Murders & Diapers

di gayzombie_
(/viewuser.php?uid=1014920)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Si, ma cosa ha fatto Rosie?! ***
Capitolo 2: *** Niente bigodini ***
Capitolo 3: *** Mostri nell’armadio ***
Capitolo 4: *** Compiti a casa ***
Capitolo 5: *** Sorpresa ***



Capitolo 1
*** Si, ma cosa ha fatto Rosie?! ***


«Hai idea del perché la maestra di Rosie voglia parlarci di persona, Sherlock?»

«Non direi.»

«William Sherlock Scott Holmes, se vengo a sapere che mia figlia ha cercato di vivisezionare qualche suo compagno per colpa delle strane idee che le metti in testa, sappi che…»

«Rilassati, l’ho soltanto fatta giocare con la testa mozzata del nostro ultimo caso.»

«Ha giocato con COSA?!»

«Qual è il problema? Lestrade ha detto che non serviva più, e Rosie voleva truccarla…»

Watson aprì bocca per dire qualcosa, ma la richiuse immediatamente ricordandosi che si trovavano nel corridoio di una scuola elementare, e le uniche parole a cui riusciva a pensare in quel momento non sembravano adatte a quell’ambiente.
Optò quindi per una breve occhiataccia, che nel loro linguaggio significava “farò finta di non aver sentito”, e incrociò le braccia al petto con aria rassegnata.

In quel momento una giovane donna dal sorriso gentile uscì dalla porta di fronte a loro, salutando con una stretta di mano due genitori che avevano appena terminato il colloquio; nel vedere Sherlock e John, la coppia indietreggiò istintivamente, cambiando immediatamente espressione e risultando tesi e imbarazzati. Li salutarono sbrigativamente con un cenno della mano, lasciando il dottore piuttosto confuso, mentre il detective sembrò restare impassibile.
L’insegnante fece accomodare i due indicandogli due sedie vuote di fronte alla sua cattedra, cercando qualcosa tra dei fogli disordinatamente ammucchiati accanto a un portapenne.

«I genitori di Rosie Watson, non è vero?»

«Non fa i compiti? Non studia? Ha detto parolacce?» John non le diede neanche il tempo di prendere il registro di classe, sembrava fin troppo preoccupato per una situazione ordinaria come quella.

La maestra scosse immediatamente la testa rivolgendogli un sorriso rassicurante, e prese a sfogliare una piccola agenda su cui erano appuntati i giudizi sul comportamento dei vari alunni.

«A dire il vero, signor Watson, Rosie è una bambina veramente intelligente… di questo non deve preoccuparsi. Fa i compiti regolarmente, interviene spesso in classe per dire la sua, ha un vocabolario notevole per una bambina della sua età. Penso che sia un piccolo genio.»

Sherlock sorrise fin troppo compiaciuto nel sentire quelle parole, era orgoglioso di aver trasformato la figlia del compagno in un’adorabile versione di sé stesso in miniatura. Tirò una gomitata a John, come per dire “è tutto merito mio”, mentre accavallava le gambe mettendosi più comodo.
Il dottore preferì ignorarlo, non intendeva dargli alcuna soddisfazione: qualunque fosse il motivo di quel colloquio, doveva essere colpa sua.

«Allora il problema qual è? Non interagisce con gli altri bambini? Interagisce nel modo sbagliato

La donna scosse di nuovo la testa: «Solitamente è educata e sa come comportarsi con i compagni, le vogliono tutti molto bene.»

Stavolta toccava a John tirare la gomitata del “è tutto merito mio”, ma era troppo teso per quei giochetti, e voleva solo arrivare al punto senza ulteriori indovinelli: «Insomma, cosa ha fatto Rosie?! È per l’ultimo tema sulla fiaba da inventare? Si, magari il mio compagno l’ha aiutata un po’ con i verbi, ma le assicuro che è tutta farina del suo sacco, a meno che…»

Si voltò di scatto verso il detective, tirandolo per una manica della giacca in modo da avvicinarlo e sussurrargli all’orecchio: «Dimmi che non le hai davvero fatto scrivere “Omicidio nel mondo delle fate”. Dimmi che avete scartato quell’idea.»

