzio che proveniva dalla camera.
Era
rimasto lì fuori, dopo che Leo lo aveva invitato ad uscire,
curioso
di sapere cosa diamine avesse intenzione di fare. Poi lo avevano
raggiunto urla disumane, che urlavano cose che non riusciva a capire
e gridi di dolore; era corso immediatamente a chiamare Don,
allarmato, ma quando erano tornati indietro c'era solo il silenzio.
“Non
credo che Leo sia qui. Te lo sei sognato. Non sta meglio di lui, sai?
Non si avvicinerebbe mai a Raph” affermò il genio,
preoccupato.
“E
invece ti dico che c'era, lui è...”
La
porta della camera si aprì, ammutolendoli. Scrutarono verso
l'uscio,
attoniti. Leo varcò la soglia, tenendo Raph svenuto tra le
braccia.
“Ha
perso i sensi, Donnie. È
troppo debole” dichiarò semplicemente,
porgendoglielo. Don lo prese
in braccio e si accorse all'istante che aveva perso decisamente peso.
Mikey
osservò sconvolto il volto tirato del fratello.
“L'hai
colpito?” domandò inorridito, notando la
spaccatura sul labbro di
Raph, causata dal suo pugno.
Leo
gli rivolse una veloce occhiata, in silenzio. Mikey tremò
sotto
quello sguardo insolitamente glaciale, ma non avrebbe certo lasciato
perdere.
“Come
hai potuto! Lui... lui sta soffrendo, più di noi!
Perché non riesci
a capirlo? Era la sua ragazza! La amava, lui-”
“Mikey!”
lo rimproverò Don, severo e asciutto.
Il
piccolo di casa spalancò gli occhi, sorpreso dal suo tono,
poi
osservò quelli di Donnie che gli intimavano di chiudere la
bocca.
Con un veloce dietrofront il genio corse verso il laboratorio con
Raph in braccio, per poterlo attaccare alla flebo e rimetterlo in
salute.
Mikey
rimase in silenzio vicino a Leo, in imbarazzo.
Ma
come sempre, doveva chiedere, doveva sapere.
“Prima...
ehm, possibile che Donnie mi abbia ripreso perché
tu...” iniziò
titubante, grattandosi il collo a disagio.
Leo
si voltò, dandogli la sua attenzione.
“Eri
ancora innamorato di lei?” finì Mikey, a disagio.
Un
lampo cupo attraversò per un momento gli occhi di Leo. Un
breve
momento, ma intenso.
“No,
Mikey” negò il leader, incamminandosi verso il
bordo del
pianerottolo.
“Non
ero ancora innamorato di lei” concluse,
gettandosi verso
il piano terra, senza guardarlo in viso.
Note:
Buon sabato
a tutti.
Raphael
è in piena fase di
negazione, poverino.
Mi sono
ispirata alle cinque
fasi dell'elaborazione del lutto: Negazione, rabbia, patteggiamento,
depressione e accettazione.
https://it.wikipedia.org/wiki/Elisabeth_K%C3%BCbler_Ross
abbraccio
fortissimo,
|
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Capitolo 27 *** She promised (Rage) ***
Donatello
si lasciò cadere
sulla sedia con un sospiro stanco, passando una mano sugli occhi. Non
ricordava nemmeno da quanto non dormisse, ma dovevano essere
all'incirca tre giorni, ora più ora meno. Le ultime cinque ore
le aveva
passate a visitare e sorvegliare Raphael, al meglio che poteva: aveva
registrato i suoi valori e lo aveva attaccato alla flebo, ne aveva
cambiato addirittura due, la sua disidratazione era preoccupante, e
aveva controllato che non avesse riportato danni dal colpo di
Leonardo.
Raph stava bene quanto potesse
esserlo una persona che stesse annegando nel dolore. Apparentemente
sana, ma in realtà irrimediabilmente spezzata.
E
nonostante immaginasse quanto
stesse male, non biasimava Leo per averlo colpito; in realtà
ipotizzava perfettamente come dovesse essersi svolto il discorso tra
i due e quello che aveva fatto Leo era quello che serviva a Raph: un
duro scontro con la realtà, in cui vivevano anche loro, in
cui
soffrivano anche loro, per ricordargli che erano lì con lui.
Per
lui.
Sperò che quel pugno avesse
frantumato la fase di negazione, oltre il suo labbro, o sarebbe stata
dura al suo risveglio.
Anche se non voleva pensare a
quanto le altre fasi del dolore potessero essere difficili, per lui e
per loro.
Si
rialzò e si stiracchiò con
un grande sbadiglio, poi si avvicinò a piccoli passi alla
barella di
fortuna, cercando di scuotere via il sonno.
Avrebbe dovuto farsi dare il
cambio da Mikey o Leo e riposare almeno un paio d'ore prima del
cambio della flebo, ma preferiva non dare loro fastidio. Leo stava
cercando di rimanere integro nel dolore e Mikey forse si era
risentito per la sua uscita.
Si appuntò mentalmente di
chiedere scusa al suo fratellino, non appena avesse avuto un attimo
di tempo; non era colpa sua se la sua ingenuità non gli
faceva
vedere le cose.
Come lo sguardo ferito del
leader al sentirsi dire che non poteva capire il dolore di Raph.
Poteva eccome. Ma doveva
rimanere a galla per tutti e soprattutto per Raph.
Prese il
polso del fratello e
occhieggiò a fatica l'orologio al proprio, contando i
battiti per
appuntare qualsiasi variazione nel suo stato di salute.
Con apprensione, si accorse di
una lieve tachicardia che andava accelerando.
C'era qualcosa che non andava.
Raph spalancò gli occhi di
colpo, spaventato e sorpreso allo stesso tempo. Li ruotò in
fretta
per controllarsi attorno e non appena lo vide digrignò i
denti e si
adombrò.
“È
tutto ok, Raph! Sto-”
Ma il fratello reagì come aveva
previsto e si alzò di scatto a sedere, allontanandolo con
mani
ferme, nonostante il pallore del suo viso.
Don fece
del suo meglio per
provare a calmarlo. Provò a guidarlo di nuovo docilmente in
posizione sdraiata, parlando quietamente per resistere la sua
reticenza, ma Raphael si dimenava sempre più violentemente,
cercando
di allontanarlo e scendere, con foga.
“Lasciami
! Lasciami andare!”
urlava a più riprese, via via più arrabbiato.
Donatello
non voleva pressarlo o
turbarlo più del dovuto, ma non ce l'avrebbe fatta con la
gentilezza: lo afferrò saldamente per le braccia e lo
costrinse a
fermarsi, di forza.
“Devi
calmarti. Non voglio che
ti faccia male” sussurrò accorato.
Ma le parole non arrivavano a
Raphael, come non lo sfiorava la ragione.
Scattò violentemente in avanti
e colpì dritto sulla sua faccia con una testata, dura e
brusca, che
risuonò secca nel silenzio: Don venne sbalzato all'indietro,
la
vista confusa e un pressante dolore all'altezza del naso che gli
impediva di respirare appieno.
Cadde a
terra, senza un lamento.
Raph balzò giù dalla brandina senza nemmeno
guardarlo, incurante di
cosa gli avesse fatto, e si strappò dal braccio l'ago a
farfalla con
un solo gesto, indifferente: un esiguo fiotto di sangue
zampillò dal
foro, prima che lui ci mettesse la mano sopra per bloccarlo. A
piccoli passi uscì dal laboratorio, senza guardarsi indietro.
Leonardo
sentiva che qualcosa
non andava. Forse era il dolore, forse solo la sua naturale
inclinazione a preoccuparsi. Forse entrambe le cose o forse il vuoto
che lo riempiva.
Sentiva che c'era qualcosa che
dovesse fare.
Eppure tutto ciò che voleva era
urlare, urlare dal fondo dei polmoni finché non gli fosse
andata via
la voce. E forse, allora sarebbe andato via anche un po' del dolore.
Ma poi, si ricordò, forse ciò
che doveva fare era solo andare da Don per controllare come stesse
Raph e magari dargli il cambio, anche se non avrebbe mai voluto
essere lì quando suo fratello si fosse risvegliato.
Doverlo
combattere, nonostante
sapesse quello che stesse passando, lo faceva sentire male, lo faceva
sentire cattivo. Perché sì, stavano tutti
soffrendo, ovviamente, ma
per Raphael era
peggio.
Perché Raphael stava
praticamente morendo poco a poco, lo sapeva.
Perché
Raphael era sempre stato così insicuro e fragile sotto la
sua
corazza di rabbia e Isabel aveva guarito quelle insicurezze,
riempiendo ogni suo pensiero, diventando il centro del suo mondo. E
alla fine quel mondo aveva tremato sotto i suoi piedi e si era
distrutto, trascinandolo giù con sé.
Uscì
dalla sua stanza,
irrequieto, ma comunque deciso a fare ciò che doveva.
Si accorse che qualcosa non
andava già mentre si trovava vicino al laghetto. C'era un
odore
familiare nell'aria, leggero e quasi impercettibile, ma lo aveva
sentito troppe volte nella sua vita per non riconoscerlo.
Sangue.
Notò le piccole gocce rosse e
sfrangiate fuori del laboratorio che gli diedero ragione e l'ansia si
impadronì di lui e sfrecciò verso la porta in
pochi secondi: Don
era a terra in stato di incoscienza, il viso tumefatto e striato da
strisce di sangue.
“Donnie!”
Accorse in
suo aiuto, muovendolo
piano una volta inchinatosi al suo fianco e chiamando il suo nome. Si
era già accorto dell'assenza di Raph, ma risvegliare il
genio e
controllare come stesse in quel momento era più importante.
Donatello strizzò appena le
palpebre, con un mugugno sofferto. Quando aprì gli occhi
scuri e
vide Leo che lo guardava con preoccupazione, lasciò andare
un
sospiro, aggrottando le sopracciglia.
“Lo
sapevo, che non dovevo
abbassare la guardia” esalò forzatamente, la voce
un po' nasale a
causa del colpo. Il suo setto nasale doveva essersi rotto.
Leonardo lo
aiutò a mettersi
seduto e controllò come stesse, per quanto le sue competenze
mediche
lo permettessero, ma Don lo spinse via con garbo e fermezza,
guardandolo con stupore per il suo comportamento.
“Dobbiamo
trovarlo! Raph è in
piena fase di rabbia. Rabbia verso sé stesso e rabbia verso
il
mondo. Dio solo sa cosa potrebbe fare in questo momento o cosa stia
già facendo. Dobbiamo trovarlo prima che sia
tardi!”
Leo aprì la bocca per
ribattere, ma non ne uscì un suono, in preda ad
un'illuminazione.
Parlò solo dopo qualche altro secondo, trasfigurato.
“Tu
rimani qua. Avverto Mikey
di darti una mano. Andrò io a cercare Raph.”
Si
alzò prima che il fratello
avesse modo di ribattere e aprì la porta del laboratorio,
rivolgendo
il viso verso l'alto.
“Michelangelo!”
urlò con
tutta la forza. La sua voce riecheggiò nell'ampio spazio,
fino a
raggiungere il primo piano.
Mikey emerse in fretta dalla sua
stanza e anche il sensei si affacciò dal dojo dopo pochi
istanti,
con il viso preoccupato quanto quello del figlio più piccolo.
“Don
è ferito, portagli del
ghiaccio” disse, mentre il fratello scendeva velocemente. Poi
si
rivolse verso il maestro, deferente. “Raphael è
scappato ancora.
Vado a cercarlo.”
“Raph
è- vengo anche io” si
intromise Mikey, fermandosi vicino a lui.
“No,
io... penso di sapere
dove sia. Resta qui con Don e fai quello che ti dice per aiutarlo con
la sua ferita.”
Leonardo
iniziò ad incamminarsi
verso l'ascensore, senza aggiungere altro.
“Leo”
lo raggiunse la voce
di Michelangelo, spezzando il suo ritmo. C'era una nota di pena nel
fondo.
“Sì?”
rispose senza
voltarsi.
“Mi...
dispiace. Mi dispiace
tanto per prima.”
Nel silenzio, Splinter osservava
i suoi figli con orgoglio misto al dolore. Leonardo voltò
appena la
testa, e mandò un sorriso mite verso suo fratello.
“Non
devi, va tutto bene.”
Ed entrambi sapevano che in
realtà niente andava bene e saperlo era già
qualcosa. La
consapevolezza di esserci ed essere assieme però li rendeva
più
forti.
Entrò
nell'ascensore e vide suo
fratello e suo padre andare verso il laboratorio, mentre le porte si
richiudevano.
Nella salita, pregò solo di
aver davvero capito dove fosse Raph. Era scattato qualcosa nel suo
cuore e quel qualcosa gli aveva detto dove nell'infinito mondo
Raphael potesse trovarsi in quel momento di rabbia, l'unico posto
dove potesse desiderare di essere.
Quando emerse nell'ampio e
grigio garage e vide che la moto di Raphael non c'era, seppe di avere
ragione. Salì in fretta nel furgone e girò la
chiave già nel
quadro con premura, tambureggiando sul volante per l'agitazione.
Raph era in vantaggio e lui
avrebbe dovuto guidare velocemente per riuscire a raggiungerlo.
Uscì
con uno stridore di gomme
e si gettò nella strada a velocità moderata,
stando però ben
attento a non superare i limiti: guidò digrignando i denti
finché
non fu all'uscita della città e non imboccò la
I-95, accelerando,
finalmente.
Nelle due ore e mezzo di viaggio
che affrontò, solitarie, Leo non poté che pensare
e ripensare a
Raph, con un pressante magone sullo stomaco. E forse, era anche per
il timore di stare andando da lei, sempre più vicino.
Una fitta, fitta pioggia lo
accolse, al suo arrivo a Northampton.
Attraversò
la piccola cittadina
avvolta ancora nel buio della notte, le ore appena prima dell'alba,
solitaria e quieta come New York non era mai. Si diresse verso
l'ampia campagna, col rumore dei tergicristalli in sottofondo a
spezzare il ticchettio della pioggia.
I fari illuminavano un metro di
strada e il denso muro d'acqua che gli cadeva addosso dal cielo,
dritto di fronte a sé; il resto erano solo ombre confuse,
alberi,
alberi e vegetazione.
Imboccò la stradina stretta e
dissestata e aguzzò lo sguardo in cerca di qualunque segno
potesse
indicargli la presenza di Raphael; se ce n'erano stati, la pioggia
continua li aveva ormai spazzati via.
Riuscì
a scorgere in lontananza
i contorni della casa, ma era immersa nella completa
oscurità,
assolutamente vuota. Passò davanti senza fermarsi e
svoltò
bruscamente, slittando appena sull'acqua caduta, e arrivò
sul retro.
La luce dei fari colpì ogni cosa, la vegetazione, l'enorme
spiazzo
fino al limitare del bosco, la grossa moto nera abbandonata nel fango
con indifferenza e poi la figura che si agitava e che non aveva
smesso nemmeno al vedere gli abbaglianti puntati addosso.
Raphael era una macchia scura
che si dibatteva e dimenava, furore cieco e incontrollabile.
Leonardo
fermò il furgone,
lasciando però le luci accese, e uscì ad
affrontare l'intemperia,
incurante. Non aveva un ombrello e non si sarebbe messo a cercarne
uno. L'acqua lo infradiciò completamente in pochi istanti e
gli
impediva di mettere a fuoco propriamente.
Corse verso il fratello.
Raphael era
un vortice di
rabbia. Le sue mani sanguinavano, la tuta era lacerata in
più punti
ed era ricoperto di ferite ovunque; ma sembrava non essersene nemmeno
accorto. Come non sembrava curarsi della pioggia.
Stava colpendo la tomba di
Isabel con quella che sembrava la vanga per la neve della fattoria,
con foga e disperazione, più e più forte,
scheggiando il marmo
bianco. I frammenti volavano per la forza dell'impatto e lo
colpivano, al volto, alle mani, ma non si fermava.
Digrignava i denti, come un
pazzo.
Leo continuò a correre, non ci
pensò nemmeno a fermarsi.
“Raph!”
strillò, gettandosi
contro di lui.
Ruzzolarono
nel fango per
qualche metro, intreccio di arti che si colpivano e afferravano, con
la stessa intensità, spargendo gocce d'acqua ovunque.
Si bloccarono. Leo lo teneva
inchiodato al suolo, con una furia feroce nel petto che non poteva
davvero lasciare uscire. Aveva paura di fargli del male, per farlo
rinsavire.
“Ma
sei impazzito?” urlò,
cercando gli occhi del fratello.
Raphael lo colpì violentemente
con un calcio in pieno petto e lo fece volare lontano, senza
rispondere.
Poi, come
se nulla fosse, si
rialzò e prese da terra la vanga caduta, ritornando sulla
lastra
bianca, macchiandola con le impronte fangose dei suoi piedi.
Sollevò
l'attrezzo, implacabile.
La colpì dritta al centro,
spaccandola nel punto in cui l'incisione formava il nome di Isabel.
E poi la colpì ancora e ancora,
senza pietà.
“Raph!
Smettila!” sbraitò a
piena voce Leonardo, rimettendosi in piedi. Fermarlo sarebbe stata la
cosa più giusta, ma aveva capito che non poteva davvero.
Raphael lo
avrebbe aggredito di nuovo e di nuovo, senza controllo.
Il fratello non si interruppe,
colpì ancora, aggiunse crepe profonde alla lastra
martoriata, col
fiato sempre più corto.
“Perché
fai così?” esalò
Leo, disperato.
D'improvviso,
Raphael aprì la
bocca.
“Lei...
lei aveva promesso!
Aveva promesso di stare con me a qualunque costo, aveva promesso che
nemmeno la morte ci avrebbe separato! Ma era una bugia! È
sempre
stata una bugiarda!”
Si fermò e lasciò cadere la
vanga; quella picchiò con un tonfo metallico contro il marmo
e poi
rimase immobile.
Raphael si gettò in ginocchio e
batté le mani sulla lastra, prendendone un grosso frammento
per
colpire il resto, brutalmente, fuori di sé, ferendosi sempre
di più,
sempre più ferocemente. Gocce di sangue caddero sul bianco e
il
fango, cremisi e irregolari, sciolte in fretta dalla pioggia.
“Lei
aveva promesso! Me
l'aveva promesso!” urlava disperatamente, con una voce roca e
pietosa, che sapeva di dolore.
Leonardo si
avvicinò a piccoli
passi, lasciando che si sfogasse, anche se vedere la lastra in quelle
condizioni lo faceva star male, -ma quella non era lei, e una lastra
poteva essere sostituita in fin dei conti.
“Non
ti ha lasciato. Se l'è
presa la morte. Sai che non ti avrebbe mai lasciato. Non
più. Mai
più” sussurrò in un solo sospiro,
incerto se il fratello lo
avesse sentito o meno.
Le braccia di Raphael si
bloccarono in aria, oltre la sua testa, mentre caricava un altro
colpo. Rimase qualche istante immobile, col respiro corto, gli occhi
fissi sul nome di lei, scheggiato e insanguinato, poi lasciò
andare
la pietra, che ruzzolò sul marmo con tonfi cupi.
Si
rannicchiò su sé stesso,
aggrovigliandosi nel dolore, ricoperto di pioggia.
E poi, scoppiò a piangere. Con
un urlo di disperazione che aveva trattenuto anche troppo nel cuore
ormai arido, le lacrime uscirono e il petto esplose di rabbia e
tormento e vuoto graffiante.
“Io
non ce la faccio. Non sono
niente... senza Isabel” singhiozzò fuori
controllo, pronunciando
per la prima volta, infine, il suo nome.
Tremava violentemente.
Faceva così male vederlo cedere
e crollare, e soccombere al dolore. Lui, lo stoico, il duro e
invincibile Raphael, ridotto a lacrime e strazio.
Si
rannicchiò ancora, sempre
più piccolo e contorto, la fronte poggiata lì
dove era il nome di
lei, premuta con forza quasi desiderasse di passarci attraverso ed
essere inghiottito anche lui dalla terra.
Pianse e si disperò, sempre più
miserabile, finché le braccia di Leo non lo cinsero,
affettuosamente. Provò a divincolarsi, arrabbiato, ma quelle
rafforzarono la presa; lottarono per qualche istante, ma quella volta
Leo decise che non si sarebbe arreso, che avrebbe preso la rabbia e
l'angoscia di Raph, che lo avrebbe confortato, anche a costo di farsi
male.
Dopo
interminabili attimi di
tensione, -in cui Raphael capì che quell'abbraccio, quel
sostegno,
acuiva e rendeva reale il dolore, ma che lo consolava, anche,- alla
fine si abbandonò.
Le sue mani si aggrapparono alle
braccia di Leo, artigliando la tuta con le unghie, tremanti e
disperate, mentre tutto il suo dolore usciva, tra le lacrime e i
respiri spezzati.
“È
colpa mia! Non dovevo
lasciarla andare. È tutta colpa mia.”
“Non
è colpa tua. Non potevi
fare nulla. È successo e nessuno poteva evitarlo. Non tu,
non lei,
né gli Shisho. È la vita.”
E la vita faceva schifo, avrebbe
voluto dirgli. Ma Raph quello lo sapeva già da sé.
Rimase a
cullarlo, il tempo non
era nemmeno più importante, la pioggia non era importante;
non lo
lasciò andare, mentre Raphael finalmente affrontava il suo
dolore e
si lasciava sommergere.
Gli avrebbe fatto bene, alla
fine. Ancora non sapeva quando quel bene sarebbe stato visibile,
quanto tempo sarebbe dovuto passare prima che suo fratello potesse
vivere senza soffrire così tanto, solo un po' di meno forse,
ma
sapeva che piangere e lasciare che le sue emozioni fluissero era la
cosa migliore per sopportare la sofferenza.
E lui ci sarebbe stato. Per
tutto il tempo necessario, affrontando la perdita assieme a lui,
anche se meno evidentemente.
Raphael
prese un grande respiro,
prima di confessarsi ancora.
“La
sua assenza mi fa
impazzire... non posso vivere senza averla al mio fianco. Non posso
continuare sapendo che non c'è più.”
“Lo
so, Raph. Lo so”
sussurrò Leo, stringendolo più forte, piangendo
anche lui.
La
strada scorreva di fronte a lui, la pioggia se l'era lasciata alle
spalle.
Leonardo
controllava attentamente il percorso illuminato dai fari del furgone,
in attesa dell'uscita giusta per New York.
L'alba
era vicina e già una chiara luminescenza si intravvedeva ad
est.
Il
telefono trillò una volta e si affrettò a
rispondere, portando
l'auricolare all'orecchio.
“Pronto?
Ciao, Donnie” sussurrò gentilmente.
“Sì,
l'ho trovato” continuò, gettando una fugace
occhiata alla sua
destra, dalla parte del passeggero. Raphael era poggiato contro il
sedile, profondamente addormentato, i segni del pianto ancora
visibili sul viso e intorno agli occhi chiusi.
Era
crollato immediatamente, non appena salito sul furgone. Forse persino
prima di salire, forse era andato avanti per forza di inerzia,
già
esausto e distrutto dalle lacrime e dal dolore.
Il
silenzio era riempito di tanto in tanto dal suo russare, tenue per
una volta tanto. Leo stirò le labbra nel fantasma di un
sorriso,
prima di rispondere a quello che Don gli diceva al telefono.
“Sta...
bene” disse, sotto-intendendo il “per quanto possa
esserlo”. “E
salvo, quanto al sano... abbiamo tempo.”
Il
genio cercò di sbuffare col naso alla sua frase, ma emise
solo un
mugugno di dolore, prima delle ultime raccomandazioni e di chiudere
la chiamata.
Leonardo
mise la freccia per la successiva uscita e rallentò un poco
per
affrontare la curva.
Raphael
grugnì appena per il lieve spostamento, ma non si
svegliò.
Quali
sogni potevano mai riempire la mente di un uomo così
distrutto, si
chiese.
Era
caduto nel buio, ci vagava, lo avvolgeva, lo stringeva.
Correva
disperatamente e cercava di uscirne, ma si ritrovava solo ancora
più
smarrito e confuso. E stranamente, era come vedersi dall'esterno del
proprio corpo, come percepirsi come un'entità estranea e
tuttavia
familiare, e il panico era raddoppiato, da spettatore e protagonista,
e niente aveva davvero senso.
Solo
l'angoscia e la sofferenza. Solo il desiderio di gridare, il
desiderio che qualcuno lo sentisse. E quello fece. Urlò,
urlò così
forte da sentire bruciare la gola.
E
il buio si diradò. O meglio, si accorse che non c'era mai
stato, che
era lui a non aver visto fino a quel momento.
Gli
occhi vagarono nella soffusa luminescenza, morbida e stranamente
confortante.
Fino
ad incontrare quel sorriso. Quel sorriso dolce e triste in egual
misura.
“Isabel”
sussurrò, strozzato.
E
corse per raggiungerla, ma ogni passo era come incollato al suolo,
pesante e lento.
Isabel
piangeva dei suoi sforzi, piangeva del suo dolore. Era eterea e
bella, era felice eppure disperata. Non si muoveva, ma era sempre
più
lontana.
“Aspettami!
Ti prego, aspettami!” le urlò contro.
Lei
gli tendeva le braccia, voleva che la raggiungesse, sembrava
chiederglielo col muto sguardo.
Allungò
le mani nell'illusione di poterla afferrare, ma non la
sfiorò mai,
per quanti sforzi facesse, per quanto ci provasse; poté solo
guardarla svanire, un ultimo sorriso di scuse nella sua direzione, le
braccia esili abbandonate ai fianchi.
“Non
lasciarmi” esalò Raphael, lasciandosi crollare al
suolo.
Si
svegliò di colpo, una mano davanti al suo viso che afferrava
l'aria,
stretta attorno al niente. La realizzazione che fosse stato solo un
sogno lo colpì; eppure il dolore era reale.
Era
la prima volta che la sognava da quando era morta. Perfetta in ogni
dettaglio che la sua mente riuscisse a ricordare, dal suo modo di
sorridere a quel velo che le oscurava gli occhi scuri quando
soffriva, ma non voleva farlo vedere.
Portò
la mano al viso e asciugò una lacrima sfuggita al sonno,
inalando a
fondo grandi respiri per calmare il battito del cuore.
Sentì
la presenza di qualcun altro e si mise a sedere nel lettino,
lentamente: il laboratorio era illuminato da una luce soffusa, e
silenzioso, c'era solo un basso ronzio che proveniva da un angolo,
probabilmente dal motorino di una qualche invenzione, e un tintinnio
lieve di due provette in vetro che si sfioravano l'un l'altra.
Don
si accorse che si era svegliato e si voltò sorpreso, delle
fiale
ancora nelle mani: un vistoso cerotto fermava una garza nella parte
centrale della sua faccia, avvolgendo il setto nasale con
delicatezza; tutt'intorno agli occhi era livido e un po' gonfio e il
tutto sembrava fare male da morire.
Raphael
rimase a guardarlo per interminabili secondi, trattenendo il fiato.
Sapeva,
razionalmente, che avrebbe dovuto dispiacergli ciò che aveva
fatto,
che avrebbe dovuto sentirsi male per aver ferito suo fratello, che
avrebbe dovuto provare rimorso.
Ma
non ci riusciva. Non sentiva nulla. Non provava nulla.
Ed
era una cosa mostruosa, ed esserne conscio era anche peggio,
comprendendo che non sapeva cosa fare per cambiarla.
“Come
stai?” chiese Donatello quietamente, avvicinandosi per
controllarlo. Non c'era esitazione nei suoi gesti, eppure l'aveva
aggredito.
Si
accertò che la flebo non fosse vuota e gli prese il polso
per
sentire il battito, occhieggiando l'orologio. Sembrò
soddisfatto dei
risultati.
“Ho
sete. E mi sento stanco” confessò Raphael con un
basso mormorio,
senza guardarlo.
Don
gli portò una brocca d'acqua che lasciò a fianco
al lettino,
insieme ad una zuppa calda.
“Bevi
quanto vuoi, soprattutto la zuppa, ma fai piano. E poi riposa. Domani
potrai tornare nella tua stanza” si raccomandò il
genio, poi fece
per andarsene.
Per
lasciargli i suoi spazi o per non restare da solo con lui, forse.
“Donatello”
chiamò, con sua stessa sorpresa. L'altro si fermò
sulla porta e si
voltò.
“Mi
dispiace” disse, anche se non lo sentiva davvero. Gli
dispiaceva di
non riuscire a dispiacersi, in realtà.
Don
tirò le labbra in su di poco, prima di fare una smorfia di
dolore.
Andò via senza dire niente e non seppe se gli avesse creduto
o meno,
se avesse capito la verità.
Raphael
rimase solo, coi suoi pensieri. Col suo vuoto.
Bevve
due, tre bicchieri d'acqua e si sdraiò con un sospiro,
ascoltando il
ronzio dall'angolo.
Chiuse
gli occhi. Quel sorriso tenue e addolorato riaffiorò dal
sogno e la
mano scattò in avanti per provare ancora ad afferrarla.
E
di nuovo si chiuse sul niente.
La
mano ricadde sul viso, a coprire gli occhi.
A
coprire il pianto silenzioso, tradito dai sospiri infranti e dalle
spalle tremanti.
Note:
Buon
giorno a tutti!
Siamo
in un turbine di rabbia, come vedete. Non so se quello che accade
è
quello che alcuni di voi hanno pensato come passo successivo del
percorso di Raph, ma è quello che io penso farebbe uno come
lui.
Lasciarsi divorare dalla rabbia fino a farsi male, a fare del male a
chi ama, fino a soccombere al dolore.
C'è
ancora tanto, da affrontare e vedere.
Io
intanto vi ringrazio, grazie per leggere ancora, grazie di cuore.
Abbraccione
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Capitolo 28 *** Dealing with pain (Depression) ***
Tutto era
apatia.
Era statico, grigio, inerte.
Tutto era passivo. Ogni giornata, identica alla precedente, identica
a quella successiva, e i miglioramenti sembravano non dover arrivare
mai.
Se mai ce ne sarebbero stati.
La sua
camera era tutto il suo
mondo, ormai. Ce n'era un altro ovviamente, fuori di lì, che
lui non
voleva vedere, che non voleva affrontare; gli bastava quel poco
spazio, era tutto quello di cui aveva bisogno. Era quanto riusciva a
tollerare in quel momento.
Era già troppo per tutto quello
che si portava dentro, per tutto quel dolore che gli pesava addosso e
che lo schiacciava.
Se gli avesse concesso più
spazio, si sarebbe moltiplicato ancora e ancora, finendo per
stritolarlo sotto la sua morsa.
Aspettava
che il tempo
alleviasse quel dolore, come si diceva sempre; ma quello passava e
tutto restava uguale, quel vuoto di emozioni che non fossero la
sofferenza, che lo aveva trasformato in un essere apatico e
insensibile, incurante di qualunque cosa.
Restava spesso al buio a
riflettere, rannicchiato in un angolo, provando ad ignorare il resto
del mondo per cadere in quell'oblio e sparire anche lui; forse un
giorno ci sarebbe riuscito, si ripeteva, se solo lo avessero lasciato
in pace.
Ogni
mattina era Leonardo a
irrompere nel suo rifugio, convinto di svegliarlo. Raphael non aveva
più davvero dormito dopo quel sogno di lei, aveva una
fottuta paura
di rivederla ancora e ancora, piangere e svanire ogni volta avesse
cercato di raggiungerla.
Non voleva più sognarla. Non ce
l'avrebbe fatta.
Donatello se n'era accorto dopo
una settimana da quando si era risvegliato nel suo laboratorio e gli
aveva chiesto scusa, e gli aveva somministrato dei sedativi che lui
ogni sera ingollava con avidità, bramando quel nulla e
quell'assenza
di coscienza nel quale lo facevano cadere.
Forse stava diventando una
dipendenza, ma non era un suo problema.
La mattina
si sentiva stordito e
confuso, quando Leonardo lo chiamava per colazione, ma il suo effetto
tranquillante persisteva ancora un po' dopo il risveglio,
perciò
niente gli importava per davvero: scendeva dal letto e seguiva docile
il fratello fino in cucina, in cui trovava tutti gli altri.
C'erano sempre grandi sorrisi
per lui e la tavola ricolma di cose buone preparate da Michelangelo,
e tanta premura e occhi che lo seguivano in ogni sua mossa.
Non tollerava i loro sguardi che
lo scrutavano, esaminavano, studiavano. Ma non faceva o diceva nulla
per farli smettere. Semplicemente, cercava di ignorarli.
Lo
controllavano quando
mangiava, quanto mangiasse, quanto bevesse, riempiendolo di domande
alle quali rispondeva solo con mugugni a bocca chiusa, di
tonalità
più o meno ristrette.
Non aveva più parlato con
nessuno dopo aver chiesto scusa a Don e non sentiva il bisogno di
farlo. Che la sua voce andasse pure in malora e si arrochisse per il
silenzio forzato, a lui non interessava nulla e non avrebbe risposto
a nessuno di loro. Per nessun motivo.
Dopo la
colazione Leonardo lo
forzava a occuparsi dell'igiene personale e lo spediva in bagno per
la doccia, e anche per quello ubbidiva docilmente, ben sapendo che se
non fosse stato il fratello a costringerlo, lui non avrebbe mangiato
o bevuto e non si sarebbe lavato.
E ovviamente anche Leo lo
sapeva, o non lo avrebbe fatto.
Dopo,
finalmente, era libero di
tornare nella sua stanza. A esistere, in sostanza.
Non faceva niente se non
esistere, respirare, pensare. Non stava vivendo. Esisteva.
Giorno, dopo giorno, dopo giorno
ancora.
In uno straziante circolo
infinito.
Ogni tanto
il sensei insisteva
perché meditasse con lui e Raphael, convinto da Leonardo,
ogni tanto
lo accontentava. Sembrava rendere felice suo padre, quando lo faceva.
Forse avrebbe dovuto sentirsi
commosso della sua premura e della sua contentezza quando si
presentava al dojo, ma non ci riusciva.
Anche perché la sua felicità
svaniva presto, ogni volta, dopo pochi minuti. Cercava di meditare il
suo spirito, di raggiungerlo e guarirlo, ma restava deluso, ogni
volta.
Splinter continuava a provarci,
ma il suo spirito era rotto e ramingo, vagava per il dolore, ci si
era ammantato, e nessuno poteva raggiungerlo.
C'era un muro spesso che lo
divideva dagli altri, da qualsiasi emozione, e lui non aveva alcuna
intenzione di buttarlo giù.
Pioveva.
Pioveva
incessantemente, da almeno una decina di giorni.
Una pioggerellina fitta e densa
che si poteva quasi tagliare con un coltello, che infradiciava in
pochi istanti, che bloccava la visuale. Che stava pian piano
allagando la città.
Una pioggia strana per New York,
soprattutto a Maggio.
Leonardo la
trovava fastidiosa,
ma non così tanto da restarsene a casa; pattugliava con
coscienza,
ogni notte, dandosi il cambio con gli altri perché qualcuno
stesse
sempre al rifugio e controllasse Raphael.
La pioggia non fermava neanche i
delinquenti, ovviamente, perché il tasso di
criminalità era sempre
lo stesso, forse perfino più accentuato; rapine, scippi,
aggressioni.
Stava
passeggiando per i tetti
di Midtown, quasi vicino a casa dei Jones, tendendo le orecchie a
qualsiasi rumore insolito, quella notte, e più di una volta
cacciò
via il pensiero di invitarsi a casa dei suoi amici per trovare un
attimo di riparo e magari qualcosa di caldo da bere.
Decise che avrebbe pattugliato
ancora qualche ora e poi sarebbe tornato a casa.
Ne trascorse un'altra in
solitudine, dopodiché si sedette per qualche istante sotto
una
tettoia, giusto per provare a scacciare il freddo che si stava
impadronendo delle sue ossa; rimase in silenzio ad ascoltare il suono
della pioggia che ci batteva contro, ritmata e morbida.
Perse la
cognizione del tempo,
lì sotto, immerso in pensieri e ricordi e rimpianti.
“Ehi”
lo chiamò una voce,
chissà dopo quanto. Leonardo trasalì appena e
voltò la testa,
incontrando il sorriso sghembo di Steve, ritto di fianco a lui. Aveva
la tuta da pattuglia addosso, ma la maschera in una mano.
Non si era accorto della sua
presenza.
“Ti
sto chiamando da un po'”
disse il ragazzino, come una scusa. “Pensieri?”
Leo annuì lentamente, sfregando
le mani intirizzite una con l'altra. Steve lesse tra le righe e
continuò:
“Stasera
chi è rimasto al
rifugio?”
“Mikey.
Donnie è in giro in
pattuglia e anche Angel. Magari si sono incontrati anche
loro.”
Rimasero in
silenzio, a guardare
il nulla, pressati dalla tristezza.
“Come
stai?” chiese ancora
il ragazzino, quando si sentì in grado di pronunciare la
domanda.
Leo sorrise, suo malgrado. Per
la delicatezza di Steve, per la sua sensibilità. O forse
perché era
la prima persona a chiedergli direttamente e senza giri di parole
come stesse; anche ai suoi fratelli importava, lo sapeva, ma non
glielo chiedevano mai, forse per rispetto.
Steve rispettava e adorava Leo,
ma era più diretto e pratico. E sapeva che avesse bisogno di
parlare.
“Abbastanza
bene” mentì,
facendo spallucce. Vedeva con la coda dell'occhio che l'amico lo
stava guardando, senza parlare, come incoraggiandolo a continuare.
“Mi
manca” ammise, infine,
con un sospiro. Il suo nome non era nemmeno necessario pronunciarlo.
“Mi
manca il suo sorriso, mi
manca la sua presenza. Mi manca come ci faceva sentire, quello che ci
ha regalato, quello che ci ha insegnato. Mi manca come riuscisse a
trasformare Raphael, la serenità che gli aveva donato, come
lo aveva
cambiato.
Mi manca. E sapere che non c'è
più è orribile e vorrei solo lasciarmi andare
anche io come lui.”
Steve
allungò una mano e la
appoggiò in conforto sulla sua spalla e strinse saldamente.
Leo si
accorse della sua occhiata penosa e capì cosa il ragazzo
stesse
pensando.
“Non
ero ancora innamorato di
lei” sussurrò, un po' stanco.
“Non
l'ho detto” replicò
stranito Steve.
“L'hai
pensato. E ne hai tutte
le ragioni, ma io so che non posso spiegarvi cosa provo. Lei era-...
è importante. L'amore che provavo si è
trasformato in qualcosa di
simile, ma non più così forte come prima. Stavo
andando avanti,
prima che morisse. Stava diventando sempre più una cognata e
non la
donna che mi aveva insegnato ad amare; quell'amore era ormai
diventato affetto sincero e desiderio che lei e Raph fossero felici.
Adesso si è tutto congelato. È
tutto bloccato. E mi sembra di non riuscire a compiere più
passi in
avanti, di non poter evolvere.”
Si
lasciò cadere giù
strusciando contro la casupola degli attrezzi e si sedette a terra,
seguito immediatamente da Steve; uno accanto all'altro, spalla contro
spalla, nel piccolo riparo contro la pioggia.
“Capisco”
mormorò Steve.
“Il suo ricordo si è fossilizzato e non ti fa
andare avanti. Si
tende ad idealizzare le persone che muoiono, ricordiamo solo il
bello, le innalziamo a santi intoccabili e troppo puri per poterne
parlare.”
Leo si sorprese nel vederlo
sorridere, d'un tratto, come folgorato da un ricordo improvviso.
“Quando
mia madre morì”
iniziò a raccontargli Steve, sommessamente, “io
avevo nove anni. Dopo un
periodo di rabbia e di tristezza, iniziai a fare pace col suo ricordo
e cercavo anzi di chiedere a mio padre e ai nonni più cose
possibili
su di lei, le sue storie, cose che non avevo potuto conoscere. Ma
quello che io ricordavo e quello che loro mi raccontavano non
coincideva. Mi ero dimenticato che avesse l'abitudine di passare
l'aspirapolvere di notte, che urlava quando era di malumore, che
sbuffava a voce alta se doveva fare una lunga fila o che ti toglieva
la parola se la offendevi; mi ero dimenticato i suoi difetti, mi ero
dimenticato che non era perfetta. Perché da morta quei
difetti non
sembravano più così grandi, ma io non avrei
dovuto scordarli, per
riviverla così com'era e continuare ad andare avanti. Lei mi
manca,
mi manca tanto, di più ancora adesso che avrei tante domande
da
farle, a cui nessuno potrebbe rispondere come avrebbe fatto lei. Ma
fa meno male. Un poco.”
Il braccio
di Leo scattò e lo
tirò a sé, in un goffo abbraccio a gancio, che
voleva essere
consolatore. Forse per entrambi.
Quel piccolo scricciolo che lo
consolava, che cercava di fargli forza. Che smacco.
Eppure si sentiva meglio, non
esattamente bene, ma un po' più leggero di prima, un po'
meno
represso e oppresso.
“Parliamo
di cose allegre.
Mancano solo quattro giorni al compleanno di qualcuno”
esclamò di
punto in bianco, lasciando andare Steve, che prese ad lisciarsi i
capelli scomposti mentre arrossiva.
“Non
voglio niente per il mio
compleanno” precisò imbarazzato.
“Non
decido io cosa regalarti.
È Donnie quello che azzecca sempre i regali”
ammise Leo con un
sorrisino di scuse.
“Uhm,
a proposito...
quest'anno non potrete venire alla mia festa”
sussurrò timidamente
il ragazzo, mortalmente dispiaciuto. Chissà per quanto aveva
rimandato il doverglielo dire, per mancanza di coraggio.
“I
miei nonni vengono dalla
Florida apposta, sarebbe troppo farvi vedere da loro”
continuò a
spiegare, come a volersi scusare.
Si ricordava perfettamente come
era andato il compleanno dell'anno prima, quando Isabel aveva
insistito perché loro si presentassero alla famiglia di
Steve e
aveva organizzato tutto e aveva mediato e reso possibile la cosa; e
dopo i primi attimi di iniziale sgomento, come era logico, era andato
tutto sorprendentemente bene.
“I
genitori di tua madre”
chiese Leo, tranquillamente, e Steve annuì. Quell'anno non
sarebbe
stato possibile ripetere il miracolo, e pensava che fosse tutto per
la mancanza di lei.
“Possiamo
festeggiare un altro
giorno. Invece del ventiquattro possiamo fare il giorno dopo o quello
dopo ancora. Dicci tu una data. Ma sappi che non è possibile
non
festeggiare: April è capace di picchiarti per averci anche
solo
pensato.”
Steve sorrise, malgrado la
minaccia velata, e rollò scherzosamente gli occhi al cielo.
“Possiamo
fare il trentuno. I
nonni ripartiranno la mattina, perciò sarò
libero” disse dopo
averci pensato un attimo.
“Perfetto.
Allora
organizzeremo una festicciola da April!” concluse soddisfatto
Leo,
prima di adombrarsi stranamente. “Chissà se
riusciremo a
convincere Raph a venire.”
“E
chissà se smetterà di
piovere” gli fece eco Steve, occhieggiando il cielo cupo
sopra di
loro.
E il
trentuno arrivò in fretta,
nello stesso identico scenario di tutti i giorni.
Raphael continuava ad ignorare
tutti, a vivere recluso, e tutti loro si sforzavano di farlo reagire,
in qualche modo.
Gli avevano accennato della
festa per Steve, qualche giorno prima, ma lui aveva fatto spallucce e
non aveva né confermato la sua presenza, né la
sua assenza.
Quando il
giorno arrivò e fu
l'ora di andare dai Jones, tutti ciondolavano e tentennavano per il
rifugio, nella speranza che Raphael andasse con loro. Se
così non
fosse stato, avrebbero tirato a sorte per chi sarebbe rimasto a
controllarlo, come sempre.
Donnie stava finendo di
impacchettare il regalo per Steve, in ritardo come suo solito, mentre
gli altri finivano di organizzarsi per uscire; sarebbero serviti
tutti gli ombrelli di cui disponevano, che erano fin troppo pochi.
Quando si
decisero ad andare, si
diressero tutti verso l'ascensore: Raphael era proprio lì
davanti,
teso, e non guardò nessuno di loro in particolare. Attese
solo che
si avvicinassero, poi si accodò alla loro scia, a testa
bassa.
Sarebbe andato con loro, ma non
avrebbe festeggiato, o parlato, o socializzato.
Si scambiarono tutti un
sorrisino compiaciuto, in fretta e senza essere visti, e salirono
nell'ascensore, senza osare parlare per non rompere quel piccolo
miracolo.
Arrivarono
dai Jones non troppo
infradiciati, nonostante tutto, solo leggermente in ritardo: Steve
era già arrivato e sfoggiava un bel capellino con un pompom
colorato
in cima, probabilmente messogli a viva forza da Angel o April.
Non appena varcarono la soglia,
l'atmosfera allegra si congelò per un istante, nel vedere
Raphael
alla fine del gruppetto; tutti trattennero il fiato e April si
portò
le mani alla bocca per l'emozione, ma si trattenne dal correre ad
abbracciarlo.
“Benvenuti”
esclamò Steve,
con un grosso sorrisone felice. Li abbracciò tutti, per
avere la
scusa di poterlo fare anche con Raph, e così fece Casey e
anche
Angel e alla fine anche April. Lui rimase immobile e li
lasciò fare,
rassegnato, ma ancora e sempre privo di emozioni.
La rabbia che lo consumava c'era
ancora e gli ribolliva dentro, ma al momento era sepolta sotto uno
spesso strato di apatia e depressione.
Perfino
quando il piccolo Carl
corse ad abbracciarlo e lo riempì di domande e lo costrinse
a
prenderlo in braccio, si sforzò di sorridergli, ma non gli
disse
nulla; il bambino, dopo il primo attimo di gioia ed euforia,
sembrò
percepire lo stato d'animo del suo strano zio e gli buttò le
braccia
al collo e finché Casey non andò a prenderlo e
non lo staccò di
forza, rimase avvinghiato a Raphael, in un quieto silenzio.
La festa
iniziò, anche se in
sordina. Ci provavano, a far finta che tutto fosse normale, ma non
riuscivano a mascherare gli sguardi curiosi, che lo seguivano, che
sembravano volerlo radiografare per capire come stesse.
Raphael
fece del suo meglio per
ignorarli e confondersi con il mobilio, per quanto possibile.
Voleva solo che finisse al più
presto e poter così correre di nuovo nel suo rifugio e
nascondersi
da tutto e tutti.
Non riuscì nemmeno a tenere il
conto di tutte le volte in cui i suoi amici si erano avvicinati e
avevano provato a parlargli, con scuse stupide come offrirgli una
fetta di torta o un bicchiere di questo o un piattino di quello, ma
seppur cortese, si era limitato a cenni del capo, scappando poi
più
lontano possibile da loro, che all'interno dell'appartamento non era
mai abbastanza, purtroppo.
Eppure,
anche in quel clima
stiracchiato e teso, la serata passò. Intorno a mezzanotte
si
congedarono e Raphael fu il primo ad uscire dalla porta, rivolgendo
verso loro solo un cenno con la testa. Gli altri si affrettarono a
salutare e a corrergli dietro, con sorrisi di scuse per i loro amici.
Tutto sommato, pensavano tutti,
non era andata poi tanto male. Per lo meno erano riusciti a far
uscire Raphael dalla sua tana per una sera e niente era andato
storto, perciò si sentivano leggeri e fiduciosi, mentre gli
andavano
dietro.
Stavano uscendo dal portone,
quando tutto cambiò: un urlo echeggiò nella notte
e li raggiunse e
li scosse, pieno di paura.
Raphael
reagì ad esso come un
richiamo e dopo aver spalancato gli occhi dalla sorpresa,
scattò
immediatamente in avanti e si buttò nella pioggia, seguendo
l'eco
della voce a ritroso, sparendo in pochi istanti alla vista.
Con imprechi tra i denti, i suoi
fratelli e suo padre lo seguirono senza esitazione, sconvolti dalla
sua reazione e dalla velocità con cui tutto era successo;
non
avrebbero mai pensato che Raphael potesse reagire ad uno stimolo
esterno e avevano paura che avrebbe approfittato della situazione per
scappare ancora.
E ogni miglioramento, anche se
minuscolo, sarebbe stato sprecato.
Era
difficile capire dove fosse
diretto, lì sotto la pioggia battente. I rumori erano
coperti tutti
da un fine ticchettio e i contorni in lontananza si perdevano e
mischiavano gli uni con gli altri, confondendo la vista.
Perciò andarono avanti a
intuito, seguendo approssimativamente la direzione in cui era
sparito, pregando di trovarlo prima che potesse essere troppo tardi.
Raphael
corse con un'energia e
un vigore che non sentiva in corpo da molto, una sorta di energica
disperazione che lo muoveva in avanti, che lo spingeva; vide da
lontano i contorni di alcune persone e sentì le loro voci
concitate.
Ma, soprattutto, sentì di nuovo il grido disperato della
donna, che
lo spinse a bruciare i pochi metri che lo separavano da loro in pochi
secondi.
C'erano tre
ragazzi, non
potevano avere più di vent'anni, in quello che sembrava un
vicolo
cieco dietro un locale: due di loro tenevano ferma una ragazza contro
un muro per le braccia, mentre un terzo cercava di tapparle la bocca
con una mano e con l'altra toccava con lascivia ogni sua parte, dal
seno scoperto dalla camicetta strappata, infilandosi poi sotto la sua
gonna. Lei si dimenava con forza, gli occhi scuri pieni di paura e
lacrime.
Furono quelli, a fargli montare
la rabbia in corpo. Ribollì e cancellò l'apatia e
lo colmò in ogni
cellula.
Occhi castani come quelli di
Isabel.
Non si
accorsero nemmeno della
sua presenza, silente e furente. Colpì per primo il ragazzo
che
stava violentando la ragazza, dritto contro la sua testa col pugno
chiuso, brutalmente; cadde al suolo dritto, senza un fiato. Solo
allora gli altri due lo notarono.
Una grossa figura muscolosa
contornata dalla pioggia. Enorme. E rabbiosa.
Che bloccava loro la strada.
Entrambi
trasalirono e
sbarrarono gli occhi inorriditi e spaventati e la loro sicurezza
scivolava via via, e la cosa lo fece sentire stranamente bene.
Lasciarono andare la ragazza nello stesso istante, che
scivolò
contro il muro fino a terra, e per guadagnare la libertà
decisero di
combattere, come se non vedessero la furia omicida del gigante verde
di fronte a loro.
Tirarono fuori ognuno un
coltello e spavaldi, o avventati, si gettarono insieme contro di lui,
attaccandolo da due lati, sventolando le lame sotto il suo viso.
Raphael
strinse le mani a pugno,
le sue uniche armi, forte, molto forte. Scansò e
scansò e attaccò
anche, andando a vuoto ogni volta; forse non era più in
forma come
prima, forse la pioggia non lo lasciava concentrare abbastanza.
Forse erano quegli occhi scuri
che seguivano la scena con apprensione e terrore.
Ci provò ancora e ancora, ci
provò davvero. Ma il risultato non cambiò e
sapeva che era tutta
colpa sua, che era diventato l'ombra di ciò che era un tempo.
Ma avrebbe salvato quella
ragazza. E forse anche un po' sé stesso.
Uno dei due
ragazzi si avvicinò
velocemente alla sua destra e provò un affondo verso il suo
collo:
scansò verso sinistra e contemporaneamente
allungò il braccio con
forza. Sentì il duro delle ossa e della carne sotto le
nocche e
seppe di averlo colpito, dritto verso la mascella. Gli cadde ai piedi
come un fantoccio, sollevando spruzzi dalle pozzanghere.
Forse con la coda dell'occhio
non si accorse della minaccia o forse il subconscio gli disse che non
ce l'avrebbe fatta comunque. O forse non voleva evitarla, la
minaccia.
La lama del
coltello balenò
d'improvviso davanti alla sua faccia e il secondo dopo sentì
il
dolore bruciante e penetrante, fisico, al lato sinistro.
Urlò, ma di
rabbia.
“Raph!”
sentì gridare con
le voci familiari dei suoi fratelli. Non si era nemmeno accorto
fossero lì, né quando fossero arrivati, ma non
era importante.
Ruotò il corpo di qualche grado
e fissando il ragazzo con l'occhio destro, arrabbiato, balzò
in
avanti e lo atterrò con due pugni in sequenza, allo stomaco
e poi al
volto. Anche quello crollò a terra inerte, vicino ai suoi
compari.
Nello
stesso istante, una
piccola calca lo accerchiò e lo pressò, mentre
Don facendosi spazio
controllava la sua ferita: il suo occhio sinistro era lacerato da un
taglio che partiva dalla guancia fin sulla fronte, di sbieco, e
sanguinava copiosamente; tra le scie di sangue sciolte dalla pioggia,
il genio riuscì a vedere che la palpebra era tagliata a
metà. Se
l'occhio fosse rimasto danneggiato, era troppo presto per capirlo.
Raphael lo
scostò senza
lamentarsi, sembrava non provare nemmeno dolore, e si
avvicinò alla
ragazza ancora poggiata a terra contro il muretto: si teneva i lembi
della camicetta premuti contro e tremava da fare pietà.
Si fermò quando si accorse
della paura nei suoi occhi, e si inchinò, a distanza.
“Stai
bene?” le chiese, con
voce roca.
La ragazza trasalì al sentirla,
e i suoi occhi vagarono per qualche secondo da quello sano a quello
insanguinato del mutante; lentamente, infine, annuì.
Lui ne sembrò sollevato. Si
rialzò e si rivolse verso i fratelli, che lo osservavano
sconvolti;
bastò solo una sua occhiata, comunque, perché Leo
prendesse il
telefono e chiamasse la polizia.
Rimasero in
quel vicolo, in
silenzio e sotto la pioggia, finché non sentirono le sirene
avvicinarsi. Allora saltarono via con un ultimo sguardo verso la
ragazza, allontanandosi velocemente e senza farsi vedere.
Forse era per l'occhio ferito,
ma Raphael credette di averla vista sorridergli, forse di
gratitudine.
Tornarono verso i Jones, per
recuperare il furgone, in un denso silenzio e poi di corsa al
rifugio, con la testa piena di pensieri.
Donatello
trascinò Raphael nel
laboratorio, quasi di peso. Gocciolavano entrambi sul pavimento, ma
al momento non era quello l'importante. Il neo dottore lo fece sedere
nel lettino con forza e poi si spostò in giro per recuperare
tutte
le sue medicine e gli attrezzi che gli servivano o che gli sarebbero
serviti.
Sembrava arrabbiato. Almeno,
data la sua scarsa empatia, presunse che lo fosse da un ragionamento
logico. Don sbatteva sempre i cassetti, quando era arrabbiato.
Ne chiuse uno di colpo dopo aver
preso le garze, dandogli ragione.
Il genio si
avvicinò e, dopo
aver infilato i guanti, gli controllò l'occhio sinistro,
sporgendosi
verso il suo viso. Tirò con garbo la pelle,
studiò assorto la
lacerazione, gli spruzzò un liquido freddo e pungente dritto
in
faccia, senza nemmeno chiederlo. Non parlava in realtà,
respirava
solo pesantemente nel silenzio, come se stesse trattenendo nel petto
qualcosa che non voleva fare uscire.
Sospirò, dopo qualche istante.
“Il
tuo occhio è ferito.
Mezzo centimetro di larghezza, proprio sopra la pupilla. È
molto
profondo. Non so se riacquisterai la vista” esalò
serio,
guardandolo dritto nell'occhio sano.
Lui ci avrebbe provato. Avrebbe
ricucito la sua palpebra e gli avrebbe somministrato la cura
antibiotica necessaria, ma con i loro mezzi e le loro risorse, era
praticamente impossibile, quel miracolo. Lo sarebbe stato anche con
attrezzature all'avanguardia.
Raphael non reagì. Rimase a
fissarlo, quasi non fosse nemmeno lì, come se non stesse
parlando
con lui. Come se non stesse succedendo a lui.
“Mi
hai capito? Potresti
perdere la vista all'occhio sinistro. Forse vedresti delle ombre, se
sei fortunato soffrirai solo di sensibilità alla luce, ma
è grave!”
spiegò Don alzando la voce.
Voleva afferrarlo e scuoterlo,
ma la sua etica da dottore, oltre al suo amore fraterno, gli
impedì
di farlo.
Si scontrò di nuovo contro un
muro di indifferenza, di noncuranza.
Respirò
a fondo, più e più
volte; si incurvò, poggiando le mani sul lettino, lasciando
andare
le spalle.
“Tu
ci hai provato a scansare,
vero?” domandò quietamente.
Il silenzio venne spezzato da un
respiro profondo, improvviso.
“Cosa
vuoi insinuare? Che ho
cercato di farmi uccidere? Che mi sono gettato nella lotta sperando
di morire? Io non posso morire.”
Donatello
sollevò la testa,
sorpreso nel sentirlo parlare, sorpreso dalla sua risposta. Lo
osservò come se non lo conoscesse affatto e cercò
in lui una vena
di pazzia, qualcosa che gli confermasse che fosse diventato
semplicemente matto, ma a parte il dolore non vi trovò
niente.
“Morire
è la naturale
conseguenza al vivere e io non sto vivendo”
pronunciò lentamente
Raphael, ogni parola scandita con freddezza.
Don chiuse
gli occhi e trasse un
brusco respiro e si impedì di urlare, ma avrebbe davvero,
davvero,
voluto farlo.
Si sentiva impotente. Si sentiva
inutile nel momento in cui suo fratello aveva più bisogno di
lui.
Voleva curarlo, voleva che tornasse tutto come prima.
Ma anche con tutto il suo genio,
non poteva fare nulla.
Inspirò
ancora e ancora, poi
riaprì gli occhi e si ricompose all'istante.
“Adesso
ti darò un leggero
sedativo. Ho bisogno che tu stia assolutamente fermo mentre ti
opero”
disse incolore, andando a prendere una siringa e la fiala.
Raphael si
sdraiò nel lettino e
chiuse anche l'occhio sano; sentì il lieve pizzicore
dell'ago nel
braccio e poi il buio iniziò a vorticare e l'ultima cosa
sensata
prima dell'oblio erano un paio di occhi castani impauriti e
addolorati, che lo fissavano.
Note:
Buona sera
a tutti.
Dunque, ho
introdotto capitoli
fa il concetto delle fasi del lutto (o del dolore), ma ho dimenticato
di dire che anche se sono cinque fasi, non è detto che si
manifestino in sequenza, né che si manifestino tutte. Un
soggetto
può sperimentare fasi mischiate, addirittura, e alcune di
esse
potrebbero non apparire mai.
Ecco perché Raph è nella fase
della depressione, mentre al terzo posto della lista c'era il
patteggiamento. Forse quello non lo sperimenterà mai, per
esempio. O
forse ritornerà alla rabbia, magari poi al patteggiamento e
potrebbe
sperimentare ancora la depressione e poi ancora la rabbia. Non
c'è
uno schema. Il dolore non si può schematizzare.
Ora, si
è aggiunto al tutto la
ferita all'occhio. Raphael ha perso l'occhio sinistro in moltissime
occasioni: in un fumetto, nell'episodio della serie 2003 SAINW,
perfino nel fumetto MNTGaiden. Sembra una costante.
E anche a me piaceva l'idea di
una ferita fisica che manifestasse quella interiore.
Rimarrà? O guarirà?
Per adesso
è tutto. Chissà che
riserverà il futuro.
Io,
intanto, ne approfitto per
ringraziarvi di cuore. Grazie per leggere! Vi adoro!
Abbraccione
|
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Capitolo 29 *** I want to know, have you ever seen the rain? ***
Qualcosa
era cambiato.
Se n'erano
accorti tutti, anche
se non ne parlavano apertamente. Ma fare finta di non averlo notato
era impossibile.
Sin dal giorno dopo la lotta
contro i tre aggressori della ragazza dagli occhi castani, Raphael
aveva iniziato ad alzarsi di sua spontanea volontà e a
dirigersi al
dojo per allenarsi al sacco.
Donatello aveva strepitato e
aveva cercato con ogni mezzo di convincerlo, o meglio costringerlo, a
riposare. Lo aveva minacciato che se non avesse riposato il suo
occhio non sarebbe mai guarito per bene e che si sarebbe bruciato
anche le più piccole possibilità che potesse
tornare normale, ma
era stato come parlare con un muro.
Non
sapevano nemmeno quale fase
stesse attraversando in quel momento, era come un miscuglio di
più e
in un certo senso nessuna; sembrava divorato da un'assenza di logica
e buonsenso che lo spingeva solo ad allenarsi e allenarsi. E
allenarsi ancora.
Aveva anche smesso di prendere i
sedativi, di punto in bianco, e se non fosse stato per la categorica
insistenza di Don, che glieli avrebbe infilati giù in gola
anche di
forza, probabilmente non avrebbe preso nemmeno gli antibiotici.
Non aveva senso ciò che stava
facendo, ma nessuno se la sentì di chiedergli che molla
fosse
scattata nel suo cervello per farlo reagire in quel modo, per paura
di rompere l'incanto e rivederlo cadere nell'apatia e nella
depressione.
In fondo, quel Raphael attivo
era meglio di quello inerme e recluso nella sua stanza.
Comunque, tutti lo tenevano
ancora di più sotto controllo, senza farsi vedere,
perché non si
stancasse troppo, perché riposasse e mangiasse,
perché quella
ossessione non venisse portata all'estremo come tutte quelle prima,
nella speranza che le cose andassero meglio.
Raphael
passava molte ore al
sacco, nel tentativo di riprendere la forma fisica perduta nei mesi
in cui si era perso. Era sottotono e sottopeso e non era ammissibile.
Non era ammissibile che fosse
quasi caduto per mano di due stupidi ragazzini in un vicolo. Non era
ammissibile che fosse stato ferito e che avesse rischiato di perdere
e di non salvare una persona in difficoltà. Una persona che
aveva
bisogno di aiuto. Che aveva bisogno di lui.
Forse, in
qualche parte malata e
irragionevole della sua mente, Raphael si illudeva che aver salvato
quella ragazza lo redimesse dalla perdita di Isabel, che averla
aiutata fosse un compromesso per non aver potuto salvare la donna che
amava; che potesse scendere a patti col dolore e il fato e forse
persino scambiare il suo sacrificio per riaverla indietro.
Che se avesse ripreso a vivere
come prima e a proteggere gli innocenti, l'universo gli avrebbe
restituito Isabel, con tante scuse e auguri per il futuro.
Una parte di lui ci voleva
credere, voleva crederci davvero.
E, per poter realizzare quel suo
folle piano, doveva assolutamente tornare in forma, il prima
possibile.
Ignorava
che anche quando ci
fosse riuscito, non sarebbe potuto uscire. Non gliel'avrebbero mai
permesso finché l'occhio non fosse guarito, o non guarito.
Chissà
se Raphael si rendeva conto che la perdita della vista ad un occhio
avrebbe compromesso il suo modo di lottare, il suo equilibrio e la
percezione della profondità.
Aveva problemi a colpire il
sacco, molto spesso andava a vuoto o si trovava troppo vicino, ma non
aveva ancora registrato l'informazione e il problema, forse relegati
ad un altro momento, quando l'esito avesse decretato il suo destino.
Sano o menomato per sempre,
senza vie di mezzo.
Donnie ci
impazziva, dietro a
lui. Letteralmente.
“Stai
fermo! Fermo!” sbraitò
spazientito come se stesse parlando ad un bambino, schiaffeggiandogli
le mani se solo provava a toccarsi il viso.
Raphael, seduto sul lettino del
laboratorio, sbuffava insofferente, rollando l'occhio sano al cielo.
Donatello
volò da una parte
all'altra del laboratorio, accumulando vicino a lui tutto il
necessario per i controlli. Poi svolse le bende già mezzo
sfatte
dalla sua testa e occhieggiò severo la ferita.
“Hai
di nuovo grattato
l'occhio? Smettila di grattarti l'occhio! Hai irritato la ferita! Si
infetterà! È già la seconda volta che
lo fai, devi assolutamente
smetterla!”
Non era
infatti la prima volta
che succedeva, in solo una settimana. Il genio sapeva che se
quell'idiota avesse fatto da bravo e fosse stato buono e a riposo, la
ferita avrebbe iniziato a guarire già dai primi giorni. Ma,
sottoposta a sforzi e sfregamenti, continuava ad aprirsi e irritarsi
e oltre a ritardare la guarigione, rischiava di infettarla e
aggravare la situazione o perfino comprometterla irrimediabilmente.
Controllò che i punti non
fossero saltati, quella volta, e spalmò la crema antibiotica
che
aiutava il suo ciclo di terapia, fasciandogli poi nuovamente la
testa, più stretta che poté. Magari se gli avesse
fermato
l'afflusso di sangue al cervello quello stupido l'avrebbe smessa di
fare cretinate da mattina a sera, pensò malignamente. Un
secondo
dopo se n'era già pentito, attribuendo i suoi pensieri alla
stanchezza e alla preoccupazione, perché Raph a volte
riusciva a far
vibrare corde di lui che non sapeva di avere e che non gli piacevano.
Tirava fuori rabbia da dove non ce n'era.
“Promettimi
che farai da
bravo” mormorò stanco, spostandosi per mettere via
le bende.
“Solo
un paio di giorni” lo
precedette prima che lo interrompesse. “Non dico di non fare
nulla.
Puoi... fare pesi, in maniera leggera, per un po'... per
favore.”
Raphael sbuffò teatralmente,
come se lui gli stesse chiedendo davvero molto. Ma annuì
leggermente
per fargli capire che l'avrebbe accontentato.
Scese dal lettino e si incamminò
mesto verso la porta.
“E
non grattare l'occhio. So
che ti prude, ma non farlo” gli arrivò come ultima
frase dal
genio, prima che uscisse.
Cosa
volevano che facesse? Non
poteva uscire, non poteva pattugliare, non voleva fare nulla che non
fosse allenarsi e se anche quello gli era vietato, che altro gli
rimaneva? E sì, l'occhio sinistro gli prudeva da impazzire,
a volte
con così tanta forza che se non l'avesse grattato avrebbe
perso
anche quell'ultimo briciolo di sanità rimastagli.
Alzò una mano e la portò alla
benda senza pensarci, ma non appena sentì il ruvido della
garza
sotto le dita si interruppe e, risentendo la voce di Donatello nella
mente, la abbassò in fretta, lasciando che il prurito lo
divorasse.
Si sarebbe strappato l'occhio
con le sue mani perché quel fastidio sparisse, ma avrebbe
fatto da
bravo come aveva promesso.
Sperando che quel suo proposito
durasse quanto bastava.
Era Giugno,
ormai. Molto vicini
alla metà del mese, addirittura.
Ma la pioggia non aveva mai
smesso, mai, nemmeno per un momento.
Per la maggior parte del tempo
era stata una pioggerellina sottile e fitta, incessante, e a volte,
per qualche ora, era stata uno scroscio forte e violento; ma non
c'era più stato un attimo di sole.
E se all'inizio avevano pensato
solo che fosse una anomalia climatica, dopo tutto quel tempo nessuno
ne era più certo; era troppo strano. Troppo.
Don faceva
delle ricerche
scientifiche con barometri, termometri e altri strumenti che finivano
in -metri costruiti da lui per misurare pressione, gradi e altre cose
che nessuno di loro capiva, alla ricerca di risposte per tutto quel
maltempo.
I telegiornali non parlavano di
altro e gli attivisti contro il surriscaldamento globale inveivano
contro gli sprechi e l'inquinamento in ogni talk show e programma di
attualità, praticamente tutto il giorno. Tutti i centri di
aiuto
della città si erano mobilitati per offrire un riparo ai
senzatetto
e fortunatamente anche i randagi erano stati aiutati dai centri per
animali, che avevano trovato molta solidarietà e
più adozioni del
solito grazie al problema.
New York
era allagata. Per le
strade il livello d'acqua non era preoccupante, solo qualche
centimetro, ma sottoterra era tutto un altro discorso: le linee della
metropolitana avevano chiuso a tempo indeterminato, creando non pochi
fastidi, e molte chiuse verso il fiume erano state serrate
perché il
livello dell'acqua non salisse pericolosamente.
Ovviamente, anche nel rifugio
erano state prese le giuste precauzioni: Don aveva chiuso l'argine in
spesso metallo che chiudeva l'uscita alla fine del laghetto
perché
non si trovassero inondati e la porta principale era stata sigillata
per l'emergenza. Fortunatamente potevano entrare e uscire
dall'entrata del garage attraverso l'ascensore.
Pattugliare
era il loro primo
punto per cercare di capirci qualcosa, anche se, come potevano
scoprire qualcosa sotto la pioggia battente? E cosa avrebbero mai
potuto trovare in effetti?
Quella sera
Mikey era in giro
sotto il diluvio, con gran pace per le sue povere ossa. Lui ci aveva
provato a farsi sostituire da Don per potersene così stare a
casa
all'asciutto a leggere fumetti e a mangiare patatine, ma il genio
aveva pattugliato due giorni di seguito perciò toccava
proprio a lui
e senza storie.
Rabbrividì e scrollò la testa
come un cane per cercare di asciugarsi, ovviamente senza successo. La
ragazza al suo fianco se ne accorse e rise.
“Sei
senza speranza, Mikey”
disse Angel divertita. “Ti si legge in faccia: voglio
stare a
casa a mangiare patatine!, a caratteri cubitali.”
“Non
ci hai letto anche il
ketchup, però” ribatté piccato il
mutante, con solo mezzo
sorriso.
Erano in
pattuglia assieme, in
quella sera umida, Angel ormai era diventata una presenza fissa del
team; Leo e Steve perlustravano in coppia da un'altra parte, si
mantenevano in contatto ogni tanto via telefono per scambiarsi
informazioni sugli ultimi avvenimenti, se c'erano, o solo per
sentirsi e rassicurarsi a vicenda.
“Avresti
preferito stare a
casa a fare la guardia a Raph?” domandò lei,
fermandosi e
strizzando la lunga coda nera appesantita dalla pioggia.
Pattugliare in quei giorni era
una vera tortura.
“Ti
dirò, da quando si allena
come un ossesso non è nemmeno male, sembra quasi lo stesso
Raph di
prima e io so come comportarmi. L'altro... quello depresso... mi
faceva paura” confessò in un sussurro imbarazzato,
bloccandosi
anche lui.
Non la stava guardando, il viso
era verso l'alto, forse si vergognava di quello che aveva provato e
ammesso. Mikey amava tanto i suoi fratelli, ma il dolore altrui non
lo sapeva davvero gestire.
“Avrei
voluto fare qualcosa,
ma... era così cupo e disperato... sembrava solo non volesse
vivere
e io non mi sentivo capace di-”
Angel lo
interruppe con una
mano, frenando il suo flusso di sentimenti lasciati fluire come un
rigagnolo da una diga incrinata; tolse per un secondo la maschera
nera, mostrandogli un sorriso dolce.
“Nessuno
sa davvero cosa fare.
Non c'è nessun manuale che te lo dica. Ma va bene
così. Avere paura
è normale. Sono sicura che Raph sa benissimo che ci tieni ed
eri
preoccupato per lui. E forse anche per quello sta cercando di reagire
e andare avanti.”
Michelangelo sorrise tenuemente
a quel discorso così maturo e profondo, che lo fece sentire
meglio e
un po' più leggero.
Forse Raphael sarebbe davvero
riuscito ad andare avanti, ma si sarebbe mai innamorato di nuovo? E
avrebbe mai trovato un'altra donna che lo amasse come aveva fatto
Isabel?
Un
esplosione di sirene li
sorprese e spaventò, all'improvviso. Entrambi sussultarono e
si
sporsero oltre il cornicione per controllare: una sfilata di
macchine della polizia e ambulanze passò sotto il loro naso,
tutte
lanciate a folle velocità per la strada, illuminando di
rosso e blu
le facce attonite dei passanti e sollevando enormi spruzzi d'acqua.
A chiudere il corteo c'erano due
camion dei pompieri, anche quelli nella stessa fretta frenetica degli
altri automezzi.
Doveva essere davvero grave.
Si
gettarono nella loro scia
senza pensarci, perché entrambi avevano capito che qualcosa
di
grosso doveva essere in atto. Saltando di palazzo in palazzo,
controllando al di sotto per non perderli di vista, li seguirono fino
a Central Park. E se avessero sollevato lo sguardo, lo avrebbero
capito anche da prima il perché.
Oltre le fronde degli alberi, a
volte, si riusciva a vedere, per pochi attimi.
Ma loro non lo notarono finché
non arrivarono al parco e non videro tutta la gente scappare via come
piccole formiche spaventate, spintonandosi dalla paura, calpestando i
pochi che inciamparono nella fretta, scivolando nelle pozze d'acqua
che allagavano le strade.
C'erano urla, ovunque.
Gli
infermieri delle ambulanze
soccorsero quelli feriti e aiutarono tutti ad allontanarsi in
sicurezza, insieme ad alcuni poliziotti; altri e i vigili del fuoco
entrarono invece nel parco e si dispersero finché non
scomparvero
alla loro vista, gridando ordini.
Le cime degli alberi tremarono
in lontananza.
“L'hai
visto?” esclamò
Michelangelo, fermandosi bruscamente.
“Cosa?
Cosa hai visto?”
domandò Angel allarmata dal suo tono. Il mutante continuava
a
guardare sempre nello stesso punto, quasi oltre il parco. Poi scosse
la testa.
“Niente.
Non sono sicuro. Ma
di certo niente” rispose titubante, riprendendo poi la corsa.
Entrarono
anche loro, seguendo
le voci lontane che gridavano con orrore e un forte rombo che prima
non avevano udito. Era indistinto, un insieme compatto di rumori che
non potevano essere scissi, ma la cui somma raggiungeva vette
altissime e faceva stridere le orecchie.
Corsero a perdifiato attraverso
gli alberi, evitando le piazzette e le stradine, e più si
avvicinavano, più il caos si faceva forte e assordante;
intravidero
alcuni poliziotti e vigili scappare a gambe levate, così
terrorizzati da non fare nemmeno caso a loro.
Uscirono infine allo scoperto e
allora lo videro.
Alto, enorme, mostruoso,
informe.
Se avessero
dovuto provare a
descriverlo, avrebbero detto fosse un gigante fatto d'acqua: vedevano
la sua pelle
risplendere
delle luci dei lampioni, ma potevano vedergli anche attraverso. Non
c'era una vera e propria forma definita, cambiava stazza e struttura
in un vortice infinito e il suo gorgoglio era il ruggito di quella
creatura, se creatura poteva definirsi.
Di certo sembrava viva, dato che
si muoveva e si agitava e cercava di colpire i pompieri e i vigili
che dal basso gli sparavano contro o lo fronteggiavano con asce, quei
pochi che non erano scappati. Sembravano così piccoli in
confronto a
quella cosa.
Ma cosa diamine era? E da dove
spuntava?
Prese il
telefono dalla taschina
e premette il pulsante 1 di chiamata rapida, continuando a correre.
“Leo?
Venite a Central Park, subito. Non c'è tempo! È davvero
grave! Presto!”
Mise giù di fretta e nel
frattempo lui e Angel avevano macinato i chilometri mancanti dal
mostro ed era così terrificante che un poliziotto
lì vicino si
voltò a guardarli e non fece nemmeno caso all'aspetto di
Michelangelo.
Forse era troppo impegnato a non
essere travolto dalla creatura.
La pioggia sembrava alimentarla
e ingrandirla e attaccava gli umani con cascate violente d'acqua o
getti supersonici che li sbalzavano via, sbattendoli contro gli
alberi vicini.
“Andate
via! Andate via, non
potete combatterlo!” urlò Mikey uscendo allo
scoperto, correndo in
prima linea mentre continuava a ripeterlo.
I Nunchaku si scontrarono contro
un muro compatto d'acqua, ma non smise di ruotarli sebbene fossero
più pesanti e continuò a colpirlo, ancora e
ancora.
Era meno che un moscerino, per
quella cosa. Ma almeno aveva attirato la sua attenzione.
“Via!”
urlò scagliandosi,
senza guardare se poi se n'erano andati o meno, ma con la paura che
potessero essere ancora lì.
Angel
gettò un'occhiata
indietro e vide gli uomini che titubavano con ancora le armi nelle
mani, lo sguardo che saettava dal mostro d'acqua a quello verde che
li voleva salvare.
“Avete
sentito la tartaruga!
Ci siete solo d'intralcio! Andate via” incalzò
lei, minacciosa, ma
protetta dall'anonimato della sua maschera. Quelli tentennarono solo
ancora pochi secondi, poi girarono le spalle e fuggirono
disordinatamente, lanciando pochi sguardi indietro.
“Non
era proprio quello che
intendevo” ansimò in risposta Mikey, che
nonostante la
concentrazione l'aveva sentita benissimo.
“Sì,
beh, ho parafrasato.
Volevi che andassero via e... se ne sono andati” fece
spallucce la
ragazza, prima di voltarsi anche lei e gettarsi nella lotta per
dargli man forte.
I suoi Tonfa non erano più
efficaci dei Nunchaku dell'amico, scorrevano attraverso la massa
d'acqua come un coltello caldo attraverso il burro, senza lasciare la
minima traccia.
Se non potevano fargli nessun
danno, come pensavano di poterlo sconfiggere?
“Come
possiamo battere una
creatura d'acqua?” urlò Angel, scansando un getto
diretto contro
il suo petto e provando a colpire ancora.
“Col
fuoco!” rispose
immediatamente Mikey, schivando i pugni violenti come cascate che gli
piovevano dal cielo.
“No!
È il fuoco che si
sconfigge con l'acqua, non viceversa!” ribatté la
ragazza
spazientita, infradiciata completamente da un colpo del mostro andato
a segno, fortunatamente di striscio.
“Ma
se lo facessimo
evaporare?” continuò il mutante, cocciuto.
“E
come?”
“Ma
cosa ne so! È Donnie il
genio!”
“E
non sai quanto vorrei
averlo qui adesso!” esclamò Angel come una
supplica.
Non avevano
smesso un attimo di
colpirlo, non si erano risparmiati né in forza né
il velocità, ma
non avevano arrecato il minimo danno. Lo stavano solamente
intrattenendo. In passato avevano combattuto una o due creature dalla
consistenza simile a quella, ma erano stati avversari senzienti, con
centri del dolore e volontà che si potevano fiaccare e
indebolire e
sconfiggere.
Ma quel coso era solo acqua.
Solo, semplice acqua. Che pure si muoveva e attaccava e aveva il
proposito di attaccare e perciò era ancora più
terribile.
Continuarono con la loro tattica
di colpire a casaccio nella speranza di prendere il suo punto debole
e schivare gli attacchi infastiditi, in attesa di un miracolo, forse.
