Tutto il gin di Calcutta

di Old Fashioned
(/viewuser.php?uid=934147)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Grosvenor 1
TUTTO IL GIN DI CALCUTTA






Capitolo 1

Quando il tenente Eldred Grosvenor riprese i sensi e si trovò a torso nudo, supino su una lastra di pietra e incatenato per i quattro arti, capì che non era una buona giornata.
Si guardò intorno ancora stranito e per un po’ fu quasi convinto di essersi preso la sbronza peggiore della sua vita: era in una stanza semibuia, dal soffitto così alto che si perdeva nell’oscurità. Le pareti erano un groviglio di altorilievi di persone e animali, la luce danzante delle fiaccole creava l’illusione che le figure palpitassero di vita. Illuminata dal bagliore sanguigno di due bracieri, incombeva su di lui la forma gigantesca di una donna con quattro braccia, una collana di teschi e una cintura di membra recise. Il volto era atteggiato a un’espressione di ira furente e dalla bocca zannuta la lingua le scendeva fino al mento. L’effigie era dipinta in colori più o meno realistici e aveva una chioma scomposta di capelli veri che le scendeva fino alla vita.
L’aria afosa e appesantita dagli incensi vibrava del selvaggio frastuono di cembali e tamburi. Voci roche modulavano un canto cercando di sovrastare gli strumenti.
Deglutì a vuoto e nonostante il caldo la pelle nuda del torace gli si increspò in un brivido ghiacciato. Se le sue scarse conoscenze di induismo non lo tradivano, quella virago era la dea Kali.
Il che significava che era prigioniero dei thug.
Ignorava in che modo e perché ciò si fosse verificato. E ignorava altresì perché i thug, dei quali aveva sempre sentito parlare come di un fenomeno estinto e relegato nella leggenda, fossero invece vivi e vegeti.
L’unica cosa che sapeva per certo era che entro breve sarebbe arrivato qualcuno con la pretesa di strangolarlo.
L’attesa in effetti non fu lunga: a un tratto la musica tacque e nel silenzio un passo misurato si avvicinò. Un uomo si piegò su di lui.
Grosvenor lo fissò e gli occhi gli si dilatarono per la sorpresa. “Maharaja?” mormorò stupefatto. Nonostante non portasse più il prezioso sherwani* e il turbante ingioiellato con cui aveva accolto le truppe inglesi, il nuovo arrivato era indubbiamente Suraj Singh di Barhdaman. “Vi prego, ditemi che questa è un’antica usanza di ospitalità delle vostre parti,” soggiunse scrutandolo incerto.
L’uomo gli rivolse un freddo sorriso. “Che questa sia un’usanza antica non ve lo nego,” rispose compito, “ma di certo non si tratta di ospitalità. Voi inglesi non siete precisamente quelli che definirei graditi ospiti.”
Sì, ma...” L’ufficiale pensò che prendere tempo non sarebbe stata una cattiva idea, anche solo per capire cosa stava succedendo. “Ma ci avete chiamati voi nel vostro palazzo, volevate degli istruttori per i vostri soldati… Ecco, non pareva proprio che la nostra presenza vi infastidisse. E comunque bastava non chiamarci.”
Non vi abbiamo certo chiamati in India, giusto?” Gli occhi neri e pesantemente bistrati del maharaja ebbero un brillio di fanatismo.
Ammetto che forse ci siamo presi qualche libertà eccessiva,” rispose l’ufficiale in tono conciliante.
Già, forse un tantino eccessiva,” replicò l’uomo con glaciale calma.
Nel frattempo si udiva il tramestio di decine di piedi scalzi. Figure a torso nudo, col capo coperto da un semplice turbante chiaro, stavano lentamente circondando l’altare.
Suppongo che liberarmi, offrirmi da bere e rimandarmi a Calcutta sia fuori questione?” si informò con discrezione il tenente.
Il maharaja non si prese neppure la briga di rispondergli. Con gesti misurati cominciò a srotolare la sottile fascia di seta che teneva avvolta in cintura, poi la strinse con entrambe le mani e la sollevò solennemente verso la statua di Kali. La tese con un gesto rapido, facendola schioccare.
Aspettate!” esclamò il tenente. “Aspettate un attimo, dannazione!”
L’altro si voltò infastidito verso di lui. “Non avrete il cattivo gusto di mettervi a implorare, spero.”
Sono rassegnato al mio destino,” gli assicurò l’ufficiale in tono grave. “Posso almeno esprimere un ultimo desiderio?”
Suraj Singh sbuffò seccato. Grosvenor stabilì che si trattava di un segno di assenso. “Venite più vicino.”
Cosa?”
È sconveniente.”
Che cosa sarebbe sconveniente?”
L’ultimo desiderio. Voglio dirvelo in un orecchio.”
Suraj Singh fece schioccare di nuovo la fascia di seta. Con una certa precipitazione, l’ufficiale disse: “Non avrete paura di un prigioniero con le mani e i piedi legati, voglio sperare. Che fine ha fatto il vostro leggendario coraggio?”
Dopo qualche secondo di esitazione, con gli occhi di tutti i suoi uomini puntati su di lui, il maharaja si chinò avvicinando il viso a quello di Grosvenor. “Ebbene, il vostro ultimo desiderio?” domandò seccato.
Questo!” esclamò l’inglese buttando la testa in avanti con tutte le sue forze. Colpì in pieno il suo antagonista, che emise un grido inarticolato e barcollò all’indietro zampillando sangue dalla bocca.
Grosvenor scrollò il capo e i due incisivi che gli erano rimasti piantati nel sopracciglio caddero a terra tintinnando. Il suo sangue si unì a quello del maharaja sull’altare.
Si abbandonò all’indietro con un sospiro appagato. “Creperò ugualmente, ma almeno mi sono tolto una soddisfazione.”
Alla vista di Suraj Singh ferito, l’ira dei thug esplose furibonda. Tutti si agitavano e inveivano, il tenente fu colpito più volte, uno lo prese addirittura per i capelli e gli sbatté la testa contro la pietra così forte che per qualche secondo l’ufficiale vide tutto nero, ma nessuno pareva intenzionato a mettergli un laccio al collo. Dopo averlo malmenato in vari modi sciolsero le catene che lo tenevano avvinto e lo portarono fuori dal tempio. Si scambiarono rapide frasi nella loro lingua, poi in quattro lo sollevarono alla meglio e lo trascinarono via.
Semisvenuto e dolorante, l’ufficiale non riusciva a opporre alcuna resistenza. Arrivarono all’aperto, la luce forte gli fece sbattere gli occhi. Percepì il calore bruciante del sole sulla pelle e un odore di decomposizione talmente forte da dargli la nausea.
Lo lasciarono cadere a terra bocconi, poi si scambiarono altre frasi. Sentì il rumore di una lama che veniva sfoderata.
Tentò di alzarsi, ma qualcuno lo bloccò premendogli un piede sulla schiena.
Poi dietro le sue spalle ci fu un grido soffocato, e un corpo gli crollò addosso. Dopo un frenetico tramestio, altri due corpi si abbatterono al suolo. Sentì delle mani afferrarlo e rivoltarlo sulla schiena, il gesto aveva una certa connotazione di premura. “Come state, signore?” chiese una voce.
Grosvenor cercò di aprire gli occhi, ma accecato dal sangue e dal sole che gli batteva in faccia, vedeva solo una sagoma scura con un turbante. L’altro sembrò capirlo e si spostò in modo da proiettargli addosso la propria ombra.
Il tenente mise a fuoco l’immagine: a prima vista era un giovane thug. Torso nudo, turbante chiaro, pelle olivastra, capelli neri lunghi fino alle spalle, un accenno di barba e baffi. “Con chi ho l’onore?...” mormorò mentre tentava di sollevarsi sui gomiti.
Di nuovo l’altro intervenne aiutandolo a mettersi seduto. “Potete chiamarmi Chāyā**. Come vi sentite?”
Come una palla da rugby alla fine della partita. Che cos’è successo? Chi siete? Perché non mi hanno fatto secco là dentro? Che cos’è questo odore terribile?”
L’altro si guardò rapidamente intorno, poi disse: “Ora non c’è tempo per le domande. Visto che non hanno potuto sacrificare voi, quando avranno finito di purificare l’altare andranno a prendere un altro prigioniero. Riuscite a camminare?”
Direi di sì.”
Bene, seguitemi.”
Con una certa fatica, il tenente Grosvenor si alzò in piedi. Per terra c’erano i corpi di tre thug sgozzati come capretti, il sangue fresco si stava rapidamente coprendo di mosche. “Siete stato voi a fare questo?” chiese meravigliato.
Non c’era altro da fare,” fu la sbrigativa risposta. “Ora muovetevi: dobbiamo salvare gli altri inglesi.”
Dove sono?”
Seguitemi!”
Per quanto ancora dolorante, l’ufficiale cercò di tenere il passo svelto dell’indiano. Si trovavano in una stretta gola, tra templi dalla struttura poderosa, composti di più livelli, con le facciate scolpite. Alcuni erano talmente massicci da dare l’impressione di essere stati scavati direttamente dal fianco della montagna, ma tutti sembravano abbandonati da tempi immemorabili. Tra essi correvano degli stretti corridoi che si intersecavano ortogonali. Chāyā si muoveva con disinvoltura, dando l’impressione di conoscere il posto molto bene.
C’è un piccolo problema,” disse il tenente cercando di non rimanere troppo indietro.
E sarebbe?” chiese il misterioso giovane senza nemmeno voltarsi.
Io sono più disarmato di un reverendo.”
Non preoccupatevi: voi dovrete solo distrarre il guardiano.”

Chissà perché, Grosvenor se l’era immaginato. Il guardiano, che stavano osservando da dietro una scultura, era alto un palmo più di lui e largo quanto lui e Chāyā messi insieme. Le sue mani davano l’impressione di poter stritolare la pietra dei templi come ricotta, un’enorme barba nera gli arrivava fino al petto e in cintura oltre al rumal*** aveva una frusta da bestiame. “Che dite, provo a declamargli qualcosa di Byron?” propose il tenente sardonico.
Dovete solo distrarlo, al resto penserò io.”
Non vorrei che la sua distrazione consistesse nel fare a pezzi il sottoscritto.”
Non abbiamo molto tempo,” gli ricordò Chāyā.
D’accordo, d’accordo.”
Il gigante sedeva davanti a un piccolo tempio che a differenza degli altri aveva sbarre alle finestre e una porta di legno chiusa da un elaborato lucchetto.
Grosvenor uscì da dietro la statua passeggiando come se fosse stato in Trafalgar Square. “Buon giorno,” disse affabile al guardiano, “mi chiedevo se qualcuno avesse mai visto da queste parti una scimmia a tre teste. Sapete, sono un naturalista, e così...”
Non fece in tempo a finire la frase: con imprevista velocità, l’uomo saltò in piedi e sfilò il rumal dalla cintura, quindi cominciò a farlo roteare nell’aria. La sfera di metallo che ne appesantiva l’estremità mandava un sibilo sinistro.
Grosvenor si voltò per correre via, ma non aveva fatto il primo passo che già il laccio gli si stava avvolgendo intorno al collo. Fece appena in tempo a mettere una mano tra la gola e le spire di seta poi il peso lo colpì alla tempia facendolo cadere a terra.
Pur stordito dalla botta, cercò di rialzarsi e liberarsi del rumal, ma il guardiano gli si buttò addosso con tutta la sua mole, strappandogli un gemito soffocato.
Si rigirò sulla schiena, sferrò un pugno in piena faccia al gigante. Questi si limitò a scrollare la testa e a emettere un grugnito di disappunto, poi come se niente fosse afferrò le due estremità del laccio e cominciò a tirare come per chiudere un sacco.
Più che agitarsi come una trota presa all’amo, Grosvenor non riusciva a fare: il suo antagonista aveva una forza spaventosa, inoltre incassava i pugni come il fianco di un pachiderma. Per quanto lui cercasse di colpirlo con tutte le sue forze, l’unica cosa che otteneva a parte farsi male alla mano era che l’altro rinsaldasse la stretta sul laccio.
La vista gli si fece nera.

Signore! Signore!”
Grosvenor si accorse che qualcuno lo stava scuotendo per le spalle. Riemerse faticosamente dal buio per trovarsi faccia a faccia con Chāyā, che in ginocchio accanto a lui cercava di farlo rinvenire.
Il tenente tossì, si passò una mano sulla gola dolorante. “Alla buon’ora,” protestò, ancora afono dopo la recente esperienza di strangolamento, “volevate godervi lo spettacolo?”
Alzatevi, non c’è tempo!”
Aspettate un attimo, non so nemmeno se sono ancora vivo.”
Dobbiamo fare in fretta, tra un po’ arriveranno!”
Sapete, voi mi ricordate tanto il Bianconiglio,” brontolò l’ufficiale, puntellandosi su un gomito per rimettersi in piedi, ma Chāyā non lo stava più ascoltando: era chino sul corpo del guardiano e lo stava palpando da tutte le parti. “Eppure ci deve essere,” mormorò. Poi alzò gli occhi sull’inglese e a voce più alta aggiunse: “Datemi una mano, presto!”
A fare che?”
Dobbiamo cercare la chiave, so che la porta sempre addosso.”
Sapete un sacco di cose, mi pare.”
È il mio mestiere. Ora aiutatemi, non abbiamo tempo.”
La chiave era in un posto che in qualità di gentiluomo Grosvenor trovò dei più sconvenienti. Era anche sudaticcia, e viscida per motivi che il tenente preferì non approfondire. “È questa?” chiese reggendo con due dita un’elaborata chiave di ottone appesa a una catenella.
Date qua,” disse per tutta risposta Chāyā. Fece scattare il lucchetto, spalancò la porta e con un gesto che a Grosvenor parve assai strano si fece rapidamente da parte.
Un istante dopo uscì dalla cella come un treno il sergente Jenkins, con l’uniforme che sembrava pronta per un’ispezione e uno sgabello brandito come una specie di clava. “Dove sei, sporco mangiacurry?” inveì guardandosi intorno. Poi vide il tenente, abbandonò l’improvvisata arma e salutò militarmente. “Felice di rivedervi vivo, signore!” disse in tono marziale.
Anch’io sono felice di rivedervi, sergente. C’è qualcun altro dei nostri con voi?”
Uscirono dalla cella anche Thayes e Barrett, due soldati del suo plotone. Il primo dovette chinarsi per evitare di sbattere la fronte contro la porta e si mise un po’ di traverso per far passare le spalle. Il secondo, un diciottenne con l’aria di uno che pensava di andare in seminario e invece si era ritrovato nei fucilieri, reggeva con deferenza la sua giacca.
Grazie, soldato,” disse il tenente indossandola. “E ora andiamocene da qui.”

Al seguito dell’indiano, i quattro corsero verso l’imboccatura della gola. Man mano che procedevano, le pareti del canalone si abbassavano e si stringevano, e da esse debordava una vegetazione lussureggiante. Di pari passo, il tanfo di decomposizione che stagnava nell’aria andava facendosi sempre più intenso.
Barrett era già bianco come un cencio e c’era da scommettere che entro breve avrebbe cominciato a vomitare, ma persino il sergente Jenkins, sebbene impassibile, era piuttosto grigio in faccia.
Alla fine della gola, la giungla li accolse come un muro: afa, frinire di migliaia di insetti, piante di ogni genere che crescevano le une addosso alle altre, bestie in agguato. Chāyā si infilò risolutamente nella macchia, in un punto dove a ben guardare si scorgeva qualche leggera traccia di passaggio. “Presto!” raccomandò per l’ennesima volta.
Corsero schivando rami e saltando tronchi caduti per un tempo imprecisato, poi la vegetazione parve diradarsi. Tra le fronde dei ficus e dei banyan apparve un lembo di cielo caliginoso, nel quale roteavano lente le sagome nere degli avvoltoi.
Rallentarono. L’odore era ormai insopportabile. Prendeva alla gola, impregnava i vestiti. Ogni respiro era una pena.
Quando la vegetazione si esaurì del tutto lasciando spazio a una radura, i quattro inglesi impietrirono. Barrett si afflosciò direttamente a terra privo di sensi e Thayes dovette correre a vomitare. Grosvenor aprì la bocca per dire qualcosa, ma si accorse di essere senza parole.
Il sergente Jenkins fu il primo a riprendersi: “Per le braghe di Belzebù,” imprecò, “io ne ho viste di porcherie fatte dai selvaggi, ma questa le batte veramente tutte!”
Quella che stavano con orrore contemplando era una fossa comune. Dentro c’erano decine di corpi, tutti maschi, di pelle bianca e nudi. Ognuno di essi aveva il ventre squarciato, dal quale fuoriuscivano i visceri.
Il caldo soffocante aveva accelerato i processi di decomposizione e i corpi avevano i volti enfiati e nerastri, nei quali era ormai impossibile riconoscere i lineamenti. Tutti avevano il collo segnato da un profondo solco orizzontale.
Gli avvoltoi saltellavano sulla distesa di cadaveri godendosi il macabro banchetto. Nugoli di mosche ronzavano ovunque.
Li hanno strozzati tutti,” disse Jenkins, la voce che fremeva di sdegno, “tutti quanti.” Alzò lo sguardo verso Chāyā. “E perché sbudellarli come bestie al macello? Questo non è il modo di trattare dei soldati.”
È l’usanza dei thug,” disse il giovane senza guardarlo, “quando derubano le carovane lo fanno per evitare che i gas della putrefazione rivelino dove hanno sepolto i cadaveri.”
Ma perché non ricoprirli di terra, almeno?”
Aspettavano di buttare dentro anche voi.”
Nessuno si sentì di replicare. Thayes rianimò alla meglio il commilitone che giaceva ancora a terra svenuto, poi si lasciarono alle spalle la raccapricciante fossa per ributtarsi nella giungla.

Continuarono a camminare nel folto della vegetazione, seguendo un sentiero che solo Chāyā era in grado di scorgere. Andarono avanti senza fermarsi fino al tardo pomeriggio. Grosvenor era esausto. Era assetato, dolorante dappertutto e tormentato dagli insetti che si accanivano intorno alla ferita ancora aperta che aveva sul sopracciglio. Il sudore e il sangue gli avevano inzuppato l’uniforme, rendendola ruvida come carta vetrata. Fossero stati solo lui e l’indiano, gli avrebbe semplicemente comunicato che stava per crollare dalla stanchezza, ma sentiva su di sé lo sguardo di Jenkins e dei due soldati, e ciò lo convinse a non aprire bocca.
Col tono più neutro che riuscì a tirare fuori, si informò di quanto mancava.
Non molto,” rispose Chāyā
Il tenente non replicò. Il non molto di quel tizio non lo convinceva per niente, tuttavia non aveva altra scelta che farsi bastare quella scarna rassicurazione. Per distrarsi cominciò a calcolare quanto gin e quanta acqua tonica sarebbero stati necessari per estinguere la sua sete una volta rientrato a Calcutta.
Era ancora immerso nei suoi conti quando arrivarono ai margini di uno spiazzo lastricato. In più punti il pavimento era sconnesso perché le pietre erano state sollevate dalle radici degli alberi, ma era accuratamente pulito. Al centro di quello spazio così tenacemente conteso alla natura sorgeva un tempio di mattoni. La costruzione era antica e mostrava i danni del tempo, ma aveva una generale apparenza di ordine e decoro. I gradini che conducevano all’ingresso recavano i segni di innumerevoli offerte di gulal**** rosa e viola, ai due lati della scalinata c’erano vecchi vasi di terracotta con piante fiorite.
Una donna con un saree colorato si stava apprestando a entrare nella costruzione.
Senza uscire dalla macchia, Chāyā imitò il verso di un uccello. La donna si voltò nella sua direzione. Sembrava che lo vedesse, perché i suoi occhi erano puntati con sicurezza verso di lui. Rispose con lo stesso suono.
Andiamo,” disse semplicemente l’indiano, muovendosi per raggiungerla. Imitato dagli altri, Grosvenor lo seguì.

