Demoni e Catene

di jess803
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sotto il sole dell'Africa ***
Capitolo 2: *** Party in piscina ***
Capitolo 3: *** Traffici notturni ***
Capitolo 4: *** Mezze verità ***
Capitolo 5: *** Sofyane ***
Capitolo 6: *** Fuoco ***
Capitolo 7: *** Confidenze ***
Capitolo 8: *** Fuoco incrociato ***
Capitolo 9: *** Radioactivity ***
Capitolo 10: *** Talpa ***
Capitolo 11: *** Confronti ***
Capitolo 12: *** Scuse ***
Capitolo 13: *** Il mago di Oz ***
Capitolo 14: *** Buio ***
Capitolo 15: *** Una gatta da pelare... a volte. ***
Capitolo 16: *** Giù la maschera ***
Capitolo 17: *** Un futuro migliore ***
Capitolo 18: *** Mai arrendersi ***
Capitolo 19: *** Vilger ***
Capitolo 20: *** Ciao Sofyane ***
Capitolo 21: *** Anime in bilico ***
Capitolo 22: *** Promesse ***



Capitolo 1
*** Sotto il sole dell'Africa ***


1

Era solo una domenica di fine maggio, ma nella ampia tenuta del vecchio il caldo si era già fatto opprimente e l’aria afosa e irrespirabile. L’azzurro del cielo senza nuvole si perdeva nell’orizzonte e il sole, alto e splendente, emanava dei caldi raggi che si riflettevano sull’acqua della piscina e venivano poi rifratti in tutte le direzioni. Il corpulento uomo in abito grigio, seduto a cavalcioni su una sedia bianca, si asciugava freneticamente le gocce di sudore che scendevano dalla fronte. Avrebbe già da un pezzo riposto nell’armadio il costoso vestito grigio topo e la camicia bianca, cuciti su misura per lui da una vecchia sarta italiana, e indossato un ben più comodo e fresco costume a calzoncini, se non fosse stato per la presenza della giovane donna dagli ondulati capelli biondi che, in bikini, sorseggiava un mojito a bordo vasca. Non aveva più il fisico di un tempo; da quando aveva abbandonato la vita attiva per dedicarsi agli affari dietro alla scrivania la pancia era inesorabilmente lievitata e gli anni vissuti tra gli agi e le ricchezze, servito e riverito da stuoli di inservienti, non avevano migliorato di certo la situazione. Consapevole quindi del suo non proprio gradevole aspetto, l'unica cosa che gli restava da fare contro l'opprimente caldo marocchino era cercare riparo sotto all’ombrellone a strisce, sapientemente sistemato dal giovane domestico europeo in opposizione ai raggi solari. Mentre si faceva aria con un vecchio giornale trovato sul tavolo, il fido assistente, seduto accanto a lui, gli comunicava che l'ultimo affare era andato in porto e che il carico era arrivato in perfetto orario a destinazione, nella capitale dello stato indipendente nel nord Africa. 
<< Non hanno avuto problemi a superare la frontiera? >> chiese stupito l'uomo in grigio
<< Qualche piccola rogna con il nuovo ufficiale in comando, ma è bastato fare qualche telefonata al nostro contatto al ministero per avere il via libera. Nessuno ci disturberà più. E' stata una buona idea fare delle prove generali prima di dopodomani signore >> rispose battendo le dita sulla calcolatrice il braccio destro.
<< Io ho sempre della ottime idee Novak. Ad ogni modo, avvisa la squadra giù in cucina che oggi mi terrò sul leggero, fa troppo caldo in questo angolo del mondo per lo stufato di manzo. Ovviamente la mia gradita ospite può mangiare tutto ciò che desidera >> disse, sorridendo bonariamente alla donna in bikini. Quest'ultima si voltò brevemente verso il suo benefattore e, dopo aver ricambiato timidamente il sorriso, tornò a dedicarsi alla sua abbronzatura.
<< Come va sull'altro fronte? >> chiese poi con una certa discrezione il vecchio.
<< Signore, crede sia prudente parlarne qui? Ci sono molti occhi e orecchie indiscrete >> rispose il braccio destro, facendo un discreto cenno al domestico addetto al riposizionamento dell'ombrellone.