Una volta arrivati Leo e Steve, avrebbero fatto il punto della
situazione e avrebbero capito cosa fare.
Mikey ne era certo. Ecco perché
cercava di guadagnare tempo.
Ormai non
si sentivano più le
grida di passanti ignari e immaginarono che tutto il parco fosse
stato messo in quarantena, e forse anche i poliziotti e i vigili
erano scappati il più lontano possibile, terrorizzati da
quell'incontro.
Chissà che ne avrebbero detto i
telegiornali, il giorno dopo. Sempre se qualche giornalista fosse
stato tanto temerario da osare sfidare l'ignoto e la morte per
avvicinarsi.
Intorno c'erano solo lo scroscio
forte della pioggia e il gorgoglio ruggente della creatura.
“Angel,
forse dovresti andare
via anche tu” suggerì Mikey d'un tratto, con la
voce affaticata.
“Col
cavolo!” fu la accorata
replica dell'amica, che si era immaginato, a dover essere sincero.
La testardaggine di Angel era
pari a quella di April. E a quella di Isabel. Le tre donne
più
importanti della sua vita, una più fiera e combattiva
dell'altra.
Ma aveva già perso una sorella
e non avrebbe permesso gliene togliessero un'altra.
“Per
favore, vai” supplicò,
con un filo di voce.
Era sempre più difficile
schivare le masse d'acqua che il mostro muoveva e scagliava loro
addosso con facilità disarmante, richiamandole a
sé dai dintorni e
manovrandole come fossero estensioni del suo corpo.
La sua preghiera non la sfiorò
e la giovane donna rimase al suo fianco. Erano attorniati dall'acqua,
era sopra di loro e sotto di loro, ad ogni angolo e ad ogni lato, ne
erano impregnati; grondava dai loro volti, giù dalle mani
strette
attorno alle armi, era perfino nel respiro affannato che si
condensava per un secondo nell'aria umida e appiccicosa, prima di
svanire.
Forse il
mostro avvertì la loro
stanchezza, il loro cedere lento, dei piedi appesantiti dal liquido
ad ogni passo, delle braccia stanche dallo scontrarsi all'infinito,
dello scansare senza tregua colpi che potevano essere mortali.
Lasciò
perdere per un secondo il mutante e concentrò invece quelle
che
sembravano le sue braccia come fiumi impetuosi, unendole assieme in
una cascata immensa e la diresse contro la donna, con violenza.
Un fiume in piena scagliato ad
una velocità tale da non poter reagire.
Mikey ne avvertì il pericolo
immediatamente e corse con tutta la sua forza nella traiettoria del
tiro, sapendo che non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungerla e a
proteggerla in altro modo: il getto lo investì in pieno,
deviando, e
lo spazzò via con brutalità, come un'inondazione.
Lottò con tutte le sue energie
contro la corrente e la pressione e la forza che lo stritolavano e
finì a sbattere contro un albero al limitare del boschetto,
con un
suono cupo.
L'acqua defluì verso il basso e
così il suo corpo, che picchiò al suolo.
“Mikey!”
urlò Angel
correndo verso di lui, rassicurata a metà percorso dal
sentirlo
tossicchiare e rantolare e respirare a fondo.
L'acqua che
era defluita però,
iniziò a vorticargli intorno, come un serpente dalle mille
spire,
sempre più e più veloce, come fosse viva, come
fosse furibonda;
mulinò sinuosa e opprimente lungo i suoi arti,
circondò il torace e
lo sollevò dal suolo, avvolgendolo completamente.
Mikey si trovò al centro di una
spessa bolla prima ancora di avere il tempo di reagire.
Incominciò ad agitarsi, a
menare i pugni chiusi nel liquido in cui era immerso, cercando una
via d'uscita.
Piccole bollicine fuoriuscirono
dalla sua bocca dalla sorpresa, quando il pugno rimbalzò
indietro.
Era intrappolato. Strinse le labbra più forte per trattenere
meglio
il fiato e provò ancora a spezzare la barriera che conteneva
il
liquido, ma inutilmente.
Angel non
stette con le mani in
mano, ovviamente. Dimentica del mostro, si scagliò invece
con i
Tonfa contro la superficie della bolla: si affossava per un secondo e
poi le rimandava indietro il colpo per effetto cinetico della sua
stessa forza, senza nemmeno un graffio. Ma la donna non per quello
smise di colpire. O il mutante all'interno di dibattersi con
disperazione, mentre altre bolle sfuggivano dal naso, nello sforzo.
Angel si accorse del suo cedere
lento. Sapeva che potevano trattenere il fiato a lungo, sia per la
loro origine, sia per il loro allenamento, ma non avrebbe potuto per
sempre. E dato che Leo e gli altri non erano lì, toccava a
lei
salvarlo.
“Resisti!”
gli gridò come
un incoraggiamento, ma lui non sembrò averla sentita,
impegnato
com'era a dimenarsi e a colpire.
Era così assorta nel
salvataggio, da non fare ormai più caso a niente attorno a
sé. E fu
un errore.
Un violento getto d'acqua arrivò
improvviso da un lato e la colpì in pieno, la travolse e la
trascinò
lontano nel fango formatosi dall'incontro con la terra.
“Angel”
cercò di urlare
Mikey, anche se tutto ciò che uscì fu un nugolo
di bolle della sua
preziosa aria. Annaspò e chiuse in fretta la bocca, provando
a
voltarsi per capire dove fosse finita l'amica, fluttuando come
poteva.
Angel
giaceva in una pozza di
fango qualche metro più in là. Non aveva sbattuto
contro niente e
l'acqua sembrava non avere nessuna intenzione di avvolgerla come
stava facendo con lui. E lei sembrava stare relativamente bene, solo
un po' acciaccata.
Se si fosse alzata e fosse
scappata via, lui si sarebbe sentito più sollevato ancora.
Il mostro incedeva verso di lei,
Mikey si dimenava forsennatamente, Angel si rialzava con un po' di
fatica, un pezzo della maschera scheggiato dalla forza dell'impatto
di prima.
Un altro sciame di bollicine
lasciò la gola del mutante, ormai ad un passo dallo svenire.
In poco
tempo i suoi polmoni
avrebbero chiesto ossigeno e lui avrebbe ceduto al bisogno e avrebbe
preso un respiro d'acqua e sarebbe morto.
Sentiva già la coscienza
vacillare, la gola e i polmoni bruciare e tutto ciò che
voleva era
ossigeno, un respiro, un soffio. Lottò disperatamente, la
disperazione della morte.
Oltre la bolla i contorni
sembravano sfocare ancora.
Forse mancava poco. Chissà come
avrebbe pianto il sensei, chissà come avrebbero sofferto i
suoi
fratelli... chissà come avrebbe distrutto definitivamente
Raph.
No, non poteva farglielo, a
Raph. Non anche quello.
Qualcosa di
scintillante calò
dal cielo, catturando ogni bagliore attorno.
Si fece strada attraverso
l'acqua e la scisse, con precisione chirurgica, separandola in due
metà perfette e distinte, che collassarono e si sciolsero in
ridicole pozze.
Mikey si sentì trascinare verso
il suolo, ma capì che era fuori solo quando la sua bocca si
aprì e
trasse un sofferto ed esigente respiro, tossendo poi con tutta
l'anima per il freddo improvviso e il bruciore alla gola.
“Tutto
ok, fratellino?”
domandò la cortese voce di Leo, mentre lo aiutava a
rialzarsi con
una mano gentile. L'altra stringeva ancora la Katana che lo aveva
liberato, impregnata di acqua e splendente.
“Sì,
adesso sì, grazie”
rispose tossicchiando, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.
Con la coda dell'occhio vide Steve che parlava con Angel e le offriva
il suo aiuto per rialzarsi per bene.
“Quando
hai detto che era
davvero grave non scherzavi” disse il leader, occhieggiando
la
creatura, che intanto si era bloccata, forse per la loro apparizione
improvvisa.
“Cos'è
quello?”
“Se
lo sapessi te lo direi
volentieri. Ma credo sia il motivo per cui ha piovuto così
tanto,
ultimamente” rispose Mikey, dando segno di averci pensato
molto
anche lui.
“Punti
deboli?” domandò
ancora Leo, senza perderla d'occhio.
“Finora
non pervenuti.”
Leo non replicò ancora, ma
sbuffò invece dal naso, fortemente cinico.
“E
come diamine lo
sconfiggiamo?” esalò tra i denti, tra
sé e sé.
La sua
formazione guerriera
prese il sopravvento su quel pensiero razionale e si buttò
all'istante all'attacco, seguito in una frazione di secondo dagli
altri. Avrebbero trovato la soluzione strada facendo. O se la
sarebbero inventata, come sempre.
Colpirono alla base del mostro
in continuo flusso, che vorticava su sé stessa
infinitamente,
rimescolando l'acqua. Nessuno di loro quattro si risparmiò,
forti
della reciproca presenza, di nuovo un team anche se differente dal
solito. Si sarebbero sostenuti a vicenda.
Ma non sembrava quella
l'intenzione della creatura.
Aveva
ripreso ad attaccare e a
muovere le sue masse con violenza e furia, ma mentre per gli altri
tre era solo uno scocciato gesto per tenerli a bada e alla larga,
contro Leonardo sembrava accanirsi con una brutalità
calcolata,
concentrando quasi tutta la sua attenzione su di lui.
Ma potevano anche sbagliarsi.
Non c'erano occhi che potessero guardare per capire dove andasse
l'attenzione.
Provarono a disperdersi un po'
per attaccarlo dai lati e dietro e davanti contemporaneamente e
immediatamente capirono che sì, il mostro si era interessato
a
Leonardo. Lo seguiva in ogni sua mossa, senza quasi lasciargli il
tempo di reagire.
Forse perché prima aveva
tagliato la sua bolla con facilità dimostrando di essere un
valido
avversario.
Leonardo
aveva schivato con
precisione ogni suo attacco e ne aveva portato a sua volta qualcuno
con successo, ma i flutti d'acqua dopo essersi separati si
ricompattavano senza nessuna ferita visibile. In più, il
mostro si
alimentava con la pioggia battente e dalle pozze tutto intorno a
loro, diventando via via sempre più grande e forte e feroce.
Un suo
getto, che fortunatamente evitò, si schiantò
invece contro due
alberi, sradicandoli insieme a zolle enormi di terra e spazzandoli
via.
La porzione del parco in cui si
trovavano verteva in condizioni pietose, distrutto e inondato e
smosso e martoriato.
Dovevano risolvere la questione
prima che intervenissero forze al di sopra della polizia e dei vigili
del fuoco: non voleva essere lì quando squadre del governo
sarebbero
inevitabilmente apparse, richiamate da segnalazioni e testimoni
oculari.
Aveva paura che certe voci
potessero essere arrivate alle orecchie di Bishop, per esempio.
Come smossa
da un pensiero
simile, la creatura di acqua si fece irrequieta e perfino
più
violenta: mulinò su sé stessa più
velocemente in un turbine oramai
indefinito e si scagliò con tre getti della medesima potenza
contro
Mikey, Angel e Steve, mancando il primo che si tuffò di lato
all'istante, ma prendendo gli altri due in pieno e scaraventandoli
via.
“Angel!”
gridò Leo.
“Steve”
urlò
contemporaneamente Mikey.
Michelangelo si lanciò verso di
loro, indisturbato, mentre Leo si trovò bloccato dopo solo
pochi
passi da una lastra di ghiaccio che gli sbarrò la strada,
formatasi
all'improvviso dalla pozza d'acqua sul terreno.
Si
voltò e cercò di
raggiungere allora la creatura, che lo voleva palesemente sfidare, ma
le gambe affossarono in denso fango, mentre flutti di acqua
arrivavano a ondate, lambendogli la pelle più su, sempre
più su.
Eppure non smise di lottare, di sollevare ogni passo impastato e
sempre più pesante, le spade sguainate strette forte nelle
mani, la
mascella contratta per lo sforzo e i respiri pesanti inspirati
attraverso i denti.
L'acqua gli arrivò al torace e
lo bloccò, provò a tagliarla con le lame,
provò ancora, ma
quella continuò a salire, fermando anche le braccia nella
sua morsa, e
prima che gli sommergesse anche la testa prese un profondo respiro.
Poi si ritrovò completamente
avvolto, sopra e sotto, chiuso in una bolla compatta, il liquido
freddo che premeva contro il suo corpo con soffocante forza. Si
dimenò con tutta la sua energia, alzò una delle
Katana contro il
limite della bolla, spingendo violentemente la punta acuminata per
romperla, ma non accadde nulla: l'acqua si tese allo spasmo seguendo
i suoi movimenti, non importava quando si agitasse, con quanta forza
lo facesse.
Le prime bollicine lasciarono la
sua bocca, immancabilmente.
Non sapeva
cosa stessero facendo
gli altri al di fuori della bolla, i contorni al di là
dell'acqua
erano indistinti e sfocati, ma sperava stessero bene e che si
mettessero al più presto al riparo; lui nel frattempo
avrebbe
lottato fino all'ultimo soffio per uscire da lì.
Con le Katana, con le unghie,
perfino con i denti se fosse stato necessario.
“Leo!”
aveva urlato Mikey
quando si era accorto della minaccia che serrava il fratello.
In un attimo si sentì
vacillare, al ricordo di cosa avesse passato lui dentro la bolla, e
non seppe cosa fare; rimase a guardarlo dibattersi con disperazione
per secondi che sembravano infiniti.
“Mikey,
cosa facciamo?”
domandò Steve al suo fianco.
“Non
lo so. Io... io...
chiamiamo Don!” rispose come folgorato, prendendo il telefono
dalla
tasca con le mani bagnate.
Leo si
sentiva sempre più
debole e non poteva evitare che l'aria uscisse pian piano dai suoi
polmoni, per quanto provasse a serrare le labbra, fino quasi a
morderle.
Si agitava così tanto che gli
sembrava quasi che la bolla si muovesse, spostandosi di centimetro in
centimetro.
Se avesse potuto vedersi dal di
fuori si sarebbe accorto che si stava effettivamente muovendo verso
la creatura. Il mostro lo stava attirando a sé.
“No!”
urlò Angel, la prima
ad accorgersene. Si gettò verso la bolla e ci si
aggrappò come
fosse serico tessuto, e la tirò, con le unghie che
affondavano quel
tanto per inumidirsi, ma non abbastanza da poter raggiungere e
salvare Leo.
Prima che gli altri potessero
intervenire per darle una mano, un'onda si abbatté dall'alto
su di
lei, facendole perdere la presa quel tanto che serviva alla creatura
per permettere alla bolla di raggiungerla: le grandi braccia di
informe liquido si tesero, la afferrarono, i due identici materiali
si fusero, e la bolla venne fagocitata in un istante.
Videro
Leonardo fluttuare al
centro del torace del mostro, ancora con l'energia per lottare, ma
forse ignaro di quanta acqua in più lo circondasse e
separasse dalla
libertà. Gli sarebbe servito un miracolo per riuscire ad
uscire da
lì.
Leo, però, forse un cambiamento
lo percepì davvero.
Se prima era riuscito a
mantenere un flebile contatto con l'esterno, come vaghi suoni e
vibrazioni che lo avevano raggiunto anche al centro della bolla, in
quel momento si sentiva isolato da ogni cosa.
Non sentiva nessun rumore,
nemmeno il roboante gorgoglio della creatura. Il liquido premeva
contro gli occhi e le orecchie, isolandolo completamente. Nessun
suono, nessuna percezione.
E
perciò i rumori all'interno
del suo corpo si amplificarono e rimbombavano con prepotenza.
Il ritmo tribale del suo cuore
pompava nelle orecchie e nella testa, accelerato per lo sforzo e la
paura. Eppure, era stranamente rilassante.
Si permise di lasciarsi cullare
e, dopo qualche attimo, si accorse di qualcos'altro che sentiva,
ma che non proveniva dal suo corpo: era come un calore che fluttuava
a ondate, sfiorandolo di tanto in tanto. L'energia che muoveva quella
creatura, che ne teneva legati gli atomi, che le dava uno scopo.
E dopo averla ascoltata e
sondata per qualche istante si accorse che sapeva di buio dolore, di
paura e costrizione. Come una creatura in trappola. Come di qualcuno
che attendeva nell'oscurità che qualcun altro lo andasse a
salvare.
Era un sentimento così forte
che gli avrebbe mozzato il respiro, se solo ne avesse avuto. E invece
che rifuggirlo, cercò di studiarlo più a fondo,
di meditare per
raggiungerlo e legarcisi, forse convinto potesse svelargli la
verità
di quella creatura.
Finì
per connettersi così
profondamente da percepirle come proprie emozioni e seppe, anche se
era immerso nell'acqua, di stare piangendo.
La sua voglia di lottare svanì
nello stesso istante. Rimase a galleggiare pigramente nel liquido
come un feto nel grembo materno e fece suo quel dolore e aggiunse le
sue lacrime a tutte le altre che alimentarono ancora la creatura.
L'ultimo fiato lo abbandonò in
piccole bolle che risalirono verso l'alto, ma non gli importava.
“Leo!
Perché ha smesso di
lottare?” urlò Mikey disperato, che aveva
assistito a tutta la
scena mentre parlava al telefono con Don.
L'assimilazione di Leo, la sua
combattività scemare fino ad arrendersi completamente.
“...
no, Donnie, non lo so...
lui non si muove e io-”
Il mostro si bloccò, nell'atto
di colpirli, e così rimase, immobile. I suoi vortici
rallentarono
poco a poco e la massa iniziò a traballare disomogenea, in
flutti
alti da una parte e radi dall'altra e poi rimescolandosi ancora, come
in cerca di un equilibrio.
“Sta
succedendo qualcosa, Don.
Non so cosa!” strillò Mikey al telefono, quasi
urlando.
La creatura
esplose in fine
pioggerellina, senza altro rumore oltre quel leggero picchiettio,
senza un apparente perché: l'acqua cadde al suolo e
scivolò via,
inerme.
Solo, semplice acqua.
Leonardo
toccò il terreno più
pesantemente, guscio a terra, e si precipitarono immediatamente per
vedere come stesse. Michelangelo sollevò la sua testa con
delicatezza, cercando di capire per quanto ne sapeva lui se stesse
respirando o meno. Il telefono lo aveva spento senza pensarci quando
aveva visto il fratello precipitare, chiudendo la chiamata mentre Don
ancora gli parlava.
“Non
ti azzardare a farmi la
respirazione bocca a bocca, Mikey” gracchiò Leo
dopo qualche
istante, prendendo un gran respiro profondo.
Poi tossì leggermente e si mise
piano a sedere, dandosi un'occhiata attorno. Enormi pozze lo
circondavano, ma le acque fluivano via senza pericolo, disperdendosi
con lentezza.
“Cos'è
successo? Come hai
fatto a-”
Leo scosse
la testa, troppo
provato per parlare ancora. E poi, non lo sapeva nemmeno lui che
fosse successo davvero. Non sapeva se sarebbe stato in grado di
spiegare quello che aveva provato e perché lo aveva provato
e se
fosse connesso o meno con la sconfitta della creatura.
“Cos'è
quello?” domandò
Steve, puntando un dito verso il terreno, proprio accanto a Leo.
Il leader seguì con lo sguardo
e si accorse di un piccolo sasso bianco, tondo e perfetto come una
moneta, infilato per metà nel fango.
Allungò la mano e lo afferrò,
tirando delicatamente. C'era un forellino proprio in cima, come in
attesa di un cordino.
“È
un ciondolo” mormorò,
studiandone il retro. “Devo portarlo da Don.”
Avrebbe voluto sdraiarsi al
suolo e dormire direttamente lì nel fango, completamente
sfinito e
provato, ma dovevano andare via prima che potessero intervenire forze
speciali o essere perfino visti per caso.
“Andiamo
a casa.”
Lo
aiutarono ad alzarsi e Mikey
lo prese da sotto il braccio, sostenendolo e facendosi sostenere,
entrambi molto stanchi. Poi si allontanarono più veloce che
poterono, attenti che nessuno li notasse, tutti a rimuginare su
quello che era successo, ognuno con le sue teorie nella testa.
E nessuno
si era ancora accorto
che aveva smesso di piovere e che le nuvole si stavano diradando,
sospinte da un vento gentile.
Note:
Salve a
tutti!
Avrei dovuto pubblicare giorni
fa, perdono, ma non ci sono riuscita.
Eccomi quindi qua, anche se in
ritardissimo. Mi sono presa Agosto di ferie, va bene come scusa?
Come
Bibliotecaria aveva
indovinato, Raph si è buttato negli allenamenti.
Però non è
proprio così terapeutico come si può immaginare.
Sta solo sfogando
la sua rabbia repressa, ma farebbe meglio ad affrontarla, invece.
E mentre si
affronta il lutto e
si cerca di andare avanti, un nuovo mistero si affaccia e sembra solo
l'inizio di qualcosa. Cosa? Eh, le risposte arriveranno.
Perché le sfighe arrivano
sempre insieme e ovviamente l'universo non li può mica
lasciare in
pace a leccarsi le ferite. No. Azione, ancora e sempre misteri, e
lotte.
Non
segnalerò più nel titolo
quale fase Raph sta attraversando, perché da adesso in poi
saranno
per lo più mischiate. Qui vediamo un accenno di
patteggiamento, per
esempio, ma anche leggera rabbia, e la depressione non lo lascia mai
davvero.
Vi
ringrazio per seguire ancora
e sempre questi miei deliri, sono felice e grata. Grazie!
Abbraccione
a tutti!
|
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Capitolo 30 *** Light my fire ***
Donatello
era in fervente agitazione. Lo stava dilaniando.
Quando
la chiamata con Mikey si era interrotta aveva imprecato, sottovoce,
poi aveva provato e riprovato a chiamare: le prime due volte a vuoto,
poi la terza finalmente quel disgraziato del fratello aveva risposto
e gli aveva assicurato che stavano bene e che stavano tornando.
Perciò
girava in tondo davanti all'ascensore, aspettando che arrivassero a
casa e gli spiegassero cosa fosse successo. L'agitazione che gli
aveva trasmesso la voce di Mikey per telefono era difficile da
cancellare.
Si
fermò solo quando sentì il lieve rumore
dell'ascensore in discesa,
e rimase impalato. Quando le porte si aprirono riversando i suoi
passeggeri, Don fece un veloce controllo: Leo e Mikey si sostenevano
l'un l'altro visibilmente provati, Angel aveva la maschera spaccata
ed era ricoperta di graffi e fango e Steve sembrava quello meno
malconcio, ma comunque scosso quanto gli altri.
Si
avvicinò e aiutò i suoi fratelli, con solerzia.
“Cos'è
successo?” chiese, mentre si dirigevano verso il laboratorio.
Nessuno
rispose, forse troppo stanchi, forse solo alla ricerca delle parole
giuste.
Leonardo
venne forzato a prendere posto sul lettino, Mikey si
accasciò su una
sedia e Angel sull'altra, e Steve si appoggiò alla
scrivania; mentre
Don passava da uno all'altro a controllarli e visitarli, finalmente
iniziarono a raccontargli cosa era successo, a spezzoni,
interrompendosi l'un l'altro per aggiungere dettagli quando li
dimenticavano per la fretta.
Quando
il genio ebbe applicato anche l'ultimo cerotto, -erano tutti in buone
condizioni, giusto un po' di stanchezza e qualche graffio,- ormai
aveva saputo tutto quanto.
Ma
non per quello si sentiva meglio. Era un nuovo mistero che si
affacciava nelle loro vite e le stravolgeva.
E
le mille teorie che si era immaginato gli dicevano che era solo
appena iniziata.
“Hai
detto di aver trovato un ciondolo? Posso vederlo?” disse
rivolto a
Leo.
Il
leader annuì e si sporse in avanti per porgerglielo, ma
quando il
monile entrò in contatto con la mano di Donatello si sciolse
e
scivolò giù come acqua, picchiettando
morbidamente sul pavimento.
Spalancarono
tutti gli occhi, continuando a guardare esterrefatti finché
anche
l'ultima goccia non cadde sulla pozza e allora la massa d'acqua si
contrasse e ricompattò nel ciondolo bianco, senza produrre
un
rumore.
Nessuno
disse nulla, incapaci tutti di staccare lo sguardo da quella
stranezza appena accaduta. Il genio si chinò per controllare
l'innocuo oggetto a terra, e gli sembrò compatto e solido,
ma quando
allungò la mano per prenderlo la sua struttura
traballò e iniziò a
sciogliersi, ritornando all'istante come prima quando la
scostò.
“Leo,
prendilo tu, per favore” chiese con voce incolore, senza
muoversi
da lì.
Leonardo
aggrottò solo per un secondo le sopracciglia poi, con molta
attenzione, scese dal lettino e si inchinò lentamente,
poggiando una
mano sulla spalla del fratello per aiutarsi nella discesa.
Le
sue dita si chiusero sicure sul ciondolo e lo afferrarono,
sollevandolo dal suolo. Lui e Don si rialzarono e il genio
sospirò.
“Ok,
sembra che solo tu possa toccarlo” concluse, aiutandolo nel
frattempo a risedersi.
Tutti
erano chiusi in un silenzio di riflessione, ma la risposta a cui
tutti stavano pensando era palese sui loro volti.
“Sì,
è un oggetto magico” disse ancora Don, dando
certezza ai loro
pensieri.
“Non
so chi ci sia dietro, ma quella creatura che avete combattuto era di
certo magica, come magico è il ciondolo che si è
lasciato dietro. E
ho paura che tutto questo sia solo l'inizio di qualcosa di grande e
che non siamo in grado di affrontare.”
Don
prese un grande respiro, dopo quella stanca confessione del suo
cuore, e si accorse che non lo stavano seguendo.
“Non
dovete parlare di questa storia con Raph” iniziò a
spiegare.
“Qualsiasi cosa succeda, non dite nulla a Raph!”
“Perché?
E dov'è?” lo interruppe Mikey, sorpreso dal suo
tono urgente.
“Sta
riposando in camera sua. Promettetemi che non gli parlerete del
mostro e del ciondolo! Io... temo che abbia a che fare con Isabel.
Credo che questo sia solo l'inizio della battaglia o guerra per cui
Isabel si era dovuta allenare. Quel qualcosa che sarebbe successo
nell'arco di un anno dal Battle Nexus e per cui lei avrebbe perso il
controllo dei suoi poteri. Ricordate?”
Non
ci fu bisogno di guardarli per capire che tutti stavano rivangando
quel particolare momento nella memoria, quando gli Shisho avevano
attaccato Isabel e poi le avevano spiegato dell'instabilità
dei suoi
poteri, rivelandole che in meno di un anno da quel momento avrebbe
perso la padronanza dei suoi poteri e che nella sua furia
distruttrice avrebbe annientato tutto ciò che la circondava,
uccidendo anche coloro che amava.
Allora
Donatello si era chiesto per quale motivo lei avrebbe mai potuto
perdere il controllo, che cosa sarebbe dovuto accadere
perché
succedesse, e adesso avevano la risposta sotto mano.
Qualcuno,
o forse più di uno, con facoltà magiche, stava
attaccando New York,
forse alla ricerca di Isabel. Forse per qualche motivo di rivalsa.
Forse per questioni magiche che loro non comprendevano. Senza sapere
che Isabel non c'era più.
E
tutti sapevano e sentivano che toccava a loro raccogliere la sua
eredità e combattere.
“Per
questo, Raphael non deve sapere nulla. Verrebbe consumato da un
insano desiderio di vendetta e finirebbe per farsi uccidere.”
Furono
tutti d'accordo, tacitamente. Nessuno di loro avrebbe mai svelato
quel segreto e rischiato di mettere in pericolo il loro fratello o
amico.
“Voglio
studiare il ciondolo e cercare di scoprire se può dirci
qualcosa”
continuò Don, facendo cenno a Leo. “Appoggialo sul
tavolo per
favore, col simbolo verso l'alto.”
Il
leader si alzò e fece come richiesto, lasciando il monile
vicino al
microscopio, la faccia visibile solcata da profonde linee che
formavano un triangolo con la punta rivolta verso il basso, a
giudicare dalla posizione del foro in cima.
Avevano
capito dovesse essere un messaggio o un simbolo importante, ma
nessuno di loro aveva idea di cosa fosse.
“Se
potessimo contattare un mago sarebbe tutto più
facile” sospirò
Michelangelo, osservando il genio che provava a controllare la
superficie del ciondolo con una lente di ingrandimento.
“Già.
Ma non sappiamo dove siano, né come chiamarli. Nemmeno
quella
Michelle che era diventata amica di Isabel... non abbiamo neppure
potuto avvisarli della sua morte.”
Si
guardarono tutti con dolore, con rassegnazione mista a paura, e le
parole non erano più necessarie perché tutti
sapevano di provare le
stesse cose.
Donnie
li mandò a riposare con tassativo ordine, mentre lui avrebbe
continuato a studiare il ciondolo e a fare ricerche per capire contro
cosa stavano per immischiarsi.
Sperando
di riuscire a venirne a capo prima che qualcos'altro spuntasse fuori
e li attaccasse alle spalle senza preavviso.
Nei
giorni seguenti quel pensiero assillò le menti di tutti, ma
nessuno,
nemmeno Donatello dopo innumerevoli studi, era riuscito a trovare
risposte.
Una
volta Raph aveva notato il ciondolo mentre Don gli controllava
l'occhio e gli cambiava la fasciatura dopo averlo rimedicato, -non
c'erano molti miglioramenti, ma almeno aveva smesso di grattarlo e
sembrava si stesse rimarginando lentamente;- aveva chiesto cosa fosse
e Don aveva liquidato con una risposta vaga, chiedendo poi a Leo di
portarlo via, dato che tanto non aveva scoperto nulla.
Passò
ben più di una settimana, nel frattempo, e New York dopo le
piogge
torrenziali era piombata nella calura pre-estiva che molti
aspettavano da tempo: mancava poco meno di una settimana al solstizio
d'estate e le temperature salirono rapidamente, di giorno in giorno.
Anche
troppo.
Alla
vigilia del solstizio i termometri toccarono i quarantasette gradi
celsius e New York era paralizzata da un'ondata di caldo che creava
non pochi problemi: a causa dell'eccessivo uso dei condizionatori e
ventilatori una buona parte della città era piombata in un
lungo
black out e le emergenze erano state all'ordine per i primi giorni;
il comune aveva dovuto istituire una tabella dei consumi per le varie
zone, per evitare un altro sovraccarico.
I
colpi di calore colpivano indiscriminatamente tra gli anziani e i
bambini e perfino soggetti nel pieno delle forze e i vari centri che
poche settimane prima avevano offerto soccorso contro l'alluvione, si
prodigavano a distribuire scorte d'acqua ai cittadini meno abbienti e
a controllare che i senza tetto non morissero sotto il sole cocente
di mezzogiorno.
Era
sconsigliata qualsiasi uscita nelle ore più calde, in cui le
temperature all'ombra toccavano i cinquanta gradi; anche l'acqua era
stata razionata a causa della imminente siccità che tutti si
aspettavano se non fosse arrivato un po' di fresco al più
presto.
Ovviamente
il cambiamento così repentino aveva scosso ancora di
più la città
e gli opinionisti e i difensori dell'ambiente non persero l'occasione
per parlare dell'anomalia ad ogni ora su qualsiasi canale, con toni
sempre più allarmati.
Sfortunatamente,
nemmeno a notte fonda c'era il benché minimo refrigerio e le
ronde
erano diventate un vero inferno.
Nella
sfortuna però, c'era che il caldo aveva abbattuto anche la
criminalità più incallita, e le notti erano
piombate in una sorta
di coprifuoco auto-imposto; d'altronde, chi avrebbe mai voluto sudare
e faticare con una cappa di afa e più di quaranta gradi, per
poi
magari dover anche scappare di corsa per sfuggire alla polizia?
Quindi
la maggior parte del tempo impiegato nelle ronde era solo passeggiate
infinite, fiaccati dal caldo.
In
sostanza il mistero del ciondolo restava un mistero, il caldo
diventava sempre più intenso e le domande non trovavano
risposta
alcuna.
E
fu allora, quando tutto sembrava stagnante e immobile, che qualcosa
di nuovo e strano li scosse e li portò nel passo successivo
di
quella assurda storia.
Il
ciondolo di Leo brillò. Una sera, all'improvviso.
Aveva
incominciato a portarlo addosso, legato con un cordino al collo,
nascosto sotto il colletto della tuta o delle sporadiche magliette
perché Raph non lo vedesse.
Si
era perfino dimenticato di averlo, si era comportato come un semplice
ed innocuo ciondolo per giorni e lui non ci aveva più fatto
caso,
preso da altri pensieri, consumato da altre preoccupazioni.
Poi,
una sera, il suo petto si accese.
“Leo!
Leo, stai... brillando” mormorò spaventato Steve,
mentre erano di
ronda, bloccandosi di colpo.
Leonardo
si accorse solo allora del bagliore bluastro che emanava e che si
rifletteva sulla maschera nera dell'amico. Abbassò lo
sguardo e vide
l'intenso chiarore azzurro che filtrava attraverso il tessuto serico
della tuta, accendendolo come un faro nella notte.
Era
elettrizzante e spaventoso allo stesso tempo.
Infilò
una mano nel colletto e ne tolse fuori il ciondolo che, liberato
dalla sua gabbia, splendette ancora più forte.
“Cosa
diamine...”
Prese
immediatamente il telefono e chiamò Donnie, raccontandogli
per filo
e per segno cosa stesse succedendo.
Ovviamente,
come si era aspettato, il genio sembrava avere tutto sotto controllo,
sembrava capire quel mistero come nessuno di loro riusciva a fare.
Ascoltò
nel ricevitore le sue parole, corrugò la fronte e
sollevò il
ciondolo in alto, girandosi attorno.
Il
fulgore crebbe di intensità, dovette coprirlo con la mano
per
provare a schermarlo e non essere visto perfino dall'altra parte
della città.
“Sì,
avevi ragione” disse nel telefono, mentre rimetteva la
collana
sotto la tuta. “Ti aspettiamo qui, avviso io Mikey. Stai
attento
che Raph non ti veda uscire.”
Chiuse
con un sospiro tetro e senza guardare Steve o ragguagliarlo, compose
il numero di Michelangelo e portò il telefonino all'orecchio.
Alla
risposta comandò al fratello e ad Angel di raggiungerli,
fornendo le
coordinate, aggiungendo di sbrigarsi, poi interruppe la chiamata.
Rimasero
in attesa, Steve voleva fare molte domande, ma decise di pazientare;
la luce azzurra li bagnava ancora, filtrando senza fatica oltre la
sua barriera di tessuto.
Donnie
arrivò per primo, con la sua fidata borsa a tracolla.
Fece
per aprire bocca, gli occhi spalancati che si beavano della
luminescenza azzurra con meraviglia e curiosità, quando
Mikey e
Angel comparvero trafelati, per poi bloccarsi anche loro sorpresi.
“Wow”
esclamò Michelangelo, avvicinandosi come in trance verso la
luce,
allungando una mano.
Leo
la schiaffeggiò piano, giusto per riportarlo alla ragione.
“Cosa
sta succedendo?” domandò infine Steve, dando voce
a ciò che tutti
pensavano.
“Credo
che il ciondolo stia reagendo alla presenza di qualcosa o qualcuno
con la stessa matrice di energia” rispose Don, senza
accorgersi
della loro confusione.
“Non
ho capito” ammise Mikey.
“Significa
che sente la presenza o di chi l'ha creato o di un'altra creatura
come quella che lo conteneva” spiegò il genio, con
poche e
semplici parole.
I
sensi di tutti si fecero all'erta. In tutte e due i casi avrebbero
dovuto combattere, ne erano certi.
“Allora
dobbiamo seguire la luce?”
“Sì,
anche se ho paura che capiremo dove andare ben prima.”
Leo
sfilò nuovamente la collana da sotto la tuta e
lasciò che la sua
luce fluisse libera, guidandoli come un faro; si gettarono tutti in
una veloce corsa, seguendo la scia luminosa con fiducia e un po' di
paura.
“Raphael
non si è accorto che sei uscito?” chiese d'un
tratto Leo, in testa
al gruppetto.
“No,
stava meditando col sensei nel dojo. Ho detto che andavo a coricarmi,
di non disturbare” lo rassicurò Donnie, anche se
per nulla sereno
lui stesso.
Mentire,
o meglio sottacere, quello che pensavano di aver scoperto, non
sembrava giusto a lui come agli altri, eppure sentiva di dover
proteggere Raph da tutto quello. Non pensava fosse ancora pronto per
affrontare la causa, anche se indiretta, della morte di Isabel.
Forse
non sarebbe stato pronto mai, non senza finire dilaniato dalla rabbia
e dalla disperazione.
Corsero
per molto tempo, prima di poter sentire qualcosa.
Delle
sirene, lontane.
Come
Donatello aveva temuto, i segnali di allarme li avrebbero guidati al
pericolo prima ancora della collana.
La
direzione della luce e quella delle sirene era la stessa, in fondo, e
non poteva essere un caso.
Una,
due, tre, quattro, cinque autopompe dei vigili del fuoco sfrecciarono
velocemente sotto di loro, spaccandogli i timpani, con una fretta che
faceva paura. Qualsiasi fosse la minaccia, doveva essere ben grave
per costringere così tanti mezzi all'azione.
Per
il resto, però, le strade erano deserte, le persone
costrette dal
caldo sempre più alto e bruciante a nascondersi nelle
proprie case
alla ricerca di refrigerio, e nemmeno il rumore disperato delle
sirene le aveva smosse.
Loro
invece accelerarono per non perderle di vista, anche se non ce n'era
davvero bisogno: videro la minaccia da lontano, la videro agitarsi e
riempire l'aria anche a quella distanza, tingendo la notte di
famelici bagliori aranciati e rossi.
Era
una gigantesca creatura di fuoco, così brillante da non
poterla
guardare senza sentire bruciare gli occhi, che si dimenava e
dibatteva, ardendo tutto quello che capitava sulla sua strada,
indiscriminatamente. Palazzi, alberi, macchine, lampioni, panchine.
Bruciava tutto, consumava ogni cosa in pochi istanti, con una fame
insaziabile.
Il
suo corpo era un ammasso di fiamme in continuo crepitio e divampare,
le lingue di fuoco che danzavano scomposte cambiando colore dal rosso
più intenso al giallo più spendente, in continuo
mutare, in
continuo ansimare.
C'era
un caldo soffocante, quando infine arrivarono, che impediva loro di
respirare bene. Le gole bruciavano quanto l'aria attorno e la pelle
ardeva. Angel sentì le punte dei capelli crepitare per il
calore
secco e rovente e si chiese quanto ne avrebbe dovuto tagliare, se mai
fossero usciti vivi da lì.
Le
autopompe avevano accerchiato la creatura e i bravi vigili puntavano
le bocchette delle pompe contro di essa, in attesa del via: ad un
segno di quello che doveva essere un capo squadra, almeno quindici
enormi getti in contemporanea, con una pressione che avrebbe spazzato
via un carro armato, esplosero e investirono il mostro, inondandolo
completamente in pochi secondi mentre un gran vapore si sollevava
verso il cielo.
I
fiotti continuarono a sgorgare ininterrotti per interi minuti e il
vapore crebbe e crebbe fino a diventare una nebbia che avvolse ogni
cosa, appiccicandosi alla pelle già bagnata di sudore.
I
pompieri esultarono, convinti che fosse già tutto finito. Si
scambiavano pacche felici, sorridevano. Nessun incendio avrebbe
potuto resistere alla portata di un attacco d'acqua di quella
potenza, pensavano. Nemmeno un mostro come quello.
Il
vapore si scisse all'improvviso con un crepitio che pareva un
lamento, netto, e con maggiore potenza e furia la creatura emerse, le
fiamme persino più alte, la sua brillantezza più
accecante dopo la
breve pausa di penombra della nebbia.
Con
un grido unanime gli uomini sollevarono le lance e le diressero i
getti contro, ma l'acqua evaporava all'istante contro il fuoco della
creatura, senza procurarle il minimo danno o dolore. Anzi, l'ossigeno
sprigionato dall'evaporazione istantanea dell'acqua la
alimentò più
e più, facendola crescere a dismisura, più
grossa, più alta, più
aggressiva.
Sembrava
averne abbastanza di loro.
Una
zampa rovente si sollevò e calò velocemente al
suolo, e una colonna
di fuoco si innalzò nel punto di impatto: l'autopompa
colpita
esplose per l'eccessivo calore, volando verso il cielo come una
meteora incandescente.
Ci
furono cori di urla e un fuggi fuggi stranamente composto e metodico:
i pompieri in forze portavano via quelli che si erano feriti durante
l'esplosione, schermandoli con i loro colpi dalle fiamme, scappando
sostenendosi uno all'altro in ranghi serrati.
Ma,
per quello, risultavano più lenti e più visibili.
Mentre
l'autopompa carbonizzata ricadeva a terra con
un gran fragore e scintille, la zampa si sollevò ancora una
volta e
puntò dritta contro un gruppetto di vigili che soccorrevano
un loro
compagno immobile e sanguinante a terra, colpito da un pezzo di
metallo allo stomaco.
Leonardo
scattò in avanti prima
di averci pensato propriamente, mosso dall'istinto; si mise di fronte
alla squadra che cercava di fuggire quanto più velocemente
possibile
senza far male al ferito, e con le spade sguainate
contrattaccò
nella vana speranza di poter fermare quel muro compatto di fuoco che
gli correva contro.
L'impatto lo avrebbe
carbonizzato all'istante, lo sapeva.
Sentì il calore crescere e la
luce delle fiamme abbagliarlo. Chiuse gli occhi e attese.
Ma il bruciore infernale che si
aspettava lo avrebbe avvolto non arrivò mai.
Sfidò la prudenza e
socchiuse appena gli occhi e tutto ciò che vide fu un'intensa luce
azzurra che lo circondava come la bolla d'acqua aveva fatto a suo
tempo, schermandolo contro il fuoco.
Si
alzò in tutta la sua statura
allora e rimase dritto a guardare la creatura attraverso quello scudo
benefico: ringhiava, graffiava contro quell'inattesa seccatura che si
era messa fra essa e le sue prede, e Leonardo riuscì a
vedere
qualcosa pulsare al suo interno, oltre i vortici di fiamme, che
sembrava un buco nero. Oscuro. Malato. Sempre più grande.
Dava una sensazione così
diversa dall'essenza vitale della creatura d'acqua. Allora era stata
un miscuglio di paura e dolore; ciò che sentiva in quel
momento,
anche a quella distanza, erano una gran rabbia e una disperazione
sconfinate.
Si sentì quasi piegare sotto la
sua furia e non avrebbe resistito se non fosse stato per il potere
del ciondolo che portava al collo, ne era conscio.
“Andate
via! Presto!” urlò
urgente torcendo appena la testa, chiedendosi quanto sarebbe mai
durato quel prodigio magico.
I vigili del fuoco osservarono
solo per un secondo la strana figura col guscio che cercava di
proteggerli, poi con un cenno del capo presero il compagno in spalla
e corsero via.
“Leo!”
sentì infine
chiamare i suoi fratelli.
Donatello sembrava sorridere
compiaciuto di ciò che era riuscito a fare, -ma era poi
stato lui a
fare qualcosa e non il ciondolo invece ad agire di sua iniziativa?-
Dalla faccia di Michelangelo
stava scomparendo un'espressione spaventata, sostituita in fretta da
una di gioia nell'accorgersi che il leader era intero e salvo, e che
in qualche modo riuscisse a tenere testa alla creatura.
Ancora una volta.
Sembrava
che nessun altro
avrebbe mai potuto fronteggiarla senza rischiare di incenerire
all'istante e Leo sentì la pressione di quel pensiero,
sentì la
responsabilità di quella missione.
Anche se, in cuor suo, non
sapeva affatto come poter combattere contro quella rabbia e
quell'angoscia che gli arrivavano addosso.
“State
lontani” gridò al
suo gruppo, cercando di suonare fiducioso.
Aveva le armi già strette nelle
mani e si gettò in un attacco deciso, istintivo, senza
pensare a
esiti e conseguenze: la bolla azzurra lo seguì nella sua
corsa
scindendo le fiamme, ma quando provò a colpire la creatura,
le lame
delle spade si incendiarono e divennero all'istante incandescenti e
le lasciò andare con un grido soffocato.
Il metallo non tintinnò
nemmeno, si era già liquefatto quando tocco il suolo.
Come, come si poteva sconfiggere
un mostro di trenta metri di puro fuoco?
La creatura
si agitava sempre
più, scuotendo a destra e sinistra la massa infuocata,
lanciando
scintille tutto attorno che accendevano altri incendi e la
alimentavano ancora.
Il caldo e l'afa erano
soffocanti e i fumi che si sollevavano iniziavano a rendere
difficoltosa la respirazione.
Di quel passo, avrebbero dovuto
arrendersi. Sarebbero dovuti scappare.
“Isabel...
Isabel è morta!
Cosa volete da lei? Cosa volete da noi?” urlò Leo
frustrato,
cercando una soluzione, una qualsiasi, che potesse aiutarli. Aveva
pensato che forse, dicendo la verità a chiunque ci fosse
dietro, le
cose sarebbero cambiate.
La creatura si fermò
un'istante, come se avesse sentito la sua voce. Rimase immobile a
guardare verso il leader, quasi invitandolo a ripetere.
“Isabel
è morta. Chi siete e
cosa volete?” disse ancora Leonardo.
Per pochi
secondi ci fu il
silenzio, e sentì che aveva capito, che il messaggio era
stato
recepito.
Ma accadde tutto il contrario di
ciò che aveva immaginato: sembrò quasi che non ci
fosse più aria,
solo fuoco, fuoco che esplose, alto fino al cielo, mentre il crepitio
delle fiamme si trasformava in un roco grido.
E la rabbia divenne
intollerabile. Leonardo si sentì fisicamente male, al
percepirla.
Indietreggiò e si schermò il viso con un braccio,
sentendo che
ormai lo scudo stava cedendo sotto la sua furia.
“Dobbiamo
andare via! È
ingovern-”
Stava per finire il suo ordine
alla squadra e scattare verso di loro per scortarli col potere
residuo della collana lontani da lì, quando un urlo atavico,
profondo, arrivò tanto alto e disperato da sovrastare quello
del
mostro, entrambi egualmente feriti e furiosi, e una figura apparve,
fermandosi lì vicino.
Raphael stringeva i manici dei
Sai così forte che le nocche erano bianche e le vene
sporgevano
dolorosamente e pulsanti.
L'occhio
sano guardava verso
l'alto, con un'espressione di pura rabbia, al cui confronto quella
del mostro pareva nulla.
“Raph!”
strillarono tutti
insieme, sorpresi. Ma lui non si voltò a guardare nessuno di
loro.
Donnie sentì un brivido freddo
giù per la schiena, perfino in quel clima infernale.
“Raph!
Non fare pazzie! Ci hai
sentiti parlare, non è vero?” indovinò
facilmente, ma la sua voce
non attirò affatto l'attenzione del fratello.
Raphael continuava a osservare
il mostro e il mostro si era voltato al suo arrivo e osservava
Raphael con un interesse che fino a quel momento non aveva mostrato.
Forse, sentiva la sua rabbia così simile alla sua e ne era
attratto?
Il suo vortice di fiamme scemò
un po' d'intensità e sembrava quasi che cercasse di
compattarsi, un
po' più piccolo.
Tuttavia la minaccia non
sembrava minore.
“Raph!
Vai a casa! Ti
spieghiamo più tardi!” insisté
Leonardo, dato che lui non si
muoveva.
“Si
sono presi Isabel. Se lei
è morta è colpa di chiunque ci sia dietro a
questo mostro” disse
infine Raphael, la vena pulsante del collo che pareva sul punto di
esplodere.
“Ci
pensiamo noi!” strillò
Don, che si era allontanato con Steve, Angel e Mikey, incapaci tutti
e quattro di sopportare quel calore così intenso senza un
potere
come quello che aveva protetto Leo.
“È
morta per causa tua”
mormorò Raphael, avvicinandosi verso la creatura.
E il mostro
si avvicinò a lui
di un passo, più piccolo, le fiamme più
controllate.
Sembrava voler prendere forma.
“Sembra
una... grossa
lucertola” disse d'un tratto Michelangelo, strizzando gli
occhi per
osservare bene anche nella luce abbagliante.
“Una
salamandra” lo corresse
Steve, che grazie alla maschera riusciva a vedere meglio.
Una salamandra di fuoco.
Che in quel momento, dimenticata
i suoi propositi di distruzione, guardava Raphael, rimpicciolendosi e
camminando verso di lui. Si sarebbero incontrati in pochi metri e
seppure ridotto, tutti si chiedevano se la pericolosità del
suo
fuoco non fosse comunque preoccupante.
“Raph!
Fermati! È pericoloso”
gridarono a turno, senza essere ascoltati.
Leo iniziò ad avvicinarsi per
impedire il peggio, anche se non sapeva ancora quanto la sua
protezione sarebbe durata, e anche Mikey e gli altri si mossero
istintivamente in avanti, presagendo la mossa successiva.
“Credo
che sia in trance! Raph
è in trance! Fermalo, Leo! Fermalo!”
urlò Don urgente, provando
ad arrivare in tempo anche lui.
In effetti, c'era qualcosa di
strano che non avevano notato subito.
Le braccia di Raphael erano
molli lungo i fianchi e le mani a malapena stringevano la presa sui
Sai, che rischiavano di cadere da un momento all'altro; camminava
piano, senza più un grammo della furia che lo aveva animato
fino a
pochi istanti prima.
L'occhio era fisso sul muso
della salamandra, negli occhi neri che risucchiavano perfino la luce
attorno.
Mancava un
passo al contatto,
Leo correva mentre la bolla azzurra ormai si affievoliva, Don e il
suo gruppo cercavano di raggiungerli; Raph si fermò e la
creatura
anche.
Sembrava si stessero scrutando,
l'uno nelle profondità dell'altro.
Per un attimo immobile il tempo
sembrò incrinarsi fino a scomparire del tutto.
Poi, le fiamme divamparono ed
esposero più violente di prima e la salamandra, crescendo di
dimensioni, balzò in avanti: Leonardo spiccò un
salto e afferrò
Raph gettandolo a terra, la creatura sbatté contro l'ultimo
residuo
di scudo mandandolo in frantumi e con un grido crepitante
continuò a
correre, distanziandoli e sparendo alla vista.
“Leo!
Raph! State bene?” fu
il coro che spense il silenzio.
Il leader si rialzò e osservò
il fratello al suolo con l'occhio visibile aperto, ma stranamente
vitreo. La benda si era un po' allentata e cadeva molle attorno alla
testa.
“Raph!
Mi senti? Raph!” lo
chiamò, la voce sempre più spaventata; lo scosse,
e alla fine
arrivò a schiaffeggiarlo piano, come ultima risorsa.
Raphael si
tirò su di scatto e
lo osservò, mentre il velo di nebbia cadeva dall'occhio.
Afferrò il
suo polso forte, quasi disperato.
“Il
villino! Il villino!”
strillò senza senso, guardandoli a turno, arrabbiandosi per
la loro
stupidità, per le loro espressioni stupite.
Si alzò in fretta e iniziò a
correre via, nella stessa direzione della creatura di fuoco,
lasciandoli indietro. Erano così sorpresi che ci volle a
tutti
qualche secondo prima di gettarsi nella sua scia, facendosi domande
tra loro a cui non avevano ovviamente risposta.
Dove stava andando Raph? Cosa
gli era preso?
Percorsero
chilometri, ma della
creatura sembrava essere sparita ogni traccia. Alle loro spalle si
erano lasciati l'incendio che si era creato, ma nel loro cammino non
trovarono nessun segno, non una scintilla, nemmeno il più
piccolo
fuoco, che potesse dir loro dove si fosse diretta.
Anche se Raph sembrava essere
perfettamente certo di dove stesse andando.
Lo raggiunsero, gli porsero
quelle domande che si erano fatti, ma lui continuò solo ad
arrancare
tormentato, la lunga benda bianca che gli sventolava dietro, ormai
sfatta.
Si fermò senza fiato solo
quando arrivò ad un vicolo oscuro che, anche se non vedevano
da
anni, nessuno di loro aveva dimenticato.
“Non
penserai... non può
essere entrato...” titubò Don, capendo in quel
momento.
Raph non rispose, non sarebbe
riuscito a spiegare con parole quella sensazione di violenza che
aveva sentito nella sua mente quando il mostro lo aveva soggiogato;
stava cercando qualcosa di suo, qualcosa di caro, qualcosa da poter
distruggere.
E non gli era rimasto molto,
ormai.
Si
lanciò in avanti e Mikey lo
afferrò in tempo per la spalla, formando una catena con gli
altri
perché potessero tutti oltrepassare la barriera magica, e in
una
frazione di secondo si trovarono nel giardino del villino, aggrediti
da un intenso bagliore e da calore.
Bruciava tutto, ardeva
velocemente.
Raphael si bloccò di colpo, il
respiro mozzo.
Quella scena, la casa avvolta
dalle fiamme, era identica alla notte in cui lei era stata aggredita
e Shadow era morto; la notte in cui l'aveva rivista e aveva capito di
amarla, la notte che era diventata la loro prima notte.
Gli sembrava quasi di vedere la
sua figura rannicchiata al suolo stringere disperatamente il corpo
del gattino, mentre alle sue spalle il fuoco le faceva da sfondo.
Ma Isabel non c'era.
E il villino era tutto ciò che
gli restava di lei.
Sentì
la rabbia montare a
ondate, via via che il fuoco si mangiava un'altra porzione dei suoi
ricordi in quella casa, della fatica che aveva fatto per ricostruirla
da zero e trasformarla nella loro futura abitazione, della sorpresa
che avrebbe voluto farle quando sarebbe tornata e l'avesse trovata
finita.
Con un boato il piano superiore
esplose, lanciando scintille e schegge infuocate su per il cielo e
collassò sulla struttura con uno schianto secco, che le
fondamenta
ormai consumate non potevano reggere ancora a lungo.
E qualcosa esplose anche dentro
di lui. Non poteva guardare ancora, non avrebbe retto.
Meglio farla finita.
Lasciò
andare i Sai e si gettò
a testa bassa, scrollandosi dalla spalla la mano di Mikey, dritto
contro ciò che rimaneva del portico ormai annerito.
“No,
Raph!” urlò quello, ma
quando fece per andargli dietro, il fratello era già
scomparso tra
le fiamme.
“Raph!”
“Raphael!”
Inorridirono. Leo fece per
muoversi.
“Vado
a cercarlo con il potere
del ciondolo” disse, ma la mano di Donatello lo
bloccò decisa e lo
sguardo del genio era sofferente eppure seria.
“Non
sai come funziona. Non
sai se puoi usarlo ancora!”
“Ma
non possiamo-”
Uno
schiocco potente riecheggiò
nella notte e la casa crollò su sé stessa, le
fiamme crebbero,
crebbero fino al cielo e poi scoppiarono come un enorme fuoco
d'artificio, illuminando la notte per qualche minuto, finché
non si
spensero del tutto.
Caddero in un'improvvisa
oscurità e le stelle iniziarono a splendere vividamente,
unica fonte
di luce. Rimasero ad osservare i tizzoni fumanti di ciò che
restava
della casa, anneriti e fragili, con così tanto dolore nel
cuore che
pareva dovesse fermarsi.
“Raph”
chiamò
Michelangelo con tono tremante, incamminandosi verso le macerie.
Doveva aggrapparsi alla speranza
che fosse vivo.
“Raphael”
fece eco Steve,
andandogli dietro.
Tutti si misero a chiamarlo e ad
aguzzare lo sguardo, in cerca di un segno, uno qualsiasi che potesse
dare loro una speranza.
Scavalcarono i detriti e
stettero attenti a non toccare nulla attorno, ma era tutto spento e
freddo e anche il caldo stava calando di intensità,
precipitosamente.
“Raphie”
mormorò Mikey
fermandosi, trattenendo a stento le lacrime.
C'era una figura rannicchiata,
-al centro di quella che un tempo doveva essere stata una sala da
pranzo,- incurvata sulle ginocchia come fosse in preghiera. Vide il
suo corpo muoversi e le spalle agitarsi per il pianto silenzioso.
La sua tuta era bruciacchiata e
lacerata in più parti, la fuliggine ricopriva buona parte
della sua
pelle, ma non sembrava ferito.
Il fratello si avvicinò a lui e
si chinò, poggiandogli una mano su un braccio.
Raphael si sollevò appena e lo
guardò, solo l'occhio sano aperto, ma piangeva da entrambi.
Nelle
mani chiuse a mo' di conchiglia sulle gambe stringeva un ciondolo
bianco, bagnato di lacrime.
Non ebbero
bisogno di fargli
nessuna domanda. Per quanto curiosi, il sollievo che avesse sconfitto
la creatura e fosse sopravvissuto era già sufficiente senza
dovergli
far rivivere tutto; sembrava già eccessivamente provato.
Mikey si sporse e lo abbracciò
e stranamente Raphael non lo respinse, ma rimase a piangere,
ancorandosi al ciondolo.
E tutto
intorno era caos, era
distruzione, era la fine di qualcosa. Ma nemmeno lontanamente
paragonabile a quello che aveva dentro.
Note:
Buona sera
a tutti.
È così bello, tanto bello
pubblicare.
Siamo nel
secondo passo del
nuovo mistero, anche se Don sembra avere già capito cosa
stia
accadendo e non si mette bene per Raph. È un incubo per lui.
Vedremo cosa accadrà.
Vi
ringrazio per la pazienza e
la costanza nel seguire questa lunghissima, interminabile storia (che
per la fine di quest'anno prometto di finire).
Grazie,
abbraccione sconfinato
|
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Capitolo 31 *** I believe I can fly ***
Quella
notte rimasero molte ore nel perimetro del villino magico,
finché
l'odore del fumo non fu scomparso del tutto e ciò che rimase
a
testimoniare quello che era successo furono le macerie carbonizzate.
Raph
pianse molto, lasciando andare parte di quel dolore che loro non
potevano comprendere.
Poi,
finalmente, tornarono al rifugio.
Era
già molto tardi, erano molto stanchi, perciò dopo
aver controllato
che Raph stesse bene e avergli medicato e fasciato di nuovo l'occhio,
andarono tutti a dormire, decidendo di lasciare le inevitabili
chiacchiere e le congetture all'indomani.
Raphael
si addormentò stringendo il ciondolo bianco nella mano.
Quello
che sognò quella notte era tutto avvolto dalle fiamme.
La
mattina dopo sedevano attorno al tavolo della cucina, intenti a
mangiare le frittelle di Mikey, e intanto chiacchieravano di quello
successo la notte prima.
Non
avevano acceso i televisori, non gli interessavano le teorie che
avrebbero tirato fuori gli umani, o le testimonianze di chi aveva
visto qualcosa durante la notte, forse anche dei pompieri che avevano
salvato. Niente di quello che avrebbero detto aveva una qualche
rilevanza per loro, nessuno avrebbe mai nemmeno lontanamente
immaginato la verità.
I
due ciondoli era poggiati tra il bricco del latte e il barattolino di
sciroppo d'acero. Uno, quello della creatura d'acqua, aveva inciso un
triangolo con la punta verso il basso, il nuovo invece aveva lo
stesso triangolo, ma voltato al contrario, con la punta verso l'alto.
Per
il resto sembravano assolutamente identici. Nessuno sapeva che
volessero dire quei simboli.
Spiegarono
a Raph nel dettaglio cosa si erano detti la volta precedente, che lui
aveva solo sentito a spezzoni nascosto dietro la porta e gli
confermarono che tutto quello aveva a che fare con Isabel. Raphael li
ascoltò con una strana calma, una serenità zen
che cozzava col suo
solito carattere e con il suo umore degli ultimi mesi.
Era
come se quel fuoco avesse consumato tutta la sua rabbia. E lui era
risorto da esso come una persona nuova, come la fenice a nuova vita.
“Ok,
dobbiamo capire se questo ciondolo si comporta come l'altro...
prendilo tu, Leo” suggerì Donnie prendendo un
sorso di caffè.
Il
leader lo guardò con sospetto, alla luce delle sue parole. A
volte
pensava che suo fratello per amore della scienza non avrebbe esitato
a gettare uno di loro nel fuoco e in quel momento non fu mai
così
vicino a quell'idea: se il nuovo ciondolo si fosse comportato come il
suo d'acqua quando toccato da un estraneo, allora forse lo avrebbe
ustionato.
“Ok,
ma prenderò le mie precauzioni” disse, allungando
una mano verso
il suo ciondolo e l'altra verso quello accanto.
Come
previsto, esplose un piccolo incendio quando provò a
sfiorarlo,
fortunatamente schermato dalla bolla azzurra che lo avvolse nello
stesso istante.
La
tovaglia prese fuoco e il sensei fu veloce a gettarci la sua tazza di
tè sopra, spegnendolo in un attimo. Poi guardò i
suoi figli con
espressione seria.
“Quindi
solo Raph può toccare il nuovo ciondolo, come
pensavo” concluse
Don, pensieroso.
“Ma...
perché?” domandò Mikey confuso.
“Forse
solo chi ha sconfitto la creatura che lo conteneva è degno
di
toccarlo o portarlo... come se fosse diventato il suo padrone. O come
se si fosse vaccinato contro il suo potere.”
La
spiegazione del genio sembrò piacere al fratellino, che era
rimasto
ad ascoltarlo con la bocca semichiusa in profonda riflessione.
“Allora,
come avete fatto a sconfiggerli?” incalzò dopo
qualche secondo,
davvero curioso.
Leonardo
e Raphael si scambiarono un'occhiata, senza averlo programmato,
entrambi attraversati dallo stesso pensiero: il non sapere davvero
afferrare a pieno ciò che avevano vissuto e il desiderio di
non
parlarne.
Il
leader prese un gran respiro, cercando le parole o il coraggio, quel
qualcosa che era ancora dentro di lui. Quella sensazione.
“È
stato... strano. Quando mi ha inglobato ho sentito l'energia della
creatura ed era come se fosse mia. Era fatto di tristezza e paura.
Era come se fossi io. Ho lasciato che le sue emozioni si unissero
alle mie e credo di averle lasciate andare ed è
lì che è esploso.
Non so se sia stato davvero questo, ho solo fatto da valvola di
sfogo, credo.”
I
loro occhi che lo osservavano raccontare qualcosa di così
intimo,
-lui la sentiva come una cosa intima,- gli diedero un po' di
fastidio, ma poi si chiese se anche per Raph fosse stato
così e capì
la loro curiosità.
“E
tu, Raph? Per te è stato lo stesso?” chiese piano
Mikey, che
colpito dal racconto di Leo si sentiva più rispettoso. E poi
le
lacrime del fratello in mezzo alle macerie della casa che aveva
faticato così tanto per ricostruire, in segreto, con
così tanta
passione, non le avrebbe dimenticate mai.
Raphael
era impegnato a mangiare una tazza di cereali, con malavoglia. Era
solo un pretesto per non guardarli e lo sapevano tutti,
perciò
attesero che fosse pronto, senza continuare a pressarlo.
Il
silenzio però non è che fosse meno esigente.
“No”
esalò infine, con un sospiro.
Un
altro, grande, e il cucchiaio tuffato nella tazza.
“Era
fatto di rabbia. Ha riso quando mi sono lanciato verso la casa e mi
ha... avvolto, bruciava, ma non mi feriva. Mi è entrato nei
polmoni,
nello stomaco, era caldo, era insopportabile. Ha scavato nella mia
mente finché non ha trovato i ricordi più
dolorosi e me li ha fatti
rivivere ancora e ancora e si è nutrito della mia
disperazione, ha
continuato a cercare e distruggere e ricreare e distruggere, ancora,
ancora.
Mi
ha tormentato fino a ché non si è saziato al
punto di esplodere,
distruggendo tutto.”
Nessuno
trovò il coraggio di parlare, non avevano nemmeno il
coraggio di
guardarsi in faccia.
Era
così orribile il pensiero di quello che aveva passato che
davvero
non sapevano che dire che non suonasse vano.
“Sembra
che questi mostri siano prove e non semplici nemici” prese la
parola Splinter, cambiando il discorso.
Aveva
una nuova tazza di tè in sostituzione della prima versata e
dopo
aver ascoltato tutte le loro storie e aver fatto le sue riflessioni,
si era finalmente deciso a dire la sua.
I
suoi quattro figli gli diedero immediatamente la loro completa
attenzione.
“Prove
per cosa?”
“Perché,
è la domanda giusta. Se queste creature erano destinate a
Isabel,
perché qualcuno avrebbe dovuto metterla alla prova? Per
testare i
suoi poteri? Per valutarla come regina? O per cercare
qualcosa?”
Nessuno
sapeva rispondere a quelle domande, non avevano nemmeno pensato ad
una teoria del genere, ma la trovarono valida e interessante.
"Ci
sono state una creatura d'acqua e una di fuoco... dobbiamo
aspettarcene una di terra e una di aria, allora?”
suggerì
Donatello.
“Sì,
se come pensi si basano sui quattro elementi. Ma ci sono diverse
combinazioni a seconda della dottrina su cui sono modellati: alcuni
hanno cinque elementi, altri perfino otto, non si può essere
sicuri.
Ricordate i Foot Mystics, che si rivelarono poi essere i Mystic
Ninja? Incarnavano cinque elementi: acqua, fuoco, terra, aria e
metallo” spiegò didatticamente il sensei.
“Comunque
dobbiamo aspettarci altri combattimenti” ribatté
il genio e dalla
sua espressione capirono che aveva qualcosa in mente, che aveva
già
pensato a quelle opzioni e che aveva anticipato le risposte.
Sembrava
solo in cerca di conferme.
“Allora
dovremo prepararci. Credo che gli allenamenti in senso fisico non
siano necessari, ma che esercizi di meditazione siano perfetti per la
situazione. Anche Leonardo e Raphael devono partecipare”
suggerì
il maestro, che già vedeva nell'occasione una buona
opportunità di
disciplinare ulteriormente i suoi figli.
E
poi, aveva il presentimento che affrontare creature fatte di elementi
fosse molto pericoloso; erano stati molto fortunati a sopravvivere
fino a quel momento e a sconfiggerli.
“Eh,
no! Hanno già un ciondolo ciascuno, il prossimo mostro
è mio!”
saltò su Michelangelo, infervorato.
“Non
è una gara, Mikey. E non è detto che dobbiamo
averne uno
ciascuno... magari Leo e Raph sconfiggeranno anche i
prossimi” si
intromise Don, con un sorriso leggero nel vedere suo fratello
inalberarsi al pensiero.
“Ma
non è giusto. Voglio contribuire, voglio fare qualcosa! Il
prossimo
è mio!”
“Quindi
che sia di terra o di aria non ti interessa”
incalzò il genio.
“Esatto!”
“Sì,
in effetti hai il cervello pieno d'aria e la testa dura come pietra,
ti vanno bene entrambi.”
Era
stato Raphael a parlare, nel silenzio attonito. Era la prima volta in
mesi che faceva una battuta, che prendeva in giro il fratello.
Lo
aveva detto atono, ma non potevano pretendere ancora molto. Mikey
sorrise.
“Visto?
Raph è d'accordo con me! Sensei, andiamo a
meditare!”
Mentre
si alzava dalla tavola con vigore ed entusiasmo, una voce
arrivò da
fuori.
“Ehi,
di casa? Dove siete?” chiamò April, sempre
più vicina.
Le
andarono incontro e la donna sorrise nel vederli tutti lì,
era da
tempo che non andava a trovarli e la trovarono in gran forma,
contando che aveva partorito da quattro mesi.
Era
in forma e raggiante. Ci fu un sentito scambio di abbracci.
“Ehi,
dove sono i bambini?” domandò Mikey, che non
vedeva l'ora di
giocarci.
“Con
Casey. Abbiamo dato in gestione il second time around” disse
mangiandosi una o due sillabe per l'emozione. Sembrava che morisse da
tempo per dar loro quella notizia.
Le
loro facce allibite, tranne quella di Don, la fecero sorridere ancora
di più.
“Cosa?
Perché?”
"Perché
io e Casey, e Don, stiamo progettando la O'Neill Tech!”
annunciò
la donna.
“Cosa?”
i tre fratelli si voltarono verso il genio.
“Perché non ce ne hai
parlato?”
“Per
adesso è solo in fase di progettazione... e nell'ultimo
periodo non
è che io sia stato di molto aiuto” si
scusò Donatello, rivolto
verso April.
“Oh,
non preoccuparti. Per adesso io sto solo buttando giù idee e
stiamo
cercando finanziamenti. Sappiamo che sarà un successo,
conoscere il
futuro è un grande aiuto, ma dobbiamo convincere i
finanziatori.
Solo coi nostri risparmi non riusciremmo a partire.”
Furono
tutti contagiati dalla notizia, era bello vedere April che si
riprendeva il suo ruolo di scienziata e inventrice e sapevano che
poteva e sarebbe riuscita a conciliarlo con quello di mamma.
Lei
ci sarebbe riuscita facilmente.
“È
fantastico! In bocca al lupo! Chiamiamo Casey e festeggiamo”
propose Mikey, che già si era dimenticato del suo proposito
di
meditare.
“Ah,
no! Non è qui per festeggiare” lo interruppe Don,
serio. “L'ho
chiamata per aiutarmi: voglio creare un tracciatore che rilevi le
onde magiche dei ciondoli per sapere in anticipo quando e se ne
apparirà un altro.”
“Ma
lo fanno già. Beh, il mio lo fa già,
probabilmente anche quello di
Raphael” disse Leo pacatamente.
“Sì,
ha reagito quando è apparsa la creatura. Ma io voglio
riuscire a
prevenire, a rilevare anche la più piccola oscillazione e
precedere
anche di poco l'apparizione” spiegò il genio,
infervorato.
“Vuoi
usare la scienza per tracciare la magia” affermò
Splinter, senza
scetticismo o altro nella voce, solo constatazione.
Era
da Donatello pensare in quel modo.
“Isabel
mi aveva spiegato che la magia è energia, sostanzialmente, e
che
anche se non sottosta alle leggi della fisica che conosciamo,
assomiglia molto alle altre forme di energia. E allora io voglio
provare a tracciarla!”
“Va
bene, ma il mio ciondolo lo tengo io finché non ti
serve” disse
Raphael, legando lo stesso al suo polso destro, con il lungo cordino
nero che aveva già attaccato quella mattina.
Non
lo aveva legato al collo come Leo e il perché fu chiaro a
tutti: la
collana degli amanti di Isabel era ancora lì, ancorata per
sempre
alla sua persona e al suo cuore, e non avrebbe permesso che il
ciondolo della creatura che lei avrebbe dovuto fronteggiare,
probabilmente di un suo nemico, la toccasse.
Si
incamminò per primo verso il dojo, seguito a ruota dal
sensei e
Mikey, dopo che ebbero salutato April. Lei e Don andarono verso il
laboratorio e Leo li seguì per appoggiare il suo ciondolo
sul tavolo
da lavoro, prima di raggiungere gli altri per la meditazione.
Così,
i due scienziati iniziarono a progettare il dispositivo per tracciare
il segnale della magia, anche se prima dovevano trovare e isolare
quel segnale.
Quella
sfida gasò moltissimo entrambi, che si tuffarono nel
progetto con
tutta la concentrazione possibile, nostalgicamente come in passato.
Nel
frattempo, gli altri tre fratelli si immersero nella meditazione.
Non
sempre, solo per qualche ora al giorno, tuttavia il sensei ne era
contento e sentiva che era un ottimo passo avanti, se anche si fosse
rivelato inutile per sconfiggere quei mostri elementali.
Intanto,
tenevano d'occhio il tempo atmosferico, dato che avevano capito
fornisse indizi su cosa aspettarsi.
Dopo
l'alluvione e la cocente siccità, ebbero qualche giorno di
tempo
eccezionalmente perfetto: giornate estive calde, ma non troppo,
fresche, ma non troppo, col giusto grado di umidità. Un
sogno, a ben
pensarci.
E
nonostante stessero molto attenti alle variazioni, non sembrava ci
fosse nulla di anomalo.
Ovviamente
cercavano indizi soprattutto per gli elementi aria e terra, non
sapevano se ce ne sarebbero stati altri, come folate particolarmente
intense o scosse di terremoto, ma non ci fu niente di rilevante.
Michelangelo
si stancò molto presto di meditare. Aveva pensato che la
nuova sfida
si sarebbe presentata presto, ma i giorni passavano e niente si
profilava all'orizzonte, perciò aveva iniziato a
intervallare gli
allenamenti a lunghi momenti in cui si infiltrava nel laboratorio per
controllare il proseguimento dei lavori.
In
realtà dava solo fastidio ai due scienziati, in particolar
modo a
Donatello.
Continuava
a chiedere come andasse l'invenzione, se ci fossero stati
miglioramenti, quando prevedessero di terminare, se avrebbe
funzionato e via così con ogni domanda che gli saltava alla
testa.
April, santa donna, era abituata a prendersi cura di due bambini, tre
se contava quel bambinone di suo marito, perciò aveva una
pazienza
che nemmeno un esercito avrebbe mai scalfito.
Donatello,
invece, per quanto flemmatico, aveva una soglia molto più
sottile e
si spazientiva più facilmente.
Dopo
una settimana sbottò e cercò di cacciare via
Mikey dal laboratorio,
senza riuscirci.
Alla
fine decise di prendersi una pausa e di sedersi a bere una tazza di
tè, mentre April spiegava a Mikey cosa avevano creato fino a
quel
momento.
“Siamo
riusciti a isolare il segnale del ciondolo di Leo, per poco per ora,
ma sappiamo che possiamo tracciarlo più a lungo. Abbiamo
anche
scoperto che quello di Raphael è simile, ma allo stesso
tempo
diverso. Questo oggetto qui” disse mostrandogli una specie di
grosso orologio a cipolla, “è il tracciatore di
magia. Quando
saremo riusciti a seguire il segnale a lungo, saremo in grado di
sapere quando appare nello stesso secondo in cui avviene. Forse anche
a prevederlo.”
Mikey
aveva capito la metà delle informazioni, ma sorrideva
comunque
perché aveva inteso che le cose si mettevano per il meglio e
che
tutto ciò che mancava era solo l'apparizione della
successiva
creatura magica.
Continuarono
ad attendere, fiduciosi che qualcosa sarebbe accaduto presto, ed in
effetti qualcosa accadde, di importante, ma non quello che avevano
pensato.
Un
pomeriggio in cui April e Donnie stavano chini sui loro progetti e
gli altri si allenavano nel dojo o, come nel caso di Mikey e Steve,
facevano una pausa seduti sul divano con i joystick nelle mani e gli
occhi incollati al gioco sulla tv.
Un
urlo improvviso, più di sorpresa che di paura, si
levò dalla
direzione del dojo e tutti saltarono in piedi dalla sorpresa,
osservandosi intorno spaventati. Don e April uscirono dal laboratorio
e si incrociarono con Mikey e Steve e tutti pensarono la stessa cosa:
i ciondoli.
Forse
si erano illuminati. Forse era di nuovo il momento di lottare.
Si
precipitarono tutti e quattro assieme e spalancarono le porte con
urgenza e un enorme falò gli si parò davanti,
caldo e intenso.
Quando
riuscirono a guardare senza sentire bruciare gli occhi si accorsero
che il centro dell'incendio era una persona.
Era
Raphael.
Bruciava
con fiamme alte e violente, come una torcia umana. Come una torcia
mutante.
April
gridò. Mikey gridò. Steve e Donnie gridarono.
Si
gettarono istintivamente in avanti per aiutare, per fare qualsiasi
cosa, ma Leo si materializzò davanti a loro e li
bloccò.
“È
tutto ok, guardate” disse con voce tranquilla, senza staccare
lo
sguardo dal fratello.
In
effetti, a ben vedere, Raphael non si contorceva, non urlava, non si
agitava, per essere uno che faceva da stoppino ad una così
grande
fiammata, anzi: stava immobile al centro del dojo, con le braccia
stese di fronte a sé e sembrava studiare le lingue aranciate
e rosse
che salivano dal suo corpo.
Sembrava
interessato e allo stesso tempo controllato.
Era
così concentrato da non aver minimamente notato il loro
arrivo.
“Ci
stavamo allenando, quando il suo braccio ha preso fuoco.
Spontaneamente. Dopo il primo secondo di sorpresa ha capito che il
fuoco non gli faceva nulla e che poteva controllarlo... in effetti
è
lui stesso a generarlo” spiegò Leonardo assorto.
Donatello
sembrò illuminarsi, sembrava quasi contento.
“I
ciondoli danno i poteri dell'elemento collegato... non lo sapevamo.
È
davvero fantastico!” esclamò attonito, prendendo
già mentalmente
appunti dei test da fargli fare.
“Ma
Leo, tu ce l'hai da più tempo, perché Raph
è stato il primo ad
attivarlo?” domandò April che, superata la
naturale paura che
l'aveva presa nel vedere l'amico prendere fuoco, aveva iniziato anche
lei ad osservare con occhio logico.
“Perché
il ciondolo di Raph reagisce alla disperazione. E Raph è
fatto solo
di quella ormai.”
Rimasero
a guardarlo mentre creava fiamme sempre più alte e tuttavia
sempre
più controllate, mentre imparava a governare quel potere che
non
aveva chiesto e che non voleva, ma che avrebbe usato a suo vantaggio.
Ed
era davvero bravo. Il fuoco era sempre moderato al suo volere, non
bruciava niente di quello che c'era attorno e persino il parquet
sembrava illeso; quando il sensei gli chiese di mettere fine a quel
fenomeno, Raphael riuscì a spegnere le fiamme
immediatamente, a
comando.
Osservò
ancora per qualche istante le braccia ormai spente e il simbolo
triangolare del suo ciondolo brillare di rosso, ancora un poco
finché
non si spense e tornò normale, poi si voltò e si
accorse della loro
presenza.
Sorrise.
Ma era un sorriso tutt'altro che di gioia. Sembrava nascondere
propositi di vendetta e piani che loro non potevano nemmeno
immaginare.
“Devo
allenarmi per riuscire a proiettare il fuoco” disse
tranquillamente, come se stesse parlando di un esercizio qualsiasi.
Leonardo
si mosse verso di lui.
“Ti
aiuto io. Magari riesco a innescare anche io un potere attivo,
potrà
esserci utile” propose, omettendo che nel caso lo avrebbe
probabilmente usato per contrastare il suo se lo avesse usato in
maniera sbagliata.
Non
era ferratissimo di elementi e magia, ma sapeva che l'acqua batteva
il fuoco.
E
lui sarebbe stato il freno di Raph.