Il moro roteò gli occhi sbuffando, mentre la maestra tentò di trattenere una risatina poco professionale:

«Non se la prenda con il suo compagno, penso che qui il problema sia qualcosa che ha detto lei.»

Il biondo restò di sasso, lasciando andare subito la manica del fidanzato, mentre cercava di ripercorrere mentalmente ogni singola frase inappropriata che poteva aver detto in presenza della bambina.

«…Io? Sul serio?»

L’insegnante si schiarì la voce, continuava a mantenere un atteggiamento gentile e comprensivo nonostante quell’affermazione.

«Un bambino stava facendo battute a sfondo omofobo in sua presenza, e Rosie si è sentita presa in causa… inizialmente è stata molto corretta e gli ha spiegato con calma che non c’è niente di male nell’avere due papà, che voi due siete fantastici eccetera.»

John si sentì improvvisamente attanagliare dal senso di colpa: come aveva potuto pensare male della sua principessa? Li aveva soltanto difesi, come lui le aveva sempre insegnato a difendere il prossimo.

«Quel bambino è un mio alunno, conosco i suoi genitori e sono convinta che lui stesse solo ripetendo le loro parole… per questo ho chiesto di parlare anche con loro due oggi.»

«Si riferisce alla coppia che era qui prima di noi?» chiese il dottore e, vedendo la maestra annuire, gli fu subito chiaro il motivo del loro strano comportamento. «Ma ancora non capisco, Rosie cosa ha fatto di male?»

«Beh… il bambino ha insistito con parole piuttosto pesanti, e Rosie gli ha detto: “Il mio papà è un ex medico militare, significa che può spezzarti tutte le ossa chiamandole per nome.*”. Le dice qualcosa?»

Si sentì sbiancare e si tirò un ceffone in piena faccia, come per auto-punirsi. Erano le parole che aveva detto a Rosie per rassicurarla il primo giorno di scuola, quando lei gli aveva chiesto cosa avrebbe potuto dire a un eventuale bullo o ragazzino antipatico. John lo aveva detto scherzando, ovviamente, e Rosie dall’alto della sua intelligenza lo aveva capito, ma evidentemente aveva pensato che quell’avvertimento avrebbe potuto tornarle utile sul serio.

La maestra cercò subito di rassicurarlo, «Sono convinta che le sue intenzioni fossero buone, non si senta in colpa, pensavo solo che fosse giusto informarla. I bambini hanno fatto pace e si sono scusati entrambi, magari per i genitori del piccolo servirà più tempo… è curioso come a volte i bambini siano più maturi degli adulti, non crede anche lei?»

Il dottore annuì ripetutamente, sebbene non stesse ascoltando una singola parola di quel discorso, troppo occupato a sprofondare nell’imbarazzo più totale. Un uomo corretto come lui, che veniva fatto passare per un aggressore di bambini.

La conversazione si spostò su altri argomenti: recita scolastica, gli ultimi disegni di Rosie, un tema così ben scritto che la maestra aveva deciso di farlo leggere dalla bambina a tutta la classe;

stavolta fu Sherlock, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, a conversare con l’insegnante e chiedere informazioni, mentre Watson non sembrava più in condizione di sostenere scambi di alcun tipo.

Rivolse di nuovo la parola al compagno soltanto a fine colloquio, mentre si dirigevano verso il parcheggio:

«Tu. Fammi indovinare: tu l’avevi già dedotto.»

Il moro ridacchiò, non riuscendo a trattenersi; aveva tenuto duro fin troppo a lungo, restando serio durante l’intero colloquio.

«Può darsi.»

«Quando l’hai capito? Quando hai visto quei due genitori, vero?»

«Non proprio.»