Il tenente, che pensava di essere esausto, dovette ricredersi: non era mai stato così esausto in tutta la sua dannata esistenza. Appena la donna gli indicò un posto dove sedersi vi crollò sopra, e decise che non si sarebbe più alzato di lì nemmeno se a sloggiarlo si fosse presentata la dea Kali in persona.
Tentò di ricostruire gli ultimi avvenimenti, ma nessun pezzo sembrava combaciare con gli altri.
Tutto era cominciato con una tigre del Bengala che aveva accidentalmente dimenticato nello studio del generale Harris dopo una serata di libagioni. Il generale non l’aveva presa bene e Wilson, il suo colonnello, aveva pensato di aggregare lui e il suo plotone al contingente del maggiore Shaw, in modo da sottrarlo per un po’ alla vista del furibondo superiore.
Il maggiore doveva compiere una missione che sembrava quasi una passeggiata, ovvero andare da un maharaja e fornirgli istruttori inglesi per i suoi soldati, quindi sarebbe stato un buon modo per tenersi alla larga da Calcutta per un po’.
Suraj Singh aveva accolto i militari nel migliore dei modi: bevande fresche, acquartieramenti ombrosi e ventilati per la truppa, danze e musiche in onore degli amici britannici...
E poi si era ritrovato legato su un altare in attesa di farsi tirare il collo come una gallina.
A parte i tre che aveva recuperato, e che probabilmente erano stati tenuti in vita per essere a loro volta sacrificati, gli altri erano stati ammazzati dal primo all’ultimo.
Chāyā,” mormorò, la voce debole per la stanchezza.
Signore?”
Avete detto che sapere cose è il vostro mestiere. Non disdegnerei qualche spiegazione.”
L’altro emise un sospiro, poi disse: “Lasciate che Kaur si occupi delle vostre ferite. Dopo parleremo.”
Nonostante non fosse la dea Kali, la donna riuscì a farlo alzare e lo condusse in una specie di stanza da bagno. Lo spogliò quanto la decenza consentiva, senza né un gran sfoggio di pudicizia né sfrontatezza, poi cominciò a lavare le sue varie ferite. “Vi fa male?” chiese picchiettandogli un panno umido sul sopracciglio.
Un po’,” rispose Grosvenor a denti stretti, sobbalzando a ogni tocco.
Preferite che lasci stare?”
Sì, vi prego, mi state facendo un male orribile e voglio solo dormire. “No, non preoccupatevi.”
Per cercare di distrarsi, il tenente prese a osservare Kaur. Era una donna di mezz’età, né alta né bassa, né bella né brutta, né magra né grassa, con un abito né troppo vistoso né troppo dimesso. Il genere di persona che nessuno avrebbe guardato una seconda volta.
La prima cosa che gli venne in mente fu che anche Chāyā era così. Un giovanotto talmente anonimo che nessuno l’avrebbe notato, a meno che non fosse stato lui a volersi far notare.
Pensò a madre e figlio, ma i due non si assomigliavano per niente.
E poi, guardando meglio la donna, si accorse che in realtà era molto più giovane e piacente di quello che voleva far vedere, e che il saree era drappeggiato in modo da nascondere il più possibile le sue forme.
Kaur, chi siete?” le chiese.
Nessuno,” rispose la donna con un vago sorriso, continuando a medicarlo.
C’era un tale che diceva di chiamarsi così, ed era famoso per essere dannatamente furbo.” Il tenente alzò gli occhi su di lei. “Mi sa che voi siete come quel tale.”
L’altra si schermì con fare modesto. “Siamo dalla vostra parte comunque.”
Siamo? Quanti siete?”
Chāyā vi spiegherà tutto.”

Il misterioso giovane si ripresentò dopo cena. Nel frattempo aveva dismesso i panni da thug e indossava una casacca chiara e un paio di pantaloni. In testa aveva aveva un semplice foulard arrotolato alla maniera dell’Asia Centrale.
Raccolse una lanterna e un portasigarette poi disse: “Venite con me, tenente.”
Condusse l’ufficiale nella sala principale del tempio, e da quella su per una scaletta di pietra. Arrivarono a una stanza piccola, arredata con un tappeto, cuscini sul pavimento e un tavolino centrale. Le tende dell’unica finestra ondeggiavano spinte dalla brezza notturna.
Chāyā fece segno al tenente di accomodarsi, quindi si sedette a sua volta e si accese una sigaretta sulla fiammella della lanterna. Spinse poi il portasigarette verso Grosvenor.
I due fumarono in silenzio per un po’, ascoltando i rumori della foresta di notte. Le ombre danzavano sulle pareti, l’aria era satura di profumi. Il tenente pensò che quel posto era come tutta l’India: affascinante, pericoloso e con poco alcol. “Ucciderei per un gin tonic,” sospirò.
Temo che per un po’ dovrete farne a meno,” disse l’altro, poi di punto in bianco gli chiese: “Cosa sapete del Grande Gioco?”
L’ufficiale si appoggiò all’indietro sui cuscini come chi si appresta ad ascoltare qualcosa di molto interessante e se lo vuole godere stando comodo. Il Grande Gioco era roba forte. “Che è una guerra di spie tra noi e l’Impero Russo, principalmente. Che solo i soldati più capaci dei due schieramenti vi prendono parte.”
Sapete il necessario. Conoscete i pandit?”
So che esistono, anche se non ne ho mai visto uno.”
Perché normalmente non ci facciamo vedere.”
Grosvenor stava per alzare le sopracciglia in segno di stupore, poi ripensò alla medicazione di Kaur e decise di rimanere impassibile. “Questo significa che voi siete un pandit?” si limitò a chiedere.
Esattamente.”
Si spiegano molte cose,” considerò il tenente, pensando all’abilità nel combattimento che l’anonimo giovanotto aveva dimostrato. “E Kaur?”
Lei non compie missioni, ma è comunque una nostra agente.”
Chāyā finì la sigaretta, schiacciò il mozzicone sul pavimento e lo appoggiò da una parte, poi spazzolò via con la mano ogni traccia di cenere dalle pietre. Si accorse che l’ufficiale stava seguendo i suoi movimenti con lo sguardo e in tono quasi di scusa disse: “La prima cosa che ci abituano a fare è non lasciare tracce.”
Capisco.”
L’altro si morse il labbro, giocherellò un po’ con un lembo del foulard che portava in testa e finalmente si decise a dire: “Queste sono informazioni riservate, che normalmente non rivelerei a nessuno, ma qui si tratta di un caso di emergenza, diciamo così. Io vi ho aiutati, ma ora voi dovete aiutare me, è una cosa della massima importanza.”
Grosvenor sorrise. “Con il sottoscritto dovrete accontentarvi un po’, ma farò del mio meglio. E ora volete finalmente dirmi le cose che in situazioni normali non rivelereste a nessuno? Purché che non siano sconvenienti, però.”
Chāyā ignorò la battuta, forse troppo teso per coglierla. Si accese un’altra sigaretta e per un po’ fumò dando l’impressione di essere immerso in pensieri tormentosi.
Alla fine prese un gran respiro e disse: “La spia più abile dei russi è un uomo di Khiva che si fa chiamare O’lim*****. Attualmente costui si trova proprio qui nel Bengala, e ha la missione di scatenare una rivolta anti-britannica per indebolire l’Impero e fare in modo che i disordini interni rallentino la sua espansione verso l’Asia Centrale. Per ottenere tutto questo sta fomentando il fanatismo dei thug e sta finanziando il movimento indipendentista indiano, che proprio a Calcutta ha la sua roccaforte. In occasione della Conferenza Nazionale assassinerà il Governatore e dopo sarà il caos.”
A quelle sconcertanti rivelazioni Grosvenor mostrò l’imperturbabilità di un Sadhu Ramanandi******. Solo dopo aver fumato, in mancanza di alcol, un’altra sigaretta, nel più puro gergo militare proferì: “Al tempo.”
Al tempo?”
Intendo dire, con calma e nel dovuto ordine. Da dove arriva questo O’lim, tanto per cominciare?”
Ve l’ho detto, è una spia russa.”
E voi come fate a sapere che è qui?”
L’altro sbuffò. “L’ho seguito.”
C’è un motivo per cui non l’avete ancora fermato, se sapete dov’è e cosa vuole fare?”
Sì, che non ci sono riuscito.”
Com’è fatto?”
Non avrebbe alcun senso che ve lo descrivessi. Può diventare quello che vuole, ancora più di me. Se gli serve essere un bramino è bramino, se no sadhu, o sepoy, o persino donna.”
Anche vacca sacra?”
Chāyā non poté fare a meno di sorridere: “No, vacca sacra no.”
È già qualcosa.”
Fra i due calò il silenzio. Di nuovo la notte tropicale li avvolse con i suoi mille suoni misteriosi. La lanterna colorata creava un’atmosfera ipnotica, che invitava all’abbandono.
Dopo un po’, Grosvenor disse: “Per quello che ne sapevo, il problema dei thug aveva smesso di esistere cinquant’anni fa.”
Dopo oggi ne siete ancora convinto?”
Decisamente no, ma non capisco come mai sono tornati fuori, e perché fra loro c’è addirittura un maharaja.”
I thug in realtà non hanno mai smesso di esistere, il generale Sleeman li solo fatti ritirare nella segretezza. I maharaja li hanno sempre usati come sicari e assassini prezzolati, e molti potenti erano e sono thug a loro volta.”
Ho capito. E voi cosa facevate oggi al tempio della dea Kali?”
Seguivo le mosse di Suraj Singh. So che deve incontrarsi con O’lim per ricevere da lui denaro e documenti.”
Grosvenor lo fissò sorpreso. “Quindi il nostro maharaja è un traditore al soldo dei russi?”
Esatto. Nello stile dei thug ha drogato e poi ucciso tutti gli inglesi per evitare che trapelasse la notizia del suo tradimento, e state pur certo che starà cercando anche voi e i vostri uomini per farvi fare la stessa fine.”
Motivo in più per non separarci, noi e voi,” sospirò il tenente. Poi, dopo una pausa meditativa: “Sono stanco morto, ma vorrei sapere un’ultima cosa.”
Dite.”
Perché non mi hanno ucciso nel tempio?”
Ci siete rimasto male?”
Il contrario direi. E poi, se mai dovessi essere sacrificato a un dio, ci terrei che almeno si trattasse di Bacco. Ero solo curioso.”
Come se fosse la cosa più ovvia del mondo, Chāyā rispose: “In un sacrificio a Kali non può essere versato sangue. Ci sarebbe anche un motivo religioso, ma visto che siete stanco ve lo risparmio.”
Voi siete religioso?”
L’indiano alzò le spalle. “Sono un agnostico, più che altro, ma so celebrare le liturgie di otto culti diversi. In certe situazioni è molto comodo farsi passare per sacerdote.”
Capisco.”
Il pandit andò alla ricerca di un’altra sigaretta, l’accese e domandò: “Volete sapere qualcosa del piano per domani?”
Non gli giunse risposta: il tenente Grosvenor alla fine era crollato e stava dormendo della grossa. Chāyā gli stese sopra una coperta e uscì portandosi dietro la lanterna.











* Abito lungo simile al britannico frock coat, nato come abito di corte in stile europeo della dinastia Moghul.
** “Ombra” in bengalese.
*** Fascia di seta che i thug usavano per strangolare le vittime.
**** Polvere colorata e profumata che si usa come offerta votiva.
***** “Morte” in uzbeko.
****** Asceti induisti che dedicano la propria vita all’abbandono e alla contemplazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

L’umidità della notte si era condensata in una nebbia che i primi raggi di sole coloravano di rosa e arancio. Solenne, indistinta nella caligine, la foresta sembrava un fantasma silenzioso e immanente.
Grosvenor uscì al cospetto di tanta misteriosa bellezza con la sensazione di aver dormito un decimo del necessario e dolorante persino in parti del corpo che fino a quel momento non aveva neppure saputo di possedere.
La sua uniforme, lavata e asciugata da Kaur durante la notte, aveva riacquistato una parvenza di decoro, ma il suo aspetto rimaneva quello di uno che ha litigato pesantemente con un branco di cinghiali.
Jenkins, la cui inappuntabilità aveva invece come sempre del soprannaturale, lo salutò militarmente e gli presentò la forza, composta dai soldati Thayes e Barrett.
Quali sono gli ordini, signore?” gli chiese, tranquillo come se fosse stato nella caserma dei fucilieri a Calcutta.
Oggi ci trasformeremo in fanteria di marina, sergente. Sembra che dovremo introdurci in un palazzo costruito sull’acqua.”
Un palazzo sull’acqua, sissignore.” rispose Jenkins, all’apparenza per nulla turbato dalla faccenda.
In quel momento arrivò anche Chāyā, che aveva in tutto e per tutto l’aspetto del più umile dei contadini. Grosvenor lo fissò meravigliato: lo snello giovanotto che aveva conosciuto il giorno prima sembrava adesso un macilento omiciattolo di mezz’età, piegato dalla fatica e dalla malnutrizione. Aveva addosso degli stracci rattoppati e in testa un pezzo di saree sbiadito a mo’ di turbante. Il fango gli incrostava le gambe come se fosse appena uscito da una risaia.
Venite con me,” disse semplicemente il Pandit.
Stavano per incamminarsi quando comparve Kaur sulla soglia. “Tenente Grosvenor,” chiamò.
L’ufficiale la raggiunse. “Signora?”
Solo Kaur.” Gli porse alcuni dadi scolpiti nell’osso. “Prendeteli,” gli disse. “Questi sono un nostro segno di riconoscimento. Chiunque dei nostri li veda saprà che vi deve aiutare.”
Vi ringrazio.”
E state attento, i thug sono maestri del trasformismo. Così come noi siamo dappertutto, lo sono anche loro. Non fidatevi di nessuno.”
Ci sarà Chāyā con noi. Lui dovrebbe avere l’occhio allenato, no?”
Chāyā è una spia. Obbedisce ad autorità che in ogni momento potrebbero richiamarlo altrove.” Fece una pausa e lanciò un’occhiata al giovane indiano. “Oppure potrebbe morire.”
Iddio non voglia,” rispose Grosvenor, inorridito al pensiero di rimanere nel bel mezzo del Bengala inseguito da thug e spie russe con l’unico conforto di tre militari disarmati.
Tuttavia bisogna essere realistici,” rispose asciutta la donna, “quindi conservate quei dadi e state attento a chi vi sta troppo intorno. E ora andate.”
Con un cenno di saluto gli girò le spalle e rientrò nell’edificio. La porta si chiuse dietro di lei.
Grosvenor per un attimo rimase a fissare l’anta serrata con l’espressione del naufrago che vede l’ultima scialuppa allontanarsi, poi si riscosse e tornò dai suoi uomini. “Siamo pronti, sergente?” chiese, come se avesse avuto davanti l’intero plotone in assetto di marcia.
Signorsì.”
Molto bene, allora direi che è il caso di muoverci.” Poi, con una condiscendenza degna del Re Sole, soggiunse: “Siate così gentile da fare strada, Chāyā.”

Scoprirono che la sera prima erano entrati nel tempio dalla porta posteriore. Aggirando l’edificio videro che la facciata aveva degli ornamenti di stucco, aggraziati anche se scrostati dal tempo, e ai lati della porta invece dei vasi di fiori c’erano due statue a forma di leone, entrambe multicolori per il gulal che era stato loro offerto nel corso degli anni.
Da lì si dipartiva un sentiero lastricato che si addentrava nella foresta.
A differenza dello spiazzo sul retro, quel percorso era in buone condizioni e battuto da numerosi passaggi quotidiani.
Tramite quello arrivarono in pochi minuti a un paese. I primi contadini si stavano preparando per andare nei campi e le vacche sacre meditavano, assorte nella scelta dell’orto da depredare.
Chāyā fece cenno di attendere, poi scomparve e tornò poco dopo con un carretto coperto.
I militari salirono nel cassone. Nessuno sembrò notare che il veicolo si allontanava con quattro sahib a bordo, ma questo non diede alcun conforto a Grosvenor, cui le parole di Kaur continuavano a risuonare in mente come un sinistro presagio di sventura: così come noi siamo dappertutto, lo sono anche loro.
Cercò di distogliere il pensiero e riprese il calcolo del giorno prima.
Quando furono fuori dal centro abitato, strisciò verso il pandit che sedeva a cassetta e sottovoce disse: “Chāyā, vi ripropongo il problema di ieri: senza armi, le giubbe rosse possono avere al massimo una funzione decorativa.”
L’altro annuì. “Abbiamo pensato anche a quello.”
E a quale conclusione siete giunti?” chiese il tenente, ignorando se Chāyā stesse usando una sorta di plurale maiestatis o se facesse riferimento alla misteriosa organizzazione cui sembrava appartenere.
Sotto il carro,” fu la scarna risposta, poi il giovane tornò a rivolgere lo sguardo alla strada polverosa.
Passò qualche secondo, ma non giunsero altre spiegazioni.
Sotto il carro,” ripeté allora scettico il tenente, poi si ritirò nel cassone come una lumaca nel guscio. Incontrò lo sguardo del sergente, che gli rimandò la sua stessa sfiducia.
Proseguirono per un tempo imprecisato. Ormai il sole era sorto e nell’aria stagnava il consueto caldo umido. Grondante di sudore, Thayes fece per slacciarsi il colletto della giubba, ma venne fulminato dallo sguardo di Jenkins e abbassò la mano con espressione colpevole.
Cominciarono ad aleggiare odori di limo e acqua stagnante. Il poco che si vedeva dell’esterno erano erbe alte e canne palustri. Disturbato dal passaggio del carretto, si alzò in volo un airone.
Siamo vicino a un lago,” constatò il tenente.
Signorsì,” approvò Jenkins, che sedeva impettito e con l’aria di ignorare totalmente le condizioni climatiche.
Il carretto si fermò. Pochi secondi dopo Chāyā scostò la tenda che chiudeva il cassone e disse: “Scendete, presto!”
Ecco che ricomincia a fare il Bianconiglio, pensò Grosvenor con un sospiro.
Nel frattempo il pandit stava estraendo da sotto il veicolo una cassetta di legno che aveva l’aria di pesare parecchio. La appoggiò al suolo con delicatezza e la scoperchiò, rivelando una matassa di paglia da imballaggio. Ci frugò dentro e cominciò a tirare fuori degli involti di stoffa che avevano un inconfondibile odore di olio per armi.
Tutti presero a fissarlo come cani che vedono il padrone trafficare con la ciotola del cibo.
Chāyā distribuì un involto a ciascun militare e ne tenne uno per sé. Con sorpresa di tutti, continuò a frugare e distribuì a ognuno un secondo involto molto più piccolo, che aveva più che altro l’aria di un sacchetto con dentro della ghiaia, solo notevolmente più pesante.
Grosvenor e il sergente si scambiarono un’occhiata.
È quello che siamo riusciti a trovare in una notte,” disse l’indiano raddrizzandosi. “Comunque sono in ottime condizioni.”
Ufficiale e sottufficiale reputarono la frase decisamente sospetta.
Jenkins disfò il più grande dei due involti che aveva ricevuto e ci trovò un cinturone con una fondina da cui spuntava il calcio di una pistola. Tirò fuori l’arma, ebbe qualche secondo di sbigottito silenzio e infine proferì: “Che mi venga un colpo. Ma questa la usavo nella Guerra di Crimea!”
Il tenente diede un’occhiata: Colt Navy modello 1851 a tamburo. Ricordava di averne vista una in una vetrina nel salotto del colonnello Wilson, esibita come una specie di cimelio.
Per sua fortuna, il sergente stava già provvedendo a istruire le truppe: “Allora, giovanotti! Io usavo già queste armi quando i vostri padri andavano ancora a scuola, le conosco come le mie tasche! Primo, sono ad avancarica! Secondo, niente cariche troppo potenti o vi salta la canna! Terzo, se becco un cretino che non mette del grasso sul tamburo dopo averlo caricato, lo faccio arrivare a Calcutta a calci nel deretano!”
Grosvenor stava già pensando con orrore che nemmeno lui aveva mai usato un’arma ad avancarica, ma il sergente, che non aveva certo svolto trentacinque anni di servizio scaldando una sedia in fureria, col tono di chi propone la cosa più normale del mondo disse: “Signore, permettetemi di caricare la vostra pistola, non vorrei che vi sporcaste con la polvere.”
Tutti procedettero alla complicata operazione.
Sistemata la propria arma, Thayes si alzò in piedi e grazie alla sua altezza fu in grado di esclamare: “Ehi, ma c’è un palazzo in mezzo all’acqua!”
Dì un po’,” gli chiese Jenkins in tono severo, “dove hai scovato la roba per ubriacarti?”
È la verità, sergente!” protestò il soldato. “C’è un palazzo enorme, proprio nel bel mezzo del lago.”
Il sottufficiale si fece strada fra le canne, guardò oltre e l’unica cosa che disse fu: “Che mi venga un colpo.”
Grosvenor era curioso come una scimmia, ma fedele al suo ruolo di ufficiale, con sussiego chiese: “Che c’è, sergente?”
Signore, un palazzo in mezzo al lago, con quattro torri e degli alberi dentro.”
Singolare,” commentò il tenente.
In quel momento arrivò Chāyā, che arrancava con l’acqua fino alle anche tirandosi dietro una piccola imbarcazione.
Ecco che stiamo per diventare Royal Marines,” disse Grosvenor.