<< Bah, quel poveraccio a stento sa pronunciare il suo nome, non c'è alcun pericolo. Parla pure >>
<< Bene signore. Pare che il nostro contatto ci indicherà il luogo e l'ora dello scambio di dopodomani a tempo debito, su quella linea sicura del vostro ufficio >> aggiunse asetticamente l'assistente. Il grosso uomo in grigio sospirò rumorosamente e, con fare pensieroso, scrisse alcune parole negli spazi vuoti di un piccolo cruciverba nella pagina enigmistica del giornale.
<< A cosa sta pensando Capo? >> chiese incuriosito Novak. 
L'uomo scrollò le spalle, << a nulla vecchio mio, a nulla! Su, ora andiamo a mangiare, mi è venuto un certo languorino! E chiama anche la dolce Sherry, non vorrei che tutto quel sole le friggesse il cervello... più di quanto non abbia già fatto madre natura, si intende! >>. 
Novak sorrise e, come da ordini, diede al maggiordomo istruzioni per il pranzo. 
Nonostante si fosse mostrato sereno al collaboratore, il vecchio Aguilar era seriamente preoccupato. Il destino della sua attività e della sua stessa vita dipendevano dall'operazione di Tripoli: se qualcosa fosse andato storto non si sarebbe mai più liberato della stretta dei servizi segreti del vecchio continente e avrebbe dovuto continuare a vivere in clandestinità in quel luogo dimenticato da Dio. Per quanto amasse le calde spiagge di Casablanca, voleva disperatamente ritornare a casa. Dopo essersi messo a tavola in compagnia della nuova giovane conquista, Aguilar prese a fare conversazione con la bella biondina, intenta a sistemarsi i capelli dopo la mattinata trascorsa in piscina.
<< Allora Sherry, ti sei divertita oggi in piscina? >> chiese con un grosso sorriso l'uomo. 
<< Sì, molto. Stare qui è davvero bello! >> fece entusiasta la ragazza, con un portoghese risicato. 
<< Hai bisogno di qualcosa? I camerieri ti trattano bene? >> 
<< Mi trovo benissimo qui con te, tesoro. Vorrei solo che stessi più tempo con me, mi sento sola in questa grande casa. Sei sempre al lavoro! >> disse la ragazza, avvicinandosi con fare seducente al vecchio.
<< Anche a me piacerebbe trascorrere più tempo con te Sherry! Vedrai, dopo che avrò chiuso l'affare di dopodomani avremo i documenti necessari per tornare a Rio de Janeiro e staremo insieme tutto il giorno, tutti i giorni! >> aggiunse il vecchio, che le fece cenno di sedersi sulle sue gambe. 
La ragazza soddisfò la richiesta del suo interlocutore e gli diede un caloroso bacio sulle labbra. Dopodiché si alzò, tornò velocemente al suo posto e riprese a mangiare la sua dietetica insalata. Ogni volta che guardava gli occhioni verdi della ragazza, il vecchio Aguilar diventava sempre più tristemente consapevole di quanto si fosse rammollito nel corso degli anni: aveva trovato la piccola Sherry, sempre se quello era il suo vero nome, qualche mese prima in un vecchio bordello di Béjaia e da allora non se ne era più separato. La ragazza era rimasta orfana dopo la grande guerra e, come tante altre giovani di bell'aspetto prima di lei, aveva trovato vitto e alloggio in uno dei tanti bordelli dello stato indipendente. Sapeva che la bella lucciola non aveva accettato di coricarsi con lui per il suo bell'aspetto o il suo charme, ma ormai era diventato vecchio e tanti anni nel giro del traffico di armi lo avevano convinto che non c'è affetto più profondo di quello comprato col vile denaro.
Conclusi il lauto pasto, il vecchio fu raggiunto da un accigliato Novak, che gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Aguilar si alzò con fare concitato dalla sedia e si diresse nel suo ufficio, piazzandosi davanti al grosso schermo del PC. Dopo aver letto più di una volta le poche righe della mail, il vecchio guardò il suo secondo con aria preoccupata: in tanti anni di attività non gli era mai arrivata una richiesta di armi di quella portata e cominciava seriamente a chiedersi se fosse possibile superare i controlli della frontiera con tutti quei camion al seguito. 