«Quando, Sherlock?»

«Più o meno quando abbiamo ricevuto la telefonata dalla scuola.» si voltò in direzione del dottore per vedere la sua reazione, e rise di gusto quando l’altro smise di camminare fermandosi nel bel mezzo del marciapiede.

«Sherlock, dammi le chiavi dell’auto. Aspettami qui, vado a prenderla io.»

«Perché?»

«Devo investirti.»
 
 


 
 
Note
*Sono le precise parole che Watson pronuncia in “L’Abominevole Sposa”: «I'm an Army doctor, which means I can break every bone in your body while naming them.»

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Niente bigodini ***


«Piccola Watson, come pretendi che riesca a sistemarti i capelli se non stai ferma un attimo?»

Rosie si agitava seduta su uno sgabello, dondolando le gambe nel vuoto mentre Sherlock tentava di raccoglierle i lunghi capelli biondi in una treccia; avrebbe dovuto essere un compito facile per lui, avendo le dita abbastanza lunghe e affusolate da riuscire a tenere le diverse ciocche senza far annodare i capelli, ma la bambina sembrava voler testare a tutti i costi la sua pazienza.

«Quanto ci metti? Voglio andare a giocare!»

«Ci mettiamo veramente poco, se tu resti ferma e buona.»

La piccola sbuffò, guardando la propria immagine riflessa nello specchio; era sempre stata considerata una bellissima bambina, e Sherlock si era affezionato subito a lei, forse anche per la sua incredibile somiglianza con John (nonostante quest’ultimo ringraziasse il cielo ogni giorno per non aver dato alla piccola il suo stesso naso).

«Quando torna papà?»

«Torna quando ha finito.»

«Cioè quando finisce di curare le persone malate?»

«Si, e quando ha finito di gettare nell’immondizia i numeri di cellulare che gli avranno rifilato anche oggi.»

Rosie inclinò la testa all’indietro per guardarlo, mentre sul suo visino compariva un’espressione confusa; una bambina non poteva essere molto informata su cose di quel genere, e Rosie odiava non essere informata. Per questo chiedeva sempre spiegazioni a lui, soprattutto quando John la deludeva rispondendo “te lo spiegherò quando sarai più grande”.

«Perché gli danno dei numeri se lui non li chiede? Di chi sono?»

Con quel movimento della testa, la piccola aveva completamente distrutto il capolavoro dell’investigatore.
L’uomo inspirò profondamente, cercando di mantenere la calma mentre ricominciava per l’ennesima volta ad intrecciare quelle ciocche di capelli dorati e leggermente mossi.

«Vediamo… quando una persona vede qualcuno che le piace, a volte è talmente stupida da scrivere il proprio numero di cellulare e lasciarglielo. Tu non farlo mai da grande, ok? Non hai idea di quanti potenziali hacker criminali ci siano là fuori.»

Rosie annuì, rischiando di nuovo di rovinare la sua acconciatura.

«Comunque, le persone lasciano il proprio numero con la speranza di essere chiamate, vedersi, e… fare… cose.»

«Come prendere il gelato insieme?»

«Più o meno.»

«Papà getta i numeri di queste persone perché non vuole prendere il gelato con loro?»

«Esattamente.»

«Perché vuole prendere il gelato solo con te?»

Sherlock sentì le proprie guance andare a fuoco: ogni cosa sembrava innocente e adorabile, se uscita dalla bocca di quell’angioletto biondo. In un’altra situazione non si sarebbe intenerito così facilmente, ma Rosie era una Watson, doveva fargli quell’effetto.

Si schiarì la voce, cercando di ricomporsi e tornare in sé.

«I-Immagino di si… si, credo che voglia “prendere il gelato” solo con me.»

«E tu non sei geloso, se qualcun altro glielo offre? Anche se lui rifiuta?»

«Forse. Si, un po’. Non lo so. Ci ho fatto l’abitudine, tuo padre piace alle donne.»