Poco dopo, una barchetta carica di frutta e verdura si staccò dalla costa. Accovacciato a poppa, un misero contadino vestito di stracci la spingeva con fatica verso il palazzo.
Con ogni evidenza, il pover’uomo aveva intenzione di proporre i prodotti del suo campo alle cucine del maharaja, e si era mosso di buon mattino per essere tra i primi fornitori.
Sul fondo della barchetta, ben nascosti sotto le ceste di ortaggi, i quattro militari facevano del loro meglio per non dar segno di sé.
Dati i suoi sei piedi e sei pollici di altezza, sistemare Thayes non era stato uno scherzo. L’avevano dovuto mettere supino, perché se stava sdraiato sul fianco le sue enormi spalle creavano una sporgenza del tipico rosso British Army difficilmente camuffabile. Ai suoi lati c’erano Barrett e il sergente, con una posizione che ricordava quella dei fedeli protetti dal manto della Madonna di certi quadri manieristi.
In omaggio al suo rango di ufficiale, il tenente era sdraiato sopra a Thayes, faccia a faccia con lui e con un assortimento di cesti e sacchi sulla schiena.
Dopo un tempo che a tutti parve interminabile, si udì il raschiare della prua contro la pietra del molo e delle voci accolsero l’attracco del natante.
Chāyā rispose, si accese un dialogo che rapidamente divenne piuttosto concitato.
Ammucchiati l’uno sull’altro, gli inglesi potevano solo scambiarsi degli sguardi, che si facevano sempre più preoccupati man mano che il colloquio saliva di tono.
Ci furono anche dei colpi qua e là sulle ceste, a Grosvenor parve che qualcosa di duro e appuntito scavasse fra gli ortaggi.
Faccia a faccia con lui, Thayes lo stava fissando con espressione di panico. Il sergente, alla sua destra, era nella fase di impassibilità attenta di chi deve mantenere il decoro ma sa che è in arrivo qualcosa di profondamente sgradevole. Solo Barrett, alla sua sinistra, appariva perfettamente tranquillo. Grosvenor stabilì che l’ingenuo ragazzotto probabilmente non aveva capito nulla di quello che stava succedendo, e che chissà da quanto tempo si crogiolava in quella serafica condizione.
Lo fissò, e lui gli rimandò lo sguardo pacioso di una vacca sacra.
Pian piano il vociare e il tramestio cessarono e l’unico rumore che rimase fu il lieve sciabordio dell’acqua contro i fianchi della barchetta. Dopo un lasso di tempo imprecisato ma decisamente penoso, finalmente la voce di Chāyā sussurrò: “Tutto a posto. Venite, presto.”
Il pandit spostò qualche cesta permettendo ai clandestini di abbandonare lo scomodo natante.
Grosvenor non aveva ancora fatto in tempo a rimettere tutte le ossa al loro posto che già l’indiano ripeteva: “Presto, presto!”
Il tenente si guardò intorno: il molo conduceva a una grande camera dal soffitto a volta. Il luogo era chiaramente adibito al servizio e non concedeva nulla all’estetica. Le pareti una volta bianche erano sporche e in qualche punto annerite dalla fuliggine, per terra c’erano scarti di verdura e paglia. In un angolo era appoggiato una specie di carretto a due ruote a trazione umana.
C’erano porte sui quattro lati, e al di là si intravedevano corridoi e scale.
Seguendo Chāyā, i militari si addentrarono per un dedalo di stanze. Ogni tanto il pandit si fermava con l’orecchio teso e cambiava percorso a seconda dei rumori che si udivano, scegliendo sempre le vie più silenziose.

L’ufficiale aveva già perso l’orientamento alla terza deviazione. Ricordava solo di essere sceso e salito più volte per scale di ogni genere e di aver percorso corridoi bui e meno bui al seguito di una tremula luce di candela, ma tutti quei percorsi si sovrapponevano nel tempo e nello spazio mescolandosi come le carte tra le mani di un croupier di Montecarlo. Nemmeno nelle sbronze più orribili sono mai stato così confuso, pensò.
Chāyā invece si muoveva in quel labirinto più disinvolto dell’architetto che l’aveva progettato.
Alla fine si ritrovarono in una stanzetta senza finestre, a porta chiusa, con un’unica smilza candela a illuminarli. In quella relativa sicurezza il tenente espresse un dubbio che da un po’ lo assillava: “Abbiamo un piano?”
Il pandit annuì. “La situazione è delle più fortunate,” disse, “il maharaja si trova qui e si incontrerà con O’lim nelle sue stanze, che sono proprio qui sopra.” Fece un cenno verso l’alto.
Come fate a esserne così sicuro?” gli chiese il tenente.
Abbiamo una spia nelle cucine, la stessa che ci ha aiutati ad arrivare fin qui con la barca.”
C’è un posto dove non ci siano spie di qualcuno in questo Paese?”
Chāyā mantenne un diplomatico silenzio.
Ci stavate parlando del piano,” lo incoraggiò Grosvenor. Aveva pensato alla situazione, in effetti, non è che non l’avesse fatto, ed era giunto alla conclusione che tra padella e brace, sempre di scottarsi il deretano si trattava. Ovvero: o dispersi nel bel mezzo del Bengala senza nemmeno un temperino per difendersi, o con quattro catenacci d’antiquariato e al seguito di una spia del Grande Gioco per intercettare il suo arcinemico russo. Perlomeno la seconda opzione sarebbe stata un argomento di conversazione più interessante.
Il piano venne accuratamente esposto da Chāyā: “Ora andiamo su, ci nascondiamo e li aspettiamo. Quando arrivano li facciamo fuori, ci appropriamo dei documenti che si scambieranno per portarli a Calcutta come prove e ce ne andiamo.”
Se non altro, non rischieremo di dimenticarci qualche particolare di fondamentale importanza,” sospirò Grosvenor.
Io sono abituato a lavorare da solo,” rispose l’indiano. “Di solito non ho bisogno di spiegare a me stesso i piani che intendo seguire.”
Capisco.”
Una domanda, signore,” intervenne Jenkins.
Sergente?”
Ci saranno uomini armati a difesa di costoro?”
Nel caso, sergente, compito vostro e dei vostri uomini sarà aiutarli a raggiungere il loro paradiso, qualunque esso sia.”
Ammazzarli dal primo all’ultimo. Tutto chiaro, signore.”
La vostra capacità di sintesi è encomiabile, Jenkins.”
Grazie, signore.”

Se questa è una delle situazioni più fortunate, non vorrei conoscere quelle decisamente sfortunate, pensò il tenente Grosvenor, tirandosi indietro mentre una pallottola faceva schizzare via schegge di pietra dalla colonna dietro cui si stava riparando.
Qualcosa era andato storto. Non era certo quello il contesto più adatto per scoprire in che punto il trenino della pianificazione aveva deragliato dai binari della tattica e della logistica, fatto sta che lui, i suoi uomini e il pandit erano asserragliati intorno al trono del maharaja e impegnati in uno scontro a fuoco in piena regola.
Avevate detto che sarebbe stato facile!” disse a Chāyā, alzando la voce per sovrastare il rumore degli spari.
Non l’ho mai detto!” replicò piccato l’indiano.
Quando si parla di situazioni fortunate, uno si fa l’idea che si tratti di qualcosa di positivo.”
Questo perché voi non avete mai preso parte al Grande Gioco. Altrimenti, state pur certo che avreste fatto in fretta a rivedere il vostro concetto di positivo. Qui perlomeno siamo al coperto, non ci sono dirupi profondi duemila piedi dietro le nostre spalle e non ci sono trenta gradi sottozero.” Si alzò e abbatté una delle guardie del maharaja con un colpo di pistola, poi tornò accanto al tenente.
La pur ampia sala del trono era ormai invasa dal fumo degli spari, l’aria rimbombava di detonazioni. A ogni colpo, qualche inestimabile elemento di arte moghul andava in frantumi spargendo schegge di stucco, vetro o specchio tutt’intorno.
Chinandosi per evitare una sventagliata di frammenti di ceramica, Grosvenor chiamò: “Sergente!”
Signore?” rispose subito il sottufficiale, che finalmente si trovava nel suo elemento.
Sergente, è giunto il momento di far capire a costoro che errore hanno fatto a non accettare istruttori britannici per le loro truppe.”
Sissignore!” rispose Jenkins. Si calcò in testa con fare risoluto il casco coloniale, atto che immancabilmente preludeva ad azioni decisive.
Il tenente fece per dire qualcosa a Chāyā, ma scoprì che nel frattempo il pandit si era abilmente eclissato. Pronunciò con sentimento la parola di Chambronne.
Era pur sempre un mangiacurry, signore,” gli ricordò il sergente, “di quelli non ci si può fidare.” Poi, a voce più alta: “Thayes, tu a destra. Barrett, tu a sinistra, lungo le pareti. Io e il signor tenente vi copriremo. E non sprecate le pallottole, dovete prendere i mangiacurry alle spalle!”
I due soldati caricarono le pistole e si prepararono a scattare.
Jenkins e Grosvenor si scambiarono un’occhiata, poi in sincrono si alzarono e cominciarono a bersagliare le sagome che sporgevano da dietro le colonne.
Alcuni tizi vestiti come comparse de Il ratto del serraglio caddero a terra e vi rimasero immobili.
Bel colpo, signore,” approvò il sottufficiale.
Grazie, sergente. Complimenti anche a voi.”
Grazie, signore.”
Continuarono a sparare. Le pallottole ronzavano nell’aria, alle loro spalle il trono di Suraj Singh di Barhdaman, tripudio di intarsi e legni pregiati, si stava rapidamente trasformando in assi sforacchiate buone solo per il camino.
Poi finalmente i due soldati arrivarono in posizione e a questo punto furono le guardie del maharaja a trovarsi in una situazione poco simpatica.
Una cosa che Grosvenor notò, ad esempio, fu che Barrett sterminava pagani peggio dell’arcangelo Michele: con quel faccino pulito da seminarista e gli occhioni spalancati sul mondo, ogni colpo che sparava era un tizio che cascava per terra e ci rimaneva.
Thayes, invece, che da un po’ aveva scaricato la sua pistola e non aveva certo tempo di ricaricarla, con grande spirito pratico raccoglieva le armi dei caduti e le usava come corpi contundenti, facendo gli stessi danni del commilitone.

Non avevano fatto in tempo a bonificare la sala che già si sentivano le urla e il tramestio di un secondo contingente in avvicinamento. “Via tutti!” urlò Grosvenor. Staccò dalla parete un talwar* dalla lama damascata augurandosi che oltre ad avere l’impugnatura d’oro tempestata di diamanti fosse anche affilato.
Attraversarono di corsa la sala, serrarono i battenti della porta d’onore e Thayes vi ammucchiò contro due enormi statue e un po’ di mobili.
Continuarono a correre come se avessero il Diavolo alle calcagna. Alle loro spalle già si udivano urla e tonfi contro la porta.
Grosvenor notò confusamente che si trovavano in una sala grande quanto la prima, quasi ugualmente sfarzosa, con ori, stucchi e stoffe pregiate dappertutto. Si accorse che sul pavimento di marmo bianco c’era una fila di gocce di sangue.
Le seguirono, imbattendosi ben presto nel cadavere di una guardia del maharaja che giaceva supina, con un buco in mezzo alla fronte e gli occhi spalancati.
Le tracce di sangue proseguivano oltre il cadavere.
Continuarono a seguirle fino a che il tenente, che correva davanti a tutti, entrò in quello che sembrava uno studio, con una scrivania e scaffali di libri. Appoggiato a una parete, il pandit si stava premendo una mano sul petto. Tra le sue dita contratte scorreva un rivolo di sangue.
Chāyā!” esclamò Grosvenor muovendosi verso di lui.
Attento,” lo avvertì l’indiano con voce debole.
Immediatamente un’ombra si mosse verso di lui, egli vide un baluginio d’acciaio e fece appena in tempo a indietreggiare per evitare un fendente.
Si voltò e si trovò di fronte un uomo dai lineamenti vagamente orientali, smilzo, vestito di nero, che brandiva un kukri** nepalese.
Ripeté mentalmente la parola di Chambronne.
L’uomo lo studiò dapprima con sguardo freddo, poi improvvisamente attaccò. Un fendente, l’unica mossa possibile con il kukri, che però aveva la potenza di un colpo d’ascia.
Grosvenor lo parò con il talwar. La lama resse, ma il tenente dovette rinforzare la presa sull’impugnatura con la seconda mano per non farsi sfuggire l’arma.
Subito dopo tentò un tondo dritto, ma l’altro scattò indietro con la velocità di un felino e la sciabola tagliò solo l’aria.
Il tenente ruotò il polso e incalzò l’orientale con un tondo rovescio, ma fu intercettato dalla pesante lama del kukri, che subito dopo si levò preparandosi a calare su di lui dall’alto.
A quel punto, fortunatamente echeggiò uno sparo e Jenkins irruppe nella stanza.
Vistosi in minoranza, l’uomo in nero si buttò contro una finestra fracassandone i vetri istoriati. Si udì il tonfo del corpo che cadeva in acqua.
Grosvenor si voltò verso Chāyā, che nel frattempo era scivolato sul pavimento e ormai era seduto in una pozza di sangue. Vide che aveva il volto terreo e imperlato di sudore freddo.
Fatemi dare un’occhiata,” gli disse, chinandosi accanto a lui. Cerò di scostargli la mano che copriva la ferita.
Ormai è tardi,” ansò l’altro. Gli porse una busta che teneva nell’altra mano. “Portate questa a Calcutta più presto che potete, ci sono dentro le prove del tradimento di Suraj Singh. Dite che… i thug...” Dovette interrompersi mentre una fitta di dolore gli deformava i lineamenti.
Faremo il necessario,” gli assicurò Grosvenor.
O’lim… dovete fermarlo.”
È il tizio in nero che era qui?”
Sì, è lui. Fermatelo. Sta preparando una rivolta, tutti i thug...” Si interruppe di nuovo, gemette in preda a uno spasmo. “I thug attaccheranno… dappertutto. Al segnale...”
Che segnale?”
Il segnale… la morte del...”
Si afflosciò riverso.
È andato,” constatò Jenkins, in piedi alle spalle del tenente.
L’ufficiale si alzò e si girò verso di lui. “Sarà meglio che ci muoviamo, se non vogliamo fare la stessa fine. Fatemi solo dare un’occhiata alla scrivania, magari troviamo qualcosa di utile.” Gli porse la busta: “Questa tenetela voi, sergente. Siete sicuramente più affidabile di me.”

Poco dopo, i quattro stavano nuovamente correndo attraverso le stanze del palazzo, con la differenza che questa volta non avevano una guida.
Un tonfo sordo aveva segnato la fine del portone d’onore e subito dopo aveva cominciato a risuonare il sinistro tramestio di decine di piedi al loro inseguimento.
Grosvenor, cui come ufficiale spettava il difficile compito di condurre la ritirata, aveva scelto la tattica della lepre, ovvero brusche svolte ad angolo retto per disorientare gli inseguitori. La cosa purtroppo disorientava anche lui, e scompaginava ogni volta le poche idee che nel frattempo era riuscito a mettere insieme sull’architettura di quel dannato labirinto.
A un certo punto sbucarono in un giardino interno, dove fanciulle in abiti colorati si dispersero strillando al loro apparire. Lo attraversarono ignorando i fiori rari e le fontane zampillanti, mandarono gambe all’aria qualche eunuco e si trovarono in una sala completamente rivestita di specchi anche sul soffitto, che nel riflettere le loro giubbe rosse sembrò letteralmente andare a fuoco. Passarono poi in una stanza di marmo bianco con delicati intarsi di pietre dure su tutte le pareti, e da lì, attraverso un corridoio, a una delle torri, dove Grosvenor scoprì una scala a chiocciola che andava verso il basso.
Gli inseguitori erano stati distanziati, tuttavia i quattro militari le percorsero con tutta la velocità che le gambe consentivano loro, arrivando alla fine col fiatone e la testa che girava.
Qui è più buio che nel mio culo di notte,” proclamò la voce di Thayes.
Modera i termini, giovanotto!” lo rampognò Jenkins, “Sei in presenza di un ufficiale!”
Scusate, sergente.”
In effetti era buio pesto. Muovendosi a tentoni, Grosvenor avanzò su un pavimento di pietra. L’eco dei suoi passi dava l’idea di un posto piccolo e col soffitto basso. Nell’aria c’era odore di chiuso e olio per armi.
Procedette fino a che le sue mani non toccarono del legno: c’era una porta con grossi cardini, rinforzata da borchie di ferro.
Palpando lì intorno trovò anche una mensola, sulla quale reperì un acciarino e un mozzicone di candela.
Buon Dio!” esclamò quando finalmente ci fu un po’ di luce.
La porta aveva un finestrino, e da quello si poteva contemplare una distesa di armi da fuoco di ogni genere.
Entrarono. Non era robaccia locale, erano tutti fucili e pistole europei e americani, pezzi di pregio, rifiniti e personalizzati secondo i gusti del maharaja. Calcioli d’avorio o di legni rari, incisioni, decorazioni di smalto…
Non si fa mancare niente, questo,” constatò Jenkins, studiando una carabina Winchester ultimo modello ancora nuova di fabbrica.
Grosvenor fece un gesto degno del Re Sole. “Prego, signori: approfittatene. E non preoccupatevi, non è un furto, è una requisizione. Rilasceremo regolare ricevuta a nome dell’Esercito Britannico.”
Con l’espressione di bambini che sono riusciti a intrufolarsi dentro una pasticceria, i due soldati cominciarono a guardarsi intorno, ma subito il sergente intervenne dicendo: “Piano, razza di cialtroni! Noi siamo militari britannici, non vi permetterò di andarvene in giro con questa paccottiglia da mangiacurry!” Indicò con spregio le armi istoriate e damascate.
Ma sergente...” protestò flebile Thayes, che aveva adocchiato un vistoso fucile placcato in oro e col calcio decorato da intarsi di scene venatorie in madreperla.
Molla subito quel ciarpame! Cercate dei fucili come si deve, piuttosto, che sparino dove mirate e non attirino tutte le gazze ladre della regione. Sempre che ci siano, in questo ammasso di roba da effeminati!”
Completato il rifornimento, il tenente stilò come promesso una dettagliata ricevuta e la firmò con artistici svolazzi, non dimenticando di includere il proprio grado e titolo nobiliare. Nella nota era specificato che in cambio delle armi asportate venivano consegnate quattro Colt Navy 1851 in ottime condizioni e provviste di adeguato munizionamento. Pose il foglio in bella vista su un tavolino.
Ora possiamo andare, sergente,” concluse infine.

