Progetto A.I.R.E.S.S. the search for truth

di Elena Ungini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** il doppio ***
Capitolo 2: *** capitolo due: Vampiri ***
Capitolo 3: *** capitolo tre: Streghe ***
Capitolo 4: *** capitolo 4: l'amore è eterno ***
Capitolo 5: *** capitolo cinque: UFO ***
Capitolo 6: *** capitolo 6: SPIRITI GUIDA ***
Capitolo 7: *** capitolo sette: IL KILLER ***
Capitolo 8: *** capitolo otto: Orchidea assassina ***
Capitolo 9: *** capitolo nove: PIEGA DEL TEMPO ***
Capitolo 10: *** capitolo dieci: I TERREMOSAURI ***
Capitolo 11: *** capitolo 11: IBRIDI ***
Capitolo 12: *** Cap. 12 ALLUCINAZIONI ***
Capitolo 13: *** capitolo 13: SUONI DALLO SPAZIO ***
Capitolo 14: *** capitolo 14: GIOCHI DI MORTE ***
Capitolo 15: *** Cap. 15 STRANA NEVE ***



Capitolo 1
*** il doppio ***


IL DOPPIO
 
Filadelfia, Venerdì 7 aprile 2000, ore 23.30
 
L'orologio appeso alla parete segnava ormai le 23 e 30 quando la giornalista Livienne Parrish iniziò a lavorare al suo articolo sul raduno dei barboni, avvenuto nel pomeriggio e conclusosi da poche decine di minuti. Per la verità, alcuni dei barboni in questione stavano ancora facendo festa, dato che il sindaco aveva deciso di concedere loro un pranzo gratis e birra a volontà, ma Livienne aveva pensato di approfittare del fatto che molti di loro si erano addormentati sui gradini di pietra della piazza per svicolare e ritornare al suo ufficio, nella redazione del City Magazine, dove lavorava ormai da due anni. Con un sospiro sollevò lo sguardo e, dalla porta aperta, sbirciò nell'ufficio di Christopher Hocchins, scoccando una furtiva occhiata al giovane, intento a riscrivere l'avvenimento del momento: la fiera del libro di Seattle, dove Cris aveva soggiornato per tutta la settimana a spese del giornale. Livienne si chiese se avrebbe mai avuto il successo del collega: a lei toccavano sempre gli argomenti più ridicoli e, nonostante il loro capo, il signor Roger Been, la ritenesse molto in gamba, le rifilava sempre degli articoli da ultima pagina, per nulla interessanti.
La porta dell'atrio d'ingresso si spalancò e apparve Roger in persona, la camicia a quadri slacciata, la pelata rilucente e l'immancabile sigaro puzzolente tra i denti. L'espressione sul viso era quella delle grandi notizie e anche la foga con la quale si diresse verso l'ufficio di Hocchins non lasciava dubbi in merito: era accaduto qualcosa di grosso. La voce di Been tuonò nel corridoio, mentre rivolgeva a Christopher la parola:
“Lascia stare tutto! Dirigiti immediatamente al porto: una nave passeggeri, la Pretty Princess, è andata a fuoco. Voglio un servizio entro domattina”.
Il giovane alzò dal lavoro i grandi occhi neri e rivolse al capo un sorriso forzato: evidentemente gli scocciava di doversi occupare anche di quell'articolo. Livienne, invece, avrebbe dato qualsiasi cosa per essere al suo posto. Alla fine, Cris chiese:
“Avrò bisogno di qualcuno che scatti le foto”.
“Ines! Chiama Atos e fallo venire subito qui!”, ordinò il capo alla segretaria, che si precipitò a rintracciare il collega di Cris.
“Signore…”, intervenne timidamente Livienne.
“Potrei andare io con lui: so fare delle ottime fotografie”.
“Livienne! Te l'ho detto mille volte! Tu qui sei l'ultima arrivata e non puoi certo pensare di fare da spalla al miglior giornalista della città! Trasferisciti nell'ufficio di Cris e finisci di trascrivere il suo articolo. E sbrigati, hai capito?”
Lei annuì, stringendo i denti.
“Sempre la solita storia”, bofonchiò fra sé e sé.
“Che cos'hai detto?”, tuonò Been.
“Niente. Mi stavo solo chiedendo chi  finirà il mio articolo, se io devo copiare quello di Cris”.
“Lo finirai tu, quando avrai terminato questo lavoro. Se vuoi fare carriera devi cominciare dalla gavetta, ragazza”.
Lei si trasferì nell'ufficio del collega, chiedendosi quanta gavetta avesse fatto Christopher prima di arrivare a quel livello. Naturalmente non trovò una risposta alla sua domanda e si sedette, iniziando a decifrare le zampe di gallina che il collega aveva tracciato su un mare di foglietti.
“E non cambiare una virgola, intesi?”, le ordinò ancora il capo.
“Gli errori, almeno, posso correggerli?”, chiese ironicamente lei, constatando che sul video del computer Cris aveva commesso diversi errori di ortografia e di battitura.
“Cris non commette mai errori”, l'apostrofò il capo, dal corridoio.
“Già, come no”, sussurrò lei, cancellando e riscrivendo le parole correttamente.
“Un'altra cosa: domattina presentati entro le undici a quest'indirizzo”, disse ancora Roger, entrando nell’ufficio e porgendole un foglietto.
“C'è una mostra di articoli per cani. Voglio un pezzo spiritoso e frizzante, imperniato sulle stranezze. Ai nostri lettori piacciono queste cose”.
Che Been fosse un esperto conoscitore dei gusti dei suoi lettori non vi era alcuna ombra di dubbio, ma che si potesse scrivere un pezzo "spiritoso e frizzante" sugli articoli per cani, beh, quello era tutto da sperimentare. Livienne si ripromise di fare comunque del suo meglio, chiedendosi però in che stato si sarebbe trovata la mattina seguente, dopo aver ultimato il lavoro di Cris e il suo. Scrisse quasi per tutta la notte e fu solo verso le quattro del mattino che riuscì a tornarsene a casa, a piedi, poiché gli autobus a quell'ora non circolavano. Fortunatamente abitava poco distante dal giornale. Una volta giunta al suo appartamento crollò sfinita sul letto e si addormentò immediatamente.
La sveglia dovette suonare diverse volte prima che si svegliasse. Quando riuscì a tenere aperti gli occhi si rese conto di essere in ritardo: la mostra chiudeva alle undici ed era dall'altra parte della città. Si affrettò ad alzarsi e vestirsi, prese al volo un taxi e si fece portare in centro, saltando la prima colazione. Non ebbe neppure il tempo di sfogliare la copia del City Magazine che il postino le recapitava a casa ogni giorno. Nonostante il solito traffico, giunse al luogo dell'appuntamento in tempo per farsi una cultura sulle ultime novità del mondo a quattro zampe, dai giochini in gomma a forma di cellulare ai collari personalizzati, dalla linea specializzata per il bagno, comprensiva di balsamo, gel e mollettine, all'agenzia matrimoniale on line. Poté conversare con una simpatica signorina che le spiegò il funzionamento delle briglie per portare a spasso il cane, le mostrò i nuovi, divertentissimi – così li aveva definiti lei – modelli di palette raccogli-sporco e alla fine le diede pure un simpatico omaggio: una ciotola con i nomi degli sponsor.
"Peccato non avere un cane…", pensò ironicamente Livienne uscendo dal negozio, ancora assorta nei problemi della vita quotidiana: aveva tutto quello che le occorreva per stilare il suo articolo… eccetto la voglia di sedersi a scriverlo.
“Lei è del City Magazine, non è vero?”
La domanda la sorprese e alzò gli occhi da terra per guardare la sua interlocutrice, chiedendosi come facesse a saperlo. Poi ricordò di portare sempre la targhetta del giornale agganciata al vestito. Forse era solo quello a darle l'impressione della giornalista.
La donna la guardava, evidentemente in attesa di una risposta.
“Sì. Sono del City Magazine”.
“Allora mi deve ascoltare: ho una storia appassionante da raccontarle”.
“Una storia?”
Livienne la guardò, un po' imbarazzata. La signora era chiaramente anziana, anche se non riusciva a stabilirne l'età con precisione: di media statura, i capelli ormai canuti le incorniciavano un viso segnato da rughe poco profonde e gli occhi erano velati da quella stanchezza che si può notare spesso nello sguardo delle persone di una certa età. Per un istante, temette di essersi imbattuta in una di quelle mitomani che, ogni volta che vedono un giornalista, famoso o meno che sia, si affrettano a inventarsi una storia qualsiasi pur di essere nominate.
“Sì: una storia che riguarda la Pretty Princess, andata a fuoco ieri sera”, spiegò la donna.
Livienne cominciò a prestare più attenzione alla cosa: forse quella donna sapeva qualcosa riguardo alla nave bruciata la notte precedente; qualcosa che quel mezzo analfabeta di Cris, magari, non sapeva.
“C'è un posto dove possiamo parlare tranquillamente?”, chiese, rivolta alla donna.
“Certo! Venga, io abito proprio qui di fronte”.
La donna l'accompagnò nel suo appartamento, dove la fece accomodare su una morbida poltroncina rivestita di velluto rosso.
“Posso offrirle qualcosa da bere?”
Di solito Livienne non amava perdere tempo in chiacchiere, ma quel mattino era veramente stanca, così accettò volentieri un decaffeinato. La donna accese la macchina per il caffè e si sedette in fronte a lei, mentre attendeva che si scaldasse.
“Mi chiamo Margot Bryte e sono una professoressa in pensione da alcuni anni. Lavoravo qui in città, alla Philadelphia School”, incominciò la donna.
“Tempo fa, decisi di andare a trovare mia sorella, che non vedo da anni e che vive a Norfolk. Decisi di andarci in nave. Così, prenotai un posto sulla Pretty Princess. La partenza era fissata proprio per ieri sera. Ma ieri, nel pomeriggio, è accaduta una cosa che mi ha convinto a rinunciare al viaggio. Una cosa molto, molto strana”.
Si alzò e preparò il caffè, lo offrì alla ragazza e ne prese una tazza anche per sé.
Dopo aver sorseggiato la bevanda, Livienne, che non stava più nella pelle, cominciò:
“Parlava di una cosa strana…”
“Sì, strana come non mi era mai capitata prima d'ora”.
“Che è successo?”
“Stavo qui, seduta a guardare fuori dalla finestra, quando ho sentito una presenza alle mie spalle. Mi sono voltata, pensando di sbagliarmi: da anni vivo sola; invece, c'era una donna di fronte a me”, si fermò per bere un sorso di caffè ma, a giudicare dal pallore delle guance e dal tremore improvviso delle mani, Livienne pensò che, forse, un goccio di acquavite avrebbe sortito di più l'effetto desiderato.
“Una donna, ma non in carne e ossa. Era evanescente e contornata da un alone di luce. Mi spaventai terribilmente. Mi guardava e io mi sentivo pietrificata, terrorizzata. Avrei voluto fuggire, urlare, forse, ma non riuscivo a fare nulla. Continuavo a fissarla senza riuscire a proferire parola. D'improvviso, lei esclamò:
“Non prenda quella nave, miss Bryte! Ne va della sua vita”. Poi l'immagine scomparve piano piano. Io rimasi lì a guardarla svanire, incredula”. La donna sorseggiò di nuovo il caffè attendendo una risposta dalla giovane.
“E così, non è salita su quella nave?”, chiese infine Livienne.
“Già. Non ci sono andata. Sono convinta che se fossi salita sulla nave, a quest'ora sarei morta. Quella visione mi ha salvato”.
“È davvero una storia molto strana”, affermò la giovane giornalista, ma il tono della sua voce dovette suonare vagamente scettico alle orecchie dell'anziana signora, che si affrettò ad aggiungere:
“Lo so: è difficile credere a questo genere di cose. Probabilmente lei pensa che io sia pazza, oppure un'imbrogliona che tenta di rifilarle una storia fasulla e devo dire che, ieri sera, quando ho deciso di non partire, io stessa mi davo della pazza. Ma quando ho sentito della Pretty Princess, questa mattina al radiogiornale, mi sono quasi sentita male. Le dirò la verità: non volevo raccontare a nessuno questa storia, perché sapevo già che non sarei stata creduta, ma stamane ho letto sul giornale la testimonianza di quel Ricky Award e così ho pensato che fosse importante farvi sapere che anch'io avevo avuto un'esperienza simile”.
“Ricky Award? E chi è?”, chiese perplessa Livienne.
“Come? Non ha letto l'articolo sul City Magazine?”
“No, mi spiace. Ho finito alle quattro di lavorare, questa notte, e stamattina non ho fatto in tempo a sfogliare il giornale”.
“Ecco, guardi qui”. La signora le porse una copia spiegazzata del City Magazine e lei scorciò l'articolo. Cris aveva interrogato i superstiti e anche i parenti delle vittime. Uno di questi, Ricky Award, appunto, aveva raccontato una storia molto simile a quella della signora Bryte. L'uomo asseriva che, il pomeriggio precedente, aveva avuto una visione: una donna gli era apparsa e gli aveva detto di avvertire la figlia Agata di non salire sulla nave, altrimenti sarebbe potuta morire. L'uomo, spaventato, aveva subito chiamato al telefono la figlia, pregandola di non partire, ma la ragazza aveva voluto imbarcarsi comunque. Purtroppo, la funesta previsione si era avverata: Agata era morta nell'incendio della Pretty Princess.
“Povera ragazza! Pensi un po': era stata una mia allieva, parecchi anni fa. E ora, questa strana visione viene a informarci entrambe di non partire!”
“Già. Una coincidenza molto strana”.
Livienne ripiegò il giornale e fissò la signora. Ora era veramente interessata alla faccenda. Certo, poteva darsi che la donna si fosse inventata tutto, ma a che scopo? Che genere di pubblicità avrebbe potuto darle l'essere protagonista di una notizia come quella? La donna interpretò male lo sguardo evasivo di Livienne, tutta assorta nei suoi pensieri.
“Lei ancora non mi crede, vero? Ecco, guardi qui!”, disse Margot, togliendo dal cassetto dello scrittoio il biglietto di andata per Norfolk che portava il nome della Pretty Princess e la data del giorno prima. Dopo averlo guardato, Livienne le chiese:
“Saprebbe dirmi chi è la donna che le è apparsa?”
“No, anche se la voce aveva un che di familiare, ora che mi ci fa pensare”.
“Saprebbe descrivermela, per cortesia?”
“Aspetti”, disse, alzandosi. Aprì ancora il cassetto dello scrittoio e ne estrasse un foglio, poi lo porse a Livienne. Vi era disegnato un volto di donna, carina, forse sulla quarantina, con capelli ricci e lunghi orecchini pendenti.
“È lei? È la donna della visione?”, chiese Livienne, la curiosità dipinta negli splendidi occhi verdi.
“Sì. L'ho disegnata ieri sera, dopo averla vista. Era mora e i suoi occhi erano castani”, specificò, poiché il disegno era fatto a matita e non colorato.
“A che ora è avvenuto l'incontro?”
“Alle tre”.
“Ci sono altre cose che ricorda di questa donna?”
“Come le ho già detto, aveva una voce familiare. Inoltre, mi ha chiamato miss Bryte. È così che mi chiamavano le mie allieve. Può darsi che fosse una di loro, anche se spero di no: dopotutto, se ho visto un fantasma, è chiaro che quella donna è morta e mi rincrescerebbe molto sapere morta un'altra delle mie alunne”.
“Sarebbe in grado di riconoscerla guardando un annuario?”
“Temo di no. Ho insegnato a centinaia di ragazze ed erano tutte di undici, dodici anni. Lei capirà: ora sono delle donne fatte! Spesso ne incontro alcune per la strada, ma sono sempre loro a riconoscere me”.
“Già, lo immagino. La ringrazio molto, signora Bryte. Mi sa tanto che andrò a fare una visitina a questo Award per saperne qualcosa di più. Potrebbe prestarmi questo disegno?”
“Certo. Leggerò il suo articolo prossimamente, allora?”
“Non glielo garantisco, ma tenga d'occhio il City Magazine”.
Salutò la signora e telefonò al servizio abbonati telefonici per conoscere l'indirizzo del signor Award, poi prese al volo un taxi e si fece portare lì.
Ricky Award abitava in una villetta in periferia, accanto a un parco. Davanti alla casa era parcheggiata una vettura nera. Livienne pagò il taxi e suonò il campanello, augurandosi che ci fosse qualcuno. Un uomo alto e grigio venne ad aprire e la squadrò, con gli occhi arrossati dal pianto.
“Lei è il signor Award?”
“Sì. Ho già parlato con un suo collega”, disse, notando la targhetta di riconoscimento del giornale.
“Sì, lo so. Ma dovrei farle ancora alcune domande, se non le dispiace”.
“Oggi lei è la terza persona che vuole farmi delle domande  e io non ho nessuna voglia di parlare”, commentò mestamente lui, facendosi da parte per farla entrare.
“La terza?”, chiese, stupita. A parte Cris, chi altri si stava interessando alla faccenda?  La risposta non si fece attendere: seduto al tavolo della modesta cucina c'era un uomo, che stava tracciando dei segni su un foglio. Era piuttosto giovane, forse sulla trentina. Aveva capelli castano scuro e occhi tra l'azzurro e il grigio. Livienne li notò quando la fissarono, seccati.
“Che cosa vuole?”, le chiese, senza tanti preamboli, il piglio accigliato di chi non ha tempo da perdere.
“Sono qui solo per rivolgere alcune domande al signor Award, a proposito della visione che ha avuto ieri pomeriggio”, rispose confusa Livienne.
“Le domande le faccio io, ora. Lei è pregata di tornare più tardi, se crede”.
Bastò il suo tono duro e senza repliche a far imbestialire Livienne:
“Ma chi si crede di essere? Non so per quale giornale lavora ma so che ho diritto a restare qui esattamente come lei! Non può cacciarmi via, ha capito?”, esplose, decisa a tirar fuori le unghie, pur di scrivere il "suo" articolo.
“Io non lavoro per alcun giornale”, rispose, pacato, mostrando il distintivo.
“FBI?”, chiese la giornalista, sempre più confusa.
“Già. Sto lavorando a questo caso. Ora se ne vada, per favore”.
Il cervello di Livienne cominciò a lavorare freneticamente: se l'FBI si interessava al caso, doveva esserci sotto qualcosa di grosso; qualcosa che quel superficiale di Cris non aveva fiutato. Se ci sapeva fare, lo scoop poteva essere suo. Ma doveva farsi amico l'agente dell'FBI, che pareva non essere molto incline a sopportare i giornalisti.
Livienne gettò un'occhiata sul tavolo, dove l'uomo aveva disegnato un identikit della donna della visione: era molto simile al disegno che aveva fatto la Bryte. La ragazza decise di giocare tutte le sue carte.
“Okay, me ne vado. Mi permetta solo di mostrare al signor Award un disegno”.
“Quale disegno?”, chiese lui, cercando di non mostrare il proprio interesse. Ma il sopracciglio leggermente piegato e lo sguardo penetrante tradirono i suoi veri pensieri.
“Questo”.
Livienne mostrò il disegno della Bryte e Ricky riconobbe subito la donna.
“È lei! È la donna della visione!”, esclamò.
“Dove ha preso quel disegno?”, chiese l'agente dell'FBI, ora senza più preoccuparsi di mascherare il proprio interesse.
“Oh, non importa! Ora devo andare, altrimenti intralcio il suo lavoro”.
“Tornerò più tardi”, aggiunse, rivolgendosi ad Award. Aprì la porta, per uscire senza voltarsi indietro. Un istante dopo la porta si spalancò di nuovo e l'agente la raggiunse, costringendola a fermarsi.
“Le ho chiesto dove ha preso quel disegno!”
Aveva alzato la voce, inviperito.
“E io le rispondo che questo non la riguarda!”, non cedette Livienne.
“Mi riguarda eccome! Lei sta ostacolando le indagini, così facendo!”
“D'accordo. Allora vediamo: potrei dirle che ho trovato questo disegno nella mia cassetta delle lettere o che l'ho fatto io stessa spinta da una rivelazione notturna e improvvisa... oppure potrei dirle la verità, sempre a patto che lei sia disposto a cedere qualcosa in cambio”.
“Che cosa vuole?”, chiese, con rabbia.
“Voglio ogni particolare del caso. E voglio seguirla nelle indagini, da questo momento in poi”.
“Se lo scordi!”
“E lei si scordi il disegno”.
Livienne fece per andarsene, ma lui la fermò. Aveva poco tempo: le sue informazioni gli potevano essere preziose.
“E va bene. Avrà quello che vuole! Ora mi dice come ha avuto quel disegno?”, accettò, finalmente.
“Me l'ha dato una donna, una sopravvissuta, direi. Ieri pomeriggio ha avuto una visione, molto simile a quella del signor Award. Ero scettica ma, dopo aver confrontato il suo identikit con questo disegno, ogni dubbio è scomparso: i due dicono la verità e hanno visto la medesima donna”.
“A meno che non si conoscano e abbiano inscenato la cosa”, ipotizzò lui.
“Non credo. In questo momento Award non mi sembra in vena di scherzi”.
“Già, devo ammettere che su questo ha ragione”.
“Beh, visto che dovremo lavorare insieme, mi permetta di presentarmi: mi chiamo Livienne Parrish, ho venticinque anni e lavoro al City Magazine”.
“Io sono Steve Rowling, lavoro all'FBI da cinque anni e non mi piacciono i giornalisti”.
“Lo avevo capito. Perché si interessa a questo caso?”.
“Le spiegazioni a più tardi. Ora interroghiamo Award”.
Rientrarono in casa, dove scoprirono che la visione di Ricky era apparsa alle tre del pomeriggio, lo stesso orario in cui era comparsa alla Bryte. Anche Award parlava di un alone evanescente intorno alla donna. Per tutto il tempo, Livienne prese appunti sul suo taccuino e fece domande, esattamente come Steve. Alla fine, i due uscirono insieme e raggiunsero l'automobile di Steve.
“Ha la macchina?”, chiese lui.
“No. Contavo di tornare a casa in autobus”.
“Venga. La accompagno io. Così avremo modo di parlare”.
“D'accordo”. Salirono sulla vettura e, quando furono partiti, lei incominciò:
“Sarà meglio che ci diamo del tu, non crede?”
“Sì, forse”. Non sembrava molto entusiasta della cosa.
“Come sei venuta in possesso di quel disegno?”
Gli raccontò del fortuito incontro di quel mattino, senza tralasciare i particolari, anche i più insignificanti. Steve si rese conto della perfetta descrizione che lei gli aveva fatto e si trovò a pensare che se tutti fossero stati così precisi e dettagliati il suo lavoro sarebbe stato molto più semplice.
“Così, abbiamo tre persone che, alla stessa ora, ieri pomeriggio hanno avuto una visione”, commentò Steve.
“Tre persone? E chi è la terza?”
“James Holter, assicuratore. Stamattina è venuto da me, chiedendomi di lavorare al caso: la sua compagnia ha assicurato la nave per un sacco di soldi. Se non si riesce a dimostrare che non si è trattato di un incidente, dovranno sborsare il gruzzolo al proprietario della nave, il signor Ferguson.
“Cosa ti fa pensare che non si sia trattato di un incidente?”
“James mi ha raccontato che ieri, alle tre in punto, ha sentito una presenza strana nella stanza, e ha avuto anche lui la medesima visione. Ha udito la voce della donna che lo ha avvertito di quello che sarebbe accaduto sulla Pretty Princess, dicendo che qualcuno l'avrebbe sabotata. Holter è corso al porto e ha fatto ispezionare la nave, senza trovare nulla di sospetto. Così la nave è partita ma, dopo solo mezz'ora di navigazione, ha inspiegabilmente preso fuoco. Alcuni dei passeggeri si sono salvati gettandosi in mare con le scialuppe di salvataggio. Gli altri sono bruciati nelle loro cabine”.
“Non è possibile stabilire le cause dell'incendio?”
“La Pretty Princess sta ancora bruciando e quello che ne resterà quando avranno spento il fuoco potrebbe essere insufficiente per stabilire l'accaduto. Inoltre, ho dei motivi personali per seguire questo caso: da due anni sono stato assegnato al "progetto A.I.R.E.S.S.", e lavoro a tutti i casi che hanno a che fare con il paranormale, gli UFO e ogni altro tipo di fatti inspiegabili”.
“Interessante”. Sembrava sinceramente colpita.
“Già. Ma ora non perdiamo tempo: hai detto che la donna potrebbe essere un’allieva della Bryte. Inoltre, è chiaro che conosce la figlia del signor Award, quindi potrebbe essere una compagna di scuola di Agata Award. Andiamo a dare un'occhiata agli annuari della Philadelphia School”.
“C'è una cosa che non capisco: se questa donna ci teneva così tanto a salvare la vita di Agata, perché non è apparsa direttamente a lei? Perché apparire al padre?”
“Forse il padre era più ricettivo. Ci sono persone che sembrano essere più portate per questo tipo di visioni”.
Steve la accompagnò nel suo ufficio, accese il computer e in breve ebbe accesso agli annuari della scuola. Per prima cosa controllò la lista delle compagne di scuola di Agata e le confrontò con la lista dei deceduti.
“Strano: nessuna delle compagne di Agata risulta essere deceduta. Eppure, Ricky e la Bryte hanno visto un fantasma”, commentò Steve.
“Forse abbiamo sbagliato pista”.
“Non lo so. Voglio provare a fare una cosa…”.
Inserì il disegno della Bryte nello scanner, lo scannerizzò e, utilizzando il computer, ricostruì il volto della donna all'età di dodici anni. Infine lo confrontò con le foto degli annuari scolastici.
“Ecco qui! La signora in questione potrebbe essere questa Jennifer Last: è l'unica che somiglia al prospetto del computer. Inoltre, ha frequentato la Philadelphia School dal 1970 al 1974; gli stessi anni della Award, ed era in classe con lei. Ora vediamo chi è”.
Digitò il nome sulla tastiera, attese qualche secondo, poi apparve una serie di dati relativi alla signora Last.
“Bingo!”, esclamò Steve.
“Indovina chi è la nostra fantasma”, continuò.
“Jennifer Last, moglie dell'armatore Jonathan Ferguson, proprietario della Pretty Princess!”, esclamò Livienne, leggendo sul video del computer.
“Ma com'è possibile? Non doveva essere morta, per apparire come un fantasma?”, chiese, stupita.
“Evidentemente si è trattato di un doppelganger, ovverosia un "doppio". Si tratta di persone che riescono a sdoppiarsi, proiettando la propria immagine in luoghi e in atteggiamenti diversi da quelli in cui si trovano in quel momento. A volte questo sdoppiamento avviene inconsapevolmente. A ogni modo, ora abbiamo la certezza che Jennifer sapeva del sabotaggio della nave”.
“Già, ma come faremo a provarlo?”
“Dovremo bluffare: non possiamo portare a un eventuale processo le testimonianze di tre "visionari". Non sarebbero accettate come prova”.
Steve chiamò un agente di polizia, suo amico, che stava indagando sul caso:
“Michael, ho bisogno di un'informazione: che mi dici della signora Ferguson?”
“È stata interrogata, ma non sa nulla”.
“Dov'era ieri, verso le tre del pomeriggio?”
“Aspetta un attimo, ora controllo”. Michael diede una rapida occhiata ai suoi appunti:
“È stata vista verso le tre allo studio del marito, presso il porto. Poi afferma di essere tornata a casa, ma nessuno lo può confermare. Comunque, non abbiamo nulla contro di lei. Per quello che ne so, potrebbe essere davvero all'oscuro di tutto”.
“Ho capito. Ti ringrazio, Michael”.
Steve riattaccò, poi fece una capatina nell'ufficio di Ferguson, sempre seguito da Livienne. Qui trovò una copia della lista passeggeri, appoggiata sulla scrivania, e intuì come dovevano essere andate le cose.
“Hai un registratore, non è vero?”, chiese a Livienne.
“Sì: lo porto sempre con me”.
“Quando saremo a casa della Last, dovrai tenerlo acceso”.
“D'accordo”.
Dallo stomaco di Livienne si alzò un brontolio sommesso e la ragazza si ricordò improvvisamente che non mangiava dalla sera precedente. L'orologio alla parete segnava le 14 e 40: l'ora di pranzo era passata da un pezzo.
“Ti va di mangiare qualcosa?”, chiese Steve, in un improvviso slancio di generosità.
“Volentieri!”
L'accompagnò in un fast food, dove mangiarono dei panini e bevvero una birra, tranquillamente seduti a un tavolino appartato. A quell'ora, comunque, il locale era quasi vuoto: solo un gruppo di ragazzi stava giocando con i videogiochi e un inserviente lavava il pavimento.
“Che cos'è, esattamente, il "progetto A.I.R.E.S.S."?”, chiese Livienne, quando ebbe finito il suo panino.
“A.I.R.E.S.S., alla lettera sta per Alien Intelligence Research (and) Events Supernatural Studies. In pratica, è un progetto del governo atto a studiare tutti quei casi che non sono scientificamente spiegabili, o perlomeno che sembrano essere tali. In due anni che ci lavoro mi sono imbattuto in cose stranissime. A volte ho risolto i casi, a volte mi sono limitato a riportare i fatti com'erano accaduti, senza trovare alcuna spiegazione logica alla cosa”.
Si fermò per bere un sorso di birra, poi le chiese:
“E tu? Di che genere di notizie ti occupi?”
“Delle più stupide. Questa è la prima volta che mi imbatto in un caso interessante. Per questo non voglio mollare fino in fondo: può essere la mia grande occasione, capisci?”
“Può darsi. Ma dovremo riuscire a incriminare la Last, altrimenti tutto si risolverà in un buco nell'acqua”.
Steve si alzò, pagò il conto, raggiunse la sua macchina insieme a Livienne e si diresse verso la casa della Last, che era a letto con un terribile mal di testa. La donna si alzò e aprì loro la porta. Un istante prima, Livienne accese il registratore, che tenne nascosto nella borsetta aperta.
“Salve, signora Last. Sono un agente federale e devo rivolgerle alcune domande”, spiegò Steve, mostrandole il distintivo.
La donna li fece entrare, visibilmente preoccupata.
“Che cosa volete sapere? Ho già risposto alle domande di un poliziotto”, incominciò, seccata.
“Ora risponderà alle mie. E le consiglio di essere molto convincente, nonché disponibile, se non vuole che la porti direttamente in prigione”. Steve non aveva nessun capo d'accusa per poterla portare in prigione, ma doveva spaventarla a dovere.
“In prigione? Io non ho fatto niente”, sussurrò, spaventata.
“Dove si trovava, ieri pomeriggio, fra le tre e le quattro?”, tagliò corto Steve, il tono minaccioso di chi non ammette repliche.
“Ero qui, nella mia casa”, farfugliò lei.
“C'è qualcuno che l'ha vista, o che ha parlato con lei?”
“No. Ero qui sola”.
“Signora Last, ci sono due persone pronte a testimoniare di averla vista, ieri pomeriggio, fra le tre e le quattro, in casa loro: tutte e due affermano che lei sapeva del sabotaggio della nave e che ne ha parlato con loro”.
“Cosa? Ma non è possibile! Io non mi sono mai mossa di qui, ieri!”
“Questo non è vero: lei è stata vista verso le tre aggirarsi nei pressi dello studio di suo marito, accanto al porto. C'è una testimonianza che lo prova”.
“Sono stata allo studio, ma prima delle tre. Poi sono tornata a casa”.
“Già, ma prima si è recata dalla signora Bryte e dal padre di Agata Award, non è così?”, insinuò Steve alzando ancora di più la voce in tono accusatorio.
“Io non sono stata da nessuna parte!”, urlò la donna, che cominciava a perdere il controllo.
“Allora le dirò io come sono andate le cose: lei era d'accordo con suo marito per sabotare la nave! Voleva i soldi dell'assicurazione: la vostra impresa era sull'orlo del lastrico e questi soldi avrebbero risanato le vostre entrate e ripagato i debiti. Ma, all'ultimo momento, ha scoperto che sulla nave c'erano anche due sue conoscenti: la sua ex professoressa Margot Bryte e la sua amica e compagna di scuola Agata Award. Improvvisamente preda del rimorso, è corsa a casa della professoressa, per avvertirla di non partire, poi è andata dal padre di Agata. Non poteva andare direttamente dalla figlia, perché sapeva che lei l'avrebbe riconosciuta! Purtroppo, l'espediente non ha funzionato e Agata è morta ugualmente nel rogo! È questo che è accaduto, non è vero, signora Last?”, sputò fuori Steve, in un crescendo di toni minacciosi.
“No. Io non sono mai andata dalla signorina Bryte! Io…”, si fermò: le lacrime e i singhiozzi le impedivano di parlare.
“Lei non ha nessuna prova”, disse infine.
“Invece sì: questo disegno lo ha fatto la Bryte, dopo averla vista, ieri pomeriggio. Non può negare di essere lei la donna del disegno: ha persino gli stessi orecchini che ha ancora indosso! Lo guardi!”, urlò, mettendole il disegno sotto il naso.
A questo punto la donna crollò: scoppiò in un pianto irrefrenabile, poi incominciò a parlare.
“Non doveva finire così. I passeggeri dovevano salvarsi. Mio marito non voleva la loro morte, e neppure io. Ma le cose sono andate diversamente. Io lo sapevo: la notte precedente avevo fatto un sogno. Avevo sognato che la nave ardeva e la gente moriva carbonizzata. Nel sogno vidi la Bryte, e anche Agata. Andai allo studio, per parlarne con mio marito, che mi tranquillizzò: diceva che non sarebbe successo, che i passeggeri sarebbero stati portati tutti in salvo. Però mi capitò fra le mani la lista dei passeggeri e notai fra gli altri il nome della Bryte e della Award. Capii allora che era stato un sogno premonitore. Non sapevo cosa fare: se ne avessi parlato, avrei incriminato mio marito. Se avessi tenuto il segreto, molta gente sarebbe morta. Mi sentii male e svenni, battendo la testa. Non so per quanto tempo rimasi priva di coscienza ma, quando rinvenni, notai che sulla Pretty Princess c'era uno strano movimento. Me ne tornai a casa e solo dopo venni a sapere che il nostro assicuratore aveva fatto perquisire la nave, senza trovare nulla di sospetto. Pregai ancora mio marito di rinunciare all'impresa, ma lui mi disse che ero paranoica e che non dovevo preoccuparmi di niente. Solo quando la tragedia era ormai successa mio marito si è reso conto dello sbaglio. Quello che non capisco, è come ho fatto ad andare da quelle due donne, e avvertirle, se ero a terra svenuta!”
“Glielo spiego io, signora. Lei era divisa da sentimenti contrastanti: non voleva incriminare suo marito, ma non voleva neppure la morte di quei passeggeri, in particolare della sua amica e della professoressa. Così, non sapendo cosa fare, ha inviato loro la sua immagine. E ha fatto di più: l'ha inviata anche all'assicuratore, nella speranza che lui potesse fermare la nave. Tutte e tre le persone hanno visto la sua immagine, o, per meglio dire, il suo doppio, che li avvisava del pericolo. Probabilmente il fatto che lei fosse priva di sensi, nel momento in cui ha proiettato il doppio, deve averle agevolato la cosa. Il suo subconscio ha agito liberamente, poiché nulla in quel momento lo tratteneva, e ha lanciato l'allarme”.
“È una storia incredibile”, commentò la donna, prendendo il fazzoletto che Livienne le porgeva.
“Mi dispiace, signora Last, ma devo chiederle di venire con me”, annunciò Steve.
La fece salire in macchina, poi telefonò a un collega:
“Inoltra un mandato di cattura per Jonathan Ferguson. È accusato di frode, omicidio plurimo, danni materiali e un sacco di altre imputazioni”.
Dopo aver accompagnato la signora Last alla più vicina centrale della polizia e aver consegnato loro il nastro con la confessione, Steve accompagnò Livienne alla sede del giornale. Lungo la strada, la ragazza ultimò l'articolo utilizzando il registratore portatile.
“Ora hai il tuo scoop”, commentò Steve, salutandola.
“Grazie di tutto, Steve. Se avrò successo sarà anche merito tuo”. Gli sorrise scendendo dall'auto e lui rispose al suo sorriso. Livienne pensò che, dopotutto, non era poi così male, anche se non poteva soffrire i giornalisti.
Entrò nel portoncino che dava accesso al giornale e percorse il lungo corridoio che portava agli uffici. Fu qui che incontrò Been.
“Dove diavolo ti eri cacciata, Livienne? Hai finito l'articolo sulla mostra dei cani?”, abbaiò, furioso.
“Non proprio… se vuole glielo scrivo, ma, fossi in lei, darei un'occhiata a questo, prima”, disse, mostrandogli il registratore ed entrando nel suo ufficio.
“Quello? E perché?”
“Ripassi fra mezz'ora e lo capirà, il perché”, rispose semplicemente. Si sedette a scrivere, sotto lo sguardo attonito di Been, che decise di fare come lei aveva detto. Il giorno dopo, l'articolo di Livienne era in prima pagina.

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Capitolo 2
*** capitolo due: Vampiri ***


VAMPIRI
 
Filadelfia, Mercoledì 12 aprile 2000, ore 07.35
 
Era una splendida mattina, con il sole che sbucava dietro i palazzi del centro di Filadelfia, rallegrando la città e ricordando che, ormai, l'estate non era più così lontana. Steve chiuse a chiave il suo appartamento, scese le scale, uscì dallo stabile e si affrettò a raggiungere il vicino garage dove lasciava sempre la macchina. Lungo la strada si fermò all'edicola per dare un'occhiata alle notizie del giorno. Fra i tanti titoli ampiamente sfruttati anche dai telegiornali, il suo sguardo fu calamitato da un trafiletto sul poco conosciuto settimanale "Mistery", che portava il titolo "Vampiri a Var". Acquistò il giornale, raggiunse il suo ufficio alla sede dell'FBI di zona e si sedette a leggerlo. Aveva scorciato solo poche righe, quando il suo capo, Donald Kerk, sbirciò dalla porta socchiusa.
“Venga pure”, lo incoraggiò Steve, notandolo.
“Salve Steve”, lo salutò bonariamente, entrando.
“Salve Kerk. Lavoro per me?”, chiese Steve, visto che il capo entrava nel suo ufficio solo per affidargli qualche caso da risolvere.
“Già. Ma, come al solito, mi hai preceduto!”, esclamò, additando l'articolo che Steve stava leggendo.
“Non l'ho ancora finito”.
“Beh, te ne parlo io, allora. Ci sono stati degli strani avvenimenti, in quel piccolo paese europeo: tombe profanate e mucche e altri animali dissanguati, con strani buchi sul collo. Che cosa ti fa venire in mente?”
“La riedizione cinematografica anni 2000 di Dracula il vampiro”, ironizzò Steve.
“Già. A ogni modo la polizia locale non sa che pesci pigliare: credo che abbiano una paura folle solo a uscire di casa dopo il tramonto, così hanno chiesto il nostro aiuto, o, per meglio dire, il tuo aiuto. Ti andrebbe di fare un giro in Romania?”
“Avrei preferito le Bahamas, ma se non c'è altro…”.
“Bene. L'aereo parte fra un'ora. Questa è la documentazione ufficiale. C'è ben poco, per la verità”.
Gli passò il dossier, che Steve cacciò nella sua ventiquattrore, poi tornò a casa per preparare la valigia. Un'ora dopo, l'aereo di linea con Steve a bordo si staccava dal suolo di Filadelfia, diretto verso la Romania.
Erano le sette di sera quando atterrò a Timisoara. Da lì, prese un taxi e si fece portare fino a Var, un paesino poco lontano da Caransebes, dove alloggiò nell'unica locanda del paese. Qui, una donna bionda, pallida e magra, lo accolse. Steve si trovò subito in difficoltà con la lingua: l'interprete che doveva giungere da una città vicina era malato, non si riusciva a trovare nessuno che sapesse l'inglese e lui non conosceva una sola parola di rumeno. Le indagini non si prospettavano delle più facili. Durante il viaggio aveva letto la documentazione che Donald gli aveva fornito. Come aveva detto il capo, c'erano ben pochi indizi utili: solo qualche contadino che affermava di aver trovato la propria vacca dissanguata, con due buchi sul collo, e qualche donna che diceva di aver visto un vampiro aggirarsi furtivo nelle notti di luna piena. Evidentemente, le donne in questione dovevano aver fatto un po' di confusione fra vampiri e lupi mannari, pensò Steve, poco convinto da tali testimonianze. Disfò le valigie e mise tutti i suoi vestiti nell'armadio. A dire la verità fece piuttosto alla svelta: non si portava mai molti cambi, durante i viaggi.
Scese a cena nella sala da pranzo e scoprì di essere l'unico ospite della pensione. Se non altro, l'ambiente era tranquillo e si mangiava piuttosto bene. Dopo cena si ritirò subito nella sua stanza, stanco per il viaggio. La mattina seguente si svegliò presto, scese in sala da pranzo e notò con sorpresa che era stato apparecchiato per due persone. Durante la notte doveva essere arrivato un altro ospite. Iniziò a imburrare delle fette di pane tostato e si versò una tazza di tè, ma rischiò di rovesciarselo addosso quando udì alle sue spalle una voce conosciuta, che lo salutava in inglese.
“Buongiorno, Steve”.
Si voltò, quasi incredulo: la bionda e alta figura gli sorrideva tranquilla, facendo scintillare gli immensi occhi verdi. Che ci credesse o meno, davanti a lui c'era quella ficcanaso di Livienne Parrish. Che ci faceva lì?
“Che diavolo ci fai, tu, qui?”, chiese, infatti.
“Vengo a toglierti d'impiccio, mi sembra ovvio”, disse, sedendosi a tavola di fronte a lui e rivolgendosi poi alla padrona del locale chiedendo del caffè in un rumeno praticamente perfetto.
“Tu parli il rumeno?”. Steve era stupito.
“Io parlo sette lingue; una di queste è il rumeno”.
“Che cosa ci fai qui?”, ripeté Steve, superato lo shock iniziale.
“Il mio capo ha trovato talmente interessante il mio ultimo articolo, che ha deciso di offrirmi una grande chance: mi ha mandato qui perché vuole che scriva un pezzo su questo caso e se anche questo farà successo come il primo, mi promuoverà "inviata speciale" di un supplemento del giornale, che si chiamerà "ai confini della realtà" e tratterà di argomenti paranormali”.
“Vuoi dire che ti avrò tra i piedi anche stavolta?”
“Dovresti essere contento, dato che non sai una sola parola di rumeno e che non hai un interprete”.
“Come lo sai?”
“Ho fatto qualche ricerca su di te e ho chiesto in giro”
“E che altro hai scoperto?”, chiese lui, chiaramente seccato.
“Che hai trentadue anni e sei laureato in medicina e psicologia criminale. Hai lavorato tre anni come patologo per l'FBI, poi sei stato affidato al "progetto AIRESS". Abiti in un appartamento in centro, vivi solo, sei abbonato a tre diverse biblioteche e leggi molta fantascienza. Inoltre, vai pazzo per le torte alle fragole”.
“Hai dimenticato una cosa: non amo i giornalisti”, sbuffò.
“Lo so, ma non credo che tu abbia molta scelta, a meno che tu non voglia aspettare che il tuo interprete guarisca dalla pertosse. T'informo che di solito ci vogliono almeno tre settimane perché non sia più contagiosa”.
Steve finì la sua fetta biscottata, chiedendosi perché, con tanti agenti federali che c'erano a Filadelfia, Livienne avesse incontrato proprio lui.
“Posso sapere come hai avuto tutte queste informazioni sul mio conto?”
“Anch'io ho le mie fonti. Dopotutto, sono o non sono una giornalista ficcanaso?”
Steve stava per ribattere che quella non era una risposta convincente, quando un uomo entrò nella locanda, urlando e sbraitando a più non posso. L'uomo si rivolse a lui, farfugliando qualcosa in rumeno. Livienne tradusse:
“Dice che questa notte il "vampiro" ha colpito ancora. Una delle sue mucche è stata azzannata al collo e ha perso molto sangue. Quando l'hanno trovata, hanno dovuto abbatterla”.
“Possiamo vederla?”, chiese Steve. Livienne tradusse la domanda e l'uomo li condusse alla sua fattoria, un po' fuori paese. La vacca era ancora distesa per terra e la polizia era sul luogo. Steve esaminò l'animale: aveva due profondi buchi sul collo, proprio in corrispondenza della giugulare, ma erano troppo vicini per essere stati fatti da una dentatura umana. La testa della mucca portava evidenti segni di un colpo violento, inferto con un corpo contundente. Intorno c'era sangue dappertutto, sull'erba del prato.
Livienne, intanto, interrogava l'uomo per avere qualche altra informazione.
“Che hai scoperto?”, le chiese Steve.
“Dice di aver udito la mucca lamentarsi e di essere corso fuori con il fucile e una torcia elettrica. È venuto subito al pascolo, ma la casa dista da qui almeno duecento metri, così ci ha messo del tempo a individuare la mucca ferita fra le altre, distese a dormire. Quando è arrivato, ha visto un'ombra fuggire via, nel bosco. A quel punto, ha abbattuto la mucca sofferente. Ora la porteranno via e la bruceranno, perché non vogliono mangiare carne "infettata da un vampiro"”.
“C'è qualcosa che non quadra in questa faccenda, Livienne: innanzi tutto, se vogliamo credere alle leggende, da che mondo è mondo i vampiri non azzannano la mucche, ma giovani fanciulle indifese. Inoltre non mi spiego il perché di tutto questo sangue qua intorno: se il vampiro avesse succhiato il sangue dall'animale non ci sarebbe stato tutto questo inutile spargimento, non credi?”
Si soffermò per guardarla negli occhi e prendere atto della sua reazione e, per un istante, il sole illuminò le iridi verdi di Livienne. Steve rimase quasi senza fiato, poi si riprese:
“Inoltre, sono perfettamente convinto che questi buchi non siano stati fatti da una dentatura umana”, disse, mostrandole i segni.
“Per finire, c'è questo ematoma sul cranio: strano che un vampiro dia una botta in testa alla sua vittima, per tramortirla prima di dissanguarla. Non trovi anche tu?”
“Il contadino dice che il vampiro voleva spaccare il cranio della mucca per suggerne il cervello”, sospirò Livienne, poco convinta.
“Secondo me, qualcuno ha tramortito la mucca per poterle fare due buchi sul collo, utilizzando uno strumento costruito appositamente”, concluse Steve, tirando le somme della sua indagine.
“Per quale motivo?”
“Non lo so: forse per alimentare la storia del "vampiro", magari per attirare dei turisti…”, provò a ipotizzare Steve.
“Può essere. Ma c'è un'altra cosa che devi sapere: il fattore ha fatto il nome di un certo Studd. Afferma che, a detta di tutti, è lui il vampiro. Vive poco lontano da qui, in una villa sulla collina. Che ne dici? Andiamo a trovare questo misterioso parente di Dracula?”
“Sbaglio o non credi molto neppure tu a questa storia?”
“Non sbagli. Meglio vederci chiaro”.
“Chiederò una macchina alla polizia locale, così avremo più libertà di movimenti”.
“Sarà meglio che gliela chieda io, a nome tuo”, rise Livienne. Raggiunse il bancone e chiese alla padrona del locale il numero di telefono delle forze dell’ordine. Steve non poté fare a meno di notare che la ragazza aveva un fondoschiena delizioso.
“Ecco fatto”, lo informò Livienne, quando tornò da lui.
La polizia locale fu ben felice di mettere loro a disposizione una vettura e di levarsi così dall'impegno di seguire le indagini. Livienne e Steve si diressero subito verso la periferia del paese. Da qui, proseguirono su una strada selciata che si inerpicava su per la collina.
“Hai notato le strane ghirlande appese alle porte di casa, in paese?”, chiese Livienne.
“Sì. Sono di biancospino: un sistema per scacciare i vampiri. Si dice che la corona che cinse la testa di Cristo fosse di biancospino, quindi si appendono ghirlande di quel tipo pensando che i vampiri staranno alla larga per paura di pungersi”.
“Ci sono anche delle croci d'argento appese alle porte e ai cancelli: questa gente vive proprio nel terrore!”, commentò Livienne, sapendo che quel genere di amuleto era utilizzato per spaventare i funesti visitatori notturni.
La stretta stradina sterrata li portò a una casa isolata, cadente e apparentemente disabitata.
“Credo che il posto sia questo, ma non vedo nessuno, qui”, constatò Livienne, controllando la piantina che aveva tracciato con le indicazioni del contadino.
“Scendiamo dalla macchina e andiamo a vedere”.
Bussarono, ma nessuno rispose. Steve mise mano alla pistola e sferrò un calcio all'uscio, che si aprì con un cigolio sinistro. All'interno, tutto era polveroso e abbandonato. Alcune ragnatele pendevano dal soffitto e dalle fessure entrava sibilando il fischio del vento. Steve e Livienne passarono in rassegna tutta la casa, senza trovare anima viva, né traccia alcuna di vampiri.
“Qui non c'è nessuno. Proviamo a interrogare i contadini che abitano qua vicino”, propose Steve.
Poco dopo erano di fronte alla porta di un cascinale. Anche qui una grande ghirlanda di biancospino campeggiava appesa all'uscio, con al centro una croce d'argento. Steve bussò. Un'anziana donna venne ad aprire e li squadrò con aria impaurita. Steve mostrò il distintivo e Livienne disse:
“Siamo poliziotti, signora. Siamo qui per farle delle domande riguardo a Studd”.
La donna si fece un frettoloso segno della croce, poi chiuse la porta in faccia ai due visitatori inopportuni. Vani furono i tentativi di farsi aprire nuovamente.
“Proviamo da un'altra parte”, propose Livienne.
“Che cosa le hai chiesto?”
“Solo notizie di Studd. Evidentemente non è molto amato da queste parti”, commentò, mentre raggiungevano un'altra casa isolata, dove una donna stava spazzando l'aia.
“Buongiorno, signora. Dovremmo parlare con lei”.
La donna annuì e Livienne proseguì, sperando che non si spaventasse anche questa.
“Lei conosce Rigel Studd?”
Dall'espressione della donna, Livienne capì che avrebbe preferito non doverne parlare, ma, almeno, questa non fuggì.
“Sì. Lo conosco. Vive nella casa sulla collina”.
“Lo ha visto recentemente?”
Dopo un istante di esitazione, la donna rispose:
“Sì. L'altra notte: mi sono alzata per andare al bagno e l'ho visto sulla strada, a piedi. Correva verso casa, era pallido come un fantasma e aveva… mio Dio… aveva le mani sporche di sangue”, sussurrò, ancora terrorizzata.
“È sicura di quello che dice, signora? Era notte, poteva aver visto male”.
“No. Sono sicura. C'era la Luna e ho potuto vederlo fin troppo bene. Ho paura. Ora che l'ho visto, forse verrà da me, per uccidermi”.
“Signora, si tranquillizzi: non credo proprio che Studd voglia ucciderla. Ha idea di dove possa essere, ora?”
“Immagino che sia a casa sua”.
“No. Ci siamo appena stati, ma non lo abbiamo trovato. Inoltre, la dimora sembra essere abbandonata da tempo”.
“Allora non so che dirvi”.
“Sa se ha dei parenti?”
“Non ne ha: sua madre è morta tre settimane fa e suo padre più di tre anni fa. Si dice in giro che fossero entrambi dei vampiri”, confessò la donna, pronunciando l'ultima frase a voce bassa.
“Può dirmi i nomi dei suoi genitori?”
“Percival Studd e Lina Hegger”.
“La ringrazio molto, signora. Ci è stata d'aiuto”, disse, notando che quei nomi avevano risvegliato qualcosa nella mente di Steve, visto il guizzo improvviso che aveva avuto dopo averli sentiti. Nel viaggio di ritorno, Livienne raccontò a Steve quello che la donna le aveva riferito.
“Il nome di Lina Hegger compare nella lista delle tombe profanate. Torniamo al paese: voglio ispezionare il cimitero”, affermò Steve.
“Perché un vampiro dovrebbe profanare delle tombe?”, chiese Livienne, poco istruita in merito.
“Di solito non è il vampiro a profanarle, ma la gente che lo teme e che lo cerca fra i cadaveri sepolti”, spiegò Steve.
Raggiunto il Camposanto, Steve notò subito strani segni intorno ad alcune tombe.
“Che cosa sono?”, chiese Livienne.
“Impronte lasciate dagli zoccoli di un cavallo”.
“Impronte di un cavallo in un cimitero?”
“Già. I cavalli erano utilizzati nell'antichità per stabilire se un morto era un potenziale vampiro o meno: se il cavallo si rifiutava di camminare sulla tomba, allora il corpo doveva essere riesumato e controllato, perché probabilmente si trattava di un "morto vivente". Evidentemente, qualcuno ha utilizzato questo sistema di recente per "controllare" queste tombe”.
“E questi che sono?”, chiese ancora lei, raccogliendo alcuni semini per terra, intorno a un'altra tomba.
“Sembrano semi”, constatò.
“Sì. Sono semi di miglio. Una credenza popolare afferma che se si spargono semi di miglio intorno alla tomba del morto vivente, egli, una volta uscito, dovrà raccoglierli tutti e non potrà andare a dare fastidio ai vivi”.
“Mi domando come possano sopravvivere ancora, nel ventesimo secolo, simili superstizioni”, commentò lei.
“Non dimenticare che questa gente ha alle spalle una lunghissima e spaventosa storia di vampiri, dal famoso Dracula, che poi vampiro non era, ad altri un po' meno conosciuti, ma non per questo meno terrificanti. Certe paure rimangono radicate nell'animo della gente anche per secoli, Livienne”.
Lei annuì, silenziosamente. Giunti alla tomba della Hegger, videro che anche intorno a quella erano stati sparsi semi di miglio. La terra era stata smossa di recente per profanare la bara, che poi era stata probabilmente rimessa al suo posto.
“Torniamo alla locanda: voglio chiedere altre informazioni su quello Studd. La locandiera dovrebbe essere in grado di aiutarci. Inoltre, è ora di pranzo”, annunciò Steve, evidentemente affamato.
Subito dopo aver mangiato un ottimo goulasch, Livienne rivolse alla padrona del locale altre domande. Venne a sapere che anche la donna considerava il ragazzo, e i suoi genitori, dei vampiri a tutti gli effetti. Il giovane Studd aveva frequentato la scuola del paese per alcuni anni, ma poi si era inspiegabilmente ritirato dagli studi, chiudendosi nella solitudine della sua casa, sulla collina, con i suoi genitori. Si diceva che la madre fosse molto malata e che nessuno la vedesse mai in giro. Si diceva anche che i tre uccidessero ogni genere di animali, per berne il sangue. Quando però Livienne chiese alla donna se vi fossero state delle vittime umane del vampiro, lei rispose negativamente, ma aggiunse che era solo questione di tempo: prima o poi l'essere malvagio avrebbe fatto la sua prima vittima umana.
“Dovremo riesumare quella donna e farle un'autopsia”, disse Steve, quando lui e Livienne furono soli.
“Parli della madre di Studd?”
“Già”.
“Sospetti qualcosa?”
“Può darsi. Vieni con me, dobbiamo convincere le autorità locali a rilasciarci il permesso per la riesumazione”.
Fortunatamente, il permesso fu accordato senza problemi e, quel pomeriggio stesso, la bara della donna rivide la luce, per la seconda volta in tre settimane.
“Comunque stiano le cose, non si può certo dire che questa poveretta "riposi in pace"”, bofonchiò Steve.
Quando la bara fu aperta trovarono il corpo della donna trafitto da un paletto di legno. La bocca della morta era stata riempita di spicchi d'aglio. Steve la fece portare nel laboratorio legale e qui eseguì l'autopsia. La donna presentava chiari segni di malnutrizione e altri sintomi che alimentavano i sospetti di Steve: delle lesioni ai bulbi oculari e una strana retrazione delle gengive, che lasciava scoperti i denti. Doveva essere stata colpita da forti spasmi muscolari, al momento della morte. Steve prelevò dei campioni di sangue e li spedì al più vicino centro di analisi.
“Com'è andata?”, chiese Livienne, quando lui uscì dal laboratorio.
“Ho bisogno di un bagno e anche di un whisky, possibilmente doppio”, commentò Steve, ancora nauseato dall'odore di quell'autopsia effettuata su un corpo in avanzato stato di decomposizione.
“Hai scoperto qualcosa di interessante?”
“Quella donna era terribilmente magra e apatica. Ho spedito il suo sangue a Resita, ma ci vorranno due giorni prima di avere i risultati. Se saranno quelli che penso, quando troveremo Riger Studd avremo trovato il nostro vampiro. Ora, se vuoi scusarmi, vado a fare un bagno”.
Dopo cena contattò le forze dell'ordine locali e le informò della sua decisione di controllare il cimitero durante la notte.
Quella sera, dopo le dieci, lui e Livienne si appostarono presso l'ingresso del cimitero, nascosti dietro un cespuglio, e attesero in silenzio. Ma non venne nessuno. La notte seguente rifecero l'appostamento e, proprio quando ormai incominciavano a pensare che anche stavolta non sarebbe accaduto nulla, udirono delle voci avvicinarsi al camposanto. Subito dopo, cinque loschi figuri entrarono nel cimitero armati di vanghe e badili. Steve avvisò la polizia tramite cellulare, poi seguì gli uomini fin dentro il cimitero, senza farsi scorgere. I cinque si avvicinarono alla tomba di un uomo, sotterrato solo due settimane prima, e si misero a scavare. Quando la polizia arrivò, i cinque avevano ormai dissotterrato la bara e l'avevano aperta.
“Fermi dove siete!”, intimò uno dei poliziotti. Quando i cinque si resero conto di essere circondati, dapprima si spaventarono a morte, poi, dopo aver scoperto che si trattava solo di poliziotti, si calmarono un poco.
“Chi siete?”, chiese Livienne.
“Siamo contadini, abitanti di Var. Volevamo solo sincerarci che quest'uomo non fosse un vampiro”.
“Per quale motivo lo ritenete un vampiro?”, chiese Steve, dopo che Livienne gli ebbe tradotto la risposta dell'uomo.
“Lui era amico degli Studd. Abitava vicino a loro”.
“E questo vi sembra un motivo sufficiente?”, esplose Livienne.
Steve si avvicinò alla bara aperta, che rivelava i poveri resti di un uomo morto da due settimane, senza alcuna voglia di tornarsene in vita.
“Vedete? Non ha nulla del vampiro, mi sembra!”
Uno degli uomini lasciò cadere il paletto di legno, che aveva prontamente preso in mano quando avevano aperto la bara.
“Ridate sepoltura a questo pover'uomo, svelti! Domani vi attendo in caserma per rispondere di questo terribile reato da voi commesso! Immagino che siate stati voi a profanare anche le altre tombe, non è così?”, chiese il poliziotto di più alto grado.
“Sì. È così”, ammise uno dei cinque, mentre gli altri si accingevano a rimettere a posto la bara. Fu a quel punto che si udirono degli spari e delle grida provenire da un vicino cascinale. Steve si precipitò alla macchina, seguito da Livienne. In breve raggiunsero il cascinale dove un uomo, in pigiama, stava ritto nel cortile, con il fucile ancora in mano e una collana di aglio intorno al collo. Poco ci mancò che a Livienne scappasse da ridere, vedendolo in quello stato.
“Quella canaglia di un vampiro! Voleva le mie pecore! Ma io gli ho sparato! E l'ho preso!”, disse orgoglioso, mostrando la scia di sangue che si perdeva nella foresta, dietro l'abitazione.
“Questo dovrebbe farle supporre che non si è trattato di un vampiro: non basta un fucile a ferirli”, esclamò Livienne.
Le tracce si perdevano su per la collina, in direzione della casa disabitata degli Studd. Intanto, due dei poliziotti avevano raggiunto Steve e Livienne.
“Andiamo, credo di sapere dov'è il nostro vampiro”, annunciò Steve. Raggiunsero in fretta l'abitazione degli Studd e, quando furono arrivati, cercarono con una torcia elettrica le tracce di sangue all'interno della casa. Seguendole, giunsero a una botola nascosta nel pavimento che, alla prima ispezione, Steve non aveva notato. L'aprì e si calò giù per le scale, che portavano a una cantina segreta.
“Attento! Potrebbe ferirla!”, esclamò il poliziotto.
Nuovamente Livienne tradusse, ma lui la tranquillizzò:
“No, se è come penso”.
Livienne scese dopo di lui, seguita dagli altri due. In un angolo della cantina, disteso per terra e ferito, trovarono Rigel Studd. La sua bocca e le mani erano sporche di sangue. Il viso era di un pallore mortale e, alla vista della luce, si ritrasse, chiudendo gli occhi e urlando spaventato.
“Livienne, chiama un'ambulanza, presto!”
Lei si affrettò a fare quanto richiesto.
“Ma è pazza? Chiama un'ambulanza per quel mostro? Lo guardi! È veramente un vampiro! Ci ucciderà tutti!”, esclamò il poliziotto. Livienne cercò di tranquillizzarlo.
“Sono certa che Steve ha una spiegazione”, disse, in rumeno, poi si rivolse a Steve in inglese:
“Quell'uomo non è veramente un vampiro, vero?”
“No. Quest'uomo è semplicemente malato di porfiria, una malattia ereditaria, che ha preso da sua madre”, spiegò Steve.
“Ne sei sicuro?”, chiese ancora Livienne, evidentemente impressionata dalla vista del poveretto, che tremava terribilmente.
“Sì. I sintomi sono quelli. La porfiria è una malattia del sangue: un po' alla volta distrugge le sue vittime con spasmi muscolari, diarrea e depressione. Spesso, nell'antichità, i malati di porfiria furono scambiati per vampiri, dato il loro continuo bisogno di sangue, e a causa anche del loro pallore, della postura delle gengive durante gli spasmi e della spiccata sensibilità alla luce che li costringeva a vagare solo durante la notte”. Livienne tranquillizzò i poliziotti, traducendo le spiegazioni di Steve, poi chiese:
“Ma perché succhiava il sangue degli animali?”
“La porfiria provoca anche gravi turbe psichiche, allucinazioni e depressione: probabilmente, l'ottusità di questo paese, che ha sempre bollato gli Studd di vampirismo, ha fatto in modo che questo ragazzo credesse veramente di essere un vampiro. Forse anche la madre era convinta di esserlo. Del resto, il bisogno di sangue dettato dalla loro malattia li spingeva a ricercarne sempre, così ha creduto alle dicerie della gente. Probabilmente, la morte della madre ha aggravato una situazione psicologica già difficile e allora si è gettato sugli animali del paese, facendo quello che la gente si era sempre aspettata da lui”, rispose Steve.
Quando l'ambulanza arrivò Studd fu caricato e portato all'ospedale più vicino: stringeva ancora fra le mani uno strano strumento appuntito, probabilmente di sua costruzione, che aveva utilizzato fino a quel momento per forare sul collo le sue vittime.
Le analisi del sangue confermarono la versione di Steve: madre e figlio erano entrambi malati di porfiria. Nessuno dei due si era mai fatto vedere da un dottore, forse per paura di essere riconosciuti come "vampiri".
Il giorno dopo Steve e Livienne lasciarono insieme Var per tornare alla loro città. Il caso era risolto.

