Hallelujah

di Elizabeth_2206
(/viewuser.php?uid=926900)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hallelujah #1 - The first meeting ***
Capitolo 2: *** #2 - Homework ***
Capitolo 3: *** #3 - The Tempest ***
Capitolo 4: *** #4 - The Story ***
Capitolo 5: *** #5 - The Birthday ***
Capitolo 6: *** #6 - Wounds ***
Capitolo 7: *** #7 - Changes ***
Capitolo 8: *** #8 - Haircut ***
Capitolo 9: *** #9 - Moonlight Goodbyes ***
Capitolo 10: *** #10 - The Grave ***
Capitolo 11: *** #11 - The Mark ***
Capitolo 12: *** #12 - Epiphany ***
Capitolo 13: *** #13: Dust ***
Capitolo 14: *** #14 - The Promise ***



Capitolo 1
*** Hallelujah #1 - The first meeting ***


Brevi Note Introduttive
Questa storia è nata dalla mia passione sfrenata per Hallelujah di Leonard Cohen, che, tra le altre cose, non mi appartiene. E' un'analisi dell'adolescenza di Riza, e delle sue interazioni con tutte le tipologie di amore. In ogni capitolo citerò un pezzo di una strofa della canzone; i capitoli saranno connessi cronologicamente in modo indiretto, per cui tra l'uno e l'altro potrebbero esserci salti temporali (ovviamente specificati). Tutte le altre informazioni si trovano nelle note infondo al capitolo, che vi consiglio vivamente di leggere.


 
Hallelujah

 
#1 – The First Meeting
Well I’ve heard there was a secret chord
That David played and it pleased the Lord
But you don’t really care for music, do you?

Riza si buttò sul letto. Le braccia e la schiena, doloranti dalle pulizie svolte quel pomeriggio, non le davano tregua. Solitamente non faticava mai così tanto, ma quello era un giorno, per così dire, speciale. O perlomeno diverso da tutti gli altri.
Quel giorno era arrivato il ragazzo.
Signor Mustang’ si corresse mentalmente ‘E’ meglio che non gli dia troppa confidenza. Voglio avere a che fare il meno possibile sia con lui che con l’Alchimia.’

Se l’era trovato davanti quella mattina, quando aveva aperto la porta per uscire a stendere il bucato.
“Ciao” le aveva detto sorridendole il ragazzo “Mi chiamo Roy Mustang e cerco il Maestro Hawkeye.”

La ragazzina, presa alla sprovvista, l’aveva fissato per qualche secondo, per poi farsi da parte per lasciarlo entrare.
“Io… io sono Riza Hawkeye. Lo… lo chiamo subito.”
“Immagino tu sia sua figlia.”
“Immagina correttamente, Signor Mustang.”

Così lo aveva fatto accomodare sul divano, mentre percorreva il lungo corridoio che separava la casa accogliente e luminosa dal tetro studio di suo padre.
“Pa… papà. C’è una ragazzo alla porta. Cerca te. Ti ha chiamato Maestro.”

L’uomo, perennemente chino sui suoi libri, aveva alzato impercettibilmente la testa, annuendo.
“Mandalo qui. E non ci disturbare finché non usciremo.”

Riza si era congedata e aveva chiamato il giovane, che nel frattempo si era alzato dal divano e aveva cominciato ad osservare la stanza. All’ingresso della ragazzina, si era voltato e, sempre sorridendo gentilmente, le si era avvicinato.
“Siete solo voi due? Sei tu che ti occupi di tutto?”
“Si ad entrambe le cose, Signor Mustang.”

Poi l’aveva spedito malamente verso lo studio e aveva cominciato a pulire, vergognandosi dello stato della casa, immaginando che il ragazzo avesse notato lo strato di polvere che ricopriva un po’ tutto. Mentre lucidava il pavimento, aveva riflettuto su cosa potesse volere il ragazzo.
Ha chiamato mio padre Maestro, per cui immagino che voglia essere suo allievo. E l’unica cosa che mio padre degna di attenzione è…

Alchimia.

Al pensiero di quella scienza, che tanto le metteva i brividi, un’espressione di disgusto le si era dipinta sul volto. Non le era mai piaciuta, e questo non aveva che reso più inesistente il rapporto già deteriorato tra lei e il suo burbero padre. Dopo la morte di sua madre, infatti, egli non aveva fatto altro che studiare per la sua Ricerca del Potere, dimenticandosi quasi di lei. Era come se quella scienza le avesse portato via la sua famiglia. Ogni volta che ci pensava, si incupiva.
Nonostante ciò, sorrise pensando al modo in cui suo padre avrebbe probabilmente trattato il Signor Mustang.
Infondo, non mi importa granché, né di lui né dell’Alchimia.’


Ancora sdraiata sul letto, Riza dovette ammettere che quel pomeriggio aveva decisamente mentito a se stessa, dicendo che non le importava: quando il Signor Mustang era uscito dallo studio di suo padre, con lo stesso Berthold Hawkeye al seguito, aveva provato un immenso senso di fastidio. Quel ragazzo era riuscito in poche ore ad attirare l’attenzione di suo padre e farlo uscire da quella dannata stanza, cosa che persino lei, sua figlia, faticava a fare.
“Oh, Riza! Hai fatto davvero un ottimo lavoro! Questa casa ora è molto più accogliente, rispetto a questa mattina.”

Posando un vaso di fiori che aveva appena riempito, Riza si era voltata verso Mustang, sorpresa.
“Grazie, Signore. Visto che si è fatto tardi, mi sono permessa di prepararle una stanza, nel caso in cui voglia restare per la notte. Per qualsiasi cosa non si faccia problemi a chiedere.”
“Molto bene, Riza. Ad ogni modo, Roy Mustang resterà a vivere con noi, come mio allievo.”

Alle parole di Berthold, sul viso della ragazzina si era dipinta un’espressione a dir poco sconvolta, ma di fronte alla fermezza del padre, si era limitata ad annuire e a cominciare a preparare la cena, durante la quale si era comportata in modo impeccabile.
Così, dopo essersi congedata dal Signor Mustang e aver augurato la buonanotte a suo padre, persa in questi pensieri, fissava il soffitto buio della sua stanza, chiedendosi perché mai vedere suo padre che dava attenzioni a quel ragazzo le facesse così male.


Il mattino successivo, mentre preparava la colazione, Riza quasi la rovesciò per terra.
“Buongiorno! Oh, serve una mano?”

Il ragazzo le era arrivato alla spalle e l’aveva spaventata, rischiando di farle combinare un pasticcio.
“E’ tutto a posto, Signor Mustang. Gradisce del caffè? C’è anche del latte, se ne vuole.”
“Riza, per favore, smetti di chiamarmi Signore! Mi fai sentire incredibilmente vecchio. Comunque il caffè va benissimo.”

La ragazza alzò leggermente le spalle, mentre l’altro prendeva posto a tavola e attendeva che gli venisse versata la bevanda.
“E’ semplice galateo, Signore. Bisogna essere rispettosi delle persone più grandi.”
“Quanti anni hai, Riza?”
“Undici, signore.”
“Ebbene, io ne ho quindici. Non mi sembra il caso di portare ‘rispetto’ dandomi del lei. Inoltre abiterò qui fino a che la mia istruzione non sarà completata, per cui mi troverei più a mio agio se mi chiamassi semplicemente Roy.”
“Come desidera, Signor Mus… ehm, Roy...?”

Riza, imbarazzata, la fece sembrare una domanda, e al ragazzo scappò una risatina che nascose abilmente sorseggiando il caffè.
In fin dei conti non è poi così male.’ pensò Riza ‘E’ gentile, discreto e ha dei modi di fare aggraziati; probabilmente viene dalla città. Poteva capitarmi di peggio.’

“Ieri ho avuto modo di conoscere tuo padre. Il maestro Hawkeye mi sembra una persona abbastanza affabile. Certo, è un po’ strano e burbero, ma sembra un brav’uomo.”

Il treno dei pensieri di Riza fu fermato dalle parole di Mustang, che la bloccarono, mentre stava sciacquando la sua tazza.
Alla mente le tornarono i ricordi di grida disumane, odori nauseabondi e il terrore puro che regnavano quando suo padre si sentiva vicino alla soluzione finale, ma non era in grado di afferrarla. Ricordava il rumore dello studio che veniva messo a soqquadro, i libri lanciati contro le pareti e le urla di frustrazione che echeggiavano per tutta la casa, e che arrivavano anche sotto il tavolo dove Riza si nascondeva per sfuggire a quel caos.
Odiava che Roy Mustang non avesse ancora capito con chi avesse a che fare, ma soprattutto odiava che questa buona impressione che suo padre aveva dato a quel ragazzo fosse ancora una volta la dimostrazione che per lui un allievo di alchimia era più degno di attenzioni di sua figlia.
Si avvicinò alla porta, voltandosi verso Mustang.
“Mi creda, Roy; lei deve ancora conoscerlo. Quando gli verrà una delle sue crisi… non venga a nascondersi con me sotto il tavolo.”

Roy si voltò di scatto , ma lei era già sparita.
“Nascondersi sotto il tavolo? Chissà cosa intendeva…”









Note dell'Autrice

Okay, ammetto che questo capitolo è stato un vero e proprio parto.
Non so ancora come mai mi sia lanciata in questa long, ma sinceramente non riuscivo proprio a farne a meno.
Lasciando perdere gli sproloqui, vorrei parlare brevemente di questo capitolo.
Questa volta analizzo il rapporto affettivo padre-figlia. Riza vorrebbe che suo padre la guardasse, notasse e premiasse la dedizione con cui fa le pulizie, con cui cucina, e tutte le sue piccole vittorie, ma non è così. Lui in mente ha solo la sua alchimia, ed è per questo motivo che Riza la odia. Ovviamente, all'arrivo di Mustang, che in poco tempo riesce ad attirare su di sè l'attenzione del Maestro che lei non ha mai ricevuto, vederlo la manda in bestia. Perciò questo è un Hallelujah stizzito, arrabbiato, ma anche addolorato: Riza reputa ancora quell'uomo suo padre, ed è ferita dalla sua indifferenza.
Ovviamente il rapporto 'rose e fiori' tra Roy e Berthold (per questo nome il ringraziamento va a Laylath, che con Sniper's Soul mi ha letteralmente aperto un mondo) non durerà a lungo; infondo Riza conosce bene suo padre e i suoi demoni.
Per quel che riguarda la citazione, ho fatto un parallelismo: David è Roy, il Signore è  Berthold e la musica, ovviamente, è l'Alchimia.
Fatemi sapere cosa ne pensate, mi farebbe molto piacere.
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** #2 - Homework ***


Hallelujah
#2 – Homework
You say I took the name in vain
I don’t even know the name
But if I did, well really, what’s it to you?

Era passato un mese dall’arrivo di Roy, e Riza piano piano si stava abituando alla sua presenza. Ormai non faceva più caso alla spropositata quantità di panni da lavare – ma quel ragazzo quanto si cambiava? – e al caos che regnava continuamente nella stanza del giovane, che sembrava incapace di gestire quei tre metri quadri in cui dormiva.
Si era rassegnata anche al fatto che il ragazzo non riuscisse proprio a mangiare i pomodori: questa la trovava una cosa vagamente infantile, ma non aveva protestato quando Roy le aveva chiesto di non cucinarli.
Infondo, non è che piacessero granché nemmeno a lei.

Quel giorno era rientrata in casa verso mezzogiorno, dopo aver passato la mattinata alla scuola del paese. Sapendo che né Roy né Berthold erano soliti mangiare presto, e che probabilmente si trovavano entrambi nello studio del Maestro, decise di non disturbarli e riassettare la cucina, mentre rifletteva su cosa preparare.
Ad un certo punto un brivido le corse lungo la schiena, ed ebbe la netta sensazione che qualcuno fosse in piedi, dietro di lei.
Si avvicinò al piano cucina con passi lenti e misurati, trattenendo il respiro. Con una mano aprì il cassetto delle posate, ed estrasse un coltello da cucina. Contò fino a tre, e poi si voltò.
Rizaaa, dimmi che stai cucinando…”

Davanti a lei, Roy la stava fissando con una faccia estremamente annoiata. Il tono di voce era cantilenante e vagamente canzonatorio, e lei alzò gli occhi al cielo.
“Signore, non dovrebbe essere con mio padre, a studiare?”

Roy fece un sorrisetto, poi si voltò di lato, fissando fuori dalla finestra.
“Il tu, Riza. Quante volte devo ripetertelo ancora?”

La ragazzina alzò le spalle, notando ancora una volta che quell’espressione divertita non lasciava il viso di Roy. Quando il ragazzo era di quell’umore, farlo lavorare era una cosa impossibile. Sarebbe stata una lunga giornata.
“Non hai risposto alla mia domanda, comunque.”

Il ragazzo si voltò soddisfatto e, con un gesto elegante, spostò la sedia del tavolo e si sedette a guardarla.
“Il Maestro mi ha letteralmente sbattuto fuori dall’aula insieme ad un libro. Ha detto che doveva lavorare a qualcosa per cui non ero ancora pronto e che, se mai avessi voluto esserlo, avrei dovuto studiare quel libro da cima a fondo, prima. Dannato alchimista.”

Una smorfia gli comparve sul viso, e Riza quasi rise per l’espressione che aveva fatto. Poi però rifletté meglio sulle sue parole, e giunse alla conclusione che fosse meglio avvertirlo del probabile cambio di umore di Berthold che li attendeva nei giorni successivi.
“Quando mio padre lavora su questo genere di cose, è il caso che non venga disturbato. Ha un carattere molto volubile, soprattutto se si tratta di alchimia e soprattutto se si tratta della sua ricerca.”

Roy annuì; infondo anche lui, in quel mese, aveva avuto modo di incontrare quella parte del Maestro, ma si era solo limitato a sgridarlo per essere troppo lavativo o troppo entusiasta durante le sue lezioni.
“Ad ogni modo, non mi sembra che tu stia studiando il suddetto libro. Vai a prenderlo e siediti qui: ci vorrà ancora un’oretta prima che il pranzo sia pronto, e ti lascerò studiare con tutta calma.”

Roy provò a protestare, ma Riza gli lanciò uno sguardo infuocato, così si alzò per recuperare il libro.




Il pranzo ormai era quasi pronto, e Riza era molto soddisfatta del suo lavoro. Visto che l’inverno si stava avvicinando, aveva optato per un passato di verdure – rigorosamente senza pomodori – che aveva un profumo davvero invitante.
“Quindi, l’idrogeno ha tre isop.. isot… Oh insomma! Cos’è che erano? Ah, isotopi.”

Riza alzò gli occhi al cielo; era la stessa scena che si era ripetuta per quasi tutto il tempo. Sembrava che Roy non riuscisse proprio a memorizzare quelle poche righe che parlavano dell’idrogeno.
“Okay, va bene, sono isotopi. Adesso come si chiamano. Puoi farcela, Roy.”

La ragazzina corrugò la fronte. Quella era un’altra cosa della quale in quel mese si era resa conto: Roy pensava sempre a voce alta.
“Dunque, sono prozio, deur… deut… deutronio e trizio!”
“Deuterio.”

Riza si accorse solo dopo di aver parlato, e si portò le mani alla bocca con imbarazzo. Roy, perso tutto l’entusiasmo la fissava con la bocca aperta. Guardò il libro, poi di nuovo lei, e socchiuse gli occhi.
“Come fai a saperlo?”

Riza, facendogli cenno di togliere il libro dal tavolo, stese la tovaglia e cominciò ad apparecchiare.
“Sei rimasto fermo su quella pagina per quaranta minuti. Camminando per la cucina, l’ho riletta otto volte.”
“E l’hai capita?”
“In parte. Ma non ci vuole molto ad imparare tre nomi.”

Roy si zittì, subendo la frecciatina. Poi, con voce prima petulante, in seguito aggressiva, cominciò a lamentarsi.
“Ma io non capisco perché dovrei studiare queste cose! Ho imparato a fare le trasmutazioni più semplici in pochissimo tempo e sono quasi perfetto in quelle più difficili, ma il Maestro si ostina a non volermi dire nulla sulla sua ricerca e su quale sia la sua alchimia!”

Sbatté il libro sul tavolo, nell’impeto della foga, e respirò affannosamente.
Riza lo fissava con gli occhi spenti, i piatti da mettere in tavola ancora in mano.
“Ha ragione mio padre a dire che lei non è pronto."

Il ragazzò si voltò verso di lei, incredulo.
"Provi ad usare la mente brillante che sono sicura possieda, e trovi da solo la risposta alla sua domanda. Gli alchimisti infondo si occupano della scomposizione degli elementi, no? Allora provi ad elaborare lei una teoria, per cui lo studio egli isotopi di idrogeno siano utili. E’ questo che mio padre vuole da lei. Ma, se gli dimostrerà che non è in grado, ci metterà ben poco a sbatterla fuori da questa casa. La normale alchimia è per tutti, gli studi di mio padre…decisamente no.”

La voce atona della ragazzina sorprese Roy, ma ancora di più il fatto che fosse tornata improvvisamente al lei; non l’aveva mai vista così coinvolta per qualcosa.
Un dubbio gli sorse spontaneo, e quasi non si accorse di aver parlato.
“Ma a te cosa importa? Se anche sbagliassi nome, non capissi, o mi dimostrassi troppo ottuso per la sua alchimia, perché la cosa dovrebbe interessarti?”

Riza arrossì un poco, e chinò il volto, stringendo ancora i piatti al petto.
“In questa casa si sta bene, ora. Non mi dispiace che lei sia qui. E preferirei che non se ne andasse.”

Roy la fissò confuso, mentre finalmente lei posava i piatti e andava a prendere posate e bicchieri.
Attese per un po’ che aggiungesse qualcosa, ma quando capì che, per quel pranzo, non avrebbe ottenuto nient’altro, si sedette ed aspettò che la ragazzina lo raggiungesse per mangiare.










Note dell'autrice
Siamo arrivati al secondo capitolo. Evviva!
Tralasciando la santa pazienza che ho dovuto metterci per scriverlo (c'è stata una catena di inconvenienti che chiaramente volevano impedirmi di riuscirci, non c'è altra spiegazione) vorrei parlare di alcune cose.
La scena riguarda una 'qualsiasi' giornata, dopo un mese dall'arrivo di Roy. I due si stanno ovviamente conoscendo, ma la cosa su cui c'è da focalizzarsi è la reazione di Riza al nuovo stile di vita: ora  in casa ha una persona che le rivolge parola, le fa richieste e dimostra di essere viva. Lei trova questo cambiamento stimolante: le pulizie in casa in funzione del caos che Roy genera, l'attenzione nella cucina sulle cose che al ragazzo non piacciono, e così via.
(Aggiungo brevemente che mi sembrava carino il fatto che Roy, da ragazzino di città, non sopportasse i pomodori. E' un aspetto che verrà recuperato prossimamente.)
Ad ogni modo Riza si trova ad apprezzare il contatto umano all'interno della sua casa, per cui all'ipotesi che Roy se ne vada, reagisce ammettendo questo bisogno di una presenza.
Per quel che riguarda la citazione, è un riferimento all'ultima parte del capitolo, ovvero il discorso di Roy.
Un'ultima cosa: io credo che Riza sapesse, almeno in parte, di cosa trattasse l'alchimia di suo padre. Il fatto che la odiasse non vuol dire che non sia mai venuta a conoscenza di cosa lui stesse studiando. Inoltre credo che Berthold non abbia spiattellato in faccia a Roy l'Alchimia di Fuoco immediatamente: come lo stesso Roy dice nel manga, Berthold gli ha "insegnato solo le basi", ma gli avrà parlato anche dei suoi studi, in seguito, senza però rivelargli la formula.
Ho inserito anche una scena in cui Riza obbliga Roy a studiare: credo che questo, infondo, sia una cosa che nella loro vita è sempre stata così.
Avverto che il prossimo capitolò sarà legato strettamente al corrente.
Lasciate commenti, e fatemi sapere che cosa ne pensate!
A presto.
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** #3 - The Tempest ***


Hallelujah
#3 – The Tempest
Well, it goes like this, the fourth, the fifth,
The Minor falls, and the Major lifts
The baffled King composing Hallelujah

Riza aveva passato tutto il pomeriggio a fare il bucato, senza dire una parola.
Roy aveva accettato di buon grado questo suo silenzio e, dopo il discorso fatto quella mattina, aveva preferito lasciarla in pace.
La ragazzina, dal canto suo, non poteva che dirsi sollevata da questo.

Ma le faccende di casa erano ben presto finite e ora, di fronte a lei, seduta sul letto con le ginocchia strette al petto, si stagliava solamente una fioca candela che lei fissava da quasi un’ora, ripensando alle parole che aveva detto al ragazzo.
‘Ma cosa diamine mi è preso?’

Una smorfia le contrasse il volto, mentre ripensava alle parole non proprio gentili che quella mattina le erano sfuggite di bocca, e che ancora faticava a realizzare di aver detto. In particolare, non riusciva a togliersi dalla testa le parole ‘Ha ragione mio padre a dire che lei non è pronto.’.
Strinse ancor di più le ginocchia al petto, contraendosi per un brivido gelido lungo la schiena causato dal pensiero di essere d’accordo con suo padre. Era una di quelle cosa che mai si sarebbe aspettata di pensare.

‘D’accordo non è proprio corretto.’ Pensò ‘Diciamo più che sono arrivata alla stessa conclusione.’

E la conclusione era che Roy Mustang, quell’infantile, borioso, ma gentile narcisista che viveva con lei da più di un mese, non avrebbe mai dovuto essere pronto per l’alchimia di suo padre.
Chiuse gli occhi e un pensiero le passò la mente, veloce come una freccia. Nello studio di suo padre, al posto di una chioma biondo spento c’erano dei sottili capelli neri. Gli occhi che la fissavano, sollevandosi stanchi dai libri, non erano più azzurro cielo, ma neri come la pece. E la voce che la chiamava per nome, un tempo calda e dolce, era solo un roco sussurro.
‘Riza…’

Aprì gli occhi di scatto, scuotendo la testa con veemenza. Non avrebbe mai lasciato che Roy diventasse come suo padre.
“Riza, è tutto a posto?”

Mustang la fissava dall’uscio della sua camera da letto. Riza sobbalzò, vedendolo.
“Ero venuto per darti la buonanotte, ma sembravi molto… pensierosa. Non volevo disturbarti.”
‘Allora non me lo sono sognata, mi ha davvero chiamata.’

Fissò il pavimento per un secondo, poi sospirò.
“Non fa nulla. Buonanotte, Roy. A domattina.”

Il ragazzo annuì mestamente, e chiuse la porta dietro di sé.
Riza con un soffio spense la candela, poi si gettò sotto le coperte.