Fecero il percorso a ritroso, ma quando arrivarono su, il posto non era più deserto come l’avevano lasciato.
Dev’essere stata una di quelle oche,” brontolò fra i denti Jenkins, scrutando dai gradini le guardie del maharaja che andavano su e giù.
Che oche, sergente?”
Quelle del giardino, signore. Quando siamo passati hanno strillato talmente forte che devono averle sentite anche a Calcutta.”
Scendiamo di un piano,” ordinò Grosvenor, “qui è troppo frequentato e a me dà fastidio la folla, soprattutto se è composta da gente intenzionata a farmi secco.”
Ricominciarono ad aggirarsi, peraltro senza nemmeno il conforto della luce atmosferica, visto che si trovavano sotto il livello dell’acqua. Barrett era sceso a recuperare il mozzicone di candela dell’armeria e novello Diogene precedeva il gruppo reggendo l’incerta fiammella.
Signore, che posto è questo?” chiese il sergente dopo un po’ che camminavano. Il piano era deserto. Avevano attraversato una zona di servizio ed erano arrivati alla parte di rappresentanza, ma sembrava che l’edificio fosse abbandonato. Non c’erano mobili nelle stanze, né tappeti o altri segni di presenza umana.
Da quello che mi ha detto Chāyā, questo dovrebbe essere un palazzo per quando il maharaja va a caccia di anatre.”
Categorico, Jenkins rispose: “Le tipiche esagerazioni da mangiacurry, se volete la mia opinione, signore. Per le anatre basta una botte.”
Dopo un po’ che si aggiravano, Barrett riuscì a individuare una scala che saliva. Erano di nuovo nella zona adibita al servizio, e dall’alto proveniva una debole luce.
Su c’era un camerone simile a quello che li aveva accolti al loro arrivo. Anche da lì si dipartiva un molo, cui era attraccata una barchetta rossa carica di fiori. A prua sedeva un vecchio con un caffettano e un berretto in testa. Aveva il viso scavato dagli anni e l’espressione mite. Con grande cura stava sistemando un vaso pieno di giacinti rosa e viola.
I quattro militari si scambiarono un’occhiata.
Quella era pur sempre una barca, anche se piuttosto male in arnese, e guarda caso c’era proprio un lago da attraversare, possibilmente in fretta.
Seguitemi, uomini,” disse Grosvenor, e si diresse risoluto verso il piccolo natante. “Buon giorno, signore,” salutò. “Parlate la mia lingua, per caso?”
Il vecchietto, che peraltro non aveva dimostrato una gran sorpresa nel vedersi comparire davanti quattro sahib in assetto di guerra, fece un sorriso sdentato e si strinse nelle spalle.
Temo che sia un no,” concluse il tenente.
Con stupore di tutti, si fece avanti Barrett, che pronunciò una frase in perfetto bengalese. L’uomo sorrise di nuovo, ma stavolta annuì con energia.
I due si misero a parlare come vecchi amici che non si rivedevano da tempo. Gli altri tre ovviamente non capivano assolutamente nulla, ma dai gesti intuivano che la conversazione verteva via via sui fiori, sul tempo atmosferico, sui massimi sistemi e sulla caccia alle anatre.
La questione si stava facendo lunga.
Mio buon Barrett,” si intromise Grosvenor a un certo punto, “potremmo concludere la trattativa prima che arrivino qui tutti gli sgherri di Suraj Singh?”
Sì, scusate, signore,” rispose il soldato. Scambiò ancora un paio di frasi con il vecchietto poi disse: “Ha detto che per una rupia a testa porterà i sahib, ovvero noi, di là.”
Affare fatto. Si dà il caso che abbia prelevato un po’ di argent de poche fondamentale per un gentiluomo – dalla scrivania del maharaja, e questa mi sembra un’ottima occasione per cominciare a usarlo.”
Altro scambio di battute fra Barrett e il fioraio, poi il soldato disse: “Ha detto che ci porterà uno per volta.”
La barca, in effetti, aveva sul fondo quattro dita buone d’acqua. “Ci sarà da ridere quando dovrà traghettare me,” disse Thayes.
Vedi di non farla affondare, altrimenti te la fai a nuoto,” lo minacciò il sergente.
Il primo ad approfittare dell’indigeno Caronte fu Barrett, che con il suo scarso peso non rappresentò un problema per il barcaiolo.
Successivamente fu traghettato Thayes, che passò tutto il tempo a remare come un forsennato mentre il vecchietto sgottava con altrettanta foga. Grazie alla poderosa propulsione, il tragitto durò fortunatamente solo pochi minuti.
Il terzo a passare fu Jenkins, impettito come il Washington di Emanuel Leutze.
Grosvenor rimase a guardarlo mentre si allontanava. Oziosamente considerò che il rosso della barchetta faceva pendant con la giubba dell’Esercito Britannico, e che quella vivace pennellata scarlatta spiccava molto sulla prevalenza di verdi e azzurri del lago. Sarebbe stato il soggetto ideale per un quadro.
Poi cominciò a sentire dei rumori alle sue spalle. Un tramestio vago, dapprima, che in breve si fece sempre più forte, fino a raggiungere l’inconfondibile cacofonia del furibondo contingente militare che ha finalmente individuato l’odiato nemico.
Imprecando con sentimento, il tenente considerò tutte le opzioni che gli si offrivano: scappare di nuovo nel palazzo e far perdere le sue tracce, posto che ci riuscisse, finendo chissà dove. Buttarsi a nuoto e mettere alla prova la mira degli uomini del maharaja con un magnifico bersaglio rosso fiammante. Arrendersi e finire di nuovo dalla vecchia Kali in qualità di grazioso omaggio. Trovare il modo di sbarrare la porta e sperare in un rapido ritorno della barchetta.
Di tutte le alternative, la meno suicida gli parve l’ultima. Andò a vedere: peccato che non ci fosse la porta.

Gli uomini del maharaja arrivarono assieme a un nutrito gruppo di thug con il rumal già in mano e pronto al lancio.
Rimasero tutti estremamente delusi: non c’era più nessuno, gli inglesi erano riusciti a scappare e si stavano allontanando sulla terraferma, si vedevano le odiate uniformi rosse apparire e scomparire nella vegetazione.
A mollo come una rana, aggrappato con una mano alle pietre scivolose mentre con l’altra reggeva la pistola, Grosvenor pregava tutte le divinità di sua conoscenza fuorché Kali che a nessuno venisse in mente di arrivare alla fine del molo e dare un’occhiata in basso.
Su, andate via, pensava intensamente, augurandosi che nel mesmerismo ci fosse qualche barlume di fondamento scientifico, che ci state a fare qui? Non vedete che i sahib sono scappati?
Continuava a sentire dei passi che andavano su e giù, accompagnati da concitati scambi in bengalese.
Se esco da questa situazione ci faccio il bagno, nel gin tonic, giurò a se stesso, così mi ripulisco da quest’acqua schifosa.
Un ratto di dimensioni titaniche uscì da un buco fra le pietre, lo annusò, gli camminò tranquillamente sulla testa con le zampette fredde e si ributtò in acqua dopo averlo oltrepassato.
Grosvenor pensò intensamente a quanti galloni di gin e quanti di tonica sarebbero stati necessari per riempire la vasca. Impegnò la mente sul problema di trovare anche un adeguato rifornimento di scorze di limone.
Un secondo ratto, più piccolo, seguì il primo, ma invece di saltare nel lago gli corse sul braccio fino al polso e rimase a studiare per qualche secondo l’imboccatura della manica, ponderando se infilarcisi dentro o no.
Pussa via, bestiaccia! pensò il tenente, ma di nuovo ebbe una dimostrazione dell’infondatezza delle teorie di Mesmer.
Strinse i denti obbligandosi all’immobilità mentre il sorcio gli girava qua e là sotto la giubba.
Finalmente, dopo un tempo penosamente lungo, gli uomini del maharaja parvero arrendersi all’evidenza. Grosvenor percepì lo scalpiccio di numerosi passi che si allontanavano. Le voci pian piano si affievolirono e calò il silenzio.
Una volta libero delle importune presenze, l’ufficiale si issò sul molo e per prima cosa assestò una manata al molesto roditore.
La seconda cosa che fece fu rallegrarsi di aver affidato le preziose carte a Jenkins. Per l’argent de poche non era stato altrettanto previdente, ma per fortuna se n’era salvata la maggior parte.
Successivamente guardò verso la costa nella speranza di scorgervi qualcosa di rosso. Inizialmente non vide nulla, e fu preso dall’orrore al pensiero di doversela fare tutta a nuoto, poi notò con sollievo che la barchetta si era staccata dalla sponda e si stava muovendo dolcemente nella sua direzione.
Al posto dell’anziano fioraio c’era Barrett, che remava come un battelliere del Volga. Probabilmente il sergente non aveva ritenuto l’indigeno degno di trasportare un ufficiale dell’Impero Britannico e l’aveva ipso facto esautorato sostituendolo con un più adeguato militare.
Una volta a bordo, Grosvenor si sedette per non rischiare altri bagni fuori programma e fissò il soldato: un ragazzotto neanche diciottenne, con le lentiggini sul naso e un’aria stranamente per bene.
Come mai parli il bengalese?” gli domandò.
Sono nato qui, signore. I miei hanno una piantagione di tè su in Darjeeling.”
Il tenente fece mente locale. “Una piantagione? Di loro proprietà?”
Sì, signore.”
Quanto è grande?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle. “Non saprei, signore. Da quello che so è una delle più grandi della zona.”
E allora tu che ci fai nei fucilieri, Barrett?
Il soldato arrossì. “Volevano mandarmi a studiare in Europa, signore, così me ne sono andato di casa.”
Nel senso che sei scappato?”
Sì, signore,” si decise a rispondere il ragazzo chinando il capo. Dopo qualche secondo di silenzio, fissò l’ufficiale di sottecchi e cautamente chiese: “Non è che mi volete rimandare a casa, vero, signore?”
Finalmente trovo un interprete che non è un mangiacurry, come direbbe Jenkins, e lo rimando a casa? Non ci penso nemmeno.”
Il ragazzo sorrise. “Grazie, signore.”












* Sciabola indiana.
** Coltello di grandi dimensioni, pesante e affilato, usato dai Gurkha nepalesi.


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Al vecchio signore della barca avevano dato ben più di una rupia a testa. Grosvenor aveva preso un po’ delle banconote requisite a Suraj Singh e gliele aveva consegnate, causandogli quasi un attacco cardiaco. Probabilmente il fioraio aveva ricevuto in due ore di lavoro l’equivalente di circa tre anni di giacinti e rododendri.
Per tale motivo s’era industriato particolarmente ad aiutare i suoi benefattori: avrebbe voluto invitarli a casa sua e offrire loro da mangiare, ma il tempo era poco e i rischi molti, per cui i quattro si accontentarono di qualche informazione pratica e di un passaggio fino in paese sul suo carretto.
Il piccolo centro abitato, di nome Mahish Bathan, comprendeva un tempio di mattoni, casupole di legno e due strade sterrate che formavano un incrocio. C’erano bambini e polli che razzolavano in giro, donne che camminavano con cesti in equilibrio sulla testa e le immancabili vacche sacre che si aggiravano indolenti. Accanto al tempio sorgeva un vecchissimo e nodoso banyan pieno di immagini votive, con le radici rosse per le ripetute offerte di gulal e nastrini colorati legati ai rami.
Un paio di scimmie sedevano tra le sue fronde spulciandosi a vicenda.
Grosvenor si guardò intorno. Un vecchio che sedeva sulla soglia di una casa si affrettò a rientrare, i bambini come per incanto si dispersero.
Il tenente si scambiò un’occhiata con Jenkins: la trasognata calma del luogo aveva assunto connotazioni vagamente sinistre.
Sono solo dei maledetti mangiacurry, signore. Abbiamo portato la civiltà e ci ringraziano in questo modo,” sentenziò il sergente.
Guardandosi intorno, l’ufficiale rispose: “Abbiamo portato anche il gin e l’acqua tonica, se è per questo, e abbiamo insegnato loro come mescolarli per ottenere il nettare degli dei, ma temo che il problema attuale non sia l’ingratitudine nei confronti della Corona Inglese.”
E quale sarebbe allora, signore?”
Probabilmente sanno che il maharaja sta cercando quattro sahib e guarda caso noi siamo proprio in quattro. Non vogliono grane.”
Con la coda dell’occhio notò che accanto al tempio c’era una donna vestita con un saree arancione che li fissava, ma quando si voltò ella era già di spalle e si stava allontanando con un recipiente in equilibrio sulla testa.
Muoviamoci,” disse il tenente.

Presero la strada che andava a nord-ovest, verso una pianura coltivata e punteggiata qua e là da qualche albero. All’orizzonte si vedeva la linea scura della foresta, ogni tanto c’erano dei gruppetti di casupole con panni colorati stesi ad asciugare
Era il primo pomeriggio, in cielo non c’era una nuvola. Nell’aria immobile, greve di umidità, non si sentiva nemmeno il canto di un uccello.
C’era qualche contadino al lavoro nei campi, sulla strada passava poca gente. Incrociarono un uomo che teneva per mano un bambino e una donna con un fascio di erbe di palude sottobraccio. Furono superati da un carro coperto trainato da una coppia di buoi. Al tenente parve di scorgervi un lampo di arancione, ma quando guardò meglio non riuscì più a ritrovarlo. Gli scricchiolii delle ruote e lo scalpiccio degli zoccoli si persero in lontananza.
Grosvenor approfittò di quella situazione di relativa calma per ripassare il piano che aveva ideato: il modo più veloce per arrivare a Calcutta, che distava circa settanta miglia, era certamente il treno. Considerato dove si trovavano, la stazione più vicina era Jotram, più o meno a dieci miglia da lì. Per raggiungerla si passava da Moktarpur, dove peraltro c’era anche una piccola guarnigione inglese che eventualmente avrebbe fornito ogni appoggio logistico, compresa la possibilità di telegrafare a Calcutta. Semplicissimo, in teoria.
Anni di servizio nelle Colonie gli avevano insegnato molto bene quanto poteva diventare ampio in certe situazioni il divario tra teoria e pratica.
Mentre stava così ragionando, nella caligine dell’orizzonte cominciò a prendere corpo una sagoma chiara.
Man mano che si avvicinavano la osservò facendosi ombra con la mano e notò che si trattava di un edificio in muratura con degli alberi intorno. All’ombra delle piante o sotto ripari di fortuna sedevano a gruppetti delle persone. C’erano anche animali da soma, carri e carretti.
Si direbbe una locanda,” constatò il sergente al suo fianco.
È quel che ci vuole,” rispose Grosvenor, “abbiamo giusto bisogno di bere qualcosa.”
Jenkins lo fissò stupito. “Volete dire qui, signore?”
Ho visto anche degli stagni, lungo la strada, ma sinceramente preferirei un tè.”
Non mi sento di darvi torto, signore.”

Vista da vicino, la cosiddetta locanda era solo un parallelepipedo di mattoni. I muri, una volta imbiancati a calce, erano scrostati e sporchi della terra rossa dei campi. Dal tetto pendevano festoni di peperoncini e mazzi di erbe aromatiche messe a seccare.
La porta era chiusa da una vecchia tenda sfilacciata.
C’era un ragazzino che faceva continuamente la spola fra dentro e fuori portando vassoi carichi di teiere ammaccate e bicchieri di lassi*.
Seguito dagli altri, Grosvenor entrò.
L’interno era costituito da una sola stanza tagliata in due da una specie di bancone. Da una parte c’erano una vecchia cucina economica carica di teiere e una giara di terracotta da cui spuntava il manico di un mestolo.
I pochi tavoli erano vuoti: la gente preferiva la pur modesta ventilazione del torrido esterno rispetto alla calura di quell’antro soffocante.
Chi si occupava della mescita era un uomo ossuto, con una rada barba grigia e un dhoti** rammendato come unico indumento.
Buon giorno,” lo salutò affabile il tenente, “parlate la mia lingua?”
L’indiano, che aveva sentito entrare gente ma era rimasto chino sulla cucina economica, all’udire una voce inglese sussultò. Si voltò a guardare e le quattro uniformi rosse gli fecero spalancare gli occhi. Cominciò a frugare sotto il bancone farfugliando cose indistinte.
Ehi, che stai facendo?” gli chiese il sergente insospettito. Con l’occhio dell’abitudine, Grosvenor notò che il sottufficiale era pronto a farsi scivolare il fucile dalla spalla e a imbracciarlo.
Aspettate, Jenkins,” gli disse con la più grande tranquillità, “forse questo bravo indigeno ha degli ottimi motivi per fare quello che sta facendo.” Poi, rivolto all’uomo: “Ripeto, carissimo: parlate la mia lingua?”
L’altro si raddrizzò. “Solo poco, sahib.” Finalmente tirò fuori quello che stava cercando: una scatola di latta con dentro delle carte accuratamente piegate. “Io sepoy,” disse, mostrando un foglio di congedo. “Da giovane. Sepoy.”
Se questo qui era un sepoy, io sono il re degli zulu,” ringhiò il sergente fissandolo torvo.
Grosvenor recepì l’informazione. Fece finta di niente, ma rinunciò a mostrare i dadi che aveva in tasca. “Benissimo, avete servito sotto la Corona,” disse con l’aria più tranquilla del mondo, “è una cosa molto bella. Ora potreste darci un po’ di tè, per favore? Niente zucchero né latte.”