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Capitolo 3
*** capitolo tre: Streghe ***


STREGHE
 
 Filadelfia, Domenica 30 aprile 2000
 
Steve si soffermò qualche secondo a guardare la città che si risvegliava sotto il sole d'aprile, poi chiuse le ante e la finestra, raccolse il portafoglio e se lo infilò in tasca, prese le chiavi della macchina e la valigia e si diresse verso la porta ma, un istante prima di abbassare la maniglia, udì bussare insistentemente.
Aprì e i suoi occhi color cenere si soffermarono sulla figura femminile che gli stava di fronte: carina, slanciata, le curve al punto giusto e un delizioso completino che metteva in mostra le sue gambe perfette, Livienne dimostrava molto meno dei suoi venticinque anni. Sorrideva dolcemente e i suoi occhi brillavano d'intelligenza e di curiosità.
Steve la fissò, preoccupato:
“Che cosa ci fai qui?”
“Ho provato a chiamarti al cellulare ma non rispondevi. Allora sono venuta qua”.
“Come hai avuto il mio indirizzo?”, chiese, sapendo che di solito Donald non rivelava mai gli indirizzi dei suoi dipendenti.
“Non è il momento di parlare di questo: ho bisogno del tuo aiuto”.
“Sto andando in ferie”.
Livienne osservò la valigia di pelle che aveva appoggiato sul pavimento: era piccola e poco ingombrante, ma evidentemente conteneva tutto ciò di cui lui aveva bisogno.
“È una cosa importante”, continuò lei.
“Anche le mie ferie lo sono”, ribatté Steve, raccogliendo la valigia e uscendo dalla porta, scostando la ragazza.
“Le ferie possono aspettare: c'è un'emergenza in città”.
Steve sospirò, poi rispose:
“Se ci fosse davvero un'emergenza in città, io non starei andando in ferie, per cui, scusami, ma devo salutarti”. Chiuse a chiave l'appartamento, poi si rivolse di nuovo alla ragazza:
“Buona giornata, Livienne”.
Lei ritornò alla carica:
“Non vuoi neppure sapere di che si tratta? Ne va della vita di parecchi bambini, Steve”.
Dopo un istante di esitazione, cedette alla curiosità, riappoggiò la valigia e, con aria stanca, le chiese:
“D'accordo, che succede?”
“Una donna, Iride Melwise, stamattina è venuta da me. Ha letto i miei articoli e per questo ha deciso di parlarmi: crede che io la possa aiutare. Iride ha un figlio di cinque anni e abita sulla quinta strada”.
“La cosa ti sembra preoccupante?”, chiese Steve, con aria di scherno.
“Sì, se calcoli che in quella via tre bambini al di sotto degli otto anni sono stati ricoverati per meningite fulminante”.
“È una malattia contagiosa: i bambini avranno frequentato la stessa scuola o lo stesso parco, avranno giocato insieme”.
“Il fatto strano è che nella stanza dei tre bambini, la sera in cui si è manifestata la malattia, si è vista una civetta, e in due dei casi, i genitori asseriscono che la finestra della stanza fosse chiusa. Non sanno come abbia potuto entrare là”.
“Una civetta, hai detto?”, chiese Steve, improvvisamente pensieroso.
“Questo mi ricorda un caso del passato: in Cina, nel 1755, molti bambini morirono colpiti da convulsioni, dopo l'apparizione di un gufo nella loro stanza”, continuò.
“Il gufo si rivelò poi essere la metamorfosi di una strega. Quando essa fu bruciata, l'epidemia cessò”, intervenne Livienne. Steve la guardò sorpreso:
“Stai per caso cercando di rubarmi il posto?”, scherzò.
“Il capo mi ha ordinato di seguire il filone del paranormale: entro la fine di ogni mese devo scrivere un articolo, che apparirà sul nuovo supplemento del giornale. Sto cercando di imparare tutto quello che posso, su questi strani argomenti. Non ho potuto studiare molto in queste due settimane, ma ho letto qualcosa a proposito dell'epidemia di Pechino, nel 1755, e, quando Iride mi ha raccontato i fatti, mi è subito tornata in mente”.
“Anche ammettendo che una strega viva tranquillamente in un quartiere della nostra città, che già è una cosa difficile, e aggiungendo pure che possa trasformarsi a suo piacimento in un animale e riesca a entrare nelle case passando attraverso i muri, cosa, questa, alquanto più improbabile, mi dici come facciamo a rintracciarla e fermarla?”, chiese Steve.
“Non ne ho la più pallida idea. Per questo sono venuta da te”.
Steve sospirò forte, poi girò la chiave che aveva lasciato nella toppa fino a quel momento, mise la valigia in casa e richiuse la porta.
“Ho capito: si va a caccia di streghe”, commentò. “Andiamo a interrogare i genitori dei bambini. Forse scopriremo qualcosa di più. Conosci i loro indirizzi?”
“No, ma ho i nomi dei bambini: sono ricoverati al Pennsylvania Hospital. Qualcuno dei genitori è sicuramente là con loro”.
In breve furono all'ospedale. Un'infermiera piccola e carina li ricevette, quando entrarono nel reparto infettivi.
“Posso esservi utile?”
“FBI. Dobbiamo parlare con i genitori di Jodye Link, Emily Pilcher e Stewart Lange”.
“Ve li mando subito”.
“Uno alla volta, se non le dispiace”, specificò Steve.
Di lì a poco l'infermiera ritornò con una donna sulla quarantina, il volto distrutto dal dolore, le occhiaie profonde sotto gli occhi.
“Mi chiamo Marie e sono la mamma di Jodye”.
“Signora, sono dell'FBI e sono qui per scoprire cosa è successo a suo figlio”, incominciò Steve.
La donna lo guardò, perplessa:
“Lei crede che ci sia qualcosa di strano nell'apparizione di quella civetta?”, chiese, preoccupata.
“Siamo qui per stabilirlo: può raccontarci com'è andata?”, s'intromise Livienne, sorridendole per tranquillizzarla.
“Certo”. La donna si sedette stancamente sulla sedia che l'infermiera le porgeva, nella sala d'aspetto. Livienne e Steve presero posto di fronte a lei. Quando l’infermiera se ne fu andata, la donna iniziò a raccontare:
“L'altra sera, erano pressappoco le nove e mezza, ho accompagnato Jodye nella sua stanza, per metterlo a letto”.
“Il bambino stava bene?”, la interruppe Steve.
“Sì, certo! Aveva mangiato alle sette e mezza, com'è nostro solito, poi avevamo guardato un po' la televisione tutti insieme e Jodye aveva riso e scherzato insieme a noi come tutte le sere…”. La donna si interruppe, asciugandosi una lacrima che le rigava il volto.
“Scusatemi”, disse, prendendo un fazzoletto dalla borsa.
“Quando sono entrata nella stanza non ho notato subito la civetta. Ho messo a letto il bambino, l'ho coperto e gli ho dato un bacio. Poi mi sono voltata: lei era lì, di fronte a me, appollaiata sull'armadio. Non sono superstiziosa, ma quando ho visto quell'uccello mi sono comunque spaventata e ho chiamato mio marito. È entrato nella stanza e l'ha visto anche lui. Subito dopo il bambino ha iniziato a stare male. Noi allora abbiamo rivolto l'attenzione al piccolo, spaventati. Quando ci siamo voltati di nuovo, la civetta non c'era più”.
“La finestra della stanza era chiusa?”
“No, era aperta, ma la zanzariera era abbassata. Ho controllato: non c'era nessun buco. Ma la civetta poteva essere uscita dalla porta, che mio marito aveva lasciato aperta. In ogni caso, dopo averci accompagnato all'ospedale, mio marito ha cercato l'animale per tutta la casa, senza trovarne più alcuna traccia”.
“C'è qualcos'altro che l'ha colpita? Qualche particolare?”
“Il suo sguardo: aveva qualcosa di strano, anche se non saprei dire cosa”.
“Niente altro?”
“No. Mi dispiace”.
“La ringraziamo molto, signora Link”.
“Spero di essere stata d'aiuto”, disse, alzandosi per seguire l'infermiera nella stanza di suo figlio. L'interrogatorio alla madre di Steward Lange non portò a nulla di più costruttivo: la madre del bambino riferì per lo più lo stesso racconto della signora Link. Poi fu la volta del signor Pilcher. Steve strinse la mano che l'uomo gli porgeva:
“Salve, signor Pilcher. Sono dell'FBI e sono qui per indagare sulle strane apparizioni di una civetta nella vostra via”.
“C'è poco da indagare! È stata lei, quella maledetta strega! L'ho sempre detto che prima o poi avrebbe combinato qualche guaio!”, sputò fuori l'uomo.
“Di chi sta parlando?”
“Di Sheila Grey. È una signora che vive nel mio stesso palazzo. Non è una donna come tutte le altre. È una strega! Coltiva piante velenose, con le quali produce intrugli magici di ogni tipo! Sono certo che è stata lei a mandare quella civetta nella stanza di mia figlia, col chiaro intento di farla ammalare!”, urlò.
“Si calmi, signor Pilcher. Se le cose stanno come lei dice lo appureremo con le nostre indagini. Ora si limiti a raccontarci i fatti di ieri sera: che è successo esattamente a sua figlia?”
Il signor Pilcher raccontò ai due la storia che già avevano sentito, poi tornò nella sua stanza, inveendo contro Sheila Grey.
“Credo che dovremmo fare una visitina a questa Sheila”, propose Steve.
In breve erano sulla quinta strada, dove raggiunsero l'edificio nel quale vivevano Pilcher e la Grey. Il caseggiato era circondato da uno splendido giardino in fiore, tenuto molto bene.
Dopo essere entrati nell'androne del palazzo si avvicinarono alla guardiola, dove una grassa portinaia alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo e li squadrò, masticando rumorosamente un chewing-gum.
“Salve”, li salutò, scostando leggermente un ciuffo di capelli appiccicato alla fronte dal sudore. Sul suo viso di dipinse un'espressione di stupore quando notò il distintivo che Steve le mostrava.
“Dovrei parlare con Sheila Grey. Abita qui, non è vero?”
“Sì, certo! Ora vengo”. La donna li raggiunse, uscendo da una porta laterale. Indossava un lungo abito a fiori, sgualcito e smunto dai troppi lavaggi, che le stava talmente stretto da dare l'impressione di scoppiare da un momento all'altro.
“Che tipo è questa donna?”, chiese Livienne.
“Un tipo strano. Parla pochissimo con la gente. In compenso le piacciono molto i fiori: da quando è qui si occupa lei del giardino. Non è mai stato così bello e fiorito. Le piacciono anche gli animali e spesso dà da mangiare ai gatti randagi e ai piccioni. A volte penso che vada molto più d'accordo con gli animali che con la gente!”, commentò la donna, salendo faticosamente le scale.
“Questo è un punto a suo sfavore”, commentò Steve, fra sé e sé.
“Da quanto tempo abita qui?”, chiese Livienne.
“Da due anni. Viene da un paese straniero, credo dall'Africa centrale. Quando è arrivata parlava poco la nostra lingua. Probabilmente è anche per questo che non comunica molto con gli altri inquilini. Non è mai venuta a una sola riunione di condominio! Neppure una volta!”
“Si dice in giro che faccia delle strane pozioni... pomate e cose del genere…”.
“Lei non vuole che se ne parli”, esitò la donna.
“Ma, visto che lo sapete già, vi dirò che mi ha dato un unguento, una volta, che mi ha fatto passare completamente il dolore che avevo alla gamba sinistra. Ora sto bene”.
Raggiunsero l'ultimo piano e qui la donna si fermò davanti a una porta, poi bussò discretamente. Poco dopo la porta si aprì.
“Signorina Grey, queste due persone desiderano parlare con lei”.
La donna annuì, guardando i due giovani. Nel suo sguardo, Livienne e Steve notarono subito qualcosa di strano, di magico: aveva delle strane pagliuzze dorate negli occhi, che luccicavano in un modo impressionante.
“Venite”, disse la donna, facendoli entrare. Una volta dentro, i due ebbero modo di notare lo strano arredamento, composto solo da alcune stuoie stese per terra e un tavolino scrostato appoggiato contro il muro, sul quale troneggiava una bilancina di ottone, con tutti i pesi relativi e un'infinità di piccoli vasetti contenenti creme, etichettati con i nomi più singolari. Situato in un angolo vi era un fornello a gas, sul quale bolliva un pentolino. Cosa bollisse in pentola rimase un mistero, ma l'odore che ne emanava non era certo dei più invitanti. Un piccolo distillatore era in funzione, appoggiato sul frigorifero. Ne cadevano piccole gocce che si raccoglievano in un'ampolla contenente un intruglio verdastro. Su una libreria erano appoggiati libri di giardinaggio ed erbe medicinali, ma ce n'erano anche altri dai titoli più strani, chiaramente non in lingua inglese. Vi erano inoltre amuleti sciamani appesi alle pareti e perfino i vestiti della signora erano alquanto singolari: la donna indossava un lungo abito rosso, bordato in oro. Sulla testa aveva un lungo copricapo rosa, che teneva legati i capelli, ricci, lunghi e scarmigliati. Livienne pensò che probabilmente non avevano mai visto un pettine da vicino. Non era giovanissima e le rughe le incorniciavano il viso scuro, solcato da una profonda cicatrice sulla guancia destra. Si voltò verso di loro e li apostrofò, con aria severa:
“So perché siete qui. Voi credete che io abbia fatto ammalare quei bambini, non è vero?”
Anche se questo semplificava notevolmente il loro lavoro, Livienne fu sorpresa dal fatto che la donna avesse centrato l'argomento al primo colpo.
“Siamo qui per scoprire la verità riguardo a questo caso. Lei non è indiziata di nulla, signora Grey”, spiegò Steve, notando che la donna parlava molto bene l'inglese, anche se con uno strano accento. Evidentemente non era la difficoltà a pronunciare quella lingua che la estraniava dai vicini di casa.
“A ogni modo, non sono stata io”, affermò lei, sicura.
“Ci può aiutare a capire cosa è successo?”, chiese Steve.
Lei li guardò e nei suoi occhi Steve notò una sfumatura di rabbia.
“Ci sono cose che voi, cittadini "civilizzati" ed eruditi, non sapete. Ed è meglio che continuiate a non saperle!”
“Sta parlando di magia, Sheila? Quella stessa magia che può permettere a un essere umano di trasformarsi in un animale e di far ammalare decine di bambini solo stando alla loro presenza?”
Lei lo fissò stupita.
“Lei crede nella magia?”, chiese, sorpresa.
“Ho avuto modo di vedere cose che gli altri non hanno mai visto...”.
Livienne ascoltava, silenziosa. Quel discorso la metteva a disagio. Sembrava che i due si stessero, in un certo qual modo, studiando a vicenda.
“Allora sa già quello che è successo. Non glielo devo spiegare io”.
“Lei si proclama innocente: mi dica chi è stato allora! Mi aiuti a risolvere il caso”.
“C'è solo una donna che può avere fatto una cosa del genere! Solo lei mi odia fino al punto di uccidere, pur di screditarmi di fronte agli occhi di tutti!”, disse.
“Lei… chi?”.
“È lei il detective. Lo scopra da solo”, sentenziò, aprendo la porta in chiaro segno di commiato.
“Sono certa che scoprirà delle altre cose molto interessanti…”, aggiunse, sorniona.
“Aspetti! Se questa donna la odia così tanto come dice, perché se la prende con dei bambini innocenti? Perché non cerca di uccidere direttamente lei?”, chiese ancora Steve, uscendo.
“Non può farlo. Ci ha già provato una volta...”. E Sheila si toccò il viso, dove l'orrenda cicatrice la sfigurava.
“Ma non ci è riuscita!”, concluse, sorridendo ironicamente.
Quando furono soli, sulle scale, Livienne chiese a Steve:
“Che possiamo fare?”
“Niente. Non abbiamo prove contro di lei. Nessuna prova”.
“Nessuna prova? Ma non hai visto i suoi occhi? Se quelli non erano occhi "strani" io mi chiamo Napoleone! E la sua casa? È piena di unguenti e pomate, oggetti di culto! Per non parlare del giardino! Hai visto i fiori? Digitale, aconito napello, stramonio, oppio… persino la mandragora! Ce n'è abbastanza per far morire avvelenata l'intera città!”
“Se è vero che è di origine africana, dubito che utilizzi quei fiori per le sue preparazioni: molte di quelle piante non crescono nell'Africa centrale e quindi probabilmente non ne conosce neppure le proprietà curative o, per lo meno, dubito che le conoscesse quando è venuta qua. Inoltre, se dovessimo arrestare tutti quelli che hanno piante velenose in giardino, metà della popolazione di Filadelfia sarebbe in galera”.
Steve si fermò ancora a parlare con la portinaia:
“Ci permette ancora delle domande, signora?”
“Certo. Avete scoperto qualcosa di interessante?”, chiese, incuriosita. Evidentemente non doveva accadere spesso, da quelle parti, di essere interrogati dall'FBI.
“No. Ma ora mi dica, per favore: sa per caso se la signorina Grey ha dei nemici, qui intorno?”
“Non è molto ben vista, nella zona, a causa delle sue stranezze, ma nessuno le vuole particolarmente male”.
“Ha dei parenti?”
“Non lo so. Non riceve mai posta e non ha neppure il telefono”.
“La ringrazio per la collaborazione. Ci è stata molto utile, signora. Arrivederci a presto”.
“Arrivederci”, rispose lei, evidentemente delusa di non aver potuto sapere cosa i due avevano scoperto.
“Dobbiamo indagare sul passato di Sheila”, annunciò Steve, quando furono in macchina.
Raggiunse il suo ufficio, seguito da Livienne, accese il computer e si mise a cercare informazioni sulla Grey.
“Ecco qui: c'è la sua data di nascita, il paese di provenienza e la data del suo arrivo in America. Non c'è altro”.
Steve digitò sul computer il nome del villaggio dal quale proveniva Sheila, situato in una remota regione al confine tra il Congo e lo Zambia. Apparve una lunga documentazione, che lui scorciò, lanciando poi un fischio ammirato.
“Pensa un po': la nostra amica Sheila è niente di meno che la figlia di un nyanga, ovvero uno stregone africano, morto tre anni fa alla venerabile età di centocinque anni!”
“Forse è per questo che è venuta via di là: perché suo padre era morto”.
“Non lo so: l'articolo parla di una spedizione di venti americani, capeggiati dalla dottoressa Valery Stevenson, che andarono laggiù sei anni fa per studiare i selvaggi. Sembra che siano tuttora là. Segue tutta la documentazione sul lavoro svolto dagli americani, ma questo è tutto”.
“Potremmo parlare con qualcuno della spedizione: forse loro sanno chi è la donna di cui parlava Sheila”.
“Probabilmente è una delle donne del villaggio. Se lei e Sheila hanno avuto a che dire, negli ultimi sei anni, i componenti della spedizione dovrebbero saperlo”.
“Che si fa? Si parte per l'Africa?”, propose Livienne, divertita dall'idea.
“Non credo sia necessario: qui dice che due dei componenti la spedizione sono tornati in America un anno e mezzo fa. Uno di loro, lo psicologo Hans Braahm, ha lo studio poco lontano da qui. Possiamo andarci subito”.
“Mi sembra un'ottima idea”.
Steve fece partire lo screensaver del computer e apparvero strani diagrammi che si modificavano in continuazione.
“Che roba è?”, chiese Livienne, incuriosita.
“È il progetto SETI at home. Hai mai sentito parlare del progetto SETI?”
“Certo! SETI sta per "The Search for Extraterrestrial life and Intelligence", se non sbaglio, ed è appunto un progetto atto a registrare, tramite il radiotelescopio di Arecibo, tutte le frequenze provenienti dallo spazio, per poi analizzarle e cercare eventuali forme di intelligenza aliena”.
“Esatto. Solo che, ultimamente, il progetto andava avanti a rilento: il solo computer di Arecibo non riusciva più a elaborare tutti i dati, così è stato chiesto l'aiuto dei computer sparsi su tutto il pianeta. Chiunque abbia un computer collegato a internet dovrebbe dare una mano a questo progetto, scompattando e analizzando i dati, come sto facendo io, per poi rispedirli ad Arecibo una volta analizzati. Potresti farlo anche tu, col computer che usi al lavoro”.
“Mi sa tanto che lo farò davvero. Certo che tu non potevi proprio mancare a dare il tuo contributo a un progetto simile!”, sghignazzò Livienne.
Si recarono allo studio del dottor Braahm, dove attesero che un paziente terminasse la seduta. Poi entrarono nella tranquilla stanzetta, dove il dottore stava seduto dietro una scrivania in radica di noce. L'uomo li sbirciò al di sopra degli occhiali.
“Salve”, li salutò.
“Non credo che ci siamo già conosciuti. La mia segretaria ha preso appuntamento con voi?”
Steve mostrò il distintivo.
“Se non abbiamo un appuntamento lo prendiamo subito”, dichiarò, sorridendo al volto sorpreso dell'uomo.
“C'è qualche problema?”, chiese infatti il dottore, perplesso.
“Ci servono informazioni su una persona”.
“Non sono autorizzato a rivelare nulla, riguardo ai miei pazienti”.
“Non si preoccupi: non credo che la persona in questione sia una sua paziente”.
“Sedetevi”, li invitò il dottore, sempre più confuso.
“Lei è stato in Africa, con la spedizione della dottoressa Stevenson, non è vero?”
“Sì. Sono tornato un anno e mezzo fa”.
“Conosce una certa Sheila Grey?”
“Sì, certo. L'ho conosciuta proprio lì, al villaggio. Ma non la vedo da quando se ne è andata, due anni fa”.
“Lei sa che vive qui in città?”
“Sì, lo abbiamo saputo, al villaggio. Suo fratello era preoccupato per lei quando se ne è andata e l'ha fatta cercare. La dottoressa Stevenson si è occupata delle ricerche”.
“Forse lei sa perché se ne è andata dal villaggio?”
“Lei e la dottoressa non andavano per niente d'accordo. Suppongo sia stato questo il motivo principale”.
“Può dirmi perché non andavano d'accordo?”
“Divergenze di opinioni”.
“La dottoressa aveva per caso accusato Sheila di fare uso di magia nera?”
“No. Semmai è stato il contrario”.
“Cosa?”, si stupì Steve.
“Vedete, la dottoressa Valery Stevenson si era innamorata del giovane fratello di Sheila, Tares. Ma lui era già sposato e la respinse. Poco dopo, la moglie di Tares morì, sbranata da una tigre. Sheila allora accusò pubblicamente Valery: disse di averla vista trasformarsi in una tigre e la incolpò della morte di sua cognata. Valery le rise in faccia e rispose che quella sua affermazione era ridicola. Quella notte una tigre entrò nella capanna di Sheila e la ferì su una guancia. Il fratello entrò nella capanna e la tigre fuggì. La mattina seguente scoprirono che Sheila se n'era andata”.
Livienne prese fra le mani una foto che c'era sulla scrivania, nella quale erano presenti, fra le altre persone, il dottor Braahm e Sheila Grey.
“Questa l'avete fatta al villaggio?”
“Sì. Questo è Tares, con sua moglie. E questa è la dottoressa Stevenson”, spiegò il dottore, segnando col dito le persone sulla foto.
“Ha uno sguardo strano”, commentò Livienne, guardando la dottoressa.
“Già. Pensate: ha un occhio verde e uno celeste. Davvero insolito”, spiegò Braahm.
“Lei ha un'idea del perché Sheila sia venuta ad abitare qui?”, chiese ancora Steve.
“Sì. Sua madre era di qui. Andò in Africa cinquant'anni fa e s'innamorò dello stregone, con il quale ebbe due figli. È morta da diversi anni. Immagino che Sheila abbia voluto vedere i luoghi in cui era cresciuta sua madre: ne parlava spesso e diceva anche che un giorno avrebbe visto l'America”.
“Bene”, disse Steve, alzandosi.
“Noi la ringraziamo molto. Ci è stato di grande aiuto”.
Il dottore si congedò da loro, che si affrettarono a raggiungere la vettura di Steve.
“Direi che ora sappiamo chi è la nemica di Sheila”, commentò Livienne.
“Già. Ma chi è, delle due, la vera strega, se veramente ce n’è una? Inoltre, perché Valery dovrebbe voler rovinare la vita di Sheila ora, a distanza di anni?”
“Forse un odio atavico che non si è mai spento”.
“Beh, sono le otto di sera. Forse dovremmo andare a cena e rimandare tutto a domani, non credi?”, propose lui.
“Buona idea. Ho una fame!”
Cenarono in un ristorante italiano, poi Steve accompagnò Livienne a casa. Una volta giunta in camera, lei si accorse subito che la spia luminosa della segreteria telefonica lampeggiava, così ascoltò il messaggio:
“Signorina Parrish, sono Iride. Venga dubito al Pennsylvania Hospital, la prego. È successo ciò che temevo”, La voce della donna era tremante ed era chiaro che stesse piangendo.
Livienne chiamò Steve sul cellulare. Lui era ancora in macchina.
“Vieni a prendermi: ci sono delle novità”, disse semplicemente.
Giunsero all'ospedale dove Iride li aspettava in lacrime.
“Che è successo?”, chiese Livienne.
“Il mio bambino! Lo stavo mettendo a letto quando ho visto quel maledetto uccello. Ho urlato e mio marito è corso nella stanza. Ha cercato di colpire la civetta, ma lei è scomparsa. È svanita sotto i nostri occhi. Subito dopo, Cody ha iniziato a stare male. I dottori stanno facendo il possibile, ma voi dovete fermare quell'animale! Dovete farlo!”, urlò, disperata.
“Ci stiamo provando, signora. Ma non possiamo metterci a dare la caccia a tutte le civette della città! Che altro ci può dire? C'è qualche particolare che l'ha colpita?”
La donna rimase un attimo in silenzio, poi rispose:
“La civetta aveva uno sguardo strano: quando l'ho guardata mi sono accorta che aveva un occhio verde e uno blu”.
Livienne e Steve si fissarono un istante, quasi increduli.
“Andiamo da Sheila: lei è l'unica in grado di fermarla!”, esclamò Steve.
Poco dopo erano davanti alla porta della donna africana. Bussarono insistentemente e lei aprì:
“Che cosa volete ancora da me?”, chiese, fissandoli infastidita.
“Sappiamo tutto. Abbiamo scoperto chi è la donna di cui ci ha parlato. Ora lei deve aiutarci a fermarla!”, la esortò Steve.
“Perché dovrei farlo? Questa società non mi ha mai accettato, nonostante mia madre fosse nata qui. Perché dovrei aiutare questa gente?”
“Ci sono dei bambini molto malati e la colpa è anche sua, signorina Grey: quei bimbi stanno soffrendo perché Valery possa infliggerle la sua punizione, anche se ancora non ne capisco il motivo”.
“È semplice: Valery ha tentato di uccidermi e non c'è riuscita. Io costituisco un pericolo per lei: sa che sono potente. La mia forza è superiore alla sua. La mia magia è superiore alla sua! Per questo mi teme. Anche se mi odia, lei non può uccidermi. Così deve screditarmi agli occhi di tutti, anche a quelli di mio fratello, che continua a respingerla: in questo modo potrebbe anche incolparmi dell'omicidio che lei ha commesso. Così per mio fratello io sarei un'assassina, e lei l'angelo della vendetta. A quel punto, lui accetterebbe di sposarla e io non sarei più un problema, se mi fosse impedito di usare la mia magia!”
“Allora lei la deve proprio fermare, per scagionare se stessa! Ma non capisce? Se non la ferma, sarà accusata di crimini che non ha commesso!”, esclamò Livienne.
“Non ci sono prove contro di me”.
“Alla gente non servono altre prove: lei sarà tacciata di stregoneria per sempre. Nessuno la vorrà più vicino. È sicura di voler fare questa vita? È sicura di voler portare la morte di quei bambini sulla coscienza? Lei è l'unica che può fare qualcosa per salvarli! Lo faccia, la prego!”, la supplicò Livienne.
La donna rimase in silenzio per un istante, poi disse, con la voce roca:
“E sia! Uscite di qui. Farò quello che è in mio potere”.
I due lasciarono la stanza ma, una volta di fronte alla portinaia, Steve le lasciò il suo biglietto da visita.
“C'è il mio numero di telefono, qua sopra. Se ci fosse bisogno, mi chiami”.
“D'accordo”.
La mattina seguente, verso mezzogiorno, Livienne stava leggendo un libro sugli incantesimi, che Steve le aveva prestato, quando squillò il telefono. Raggiunse l'apparecchio e rispose:
“Pronto?”
“Ciao Livi, sono Steve. Ho delle novità sul caso: stamattina, sul mio computer, ho trovato una e-mail, spedita dal mio capo, che mi informava della morte della Stevenson. La dottoressa è stata sbranata da una tigre, questa notte”.
Livienne stette in silenzio per qualche secondo, poi sussurrò:
“Pensi anche tu quello che penso io?”
“Cioè che quella tigre fosse la trasmutazione di Sheila? Non so più a cosa credere, Livi: stamattina Sheila è stata trovata morta nella sua stanza. Ho eseguito io stesso l'autopsia: sul suo corpo ho trovato dei peli di origine animale, probabilmente di una tigre, dato il loro colore, e sul suo vestito c'era del sangue non appartenente al suo gruppo sanguigno. Nello stomaco ho trovato tracce di cicuta: evidentemente si è avvelenata. Sulle braccia aveva dei graffi, causati da un grosso animale”.
“Scommetto che se analizzassimo il sangue trovato sul suo vestito, scopriremmo che è il sangue di Valery”.
“È probabile… ma non so se ho voglia di scoprirlo”, commentò Steve.
“Sono stata all'ospedale, stamattina: i bambini stanno tutti molto meglio”.
“A quanto pare abbiamo risolto il caso, anche se rimane ancora una domanda a cui trovare risposta”.
“Quale?”, chiese incuriosita Livienne.
“Cosa scriverò nel mio rapporto?”
“Semplice: che sei stato in vacanza!”

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Capitolo 4
*** capitolo 4: l'amore è eterno ***


L'AMORE È ETERNO
 
Filadelfia, Lunedì 08 maggio 2000
 
Erano ormai le nove di sera quando Steve rientrò nel suo appartamento, deciso ad andarsene a dormire al più presto. Spalancò il frigorifero, ne estrasse due uova e accese il gas sotto una padella antiaderente. Vi sgusciò dentro le uova, poi mise in tavola un piatto, un bicchiere e una bottiglia di birra. Il trillo del telefono lo distolse dal suo lavoro e andò a rispondere.
“Pronto?”, chiese, stancamente.
“Ciao Steve, sono Lisa”. La voce all'altro capo del telefono era sofferente, quasi un sussurro, un bisbiglio di dolore.
“Lisa!”, esclamò, stupito: non sentiva la sua ex fidanzata da circa tre anni, cioè da quando si erano lasciati.
“Mi serve il tuo aiuto, Steve. Mia sorella Sara è scomparsa”.
“Lisa, io non ritrovo le persone scomparse. Suppongo che la polizia locale si stia già occupando del caso”, disse, prendendo il cordless e raggiungendo la cucina, prima che le uova si bruciassero.
“La polizia pensa che si sia trattato di un suicidio. Non fanno altro che cercare il corpo. Ma io non credo che sia andata così”.
“Perché non ci credi?”
“Perché il corpo non è stato trovato, tanto per cominciare, e perché ultimamente mia sorella non era certo in vena di suicidio: era felice come non l'avevo mai vista prima”.
“Da quanto è scomparsa?”
“Da una settimana. Steve, ti prego. Non mi fido della polizia: credo che stiano conducendo le indagini in modo molto superficiale. Voglio che sia tu a cercare mia sorella”.
“D'accordo. Chiederò a Donald il permesso di condurre quest'indagine, ma non ti assicuro niente. Ti richiamo domani mattina”.
“Aspetta, ti do il mio nuovo numero”.
“Ma dove ti trovi?”, chiese Steve, non riconoscendo il prefisso del telefono, dopo che lei gli aveva dettato il numero.
“In Canada. Mi sono trasferita qui un anno e mezzo fa, con tutta la famiglia. Ti spiegherò tutto quando verrai qui”.
Lui riattaccò, dopo averla salutata.
“In Canada!”, bofonchiò fra sé e sé.
Consumò la sua cena, a dir la verità con poco appetito. Il pensiero di rivedere Lisa non lo esaltava: si erano lasciati in malo modo, tre anni prima. Cosa spingeva ora Lisa a chiamare proprio lui? Una cosa era certa: se lo aveva chiamato doveva essere proprio disperata, dato che aveva giurato di non volerlo rivedere mai più.
Se ne andò a dormire, ma non poté fare a meno di ripensare a quello che era accaduto tanto tempo prima, fra lui e Lisa: dopo essere rimasti insieme per due anni, lei aveva incominciato a odiare il suo lavoro, che lo costringeva troppo spesso a passare la notte eseguendo autopsie, e lo aveva lasciato senza tanti rimorsi. Per Steve era stato un duro colpo: Lisa rappresentava un punto fermo, la sua ancora di salvezza in quel mondo di morti da cui tentava di risollevarsi dopo ogni giornata di lavoro. Per fortuna, dopo solo qualche mese, Donald gli aveva buttato lì che stava cercando una persona disposta a dannarsi l'anima per seguire casi legati al paranormale, agli UFO, ai miracoli, eccetera, così, in pratica, era nato il progetto A.I.R.E.S.S., e Steve aveva accettato di buona lena di lavorarci. Inizialmente aveva persino una collega che lavorava con lui: Sheila Ritter, che però lo aveva abbandonato alle prime difficoltà e si era trovato di nuovo solo. Solo, fino al momento in cui era prepotentemente entrata nella sua vita una giornalista ficcanaso.
Per un attimo gli passò per la testa di chiamare Livienne e raccontarle tutta la storia, poi pensò che doveva essere davvero pazzo se faceva una cosa del genere, così non la chiamò.
La mattina seguente giunse all'ufficio di zona dell'FBI e bussò alla porta del suo capo.
“Avanti”.
Steve entrò e trovò Donald mezzo sepolto in un mare di scartoffie.
“Maledizione!”, imprecò Donald.
“Ancora un po' e ci farà impazzire quella banda di trafficanti di droga! Che ci fai qui, Steve?”
“Sono venuto per chiederle di poter lavorare a un caso: è scomparsa una ragazza, in Canada…”.
“È una delle tue solite "sparizioni inspiegabili"?”
“Non credo. Si tratta della sorella minore di una mia amica e le ho promesso di occuparmi del caso”.
“Steve, siamo già sommersi di lavoro. Non potresti fare a meno di occuparti di queste cose? Ci sono decine di serial killer a piede libero… e tu sei un ottimo profiler”.
“Non potevo proprio dirle di no: era disperata!”
“D'accordo. Non metterci un'eternità, però”.
“Le prometto di tornare appena possibile”.
Raggiunse il suo ufficio e prenotò un volo per Regina, nel Saskatchewan, in Canada. Poi compose il numero che Lisa gli aveva dato.
“Sarò lì fra tre ore. Aspettami all'aeroporto”.
“Va bene, ci sarò!”, rispose lei, felice che avesse accettato.
Quando scese dall'aereo Steve la cercò fra la folla di gente. Nonostante non la vedesse da tre anni non faticò a riconoscerla: non era cambiata molto, dopotutto. I capelli color dell'ebano incorniciavano il viso della ragazza e i suoi occhi neri splendevano, illuminandole il viso.
“Ciao, Steve”, gli disse. Ci fu un momento di imbarazzo, poi lui sorrise:
“Ciao, Lisa. Come stai?”
“Francamente non molto bene da quando Sara è scomparsa. Anche i miei genitori sono a pezzi. Vorremmo solo sapere cosa le è accaduto. Sono felice che tu abbia deciso di partecipare alle indagini: ora sono certa che la troveremo”.
“Io non ne sarei così sicuro, se fossi in te”.
Lungo la strada, mentre Lisa guidava la sua vecchia Rover, Steve iniziò a farle domande:
“Allora, che è successo?”
“Perché tu capisca meglio devo raccontarti ogni cosa fin dall'inizio. Vedi, tutto è cominciato un anno e mezzo fa, quando ci siamo trasferiti qui, a Rowatt, in casa di mia nonna, per assisterla durante una lunga e penosa malattia fortemente invalidante. La nostra sistemazione doveva essere solo temporanea, ma mio padre trovò lavoro qui, un lavoro molto ben remunerato, che ci ha permesso di vivere molto meglio che a Filadelfia, anche considerando il fatto che qui non dobbiamo pagare l'affitto, poiché la casa era di proprietà di mia nonna e mio padre l'ha ereditata. Così, alla morte di mia nonna, avvenuta tredici mesi fa, mio padre decise che saremmo rimasti qui, con grande disappunto di mia sorella, che non aveva mai accettato di vivere in questo posto. Non faceva che ripetere che sarebbe tornata a Filadelfia, da John”.
Steve la interruppe:
“Chi è John?”
“Il suo fidanzato. Sara sentiva molto la sua mancanza e credo che anche lui soffrisse parecchio. Volevano sposarsi al più presto, ma lei era ancora minorenne e mio padre diceva che avrebbe dato il suo permesso solo dopo il compimento della maggiore età. Sara e John non facevano altro che telefonarsi e scriversi. Erano davvero molto innamorati”.
Lisa fece una pausa e Steve ne approfittò per chiederle:
“Immagino che abbiate già rintracciato John, per chiedergli se Sara è con lui”.
“Piuttosto impossibile, direi: John è morto un anno e una settimana fa, il giorno del diciottesimo compleanno di mia sorella. Ha avuto un incidente con la macchina, mentre si recava all'aeroporto per venire qui, da lei. Esattamente un anno dopo, Sara è sparita”.
“Fammi capire bene: Sara è scomparsa nell'anniversario della morte di John?”
“Sì, esattamente. La sera del trenta aprile”.
Steve sospirò:
“Perdonami Lisa, ma questa storia mi porta a pensare che si sia trattato realmente di un suicidio”.
“No. Lo escludo. Vedi, all'inizio Sara era distrutta e cercò veramente di uccidersi: si imbottì di barbiturici e la salvammo per miracolo. Rimase per un mese intero all'ospedale. Quando tornò a casa era ancora disperata e temevamo che potesse riprovarci. Invece, sette mesi fa, improvvisamente, fece amicizia con un gruppo di ragazzi del paese e da allora cambiò completamente: ricominciò a uscire tutte le sere, ad agghindarsi i capelli, a passare ore e ore davanti allo specchio e, soprattutto, a sorridere. Era chiaro che si era innamorata di nuovo e questo l'aveva aiutata a superare il dolore provato per John. Ultimamente poi, era addirittura giuliva; diceva che i suoi sogni stavano finalmente per realizzarsi”.
“Che cosa intendeva?”
“Non lo so. Prima della morte di John, il suo sogno era senz'altro quello di sposarsi, ma ora, francamente, non saprei”.
Erano giunti a casa di Lisa. Steve strinse la mano ai genitori di lei, in segno di saluto. Loren, la madre di Lisa, lo abbracciò: per due anni era stato uno di famiglia, per loro.
“Sai Steve, avevo sperato di rivederti, un giorno, ma non avrei mai pensato di ritrovarti nel mezzo di una situazione tanto penosa”, disse la donna, baciandolo su una guancia, senza riuscire a trattenersi dal piangere.
“La mia Sara! La mia Sara è sparita e nessuno sa dove si trovi. Ti prego, Steve. Aiutaci a ritrovare nostra figlia!”
“Si calmi Loren. Farò il possibile per ritrovarla, glielo prometto”. Si sedettero in salotto, dove la donna offrì a Steve un drink. Lui riprese subito l'interrogatorio:
“Quando l'avete vista l'ultima volta?”
“Domenica trenta aprile, alle otto di sera. Si è vestita ed è uscita. Samuel è passato a prenderla, come al solito. Sappiamo che si sono recati al Blue Bar, dove è rimasta fino alle ventidue e trenta. Poi è uscita da sola e non è mai più tornata”.
“Chi è Samuel?”
“Samuel Ridek. Fa parte del gruppetto di amici che Sara si era fatta recentemente in paese”, intervenne Lisa.
“Hai detto che ti sembrava innamorata: sapresti dire di chi?”
“Forse dello stesso Samuel; forse di un altro dei ragazzi della compagnia. Non lo so con precisione. Credo che se riuscissimo a trovare il suo diario lo scopriremmo”.
“Un diario, dici?”
“Sì. Sara teneva un diario su cui scriveva ogni sera, prima di andare a dormire. Purtroppo, è scomparso insieme a lei”.
“Vuoi dire che l'ha portato con sé quando è uscita?”
“Sì. Deve averlo messo nella borsetta, perché nel cassetto non c'era più, quando la polizia ci ha guardato”.
“Ha preso altri oggetti personali, oltre al diario? Qualcosa che possa far pensare a una partenza improvvisa? Che so, dei soldi, carte di credito, vestiti o altro?”
“No, non ha preso con sé neppure i suoi documenti”.
“Hai detto che Samuel è venuto a prenderla. Perché non l'ha riportata a casa?”
“Non lo so. La polizia glielo ha chiesto, ma lui ha risposto che Sara se ne è andata via da sola, senza dire dove andava e perché. Del resto, non era la prima volta che Sara tornava a casa da sola”.
“Lei crede che la ritroveremo?”, s'intromise cupo il signor Stone, padre di Lisa e Sara.
“Non glielo so dire. Questo mi sembra un caso piuttosto complicato, sinceramente. Perché una ragazza che trova finalmente la felicità dovrebbe pensare al suicidio? Non ha senso! Eppure, tutti gli indizi che ho raccolto fanno pensare che Sara si sia veramente tolta la vita”, disse, quasi fra sé e sé.
“C'è dell'altro”, cominciò Lisa, con titubanza.
“Che cosa?”, la incalzò Steve.
“Ecco, io non so se vale la pena di dirlo ma... mi è accaduta una cosa strana, l'altra notte”.
“Vai avanti”, la esortò ancora lui.
“Ho fatto un sogno: ho sognato Sara, ed era felice. È venuta da me e mi ha accarezzata e baciata. Mi ha detto: "Ora sono felice, Lisa". Poi è scomparsa, ma il sogno è stato così reale che quando mi sono svegliata ho sentito la guancia dove mi aveva baciato bruciare, quasi come fosse stata sfiorata dal fuoco. Non credo che si sia suicidata. Non lo crederò mai”.
“Andrò a parlare con Samuel. Sai dirmi dove posso trovarlo?”
“Al Blue Bar. L'intera combriccola si riunisce lì per giocare ai videogiochi o a biliardo ogni sera: il paese non offre altri divertimenti, purtroppo. Credo fosse anche per questo che a Sara non andava a genio”.
“Questa sera andrò là. Nel frattempo, devo trovare una sistemazione: c'è una locanda da queste parti?”
“Non ce ne sarà bisogno: potrai stare da noi. Preparo subito la stanza degli ospiti”, rassicurò Loren.
Steve accettò l'ospitalità della famiglia di Lisa, a dire la verità ben felice di assaggiare ancora i manicaretti della signora Stone, che già anni prima lo viziava con la sua deliziosa cucina.
Dopo cena, raggiunse a piedi il Blue Bar. Dalla descrizione che Lisa gli aveva fornito riconobbe subito Samuel e gli altri del gruppo: portavano tutti uno stemma applicato alla maglietta, raffigurante una stella a cinque punte.
“Salve”, li salutò Steve.
“Salve”, risposero due di loro. Gli altri tre si limitarono a guardarlo con aria di sufficienza, per poi riprendere a giocare a biliardo. Il gruppo era composto da tre ragazzi e due ragazze: Samuel, Luke, Jason, Daisy e Candy.
“Tu sei Samuel?”, chiese Steve.
“Sì, sono io. Ma lei chi è?”
“Mi chiamo Steve Rowling. Sono dell'FBI. Voglio farvi qualche domanda circa la sparizione di Sara”.
Gli altri quattro ragazzi si guardarono, preoccupati. A Steve non sfuggì il loro sguardo smarrito.
“Abbiamo già risposto alle domande della polizia!”, rispose, seccato, Samuel.
“E ora risponderete alle mie”, non si lasciò intimorire Steve.
“Che cosa vuole sapere? Noi non sappiamo nulla di Sara! Eravamo tutti qui quando lei se ne è andata! Il proprietario del locale lo può confermare!”
“A che ora se ne è andata?”
“Alle dieci e mezza di sera”.
“E voi, fino a che ora siete rimasti qui?”
“Fino alle undici, quasi. Poi siamo andati tutti a letto. I nostri genitori lo hanno già confermato ai poliziotti”.
“Sembra che vi interessi parecchio dimostrare di avere un alibi! Avevate qualche dissapore con Sara?”, insinuò Steve, guardandolo dritto negli occhi.
“No. Era una nostra amica e ci dispiace molto per la sua scomparsa”. Il suo tono sembrava sincero.
“Si dice in giro che per te fosse più di un'amica”, insinuò Steve.
“Eravamo solo amici, niente di più”.
“D'accordo. Se vi viene in mente qualcosa, chiamatemi a questo numero”. Porse loro un foglietto, poi, prima di andarsene, chiese:
“Un'ultima cosa: che significa quella stella che avete sul petto?”
Samuel sbiancò in volto.
“È il nostro stemma, niente di più”.
“Lo stemma di che cosa?”
“Del nostro gruppo. Anche Sara ne faceva parte”.
“Perché parli di lei al passato? Sei forse certo che sia morta?”
“No. È solo che qui ne sono convinti tutti, ormai”, biascicò, in preda al panico.
“Sai cosa significa questa stella?”, chiese ancora Steve, sapendo di spaventarlo ulteriormente.
“Veramente no”, disse, ma Steve pensò che probabilmente mentiva.
“Questa stella è il simbolo del Cristo. Ma se solo la ribaltiamo…”, continuò, facendo ruotare la stella fino a girarla completamente, “Diventa il simbolo di Satana!”, concluse.
“Forse. Ma nell'antichità è stata il simbolo dei pitagorici, e ora è quello del nostro gruppo. Non ci vedo niente di male!”, rispose il ragazzo, alterandosi.
“No. Non c'è niente di male. Di cosa si occupa il vostro "gruppo"?”, concesse Steve.
“Di niente! Ci ritroviamo al bar, facciamo qualche partita a biliardo... niente di più”, spiegò il giovane, gesticolando. Steve notò una brutta scottatura sulla sua mano.
“Che hai fatto, qui?”
“Mi sono scottato con un petardo. Mi è esploso in mano”. Steve annuì, pensoso.
“Ci vediamo, ragazzi. Informatemi, se vi viene in mente qualcosa”.
Non appena se ne fu andato, i cinque si misero a confabulare fra loro.
“Quel tizio non mi piace! Non è come quelli della polizia: ha già fiutato qualcosa!”, esclamò Samuel.
“Non dovremo dire niente! Giuriamo tutti che manterremo il segreto, anche se verremo messi sotto tortura!”, esclamò Luke.
“Io ho paura, Sam”, piagnucolò Candy.
“Non pensate che sia meglio rivelare tutto? Dopotutto noi non c'entriamo!”, esclamò Daisy, visibilmente impaurita.
“E pensi che ci crederebbero? Daisy, se noi raccontassimo alla polizia la nostra storia, penserebbero che ci siamo inventati tutto. Ci incolperebbero della morte di Sara e ci sbatterebbero in prigione. Non dovete dire niente!”
I cinque si strinsero la mano, giurando solennemente di non rivelare nulla, poi si portarono simbolicamente la mano sul petto, proprio sulla stella a cinque punte.
Steve giunse alla casa degli Stone. Lisa lo stava aspettando, mentre i suoi genitori erano già andati a dormire.
“Ciao, hai scoperto qualcosa?”, chiese lei.
“Forse… quei ragazzi sanno qualcosa, ma non vogliono parlare. Che significa la stella a cinque punte che portano sul petto?”
“Non lo so. Sara ne aveva una e la metteva ogni volta che usciva, ma non conosco il suo significato”,
“Devo parlare con qualcuno che conosca quei ragazzi…”, commentò Steve, entrando nella sua stanza da letto.
“Buonanotte, Lisa”, aggiunse, mentre lei raggiungeva la propria camera.
“Buonanotte, Steve”.
La mattina seguente, Steve raggiunse il Blue Bar ed entrò: era deserto. Solo il barista stava tirando lo straccio per dare una pulita al pavimento.
“Salve”, lo salutò Steve.
“Buongiorno. Posso fare qualcosa per lei?”
“Sono dell'FBI. Devo farle alcune domande. E… beh, se mi potesse preparare un caffè le sarei molto grato”.
“Certo. Venga al bancone del bar”. Il barista preparò il caffè e glielo porse.
“Allora, cosa vuole sapere?”
“Sa dirmi qualcosa sul gruppetto di cinque ragazzi che erano qui ieri sera?”
“Il gruppo di Samuel?”
“Sì”.
“Gli altri due ragazzi sono fratelli; si chiamano Luke e Jason Falmor. Le due ragazze sono le loro fidanzate e si chiamano Candy Walmoore e Daisy Freeword”.
“Sa che cosa significa la stella che portano al petto?”
“Non di sicuro: so che in paese si mormora che quei ragazzi facciano sedute spiritiche, o cose del genere, ma non ne so molto, per la verità. Credo che la stella sia solo il simbolo del loro gruppo”.
“Ha idea di dove si riuniscano per queste sedute?”
“C'è una vecchia casa abbandonata, poco lontano da qui. Penso che vadano lì”.
“Dov'è?”
“Appena fuori paese, vicino al bosco. Segua quella strada: la troverà”, disse, additando una stradicciola di campagna che si allontanava verso il bosco, fuori dalla vetrata del bar.
“Comunque, posso garantire che la sera del trenta aprile erano tutti qui fino alle ventidue e cinquanta. Sara è uscita da sola”, aggiunse.
“La ringrazio. Quanto le devo?”
“Lasci stare: offro io. Spero solo che riusciate a fare luce su questo caso: Sara era una bravissima ragazza, in paese le volevamo tutti bene. Spero davvero che non sia morta”.
Steve ringraziò e uscì, dirigendosi sulla strada che il barista gli aveva indicato. Controllò con l'orologio quanto tempo ci voleva per raggiungere la casa abbandonata: circa quindici minuti, di buon passo.
L'abitazione era diroccata e cadente. Spinse la porta di legno che, cigolando, si aprì. Entrò e, nell'unica stanza, vide una gran quantità di candele, appoggiate sul pavimento. Erano poste in circolo e al centro del cerchio vi era una tavola rotonda.
Si guardò intorno: nella stanza non c'era altro. Stava per uscire quando notò per terra un minuscolo oggetto luccicante, seminascosto fra la polvere che ricopriva il pavimento. Lo raccolse: era una piccola croce d'oro e sul retro portava la scritta "S-J forever". La prese e tornò a casa di Lisa.
“Riconosci questa croce?”, le chiese.
“Certo! Era di mia sorella! Gliela aveva regalata John. Dove l'hai trovata?”
“In una casa abbandonata, accanto al bosco. Sarà meglio che chiami la polizia: stanno cercando Sara nel fiume… forse dovrebbero cercarla nel bosco”.
“Che vuoi dire?”
“Incomincio a pensare che quei ragazzi ne sappiano molto di più di quello che vogliono far credere! Se non si è trattato di un suicidio, forse si è trattato di un omicidio, e in questo caso ritrovare il corpo di Sara non sarebbe così semplice, poiché chi l'ha uccisa si è senz'altro preso la briga di nasconderla per bene”.
“Omicidio?”
Lisa lo guardava, allibita. Chi poteva volere così male a sua sorella da ucciderla?
“È una pista. L'unico sistema per scoprire la verità è spingere quei ragazzi a confessare: più gli staremo col fiato sul collo, più si spaventeranno e sarà facile che qualcuno di loro si decida a parlare, o a fare un passo falso”.
Steve chiamò la polizia, che giunse quasi subito, nella persona di Rock Mac Quain, accompagnato dal collega Gerald Sten. Dopo aver esposto loro le ultime scoperte e i suoi sospetti, Steve chiese la collaborazione della polizia per seguitare nel suo piano. Rock gli confermò la loro disponibilità.
“Faremo scandagliare il bosco dai cani poliziotto: se la ragazza è stata davvero uccisa, come lei pensa, forse troveremo il corpo sotterrato nel terreno boscoso. In ogni caso, i ragazzi cominceranno a tremare, se ci vedranno nei pressi della casa abbandonata”.
“Io, intanto, ho intenzione di interrogarli di nuovo, uno alla volta. Forse otterrò qualcosa di più”.
Steve raggiunse la casa di Daisy, sperando che la ragazza, presa da sola, avrebbe parlato. Quando la madre venne ad aprire le presentò il suo tesserino.
“Dovrei parlare con sua figlia”.
“Certo, gliela chiamo subito”, balbettò la donna, intimorita dalla presenza dell'agente federale.
Daisy uscì dalla sua stanza e fissò Steve spaventata. Nei suoi occhi il terrore era quasi palpabile, mentre si avvicinava all'uomo.
“Hai mai visto questa croce, Daisy?”, chiese, mostrandole il ciondolo d'oro che era appartenuto a Sara.
“No, mai”, negò subito la ragazza.
“Eppure avresti dovuto: Sara la indossava sempre!”, incalzò Steve.
“Non lo so. Non gliel'ho mai vista indosso”.
“L'ho trovata in una casa abbandonata, vicino al bosco. In quella casa sono stati consumati riti di evocazione degli spiriti. Tu ne sai niente?”
“No”. Ma dal terrore chiaramente dipinto sul suo volto, Steve comprese che invece sapeva tutto quanto, anche se non ne voleva parlare.
“Eppure in paese dicono che tu e gli altri del gruppo facevate spesso delle sedute spiritiche”.
“In paese ne dicono di cose…”.
“Okay. Allora interrogherò gli altri tuoi amici. Stiamo controllando il bosco: mi auguro per voi che il corpo di Sara non salti fuori, o passerete dei guai grossi!”
Si recò da tutti e cinque i ragazzi, ma non riuscì a saperne di più. Ciononostante, era certo di averli spaventati a dovere. Nel bosco, intanto, le ricerche erano cominciate: Steve aveva gettato la sua esca. Ora doveva solo aspettare che i ragazzi abboccassero. Quella notte, con alcuni membri della polizia locale, si nascose nei pressi della casa abbandonata, vicino alla strada che portava nel bosco.
Verso le due, udì i passi di qualcuno che si avventurava al buio sulla strada selciata. Sbirciando da dietro il cespuglio dove era nascosto, vide due dei ragazzi, Samuel e Jason, giungere a piedi, in silenzio. Si dirigevano verso il bosco. Steve e Rock li lasciarono proseguire per un po', poi presero a seguirli di nascosto. I due giovani giunsero in un punto in cui il bosco era molto fitto, e incominciarono a scavare ai piedi di un grande albero. A questo punto, Steve e Rock uscirono allo scoperto, puntando le pistole contro di loro.
“Fermi dove siete!”, ordinò Rock.
“Cosa disseppellite? Il cadavere di Sara, forse?”, chiese poi.
I due ragazzi, sorpresi e spaventati, gettarono le palette che si erano portati e alzarono le mani, senza osare proferir parola, troppo spaventati per parlare.
“Dite la verità: avete ucciso la ragazza e l'avete seppellita proprio qui, nel bosco”.
“No! Noi non abbiamo ucciso Sara! Era nostra amica! Non le avremmo mai fatto del male!”, riuscì finalmente a dire Samuel.
“Allora cosa state cercando lì sotto?”, incalzò Steve.
“Un libro”, disse Jason, rendendosi conto che era inutile continuare a mentire.
“Un libro?”, chiese Rock, stupito.
I due annuirono.
“Avanti! Proseguite, allora. Disseppellite il libro”, ordinò, poco convinto.
I due ripresero a scavare ed estrassero dalla terra un libretto chiuso da un lucchetto. Nella toppa c'erano ancora inserite le chiavi. Lo porsero a Rock.
“Che roba è?”, chiese lui.
“È il diario di Sara, non è così?”, chiese Steve.
“Sì”, confermò Samuel.
“Se è così, forse finalmente scopriremo cosa è successo alla ragazza”. Rock fece per girare la chiave nel lucchetto, ma Samuel lo fermò:
“Non lo faccia! È pericoloso!”
“Cosa? Che pericolo volete che ci sia in un lucchetto?”, chiese, divertito. Cercò di girare la chiave nella serratura ma non poté aprire il lucchetto, poiché un lampo spaventoso e accecante esplose dalla toppa. Con un grido di dolore, Rock lasciò cadere per terra il libro.
“Maledizione! Mi ha scottato la mano! Che diavoleria è mai questa?”, urlò, dando un calcio al libro.
“È così che ti sei scottato, Samuel?”, chiese Steve, che incominciava a capire come dovevano essere andate le cose.
“Sì”, ammise il ragazzo
“E quando è successo? La sera del trenta aprile, non è così?”
“Già”. Samuel si rese conto che ormai dovevano parlare: forse, raccontando tutta la verità, avrebbero evitato di essere incriminati della scomparsa di Sara.
“Ora vuoi raccontarci come sono andate le cose?”
Samuel sospirò forte, poi cominciò:
“Sì. Ma, prima di tutto, voglio ribadire che noi non abbiamo ucciso Sara”.
“D'accordo. Ora racconta, per favore”, si spazientì Steve.
“Tutto cominciò nove mesi fa, quando Jason, Luke e io decidemmo di escogitare un trucco per fare colpo sulle ragazze. Ma le cose non erano semplici: il paese non offre molti spunti per divertirsi, così pensammo di fondare una specie di setta segreta. Ci scegliemmo come simbolo la stella a cinque punte e ci mettemmo a fare sedute spiritiche, alle quali partecipavano anche le ragazze, naturalmente: ci mettevamo tutti in circolo e formavamo una catena con le mani, mentre io e gli altri maschi ci divertivamo a dare colpi sotto il tavolo per far credere alle ragazze che gli spiriti dei morti fossero realmente venuti a farci visita. Inizialmente le cose andarono bene: dopo solo alcune settimane, tutti e tre avevamo trovato la fidanzata. Poi però la mia ragazza si spaventò a una delle sedute, in cui io e Jason avevamo inserito un finto fantasma fatto con vecchie lenzuola, e così mi lasciò. Pochi giorni dopo, Sara si presentò alla mia porta, chiedendomi di partecipare a una seduta spiritica. Evidentemente aveva sentito dire in giro che noi facevamo questo genere di cose, e si era rivolta a me. Fui molto felice di invitarla a fare parte del nostro gruppo: era carina, e pensavo che volesse partecipare solo perché era incuriosita dalla novità della cosa, come tutte le altre ragazze. Ma le sue ragioni erano molto diverse! Fin da quella prima sera lei aveva solo una cosa, nella testa: parlare con lo spirito del suo fidanzato, morto da qualche mese. Fu allora che la situazione precipitò: quella sera, nessuno di noi fece nulla per far "apparire" gli spiriti! Sara chiese di contattare il suo fidanzato e quello venne davvero! Si presentò sotto forma di suoni, voci, sussurri e chiese persino un foglio di carta dove scrisse una frase per Sara. Scrisse che la amava molto e che nulla avrebbe mai potuto tenerli divisi. Da quella sera, ogni notte tornavamo alla villa abbandonata, dove Sara parlava con John, promettendogli amore eterno. Poi, verso la fine di aprile, una sera lui disse che il giorno dell'anniversario della sua morte, che poi era anche il giorno del diciannovesimo compleanno di Sara, sarebbe venuto a prenderla, per portarla con sé. Noi tutti avevamo paura, ma non lei: Sara era felice. Diceva che avrebbe vissuto con John, per sempre. Diceva che i suoi sogni si sarebbero realizzati. La sera del trenta aprile Sara si allontanò dal bar, per raggiungere la casa abbandonata: John le aveva raccomandato di andarci da sola. Quella notte ci si strinse il cuore quando la vedemmo andar via. Tornammo tutti a casa, ma né io né Jason riuscimmo a prendere sonno. Sapevamo che i due avevano appuntamento alle ventitré e venti, l'ora della morte di John. Uscii di casa, senza farmi notare dai miei genitori, che ormai dormivano, e mi avviai verso il bosco. Fu allora che mi accorsi che Jason aveva avuto la mia stessa idea. Insieme raggiungemmo la casa, ma non entrammo: ci limitammo a sbirciare dalla finestra. Le candele erano tutte accese e Sara stava scrivendo sul suo diario. Improvvisamente, lo spirito di John apparve nella stanza. Questa volta potemmo proprio vederlo! Sara fece per abbracciarlo, ma lui scomparve, per riapparire in un altro punto della stanza e le disse:
“Aspetta! Prima di toccarmi devi rispondere alla mia domanda: sei certa di voler venire con me? Dovrai tagliare i ponti con il passato, dire addio per sempre alla tua famiglia, agli amici, a questo mondo. Sei pronta a tutto questo?”
Lei rispose:
“Sì. Voglio solo lasciare qualche riga a mia sorella, per farle sapere che sto bene”.
“Allora fallo, ma fa presto. Non abbiamo molto tempo”, la incitò.
Sara scrisse qualche parola sul diario, lo chiuse e lo lasciò sul tavolo. Infine, si diresse verso John e lo abbracciò. La baciò e lei divenne una creatura fatta di luce, esattamente come lui. Poi scomparvero entrambi. L'unica cosa che restò di lei fu il suo diario, e la croce, che evidentemente cadde a terra. Noi non la vedemmo. Spegnemmo tutte le candele e prendemmo il diario. Tentai di aprirlo, per leggere se c'era scritto qualcosa di compromettente per noi. Se così non fosse stato, lo avremmo rimesso al suo posto e avremmo permesso alla polizia di ritrovarlo. Ma quando inserii la chiave nella toppa, un lampo di fuoco esplose e mi bruciò la pelle della mano. Così decidemmo si seppellirlo. Oggi, quando abbiamo visto gli agenti passare palmo a palmo il bosco, abbiamo avuto paura. Pensavamo di recuperare il diario e disfarcene in un altro modo, ammesso che ci sia, il modo”.
Diede un'occhiata di traverso al libro, ancora per terra. Steve lo raccolse e Rock disse:
“Tenteremo di farlo aprire dalla scientifica. Ci deve pur essere un modo. Voi, ragazzi, pregate che non troviamo il corpo di Sara, o sarete incriminati di omicidio! In quanto alla vostra storiella, credo proprio che il giudice non se la berrà”.
“Non credo che abbiano raccontato una frottola, Signor Mac Quain”, intervenne Steve.
“Avete detto che Sara ha scritto le ultime parole del diario per sua sorella, non è così?”, chiese, rivolgendosi ai due ragazzi.
“Sì”.
“Allora Lisa è l'unica che può aprire questo lucchetto”.
Raggiunsero la casa di Lisa, con i due ragazzi al seguito. Steve le consegnò il diario, alla presenza  dei genitori di lei. Lisa girò la chiave nella toppa e il lucchetto si aprì. Le pagine iniziarono a sfogliarsi da sole e, improvvisamente, davanti a tutti i presenti, apparve lo spirito di Sara, sorridente come non mai. Tutti poterono vederla e udirono le sue parole, dirette alla sorella:
“Ciao, Lisa. Non devi preoccuparti per me. Io ora sto bene: sono con John. È quello che ho sempre desiderato. Mamma, papà, non temete: io sarò sempre accanto a voi. Ora vi devo salutare, ma, vi prego, non piangete per me. Addio”. Poi scomparve, lasciando tutti sbigottiti, persino lo scettico Rock.
Quelle che Sara aveva pronunciato erano anche le ultime parole che aveva scritto sul diario.
Il corpo di Sara non fu mai ritrovato. Le pagine del diario avvalorarono la tesi dei cinque ragazzi, che vennero scagionati per mancanza di prove, ma il caso fu comunque archiviato fra quelli delle "persone scomparse".
 
 

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Capitolo 5
*** capitolo cinque: UFO ***