Era notte fonda, e un gufo fuori dalla finestra bubolava tristemente. Riza non aveva ancora chiuso occhio.
Uno strano senso di inadeguatezza si era impossessato di lei e la teneva legata all’altezza del petto, come un boccone che faticava a deglutire. Si rigirò nel letto, sperando che una posizione diversa avrebbe fatto scomparire quel malessere, ma non funzionò.

Ad un tratto il gufo si zittì, ed un silenzio innaturale calò sulla casa. Riza si drizzò improvvisamente, come se sentisse che qualcosa stava per succedere. Scivolò fuori dalle coperte e, mentre metteva i piedi a terra, un urlo squarciò l’immobilità della casa.
Era un grido disumano, che sembrava provenire dritto dall’inferno, e Riza credette fermamente che qualcosa del genere potesse essere unicamente demoniaco.
Un secondo verso si aggiunse al precedente, carico di frustrazione, rabbia e disprezzo, più qualcos’altro che Riza non era in grado di identificare.
Corse fuori dalla sua camera e si fermò di fronte alla porta della stanza dalla quale le grida venivano.
Ora che si trovava così vicino, oltre ai suoni riusciva a distinguere della parole.
“Così vicino…manca così poco! Perché?! Perché mi sfugge?!”

E le grida continuavano, mentre la rabbia di Berthold Hawkeye per la sua ancora incompleta ricerca si riversava sulla figlia, immobile davanti a quel legno consunto dal tempo e dagli acari.

E così l’alchimia aveva vinto ancora una volta in quella casa. Era riuscita di nuovo a portare con sé il senno di suo padre e la sua stessa innocenza da bambina undicenne.
Si era impossessata della quiete notturna, l’aveva squarciata come un fulmine e l’aveva lasciata lì, sotto una pioggia di grida di dolore.

Riza non si accorse né delle lacrime che ormai le rigavano il volto, né di Roy, che era comparso infondo al corridoio. Quando lui chiamandola alzò la voce, per sovrastare quelle urla, la ragazzina si voltò tremante, mentre le mani stringevano convulsamente la camicia da notte.
Lo guardò confusa, quasi furiosa del fatto che lui fosse lì, ad assistere al suo crollo emotivo. Gli lanciò uno sguardo implorante, prima di fuggire via, in una corsa incontrollata per la casa, fino ad arrivare alla cucina, a quel tavolo, che a lungo era stata la sua unica protezione.
Si accovacciò sotto di esso, stringendo le ginocchia al petto, mentre dei forti tremiti la scuotevano e le facevano battere i denti. Chiuse gli occhi e si tappò le orecchie con le mani, ma le grida continuavano.

Ad un certo punto, una presenza entrò nel suo spazio personale e si mise al suo fianco.
Riza alzò lo sguardo, e vide che Roy l'aveva raggiunta sotto al tavolo. I suoi occhi  fissavano il vuoto di fronte a lui.
“Fa… fa paura anche a me.”

La voce del ragazzo tremava, ma il suo corpo era fermo, immobile. Riza, invece, era ancora scossa da spasmi violenti, e le lacrime correvano sul suo volto. Roy si voltò con una lentezza esasperante, e la fissò intensamente.
Anche se erano sotto ad un tavolo, nel bel mezzo della notte, al buio più completo, Riza riuscì vedere nei suoi occhi una scintilla luminosa, a cui ancora non riusciva a dare un nome.
Il labbro del ragazzo tremò debolmente, mentre si avvicinava con il viso alla ragazzina.
“Vuoi che ti abbracci?”

Quella domanda ebbe il potere di fermare il tremito che scuoteva Riza.
Nessuno mai le aveva chiesto una cosa simile, almeno non da quando sua madre era morta. Una parte di lei continuava a gridarle di rifiutare, di allontanarsi da quel tavolo e da lui.
Ma la parte che prevalse fu quella a cui il contatto umano mancava da troppo, troppo tempo.
Così fece scivolare le sue gambe ormai poco tremanti su quelle del ragazzo e si accoccolò contro il suo petto, mentre lui la cingeva con una mano sulla spalla e una sul fianco. Le mani strinsero il tessuto, e si fece sempre più piccola in quella stretta.
Immediatamente la maglia del ragazzo si bagnò di lacrime, ma i respiri di Riza erano tornati più regolari.
Quando smise di piangere, si accorse che anche il ragazzo, la testa immersa nei corti capelli di lei, aveva gli occhi umidi di pianto. Per un breve istante, Riza si chiese se quell'abbraccio fosse servito più a lei o a Roy. Poi cadde tra le braccia di Morfeo.
Rimasero lì per un tempo interminabile, anche quando le urla si interruppero e il gufo ricominciò il suo lamento notturno.

L’alba li illuminò così, mentre erano ancora stretti in quell’abbraccio, sotto al tavolo della cucina di una casa ormai silenziosa.
















Note dell'autrice
Sono finalmente arrivata infondo a questo dolorosissimo capitolo, in tutti i sensi.
La scena era così limpida e chiara nella mia mente, ed ho la tremenda paura di non essere stata in grado di descriverla con quella durezza e quel realismo necessari per far 'passare il messaggio'.
Questa volta, penso che partirò dalla spiegazione della citazione.
Come Cohen rivelò nelle interviste, questi versi, in cui scrive i veri e propri cambi di tono della melodia (la quarta, la quinta -nota-; il minore, il maggiore -accordo-) vogliono esprimere il ritmo che si alza, una vera e propria elevazione, la tensione che aumenta sempre di più. Il che si collega alla crisi di Berthold che rompe la quiete della notte ed è un crescendo di emozioni, per Riza.
Poi dice 'the baffled king composing Hallelujah'. Qui, baffled va tradotto come confuso, sconcertato, frastornato. Si può riferire sia a Berthold, che è in preda al delirio, sia a Riza, che è sconvolta dalla crisi del padre.
E' la prima vera volta che Roy assiste ad uno dei deliri del maestro. E' spaventato anche lui da quelle grida disumane, in particolar modo perchè non aveva realizzato quanto l'ossessione di Berthold lo dissociasse dalla realtà, e soprattutto non aveva realizzato quanto ciò turbasse Riza.
Come avete visto, ho recuperato il ricordo di quando Riza, nel primo capitolo, aveva detto "Quando gli verrà una delle sue crisi...non venga a nascondersi con me sotto il tavolo".
Non sarà né la prima, né l'ultima volta che recupero un elemento dai capitoli precedenti.
Detto questo, spero che il significato di questo capitolo sia abbastanza chiaro. Se ci dovessero essere dubbi o perplessità, aspetto le vostre domande.
A presto.
-Elizabeth

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** #4 - The Story ***


Hallelujah
#4 – The Story
Well, Baby, I’ve been here before
I’ve seen this room, and I’ve walked this floor
I used to live alone before I knew you.

Roy si svegliò con il collo indolenzito, la maglia del pigiama umidiccia e una strana sensazione di caldo addosso.
Aveva mosso un braccio, e qualcosa accasciato su di lui si era lamentato, così il ragazzo aprì gli occhi per controllare.
La prima cosa che vide furono i capelli biondi di Riza, un po’ spettinati, a pochi centimetri da lui. Poi, alzando lo sguardo, si accorse di essere sotto il tavolo della cucina. Si irrigidì, ripensando alla sera precedente, e a quello che era successo.
Sembrava quasi irreale la calma che ora regnava in quella casa.
Poi il suo sguardo tornò in basso, al viso ancora addormentato della piccola Riza. Sembrava un angioletto, con quell’espressione rilassata dipinta sul volto.
Lentamente, per non svegliarla, mise una mano sotto le ginocchia della ragazzina, e si trascinò fuori da sotto il tavolo. Si alzò in piedi, barcollando pericolosamente sotto il peso di Riza, ma non cadde. Avanzò fino alla stanza della ragazza e lì la depose sul suo letto, per poi rimboccarle le coperte.
‘Anche se ormai è giorno,’ pensò ‘Meglio lasciarla dormire ancora un po’. Ha passato una notte difficile.’
Così uscì dalla stanza, intenzionato – almeno per un giorno – a preparare la colazione a quella ragazzina che ogni mattina si occupava diligentemente di lui.



Circa mezz’ora dopo, la cucina di casa Hawkeye sembrava un campo di battaglia. Il latte caldo era per metà versato sui fornelli, e la marmellata alle prugne con cui Roy voleva preparare dei panini era inspiegabilmente finita ovunque. Il ragazzo si guardò attorno confuso.
‘Evidentemente ho sottovalutato la difficoltà della situazione.’

Mentre Roy rifletteva su come risolvere la situazione, il gorgoglio della caffettiera interruppe i suoi pensieri. Tutto contento, si avvicinò a quel disastro di fornelli.
‘Almeno il caffè è venuto bene!’
Afferrò la caffettiera, e quasi gli cadde di mano.
“Maledizione!”

Le sue imprecazioni furono interrotte da una risata cristallina.
“Forse, per afferrare la caffettiera bollente, dovresti usare una presina!”

Roy, che ancora si teneva la mano, si voltò, e l’immagine che gli si parò da vanti scacciò tutto il malumore. Riza era in piedi, sulla soglia della porta, i capelli arruffati e la camicia da notte tutta sgualcita; ma rideva. Il suono di quella risata gli scivolò per tutta la schiena, come una carezza morbida. Chinò lo sguardo e sorrise.
“Buongiorno, Riza!”
“Buongiorno anche a te Roy. Ma spiegami il motivo di questo disastro!”

Roy osservò imbarazzato lo stato pietoso della cucina, e alzò le spalle sorridendo con aria di sfida.
“Beh, questo sarebbe un tentativo di preparare la colazione. Ma, immagino che anche i fornelli volessero del latte.”

Riza fissò sconsolata il disastro, poi si avvicinò piano piano. Cominciò a pulire prima il tavolo, dove mise la caffettiera con due tazze, e poi si diresse verso i fornelli.
“Vuoi una mano?”

Riza si voltò con uno sguardo infuocato, ma poi sorrise.
“Non credi di avere già fatto abbastanza?”

Roy alzò le braccia in segno di resa, e si sedette.
Quando la cucina fu pulita e i due ebbero cominciato la colazione, calò il silenzio. L’atmosfera allegra era scomparsa, e ora i due si fissavano periodicamente, distogliendo lo sguardo non appena si accorgevano di essere guardati. Riza percepiva che Roy volesse chiederle qualcosa riguardo a quella notte, ma si sentiva imbarazzata al solo pensiero. Roy, dal canto suo, capiva che Riza non volesse parlarne, ma si doveva mordere le labbra per non partire all’attacco con mille e più domande.
La tensione che si stava creando fu spezzata da un sonoro starnuto di Riza, che le fece cadere di mano il panino con la marmellata.
Roy cercò di non ridere.
“Spero non ti sia raffreddata… sai, il pavimento può essere davvero freddo, a volte. Soprattutto con l’inverno che si avvicina.”

Riza fece una smorfia e fece per ribattere, ma fu interrotta da un altro starnuto. Questa volta però, non suo. Sorrise vittoriosa, prima di alzarsi per prendere le stoviglie da lavare.
“Non mi sembra che tu sia in condizioni migliori. Puoi non preoccuparti della mia salute.”

Fece per andarsene dalla stanza, ma Roy la fermò per un braccio.
“Come stai? Sono serio. Non parlo di influenza o di raffreddori.”

Lei tornò sui suoi passi, e appoggiò le mani sullo schienale della sedia, sospirando.
“Mi dispiace che abbia assistito a… a quella cosa, ma…”
“Non c’è bisogno che ti scusi.”

Riza alzò gli occhi a fissarlo, e vide che si stava tormentando le mani, anche lui a disagio da quella conversazione.
“Si vede che la cosa non ha fatto piacere nemmeno a te, anzi mi sembravi parecchio, ehm… turbata, questa notte. Ma non ti prenderò in giro su quello che è successo, puoi stare tranquilla.”

Riza lo guardava confusa. Scosse la testa e, sempre più imbarazzata, cominciò inavvertitamente a dare del lei a Roy.
“Non si deve preoccupare, davvero. Anzi, io la devo ringraziare. Ieri sera mi ha davvero ehm, aiutata. Probabilmente, se non fosse intervenuto, avrei passato la notte insonne.”

Roy sospirò, e si accasciò sulla sedia.
“Non credo di meritare dei ringraziamenti; chiunque avrebbe fatto lo stesso.”

Riza annuì e si mise guardare intensamente il soffitto, ma nessuno dei due si mosse.
“Da quanto va avanti così?”

Roy la fissò mentre guardava fuori dalla finestra, improvvisamente incuriosita da qualcosa.
“Ha cominciato in seguito alla morte di mia madre. Anche prima stava sempre chiuso nella sua stanza, ma non aveva mai avuto delle reazioni di questo genere. Immagino che sia stato questo il suo modo di reagire alla morte di Elizabeth.”
“Elizabeth. Un nome bellissimo. Di cosa è morta?”
“Tisi.”

Rabbrividì, ricordandosi della malattia della madre. Tutte le difficoltà del periodo, compresa l’indifferenza del padre, le tornarono alla mente come piccoli aghi sulla pelle. Quell’uomo era stato assente anche mentre la moglie moriva.
“Deve sapere, Signore, che mio padre non è mai stato un uomo molto presente. Io mi sono…abituata, all’idea di vivere praticamente da sola, ed è solo in questi momenti che la sua presenza si manifesta. Io spero che lei non ne sia rimasto troppo turbato, e non decida di andarsene.”

Roy rise, stiracchiandosi le braccia, per poi alzarsi. Decise di lasciare cadere la conversazione, per non forzare troppo le cose. Guardò fuori dalla finestra il sole che si era alzato completamente, e sorrise sornione.
“Non mi sognerei mai di lasciarti qua da sola. Ti dimenticheresti sicuramente di cose importanti, come ad esempio il fatto che dovresti andare a scuola. Hai intenzione di bigiare, per caso?”

Riza scattò in piedi e corse i camera a cambiarsi, mentre Roy rideva.
Mentre usciva di casa di corsa, pensò a ciò che lei e quello scalmanato si erano detti.
‘Ero abituata a vivere da sola, prima di incontrarla, Roy,’ rifletté sorridendo ‘E adesso, non credo di potermi immaginare senza di lei al mio fianco.’














Note dell'autrice:
Capitolo di transizione, che conclude la parabola cominciata nel secondo. Adesso probabilmente ci saranno dei salti temporali, ma vedrete bene in seguito.
Non penso ci sia molto da dire, visto che la maggior parte dell'azione si è svolta nel capitolo precedente.
Ad ogni modo anche qui la citazione è legata alla scena, come si può intuire dall'ultima frase, che riprende quasi del tutto l'ultimo verso della strofa. In effetti, con questo capitolo, volevo un po' sottolineare la dipendenza che si sta creando nel rapporto tra i due.
Il riferimento al nome Elizabeth e il fatto che Roy dica che è bellissimo, non prendetelo come un'autocelebrazione. Non era sicuramente quella la mia intenzione, anzi, mi sono accorta successivamente dei fraintendimenti che potevano derivare dal fatto che fosse anche il mio username.
Come al solito, in caso di dubbi, scrivete pure nelle recensioni!
Detto questo, vi saluto.
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** #5 - The Birthday ***


Hallelujah

#5 – The Birthday
I did my best, it wasn’t much.
I couldn’t feel, so I tried to touch.
I’ve told the truth, I didn’t come to fool you.

Era passato quasi un anno dall’arrivo di Roy. Le giornate erano tornate ad essere lunghe e luminose ed il caldo afoso di Agosto tormentava le campagne pianeggianti dell’Est.
Le truppe dell’esercito marciavano sotto il sole, godendosi le ombre occasionali degli alberi verdeggianti. Le voci, ancora entusiaste e elettrizzate si spandevano per i campi.

Riza socchiuse gli occhi, beandosi della freschezza delle lenzuola. Poco dopo avrebbe dovuto alzarsi, preparare la colazione e darsi da fare per…
“Riza!”

Roy entrò spalancando la porta, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto. Gli occhi erano luminosi, sembravano due perle nere. Indossava una camicia bianchissima e dei pantaloni formali scuri, mentre sul braccio teneva una giacca, decisamente eccessiva per le temperature della stagione.
“Forza svegliati! E’ il mio compleanno!”
“Come se potessi dimenticarmelo…”

Da una settimana a quella parte, infatti, Roy aveva svegliato Riza in quel modo ogni mattina, per renderla partecipe del conto alla rovescia al compimento del suo sedicesimo compleanno.
La ragazza scostò le coperte e si alzò sbuffando.
‘Le sue solite manie di protagonismo.’

Mentre lei preparava la colazione, Roy passeggiava avanti e indietro per la cucina, masticando un panino alla marmellata. Un’espressione inebetita non accennava a lasciargli il volto, e Riza fu tentata di lanciargli qualcosa, per destarlo da quello stato.
“Allora, che piani hai per oggi?”

Roy sorrise, mentre la ragazza gli versava il caffè nella tazza.
“Dopo colazione, passerò all’Ufficio Postale. Poi farò una passeggiata in paese, sia mai che incontri una ragazza interessante. Tornerò a casa per pranzo!”

Riza scosse impercettibilmente la testa in segno di disapprovazione, e si sedette di fronte a lui.
“Cosa vai a fare all’Ufficio Postale?”
“Aspetto un pacco da Central.”

Riza si concentrò sul fondo della propria tazza. Nonostante fosse una settimana che Roy le ricordava il suo compleanno, lei non aveva ancora deciso che genere di regalo fargli.
Fissò la sciarpa di lana azzurra, immobile nell’appendiabiti all’ingresso, che Roy le aveva donato quell’inverno: era stato un regalo di compleanno bellissimo, che lei aveva apprezzato con tutta se stessa. Avrebbe tanto voluto trovare qualcosa che piacesse altrettanto a lui.
Roy la salutò e si diresse tutto pimpante verso al paese, mentre nella testolina di Riza cominciava a formarsi un’idea.




Roy rincasò a mezzogiorno in punto, con un pacco e la giacca in una mano. Posò il pacco sul mobiletto all’ingresso, facendo attenzione a non rovinarlo. Due lacrime di sudore gli colavano lungo la fronte, mentre con una mano tentava di sganciare i bottoni del colletto della camicia ormai sgualcita.
“Riza, sono tornato.”

Dalla cucina proveniva una melodia allegra, che il ragazzo riconobbe come una delle preferite di Riza. Si affacciò curioso, e rimase a bocca aperta. “Oh, scusami Roy, non ti avevo sentito! Forse è meglio che io abbassi un po’ il volume.”

Riza, con il solito grembiule azzurro, si allontanò dalla tavola apparecchiata con cura per avvicinarsi al cassettone, dove una piccola ma graziosa radio trasmetteva una stazione di musica classica. Vedendo il ragazzo un po’ confuso, Riza gli si avvicinò e gli prese la giacca dalle mani, per poi spedirlo gentilmente a farsi una doccia.
Intanto lei avrebbe finito le ultime decorazioni alla torta che doveva giusto tirare fuori dal forno.

Quando finalmente Roy si sedette a tavola, Riza cominciò a servire il pranzo. Era tutto preparato con estrema cura, e il ragazzo si sentiva davvero lusingato di questa attenzione che la piccola Riza aveva messo in ogni cosa. Mangiarono parlando del più e del meno, mentre lui le raccontava dei regali arrivati da Central e dei drammi delle comari all’Ufficio postale.
Ad un certo punto, però, Roy si immobilizzò, fissando il piatto che Riza gli aveva appena posato davanti.
“Mi stai prendendo in giro, per caso?”
“Assolutamente.”

Il ragazzo fece scendere lo sguardo sui pomodori nel piatto, per poi farlo tornare su di lei, fissandola dubbioso. Dal canto suo, Riza fece un sorriso malizioso, mentre tornava a sedersi.
“Non compi sedici anni oggi? Mi sembra che tu sia abbastanza maturo per mangiare i pomodori senza lagnarti.”

Roy fece una smorfia, non sapendo che cosa risponderle. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu zittito subito dalla ragazzina.
“Non ci provare. Se non li mangi non potrai avere né la radio, né la torta.”

Sentendo parlare di torta gli occhi del ragazzo si illuminarono, ma vedendo che Riza pareva irremovibile, sospirò, e con un espressione afflitta cominciò a mangiare i pomodori, mentre lei lo fissava soddisfatta.
Quando finalmente li ebbe finiti, la ragazza portò in tavola la torta. Era piccola e molto semplice, fatta di cacao e cereali. Uno strato di crema all’uovo decorava la superficie, dandole un aspetto più delicato. 
Roy non esitò a prendere un coltello e a tagliarsi la prima fetta.
“Buon compleanno, Roy.”

Il ragazzo le fece un enorme sorriso, e Riza sentì il cuore stringersi un po’.
“So che non è molto, ma ho cercato di fare del mio meglio. La radio l’ho trovata in soffitta, non veniva usata da molto tempo, per cui non ero sicura che funzionasse, ma fortunatamente è ancora in buono stato. Ho pensato che ti sarebbe piaciuto averne una. Apparteneva a mia madre, ma puoi usarla quanto vuoi.”

Roy finì la fetta di torta e si pulì gli angoli della bocca con il tovagliolo, e poi alzò lo sguardo su di lei.
“Invece hai fatto moltissimo, e l’ho apprezzato. La torta, e anche l’intero pranzo, erano squisiti. Sei un’ottima cuoca, davvero.”

Riza arrossì un poco e si strinse nelle spalle, sorridendo imbarazzata.
“Per quel che riguarda la radio, è il regalo migliore che potessi farmi.”

La ragazzina sospirò sollevata, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia. Era davvero felice che quel regalo gli fosse piaciuto. Sentiva un’ondata di soddisfazione, data dalla consapevolezza di aver fatto un regalo che Roy aveva apprezzato così tanto; si sentiva capace di fare qualcosa di valore.
Più che mai, si rese conto di quanto quel ragazzo la facesse sentire in grado di realizzare qualcosa di buono.

Roy si alzò all’improvviso, e di istinto Riza si drizzò a sua volta. Il ragazzo si diresse verso di lei, e quando le fu arrivato vicino, la abbracciò forte.
“Hai reso questo compleanno davvero speciale, Riza. Ti devo tutto.”

Lei chiuse gli occhi, beandosi della sensazione di calore che si irradiava dal suo petto.
