Donnie
portò parte della strumentazione nel dojo e assistette ai
loro
allenamenti, monitorando tutto ciò che accadeva, anche le
più
piccole oscillazioni nelle fiammate di Raph o nella bolla blu di Leo.
Gli
sembrava di essere ad un passo dal completare l'invenzione.
Un'altra
settimana scivolò via e gli ultimi sviluppi avevano
solleticato
l'eccitazione di Michelangelo a dei livelli tali che ormai non faceva
più nulla se non meditare e allenarsi e controllare se i
ciondoli o
il quasi finito tracciatore lampeggiassero.
Avrebbe
sconfitto lui la successiva creatura. Voleva un potere magico a tutti
i costi.
Vedere
Leo e Raph usare i propri ogni giorno con sempre più
padronanza non
faceva che accrescere quella smania.
“Posso
allenarmi anche io con voi?” domandò un tardi
pomeriggio in cui
sedeva ormai da qualche ora sul pavimento.
Leonardo,
di fronte a lui sulla destra, era chiuso nella bolla azzurra che
ormai riusciva a richiamare al proprio volere e sosteneva
perciò
senza sforzo gli attacchi di Raphael, dall'altra parte della stanza,
che emanava fuoco a ondate, cercando di forzare la resistenza della
barriera.
“Non
credo sia prudente, Mikey!” urlò il leader con
visibile sforzo,
provando al contempo ad espandere la bolla per sopraffare il
fratello.
Il
dojo era un tripudio di bagliori rossi e blu che si mescolavano.
D'un
tratto, le fiammate e la barriera caddero e tutto fu quieto per un
istante.
Poi,
i due ciondoli si illuminarono contemporaneamente, uno di rosso e uno
di blu.
Michelangelo
saltò su emozionato e raggiunse i fratelli con il viso
raggiante;
prima che potesse aprire bocca, dalla porta del dojo irruppero Don e
April trafelati, nelle mani un piccolo oggetto tondo che lampeggiava
di un freddo rosso.
Il
genio osservò le luci sempre più potenti dei
ciondoli e sorrise.
“Funziona!”
esultò. “Anche se avrebbe dovuto rilevare la
posizione, ma per ora
non ci siamo ancora riusciti.”
“Allora
andiamo a cercare la nuova creatura!”esclamò
Mikey, già diretto
verso la porta.
Ovviamente
erano tutti d'accordo e sentivano di essere preparati, quella volta.
Anche
April si accodò loro, con la promessa di non stare in prima
fila per
preservare la sua sicurezza, e mentre salivano verso il garage
mandarono un messaggio ad Angel e Steve, solo per informarli.
Saltarono
sul furgone e si misero in marcia, lasciando che fossero i due
ciondoli a guidarli; non sapevano cosa aspettarsi e non sapevano dove
fosse la minaccia.
“Accendi
la radio” disse Don dal retro, a Raph che sedeva al posto del
passeggero. Dopo due stazioni di musica pop e country, la voce di un
giornalista esplose nell'abitacolo.
“...
stanno evacuando la zona... l'allarme è scattato... non
riuscia-”
Il
segnale era molto disturbato e inframmezzato e si udiva un sibilo
fortissimo in sottofondo che copriva tutto il resto.
Leo
guidò come un folle, ben attento a evitare il traffico: la
luminescenza azzurra sul suo petto cresceva di secondo in secondo.
Intuì
quasi subito dove dovevano andare.
Mikey
non stava più nella pelle, faceva traballare le gambe e si
sporgeva
dal sedile di dietro per controllare nel parabrezza se riuscisse a
percepire tracce della creatura.
Le
prime avvisaglie le videro appena superata Hell's Kitchen: una
fiumana di persone e macchine che scappavano nella direzione da cui
loro venivano.
E
poi il cielo scuro proprio davanti.
“Ho
paura di aver capito che elemento sia” mormorò
Donatello,
occhieggiando le potenti folate di vento che spingevano persone e
oggetti con una forza prodigiosa.
Arrivarono
nei pressi del meatpacking district e la verità era
lì di fronte a
loro: una colonna vorticante e pericolosa, che inglobava senza
distinzione ogni cosa sul suo cammino.
Un
tornado
Scesero
dal furgone, schermandosi i visi contro le violenti folate. La zona
sembrava sgombra e il vento aveva spazzato via il terreno, sputando
lontano tutto ciò che ingoiava.
Spingeva
via anche loro, dovettero piegarsi e fare uno sforzo enorme per non
essere dispersi e annichiliti, rimanendo compatti e uniti.
Raph
si gettò in avanti per primo e il bagliore del suo ciondolo
era
incandescente: prese fuoco all'istante e si trasformò in una
torcia.
In qualche modo era persino più veloce e raggiunse la base
della
colonna in pochi secondi: le fiamme crebbero esponenzialmente e con
un urlo rabbioso le lanciò contro il nuovo nemico.
Il
turbine le assorbì senza alcuno sforzo. Vorticarono nel suo
nucleo e
scomparvero, soffocate.
Raph
continuò ad attaccarlo senza riserve e ad un certo punto
anche Leo
si unì a lui e iniziò a colpirlo con un getto
d'acqua
violentissimo, un attacco attivo che era riuscito a sviluppare solo
da poco.
Quei
poteri erano strani, ma ci si stava abituando in fretta. Per Raphael
invece, non lo erano affatto. Erano quasi nostalgici. Gli ricordavano
la fusione magica che un tempo aveva fatto con Isabel, quella
sensazione di completezza, di conoscenza.
I
loro tentativi tuttavia non avevano nessun effetto contro quel
ciclone, erano vani come sassolini contro uno spesso muro d'acciaio.
Così
vicini, la forza centripeta li attirava sempre più verso il
tornado
e rischiavano di essere inghiottiti da un secondo all'altro.
“Dobbiamo
allontanarci!” gridò sgolandosi Donatello, che
rimaneva indietro,
facendo da scudo ad April.
Mikey
era tra lui e i fratelli e si avvicinava sempre più, rapito
dal
vortice distruttivo.
Ne
era affascinato, si sentiva attratto come se una forza invisibile lo
stesse trascinando verso di esso, come se lo tenesse legato a
sé.
E
la sua mente era un'esplosione di possibilità, una tela
sconfinata.
Lui
vedeva potenzialità che i suoi fratelli non vedevano.
Si
lanciò in avanti a testa bassa, dritto contro la base del
turbine e
scomparve tra le sue spire in un attimo.
“Mikey,
no!” urlarono tutti in contemporanea, certi che i forti venti
all'interno lo avrebbero dilaniato in un istante.
Tutti
e tre lo seguirono senza pensarci e si gettarono nel vortice: vennero
sospinti in alto e poi lanciati lontano, bruscamente, e sbatterono
violentemente contro un edificio poco distante.
Si
rialzarono con mugugni di dolore e si controllarono per assicurarsi
di stare tutti bene, ma si accorsero immediatamente che Michelangelo
non era con loro.
Leonardo
si ammantò della bolla protettiva, deciso a sfidare le
raffiche per
salvare il fratello.
Ma
i vortici iniziarono a cambiare e rallentare e sotto i loro occhi
esterrefatti il tornado sparì: le folate cambiarono
mulinando,
ricompattandosi leggiadre.
Davanti
a loro si presentò un mastodontico volatile di vento e in
cima,
proprio sul suo dorso, c'era Mikey.
Sembrava
fuso con la creatura. La incitava entusiasta.
Michelangelo
si sentiva potente. Si sentiva sconfinato e infinito e niente davanti
al suo cammino poteva fermarlo.
Era
aria, era vento, era tutto.
Era
così assorbito in quelle sensazioni da non accorgersi che la
creatura attaccava i suoi fratelli o forse nel parco giochi che era
diventato la sua mente, tutto sembrava solo un innocente gioco, un
allenamento con poteri magici distruttivi e letali.
I
tre mutanti sotto schivavano con difficoltà sempre maggiore
gli
attacchi sia fisici che magici del mostro.
Le
sferzante di vento erano affilate come rasoi e solcavano il terreno
con profondi tagli ogni volta che un attacco andava a vuoto.
La
creatura cambiò nuovamente forma con un turbinio leggero e
si
riformò in un enorme gigante fatto sempre di vento, che
prese a
camminare a grandi falcate verso di loro, provando a schiacciarli.
Era
più veloce e più forte e nella sua furia
distruttrice aveva già
mangiato via buona parte della pavimentazione stradale, così
come
ogni cosa, casa, macchina e oggetto presente nelle immediate
vicinanze. Sentivano continuamente il suo pulsare roboante e schianti
e schiocchi e vetri che esplodevano e boati.
April
si teneva in disparte, accucciata lontana dietro il furgone, e
osservava sia la scena sotto che quello che accadeva sulla cima della
creatura. C'era qualcosa in Michelangelo che accese la sua
preoccupazione, solo che non sapeva ancora cosa.
Aveva
però l'impressione che tutti i cambiamenti del mostro
fossero a
causa sua, così come la sua esponenziale forza.
“Dobbiamo
far scendere Mikey da lì” urlò
Donatello, schivando una pedata di
lame ventose e rotolando con una capriola all'indietro. L'asfalto
lì
dove era pochi istanti prima si era disintegrato e risaliva verso il
cielo in minuscole schegge, assorbito in un attimo dal vortice.
“Se
la creatura l'ha scelto c'è ben poco da fare. Deve capire da
solo
come batterla. Noi dobbiamo solo cercare di non farci
uccidere”
rispose Leonardo, correndo anche lui distante, la bolla protettiva
ormai scoppiata minuti prima sotto un violento attacco.
Raphael
provava ancora a colpire con il fuoco di tanto in tanto, ma l'esito
era sempre lo stesso: sì, l'aria alimentava per un po' le
fiamme
rendendole più violente, ma a lungo andare le soffocava
completamente, senza traccia di danno.
Un
turbine si alzò di nuovo e il mostro si trasformò
in un dragone
dalle mille ali, e Mikey era ancora sulla sua groppa, sempre
più
euforico.
Quella
creatura era sua, quel potere era suo, lo sentiva fluire nelle vene,
sentiva la mente vagare nelle sconfinate possibilità che
aveva,
tutto ciò che avrebbe fatto, che avrebbe conquist-
“No”
disse una voce nella sua testa.
Era
la sua testa voce? Era di qualcun altro? Era stata secca e perentoria
e sgradevole, nel volergli negare qualcosa.
Lui
poteva avere tutto, nessuno poteva frenare il vento, nessuno avrebbe
mai potuto.
Inafferrabile,
potente, sconfinato.
Ma
quel no gli rimbombò di nuovo dentro, più forte.
E
di colpo si ritrovò a vedere per davvero ciò che
stava accadendo e
a sentire le emozioni della creatura come scisse da sé: era
euforia
pura, era immaginazione, era creatività.
E
lui l'aveva alimentata per tutto quel tempo con le sue sensazioni
così simili, aizzandola senza volere contro i suoi fratelli.
Doveva
fermarla, lui, e l'unica cosa che gli venne in mente fu proprio di
bloccare la mente.
Cancellare
completamente sensazioni, emozioni, ricordi e pensieri e meditare nel
nulla, sperando che quella fosse l'idea giusta.
Chiuse
gli occhi e si concentrò e liberò la mente,
allontanandosi sempre
più dalle lusinghe del nucleo della creatura, lasciando
andare ogni
cosa, ogni preoccupazione, ogni emozione.
Solo
vuoto e calma. E niente.
Immediatamente,
il mostro ventoso si fermò. Sembrò ruggire contro
quella svolta
inattesa, ma per quanto urlasse, niente arrivava nel vuoto di
Michelangelo, e la sua forma diminuiva sempre più, sempre
più, le
folate via via più deboli e delicate.
“Sì,
ci sta riuscendo!” esultò Leo, che con i fratelli
assisteva al
veloce deterioramento della creatura.
Con
un ultimo mugghio il mostro esplose in spire di vento che salirono al
cielo e scomparvero nell'aria, disperdendo i grossi nuvoloni neri.
I
rumori normali, un lieve cinguettio lontano, gli dissero che era
davvero finita.
Mikey
era seduto al centro di una grande voragine spazzata dal vento e
guardava un ciottolo bianco che teneva nella mano.
Era
raggiante e persino un po' più assennato.
Il
simbolo si illuminò di giallo, -era un triangolo con la
punta in su
tagliato in orizzontale da una linea,- e una folata di vento lo
avvolse gentile, sollevandolo di poco dal terreno.
Sorrise
nel guardare le loro espressioni sorprese.
“Adesso
giochiamo alla pari” esclamò contento,
già completamente padrone
del nuovo potere.
Ne
furono colpiti e tutti già pensavano che erano ormai a quota
tre e
che se tutto era predisposto come immaginavano, mancava solo un
elemento all'appello.
Note:
Buon
giorno!
Ci
stiamo avvicinando sempre più alla fine di questo arco di
nemici
magici, ancora poco e sapremo cosa accade.
Finalmente
ho messo la O'Neill tech! È una compagnia che appare in fast
forward
(sesta stagione), quando le turtles finiscono nel futuro e conoscono
Cody Jones, discendente di Casey e April.
Quindi,
ora getteranno le basi di quella che sapranno essere un successo
assicurato, e April tornerà a creare ed inventare. Casey ha
competenze meccaniche, quindi anche lui è parte
fondamentale. E Don
è il socio fantasma, ma che poi ha lo stesso peso degli
altri in
effetti.
Il
capitolo 32 arriverà prestissimo!
Vi
abbraccio fortissimo e vi ringrazio ancora!
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Capitolo 32 *** We will rock you ***
Acqua.
Fuoco. Aria.
Tre
elementi naturali, nelle mani di altrettante tartarughe mutanti.
Completamente
soggiogati al loro volere.
Mikey
rigirò il ciondolo nelle mani per tutto il tragitto, con un
gran
sorrisone felice: di tanto in tanto gli scappava un piccolo soffio di
magia dalle dita, che scompigliava i capelli di April seduta accanto
a lui.
“Mikey,
stai attento con quello o te lo sequestro” lo
minacciò Don,
ovviamente senza essere preso sul serio.
Solo
lui poteva toccare il monile, perciò nessuno poteva
toglierglielo.
“Hai
visto cosa può fare, cerca di non strafare”
incalzò Leo dal posto
di guida, lo sguardo fisso sulla strada.
Michelangelo
continuava a sorridere, rollò solo appena gli occhi per le
loro
raccomandazioni, e si affrettò a mettere il ciondolo al
sicuro nella
taschina della tuta, con la promessa mentale di assicurarlo con un
cordino non appena messo piede al rifugio.
Il
loro arrivo a casa era atteso.
Steve,
Angel e Casey parlottavano con Splinter, quando arrivarono, poco
distanti dall'entrata. L'uomo si gettò in avanti non appena
li vide
e corse verso April, controllando che stesse bene.
“Tutto
ok, Case, dove sono i bambini?” domandò lei,
guardandosi attorno.
“Da
mia madre. Pensavo fosse un'emergenza e sono corso qua.”
“Com'è
andata?” chiese Steve impaziente, squadrandoli uno ad uno, in
cerca
di ferite o ciondoli magici. Avevano solo pochi graffi,
fortunatamente.
Ma
Mikey sorrideva così apertamente, che la sua attenzione fu
subito su
di lui.
Sfilò
dalla taschina il nuovo ciondolo e lo tenne alto davanti al viso,
come un trofeo guadagnato con orgoglio.
Un
bagliore giallognolo, e uno spiffero giocoso scompigliò i
capelli di
Steve, dapprima sorpreso e poi divertito, anche dalla contentezza di
Mikey.
“Un
mostro di aria” mormorò quello con
teatralità.
Raccontò
con grande dovizia di particolari, alcuni anche esagerati, della
nuova creatura e di come fosse riuscito a batterla, catturando
l'attenzione di tutti, anche di quelli presenti alla lotta: avevano
sì visto lo scontro, ma non sapevano come fosse andata
davvero.
“Quindi...
manca solo la Terra” suggerì timidamente Steve, a
nessuno in
particolare.
“Probabilmente.
Se davvero si tratta solo dei quattro elementi” rispose
Donatello,
facendo spallucce.
“E
cosa succederà quando li avrete tutti e quattro?”
“Non
lo so. Forse apparirà chi li ha evocati o forse tutti
insieme
evocheranno qualcosa o qualcuno o... non lo so. Magari perfino una
nuova prova. Dobbiamo solo aspettare.”
Le
parole di Don sembravano stranamente sfiduciate, lasciavano trapelare
la sua frustrazione nel non sapere, nel brancolare nel buio.
Era
ormai notte e decisero di terminare lì la riunione. I
quattro umani
andarono via e rimasero solo i quattro mutanti, con tre ciondoli a
disposizione e mille domande.
Don
avvisò Mikey di raggiungerlo in laboratorio per sintonizzare
il
tracciatore sulla frequenza del suo, ma non prima di aver controllato
l'occhio di Raphael.
Nello
scontro contro la creatura d'aria la benda si era strappata e
sfilacciata, ed era ormai solo una esigua striscia sporca e
malandata.
Trascinò
quasi di peso il fratello nel suo laboratorio e lo fece sedere nel
lettino, poi disfece con mani ferme quel poco di garza rimasta.
La
palpebra si era ormai cicatrizzata da tempo, anche se il segno
sarebbe rimasto per sempre, un taglio netto, trasversale, color verde
pallido.
Era
l'occhio il problema. Ormai sarebbe dovuto essere guarito del tutto,
ma tra allenamenti e sforzi non previsti, anche la sua guarigione ne
aveva risentito.
Non
che fosse un deterrente. Niente avrebbe fermato Raphael dal
combattere, in quel momento più che mai.
“Apri
la palpebra” chiese, gentilmente.
Ci
volle qualche secondo più del necessario perché
suo fratello ci
riuscisse, e non senza sforzo, ma fece finta di non aver visto.
Controllò con una piccola torcia la reazione della pupilla,
lo
scrutò nel profondo di essa come se volesse leggerci la sua
anima.
“Come
vedi?” domandò, continuando a osservarlo.
Raphael
spaziò con lo sguardo di fronte a sé. Prima con
entrambi gli occhi,
poi chiudendone uno alla volta.
Don
continuava ad aspettare, senza abbandonarlo un attimo.
“Va
bene, ci vedo” mormorò in risposta, asciutto.
Il
genio lasciò andare il sospiro che aveva trattenuto, senza
esserne
conscio.
“Sapevo
che lo avresti detto. Non mentire, Raph. Non vedi bene.”
Il
fratello non sembrò sorpreso che lo avesse scoperto, o che
non gli
avesse semplicemente creduto.
“Vedo...
sfocato. Come se ci fosse poca luce” ammise forzatamente,
ormai
sarebbe stato stupido cercare di mentire ancora.
Don
esalò angosciato, cercando di non farsi scoprire. Conosceva
Raphael
e sapeva perfettamente come fosse fatto, sempre a nascondere il
dolore o le ferite o le preoccupazioni, ma quello era serio.
Come
poteva non rendersene conto?
Si
passò una mano sulla faccia, di colpo molto stanco. Si
lasciò
cadere sulla sedia lì vicino.
“Purtroppo
non può guarire. Peggiorerà progressivamente, la
luce molto intensa
ti darà sempre più fastidio, finché
non perderai del tutto la
vista. Ci vorranno anni, forse, ma non si può invertire.
Capisci
cosa vuol dire?”
Raph
non reagì alle sue parole, non mostrò nessuna
emozione, ma c'era
risentimento nella sua voce, quando rispose.
“Sì.
Vuol dire che perderò il senso della profondità.
Vuol dire che non
potrò più lottare.”
Donatello
annuì piano, sorpreso.
“Per
favore, smettila. Smetti di lottare, smettila di fregartene di te
stesso” lo supplicò allora, a voce bassa.
“Lo
sai che non posso.”
“Dopo...
dopo tutto questo. Promettimi che dopo che avremo risolto questo
mistero, qualsiasi cosa succeda, tu smetterai di lottare. È
pericoloso.”
Raphael
sembrò pensarci per davvero, ma una parte di sé
gli diceva che
probabilmente, anche se avesse acconsentito, sarebbe stata solo una
bugia.
“D'accordo”
ribatté troppo in fretta Raph e a Don si strinse il cuore di
delusione.
“Ma
tu non dire nulla agli altri” aggiunse alla fine.
E
fu il turno di Donatello di mentire. Annuì in silenzio, ma
sapeva
che una volta finita quella avventura avrebbe messo al corrente il
sensei e i loro fratelli, per costringerlo a non lottare
più, e che
quella sarebbe stata la missione più impegnativa di tutte.
Raph
sembrò sollevato della sua risposta e si diresse verso la
porta,
scontrandosi quasi con Michelangelo, apparso dal nulla per consegnare
il ciondolo al genio.
Un
fratello uscì e uno entrò.
Mikey
poggiò il monile sulla scrivania, con un tocco sordo.
“Ma
restituiscimelo in fretta, ok?” esclamò
impaziente, ignaro delle
preoccupazioni di Donatello, che non si accorse nemmeno della sua
richiesta.
Ci
mise relativamente poco a mappare il segnale del ciondolo di
Michelangelo, così una volta restituitoglielo, il fratello
poté
unirsi agli altri negli allenamenti.
Fortunatamente
il dojo era costruito con la magia, perché Don dubitava che
una
stanza normale avrebbe mai potuto resistere al potere di tre elementi
che si scontravano e lottavano gli uni contro gli altri.
Era
quasi impossibile ormai rimanere all'interno, se non in possesso di
un potere.
Era
un continuo stridere di lame di vento e gorgogliare di colonne
d'acqua e crepitare di pozze infuocate. Tutti contro tutti.
E
avevano anche avuto la faccia tosta di fargli pressione
perché si
allenasse con loro, per potersi preparare per l'ultimo elemento, che
avevano già deciso dovesse essere suo. Ovviamente aveva
rifiutato e
si era rinchiuso nel laboratorio per lavorare sul tracciatore, per
unire le nuove scoperte al programma e potenziarlo ancora.
In
un paio di giorni pensava di averlo messo a punto, ma poi, con la sua
solita pignoleria, si mise a controllare e ricontrollare i progetti,
rifacendo a mente i conti matematici per assicurarsi che non ci
fossero errori.
E
si immerse in quella occupazione, attento ad ogni dettaglio,
così
assorto da non notare quasi quello che aveva attorno.
Poi,
un lieve e ritmato suono spezzò il silenzio, e un flebile
lampeggiare attirò la sua attenzione. Don fece cadere il
foglio che
teneva in mano e corse verso il tondo segnalatore poggiato sulla
scrivania: un puntino luminoso appariva e spariva ad intermittenza,
vicino al bordo del quadrante. Premette un paio di pulsanti,
studiando attentamente il reticolato che rimpiccioliva sempre
più.
Scappò fuori dal laboratorio, dritto verso il dojo.
“Il
prossimo!” esclamò, fermando l'allenamento dei
suoi fratelli.
Raphael si spense all'istante e Mikey ne approfittò per
colpirlo
ancora un volta con un colpo di aria.
“Il
prossimo cosa?” chiese il leader, infrangendo la bolla che lo
conteneva.
“Il
prossimo mostro! Dobbiamo sbrigarci!”
Tutti
e tre lo guardavano con la stessa identica espressione attonita.
Raphael
sollevò il braccio destro e fece oscillare l'innocuo
ciondolo bianco
legato al polso.
“No,
nessuna luce magica. Non c'è nessun mostro.”
“Sì,
invece! Il mio tracciatore... indica un segnale sotto Central Park.
Non so di quanto anticipi la comparsa della creatura, ma è
lì che
apparirà!”
“Donnie,
non è possibile. I ciondoli non si sono illuminati e sono
passati
pochi giorni dal mostro di aria, è troppo presto”
cercò di farlo
ragionare Leonardo.
Donatello
si inalberò e la sua voce salì,
allungò sotto il loro naso il
congegno col puntino lampeggiante.
“La
creatura apparirà tra poco! Io vado a controllare, con o
senza di
voi!”
Era
così sicuro e il suo tono così urgente, che i
fratelli pensarono
che non c'era nulla di male nel controllare, se poteva rassicurarlo;
nel peggiore dei casi avrebbero fatto un giro a vuoto.
Uscirono
a piedi dal portone principale, perché il genio era certo
che la
nuova creatura sarebbe apparsa sotto terra e quindi percorrere le
fogne era di certo il modo più veloce e nascosto di
arrivarci.
Donatello
in testa, che controllava il tracciatore, si infilarono nei cunicoli
puzzolenti, con la pressante sensazione che fosse davvero un falso
allarme.
“Perché
pensi che sarà qui sotto?” domandò ad
un tratto Michelangelo, che
lo distanziava solo di qualche passo.
“Il
segnale, indica il nostro vecchio rifugio. Sono sicuro che non sia un
caso” rispose Don, col viso fisso di fronte a sé.
Il
loro rifugio sotto Central Park, in cui avevano vissuto fino a che i
golem di Gregor non lo avevano distrutto nella ricerca di Raphael.
Era stato il terzo posto che avevano chiamato casa, prima di tornare
al secondo, loro attuale dimora, ricostruito da Isabel con le pietre
degli Y'Lyntian.
Avevano
lasciato dei buoni ricordi, laggiù, e il pensiero che il
quarto
mostro potesse apparire proprio nel suo grembo non sembrava una
coincidenza.
Tuttavia
erano tutti molto scettici sulla possibilità che una quarta
creatura, probabilmente quella di terra a fare i calcoli per
esclusione, apparisse proprio lì, in quel momento, senza
nessun
segnale. Non quello dei ciondoli per lo meno.
E
nonostante sapessero che Don fosse un genio, non erano certi che il
suo congegno potesse addirittura prevedere l'apparizione della magia.
Continuarono
lo stesso ad avanzare, ormai vicini. Riconobbero i segni della
distruzione, all'inizio lievi e radi, poi via via più
consistenti,
che i golem di Gregor avevano seminato nel loro tragitto verso la
loro antica casa.
Nessuno
era mai andato a riparare gli evidenti danni alle tubature e ai
cunicoli, dallo strato di polvere sembrava che nessuno fosse mai
nemmeno andato a controllare e in un certo senso il pensiero li
tranquillizzava, sapevano che era una zona sicura e non sarebbero
incappati in umani.
Mancava
poco all'entrata, quando la terra sotto i loro piedi tremò.
Una
scossa leggera, un frammento di secondo, ma si bloccarono tutti e si
guardarono allarmati: blu, rosso e giallo lampeggiarono
contemporaneamente e poi le luci crebbero e crebbero, riempiendo il
condotto, correndo verso la loro meta.
Don
non disse nulla, accelerò però il passo e si
lanciò in avanti,
preoccupato; qualche altra lieve scossa riecheggiò.
Il
rifugio era nello stesso stato di distruzione e desolazione in cui
l'avevano abbandonato, con le pareti crollate e le macerie che
ingombravano il pavimento, macchiato da pozze di liquami ormai secche
da tempo.
Il
bagliore dei ciondoli era ormai fisso e accecante, provarono tutti a
schermarli, poi si spensero di colpo. Contemporaneamente il terreno
vibrò e sembrava volesse gettarli a terra dall'impeto con
cui
tremava, sempre più forte, sempre più
violentemente.
“Cercate
riparo!” urlò Donatello, occhieggiando il soffitto
già mezzo
distrutto che minacciava di crollare del tutto sulle loro teste.
Non
c'era però alcun riparo. Il precedente scontro coi golem
aveva
risicato le mura e fatto crollare quasi completamente il rifugio su
sé stesso, non c'erano più nemmeno i muri
portanti o archi
abbastanza resistenti che potessero sopportare le scosse di
terremoto.
Un
grosso detrito cadde giù e si schiantò a mezzo
metro da loro.
“Andiamo
via!” incalzò allora il genio, proteggendosi la
testa con un
braccio come meglio poteva.
Sembrarono
quasi d'accordo con lui, vide Leo annuire pensieroso e Mikey valutare
la situazione.
Nella
scossa successiva, prima che potessero anche solo muovere un passo
per scappare, le macerie tremarono con più violenza,
così tanto che
parevano quasi vive: un grosso masso poco distante sembrò
respirare.
Si sollevò d'improvviso sotto i loro occhi e così
quello accanto e
un altro e tutte le pietre iniziarono a muoversi e vorticare, sempre
più vicine, sempre più compatte e Donatello
capì ancora prima che
tutto finisse cosa stava per accadere.
Prima
si formarono gli enormi piedi, sbozzati, poi le massicce e tozze
gambe, il busto un grosso macigno, lunghe braccia e mani rozze e una
piccola testa dai lineamenti appena accennati.
Cigolò
al primo movimento, il roco raschiare di roccia contro roccia.
Un
golem.
Occupava
ogni spazio dal pavimento al soffitto e individuatili,
iniziò a
muoversi verso di loro e ogni passo era una violenta scossa di
terremoto.
Barcollarono
e ondeggiarono e non c'era alcun appiglio che potesse aiutarli.
Raphael
si accese in un istante, rubando l'ossigeno attorno a loro.
“No,
Raph!” urlò Donatello, sorprendendolo tanto per il
tono spaventato
da spegnere all'istante le sue fiamme.
“È
pericoloso. Lo spazio è stretto e rischiamo di bruciare
vivi!”
Leo
e Mikey si guardarono in faccia e pensarono entrambi che forse anche
i loro poteri non erano indicati in quella minuscola trappola in cui
si era ficcati, e forse non era un caso; la creatura doveva essere
affrontata senza l'aiuto degli altri elementi.
“Vai,
Don” sussurrò Michelangelo, indietreggiando
insieme agli altri due
fratelli.
“Vai?
Cosa vuol dire vai? Cosa ti aspetti che faccia?”
sbraitò il genio,
prendendo comunque il Bō
nelle mani, forse più per sostegno morale che davvero come
arma di
offesa.
D'altronde
era pur sempre uno stecchino in confronto a quel gigante di roccia.
“È
il tuo elemento, fai qualcosa!” gli urlò ancora
dietro il
fratello, con quel tono fiducioso che iniziava un po' a dargli sui
nervi.
“Non
è il mio elemento! Non puoi deciderlo solo per
esclusione!”
ribatté sempre più arrabbiato.
Le
scosse erano sempre più forti, la creatura sempre
più vicina e lui
non sapeva che fare, razionalmente, che era la sua qualità
migliore,
non sapeva che fare.
Tanto
per cominciare quel golem era diverso da quelli di Gregor o da quello
inviato dagli Shisho: non aveva alcuna pietra luminosa, il solo punto
debole che conoscesse; e poi, la Terra era l'elemento più
complicato, l'elemento tangibile, materiale: a differenza degli altri
tre, non poteva essere penetrato con la misera forza fisica.
Leonardo
era stato inglobato nell'acqua, Raphael avvolto dal fuoco e
Michelangelo fuso col vento, ma lui, lui non poteva correre verso un
golem di quattro metri e pretendere che non finisse con una
capocciata contro cinque quintali di pietra.
Tutto
intorno a loro cadevano detriti e polvere, e le scosse dovevano
sentirle anche in superficie, ormai.
Indietreggiò
ancora e presto sarebbe finito incastrato da qualche parte. Sentiva i
respiri d'attesa dei suoi fratelli e tutta la pressione e la fiducia
che gli gettavano addosso.
Doveva
fare qualcosa. Ma il suo cervello sembrava in tilt.
La
creatura scatenava scossoni ad ogni passo, ma oltre a quello non
sembrava intenzionato ad attaccare, non mostrava la stessa
aggressività o furia delle altre tre, anzi; sentiva, no, sentiva,
al di
là dei cinque sensi
normali, qualcosa emanare dall'agglomerato di pietre e roccia, una
sorta di mente, che ragionava e osservava, pensava.
Riusciva
a percepirlo anche a quella distanza e si chiese se non fosse quello
che intendevano i suoi fratelli quando parlavano di aver sentito il
nucleo delle creature, quel qualcosa che le muoveva e le spingeva ad
agire, una sorta di matrice creata da emozioni.
Ma
quello che lui sentiva era pura logica e analisi, e quelle non erano
emozioni.
Erano
assenza di emozioni.
Si
sentiva valutato e scrutato.
Si
limitò a correre e a distanziarlo, ad evitare che si
avvicinasse a
lui, ma non importava quanto veloce si muovesse, il golem lo
individuava sempre e si rimetteva all'istante nella sua direzione,
anche se con i suoi passi lenti e ponderati.
Lo
aveva preso di mira, forse proprio per esclusione, perché
sentiva
che gli altri tre mutanti avevano già ognuno un elemento.
Era
una scelta di ripiego, lui? Eppure sentiva che ormai, presolo di
mira, non avrebbe potuto scappare senza trascinarsi dietro la
creatura e che quindi, volente o nolente, doveva trovare il modo di
batterla prima che creasse troppi danni. Nella teoria era tutto
giusto, nella pratica invece fuggiva e basta, saltando le macerie e
gli ostacoli.
Non
riusciva davvero a capire cosa fare.
“Don!
Fai qualcosa!” lo spronò il grido roco di Raph,
che scansava come
poteva la pioggia di detriti, insieme agli altri. Le scosse
aumentavano di forza e durata.
“Scappate!
O riparatevi con la bolla di Leo” urlò di rimando,
non sapendo
cosa altro pensare. Di certo anche il pensiero che potessero finire
sotto una frana non lo aiutava a ragionare con lucidità.
La
terra tremò forte, ancora e ancora, e iniziò a
squarciarsi, una
voragine nera che si aprì in fretta sotto i loro piedi. La
presa
franò e Mikey scivolò giù con un urlo,
ma Leo fu veloce e lo
afferrò in tempo per un braccio, prima che venisse
inghiottito dal
baratro.
Dopo
un attimo Raph si gettò in avanti e gli diede una mano a
sollevare
il fratello, e tutti e tre indietreggiarono verso il muro alle loro
spalle, mentre lo squarcio si apriva sempre di più in lungo
e in
largo.
Donatello
esalò un sospiro, lasciando andare la paura che lo aveva
assalito,
poi si concentrò sulla creatura, deciso infine a fare
qualcosa, per
proteggere i suoi fratelli, almeno.
Si
fece forza e si scagliò in avanti una volta, col bastone
alto sopra
la testa, e vibrò un potente colpo allo stomaco del golem,
con tutta
la sua forza.
Con
un sonoro schiocco, l'arma si spezzò in minuscole schegge
che
volarono in ogni dove e tutto ciò che gli rimase in mano fu
un
moncherino di legno rotto e il doloroso contraccolpo che correva per
le braccia.
Ecco,
pensò, proprio quello che sapeva sarebbe successo, ma aveva
dovuto
provarci.
E
ormai non aveva più nessuna idea.
La
creatura continuò ad avanzare verso di lui senza
tentennamenti,
senza averlo nemmeno sentito, quel colpo, senza ostacoli.
E
ogni passo era una scossa e spazio in meno per pensare e tempo in
meno per agire.
Si
sentiva pressato.
Il
suo cervello, la sua arma più potente, era più
inutile del suo Bō
distrutto.
Come
poteva arrivare al nucleo e cosa doveva fare per distruggerlo?
Il
golem torreggiava su di lui, ormai a distanza di un respiro.
E
di nuovo, quella sensazione si fece forza prepotentemente, stavolta
con più forza: era pura logica e calcoli, per qualcosa, come
se il
nucleo, o chi lo aveva progettato, stesse valutando un progetto
importante, tirando le somme per realizzarlo.
E
lui era parte di quel qualcosa, lo sentiva. E ne erano parte i suoi
fratelli.
Doveva
solo sconfiggere la creatura e dopo avrebbero avuto le risposte.
Ma
come, come?
Dietro
c'erano montagne di detriti e massi, davanti il golem. Quello si
fermò infine e il terremoto sembrò scemare appena
di intensità:
sollevò un grosso braccio di pietra, inesorabile.
Avrebbe
potuto scansare, reagire o almeno provare a pararlo. Ma non lo fece.
Le
grida dei suoi fratelli gli arrivarono, lo spronarono, ma era tardi.
“Non
so come devo combatterlo” ammise a voce alta, senza guardarli.
Il
pugno di roccia calò violentemente e Donatello strinse
appena le
palpebre, attendendo l'impatto, sperando che accadesse anche
qualcos'altro, oltre il dolore.
Ma
quello non arrivò mai, e dopo qualche istante
aprì completamente
gli occhi, sorpreso: il golem si era fermato con il pugno chiuso a
pochi centimetri dalla sua faccia ed era completamente immobile.
Lo
scrutò attentamente per valutare che non fosse una trappola,
ma era
alla sua completa mercé, per quale motivo avrebbe dovuto
comportarsi
così, in fin dei conti?
Aveva
fatto qualcosa che lo aveva fermato. Aveva trovato la chiave di
svolta?
Ma
cosa? Era stato il suo non reagire? La sua arrendevolezza?
No,
non aveva senso.
Cercò
di pensare a quello che aveva sentito, al nucleo. Logica,
intelligenza, calcoli e valutazioni, conoscenza... era come lui, era
in un certo senso lui.
E
il contrario della conoscenza era l'ignoranza, il non sapere.
Ammettendo
ad alta voce la sua totale ignoranza aveva forse incrinato il centro
della creatura?
Sorrise,
di sollievo e di fortuna.
“Non
so come sconfiggerti” disse, pacatamente, allungando il pugno
chiuso e battendolo contro quello del golem: una forte e ultima
scossa di terremoto lo percorse e slegò le sue magiche
giunture e lo
fece crollare, sasso dopo sasso in una frana rumorosa e polverosa.
Poi
la scossa terminò, la frana anche e rimase solo una nube di
polvere
nell'aria.
Silenzio.
“Don?”
chiamò piano Mikey, che lo aveva perso di vista.
Una
figura emerse dalla nuvola di pulviscolo, il braccio teso di fronte a
sé e nella mano un ciondolo bianco.
Donatello
sorrise timidamente, un sorriso che divenne più grande
quando
esultarono.
Poi
tornarono tutti seri, di colpo, pensando esattamente la stessa cosa.
Avevano
tutti e quattro gli elementi. Sarebbe successo qualcosa. Ne erano
certi.
Si
guardarono attorno in allerta, aspettando che apparisse qualcuno o
qualcos'altro, ma i minuti passarono e non accadeva nulla.
“Forse...”
provò Don, allungando il suo nuovo ciondolo verso gli altri.
I suoi
fratelli capirono e, staccatili dai cordini, fecero in modo che i
quattro si toccassero: si illuminarono per un secondo di rosso, blu,
giallo e verde, poi ritornarono nel loro stato di quiete.
E
ancora non accadde nulla.
Eppure
sentivano che non era finita, non poteva essere tutto lì.
Ma
qualunque cosa ci fosse dietro, dovevano attendere ancora.
Conservarono
ognuno il proprio ciondolo, poi diedero un'ultima occhiata al vecchio
rifugio ancora più distrutto e infine si incamminarono verso
la loro
casa, logorati dal tarlo dell'attesa, ancora
più pressante perché non sapevano cosa dovessero
attendere.
Note:
Buona
notte.
È
passato tanto, molto tempo. Non è stata la mia pausa
più lunga, ma
è stata la più sofferta, perciò mi
è sembrata molto di più.
Dall'ultimo
aggiornamento è accaduto di tutto e purtroppo a volte la
vita ci
tiene particolarmente a prenderci a schiaffi e a ricordarci quanto
insignificanti siamo, quanto dura essa sia. Questo è tutto
quello
che posso dirvi, per giustificare il mio ritardo.
Tuttavia,
e ne faccio un punto di vanto, mi pregio di essere una persona
testarda nonché di parola, perciò niente
può davvero tenermi
lontana dallo scrivere e dal finire questa serie, soprattutto. Magari
ci vorrà più di quanto avevo previsto, ma la
finirò.
Ormai
siamo agli sgoccioli con il mistero delle creature magiche,
già dal
prossimo capitolo capirete, ci sarà una svolta.
Poi
mancheranno meno di dieci capitoli alla fine.
Vi
ringrazio umilmente, dell'affetto che mi mandate, anche quando sono
lontana, siete persone gentilissime e dall'enorme pazienza. Sono
fortunata che leggiate la mia storia.
Grazie,
un grandissimo, profondissimo abbraccio
|
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Capitolo 33 *** Void. What doesn't exist in mortal life ***
Avevano
raccolto i quattro ciondoli dei quattro elementi base.
Non
pensavano ce ne fossero altri, erano davvero convinti che quei
quattro fossero gli unici e che perciò da un momento dovesse
accadere qualcosa, forse l'arrivo di un mostro potente come al
livello finale di uno dei giochi di Mikey, forse direttamente
l'artefice di tutto quello, un mago prodigioso che avrebbero
affrontato, facendosi spiegare cosa potesse mai volere da loro.
Di
certo, quello di cui tutti erano certi, era che sarebbe accaduto da
un momento all'altro. Niente più che pochi giorni,
perché le
apparizioni degli elementi erano state sempre più vicine nel
tempo,
perciò non avrebbero dovuto aspettare molto.
Donnie
si sbrigò a inserire il segnale del suo ciondolo nel
tracciatore,
poi iniziò ad allenarsi anche lui coi suoi fratelli, ma
erano sempre
tutti sottilmente sul chi vive, sempre distratti, sempre con la testa
tesa a percepire una nuova minaccia, qualcosa che doveva accadere.
Perché
non poteva essere tutto lì.
A
volte, anche se nessuno di loro lo aveva mai confessato agli altri,
li prendeva la paura che in realtà non sarebbe successo
davvero
nulla, che semplicemente avrebbero continuato con le loro vite di
sempre, solo con in più quei ciondoli magici, senza sapere
mai
perché, senza scoprire mai chi ci fosse dietro.
Ma
non era possibile, no? Perché qualcuno avrebbe dovuto creare
disastri di quella proporzione, tutto quel casino, per poi lasciare
tutto così, incompiuto?
Sarebbe
successo qualcosa.
Doveva.
Continuarono
a crederci. Anche dopo che un'altra settimana era passata e mancavano
ormai pochi giorni alla fine di Luglio; ma per allora di certo
sarebbe successo.
Gli
allenamenti seguirono e Donatello imparò a controllare
perfettamente
il suo potere, dal creare terremoti semplicemente pestando un piede
al far spuntare costoni di roccia con un gesto della mano, in
pochissimo tempo riuscì a padroneggiarlo appieno; il suo
ciondolo,
legato al collo, aveva il simbolo di un triangolo con la punta verso
il basso tagliato in orizzontale da una linea, che si illuminava di
verde ogni volta che usava la sua magia.
Non
c'era più niente di anomalo, in città.
Temperature
normali per la solita estate torrida, ragazzini in ferie, i lavori
per ripristinare le strutture danneggiate erano già iniziati
e dalle
menti della gente era già sparita la preoccupazione per
tutto quello
che era successo, già dimenticato dalla frenesia della
città.
Era...
seccante. Perché per loro niente era finito.
Ogni
giorno era un'attesa infinita, ancora più lunga
perché il
sentimento era condiviso e i dubbi di tutti si accumulavano fino allo
spasmo.
Arrivò
la fine del mese, l'ultimo giorno di Luglio, e ancora nulla. Si
stavano allenando come al solito nel dojo, solo loro quattro, ormai
anche il sensei sentiva che non era prudente rimanere lì
dentro in
balia degli elementi.
Gli
umani ovviamente se ne tenevano alla larga senza tanti complimenti,
anche se incuriositi e galvanizzati da tutto quel mistero e dai loro
nuovi poteri; quindi anche se non si allenavano più con
loro, Steve
era soprattutto il più penalizzato, tutti erano alla
costante
ricerca di informazioni e si erano raccomandati di avvisare nel caso
succedesse qualcosa.
Gli
allenamenti magici non erano solo... magici, ma comprendevano anche
allenamenti fisici mescolati a quelli più esoterici: era
stata una
regola di Raphael, che li aveva spiazzati se dovevano essere sinceri,
per non fare troppo affidamento sulla magia, nel caso in cui poi
avessero perso i loro poteri al momento clou, senza preavviso.
C'era
così tanta maturità in quell'avvertimento,
così tanta Isabel nei
suoi pensieri quando l'aveva pensata, che tutti si dissero d'accordo
immediatamente.
Interruppero
per qualche istante la sessione di allenamento, le fiamme, il vento,
l'acqua e le rocce si fermarono e scomparvero e i quattro medaglioni
smisero di brillare.
Ci
fu così tanto silenzio finalmente che sentirono il sensei
sospirare
di sollievo nella stanzetta da meditazione. Chissà quanto
fastidio
gli avevano dato sino a quel momento.
Mikey
si sedette un attimo sul pavimento, mentre Don andava in cucina a
prendere da bere.
Aveva
sacrificato le invenzioni in quell'ultimo periodo, anche e
soprattutto a sfavore della nascente O'Neill Tech, che un po' si
sentiva in colpa. Prese quattro bottigliette dal frigo, facendosi
solenne promessa mentale di lavorare il doppio una volta finito tutto
quello, per aiutare la sua amica a far decollare il progetto.
In
fondo era anche il suo progetto, era sì un socio fantasma,
ma
avrebbe preso la sua bella fetta una volta avviato.
Stava
tornando indietro, quando sentì Michelangelo chiamare il suo
nome.
Corse
stringendo le bottiglie al petto e aprì la porta del dojo
con un
calcetto e si sorprese nel vedere che c'era anche il sensei,
probabilmente richiamato dalle urla di Mikey; il fratello era al
centro del gruppetto e teneva nella mano il suo tracciatore.
“Si
è illuminato. Ma non indica nulla” disse quasi
scusandosi,
passandoglielo.
Donatello
stava già preparando mentalmente i rimproveri nel caso lo
avesse
rotto, quando lo sguardo si posò sullo schermo del congegno:
il
piccolo puntino rosso continuava a lampeggiare, in mezzo al bianco.
Pigiò un paio di tasti al lato e rimpicciolì la
metratura, sempre
di più, sempre di più, finché...
“Non
è rotto. La minaccia non è a New York
City!” esclamò più a sé
stesso che a loro, scappando dal dojo prima che potessero anche solo
aprire bocca.
Lo
inseguirono tutti assieme senza una parola e lo trovarono nel
laboratorio, che armeggiava già con il computer, e il
tracciatore
connesso con un cavetto.
Continuò
a guardare lo schermo, assorto, ma si accorse di loro.
“Nel
congegno ho messo solo la cartina della città, convinto che
tutto
sarebbe successo qua. Che stupido! Anche un po' arrogante a dire il
vero. Perciò il puntino segnava il nulla, perché
non c'era nulla
oltre i confini di NYC.”
Iniziarono
a capire, mentre intanto lui inviava le mappe di tutti gli stati nel
dispositivo, ad una velocità impressionante.
Digitò
ancora rapidamente sulla tastiera, poi saltò su con una
espressione
euforica e staccò il filo con uno strattone disattento.
Pigiò i
tasti del tracciatore, controllò lo schermo con attenzione
e...
trattenne il fiato.
“Leo,
inizia a preparare il furgone. Prendiamo acqua e un kit di pronto
soccorso. Partiamo immediatamente.”
Si
mossero tutti in fretta, spronati dalla serietà della sua
voce,
convinti che avrebbero avuto sin troppo tempo per domandare nel
viaggio, così dopo pochi minuti erano tutti già
ai loro posti e
Donatello ingranava la marcia indietro per uscire dal garage.
Anche
il sensei era con loro, quella volta, mentre il genio si era limitato
a mandare un messaggio a April, Casey, Angel e Steve per informarli
dove stessero andando e di raggiungerli se avessero potuto farlo.
Uscirono
dalla città e si immisero nella I-95, accelerando
considerevolmente.
Non
sapevano di quanto il tracciatore avesse anticipato la minaccia,
qualunque essa fosse, perciò raggiungere la destinazione il
prima
possibile era di vitale importanza.
E
ormai avevano capito tutti dove stessero andando e il silenzio era
caduto all'istante, spesso e angosciante su di loro.
Raphael
guardava distrattamente fuori dal piccolo finestrino del sedile di
dietro, assorto sul guardrail con un grosso peso sul cuore.
Stavano
andando a Northampton. Stavano andando da lei.
Due
ore e mezza sembrarono così lunghe, così lente,
nonostante stessero
andando il più velocemente possibile, la distanza era
troppa; ma con
tutto quel tempo, le domande che si crearono nelle loro menti si
accavallavano una sull'altra, insieme alle mille teorie.
Arrivarono
finalmente nella piccola cittadina che ormai era il calare del sole,
e sfrecciarono verso la casa immersa nella campagna, seguendo il
segnale: era indubbio, a quel punto, che indicasse proprio la
fattoria Jones.
Parcheggiarono
di fronte alla casa e scesero coi sensi all'erta, scrutando intorno
per captare qualsiasi minaccia, ma c'era solo il fruscio lento del
vento tra le fronde degli alberi e lo stridio di uccelli che
cercavano riparo per la notte.
E
nient'altro.
Erano
arrivati troppo presto o troppo tardi?
Non
c'era segno di danni, né ne avevano visto nella
città quando erano
arrivati, perciò erano sicuri fossero in anticipo.
Esaminarono i
dintorni senza sparpagliarsi troppo.
Raphael
si allontanò senza essere visto, diretto verso il limitare
del
bosco, senza preoccuparsi nemmeno di prendere una torcia:
l'oscurità
calava in fretta, ma la tomba bianca splendeva quasi nel buio,
perciò
sapeva perfettamente dove andava.
Si
fermò ad un centimetro da essa e guardò le grandi
crepe che la
solcavano, quello che lui aveva fatto nella sua furia: il segno dei
colpi, i frammenti staccati che rovinavano la scritta e i contorni;
si chinò, poggiando una mano sopra, accarezzando il marmo e
le sue
incrinature.
Le
dita si fermarono su quella grande che straziava il suo nome.
Isabel.
Si leggeva appena ormai.
“Mi
dispiace” sussurrò a voce bassa, sentendosi
sciocco allo stesso
tempo.
E
quella rabbia c'era ancora tutta e così quel dolore
straziante e
quel senso di abbandono, ma non li avrebbe diretti più
contro di lei
o contro sé stesso.
Si
accorse della presenza di Leo, lì vicino, probabilmente che
lo
controllava di nascosto, ma ne fu quasi lieto, gli ricordava che non
era solo, anche se non diminuiva la pena.
Si
rialzò, scuotendo la polvere dalle dita contro il tessuto
della
tuta, distrattamente.
Poi,
un bagliore rosso esplose dal suo braccio e si accorse di un
riverbero azzurro alle sue spalle, in contemporanea.
Da
lontano sentì le urla di Mikey e Don, e poco dopo i due
arrivarono
insieme al sensei, brillando uno di giallo e l'altro di verde.
“Sta
per succedere!” strillò Mikey continuando a
guardarsi attorno
freneticamente, l'oscurità illuminata dai loro ciondoli.
Niente
si muoveva, nessun rumore estraneo, nessun odore particolare, nessuna
luce sospetta, nessun tremore... niente.
Solo
il buio della notte ormai scesa, le stelle immobili in alto, molto
alto, e i loro quattro fasci di luce splendenti. Si spensero per un
attimo e tutto piombò in una spessa oscurità che
li spaventò per
un attimo, al pensiero di poter essere alla mercé di qualche
creatura o di un nemico senza visibilità, poi i quattro
ciondoli si
riaccesero e rimasero fissi e accecanti.
Era
la prima volta che accadeva. E quello li rese solo più
consci e
guardinghi.
Dopo
qualche minuto di controlli e silenzio, finalmente Mikey
sbottò:
“Voi
vedete qualcosa? Io nulla!”
La
frustrazione cresceva, quel senso di attesa che non si compiva, quel
voler sapere a ogni costo.
“Nulla
è la risposta giusta” disse d'un tratto il sensei,
attirando la
loro attenzione.
Tendeva
la punta del suo bastone dritto di fronte a sé, oltre le
loro
spalle, verso il bosco.
Dove
credevano le loro luci non arrivassero ad illuminare, mentre si
accorsero solo in quel momento che non c'era nulla da illuminare: il
bosco non era immerso nell'oscurità, semplicemente non c'era
e
quello che loro stavano guardando era un foro di puro buio che
assorbiva i fasci luminosi. Le stelle erano scomparse su di loro.
“È
un buco nero?” ipotizzò Donatello, sicuro di non
voler sapere la
risposta.
Non
era di certo un elemento naturale, non uno canonico almeno, e non
potevano combatterlo in nessun modo.
“Indietreggiate!”
ordinò, ritornando su suoi passi.
Se
fossero caduti lì dentro, se li avesse assorbiti, sarebbero
scomparsi nel nulla. E nessuna magia al mondo li avrebbe mai potuti
salvare.
Si
spostarono all'indietro, ritornando vicino alla casa, poi si
voltarono a controllare: il buco oscuro era sempre lì,
all'apparenza
immobile, eppure letale.
“Crescerà
e ingoierà tutto” mormorò il genio,
osservando i suoi contorni
mangiare un altro centimetro di bosco. “Non so se sia davvero
un
buco nero, mi pare impossibile, ma si comporta come tale.”
Rimasero
impalati a guardarlo, senza sapere che fare.
Se
un mostro di acqua, una salamandra di fuoco, un ciclone di aria e un
golem di terra erano sembrati
ostacoli difficili, quello era di certo impossibile da battere.
Non
si batteva un buco nero.
Nemmeno
il sensei, dall'alto della sua saggezza, sapeva cosa poter dire ai
suoi figli per aiutarli.
“Proviamo...
proviamo a colpirlo con la magia?” tentennò
Michelangelo,
dubbioso.
“Voglio
dire, lo so che probabilmente non succederà nulla, ma almeno
proviamo. In fondo, che può succedere?”
Già,
che poteva succedere? Tuttalpiù i loro attacchi sarebbero
stati vani
e ne avrebbero avuto la conferma.
Tutti
d'accordo, si misero uno accanto all'altro e allungarono le braccia
in avanti: un fiotto d'acqua, un tornello di fuoco, un turbine di
vento e una pioggia di rocce eruppero al loro comando e attaccarono
la minaccia nera con una furia inaudita, con tutta la forza
possibile.
Il
buio si mangiò ogni loro energia, i loro attacchi magici
sparirono
all'interno del nulla, completamente consumati: le braccia ancora
tese, rimasero a guardare con rassegnazione mista a sconforto e
smisero all'istante di sprecare energia inutilmente.
E
all'improvviso, il centro del nulla si tinse di un bianco accecante,
che sparì subito.
Si
guardarono uno con l'altro, incerti se fosse successo davvero.
Allora,
forse, la magia non era così inutile.
Michelangelo
fece un paio di passi, ignorandoli.
“Dobbiamo
entrare” disse, assorto. Guardava nel buco ritornato
completamente
nero, come se volesse essere ingoiato anche lui.
“Cosa?”
chiesero contemporaneamente Leo e Don.
“Vuole
che entriamo” ripeté il fratello, voltandosi
infine a guardarli.
C'era una serietà nella sua voce, e il suo sguardo non era
mai stato
più deciso, che li rese certi che per lo meno non fosse
soggiogato o
ipnotizzato.
E
Raphael gli restituiva lo stesso sguardo.
“Andiamo.”
“Cosa?
Fermatevi voi due!” sbraitò Donatello, afferrando
Mikey per un
braccio. “Siete impazziti? Cosa credete di fare?”
“Dobbiamo
buttarci” rispose di nuovo quello, come se fosse logico
ciò che
usciva dalla sua bocca.
Don
guardò Leo per cercare aiuto, ma il leader stava fissando il
centro
del nulla, assorto come in meditazione.
“Hanno
ragione” disse alla fine, voltandosi anche lui.
Don
spalancò gli occhi, inorridito. C'era qualche magia in atto
da cui
lui era immune?
“Fidati,
è questo il modo giusto.”
Loro
tre si erano già presi per mano e Michelangelo gli tendeva
quella
rimasta libera, con un sorriso fiducioso.
Una
parte di sé voleva scappare da quella follia, l'altra si
chiedeva se
loro semplicemente non fossero nel giusto; ma scommettere su una cosa
del genere significava quasi sicuramente un suicidio di massa.
Guardò
verso il maestro e quello gli restituì un grande sorriso,
calmo,
sereno, che lo rilassò all'istante. Sembrava volergli dire
di
fidarsi.
Donatello
afferrò la mano di Mikey, solo con un po' di nervosismo, e
poi
iniziarono ad incamminarsi verso il buco nero, a passi cadenzati, e
la luce salì dai medaglioni e li rivestì,
trasformandoli in
quattro fari: uno blu, uno rosso, uno giallo, uno verde.
Più
si avvicinavano, più la forza del buco li attirava a
sé,
facilitando il loro compito; non sarebbero potuti tornare indietro
nemmeno se avessero voluto.
Ma
ormai non sarebbero tornati indietro. Presero una rincorsa e ci si
tuffarono dentro, le luci scomparvero nella voragine nera e tutto
ripiombò nell'oscurità della notte.
Splinter
rimase a guardare, pregando silenziosamente che tutto andasse bene.
Il
foro si tinse per un secondo di bianco, sussultò, si tese e
tremò, poi esplose: un
ciclone nacque dal suo centro e si innalzò al cielo in tutta
la sua
furia, così violento da sradicare gli alberi ricomparsi un
frammento
di secondo di prima; straziò il terreno e lo
ingoiò, i suoi vortici
erano scuri e potenti e sibilavano con il grido stesso della natura.
Il
suo interno brillava di lingue di fuoco e mulinelli d'acqua, che
vorticavano insieme e poi una scia di rocce, sempre più
grosse e
compatte.
Girarono,
girarono, espandendosi ancora e ancora e poi salendo fino alle
stelle.
Brillarono
tutti con la stessa intensità, poi il buio.
Il
vortice implose su sé stesso, disperdendosi in folate
leggere e
innocue, lasciandosi dietro la distruzione che aveva portato; non
c'era più fuoco, né acqua, né le rocce
di prima.
Non
c'era nemmeno più un rumore, neanche un sospiro di vento,
nemmeno i
suoni del sottobosco o il verso di un animale.
Quattro
corpi caddero dal cielo, di malagrazia, atterrando più
morbidamente
di come si si sarebbe aspettato da un'altezza del genere.
Malconci
e graffiati, ma vivi.
Vittoriosi
in qualche modo, anche se non sapevano come.
Rimasero
per qualche istante a terra a riprendere fiato, mentre il loro padre
si rilassava al vederli sani e salvi. Non brillavano più,
erano
tornati normali.
Ci
furono mugugni e proteste per le ferite riportate, quando si
rialzarono scrollando la polvere di dosso, controllandosi prima
personalmente e poi l'uno con l'altro per assicurarsi che stessero
tutti bene.
Poi
arrivarono anche i sorrisi, la soddisfazione e la gioia.
Ce
l'avevano fatta. Ancora le loro menti erano confuse, ma sapevano di
avercela fatta.
Si
strinsero in un abbraccio veloce, prima di guardarsi infine attorno.
Erano a qualche metro dall'origine del vortice e del buco nero, dove
le linee concentriche prodotte dal tifone straziavano il terreno,
lunghi solchi di terra umida e scura.
“Voi
ricordate cosa-” provò a dire Don.
Un
tocco sordo attirò la loro attenzione e videro il maestro
poco
distante inginocchiarsi per raccogliere il piccolo monile appena
caduto dal cielo.
Bianco,
tondo.
“Cos'è?
Cosa c'è inciso stavolta?” domandò
Michelangelo curioso,
avvicinandosi per provare a sbirciare.
Il
sensei non lo stava ascoltando. Rigirava tra le mani il ciondolo,
liscio da entrambe le parti, completamente assorto. Poi,
spalancò
gli occhi, folgorato.
Tutto
era chiaro.
Sorrise
tra sé, ma quello non fece che accrescere le domande dei
suoi figli.
“È
la fine di tutto” disse, avvicinando il nuovo monile ai loro,
un
tocco leggero.
Un
sibilo feroce riempì di colpo lo spazio attorno, un fischio
che
faceva tremare gli alberi, che spazzava il terreno, che scuoteva il
loro corpo.
“E
anche l'inizio” aggiunse poi, toccando per ultimo quello di
Leonardo.
L'ideogramma
della sua collana si illuminò di azzurro e il ronzio che
emetteva
diventò più forte: si sollevò dal
collo del leader e volò al
centro della spirale, come una scheggia impazzita. Lì,
esplose in
una colonna di luce blu, alta verso il cielo, abbagliante, che
illuminava tutto a giorno.
“Mizu,
l'acqua, rappresenta le cose che fluiscono”
esclamò Splinter a
voce alta, cercando di sovrastare il sibilo della pietra.
La
collana di Raphael risplendette di rosso, pulsando allo stesso ritmo
della colonna e si sollevò dal suo polso, come attirata da
essa:
prima che il mutante avesse il tempo di toglierla, si staccò
con uno
strattone secco e volò verso la luce, attraversandola con
facilità.
Ci
fu una seconda esplosione e il pilastro abbagliante si tinse di rosso
e il fischio crebbe ancora, un ronzio che sembrava provenire dalla
terra stessa.
“Hi,
il fuoco, rappresenta le cose distrutte” aggiunse il sensei,
il cui
tono calmo cozzava con quello che stava succedendo.
Mikey
e Don avevano capito immediatamente e come in trance si tolsero i
ciondoli prima che si strappassero via da soli, per la forza magica
che li richiamava a sé.
Quello
nella mano di Michelangelo reagì e si unì agli
altri, con un
bagliore giallo ad avvolgerlo; quando scoppiò nel centro
della
colonna, la tinse dello stesso colore, splendente come il sole.
“Kuuki,
l'aria, rappresenta le cose mobili.”
Donatello
alzò la mano per permettere alla sua collana, che sapeva
essere la
successiva, di andare. Quella infatti si rivestì di una
deliziosa
aura verde e fluttuò nel centro insieme alle sue sorelle, ed
esplose
in una colonna verde intenso, il colore dell'erba in primavera.
“Tsuchi,
la terra, rappresenta le cose concrete” continuò a
spiegare il
maestro, unica voce a provare a sovrastare il sibilo delle pietre, il
loro ruggito primordiale.
A
quel punto, il sensei fece un passo avanti, con il nuovo ciondolo,
che nessuno aveva ancora visto, stretto nella mano: la aprì
lentamente e si accorsero allora che aveva preso a brillare di luce
bianca, tutta la pietra, come un cuore pulsante.
Venne
attratta dal richiamo delle altre e sparì come esse
all'interno
della colonna, tingendola di un bianco brillante, accecante e caldo,
troppo intenso per essere sostenuto ad occhio nudo.
“E
Kara, il vuoto, rappresenta le cose che non sono della vita
quotidiana” finì allora di dire con
solennità.
A
quel punto, il pilastro di luce esplose con un'onda d'urto che li
sbalzò all'indietro, a cui cercarono di resistere coprendo
il viso
con le braccia e puntando i piedi a terra. Poi, s'innalzò
con ancora
più forza verso il cielo e il ronzio cessò di
colpo, lasciando un
doloroso e improvviso silenzio, che pulsava nelle orecchie.
Il
centro della colonna incominciò a vorticare, di tutti i
colori che
aveva assorbito: rosso, blu, una scia di giallo, un tocco di verde,
più e più veloce, finché non si
mescolarono nello stesso bianco
del pilastro.
E
d'improvviso, qualcosa iniziò a prendere forma all'interno
della
luce. Una mano, e poi un'altra, un braccio, un corpo intero emerse
dal bagliore, rannicchiato in posizione fetale, mentre appariva
sempre più nitido.
Leonardo
sentì una mano chiudersi sul suo polso e tremava, tremava
così
tanto da scuoterlo. Raphael aveva gli occhi spalancati e increduli
incollati alla colonna di luce, ma si era aggrappato a lui, senza
nemmeno guardare, forse senza nemmeno essersene accorto.
Come
un fiore che sboccia, il corpo si stiracchiò e
così rimase, a
galleggiare a mezz'aria, sorretto dalla luce e dalla magia, come in
stato d'incoscienza.
Si
sentirono solo i loro respiri trattenuti, un gridolino di Mikey.
Poi,
la mano strinse appena la presa, prima di lasciarlo andare.
Raphael
percorse quei pochi metri a piccoli passi, come in trance, come
posseduto. Ad ogni passo i mille dettagli di lei erano sempre
più
chiari, sempre più luminosi: la pelle color avorio che
rifletteva la
luce, i lunghi capelli castani legati in una coda alta che
fluttuavano seguendo le onde della magia, il corpo minuto stretto in
un Kimono sconosciuto, il bracciale che le aveva regalato
all'anniversario ancora al polso destro.
E
la collana degli amanti, che reagendo alla vicinanza della sua si era
sollevata un poco dal suo seno, verso di lui. La sua faceva lo
stesso.
Si
fermò con un batticuore feroce e un dolore sordo al centro
del petto
e poggiò le mani sulla colonna, senza pensare per un attimo
che
potesse essere rischioso: la luce era calda, ma non gli faceva alcun
male e lui si avvicinò più che poté,
senza staccare gli occhi da
lei, cercando un modo di raggiungerla.
“Raph”
chiamò la voce di Don, con un tono grave. Di
pietà.
“Non
è possibile che sia-”
Lasciò
la frase a metà, ad un cenno di diniego di Leo.
A
Raph non importava. Poteva essere un sogno. Un'allucinazione.
Un'illusione. L'importante era poterla raggiungere, finalmente.
“Isabel”
pronunciò sottilmente, come una preghiera.
La
luce scemò d'intensità e svanì nel
nulla, contro le sue mani. Agì
di istinto e allungò le braccia e la afferrò,
senza esitazione: era
vera, era calda, era morbida, pulsante di vita.
Cadde
sulle ginocchia, stringendosela contro. Non per il suo peso, no; lei
non pesava nulla.
Ma
il suo cuore, il suo cuore era così gonfio di dolore, amore,
paura e
tutti i sentimenti e le emozioni che finalmente ritornavano, da non
poterlo sostenere con le sue sole forze.
Respirò
il suo odore, circondò il suo viso con la mano e
poggiò la fronte
sulla sua, bagnando i suoi occhi ancora chiusi con le lacrime che non
poté frenare.
Il
suo respiro caldo gli solleticava dolcemente le labbra, così
vicine
alle sue.
La
sua famiglia si avvicinò, timorosa eppure con una nuova
speranza nel
cuore. Forse, il sensei aveva intuito fin dall'inizio cosa sarebbe
accaduto.
Guardarono
il loro enorme fratello e figlio chiuso a conchiglia su di lei,
singhiozzare tanto forte che le spalle tremavano. Tutto il suo corpo
tremava.
“Isabel.
È Isabel” pronunciò con voce roca,
abbracciandola ancora più
forte, perché niente gliela portasse via.
E
sapevano che, anche se ci avessero provato, non sarebbero riusciti a
convincerlo a lasciarla andare. Nessuno gliel'avrebbe più
strappata
via.
E
nessuno sapeva come fosse possibile. Nessuno sapeva cosa stesse in
realtà succedendo. Ma in quel momento, nessuno se lo chiese
davvero.
Note:
Salve.
Non
ho molto da dire stavolta, se non che aspettavo di mettere questo
capitolo da così tanto, davvero tanto. Sono curiosa di
sapere cosa
ne pensate, le vostre teorie.
In
ultimo: grazie, davvero grazie.
Grazie
|
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Capitolo 34 *** Back to you ***
Era
Isabel.
Le
sue mani, il suo viso, il suo corpo.
Era
Isabel.
La
guardavano, confusi ed emozionati, ma era Isabel. Era vera, era
reale.
Don
si chinò a toccarla, le prese il polso per controllare il
battito,
beccandosi solo una lieve occhiata apprensiva da Raph, che la strinse
più forte.
Si
chiedevano come fosse possibile.
A
nemmeno cento metri c'era la sua tomba.
E
il corpo che riposava all'interno era Isabel.
Lo
avevano stretto, pianto, lavato, vestito, pettinato: Donatello lo
aveva esaminato minuziosamente per capire se i traumi e le ferite
coincidessero con le cause della morte.
Il
corpo nella bara accanto a loro era reale quanto la Isabel che c'era
lì in quel momento. E lei aveva sempre detto che non c'era
metodo,
magico o meno, per riportare in vita i morti.
Perciò,
qual era la verità?
Qual
era quella vera?
Se
lo stavano chiedendo tutti, tranne Raphael probabilmente, a cui non
importava nulla del perché o del come. E proprio per fugare
ogni
dubbio, mentre aspettavano che quella Isabel riprendesse conoscenza,
si diressero tutti senza una parola verso la lapide, al limitare del
bosco.
Fu
facile scalzare la lastra già scheggiata, gettando i
frammenti
lontano nella smania di scoprire; fu molto meno semplice scavare, la
terra era arida e compatta, perciò si diedero il turno, alla
luce
dei fari del furgone, mentre la notte continuava a scorrere.
La
pala toccò infine la superficie della bara con un tocco
sordo e
Leonardo si fermò; guardò i suoi fratelli, poi si
chinò per
scoprire con le mani la bara.
Ormai
erano arrivati. E non erano certi di voler sapere davvero cosa ci
fosse dentro.
Il
leader si fece forza e, aiutandosi con la punta della pala,
forzò il
coperchio, prima piano, poi con decisione una volta sicuro di averlo
infilzato: non si sentì nessun altro rumore se non il
cigolio del
legno divelto e il tonfo quando ricadde.
Leonardo
lasciò andare la pala e sollevò il coperchio,
svelando il suo
interno: sui cuscini di raso bianco non c'era niente. Erano intonsi
come se non ci fosse mai stato niente.
Solo
il vestito con cui l'avevano seppellita, mollemente appoggiato,
vuoto, spettrale.
Rimasero
a fissarlo in silenzio, mentre Raph, alla sola vista del vestito,
strinse più forte Isabel tra le braccia.
“Un
corpo non può sparire nel nulla e non si può
ritornare in vita,
quindi davvero non so cosa stia succedendo”
mormorò Donatello
confuso.
Prima
che potessero provare a parlarne, a fare teorie, o a svegliare la
dormiente, una frenata improvvisa li avvertì dell'arrivo di
qualcuno: rimasero in allerta per capire se dovessero nascondersi, ma
poi la voce di Steve spezzò la tensione.
“Caspita
se guidi male, Casey!”
I
loro amici umani circumnavigarono la casa e raggiunsero il retro,
trovandoli ancora immobili attorno alla bara scoperchiata: dopo il
primo attimo di paura e smarrimento, notarono il corpo stretto tra le
braccia di Raphael, intonso, troppo sano per essere vero.
April
portò le mani alla bocca. “È...
Isabel?” domandò con voce
spezzata, i grandi occhi verdi velati di lacrime.
Sembrava
volesse gettarsi in avanti e abbracciarla e sincerarsi che fosse lei,
che fosse viva e vera, ma lo sguardo spiritato e ossessivo di
Raphael, incollato al viso di Isabel, la fece desistere: rimase in
piedi accanto al marito, in silenzio, ad osservarli.
Così
come fecero gli altri, benché le domande che saltavano alla
mente
fossero tante, fossero soffocanti.
La
tomba era vuota, Isabel era viva, una porzione del bosco era
distrutta e nessuno sapeva che dovesse succedere ancora, se fosse
tutto lì, se avrebbero mai scoperto la verità.
“I
bambini?” domandò Leonardo in direzione dei Jones,
forse solo per
spezzare quell'insopportabile silenzio.
“Da
mia madre” disse Casey, piano. “Quando abbiamo
ricevuto il
messaggio di Don le abbiamo chiesto di controllarli e siamo passati a
prendere Steve e Angel. Ci è sembrato che fosse urgente e,
beh,
sembra che avessimo ragione.”
Poi
di nuovo, si ammutolirono.
La
notte era sempre più scura, c'era una sottile folata di
vento che li
sfiorava, e tutto sembrava così irreale, sembravano finiti
tutti in
un sogno così vivido e grottesco, dal quale non sapevano
come
uscire.
“Dovremmo
svegliarla” suggerì Donatello alla fine, guardando
Raphael.
Il
fratello ricambiò lo sguardo, spaventato ed emozionato, in
uno
scontro interno tra le sue paure e i suoi desideri, ma senza lasciare
mai la presa.
Isabel
dormiva ancora, ed era strano, con tutta la confusione che c'era
stata e che c'era ancora.
C'era
una certa rigidità nel suo viso, che non convinceva
Donatello.
“Sembra
come in stasi” disse ad alta voce, mentre ragionava tra
sé e sé.
“Penso che fosse in uno stato di incoscienza forzato, come un
coma.”
Allungò
una mano verso il suo viso.
“Le
do un piccolo pizzico, ok?” domandò piano verso
Raph, solo perché
non desse di matto.
L'altro
occhieggiò per un secondo le sue dita sulla guancia di
Isabel,
sembrò rifletterci su un attimo, poi annuì
lentamente.
Donatello
strinse appena e lasciò andare che la pelle non si era
nemmeno
ancora arrossata.
Le
palpebre di Isabel si contrassero, infastidite. Le sopracciglia si
arcuarono e le ciglia sfarfallarono una volta, una frazione di
secondo, richiudendosi in fretta.
Il
corpo si mosse appena, ma Raphael non lo lasciò andare.
Col
magone, stettero tutti in silenzio, ad osservare gli occhi aprirsi
con fatica.
Castani,
vivi, caldi come li ricordavano.
Guardarono
su di sé, confusi, nella notte scura e piena di stelle e
quelle si
rifletterono nelle loro profondità e Isabel era notte, dallo
stesso
potere misterioso.
Poi,
gli occhi incontrarono lo sguardo di Raphael e si fermarono.
Isabel
si stupì e nella confusione della sua mente sembrava cercare
qualcosa, forse un ricordo: sorpresa e poi emozione affiorarono;
sorrise, pianse, e gli gettò le braccia al collo,
stringendolo
forte, sempre più forte.
Il
suo esile corpo era scosso da singulti, ma non udirono un lamento.
Raphael
assorbì il suo calore e qualcosa di duro e crudo si sciolse
a poco a
poco dal suo cuore. Era avvolgente, era confortante, spazzava via
ogni cosa.
Si
mangiava via il suo dolore, tutte le sue paure, tutta la disperazione
che l'aveva riempito, tutta la rabbia. Tutto quello che gli rimaneva
era l'amore.
L'amore
di Isabel caldo e benefico, che lo faceva sentire vivo, per cui
valeva la pena vivere.
Non
esisteva più nient'altro, non il passato, nemmeno il futuro,
niente
era più importante che quel momento.
Si
strinsero con così tanta foga da sembrare volersi fondere
una
nell'altro, con così tanta disperazione, con così
tanto amore; le
dita artigliavano, le mani premevano, le braccia avvolgevano. Fiati
caldi che si mescolavano, lacrime che purificavano, cuori che
battevano all'unisono nel dolore misto a gioia, in un abbraccio
infinito.
Gli
altri, commossi e confusi, stettero lì ad osservare,
incapaci di
interrompere.
Raphael
piangeva e il suo corpo assecondava i suoi tremori, ogni tanto un
singulto lasciava le sue labbra; le lacrime di Isabel gli bagnavano
la pelle, il fiato caldo lo solleticava, ma non la sentì
emettere un
suono.
Si
accorse allora che le labbra di lei, poggiate contro il suo collo, si
muovevano senza freno, come a mormorare qualcosa in mezzo al pianto.
Solo
dopo qualche istante capì che stava pronunciando il suo
nome,
Raffaello, come una nenia infinita. Una nenia muta.
La
allontanò da sé, e non era mai stato
così doloroso, e la guardò
in viso.
Lei
si accorse del suo occhio ferito e con un grido senza suono si
gettò
su di lui, riempiendo il suo viso di baci, inumidendolo ancora di
più. Ma non accadde nulla.
“Non
hai i tuoi poteri” indovinò Raphael, quando lei
prese a piangere
più forte al vedere la cicatrice solcargli ancora l'occhio.
“E non
hai più la voce.”
Isabel
si mise di fronte a lui e annuì, il volto solcato di
lacrime. Con un
gesto rabbioso afferrò il pesante collare d'oro che le
cingeva il
collo e provò a tirarlo via, incidendo con forza la pelle.
Solo
in quel momento fecero caso al monile e agli altri che portava: due
erano alle caviglie, uno al polso sinistro e uno al collo, tutti
lucidi e smussati, scintillanti e pesanti.
“Sono
sigilli?” indovinò Donatello, allungando una mano
per toccare il
bracciale al polso.
Isabel
si voltò al suono della sua voce e sembrò
accorgersi solo in
quell'istante della sua presenza: i suoi occhi osservarono l'amico e
quasi fratello con dolcezza mentre annuiva, poi si girarono a
guardarsi attorno e incontrò lo sguardo degli altri, e
sorrise tra
le lacrime al vederli tutti lì, attorno a sé.
Si
sporse per prendere la mano di Don, poi lo abbracciò e una
volta
lasciatolo andare, allargò le braccia verso loro, tutti
loro, e
quando ci si fiondarono lei li strinse con tenerezza eppure forza,
singhiozzando e ridendo; April e Steve piansero, Angel provò
a non
farlo, ma i lucciconi agli occhi la tradirono, Casey sorrideva troppo
per non cedere anche lui e Mikey la abbracciò due volte; il
sensei
la strinse con una dolcezza che sapeva di casa, che alimentò
quel
suo dolore, che la fece singhiozzare più forte.
Infine,
tornò tra le braccia di Raphael e lo cinse stretta,
perché quello
era il suo posto, perché solo lì si sentiva
tranquilla; aveva
bisogno di quel contatto quanto lui, il sapere che c'era, l'averlo
con sé e non perderlo ancora.
“Cosa
è successo? Noi ti abbiamo seppellita”
domandò d'un tratto
Donatello, quando gli sembrò che il silenzio fosse diventato
ormai
insopportabile.
Isabel
sembrava impazzire tra il desiderio di parlare, di dire tutto
velocemente e l'afonia che sembrava soffocarla: il suo viso esprimeva
rabbia e frustrazione e impazienza.
Scosse
la testa con forza, negando e negando ancora. Si batté la
mano sul
petto, indicò la tomba e negò ancora
più forte.
“Quella
non eri tu” decifrò Michelangelo, allenato a quel
genere di
comunicazione dai trascorsi con Mork.
Isabel
sembrò sollevata e gli sorrise, di gratitudine. Poi si
voltò verso
Raphael e il suo sguardo trasmetteva contrizione, una muta scusa, per
il dolore che sapeva avergli inferto.
Mostrò
loro i sigilli agli arti e al collo e unì i polsi come se
avesse
delle manette.
“Sei
stata tenuta prigioniera.”