Rosie restò in silenzio per qualche secondo, mentre l’uomo completava la sua opera legandole i capelli con un nastro blu; poi riprese a parlare, ruotando la testa per vedere meglio la sua acconciatura allo specchio:

«Anche papà è geloso di te. Me l’ha detto lui, è geloso anche quando nessuno ti offre il gelato. Ha detto che succede nelle coppie, che è normale. Allora perché vi vergognate a dirvelo?»

Sherlock fu colto di sorpresa da quella domanda, ma ancor di più dalla prima affermazione della bambina.
Se prima era arrossito, ora stava letteralmente andando a fuoco.
Certo, era palese che fossero gelosi l’uno dell’altro, e non facevano assolutamente nulla per nasconderlo.

«Non… non c’è bisogno di dirlo, certe cose si dimostrano e basta, piccola Watson. Io lo dimostravo anche quando eravamo solo amici, lo dimostravo sabotando ogni sua possibile relazione. Ha funzionato a meraviglia. E poi, perché dirlo, quando abbiamo in casa una spiona come te che andrà sicuramente a spifferargli tutto?»

La bambina ridacchiò, e d’istinto Sherlock le scompigliò affettuosamente i capelli, rendendosi conto subito dopo del suo madornale errore. La treccia era di nuovo ridotta a un cespuglio aggrovigliato.

«Ci rinuncio.» mormorò tra sé e sé, slacciando il nastro e sciogliendo del tutto la treccia.

«Posso fare io un’acconciatura a te, stavolta? Con papà non mi diverto, ha i capelli troppo corti.» chiese Rosie, recuperando qualche fermaglio e un pettine dalla sua scatola lilla.
Il detective lanciò una rapida occhiata all’orologio appeso al muro, poi annuì sedendosi a sua volta sullo sgabello, in modo da permettere alla piccola di raggiungere la sua altezza.

«D’accordo. Abbiamo mezz’ora prima che tuo padre torni, c’è tutto il tempo per accontentarti lasciandomi umiliare. Niente bigodini stavolta.»

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mostri nell’armadio ***


L’una e mezza di notte. John stava riposando inaspettatamente bene, cingendo con un braccio i fianchi del compagno, per nulla disturbato dalla luce del suo computer; il detective era semi-sdraiato accanto a lui, con il portatile appoggiato sulle ginocchia, mentre controllava ancora una volta delle fotografie relative all’ultimo caso affidatogli.
Il resto della stanza era completamente immerso nel buio, e il silenzio surreale che regnava nell’appartamento era scandito solo dal ticchettio di un orologio.
Qualunque eventuale scricchiolio, per quanto lieve, sarebbe risultato amplificato in un ambiente talmente silenzioso: Sherlock non poté fare a meno di sussultare quando udì un tonfo provenire dalla stanza accanto alla loro, quella in cui dormiva Rosie. Appoggiò il portatile sul comodino, misurando i propri movimenti per non disturbare il fidanzato e, prima che potesse alzarsi dal letto per andare a controllare che tutto fosse a posto, sentì la piccola bussare piano sulla porta della loro camera.
 
«Rosie? Che fai ancora sveglia?» chiese a bassa voce, tastando con la mano nel buio per accendere l’abat-jour. John si lamentò nel sonno e schiuse appena gli occhi, avvertendo uno strano movimento sul materasso;
 
la bambina stava salendo sul letto, teneva sottobraccio il suo coniglietto di pezza e inspirava rumorosamente dal nasino arrossato, come se avesse appena pianto.
 
«Ho fatto un brutto sogno, e c’è anche un mostro nel mio armadio.» spiegò, asciugandosi le lacrime con una manica del suo pigiama preferito, quello con le apette (un regalo di Sherlock)*. Strofinando, anche le guance le si erano arrossate, eppure la piccola riusciva in qualche modo a mantenere un’espressione seria e dignitosa, come una vera Watson.
Nonostante John avesse innegabilmente bisogno di riposo, a quelle parole raccolse tutte le energie e la forza di volontà in suo possesso, riuscendo miracolosamente a tirarsi su fino ad appoggiare la schiena alla testiera del letto.
 