Note dell'Autrice:
So di avervi fatto aspettare un po' di più per questo capitolo, ma fra scuola e cose varie ho fatto davvero fatica a scriverlo.
E' un capitolo che, seppur semplice, è il punto di partenza per diversi avvenimenti che seguiranno.
E' ambientato circa un anno dopo l'arrivo di Roy, quindi siamo nel 1901, ovvero l'anno di inizio della guerra di Ishval, che proseguirà per i successivi sette. E' importante ricordare questa cosa, perchè la guerra è un avvenimento che si insinuerà piano piano nella vita di questi due ragazzi, fino a diventarne parte inscindibile. 
Sottolineo ancora una volta, aiutata dalla citazione, il legame che lentamente si intensifica, da entrambe le parti.
Ho volutamente lasciato fuori qualsiasi riferimento a Berhold: volevo descrivere il compleanno di Roy facendolo apparire come una momentanea campana di vetro, lontana da tutte le compliczioni esterne, che in futuro torneranno più prepotenti che mai.
Direi che ho detto tutto, ci vediamo presto!
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** #6 - Wounds ***


Hallelujah

#6 - Wounds
And it’s not your cry that you hear at night,
It’s not somebody who has seen the light,
It’s a cold and it’s a broken Hallelujah.

L’inverno era ormai alle porte; i primi geli avevano lasciato un bianco velo sull’erba dei prati e gli alberi stavano abbandonando le ultime foglie. Il sole brillava spento, e sembrava ancora più debole e lontano di quanto non fosse, dalle finestre opache della cucina.
Roy, una tazza di caffè fra le mani e Alchimia Avanzata aperta sulla stessa pagina da un’ora, fissava il cielo plumbeo fuori dalla finestra, varcato ogni tanto da qualche filo di fumo nero in lontananza.
Riza era ancora a scuola, e lui si stava annoiando terribilmente. Quel mattino Berthold era stato ancora più freddo e spiacevole del solito, sbattendolo fuori dal suo studio in fretta con quel libro in mano. Lui, dal canto suo, s’era messo il cuore in pace e aveva cominciato a studiare.
Aveva più volte acceso la radio, ma tutte le trasmissioni parlavano della Guerra dell’Est, e Roy era decisamente schifato da tutta quella propaganda nazionalista, soprattutto dopo aver visto i carri dei feriti attraversare il paese, qualche settimana prima. Non si sarebbe dimenticato facilmente quei volti stanchi e spaventati, sporchi di sangue e lacrime, immobili di fronte alla morte che aveva bussato alla porta.
‘Questa guerra logorante sembra non portare a nulla. Ci dev’essere un modo per portarla a termine nel migliore dei modi, per limitare i danni e le vittime…’

Sbuffò e chiuse il libro, sollevando la tazza ormai vuota e posandola nel lavandino. Rifletté se lavarla o meno, per poi lasciarla lì.
Tanto se ne può occupare Riza.

Nemmeno a farlo apposta, la porta d’ingresso si aprì di colpo e la ragazza entrò in casa. Lasciò cadere la cartelletta di fianco alla porta e proseguì lungo il corridoio, senza nemmeno voltarsi.
Roy si voltò a fissare il vecchio pendolo del salotto e si accorse che si era fatto tardi, insolitamente tardi.
“S-scusa Roy ma non pranzo. C’è dello… dello stufato nella pentola, puoi scaldartelo.”

E sparì lungo le scale.
Roy si affacciò nel corridoio, seguendola con lo sguardo, per poi appoggiarsi al muro e grattarsi la testa, dubbioso.
Era strano per Riza comportarsi così; di solito apprezzava molto il momento del pranzo e faceva di tutto pur di mangiare in compagnia.
Immerso nei suoi pensieri, tornò all’ingresso e raccolse la cartelletta che la ragazzina aveva abbandonato lì. Fece per sollevarla, ma notò che era sporca di terriccio. La osservò meglio e si accorse che in alcuni punti la pelle era rovinata, consunta.
Ancora una volta si sorprese, considerando il fatto che Riza era una ragazza molto ordinata e teneva particolarmente a tutte le sue cose e le trattava con estrema cura. Rimise la cartella per terra e tornò in cucina, sempre riflettendo.
Infondo, se voleva mangiare doveva pure scaldarlo quello stufato.


Si era chiesto più volte se portare qualcosa da mangiare o meno a Riza, ma alla fine aveva deciso di lasciarla stare. Evidentemente non aveva avuto una bella giornata e preferiva restare sola.
Però, Roy continuava a sentire un senso di fastidio nel petto, come se ci fosse qualcosa che non andava. C’erano troppi elementi che non quadravano nel comportamento di Riza, e non poteva ignorare il fatto di essere preoccupato.
Decise di andare in bagno e sciacquarsi il viso, per cercare di riprendere lucidità, ma mentre usciva dalla stanza sbatté contro Riza.
La ragazza emise un lamento sommesso e si scostò in fretta, voltando il viso verso la porta.
Ma era troppo tardi.
Roy le afferrò il mento con una mano e le girò il volto verso di lui, con uno sguardo impassibile.
“Che cos’è questo?”

Riza abbassò lo sguardo e restò zitta, mentre il labbro inferiore le tremava.
Un ematoma violaceo si allargava nel suo zigomo destro, accompagnato dai segni di un’abrasione.
Vedendo che Riza non rispondeva Roy ripeté la domanda.
“Un livido.”
“Ma davvero, Riza? E sentiamo, come te lo sei fatto?”

La ragazza fissò il vuoto di fronte e a sé, e Roy capì che non avrebbe cavato un ragno dal buco. Mollò il viso e le afferrò un braccio per smuoverla, ma non appena lo toccò Riza emise un gemito soffocato che le fece tremare le labbra.
Lui la fissò interdetto, poi alzò delicatamente la manica della maglia di Riza. Sul suo avambraccio scoprì un livido ancora più violaceo e gonfio, che doveva farle terribilmente male.
Sospirò e si passò una mano sul volto. Poi le indicò il bordo della vasca da bagno.
“Siediti qua e non ti muovere.”

Si girò e dal mobiletto del bagno estrasse del disinfettante, una pomata, delle garze e un asciugamano pulito. Cominciò disinfettando l’abrasione sul viso, per poi spalmare la pomata sui lividi. Infine con cura le fasciò il braccio, attento a non farle troppo male. Le chiese atono se fosse ferita da qualche altra parte, e lei sollevò la gamba sinistra, per mostrargli un’altra abrasione nel ginocchio.
Roy scosse la testa, e alzò gli occhi per guardarla, ma lo sguardo di lei era fisso nel vuoto e le labbra sigillate.
Finito il lavoro, si alzò e rimise a posto i medicinali. Riza scivolò silenziosamente fino alla soglia della porta, borbottò un ‘grazie’ e sparì.
Roy si sedette sul bordo della vasca e appoggiò le mani fredde sulla fronte, come a cercare di raffreddare la rabbia che gli stava cominciando a ribollire dentro.
‘Mio Dio, chi può avere fatto una cosa del genere…’




La cena fu incredibilmente silenziosa. Riza spiluccò solo qualche boccone del piatto che Roy le aveva messo davanti, e Roy dubitava che fosse per la scarsa qualità della sua cucina. Nessuno disse nulla fino a che Riza non gli chiese se poteva portare lui la cena a suo padre, per quella sera. Roy accettò senza problemi e Riza si ritirò nella sua stanza, augurandogli la buona notte.
Dopo aver lasciato un piatto nella stanza di Berthold, che nemmeno si era accorto del fatto che a portargli la cena fosse stato Roy e non Riza, il ragazzo si ritirò a sua volta in camera.
Indossò il suo pigiama a righe blu e azzurre, per il quale Riza spesso lo aveva preso in giro, ma che non sapeva fosse un regalo di sua zia,
la quale lo aveva cresciuto dalla morte dei suoi genitori.
Fissò nello specchio del comò il suo riflesso alla luce della luna, ma lo vide vuoto, come se ci fosse qualcosa che mancava.
Strinse le spalle e si sdraiò nel letto, le mani dietro alla nuca e lo sguardo verso il soffitto. Il sonno avrebbe faticato ad arrivare, quella sera.



Il vento gelido soffiava forte fuori dalla finestra, facendo sbattere le imposte fra di loro. Roy guardava la luna, nascosta a tratti dai battenti, che brillava solitaria nel cielo. L’unico rumore che si udiva era il fischio freddo del vento.
Ad un tratto dei gemiti si unirono a quel suono lugubre, come ad aggiungere note stonate ad una melodia bizzarra.
Roy si voltò verso la porta socchiusa, fissando il corridoio oltre all’uscio. Si alzò silenziosamente e uscì dalla stanza.
In corridoio i gemiti si facevano più forti, e Roy, suo malgrado, li riconobbe. Serrò le mani a pugno, perché non tremassero, e si avvicinò alla porta della stanza di Riza.
Quando socchiuse la porta per entrare, i gemiti si fermarono di colpo. Fissò la stanza, immersa nell’oscurità, e cercò di orientarsi.
Intravide il letto, e su di esso una figura raggomitolata su se stessa, che tremava debolmente. Si avvicinò a lente falcate e si adagiò sul bordo del letto, abbassando con il peso il materasso.
Vide il corpo di Riza stringersi ancora di più, e notò che tra le mani la ragazzina teneva qualcosa.
Alzò lentamente una mano e le accarezzò la testa, pettinandole i corti capelli biondi.
A Riza scappò un gemito, e riprese a tremare più forte.
“Ti prego, Riza. Dimmi cosa succede.”

La ragazzina non disse nulla, ma si girò completamente verso di lui. Gli occhi erano pieni di lacrime e il naso arrossato.
Roy le sorrise debolmente e tornò ad accarezzarle la fronte.
“C’entra con quei segni, vero? Non puoi raccontarmi cosa è successo? Tenersi tutto dentro fa male.”

Riza lo guardò con titubanza, indecisa se lasciarsi andare oppure no. Negli occhi di Roy rivide quella scintilla luminosa che tempo prima l’aveva convinta ad affidarsi a lui, a quelle braccia forti che l’avevano allontanata da ogni paura. Ora sapeva cos’era: fiducia.
Una parola speciale, con un significato che lei stava ancora scoprendo.
Si mise seduta, le spalle appoggiate allo schienale del letto, gli occhi fissi in quelli di Roy.
“Tutto è cominciato stamattina, mentre ero a scuola. Stavamo preparando i canti per la Festa d’Inizio Inverno di domani, e alcuni dei miei compagni hanno cominciato ad infastidirmi.”

Riza guardò verso la finestra, nell’oscurità della notte, e Roy decise di non interromperla, anche se stavano cominciando a formarsi alcune domande nella sua testa.
“All’inizio non gli prestavo molta attenzione: dicevano le solite cose su mio padre, la mia casa, il fatto che stessi spesso da sola. Poi uno di loro si è voltato verso gli altri, e ha detto che l’indomani sarei stata l’unica ad essere sola alla festa, perché nessuno sarebbe venuto ad assistere alla mia esibizione.”

Roy strinse le mani a pugno; Riza davvero sopportava quel genere di cose tutti i giorni, senza mai fiatare? Come poteva riuscirci?
La ragazza singhiozzò e attirò nuovamente la sua attenzione.
“Io… non so esattamente perché, ma in quel momento mi sono sentita abbastanza ferita. Così gli ho risposto che non sarei venuta da sola. E me ne sono andata.”

Strinse le labbra in una smorfia e scosse la testa.
“Sulla strada del ritorno, alcuni di questi ragazzi mi hanno seguita. Dicevano che non credevano a ciò che avevo detto, e che avrei dovuto dimostrargli che non sarei stata sola. Io mi sono voltata dall’altra parte e li ho ignorati, ma uno di loro non l’ha presa molto bene. Mi ha… mi ha spinta a terra, ho battuto il braccio contro un sasso che si trovava lì, ed è così che mi sono ferita anche il ginocchio.”

Roy annuì pensieroso, guardandola mentre, con le lacrime agli occhi, si apprestava a raccontare la parte peggiore della storia.
“Una volta caduta a terra, anche gli altri si sono avvicinati. Gridavano insulti di ogni genere, molti nemmeno ho capito cosa dicessero. Uno di loro mi ha lanciato un sasso, che mi ha colpita sul viso. Anche allora, non ho pianto, nemmeno per un secondo.”

Lo sguardo che Riza aveva negli occhi in quel momento era di determinazione, una luce splendente che pareva poter ardere all’infinito.
Improvvisamente, si rabbuiò, e ricominciò a tremare.
“Ero… ero ancora a terra, quando uno di loro si è avvicinato. Io mi stavo sistemando la sciarpa, controllando che non si fosse rovinata. Lui l’ha afferrata, blaterando qualcosa sul fatto che non prestavo loro abbastanza attenzione. E lui… lui l’ha…”

Estrasse le mani da sotto le coperte e mostrò a Roy ciò che da prima stava stringendo. La sciarpa azzurra che lui le aveva regalato quasi un anno prima, per il suo dodicesimo compleanno, era ridotta in stracci. Strappata in più punti, sporca di terra e fango.
“Io… io non ci ho visto più. Mi sono alzata, e l’ho… l’ho colpito. In faccia. Ho ripreso la sciarpa, la cartellina e sono corsa a casa. Mi faceva male tutto e avevo le lacrime agli occhi e…”

Vedendo che si agitava, Roy la zittì con un dito e le passò le mani sulle spalle.
“Shhh, tranquilla, non fa nulla. Si risolverà tutto.”
“Tu dici?”

Lo sguardo speranzoso della ragazzina fece sorridere Roy, che le scompiglio i capelli con affetto.
“Ma certo che sì. Se vuoi, potrei anche riparare la sciarpa con l’alchimia.”

Riza si fissò le mani, giunte sulle gambe, e sospirò piano.
“In realtà… preferirei che non lo facessi.

Roy capì e annuì, ma era comunque deciso a fare qualcosa per lei.
“Allora, domani ti accompagnerò io alla festa. E che non osino dire nulla; altrimenti gli impartirò io un po’ di sana e buona educazione.”

Riza lo guardò a bocca aperta, con gli occhi sorpresi ma speranzosi.
“Davvero lo faresti, per me?”
“Mi sembra ovvio.”
“Oh, grazie Roy, sei… sei il migliore.”

Il ragazzo si alzò dal letto e sgranchì le braccia.
“Lo so, modestamente. E se vuoi avvicinarti almeno un minimo alla mia perfezione, dovrai dormire un po’. Quindi, adesso nanna. Altrimenti domattina ci scambiano per morti viventi.”
“Buonanotte, Roy.”
“Buonanotte, piccola Riza.”

La ragazza lo seguì con lo sguardo finché non usci dalla stanza e chiuse la porta dietro di sé.





L’indomani, sulla strada verso il paese, Riza fissava il cielo limpido sopra di lei. Era dello stesso colore dell’abito che aveva deciso di indossare, uno dei suoi preferiti. Al suo fianco, Roy indossava il completo che aveva sfoggiato per il suo compleanno, coperto da un cappotto blu scuro.
L’aveva presa a braccetto, come fanno gli adulti; e di questo Riza si sentiva incredibilmente orgogliosa.
Quando arrivarono alla piazza del paese, incrociarono la combriccola che il giorno prima aveva assalito Riza. Roy notò con piacere che uno di loro portava un medicamento sul naso.
Si scambiò con Riza uno sguardo di intesa, e poi scoppiarono a ridere.
Era davvero felice.
Roy notò che quelli continuavano a parlottare tra loro, e decise che in seguito avrebbe chiuso i conti.
Nessuno poteva permettersi di fare del male a Riza.

Più tardi, quando ormai lo spettacolo canoro era cominciato e Roy si godeva l’immagine di Riza allegra nel suo vestito azzurro che cantava, nessuno si accorse che mancavano un paio di ragazzi, sul palco.
Se li avessero cercati con attenzione, li avrebbero trovati dietro alla scuola, appesi al cancello per i calzoni, mentre imploravano di essere tirati giù.













Note dell'Autrice:
Eccoci giunti alla fine del sesto capitolo che - lo so già - è stato incredibilmente lungo. Ci ho lavorato davvero molto e sono abbastanza soddisfatta di come è venuto; ma ovviamente potrei sbagliarmi. Se ci fossero cose non chiare, sono sempre disponibile per eventuali chiarimenti.
Che altro dire; in questo capitolo si tratta un problema abbastanza complicato, che è quello del bullismo: avendo messo Riza in una scuola pubblica (scelta che è sicuramente discutibile) ho pensato che, viste le particolarita della situazione familiare di Riza, lei non passasse inosservata. Almeno non in questo. Spero di non aver banalizzato questa tematica, davvero. E' una cosa parecchio importante, per me.
Riza soffre molto il fatto che gli altri ragazzi facciano a pezzi la sciarpa che Roy le ha regalato. Se ci pensiamo, ognuno di noi ha quell'oggetto che gli è stato regalato da una persona cara, o che nella propria vita ha un'importanza particolare, e che non vorremmo mai vedere rovinato, o distrutto da qualcuno. Ovviamente, potreste avere opinioni differenti.
Infine, la citazione. Il pianto che viene sentito alla notte è quello di Riza: così come l'Halleujah freddo e spezzato.
Approfitto per augurarvi un buon 2017, visto che molto probabilmente il mio prossimo aggiornamento avverrà nel prossimo anno (cavoli, siamo già qua? fatemi tornare a giugno...).
A presto!
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** #7 - Changes ***


Hallelujah
#7 – Changes
There was a time when you let me know
What is going on below but,
You would never show that to me, do you?

Quel Settembre segnava l’inizio del terzo anno di apprendistato di Roy presso la casa del Maestro. I passi avanti che il ragazzo aveva ottenuto erano notevoli, ma era ancora un alchimista mediocre. Con le conoscenze che aveva, di sicuro non avrebbe mai passato l’Esame per Alchimisti di Stato: serviva qualcosa che impressionasse la commissione. Ed era ciò che Berthold gli aveva promesso, nonostante non avesse ancora mostrato nulla al suo allievo.

Roy si godeva l’ultimo sole estivo nel giardino di casa, sdraiato all’ombra del vecchio salice. Con un libro a coprirgli la visuale, si divertiva ad ascoltare e riconoscere i rumori della natura intorno a lui. Il fragore delle cicale, il canto di uno stornello, le foglie che vibravano sospinte dal vento.
Sorrise fra sé e sé, quando sentì che le cicale si interrompevano bruscamente. Dei passi leggeri frusciarono nell’erba verde e si avvicinarono al suo orecchio sinistro. Scostò il volume dal viso e aprì gli occhi lentamente, per abituarsi alla luminosità del mezzogiorno.
“Ciao, Riza.”
“Finito il sonnellino, Roy? Il pranzo è quasi pronto.”

Il ragazzo sgranchì le braccia e si alzò in piedi, per poi recuperare il libro. Le sorrise e si accodò dietro a lei, mentre tornavano verso la casa.
“Tra pochi giorni torni a scuola, giusto?”
“Esattamente.”
“E’ un vero peccato, ricomincerò ad annoiarmi. E nessuno verrà a svegliarmi da sonnellini come questo.”

La ragazzina arrossì un po’ e strinse l’orlo del vestito giallo che indossava, per poi scuotere la testa con veemenza.
“Beh, qualcosa da fare lo troverai sicuramente.”

Entrarono in casa, e Roy si sedette alla tavola apparecchiata. Riza fece per accomodarsi di fronte a lui, come al solito, ma si bloccò.
“Oh, ho dimenticato la brocca dell’acqua. La metto subito in tavola.”

Si voltò e si sporse verso l’ultimo ripiano della credenza, mettendosi sulle punte per raggiungere la brocca di vetro. In tutto questo, Roy fissava pensieroso la figura della ragazza.
Sembrava fosse passato un giorno da quando doveva aiutarla perché a quel ripiano non arrivava nemmeno in punta di piedi. Sostituì mentalmente l’immagine della ragazza con una più acerba, vestita d’un abito azzurro a pois bianchi, che compiva le medesima azione.
‘Cavoli, è davvero cresciuta in questi anni.’
“Riza, non indossi più il tuo abito azzurro? Quello che avevi anche alla festa d’inverno.”

La ragazza, afferrata la brocca, si voltò silenziosamente verso di lui, e gli sorrise pensierosa.
“A dire il vero, non mi sta più. Ho provato a vedere se riuscivo ad, ehm, allargarlo, ma non ho avuto successo. E’ un vero peccato perché era uno dei miei preferiti.”

Roy annuì silenzioso, mentre la ragazza si avvicinava al tavolo con l’acqua e gli riempiva il bicchiere.
“Scusa la domanda, ma se i vestiti che avevi prima hanno cominciato ad andarti stretti, non hai bisogno di prenderne altri?”

Riza alzò lo sguardo verso di lui con aria tranquilla.
“Infatti sono stata in paese ieri mattina, e ho comprato delle cose.”
“Non lo sapevo…”
“Eri in studio con mio padre. Quando sono tornata non eri ancora uscito.”

Roy rimase un po’ indispettito, ma non aggiunse nulla. Lo infastidiva il fatto che Riza nemmeno gli avesse parlato del fatto che fosse uscita, nonostante avessero pranzato insieme.
Riza sembrò accorgersi che qualcosa non andava.
“Se… se vuoi, dopo pranzo posso mostrarti cosa ho comprato.”

Roy guardò la ragazza, che era leggermente arrossita, e annuì sorridente.





Sul letto di Riza, davanti a lui, erano stesi ordinatamente una serie di vestiti, gonne e camicie. Roy le osservava con seria devozione, per una volta zittito da uno dei grandi misteri femminili: il guardaroba.
Riza lo guardava in attesa, mentre lui scandagliava con lo sguardo tutti i capi.
“Secondo te, qual è il più… carino?”
“Quello verde.”

Riza fissò l’abito, e annuì. Poi, non sapendo cosa fare, cominciò a piegare le cose e a riporle all’interno dell’armadio.
“Si intona perfettamente con la tua carnagione e il colore dei capelli.”

Roy fissò Riza che sorrideva, e si compiacque ancora una volta del suo senso estetico che, in situazioni come questa, gli regalava grosse soddisfazioni, come un sorriso sincero da parte della ragazza.
Era calato nuovamente il silenzio fra i due, e il ragazzo lo interruppe con voce decisa.
“Dovresti metterlo.”

Poi uscì dalla stanza, un po’ per lasciarle la sua privacy, un po’ perché quel silenzio stava cominciando a stargli stretto.
Non che il rapporto quotidiano fra lui e Riza fosse privo di momenti di quiete, tutt’altro. Gli piaceva molto passare del tempo con lei, in silenzio; che fosse sotto il salice in giardino, nella cucina, a volte anche nella sua stanza, mentre lei svolgeva qualche pulizia: in quei momenti si godeva una serenità unica, che esprimeva l’assenza del bisogno impellente di comunicare per sentirsi vicini.
Ma, da un po’ di tempo a quella parte, i silenzi tra lui e Riza erano cambiati: non erano più sinonimo di calma e intesa; era come se ci fosse qualcosa che dovevano assolutamente dirsi, e che al tempo stesso gli sfuggiva. Per cui rimanevano lì, in attesa di un’illuminazione, fino a che uno dei due, con qualche sciocca scusa, non spezzava il silenzio quasi imbarazzante che era sceso fra di loro.