Un
nuovo cenno di assenso. Si muoveva a scatti dal nervosismo, dalla
smania di spiegare, per tutte le cose da dire. E la pena di cosa
avesse dovuto provare li colpì con violenza. Già
una volta era
stata imprigionata, e anche torturata. Controllarono che non avesse
ferite o contusioni, ma a parte la sua aria allucinata e confusa
sembrava stare bene, almeno fisicamente.
“Chi
è stato?” incalzò Leo, seppur con
gentilezza.
Isabel
si bloccò, tutto il suo corpo sembrava come pietrificato e
la bocca
si schiuse, ma non uscì ancora un suono.
Iniziò
a tremare, gli occhi spalancati che volevano comunicare, e il fiato
sembrò mancarle.
Raphael
la strinse all'improvviso, forte.
“Basta!
Smettila di provarci. Non puoi dirlo, abbiamo capito. Basta.”
Isabel
rimase rigida ancora per qualche istante, poi trasse un grande
sospiro sofferto e si rilassò gradatamente, come spossata.
Artigliò
con le dita la terra, la strinse forte nel pugno, lasciandola infine
fluire lentamente dal palmo, insieme alla sua frustrazione.
“Ma
come sei scappata? Come mai sei apparsa qui, dopo che i ciondoli sono
spariti?” chiese confuso Michelangelo, che aveva perso il
filo
ormai.
Isabel
riunì i polsi come prima, ma poi sollevò quello
destro, cinto dal
bracciale con le due tartarughine in pietra che Raphael le aveva
regalato per il loro anniversario.
E
notarono che non c'era alcun sigillo.
“Quindi...
uno dei sigilli è caduto e tu sei riuscita a recuperare un
po' di
magia? E pensiero?” cercò di indovinare Donatello,
che sorrise nel
vederla annuire in risposta, ma con la testa lievemente inclinata,
come a dirgli che era esatto ma non del tutto.
“Ma
come sei scappata? E cosa c'entravano le creature?”
“Hai
creato tu i mostri elementali?” esclamò sconvolto
Michelangelo.
Isabel
scosse la testa e disegnò nella terra nera, con un dito, le
forme
stilizzate che avevano solcato i ciondoli, i quattro elementi.
Indicò
il primo, l'acqua, e poi sé stessa.
Leo
si chinò e lo osservò, attentamente.
“Io
ho combattuto contro la creatura d'acqua... era fatta di tristezza e
paura” mormorò quasi sottovoce. “Eri tu,
vero? Avevi paura?”
Lei
lo guardò profondamente, gli occhi lucidi, e si
portò una mano sul
cuore con riconoscenza, iniziando poi a gesticolare freneticamente, a
fare segni con le mani.
Il
non poter comunicare a parole era un ostacolo non indifferente, non
potevano semplicemente ascoltare tutto ciò che era successo,
avrebbero dovuto indovinare. Perciò Don iniziò a
pensare
profondamente, cercando i collegamenti che fino a quel momento non
era riuscito a vedere. Sigillo, magia, paura. I mostri, i loro
poteri, i modi in cui li avevano sconfitti... tutto sembrava avere
senso.
“Quindi,
fammi provare a indovinare, hai cercato di comunicare con noi, ma le
tue emozioni senza controllo hanno preso il sopravvento sui tuoi
poteri mentre eri incosciente e hanno formato delle creature?”
Isabel
lo guardò con gratitudine e anche un pizzico di attesa.
Sembrava un
gioco a metà tra il mimo e l'indovinello, e ormai tutti
sentivano di
poter contribuire alla risoluzione di quel mistero.
“Ok,
e la creatura d'acqua è venuta da noi per chiedere
aiuto?” incalzò
Michelangelo, che iniziava a prenderci gusto.
Isabel
rispose affermativamente con un gesto.
“Quando
Leo è entrato in contatto col nucleo, ha aiutato il
disperdersi di
quei sentimenti. E senza la paura è subentrata la
rabbia” continuò
Donatello.
Raphael
attirò l'attenzione di Isabel.
“Io
ho sentito la tua rabbia” le disse, semplicemente.
Isabel
tese una mano, sfiorò la sua guancia delicatamente e poi la
cicatrice sul suo occhio, che non poteva curare. Poi la
poggiò sul
petto di lui, indicando quindi il suo, il viso trasfigurato di
dolore.
“Tu
hai visto quello che il mostro di fuoco mi ha fatto
rivivere?”
chiese piano lui, ma già certo prima ancora che lei annuisse.
Era
stato un legame momentaneo, una fugace connessione, alle parole di
Leo: “Isabel è morta”. In quel momento
qualcosa nel suo
subconscio si era svegliato, legandosi alla coscienza
dell'elementale, e aveva guardato nel cuore di Raphael, aveva
scoperto perché loro non la stessero cercando, cosa i suoi
rapitori
avessero inscenato per ingannarli.
E
allo stesso tempo, aveva sentito la sensazione di libertà,
lieve,
quando Raphael aveva saziato il nucleo della creatura, lasciando
andare la sua rabbia, e le sue catene si erano di poco allentate.
Da
quel momento, una piccola parte di sé era rimasta
perennemente
cosciente, mentre il resto continuava nella stasi, e una scintilla di
speranza si era accesa nel suo cuore.
Si
abbracciarono forte, prima che la voce di Mikey li interrompesse.
“E
l'euforia del mostro d'aria?” domandò
innocentemente, non trovando
nessun motivo perché lei dovesse essere stata felice nella
prigionia.
Isabel
agitò le braccia freneticamente, cercando il modo giusto di
comunicare. Puntò un dito verso la tempia,
allontanò i polsi
violentemente uno dall'altro e poi sorrise.
“Penso...”
iniziò Donatello incerto, “che voglia dirci che ha
sentito i
sigilli indebolirsi e che ha capito che poteva liberarsi. Quello era
il nucleo della creatura dell'aria.”
E
mentre lo diceva, pensò a com'era stata una fortunata
coincidenza
che proprio Michelangelo fosse entrato in contatto con la creatura
che più gli assomigliava, quella col nucleo simile, che
avrebbe
potuto facilmente assimilare e sconfiggere. Ma poi, dopo qualche
istante, capì che non c'era stata nessuna coincidenza, e
dalle facce
sui visi dei suoi fratelli intuì che anche loro avevano
capito: ogni
creatura ed ogni elemento era stato associato ad ognuno di loro per
un criterio, probabilmente dal subconscio di Isabel; l'acqua, culla
del sentimento e dell'empatia, per Leo, che come leader capiva e
sosteneva tutti loro; il fuoco, passione e distruzione, come Raph;
l'aria, creatività ed euforia, per l'irrefrenabile Mikey; e
infine
la terra, l'affidabilità e la ragione, per lui, Don.
“L'ultima
creatura, la terra, sembrava non provare alcuna emozione, ma invece
c'era la logica: stavi facendo i tuoi calcoli per scappare, stavi
ragionando su come riuscirci” disse a voce alta,
piacevolmente
sorpreso di esserci infine arrivato, dopo tutti quei mesi in cui
niente era sembrato avere senso.
Isabel
annuì, felice che loro avessero capito, che quella
connessione tra
loro, quel capirsi a vicenda, ci fosse ancora nonostante tutto. Se
solo avesse potuto dire a Raffaello quanto fosse dispiaciuta di tutto
il dolore che ancora una volta aveva dovuto provare a causa sua.
“Ma
tutto questo, come ti ha aiutata a scappare? Non capisco la quinta
creatura, il ciottolo vuoto e il buco nero”
esclamò Leonardo, e
poco lontano Mikey annuiva ad ogni sua parola, totalmente d'accordo.
Isabel
toccò di nuovo i disegni dei quattro simboli e sopra ognuno
scrisse
il diminutivo dei loro nomi, Leo sopra l'acqua, Raph sopra il fuoco,
Mikey sopra l'aria e Don sopra la terra, poi disegnò quattro
rette
che li congiungevano al centro, dove disegnò un cerchio
vuoto e
sopra il suo nome. Isa, il vuoto.
E
passò e ripassò il dito su quelle linee, le
unghie ormai nere di
terra, ma capendo la loro confusione lasciò perdere e
batté i palmi
aperti sul petto di Raphael, accanto a lei, e poi le batté
sul suo.
E di nuovo tracciò una linea tra il suo elemento e il suo
nome fino
al centro, fino al cerchio. E indicò i sigilli, ognuno in
contemporanea con un simbolo e lo ripeté, maniacalmente,
pregando
che lo capissero, perché era un concetto difficile da
spiegare senza
parole.
“È
come il tuo bacio magico?” domandò Raphael alla
fine, prendendole
le mani e strofinandole piano, per togliere la terra che le
ricopriva.
Lei
piegò un poco la testa. Don si intromise.
“Ognuno
di noi era un elemento e... ti abbiamo dato la nostra energia per
forzare la barriera che ti teneva imprigionata. La natura aborra il
vuoto, cerca di riempirlo, e l'ultima creatura era sostanzialmente
vuoto: quando ci siamo gettati all'interno, abbiamo compiuto l'ultimo
passaggio della tua magia e ti abbiamo richiamato, in cambio del
potere dei ciondoli legati alla nostra. Ognuno di noi ha allentato un
sigillo, giusto?”
Isabel
sospirò felice, un sospiro liberatorio, perché
avevano capito e
detto tutto e quel tempo passato in animazione sospesa, eppure
cosciente, a pensare e sperare, adesso non le pareva più
così cupo
e solitario; loro erano sempre stati con lei, erano stati sempre nei
suoi pensieri, erano sempre stati connessi.
Solo
loro avrebbero potuto salvarla.
Si
voltò verso Raphael, piano, con la paura di leggere nel suo
volto
rimprovero, biasimo, rabbia, perché seppure non fosse stata
colpa
sua, capiva che provare quei sentimenti sarebbe stato normale. Ancora
una volta l'aveva ferito e ancora una volta l'aveva abbandonato.
Lui
la tirò verso di sé, abbracciandola ancora una
volta, ma
delicatamente, ma dolcemente, e sentì quello che prima la
frenesia
non le aveva fatto percepire: il battito gentile e accelerato di Raph
battere contro il suo petto, il suo respiro profondo che si spezzava
a tratti nel trattenere una felicità che non voleva mostrare
troppo
apertamente, e le labbra che le lasciavano piccoli baci dalla guancia
alla testa, teneri, lievi, ma brucianti.
“Credevo
di averti persa per sempre” sussurrò d'un tratto,
nel suo
orecchio. Nessun altro doveva averlo sentito. “Grazie, per
essere
tornata da me.”
Isabel
sentì un sorriso premere grato sul suo collo e
scoppiò a piangere
senza ritegno, e seppure senza voce, le sue lacrime facevano
più
rumore di qualsiasi altra cosa, quella notte.
Gli
altri rimasero per un po' quieti e in disparte e in imbarazzo, senza
aver capito che avesse detto o fatto Raph per farla piangere in quel
modo, mentre loro due si abbracciavano e stringevano come se non
esistessero che loro e quel momento.
Ma
sentivano e sapevano che non era tutto finito.
Isabel
si ricompose alla fine, anche se gli occhi rossi tradivano tutto il
suo dolore e la sua gioia e agitò ancora le mani, per
comunicare.
Ma
in quel momento non capirono. E vedendo le loro facce confuse lei
perse sempre più la pazienza, finché alla fine
non iniziò
freneticamente a scrivere nella terra, ancora, tre parole.
Verranno
a prendermi.
E
fu chiaro a tutti che non potevano rilassarsi, non potevano gioire
ancora del suo ritorno.
“Quando
scopriranno che sei scappata, ti cercheranno.”
E
mi troveranno, scrisse
velocemente Isabel.
“Cosa
facciamo?”
Devo
togliere i sigilli.
Con
le mani sporche di terra, Isabel ne afferrò uno e
provò di nuovo a
tirarlo, ma per quanta forza ci mettesse, non ottenne niente
più che
un polso gonfio e rosso; la mano di Raphael fermò la sua.
“Nessuno
ti porterà via” esclamò mortalmente
serio.
Lei
sembrava spaventata proprio da quello, dal pensiero che loro si
intromettessero.
Scosse
la testa, frustrata. Loro proprio non capivano.
Sono
troppo pericolosi.
Le
lettere erano storte e calcate solo per metà, dalla fretta
con cui
le aveva scritte.
A
nessuno sfuggì la continua menzione a quei fantomatici
“loro”, i
rapitori, delle entità di cui Isabel sembrava avere una
smisurata
paura.
“Lotteremo
con te” disse convinto Michelangelo, con un gran sorriso che
infondeva fiducia.
“E
per te” le sussurrò invece seriamente Raphael,
incollando lo
sguardo al suo.
Se
solo avesse potuto dire loro a chi stavano dichiarando guerra.
Nemmeno
il tempo di pensarlo e il cielo scuro si rannuvolò, dense e
grigie
nubi coprirono le stelle e l'attenzione di tutti si
concentrò
immediatamente lassù: quattro figure fluttuavano, contornate
da
fulmini.
Isabel
strinse forte Raphael, così forte che le unghie penetrarono
nella
sua carne e prese a tremare, incontrollabile, inconsolabile.
Note:
Salve,
buona notte!
Rieccomi,
torno sempre, non temete.
Isabel
è tornata, ed è davvero Isabel! Non
può parlare al momento, né
usare la sua magia, perciò spiegarsi non è
semplice.
Ma
già averla per loro sembra sufficiente. Per Raph di certo.
Ho
notato che molti credono che il rapporto tra lui e Isa non possa
essere più lo stesso o debbano chiarire e ricostruire, ma
dato che
non è colpa di Isa, che è stata presa contro la
sua volontà,
pensate davvero che a Raph importi? Io l'ho immaginato diversamente.
Raph
ama Isa e credo che il fatto di averla con sé, quando
credeva che
non l'avrebbe mai più rivista e stretta, sia più
importante.
Però
ci tengo davvero a sapere come la vediate e la pensiate voi, un
confronto è sempre utile.
Ovviamente
la fine è ancora ben lontana: Isa è tornata,
è vero, ma non è
ancora finita.
Ha
quei sigilli e chi l'ha segregata proverà a riprendersela,
perciò
vi preannuncio lotte e botte.
Vi
ringrazio per continuare a seguirmi, per tutta la pazienza. Grazie di
cuore.
Un
enorme abbraccio
|
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Capitolo 35 *** Death and grace ***
Nell'oscurità,
le figure stagliate tra la terra e le nuvole erano indistinte e in
qualche modo più terrificanti. Le fissavano, immobili.
Isabel
tremava e tremava, di paura, ma anche di rabbia.
L'ultimo
fulmine cadde quando ridiscesero a terra, a qualche metro da loro.
Per un intenso momento, fu solo un continuo scambio di sguardi.
“Shisho?”
esalò incredulo Michelangelo, infine, come un'accusa.
Chikara,
Kon, Juto e Hisomi risposero al nome con un'occhiata più
splendente,
i loro occhi luminosi così spettrali da far rabbrividire.
Erano
lì di fronte a loro, in carne, ossa e poteri, e Isabel
tremava al
solo guardarli, eppure non aveva senso, non poteva essere... o forse
sì?
“Shisho!”urlò
Leonardo nella loro direzione. “Perché?”
E
c'erano così tante domande in quel minuscolo
perché gridato con
furia e confusione, così tanti dubbi.
I
quattro maestri non mostrarono la minima esitazione, nei loro volti,
quando Chikara rispose, portavoce di tutti loro.
“Isabel
Charmillion è una minaccia.”
La
sua voce glaciale abbassò ulteriormente la temperatura,
sebbene
l'estiva notte fosse stata afosa fino a poco prima.
Isabel
si erse con tutta la furia, che al momento superava di gran lunga la
paura: digrignò i denti, non potendo urlare la sua rabbia, e
Raphael
la fermò appena in tempo, prima che si gettasse a testa
bassa contro
gli Shisho.
Qualcosa
gli diceva che non sarebbe stata una buona idea. Per quanto fosse
arrabbiato, per quanto lui stesso stesse trattenendosi dal lanciarsi
contro di loro e colpirne il più possibile prima che lo
disintegrassero senza sforzo.
I
maestri non sembrarono affatto impressionati.
“Perché
avete messo su tutto questo? Perché Isabel sarebbe una
minaccia?”
provò a chiedere in maniera più pacata Donatello,
eppure sul suo
volto c'era solo disapprovazione e disgusto.
“Non
avreste permesso che la mettessimo in stasi, se non vi avessimo
ingannato. Ma Isabel è un pericolo per tutti noi, e abbiamo
dovuto
fare una scelta. Sigillarla era l'unico modo per evitare quello che
ormai non si può più rimandare.”
Ad
un gesto della donna, Kon fece un passo avanti e agitò le
lunghe
braccia davanti a sé, richiamando folate di vento che
agglomerò in
uno specchio sempre più grande, vorticante.
Quando
si fu stabilizzato, la superficie si illuminò di un bianco
accecante
e delle immagini iniziarono a prendere forma su di essa: fuoco, fuoco
splendente, si spandeva velocemente e inghiottiva ogni cosa; Isabel
era il centro e il nucleo, marchiata da ghirigori di sangue, con gli
occhi rossi, -identica a quando aveva distrutto l'arena del Battle
Nexus,- e spandeva le sue fiamme su ogni cosa sul suo cammino: gli
shisho, uno ad uno, furono consumati dal calore, e poi anche loro, la
sua famiglia, e le case, le campagne e tutto ciò che la
circondava.
Era
bruciato tutto, era bruciata anche Isabel. Non rimaneva che cenere.
La
visione si interruppe in un rosso accecante, come fosse fuoco vero.
“Isabel
ucciderà noi, e voi, e poi non si fermerà e
consumata dal dolore
distruggerà tutto il resto, finché non
morirà lei stessa”
profetizzò Chikara, implacabile.
Entrambe
le fazioni sapevano cosa significassero quelle parole, crude e dure,
e si squadravano in attesa di chi avrebbe avuto il coraggio di fare
la mossa successiva: una in attacco e una in difesa.
Sembravano
essere stati tutti pietrificati, immobili a guardarsi l'uno con
l'altro, senza quasi nemmeno respirare.
Alla
fine, Splinter avanzò di un passo, schermando Isabel e la
sua
famiglia, tutta la sua famiglia, e sollevò lo sguardo verso
di loro.
“Non
vi daremo Isabel” pronunciò risoluto.
“Allora
la prenderemo con la forza” ribatté stizzito Kon.
“Perché?
Quella visione potrebbe non essere vera, potrebbe non avverarsi
mai!”
urlò arrabbiato Leonardo, in un miscuglio tra delusione e
furore per
il comportamento dei suoi vecchi maestri.
“Accadrà,
è il futuro, e se non facciamo nulla accadrà
certamente”
sentenziò Chikara.
I
mutanti e gli umani capirono finalmente che non c'era modo di
discutere o ragionare con le quattro semi-divinità del
ninjitsu,
avrebbero attaccato per portare via Isabel e loro avrebbe lottato per
proteggerla.
Perciò,
decisero che non avrebbero aspettato, avrebbero anticipato ogni loro
mossa.
Raphael
lasciò andare Isabel, rivolgendole un fugace sorriso
rassicurante, e
coi suoi fratelli avanzò verso i loro maestri.
“Sensei,
prenditi cura di Isabel” disse superando Splinter, senza
staccare
lo sguardo da Chikara. La donna lo fissava con i suoi occhi
scintillanti di verde.
Sguainarono
le armi all'unisono, gli Shisho non si mossero nemmeno.
“Siete
sicuri?” domandò Kon, sarcastico.
La
risposta fu lo scatto deciso dei quattro fratelli contro di loro. I
quattro maestri li attesero immobili, e quando li attaccarono,
schivarono con facilità.
Raphael
si era lanciato contro Chikara, Leonardo contro Juto, Don contro Kon
e Mikey contro l'enorme Hisomi.
Gli
Shisho erano, ovviamente, superiori in tutto. In velocità,
in
resistenza e nella forza.
Erano
stati i loro maestri, erano esseri centenari dagli sconfinati poteri,
ma erano diventati i loro nemici nel momento stesso in cui avevano
osato minacciare e fare del male ad un componente della loro
famiglia. Lotta impari o meno.
Anche
se pareva più un suicidio di massa.
Non
avevano nemmeno messo mano alle loro armi, si limitavano a scansare
con le facce impassibili, a dimostrazione che era tutto una
passeggiata per loro. Le turtles attaccavano comunque, incalzando
senza tregua, acquistando via via velocità e precisione.
Raphael
era stranamente calmo. Non era divorato dalla rabbia, nonostante in
quella situazione sarebbe stato più che comprensibile, era
focalizzato e concentrato, i suoi attacchi puliti e diretti,
pressanti.
Splinter
se ne accorse, seguiva i quattro combattimenti, inginocchiato vicino
a Isabel. Lei sembrava impossibilitata a muoversi, come se i sigilli
rispondessero alla vicinanza dei loro padroni e la tenessero
immobilizzata a terra, ancora prigioniera delle loro spire.
Seguiva
le lotte con uno sguardo di terrore e preoccupazione, divorata
dall'ansia; tirava con forza il sigillo al polso sinistro, incurante
delle gocce di sangue che le sue stesse unghie nella carne avevano
lasciato spillare. Il sensei la bloccò con un tocco gentile
e lei
sussultò, distraendosi brevemente dalla lotta.
“Abbi
fiducia, figlia mia” le sussurrò dolcemente.
Per
quanto il suo stesso cuore tremasse di preoccupazione.
A
Mikey faceva strano lottare contro gli Shisho: li aveva rispettati,
li aveva considerati anche molto tosti, allora perché aveva
fatto
una cosa così atroce alla sua sorellina e a loro?
I
quattro maestri sembravano essere arrivati al limite della
sopportazione. Il gioco era durato anche troppo, per i loro gusti.
Finalmente, per porre fine a tutto, Chikara sollevò il suo
Kanabo,
l'enorme mazza ferrata che la accompagnava. Schivò con
facilità
l'attacco di Raphael contro la sua faccia e la sollevò
dritta verso
il cielo, con una mano sola, calandola con una velocità tale
da non
poter essere vista.
Raphael
era pronto a schivare o parare, sentiva di potercela fare, o forse
era solo illusione, ma il duro bastone si fermò poco prima
della sua
testa, sbattendo rumorosamente contro qualcosa di legnoso.
I
bastoni da Hockey sembravano risentire dello scontro, malconci e
scheggiati dalla pressione della potenza di Chikara.
“Tu!”
urlò la donna indignata.
“Casey?”
fece eco Raph, osservando la schiena dell'amico che lo aveva salvato.
“Non
ti aspetterai che ce ne stiamo a guardare? E non siamo certo venuti
disarmati” rispose quello affaticato dallo sforzo di
resistere alla
potenza di uno Shisho.
Raphael
lo afferrò per il colletto della maglietta e lo
tirò indietro con
una capriola, portando entrambi ad una distanza sicura dalla loro
avversaria. Solo allora si concesse di guardarsi velocemente attorno:
Angel era accanto a Leo, con i suoi Tonfa nelle mani, aiutandolo
contro Juto; il giovane Steve affiancava Mikey contro Hisomi,
stringendo forte i suoi Tanbō;
April era assieme a Don, tenendo dritta la sua Katana contro Kon.
“Ma
siete pazzi?” riuscì a dire Raph, prima che un
attacco di Chikara
contro di loro li costringesse a spostarsi repentinamente.
Casey
sorrise con sfacciataggine, prima di calare la cara e fidata maschera
da hockey sul viso, che gli dava una immensa sicurezza.
“È
o non è una questione di famiglia?”
esclamò, prima di costringerlo a
riportare la sua attenzione di fronte a loro.
Chikara
non sembrava preoccupata dall'entrata in scena degli umani, non erano
che moscerini per loro, ma la perdita di tempo la seccava, era solo
un inutile rimandare l'inevitabile.
Occhieggiò
verso i suoi compagni, come a voler comunicare loro di finire quella
storia subito e senza indugio, difatti anche gli altri tre Shisho
sguainarono le loro armi: i grandi Tessen di Hisomi, le due Katana
scintillanti di Kon e le mille armi letali nascoste nelle maniche di
Juto.
La
notte oscura stava per terminare e preannunciava un'alba di sangue.
Per
quanto Isabel e Splinter volessero intervenire, -si leggeva nelle
loro espressioni, nel lieve tremore delle loro mani,- non potevano:
lei era inchiodata al suolo e lui doveva proteggerla.
Isabel
era divorata dalla paura e dal sentimento di colpa nel vederli
lottare a causa sua, per lei.
Doveva
togliere quei maledetti sigilli e tutto sarebbe finito.
Lo
strano connubio mutanti e umani funzionava, inaspettatamente. Non
erano ovviamente all'altezza degli Shisho, ma lavoravano bene
assieme, collaboravano con sincronia e affiatamento e le lacune di
uno venivano riempite dall'altro, i punti ciechi ridotti al minimo.
Si
paravano le spalle a vicenda, si scambiavano di ruolo per attaccare,
si sostenevano.
I
quattro maestri smisero di prenderli alla leggera.
Leonardo
era allacciato in una lotta furibonda con Juto, velocemente
defletteva le decine di armi che spuntavano dalle sue grandi maniche:
una volta era una catena con alla fine una palla ferrata, un'altra
lame, e dopo un secondo una mazza, cambiavano continuamente, ma le
maneggiava tutte con una maestria e una precisione invidiabile.
Lo
assisteva Angel, brandendo i suoi Tonfa con rabbia, un turbine di
attacchi veloci e scattanti, il suo allenamento di tanti anni prima
finalmente messo a frutto; voleva dare il suo contributo, fare la
differenza, aiutare quella stramba famiglia, che era la sua famiglia.
E
lei avrebbe dato tutta sé stessa per loro.
Poco
più in là Don stoccava con il suo bastone, come
se fosse
un'estensione del suo corpo, contro le Katana affilate di Kon: il
maestro era rapido nei movimenti e il suo corpo esile lo facilitava
nella velocità e nello schivare, rendendo praticamente
impossibile
colpirlo.
April
era al suo fianco, la sua Katana stretta nelle mani, flessibile e
veloce nonostante le due gravidanze e il lungo periodo senza
allenamento; era come se non si fosse mai fermata. E nei suoi occhi
verdi scintillava una determinazione bruciante, un vigore che lei
stessa non sentiva da tempo. Supportava Don meglio che poteva, con
tutta l'energia che aveva, attaccando e parando; sembravano
coreografati su una musica che gli altri non sentivano.
Stavano
dando filo da torcere a Kon.
Mikey
era veloce, molto veloce, ma di certo non all'altezza di Hisomi: il
maestro della furtività lo era molto di più ed
era difficile
colpirlo, se non lo si riusciva a vedere. Continuava a svanire e
riapparire a poca distanza, ma senza mai attaccare, come se non
volesse realmente fargli del male: cercava di tracciare il suo
percorso, ma poche volte era riuscito ad andargli vicino quel tanto
da attaccarlo, e Hisomi aveva comunque schivato con facilità.
Steve
aiutava come poteva; era un ragazzino sveglio e agile ed entusiasta,
ed in effetti in coppia con Mikey lavorava molto bene: entrambi
cercavano di spingere Hisomi a mostrarsi, pressandolo su due lati
differenti, uno coi suoi fidati Nunchaku, l'altro con i suoi due
nuovi Tanbō di metallo.
Ma
la lotta più furiosa era senza dubbio quella tra Raphael e
Casey
contro Chikara, la donna era furente e la sua forza prodigiosa
irrefrenabile, li attaccava senza respiro, fortunatamente sempre a
vuoto: la sua Kanabo sbatteva violentemente al suolo, lasciando
profondi solchi.
Se
avesse colpito loro, probabilmente li avrebbe triturati all'istante.
Casey
e Raph potevano solo scansare: per quanto provassero, col lavoro di
squadra, a cercare una breccia per attaccare a loro volta, sembrava
che la determinazione e la concentrazione di Chikara non lasciassero
spazio ad angoli ciechi o punti deboli.
L'esito
sembrava a favore degli Shisho, a lungo andare sarebbero state la
loro forza superiore e la loro preparazione a vincere, ma era
tutt'altro che semplice decretare in maniera assoluta un vincitore:
gli ex discepoli e gli umani ce la stavano mettendo davvero tutta,
con un vigore che non aveva nulla da invidiare ai maestri.
Splinter
poteva vedere gli errori e i colpi vincenti dei suoi pupilli e
sentiva un'energia spingerlo in avanti, la voglia di lottare al loro
fianco, di guidare in quella difficile lotta, ma sapeva che gli
Shisho non erano avversari alla sua portata: solo i suoi figli
potevano sconfiggere coloro che erano stati i loro sensei.
“Non
sono così cattivi come credi, Splinter-San” disse
una voce
familiare, lì accanto.
Splinter
si voltò all'istante, trovandosi faccia a faccia con
l'Antico.
D'istinto si tuffò di fronte ad Isabel, tendendo il bastone
da
passeggio contro la nuova minaccia.
L'ultimo
arrivato tra gli Shisho, il piccolo e rotondo Antico, lo
guardò
ferito e dispiaciuto.
“Non
voglio combattere” assicurò gentilmente,
indietreggiando di un
passo.
Una
mano afferrò una manica del Kimono del ratto mutante, che
abbassò
lo sguardo con sorpresa: Isabel si era aggrappata a lui, e gli
rivolgeva un'occhiata supplice e calma.
Gli
fece capire a gesti veloci che non lo temeva, che non era una
minaccia, e il sensei era così confuso, continuando a
controllarlo
con la coda dell'occhio.
“Hanno
solo paura, non volevano fare del male a nessuno”
provò a spiegare
l'Antico, ma le sue parole fecero scattare la rabbia di Splinter, che
si voltò furiosamente contro di lui, più
minaccioso di prima.
“L'avete
segregata! E ci avete fatto credere che fosse morta! Le avete fatto
del male e ne avete fatto a tutti noi!”
L'Antico
piegò il capo, come a scusarsi, e chiuse i già
piccoli occhietti in
profonda contrizione.
“Hanno
sbagliato, lo so. Ho sbagliato anche io a non oppormi con
più
convinzione e ad assecondarli. Mi dispiace davvero,
Splinter-San.”
“Non
è a me che devi chiedere scusa. A lei, guardala!”
Si
spostò, mostrandogli Isabel ancora costretta a terra dalla
forza dei
sigilli e l'Antico incontrò i suoi occhi preoccupati, e
l'inchino
divenne più profondo, un segno di assoluto pentimento.
“Mi
dispiace, Isabel. E dispiace anche a loro, te lo assicuro.”
Ci
fu silenzio, almeno lì tra loro, dato che poco
più in là
infuriavano lotte furibonde, contornate di urla e schianti di ferro e
legno, di grida di incitamento o di ira.
Isabel
non poteva parlare e Splinter, nonostante la rabbia, decise di
lasciarlo proseguire.
L'Antico
si rimise ritto, e dopo averli fissati per qualche istante, trasse un
profondo respiro.
“Quando
Kon ha avuto quella visione del futuro, sono stati presi da una paura
che non mi spiegavo. Non pensavano ad altro, continuavano a parlarne,
a cercare soluzioni perché non si avverasse, divenne la loro
ossessione. Forse perché avevano visto loro stessi morire
tra le
fiamme, forse perché dopo aver vissuto per centinaia di
anni, l'idea
di morire per davvero li ha spaventati. E alla fine decisero di
ingabbiare quella paura, di ingabbiare Isabel.”
La
sua voce trasmetteva tutta la vergogna provata, riuscì
perfino a
trasmettere le sue suppliche, le interminabili ore che aveva passato
nel cercare di convincerli a non farlo, che stavano esagerando. Ma
loro gli avevano detto solo che lui non poteva capire.
“Isabel
non è una minaccia! Non c'era nessun bisogno di ingabbiarla
come un
animale feroce, senza nemmeno provare a parlarci, a
dialogare!”
“Lo
so, Splinter-San, hai ragione.”
Isabel
alzò il braccio destro verso di lui, al cui polso spiccava
il
bracciale che Raphael le aveva regalato all'anniversario, ma nessun
sigillo. E il dito indice si sollevò, puntando l'Antico.
Splinter
si fermò un attimo per pensare, confuso.
“Non
sono riuscito a fare quello che mi hanno chiesto, non potevo”
si
scusò l'Antico, ricambiando il sorriso di Isabel con un
sincero
stiramento di labbra.
E
allora Splinter capì: il sigillo mancante doveva essere il
suo.
“Ho
fatto finta di metterglielo, insieme agli altri, ma ho fatto in modo
che fosse debole e cadesse dopo poco, lasciandole una
possibilità di
salvezza. So che avrei potuto fare di più, che avrei dovuto
oppormi
e lottare, ma non ce l'ho fatta e chiedo scusa”
mormorò l'Antico,
rivolto ad entrambi, profondamente pentito e divorato dai sensi di
colpa.
Splinter
sapeva che era sincero, lo sentiva, ma ancora non poteva dargli il
suo perdono e forse non spettava nemmeno a lui doverlo perdonare.
Isabel
tese le mani verso il più anziano maestro e quando quello,
rotondo e
con passo incerto, si avvicinò, prese le sue e le strinse
forte.
Grazie,
sillabò con voce muta. Grazie.
I
piccoli occhietti dell'Antico si inumidirono, un sorriso di scuse e
forse un po' sollievo gli illuminò il viso.
“Fermali,
ti prego” supplicò Splinter, con voce urgente, ma
più calma di
prima. “Ferma gli Shisho, possiamo provare a
parlarci.”
L'Antico
scosse lentamente la testa, lasciando andare le mani di Isabel.
“Non
mi ascolteranno. Non ascolteranno nessuno ormai, sono andati troppo
oltre. Quando lei è scappata, la paura è
diventata più forte.
L'unica soluzione è lottare.”
Quello
che stava effettivamente accadendo, quello che gli altri avevano
già
capito.
Non
c'era dialogo, non c'era bisogno di spiegazioni, sapevano che l'unico
modo per far desistere gli Shisho era batterli, sconfiggerli una
volta per tutte e mandarli via con la coda tra le gambe.
La
grossa mole di Hisomi non gli impediva di essere veloce, e Steve si
sentiva come Davide contro Golia, ma questo gigante non si poteva
battere con una pietra lanciata con la fionda. Assisteva Michelangelo
come poteva, cercando di colpire alle gambe di Hisomi, l'unica parte
a cui riusciva ad arrivare, ma il loro avversario era comunque troppo
veloce. Davvero troppo anche per seguirlo con lo sguardo, e si
sentiva frustrato, si chiedeva quanto aiuto stesse davvero dando alla
lotta. Mikey comunque sembrava contento di averlo accanto.
Gli
mandava delle occhiate incoraggianti e dei sorrisi, per fargli capire
che stava andando bene, eppure non perdeva mai la concentrazione
nella lotta, a volte mancando Hisomi solo per un soffio.
Accadde
dopo un attacco a vuoto, un attacco dall'alto, i Nunchaku colpirono
il terreno dove poco prima si trovava Hisomi e Michelangelo si
bloccò
con un ginocchio a terra, assorto, pensando velocemente a come e dove
muoversi per la sua prossima mossa, quando il suo corpo si
illuminò
di giallo.
Dei
ghirigori gialli salirono dalle sue gambe e lo rivestirono fino alla
testa, -la luce filtrava attraverso il tessuto nero della tuta,- come
quelli che anticamente erano apparsi sul suo corpo quando si allenava
con gli Shisho, ma in qualche modo differenti: a parte il colore, era
proprio la sensazione che provava al momento ad essere diversa,
un'euforia e una potenza sconfinate, un solletico nel petto che gli
sussurrava che poteva fare tutto, che non aveva limiti.
Il
secondo dopo era in piedi, distante parecchi metri, di fronte ad un
sorpreso Hisomi: si era mosso veloce come il vento. Mikey sorrise, un
ghigno soddisfatto.
Le
cose si facevano davvero interessanti.
La
luminescenza, così come la mossa di Michelangelo non erano
passati
inosservati: i suoi fratelli capirono cosa stesse succedendo e gli
Shisho lo intuirono e non ne sembrarono felici.
I
quattro fratelli si voltarono verso Isabel, come a chiedere conferma,
e lei annuì velocemente, indicando loro e poi sé
stessa,
rivolgendogli infine un sorriso incoraggiante.
Se
potevano usare ancora i poteri concessi dai ciondoli, anche per poco,
le situazioni delle lotte potevano ribaltarsi a loro favore.
Michelangelo sembrava esserci riuscito e stava dando del filo da
torcere a Hisomi, che non riusciva più a sfuggirgli, la loro
lotta
diventata ormai un inseguimento a velocità supersonica, per
sfortuna
del povero Steve.
Quindi
anche loro dovevano concentrarsi e attingere a quel potere.
Donatello
ci riuscì per secondo, dopo qualche tentativo, alla fine di
una
lunga parata di attacchi di Kon, al limite dello sforzo: striature di
un verde chiaro e luminoso iniziarono a ricoprirlo fugacemente e
riuscì a spingere via Kon, allontanandolo da sé e
April, la sua
forza la potenza stessa della terra.
Raphael
non aveva bisogno di concentrarsi, era tutto un fascio di nervi e
meditazione, fin dall'inizio, il punto focale dei suoi pensieri lei,
Isabel, che era lì, che era viva e lo guardava.
E
fu quella consapevolezza ad accendere il suo potere: prima ancora che
i ghirigori rossi apparissero sul suo corpo, venne rivestito da
ondate di fiamme, fiamme alte, di un calore intenso e e bruciante;
Casey ne venne colpito, ma si accorse che non gli facevano male,
mentre Chikara sentì il crepitare vicino al viso e si
allontanò
all'istante, una smorfia di pura rabbia.
Leonardo
forse avrebbe potuto attivare il suo potere per primo, ma era
impegnato nel controllare che Juto non si avvicinasse troppo ad
Angel, e allo stesso tempo gli sviluppi dei suoi fratelli,
rassicurato dai loro intensi bagliori, dalla loro confidenza; solo
quando fu certo che fossero tutti attivi e in qualche modo
più
potenti, allora si concentrò quel tanto da attingere a
quella
sensazione di dolore ed euforia assieme, scatenando finalmente quel
potere che ribolliva e gorgogliava nel suo petto: i suoi ghirigori
erano blu intenso, e la fidata bolla d'acqua apparve, bloccando
finalmente gli attacchi di Juto.
“Tu
sapevi che sarebbe successo, vero?” domandò
Splinter rivolto verso
Isabel, sorpreso dallo sviluppo inatteso. Lei piegò la testa
di
lato, forse non ne era sicura lei stessa, anche se ci aveva sperato
con tutte le sue forze; che ancora un po' della sua magia fosse
dentro di loro e che li aiutasse, che li proteggesse.
In
quello stesso istante accaddero molte cose contemporaneamente: Hisomi
volò all'indietro, colpito da Michelangelo, nemmeno troppo
forte, ma
quel tanto da mandarlo a terra e poterlo finalmente tenere sotto
occhio e sotto attacco, e la luminescenza di Mikey crebbe di
intensità, esplose fino al cielo, e con un sonoro schiocco
il
sigillo alla caviglia sinistra di Isabel si spezzò in due e
cadde a
terra, innocuo.
Il
grido di terrore di Chikara riempì il silenzio che si era
creato, un
grido da fare accapponare la pelle, un grido che nessuno doveva aver
sentito da centinaia di anni.
I
suoi luminosi occhi verdi osservavano lo spesso bracciale spezzato al
suolo con una paura sconfinata: adesso sapevano come fare a togliere
i sigilli e una volta tolti tutti, niente avrebbe potuto bloccare il
potere di Isabel.
Le
lotte ripresero con più energia, solo una si era fermata e
non
sembrava dover ricominciare mai più: Hisomi era ancora al
suolo, a
fissare il cielo con i suoi scintillanti occhi gialli, immobile;
Mikey lo osservava, il suo corpo emanava di nuovo solo una lieve
luminescenza, tenue rispetto al bagliore di poco prima.
Sapeva
di non averlo colpito così forte, anzi, tutt'altro, ma aveva
avuto
sin dall'inizio l'impressione che Hisomi non stesse combattendo sul
serio, ma stesse invece cercando di sfuggire la lotta.
Il
pensiero che si fosse fatto colpire apposta lo sfiorò e
benché si
sentisse un po' offeso all'idea, fu comunque soddisfatto dal passo
avanti fatto: Isabel era un gradino più libera, grazie a lui
e a
Steve.
Isabel
era sconvolta e incredula. Strusciò piano la gamba,
portandosela al
petto, guardando il sigillo al suolo, lontano da lei e dalla sua
pelle.
Nel
momento in cui si era spaccato, il momento in cui Hisomi era volato
via, aveva sentito un brivido attraversarla da capo a piedi, una
scossa di energia fin dentro le ossa.
Si
era sentita più libera.
Libera
di muoversi un po' più agevolmente, per quanto ancora non
riuscisse
ad alzarsi, libera di respirare a fondo, libera di connettersi per un
fugace momento con la sua magia, quel tanto da sapere che era ancora
lì, dentro di lei, in attesa di esplodere.
Finalmente
Leonardo sentiva di poter sconfiggere Juto: grazie all'aiuto della
bolla d'acqua, gli attacchi contro lui e Angel venivano deflessi
senza problema, e poteva concentrarsi sulla mossa successiva.
Bolla
su quando lo Shisho lanciava contro loro le sue mille armi. Bolla
giù
quando si tuffava contro di lui assieme ad Angel per colpirlo. E via
così, cercando di fiaccarlo.
Ovviamente
però, Juto capì immediatamente lo schema, non era
nemmeno troppo
difficile. E anche Leo capì che non potevano tirarla troppo
per le
lunghe. Si voltò brevemente per dire qualcosa ad Angel, ma a
causa
della bolla non si poteva sentire la sua voce.
Lei
annuì solennemente, impugnando con presa più
forte i Tonfa.
E
in quel momento la bolla esplose in milioni di gocce e Angel si
tuffò
in avanti velocemente, dritta contro Juto, le braccia in alto pronte
a colpire: l'uomo reagì istintivamente, agitando le mani
come due
fruste, lanciando contro di lei dieci armi differenti, una
più
mortale dell'altra.
Angel
continuò a corrergli incontro senza paura e quando non
mancavano che
pochi centimetri, il momento prima che le lame la infilzassero, una
barriera di acqua apparve tra loro, scrosciante e impenetrabile,
schermandola alla vista.
Juto
si fermò sorpreso e solo in quel momento si accorse che
Leonardo non
era lì attorno.
Anche
provando a reagire, era troppo tardi.
Silenzioso
e letale il leader calò dal cielo, la sua luminescenza blu
riflessa
nelle mille gocce che gli danzavano intorno, già
più accecante come
se anticipasse quello che sarebbe successo: le Katana colpirono
violentemente il bastone apparso all'ultimo secondo nelle mani di
Juto, ma la potenza del colpo era troppa e la distanza poca, e il
maestro venne sbalzato indietro.
Sbatté
al suolo con forza, strisciando per qualche metro, le armi
abbandonate mollemente attorno al corpo. La luce di Leonardo crebbe,
blu intenso e abbagliante, illuminando per qualche istante la notte.
Il
sigillo al polso sinistro di Isabel si ruppe e cadde al suolo, senza
un suono.
Ma
non c'era tempo per fermarsi a riflettere, non ce n'era per parlare
delle sensazioni, delle speranze, perché le altre due lotte
infuriavano, senza tregua.
Don
e April pressavano Kon incessantemente, dando il massimo. E grazie al
potere della terra, e alla pianificazione di Donatello, la vittoria
non sembrava così lontana. Certo, anche le vittorie dei suoi
fratelli erano da impuntare a quella sua rinnovata fiducia.
Ma
anche razionalmente, il suo campo, sapeva che potevano batterlo.
“Ok,
mi è piaciuto il diversivo che hanno usato Leo e Angel,
dovremo
usarne uno anche noi” mormorò ad April, in un
momento in cui si
spostavano entrambi all'indietro, per schivare un attacco di Kon.
April
annuì velocemente, portando la Katana in avanti per essere
pronta a
parare: Kon ne usava due, ma con una velocità e maestria
senza
paragoni, riusciva a gestire perfettamente i loro attacchi. Lei e
Donatello lo pressavano da due lati differenti e lo Shisho scansava e
parava facilmente, spostando l'attenzione velocemente da uno
all'altro, con una minima torsione del busto: da una parte era ferro
contro ferro, con scintille e clangore di stoccate, dall'altra ferro
contro legno, con tocchi sordi e i piccoli solchi della lama sul
bastone.
Ogni
tanto i due alleati si scambiavano di posto per provare a
confondergli le idee, allacciandosi e intercambiandosi, ancora e
ancora.
D'un
tratto, con un rombo crescente, la terra sotto ai loro piedi
iniziò
a tremare e Kon si accorse con la coda dell'occhio del bagliore verde
che andava intensificandosi; April cadde a terra, illesa, e perfino
lo Shisho perse l'equilibrio, un secondo solo, in avanti: il bastone
di Don lo colpì in pieno petto, di punta, una stoccata
potente e
precisa, che lo sbalzò all'indietro. Una colonna verde
esplose verso
l'alto, dal corpo di Donatello, immobile a guardare Kon al suolo
accanto ad April.
Il
sigillo alla caviglia destra di Isabel si ruppe e cadde.
Con
tre sigilli in meno, Isabel si sentiva decisamente diversa,
decisamente meglio. Afferrò la mano di Splinter e la
usò come
appoggio mentre si tirava su, piano, leggermente barcollante.
Ondeggiò solo un'altra volta, prima di lasciare andare la
mano del
maestro e allungare un passo in avanti, deciso. Il ginocchio cedette
di poco, ma fu veloce a ritornare ritta, con un sorriso smagliante in
viso.
Mancava
solo un sigillo, solo uno. Sentiva il suo potere premere quasi
fisicamente nel suo petto per poter uscire, dopo tutto quel tempo di
prigionia.
Raphael
si voltò per guardarla, con un luccichio negli occhi di
sorpresa,
forse, o commozione, nel vederla in piedi.
Era
tutto nelle sue mani, ormai. Lui e Casey avevano l'ultimo compito, ma
forse per quello il più difficile. Chikara era furente,
folle nella
sua rabbia, irata persino coi suoi compagni, per le loro stupide
sconfitte.
Ma
lei non sarebbe caduta. Avrebbe spazzato via quei miseri mortali,
tutti, tutti loro, e poi avrebbe rinchiuso ancora Isabel Charmillion,
non le avrebbe mai permesso di ucciderla, di annientarla
completamente.
Si
gettò come una furia cieca contro Raphael e Casey, agitando
il
Kanabo con più violenza, spostandosi rapidamente da uno
all'altro,
forse sperando di colpirne almeno uno.
Lo
scontro fra i tre era il più aggressivo, violento e brutale:
l'onda
d'urto dei colpi di Chikara sollevava detriti e terra, che colpivano
Raph e Casey con forza, causandogli ferite e graffi.
Gli
altri assistevano impotenti, volevano intervenire e aiutare, ma era
come se non potessero o non riuscissero ad infilarsi nella lotta,
troppo veloce e intensa. Potevano solo aspettare e sperare.
Casey
supportava Raph, fornendogli inconsciamente protezione al suo lato
sinistro, al suo occhio danneggiato: grazie al suo amico umano il suo
punto cieco era coperto.
Chikara
non faceva nessuno sforzo a tenerli a bada entrambi, con la sua forza
prodigiosa le bastava sventolare la mazza per avere un raggio di
azione che la copriva a 360 gradi, ma quello non impediva i due
uomini, uno umano e uno mutante, di continuare a provare a
rallentarla e bloccarla, anche solo per un momento.
Attaccavano
senza sosta, Casey aveva già perso due mazze da baseball e
due da
hockey, polverizzate dalla pressione dell'arma di Chikara, e al
momento ne brandiva un'altra, anch'essa già provata dai
colpi.
Lui
e Raph si scambiarono uno sguardo fugace, che valeva più di
mille
parole.
Poi
si lanciarono insieme in avanti, caricando ad armi sguainate, ma
Chikara calò dall'alto la sua mazza e li mancò
solo per un soffio:
Casey si gettò in avanti e prese l'onda d'urto in pieno e
cadde a
terra, con in mano niente più che schegge di legno.
Raphael
approfittò della distrazione e del secondo necessario alla
donna per
risollevare l'arma e si gettò a testa basa contro di lei, un
Sai in
attacco e uno in difesa: la luminescenza rossa del mutante
iniziò a
crescere, ma non c'era modo che riuscisse a colpirla, non
gliel'avrebbe permesso; saltò all'indietro per distanziarlo
e
qualcosa si gettò su di lei, afferrandola per le spalle.
Casey
si era avvinghiato braccia e gambe alla sua schiena e bloccava i suoi
movimenti con disperazione, ben conscio che non avrebbe potuto
resistere molto contro la forza erculea della donna. Lei si
divincolò
con rabbia, dandogli prova del suo pensiero.
“Raph,
colpisci!” urlò Casey, velocemente.
Chikara
ruotò gli occhi verso il mutante, ma ormai era tardi:
Raphael era ad
un passo dal suo viso, rivestito di luce e fiamme, il pugno
già
caricato in avanti: la colpì dritto nello stomaco e lei, e
Casey
ancora avvinghiato, volarono all'indietro.
Il
bagliore rosso di Raphael fu intenso per un momento, prima di
riportarli nel buio tenue del finire della notte.
Fece
qualche passo verso lei, Isabel.
Il
sigillo al collo si era spezzato in due e rotolando leggermente sul
suo corpo era caduto a terra. Isabel lo guardò per un
istante solo,
prima di portare le mani al collo e massaggiarlo con
incredulità e
gioia.
La
stavano tutti guardando, stavano tutti aspettando.
“G-
Gr-” tentennò con voce roca.
“Grazie” riuscì a dire infine,
con un suono rasposo che pure aveva le tonalità della sua
voce.
“Grazie
a tutti” continuò, e notarono che aveva gli occhi
lucidi, mentre
li guardava uno ad uno.
Ma
non c'era ancora tempo, per i ringraziamenti e i saluti, e le
chiacchierate e i sentimenti.
Gli
Shisho erano stati sì battuti, ma non sconfitti.
Si
erano rialzati e dopo aver scambiato qualche parola, si erano
disposti tutti in fila, a poca distanza da loro.
“Basta,
Chikara!” supplicò l'Antico, tristemente.
La
donna gli rivolse uno sguardo che trasmetteva una paura insensata,
una paura che non voleva sentire ragioni.
“È
troppo tardi, ormai.”
I
corpi dei quattro maestri iniziarono a brillare, ascendendo verso il
cielo, luminosi come stelle, sempre più grandi: quattro
draghi
riemersero dalla luce, lanciando gridi terrificanti nella notte.
Hisomi
drago era giallo e marrone e possente, con le ali appuntite e uno
spesso collare dal bagliore dorato. Juto drago era blu e bianco, le
sue ali niente più che spuntoni, la sua lunga coda a punta
di
lancia. Kon drago era grigio e color ghiaccio, lungo e senza ali,
tutto punte e lame affilate. Chikara drago, verde e argento, era
imponente e più pericolosa.
I
quattro draghi ruggirono al cielo e poi si gettarono in picchiata su
di loro, e fu solo lo scudo sollevato all'ultimo momento da Isabel a
bloccarli.
I
suoi occhi erano rossi, rossi come il sangue, le braccia estese
contro la minaccia dei draghi.
Loro
non desistettero, continuarono ad attaccare la bolla protettiva con
colpi magici e di coda, violentemente e ferocemente.
“Dobbiamo
combatterli nel loro campo” disse d'un tratto Leonardo,
rivolto
verso i suoi fratelli. E quelli gli risposero con un cenno
affermativo, tutti sintonizzati sullo stesso pensiero.
Erano
tutti certi di riuscirci, con l'ultima scintilla di magia.
Si
illuminarono, di blu, di rosso, di giallo e di verde, sempre
più
intenso, sempre più forte, e Isabel capì cosa
volevano fare, ma non
riuscì a fermarli in tempo: i quattro mutanti si
trasformarono in
quattro draghi e volarono via, trapassando senza problemi la sua
barriera.
Gli
otto draghi si allacciarono immediatamente in lotte uno contro uno,
scambiandosi colpi di una furia inaudita, senza risparmiarsi da
entrambe le parti.
Lo
scudo cadde.
Gli
umani, Splinter e l'Antico si accorsero dei ghirigori rosso scuro
sulle gambe di Isabel e poterono indovinare facilmente che le
marchiassero ormai tutto il corpo: anche lei si illuminò
intensamente, di una luce bianca, e quando finalmente riuscirono a
vedere nuovamente, al suo posto c'era una grande creatura. Aveva il
corpo coperto da squame perlacee, del colore della madreperla, il
collo lungo solcato da una lunga cresta piumata e enormi ali bianche
formate da mille e più piume; la lunga coda era ricoperta di
squame
color sangue, e dello stesso colore erano i suoi grandi occhi.
“Anche
lei è un drago” mormorò sorpreso
Splinter, osservandola spiccare
il volo per raggiungere gli scontri, lassù in alto dove loro
non
potevano ormai più fare nulla, anche volendolo.
“No,
quello non è un drago, Splinter-san”
esclamò solenne l'Antico, anche lui con
gli occhi al cielo.
Isabel
fermò le sue ali, ruggendo minacciosa, e gli scontri si
bloccarono
immediatamente, i draghi attoniti e confusi. I draghi Shisho
risposero con un lamento di rabbia e si gettarono immediatamente
contro di lei, lanciandole addosso i loro attacchi più
letali.
I
draghi mutanti erano subito dietro loro, nel vano tentativo di
fermarli.
Isabel
aprì il muso appuntito e soffiò fuori una vampata
di fuoco che
illuminò il cielo completamente, un fuoco enorme e dilagante
che non
si spegneva, ma cresceva e cresceva, sfolgorante e rovente.
Inglobò
tutti, amici e nemici, inglobò anche lei, Isabel.
Il
cielo era una immensa distesa di fiamme.
Giù,
al suolo, tutto quello che riuscirono a vedere era rosso accecante e
si schermarono gli occhi, stringendosi gli uni agli altri. E quando
infine sbirciarono per controllare, trovarono solo buio, quel buio
tenue e chiaro che precedeva l'alba.
E
silenzio. E nient'altro.
Non
c'era più Isabel, non c'erano più Leonardo,
Donatello, Raphael o
Michelangelo. Non c'erano nemmeno più gli Shisho.
Solo
silenzio e cenere che cadeva leggera al suolo, in pigre spirali.
Si
guardarono, sconvolti, cercando poi nel volto di Splinter una
risposta, una rassicurazione, ma gli occhi del maestro erano
spaventati come i loro e confusi come i loro.
Si
voltò insieme agli umani verso l'Antico, ma il bonario
Shisho era
sorridente, un sorriso lieve, pieno di promesse.
Il
primo raggio di sole filtrò oltre la montagna, sottile e
quasi
impercettibile e contemporaneamente una vampata di fuoco esplose dal
suolo, dalle ceneri cadute, e tra le sue spire apparve Isabel, ritta
e splendida, coi lunghi capelli sciolti e il corpo nudo.
Aveva
solo la collana degli amanti al collo e il bracciale con le
tartarughine al polso.
Alzò
le mani e le fiamme crebbero, e i quattro Shisho in forma umana e i
quattro mutanti nel loro solito aspetto apparvero, rannicchiati al
suolo, anche loro tutti completamente nudi, completamente rinati.
Le
fiamme si spensero ad un suo cenno, morendo velocemente con ultime
lingue pigre.
Chikara
aprì gli occhi, non erano più splendenti, erano
verdi occhi
normali, confusi e sorpresi, e si posarono su Isabel. E quelli
castani di lei la osservavano a sua volta.
Si
alzarono, lei e Hisomi e Juto e Kon, indifferenti della loro
nudità,
tutti pari nella loro condizione. Avevano perso tutti la luminescenza
dei loro occhi, sembravano semplici umani, fragili e mortali.
“Avete
fatto accadere ciò che temevate con la vostra paura. Avete
fatto
avverare voi la visione, senza fermarvi a pensare ad altre
alternative. Avete lottato senza sapere quale realmente fosse il suo
avatar, il perché delle fiamme della visione”
disse la voce
dell'Antico, poco distante da loro.
E
non si voltarono verso di lui, ma si trovarono d'accordo. In quel
momento capirono cosa avevano fatto, capirono il loro errore,
capirono la loro insensata paura.
“Una
fenice” mormorò Chikara, gli occhi ancora
incatenati a quelli di
Isabel, e lei annuì piano nella sua direzione.
“Avete
perso i vostri poteri, siete rinati, potete ricominciare da
capo.”
Chikara
ridacchiò, in maniera triste, scuotendo piano la testa e i
lunghi capelli bianchi.
Sì,
si sarebbero allenati e avrebbero scoperto e sviluppato quei poteri
che già una volta li avevano resi immortali, ma sentiva che
sarebbe
stato diverso, questa volta.
“Probabilmente
un giorno voi cinque prenderete il nostro posto”
sussurrò a sé
stessa, voltandosi piano verso i suoi compagni. Nei loro volti
leggeva il suo stesso pensiero, la sua stessa vergogna, il peso di
quello che avevano fatto.
L'Antico
sorrideva loro bonariamente, là da sotto gli alberi,
più giovane e
tuttavia più saggio di tutti loro. Non c'era rimprovero nel
suo
sguardo.
Si
incamminarono tutti verso di lui, stanchi e provati, desiderosi solo
di poter andare via, andare a casa. L'indomani avrebbero pensato al
da farsi.
L'Antico
aprì un grande portale, ma prima di attraversarlo, gli
Shisho si
voltarono verso Isabel, ancora lì ritta, vestita solo dei
suoi
lunghi capelli castani.
“Ci
dispiace” riuscì a mormorare Chikara, prima di
sparire oltre il
portale. Gli altri la seguirono, e l'Antico, prima di attraversarlo e
farlo sparire, rivolse loro un grande sorriso, di scuse e di affetto.
E
poi rimasero solo loro, solo la loro grande e stramba famiglia,
stanchi, esausti, ma di nuovo tutti uniti.
Isabel
aveva ancora lo sguardo fisso sul punto in cui erano spariti, la
mente affollata da tutto quello che era successo, così in
fretta,
così repentinamente, ancora incapace di capire gestire le
sue
emozioni appieno.
D'un
tratto si sentì cingere da due braccia forti, che la
attirarono
contro un corpo grande e caldo e rassicurante.
“Isabel”
sussurrò Raphael, sollevato e incredulo al tempo stesso.
“Raffaello”
mormorò dolcemente lei, alzando lo sguardo su di lui.
E
nessuna parola era stata mai più bella e più
dolorosa di quella,
nessun suono mai così giusto e dolce e perfetto.
La
strinse più forte, nascondendo il viso tra i suoi capelli.
“Sposami.
Sposami, Isabel, ti prego, sposami.”
Isabel
si irrigidì per un attimo, e si staccò appena da
lui per guardarlo
in viso e leggere nei suoi occhi. I suoi occhi senza maschera, i suoi
occhi sinceri.
Così
pieni di amore, macchiati solo appena dal velo di dolore che lo aveva
stretto nei mesi precedenti, così speranzosi e di nuovo vivi.
Gli
circondò il viso con le mani, tendendosi in punta di piedi e
posò
un bacio leggero sul suo occhio sinistro e la magia questa volta si
compì, la cicatrice non scomparve, ma Raphael
riuscì a mettere a
fuoco perfettamente i contorni del viso di Isabel e sembrò
che la
luce fosse ritornata nel suo mondo. Era tutto più luminoso e
perfetto. E lei sorrideva con tutto il cuore.
“Sì,
sì, sì che ti sposo. Sì! Anche adesso,
sempre, sì!”
Ridacchiarono
entrambi, stringendosi forte, baciandosi come se non ci fossero che
loro, tra le lacrime.
“A
Settembre. Tra due mesi, sposiamoci a Settembre” disse
Raphael alla
fine, e lei sorrise come risposta, assolutamente d'accordo.
Le
urla di gioia gli ricordarono che non erano soli e si trovarono tra
la loro famiglia festante, tutti che esultavano come pazzi.
“Matrimonio
a Settembre! Oh sì! Sarò il damigello!”
esclamò Michelangelo.
“È
tutto bellissimo, davvero ragazzi, e congratulazioni, ma per favore
mettetevi qualcosa addosso! Vi supplico!” sbottò
Steve,
completamente paonazzo, strizzando gli occhi per non vederli.
Il
coro di risate e le battute lo accompagnarono per tutta la
permanenza alla fattoria mentre si rivestivano e facevano colazione e
poi nel viaggio di ritorno a New York.
Ci
furono molte risate e cuori leggeri, finalmente tutti di nuovo
insieme, possibilmente per sempre.
Note:
Buona
sera a tutti, spero stiate tutti bene.
Finalmente
siamo arrivati alla “fine” di questo ciclo di magia
e misteri,
iniziato fin dal primo capitolo: erano gli Shisho, spaventati dalla
visione, ad averla però infine fatta avverare con le loro
paure e
azioni. Sono così rinati, ritornati umani, costretti a
ricominciare
da capo.
Le
ripercussioni di questi avvenimenti si vedranno in futuro,
chissà se
in bene o in male.
Ma
la storia non è ancora conclusa! Prima dell'atteso epilogo
che ormai
credo sappiate di cosa parlerà, ci saranno alcuni capitoli
di una
mini avventura tutta dal punto di vista di Mikey, “Mikey's
little
adventure”. A dispetto del titolo carino potrebbe essere
triste,
violenta, sentimentale, il genere di storie che scrivo sempre
insomma, vi avviso.
Spero
il capitolo vi sia piaciuto, vi ho fatto attendere moltissimo.
Vi
abbraccio strettissimo, di tutto cuore, e vi ringrazio.
Spero
a presto
|
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Capitolo 36 *** Mikey's little adventure 1. My name is Sam ***
Correre,
correre gli dava gioia come poche altre cose al mondo.
Il
vento gli scorreva addosso, non lo frenava e rallentava come faceva a
tutti gli altri corpi: si fondeva col suo, lo sosteneva; ci passava
attraverso, senza attrito e forze contrarie.
Michelangelo
era aria.
Correva
per New York, di terrazza in balcone, da tetto a cisterna.
Solitario.
Pensieroso.
Da
un paio d'ore se ne stava di ronda, a pensare, sforzando tutti i suoi
neuroni.
Cosa
si poteva regalare ad un matrimonio?
Quando
April e Casey si erano sposati, Don aveva creato per loro un mega
elettrodomestico tuttofare per la loro casa, a nome di tutti loro. Un
prodigio dell'avanguardia capace di cucinare, lavare e fare ogni
genere di faccenda domestica.
Tanto
sapevano tutti che Casey non era capace di cucinare, al limite
riusciva a bruciare ben bene gli hamburger alla griglia. Era stato
una manna dal cielo, per lui.
Ma
non sarebbe andata bene una cosa del genere.
Non
per la futura coppia di sposi.
Gli
seccava ammetterlo, ma Raph sapeva cavarsela alla grande con le
faccende domestiche. E d'altronde con gli insegnamenti del sensei non
poteva essere altrimenti. Ognuno di loro era praticamente l'uomo
perfetto sotto ogni aspetto.
Lui,
poi, era anche il più carino, a dover essere senza modestia.
Raph
era stato il primo a trovare una ragazza solo per pura fortuna.
Aveva
avuto la malaugurata idea di chiedergli cosa desiderasse per il
matrimonio. Col senno di poi sapeva che era stato stupido da parte
sua.
Raph
aveva ghignato, con un'aria sarcastica.
“Che
tu non ci venga. Non chiedo niente di meglio” gli aveva
risposto,
come suo solito. Ma davvero si era aspettato una risposta diversa?
Isabel,
al contrario, era stata di una dolcezza disarmante. Alla stessa
domanda gli aveva sorriso, teneramente.
“Niente.
Mi basta che tu sia lì con noi” gli aveva detto,
con quella sua
voce musicale, che scaldava il cuore.
Come
potesse una donna così splendida stare con quell'idiota di
suo
fratello era un completo mistero. Erano come acqua e fuoco. La notte
e il giorno.
Eppure
il loro rapporto funzionava alla grande, da quando si erano ritrovati
non facevano che passare il tempo assieme, lui docile e tranquillo
come solo lei sapeva renderlo.
Quel
dannato fortunato di Raph. Se provava a far piangere anche solo una
volta la sua sorellina lo avrebbe ucciso, con le sue mani.
Sospirò,
stanco. Non aveva ancora trovato un'idea per un regalo.
A
poco più di un mese dalle nozze era davvero una situazione
insostenibile.
Avrebbe
chiesto delle dritte a Donnie, l'indomani. Chissà che in due
non
riuscissero a venirne a capo.
Pattugliò
distrattamente la sua zona, mentre faceva ruotare pigramente i
Nunchaku nelle mani, per passare il tempo. Era una noia.
Se
da una parte era contento che non ci fossero problemi in giro,
dall'altra tutta quella calma lo rendeva apatico e insofferente.
Avrebbe
dato doppiamente fastidio a Raph una volta tornato a casa, giusto per
rifarsi del tempo perso.
Saltò
via dal tetto buio di un palazzo, atterrando su quello di fronte,
pieno di piante in vaso, alcune con le foglie bruciate dalla calura
estiva.
Perfino
di notte l'aria calda di Agosto non dava tregua alla città,
creando
una cappa soffocante e appiccicosa, pesante da respirare.
E
pensare che a casa c'era un fantastico ventilatore che lo aspettava,
tutto per lui. Vicino alla sua pila di fumetti, Isabel gliene
comprava uno nuovo a settimana, e all'altrettanto grossa pila di
videogiochi.
Ci
mancava solo un bel ghiacciolo all'arancia e il quadro idilliaco
sarebbe stato perfetto. Sì, ancora dieci minuti di ronda e
poi
avrebbe preso la strada di casa.
Poteva
già sentire il fresco che solo il loro rifugio sotto terra
poteva
offrire.
Camminava
svagato, con quei pensieri allettanti per la testa.
Finché
il suono di uno sparo non lo raggiunse fin lassù, dissipando
in
fretta ogni fantasticheria. Tese le orecchie, vigile come non mai, ma
non ebbe bisogno di cercare la fonte del suono, perché il
rumore di
una vera e propria sparatoria riempì l'aria.
Corse,
seguendone la fonte, veloce come solo lui poteva essere, certo che ci
fossero dei guai in agguato.
Non
sapeva se esserne felice o meno.
Si
sporse dal tetto sul quale era appena atterrato, scrutando le
stradine sottostanti con attenzione. Un colpo riecheggiò,
seguito da
un secondo e poi un terzo.
Una
piccola figura correva con tutte le sue forze, saettando tra i
cumuli di immondizia del vicolo con precisione e leggiadria. Ne
saltò
uno con un grosso balzo, alto e perfetto, nemmeno fosse
stato un
atleta. Chiunque fosse, era di certo un tipo atletico.
Appena
dietro una banda al completo di brutti ceffi seguiva la figura,
sparando nel contempo tutte le munizioni.
Non
sapeva esattamente come stessero andando le cose, ma di certo la
situazione era impari. Il fuggitivo arrivò alla fine della
stradina,
proprio contro il muro che delimitava il vicolo cieco. Una bella
sfortuna la sua, non c'era che dire.
Gli
inseguitori armati smisero di sparare, una volta capito che fosse in
trappola.
Risero.
“Nessuno
ruba al nostro capo e la fa franca” grugnì quello
più grosso, con
un fucile sottobraccio.
“Non
so di cosa stiate parlando” rispose la figura premuta contro
il
muro, con una vocetta sottile e seccata. La vide girare la testa di
qua e di là alla ricerca di una via di scampo.
“Dacci
quello che hai preso! O lo prenderemo dal tuo cadavere!”
Stava
per intervenire. Era chiaro che quella persona fosse nei guai, anche
se sembrava che se li fosse cercati nel rubare ad una gang.
Poi
la piccola figura spiccò un salto. Alto. Colpì
con il piede il muro
alla sua sinistra, acquisì abbastanza spinta per rimbalzare
su
quello opposto e darsi ancora più elevazione. In un secondo
sparì
oltre il muretto, tuffandosi di schiena come un atleta di salto in
alto.
Il
gruppetto rimase spiazzato. Dal gesto e dalla velocità con
cui era
stato attuato.
“Cercatelo!
Sbrigatevi!” tuonò il capo banda, con un gesto
imperioso della
mano. Si dispersero all'istante in gruppetti più piccoli,
sparpagliandosi nelle viuzze attorno, cercando di trovare la traccia.
Michelangelo
sorrideva. Che razza di babbei.
Certo,
il fuggitivo era stato davvero svelto e preciso, ma a lui non
l'avrebbe fatta. Corse fino alla fine del tetto, nella direzione in
cui era sparito.
Da
lassù non contavano i vicoli ciechi e le strade a senso
unico:
poteva andare in ogni direzione, senza freni. Non gli fu difficile
ritrovare la scia della piccola figura.
Correva
come una disperata, cambiando verso di marcia ogni due per tre, come
se stesse cercando di confondere le idee a quelli che la seguivano; o
forse stava solo cercando un posto dove nascondersi.
Era
curioso.
Si
gettò in avanti e scavalcò con
facilità lo strapiombo tra due
palazzi, controllando sempre al di sotto per sapere dove si stesse
dirigendo: destra, sinistra, sinistra e poi ancora a destra,
scavalcando ostacoli e cancellate come fossero uno scherzo.
La
banda di gonzi non era altrettanto atletica, ma era di sicuro
ostinata a prendere il fuggitivo e lo seguiva ad una discreta
distanza, senza perderlo di vista.
E
di certo una volta preso quello non se la sarebbe passata bene.
La
fuga proseguì per qualche altro minuto, infine si
bloccò
bruscamente quando la figura si trovò di fronte ad un muro
troppo
alto da saltare, in un vicolo chiuso da tre case, senza alcuna via di
scampo. Non che non ci avesse provato, comunque: ribaltò un
paio di
bidoni, cercando di creare una scala per raggiungere il cornicione
del primo piano, ma i suoi salti erano troppo corti e le mani si
chiusero sul niente, ogni volta.
Al
terzo salto la gang arrivò nel vicolo e il fuggitivo si
fermò,
inchiodato al suolo.
Senza
una parola due degli uomini si avvicinarono e provarono a colpirlo,
con dei diretti al viso, ma la figura si difese alla grande e con
poche mosse li atterrò entrambi, nonostante la sostanziale
differenza di mole.
A
quel punto il capo banda sparò un colpo di avvertimento
verso il
cielo e il fuggiasco lasciò andare il braccio di uno degli
uomini e
alzò le mani, lentamente.
“Adesso
basta.”
L'uomo
abbassò l'arma e gliela puntò dritta in pieno
petto, il dito che
già accarezzava il grilletto.
Un'ombra
calò su di loro e la pistola volò via con un
tocco sordo. In mezzo
ad un paio di grida, altre cinque pistole e tre uomini caddero a
terra, rapidamente.
Mikey
si muoveva veloce tra di loro, svelto a capire quale fosse la
minaccia principale e neutralizzandola all'istante, per poi passare
alla successiva, finché non rimasero solo tre uomini in
piedi,
confusi e spaventati, decisi a combattere dato che non potevano
scappare.
“Cosa
cazzo è quello?” urlò il capo degli
idioti, quando Michelangelo
si fermò abbastanza a lungo da essere identificato.
“Sono
un modello, non si vede?” rispose lui, fintamente risentito.
Sentirlo
parlare sembrò sconvolgerli ancora di più e si
gettarono tutti e
tre contro di lui, su tre lati, con i pugni già caricati:
con uno
sventolio di Nunchaku li neutralizzò all'istante, e in un
attimo era
rimasto l'unico in piedi, circondato da uomini svenuti.
“Sono
profondamente offeso dalla vostra ignoranza” esalò
infine, anche
se loro ovviamente non potevano sentirlo.
Dalle
sue spalle arrivò un tonfo e si voltò in tempo
per vedere il
fuggiasco che provava ad allontanarsi rasente al muro, a qualche
metro di distanza da lui: era un ragazzino, vestito da rapper, con
pantaloni e una felpa larghissimi, neri, a dispetto del caldo
torrido, e con un berretto calcato in testa. Da sotto la visiera
spuntava una zazzera bionda, disordinata.
Si
avvicinò con cautela, per non spaventarlo.
“Ehy,
tutto ben-”
Un
pugno lo colpì dritto alla base della mandibola,
disorientandolo per
un attimo, e il ragazzino sembrava pronto a dargliene un altro, se
non lo avesse bloccato in tempo per un polso.
“Non
mi toccare, coso!” gli urlò divincolandosi, e
prima che se ne
accorgesse un calcio lo prese allo stomaco, fortunatamente protetto
dal piastrone. Sorrise della sua smorfia dolorante e lo
lasciò
andare, indietreggiando di un passo.
“Ti
ho salvato, non voglio farti del male” assicurò
con voce dolce,
capendo la situazione.
L'altro
sbuffò col naso, come a voler dire che non lo temeva per
niente,
sempre comunque sul chi vive. Alla faccia della gratitudine.
“Non
avevo bisogno del tuo aiuto, coso.”
La
sua voce era squillante, ancora acuta di un bambino non arrivato
nella pubertà, ma era alto e gli occhi grigi sotto il
berretto erano
fieri e duri.
“Non
mi chiamo coso, sono Michelangelo. Ma è lungo, puoi
chiamarmi
Mikey.”
“No,
ti chiamo addio, me ne vado, coso.”
E
tenendolo d'occhio fino alla fine del vicolo, sparì dalla
sua vista.
Mikey
rimase immobile a fissare il punto dove era sparito, poi
scoppiò in
una risata.
Quel
tipo era interessante.
Si
gettò nella sua scia, cercando di ritrovarlo, e una volta
individuato lo seguì cautamente, senza fretta. Stava
gironzolando
per le viuzze, attento ad ogni movimento sospetto e apparentemente
indeciso su dove andare.
Appena
svoltato un angolo, Mikey se lo trovò di fronte, di nuovo
col pugno
carico contro di lui.
“Perché
mi stai seguendo, coso?” domandò sospettoso.
“Volevo
essere sicuro che non ti succedesse nient'altro”
replicò subito
lui, sinceramente.
“Non
ho bisogno di protezione, vai via” borbottò il
ragazzino,
abbassando il braccio e voltandosi, continuando a camminare.
Mikey
gli andò dietro comunque, svagatamente.
“Mi
stavo chiedendo perché quei tizi ti stessero seguendo...
cosa gli
hai rubato?”
Il
giovane girò appena la testa per mandargli un'occhiataccia
disgustata.
“Non
ho rubato niente.”
“Non
sta bene rubare e mentire alla tua età, ragazzino.”
Si
beccò un altro sguardo di disprezzo, perfino più
cattivo di prima.
“Non
ho rubato. Non ho mentito. E non sono un ragazzino. E adesso
sparisci, mi dai noia, coso.”
Si
allontanò a grandi passi senza prestargli più
attenzione,
nonostante sapesse che era ancora dietro di lui.
Michelangelo
avrebbe potuto lasciar perdere, se avesse anche solo lontanamente
saputo cosa volesse dire quell'espressione, ma quel tizio lo
incuriosiva e in più sembrava aver bisogno di aiuto e lui
non si
sarebbe tirato indietro. Ovviamente aveva deciso tutto da solo.
Si
fermò quando lo vide entrare in un locale dall'altra parte
della
strada, in cui lui non poteva, logicamente: si tenne nell'ombra in
attesa, non seppe nemmeno bene perché.
Non
sapeva cosa stesse combinando o cosa volesse combinare, in fin dei
conti.
Rimase
in attesa per una buona mezz'ora, prima di pensare che potesse
esserci qualcosa che non andava; e se ci fosse stato, lui non lo
avrebbe saputo per tempo.
Si
arrampicò sul palazzo vicino e una volta sul tetto prese la
rincorsa
per lanciarsi su quello di fronte, alla cui base c'era il locale: da
lì, tenere d'occhio sia l'ingresso che l'uscita sul retro
era
questione di pochi passi e aveva l'illusione di aver tutto sotto
controllo, a modo suo.
Attese
ancora, percorrendo a piccoli passi il tetto, morendo di noia, mentre
il pensiero del suo rifugio fresco e dei ghiaccioli si faceva di
nuovo strada nella sua mente.
Dopo
quella che gli parve un'eternità, sentì delle
voci risalire dalla
strada.
“Non
ci piace chi fa la spia agli sbirri, pidocchio.”
“Ho
solo chiesto un'informazione, non lavoro con la polizia.”
Mikey
riconobbe la seconda voce e si affrettò a correre dall'altra
parte
del tetto, sporgendosi poi oltre il cornicione per guardare sotto, in
un vicolo dietro il locale su cui si apriva la porta sul retro.
C'era
il suo piccolo piantagrane insieme a tre uomini più alti di
lui di
almeno trenta centimetri, minacciosi e pericolosamente vicini, pronti
a picchiarlo. Quello, tuttavia, non sembrava impaurito e teneva testa
con la sua cocciutaggine, a dispetto della figura esile.
“Non
ci piace nemmeno chi fa domande, nessun genere di domande”
rispose
uno, spintonandolo via.
Il
ragazzino reagì in fretta e lo colpì allo stomaco
con un pugno e
poi roteando velocemente lo mandò al tappeto con un calcio
in piena
faccia. Gli altri due si lanciarono contemporaneamente contro di lui,
ma uno venne colpito in testa da qualcosa caduto dal cielo, mentre
l'altro lo stese abbastanza facilmente con pochi colpi.
Poi
alzò lo sguardo in alto e trovò un sorridente
Michelangelo che lo
salutava con una mano.
“È
tua abitudine andare in giro sui tetti e immischiarti negli affari
degli altri?” chiese sarcastico.
“È
tua abitudine metterti nei guai con tutti?”
“Non
sei nei guai se li stendi tutti prima che lo facciano loro.”
Il
ragazzino si chinò a prendere il Nunchaku che aveva lanciato
e poi
lentamente si avvicinò alla scaletta antincendio, issandosi
facilmente sul tetto.
“Senti,
non so perché continui a starmi dietro, ma ti avviso che non
ho
molta pazienza” iniziò a dire una volta sopra,
facendo roteare il
Nunchaku con la mano destra.
Non
era bravo quanto lui, ma non se la cavava poi così male.
“Mi
sembri nei guai; posso darti una mano. Cosa stai cercando?”
“No,
grazie. E qui le faccio io le domande: cosa sei, coso?”