«Non ci sono mostri, Rosie… se ci fossero, ti assicuro che li avrei già presi a calci per te.»
 
L’ex-soldato la prese tra le proprie braccia nel tentativo di rassicurarla, trattenendo un enorme sbadiglio; Rosie si accucciò immediatamente contro il petto del padre, già più tranquilla, ma non esattamente propensa a tornare nella sua stanzetta:
 
«Lo so, ma forse te n’è sfuggito uno…»
 
A quel punto Sherlock sentì di dover intervenire:
 
«Non essere irragionevole, piccola Watson. Hai avuto un incubo perché stamattina hai visto la faccia di Anderson, la tua testolina elabora informazioni anche nel sonno, non lo sapevi? E gli unici mostri che potrebbero esserci nel tuo armadio sono gli acari della polvere.»
 
La piccola annuì, sforzandosi di credere alle parole del detective, ma non sembrava pienamente convinta di quella spiegazione.
 
«Sei forse una bambina stupida, Rosie?» continuò, guadagnandosi un’occhiata al contempo incredula e minacciosa da parte del compagno. Un’occhiata della serie “ma che ti salta in mente?!”, alla quale rispose con un rapido sguardo che diceva “lascia fare a me”.
 
«No!» rispose la bimba con determinazione, aggrottando le sopracciglia con aria di sfida.
 
«Certo che no. E sei forse una fifona?»
 
«No!» ripeté, liberandosi dalla stretta del papà e scendendo giù dal letto.
 
«Quindi cosa farai adesso?»
 
«Torno a dormire! I mostri non esistono!»
 
Sherlock sorrise, fiero sia della bambina che di sé stesso (e dei suoi discutibili metodi educativi). Il dottore scosse la testa sorridendo a sua volta, divertito dai modi poco ortodossi del compagno e sinceramente stupito dal fatto che funzionassero a meraviglia con Rosie.
Erano sul punto di spegnere la luce e tornare l’uno al computer, l’altro tra le braccia di Morfeo, quando la sagoma minuta di Rosie comparve di nuovo davanti alla porta:
 
«I mostri non esistono, ma gli acari della polvere potrebbero attaccarmi…»
 
John sospirò e fece di nuovo appello a tutte le sue forze per alzarsi dal letto, seguito a ruota dal detective. La piccola li precedeva, cercando di mostrare coraggio, ma una volta entrati nella sua cameretta si rifugiò dietro le gambe del papà, aspettando che lui o Sherlock facessero qualcosa per liberare l’armadio da ospiti indesiderati.
Il dottore le accarezzò delicatamente i capelli per tranquillizzarla, mormorando un «Va tutto bene», poi la sollevò per metterla a letto; il corpicino della piccola sprofondò sul morbido materasso e John si affrettò a rimboccarle le coperte per impedire che prendesse troppo freddo, mentre Sherlock sistemava accanto a lei il suo adorato coniglietto.
Il consulente investigativo attraversò la stanza fino a ritrovarsi di fronte all’armadio e aprì in una volta entrambe le ante, per dimostrarle che nulla si nascondeva lì dentro se non dei vestiti ben stirati (dalla signora Hudson, ovviamente) e qualche cappottino.
Rosie lo osservava allarmata dal suo lettino, tirando le lenzuola fino a coprire metà del viso ma, vedendo che nessuna belva si era ancora avventata sul detective, tirò un sospiro di sollievo.
 
«Sai quanto sono piccoli gli acari della polvere, piccola Watson?»
 
La bambina scosse la testa, incuriosita. Un’altra bambina al suo posto non avrebbe gradito una lezione di quel tipo in piena notte, ma lei era sempre ansiosa di sapere, e Sherlock era la sua principale fonte di informazioni interessanti.
 