Dei passi alle sue spalle lo avvertirono che Riza era arrivata, e notò con soddisfazione che sì, aveva indossato l’abito, e le calzava a pennello.
“Stai davvero bene, Riza.”

La ragazza non rispose, ma gli occhi le si illuminarono, e Roy si ritrovò a voltarsi e ad accendere la radio, per evitare quegli attimi che lo spaventavano.
Sintonizzò la frequenza sul suo canale informativo preferito e si sedette al tavolo.
“Ultime notizie dal fronte di Ishval: la prima linea difensiva dell’Esercito di Amestris è stata nuovamente costretta ad arretrare. Ormai quasi l’intero Distretto dell’Est è coinvolto, fra scontri diretti e azioni di guerriglia. Si contano innumerevoli vittime sia fra i militari che i civili. Dai recenti interrogatori sui prigionieri presi tra gli ishvaliani ribelli sembra che ci sia il paese di Aerugo dietro al rifornimento di risorse militari al movimento antigovernativo…”

Riza fissava il ragazzo che, con gli occhi fissi fuori dalla finestra, ascoltava attentamente le notizie alla radio. Dava l’impressione di riflettere profondamente su qualcosa: era totalmente perso. I gomiti appoggiati con grazia sul tavolo, le mani incrociate all’altezza degli occhi e quel cipiglio concentrato gli attribuivano un aria così adulta che per un attimo le mancò il respiro a quella vista.
“Riza.”
“Sì?”
“Ti ho mai detto perché ho voluto studiare l’alchimia?”

Riza rifletté per un attimo in silenzio, per poi scuotere la testa. La parola Alchimia, tra loro due, per quanto possibile, era un tabù. Lei preferiva non indagare sull’argomento e a Roy questo non dispiaceva più di tanto. Per questo era rimasta sorpresa dall’improvvisa domanda del ragazzo.
“Ebbene, fin da quand’ero un bambino desideravo diventare un Alchimista di Stato. Nella mia concezione, gli alchimisti erano coloro che studiavano per aiutare le persone; un po’ come i dottori, solo che il campo d’azione dei primi è decisamente più ampio.”
“E, negli anni che hai passato qui, questa tua concezione è… cambiata?”
“No, anzi. Credo che il nostro paese abbia bisogno ora più che mai degli alchimisti. Di persone che dimostrino alla popolazione che c’è qualcuno pronto a proteggerli e a fare di tutto per loro.”

La ragazza soppesò le parole di Roy una per una. Sapeva che dietro a quelle sue affermazioni, quei silenzi, quell’atteggiamento così maturo, c’era qualcosa che forse nemmeno lo stesso ragazzo comprendeva appieno, ma che era consapevole fosse presente in lui. Un cambiamento era avvenuto in quel ragazzo che a quindici anni aveva bussato alla sua porta e aveva chiesto, con quella sua arroganza cittadina, di essere allievo di suo padre.
“Per questo, ho intenzione di entrare nell’esercito, e conseguire il titolo di Alchimista di Stato. L’ordine in cui le due cose avverranno mi è indifferente. Ma, Riza…”

La ragazza deglutì, aspettando che lui concludesse la frase.
“Tra poco meno di un anno io compirò diciotto anni. Per allora, io me ne sarò andato. Se tuo padre mi avrà svelato la sua alchimia, farò l’esame per il titolo. Altrimenti, entrerò in accademia come un qualsiasi giovane.”

Riza abbassò lo sguardo, mentre Roy la fissava, analizzando la sua reazione.
“Questa è una promessa, Riza. E ho la più ferma intenzione di mantenerla.”

La radio gracchiò, e Riza alzò lo sguardo. Fissò negli occhi il ragazzo, leggendovi quella determinazione che tante volte l’aveva rassicurata ma che, in quel momento, la spaventava più che mai. Alzò il mento e gonfiò il petto, per dimostrarsi forte davanti a lui, e deglutì debolmente.
“Se è questo il tuo sogno, allora impegnati con devozione per realizzarlo. Ma… fammi un favore: stai attento a ciò che diventi, nel perseguire ciò che vuoi.

Roy sogghignò e spense la radio, per poi alzarsi e dirigersi verso la porta della stanza. Aveva l’impressione che varcare quella soglia avrebbe determinato una svolta all’interno della sua vita. Così si fermò sullo stipite e si voltò verso la ragazza.
“Ben detto, Riza.”

















Angolo dell'Autrice:
Mi scuso per il consistente ritardo, ma non penso ci sia bisogno di dire che il problema fosse la stesura di questo capitolo.
Dovete sapere che precede una serie di capitoli decisamente importanti che, ogni volta che riflettevo sulla storia, prendevano il sopravvento impedendomi di concentrarmi su questo.
Così, fra scuola, mente che vaga e il mio solito letargo invernale, ho prodotto questo, emh, scandalo che ora pubblico.
Non mi convince perchè sono partita con l'idea di analizzare dei cambiamenti - perchè sì, se non si era ancora capito, è questo il tema principale dl capitolo - innanzitutto da un punto di vista fisico; successivamente da quello interiore. Volevo dare un origine al sogno di Roy di proteggere la nazione, e anche introdurre il fatto che ormai il ragazzosi stia rendendo conto che con Berhold rischia di non cavare un ragno dal buco.
Non a caso sottolineo la parola cambiamento, che spesso ricorre in questo capitolo, e questo si collega con la citazione da Hallelujah: in questa strofa, Cohen parlava di un cambio di comportamneto della sua amante, che un tempo gli lasciava conoscere ogni cosa di lei, mentre poi non gli avrebbe mai mostarto più nulla di sè stessa. Ho tentato un parallelismo con il rapporo tra Roy e Riza che, per vari motivi (l'apprendistato che ormai giunge al termine, l'intenzione sempre più forte di Roy di diventare un soldato, ma anche il fatto che ormai stiano crescendo e, oggettivamente, Riza non sia più una bambina) sta cambiando, distanziandoli sotto certi punti di vista. Questo non vuol dire che, da un momento all'altro, i due non si parleranno più: semplicemente deve avvenire un certo distacco tra i due. (altrimenti perchè mai Riza chiamerebbe Roy Signor Mustang, al funerale di suo padre?)
La frase "Stai attento a ció che diventi nel perseguire ció che vuoi." è di Jim Rohn, e mi sembrava davvero adatta a Roy. Ricordatevela, perchè ricomparirà.
Spero che il capitolo in fin dei conti non vi faccia troppo schifo, aspetto comunque le vostre impressioni che spero siano incoraggianti.
A presto!
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** #8 - Haircut ***


Hallelujah

#8 – Haircut
And she tide you to the kitchen chair
She broke your throne, and she cut your hair
And from your lips she drew the Hallelujah.

Il sole era tornato nel segno della Vergine, e splendeva opaco sulle campagne dell’Est, ancora squarciate dalla guerra. La bella stagione era al termine; ma il conflitto no.
Riza sorseggiava una tazza di thè, osservando il cielo fuori dalla finestra. Era ancora mattino presto, per cui la casa era tranquilla e silente.
La ragazza chiuse gli occhi, e si godette la sensazione di quiete che quel silenzio le dava.

Era stata un’estate lunga e travagliata. La guerra civile dell’Est aveva scandito le giornate, in particolar modo data la vicinanza del confine.
Nuove truppe e feriti si alternavano continuamente per le strade del paese, formando lunghe processioni. Molte case si erano svuotate, e con la fine del bel periodo chi le abitava non sarebbe tornato. Fra questi, molti coetanei di Riza, con le loro famiglie.

La ragazza si distolse da quei pensieri, sciacquò la tazza e si mise a fare il bucato. Sopra di lei, sentì dei passi, segno che anche Roy ormai si era svegliato.
Durante l’ultimo anno, il ragazzo aveva tirato fuori la parte più diligente di sé. Aveva studiato con precisione tutti i volumi che il maestro Hawkeye gli aveva presentato, anche i più complessi. Si era dimostrato un ottimo allievo, nella vana speranza che Berthold si decidesse finalmente a condividere la sua alchimia con lui ma, per quel che ne sapeva Riza, non era ancora successo. E il tempo stava per scadere.

Un’imprecazione richiamò l’attenzione della ragazza che, abbandonato il cesto di bucato ai propri piedi, corse verso il bagno del piano superiore.
Spalancò la porta, e si trovò di fronte Roy. Aveva un coltellino in una mano, mentre l’altra sanguinava. I capelli erano bagnati, e gocciolavano sulla maglia chiara.
“Cosa è successo?”
“Buongiorno, Riza. Stavo tentando di tagliarmi i capelli, ma ho fatto un pasticcio.”

La ragazza fissò concentrata la mano di Roy, per poi fargli cenno di sedersi.
“Lascia che ti medichi la mano. Poi, se vuoi, potrei aiutarti per i capelli.”

Il ragazzo annuì e si sedette, mentre le porgeva la mano.
Quando Riza ebbe finito di medicarlo, lo condusse in cucina. Lo fece accomodare sulla sedia vicino alla finestra, e prese un vecchio giornale. Stese dei fogli sul pavimento, attorno a lui, prese il coltello e si sistemò alle spalle del ragazzo.
Roy si voltò un’ultima volta verso di lei.
“Taglia tutto.”
“Tutto?”
“Si”

Non appena si fu voltato, Riza afferrò la prima ciocca.
“Posso fidarmi che non farai un disastro?”
La ragazza sbuffò.
“Sono anni che mi taglio i capelli da sola. Non hai di che preoccuparti.”

Non appena cominciò a tagliare, le ciocche nere caddero ai suoi piedi, formando lunghe scie scure sui fogli di giornale.
Rimase in silenzio, mentre quella folta chioma bruna diventava via via sempre più corta. Si fermò un attimo per controllare il suo operato e si morse il labbro.
Era così strano vedere Roy con quei capelli corti. Le lunghe ciocche scure erano ormai diventate un segno distintivo per lei, e le faceva quasi male vederle cadere una dopo l’altra. Si spostò e si mise di fronte al ragazzo per poter tagliare anche la frangia, e rimase senza parole.
Quello che aveva di fronte non era più il ragazzino che tre anni prima aveva bussato alla sua porta. Senza più la chioma sbarazzina, era un adulto.
Un adulto alto e forte che ora la fissava curioso.
“C’è qualcosa che non va, Riza?”
“La frangia la lascio così. E’ un problema?”
“No, tranquilla.”

La ragazza annuì, e si avvicinò al lavabo per sciacquare il coltello. Poi prese un panno, per asciugare i capelli di Roy.
“Sai... mi stavo chiedendo come mai avessi deciso di tagliarti i capelli.”

Anche se la frase era stata mezza sussurrata, arrivò ben nitida alle orecchie di Roy.
Fece un respiro profondo, e si mise a braccia conserte.
Decise di mettere le cose nero su bianco. I giri di parole erano inutili.
“All’Accademia i capelli vanno portati corti ed ordinati.”

A Riza quasi scivolò dalle mani il panno. Rimase con la bocca semi-aperta, in un’espressione a metà tra il sorpreso e il triste.
Fece un passo indietro, mentre tentava di ricomporsi. Nonostante questo, non riuscì a proferire parola.
Il ragazzo si alzò in piedi, la ringraziò gentilmente e ripiegò il panno. Riprese il coltello e uscì dalla stanza, nel silenzio più assoluto.
Lei rimase lì, imbambolata, a fissare l’uscio vuoto dietro al quale era scomparso.

Un senso di inadeguatezza si impossessò di lei, salendo dallo stomaco fino alla gola. Si diresse verso l’ingresso, e usci dalla casa, nel mattino ancora silenzioso. Cominciò a correre verso il vecchio salice infondo al giardino, quello stesso salice dove tante volte si era appisolata insieme a Roy, mentre lui studiava.
Si accasciò sulle sue radici, stringendo le mani a pugno contro la corteccia. Una sola domanda le ronzava in testa.
Perché? Perché? Perché?

Eppure, non avrebbe dovuto essere così sorpresa. Sapeva che ormai un anno era quasi passato. Mancavano ancora due settimane al diciottesimo compleanno di Roy. Le aveva promesso che, entro quel giorno, se ne sarebbe andato.
Sapeva anche che suo padre non aveva ancora rivelato nulla al ragazzo. Più volte, quell’estate, li aveva sentiti litigare, ed ogni volta aveva temuto che lui se ne sarebbe andato via su due piedi. Ma ogni volta, era rimasto.
Lo aveva visto più e più volte fissare le truppe dell’esercito che marciavano per le strade, lo aveva visto ascoltare attentamente le notizie alla radio, perfino segnarsi su un taccuino quelle più importanti. Aveva visto l’armadio vuoto, le valigie piene ma aperte. Eppure, aveva fatto finta di nulla.
Perché non poteva restare lì?
Qual era il motivo per cui vivere in quella casa non bastava più, a Roy?
'Perché non puoi restare qua con me? '

Una parte di lei le disse che il motivo lo sapeva, ma lei negava a se stessa, o perlomeno, si rifiutava di accettare quella verità. Era così scomoda.






























Note dell'Autrice:
Yes, sono tornata. Dopo la fine del periodo, l'ASL, la febbre a 38 e inconvenienti vari, ci sono riuscita. So che non è un granché, ed è anche piuttosto corto, ma per questo periodo era il massimo che sarei riuscita a buttare fuori.
Siamo alla fine del terzo anno di studi a Casa Hawkeye, e Roy non ha ancora ottenuto nulla che possa renderlo Alchimista di Stato. Come aveva promesso a Riza in Changes, ha tutta l'intenzione di arruolarsi nell'esercito come soldato semplice.
La citazione di Hallelujah in questo caso ha diversi significati, legati alla storia, che mi piacerebbe farvi notare:
•) Nel testo, Cohen si riferisce alla storia di Sansone e Dalila. Sansone era un uomo fortissimo, la cui potenza derivava unicamente dai suoi capelli, che lui non tagliava mai. Odiava a morte i Filistei, ed era molto temuto da loro.  Però, un 'bel' giorno, si innamora di Dalila, che in realtà è sua nemica: questa lo convince a lasciarsi tagliare i capelli. Lui perde tutta la sua forza; i Filistei lo fanno prigioniero; gli cavano gli occhi e... insomma, finisce male. Vi dico solo che le sue ultime parole sono "Muoia Sansone e tutti i Filistei". Ma non è questo che ci interessa. Tagliandosi i capelli, Roy, come Sansone, rinuncia ad una parte importante di se stesso. Decide di staccarsi dal ragazzo che è stato fino a quel momento, per diventare un adulto. Per cui si potrebbe dire che, per contrasto, come Sansone ha perso la sua forza, Roy cerca di trovarne una nuova.
•) Da dove viene tutta quest'idea del taglio di capelli per entrare nell'Accademia? Allora, io non so quanti di voi abbiano visto l'OVA "Yet Another's Man Battlefield", che è ambientato proprio negli anni dell'Accademia di Roy. In una delle prime scene, quando tutte le reclute si trovano di fronte al sergente, si vede Roy con questo taglio di capelli corto e insolito. Così BAM è partita l'idea.
•) Le riflessioni conclusive di Riza. La povera ragazza, biasima se stessa per il fatto che Roy se ne vada. (Piccola cotta adolescenziale). Ha ancora quattordici anni, per cui, nonostante Roy abbia cercato di farglielo capire, non riesce a cogliere fino in fondo la volontà del ragazzo di proteggere la nazione; ha, piuttosto, un momento egoista in cui si chiede perchè lui non possa restare lì con lei. Ma non preoccupatevi: nel prossimo capitolo, anche Roy si porrà delle domande simili.
Ad ogni modo, in futuro Riza riuscirà a capire le scelte di Roy, anzi, si troverà a desiderare di esserne parte ma questo già lo sapete.
Per cui, ci vediamo al prossimo capitolo, in cui vedremo il POV di Roy a proposito della scelta di andarsene.
A presto!
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** #9 - Moonlight Goodbyes ***


Hallelujah

#9 – Moonlight Goodbyes
Your faith was strong but you needed proof
You saw her bathing on the roof
Her beauty in the moonlight overthrow you.

Roy fissò con soddisfazione il ragazzo nello specchio di fronte a lui. Il mento prominente, gli occhi scuri e profondi, il sorriso enigmatico: tutti i dettagli del suo viso, che in quegli anni aveva visto cambiare così rapidamente.
Si passò una mano fra la corta zazzera scura, cercando ancora una volta di abituarsi all’assenza dei suoi capelli lunghi. Sospirò, pensando che, molto probabilmente, quella era solo la prima di molte altre rinunce che avrebbe dovuto fare nella sua prossima carriera di soldato.
Tornò nella sua stanza, e decise di chiudere le valigie che da mesi aspettavano ai piedi del letto.
Aveva deciso che quella stessa notte sarebbe partito.
Alzò lo sguardo verso la finestra, e fissò gli occhi su una figura ancora accasciata ai piedi del vecchio salice. Era lì da quel pomeriggio, e non aveva dato segno di volersi muovere. Probabilmente, si era addormentata.

Una fitta passò il petto di Roy. Qualche immagine dei momenti felici passati in quel giardino gli passò davanti agli occhi, ma le scacciò in fretta.
Non aveva tempo per perdersi nei ricordi.
Aveva ancora parecchie cose da fare.
Cominciò a raccogliere le sue cose, ancora sparse per la stanza. I libri di alchimia, i vestiti. Lasciò stare le foto, i ricordi, in particolare i piccoli regali che Riza gli aveva fatto nel corso di quegli anni.
‘Li recupererò quando tornerò, una volta diventato soldato.’
Fece una smorfia al se stesso riflesso nello specchio.
‘Sempre se avrò il coraggio di tornare.’


Una volta finito, richiuse con un tonfo la valigia. Guardò fuori dalla finestra e vide che ormai il sole stava calando, e Riza non era più sotto il salice.
Scese al piano inferiore e trovò la cena pronta, la tavola apparecchiata per una sola persona, al suo posto.
Con un sospiro si sedette e cenò silenziosamente.
Quando ormai la luna era sorta, aveva già sparecchiato e sciacquato i piatti. Li asciugò e li rimise nella credenza.
Diede un ultimo sguardo alla stanza, controllando che fosse in ordine, e uscì.

Percorse le scale con estrema lentezza, soffermandosi a osservare i quadri alle pareti, le cornici con i fiori essiccati che Riza gli aveva raccontato fossero stati raccolti e conservati da sua madre. Percorse il corridoio e si fermò di fronte ad una porta dal legno consunto, che in quei lunghi tre anni aveva ammirato, temuto, e a volte odiato. Fece per bussare, ma poi si fermò.
Con il Maestro non avrebbe avuto alcun senso parlare. Probabilmente non lo avrebbe nemmeno degnato di uno sguardo, e se, per puro caso, avesse ascoltato le cose che aveva da dirgli e quali fossero le sue intenzioni, le avrebbe trovate sciocche e superficiali. Le avrebbe dismesse immediatamente, ribadendo per l’ennesima volta che non sarebbe mai stato pronto per la sua alchimia.
E Roy, in tutta sincerità, non aveva la benché minima intenzione di sorbirsi un discorso del genere.
Così fece un passo indietro, drizzò la schiena e fece un breve segno con la testa. Era il massimo saluto che avrebbe mai espresso a quell’uomo, ed era un ringraziamento per aver accettato di fargli da maestro per quei tre anni.

Poi Roy si voltò, e decise che avrebbe dovuto almeno salutare un’ultima volta la persona che davvero in quegli anni lo aveva fatto sentire accettato e sì, a casa.
Camminò lentamente fino alla porta della stanza della ragazzina, e piano la socchiuse.
Lei era sul letto, addormentata, raggomitolata in una posizione fetale.
Il respiro era regolare, ma il viso arrossato, visibile sotto il chiaro di luna, lasciava capire che avesse pianto molto.
A Roy si strinse il cuore a pensare di essere stato lui la causa di quel pianto, ma era conscio che non avrebbe potuto fare altrimenti. Prima o poi avrebbe dovuto andarsene, lo sapeva; e non ci sarebbe stato modo di farlo senza che Riza ne soffrisse.
Lui non poteva restare lì con lei per sempre.
‘E’ davvero così?’

Si avvicinò al letto e la fissò, illuminata dalla luna che brillava fuori dalla finestra. Le lunghe ciglia chiare, la pelle diafana, i capelli color grano.
Avrebbe potuto restare lì con lei? Vivere in quella casa di campagna, in quel piccolo paese, assieme a lei, per il resto della sua vita?

La prospettiva era piuttosto allettante, doveva ammetterlo. Era sicuro che una vita con quella ragazza, per lui, sarebbe stata sicuramente serena: era ovvio che fosse la persona che lo capiva meglio, tanto che a volte bastava un solo sguardo per comunicare. Ed era altrettanto sicuro che anche lei sarebbe stata felice.
Ma c’era una parte di lui, che il quel momento stava ruggendo nel suo petto, che non avrebbe sopportato il restare con le mani in mano mentre il suo paese cadeva a fondo. Per quanto avrebbe potuto essere felice, non si sarebbe mai sentito totalmente realizzato.
E questo suo desidero poteva essere compiuto solo facendo qualcosa per la propria nazione.

Guardò un ultima volta il viso della ragazza, adesso solcato da un’espressione sofferente. Cosa ne sarebbe stato di lei?
Che cosa avrebbe fatto, una volta che lui se ne fosse andato?
Roy tentò di pensare ad uno scenario plausibile per lei. Avrebbe potuto diventare un’insegnante: possedeva sicuramente sia l’autorità che la gentilezza necessarie per poter svolgere quel mestiere. Ma avrebbe dovuto vivere in quella casa per diversi anni, prima di poter essere autonoma e lavorare, e in tutto quel periodo di tempo avrebbe dovuto vivere lì assieme a Berthold.

Un brivido corse lungo la schiena del ragazzo, pensando a quanto sola sarebbe stata la ragazza, ad occuparsi di quell’immensa casa e di quell’uomo così insofferente a tutto il mondo a di fuori dell’alchimia. Sapeva quanto sarebbe stata dura per Riza restare lì insieme a lui, ma ancora una volta, non aveva idea di cosa fare per poterla togliere da quella situazione.
Non avrebbe mai potuto portarla con sé: lui sarebbe andato in Accademia, per cui non avrebbe avuto un luogo in cui farla vivere.
Inoltre, per quanto a volte lo temesse e lo detestasse, Riza amava suo padre, in quel modo inevitabile e devoto con cui un figlio ama il proprio genitore, e non avrebbe mai accettato di andarsene e di lasciarlo lì da solo, a marcire in una casa vuota.
Scosse la testa, sconsolato, e si avvicinò alla testa della ragazza. Le lasciò una lenta carezza sulla testa, e le sussurrò il suo addio.
“Ti prometto che tornerò Riza. Diventerò un soldato e farò qualcosa per salvare il nostro paese. Poi tornerò da te.”

Si alzò silenziosamente, e uscì dalla stanza con le lacrime agli occhi.