“Sono
un ninja! Non si vede?” replicò Mikey indicando la
sua figura, ma
al vedere che il ragazzo non sorrideva nemmeno, sbuffò
deluso.
“Sono
una tartaruga mutante” rispose meno divertito, e vide che
l'altro
sembrava decisamente più interessato.
“Una
tartaruga mutante con addestramento ninja e aggiungi alla lista anche
carino, simpatico e dal cuore romantico.”
Vide
gli occhi grigi rollare verso il cielo e un po' gli venne da ridere,
ma si fermò quando il ragazzo smise di far roteare la sua
arma e si
avvicinò circospetto, studiandolo con occhio attento; gli
prese una
guancia e tirò forte, forte, finché non
gridò di dolore e sorpresa
assieme.
“Ma
sei-”
“È
vera. Allora questo non è uno scherzo?”
“Ti
sembra uno scherzo questo?” si lagnò Mikey,
mostrando la guancia
arrossata, che si strofinò prontamente con un broncio offeso.
Solo
allora lo vide ridere, un ghigno contento per ciò che aveva
fatto e
gli venne il dubbio che quel ragazzo non fosse poi così
buono e
bisognoso di aiuto.
“Allora,
vuoi dirmi cosa stai cercando? Può non sembrarti, ma sono
bravo ad
aiutare le persone.”
Il
giovane si adombrò di colpo e gli restituì
immediatamente il
Nunchaku, di colpo chiuso in sé stesso.
“Non
mi puoi aiutare, faccio da me. Vai a salvare qualcun altro,
stanotte.”
Si
allontanò sul tetto, intenzionato a saltare su quello
più vicino,
ma Mikey gli andò dietro, insistendo.
“Posso
davvero aiutarti! Conosco tutta New York e so muovermi meglio di te,
non c'è niente che mi sfugga e se mi dici che
cosa-”
“Mia
sorella! Sto cercando mia sorella!” lo interruppe il ragazzo,
facendo dietro front con un viso cupo e sofferente.
Michelangelo
si fermò sorpreso, colpito dal tono accorato, dalla presenza
che lo
fronteggiava, seppur piccola.
Ci
fu qualche istante di silenzio e temette davvero che se ne sarebbe
andato una volta per tutte, dopo averlo colpito in faccia
probabilmente.
“Mia
sorella è scomparsa l'anno scorso, la sto cercando da undici
mesi.
La polizia ormai non fa più niente, è passato
troppo tempo... mi
hanno detto che è quasi impossibile che sia ancora
viva” raccontò
invece, malinconicamente.
Mikey
lo avrebbe anche abbracciato, se non avesse temuto che lo picchiasse.
Assomigliava
un po' a Raphael, quel ragazzino, al Raphael di un tempo che
ragionava solo con i pugni.
“I
vostri genitori sanno che sei fuori a cercarla?”
Un
ghigno amaro piegò le sue labbra, gli occhi più
cinici.
“Non
ho genitori. Mia sorella è tutto quello che ho.”
Ok,
adesso voleva davvero abbracciarlo, gli costò tutta la sua
risoluzione per non farlo.
“Io
potrei aiutarti. Non posso andare in giro a fare domande, ma ho
anch'io le mie conoscenze” propose dolcemente, pensando alla
loro
rete di informazione fornita dai barboni di New York. Arrivavano
ovunque, sapevano molto più della polizia, avevano accesso
ad ogni
genere di informazione.
Il
ragazzo sembrò pensarci su, indeciso se fidarsi o meno. Non
sembrava
uno che si fidava degli altri con facilità.
Frugò
in una delle tasche della felpa e gli allungò titubante una
foto,
quasi con riluttanza.
Vi
era ritratta una giovane donna, il viso a cuore incorniciato da una
cascata di morbidi e boccolosi capelli biondi, gli occhi grigi
identici a quelli del fratello. E un sorriso dolcissimo, diretto a
qualcuno fuori dal campo della fotografia.
In
un altro momento avrebbe fatto un commento, una battuta anche, ma era
rapito e il cuore batteva forte e le mani gli sudavano.
Era
stupido sentirsi così per una foto, ma quella era la donna
più
bella che avesse mai visto in vita sua, senza offesa per le sue
fantastiche sorelle, incarnava tutto quello che avesse mai sognato e
desiderato in una compagna. Anche di più.
Si
riscosse infine dalla trance, e si accorse che l'altro lo stava
fissando.
“Ti
aiuterò a trovarla” annunciò solenne.
“E poi me la presenterai”
aggiunse con un sorriso furbo.
“Che
schifo, non ci pensare nemmeno, coso. Non lascio mia sorella ad un
mutante, ninja e tartaruga!”
“E
carino. Hai dimenticato carino.”
Il
ragazzo sorrise appena, scuotendo la testa.
“Prima
troviamola, poi sentiamo che cosa ne pensa lei” disse mezzo
divertito.
Poi
tese la mano verso di lui.
“Io
sono Sam, molto piacere, coso.”
Note:
Buona
sera a tutti, ben ritrovati.
Prima
di quanto pensaste, immagino.
Eccoci
al primo capitolo della mini-avventura di Mikey. È passato
un mese
dalla lotta contro gli Shisho e dalla proposta di Raph a Isa e il
piccolo di casa si chiede cosa possa regalare loro per il matrimonio.
Poi ovviamente passa in secondo piano per il nuovo incontro.
Sam
sta cercando sua sorella e noi seguiremo Mikey mentre gli da una
mano, ovviamente sempre in stile Mikey. Ne avremo per almeno quattro
capitoli.
OT: oggi subirò un piccolo intervento,
se mi penserete anche un
poco, so che la paura sarà di meno.
Vi
abbraccio fortissimo.
|
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Capitolo 37 *** Mikey's little adventure 2. Where's Melissa? ***
Sam
sembrava non fidarsi del tutto.
Lo
seguiva con fare scettico, facendogli ogni tanto qualche domanda
sulla mossa successiva, con fare annoiato e svogliato.
Michelangelo
temette più di una volta che il ragazzino lo abbandonasse
nel bel
mezzo della ricerca, probabilmente dopo avergli mollato un ultimo
pugno, come saluto.
Lo
convinse che gli servivano almeno dieci copie della foto e lo
mandò
in un alimentari aperto 24ore, che forniva una fotocopiatrice a
pagamento; Sam uscì dopo pochi istanti con una pila di fogli
nella
mano e si infilò nel viottolo lì accanto, con
fare sicuro.
Una
mano afferrò i documenti con velocità,
ispezionandoli con
attenzione alle luci soffuse del lampione poco distante.
“Passabile”
disse Mikey. “Non coglie appieno la sua bellezza, ma
può andare”
commentò con fare critico, prendendo la foto in cima per
compararla
con le fotocopie, infilandosela poi in tasca con fare possessivo.
Sam
sbuffò infastidito.
“Ridammi
la mia foto, coso.”
Michelangelo
iniziò a camminare, ignorandolo, e lui gli
trotterellò dietro, un
pugno già chiuso.
“Allora?”
insisté con tono più urgente.
“Mi
serve per le ricerche!” si difese il mutante, molto poco
convincente.
“Non
è vero! Vuoi tenerti la mia foto, pervertito!”
Mikey
gli gettò un sorriso colpevole, ma non fece per
restituirgliela,
continuando invece a guidarlo verso la loro destinazione.
“Posso
tenerla?”
“Perché?
È una foto, non la conosci neanche! Ti piace solo
perché... è
bella” ammise con fatica il ragazzo, storcendo il naso, come
se gli
costasse ammettere che sua sorella fosse bella.
Eppure
Mikey aveva capito quanto il piccolo ci tenesse a lei.
“Ti
sembrerà stupido, ma si possono capire molte cose da una
foto. Da un
sorriso. Da uno sguardo.”
“Mhm,
ok, prendi la foto che mi hai rubato e dimmi cosa ci vedi, coso. Se
azzecchi almeno qualcosa della persona ritratta, allora te la
farò
tenere” sibilò Sam esasperato, accorciando la
distanza tra loro
con passetti leggeri.
Mikey
gli gettò un'occhiata fugace, prima di prendere la foto che
aveva
gelosamente riposto nella taschina della tuta, chiedendosi se non
fosse tutto un trucco per riprendersela.
Studiò
attentamente la giovane donna immortalata, ma non ne aveva davvero
bisogno.
“Dà
l'impressione di essere scostante e cinica, brusca, credo, ma in
realtà è molto dolce, solo che non sa come
mostrarlo. Forse non sa
come fare o lo vede come una debolezza” spiegò di
getto, con
sicurezza.
Nella
sua mente era così che se l'era immaginata e non avrebbe
cambiato
idea facilmente.
“E
hai capito tutto dalla foto?” domandò cinico il
ragazzino.
Mikey
annuì vigorosamente e l'altro lasciò andare uno
sbuffo dal naso.
“Melissa
è la ragazza più dolce del mondo, tutta abbracci
e coccole e
unicorni rosa. Ha una parola carina per tutti ed è
schifosamente
gentile anche con gli estranei” disse con sufficienza, eppure
con
un tono di affetto e rispetto che forse non sapeva di trasmettere.
Melissa,
allora era così che si chiamava.
Comunque,
aveva toppato il suo carattere alla grande, non ci aveva preso per
niente; eppure, dall'espressione nella foto, pensava di aver capito
come dovesse essere.
Fece
per allungare la foto al ragazzino, controvoglia, ma quello
tirò
dritto e lo precedette nel vicolo, senza una parola; Michelangelo con
un sorrisino felice la fece sparire nella tasca, come un tesoro.
Il
mutante lo trascinò per un bel po' in giro, fino a
raggiungere una
delle discariche della città, la più grande. Sam
sembrò sul punto
di chiedergli spiegazioni, quando videro un fuoco controllato, al
centro di un grande spiazzo.
“Professore!”
salutò Mikey con entusiasmo, agitando la mano verso un uomo
seduto
lì attorno insieme ad altre persone.
L'uomo,
aveva all'incirca una sessantina d'anni, si staccò dal
gruppetto e
gli rivolse un gran sorriso.
“Michelangelo,
amico mio, come stai?”
I
due si scambiarono una serie di vane chiacchiere e Sam li
osservò
con curiosità, non osando però fare domande.
“Mi
serve il tuo aiuto, professore” disse Mikey quando i
convenevoli
finirono, mostrandogli le fotocopie. “Stiamo cercando questa
ragazza.”
Poi
il mutante si voltò verso il ragazzo, come esortandolo.
“Si
chiama Melissa Williams, ha ventidue anni, è una
ricercatrice e vive
nell'Upper east side” spiegò Sam, mentre Mikey
intanto prendeva
nota di tutte le informazioni sulla misteriosa ragazza che gli aveva
rubato il cuore.
Quella
versione tuttavia sembrava troppo perfetta e irraggiungibile ed
eterea, rispetto a quella che si era creato nella mente, più
semplice e pura, dura, ma con un grande cuore.
Il
professore si appuntò tutto con minuzia e prese le
fotocopie,
promettendo loro che non appena avesse avuto qualche informazione li
avrebbe avvisati immediatamente.
Si
allontanarono a grandi passi, ma Mikey non aspettò molto per
ricominciare a parlare.
“Allora,
Melissa, parlami ancora di lei” richiese con impazienza,
più per
sé stesso che per avere altri indizi.
“Hai
già sentito tutto” rispose seccato Sam.
“Ha ventidue anni, prima
di sparire faceva yoga e pilates tre volte la settimana in una
palestra vicino a casa e usciva per andare al lavoro tutte le mattine
alle otto, rientrava ad orari diversi a seconda della giornata.
Usciva coi suoi amici nei fine-settimana, insieme al suo
ragazzo.”
Mikey
sussultò alla menzione del fidanzato, ma non era poi tanto
sorpreso
che una bella ragazza come Melissa avesse dei corteggiatori, unito
poi al carattere dolce che Sam aveva descritto, era perfettamente
logico che qualcuno l'avesse accalappiata.
“Com'è
il suo ragazzo?” domandò d'impulso, più
seccato di come volesse
suonare.
Sam
replicò con un suono gutturale che pareva un rigurgito.
“Jacob.
Era il suo ragazzo” aggiunse, sottolineando per bene il verso
al
passato.
“Quando
Melissa è sparita lo hanno interrogato, anche i suoi amici,
ci hanno
interrogato tutti. Lui piangeva, era disperato, non sapeva
niente.”
Sam
vide lo sguardo pensieroso di Mikey e si affrettò a
spiegarsi.
“Non
è stato lui, è un viscido, ma fondamentalmente un
idiota. Appena un
mese dopo la sparizione di Melissa ci stava già provando
con...
un'altra, solo perché le somigliava. Ecco quanto ci teneva a
lei.
Per quanto ne so adesso si è trasferito nel Jersey e sta con
una
nuova tipa, ha tagliato i ponti con tutti.”
Tutto
il disgusto verso quel Jacob era palpabile in ogni parola velenosa di
Sam e Mikey un po' gongolò, anche se sapeva che ovviamente
quello di
Sam era il giusto odio di un fratello protettivo verso sua sorella.
“Hai
detto che fa la ricercatrice, dimmi di più” lo
esortò dopo
qualche attimo, sia curioso che in cerca di un modo per distrarlo dal
pensiero di quel Jacob.
“Sì,
Melissa è una delle più giovani ricercatrici
nell'intero stato. È
sempre stata una secchiona, e beh, è davvero intelligente:
si è
laureata anni in anticipo sul programma e diverse compagnie hanno
fatto a gara per assumerla. Ha ricevuto parecchi premi, sai?”
Si
sentiva il rispetto che provava per sua sorella anche attraverso il
tono sdegnato che si era imposto, si percepiva una sorta di
ammirazione per i suoi traguardi o per la sua intelligenza, anche se
Mikey capì che Sam era probabilmente agli antipodi. Non
stupido, no,
aveva mostrato una buona dose di intelligenza e furbizia, ma di certo
non sembrava il tipo di ragazzino a cui piacesse studiare e sgobbare
sui libri.
Attesero
una chiamata dal Professore, ma non stettero con le mani in mano:
gironzolarono per la città, un po' alla ricerca di indizi,
un posto
in cui magari Melissa era stata e che Sam ricordava, un po' per
perlustrare. Mikey cercò di conciliare le due cose,
pattugliare
senza mettere in pericolo il ragazzino, ma tutto sommato non era
così
preoccupato, dopo averlo visto tenere testa a tizi ben più
grossi di
lui: era di certo ancora molto grezzo nel modo di combattere, ma
aveva del potenziale che se affinato bene poteva renderlo un grande
guerriero.
Forse
avrebbe chiesto al sensei di allenarlo, quando tutto fosse finito. E
non era una scusa solo per poter rimanere in contatto con Melissa una
volta trovata, si giustificò nella mente, pensava davvero
che Sam
fosse naturalmente portato.
Ne
ebbe la prova quando incapparono in una piccola gang che derubava un
negozietto di elettronica, dalle parti di Chinatown: avevano
parcheggiato un furgoncino scassato nel vicolo in cui si apriva la
porta sul retro e uno di loro aveva disattivato l'allarme; entravano
e uscivano dal negozio disordinatamente con le braccia cariche di
laptop, telefonini, cuffie wireless e consolle di videogiochi che
caricavano in fretta nel loro mezzo.
Mikey
ne contò tre, dopo qualche attimo in cui era rimasto
nascosto a
controllare i loro spostamenti.
Intimò
a Sam di stare nascosto e non dare nell'occhio, poi si
avvicinò
velocemente.
I
delinquenti erano ben piazzati e muscolosi, di certo sapevano tirare
bene un paio di pugni, ma non erano alla sua altezza: si
gettò in
mezzo a loro e gettò giù i primi due con un paio
di colpi di
Nunchaku, senza sforzo.
Il
terzo reagì alla minaccia e lasciò andare la
mercanzia senza
ritegno, cercando di scappare via, ma accortosi di non avere vie di
fuga, si voltò ad affrontarlo con solo un po' di timore.
Michelangelo
gli sorrise con fare affabile, ma il sibilo dei Nunchaku che
roteavano nelle mani lo rendevano tutto meno che rassicurante.
L'uomo
si gettò contro di lui con la guardia alta e
provò a colpirlo con
un destro, ma scansò di lato e lo stoccò alla
gamba con
un'estremità del Nunchaku, come avvertimento.
Il
delinquente gridò di dolore, ma non si arrese e si
allontanò di
qualche passo per distanziarlo, i pugni ancora ben stretti e lo
sguardo vigile.
Fu
allora che Mikey sentì i passi di qualcuno alle spalle.
Un
quarto complice, apparentemente.
Girarsi
voleva dire dare la possibilità a quello di fronte di
colpirlo alle
spalle, e rimanere in quella posizione lo rendeva vulnerabile al
nuovo componente che gli si avvicinava minaccioso.
Si
lanciò contro quello certo e più vicino coi
Nunchaku turbinanti e
lo colpì velocemente e senza esitazione, gamba, braccio e
nuca,
neutralizzandolo all'istante.
Lo
sentì cadere, ma si era già voltato verso il
quarto uomo.
Si
bloccò sorpreso, le mani quasi lasciarono cadere le armi.
Il
delinquente era a terra e Sam lo sovrastava, i pugni ancora chiusi,
ma le spalle rilassate. Il cappellino era un po' sbilenco, ma il
ragazzino lo sistemò meticolosamente, oscurando ancora di
più il
viso.
Non
aveva la più pallida idea di come lo avesse steso
così facilmente e
silenziosamente, ma non aveva nemmeno un graffio e gli occhi grigi
scintillavano di vittoria.
“Beh
che c'è, coso?” gli domandò quando si
accorse che lo stava
fissando.
Michelangelo
non trovò niente da dirgli e anche le domande che voleva
fargli gli
morirono in gola.
Non
era un buon momento per farle, ma prima o poi voleva conoscere tutto
di quello strano ragazzino.
Si
affrettò a legare i ladruncoli e a chiamare anonimamente la
polizia,
poi si allontanò velocemente, trascinandoselo dietro.
“È
questo che fai nella vita?” domandò dopo una
decina di minuti Sam,
quando erano ormai distanti e perfino il suono delle sirene si era
spento in lontananza.
“Sorvegliare
la città? Sì, è tutto quello che so
fare” spiegò Michelangelo
bonariamente, sorpreso dalla sua curiosità.
“Non
è molto e non posso salvare tutti, ma io e i miei fratelli
ce la
mettiamo tutta per dare una mano.”
“I
tuoi fratelli?”
“Sì,
siamo in quattro. Leo è il leader, Donnie il genio e Raph il
piantagrane. Io sono quello bello, se te lo fossi
dimenticato.”
“E
sono come te?” incalzò Sam, provando a immaginare
altri tre come
quel Michelangelo, altri tre 'cosi'.
“Sì,
siamo quattro mutanti. Poi c'è la mia sorellina, a volte
anche lei
ci aiuta con le ronde. E anche Steve, ti piacerebbe Steve, era molto
timido, ma adesso sta diventando un buon ninja. Oh, e Angel, lei
studia all'università, ma trova comunque il tempo di
aiutarci quando
abbiamo bisogno e Casey e Angel adesso sono genitori, ma non mi
metterei mai contro di loro, saprebbero prendere a calci un esercito
se qualcuno li facesse arrabbiare.”
Sam
aveva sgranato sempre più gli occhi, sotto la tesa del
cappellino,
da sorpreso a leggermente sconvolto.
“E
siete tutti mutanti?” sbottò incredulo,
rallentando un poco.
Mikey
ridacchiò, agitando una mano.
“No,
sono umani. Abbiamo molti amici umani, hai visto col professore,
prima. Beh, lui crede che andiamo in giro con dei costumi, in
effetti, ma i nostri amici sanno cosa siamo e non gli
importa.”
Appena
finito di parlare, si illuminò.
“Posso
avvertire anche gli altri!”
Lo
guardò trafficare con un buffo cellulare a forma di guscio
di
tartaruga recuperato da una taschina: scattò una foto alla
foto di
Melissa che poi fece sparire prontamente per non perderla e
digitò
freneticamente nella tastiera.
“Ecco
fatto. Donnie è un genio, gli ho mandato tutte le
informazioni, ci
aiuterà.”
Si
fermò a pensare per qualche istante.
“Adesso
che facciamo nell'attesa? C'è qualche posto in cui vorresti
controllare? Casa di Melissa, la palestra, qualche locale che
frequentava?” domandò propositivo.
“No,
la polizia ha perquisito a fondo tutto, io ho ricontrollato casa sua
e la palestra e alcuni dei centri che frequentava, ma non ho trovato
niente. L'unico posto che non ho potuto ricontrollare è il
suo posto
di lavoro, la sicurezza è molto alta.”
Non
avevano niente da perdere a provarci e in fondo non avevano davvero
qualche altra pista, perciò dare una veloce occhiata non
sembrò una
brutta idea.
Si
fece dare l'indirizzo da Sam e lo comunicò per messaggio a
Donatello
per sicurezza, prima di incamminarsi.
Il
centro di lavoro per cui lavorava Melissa era alla periferia del
Queens, perciò approfittarono del tettuccio di un pullman di
passaggio per arrivarci in poco tempo: Sam all'inizio gli aveva
urlato contro per la sua pazzia e perché lo aveva afferrato
senza
chiederglielo, ma poi si era rilassato e sembrava essersi divertito
della corsa.
Mikey
lo aiutò a scendere quando il pullman rallentò
vicino alla loro
meta e si beccò un pugno nel braccio anche per quello.
Sam
si risistemò meglio il cappellino e gli mandò
un'occhiataccia,
mentre lui studiava i dintorni.
Il
ragazzino lo guidò verso la periferia, una zona di sole
fabbriche e
prefabbricati, praticamente deserta. Si fermò davanti ad un
alto
cancello e si voltò a guardarlo.
Al
di là c'era un enorme parco, alberi rigogliosi ed erba
incolta e in
lontananza si vedeva un alto palazzo di cemento e vetro, immerso
nell'oscurità.
“La
rete è elettrificata” disse Sam, indicando un
cartello di
pericolo.
“Non
è un problema” rispose Michelangelo, frugando
nelle taschine.
Era
sicuro che Donatello gli avesse dato qualcosa per casi del genere.
“Mi
sembra che fossero questi” aggiunse solo mezzo incerto,
tirando
fuori due piccoli bottoni neri.
Si
avvicinò cauto alla rete e li premette contemporaneamente,
uno a
destra e uno alla sua sinistra, poi si allontanò
osservandoli ancora
come se non si fidasse completamente.
“Uhm,
adesso in pratica la corrente dovrebbe essere deviata da questo punto
tra i due bottoni, se ho capito la spiegazione di Donnie.”
Sam
sembrava scettico.
“Prova
prima tu, coso!”
Mikey
gli sorrise sghembo, strofinò le mani una con l'altra e poi
le
poggiò deciso sulla rete, lanciando un grosso urlo. Poi
scoppiò a
ridere e si voltò ad osservare Sam, divertito.
“Sei
davvero idiota” gli disse quello con una rollata di occhi al
cielo.
La
rete era sicura e la scalarono in fretta, atterrando con sicurezza
dall'altra parte.
Si
incamminarono verso l'interno occhieggiandosi attorno per cercare
traccia di guardie o persone, ma fortunatamente non c'era nessuno nei
dintorni.
Ci
vollero cinque minuti per attraversare il parco.
L'edificio
doveva essere stato un tripudio di avanguardia e tecnologia, ma
sembrava abbandonato, non da troppo comunque: i vetri erano coperti
di un sottile strato di polvere e striature di pioggia, inusuale che
nessuno le pulisse se fosse stato abitato; i cespugli che
contornavano il sentiero per l'entrata erano cresciuti incolti e
disorganizzati e una pesante catena in ferro bloccava la porta,
legata stretta nei maniglioni a scatto.
Le
luci erano spente, le finestre ben chiuse, non si sentiva un suono
né
un rumore
Probabilmente
non c'era nemmeno una guardia di sicurezza.
Mikey
si gettò in avanscoperta, studiando per qualche attimo il
palazzo
per essere certo dei suoi sospetti.
“Sei
certo che Melissa lavori qui?” domandò cauto,
occhieggiando verso
i piani superiori per cercare un'entrata.
“Certo
che sì. Questo laboratorio di ricerca è uno dei
più conosciuti
della città, non ti ci puoi nemmeno avvicinare, ha dei
cancelli
altissimi e reti elettrificate e le guardie all'ingresso del terreno.
Non so perché adesso sembri abbandonato.”
Pensarono
che comunque potesse essere un vantaggio, il poter girare
indisturbati.
“Ok,
ragazzino, dobbiamo salire sul tetto. Mettimi le braccia attorno al
collo.”
Sam
gli lanciò un'occhiata glaciale, un sopracciglio biondo
sollevato
con scetticismo.
“Ho
visto che sei agile e flessibile e abbastanza preparato, ma non credo
che tu sappia scalare un muro verticale di almeno venti
metri”
aggiunse sarcastico Michelangelo, facendo spallucce.
Sam
rollò gli occhi al cielo e si limitò a puntargli
un dito contro di
ammonimento, prima di avvicinarsi con fare circospetto e sospettoso,
e allungare un braccio verso l'alto.
Mikey
si trattenne dal sorridere per timore che potesse pizzicare una corda
sbagliata.
Gli
piaceva, Sam, era divertente per lui punzecchiarlo.
Si
abbassò per permettergli di saltargli sul guscio e passargli
le
braccia attorno al collo, forse un po' troppo strette, gli premevano
sul pomo d'adamo come se il ragazzino stesse provando a strozzarlo.
Con
una risatina, Mikey lo colpì leggermente sulle mani per
fargli
capire di lasciarlo andare, ma Sam strinse un po' di più,
prima di
accontentarlo.
Mise
gli Shuko sulle mani e si avvicinò alla superficie del
palazzo, dove
aveva già appurato non ci fossero telecamere di sorveglianza.
Lo
scalò facilmente, Sam non pesava quasi niente e si mosse il
meno
possibile, permettendogli di concentrarsi sull'avanzamento e
sull'equilibrio necessario; atterrarono sul tetto docilmente e Mikey
lasciò andare il ragazzino, cercando traccia di sensori o
telecamere, ma il perimetro era sicuro.
La
porta per le scale era chiusa, ma bastarono un paio di minuti e le
mani veloci e pratiche di Sam per forzare la serratura, sotto lo
sguardo sorpreso e un po' seccato di Michelangelo.
Sentirono
un secco click, quando la aprirono, e Mikey tolse una piccola torcia
da una delle tasche della tuta per fare strada nell'interno buio.
Scesero
un paio di rampe, prima di arrivare ad un lungo pianerottolo.
“Non
sai a che piano ha lavorato Melissa?” chiese a voce bassa
Mikey,
quasi con timore.
C'era
un grande silenzio, interrotto ogni tanto brevemente da uno
scricchiolio, un topo forse o il cigolio del legno.
Sam
era un passo dietro di lui e rispose con lo stesso sussurro.
“Al
terzo mi pare. O forse il quarto.”
Esplorarono
brevemente le stanze, c'erano uffici e piccoli laboratori, tantissimi
macchinari tecnologici e sofisticati abbandonati a loro stessi,
milioni di cartelle e risultati di analisi gettati alla rinfusa sulle
scrivanie e per terra. Gli armadietti di medicinali e campioni erano
aperti e completamente vuoti, se non per qualche flaconcino rotto.
Un
lieve strato di polvere copriva tutto. Nonostante non dovesse esserci
nessuno da tempo, nell'aria l'odore di componenti chimici e
disinfettante permeava con forza.
Scesero
qualche altra rampa di scale e controllarono anche i pianerottoli
sotto, trovando le stesse identiche cose, lo stesso identico
disordine.
Quando
arrivarono al quarto piano, decisero di esplorarlo a fondo,
controllando per bene i fogli trovati e tutte le scrivanie in cerca
di un indizio, una foto, qualsiasi cosa, ma non c'era niente, niente
di personale, niente di importante.
“Forse
era il terzo piano” mormorò Mikey, accortosi dello
sconforto del
ragazzino, che si manifestò con pugni chiusi e sospiri di
rabbia.
Il
piano inferiore era identico ai precedenti, stessa disposizione delle
porte, stesso uso degli spazi, e frugare ed esplorare fu un noioso
ripetersi degli stessi gesti, degli stessi movimenti: si spostarono
di stanza in stanza, la speranza di trovare qualcosa sempre
più
flebile.
Una
delle ultime, alla fine del corridoio, era addirittura completamente
vuota.
La
scrivania era intonsa, così come il mobiletto alle sue
spalle, tutto
accuratamente in ordine, come se fosse stata vuota ancora prima che
quel posto venisse abbandonato.
C'era
solo un poster stinto vicino al mobiletto, che raffigurava un gattino
aggrappato ad un ramo, con la scritta sopra che diceva: 'Hang in
there'.
Mikey
pensava che non ci fosse nulla da cercare, fece per uscire e passare
alla successiva, ma Sam si era bloccato a guardare quel poster, con
interesse ed evidente emozione.
“Era
qui, era il suo ufficio” disse con voce sottile.
Mikey
si bloccò e si diede un'occhiata attorno, ma non c'era
davvero
niente.
“Questo
poster, gliel'ho regalato io” spiegò il ragazzino,
indicando con
un dito lo scarabocchio a penna sul muso del gatto, che gli disegnava
due sottili baffetti da gentlemam.
“Lei
si era arrabbiata, ma lo ha appeso lo stesso.”
Fu
chiaro immediatamente, che non avrebbero trovato niente di rilevante
o importante.
Come
avevano pensato appena visto l'ufficio, sembrava che Melissa l'avesse
lasciato ancor prima che tutto il palazzo fosse chiuso e entrambi si
chiesero se la ragazza non avesse lasciato il posto di lavoro senza
dire niente a nessuno.
I
cassetti erano vuoti, per scrupolo cercarono anche la presenza di
doppifondi o nascondigli segreti, ma trovarono solo polvere e un paio
di ragnatele.
La
frustrazione di Sam era sempre più palpabile e alla fine
sbottò con
un ringhio nella gola, calciando via la sedia con così tanta
forza
che andò a sbattere violentemente contro il muro di fronte.
Nel
silenzio prese grossi respiri, e Michelangelo non ebbe il coraggio di
dirgli niente, rispettò la sua rabbia.
Sam
si passò una manica sul viso, poi lasciò andare
un altro ringhio,
infine si avvicinò a grandi passi al muro e
staccò il poster con un
solo gesto secco, quasi brutale, come un cerotto tirato via da una
ferita non ancora rimarginata.
Lo
osservò nella semioscurità, mentre il foglio si
piegava
all'indietro di colpo.
Lo
voltò con urgenza, insospettito, e prese un brusco respiro
teso.
“Vieni
qui, coso, mi serve la luce!”
Michelangelo
accorse al tono urgente e quando la torcia illuminò
completamente il
retro del poster, lo vide anche lui: c'era una foto attaccata, la
stessa foto che Sam gli aveva mostrato, la stessa donna bellissima e
sorridente, dietro a quello sguardo tagliente e altero.
Sotto
c'era una scritta, che il ragazzino lesse e rilesse con occhi avidi,
sempre più lucidi.
-
Harlem 96ª, 45, Lois Miller-
Non
c'erano altre indicazioni, eppure quelle poche parole aprivano la
strada a mille possibilità, mettendogli agitazione.
Così come la
frettolosa indicazione a matita aggiunta alla fine del foglio, le
lettere quasi sbiadite:
-Il
sistema di sicurezza è una bomba-
Sam
si voltò con gli occhi sgranati verso Mikey e lui gli
restituì lo
stesso sguardo, mentre la mente ripensava al flebile click che
avevano sentito quando avevano forzato la porta, passato come il
suono del cilindro della serratura.
Forse
non era stato solo il cilindro della serratura, dopotutto.
Michelangelo
si gettò in avanti e lo afferrò per la manica,
tirandolo verso di
sé e prendendolo in braccio contemporaneamente, mentre Sam
stringeva
forte il poster al petto. Fu tutto così veloce che non ebbe
nemmeno
il tempo di sgridare Mikey per averlo preso o per fare finta che gli
desse fastidio.
Michelangelo
corse disperatamente verso la finestra e spiccò un grande
balzo,
pronto a infrangere il vetro con le ginocchia, ma la detonazione lo
colpì a mezz'aria e lo scaraventò in avanti in
un'esplosione di
vetri e fuoco e calcinacci e d'istinto si chiuse a conchiglia su Sam,
proteggendo tutto il suo corpo con il proprio e il guscio.
Le
orecchie fischiavano e tutto bruciava, il dolore era incontenibile.
Atterrarono
nel giardino con un tonfo sinistro e un gemito sofferto di Mikey,
mentre l'aria si riempiva di fumo e fuoco.
Nel
delirio di dolore e coscienza che si affievoliva, fece lo sforzo di
controllare che Sam fosse vivo; lo sentiva tremare e respirare forte,
stretto ancora nel suo abbraccio, e tirò un breve sospiro di
sollievo.
Gli
arti si rilassarono, tutto il suo corpo si rilassò.
“No,
coso, parlami!”
La
voce di Sam aveva raggiunto un picco di stress e ottave stridule,
mentre lo scuoteva.
Era
preoccupazione quella nella sua voce?
“Coso?
Ti prego, non farmelo! Coso!”
Sentiva
le sue mani che premevano da qualche parte sulla spalla, dove
qualcosa di caldo e vischioso lo ricopriva.
“Coso!
Michelangelo!”
La
voce di Sam si spezzò per un attimo e solo in quel momento
si
accorse che stava piangendo.
Mikey
aprì a fatica gli occhi e li poggiò sulla figura
al suo fianco,
piccola, curva su di lui.
Era
la ragazza della foto.
Quella
con lo sguardo duro, ma in realtà estremamente dolce. I suoi
occhi
grigi erano velati dalle lacrime.
I
boccoli biondi le cadevano disordinatamente sull'enorme felpa nera e
il viso a cuore era graffiato in più punti, ma non sembrava
curarsene; lo guardava con preoccupazione e premeva con tutte le sue
forze contro l'uscita di sangue di cui lui non era nemmeno conscio,
cullato dal dolore verso il nulla.
Rimase
a guardarla in estasi, la luce delle fiamme illuminava i suoi capelli
di riflessi dorati.
Riuscì
ad alzare un braccio e a poggiare la mano sulle sue, e nel viso
dolorante apparve un sorriso felice.
“Ti
ho trovata, finalmente” sussurrò dolcemente.
Poi
la mano abbandonò la presa e chiuse gli occhi.
“No!
Coso! Michelangelo!” urlò Sam, scuotendolo con
disperazione, le
mani piene di sangue.
Note:
Buona
notte a tutti! Che bello ritornare qui.
Mi
sono presa un po' di tempo dopo l'operazione per rimettermi, grazie
per il vostro supporto e ai messaggi che mi avete mandato! Vi
abbraccio tanto.
Duuunque:
ecco qua la svolta!
Mikey
sta cercando la donna nella foto, ma la donna nella foto è
Sam?
Prossimo
capitolo avrete le risposte!
Vi
abbraccio tantissimo, grazie di cuore di leggere ed esserci, vi
adoro!
A
presto
|
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Capitolo 38 *** Mikey's little adventure 3. Separate Twins ***
Grugnì
un gorgoglio infastidito, un suono rauco e spazientito.
Sentì
qualcuno reprimere uno sbuffo divertito e pure con un forte mal di
testa si costrinse ad aprire le palpebre; con molto sforzo, erano
pesanti, spalancò gli occhi su un soffitto sconosciuto e
saltò su
immediatamente, in allarme.
Mise
a fuoco una giovane donna lì accanto, occhi castani e
capelli scuri,
che la guardava con un gran sorriso stampato in volto; a dispetto
dell'aria rassicurante non sapeva chi fosse, perciò si
lanciò in
avanti con il pugno chiuso, ma il suo colpo andò a vuoto.
La
donna aveva schivato senza nessuno sforzo.
“Piano,
ti sei appena ripresa” disse con voce dolce e un sorriso
perfino
più grande, spingendola facilmente con un tocco gentile in
posizione
sdraiata; nonostante l'espressione accigliata, Sam ne fu grata,
perché le girava lievemente la testa per il gesto repentino.
“Chi
sei?” sbottò comunque minacciosa, seguendo ogni
movimento
dell'altra donna.
Quella
stava maneggiando con alcuni attrezzi chirurgici poggiati su un
carrellino di acciaio e solo in quel momento Sam si accorse che la
stanza sembrava una piccola camera di ospedale, bianca e asettica.
Una
fitta le strinse la gola e deglutì a vuoto.
“Dov'è
coso?”
Si
era ricordata tutto, di colpo.
Questa
volta combatté contro il martellare fitto nelle sue tempie e
si
sedette di scatto, pronta a lanciarsi contro la donna.
“Coso?”
La
sua espressione confusa e sorpresa non la intenerì
né la convinse
per nulla.
Sam
gettò le gambe oltre il bordo del letto e si
avvicinò a passi
veloci, solo leggermente instabile per i primi secondi. Si
piantò di
fronte alla donna e le puntò contro un dito, gli occhi che
scintillavano di cattiveria.
“Coso!
Michelangelo! Dov'è? Come sta? Se gli hai fatto del male, se
lo
tieni nascosto per dissezionarlo e farci esperimenti, se- se-...
giuro che ti uccido con le mie mani!”
Se
Michelangelo era ancora vivo, disse una crudele vocina nella sua
testa. L'esplosione era stata potente e lui aveva preso la maggior
parte del colpo, nel tentativo di proteggerla.
Tutto
quel sangue le tornò alla mente, il sangue di Michelangelo,
e si
guardò le mani, ne erano state ricolme; ma in quel momento
erano
pulite, perfino gli indumenti che portava erano intonsi; era sicura
di essere stata colpita da qualche frammento di vetro e di
calcinacci, ma non ne trovò traccia.
Sembrava
come fosse stato tutto un brutto sogno.
La
donna non aveva reagito alle sue minacce e non si era mossa di un
millimetro durante la sua sfuriata, né durante il momentaneo
blocco.
Sam sollevò lo sguardo su di lei e la trovò a
sorriderle,
bonariamente, con una scintilla di affetto nel fondo degli occhi
scuri.
Sembrava
perfino divertita, leggermente.
“Coso
sta bene, te lo posso assicurare! Non gli farei mai del male,
tranquilla” esclamò pacatamente, indietreggiando
appena da lei.
Sam
la studiò ancora per qualche attimo, come a voler sentire se
le
stesse mentendo; indecisa, non riusciva davvero a leggere quella
donna e non riusciva a fidarsi di qualcuno appena incontrato e che la
teneva in una stanza sconosciuta, tirò su il mento con aria
di
sfida.
“Portami
da lui” comandò, secca.
L'altra
donna spalancò gli occhi, sorpresa, poi quel ghigno le
tornò sul
viso, quasi una presa in giro.
Sam
non sapeva cosa volesse dire, ma la faceva arrabbiare vederla
così
sicura e spavalda mentre lei non capiva cosa stesse succedendo.
Sapeva
solo che nel cercare sua sorella si era imbattuta in un fastidioso
mutante che aveva insistito nell'aiutarla; che Melissa aveva lasciato
un misterioso indizio prima di andarsene dal suo posto di lavoro; che
suddetto posto di lavoro era saltato in aria quando erano entrati ad
investigare e infine che il fastidioso mutante, Michelangelo, si era
ferito gravemente nel cercare di proteggerla.
Niente
aveva senso. Ma per cercare di capirci qualcosa, per tornare sui
binari, le serviva Michelangelo. Doveva sapere che stava bene, doveva
vederlo.
“Portami
da Michelangelo. Adesso!” insisté ancora.
La
donna le fece un gesto per invitarla a seguirla e si diresse a passi
sicuri verso la porta, superandola poi per entrare in un piccolo
corridoio anch'esso bianco candido.
Sam
non fece caso a niente, focalizzata solo sulla donna di fronte a
sé
nel caso che decidesse di fare qualche mossa strana.
Quella
si diresse verso destra, verso l'altra porta che si affacciava sul
corridoio e la aprì lentamente, fermandosi sulla soglia:
lanciò
un'occhiata dolce verso chiunque fosse all'interno, poi si rivolse a
Sam, indicandole di entrare.
Sam
valutò in fretta se fosse il caso di entrare per prima, se
potesse
poi fidarsi, ma si mosse prima ancora di aver deciso: superò
la
donna e si diresse a grandi passi dentro la stanza, coi nervi tesi a
fior di pelle.
Era
identica a quella in cui lei si era risvegliata, ma non ci fece caso,
focalizzata invece sulla figura verde stesa sul lettino: ce n'era
un'altra di una sfumatura di verde un po' diversa nell'altro lato
della stanza, ma lei vedeva solo quella che gli sorrideva. Non aveva
più la benda arancione attorno alla testa e i suoi occhi
splendettero nel vederla.
“Melissa!”
esalò Michelangelo come in estasi, mettendosi a sedere
all'istante.
Non
c'erano tracce di sangue o di ferite sul suo corpo, e si muoveva con
agilità e fluidità, tanto che Sam si chiese se
non fosse davvero
stato un brutto sogno.
Nessuno,
nemmeno un mutante, poteva guarire così velocemente da una
cosa del
genere.
Si
interrogò dubbiosa, cercando di ricordare, ma era certa,
più che
certa, che Michelangelo era stato ferito dal colpo dell'esplosione,
dalle schegge di vetro e dai detriti e aveva perso così
tanto sangue
ed era in stato d'incoscienza o addirittura ad un passo dalla morte,
quando lei stessa era svenuta per il dolore.
Si
fiondò verso il mutante col braccio già alzato e
quando gli fu ad
un passo lo colpì alla spalla con un cazzotto deciso, che
risuonò
secco contro i suoi muscoli.
“Brutto
cretino! Mi hai fatto morire di paura!”
Michelangelo
portò la mano contro la spalla offesa, massaggiandola
lentamente, ma
sembrava troppo sconvolto per lamentarsi. Poi si aprì in un
gran
sorrisone, che faceva stranamente contorno alle risate che sentiva in
sottofondo.
Che
la rendevano solo più arrabbiata.
Gli
diede un altro pugno, questa volta più forte, visto che era
così
energico da non esserne nemmeno infastidito.
“Ahi!
Ho capito, mi dispiace, davvero, mi dispiace. Fammi parlare!”
esclamò lui cercando di bloccarle le mani per non farsi
colpire
ancora.
Sam
incrociò le braccia sotto il seno, sfidandolo con uno
sguardo duro.
“Allora,
per prima cosa le presentazioni... ehm, Melissa, questo
è-”
“Mi
chiamo Sam. Samantha. Melissa è mia sorella” lo
interruppe lei, e
Michelangelo annuì con sussiego, seppure nel suo viso si
leggevano
le mille domande che voleva farle.
“Ok,
dunque, Sam, questo è mio fratello Donatello, il genio, ti
ho
parlato di lui.”
Sam
registrò finalmente la presenza dell'altro mutante nella
stanza, che
la salutava da lontano con un timido cenno della mano, forse per
paura che lei picchiasse anche lui.
Aveva
una benda viola al collo.
Gli
rivolse un lieve assenso con la testa e Mikey lo prese come un segno
per continuare.
“E
questa è Isabel, la nostra adorata sorellina.”
Isabel,
da parte sua, le sorrideva apertamente e con l'aria di saperla lunga,
una spavalderia che la spiazzava completamente.
Sam
la squadrò da sotto a su, con lentezza calcolata, poi
sollevò un
sopracciglio in direzione di Michelangelo.
“Sì,
noto proprio la somiglianza” sbottò roteando gli
occhi al cielo.
Li
sentì ridere tutti e tre, per cosa poi non riusciva davvero
a
capirlo.
“Continui
a confondere la gente, Mikey” disse affettuosamente
Donatello,
scuotendo la testa. “Dovresti dire semplicemente cognata,
ormai è
quasi ufficiale, del resto.”
Prima
che Sam potesse dire che no, cognata non aveva più senso di
sorella
in fin dei conti, in quel contesto, la porta si aprì e altri
due
mutanti, di diverse sfumature di verde tra loro e da quelli presenti,
entrarono.
Li
osservò guardinga, ancora non completamente a suo agio, e
quelli si
bloccarono un secondo al notarla.
Uno
aveva una benda azzurra e un'aria solenne, l'altro una benda rossa e
non era solo la sua mole enorme a darle l'impressione, ma sentiva una
certa furia emanare dal suo corpo che le sembrò in sintonia
con la
sua. Lo sentì quasi uno spirito affine.
“Ok,
venite qua voi due: questa è Sam, non Melissa,
Samantha” sentì
dire a Michelangelo, ogni sillaba scandita bene come se fossero
idioti.
“Sam,
loro sono gli altri miei due fratelli, Leonardo, il leader della
squadra-” quello con la benda azzurra le rivolse un sorriso
affabile, “e Raphael, quello brutto della famiglia.”
Quello
più alto sbuffò dal naso e le fece solo un
leggero cenno del capo
prima di rivolgersi verso il fratello.
“Pensavo
che il colpo alla testa potesse averti reso almeno un po' normale, ma
evidentemente speravo invano.”
Sam
sbottò una risata spontanea, come non le succedeva da tempo,
poi si
interruppe con un grugnito, al sentire tutti i loro occhi addosso.
Mikey
sembrava sul punto di scoppiare a ridere a sua volta. Poi
incrociò
il suo sguardo e lei ci lesse quella domanda che lui sembrava volesse
farle da troppo, forse da quando l'aveva vista senza il capello dopo
l'esplosione.
Si
schiarì la gola e si distanziò un po' da loro,
erigendo una
mentale barriera invisibile.
“Mi
chiamo Samantha e sto cercando mia sorella gemella, Melissa”
iniziò
a raccontare, senza guardarli in volto. Nessun rumore,
perciò
continuò.
“Lei
è scomparsa undici mesi fa, senza una parola. No, non
è scappata!”
esclamò con veemenza al vedere le loro espressioni dubbiose.
“Sono
sicura che sia stata rapita. Melissa non sarebbe mai andata via senza
dirmi nulla!”
Michelangelo
le rivolse uno sguardo di simpatia e comprensione, prima di
domandarle:
“Come
fai ad esserne così sicura?”
Sam
respirò a fondo, deglutendo a vuoto un paio di volte, e
strinse gli
occhi appena per prendere tempo e non dover raccontare ancora quella
storia. Era passato, sì, ma faceva ancora male.
“Io
e Melissa non siamo cresciute assieme. Nostra madre era
un'alcolizzata e nostro padre non lo abbiamo mai conosciuto... era
uno dei tanti che pagava l'alcol a nostra madre,
probabilmente”
sputò fuori con rancore e disgusto, incurante dell'ombra di
pena sui
loro volti. C'era abituata.
“I
servizi sociali vennero a prenderci, una sera. Avevamo sei anni, mi
pare. Le ricordo ancora, le urla. Nostra madre morì poco
dopo e noi
fummo messe in adozione. Saltò fuori che non c'è
molta gente
disposta ad adottare due gemelle, soprattutto se una delle due non
era buona e docile come l'altra. Ho sempre avuto un carattere
più...
spigoloso di Melissa.”
Li
osservò con dubbio, come a volerli sfidare a fare una
qualche
battuta, ma trovò solo comprensione sui loro volti, che la
fece solo
sentire più vulnerabile, in difetto. Il mutante dalla benda
rossa,
Raphael credeva, sembrava capire perfettamente.
“Melissa
venne adottata, pochi mesi dopo. Non ce lo dissero nemmeno. Non ci
permisero di salutarci, di trovare un modo per tenerci in contatto.
Tornai dal cortile per cercarla e lei non c'era
più.”
Si
interruppe e sembrò rimuginare, ingabbiata nel ricordo,
mentre
riviveva qualcosa che le fece storcere il naso. Nessuno
fiatò e
nessuno la pressò a continuare, le diedero tutto lo spazio
concesso,
immobili e attenti.
“Io
invece ho fatto da casa famiglia in casa famiglia finché non
sono
diventata maggiorenne, poi mi misi finalmente a cercarla. Non sapevo
nemmeno se lei si ricordasse di me o se volesse vedermi, ma ci
trovammo subito, anche lei mi stava cercando. Da quel momento siamo
state sempre assieme, abbiamo condiviso tutto, finché l'anno
scorso
lei non è sparita. Senza una parola, nel nulla.”
Michelangelo
sentiva l'impulso irrefrenabile di alzarsi ed abbracciarla, ma sapeva
che lei non avrebbe reagito bene, perciò non lo fece: Sam
era brusca
e dura, troppo orgogliosa per lasciarsi andare, ma lui sapeva quanto
tenesse a sua sorella, con quanta foga la stesse cercando e dopo aver
sentito del loro passato, quel suo carattere aspro aveva senso.
Aveva
perso di nuovo la sua metà perfetta, forse l'unica persona a
cui
concedeva un sorriso o una parola dolce.
E
lui l'avrebbe aiutata a ritrovarla. E se prima desiderava farlo solo
per Melissa, per salvarla, ora lo avrebbe fatto anche per Sam, per
restituirle quello che rimaneva della sua famiglia.
“La
troveremo” le disse con dolcezza e convinzione, attirando la
sua
attenzione. “Ora che abbiamo anche l'aiuto dei miei fratelli
la
troveremo facilmente.”
Sam
lo occhieggiò sospettosa e diffidente, troppo abituata a
fare solo
affidamento su sé stessa e Mikey si affrettò ad
aggiungere:
“ E
poi ora abbiamo un indizio!”
Era
vero. Il poster. Si voltò attorno per cercarlo, ricordava di
averlo
con sé mentre scappavano dal palazzo prima della
detonazione, ma poi
troppo occupata a cercare di fermare il sangue di Michelangelo lo
aveva perso di vista.
Non
riusciva a ricordare cosa ci fosse scritto dietro, le parole
cancellate dalla paura e dall'adrenalina.
“Coso,
cosa c'era scritto? Te lo ricordi? Il poster- ce l'avevo-”
Il
mutante gentile, Donatello se ricordava bene, si mosse alle sue
parole e si avvicinò ad uno schedario lì vicino,
prendendo qualcosa
da sopra: era strappato e ricoperto di sangue, ma era di sicuro il
poster di Melissa.
“L'ho
trovato accanto a voi quando siamo venuti a cercarvi.”
Lei
lo prese con urgenza e lo rovesciò e lasciò
andare un sospiro di
sollievo nel vedere che le parole non si erano cancellate,
né
lacerate.
“Vi
somigliate davvero molto” disse Donatello, guardando la foto
attaccata sul retro.
“Ah,
no, quella è una mia foto. Insisteva sempre per
fotografarmi. E io
invece non ne ho di sue. Ma dato che siamo identiche ho pensato
'perché no'?”
Con
la coda dell'occhio vide il sorriso di Michelangelo e si trattenne
dal girare gli occhi al cielo; sì, era lei quella ritratta
nella
foto, ma non voleva certo dire che lui avesse indovinato il suo
carattere solo da quella.
“Quello
è un indirizzo, e il nome dovrebbe essere della persona che
ci
abita. Cosa sappiamo di questa Lois Miller?”
domandò Leonardo dopo
aver letto anche lui le nuove informazioni.
Donnie
saltò su e prese un portatile lasciato aperto sul carrellino
degli
strumenti chirurgici e iniziò a digitare velocemente, con
una mano
sola.
“Dunque,
poche informazioni sulla sua vita privata, ha preso una laurea in
bio-chimica e presenziato a numerose conferenze, sembra che sia una
luminare nel suo campo, però è strano-”
Attesero
in silenzio, mentre le sue dita volavano sui tasti e la fronte di
Donatello si corrucciava sempre più.
“Non
riesco a trovare nemmeno una sua foto o dettagli sulla sua vita da
una decina d'anni a questa parte e non mi era mai capitato, come se
fosse stata occultata volutamente.”
Sam
non lo poteva capire, ovviamente, ma a tutti loro sembrò
molto
strano che un genio come Donnie, che poteva entrare perfino nei file
secretati della polizia, non riuscisse a trovare informazioni su una
semplice persona.
Se
poi semplice lo era davvero.
“Chi
se ne importa! Andrò a parlare con lei e mi farò
dire tutto quello
che sa su mia sorella!”
Sam
era già vicina alla porta, intenzionata ad andarsene, quando
la voce
di Michelangelo la raggiunse.
“Ehi,
aspetta! Vengo con te, veniamo tutti con te!”
Lei si voltò e lo osservò mentre cercava di
scendere dal letto e dopo
averlo fulminato con lo sguardo, ripercorse con pochi passi la
distanza che li separava e gli si piantò davanti.
“No
che non vieni! Tu sei ferito, c'era tantissimo sangue,
avevi-” strillò sulla sua faccia, allungando le
mani per controllarlo,
tirando il colletto della sua tuta con impazienza, la zip abbassata
in un secondo.
Michelangelo
trasalì al contatto e spalancò gli occhi sorpreso.
“Cosa
stai-”
“C'era
un pezzo di vetro conficcato nel tuo collo, c'era tanto sangue, eri
praticamente morto-”
Le
sue mani scivolarono sulla sua pelle, più delicate di come
ci si
sarebbe aspettato da una ragazza così ruvida, cercando un
segno, dal
collo alla spalla, con dita leggere.
“Ok,
non è che mi lamenti di te che mi spogli e mi
palpi-”
Lo
scappellotto di Sam lo colpì dritto in fronte e lui rise
della sua
aria seccata.
“Sto
bene, te lo assicuro. Non ho nulla, vedi?” la
rassicurò,
allargando il colletto per permetterle di controllare.
La
pelle di Michelangelo era di un verde chiaro, più chiaro dei
suoi
fratelli, tesa su muscoli e nervi, ma intonsa, assurdamente perfetta
e intonsa.
“Donnie
e Isabel sono due dottori molto in gamba. Ma grazie per esserti
preoccupata.”
Sam
si scostò con un passo secco all'indietro.
“Non
ero preoccupata per te, coso” esalò cinicamente,
mettendo quanta
più distanza tra loro due.
Qualcuno
trattenne una risata con un colpo di tosse molto poco convincente, ma
Sam non ci fece caso e di nuovo si diresse verso la porta, ma la
donna, Isabel, ci si parò davanti in un secondo, bloccando
la sua
corsa.
“No,
aspetta, Mikey ha ragione, è meglio che veniamo con
te.”
“Sono
capace di badare a me stessa. Sto andando a chiedere informazioni,
non a trattare con dei terroristi!”
“Dato
che siete stati vittime dell'esplosione di un palazzo, c'è
da
presumere che questa storia sia più pericolosa di come
appaia”
intervenne Donatello, con fare pacato. “L'indizio lasciato da
tua
sorella potrebbe portarti da una persona amica come da chi ha messo
quella bomba e preso Melissa.”
Sam
valutò le sue parole, quel genio non aveva tutti i torti.
“Sarebbe
meglio che Isabel venisse con te, mentre noi vi controlliamo
nascosti” propose Leonardo, che si era accorto del cedimento
nella
sua corazza.
La
ragazza squadrò di nuovo l'altra donna, -e Isabel lo avrebbe
trovato
offensivo se non fosse che Sam le piaceva ogni secondo di
più,- poi
scoccò loro un sopracciglio alzato di scetticismo.
“E
cosa potrebbe mai fare questa bella bambolina se ci trovassimo
davvero in pericolo?” chiese sarcastica.
Il
boato di risate che suscitò la sua domanda non se lo era
aspettato e
la spiazzò non poco. Erano letteralmente piegati in due,
quattro
grossi mutanti che si tenevano la pancia mentre cercavano di smettere
di ridere.
“Tu-
tu non farla arrabbiare, ok?” ansimò Michelangelo
quando riuscì a
riprendere fiato.
Isabel
scuoteva la testa davanti alla loro sceneggiata, ma un bel sorriso
compiaciuto e solo vagamente imbarazzato le illuminava il viso.
“Oh,
lasciali perdere. Andiamo, ti accompagno” le disse
sbrigativa, poi
si rivolse agli altri.
“Voi
ci seguirete. Mikey, sei sicuro di stare perfettamente bene? Nessun
capogiro quando ti sei alzato?”
Il
mutante fece spallucce, poi annuì, ma poco convinto.
Isabel
sbuffò impercettibilmente, avvicinandosi a piccoli passi;
prese il
viso di Michelangelo tra le mani, alzandosi in punta di piedi per
arrivarci.
“Devi
dirmelo se hai qualche sintomo. Sei guarito, ma ancora non al cento
per cento” lo sgridò, prima di sporgersi un po' di
più e
piantargli un bacio sulla fronte, naturalmente.
Sam
osservò quel gesto intimo con stupore, forse per la
semplicità con
cui lei lo aveva fatto, senza esitazione. Osservò il modo in
cui lei
teneva gli occhi chiusi, con tenerezza, e quelli di Michelangelo
serrarsi con sollievo e affetto. Le sembrò una cosa molto
dolce, e
stranamente naturale. Eppure in qualche modo sbagliata.
“Se
dovessi sentirti debole dimmelo, ok?” disse Isabel quando si
staccò
da lui. “C'è già Raffaello che mi
nasconde quando sta male, per
fare il duro e lo stoico.”
Agitò
una mano alle sue spalle, indicando alla cieca.
Sam
si chiese per un secondo di chi stesse parlando, prima che il mutante
dalla benda rossa rispondesse a tono.
“Non
ti nascondo quando sto male, ma tu non devi stancarti a curare anche
le più piccole ferite, non ne vale la pena.”
Isabel
scosse di nuovo la testa con condiscendenza e si allontanò
da loro,
fermandosi vicino a Sam.
“Allora,
noi andiamo. Se doveste perderci sapete l'indirizzo. Ci teniamo in
contatto con gli auricolari, d'accordo?”
I
quattro annuirono simultaneamente e Sam si stupì
dell'influenza che
quella donna aveva su di loro.
Si
accodò alla sua scia, seguendola oltre la porta e alla fine
del
corridoio, che si apriva in un ambiente che non aveva mai visto,
ricoperto di teloni e secchi da pittura e impalcature e mattonelle
poggiate a terra.
“Stiamo
ancora finendo, sarà una clinica per animali, ma il progetto
è
ancora in alto mare” le disse Isabel, come se lei dovesse
capire di
cosa stesse parlando. “Ma le stanze nel retro, pensate per
essere
ambulatori per mutanti, quelle le abbiamo terminate subito.”
Sam
voleva chiederle come diamine fosse immischiata con Michelangelo e i
suoi fratelli, perché sembravano molto più che
una semplice
conoscenza per quella donna, ma non ne ebbe il tempo perché
si sentì
guidare verso l'uscita di quella che scoprì essere una
piccola
clinica in costruzione, in un quartiere praticamente solitario,
accanto ad un vecchio garage chiuso da decenni.
Isabel
si incamminò decisa, e da parte sua aveva in mente di
chiedere molti
dettagli a Sam, senza essere invadente o pressante, ma prima che
potesse anche solo incominciare con la prima di molte domande, il suo
telefonino squillò.
Diede
uno sguardo allo schermo, poi si rivolse verso la ragazza al suo
fianco.
“Scusami,
ti spiace se rispondo? Se non lo faccio, sarebbe capace di mandare la
polizia a cercarmi e non sarebbe carino.”
La
risposta di Sam fu un paio di sopracciglia aggrottate e un gesto con
le spalle, come a dire che non le importava.
“Ehi,
Ape, ciao... no, non ti sto evitando- no- April, ascolta sul serio,
ero impegnata! Lo giuro, non mi stai assillando!...certo che vorrei
vedere gli abiti delle damigelle, ma solo se volete... se volete
farmi una sorpresa non- ...ok, verrò a vederli, vi
dirò quelli che
mi piacciono di più e poi voi sceglierete in segreto, va
bene? No,
prometto che non cercherò di scoprirlo, li vedrò
al matrimonio, lo
giuro, Ape! Ascolta, prendi l'appuntamento per domani, ok? Adesso
devo lasciart- no, della torta ne parliamo domani, non ho la forza
mentale di pensare a combinazioni di meringhe e creme... se mi
costringi ti mando Michelangelo come giudice ufficiale per la torta e
sai che sceglierebbe qualcosa di disgustoso!”
Isabel
rise per qualsiasi cosa la misteriosa April aveva risposto e Sam era
ormai caduta in un baratro di confusione, perché quella
donna aveva
davvero poco senso.
“Ok,
adesso vado, ci sentiamo dopo. Sì, ti racconterò
meglio stasera,
dai un bacio a Carl e August, ciao.”
Isabel
chiuse il telefonino e sospirò rumorosamente, come a voler
lasciare
la tensione.
Sposarsi
era di certo il coronamento di un sogno, ma April la stava facendo
impazzire con le preparazioni.
“Quindi
ti sposi, giusto?” sentì chiedere con tono casuale
a Sam e si
ricordò all'improvviso dove fosse e cosa stesse facendo
prima di
rispondere alla chiamata.
Camminavano
in una via più trafficata, dirette verso la metropolitana.
“Sì,
tra un mese , l'ultima settimana di Settembre” le
annunciò con un
gran sorriso.
Sam
annuì poco convinta, non sapendo come continuare. Non era
particolarmente interessata ai matrimoni e non aveva intenzione di
far finta di interessarsene per fare conversazione con quella donna.
Ma
poi ci pensò un attimo e...
“E
il tuo futuro marito non ha nulla da dire sui mutanti? A quanto ho
capito cos- Michelangelo è invitato e sei molto in
confidenza con
loro... li conosce? Lo sa che li baci con casualità e un po'
troppa
confidenza?”
Aveva
parlato velocemente, quasi mordendosi la lingua, confusa e irata,
vagamente.
Isabel
stringeva le labbra per non riderle in faccia e Sam si chiese se non
la stesse prendendo in giro. La osservò prendere un paio di
respiri
per calmarsi, prima di risponderle.
“Credo
che non gli importi davvero, sa tutto su di loro. Anche troppo in
effetti. Hai presente il mutante alto, pelle verde scuro, con la
bandana rossa?”
Isabel
aveva alzato un braccio fino alla sua massima estensione per indicare
l'altezza di Raphael, ma non ci arrivava nemmeno. Sam annuì,
aspettando che continuasse.
“Lui
è lo sposo” esclamò con un ghigno
compiaciuto, osservando la sua
reazione.
Ok,
pensò Sam, la stava decisamente prendendo in giro. Ma poi si
ricordò
che Michelangelo l'aveva presentata come sua sorella e Donatello le
aveva detto che cognata aveva più senso, che di
lì a poco sarebbe
stato ufficiale. Allora era a quello che si riferivano!
Quella
stramba donna aveva davvero intenzione di sposare un mutante. E
sembrava euforica al solo pensiero, a giudicare da come le
scintillavano gli occhi.
Ogni
domanda che voleva farle a riguardo, ed erano tante, vennero messe
momentaneamente da parte, perché erano arrivate
all'imboccatura
della metropolitana e si trovarono in poco tempo a spingere nella
calca per salire a bordo del mezzo, decisamente il luogo meno
indicato per parlare di un argomento del genere.
Comunque,
mentre la metropolitana sferragliava veloce, e Sam occhieggiava
omicida chiunque intorno perché non si avvicinasse a lei ed
Isabel,
la sua mente si focalizzò solo su sua sorella e sulla pista
che
stavano seguendo. Non aveva mai sentito parlare di quella Lois
Miller, ma poteva essere una collega di Melissa, per quanto ne
sapeva; ma perché lei aveva scritto il suo nome dietro il
poster era
un mistero.
Era
come se Melissa volesse che lei lo trovasse e il pensiero le strinse
il cuore di un misto di preoccupazione e apprensione. Se sua sorella
aveva fiducia che lei l'avrebbe cercata, doveva fare ancora di
più
per trovarla.
Isabel
le lanciò di tanto in tanto uno sguardo assorto, ma non le
chiese
nulla per tutto il tragitto e ne fu grata.
Arrivarono
in fretta ad Harlem e uscirono dalla metropolitana con sollievo: il
sole le colpì cocente una volta in superficie e si fermarono
un
secondo per capire dove andare.
Isabel
trafficò col telefonino per qualche secondo, portando
qualcosa
all'orecchio, poi le porse un piccolo tondino di plastica.
“Auricolare”
le disse semplicemente, prima di incamminarsi.
“Ehi,
ragazzi, ci siete?” la sentì chiedere al nulla,
mentre lei
infilava con titubanza l'aggeggio, scostando i lunghi boccoli biondi.
Immediatamente
una babele di voci le esplosero nella testa.
“Siamo
qui da almeno dieci minuti” disse quello che le parve
Leonardo.
“Immagino
che la metropolitana fosse piena. È andato tutto
bene?” chiese
Donatello, gentilmente.
“Ah,
dubito che chiunque abbia avuto anche solo il pensiero di
avvicinarci. Sam li ha uccisi tutti con lo sguardo, era
terrificante”
esclamò divertita Isabel, voltandosi ad osservarla con un
gran
sorriso.
“Sam!”
strillò Michelangelo e le sembrò di riuscire a
sentirlo davvero,
oltre che nell'auricolare. “Ti sono mancato?”
Lei
rollò gli occhi al cielo, anche se lui non poteva di certo
vederla.
“Certo,
coso, come mi può mancare un attacco di
dissenteria” rispose
laconica, godendosi le risate che ne seguirono. Michelangelo rideva
perfino più degli altri.
“Ok,
siete quasi arrivate. Noi siamo sul palazzo di fronte, se vi dovesse
servire” annunciò Leonardo, il primo a essersi
ripreso. “Isabel,
intervieni se senti che qualcosa non va, noi rimaniamo in ascolto e
pronti.”
La
donna sollevò la testa verso l'alto e annuì,
solennemente. Sam
seguì il suo sguardo e vide quattro figure sul tetto del
palazzo
poco distante, vigili e guardinghe.
Le
diede uno strano senso di protezione, una cosa a cui non era affatto
abituata. Aveva sempre dovuto combattere per proteggersi, essendo
cresciuta per le strade e in case famiglie decisamente discutibili;
non era abituata ad avere qualcuno che la proteggesse.
E
la terrorizzava, quella sensazione di sollievo. Non ci si doveva
abituare.
Isabel
le fece cenno non appena arrivarono all'indirizzo, indicandole la
casetta a due piani alla loro sinistra. Era piccola e fatiscente,
aveva visto di certo tempi migliori, e il giardino incolto era
disseminato di ferri vecchi e elettrodomestici spaccati e
abbandonati.
Come
poteva, chiunque abitasse in quella casa, avere a che fare con sua
sorella?
Si
diressero verso la porta d'ingresso e Isabel bussò sul legno
scrostato con decisione. Attesero in silenzio per interminabili
secondi, poi ribussò, più forte.
Avevano
visto la luce accesa in una stanza al primo piano, c'era di certo
qualcuno.
Un
rumore di passi le mise sul chi vive e dopo qualche altro attimo la
porta si aprì lentamente, rivelando una donna di mezza
età
trasandata e stralunata: i suoi occhi passarono dalla
curiosità
all'orrore nell'attimo in cui passarono da Isabel a Sam. Poi si
spalancarono di meraviglia.
“Tu...
tu non- sono così felice di vederti, non pensavo- non
pensavo-”
iniziò a balbettare, in preda all'agitazione.
“Ehi”
disse Donatello cautamente, osservando la scena dal palazzo di
fronte. “Noi conosciamo quella donna.”
Lo
avevano pensato tutti, nel momento in cui era apparsa sull'uscio, e
Michelangelo tremò di paura. Perché l'avevano
vista solo per pochi
istanti, ma non era possibile dimenticarla.
“Andiamo!
Sento che Sam è in pericolo!” urlò
gettandosi in picchiata, prima
che fosse troppo tardi.
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Capitolo 39 *** Mikey's little adventure 4. And then there was only one ***
Isabel
intuì immediatamente che qualcosa non andava.
Il
modo in cui la donna aveva reagito alla presenza di Samantha le fece
capire all'istante che l'aveva scambiata per Melissa. Ed era sembrata
un po' troppo sollevata nel vederla, come se non si aspettasse di
vedere Melissa mai più.
Come
se le fosse successo qualcosa.
I
nervi di Isabel si tesero, mentre la donna balbettava frasi sconnesse
con lo sguardo sempre più spiritato, tanto che quando delle
figure
calarono dal cielo, sussultò e per un secondo un breve
bagliore la
illuminò.
Ritornò
normale non appena notò lo sguardo greve e arrabbiato di
Michelangelo.
La
donna, Lois Miller, arretrò spaventata al vederli, ma
sembrava più
che semplice timore per il loro aspetto.
Tremava
sul posto, il volto bianco di paura.
Isabel
li spinse tutti dentro, i mutanti arrabbiati, la ragazza confusa e
poi entrò anche lei, chiudendo la porta dietro di
sé; non era
prudente per loro stare così in vista in pieno giorno.
E
sentiva che se avevano deciso di apparire così
all'improvviso c'era
un buon motivo, un motivo che andava discusso.
Gli
occhi folli della donna passavano da un mutante all'altro, la bocca
spalancata da cui non usciva nessun suono, seppure le labbra
tremassero ogni tanto di parole che non riusciva ad articolare.
Anche
Sam era ammutolita, sorpresa nel vedere Michelangelo così
furioso.
Non c'era neppure la più piccola traccia di
ilarità nel suo sguardo
e perfino lei che lo conosceva da pochissimo sentiva che c'era
qualcosa di sbagliato.
“Non
fatemi del male- io non c'entro niente, lo giuro, io non-”
riuscì
ad esalare infine la donna, arretrando ancora finché non
toccò con
le gambe lo schienale del divano, lasciandosi andare giù.
“Che
cosa- di cosa stai parlando?” esclamò Sam confusa
e spazientita,
ma Michelangelo si intromise con voce roca e secca, un tono a cui
nessuno lì era abituato.
“Non
c'entri niente? Non c'entri niente?” urlò,
avvicinandosi a grandi
passi alla figura tremante a terra.
“Li
avete rapiti, li avete mutati! A centinaia! A centinaia, maledizione!
Perfino i bambini! Li avete mai guardati in faccia mentre aspettavano
di morire? Quando sapevano di essere spacciati?”
Si
fermò col fiatone e le mani chiuse a pugno così
forte che erano
sbiancate.
Isabel
capì, all'istante. Raphael le aveva raccontato cos'era
successo
mentre lei non c'era: degli umani mutati, del pazzo scienziato che
stava cercando una cura per la sua mutazione facendo soffrire
centinaia di innocenti, dei bambini rapiti, di Mork.
Del
legame che si era creato tra Mork e Michelangelo, di come il dolce ed
empatico cognato lo avesse preso a cuore come fosse un suo fratello.
Per poi vederlo morire davanti ai suoi occhi senza poter fare nulla.
La
rabbia di Michelangelo aveva finalmente senso.
Quella
Lois doveva essere una dei dottori che avevano contribuito a quella
tragedia.
La
donna si era rannicchiata, quasi aspettandosi che lui la colpisse. Lo
osservò attentamente, sollevando lo sguardo per capire se
l'avrebbe
fatto, poi parlò.
“Non
lo sapevamo. All'inizio non lo sapevamo” esalò
straziata,
dondolandosi appena. Si interruppe con un singulto, prendendo aria e
coraggio.
“Ci
avevano detto che dovevamo studiare un campione che non era umano,
che dovevamo isolarlo e replicarlo per delle ricerche. Avevano scelto
un team di ricercatori, ma solo Melissa capì come
fare” raccontò,
guardando infine Sam, come se si aspettasse che lei intervenisse.
“Mia
sorella? Mia sorella che-” chiese quella, inorridita da
quello che
aveva intuito del discorso.
Lois
la studiò, capendo finalmente che quella non era Melissa e
se
possibile la sua espressione divenne ancora più angosciata e
spaventata.
“Melissa
fu quella che riuscì per prima a isolare il siero. Era una
sostanza
strana, aliena, e c'era del DNA che riconoscemmo come di coccodrillo,
unito ad esso. Incominciammo a farci delle domande, ma le direttive
dall'alto dicevano solo di replicare il siero, senza toccarlo
ulteriormente.”
“Lavoravate
per la Hessencare” affermò Raphael, ma non aveva
bisogno che lei
lo confermasse.
“Ci
avevano detto che il siero sarebbe stato un passo avanti nella
scienza, una formula per permettere la rigenerazione cellulare e
poter così guarire più velocemente ferite e
malattie e noi ci
credemmo!” si scusò la donna, singhiozzando.
Eppure
non riuscirono a sentire nessuna pena per lei. Non dopo tutto quello
che avevano visto, che avevano vissuto.
“Quando-
quando scoprimmo finalmente a cosa servivano, ci sentimmo morire. Uno
dei primi umani mutati fuggì e irruppe nei nostri laboratori
e
capimmo, capimmo cosa avevamo davvero fatto. Melissa si
ribellò e
voleva distruggere tutto, tutte le fiale di siero e i risultati per
replicarle, era disgustata da ciò che avevamo fatto, anche
senza
volerlo.
Voleva
distruggere tutto e salvare solo pochi campioni per cercare un
antidoto, ma nella foga e nella fretta di sparire prima che la
trovassero, le fiale si ruppero e venne infettata dal siero.
Mutò,
velocemente, non potei fare nulla.
Rimasi
alla Hessencare per provare a trovare un antidoto ed aiutarla,
aiutarli tutti, ma non ci riuscii; la nascosi finché potei,
ma alla
fine venne presa e portata assieme agli altri.”
Donatello
trattenne il fiato, rumorosamente, manifestando quello che tutti loro
avevano pensato: se Melissa era mutata era impossibile che fosse
ancora viva.
Non
era sopravvissuto nessuno.
Sam
respirava pesantemente, gli occhi lucidi eppure furiosi, i denti
serrati forte. Forse non sapeva tutta la storia, ma aveva capito
abbastanza, aveva capito cosa era capitato a sua sorella.
“Dov'è
ora Melissa? Dov'è?” strillò imperiosa,
trattenendosi a fatica
dal lanciarsi sulla donna.
Quella
la osservò attraverso la cortina di lacrime, impaurita.
“Non
lo so.” Scosse il capo sconsolato. “Loro- loro lo
sanno. Era con
loro, quella notte.”
Indicò
con un gesto della testa verso i mutanti alle sue spalle.
Michelangelo
tremò, la mano si chiuse sul polso sinistro inconsciamente,
finché
non sentì la durezza del metallo sotto il tessuto della
fascia
paracolpi.
Il
cuore doveva essersi fermato, un dolore che credeva assopito lo
scosse fin nell'anima.
Melissa
non poteva essere... non poteva essere... sarebbe stato troppo
crudele. Avrebbe fatto ancora più male.
Sam
si voltò verso di loro, ma fu su di lui che il suo sguardo
si posò.
“Melissa
è... era M37?” domandò Mikey, senza
riuscire a guardarla, ancora.
Sapeva già la risposta, ma non voleva crederci.
La
donna annuì, brevemente; il cuore gli si affossò
nel petto.
Sam
urlò di rabbia. L'uso del tempo passato non le era sfuggito.
Si
gettò verso Michelangelo, le braccia alzate e gli occhi
rossi e
lucidi di pianto trattenuto.
“Dov'è
mia sorella? Dov'è Melissa?”
Lo
colpì una volta prima che lui riuscisse a bloccarle le mani
tra le
sue, faticosamente. Anche i suoi occhi erano lucidi; non avrebbe mai
creduto che quella storia già di per sé tragica
potesse portare
ancora così tanto dolore.
“Mi
dispiace... è morta. Melissa è morta”
sussurrò ad un passo dal
piangere.
Sam
si dibatté perché la lasciasse andare, ma
riuscì solo a dargli un
paio di pugni sul piastrone, con tutta la foga che poté; era
paonazza, i capelli arruffati, e le lacrime che non riusciva
più a
trattenere le bagnavano il viso.
“Che
cosa le hai fatto?”
“È
morta per proteggermi” confessò lui e vedere la
verità oscurare
infine gli occhi grigi di lei lo colpì dritto al petto,
bloccandogli
il respiro.
“No!
No- no- lasciami andare! Melissa non è- non può
essere-”
E
Michelangelo la lasciò andare, pronto a incassare qualsiasi
pugno
Sam volesse dargli, purché la facesse sfogare, ma lei lo
osservò
solo per un attimo prima di scattare verso la porta e scappare via,
piena di dolore e stizza.
Lui
si buttò subito nella sua scia, veloce, incurante che fosse
pieno
giorno, che le strade brulicassero di persone, che potessero vederlo:
seguiva i capelli biondi che ondeggiavano per la corsa sfrenata, poco
davanti a lui.
Accelerò,
scartando un gruppo di ragazze urlanti.
“Aspetta!”
gridò appena prima di afferrarla, costringendola a fermarsi.
Lei
strillò e provò a colpirlo in viso, ma Mikey
scansò e l'attirò a
sé, bloccandola. Tremava così forte da scuotere
anche lui.
“Per
favore, ascoltami!” la implorò, sconvolto.
Le
grida attorno a loro gli ricordò dove fossero. C'erano
decisamente
tre o quattro persone che gli stavano urlando contro, che chiamavano
soccorsi.
Issò
Sam sulla spalla e corse via, ignorando le proteste e le sue strilla,
sparendo in un vicolo lì vicino, prima di iniziare a scalare
il
palazzo a destra.
Rischiarono
di precipitare un paio di volte, per quanto lei si dibatteva.
La
lasciò andare solo quando furono in cima e Sam si
guardò intorno
come un animale braccato, cercando una via di fuga.
L'altra
alternativa era picchiare Michelangelo finché non si fosse
sfogata.
“Sam,
ascoltami, per favore” lo sentì sussurrare.
Fece
per lanciarsi contro di lui, ma si bloccò sorpresa, al
vedere che
stava piangendo.
Lui
scostò la fascia paracolpi, lentamente, e porse il polso
verso di
lei.
Il
bracciale d'argento faceva uno strano contrasto sul verde della sua
pelle.
Sam
si avvicinò cauta e lo studiò, ma non ne aveva
davvero bisogno,
conosceva quel bracciale perfettamente, ne aveva una copia identica.
Ma
vederlo addosso a qualcuno che non era Melissa rese tutto ancora
più
vero.
“Mi
ha salvato. Melissa mi ha salvato la vita, a costo della sua.”
Lei
allacciò lo sguardo al suo e ci lesse genuino dolore,
capì che ci
teneva sul serio e il desiderio di sapere prevalse sulla rabbia e sul
dolore, per un poco.
Lo
invitò a proseguire con un cenno del capo, e lui le
spiegò ogni
cosa, dei mutanti e dei rapimenti, delle loro esplosioni e di Mork. Che
allora non sapeva si chiamasse Melissa.