«Sono molto, molto più piccoli di te, non sono neanche visibili ad occhio nudo. Non ti faranno niente.»
 
Richiuse l’armadio  e tornò al lettino di Rosie, chinandosi per darle un bacio sulla fronte sotto lo sguardo intenerito di Watson, completamente ipnotizzato da quella scena.
«Domani te ne mostrerò qualcuno al microscopio, se vuoi. Adesso riposa.»
 
La piccola annuì, decisamente più serena, stringendo a sé il coniglietto mentre anche suo padre si chinava per salutarla con un bacio sulla guancia e un «Buona notte, principessa».
 
 
 
Quando la coppia tornò finalmente nella propria camera da letto, anche Sherlock era troppo stanco per continuare a fissare lo schermo di un computer. Spense il portatile per poi abbandonarlo di nuovo sul comodino e si rannicchiò sotto le lenzuola ancora tiepide, lasciando che il compagno tornasse ad abbracciarlo (questa volta ricambiando l’abbraccio). Affondò il naso tra i suoi capelli corti, respirandone il profumo a pieni polmoni.
 
«A cosa pensi, John?» chiese in un sussurro, pochi secondi dopo. Il biondo si irrigidì, confuso da quella domanda improvvisa.
 
«Ricominci a leggermi nel pensiero?»
 
«Non ho mai smesso.»
 
Sherlock sentì il dottore ridacchiare, mentre l’abbraccio si faceva sempre più stretto:
 
«Pensavo che sei un bravissimo papà.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Note
*Nel canone, al termine della sua carriera, Sherlock Holmes si è ritirato nel Sussex per allevare api. Ho questa headcanon secondo cui Sherlock regala spesso a Rosie degli oggetti o vestiti che hanno a che fare con le api.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Compiti a casa ***


«William e Sarah vanno dal fruttivendolo: entrambi comprano cinque mele ma, una volta tornati a casa, William si ritrova con diciotto mele e Sarah con sette. Quante mele avevano già in casa?»
 
Quel giorno toccava a Sherlock aiutare la piccola con i compiti di matematica. Rosie adorava quando toccava a lui perché, oltre a darle immediatamente la risposta al problema senza neppure farci caso, finiva ogni volta per divagare dando uno spettacolino che la bambina trovava sempre esilarante.
 
«Questo William mi sembra sospetto, piccola Watson. Perché uscire a comprare le mele, se ne aveva già tredici in casa? Nel caso di Sarah è comprensibile, due mele sarebbero durate poco e voleva fare provviste, ma per William non c’era fretta. Si conoscono, per caso? Ho il sospetto che William la stesse seguendo, nel testo non è specificato che Sarah sapesse della sua presenza o meno. Ha fatto spesa anche lui per mescolarsi alla clientela. E hanno preso entrambi soltanto le mele, non ti sembra una strana coincidenza?»
 
La bambina annuì, appuntando il risultato dell’operazione sul proprio quaderno, per poi tornare a godersi quel delirio.
 
«Oppure doveva semplicemente preparare qualche torta di mele e temeva di restare senza…» ipotizzò poi il detective, perdendo progressivamente interesse in quel caso. «Si, dev’essere così. Banale, noioso. Passiamo al prossimo.»
 
«Sarà così, papà. Non mettono queste cose brutte nei problemi di matematica delle elementari.»
 
Sherlock sentì il proprio cuore saltare un battito. Restò immobile fissando un punto nel vuoto per una manciata di secondi, tenendo le labbra serrate: aveva già vissuto un momento simile, anni prima, sempre in piedi di fronte al tavolo di quella cucina, quando John lo aveva definito per la prima volta il suo “migliore amico”.
 
«Come… come mi hai chiamato, piccola Watson?»
 
«Ho detto “papà”…» mormorò la piccola, posando la matita sul tavolo con un'espressione vagamente preoccupata stampata in volto; si chiedeva se avesse detto qualcosa di male, per suscitare quella reazione.
 