Quando si infilò il soprabito, l’alba era vicina. Prese le sue valigie, si avviò verso la porta di casa.
La aprì, diede un’ultima occhiata alla casa e uscì.
Nel tragitto lungo il vialetto sentiva due occhi fissi sulla propria schiena, ma continuò a camminare tenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
Oltrepassò il vecchio cancello senza voltarsi indietro.

Non avrebbe potuto sopportarlo.
















Note dell'Autrice:
Eccomi di nuovo qua, con il tanto atteso POV di Roy! So di avervi fatto aspettare un po' (24 giorni, emh) ma appena ho avuto un momento libero per ricontrollare ed editare il capitolo, l'ho pubblicato!
Possiamo vedere la partenza di Roy, sotto il suo punto di vista,e  un po' tutti i pensieri che la riguardano. Ovviamente, è un po' un riassunto di tutte le cose che lui ha pensato nell'ultimo anno a Casa Hawkeye e che l'hanno portato alla sua decisione di andarsene.
La citazione riguarda il pezzo della canzone in cui Cohen parla dell'amore tra il Re David e Betsabea. Questa era la moglie di uno dei migliori generali del Re, un suo stimato amico. Una sera, lui la vede farsi il bagno alla luce della luna, e se innamora perdutamente, tanto che per poterla avere, David manda a morire in prima linea il marito di Betsabea, così da poterla sposare.
La possibilità di una vita semplice e felice con Riza è per Roy la tentazione che Betsabea rappresenta per David. Lui potrebbe vivere una vita spensierata con lei, ma questo vorrebbe dire lasciare perdere il suo sogno e il suo dovere di fare qualcosa per il proprio paese. E visto che il nostro Mustang possiede un po' più di forza di volontà del caro Re David, decide di rinunciare, momentaneamente, a questa possibilità.
Infatti, credo che Roy potrebbe aver contemplato l'idea di una vita con Riza, se lei non fosse entarata nell'esercito. Non ci sarebbe stata nessuna legge anti-fraternizzazione a dividerli e credo che sarebbero stati molto bene insieme. Ma il primo obiettivo di Roy non è una vita felice per sè: lui vuole rendere il mondo un posto migliore, per cui non ha tempo per fare progetti sicuri sul suo futuro sentimentale.
E così Roy è partito, Riza è sola con Berthold e quest'ultimo deve ancora scoprire cosa è successo. Ma per sapere come la situaizone si evolverà, dovrete aspettare un po'.
A presto!
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** #10 - The Grave ***


Hallelujah
#10 – The Grave
And I’ve seen your flag on the marble arch
And love is not a victory march
It’s a cold and it’s a broken Hallelujah

Riza scostò le foglie secche dalla lapide, per poi posare con cura il mazzo di crisantemi sulla superficie liscia. Si inginocchiò lentamente, e con una mano andò ad accarezzare la tomba.
“Ciao, Mamma.”

Il vento freddo di Novembre le sferzava i corti capelli, mentre si stringeva nel cappotto scuro.
Erano passati tre lunghi mesi da quando Roy se n’era andato da casa sua, e tutto quello che Riza ora sentiva era vuoto.
Fissò l’orizzonte, dove il sole ancora basso brillava opaco, nascosto da una spessa coltre di nubi bianche.
Il silenzio avvolgeva il cimitero.
Riza si voltò verso la lapide, dove era inciso, con abile maestria, il nome di sua madre, Elizabeth, mentre il cognome era quello da sposata, Hawkeye. Quello era il luogo dove, cinque anni prima, lei era stata seppellita.
L’ultima volta che era stata lì, un anno prima, aveva parlato alla donna di tutte le sue speranze per il futuro; di quanto la sua vita fosse migliorata, da quando Roy era entrato a farne parte; anche della guerra, sebbene la vedesse così distante e inaccessibile.
‘Adesso è tutto diverso.’

Roy se n’era andato, la guerra era così vicina, e suo padre…
Suo padre.

La mattina in cui il ragazzo era partito, Riza era rimasta chiusa nella sua stanza quasi tutto il giorno. Lo aveva fissato andare via, all’alba, e aveva pregato che si voltasse fino a quando lui non aveva varcato il cancello, diretto verso una nuova vita, verso la guerra.
Non aveva detto nulla a suo padre fino all’ora di cena, quando gli aveva portato un pasto caldo.
“Perché il ragazzo non è venuto, oggi?”
“Se n’è andato.”

Berthold si era bloccato improvvisamente, smettendo, per un attimo, di scrivere fra i suoi appunti, e aveva alzato la testa verso il muro di fronte a lui.
“Immaginavo che prima o poi sarebbe successo.”

E quelle furono tutte le parole che l’uomo disse, per quella sera.
Sembrava insofferente a quella notizia, e Riza avrebbe voluto riuscire anche lei a non curarsene, ad odiare quel ragazzo.
Però… quanto avrebbe voluto avere indietro quelle braccia calde e morbide in cui tuffarsi, ogni volta che gli incubi e i deliri di suo padre tornavano sempre più prepotenti. Avrebbe voluto ancora sentire quella sicurezza, che in quei quattordici anni della sua vita solo due persone erano riuscite a darle.

Riza scosse la testa, cercando di scacciare il pensiero. Non voleva pensare a Berthold, mentre era lì, davanti alla tomba di sua madre. Le sembrava un torto nei suoi confronti.
Dei passi silenziosi interruppero il treno dei suoi pensieri, e la portarono a voltare a testa verso il sentiero principale.
Quattro uomini sorreggevano una bara, preceduti dal sacerdote e da una donna vestita di nero. Sopra di essa, la bandiera verde con il drago argentato di Amestris svettava in tutta la sua magnificenza.
Riza li osservò in silenzio mentre calavano la cassa nel terreno e fissavano la lapide sopra di essa.
Guardò come piegavano la bandiera e la lasciavano sul marmo, come un monito.
Fissò la donna in nero crollare in ginocchio davanti alla sepoltura e appendersi ad essa, invocando il nome di qualcuno che non c’era più.
Il vento gelido le arrivò fino al cuore, dove sentiva un dolore lancinante.
‘Sarà così anche per te? La prossima volta che ti rivedrò, sarai tre metri sotto terra?’

Sospirò e si voltò un’ultima volta verso la tomba della madre.
Non era così che doveva andare.
Si alzò in piedi e si diresse verso casa, mentre i crisantemi oscillavano mossi dal vento.



Quando rientrò, l’accolse solo il silenzio. Scosse i piedi sullo zerbino per non sporcare il pavimento che il pomeriggio precedente aveva lavato, poi appese il cappotto nero all’attaccapanni all’ingresso.
Si diresse in cucina e aggiunse un tronchetto dentro la stufa. Faceva troppo freddo in quella casa.
Con diligenza e silenzio cominciò a preparare uno stufato, di quelli che era solita fare d’inverno, quando Roy si lamentava della temperatura.
Dopo aver messo la carne sul fuoco, si sporse verso il salotto per guardare l’ora sul vecchio pendolo.
Poi lasciò la stanza, mentre lo stufato si cuoceva. Salì le scale, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare nel mentre.

Il giorno precedente aveva lavato tutti i pavimenti della casa. Quello prima aveva fatto tutto il bucato.
In generale, in quei tre mesi, aveva svolto le pulizie quasi ogni giorno; aveva cercato di passare il tempo così, non sapendo che fare.
Per via della guerra, i corsi scolastici non erano ricominciati a Settembre e a Riza nemmeno mancavo più di tanto.
Per questo motivo si era applicata nell’unica cosa che le riusciva facile e bene, tanto che ormai dubitava che nella casa ci fosse ancora un angolo impolverato.

A parte lo studio di suo padre e la vecchia stanza di Roy, ovviamente.

Ma, per quanto per la prima delle due ci fosse una motivazione più che valida, ovvero la costante e inquietante presenza di Berthold, per la seconda Riza non aveva nessuna scusa, a parte la propria debolezza.
Così fissò la porta scura, fece un respiro profondo e varcò la soglia.

Il motivo per cui Riza, da quando il ragazzo se ne era andato, non aveva messo piede lì dentro era che sapeva che l’avrebbe fatta stare male.
E infatti, non appena si rese conto che, oltre ai mobili e gli asciugamani, le uniche cose nella stanza erano quelle che lei aveva regalato a Roy, una sensazione strana la si insediò nel petto.
Scrutò con lo sguardo il paio di guanti, la vecchia foto, il segnalibro di foglie e i vari regali o ricordi che riguardavano i loro momenti insieme, sparsi sul comodino e sulla scrivania come se fossero reliquie.
‘Voleva dimenticarsi di me… voleva lasciarmi qua, insieme a tutti questi oggetti.’

Scosse la testa; forse era davvero meglio così. Non c’era ragione di tergiversare ancora sulla faccenda.
Roy aveva preso una scelta e, seppure non la comprendesse del tutto, per Riza era meglio imparare ad accettarla e conviverci.
Si arrotolò le maniche del maglione e decise di cominciare a pulire.



Era passata quasi un’ora, quando Riza sentì una porta aprirsi, dall’altra parte del corridoio.
Si sporse dall’uscio, per verificare chi fosse; nonostante fosse consapevole che insieme a lei c’era una sola persona in quella casa, le sembrava una cosa tanto assurda che doveva vederlo con i suoi occhi, altrimenti non ci avrebbe creduto.
E Berthold Hawkeye era lì, davanti a lei, in mezzo al corridoio.

Era tanto che Riza non lo vedeva in piedi, per cui rimase per un attimo in silenzio ad osservarlo. Ora che non era seduto, dimostrava il suo metro e ottanta di altezza, anche se la postura reclinata aveva curvato pesantemente le sue spalle.
I capelli biondo cenere scendevano lunghi ed incolti, e la ragazza si chiese da quanto tempo l’uomo non facesse una doccia. Gli occhi erano limpidi e la fissavano concentrati, la bocca era semi aperta.
L’uomo allungò un braccio tremante nella sua direzione, e Riza fece istintivamente un passo indietro.
Poi Berthold cominciò a sputare sangue.




Quando il Dottor Logan uscì dalla stanza da letto di Berthold, Riza era appoggiata al muro, affianco alla porta, con un’espressione assente negli occhi.
L’uomo richiuse l’uscio dietro di sé e poi si rivolse alla ragazza, con un sorriso gentile e uno sguardo preoccupato negli occhi.
“Ragazza mia, devi aver passato davvero un brutto quarto d’ora.”

Riza annuì mestamente, ripensando a come, dopo aver visto suo padre stare male, l’avesse trascinato prima verso il bagno, cercando di fermare quell’attacco di tosse; e di come fosse corsa fuori di casa, fino al paese, a bussare alla sua porta perché andasse al più presto a casa sua. Una smorfia le passò il viso, mentre il medico le faceva cenno di seguirlo lungo le scale.
“Non credo sia il caso di fare tanti giri di parole: tuo padre ha la Tisi, esattamente come tua madre. E’ una malattia spesso latente; probabilmente l’ha contratta quando tua madre era ancora viva, ma solo recentemente il batterio ha innescato la vera e propria malattia.”

La ragazza ripensò alle condizioni in cui versava l’uomo quando era uscito dalla stanza.
'Non mi meraviglio che sia successo.’

“C’è qualcosa che posso fare?”
“Per ora è il caso che tuo padre rimanga a riposo. Ti prescriverò degli impacchi specifici che dovrai fargli diverse volte al giorno; e inoltre dovrai controllare che la febbre non salga troppo.”

Nello sguardo della ragazza si leggeva il panico, così il dottore si voltò verso di lei e la prese per le spalle.
“Ascoltami, Riza. Dovrai mettercela tutta e fare quello che ti dirò. Non frequenti corsi scolastici, giusto?”

La ragazza scosse la testa, continuando a fissarlo negli occhi.
“Allora, tre volte a settimana, presentati a casa mia. Sto cercando di gestire, per quelli come te che sono rimasti qua in paese, un piccolo corso di primo soccorso. Non si sa dove questa guerra ci porterà…

Scosse debolmente la testa e riprese.
“Ad ogni modo, vieni. Ti spiegherò nel dettaglio come aiutare tuo padre e altre nozioni che potranno esserti utili in futuro. Non credo che tuo padre potrebbe avere nulla in contrario.”

La ragazza annuì mestamente e deglutì.
Il Dottor Logan si congedò e uscì di casa, lasciandola di fronte all’ennesimo incubo.
Tornò al piano superiore e si avvicinò alla stanza di suo padre. Socchiuse la porta e sbirciò dentro, cercando di scorgere la sua figura.
“Riza, vieni dentro.”

La ragazza sussultò, poi aprì la porta e fece come l’uomo le aveva detto.
Si fermò ai piedi del letto, mentre Berthold la fissava silenzioso.
“Dimmi, Papà.”
“Ho bisogno che tu porti in questa stanza i miei appunti e i miei libri di Alchimia. Se sono costretto qua, voglio poter continuare la mia ricerca. E’ quasi terminata…

Riza annuì, mentre una sensazione di delusione le si insinuava nell’anima.
“Inoltre, pulisci per bene il mio studio. Non voglio che rischi di ammalarti anche tu.”
“E’ tutto?”
“Si, puoi andare.”

Riza uscì dalla camera in religioso silenzio e si portò a passi lenti verso la propria. Quando ebbe chiuso la porta dietro di sé, si lasciò cadere a terra, nascondendo la testa dietro alle ginocchia.
‘Mamma, aiutami ti prego.’




















Note dell'autrice:
Dopo due settimane di intenso studio e impegni sportivi, finalmente aggiorno con un capitolo che beh, è un bel mattone.
Ci sono diverse cose che devo dire per quel che riguarda l'interpretazione, per cui abbiate un po' di pazienza.
•) Innanzitutto, la tomba. Quando Riza e Roy parlano di fronte alla tomba di Berthold, si vede  (almeno, nel manga) che ai loro piedi ci sono due tombe, per cui immagino che una di loro sia stata quella della madre di Riza, Elizabeth.
Non mi sembra strano che almeno una volta all'anno Riza vada a trovarla; e tantomeno che le parli. O, almeno, io conosco una persona che fa questo. Dice che in questo modo sente ancora vicina a sè la persona che ha perso, e al tempo stesso riesce a comprendere quali sono le cose della sua vita che hanno determinato un cambiamento significativo. Per questo motivo anche la nostra piccola Riza lo fa. Inoltre porta alla madre dei crisantemi, che hanno un duplice significato: nella mentalità occidentale (in particolar modo cristiana) sono il simbolo della morte; nella tradizione orientale invece rappresentano la vitalità.
•) La scena del funerale. In questa strofa di Hallelujah, Cohen dice 'I've seen your flag on the marble arch': Ho voluto tradurre marble arch come tomba, lapide; immaginando che la bandiera posatavi sopra sia quella di Amestris, che, da quando il ragazzo è entrato in accademia, è anche la bandiera di Roy. Poi, i versi 'Love is not a victory march/it's a cold and it's a broken Hallelujah' li ho voluti riassumere nelle poche righe in cui la donna abbraccia la tomba del proprio caro (che nella mia immaginazione è suo figlio): 'L'amore non è una marcia di vittoria', ovvero non è vincendo la guerra che si fa del bene a qualcuno. Anzi, é una cosa che fa soffrire ancora di piú le persone.
•) Le pulizie. Sono il modo che Riza utilizza per buttare fuori tutta al tensione, la rabbia, la delusione e il dolore per la partenza di Roy. E' una delle poche cose che la ragazza sa fare bene, per cui la vede come una via d'uscita semplice. Ovviamente, le due stanze che ha tralasciato sono quella di Roy e lo studio di Berthold. Ma, se per la prima Riza è in grado di affrontare la motivazione che le impedisce di entrare, per quel che riguarda lo studio di Berthold l'unico modo per farla interagire con essa è che sia obbligata.
Lei ancora non lo sa, ma sta preparando tutto ciò che servirà per la creazione dell'eredità di Berthold.
Ed è sempre questo il motivo per cui l'uomo si preoccupa che lei non si ammali: ha maturato una mezza idea su come preservare i suoi studi, e non può permettersi che Riza muoia.
•) Breve digressione sulla Tisi.
La Tisi, o anche Tubercolosi o Consunzione, era una malattia molto comune nella seconda metà dell'Ottocento e nella prima metà del Novecento, tanto da essere la causa della maggior parte dei decessi: il motivo era che era facilissimo contrarla, portando con sè i batteri anche per lungo tempo, prima che essi si attivassero e la vera e propria malattia cominciasse; ed è questo il caso di Berthold. Ad ogni modo, all'inizio del Novecento non ne sapevano moltissimo, in particolare per quel che riguarda le cure: nel 1905 si scoprì che era legata al latte di un tipo specifico di Bovini; ma i primi vaccini cominciarono solo dal 1915 e comunque c'è da ricordarsi che l'alta medicina non era alla portata di tutti. Esattamente come non è alla portata di Riza.
•) L'idea del corso di 'primo soccorso'. Riza ha delle essenziali nozioni di medicina: quelle che ha applicato a sè stessa dopo che Roy le ha bruciato il tatuaggio. Infatti, sappiamo che loro due e Berthold sono gli unici a conoscenza di quel segreto, e Riza (che fosse stata aiutata da Mustang oppure no) necessitava di sapere almeno le minime nozoni di medicina. Inoltre, per vivere con un malato di TBC, deve per forza sapere come curarlo, e non credo nè che le conoscenze le arrivino tramite miracolo divino nè tantomeno che basta le siano dette una volta perchè lei le capisca e sia in gardo di curare suo padre; non di certo a quattordici anni.
Ad ogni modo, questo è tutto. Il prossimo capitolo riguarderà l'avvenimento che ha cambiato la vita di Riza, per cui sarà abbastanza complicato da scrivere. Spero di risucire a pubblicare durante le Vacanze di Pasqua, ma non prometto nulla.
A presto, non vedo l'ora di sentire i vostri pareri!
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** #11 - The Mark ***


Hallelujah
#11 – The Mark
There’s a blaze of light in every word.
It doesn’t matter which you heard
The holy or the broken Hallelujah

L’estate era ricominciata, e il caldo afoso torturava Riza, mentre camminava sul sentiero che conduceva alla sua casa. Era appena uscita da casa del Dottor Logan, per la sua ultima lezione: l’uomo infatti sarebbe dovuto partire per Ishval.
Riza fece una smorfia di disappunto.
Non aveva preso molto bene la notizia; il dottore era un uomo gentile e simpatico, ed in quei mesi l’aveva aiutata molto a gestire la malattia di Berthold.
Gli aveva così promesso che, l’indomani, sarebbe andata a salutarlo alla stazione.

Finalmente di fronte a lei comparve il vecchio cancello, e la ragazza sospirò di sollievo. Non vedeva l’ora di mangiare qualcosa, per poi rilassarsi un po’. Quel caldo la sfiniva.
Mentre si apprestava a rientrare in casa, vide con la coda dell’occhio qualcuno sul retro.
Si avvicinò cauta, scorgendo una figura accovacciata fra i cespugli. Aguzzò la vista, per poi rilassarsi e stringere le labbra in un sorriso forzato.
“Papà. Sei uscito anche oggi.”

Dall’inizio della primavera l’uomo aveva preso la bizzarra abitudine di uscire nel giardino. Riza non sapeva l’esatto motivo per cui lui lo facesse, né Berthold si era premurato di spiegarglielo, ma la ragazza era convinta che il miglioramento della salute di suo padre fosse legato anche a quelle uscite. Infondo un po’ d’aria non poteva che fargli bene.
“Sai, Riza, tua madre aveva una vera passione per le piante. Possedeva tanti libri su di esse, dentro i quali vi erano descrizioni minuziose del loro utilizzo.”

Riza annuì, mentre l’uomo si alzava da terra. Era vero: li aveva letti spesso, anche se raramente ne aveva compreso del tutto l’utilizzo. Era uno dei suoi modi per farla sentire vicina alla madre.
Berthold con un cenno la distolse dai suoi pensieri e la invitò a rientrare in casa. Mentre si toglieva la giacca e l’appendeva all’attaccapanni, l’uomo entrò in cucina.
“Oggi mi sentivo particolarmente in forze, così ho deciso di preparare il pranzo.”
“Grazie, Papà.”

L’uomo la fissò intensamente con i suoi occhi cerulei, facendole correre i brividi lungo la schiena. Riza distolse lo sguardo, e si accomodò a tavola.
I due mangiarono nel silenzio più assoluto, mentre Riza rifletteva.
Quel pomeriggio avrebbe svolto un paio di faccende domestiche e, sul tardi, si sarebbe concessa una doccia tiepida: l’avrebbe aiutata a sopportare il caldo afoso.
Mentre lei era assorta in questi pensieri, Berthold si era alzato, prendendo una teiera dalla credenza.
“Faccio una tisana. Ne vuoi un po’?”

La ragazza annuì. Da quando suo padre e lei avevano cominciato a pranzare spesso insieme, quella della tisana era diventata un’abitudine. In generale, da quando era cominciato il periodo di degenza, il rapporto fra lei e Berthold era cambiato.
Non che fosse diventato un padre modello, per carità; ma avevano cominciato a ritagliarsi dei silenziosi momenti, come quello della tisana o anche solo degli impacchi serali che la ragazza gli faceva, durante i quali lei non temeva la sua presenza, anzi, la trovava tollerabile.
L’uomo si avvicinò con la teiera e due tazzine, porgendone una a Riza e premurandosi di versarle lui stesso il contenuto. Dopo aver fatto altrettanto con la sua, si sedette di fronte a lei. La ragazza l’accettò con un sorriso e cominciò a sorseggiarla lentamente.
Berthold, di fronte a lei, guardava fuori dalla finestra. Riza fissò la propria tazza, esaminandone il contenuto. Era diversa dalla solita tisana che lei e suo padre erano abituati a bere.
“Che tisana hai usato?”

L’uomo si voltò lentamente verso di lei, mantenendo il suo atteggiamento calmo e distaccato.
“Ho voluto provare qualcosa di nuovo. Un infuso al Giusquiamo. L’ho raccolto questa mattina nel retro del nostro giardino.”

Riza corrugò la fronte, tentando di pensare a che genere di pianta fosse. Poi sbarrò gli occhi.
‘Il Giusquiamo è una pianta velenosa, usata a scopi farmacologici per le sue qualità narcotiche e sedative.’
Le parole scritte sul libro di sua madre le vennero in mente troppo tardi, quando già la figura di suo padre, davanti a lei, stava sfumandosi in una maniera inquietante.
“Cosa… cosa hai fatto…”
“Ho solo bisogno del tuo aiuto, Riza.”

La ragazza provò ad alzarsi dalla sedia ma perse l’equilibrio, cadendo a terra. Le mattonelle chiare del pavimento sembravano danzare, prendendo colori mai visti prima. Riza si sentì sollevare da terra, mentre tutto attorno a lei diventava troppo bianco.