<< Hanno aggiunto all'ordine iniziale ben venti casse >> disse basito Novak << anche noi potremmo avere dei problemi con una tale quantità di roba, signore. Il carico che abbiamo inviato stamattina contava appena quindici casse divise in due rimorchi >>. 
Il vecchio capo rimase a riflettere qualche minuto sulla situazione, con il mento poggiato sul palmo della mano destra. Dopo aver dato una rapida occhiata all'imponente dipinto del monte Corcovado col Cristo Redentore, appeso proprio dietro alla scrivania, disse al giovane braccio destro: << mi chiedo cosa abbia spinto questi signori a cambiare di punto in bianco le loro richieste. Trentacinque casse di fucili semi-automatici non sono uno scherzo >>. 
<< Cosa facciamo quindi? Rinunciamo? Non credo che in magazzino abbiamo scorte sufficienti >>
<< Non dirlo neanche per scherzo Novak! Troveremo il modo di procurarci il resto dell'ordine entro dopodomani o giuro che non mi chiamo Ignacio Aguilar Ternera. E poi, se il nostro acquirente ha rialzato fino a questo punto le sue richieste, significa che ha abbastanza denaro e potere da soddisfare pienamente le nostre. Potrebbe essere davvero la volta buona che ce ne andiamo da questo buco! >>
<< Sta seriamente pensando di tornare in Brasile, vero? >>
<< Certo, è quello che sto tentando di fare da quando è finita quella maledetta guerra >> rispose con un'espressione triste il vecchio Aguilar, ripensando alla sua infanzia in sud America; poi riprese, facendo per uscire dall'ufficio: << bando alle ciance, adesso sappiamo l'ora e il luogo preciso della consegna. Prepara subito il mio jet, dobbiamo partire immediatamente per Béjaia! Quelli della fabbrica dovranno lavorare senza sosta per le prossime 48h o non vedranno un tozzo di pane per due settimane >>. 
<< Vado a parlare col pilota e ci mettiamo subito in marcia signore >> disse Novak, rinfrancato dalla sicurezza del capo.
<< No, andrò solo io. Tu resterai qui ad organizzare turni di sicurezza extra intorno all'ufficio. Domani a causa di quel party avremo troppi estrani in giro. Non possiamo permetterci di far trapelare informazioni sul nostro affare >> disse Aguilar con tono imperioso. Il sottoposto fece umilmente cenno di sì col capo, dopodiché si avviò con fare concitato verso l'hangar, dove il lussuoso jet del vecchio attendeva di essere rimesso in moto.
Ad attenderlo fuori all’ufficio, Aguilar trovò la bella Sherry a sistemarsi i capelli; poi, con aria preoccupata, gli chiese cosa stesse succedendo. 
<< Niente di cui ti debba preoccupare tesoro >> le rispose il vecchio dandole una poderosa stretta sul fondoschiena << dovrò rimanere fuori fino a domani sera per certi affari, ma non ti preoccupare, sarò sicuramente di ritorno per il party >>.
<< Dove vai Ignacio? Posso venire con te? Mi annoio tremendamente quando non ci sei! >> fece con tono lamentoso la ragazza.
<< Devo recarmi urgentemente a Béjaia per certi affari. Mi dispiace, ma non puoi venire con me stavolta; però ti prometto che ti porterò un bel vestito per domani sera, ok? Voglio che la mia principessa sia la più bella di tutte >> rispose con tono affettuoso il vecchio. Il viso della giovane si illuminò davanti alle parole del protettore e, dopo averlo salutato calorosamente, si diresse nuovamente verso la piscina. Aguilar diede un ultimo sguardo alla sua protetta e, preso lo stretto necessario per la notte, partì alla volta di Béjaia. 