«…Oh.» fu tutto quello che il detective riuscì a dire, immerso nei propri pensieri. Doveva ancora elaborare per bene la situazione. Aprì bocca per dire qualcosa, ma l’unico suono che riuscì ad emettere fu un breve sospiro.
 
«Io… non sono il tuo papà, lo sai, vero?»
 
La piccola sembrava perplessa; i suoi occhioni, dello stesso azzurro di quelli di John, si fecere tutto a un tratto pensierosi e si spostarono sul quaderno a quadretti aperto di fronte a lei.
 
«Ma dormi insieme a papà, e mi accompagni a scuola… mi aiuti con i compiti, mi dai il bacio della buona notte…»
 
Il detective prese posto su una sedia accanto a lei, appoggiando i gomiti sul tavolo e unendo le punte delle dita, nella tipica posizione che lo aiutava meglio a riflettere. Aveva bisogno di riflettere.
 
«T-tuttavia, biologicamente…»
 
«La mia maestra dice che i genitori sono quelli che ti crescono.» lo interruppe l’angioletto biondo, stringendosi nelle spalle mentre scarabocchiava distrattamente su una pagina vuota del quaderno.
 
«Sul serio? E questa persona insegna in una scuola?!» protestò l’uomo, abbandonando la sua posizione. «Dovrò parlare con questa maestra, se davvero ha il coraggio di definirsi tale. Non darle retta, Rosie, sarò disposto a darti lezioni private in casa se questo può servire a toglierti dalle mani di certi incompetenti. I genitori sono quelli a cui devi la tua nascita, quelli che generano la vita… ora, pensi che io ti abbia partorita, piccola Watson? Ti do un indizio: non sono provvisto di utero.»
 
Rosie lo guardava con aria sempre più smarrita, pensando tra sé e sé che lo spettacolino di poco prima era decisamente più divertente di quello.
 
«Se vogliamo usare un termine più appropriato, io sono un educatore, in quanto contribuisco alla tua crescita e al tuo sviluppo ment-»
 
Avrebbe potuto portare avanti quell’inutile sproloquio per ore, senza neppure riprendere fiato tra una frase e l’altra, se solo Rosie non fosse scesa da quella sedia per avvicinarsi a lui, stringendo le braccia attorno al busto del suo “papà”, che per tutta risposta si irrigidì completamente smettendo quasi di respirare.
Un discorso tanto ponderato, pieno di tutta quella convinzione, spazzato via in un secondo da un paio di piccole braccia ossute.
 
«…”Papà” andrà bene. D’accordo. O-ora finisci i tuoi compiti.»
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Sorpresa ***


Era stata una dura giornata.
L’assenza di personale in ambulatorio aveva costretto John a trasformarsi in una trottola e occuparsi di molti più pazienti del solito; una tortura tale che, tornando a casa, poteva ancora sentire nomi, cognomi e diagnosi rimbombargli nel cervello.
Promise a sé stesso che avrebbe preso un antidolorifico non appena fosse rientrato nel proprio appartamento, sentendosi però in colpa al pensiero di non poter prestare attenzione a Rosie come avrebbe voluto.
La piccolina gli aveva preparato una sorpresa che, secondo quanto aveva detto, sarebbe stata pronta per quella sera. E lui se la sarebbe persa per colpa di quel mal di testa infernale.
 
Complimenti John Watson, sei il papà dell’anno”, ripeteva tra sé e sé scuotendo la testa; non era certo colpa sua, ma non era la prima volta che dava alla piccola quella giustificazione.
 
Una volta entrato dal portone principale, appena messo piede sul primo gradino, le note di una musica piacevole ma decisamente troppo alta investì le sue povere orecchie.
Probabilmente il suono sembrava amplificato per via di quella maledetta emicrania.
Pensò che Sherlock stesse suonando il violino per la bambina, come faceva spesso negli ultimi tempi, e si sentì ancora più in colpa al pensiero di dovergli chiedere di smettere per qualche ora.
 