Un dolce limbo la avvolse, portandola con sé, estraniandola dal resto del mondo. Attorno a lei, piccole macchie scure tremolanti cominciavano a comparire in mezzo a tutto quel bianco, diventando via via sempre più nitide.
Ed eccola lì, di fronte a lei, in tutta la sua bellezza dei suoi trent’anni.
Sua madre.
Un dolce sorriso le splendeva sul volto, mentre tendeva le braccia verso di lei.
Quanto tempo era che non la vedeva? Quanto a lungo aveva desiderato quella stretta?
Quanto le erano mancate quelle mani affusolate che la stringevano a sé come il suo bene più prezioso?

Era lì, di fronte a lei, sana e bella come mai era stata, e la guardava con tanto amore che Riza nemmeno si accorse di avere le lacrime agli occhi.
“Oh no, piccola mia, non piangere. Devi essere forte.”
La sua voce… le mancava così tanto. Molte notti si era svegliata sentendosi chiamare, ma adesso era lì, di fronte a lei. Era diverso
“Devi essere forte.”
La donna ripeteva quella frase, e Riza si mise a guardarla confusa, cercando di capire.
“Perché mi dici questo, mamma?”
“Devi essere forte, Riza. Devi essere forte.”
Il volto della donna sembrò cambiare espressione, e poi l’immagine cominciò a scivolare via dalla sua vista.
“No mamma! Non andare! Torna, ti prego!”

Ma lei ormai era lontana, svanita in mezzo a quel bianco che sembrava accecare gli occhi della ragazza.
La luce tornò di nuovo a oscurarsi, mentre un’altra figura si avvicinava a lei.
Riza alzò la testa, e spalancò gli occhi dallo stupore. L’avrebbe riconosciuto ovunque.
Lo sguardo indagatore, il sorrisetto strafottente, i capelli scuri. Non avrebbe dovuto essere lì; non poteva essere lì; eppure, era Roy.

Incrociò le braccia di fronte a lei, salutandola con un cenno, sorridendole in quel modo spensierato che Riza adorava. Con quel sorriso che quasi mai gli aveva visto sul volto, durante l’ultimo anno che lui aveva passato a casa sua.
Le offrì la mano, e Riza si trovò a stringerla. Si sentì trascinare via, e cominciò a correre. Correva, saltava, a volte anche inciampava ma lui era ogni volta lì, a sostenerla se fosse caduta, a tirarla ancora più forte, facendola ridere fino a farle mancare il fiato.
Ad un certo punto però la mano di Roy cominciò a scivolare dalla sua, mentre una forza troppo intensa lo trascinava lontano.
Riza lo fissò spaventata, cercando in tutti i modi di aggrapparsi a lui. Ma le sue mani erano come burro, e scivolavano via sempre più in fretta.
“Roy, no! Non anche tu!”
“Ti prometto che tornerò, Riza! Te lo prometto.”

Lei lo guardò con le lacrime agli occhi, ma ormai anche la sua figura stava svanendo.
“Tornerò da te…”
Questa volta, ad accogliere Riza non fu il bianco, ma il nero più totale.

L’oscurità l’avvolse e, quando si sentì circondata del tutto, cominciò il dolore.
Non seppe dire cosa fosse, ma faceva dannatamente male. Era come se mille aghi le perforassero la schiena, o se una fiamma la bruciasse viva.
Urlava, ma dalle sue labbra non usciva alcun suono. Sentiva le sue membra irrigidirsi, mentre attorno a lei il nero si costellava di macchie rosse e gialle.
Le sembrò di scorgere degli oggetti, delle figure reali. Un tavolo. Una lampada.
Strizzò gli occhi, cercando di capire meglio cosa fosse, dove si trovasse. Poi cominciò a sentire un forte odore di sangue, bruciato e inchiostro.
Il dolore tornò feroce su di lei, che si sentiva spezzare a metà. Ogni respiro che faceva le creava altro dolore.
Poi, le sembrò di sentire una voce.
Non era dolce e accogliente come quella della sua mamma, ne calda e affidabile come quella di Roy. Era roca, secca, e più che parlare, sussurrava parole.
“Igni… natura… renovatur… integra…”

Ad ogni parola, il corpo di Riza veniva travolto sempre di più da quelle fitte dolorose, come se una fiamma gliele incidesse nella carne.
Sentì un crampo alla gamba, segno che la sua situazione di incoscienza stava cominciando a finire. Socchiuse gli occhi, mentre cercava di mettere a fuoco lo spazio attorno a sé, senza alcun successo. Aprì la bocca per parlare, ma uscì solo un mugugno.
Il dolore sulla schiena si fermò improvvisamente, lasciandola senza fiato.
Sentì una presenza avvicinarsi al suo voltò; tuttavia, non riusciva a distinguere bene le forme attorno a lei.
“Mmh, si sta svegliando. Serve altro Giusquiamo.”

Furono le uniche cose che sentì, prima di perdere nuovamente conoscenza.



Ciò che la svegliò, fu la sensazione di freddo che le fece percorrere brividi lungo tutto il corpo.
Lentamente, aprì gli occhi, cercando di abituarsi alla luce che entrava dalla finestra.
‘Deve essere mattina.’
Cercò di alzare la testa, ma scoprì di essere più indolenzita del previsto. Allora la riappoggiò alla superfice fredda dove si trovava, e si focalizzò sulle cose attorno a lei.
Di fronte ai suoi occhi vi era una biblioteca, che lentamente Riza riconobbe come quella dello studio di suo padre. Fece scorrere lentamente gli occhi sui tomi, riconoscendoli.
Abbassò lo sguardo, e si accorse che la superficie sulla quale si trovava doveva per forza essere il tavolo sul quale il padre era solito lavorare prima di ammalarsi, e che Riza aveva diligentemente pulito e disinfettato sotto sua richiesta.

I pezzi cominciarono a collegarsi uno alla volta, dentro la mente della ragazza, insieme ai ricordi del pranzo del giorno precedente. Suo padre in giardino. La tisana. Il Giusquiamo.
Un senso di terrore si impadronì di lei, e sentì una scarica di adrenalina percorrerle il corpo. Tentò di sollevarsi, ma si accorse di avere le mani bloccate da degli stretti lacci. Provò ancora a muoversi, ma una fitta di dolore alla schiena la immobilizzò.
Cercò di voltare la testa per guardare, e fu in quel momento che si accorse di essere nuda dalla vita in su.
I battiti le aumentarono, mentre una strana consapevolezza si impossessava di lei.
‘Cosa mi ha fatto?’

In quel momento la porta si aprì.
“Sei sveglia.”

La ragazza non rispose, né si voltò verso l’uomo. Cercò di restare immobile, con la cassa toracica che si alzava e abbassava seguendo il ritmo del suo respiro.
“Sono venuto a controllare come stai.”

Posò una mano sulla spalla di Riza, che cercò di ritrarsi al contatto.
“Il Tatuaggio è in ottime condizioni, ma purtroppo non l’ho ancora terminato. Ho lavorato tutta la notte, ma non posso permettermi che si rovini. Ci vorranno ancora un paio di giorni.”

Riza si bloccò. Tatuaggio? Un paio di giorni?
Cosa voleva dire suo padre?
“Fra un’ora ricomincerò; mi sembra un lasso di tempo accettabile. Infondo la tua pelle sta reagendo molto bene.”

La ragazza deglutì, mentre le mani di suo padre seguivano i contorni di quella cosa.
“Hai bisogno di qualcosa?”

Il tono stranamente gentile la sorprese, e, con lentezza, aprì la bocca per parlare.
“Bagno… dovrei andare in bagno.”

L’uomo staccò la mano dalla sua schiena e cominciò ad armeggiare con i lacci attorno ai suoi polsi.
“Ma certo! Ti accompagno. Devo controllare che il Tatuaggio non si rovini.”

La sollevò da sotto le braccia e la mise in posizione seduta, mentre lei tentava di riprendersi dalla sensazione di fastidio che le percorreva i nervi della schiena.
“Non…non so se riesco a stare in piedi.”

Berthold non fece una piega. Continuando a tenerla sollevata sotto le braccia, la condusse fuori dalla stanza, aiutandola a mettere i piedi uno davanti all’altro.
La condusse fino al bagno, ed entrò con lei.
Riza strinse gli occhi più forte che poteva, mentre anche il suo ultimo briciolo di dignità veniva cancellato.

Mentre usciva dalla stanza, passò di fronte al grande specchio sopra al lavandino.
Fu lì che lo vide per la prima volta.
Le si mozzò il fiato, mentre fissava quella cosa che suo padre le aveva tatuato sulla schiena. Era chiaramente incompleto, anche se solo a guardarlo si capiva l’opera d’arte che esso rappresentava. Poteva essere quasi bello, se solo non fosse stato inciso sulla sua schiena.
Berthold sorrise, ammirando il suo capolavoro con soddisfazione.
“E’ bello, vero Riza? L’ho terminata, finalmente… è tutta lì, la mia ricerca; manca solo poco e sarà completa.”

Riza si sentì mancare. Le venne la nausea, ma non rigettò. Il padre cominciò a spingerla di nuovo verso lo studio, mentre lei cercava di trovare una soluzione.
‘Scappare? E dove? Non avrei nessun luogo in cui andare. Non ho una persona a cui rivolgermi, nessuno si accorgerebbe mai della mia assenza.’
Un pensiero le passò la mente, veloce come una saetta.
‘Il Dottor Logan! Lui potrebbe!’

Il suo entusiasmo svanì quando, entrando nello studio, fissò la finestra. Ormai era mattina inoltrata. Il treno del Dottore era sicuramente partito; e l’uomo, pur non vedendola arrivare, non avrebbe potuto fare nulla. Erano venuti i militari a prelevarlo: non si sarebbero sicuramente preoccupati di una ragazzina che non si era presentata in stazione a salutare il Dottore.
Riza sentì le lacrime salirle agli occhi, mentre Berthold la adagiava di nuovo prona sul lettino. L’uomo la legò con calma, per poi uscire dalla stanza e fare ritorno con una tazza calda.
“Mi dispiace Riza, ma non posso permettermi che tu ti muova durante il processo.”

La ragazza comprese cosa voleva dire e si agitò, mentre suo padre le si avvicinava. Le tenne ferma la testa, mentre lei scalciava, bloccata dai lacci.
La costrinse a bere quel liquido, che Riza immaginava fosse altro Giusquiamo.
Poi suo padre le adagiò al testa sul tavolo, e in pochi minuti, Riza perse di nuovo conoscenza.



Tre giorni dopo, Riza era di nuovo nel suo letto, stravolta. In quel lasso di tempo aveva mangiato pochissimo, e tutto il suo corpo si sentiva ancora indolenzito dal tempo passato legata al tavolo.
Quando, il giorno prima, suo padre aveva terminato il lavoro, non le aveva detto nulla. Non una parola di scusa, di spiegazione; niente.
Era tornato nella sua stanza, e da lì non era più uscito.

Anche Riza era rimasta chiusa nella sua camera. Continuava a fissare la sua immagine riflessa nel grande specchio vicino all’armadio, e una sensazione di disgusto cresceva in lei ogni volta che fissava la cosa che aveva sulla schiena.
Se inizialmente poteva pensare che fosse, in un qualche strano e perverso modo, bello, ora non ce la faceva più.
Si sentiva uno schifo. Una ragazzina con il segreto dell’Alchimia di Fuoco sviluppata da suo padre inciso sulla schiena.

Si lasciò cadere fra le lenzuola, ricominciando a piangere.
‘Perché è successo? Perché mi ha fatto questo?’
La sua mente non riusciva trovare risposte a nessuna delle sue domande. Ancora una volta, la mentalità di suo padre le sfuggiva. Si era solo illusa di poterlo comprendere, di poter instaurare un qualche tipo di legame con lui.
Nel buio di quella stanza, però, Riza rivolse un ultima domanda all’oscurità.
Una domanda che non era né per lei, né per suo padre, né per un qualche Dio, se mai ce ne fosse stato uno.

‘Perché non eri qui a salvarmi?’





















Note dell'Autrice:
Ehilà! Eccomi di ritorno con il tanto atteso undicesimo capitolo di Hallelujah!

Potete vedere dalla lunghezza che è stato un vero parto; la stesura per intero mi ha preso diversi giorni. Ma finalmente ci sono riuscita!
Questo capitolo parla di quando Berthold incide su Riza la propria Alchimia. So che, non essendo raccontato nel manga, è una scena che, per quanto debba essersi svolta in modi simili, è diversa nell'immaginazione di ognuno di noi.
Avevo già raccontato che, nella mia storia, una delle passioni di Elizabeth fosse proprio l'essicare fiori. La donna, oltre a ciò, aveva una vera e propria passione per le piante; e di ognuna di loro conosceva utilizzi e pericoli.
Il Giusquiamo è una pianta erbacea velenosa tipica delle campagne, soprattutto vicino a ruderi e strade campestri, e fiorisce in estate. Veniva usato nel XIX secolo e precedentemente come narcotico e sedativo. Oltre a queste caratteristiche, però, era considerato pericoloso proprio perchè provocava forti allucinazioni e alterazione delle percezioni sensoriali, ed è quello che avviene a Riza mentre è sedata.
La ragazzina ha delle visioni, in particolar modo sulla madre (vedi l'attaccamento dimostrato alla sua persona nel capitolo precedente) e a Roy, che nel momento di incoscenza e difficoltà viene richiamato dal suo inconscio.
Ovviamente dopo un po' la ragazza riprende conoscenza e, lentamente, mette insieme i pezzi e capisce cosa stia succedendo. Prova acnhe a cercare una soluzione, ma non ce ne sono. Berthold ha fatto bene il suo lavoro, e sa che non corre pericolo che qualcuno interrompa il suo operato.
Riza ovviamente ha delle razioni contrastanti quando vede per la prima volta il tatuaggio. Da un lato, è tremendamente affascinante e incredibilmente studiato; dall'altro è un orribile segno che un padre sta lasciando sulla propria figlia, facendole soffrire le pene dell'inferno.
So che alcuni pensano, relativamente al tatuaggio di Riza, che 'non sia stato doloroso'. In effetti, i tatuaggi sulla schiena non sono tra i peggiori. Ma io vorrei ricordare che siamo all'inizio del XX secolo, e Berthold non possiede gli aghi da tatuatore, tanto più si sta aiutando con la stessa Alchimia di Fuoco.
Ultima ma non meno importante, la citazione. Dice: There's a blaze of light in every word, ovvero C'è un esplosione di luce in ogni parola, che io ho voluto riferire al momento del tatuaggio. Inoltre, l'Hallelujah sacro o spezzato  è, rispettivamente, quello di Berthold e quello di Riza.
Lascio a voi l'interpretazione delle ultime righe del capitolo...
A presto!
-Elizabeth

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** #12 - Epiphany ***


Hallelujah
#12 – Epiphany
But remember when I moved in you and
The Holy Dove was moving too
And every breath we drew was Hallelujah

Riza, una tazza di tè caldo fra le mani e una coperta beige sulle spalle, osservava assente il fuoco ardere dentro la vecchia stufa. Fuori dalla finestra, il cielo limpido ma ancora freddo dei primi di Marzo preannunciava una giornata soleggiata.
Le era servito un intero mese, prima di riuscire a parlare di nuovo con suo padre.
L’uomo sembrava essersi indebolito dopo quelle notti di follia, ma era stato in grado, per un po’ di tempo, di occuparsi di se stesso, mentre Riza cercava di venire a patti con il proprio corpo.
La ragazza si era trovata a dover rivalutare tutto il proprio abbigliamento, al fine di occultare la cosa sulla sua schiena; non poteva certo permettere che qualcuno la vedesse. Infondo, era quello che voleva suo padre.
L’arrivo dell’autunno, e poi dell’inverno, aveva reso le cose più semplici: si sentiva tranquilla a camminare per il paese, senza avere la costante sensazione di avere gli occhi di qualcuno puntati addosso, e cercare di carpire il suo segreto.

Il tempo libero non le mancava, soprattutto dopo la partenza del Dottor Logan; per cui si era ritrovata a fare sempre più spesso lunghe passeggiate nella campagna, cercando di passare meno tempo possibile in quella casa che cominciava a soffocarla.
Aveva sviluppato, come la madre, una passione per le piante: durante le passeggiate spesso ne raccoglieva diverse, provando a produrre le pomate e gli unguenti lenitivi descritti nei libri. Spesso si trovava ad applicarsi sulla schiena, per vedere se quello strano formicolio che ogni tanto compariva riuscisse a sparire in qualche modo. La sua vita sembrava ripartire lentamente, anche se Riza non avrebbe saputo dire dove l’avrebbe portata.
Tante cose erano cambiate, da quel momento.

Non aveva più visitato la tomba di sua madre.
A volte, durante le lunghe camminate, si era spinta fino al cancello del cimitero, ma ogni volta si era fermata lì.
Non riusciva ad entrare; non voleva mostrarsi alla madre, dopo ciò che Berthold le aveva fatto; non voleva che vedesse com’era diventata, quale peso era stata costretta a portare dietro di sé.
Così rinunciava, limitandosi ad osservare da lontano quella tomba silenziosa.


La ragazza si svegliò dal suo tepore e si costrinse a fare qualcosa. Piegò la coperta, sciacquò la tazza e indossò il soprabito blu. Si appropinquò ad uscire, ma due colpi alla porta la fecero desistere. Con determinazione si diresse alla porta e la aprì.
Il cuore le fece una capriola, mentre riconosceva l’uomo, vestito della divisa militare di Amestris e di un cappotto scuro, che in quel momento le sorrideva dall’uscio della porta.
“Ciao, Riza.”

La ragazza strizzò gli occhi, cercando di realizzare appieno la cosa.
Roy Mustang era lì, di fronte a lei, con un non so che di più adulto nel portamento.
‘E’ tornato…’
Una parte di lei, quella che le ricordava la bambina di undici anni che un tempo era stata, voleva saltargli addosso e abbracciarlo, da quanto la sua presenza gli era mancata. Ma Riza ormai non era più quella bambina, e tutti i propositi di gioia vennero occultati da un pensiero martellante.
‘Avrebbe potuto salvarti.’
Riza deglutì e cercò di nascondere il disagio e la delusione provocatole da quel pensiero, mentre gli faceva cenno di entrare.
“Salve, Signor Mustang.”

Roy era rimasto un po’ deluso da quella cordialità, ma c’era qualcosa nello sguardo di Riza che lo fece desistere dal pretendere quella confidenza che avevano due anni prima.
Infondo, te ne sei andato.’
Riza lo fece accomodare, mentre lui si soffermava a osservare la casa.
Non era cambiato nulla in quegli anni: l’abitazione era come custodita sotto ad una campana di vetro, dove tutto era immutabile ed eterno. Roy desiderò che anche per lui fosse stato così.
“Vorrei parlare con il Maestro Hawkeye, se è possibile.”

Un’ombra passò sugli occhi della ragazza, che prontamente gli rispose in modo gentile.
“L’anno scorso mio padre si è ammalato di Tisi. In questo periodo non sta molto bene, ma credo sia possibile una breve visita.”

Roy rimase interdetto. Guardò negli occhi Riza, e quello che vi lesse dentro gli tolse ogni dubbio.
‘Sta per morire.’
E così, la fine era arrivata anche per quell’Alchimista.


Quando Roy entrò all’interno dello studio dell’ex maestro, rimase quasi sorpreso dal cambiamento che gli si parava di fronte. Era abituato al caos e al disordine che infestava quella stanza; ai libri, gli appunti di alchimia sparsi ovunque, sulla scrivania e sul pavimento. Invece, davanti a lui, Berthold Hawkeye era seduto composto mentre scriveva con grafia malferma su un quaderno, con un contegno quasi fuori luogo.
Non appena la porta si fu chiusa alle sue spalle, il Maestro posò il calamaio.
“Allora alla fine sei entrato nell’esercito…Roy.”

C’era quasi una nota di delusione, che il giovane non faticò a cogliere. Gli occhi dell’uomo, però, lasciavano trasparire un senso di consapevolezza, che fece capire al soldato che Berthold si aspettava esattamente questo da lui.
“Ho pensato che sarei potuto diventare un Alchimista di Stato e fare qualcosa per il mio paese.”
Un sorriso carico di disprezzo attraversò gli occhi del Maestro, mentre lo fissava con i suoi affilati occhi azzurri
“Proprio come pensavo.. non sei pronto per l’Alchimia di Fuoco.”

Roy sussultò.
Non era più un quasi ventenne con la divisa da soldato semplice di Amestris; era di nuovo il ragazzino che, poco più di due anni prima, si era sentito dire quelle stesse parole. Il giovane Roy Mustang troppo irrequieto, troppo impulsivo per essere pronto ad imparare il grande segreto del suo maestro.
Anche dopo tutto quel tempo, non era cambiato nulla.
“Non ancora…? Lei finora non mi ha che insegnato le basi dell’Alchimia.”
“Già. E’ uno spreco insegnare a qualcuno che si disonorerà con le sue stesse mani diventando un cane dell’esercito.”

Roy sentì un moto di nervosismo salirgli dentro, ma cercò di non scomporsi. Quell’uomo stava calpestando tutti i suoi sogni di cambiare il mondo e renderlo migliore; li stava riducendo a mere utopie senza capo né coda.
Decise di provare, almeno un’ultima volta, a convincerlo della sua scelta.
“Io credo che ci sia un legame tra la gente e l’esercito, e penso che l’Alchimia possa essere utile a entrambi...”
“Sono stanco di sentire questi discorsi di seconda mano.”
Il tono brusco di Berthold fermò Roy dal suo discorso. Il giovane però decise di non mollare, toccando quello che sapeva essere il tasto dolente del suo maestro.
“Se diventasse un Alchimista di Stato e accettasse i fondi per le ricerche, sono sicuro che il suo lavoro andrebbe molto meglio…”

Un sorriso si dipinse sul voltò di Berthold, che alzò la testa per fissare il soffitto, in un punto imprecisato, estraniato dal resto del mondo.
“Non ne ho bisogno. Le mie ricerche sono state ultimate molto tempo fa.”

Roy rimase interdetto, fissando con interesse l’uomo.
Aveva quindi portato a termine quell’infinita opera che aveva occupato gran parte della sua vita, rovinando anche l’infanzia della figlia.
La parte scientifica di lui non poté fare a meno di chiedersi in che cosa consistesse.
Berthold quasi sembrò leggergli nel pensiero.
“Si tratta di un’alchimia potentissima, che a seconda di come viene usata, può diventare un’arma mortale.”