La ragazza si allontanò immediatamente dalla piscina dopo aver udito il jet levarsi in cielo e, guardando preoccupata l'orologio da polso, si precipitò nella sua camera. Dopo essersi assicurata di aver chiuso la porta a chiave in doppia mandata e aver aperto tutti i rubinetti del bagno, tirò fuori da una scatola di scarpe un piccolo dispositivo rotondo della forma di un portacipria, lo avviò premendo un piccolo tasto sulla sommità e lo posizionò sul pavimento. Si tolse rapidamente la pruriginosa parrucca bionda, mostrando la testa rasata su un lato e il ciuffo di capelli castani sull'altro che, coprendole la fronte, cadeva sull'occhio destro. Dopo qualche minuto di attesa, dal dispositivo, che riempiva a stento il palmo della sua mano, spuntò un display, su cui comparve l'immagine di due uomini in divisa: uno più anziano con i capelli brizzolati e gli occhi azzurri e l'altro con i capelli ricci e neri.  << Ci ricevi bene Pifferaio? >> disse parlando ad un microfono il giovane. 
<< Forte e chiaro Ben >> rispose con aria sicura la donna. 
Il più anziano dei due prese il posto dell'altro davanti alla cam e disse: << Pifferaio che novità ci sono da Casablanca? >>. 
<< Ho una notizia buona e una cattiva, Capitano. La buona notizia è che finalmente il nostro uomo ha fornito al vecchio Aguilar le specifiche dell'ora e del luogo dello compravendita. La brutta notizia è che le ha mandate direttamente al PC del suo ufficio, su una linea sicura. Purtroppo da dietro alla blindata non sono riuscita a sentire una sola parola di quello che si sono detti il vecchio e Novak. L'unico modo che ho per scoprire ore e luogo dello scambio è entrare nello studio e leggere direttamente quell'e-mail >> disse con fermezza la donna.
<< Non è un grosso problema Pifferaio. Dovrai solo collegare il trasmettitore a lunga distanza al PC dello studio e, una volta che avrò fatto breccia nell'account del vecchio, scaricare le informazione contenute nella mail su una penna USB >> disse con disinvoltura il ragazzo dai capelli ricci.
<< Il problema non è hackerare l'account di Aguilar, ma è entrare nel suo ufficio. A causa del party che darà domani sera il vecchio ha deciso di triplicare la sicurezza; deve esserci qualcosa di grosso sotto. Tutte le informazioni che ho raccolto sugli orari dei turni delle guardie, i punti ciechi delle telecamere e il codice per aprire la blindata potrebbero essere totalmente inutili. Per farla breve: abbiamo bisogno di un nuovo piano >> rispose con cinica lucidità la donna. 
Il capitano Huber batté forte il pugno sul tavolo di metallo, facendo traballare la cam e l’immagine che la ragazza vedeva sullo schermo. La situazione si stava facendo davvero complicata: la missione da cui dipendeva l'esito del loro duro lavoro, durato ben due anni, poteva fallire miseramente a causa di una festa. Dopo qualche minuto di silenzio, il capitano si posizionò nuovamente davanti alla microcamera, si aggiustò la cravatta dell'elegante divisa blu e disse alla sottoposta: << Ora ascoltami bene Hadiya >>. 

Il capitano Huber era un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati e il profilo importante, originario della Sassonia. Era ormai da anni a capo della sezione Affari esteri dei servizi segreti delle Confederazione ed era un profondo estimatore del rispetto delle regole e del protocollo. La posizione che occupava nel dipartimento del ministero della difesa richiedeva una ferrea disciplina e nervi saldi e Hadiya lo sapeva bene. Il loro rapporto, infatti, andava ben oltre una semplice relazione lavorativa. Da quando i suoi genitori erano rimasti uccisi in una missione durante la grande guerra aveva potuto contare solo sul suo mentore, che le aveva fatto sia da madre che da padre. Per questo motivo, un brivido le corse lungo la schiena quando sentì l'uomo pronunciare il suo vero nome durante una missione; significava che le stava per chiedere di fare qualcosa di davvero pericoloso, più dell'infiltrarsi nella casa di uno dei più grossi trafficanti d'armi del nord-Africa.