I
suoi occhi scintillarono quando arrivò a Mork, quando le
raccontò
tutto ciò che avevano vissuto, il legame che li aveva uniti,
la
fiducia che si era instaurata tra loro.
E
riuscì a non piangere ancora, quando le disse come era
morta, come
si era sacrificata per salvarlo dal crollo del palazzo, quando aveva
scelto di morire al posto suo.
Per
quanto ancora facesse male.
Poi
stette in silenzio, aspettando una sua reazione. Avrebbe voluto dirle
che gli dispiaceva, che anche lui voleva bene a Melissa seppure non
la conoscesse con quel nome, ma sapeva che sarebbe stato tutto vano,
che sarebbe suonato pretenzioso.
Sam
urlò, un grido rauco e primitivo, che conteneva dolore e
rabbia e
ingiustizia e solitudine, dritto contro il cielo. Un grido che
sembrò
congelare il tempo.
Poi
si fermò a prendere grandi respiri sofferti, prima di
voltarsi e
allungare una mano verso il suo polso ancora teso: con un dito tocco
la piastrina semisferica su cui era incisa la piccola S, la sua
iniziale.
Strinse
gli occhi, forte, e un singulto le spezzò il respiro.
Michelangelo
fece per toglierlo, era suo, era lei la persona speciale che Mork,
Melissa, aveva desiderato rivedere e stringere, l'unica di cui si era
ricordata pur nella confusione della mutazione. Era giusto che fosse
lei a riaverlo.
Ma
Sam lo bloccò con una presa ferrea, fissando il pavimento
per
nascondere le lacrime.
Poi
sollevò la manica della sua maglia e gli mostrò
un bracciale
identico al suo, su cui però era incisa una M. L'iniziale di
Melissa.
“Se
lei- se te l'ha dato vuol dire che ci teneva. Tienilo. Si
arrabbierebbe se sapesse che te l'ho preso” esalò
con tono
lacrimoso, eppure stoico.
Michelangelo
cercò di abbracciarla, ma lei si divincolò
finché non rimase solo
una mano sulla sua spalla e allora si bloccò, concedendogli
almeno
quel contatto, concedendosi almeno quel contatto. Un abbraccio
sarebbe stato troppo, in quel momento.
Isabel
e gli altri li trovarono così, quando apparvero sul tetto
qualche
minuto dopo: connessi in quel lieve tocco, che piangevano entrambi.
Sam
si scostò e si deterse velocemente il viso, al vederli,
dando loro
le spalle.
“Non
volevamo- siamo venuti per proteggere Sam” spiegò
Isabel, a mo' di
scuse, accortasi del momento di fragilità che stavano
condividendo.
La
ragazza si voltò confusa e Michelangelo saltò su
con apprensione,
improvvisamente guardingo.
“Samantha
ha lo stesso DNA di Melissa. Identico. Se Hersen lo venisse a
sapere...”
Donatello
lasciò la frase in sospeso, ma non c'era bisogno di finirla
perché
Mikey immaginasse le conseguenze ovvie: Hersen avrebbe rapito Sam,
l'avrebbe fatta mutare come aveva fatto con Melissa... non poteva
permetterlo.
“Hersen
è l'uomo che ha fatto del male a mia sorella?”
chiese Sam, con
voce dura. I suoi occhi erano rossi di pianto, ma così fermi
e
focalizzati da fare paura.
Quando
li vide annuire continuò:
“Allora
che venga! Voglio ucciderlo con le mie mani!”
“No!
Non capisci, è pericoloso! E potrebbe avere un nuovo
esercito di
mutanti! Non puoi rimanere da sola” la dissuase Michelangelo,
accorato.
“Io
sono da sola” gli ricordò lei, penosamente.
“Hai
noi. Non sei da sola. Permettimi di aiutarti.”
Le
sue parole si scontrarono con la corazza di Sam e lei non concesse
nemmeno una parola di assenso, un cedimento qualunque.
“Lo
devo a Melissa” continuò Mikey e lei
sollevò lo sguardo ferito,
vacillante.
Le
tese una mano, dolcemente.
“Ti
prometto che la pagherà. Lo ucciderò, se ti
farà sentire meglio.”
Sam
afferrò la sua mano, dopo un istante, stringendo forte.
“No,
non mi sentirei meglio. Melissa non tornerebbe indietro. Ma lui
merita di morire.”
Il
patto fu sigillato quando i loro occhi si incontrarono ed entrambi
condivisero lo stesso dolore e la stessa rabbia.
Anime
affini, ferite dalla stessa perdita.
Decisero
di portarla al rifugio con loro, sia per proteggerla che per non
lasciarla da sola.
Era
sola, ormai. Ma loro avrebbero potuto essere la sua nuova famiglia,
se glielo avesse concesso.
Sam
mantenne un'aria impassibile e fin troppo contenuta per tutto il
viaggio di ritorno, chiusa in una bolla di dolore e Mikey le stette
per tutto il tempo accanto, insolitamente quieto e silenzioso.
Lui
non permise che la bendassero quando arrivarono al garage, facendo un
cenno ai suoi fratelli per fargli capire che aveva tutto sotto
controllo, e la guidò personalmente all'ascensore, lasciando
che
guardasse intorno quanto voleva.
La
vista del rifugio sembrò sorprenderla e distrarla,
momentaneamente,
mentre osservava ogni più piccolo dettaglio con aria
meravigliata.
L'alto soffitto a volta, le numerose porte che portavano ad
altrettante stanze al primo piano, l'ampio spazio al centro col
laghetto dal ponte in legno e la zona video piena di schermi.
“Vivrete
pure sottoterra, ma questo posto è decisamente meglio di
dove sto
io” esclamò colpita, con un fischio di
approvazione.
Splinter
apparve dal dojo, una lieve espressione di rimprovero nel viso al
veder una sconosciuta nella loro casa.
Sam
alzò la guardia immediatamente, indietreggiando di un passo,
pronta
a difendersi e ad attaccare se necessario.
Michelangelo
la rassicurò con un tocco leggero sulla spalla, prima di
fare le
presentazioni.
“Questo
è nostro padre, Splinter, ci ha cresciuti dopo che siamo
mutati.
Padre, questa è Samantha, la sorella di... Mork. Si chiamava
Melissa.”
Il
vecchio sensei capì immediatamente e lo ferì
vedere tutto quel
dolore negli occhi del figlio e della ragazza di fronte a lui.
Piegò
il capo con rispetto.
“Benvenuta,
la nostra casa è la tua casa.”
Sam
si rilassò, pur continuando a osservare l'anziano mutante.
Forse in
un'altra occasione avrebbe fatto qualche osservazione su un ratto che
allevava quattro tartarughe, ma in quel momento voleva solo chiudersi
da qualche parte, da sola, e piangere, prendere a calci qualcosa
finché non fosse stremata a terra dalla fatica e poi svenire
in un
sonno, preferibilmente, senza sogni.
“Puoi
avere la mia camera” disse Isabel, come se le avesse letto la
mente.
Quella
donna aveva il potere di confonderla e innervosirla, a volte, ma in
quel momento le fu grata. Avrebbe dovuto chiederle perché
vivesse lì
sotto con loro, prima o poi, ma una domanda si fece prepotentemente
strada nella sua mente.
“Dove
dormiva Melissa?” interrogò, rivolta verso
Michelangelo.
Quello
spalancò per un secondo gli occhi, quasi in imbarazzo, prima
di
rispondere.
“Con
me” disse in un soffio. “Non- non sapevo fosse una
ragazza!
Eravamo convinti fosse un ragazzo.”
Un
lieve sorriso le incurvò le labbra al vedere il suo goffo
tentativo
di scusarsi. Di cosa poi?
Aveva
il sospetto che Melissa, mentre era mutata, si fosse invaghita di
Michelangelo.
E
benché il concetto fosse strano, almeno di primo acchito,
riuscì a
capire perché.
Accettò
l'offerta di Isabel e si fece mostrare la stanza, al primo piano. Poi
avrebbe esplorato il rifugio, avrebbe accettato la loro offerta di
cibo, avrebbe cercato di recuperare la sua roba, avrebbe pensato al
futuro, forse. Ma in quel momento chiudersi in quella stanza era
tutto quello che voleva.
Isabel
le mostrò dove trovare un cambio e gli oggetti di prima
necessità e
Sam era pronta a buttarla fuori di lì anche in malo modo,
-anche se
era stata così gentile,- se avesse deciso di rimanere
lì con lei.
Ma quella si incamminò decisa verso la porta dopo pochi
attimi,
fermandosi solo un secondo con la mano sulla maniglia.
“È
dura, lo so. Ma noi siamo qui con te. Se hai bisogno di qualcosa,
qualsiasi, anche la più stupida, chiama. Sono nella stanza
di
Raffaello.”
Sam
avrebbe voluto urlarle contro che non sapeva, non poteva sapere, ma
nello sguardo dell'altra donna vide un dolore uguale al suo, le si
spalancò un baratro profondo di strazio e pena e comprese
che sì,
lei capiva, lei sapeva cosa stesse passando.
Si
sentì in un certo senso meno sola.
Le
sorrise, forse era la prima volta che le sorrideva, con gratitudine.
“Non
busserei alla vostra camera da letto per nessun motivo” le
disse,
strappandole un sorriso a sua volta.
Isabel
scosse la testa e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Sam
attese di sentire i suoi passi allontanarsi, poi si lasciò
andare
sul letto, completamente vestita, affondando la testa nei cuscini.
E
se si lasciò andare al pianto, nessuno la sentì
nel rifugio.
Michelangelo
fu tentato molte volte di entrare in quella camera, di andare ad
abbracciarla, lottare con lei finché non si fosse arresa e
si fosse
lasciata consolare, ma Sam non era così docile e non poteva
vincere
contro di lei. Ancora.
Il
rimorso poi, allora già schiacciante, in quel momento gli
bloccava
il respiro e qualsiasi pensiero: Mork, no, Melissa, aveva dato la sua
vita e lui non aveva potuto fare niente per aiutarla.
Aveva
solo potuto guardarla morire.
E
Sam soffriva per colpa sua, per la sua incapacità di
proteggere ciò
che le era stato di più caro.
Rimase
fuori dalla sua camera, lo sguardo puntato su quella dove Sam
riposava, in una muta e immobile guardia, per molte ore.
Quando
Sam riemerse dalla stanza, il rifugio era silenzioso e tranquillo.
Sentì
delle voci leggere dal piano sottostante, ma non seppe dire con
precisione da dove venissero.
Poteva
perfino scappare e nessuno se ne sarebbe accorto. Ma per andare dove,
poi? Forse se fosse rimasta con quei mutanti avrebbe avuto
più
possibilità di trovare quell'Hersen e ucciderlo.
Scese
per la scaletta e si guardò attorno una volta arrivata al
pianterreno. Ancora non capiva come un posto così bello
potesse
esistere nascosto sotto la superficie di New York city. Nessuno ne
conosceva l'esistenza, come non conosceva quella dei suoi abitanti.
Aveva
sentito leggende metropolitane su mostri che si aggiravano per le
fogne, -circolavano dappertutto per la città,- ne esistevano
decine
di versioni differenti, ma non avrebbe scommesso mezzo dollaro sulla
loro veridicità.
E
invece in quel momento era nel loro rifugio, sotto le loro cure.
Una
grossa porta di legno intarsiato si spalancò e Leonardo,
Isabel e
Raphael ne uscirono, vistosamente sudati e stanchi. Lei aveva un paio
di ventagli di ferro nelle mani.
“Ehi,
ti sei svegliata” constatò Isabel, non appena la
vide. “Sei
scesa per mangiare? Mikey sta cucinando già da almeno
un'ora.”
Sam
sentì in quel momento un buon profumo venire da una delle
porte lì
vicino e il suo stomaco brontolò, rumorosamente. Non sapeva
nemmeno
che ora fosse e quando avesse mangiato l'ultima volta. Era stato a
cena, la notte in cui aveva incontrato Michelangelo, ma non aveva
idea di quanto tempo fosse passato da allora.
Le
sembrava un secolo.
Isabel
la spinse verso la cucina, e Mikey si fermò un attimo mentre
mescolava qualcosa che profumava divinamente, per rivolgerle uno
sguardo sorpreso e fin troppo contento nel vederla.
Donnie
arrivò subito dopo seguito dal maestro, entrambi le
rivolsero un
sorriso ciascuno, prima di mettersi a tavola.
Fu
strano, cenare con quella bizzarra famiglia; il pasto fu pieno di
chiacchiere, soprattutto dei preparativi del matrimonio, della
costruzione della clinica e di un villino, a quanto aveva capito, e
tutti erano emozionati e coinvolti, e finalmente notò gli
sguardi
pieni d'amore che Isabel e Raphael si scambiavano di tanto in tanto.
Lei
sorrideva estasiata ogni volta che guardava Raphael e lo sguardo del
grosso e burbero mutante si scioglieva non appena si posava su di
Isabel; la guardava in continuazione, sembrava aver paura di perderla
se avesse distolto gli occhi da lei.
In
un'altra situazione Sam avrebbe pensato che fossero da diabete, ma
sentiva che non erano una coppia qualunque, che erano arrivati a quel
momento di felicità dopo chissà quanta fatica e
che si meritavano
di sbandierare il loro amore.
Sam
avrebbe voluto saperne di più.
Su
di loro, su Isabel e ogni dettaglio della vita di Melissa mentre era
stata con loro. Anche su Michelangelo.
E
probabilmente, sarebbe dovuta rimanere lì con loro
abbastanza per
imparare tutto quello e anche di più, che lo volesse o no.
Aspettò
un momento di calma, per parlare.
“Quanto
dovrò restare qui?” chiese, a nessuno in
particolare.
Leonardo
scambiò una breve occhiata con Michelangelo e Donatello,
prima di
risponderle.
“Dobbiamo
trovare Hersen prima che lui trovi te, quindi sarebbe meglio che tu
rimanessi con noi, almeno per un po'. Donatello cercherà
qualsiasi
informazione possibile e seguirà qualsiasi pista; uno come
Hersen
non sta defilato molto a lungo, purtroppo.”
Una
parte di Sam voleva protestare vivamente per quella che prometteva
essere una snervante attesa insieme a loro: attendere cosa, poi? Da
quanto aveva capito dal racconto quel professor Hersen era scomparso
da mesi, reso pazzo dalla mutazione; poteva essere dall'altra parte
del mondo o già morto.
Un'altra
parte di sé, però, avvolta nel dolore e ferita,
era disinteressata
e catatonica, e le diceva che niente aveva senso, che non le
importava davvero di stare seppellita lì sotto anche per
sempre,
perché non c'era più nulla per cui valesse la
pena stare lì fuori.
Fece
quello che faceva sempre, finse indifferenza con un'alzata di spalle
e distolse lo sguardo da loro.
“Va
bene. Devo prendere delle cose dal mio appartamento,
però.”
Ci
fu un altro veloce scambio di sguardi, tra Michelangelo e Isabel
quella volta, e poi la giovane donna intervenne, pronta.
“Posso
accompagnarti io. Ma se hai molte cose da prendere sarà
meglio che
uno dei ragazzi ci porti col furgone.”
Michelangelo
si offrì immediatamente, mentre gli altri tre decidevano
come
suddividersi i giri di ronda, facendo chiamate ad un certo Steve e ad
una Angel.
Dopo
cena Raphael iniziò a pulire i piatti, mentre gli altri si
preparavano. Michelangelo aveva già le chiavi del furgone in
mano e
attendeva vicino al laghetto insieme ad una distratta Sam. Isabel era
in cucina che salutava Raphael e sentirono la sua risata riecheggiare
tutto intorno a loro.
“Allora,
com'è la storia di questa Isabel?”
domandò Sam, torturando uno
dei suoi boccoli con un po' troppa foga.
Michelangelo
si voltò a guardarla, ma lei fissava l'acqua immobile del
laghetto.
“In
che senso?”
Se
nel suo tono c'era una lieve sfumatura di cautela, lei non se ne
accorse.
“Come
mai vive con voi? Come l'avete incontrata? Come si è
innamorata di
tuo fratello?”
Mikey
si mosse un po' sul posto, quasi fosse a disagio, e attirò
l'attenzione di Sam su di sé.
“Non
credo che stia a me raccontarti la sua storia, o la loro storia,
è
un po' lunga e complicata. Perché ti interessa,
comunque?”
“Non
è che mi interessi, ma mi incuriosisce. Il modo in cui
è così a
suo agio con voi, e il suo rapporto con tuo fratello e... come sembra
capirmi, anche se mi fa arrabbiare.”
Lo
sguardo di Mikey si addolcì un poco e poi vagò
intorno, come perso
in pensieri o ricordi.
“Se
vuoi sapere devi chiederlo a lei, sono sicuro che te ne
parlerà.
Sono sicuro che vi capirete perfettamente. Anche se il pensiero ti fa
arrabbiare.”
L'arrivo
di Isabel li interruppe e si diressero verso il garage, in silenzio.
Il
viaggio fu abbastanza breve, e per tutto il tempo Michelangelo
cercò
di alleggerire l'aria con chiacchiere vane, come suo solito.
L'appartamento
di Sam era nel Queens, al terzo piano di una vecchia palazzina; lei e
Isabel entrarono nel portone mentre Mikey parcheggiava proprio
davanti.
Il
monolocale era molto piccolo e spartano, ingombro di vestiti
sparsi ovunque e scatole di pizza ammucchiate una sull'altra.
“Sembra
di vedere la camera di Mikey. Uguale. Davvero!”
sbottò incredula
Isabel, facendosi strada tra il disordine.
Le
labbra di Sam si stirarono in un lieve sorriso compiaciuto, ma allo
stesso tempo rollò gli occhi al cielo.
“Dammi
una mano ad inscatolare” chiese con impazienza.
Non
c'era molto da portare via, il mobilio faceva parte dell'appartamento
in affitto e tutto ciò che Sam possedeva erano i suoi
vestiti,
qualche fumetto, una radio e pochi effetti personali.
Una
vita intera in poche scatole.
Che
era comunque più della sola borsa che Isabel aveva con
sé quando si
era trovata nella stessa situazione.
“Come
hai conosciuto Michelangelo e gli altri? Qual è la tua
storia?”
Si
riscosse al sentire la voce di Sam o per quelle domande. A dispetto
dell'aria di indifferenza che sembrava mostrare, sempre, c'era un
tono decisamente curioso.
Isabel
la guardò per un intenso attimo, le sorrise e
continuò poi a
piegare alcune magliette, una sull'altra.
“Quando
ero piccola un uomo uccise i miei genitori, davanti ai miei occhi.
Poi mi diede la caccia in giro per il mondo, come una preda”
raccontò con piccole pause per i respiri.
Sam
la osservò inorridita, soprattutto per tono tranquillo con
cui
l'altra parlava, che la fece inizialmente pensare che la stesse
prendendo in giro. Ma quel luccichio di dolore negli occhi non si
poteva fingere e non si poteva nascondere.
“Scappai
e mi nascosi per otto anni, come meglio potei. Finché un
giorno non
incontrai Raffaello, qui a New York, e da allora è tutto
cambiato.
Lui mi ha aiutato a combattere per me stessa e per quello che amo. Mi
ha insegnato ad amarmi e a permettermi di amare.”
Come
sempre, quando il nome dell'amato era spuntato dalle sue labbra, il
viso di Isabel si era illuminato di gioia, senza esserne conscia.
Sam
rimase colpita dalla forza di quella donna, sembrava averne viste
tante, più di quanto non le stesse dicendo, eppure emanava
così
tanta sicurezza, così tanta serenità. Era quello
forse, a farla
arrabbiare. Sam la invidiava.
“E
l'uomo che ha ucciso i tuoi genitori... che fine ha fatto?”
Lo
sguardo di Isabel si indurì per un attimo, una scintilla di
piacere
lo oscurò velocemente.
“Ha
avuto una fine peggiore della morte” rispose, mandando un
brivido
giù per la schiena di Sam.
Poi
all'accorgersi del suo disagio si rilassò, in colpa. Mise da
parte
le magliette piegate e cercò di attirare la sua attenzione.
“Hersen
la pagherà. Te lo posso giurare. Quando i ragazzi si mettono
in
testa una cosa allora faranno di tutto per portarla a termine. E poi
le cose miglioreranno. Ci vuole tempo e affetto e nuovi propositi, ma
ti posso assicurare che dopo sarà tutto meglio.
Farà sempre male,
ma meno.”
Le
tese una mano, come aveva fatto Michelangelo ore prima, con la stessa
fiducia, con lo stesso calore. Negli occhi lo stesso dolore che lei
sentiva dentro.
Sam
la afferrò con forza e con lo stesso impeto
attirò la donna verso
di sé, stringendola in un abbraccio da spezzare il fiato.
Poi
scoppiò in singhiozzi e urla di dolore, nascondendo il viso
nel
collo di Isabel.
Isabel
la cullò con frasi dolci e carezze sulla testa, stringendola
con la
stessa forza, trasmettendo affetto contro la disperazione di lei, il
trasloco completamente dimenticato.
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Capitolo 40 *** Mikey's little adventure 5. Rollercoaster of emotions ***
La
vita insieme a quella nuova, stramba famiglia era assurda. Sembrava
quasi il nome di una sit-com, quando lo pensava nella sua testa: Sam
tra i mutanti.
O
la mia nuova famiglia di mutanti.
Non
che Sam avesse intenzione di dirlo ad alta voce, ma tutti loro la
facevano sentire come se per davvero avesse una famiglia. La sua
prima famiglia.
C'era
Isabel, tanto per iniziare, che sembrava come una sorella maggiore.
Dopo il momento che avevano condiviso, di confronto e conforto, tra
loro era sorto un buon legame: Isabel era dolce e premurosa, eppure
tosta; la sua presenza era rassicurante, ma non assillante.
Sapeva
quando palesarsi e parlare con lei e quando tenersi alla larga, e in
più sembrava non temerla per niente, anche se Sam ci
provava, di
tanto in tanto.
Donatello
e Leonardo erano molto gentili, emanavano un'aura di pacatezza e
tranquillità che all'inizio l'aveva confusa e irritata: non
era
brava a relazionarsi con persone che la trattavano così, la
facevano
sentire vulnerabile e fragile, come se dovesse rompersi da un momento
all'altro.
E
non sapeva come gestire la cosa. Sapeva confrontarsi con pugni e
sarcasmo, ma non contro genuina, pura gentilezza.
Raphael
le piaceva molto. Non in quel senso, Isabel l'avrebbe uccisa se solo
avesse provato a guardarlo in modo strano e ad essere sincera, erano
troppo simili perché potesse piacerle in quel senso; ma lui
la
capiva.
Sembrava
capire quella rabbia che aveva dentro e come la dominasse, come la
rendesse intrattabile. Come le rendesse tutto insopportabile.
Fin
dal suo primo giorno ufficiale al rifugio, dopo che aveva portato
tutte le sue cose e si era trasferita nella stanza di Isabel, Raphael
le aveva messo a disposizione il suo sacco da boxe, esortandola a
prenderlo a pugni ogni volta volesse sfogarsi.
E
Sam lo ringraziò, segretamente. Amava la sensazione delle
nocche
contro il cuoio consunto, il peso che si spostava sotto i suoi colpi,
la rabbia che si consumava pian piano ad ogni pugno.
Non
curava il suo dolore, ma la faceva sentire un po' meglio.
Splinter
era il più enigmatico, almeno per lei. Era sempre calmo e
silenzioso, attento ad osservare i figli e gli stati d'animo di
tutti, e le poche volte che interveniva nei discorsi era per
dispensare una massima filosofica che sembravano capire tutti tranne
lei.
Aveva
conosciuto gli umani della famiglia: I Jones, Casey e April, lei
dolce e furba tanto da compensare alla schiettezza e ruvidezza di
lui, le erano piaciuti molto, erano una coppia assurda ma
assolutamente perfetta. I piccoli Jones erano abbastanza tranquilli,
Sam non amava particolarmente i bambini, ma erano buoni e curiosi,
non invadenti, perfino spassosi, nel caso di Carl, il maggiore;
August era un fagottino di sei mesi che non faceva che gorgogliare,
non le dava fastidio e in realtà lo trovava perfino carino,
anche se
si rifiutò di prenderlo in braccio. Avrebbe potuto farlo
cadere
troppo facilmente.
Steve
appariva quasi tutte le mattine per la colazione e la sera per le
lezioni nel dojo: era un ragazzino timido e fin troppo educato, ma
con buon potenziale, e si era già accorta che metterlo in
imbarazzo
era uno spasso, perciò si era mentalmente ripromessa di
farlo
spesso.
E
Angel era stata una rivelazione: si era costruita una buona
reputazione per le strade, in passato, -tanto che perfino Sam ne
conosceva il nome,- prima di sparire nel nulla. Si erano salutate con
un pugno chiuso, entrambe colpite dalla tostaggine dell'altra,
spiriti affini.
Tutti
loro avevano conosciuto Melissa, anche se come Mork, e le
raccontavano quello che ricordavano, con affetto e dolore, con
pazienza e nostalgia.
Erano
un gruppo decisamente variegato eppure interessante. E le piacevano
più di quanto non volesse.
E
poi c'era Michelangelo.
Il
sempre presente, sempre entusiasta, sempre chiacchierone
Michelangelo. Che appariva dal nulla ogni volta in cui si sentiva
prendere dallo sconforto, quasi come se lo percepisse, e la
trascinava in mille cose da fare: tornei infiniti di videogiochi,
-che Sam adorava,- lezioni di skateboard, serate a guardare film
trash commentando con la bocca piena di popcorn, sessioni a leggere
fumetti assieme, e ogni volta che lui le spoilerava qualcosa si
beccava un pugno sulla spalla, mentre rideva.
Michelangelo
era chiassoso, invadente, solare, logorroico, allegro, euforico e
casinista. Non accettava un no come risposta, rideva se lei si
arrabbiava con lui e perfino le sue minacce fisiche non sortivano
nessun effetto su di lui.
Michelangelo
era una presenza totale, travolgente, riempiva ogni spazio, riempiva
ogni momento e ogni pensiero, e Sam ne era intimamente grata, a
dispetto della sua aria burbera. Le anestetizzava il dolore, le
rendeva le giornate leggere, le impediva di soffrire troppo.
Solo
la notte, chiusa nelle quattro mura della stanza di Isabel, i
pensieri tornavano a sua sorella e allora si lasciava andare al
pianto, scossa da singhiozzi e gola bruciante, senza nessuno che la
potesse distrarre.
In
quei momenti sentiva la mancanza di Michelangelo, e più di
una volta
si era bloccata un attimo prima di andarlo a chiamare per stare con
lei.
Perché
non era giusto, lo sapeva.
Michelangelo
non era il suo clown, non era il suo pupazzo o svago e non poteva
approfittare della sua gentilezza, anche se era allettante.
Perché
rendeva le cose migliori e disperdeva la sua rabbia. Perché
si
interessava genuinamente a lei.
Ma
Michelangelo non sarebbe stato sempre con lei. Non era per sempre.
Una volta che tutto fosse finito le loro strade si sarebbero divise e
lei sarebbe andata via, senza sapere più nulla di lui e
della sua
stramba eppure perfetta famiglia allargata.
Era
così che funzionava. Lei non serviva a nessuno, non era mai
stata
voluta da nessuno.
Era
passata già una settimana da quando era arrivata, erano
entrati nel
mese di Settembre.
Da
una parte fervevano i preparativi per l'imminente matrimonio, quasi
maniacali, dall'altra quelli per trovare almeno la più
piccola
traccia di Hersen; Sam aiutava per entrambi, non poteva fare
altrimenti dato che era bloccata là sotto, preda di una
lieve
inquietudine che cresceva ogni giorno più forte.
Donatello
aveva saltato parecchi turni di ronda per continuare ad investigare,
e Sam glien'era davvero grata, ma aveva trovato pochissime
informazioni, che già conoscevano: Hersen non aveva
possedimenti,
famigliari o amici, e non c'erano tracce di suoi avvistamenti in giro
per la città.
“Ma,
e se non fosse a New York? Potrebbe essere andato lontano”
disse
Leonardo una sera, in cui erano tutti nel laboratorio di Don per
discutere.
“Potrebbe
essere. Sa che noi siamo qui e che lo fermeremmo se lo
trovassimo.”
“Avete
detto che la seconda mutazione l'ha reso pazzo. Potrebbe essere morto
in un attacco di follia” si intromise Isabel, pensierosa.
“Magari
si è fatto del male da solo. Magari è morto di
fame.”
Michelangelo
emise un mugolio soffocato, attirando la loro attenzione.
“Ne
dubito. Per come parlava, penso invece che intendesse rifare da capo
tutto quanto. Nel senso di rapire altri innocenti e mutarli per
potersi curare.”
“Donnie,
cerca segnalazioni di sparizioni nelle città
confinanti” suggerì
Leo, immediatamente.
Le
dita del genio volarono sulla tastiera del pc, mentre loro
attendevano con apprensione, un innaturale silenzio nella stanza.
“Ci
sono... oh cavolo!” esclamò Don un istante
più tardi,
l'espressione del suo viso grave.
Si
avvicinarono tutti alla scrivania inconsciamente, ma ovviamente non
potevano vedere tutti lo schermo.
“Ci
sono state molte sparizioni negli ultimi sette mesi: donne caucasiche,
bionde, occhi grigi, fisico atletico, intorno ai venti anni di
età.
Le ultime quattro lo scorso mese nel Jersey” lesse per loro,
lasciando che arrivassero alle sue stesse conclusioni.
Si
voltarono tutti in sincrono verso la ragazza che fino a quel momento
era stata fin troppo tranquilla ad ascoltare e il viso di Sam
esprimeva un orrore che non riusciva a celare.
“Sta-
quel pazzo sta rapendo e mutando donne che mi somigliano? Che
somigliano a Melissa?” domandò con un filo di
voce, mentre il suo
sguardo vagava smarrito, fino a trovare quello di Michelangelo.
Lui
annuì piano, con premura.
“Allora
dobbiamo trovarlo! Adesso! Sappiamo dov'è, cos'altro vi
serve?”
saltò su la ragazza, infervorata. Non poteva lasciare che
altre
soffrissero come Melissa, come stava soffrendo lei.
“Piano.
Sappiamo dove è all'incirca. E ti prometto che concentreremo
le
ricerche in quel punto per trovarlo il prima possibile, ma non
possiamo andare alla cieca. Dobbiamo fare un piano, prima. E quel
piano comprende trovare una cura per quel maledetto siero”
sibilò
deciso Leonardo, prendendo in mano la situazione.
Don
si fece pensieroso, perso in ragionamenti.
“Abbiamo
ancora i campioni di Mor- di Melissa. E forse anche il DNA di Sam
può
aiutarci. Ma penso che ci sarà utile chiamare Leatherhead.
Sarebbe
anche il caso che lei lo incontri, in fin dei conti” disse il
genio
con un sorriso triste che Sam proprio non capì.
Michelangelo
aveva lo stesso sorriso sghembo, il fantasma di un ricordo.
“Lo
penso anche io” aggiunse con un sussurro.
Leatherhead
era decisamente una sorpresa. Quando le avevano detto che era il
momento di incontrarlo non si era aspettata di trovarsi davanti un
coccodrillo umanoide di quasi due metri e mezzo col camice da
laboratorio e un sorriso incerto sul muso puntuto.
Sembrava
quasi spaventato da lei.
Rimase
ad osservarla per interminabili minuti, immobile e silenzioso,
mettendo a dura prova i suoi nervi.
“Mi
dispiace” disse infine e la sua voce era molto profonda e
molto
calma. E molto addolorata.
Sam
capì che stava parlando della morte di sua sorella e ne
rimase
colpita, anche se fece un gesto per dissimulare, per fargli capire
che non doveva.
“Non
credo che te lo abbiano detto, ma il DNA che l'ha fatta mutare era il
mio” confessò lui con lo sguardo nel suo e Sam
spalancò gli occhi
di sorpresa.
“Bishop
ha preso campioni del mio sangue e del mio corpo, quando mi ha
catturato e torturato. E so che Hersen lo ha usato per mutare tutte
quelle persone innocenti. Mi dispiace, sono davvero dispiaciuto per
tua sorella. Era speciale.”
Sam
rimase spiazzata dalla rivelazione. E non era un genio come Melissa,
ma capì molte cose. Si avvicinò a piccoli passi
verso l'enorme
mutante, e lo vide indietreggiare inconsciamente, le pupille negli
occhi gialli si strinsero per un secondo a fessura.
Con
la coda dell'occhio vide Michelangelo e gli altri irrigidirsi sul
posto e Isabel alzare le mani verso di loro, pronta a fare non sapeva
cosa.
La
ragazza si fermò ad un passo e sollevò la testa
per poterlo
guardare in viso.
“Le
volevi bene?” chiese con genuino interesse.
Leatherhead
rimase colpito dalla domanda e dal suo tono calmo.
Piegò
la testa piano, con imbarazzo.
“È
difficile da spiegare. Aveva i miei geni, era come se fosse mia
figlia. È qualcosa di atavico, che risuona dentro. Il
desiderio di
proteggere il tuo stesso sangue” cercò di
spiegare, senza suonare
patetico.
Non
aveva conosciuto Melissa per molto tempo, e non con quel nome o con
la forma della ragazza di fronte a lui, ma le loro vite si erano
legate e le aveva voluto bene e aveva pianto la sua morte.
Sam
gli sorrise
“Sì,
lo capisco” rispose, e lo sorprese prendendo una delle sue
manone
tra le sue. “Sono sicura che anche Melissa te ne voleva.
Saresti un
padre molto fico.”
Quel
commento non passò inosservato a nessuno di loro. Melissa
aveva
avuto dei genitori adottivi che le avevano voluto bene, mentre Sam
non ne aveva mai avuto nemmeno uno.
Il
pensiero che perfino Leatherhead fosse stato come un padre per sua
sorella mentre era mutata da una parte le faceva piacere, dall'altra
la faceva sentire ancora più sola.
Lasciò
andare la sua mano e indietreggiò di un passo, rimettendo su
la sua
maschera.
“Ne
saresti stato orgoglioso, sai? Era una scienziata in gamba, un genio.
Ha preso la laurea a soli diciotto anni, era brillante. Sareste
andati d'accordo” gli disse con un sorriso sincero.
“E
tu? Parlami un po' di te” la sorprese lui, dopo qualche
attimo di
silenzio.
Sam
si stupì del genuino interesse nel fondo della domanda e
prese un
brusco respiro che udirono tutti. Poi fece spallucce.
“Io
non sono intelligente” fu la laconica risposta.
Leatherhead
le rivolse un sorriso incoraggiante e un po' triste.
“Cosa
fai nella vita?” incalzò allora, cercando di
vincere la sua
reticenza.
Avrebbe
voluto poter dialogare con Melissa allo stesso modo, in passato, ma
la sua mutazione le aveva impedito di parlare e i suoi geni in lei
rendevano il controllo sulla sua parte animale ancora più
difficile.
Sam
si mosse un po' a disagio, quasi come odiasse essere al centro
dell'attenzione e che le rivolgesse domande così personali.
Quasi
come non si sentisse all'altezza delle loro aspettative.
“Sono
una cameriera” rispose infine con un filo di voce che
riuscirono a
sentire solo perché c'era uno spesso silenzio.
Nel
muso del coccodrillo non c'era pietà o derisione per lei e
invece
che farle piacere la fece sentire più vulnerabile.
“È
un lavoro onesto e onorevole” asserì lui con
convinzione.
“Ma...
in realtà... vorrei fare la poliziotta. Ho mandato la mia
domanda di
iscrizione all'Accademia di polizia, sto aspettando una loro
risposta” confessò Sam, senza sapere nemmeno bene
perché.
Era
un sogno che non aveva mai confessato a nessuno se non a Melissa, ma
in quel momento le era sfuggito dalle labbra, forse nel tentativo
inconscio di colpire positivamente quel mutante, per potergli
mostrare che poteva essere di più.
Ma
che fosse dannata se capiva lei stessa cosa le era preso.
Leatherhead
le sorrise con dolcezza e poterono giurare di aver visto una
scintilla di orgoglio negli occhi gialli, per un istante. Tese
temerariamente una manona verso la ragazza e le diede una pacca
gentile sulla testa.
“Sono
sicuro che sarai accettata. E che sarai una magnifica
poliziotta”
pronunciò deciso, e un po' dello stoicismo di Sam si
sgretolò dalla
sua maschera, per quella genuina premura e fiducia nei suoi
confronti.
Si
schiarì la gola con imbarazzo, rivolgendo un fugace e
impacciato
sorriso al coccodrillo, prima di mettere un po' di distanza tra loro.
“Allora...
ho sentito dire che sei un grande scienziato e che sai come invertire
la mutazione, è vero?” domandò con tono
casuale, arrischiandosi a
guardare finalmente verso gli altri.
Erano
tutti quieti e attenti lì accanto, e il sorriso di
Michelangelo le
fece qualcosa, dentro, che non voleva sapere al momento.
“Non
proprio” disse Leatherhead con modestia. “Ma io e
Donatello ci
lavoreremo e troveremo il modo per riportare quelle giovani donne
alla loro condizione di umane.”
Sam
annuì convinta; c'era qualcosa nella voce profonda e gentile
di
Leatherhead che le trasmetteva tranquillità e le infondeva
uno
strano senso di protezione.
Se
diceva che poteva trovare un modo per invertire la mutazione, allora
sentiva che sarebbe stato così.
Acconsentì
a fornire campioni di sangue, capelli e perfino un frammento di
pelle, con stoicismo, poi rimase lì con loro nel
laboratorio,
cercando di capire cosa stessero facendo: Leatherhead le
spiegò ogni
loro passo e teoria con pazienza e parole che lei poteva capire, e
Sam si dimostrò davvero interessata e sinceramente attenta.
Donnie
sorrideva di tanto in tanto tra sé, colpito dalle loro
interazioni:
sembravano davvero un padre paziente e una curiosa bimba che gli
chiedeva mille cose sul suo lavoro; e se la presenza di Leatherhead
sembrava dare a lei un senso di protezione, quella di Sam sembrava
stimolare in Leatherhead una sorta di serenità inusuale per
il
grosso coccodrillo.
Lei
se ne stette seduta su un mobile per ore, le gambe ciondolanti e gli
occhi attenti ad ogni loro mossa, mentre gli altri erano impegnati in
ricerche e giri di ronda, soprattutto per cercare segno delle ragazze
scomparse.
Michelangelo
era stato il più deciso su quel punto e il più
veloce ad uscire per
cercare degli indizi, quasi fosse la sua missione, salvare tutte.
E
Sam aveva già capito che era la verità. Tutti
loro si facevano in
quattro per gli altri, erano altruisti e generosi e prendevano a
cuore le sorti di chiunque, ma in quel caso per Michelangelo era
praticamente personale.
E
se da una parte le scaldava il cuore che lui avesse voluto
così bene
a Melissa, dall'altra le ricordava che lei non era che una nuova
missione per lui, niente di così speciale.
Andò
a coricarsi a notte inoltrata, ma nessuno era ancora tornato dal giro
di ronda e i due mutanti scienziati non accennavano a voler smettere
coi loro esperimenti; salutò Leatherhead con un sorriso
sincero e
Donnie con un gesto della mano, augurando loro la buona notte.
Nel
percorso verso la stanza, il cervello lavorava ancora febbrilmente,
nonostante il sonno. Si stava abituando in fretta a quella vita
lì
sotto con loro e le sensazioni che provava via via la confondevano e
la disorientavano.
Sicurezza,
tranquillità, serenità, gioia, a dispetto del
dolore nel quale era
ammantata. Si sentiva in colpa per provare quei sentimenti e se
possibile quello la faceva arrabbiare ancora di più, con
sé stessa.
Non
sapeva nemmeno come dovesse sentirsi e quello la rendeva solo
più
confusa.
La
stanza la accolse coi suoi colori tenui e rilassanti. Le piaceva,
anche se non era arredata nel suo stile e più di una volta
si era
bloccata nel bel mezzo di una fantasia mentale in cui aggiungeva
questo o quello per renderla più sua, ricordando che sarebbe
stato
inutile.
Quella
non era la sua stanza, e anche se Isabel sarebbe andata via dopo il
matrimonio, non voleva dire che potesse diventarlo.
Andò
a letto ancora vestita, un'abitudine che faticava a togliersi, e
rimase a fissare il soffitto come in trance, sperando che il sonno
arrivasse prima del dolore.
Quello
era il momento della giornata che più odiava, quello che
più
temeva. Quello in cui il ricordo di Melissa si faceva prepotente:
ogni secondo passato assieme, il legame quasi co-dipendente che
avevano avuto da piccole, quando la loro madre non si occupava di
loro e dovevano essere l'una il sostegno dell'altra, l'abbraccio in
cui si erano avvolte quando si erano ritrovate dopo anni di
lontananza, la sua presenza così maturata che cercava di
guidarla
attraverso la difficile vita che viveva.
Sentì
le lacrime scendere giù fino al cuscino e la vista
annebbiarsi di
altre che ancora premevano per uscire. Morse le labbra per non
urlare.
Perché
non era toccato a lei? Melissa era speciale, era migliore, la
metà
perfetta della loro simbiosi. Lei meritava di vivere, avrebbe avuto
un futuro splendido e avrebbe aiutato molte persone, migliorato il
mondo. Aveva così tante persone che le volevano bene,
così tanto da
dare.
Perché
era morta Melissa e non lei? Lei, Sam, non sarebbe mancata a nessuno.
Un
lieve tocco alla porta la sorprese e le strappò un singulto,
e si
mise a sedere di scatto.
Si
passò in fretta le mani sulla faccia e sentì di
nuovo bussare,
appena più deciso.
Era
molto tardi, chi poteva mai essere a quell'ora? Sentì di
sapere già
la risposta.
“Michelangelo,
vai a dormire” sbuffò con il tono più
seccato che le riuscì di
fare.
L'uscio
si aprì e la faccia del mutante apparve nello spiraglio, con
un
mezzo sorriso.
“Ho
detto vai a dormire, non 'entra pure', idiota” lo
investì con
ostilità, ma non sortì l'effetto sperato.
Invece
che andarsene, lui entrò nella stanza e si chiuse la porta
dietro.
Si
beccò un cuscino dritto in faccia e la sua risata si
sentì attutita
da dietro.
“Tranquilla,
rimango solo un attimo. E non faccio nulla di strano,
promesso”
assicurò in tono gioviale, mostrandole le mani in segno di
resa. Il
cuscino cadde a terra senza un rumore.
Sam
rollò gli occhi al cielo e sbuffò di derisione.
Lui lo prese come
un segno positivo, evidentemente, perché si
avvicinò a passetti
corti e rimase per un secondo vicino al letto, prima di sedercisi di
peso.
“Volevo
solo parlare un po'” disse quasi in impaccio, così
inusuale per
lui.
“Di
cosa?” rispose lei, che proprio non voleva saperne di
rendergli le
cose semplici.
Michelangelo
fece spallucce e continuò a guardare di fronte a
sé.
“É
già passata una settimana da quando sei qui, volevo sapere
come ti
trovi, come stai, se c'è qualche cosa che ti serve o di cui
ti vuoi
lamentare.”
“In
effetti, c'è qualcuno che entra in camera mia senza essere
stato
invitato, vorrei che ne teneste conto, non mi piace”
soffiò
sarcastica lei, strappandogli una risata.
Sam
la ascoltò gioendone segretamente, rilassandosi un poco.
“Va
tutto bene, davvero” disse dopo qualche attimo, portandosi le
gambe
al petto e circondandole con le braccia.
Si
era allontanata un po' da lui, in quel modo, ma era meglio
così.
“Sto
bene qua sotto, anche troppo, forse” confessò con
un filo di
voce. E Michelangelo capì parte delle paure che lei
nascondeva in
quelle parole.
“Sono
tutti magnifici, vero? Sono casinisti, e troppi, ma sono
fantastici”
le confessò con un gran sorriso. “Amo davvero
questa famiglia. E
Leatherhead è davvero forte.”
Sam
non disse nulla, affondò un po' la testa nel riparo delle
braccia.
Non le piaceva il modo in cui lui la leggeva così facilmente.
“Sono
contenta che Melissa abbia avuto voi, prima di...”
Lasciò
la frase a metà e Mikey non la finì per lei,
rimase ad osservarla
per qualche istante, assorto e afflitto.
“Tu
hai conosciuto i genitori adottivi di Melissa?” le
domandò con
tatto, infine.
Sam
non si mosse dalla sua posizione, forse si era già aspettata
che
prima o poi qualcuno le facesse quella domanda.
“I
Williams? Certo, sono a posto. Quando io e Melissa ci siamo
ritrovate, i Williams hanno giurato e spergiurato che non sapevano
che fossimo due gemelle, che non glielo avevano detto, altrimenti
avrebbero adottato anche me. Si sono detti molto dispiaciuti”
iniziò a raccontargli con tono neutro, quasi indifferente, e
fu
quella arrendevolezza che fece più male a Michelangelo.
“Ma
non lo so... non credo che mi avrebbero voluta. Sono troppo difficile
da gestire. Melissa era più calma e ubbidiente, dava
soddisfazioni
ed era una studiosa, una vera secchiona.”
“Secondo
me tu sei intelligente. Sei furba, a dire il vero. E a volte essere
furbi è meglio che essere intelligenti”
Sam
sentì un gran calore dentro a quelle parole dette con
sincerità, ma
esteriormente non diede alcun cenno del tumulto interiore, nascosta
dal riparo delle braccia e dai capelli biondi.
Anzi,
dopo un attimo di imbarazzo gli allungò un pugno leggero
contro
l'avambraccio, che lui accolse con una risatina.
“Non
so cosa dirgli” sussurrò lei titubante, quando gli
ultimi
strascichi di risa di lui si erano spenti e il silenzio si era fatto
troppo pesante.
“Adesso
so, ma non posso dirglielo. Di Melissa e … Non ho prove ed
è tutto
così assurdo. Mi prenderebbero per pazza e mi farebbero
internare.
Non so cosa potrei dirgli... eppure il pensiero di sapere la
verità
e di non potergliela dire mi fa arrabbiare. Volevano bene a Melissa e
io non posso dirgli che fine ha fatto, che non la rivedranno mai
più.”
Michelangelo
sentì il rumore delle lacrime trattenute nel suo tono e
trattenne il
fiato, indeciso se buttare al vento la prudenza e abbracciarla, in
barba a qualsiasi pugno lei gli avrebbe rifilato.
Ma
forse era solo un desiderio egoistico il suo, il volerla stringere a
sé, e non un gesto di conforto. Allungò una mano
e dopo aver
lasciato andare il respiro trattenuto fino a quel momento, la
poggiò
dolcemente sulla testa di Sam.
Rigida
all'inizio, in attesa di una sua reazione negativa, ma poi, quando
lei non si mosse, il tocco divenne dolce e gentile; le dita scesero
tra la cascata di capelli biondi, lentamente, ed entrambi ne
beneficiavano, quietamente.
“Io
non so che farei, se fossi in te. In effetti, dal punto di vista di
un umano, è tutto assurdo. Sicuramente. Ma forse puoi
chiamarli
comunque, sentire come stanno. Perfino passare del tempo con loro, se
può servirgli ad andare avanti. E se può servire
a te.”
A
volte Michelangelo sapeva essere così maturo e anche quello
la
faceva arrabbiare.
“Loro
non sono la mia famiglia” gli ricordò, con un
lieve sottotono di
amarezza.
“Ma
erano la famiglia di Melissa. Non potrai dire loro la
verità, ma
questo forse glielo devi. Almeno per lei.”
Sam
tirò su con il naso, impercettibilmente, e cercò
di coprirlo con un
colpo di tosse che risultò come un gracidio. Si
arrabbiò con sé
stessa per l'imbarazzo e tirò su le spalle con stizza,
schiaffeggiando via la mano di Michelangelo dalla sua testa.
Lui
ridacchiò, leggermente.
“Ora
di andare via o chiamerò Splinter e lo avviserò
che sei entrato qui
con intenzioni poco pulite” minacciò con tono
irato eppure
stranamente leggero.
Michelangelo
le mandò un'occhiata dubbiosa, poi si alzò con
lentezza e con gesti
altrettanto calmi e calcolati si sporse verso di lei, torreggiando
con tutta la sua altezza.
Sarebbe
potuto sembrare minaccioso, invece era stranamente protettivo.
“Di'
la verità, hai sperato che avessi intenzioni poco
pulite” soffiò
allusivo, ad un passo dal suo viso. Lei divenne rossa, così
rossa
che un po' gli venne da ridere, mentre una parte di lui si sentiva
quasi in colpa per averla messa così in imbarazzo.
Sam
comunque aveva già agito, preda del nervosismo e del rossore
che
rendeva la sua pelle incandescente, e gli rifilò un pugno
deciso
contro la spalla, più forte che poté.
Mikey
indietreggiò di un passo, con le mani in alto e un sorriso
colpevole.
“Scusa,
scusami!”
Eppure
quello scintillio nello sguardo, malizioso, non gli dava un'aria
così
contrita.
Si
diresse verso la porta prima che lei potesse mollargli qualche altro
pugno e si fermò solo per un attimo prima di uscire.
“Buona
notte, Samantha! Sognami!” esclamò mandandole un
bacio,
chiudendosi poi subito la porta dietro, lasciandola lì a
fissarla
con sgomento.
Sam
rimase ad osservare l'uscio, così sconvolta dall'uragano che
era
Michelangelo che non aveva avuto nemmeno la prontezza di lanciargli
qualcosa addosso.
Da
una parte si sentiva arrabbiata, anche se non sapeva se con lui o con
sé stessa, dall'altra aveva l'assurdo impulso di ridere.
Si
lasciò cadere sul letto di schiena e rimase a fissare il
soffitto,
confusa; la tristezza era ancora lì, nelle macchie di
lacrime
lasciate sul cuscino, eppure quella notte cadde nel sonno pensando ad
un irriverente e malizioso mutante verde chiaro.
Nei
giorni seguenti la routine non cambiò di molto, a parte la
presenza
di Leatherhead nel rifugio, che con Donatello lavorava
incessantemente ad una cura per le umane mutate: si prendevano poche
pause per mangiare e qualche ora per dormire.
Sam
andava a trovarli spesso e rimaneva lì con loro per
chiacchierare
con il coccodrillo mutante, e a parte con Michelangelo, quelle erano
le conversazioni più lunghe che la ragazza intraprendeva.
Ascoltava
ogni parola che Leatherhead diceva con interesse e gli faceva anche
molte domande, mostrandogli non solo che lo seguiva, ma che capiva
quello che le spiegava. A dispetto della sua sfiducia, Samantha non
era affatto stupida come diceva di essere. Tutt'altro.
I
due facevano così tenerezza nelle loro interazioni che ogni
tanto la
testa di qualcuno spuntava dalla porta del laboratorio per
osservarli, incrociando lo sguardo di Don, che se lo aspettava. Tra
di loro, di nascosto, avevano iniziato a chiamarlo affettuosamente
papà Leatherhed e si chiedevano quando il mutante avrebbe
semplicemente adottato Sam.
Lei
ne sarebbe stata felice.
Per
un po' di giorni Sam tenne Michelangelo sulle spine, gli dava poca
corda, non rispondeva alle sue provocazioni né reagiva ai
suoi
approcci: doveva pagare per averla messa in imbarazzo. In
più, si
divertiva a vederlo trotterellare dietro di lei come un'anima in
pena.
Comunque,
non durò molto, la solita esuberanza di Mikey la vinse
infine e
smise di tenergli il muso e ritornò a colpirlo quando la
faceva
arrabbiare, ritornò a giocare con lui ai videogiochi,
ritornò a
godere della sua compagnia.
E
le sue parole di quella notte continuavano a ronzarle nella mente,
perché Michelangelo aveva ragione.
Forse
i Williams non erano la sua famiglia, ma li avrebbe aiutati al posto
di Melissa.
Infine
prese una decisione e il coraggio. Avrebbe chiamato i Williams e li
avrebbe incontrati. Se loro avessero voluto, ovviamente. Pregava solo
di riuscire a non crollare con loro, a non scoppiare a piangere
davanti alle loro facce ignare di ciò che ne era stato della
loro
figlia adottiva.
Sarebbe
stato meglio se fosse morta lei e non Melissa,ne era sempre
più
convinta.
Prese
un paio di respiri profondi per calmarsi e un altro paio ancora di
sicurezza, poi premette il pulsante di chiamata e attese col magone
che rispondessero, ascoltando i trilli del telefono.
Sentiva
il battito del cuore che le rimbombava nella gola.
Il
lieve click della chiamata connessa la congelò sul posto e
in fretta
pronunciò un “pronto”, un po' troppo
acuto.
La
voce maschile rispose con cortesia, e forse era la ricezione
lì
sotto, ma non le sembrava quella del padre adottivo di Melissa.
“Pronto,
signor Williams? Sono Samantha Parker, volevo-”
La
voce dall'altra parte la interruppe, con tono fermo ma gentile e Sam
spalancò gli occhi via via che ascoltava quello che le
veniva detto,
con orrore misto a stupore.
Isabel e Mikey si
accorsero che lei
era impallidita e si affrettarono a correrle incontro, ma il suo
sguardo vitreo non registrò la loro presenza.
Annuì
come un'automa, poi forse dall'altra parte chiesero una conferma e si
affrettò a rispondere a voce, ma suonava artificiosa e
stridula.
La
sentirono dare risposte automatiche, come per riempire un casellario
di informazioni personali e Isabel e Mikey si scambiarono un'occhiata
preoccupata, cercando di capire, attirando anche l'attenzione degli
altri.
Infine,
Sam mise giù il telefono e rimase ad osservare il vuoto.
Michelangelo
allungò una mano e la poggiò titubante sulla sua
spalla,
scuotendola piano. Lei sembrò accorgersi del calore del
tocco e alzò
il viso verso di lui.
“I
Williams sono morti il mese scorso in un incidente stradale e mi
hanno lasciato tutto in eredità”
annunciò con un filo di voce.
E
nessuno lo disse, ma sentirono tutti il sentore di qualcosa di sbagliato.
Note:
Adoro
il pensiero di Leatherhead come padre adottivo di Sam, sarebbe
dolcissimo.
Sono
tornata dopo tantissimo tempo, eppure ho trovato un caloroso
benvenuto e la dolcezza di allora. Grazie di cuore!
|
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Capitolo 41 *** Mikey's little adventure 6. Everything that could go wrong ***
Il
caldo, nelle notti di quel Settembre, allentava un po' la morsa.
Quel
tanto perché i giri di ronda non diventassero passeggiate
infernali
con la tuta che si appiccicava alla pelle sudata. Ma comunque non
abbastanza per renderle piacevoli.
Per
lo meno nel rifugio c'era una sorta di fresco che non sapevano se
fosse o no magico, mentre lì fuori, sul tetto di un palazzo
a
guardare le luci artificiali della città pulsare, un rivolo
di
sudore imperlava la fronte di Isabel, sotto il ciuffo castano.
Lei
lo deterse con il dorso della mano, prima di sbuffare via infastidita
i capelli dalla faccia. Raphael scostò la ciocca con un
tocco
gentile, portandola dietro il suo orecchio.
Si
beccò un sorriso grato e amorevole come ricompensa.
Mikey
li osservò e scosse la testa, con un sorrisino.
Poté
quasi sentire Steve al suo fianco rollare gli occhi al cielo. Angel
occhieggiava la coppia, a metà tra il commosso e il dubbioso
e Mikey
si chiese a cosa stesse pensando.
E
Leo dava loro le spalle, intento a fissare nel cielo nero e scuro
sopra di loro.
Erano
tutti lì, riuniti.
Non
potevano davvero discutere al rifugio, -o meglio ovvio che potessero,
non c'erano segreti,- ma volevano togliere fuori e discutere teorie e
pensieri senza fraintendimenti o col rischio di allarmare
prematuramente Samantha.
Avevano
pensato tutti la stessa identica cosa.
“È
sicuramente una trappola” esclamò Leonardo,
voltandosi verso di
loro e dando finalmente voce a quel dubbio che li divorava tutti.
Donatello
era rimasto al rifugio con Leatherhead per continuare gli esperimenti
per il contro-siero, ma anche lui era ovviamente d'accordo con la
loro teoria.
L'unica
ignara era forse Samantha, troppo sconvolta dalla notizia della morte
dei Williams per pensare a qualcosa di strano: era stata la botta
finale.
Era
rimasta catatonica, a fissare il vuoto, poi si era andata a chiudere
in camera di Isabel, per pensare. Non voleva l'eredità,
aveva detto.
Non le importava niente.
Michelangelo
aveva rispettato il suo desiderio di stare da sola, per quanto gli
facesse male vederla così.
“Donnie
ha provato a controllare i file della polizia, i Williams erano
benestanti e ben conosciuti nella comunità,
perciò hanno fatto le
cose per bene nelle indagini della morte: tuttavia, i corpi si sono
potuti riconoscere solo grazie alle impronte dentali, per colpa
dell'incendio che ha distrutto ogni traccia. Tracce di percosse o di
prigionia, ad esempio” raccontò il leader con tono
secco.
“Hersen
potrebbe aver rapito i Williams. E dopo aver capito che non erano
biologicamente imparentati con Melissa, potrebbe averli torturati per
farsi dire quello che sapevano sulla figlia adottiva”
continuò
Raphael, indovinando i suoi pensieri.
“Allora
saprebbe che Melissa ha una sorella gemella. Magari l'ha cercata fino
ad ora ed è solo grazie al fatto che Sam era vestita da
ragazzo che
non è stata presa... se non l'avesse trovata
Mikey...” disse
Isabel con voce grave, guardando verso il mutante dalla benda
arancio, con apprensione.
Lui
si sentiva ribollire di rabbia e disgusto e sapeva che il suo volto
esprimeva il suo tumulto interiore.
Se
non avesse incontrato Samantha quella notte... che cosa avrebbe
potuto succederle? Se Hersen l'avesse presa, prima che lui la
incontrasse, il suo destino sarebbe stato segnato come quello della
sorella.
Melissa
era morta per colpa sua, era un rimorso che non avrebbe mai trovato
pace, ma si sarebbe dannato l'anima per proteggere Sam. Ora che era
con lui, non avrebbe permesso che le accadesse nulla.
E
al sicuro nel rifugio magico, se anche Hersen avesse saputo dove
fosse prima, era irrintracciabile.
“Aspetterà
che si presenti per ritirare l'eredità per
rapirla” sputò fuori
con furore.
“Ma
Sam non vuole l'eredità. Anche se fosse una trappola, non
funzionerebbe. Evidentemente Hersen non sa nulla su Samantha”
intervenne Raphael, con un ghigno compiaciuto.
Gli
piaceva quella ragazza, era tosta e aggressiva, e in più
sembrava
riuscire a tenere testa a Michelangelo, il che era decisamente una
cosa buona.
“Quindi
qualsiasi piano Hersen potrebbe avere per prendere Sam non
funzionerebbe. Ma poi? Continuerebbe a cercarla comunque. E noi non
possiamo tenerla nascosta sotto terra per sempre”
esclamò irata
Isabel; non con loro, ma irata. “Io so cosa si prova a
nascondersi
per così tanto tempo da non sapere più cosa sia
la normalità, e
non voglio che anche Sam lo provi.”
Raphael
la afferrò e la strinse a sé e lei gli rivolse un
sorriso
innamorato, prima di rivolgersi nuovamente a loro.
“Dobbiamo
trovare il modo di eliminare la minaccia di questo Hersen una volta
per tutte. Quindi, ho un'idea. Può sembrare stupida, ma
è l'unica
che mi venga in mente per ora.”
Rimasero
tutti ad ascoltarla mentre lei spiegava gesticolando animatamente il
suo piano, dettagliatamente, i pro e i contro. Sembravano tutti
dubbiosi, eppure in qualche modo incuriositi.
Quando
lei finì rimasero in silenzio a pensare, a valutare.
“Non
so se funzionerebbe. Non assomigli a Sam. Ma non c'è nulla
di male a
provare, nel peggiore dei casi sappiamo che sei in grado di
difenderti egregiamente” disse infine Leonardo, con un
sorriso
mite.
A
quelle parole Raph la strinse un po' più forte, il fantasma
della
sua sparizione ancora vivo in lui, gli incubi sulla sua presunta
morte sempre presenti.
Isabel
si accoccolò contro di lui, un sorriso triste sul suo volto.
“Andrà
tutto bene” lo rassicurò, convinta.
“Dobbiamo proteggere Sam”
aggiunse decisa.
Pianificarono
come muoversi da quel momento in avanti e chi avrebbe avvisato
Donatello e Leatherhead della cosa, ovviamente senza fare sapere
nulla a Sam.
Non
che volessero tenerla all'oscuro, ma Sam era decisamente un tipo
impulsivo e irrazionale, come Raphael, e se avesse saputo della
trappola era molto probabile che ci si sarebbe buttata dentro con
tutte le scarpe nel desiderio di vendetta.
Si
separarono e iniziarono la ronda, divisi in tre squadre. Leo e Steve
sparirono in una direzione, mentre Isabel, in ronda con Raphael,
decise di prendere la stessa strada di Michelangelo e Angel.
“Come
va?” chiese distrattamente, avvicinandosi al suo
auto-proclamato
fratello maggiore.
Michelangelo
le rispose con un sorriso che non trasmetteva appieno la sua solita
allegria. I suoi pensieri si intuivano facilmente, così come
tutta
la stanchezza e il nervosismo che provava da ormai quasi due
settimane.
“Tutto
ok. Non vedo l'ora di tornare al rifugio, voglio vedere come sta
Sam.”
Un
ghigno stirò le labbra di Isabel per un istante.
“Lei
ti piace” disse, come un dato di fatto.
E
Michelangelo non ci provò nemmeno a negarlo
perché era palese e lui
non era il tipo che nascondeva i suoi sentimenti.
“La
adoro. Sto diventando pazzo per lei. È forte, tosta, furba,
divertente e bellissima. Darei un braccio per poterla... aah, ma cosa
sto dicendo? Sua sorella è morta per causa mia! Non credo
che-”
Isabel
fermò la sua corsa sui tetti, prendendolo per una spalla e
inchiodandolo lì dove si trovavano. Non aveva ancora la
maschera sul
viso e i suoi occhi scuri fiammeggiavano.
“Tu
hai cercato di salvare Melissa. Le hai dato affetto e calore quando
era diventata un mostro che nessuno avrebbe aiutato, le hai dato
così
tanto che sei diventato la sua persona speciale, così tanto
che ti
ha donato il suo tesoro più prezioso, il suo bracciale,
metà
perfetta di quello di Sam. Tu hai salvato Melissa. L'hai fatta
sentire umana almeno una volta ancora prima che morisse. Sono sicura
che anche Sam lo pensa.”
Michelangelo
sorrise tristemente, prima di abbracciarla forte. Rovinò
l'intenso
momento due secondi dopo, stampandole una pernacchia sulla guancia e
facendola ridere.
Isabel
si staccò con un risolino e si pulì la guancia
con la manica della
tuta, dandogli una pacca disapprovevole sul braccio.
Michelangelo
rise con lei, più leggero, prima di chiedere:
“Allora,
pensi che avrei una chance?”
E
Isabel smise di ridere, commossa dalla sua fiducia nell'aprirle il
suo cuore in quel modo.
“Sì,
ne sono sicura. Ma solo se giochi bene le tue carte”
annuì
convinta.
“Per
esempio potresti essere meno fastidioso” si intromise la voce
di
Raphael, ricordandogli che era lì con loro insieme a
Angel.
Isabel
diede un pizzico irato al suo fidanzato per punirlo della sua
boccaccia, mentre Angel sembrava imbarazzata e conflitta, stranamente
silenziosa.
“Ok!
Allora prima la salviamo da Hersen e dopo la sedurrò col mio
fascino” esclamò deciso e autenticamente
Michelangelo, di nuovo sé
stesso.
Raphael
rise derisorio, beccandosi un altro pizzico da Isabel, mentre lei gli
sorrideva convinta.
“Non
sottovalutarmi, fratello. Se tu sei riuscito ad acchiappare uno
splendore come Isabel, io posso avere la ragazza più tosta
del
mondo!” annunciò con un ghigno e uno scintillio
negli occhi.
“Ehi,
sarei io la più tosta del mondo!”
soffiò offesa Angel, che
sembrava essersi ripresa da suoi pensieri.
“Va
bene, la bionda più tosta del mondo, allora.
Contenta?” si difese
Michelangelo, mentre lei gli faceva una linguaccia. “E poi,
mia
tosta Angel, sei la mia sorellina. E se non lo fossi, che ne
è di
Kevin, il tizio con cui uscivi? O era Kermit?”
Lei
rollò gli occhi al cielo per la sua palese presa in giro.
Poi la
bocca si piegò in una smorfia amara, come se avesse leccato
un
limone.
“L'ho
lasciato, mesi fa. È un idiota e io non voglio
più avere nulla a
che fare con lui” esclamò stizzosa la ragazza.
Poi, vedendo le
loro espressioni, un misto tra curiosità e compassione,
aggiunse:
“Era
uno schifoso omofobo, ci credereste? Ha detto cose orribili su una
coppia di amici ad una festa e io l'ho preso a schiaffi e poi l'ho
lasciato lì.”
Le
sue sopracciglia erano così aggrottate da essere una unica
linea di
furia.
Mikey
le applaudì con un ghigno colpito e Raphael le
mandò un pollice in
su, soddisfatto.
“Hai
una calamita per gli idioti, Ange, mi spiace. Il prossimo ragazzo
dovrà avere la mia approvazione, prima!” disse
Michelangelo
stringendola sinceramente e lei lasciò andare via un po'
dell'arrabbiatura nell'abbraccio
“No,
per un po' voglio stare da sola. Pensare un po', riflettere”
mugugnò pensierosa.
“Ok,
ma devi fare il tifo per me e Sam! Non che abbia bisogno di aiuto, ma
il sostegno non mi dispiacerebbe!”
“Ah,
auguri! Sam è una davvero in gamba, dovrai sudare per
conquistare una come
lei!” esclamò Angel con una risatina e una
scrollata di testa.
Negli
occhi di Mikey passò un lampo di sfida e tirò su
il mento.
“Vedrai!
Prima la salvo e poi la conquisto!E il prossimo matrimonio
sarà il
nostro.”
Nella
notte risuonò la risata sarcastica di Raphael, lo
scappellotto che
Isabel gli rifilò, e un “ehy” indignato
di Michelangelo.
Angel
li guardava e scuoteva la testa, prima di riportare gli occhi al
cielo.
Sam
era rimasta nella sua camera per ore, prima a fissare il soffitto con
dolore e frustrazione poi, preda della noia quanto dello sconforto,
aveva iniziato a far rimbalzare una palla contro il muro, mentre la
testa vagava.
Tutto
il suo mondo era in continua mutazione, si ribaltava e ribaltava
ancora, e niente aveva più senso, neppure quello che provava.
Si
chiese se fosse almeno lontanamente paragonabile a quello che aveva
provato Melissa quando era stata mutata, quando era capitata
lì
sotto anche lei, quando tutta la sua vita era stata capovolta da un
misero errore, una fatalità così stupida.
Si
disse che qualunque dolore o confusione stesse provando non era nulla
in confronto a ciò che aveva dovuto passare sua sorella.
E
si sentì egoista e meschina per lasciarsi andare
così.
Si
alzò con un gesto secco e un grido rauco, scagliando la
palla con
forza di fronte a sé: rimbalzò a
velocità impressionante, tra mura
e soffitto, rompendo un paio di ninnoli di Isabel nella sua
traiettoria.
Sam
si sentì in colpa anche per quello e la sua rabbia
aumentò.
Spaccare
le cose di Isabel non era il modo migliore per sfogare la sua ira
crescente, perciò decise di allenarsi un po' al sacco da
boxe di
Raphael, almeno finché le nocche non avessero iniziato a
sanguinare.
Al
piano di sotto non c'era nessuno, come al solito. Donatello e
Leatherhead lavoravano ancora al contro-siero, mentre Splinter amava
passare le serate nel dojo a meditare.
Sam
voleva imparare a combattere come loro, -aveva visto Isabel
combattere contro Leonardo ed era stato magnifico; anche Steve era
davvero in gamba,- ma lo strano ratto non aveva voluto insegnarle.
Non
ancora, le aveva detto. Non era ancora il momento.
E
Samantha si era segretamente arrabbiata e c'era rimasta male, come se
fosse in difetto, come se lei non fosse degna di un onore
così
grande, e neppure le parole successive del maestro, che le avevano
assicurato che un giorno le avrebbe insegnato, avevano cancellato
quel senso di vergogna e rifiuto dal suo cuore.
Iniziò
a colpire il sacco con colpi secchi, senza guanti né
protezione, uno
dopo l'altro senza quasi prendere fiato, solo il duro schiocco della
carne contro la pelle consunta e il tintinnio della catena nel
silenzio colmo di respiri affannati.
Ogni
colpo corrodeva appena la superficie del suo dolore, staccava appena
la patina di rabbia che la colmava.
Era
una gara tra la resistenza del sacco e quella delle sue mani.
“Non
dovresti farti del male così” disse una profonda
voce,
allarmandola.
Era
colma di gentilezza, forse fu quello a bloccare la sua furia e a
costringerla a voltarsi, mentre il sacco ancora dondolava per il
colpo subito.
Leatherhead
la osservava con curiosità e comprensione, nel suo camice da
laboratorio.
Forse
aveva finito per la giornata e stava tornando a casa sua, ovunque
fosse casa sua. Sam non lo sapeva, non c'era mai stata.
“Stavo
per prendere una tazza di thé. Vuoi unirti a me? “
le chiese un
po' titubante, giocherellando con le dita di una mano per il
nervosismo.
Sam
trovava il contrasto tra la sua stazza enorme e la sua gentilezza
molto dolce, c'era qualcosa in Leatherhead che le impediva di
arrabbiarsi, che le scioglieva il cuore, come solo Melissa prima di
allora era riuscita a fare.
Acconsentì
con un cenno del capo e lo seguì nella cucina, in cui
l'enorme
mutante si mosse con gesti sicuri, mettendo un bollitore sul fuoco,
prima di voltarsi verso lei.
“Gradisci
anche un paio di biscotti?”
Sam
gli sorrise furba, prima di accettare con slancio.
“Come
mai tu non vivi qui con loro?” gli chiese d'un tratto, mentre
Leatherhead sistemava un paio di biscotti al miele sul un piattino.
“Io...
non sono come loro” rispose dopo qualche attimo di silenzio,
con un
tono più cupo del solito.
I
suoi occhi divennero a fessura per un secondo, dandogli un aspetto
ferale, ma passò in fretta come era apparso e Sam avrebbe
pensato di
esserselo immaginata, se non lo avesse già visto accadere la
prima
volta in cui si erano incontrati.
“Io
sono più instabile di Michelangelo e degli altri. Perdo il
controllo
facilmente e non riesco a controllare la mia parte animale. Divento
aggressivo e non distinguo tra alleati o nemici. Sono pericoloso per
i miei stessi amici” spiegò lui, tristemente.
Samantha
percepì il suo dolore e si ricordò di qualcosa
che lui le aveva
detto quando si erano incontrati, qualcosa sul suo passato, su un
rapimento e torture che qualcuno gli aveva fatto.
“Parlami
di te. Dall'inizio, dal momento in cui sei mutato.”
Non
c'era stato un 'per favore' o un 'potresti' nella richiesta di Sam,
che la distinguesse da un ordine, ma Leatherhead sentì la
cortesia
nel tono gentile che la ragazza aveva usato, che mostrava che ci
teneva.
Così,
davanti ad una tazza di thé caldo e biscotti, il coccodrillo
mutante
raccontò con pazienza la sua storia, prendendo una pausa
ogni tanto
in un ricordo particolarmente difficile, senza tuttavia mai perdere
la calma.
E
Sam ascoltò ogni parola, e offrì il suo sostegno
e la sua
indignazione condita con furia, che strappò perfino una
risata
lusingata in Leatherhead che rischiò di mandargli di
traverso il
thé.
Si
confrontarono, chiacchierarono, si consolarono a vicenda, e quando
Donatello uscì un'ora dopo per cercare Leatherhead, li
trovò così
immersi nel loro mondo da non osare disturbarli, ritornando al
laboratorio in silenzio, con un tenue sorriso in volto.
Il
piano era estremamente semplice.
Eppure
proprio per quello non erano certi che sarebbe riuscito.
Isabel
avrebbe contattato l'avvocato degli Williams e si sarebbe fatta
passare per Samantha, con parrucca e lenti colorate, per poter
controllare se il testamento fosse o meno una trappola: se lo fosse
stato, sarebbe intervenuta immediatamente e avrebbe neutralizzato
Hersen e qualunque scagnozzo potesse avere; se tutto quello non era
una trappola, ma un vero lascito a favore di Sam, avrebbe fatto in
modo che la ragazza potesse avere ciò che le spettava.
Se
l'avessero scoperta, cosa molto probabile, avrebbe usato un po' di
magia per confondere i suoi interlocutori perché la
credessero
davvero Sam.
C'erano molte cose che potevano andare male, ma le avevano vagliate
tutte e per tutte avevano pensato ad una contromisura immediata.
Si
sentivano perciò pronti.
Uscirono
un pomeriggio diretti allo studio notarile, cercando di non dare
nell'occhio; e risultava un po' complicato, con Isabel conciata con
una voluminosa parrucca bionda a boccoli e finti occhi grigi.
“Mi
sento ridicola” sussurrò a nessuno in particolare,
mentre si
avvicinava allo spesso portone in legno massello dell'elegante
palazzina in mattoni rossi.
Sentì
Mikey e Raphael ridere nell'auricolare, di gusto.
“Il
biondo non è certamente il tuo colore”
esclamò l'ultimo con uno
sbuffo divertito.
“Sì,
non ho intenzione di cambiare, tranquillo. Sam rimarrà
l'unica
bionda in famiglia.”
Mikey
pigolò emozionato per la sua uscita, ma Isabel non
riuscì a seguire
i seguenti scambi di battute, perché il portone si
aprì e un
distinto maggiordomo la invitò ad entrare.
Lo
studio era compreso nella casa del notaio della famiglia Williams e
tutto trasudava eleganza e benessere, di certo non ispirava l'idea di
una trappola architettata da Hersen o chicchessia, era tutto troppo
artefatto perché potesse esserlo.
Tuttavia,
rimase sul chi vive, mentre attendeva nello studio abbellito di
dipinti in stile barocco, invidiando gli altri che attendevano di
fuori.
Mikey
era parcheggiato nel furgone in un viottolo lì vicino, da
cui poteva
avere la visuale sulla via senza però essere in bella vista;
aveva
accompagnato Isabel e doveva rimanere di guardia su movimenti
sospetti nella zona.
Leo
e Raph pattugliavano i cieli, sulla palazzina dall'altro lato della
strada, da cui potevano osservare ogni punto cieco, attenti ad ogni
cosa inusuale.
Donnie
era rimasto al rifugio, anche se era stato messo al corrente del
piano, sia per continuare a lavorare al siero, sia per distrarre Sam
nel caso si fosse accorta della loro assenza.
Poteva
funzionare, un paio di ore sarebbero bastate per il loro piano e a
seconda dell'esito avrebbero poi deciso il da farsi.
Isabel
attese, con tutta la calma possibile, pensando mentalmente a
ciò che
avrebbe dovuto dire se il notaio le avesse fatto domande personali
sulla vita di Samantha.
Non
seppe dire quanto tempo passò, nel silenzio snervante. Non
poteva
nemmeno comunicare con gli altri per distrarsi, non sapeva se fosse o
meno sotto controllo e parlare da sola non era di certo il modo
migliore di presentarsi.
Studiò
ogni cornice con noia e ansia crescente, sperando che tutto andasse
per il meglio.
Non
c'era molto che Raph e Leo potessero fare, se non scrutare verso il
palazzo e la via dall'alto, attenti a persone sospette o movimenti
strani; non sentivano nulla provenire dagli auricolari, ma sapevano
che funzionavano per via del rumore statico, quindi non si
preoccuparono: evidentemente Isabel non poteva parlare al momento,
quindi si decisero ad attendere gli sviluppi.
In
silenzio.
Erano
troppo concentrati per parlare tra di loro o con Michelangelo, anche
lui a portata di segnale radio.
Il
sole picchiava forte sulle loro teste e Raphael stava per aprire
bocca per lamentarsi, e rimpiangere per una volta l'oscurità
della
notte, quando un sibilo acuto saturò l'aria tutto attorno a
loro,
diffondendosi in ogni dove: si voltarono entrambi e si trovarono
davanti ad un muro compatto di volti fin troppo dolorosamente
familiari.
Era
decisamente una trappola.
C'erano
dieci o dodici umani mutati, la luce del sole rifletteva sulle loro
squame blu, sui denti da squalo affilati e gli occhi completamente
neri, rendendoli ancora più inquietanti: era passato del
tempo
dall'ultima volta in cui avevano visto degli esseri simili, durante
la battaglia contro Hersen, ma non avevano dimenticato affatto la
loro ferocia e aggressività, né la loro assoluta
mancanza di
controllo.
Ma
tutto quello che riuscirono a pensare in quel momento era che quel
bastardo aveva di nuovo e davvero mutato altri innocenti in mostri,
soggiogandoli al suo potere e costringendoli a morire prematuramente
per colpa dell'incompatibilità del siero.
Per
un momento dimenticarono anche Isabel che attendeva nello studio, il
pensiero solo sulle creature e su Sam, l'unica chiave di salvezza per
loro, forse.
Era
una fortuna che fosse al sicuro nel rifugio magico.
I
mostri sguainarono i lunghi artigli neri, affilati come lame, con un
ringhio gutturale, e senza dargli nemmeno un secondo in più
si
lanciarono all'attacco, precisi e veloci, implacabili: erano
agilissimi, sparivano alla vista in un soffio e riapparivano solo al
momento del colpo, diretto verso gli organi vitali o la gola,
prediligendo l'attacco alle spalle.
Si
ritrovarono accerchiati e in balia del loro ritmo, riuscendo solo a
parare o a schivare con difficoltà, sempre più
difficilmente:
entrambi sfoggiavano nuovi tagli e lacerazioni sul viso e sulle tute,
il respiro era corto e pesante per lo sforzo e il dolore e c'era
un'ansia pressante che li stringeva entrambi, il pensiero di sapere
se Isabel fosse o no in pericolo.
Lo
scontro sarebbe potuto finire in fretta, se avessero fatto sul serio,
ma non volevano colpire gli umani mutati, non seriamente perlomeno;
cercavano di rallentare i loro movimenti e pensare a come poterli
intrappolare senza ferirli, ma non gli veniva in mente nulla
nell'impeto della lotta e la situazione non sembrava dover cambiare.