Come minimo ci sputerà dentro, quel maledetto mangiacurry,” brontolò Jenkins, ancora poco convinto.
Grazie all’intervento di Barrett avevano ottenuto un posto sotto un albero ed erano in attesa che il ragazzino portasse loro il tè e le tazze.
E non è neppure stato sepoy. Io li riconosco a distanza quelli che hanno portato una divisa britannica.”
Neppure io penso che lo sia stato, sergente,” gli rispose Grosvenor, “e il fatto che abbia tirato fuori quella balla è decisamente sospetto. Terremo gli occhi aperti, ma in ogni caso dobbiamo bere, se non vogliamo che ci venga un colpo di calore.” Si passò con cautela le dita sul sopracciglio ferito. Il sudore gli faceva bruciare il taglio non ancora completamente chiuso, e in generale gli faceva male tutta la testa. Senza contare il resto del corpo, ovviamente.
Rivolse per l’ennesima volta il pensiero alle inaudite quantità di gin tonic che avrebbe bevuto una volta rientrato finalmente a Calcutta.
In quel momento arrivò il ragazzino, che lasciò accanto a loro un vassoio con quello che avevano chiesto.
A questo punto, Thayes si rivolse a Barrett e disse: “Chiedigli dov’è quel posticino. Non so come sia possibile con quello che ho sudato, ma devo...”
Soldato!” lo chiamò all’ordine Jenkins prima che potesse pronunciare il verbo.
Scusate, sergente. Però mi scappa.”
Ci fu un breve scambio di battute tra Barrett e il ragazzino, poi l’enorme militare si alzò e si diresse verso l’edificio.
Fu versato il tè.
Erano tutti molto assetati e venne vuotato un giro di tazze prima che Jenkins aggrottasse le sopracciglia e dicesse; “E adesso dov’è finito quell’impiastro?”
Gli altri realizzarono che in effetti Thayes non era ancora ricomparso. Si scambiarono un’occhiata. In un posto tropicale e lurido come l’India, le occasioni per avere improvviso bisogno di un bagno erano molteplici, ma nessuno pensò a un’eventualità del genere.
Sarà meglio che vada a controllare,” disse il sergente raccogliendo il fucile. Si allontanò nella direzione in cui era scomparso il soldato.
Passò appena un minuto, poi echeggiò uno sparo. I due superstiti balzarono in piedi e assieme alla totalità degli astanti corsero verso le latrine. Facendosi largo fra la folla vociante, il tenente vide la seguente scena: c’era Thayes addossato alla parete, ansante e pallido come un morto. Accanto a lui c’era Jenkins con il fucile ancora imbracciato.
Ai loro piedi era steso il corpo di un uomo con un turbante chiaro e l’estremità di un rumal stretta in pugno.
Non si può neanche pisciare in pace, in questo cazzo di paese,” mormorò Thayes massaggiandosi il collo, sul quale si vedeva un largo segno rosso.
Sebbene fossero in presenza di Grosvenor, Il sottufficiale evitò di riprenderlo per il linguaggio sconveniente. “Trentacinque anni di servizio e una cosa del genere dovevo ancora vederla,” ringhiò invece, in tono minacciosamente basso. “Un fuciliere di Sua Maestà che si fa sorprendere da un mangiacurry pidocchioso con l’affare in mano! Ti è andata bene che sei grosso, se no facevi la fine delle galline di mia zia. Ne riparliamo quando saremo a Calcutta.”
Scusate, sergente,” rispose il soldato, le enormi spalle curve in una postura avvilita.
E voialtri cos’avete da guardare?” latrò Jenkins alla folla di indiani. “Via! Fuori dalle scatole!”
Gli indigeni si dispersero senza fiatare.

La seconda parte della strada per arrivare a Moktarpur fu percorsa in modo decisamente più circospetto.
Avevano comprato un veicolo, tanto per cominciare. Un carretto coperto trainato da un mulo. L’avevano pagato probabilmente dieci volte il suo valore, ma tanto i soldi provenivano dalla generosa quanto inconsapevole donazione di Suraj Singh, e con essi il tenente si sentiva più prodigo di un mecenate rinascimentale.
Era ormai pomeriggio inoltrato e nessuno dei quattro aveva la minima voglia di farsi sorprendere dalle tenebre al di fuori delle protettive mura di un fortino inglese.
Mentre sedeva in silenzio nel cassone, Grosvenor ripensava all’incidente, per così dire, della locanda. Qualcuno li aveva preceduti. O perlomeno, qualcuno aveva diramato comunicazioni su di loro a chi di dovere e i thug li stavano aspettando. In una strada col sole a picco e trentotto gradi, era facile prevedere dove quattro persone che andavano a piedi e non avevano con sé acqua si sarebbero fermate, e lì avevano messo degli uomini.
Peraltro, quattro giubbe rosse non erano neppure difficili da notare.
Inutile chiedersi se a parlare fosse stato il vecchio o la spia dai lineamenti orientali, oppure se il maharaja avesse semplicemente immaginato che avrebbero cercato di raggiungere la guarnigione inglese. La faccenda importante era qualcuno li stava marcando stretti.
Ecco che fra teoria e pratica cominciava a comparire la prima fenditura.

Moktarpur era un po’ più grande di Mahish Bathan, il che significava che oltre alle case di legno aveva alcune case di mattoni, un paio di templi di pietra e un pozzo nella piazza centrale.
Il forte sorgeva su una lieve altura un po’ fuori dal paese.
Era una costruzione bianca di marziale essenzialità, con un portone, un giro di mura e torrette ai quattro angoli.
Che strano,” constatò Barrett, che sedeva a cassetta, “non c’è nessuno.”
Si stava facendo sera, ma il cielo ancora chiaro permetteva di vedere che i camminamenti di ronda erano vuoti.
I quattro si scambiarono un’occhiata. “Fermiamoci un momento,” ordinò il tenente, poi si rivolse al sottufficiale: “Voi che ne dite, Jenkins?”
Dico che non mi piace per niente, signore,” fu l’immediata risposta.
Era più o meno l’ora del rancio, ma non c’era un camino che fumasse. Da dentro non proveniva alcun rumore.
Sergente, prendete con voi Thayes e andate a dare un’occhiata,” disse Grosvenor estraendo il revolver. Barrett imbracciò il fucile.
Seguito dal soldato, Jenkins si avvicinò cauto al portone e diede due colpi con il calcio dell’arma. L’anta cedette con un cigolio e si socchiuse.
Il sergente fece un salto di lato per evitare eventuali pallottole, ma non successe nulla. A questo punto fece cenno al soldato di attenderlo ed entrò.
Passarono alcuni minuti, poi il sottufficiale uscì. “Sembra che non ci sia nessuno, signore,” disse stupefatto.
Grosvenor rimase perplesso. “Come, nessuno?”
Vuoto, signore. Non ho visto anima viva.”
Andiamo a controllare. Barrett, porta dentro il carretto, chiudi il portone e dà da mangiare a quel bravo mulo.”
Signorsì.”

Intanto era calato il buio e il forte deserto aveva assunto un’aria spettrale. C’era un gran silenzio, gli edifici venivano pian piano inghiottiti dall’oscurità. Abituati alla vita militare, ovvero luci accese e gente che vegliava a ogni ora del giorno e della notte, i quattro si guardavano intorno nervosi.
Controllarono in giro. Sembrava che qualche magia avesse fatto scomparire all’improvviso tutti gli effettivi del forte: i documenti del furiere erano ancora sulla scrivania, i viveri erano pronti per essere cucinati, i fuochi dei fornelli erano spenti ma la cenere era ancora tiepida. Nell’ufficio del comandante c’era addirittura un vassoio col servizio da tè pronto sul tavolo.
Jenkins guardò un po’ in giro, poi si chinò a osservare l’apparecchio telegrafico e disse: “I fili sono stati tagliati.”
A quelle parole, i quattro si scambiarono un’occhiata carica di preoccupazione.
Scesero nei sotterranei: l’armeria era stata vuotata di ogni suo contenuto. Anche buffetteria, borracce, coperte e altri oggetti di uso comune erano stati in gran parte asportati, probabilmente con la connivenza degli inservienti civili e degli abitanti del paese.
Ma dove sono tutti?” ruppe il silenzio Barrett.
Nessuno rispose. L’atmosfera si stava facendo man mano più greve, quel luogo fantasma stava instillando in tutti i più cupi presentimenti.
Alla fine scoprirono anche che fine avevano fatto gli uomini della guarnigione: erano stati ammazzati dal primo all’ultimo, compresi il comandante e l’ufficiale medico. I corpi erano ammucchiati in una cella gli uni sugli altri, già irrigiditi e con vistose macchie ipostatiche.
Tutti avevano la stessa lesione intorno al collo.
Maledetti selvaggi,” sbottò Jenkins contemplando l’orribile spettacolo.
Nessuno replicò. Chiusero la porta e tornarono su.
Quando furono di nuovo all’aria aperta, Grosvenor fece per parlare, ma ancora una volta si rese conto di non avere parole adatte a commentare quello che avevano appena visto. Con voce neutra si limitò a dire: “Barrichiamoci da qualche parte. Scommetto tutto il gin di Calcutta che stanotte torneranno a trovarci.”

La notte era silenziosa. I rumori della natura si udivano ovattati e solo in lontananza, come se le bestie in qualche modo riuscissero a percepire l’aura mortifera che circondava il forte e se ne tenessero alla larga.
Dopo una lunga disamina con il sergente Jenkins, il tenente Grosvenor aveva scelto come baluardo le cucine, per il semplice motivo che avevano acqua corrente, pareti rinforzate, finestre con le sbarre che davano sulla piazza d’armi e botola dei rifiuti, che in caso di estrema necessità avrebbe potuto essere usata come via di fuga.
Dopo aver mangiato ed essersi lavati alla meglio, i quattro vegliavano in silenzio. Approfittando del momento di relativa calma, Jenkins stava controllando le ferite del tenente Grosvenor.
Fa male qui?” chiese il sergente. L’ufficiale ebbe l’impressione che l’altro gli stesse premendo sul sopracciglio un ferro arroventato. “Un po’...” disse sobriamente.
È piuttosto profonda, signore. Come ve la siete fatta?”
È stata una mia dimostrazione d’affetto al maharaja, sergente.”
Domando scusa, signore?”
Data la sua ferma intenzione di tirarmi il collo, ho pensato di fargli saltare un paio di denti con una testata. Certo non è un cambio equo, ma in determinate situazioni ci si arrangia come si può.”
Capisco, signore. E vi fa male se la tocco?”
Sergente, volete la verità? Mi fa orribilmente male. Se non fossimo in questa deplorevole situazione, sarebbe un ottimo motivo per sbronzarmi fino a perdere la cognizione di me stesso.”
Ci vogliono dei punti, signore.”
Non penserete di ricucirmi come il telo dello spotted dog*** adesso, spero,” protestò il tenente inorridito.
Jenkins rimase imperturbabile. “No, ma è mio dovere informarvi che se domattina saremo ancora vivi lo farò, signore.”
Vi ringrazio per queste parole, che di certo nel malaugurato caso di una nostra sconfitta mi renderanno più leggero il trapasso.”
L’altro, che stava per ribattere, si immobilizzò in ascolto. Rimase con l’orecchio teso per un po’, poi sottovoce disse: “Sono qui fuori.”
Grosvenor arrischiò un’occhiata attraverso la finestra. Non vide nessuno, ma condivideva la sensazione del sergente, ovvero quell’intuito non spiegabile dalla Scienza per cui un soldato riesce a cogliere presenze nemiche pur senza percepirle direttamente.
Cercò di ragionare sulla situazione. Né il maharaja né il famigerato O’lim potevano permettersi di lasciarli arrivare a Calcutta. Lo scontro che si stava preparando, quindi, non sarebbe stato uno stimolante confronto fra gentiluomini condotto secondo i criteri del più rigido fair play, ma una battaglia sanguinosa in cui le alternative sarebbero state vincere a qualsiasi costo o morire.
Mentre era immerso in quelle meditazioni, sentì qualcosa rimbalzare contro la porta. Colse un inconfondibile sfrigolio.
A terra!” fece appena in tempo a gridare, poi ci fu uno scoppio che sembrò risucchiargli l’aria dai polmoni. Il mondo esplose in una nube di polvere e calcinacci tinta del bagliore aranciato delle fiamme.
Si alzò ancora rintronato, con le orecchie che gli fischiavano. La porta era sparita con metà della parete che la sosteneva, le sbarre delle finestre dondolavano nel nulla.
Notò con la coda dell’occhio che gli altri tre erano bianchi di polvere, ma in piedi e col fucile imbracciato. Estrasse la pistola e si sistemò al coperto dietro un pezzo di muro.
Alla luce delle fiaccole si vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro muoversi furtivi. Il tenente ipotizzò che il senso pratico avesse infine prevalso anche in quella setta di nostalgici, perché la maggior parte di loro non aveva in mano un rumal ma un Martini-Henry ultimo modello.
Sic transit gloria mundi,” mormorò fra sé e sé.
Ragazzi, non voglio vedervi sprecare pallottole!” disse il sergente alle sue spalle, “Sparate solo quando siete sicuri di colpire!”
Il che, peraltro, non era un problema, perché dai lati del piazzale una torma di thug urlanti si precipitò sparando verso quel che restava delle cucine.
Le figure avanzavano nel buio, illuminate da tergo di una luce sanguigna che rendeva quei corpi asciutti e legnosi simili a diavoli usciti dall’inferno. Nell’oscurità si vedeva solo il bianco degli occhi e dei denti digrignati. Qua e là si udivano roche invocazioni a Kali.
Non avevano né addestramento né consapevolezza di quel che facevano, per cui i primi caddero come pecore al macello.
Alcuni riuscirono a saltare sui cumuli di macerie, ma furono respinti a colpi di baionetta.
Gli altri, vuoi per spirito di sopravvivenza, vuoi per l’ordine di qualcuno che aveva un minimo di cognizione, interruppero il dissennato avanzare e si addossarono alle pareti.
Le armi tacquero e sulla scena calò un silenzio rotto solo dai gemiti di qualche moribondo.
Il tenente si voltò verso Jenkins: “Non reggeremo a un secondo assalto. Penso sia meglio prendere in considerazione una ritirata strategica.”
Sono d’accordo con voi, signore,” rispose il sottufficiale.
Alzarono la botola del pavimento. Dal buco, nero come la pece, salì il tanfo di vegetali fermentati e carne putrefatta.
Buttarono giù un pezzo di carta incendiato e nel breve tragitto che esso compì videro delle pareti di mattoni e un fondo indefinito su cui navigavano cascami. Nel lato che dava sull’esterno c’era l’arco di una galleria.
Da fuori stavano ricominciando a sparare. Arrivò un altro candelotto di dinamite, che però rimbalzò lontano ed esplose senza fare particolari danni.
Dobbiamo muoverci,” disse Grosvenor.
Le pallottole dei thug colpivano le pareti rimbalzando con rabbiosi ronzii. Barrett e Thayes cominciarono a rispondere al fuoco per tenerli lontani.
Andiamo!”
Il tenente fu il primo a saltare. Atterrò senza danni e si trovò immerso fino alle ginocchia in un liquame fetido. C’era buio pesto, ma tastando tutt’intorno trovò l’imbocco della galleria. “Venite!” urlò.
Il secondo fu Thayes, che quasi gli finì addosso. Grosvenor se lo tirò dietro per una manica e lo fece entrare nella galleria.
Seguirono poi Barrett e per ultimo il sergente. Da sopra provenne il boato di un’esplosione e una gragnola di calcinacci piovve addosso a Jenkins facendo imprecare.

Il tenente in testa, i quattro cominciarono a procedere a tentoni. Dovevano camminare piegati per non urtare la volta e quasi ringraziavano di non aver a disposizione una luce, perché ciò impediva perlomeno di vedere il putridume nel quale stavano sguazzando.
Il fetore era così forte che prendeva alla gola rendendo ogni respiro un ferreo atto di volontà.
Procedettero così per un tempo che parve a tutti interminabile, poi finalmente a Grosvenor sembrò che il lume della galleria passasse da un nero pece a un grigio scurissimo. Allo stesso tempo cominciò anche a udire un lieve scorrere di acqua.
Avanzarono ancora un po’, il tunnel lentamente si schiariva, il tanfo si faceva meno intenso. Poi le mani di Grosvenor incontrarono un’inferriata. “Oh, no,” gemette il tenente.
Che c’è, signore?” gli giunse la voce del sottufficiale.
Una grata.”
Quanto è robusta, signore?”
Le sbarre sono grosse come il mio pollice.”
Questo non ci voleva.”
Ci fu qualche secondo di scorato silenzio, poi Thayes disse: “Signore, posso dare un’occhiata?”
Prego.”
Grosvenor si fece indietro per consentire il passaggio al soldato.
Questi afferrò le sbarre con la sua stretta poderosa e cominciò a scuoterle avanti e indietro. “Si può fare,” disse dopo qualche tentativo.
Cosa si può fare, Thayes?”
Posso provare a strapparle via, signore. Sono mezze marce.”
Che Dio ti benedica, soldato. Datti da fare allora.”

Per fortuna le sbarre erano effettivamente in pessimo stato. “Per una cosa del genere ci sarebbe da scrivere un rapporto lungo come un Requiem, signore,” buttò lì Jenkins, risentito come se la deplorevole condizione dell’inferriata fosse un affronto fatto a lui personalmente. “Sapete quanti mangiacurry potevano infilarcisi dentro?”
Pensate a cosa sarebbe successo se quella grata fosse stata in perfette condizioni,” gli ricordò il tenente.
L’altro non rispose.
Erano nel letto di un fiumiciattolo, apparentemente nessuno li stava seguendo. Stava per arrivare l’alba e i primi uccelli cominciavano a cantare.
Camminarono per un po’ allontanandosi dal forte, poi Grosvenor si fermò e disse: Sarebbe interessante scoprire dove siamo finiti.” Cercò di guardarsi intorno, ma il rigoglio delle piante nascondeva la visuale.
Barrett, va a dare un’occhiata,” disse il sergente.
Il ragazzo si inerpicò su per la sponda e scomparve. Tornò poco dopo dicendo: “Siamo vicini a un tempio.”
Riesci a vedere il paese?” domandò l’ufficiale.
Signornò. È ancora troppo buio, e poi siamo in mezzo alla giungla.”
Grosvenor si arrampicò a sua volta. Si erano in effetti addentrati in una foresta di enormi ficus macrophylla. Il tempio, che sorgeva proprio al centro di un gruppetto di alberi, nel corso dei secoli era stato inglobato dalle radici delle piante, diventando alla fine tutt’uno con esse.
Davanti alle statue delle divinità c’erano offerte di cibo, fiori e gulal, segno che il luogo era oggetto di culto.
Sarà il posto dove vengono a pregare dal villaggio,” disse. “Del resto, Moktarpur non può essere lontano, non abbiamo fatto molta strada in quel torrente.”
E a Moktarpur ci sono duecento thug e una spia russa che ci aspettano, pensò.
La questione peraltro non si esauriva con il paese: se quei tizi erano appena un po’ più intelligenti di un babbuino, trovando la botola aperta e la grata divelta dovevano aver immaginato da che parte se n’erano andati e probabilmente erano già sulle loro tracce.
Io credo che tra un po’ avremo visite, sergente,” disse.
Lo penso anch’io, signore,” rispose Jenkins.
Come stiamo a munizioni?”
Qualche minuto di fuoco, signore, poi ci restano le baionette.”
Grosvenor stava per rispondere quando il lieve rumore di un ramoscello spezzato lo fece irrigidire. “Nascondetevi,” disse sottovoce. Tutti cercarono riparo tra le antiche pietre.
Nel chiarore che precede l’alba videro arrivare una donna col capo coperto. L’ufficiale notò che aveva un saree arancione e la cosa gli comunicò un sordo turbamento. Possibile che fosse la stessa persona che aveva visto a Mahish Bathan? E se lo era, cosa ci faceva lì?
La donna avanzò adagio. Aveva in mano dei fiori di loto e qualcos’altro che nella scarsa luce non si distingueva. Si inginocchiò davanti a una delle immagini sacre, giunse all’altezza del viso le mani decorate con l’henné e recitò sottovoce una preghiera, poi appoggiò sull’altare qualcosa che mandò un lieve suono metallico.
Fatto questo, si alzò e si allontanò, scomparendo lentamente nella lieve caligine che ammantava la foresta silenziosa.
I quattro lasciarono passare alcuni minuti prima di decidersi a uscire dai nascondigli.
Jenkins si volse nella direzione in cui si era allontanata la donna, scosse la testa e brontolò: “Mangiacurry. Credono che lasciare cibo faccia piacere ai loro dei. Farà piacere agli animali, al massimo.”
Non dispiacerebbe nemmeno a me, sergente,” borbottò Thayes. “Mi mangerei un cavallo.”
Cavallo o no, non provare a toccare quelle porcherie,” replicò Jenkins, poi lanciò un’occhiata all’offerta, sollevo le sopracciglia e disse: “Che mi venga un colpo.”
Assieme ai fiori di loto, sulla pietra c’erano una grossa chiave di bronzo e un dado d’osso.