UFO
 
Filadelfia, Martedì 16 maggio 2000
 
L'aria calda di maggio faceva pensare all'estate, ormai alle porte. Livienne uscì da casa decisa a trovare un buon articolo per il giornale e, pensando di chiedere aiuto a Steve, si diresse al distretto dell'FBI dove lui lavorava. Aveva già provato, senza alcun successo, a rintracciarlo in ufficio, a casa e sul cellulare, ma sembrava introvabile. Chissà a cosa stava lavorando, si chiese, mentre raggiungeva le scale che portavano al piano superiore. Le salì, percorse il corridoio, si fermò di fronte alla porta dell'ufficio di Steve e bussò. Nessuno rispose. Provò di nuovo e non ottenne risposta. Abbassò la maniglia, ma l'ufficio era chiuso a chiave. Evidentemente, Steve non c'era. Che stesse risolvendo qualche caso importante? Livienne decise di scoprire dov'era andato. Salì un altro piano di scale, percorse un nuovo corridoio e raggiunse la zona dove risiedeva la "sezione narcotici", andando dritta all'ufficio dell'agente Dennis Parrish. Quando varcò la soglia lo trovò seduto alla scrivania, che osservava pensosamente il video del computer.
“Ciao, Dennis”, lo salutò.
“Livienne! Che ci fai qui?”, chiese, sorpreso, alzando la testa e fissandola.
“Sono passata a salutarti. Lo trovi così strano?”
“A dire la verità, sì: è la prima volta in due anni che vieni a trovarmi sul posto di lavoro”.
“Veramente, ero venuta a cercare Steve Rowling”, ammise lei.
“Lo immaginavo. Livienne, dovresti stare alla larga da quel tipo: è piuttosto eccentrico e si occupa di cose molto strane e pericolose”.
“Non è poi così eccentrico e anch'io mi occupo di cose strane, ora. Per l'appunto: Been dice che se non troverò un articolo decente entro la fine del mese, incaricherà Cris di scrivere al posto mio. Per questo ero venuta da Steve: lui è sempre impegolato in qualche faccenda paranormale. Sai per caso a cosa sta lavorando adesso?”
“No, non ne ho idea”.
“Sai almeno dov'è andato?”
“Non so nemmeno questo. E, per quel che ne so, faresti bene a non cercarlo”.
“Andiamo, Dennis! Smettila per una volta di fare il fratello maggiore! Non ho bisogno della tua protezione! Ho bisogno del tuo aiuto. Devo sapere dov'è andato Steve”.
“Io sono tuo fratello maggiore!”
“E allora aiutami a trovarlo”.
Dennis sbuffò:
“È molto importante per te?”
“Sì”.
“Dimmi la verità, Livienne. Che c'è tra voi due?”, chiese, a bruciapelo.
“Solo una sorta di complicità operativa, credo. Niente di più. Anzi... lui non mi sopporta gran ché”.
Il fratello annuì, poi le disse:
“Ora vediamo”.
Digitò qualcosa sul computer e controllò le linee aeree.
“È partito stamattina in aereo, diretto ad Augusta, nel Maine”.
“Non mi sai dire di più?”
“Ci provo. Ma non ti garantisco niente”. Sì alzò dalla sedia e uscì dalla stanza:
“Aspettami qui”, disse, sulla porta. “E non toccare niente!”
Livienne gli lasciò voltare l'angolo, poi si sedette al computer e, con un paio di trucchi che aveva imparato da un amico, che le permisero di eludere le password, si inserì nell'archivio dati dell'FBI e digitò il nome di Steve Rowling. Apparve tutta la documentazione su di lui: c'era persino la targa della sua autovettura e, in parte a questa, c'era uno strano asterisco. Un altro asterisco era posizionato accanto al numero di cellulare di Steve. Livienne digitò il numero del cellulare sul computer. Lo schermo si fece buio, facendola preoccupare: non voleva che suo fratello si accorgesse che aveva utilizzato il suo computer. Ci volle qualche secondo, poi apparve una foto satellitare, rappresentante una cartina geografica del Maine, sulla quale campeggiava un piccolo bollino rosso, situato sul paese di Kingfield. Livienne sentì i passi di Dennis nel corridoio e si affrettò a cancellare ogni cosa. Dennis entrò nella stanza e le sorrise:
“Mi dispiace, Livienne. Non ne so nulla di più. Donald non vuole sbottonarsi”.
“D'accordo, non importa. Troverò altrove il mio articolo”.
“Stai attenta, Livienne. Non si scherza con questo genere di cose”.
“Sì, stai tranquillo. Ciao, fratellone. Stammi bene”.
Si affrettò a raggiungere la fermata dell'autobus, ne prese uno al volo e giunse al suo appartamento. Chiamò l'aeroporto e prenotò un volo per Augusta. Due ore dopo era a Kingfield, nel Maine.
Fortunatamente, la cittadina di Kingfield non era molto grande. Vi erano solo un albergo e una locanda, così, mentre ancora si trovava in taxi, Livienne telefonò alla locanda e trovò subito Steve: alloggiava alla "Little House", nella stanza numero 18. Lei prenotò la 19. Una volta arrivata a destinazione, scaricò il suo piccolo bagaglio e lo depose nella sua stanza, poi bussò alla porta accanto, augurandosi che l’agente non fosse uscito.
Steve era arrivato da poco, poiché la vettura che aveva noleggiato una volta sceso dall'aereo aveva avuto un guasto al motore e si era dovuto fermare lungo la strada, per farla riparare. Una volta giunto a Kingfield aveva telefonato a casa dei signori Questor, con i quali aveva fissato un appuntamento per quella sera, e si era occupato della valigia da disfare. Aspettando l'ora di cena era immerso nella lettura di un giornale locale, quando sentì bussare insistentemente. Aprì la porta, immaginando quasi di trovarsi di fronte la solita giornalista ficcanaso. Alzò gli occhi e sul suo volto si dipinse un'espressione alquanto sorpresa e contrariata insieme: Livienne era di fronte a lui e lo guardava, tranquilla, quasi come se lui l'avesse appena mandata a chiamare.
“Mi vuoi dire che cosa ci fai tu qui?”, urlò, spazientito e deciso a mettere le cose in chiaro una volta per tutte.
“Cerco notizie per il mio giornale, mi pare ovvio”.
“Ora basta, Livienne. Voglio sapere come hai fatto a trovarmi! Nessuno sapeva che ero qui! Nessuno! Neppure il mio capo lo sapeva! Che cosa fai? Mi spii, forse?”, urlò, ancora più adirato.
“Credo che il tuo capo lo sapesse perfettamente, invece”.
“Non è possibile. Ho ricevuto una telefonata, sul mio cellulare, e mi sono precipitato qui, senza parlarne con nessuno”, spiegò, furioso.
Lei fece segno a Steve di non parlare, portandosi un dito sulle labbra. Poi gli infilò una mano sotto la giacca. Lui la fissò, stupito.
“Che cosa stai…”. Ma lei non lo lasciò terminare: le sue labbra si posarono su quelle di lui e lo baciò, mentre con la mano strappava il telefonino dalla tasca interna della giacca di Steve e lo gettava sul letto. Subito dopo, gli tappò la bocca con una mano e lo trascinò fuori dalla stanza. Stupefatto per l'inatteso trattamento, Steve le chiese:
“Ma che ti prende?”
“Scusami: era l'unico modo per farti tacere. Ora stammi a sentire: ti sei mai chiesto come faccio a sapere ogni cosa su di te? Il tuo indirizzo, il tuo numero di cellulare eccetera?”
“Sì, molte volte. E ricordo di averti chiesto spesso spiegazioni in merito, ma tu riesci sempre a evitare di rispondermi!”, rispose, seccato.
“Beh, il fatto è che mio fratello lavora all'FBI, nello stesso luogo in cui lavori tu. Penso che tu lo conosca anche: è l'agente Dennis Parrish”.
“Sì, l'ho già incrociato un paio di volte, ma non sapevo che fosse tuo fratello. Lavora nella squadra narcotici, non è così?”
“Sì. Bene. Questa mattina ti ho cercato nel tuo ufficio, ma non ti ho trovato. Così ho pensato che fossi partito per qualche indagine e mi sono detta: non sia mai che Steve faccia qualche indagine senza di me! Mi sono recata da mio fratello e gli ho chiesto dove trovarti”.
“E lui sapeva dov'ero?”, chiese, incredulo, Steve.
“No. Ha controllato tutti i voli in partenza stamattina da Filadelfia e mi ha solo detto che eri partito per Augusta. Ma non sapeva dirmi niente di più. Evidentemente mi ha visto molto delusa, così se ne è andato via cinque minuti per chiedere informazioni al capo e, nel frattempo, ho controllato i dati che ti riguardano sul suo computer. Accanto al numero di targa della tua auto ho visto un asterisco, e ce n'era uno anche accanto al tuo numero di cellulare. L'ho digitato e ho scoperto dov'eri. È chiaro che ti stanno tenendo d'occhio, Steve. Dici di aver ricevuto una telefonata: il tuo cellulare è sotto controllo, e probabilmente anche la tua auto. Il tuo telefonino è sicuramente collegato a un satellite, e sanno in ogni momento dove ti trovi. Forse contiene addirittura una trasmittente! Per questo ho dovuto agire a quel modo: altrimenti avrei messo in pericolo te, me stessa e mio fratello. Scusa se ho usato un metodo quantomeno poco ortodosso, per tapparti la bocca, ma non potevo permettere che qualcuno scoprisse che avevo avuto quell'informazione dal computer di Dennis”.
“Sarà stato anche un metodo poco ortodosso, ma per niente spiacevole. Vorrei che le donne mi mettessero a tacere più spesso, in questo modo!”
“Non ci contare… è stato un caso fortuito che non si ripeterà tanto facilmente”, rise lei, arrossendo lievemente.
“Ora mi vuoi dire perché siamo qui?”, chiese. Steve ci pensò un istante. Poteva fidarsi di lei? In fin dei conti, a quanto pareva non poteva davvero fidarsi più di nessuno… ma Livienne era diversa. Per qualche motivo che ancora non riusciva a spiegarsi, si rendeva conto che di lei poteva fidarsi incondizionatamente.
“Siamo qui per indagare sulla sparizione di un ragazzo di diciotto anni, avvenuta in circostanze decisamente sospette. Vedi, il fatto è che, circa un mese fa, sono stati fatti in questa zona diversi avvistamenti di quelli che, a detta della popolazione locale, potevano definirsi oggetti volanti non identificati, ovvero UFO. Ovviamente venni qua a indagare, ma lo sceriffo di zona liquidò la questione affermando che coloro che avevano visto gli UFO erano chiaramente sbronzi e avevano scambiato le luci e i tuoni del temporale per dischi volanti. Riuscii comunque a racimolare molte testimonianze, che mi giuravano di avere visto un oggetto a forma di sigaro, con delle luci colorate, sospeso sopra il bosco, sul fianco della collina. Alcuni dicevano di aver sentito un ronzio e di aver notato che i cani e gli altri animali erano molto infastiditi e spaventati dalla cosa”.
“Gli animali si spaventano sempre durante i temporali”.
“Già. Ma l'altra sera non c'era traccia di temporale, eppure la gente ha visto ancora un oggetto volante identico al primo e, questa volta, un ragazzo che si trovava nel bosco, è scomparso. Le ricerche durano da due giorni e i genitori del ragazzo, disubbidendo all'ordine dello sceriffo di non far trapelare la cosa, mi hanno telefonato, per chiedere il mio intervento: sono convinti che la sparizione del ragazzo sia collegata allo strano velivolo e vogliono che sia io a indagare”.
“Perché lo sceriffo dovrebbe avere vietato loro di divulgare la cosa?”
“Quando venni qua, la volta scorsa, mi fece chiaramente capire di non volere cattiva pubblicità per il paese. In parole povere, fece di tutto per cacciarmi via il più alla svelta possibile. Ma, per fortuna, lasciai il mio numero di telefono a parecchie persone, prima di andarmene, e le pregai di avvertirmi, in caso di altre manifestazioni anomale”.
“Bene. Da che cosa cominciamo?”
“Per prima cosa, voglio sapere cosa ci faceva un ragazzo, di notte, da solo, nel bosco. Quindi ho già preso appuntamento con i suoi genitori. Li vedrò questa sera, dopo le nove: non vogliono far sapere allo sceriffo che mi hanno chiamato”.
“Vorrai dire "li vedremo", questa notte! Verrò anch'io, naturalmente”.
“Ora, voglio vederci chiaro in un'altra faccenda. Puoi scusarmi per un po'?”, chiese Steve.
“Certo”. Gli sorrise e, per un lungo istante, Steve non riuscì a staccare gli occhi da quelli verdi di lei.
“Che ti prende?”, lo interpellò la ragazza, divertita dalla sua espressione.
“Niente”, bofonchiò. Lievemente seccato, entrò nella sua stanza, chiedendosi perché le iridi chiare di Livienne avessero quasi il potere di ipnotizzarlo. Scosse la testa, deciso a non pensarci più, e smontò accuratamente il suo cellulare: vi trovò una ricetrasmittente satellitare, esattamente come aveva detto Livienne. Rimontò il tutto, senza toccare la trasmittente, poi lasciò il telefono nel cassetto del comodino e bussò alla porta di Livienne.
“Avanti”, rispose lei.
“Avevi ragione, Livi. Nel telefono c'era una ricetrasmittente. Sono sotto controllo da chissà quanto tempo e non l'avrei scoperto se non fosse stato per te”, fu costretto ad ammettere.
“Che hai intenzione di fare?”
“Tanto per cominciare, mi comprerò un cellulare nuovo”.
“Non puoi semplicemente togliere la cimice?”
“Meglio che la lasci stare: se tolgo la trasmittente ne metteranno un'altra, da un'altra parte. Ma se fingo di non averla ancora scoperta potrò prenderli in giro a mio piacimento, utilizzandola per dare loro informazioni sbagliate”.
“Ottima idea”.
“Ti va di accompagnarmi in giro per negozi?”, chiese lui.
“Certo!”
L’entusiasmo di Livienne lo contagiò e si ritrovò a sorridere, nonostante avesse appena scoperto di essere sotto controllo da parte dei suoi superiori.
Steve acquistò un nuovo cellulare e Livienne una nuova borsetta, poi tornarono alla locanda, giusto in tempo per la cena. Verso le ventuno e trenta raggiunsero a piedi la casa dei Questor, situata accanto a un bosco di conifere, sul fianco di una collina, in una zona isolata fuori paese. Suonarono il campanello e una donna sulla cinquantina, dal volto scarno e triste, venne ad aprire.
“La signora Questor?”, chiese Steve.
“Sono io”.
“Sono Steve Rowling, agente speciale dell'FBI. Sono qui per indagare sulla scomparsa di suo figlio Archie”.
“Entrate”, disse la donna, guardando incuriosita la ragazza, che non si era qualificata. Probabilmente pensò che si trattasse di una collega di Steve, perché non fece domande a riguardo.
“Come ha avuto il mio numero?”, chiese subito Steve, quando si furono accomodati sulle poltrone di pelle, in salotto.
“Me l'ha dato Allison Ride, la mia vicina di casa. Ha detto che lei forse mi può aiutare. Lei crede all'esistenza degli UFO, non è vero?”
“Di quale UFO sta parlando, signora?”, chiese Steve, senza scomporsi.
“Ma Allison mi aveva detto che lei…”, iniziò a protestare la donna.
“Le aveva detto che avrei creduto a qualunque cosa, signora Questor? È questo che lei vuole che io faccia? Non credo. Vede: io ho parlato un mese fa con Allison, quando avvenne quell'avvistamento. Ora le dirò esattamente quello che ho detto alla signora Ride in quell'occasione: la parola UFO significa "oggetto volante non identificato". Ed è precisamente quello che voi tutti avete visto: un oggetto in volo non ancora classificato, qualcosa di cui non conosciamo la natura e la provenienza. Questo non esclude la possibilità che si tratti di un oggetto veramente extraterrestre, ma non esclude neppure che si sia trattato di un pallone sonda o un nuovo aereo di tipo sperimentale. Potrebbe essere anche stato solo un effetto ottico collettivo, per quel che ne so. Io sono qui per cercare di scoprire che cosa è successo ad Archie, a prescindere da quell'oggetto volante. Ora mi dica come sono andate le cose, per favore”.
La donna, un po' intimorita, iniziò a raccontare:
“Due sere fa Archie era uscito per fare una passeggiata nel bosco. Lo faceva spesso e non era mai accaduto nulla di male. Era una bella serata e non ci preoccupammo quando non lo vedemmo rientrare tanto presto: pensammo che fosse sceso al paese, a bere qualcosa al bar, così mio marito e io ce ne andammo a letto. Però, verso mezzanotte sentii il cane abbaiare forte. Pensai che Archie stesse tornando, ma poi vidi una strana luce entrare dalla finestra. Mi alzai, rendendomi conto che era troppo rossastra per poter essere la luce della Luna, e guardai fuori: rividi l'oggetto della volta scorsa, a forma di sigaro, con delle luci rosse e arancio accese sotto. Era fermo sopra il bosco. Lentamente, iniziò a scendere fino a scomparire dietro la cortina degli alberi. Fu a quel punto che svegliai mio marito: dal bosco si alzava ancora un bagliore anomalo e, pochi minuti dopo, l'oggetto si levò in volo, salendo perpendicolarmente e schizzando via verso il cielo, a una velocità incredibile. Mi creda, signor Rowling: quello non era un aereo. Non ho mai visto niente spostarsi così velocemente! Fu allora che mi resi conto che Archie non era ancora tornato e cominciai a preoccuparmi. Anche mio marito aveva visto tutto ed era preoccupato, così chiamammo lo sceriffo, che ci disse di stare calmi. Si recò lui stesso nelle locande e nei bar del paese alla ricerca di Archie ma quando venne qui da noi, verso le tre del mattino, ci disse che non l'aveva trovato. Da allora non l'abbiamo più visto”.
“Quindi non è stato in paese?”, chiese Steve.
“No. Perlomeno, nessuno lo ha visto. Io credo che lo abbiano preso loro! Me lo sento! So che spesso gli alieni rapiscono della gente per i loro esperimenti… non è così?”, chiese, esasperata.
“Non possiamo ancora dire nulla di certo, signora Questor. Ma le prometto che indagherò, e saranno prese in considerazione tutte le piste. Compresa questa”, la rassicurò Steve.
“Intanto mi dica, per favore, Steve aveva degli amici? Una fidanzata, magari?”
La donna parve titubare.
“Aveva degli amici al paese, ma loro non l'hanno visto. Non sanno nulla di quello che gli è successo. Può darsi che avesse anche una ragazza ma… sa com'è: certe cose non si vanno certo a raccontare alla propria madre…”.
“Capisco. Non le viene in mente nient'altro che possa essere utile ai fini delle ricerche?”, chiese Livienne, intervenendo per la prima volta nel discorso.
“No. Purtroppo no”.
Steve si rivolse al marito della donna, che fino a quel momento era rimasto seduto accanto a loro, seguendo l'interrogatorio in silenzio:
“Lei ha qualcosa da aggiungere?”
“No. Posso solo dire che concordo con quello che mia moglie vi ha riferito: quell'oggetto non era un aereo. Era un'astronave, ne sono certo! Così come sono certo che ha rapito mio figlio!”
“Ha una foto recente del ragazzo?”, chiese Steve.
La donna si alzò e prese dallo scrittoio un volantino, che evidentemente i coniugi avevano fatto stampare e distribuire nei paesi attigui: vi era impressa la foto di Archie e anche alcuni suoi dati personali.
“La ringrazio. Ora devo farle un'altra domanda. È una formalità: come le ho detto, devo seguire tutte le piste. Le risulta che suo figlio avesse qualche nemico?”
“No. Credo proprio di no”.
“I rapporti con voi, com'erano? Avevate forse avuto delle liti, recentemente? Qualcosa che poteva spingere il ragazzo ad andarsene di casa?”
“No. Archie è sempre stato un gran bravo ragazzo, ubbidiente e coscienzioso. Ci vuole molto bene. Non avrebbe avuto nessun motivo per scappare di casa”.
“Neppure una scappatella sentimentale?”, chiese Steve.
Di nuovo la donna parve pensarci su, prima di rispondere.
“Come le ho già detto, non sono al corrente di questo. Ma se scoprirò qualcosa, ve lo farò sapere”.
“D'accordo, penso che questo per ora possa bastare. Se vi dovesse venire in mente qualcos'altro, questo è il mio nuovo numero di cellulare. Non chiamatemi assolutamente al numero che vi ha dato la Ride! E non date il nuovo numero a nessuno, in particolar modo non datelo allo sceriffo Cardigan”.
I due coniugi parvero un po' confusi, ma annuirono, prendendo il foglietto di carta che Steve porgeva loro. La mattina seguente, di buon'ora, Steve bussò alla stanza di Livi, che stava ancora dormendo.
“Sveglia dormigliona! Chi dorme non piglia né pesci, né UFO!”
“A quest'ora gli UFO dormono”, bofonchiò lei, alzandosi.
“Sono pronta tra dieci minuti”, aggiunse.
Effettivamente, dieci minuti dopo raggiunse Steve al bar della locanda, dove la stava aspettando. Aveva preso con sé la macchina fotografica e il registratore.
“Sei puntuale”, constatò lui, sorridendole.
“Certo. Che ti aspettavi?”
Indossava dei jeans attillati e una maglietta a maniche corte, stretta e un po’ scollata, che metteva in evidenza il seno prosperoso. Era carina, pensò Steve.
“Vieni. Dobbiamo fare presto, prima che lo sceriffo ci impedisca di lavorare”.
“Non facciamo colazione?”, chiese, contrariata.
“Più tardi. Ora dobbiamo andare”.
“Ma io ho fame!”, protestò. Non le diede retta e si alzò dalla sedia dov’era seduto. Lei lo precedette all’uscita e Steve non poté fare a meno di notare le curve sensuali del suo posteriore, strizzato dentro i jeans. Si obbligò a distogliere lo sguardo da quella vista e l’affiancò, per non essere tentato di guardarla di nuovo. L'accompagnò fino alla macchina che aveva noleggiato e che era parcheggiata dietro la locanda.
“Sali”, le ordinò.
“Posso almeno sapere dove stiamo andando?”
“Andiamo nel bosco. La signora Questor ha detto che questa volta l’UFO è sceso. Se così è, si dovrebbero vedere dei segni del suo passaggio”.
Dopo pochi minuti di strada, Steve parcheggiò la macchina e s'inoltrarono a piedi nel bosco, seguendo un sentiero. Camminavano da circa mezz'ora quando giunsero a una radura.
“Guarda qui!”, esclamò Steve, mostrando a Livienne un’enorme chiazza di erba bruciacchiata, dalla strana forma allungata. Anche le cime degli alberi erano bruciacchiate.
“Prendiamo dei campioni”, la esortò.
Tolse dalla sua ventiquattrore il kit per raccogliere le prove e ne estrasse dei guanti di gomma e dei sacchettini di plastica, dove inserì campioni di terra ed erba bruciata. Livienne, intanto, fece alcune foto agli alberi e alla chiazza affusolata sul terreno.
“Credi che si tratti veramente di un'astronave, Steve?”, chiese lei.
“Non lo so. Siamo qui per scoprirlo. A ogni modo, se qui c'è stato un oggetto volante, qualunque cosa fosse, alla base militare di Loring, situata vicino a Limestone, dovrebbero averlo rilevato sui radar”.
“Andiamo a fare alcune domande alla base?”, chiese lei.
“Possiamo provare, ma dubito che ci diranno cosa è accaduto veramente”.
Raggiunsero la base ed ebbero subito dei problemi per entrare. Alla fine, solo Steve ebbe il permesso di vedere uno degli incaricati a ricevere "il pubblico".
Quando uscì, dall'espressione dipinta sul suo volto Livienne capì subito che le cose non erano andate per il meglio.
“Mi hanno detto che si è trattato di un pallone sonda, che nello scendere al suolo si è incendiato e ha procurato le bruciature nel bosco”.
“Una bella storiella, non c'è che dire!”
“Che ti aspettavi? Che ci dicessero che si è trattato di un UFO?”, chiese amaramente Steve.
“Non ci resta che giocare la carta Apple!”, annunciò lei.
“Apple? Che significa?”
“È il nome in codice di un mio amico d'infanzia, un certo Dan, al secolo uno dei più terribili hacker che abbiano mai solcato i mari di Internet. È da lui che ho imparato a eludere le password. Ma qui ci vuole un professionista”. Livienne estrasse dalla borsetta un cellulare usa e getta e compose un numero. Pochi secondi dopo, Apple rispose.
“Ciao, Apple! Sono Livienne. Avrei bisogno di un favore, se non ti è di troppo disturbo”.
“Dimmi pure, bambola. Che devo fare? Prosciugare il conto di qualche riccone per rifornire la tua carta di credito?”, scherzò lui.
“Niente di tutto questo: dovresti introdurti nel computer della base militare di Loring, nel Maine, e vedere se ti riesce di scoprire qualcosa su un certo avvistamento sospetto avvenuto la sera del 13 maggio 2000, proprio qui vicino. Potresti farlo?”
“È un gioco da ragazzi! Dovrai solo avere un po' di pazienza”.
“Tutto il tempo che vuoi, Apple”.
Livienne tolse la comunicazione e collegò il suo computer portatile a Internet, attendendo. Circa mezz'ora dopo, sul video comparve un file che mostrava chiaramente un avvistamento del genere "non identificato", nel cielo di Kingfield, la sera del 13 maggio 2000.
Livienne scaricò il file su un dischetto, poi lo cancellò dal computer.
“Certo che hai degli strani amici d'infanzia!”, esclamò Steve, fissando il dischetto, entusiasta. Era stupito. Lei gli sorrise, divertita, e Steve sentì qualcosa in fondo allo stomaco, una sensazione che non provava da tanto, troppo tempo.
Nel pomeriggio, Steve e Livienne interrogarono alcuni amici di Archie, che però non avevano la più pallida idea di cosa fosse accaduto al loro compagno. Alcuni di loro avevano visto l'UFO scendere nel bosco e lo descrissero esattamente come aveva fatto la madre di Archie.
Verso sera Steve e Livienne tornarono alla locanda, esausti e delusi: non avevano ancora scoperto alcuna traccia che potesse aiutare a ritrovare il ragazzo. Dopo essersi fatto una doccia ed essersi rasato, Steve si sedette al tavolo da pranzo, attendendo Livienne. All'ora di cena, la ragazza lo raggiunse.
“Allora, a che punto siamo con le indagini?”, chiese lei.
“A un punto morto. Ho spedito i campioni al laboratorio di analisi, ma dovremo attendere almeno due giorni prima di avere i risultati, anche se non credo che cambieranno le cose: se veramente quel ragazzo è stato rapito dagli alieni ci servirà a poco sapere che cosa contengono i campioni che abbiamo raccolto”.
“Ho portato le foto a sviluppare. Saranno pronte domani sera”.
“Sai, c'è una cosa che non mi convince in questa storia: ieri sera, quando abbiamo parlato con la madre di Archie di una probabile fidanzata, mi è sembrata molto vaga sull'argomento, come se stesse nascondendo qualcosa”.
“Anch'io ho avuto la stessa impressione”.
“Eppure, oggi, quando ho rifatto la stessa domanda agli amici di Archie, mi hanno assicurato che lui non ha nessuna fidanzata, e mi sono sembrati sinceri”.
“Già”.
“Forse mi sto solo preoccupando per delle sciocchezze: l'importante ora è scegliere le prossime mosse. Prima o poi dovremo affrontare lo sceriffo e chiedergli che cosa ne sa di tutta la storia”.
Detto questo, Steve si mise a piluccare quello che aveva nel piatto. Non aveva per niente fame. Livienne, invece, spazzolò tutto quello che aveva davanti a una velocità impressionante.
“Vuoi anche il mio?”, le chiese, divertito.
“No, ho mangiato abbastanza... credo”. Steve rise.
“Perché ridi?”
“Ti ho visto divorare tutto quanto nel giro di cinque minuti. Sembravi morta di fame”.
“Ho problemi di ipoglicemia, anche se non gravi. Se non mangio qualcosa mi sento male”.
D'improvviso, la radio che trasmetteva musica nella sala da pranzo della locanda prese a fischiare stranamente, saltando da una stazione all'altra. Subito dopo mancò la corrente elettrica e la stanza piombò nella semioscurità.
“Credo che ci siamo”, annunciò Steve, alzandosi dal tavolo.
Alcune persone nella via si misero a gridare:
“Guardate! Là, nel bosco!”
Steve e Livienne si precipitarono fuori dal ristorante: sopra il bosco, un enorme oggetto metallico, dal colore brunito e a forma di sigaro, si teneva in equilibrio a parecchie decine di metri dal suolo, perfettamente immobile. Livienne corse a prendere la macchina fotografica e il registratore, raggiungendo Steve che l’aspettava alla macchina. La ragazza scattò parecchie foto, poi salì sulla vettura e, insieme, si diressero verso il bosco. Nel frattempo, l'oggetto si era posato fra gli alberi, probabilmente nella stessa radura della volta precedente. Quasi a metà strada, la macchina si bloccò improvvisamente. Steve e Livienne uscirono di corsa, abbandonando la macchina e correndo verso il bosco a piedi ma, prima ancora che raggiungessero i primi alberi, l'oggetto si rialzò in volo, dissolvendosi nel cielo in pochissimi secondi. Anche stavolta Livienne riuscì a scattare alcune foto.
“Ce l'ho fatta, Steve! Sono riuscita a fotografarlo parecchie volte! E ho anche registrato lo strano ronzio che produceva!”
“Fantastico! Ora abbiamo le prove, Livienne!”, esclamò Steve.
Proprio in quel momento, la macchina dello sceriffo si fermò accanto a loro.
“Che diavolo ci fa lei qui?”, chiese, rivolto a Steve, evidentemente riconoscendolo.
“Vengo a caccia di UFO. E non mi dica che quello di prima era un temporale!”
“Andatevene via!”, intimò lo sceriffo.
“No, mi dispiace. Voglio vedere cosa è successo in quella radura”.
Lo sceriffo sbuffò.
“Non se ne parla nemmeno. Ora vi riporto al vostro hotel e poi ve ne andate con il primo aereo”.
“Vuole che faccia venire tutto il dipartimento dell'FBI?”, insinuò Steve, poco accomodante. Questa volta, lo sceriffo dovette cedere. Torce alla mano, i tre raggiunsero la radura, dove lo strano oggetto volante si era posato per la seconda volta. Il buio era opprimente e un filo di bruma aleggiava fra i tronchi degli alberi, rendendo umida l’aria della notte. Steve procedeva per primo, seguito da Livienne, Per ultimo veniva lo sceriffo, brontolando e sbuffando in continuazione.
“Silenzio!”, gli intimò Steve, illuminando qualcosa che si muoveva, nel folto della vegetazione. Una strana sagoma si agitava per terra, mugugnando. Per un lungo istante, Steve si ritrovò a sperare che si trattasse di un alieno. Sarebbe stata la scoperta del secolo, la prova che cercava da tempo.
“Livienne, resta qui”, le sussurrò.
“Scordatelo”, fu la sua risposta, secca e risoluta, mentre percorrevano gli ultimi metri. Si avvicinarono cautamente, illuminando con la luce delle torce la figura distesa. Era umana.
“È Archie!”, esclamò lo sceriffo, incredulo.
Il ragazzo era disteso per terra, chiaramente in stato di shock. Steve lo soccorse. Notò che aveva alcuni strani segni rossi sulle braccia e sulle gambe.
“Chiamo un'ambulanza”, annunciò lo sceriffo.
In breve, il giovane fu portato in ospedale. I dottori fecero subito allontanare Steve, Livienne e anche lo sceriffo:
“Tornate domattina. Ora non può rispondere alle vostre domande”, ordinò il primario, facendoli uscire dal reparto.
Livienne e Steve tornarono a prendere la macchina, che non ebbe problemi a ripartire. Una volta giunti alla locanda cercarono di dormire, senza riuscirci, troppo scossi dagli eventi di quella notte. La mattina seguente si recarono all'ospedale, dove, per prima cosa, appresero dalla signora Questor che suo figlio stava meglio. Ora era possibile interrogarlo.
Entrarono nella stanza e videro il ragazzo disteso sul letto. Nei suoi occhi c'era ancora il terrore che vi avevano già letto la sera prima.
“Allora Archie, ti va di parlare di quello che è successo?”, cominciò cautamente Steve.
“Non ricordo quasi nulla”, rispose lui.
“Prova a dirci il poco che ricordi”, lo incoraggiò Steve.
“Ero nel bosco. Stavo passeggiando, quando ho sentito un ronzio. Ho visto delle strane luci e quella “cosa” è scesa poco lontano da me. Volevo andare via, ma non riuscivo a muovermi. Non so se fossi terrorizzato o se fossero loro, gli alieni, a trattenermi, in qualche modo strano. Alla fine ho sentito le palpebre farsi pesanti e mi è sembrato di volare. Mi muovevo, ma ero sospeso in aria. Poi non ricordo più nulla. So solo che quando mi sono svegliato ho visto voi”.
“Ascolta, Charlie. Noi tutti vogliamo stabilire che cosa realmente è successo. Penso che anche tu lo voglia. Per questo volevo proporti una cosa: c'è un metodo che si chiama "ipnosi regressiva", che può aiutarti a ricordare, o perlomeno fare affiorare sotto ipnosi, appunto, tutto quello che è accaduto. Quando starai un po' meglio, se te la sentirai, potrai sottoporti a quest'esame e così scopriremo la verità”.
“Sì. Voglio farlo”, rispose, risoluto.
“D'accordo, allora. Ci rivedremo non appena ti sentirai meglio. Ora non ti voglio disturbare più: fammi sapere se ti ricordi qualcos'altro”.
“Va bene”.
Steve si fermò nel corridoio a parlare con il primario dell'ospedale:
“Voglio vedere i risultati delle sue analisi: sono un medico”.
“Venga. Glieli mostro”.
“Posso averne una copia?”, chiese Steve dopo averli controllati.
“Trovato qualcosa?”, chiese Livienne, che lo attendeva fuori.
“Penso di sì: vedi qui? C'è una diminuzione dei linfociti e un eccesso di glucosio nel sangue. Sono tutti effetti che possono essere dati dalla prolungata assenza di gravità. Spesso gli astronauti hanno le stesse alterazioni, dopo un viaggio nella spazio. Credo che abbiamo raccolto prove sufficienti. Non appena saranno pronte le fotografie che hai portato a far sviluppare potremo tornarcene a Filadelfia e aprire un caso vero e proprio, così avremo maggior libertà d'azione”.
“D'accordo”.
Ma una volta giunti alla locanda una brutta sorpresa li attendeva: le loro stanze erano state completamente ribaltate: il registratore e la macchina fotografica di Livienne, con tutte le foto che lei aveva scattato all'UFO, erano scomparsi, e così anche i loro soldi spicci. Inoltre, era sparito anche il dischetto con la registrazione fatta alla base di Loring. Ai due non rimase altro da fare che rodersi il fegato e sporgere denuncia contro ignoti.
Quando uscirono dall'ufficio del vice-sceriffo, che aveva raccolto le loro denunce, videro che gli alberi del bosco con la punta bruciacchiata, quelli intorno alla radura dove era sceso l'UFO, erano stati tagliati. Si precipitarono sul posto, dove lo sceriffo stava presiedendo i lavori.
“Che state facendo? Chi vi ha dato l'autorizzazione a tagliare questi alberi?”, chiese Steve, già abbastanza adirato per le prove andate perse e ora letteralmente furioso.
“L'ordine di tagliare questi alberi lo avevamo già da tempo: dovevamo farlo ancora due mesi fa. Quelle bruciature che ha visto, in realtà sono state provocate da un fulmine caduto parecchio tempo fa e da allora avevamo deciso di tagliare questi abeti e castagni e piantarne dei nuovi”.
Steve raccolse alcune foglie degli alberi, che avevano un colore piuttosto giallastro, nonostante le piante fossero appena state tagliate. Le mise in una busta di plastica e disse a Livienne:
“È  inutile restare ancora qui. Torniamocene a Filadelfia”.
Con la speranza che con l'ipnosi regressiva del ragazzo venisse finalmente a galla la realtà su quella faccenda, Steve e Livienne tornarono a casa. Il pomeriggio seguente Steve telefonò alla ragazza, per informarla dei risultati delle analisi svolte sui campioni da loro raccolti:
“Le foglie raccolte sul posto contengono il cinquanta per cento in meno della normale clorofilla”.
“Che significa?”
“Non ne ho idea, ma so per certo che è già successo in casi analoghi. Casi di presunte astronavi aliene scese a terra. Inoltre, non è certo un dato che si riscontra facilmente. Per quanto riguarda il terreno, è risultato leggermente più radioattivo del dovuto, ma non c'è altro”.
“Beh, con tutti questi dati non potranno certo rifiutarsi di farti eseguire un'indagine più approfondita”.
“Ti sbagli. Stamattina Donald è venuto da me e mi ha ordinato di tenermi alla larga da questo caso. Dice che gli sono state fatte pressioni dall'alto. E c'è di più: nonostante la promessa fattaci a Kingfield, Archie ha deciso di non sottoporsi all'ipnosi regressiva. La nostra indagine finisce qui, Livi”.
“Steve, cosa abbiamo scoperto?”, chiese lei, rendendosi conto della gravità della situazione.
“Non lo so, ma è qualcosa di molto, molto grosso!”
La mattina dopo, il fascicolo mensile del City Magazine riportava tutto l'accaduto, compreso il furto della macchina fotografica e delle prove. L'articolo concludeva in questo modo:
“È chiaro che forze superiori, terrestri o extraterrestri che siano, vogliano tenerci all'oscuro di questa nuova, tremenda verità e, per fare questo, non esitano a sottrarre prove, ingannare e forse, persino uccidere. Ma qual è, realmente, questa verità? Ci è stato impedito di scoprirlo”.
Il rapporto che Steve consegnò al suo capo giungeva più o meno alle medesime conclusioni:
“Anche se sono fermamente convinto di aver avuto a che fare con un rapimento da parte di forze extraterrestri, non posso esibire alcun fatto concreto, a sostegno della mia tesi. Vista la reticenza del giovane a sottoporsi a ipnosi regressiva, le uniche prove rimaste in mio possesso sono il campione di terra che ho prelevato nel bosco e che, analizzato, ha mostrato di possedere un valore di radioattività leggermente superiore alla norma, le foglie prelevate dagli alberi, che contengono il cinquanta per cento in meno della clorofilla dovuta, e le analisi del giovane, nonché le foto scattate alla radura e agli alberi bruciacchiati. Ritenendo però queste prove ancora insufficienti ad accertare una qualunque forma di vita di origine aliena e un presunto rapimento da parte di essa, sono costretto ad archiviare il caso 2407, definendolo irrisolto”.

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Capitolo 6
*** capitolo 6: SPIRITI GUIDA ***


Filadelfia, Martedì 30 maggio 2000
 
Steve appoggiò la ventiquattrore e il telefonino sulla scrivania del suo ufficio, poi accese il computer, inserì la password e si sedette sulla morbida poltroncina in pelle; infine si accorse della quantità di messaggi incisi sulla segreteria telefonica. Era stato via solo una settimana ma, a quanto pareva, lo avevano cercato in parecchi. Accese la segreteria e ascoltò tutti i messaggi registrati:
“Ciao, Steve. Sono Bellins, della sezione omicidi. Quando puoi richiamami: devo sottoporti un caso che sembra essere dei "tuoi"”.
“Steve, sono Rembrant. Ho i risultati delle analisi che mi avevi chiesto. Passa a prenderli quando vuoi”.
“Steve, tesoro, sono la mamma. Com'è che a casa non ci sei mai? Non riesco a chiamarti neppure sul cellulare e qui c'è sempre la segreteria. Se non vuoi fare venire un infarto a tua madre, fammi un colpo di telefono, appena puoi”.
“Steve, sono Livienne. Ho fra le mani alcuni articoli di giornale che vorrei farti vedere. Puoi richiamarmi, per favore?”
“Ciao, sono Mattew. Sto ancora aspettando quella rivincita a tennis… chiamami”.
“Ciao, Steve. Sono Louis. Volevo ricordarti che venerdì due giugno si terrà la festa di addio al celibato di Links: spero che vorrai accompagnarmi. La serata si preannuncia molto interessante: so che ha invitato certe ballerine… A proposito di donne… stamattina, in un bar, ne ho conosciuta una sensazionale: ha due tette da spavento e stasera è libera. Non chiamarmi dopo le sette: sarò molto impegnato”.
“Ciao Steve. Sono Annie. Non mi hai più richiamata… fatti sentire”.
Steve ci mise un momento per ricordarsi chi fosse Annie: erano usciti insieme un paio di volte, mesi prima. Chissà perché le aveva dato il suo numero di ufficio. Non aveva nessuna intenzione di richiamarla, comunque.
“Buongiorno, signor Rowling. Sono la segretaria del dottor Liverpool. Volevo avvertirla che l'appuntamento da lei fissato per il giorno 31 maggio 2000, dovrà essere spostato al 3 giugno 2000, alle ore 18.00”.
Steve pensò che dopotutto non gli dispiaceva: non amava gran che andare dal dentista, anche se si trattava di un semplice controllo. L'ultimo messaggio diceva:
“Ciao, sono di nuovo Bellins: ho risolto il caso. Mi ero sbagliato: non era uno dei "tuoi". A ogni modo, grazie per l'aiuto”. Il tono della voce era chiaramente ironico.
Ignorando tutti gli altri messaggi, Steve compose il numero del cellulare di Livienne, ma non ottenne risposta. Provò a chiamarla a casa, ma non ebbe maggior fortuna. Allora telefonò a sua madre e la tranquillizzò, poi confermò l'appuntamento dal dentista.
Decise di passare da Rembrant, per ritirare i risultati delle analisi che aveva commissionato. Non si era ancora alzato dalla sedia, quando sentì bussare insistentemente alla porta.
“Avanti”, disse, convinto che si trattasse di Donald. Strano che si prendesse la briga di bussare. Infatti non era Donald: Steve si trovò di fronte l'agente Dennis Parrish e un altro uomo che non conosceva.
“Tu sei Steve, non è vero?”, chiese l'agente. Steve notò subito il tono ostile di Dennis e il fatto che, pur non conoscendolo, lo avesse chiamato col nome di battesimo.
“Sì. E tu sei Dennis”, rispose, ricambiando la cortesia.
“Già. Sono il fratello di Livienne. E questo è un suo collega di lavoro: Christopher Hocchins”.
Così quello era Christopher, pensò Steve, fissandolo di traverso.
“Che cosa volete da me?”, chiese, un po' seccato.
“Si tratta di Livienne”.
“Le è successo qualcosa?” Il tono di Steve si fece improvvisamente teso.
“Non lo sappiamo: è partita tre giorni fa per il Messico, ha telefonato al giornale quando è arrivata all'aeroporto di Mérida, poi non l'abbiamo più sentita. Al cellulare non risponde”, spiegò Cris.
“A che cosa stava lavorando?”, domandò Steve.
“Non sappiamo nemmeno questo. Da quando lavora con te, Livienne è diventata misteriosa. Non si confida più neppure con me!”, esclamò Dennis, e il tono della sua voce non lasciava dubbi riguardo a quello che pensava di Steve: era chiaro che non lo poteva vedere.
“Qualcuno di voi ha le chiavi del suo appartamento?”, chiese Steve, deciso ormai a indagare.
“Speravamo che le avessi tu!”, esclamò Cris, sorpreso.
“Io? E perché mai dovrei averle?”
Poi capì: evidentemente, Cris e Dennis pensavano che lui e Livienne stessero insieme.
“Beh, io non le ho, però ho questo. È una chiave universale”, disse, estraendo dal cassetto un piccolo arnese appuntito.
“Andiamo”.
Raggiunsero l'appartamento di Livienne, dove Steve riuscì ad aprire la porta con facilità. Appena entrato si guardò intorno: l'appartamento era completamente sottosopra. Ovunque vi erano abiti, calze, giacche gettate sui mobili. Le scarpe erano sparse tutt'intorno, sul pavimento. Il disordine regnava sovrano, tant'è che Steve all'inizio pensò quasi a un rapimento. Ma poi, conoscendo Livienne, capì che doveva essere così che viveva, in mezzo al caos. Si diresse subito verso la scrivania, dove c'erano alcuni giornali, tra i quali una copia di Mistery. Alcuni articoli erano stati ritagliati.
Steve guardò la data dei giornali: era di quattro giorni prima.
“Qualcuno di voi sa dirmi di che cosa parlavano questi articoli?”
“No. Non leggo questa "spazzatura", di solito”, commentò Cris.
“A dire la verità, eravamo venuti da te perché pensavamo che sapessi a cosa stava lavorando Livienne”, lo informò Dennis.
“Sono stato via tutta la settimana: ero in vacanza. Livienne mi ha lasciato un messaggio sulla segreteria, dicendomi di avere strani articoli per le mani, ma ho trovato il messaggio solo stamattina e non ne so più di voi”.
Fece un numero di telefono e chiamò un collega, all'FBI.
“Ciao, Kent. Sono Steve: ho bisogno di un favore. Rintracciami la prima pagina di "Le Monde" del 24 maggio e la seconda pagina di "Mistery" della settimana scorsa, poi mandale per fax allo 02215550169”.
“D'accordo. Dammi solo cinque minuti”.
“Bene”, disse riagganciando e componendo subito dopo il numero dell'aeroporto.
“Quando parte il prossimo aereo per Mérida, nello Yucatàn?”, chiese all'impiegata che rispose al telefono.
“Attenda prego”.
“Prenota per due: vengo anch'io”, lo informò Dennis.
“Per tre”, protestò Cris. “Non vorrete lasciarmi fuori, spero!”
“T'informo che non amo i giornalisti, ma in questo caso potresti essere utile: forse conosci Livi meglio di me…”.
“Livi?”, sbuffò Cris, disgustato dal nomignolo che Steve aveva affibbiato all'amica.
La signorina dell'aeroporto tornò al telefono.
“Il prossimo aereo per Mérida parte fra due ore”.
“Benissimo: prenoto tre posti in seconda classe”.
“Mi dispiace: ci sono solo posti in prima classe”.
“D'accordo, va bene lo stesso”. Steve diede i nominativi e il numero della sua carta di credito, poi diede un'occhiata al fax, che nel frattempo era arrivato.
L'articolo sulla copia di “Le Monde” parlava di cinque francesi, facenti parte della spedizione scientifica "Animaux", partita un mese prima dalla Francia per studiare gli animali dello Yucatàn. I cinque erano stati brutalmente uccisi, apparentemente senza alcun motivo. Il secondo articolo, su "Mistery", parlava di un villaggio indigeno, chiamato Ndala e situato nei pressi di Ticul, sempre nello Yucatàn, e diceva che in quel villaggio alcuni bambini erano morti improvvisamente, senza alcuna ragione apparente.
“Non capisco il collegamento fra questi due articoli, a parte che sono notizie provenienti più o meno dallo stesso luogo”, cominciò Dennis.
“Non "più o meno". Guarda qui: si parla di un villaggio chiamato Ndala in tutti e due gli articoli. Da questo villaggio è partita la spedizione e sempre qui sono morti dei bambini. Probabilmente Livienne ha pensato che ci fosse un collegamento fra le due cose e ha deciso di indagare. Scommetto che se andremo in questo villaggio, la troveremo”, spiegò Steve.
“Sempre sperando che non le sia già successo qualcosa”, sussurrò sinistramente il fratello.
“Preparate le vostre cose per il viaggio: non voglio rischiare di perdere l'aereo”, ordinò, perentorio, Steve.
Due ore dopo erano sull'aereo diretto a Mérida. Poi presero un elicottero che li portò fino a Ticul. Steve si occupò di noleggiare una Jeep e di assoldare una guida che li portasse fino a Ndala, sperduto villaggio nel bel mezzo della giungla. Solo una stretta strada dissestata vi giungeva per poi finire lì, senza portare da nessun'altra parte. Fortunatamente Jarem, la guida, parlava molto bene l'inglese, così Steve gli chiese di fare da interprete con gli indigeni del posto, che parlavano l'antica lingua della zona.
Si fermarono nel centro del villaggio, dove vennero attorniati da un gruppo di bambini. Jarem li salutò. Evidentemente veniva spesso al villaggio, perché li conosceva tutti. Disse a Steve che alcuni di quei bambini erano morti di recente e che gli dispiaceva molto.
“È per questo che siamo qui: una nostra amica è venuta per indagare su questo fatto e sugli uomini della spedizione che sono morti. Ma non abbiamo più sue notizie da giorni. Può chiedere se qualcuno l'ha vista?”, disse, dando all'uomo una foto di Livienne.
“Sì, certo”. Jarem si rivolse a un uomo anziano, seduto davanti alla propria capanna, costruita con tronchi e situata su un rialzo del terreno. Questi gli disse qualcosa nella sua lingua e indicò un'altra capanna, simile alla sua.
“Dice che la vostra amica è arrivata tre giorni fa, con una guida. Quella laggiù è la sua capanna, ma lui non sa dove si trovi adesso: dice che ieri sera è andata a dormire, ma stamane non c'era più e anche la sua guida era sparita”.
“Chieda se sa qualcosa della spedizione partita da qui”.
“D'accordo”. Jarem tradusse per lui e l'anziano indigeno fece uno strano segno: si portò le mani al capo, dicendo parole incomprensibili a Steve.
“Che succede?”, chiese Steve.
“Dice che gli uomini della spedizione sono molto cattivi, che uccidono i loro bambini. Non so cosa voglia dire. Per quanto ne so, i bambini sono morti di malattia”.
“Gli chieda dove si trovano ora i membri restanti della spedizione”. Jarem glielo chiese.
“Dice che erano in dieci. Cinque sono morti nella giungla. Ora gli altri hanno preso il loro posto, nell'accampamento che hanno piazzato nel folto della vegetazione. Lui non sa di preciso dove si trovi, ma dice che è a tre ore di cammino da qui, in quella direzione”. Fece segno verso un punto preciso della giungla.
Si avviarono verso la capanna di Livienne, decisi a scoprire qualche cosa di più. Entrando, notarono subito il portatile della ragazza sul pagliericcio che fungeva da giaciglio. Steve lo accese, ma il computer gli chiese la password.
“Da quando in qua ha una password sul computer?”, chiese Cris, sorpreso.
“Hai idea di cosa potrebbe essere?”, chiese Steve.
“Prova Carey”, propose Dennis.
“Carey? E chi è?”, chiese Steve.
“Il suo ex fidanzato”.
“Non credo che abbia usato questo nome. Comunque proviamo…”. Steve digitò il nome, ma non funzionò.
“Prova con Steve!”, sputò fuori acidamente Cris, alludendo alla loro amicizia, che evidentemente lo seccava parecchio.
“No. Non userebbe mai il mio nome… e neppure il tuo”, rimbeccò, sarcastico.
Cris lo fulminò con lo sguardo.
“Prova con Nathan”, gli suggerì ancora Dennis.
“Nathan?”, chiese Cris.
“È una storia lunga... non posso spiegarvi chi è, ma provate lo stesso”, disse ancora Dennis.
Steve provò, ma neanche questo nome funzionò.
“Altri suggerimenti?”, chiese poi.
“James”, propose Dennis.
“Spero non siano tutti ex fidanzati di Livienne!”, sbottò Steve.
“Ci sei andato vicino...”.
“Abbiamo solo una possibilità, ancora, conviene non sprecarla”, affermò Steve.
“Livienne non è stupida: ha sicuramente usato una parola che non avesse nulla a che fare con persone della sua famiglia o conoscenti… qualcosa che però potesse ricordare facilmente. Hai detto che prima non aveva una password, vero Cris?”, continuò.
“No. Non l'ha mai avuta”.
“Allora deve essere una cosa recente, probabilmente l'ha messa dopo aver scritto il primo articolo importante, dopo essere diventata una "vera" giornalista, come dice lei. Oppure… una giornalista "ficcanaso", come dico io!”, esclamò improvvisamente.
Digitò sulla tastiera il termine "busybody" (in inglese "ficcanaso"). Questa volta, sul video apparve la scritta:
“Buongiorno Livienne”.
Steve diede un'occhiata a tutti gli appunti di Livienne:
24 maggio 2000
Appunti dagli articoli di giornale:
Durante la notte due bambini del villaggio Ndala sono morti. I piccoli erano ancora nei loro giacigli. La sera prima non erano malati, ma solo molto depressi, a detta delle gente del villaggio.
Già la settimana prima altri due bambini erano morti in circostanze strane.
La stessa notte del 24 maggio, cinque uomini della spedizione "Animaux" sono stati uccisi nella giungla, probabilmente da selvaggi. L'autopsia rivela che sono stati avvelenati tramite una freccettina, lanciata loro con una cerbottana. Le autorità locali stanno indagando sul caso, per scoprire i colpevoli. Devo riuscire a  parlare con loro.
26 maggio 2000
Un altro bambino è stato trovato morto, apparentemente soffocato.
27 maggio 2000
Sono giunta al villaggio ieri sera e stamattina un altro bambino è morto, mentre giocava accanto al fiume. Anche questo sembra essere soffocato. Ho potuto vederlo per qualche minuto: sulle sue braccia erano presenti strani ematomi diffusi, e penso che avesse addirittura un braccio rotto. Eppure il bambino giocava da solo, a detta della madre: improvvisamente ha iniziato a dibattersi, gettandosi per terra, e poi è soffocato lentamente. Vani sono stati i tentativi di rianimarlo. Mi sono recata a Ticul e ho richiesto alle autorità che eseguissero un'autopsia sul corpo del bambino, ma questi hanno risposto che non hanno tempo per badare ai bambini dei selvaggi. Sto stilando un articolo per denunciare il netto disinteresse della polizia nei confronti di questa povera gente.
29 maggio 2000
Ho parlato con un uomo della spedizione "Animaux", che era tornato al villaggio per fare rifornimento di cibo. Dice che i colleghi morti erano rimasti nella giungla per un appostamento notturno: volevano seguire un branco di  animali selvaggi per filmarli. Da qualche giorno, altri cinque uomini di "Animaux", tra cui quello con cui ho parlato, stanno continuando l'appostamento. Ho chiesto all'uomo di poter andare con lui nella giungla, ma mi ha risposto che è troppo pericoloso per me.
Gli appunti finivano lì.
“E ora che facciamo?”, chiese Dennis.
“Conoscendo Livienne, è riuscita comunque a seguire la spedizione”, commentò Steve.
“Vuoi dire che è andata nella giungla, di notte, con la sola compagnia di una guida?”, chiese Cris.
“Temo di sì. Livienne non ha certo paura di lanciarsi nelle avventure, anche in quelle più pazze”, commentò Steve.
“Già…”, ammise Dennis.
“Comunque, dobbiamo cercarla e questa è l'unica traccia disponibile, per ora. Jarem, lei può accompagnarci nella giungla?”, domando Steve.
“Sì. Ho l'attrezzatura necessaria nella macchina, anche per voi. Naturalmente vi costerà un po'…”.
“Non ho fatto questione di prezzo”, si alterò Steve.
“Bene. Però partiremo domattina: non mi piace andare nella giungla di notte”.
“Non è proprio possibile partire ora?”, chiese Steve, evidentemente preoccupato per Livienne.
“No. Non voglio mettere a repentaglio la mia vita e la vostra. Scarichiamo l'attrezzatura e andiamo a dormire”.
Mentre trasportavano tutta l'attrezzatura nella capanna di tronchi, Steve notò una strana scena: un uomo del villaggio stava spargendo della sabbia intorno alla propria capanna.
“Che fa quello?”, chiese a Jarem.
“È un'antica usanza popolare: evidentemente quell'uomo ha avuto un figlio, oggi. Il primo animale che lascerà la sua impronta su quella sabbia, sarà lo "spirito guida" del bambino. Da allora, i due saranno uniti per sempre. Se l'animale morrà, allora anche per il bambino sarà la fine, e viceversa”.
“Spiriti guida. Ne ho sentito parlare, ma non pensavo che questi riti fossero ancora in voga!”, esclamò Dennis.
Prepararono tutta l'attrezzatura, poi si addormentarono. Durante la notte Steve venne svegliato da un rumore. Si alzò e guardò fuori dalla finestra. Alla debole luce della Luna vide cinque indigeni dirigersi verso la giungla, nella direzione dell'accampamento francese.
Steve svegliò gli altri e disse loro:
“Preparatevi: ci sono novità”.
“Cosa avresti intenzione di fare?”, chiese Jarem.
“Non so cosa voglia fare lei, ma io seguirò quegli indigeni e ci vedrò chiaro, in questa faccenda”, dichiarò Steve.
In breve furono pronti e scivolarono fuori, nella notte. La guida apriva loro la strada. Seguirono silenziosamente le tracce lasciate dagli indigeni per oltre tre ore, fino a giungere di fronte all'accampamento francese, situato nel cuore della giungla, proprio sulle rive di un piccolo specchio d'acqua. Qui, assistettero a una scena inaspettata: gli uomini della spedizione stavano caricando delle gabbie contenenti splendidi pappagalli e altri piccoli animali su un idrovolante fermo sulla riva.
“Quei bastardi! Invece di limitarsi a fotografare gli animali, li catturano per contrabbandarli di frodo! Ecco perché gli indigeni vogliono ucciderli! Per loro gli animali della giungla sono sacri”, sussurrò Jarem. Un improvviso rumore alla loro destra li fece sussultare. Un istante dopo, uno dei componenti della spedizione gridò, stramazzando a terra. Si sentì parlare in francese, mentre gli altri quattro della spedizione e il pilota dell'aereo mettevano mano alle armi. Ma non servirono a molto: altri due uomini caddero a terra, colpiti da invisibili frecce.
Gli ultimi tre rimasti presero a sparare a raffica, nel buio della giungla, colpendo persino alcuni degli animali che avevano catturato e che ancora attendevano di essere caricati sull'aereo.
“State giù!”, ordinò Jarem, mentre cercavano di ripararsi dai colpi nascondendosi dietro gli alberi più grandi.
D'improvviso si udì un grido provenire dal folto della vegetazione. Era una voce di donna.
"Livienne", pensò subito Steve. Strisciando per terra, si diresse verso il luogo da cui era venuto il grido.
Vagò nel sottofondo della giungla per alcuni minuti, cercandola disperatamente, poi gridò:
“Livienne!”. Sapeva di mettere a repentaglio la propria vita, rivelando la sua posizione, ma doveva trovarla.
“Sono qui!”, urlò la ragazza.
Steve raggiunse una radura e finalmente la vide, illuminata dalla Luna: era distesa per terra e da una ferita che aveva sulla spalla sgorgava sangue. La guida, accovacciata accanto a lei, cercava di fermare l'emorragia.
“Lasci, faccio io. Sono medico”. Steve si inginocchiò accanto a lei, si strappò la camicia e utilizzò i brandelli per fasciarle la spalla.
“Non aver paura: non è niente di grave”, la rassicurò.
Nel frattempo, i francesi avevano smesso di sparare: probabilmente avevano finito le munizioni. Steve sbirciò nella radura e vide che i selvaggi stavano accerchiando i tre, terrorizzati. Jarem, Cris e Dennis spuntarono fuori all'improvviso, puntando le loro armi sui selvaggi e sui francesi.
“Fermi dove siete!”, urlò Jarem, nella lingua degli indigeni. Uno di loro tentò di reagire, ma Jarem sparò un colpo, ferendolo alla mano.
“Gettate le cerbottane”, urlò.
I selvaggi fecero quanto gli era stato ordinato, ma uno di loro disse qualcosa, rivolto alla guida.
“Che ha detto?”, chiese Steve, uscendo dal suo nascondiglio, sorreggendo Livienne. Dennis si precipitò ad aiutarlo e ad abbracciare la sorella.
“Dice che hanno dovuto farlo: questi uomini stavano uccidendo i loro bambini”.
“Ancora con questa storia! Che vuol dire?”, chiese Cris.
“Gli spiriti guida… gli animali. Imprigionando gli animali, provocavano la morte di alcuni di essi; evidentemente gli indigeni sono convinti che le morti dei bambini siano da collegare alle morti dei loro spiriti guida”, spiegò Livienne, con un filo di voce.
“Stai bene?”, chiese il fratello.
“Sì, è tutto a posto”, lo rassicurò.
“Sei ferita!”, esclamò Cris.
“Non è niente, solo un graffio”, rispose lei.
“Forza, liberiamo questi poveri animali e poi torniamocene a casa”.
Lei e Steve aprirono tutte le gabbie e gli animali fuggirono nella giungla, spaventati. In una gabbia, Livienne trovò una splendida ara, che non riuscì a riprendere il volo: un proiettile sparato da uno dei francesi l'aveva colpita a un'ala. Steve la curò come meglio poté e Livienne la prese in braccio, per portarla al villaggio.
“La gente del villaggio la curerà: lo fanno spesso”, la rassicurò Jarem.
“Non ci hai ancora detto cosa ci facevi tu, qui, questa notte”, sbottò Dennis, rivolgendosi alla sorella.
“Mi sono fatta accompagnare qui la notte scorsa dalla mia guida. Ma gli uomini della spedizione non c'erano. Evidentemente erano fuori a cacciare gli animali. Siamo rimasti qui a vedere cosa succedeva fino a questa notte”.
“Sei pazza, Livi”, commentò Steve, circondandole la vita con un braccio. Sapeva che quel gesto avrebbe indispettito sia Cris, sia Dennis, e lo fece di proposito.
“Avrebbe potuto succederti di tutto”, continuò.
“Invece, siete arrivati voi, puntuali come orologi svizzeri”, rise lei.
“Facciamo un patto, Livi: la prossima volta che decidi di partire per qualche strana avventura, assicurati che io faccia parte del tuo "nécessaire" da viaggio, okay?”, scherzò Steve, ammiccandole dolcemente. Livienne arrossì, ridendo, ma non poté fare a meno di chiedersi perché Steve si comportasse in quel modo: fino a qualche giorno prima non era certa che lui gradisse granché la sua presenza, e ora, invece, sembrava persino flirtare con lei.
Raggiunsero il villaggio quando il sole era ormai alto nel cielo. Steve mandò Jarem a chiamare la polizia di Ticul, che giunse di lì a poco con un elicottero. Jarem consegnò loro i cinque selvaggi responsabili degli omicidi e i francesi, colpevoli di aver cacciato di frodo e rivenduto gli animali in paesi stranieri. Livienne, intanto, portò l'uccello ferito da un anziano del villaggio, che promise di curarlo. Stavano per tornare all'aeroporto insieme ai poliziotti, quando una donna li raggiunse con un neonato in braccio, chiedendo loro di portare il bimbo all'ospedale di Ticul.
Jarem gli disse che Steve era un dottore e lei accettò di fargli vedere il piccolo: il bambino era ferito a un braccio. Sembrava lo striscio di una pallottola. Come poteva un bimbo così piccolo essere stato raggiunto da un proiettile?
“Quando è successo?”, chiese Steve.
“Questa notte. La donna dice che non sa come sia capitato. Il piccolo dormiva nella sua culla, quando improvvisamente si è messo a piangere, circa tre ore fa. La madre lo ha fasciato, ma teme che possa morire”, Jarem tradusse per Steve quello che la madre del bambino andava dicendo.
Steve visitò il bambino, lo disinfettò e lo fasciò più stretto. Per fortuna non c'era nulla di rotto.
“Ha fatto una buona fasciatura”, disse alla donna.
“Ha impedito che il bambino perdesse troppo sangue. Non c'è bisogno di portarlo all'ospedale: penso che guarirà molto presto”, disse Steve, rimettendo il piccolo fra le braccia della madre dopo avergli praticato un'iniezione di antibiotico, a scopo preventivo.
“Domattina manderò un dottore a vedere come sta”, disse Jarem.
La donna ringraziò Steve facendogli un grande inchino, poi si diresse verso la propria capanna.  Era la stessa dove, la sera prima, il padre del bambino aveva sparso la sabbia. Incuriosito, Steve si avvicinò alla capanna e controllò la sabbia: c'erano impresse delle impronte di un grosso uccello.
“Jarem, puoi chiedere alla donna qual è lo spirito guida di quel bambino?”, chiese Steve.
“Certo”. Jarem entrò nella capanna e glielo chiese.
“Il suo spirito guida è un'ara. Ha lasciato le impronte questa notte”. Steve e Livienne si guardarono, esterrefatti, poi lui si rivolse al capo della polizia:
“Dia retta a me: se vuole evitare altri guai, controlli che agli animali della giungla non venga fatto alcun male, in futuro”.
Ben presto, Steve, Livienne, Dennis e Cris erano sull'aereo che li avrebbe riportati a Filadelfia. Livienne era seduta accanto a Steve e teneva il suo portatile acceso sulle ginocchia.
“Che fai?”, le chiese.
“Ho cambiato la mia password”.
“Vediamo se la indovino?”.
“Coraggio, prova”, lo incitò lei.
“Prima devi indovinare la mia”.
“Non è così difficile! Te l'ho vista inserire un sacco di volte!”, rise lei.
“Sai, Livi: credo che avrò una bella gatta da pelare, una volta giunto a Filadelfia”, annunciò Steve, controllando la lista di conti che aveva in mano, dopo aver pagato i biglietti aerei e il noleggio dell'elicottero, della jeep, dell'attrezzatura e della guida.
“Cioè?”
“Lascia che presenti questi a Donald, e dovrai scrivere un altro articolo: agente dell'FBI strangolato dal suo capo. Motivazione: aveva speso troppo”.
Livienne si mise a ridere, poi guardò fuori dal finestrino: stavano arrivando all'aeroporto di Filadelfia. La città scorreva viva sotto di loro. La voce della hostess annunciò di prepararsi all'atterraggio.
“Mi dispiace di averti dato tanti guai”, esordì lei.
“Ne è valsa la pena”. Steve le sorrise e lei ricambiò.
“Alla prossima, Steve”.
“Alla prossima”, confermò lui, che ormai si stava abituando alla presenza costante di Livienne, durante le sue indagini.
 

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Capitolo 7
*** capitolo sette: IL KILLER ***


Filadelfia, Mercoledì 31 maggio 2000
 
Una brutta sorpresa aspettava Steve al suo rientro: Donald lo volle vedere subito nel suo ufficio.
“Se è per quella lista di conti da pagare, le posso dire che mi dispiace, ma ne andava della vita di una mia amica”, si scusò Steve quando si trovò al suo cospetto.
“Lascia perdere: ho altro di cui preoccuparmi, ora. Uno dei nostri migliori agenti è stato ucciso”, tagliò corto Donald, con tono greve.
“Di chi si tratta?”, chiese Steve e, dallo sguardo di Donal, capì che la notizia lo avrebbe sconvolto.
Donald tentennò un istante: sapeva che Steve e Louis erano amici da parecchi anni. Trasse un profondo sospiro, poi snocciolò tutto d'un fiato:
“Mi dispiace, Steve. Si tratta di Louis Carter”.
Steve lo guardava, come se non avesse capito.
“Non è possibile! Non può essere morto! Non il mio migliore amico!”
“Lo so: è incredibile. Tutti noi gli volevamo molto bene…”.
“Dovevamo andare insieme a una festa… mi aveva telefonato per ricordarmelo…”, sussurro Steve, con la voce provata dall'emozione. Rimase in silenzio per qualche secondo, sbigottito, cercando di interiorizzare la notizia.
“Com'è successo?”, chiese, ritrovando il coraggio e la lucidità necessari per affrontare la situazione.
“Qualcuno gli ha spezzato il collo, nel suo appartamento. Nessun segno di effrazione. Sembra che abbia fatto entrare in casa l'assassino”.
“Chi segue il caso?”
“Bellins, come sempre”.
“Voglio affiancarlo. Lo so che non è un caso dei miei, ma voglio scoprire chi è stato”.
“Lascia perdere, Steve: sei troppo coinvolto in questa faccenda. Non potresti seguire il caso a mente serena”.
“È importante, per me!”, insistette Steve.
“Ne parlerò con Bellins, ma non ti assicuro niente”.
“Ora dove si trova Louis?”
“È ancora nel suo appartamento. Lo hanno trovato i vicini stamattina”.
“È avvenuto stanotte l'omicidio?”
“No. È morto da alcuni giorni”.
“Devo vederlo!”
“Steve, non andare là”.
“Sì, invece”. Steve uscì dalla stanza e lasciò Donald seduto a fissare nel vuoto, masticando caramelle alla menta.
Subito dopo, il telefono di Donald squillò e lui rispose.
“Donald? Sono Senfter. Tenga lontano Rowling da questo caso, ha capito?”, gli ordinò.
“Che fa, mi tiene sotto controllo, adesso?”, sibilò Donald, inviperito.
“È da un pezzo che la tengo sotto controllo, Donald. Tenga fuori Steve: non voglio guai”.
“Mi stia a sentire!”, urlò Donald. “Uno dei miei migliori agenti è stato assassinato e io voglio vederci chiaro, in questa faccenda! E se vederci chiaro vuol dire dare l'incarico a Steve Rowling, è esattamente quello che farò, che lei lo voglia o meno!”
“Faccia quello che vuole!”
Senfter gli gettò il telefono in faccia, poi telefonò a uno dei suoi agenti più fidati:
“Greys, Donald vuole vederci chiaro… Fate in modo che ci riesca”.
“In che modo?”
“Se Rowling lavora al caso, arriverà certamente a Tania Drayfus. Se non ci arriva da solo, dovremo farcelo arrivare noi. Sono stato chiaro?”
“Certo”.
“Ora mandatemi Tania: devo parlarle”.
“D'accordo”. Greys attaccò la comunicazione e si affrettò a rintracciare Tania.
Steve, intanto, aveva preso la sua macchina e aveva raggiunto l'appartamento dell'amico. Qui, trovò Atos Bellins intento a cacciare via uno stuolo di giornalisti, tra i quali riconobbe subito Cris, del City Magazine. Mostrò il tesserino alle guardie, che lo lasciarono passare. Bellins tornò nell'appartamento con lui.
“Che diavolo ci fai, qui, Steve? Non è meglio che aspetti fuori?”, disse, rivolto all'amico.
“Voglio vederlo”.
“Dai retta a me: lascia perdere”. Steve non lo ascoltò e alzò il lenzuolo che copriva il corpo, ormai in stato di decomposizione. Nonostante fosse abituato a vedere persone ridotte in quello stato, dovette farsi forza, per non cedere all'emozione.
“Secondo te quando è morto?”, chiese Bellins.
“Sono almeno quattro o cinque giorni…”, rispose Steve. Notò che il collo era stato spezzato con un colpo netto.
“Avete trovato l'arma del delitto?”, s'informò.
“No”.
“C'è da presumere che gli sia stato inferto un colpo con le mani?”
“Questo lo stabilirà l'autopsia”.
“Chi la farà?”
“Non tu, Steve. Non te la lascio fare”.
“Non ne avrei il coraggio, Atos”.
Steve ricoprì la salma.
“Ci sono altri indizi?”
“La scientifica non ha ancora finito, ma sembra che non ci sia proprio nulla: nessuna impronta digitale, nessun altro segno”.
“Avete controllato il suo computer?”
“Non ancora: dovremo portarlo al centro specializzato e forzare la sua password. Ma non credo che troveremo qualcosa: non stava lavorando ad alcun caso in particolare. Era in ferie da due settimane”.
“Forse aveva appuntamento con qualcuno. Avete già la lista delle telefonate fatte nelle ultime settimane?”
“L'ho richiesta, ma non è ancora arrivata. Ora calmati, Steve. Sto seguendo il caso e ti prometto che farò del mio meglio per risolverlo. Anch'io volevo molto bene a Louis!”
Steve annuì, avviandosi verso la porta.
“Quando arriveranno i primi risultati, fammi sapere qualcosa”, disse, prima di uscire.
“D'accordo”.
Fuori dallo stabile i giornalisti lo attorniarono, bloccandolo. Steve reagì spingendoli violentemente da parte: non aveva per niente voglia di parlare con loro.
Tornò al suo appartamento: l'orario di lavoro era ormai terminato. Si sedette in poltrona e rimase lì, a fissare nel vuoto. Non aveva fame e non aveva voglia di fare niente. Lasciò spaziare la mente, ricordando i momenti felici passati con il suo grande amico. Un senso di rabbia e di impotenza s'impossessò di lui. "Perché?", si chiese. Louis era un bravo ragazzo, che tutti adoravano. Chi poteva avergli fatto questo? Forse un innamorato geloso, data la sua inclinazione a uscire con tutte le ragazze che gli capitavano a tiro… oppure un ex ergastolano che lui aveva contribuito a sbattere in cella, ma se così fosse stato, Steve non riusciva a capire perché Louis avesse fatto entrare il suo assassino. Sebbene fosse di indole piuttosto pacifica, non era uno sprovveduto e non apriva la porta al primo venuto con facilità.
Lo squillo del telefono lo distolse dai suoi pensieri. Pensando si trattasse di Bellins andò a rispondere.
“Ciao Steve. Sono Livienne. Che è successo?”
“Ciao, Livi”, si limitò a rispondere lui.
“Cris mi ha riferito di averti visto, a casa di quell'agente ucciso. Ha detto che eri sconvolto!”
“Era un mio grande amico, Livi”.
“Mi dispiace. Sai già com'è successo? Non te lo chiedo per il giornale, puoi stare tranquillo: non dirò nulla a nessuno”.
“Non c'è nulla da dire: non so ancora niente”.
“Vuoi che venga lì, Steve?”
“Per fare che?”, chiese, sorpreso.
“Beh, mi sembra che tu abbia bisogno di compagnia, in questo momento”. Il suo tono era straordinariamente dolce e Steve sentì un brivido lungo la schiena.
“Ti ringrazio, Livi, ma non sono un bello spettacolo, oggi”.
“D'accordo, ma se ti serve qualcosa chiamami, okay?”
Steve, in cuor suo, ringraziò Livienne per quella telefonata. Era bello sapere che qualcuno si preoccupava per lui. E lei era così dolce…
“Grazie. Ora devo salutarti, Livi, perché suonano alla porta”.
Riattaccò, andò ad aprire e si trovò di fronte Bellins.
“Scoperto qualcosa?”, chiese ansiosamente.
“Non molto, per la verità: dalle ricerche che abbiamo fatto è risultato che la morte risale a venerdì sera e l'autopsia ha rivelato che il colpo mortale è stato probabilmente inferto a mani nude”.
“Un colpo di karate, quindi?”
“Può darsi. L'assassino doveva essere una persona piuttosto forte, e anche molto alta. Ma veniamo a noi: sono qui per chiederti di aiutarmi nel caso, se te la senti! Donald mi ha chiesto di coinvolgerti nell'indagine, ma naturalmente dipende da te…”.
“Grazie Atos: non vedo l'ora di mettere le mani su questo assassino”.
“Già, anche io… e da un bel pezzo”.
“Che vuoi dire?”
Atos gettò sul tavolo un paio di fascicoli. Steve li sfogliò: riguardavano altri due omicidi, avvenuti rispettivamente una settimana e dieci giorni prima.
“Rody O'Donnor? Il famoso statista? Ma non era morto d'infarto?”, chiese Steve, osservando una delle cartelle. L’altra era di un certo Claus Ferdinander.
“Così abbiamo dovuto dire alla stampa: Senfter non voleva creare inutili allarmismi. In realtà è stata la prima vittima di quello che sembra essere un serial Killer. Il modus operandi è sempre lo stesso: l'assassino si introduce in casa della vittima senza forzare la serratura, uccide il malcapitato e se ne va senza lasciare traccia alcuna”.
“Niente impronte digitali?”
“Nemmeno l'ombra. Probabilmente l'assassino porta dei guanti”.
“Strano! Guanti in questa stagione…”.
“Non molto strano per un assassino”.
“Sì, ma devi pensare che con tutta probabilità Louis gli ha aperto la porta! Non credi che si sarebbe insospettito vedendogli dei guanti addosso?”
“Forse non ci ha fatto caso”.
“Avete controllato le sue telefonate?”
“Sì. Ecco tutta la lista. La puoi tenere: io ne ho un'altra copia”.
“Bene. C'è altro da sapere?”
“Abbiamo controllato il computer. Dal laboratorio dicono che non risulta nulla di strano. Erano giorni che non lo accendeva neppure”.
“Come mai è stato trovato solo dopo quattro giorni? Possibile che nessuno si sia accorto prima della sua assenza?”
“Gli altri inquilini dello stabile pensavano fosse andato in ferie: aveva detto che sarebbe partito proprio il giorno dopo, in treno”.
“Avete già interrogato i vicini di casa?”
“C'è ben poco da interrogare: l'appartamento vicino al suo è sfitto. Le due famiglie al primo piano non hanno sentito nulla e una delle due famiglie al secondo piano era fuori a cena la sera dell'omicidio. Solo l'altra signora, che vive da sola sempre al secondo piano, ha sentito qualcosa, ma stamane era troppo scossa per riuscire a rispondere lucidamente. Vuoi venire a interrogarla con me?”
“Sì, volentieri”.
Si recarono a casa della signora Johnson, che abitava proprio sotto l'appartamento di Louis.
“Buonasera, signora. Ci scusi se la disturbiamo proprio all'ora di cena”, disse Bellins, stringendole la mano.
“Non importa. Non ho per niente voglia di mangiare. Quel caro ragazzo! Mi aiutava sempre a portare su le spese, quando mi incontrava sulle scale. E mi imbucava la posta. Era davvero molto servizievole e gentile con tutti!”, disse, scoppiando ancora una volta in lacrime.
“Signora, noi abbiamo bisogno della sua testimonianza, per riuscire a scoprire chi ha fatto questo”, la incoraggiò Steve.
Lei annuì, soffiandosi il naso.
“Tutto quello che posso dirvi è che quel pomeriggio il signor Carter è rimasto nel suo appartamento fino alle sette, poi è uscito ed è rientrato solamente verso le dieci. Lo so, perché quando è uscito l'ho incontrato sulle scale e mi ha salutata. Era vestito molto bene e ricordo che ho pensato che probabilmente avesse un appuntamento: usciva sempre con delle bellissime ragazze. Poi l'ho sentito rientrare e c'era qualcuno con lui”.
“È sicura?”, chiese Steve.
“Sì. Stamattina non lo ricordavo, ma poi, ripensandoci, mi è venuto in mente che l'ho sentito ridere e scherzare con qualcuno. Ha aperto la porta e sono entrati. Non so altro”.
“Non ha sentito altri rumori? Non sa quando è uscita la persona che era con lui?”
“No: erano già le dieci, come ho detto. Sono andata a letto e mi sono addormentata”.
“Mi saprebbe dire se la persona che era con lui fosse un uomo o una donna?”, chiese ancora Steve.
“No, purtroppo no”.
Dopo che l'ebbero lasciata, quando furono in macchina, Atos chiese a Steve il perché di quell'ultima domanda.
“È semplice. Prova a pensarci bene, Atos: un dongiovanni come lui, che quasi tutte le sere ha una ragazza diversa, esce ben vestito alle sette di sera, ora in cui di solito si va a cena fuori… secondo te, con chi si trovava? Con un uomo, forse? Per non parlare del "dopo" cena! Credi che, dopo una seratina romantica, avrebbe portato un uomo nel suo appartamento?”
“Beh, non conosco i gusti di Louis, ma non credo fosse un omosessuale”.
“Non lo era. Te lo posso garantire. Sono quasi certo che quella sera sia stato fuori con una donna, e che se la sia portata in casa”.
“Quindi pensi che l'assassino sia una donna?”
“Può darsi”.
“Sono poche le serial killer donna”.
“Sono poche, ma ce ne sono comunque state. E poi, al giorno d'oggi, non ci si può più stupire di niente”.
“Ma dovrebbe essere una donna forzuta, per rifilare un colpo come quello!”
“Oppure una donna che conosce bene il karate”. Steve prese il tabulato delle telefonate di Atos e le controllò:
“Ecco qui, guarda. Louis ha telefonato al mio ufficio proprio il giorno 26, cioè venerdì. Andiamo alla sede dell'FBI. Devo farti sentire una cosa”.
Mentre raggiungevano il suo ufficio, Steve diede ancora un'occhiata allo stampato con le telefonate fatte da Louis.
“Strano. Hai detto che non stava lavorando a niente di importante e che erano giorni che non usava il computer, ma da quello che posso vedere si è collegato spesso a Internet”.
“Avrà dato un'occhiata a qualche sito hard, oppure avrà chattato con qualche ragazza”.
“Può darsi”.
Una volta giunti nel suo ufficio, Steve fece ritornare indietro il nastro della segreteria e fece ascoltare ad Atos il messaggio registrato da Louis, il giorno della sua morte:
“Ciao, Steve, sono Louis. Volevo ricordarti che venerdì due giugno si terrà la festa di addio al celibato di Links. Spero che vorrai accompagnarmi. La serata si preannuncia molto interessante: so che ha invitato certe ballerine… A proposito di donne… stamattina, in un bar, ne ho conosciuta una sensazionale: ha due tette da spavento e stasera è libera. Non chiamarmi dopo le sette: sarò molto impegnato”.
“Quindi, Louis ha conosciuto una donna in un bar, la mattina del giorno che è stato assassinato. E quella sera aveva un appuntamento con lei”, ricapitolò Steve. Prese il telefono e chiamò un collega:
“Prische, devi scoprire dov'è andato a cena Carter la sera del ventisei giugno. Controlla la sua carta di credito e i ristoranti dove è solito andare: vedi se c'era qualche tavolo prenotato a suo nome. Se non trovi nulla, telefona a tutti i ristoranti della città e dintorni. Non può essere andato molto lontano, comunque: alle dieci era già a casa”.
“Ora dobbiamo scoprire in che bar si è recato quel mattino: forse la donna è una cliente abituale”, disse ad Atos, una volta che ebbe riattaccato.
“Sappiamo che quel mattino si è recato dal suo commercialista, per ritirare alcuni moduli che doveva compilare”.
“A che ora c'è andato e con che cosa?”
“Non è andato in macchina. Probabilmente ha preso l'autobus”.
“Louis era un tipo molto amante dell'ambiente: non ha certo gettato i biglietti dell'autobus per la strada. Li avete trovati in casa sua?”
“No, che io sappia”.
“Vieni con me”.
Ritornarono all'appartamento di Louis, dove Steve si mise a cercare nel cestino dei rifiuti.
“Siamo fortunati: eccoli qua”, esclamò Steve.
“Strano! Avrei giurato che stamattina non c'erano…”, disse confuso Atos. Aveva frugato nel cestino di persona, ma non li aveva trovati.
“Evidentemente stavo ancora dormendo…”, ammise.
“Louis ha preso l'autobus sei, alle nove e quarantacinque, si è recato dal commercialista ed è tornato a casa con l'autobus dodici, partendo alle dieci e quarantasette. Domattina rifaremo insieme il percorso fatto da Louis, così potremo magari scoprire in quale bar si è fermato”.
Si salutarono, per ritrovarsi la mattina dopo, alla fermata dell'autobus accanto alla casa di Louis. Salirono sul mezzo pubblico alle nove e quarantacinque. Alle dieci precise erano in centro. Scesero e coprirono a piedi il tragitto che li divideva dall'ufficio del commercialista. Alle dieci e dieci erano a destinazione. Entrarono e si rivolsero all'impiegata seduta alla scrivania.
“Buongiorno. Siamo dell'FBI e stiamo indagando sull'omicidio di uno dei vostri clienti”.
“Il signor Carter? Ci è dispiaciuto moltissimo, quando lo abbiamo sentito alla televisione. Se posso esservi utile…”.
“La mattina del giorno dell'omicidio, Louis è stato qui. Potrebbe dirmi per quanto tempo è rimasto in quest'ufficio?”
“Circa dieci minuti, non di più”.
“Le ha detto per caso dov'era diretto, dopo?”
“No, mi dispiace”.
Steve e Atos ritornarono in strada, dove ripresero a camminare.
“La fermata del dodici è più avanti, proseguendo per questa strada. Probabilmente Louis è entrato in uno dei bar su questa via”.
Iniziarono a percorrere la strada, diretti alla fermata del dodici. Entrarono nel primo bar che trovarono e mostrarono la foto di Louis al barista.
“Sa per caso dirmi se quest'uomo è stato qui, venerdì scorso?”
“No, mi dispiace. Va e viene tanta gente, ma non mi pare di averlo mai visto”.
“La ringrazio. Arrivederci”, disse Steve. Proseguirono fino a giungere davanti al secondo bar, che era un ritrovo per i motociclisti.
“Conoscendo Louis, è questo il bar dov'è stato: adorava le moto!”, disse ad Atos, entrando. Si rivolse al barista, mostrandogli la fotografia:
“Quest'uomo potrebbe essere stato qui, venerdì mattina. Se lo ricorda, per caso?”
“È un nostro cliente abituale, viene spesso qui, specialmente il mattino. Purtroppo non so dirvi se venerdì è passato: io non ero qui, c'era Tania al mio posto!”
“Chi è Tania?”
“Una delle ragazze che lavorano per me. Di solito vengono ad aiutarmi solo alla sera, quando c'è più gente, ma quel mattino ho ricevuto una convocazione urgente, da parte del mio avvocato… sa, mia moglie e io ci stiamo separando… per fortuna Tania è passata di qui e si è offerta di sostituirmi. È stata talmente gentile che le ho dato la serata libera. Riguardo al suo amico, può rivolgersi direttamente a lei per chiederle se l'ha visto: abita in fondo alla via, al numero quindici. Di cognome fa Dreyfus”.
“La ringrazio molto”. Steve e Atos si sedettero a un tavolo e ordinarono qualcosa da bere.
In quel momento entrarono nel locale due motociclisti, vestiti completamente di pelle. Steve notò che portavano anche dei guanti.
“Ci sono!”, esclamò.
“Che vuoi dire?”
“Che questo è il posto giusto dove cercare l'assassino. Ragiona, Atos: ci sono solo due bar su questa strada e Louis è un grande appassionato di moto, inoltre, è un cliente abituale di questo locale, per cui è sicuramente venuto qui a bersi un caffè. Qui ha conosciuto una ragazza, una motociclista, che se ne va in giro vestita come quei due che abbiamo visto prima. Indossa quindi un paio di guanti di pelle. Quella sera escono insieme, forse utilizzando proprio la moto della vittima. La parcheggiano poco distante dall'appartamento, che raggiungono a piedi. Lei indossa ancora i guanti. Lui la fa entrare e lei lo uccide, a sangue freddo. Poi se ne va via tranquillamente”.
“Potrebbe essere… ma l’alibi? A che scopo ucciderlo?”, domandò Atos, forse parlando più a se stesso.
“A un serial killer non serve un alibi”.
Steve telefonò all'FBI e si fece cercare il numero della famiglia che abitava al secondo piano dello stabile di Louis. Poi chiamò.
“Pronto?”, rispose una voce di donna.
“Signora Dumbell, sono Steve Rowling, dell'FBI: avrei bisogno di un'informazione circa il caso Carter”.
“Come ho già detto al suo collega non ero in casa quella sera: eravamo tutti a cena fuori”.
“Lo so. Per questo mi serve il suo aiuto: so che avete un garage sotto il vostro stabile e so anche che ci vengono parcheggiate tutte le autovetture dei residenti. Ha per caso notato se la macchina del signor Carter era ancora in garage quando voi siete partiti?”
“Sì. Ora che ci penso era in garage. Ne sono sicura”. Steve la ringraziò, poi si rivolse ad Atos:
“Louis è uscito alle sette. I signori Dumbell, invece, sono usciti alle otto meno un quarto e la macchina di Louis era ancora nel garage. Questo significa che abbiamo fatto centro: se non è uscito in macchina, avrà raggiunto il luogo dell’appuntamento a piedi e poi sarà salito con la ragazza in moto. Dobbiamo solo trovarla. Scommetto che è lei, l'assassina”.
Telefonò al suo amico Prische.
“Scoperto niente, Luke?”
“No. Louis non ha usato la sua carta di credito e non ha fatto alcuna prenotazione. Non so dirti dove sia andato a cena”.
“Non importa. Forse non è difficile scoprirlo”. Steve si rivolse al barista:
“Se un appassionato di moto volesse andare a cena in un ristorantino dove si possa sentire a suo agio, tra altri motociclisti, dove dovrebbe andare?”
“Al Motor Club, ovviamente. Non è molto ben frequentato ma è sicuramente il locale più amato dai motociclisti della zona”.
“Lei mi è stato di grande aiuto”, disse Steve, lasciandogli qualcosa di mancia e uscendo. Raggiunsero il Motor Club, ad alcuni isolati di distanza. Il locale era parecchio frequentato, anche al mattino. Non era proprio un ristorante, piuttosto una birreria ben fornita di panini e stuzzichini vari, che rimaneva aperta fino a tarda notte. Steve si rivolse a una delle ragazze che servivano ai tavoli.
“Ha per caso visto quest'uomo, recentemente?”, chiese, mostrando la foto di Louis.
Lei lo guardò bene, poi rispose:
“Sì, mi pare di sì. È stato qui qualche sera fa, con una ragazza”.
“Ne è sicura?”
“Sì. Lo ricordo perché mi ha dato una grossa mancia. È stato molto generoso”.
“Saprebbe descrivermi la ragazza che era con lui?”
“Perché lo vuole sapere?”
“Siamo dell'FBI e stiamo indagando sull'omicidio di quest'uomo. La ragazza che era con lui potrebbe sapere qualcosa, o addirittura essere la sua assassina”.
La cameriera trasalì, spaventata.
“Io non credo: quella ragazza è una cliente abituale del nostro bar… l'ho già vista altre volte”.
“Con altri uomini?”
“No. Viene sempre da sola. Ricordo che mi è sembrato strano vederla con un uomo…”.
“Ce la può descrivere, per favore?”
“È alta e bionda, capelli corti. È magra, ma piuttosto nerboruta, come se facesse qualche sport. Avrà circa vent'anni, suppongo. È carina e… anche ben fornita, non so se mi spiego”, aggiunse.
“Si è spiegata benissimo. Ricorda qualcos'altro?”
“No, mi dispiace. Non so neppure come si chiama”.
“Non importa. Abbiamo dati a sufficienza per avviare le ricerche. Potrebbe presentarsi alla polizia domattina, per un identikit della ragazza?”
“D’accordo”, balbettò “chiederò la mattina libera al mio capo”.
“Benissimo. Andiamo, Atos: voglio interrogare anche la ragazza che lavora al bar. Forse ci saprà dire qualcosa di più”, disse Steve, uscendo.
“Aspetta, Steve. Non possiamo certo incolpare una donna solo perché è uscita a cena con un uomo! Anche se riuscissimo a trovarla, non abbiamo prove per incastrarla. Inoltre, non possiamo certo collegarla anche agli altri omicidi”, obiettò Atos.
“No, ma dimentichi che è un serial killer: non può fare a meno di uccidere. Non appena le capiterà l'occasione colpirà di nuovo. Forse potremmo crearla noi, quest'occasione. Ora interroghiamo la ragazza che lavora al bar. Forse potrà dirci chi è la nostra indiziata”.
Steve suonò alla porta diverse volte, ma Tania non venne ad aprire.
“Evidentemente non è in casa”.
Improvvisamente, il rombo di una moto che parcheggiava lì accanto li fece voltare. Ne scese una ragazza, vestita di pelle, con guanti neri. Si tolse il casco e li squadrò, con aria truce:
“Che ci fate davanti a casa mia? Cercate rogna?”, chiese.
“No. Stiamo cercando Tania Drayfus”, rispose tranquillamente Steve.
“Allora l'avete trovata”.
Steve notò che era bionda, con i capelli corti ed era piuttosto alta: somigliava molto alla descrizione fornita dalla ragazza del Motor Club.
“Lei lavora al bar in fondo alla strada, non è vero?”
“Sì, perché?”
“Riconosce quest'uomo?”, disse, mostrando la foto di Louis.
“No. Mai visto prima”.
“È venuto nel vostro bar, venerdì mattina”.
“Non ne so nulla, mi dispiace. Io lavoro di sera”.
“Ma venerdì mattina era al lavoro. E deve averlo visto per forza”, insistette Atos.
“Non lo ricordo, mi dispiace”.
Detto ciò, entrò nel suo appartamento. Atos voleva fermarla, ma Steve lo trattenne.
“Lasciala andare: ho l'impressione che sia lei, la nostra indiziata”.
“Appunto! Non dovremmo farcela scappare”.
“Non voglio insospettirla. Intanto, cerchiamo di sapere qualcosa di più su di lei”. Steve telefonò a un collega, incaricandolo di pedinare Tania come fosse la sua ombra, poi lui e Atos si recarono nell'ufficio di Steve, dove cercarono notizie su Tania Drayfus.
“Senti senti!”, esclamò Steve, leggendo il curriculum della ragazza. “Tania cresce vittima delle violenze del padre, fugge di casa all'età di sedici anni, rifugiandosi dal fidanzato che le promette una vita migliore e invece la immette nel giro della prostituzione. Lei cerca di fuggire e viene ridotta in fin di vita da quello che continua a definire il suo fidanzato. Ce n'è d'avanzo per creare un serial killer! Ma non è finita qui: ricoverata al Pennsylvania Hospital, viene dimessa dopo tre mesi, ma ritorna a prostituirsi. Un anno fa finisce in galera durante una retata della polizia, e viene affidata al progetto di riabilitazione per ex detenute gentilmente sponsorizzato dal signor O'Donnor”.
“Quell'O'Donnor?”
“Proprio lui! Il programma della sua campagna pubblicitaria che precedeva le votazioni conteneva questo progetto, svolto in collaborazione con assistenti sociali e professori che insegnavano alle ex detenute dei lavori o addirittura le aiutavano a conseguire alcuni diplomi”.
“Accidenti! Abbiamo trovato un collegamento con il primo omicidio!”, esclamò Atos.
“Già. Tania viene istruita e reinserita nella società. Guarda caso, durante il progetto segue anche un corso di Karate. Una volta finito il corso, il signor O'Donnor in persona si preoccupa di trovarle un posto di lavoro, al Milady bar. Da allora, Tania lavora lì. Nella scheda viene definita una donna perfettamente reinserita, dedita al lavoro e volonterosa”.
“Già. Durante il giorno! Poi, la sera, si trasforma in Mister Hyde!”, esclamò Atos.
“Dobbiamo tenderle una trappola: conosci qualcuno che s'intende di arti marziali?”, chiese Steve.
“L'agente Matlok. È cintura nera di karate”.
“Perfetto. Basterà che vada a fare un giro in quel bar e si faccia amica la "signora"”.
Così, la trappola fu tesa: l'agente Bryan Matlok si recò quella sera stessa al Milady bar e chiacchierò a lungo con Tania. Dopo la mezzanotte, quando la ragazza smise di lavorare, le chiese di uscire insieme a lui.
La ragazza accettò. Ben presto raggiunsero l'appartamento di Matlok, o, perlomeno, quello che lui definì il suo appartamento. In realtà, era un bilocale che l'FBI utilizzava per casi come questo. Una volta entrati nella stanza, lui si voltò e diede le spalle alla ragazza, che non esitò a sferzare il suo mortale colpo. Naturalmente Bryan aveva previsto tutto e si voltò di scatto, bloccando il braccio della ragazza e immobilizzandola.
Dalla stanza accanto uscirono Atos e Steve, che stavano seguendo la scena tramite una minuscola videocamera nascosta nella stanza. Ammanettarono la ragazza e la portarono in prigione. La mattina seguente, la cameriera del Motor Club riconobbe Tania in un confronto diretto. Alla fine di un estenuante interrogatorio, Tania confessò i tre omicidi e il movente che l'aveva portata a uccidere il primo uomo.
“Avevo deciso di cambiare vita. Avevo trovato persone che mi avevano aiutata, che mi avevano fatto sperare in un'esistenza migliore, senza più prostituzione, senza più padroni che mi ordinassero cosa fare e con chi andare… invece, dopo soli tre mesi di tranquillità, O'Donnor mise fine a tutti i miei sogni: mi invitò a casa sua, dicendo che voleva conoscermi meglio. Io rifiutai di andarci, perché quell'uomo non mi piaceva. Lui mi disse che mi avrebbe fatto licenziare, se non fossi andata a casa sua. Ci andai ma, come avevo sospettato, lui voleva solo il mio corpo, voleva costringermi ad andare a letto con lui. Avevo giurato a me stessa di non fare mai più quella vita e ho mantenuto il giuramento. Gli sferrai un colpo di karate. Non volevo ucciderlo, solo fargli capire che non poteva avermi. Ma poi mi resi conto che era morto. E provai un senso di libertà, di felicità estrema: avevo trovato il modo di liberarmi dei miei aggressori. Da allora non sono più riuscita a fermarmi: ho ucciso altre due volte, e l'avrei fatto ancora, se non mi aveste fermata”.
L'agghiacciante confessione della ragazza non servì comunque a colmare la sete di giustizia di Steve: lasciò la stanza sconvolto, con lo stomaco ancora sottosopra, per niente convinto che la verità fosse venuta a galla.
La sera seguente, seduto sulla sua poltrona preferita, davanti alla televisione spenta, in compagnia del suo amico Atos che sorbiva tranquillamente un whisky, Steve si trovò a riflettere ancora su quel caso: troppe cose erano rimaste irrisolte e qualcosa non quadrava.
“Sai Atos, ho come l'impressione che le cose si siano svolte come se avessero seguito un corso già prestabilito; come se qualcuno avesse fatto in modo che andassero così”.
“Che vuoi dire?”
“Pensa a tutte le coincidenze che sono accadute: Louis frequenta il bar solo al mattino, Tania solo alla sera. Ma quel giorno, proprio quel mattino, il barista deve assentarsi improvvisamente. Guarda caso, Tania passa di lì e si offre di prendere il suo posto. In questo modo incontra Louis. Per un altro caso strano, ha anche la serata libera, così decidono di uscire insieme. Non ti sembra un piano ben costruito?”
“Costruito da chi? Andiamo, Steve! Non essere paranoico. Abbiamo trovato l'assassino, accontentati. Alle volte le coincidenze capitano!”
“E i biglietti dell'autobus, allora? Quelli che tu non avevi trovato? Pensa se qualcuno si fosse preso la briga di metterli lì apposta!”
“Ma perché dopo? Perché non metterli lì subito, una volta commesso l'omicidio?”
“Non lo so. Ma non è l'unica cosa strana: ho letto il fascicolo riguardante il secondo omicidio, quello di Claus Ferdinander: lui non ha mai frequentato quel bar e apparentemente non ha mai avuto a che fare con Tania. E poi ci sono le telefonate a Internet che ha fatto Louis: cosa stava cercando? Perché alla scientifica ci hanno detto che non usava il computer da giorni?”
“Purtroppo, tutte queste domande sono destinate a restare senza risposta: Louis non potrà più illuminarci in merito, ormai, e neppure Tania”.
“Già. Ancora mi chiedo come abbia potuto entrare in possesso di un'overdose di cocaina in un carcere di massima sicurezza!”
“Che vuoi, Steve: nelle nostre carceri gira di tutto…”.
“Già… ma non ti pare strano che abbia improvvisamente deciso di togliersi la vita, prima ancora di poter rispondere a tutte le domande su questo caso?”
“Tu credi che l'abbiano fatta fuori?”
“Non lo escludo”.
Atos sorseggiò il suo whisky, poi fissò l'amico, perplesso. Infine commentò:
“A ogni modo, prima di morire, Tania ha confessato e il caso è ormai definitivamente chiuso”.
“Non per me, Atos. Non per me”.