Roy ascoltava rapito il discorso del maestro che, con gli occhi spalancati verso il vuoto, parlava con un tono sempre più acceso.
“Ho soddisfatto appieno i miei desideri, e non voglio nient’altro. Ho terminato la ricerca della verità, che è prerogativa degli alchimisti, che li rende vivi. Io… mi considero morto da tempo, ormai.”
Il giovane si sentì turbato dalla piega che quel discorso stava prendendo.
“Se mettesse i suoi poteri al servizio del mondo…”
“Poteri, eh? Li desideri così tanto, Roy?”

L’uomo cominciò a sputare sangue, colto da un violento attacco di Tisi. Roy, sconvolto dalle parole dell’uomo e da quell’improvviso malessere, rimase bloccato.
“Volevo insegnarti tutto…dopo averti visto maturare con i miei occhi.”
Roy cercò di sostenerlo, mentre l’uomo gli lasciava la sua ultima eredità.
“E’ un peccato che non abbia più tempo per te…”

Berthold, il sangue che colava dalle labbra e il corpo mosso da spasmi, guardò negli occhi il suo allievo per l’ultima volta.
“Mia figlia…lei conosce tutto. Se le prometterai di usare il mio potere…la mia alchimia, nel modo giusto, forse… forse ti svelerà il segreto…”
Roy ascoltava le enigmatiche parole del maestro, mentre cercava, inutilmente di aiutarlo.
“Maestro! Si faccia forza!”
“Perdonami… ero così immerso nelle mie ricerche che non ho fatto niente per te…mi dispiace, Riza…”

Un ultimo colpo di tosse lo fece accasciare definitivamente sulla scrivania.
“Roy, mia figlia…mi raccomando, ti prego…”
Il silenzio che seguì quelle ultime parole mandò nel panico Roy.
“Aiuto! Qualcuno chiami un medico! C’è nessuno?!”

La porta si spalancò, e Roy si pentì di aver urlato.
Riza era lì, con uno sguardo di terrore dipinto sul volto, mentre lo fissava sostenere il corpo morto del padre.
“Riza!”



Già prima del tramonto, i due giovani si trovavano di fronte alla tomba di Berthold Hawkeye.
Riza aveva insistito perché il rito funebre si svolgesse il prima possibile, e il vecchio becchino era stato più che d’accordo: la natura della sua malattia rendeva opportuno che venisse seppellito in fretta, per evitare eventuali contagi.
Roy fissava con silenziosa incredulità la lapide, incisa in modo frettoloso ma preciso, che custodiva la tomba del suo Maestro. Quella mattina si era recato lì proprio per parlargli, per chiedergli un’ultima volta di svelargli la sua alchimia; si era promesso che, nel caso in cui l’uomo si fosse opposto ancora, lui avrebbe rinunciato.
Ma l’uomo adesso era morto, e le misteriose ultime parole di Berthold avevano scalfito la sicurezza che, da quando era uscito dall’Accademia, ostentava con orgoglio.
Sollevò lo sguardo alla sua destra, verso la figura che gli teneva compagnia silenziosamente.
Riza.
Roy era contento di averla vista sana e salva, ormai diventata una giovane donna. Si era chiesto tante volte che vita avrebbe potuto fare lì, sola con quell’uomo inafferrabile; e quel giorno, appena se l’era trovata davanti, aveva sentito una morsa al petto sciogliersi.
Ma l’ultima confessione del Maestro continuava a tornargli in mente, senza che lui riuscisse fino in fondo a coglierne il significato.
Berthold aveva detto che Riza conosceva il segreto… il ragazzo, conoscendo l’avversione della sua giovane amica verso l’Alchimia, stentava a credere che fosse vero.
L’aveva forse convinta in qualche modo ad intraprendere quella scienza? Oppure lei, di sua spontanea volontà, aveva accettato di mantenere il segreto sulle ricerche del padre, sapendo che lui era prossimo a morire?
Con la coda dell’occhio le guardò il viso, e provò istintivamente un modo di invidia. Lui aveva aspettato così tanto di poter conoscere quel segreto, mentre lei, che disprezzava tutto ciò che riguardasse l’Alchimia, ne era la custode.

Un leggero tremito scosse le spalle della ragazza che stava fissando intensamente la lapide. A Roy parve di scorgere un’ombra di sollievo nei suoi occhi, ma durò solo un attimo. Poi lei interruppe il silenzio che si era creato.
“Mi dispiace, Signor Mustang. Ha dovuto prendersi cura di tutto, persino del funerale di mio padre.”
Roy scosse le spalle. Infondo aveva solo dato un’abbondante mancia a quel vecchio becchino.
“Ero un suo allievo, farei questo ed altro per il mio vecchio Maestro. Piuttosto, tu non hai nessun altro parente, oltre a lui?”

La ragazza scosse la testa mestamente.
“Mia madre è morta tempo fa, lo sa. E, per quanto ne so, entrambi si erano allontanati dalle loro famiglie.”
Una domanda alleggiava tangibile nell’aria, e Roy le diede voce.
“Cosa farai, ora?”
“Ci penserò.”

Lo sguardo di Riza era incerto, e il soldato capì che la ragazza non aveva ancora realizzato appieno il significato della libertà che le si era appena manifestata davanti. Anzi, la cosa la spaventava.
“Credo che riuscirò ad andare avanti da sola.”
“Capisco…ad ogni modo, puoi rivolgerti alle autorità militari per qualsiasi cosa. Io credo che ci passerò l’intera vita.”

Il soldato estrasse un biglietto da visita dalla tasca interna del cappotto e lo porse alla ragazza, che lo guardò curiosa.
“Tutta la vita…? Non muoia, la prego.”
“Ehi, non fare l’uccello del malaugurio..”
Lo sguardo rilassato di Roy si incupì.
“Ad ogni modo non posso assicurartelo. Nella strada che mi sono scelto, potrei morire da un momento all’altro ed essere lasciato a marcire sul campo di battaglia…”
La ragazza lo fissava con attenzione, stringendo il biglietto tra le mani.
“…però, se potrò essere d’aiuto a questo paese e riuscirò a proteggere la gente con queste mani, allora… credo che ne varrà la pena.”

Il suo sguardo era determinato; lo stesso di quando, tre anni prima, le aveva confidato il suo sogno di diventare Alchimista di Stato.
“…Ed è proprio questa la ragione per cui ho deciso di studiare alchimia. Ma, alla fine, non sono riuscito a farmi insegnare dal Maestro i suoi preziosi segreti.”
C’era una profonda nota di rammarico nella sua voce, e Roy sapeva che alla ragazza non sarebbe sfuggita.
“Comunque scusami. Ti avrò annoiata parlando dei miei stupidi sogni..”
“I suoi sogni sono meravigliosi.”

L’affermazione della ragazza prese in contropiede Roy, che si zittì all’improvviso. I suoi sogni sono meravigliosi… era forse di questo che parlava Berthold, prima di morire?
“Mio padre…diceva che i suoi segreti erano scritti in un codice che un normale alchimista non avrebbe potuto decifrare.”
Roy sentì un brivido corrergli lungo la schiena.
‘Ecco…il momento è arrivato.’
Decise di forzare il discorso, tentando il tutto per tutto.
“Allora il Maestro ha lasciato dei manoscritti con tutti i suoi segreti, eh…”
“No.”

Al giovane non sfuggì la tensione nel tono della ragazza che, al suo fianco, si era irrigidita, e aveva chinato la testa.
“Non si tratta di…manoscritti. Diceva che sarebbe stato un gran problema se le ricerche di tutta una vita fossero cadute in mano ad uno sconosciuto o fossero andate perse…”
Roy sentiva le mani sudare, mentre si apprestava a scoprire la verità sull’Alchimia del Maestro.
“In che modo può aver lasciato tutto…?”
Il vento fischiò debolmente.
“Signor Mustang, quei sogni…posso affidarle la mia schiena? Posso credere in un futuro in cui tutti vivono felicemente?”




Roy fissava con apprensione la giovane ragazza davanti a lui.
La strada dal cimitero alla casa era stata lunga e silenziosa. Il soldato aveva continuato a riflettere per tutto il tragitto su ciò che Riza gli aveva detto. Le parole gli rimbombavano nella testa, ma lui non capiva – o meglio, non voleva capire – la verità raccapricciante che svelavano.

Lo sguardo di lei era perso verso l’orizzonte, oltre ai vetri della finestra del salotto, dalla quale si vedeva tramontare il sole. La tensione che aleggiava nell’aria era palpabile.
Con un veloce movimento delle mani, Riza fece scivolare la giacchetta che indossava a terra. Poi, prima che Roy potesse ribattere qualcosa, cominciò con movimenti veloci e nervosi a sganciare i bottoncini che le stringevano il vestito.
Se lo lasciò scivolare fino ai piedi, ringraziando mentalmente di aver indossato la sottoveste; e aspettò, con le braccia strette al seno, che il soldato dicesse qualcosa.

Per un lungo attimo non sentì nulla, al di fuori del battito accelerato del suo cuore, che sembrava volerle uscire dal petto. Fu tentata di voltarsi per vedere la reazione di Roy alla vista del segreto di suo padre, ma la vergogna era troppa e non ebbe il coraggio di farlo. Se ci fosse riuscita, avrebbe visto che il giovane era come paralizzato, con lo sguardo fisso sul complesso disegno che le copriva la schiena.

Roy cominciò a sudare freddo, mentre improvvisamente le parole di Berthold Hawkeye diventavano spaventosamente chiare.
‘Mia figlia…lei conosce tutto.’
‘Non si tratta di…manoscritti.’


Roy fissando con dolore quella schiena delicata, comprese cosa davvero era successo in quella casa, durante la sua assenza.
Cosa aveva permesso che accadesse.
Le mani gli tremavano, mentre immaginava quanto dolorosa – sia fisicamente che psicologicamente – fosse stata quell’esperienza per la ragazza. Lei, che più di tutto odiava l’Alchimia, era costretta a portarne il marchio.
Ancora una volta quella scienza aveva vinto, e dopo essersi presa suo padre, si era presa anche il suo corpo.
Roy abbassò gli occhi, sconfitto. Dentro di lui cominciava a crescere un senso di colpevolezza che lo stava travolgendo.
Non era riuscito a salvarla.


Dopo circa un minuto, Riza non resistette più.
“La prego…dica qualcosa.”
Roy deglutì rumorosamente e fece un passo verso di lei, cercando di scuotersi da quello stato di trance in cui era entrato e di pensare lucidamente. “Questa… questa sarebbe la sua ricerca sull’Alchimia di fuoco?”
La ragazza respirò profondamente ed annuì.
“Posso…?”
“Si.”

Riza sentì la mano calda del giovane sfiorarle la scapola destra, e dovette mordersi un labbro per non urlare.
Adesso, oltre all’imbarazzo che la immobilizzava, si stava risvegliando dentro di lei la sensazione di essere violata, che le ricordava in modo fin troppo reale i giorni in cui il padre l’aveva marchiata.
La mano si mosse, con delicatezza, e lei non poté fare a meno di notare che il tocco del ragazzo era molto più delicato e premuroso, rispetto a quello del padre. Poi, con grande sorpresa si accorse che le sue dita non stavano seguendo i contorni del cerchio alchemico, ma la linea delle sue scapole.

Roy non le chiese se era stato doloroso. Da come Riza tremava al suo tocco, aveva capito che quel tatuaggio l’aveva danneggiata non solo fisicamente, macchiandole quella schiena delicata e proporzionata, ma aveva cambiato qualcosa anche dentro di lei; tanto che ora non riusciva a fidarsi nemmeno di lui.
“Come… come ha potuto fare una cosa simile?”

Riza non rispose, ma i suoi tremiti si fecero più forti, e il giovane capì che ormai era sul punto di crollare. Evidentemente già solo il fatto di mostrargli quello che il padre le aveva fatto era troppo per lei. Raccolse la giacchetta e gliela rimise sulle spalle, facendo attenzione a non sfiorarla più del dovuto.
Solo in quel momento Riza ebbe il coraggio di voltarsi ed affrontare la sua espressione.
“Perché…”
“E’ stata una lunga giornata” la interruppe lui “Il sole ormai è calato, e sono ancora stanco dal viaggio. Domani mattina… se vorrai, potremo ricominciare.”

Riza annuì e lo guardò grata, e Roy si accorse per la prima volta delle profonde occhiaie che le circondavano gli occhi.
“Può usare la sua vecchia stanza, Signor Mustang. E’ ordinata e le lenzuola sono pulite.”
“Ti ringrazio. Se non ti dispiace, io salterei la cena.”

Si voltò verso il corridoio e, prima di salire le scale, le augurò la buonanotte.
Quando mise piede nella sua stanza, si meravigliò di come questa fosse rimasta uguale a come l’aveva lasciata. Tutti gli oggetti erano al loro posto, compreso un corredo di asciugamani che la ragazza aveva probabilmente preparato nel pomeriggio, prima dell’improvvisa morte di Berthold Hawkeye.
Fissò il proprio riflesso nel grande specchio della camera, come era solito fare quando viveva ancora lì.
Il se stesso che si trovò davanti ormai aveva ben poco a che fare con il ragazzino che si era presentato alla porta di quella casa, cinque anni prima. L’unica cosa rimasta immutata erano i suoi grandi sogni.
Ripensò alle parole del Maestro, e non poté fare a meno di chiedersi se, alla fine, non avesse immaginato come sarebbe andata a finire.
Se, infondo, non fosse stato sicuro che Riza avrebbe mostrato proprio a lui il suo grande segreto.

Un gufo bubolò fuori dalla finestra, e una fitta di nostalgia invase Roy, ricordandosi di quanto quel suono gli fosse mancato. Di quanto tutto, di quel posto, gli fosse mancato.
Si stese sul letto, raggomitolandosi in posizione fetale. L’immagine di Riza, tremante per l’imbarazzo, che gli mostrava il tatuaggio continuava a tormentarlo.
No, non era così che aveva immaginato il suo ritorno a casa.












Angolo dell'Autrice (Ritardataria cronica):
Vi chiedo immensamente scusa per questa lunga assenza. Ero convintissima di riuscire a postare nelle precedenti settimne, ma la realtà è che sono rimasta bloccata ad un punto del capitolo e - a causa di numerosissimi impegni, soprattutto di studio - ci ho messo molto a finirlo...ed in effetti è spaventosamente lungo, ma questo dipende anche da motivi strutturali.
Ad ogni modo adesso sono qui, e spero che il capitolo (anche se non mi convince) vi sia piaciuto.
La strofa di Cohen descrive un momento in cui lui parla con la donna che ama di quando vivevano insieme. Ho deciso di interpretarlo proprio attraverso il ritorno di Roy a Casa Hawkeye, che coincide poi con la morte di Berthold e la rivelazione dell'Alchimia.
Ero tentata di mettere un pezzo anche sullo studio che poi fa Roy sulla schiena di Riza, ma il capitolo diventava davvero troppo lungo e sinceramente ho l'impressione che certe cose vadano lasciate così come stanno. Ad ogni modo, un piccolo pezzo di come secondo me è andata lo potete leggere nella mia One-shot Injuries, che lo riprende come breve flashback.
Per quel che riguarda il capitolo, ho deciso di riprendere la situazione dal manga, e non da Brotherhood (infatti Berthold è nel suo studio, e non a letto) e sempre dal volume 15 ho recuperato i dialoghi, che ho però rielaborato, adattandoli alle cose che volevo sottolineare.
Ho voluto mettere un accento sul fatto che Berthold sapesse, infondo, che cosa aveva fatto Roy; e che avesse deciso, alla fin fine, di rivelare proprio a lui il suo segreto. Soprattutto la parte in cui dice "Volevo insegnarti tutto...dopo averti visto maturare con i miei occhi. E' un peccato che non abbia più tempo per te." Inoltre, Berthold affida a Riza la sua ricerca e, come lei stessa dice, "[Mio padre] Diceva che sarebbe stato un gran probelma se le ricerche di una vita fossero finite in mano ad uno sconosciuto o fossero andate perse."; visto che Riza conosce unicamente Roy, è un tantino scontato su chi ricadrà la scelta.
Sempre per quel che riguarda, Riza, Berthold prima di morire dice "Roy, mia figlia...mi raccomando, ti prego."
Nonostante io sia una buonista convinta, che crede nel pentimento di chiunque, in questo caso mi piace più pensare che la figlia a cui Berthold si sta riferendo sia in realtà l'ALchimia, che lui stesso ha creato e con la quale ha marchiato la sua vera figlia.
Altra cosa che ho cercato di sottolineare: Roy che mette insieme i pezzi del puzzle.
Ogni parola di Berthold, così come ciò che dice e fa Riza, fanno scoprire a Roy i tasselli degli avvenimenti accaduti quando lui era all'Accademia, e che hanno cambiato completamente la vita in quella casa. E che gli fanno ricordare che è stato lui ad andarsene, lasciando Riza in balìa di suo padre e della sua ossessione alchemica.
Beh, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto... non so proprio quando arriverà il prossimo, ma quasi sicuramente farà parte già dell'arco di Ishval, per cui probabilmente richiederà anche lui lunghi tempi di produzione.
A presto! (si spera!)
-Elizabeth

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** #13: Dust ***


Hallelujah
#13 – Dust
 
Well maybe there’s a God above
But all I’ve ever learned from Love
Was how to shoot somebody who outdrew you.
 
Riza strinse gli occhi, cercando di alleviare il senso di bruciore causato dalla sabbia.           
Il vento caldo alzava incessantemente quei piccoli granelli a cui lei, dopo sei mesi passati in quella terra arida, si era ormai quasi abituata.
Un soldato le passò una tazza sbeccata con dentro una brodaglia, e la ragazza la accettò con un sorriso tirato. Fissò il proprio riflesso nel liquido scuro, osservando con rassegnazione le profonde occhiaie e il viso sporco di terra.
Nonostante l’odore non promettente, Riza bevve tutto il contenuto della tazza, per poi alzarsi in piedi, prendendo con sé il suo fucile. Spazzò l’uniforme con movimenti veloci e decisi, per poi dirigersi verso la propria tenda, dove avrebbe potuto riflettere in solitudine.
A volte sentiva il bisogno di ricordare a se stessa perché era lì, cosa l’aveva spinta a fare quella scelta, per quale motivo indossasse quella divisa da soldato.
Con passo lento arrivò alla sua postazione e si sdraiò sopra le coperte, le mani giunte dietro la testa e gli occhi chiusi, mentre ripercorreva i ricordi.
 
Dopo aver mostrato a Roy la ricerca di suo padre, il giovane era rimasto a casa sua per poco più di una settimana; il tempo necessario a decifrare il codice dietro a cui il Maestro Hawkeye aveva nascosto il segreto della sua Alchimia. Dopo di che aveva deciso di continuare i suoi studi a Central City.
‘Dopo che avrò ottenuto il titolo di Alchimista di Stato, ti scriverò’ le aveva detto ‘E, probabilmente, a guerra finita, riuscirò a venire a trovarti. Tornerò, Riza.’
La ragazza era stata sollevata da questo, ma una parte di lei era dispiaciuta dal fatto che il soldato se ne dovesse andare. Durante quel poco tempo passato insieme Riza si era accorta che affiancare Roy le veniva naturale, e da questo si sentiva sia elettrizzata che spaventata.
Dopo la partenza del ragazzo si era trovata di fronte ad una situazione di completa e inaspettata solitudine, a cui inizialmente aveva faticato ad abituarsi: anche se la presenza del padre era pressoché inesistente, quando Berthold era vivo c’era qualcosa, qualcuno da cui scappare, da tenere lontano; un’entità invisibile con cui confrontarsi e a cui dimostrare la propria autonomia. Ma dalla morte dell’uomo, Riza si era trovata tra le mani una smisurata libertà di cui, onestamente, non sapeva cosa farsene.
Così aveva cominciato a nascere in lei la sensazione di avere la possibilità di fare qualcosa, qualcosa di significativo, per dare alla propria vita uno scopo volto al bene di tutti. Qualcosa come il sogno di Roy.
Fin da quando lui glielo aveva rivelato, di fronte alla tomba di suo padre, Riza non aveva smesso di pensare ‘voglio farne parte’. Era quello il motivo per cui aveva scelto di affidargli la ricerca di suo padre: sentiva che era qualcosa di buono, giusto, che meritava di trovare il sostegno degli altri. E lei voleva essere d’aiuto a Roy.
Così, appena compiuti diciassette anni, si era recata a East city – non con poche difficoltà – ed era entrata in Accademia. Lì aveva affrontato le difficoltà del vivere con tante persone, del condividere il proprio spazio personale e i propri pensieri con qualcuno. Se da un lato la cosa era stata una esperienza nuova e elettrizzante, al tempo stesso era stata una sfida continua per il segreto che custodiva dietro alla schiena: non poteva rischiare che nessuna delle altre ragazze lo vedesse; temeva non solo che la ricerca di suo padre finisse nelle mani di qualcun altro, ma anche che le sue commilitone la giudicassero per quel marchio che portava sulla schiena.
Aveva scoperto di essere incredibilmente portata per le armi da fuoco e la sua diligenza l’aveva resa famosa tra i suoi istruttori, che la consideravano una fra i migliori elementi tra le reclute del 1889. Era anche riuscita a stringere amicizia con alcune delle sue compagne, tra le quali spiccava Rebecca Catalina, una spumeggiante e rumorosa mora che la considerava la sua ‘migliore amica’, nonostante Riza faticasse a coglierne il motivo.
Poi, all’inizio del suo secondo anno di Accademia, era stata spedita ad Ishval.
Le sue abilità l’avevano portata tra i tiratori scelti, ad imbracciare un fucile di precisione, nascosta in una postazione sicura ad uccidere tutti gli Ishvaliani che passavano nel suo mirino. E ciò che la spaventava, era che aveva scoperto di essere stramaledettamente brava a farlo.
Di fronte a tutta quella morte, si chiedeva spesso se era davvero questo ciò che la sua vita aveva in serbo per lei. Non aveva forse già pagato a caro prezzo la sua esistenza in questo mondo? Il dolore, la solitudine, la tristezza che le erano state compagne lungo tutta la sua infanzia… non aveva forse sofferto abbastanza? Era questo il dazio per il suo desiderio di fare qualcosa di buono per il mondo?
Quando questi interrogativi la sconvolgevano, Riza era costretta a cercare fermamente un modo per restare con i piedi per terra, per non lasciarsi andare all’oblio. Ed era in quei momenti che ricordava i particolari più disparati del periodo in cui Roy era un allievo di suo padre, su quell’alchimia che per tanto tempo era stata la sua Nemesi.
Non puoi ottenere nulla senza prima cedere qualcosa in cambio. E’ la prima legge dello  scambio equivalente.’
Con quelle semplici parole si riapriva in lei la speranza che, forse, tutto il travaglio che aveva caratterizzato la sua esistenza serviva per ottenere in cambio un bene più grande; una realizzazione che l’avrebbe resa felice e sarebbe valsa tutto quel dolore. Un motivo per sperare nel futuro per redimersi dal presente.
Un brivido la percorse, e la ragazza non seppe dire se era per il freddo notturno che caratterizzava quelle terre desertiche. Il pensiero che, in un tale momento, il suo unico appiglio fosse proprio ciò che più aveva odiato per tutta la sua vita la destabilizzava.
Ma il resto del mondo non aveva tempo per i suoi patimenti interiori, e il campo di battaglia, più di ogni altra cosa, chiedeva il suo pedaggio. Mancava un’ora all’alba, e il resto dell’esercito si stava già muovendo. Riza si ricompose e, con il fucile in spalla, si diresse con passo deciso verso la sua postazione, dopo l’ennesima notte insonne.
 