Probabilmente avrebbero prima attirato l'attenzione dei Newyorkesi,
allarmati dalle loro grida e dai rumori di lotta sul tetto di un
palazzo in pieno giorno e sarebbe stato l'intervento della polizia ad
interromperli.
Raphael
si lanciò con i pugni contro due di loro, -i Sai non li
aveva
nemmeno sguainati per non rischiare di ferirli,- e ne colpì
uno alla
spalla mandandolo indietro per la forza del colpo, ma quello subito a
sinistra si avvinghiò al suo braccio e lo morse con tutta la
sua
forza, penetrando la carne mentre la bocca si riempiva di sangue.
Raphael
urlò, un grido roco che di sicuro riuscirono a sentire
tutti,
perfino nelle strade lì sotto.
Poi
accaddero più cose contemporaneamente: un fascio di luce
splendette
più forte del sole, per un istante, un tuono
rombò molto vicino e
Raphael si sentì lasciare andare.
Le
grida cessarono e così gli attacchi.
Isabel,
senza parrucca e con gli occhi bianchi, teneva una mano ritta di
fronte a sé, sugli umani mutati racchiusi in una bolla
pulsante di
magia: si erano bloccati nel vederla, con uno scintillio di terrore
negli enormi occhi neri, ma sguainavano i denti contro di lei, in una
vana minaccia.
La
collana al suo collo smise di pulsare di rosso e la pietra si spense,
ritornando di un innocuo e opaco viola.
“Sono
questi i mutanti di Hersen?” domandò senza
voltarsi, continuando a
studiarli. Gli occhi erano di nuovo normali o per quanto potessero
esserlo con le lenti colorate; mentre teneva la barriera con la mente
avvicinò le dita agli occhi e le tolse, strofinando poi le
palpebre
chiuse per il fastidio per un attimo, prima di tornare a fissare i
loro assalitori.
“Sì,
questi però sono diversi da com'era Melissa. Hersen li
chiamava 'gli
scarti' perché son più aggressivi e senza
controllo, per quanto
pare che lui riesca in qualche modo a farlo” rispose
Leonardo,
avvicinandosi cautamente alla bolla, per studiarli meglio.
Una
delle creature si fiondò contro di lui con ferocia, e anche
se
sbatté contro la barriera con un tonfo doloroso e potente,
continuò
a graffiare e a schiantarcisi per cercare di uscire, finché
Leo non
si allontanò, indietreggiando verso Isabel.
Erano
tutti irrequieti e ancora più violenti, se possibile.
“Ho
paura che esploderanno da un momento all'altro” disse con
voce
greve Raphael, reggendosi il braccio ferito contro il petto.
“Posso
bloccarli” propose Isabel pensierosa, ancora fissa su di
loro. Il
suo sguardo si era addolcito, quasi come se sentisse la pena interna
di quelle creature che un tempo erano state semplici umani.
“Li
lascerò chiusi in una bolla senza tempo, saranno come
congelati, in
stasi. Così non esploderanno, per ora.”
“Puoi
farlo davvero?” domandò Leo con tono sorpreso,
quasi incredulo.
Isabel
annuì con vigore, prima di aggiungere, con tono cupo:
“Non
per molto, però. Dobbiamo trovare un contro-siero il prima
possibile.”
Il
suo corpo si illuminò intensamente, le braccia tese davanti
a sé, e
la bolla che conteneva i mutanti splendette di rosso, blu, verde e
giallo in successione, prima di diventare bianca e incorporea: al suo
interno si bloccarono tutti in pose statiche e i loro occhi si
chiusero lentamente, le loro grida cessarono; caddero in un sonno
magico.
Isabel
smise di brillare e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi
con un
sospiro sofferto. In un paio di falcate si portò davanti a
Raphael e
gli prese la mano tra le sue con gentilezza, portandola alle labbra:
il sangue smise all'istante di uscire e la ferita si
rimarginò in
pochi attimi, lasciando solo il ricordo del dolore di poco prima.
Raph
le sorrise grato e lei, lasciata andare la mano, si sporse verso
l'alto per dargli un veloce bacio sulle labbra. Quando si
scostò e
fece un passo indietro, era seria e concentrata.
“Era
davvero una trappola. Allo studio non è successo nulla, il
notaio si
è spaventato quando la collana si è illuminata,
ma forse Hersen
avrebbe fatto irruzione per rapirla se ci fosse stata Samantha.
Sapeva che io non ero lei e sapeva che voi eravate qui a sorvegliare,
probabilmente sa che Sam è con noi, ormai. Dobbiamo avvisare
Donnie
e Mikey per- Mikey! Può essere stato attaccato anche
lui!”
Leo
e Raph si scambiarono un'occhiata allarmata e si presero mentalmente
a calci per non averci pensato, e tutti e tre scattarono in avanti,
diretti verso il vicolo poco più avanti.
“Non
risponde” esclamò con preoccupazione Leonardo, che
nel mentre
continuava a cercare connessione sia con l'auricolare che con il
telefonino.
Michelangelo
risultava irrintracciabile.
Il
furgone era lì dove lo avevano lasciato, ma la portiera del
guidatore e gli sportelli posteriori erano spalancati.
Non
c'era traccia di anima viva.
Si
gettarono di sotto con un balzo coordinato e urgente, gli occhi
attenti a qualsiasi traccia o indizio.
Videro
subito la scia di sangue che si allontanava dal furgone, via via
più
sottile, e i loro cuori si strinsero in una morsa di ansia.
Leonardo
mise mano al telefonino.
“Donnie,
abbiamo bisogno di te” disse dopo qualche istante, cupo e
tormentato.
Spiegò
velocemente al genio cosa era successo e gli chiese di tracciare il
cellulare di Michelangelo in fretta, ma Donatello rispose con tono
urgente mentre in sottofondo si sentiva un ticchettio di tasti,
assicurando che la quadratura del cellulare di Mikey corrispondeva
con la sua e quella di Raph e quella di Isabel; il leader
ispezionò
per bene il vicolo e si accorse, tra i rifiuti lasciati contro il
muro, dello scintillio di metallo e plastica: un shellcell con un
angolo sbeccato e lo schermo nero, forse caduto in una fuga o forse
colpito assieme al suo proprietario.
Isabel
lo raccolse e lo studiò con sguardo preoccupato, mentre Leo
ascoltava Don, che intanto faceva teorie su cosa potesse essere
successo e su come trovare Mikey.
Poi,
di colpo, il leader allontanò il telefono dall'orecchio con
una
smorfia di dolore, mentre dall'apparecchio si diffuse un ruggito
disumano, udibile anche a quella distanza.
“Sam
non c'è!” sentirono urlare Donnie, spingendo
Leonardo a premere
infine il tasto di vivavoce e permettere così anche agli
altri di
sentire.
“Leatherhead
è andato a controllare e Sam non c'è
da nessuna parte!”
aggiunse il genio, e sentirono i suoi passi concitati, misti a quelli
pesanti e gravi di Leatherhead, che intanto non aveva smesso di
ringhiare.
“È
uscita dal rifugio, ma non so se c'entri con la sparizione di
Michelangelo. Proverò a tracciare il suo cellulare, ma ci
vorrà un
po' di più, non conosco il segnale.”
“Fai
più in fretta che puoi, Donnie. Noi cerchiamo qualche altro
indizio
qui, appena sai qualcosa chiama e ci mettiamo subito in moto.”
“Io
e Leatherhead verremo con voi” esclamò
immediatamente il genio.
Leo
annuì col capo, più a sé stesso, ma
seppe che il fratello aveva
compreso senza aver bisogno di vederlo.
“Contiamo
su di te” disse, prima di chiudere la chiamata.
Raphael
e Isabel lo osservavano con i volti scuri di preoccupazione, lei
teneva il cellulare di Mikey stretto nel pugno, contro il petto.
Era
andato tutto peggio di come avessero immaginato, decisamente peggio:
non solo Sam era scomparsa, ma anche di Mikey non c'era traccia, e
l'unica cosa che sapevano è che uno dei due poteva essere
ferito o
in mano ad Hersen.
Non
poteva andare di certo peggio, o almeno così speravano.
Note:
La storia
è quasi finita, siamo a meno tre capitoli.
Ma la serie durerà ancora.
|
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Capitolo 42 *** Mikey's little adventure 7. I won't let you go ***
Il
fianco gli faceva un male cane, ma non si sarebbe fermato per nulla
al mondo. Continuò a correre, a mettere un piede davanti
all'altro
anche se ogni passo e ogni respiro erano sofferenza pura.
Sanguinava
copiosamente, lo sapeva, ma al momento non poteva importargliene
meno.
L'unica
cosa che importava a Michelangelo in quel momento era non perderla.
Non
poteva perderla.
Intravvide
il bagliore dei suoi capelli dorati di fronte a sé, ma i
suoi
rapitori stavano guadagnando velocità approfittando della
sua
ferita; lanciò l'unico nunchaku ormai rimastogli, sperando
di
rallentarli, ma colpì l'ultimo della fila e
attirò l'attenzione di
quello accanto, che accortosi di quanto fosse vicino si
gettò
immediatamente al suo attacco.
Michelangelo
alzò velocemente i pugni per difendersi, non si sarebbe
fatto
colpire. Non ancora.
Benché
la possibilità della trappola fosse stata messa in gioco fin
da
subito in quel folle piano, non era riuscito a reagire prontamente
quando ci si era trovato dentro; erano successe troppe cose tutte
assieme, era stato tutto così veloce: nel momento in cui
aveva
scoperto la presenza di Sam nel furgone qualcosa in cuor suo gli
aveva detto che non sarebbe andato tutto liscio.
Lei
si era intrufolata di nascosto, ed era stata davvero brava a non
farsi scoprire né da lui né da Isabel, ma alla
fine si era tradita
per non aver tolto la suoneria del cellulare e il trillo dei messaggi
quando Mikey le aveva scritto l'aveva messa allo scoperto.
Michelangelo
era di certo il meno assennato della famiglia, ma nell'istante in cui
l'aveva vista lì, rannicchiata dietro uno dei sedili
posteriori, si
era alzato per dirgliene quattro e possibilmente riportarla
immediatamente al sicuro nel rifugio.
Se
solo ne avesse avuto il tempo.
L'attacco
era stato preciso e fulmineo e brutale.
Non
sapeva nemmeno in quanti li avessero attaccati, erano tanti, gli
sportelli si erano aperti all'improvviso riversando all'interno del
furgone decine di corpi, piccoli e scattanti, feroci e guizzanti: li
avevano attaccati con facilità nello spazio stretto,
bloccando i
loro movimenti.
Samantha
si era battuta fieramente, distribuendo pugni e calci precisi e
potenti, colpendo tutto ciò che poteva, buttando
giù un paio di
quei mostri che sicuramente dovevano farle paura, anche se non lo
mostrava apertamente.
Forse
era più inorridita al pensiero che sua sorella una volta
potesse
essere stata come loro.
I
mutanti li avevano attaccati con i denti puntuti e coi lunghi artigli
affilati, una parte cercando di tramortire o bloccare lui, una parte
che già cercava di trascinare una restia Sam via dal furgone.
Aveva
sentito le sue grida irate, i morsi dei mutanti, lo spostamento dei
loro corpi mentre lo accerchiavano e il cuore battergli in petto a
mille battiti al minuto.
I
suoi nunchaku non avevano roteato mai più velocemente.
Era
riuscito a crearsi una lieve breccia e si era tuffato oltre i suoi
assalitori, in direzione del gruppo già in fuga, che ancora
cercava
di sedare la loro vittima.
Michelangelo
aveva lanciato il nunchaku destro contro il mutante che la teneva
stretta, colpendolo dritto in testa e Sam era caduta dalle sue
braccia quando quello era svenuto al suolo senza neppure un rantolo.
La ragazza si era rimessa in piedi in fretta, mentre i mostri si
erano voltati digrignando contro la minaccia, raggiunti in pochi
istanti anche dalla retrovia rimasta indietro, agguerriti anche loro.
Si
erano trovati accerchiati da ogni parte, separati da un paio di
mostri.
Forse,
si diceva Michelangelo, se fosse riuscito ad arrivare a lei e ad
afferrarla le cose sarebbero state diverse.
Invece,
con un solo nunchaku in mano contro una decina di nemici, si era
gettato in una lotta impari.
Sam
aveva combattuto a calci i mutanti più vicini, Michelangelo
aveva
colpito con stoccate fulminee quelli che riusciva a vedere, ma non
era abbastanza. Li pressavano da ogni angolo, li allontanavano in
maniera impercettibile, cercavano di neutralizzarli il prima
possibile.
Samantha
si era sporta allora verso il nunchaku al suolo per poterlo usare e
avere un vantaggio, o forse per restituirglielo, ma i mostri avevano
ringhiato al vederla e l'avevano aggredita spingendola via;
Michelangelo aveva approfittato della loro distrazione e si era
lanciato in avanti, sicuro di poterne stendere almeno un paio, ma con
la loro velocità era stato lui a soccombere, per avere
scoperto il
fianco: aveva visto gli occhi di Sam spalancarsi di orrore, prima
ancora di sentire il dolore.
Uno
spasmo lancinante aveva bloccato ogni suo movimento e il respiro lo
aveva abbandonato per qualche istante.
Gli
artigli del mutante avevano trapassato il ponte osseo tra piastrone e
carapace come fosse burro, lacerato carne e muscoli e qualche organo
interno, ma tutto ciò che aveva sentito era stato un
bruciore
assoluto, la sensazione di sciogliersi dall'interno.
Le
gambe avevano ceduto ed era caduto sulle ginocchia, con un tonfo
sordo. Aveva sentito il sangue fluire e cadere al suolo e lo aveva
visto splendere sugli artigli del suo assalitore.
Tra
i suoi stessi respiri affrettati aveva sentito il grido rauco di Sam
e gli era scappato un sorriso, involontario, a vederla battersi con
ancora più foga, con ancora più rabbia.
Era
splendida nella sua furia.
Gli
occhi neri degli umani mutati avevano scintillato di malizia, forse
divertiti dall'ira di quella ragazza per il dolore del suo amico.
Il
verso che avevano prodotto tutti insieme era risuonato stridulo e
cupo, e Michelangelo aveva assistito impotente mentre uno di loro
prendeva il suo nunchaku dal suolo e lo usava per stordire Sam, con
una stoccata secca e decisa contro la nuca.
E
vederla tramortita dalla sua stessa arma gli aveva fatto più
male
dello squarcio nel suo corpo.
Si
era tirato su con un urlo e si era gettato all'inseguimento, i mostri
si erano già messi in fuga, trasportando Sam con poca
grazia, la
testa che ciondolava ad ogni passo frettoloso.
Corse,
aveva corso e digrignato i denti e inghiottito le urla di dolore,
cercando di non farsi distanziare.
Aveva
perso il telefonino chissà dove e chissà quando e
non poteva
chiamare i suoi fratelli o Isabel per farsi aiutare, perciò
era la
sola speranza di Sam al momento.
E
sarebbe morto piuttosto che permettere che soffrisse ancora.
Riuscì
a mettere l'umano mutato al tappeto, e di nuovo e ancora
spronò il
suo corpo stanco e ferito a seguire la scia dei suoi nemici, sempre
più distanti, e della testa dorata che adorava.
Leonardo,
Raphael e Isabel seguivano la scia di sangue, che non accennava a
diradarsi.
Ne
erano al contempo inorriditi e felici. Potevano seguire con
facilità
le tracce di Michelangelo, ma se quello fosse stato il suo sangue
allora ne aveva perso già molto e non sapevano quanto
potesse ancora
rimanergli.
Avevano
capito che c'era stata una colluttazione violenta poco distante dal
furgone e che qualcuno era stato ferito e che in seguito vittima e
assalitore si erano dati alla fuga, senza sapere chi stesse
inseguendo chi.
Di
sicuro gli assalitori erano più di uno.
“Queste
macchie sono fresche e non sono state calpestate dopo essere cadute,
quindi chiunque sia ferito è quello che segue
l'altro” disse Leo,
esaminando le gocce frastagliate e irregolari che formavano una lunga
scia anche oltre dove la sua vista potesse arrivare.
Pregarono
silenziosamente che non fosse Michelangelo.
Ancora
nessuna chiamata da Donnie, e i tre si chiesero come il genio stesse
gestendo la ricerca mentre cercava di tenere a bada un Leatherhead
fuori di sé.
Quanti
intoppi dovevano mettersi ancora sul loro cammino?
Continuarono
a seguire la scia, in fretta, ma prestando attenzione a ogni
più
piccola variazione, per non perdere nemmeno un dettaglio, la luce
della sera che si faceva via via più fioca.
Una
volta al buio sarebbe stato impossibile seguire le tracce.
“Per
favore, dammi ancora cinque minuti! Non mi stai aiutando,
Leatherhead!” sbottò Don, al limite della pazienza.
Il
suo tono non era stato più esasperato prima di quel momento,
ma
l'amico coccodrillo non ne sembrò colpito e
continuò ad agitarsi e
a spaccare qualsiasi cosa gli capitasse sotto le mani, in un futile
tentativo di combattere la rabbia che minacciava di trasformarlo in
furia cieca sempre più ogni secondo che passava.
Il
sensei era accorso immediatamente al sentire l'urlo rauco di
Leatherhead, ma nemmeno lui sembrava riuscire a calmarlo, era
impazzito nel momento stesso in qui si era accorto della mancanza di
Samantha.
Se
ne avesse avuto il tempo, Donatello si sarebbe fermato a pensare a
come il legame tra il mutante e la ragazza si fosse cementificato in
così poco tempo, tanto da spingere Leatherhead ad un moto di
rabbia
nello scoprire che fosse sparita, ma in quel momento stava cercando
di quadrare il segnale del suo cellulare con un sottofondo di grida e
schianti, col pericolo che il prossimo a essere colpito potesse
essere lui.
Senza
pensare poi a quanti progressi nel loro lavoro giacessero ormai a
terra in frantumi.
“Ti
prego, mi serve un attimo per cercare Sam. Se davvero è in
pericolo
non possiamo salvarla se prima non la troviamo!”
Il
grosso coccodrillo si pietrificò immediatamente, il respiro
pesante
e le pupille ancora a fessura, il corpo tremava violentemente, per
mantenere il controllo. Annuì lentamente, non fidandosi di
parlare
in quel momento, e Don ringraziò mentalmente Sam per avere
tutto
quell'ascendente sul coccodrillo mutante, tanto da poter parzialmente
fermare la sua sfuriata.
Digitò
velocemente sui tasti, sempre più velocemente.
Michelangelo
non sapeva più con certezza dove si trovasse. Da qualche
parte nel
lower Manhattan di certo, ma non sapeva quanta distanza avesse
percorso e non sapeva nemmeno in che direzione. Il sole iniziava a
calare, ma i palazzi bloccavano la visuale e non era più in
grado di
distinguere il nord dal sud.
Ma
non era importante.
Continuava
a rimanere indietro e la sua frustrazione era a mille. Ma forse non
era per quello che il suo corpo tremava e la vista iniziava a
sfocare.
Si
sentiva debole e fiacco e il respiro era sempre più corto,
il dolore
al fianco era diventato un bruciore costante che gli costringeva
tutto il busto e il senso di nausea lo colpiva ad ondate. Aveva una
dannata voglia di vomitare.
Ormai
gli umani mutati non erano che un punto lontano che cercava
costantemente di mettere a fuoco e non perdere, ma era sempre
più
difficile
Barcollò
appena e si poggiò con una mano insanguinata al muro alla
sua
sinistra, usandolo come sostegno per andare avanti. Sentiva una gran
rabbia montargli dentro, al pensiero di perdere le loro tracce, di
poter perdere Sam quando era ancora così vicinissima, quando
ancora
avrebbe potuto salvarla.
Doveva
salvarla. Voleva salvarla.
Non
aveva mai desiderato qualcosa come in quel momento. Sarebbe stato
disposto a rinunciare a qualsiasi cosa, qualsiasi, per poter
raggiungere Sam e salvarla e restituirle la serenità che
aveva
perso.
Anche
se avesse voluto dire non poterla vedere mai più o
rinunciare a lei.
Sentì
qualcuno ridere e si accorse dopo qualche attimo, con orrore, che era
lui, che rideva istericamente, al pensiero di poterla perfino
lasciarla andare, una volta saputo che fosse al sicuro e salva.
Com'era
patetico. E di colpo capì Raph e Leo e come si erano
comportati con
Isabel, quel loro costantemente metterla al primo posto, al di sopra
del loro dolore, al di sopra dei loro desideri.
Si
era innamorato di Samantha. E probabilmente non perché fosse
bionda
e con lunghi boccoli che desiderava ardentemente arrotolare tra le
dita, ma per la sua passione e la sua furia, quella grinta che
metteva in ogni cosa, quel senso di onore e purezza nonostante fosse
cresciuta per la strada.
Spronò
le gambe molli e titubanti ad andare avanti, il fiato accelerato e
breve, il fuoco del dolore trasformato in risoluzione nel salvarla,
nel salvare la donna che amava.
Il
buio calava piano piano su di lui, da ogni parte.
Raphael
batté un pugno contro il muro, fuori di sé. E
dopo ne batté un
secondo, più forte del primo, sbriciolando una porzione di
mattone.
Isabel
lo bloccò mentre cercava di darne un terzo e lo
sgridò con solo uno
sguardo serio, poi baciò la sua mano e curò le
crepe insanguinate
nelle nocche, lasciando andare un sospiro angosciato.
“Scusa”
mormorò lui, stringendo la mano di lei nella sua. Si accorse
di
stare tremando, appena, e lei lo strinse più forte in muto
sostegno.
Aveva
una fottuta paura che fosse di Michelangelo, tutto quel sangue che
stavano seguendo. Non ne aveva la certezza, ovviamente, ma sapeva che
a pensare al peggio ci azzeccava quasi sempre e che se le cose
potevano andare male, allora sarebbero andate anche peggio.
Le
gocce rosse e sfrangiate macchiavano il pavimento in distanze
regolari e sapeva che significava che la perdita di sangue era
continua, probabilmente una ferita molto grande e impossibile da
tamponare; ogni tanto la scia si interrompeva in una piccola pozza,
di certo quando la persona ferita si fermava a riprendere fiato, e
poi riprendeva stoicamente nel suo viaggio, verso la sua meta.
Era
di Michelangelo, ci avrebbe scommesso un braccio. Quella persistenza
poteva non sembrare del suo fratellino, ma lui lo conosceva bene,
meglio di chiunque altro, e aveva visto con che velocità
quello
sciocco stesse innamorandosi di Sam.
Quanto
lei fosse diventata importante per lui.
Fissò
lo sguardo negli occhi amorevoli di Isabel e sentì nascere
in lui la
forza della speranza, che lo aveva quasi abbandonato pochi secondi
prima.
Leo
attirò la loro attenzione, e con un cenno del capo li
spronò a
seguirlo e a continuare a correre, prima che il buio si mangiasse
tutto, finché ancora avevano qualche chance.
Michelangelo
si chinò con un conato violento, vomitando bile e sangue,
poggiato
con tutto il suo peso contro il muretto.
Non
era un buon segno, non lo era affatto,
C'era
il dolore che se lo stava mangiando e un'ansia pressante che lo
soffocava e lei era sempre più distante e dio, si sentiva
morire, al
pensiero che ormai fossero fuori della sua portata. Si
rialzò a
fatica e si sfilò le fasce paracolpi dai polsi: le
appallottolò
senza cerimonie e le premette con forza contro il fianco, stringendo
i denti per non urlare, poi le fermò al posto con la
bandana, tolta
a fatica dalla testa, con un grugnito di dolore.
Rimase
per qualche secondo immobile, ascoltando i suoi stessi respiri rauchi e
frettolosi che rimbombavano nel viottolo stretto, provando a
riprendere il controllo di sé.
Ma
non sapeva più dove andare, erano così lontani
che non sapeva più
da che parte si fossero diretti, quale potesse essere la loro
direzione.
Pregò,
che qualcuno gliela facesse ritrovare. Pregò, che qualcuno
lo
portasse da lei.
Pregò,
che qualcuno gli indicasse la strada verso lei.
Lo
sguardo velato e cupo venne catturato dallo scintillio d'acciaio del
bracciale, nella curva della piccola S incisa con grazia.
“Melissa,
ti prego, aiutami. Devo salvarla, voglio salvarla. Aiutami, non posso
perderla” mormorò con un filo di voce.
E
forse era l'eccessiva perdita di sangue, o forse era la morte che era
venuto a prenderlo, ma poté giurare che qualcosa di caldo
gli avesse
appena stretto la mano, iniziando a guidarlo lungo la stradina
silenziosa e oscura.
Isabel,
Raph e Leo facevano sempre più fatica a seguire le tracce,
inciampavano in buche nel terreno, avevano anche sbagliato strada una
volta, prima di ritrovare la scia insanguinata due traverse
più a
destra; Leonardo aveva tirato fuori il cellulare per seguirle meglio
alla sua luce, ma Isabel lo aveva bloccato e si era illuminata di
bianco, spargendo la sua luminescenza eterea intorno.
Non
si esponeva mai così tanto nella manifestazione dei suoi
poteri
all'aperto, ma era così preoccupata in quel momento, che non
gliene
sarebbe importato niente nemmeno se la Cia, la nasa, l'FBI o qualsiasi
agenzia governativa che studiava il paranormale le fosse piombata
addosso.
Stava
cedendo alle sue paure, sommate alle loro. Le vedeva, dietro la
maschera rossa, la paura di non fare in tempo, e quella di perdere
qualcuno di così importante. Le vedeva, dietro la maschera
azzurra,
la paura di non star facendo abbastanza, la paura di aver sbagliato
qualcosa, di un suo errore pagato da qualcuno che amava.
E lei? Poteva essere potente e forte, ma a che serviva se non fosse
riuscita a trovarli in tempo?
Correvano
in silenzio, non riuscivano a dirsi nulla per confortarsi o per
spronarsi; era Michelangelo quello che spezzava la tensione, in
genere, che riusciva ad alleggerire le loro ansie e i loro timori con
una battuta, con la sua voce gioviale.
Il
rosso al suolo brillava alla luce magica di Isabel, indicando loro la
via come macabra segnaletica stradale, e i loro occhi non vedevano
altro.
Isabel
faceva da apripista con velocità, senza fermarsi e senza una
pausa,
poi si bloccò con una brusca frenata, tanto improvvisa che
Raphael e
Leo la investirono in pieno, fortunatamente senza buttarla
giù
grazie all'ausilio dei suoi poteri.
“Isa!
Cosa-” la voce di Raphael morì in un brusco
respiro strozzato, al
vedere quello che lei aveva visto.
L'impronta
insanguinata di una mano sul muro, seguita da un paio di altre, sempre
più sbiadite via via che si allontanavano.
Una
grande mano. Una grande mano a tre dita.
Raphael
imprecò, a voce alta, esternando anche la loro rabbia e la
loro
paura, e Leonardo aveva già il telefonino premuto contro il
foro
auricolare, con la mano che tremava.
“Donnie”
soffiò dopo qualche istante, la voce spezzata.
“Mikey- Mikey è
ferito, Donnie. Stiamo seguendo la sua scia, ha perso tanto sangue.
Aiutaci, Donnie. Aiuto.”
Donatello
era riuscito a lavorare al segnale del cellulare di Samantha, un
vecchio rottame che gli dava qualche problema, a dir la
verità. I
nuovi modelli avevano gps e altre diavolerie che rendevano molto
più
facile il compito.
Tuttavia
ci si era dedicato nella nuova pace con tutta la fretta possibile,
con urgenza, quasi, mentre un nervoso, ma statico Leatherhead
osservava il monitor al di sopra della sua spalla, emanando un'aura
di furore che lo investiva a ondate.
Il
sensei era nel laboratorio lì con loro, anche lui in
silenzio,
seduto ritto e all'erta in una delle sedie vicino alla scrivania,
quasi perso in meditazione.
Don
si sentiva già pressato di suo, senza quelle due presenze
schiaccianti.
La
mappa di New York city sullo schermo si ingrandiva e rimpiccioliva
seguendo le variazioni del segnale che cercava, seguendo tracce di
ripetitori, e gli era sembrato di aver fatto passi da gigante e di
essere sulla buona strada, si era perfino sentito esaltato, fino a
quella chiamata.
Era
illogico pensarlo, ma aveva pensato che qualcosa fosse sbagliato
già
dal suono della suoneria. Come se fosse più sinistra,
più cupa.
La
voce di Leonardo, dall'altra parte, era terrorizzata e infranta,
piena di paura, già al solo pronunciare il suo nome.
Non
era lì con loro, ma riusciva a vederli come se ci fosse, la
mascella
contratta di Raph, la luce angosciata negli occhi di Leo, la
disperazione di Isabel.
Mikey
era ferito e aveva perso un'infinità di sangue, gli disse il
fratello, prima di supplicarlo di aiutarlo, di aiutarli. Di aiutare
il suo fratellino, solo e preda del dolore, chissà dove.
Sentì
il basso ringhio di Leatherhead, probabilmente che reagiva alla sua
rigidità inconscia.
“Dammi
ancora qualche istante, Leo. Rimani con me, andrà tutto
bene”
mormorò dolcemente, mentre le dita volavano sulla tastiera,
solo
leggermente tremanti.
Michelangelo
si faceva guidare da quella forza misteriosa senza ribellarsi, solo
vagamente conscio di dove stesse andando.
Poteva
essere verso l'inferno o verso lei, o forse le due strade
combaciavano, ma non gli importava fintanto che fosse riuscito a
salvarla.
Una
piccola parte della sua mente, ancora flebilmente lucida, gli diceva
che non aveva senso seguire quella sensazione con tutta quella
certezza e fiducia; il suo stomaco, ingarbugliato e ferito, gli
diceva di continuare ad andare avanti, un passo incerto alla volta.
Aveva
sempre seguito il suo istinto, perciò quella flebile
protesta logica
si spense in fretta.
Stava
camminando tra alcuni capannoni, non era certo di dove fosse con
esattezza, ma aveva tutta l'aria di una zona mercantile o
industriale; c'erano alcune voci in lontananza, lavoratori che
scaricavano e caricavano merci, ma non gli importava al momento.
Li
superò, li lasciò indietro, diretto verso il
gorgoglio dell'acqua,
da qualche parte davanti a lui. Sembrava quasi chiamarlo. Era in un
porto.
A
ridosso dell'oscura massa d'acqua c'era una costruzione solitaria,
alta e massiccia, almeno dieci o dodici piani, all'apparenza
abbandonata, ma non diroccata.
La
sua sensazione lo guidò fino alla sua porta e oltre, con una
sicurezza che non sapeva da dove gli provenisse.
L'edificio
era vuoto, almeno così sembrava. Tese le orecchie per
percepire
rumori o la presenza di persone, ma a parte il ticchettio di un
orologio lontano non sentì nulla di rilevante.
La
cosa lo spaventò e impensierì, nel fondo della
mente. Aveva seguito
una sensazione e se l'avesse seguita verso una direzione sbagliata e
Sam fosse ormai lontana, nelle mani di Hersen, destinata a orrori e
sofferenza?
Quel
tepore lo avvolse ancora una volta, assurdamente, sciogliendo le sue
preoccupazioni.
Era
folle pensarlo, ma sentiva che era Melissa a guidarlo, ad essere
intervenuta per aiutarlo ancora una volta.
Continuò
a camminare, provando a sforzare le gambe per sbrigarsi, contro ogni
logica: sapeva di essere ad un passo dallo svenire, non si era mai
sentito così debole e dolorante come in quel momento,
così
angosciato e stanco, ma la forza bruciante dentro di lui lo
sosteneva, e lo avrebbe sostenuto almeno fino a che non avesse
trovato Sam e l'avesse salvata.
Dopo
poteva anche morire, non gli importava.
Il
corridoio era vuoto e lungo, con poche porte sporadiche che
aprì
ogni volta che ci arrivava, scoprendo solo stanzette asettiche e
spoglie, quasi come se il palazzo fosse completamente inutilizzato.
Come non fosse mai stato abitato.
La
porta alla fine si aprì su due scale, una verso l'alto e una
verso
il basso.
Si
poggiò al muro con una spalla mentre valutava in fretta che
direzione prendere, pregando di non sbagliare: ai pazzi maniaci in
genere piaceva controllare tutto dall'alto, all'ultimo piano delle
loro roccaforti, nelle loro megalomanie da sadici bastardi, ma Hersen
era uno psicotico che lavorava nelle ombre e strisciava nel buio per
nascondere la sua mostruosità, interiore ed esteriore,
avrebbe avuto
più senso se fosse nelle fondamenta del palazzo a trafficare
con i
suoi esperimenti.
La
rabbia lo investì con ancora più forza, al
pensiero che Sam potesse
essere nelle sue mani, lì sotto.
Si
gettò verso il basso, concentrato perché le
ginocchia non cedessero
ad ogni passo e lo mandassero a ruzzolare giù per le scale,
attento
ad ogni nuovo rumore che potesse presentarsi.
Sentì
uno sbuffo, come di un macchinario a vapore, qualcosa che gettava
fumo nell'aria.
Alla
terza rampa di scale l'aria era decisamente più densa, una
leggera
nebbiolina, e c'era un caldo soffocante, umido e dall'odore di muffa.
L'unico
altro suono che sentì era il ritmo scompagnato dei suoi
passi, quasi
strusciati contro il pavimento.
La
fine delle scale dava su una porta rossa e mezzo arrugginita, grande
tanto da poterci far passare un furgone con facilità,
percorsa per
metà da una grande finestra sporca e appannata.
Strisciò
con dorso del braccio con cautela, togliendo uno spicchio di sporco,
gettando poi uno sguardo attento oltre: c'era una grande stanza, un
sotterraneo ombroso, alto e grigio, illuminato fiocamente da
sporadiche luci di emergenza.
Pareva
un parcheggio abbandonato.
Aprì
la porta senza incontrare alcuna resistenza, entrando nell'ambiente
con la paura ad unirsi al magone nel petto.
Capì
immediatamente che la sua intuizione era stata giusta: doveva essere
stato il parcheggio dell'edificio, almeno in origine, con le grosse
colonne a sorreggere il soffitto percorso da tubi e cavi elettrici e
i numeri di ogni posto auto scritto a bomboletta per terra, ormai
mezzo sbiaditi. Qualcuno però, aveva innalzato dei muri che
tagliavano trasversalmente il sotterraneo, portandosi via parte dello
spazio, probabilmente per creare delle stanze aggiuntive.
Non
voleva sapere cosa nascondessero, cosa potesse esserci
all'interno.
Continuò
a camminare nel silenzio, mentre gli occhi si abituavano alla
penombra, riuscendo a scorgere con facilità i pilastri sulla
sua
strada e un ammasso di cavi che serpeggiavano sul pavimento, verso il
fondo. Li seguì, attento a non inciamparci sopra, certo che
dovessero alimentare qualcosa di importante, e grande, a giudicare
dalla quantità.
Qualcosa
pulsava a intermittenza, nel fondo del sotterraneo. Percepì
i
contorni di una grande costruzione, sembrava un acquario, vide lo
scintillio sulla sua parete in vetro, sempre più vicina.
Pensò
per un secondo di essere preda delle allucinazioni. O di essere
infine morto ed essere arrivato in una sorta di aldilà.
Scrutò
la piccola figura con un rombo forte nelle orecchie, con un peso
nello stomaco che gli attanagliava le viscere. Era accasciata sul
fondo della grande teca in vetro, le sue squame gialle riflettevano
la luce pulsante che arrivava dall'alto, i suoi occhi erano chiusi,
ma ricordava il nero intenso di cui erano ammantati.
“Mork”
sussurrò Michelangelo, col magone. No, era Melissa il suo
nome, lo
sapeva bene ormai. E non poteva essere lei.
E
se pure avesse negato la realtà di averla vista morire, ci
pensò
quel bracciale nel suo polso sinistro a svelarle chi fosse davvero
quella figura in stato di incoscienza.
Volò
per gli ultimi metri, ignorando dolore e fitte di strazio nel corpo e
nel cuore, e la raggiunse, accasciandosi quasi senza forze contro il
vetro, battendoci sopra con un vigore che non era più suo.
“Sam!
SAM!” urlò dal fondo dei polmoni stanchi, con
un'urgenza e un
orrore che se lo stavano mangiando in pochi secondi.
La
sua paura più grande... non era riuscito a proteggerla, quel
bastardo l'aveva presa e l'aveva trasformata in un mostro, come sua
sorella prima di lei.
Era
tutta colpa sua. Non se lo sarebbe mai perdonato.
“SAM!”
Note:
Meno due capitoli,
uno per Mikey e uno per l'epilogo di questa storia infinita, che ho
maltrattato per troppi anni.
Il prossimo tra
sette giorni.
grazie
|
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Capitolo 43 *** Mikey's little adventure 8. You found me ***
Batté
ancora sul vetro coi pugni, rimpiangendo di non avere i suoi nunchaku
per provare a spaccarlo, e intanto urlava senza sosta il suo nome con
tutto ciò che gli restava della voce, cercando un qualche
segno che
lei fosse poi davvero solo svenuta e non senza vita.
Il
corpo all'interno si mosse leggermente, e gli parve di averla sentita
mugugnare nell'incoscienza e urlò più forte,
ignorando il bruciore
alla gola.
“SAMANTHA!”
Gli
occhi della ragazza mutata si spalancarono con paura e sorpresa,
grandi laghi di confusione, e Michelangelo notò
immediatamente che
non erano neri come quelli di Melissa quando era mutata, ma grigi
lattei, tagliati da una pupilla scura a forma di fessura, come quella
di Leatherhead.
Non
capiva se volesse dire che la mutazione era andata male e se quello
comportasse rischi per Sam.
Quegli
occhi trovarono i suoi e si spalancarono un po' di più,
mentre Sam
si alzava con un po' di fatica per raggiungerlo: lei si accorse delle
macchie di sangue incrostate nelle sue mani e del rosso che ormai
aveva macchiato la sua bandana legata in vita, rendendola una copia
di quella di Raphael. Tremò impercettibilmente.
La
ragazza emise un basso lamento, graffiante, prima di rendersene conto
e bloccarsi con un singulto roco, e poggiando le mani contro il vetro
in un gesto inconscio di raggiungerlo, si accorse del loro colore e
della loro forma.
Michelangelo
assisté impotente, mentre lei si guardava con panico
crescente,
occhieggiando con quei grandi occhi grigi le squame gialle che
ricoprivano il suo corpo; le sue mani corsero verso il volto,
tastando i contorni del viso e passando senza sforzo sulla testa
liscia, sulle orecchie puntute, sui denti affilati e letali.
Aveva
iniziato a produrre un sibilo stridulo, di stress, senza esserne
conscia, a cui si aggiunse quasi subito un rauco ringhio, di rabbia.
“Sam”
la chiamò piano, cercando di vincere la sua attenzione. Si
era
accucciato dall'altro lato della teca, per cercare riposo dal corpo
bruciante, per illudersi di poterla raggiungere se fosse stato al suo
stesso livello.
Lei
incatenò di nuovo lo sguardo al suo, ma non smise di
stridere e non
smise di ringhiare. E non smise di tremare.
“Ti
porterò fuori di qui e Donnie e Leatherhead troveranno una
cura. Te
lo prometto” mormorò con tutta la calma che
riuscì a racimolare,
che non provava davvero, pur di cancellare quell'orrore che lei
provava.
Sam
rimase immobile a fissarlo, per interminabili secondi.
“Riesci
a capirmi? Ti ricordi chi sono?” le domandò
allora, temendo che
come Melissa anche lei potesse aver perso la memoria con la
mutazione.
Il
corpo giallo si sporse verso di lui, lo stridio e il ringhio
cessarono all'istante, e si poggiò contro la sua gabbia.
Erano
così vicini, c'era solo quel dannato vetro a separarli.
“C-
coso” sillabò Sam, graffiante e titubante,
sorprendendolo.
Melissa
non aveva mai parlato, nella mutazione. E anche quello gli diede il
presagio che ci fosse qualcosa che non andava, anche se non sapeva se
in bene o in male.
Tuttavia
sorrise, non poté impedirselo, al sentire il nomignolo che
lei gli
aveva affibbiato, sin dal primo istante in cui si erano incontrati.
Sarebbe
sembrato un insulto detto da chiunque altro, ma non da lei.
Lei
vide il suo sorriso, tenero, e i suoi occhi grigi scintillarono.
“Michelangelo”
disse con più dolcezza, prima di sorridergli a sua volta.
Il
cuore del mutante bruciò, avvampò, e crebbe e
crebbe, dandogli una
botta di adrenalina.
Non
seppe cosa stesse pompando ormai, sapeva che doveva aver prosciugato
ogni goccia di sangue, ma non gli importava sapere davvero per quale
miracolo fosse ancora vivo. Purché fosse servito a salvare
Sam.
“Ti
porto via di qui” esclamò Mikey, provando a
sollevarsi dal suolo,
controllandosi intanto intorno per cercare il modo di farla uscire da
quella gabbia di vetro e metallo.
Si
tirò su con un gesto deciso, ma le gambe cedettero, e lo
riportarono
in basso con un tonfo cupo. Con uno sforzo immane ci
riprovò, con
più convinzione, riuscendo a rimanere per qualche istante in
piedi,
prima di ricadere sulle ginocchia, dolorosamente.
Il
suo respiro era così corto e accelerato, come avesse corso
intorno
al mondo.
“Oh,
Michelangelo, povero Michelangelo” mormorò una
voce profonda, con
un tono fastidioso e canzonatorio.
Si
voltò a fatica e incatenò lo sguardo sull'uomo
alle sue spalle,
ritto e impettito a gustarsi la scena. Non lo aveva nemmeno sentito
arrivare, il ronzio sordo nelle orecchie era una costante ormai.
Era
alto e esile, il colorito così pallido da poter vedere il
reticolato
di vene bluastre che correva sotto pelle, perfino nella
semi-oscurità, i capelli neri radi e lunghi, gli occhi dello
stesso
cupo colore.
E
sfoggiava un ghigno soddisfatto nel viso puntuto.
Era
differente dall'ultima in cui lo aveva visto, ma non avrebbe potuto
dimenticare quell'aria folle che lo permeava.
Hersen
era tornato umano, ma c'era qualcosa, in lui, che lo faceva
rabbrividire.
Sembrava
che riuscisse a seguire ogni suo piccolo movimento anche in quella
penetrante penombra, mentre lui faceva fatica a definirne i contorni,
se non strizzava a fondo gli occhi.
“Povero,
povero Michelangelo” continuò a canzonarlo,
avvicinandosi senza
timore a grandi passi.
Mikey
sforzò il suo corpo ad agire e reagire, -se lo avesse preso
di
sorpresa avrebbe potuto battere Hersen anche se così
malconcio,- ma
benché provasse a muovere i muscoli con tutta la
disperazione
rimastagli, non si mosse di un millimetro.
Era
davvero arrivato alla fine? Non ancora. Ancora un poco, doveva
resistere ancora un poco.
“Non
te le stai passando molto bene, vedo” constatò
leggermente, mentre
Michelangelo sentiva il suo freddo sguardo scivolargli addosso,
soffermandosi sulle macchie di sangue che imbevevano la tuta e il suo
corpo.
“È
un vero peccato, credimi, lo dico sinceramente. Ma sei comunque
riuscito a vedere la mia più grande creazione, dovresti
sentirti
onorato.”
“Liberala”
sussurrò Mikey, la voce così inconsistente e
fioca da non
sembrargli nemmeno la propria.
“Come?
Non ho capito bene.”
Lo
stava prendendo in giro, godendone perfino, e quello lo mandava
così
in bestia. Era lui che prendeva per i fondelli i bastardi psicopatici
e non viceversa.
“LIBERALA
DANNATO FIGLIO DI PUTTANA” ruggì più
forte, anche se sapeva di
star solo facendo il suo gioco. Poteva contare sulla sua mano, ed era
tutto dire per uno con tre dita, quante volte nella sua vita aveva
perso la calma e il suo stato mentale di tranquillità e
buonumore,
ma in quel momento si sentiva più Raphael di quanto Raph
stesso non
fosse mai stato, una rabbia enorme a riempire le vene al posto del
sangue.
Hersen
infatti rise, deliziato.
“No,
sarebbe un peccato. M37 bis è perfetta, perfino meglio di
sua
sorella, più stabile, intelligente, agguerrita e
potente” elencò
in estasi, spostando lo sguardo sulla ragazza mutata, che gli
mostrava i denti con ferocia.
Anche
Michelangelo si voltò con fatica per guardarla, con pena e
amore.
“Si
chiama Sam!”
“Si
chiama M37 bis” ripeté asciutto lo scienziato.
“Ed è il primo
passo per il mio futuro. Non solo mi ha guarito dalla mutazione, vuoi
vedere cos'altro è capace di fare?”
Michelangelo
si voltò con una piccola punta di curiosità,
nonostante tutto.
Tra
le mani di Hersen era apparsa una siringa piena di una sostanza di un
colore che non riuscì a definire, ma che tuttavia non gli fu
difficile capire cosa fosse.
Senza
staccare gli occhi da lui Hersen fischiò crudemente e
immediatamente
un piccolo umano mutato, blu intenso, apparve dalle stanze
provvisorie e caracollò al suo cospetto, docile e obbediente.
“Per
cominciare ho mantenuto il mio controllo mentale sugli scarti,
c'è
ancora qualcosa di coccodrillesco in me, a quanto pare. Posso vedere
perfettamente al buio e la mia forza fisica è decuplicata,
ma vuoi
vedere qualcosa di straordinario?”
Avvicinò
la siringa al mutante blu, e quello nemmeno ci provò a
ribellarsi, e
con un colpo brutale la piantò nel suo collo, spingendo il
siero
oscuro all'interno del suo corpo.
Quello
sussultò.
Il
piccolo mutante iniziò a vibrare, i suoi arti
così tremolanti da
non riuscire più a definirli, e si contorse e si contorse
ancora con
un basso sibilo che dava fastidio a lui e innervosiva Sam, a
giudicare dai colpi sordi che lei iniziò a dare contro il
vetro.
Il
mutante mutò ancora, ironicamente, il suo corpo si
allungò e
ispessì, fasci di muscoli lo rivestirono e crebbe e crebbe
esponenzialmente,velocemente.
Se
Michelangelo avesse avuto forza in corpo avrebbe approfittato di quel
momento per fuggire, perché qualcosa gli diceva che fosse
meglio non
attendere di vedere la fine della nuova mutazione, di mettere quanta
più distanza possibile tra loro e quella
mostruosità contro-natura.
Poi
il sibilo si interruppe e così l'agonia del corpo, immobile
e
ansimante al suolo per qualche istante, prima di sollevarsi nella sua
immensa statura.
Era
alto come Leatherhead, era grosso come Leatherhead, ma più
snello,
più scattante, le scaglie si erano colorate di un verde
acido e gli
occhi splendevano grigi, in cui poté vedere le pupille a
fessura
splendere come fari.
Le
file di denti sembravano più taglienti, gli artigli
sguainati con
sadica soddisfazione erano più lunghi e affilati. Un
supermutante.
Anche
il suo ringhio era diventato più roco e graffiante, e Sam
reagì con
violenza al sentire il suono, ormai lanciata contro la sua barriera.
Il
vetro tremava terribilmente sotto i suoi colpi, ma non accennava a
cedere.
Il
nuovo mutante sorrise della sua paura e si fiondò
velocemente verso
Michelangelo, afferrandolo per la gola e sollevandolo con un braccio
solo e un movimento fluido, come se non pesasse nulla.
Mikey
non riusciva quasi a respirare, figurarsi ad urlare per il dolore e
per la rabbia.
“Soldati
perfetti, forti e rapidi, leali, indistruttibili”
esclamò Hersen
come un ossesso, un'espressione di puro godimento sul viso.
“E ne
potrò creare a migliaia, grazie a M37 bis. Grazie al mio
esercito
potrò vendicarmi di Bishop. E poi chissà, le
potenzialità sono
infinite!”
Samantha
ringhiava e colpiva cercando di uscire dalla sua gabbia, gli occhi
fissi su Michelangelo e il mutante che ancora lo teneva nelle sue
grinfie: iniziò a modulare un suono gutturale ad ogni
schianto,
sempre più forte, e il supermutante si bloccò
come ipnotizzato al
sentirlo, lo sguardo più vitreo.
Michelangelo
sentì che la sua presa si allentava e sollevò un
braccio e artigliò
la sua mano, ma prima che potesse liberarsi un nuovo fischio
riempì
l'aria e le dita del supermutante lo strinsero con più forza.
Un
secondo fischio echeggiò assordante e stridulo e
Michelangelo sentì
Sam che con un tonfo cadeva al suolo, soggiogata anche lei da Hersen,
una marionetta nelle sue mani.
Tossì
nello spasmo di muoversi e aiutarla, nel provare a liberarsi e
volgere quella orribile situazione in loro favore; il supermutante
strinse appena più forte e caricò l'altra mano
indietro, gli
artigli sguainati, puntata sul suo torace.
In
una frazione di secondo si rese conto che era la fine, la sua vera
fine, e che non aveva potuto fare nulla, non era servito a nulla
arrivare fin lì e raggiungerla, sarebbe morto ad un passo da
lei,
condannandola a una vita d'inferno come rifornimento personale di
quel bastardo per la creazione di nuovi mostri.
Ed
era intollerabile quel pensiero. Ed era patetico che non riuscisse a
fare più nulla per impedirlo.
Una
luce bianca splendette nel momento dell'attacco, costringendoli tutti
a chiudere gli occhi con fastidio, Hersen imprecò da qualche
parte,
il supermutante ringhiò.
Michelangelo
cadde senza peso, libero, e qualcosa di caldo e morbido lo
afferrò
prima che sbattesse violentemente contro il suolo, adagiandolo con
gentilezza, ma la luce era ancora troppo intensa per aprire gli
occhi.
Tuttavia
si sentiva assurdamente bene.
“È
tutto ok, fratellone. Siamo qui” mormorò la voce
dolce e penosa
assieme di Isabel, prima di sentire le sue labbra poggiarsi sulla
fronte.
Un
soffice formicolio gli scivolò dentro, portando benessere e
cancellando pian piano il dolore e l'ansia, sentiva il vigore
ritornare nelle membra, la forza rinascere nel suo corpo.
Ma
benché fosse meraviglioso, non era quello che voleva al
momento.
“Sam...
salva Sam” sussurrò con un filo di voce,
afferrando alla cieca una
mano di Isabel. La sentì sorridere sulla sua fronte, senza
staccarsi
dal contatto, e seppe che era tutto sotto controllo.
Hersen
assisteva impotente alla scena, incredulo, confuso su cosa fosse
successo davvero e come tutti quegli intrusi fossero apparsi
all'improvviso nel sotterraneo: c'erano le altre tartarughe mutanti,
il loro padre ratto e Leatherhead, oltre a quella giovane donna che
brillava.
Che
aveva steso il suo supermutante in un secondo, lasciandolo svenuto al
suolo.
Prima
che potesse anche solo aprire bocca, o pensare di farlo, Leatherhead
lo investì con tutta la sua furia, mandandolo a sbattere
contro il
muro alle sue spalle con un tonfo sordo.
Hersen
cadde e sentì la vibrazione dei passi pesanti del
coccodrillo
mutante galoppare ancora alla carica contro di lui: si
rialzò con un
colpo di schiena all'ultimo secondo, portandosi lontano dalla coda
che scioccava con agitazione.
Ad
un suo nuovo fischio una frotta di supermutanti irruppe da una delle
stanze ricavate dal sotterraneo e si gettò all'attacco, ce
n'erano
almeno quattro o cinque per ognuno di loro; Leatherhead
ringhiò, un
grido atavico che per un attimo interruppe i movimenti dei
supermutanti e rese i loro occhi grigi più lucidi e
focalizzati,
intelligenti.
Sembravano
indecisi su cosa fare o confusi sul perché fossero
lì.
Hersen
si lanciò contro di lui con furia e un sibilo stridulo che
riattivò
il controllo sulle sue creature e tre di loro si unirono a lui contro
il coccodrillo mutante, mentre le altre attaccavano a gruppi gli
altri.
Isabel
innalzò uno scudo con la mente, mentre continuava a curare
Mikey.
Raphael
era furioso, la presa nei Sai era spasmodica, e si faceva violenza
per non gettare al vento qualsiasi concentrazione e semplicemente
uccidere tutti quei mega-mutanti e correre da Mikey e Isabel. Tutto
quel sangue sul corpo di suo fratello gli faceva venire voglia di
spaccare e distruggere.
Quegli
umani mutati erano diversi da quelli affrontati fino a quel momento e
tutti si chiesero se non fosse un'evoluzione dovuta a Sam; erano
più
veloci e forti, e li stavano torchiando senza fatica. Donnie aveva
gettato un'occhiata veloce verso la gabbia di vetro in cui Sam
sedeva, lo sguardo fisso sul niente come una bambola senza vita:
benché sembrasse una copia identica di Mork, la povera
Melissa
quando era mutata, si era accorto immediatamente delle differenze tra
lei e sua sorella e la sua mente lavorava febbrilmente sul
perché e
il come e si chiedeva se avrebbero mai, lui e Leatherhead, potuto
creare un contro-siero per aiutarla.
Voleva
correre da lei e sincerarsi che stesse bene e possibilmente
liberarla, ma non riusciva a smarcarsi
dagli attacchi dei supermutanti.
Quelli
li sospingevano indietro, li colpivano e colpivano, procurando
lacerazioni sui loro corpi, senza lasciargli la possibilità
di
contrattaccare.
Potevano
solo cercare di difendersi con le loro armi, cercando di chiudere la
lotta il più fretta possibile.
Hersen
sosteneva lo scontro contro Leatherhead con sorprendente
facilità,
con una forza fisica mostruosa, bloccava i suoi attacchi con un
semplice braccio, colpiva con una brutalità animale e la
frustrazione del coccodrillo cresceva e cresceva.
Non
era mai stato più furioso, nessuno avrebbe potuto fermarlo
finché
non avesse ucciso Hersen, probabilmente.
I
supermutanti si mettevano in mezzo e approfittavano della confusione
per lacerargli la spessa pelle, mentre cercavano di colpire organi
importanti e vitali.
Non
sembrava che potessero vincere facilmente, e non senza far male agli
umani mutati.
Leo
bloccò un'artigliata con le lame delle spade, ma non ebbe il
tempo
di gioirne, colpito da un pugno velocissimo contro la faccia; Don si
accorse della sua momentanea vulnerabilità, così
scoperto, e si
gettò al suo fianco per proteggerlo, inseguito
immediatamente dai
suoi avversari.
Si
trovarono accerchiati. C'erano anche Splinter e Raph, e
inconsciamente i tre si tesero per proteggere il loro sensei e padre,
anche se sapevano che non ne avesse bisogno: si batteva come una
tigre, per cercare di finire lo scontro e poter controllare suo
figlio, lì al suolo ricoperto di sangue.
Isabel
lo stava curando, perciò parte del suo dolore e
preoccupazione stava
scemando, ma avrebbe combattuto finché non avesse potuto
riabbracciarlo e sincerarsi che stesse bene con i suoi stessi occhi,
con le sue stesse mani.
Nessuno
poteva toccare i suoi figli e pensare di farla franca.
Erano
tutti schiena contro schiena, o guscio contro guscio, impegnati a
cercare di respingere gli attacchi e gli artigli, le menti che
lavoravano senza sosta alla ricerca di una qualche idea o tecnica che
li aiutasse in quella particolare situazione.
Era
un continuo rumore di metallo e legno e osso che si scontravano e
urla di dolore e imprecazioni tra i denti che Splinter si
premunì di
far finta di non sentire.
Tutto
si bloccò in un fascio di luce più potente, un
bagliore e un
crepitio intensi, prima che la luminosità ritornasse normale.
Si fermarono, riprendendo grandi respiri sollevati, le armi
già più
allentate nelle mani, gli occhi sui loro avversari bloccati in pose
statiche con espressioni di pura paura e sorpresa.
Isabel
era in piedi, un braccio teso di fronte a sé e gli occhi
bianchi e
splendenti. L'altra mano stringeva ancora quella di Michelangelo, che
si tirava lentamente su, intonso e in forze. Titubò un poco
sulle
gambe, come un cerbiatto appena nato, sostenuto senza fatica
dall'esile donna al suo fianco.
I
supermutanti si trovarono chiusi in una bolla ciascuno, impenetrabile
e indistruttibile, per quanto cercassero di forzarla; scintillavano
appena nella semi-oscurità, come globi di polvere luminosa.
Dopo il
primo momento di stupore si erano riscossi e provavano a forzarla con
tonfi poderosi, senza successo.
Hersen
emise un singulto roco, incredulo e spaventato, lui e Leatherhead
distratti per un secondo da ciò che stava accadendo.
“Tu
chi diamine sei?” urlò contro la giovane donna,
gli occhi a
fessura fiammeggianti.
Isabel
sorrise.
Michelangelo al suo fianco lasciò andare la sua mano: si
mosse in contemporanea a Leatherhead, senza averlo pre-coordinato, e
insieme si lanciarono contro Hersen in un secondo, uno dritto contro
il viso e uno contro lo stomaco.
L'impatto
fu così violento che l'uomo sbatté contro il muro
lasciando una
profonda crepa e si accasciò al suolo immobile, per qualche
istante.
Era un super-umano, ma non era possibile che non avesse risentito del
colpo,
e dallo schiocco che era risuonato nel silenzio probabilmente
qualcuna delle sue ossa si era rotta. Forse ben più di una.
I
due corsero via immediatamente, senza preoccuparsi di lui, verso la
teca, verso Sam. Leatherhead la colpì coi pugni chiusi, il
primo
colpo produsse solo una piccola crepa, il secondo lo incrinò
completamente, il terzo lo mandò in frantumi: Mikey si
gettò
all'interno mentre i frammenti ancora cadevano al suolo, scintillanti
di luce riflessa.
Sam
era ancora sotto il giogo di Hersen e li fissava con occhi appannati
e fu solo quando Leatherhead produsse un gorgoglio basso e morbido,
quasi fusa di gatto, che quelli si schiarirono e luccicarono di
vitalità, di meraviglia.
Rispose
al richiamo di suo “padre” senza esserne nemmeno
conscia, e
quello di rilassò al sentirlo, come se lei gli stesse
comunicando
che stava bene.
Michelangelo
le tese una mano per aiutarla ad alzarsi, anche se in realtà
voleva
solo stringerla, abbracciarla con tutte le sue forze e sentire che
per davvero stava bene, per davvero fosse al sicuro.
“No!
No! Non la porterete via! NO!” urlò la voce folle
di Hersen,
seduto al suolo con il naso spaccato e una gran colata di sangue ad
imbrattargli la camicia bianca,
il respiro difficoltoso e rauco.
Si
era trascinato qualche metro più distante da loro,
osservando tutto
con gli occhi spalancati di rabbia e incredulità: i suoi
super-mutanti bloccati con facilità, la sua mutante che
veniva
liberata, i suoi nuovi avversari liberi di colpirlo, quello ad un
passo dalla morte vivo e vegeto e intonso e quella giovane che
splendeva e che aveva compiuto tutti quei miracoli con un battito di
ciglia.
Era
tutta colpa sua.
Una
mano stringeva un piccolo congegno nero e tutti loro tremarono,
sapendo già cosa stesse per accadere. Le fondamenta
tremarono e i
muri e il soffitto vibrarono, facendoli barcollare come ubriachi.
“Lurido
bastardo” ringhiò Raphael, immediatamente al
fianco di Isabel.
“Ha
innescato l'autodistruzione, l'ha già fatto in passato,
lurido
vigliacco” le disse a denti stretti, mentre l'afferrava e
l'ancorava al suo corpo.
Isabel
si mosse in fretta: con una flessione delle dita le bolle coi
supermutanti sparirono nella pura aria e i corpi dei suoi amici e
della sua famiglia si rivestirono di una lieve luminescenza, pronti
ad essere trasportati via anche loro.
Hersen
si era sollevato intanto e con uno sguardo malevolo verso di lei
cercava di allontanarsi, mentre le prime porzioni di muro cadevano a
terra con schianti terribili; Isabel puntò la mano su di
lui, ma
prima che potesse ingabbiarlo venne spinta via da Raphael e il
soffitto nel punto in cui si trovavano un decimo di secondo prima
crollò sollevando un polverone, facendogli tremare perfino
le ossa.
“Dobbiamo
andare via!” sentì urlare Don da qualche parte,
urgente e
angosciato.
La
luce di Isabel li avvolse con amore e in un battito di palpebre
furono tutti nella sicurezza del rifugio, solido e immobile, fortezza
impenetrabile.
Rimasero
in silenzio, sconvolti dal cambio così improvviso, dal
ventre di una
catastrofe alla dolce sicurezza della loro casa, mentre tutto gli
passava davanti agli occhi, il cuore ancora accelerato dalla paura.
Hersen
era riuscito a farla franca. Forse perito nel crollo del palazzo,
anche se nessuno ci credette davvero.
Sam
fu la prima a reagire, lasciò andare la mano di Michelangelo
e si
allontanò verso il laghetto, mogia e con le spalle curve. Il
peso di
ciò che era successo, l'orrore di ciò che era
diventata, la investì
e la pressò.
Mikey
fece alcuni passi verso di lei, ma si tenne a discreta distanza,
rispettando i suoi spazi e il suo dolore.
Il
corpo giallo tremava sottilmente, le mani strette a pugno, forte,
spasmodicamente.
“È
morto?”domandò con voce roca e fu per tutti una
sorpresa sentirla
parlare, a giudicare dai respiri trattenuti.
Michelangelo
si avvicinò di un altro passo.
“No,
mi dispiace. Non ho mantenuto la promessa. Ho paura che Hersen
l'abbia fatta franca anche stavolta” rispose penosamente, il
volto
chino di vergogna, sebbene lei non potesse vederlo.
Samantha
non diede segno di averlo sentito o probabilmente la rabbia che
provava non le permetteva di rispondere, di prendersela con lui
com'era giusto. Avrebbe dovuto urlare e maledirlo per non aver ucciso
l'assassino di sua sorella, per non aver vendicato la sua morte.
Per
aver lasciato un bastardo come Hersen libero di fare altre malefatte,
di poter attentare ancora alla sua vita.
Si
sentiva in colpa, per aver lasciato che lui la trasformasse. Per
averle fatto provare ancora più dolore.
Un
sibilo rauco si diffuse nel silenzio, graffiante eppure allo stesso
tempo melodico, e benché per tutti fosse estraneo,
Leatherhed
sollevò il capo al sentirlo e fu per tutti chiaro che fosse
Sam a
produrlo.
Forse
inconsciamente.
Michelangelo
si voltò confuso verso il coccodrillo amico, sollevando le
sopracciglia. Leatherhead scosse la testa lentamente, poi
modulò a
sua volta una risposta, un gorgoglio basso e rassicurante, che si
armonizzava perfettamente con la melodia di Sam.
Lei
si girò, sorpresa, e gli rivolse un lieve sorriso, niente
più che
uno stiramento di labbra.
Poi
i suoi occhi si fissarono su Mikey, e lui rimase immobile per non
spaventarla, per non pressarla.
“Cercherò
Hersen e lo ucciderò. Non mi fermerò
finché non l'avrò trovato,
finché non l'avrà pagata” le promise,
anche se lei avrebbe avuto
tutte le ragioni del mondo per non credergli, stavolta.
Sam
negò dolcemente, senza staccare lo sguardo dal suo,
accorciando la
distanza tra loro.
Allungò
le mani squamose verso di lui e circondò il suo viso.
Lo
studiò attentamente, gli occhi grigi a fessura lo scrutarono
da
sopra a sotto, in ogni lato, occhieggiando le macchie di sangue,
cercando tracce delle ferite che lo avevano quasi ucciso; lui
riuscì
a leggere pena e preoccupazione e sentì di non meritarsele.
“Pensavo
di aver perso anche te” mormorò Sam,
sovrappensiero, come se lo
stesse dicendo più a sé stessa.
“Sto
bene, Isabel mi ha guarito” disse Mikey con leggerezza,
benché la
sensazione della morte ancora gli stringesse la gola. Le sorrideva,
ma la sua premura e le sue mani calde che lo toccavano gli scaldavano
il cuore e ne acceleravano i battiti.
Gli
occhi di Samantha si spostarono per un attimo sulla donna tra le
braccia di Raphael, quasi con riconoscenza, prima di ritornare su
Mikey e sorridergli.
Un
sorriso puntuto e tutto denti aguzzi, ma Michelangelo lo
trovò
bellissimo comunque.
Sam
lo lasciò andare e lo colpì con un pugno leggero
alla spalla,
niente più che un buffetto innocuo, forse per paura di non
riuscire
a controllare la sua forza in quella forma.
Mikey
ridacchiò del gesto, per niente offeso.
“Ti
piace davvero farmi spaventare, eh, coso?”
Lui
annuì entusiasta, ridendo più forte,
finché lei non si soffermò a
guardare la sua mano, rigirandola davanti alla faccia con espressione
trasfigurata.
“Melissa
era... così?” domandò dopo qualche
istante, stranamente quieta.
“Sì,
più o meno. Melissa non poteva parlare e non ricordava
niente di sé,
probabilmente la sua mutazione era leggermente diversa” si
intromise Donatello con voce gentile.
“Ma
ricordava te. Ricordava che eri bella e ribelle, forte e
dolce”
aggiunse Michelangelo immediatamente.
Sam
si sporse verso il laghetto e si specchiò sulla sua
superficie.
“Sono
un mostro” esalò con disgusto e rabbia.
“Creato per attaccare e
fare del male. E per creare altri mostri.”
Michelangelo
l'afferrò per le spalle, la fece voltare e la tenne
ancorata, perché
non scappasse dal contatto.
“Sei
bellissima. Se pure rimanessi così per sempre, saresti
perfetta. E
se tu sei un mostro, lo sarei pure io. E ti ho già detto che
sono un
modello, o no?”
Samantha
sbuffò dal naso e lo colpì ancora una volta, con
un sorriso obliquo
e una rollata di occhi al cielo.
“Troveremo
un antidoto per te e gli altri umani” incalzò
Donnie, attirando
nuovamente la sua attenzione. “Ci vorrà un po' di
più, forse, ma
ti giuro che non riposeremo finché non ti avremo
ritrasformata in
un'umana.”
Leatherhead
le disse qualcosa con quei gorgoglii che gli altri non potevano
capire e Sam sorrise apertamente, abbassando la testa per un attimo,
quasi in imbarazzo.
“Adesso
sei davvero il mio papà” disse infine,
più speranzosa di quanto
volesse suonare.
Le
pupille di Leatherhed si strinsero a fessura di emozione repressa,
per un secondo, prima di aprirsi in un grande sorriso, il
più vero e
totale e umano che gli avessero mai visto fare; sprizzava
felicità e
tranquillità.
“Solo
se tu lo vuoi, ne sarei felice” soffiò di cuore,
mentre Sam gli si
faceva incontro, stringendola infine tra le braccia.
La
minaccia di Hersen era solo rimandata, lo sapevano tutti, che da
quell'istante in avanti avrebbero dovuto fare attenzione e cercare le
sue tracce nelle notizie più insospettabilmente innocue,
sempre sul
chi vive e a guardarsi le spalle; ma in quel momento, tutti testimoni
dell'emozionante abbraccio tra il coccodrillo senza controllo e la
ragazza mutata senza legami, nessuno riusciva a preoccuparsene.
Importava
solo Sam, importava solo riportare tutto alla normalità.
E
Isabel giurò in cuor suo che avrebbe protetto quella
ragazza, con
tutte le sue forze, come proteggeva ogni componente di quella enorme
e stravagante famiglia.
Nei
giorni seguenti Don e Leatherhead lavorarono senza sosta, aiutati da
Isabel e perfino da Steve, che aveva qualche conoscenza di chimica.
Era
una corsa contro il tempo, nel tentativo di aiutare Sam a tornare
com'era il prima possibile.
Lei
vedeva i loro sforzi e li apprezzava, segretamente, e cercava di non
farsi schiacciare dalla paura che sarebbe potuta rimanere
così per
sempre.
Continuava
a vivere al rifugio, come prima, non si specchiava mai e indossava i
suoi vestiti sulle squame gialle, cercando di coprirsi il
più
possibile; l'unica cosa che le piaceva del suo nuovo aspetto erano i
suoi occhi, quelle pupille ferine che le consentivano di vedere anche
al buio.
Mikey
le stava attorno in ogni momento concesso, ma c'era anche Angel che
andava a trovarla e le teneva compagnia.
E
il sensei aveva iniziato a insegnarle il ninjitsu perché
potesse
proteggersi, e April e Casey e i loro bambini passavano spesso a
vedere come stesse.
Non
era mai sola, col suo dolore ed i suoi pensieri, ed era assurdo. Ma
non si era mai sentita così amata.
Da
una parte desiderava tornare normale, sé stessa, con tutte
le forze;
dall'altra temeva che una volta finito tutto, loro non avrebbero
più
avuto un motivo per volerla frequentare.
La
fine di Settembre era ormai vicina e il matrimonio ormai solo ad un
giorno di distanza.
Dovevano
andare alla fattoria Jones per iniziare i preparativi, ma nessuno
osava muoversi finché non avessero finito quel dannato siero.
L'agitazione
di Sam crebbe ancora, al pensiero che potessero rimandare il
matrimonio per colpa sua.
Non
conosceva Isabel e Raphael da molto, ma poteva vedere come si
amassero e quanto desiderassero stare assieme, aveva captato stralci
di conversazioni sulla loro storia e si era fatta una vaga idea di
cosa avessero dovuto affrontare per stare semplicemente assieme,
perciò capiva che quel matrimonio era importante e che non
desiderassero altro che arrivasse quel momento.
Eppure
Isabel non faceva altro che lavorare per poter trovare un antidoto
per lei e Raphael dava una mano come poteva nel dojo o battibeccava
con Michelangelo con spensieratezza, tutto per il suo beneficio e di
chi stava loro attorno, senza fare mai menzione al tempo perso e al
grande giorno che si avvicinava sempre più.
Era
tardi pomeriggio, avrebbero davvero dovuto essere già in
viaggio
verso la fattoria per addobbare per il giorno dopo, invece sedevano
tutti nella zona video, Angel e i Jones al completo, a guardare un
film appena uscito al cinema che Don aveva scaricato più o
meno
legalmente.
Sam
lo guardava mezzo distratta, sia per il pensiero che fosse davvero
tardi, sia per Michelangelo al suo fianco che continuava a commentare
le scene a mezza voce, arrabbiato contro i cambiamenti di trama
rispetto al libro.
“Perché,
tu leggi?” sussurrò sarcastica a voce bassa,
così che solo lui la
sentisse.
Mikey
si voltò a guardarla con un sorrisetto furbo, per nulla
offeso. Ed
era quello che le piaceva di lui, quel suo essere sempre pronto a
scherzare, quel non prendersi né prenderla mai sul serio.
“Certo
che sì. E scrivo anche, se ti interessa saperlo”
le confessò con
un mezzo ghigno compiaciuto.
Sam
sollevò le arcate sopracciliari, forse sorpresa, ma non
disse nulla.
Un
uragano uscì di corsa dal laboratorio, Don in testa,
Leatherhead
subito dietro e poi Isabel e Steve a chiudere la fila, esagitati ed
emozionati.
Era
strano vederli tutti col camice da laboratorio.
Capirono
tutti il perché della loro agitazione e si alzarono dai
divani in
sincrono, mentre il film scorreva dimenticato. Dal dojo emersero Leo
e Raph e Splinter, forse richiamati dal rumore.
“Ci
siete riusciti?”
La
voce di Michelangelo non esprimeva né speranza né
delusione e Sam
non riuscì a capire cosa si aspettasse poi davvero.
Donnie
annuì con vigore, con un sorriso, nonostante le occhiaie
stanche ben
visibili sotto la maschera. Anche gli altri erano visibilmente
stanchi e provati, ma i loro sorrisi illuminavano i loro volti.
“Siamo
sicuri di sì.”
Aveva
una siringa già pronta e Sam si avvicinò a
piccoli passi, senza
riuscire a staccare gli occhi dal liquido blu che lo riempiva.
Gli
offrì il braccio senza esitazione.
“Qui?
Ora? Sarebbe meglio nel labora-”
“Adesso”
lo interruppe decisa lei, protendendo il braccio con più
vigore.
La
mano di Donatello la afferrò con gentilezza, un dito
saggiò la
pelle squamosa in cerca di una vena, poi con un gesto veloce e sicuro
la punse e iniettò il liquido.
Sam
non emise un suono. Rimase a guardare mentre lui toglieva la siringa
e passava un batuffolo freddo e bagnato sulle sue squame, poi
sollevò
lo sguardo su Leatherhead e lui le sorrise con fiducia.
“Mikey,
afferrala e tienila stretta. La mutazione non sarà una
passeggiata”
sentì dire ad Isabel, con pena e un tocco di apprensione.
Michelangelo
non se lo fece ripetere due volte e con premura e dolcezza la
attirò
verso di sé e la strinse e Sam, la Sam del passato, avrebbe
protestato per quel contatto intimo; la Sam di quel momento invece,
si lasciò andare un po' contro di lui, aspettando il dolore.
“Andrà
tutto bene, finirà in fretta. E se hai bisogno di afferrarti
a
qualcosa, io sono tutto muscoli.”
Sam
ricacciò giù la risatina che le parole di Mikey
le avevano
suscitato e si tenne stretta, sentendo già che qualcosa nel
suo
corpo stava cambiando,
Sentiva
un brivido gelido spandersi nel petto, fluire seguendo il reticolato
di vene e arterie fino ad arrivare ad ogni cellula del suo corpo.
Che
iniziò sottilmente a vibrare.
La
presa di Mikey divenne più ferma, ma non soffocante.
Il
gelo venne sostituito in fretta da una colata di calore e bruciore e
si morse il labbro per non urlare, ma non riuscì a fermare
il sibilo
che la sua forma mutata produceva.
Don
bloccò Leatherhead con un braccio, fermando il suo slancio
verso la
figlia, visibilmente sotto stress e dolore.
Sam
iniziò a mutare, sotto i loro occhi: le squame assunsero una
colorazione rosea e carnale, prima di trasformarsi in pelle soffice
sul corpo e a svanire sulla testa lasciando che i capelli
ricrescessero in lunghi boccoli morbidi e dorati.
Il
suo viso era nascosto nel petto di Mikey, ma sperarono e pregarono
che anche lì stesse tornando come prima.
Michelangelo
sentiva il dolore scuoterla e irrigidirle gli arti ad ondate, e
cercò
di essere di sostegno e conforto, per quanto potesse. Sperando che
bastasse.
Rimase
immobile, a cullarla sottilmente mentre le diceva tenere e buffe
sciocchezze sottovoce, finché non smise di vibrare e rimase
a
prendere grandi respiri sofferti, ancora contro il suo petto.
Aspettarono
tutti che Sam, di nuovo umana, si scostasse e si facesse vedere..
Ma
lei rimase stretta nell'abbraccio, finché il respiro non
tornò
normale, appena percettibile. E poi, benché fosse tutto
finito, non
diede segno di volersi scostare.
Forse
per paura.
“Capisco
che abbracciarmi deve essere un sogno per te, ma potrei pensare male,
se non mi lasci andare” disse Michelangelo a voce abbastanza
alta,
perché tutti potessero sentirlo.
Sentirono
la risatina soffocata di Sam e poi lo strillo di Mikey quando lei lo
pizzicò sulla spalla, prima che lui si scostasse per poterla
osservare, permettendo anche agli altri di vederla: il suo viso a
cuore di nuovo contornato dai bei boccoli, il naso a bottoncino, i
bei zigomi e la bocca piccola. Tutto come prima.
Come
gli occhi grigi che risposero al suo sguardo, prima di osservarsi con
scrupolo le mani e ogni altra parte del corpo, di passarle nella
cascata di boccoli biondi e per finire di mettere la testa un attimo
dentro la maglia per controllare che anche lì fosse tutto ok.
La
sentirono sospirare di sollievo e scappò più di
una risatina. Erano
tutti euforici in fin dei conti.
“Sono
a posto” annunciò, come se loro non lo vedessero.
Si
voltò verso Leatherhead e scrutò nel suo sguardo
se potesse esserci
delusione, ma il coccodrillo mutante le sorrise e annuì
piano,
felice, gorgogliando con soddisfazione.
Si
accorse con stupore che riusciva a capirlo, ancora, nonostante fosse
di nuovo umana.
“Allora
possiamo curare anche gli altri umani mutati e rimandarli a
casa!”
esclamò fuori di sé Don, lasciando andare un
sospiro di sollievo e
un grido di esultanza che la sorpresero.
Ritornare
a casa. Anche lei avrebbe dovuto tornare in superficie, a
“casa”,
ma non c'era nessun posto che lei sentisse casa più di
quella
assurda famiglia.
Ovunque
loro fossero.
E
benché volesse esternare quell'affetto e dire loro che li
amava,
tutti, e che voleva rimanere con loro ed essere parte della famiglia,
il suo orgoglio e la paura di essere rifiutata, ancora, fecero morire
le parole nella sua gola.
Non
voleva risultare patetica ai loro occhi, non voleva che provassero
pena per lei.
“Dovrei
andare anche io a casa, allora” mormorò
sottilmente, senza
guardare nessuno in viso, iniziando ad allontanarsi da loro.
Ci
furono un paio di bruschi respiri, prima che la voce di Isabel
sbottasse:
“Cosa
stai dicendo? Tu sei già a casa!”
Samantha
sollevò lo sguardo e la guardò, timorosa, e
Isabel le sorrideva con
fare saputo e anche gli altri le sorridevano contenti, quando i suoi
occhi scivolarono intorno per cercare altre conferme.
“Beh,
loro sono la tua famiglia, ma non io” disse Michelangelo, con
tono
stranamente incolore, sorprendendo tutti.
“Io
invece voglio essere il tuo spasimante-barra-ragazzo, ma ovviamente
prima devi accettare di uscire con me e quindi io prima devo
chiedertelo e questo mi sembra il momento giusto: Sam, vuoi uscire
con me? Mi sono innamorato di te da praticamente subito, e ormai ho
bisogno di te, sarebbe crudele da parte tua dirmi di no!”
Lo
aveva detto tutto d'un fiato, con la sua solita parlantina e
scioltezza, con un mezzo ghigno in volto di spavalderia che tutti
sapevano non provasse davvero, non in quel momento.