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Capitolo 8
*** capitolo otto: Orchidea assassina ***


Filadelfia, Venerdì 9 giugno 2000
 
Quel venerdì mattina, neanche fosse un venerdì tredici, era destinato a iniziare in modo piuttosto burrascoso. Passata l'euforia per aver finalmente messo le mani su una banda di trafficanti di droga che da mesi gli stava dando del filo da torcere, Donald era ora alle prese con un nuovo caso che non lo lasciava dormire: la settimana precedente una giovane casalinga era morta, intossicata da una sostanza velenosa di origine ignota e, quel mattino, era giunta notizia che altre quattro persone, tre donne e un bambino, erano rimasti vittime della stessa intossicazione ed erano ricoverati al Pennsylvania Hospital in gravissime condizioni.
Dopo aver esposto i magri risultati delle indagini riguardanti la prima vittima, l'agente Dennis Parrish, affidato al caso perché in quel momento era l’unico elemento disponibile, fissava con apprensione Donald, che tamburellava con le dita su una scatoletta di metallo contenente caramelle alla menta e ogni tanto la rigirava fra le mani. Era il suo modo di riflettere. Dopo aver giochicchiato con la scatoletta per un minuto buono, fissò Dennis con sguardo illuminato, si alzò e disse:
“Venga con me. Chiederò all'agente Rowling di affiancarla in questo caso”.
“Ma non ce n'è bisogno! Penso di riuscire a risolverlo da solo!” protestò lui, per niente entusiasta di dover collaborare con Steve.
“Senta, Dennis! Non me ne frega un fico secco se lei si crede Superman e pensa di poter risolvere seduta stante tutti i problemi di questa città! Tenga presente che io lavoro qui da quindici anni e so riconoscere al volo i casi "difficili"! E questo è un caso di quelli. Non dimentichi che una donna è morta e altre quattro persone sono finite all'ospedale in una sola mattina. Dio solo sa quando potremo interrogarle per sapere cosa è realmente accaduto. Da stamattina la storia è su tutti i giornali. Sa cosa vuol dire questo? Vuol dire che la gente comincerà ad avere paura, vorrà delle risposte da noi, al più presto possibile. Per questo le affianco Steve: dovrete lavorare insieme, per mettere fine a questa specie di epidemia. E non voglio sentire altre discussioni, capito?”
Il tono da lui tenuto non era certo dei più gentili.
“D'accordo. Mi perdoni, signor Kerk”, sussurrò Dennis, vergognandosi un po'.
“Lasci stare... torni al lavoro, piuttosto”.
Si recarono nell'ufficio di Steve, che stava lavorando al computer.
“Salve, Donald. Ciao, Dennis”, li salutò.
“Non è il momento per i convenevoli, Steve. C'è un caso da risolvere in fretta. Dennis ti metterà al corrente di tutti i particolari”, detto ciò, Donald uscì dalla stanza, lasciandoli soli.
“Che è successo?”, chiese Steve.
“Una giovane donna, una settimana fa, è stata trovata morta nel suo appartamento, probabilmente soffocata da una sostanza irritante che aveva inalato. Dopo aver controllato l'intero appartamento senza aver trovato tracce di sostanze velenose o irritanti nell'aria, abbiamo pensato che avesse ingerito o inalato qualche farmaco, oppure della droga. Ma l'autopsia ha rivelato che lo stomaco della donna era pressoché vuoto e che non vi erano tracce di sostanze tossiche nel suo corpo, neppure nei polmoni”.
“Quindi non sapete cosa l'ha uccisa?”
“Già. Ma c'è dell'altro: stamane, altre tre donne e un bambino, in tre luoghi diversi, sono stati colpiti dallo stesso morbo, ammesso che di morbo si tratti. Ora sono ricoverati in ospedale, sotto la tenda a ossigeno. I medici stanno facendo del loro meglio per salvarli, e noi dovremo fare l’impossibile per scoprire al più presto cosa li ha ridotti in quello stato, e impedire che accada a qualcun altro”.
“Sono già stati fatti i rilevamenti relativi a queste ultime persone colpite dall'intossicazione?”
“La scientifica è sul posto”.
“Bene. Ci andiamo anche noi”, annunciò Steve, avviandosi verso la porta.
Circa venti minuti più tardi giunsero all'appartamento della signora Dikens, una delle tre donne ricoverate. Steve si rivolse all'agente Park, della scientifica, che stava prendendo dei campioni.
“Scoperto qualcosa?”
“Abbiamo analizzato l'aria, ma è risultata "pulita", a parte un po' di sano smog quotidiano. Ora stiamo prendendo campioni di ogni cosa: acqua, cibo, detersivi, medicinali presenti in casa… ma ho paura che sarà un altro buco nell'acqua”.
Steve annuì, cominciando a guardarsi intorno. Sul tavolo notò un grande vaso di orchidee, di una specie che non aveva mai visto.
“Che strani fiori…”, disse.
“Già. Sono splendidi, vero?”, commentò Dennis.
“È la prima volta che li vedo”. Steve si avvicinò per osservarli meglio: i petali erano bianchi, sfumati di rosa.
“Io, invece, li ho già visti la settimana scorsa, a casa dell'altra vittima, e li ho visti anche da una mia cugina. C'è una vera e propria mania per questo nuovo tipo di orchidee, ultimamente. Pensa che le ho trovate talmente belle che ho deciso di regalarle anche a mia sorella, che oggi compie gli anni”, disse Dennis. Subito dopo, però, si morse la lingua: non avrebbe voluto dire a Steve del compleanno di Livienne.
“Livi oggi compie gli anni? Non me lo ha detto”, si stupì Steve.
“Se ne sarà dimenticata. È tipico di Livienne”.
“Le farò una sorpresa: questa sera andrò a casa sua e le porterò un regalo”, disse Steve, rovistando nel cestino della spazzatura per cercare altri indizi, ma trovò solamente la carta che avvolgeva il vaso di orchidee. Su un piccolo adesivo, ancora attaccato alla carta, campeggiava la scritta " BLUE MOON,  i tuoi fiori ogni giorno, in ogni occasione. Via delle Colonie n° 2."
Dopo aver passato in rassegna tutto l'appartamento, senza riuscire a trovare nessun indizio utile, decisero di andare a controllare la casa della signora Blowind, anche lei ricoverata al Pennsylvania Hospital insieme al figlioletto di cinque anni.
Anche qui, la scientifica aveva già fatto tutti i rilevamenti necessari, senza trovare nulla di insolito. Steve decise di interrogare la vicina di casa, prima di entrare nell'appartamento.
“La signora Blowind e suo figlio erano soli in casa, quando si sono sentiti male?”, le chiese.
“Sì. Per fortuna sono riusciti a uscire e hanno suonato il mio campanello. Quando ho aperto la porta li ho trovati quasi soffocati. Ho chiamato subito l'ambulanza”.
“Le hanno detto che cosa è successo?”
“No. Come le ho detto stavano soffocando. Ho preso un tale spavento!”
“È successo nulla di insolito, stamattina, prima dell'incidente?”, chiese Dennis.
“No, che io sappia”.
“Niente fumo che usciva da qualche parte o odori strani nell'aria, gas, cose del genere?”
“Niente del genere”.
“Hanno ricevuto la visita da parte di qualcuno?”, s'informò ancora Steve.
“Mi faccia pensare… sì: stamattina, tornando dall'edicola, ho visto il camioncino del fiorista, fermo qua sotto. Siccome i signori del piano di sopra sono in ferie e non ci sono altre famiglie qui, ho pensato che la signora Blowind avesse ricevuto dei fiori. A parte questo,  non c'è altro”.
“Ricorda di che negozio era il furgone?”
“No, mi dispiace. So che si trattava di fiori perché il portellone era aperto e ho visto dei vasi di orchidee bellissimi! Ricordo solo che il camioncino era blu”.
“Orchidee?”, chiese Steve.
“Sì, un nuovo incrocio, che non avevo mai visto prima”.
A Steve balenò immediatamente un'idea in testa: spalancò la porta dell'appartamento della Blowind ed entrò. Sul tavolo, uno splendido vaso di orchidee uguali a quelle che aveva visto nell'altra casa faceva bella mostra di sé.
“Vieni con me, presto!”, disse, rivolto a Dennis. Raggiunse in fretta la macchina, estraendo il telefonino dalla tasca della giacca e componendo il numero di Park. L'agente dell'FBI, in quel momento, si trovava nel terzo appartamento, l'unico non ancora visitato da Steve e Dennis.
“Pronto?”, rispose Park.
“Park, sono Rowling. Voglio sapere se anche lì c'è un vaso di orchidee come quelle che c'erano negli altri tre appartamenti”.
“Intendi dire questi strani fiori bianchi e rosa?”
“Passa a prendere tutti i vasi di quei fiori, compreso quello della prima vittima e portali al laboratorio di ricerca: potrebbero contenere la sostanza velenosa che cerchiamo! Telefona anche al capo e digli di fermare le vendite di quelle orchidee”.
“D'accordo! Ma cosa...”.
Steve non lo lasciò neppure finire di parlare. Staccò la comunicazione e fece il numero di Livienne. Dennis lo guardava, preoccupato.
“Credi davvero che quelle orchidee siano la causa di tutto? Se è così, Livienne è in grave pericolo!”
“Non risponde!”, esclamò Steve, spaventato. Accese la macchina e si diresse a tutta velocità verso l'appartamento di Livienne.
“Ragiona un attimo, Steve”, cercò di calmarlo Dennis.
“Se quelle piante fossero velenose veramente, sarebbe stata intossicata un sacco di altra gente, primi fra tutti i fioristi e gli autisti dei furgoni, per non parlare di tutti quelli che hanno portato quelle piante dall'Amazzonia fino a qui!”
“Voglio solo essere sicuro che Livienne stia bene. Inoltre, ho la netta sensazione che quelle orchidee abbiano a che fare con tutta questa faccenda, in un modo o nell'altro”.
“Ti preoccupi molto per mia sorella… soprattutto sapendo quanto poco ami i giornalisti”, insinuò Dennis.
“Non considero tua sorella una semplice giornalista. È diventata quasi una collega, per me”, spiegò.
“È solo per questo che ti preoccupi?”
Steve si rifiutò di rispondere. Parcheggiò poco distante dall’appartamento di Livienne e salì le scale di corsa, seguito da Dennis. Davanti alla porta dell'appartamento, Steve suonò più volte, ma nessuno venne ad aprire.
Lanciò uno sguardo carico di tensione a Dennis, che era altrettanto preoccupato, poi, senza por tempo in mezzo, prese la rincorsa e, con una potente spallata, cercò di forzare la serratura dell'uscio. Dopo i primi due colpi, la porta si aprì all'improvviso e Steve, che stava per sferrare un altro violento colpo, rovinò invece addosso a Livienne, finendo per terra insieme a lei.
“Steve! Hai deciso di ammazzarmi?”, chiese, scansandoselo di dosso. Lui la guardò, sorpreso: Livienne, per nulla sofferente o in procinto di soffocare, era in accappatoio e aveva i capelli bagnati. 
“Accidenti!”, esclamò la ragazza, controllando tutti i lividi che aveva collezionato.
“Abbiamo suonato diverse volte; prima avevamo anche provato a telefonare, ma tu non hai mai risposto”, cercò di scusarsi Steve, aiutandola a rialzarsi.
“Stavo facendo la doccia quando ho sentito qualcuno che tentava di sfondare la mia porta! Ero sul punto di chiamare la polizia! Volete spiegarmi il perché di questa irruzione fuori programma?”, chiese, rivolgendosi a entrambi, evidentemente piuttosto indispettita.
“Mi dispiace. Credevamo che fossi in pericolo”.
“In pericolo? E per quale motivo?”.
“Hai ricevuto i fiori che ti ho mandato stamattina?”, chiese Dennis.
“Sì, certo, ti ringrazio molto per il pensiero, ma che c'entrano, adesso?”
“Non c'è tempo per spiegarti, ora. Dove sono i fiori?”, chiese Steve, lanciando un'occhiata all'interno della stanza, dove regnava sovrana la solita confusione. Nell'angolo più illuminato, vicino alla finestra, Steve scorse il vaso di fiori.
“Tu aspetta qui fuori”, disse a Livienne, spingendola nel vano scale.
“Cosa? Ma sono in accappatoio!”, esclamò lei.
“Non importa! Non muoverti di lì”.
“Steve! Fra venti minuti ho un appuntamento! Devo vestirmi!”
“Scommetto che il tuo fidanzato sarà molto contento di trovarti così: risparmierà un po' di tempo e i soldi della cena”, commentò Steve, ridendo.
“Sei odioso, Steve!”
Lui non rispose: non ne aveva il tempo. Telefonò alla scientifica e in breve Park era lì. Fece i rilevamenti, prese il vaso di fiori, lo incartò per bene, lo etichettò e lo mise insieme agli altri sul furgone.
“Scoperto niente?”, chiese Steve.
“Niente di niente”.
“Quando i risultati delle analisi su quei fiori saranno pronti, fatemelo sapere”.
“D'accordo, ti faccio chiamare da Cloe. È lei che se ne sta occupando”.
“Un'ultima cosa, Park: di' a Prescott che mandi qui qualcuno a sistemare la porta di casa: credo di averla segnata un po'”, s'interessò Steve.
“I tuoi soliti metodi "dolci", non è così, Steve?”, e Park scoppiò a ridere.
“Andiamo in ospedale”, tagliò corto lui, rivolgendosi a Dennis.
“Posso rientrare in casa mia?”, chiese Livienne, evidentemente scocciata per l'accaduto e, soprattutto, perché Steve e Dennis non avevano voluto raccontarle cosa stava succedendo.
“Sì, credo di sì, anche se penso che sia un po' tardi per il tuo appuntamento”, commentò Steve, con una punta di malizia nella voce, notando un tizio che saliva le scale con un mazzo di fiori in mano. Livienne, rossa in viso per la rabbia, rientrò in casa, inveendo contro certi agenti un po' "maneschi".
Quando furono in macchina, Steve bofonchiò:
“Dovrò trovare il modo per farmi perdonare…”
“Non sarà facile. Livienne è piuttosto vendicativa”, ridacchiò Dennis.
Una volta giunti al Pennsylvania Hospital, Steve volle parlare col tossicologo che seguiva le quattro persone intossicate.
“Sono Steve Rowling, dell'FBI”, si presentò, stringendo la mano al dottore.
“Ha scoperto la causa dell'intossicazione?”, domandò.
“Ho trovato alcune tossine sconosciute nell'espettorato di questi pazienti. Sembrerebbero provenire da un acido non ancora noto. Queste persone hanno inalato l'acido e si è scatenata la reazione allergica. Ma la cosa più strana è che lo stesso espettorato, un quarto d'ora più tardi, non conteneva più le tossine. Erano sparite completamente”.
“Questo spiegherebbe il perché negli ambienti non abbiamo trovato nulla: se le tossine sono scomparse entro una ventina di minuti, la scientifica non poteva certo riuscire a rilevarle”, azzardò Steve.
“Come stanno i pazienti?”, chiese Dennis.
 “Si stanno riprendendo bene, ma le loro mucose sono ancora molto irritate. Per ora non è possibile toglierli dalla tenda a ossigeno”.
“Immagino non si possano ancora interrogare”.
“No, mi dispiace. Se tutto va come credo, ci vorranno ancora un paio di giorni, prima che possiate fare loro le vostre domande”.
Il telefono di Steve suonò e lui rispose:
“Steve, sono Cloe. I risultati sono pronti, ma temo che tu abbia fatto uno sbaglio”.
“Non preoccuparti, vengo subito lì”, rispose Steve.
Mentre uscivano dall'ospedale incontrarono Livienne che stava entrando.
“Perché sei venuta qui?”, le chiese Steve.
“In primo luogo, perché sono una giornalista; in secondo luogo perché vorrei scoprire per quale assurdo motivo mi sono ritrovata senza regalo di compleanno e con la porta di casa sfasciata!”
“E il tuo appuntamento?”, le chiese ancora.
“Non sono affari tuoi. Piuttosto, parlami di quelle quattro persone intossicate. Ho letto l'articolo che ha scritto Cris in merito, ma so che nessuno ha ancora scoperto cosa realmente è successo. Nessuno, a parte voi. Scommetto che voi due vi siete già fatti un'idea abbastanza precisa dell'accaduto, non è così?”
“Dennis, quante sorelle hai?”, chiese ironicamente Steve.
“Una sola. È più che sufficiente!”, rispose lui, stando al gioco.
“Meno male, un'altra come Livienne e neppure i segreti della Casa Bianca sarebbero più al sicuro!”, scherzò Steve.
“Vieni con noi”, le disse, dirigendosi verso la sua macchina. In breve erano al laboratorio di ricerca, dove Cloe li stava aspettando. Quando vide l’agente Rowling, la ragazza gli sorrise dolcemente.
“Allora, che c'è di nuovo?”, chiese lui, senza tanti preamboli.
“Ho esaminato i fiori trovati a casa delle quattro vittime, ma non è risultato assolutamente nulla. Mi dispiace, Steve, ma stavolta temo che tu abbia preso un granchio. Del resto, se queste piante fossero tossiche, non si spiegherebbe come mai moltissime persone le maneggino o le abbiano in casa senza che creino problemi. Lo hai visto anche tu: la proprietaria di quest’ultima orchidea non è stata colpita dall'intossicazione”.
“Quella è la mia”, ribadì Livienne.
“Ha ragione, Steve: mia cugina non ha avuto problemi di alcun tipo, eppure anche lei ha in casa una di quelle piante”.
“Forse le persone colpite soffrivano di asma, o di altre affezioni respiratorie”, ipotizzò Steve.
“No: è la prima cosa che abbiamo controllato. Io stessa soffro di asma. Sarei stata subito male!”, disse la ricercatrice.
“Hai detto che le piante delle quattro vittime non presentavano nulla di insolito. Sull’ultima, invece?”, chiese, indicando l’orchidea di Livienne.
“Già, quasi me ne dimenticavo! Su questa pianta ci sono degli stranissimi insetti microscopici. Direi che potrebbero appartenere alla famiglia degli afidi, sebbene siano molto più piccoli. Ho interpellato un entomologo, che mi ha detto di non aver mai visto nulla del genere. Sembra che questi animali vivano solo su queste strane piante. In ogni caso, sono innocui”. Sorrise a Steve maliziosamente, sbattendo le ciglia e accarezzandosi i capelli in maniera palesemente sensuale.
“Ma sulle piante delle vittime non ce n'è traccia”, affermò ancora Steve, concentrato sul caso.
“No. Non ce n'è traccia”, sbuffò lei, un po’ seccata dal fatto che lui la stesse ignorando.
“Potrebbe essere quello che cerchiamo! Forse gli insetti impediscono alla pianta di liberare le tossine”.
“Se fosse così, le piante sarebbero tossiche tuttora. Dai retta a me, Steve: queste orchidee non c'entrano. Non hanno niente a che vedere con quello che è successo. Inoltre, se fossero tossiche davvero, i primi a farne le spese sarebbero i fioristi, non ti pare?”
Di nuovo la donna ammiccò a Steve, facendogli gli occhi dolci. Lui non ci fece caso.
“Già. I fioristi!”, esclamò Steve. Ricordò la targhetta che aveva visto quel mattino.
“Dennis, Livienne, andiamo in via delle Colonie, al numero due”.
“A fare che?”
“Domande. Che altro vuoi fare? Forse i fioristi ne sanno più di noi, su questa pianta”.
Non appena furono in macchina, Livienne non resistette e domandò:
“Lo frequenti spesso il laboratorio, Steve?”
Lui la fissò stupito.
“Perché?”
“Cloe ti stava mangiando con gli occhi…”
Lui sorrise maliziosamente.
“A dire la verità, non me ne sono accorto. Ma tu sì, a quanto pare”.
“Non mi è sembrata molto professionale”, si scusò lei.
“Diciamo che sei gelosa…”, la stuzzicò.
“Gelosa? Di te? Ma non dire sciocchezze!”, s’infuriò.
L’arrivo davanti al Blue Moon mise fine alla discussione. Notarono subito un furgoncino blu, pieno zeppo di fiori. Delle misteriose orchidee, però, non c'era traccia.
“Tanto per cominciare, sappiamo che il furgone che ha consegnato i fiori alla Blowind era blu. Forse si tratta di questo”, disse Steve.
Entrarono nel negozio, dove il fiorista stava preparando un grosso mazzo di fiori. Steve notò che l'uomo era di origine asiatica.
“Salve”, lo salutò.
“Salve. Posso esservi utile?”, chiese lui.
“Credo proprio di sì. Sappiamo che lei ha consegnato un vaso di orchidee alla signora Dikens. Può dirci quando glielo ha portato?”, disse, mostrando il tesserino dell'FBI.
“Certamente. Lo ha consegnato il ragazzo questa mattina. Ma perché volete saperlo? È qualcosa che ha a che fare con il provvedimento che avete emanato di sospendere tutte le vendite di quelle orchidee?”
“Già: sembra che quelle piantine non siano così innocue come sembrano. Ha fatto altre consegne di quelle orchidee?”
“Sì, ne sono arrivati tre vasi proprio ieri e stamattina li ho venduti tutti”.
“Mi lasci indovinare: gli altri due li ha consegnati alla signora Blowind e alla signora Land”.
“Sì. È esatto! C'è forse qualcosa che non va?”
“Temo di sì: tutte e tre le signore sono finite all'ospedale, stamane. Mi dica un'altra cosa: la settimana scorsa ha fatto altre consegne di queste orchidee particolari?”
“Una sola. Alla signora…”.
Ci pensò un istante: non ricordava il nome.
“Alla signora Singer?”, disse Steve. Singer era il nome della prima vittima.
“Sì, ecco! Proprio lei!”
“Così, ora sappiamo che tutte le piante incriminate sono partite da questo negozio”, commentò Steve.
“Incriminate? Ma che dite? Non penserete che sia stato io a fare del male a quelle donne? La signora Singer è mia cliente da tantissimi anni”.
“Vorrà dire "era" sua cliente! È morta in seguito a un'intossicazione, probabilmente provocata dalla pianta che lei ha consegnato. Non sappiamo ancora come sia successo”, spiegò Steve.
L'uomo si lasciò cadere su una sedia, passandosi una mano fra i capelli.
“È spaventoso. Ma io non ho fatto niente! Mi sono limitato a far loro avere le piante che avevano ordinato!”
“Stia tranquillo, lei non è accusato di nulla, per il momento. Possiamo controllare il suo negozio e anche il furgone?”
“Certo, fate pure”.
Diedero un'occhiata in giro, senza trovare indizi utili. Steve stava ormai pensando di chiamare la scientifica per far analizzare tutto il negozio quando vide il fiorista spruzzare dello spray su una pianta che stava preparando per un cliente.
“Che sta facendo?”, gli chiese.
“Spruzzo del lucidante fogliare”.
“Posso vederlo?”
“Certo. Ecco, tenga”.
Steve prese la bomboletta fra le mani. L'iscrizione stampata sulla confezione era in giapponese.
“Viene direttamente dal Giappone. È il migliore lucidante fogliare che esista e io sono l'unico ad averlo, in città”.
“Questa la prendo io, se non le dispiace”, lo avvisò Steve.
“Torniamo al laboratorio”, disse, rivolto a Livienne e Dennis.
Quando si trovò nuovamente al cospetto di Cloe, Steve le disse:
“Spruzza questo sopra la pianta di Livienne, ma stai molto attenta: potrebbe sprigionare le tossine”.
“Sei carino a preoccuparti per me”, sorrise lei. Poi, vedendo che lui non rispondeva, riprese:
“Tu credi che dipenda tutto da questo lucidante fogliare?”
“Non solo dal lucidante fogliare. Credo che sia una combinazione di elementi a dare luogo al gas intossicante”.
“D'accordo. Mi ci vorrà un po' di tempo”, rispose, dirigendosi verso il laboratorio.
“Non dirmi che ora non l’hai notata!”, sputò fuori Livienne, piccata.
Steve rise, vedendola così alterata.
“Così non sei gelosa, eh?”
“No”, protesto lei, arrossendo.
Steve, Livienne e Dennis presero posto nella sala d'aspetto. Verso le otto di sera, finalmente, Cloe uscì dal laboratorio, si tolse la maschera antigas e si rivolse a Steve:
“Avevi ragione tu, Steve: i piccoli animaletti presenti sulla pianta hanno una composizione chimica molto particolare e, a contatto con alcuni elementi contenuti nel lucidante fogliare, hanno innescato una reazione che, nell'arco di mezz'ora, ha portato alla totale dissoluzione degli insetti. In pratica, si sono dissolti sprigionando un gas fortissimo, terribilmente irritante, che però è svanito nel giro di trenta minuti, senza lasciare traccia”.
“Ovviamente, la reazione non avviene con altri lucidanti fogliari diversi da questo”, ipotizzò Steve.
“No, infatti. Gli altri lucidanti che abbiamo analizzato non contengono le stesse sostanze di quello che hai portato tu. Solo quello innesca la reazione”.
“Così, a quanto pare, abbiamo risolto il caso!”, esclamò Steve.
“Vuoi dire che tu hai risolto il caso”, bofonchiò Dennis.
“Non te la prendere Dennis. Tu, la settimana scorsa, hai catturato quella banda di trafficanti di droga. Sei stato in gamba”.
“E io ho il mio articolo”, commentò felice Livienne.
“Tutti contenti allora”, affermò Steve, uscendo dal laboratorio di ricerca senza neppure salutare Cloe. Gli altri due lo seguirono.
“Non proprio: io non mangio da oggi a mezzogiorno e sto morendo di fame”, si lamentò Livienne.
“E ti pareva!”, esclamò Dennis. “Ci puoi dare un passaggio, Steve?”
“Certo, venite. Vi accompagno a casa”.
“Un momento! Dove credete di andare, voi due? Mi dovete un regalo di compleanno! Che ne direste di portami fuori a cena?”, propose Livienne.
“L'idea non è male: ora che ci penso noi non abbiamo neppure pranzato!”, esclamò Steve, rivolto a Dennis.
“Già! È da stamattina che siamo in giro! Per una volta hai avuto una buona idea, sorellina. Forza, andiamo. E stasera offro io”, si offrì Dennis.
“Niente da fare. Tu il regalo a Livienne lo hai già fatto, ora tocca a me”, brontolò Steve.
“Stai a vedere che poi toccherà a me pagare”, scherzò Livienne. Steve le passò un braccio intorno alla vita e l’attirò a sé. Lei non osò ribattere e lo lasciò fare. Si allontanarono insieme, diretti verso il ristorante più vicino, per festeggiare allegramente il compleanno di Livienne e la risoluzione del caso.

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Capitolo 9
*** capitolo nove: PIEGA DEL TEMPO ***


PIEGA DEL TEMPO
 
Filadelfia,  Mercoledì 14 giugno 2000
 
Steve era seduto alla scrivania del suo ufficio e stava leggendo le ultime notizie su Internet, quando rimase colpito da un articolo riguardante il Tibet: due giorni prima, due ragazzi erano stati trovati mezzi congelati sull'altopiano settentrionale, dove vagavano senza una meta precisa. Portavano strani vestiti e, interrogati, si erano messi a parlare una lingua stranissima, che nessuno conosceva. Credendoli in stato confusionale, la polizia locale li aveva portati all'ospedale di Lhasa. Qui erano stati visitati, ma i dottori avevano riscontrato solo deboli segni di un inizio di congelamento e una lieve influenza. Per il resto, i due erano sani e lucidi. A quel punto, le autorità locali si erano prodigate a spargere annunci televisivi, radiofonici e giornalistici per scoprire se qualcuno conoscesse i due giovani. Non si era presentato nessuno, ma il caso aveva attirato l'attenzione del governo tibetano e persino di quello americano che, a quanto pareva, aveva chiesto notizie dei due sventurati. Nel frattempo, la polizia si era presa la briga di interrogare i pastori che vivevano sull'altopiano settentrionale, vicino al luogo dove i due erano stati trovati. Finalmente un ragazzo, figlio di un anziano pastore del luogo, disse di averli visti uscire da una grotta, seminascosta fra le spaccature della montagna. L'articolo concludeva dicendo che nella grotta non era stato trovato nulla di anormale e che i due giovani erano ancora sotto osservazione nell'ospedale di Lhasa.
Steve telefonò a Livienne, che stava stendendo un articolo a computer.
“Ciao, Livi. Hai letto dei due strani tipi ritrovati in Tibet?”
“No, che è successo?”
“Dai un'occhiata alle ultime notizie riportate su Internet”.
“D'accordo”.
Livienne si collegò e lesse l'articolo, poi richiamò Steve.
“Che ne pensi?”, chiese lui.
“Strana storia! Forse fanno parte di qualche villaggio sperduto nel Tibet, non ancora raggiunto dalla civiltà. Oppure sono due che vogliono burlarsi della polizia”.
“La cosa strana è che il governo tibetano stia dando tanta rilevanza a questo caso: i due non hanno fatto nulla di male, non sono ammalati, sono sani di mente e non vedo proprio perché continuino a trattenerli! E perché occuparsi tanto delle loro origini? Persino il governo americano ha chiesto loro notizie e la polizia ha fatto ricerche nella grotta dalla quale provengono. Non ti sembra strano?”
“Sì. In effetti lo è. Perché tutto questo mistero? Basterebbe che li rilasciassero e tornerebbero da soli a casa propria”.
“È esattamente quello che dico anch'io! Evidentemente, se non li lasciano andare è perché c'è sotto qualcosa. Forse si tratta davvero di membri di una civiltà a noi ancora sconosciuta. Mi piacerebbe vederli e, visto che il governo americano se ne sta già occupando…”.
“Beh, possiamo fare una capatina in Tibet! Hai da fare oggi, Steve?”, scherzò lei.
Lui rise.
“Ti richiamo più tardi e ti faccio sapere. Ciao”. Steve si recò nell'ufficio di Donald e gli espose il caso, poi gli chiese:
“Possiamo avviare un'indagine?”
“Non dire sciocchezze, Steve! Non puoi andare a cacciare il naso negli affari del Tibet senza esserci invitato! Rischieresti di scatenare un incidente diplomatico! Lascia che se la spiccino loro”.
“Potremmo proporre alla polizia locale un aiuto da parte dell'FBI”.
“Steve, stai fuori da questa faccenda. Ho altri incarichi per te, ora”.
“D'accordo”, accettò di malumore Steve, girando i tacchi e ritornando nel suo ufficio.
Un istante dopo, il telefono nell'ufficio di Donald prese a squillare. Lui rispose:
“Pronto?”
“Donald? Sono Senfter. Ho ascoltato la vostra conversazione e ho pensato che forse l'intervento di Steve Rowling nella situazione potrebbe essere positivo: dopo tutto, ci serve un volontario che vada laggiù. Steve potrebbe essere l'uomo adatto”.
“Steve è un ottimo agente. Non voglio rischiare di perderlo. Che troverà laggiù?”
“Proprio perché è un ottimo agente deve andare lui: credo che sia l'unica persona sufficientemente qualificata per portare a termine questa storia, Donald. Lo mandi laggiù, è un ordine!”, rispose, eludendo la domanda.
Donald rimase in silenzio un istante, poi rispose:
“E va bene”.
Restò seduto a pensare per qualche minuto, ancora indeciso se spedire Steve alla ribalta in quella folle impresa o se mandare al diavolo Senfter e tutta la sua combriccola di pezzi grossi; poi pensò che, dopo tutto, lui non poteva disobbedire a Senfter e Steve non vedeva l'ora di andare a curiosare in quella faccenda. Inoltre, Rowling se la sarebbe cavata in ogni caso: era un ottimo elemento. Lo chiamò al telefono e gli disse:
“Il governo tibetano ha chiesto l'aiuto dell'FBI. Sei autorizzato a partire, se la cosa ti interessa”.
“D'accordo capo. Parto immediatamente”.
Steve chiamò Livienne al telefono:
“Si parte per il Tibet! Porta un maglione pesante: ha l'aria di fare freddo da quelle parti!”
“D'accordo, Steve. Passi tu a prendermi?”
“Sì. Fra mezz'ora esatta”.
Effettivamente, di lì a mezz'ora, Steve era sotto l'appartamento di Livienne e l'aspettava in macchina. Lei salì sulla vettura, a dire il vero piuttosto indispettita. Il suo malumore traspariva dai gesti e dalla insolita furia di partire.
“Che ti succede?”, le chiese.
“Ci crederesti? Quel manichino impomatato di Cris mi ha chiesto di uscire con lui! Voleva portarmi a cena fuori! Prima non si sarebbe mai sognato di invitarmi, quando ero solo "l'ultima arrivata". Ma da quando lavoro "Ai confini della realtà", non fa altro che starmi dietro. Mi sono proprio divertita a spiattellargli in faccia che stavo per partire per il Tibet. Avessi visto che faccia ha fatto!”, esclamò, ritrovando il buonumore di sempre.
“Riesco a immaginarla”, rispose Steve, ripensando all'espressione da babbeo che di solito contraddistingueva il volto di Cris.
Verso sera erano a Lhasa, dove chiesero di interrogare subito i due ragazzi.
“Non riuscirete a capirci nulla, ci scommetto!”, commentò il capo della polizia, sfoderando un pessimo inglese. Quando giunsero al cospetto dei due giovani, si resero subito conto che non potevano certo venire da un luogo non ancora civilizzato: i loro abiti, pur se strani, erano chiaramente moderni, quasi futuristici e fatti di una stoffa che né Livienne, né Steve avevano mai visto prima.
Steve rivolse loro qualche domanda, ma i due fecero segno di non capire nulla, gesticolando e parlando uno stranissimo idioma.
“Mai sentito niente del genere!”, esclamò Livienne, che pure di lingue se ne intendeva, avendone studiate sette.
Steve si fece portare una lavagna e una cartina del luogo. Disegnò una grotta e la mostrò loro. I due annuirono; evidentemente, erano davvero venuti dalla grotta, come avevano detto i pastori. Poi mostrò loro la cartina, e fece capire ai due che voleva sapere dove si trovava la grotta. I due fecero segno che non lo sapevano.
“Evidentemente non conoscono la zona…”, commentò Steve.
“Forse la loro grotta porta a una piccola valle fra le montagne, dalla quale questi due non sono mai usciti prima”, ipotizzò Livienne.
“Non mi sembra possibile. Se così fosse non conoscerebbero cose come la corrente elettrica, le automobili, eccetera: non mi sembrano spaventati dalle nostre macchine e dal nostro modo di vivere”, constatò Steve.
“No, infatti”, confermò il poliziotto.
“Inoltre, la grotta dalla quale provengono non porta da nessuna parte. È senza uscita e finisce nella montagna”.
“L'avete già controllata, non è vero?”, chiese Steve.
“Sì, alcuni colleghi l’hanno ispezionata, ma non hanno trovato nulla”.
“Potete portarci là?”
“Certo! Domattina metteremo a vostra disposizione un elicottero, che vi condurrà fin sull'altopiano. Vi accompagnerò io”.
“Vorrei parlare anche col ragazzo che li ha visti per primo”, avvisò Steve.
“D’accordo”.
La mattina seguente sorvolarono un grande tratto di territorio tibetano, giungendo fino alla zona più settentrionale dell'altopiano. L'elicottero scese in una zona pianeggiante, poco distante dall'abitazione del giovane che aveva visto per primo i due ragazzi. Il poliziotto avrebbe fatto loro da interprete. Si diressero su per il sentiero, fino a giungere alla casa, scavata nella roccia. Una donna stava lavando i panni nell'aia. Il poliziotto si rivolse a lei parlando un dialetto del luogo. Lei gli rispose, indicando un punto, sul fianco della montagna.
“Dice che suo figlio è lassù, a pascolare gli yaks”. Faticosamente, raggiunsero il giovane, seduto nel bel mezzo di un prato, dove brucavano un paio di animali. Il poliziotto si rivolse a lui, chiedendogli dove aveva visto i due ragazzi. Lui indicò una spaccatura nella roccia, più in alto.
“Dice che sono scesi da lassù. Quel giorno si era arrampicato sul fianco della montagna per raccogliere foglie speciali per uno yak malato e li ha visti uscire dalla grotta. A parte i loro strani vestiti, non ha notato altro. Dice, però, che non troverete nulla: la grotta è vuota e si ferma dopo un centinaio di metri, senza giungere da nessuna parte”.
“Vogliamo dare un'occhiata comunque. Lei può restare qui, se preferisce”, disse Steve, rivolto al poliziotto.
“No, vi accompagno”.
Si arrampicarono su per l'irto sentiero, giungendo fino all'imboccatura della grotta. Accesero alcune torce, poiché l'interno era molto buio. Camminarono per circa un centinaio di metri, finché si trovarono di fronte la nuda roccia; come aveva detto il ragazzo, la caverna finiva lì. Steve illuminò la parete rocciosa, tastandola, per vedere se per caso nascondeva un passaggio segreto. Le sue mani toccarono una runa intagliata nella superficie rocciosa. Fece luce in quel punto e vide lo strano segno. Illuminò bene lì intorno, ripulendo la parete dalla polvere e trovando altri segni come quello. Capì che dovevano essere lettere di un alfabeto a lui sconosciuto, che formavano quattro parole.
Le mostrò a Livienne, che però era perplessa quanto lui.
“Che cos'è?”
“Un'iscrizione. Forse un avvertimento, forse una formula magica, chi lo sa. Non so come pronunciare queste lettere”. Prese un foglio e ricopiò fedelmente i simboli, riportandoli esattamente come erano scolpiti nella roccia.
“Dobbiamo tornare dai due ragazzi: scommetto che loro sanno leggere questa scrittura”.
Uscirono dalla grotta e ricominciarono a scendere il sentiero quando, improvvisamente, si ritrovarono di fronte un uomo, anziano. L'uomo disse qualcosa nel dialetto tibetano che già Livienne e Steve avevano sentito pronunciare al poliziotto.
“Dice che non dovete entrate nella "grotta maledetta". Molti uomini sono entrati, alcuni non hanno più fatto ritorno”, tradusse l'agente.
L'uomo anziano si voltò e tornò sui suoi passi, svoltando dietro un masso, che lo nascose per un istante alla vista degli altri tre. Livienne lo inseguì, gridando:
“Aspetti!” Ma quand'ebbe svoltato anche lei, si rese conto che dell'uomo non c'era più traccia.
Giunsero alla casa scavata nella roccia, unica costruzione in mezzo a quelle montagne impervie. L'anziano signore che avevano incontrato poco tempo prima era seduto sul gradino di pietra della sua abitazione e li guardava scendere il sentiero, sudati e ansanti. Lui fumava la pipa, calmo e silenzioso.
“Come diavolo ha fatto a sparire a quel modo?”, gli chiese Livienne. Il poliziotto tradusse per lei.
“Dice che non è sparito. Lui conosce la montagna meglio di voi. Questo lo rende molto veloce e agile”.
“Gli chieda della grotta”, tagliò corto Steve.
“Dice che non c'è altro da aggiungere: state lontani dalla grotta, o verrete inghiottiti dall'oscurità”. Steve mostrò al vecchio la scritta e chiese al poliziotto:
“Gli chieda se sa come si legge”.
il vecchio fece di no con la testa.
“Non lo sa. Dice che è saggio che anche voi non lo sappiate mai”. Steve sbuffò, spazientito:
“Torniamocene a Lhasa. Forse scopriremo qualcosa di più costruttivo!”
Due ore dopo mostrarono ai due ragazzi il foglio con la scritta. Steve spiegò loro a gesti che voleva sapere se potevano leggere quelle parole. Questi le lessero ad alta voce. Suonavano pressappoco così:
“Altermate ojoato Etaca munda”.
Steve e Livienne mandarono a memoria le parole, ripresero l'elicottero e raggiunsero di nuovo la grotta, questa volta con il solo ausilio del pilota, che li lasciò a pochi metri dall'ingresso, dicendo loro che li avrebbe aspettati lì. Entrarono di nuovo nella grotta e raggiunsero la parete rocciosa. Livienne scattò alcune foto, poi, di comune accordo, pronunciarono le quattro parole. Una luce intensa si sprigionò come un lampo dalle incisioni nella roccia, investendoli in pieno, togliendo loro il respiro. Si sentirono afferrare e trascinare in un vortice spaventoso. Tutto intorno a loro perdeva consistenza: era come volare e contemporaneamente essere risucchiati dalla terra stessa. Si fece improvvisamente buio e tutto sprofondò in un torpore strano, quasi come se fossero immersi in un sogno. La prima cosa che Steve sentì, risvegliandosi, fu il duro pavimento della roccia, sotto di lui. Si tirò faticosamente a sedere, poi cercò la torcia, senza trovarla. Urtò però qualcosa di morbido e seppe che Livienne era lì con lui.
“Livienne”, la chiamò e lei si risvegliò.
“Che è successo?”
“Non lo so. Ricordo solo una grande luce. Credo che siamo svenuti. Ma ci troviamo ancora nella grotta: qualunque cosa sia successa, ormai è finita”.
Livienne si tirò a sedere. Un rumore improvviso li fece trasalire: era un fischio molto forte, seguito da altri sibili. Proveniva da fuori.
“Ma che succede?”
“Vieni, andiamo a vedere”, la incitò, aiutandola a rialzarsi. Raggiunsero l'uscita della grotta e si trovarono di fronte a uno spettacolo incredibile: l'altopiano tibetano era scomparso per lasciare il posto a un deserto,  in mezzo al quale si ergeva una città stranissima, con le case a forma di coni e piramidi. Alcune costruzioni, costruite sopra le altre, erano di forma sferica, con centinaia di finestre dalle quali si sprigionavano luci colorate. I due erano usciti dalla grotta e guardavano quello strano paesaggio senza riuscire a proferir parola. Qualcosa saettò sopra le loro teste, a una velocità incredibile. Quando fu sulla città, si resero conto che si trattava di un'astronave. Era una specie di automobile volante e lasciava due scie di fumo giallastro dietro di sé. Sorpassò la città e scomparve nel cielo.
“Livienne, fra le tante lingue che hai imparato, c'è per caso anche il "galattico standard"?”, chiese ironicamente Steve.
“Temo di no”.
“Peccato! Sarebbe stato utile, in questa occasione”.
“Dove siamo finiti, Steve?”
“Non posso dirlo con precisione, ma credo che siamo incappati in una "piega del tempo", Livienne”.
“Che cos'è una piega del tempo?”. La sua voce suonava stranamente preoccupata.
“Si ipotizza che certe manifestazioni ESP, per esempio il materializzarsi dei dischi volanti, o il ritrovarsi improvvisamente in un luogo diverso da quello in cui si era fino a un istante prima, siano dovuti alle "pieghe del tempo", cioè a particolari "fori", nel tempo, attraverso i quali è possibile ritrovarsi nel passato, o nel futuro, oppure addirittura in un universo parallelo al nostro. Secondo la teoria della relatività, se in un luogo si raccoglie una massa sufficientemente grande, il suo campo gravitazionale curverà tempo e spazio, dando origine a una piega cosmica che ci potrebbe permettere di raggiungere questi luoghi. In natura, si pensa che i buchi neri possano essere delle gigantesche "macchine del tempo", in quanto un buco nero, formato dal collasso di una stella, può arrivare a produrre un punto di densità e gravità tali da non lasciare sfuggire neppure la luce. Il fisico Roy Kerr ha ipotizzato che, se riuscissimo a navigare attraverso i buchi neri formatisi nello spazio, quelli cioè definiti "rotanti", ci ritroveremmo nell'iperspazio, dove muoversi nello spazio equivarrebbe a muoversi nel tempo. Viaggiando nel senso della rotazione si andrebbe nel futuro, viaggiando in senso contrario torneremmo nel passato”.
“E tu hai idea di dove siamo finiti noi, più precisamente?”
“No”, ammise Steve.
Livienne scattò parecchie fotografie, seguendo Steve, che si avventurava fra la sabbia del deserto, diretto verso la città. Camminarono per quasi un'ora sotto un sole cocente, poi, finalmente, giunsero nella metropoli. La gente camminava silenziosa per la strada, scoccando loro occhiate curiose. Steve notò che erano vestiti più o meno come i due ragazzi che aveva visto in Tibet: era chiaro che venivano da lì.
La strada non era ricoperta d'asfalto, ma lastricata in pietra. Del resto, non v'erano automobili: solo navi volanti, che sfrecciavano incessantemente sopra di loro. Ve n'erano di piccole, di grandi, di rotonde e di rettangolari, di colorate e di scure. Alcune lasciavano una scia di fumo, altre no. Livienne scattava fotografie continuamente, senza smettere di meravigliarsi. Al centro di una piazza c'era un enorme acquedotto, che evidentemente serviva l'intera città. Le vie erano tempestate di negozi, dove la gente comprava strane cose, che potevano assomigliare a frutta e verdura, forse. C'erano anche dei bambini che passeggiavano al fianco delle mamme. Una donna spingeva quella che doveva essere un nuovo modello di carrozzina: non aveva ruote e veleggiava a mezz'aria, mentre un soddisfatto neonato agitava le manine al suo interno.
Steve non la smetteva di stupirsi, guardandosi intorno: non riusciva a capacitarsi di come fosse arrivato lì, ma tutto quanto sembrava un sogno incredibile. Ora aveva la certezza che esistevano altre civiltà, forse extraterrestri, forse in un universo parallelo al nostro, ma, in ogni caso, eccezionalmente affascinanti.
Un suono improvviso si levò nell'aria, spaventoso come un lamento. Era una sirena. La gente prese a correre, raggiungendo le case. Le madri presero in braccio i bambini e si precipitarono all'interno degli stabili.
“Che succede?”, chiese Livienne, spaventata.
“Non lo so, ma nulla di buono, ci scommetto! Vieni con me”. La trascinò sotto un porticato e si nascosero dietro una grossa colonna, sbirciando ogni tanto all'esterno. Poco dopo, alcune grandi astronavi solcarono i cieli della città, sganciando su di essa degli ordigni che esplosero con boati terrificanti.
“A terra!”, gridò Steve, gettandosi addosso a Livienne e spingendola sul pavimento, facendole scudo con il proprio corpo. Una bomba scoppiò non lontano da loro e una scheggia di uno strano materiale, simile alla plastica ma più resistente, si conficcò nel braccio di Steve, che lanciò un urlo.
“Fammi vedere!”, si preoccupò Livienne. Dalla ferita sgorgava parecchio sangue.
Senza por tempo in mezzo, Livienne estrasse la scheggia, poi si tolse la camicia, la strappò e ne fece delle fasce, con le quali gli fasciò il braccio, per fermare l’emorragia.
“Avresti bisogno di essere disinfettato, ma non so come fare”.
“Hai già fatto fin troppo… grazie”. Lui sorrise, dolcemente. Per un istante, il cuore di Livienne si fermò: aveva uno sguardo dolcissimo. Confusa e imbarazzata, tornò a fissare la strada, fuori dal porticato. Nel frattempo, altre astronavi avevano raggiunto le prime e le stavano fronteggiando.
“A quanto pare siamo finiti nel bel mezzo di una guerra galattica!”, esclamò Steve.
“La nostra solita fortuna”, ironizzò Livienne.
“Forse sarà meglio che torniamo alla grotta: potremmo cercare di ripetere la frase, e vedere se ci riporta nel nostro mondo”, propose.
“No. Ora è troppo pericoloso attraversare il deserto: ci ucciderebbero. Converrà aspettare che l'attacco finisca”. Spossato, si appoggiò alla colonna, cercando di riprendere un po’ di forze. Livienne prese posto accanto a lui. Lentamente, Steve le passò un braccio intorno alle spalle e l’attirò contro di sé.
Rimasero nascosti per un paio d'ore, mentre fuori infuriava la battaglia. Livienne guardava con occhi atterriti lo spaventoso spettacolo: mai avrebbe immaginato di vedere dal vivo, e sperimentare sulla propria pelle, la guerra di un altro mondo.
Finalmente, le astronavi della contraerea riuscirono a distruggere alcuni degli aggressori e le altre navi nemiche batterono in ritirata. Di lì a poco la gente ricominciò a uscire dalle case. Steve e Livienne si affrettarono per le vie della città, diretti verso la grotta. Improvvisamente, un uomo armato puntò contro di loro un fucile dall'aspetto strano, ma assai poco rassicurante, e pronunciò qualcosa nella sua incomprensibile lingua. Livienne e Steve alzarono le mani, in segno di resa. L'uomo fece segno di voltarsi e di camminare, tornando sui loro passi. Da un vicolo laterale spuntarono altri tre uomini, armati pure quelli, che spinsero i due "intrusi" fino a uno strano palazzo. Steve e Livienne vennero introdotti nello stabile e portati al cospetto di un quinto uomo, seduto davanti a una scrivania. Steve comprese che doveva trattarsi del capo delle forze dell'ordine locali. La stanza nella quale erano stati portati era più simile a una stazione televisiva futuristica, che a un ufficio: sulle pareti vi erano enormi schermi, dai quali si poteva evidentemente tenere d'occhio tutta quanta la città. Steve e Livienne vennero fatti sedere su delle morbide poltroncine, poi l'uomo chiese loro qualcosa nella sua lingua.
Steve si sentì comunque in dovere di dire qualcosa, anche se non aveva capito niente:
“Mi dispiace, non comprendiamo la vostra lingua”, cominciò.
L'uomo li squadrò in silenzio, evidentemente perplesso. Indicò loro uno degli schermi e l'immagine che vi era proiettata sparì, per lasciare il posto alla fotografia dei due giovani che avevano visto in Tibet. Di nuovo l'uomo chiese qualcosa, ma Steve fece segno di non capire.
L'uomo chiamò le guardie, fece loro un gesto e queste scortarono i due prigionieri fino a un ascensore, che scese di parecchi piani, giungendo fino a una specie di scantinato. Qui vi era un lungo corridoio, con delle porte in ferro. Una delle guardie appoggiò il pollice su un piccolo rivelatore di impronte e una delle porte si aprì. Steve e Livienne vennero spinti dentro, poi la porta si richiuse alle loro spalle.
Quando i loro occhi si furono abituati alla semioscurità, poterono notare lo squallore della cella dove erano stati rinchiusi: c'erano due brandine e un paio di coperte. Null'altro.
“Bene! Eccoci prigionieri degli extraterrestri”, bofonchiò Steve, sedendosi su una delle brandine. Il braccio gli doleva e stava ancora perdendo sangue. Livienne gli rifece la fasciatura, legandolo più stretto.
“Come stai?”, gli chiese.
“Starei meglio se non avessi questa ferita e se non soffrissi di claustrofobia”.
Livienne gli accarezzò una guancia.
“Perché credi che ci abbiano rinchiuso qui?”
“Penso che stiano cercando i due ragazzi, quelli che abbiamo visto in Tibet. Forse credono che noi gli abbiamo fatto del male”.
Con un cigolio sinistro la porta della loro cella si aprì e comparvero due guardie, che presero Steve per un braccio e lo trascinarono fuori.
“Steve!”, urlò Livienne, terrorizzata all’idea di rimanere sola in quel luogo sconosciuto e ostile.
“Non temere, Livi. Andrà tutto bene”, cercava di rassicurarla, ma aveva paura anche lui: dove lo stavano portando? Lo condussero in un'altra ala dello stabile: una specie di infermeria. Qui un uomo, che aveva tutta l'aria di essere un dottore, gli esaminò la ferita. Poi lo fece stendere sopra un lettino e accese una strana macchina. Steve avvertì una sensazione di calore sul braccio, proprio nel punto dove era stato ferito. Il dolore scomparve. Il dottore spense la macchina e fece segno a Steve di rialzarsi. Lui si rese conto che la ferita era guarita. Non sapeva cosa gli avevano fatto, ma ora stava perfettamente bene. Non era rimasta neppure la cicatrice. Le guardie lo riaccompagnarono nella cella, dove Livienne gli volò tra le braccia, non appena lo vide. Steve ne approfittò per stringerla dolcemente.
“Cosa ti hanno fatto?”, gli chiese, preoccupata.
“Mi hanno curato. Guarda Livienne! Il braccio è guarito perfettamente! È incredibile! Se noi possedessimo una tecnologia simile potremmo salvare centinaia di vite umane!”
“Incredibile!”, confermò lei, osservando il braccio perfettamente sano di Steve.
Nel frattempo era giunta la sera e i due si stesero per dormire, anche se non fu facile addormentarsi, in quel mondo straniero e pieno di mistero. Alla fine, la stanchezza ebbe la meglio sulla paura, e si appisolarono. La mattina seguente vennero svegliati dal rumore della porta che si apriva. Un inserviente poggiò per terra due vassoi con delle ciotole, poi uscì. Steve sollevò il coperchio che chiudeva la ciotola e vide delle strane palline gialle, che emanavano un vago sentore di frutta.
“Che cosa sono?”, s'incuriosì Livienne.
“Cibo, immagino”.
“Dici che dobbiamo fidarci?”
“Non lo so: tu hai sempre fame e ti strafoghi di tutto!”, cercò di scherzare lui.
Livienne si portò alle labbra uno dei frutti, ma poi rinunciò ad addentarlo e lo rimise giù. Improvvisamente, la porta della cella si aprì di nuovo e apparve un uomo, che li squadrò con aria incuriosita, come solo due stranieri si possono guardare.
“Buongiorno”, disse loro.
“Lei parla la nostra lingua?”, chiese Steve, stupito.
“Poco. Vostra lingua difficile”.
“Come l'ha imparata?”.
“Io imparato da altri come voi, venuti in altri tempi”.
“Dove ci troviamo?”, chiese ancora Steve.
“Veramente, io faccio domande, qui”.
“La prego, ci dica dove ci troviamo”.
“Noi chiamare questo posto Etaca”.
“Siamo in un'altra dimensione, rispetto al nostro pianeta?”
“Non conosco "dimensione"”.
“Perché ci tenete prigionieri?”, chiese Livienne.
“Noi tenere voi, perché voi avere nostri ragazzi”.
“I due ragazzi venuti nel nostro mondo?”
“Sì. Due ragazzi venuti nel vostro mondo. Tu visto loro?”, chiese, mostrando un piccolo oggetto, che proiettò un ologramma dei due ragazzi.
“Sì. Li ho visti. Stanno bene”.
“Perché voi non liberare loro?”
“Noi non li teniamo prigionieri… volevamo solo assicurarci che stessero bene veramente”.
“Perché loro non tornare, allora?”
“Esiste un modo per tornare?”, chiese Steve, sperando di riuscire a scoprire qualcosa di utile.
“Certo! Basta dire frase magica nella grotta!”
“La stessa che abbiamo pronunciato per venire qui?”
“Sì”.
“E noi, per tornare dobbiamo pronunciare sempre quella?”
“No. Altra frase. Voi non conoscere”.
“Lei la conosce?”, chiese Livienne.
“Sì. Io e pochi altri conoscere”.
“Allora lasciateci andare. Fateci tornare nel nostro mondo. Noi faremo in modo che i due ragazzi tornino di qui”, propose Steve.
“Vostra parola non è sufficiente. Quando loro tornare, noi rilasciare voi”.
“Ma se non tornassero?”
“Voi restare per sempre. Forse noi usare voi come merce di scambio…”.
“Mi ascolti! Lasci tornare Livienne! Lei farà in modo che i due ragazzi tornino a casa, e io resterò in ostaggio fino a che non saranno di nuovo qui”. L'offerta di Steve era logica. Sperava che lui la accettasse. In questo modo, almeno Livienne sarebbe tornata a casa e avrebbe potuto raccontare a tutti di quella meravigliosa civiltà.
“No. Voi restare. Questi gli ordini”, annunciò l'autoctono, con fare solenne.
Poi si diresse verso la porta, ma prima di uscire disse loro:
“Io consiglio voi: mangiate! Buone cose, qui da noi. Altri prima di voi mangiate… altri che ora stanno qui, con noi. Loro sposati qui, hanno anche figli. E mangiano quiddas come quelle. No velenose”.
“Intende dire che altra gente venuta dal nostro mondo vive qui con voi?”
“Certo. Da molti… come dire voi? Ah, sì: anni”.
Poi uscì. Livienne addentò una quiddas, come l'aveva chiamata l'uomo, e la trovò gustosa.
“Niente male”.
Steve provò ad assaggiarne una.
“Sa di albicocca… e di melone”, disse.
Consumarono la colazione con appetito: non mangiavano da più di trentasei ore. Poi cercarono di stendersi un po'.
La mattinata passò lentamente, nella penombra della prigione. Deboli raggi di luce entravano dalla finestrella che dava sul corridoio; per il resto, la stanza era priva di altri sbocchi sull'esterno. Steve si sentiva mancare il fiato. Si lasciò andare sulla branda, di fronte a Livienne, e sospirò.
“A che pensi?”, gli chiese Livienne.
“Stavo pensando che forse avresti fatto meglio ad andare a cena con Cris, l'altra sera. Almeno non ti avrei trascinato in questo pasticcio”.
“Non dire sciocchezze, Steve. Sai meglio di me che, se sono qui, è solo perché l'ho voluto io. Inoltre, non avevo nessuna voglia di andare a cena con quel fannullone di Cris!”
Lui le sorrise dolcemente.
“Credi che sia questo il nostro futuro, Steve? Astronavi, città megagalattiche… e questa guerra spaventosa?”
“Non lo so. Non so neppure se siamo finiti nel futuro, o nel passato. O se magari ci siamo imbattuti in un altro universo, in un altro pianeta”.
“Sai, è buffo: non ho mai creduto molto nel paranormale, prima di conoscere te”, rise Livienne.
“Beh, ora ti sarà difficile non crederci”.
“Pensi che potremo mai tornare nel nostro mondo?”
“Credo che, prima, in ogni caso, dovremo tentare di uscire di qui”.
“Che cosa ci faranno?”
Steve scosse la testa: non lo sapeva.
“Hai paura?”, le chiese.
“Un po'. E ho freddo”. La temperatura era calata parecchio durante la notte.
Lui le si sedette vicino, circondandole le spalle con un braccio.
“Va meglio ora?”
“Sì”, sussurrò, appoggiando la guancia contro il petto di lui.
Gli occhi color ghiaccio di Steve si fissarono nei suoi: non l'aveva mai vista così impaurita, così fragile. La tenne stretta, fissandola dolcemente. Piano piano, quasi impercettibilmente, le sue labbra si avvicinarono a quelle di Livienne. Lei si rese conto di quello che stava per fare e il suo cuore prese a battere forte: Steve stava per baciarla. Improvvisamente, la porta della loro cella si spalancò e due guardiani, armati fino ai denti, dissero loro qualcosa nella loro strana lingua, facendo segno di uscire.
“Che succederà ora?”, chiese Livienne, spaventata. Lui continuava a tenerla stretta, mentre uscivano dalla cella. Si augurò che non avessero deciso di ucciderli entrambi. Vennero portati nel cortile, dove molta gente si raggruppò intorno a loro: fra questi, Steve riconobbe i due ragazzi che aveva conosciuto in Tibet. Evidentemente, avevano trovato il modo di tornare nel loro mondo. Steve trasse un profondo sospiro di sollievo.
L'uomo che aveva parlato con loro quel mattino li raggiunse, e disse:
“Nostri ragazzi, tornati. Ora voi liberi di andare”.
“Grazie”, rispose Steve, felice.
Vennero fatti salire su un'astronave, parcheggiata nel cortile. Il mezzo si alzò da terra, guidato da un ufficiale in divisa. Anche le due guardie erano a bordo ma avevano messo via le armi. La navicella galleggiava nel cielo e viaggiava tanto velocemente che non pareva neppure di spostarsi. Giunsero in prossimità della grotta e l'astronave atterrò. Steve pensò che non avrebbe mai dimenticato quel viaggio. Lui e Livienne vennero accompagnati nella grotta, poi una delle due guardie pronunciò la frase magica, quella per il ritorno:
“Altermate otaojo munda etaca”.
Un lampo accecante illuminò la mente di Steve e Livienne, poi tutto fu buio e l'universo sembrò scorrere sotto di loro, in un vortice senza tempo.
Livienne aprì gli occhi e si trovò distesa su un lettino d'ospedale. Si guardò intorno, spaesata. Vide Steve, che dormiva ancora, su un lettino accanto al suo. Si trovavano in un ambulatorio medico, a giudicare dall'arredamento.
“Steve, stai bene?”, chiese, a bassa voce.
Lui aprì gli occhi:
“Dove ci troviamo?”
“Non lo so. Mi sono appena svegliata”, sussurrò lei, alzandosi. Aveva un forte mal di testa. Anche Steve si alzò. In quel momento un'infermiera entrò nella stanza.
“Vedo che finalmente vi siete svegliati”, annunciò allegramente.
“Che cosa succede? Dove ci troviamo?”, chiese Steve, notando però che la donna parlava la loro lingua. Probabilmente erano tornati nel loro mondo, si augurò.
“Siete nell'ambulatorio medico dell'ospedale di Lhasa, in Tibet”.
“Come ci siamo finiti qui?”
“Siete stati trovati svenuti nella grotta da una squadra di soccorso. Venite: il signor Senfter desidera vedervi”. Li accompagnò lungo un corridoio, e Livienne ne approfittò per chiedere a Steve:
“Chi è il signor Senfter?”
“Il capo massimo dell'FBI. Non mi piace quell'uomo. Se c'è di mezzo lui, sento puzza di guai”.
“Se non altro, ora siamo sicuri di essere tornati nel nostro mondo!”, ironizzò Livienne.
“Già”.
L'infermiera bussò a una porta e qualcuno, da dentro, disse “avanti”. Steve e Livienne entrarono nella stanza. Un uomo dall'aspetto torvo stava seduto dietro a una scrivania, un sorriso falso dipinto sulle labbra e una strana luce beffarda negli occhi.
“Salve, Rowling. Ci si rivede”, disse.
“A quanto pare…”. Steve non sembrava molto contento di rivederlo e non fece niente per nasconderlo.
“Che cosa ci è successo? Perché ci troviamo qui?”, tagliò corto.
“Eravamo preoccupati per voi e così siamo venuti a cercarvi. Vi abbiamo trovati svenuti: siete stati vittime di allucinazioni. In quella grotta c'erano delle muffe allucinogene che vi hanno completamente annebbiato i sensi”.
“La racconti a qualcun altro! Lei sa bene dove siamo stati, in questi due giorni!”, esplose Steve.
“Certo! Nella grotta. Non vi siete mai mossi di lì!”
“Non dica sciocchezze! Ci sono le mie foto a dimostrare dove siamo stati!”, esclamò Livienne.
“Intende dire queste foto?”, disse, lanciando un pacchetto di fotografie ormai sviluppate sul tavolo che gli stava davanti. Livienne le fece passare: c'erano alcune foto scattate nella grotta e niente altro.
“Dove sono le altre? Che ne avete fatto?”, chiese, inviperita.
“Non ce ne sono altre, signorina Parrish. Lei ha scattato alcune foto alla grotta, appena arrivata laggiù, poi basta. Il resto del rullino era vuoto!”
“A chi la vuol dare a bere, Senfter?! Andremo di nuovo nella grotta, e questa volta non ci sorprenderete”, urlò Steve.
“Temo che sarà impossibile, signor Rowling: le autorità locali hanno ritenuto opportuno cementare l'ingresso della grotta, data la pericolosità di quelle muffe”.
“Maledizione!” Inviperito, Steve piantò un pugno sul tavolo.
“Non si arrabbi, Steve”. Senfter avvicinò il viso a quello di Steve e sussurrò: “Vede, ci sono cose che questo mondo non è ancora pronto a scoprire”.
“E chi è in grado di scoprirle, allora? Lei, forse?”
“Forse sì… o forse no. Tenga per lei questa storia, Steve, se vuole conservare il suo posto di lavoro”.
“Lei potrà anche mettere a tacere Steve, ma non può mettere a tacere me! Lei non è il mio capo, non può licenziarmi, e io sono una giornalista! Farò stampare questo articolo e lei non mi potrà fermare”.
“Lei crede, signorina Parrish? Ho parlato mezz'ora fa con il suo capo. Una persona squisita, il signor Roger Been. Gli ho spiegato cosa vi è successo e, date le circostanze, ha pensato bene di non pubblicare il suo articolo sul prossimo numero di "ai confini della realtà". Come vede, signorina Parrish, c'è anche chi crede alla mia versione dei fatti”.
Livienne sbatté per terra le fotografie, poi uscì dalla stanza e si diresse fuori, all'aria aperta, seguita da Steve.
“Maledetti!”, esclamò, quando lui la raggiunse.
“Ci hanno usato, Livi. Sapevano fin da prima che cosa c'era in quella grotta. Ma avevano bisogno di due "volontari" che andassero dall'altra parte. Volevano vedere se il trapasso era pericoloso, e se davvero c'era un modo per ritornare. Inoltre, avevano bisogno di sapere cosa c'era di là. Per questo ti hanno lasciato fare le foto e poi te le hanno portate via”.
“Tu credi, Steve?”
“Certo: hanno rimandato i ragazzi nell'altro mondo, quindi sapevano perfettamente come far funzionare la grotta. Probabilmente hanno anche immaginato che, se avessero rimandato di là quei due, gli altri avrebbero fatto altrettanto con noi. Ci stavano aspettando nella grotta, Livi!”
“Credi che vogliano riaprire la grotta?”
“Non lo so, ma probabilmente ci saranno molte altre grotte come quella, nel nostro mondo. E credo che Senfter le conosca tutte”.
Livienne rimase in silenzio per qualche minuto, confusa. Poi chiese:
“E se si fosse trattato veramente di un'allucinazione?”
“Tu ci credi?”
“No”, rispose, fissando un punto lontano, perso nell'immenso altipiano che aveva di fronte.
“Forse è meglio così, dopotutto. Forse non siamo davvero ancora pronti per accettare una nuova civiltà come quella che abbiamo visto. Forse non abbiamo neppure nulla di bello da imparare, da loro”.
Steve annuì.
“Forse”. Poi la guardò:
“Andiamocene a casa, vuoi?”
Livi sorrise:
“Credo di non essere mai stata tanto felice di sentirtelo dire!”
“Già, lo credo anch'io!”
Le passò un braccio intorno alle spalle e presero a camminare lungo la via, diretti all'eliporto. Il sole stava scendendo dietro l'orizzonte e un tramonto rosso come il fuoco incendiò la sera, colorando di rosa i ghiacciai e la ruvida superficie dei monti. Livienne si soffermò a guardare quella meraviglia, chiedendosi per quanto tempo sarebbe stato ancora così. Chiuse gli occhi e rivide le immagini spaventose della guerra; risentì le astronavi che sibilavano sopra di lei e i colpi spaventosi delle bombe. Era il futuro, quello che avevano visto? Solo il tempo avrebbe potuto dirlo.
 