Quella notte, infatti, Hadiya fu chiamata a concludere una delle missioni più pericolose della sua carriera: senza alcuna informazione precisa sui turni delle guardie, le disposizioni delle telecamere a circuito chiuso e il codice d'accesso della blindata, avrebbe dovuto irrompere nell'ufficio di Aguilar e scoprire il contenuto dell’e-mail arrivata nel pomeriggio. L'operazione doveva necessariamente avere luogo quella notte. Non c'era tempo per studiare le nuove disposizioni di Novak; il giorno successivo, infatti, la casa sarebbe stata invasa da ministri ed esponenti di spicco del governo nord africano, una circostanza in cui sarebbe stato ancora più difficile avere successo. Ma alla donna non piaceva improvvisare: se c'era qualcosa che aveva imparato durante tutti gli anni di lavoro al fianco del capitano Huber, era che una missione poteva avere successo solo se preceduta da una adeguata raccolta di informazioni e da una maniacale cura dei dettagli; ma l'unica informazione su cui poteva contare quella afosa notte di maggio, era che aveva sette minuti. Esattamente sette minuti per percorrere il corridoio centrale, scoprire il nuovo codice della blindata, entrare nell'ufficio di Ignacio Aguilar, permettere al capo della squadra informatica Ben McIntyre di entrare nell'account protetto dell'uomo e trasferire le informazioni su una penna USB. Sette minuti, il tempo che il grassone della sicurezza avrebbe probabilmente impiegato per fumare la sua Chesterfield rossa di contrabbando, lasciando vuota la postazione di controllo degli schermi delle TVCC . Sette minuti, un lasso di tempo in cui molti non riescono nemmeno a vestirsi al mattino.
Sistemata la parrucca bionda e il sexy completino da notte che le aveva regalato qualche settimana prima il vecchio Aguilar, la ragazza si recò in cucina per prendere un bicchiere d'acqua, portandosi dietro una piccola borsa da trucco. Dalla grossa vetrata della parete est della stanza, che immetteva direttamente nel cortile della piscina, Hadiya scorse l'uomo della sicurezza avviarsi verso il gazebo di legno a sud, con la sua Chesterfield tra le mani. Data una fugace occhiata all'orologio da polso che segnava 1:34 e fatto partire il conto alla rovescia, la donna si precipitò nel corridoio centrale della casa, raggiungendo in appena 24 secondi e 3 decimi la porta blindata dell'ufficio. Estrasse dalla pochette un pennellino da trucco nero, lo immerse all'interno di in un contenitore con una strana polverina bianca e la cosparse sui tasti della blindata. "I tasti più pigiati sono quello del 7, del 4, del 1 e del 3. In particolare quello del 3. Forse lo ripete due volte" pensò la donna, che nel frattempo aveva già attaccato uno dei marchingegni forniti da Ben sopra alla pulsantiera della serratura. "Ora prova tutte le combinazioni possibili di cinque numeri che contengono queste quattro cifre" pensò fra sé e sé, mentre settava il dispositivo. Dopo 2 minuti e 17 secondi, il dispositivo aveva trovato la combinazione esatta tra le migliaia possibili: 17343. La ragazza trattenne il fiato e, dopo aver esitato un istante, provò ad abbassare la maniglia della porta. "Luce verde, è fatta". Superata la soglia dell'ufficio di Aguilar, diede un ulteriore sguardo al cronometro: 4 minuti e 13 secondi rimanenti. Hadiya fece scivolare i pannelli dell’unità centrale del computer lungo i binari sottostanti, individuò la scheda madre e la collegò al trasmettitore a distanza. La donna sentì la voce di Ben attraverso la ricetrasmittente: << sono connesso al PC, ora cerco di entrare nell'account protetto del vecchio. Tu nel frattempo inserisci la penna USB >>. 
Appena Hadiya inserì la penna nella porta USB, sentì dei passi provenire dal fondo del corridoio. Quello era uno di quei momenti in cui le mani dovevano lavorare più velocemente del cervello: senza neanche pensarci un attimo, la ragazza rimise al proprio posto il pannello del computer, infilò la ricetrasmittente nel borsello e si fermò a guardare il dipinto del Cristo Redentore alle spalle della scrivania. Il respiro profondo e affannoso della donna veniva a malapena coperto dai sonori bip dei tasti pigiati sulla mascherina della blindata, quando la porta si aprì e la testa di Novak si fece spazio nella stanza. 
<< Che diavolo ci fai tu qui? E come hai fatto ad entrare? >> le chiese l'uomo, pallido come un cencio. 