Il tenente raccolse i due oggetti. Il dado era identico a quelli che aveva in tasca.
Sergente, controllate se da qualche parte c’è una serratura,” ordinò.
Signorsì.”
Poco dopo gli inglesi erano nella costruzione principale del tempio, chiusi a chiave in una stanzetta semibuia. La porta aveva qualche fessura, attraverso la quale si vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro che si aggiravano stringendo in pugno il rumal.
Qualcuno aveva anche provato a spingere l’anta, ma trovandola bloccata non vi aveva dedicato altre attenzioni.
Poi comparve anche il tizio vestito di nero. Si muoveva così silenziosamente che se lo trovarono davanti alla porta senza nemmeno averlo sentito arrivare. Provò anche lui ad aprirla, fece per andarsene ma subito dopo tornò indietro. Tentò ancora una volta di aprire. La porta resistette, ma la cosa non sembrò convincerlo. Rimase a scrutare, addirittura lo sentirono fiutare l’aria.
Grosvenor trattenne il respiro. Non so chi sei, dio di questo tempio, pensava, ma se fai andare via quel bastardo ti offrirò una bella pinta di gin appena torno a Calcutta.
Il bastardo, frattanto, si trovava probabilmente in un conflitto fra istinto e ragione: il primo gli diceva che dietro quella porta ci doveva essere qualcosa di interessante, ma la seconda gli faceva notare che quattro inglesi precipitosamente fuggiti attraverso le fogne non potevano aver trovato il modo di aprire e chiudere una porta con la chiave.
Due pinte…
Il tizio tentò di nuovo di aprire la porta. Il tenente percepì il tintinnio di piccoli oggetti metallici, poi qualcosa cominciò a frugare nella serratura.
Il cuore gli saltò un battito: attrezzi da scassinatore! Scambiò un’occhiata col sergente, che gli rimandò lo stesso messaggio di allarme.
Va bene, tutto il gin di Calcutta.
Si udì un richiamo. Il tizio vestito di nero rispose qualcosa, poi abbandonò quel che stava facendo e se ne andò.
Passarono diversi secondi prima che Grosvenor riuscisse a ritrovare una frequenza cardiaca accettabile. “Dobbiamo scoprire chi è il dio di questo tempio,” mormorò asciugandosi il sudore freddo dalla fronte, “sono in debito.”









* Bevanda tradizionale indiana ottenuta mescolando yogurt, acqua, spezie e talvolta frutta.
** Pezzo di stoffa rettangolare che viene legato intorno alla vita e scende fino ai piedi (vedi Gandhi).
*** Pudding tipico delle Forze Armate britanniche dell’epoca, che veniva cotto nell’acqua bollente dopo essere stato cucito all’interno di un pezzo di tela.


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Quando il bigliettaio della stazione di Jotram li vide arrivare, rimase a dir poco stupefatto: i quattro sahib sembravano tirati fuori da uno dei mucchi di cadaveri di Isandlwana. Erano sanguinanti, malandati e con le leggendarie giubbe di qualsiasi colore fuorché rosso. Davano l’idea di aver passato l’ultima settimana a scappare da un branco di bufali inferociti in mezzo a una palude.
Dallo scalcinato gruppetto si staccò un ufficiale. Si presentò allo sportello e compitissimo disse: “Buon giorno. Quattro biglietti per Calcutta, per favore. Sola andata.”
L’impiegato ci mise qualche secondo a riprendersi dallo stupore, tanto che l’altro si sentì in dovere di chiedergli: “Va tutto bene, buon uomo?”
Scusate, sahib.” L’indiano si riscosse e gli consegnò i biglietti. Come sempre il maharaja provvide al pagamento.
Sarebbe così gentile da dirmi a che ora parte il treno?”
Alle nove, sahib.”
Quindi abbiamo mezz’ora. Molto bene. Grazie e buona giornata.” Il tenente raggiunse i suoi uomini e con la più grande tranquillità disse: “Abbiamo anche il tempo di fare colazione.”
Il volto di Thayes si illuminò.

E fin qui siamo arrivati, pensò Grosvenor mescolando assorto la sua tazza di caffè. Il tragitto per Jotram era stato singolarmente tranquillo, ma la cosa non l’aveva rassicurato per niente. Il contrario, se mai.
Assodato che quel tale O’lim era tutt’altro che un babbuino, doveva aver capito subito cosa avevano intenzione di fare. Quindi perché frugare per mezza foresta quando sapeva per certo che sarebbero saliti su un treno? Molto meglio occuparsi di loro una volta a bordo, dove fra l’altro non avrebbero neppure avuto vie di fuga.
Il tenente infilò una mano in tasca e ne trasse un paio di dadi. Cominciò a farli rotolare distrattamente sulla tovaglia bianca.
Aveva avuto non più tardi di due ore prima una riprova delle parole di Kaur: c’era qualcuno che li teneva d’occhio, non solo tra i thug, ma anche tra coloro che erano fedeli alla Corona.
Bene, uomini. Ora possiamo andare,” disse alzandosi. Lasciò i dadi sul tavolo. Era già voltato verso l’uscita, per cui non si accorse che il cameriere li raccoglieva e se li metteva in tasca.
Si spostarono sulla banchina e dopo poco di udì un fischio, poi da dietro una curva apparve una vecchia locomotiva che tra sfiati di vapore e stridore di freni si fermò.
Rimase a sobbollire mentre gli addetti cominciavano a rifornirla del necessario.
Scesero parecchi passeggeri, ma ne salirono pochi.
Grosvenor li osservò cercando di cogliere in essi qualcosa al di fuori dell’ordinario, ma al suo occhio di sahib parvero tutti uguali.
Nessuno vietava che O’lim fosse salito alla stazione prima, peraltro, visto che il treno per Calcutta era solo uno, o che salisse a quella successiva.
Sospirò. Gli sembrava di camminare bendato lungo il ciglio di un burrone. Ci voleva gente esperta per fare certe cose, spie del Grande Gioco, soldati di eccezionali capacità come Frederick Burnaby*. Come pretendevano che uno come lui potesse portare a termine una missione del genere? D’accordo, beati monoculi in terra caecorum: anche lui era un ufficiale, sapeva tenere in mano una pistola e una sciabola. Era pur sempre meglio di niente, ma da qui a fare di lui un militare addestrato al controspionaggio ce ne passava.
Salirono a bordo. La carrozza che avevano scelto era quasi vuota, c’erano solo quattro o cinque uomini di varie età e un paio di donne con il saree tirato sulla testa a nascondere i lineamenti. Sebbene quattro militari malandati che prendevano il treno in mezzo ai civili rappresentassero uno spettacolo quanto meno insolito, nessuno li degnò di un secondo sguardo.
Si udì un lungo fischio, poi sbuffando e ansimando il convoglio si mise in moto e pian piano prese velocità. Presto subentrò lo sferragliare ipnotico delle ruote mentre fuori dai finestrini scorreva un alternarsi di campi coltivati e foresta. Talvolta qualche scintilla brillava un istante nell’aria e poi scompariva, sbuffate di fumo nero accarezzavano i finestrini come grandi ali.
Occhi aperti,” raccomandò il tenente.
Fece girare lo sguardo tutt’intorno: uno degli uomini stava fumando e intanto guardava il paesaggio, un altro paio sembravano addormentati. Una delle donne o presunte tali aveva tirato fuori un lavoro di cucito.
A parte la scarsità di passeggeri, la situazione non sembrava diversa da qualsiasi viaggio in treno avesse fatto in India.
Poi improvvisamente gli parve di vedere ombre che si muovevano ai margini del suo campo visivo, ma prima che potesse sincerarsene la luce calò drasticamente e un attimo dopo il vagone piombò nell’oscurità. “Una galleria!” esclamò nel buio la voce di Barrett.
Si udirono un frenetico tramestio, il fremito metallico di qualcuno che sfoderava la baionetta, un sibilo nell’aria, un gemito. Grosvenor tentò di alzarsi, ma si sentì afferrare da più parti. Qualcuno gli mise una mano sulla bocca, lui ci piantò i denti, stringendo più che poteva. Il suo avversario gettò un grido, provò a divincolarsi, colpì alla cieca. Altri però lo stavano afferrando, lo tiravano per la giubba, qualcuno gli aveva agguantato una manata di capelli e lo strattonava all’indietro.
Poi il tenente sentì un dolore acuto alla tempia e tutto si fece indistinto. Provò ancora a liberarsi, ma si accorse che stava barcollando e le forze gli venivano meno.
Crollò a terra. L’ultima cosa che sentì furono mani che da una parte frenavano la sua caduta, ma dall’altra lo trattenevano per impedire una sua improbabile fuga.

Riaprì gli occhi in una stanzetta dalle pareti di metallo, senza finestre e illuminata solo da una piccola lampada a petrolio che si trovava su una cassetta rovesciata. Il rumore e le vibrazioni gli fecero capire che era ancora sul treno. Aveva le mani legate dietro la schiena, dalla tempia gli si irradiavano attraverso il cranio fitte di dolore che sembravano spilloni da fattucchiera.
Ben svegliato, tenente,” lo salutò una voce fredda.
L’ufficiale scrollò la testa un paio di volte e si mise faticosamente seduto. Accanto a lui c’era l’uomo in nero.
Avete dormito bene?” s’informò O’lim.
Veramente non tanto,” rispose Grosvenor, “i vostri uomini sono stati piuttosto rudi nei miei confronti.”
L’altro emise un teatrale sospiro. “Vi porgo le mie scuse. Non è facile al giorno d’oggi trovare un servizio decente.” Poi, cambiando di colpo tono ed espressione: “Ma ora mi duole dirvi che non ho tempo, quindi purtroppo dovremo rimandare la nostra discussione sulla servitù. Datemi quei documenti.”
Grosvenor tentò di assumere un’aria innocente. “Quali documenti?”
O’lim sfoderò il kukri e lo mosse adagio facendo brillare il filo della lama. Con voce minacciosamente bassa, lentamente recitò: “Tu lo tieni fermo, tu. Io gli becco quei begli occhioni blu.**” Avvicinò il pugnale al viso dell’inglese fino a che la punta non gli graffiò uno zigomo. “Dei vostri begli occhioni blu, tenente, quale preferite che vi tolga per primo?”
Grosvenor deglutì a vuoto. “Nessuno dei due, se posso esprimere un parere.” Tentò di muoversi, ma la punta del kukri gli bucò la pelle, facendogli scorrere sulla guancia una lacrima di sangue.
Faccio appello al vostro senso dell’opportunità,” gli disse O’lim, sempre con la sua espressione imperturbabile, “vi ricordo che qui non siamo al circolo ufficiali a parlare di caccia alla tigre.”
Posso assicurarvi che l’avevo capito perfettamente.”
Tenente, è bene che sappiate una cosa: non mi reputo un estimatore del celebre humour inglese. In più in questo momento la fretta mi rende ancora meno disposto ad apprezzare le vostre battute. Datemi quei documenti adesso.”
Non li ho io,” rispose Grosvenor, il che peraltro era la pura verità.
La punta del pugnale penetrò più in profondità. “Mi basta spingere ancora un po’ e farò di voi un emulo dell’ammiraglio Nelson. Se poi vi ostinerete a non parlare, per rendere più completa la somiglianza vi asporterò anche il braccio destro.”
Il tenente strinse i denti. “Io mi compiaccio della vostra conoscenza della cultura inglese,” replicò, “ma sono un fuciliere, e francamente troverei insultante essere reso simile a un marinaio, ancorché celebre come il vecchio Horatio.”
Si girò bruscamente su un fianco, e pur procurandosi un taglio sullo zigomo, sottrasse l’occhio alla minaccia del kukri. Approfittando della propria maggiore mole spinse via da sé O’lim con un calcio e si alzò in piedi. Fece per uscire, ma l’asiatico lo afferrò per una spalla e lo tirò indietro. Grosvenor si divincolò e con una pedata gli spedì il lume a petrolio addosso. Il serbatoio della lampada andò in frantumi e lingue di fiamma avvolsero gli abiti della spia russa, che con un ringhio di dolore mollò definitivamente la presa.
Il tenente cercò tentoni la maniglia, la abbassò col gomito e spinse la porta, che per fortuna cedette.
Si trovò in un corridoio, da una parte proveniva rumore di spari. Corse in quella direzione.
Pochi secondi dopo cominciò a percepire alle sue spalle i passi di varie persone. Una mano lo raggiunse afferrandolo per la collottola, si divincolò con uno strattone, aumentò la velocità.
Nel frattempo cominciava anche a sentire l’odore della polvere da sparo.
Una voce inconfondibile ruggì: “Per tutti i diavoli! Siete fucilieri o scritturali? Ho detto di tenere lontani quei mangiacurry!”
Sergente Jenkins!” urlò con quanto fiato aveva in gola. “Sergente!”
Sentì il kukri fendere l’aria alle sue spalle.
Tenente Grosvenor!” giunse la risposta del sottufficiale.
La spia gli fu addosso. Con le mani legate, l’ufficiale non riuscì a parare la caduta e rovinò al suolo. Cercò di divincolarsi, ma l’altro gli gravava sulla schiena con tutto il suo peso. Il freddo della lama sulla gola lo fece rabbrividire.
I documenti,” ripeté O’lim.
Vi ho detto che non li ho io!”
L’altro premette il pugnale. “E allora ditemi chi li ha.”
Grosvenor strinse i denti: Jenkins era sicuramente in arrivo, doveva cercare di prendere tempo. “Se ve lo dico, che cosa ci guadagno?”
Che vi ucciderò in modo rapido e pietoso.”
Spiacente. Se mi aveste parlato di gin e magari anche di acqua tonica avremmo potuto avviare una contrattazione, ma se comunque morirò, mi prendo almeno la soddisfazione di lasciarvi a bocca asciutta.”
La spia fece una fredda risata. “Non vi avrei detto così eroico,” ghignò, “ma forse siete solo un povero stolto che non ha idea di quel che lo aspetta.”
Arrivarono altre persone, alle quali O’lim parlò in una lingua che Grosvenor non conosceva. Qualcuno lo afferrò per i piedi e cominciò a trascinarlo indietro.
In quel momento echeggiò uno sparo seguito da un grido. Chi lo stava trascinando smise di farlo. O’lim si buttò a terra con un ringhio di disappunto.
Tutti indietro!” sbraitò il sergente con il fucile ancora imbracciato, a gambe larghe per tenersi in equilibrio nonostante gli scossoni del treno. “Tutti indietro o salta la testa di qualcun altro!”
La spia afferrò Grosvenor per i capelli e gli appoggiò il pugnale sulla gola. “E se fosse la testa di questo bel tenentino a saltare?” chiese a Jenkins.
Il sergente rimase impassibile. “Quella dopo sarebbe la vostra,” rispose.
In quel momento il treno ebbe un violento sussulto, cigolò e sferragliò come se una mano enorme lo stesse agitando, il sottufficiale perse l’equilibrio e sarebbe caduto giù se non si fosse provvidenzialmente aggrappato a una ringhiera, O’lim scivolò in avanti. Il convoglio stava perdendo rapidamente velocità.
Qualcuno ha staccato i vagoni!” esclamò Jenkins, che essendo in piedi riusciva a vedere cosa stava succedendo.
La metà di treno rimasta indietro, con loro sopra, si stava lentamente fermando, l’altra era ormai già sparita alla vista e a testimonianza del suo passaggio rimaneva solo una scia di fumo nero che si andava dissolvendo.
Approfittando dell’attimo di smarrimento, il sergente sparò un colpo. O’lim scattò di lato come un felino, quindi scomparve alla vista seguito dai suoi uomini.
Quel maledetto sta scappando!” esclamò Jenkins. Fece per sparare, ma il gruppetto era già scomparso nella foresta.
Dannazione,” brontolò abbassando l’arma.
Raggiunse il tenente, gli slegò i polsi. “Tutto a posto, signore?” gli chiese con sussiego. Grosvenor conosceva bene il sergente, e sapeva che quel tono in apparenza così formale in realtà significava: non posso lasciarvi solo un momento.
Dobbiamo andare,” disse l’ufficiale ignorando la domanda. “Siamo dispersi in mezzo al nulla e intanto quello là starà correndo a Calcutta per far secco il Governatore.”
Sarebbe increscioso, signore,” commentò Jenkins. Poi gli porse un fazzoletto inspiegabilmente candido nonostante tutto quello che avevano passato e gli suggerì: “Pulitevi un po’ la faccia, signore. Sembrate Guy Fawkes dopo il processo.”
Per fortuna siete arrivato in tempo, sergente, se no rischiavo di sembrare Guy Fawkes dopo l’esecuzione.”

Raccolsero la loro roba. Jenkins informò il tenente che mentre era prigioniero, lui e i due soldati avevano dovuto difendersi dall’attacco dei thug. Piuttosto stupito aggiunse che alcuni locali, tra cui le due donne della loro carrozza, erano accorsi a dar loro man forte contro gli assalitori. “Voi ci capire qualcosa, signore?” chiese perplesso.
Sembra che siamo capitati nel bel mezzo di una guerra di spie, sergente,” rispose Grosvenor. Stava per aggiungere altro quando scorse di nuovo la donna col saree arancione. Era di spalle lungo il binario, la vide imboccare un sentiero e scomparire nella vegetazione.
Aspettate!” le disse saltando giù dal treno, ma quando raggiunse il punto in cui era entrata nella foresta, di lei non c’era più alcuna traccia.
L’unica cosa che trovò fu un dado di osso.
Sergente, da questa parte!” disse.
Si misero rapidamente in marcia e dopo circa un quarto d’ora arrivarono a un paese. Il centro abitato risentiva già della vicinanza della grande città, aveva case di muratura, templi e addirittura qualche strada lastricata. Nella piazza principale, intorno alla fontana, c’era un gruppo di donne intente a lavare i panni, i negozianti esponevano la loro merce lungo le strade. Bambini giocavano qua e là, festoni di erbe e peperoncini erano appesi alle finestre.
Dobbiamo trovare un mezzo di trasporto,” disse Grosvenor.
Un carro, signore?” propose Barrett.
Qualcosa di veloce. Dei cavalli sarebbero l’ideale.”
Il sergente rimase come sempre impassibile, ma i due soldati si scambiarono uno sguardo sconcertato: a Barrett i cavalli avevano sempre fatto paura, mica era diventato un fuciliere per caso, e Thayes era talmente grosso che in groppa a qualsiasi cavallo sarebbe sembrato Sancho Panza sul somaro.
Inutile dire che la prospettiva di coprire l’ultimo tratto della strada per Calcutta in sella a un destriero li allettava pochissimo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, il tenente insisté: “Siamo a piedi sia noi che il russo. Dobbiamo procurarci un mezzo veloce prima di lui, altrimenti possiamo pure dire addio al Governatore.”
Sissignore.” Barrett interrogò gli indigeni, e il responso fu: “Qui non ci sono cavalli, però c’è uno che ha un elefante da vendere. Hanno detto di chiedere del signor Jaidev.”
Adoro gli elefanti,” rispose l’ufficiale, “andiamo.”
Ma signore, dicono che...” tentò il soldato.
Non c’è tempo, andiamo.”