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Capitolo 10
*** capitolo dieci: I TERREMOSAURI ***


I TERREMOSAURI
 
Filadelfia, Martedì 20 giugno 2000
 
"Misterioso animale preistorico compare nei pressi di Trenton dopo un terremoto".
Così sottotitolava la prima pagina di Mistery. Steve la stava giusto leggendo quando Livienne piombò nel suo ufficio, con un'altra copia del giornale in mano.
“Allora lo sai già”, cominciò lei.
“Se alludi allo strano essere comparso nei dintorni della palude nera, sì, lo so già”.
“Quando si parte?”
“Veramente non credo che sia il caso di partire. A volte queste notizie sono vere e proprie bufale e questa mi sembra una di quelle. Senti un po' qua come lo descrive una signora: un essere viscido, con il corpo anellare ricoperto di simmetrici puntini colorati e, sul muso, un grosso becco giallo con due buchi sopra, che dovrebbero fungere da naso. Per completare l'opera, dovrebbe avere un lungo corno flessibile sulla nuca, occhietti tondi, totalmente neri e rilucenti, e una coda a forma di pala. Chi ha mai visto un mostro simile? Credo che non esista niente del genere neppure nelle fantasie più sfrenate e nascoste di Stephen King!”, esclamò Steve, mostrandole il disegno riportato dal giornale e fatto a immagine e somiglianza della strana bestiola vista dalla signora Eliane Gagget .
“Appunto per questo dobbiamo indagare! Dopotutto non conosciamo ancora tutti gli animali di questa terra”.
“Lo so. Ma questo caso non riguarda noi: non siamo dei criptozoologi e questa simpatica bestiola, ammesso che esista, non ha proprio niente di soprannaturale”.
“Come vuoi. Sei libero di non seguirmi. Io ho intenzione di saperne di più”.
“Secondo me, fai un buco nell'acqua”, bofonchiò Steve. Ma gli seccava che Livienne prendesse parte a un’indagine senza di lui. E se le fosse accaduto qualcosa? La sola idea lo atterrì. Perché si preoccupava così tanto per lei? La guardò. Era ancora davanti a lui, sembrava aspettare che dicesse qualcosa, che la seguisse, forse…
Improvvisamente, il lampadario prese a oscillare lievemente e i vetri si misero a tintinnare.
“Un'altra scossa di terremoto!”, esclamò Livienne.
Steve la prese per mano e la trascinò fuori, nel corridoio.
“Questa è più forte di quella della scorsa notte”, disse mentre uscivano dalla sede dell'FBI, imitati dagli altri agenti.
“Livienne! Tutto bene?”, le chiese Dennis, affiancandola.
“Sì, certo”.
La scossa terminò e, dopo qualche tempo, tutti ritornarono cautamente ai loro uffici. Steve e Livienne vennero raggiunti da Donald.
“Steve, devi andare a Lewittown, appena fuori città. Sembra che sia stato avvistato uno strano animale, una cosa viscida, che terrorizza le signore. Eccetto la qui presente, immagino”, aggiunse, notando che Livienne brandiva tranquillamente l'articolo riguardante il mostro.
“Già”, ammise Steve. “Ma non era stato avvistato ieri sera a Trenton?”
“Sì, ma ora pare che si sia spostato nei pressi di Filadelfia. A meno che non si tratti di un altro esemplare della stessa specie: sembra che questo tipo di animali viva sottoterra. Può darsi che siano stati disturbati dalle recenti scosse telluriche”.
“D'accordo. Ci daremo un'occhiata. Immagino che tu venga con me”, disse, rivolto a Livienne.
“Immagini giusto”, gli rispose, sorridendo.
Ben presto avevano raggiunto Lewittown, dove la signora Alma Hander aveva visto l'animale. Quando la interrogarono, lei cominciò a raccontare:
“Ero uscita per raccogliere i panni stesi, quando ho visto spuntare dalla terra quello strano essere. Non ho mai avuto tanta paura in vita mia! Era lungo all'incirca quaranta centimetri e largo quindici, ma la cosa più terribile era quell'enorme becco che aveva davanti! Non so dire se fosse un rettile o un uccello, anche se non aveva le piume!”
“Non mi intendo molto di animali ma so che, di solito, se non hanno penne e piume non vengono considerati uccelli. Inoltre, visto che strisciava, sarei propensa a pensare che si tratti di un rettile”, la interruppe Livienne.
“A ogni modo era terribile! Sono rimasta lì per qualche secondo a guardarlo, come pietrificata, poi, urlando forte, sono scappata in casa, chiudendo porte e finestre. Poco dopo c'è stata quella scossa di terremoto, ma vi giuro che non ho avuto il coraggio di scappare fuori! Me ne sono stata rintanata in casa, sotto il tavolo della cucina”.
“Capisco. È sicura che la scossa di terremoto sia venuta dopo averlo visto?”
“Sì, certo. Ne sono sicurissima”.
“Strano. Avevo pensato che fosse stato spaventato dalle scosse e fosse uscito allo scoperto per quel motivo”, disse Steve, pensando ad alta voce.
“Quando la scossa è terminata, quel piccolo mostro se n'è tornato nel buco che aveva scavato e non l'abbiamo più rivisto. Mio marito ha provato a scavare, ma non c'era più traccia neppure della galleria che aveva costruito: l'aveva riempita di terra”, disse ancora la donna.
“Possiamo vedere dov'era la galleria?”
“Certo, venite”.
Li accompagnò sul retro della casa, sul terreno che circondava il cascinale.
“Ecco, era qui”, disse, mostrando la terra smossa.
“Alcuni sismologi sono stati qui, stamattina. Hanno detto che la scossa è partita proprio da qui attorno. Per fortuna non è stata forte, altrimenti la casa avrebbe potuto crollare, con me dentro, per colpa di quella bestiaccia!”
Il telefono di Steve suonò e lui rispose:
“Steve, sono Donald. Ci sono novità. Lo strano essere è stato avvistato nei pressi di Vilmington, proprio nell'epicentro di un altro terremoto avvenuto dieci minuti fa”.
“Mi reco subito laggiù”.
“Sembra che questo animale abbia il potere di sentire le scosse di terremoto in anticipo”, disse, rivolto a Livienne.
“Molti animali percepiscono i terremoti qualche ora prima che si verifichino”.
“Già, ma ne sono spaventati. Questo sembra invece che ne sia attratto. Altrimenti perché precipitarsi sul posto proprio qualche ora prima che avvenga la scossa? Qualsiasi altro animale girerebbe bene al largo da lì, non credi?”
“Questo è vero. Dove andrà, adesso?”
“Non ne ho idea! Possiamo solo tirare a indovinare. Prendiamo una cartina geografica”. Ne estrasse una dal cruscotto della macchina e la dispiegò sopra il cofano.
“Ecco, guarda!”, disse, mostrandole la strada percorsa dall'animale.
“Sta procedendo in questa direzione: da Trenton si sta dirigendo verso Vilmington, in linea retta. Se siamo fortunati, proseguendo verso Baltimora dovremmo raggiungerlo, sempre che non sopravvenga un altro terremoto, in un'altra zona, visto che finora sembra li stia inseguendo. È strano però: questi terremoti, oltre a seguire una linea retta, si sono verificati più o meno alla stessa distanza l'uno dall'altro”.
“Questo che significa?”
“Non lo so, ma è chiaro che c'è un collegamento fra quella strana bestia e i terremoti. Andiamo verso Baltimora e cerchiamo di catturarla”.
“D'accordo. Prima, però, fermiamoci a comprare dei panini, ti prego”.
“Non mi dirai che hai già fame?”, si stupì Steve.
“Sono le otto di sera, Steve! Io a quest'ora ceno!”
“E va bene, d'accordo”, accettò lui. Ma che gli stava facendo quella ragazza? Di solito, quando aveva un caso per le mani, non sentiva neppure la fame e non dava ascolto a nessuno… e ora si lasciava ammansire dagli occhi verdi di lei, dal suo sorriso, dalla sua dolcezza…
Si fermarono in un fast-food e comprarono degli ottimi hot dog, poi ripartirono diretti verso Baltimora.
“Hai pensato alle eventuali possibilità di sfruttamento di questo tipo di animale, Steve? Se veramente sente in questo modo i terremoti, potremmo utilizzare le sue doti per prevedere i terremoti e salvare moltissima gente”, affermò Livienne, quando ormai stavano raggiungendo la città, a bordo della vettura di Steve.
“Sì, potrebbe essere. Ma bisognerà vedere se sarà disposto a collaborare”, rispose, poco convinto.
Era notte quando giunsero nei pressi di Baltimora. Qui, un gruppo di sismologi mandati da Donald su richiesta di Steve li stava aspettando, con un furgoncino carico di tutta l'attrezzatura necessaria per rilevare i terremoti.
“Salve, ragazzi”, li salutò Steve.
“Salve. Lei è l'agente Rowling?”
“Sì. Questa è una mia amica: Livienne Parrish, giornalista del City Magazine”.
Il capo del gruppo le sorrise e piegò la testa in segno di saluto.
“Sono Jack Norton e questi sono i miei collaboratori: Alan, Louis, Gregor e Ken. Lavorano con me all'università di Baltimora”.
“Che mi sapete dire su quello strano animale che segue i terremoti?”, chiese Steve.
“Assolutamente niente: per noi è una novità. Certo che, se dovessimo riuscire a catturarlo, sarebbe una grande scoperta per l'umanità”.
“Allora, diamoci da fare: abbiamo scoperto che, per ora, l'animale sta seguendo una linea retta, diretto verso Baltimora”.
“In effetti, anche l'epicentro dei movimenti tellurici si sposta verso la città. Guardate”, disse, mostrando loro il sismogramma che usciva dal sismografo.
“Le scosse sono molto leggere, del secondo grado della scala Mercalli, corrispondenti a 3,5 gradi della scala Richter, ma si spostano in questa direzione, seguendo una linea retta. Tutto ciò è molto strano, se devo essere sincero. In tanti anni non ho mai visto niente del genere”.
“Nemmeno io”, confermò un altro dei sismologi.
“Forza! Non è stando qui che cattureremo quella bestiola”, li esortò Steve.
“Seguiremo le scosse telluriche, andando verso Baltimora. Voi veniteci dietro con la macchina”, disse Jack.
“D'accordo”.
Steve e Livienne salirono in macchina dove presero a seguire gli altri, nel tentativo di raggiungere lo strano animale. Dopo qualche tempo, il furgone si fermò. Forse dovevano fare dei rilevamenti aggiuntivi, pensò Steve. Trovò una piazzola di sosta e parcheggiò la macchina, poi si rivolse a Livienne.
“Pare che ci dobbiamo fermare qui, per un po'”.
“Forse l'hanno trovato”.
“Non credo. Ci sarebbe maggiore agitazione in quel furgone e ci avrebbero avvertito”. Si mise tranquillo e si lasciò andare sul sedile, riposandosi: era stata una lunga giornata. Rimase così per un bel pezzo, a guardare le stelle fuori dal finestrino, poi si voltò verso Livienne, chiamandola per nome.
“Livienne… hai uno strano nome, sai? È francese, vero?”
“A dire la verità credo che non esista neppure. È stata mia madre a sceglierlo: le piaceva molto. E piace anche a me”.
“È troppo lungo. Preferisco Livi”.
“Veramente, io trovo che “Livi” sia un po' troppo intimo, per noi due: dopotutto non ci conosciamo quasi”, ammise Livienne.
“Beh, ci frequentiamo da tre mesi, ormai”.
“Sì, ma solo per lavoro, e questo non significa che ci conosciamo”.
“Allora forse dovremmo conoscerci meglio, che so, parlare un po' di noi…”. Quella sembrava la serata giusta per affrontare un simile argomento: dopotutto, non avevano niente di meglio da fare.
“E sia. Che vuoi sapere?”, si arrese lei.
“Hai mai avuto un ragazzo, Livi?”, chiese, dopo averci pensato un istante.
“Certo! Per la verità ne ho avuti parecchi. Perché me lo chiedi?”
“È che sei così ingenua…”, insinuò lui, sapendo di indispettirla.
“Non sono affatto ingenua!”, si difese. “Davvero credi che non sia mai stata con un uomo?”, chiese, contrariata.
Lui le sorrise:
“Non lo so. Sei ancora fidanzata?”
“No. Ci siamo lasciati. Eravamo insieme da due anni. Quando sono partita dal  mio paese per venire qui credevo che ci saremmo visti meno spesso, ma che comunque saremmo rimasti insieme. Invece, dopo solo due mesi sono tornata a casa a trovarlo e lui mi ha detto di essersi innamorato di un'altra. È stata dura, Steve. A volte penso che se non fossi venuta qui, a cercare di fare carriera, forse sarei ancora con lui, forse mi sarei anche sposata”.
“Con Carey?”, intuì Steve, ricordando il nome che Dennis gli aveva fatto digitare sul computer della ragazza, mentre cercavano la sua password.
“Come fai a saperlo?”, chiese lei, stupita.
“Anch'io ho le mie fonti!”, esclamò, felice di poterla ripagare con la sua stessa moneta, una volta ogni tanto.
“Mio fratello! Non terrebbe la bocca chiusa neanche…”, bofonchiò Livienne.
“Devo ancora capire chi siano Nathan e James…”, la stuzzicò lui.
“Non sono decisamente affari tuoi!”
Dal tono di Livienne, comprese che non doveva spingersi oltre.
“Okay… non ti arrabbiare”.
“Non sono arrabbiata”.
Lui sorrise, divertito. Sapeva che era furiosa con suo fratello, per averlo messo al corrente di cose che evidentemente non doveva scoprire.
“E tu, ce l'hai una ragazza?”, chiese all'improvviso, rivolta a Steve.
“Ce l'avevo. Ma un brutto giorno mi ha detto che era stanca di stare con un uomo che si divertita a sezionare cadaveri dalla mattina alla sera. Così mi ha lasciato. A quanto pare, abbiamo molto più di una semplice passione per il paranormale, in comune, tu e io”.
“Già”.
Di nuovo, tra loro, cadde un profondo silenzio. Steve prese il coraggio a due mani.
“Livi, non hai mai pensato che noi due potremmo anche… stare bene insieme?”, azzardò, eludendo lo sguardo di lei guardando fuori dal finestrino.
“A dire il vero sì, ci ho pensato. Ma non funzionerebbe, Steve. Siamo troppo diversi.  Tu sei così preciso, ordinato, e io così caotica e fuori di testa. Inoltre, non sono certa di avere voglia di innamorarmi di nuovo, non per ora, almeno. Ho avuto delle storie, in passato, e sono state tutte inqualificabili disastri. Non voglio soffrire ancora. Credo di non essere portata per le storie d'amore: chissà perché faccio sempre la mossa sbagliata, sempre il contrario di quello che dovrei fare. Ho smesso da un po' di chiedermi se seguire il cuore o la carriera e ho scelto la carriera. Non voglio rinunciarci proprio adesso che ho incominciato a trarne dei frutti”.
“Stare con me non significa necessariamente lasciare la carriera”.
“Vedi, Steve, ho sempre pensato, quand'ero una bambina, che mi sarei sposata e avrei avuto dei figli. Ora non riesco più a conciliare questa mia visione del futuro con la vita presente. Il lavoro che faccio, soprattutto da quando sono con te, mi spinge a essere spesso in pericolo. Non voglio che qualcuno si preoccupi per me. Non voglio avere una famiglia che mi aspetta in ansia tutte le sere, e non voglio neppure stare in pensiero io stessa. Mi conosco, Steve. Se tu e io ci mettessimo insieme, starei troppo in pena per te. E forse sarebbe lo stesso per te”.
Lui annuì, silenziosamente, Forse Livienne aveva colto nel segno. Dopotutto, anche lui aveva sempre temuto per la vita di Lisa, quando era insieme a lei. Temeva le ritorsioni che avrebbero potuto colpire la sua fidanzata. Sapeva che molti dei criminali che aveva mandato in prigione uscivano troppo presto, ed erano una seria minaccia per lui o chiunque gli stesse vicino.
“Questo non significa che un giorno non avrò una famiglia: sono certa che incontrerò l'uomo giusto, quello che sarà pronto davvero a tutto per me, e allora lascerò ogni cosa e mi metterò con lui, mi sposerò e avrò dei bambini”, disse ancora Livienne.
“Insomma, stai aspettando il principe azzurro?”, rise Steve.
“Una specie”.
“E io sono troppo "dark" per essere definito "azzurro"”.
Livienne gli sorrise:
“Andrà a finire che diventerò "dark" pure io, se continuo a frequentarti”.
“Non è poi così grave, una volta che ci si è fatta l'abitudine”.
Il furgone ripartì e Steve riprese a seguirlo. L'alba incominciava a schiarire il cielo, quando la terra iniziò a tremare di nuovo.
“Ecco, ci siamo!”, esclamò uno degli scienziati calcolando il punto esatto dell'epicentro.
“È qui vicino, appena fuori città”, confermò Jack, avvisando anche Steve, per telefono.
In breve furono sul luogo dell'epicentro. Il terremoto non era molto forte: circa quattro gradi della scala Mercalli, come gli altri che lo avevano preceduto.
Si trovavano nei pressi di un bosco, ma dello strano animale sembrava non esserci alcuna traccia. Uno degli scienziati provò a cercarlo con un rivelatore a raggi infrarossi.
“Se si tratta di un rettile, sarà impossibile rilevarlo in questo modo”, bofonchiò Steve, che controllava lo schermo del computer collegato all'attrezzatura.
“Già, infatti non riesco a trovarlo”.
“Venite qui, presto!”, disse Alan, a mezza voce, mentre scrutava con un acceleratore fotonico il terreno del sottobosco, intorno al furgone. Steve e Livienne, seguiti dagli altri sismologi, lo raggiunsero.
“Guardate laggiù: qualcosa sta muovendo della terra”.
“È vero!”, confermò Steve, controllando con il cannocchiale.
“Fa vedere anche a me”, si lamentò Livienne.
Steve le prestò l'acceleratore fotonico e lei poté vedere che, da una piccola montagnola di terra,   stava spuntando qualcosa. Era una specie di coda, fatta a forma di pala.
“Incredibile!”, esclamò Livienne, ridando il piccolo aggeggio a Steve.
“È lui! Sta uscendo al contrario. Prima la coda e poi il resto del corpo”, constatò Steve.
“Forza, accerchiamolo!”, ordinò Jack. Proprio in quel momento, l'animale uscì tutto quanto dal buco che aveva scavato e cominciò a strisciare, allontanandosi. I sette si armarono di apposite reti e si dispersero per il bosco, camminando il più silenziosamente possibile per non spaventare l'animale. Un poco alla volta riuscirono ad accerchiarlo, poi si misero a stringere il cerchio intorno a lui, per poterlo catturare.
L'animale si fermò e alzò il mostruoso becco quasi stesse annusando l'aria. Si guardò intorno, poi posò il muso a terra e rimase immobile. La terra iniziò a tremare.
“Una nuova scossa di terremoto!”, esclamò uno dei sismologi.
“È del quinto grado”, avvisò un altro, controllando l'apparecchiatura.
Steve e Livienne si distesero per terra, incapaci di restare in piedi.
“L'epicentro è proprio qui!”, constatò Jack, steso a terra accanto a loro.
L'animale, intanto, sembrava essere caduto in trance: non si muoveva, né mostrava alcuna paura per il movimento tellurico in atto.
Improvvisamente, un colpo, sparato da una macchia di cespugli, raggiunse il grosso lombrico cornuto e lo colpì, facendolo cadere di lato, immobile . Steve si rese immediatamente conto che l'animale era stato addormentato con un potente sedativo, di quelli usati per le belve feroci. Si alzò e, faticosamente, cercò di tenersi in piedi.
“Steve! Stai attento!”, lo ammonì Livienne.
Si allontanò dal gruppo, raggiungendo il cespuglio. In quel momento un ragazzo spuntò da dietro le fronde e lo guardò. Poi rivolse lo sguardo all'animale, disteso, immobile, per terra. Il terremoto cessò lentamente, spegnendosi un poco alla volta.
“Meraviglioso!”, esclamò.
“Proprio come pensavo”. Il giovane sembrava felice di aver colpito l'animale. Steve non lo era per niente.
“Lei chi è, mi scusi?”, gli chiese, sorpreso e seccato allo stesso tempo.
“Mi chiamo Adam Mackenzie e sono uno studente di veterinaria all'ultimo anno”. Mentre parlava si avvicinò all'animale, che ora aveva chiuso le palpebre sopra gli occhietti rilucenti e sembrava essere immerso in un sonno profondo.
“Se non lo vedessi con i miei occhi non ci crederei”, commentò, osservando l'animale da vicino.
“Chi le ha dato il permesso di lanciare quel sedativo?”, gli chiese Alan, piuttosto arrabbiato.
“Dovreste ringraziarmi: se non l'avessi addormentato, non lo avreste mai catturato”.
“Che vuol dire?”
“Non l'avete ancora capito? È lui a generare le scosse!”
“Vuol dire che l'animale è in grado di produrre i terremoti?”, chiese Steve.
“Certamente. Guardi!”, disse, mostrandogli un sismografo.
“Vede? Anche ora che è addormentato, qui intorno c'è un leggero movimento tellurico, dovuto alla presenza dell'animale”.
“Non dica sciocchezze! Un animale non potrebbe mai provocare un terremoto!”, esclamò uno degli scienziati.
“Lei crede? Analizzatelo. Provate a controllare le sue onde cerebrali. Credo che sia con quelle che controlla il sisma. Quello che ancora non ho capito, è il perché lo faccia!”, disse ancora Adam.
Steve si avvicinò all'animale e lo toccò leggermente con il piede.
“Perché ha detto che non saremmo riusciti a catturalo?”
“Perché avrebbe aumentato l'intensità del sisma fino a mettervi in pericolo. In questo modo, vi sareste allontanati e lui sarebbe riuscito a mettersi in salvo”.
“Forza, catturiamolo”, disse Steve, rivolto agli scienziati.
“Aspetti, ci penso io. Non voglio che gli facciano del male”. Adam si inginocchiò davanti all'animale e lo raccolse, portandolo in braccio fino al camion. Lo adagiò dentro una gabbia, appositamente preparata.
“Ecco fatto”, disse, chiudendo la gabbia.
“Ora raggiungiamo un laboratorio”, aggiunse.
“Come è arrivato alle sue conclusioni?”, chiese Steve, che comunque aveva cominciato a considerare l'idea del giovane veterinario.
“Ho sentito parlare di questo strano animale già l'altra sera, in tivù. Mi sono interessato alla cosa e ho notato che andava solamente dove poi si verificavano dei sismi. La cosa non era logica: di solito gli animali rifuggono il pericolo, mentre questo lo ricercava. A meno che non fosse lui stesso a provocarlo. Ma perché? È questo che non riesco a capire”.
Una volta giunti al laboratorio dell'università di Baltimora sottoposero l'animale a ripetuti test, tra i quali anche una misurazione delle onde cerebrali. Quando, verso mezzogiorno, l'essere incominciò a risvegliarsi, le onde cerebrali aumentarono, e quando fu completamente sveglio la terra ricominciò a tremare. L'animale, rinchiuso in gabbia, aveva paura e dovettero sedarlo nuovamente, per evitare il peggio. Alla fine, i sismologi furono costretti ad ammettere che doveva essere collegato alle scosse di terremoto e, in qualche modo, ne era il responsabile.
Nel frattempo, Steve e Livienne avevano atteso i risultati degli esami, in una stanzetta. Steve era stranamente silenzioso.
“A cosa pensi?”, domandò Livienne.
“Non riesco a capire perché questo animale produca quelle scosse”.
“Non lo so, ma ci conviene tornarcene a casa”.
“Sì, forse è meglio”.
“Steve, venga a vedere!”, esclamò Jack, entrando nella stanza. Lo accompagnò davanti ai sismografi.
“Che succede?”
“A circa cento miglia da qui c'è stata un'altra scossa di terremoto, per intensità e tipo molto simile a quella prodotta da questo animale”.
“Lei crede che possa essercene un altro?”, chiese Steve, rivolto ad Adam.
“Può essere”.
Steve rimase un attimo in silenzio, pensoso, poi si rivolse nuovamente al veterinario:
“Adam, perdoni la mia ignoranza in fatto di animali e mi permetta alcune domande”.
“Mi dica pure, sarò felice di erudirla, fin dove mi è possibile”.
“Se non ho capito male, questo animale è di una razza sconosciuta, fino a ora”.
“Sconosciuta e in via di estinzione, credo, dato che non sembrano essercene molti esemplari”.
“Di che sesso è?”
“Non ho molta esperienza in merito, dato che è una specie sconosciuta, ma credo proprio che si tratti di un maschio”.
“Perché, secondo lei, esce dalla terra prima di provocare il sisma e ci ritorna dopo averlo provocato?”
“Per evitare il pericolo di frane. Vive in cunicoli che si scava nella terra: il terremoto potrebbe chiudere il cunicolo e soffocare l'animale, o ferirlo”.
“Ciononostante, anche fuori dal cunicolo è in pericolo”.
“In un cero senso, sì. Il terremoto è comunque un pericolo per lui, anche se in qualche modo lo controlla”.
“Allora mi risponda: perché un animale di una specie chiaramente in estinzione, con un profondo istinto di conservazione quale hanno tutti gli animali, dovrebbe mettere a repentaglio la propria vita producendo dei terremoti intorno a sé? Quale ragione potrebbe avere di produrre quelle scosse? La scienza ci insegna che la conservazione della specie è la cosa più importante nella vita degli animali, specialmente di quelli in via di estinzione. Quindi l'unica ragione possibile per produrre quei terremoti potrebbe essere quella di attirare l'attenzione di un altro animale della stessa specie, ma di un altro sesso”.
“Ma certo! Vuole accoppiarsi! Come ho fatto a non pensarci prima? È tutto chiaro! Evidentemente questi animali sono talmente rari che ne vive uno solo nel raggio di miglia e miglia, quindi, quando è il momento di accoppiarsi, la cosa diventa problematica, perché non v'è richiamo o odore, o colore del mantello che possa essere captato da un altro animale di questa specie. Così la natura ha dotato questi rettili della possibilità di creare delle scosse telluriche che rivelano la loro presenza e la loro posizione a distanza di centinaia di chilometri”.
“Quindi lei pensa che qualcuno possa aver risposto al richiamo”, propose Steve.
“È possibile. Ecco perché si stava spostando in linea retta: stava raggiungendo la sua compagna, che gli rispondeva a distanza”.
Steve e Adam controllarono l'andamento delle scosse telluriche delle ultime quarantottore.
“È proprio come pensavamo: guardi questa altra serie di scosse! Sono regolari e seguono una linea retta, e anche queste si dirigono verso Baltimora: i due si sarebbero incontrati probabilmente fuori città”, commentò Steve.
“Dobbiamo catturare quella femmina, così potremo studiare questa nuova specie. Utilizzeremo i sismografi e la raggiungeremo”, propose Adam.
Raggiunsero la periferia di Baltimora, armati di fucili carichi di sedativo, e seguirono la traccia sismica lasciata dal rettile femmina. Attesero che l'animale sbucasse dalla terra, poi lo colpirono con il sedativo. Una volta catturata la bestiola, la portarono al laboratorio, dove venne messa in una gabbia accanto a quella del compagno.
I due dormivano ancora della grossa. Una volta svegli, avrebbero avuto una gradita sorpresa: erano finalmente insieme.
“Che cosa ne farete, ora?”, chiese Livienne, rivolta a Jack.
“Costruiremo un'oasi apposta per loro e li metteremo dentro, così potremo studiarli meglio. Potrebbero esserci utili per capire e prevenire il fenomeno dei terremoti”.
“Vi consiglio comunque di creare la loro area in una zona antisismica e di isolarla bene”, propose Steve.
“Avete già deciso come li chiamerete?”, chiese ancora Livienne.
“Già, è una specie nuova. Dovremo dar loro un nome. A lei l'onore, dottor Mackenzie”, lo esortò Alan.
“Che ne dite di "terremosauri"?”
“Carino!”, rise Livienne.
“Sì, può andare”, confermò il dottor Norton.
“Vieni, Livi, lasciamo gli scienziati alla cura dei loro nuovi cuccioli. Il nostro lavoro è finito e io non vedo l'ora di andarmene a dormire”, annunciò Steve.
“A proposito di cuccioli…”, disse Livienne, rivolta a Jack, mentre ancora guardava gli strani animali rinchiusi nella gabbia:
“Me lo faccia sapere, quando nasceranno i loro figlioletti. Ci terrei a vederli”.
“D'accordo”.
“Ne vuoi uno da tenere in salotto?”, azzardò Steve.
“Non sarebbe una malvagia idea: ho una vicina di casa talmente odiosa, che sarebbe un vero piacere poterne sguinzagliare uno sul suo balcone, una volta ogni tanto”.
“Livi, a volte mi fai quasi paura”.
“Perché non conosci la mia vicina! Quella sì che fa paura!”, rise lei.
“Sai Steve, pensavo che mi fermerei volentieri a mangiare qualcosa, sulla strada del ritorno”, aggiunse.
“Niente da fare, Livi. Sono troppo stanco. Questa volta dovrai aspettare finché non saremo tornati a casa, prima di mangiare”.
Lo stomaco di Livienne brontolò.
“Ehi! Non ti sarai mangiata una di quelle bestiole, spero?”, scherzò Steve.
“No, ma se non mi porti a colazione le avrai entrambe sulla coscienza!”
Steve le aprì la portiera, sorridendo.
“Okay, mi hai convinto. Ti va bene un autogrill sulla strada del ritorno?”
“Perfetto”.
Steve mise in moto e si infilò sulla superstrada, ma si rese conto di essere assonnato e decise di fare un po' di conversazione per restare sveglio, così si rivolse a Livienne:
“Se non altro, questo caso si è risolto per il meglio, non credi?”
Livienne non rispose e lui si voltò a guardarla: si era già addormentata. Steve fermò la macchina, scese e le allacciò la cintura di sicurezza, poi telefonò a Donald, per avvertire che per quel giorno non si sarebbe recato al lavoro, infine ripartì, deciso a fermarsi nel primo motel disponibile sulla strada per casa: era in piedi da ventotto ore e non ce la faceva veramente più.

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Capitolo 11
*** capitolo 11: IBRIDI ***


IBRIDI
 
Filadelfia, Giovedì 29 giugno 2000
 
Spesso le grandi avventure, quelle che ti spingono oltre i confini dell'immaginabile, possono cominciare con una semplice telefonata. Era accaduto a Steve quella sera stessa: stava seduto sul divano, con i piedi appoggiati sul tavolino del soggiorno, un sacchetto di pop corn e una birra pronti per l'occasione, gli occhi puntati sulla partita di baseball in onda sul terzo canale, quando il suo cellulare si era messo a squillare, quasi fosse un grido nella notte.
Solo poche parole, sussurrate da una voce maschile, ma erano bastate per cambiare il corso degli eventi di quella sera: niente più partita, niente più pop corn, solo una telefonata all'amica fidata di tante avventure e, ora, Steve era seduto in macchina, parcheggiata sotto l'appartamento di Livienne, attendendo che la ragazza finisse di prepararsi. Di solito Livienne non era una di quelle che ci mettono delle ore, ma quella sera ci volle più del previsto. Alla fine uscì di casa e chiuse la porta, poi raggiunse l'amico e salì in macchina.
“Scusa se ci ho messo un po'. Non trovavo le chiavi di casa: le avevo messe nel frigorifero”, disse, con tanta naturalezza.
“Nel frigorifero? E dove li tieni i formaggi?”, domandò Steve, stupito.
“Sai, avevo fatto la spesa, stasera, prima di rientrare, ma poi c'era traffico. Sono arrivata a casa in ritardo e dovevo finire un articolo, così ho messo la borsa della spesa nel frigo, chiavi comprese. Ci ho messo un quarto d'ora buono per trovarle! Ma ora dimmi: che è successo, stavolta?”
“Hai presente quando stai guardando un programma che ti interessa e suona il telefono?”, chiese lui.
“Come no! È successo stasera!”
“E chi era?”
“Tu! Mi hai chiamato per dirmi che c'è un caso interessante! Qual è?”
“Qualcuno mi ha chiamato, stasera, e ha detto esattamente queste parole: "Stefy è in pericolo. Lei è l'unico che può aiutarla. Vada al convento vicino a Solon e chieda di Lorena Biffid. Lei sa cos'è successo. Lei l'ha visto". Dopodiché ha riattaccato. Abbiamo il volo tra cinquanta minuti”, spiegò Steve, rimettendosi in strada verso l'aeroporto.
“Vuoi dire che mi sto perdendo una puntata di "chi vuol esser milionario" per colpa di una telefonata anonima? E se si trattasse di uno scherzo?”
“Non credo che lo sia. Ho dato il mio nuovo numero di cellulare a  pochissime persone”.
“Ragione di più per credere che qualche buontempone ti abbia preso in giro facendo il tuo numero a caso”.
“Sai dove si trova Solon, Livi?”
“No”.
“È un piccolo paese a pochissime miglia da Kingfield. Ti ricorda niente?”
Livienne lo fissò, stupita.
“È quella cittadina dove siamo stati a caccia di UFO, non è vero?”
“Già”.
“Che altro pensi sia successo?”
“Non lo so, ma voglio scoprirlo”.
Scesero dall'aereo verso le tre del mattino e si fecero portare da un taxi fino all'albergo più vicino.
La mattina seguente Steve si alzò molto presto, si vestì e abbassò la maniglia della porta comunicante con la stanza di Livienne. Con sorpresa, scoprì che non era chiusa a chiave: Livienne si fidava di lui, a quanto pareva. Entrò nella stanza e la trovò distesa sul letto, ancora profondamente addormentata, con il cuscino sulla testa per non essere disturbata dalla luce: quella notte si erano dimenticati di tirare le tende, prendendo possesso delle loro stanze.
Si soffermò a guardarla: il lenzuolo, gettato di lato, lasciava scoperto il corpo perfetto della ragazza, che indossava una camicia da notte leggera, trasparente e cortissima e un paio di slip rosa. Steve iniziò a sentire caldo. Per un momento, immaginò di accarezzarla, di baciarla, di sfilarle gli slip e…
"Ma che diavolo sto pensando?", si chiese.
Le si avvicinò lentamente, poi sussurrò:
“Livienne, è ora di alzarsi”. Lei non rispose: si limitò a lanciargli addosso il cuscino e voltarsi dall'altra parte.
“Forza, siamo qui per lavorare”.
“Siamo andati a letto alle tre e sono le sei del mattino. Non si potrebbe dormire un altro paio d'ore?”, si lamentò.
“La vita in convento comincia presto”.
“Ho capito. Mi tocca proprio alzarmi!”, esclamò, scivolando fuori dal letto e sfilandosi la camicia da notte sotto gli occhi attoniti di Steve: indossava solo la biancheria intima.
Aprì l'armadio e ne trasse un abito corto ma sobrio. Lo indossò.
“Ti spiacerebbe chiudermi la lampo?”, chiese a Steve.
“Mi dispiace eccome”, scherzò lui, ma fece quello che Livienne gli aveva chiesto.
“Sono pronta”, disse, infilando un paio di sandali e prendendo la macchina fotografica. Fissò Steve interrogativamente, visto che lui rimaneva lì imbambolato a guardarla, in contrasto con la fretta di qualche minuto prima.
“C’è qualche cosa che non va nel mio vestito?”
“No… ma ti preferivo prima”.
Lei sorrise, compiaciuta, poi uscì dalla stanza, seguita da Steve, che le rifilò una leggera pacca sul sedere.
Raggiunsero in taxi il convento nelle vicinanze di Solon, dove bussarono al possente portone in legno massiccio, utilizzando un grosso anello di ferro. Poco dopo, una suora venne ad aprire.
“Buongiorno”, li salutò, un po' sorpresa.
“Salve. Dovremmo parlare con Lorena Biffit”.
“Questo non è giorno di visite. Dovete venire la settimana prossima, a meno che non si tratti di una cosa molto urgente”, spiegò lei.
“È molto, molto urgente”. Steve le mostrò il distintivo.
“FBI? È successo qualcosa? Lorena è forse implicata in qualche losca faccenda?”
Il tono della donna era concitato.
“Niente affatto. Si tranquillizzi: le domande che dobbiamo fare a Lorena riguardano un'altra ragazza, una certa Stefy”.
“Stefy Lange? Non è più qui!”, esclamò la donna, indurendo il tono della voce.
“Noi, comunque, dobbiamo parlare con Lorena, se ci fa entrare”.
“Venite”. Li condusse in uno studio, dove confabulò con la madre superiora, che si rivolse a Steve:
“Che volete sapere da questa ragazza?”
“Dobbiamo farle delle domande relative a Stefy Lange”, spiegò di nuovo.
“Preferirei che Stefy non venisse nominata di fronte alle postulanti”.
“Anche Stefy è una postulante?”
“Dio ce ne scampi e liberi! Stefy era qui perché i suoi genitori ci avevano chiesto un favore e noi avevamo deciso di aiutarli. Ma quella ragazza era un vero demonio! Ordire una simile cattiveria! E proprio qui! In convento!”
“Di che cosa sta parlando? Quale cattiveria?”, chiese Livienne.
“Stefy era incinta quando i suoi genitori l'hanno portata qui. Non volevano che si sapesse in giro: lei ha soltanto diciassette anni e non ha voluto dire il nome del ragazzo che l'ha messa in quelle condizioni. Come minimo sarà uno scapestrato, che l'ha lasciata sola dopo aver scoperto che aspettava un figlio. Comunque, decidemmo di aiutarla. Sarebbe rimasta qui fino alla nascita del bambino, poi il piccolo sarebbe stato affidato all'orfanotrofio "le tre madri"”.
La donna si fermò un momento e Steve chiese:
“Ma…?”
“Ma le cose andarono diversamente. La ragazza scomparve improvvisamente dal convento, una notte. Non so come abbia potuto uscire da qui, né chi l'abbia aiutata. So solo che quando i suoi genitori la ritrovarono, aveva ormai abortito”.
“Spontaneamente?”
“No. È chiaro che ha subito un intervento chirurgico. Per questo non l'abbiamo più voluta, qui. Uccidere suo figlio! Che razza di madre può fare una cosa simile?”, enfatizzò, indignata.
“Forse si è spaventata! Avrà avuto paura!”, cercò di difenderla Livienne, che aveva subito provato simpatia nei confronti di quella ragazzina tanto sfortunata.
“Non dimentichi che probabilmente è stata abbandonata dal suo ragazzo, che i genitori l'hanno fatta sentire in colpa per quello che è successo, e non dimentichi neppure che ha solo diciassette anni!”, continuò, infervorandosi.
“Lascia perdere, Livienne, non è il momento delle prediche!”, l'apostrofò Steve.
“Vorremmo parlare con Lorena, per favore”, aggiunse.
“D'accordo”. La madre chiamò un'altra suora e le disse di accompagnare la ragazza.
“Se non le dispiace, gradiremmo parlarle da soli”, aggiunse Steve, comprendendo che altrimenti Lorena non avrebbe potuto spiegare loro la situazione, con l'intrusione della madre.
“Non sarebbe la prassi, comunque…”. La madre si alzò e si allontanò dallo studio, sbuffando:
“Quella ragazza non ci ha portato altro che guai! Mi domando quando finirà questa storia!”
Poco dopo, una giovane che avrà avuto sì e no diciotto anni entrò nella stanza, accompagnata dalla suora.
“Ci lasci soli, per favore”, disse Livienne, rivolta alla madre.
Lei annuì e se ne andò. Lorena li guardò, intimorita.
“Ciao”, la salutò Livienne.
“Buongiorno”, incominciò, timidamente.
“Siamo qui perché vogliamo farti delle domande su Stefy. La conosci, non è vero?”
“Sì. Eravamo compagne di stanza”.
“Tu sai come ha fatto a scappare?”, chiese Steve.
“No. Io dormivo”, si affrettò a dire, forse con troppa foga.
“Non volete farle del male, vero?”, chiese poi.
“Al contrario. Vogliamo aiutarla. Vedi, qualcuno, ieri sera, mi ha telefonato, dicendo che la tua amica è in pericolo, e tu sei l'unica che possa aiutarla”.
“Io?”
“Tu sei l'unica persona che sa cosa realmente é successo. Così mi é stato detto”.
La ragazza impallidì e si sedette.
“Non mi crederete. Mi darete della pazza, come hanno fatto con Stefy. Nessuno le ha creduto”.
“A cosa non hanno creduto?”, cercò di convincerla Livienne.
“Lei ha detto a tutti di essere stata rapita dagli alieni, due mesi e mezzo fa. L'hanno prelevata dal suo letto e portata sulla loro astronave, dove le hanno impiantato artificialmente nell'utero un feto di origine aliena. Io non le credevo. Come tutti gli altri ero convinta che avesse inventato quella storia per coprire il nome del ragazzo che l'aveva messa incinta, sfruttando il fatto che tutti, al suo paese, avevano visto degli UFO, ma poi, dopo quella notte, ho dovuto ricredermi”.
“Qual è il paese di Stefy?”, la interruppe Steve.
“Kingfield. È poco lontano da qui”.
Steve e Livienne si lanciarono un'occhiata eloquente, poi Livienne continuò l'interrogatorio.
“Che successe quella notte, Lorena? Chi aiutò Stefy a fuggire e perché?”
“Ricordo poco di quella notte: era tutto confuso. Non sono neppure sicura di averlo visto davvero. Forse si è trattato solo di un sogno. Vi dirò quel poco che ricordo: ho visto alcuni uomini che hanno sollevato Stefy tra le braccia e l'hanno portata via. Erano vestiti di nero e portavano degli occhiali scuri, nonostante fosse notte. Cercai di alzarmi e chiamare aiuto, ma non ci riuscii. Mi resi conto di non potermi muovere di un solo millimetro, Non potevo neppure parlare. Sprofondai di nuovo nel sonno e solo al mattino mi resi conto che Stefy era sparita veramente”.
“Ne hai parlato con la madre superiora?”
“Sì, ma lei dice che si è sicuramente trattato di un sogno: non è possibile che degli uomini entrino ed escano a proprio piacimento dalle stanze delle postulanti di questo convento!”
Da come lo aveva detto e dal tono di voce che aveva tenuto, Steve e Livienne ebbero l'impressione di avere di fronte la madre superiora in persona.
“Da allora non hai più visto Stefy?”
“No. Non l'ho più neppure sentita. Le suore non mi permettono di tenere contatti con lei. Vorrei tanto sapere se sta bene”.
“Ti faremo sapere qualcosa non appena l'avremo trovata. C'è altro che ricordi di quella notte?”
“No. Mi dispiace”.
“Non importa. Ci sei stata di grande aiuto. Cercheremo di trovare Stefy e di toglierla dai guai, te lo promettiamo”.
“Grazie e… salutatemela tanto”.
I due uscirono dal convento e ritornarono alla macchina che avevano noleggiato.
“Cerchiamo questa Stefy Lange?”
“Certo”. Steve telefonò a un collega e in breve ebbero l'indirizzo della ragazza. Si recarono immediatamente nella periferia di Kingfield, a casa dei signori Lange, dove vennero ricevuti da Licia Perrot, madre di Stefy.
“Salve. Lei è la signora Lange?”, chiese Steve.
“Sì, ma non compro niente”, aggiunse subito dopo.
“Non siamo venditori ambulanti. Vorremmo solo sapere se Stefy è in casa”.
“È nella sua stanza. Che volete da lei?”
“Parlarle. Siamo dell'FBI”. Steve le mostrò il distintivo.
“Mi dispiace. Stefy non si sente bene, ora”.
“Che cos'ha?”
“Ha da poco subito un'operazione e non deve essere disturbata”.
“Senta, ci faccia entrare, per favore. Se non potremo parlare con Stefy, parleremo almeno con lei”.
La donna si fece da parte e li lasciò entrare.
“Che cosa volevate chiederle?”
“Vorremmo sapere cosa le è successo realmente. Sappiamo che aspettava un bambino e che per questo era stata mandata nel convento di Solon, ma sappiamo anche che è scomparsa, e ha perso il bambino”.
“Scomparsa? Quella disgraziata è fuggita dal convento per abortire! Non so ancora come abbia fatto, ma se lo scopro…”
“La sua compagna di stanza afferma che alcuni uomini l'hanno prelevata di peso e portata via durante la notte”.
“Ma non dica sciocchezze! Uomini! In un convento! E poi, perché lo avrebbero fatto?”
“Dov'è stata ritrovata Stefy?”
“Vagava in stato confusionale per la campagna qua attorno. Una contadina, una certa Mina Turner,  l'ha trovata e l'ha portata a casa sua, dove ha chiamato la polizia”.
“Non le sembra strano che si trovasse in giro da sola dopo un'operazione di quel tipo?”
“No, per niente! Quel porco del suo ragazzo l'avrà di sicuro portata da qualche guaritore, qualche mezzo assassino che l'ha operata e poi l'ha abbandonata sulla strada di casa, per scapparsene via”.
“Lei sa chi è il ragazzo di Stefy?”
“Purtroppo no. Stefy non vuole dircelo. Ma se scopro chi è gliele faccio pagare tutte, può starne certo!”
La concitata discussione, intanto, era giunta alle orecchie di Stefy che, al piano di sopra, aveva aperto la porta per sentire cosa stesse succedendo. Steve e Livienne se ne andarono, dopo aver di nuovo raccomandato alla donna di chiamarli, non appena Stefy fosse stata in grado di ricevere visite.
“Tu credi che ci chiamerà?”, chiese Livienne.
“Non ci sperare”.
“Eppure, è necessario che parliamo con Stefy”.
“Oppure con il suo ragazzo, sempre ammesso che esista. Fammi pensare... la voce che ieri mi ha parlato era quella di un giovane. Forse era il fidanzato di Stefy”.
“Come lo troviamo?”
“Posso controllare il numero da cui ha chiamato”. Lo cercò sul cellulare e poi chiamò l'FBI.
“Vorrei controllare questo numero, per favore”. Lo dettò, ma poco dopo riattaccò, deluso.
“Ha chiamato da una cabina telefonica. Siamo al punto di partenza”.
“Che ne diresti di andare a pranzo?”, suggerì Livienne, che iniziava ad avere fame.
“Buona idea”.
Nel pomeriggio interrogarono la contadina che aveva soccorso la ragazza:
“Signora Mina Turner, è stata lei a trovare Stefy?”, incominciò Steve.
“Sì. La ragazza camminava ondeggiando paurosamente, quasi non si reggeva in piedi. Inoltre, era scalza e in camicia da notte. Ho capito subito che doveva esserle successo qualcosa, così l'ho soccorsa e l'ho portata in casa mia, mentre chiamavo un medico e la polizia”.
“La ragazza le ha parlato?”
“Oh, sì! Non ha fatto altro che ripetere: "Sono stati loro! Mi hanno rapita di nuovo! Sono stati gli alieni!”
“Non le ha detto nient'altro?”
“No. Era sotto shock. Poi il dottore le ha dato un calmante e ha smesso di farneticare, se non altro”.
“Non le viene in mente nient'altro, signora?”
“Una cosa sì: la ragazza ha fatto il nome di un giovane. Aspetti… si chiamava Archie. Mi ha detto anche il cognome, ma non lo ricordo ora”.
“Era per caso Questor?”
“Sì. Era proprio lui”.
“La ringrazio. Ci è stata davvero utile”.
Steve e Livienne si recarono a casa di Archie, ma il ragazzo era uscito. Fissarono così un appuntamento con lui, tramite i suoi genitori, per il giorno successivo: avrebbero interrogato Archie su quella faccenda e gli avrebbero chiesto cosa c'entrava lui con Stefy Lange.
“Questo caso è più complicato del previsto”, commentò Steve dopo cena, mentre rileggeva i suoi appunti con Livienne, nella sua stanza.
“Già. Scusa, Steve, ma vorrei andare a dormire. Sono molto stanca. Chissà che non ci venga qualche bella idea: la notte porta consiglio”.
Un paio di colpi alla porta li fece sussultare.
“Chi è?”
“L'albergatore. C'è una visita per voi”, li avvisò una voce da dietro la porta.
“Venga pure avanti: è aperto”.
L'uomo entrò, accompagnato da una ragazza molto carina, poi se ne andò salutando.
“Lasciami indovinare: tu sei Stefy Lange, non è vero?”, chiese Livienne.
“Già. Vi ho sentiti, questa mattina. Voi dovete aiutarmi. Siete gli unici a credere che io abbia detto la verità”.
“Raccontaci quello che è successo, Stefy”.
“Sono stata rapita dagli alieni. Due volte! La prima volta, due mesi e mezzo fa, mi hanno portato sulla loro astronave, mi hanno fatto degli esami, poi mi hanno impiantato nell'utero un feto alieno. La seconda volta me lo hanno tolto!”
“Ti hanno detto cosa intendevano farne?”
“Non lo so. Non ricordo molto dei rapimenti”.
“Non ricordi neppure se qualcun altro è stato rapito con te, o prima di te?”
“Qualcun altro?”
“Parliamoci chiaro: so per certo che Archie Questor è stato vittima di un rapimento simile al tuo, tempo fa. Tu lo sapevi?”
“No”. Ma Steve era certo che mentisse.
“Conosci Archie Questor?”
“L'ho già sentito nominare”.
“Come mai hai fatto il suo nome alla signora Turner, quando sei stata ritrovata?”
“Non lo so. Non so neppure di averlo detto: stavo farneticando”.
“Farneticavi anche quando dicevi di essere stata rapita dagli alieni, allora?”, azzardò Steve.
La ragazza li guardò, delusa:
“Pensavo che voi mi credeste! Allora siete uguali a tutti gli altri, anche voi!”, urlò, arrabbiata.
“No, aspetta. Noi ti crediamo. Vogliamo solo essere sicuri. Ora calmati”, intervenne Livienne.
“Senti, Stefy, se vuoi davvero che ti crediamo devi dirci come stanno realmente le cose: che c'entra Archie in tutta questa faccenda?”
“Mi aiuterete?”, chiese, ormai decisa a rivelare loro la verità.
“Faremo il possibile, ma dovrai collaborare, altrimenti non potremo fare nulla per te”.
“Archie è stato rapito insieme a me”, ammise finalmente.
“Aspetta un attimo… i conti non tornano: Archie è stato rapito un mese e mezzo fa, tu invece due mesi e mezzo fa! E poi di nuovo quindici giorni fa. Almeno così mi risulta”.
“Archie è stato rapito di nuovo? E come sta, ora? È tornato, non è vero?”
Il tono di Stefy si fece improvvisamente concitato: era chiaro che teneva molto alla sorte del ragazzo.
“Sì. È tornato. Quindi non era la prima volta che veniva rapito!”
“No. La prima volta è stato rapito insieme a me. Siamo stati portati sull'astronave, poi non l'ho più visto. I miei ricordi sono molto confusi, ma sono certa che lui sia stato rapito”.
“Che altro ricordi?”
“Poco: so solo che Archie è tornato a casa prima di me. Prima di lasciarmi andare, ricordo che gli alieni mi hanno detto che sarebbero venuti ancora, a vedere come stava il bambino. Non mi hanno detto che intendevano rapirlo. E ricordo anche una cosa strana: appena giunta sull'astronave, non capivo i discorsi degli alieni, ma poi ho iniziato a capire quello che dicevano, quando si rivolgevano a me”.
“Ci sono delle prove della tua gravidanza?”
“Certo! Ho fatto tutte le analisi. Il test di gravidanza era positivo e mi hanno fatto anche un'ecografia, e l'analisi dei villi coriali, ma quest'ultimo esame non era andato molto bene: i medici parlavano a bassa voce tra di loro, mentre lo guardavano. Non sono riuscita a capire tutto quello che dicevano, ma era chiaro che qualcosa non andava. Mi hanno detto che avrei dovuto fare anche un'amniocentesi, perché sembrava che ci fosse qualcosa di strano. Io continuavo a ripetere che per forza doveva esserci qualcosa di strano: il bambino era alieno!”
“Dove sono state fatte le analisi?”
“Qui, all'ospedale di Kingfield”.
“Tu resta qui con Livienne, Stefy. Io vado all'ospedale e cerco di recuperare le tue analisi. Se le trovo, forse potremo convincere i tuoi genitori a dare il loro permesso per una regressione ipnotica. Dobbiamo saperne di più, su quello che è accaduto”.
La ragazza annuì. Steve si alzò, prese le chiavi della macchina e uscì.
“Che cosa ricordi del secondo rapimento?”, chiese Livienne alla ragazza.
“Nulla. So solo che sono stata rapita di nuovo e che mi hanno tolto il bambino. Ma me ne sono resa conto solo quando mi sono svegliata”.
Livienne continuò a farle domande, prendendo appunti per Steve, che intanto si era recato all'ospedale.
Giunto nel reparto dove venivano svolte le analisi, si fermò a parlare con un'infermiera.
“Mi servirebbero i risultati delle analisi della signorina Stefy Lange”, disse, mostrando il tesserino.
“Aspetti, ora guardo”. La donna andò a prenderli e tornò poco dopo.
Steve li scorciò. Erano perfettamente a posto. Anche l'analisi dei villi coriali non mostrava nulla di anormale.
“È sicura che siano quelli della signorina Lange?”
“Sì, certo! C'è il suo nome, sopra, non vede?”
“Ha fatto solamente queste analisi?”
“Sì, perlomeno noi abbiamo queste in ospedale”.
“Posso prenderle?”
“Le posso fare delle copie. Queste devono restare a noi”.
“D'accordo”.
Steve attese che la donna finisse di preparare le copie, poi uscì dall'ospedale. Il suo cellulare suonò.
“Pronto?”
“Steve, sono Livi. Sono arrivati i genitori di Stefy: si sono accorti della sua fuga da casa e hanno immaginato che fosse venuta qui, così sono venuti a riprendersela. C'è anche lo sceriffo, con loro”.
“Maledizione”.
“Che posso fare?”, chiese Livienne.
“Niente. Di' solo loro che non si allontanino da casa per nessun motivo, devono essere reperibili. Poi prendi un taxi e raggiungimi a casa di Archie Questor”.
“D'accordo”.
Steve si recò a casa del ragazzo e volle parlare con lui.
“Ciao, Archie. Ci si rivede”, cominciò, stringendogli la mano.
“Salve. Come ve la passate?”
“Non c'è male. Ti portiamo notizie di Stefy”.
“Stefy? L'avete vista?”
“Già. Proprio stasera”.
“Come sta?”
“Sta bene. È un po' frastornata e stanca, ma sta bene. I suoi la tengono prigioniera in casa”.
“Maledetti!”, bofonchiò a denti stretti.
“È la tua ragazza, non è vero?”, chiese Steve.
“Già”, ammise.
“Perché non ci hai detto che ti avevano già rapito una volta?”
“Per proteggerla: se avessi detto che ero stato rapito, i suoi genitori avrebbero capito che lei e io eravamo insieme la sera del primo rapimento, nel bosco”.
“Volevi proteggere lei o te stesso?”, sibilò Livienne.
“Voi non capite: i genitori di Stefy non volevano che uscisse con qualcuno. Lei doveva fidanzarsi con Ronny Dender, secondo il volere dei suoi. Ma non ci teneva per niente a Ronny! Stefy ama me!”
“Sapevi che aspettava un bambino?”
“Un bambino? Sul serio?”, ripeté, sinceramente stupito.
“Già. Dice che le è stato impiantato dagli alieni. Tu cosa ne dici?”
“Non lo so. Non sapevo neppure che fosse incinta. Non l'ho più rivista dopo quella notte: vedete, io e lei ci incontravamo ogni due settimane, nel bosco. Quelle sere i suoi genitori erano impegnati con una campagna di beneficenza e noi ne approfittavamo per trovarci di nascosto. Avremmo dovuto vederci anche due settimane dopo il rapimento, ma lei non venne. Da quella volta non ho più potuto parlare con lei, né vederla! E ora che ne è del bambino?”
“Quando hanno scoperto la gravidanza, i suoi genitori l'hanno chiusa in un convento. Ma lei dice che gli alieni l'hanno rapita di nuovo, e le hanno tolto il bambino.
“È incredibile”.
“Già! Proprio incredibile! Mi chiedo se per caso quel bambino non sia semplicemente vostro figlio e gli alieni una bella storia inventata per coprire le vostre scappatelle!”, insinuò Steve.
“No. Non ho messo incinta Stefy: siamo sempre stati molto prudenti. Sapevamo che, se fosse capitata una cosa del genere, i suoi genitori avrebbero dato i numeri”.
“Sei stato tu a chiamarmi, ieri sera?”
“No. Perché? Chi l'ha chiamata?”
“Un ragazzo. Non so chi sia”.
“Probabilmente si tratta di Samuel, il fratello di Stefy. Vuole molto bene alla sorella ed è l'unico con un briciolo di cervello, in quella casa, a parte Stefy”.
Steve annuì.
“Ascolta, Archie: l'altra volta, quando siamo venuti qui, ci avevi promesso che avresti affrontato una regressione ipnotica, per stabilire cos'era realmente successo, poi, però, hai cambiato idea: perché?”
“Ve l'ho detto: avrei rivelato sicuramente che ero già stato rapito una volta e che con me c'era anche Stefy. Non potevo rischiare. Del resto, non immaginavo che Stefy fosse in quelle condizioni. Non pensavo neppure che l'avessero chiusa in un convento. Ero convinto che si fossero limitati a sgridarla e controllarla di più per evitarle di uscire”.
“Ora accetterai di sottometterti alla regressione? Se lo farai, forse i genitori di Stefy faranno altrettanto, e la verità salterà fuori”.
“Accetterò. Se questo è l'unico modo per aiutare Stefy, lo farò di sicuro. Sono stanco di incontrarla di nascosto! Voglio che ora tutti sappiano che stiamo insieme. Voi ci aiuterete, non è vero? Promettetemi che farete in modo di convincere i genitori di Stefy a lasciarla in pace, ve ne prego”.
Steve fissò Livienne, un po' perplesso: quello non faceva precisamente parte del loro lavoro, ma lo sguardo supplichevole di lei lo convinse ad accettare:
“Non è il genere di cose di cui ci occupiamo di solito, ma vedremo cosa potremo fare”.
L'appuntamento per la regressione ipnotica venne fissato per il giorno successivo. Il dottor Britburg si presentò a casa di Archie alle nove del mattino ed ebbe inizio l'esperimento. Dopo aver ipnotizzato Archie, il dottore incominciò a porgli delle domande di routine:
“Come ti chiami?”
“Archie Questor”.
“Quanti anni hai?”
“Diciannove”.
“Conosci Stefy Lange?”
“Sì. È la mia ragazza”.
“Da quanto tempo siete insieme?”
“Da circa due anni. Ci vogliamo molto bene”.
“I tuoi genitori sanno che tu e Stefy state insieme?”
“Sì”.
“E i genitori di Stefy, invece?”
“No. Loro non lo sanno e non approverebbero”.
“Torniamo ora alla sera del primo rapimento. Dove ti trovi?”
“Sono nel bosco. Devo incontrarmi con Stefy: i suoi genitori non ci sono, stasera”.
“Che cosa fai?”
“Aspetto. Stefy è in ritardo. Sento un rumore: è lei che arriva. Ci abbracciamo e ci baciamo. Poi ci sediamo a parlare. Lei mi racconta che i suoi le hanno fissato un appuntamento con Ronny, ma non ci vuole andare. Improvvisamente, sentiamo un forte vento, che ci incolla i vestiti addosso. Poi vediamo una luce che giunge da sopra di noi. È una luce gialla, abbagliante. Io chiudo gli occhi. Subito dopo mi sento sollevare verso l'alto. Riapro gli occhi e mi trovo a galleggiare a mezz'aria. Stefy è vicino a me: anche lei sta volando verso l'alto. La luce ci trascina fin dentro un'astronave aliena. Tutt'intorno a noi ci sono dei piccoli alieni, con una grossa testa triangolare e pelata, con il mento a punta e occhi neri grandissimi. Hanno nasi poco pronunciati. Anche la bocca è strana: sembra più che altro una fessura, più che una vera bocca. Stefy ha paura e mi abbraccia, ma loro la strappano via  e la allontanano da me. Cerco di reagire, ma mi immobilizzano e mi trascinano in una stanza illuminata a giorno, dove vengo disteso su un lettino. Qui mi visitano tutto quanto”.
“Ti fanno del male?”
“All'inizio no. Poi, invece, mi strappano alcuni lembi di pelle da un braccio e da una gamba. Questo è molto doloroso. Prendono anche porzioni di capelli, cerume e frammenti di unghie.  Vengo esaminato da una macchina che sembra un grosso occhio. Un'altra strana macchina mi preleva anche un campione di sperma. È una cosa piuttosto fastidiosa”.
“Ti dicono cosa ne vogliono fare?”
“Non capisco niente di quello che mi dicono. All'improvviso mi inseriscono uno strano aggeggio in un orecchio. Ahhh!”
Il giovane urlò.
“Che è successo?”, incalzò il dottore.
“Non lo so. Mi hanno messo qualcosa nell'orecchio. Ora capisco i loro discorsi… riesco a capire quello che mi dicono. Parlano attraverso la mente, comunicano direttamente con la mia mente. Credo che sia stato quell'aggeggio che mi ha permesso di capire quello che mi dicono”.
“Quello che ti hanno messo nell'orecchio?”
“Sì, Uno di loro dice che non mi devo preoccupare: che ora mi lasceranno andare. Io chiedo dov'è Stefy. Loro rispondono che la dovranno trattenere ancora per un giorno, poi la riporteranno a casa. Dopodiché, mi riportano nel bosco”.
“Bene. Ora passiamo al secondo rapimento invece. Te la senti di andare avanti?”
“Sì”.
“Dimmi: sei di nuovo nel bosco?”
“Sì. Sto aspettando Stefy. Non è venuta all'appuntamento, quindici giorni prima, ma io la aspetto lo stesso: forse verrà questa volta”.
“Non hai più visto Stefy dalla sera del rapimento?”
“No, ma so che è stata ritrovata. So anche che i suoi genitori l'hanno chiusa in casa, per essere stata via più di due giorni. Ma spero riesca a fuggire e a raggiungermi: questa volta voglio proporle di parlare chiaro con i suoi genitori. Ma lei non viene. Vengono gli alieni, invece, e mi rapiscono di nuovo. Di nuovo mi rifanno ogni cosa, come la volta precedente. Dicono che devono far nascere delle creature ibride, dei neonati metà alieni e metà umani. Non mi spiegano il perché, ma dicono che il mio sperma servirà per fare degli esperimenti. Poi mi riportano nel bosco, dove vengo ritrovato da Steve, Livienne e lo sceriffo”.
“D'accordo, Archie. Puoi svegliarti, ora. Con calma”.
Archie aprì gli occhi: ora ricordava qualcosa in più di quello che era accaduto e che aveva rivelato sotto ipnosi.
Quel mattino Steve riascoltò più volte il nastro di Archie, poi chiamò i genitori di Stefy e lo fece sentire anche a loro.
Finalmente riuscì a convincerli a firmare un permesso per sottoporre Stefy a un'ipnosi regressiva. Quel pomeriggio stesso, il dottor Britburg ipnotizzò anche Stefy e, dopo le solite domande di routine, le chiese:
“Torniamo alla sera del tuo primo rapimento: ti trovi con Archie, quella sera?”
“Sì. Lo raggiungo nel bosco, dove mi sta aspettando. Lui mi abbraccia e ci baciamo, poi ci sediamo a parlare. D'improvviso si alza un forte vento e vediamo una luce gialla, molto forte, provenire da sopra di noi. Volteggiamo in aria e veniamo trascinati dentro un'astronave, dove dei piccoli esseri con la faccia triangolare ci circondano. Io ho paura, e abbraccio Archie, ma loro mi afferrano e mi trascinano in una stanza piena di luce, dove mi stendono su un lettino. Qui vengo visitata, prendono anche dei campioni di pelle. Mi fanno male. Una macchina a forma di occhio mi esamina tutta quanta. Poi un'altra macchina, piena di aghi, mi si avvicina minacciosa. Un ago mi viene infilato nell'ombelico. Fa male, ma non posso muovermi. Finalmente l'ago viene estratto. Uno degli alieni si avvicina alla macchina e ci armeggia intorno, poi l'ago viene inserito nuovamente. Una volta estratto di nuovo, mi inseriscono un altro ago in un orecchio. Sento un forte dolore e, subito dopo, inizio a capire quello che gli alieni mi stanno dicendo. Uno di loro mi rassicura: non vogliono farmi del male. Vogliono solo assicurarsi che abbia tutte le caratteristiche per allevare un ibrido. Io chiedo spiegazioni, e loro mi dicono che hanno impiantato nel mio utero un feto di origine ibrida, cioè metà alieno e metà umano. Dicono che torneranno a trovarmi, per vedere come cresce il bambino, ma non mi faranno più alcun male. Io protesto, dico loro che i miei genitori mi picchieranno, che non vorranno più una figlia che aspetta un bambino. Loro mi dicono di stare tranquilla. Io chiedo loro da dove vengono. Mi rispondono che vengono da un pianeta orbitante intorno a una stella delle Pleiadi. Mi mostrano anche una mappa stellare. Poi mi riportano nel bosco. Lì vengo ritrovata dallo sceriffo, che da due giorni mi sta cercando con tutta la polizia”.
“E il secondo rapimento, Stefy? Lo ricordi?”
“Sì. Sono al convento e sto dormendo, quando sento entrare qualcuno nella mia cella. Apro gli occhi e vedo degli uomini vestiti di nero, con degli occhiali scuri indosso. Mi spavento e cerco di alzarmi, di chiamare aiuto, ma non riesco a muovermi”.
“Aspetta un momento: hai detto "uomini"? Non si tratta di alieni questa volta?”
“Non so se siano alieni, ma hanno sicuramente l'aspetto molto umano. Sono uomini come noi. Mi prendono e mi sollevano di peso. Anche la mia compagna di stanza è immobilizzata. La sento respirare forte. Forse ha paura, ma non riesce a muoversi. Vengo portata fuori dal convento, su un furgone nero”.
“Niente astronave questa volta?”
“No. Non ce n'è traccia. Mi portano a uno strano capannone, dove mi sistemano su un lettino. Mi viene fatta un'iniezione e mi addormento profondamente. Riesco però a sentire i loro discorsi, prima di dormire: vogliono togliermi il bambino. Qualcuno dice anche: "toglietele l'impianto". Non so cosa intende. Mi addormento e, quando mi risveglio, sono nel bosco. Mi alzo e cerco di camminare, ma mi fa male tutto. Scopro di sanguinare leggermente e capisco che mi è stato tolto il bambino. Sento anche un forte dolore all'orecchio, dove era stato inserito l'aggeggio alieno che mi permetteva di capire gli extraterrestri. Mi rendo conto che non mi sarà facile tornare a casa in quelle condizioni. Per fortuna una contadina mi vede e mi accompagna a casa sua”.
“È Mina Turner?”
“Sì. Rimango con lei finché i miei non vengono a riprendermi. Penso che dovrò tornare in convento, ma i miei mi dicono che le suore non mi vogliono più e che dovrò rimanere chiusa nella mia stanza. Nessuno crede alla mia versione”.
“Noi ti crediamo, Stefy. Ora puoi svegliarti, piccola”.
Stefy aprì gli occhi e fissò i suoi genitori, preoccupata. Che avrebbero fatto, adesso? Che cosa aveva rivelato durante l'ipnosi?
“Spero che ora crederete un po' di più a vostra figlia!”, incominciò Livienne, rivolta ai genitori di Stefy.
“È inaudito! Non mi direte davvero che credete a queste sciocchezze?”, esclamò il padre di Stefy.
“Ho qui gli esami effettuati all'orecchio destro di Archie Questor. Vuole darci un'occhiata, signor Lange?”, chiese Steve, sfilando i risultati delle radiografie da una grossa busta.
“Lo vede questo minuscolo oggetto inserito nell'orecchio?”
“Che cos'è?”, domandò l'uomo, ancora incredulo.
“È l'impianto di cui parla il ragazzo”.
“Vuol dire che è tutto vero?”
“Temo proprio di sì. Vorremmo fare degli esami anche a Stefy, se non le dispiace”.
“D'accordo, ma durante l'ipnosi Stefy ha asserito che l'impianto le è stato tolto dagli strani uomini in nero”.
“Si dovrebbe comunque vedere la cicatrice. Abbiamo il suo permesso a procedere?”
“Sì. Voglio vederci chiaro, in questa faccenda!”
“Bene. Un'ultima raccomandazione: spero che vorrete lasciare in pace quei due ragazzi, d'ora innanzi. Forse così la smetteranno di incontrarsi di nascosto nel bosco ed eviteranno spiacevoli inconvenienti!”
L'uomo annuì:
“Va bene, d'accordo. Potranno vedersi, d'ora in poi. Del resto, Ronny, dopo aver saputo quello che è accaduto, non vuole più saperne di Stefy”.
“Era ora!”, esclamò lei, felice.
“Ancora una cosa, Stefy: guarda queste analisi. Le ho ritirate ieri sera all'ospedale. Sono le tue?”, s'informò Steve.
La ragazza le scorciò:
“No. Avevo delle anomalie nell'analisi dei villi coriali, ne sono certa! E anche le ecografie non sono le mie! Ricordo perfettamente che il feto non era in questa posizione. Persino l'ora dell'ecografia non corrisponde. Sono certa che fossero le sette del mattino, quando l'hanno effettuata: le suore hanno voluto che uscissi prestissimo dal convento per non farmi vedere da nessuno. Quest'ecografia, invece, è stata fatta alle nove e mezza. Il giorno è lo stesso, ma l'ora è ben diversa. No, non sono sicuramente le mie analisi, queste”.
“Ti ringrazio, Stefy. È quello che avevo sospettato fin dall'inizio”.
Si recarono tutti all'ospedale, dove Stefy doveva sottoporsi a una visita otorinolaringoiatrica e a una radiografia del cranio. Steve si premurò invece di cercare l'infermiera che gli aveva dato le analisi, la sera prima. Scoprì che non era all'ospedale, in quel momento, così si fece dare il suo indirizzo da una collega. La raggiunse a casa e la interrogò di nuovo:
“Signorina Lessen, lei mi ha dato questi referti, ieri sera. Stefy li ha guardati, ma sostiene che non si tratta delle sue analisi. Mi vuole dire che fine hanno fatto i veri referti di Stefy Lange?”
“Io non ne so nulla”, rispose la donna, che però era evidentemente preoccupata.
“Senta, lei è la responsabile del reparto, per cui, se dei referti spariscono o vengono sostituiti, è lei che ci va di mezzo. L'avverto che i signori Lange hanno intenzione di sporgere denuncia nei suoi confronti, a meno che non ci dica dove sono finiti i veri referti”.
La donna sospirò, sedendosi sulla seggiola:
“Se vi dico la verità, non sporgeranno denuncia?”
“Ha la mia parola”.
“Non so dove si trovino quei referti. Sono venuti degli uomini vestiti di nero e li hanno presi, sostituendoli con questi. Mi minacciavano con una pistola e io non ho potuto fare diversamente. Mi hanno detto di non dire nulla a nessuno, di non parlare con la polizia. Per questo sono stata zitta. La prego, convinca i Lange a non fare il mio nome! Temo che ci rimetterei la vita, oltre al posto di lavoro”.
“Stia tranquilla. Saranno veramente in pochi a sapere di questa storia, e lei non correrà alcun rischio”.
Le lastre al cranio di Stefy vennero effettuate prima di sera, insieme a tutta un'altra serie di esami, che rivelarono effettivamente una piccola cicatrice nell'orecchio destro di Stefy. La ragazza disegnò anche la mappa stellare che gli alieni le avevano mostrato, che riportava fedelmente la costellazione delle Pleiadi e altre stelle attigue, nonostante Stefy non avesse mai studiato astronomia in vita sua e non fosse neppure un'appassionata di questa materia.
“Credi che questo basterà a rendere certa l'esistenza degli UFO, Steve?”, chiese Livienne quella sera, mentre tornavano a casa in aereo.
“Temo proprio di no. Ci sono centinaia di casi come questo, negli schedari dell'FBI”.
“E, nonostante questo, i tuoi superiori continuano a non credere nell'esistenza degli alieni?”
“Direi che, più che non crederci, fanno finta di non saperlo e tengono tutto nascosto. Da dove credi che vengano i famosi "uomini in nero"? Scommetto che è stato il governo a far rapire Stefy la seconda volta e a portarle via il bambino, per poterlo studiare”.
“Lo penso anch'io. Purtroppo non abbiamo alcune prove e non sappiamo da dove cominciare a cercarle”.
“Già”, ammise lui, sospirando.
“Se non altro, questa storia a qualcosa è servita”.
“Cioè?”
“Quei due ragazzi sono tornati insieme, e questa volta, nessuno li disturberà più”.
“Livienne, dovresti smetterla di preoccuparti per l'intera umanità”, rise lui.
“Perché? Tu cosa stai facendo?”, scherzò bonariamente lei.
“A proposito… grazie per avermi dato man forte, con i genitori di Stefy. Si stato davvero carino”.
“Solo carino?”
Le rifilò un sorriso malizioso. Livienne si schernì, ridendo.
“Adorabile, direi”.
“Adorabile va meglio…”, scherzò lui.
Era mattina quando giunsero all'aeroporto di Filadelfia. Steve si avvicinò all'edicola per acquistare l'ultima copia di Mistery, ma la sua attenzione fu attirata da una notizia scritta su un quotidiano del Maine:
"Grave incidente a Kingfield. Muore un'infermiera".
Steve acquistò il giornale e lesse solo le prime quattro righe di quell'articolo:
“La cinquantaduenne Gina Lessen, infermiera caporeparto all'ospedale di Kingfield, è precipitata con la sua auto giù da un cavalcavia, mentre si recava sul posto di lavoro. L'intero ospedale è in lutto".
Passò il giornale a Livienne, che lesse la notizia.
“Credi ancora che il governo non ne sappia niente?”, chiese ironicamente Steve, gettando via il giornale che Livienne gli aveva ridato.
“Steve…”, cercò di calmarlo. Ma lui non l'ascoltava più. Voleva scoprire la verità su quella faccenda, ma sentiva che più si addentrava in quell'impresa, più metteva a repentaglio la sua vita e quella di altre persone, Livienne compresa. Ne valeva davvero la pena?