Attesero
col magone, anche se sapevano di essere di troppo e che sarebbe stato
più decente lasciarli da soli in quel frangente, ma nessuno
si
mosse; Michelangelo non sentiva nemmeno più le gambe, e
doveva aver
smesso di respirare alla fine della sua confessione.
Samantha
si voltò con calma calcolata, osservandolo con quella sua
espressione di scetticismo e sarcasmo, altera.
A
Mikey ricordò la prima volta in cui l'aveva incontrata,
nascosta
sotto quella felpa enorme e il capellino stinto.
La
videro lasciare andare un sospiro.
Separò
la distanza tra lei e il mutante con la benda arancio in un attimo,
più veloce di quanto credessero fosse capace,
afferrò il suo viso,
si sporse verso l'alto e lo baciò, in un unico gesto fluido.
Michelangelo
ci mise almeno dieci secondi prima di capire che stesse succedendo
davvero, stringendola poi a sua volta con così tanta foga da
sollevarla dal suolo.
Qualcuno
lanciò un fischio di ammirazione, qualcun altro
esultò, c'erano
perfino degli applausi in sottofondo ed esclamazioni di
felicità.
E
lui sentiva di stare toccando il cielo con un dito.
Neppure
quando era stato Aria coi poteri di Isabel si era sentito
così
leggero e senza peso, capace di volare, perfino.
Il
bacio finì quando Sam si staccò con una dolcezza
di cui nessuno la
credeva capace, fissando poi il suo sguardo in quello di Mikey.
Lui
sussultò impercettibilmente, al vedere le sue pupille per un
secondo
a fessura, spilli scuri contornati dal grigio, prima di tornare
normali.
Era
rimasto qualcosa di coccodrillesco in lei, a quanto pareva.
“Non
hai saputo resistermi perché sono troppo carino,
vero?” soffiò
ancora ad uno schiocco di labbra, più ardito e baldanzoso di
prima.
Non
stava nemmeno toccando il suolo dalla felicità e si accorse
con
stupidità che ancora la teneva sollevata e benché
riluttante la
poggiò al suolo, senza lasciarla però andare.
Non
ne sarebbe stato capace.
“Continua
a crederci, coso” rispose lei, sollevando un sopracciglio.
Mikey
rise dal cuore, prima di baciarla ancora, con trasporto e passione,
ignorando tutte le risatine e i commenti in sottofondo, ogni fibra di
sé e della sua mente solo sulla splendida giovane donna che
rispondeva al suo bacio senza disgusto, con la stessa passione; con
lo stesso amore?
“Non
riesco a credere che Mikey sia stato davvero il secondo a trovare la
ragazza. Non ce lo farà mai dimenticare” disse la
voce fintamente
seccata di Raphael, seguita da uno scappellotto della sua fidanzata.
Michelangelo
si staccò riluttante da un altro bacio, giusto il tempo di
chiedere
velocemente: “Questo era un sì, giusto? Alla mia
proposta,
intendo. Sai, per esser sicuro.”
Sam
ridacchiò sulle sue labbra, ma non gli rispose davvero,
preferendo
continuare a baciarlo piuttosto che parlare.
“Ragazzi,
è tutto magnifico, sul serio, ma ora basta pomiciare davanti
a
tutti! Abbiamo un matrimonio in meno di ventiquattro ore” li
rimproverò senza cattiveria Don, dopo parecchi minuti in cui
non si
decidevano a staccarsi uno dall'altra.
Il
fratello lasciò andare Sam, infine e guardò
Donnie con uno sguardo
furbo e scintillante.
“No,
non il vostro matrimonio! È decisamente presto per
quello”
aggiunse il genio, ciondolando la testa di qua e di là,
sospirando
con forza.
Michelangelo
mise su un finto broncio offeso, prima di spalancare gli occhi come
fulminato da un pensiero e voltarsi in fretta verso Leatherhead: il
coccodrillo lo osservava con gelido silenzio, e benché i
suoi occhi
fossero diventati a fessura non dava segno di volerlo attaccare.
“Ehi,
uhm, Leatherhead... nulla in contrario se esco con tua figlia,
giusto?” domandò con un po' della baldanza che
andava via,
leggermente in soggezione.
Il
silenzio divenne totale, gli occhi di tutti ormai calamitati verso il
coccodrillo mutante in attesa della sua risposta, alcuni di loro un
po' preoccupati dall'aura di severità e disapprovazione che
sembrava
emanare.
Isabel
sentì Raphael che si irrigidiva al suo fianco, forse pronto
ad
intervenire se l'amico avesse deciso di attaccare suo fratello.
Leatherhead
non aveva nulla in contrario, ovviamente, ma si stava godendo quegli
istanti per tenerlo sulla corda, per una volta che aveva la
possibilità di prendere in giro Michelangelo.
Sam
intuì facilmente i pensieri del padre e ridendosela tra
sé e sé
emise un sibilo leggero, sorprendendo lui e gli altri, comunicandogli
qualcosa che gli fece cadere la maschera di severità e lo
fece
sorridere, facendolo scoprire. I suoi occhi tornarono all'istante
normali.
“Michelangelo,
mio buon amico, certo che non ho nulla in contrario. Tuttavia
gradirei che pomiciaste, come ha detto Donatello, in momenti
più
consoni. Magari non sotto il mio muso, ecco.”
Sam
gorgogliò, e capirono tutti che stava sgridando Leatherhead,
anche
perché lui rise in imbarazzo, e Mikey si unì alla
risata,
stringendola forte e scoccandole un bacio sulla guancia.
“Saremo
l'esempio della castità, papà Leatherhed,
promesso. Almeno finché
ci sarai tu.”
Sam
gli mollò un pugno contro il braccio, prima che Mikey la
stringesse
ancora una volta, nascondendo il viso tra i suoi boccoli dorati: le
disse qualcosa che la fece arrossire, ma anche sorridere apertamente.
Ed
era bello vederla così felice. E sapere che Mikey era la
causa e
beneficiario di quella felicità.
Lei
si divincolò e gli scoccò un casto bacio a fior
di labbra.
“Ok,
per adesso basta, coso. Dobbiamo pensare al matrimonio, o brontolo
lì
potrebbe dare di matto” disse indicando Raphael, che mise su
un
mezzo broncio offeso, soprattutto perché Isabel era
scoppiata a
ridere più forte degli altri al suo soprannome.
In
mezzo alle risate e all'euforia, alla fin troppa felicità,
tutti si
mossero e si organizzarono, tra chiacchiere e corse contro il tempo,
chi curando poveri umani mutati che poi vennero accompagnati in
ospedale perché se ne potessero prendere cura e potessero
riportarli
alle loro famiglie, chi inscatolando e imballando tutte le cose e gli
ingredienti che sarebbero serviti per l'indomani, chi organizzando e
chi godendosi i primi felici momenti nello stringere nelle braccia la
persona che amava. Che lo riamava.
A
sera inoltrata, tre furgoni pieni da scoppiare di chiacchiere e
sorrisi, e stanchezza, anche, partirono dal garage abbandonato tra la
Eastman e Laird, in direzione Nord, verso una fattoria immersa nel
verde, riparata e intima, perfetta per scambiare promesse eterne.
Note:
Salve!
la mini-storia di Mikey è finita,
e abbastanza bene direi. Più avanti, nella quarta storia, si
vedranno stralci della sua relazione con Sam, per adesso sappiamo che
lei ricambia il suo interesse ed è una molto diretta, gli
è saltata praticamente addosso.
Adoro che Leatherhead l'abbia praticamente adottata, e che lei abbia
ancora qualcosa di coccodrillesco, anche una volta tornata umana. Adoro
Sam e la sua relazione con Mikey, li trovo perfetti assieme.
Questo era il penultimo capitolo,
arrivederci al prossimo, l'ultimo di questa storia, il matrimonio tanto
atteso.
Un abbraccione fortissimo a chi è
arrivato fin qui.
Grazie
|
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Capitolo 44 *** Yes, I do ***
C'era
già un chiacchiericcio diffuso, voci che si sommavano una
all'altra,
risate piene e ridolini emozionati, in attesa.
Raphael
spaziò con lo sguardo attorno, registrando i già
molti invitati
presenti, che salutavano i nuovi arrivati, che prendevano posto, che
mostravano ad altri le decorazioni e le preparazioni fatte in tempo
di record.
Le
facce stanche e tirate dei suoi familiari e amici spiccavano nella
folla, -avevano fatto i salti mortali per preparare tutto nelle poche
ore che gli erano rimaste una volta raggiunta la fattoria la sera
prima,- eppure sorridevano così tanto da essere quasi
raggianti.
Leo
faceva da chaperon ad un folto gruppo che comprendeva Usagi, Tomoe,
Gennosuke, Faraji, Tora, Adam e Joi, tutti impegnati in una fitta e
animata chiacchierata che probabilmente verteva sul nexus e sulle
lotte. Dal modo in cui Joi si teneva al braccio di Adam capì
che tra
i due dovesse esserci qualcosa di più che semplice amicizia
e la
cosa non poté che fargli piacere.
Splinter
stava intrattenendo una pacata e noiosa conversazione col Daimyo,
incredibilmente senza scorta per una volta, Leatherhead, Honeycutt,
il Professore e Traximus. tutti seri e impettiti a dirsi
chissà che.
Uè,
il figlio del Daimyo, invece era tutto un sorriso, mentre Steve
emozionato gli presentava la sua famiglia, suo padre Howard, suo
fratello minore Patrick e la sua sorellina Olivia: la piccola si
azzardò a toccare un orecchio a punta del principe della
dimensione
Nexus quando quello si inchinò a salutarla, e Steve
squittì di
imbarazzo, rosso come un pomodoro, mentre l'amico rideva della sua
reazione, per nulla offeso; anzi, aveva preso Olivia in braccio con
naturalezza, permettendole di studiarlo meglio.
Steve,
se possibile, era diventato ancora più rosso.
Raphael
non poté fare a meno di ridere quietamente alla scena, prima
di
voltarsi a guardare i Jones: Casey seguiva come un disperato Carl che
correva da tutte le parti con un cestino di petali in mano, che
avrebbe dovuto spargere solo appena prima del passaggio della sposa,
ma che in realtà faceva volare in ogni dove con gioia; April
si era
finalmente decisa ad intervenire e aveva passato un semi-addormentato
August tra le braccia di Donnie lì accanto ed era scattata
alla
rincorsa del marito e del figlio maggiore, cercando di tenere su una
facciata arrabbiata, ma fallendo miseramente alle espressioni dei
due.
Soli,
seduti nell'angolo più lontano dall'arco di fiori dove si
sarebbe
celebrata la cerimonia, c'erano gli Shisho: Chikara, Kon, Hisomi,
Juto e l'Antico, in silenzio e tensione, i loro occhi normali e umani
si guardavano intorno con sospetto e forse perfino timore.
Raphael
non li voleva lì, non li avrebbe mai invitati nel giorno
più
importante della sua vita, li detestava, -forse li odiava perfino,-
gli avevano fatto così male, lo avevano portato quasi alla
pazzia
con le loro azioni. Ma Isabel aveva insistito così tanto, e
lui non
sapeva dirle di no. Era stata convincente.
Gli
aveva detto che erano rinati, che erano diversi, che dovevano dar
loro una seconda chance e provare a ricostruire un rapporto almeno di
rispetto, per il futuro non solo loro, ma anche del ninjitsu. E poi,
aveva continuato, l'Antico l'aveva un po' aiutata, ed era un po' come
fosse il loro nonno, era di famiglia.
Raph
continuava a non fidarsi di loro, ma sapeva che ormai erano
praticamente innocui e che se avessero anche solo provato a
starnutire nella direzione sbagliata, Isabel li avrebbe polverizzati
all'istante, senza riportarli in vita subito dopo.
Osservò
con stupore la madre di Casey che si avvicinava al gruppetto di ex
Dei del ninjitsu, con baldanza e sicurezza tipica dei Jones, e
iniziava ad intavolare una discussione con loro, cercando di farli
sentire a proprio agio.
Un
punto per la vecchia Jones.
Erano
già quasi tutti lì, Angel e Sam erano con Isabel
per aiutarla a
prepararsi, ovviamente, gli unici che per Raphael erano dei perfetti
estranei erano la giovane donna e il vecchietto alle sue spalle,
entrambi vestiti di una tonaca gialla, entrambi quieti e sorridenti e
incredibilmente calmi per essere appena arrivati in mezzo ad un folto
gruppo che comprendeva mutanti, alieni e un robot che un tempo era
stato un alieno dalla forma umana.
Non
li conosceva, ma li aveva già visti nei ricordi di Isabel:
la
giovane donna coi biondi capelli così ricci da sembrare
vortici, che
poi era diventata amica di Isabel, nonostante l'inizio burrascoso, e
il vecchietto canuto e dall'aria apparentemente fragile, che era poi
diventato il reggente del regno e che lo controllava al suo posto.
Michelle
e Jervis, entrambi maghi, entrambi officianti della cerimonia.
Isabel
gli aveva spiegato che il loro matrimonio sarebbe stato un miscuglio
tra un rito civile normale e alcune pratiche e formule del regno dei
maghi e Raphael aveva fatto attenzione a studiare per bene i
procedimenti per non fare brutte figure.
Comunque,
l'apparente calma dei due era sconcertante.
La
giovane donna si accorse che lui la stava osservando e gli rivolse un
gran sorriso cortese.
“Ehm,
noi... non ci siamo presentati, io sono Raphael, lo... sposo”
tentennò a dire, davvero poco da lui, valutando le loro
reazioni. I
due non fecero una piega, ma gli sorrisero perfino di più,
con un
lieve inchino nella sua direzione che Raph reputò eccessivo.
“È
un piacere conoscervi, la nostra Regina ci ha parlato molto di
voi”
disse affabile il vecchietto, con uno scintillio furbo negli occhi
chiari.
Gli
fece strano sentir chiamare Isabel 'Regina', ma era quello in
effetti, per loro.
“Mi
chiedevo in effetti come poteste essere così calmi in mezzo
a...
tutti noi” rispose con un lieve ghigno, cercando di fare
spallucce.
Poi si ricordò che non voleva che l'abito si spiegazzasse e
si
limitò ad un gesto vado con la mano.
“Oh”
esalò Michelle, che aveva capito cosa lui intendesse.
“No, non ci
ha parlato del vostro aspetto, ma non ha alcuna importanza per noi.
Ci importa solo della felicità che date alla nostra
Regina.”
Raph
arrossì suo malgrado, in imbarazzo, e piegò la
testa per nascondere
la sua espressione ai suoi ospiti, anche se seppe con certezza che
loro stessero seguendo ogni più piccola variazione sul suo
viso.
Erano
davvero strani, i maghi. Ne era certo sin da quando aveva conosciuto
Isabel, ma in quel momento ne ebbe la completa conferma.
“Se
siete preoccupato per la cerimonia, state tranquillo, non
sarà
troppo strana e noi vi diremo passo passo cosa fare.”
Gli
sorrise con gratitudine, anche se non era certo quello a renderlo
nervoso.
“Grazie,
mister Jervis. Ma per favore mi dia del tu, sono semplicemente
Raphael.”
Il
vecchietto scosse piano la testa, gli angoli della bocca rugosa
piegati all'insù e quello scintillio negli occhi sempre
presente.
“Non
sarebbe opportuno. State per diventare Principe Consorte di un regno
potente, se la Regina Isabel non è riuscita a farsi dare del
tu
nonostante io l'adori come fosse mia nipote dubito che ci riusciate
voi, Altezza.”
Principe
Consorte. Non ci aveva minimamente pensato, l'idea non lo aveva
nemmeno mai sfiorato e in quel momento, unito all'agitazione del
matrimonio, gli bloccò quasi il respiro.
Principe
Consorte di un regno. Lui, Raphael. Gigantesca tartaruga mutante con
problemi di gestione di rabbia, meno di prima, ma sempre presenti.
Avrebbe riso se non fosse un pensiero paralizzante. Si chiese cosa
avrebbero mai detto i suoi futuri sudditi nel vederlo.
Poi,
però, si disse che non era importante. Non lo era affatto e
non gli
importava davvero.
Non
gli importava che Isabel fosse una regina e che nella sua vita fosse
compreso un regno lontano che la venerava, perché non era
una cosa
che la definiva.
Isabel
era solo Isabel e lui l'amava infinitamente, più di
qualsiasi altra
persona al mondo, e sposandola avrebbe accettato ogni sfaccettatura
di lei, ogni sfumatura, anche quelle che non conosceva.
“Spero
di essere all'altezza” mormorò con un lieve cenno
del capo nella
loro direzione e le loro espressioni soddisfatte gli dissero che era
proprio quello che loro volevano sentirsi dire.
Di
essere all'altezza di Isabel, di renderla felice e metterla sempre al
primo posto.
L'agitazione
era sempre lì, nel plesso solare appena più su
dello stomaco e
ormai era tutto pronto, tutti avevano preso posto, perciò
non
mancavano che pochi attimi ancora prima dell'inizio della cerimonia.
Ingoiò
a vuoto, con le mani sempre più sudate e tutto il corpo
teso.
Sentiva i mormorii dei suoi amici e degli invitati, sussurri flebili
che scivolano di posto in posto fino a lui, ma non si faceva
distrarre da nulla: tutta la sua attenzione era solo sulle tende
svolazzanti alla fine dello spazio, da dove lei sarebbe dovuta
entrare.
Tutto
il resto non contava.
“Ehy,
amico, rilassati” disse Casey, poggiandogli una mano sulla
spalla
per attirare la sua attenzione.
Gli
gettò un'occhiata distratta, cercando di non pensare a come
lo
smoking non donasse affatto all'amico. Era un tipo più
sportivo e
con un abito elegante sembrava come uno scimmione vestito. In senso
buono, se esisteva un senso buono di una cosa del genere.
Trasse
un grosso respiro per cercare di calmarsi.
“Voglio
dire, non è che tarderà o non si
presenterà” esclamò, cercando
di rassicurarlo, con le parole sbagliate.
“Sta
zitto, Case'!”
L'omone
gli sorrise, nonostante lui avesse usato un tono vagamente seccato, e
rafforzò la presa nelle dita, stringendogli la spalla in una
morsa
affettuosa.
“Non
sarebbe giusto se non fossi ansioso, credimi.”
“Perché
dovrei essere ansioso? Se un idiota come te si è sposato,
perché
non dovrei farlo io?”
Casey
non rispose alla sua provocazione, ma gli sorrise, comprendendo il
suo nervosismo.
“Vado
alla postazione musica al posto di Mikey, ci vediamo dopo”
gli
disse invece, dandogli una pacca affettuosa sul braccio. Il fratello
spiegò alcune cose all'amico, alcuni bottoni e tempistiche,
a quanto
pareva dal gesticolare enfatico di Mikey, poi quello lo raggiunse,
con un gran sorrisone felice.
Michelangelo
emanava felicità pura, tutta quella che lui non riusciva ad
esprimere a parole.
“Sta
per arrivare, fratello. Ed è bellissima, aggrappati a
qualcosa
perché rischi di svenire” chiosò, con
una strizzatina d'occhio
complice.
Raphael
rollò gli occhi al cielo, intimamente grato della presenza
del
fratello, che sapeva farlo rilassare. Tuttavia non cadde nella sua
esagerazione, sapeva già quanto bella fosse Isabel, nessuno
la
conosceva come lui, nessuno conosceva tutte le sue espressioni, tutte
le splendide fossette e linee del suo corpo, le sfumature che
prendevano i suoi occhi ad ogni diverso stato d'animo.
Eppure
si sbagliava e ancora non lo sapeva.
Con
uno schiarimento di gola, Casey attirò l'attenzione e fece
partire
la musica, un lieve trillo di pianoforte, leggero e melodico, mentre
il piccolo Carl si incamminava piano per lo spazio centrale tra le
file di sedie, gettando manate di petali con poco garbo, tirandoli
quasi in faccia alla gente.
Raph
scoppiò quasi a ridere, si trattenne solo con un enorme
sforzo.
Le
tende sul fondo si scostarono leggermente e Sam apparve, un po' in
imbarazzo e impacciata, di certo poco felice di essere al centro
dell'attenzione: Mikey squittì d'emozione al suo fianco, e
Raph si
ritrovò a rollare gli occhi al cielo per la seconda volta in
nemmeno
cinque minuti. I due non si staccavano lo sguardo uno dall'altra, e
in un'altra occasione Raphael avrebbe preso in giro il fratello, ma
in quel momento non era importante.
La
tenda oscillò ancora e questa volta fu Angel a raggiungerli,
camminando elegantemente sul tappetto di fiori: lei e Sam erano
vestite con due abiti della stessa forma, ma di due diversi colori
pastello e Raph notò distrattamente che anche April ne aveva
uno
simile, ma era seduta tra Don e Leo con in braccio August, forse
preferendo lasciare il suo posto da damigella a Sam.
Lo
trovò un gesto molto carino per far sentire la nuova
arrivata come
una di famiglia.
Entrambe
le donne presero posto di fronte a lui e Mikey, ma un po' scostate, e
gli mandarono un ghigno compiaciuto.
La
musica cambiò, il classico squillo di trombe nuziali si
sparse in
ogni dove e Raphael si irrigidì, inconsciamente, lo sguardo
fisso
sulle tende che sventolavano nella lieve brezza.
Fu
Splinter a scostare la tenda per l'ultima volta, permettendo alla
donna al suo braccio di passare prima di lasciarla ondeggiare ancora.
Trattenne
il fiato e si maledì per non avere creduto a Mikey.
Era...
bellissima era riduttivo. Splendida. Meravigliosa. Eterea e perfetta.
Radiosa. Sembrava brillare da quanto sorridesse e per una volta non
per merito della magia.
Non
conosceva abbastanza parole per descriverla e non aveva le
facoltà
mentali in quel momento per provarci, riusciva solo a guardarla e a
bearsi della sua presenza che scivolava verso di lui, incontro a lui,
per legare la sua vita alla propria.
Il
suo abito da sposa era ampio e vaporoso sotto, mentre la parte di
sopra era un un corpetto stretto e ricamato di perline scintillanti,
il cui pizzo saliva poi sulle spalle, coprendola fino a mezza manica;
era bianco perla e così fine ed elegante da complimentare la
sua
figura e la sua carnagione chiara, creando un bel contrasto con i
capelli scuri fermi da un'acconciatura alta molto elaborata e
impeccabile.
Il
suo bouquet era un colorato tripudio di dalie di tutti i colori,
spezzato solo dal bianco di piccoli fiorellini candidi, legato nel
gambo da un nastro di color prugna.
Gli
unici gioielli che portava erano la collana degli amanti, che anche
lui indossava sotto lo smoking, il bracciale con le due tartarughine
che le aveva regalato all'anniversario, l'anello che aveva comprato
tempo prima, tanto tempo prima quando per la prima volta aveva
pensato di chiederle di sposarlo, prima che pensasse di averla persa
per sempre, e una corona piccola e dalle linee semplici, eppure
sfavillante come fosse fatta solo di diamanti, poggiata sul capo.
Sembrava
un essere fatato, una Dea incarnata in donna.
Lasciò
andare il respiro trattenuto, mentre il cuore continuava a battere
all'impazzata, quando il suo sguardo si soffermò sul viso di
lei.
Il
sorriso di Isabel non era mai stato più bello e totale,
irradiava
felicità pura. Vide lo scintillio nei suoi occhi scuri,
mentre lo
osservava nel suo smoking nero, e ci lesse dentro sorpresa e
apprezzamento e amore e Dio, nessuno nella sua intera vita lo aveva
mai guardato in quel modo.
Non
poteva essere davvero così fortunato, che aveva fatto per
meritarsi
quella donna e il suo amore? E se un giorno fosse finito? E se un
giorno si fosse svegliato solo per scoprire che era stato tutto un
sogno, che lei non esisteva davvero, che nessuno poteva davvero
amarlo così, in una maniera totale e spiazzante?
Splinter
gli porse la mano di Isabel, e gli sorrise, ignaro del magone che gli
pressava il cuore e nel secondo in cui lui la strinse, e lei
rafforzò
la presa di rimando, quella paura e tutti quegli stupidi dubbi si
sciolsero.
Lei
era vera, era reale, ed era sua.
I
loro occhi erano incatenati e non si lasciarono un attimo, nemmeno
quando la voce di Jervis si fece strada nel silenzio, alla fine della
musica.
“Benvenuti,
amici, famigliari, anime affini, in questa giornata magica per essere
testimoni dell'amore di due persone. Oggi due anime diventeranno una,
legate da promesse eterne.”
Raphael
era attento solo a metà, sapeva cosa stesse succedendo,
tutti i
solenni convenevoli che Jervis o Michelle dicevano, ma la maggior
parte del suo essere e delle sue attenzioni erano solo per Isabel, su
Isabel, sul modo in cui i suoi occhi scintillavano alla menzione di
promesse eterne, sul suo sorriso al sentire della loro vita futura
assieme, in bene o in male, sempre presenti uno per l'altro, e seppe
che anche lei era persa in fantasticherie come lui, che non vedeva
l'ora che fosse tutto finito per potersi finalmente baciare.
Isa
interruppe il contatto visivo e si sporse alla sua sinistra per
lasciare il bouquet nelle mani di Angel, prima di prendere il calice
che Michelle le porgeva; alzandosi verso l'alto lo poggiò
sulle sue
labbra, offrendogli il vino all'interno con garbo.
“Sarò
il sorso d'acqua quando avrai sete, sarò la fonte che ti
offrirà
ristoro quando le tue fatiche ti presseranno, sarò la
pioggia che
laverà via il tuo dolore quando si metterà sul
tuo cammino”
mormorò lei dolcemente, inclinando con delicatezza la coppa
mentre
lui prendeva un sorso, senza staccare gli occhi da lei.
E
una volta afferrato il calice dalle sue mani fece lo stesso con lei,
ripetendo le stesse parole, e benché fosse strano, fossero
parole
che non aveva mai sentito pronunciare in una cerimonia matrimoniale,
le trovò bellissime e vere, piene di emozione.
Michelle
ritirò la coppa dalle sue mani mentre Jervis offriva ad
Isabel un
piccolo dolcino intrecciato, una sorta di ciambella sottile, quasi a
forma di fiore. Lei lo afferrò con delicatezza e lo
portò alla sua
bocca, di nuovo, offrendoglielo con riverenza e amore.
Raph
ne prese un morso, metà del dolcino, ed era dolce e amaro
allo
stesso tempo, con un retrogusto di lavanda.
“Sarò
il tozzo di pane quando avrai fame, sarò il nutrimento
quando ti
sentirai svuotato di ogni sentimento, sarò il dolce a fine
pasto al
termine di una giornata interminabile, il tuo premio in un momento
buio.”
Raphael
prese il resto della ciambellina e lo portò alla bocca di
lei,
ripetendo le stesse parole, e quando il dolce fu scomparso, divorato
in due morsi da Isabel, le pulì le labbra con il pollice,
lentamente, senza staccare lo sguardo scintillante e pieno di malizia
dal suo.
Dio,
come desiderava baciarla. Ma avrebbe atteso la formula di rito a fine
cerimonia, il “puoi baciare la sposa”, per quanto
gli costasse.
Jervis
si schiarì la gola, attirando la loro attenzione ed entrambi
sussultarono e si voltarono a guardarlo, cercando di ignorare le
risatine in sottofondo dei loro ospiti.
L'anziano
mago sorrideva fino alle orecchie, poi fece un cenno ad Isabel,
segnalandole che poteva continuare il passo successivo della
cerimonia e lei annuì, e la corona ondeggiò un
poco sul capo, prima
di voltarsi ancora verso Raphael.
“Ti
amo, Raffaello. Penso che questo racchiuda tutto quello che vorrei
dire nelle mie promesse, perché sono solo tre parole, ma per
me
esprimono tutto.
Ti
amo, amo quello che sei. Amo quello che fai. Amo ogni più
piccolo
pregio e ogni più grande difetto. Amo la tua testardaggine,
amo il
tuo grande cuore. Amo i tuoi dubbi e le tue paure, amo che nonostante
tu abbia dubbi e paure non ti risparmi mai per cercare di fare la
cosa giusta. Amo il tuo coraggio, amo la tua dolcezza nascosta, amo
la tua sensibilità che non mostri a nessuno, se non a me. Ti
amo
come non ho mai amato nessuno in tutta la mia vita e ringrazio ogni
giorno quel benedetto incontro che ti ha messo sulla mia strada, quel
settembre sotto la pioggia. Perché se non ti avessi
conosciuto, non
avrei mai saputo cosa fosse l'amore e non sarei mai stata
così
felice.
Ti
amo, e so che potrà suonare vano e pretenzioso da parte
mia dirlo, ma ti prometto che ti amerò per sempre, che ti
starò
accanto ogni giorno della mia vita. So che ti amerò per
sempre.
Grazie per essere la mia felicità, Raffaello.”
Stava
piangendo, lacrime di commozione, mentre sorrideva e gli straziava il
cuore di dolce dolore con le parole più belle che qualcuno
gli
avesse mai detto. Sapeva
di stare piangendo anche lui, lacrime solitarie che lei si
premunì
di asciugare sol dorso della mano.
Avrebbe
voluto urlare, il suo petto era pieno di così tante emozioni
che
rischiavano di farlo implodere, il pressante desiderio di dirle
così
tante cose, l'incapacità di esprimere tutto quello che
avrebbe
voluto con parole così belle e poetiche.
Trasse
un grande respiro spezzato, cercando di riprendere la calma, e le
rivolse un grande sorriso, incurante degli occhi umidi e che tutti
potessero vederli.
“Non
vivevo davvero, prima di conoscerti. Esistevo, sì, ma non
ero vivo.
Ero rabbia e paure e caos. Non ho mai vissuto, prima di incontrarti,
Isabel. Poi tu sei piombata nella mia vita, mi sei letteralmente
piombata addosso e niente è più stato lo stesso
da quel momento.
Se
solo potessi tornare indietro e dire al me stesso del passato che
quella ragazza spaurita e scheletrica gli mostrerà
cos'è davvero
vivere e amare e cosa sia la vera felicità, lo farei, e
forse allora
non sarei stato così duro e scorbutico con te all'inizio,
non avrei
cercato di forzare la serendipità che ci spingeva uno verso
l'altra.”
Si
bloccò un attimo per prendere un respiro commosso, e per
godersi la
risatina acquosa di Isabel alla menzione della serendipità,
certo
che anche lei stesse pensando ai loro primi incontri, a loro due
così
giovani e inconsapevoli che il loro incontro avrebbe portato tutto
quell'amore, a quell'epilogo.
“Tu
mi hai mostrato cos'è l'amore. Mi hai insegnato che non sono
un
mostro solo per come appaio e che anche se mi nascondo nelle ombre,
merito la felicità come chiunque altro. Mi hai insegnato ad
amarmi.
A rispettarmi. A volermi bene.
Ti
amo, Isabel. So che non ho mai amato nessuno e che non amerò
mai
nessun altro, come amo te. Sei perfetta nelle tue imperfezioni, sei
umana e divina, più testarda di quanto io non
potrò mai essere.
Ti
resterò accanto ogni secondo che mi concederai assieme a te,
venerandoti e amandoti con ogni singola cellula del mio essere, fino
a che tu lo vorrai.
Grazie
per essere la mia felicità, Isabel. Grazie per avermi
insegnato a
vivere davvero.”
Un
paio di raschiamenti di gola commossi risuonarono nell'aria e
Michelangelo si soffiò il naso rumorosamente alle sue
spalle,
infrangendo l'aura solenne ed eterea delle promesse e Isabel rise tra
le lacrime, così bella e vera, e Raphael si sporse in
avanti,
prendendole il viso tra le mani e poggiando la fronte sulla sua,
chiudendo gli occhi con trasporto.
Non
l'avrebbe baciata, ancora no, per quanto volesse. Ma era ad un tiro
di bacio e mormorò sulle sue labbra: “ti amo,
Isa.”
E
dopo un respiro brusco ed emozionato, la sentì rispondere un
delicato: “lo so”, che lo fece scoppiare a ridere
quietamente ed
era un momento solo loro, fronte contro fronte, a ridere tra sospiri
e scemenze che nessun altro poteva sentire, scambiandosi declamazioni
di amore.
“Maestà,
Altezza, è il momento delle collane” li interruppe
Jervis a
malincuore, dopo qualche altro attimo.
Entrambi
spalancarono gli occhi e Isabel rise più forte al vedere la
sua
espressione sorpresa al sentirsi chiamare Altezza.
Lei
si deterse le lacrime col dorso della mano, stando attenta al trucco,
traendo un gran respiro per calmarsi, prima di sporgersi verso di lui
e afferrare il cordino che spuntava dal colletto della camicia,
sfilando delicatamente verso l'alto la collana.
La
pietra viola pulsava ritmicamente, a pochi centimetri dal suo viso,
poi lui sfilò quella al collo di lei e la tenne alta accanto
alla
sua e anche la pietra di Isabel si illuminò della stessa
luce, allo
stesso ritmo.
“Quello
che un tempo è stato separato ritorni uno, due cuori si
uniscano,
due anime si leghino, in un'unica entità che respiri allo
stesso
ritmo, per sempre. E quel che è mio sarà tuo, e
quel che è tuo
sarà mio: siano gioie o dolori, sia felicità o
tristezza, sia
salute o malattia. Accetterò ogni cosa si parerà
sul mio cammino,
se tu sarai al mio fianco.”
Raphael
ripeté le sue parole e avvicinò la pietra alla
sua gemella: la luce
le avvolse, un vortice di magia, e rimase incantato a guardarle
unirsi in un unica pietra più grande, dello stesso colore,
piena di
sfaccettature e lati che riflettevano la luce magica. Il bagliore si
snodò e si avviluppò alle loro mani e si
inerpicò per le loro
braccia e lui e Isabel si ritrovarono avviluppati dalla magia e dalla
luce, uniti nel rito, uniti come nella simbiosi magica, respirando
all'unisono, sentendo l'uno l'amore dell'altra e viceversa.
Non
seppe dire quanto durò, gli era sembrato un secolo eppure
solo un
secondo, quando la grande pietra smise di brillare e cadde innocua
nel palmo della mano di Isabel, prima che lei la mettesse via in una
piega dell'abito.
Gli
sarebbe mancata la collana degli amanti, ma in quel momento il
pensiero non era importante.
“Isabel
Aurora Charmillion, Regina splendente del regno di Amòra,
volete
prendere Raphael Hamato come vostro sposo, in magia e
regalità, fino
a che le vostre anime non cammineranno assieme oltre il
velo?”
prese la parola Jervis, con un sorriso tutto per la donna di fronte
a lui.
“Lo
voglio” sussurrò emozionata lei.
Michelangelo
apparve al fianco di Raph e gli porse un anello e Raph lo
infilò
all'anulare di Isabel, con solo appena un tremolio nelle mani.
“Raphael
Hamato, onorato membro del clan Hamato, volete prendere Isabel Aurora
Charmillion come vostra sposa, in magia e regalità, fino a
che le
vostre anime non cammineranno oltre il velo, diventando di fatto il
Principe Consorte del regno di Amòra e promettendo di
sostenerla nel
compito di regnare se la situazione lo
richiederà?” incalzò
Jervis, ignorando di proposito la sua occhiata stranita alla piccola
clausola aggiunta nella sua formula.
Isabel
provò a fulminare il vecchio con un'occhiataccia, ma Jervis
fece
spallucce e aggiunse quasi sottovoce: “È la
procedura, Maestà,
non faccio io le regole.”
Raphael
sorrise e annuì, scuotendo appena la testa.
“Certo
che lo voglio” esclamò con voce potente, lasciando
ben poco dubbio
alle sue intenzioni.
Isabel
infilò il grande anello che Mikey le passò nel
suo terzo dito, non
aveva propriamente un anulare, ma dato che niente era normale nelle
loro vite o in quella assurda cerimonia, non se ne curarono davvero.
Jervis
sembrò contento e li guardò con affetto, prima di
fare un passo
avanti, gesticolando affabilmente alla folla.
“Amici,
parenti, anime affini che volete bene a questi due giovani, siete
stati testimoni delle loro promesse, del loro rito di legamento,
dell'amore che provano l'uno per l'altra, del loro desiderio di
iniziare una vita assieme. Tutti voi siete testimoni dei loro
giuramenti, tutti voi li benedite con la vostra presenza in questo
giorno cardine del loro cammino come coppia, come famiglia.
Perciò
è davanti a voi che io dichiaro Isabel e Raphael, sposo e
sposa,
Regina e Principe Consorte, Marito e Moglie!”
Si
voltò velocemente verso Isabel, con uno scintillio furbo.
“Potete
baciare la vostra tartaruga mutante, Maestà. Vostro marito,
intendo.”
Isabel
scoppiò a ridere, e anche Raph non riuscì davvero
ad arrabbiarsi
che quello strambo vecchio avesse cambiato il finale della cerimonia,
e con una risata potente lasciò che Isabel lo attirasse a
sé,
facendo finalmente incontrare le loro labbra nel tanto agognato
bacio, incurante dell'applauso in sottofondo, allacciando le braccia
alla vita sottile di lei e stringendo tanto da sollevarla dal suolo.
Il
bacio gli sembrò interminabile e quando finì lei
ne poggiò uno
casto e dolce sulle sue labbra, seguito da un altro e un altro
ancora.
“Sei
mio marito” sussurrò prima di un altro bacio,
aprendo infine gli
occhi e piantandoli nei suoi.
“Sei
mia moglie” rispose lui, dandole un altro bacio ancora.
Ridacchiarono
uno sulle labbra dell'altra, ebbri d'amore.
“Ragazzi,
un bell'applauso per il signore e la signora Hamato”
annunciò
Michelangelo, interrompendo il loro idillio ed entrambi si voltarono
sulla folla che in piedi li applaudiva e gridava di
felicità, e
presto si ritrovarono accerchiati e stretti in mille abbracci,
ricevettero mille complimenti, pacche felici e pianti emozionati
sulle loro spalle.
Ci
volle un po' perché l'euforia scemasse e potessero ritornare
uno
accanto all'altra, stretti nell'emozione di tutta quella
felicità.
Vennero
scattate foto, tantissime foto, ci fu un brindisi e poi si spostarono
tutti verso la zona del banchetto, sotto due grandi gazebo bianchi
vicino alla casa, con lunghe tavolate ben apparecchiate e pronte ad
accogliere le milioni di portate che Michelangelo aveva preparato con
l'aiuto di Angel, April, Donnie, Leo e della mamma di Casey.
Fecero
tutti onore al cibo, mangiarono tutto quel ben di Dio con gusto,
inframmezzando il pasto con discorsi sulla coppia, alcuni spassosi,
come quello di Mikey, altri commoventi, come quello di Splinter, si
sprecarono le risate e le lacrime in egual misura e la
felicità di
tutti era così palpabile che avrebbero potuto tagliarla con
un
coltello.
Al
taglio della torta, uno spettacolo di panna e fiori di zucchero
colorati che Mikey doveva avere impiegato tutto la notte a fare,
Raphael addentò tutta la fetta che lei gli porse prima di
baciarla
con ancora la panna sulle labbra, sporcandola di proposito.
Si
prese i rimproveri per nulla veritieri che lei gli fece, prima di
macchiarlo con una manata di panna sulla guancia, schizzando via a
razzo con uno strilletto acuto.
La
inseguì ridendo delle incitazioni dei suoi fratelli, e
quando la
prese, -sapeva che lei si era fatta raggiungere di proposito,- la
baciò
ancora e ancora, prima di consentirle di pulirlo.
Mikey,
che aveva preso posto alla postazione da DJ, annunciò che
era il
momento del lancio del bouquet, prima che gli sposi potessero aprire
le danze con il loro primo ballo e perciò esortò
le donne single a
raggrupparsi nella pista da ballo, sotto un'enorme tendone bianco
poco distante, decorato da mille piccole lucine fatate nelle colonne
e nella struttura, rendendolo quasi magico.
Alcune
donne sembrarono riluttanti a quella particolare tradizione, ma in
poco tempo, convinte da altri o spinte a viva forza, tutte si
trovarono raggruppate, poco distanti da Isabel.
C'erano
Angel e Sam, Joi, Michelle, Tomoe, e dopo qualche attimo si
unì una
grintosa signora Jones, squadrando le giovani con occhio cinico.
“Tu
no, Ma'!” gridò Casey esasperato, a bordo pista.
“È per donne
single, in età da marito!”
“Potrei
sempre risposarmi, Arnold, non dimenticarlo” rispose sua
madre,
usando il suo primo nome di battesimo, facendogli andare la saliva di
traverso per la sua affermazione, mentre gli altri ridevano.
Isabel
si voltò decisa, dando le spalle al gruppetto, e fece
oscillare su e
giù il bouquet, come per calibrare il peso prima del lancio.
Raphael
la sentì mormorare delicatamente, tra sé e
sé, e si sporse verso
di lei per sentire bene.
“Che
porti fortuna a qualcuno, che doni felicità a chi lo
prenderà” la
sentì dire con emozione e se possibile la amò
ancora di più, per
la sua premura.
Il
bouquet oscillò ancora una volta, poi nella parabola
ascendente lei
lo lasciò infine andare e quello volò con
eleganza e leggiadria
nell'aria, il nastro color prugna che sventolava come la coda di una
cometa, morbidamente.
Raphael
lo seguì nella sua caduta, lo vide dirigersi verso il
gruppetto di
donne in attesa e se prima erano sembrate poco propense a prenderlo,
ora che lo vedevano arrivare dritto verso di loro gli occhi
scintillavano tutti di meraviglia e desiderio di possederlo: vide i
loro muscoli tendersi per prepararsi al salto, i loro sguardi sempre
incollati alla preda.
Isabel
al suo fianco si era voltata e seguiva con lui quello che succedeva,
stringendogli il braccio con emozione.
Saltarono
tutte in tempi diversi, tendendosi verso l'alto con tutta la loro
forza e con mani bramose, cercando di afferrare, ma il bouquet
rimbalzò sul palmo di una troppo lenta, sul dorso di
un'altra che
aveva sbagliato mira e infine sulle dita di un'altra troppo in basso,
acquisendo velocità e spinta che lo portò lontano
da loro, dritto
tra le braccia di Donatello, immobile a bordo pista con espressione
attonita.
Il
genio strinse il bouquet per riflesso, prima ancora di rendersene
conto.
Esplose
un boato improvviso, risate incredule e strilli indignati, e il
povero mutante di ritrovò nel bel mezzo di una diatriba se
fosse
giusto o meno che lui lo avesse preso, chi si congratulava con Don
per dover esser il prossimo a sposarsi e chi chiedeva che il lancio
fosse ripetuto.
Isabel
si avvicinò al cognato e quello fece per porgerle il
bouquet, come a
restituirle qualcosa che fosse suo, ma lei lo risospinse tra le sue
mani, con garbo.
“Il
lancio è valido ed è stato Donnie a
prenderlo” annunciò a voce
alta. “Spero ti porterà fortuna”
aggiunse poi sottovoce,
sporgendosi per dargli un bacio sulla guancia.
Don
arrossì e piegò la testa, e strinse il bouquet a
sé dopo qualche
attimo, mormorando un timido ringraziamento.
Ovviamente
le risate e le battute si sprecarono e Donnie rispose a tono ad
ognuna di loro, sarcastico come solo lui sapeva essere, quando
voleva.
“Ok,
ragazzi, lasciamo perdere i pronostici per il prossimo matrimonio,
perché adesso non è importante” disse
la voce di Mikey,
distogliendo infine l'attenzione dal fratello, che gliene fu
infinitamente grato.
“Adesso
è il momento del primo ballo degli sposi, il loro primo
ballo come
signore e signora Hamato, anche se dubito che Raph abbia mai fatto
ballare Isabel in assoluto, ha la grazia di un elefante.”
“Mikey!”
tuonò Raphael, suscitando solo risate nel loro pubblico.
Isabel
lo prese per un braccio, facendogli dimenticare i propositi omicidi
verso il fratellino e insieme si portarono al centro della pista, uno
di fronte all'altra: Raph le cinse la vita con un braccio e prese una
mano portandola in alto, aspettando l'inizio della musica, come un
vero ballerino di coppia.
“È
stato lo sposo a scegliere la canzone per il loro primo ballo, quindi
Isa spero che ti piaccia, e se così non fosse prenditela con
tuo
marito” annunciò ancora Mikey, prima di far
partire la musica, un
lieve trillo seguito da un delicato squillare di trombe.
Raphael
iniziò a guidarla nel ballo, lentamente, quando la voce di
Frank
Sinatra si sparse attorno, e le prime parole la fecero sussultare,
prima di sorridere con emozione repressa negli occhi scuri.
“September
in the rain, davvero, Raffaello?” chiese con un filo di voce,
lasciandosi guidare da lui con totale fiducia sulle note melodiose e
dalla voce velluta, con passi calmi, nemmeno troppo meravigliata che
lui potesse essere così elegante nel ballo.
“È
perfetta per noi, ammettilo, Isa” sussurrò
spavaldo Raph, chinando
il capo per baciarla teneramente, prima di lasciarla andare per farla
volteggiare sulle note delicatamente ritmate.
La
strinse di nuovo a sé, con bisogno e possesso, e insieme
danzarono
persi uno nell'altra, dimentichi delle persone attorno a loro che li
guardavano con commozione e felicità, scambiandosi baci
rubati tra
una scivolata e un volteggio, sulla musica che ricordava loro quel
settembre, sotto la pioggia, in cui tutto era cominciato.
Ci
fu un grande applauso per loro al termine della canzone e poi tutti
si riversarono sulla pista, pronti a scatenarsi nelle danze assieme a
loro.
Ballarono
ancora e ancora, la canzone successiva e quella dopo ancora, e poi un
ballo di gruppo, pressati gli uni agli altri nell'euforia, tra risate
e mosse assurde, e stanchezza che diventava di nuovo vigore
nell'essere tutti assieme.
Raphael
ad un certo punto venne preso di peso da un gruppetto di uomini e
lanciato in alto e Isa assisté impotente, mentre facevano
baldoria,
prima di provare a prendere anche lei per lanciarla: svicolò
in
fretta dalle loro grinfie, mandando loro una linguaccia e fermandosi
a riprendere invece fiato finalmente dopo non sapeva nemmeno quanto.
Fece
una giravolta su sé stessa, facendo gonfiare la gonna
dell'abito e
si guardò attorno con felicità e meraviglia.
Era
circondata dalla sua famiglia, da visi felici e risate, chiacchiere e
affetto e non poteva essere più euforica di così.
Più
fortunata di così.
Se
quello era un sogno, sperò solo di non svegliarsi mai. Di
restare
per sempre in quel paradiso perfetto.
Scivolò
leggera tra la ressa di ballerini e schivò un paio di
offerte di
ballare, andando verso il rinfresco al lato della pista: si
versò un
drink, sventolandosi con una mano mentre lo centellinava.
Lo
sguardo catturò la luce del sole che si rifletteva su una
capigliatura dorata familiare e si accorse di Sam, seduta sul
corrimano del portico qualche metro più in là,
che guardava
distrattamente attorno facendo ondeggiare avanti e indietro le gambe e
così la lunga gonna.
Isabel
poggiò il bicchiere, sollevò appena la gonna e si
diresse verso di
lei. Samantha si accorse ovviamente che si avvicinava a lei e scese
dal corrimano con un gesto fluido, senza creare nemmeno una piega al
bell'abito.
“Cosa
fai qua tutta sola?” domandò Isabel quando l'ebbe
raggiunta.
Samantha
le sorrise con affabilità, facendo spallucce.
“Mikey
è dentro per mostrare ad un certo Tora dov'è il
bagno” rispose
tranquillamente, riportando lo sguardo verso la pista da ballo. La
vide sorridere al notare Steve che faceva volteggiare la sorellina
con concentrazione e euforia.
“Allora
ti sequestro per un po'” saltò su Isabel,
prendendola per un polso
e trascinandola verso il centro della pista.
“Cosa?
Non so ballare questo genere di musica!” protestò
l'amica,
indicando verso l'alto, come se Isabel potesse vedere materialmente
le note della canzone lenta e tuttavia frizzante.
“Condurrò
io! Non puoi rifiutare una richiesta della sposa”
incalzò Isabel
decisa, portandola in mezzo alle altre coppie che ballavano.
Notò
i loro sorrisi a vedere le due donne allacciarsi con solo una lieve
titubanza, poi Isabel la guidò attraverso la pista e la
musica.
Forse
non erano propriamente perfette, ma erano comunque uno spettacolo da
vedere.
“Parla
con me, Sam. Come stai?” mormorò Isabel mentre
volteggiavano da
una parte all'altra.
La
ragazza fece una lieve smorfia, un leggero piegamento delle
sopracciglia, prima di riportare gli occhi grigi in quelli castani.
“Mi
sento... colpevolmente felice” confessò suo
malgrado.
Non
riusciva a mentire a Isabel e comunque sarebbe stato inutile,
perché
sapeva che aveva già capito.
La
sposa le rivolse un sorriso, dolce e tuttavia triste.
“Le
persone che ci hanno amato e non ci sono più sarebbero
felici di
sapere che abbiamo trovato altro per andare avanti. Altre persone da
amare. Altri scopi e altri affetti. Altri sorrisi e
felicità” le
disse con gentilezza e calma, portandola con una lieve piroetta verso
un altro angolo. “Melissa sarebbe felice di saperti felice,
non
devi sentirti colpevole.”
La
presa nella mano nella sua si rafforzò per un attimo, mentre
gli
occhi di Sam si inumidivano.
“Eppure
mi sento in colpa. Non dovrei essere così contenta, non
dovrei-”
La
voce le morì in un sospiro spezzato, tuttavia strinse i
denti e
lottò per non piangere e i successivi secondi trasse dei
grandi
respiri per calmarsi.
Isabel
lasciò andare la sua mano e le circondò il viso
con entrambe,
poggiando la fronte sulla sua, chiudendo gli occhi, assorbendo un po'
del suo dolore con la magia.
“Invece
devi. Devi vivere ed essere felice, devi essere schifosamente felice
e continuare a combattere per esserlo. Anche per Melissa. E se
glielo lascerai fare, Michelangelo ti renderà la donna
più felice
del mondo, ogni giorno della vostra vita.”
La
sentì sorridere e le sue mani cingere le proprie, con
affetto.
“Sei
una tipa strana, lo sai? Ma in effetti lo siete un po' tutti”
disse
Sam senza malizia, con una risatina acquosa eppure più
leggera.
“Certo
che lo siamo. Siamo la famiglia migliore del mondo,”
rivelò
Isabel, aprendo gli occhi e piantandoli nei suoi, “e anche tu
ne
fai parte ormai, cognata.”
Samantha
arrossì al suo titolo, e scosse la testa per cercare di
nascondere
l'imbarazzo; Isabel la lasciò andare e dopo averle fatto
fare una
nuova giravolta, la trascinò verso le altre due donne della
sua
vita.
Angel
e April erano a bordo pista, impegnate a chiacchierare tra loro, la
più grande col suo secondogenito in braccio pacificamente
addormentato.
“Acchiappale!”
comandò Isabel a Sam e le due si allungarono per prendere
per un
braccio le donne ignare.
Si
ritrovarono tutte e quattro allacciate in un piccolo girotondo, il
piccolo August carezzato da mani gentili e delicate e amorevoli.
“Stavo
dicendo a Sam che ormai fa parte della famiglia e non può
più
lasciarla” esclamò Isabel prima che le altre due
potessero
chiedere spiegazioni per l'improvviso rapimento.
“Suona
come una minaccia mafiosa, messo così”
sospirò incredula Angel,
scuotendo la testa. Le altre tre scoppiarono a ridere, quietamente.
“Comunque
ha ragione, perché se credi che Mikey rinuncerebbe a te
facilmente,
allora non hai capito nulla del piccolo di casa Hamato”
incalzò
April verso Samantha, con sincerità.
“E
nemmeno noi ti lasceremo andare mai via.”
La
corazza da dura di Sam si sgretolava scheggia dopo scheggia, col loro
affetto e la loro presenza. E ancora si chiedeva se se lo meritasse
davvero, se si meritasse tutto quello.
“Quindi,
anche se è stato Don a prendere il bouquet, ci aspettiamo
che il
prossimo matrimonio sia il vostro” buttò
lì Isabel con un ghigno
furbo.
April
sembrò incupirsi un attimo, quasi in pena.
“Spero
che Donnie trovi presto l'anima gemella, se lo merita. È
così dolce
e gentile, si merita di essere amato” mormorò
triste, cullando
August.
“Anche
Leo. Se lo meritano entrambi e speriamo succeda presto. Voglio vedere
tutti i nostri ragazzi felici!” aggiunse Isabel, carezzando
la
guancia di April con premura e affetto.
“Ehy
Angie,” si intromise Sam, facendo scivolare il soprannome
sulle
labbra con naturalezza, “tu sei single, dovresti provare.
Scegli:
il genio o il leader?”
April
e Isabel trattennero il fiato, mentre Angel si tingeva di rosso,
avvampando completamente.
“N-
Nessuno dei due!” farfugliò in imbarazzo,
sciogliendosi
dall'abbraccio di gruppo e svicolando via in fretta.
Samantha
la guardò spiazzata, poi si voltò verso le altre
due con
un'espressione di stupore così comica che quelle le risero
in
faccia.
“Oh,
non prendertela. Fa sempre così, ogni volta che parliamo dei
fratelli Hamato in quel modo: si imbarazza e arrossisce, si arrabbia
o va via” rivelò April, quando le risa si spensero.
“Sul
serio? E non lo trovate strano? Non pensate che possa esserci
qualcosa sotto?” domandò Sam incredula, con un
sopracciglio alzato
di scetticismo.
Isabel
e April si scambiarono un'occhiata perplessa, confuse, poi
spalancarono gli occhi colpite dalla rivelazione.
“Pensi...”
“...che
Angel possa...”
“...di
Leo...
“...o
Donnie?”
Si
erano alternate, troppo sconvolte dalla possibile verità da
riuscire
ad articolare per bene.
“Beh,
spero che sia o Leader o Einstein, perché se fosse Mikey non
glielo
lascio di certo! E dubito Isa le lasci suo marito, dopo tutta la
cerimonia” sbuffò Sam con una scrollata di spalle.
Poi rivolse
loro un sorriso smagliante.
“Vado
ad indagare. E a darle fastidio!”
Sparì
in un lampo, urlando “Oh, Angie” a voce alta,
seguendo la
fuggitiva con velocità e decisione.
“Possiamo
essere state così stupide da non vedere la verità
per tutto questo
tempo?” chiese April quando i loro sorrisi si infransero.
“Forse
non stupide, ma non avevamo motivo di sospettare... spero solo che
sia vero! Se Angel fosse davvero interessata ad uno di loro e quello
ricambiasse... sarebbe un sogno!” ridacchiò
euforica Isabel, fuori
di sé dalla gioia.
“Sembra
tutto una favola, in effetti.”
Isabel
si voltò a guardarla e April notò il luccichio
furbo nello sguardo.
“E
non vuoi aggiungere nulla a questa favola?”
sussurrò cospiratoria,
così basso che solo l'amica la potesse sentire.
April
si bloccò, presa in castagna, poi si portò una
ciocca rossa
sfuggita all'acconciatura dietro l'orecchio.
“Sapevo
che lo avevi capito... non so come dirlo a tutti. Insomma, August
è
ancora così piccolo e noi-”
“E
cosa pensi che diranno? Saranno felicissimi di sapere che sei di
nuovo incinta!” la rassicurò Isabel, afferrando la
sua mano.
“È
il terzo! Non lo avevamo programmato! Ma eravamo così felici
quando
sei tornata da noi e nei festeggiamenti io e Casey potremmo non
essere stati molto attenti e-”
“Ok,
sono felice! Ma non voglio sapere i dettagli di come lo avete
concepito, Ape!”
Ridacchiarono,
mentre la tensione si scioglieva dalle spalle della maggiore, con
sollievo per come lei l'avesse presa.
“Tu
e Casey siete felici?”
April
annuì, gli occhi verdi che scintillavano.
“Allora
non hai nulla di cui preoccuparti.”
La
mano dell'amica strinse la sua, forte, e Isabel la guardò
con
confusione.
“Mi
dispiace” mormorò, abbassando lo sguardo, come se
le avesse fatto
un torto.
E
Isabel capì e lasciando andare la sua mano, la
circondò invece
piano, per non far male al bimbo stretto nel loro abbraccio.
“Non
devi. Io e Raffaello non possiamo avere figli, è vero, ma
amiamo i
vostri come se fossero i nostri. E abbiamo voi e tutti gli altri,
abbiamo abbastanza amore attorno.”
April
singhiozzò piano sulla sua spalla.
“Speriamo
che questa sia femmina e non prenda troppo da Casey, per lo
meno”
mugugnò nemmeno troppo seria, facendo sorridere Isabel.
Rimasero
abbracciate per un po', ondeggiando lentamente a ritmo della musica.
“Ok,
la sposa non deve rimanere qua a consolare una donna incinta in preda
agli ormoni” disse alla fine April, tirandosi su e asciugando
una
lacrima solitaria. “Deve ballare con tutti e godersi la
festa. E
ballare soprattutto con suo marito!”
Isabel
girò lo sguardo e vide che Raphael era nelle spire di Casey,
Adam,
Leatherhead e il padre di Steve, tutti gli uomini che discutevano
animatamente di qualcosa che loro non potevano sentire oltre il
frastuono della musica.
“Credo
che per ora mio marito sia off-limits” mormorò con
un sospiro.
“Posso
invitarti io a ballare?” si intromise una voce alle loro
spalle,
calma e pacata.
Splinter
le offriva una mano con garbo, attendendo una sua risposta.
“Sarebbe
un onore, padre” soffiò emozionata Isabel,
afferrandola con
decisione.
Il
vecchio maestro la portò al centro della pista e la
guidò con una
sicurezza che non la stupì, per quanto potesse essere
assurdo vedere
volteggiare con quella leggiadria un ratto umanoide gigante.
Ballarono meravigliosamente, in silenzio e sorrisi scambiati, fino
alla fine della canzone, quando Splinter la lasciò andare e
le
rivolse un inchino, prima di stamparle un bacio sulla fronte, sentito
e accorato.
“Grazie,
figlia mia. Grazie di cuore” le disse semplicemente.
Ma
Isabel capì tutto quello che quel semplice grazie voleva
dire e non
pensava di meritare di essere ringraziata, -semmai era lei che
sentiva di dover ringraziare loro e ogni buona stella che l'aveva
indirizzata sulla loro strada,- ma piegò la testa e
accettò le sue
parole, gli occhi umidi di emozione repressa, stringendo le mani
dell'anziano padre adottivo, ormai suocero, con affetto.
Il
successivo a prenderla per ballare fu Steve, sorprendentemente: il
piccolo, ma nemmeno poi tanto ormai, visto che la sovrastava di
almeno dieci centimetri e continuava a crescere, si muoveva
decisamente impacciato, ma era divertente; era cresciuto
così tanto,
e non solo fisicamente: era diventato più maturo e sicuro di
sé,
fronteggiava a testa alta quello che gli si parava davanti e lottava
per difendere quello che gli era caro.
Non
riusciva a credere che l'anno seguente avrebbe già compiuto
diciotto
anni.
Il
giovane la lasciò andare alla fine della canzone, dandole un
bacio
sulla guancia come saluto e Isabel non resistette all'impulso di
scompigliargli i capelli con fare affettuoso, sicura della sua
reazione: Steve arrossì e iniziò a lisciarli
compulsivamente,
mentre andava verso Uè. Isabel vide il giovane principe
della
dimensione Nexus sorridere affettuosamente al disastro che erano i
capelli dell'amico, prima di aiutarlo a metterli a posto.
Steve
si imbarazzo di più e Isabel rise senza ritegno.
Danzò
anche con Casey, ridendo ad ogni passo sgraziato che l'amico le fece
fare, pure se con aria immensamente concentrata: Isabel
captò il
ghigno di Raphael che li guardava, mentre ballava poco distante con
Angel, al vederla avere a che fare con quello scimmione di Jones. Gli
mandò una linguaccia e continuò a farsi condurre
nella
sconclusionata coreografia di Casey, apprezzando almeno il suo
sforzo.
Tuttavia,
quando la musica cessò ne fu intimamente grata.
“Tocca
a me!” esclamò la voce squillante di Michelangelo,
mentre la sua
mano aveva già afferrato quella di Isabel, attirandola verso
di sé.
Gli
finì dritta fra le braccia e in un secondo si trovo
trascinata in un
ballo frenetico. Ma Mikey era un ballerino fantastico, si muoveva con
un ritmo invidiabile. Non solo, con gesti accorti e prese studiate
riuscì a far ballare anche lei sulla melodia senza farla
stancare
troppo, nel contempo sorridendo come un matto.
Isabel
non credeva di averlo mai visto così sereno e felice come in
quella
giornata.
“Se
anni fa qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei ballato con mia
cognata al matrimonio di mio fratello, ti giuro che gli avrei riso in
faccia e avrei detto che fosse il più grande comico del
mondo”
iniziò a dire Mikey tra un passo e l'altro, senza neppure il
fiatone.
“Eppure
eccomi qui, con te, mia adorata sorellina, e a rendere questo giorno
ancora più straordinario, c'è una fantastica
ragazza che ricambia i
miei sentimenti e so che tu pensi che non sia così, ma io so
che è
tutto merito tuo.”
Isabel
scosse la testa con forza, rischiando di far cedere l'elaborata
acconciatura e cadere la corona, e perdendo un po' il ritmo.
“Ma
io non c'entro nulla! Tu hai salvato Sam, sei stato tu a farla
innamorare di te, essendo solo il magnifico uomo che sei. E te lo
meriti, quest'amore che ti sei faticosamente guadagnato!”
Michelangelo
la guardò come mai prima, un misto di dolcezza e
serietà, nascosto
tra bagliori di allegria nei suoi occhi.
“Niente
di tutto questo sarebbe stato possibile se tu non fossi entrata nelle
nostre vite, questo è poco, ma certo. Lo so io e lo sanno
gli altri.
Grazie, sorellina, per aver reso le nostre vite fantastiche.”
Era
inusuale per Mikey lasciar cadere la sua maschera da buffone per fare
un discorso maturo, non che non ne fosse capace, ma generalmente era
una cosa che lasciava fare agli altri se poteva. Ma quella era una
cosa che voleva dirle di persona.
Isabel
si sorprese e dopo un attimo si alzò
cospiratoria in punta di piedi per sussurrargli all'orecchio:
“Non
vedo l'ora anche io di poter ballare con il mio fratellone nel giorno
del suo matrimonio con una certa biondina.”
Mikey
arrossì e perse il ritmo, trascinandola con sé e
sulla coppia alla
sua destra, facendo rovinare tutti a terra. Isabel si trovò
incolume, tenuta su dalle braccia di Mikey, a guardare giù
verso il
cognato in stato di ilarità misto a imbarazzo.
“Isabel!
È stato un colpo davvero basso” la
sgridò senza cattiveria,
mentre lei rideva senza ritegno, ormai.
Lui la attirò a sé e le stampò un
grosso bacione sulla guancia,
ridendo con lei, prima che Sam accorresse insieme ad Angel per
aiutarli a rimettersi in piedi.
Isabel
si sistemò la gonna con ampie pacche, mentre con la coda
dell'occhio
captò Michelangelo e Samantha che si abbracciavano, con
naturalezza
e quasi bisogno, prima di scambiarsi un tenero bacio a fior di
labbra.
Le
si strinse il cuore di dolcezza, di deliziosa felicità
riflesso
della loro.
Anche
Angel al suo fianco aveva assistito alla scena, ma l'espressione sul
suo viso era indecifrabile e Isabel si morse la lingua per non fare
una domanda di troppo.
L'amica
comunque si accorse del suo sguardo, evidentemente, perché
spalancò
gli occhi, come se fosse stata presa in castagna a rubare la
marmellata e con le guance rosse si affrettò a scappare via
con una
scusa.
Isabel
non sapeva proprio che pensarne, Angel era un mistero a cui avrebbe
dedicato il suo tempo nel futuro, nel tentativo di svelarlo
completamente.
Nel
frattempo si trovò a ballare ancora, perché tutti
sembravano voler
danzare con la sposa. Il padre di Steve fu gentile e accorto,
Traximus cortese e calmo nonostante la mole, e la madre di Casey
ballava esattamente come il figlio, in maniera sconclusionata, ma
divertente.
"È
il mio turno, se non ti dispiace” soffiò una voce
non troppo
convinta, quando si trovò a girarsi attorno chiedendo se
qualcuno
volesse ancora ballare con lei.
Donatello
attese che lei annuisse prima di allungare la sua mano e attese
ancora che lei la prendesse con garbo, prima di attirarla con
gentilezza a sé, come se fosse una cosa preziosa da
maneggiare con
cura.
Poi
la condusse sulla melodia chiara e limpida, ritmata quanto bastava,
con naturalezza.
Era
strano vedere l'adorabile e a volte assurdo genio muoversi con tutta
quella sicurezza in un ballo di coppia, non se lo era mai immaginato,
forse troppo abituata a vederlo chiuso nel suo laboratorio o
nell'officina con strumenti e provette in mano, per figurarlo a suo
agio in una pista da ballo.
“Quindi
dottor Donnie ha anche la voce ballerino tra i suoi pregi. Dovresti
smetterla di essere così perfetto: ninja, genio, dottore e
ballerino
e poi che altro? Non dirmi che salvi cuccioli di foca nel tempo
libero o costruisci orfanotrofi a mani nude, perché giuro
che
sfociamo nelle qualità di un principe azzurro”
esclamò lei,
facendolo ridere e arrossire nello stesso istante.
Eppure
c'era un velo di tristezza nei suoi occhi, che Isabel sperò
di stare
solo immaginando.
“Lo
sai che sei magnifico, vero?” gli confessò,
sinceramente.
Donnie
piegò il capo con modestia, troppa modestia, nascondendo il
suo
sguardo dagli occhi inquisitori di lei.
“Sono
io a doverti fare i complimenti, e non tu. E dirti che sei
bellissima, perché è vero, sei stupenda, Isabel,
non sono riuscito
a dirtelo prima.”
Lei
schioccò la lingua contro il palato e lasciò
andare un sospiro
lieve che il genio non sentì.
“È
l'effetto dell'abito da sposa, chiunque farebbe questo effetto se lo
indossasse, perfino Casey” sbottò semi-seria, e
venne ripagata da
un grugnito divertito da Donatello, che si era di certo immaginato la
scena.
“Allora,
hai preso il bouquet, secondo la tradizione sarai il prossimo a
sposarti” continuò poi, sollevando un sopracciglio
cospiratorio.
“È
molto più probabile che sarà Mikey il prossimo a
sposarsi, a dire
il vero, per quanto questa frase sia assurda e non riesco a credere
di essere stato proprio io a dirla a voce alta”
provò a scherzare
lui, e Isabel capì che cercava solo di distrarla.
“Va
bene, allora il prossimo dopo Mikey. O intendi farti soffiare il
posto da Leo?”
Don
fece un buffo gesto che voleva essere un'alzata di spalle, ma
interrotta dal movimento nella danza, e piegò la testa di
lato,
teso.
“Non
credo che mi sposerò mai” confessò suo
malgrado, con la sua voce
dolce e gentile che strideva con la tristezza nelle sue parole.
E
Isabel ci lesse l'umiltà che permeava l'intero essere che era
Donatello Hamato, ma anche tanta insicurezza.
Questa
volta il suo sospiro fu pesante e Don lo sentì in pieno,
perché
sollevò lo sguardo, incontrando il suo.
Gli
occhi di Donnie erano dello stesso colore verde scuro di Raphael e
lei non sopportava di vedere occhi così simili a quelli del
marito
dipinti di quella tristezza.
“Se
lo dici perché non sei interessato a sposarti, ok, comprendo
e
rispetto la tua scelta” lo rassicurò, annuendo
piano per fargli
capire che quel pensiero era valido e giusto come qualunque altro.
“Ma
se dici una cosa del genere perché pensi che non troverai
mai
l'amore, che non meriti di essere amato, allora permettimi di
dissentire, perché qualunque donna, o uomo, o alieno o
qualsiasi
altra forma di vita ruberà il tuo cuore sarà
indubbiamente e
sfacciatamente fortunato, uno dei più fortunati al
mondo.”
Don
trattenne il fiato, forse di emozione, e lei notò il suo
colorito
verde oliva scurirsi nelle guance, la sua bocca si aprì un
paio di
volte per provare a ribattere, ma sembrò ripensarci e con un
timido
ringraziamento strinse più forte la presa nella sua mano e
la
condusse in silenzio, la sua mente persa in chissà quale
ragionamento o pensiero, troppo complicato per poterlo esprimere a
parole.
O
forse era solo paura.
Isabel
rispettò il suo silenzio, rispettò la sua
modestia e sperò solo
che le sue parole, che pensava sul serio, fossero arrivate
all'insicurezza del cognato, incrinandola anche solo un po'.
Donatello
meritava felicità, tutti loro la meritavano, ma Donnie le
era sempre
sembrato il più triste e malinconico dei quattro, come
rassegnato, e
quella era una cosa che le faceva male.
Che
non riuscisse a vedere quanto fosse magnifico.
La
musica finì e Don le rivolse un lieve inchino col capo,
prima di
pensarci e sporgersi verso di lei e poggiarle un timido bacio sulla
guancia, lasciandola andare.
Le
sorrise con affetto, allontanandosi dalla pista con sguardo
meditabondo e sognante e Isabel si chiese cosa mai pensasse.
“Posso
avere anche io un ballo con la sposa?” domandò una
voce conosciuta
alla sua destra, attirando la sua attenzione, facendole dimenticare
all'istante di Donatello.
Si
voltò verso Leonardo, in silente attesa di un suo cenno o
risposta e
si limitò a sorridergli: lui le tese la mano e la
attirò piano a
sé, con gesti calcolati e fluidi, nessuna esitazione o
errore.
“Sei
bellissima” le disse semplicemente, mentre le note di un
valzer si
spargevano intorno. Piuttosto inusuale, ma non era il peggio che
Mikey avesse messo fino a quel momento.
Leonardo
comunque non ne sembrava minimamente scoraggiato, anzi, le sue pose e
i suoi movimenti erano perfetti, degni di un ballerino provetto,
perfino il modo in cui piegava la testa, e riuscì a guidare
lei, una
totale frana in un ballo del genere, quasi con naturalezza.
“Grazie,
anche tu stai decisamente bene in smoking” rispose Isabel
sinceramente, cercando di fare attenzione ai passi senza guardarsi i
piedi come una pivella.
Ed
era vero, Leo in smoking stava scandalosamente bene, e non solo lui,
anche i suoi fratelli e in special modo Raffaello erano
indecentemente attraenti, e quello era un pensiero che avrebbe
portato nella tomba.
Leo
ringraziò distrattamente, ogni attenzione al ballo, e Isabel
si
sentì come se non stesse toccando il pavimento da quanto
veloce lui
si muovesse e la facesse muovere, e lei dava l'impressione di sapere
quello
che stesse facendo.
“Ok,
è assurdo, devo chiederlo: dove diamine avete imparato tutti
a
ballare così bene? Non è possibile che vi
muoviate tutti con
un'eleganza e una sicurezza che non ci sia aspetta di certo da
quattro gigantesche tartarughe mutanti!”
Leonardo
la occhieggiò impassibile per un secondo, altero nella sua
statuaria
bellezza.
Dio,
avrebbe potuto partecipare ad una gara di ballo da sala e vincere
anche. Tuttavia Isabel notò l'angolo delle sue labbra che
lottava
per non incurvarsi all'insù,
“Fa
parte dell'allenamento da ninja, a dire il vero. Abbiamo imparato da
piccoli a lottare, sparire nelle ombre, lanciare shuriken e
ballare”
disse infine con tono sostenuto, quasi come se fosse vero.
Isabel
scoppiò in una grossa risata e fu gratificata dal sorriso
che infine
Leonardo si lasciò scappare, per averla fatta divertire.
Volteggiarono
delicatamente, ridendo quietamente tra loro.
“Sei
felice?” le chiese Leo, d'un tratto, facendola scivolare
sulle note
della musica.
Isabel
piantò gli occhi nei suoi e annuì.
“Sì,
sono davvero felice.”
Rimasero
a fissarsi per qualche altro attimo, mentre la canzone arrivava quasi
alla sua fine, le note melodiose e tristi.
“E
tu, Leo?”
Lui
piegò la testa, e non per effetto della coreografia, e i
suoi occhi
scuri scintillavano di dolcezza.
“Sì,
lo sono. Sono davvero felice per voi. Ve lo meritate, tutto questo e
anche di più. Sono felice, cara cognata”
confessò, rimanendo ad
ammirare il sorriso emozionato che apparve nel viso di Isabel al
sentirsi chiamare così da lui.
Con
un gesto deciso, ma gentile, la accompagnò nell'elegante
casquè,
tenendola in sospeso con un tocco fermo sulla schiena per qualche
secondo.
Sentirono
entrambi dei lievi applausi in sottofondo, ma non ci fecero caso.
Quando
Leo la riportò su, le circondò delicatamente il
viso con le mani e
le piantò un bacio lieve sulla fronte, fraterno.
“Stagli
dietro, ok? Ti darà il tuo bel daffare, ma tu non farti
mettere i
piedi in testa. Se c'è una che può farcela, sei
tu” le disse
ritornando a guardarla, con divertimento e affetto.
Isabel
annuì commossa, non fidandosi più di tanto della
sua voce al
momento.
Leonardo
la lasciò andare e le prese una mano, facendole un lieve
inchino,
pronto a congedarsi.
“Posso
avere mia moglie indietro?” chiese gentilmente una voce
profonda di
fianco a loro.
Si
voltarono entrambi ad osservare Raphael, con una mano tesa in
avanti, aperta e in attesa, come un perfetto gentleman.
I
due uomini si scambiarono un'occhiata, poi Leonardo mise la mano di
Isabel che ancora teneva nella sua su quella del fratello.
“Con
piacere, è tutta tua, Raph” esclamò, un
occhiolino complice,
lasciandola andare.
Il
sorriso di Raphael era lo specchio di quello del fratello maggiore, e
con un cenno lieve della testa gli disse più di quanto non
riuscisse
a fare a parole.
Il
leader sparì in un lampo, lasciandoli da soli al centro
della pista,
mentre le note di una nuova canzone si diffondevano attorno a loro.
Isabel
conosceva quella canzone e l'amava.
Raphael
la circondò per la vita e lei allacciò le sue
braccia al collo di
lui, lo sguardo perso in quello del marito.
Danzarono
lentamente sul ritmo lento e dolce, fronte contro fronte, spezzato
ogni tanto dal suono graffiante delle trombe, senza bisogno di dirsi
nulla, godendosi ogni istante dell'inizio della loro vita assieme.
Se
solo pensavano a tutto quello che avevano dovuto passare per arrivare
a quel momento di pura felicità, sembrava davvero tutto solo
un
sogno.
“Sei
felice?” sussurrò Isabel.
“Perché io lo sono. Sono
schifosamente felice, Raffaello.”
Il
mutante sorrise alle sue parole dolci e tuttavia crude, come solo lei
sapeva essere.
La
presa sulla sua vita si fortificò per un attimo, quasi con
possesso.
“Non
credo di essere mai stato più felice in tutta la mia
vita” ammise,
anche se sapeva di suonare sdolcinato. Ma con Isabel poteva essere
anche quello senza vergogna.
Il
sorriso che illuminò il viso di Isabel mentre si sporgeva
per
baciarlo era tinto di amore e una punta di malizia, prometteva
dannazioni e benedizioni insieme.
“E
aspetta di vivere il resto della nostra vita insieme, Raffaello, il
meglio deve ancora venire” proferì, prima che le
sue labbra si
chiudessero su quelle di lui, in un bacio totale.
La
musica finì, ma loro non se ne accorsero e continuarono a
danzare,
ignari perfino degli applausi fragorosi e dei fischi dei loro amici e
della loro famiglia, tutti uniti nel giorno più bello della
loro
vita.
Note:
In
principio Isabel doveva chiamarsi Aurora, un nome che amo e che avrei
voluto mettere ad una mia ipotetica figlia, se mai ne avessi avuto
una, ma dato che c'erano già Angel e April che iniziavano
con la
lettera 'A' poi il nome è stato cambiato, comunque Aurora
è rimasto
come suo secondo nome.
Jervis
e Michelle sono riapparsi per la cerimonia, e mi è piaciuto
ritrovarli un po'.
Raph
Principe Consorte è buffo come concetto, e non è
importante in
effetti, ma sì, il nostro Raph ha sposato una regina, quindi
è
entrato nella famiglia reale.
Questo
capitolo è ridondante, non so nemmeno quante volte si
ripetono le
parole ridere, sorridere e abbraccio, in tutte le loro declinazioni,
è puro fluff, ma penso che dopo tutto il dolore di questa
storia
fosse necessario e io l'ho trovato come un balsamo per il mio animo.
Spero
che a voi sia piaciuto.
Spero
che questo epilogo vi sia piaciuto, che siate stati contenti di
ritrovare certi personaggi, delle loro reazioni, di tutta la
cerimonia in generale.
Non
riesco a credere di aver finalmente finito questa storia dopo cinque
anni.
È
passato così tanto tempo, sono successe così
tante cose, ma ho
continuato a pensare a questa storia, al desiderio di finirla.
Sono
davvero molto felice di esserci riuscita, sento un senso di
completamento, eppure mi sento anche un po' triste. Mi
mancherà
infinitamente.
Ora,
'Don't let me go' è terminata, ma la serie 'Heart's
Mutation' non è
ancora completa.
Manca
l'ultima storia, “The best is yet to come”, che
viene citata alla
fine di questo capitolo: la canzone che Isa e Raph ballano alla fine
è “The best is yet to come” di Frank
Sinatra, e la promessa che
lei gli fa “il meglio deve ancora venire”
è proprio la sua
traduzione.
Non
so quanto ci metterò a finirla, non voglio fare promesse che
non so
se riuscirò a mantenere, ma sappiate che la
finirò. Ci metterò
anni, forse, ma la finirò.
E
il primo capitolo è già postato, corretto a tempo
record, bruciavo
dalla voglia di iniziare una nuova storia insieme a voi, per chi
vorrà seguirla.
Ringrazio
tutti voi che mi avete accompagnato in questa avventura, con pazienza
e gentilezza, e spero che stiate bene, soprattutto in questo periodo
duro.
Vi
abbraccio digitalmente, l'unico contatto concesso in questo periodo
buio, ma un abbraccio sincero e pieno di affetto.
C'è
sempre la luce dopo l'oscurità più nera.
Abbraccio,
Switch
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