<< Ho trovato la porta aperta e sono entrata per ammirare il dipinto del mio caro >> disse sorridendo Sherry. 
<< Com'è possibile che la porta fosse aperta? Nessuno conosce la combinazione eccetto me! >>.
Novak le si avvicinò con delle ampie falcate e la prese per il polso, stringendola talmente forte da metterla in ginocchio e farla cadere a terra. 
<< Mi stai facendo male! Lasciami! >> urlò la giovane con le lacrime agli occhi, << c'era qualcosa incastrato tra lo stipite e la porta che la teneva aperta, credo fosse una mentina >>. 
La ragazza indicò il contenitore di vetro pieno fino all'orlo di mentine che si trovava sulla scrivania del vecchio. Novak, non convinto dalla assurda storia che la donna gli aveva raccontato, la osservò con aria truce per un tempo che le sembrò infinito. I lunghi capelli ondulati, lo sguardo innocente e gli occhi arrossati dal pianto, insieme alla figura esile e indifesa, lo convinsero della bontà delle sue intenzioni; del resto, quella donna aveva dato più volta prova della sua incorreggibile stupidità nel corso del tempo, non poteva essere una vera minaccia. Allentò la presa e la aiutò a rimettersi in piedi, non prima di aver pensato in quante lingue avrebbe minacciato il grassone della sicurezza di tagliargli lo stipendio se non avesse fatto più attenzione in futuro.
<< Che ci fai sveglia a quest'ora? >> chiese poi con tono imperioso. 
<< Ero in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Ho ritrovato la mia pochette del trucco in salone, deve averla spostata una delle domestiche >> rispose prontamente Hadiya, mostrando sorridente il contenitore scuro. Novak roteò gli occhi verso l’alto, stanco di tutte le assurdità cui era stato testimone quella giornata, e la mandò via, ordinandole di non mettere mai più piede nell'ufficio di Aguilar in sua assenza. La donna si asciugò le lacrime e, messo a posto il suo completino, tornò velocemente nella sua stanza. 
<< Ci è mancato davvero poco stavolta >> disse tirando un grosso sospiro di sollievo ai colleghi dall'altra parte della trasmittente, << cosa facciamo ora? >>.

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Capitolo 2
*** Party in piscina ***


2


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Quella sera la sontuosa villa di Ignacio Aguilar era popolata da illustrissimi ospiti. Tutte le più alte cariche dello stato nord-africano e della borghesia industriale erano state invitate al party in piscina del vecchio brasiliano, a godere della compagnia di belle e giovane donne provenienti dai bordelli di mezza Casablanca, di un’ampia scelta di champagne pregiato e di esotici stupefacenti . Nonostante non fosse l’unica donna presente al party in veste di invitata e non di accompagnatrice, la bella Sherry spiccava per la sua eleganza e raffinatezza; a vederla quella sera, nessuno dei presenti avrebbe mai detto di trovarsi davanti ad una piccola orfana cresciuta in una casa di piaceri di Béjaia o meglio, in una super segreta base militare localizzata in un sottomarino in continuo movimento nel Mediterraneo. Il lungo vestito color smeraldo impreziosito da perline e cristalli sul petto, faceva risaltare la sua carnagione chiara e i profondi occhi verdi. Forse la parrucca bionda da pin-up stonava un po’ con il resto, ma non era certo lì quella sera per delle vanterie. Hadiya sapeva bene di avere ancor meno speranze della sera precedente di recuperare le informazioni dal computer di Aguilar, ma non aveva altra scelta. Dopo essersi intrattenuta con degli uomini del ministero delle finanze presentatigli dal vecchio e aver bevuto qualche sorso di champagne, la donna si diresse verso la dispensa, affollata dagli uomini del catering che stavano preparando i piatti per il buffet.
<< Qualcuno sa dove posso trovare una soda? >> chiese Hadiya a voce alta.
Un bel biondino sorridente si girò verso di lei e le rispose: << Niente soda stasera, solo Martini per le belle donne >>. L’espressione gentile dell’agente speciale si fece improvvisamente scura; prese il tizio per un braccio e lo portò leggermente in disparte, accanto allo stanzino delle scope.
<< Chi diavolo sei tu? Dov’è Eeki? >> gli chiese a voce bassa ma decisa.