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Capitolo 12
*** Cap. 12 ALLUCINAZIONI ***


Filadelfia, Domenica 16 luglio 2000
 
Steve sedeva alla scrivania, il volto rivolto al computer e la testa persa nell'ultimo caso che non aveva risolto, quando la porta del suo ufficio si spalancò e apparve Livienne, più radiosa che mai.
“Ciao, Steve”, lo salutò sorridendo.
“Ciao”, rispose con poco entusiasmo, stiracchiandosi la pelle. Nonostante tutto era felice di vederla, anche se aveva deciso di passare la domenica da solo, a riflettere.
“Accidenti! Hai un aspetto orribile, stamattina!”
“Grazie, sei molto gentile”, ironizzò, divertito.
“Volevo dire che sembri molto assonnato”, si scusò lei.
“Ho passato quasi tutta la notte a riascoltare la registrazione delle sedute ipnotiche di Stefy e Archie, senza trovare nulla di nuovo. Vorrei saperne qualcosa di più su questa storia. Come se non bastasse, stamattina ho ricevuto la telefonata di Donald, che mi "invitava" a venire al lavoro anche oggi. A quanto pare, però, non sono l'unico a lavorare di domenica”.
“Rallegrati: sta per arrivare una nuova patata bollente”.
“Che vuoi dire?”
“Hai letto il City Magazine di stamattina?”
“No.  Leggo solo i tuoi articoli”, ammise Steve. “Che è successo?”
“Un gruppo di scout si è spinto fin nella piccola valle di Blueriver, paradiso della natura incontaminata, sui monti dell'Oregon, meta ambita da studiosi e botanici per la sua flora semisconosciuta: sembra che vi siano piante che si credevano estinte da secoli. A ogni modo, tre ragazzine si sono staccate dal resto del gruppo, probabilmente con l'idea di fare una bravata, e sono finite nei guai: una volta uscite dalla valle, due di loro sono state viste da un pescatore gettarsi in un laghetto poco lontano, con il chiaro intento di suicidarsi. Per fortuna, il pescatore era anche un abile nuotatore ed è stato in grado di salvarle entrambe, riportandole a riva. La terza ha proseguito per il sentiero, ha raggiunto e superato il campo base dove avevano piantato le tende ed è scesa al piccolo paese vicino. Qui, si è gettata di proposito sotto una delle pochissime auto di passaggio, per fortuna senza gravissime conseguenze, data la prontezza di riflessi del conducente. Ha riportato comunque un leggero trauma cerebrale. Le tre ragazze, ricoverate al vicino ospedale di Baker City, hanno riferito di aver visto un disco volante parcheggiato nel bosco, proprio nella valle. Dicono di essere state catturate da un raggio traente, che le ha portate sull'astronave, dove sono state esaminate e "impiantate". Poi sono riuscite a liberarsi e sono scappate, inseguite da omini verdi con tanto di facce triangolari e occhi grandi e neri”.
“Che cosa avevano mangiato, quelle ragazze, per pranzo?”, domandò ironicamente Steve.
“Aspetta a ridere, Steve. Nessuno ha ovviamente creduto alle tre ragazzine, tranne il padre di una delle tre: James Word, noto industriale della zona, insomma un miliardario, che, intervistato da un  famoso giornalista del City Magazine - indovina di chi si trattava - ha affermato che "se mia figlia ha detto di aver visto gli alieni, allora vuol dire che gli alieni esistono, e sono scesi nella valle di Blueriver!" Ha inoltre aggiunto che richiederà alle autorità competenti di occuparsi del caso. Mi sa tanto che le "autorità competenti" altri non siano che il qui presente agente speciale Steve Rowling”.
“Donald non può chiedermi di occuparmi di un caso simile! È chiaro che quelle tre ragazzine hanno raccontato una storia per coprire la loro bravata. Come minimo si sono fumate qualcosa”.
“Ne sono convinta anch'io, ma tu ancora non sai cosa possono fare i soldi, ai nostri giorni”.
Un istante dopo la porta si spalancò e apparve Donald, il pacchetto di caramelle alla menta in mano e uno sguardo inviperito. Squadrò Livienne dalla testa ai piedi, poi le chiese:
“Signorina Parrish, lei non lavorava al City Magazine?”
“Ci lavoro ancora”, rispose sicura Livienne, per nulla intimorita dal tono greve di Donald e dalla sfumatura ironica nella sua voce.
“E la pagano per stare qui a chiacchierare con i miei agenti?”, chiese ancora lui.
“Non precisamente”.
“Non ha di meglio da fare?”
“Momentaneamente no”, rispose ancora lei, sempre senza perdere la calma.
Donald grugnì, poi si rivolse a Steve:
“C'è un tizio che ti vuole a lavorare a un caso, un certo James Word, un miliardario. Vuole che indaghi su un presunto avvistamento di alieni da parte di sua figlia, una ragazzina di dodici anni, come minimo anche drogata. Sia ben chiaro: io la ritengo una grossa perdita di tempo. Disgraziatamente non ho potuto digli di no: quello è capace di revocare il mandato a te, a me e a tutta la sede dell'FBI di Filadelfia, se vuole, e può persino costruirci sopra un supermercato, se gli garba”.
“D'accordo, indagherò”, sospirò Steve.
“Visto che non ha niente da fare”, continuò Donald rivolto a Livienne “perché non gli dà una mano a risolvere il caso?”
“Sono qui per questo”, lo freddò Livienne, aprendogli davanti agli occhi la copia del City Magazine alla pagina che parlava di quel caso.
Donald se ne andò sbattendo la porta, senza aggiungere altro.
“Sbaglio o era di pessimo umore?”, chiese Livienne.
“Non accetta imposizioni dai superiori e quando gli tocca prendere per forza certi casi, ci sta male per settimane”.
“Allora, non deludiamolo”.
“Si va nell'Oregon?”
“Sì. Credi che torneremo per sera?”, scherzò lei.
“Perché? Hai un appuntamento?”
“Sì, con mia cugina: dovremmo andare insieme a Hollywood”.
“Caspita! Avrai una giornata piena!”
“Già. Ma ora andiamo, non perdiamo tempo. Ho già prenotato l'aereo per l’Oregon”.
“Anche per me?”
“Certo!”
Steve rinunciò a commentare.
Era quasi mezzogiorno quando giunsero all'aeroporto di Pendleton. Li attendeva un elicottero, gentilmente offerto dal signor Word, che li avrebbe portati all'ospedale di Baker City. Una volta arrivati si rivolsero al medico curante delle ragazzine.
Steve gli mostrò il tesserino dell'FBI e gli chiese:
“È qui che sono ricoverate le tre ragazze scout che ieri hanno avuto una "spiacevole disavventura"?”
“Sì, le ragazze sono qui. Si tratta di Rosemary Limand, Lucy Word e Sally Naight”.
“È possibile vedere i risultati delle analisi delle ragazze?”
“No, non sono ancora pronti, mi dispiace”.
“Lei crede che fossero drogate?”
“Purtroppo, come le ho già detto, non c'è ancora nessun esame medico a confermarlo, ma ho parlato col medico del Pronto Soccorso che le ha ricevute. Dice che mostravano chiari segni di assunzione di droghe”.
“Come pensavo. Hanno fumato o assunto dell'acido e poi hanno raccontato questa grossa frottola per coprire il loro peccatuccio”.
“Ma il loro tentativo di suicidio?”, intervenne Livienne.
“La droga porta a uno stato confusionale”.
“Questo è vero, ma il signor Word crede alla versione della figlia”.
“Povero illuso,”, bofonchiò Steve. “Quanto tempo è passato fra la sparizione delle tre ragazze e il loro ritrovamento?”, chiese, lasciando perdere le impressioni personali e riprendendo l'interrogatorio.
“Non si sa di preciso. I due accompagnatori non si sono accorti subito della mancanza delle ragazze; i genitori hanno già sporto una denuncia in merito, ma sembra che siano passate all'incirca due ore prima che venissero trovate le prime due, e un'altra ora per la terza”.
“Parecchio tempo. Posso parlare con le ragazze?”
“Non può parlare con Rosemary: le sue condizioni cliniche non lo permettono. Ma può parlare con le altre due”.
“Grazie”.
Il medico lo accompagnò davanti alla stanza dove stavano riposando le due ragazze.
“Mi raccomando: sono ancora sotto shock, cercate di essere brevi”, raccomandò il medico, prima di lasciarli entrare.
“Non si preoccupi”, lo rassicurò Livienne.
Steve entrò nella stanza, seguito da Livienne, che sorrise alle due ragazzine, intente a leggere dei fumetti. Le ragazze fecero subito sparire i giornaletti sotto il cuscino.
“Salve”, salutò Livienne.
“Salve”, risposero le ragazze, a quanto pare non particolarmente impressionate dalla visita.
“Che cosa stavate facendo?”, chiese tranquillamente Steve, cercando di risultare simpatico alle ragazze.
“Stavamo riposando”, disse una delle due.
“Stavamo leggendo dei fumetti”, ammise l'altra.
“Che tipo di fumetti?”, chiese Steve alla seconda ragazza. Lei estrasse dal cuscino il piccolo giornaletto che aveva fatto sparire al loro ingresso e lo mostrò a Steve. Era una copia del DEEP SPACE.
“Vi piacciono gli UFO, a quanto pare!”, esclamò Steve, che conosceva bene quel tipo di fumetto.
“Ora non più, non dopo quello che ci hanno fatto”, rispose la ragazza.
“Tu come ti chiami?”, le chiese Steve.
“Lucy. Lucy Word”.
“Io mi chiamo Steve e sono qui per stabilire, insieme a te e alla tua amica, cosa è realmente successo in quella valle”.
“Noi lo abbiamo già detto quello che è successo. Ma qui nessuno ci crede”, si offese Lucy.
“Noi ti crediamo. Non è vero Steve?”, mentì Livienne, cercando di apparire il più dolce possibile.
“Certo! Vuoi raccontarci cosa è successo lassù?”
“Ma mi crederete veramente?”, insistette la ragazzina.
“Ce la metteremo tutta, te lo posso assicurare. Vedi, noi abbiamo già avuto a che fare altre volte con cose molto strane”.
“Anche con gli alieni?”, domandò, incredula, sgranando tanto d'occhi.
“Proprio con gli alieni, no. Ma abbiamo parlato con molte persone che hanno avuto esperienze come la vostra”.
“Oh! Degli altri "impiantati"”, esclamò Lucy, entusiasta. “Ci può mettere in contatto con loro?”
“Può darsi. Bisogna vedere se anche loro vogliono mettersi in contatto con voi, e questo dipende da come è stata la vostra esperienza”, abbozzò allusiva Livienne.
“Beh, ecco: noi stavamo camminando insieme agli altri, nella Blueriver Valley, quando, a un certo momento, abbiamo sentito il bisogno di... insomma… di andare al bagno. Così, mentre gli altri si erano fermati per osservare alcune piante, noi ci siamo allontanate per raggiungere un punto un po' fuori dal sentiero, in mezzo agli alberi. Abbiamo appoggiato i nostri zaini, abbiamo fatto quello che dovevamo fare, infine ci siamo rialzate in mezzo a una strana nebbia, calata all'improvviso. A tentoni abbiamo cercato di raggiungere di nuovo gli zaini e il sentiero, ma dobbiamo aver perso la strada, perché non abbiamo trovato più alcun segno di riconoscimento. E siamo delle provette esploratrici!”, puntualizzò.
“Dopo aver girovagato per pochi minuti, la nebbia si è diradata e ci siamo trovate di fronte a un disco volante, parcheggiato nel bel mezzo della valle. Mentre stavamo lì a guardarlo, indecise sul da farsi, un raggio traente ci ha trascinato a bordo contro la nostra volontà. Dopodiché siamo state attorniate da un gruppo di strani esseri con faccette a punta e grandi occhi neri; insomma, i soliti alieni, quelli che si vedono ormai in ogni film di fantascienza. Erano alti pressappoco come noi. Ci hanno visitate e ci hanno impiantato qualcosa nell'orecchio. Ci hanno fatto molto male; poi ci hanno messo in una stanza, legate mani e piedi, con altri poveri sventurati come noi. Qui siamo rimaste fino a che Rosemary non è riuscita a liberarsi. Ha liberato anche noi, siamo strisciate fuori dall'astronave e ci siamo intrufolate nel bosco, però si sono accorti subito della nostra fuga e ci hanno inseguite. Io e Sally ci siamo messe a correre dietro Rosemary, ma ci sparavano dei raggi laser, così ci siamo nascoste nella boscaglia, mentre Rose continuava a correre. Quando siamo state sicure che non ci seguivano più, siamo uscite dal nostro nascondiglio. Volevamo dirigerci verso il campo base, per avvertire i soccorsi, in quanto pensavamo che fossero in pericolo anche gli altri della spedizione. Anzi, pensavamo che avessero già catturato anche loro. Ma, una volta fuori dal bosco, siamo state raggiunte dagli alieni per mezzo dell'impianto che avevamo nell'orecchio. Ci hanno ritrovate e così, per sfuggire loro, ci siamo gettate nel lago. Per fortuna, quel pescatore ci ha ripescate!”
“E Rosemary?”, chiese Steve.
“Non sappiamo cosa le sia successo. Possiamo solo pensare che, inseguita dagli alieni, si sia lanciata in strada imprudentemente e per questo non abbia visto la macchina che sopraggiungeva”.
“E poi che ne è stato degli alieni? Come mai non vi hanno più seguite?”
“Probabilmente hanno visto il pescatore e si sono spaventati. Oppure hanno pensato che fossimo affogate, chi lo sa”.
Steve annuì alla ragazza, fingendo di credere alle sue parole.
“È tutto?”, le chiese.
“È tutto”, confermò la ragazza.
“Vi prometto che indagheremo sul vostro caso”, disse Steve, alzandosi dalla sedia dove si era seduto e dirigendosi verso la porta. Livienne lo seguì. Quando furono nel corridoio gli chiese:
“Non mi dirai che ora ci credi?”
“Neanche per idea! Sono più che mai convinto che stiano raccontando un sacco di frottole. Probabilmente si sono impasticcate, non trovo altra soluzione”.
Steve raggiunse la guardiola e chiese all'infermiera le lastre fatte a Rosemary. La donna le chiese al dottore di turno, che gliele fece avere. Steve le controllò e si rivolse a Livienne:
“Guarda qui: nessuna traccia di impianto. Questo dimostra che le ragazze stanno mentendo”.
“Secondo me basta aspettare i risultati delle analisi. Sono certa che troveranno tracce di droga, nel loro sangue”.
In quel momento, il telefono di Steve squillò.
“Pronto?”
“L'agente Rowling? Ci sono degli sviluppi nel suo caso: il signor Word è al Pronto Soccorso, in grave stato confusionale”.
Steve e Livienne raggiunsero il Pronto Soccorso e parlarono con il dottore che aveva assistito il signor Word.
“Che è successo?”
“Ancora non lo sappiamo”, rispose il dottore.
“Che sintomi presenta?”
“È chiaramente in stato confusionale. Si potrebbe quasi pensare che abbia assunto delle droghe, o dell'alcool, se non fossi assolutamente sicuro della irreprensibilità del signor Word, che peraltro è astemio e non fuma”.
“Che cosa lo ha ridotto così, allora?”
“Come ripeto, non lo sappiamo. Ma la sua macchina è stata rinvenuta al parcheggio dodici, all'incrocio col sentiero che porta al campo base degli scout e alla Blueriver Valley”.
“I sintomi che presenta sono simili a quelli delle tre ragazze?”
“Non sono sicuro. Non ho ricevuto io le ragazze; comunque, da quello che mi hanno detto i colleghi, sembrerebbe di sì”.
“Word ha per caso parlato di alieni o qualcosa del genere?”
“Sì, in effetti ha parlato di un disco volante”. Steve fissò Livienne, preoccupato:
“Dobbiamo indagare. C'è qualcosa di strano in quella valle”.
“D'accordo. Del resto, siamo qui per questo, no?”, cinguettò, con un sorrisetto sornione.
“È inutile che mi guardi con quell’aria da “te lo avevo detto”… sono certo che c’è una spiegazione logica per tutto questo e sono sicuro che gli alieni non c’entrino, in tutta questa storia”.
Dopo aver pranzato in un ristorante del luogo raggiunsero il parcheggio dodici, dove parcheggiarono la macchina, poi iniziarono a salire a piedi, dirigendosi verso il campo base. Qui, gli altri diciassette ragazzi e i loro accompagnatori continuavano le vacanza, anche se un po' turbati. Steve si fermò a parlare con un'accompagnatrice.
“Salve”, la salutò.
“Salve. Posso esservi utile?”
“Siamo dell'FBI e siamo qui per indagare sulla strana avventura delle tre ragazze”.
“Oh, sicuro. Ci trovavamo nella Blueriver Valley, quando è successo. Le ragazze si sono allontanate senza che ci accorgessimo di nulla, purtroppo”.
“Ci può dire dove si trova questa piccola valle chiamata Blueriver? Vorremmo darci un'occhiata”.
“Certamente”. La donna prese una cartina molto dettagliata della zona e mostrò a Steve il luogo dove si trovavano in quel momento.
“Qui è dove siamo adesso. Dovete prendere il sentiero sei e seguirlo fino in fondo. Ecco, percorrete questa strada, poi costeggiate il laghetto”.
“È quello dove due delle ragazze sono state ripescate?”
“Sì, proprio quello. Dopo il lago c'è una brutta salita, in questo punto. In cima troverete la valle. Per il momento le autorità hanno proibito l'accesso al pubblico, ma immagino che voi abbiate il permesso di entrarvi”.
“Sì, certamente. Ci vorrà molto ad arrivare fin lassù?”
“In un paio d'ore noi ci siamo arrivati, ma bisogna essere molto allenati alle scalate”.
Steve e Livienne si guardarono, un po' preoccupati: nessuno di loro era abituato a scalare montagne. Al più facevano qualche passeggiata al parco di Filadelfia, un po' di ginnastica e il footing la mattina presto.
“Forza, Livi, ci conviene incamminarci”.
“Aspetti, le lascio la cartina, così non  rischierete di perdervi”, disse la ragazza, piegando la cartina e donandola a Steve.
“Grazie, ne avremo bisogno”.
“Seguite sempre il sentiero. Non fidatevi a lasciarlo, o vi perderete”.
“Non si preoccupi”, la rassicurò Steve. Iniziarono a camminare, sulla stradicciola sterrata. Dopo una lunga e ripida salita giunsero a un pianoro, dove un piccolo laghetto dalle acque blu scuro s'incastonava come una pietra preziosa fra le cime delle montagne ricoperte di neve.
“Accidenti!”, esclamò Livienne, ansante. “Avremo pure faticato, ma ne è valsa la pena, davvero!”
Per un istante, Steve pensò che sarebbe stato bello essere lì per un picnic con Livienne, invece che per un’indagine. Ma le cose non stavano così, purtroppo.
“Già. È stupendo. Ma non possiamo fermarci, ora. Forza, dobbiamo raggiungere quella valle”.
Costeggiarono il laghetto e ripresero a salire per la stradicciola, che si faceva sempre più stretta e ripida, fino a diventare un minuscolo sentiero, che si inerpicava sul fianco della  montagna. A un certo punto i due furono costretti ad aiutarsi persino con le mani, per riuscire a salire fra le rocce e i torrenti che scendevano a valle in cascate cristalline e pure. L'aria era frizzante e profumata, il sole scottava e una lieve brezza scompigliava loro i capelli, mentre percorrevano l'ultimo tratto di strada che li divideva dalla valle.
Alla fine, giunsero a uno stretto passaggio fra le rocce, chiuso da alcuni striscioni rossi e bianchi, su cui campeggiava la scritta:
"NON OLTREPASSARE, DIVIETO DI ACCESSO PER ACCERTAMENTI". Steve passò sotto gli striscioni e Livienne fece altrettanto.
“Ecco, siamo nella valle”, affermò Steve.
“Possiamo fermarci un momento?”, chiese Livienne, grondante sudore da tutte le parti e chiaramente affaticata.
“Mettiamoci lì, su quel masso”. Si sedettero a riprendere fiato, per circa un quarto d'ora. Ci avevano messo ben più delle due ore necessarie, ad arrivare fino lì, ma erano arrivati. Steve si rialzò:
“Forza, dobbiamo fare presto, prima che faccia notte. Non ho intenzione di ritornare qui anche domattina”.
“Nemmeno io”, ammise Livienne. Si alzò in piedi ma, nel voltarsi, il suo sguardo fu catturato da uno strano bagliore, proveniente da un angolo poco distante del sottobosco.
“C'è qualcosa che luccica, laggiù”.
“È vero, lo vedo anch'io. Andiamo a controllare di che si tratta”.
Raggiunsero il luogo e vi trovarono gli zaini delle tre ragazze: un raggio di sole, che filtrava attraverso i rami degli alberi, ne aveva rivelato la presenza illuminando una fibbia metallica che chiudeva uno dei borsoni.
“Quindi siamo sulla strada giusta!”, esclamò Steve.
“Guada qui! Un altro di quei giornaletti sugli UFO”, disse Livienne, spostando uno zaino e trovandoci sotto un giornale a fumetti.
“Senti senti!”, esclamò Steve sfogliandolo. “Parla di tre ragazzi che sono stati rapiti dagli alieni in un bosco di montagna. Racconta anche di come siano stati studiati e impiantati”.
“Direi che questa prova è sufficiente a spiegare quello che è successo. Le tre ragazze hanno letto il giornaletto e hanno voluto vivere il loro "momento di gloria", così hanno inventato la storia del rapimento e tutto il resto. O forse si sono appartate qui per prendere della droga, magari per fumare marijuana, e poi si sono inventate questa storiella. Ora il signor Word si convincerà che la figlia non ha detto il vero”, commentò Livienne.
“Ne dubito. Anche se questo giornalino la dice lunga sulle tre ragazze, non spiega di certo cos'è successo al signor Word, a meno che non abbia inscenato tutto anche lui, per far credere vera la storia della figlia ed evitare uno scandalo. L'unica cosa saggia da fare è proseguire nelle indagini. Ci voglio vedere chiaro in questa faccenda. Dopotutto, siamo arrivati fino qui: abbiamo fatto trenta, facciamo anche trentuno”.
“Dobbiamo proprio?”, chiese Livienne, che era molto stanca.
“Direi proprio di sì. Forza, vieni”. Ripresero a camminare e Livienne diede un'occhiata all'orologio.
“Accidenti! Già le quattro del pomeriggio! Non ho ancora avvisato mia cugina che non potrò raggiungerla a Hollywood. Si arrabbierà! Devo chiamarla subito”, disse, provando a fare il numero della cugina sul cellulare.
“Maledizione! Non prende niente!”
“Ma che ci dovevi andare a fare, a Hollywood?”
“Che ci dovevo andare a fare? Mia cugina Susan è un'attrice e, mesi fa, ha finalmente avuto una parte come comparsa in un film di Schwarzenegger. Questa sera mi aveva invitato ad andare alla prima del film. Avrei visto Schwarzenegger dal vivo! Senza contare che mia cugina ci teneva molto a farmi notare quanto era stata brava a dire la sua unica frase: "Salve, signor Douglas! Posso esserle utile?"”
“Caspita! Davvero hai una cugina che fa l'attrice?”
“Sì, e dice anche di essere molto brava. Lo spero proprio per lei. Purtroppo, non lo scoprirò stasera”.
“Pazienza. Quando daranno il film a Filadelfia posso sempre portartici io, a vederlo”, azzardò Steve.
“Ti piace Schwarzenegger?”
“Abbastanza. I suoi film che mi sono piaciuti di più sono stati "Atto di forza" e i due "Terminator". Non vedo l'ora di vedere anche il terzo”.
“Atto di forza l'ho visto anch'io: è quello dove salva il pianeta Marte. Carino, ma io preferisco cose più tranquille, quando vado al cinema. Del resto, con te le cose strane le vedo tutti i giorni”.
“Ma che succede? Si sta alzando la nebbia!”, esclamò Steve.
“Dobbiamo essere finiti in una nuvola”, lo corresse Livienne.
“Aspetta: anche le ragazze avevano parlato di una strana nebbia. Dobbiamo essere quasi arrivati, Livienne. Tieni gli occhi bene aperti e stammi vicina”. Steve le prese la mano. A quel contatto, Livienne si scoprì a sussultare. Le piaceva quella stretta. Era così rassicurante…
“Non crederai davvero di trovare un'astronave qui”, obiettò.
“No,  ma non vorrei che ci fosse uno strapiombo”.
Continuarono a camminare nel folto della nebbia, chiacchierando dei loro film preferiti per rompere la monotonia e il silenzio ovattato di quel luogo misterioso perso nella bruma. Alla fine, la nebbia si diradò e davanti ai loro occhi si profilò uno strano paesaggio.
“Ma dove ci troviamo?”, chiese Livienne.
“Non lo so. Quella dannata nebbia deve averci portato fuori strada”.
Davanti a loro c'era un piccolo villaggio, con le case di legno e una strada selciata che lo attraversava tutto.
“Che strano posto! Non è segnato sulla cartina”, constatò Steve, controllando.
“Sembra quasi di essere tornati ai primi dell'ottocento!”, esclamò Livienne, osservando una carrozza trainata da cavalli che si trascinava lenta sulla strada sterrata, alzando nuvole di polvere.
“Dove credi che siamo finiti?”, continuò.
“Forse è un villaggio mormone: i mormoni vivono ancora così, senza elettricità e senza automobili, rifiutando ogni forma di progresso”.
“Potremmo chiedere a loro dove ci troviamo e come fare per ritornare nella valle”.
“Se sono veramente mormoni, non so se ci risponderanno: non parlano molto con gli estranei, è gente piuttosto riservata”.
“Guarda! Laggiù c'è un cartello. Forse c'è scritto il nome del paese”.
“Già. Andiamo a vedere”. Raggiunsero il cartello. Sopra c'era una scritta e Steve la lesse:
 "Walnut Grove". Mi ricorda qualcosa questo nome”.
“Certo! Era il nome del villaggio che faceva da scenario al famosissimo serial televisivo "Quella casa nella prateria". Era uno dei miei programmi preferiti, quand'ero una bambina. Ma non immaginavo che esistesse veramente un posto chiamato così”.
“Già, ora ricordo! Lo guardava anche mia madre!”
“Guarda! C'è persino l'emporio degli Oleson! Proprio come nel telefilm!”, si stupì Livienne, camminando per l'unica, polverosa strada, che passava proprio nel centro del paese.
“E guarda la scuola! È tutto come alla tivù! Forse è qui che hanno girato le riprese!”
Dall'Oleson's mercantile uscì una donna, con i capelli raccolti sulla nuca e una lunga gonna grigia d'altri tempi.
“Ehi, ma quella è Laura Ingalls!”, esclamò Livienne. “È la protagonista! Allora stanno girando la prossima serie!”
“Vuoi dire che ci troviamo proprio nel bel mezzo di un set televisivo? Strano che non ci abbiano fermati”.
“Saranno solo delle prove. È strano però: la protagonista non è cambiata affatto dall'ultima volta che l'ho vista in tivù”.
“Potenza del trucco scenico”.
“Ecco la signora Oleson. Neppure lei è cambiata”.
“Già, è vero! Certa gente non cambia mai!”, esclamò Steve, con ironia.
D'improvviso, però, fu lo scenario intorno a loro a cambiare: ora si trovavano in un lungo capannone bianco, illuminato a giorno, nel quale si sentiva uno strano ronzio. Sul soffitto alcuni ventilatori agitavano lentamente l'aria.
“Ma che succede? Dov'è finito Walnut Grove?”, si stupì Livienne.
“Non Lo so”, rispose Steve, guardandosi attorno: quello strano posto gli ricordava qualcosa. All'improvviso, la porta del capannone si aprì.
“Nasconditi!”, esclamò Steve, a bassa voce. Lui e Livienne si rifugiarono dietro una struttura metallica, accanto alla porta, acquattandosi contro il pavimento, dal quale sembrava provenire lo strano brusio.
Steve sbirciò verso la porta e vide due persone, un uomo e una donna, entrare nel capannone, con fare circospetto.
“Ma quelli sono Mulder e Scully! I miei idoli!”, esclamò sottovoce.
“Cosa? Vuoi dire che siamo finiti in un episodio di X Files?”, chiese lei, incredula.
“Fa freddo qui dentro! C'è un impianto di condizionamento”, commentò Scully. Evidentemente, i due agenti non li avevano ancora notati.
“No. Siamo nel film di X Files! Usciamo di qui, presto”, annunciò Steve, scivolando fuori senza far rumore e trascinando con sé anche Livienne.
“Perché siamo usciti?”, chiese lei, non appena si trovarono all'esterno. Entrambi notarono che era notte, a differenza di pochi minuti prima, quando il sole splendeva ancora alto, a Walnut Grove.
“Nel film, questo deposito è pieno di api assassine, che iniettano il virus alieno del "cancro nero". Non voglio stare a indagare se queste api sono assassine oppure no. Preferisco non farmi pungere”, spiegò Steve.
Riaccostarono la porta in silenzio, lasciando Mulder e Scully a continuare la loro indagine da soli.
“Vieni, nascondiamoci nel granoturco”, la esortò Steve, trascinandola in mezzo al mais, che circondava il capannone.
“Piano! Queste foglie mi stanno tagliando tutta! Si può sapere perché dobbiamo nasconderci qui in mezzo?”
“Tra poco le api invaderanno il capannone e i due agenti dell'FBI usciranno di corsa. Ma, non appena fuori, verranno inseguiti dagli elicotteri mandati dall'"uomo che fuma", il loro acerrimo nemico. Per sfuggire alla cattura, si rifugeranno qui in mezzo. Ma non l'hai visto il film?”, chiese, spazientito.
“Purtroppo no”.
“Beh, quando verrai a casa mia lo guarderemo insieme: ho la cassetta”, disse, accucciandosi a terra. Un istante dopo il frastuono degli elicotteri si fece vicino, mentre il granoturco veniva illuminato per cercare i due fuggitivi.
“Sta giù, adesso!”, esclamò Steve, cercando di nascondersi fra il folto fogliame. Purtroppo, gli elicotteri si stavano facendo troppo vicini. Steve si sforzò di ricordarsi come proseguiva il film. Il vento creato dalle pale degli elicotteri sferzava il granoturco, la luce si avvicinava.
“Corri, Livienne!”, esclamò rialzandosi, prendendola per mano e lanciandosi di corsa su per la collina. Una volta scesi dall'altra parte si voltarono indietro, spaventati: degli elicotteri non c'era più nemmeno l'ombra. Si gettarono a terra, sfiniti.
Ma lo scenario cambiò di nuovo: si trovavano in una grotta, ora.
“Oddio! Dove altro siamo finiti adesso?”, chiese Livienne.
“Volevi conoscere Schwarzenegger? Eccoti accontentata!”
“Oh, no! Atto di Forza!”, esclamò, riconoscendo la scena finale del film.
“Ringrazia il cielo che non siamo finiti in Terminator!”, sussurrò Steve.
Schwarzenegger era davanti al suo nemico, che brandiva la pistola in una mano e una bomba nell'altra e lo stava minacciando. All'improvviso arrivò la compagna di Schwarzenegger, che, per difenderlo, sparò al cattivo. Purtroppo, egli riuscì comunque a innescare la bomba.
“Se non ricordo male, sarà meglio che tu ti tenga forte a qualcosa”, le suggerì Steve, afferrandosi a una fune e controllando che Livienne facesse altrettanto.
Schwarzenegger si liberò della bomba gettandola in un condotto, ma l'esplosione provocò un enorme risucchio d'aria, che scaraventò fuori, uno alla volta, tutti quanti, compresi Steve e Livienne. All'esterno, il pianeta rosso era senza atmosfera. Steve e Livienne si sentirono soffocare: mancava loro l'aria e annaspavano qua e là cercando di respirare.
Fortunatamente, prima di uscire dalla grotta, Schwarzenegger era riuscito a mettere in funzione uno strano macchinario, che aveva il compito di sciogliere il ghiaccio esistente nel sottosuolo del pianeta. In questo modo, nel giro di pochi minuti venne a crearsi un'atmosfera, con tanto di aria respirabile. Steve e Livienne smisero di annaspare e si sentirono subito meglio. Il cielo, sopra di loro, da rosso era diventato azzurro.
“Ricordi? Cieli azzurri su Marte!”, esclamò Steve. “È la conclusione del film”, biascicò, respirando ancora a fatica.
“Ma che sta succedendo, Steve?”
“Ti giuro che non lo so, ma spero che sia finita”. Disgraziatamente, le speranze di Steve furono disattese: Livienne chiuse gli occhi un istante e, quando li riaprì, si ritrovò in una stanza piena di palloncini colorati. Steve era seduto accanto a lei. Marte, i marziani e tutto il resto... era scomparso tutto, e ora intorno a loro c'erano solo palloncini, e un sacco di gente che si stava prendendo a pugni.
“Steve! Dove ci troviamo?”, esclamò, stupita.
Lui si guardò intorno, spaesato. Di fronte a sé vide la sagoma inconfondibile di Bud Spencer, accompagnato dall'immancabile Terence Hill, nella scena forse più famosa del film "altrimenti ci arrabbiamo". I due attori stavano dando una mano di cazzotti agli scagnozzi del loro nemico, che si rifiutava di ridare loro la Dune Buggy rossa con la cappottina gialla.
“Ehi! Voi chi siete?”
Uno degli attori si rivolse a loro, fissandoli di traverso.
“Lei ci vede?”, chiese Steve, stupito. Fino a quel momento aveva pensato di non poter essere visto dai protagonisti dei film che avevano incontrato.
“Certo che vi vedo! Non sono mica orbo!”, disse, ridendo sguaiatamente.
“Ehi! Guardate qua, ragazzi! C'è uno che vuole fare lo spiritoso!”, esclamò, rivolto ai suoi amici.
“Ah, davvero?”, chiese Bud Spencer, rifilandogli un pugno. Purtroppo, Steve non fu abbastanza svelto a togliersi di mezzo e ne ricevette uno pure lui, da un'altra comparsa. Cadde a terra spaesato, con un bell'occhio nero.
“Steve! Come ti senti?”, chiese Livienne, soccorrendolo.
“Frastornato! Sarà meglio uscire di qui”. Barcollando, si diresse verso la porta d'ingresso.
“Ehi, voi due! Dove credete di andare?”, urlò una voce alle loro spalle.
“Via di qui, Livienne”. Steve la prese di nuovo per mano e la trascinò verso l'uscita, annaspando tra i palloncini. Fortunatamente, l'uomo che li inseguiva incespicò e cadde e i due riuscirono ad arrivare alla porta sani e salvi.
Una volta fuori si infilarono in un vicolo buio e si sedettero a riposare un po', dopo la corsa che li aveva sfiancati.
“Come va?”, s'informò lei.
“Stavo meglio prima”.
Livienne prese un fazzoletto, lo bagnò in una fontana e lo appoggiò sull'occhio dolorante di Steve.
“Steve, tutto questo non ha senso!”, cominciò, cercando di analizzare la situazione.
“Sono d'accordo con te”.
“Io credo che non siamo veramente qui. Forse si tratta solo di un sogno, di un'allucinazione”.
“Il pugno non era un'allucinazione”, asserì Steve, che faticava a pensare lucidamente, per colpa della botta ricevuta.
“Non è detto: a volte anche nei sogni sentiamo dolore”.
“Già, è vero! Anzi, spesso il sogno amplifica il dolore e lo interpreta in modo diverso, rendendolo più affine a ciò che stiamo sognando: ecco allora che una semplice puntura di zanzara può diventare il morso di un vampiro, e un dolore acuto dovuto a una postura sbagliata durante il sonno può trasformarsi addirittura in una terribile tortura a cui veniamo sottoposti, magari da spaventosi esseri delle tenebre”.
“Ma che razza di sogni fai, tu, la notte?”, lo stuzzicò Livienne.
“Sai, forse tutto quadra: insomma, pensa alle tre ragazze. Pensa se anche loro fossero incappate in queste allucinazioni. Sicuramente avrebbero cercato di venirne fuori e, pensando di fuggire ai loro incubi, avrebbero iniziato a vagare nel sonno, sognando un luogo inventato dalle loro menti, ma vivendo invece nella vita reale, che le ha portate a gettarsi nel lago, o sotto una macchina, perché credevano di essere inseguite dagli alieni, invece, magari erano rincorse solamente da un animale, o chissà cosa. Capisci? Nella dimensione del sogno in cui si trovavano, il panorama era molto diverso, per questo non hanno potuto evitare i pericoli. Probabilmente anche noi, mentre credevamo di correre in mezzo al granoturco, ci trovavamo invece nel bosco, e le foglie che ci sferzavano il viso erano in realtà gli aghi di pino, e quando siamo rotolati giù dalla montagna, credendo di trovarci su Marte, forse stavamo solo scivolando lungo un pendio scosceso. E quando ci siamo sentiti soffocare, probabilmente stavamo rischiando di annegare, forse proprio nel lago”.
“Ma se così fosse anche noi rischieremmo di cadere nella stessa trappola, allora! Forse noi crediamo di trovarci qui, al sicuro in un vicolo buio di una grande città americana, e invece siamo nel bel mezzo di una strada, dove le macchine stanno facendo del loro meglio per schivarci!”
“Proviamo a telefonare a Donald. Gli diremo di venire a prenderci”, propose Steve.
“Già, come abbiamo fatto a non pensarci prima?”
Steve estrasse il cellulare e compose il numero di Kerk.
“Maledizione! Non prende! Non riesco a collegarmi!”
“Accidenti! Quando servono, questi telefonini non funzionano mai!”
“Propongo di restare fermi qui, finché qualcuno non verrà a prenderci: questo sembra essere un posto tranquillo e sicuro. Se restiamo fermi non rischieremo di andare a finire sotto un'auto, se non altro”.
“D'accordo”.
Si sedettero sulla soglia di un'abitazione (perlomeno ne aveva tutta l'aria) e rimasero lì per alcuni minuti, ma nuovamente lo scenario cambiò: ora intorno a loro c'erano solo disegni animati, raffiguranti grandi montagne. Era di nuovo giorno.
“Non dirmelo, lasciami indovinare! Era il tuo cartone animato preferito!”, ironizzò Steve.
“Heidi!”, esclamò Livienne, riconoscendo la pastorella svizzera che stava salendo al pascolo con l'immancabile amichetto Peter e un nutrito gregge di capre al seguito.
“Ho sempre sognato di conoscerla dal vivo”, aggiunse.
“Già. Solo che noi non siamo dei cartoni animati, e quel caprone laggiù deve averlo notato!”, esclamò Steve, additando un becco di montagna che li fissava con fare minaccioso, puntando loro contro le corna affilate e raspando il terreno con gli zoccoli.
“Ricorda, Steve, si tratta solo di un sogno”.
“Sì, ma ciò che vediamo, anche se distorto, potrebbe essere reale! Insomma, quella capra potrebbe benissimo essere una capra vera, oppure un motociclista scatenato che ci punta addosso”.
“Buon per te che il mio cartone preferito non era Mazinga Z o Lupin terzo! Pensa se ce la dovevamo vedere con qualche mostro spaziale o con l'ispettore Zazà!”, esclamò, alzandosi in piedi perché ora il caprone si era messo a correre nella loro direzione.
“Livienne, non fare polemiche, corri!”, esclamò Steve, alzandosi anch'esso e mettendosi a correre a più non posso, con il caprone che andava guadagnando terreno dietro di loro.
Stavano quasi per essere raggiunti, quando di nuovo vennero sbalzati in un'altra scena: intorno a loro felci gigantesche e preistoriche facevano bella mostra di sé. Steve smise di guardarsi le spalle: se non altro, il caprone era scomparso, ma cosa li attendeva adesso? Materializzò il suo sguardo sulla nuova scena che gli stava di fronte e si fermò di botto: davanti a loro alcuni dinosauri stavano brucando tranquillamente le foglie degli alberi.
“Avevi detto che non ti piacevano i film dell'orrore!”
“Questo non è un film dell'orrore! Questo è Jurassic Park!”, si scusò Livienne.
Un tremore improvviso e ritmico del terreno li avvisò dell'avvicinarsi di un terribile tyrannosaurus rex.
“Vieni via, presto!”
“Laggiù, nella macchia d'alberi! Forse lì saremo al sicuro!”
Si nascosero nel sottobosco, sperando di non incontrare altre "simpatiche" bestiole e rimasero in silenzio, finché il pericolo non fu passato. Quando il bestione fu sufficientemente lontano, Livienne sussurrò:
“Che cos'era quello? Un autobus, forse?”
“Può darsi, ma ora dobbiamo ragionare, Livienne. Se questo è un sogno, deve pur esserci un modo per svegliarci”.
“Forse basta riaprire gli occhi”, propose Livienne.
“Proviamoci”.
Chiusero gli occhi, strizzandoli forte, e poi li riaprirono. Si ritrovarono ancora lì.
“Non funziona”, sussurrò Livienne.
“Che facciamo, adesso?”, chiese Steve, spaesato.
“Non lo so. Credo che convenga aspettare qui. Chissà dove ci troviamo, veramente”.
“Prima o poi qualcuno verrà a cercarci, vedrai”, la rassicurò lui, sentendola preoccupata.
“Forse dovremmo dormire un po'”, propose Livienne, che cominciava a sentirsi addosso tutta la stanchezza di quella strana avventura.
“Buona idea. Faremo dei turni. Comincerò io, mentre tu riposi un po'”. Si sedettero sopra un grosso sasso e Livienne appoggiò la testa contro il petto di Steve. Era strano stare lì, appoggiata a lui, a sentire il suo calore, il battito del suo cuore. Lui la circondò con le braccia e la tenne stretta.
“Non avere paura, Livienne. Ci sono io qui con te”, sussurrò.
“Non ho paura”, bofonchiò lei, la voce già impastata dal sonno.
In breve si addormentò. Lui rimase sveglio il più possibile, guardandosi intorno. L'ultima cosa che vide fu che il paesaggio stava cambiando di nuovo e li stava portando sulla plancia dell'astronave Enterprise, per partire alla ricerca di nuovi mondi e di nuove civiltà; per giungere là, dove nessun uomo era mai giunto prima. Poi si addormentò anche lui, sfinito.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò disteso sopra una branda, chiuso in un bugigattolo dove entrava pochissima luce. Livienne dormiva stesa quasi addosso a lui e lo stava abbracciando.
“Livienne”, sussurrò. Lei si svegliò e si guardò intorno.
“Dove siamo finiti, ora?”, chiese, a voce bassa.
“Non ne ho idea”.
“Non dirmi che è un altro dei tuoi film preferiti!”
“Non mi pare”.
Livienne si tirò a sedere sulla branda e Steve fece altrettanto subito dopo, constatando che erano prigionieri in una piccola cella sporca, chiusa da sbarre di ferro. Improvvisamente, un uomo con una stella appuntata sul petto si avvicinò alle sbarre e li guardò:
“Ben svegli!”, li salutò.
Steve si augurò che non fossero finiti nel selvaggio west, all'interno di qualche film di pistoleri e banditi.
“Salve. Dove ci troviamo?”, domandò, preoccupato.
“Nella prigione di Little Alps, a circa quaranta miglia da Baker City. Io sono lo sceriffo Domp”.
Steve cominciò a pensare che fossero tornati nel mondo reale e trasse un profondo sospiro di sollievo.
“Come ci siamo finiti, qui?”
“Vi ho trovati questa notte, addormentati su una panchina del parco, bagnati fradici e più fatti di due cammelli! Vi ho rinchiusi per cautela, anche se non stavate facendo niente di male. Non mi piacciono i vagabondi, e poi è chiaro che avete fatto a botte, altrimenti quell'occhio nero non si spiega”.
Steve si mise una mano in tasca per cercare il distintivo.
“Se sta cercando questa, l'ho presa io!”, annunciò lo sceriffo, mostrando a Steve la sua pistola.
“E non si è accorto che accanto alla pistola c'era anche questo?”, domandò, mostrandogli il tesserino dell'FBI. Lo sceriffo sogghignò sotto i baffi:
“Federali? Che diavolo ci facevate nel parco, drogati e addormentati?”
“Stavamo indagando su un caso. Ora, per favore, ci vorrebbe far uscire da qui?”
“Certo! Dopotutto, se avete un porto d'armi, non ho alcun motivo per trattenervi. Aspettate un momento”.
Diede un'occhiata al computer e cercò notizie di Steve. Quando le ebbe trovate aprì la cella e li fece uscire.
“Scusate ma, federali o no, non voglio grane nel mio distretto. Per questo vi ho dovuto incarcerare”.
“D'accordo, non si preoccupi”, commentò Steve, stiracchiandosi la pelle, una volta che lui e Livienne furono usciti di prigione.
“Posso fare una telefonata? Devo avvertire il mio capo al più presto, e il mio cellulare non prende nulla”.
“Chiami pure dal mio ufficio”.
Steve compose il numero di casa di Donald. Questi rispose, ancora mezzo addormentato.
“Steve! Dove diavolo ti eri cacciato? È da ieri che non ho più tue notizie!”
“Ho avuto un'esperienza un po' strana. Deve passare immediatamente al setaccio la Blueriver Valley, Donald. C'è qualcosa che provoca forti allucinazioni, là dentro. Io stesso ne sono rimasto vittima. E anche le tre ragazze. Non volevano tentare di suicidarsi: erano solo drogate da quella sostanza, che le ha condotte in un mondo irreale, creato dal loro subconscio. Non sapevano quello che realmente stavano facendo, quando si sono gettate nel pericolo”.
“D'accordo. Manderò una squadra della scientifica laggiù. Dirò loro di essere cauti e di indossare le tute”.
“Metta un gruppo di sentinelle davanti all'uscita della valle e dica loro di aspettare i compagni: se nell'uscire questi mostrano di essere drogati li fermeranno in tempo, prima che finiscano nei guai. Io tornerò a Filadelfia appena possibile, per farle un rapporto dettagliato”.
“Ti aspetto a braccia aperte. A presto, Steve”.
Dopo essere scesi dall'aereo, a Filadelfia, Steve accompagnò Livienne fino a casa e la salutò.
“Fammi sapere come vanno le ricerche nella valle”, gli disse.
“D'accordo. Ti chiamo non appena so qualcosa”.
Difatti, quello stesso pomeriggio la chiamò per comunicarle i risultati dell'indagine:
“Indovina un po', Livi. Nel sottobosco, quelli della scientifica hanno trovato un particolare tipo di felce, ancora semisconosciuta, le cui spore hanno effetti terribilmente allucinogeni. Noi dobbiamo esserci passati accanto e abbiamo inalato le spore. Lo stesso devono aver fatto le tre ragazze, e anche il signor Word”.
“Ma possibile che nessuno se ne fosse mai accorto prima? Gli scienziati che hanno studiato quelle piante non hanno notato gli effetti di quelle spore?”
“Sembra che le spore di quelle felci ci mettano anni, prima di maturare, e come tu sai quella piccola valle è stata scoperta dai naturalisti solamente tre anni fa”.
“Questo non spiega il viaggio all'interno dei nostri film e serial televisivi preferiti”.
“Sì, invece! Ricordi? Quando siamo entrati nella valle, tu hai accennato qualcosa riguardo a Hollywood e poi abbiamo parlato delle nostre preferenze cinematografiche. Questo deve aver catalizzato i nostri sogni verso i programmi televisivi e i film”.
“Allora le tre ragazze sono state condizionate dal giornaletto che stavano leggendo”, comprese Livienne.
“Esatto. Comunque, ciò che conta è che abbiamo risolto il caso, facendo contento anche Word. Dopotutto aveva ragione: sua figlia non aveva mentito”.
“E il tuo occhio nero? Come te lo spieghi?”
“Chi lo sa! Forse ho fatto veramente a botte con qualcuno, oppure sono andato a sbattere”.
“Ci hai messo del ghiaccio?”
“Sì, ora sto meglio”.
“Passerò a vedere come stai, più tardi. Ti devo salutare: devo completare l'articolo. A proposito, grazie per aver chiamato: ora so come ultimarlo”.
“Sai, pensavo una cosa: questa sera non ho niente da fare e mi andrebbe di riguardare il film di X Files. Che ne diresti di vederlo con me?”
“Mi farebbe molto piacere. Ma ti avverto: certe cose paranormali mi spaventano un po'”, scherzò lei.
“Sul serio? Vorrà dire che ci penserò io, a tranquillizzarti”, ammiccò Steve.
 