Il signor Jaidev possedeva una fattoria ai confini del paese. L’edificio principale era ancora nel centro abitato, ma il resto si protendeva verso la campagna.
Il proprietario, dapprima sospettoso, divenne straordinariamente affabile quando seppe il motivo per cui i quattro sahib si erano recati a casa sua. Offri loro del tè, del lassi e dei dolci. Si prodigò in ogni modo. Disse che avrebbe aggiunto la bardatura dell’elefante senza chiedere una rupia in più.
A questo punto, anche una persona entusiasta e noncurante come Grosvenor cominciò a insospettirsi. “Ha qualcosa che non va il vostro elefante?” chiese.
Assolutamente no, sahib!” si affrettò a negare l’indiano, “È molto grande e la sua bardatura non starebbe a nessun altro. Nessuno me la comprerebbe.”
Quanto ne chiedete?”
L’uomo disse una cifra che avrebbe a malapena pagato una capra, tanto che il tenente si sentì in dovere di precisare: “È dell’elefante che stiamo parlando, non della bardatura.”
Ma certo, l’elefante. Il mio Sarkesh, la bestia più nobile e possente di tutta l’India.”
Grosvenor e Jenkins si scambiarono un’occhiata che la diceva lunga su cosa stessero pensando, ovvero: questo sta cercando di smerciarci come elefante un mulo con una manica legata sul muso.
In quel momento si udirono un barrito poderoso e rumore di legno che andava in frantumi. Qualcuno urlò qualcosa. “Hanno detto ‘attenzione’, signore,” tradusse Barrett, “e poi delle parole che non posso ripetere.”
Si voltarono tutti verso il signor Jaidev, che nel frattempo aveva assunto un’espressione assai turbata.
C’è qualche problema?” chiese il tenente.
Il problema arrivò un istante dopo: era un elefante di proporzioni mostruose, il più grande che avessero mai visto. Aveva zanne lunghe quattro piedi e dotate di un rinforzo metallico sulla punta. La proboscide sembrava un tronco. La bestia scuoteva la testa sventolando le enormi orecchie e barriva forsennatamente, il terreno tremava sotto le sue zampe.
Due o tre uomini stavano cercando senza alcun successo di arginare la sua furia con delle corde e degli ankus***. Il pachiderma li ignorò fino a che mantennero una distanza di sicurezza, ma appena si fecero troppo sotto ne afferrò uno con la proboscide e lo lanciò via come se fosse stato uno straccio.
Sarkesh! Nā, nā****!” urlò il signor Jaidev, col tono che avrebbe usato per redarguire un pechinese che aveva fatto la cacca sul tappeto.
L’elefante si girò nella sua direzione e allargò le orecchie con fare minaccioso. I puntali di metallo delle zanne brillavano sotto il sole.
Sarkesh...” e già la voce era meno energica.
La bestia rispose con un barrito poderoso. Fece per avanzare verso di lui, ma si accorse che c’erano delle presenze nuove. Sempre a orecchie larghe si avvicinò ai quattro inglesi, scosse la testa con aria di sfida e alzò la proboscide per fiutarli. Nessuno osava muoversi.
L’indiano provò a richiamarlo, ma l’animale non gli prestò alcuna attenzione.
Faccia a faccia con l’appendice che lo studiava, Grosvenor fece un sorriso di circostanza. “Bell’elefantino,” disse con tono amichevole. La bestia sbuffò, scompigliandogli i capelli con la potenza del soffio d’aria emesso.
Sarkesh annusò tutti con grande cura, poi emise un barrito di soddisfazione e circondò con la proboscide le spalle del sergente. Sembrava uno che avesse ritrovato un vecchio amico.
Se lo tirò vicino e sollevò una zampa anteriore.
Vuole farvi salire in groppa,” spiegò il signor Jaidev.
Il sergente lo fissò, senza parole forse per la prima volta da quando Grosvenor lo conosceva. “A me?” disse soltanto.
Sarkesh era sempre fermo con la zampa alzata. Addirittura piegò la testa nella sua direzione per fare in modo che gli afferrasse l’orecchio più facilmente.
Mi sembra che gli piacciate, Jenkins,” disse il tenente. Poi rivolto all’indiano: “Lo prendiamo.”
Il pachiderma intanto si coccolava l’attonito sergente. Di nuovo gli porse la zampa, accompagnando il gesto con un brontolio. Lo sospinse con la proboscide.
Coraggio, Jenkins” lo sollecitò l’ufficiale, “fate contento il nostro elefante.”
Che mi venga un colpo,” commentò l’altro, poi salì in groppa a Sarkesh, che emise un barrito assordante e fece un giro del cortile con l’aria di chi si vanta enormemente di avere sulla schiena un vero sergente britannico.
Il signor Jaidev si girò verso il tenente e disse: “È un elefante da guerra. Era del maharaja di Barhdaman, ma ora non si fa più la guerra con gli elefanti e lui non lo voleva più. Troppo cattivo, Sarkesh. Troppo nervoso. E grosso. Mangia molto.”
Grosvenor sogghignò all’idea che avrebbe ricomprato il pachiderma con i soldi di chi l’aveva venduto. Pagò all’uomo il prezzo corrente di un elefante più una buona mancia. Così, per simpatia, e perché il denaro era quello di chi aveva tentato di tirargli il collo non più tardi di ventiquattr’ore prima.














* Celeberrimo ufficiale dell’Esercito Britannico dalla vita avventurosa. Spia del Grande Gioco, viaggiatore e schermidore. Era in grado di parlare correntemente otto lingue ed era famoso per la prodigiosa forza fisica.
** “Twa Corbies”, canto tradizionale scozzese.
*** Bastone di circa 1,5 m che termina con un uncino. È lo strumento usato dal mahout per guidare l’elefante.
**** “No, no!”


Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Sarkesh adorava il sergente Jenkins. Anche mentre gli mettevano la bardatura, l’enorme pachiderma stava con la proboscide sulla spalla del sottufficiale e a nessun titolo accettava di essere separato da lui.
Aveva capito che Grosvenor e i due soldati erano amici del sergente, per così dire, per cui li tollerava, ma il suo prediletto rimaneva senza dubbio Wilford Jenkins.
I motivi di tale smaccata preferenza erano ignoti. Il tenente aveva cercato di offrirgli della frutta per ingraziarselo, ma Sarkesh si era rivolto al sergente con un’espressione che sembrava voler dire: Posso fidarmi?
Vecchio mio, puoi stare tranquillo,” gli aveva assicurato Jenkins, “il tenente Grosvenor è un ottimo ufficiale.”
Sarkesh non era rimasto particolarmente convinto da quella garanzia, ma per come la vedeva lui, se il sergente gli diceva che poteva stare tranquillo, significava che non c’era pericolo. Aveva quindi accettato la frutta.
Provenendo dalle scuderie di un maharaja, la bardatura di Sarkesh era un tripudio di gualdrappe ricamate e ornamenti, ma allo stesso tempo aveva protezioni metalliche – debitamente sbalzate e damascate – per tutte le parti vulnerabili.
Con le mani sui fianchi come chi sta contemplando un lavoro particolarmente ben fatto, Thayes osservò l’elefante e rivolto al commilitone disse: “Adesso voglio proprio vedere cosa faranno quelli là con i loro lacci di seta.”
Tu ricordati solo di non andare al cesso, Steve,” gli rispose Barrett con aria innocente, “vedrai che così non corri rischi.”
Ehi, specie di rospo, se non la pianti ti ci infilo per la testa, in un cesso!”
Thayes!” esclamò il sergente. L’elefante sottolineò il richiamo con un barrito.
Signore, stavolta non c’entro!” si difese l’altro, “È stato lui che...” Jay Barrett lo stava fissando con espressione angelica. Thayes brontolò qualcosa di inintelligibile ma poco gentile e tacque. Con te facciamo i conti poi, fu la muta promessa del suo sguardo. Il più giovane assunse una tale espressione di candore che gli mancava solo l’aureola.

Sulla groppa dell’enorme pachiderma, i quattro partirono alla volta di Calcutta. Cavalcioni sul collo dell’animale, il sergente lo guidava tenendogli le orecchie come il manubrio di un velocipede. Per quanto non fosse la secolare tecnica dei mahout* tramandata di padre in figlio, sembrava che Sarkesh avesse capito abbastanza in fretta il significato dei comandi.
Forza, vecchio mio,” lo incoraggiò Jenkins, “abbiamo una missione da compiere.”
Sebbene fosse ormai mattino inoltrato, la strada non era molto trafficata, e anche i pochi viandanti si scostavano rapidamente al sopraggiungere di un enorme elefante da guerra bardato di tutto punto e guidato dalle scarse competenze un sahib.
Seduto nel palanchino ornato di nappe e piume, Grosvenor pensava tanto per cambiare al gin. Sia a quello che avrebbe bevuto lui debitamente addizionato all’acqua tonica, sia a quello che avrebbe offerto alla divinità tutelare del tempio in cui si erano nascosti vicino a Moktarpur. Tutto il gin di Calcutta, la promessa non si prestava a equivoci.
Secondo me Ganesha ci sta aiutando,” disse di punto in bianco.
Jenkins si voltò verso di lui. “Domando scusa, signore?” L’espressione aveva l’impenetrabilità paziente del sottufficiale che deve sopportare le esternazioni un superiore particolarmente estroso.
Ganesha, sergente. Il dio dalla testa di elefante. Scommetto che quel tempio era suo. E poi guardate qua che ben di dio ci ha fatto trovare: un vero elefante da guerra. Senza contare che Ganesha è anche il dio della buona fortuna.”
Come dite voi, signore,” rispose il sergente.
Grosvenor ricominciò a pensare al gin e all’acqua tonica.
Non tralasciava, fra una bevuta immaginaria e l’altra, di controllare anche l’ambiente: per Calcutta c’era solo la strada che stavano percorrendo e treni non ce ne sarebbero stati fino all’indomani. Il che significava che anche i thug, ma soprattutto O’lim sarebbero passati per di lì. Per quanto Ganesha fosse chiaramente dalla loro parte, bisognava evitare di fare troppo affidamento sulla fortuna e prepararsi a possibili imboscate.
Stava giusto ragionando su questa eventualità quando si udì il rumore di qualcosa di pesante che strisciava per terra. Sarkesh stronfiò e scosse la testa con aria di disappunto. Aveva una corda impigliata in una delle zampe anteriori.
Non appena realizzò che attaccati alle due estremità della corda c’erano anche degli uomini che la tenevano tesa di traverso alla strada, emise un tonante barrito di guerra, ne afferrò uno con la proboscide e lo lanciò contro gli altri.
L’incidente si sarebbe anche potuto chiudere così, senonché dalle fronde degli alberi alcuni thug si lasciarono cadere sulla groppa di Sarkesh, sfoderarono il pugnale e si gettarono urlando sugli inglesi.
Si scatenò un’importante colluttazione: a terra l’elefante barriva e girava su se stesso inseguendo coloro che aspettandosi dei cavalli avevano cercato di tendergli la trappola. Sulla sua groppa Grosvenor, il sergente e i due soldati si difendevano dall’assalto dei thug. I poderosi movimenti dell’animale davano ai militari la sensazione di trovarsi a bordo di un battello su un mare in tempesta.
L’ufficiale abbatté i primi due avversari a colpi di pistola, poi gli arrivò addosso un tizio grosso quanto lui, con gli occhi spiritati e la bava alla bocca. Dall’odore che faceva la lama del suo katara**, doveva averla spalmata di aglio, cosa che secondo la tradizione impediva alle ferite di cicatrizzarsi.
Il tenente aveva scaricato il revolver, per cui si difese con il calcio dell’arma. La testa dell’uomo fu buttata all’indietro dal colpo, ma questi era talmente drogato che probabilmente non aveva neppure sentito dolore. Non fece altro che scrollare il capo un paio di volte, senza fare alcun caso al rivolo di sangue che gli scorreva lungo il viso. Vibrò un colpo con il katara, squarciando un cuscino accanto alla testa del tenente.
Questi riuscì a infilare un ginocchio tra se stesso e l’assalitore e lo spinse via. L’uomo rotolò di lato, si raddrizzò con uno scatto delle reni e subito dopo gli si precipitò di nuovo addosso. Con un colpo di pugnale riuscì a lacerargli una manica.
L’ufficiale di nuovo lo spinse via, e questa volta ebbe cura di farlo cadere a terra. Sarkesh si occupò della faccenda con la massima competenza.
Ansante, Grosvenor si mise carponi. I thug superstiti si erano dati alla fuga. “C’è qualche ferito?” chiese ricaricando la pistola.
Jay, signore,” disse la voce di Thayes. “Voglio dire, il soldato Barrett, signore.”
Il tenenente si voltò: il ragazzo giaceva tra i cuscini con il volto terreo. Si premeva una mano su un braccio, il sangue che gli filtrava fra le dita aveva già impregnato la manica.
Strappò le tendine di mussola del palanchino e ne fece delle strisce, poi disse: “Temo che dovrò farti un po’ male, Barrett.”
È vero quello che dicono, signore?” chiese il ragazzo con voce debole.
Che cosa?”
Che le ferite di questi pugnali non si chiudono più e si infettano.”
Solo se ci si affida agli stregoni locali. Con un buon medico inglese questo non può succedere.”
Davvero, signore?”
Sul mio onore.” Tolse delicatamente la mano che il ragazzo stava premendo sulla ferita e strappò via la manica mettendo a nudo un taglio profondo. “Sei fortunato, un pollice più in dentro e quel bastardo ti avrebbe staccato il braccio.”
Sotto lo sguardo attento di Thayes prese le bende improvvisate e ne fece una compressa che premette sulla ferita sanguinante, poi prese le strisce di mussola rimaste, fasciò l’arto e alla fine strinse la legatura con un gesto secco. Il soldato emise un urlo che suscitò persino nell’elefante un barrito indignato.
Il peggio è passato,” gli assicurò il tenente, ma Barrett non rispose: era svenuto. Grosvenor si rivolse a Thayes: “La fasciatura ha fermato il sangue. Va allentata ogni mezz’ora, se no Barrett può dire addio al suo braccio.”
Il soldato annui. Sistemò meglio il ragazzo sui cuscini e chiese: “Dicevate sul serio, prima, signore?”
A che proposito?”
Che il rospo… volevo dire Barrett guarirà, signore.”
Tra due ore al massimo saremo in caserma e lì riceverà le cure necessarie. Inoltre, con tutto il sangue che ha perso, qualsiasi porcheria ci fosse sulla lama sarà finita chissà dove. Vedrai che tra un po’ starà meglio di prima.”
Grazie, signore.”
Non devi ringraziare me, soldato. È Ganesha che ci protegge.”
Thayes lo fissò un po’ perplesso. “Come dite voi, signore,” si limitò a rispondere.

Ormai erano già arrivati ai sobborghi della città. Che qualcosa non andasse era abbastanza chiaro: c’era un’atmosfera cupa, tesa, dappertutto aleggiava un silenzio innaturale. Il caos di risciò, carretti, venditori, mendicanti e bambini che normalmente intasava le strade era quasi del tutto assente. Qualche perdigiorno camminava per i marciapiedi deserti, ma non c’erano botteghe aperte né artigiani al lavoro.
Cosa diavolo sta succedendo?” chiese Jenkins guardandosi intorno sospettoso.
La Conferenza Nazionale,” rispose Grosvenor. “Già qui a Calcutta ci odiano più che in altri posti, boicottano le nostre merci e fanno rivoluzioni. Figuratevi cosa può succedere durante una conferenza organizzata dal movimento indipendentista.”
Indipendentisti, bah!” disse il sergente con disprezzo. “Prima che arrivassimo noi, questa gente bruciava le vedove vive sui roghi dei mariti e faceva i sacrifici umani. Io dico che è meglio che non siano indipendenti per il loro stesso bene, signore.”
Grosvenor non replicò. Abituato a destreggiarsi in mezzo alla confusione della città, in quel silenzio si sentiva inquieto. Si voltò verso Thayes, che gli rimandò lo stesso turbamento.
L’elefante avanzava solenne al centro della strada e gli unici rumori che si udivano erano i tonfi dei suoi passi, lo scricchiolare del cuoio e il tintinnio metallico dei finimenti.
Dopo un po’ che procedevano, cominciarono a sentire un urlio confuso che andava man mano aumentando. Il vento portò verso di loro una folata di fumo e polvere da sparo.
Comparvero oggetti abbandonati, pezzi di risciò sfasciati e mercanzie sparse da qualcuno che aveva fatto scempio di botteghe incautamente rimaste aperte. Senza interrompere la marcia, Sarkesh raccolse con destrezza un mazzo di carote, se lo infilò in bocca e lo masticò con un brontolio di soddisfazione.
Muoviti, pelandrone!” lo redarguì il sergente. L’enorme animale aumentò la velocità, non tralasciando di raccogliere altre ghiottonerie se gli arrivavano a portata di proboscide.
Quando raggiunsero il centro si imbatterono in una folla sterminata. Gente ovunque, assiepata nelle vie, arrampicata sui lampioni, abbarbicata alle inferriate, che rumoreggiava e ondeggiava come una specie di mare in tempesta. Ogni tanto c’erano dei posti di blocco inglesi, in cui militari pallidi di paura stringevano in pugno le armi dietro l’esigua protezione di qualche sacco di sabbia e qualche cavallo di Frisia.
Sarkesh avanzò senza nemmeno rallentare, aprendo la folla con il semplice impatto delle sue sei tonnellate rivestite di metallo.
Si fermarono presso una squadra comandata da un caporale, il tenente si qualificò. “Com’è la situazione?” chiese.
Lo vedete anche voi, signore,” rispose il graduato, “basta che qualcuno dia fuoco alla miccia e salta per aria tutto. Non ci hanno mai amati, questo è certo, ma prima d’oggi non li avevo mai visti così incattiviti.”
La folla in effetti aveva un che di sfrontato, di provocatorio. Dava l’idea del succube che finalmente si scopre spalleggiato da un potente. Dai rifiuti sparsi per terra, Grosvenor capì che i soldati erano stati bersagliati da lanci di verdure e uova.
Dobbiamo raggiungere immediatamente il palazzo del Governatore,” disse, “è una cosa della massima importanza.”
Nel frattempo si chiedeva dove fosse O’lim, se avesse trovato il modo di raggiungere Calcutta, se fosse già arrivato da un’ora e ormai fosse da qualche parte a bere un tè mentre il Governatore finiva di raffreddarsi…
Auguri, signore,” lo richiamò alla realtà la voce del caporale. “Vedete quanto sono fitti là davanti? Non passerebbe neanche un gatto.”
Forse un gatto no,” intervenne Jenkins, “ma un elefante da guerra sì.” Poi, rivolto al pachiderma: “Avanti, Sarkesh, e non fermarti nemmeno se vedi Visnù a cavallo di una giraffa.”
L’animale lanciò un barrito tremendo, e già quello bastò per far sì che la folla arretrasse. Successivamente prese ad avanzare come una rompighiaccio nel Mare Artico, facendosi largo a colpi di zanne e proboscide se trovava qualcuno che non cedeva il passo di sua iniziativa.