<< Calmati Sherry! La tua solita partner era indisposta, sono stato inviato io al posto suo >> rispose con tono pacato e garbato l’altro.
<< Non mi è stato detto nulla dal quartier generale, cosa mi dovrebbe fermare ora dal prenderti alle spalle e spezzarti il collo? >> disse l’agente digrignando i denti, mentre teneva l’uomo per la cravatta della divisa da cameriere.
<< Non saprei, ma forse il fatto che ho il capitano Huber in linea che aspetta di fornirti spiegazioni potrebbe essere una buona motivazione >> fece il tizio con un sorriso beffardo, porgendole una mini ricetrasmittente.
La donna prese bruscamente la trasmittente dalle sue mani e lo porse all’orecchio. La voce del capitano Huber, dall’inconfondibile raucedine e marcato accento tedesco, le confermarono la storia raccontata dal ragazzo: << è arrivato qualche giorno fa insieme al Generale Marchand, pare sia il suo protetto >>.
<< Il generale Marchand? Il braccio destro del ministro della guerra? Perché si trova alla nostra base? >> bisbigliò Hadiya, dopo essersi allontanata dall’uomo biondo.
<< L’affare che abbiamo tra le mani interessa a più di una persona dei piani alti a quanto pare. Ad ogni modo, non credo siano arrivati per darci rogne, ma è meglio tenere gli occhi aperti fino a che non sapremo di più su questa improvvisa ingerenza >> disse con circospezione il capitano << ora torna dal tuo contatto e mettetevi immediatamente al lavoro >>.
Hadiya si girò di nuovo verso l’uomo e lo studiò da cima a fondo: aveva circa trent’anni ed era alto non più di 180 cm; i capelli erano biondi, gli occhi scuri e la barba non curata, di quattro o cinque giorni al massimo. Non sembrava particolarmente esperto, né tantomeno dotato di un’intelligenza fuori dal comune. Se avesse dovuto descriverlo in una sola parola, avrebbe detto “ordinario”.
Dismessi i panni della vecchia spia e restituita la trasmittente al collega, Hadiya si calò nuovamente nella parte della giovane Sherry, si aggiustò rapidamente il vestito e si diresse verso la piscina, facendo cenno all’uomo di seguirla a debita distanza. In mezzo ai gozzovigli dei presenti, divisi tra alcol, donne e oppio, l’agente speciale prese un sigaro dal tavolo cubano e lo accese con fare da grande donna. Il cameriere biondino passò accanto a lei dopo qualche secondo, lanciando discretamente una piccola pallina grigia ai piedi del tavolo, sulla tovaglia bianca; l’accendino per il sigaro scivolò provvidenzialmente dalle dita della povera Sherry, persa tra i fumi dell’oppio, o almeno, questo era quello che i presenti dovevano credere, finendo proprio sulla pallina grigia. Un’enorme lingua di fuoco avvolse la tovaglia bianca e il tavolo, mettendo in agitazione tutti i presenti. Nel caos che si scatenò in seguito allo scoppio dell’incendio, le due spie si diressero discretamente verso la stanza della sorveglianza TVCC.
<< E’ scoppiato un incendio, c’è bisogno di aiuto in piscina! >> urlò qualcuno dall’esterno della stanza <>. All’udire le grida provenienti dal corridoio, il grasso uomo della sorveglianza, tirandosi su i pantaloni consumati, si precipitò verso la piscina, lasciando la stanza incustodita. Il biondino rimase di guardia alla porta, mentre Hadiya, seguendo le istruzioni di Ben, manometteva il sistema delle telecamere a circuito chiuso. Dopo qualche minuto, il finto cameriere si avviò verso il corridoio dello studio e qui, gesticolando vistosamente nella direzione della telecamera, chiese alla collega dall’altra parte della trasmittente: << sono qui, riesci a vedermi? >>.
<< No, non ti vedo >> rispose con un pizzico di gioia Hadiya, guardando lo schermo in alto a sinistra che continuava a mostrare in loop l’immagine del corridoio deserto. Risolto il problema delle telecamere a circuito chiuso, Pifferaio raggiunse velocemente e discretamente il collega alla porta dello studio di Aguilar, approfittando dello scompiglio creato dal fuoco al tavolo cubano per passare inosservata.