***
Due ore dopo, Livienne si presentò davanti a casa sua con un grosso sacchetto in mano. La fece entrare, sorridendole:
“Che hai lì?”, chiese, curioso.
“Pop corn. Non si guarda un film senza pop corn”.
Lui le tolse il voluminoso pacco dalle mani.
“Ma questi sono per un reggimento…”
“Stai scherzando, vero? Ti consiglio di sbrigarti, se vuoi riuscire a mangiarne qualcuno”, rise lei.
Presero posto sul divano e cominciarono a guardare il film, sgranocchiando pop corn e bevendo birra. Steve ne approfittò per circondare con un braccio le spalle di Livienne, attirandola a sé.
“Certo che questa, di tutte le nostre avventure, è stata davvero quella più strana…”, commentò Livienne, con la bocca piena.
“Già”.
“L’occhio ti fa ancora male?”
“Un po’”.
“Fa vedere”
Livienne appoggiò il sacco di pop corn sul tavolino che avevano davanti e sfiorò appena la pelle bluastra attorno alla palpebra di Steve. Lui si ritrasse leggermente.
“Sei ancora un po’ gonfio”. Lui prese la mano di Livienne e la strinse, fissando la ragazza dritta negli occhi. Era preparato a tutto, persino agli alieni, ma non a quello: non alla magia dipinta negli occhi verdi di lei. Quella ragazza lo aveva stregato con la sua dolcezza, la sua intelligenza, la sua immensa vivacità, la sua testardaggine. Eppure, in quelle iridi verde intenso, Steve poteva leggere una profonda tristezza, un’insicurezza che celava forse profondi segreti, verità nascoste mai rivelate, mai accettate, mai superate. Si avvicinò impercettibilmente a lei, mentre il cuore gli batteva a mille. Si rese conto di desiderarla immensamente. Quanto avrebbe voluto baciarla… non ricordava di aver mai provato nulla del genere per nessun’altra donna, neppure per Lisa. Schiuse le labbra, fissandola intensamente, avvicinandosi alla sua bocca. La sentì tremare, forse di paura, forse per l’emozione.
“No”, sussurrò lei, fermandolo.
“Ne abbiamo già parlato, Steve”.
Lui non osò dire altro, si limitò ad allontanarsi un poco, senza smettere di tenerla stretta. Livienne appoggiò la testa sul suo petto e si accoccolò meglio fra le sue braccia.
“Solo amici, okay?”
“Okay”, sussurrò lui, ma stava diventando davvero difficile riuscire a resistere al suo fascino e sentirla lì, fra le sue braccia, lo faceva fremere di desiderio. Dopo il film, la accompagnò sul pianerottolo.
“Buonanotte, Livienne”, sussurrò, per non svegliare i vicini. Le sfiorò appena la guancia con un buffetto, facendola sorridere. Di nuovo lo assalì il desiderio di baciarla.
“Buonanotte a te, Steve”, lo salutò, sorridendo. Poi si voltò e scese le scale, quasi di corsa, chiedendosi perché il cuore le martellava nel petto a quel modo. Aveva solo passato una serata con un amico, guardando un film, dopo tutto… eppure, aveva una gran voglia di tornare indietro e cercare febbrilmente le sue labbra, la sua bocca perfetta, che ogni tanto si soffermava a guardare. Si diede della stupida e, raggiunta la sua auto, si allontanò nella notte.
Steve si gettò sul letto, esausto. Gli seccava ammetterlo, ma la compagnia di quella giornalista ficcanaso gli faceva sempre più piacere.
"Chissà", pensò, "da cosa nasce cosa…"

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Capitolo 13
*** capitolo 13: SUONI DALLO SPAZIO ***


Filadelfia, Giovedì 27 luglio 2000
 
Steve varcò la soglia del City Magazine, attirando su di sé l'attenzione di molte paia di occhi curiosi. Si avvicinò a una ragazza che stava leggendo tranquillamente un quotidiano, seduta a una scrivania situata accanto all'ingresso, e le chiese:
“L'ufficio della signorina Livienne Parrish?”
Lei sollevò lo sguardo e lo fissò, sorridendo:
“Prima porta a destra. Poi l'ultima a sinistra in fondo al corridoio”.
“Grazie”.
Steve si infilò nel corridoio, dove incrociò Cris.
“Salve, Rowling. Sei in cerca di notizie fresche?”, lo salutò.
“Veramente cercavo Livienne”.
“Sei fortunato: è in ufficio”, rispose, additando la porta dell'ultima stanza. Steve bussò e dall'interno si sentì dire:
“Avanti”.
Aprì la porta e trovò Livienne intenta a rovistare nel secchio della spazzatura.
“Credevo che questo lavoro toccasse alle inservienti”, la apostrofò, ridendo. Livienne si voltò verso di lui, sorpresa: era la prima volta che Steve entrava nel suo ufficio.
“Ciao. Che ci fai qui?”
“Sono passato a chiederti se ti va di accompagnarmi in un'indagine”.
“Certo! Sempre meglio che stare qui a rovistare fra queste cartacce! Ma dove accidenti l'avrò messo?”, sbuffò, frugando fra le carte che aveva sulla scrivania. Nel suo ufficio regnava il caos tipico anche del suo appartamento. Steve notò che lo screensaver del computer era impostato sul progetto SETI at home e stava lavorando. Evidentemente, Livienne aveva seguito il suo consiglio di qualche mese prima.
“Che cosa stai cercando?”, le chiese.
“Un appunto che mi ero fatta. Era una cosa importante, ma non ricordo cosa fosse, e nemmeno dove l'ho messo”.
“Fortuna che era importante!”, sghignazzò Steve.
“Eccolo!”, esclamò Livienne, togliendo un foglietto appiccicato allo schienale della sua seggiola. Compose un numero di telefono e parlò con qualcuno, poi riattaccò nervosamente.
“Accidenti!”, esclamò, delusa.
“Dovevo fare un'intervista a Mick Jagger, mentre era in città, ma se ne è andato due ore fa! Roger sarà furioso!”
“Non te la prendere: si calmerà quando avrà letto il tuo nuovo articolo di "ai confini della realtà"”.
“A proposito, mi parlavi di un'indagine. Di che si tratta?”
“Sta a sentire questi articoli di giornale: "giovane operaio stermina la propria famiglia e si uccide". "Studente modello rapina una banca con una pistola giocattolo". "Quarantenne tenta il suicidio". "Anziana signora si getta nel lago per aver perso il proprio cagnolino"”.
“Non ci trovo niente di strano. I giornali sono pieni di notizie come queste”.
“Già. Ma questi articoli, che si riferiscono alle ultime due settimane, vengono tutti dal giornale di Sudbury, nel Canada”.
“E allora? Di gente matta ce ne sarà anche lì”.
“Certo, ma non ti sembra strano che tutti questi avvenimenti siano accaduti nel piccolo paesino di File, che conta novecento abitanti in tutto e che non è mai stato menzionato prima negli annali di cronaca nera?”
“E ora, in sole due settimane tutta quella gente ha iniziato a dare i numeri?”
Livienne aveva smesso di rovistare fra le sue carte e lo stava guardando, interessata all'argomento.
“Già. Ma non è tutto: queste copie dei giornali erano nella mia cassetta della posta. Non so come ci siano arrivate, ma è chiaro che qualcuno vuole che io indaghi su questo caso”.
“Okay. Allora si parte per il Canada”, commentò lei, sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori. Steve pensò che era proprio questo che gli piaceva di lei: era talmente trasparente che avrebbe quasi potuto leggerle nel pensiero e talmente pazza da gettarsi in qualsiasi impresa senza pensarci mai due volte. In un certo senso, loro due si completavano a vicenda e questo gli permetteva di arrivare dove molti altri non sarebbero mai giunti. Con questi pensieri per la testa, le aprì la porta e la seguì nel corridoio, fra gli sguardi incuriositi degli altri dipendenti del giornale.
Nel pomeriggio giunsero a File, dove presero posto in una locanda. Dopo aver sistemato i bagagli si gustarono un'ottima cena e andarono a dormire. La mattina seguente si accinsero a interrogare i parenti delle persone colpite da quella insolita ondata di pazzia.
Il paesino sorgeva sulle sponde di un piccolo lago e fu proprio nel porticciolo che Steve incontrò Agus Ferguson, padre del ragazzo finito in prigione per aver rapinato la banca.
“Salve. Siamo dell'FBI. Vorremmo farle alcune domande”.
L'uomo li squadrò, stupito, poi fece loro cenno di seguirlo in una bella casa, situata proprio sulla sponda del laghetto, in una magnifica posizione.
“Da qui si vede tutto il lago!”, esclamò Steve, osservando il panorama.
“Già”, bofonchiò l'uomo, dimostrando poco interesse per la veduta. Li fece accomodare in veranda, su una panca di legno, probabilmente di costruzione artigianale.
“Che volevate sapere?”, chiese.
“Sappiamo che suo figlio Jones ha rapinato la banca del paese con una pistola giocattolo. Poi ha gettato i soldi in un fosso e ha cercato di fuggire prendendo il treno”.
“È la verità. Non so cosa gli sia preso. Uno lavora una vita, fa sacrifici continui per mandare a scuola il figlio, e quello lo ripaga così!”
“Si era mai comportato in maniera strana, prima d'ora?”
“No. È sempre stato un bravo ragazzo. La cosa che più mi ha colpito è che neppure lui sa perché lo ha fatto! Non aveva alcun motivo di rubare quei soldi!”
“È certo che non sia invischiato in qualche losco traffico, o che non si droghi, magari?”
“Sono certo che non è un drogato: anche i dottori lo hanno confermato. Ma non posso certo sapere se si è cacciato in qualche guaio. È stato visitato da alcuni psicologi, ma nessuno vuole dirmi che cosa hanno scoperto”.
La porta che dalla veranda dava sulla cucina si aprì e ne uscì una donna con uno straccio in mano. Senza degnare di uno sguardo i presenti scosse lo straccio, facendo un bel po' di polvere, poi si mise a spolverare il pavimento della veranda, canticchiando tranquillamente. Accortosi che Steve e Livienne la guardavano un po' perplessi, l'uomo spiegò:
“È mia moglie. Da qualche giorno si comporta in modo strano. Credo che sia sotto shock, per via di quello che è accaduto a nostro figlio”.
La donna si mise improvvisamente a piangere, poi si alzò, gettò lo straccio e corse a chiudersi in casa.
“Il colpo è stato troppo duro, per lei”, disse ancora l'uomo.
“Dove si trova ora suo figlio?”
“All'ospedale di Sudbury. Gli stanno facendo degli altri esami, poi lo riporteranno in cella”.
“Grazie, signor Ferguson. Le faremo sapere qualcosa, non appena possibile”.
Lui strinse la mano ai due e li salutò. Steve e Livienne risalirono sulla vettura che avevano noleggiato e raggiunsero la centrale elettrica, dove lavorava l'operaio che aveva ucciso la moglie e i due figli e si era suicidato. Qui, interrogarono il capo reparto, che si chiamava Miles.
“Salve, signor Miles. Vorremmo alcune informazioni sul caso Frais”.
Lui scosse la testa, ricordando il compagno di lavoro e commentando:
“Gran brutta storia”.
“Che motivi poteva avere Frais per commettere un gesto del genere?”
“Nessuno lo sa. Era un uomo tranquillo, un buon lavoratore e un ottimo padre. Forse aveva problemi con la moglie… chi lo sa?”
“Le aveva detto niente?”
“No, ma era molto nervoso, ultimamente. Si comportava in modo strano. Dava la colpa al mal di testa, ma scommetto che c'era qualcos'altro, sotto”.
“Che vuol dire con "si comportava in modo strano"?”
“Beh, si dimenticava di compilare il registro, per esempio. Questo non era da lui. Era un tipo molto preciso”.
“Il giorno dell'incidente è accaduto qualcosa di insolito? Qualcosa che può avere scatenato in lui la furia omicida?”
Il capo reparto ci pensò un attimo, poi rispose:
“Quel mattino, mentre attendevamo che iniziasse il nostro turno, c'è stato un incidente: un pescatore che stava pescando tranquillamente sul pontile, poco lontano da qui, è scivolato in acqua. Accortosi che non sapeva nuotare, Frais si è gettato in acqua e lo ha salvato. Abbiamo festeggiato Frais, quel giorno. Mai ci saremmo aspettati che facesse una simile sciocchezza”.
“Conosce qualcuno che ci può dire di più sul suo conto?”
“Rosendor! Vieni qui, per favore”, chiamò. Rosendor li raggiunse.
“Ecco. Lui era il miglior amico di Frais”, spiegò Miles.
“Scusatemi ora: il dovere mi chiama”. E si allontanò.
“Così, lei era amico di Frais?”, chiese Steve a Rosendor.
“Già”, sbuffò lui, tirando su col naso.
“Che mi può dire di lui?”
“Gran bella ragazza”.
“Come, scusi?”, chiese Steve, perplesso.
“Dicevo che la sua collega è molto carina. Cosa mi stava chiedendo?”
“Volevo sapere qualcosa di Frais: che mi può dire di lui?”
“Che era un tipo tranquillo. Incredibile, vero? Proprio nel giorno in cui era diventato un eroe, salvando quel povero disgraziato, decide di distruggere la sua famiglia e uccidersi!”
“Sembra davvero strano”, commentò Livienne.
“Già. È strano che lei abbia i capelli biondi, signorina. Di solito, le ragazze con gli occhi verdi hanno i capelli rossi”, disse ancora Rosendor, rivolgendosi a Livienne.
“Signor Rosendor, c'è qualcos'altro che ci può dire su Frais?”, lo interruppe Steve, incominciando a spazientirsi per lo strano comportamento dell'uomo, che dimostrava di essere molto più interessato a Livienne piuttosto che alla conversazione.
“Oh, sì, Frais! Gran bravo ragazzo! Peccato che sia morto! Lei lo conosceva, signorina?”
“No,  non lo conoscevo”.
“Peccato. Lei non è di qui, vero?”
“Signor Rosendor, non siamo qui per parlare di Livienne, ma di Frais!”, lo apostrofò Steve.
“Livienne? È questo il suo nome? È un nome fantastico, signorina”.
“Senta. le spiacerebbe dirci se c'è ancora qualche particolare che possa interessarci? Per esempio, come si chiama l'uomo che Frais ha salvato?”, intervenne Livienne, notando che Steve stava per dare in escandescenze.
“Oh, quello! Si chiama Lionel Rachet, ma non potrete parlare con lui: ha tentato nuovamente di togliersi la vita, l'ho saputo ieri pomeriggio”.
“Che vuol dire "nuovamente"?”, continuò Livienne, visto che a lei l'uomo prestava più attenzione.
“Che quella caduta in acqua non era affatto accidentale: Lionel si è gettato di proposito”.
“Come lo ha saputo?”
“Me lo aveva detto Frais, quel mattino, dopo il salvataggio. Mi pregò di non rivelarlo a nessuno, perché Lionel si sarebbe trovato nei guai, se la cosa si fosse risaputa. Ma ora posso raccontarvelo: dopotutto, Lionel si è gettato da una finestra del terzo piano e ora è in ospedale, in gravissime condizioni. Non so se questo può essere utile alle vostre indagini, ma vorrei tanto sapere perché Frais si è ucciso. Lo vorrei proprio sapere. Era mio amico da sempre”. L'emozione incrinò la voce di Rosendor, mentre pronunciava quest'ultima frase.
“La ringrazio. Indagheremo anche su questa pista: ha fatto bene a parlarcene”.
“Aspetti, signorina. Dove posso trovarla?”, insistette.
“Mi dispiace, ma ora devo proprio andare”, tagliò corto lei.
Steve e Livienne si congedarono da lui e si diressero verso l'ospedale di Sudbury. Una volta arrivati, chiesero di vedere Lionel Rachet, ma non fu loro concesso.
“Le sue condizioni non permettono alcuna visita, figuriamoci un interrogatorio”, spiegò il dottore che aveva ricevuto i due agenti.
“Che cosa ci può dire della sua salute "mentale"?”, chiese Livienne.
“Niente. È arrivato qui che era già in coma. Del resto, uno che si lancia da una finestra del terzo piano, qualche problemino ce l'aveva di sicuro!”
“Voi che avete trovato?”
“Sostanzialmente niente: a parte le fratture riportate nella caduta, Lionel era in perfetta salute”.
“È ricoverato qui anche un ragazzo di nome Jones Ferguson, non è vero?”
“Sì, in effetti è qui”.
“Potremmo parlare con lui?”
“Se volete. Ma vi avverto: è pericoloso! Inoltre, non so fino a che punto possiate fidarvi di ciò che vi dirà: purtroppo vaneggia e si comporta come un pazzo”.
“A parte questo, anche lui sta bene?”
“Sì. Sta perfettamente. L'unica cosa che sembra non funzionare è il suo cervello”.
“Soffre forse di qualche sindrome depressiva?”
“No. La sua pazzia sembra diversa da tutto ciò che abbiamo riscontrato finora: prima di tutto, è decisamente un caso di follia "improvvisa", scaturita così, apparentemente senza alcun motivo, da un momento all'altro. Le dico solo che quel mattino Jones si era recato in biblioteca per completare alcuni compiti delle vacanze”.
“Così come Frais era andato al lavoro. Ci hanno detto però che Frais era piuttosto nervoso, negli ultimi tempi, prima dell'insano gesto”.
“È la stessa cosa che hanno riferito anche i genitori e gli amici di Jones: era nervoso, ma non certo così nervoso da giustificare un simile comportamento”.
Erano giunti davanti alla stanza dove veniva tenuto rinchiuso Jones.
“Sarò costretto a chiudervi dentro, ma lascerò qualcuno di guardia: non appena vorrete uscire dovrete solo chiamare”.
Aprì la porta e fece entrare i due, chiuse a chiave e lasciò davanti alla porta un infermiere piuttosto forzuto, che poteva anche intervenire in caso di bisogno.
“Salve”, esordì Steve, osservando Jones, che stava disteso sul letto.
“Salve”, rispose il ragazzo, apparentemente calmo.
“Siamo dell'FBI. Vorremmo farle delle domande”.
“È per quello che ho fatto, vero?”
“Sì, per la sua tentata rapina. Vorremmo sapere perché lo ha fatto”.
“Vorrei saperlo anch'io”.
“Vuol dire che non lo sa?”
“No. Ho cercato di spiegarlo anche ai miei genitori, ai dottori, agli agenti di polizia, ma nessuno mi crede: non so perché l'ho fatto. Io mi sento strano: faccio cose che non ho mai fatto prima, e le faccio senza pensare alle conseguenze. Mi domando se non sono per caso diventato pazzo”.
“Che ne voleva fare dei soldi rubati?”
“Non lo so. Non so neppure perché li ho rubati! È questo che sto cercando di dirle”.
“Capisco. Quindi lei ha agito come spinto da una forza misteriosa, o qualcosa del genere?”
“Più o meno. Diciamo solo che ho fatto quello che mi è passato per la testa in quel momento. Sono settimane, ormai, che mi sento così strano: pochi giorni prima di rapinare la banca avevo telefonato alla mia professoressa, facendole delle proposte oscene. Mi sono reso conto solo dopo di quello che avevo fatto”.
“Da cosa crede che possa dipendere tutto questo?”
“Follia congenita? Stress accumulato? Chi lo sa!”
“Abbiamo notato che anche sua madre si comporta in modo strano”.
“Già, l'ho notato anch'io”.
“Sarà, ma lei non mi sembra pazzo”, commentò Livienne.
“Da quando sono qui a Sudbury sto molto meglio, mi è persino passato il mal di testa”.
“Mal di testa?”, s'informò Steve.
“Erano settimane che avevo mal di testa, continuamente, senza che nulla potesse farmelo passare”.
Steve annuì, pensieroso.
“Noi la ringraziamo, signor Ferguson”. Steve gli strinse la mano e il ragazzo sorrise.
“Grazie per avermi creduto”, sussurrò, tornando a stendersi sul letto.
Quando uscì, Steve volle parlare ancora col dottore:
“Ha detto che era pericoloso, invece a me è sembrato normalissimo”.
“È qualche giorno che sembra più calmo, ma non so se durerà”.
“Gli avete fatto una TAC al cervello, o delle lastre al cranio?”
“Tutte e due le cose. Perché me lo chiede?”
“Che risultati avete avuto?”
“Tutti negativi. Come le ho già detto, il ragazzo è in buona salute”.
“Non le ha parlato di un certo mal di testa?”
“Sì. I primi due giorni che è stato qui non faceva che lamentarsi per un dolore alla testa, che neanche gli analgesici riuscivano a placare. Poi però è andato sempre migliorando”.
“Non le sembra strano?”
“No. Forse lo shock... sa com'è”.
Steve e Livienne salutarono il dottore e uscirono dall'ospedale.
“Che si fa, ora?”
“Cerchiamo un posto per dormire. Inizio a essere stanco”. Cenarono in una locanda, dove presero anche due stanze per dormire, ma faticarono ad addormentarsi, perché alcuni cani non fecero che ululare tutta la notte. La mattina seguente Livienne si alzò con un forte mal di testa e decise di prendere un antidolorifico.
“Ciao Livi”, la salutò Steve, raggiungendola al tavolo da pranzo, dove la ragazza stava facendo colazione.
“Ciao Steve”.
“Sai, i discorsi relativi al mal di testa di ieri sera mi hanno fatto uno strano effetto: ho un'emicrania spaventosa, stamattina”, raccontò Steve.
“Già, anch'io”.
“Benvenuti a File!”, commentò allegramente il locandiere portando in tavola il caffè.
“Che vuol dire?”
“Che qui abbiamo tutti il mal di testa”.
“Come sarebbe?”
“Non so che dirle: da due mesi a questa parte, tutti gli abitanti del nostro paese hanno sempre il mal di testa, bambini compresi”.
“E la cosa non vi sembra strana?”
“Certo che sì: abbiamo avvisato le autorità competenti, ma ci siamo sentiti rispondere che ci avrebbero mandato una fornitura di aspirine”.
“E nessuno di voi ha fatto niente altro?”
“Abbiamo fatto fare alcuni controlli: aria, acqua, inquinamento dovuto a fonti elettromagnetiche. È stato tutto inutile: non si riesce a capire da che cosa derivi questo disturbo. Del resto, gli abitanti stessi hanno fatto delle analisi, me compreso: siamo tutti in buona salute, a parte i soliti acciacchi che avevamo anche prima”.
“Però avete tutti il mal di testa”, ripeté pensoso Steve.
“Già! E le dirò di più: anche i cani sembrano stare poco bene”.
“I cani?”
“Venga a vedere”. Lo accompagnò in un cortiletto poco distante, dove un grosso cane nero se ne stava disteso per terra, senza dare alcun segno di vitalità.
“È sempre stato un giocherellone, ma da due mesi a questa parte è sempre così: mangia giusto per non morire di fame ed è triste. Non salta, non corre, non gioca, non abbaia. Ogni tanto ulula, come se fosse sofferente. Anche gli altri cani del paese sono così. Alcuni di loro si sono persino gettati nel lago, lasciandosi affogare. Altri sono fuggiti”.
“Ho sentito dei cani ululare stanotte”, commentò Steve.
“Io li ho sentiti anche ieri pomeriggio”, aggiunse Livienne.
“Sono gli altri cani del paese. Anche loro sembrano non essere immuni a questo strano malessere e  altri tipi di animali sono colpiti dallo stesso malore, anche se in forma minore”.
“Tutto questo è molto strano. A quando ha detto che risale questo mal di testa?”
“A circa due mesi fa”.
“È successo qualcosa, in quel periodo?”
“No, che io sappia”.
“Vieni Livi. Andiamo a parlare con le forze dell'ordine locali. Forse scopriremo la fonte di questi strani disturbi”.
Ma fu inutile: la polizia locale non sapeva che pesci pigliare, esattamente come il resto della popolazione.
“Mi dispiace: non abbiamo idea di quello che sia accaduto, due mesi fa. Sappiamo soltanto che da quel momento… ma mi sta ascoltando, signor Rowling?”
Steve stava guardando una mappa del paese, con tutte le abitazioni e i cognomi degli abitanti, che faceva bella mostra di sé appesa a un muro della centrale di polizia.
“Che sta guardando?”, domandò l'agente.
Steve segnò col dito l'abitazione di Ferguson, accanto al porto, poi la centrale elettrica, situata sul lago, dove lavorava Frais, la casa di Rachet, sulla riva del lago, infine, la casa della signora Lising, sempre sulla sponda del laghetto.
“Sembra che tutte le persone che hanno avuto problemi di pazzia abbiano a che fare con il lago, eccetto il giovane che ha tentato il suicidio: Robert Stand”.
“Anche lui ha a che fare con il lago: fa il pescatore, come suo padre”.
“Come sta ora Robert?”
“Si è rimesso, ma non mi stupirei se tentasse di nuovo il suicidio: sa, alle volte ci penso anch'io, da quando ho questo dolore nella testa”, ammise il giovane agente.
“Dia retta a me, stia lontano dal lago. Ho l'impressione che c'entri in tutta questa faccenda”.
Steve e Livienne si recarono sulle sponde del piccolo specchio d’acqua, dove fecero alcuni rilevamenti, poi andarono all'ospedale di Sudbury dove i campioni da loro presi vennero analizzati urgentemente. Nel pomeriggio, Steve poté avere i primi risultati.
“Niente. L'acqua è pura e potabile!”, si spazientì.
“Che facciamo ora?”, chiese Livienne, tenendosi una pezza bagnata sulla fronte, per alleviare leggermente il dolore.
“Non lo so. Questo mal di testa mi annienta. Che ne dici se andiamo a parlare con Robert Stand?”, osservò Steve.
“Può essere una buona idea”.
Raggiunsero la casa di Stand, dove trovarono padre e figlio intenti ad aggiustare le reti.
“Vorremmo farvi delle domande, riguardo al lago”.
“Che tipo di domande?”
“Soffrite anche voi del mal di testa che colpisce la popolazione di File?”
“Sì. Ma che c'entra?”
“Penso che il lago sia in qualche modo collegato a questo fenomeno”.
“Se fosse così, l'acqua sarebbe inquinata, ma non lo è”.
“Non necessariamente: vede, anch'io ho fatto analizzare l'acqua e non ho trovato nulla di strano. Ma forse il disturbo è di un altro genere. Ha notato qualcosa di strano sul lago, ultimamente?”
“L'acqua è calata, ma non è strano in questa stagione”, spiegò il padre.
“È calata più degli altri anni”, ammise il figlio.
“E abbiamo trovato dei pesci morti, qualche giorno fa”, continuò. Il padre lo fulminò con lo sguardo.
“Zitto! Ci vuoi rovinare?”, bofonchiò l'uomo, sottovoce.
“Di che stava parlando?”, incalzò Steve.
“Abbiamo trovato dei pesci morti, fatti a pezzi. Non sappiamo cosa sia accaduto loro. Erano pesci di piccole dimensioni ma, qualunque cosa li abbia ridotti così, non l'ha fatto per mangiarli. Mio padre non voleva che ve ne parlassi, perché teme che la gente non compri più il nostro pesce se questa notizia dovesse trapelare”.
“Ho capito. Siete sicuri di non avere idea di che cosa possa aver ucciso quei pesci?”
I due si guardarono, senza fiatare. Steve comprese che qualcosa dovevano aver visto, anche se non se la sentivano di parlarne.
“No”, risposero in coro.
“Se vi venisse qualche idea, chiamatemi a questo numero, oppure cercatemi alla locanda "La foglia di fico"”, disse Steve, lasciandogli un biglietto da visita.
Si incamminarono verso il parcheggio dove avevano lasciato la macchina e con quella raggiunsero il lago.
Steve si fermò sulla riva e si guardò intorno. In effetti, il livello del lago doveva essere stato almeno trenta centimetri più alto, poco tempo prima, visti i segni lasciati sulle rocce e sulla vegetazione.
“Guarda là!”, esclamò Livienne, additando un piccolo pesce morto sulla riva, poco lontano. Steve raggiunse il pesce, lo rigirò con un piede e lo osservò meglio: sembrava quasi essere scoppiato.
Lo raccolse, lo mise in un sacchetto di plastica e tornò alla macchina, seguito da Livienne.
“Vado all'ospedale a portare questo reperto, perché me lo analizzino subito”.
“Se non ti fa niente, io preferirei tornare alla locanda: ho bisogno di riposare un po'. Questo mal di testa mi snerva”, disse Livienne.
Steve annuì. L'accompagnò alla locanda, poi proseguì diretto all'ospedale e fu di ritorno solamente alle dieci di sera.
Entrò nella locanda e pensò che per quella sera aveva saltato la cena. Poco male: non aveva proprio fame. Decise di infilarsi subito nel letto e prese le chiavi della stanza, notando però con stupore che le chiavi della camera di Livienne erano ancora appese nell'ingresso. Possibile che non fosse ancora andata a dormire? Forse lo stava aspettando alzata in sala da pranzo, dopo aver cenato. Raggiunse la sala da pranzo, che era deserta. Entrò in cucina, dove il padrone del locale stava discutendo con la moglie su un certo stufato di funghi da preparare per il giorno dopo.
“Mi scusi, dove posso trovare la signorina Livienne Parrish?”, chiese.
“La signorina che sta con lei di solito? Non lo so, Non l'ho ancora vista stasera. Non si è fatta vedere neppure a cena. A proposito: se avete intenzione di saltare un pasto, gradirei saperlo in anticipo, se non vi spiace”, lo apostrofò piuttosto seccato.
Steve non lo stette neppure a sentire: dove poteva essere andata Livienne? L'aveva lasciata proprio lì, davanti alla locanda. Dapprima fece il suo numero di telefono, ma non ottenne risposta, così uscì di corsa, prese la sua torcia elettrica sulla macchina e si mise a cercare intorno alla locanda, chiamando Livienne a gran voce. Della ragazza, nessuna traccia. Il cuore gli batteva all’impazzata. Dove poteva essere? E se le fosse accaduto qualcosa di male? Non riusciva neppure a pensarci. Stava per chiamare le forze dell’ordine locali quando, in un angolo, vide un piccolo oggetto tondeggiante. Si avvicinò e lo prese fra le mani: era il portacipria di Livienne. Doveva esserle successo veramente qualcosa. Chiamò subito la polizia, ma nessuno rispose. Così si decise a ritrovare Livienne da solo. Iniziò a camminare sulla strada dove aveva rinvenuto il piccolo oggetto, procedendo nella direzione opposta alla locanda. Più avanti trovò un rossetto e capì quello che Livienne stava cercando di fare: aveva lasciato dei piccoli indizi per fargli trovare la strada. Che fosse stata rapita? O forse stava perdendo anche lei la ragione, ma in qualche modo voleva essere ritrovata? Steve accelerò il passo, scandagliando la strada buia con la luce della torcia elettrica alla ricerca di altri indizi. A un bivio trovò un fazzoletto, poi, a un altro bivio, una pinzetta. Infine un fiocco per capelli. La strada portava in un bosco, fuori paese.
Ci si avventurò in silenzio, continuando a cercare per terra. Trovò altri indizi che lo condussero a un piccolo capanno fatto con tronchi d'albero legati insieme. L'ultimo era proprio lì, per terra, davanti alla porta. L'interno della casa era buio e silenzioso. Steve estrasse la pistola, augurandosi di essere arrivato in tempo. Si avvicinò alla porta, vi sferrò un potente calcio ed entrò, illuminando con la torcia l'interno della capanna. Livienne era seduta in un angolo, legata e imbavagliata e, soprattutto, viva. Sembrava stesse bene. Steve si guardò intorno: la capanna era vuota.
Si avvicinò alla ragazza, la slegò e le tolse il bavaglio.
“Che è successo?”, chiese, ancora sconvolto.
“Rosendor! Mi ha aspettata davanti alla locanda. Quando te ne sei andato mi ha afferrata e mi ha costretta a seguirlo con la forza, minacciando di spezzarmi un braccio. Delirava, diceva frasi senza senso. Sembrava completamente impazzito. Per fortuna sono riuscita a lasciarti quegli indizi per ritrovarmi”.
“Ti ha fatto del male?”
“No. Mi ha solo portata qui. Mi ha legata e imbavagliata, poi è stato come se fosse rinsavito improvvisamente. Si è chiesto che cosa stava facendo ed è scappato via”.
“Incredibile. L'importante è che tu stia bene. Vieni, andiamocene da qui”. Ma erano appena usciti dalla capanna quando udirono degli ululati spaventosi.
“Che succede?”
“Sembrano lupi”.
“Lupi? Forse dovremmo tornare nella capanna!”
“È strano. Di solito i lupi non si avvicinano ai paesi, soprattutto in questa stagione”. Steve fendette l'aria con il fascio della torcia e riuscì a vedere gli animali, nel folto della vegetazione.
“Eccoli!”
Uno di loro si fece avanti, minaccioso. Probabilmente era il capo. Ringhiava forte, ma Steve teneva ancora in mano la pistola carica.
“Sta tranquilla, non sono lupi: sono cani randagi”.
“I cani fuggiti da File”, intuì Livienne.
“È probabile. Ora li spaventerò, poi ce ne andremo, ma con calma, okay?”
Sparò un colpo in aria e gli animali fuggirono terrorizzati. Lentamente, controllando la situazione, Steve e Livienne uscirono dal bosco e tornarono alla locanda.
“Sai Livienne, mentre andavo all'ospedale di Sudbury ho riflettuto su questa strana faccenda e mi sono chiesto che cos'è che può dare così fastidio agli animali e alle persone. Deve essere qualcosa che noi umani non percepiamo, qualcosa che viene però percepito dagli animali. Per questo sono arrivato alla conclusione che, forse, tutte queste stranezze derivano da una fonte di ultrasuoni situata nel lago”.
“Ultrasuoni? Ma non sono innocui?”
“Veramente non si conoscono ancora gli effetti di una prolungata esposizione del corpo umano agli ultrasuoni, perlomeno a certi tipi di ultrasuoni. Sai, mi sono documentato: alcuni ultrasuoni a onde molto corte possono far evaporare un liquido nel quale si trovano e possono addirittura arrivare a uccidere e ridurre in pezzi dei piccoli animali”.
“Come i pesci di cui parlavano gli Stand?”
“Già. Ho il sospetto che quei due la sappiano lunga su questa faccenda”.
“Pensi che siano loro a causare questi fenomeni?”
“Potrebbero avere messo a punto un metodo di pesca basato sugli ultrasuoni, che però disturba l'intera popolazione umana e animale, per quanto ne so”.
“Dovremo interrogarli di nuovo”.
“Già. Ma prima dobbiamo andare sul lago e provare la nostra teoria”.
“In che modo?”
“All'ospedale mi sono fatto prestare l'attrezzatura necessaria per registrare eventuali ultrasuoni. Basterà accenderla”.
Raggiunsero il lago e Steve accese l'apparecchiatura, che segnalò da subito la presenza di stranissimi ultrasuoni a onde molto corte.
Steve confrontò la frequenza degli ultrasuoni con tutte quelle utilizzate normalmente, ma non trovò niente di simile.
“Comunque, ora sappiamo che la nostra teoria è esatta. Nel lago c'è qualcosa che disturba l'equilibrio del paese, e questo qualcosa è un ultrasuono. Scommetto che gli Stand sono sul lago, a pesca. Andiamo a cercarli”.
Salirono sulla macchina e raggiunsero il piccolo porto dove si fermarono ad aspettare.
“Prima o poi torneranno e noi saremo qui ad aspettarli”.
Difatti, circa due ore dopo, alle prime luci dell'alba, la barca degli Stand attraccò.
“Sveglia, Livienne, arrivano i nostri pesciolini!”, la chiamò Steve, che aveva montato la guardia per tutto il tempo.
“Fermi dove siete! FBI!”, esclamò, una volta sceso dalla macchina, mostrando il tesserino agli Stand e cercando di spaventarli per indurli a parlare.
“Che cosa volete ancora? Dobbiamo andare a vendere il nostro pesce”.
“Quello può attendere. Scendete dalla barca. Dobbiamo perquisirla”.
“Noi non abbiamo niente di male a bordo!”
“In questo caso non avete nulla da temere”.
Steve perquisì la barca da cima a fondo: non c'era niente di strano. Nessuna apparecchiatura in grado di produrre gli ultrasuoni che avevano registrato. Accese di nuovo l'apparecchiatura che aveva portato con sé. L'ultrasuono continuava il suo funesto lavoro, indisturbato.
Fissò Livienne, perplesso: evidentemente si erano sbagliati. Gli Stand non c'entravano con quella faccenda.
“Che sta facendo?”, chiese Robert.
“Sto registrando delle frequenze ultrasoniche. Vede? Questa probabilmente è la causa di tutti i guai di File”.
“Anche dei pesci morti?”
“Già, e del mal di testa”.
“Te l'avevo detto che quel coso doveva aver creato dei problemi!”, esclamò Robert, rivolgendosi al padre, che gli fece cenno di tacere.
“Di cosa sta parlando, signor Stand?”
“Del meteorite che è caduto nel lago, circa due mesi fa”, si decise finalmente a rivelare Robert, impaurito dagli effetti che stava provocando la loro scoperta.
“Un meteorite?”
“Sì. La notte del 22 maggio eravamo sul lago, a pescare, quando abbiamo visto quella cosa precipitare nell'acqua. La nostra barca è stata rovesciata dalle onde e ci siamo salvati per miracolo”.
“Era grosso?”
“Non molto. Ma era incendiato. Una palla di fuoco”.
“Perché non ce lo avete detto subito?”
“Beh, da allora abbiamo iniziato a pescare un sacco di pesce, così abbiamo pensato che, se lo avessimo detto, qualcuno avrebbe tolto quell'affare da lì e avremmo ricominciato a fare la grama vita di prima”, spiegò il padre, mortificato.
Steve telefonò subito a  Prische:
“Prische, ho bisogno di sapere se qualche oggetto, o corpo celeste, è caduto dalle parti di File, presso Sudbury, nel Canada, circa due mesi fa”.
“Va bene, ti richiamo io”.
Circa dieci minuti dopo, Prische telefonò a Steve e gli disse:
“Non mi risulta che qualcosa sia caduto lì, a File, però sappiamo che il 22 maggio c'è stato uno scontro fra due asteroidi. Forse alcuni pezzi sono precipitati sulla Terra”.
“Ti ringrazio, Prische. Avverti Donald che dovrò far scandagliare il lago di File, per trovare qualcosa che sembra essere caduto qui e che produce un forte ultrasuono e crea problemi a tutto il paese. Ti mando delle frequenze da analizzare, tramite computer. Voglio i risultati al più presto”.
“D'accordo”.
Steve collegò il suo computer all'apparecchiatura che registrava gli ultrasuoni, poi inviò i dati al collega.
Quel pomeriggio stesso ricevette i risultati.
“Dai un'occhiata qui, Livienne: l'andamento degli ultrasuoni è discontinuo: va a colpi”.
“Già. Sembra quasi un cifrato!”, commentò Livienne.
“Sai che hai ragione? Sembra un alfabeto morse, o qualcosa del genere”.
Steve provò a tradurre i vari segnali come un punto e una linea, ma la cosa non funzionava.
“Niente da fare. Probabilmente stiamo solo facendo congetture inutili”, si convinse poi.
“Ma se questa fonte di ultrasuono deriva dallo spazio, il progetto SETI non avrebbe dovuto intercettarla?”, chiese Livienne.
“Hanno talmente tanto lavoro da fare che spesso si trovano a elaborare dati registrati mesi e mesi prima. Forse quelli degli ultimi mesi non li hanno ancora analizzati, per questo non hanno scoperto questo strano meteorite”.
“Sono quasi le due, non dovremmo andare?”, chiese Livi, sbirciando l'orologio.
“Già. La barca ci aspetta”.
Salirono su una motovedetta della polizia che li attendeva al molo e individuarono la fonte dell'ultrasuono, circa in mezzo al lago.
“Eccolo, è lui”, annunciò Steve, notando sullo schermo dell'ecoscandaglio un oggetto rotondo, non molto grosso.
“Dovremmo immergerci”, continuò.
“Niente da fare. Abbiamo avuto l'ordine di rientro immediato”, annunciò la guardia che stava con loro.
“L'ordine di rientro? E perché?”
“Questo non glielo so dire. So solo che ci hanno ordinato di rientrare immediatamente al porto”.
Quando giunsero al porticciolo, Steve trovò ad attenderlo Jim Older, capo dell'AFOSI (Air Force Office of Special Investigation).
“Salve Rowling”, lo salutò questo, tendendogli la mano. Steve gliela strinse, sospettoso: non gli piaceva quella visita e non capiva perché lo avesse richiamato indietro.
“Salve Jim. Che ci fa qui?”, chiese.
“Sono venuto a sollevarla dall'incarico, Steve”, disse infatti Older.
“Per quale motivo?” Steve si mise sulla difensiva.
“Per la sua sicurezza personale! Lei è un agente troppo prezioso, per permetterci di perderla”. Chissà perché, Steve notò una lieve sfumatura d'ironia nella voce, mentre pronunciava queste parole.
“Che significa?”, chiese, deciso a non mollare tanto presto.
“Che d'ora in avanti se ne occuperanno i reparti speciali: qualunque cosa sia celata là sotto, lei non deve mettere a repentaglio la sua vita, avvicinandosi troppo. Lasci fare a noi”, lo rassicurò Jim.
“Che avete intenzione di fare?” Il tono di Steve era duro, ma Jim pareva non curarsene.
“Toglieremo il meteorite dal lago, è ovvio”, rispose tranquillamente.
“E dove lo porterete?”
“In un laboratorio, dove potremo studiarlo”.
“Voglio presenziare ai lavori di recupero”, ribadì Steve, deciso a non farsi tagliare fuori.
“Potrà vedere il meteorite quando verrà ripescato. Stia tranquillo: ho già dato ordine alle mie squadre di tirarlo fuori al più presto”.
“Ma…”
“Niente ma. Torni pure al suo alloggio. E porti con sé anche quella giornalista. Vi chiamerò io”. Questa volta, il tono di Jim era perentorio: non avrebbe accettato altre discussioni, da parte del suo sottoposto. Loro malgrado, Steve e Livienne furono costretti a tornarsene alla locanda, con le pive nel sacco e la rabbia fra i denti. Due ore dopo Jim li mandò a chiamare e raggiunsero il molo, dove la barca incaricata di recuperare il meteorite stava attraccando. Con delle speciali tute poterono salire a bordo e vedere il meteorite, che sembrava un comunissimo blocco di pietra fusa e metallo.
“Voglio una copia dei risultati degli esami che farete sul meteorite”, disse Steve, rivolto a Older.
“Glieli farò avere, Rowling”, promise Jim.
Il rapporto arrivò sulla scrivania di Steve dieci giorni dopo. Lui gli diede uno scorcio: il meteorite era composto per lo più da silicati di ferro, nichelio e cobalto, presentava tracce di cromite, schreibersite e troilite, pesava 20,7 kg. ed era di tipo Olosiderite. Insomma, forse non era proprio un meteorite dei più comuni, ma era pur sempre un normale meteorite: non si faceva alcuna menzione a una sua eventuale emissione di ultrasuoni. Steve gettò rabbiosamente il dossier sul tavolo: aveva telefonato più volte all'agente di polizia di File, al signor Ferguson, a Robert Stand e al padrone della locanda "La foglia di fico", chiedendo a tutti la stessa cosa: se fosse passata l'epidemia di mal di testa. Tutti avevano riferito che, in meno di due giorni dall'estrazione del meteorite dal fondo del lago, con conseguente trasporto dello stesso in altro luogo, il mal di testa era passato e nessuno aveva più dato segni di squilibrio. Persino Jones Ferguson era stato dimesso, anche se avrebbe dovuto scontare un po' di tempo in carcere. I cani selvatici erano tornati alle rispettive famiglie e gli altri erano invece tornati a correre e giocare, senza più ululati di dolore. Insomma, ogni cosa era tornata al proprio posto. Solo quel meteorite aveva lasciato dietro di sé delle domande senza risposta. E Steve non poteva fare a meno di ripensare alle parole di Livienne:
"Sembra un messaggio cifrato". E se fosse stato davvero così? Se veramente qualcuno avesse tentato di mandare quel meteorite sulla Terra per comunicare con i terrestri? Se quelle frequenze ultrasoniche fossero state davvero un linguaggio criptato da decifrare? Infuriato e troppo motivato per lasciar correre anche questa, Steve prese il telefono e chiese a Donald di parlare con Jim Older. Alla fine, Donald riuscì a  metterlo in comunicazione con lui.
“Non erano questi i patti!”, incominciò Steve, furioso.
“Di che patti sta parlando, Rowling?”
“Le avevo chiesto i risultati sul meteorite!”
“Non glieli hanno spediti? Provvederò subito”.
“Lo sa benissimo di cosa parlo! Volevo i dati sull'emissione di ultrasuoni!”
“Ultrasuoni? Temo che lei stia lavorando di fantasia, Steve. Quel meteorite era a base di silicati di ferro, niente di più, niente di meno”.
“E gli ultrasuoni che ho registrato, allora?”
“Non so da dove derivassero, ma certamente non dal meteorite. Buona giornata, Rowling”, tagliò corto Jim.
Steve ebbe un moto di rabbia nel riattaccare il telefono. Anche quella volta la verità era stata insabbiata. Anche quella volta non aveva potuto andare fino in fondo, scoprire cosa c'era sotto. Ma se veramente quel meteorite non aveva niente da nascondere, perché lo avevano portato via così alla svelta? Perché nasconderlo in qualche introvabile base sotterranea americana? Perché non lasciare che fosse lui a portarlo alla luce? Diede ancora un'occhiata all'articolo di "ai confini della realtà", che titolava "File: pazzia pura o ultrasuoni?" Livienne aveva già dato una risposta plausibile a quella domanda, nel suo articolo, ma Steve sapeva che anche lei, ora, stava aspettando con ansia di saperne di più.
Fece il numero dell'ufficio di Livi, che rispose immediatamente, immaginando già di chi si trattasse:
“Ciao Steve! Novità?”
“Ci hanno fregato un'altra volta, Livi”, disse semplicemente lui. Livienne sospirò, poi rispose:
“Non te la prendere, Steve. Troveremo le prove, vedrai, e allora dovranno ricredersi, tutti quanti. A cominciare da quell'antipaticone di Jim Older”.
“Forse hai ragione: prima o poi ce la faremo”.
Rimase a lungo a parlare con lei, quel pomeriggio: la voce allegra e tranquilla di Livienne lo aiutava a calmare i nervi. Quando riagganciò la cornetta si ritrovò a pensare che era stato davvero un bene, per lui, l'averla incontrata. Chissà cosa avrebbe mai riservato il destino, per loro due. Chissà quali altri segreti li attendevano ancora. Comunque, qualunque cosa li aspettasse per il futuro, sapeva che poteva fare conto su di lei e questo era molto incoraggiante.

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Capitolo 14
*** capitolo 14: GIOCHI DI MORTE ***


Villas, New Jersey, Lunedì 31 luglio 2000, ore 21.00
 
Erano ormai le nove e il sole stava lentamente scendendo dietro le abitazioni di Villas. Le strade della città erano quasi deserte, a quell'ora, in periferia.  Lucy aveva sempre paura a percorrerle di sera, ma quel giorno si era attardata ad aiutare sua sorella, di sette anni più vecchia di lei, che aveva voluto farsi un bagno. Era triste doversi occupare da sola dell'unica persona cara che le fosse rimasta. La donna, sulla sessantina, arrancava sulla strada appoggiandosi a un bastone. La sua gamba destra aveva subito numerose operazioni, ma ancora non si decideva a funzionare a dovere. La fermata dell'autobus era a pochi metri, ormai. Doveva sbrigarsi o l'avrebbe perso. D'improvviso, un ragazzotto le si parò dinanzi, sogghignando con un'espressione che non le piaceva affatto.
“Che vuole?”, chiese la donna, spaventata.
“Dammi la borsetta e non ti succederà niente, vecchia!”, ordinò, facendo scattare la lama di un coltello a serramanico.
Spaventata, la donna obbedì e gli consegnò la borsetta.
“Brava, così va bene. Ora prega che qui dentro ci siano dei soldi, e molti, o per te sarà la fine!”, continuò, brandendo il coltello. La donna non aveva alcuna difesa contro di lui. Non poteva neppure fuggire. Si limitava a guardarlo terrorizzata, con gli occhi spalancati e le braccia tremanti, la destra che si appoggiava con forza al bastone che la sorreggeva. Ma un colpo d'arma da fuoco esplose nel silenzio della via, facendola trasalire. Il ragazzo strabuzzò gli occhi, rimase un istante immobile, lo sguardo incredulo dipinto sul volto, poi si afflosciò ai suoi piedi. Una chiazza di sangue si allargava per terra, mentre il giovane moriva. Lucy si guardò intorno, terrorizzata. Che sarebbe successo, ora? Dall'ombra di un caseggiato vide uscire una strana figura: era una donna, ma portava una maschera sul viso che la rendeva irriconoscibile. Si avvicinò all'anziana signora reggendo tra le mani la pistola che aveva usato per sparare. Lucy aveva una paura folle. L'altra donna, invece, sorrideva amabilmente. Non sembrava avere cattive intenzioni, ma una pistola in mano fa sempre il suo effetto.
“Non deve più temere, signora. Ci sono qua io”. Si avvicinò al cadavere del ragazzo e, con un piede, lo rivoltò, quasi fosse stato un pupazzo. Prese la borsetta dell'anziana signora, grondante sangue, e gliela diede, come se nulla fosse.
“Ecco. Ora non la disturberà più, questo fannullone”.
Poi la donna si dileguò nella notte, balzando su una muraglia e, da lì, su una tettoia, con un'agilità impressionante.
Quando finalmente l'anziana signora riuscì a tornare nel suo appartamento chiamò immediatamente la polizia, raccontando l'accaduto, ancora incredula.
“Una donna travestita?”, chiese Tomas Raine, capo della polizia, scrutandola da sopra gli occhiali tondi per cogliere ogni sfumatura del suo viso, quando fu al cospetto della donna, la mattina seguente, durante l'interrogatorio.
“Con una tuta a macchie verdi e marroni, come le divise dei soldati”, specificò lei, ancora scossa.
“Lei non ha mai avuto una pistola, vero signora?”, continuò l'uomo, scribacchiando alcuni appunti su un foglietto spiegazzato.
“Ma non dica sciocchezze! Non vede come sono ridotta? Sono dieci anni che devo usare il bastone per riuscire ad avanzare con questa gamba malata. Con la mano destra devo reggere il bastone, non potrei certo usarla per sparare!”
“A ogni modo le faremo la prova del guanto di paraffina. Lei mi capisce, dobbiamo prendere in esame tutte le possibilità”, abbozzò Tomas, allargando le braccia, quasi a dire che lui si rifaceva solamente alla prassi.
“D'accordo, fate come volete”, accettò la donna, sconcertata.
Naturalmente, la prova del guanto di paraffina dette esito negativo, le rilevazioni fatte sul luogo dettero ragione all'anziana signora, visto che il colpo era stato sparato da dietro il caseggiato dove lei aveva visto la donna e comparve pure un testimone, che avvalorò la storia della signora, raccontando di aver sentito lo sparo e di essersi affacciato alla finestra per vedere cosa succedeva. Così aveva visto la donna misteriosa porgere la borsetta alla vecchia e fuggire via.
 
***
 
Villas, Martedì 1 agosto 2000 ore 15.30
 
“Posso andare a giocare sulla spiaggia con Luke, mamma?”
“Certo! Ma non mettetevi nei pasticci, mi raccomando. E non fate il bagno dove l'acqua è alta, d'accordo?”
“Sta tranquilla!”, urlò Rudolf, un ragazzetto sui dieci anni, secco e alto, precipitandosi fuori, dove l'amico lo stava aspettando sulla bicicletta. Il bimbo prese la sua bici e i due si recarono sulla vicina spiaggia, dove si misero a giocare con la sabbia, costruendo un magnifico castello. Stavano ancora finendo di preparare il fossato con il ponte levatoio, quando la loro attenzione fu attirata da un oggetto che galleggiava sulle acque del mare, poco distante da loro, accanto al pontile in legno, che si spingeva fin dove il mare si faceva alto e pericoloso.
“Guarda laggiù, Luke. Che cos'è quello?”
“Non lo so. Abbiamo a vedere”. Raggiunsero il luogo e vi trovarono una stupenda zattera fatta di tronchi, legata al pontile, che si dondolava pigramente sulle onde.
“Wow! Che meraviglia! Di chi sarà?”
“Non lo so, ma mi piacerebbe molto provarla”.
“Che ne dici se ci saliamo?”
“Sei matto? E se poi arriva il padrone?”
“Mica gliela rubiamo! Ci saliamo solo un attimo, poi scendiamo subito. Così, solo per provare”.
“Nessuno in vista?”, s'informò Rudolf, scendendo sulla zattera.
“Nessuno!”, confermò Luke, imitandolo.
“È davvero una meraviglia stare qui!”
“Sembra di essere Robinson Crusoe”.
“Già. Potremmo giocare ai pirati”. Improvvisamente, la corda che teneva legata la zattera al pontile si spezzò e la piccola imbarcazione di fortuna iniziò a scivolare verso il mare.
“Accidenti! Ci stiamo muovendo!”, esclamò Rudolf, spaventato.
“Oh, no! La corda si è spezzata!”, constatò Luke.
“Che facciamo adesso?”
“Non lo so. Proviamo a chiamare aiuto”. E si misero a urlare.
“Guarda! Qualcuno ha sentito le nostre grida!”, lo rassicurò Rudolf, notando una figura umana, in piedi sul pontile.
I due bambini si alzarono in piedi, agitando le mani e gridando aiuto con quanto fiato avevano. La figura, anziché avvertire la guardia costiera, si tuffò in mare e, velocemente, raggiunse a nuoto la zattera.
“State tranquilli, ragazzi. Ora ci sono qua io”, disse la donna, poiché di una donna si trattava, mentre afferrava la corda della zattera e la trascinava nuotando verso riva. I ragazzi erano esterrefatti e spaventati, ma anche stupiti dallo strano abbigliamento della ragazza.
“Portava una maschera sulla faccia”, raccontò Rudolf ai suoi genitori, quando fu in salvo sulla spiaggia.
“Aveva una tuta come quella dei soldati, verde e marrone. Vedessi come nuotava, mamma! Sembrava un pesce!”
“E ci ha salvati”, aggiunse Rudolf.
“Le abbiamo chiesto come si chiamava e lei ci ha detto di chiamarsi Dania, o qualcosa del genere”.
“Ma che Dania! Era Dalia!”, intervenne l'altro bambino.
“Non era neppure Dalia! Era un'altra cosa!”
“Forse Dana!”, propose la madre.
“No, non era neppure Dana. Comunque, la cosa più incredibile è che ci ha accompagnati a riva, ci ha raccomandato di stare più attenti, la prossima volta, e se ne è andata via. Nel giro di un attimo non c'era più”.
“È saltata là, sopra quell'albero, e non l'abbiamo più vista”, raccontò Luke, concitato, additando una piccola macchia di pini marittimi.
“Voi guardate troppi cartoni animati!”, commentò il padre di Rudolf, prendendo il figlio in braccio per portarlo a casa.
“Ringraziate il Cielo che non vi siete fatti niente!”, commentò la madre di Luke, avviandosi verso il suo appartamento, con il bambino per mano.
La guardia costiera, che si era precipitata sul posto non appena aveva saputo dell'incidente, decise comunque di fare rapporto alle autorità competenti: una donna con una maschera sul volto che se ne andava in giro a salvare i bambini… non sapeva perché ma c'era qualcosa di storto, in quella faccenda.
 
***
 
Villas, Mercoledì 2 agosto 2000
 
Il telefono nell'ufficio di Tomas Raine squillò molto presto, quel mattino: qualcuno aveva aperto la gabbia degli alligatori, nello zoo della città, e ora quattro di quegli enormi bestioni se ne andavano tranquillamente in giro a fare shopping.
“Allora, capo, ci sono novità, stamattina?”, chiese James, entrando in ufficio in perfetto orario.
“Solo quattro alligatori in giro per la città”, bofonchiò Tomas, prendendo la pistola d'ordinanza e infilandosela nella giacca.
“Stai scherzando, vero?”, rise James, conoscendo il proverbiale umorismo del suo capo.
“Magari! È la pura verità. Forza, diamoci da fare”, disse, uscendo dalla stanza. Il suo cellulare suonò e lui rispose, poi avvertì il collega sugli sviluppi della situazione.
“Buone notizie: sembra che uno dei quattro bestioni sia già stato catturato dai proprietari dello zoo: era rimasto nei paraggi e lo hanno ripreso senza fatica. Un altro, invece, è stato addormentato vicino al parco, con una dose di sonnifero, questa notte. Una coppia di fidanzati dice che a sparare il colpo che lo ha mandato nel mondo dei sogni è stata una donna mascherata”.
“Ancora lei! Ne ho già sentito parlare, recentemente”.
“A chi lo dici! Ho già due dossier che la riguardano. Sembra che abbia ucciso a sangue freddo un uomo per salvare una vecchina e che abbia salvato due ragazzini su una zattera, e ora questo! Quello che è peggio è che sembra che esca soltanto di notte e che capiti sempre nel posto giusto al momento giusto, per poi sparire nel nulla a una velocità impressionante. Craig le sta dando la caccia da giorni, ma nessuno sa dire chi sia, o dove si trovi”.
“Ora concentriamoci su questi alligatori, a lei penseremo dopo”.
Prima di notte, i due alligatori ancora a piede libero erano stati rimessi nelle loro gabbie. Tomas tornò a casa sfinito, quella sera. Ciononostante, la faccenda della donna mascherata lo preoccupava non poco, così chiamò Craig al telefono, per avere notizie.
“Allora, Craig, come sta andando con la nostra vendicatrice mascherata?”
“Mi dispiace, Tomas: non ne so ancora nulla. Sembra che compaia solo quando sta per accadere qualcosa”.
“Maledizione! Se non fosse sospettata di omicidio non sarei così preoccupato. Del resto non ha fatto gravi danni alla comunità, finora. Ma c'è quel tipo che ha freddato con tanta tranquillità. Non vorrei che lo rifacesse”.
“Chissà, forse i rapinatori ci penseranno due volte prima di agire, ora che c'è in giro lei”, scherzò Craig.
“Non mi piace, Craig. Quella donna mi preoccupa. Credo che sia il caso di chiamare rinforzi”.
“Il capo sei tu. Del resto, io non so proprio che altro fare per ritrovarla”.
 
***
 
Filadelfia, Giovedì 3 Agosto 2000
 
Steve rigirò fra le mani il dossier che Donald gli aveva appena messo sulla scrivania, lo soppesò, e  finalmente si decise ad aprirlo. Lesse tutto il contenuto, poi fece il numero dell'ufficio di Livienne. Lei gli rispose dopo numerosi squilli.
“Chi è?” La sua voce sembrava piuttosto affannata.
“Ti ho fatto correre?”, chiese Steve, immaginando che non fosse stata in ufficio.
“Un po': stavo uscendo”.
“Sei libera, oggi?”
“Stavo per stilare un articolo su una certa pazza che se ne va in giro mascherata a salvare la gente oppure a ucciderla, ma se tu hai qualcosa di meglio da offrirmi…”
“Temo di no: ho sulla scrivania il dossier che riguarda proprio questo caso. Ci vediamo tra mezz'ora all'aeroporto”.
“Okay”.
Prima di mezzogiorno erano a Villas, al cospetto di Tomas Raine che li guardava severo, dopo aver esposto a voce i fatti degli ultimi giorni.
“Questo è l'identikit della donna”, spiegò, mostrando un disegno fatto a computer della misteriosa donna mascherata.
“E non avete idea di chi possa essere questa specie di Catwoman?”, chiese Steve.
“No. Non ancora, almeno. Speriamo che voi possiate aiutarci a fare luce su questo caso. A proposito, chi è la signorina che è con lei? Non si è qualificata. È la sua collega?”
“Non proprio, comunque lavora con me”, tagliò corto Steve.
Lui e Livienne trovarono alloggio in un albergo della città. Mentre pranzavano, Livienne cominciò ad analizzare il caso:
“Abbiamo una strana tipa che se ne va in giro mascherata. Direi che il primo interrogativo da porsi è: perché lo fa?”
“Per farsi notare. Oppure perché vuole apparire come una vendicatrice mascherata, una specie di Superwoman”.
“Buona la prima”, commentò Livienne. “Se volesse fare la parte del supereroe, o meglio, della supereroina, non avrebbe ucciso nessuno, mi pare”.
“Non è detto che sia stata lei”.
“La signora Lucy Willmor l'ha vista con la pistola in mano e l'autopsia ha stabilito che il colpo proveniva proprio da dove si trovava questa strana donna. Perlomeno da dove Lucy l'ha vista arrivare”.
“Non abbiamo prove contro di lei per incriminarla di omicidio, per il momento. Se la trovassimo in possesso dell'arma che ha utilizzato per sparare, potremmo stabilire se è stata veramente lei, dato che la pallottola è stata ritrovata: un esame balistico confermerebbe questa tesi. Ma per ora è pura fantascienza: prima di tutto dobbiamo trovarla”.
“Io credo che se scoprissimo perché si traveste, avremmo quasi risolto il caso”.
“Può darsi, ma non è così semplice. Non abbiamo nulla da cui partire, a parte l'identikit. Chi può essere questa donna? E chi può essere la donna che cerca di impersonare?”
“Non lo so, ma credo che la nostra ricerca dovrebbe cominciare da qui”, disse Livienne, fissando il foglio con l'identikit della sospetta.
Una volta in camera, Steve si collegò al computer dell'FBI tramite il portatile, e cercò, scorrendo i vari schedari, di scoprire a cosa corrispondeva il travestimento della donna.
“Niente! Zero assoluto! Non c'è nulla che si riferisca a un tale travestimento”, bofonchiò Steve.
Si sedette sul letto e fissò intensamente Livienne.
“Il punto è che non mi quadra l'intera faccenda: una donna è in pericolo e lei arriva, proprio in tempo. Due ragazzini sono nei guai grossi da qualche minuto ed ecco che lei arriva, puntuale come un orologio svizzero. Quattro alligatori scappano dallo zoo e, la sera stessa, lei ne addormenta uno con un colpo di fucile caricato con del sonnifero. Come faceva ad avere un fucile del genere? Mi sembra che tutto questo faccia parte di un piano ben organizzato! Quella tizia vuole farsi notare, vuole passare per una star, una grande supereroina. e per fare questo, forse, è disposta persino a preparare delle trappole, per farvi cadere alcune persone, liberarle e farsi conoscere!”
“Pensi che sia lei stessa a costruire l'intera faccenda? Pensi che fosse d'accordo con le persone che ha salvato? Che abbia inscenato tutto?”
“Non proprio: le persone che sono state salvate da lei non erano a conoscenza dei fatti, ma lei sì: ha fatto in modo che cadessero nelle sue trappole, per poi poterle salvare. Altrimenti non si spiegherebbe la sua presenza sul posto nel momento esatto del bisogno. Da quando in qua una se ne va in giro di notte, nel parco cittadino, con un fucile e una dose di sonnifero, sufficiente ad addormentare un alligatore, a propria disposizione? Purtroppo, se è come penso, questo significa che continuerà a causare guai alla popolazione, per poterla salvare”.
“E se una volta il salvataggio non funzionasse?”, chiese, preoccupata, Livienne.
“Già. Mi chiedo fin dove possa arrivare. In ogni caso dobbiamo fermarla, prima che causi qualche danno serio alla comunità”.
“Ma come facciamo se non sappiamo dove si nasconde?”
“Ancora non lo so. Devo scoprire qualcosa in più, su di lei”, sussurrò Steve, quasi fra sé e sé.
La mattina seguente Steve e Livienne furono convocati d'urgenza: una colonia estiva era andata a fuoco improvvisamente. Parecchi bambini erano stati salvati dalla donna misteriosa, che era entrata da una finestra e li aveva portati in salvo. Un gruppetto di bimbi, però, era rimasto intrappolato dalle fiamme e, se non fosse stato per il tempestivo intervento dei vigili del fuoco, i piccoli sarebbero morti tutti quanti. Naturalmente, quando i pompieri e la polizia giunsero sul luogo, della misteriosa donna non c'era più alcuna traccia.
“È successo quello che temevo”, commentò Steve.
“Per fortuna i pompieri sono intervenuti in tempo”, sussurrò Livienne, osservando inorridita la scena: la colonia era ancora in fiamme e i vigili del fuoco stavano cercando si spegnere l'incendio.
“Già, ma anche quella donna ha fatto la sua parte. Mi domando ancora chi sia, e perché lo fa!”, esclamò Tomas, scuro in volto.
“Quel che è peggio, è che probabilmente è stata lei stessa ad appiccare l'incendio”, annunciò Steve.
“A quanto pare non sono l'unico a pensarla in questo modo”, asserì Tomas.
“Dev'essere stata lei per forza! Come avrebbe potuto, altrimenti, trovarsi qui in meno di cinque minuti? Gli stessi pompieri ci hanno messo un quarto d'ora, prima di arrivare”.
“Quello che mi chiedo è cosa dovremo aspettarci adesso. Cos'altro combinerà quella pazzoide?”
“Non lo so. Se potessimo prevedere le sue mosse potremmo catturarla”.
Le rilevazioni effettuate alla colonia rivelarono che l'incendio era di origine dolosa, il che avvalorava la teoria di Steve e Tomas.
Nel pomeriggio, dopo essersi fatto una doccia, Steve si sedette sul divano, al buio, a pensare. Non riusciva a capire cosa spingeva una persona adulta e matura a compiere gesti tanto insani, mettendo a repentaglio la vita di tante persone. Anche se aveva stilato un profilo della donna in questione, non era affatto sicuro che questo servisse per catturarla: non avevano il minimo indizio per identificarla a colpo sicuro. Il telefono squillò. Era Donald.
“Allora, Steve, a che punto sei?”, chiese.
“A un punto morto”.
“Che dati hai sinora a disposizione?”
“Solo quelli dell'identikit: donna, giovane, sui venticinque anni, carnagione chiara, altezza uno e sessanta, capelli neri, occhi neri leggermente a mandorla, probabilmente uno dei genitori o dei nonni era di origine asiatica. Segni particolari: una grande agilità. Non sappiamo altro. Sembra però che sia lei stessa a creare le situazioni in cui si getta per salvare le persone, il che porta a pensare che si tratti di un individuo disturbato, con gravi turbe psichiche e manie megalomani. È probabile che sia affetta da psicosi paranoide. Altro non mi è dato di sapere, per il momento”.
“Che hai intenzione di fare, allora?”
“L'unica cosa possibile, per ora: controllare negli ospedali se qualche paziente malata di mente assomiglia all'identikit, e poi sguinzagliare per la città tutte le squadre e cercare di trovarla”.
Dopo aver salutato Donald, Steve tornò alle sue congetture, osservando in silenzio l'identikit della ragazza. Una serie di colpi alla porta lo fece sussultare.
“Steve! Steve! Sono io! Apri, presto!”, chiamò Livienne, piuttosto concitata.
Steve era praticamente in mutande, a torso nudo e scalzo, ma il tono d'urgenza nella voce di Livienne lo convinse ad aprire subito, anche se con un po' di imbarazzo a mostrarsi così davanti alla ragazza. Lei però non lo degnò neppure di uno sguardo: entrò a precipizio nella stanza, con il computer portatile acceso in mano, si sedette sul letto ed esclamò:
“L'ho trovata, Steve! So chi è! O meglio, so da chi si traveste!”
“Cosa? Come hai fatto?”, chiese, incredulo.
“Ho aperto una e-mail che avevo sul mio computer, una di quelle solite pubblicità che invadono la rete continuamente. Stai a vedere!”
Riaprì di nuovo l'e-mail e apparve una schermata: la figura di una donna mascherata che somigliava moltissimo alla ragazza che stavano cercando. Il costume e la maschera, poi, erano identici.
“È la pubblicità di un nuovo videogioco: si chiama "Diana Superwoman". C'è anche il demo. Guarda un po' cos'ho scoperto!”
Livienne azionò il gioco, che mostrò un vicolo buio e sinistro, dove una vecchietta stava attraversando la strada, quando un ragazzo le si parò di fronte con una pistola in mano. L'eroina del gioco doveva sparare al giovane, ucciderlo e restituire la borsetta alla donna per riuscire a passare al secondo schermo.
“È incredibile! Sta facendo gli schermi del videogioco su scala cittadina!”, esclamò Steve.
“Dobbiamo procurarci subito una copia del gioco! Vieni, andiamo in un negozio di videogiochi, prima che chiudano!”, esclamò Livienne.
“Forse sarà meglio che mi vesta, prima”, rise Steve, rendendosi conto che Livienne non si era  neppure accorta del suo ben misero abbigliamento. Lei lo fissò e si avvide finalmente che  indossava soltanto un paio di boxer a righe bianche e blu. Non era certo la prima volta che vedeva un uomo seminudo, ciononostante arrossì violentemente, voltandosi dall'altra parte.
“Scusa. Non volevo essere indiscreta”.
“Guarda che puoi anche voltarti, se vuoi. Non me ne frega niente se mi vedi in mutande!”, sbottò Steve divertito, prendendo una maglietta. Inaspettatamente, lei si voltò, restando senza fiato. Steve era davvero un bel tipino; muscoloso, ben fatto, le spalle piuttosto larghe… Livienne non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
Quando si fu rivestito raggiunsero il più vicino negozio di videogiochi e acquistarono una copia di "Diana Superwoman". Una volta tornati in albergo, si cimentarono per tutta la sera con il gioco, riuscendo a finire i primi tre schermi.
“Nel secondo schermo Diana salva due bambini che stanno per affogare su una zattera, in alto mare, nel terzo addormenta un coccodrillo nelle fogne di New York. Non c'è dubbio: sta proprio emulando i vari schermi. Con la sola differenza che è lei stessa a creare le situazioni pericolose”, confermò Livienne.
“Il peggio è che non si tratta più di un videogioco, ma di un pericoloso gioco di morte. Quei bambini avrebbero potuto morire, là dentro”, continuò.
“Immagino che il quarto schermo sia un salvataggio a una scolaresca in fiamme, ma ora sono troppo stanco per proseguire: è mezzanotte passata e stiamo giocando da cinque ore, senza aver neanche cenato. Credo che possa bastare. Domani interrogheremo il padrone della Chip S.p.A., l'industria che ha prodotto il videogioco. Dovrà dirci come sono gli altri schermi, in questo modo potremo prevedere le prossime mosse di Diana”.
La mattina seguente, ancora allucinati dalla serata passata davanti al video, Steve e Livienne raggiunsero la sede della Chip S.p.A., a New York. Qui, chiesero di vedere immediatamente Raf Kendal, maggiore azionario della società.
Un uomo alto, vestito interamente in grigio, con un completo molto elegante, li accolse con un sorriso beffardo, quasi antipatico. Steve gli strinse la mano e Livienne piegò impercettibilmente il capo in segno di saluto. Non le piaceva quell'uomo, Steve se ne rese immediatamente conto e sorrise tra sé e sé: non piaceva neppure a lui.
“A cosa debbo l'onore di questa visita?”, chiese Raf, con una sfumatura ironica nella voce. Evidentemente si aspettava già che qualcuno si sarebbe interessato al videogioco.
“Siamo qui per parlare con lei dell'ultimo gioco della Chip”, cominciò Steve, mostrando il cd-rom di Diana.
“Un vero successo! Ne abbiamo già vendute migliaia di copie!”, rispose, sedendosi e facendo segno ai due di fare altrettanto.
“Già. Il punto è che qualcuno si sta divertendo a emulare l'eroina del gioco, ricreando le situazioni pericolose che vi sono contenute e mettendo in serio pericolo i cittadini di Villas”.
“Sì, ho sentito qualcosa del genere, al telegiornale locale. La cosa, comunque, non mi riguarda affatto: io declino ogni responsabilità su quello che le menti contorte possono arrivare a inventare. Sta a voi mettere le mani su questi delinquenti”.
“E se si riuscisse a dimostrare che in qualche modo il videogioco ha innescato qualcosa, in questa mente deviata? Se in qualche modo il gioco fosse stato il catalizzatore di qualcosa già in embrione, o, peggio ancora, l'elemento scatenante di una violenza sempre sopita?”, insinuò Steve.
“Non credo che sia così semplice dimostrarlo, agente Rowling”, rispose, per nulla turbato, sorridendo malignamente.
“In ogni caso, abbiamo bisogno di sapere di quanti schermi è formato il videogioco e dobbiamo conoscere le situazioni degli schermi dal quarto in avanti. È di vitale importanza scoprirlo”.
“Non lo chieda a me: io li vendo, non li invento di sicuro”.
“Chi può saperlo?”
“Chi ha finito il gioco o chi lo ha programmato”.
“Può darci il nome del programmatore?”
“Jonathan Sheldon. In questo momento lo può trovare al primo piano, dove sta lavorando a un nuovo videogioco per bambini”.
“Grazie”. Steve e Livienne raggiunsero il primo piano, dove poterono incontrare il signor Sheldon: un uomo sulla quarantina, alto e già leggermente brizzolato. Li accolse in una stanza piena di computer, dove decine e decine di luci rosse e verdi si rincorrevano, si accendevano e si spegnevano, in una danza misteriosa e allucinante.
“Ci dica da quanti schermi è formato il videogioco di Diana”, chiese Steve, senza tanti preamboli.
“Sono sette schermi, in un crescendo di situazioni pericolose”, sorrise orgogliosamente lui.
“Fantastico!”, esclamò ironicamente Steve.
“Il quarto schermo: com'è'?”, continuò.
“Perché non provate a risolverlo? È divertente!”
“Non abbiamo tempo da perdere! Ci serve di saperlo subito”.
“È un incendio, in una scuola. L'eroina deve portare i ragazzi fuori dalla scuola in tempo”.
“Quinto schermo”, lo incitò Steve, prendendo appunti.
“Il quinto schermo è un bonus, per chi ci arriva, naturalmente. La ragazza entra in un penitenziario dove i carcerati, rinchiusi nel braccio della morte, sono riusciti a fuggire, hanno massacrato le guardie e sono ormai padroni dell'intero edificio. Ovviamente, Diana deve ucciderne il più possibile. Più ne uccide, più punti guadagna. Non c'è bisogno che lei prenda appunti”, aggiunse. Pigiò qualche tasto sulla tastiera di un computer e, subito dopo, un foglio uscì da una stampante laser.
“Ecco, tenga. È la soluzione dell'intero gioco. Il sesto schermo prevede una bomba in un grande magazzino. Diana entrerà da una porta di servizio, per non essere vista, troverà la bomba, vagando per tutti i corridoi e le varie stanze e poi la disinnescherà, salvando l'intero quartiere”.
“E il settimo schermo?”, chiese Livienne, aspettandosi ormai il peggio.
“Diana entra alla Casa Bianca e salva il presidente da un attentato. Pensi, per realizzarlo abbiamo utilizzato la vera pianta della Casa Bianca, riproducendola nei minimi dettagli”.
“Andiamo bene!”, esclamò Steve, fissando Livienne sconsolato.
“Forza, al lavoro”, continuò, uscendo e prendendo contemporaneamente in mano il telefono per chiamare Tomas.
“Siamo riusciti a scoprire cosa sta combinando quella donna: le sembrerà assurdo, ma sta seguendo gli schermi di un videogioco, di cui si crede la protagonista. La prossima mossa sarà sedare una rivolta all'interno di un carcere. Dovrete mettere tutte le vostre squadre disponibili a guardia di tutti i penitenziari della città e della zona: state attenti, sparerà a tutto e tutti! Questo le farà guadagnare più punti, capisce?”
“Capisco che è completamente pazza”.
“Già, e questo complica le cose. State molto attenti”.
 