Un bravo papà e anche un magnifico fidanzato, sei l’anima della famiglia, davvero.
 
Arrivato in cima alle scale aprì la porta di casa con un sospiro, immaginando di trovare la figlia seduta al tavolo della cucina, intenta a fare i compiti, mentre il consulente investigativo suonava qualcosa per aiutarla a concentrarsi, guardando distrattamente fuori dalla finestra.
Inutile dire che non aveva azzeccato su niente:
 
La musica non proveniva dallo strumento, ma da un registratore, ed era stata preparata precedentemente per l’occasione. Rosie non stava facendo i compiti, era nel bel mezzo del salotto insieme a Sherlock con i piedini scalzi appoggiati sulle sue scarpe, le mani strette nelle sue e lo sguardo rivolto verso il basso, mentre il moro la guidava nei movimenti.
Una lezione di ballo in salotto? Era quello lo spettacolo che Rosie aveva preparato?
 
Un sorriso si fece largo sul volto del dottore, un attimo prima che la figlia si accorgesse della sua presenza e si voltasse verso di lui, un po’ dispiaciuta per essersi fatta trovare ancora impreparata.
Mise subito il broncio, alzando lo sguardo verso Sherlock in attesa che fosse lui a dire qualcosa.
 
«Le ho raccontato di quando ti ho insegnato a ballare per il tuo matrimonio…» mormorò il detective, mostrando un sorriso palesemente forzato per aver toccato quel tasto dolente. «Mi ha chiesto se potessi insegnarlo anche a lei, ma non abbiamo ancora finito.»
 
«Non sono ancora brava.» sbuffò Rosie, andando incontro al papà per avere un abbraccio di conforto.
 
Il mal di testa sembrò essere svanito nel nulla; contro qualsiasi pensiero razionale, da medico qual era, sapeva che per lui quella era la cura immediata per qualsiasi dolore: un abbraccio dalla sua piccola, un bacio dal suo detective, qualche ora trascorsa insieme a loro. Il suo piccolo rifugio dal mondo.
 
«Sei già bravissima invece. Me lo concedi un ballo, principessa?»
 
Rosie annuì timidamente, non era del tutto convinta ma ci teneva a mostrargli quel poco che aveva imparato, e aveva aspettato il suo ritorno solo per quel momento. Non poteva mandare all’aria tante ore di duro lavoro.
 
Tese le braccia verso di lui per permettergli di sorreggerla: stavolta decise di muovere i piedi senza nessun aiuto, ricordando i movimenti di Sherlock e imitandoli a memoria, con  un’espressione incredibilmente seria e concentrata stampata in volto.
John non poté fare a meno di sorridere come un ebete per tutto il tempo, facendo bene attenzione a non pestarle i piedi; ricordava poco del suo ultimo ballo, e si sentiva molto più imbranato di lei.
 
Il detective nel frattempo era sprofondato sulla propria poltrona per gustarsi meglio lo spettacolo, osservando con un certo orgoglio i risultati delle sue lezioni.
 
«Non metterti troppo comodo, tu. Dopo voglio ballare anche con te!» lo avvertì il compagno, tenendo la mano di Rosie per farle fare una piroetta.
Il moro rise sotto i baffi: «Avrei paura per i miei poveri piedi, mi sembri arrugginito.»
La bambina, per nulla infastidita dal fatto che Sherlock stesse rubando l’attenzione del suo papà anche in quel momento, prese per mano il dottore per trascinarlo di fronte a lui: dopo essersi scambiati una rapida occhiata d’intesa, entrambi i papà accolsero la tacita richiesta della piccola:
Sherlock scrollò le spalle, alzandosi in piedi e aiutando il fidanzato a mettere le braccia nella posizione corretta, per poi appoggiare le mani sui suoi fianchi.
 
«Vorrà dire che ricominceremo da capo.»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3661253