Intorno al palazzo del Governatore c’era una cintura di terreno sgombro. Sul perimetro dell’edificio era stata disposta una protezione di cavalli di Frisia e sacchi di sabbia, presidiata da un intero battaglione di fanteria. Grosvenor notò che erano stati portati in posizione anche pezzi di artiglieria leggera. Più indietro c’erano un paio di squadroni di lancieri.
Se la devono proprio fare sotto, quelli là!” osservò Thayes. Barrett, che nel frattempo aveva ripreso i sensi, osservava muto lo straordinario spiegamento di forze.
Il sergente Jenkins incitò l’elefante, che di nuovo lanciò un poderoso barrito e cominciò a correre facendo tremare il selciato sotto le zampe.
Alcuni dei difensori puntarono i fucili, il tenente vide anche un paio di artiglieri precipitarsi verso un sette libbre e girarlo nella loro direzione.
Agitò un braccio. “Non sparate, siamo inglesi!” Poi, rivolto a Jenkins: “Diteglielo anche voi, sergente.”
Con la sua tonante voce da istruttore di reclute, il sottufficiale ribadì la loro appartenenza alle Forze Armate Britanniche. L’elefante pensò bene di sottolineare il concetto del suo adorato padrone con un altro barrito.
Grosvenor vide un ufficiale arrivare di corsa. Questi confabulò rapidamente con un graduato e i fucili si abbassarono. Sarkesh, ormai arrivato a una ventina di passi dallo sbarramento, rallentò fino a fermarsi.
A parte il rumoreggiare lontano della folla, l’unico suono che si sentiva era il tintinnio della cotta di maglia con cui l’animale era bardato.
In quell’inquietante silenzio, Grosvenor salutò e disse: “Tenente Eldred Grosvenor, 95° Reggimento Fucilieri. Devo conferire immediatamente con il Governatore per una questione della massima importanza!”
L’ufficiale sopraggiunto, un attempato capitano con un paio di curatissimi favoriti, lo squadrò da capo a piedi, fece girare lo sguardo anche sui tre militari che lo accompagnavano, alzò un sopracciglio e con sussiego proferì: “Dite pure a me, giovanotto.”
Il tenente scosse la testa. “No, non posso dire a voi. Devo parlare personalmente con il Governatore, adesso.”
Non vorrete presentarvi a Sua Eccellenza con quella tenuta a dir poco… fantasiosa.”
Sentite un po’, voi,” replicò Grosvenor, che stava cominciando a perdere la pazienza, “visto quello che ho da dire a Sua Eccellenza, io ci vado anche nudo, se è necessario. Il maharaja di Barhdaman è un traditore in combutta con lo Zar, i thug stanno fomentando rivolte in tutto il Bengala, il forte di Moktarpur è stato depredato di ogni suo contenuto e la guarnigione è stata sterminata, c’è una spia russa che sta arrivando qui con l’intenzione di uccidere il Governatore e forse mentre noi stiamo a discutere come se fossimo al circolo ufficiali è già dentro il palazzo. Adesso che ne dite, ci vado subito da Sua Eccellenza o perdo due ore per farmi il bagno, pettinarmi come si deve e mettermi l’alta uniforme?”
Vi faccio strada,” fu la risposta del capitano.
Grosvenor scese dalla groppa di Sarkesh e si fece consegnare le carte da Jenkins, che ovviamente le aveva custodite meglio della Banca d’Inghilterra. “Occupatevi voi di tutto, sergente,” disse, il che significava: fate venire un medico per Barrett, fate bere l’elefante, fate insomma tutto quello che deve essere fatto.
State tranquillo, signore.”

All’interno del palazzo regnava la stessa calma carica di tensione che Grosvenor aveva percepito nell’avvicinarsi a Calcutta. I corridoi erano vuoti, i passi echeggiavano come all’interno di un mausoleo.
Dov’è il Governatore?” chiese il tenente.
Nel suo studio,” rispose l’altro.
Ci sono guardie con lui?”
Sono state tutte spostate all’esterno.” fu la compiaciuta risposta. Poi, dopo una pausa: “Per motivi di ordine pubblico, capite. Nessuno deve avvicinarsi al palazzo.”
Perfetto,” commentò Grosvenor con un sospiro. Accelerò il passo ed estrasse il revolver per controllare che fosse carico.
Notando quelle manovre, in tono categorico il capitano disse: “Vi garantisco che nessuno è entrato. È impossibile.”
Oh, Cristo!” sbottò il tenente, “Ma dove avete fatto la guerra, finora? Al Rag*** di Londra? Abbiamo a che fare con la migliore spia di tutto il dannato Impero Russo e la prima cosa che vi viene in mente è fare in modo che la folla dei rivoltosi non sporchi le passatoie di cocco camminandoci sopra?”
Genuinamente stupefatto da tanta insolenza, l’altro si fermò sui due piedi, costringendo il tenente a fare altrettanto. Con ira trattenuta cominciò: “Sentite un po’, giovanotto: io vi proibisco...”
Grosvenor non fece in tempo a sapere cosa stava per essergli proibito: si udì un breve sibilo, l’ufficiale sussultò e si accasciò a terra. Dalla schiena gli spuntava un dardo di balestra.
Non appena il tenente realizzò l’accaduto, si buttò al coperto dietro il piedistallo di una statua e da lì rimase a fissare il corpo del collega, sotto il quale si stava allargando una macchia di sangue.
A O’lim non interessa uccidere me, pensò, è qui per far secco il Governatore.
La cosa comunque non lo confortò, dal momento che la spia russa non avrebbe esitato a eliminare anche lui, se fosse stato necessario per raggiungere il suo obiettivo.
Cercò di ragionare su portata e precisione di una balestra, traendone conclusioni sconfortanti. L’unico elemento a suo vantaggio era che dopo essere stato caricato, il revolver aveva a disposizione sei colpi e la balestra uno solo.
Se non mi becca con il primo, forse riesco a uscire dalla sua gittata.
Si buttò fuori prima che il buon senso avesse modo di esprimere il proprio parere sul suo piano. Sentì un sibilo vicino all’orecchio, resisté alla tentazione di sparare un paio di colpi e cominciò a correre più veloce che poteva.
Non ci furono altri dardi, o perlomeno non lo raggiunsero.
Corse su per lo scalone d’onore, si buttò a perdifiato per il corridoio che gli pareva più sontuoso. Cominciò ad aprire tutte le porte, una dopo l’altra, controllando cosa ci fosse all’interno. Sorprese qualche stupefatto contabile, un inserviente indiano che in barba ai suoi precetti religiosi si stava mangiando una gamella di Cottage Pie e infine un paio di militari, di cui uno a brache calate e l’altro inginocchiato davanti a lui, che furono quasi colti da infarto al suo apparire. “Dov’è lo studio del Governatore?” chiese loro concitato.
I due lo guardarono impietriti. Probabilmente si sarebbero aspettati chiunque, anche il famoso Visnù sulla giraffa citato da Jenkins, ma non un ufficiale del loro stesso esercito.
Signori, ho fretta,” fece notare Grosvenor al protrarsi del silenzio.
Quello in piedi, la cui faccia nel frattempo era virata dal rosso peccaminoso al bianco ricotta, si raccolse i pantaloni e balbettò: “Al… al piano superiore… in fondo al corridoio di destra.”
Grazie, buon proseguimento.” Chiuse la porta con un tonfo e ricominciò a correre.
Arrivò alle scale, divorò i gradini a tre a tre, infilò il corridoio. La porta era proprio davanti a lui, bastava raggiungerla e…
Qualcosa lo colpì a mezzo corpo con la potenza di un maglio, facendolo rotolare scompostamente a terra e mozzandogli il respiro. La pistola gli sfuggì di mano.
Si rivoltò tossendo, fece per recuperare l’arma, ma un piede gli piombò brutalmente sul polso inchiodandoglielo al pavimento.
Tenente, voi cominciate a essere piuttosto fastidioso,” disse la voce fredda di O’lim.
Non posso che dire lo stesso di voi,” rispose Grosvenor, stringendo i denti mentre l’altro gli premeva il tacco sul dorso della mano.
Già, ma voi non siete nelle condizioni di porre fine al fastidio che vi arreco, io invece sì.”
Il tenente, che era a terra prono, si girò e vide che il russo stava caricando un colpo con una mazza da cricket. Strappò la mano da sotto il suo piede e si raccolse un attimo prima che la botta calasse a sfondargli il cranio, quindi afferrò la pistola con la sinistra, ma prima che potesse fare fuoco l’altro gli fu di nuovo addosso. Lo colpì alla spalla facendolo sbilanciare. Grosvenor gemette, arretrò cercando appoggio contro il muro e sparò. La pallottola mancò O’lim, ma fece sì che la porta del Governatore si schiudesse e da essa si affacciasse un volto dall’espressione preoccupata.
L’ufficiale si prese un terzo violento colpo, sentì qualcosa nel torace fare il rumore di un ramo spezzato mentre una stilettata di dolore gli mozzava il respiro. La spia cominciò a correre verso la porta, Grosvenor gli tenne dietro e riuscì ad agguantarlo un attimo prima che entrasse. Rotolarono dentro avvinghiati, lui aveva perso il revolver, ma anche a O’lim era sfuggita di mano la mazza. Cominciarono a prendersi a pugni rovesciando mobili e suppellettili. Il tenente era più alto e più grosso, ma aveva la mano destra ferita, inoltre il russo era molto più veloce di lui.
Attraversarono in questo modo una specie di anticamera, mandando un segretario gambe all’aria, ribaltando sedie e facendo crollare pile di documenti, poi irruppero nello studio del Governatore, sorprendendo quest’ultimo seduto alla scrivania mentre stava contemplando un piccolo oggetto che teneva in mano.
O’lim colpì il tenente con una pesante lampada di bronzo che aveva recuperato su un mobile. L’ufficiale vide nero, barcollò e crollò a terra, ma prima che la spia potesse assestargli il secondo e definitivo colpo, echeggiò uno sparo. Alle loro spalle erano comparsi due soldati. Grosvenor non poteva giurarci, dal momento che aveva la vista annebbiata, ma gli sembravano quelli del piano di sotto.
Cercò di alzarsi, ma la mano ferita non riuscì a reggerlo e si afflosciò al suolo. Mentre qualcuno lo sosteneva prendendolo da sotto le ascelle, sentì la voce del Governatore che con surreale calma chiedeva: “Qualcuno ha visto la mia bussola? Non riesco a trovarla.”
Poi svenne.










* Persona che si occupa dell’elefante e lo guida.
** Pugnale indiano tipo daga creato per portare potenti e rapidi attacchi di punta.
*** Army and Navy Club. Esclusivo circolo ufficiali della Capitale inglese.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

Il tenente Grosvenor emise un sospiro di soddisfazione. Alla fine il gin era riuscito a berlo, debitamente mescolato all’acqua tonica, perlomeno tutte le volte che era riuscito a eludere a sorveglianza del dottore che aveva curato le sue numerose ferite.
L’aveva anche offerto al tempio di Sri Ganesha, più o meno nelle quantità promesse, ma dopo i primi tre giorni di sbronza collettiva di tutti i sacerdoti e i fedeli gli era stato fatto sapere che il supremo Vighnesvara* era soddisfatto della sua donazione e considerava perfettamente ripagato tutto l’aiuto che aveva ritenuto di fornirgli nel corso della missione.
Si allungò sulla chaise longue e ordinò al cameriere il terzo gin tonic del pomeriggio, già pregustando il tintinnio che avrebbe prodotto il ghiaccio nel bicchiere mentre il ragazzo glielo portava.
Il circolo ufficiali di Calcutta era decisamente un posto piacevole. Si trattava di un gioiello di architettura Moghul del diciassettesimo secolo contornato da splendidi giardini. Dietro l’edificio principale, proprio al limitare di una macchia di cespugli fioriti, c’era un porticato tutto di marmo bianco, sostenuto da eleganti colonne, con magnifici archi polilobati che gli avevano sempre ricordato delle fette di cheddar con l’impronta di un morso.
Quel luogo era prediletto dagli avventori in quanto ombroso e ventilato, e spesso attraversato da refoli d’aria carichi dei profumi del giardino. Ogni tanto poi arrivavano dei buffi macachi che cominciavano a strillare e a fare salti, e se si buttava loro qualcosa da mangiare potevano rivelarsi molto divertenti.
Normalmente gli inservienti li scacciavano, ma loro erano furbi e si nascondevano tra le fronde, poi tornavano fuori una volta passato il pericolo.
Puoi avere il mango, ma non ti azzardare a toccare il mio gin tonic,” disse il tenente a una scimmia che lo stava scrutando da sotto un cespuglio.
L’animale lo fissò con i suoi occhi ambrati ed emise un ciangottio interrogativo.
Mango: sì. Gin tonic: no,” chiarì il tenente.
La scimmia si avvicinò adagio. Grosvenor prese una fetta di polpa arancione da un piattino e gliela tese. Il macaco dapprima lo osservò dubbioso, poi allungò una zampa, afferrò il frutto e scomparve fra le piante.
Bravo,” approvò il tenente, poi si sistemò meglio la fasciatura sulla fronte. I punti non glieli aveva dati Jenkins, ma forse col senno di poi sarebbe stato meglio che lo avesse fatto. Di sicuro il sergente avrebbe avuto la mano più leggera del dannato segaossa scozzese che si era occupato di tutti i suoi numerosi danni. Ricordava ancora con orrore il momento in cui gli aveva strizzato il torace come una maledetta cornamusa per individuare le costole fratturate.
Assorto nei suoi pensieri e nell’assunzione del gin tonic, si addormentò.

Lo svegliò dopo un tempo imprecisato il cameriere scuotendolo gentilmente per una spalla. “Sahib, il Governatore chiede di voi,” gli disse sottovoce.
Il Governatore?” fece eco Grosvenor ancora mezzo addormentato, ma il cameriere non ebbe bisogno di ripetere: l’alto funzionario in persona stava percorrendo il porticato per raggiungerlo, in compagnia del colonnello Wilson e di altri ufficiali superiori che non conosceva. Il generale Harris non era presente.
Si alzò faticosamente. Avendo alcune costole fratturate, ma soprattutto il braccio destro al collo, non diede di sé il migliore degli spettacoli.
State comodo, tenente,” gli raccomandò Wilson notando il suo disagio, “il Governatore ci teneva a ringraziarvi di persona per tutto ciò che avete fatto.”
Per una volta nella vita che ne aveva la possibilità, Grosvenor fece il modesto. “Oh, beh, niente di che, in fondo. Una cosetta per rompere la routine.” Poi, dopo una pausa: “Comunque mi fa piacere che abbiate apprezzato.”
Ragazzo mio, siete stato eroico,” gli assicurò con calore il funzionario, stringendogli la mano sana fra le sue. “Le informazioni che ci avete fornito sono state preziose, senza contare che mi avete salvato la via.”
Oh, no. Davvero niente di cui valga la pena parlare. E poi abbiamo avuto la fortuna di trovare un elefante, quello ha facilitato di parecchio le cose. A proposito, sta bene Sarkesh?”
Il colonnello gli rispose: “Gode di ottima salute. Se ne sta occupando il vostro sergente, anche perché pare che non si faccia avvicinare da nessun altro.”
È un animale piuttosto selettivo.”

Rimasero un altro po’ a parlare della missione e delle informazioni circa i thug e il tradimento del maharaja di Barhdaman. Mentre stavano conversando, arrivò un cameriere con vassoio d’argento su cui si trovava un pacchettino confezionato come un regalo. “Per il sahib Governatore,” annunciò con un inchino.
Il colonnello aggrottò le sopracciglia. “Chi l’ha portato?”
Una memsahib della Lega per la Temperanza. Ha detto che è un regalo per il sahib Governatore.”
Grosvenor arricciò il naso con disgusto e fissò la strana confezione senza far mistero del proprio sospetto: nulla di buono poteva provenire da chi osteggiava il consumo di alcol.
Il Governatore aprì la scatoletta e subito fece un sorriso. “La mia bussola!” esclamò.
Il tenente drizzò immediatamente le orecchie. Gli tornò in mente l’ultima frase che aveva udito prima di svenire: Qualcuno ha visto la mia bussola?
Con una manata fece cadere a terra il piccolo contenitore. “Non toccatela!” urlò.
La bussola rotolò sul pavimento in un imbarazzato silenzio. Non successe niente, non esplose e non emise gas mortali. Rimase lì immobile. Tutti cercavano di guardare altrove, il colonnello Wilson tossicchiò a disagio.
Nella generale riprovazione arrivò una scimmia, vide il piccolo oggetto luccicante, se ne appropriò e scomparve con la velocità di un lampo.
La bussola…” provò a dire Grosvenor, non più tanto sicuro di aver fatto la cosa giusta. “Ne avevate parlato nel vostro studio...”
La scimmia intanto si stava arrampicando su un albero con il suo tesoro.
Il Governatore lo fulminò con uno sguardo omicida. “Quella bussola era un ricordo di valore inestimabile!” lo rampognò, “È, o meglio era l’oggetto più caro che possedevo, me l’aveva donato mio padre sul letto di morte, e ora grazie a voi è perso per sempre!”
Nel bel mezzo della reprimenda, tutti furono distratti da un tonfo seguito dal suono di qualcosa di metallico che rotolava: si girarono verso la provenienza del rumore e videro la scimmia morta stecchita sul pavimento. La bussola stava esaurendo la sua inerzia sulle piastrelle di marmo.
Era avvelenata!” esclamò il colonnello Wilson nel silenzio generale.
Grosvenor assunse la stessa espressione di Barrett: gli mancava solo l’aureola. “Non c’è bisogno che vi scusiate, signore,” disse magnanimo, “capisco che il valore affettivo dell’oggetto possa avervi fatto dimenticare la cortesia per cui siete famoso.”
Ci fu un secondo giro di sguardi imbarazzati, questa volta tutti evitavano di guardare il Governatore.
Il tenente, noblesse oblige, prese un tovagliolo, raccolse con quello la venefica reliquia e la consegnò al legittimo proprietario, che bofonchiò qualche parola di ringraziamento.

Riuniti in una bettola per la bassa forza dall’evocativo nome di ‘Secchio Sfondato’, Grosvenor, Jenkins, Thayes e Barrett si stavano godendo alcune pinte di birra. Dalla finestra ogni tanto entrava la proboscide di Sarkesh, accomodato nel giardinetto sul retro, con il duplice scopo di controllare che il beneamato sergente fosse ancora al suo posto e di pescare qualche ortaggio da un cesto che avevano fatto portare apposta per lui.
Non troppi, se no ti viene mal di pancia,” gli raccomandò il sottufficiale.
Da fuori provenne un brontolio.
I primi momenti di quella riunione erano stati caratterizzati da un atteggiamento di profonda serietà: avevano ricordato i compagni caduti e avevano brindato in loro onore.
Purtroppo, però, col protrarsi dei brindisi il rigore marziale si era pian piano sfaldato e i quattro erano finiti a scambiarsi battute e pacche sulle spalle come vecchi amici.
E quindi, signore, alla fine quel figlio di buona donna di un russo aveva avvelenato la bussola del Governatore?” chiese Jenkins.
Grosvenor annuì. “L’aveva rubata. Gliel’ha recapitata travestito da donna qualche giorno dopo, confezionata come un regalo da parte della Lega per la Temperanza.”
Tutti manifestarono la loro disapprovazione, persino Sarkesh. Infine Thayes brontolò; “Lega per la Temperanza, puah! Non mi sono mai fidato della gente che non beve.”
Nemmeno io,” rispose Grosvenor, “e credo che questa sia stata la fortuna del Governatore. Se per caso O’lim avesse scelto come mittente per il suo pacco una distilleria di gin, avremmo celebrato le esequie.”









* “Signore degli ostacoli”, uno degli appellativi di Ganesha.







PICCOLO ANGOLO DELL’AUTORE: E così siamo giunti alla fine di questa avventura. Ringrazio tutti voi che mi avete seguito, chi mi ha commentato, chi mi ha messo in qualcuna delle sue liste, ma anche chi si è solo fermato a leggere e mi ha regalato un po’ della sua attenzione.
È stato molto bello percorrere l’India misteriosa insieme a voi seguendo le gesta di quattro improbabili militari inglesi e un elefante.
E ora vado a bere un gin tonic anch’io!^^

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3662026