***
 
Villas,  Domenica 6 agosto 2000, ore 03.15
 
Il telefono di Steve squillò imperiosamente, come un urlo nella notte. Steve si precipitò a rispondere.
“L'avete presa?”, chiese, vedendo che il numero sul display era quello di Tomas.
“Niente da fare, Steve: ci ha giocati. Non ha preso di mira un penitenziario, ma una bisca clandestina. Neppure noi sapevamo della sua esistenza. Ha fatto una strage”.
“Maledizione! Non capisco perché abbia cambiato tattica. Forse perché ha notato che i penitenziari erano sotto controllo. Ora andrà in un supermercato, ci metterà una bomba e poi, qualche minuto prima che esploda, la porterà fuori dal locale. Dovrete mettere delle guardie in borghese, disseminate nei supermercati, e delle telecamere a tutte le porte, comprese quelle di servizio: se non ho capito male, Diana porterà la bomba all'interno del supermercato senza mascherarsi, usando la sua solita identità, così, se riusciremo a vedere qualche sospetta, potremo riuscire a scoprire di chi si tratta. Registrate ogni persona che entra ed esce da tutti i supermercati”.
“D'accordo. Ma se cambia di nuovo idea?”
“Non so che dirvi: è tutto quello che possiamo fare”.
 
***
 
Villas, Lunedì 7 agosto 2000 ore 19.30
 
Steve e Livienne stavano pattugliando le strade intorno al supermercato "Big", quando il telefono suonò.
“Steve, vieni subito al "Maxi Market", presto! È stata vista qui!”, avvisò Tomas.
Steve voltò la macchina e raggiunse in fretta il parcheggio del supermercato. Pistola alla mano, corse verso l'entrata, con Livienne sempre alle costole.
“Livi, tu resti fuori!”, le annunciò imperioso mentre raggiungeva l'ingresso.
“Io vengo con te”.
“Non dire sciocchezze: non vedi? Stanno già evacuando l'intero palazzo”.
“Ma io voglio darti una mano”.
“Allora resta qui!”, continuò imperterrito Steve.
“Ma…”
Steve prese una mano della ragazza fra le sue.
“Livienne… tu resti qui. Non voglio sentire altro”.
Le sfiorò il viso con una carezza e, a quel tenero gesto, lei sussultò, confusa. Finalmente si convinse e rimase all'esterno.
Steve aprì la porta ed entrò. Tomas era vicino all'ascensore. Due poliziotti bloccavano le altre uscite.
“È ancora qui. Alcuni clienti dicono di averla vista”.
“Le telecamere?”
“Non risulta niente. Non sappiamo da dove sia entrata”.
“Salgo ai piani superiori. Ho finito lo schermo, ieri sera: la bomba era al secondo piano”.
“Stai attento, Steve. Quella pazza potrebbe farla scoppiare”.
“Tenete Livienne fuori di qui!”, esclamò, iniziando a salire le scale. Giunse al secondo piano e scivolò lentamente nel corridoio, controllando fra le varie file di scaffali. Tutto era silenzioso. All'improvviso udì aprirsi una porta. Sbirciò al di fuori: era lei.
“Ferma dove sei!”, esclamò, uscendo dal nascondiglio e puntando la pistola contro la donna.
Con un balzo fulmineo, la ragazza saltò su una scatola, poi al di là della scansia. Steve sparò, ma non riuscì a colpirla. Un boato spaventoso squarciò all'improvviso la parete. Steve si gettò a terra, mentre calcinacci e scatolette gli piovevano addosso, ferendolo e frastornandolo. Si rialzò, scrutando fra la polvere che gli annebbiava la vista, e riuscì appena a vedere che la ragazza stava uscendo da una finestra. Si precipitò a vedere dove stava andando ma, quando guardò giù, sui tetti delle case accanto al supermercato, lei era scomparsa.
Tomas lo raggiunse.
“Stai bene?”
“Sì. L'ho vista. Ho cercato di spararle, ma è fuggita. Poi la bomba è esplosa e lei si è dileguata dalla finestra”.
“Maledizione! Non la beccheremo mai, se continuiamo così! Qual è il prossimo schermo?”
“Attentato al presidente degli Stati Uniti”, disse mestamente Steve, sospirando.
“Stai scherzando?”
“Niente affatto”.
“Non è possibile! Dobbiamo avvertire immediatamente la Casa Bianca! Craig, presto! Telefona a Wonder e spiegagli il problema”.
“Subito capo!”, ubbidì.
“Aspetta! C'è un'altra possibilità”, ipotizzò Steve, rivolto a Tomas.
“E quale sarebbe?”
“Diana non è riuscita a portare via la bomba. Non capisci? Non ha finito il sesto schermo! Lo dovrà rifare!”
“Vuoi dire che metterà un'altra bomba in un altro supermercato?”
“Penso proprio di sì. Ora però voglio vedere le registrazioni di quest'oggi: se è entrata senza maschera, dovremmo riuscire a capire di chi si tratta. Scommetto che è passata tranquillamente dalla porta principale, portando qui la bomba per sistemarla. Poi, probabilmente, è entrata in un bagno e si è cambiata, indossando la maschera e la tuta da Superwoman. Inoltre, dev'essere per forza salita qui, al secondo piano. Ci sono delle telecamere anche qui, non è vero?”
“Sì, certo”.
“Bene. Allora la rosa si stringe”.
In quel momento, Livienne raggiunse Steve, accompagnata da un poliziotto.
“Steve! Ho sentito l'esplosione. Grazie al Cielo stai bene”, disse, abbracciandolo di slancio.
“Sei ferito?”, chiese, vedendo che Steve era un tantino ammaccato.
“Nulla di grave. Seguimi: mi devi dare una mano”.
Steve fece scorrere le varie registrazioni, aiutato da Livienne, Tomas e alcuni altri agenti.
“Ecco! Guardate qui! Una ragazza mora, occhi leggermente a mandorla. È lei!”, confermò Steve, convinto. Inserì l’immagine della ragazza nel computer e si collegò allo schedario dell'FBI.
“Niente da fare: nello schedario non c'è. Dev'essere incensurata”.
“Hai detto che ha delle origini asiatiche. Magari ha dei parenti all'estero. Potrebbe avere un passaporto”, propose Livienne.
“Già”. Steve cercò fra le foto dei passaporti e finalmente la trovò.
“Eccola qui! Susy Windam. Quinta Avenue, 1237. Vieni Livi”, la chiamò, uscendo dalla stanza.
Steve, Livienne e Tomas si recarono immediatamente all'indirizzo della donna, ma la portinaia dello stabile disse loro che la ragazza non si faceva vedere ormai da una settimana.
“Vorremmo vedere ugualmente il suo appartamento, per cortesia”. Steve sperava di trovare qualche indizio che lo aiutasse a capire meglio la personalità della ragazza e, magari, qualcosa che potesse far capire dove si era trasferita.
“Certo, venite”. La donna aprì loro con la propria chiave. L'appartamento era nel caos più totale: alcuni cassetti erano aperti e degli abiti era stati tagliati e cuciti insieme, probabilmente per ricavare la tuta che Susy indossava ora. Il computer era acceso, sul video ancora l'immagine di Diana, nell'ultima scena del videogioco.
“Susy ha finito il gioco sul computer e l'ha cominciato in città”, comprese Steve.
“Terremo d'occhio i supermercati: questa volta la prenderemo. Ora sappiamo chi è”, lo rassicurò Livienne.
“In ogni caso, il presidente è già avvertito e ha lasciato la casa bianca in assoluto segreto. Un suo sosia lo sta sostituendo da più di un'ora”, disse Tomas.
“Perfetto”.
Steve tolse dal computer il dischetto di Diana Superwoman, lo infilò nella sua custodia e mise tutto in una busta.
“Questo lo voglio far controllare all'FBI”, disse.
 
***
 
Villas, Martedì 8 agosto 2000 ore 12.35
 
“Sospetta identificata all'ingresso del discount "Gibson"”. La voce che aveva parlato era quella di Tomas. Steve e Livienne si recarono subito al supermercato. Proprio in quel momento, due poliziotti stavano accompagnando fuori Susy, tenendola sotto tiro. Uno di loro reggeva l'ordigno che la ragazza stava portando nel locale, nascosto nella borsetta.
“Così siamo riusciti a prenderla, finalmente!”, esclamò Steve sorridendo, ora più sereno.
“Già”, disse Tomas, tirando un sospiro di sollievo”. Grazie a te”, continuò. “Che farete adesso?, domandò, rivolto a Steve e Livienne.
“Penso che io e Livienne ce ne torneremo a Filadelfia”.
“Arrivederci e grazie ancora”. Il capo della polizia tese la mano a Steve, che gliela strinse, poi salutò anche Livienne.
“È stato bello lavorare con te. Sei un tipo in gamba”, gli disse Steve.
 
***
 
Filadelfia, Mercoledì 9 agosto 2000 ore 10.15
 
Donald entrò nell'ufficio di Steve, che stava stendendo il rapporto sull'ultimo caso.
“Che succede?”, chiese Steve, voltandosi verso il suo capo.
“Avevi ragione tu: Susy soffriva di psicosi paranoide. Ho i risultati dei test e delle visite che le hanno fatto. Ma non è tutto: ho ricevuto notizie riguardanti il dischetto di Diana Superwoman. Pare che l'operatore che doveva controllarlo, qui, all’FBI, sia improvvisamente impazzito dopo aver finito il primo schermo: non riuscivano a staccarlo dal video!”
“Quindi la causa di tutto è stata veramente il dischetto?”
“Già. Per sicurezza, stiamo diffondendo dei comunicati sulla pericolosità del gioco e abbiamo già costretto Raf Kendal a ritirarlo dal mercato e a rimborsare chi gli restituirà i dischetti”.
“Ben fatto. Ma mi domando cosa può aver reso pericoloso quel dischetto, e solo quello, visto che finora non ci sono stati altri casi”.
“Non lo sappiamo. Il cd-rom è ancora in laboratorio. Lo stanno studiando”.
Steve annuì, pensoso, e Donald uscì dall'ufficio. L'attenzione di Steve cadde sul video del computer, acceso quindici ore al giorno.
"Quanti impulsi riceviamo dalla tivù, dal computer e dai videogiochi? Quante immagini assimiliamo senza neppure rendercene conto? Quanti pericoli si celano fra i sorrisi innocenti della pubblicità e le frasi dei messaggi che leggiamo ogni giorno?", si chiese.
Con questi pensieri in testa, si alzò, allungò una mano e spense il computer.
 

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Capitolo 15
*** Cap. 15 STRANA NEVE ***


Filadelfia, Lunedì 21 agosto 2000
 
“Ciao, Livienne”, la salutò Steve quando la ragazza entrò nell'ufficio dell'FBI. Ormai aveva libero accesso a quell'ufficio e ci si presentava ogni volta che le serviva una notizia buona da scrivere, o ogni volta che Steve la mandava a chiamare, per seguire qualche caso insieme a lui. Era successo anche quel giorno: Steve le aveva telefonato, chiedendole di passare all'FBI, per mostrarle un filmato che aveva ricevuto per posta.
“Allora, di che si tratta? Ho sentito parlare di neve. Andiamo a caccia dello Yeti?”, chiese lei, sorridendo.
“Non precisamente, a meno che non viva in una deliziosa villetta alla periferia di Gosnell, nei pressi di Blytheville, nell'Arkansas”, disse, azionando il videoregistratore.
“Ecco la casa. Ora sta a guardare che succede!”
Il filmato amatoriale riprendeva una villa signorile, con un bel prato tagliato di fresco intorno e degli alberi completamente rivestiti di foglie. Splendeva il sole e il cielo era serenissimo. La data impressa sulla registrazione era quella del 27 luglio 2000. Improvvisamente, sopra la casa si formò uno strato di nubi bianche e, subito dopo, iniziò a nevicare. Steve accelerò la registrazione: trenta minuti dopo, gli alberi, la casa e il prato erano ricoperti da una bianca coltre di neve, mentre sulle altre case tutt'intorno continuava a splendere il sole e nessun fiocco di neve le aveva sfiorate. Steve tolse la cassetta e ne inserì un'altra. In questa, la stessa casa era teatro di un violento temporale e persino di uno splendido arcobaleno, mentre le altre casette rimanevano tranquillamente all'asciutto.
“Chi ha girato il video?”, chiese Livienne.
“Un vicino di casa, stupito e spaventato da queste frequenti manifestazioni meteorologiche”.
“Non può trattarsi di un falso? Che so, un videomontaggio o una simulazione al computer?”
“Ho fatto controllare il video alla sezione "contraffazioni" dell'FBI: è autentico. Sto per partire per Gosnell. Ti va di venire con me?”
“Volentieri! Avevo giusto bisogno del mio caso soprannaturale mensile per scrivere l'articolo di agosto. Solo... cosa metto in valigia? Maglione o costume da bagno?”
 
***
 
Gosnell, Lunedì 21 agosto 2000, ore 15.00 p.m.
 
Steve e Livienne erano di fronte alla porta di casa della famiglia Dubs. Steve suonò il campanello e un distinto signore venne ad aprire, squadrandoli un poco sorpreso.
“Buongiorno. Lei è il signor Dubs?”
“Sì, esattamente. Se siete di qualche strana religione, vi informo che noi siamo cristiani convinti e non ci interessano i vostri opuscoli”.
L'uomo fece per chiudere la porta, ma Steve lo fermò:
“Veramente siamo dell'FBI”.
“FBI?”
“Ci hanno informato che la vostra casa è spesso colpita da strane manifestazioni atmosferiche. Vorremmo capire di che cosa si tratta”.
“Mi dispiace, credo che abbiate sbagliato casa”, rispose secco l'uomo.
“No. Sono sicuro che si tratta di questa. Possiamo dare un'occhiata? Non le consiglio di ostacolarci nelle indagini: potremmo usare le maniere forti”, lo informò Steve, tranquillo, ma molto fermo nei suoi propositi.
“Entrate”, disse alla fine l'uomo, comunque piuttosto seccato.
“Lei vive solo?”, chiese Livienne.
“No. Abito qui con mia moglie Carol e mio figlio Jonathan, di otto anni”.
“È da molto che abitate qui?”, s'informò Steve.
“Da quando ci siamo sposati, quindici anni fa”.
“Quanti anni ha, signor Dubs?”
“Cinquantasei. Ora vi chiamo mia moglie”, tagliò corto lui. Li lasciò in una saletta, mentre entrava in un'altra stanza per parlare con la consorte.
“Stagionato per avere un figlio di otto anni!”, commentò Livienne a bassa voce.
“Altro che!”, confermò Steve.
Un attimo dopo, l'uomo ritornò, seguito dalla moglie.
“Salve”, li salutò la donna, entrando.
Fece cenno a Steve e Livienne di prendere posto su un divano, nell'ampio salotto. In quel momento, un bimbetto biondo e smunto entrò dalla porta principale e appoggiò il pallone che teneva in mano su una poltrona di pelle.
“Mamma! Ho fatto cinque goal! Li abbiamo stracciati, quei pivelli!”, esclamò il piccolo.
“Jonathan, vorresti andare a giocare in cortile, per favore?”, gli disse la madre.
“Perché?”, chiese lui, leggermente contrariato.
“Lo lasci pure qui, signora: non ci darà alcun fastidio”, la rassicurò Livienne, che andava pazza per i bambini.
“Voi siete dell'FBI, vero?”, chiese ancora il piccolo.
“Jonathan!”, intervenne la madre.
“Come lo sai?”, chiese Steve, sorpreso.
“Ho visto molti telefilm. Voi avete proprio la faccia degli agenti speciali! Sembrate Molder e Scully”, spiegò, dopo un istante di imbarazzo.
“Non immaginavo che fosse così evidente”, commentò Steve.
“Jonathan, per favore, questi signori sono venuti per parlare con noi. Vai in camera tua per qualche minuto”, lo pregò ancora la madre. Livienne non poté fare a meno di notare come la madre avesse insistito per allontanare il piccolo. Il bambino obbedì in silenzio. Quando se ne fu andato, Steve iniziò l'interrogatorio:
“Volete parlarci di questi strani fenomeni?”
“Non c'è stato alcun fenomeno strano, ve lo giuro! Sono solo dicerie messe in giro dai vicini invidiosi: vedete, noi siamo una famiglia molto unita e felice, oltre che facoltosa. Non potete immaginare quanto tutto questo possa generare ogni specie di invidia, nei nostri vicini. Per questo siamo spesso vittime di scherzi e calunnie di vario tipo”.
“Qui non si tratta di dicerie: abbiamo ricevuto una videocassetta che mostra la vostra casa in vera e propria balìa degli elementi, mentre le altre case intorno sono assolutamente insensibili a questi cambiamenti del tempo”.
“Lo sa benissimo anche lei che al giorno d'oggi chiunque possegga un videoregistratore può fare cose del genere! Sarà senz'altro un falso!”
Il battibecco era destinato a durare un bel po', visto che nessuno dei due voleva cedere, e Livienne cominciava ad annoiarsi. Era certa che non ci avrebbero cavato proprio nessuna notizia interessante quando, improvvisamente, cominciò a udire una strana voce, che non era di Dubs, né di sua moglie, e neppure di Steve. Girò lo sguardo intorno, a cercare gli occhi degli altri tre e si rese conto che loro non la sentivano: era solo nella sua mente.
“Ciao”, disse di nuovo la voce.
“Livienne, che ti succede? Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma!”, esclamò Steve, vedendola bianca in volto.
“È solo un calo di pressione: non mangio niente da due ore”, mentì lei.
“Scusatela, ha sempre fame. Ma torniamo a noi: ho notato che un albero del vostro giardino ha i rami spezzati, come se fosse stato colpito da un forte vento”. Steve riprese l'interrogatorio, e Livienne ricominciò a udire la voce:
“Come ti chiami?” 
Si rese conto che era la voce di Jonathan a parlare.
“Sono stato io: ci sono passato sotto con il camioncino”, rispose il signor Dubs a Steve. In realtà, Steve sapeva che un fulmine aveva colpito l'albero: l'aveva visto nella videocassetta. Ora era certo che Ronald Dubs mentiva.
“Non mi rispondi?”, chiese ancora la voce a Livienne.
“Puoi farlo, sai? Basta che usi la mente. Non dirlo a nessuno, però. Mamma e papà si arrabbierebbero molto: non vogliono che io lo faccia con gli estranei”.
“Sei tu, Jonathan?”, chiese finalmente Livienne, usando il pensiero.
“Sì, e tu come ti chiami?”
“Livienne”.
“Non sei dell'FBI, tu”.
“Come l'hai capito?”
“Attraverso i tuoi pensieri: io posso leggerli. Ora stai pensando all'articolo che scriverai”.
“Come fai a leggere nel pensiero?”
“Non lo so. So solo che ci riesco”.
“Perché i tuoi non vogliono che tu parli con la mente?”
“Credo che non vogliano farlo sapere al dottor Leonard Cool e ai suoi colleghi, quelli che mi fanno sempre gli esami”.
“Quali esami?”
Fu a quel punto che Steve si alzò dal divano, tendendo la mano a Ronald Dubs, per salutarlo: non avrebbe ottenuto nulla da lui, per questo aveva deciso di interrompere l'interrogatorio e di tornare quando fosse stato in possesso di prove più concrete. Livienne non aveva seguito le ultime battute fra i due, intenta com'era a parlare con il bambino, ma si rese conto che doveva agire in fretta, se voleva continuare la conversazione. Si alzò dalla sedia, ma finse di sentirsi male e tornò a sedersi, portandosi la mano alla fronte:
“Oh, mio Dio! Vi prego, portatemi un bicchiere d'acqua!”, sussurrò, ansando.
“Livienne”. Steve fu subito accanto a lei.
La signora Dubs andò in cucina a prendere l'acqua. Intanto, Livienne rifece mentalmente la domanda a Jonathan.
“Che esami ti fanno?”
“Mi tolgono il sangue da un braccio, mi fanno tante lastre e un sacco di altri esami strani. Mi fanno anche un mucchio di domande. Vogliono sapere se ho dei poteri "particolari". Ma io gli dico sempre di no”.
“Te li fanno spesso questi esami?”, chiese ancora Livienne, decisa a seguire la faccenda fino in fondo.
“Tutti i mesi. Mamma dice che se io non gli faccio sapere che so leggere nella mente e che so controllare il tempo loro mi lasceranno in pace, prima o poi”.
“Come riesci a controllare il tempo?”, chiese Livienne, bevendo con estrema lentezza l'acqua che Carol le aveva portato.
“Non lo so: basta che io pensi che voglio la neve, e quella viene. Succede anche con la pioggia e con il vento, l'arcobaleno e tante altre cose. Vuoi vedere?”
“Mi piacerebbe moltissimo”.
Nel giro di pochi secondi una fitta nebbia avvolse tutta la casa, giardino compreso, fino al perimetro esterno della proprietà. Intorno, splendeva il sole.
“E questo come lo spiega, signor Dubs?”, chiese Steve.
“Io non spiego nulla! Non so cosa stia succedendo, ma sono certo che siete stati voi a provocare tutto questo!”, urlò, arrabbiato.
“Andatevene di qui! Ora! E portatevi via la vostra nebbia!”, esclamò poi.
“D'accordo, d'accordo, ce ne andiamo. Ma torneremo, signor Dubs. E la prossima volta non potrà rifiutarsi di collaborare”.
Steve aiutò Livienne a rimettersi in piedi, poi l'accompagnò fino alla macchina. Prima di uscire, la ragazza salutò mentalmente il bambino.
“Ciao, Jonathan. È stato bello parlare con te”.
“Mi aiuterai, Livienne? Impedirai a quei dottori di farmi ancora del male?”, chiese il bambino.
“Ci proverò”, promise Livienne, salendo in macchina.
“Come ti senti?”, le chiese Steve, preoccupato.
“Benissimo. In realtà non sono mai stata male”.
“Cosa?”
“Era una scusa per fermarmi un po' di più in quella casa: mentre tu interrogavi inutilmente Dubs, io ho avuto un colloquio mentale con Jonathan”.
Livienne si fermò un istante, fissando divertita lo sguardo incredulo di Steve.
“Non sto dando i numeri, Steve: è la verità. Jonathan mi ha parlato attraverso la mente”.
“Okay…”, ammise lui “E cosa ti ha detto?”
Livienne gli raccontò tutto quello che aveva saputo dal bambino.
“Quindi è lui a creare quegli eventi atmosferici! Mi chiedo perché lo faccia”.
“Per divertirsi! È un bambino, Steve. Gli piace giocare. Probabilmente lo fa anche per attirare l'attenzione dei genitori: è un bambino molto afflitto, per colpa di quegli strani esami”.
“Dovremmo parlare con questo famoso dottor Leonard Coll”.
“Già. Lo penso anch'io”.
Steve chiamò Prische, all'FBI.
“Luke, trovami un certo dottor Leonard Cool, presumibilmente di Blytheville, nell'Arkansas”.
“D'accordo, dammi solo un minuto”.
Meno di un minuto dopo, Luke richiamò Steve.
“Il dottor Leonard Cool ha sessant'anni ed è laureato in medicina, chirurgia plastica, biologia, genetica e psichiatria. Lavora all'ospedale di Blytheville, nell'Arkansas, proprio come avevi detto tu. È un vero luminare della scienza: ha scritto numerosi saggi e partecipato a simposi in tutto il mondo”.
“Di che si occupa, in particolare?”
“Ha fatto studi approfonditi sul DNA umano e sulle mutazioni genetiche. Di più non so”.
“Ti ringrazio, Luke, sei stato in gamba”.
Steve si recò immediatamente all'ospedale della città, dove chiese di parlare con il dottor Leonard.
“Dovete prendere un appuntamento. Vi va bene per il 28 agosto?”, chiese la segretaria.
“Siamo dell'FBI e dobbiamo parlare con lui adesso”, le annunciò seccato Steve, mostrando il tesserino.
“FBI? Posso conoscere il motivo della vostra visita?”
“No, mi dispiace. Dobbiamo parlare con il dottor Leonard in persona”.
“D'accordo. Ora glielo dico”. La ragazza cliccò sul pulsante dell'interfono e chiamò Leonard.
“Dottore, ci sono due agenti dell'FBI che desiderano parlarle”.
“Di che si tratta?”, chiese lui.
“Non hanno voluto dirmelo, però è urgente”.
“D'accordo, li faccia passare”.
La porta si aprì automaticamente al loro passaggio. Steve e Livienne entrarono nello studio, dove il dottore li attendeva, seduto dietro una scrivania in radica di noce.
“Salve”, li salutò.
“Salve”, risposero, in coro.
“Tra poco dovrò fare il mio giro in corsia, per cui ho pochissimo tempo da dedicarvi”, incominciò il dottore.
“Allora saremo brevi. Vogliamo vedere i risultati delle analisi di Jonathan Dubs”.
“Jonathan Dubs?”, chiese l'uomo, sorpreso.
“Il figlio di Carol Nefter e Ronald Dubs”.
“Perché vi interessa?”
“Se evitasse di fare domande perderemmo meno tempo, dottor Coll”, gli fece notare Steve.
L'uomo si alzò, camminò un poco avanti e indietro nello studio, poi si rivolse nuovamente a Steve.
“Gli esami dei miei pazienti sono coperti dal segreto professionale”.
“Ce li consegni, o verremo a prenderli con la forza”.
“D'accordo, ve li farò vedere”, accettò infine l'uomo.
Premette il pulsante dell'interfono e immediatamente la segretaria si precipitò nella stanza.
“Desidera, signor Cool?”
“Mi porti le analisi di Jonathan Dubs, per cortesia: i signori desiderano vederle”.
“Certo, signore”.
Poco dopo la ragazza era di ritorno con tutta la documentazione.
“Ecco qua”, disse, porgendola a Leonard. Lui la pose nelle mani di Steve.
“Non può portarla fuori di qui. Le posso fare delle fotocopie”, specificò Leonard.
Steve diede un'occhiata alle analisi: erano perfettamente normali e risalivano a sei mesi prima.
“Vorrei vedere quelle più recenti”, disse.
“Non ve ne sono di più recenti. Questa è tutta la documentazione che abbiamo sul bambino. Ora mi permetta una domanda: chi l'ha mandata qui e perché?”
“Le domande sono due”, rispose evasivo Steve.
“Risponda!” Il tono di Leonard si fece imperioso.
“Sono qui per sapere perché vi accanite a fare esperimenti su un povero bambino di otto anni. Riguardo a chi mi manda, ho una certa libertà d'azione nel mio lavoro. Sono un agente "molto" speciale!”
“Quindi non ha un regolare permesso per venire a cacciare il naso qui!”
“Intende dire se ho un mandato di perquisizione? No. Se volessi potrei procurarmelo, ma sono certo che fareste sparire ogni prova molto prima. Queste se le può tenere: non so che farmene”. Steve sbatté la documentazione sulla scrivania, poi se ne andò, seguito da Livienne.
“Che avevano di strano, quelle analisi?”, chiese a Steve, non appena furono soli.
“Niente. È proprio questo il punto. Perché fare analisi a un bambino tutti i mesi se non ha proprio niente che non va? Inoltre, quelle analisi risalivano a sei mesi fa e tu stessa hai detto che il bambino asserisce di venire esaminato una volta al mese”.
“Quindi tu credi che ti abbiano dato delle analisi fasulle?”
“Ne sono più che sicuro. In questa storia c'è qualcosa di losco e noi dobbiamo scoprire che cosa. Ma dobbiamo agire senza perder tempo: stanotte stessa”.
“Stanotte?”
“Ci recheremo all'ospedale e cercheremo le prove, prima che le facciano sparire”.
“Ma non ci faranno entrare!”
“Oh, sì, invece! Preparati, Livienne. Stanotte, starai per dare alla luce il primo figlio!”
“Che cosa?” Livienne sembrava piuttosto sconcertata.
Steve le spiegò, in poche parole, il suo piano per entrare nell'ospedale.
“Rimane un unico impiccio: non dovremo farci riconoscere e non so come fare”, aggiunse.
“A quello ci penso io. Fermati qui”, annunciò Livienne. Scese dalla macchina e raggiunse una cabina telefonica, compose un numero e si augurò che qualcuno rispondesse.
“Pronto?”, chiese una voce di donna, all'altro capo del telefono.
“Susy, ciao. Sono Livi, la tua ex compagna di stanza. Ti ricordi di me, non è vero?”
“Livi! È una vita che non ti fai sentire! Come potrei non ricordarmi di te? Stai bene?”
“Sì, ma ho bisogno del tuo aiuto. Ti ricordi quel problema di matematica che ti ho fatto copiare all'esame di ammissione all'università?”
“Certo che me ne ricordo”.
“Beh, ora è venuto il momento di restituirmi il favore”.
“Sarà... ma non ho ancora imparato a fare i problemi di matematica”, rise lei.
“Non si tratta di questo: vedi, dovrei intrufolarmi in un posto, con un mio amico. Ma non vorrei essere riconosciuta, capisci?”
“Quindi ti serve un po' di maquillage? Ho capito bene?”
“Esatto!”
“Dove ti trovi?”
“Blytheville, nell'Arkansas.”
“Okay. Prendo il primo volo e prima di sera sono lì”.
“Ci occorrerà del materiale scenico per travestirci. Faccio la lista dell'occorrente e ti telefono appena possibile”.
“Perfetto! Ci vediamo presto”.
“Ecco fatto”, sorrise Livienne, dopo essere risalita in macchina.
“Fatto cosa?”, chiese Steve, dubbioso.
“La mia amica Susy lavora come truccatrice in un teatro di Little Rock. Prima di sera sarà qui e ci truccherà alla perfezione, rendendoci irriconoscibili con un poco di cerone e qualche ritocco qua e là. Vedrai, è bravissima”.
“Dove l'hai conosciuta?”
“Eravamo al liceo insieme. All'università eravamo addirittura compagne di camera, solo che lei preferiva passare il tempo a truccarsi e uscire con i ragazzi, anziché impiegarlo a studiare. Così si stancò presto e mollò tutto, diventando però un'ottima truccatrice e trovando subito lavoro”.
“Torno a ribadire che hai degli amici molto singolari, Livienne”.
“Io almeno li ho, gli amici!”, sbottò lei, riferendosi al fatto che Steve non parlava mai dei suoi amici e forse non ne aveva neppure.
Steve non rispose alla provocazione. Dopotutto Livienne aveva ragione: a parte Louis, non aveva mai avuto molti amici. Ora forse non ne aveva più. Ma si corresse subito: un'amica ce l'aveva.
Nel frattempo Leonard, rimasto solo nel suo ufficio, aveva composto un numero al telefono. Qualcuno, all'altro capo, rispose:
“Che vuoi, Leonard? Ci sono dei problemi?”
La voce che aveva parlato era dura e profonda.
“È stato qui un uomo, uno dell'FBI. Ha voluto vedere le analisi di Jonathan Dubs”.
“Chi era quel tizio?”
“Un certo Rowling, o qualcosa del genere”.
“Accidenti! I Dubs hanno parlato! A loro ci penso io. Tu occupati del materiale che scotta: fa sparire le analisi del piccolo”.
“Come faccio? Non posso utilizzare il solito canale: dovrei aspettare fino alla prossima settimana”.
“Questa notte manderò lì uno dei miei uomini a prendere il dischetto. Tieni Rowling lontano dall'ospedale fino a domani”.
“Metterò degli uomini di guardia alle porte esterne”.
“Perfetto! Quel materiale non deve capitare in mano sua”. L'uomo riattaccò e Leonard si occupò di preparare il dischetto con le analisi del piccolo.
Steve, dopo aver fatto l'intera lista delle cose che occorrevano per effettuare il suo piano, la consegnò a Livienne, che richiamò la sua amica. Dopo risalirono in macchina e attraversarono la città, per fermarsi davanti a un motel piuttosto malmesso.
“Perché ti fermi qui?”, chiese Livienne.
“Dovremo trovare un luogo dove passare la notte. Questo mi sembra l'ideale”.
“Ma è un tugurio!”
“Appunto! Ci metteranno un po' prima di trovarci qui”.
“Tu credi che ci cercheranno?”
“È probabile. Dovremo essere molto astuti”.
“Darai un nome falso?”
“No. Dovremo avere un alibi, per stanotte. Se non ci vedranno uscire dalla stanza che affitteremo, sarà facile procurarselo”.
“E come faremo a uscire senza essere visti?”
“Vedrai! Ora entriamo”. La portinaia era seduta a un tavolino logoro e traballante. Li salutò con un:
“Buonasera. Una camera?”
“Certo. Matrimoniale”, precisò Steve, firmando il registro.
La donna li accompagnò nella camera. Nonostante l'aspetto poco rassicurante, la stanza era pulita e le lenzuola profumavano di fresco.
“Meglio di quanto pensassi!”, esclamò Steve. C'era persino il bagno, con una piccola doccia.
“Posso sapere perché hai preso una stanza sola?”
Lo fissava vagamente preoccupata e lui sorrise, intuendo i suoi pensieri.
“Sarà più facile eseguire il nostro piano”, spiegò; poi prese il cellulare e telefonò a un fast-food, ordinando la cena, infine, si spogliò e si distese sul letto.
“Ci conviene dormire un po' se vogliamo essere al meglio, stanotte”, disse.
Livienne si tolse la camicia e i pantaloni, poi si stese accanto a lui, un po' imbarazzata. Notò che la guardava, e non le sfuggì la nota di desiderio dipinta negli occhi di lui.
“Non sono abituata a dormire con qualcuno: può darsi che ti dia qualche calcio, nel sonno”, esclamò, ridendo.
“Vuol dire che te li renderò”.
Steve chiuse gli occhi e cercò di dormire, ma gli era difficile addormentarsi, se pensava che accanto a lui c’era Livienne, in biancheria intima. Strani pensieri affollavano la sua mente… Improvvisamente, si alzò, dirigendosi verso il bagno.
“Dove vai?”
“A fare una doccia”.
“Fredda?”, insinuò lei, ridendo.
“Non provocarmi, Livienne. Potrei anche prenderti in parola...”, scherzò.
Poco dopo lei sentì l'acqua scorrere, nel bagno. Suo malgrado, riuscì a immaginare Steve mentre faceva la doccia: non doveva essere niente male. Si sforzò di concentrarsi sul rumore dell'acqua che scorreva e alla fine si addormentò. Quando Steve uscì dalla doccia, la trovò profondamente assopita e si fermò qualche istante a guardarla. Quanto avrebbe desiderato sfiorarla, accarezzarla, toccarla… Sospirando, si distese sul letto e si addormentò anche lui. Venne svegliato da un discreto bussare alla porta.
Aprì e si trovò di fronte il garzone del fast-food, con la cena su un vassoio di cartone: hamburger, hot dog e patatine fritte.
Pagò il dovuto, gli diede anche una mancia e richiuse la porta a chiave. Poggiò il vassoio sul comodino di Livienne, che dormiva ancora, e si sedette accanto a lei. Le sfiorò il viso con la mano, accarezzandola dolcemente e la chiamò:
“Livienne, svegliati”. La sua voce era dolcissima, calda e rassicurante. Lei aprì piano gli occhi, li stropicciò più volte con le mani, poi sussurrò:
“Sento profumo di patate fritte”.
Ridendo, Steve mise il vassoio sul letto.
“Accidenti! Questo sì che è un buon risveglio!”, esclamò lei.
“Avrei preferito offrirti un risveglio diverso…”, ammiccò Steve, maliziosamente.
Lei arrossì.
“Forza, ceniamo”, disse, cambiando argomento.
Mangiarono di gusto tutto quanto, poi attesero l'arrivo di Susy. Per telefono, Steve le aveva già spiegato come giungere fino a un parcheggio accanto al motel. Da lì, Susy proseguì a piedi fino al vicolo buio che passava proprio sotto la finestra della stanza di Livienne e Steve. Con un fischio, li avvertì che era arrivata. Steve si affacciò alla finestra e lei lanciò una scala di corda che il giovane afferrò e legò saldamente all'interno della stanza. Susy si arrampicò ed entrò nella camera.
“Ciao!”, la salutò Livienne.
“Tutto bene il viaggio?”, s'informò Steve.
“Sì, certo. Ora state a sentire: ho noleggiato la macchina, proprio come mi avevate chiesto. Naturalmente ho dato un falso nome. L'ho lasciata nel parcheggio. Queste sono le chiavi”, disse, consegnandole a Steve.
“Nel baule troverete tutte le cose che mi avete chiesto: un pancione finto da donna al nono mese di gravidanza, un pre-maman, jeans, maglietta e giacca per Steve, due camici da dottori, zoccoli da ospedale, mascherine, guanti da chirurgo e scarpe di quelle con la suola rialzante interna. Vi alzeranno di almeno sette centimetri. Qui, invece, ho portato il cerone, il necessario per truccarvi, delle parrucche per voi e anche delle lenti a contatto per colorare diversamente gli occhi. Sedetevi, tra meno di un'ora stenterete a riconoscervi”.
Li truccò per bene, aggiungendo qualche inizio di ruga qua e là sul loro volto.
“Così sembrate più vecchi di una decina d'anni: sfido chiunque a riconoscervi”.
Mise loro le lenti a contatto e anche le parrucche: mora per Livienne e bionda per Steve.
“Ecco fatto! Siete pronti”.
“Perfetto. Ora viene la seconda parte del piano. Noi raggiungeremo l'ospedale, tu invece ti infilerai, come d'accordo, nel pub di fronte al motel, che chiude alle cinque del mattino. Dovrai tenere d'occhio l'entrata: se vedi del movimento insolito di poliziotti o federali, o magari peggio, telefonaci immediatamente. In quel caso, noi dovremo filare e tu te la dovrai cavare da sola. Altrimenti, non appena finita l'ispezione all'ospedale, ce ne torneremo in camera e tu sarai libera di andartene, con la macchina parcheggiata sempre nel solito posto”.
“D'accordo. Dimenticavo: nel baule ho messo anche il necessario per togliervi il trucco. Lasciate tutto in macchina: ci penserò io a far sparire ogni traccia. Toglierò anche parecchi chilometri al contachilometri della macchina, in modo che, se viene controllata, nessuno saprà che sono giunta fino qui. Questo accorgimento serve più a me che a voi...”
“Ma lo sai fare?”
“Mio padre è meccanico… l’ho fatto spesso, da ragazzina… so che non è legale, ovviamente”.
“Livienne, sei sicura che la tua amica sia una truccatrice? Ha più l'aria di un'agente speciale della CIA!”, scherzò Steve.
Tutti e tre si calarono dalla finestra, che rimase aperta. Steve sistemò la scala in modo che non fosse visibile dal vicolo, poi, mentre Susy entrava nel pub, loro raggiunsero il parcheggio, si travestirono e partirono a razzo verso l'ospedale. Una volta arrivati, Steve parcheggiò la macchina, prese dal sedile posteriore una grossa borsa, scese e aprì la portiera a Livienne, che faticò a scendere, impacciata da un enorme pancione finto nascosto sotto l'ampia gonna.
“Accidenti, Steve! Mi sento così ridicola! E se non ci cascassero?”
“Sta tranquilla: andrà tutto bene. E non sei per niente ridicola! Ora andiamo”.
Tenendosi il ventre e fingendo abilmente di avere le doglie, Livienne entrò al Pronto Soccorso con Steve, eludendo le due guardie, che non li riconobbero e li lasciarono passare.
“Hai visto? Hanno messo delle guardie alle porte”, constatò Livienne, a voce bassissima.
“Già. Questo significa che le prove sono ancora qui”.
“Ho paura, Steve. Se ci scoprono saranno guai”.
“Stai andando benissimo. Sembri davvero una che sta per partorire”, sussurrò Steve. Entrambi stavano sudando freddo ed erano molto eccitati, ma nessuno ci fece caso: dopotutto, era un comportamento molto normale per una coppia che stava per mettere al mondo il primo figlio.
Un infermiere di turno li avvicinò.
“Posso aiutarvi?”
“Sì, grazie: mi potrebbe indicare dov'è la sala parto? Credo che ci siamo!”, disse Steve.
“Secondo piano, corridoio a destra. Vi accompagno?”
“No, non si preoccupi”.
“Ma forse la signora preferisce sedersi su una sedia a rotelle”, insistette lui.
“Nononono!”, disse subito Livienne.
“Non potrei proprio stare seduta: sto troppo male! Preferisco camminare. Ma ora facciamo presto, ti prego, caro, andiamo”.
“D'accordo, come volete. Si ricordi però che poi deve passare al pronto soccorso per compilare le varie pratiche”, disse ancora l'infermiere.
“Certo! Ora mi scusi, ma dobbiamo proprio andare”.
Finalmente l'infermiere tornò alla sua guardiola, lasciandoli soli. Steve e Livienne infilarono il corridoio di destra, raggiunsero il primo bagno disponibile e ci si infilarono dentro. Steve frugò nella borsa che si era portato e ne tirò fuori dei camici bianchi da dottore.
“Ecco. Mettiti questo”, ordinò, porgendone uno a Livienne. La ragazza stava ancora lottando con il finto pancione, nel tentativo di toglierselo di dosso, ma era allacciato sulla schiena e non ci riusciva.
“Ti spiacerebbe darmi una mano?”, chiese a Steve.
Gli voltò la schiena. Indossava solo la biancheria intima, peraltro di pizzo, a parte l'enorme pancia finta. Steve slegò le tre allacciature che tenevano legata la pancia e Livienne poté finalmente togliersela di dosso e infilarla nella borsa. Si voltò di nuovo verso Steve, indossando nel contempo il camice, e notò che lui era rimasto per tutto il tempo a guardarla, senza parlare. Suo malgrado, arrossì.
“Che hai da guardare?”
“Sarei stupido se non ti guardassi, non credi?”, le chiese, indossando un paio di zoccoli di quelli comunemente usati negli ospedali. Indossò anche dei guanti di gomma da chirurgo, per non lasciare impronte. Livienne fece altrettanto, infine uscirono dal bagno e raggiunsero l'ufficio di Leonard, che a quell'ora era deserto.
“Che ci facciamo qui? Leonard ha mandato la segretaria a prendere le analisi da un'altra parte, questo pomeriggio”, disse Livienne.
“Quelle false. Scommetto che quelle vere le tiene in questo vecchio archivio”, rispose Steve, cominciando a frugare fra i cassetti di uno schedario affisso alla parete.
Livienne si mise a cercare intorno alla scrivania. Fu proprio lì che trovò uno sportello chiuso a chiave.
“Mi sa che hai perso la scommessa, Steve”, proruppe, forzando la serratura con una forcina per capelli.
“Ehi! Dove hai imparato a farlo?”, chiese Steve, ammirato.
“Dai telefilm di MacGyver”.
Il cassetto si aprì: all'interno c'era solo una busta con dentro qualcosa di troppo spesso e pesante per poter essere un foglio. L'indirizzo sulla busta era quello di una base militare vicino a Tascosa, nel Texas.
“Strano che un dottore spedisca qualcosa a una base militare lontana centinaia di chilometri”, esclamò Steve, aprendo la busta. All'interno trovò un cd-rom su cui erano state scritte con un pennarello le iniziali "J. D.".
“Accidenti! È uno di quei nuovi dischetti non duplicabili: il governo li utilizza per evitare fughe di notizie. Se qualcuno tenta di doppiarlo, l'intero contenuto del disco si autodistrugge in meno di tre secondi”, esclamò Steve, che aveva già visto altre volte quei dischetti.
“Steve… ho sentito dei passi nel corridoio!”, lo avvertì Livienne, con il cuore in gola.
Steve prese un dischetto qualsiasi dalla scrivania di Leonard, lo infilò nella busta e lo rimise al suo posto, nel cassetto, infine mostrò a Livienne la chiave universale che aveva in tasca, sorridendo divertito.
“Ehi! Potevi anche dirmelo che avevi quell'aggeggio!”, bofonchiò sottovoce Livienne, che aveva faticato tanto per aprire il cassetto.
“Perché? Te la cavavi così bene da sola...”
Prese Livienne per mano e si infilarono in una stanzetta adiacente allo studio, giusto in tempo, prima che uno strano tizio, con dei guanti neri indosso, entrasse nella stanza. Steve osservò da dietro la porta le sue mosse. L'uomo aprì il cassetto e ne estrasse la busta, poi uscì dalla stanza silenziosamente com'era venuto.
Quando furono sicuri che si fosse allontanato lasciarono la stanza e, recuperata la borsa con i vestiti, scesero al piano terra.
“Come facciamo a uscire? Ci sono guardie a tutte le porte e se ci ritravestiamo e ripassiamo dal pronto soccorso ci fermeranno per compilare le pratiche”.
“Stai a vedere”. Steve suonò l'allarme antincendio, che scatenò un vero e proprio pandemonio in corsia. Poi spinse Livienne in una stanza deserta e, approfittando della confusione, uscirono da una finestra al pianterreno e si defilarono, raggiungendo la macchina.
Steve si mise al volante e Livienne inserì il dischetto sul suo portatile. Subito apparve una serie di numeri, apparentemente senza alcun senso.
“Maledizione! È criptato!”, affermò Steve.
“Vuoi dire che abbiamo fatto tutto questo per niente?”
“Conosci nessuno in grado di decriptare un dischetto, Livi?”, chiese maliziosamente Steve.
“Apple!”
“Già. Sai dove abita?”
“In una roulotte, in giro per il mondo”.
“Fantastico! Come lo troviamo?”
“Semplice! Mi basta telefonargli. Sarà lui a venirci incontro”. Alla prima stazione di servizio, Livienne fece il numero di Apple, che rispose in modo molto brusco:
“Chi accidenti è che mi disturba all'una di notte?”
“Apple, sono Livienne. Mi serve il tuo aiuto, è urgente”.
“Livienne! Che bella sorpresa!”, esclamò, cambiando subito tono di voce.
“Che ti serve?”, domandò.
“Dove ti trovi?”
“A Jonesboro, nell'Arkansas!”
“Perfetto! Noi siamo sulla statale quattro. Ci dirigiamo verso di te. Tu vienici incontro: abbiamo qualcosa da farti vedere”.
Steve fermò un attimo la macchina e lui e Livienne si tolsero tutto il trucco e si cambiarono nuovamente, rimettendosi i loro vestiti.
“È bello essere di nuovo "noi"!”, esclamò Livienne.
“Già! Mi sentivo una donnicciola con tutto quel trucco addosso”.
“Credi che ci abbiano riconosciuti?”
“Penso di no. Almeno lo spero”.
“Sì, ma tu hai preso quel dischetto. Siamo sicuri che non ti caccerai nei guai?”, chiese lei, quando furono ripartiti.
“Guarda che nei guai ci finiamo insieme”.  Lui non sembrava particolarmente preoccupato. Livienne sorrise.
“Cosa ci trovi di tanto divertente?”
“L’idea di finire nei guai con te non mi dispiace affatto. Mi sento viva, Steve… per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento di nuovo viva”.
“Un giorno mi racconterai cosa ti è capitato di così brutto…”, si arrischiò a dire lui.
Lei rimase per un istante con il fiato sospeso. Possibile che Steve si fosse accorto dei suoi malumori, della sua disperazione, che a tratti perforava la maschera di indifferenza e tranquillità di cui amava rivestirsi?
“Perché pensi che mi sia accaduto qualcosa di brutto?”, sussurrò.
“Non lo penso. Te lo leggo nello sguardo, Livi. Nei tuoi splendidi occhi verdi c’è troppa tristezza per riuscire a nasconderla”. Le sfiorò una mano con la sua. Livienne non osò parlare. Si limitò a fissare la strada che scorreva via, veloce, sotto le ruote dell’auto.
“Quando te la sentirai, io ti ascolterò”, la rassicurò lui.
Un'ora dopo incrociarono la roulotte di Apple e si fermarono al primo spiazzo libero. Steve e Livienne salirono sul retro del camper, dove li attendeva un Apple piuttosto assonnato.
“Agente Steve Rowling, FBI”, si presentò Steve.
Apple strinse la mano che gli porgeva.
“Dan Lennex. Al secolo, Apple. Spero che ci sia un valido motivo per avermi tirato giù dal letto all'una del mattino”, aggiunse.
“Sì. Dovresti dare un'occhiata a questo”. Steve gli porse il cd-rom.
“È uno di quei dischetti che non si possono doppiare”.
“Lo so. È anche criptato”.
“Questo non è un problema: ho da poco elaborato un programma in grado di decriptare parecchi codici”.
“Funziona?”
“Come no! Due giorni fa mi sono collegato al computer della NASA e ho quasi fatto partire un razzo”.
“Hai intenzione di far scoppiare la terza guerra mondiale, Dan?”, chiese Livienne.
“Dolce Livienne! Da quanto non ti vedo! Sei sempre più bella”, la salutò, abbracciandola e dandole un bacio sulla guancia. Steve sentì lo stomaco stringersi, vedendoli così intimi. Mai avrebbe pensato di poter essere geloso, specialmente di una giornalista…
“Taglia corto, Dan. Come stai, piuttosto?”
“Sto sempre aspettando che tu lasci perdere gli agenti dell'FBI per metterti a girare il mondo con me…”, scherzò lui.
“Allora stai fresco!”
Apple mise il dischetto nel computer e apparve una serie di numeri.
“Hai ragione: è criptato. Ora guarda”, disse, rivolto a Steve.
Digitò qualcosa sulla tastiera e, nell'arco di qualche minuto, tutti i numeri si trasformarono in lettere.
“Ecco fatto!”
“Sei grande, Apple!”, si complimentò Steve, iniziando a leggere i dati contenuti nel dischetto.
“Riguarda proprio Jonathan: guarda qui, Livienne!”, esclamò.
Lei si mise a leggere:
“Nome: Jonathan.
  Cognome: Dubs.
  Data di nascita: 4 aprile 1992 
  Sesso: M.
  Madre: Carol Nefter
  Padre: Ronald Dubs.
  Donatrice: Lucy Willmore.
  Provenienza del feto: ospedale militare di Tascosa.
  Origine: H.A.H.
“Che significa H.A.H.?”, chiese a Steve.
“Non lo so. Ora vediamo”.
Seguivano tutte le analisi del bambino, compreso lo schema del DNA.
“Dai un'occhiata qui”, osservò Steve.
“Che cos'è?”
“Il DNA di Jonathan. Non è come quello di tutte le altre persone, Livienne. In vita mia non ho mai visto niente del genere”.
“Voglio studiarlo un po'. Tu intanto cerca notizie sui genitori di Jonathan, e anche su quella Lucy Willmore”.
“D'accordo, ma facciamo presto. Susy ci sta aspettando”. Dieci minuti dopo, Livienne lo avvertì:
“Steve, ho i dati che cercavi sul padre di Jonathan. Ronald Dubs è stato sposato per due anni con una certa Mery Mildoke. Poi si sono separati. Indovina perché?”
“Non andavano d'accordo?”
“No: lui era sterile! Ho dato un'occhiata alla sua cartella clinica: da un esame fatto nel 1980 risulta essere completamente sterile. Jonathan non può essere figlio suo!”
“Quindi, o sua moglie gli ha clamorosamente messo le corna, oppure il bambino è stato adottato”, sbottò Dan.
“Il bambino risulta essere stato partorito da Carol Nefter, ma io non ne sarei tanto sicura: guarda chi è Lucy Willmore”, disse ancora Livienne, dopo aver cercato in Internet.
Il nome di Lucy compariva nell'elenco delle donne rapite dagli alieni. La ragazza aveva raccontato di essere stata rapita e messa incinta artificialmente da alieni, che erano tornati alcune settimane dopo a riprendersi il bambino.
“Già. Peccato che sia invece il governo a portare via i feti”, puntualizzò Steve.
“È quello che hanno fatto anche con Stefy”, commentò Livienne.
“Ora abbiamo le prove, Livienne! Non capisci? Abbiamo le prove di una cospirazione ai danni delle donne messe incinta dagli alieni! Potremo mostrare questo dischetto a tutto il mondo e incriminare il governo!”, si esaltò Steve.
“Aspetta un momento, Steve: tu vorresti accusare il governo americano di aver rubato a delle ragazze dei feti di origine aliena? E pensi che ti crederebbero? Ti va bene se non ti internano subito! Non puoi basare tutte le tue prove su questo dischetto, peraltro rubato. Sarebbe una pazzia!”, intervenne Apple.
“Ma ci sono le ragazze! Loro potrebbero testimoniare!”
“Steve! Sai che non accetterebbero mai in un tribunale la deposizione di quelle ragazze: le hanno già definite "mentalmente instabili", inoltre tutte le tue prove si basano su ricordi riportati alla luce in fase di ipnosi regressiva. Sai che non è una prova sufficientemente attendibile”.
“Già! Dovrei andare in quella base: sono certo che laggiù troverei le prove che cerco”.
“Non dire sciocchezze, Steve. È una base di massima sicurezza. Non potrai intrufolartici dentro come hai fatto stanotte. Siamo già abbastanza nei guai per aver rubato il dischetto. Quando se ne accorgeranno verranno a cercarci”.
“Non hanno prove contro di noi”.
“Lo so, ma se trovassero il dischetto in mano nostra?”
“Lo nasconderemo”.
“Ci penserò io”, si offrì Apple.
“Conosco un posto dove starà al sicuro. Ce lo porterò appena ve ne sarete andati: vi siete già esposti a sufficienza”.
“Grazie, Apple, sei un amico”, lo ringraziò Livienne, abbracciandolo.
“Ehi! Chi divideva sempre con me la merendina, quando me la dimenticavo a casa? Ti devo un sacco di merendine, Livienne! Ora potrò ripagarti, in qualche modo”, scherzò lui. Ma Steve non era in vena di scherzi:
“Attento, Apple. È un gioco pericoloso”.
“Lo è più per voi, che per me. Cercherò notizie su quella base. Dovrei riuscire a collegarmi al suo sistema di computer, per sapere che tipo di sistemi di sicurezza ci sono, e magari trovare anche un modo per eluderli”.
“Fantastico!”, esclamò Steve.
“Ora toglimi una curiosità, Steve. Che se ne fa il governo dei feti alieni?”, domandò  Apple.
“Li studia: evidentemente, i bambini nati in questo modo hanno, a volte, dei poteri speciali, come nel caso di Jonathan. Guardate il suo DNA: non può essere umano, e credo proprio che quell’H.A.H. stia per Human Alien Hybrid. Ibridi umano alieni, che vengono impiantati nell'utero delle ragazze dagli extraterrestri. Forse, di solito, gli extraterrestri tornano a riprenderseli dopo qualche settimana, per poterli studiare. Evidentemente, il governo ha deciso di toglierli alle madri prima del ritorno degli extraterrestri. Dopodiché, li danno a coppie che li crescono, probabilmente perché è più facile convincere le madri adottive a far visitare e analizzare il piccolo, inoltre, in questo modo, la vera madre non ne sa nulla, quindi non cercherà di ritrovare il bambino, che crede ormai in cielo con gli alieni”.
“Allora, se riuscissimo a fare analizzare il DNA di Jonathan avremmo le prove dell'esistenza di ibridi umano alieni?”, chiese Livienne.
“Lo contraffarebbero, così come hanno contraffatto le sue analisi. Comunque, potremmo sempre provarci”.
“Già”, ammise Livienne.
“Dobbiamo tornarcene alla pensione: sono già le due e mezza!”, disse Steve.
“Andate. Al dischetto ci penso io”, li rassicurò Apple.
Alle tre e mezza, Steve e Livienne giunsero al parcheggio, lasciarono la macchina parcheggiata, fecero un segno convenzionale a Susy passando davanti al bar e ritornarono in camera. Susy si fermò sotto la finestra della loro stanza.
“Ecco le chiavi. Ora stacco la corda”, disse Steve, lanciandole le chiavi della macchina e la corda che avevano usato per scendere e risalire.
“Arrivederci, Susy. E ancora grazie”, la salutò Livienne.
“Ciao, e buona fortuna!”, esclamò, salutandoli.
“Anche a te”.
Steve e Livienne si fecero una doccia, per cancellare ogni traccia residua di trucco. Infine, si distesero sul letto.
“Per essere la prima notte che dormiamo insieme, è stata piuttosto movimentata”, rise Livienne.
“Già. Comunque non preoccuparti: non c'è alcun rischio che attenti alla tua virtù, questa notte. Sono talmente stanco che non riesco ad alzare neppure un dito, figuriamoci qualcos'altro!”
“Scommettiamo che invece riuscirei a risvegliare i tuoi istinti maschili, se solo ne avessi voglia?”, lo stuzzicò lei.
Steve la fissò, stupito.
“Lascia perdere… ci sei già riuscita. È bastata una tua frase accattivante…”
Livienne scoppiò in una risata argentina.
“Andiamo a letto e cerchiamo di dormire, che è meglio”.
Si addormentarono quasi subito, ma non poterono dormire a lungo: verso le cinque del mattino, due guardie armate e un capitano della polizia entrarono a precipizio nella loro stanza, puntando loro contro le pistole.
“Che succede?”, chiese Steve, svegliandosi di soprassalto. Il capitano si rivolse ai suoi:
“Perquisite la stanza! Cercate il dischetto! E anche delle parrucche, un pancione finto e altre cose che possono essere state usate per camuffarsi”.
“Agente Steve Rowling, dove si trovava questa notte, fra la mezzanotte e le quattro?”, chiese poi.
“Qui, dove avrei dovuto essere? Io dormo, di notte”.
“Sappiamo che lei sta indagando sul caso "Jonathan Dubs". Non lo neghi!”
“Non lo nego affatto. Ma finora non ho scoperto assolutamente nulla”.
“Lei è stato all'ospedale, ieri pomeriggio, non è vero?”
“Sì. Ho chiesto al dottor Coll di mostrarmi alcune analisi del bambino”.
“E questa notte è tornato a prelevare altri indizi, non è così?”
“Non dica sciocchezze. Stanotte non mi sono mai mosso di qui. La portinaia può confermarlo”.
“Può essersi calato dalla finestra! Poi è entrato al Pronto Soccorso insieme a questa ragazza, travestita da donna incinta”.
“Ha guardato bene giù dalla finestra? Siamo al terzo piano! Mi sarei rotto l'osso del collo se fossi saltato giù”.
“Ci sarà di sicuro una scala. Che avete trovato?”, chiese, rivolto agli altri due poliziotti.
“Niente, signor capitano”.
“Come sarebbe a dire "niente"? Tu, controlla sotto la finestra! Controlla anche la loro auto: è parcheggiata qui fuori. Tu, invece, dai un'occhiata alle telefonate fatte dai loro cellulari”.
Steve prese le chiavi della macchina e le diede al capitano:
“Tenga. Non voglio che mi forziate la serratura: la vettura non è mia. È stata noleggiata”. Uno dei due uomini controllò i telefoni.
“Recentemente è stata chiamata un paio di volte la madre si Steve, quattro volte la sua amichetta, e ieri solamente questo numero. Controllerò di che cosa si tratta”.
“È un fast-food di questa città. Ho ordinato la cena”, spiegò Steve.
“Affermativo, capitano. La cena è stata consegnata alle sette e trenta”, riferì il poliziotto, dopo aver controllato.
“Perché stava indagando sul bambino dei Dubs?”, chiese ancora il capitano a Steve.
“Veramente stavo indagando su uno strano caso di neve fuori stagione a casa dei Dubs. Poi ho scoperto che il bambino veniva visitato spesso e ho deciso di indagare. Può darsi che sia lui a provocare questi strani fenomeni atmosferici”, si sbilanciò Steve, per dare peso alla sua indagine.
Di lì a poco rientrò l'altro poliziotto:
“La macchina è pulita: nessun indizio utile. Il motore è freddo e la portinaia afferma che non si è mai mossa di lì, questa notte: i due le avevano dato l'ordine di custodirla. Non è stato chiamato nessun taxi e non hanno ricevuto visite, a parte il garzone del fast-food, che se ne è andato subito. Ho fatto controllare i chilometri: sono quelli dall'autonoleggio fino a casa dei Dubs e poi qui. Fuori dalla finestra non ci sono né scale, né appigli utili per scendere. Non ho trovato niente che possa essere stato usato per travestirsi”.
Il capitano lo fissò, perplesso.
“Fate entrare il testimone”, ordinò.
A quel punto, il cuore di Livienne si mise a battere forte e si augurò che tutto andasse per il meglio. Se qualcuno li riconosceva sarebbero stati in un grosso guaio. Entrò il giovane infermiere che li aveva ricevuti al Pronto Soccorso la sera prima. Il ragazzo li squadrò per bene. Livienne trattenne il fiato, impietrita dalla paura.
“Allora?”, si spazientì il capitano.
“Non sono loro”.
“Come sarebbe a dire "non sono loro"?!”, esclamò il capitano. “Ne è sicuro?”
“Certo! Quei due che ho visto, e che poi non si sono ripresentati a firmare le carte per il ricovero, erano più alti, e anche più vecchi. Inoltre, lei era molto più brutta: se avessi visto una ragazza così carina me ne sarei ricordato certamente!”
“Maledizione!”, s'infuriò il capitano.
“Che facciamo, signor capitano?”, domandò uno dei poliziotti.
“Niente! Che possiamo fare? Non abbiamo nessun motivo per trattenerli. La portinaia dice che non si sono mai mossi di qui, il testimone non li riconosce e non si trovano indizi per incriminarli, non hanno noleggiato altre automobili o taxi, e non possono aver raggiunto l'ospedale a piedi. In quanto ai mezzi pubblici, i pullman di notte non circolano; inoltre non si trova il dischetto! Il che è la cosa più importante”.
“Di che dischetto sta parlando, signor capitano?”, chiese Steve, fingendo di non saperlo.
“Non sono affari suoi, agente Rowling. Agos, perquisiscili. Se non hanno il dischetto addosso saremo costretti a lasciarli andare”.
“Senta! Non siamo dei criminali! Lei non ha nessun diritto di trattarci in questo modo!”, esclamò Steve, adirato.
“Stia zitto, se non vuole che la porti in cella ugualmente”.
“Guardi che li conosco anch'io, i miei diritti!”
Uno dei poliziotti li perquisì, ma non trovò nulla.
“Niente da fare, capo. Non ce l'hanno”. Il capitano si rivolse a Steve:
“Fossi in lei, girerei al largo dalla casa dei Dubs e troncherei subito questa indagine”.
Dopodiché, lui e gli altri due se ne andarono, seguiti dall'infermiere.
“Okay, Livi, andiamo a dare un'occhiata a casa dei Dubs. Ho qualcosa da chiedere al signor Dubs e gentile consorte”.
Ma quando giunsero alla casa ebbero una brutta sorpresa: le ante erano chiuse e, dopo che ebbero suonato ripetutamente il campanello, si resero conto che non c'era nessuno. Alla fine, un vicino di casa uscì e disse loro:
“Se ne sono andati questa notte! È venuto un camion che ha caricato molte cose, anche dei mobili. Non mi stupirei se avessero fatto trasloco”.
“Non sa dove possano essere andati?”
“No, mi dispiace”. Steve telefonò a Prische e gli chiese:
“Trovami il signor Ronald Dubs, sua moglie Carol e suo figlio Jonathan. Ovunque siano!” Poco dopo, Luke lo richiamò:
“Mi dispiace, Steve. Nei dati a mia disposizione risultano dimorati ancora lì. Non hanno altre case e i parenti più prossimi sono dei lontanissimi zii. Ho provato a chiamarli ma non sanno neppure che i signori Dubs hanno avuto un figlio. Evidentemente è da un po' che non si incontrano!”
“Quindi non sai dove sono finiti?”
“No. Non ne ho idea. Forse sono andati in ferie”.
“Portandosi dietro i mobili?!”, esclamò Steve, infuriato. Più si addentrava in quella storia, più le cose si facevano oscure.
Steve interrogò ancora il vicino, per domandargli se sapeva qualcosa del furgone che aveva caricato i mobili.
“Non ha visto per caso di che ditta era?”
“No. Non c'erano scritte sul fianco, e comunque era buio”.
“Se i Dubs dovessero tornare, me lo faccia sapere immediatamente, d'accordo?”, disse, porgendogli un biglietto da visita.
“FBI? Sono implicati in qualche losca faccenda?”
“Non lo so ancora. Comunque, lei mi tenga informato, qualunque cosa venga a sapere sul loro conto”.
L’uomo fece un gesto affermativo con la testa. Steve lo salutò, dirigendosi alla macchina. Dopo aver interrogato anche gli altri vicini, senza ottenere nulla di più di quello che già sapeva, Steve si rivolse a Livienne:
“Prendiamo il primo aereo e torniamo a casa. Non ha più alcun senso restare qui”.
Era pomeriggio inoltrato quando giunsero a Filadelfia. Livienne si recò subito alla sede del giornale, Steve invece tornò a casa e depositò il bagaglio, poi si recò all'FBI, dove il suo turno di lavoro era quasi finito. Stese il rapporto sulla recente indagine, omettendo di dire che il bambino aveva comunicato mentalmente con Livienne, e omettendo pure la loro capatina furtiva e notturna all'ospedale.
Aveva completato da poco di scrivere il rapporto quando ricevette la telefonata di Donald:
“Steve, ti voglio immediatamente nel mio ufficio”. La voce di Donald era imperiosa e non prometteva nulla di buono. Prese il rapporto con sé e raggiunse l'ufficio di Kerk, che lo stava aspettando, masticando caramelle alla menta.
Il capo lo osservò per un lungo momento, poi sbottò:
“Si può sapere cosa diavolo hai combinato per pestare i piedi all'intera città di Blytheville?”
“Senta, Donald, che lei ci creda o no, io non ho fatto proprio niente! Mi hanno aggredito come un malvivente, hanno messo le mani addosso a me e a Livienne, hanno frugato fra le nostre cose e tutto questo senza averne il minimo diritto! Dovrei fargli causa io stesso!”
“Vuoi dire che non l'hai preso tu il dischetto?”
“Non so neppure di che cosa lei stia parlando!”, urlò Steve, che non sapeva se poteva fidarsi di lui o meno.
“Dall'ospedale di Blytheville, precisamente dallo scrittoio del dottor Coll, è scomparso un preziosissimo dischetto, contenente informazioni importantissime sul piccolo Jonathan Dubs. Sappiamo che tu eri stato a cercare notizie su di lui, nel pomeriggio”.
“Sì, è vero: giorni fa ho trovato un video amatoriale, nella cassetta della posta. Riprendeva la casa dei signori Dubs in balia di eventi atmosferici incredibili. Così ho voluto indagare. Ma i signori Dubs non mi hanno riferito nulla di utile. Parlando con Jonathan, però, ho scoperto che il bambino veniva spesso visitato dal dottor Coll. Mi era sembrato un bambino molto strano e pensavo fosse addirittura lui a provocare quegli strani fenomeni. Così sono andato a chiedere al dottor Coll le analisi del bambino. Abbiamo anche avuto una discussione, poiché sono certo che mi abbia mostrato dei referti fasulli”.
“Perché ne sei così sicuro?”
“Il bambino ci ha detto che veniva esaminato ogni mese; le analisi che mi ha mostrato Coll risalivano a sei mesi prima”.
“Ho capito. E poi che è successo?”
“Niente. Ho cercato un motel dove andare a dormire e la mattina seguente, quando sono tornato dai Dubs per proseguire l'interrogatorio non ho trovato più nessuno. Sembrano essere spariti. Comunque, troverà tutto nel mio rapporto, anche se non è poi molto”.
“Fossi in te, consiglierei alla tua amica Livienne di tenere per sé questa storia”.
“Non si preoccupi: Livienne ha deciso che non scriverà un articolo, su tutto questo. Dopotutto, non c'è niente da scrivere: il caso non è stato risolto”.
Donald prese fra le mani il rapporto, poi gli disse ancora:
“Se non hai preso tu il dischetto puoi stare tranquillo. Puoi andare, ora, Steve”.
“Buona serata, Donald.”, disse, uscendo. Quando fu nel corridoio sentì la porta dell'ufficio di Donald chiudersi e udì i passi del suo principale che lo seguivano.
“Steve”, lo chiamò. Lui si fermò ad aspettarlo. Quando Kerk gli fu sufficientemente vicino, gli disse, a voce più bassa:
“Ti è mai capitato di sentire che una faccenda è come la punta di un iceberg, e più ci vai a fondo più scopri nuovi elementi per continuare l'indagine?”
“Certo: questa è una di quelle volte”.
“Già. Se andrai a fondo di questa faccenda troverai cose che non puoi neppure immaginare, Steve. Non posso aiutarti, perché non sono della partita, ma so che c'è qualcosa di grosso, in ballo. Scoprilo, ma stai attento: ne va della tua vita e anche di quella di Livienne, se non si terrà fuori da questa storia”.
Steve annuì: aveva capito perfettamente.
“C'è di mezzo Senfter, vero?”, chiese.
“Senfter c'entra sempre, solo che non so da che parte sta. Stai attento, Steve, non fidarti di lui”.
“Non mi sono mai fidato”.
Donald ritornò nel suo ufficio e Steve raggiunse il suo appartamento. Si stupì di trovare la porta aperta: la chiudeva sempre a chiave. Entrò e trovò le stanze completamente sottosopra: i vestiti erano sparsi sul pavimento, il frigorifero era stato aperto e svuotato, gli armadietti della cucina erano stati accuratamente controllati. Persino il materasso non era più sul letto. Era stato buttato per terra e tagliato, e qualcuno aveva frugato all'interno.
Steve si sedette su una sedia della cucina, esausto. Poco dopo suonò il campanello della porta e andò ad aprire. Livienne entrò e diede un'occhiata in giro.
“Fantastico! Sembra casa mia quando non riordino da settimane”, cercò di scherzare.
“Hanno cercato il dischetto. Può darsi che abbiano messo anche delle cimici”, la avvertì subito lui.
“Anche nel mio appartamento hanno ribaltato tutto. Non che prima ci fosse in ordine, ma mi rincresce per i vestiti che avevo ancora nell'armadio. Ora sono tutti da rilavare e stirare di nuovo. E io odio stirare! Inoltre, non so proprio dove andrò a dormire stanotte, visto che mi hanno disfatto il materasso!”
“Spiacente di non poterti ospitare. Hanno disfatto anche il mio”.
“Manca qualcosa?”
“Credo di no. Non ho ancora fatto l'inventario, sono appena rientrato”.
“Ti aiuto a rimettere un po' in ordine”.
“Grazie”.
Ci volle parecchio prima che l'appartamento riprendesse un aspetto decente, ma alla fine riuscirono a sistemare quasi ogni cosa. Steve ordinò anche un nuovo materasso. Quando tutto fu a posto erano ormai le dieci di sera e lui e Livienne erano sfiniti.
“Ti va di mangiare una pizza?”, chiese lui.
“Sì, volentieri”.
“Allora andiamo: Gennaro le fa davvero favolose”. Steve le sorrise, ritrovando il buon umore di sempre. Dopotutto, lui e Livienne stavano bene e il dischetto era al sicuro, almeno per il momento. Se Apple fosse riuscito a trovare il sistema per entrare nella base, la verità sarebbe venuta finalmente a galla.

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