 
Il modo in cui avvenne la prese alla sprovvista.
Un attimo prima, di fronte a lei, si stagliava un polveroso distretto mezzo distrutto, pieno di insidie e di agguati per i soldati che lei, con il suo occhio di falco, aveva il compito di neutralizzare.
Il momento successivo tutto era scomparso, in una nuvola di fumo nerastra. Il suo mirino inquadrava resti carbonizzati di persone, cose e piante; non vi era vita fin dove il suo occhio poteva vedere.
La notizia aveva raggiunto l’accampamento qualche ora prima ‘Arrivano gli Alchimisti’, ‘E’ il turno delle macchine da guerra di fare il loro dovere’, ‘Oggi è un giorno di pausa’.          Ma vedere davanti a sé la distruzione portata da quelle persone era completamente differente.

Riza sapeva che tutti loro erano assassini, senza alcuna eccezione. Armi bianche o meno, la vita che togli al tuo nemico ha lo stesso valore.
Ma quando il fuoco aveva avvolto il distretto e lo aveva distrutto, aveva compreso quella sottile differenza che macchiava l’animo degli Alchimisti di Stato; il perché tutti li ammirassero e li disprezzassero contemporaneamente.
Aveva visto le fiamme divampare davanti ai suoi occhi e le aveva sentite bruciare nella sua schiena.
Non aveva avuto il minimo dubbio quando aveva assistito a quell’orrore. Era forse stata quella sensazione di formicolio alla schiena? Oppure la semplice, inaspettata consapevolezza di trovarsi di fronte a ciò che sangue del suo sangue aveva creato? Ancora prima che il suo viso comparisse nel cerchio del mirino, sapeva che lui era lì. Lui, l’artefice di quel massacro, di quell’utilizzo sbagliato di quell’immenso potere che lei gli aveva affidato.
Aveva creato un mostro.
 
 
Quando si tolse il cappuccio, fu come  se migliaia di aghi la trapassassero da capo a piedi. I loro sguardi da assassini si incrociarono silenziosi, carichi di dolore e delusione. Riza, con il cuore stanco e le mani sporche di sangue, cercò di reggere quello sguardo, di sostenerlo con tutte le forze che aveva; se avesse mostrato anche solo un minimo il suo dolore, lui non si sarebbe mai perdonato.
Era un circolo vizioso di sensi di colpa: lei non riusciva a perdonarsi per avergli permesso di diventare un’arma umana, e lui non poteva fare a meno di pensare che lei era lì, con quella divisa, sul campo di battaglia a nemmeno diciannove anni, per colpa sua; di quel sogno che lui, davanti a quella tomba, le aveva rivelato.
‘I rimpianti non cambieranno la realtà dei fatti’ pensò Riza, mentre lei, Roy e il suo compagno si sedevano su delle vecchie casse.
Anche se era doloroso, la ragazza decise che era il momento di dare voce a tutti quei pensieri, quelle domande che l’avevano tenuta sveglia ogni notte; sapeva che Roy avrebbe capito, che non si sarebbe tirato indietro; che, come lei, avrebbe continuato a pensare all’Alchimia come a qualcosa capace di portare felicità alle persone.
“Anche se ho continuato a crederci… perché siamo dovuti arrivare a questo?”
Alla sua domanda, però, non fu Roy a rispondere.
Perché, dici? Perché questo è il nostro lavoro. E’ l’ordine che dobbiamo eseguire.”
La voce del Maggiore Kimbly risuonò grave fra i soldati, che avevano spostato la loro attenzione verso di lui.
“Dici che dovremmo accettare tutta questa brutalità?”
Il tono polemico di Roy era in netta contrapposizione con la fredda calma dell’Alchimista Cremisi.
“Non lo accetti nemmeno se è parte del tuo lavoro? Capisco. Prendiamo un esempio… tu, ragazzina. ‘Quello che faccio non mi piace’. Ce l’hai scritto in faccia.”
Riza, presa improvvisamente in causa, rifletté sulle parole dell’uomo. Dopo tutta la morte che aveva portato…
“E’ così. Uccidere non è per niente divertente.”
“Ah, è così? Quindi puoi giurarmi di non aver mai pensato ‘bene! L’ho preso!’ sentendoti appagata ed orgogliosa delle tue doti, dopo aver compiuto il tuo lavoro?”
Riza sbarrò gli occhi, spaventata. L’immagine dell’uomo che aveva attentato alla vita di Roy poche ore prima le ripassò davanti agli occhi, e si rese dolorosamente conto che sì, era estremamente contenta di aver ucciso quell’uomo, del fatto che il suo colpo perfetto avesse salvato la vita di quel giovane. Ma non avrebbe mai ammesso nulla di ciò di fronte a Kimbly, che ora la fissava con arroganza e soddisfazione.
“Non parli, signora cecchino?”
Roy scattò in piedi e afferrò Kimbly per il colletto della divisa, intimandogli di smetterla. Ma ormai la mente di Riza era altrove, verso i lidi dolorosi dell’autocommiserazione, cullata dalla consapevolezza che, oltre ad avere creato un’arma umana, era un’assassina che gioiva della morte che portava.
Fu in quel momento che realizzò internamente che, in un qualche modo, lei e Roy dovevano  pagare per quello che avevano fatto. L’idea che lo stesso errore non doveva essere ripetuto, e che, per potersi redimere, il costo sarebbe stato molto alto.







Angolo dell'Autrice (in serio, serio ritardo):
Non ci sono scuse per la mia assenza, lo so. Vi ho fatto aspettare quattro (!) mesi per questo capitolo, che non è nemmeno tanto lungo.
La verità è che in questi mesi ho passato un periodo molto difficile, e ciò che ho scritto ne è la più vivida rappresentazione.
In questo capitolo vediamo finalmente Riza come soldato.
I suoi tubamenti interiori caratterizzano la maggior parte della narrazione; è un crescendo di sensi di colpa per quello che ha fatto, quello che sta facendo e la persona che è diventata; un rimorso, comprensibile, che la attanaglia da quando ha messo piede ad Ishval.
Con questa analisi profonda del suo stato d'animo turbato volevo rendere più comprensibile il motivo per cui lei decide di farsi bruciare la schiena da Roy. A prima vista, potrebbe sembrare forse una scelta impulsiva; ma dietro ad essa c'è la consapevolezza di tutti i propri errori, dal primo all'ultimo, e la volontà di rinascere come persona nuova, senza mai dimenticare ciò che si ha fatto.
Nel manga, quando Riza e Roy parlano dei loro ideali, la ragazza cita molte volte le regole dell'Alchimia, ciò che suo padre diceva, il fatto che lei credesse che questa potesse essere buona...considerato che alla donna che sta parlando è stata tatuata (senza consenso, almeno nella mia storia) una formula alchemica potentissima, sembra quasi fuori luogo. Per questo ho fatto sì che fosse proprio l'Alchimia la sua 'roccia' nella tempesta della guerra: in fondo, nei tempi di difficoltà, ci aggrappiamo a ciò che meno ci aspetteremmo per sopravvivere.
E forse il suo punto di vista è cambiato grazie a Roy, alla sua idea di portare felicità nel mondo per mezzo di essa; grazie a quel sogno che l'ha spinta ad uscire dal suo guscio e entrare nel mondo, per fare qualcosa di grande per il suo paese.
Ma le cose non vanno sempre come si vuole, e bisogna imparare ad accettare le conseguenze delle proprie azioni.
A questo proposito, ho volutamente inserito il dialogo con Kimbly a discapito della scena in cui Riza chiede a Roy di bruciarle la schiena.
Questo perchè ritengo che le parole dell'Alchimista Cremisi abbiano davvero mosso qualcosa all'interno dell'Animo di Riza. Infondo, le domande di Kimbly sono più che lecite.
Perchè mai lei e Roy hanno deciso di coronare quel sogno entrando nell'esercito? Non potevano prevedere che sarebbero stati costretti ad uccidere le persone, accantonando il loro desiderio primario di salvarle?
E' il momento, per entrambi, di accettare la sconfitta, di realizzare il loro utopico errore, la loro fantasia infantile di non dover fare male a nessuno. Ma questo non vuol dire che l soluzione sia suicidarsi, oppure rinnegare ciò che si ha fatto. La vera catarsi sta nell'accettare il proprio errore e la propria colpevolezza, e portarli per sempre con sè, senza mai dimenticarli. E' questo il motivo epr cui Riza ha bisogno che Roy le bruci il tatuaggio, oltre che per impedire la creazione di altri Alchimisti di Fuoco.
Ultima cosa, ma non meno importante: l'interpretazione della strofa della canzone.
Qui Cohen dice che ciò che ha imparato dall'Amore è -letteralmente - "sparare a chi ha sfoderato le armi prima di te".
Qui l'autore si riferisce alla pratica del far west di fare i duelli uno contro uno, dove gli sfidanti si allontanano contando i passi e sfoderano le armi per sparare: il primo che ferisce l'altro vince. L'ho collegato al fatto che, per amore del sogno di Roy, Riza diventa un soldato e impara - suo malgrado - a uccidere. E a farlo prima che l'altro faccia del male a qualcuno che ama.
Chiudo dicendo che il prossimo (ebbene sì) sarà l'ultimo capitolo.
Ci vediamo presto (spero).
-Elizabeth
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** #14 - The Promise ***


Hallelujah
#14 – The Promise
And even though it all went wrong
I’ll stand before the Lord of Song
With nothing on my tongue but Hallelujah

Un raggio di sole, entrato dai finestroni del corridoio, tagliò sottile il mogano scuro della porta davanti a cui, immobile e determinata, il Sottotenente Riza Hawkeye attendeva il permesso di entrare.
Era mattina presto; il timido sole primaverile aveva appena superato le colline all’orizzonte e si affacciava tiepido su East City. Poteva quasi essere una giornata idilliaca, se non fosse stato per il fatto che quello era il Quartier Generale dell’Est e lei era appena stata chiamata per un nuovo incarico.

Dopo la fine della Guerra, Riza si era presa un breve periodo di pausa dall’Esercito, durante il quale era tornata a casa sua, per curarsi dalle ferite del conflitto. Ma, nonostante il bisogno di riposo del corpo, la sua mente era ben determinata: ora che era nell’Esercito, non sarebbe scappata. Avrebbe continuato ad andare avanti, per porre fine a tutte le atrocità di cui lei stessa era stata artefice, fino a che ne avesse avuto forza. Così, entro un mese si era definitivamente trasferita ad East City, prima in caserma e successivamente in un piccolo appartamento da lei comprato.
Ripercorse mentalmente gli ultimi sei mesi, risalendo al motivo per cui si trovava lì, davanti a quella porta.
Come eroina di Ishval, oltre al soprannome di ‘Occhio di Falco’, aveva ottenuto il grado di Maresciallo; ma le sue prodezze nelle missioni affidatele dal Generale Maggiore Grumman, la sua efficienza nei lavori d’ufficio e i suoi ottimi risultati in poligono le avevano procurato una successiva veloce promozione. Tutti quei riconoscimenti l’avrebbero potuta inorgoglire; ma non era così.
La consapevolezza di aver calpestato cadaveri per arrivare dove stava non la faceva certo sentire migliore.
E così il suo stacanovismo e la sua diligenza venivano scambiati per ambizione.
“Può entrare”

Una voce dall’interno della stanza la risvegliò dai suoi pensieri.
Con la mano sulla maniglia, si bloccò per qualche secondo, riconoscendola. Possibile…?
‘Si, è possibile’ pensò mentre varcava la soglia e osservava in silenzio l’uomo di fronte a lei.

Il tenente colonnello Roy Mustang. L’Eroe di Ishval. L’arma umana per eccellenza.
I suoi occhi neri si soffermarono nei suoi, come se frugassero dentro di lei. Cosa cercavano? Odio? Risentimento? Sapeva benissimo che non li avrebbe trovati.
Lei gli era infinitamente grata.
La pelle della schiena rovinata cominciò a tirarle, quasi come se si fosse sentita presa in causa, riportando alla luce non solo il dolore, ma anche i ricordi.
‘Questa guerra non è ancora terminata dentro di me’

Lei, inginocchiata davanti alla sabbia, che lo implorava di bruciarle quel turpe marchio dalla pelle. Che gli chiedeva di purificarla, eliminando contemporaneamente una possibile fonte di future atrocità. Punendolo a sua volta per tutti i morti che aveva causato.
Il ricordo delle fiamme – le vere fiamme, non allucinazioni da sedativo – che le percorrevano il corpo si scatenò all’improvviso, quasi togliendole il fiato. Ma nonostante la sofferenza, i suoi occhi rimanevano limpidi. Seri. Grati.
L’uomo distolse lo sguardo, cedendo di fronte a quella determinazione, ricomponendosi per fare il suo dovere.
Era appena stato assegnato al distretto Est, con il compito di formarsi una personale squadra.
“Presentati, Soldato.”

La ragazza si mise sull’attenti, la mano destra alla fronte per il saluto militare.
“Sono il Sottotenente Riza Hawkeye.”

Il Tenente Colonnello, sempre guardandola negli occhi, aprì con cautela il fascicolo sulla sua scrivania.
“Alla fine, dopo tutto quello che è successo ad Ishval, hai deciso di percorrere questa strada.”
“Si. Quella di indossare l’uniforme è stata una mia scelta.”

Un impercettibile spasmo colpì l’occhio sinistro di Mustang, che la fissava in silenzio.
Non è colpa tua’ pensò Riza ‘Non accusarti anche di questo’.
“In che settore te la cavi bene?”

Domanda di routine.
“Armi da fuoco. Diversamente dalle armi bianche, non ti lasciano la sensazione di aver ucciso qualcuno con le tue mani.”

L’uomo sbarrò gli occhi, e anche Riza si meravigliò di se stessa.
Eccola, la menzogna che l’aveva aiutata ad andare avanti tutti quei mesi in guerra. La sostanziale differenza tra lo sparare a qualcuno e pugnalarlo. O bruciarlo vivo.
Era l’unica debole difesa che impediva a lei di bruciare tra le fiamme di quell’immenso inferno a cui tutti loro – nessuno escluso – erano destinati. Una bugia da cui ormai dipendeva la sua stessa vita.
“E’ un inganno.” Rispose Mustang, quasi leggendole nel pensiero “Hai intenzione di mentire a te stessa continuando a sporcarti le mani?”
“Si, è così. Noi soldati dovremmo essere gli unici a sporcarci le mani di sangue. Ricordi come quelli di Ishval…dovremmo essere solo noi a portarceli dentro.”

Per la prima volta dopo mesi, aveva rivelato quello che davvero era arrivata a pensare alla fine della guerra. E questo perché, se c’era una cosa in cui Riza non era mai stata brava, quello era mentire a Roy.
Durante il periodo della loro convivenza, non era mai riuscita a nascondergli nulla. Le ritornò in mente all’improvviso l’episodio con quei bulletti, quando Roy l’aveva accompagnata alla recita scolastica per non lasciarla sola dopo che loro l'avevano presa in giro. Un nodo amaro le strinse la gola e chiuse gli occhi lentamente, tornando a concentrarsi sull’uomo davanti a lei.
“Come dicono gli alchimisti, se la verità di questo mondo può essere mostrata attraverso lo scambio equivalente, allora la nuova generazione che nascerà potrà godersi la felicità. Il prezzo che noi dobbiamo pagare è di caricarci addosso corpi senza vita e attraversare un mare di sangue.”

Le sue parole vibrarono nell’aria, gelide come una maledizione, e si infilarono sotto la pelle di Mustang, che la fissava con dolore. Poteva scorgere nei suoi occhi le fiamme bruciare, ardendo di un fuoco che non si sarebbe mai estinto, nemmeno con la morte.
Per un attimo, l’aria sembrò rarefarsi e Mustang aprì uno spiraglio nella sua maschera di indifferenza, permettendosi di analizzare il pensiero di – come doveva chiamarla, ora? – del Sottotenente Hawkeye. E quello che ci trovò gli fece stringere gli occhi per fermare le lacrime che minacciavano di uscire.
Speranza.

Loro avevano compiuto errori da cui mai avrebbero potuto redimersi, questo era incancellabile tanto quanto la sua stessa esistenza. Ma il futuro…le prossime generazioni…tutti coloro che ancora erano privi di macchia, avrebbero davvero potuto vivere quella vita felice e spensierata che a loro era stata tolta. E lui, loro, avevano il potere di garantire a quelle persone la possibilità di averla.
Erano loro a poter cambiare quel mondo e renderlo un posto dove tutti avrebbero desiderato vivere.
Una scossa di adrenalina li percorse il corpo, e si alzò di scatto, posando le mani sulla scrivania.
“Penso che proporrò di farti lavorare come mia assistente. Voglio che tu sia dietro di me, che mi protegga. Capisci cosa voglio dire?”

Non poteva più permettersi di sbagliare, come in passato. Perché ora da lui non dipendeva solo la propria esistenza e quella di una ragazzina di campagna.
Era alla sua nazione che doveva pensare, ad Amestris, ad ogni suo abitante. Un suo errore avrebbe compromesso il futuro di tutti.
“Lascerò che sia tu a guardarmi le spalle e ciò significa che potrai spararmi in qualsiasi momento. Se farò qualcosa che non dovrò fare, uccidimi con le tue stesse mani. Hai la mia autorizzazione. Mi seguirai?”

Non era perché la conoscesse da una vita, e nemmeno perché potesse pensare che lei lo odiasse a tal punto da ucciderlo senza alcun rimorso. No; lui credeva nel suo senso di giustizia.
Lo aveva visto sbagliare e aveva assistito alle conseguenze e avrebbe impedito che questo avvenisse ancora. Credeva in lei e sapeva che possedeva la capacità di metterlo di fronte alle estreme conseguenze delle sue azioni.
Lei aveva lasciato che lui le bruciasse la schiena; lui ora le permetteva di fare altrettanto.
“Ho capito.”

Lo sguardo di Riza era ricco di determinazione, e lui ebbe la certezza che lei avrebbe adempito al proprio dovere.
“Io non sono nient’altro che un essere debole. Per questo motivo, ho bisogno del vostro aiuto per far in modo di proteggere tutto. Proteggerò le vostre vite. E voi proteggerete le persone che stanno sotto di voi, non importa quante. Quelle persone, a loro volta, ne proteggeranno altre ancora. Non importa cosa succederà, dovrete vivere e andare avanti con la vostra forza di volontà. Viviamo e cambiamo questo paese tutti insieme.”

Roy le diede le spalle, rivolto verso la finestra, il cielo, il futuro. Riza era lì, già alle sue spalle, pronta ad adempiere al suo dovere. Non sapeva ancora cosa l'avrebbe aspettata; ma, per la prima volta nella sua vita, si sentì davvero pronta ad affrontarlo, di qualunque cosa si trattasse. Chiuse gli occhi e sussurrò la sua promessa.
“Se questo è ciò che desidera, sono pronta a seguirla sino all’inferno.”













Angolo dell'autrice (l'ultimo, almeno per ora):
Ritorno dalla valle dimenticata per terminare (finalmente, oserei dire) questa storia, la mia prima Long.
Ero molto emozionata dall'idea di scrivere questo capitolo, e per molto tempo mi sono bloccata per timore di sbagliare tutto e di rovinare ogni cosa, ma questa sera all'improvviso mi sono seduta e tac, era tutto finito, pronto per la pubblicazione.
Innanzitutto voglio ringraziare tutte le persone che mi sono state vicino, nella vita reale quanto qui, su efp, sostenendomi e dandomi pareri su tutto il mio operato. Scrivere questa storia è per me stato davvero catartico, ad un livello che mi è quasi difficile spiegare.
Sul capitolo in sè, ci sarebbero milioni di cose da dire, e ho paura che se cominciassi non finirei più. Cercherò di essere breve, partendo per l'ultima volta dalla strofa della canzone di Cohen.
Il primo verso, "And even though it all went wrong", è un riferimento al fatto che Riza e Roy, oggettivamente, hanno fallito. E questo è qualcosa che non si può cambiare. Ma se c'è una cosa che ho colto dal loro dialogo, è la speranza.
Riza ha la speranza che il loro sacrificio sia servito a qualcosa. Che il dolore he hanno provato debba per forza portare a qualcosa di bello. Che la legge dello scambio equivalente, che si è presa tutto dalla sua vita, possa restituirlo almeno alle generazioni future, senza macchia, ignare del dolore e delle cose orribili che sono accadute.
Perchè lei tiene tanto ai fratelli Elric e non vuole che soffrano? Sono loro la generazione futura che avrebbe dovuto non soffrire.
E' per loro che Roy insegue il suo sogno di diventare Comandante Supremo e cambiare il paese.
 "I'll stand before the Lord of song/With nothing on my tongue but Hallelujah" ovvero "Starò davanti al signore della canzone/con nient'altro che l'Hallelujah sulla mia lingua."
Qui Roy è il Signore della Canzone, e l'Hallelujah è il "Ti seguirò" di Riza. Perchè tra loro due non c'è nient'altro da dire.
 Ovviamente i rapporti sono cambiati, hanno entrambi fatto le loro scelte e le prospettive che avevano prima di Ishval ormai sono in fumo. Si è formata tra di loro una distanza davvero difficile da colmare; ho cercato di rendere questo concetto usando il nome proprio di Roy solo in due momenti: quando Riza ricorda un evento del passato e alla fine.
Perchè anche se è vero che "Mi chiama Riza quando siamo soli" è una bugia, nel loro cuore hanno finalmente ritrovato la pace e sono tornati ad essere loro, Roy e Riza.

La loro storia, fin dal primo momento, mi ha dato tanta speranza. Ed è questo che voglio trasmettere a te, lettore, che stai leggendo, e che già sai cosa loro due dovranno affrontare in futuro. Perchè nella vita accadono tante cose brutte, e spesso non siamo pronti ad affrontarle. Ma siamo esseri umani, e tutta la nostra debole piccola froza la usiamo proprio in questo: nel rialzarci dopo che siamo caduti, nel continuare a sperare quando tutto è perduto. E auguro anche a voi di trovare questa forza, in voi, negli altri, in una frase, in una storia; e di ricordarvi sempre che la vita è bella, nonostante tutto.
Con affetto, a presto,

La vostra Elizabeth.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3580005