<< Io sono Kieren, comunque. Kieren Cox >> le disse il tipo biondo tendendole la mano. Hadiya fece un breve cenno col capo e si mise immediatamente al lavoro, senza presentarsi a sua volta. L’uomo, imbarazzato, ritrasse la mano e la infilò nella tasca bucata della divisa, poi disse sottovoce, tra sé e sé: << un tipo socievole, eh? >>.
La donna fece finta di non sentire, << tu resta di guardia all’angolo del corridoio, io entro e recupero i dati >>.
L’agente speciale non poteva utilizzare di nuovo il trucco della sera precedente: il codice era stato sicuramente cambiato da Novak dopo aver trovato l’innocente Sherry nell’ufficio e non c’erano abbastanza residui organici sui tasti delle nuove cifre per poterli individuare con la polvere. Per questo motivo, la donna dovette aspettare più di qualche minuto prima che il decodificatore di Ben trovasse la nuova combinazione; una cosa era trovare tutte le combinazioni possibili di cinque numeri, un’altra era trovare quelle di nove numeri. Dal silenzio relativo che proveniva dalla piscina, Hadiya aveva capito che il fuoco era stato quasi domato e che lei e il novellino avevano ancora pochi minuti prima che qualcuno della sicurezza passasse per il corridoio centrale. Individuata la nuova combinazione e varcata la soglia dello studio, Pifferaio riprese il lavoro che aveva lasciato in sospeso la notte prima. Mentre Ben cercava di infiltrarsi nell’account di posta del vecchio, Hadiya diede un’occhiata agli altri file sul PC, notando che le attività losche di Aguilar, nonostante la sua veneranda età, fossero più floride che mai. Dopo qualche minuto, l’agente ebbe accesso alla mail del misterioso acquirente di armi: finalmente avrebbero potuto scoprire la data e il luogo dello scambio; ma la gioia della donna per il successo appena ottenuto, si dissolse come neve al sole appena ebbe modo di leggere attentamente il contenuto della mail.
<< Passami immediatamente il capo >> disse con spietata lucidità all’informatico.
<< Sono Huber, siamo tutti in collegamento dalla sala delle riunioni. Parla pure Pifferaio >>.
<< Capitano, ho appena letto la mail che ha ricevuto Aguilar dal compratore. La faccenda è molto più grave di quanto credessimo >>.
<< Che cosa intendi dire? Parla, per l’amor di Dio! >> disse Huber a voce alta.
<< Chiunque sia il nostro uomo, ha abbastanza denaro e potere da comprare trentacinque casse di fucili semi-automatici, granate, mitra e varie altre armi di piccolo calibro. Potrebbe esserci un’ecatombe se questa consegna avesse luogo. Adesso ci spieghiamo anche l’agitazione di Novak dell’altro giorno >> rispose la donna, scorrendo l’infinita lista di richieste avanzate dall’uomo misterioso.
Tutti i presenti nella asettica sala riunioni piombarono in un silenzio eloquente. Le informazioni che aveva fornito l’agente speciale erano quanto di peggio ci si potesse aspettare; mai come in quel momento, era diventato indispensabile per l’Agenzia risalire all’identità acquirente e assicurarlo alla giustizia.
Dopo aver comunicato le informazioni principali su luogo e ora della compravendita, Hadiya si avviò a passo svelto verso l’uscita, intenta a lasciare per sempre quell’ufficio senza mai più rientrarvi. Cox la scavalcò prima che ella potesse chiudersi la porta alle spalle e, dopo aver armeggiato un po’ al PC, vi inserì una piccola penna usb.
<< Che diavolo pensi di fare? >> gli chiese lei con aria stupita, << la missione è finita, dobbiamo andarcene da qui al più presto >>.
<< Voglio scaricare anche le informazioni sugli altri clienti di Aguilar. Ci vorrà solo un attimo >> rispose lui pieno di soddisfazione.
<< Sei impazzito? Non abbiamo tempo per questo, il nostro piano è già pieno di rischi così com’è. Una missione deve essere studiata in ogni minimo dettaglio, non possiamo improvvisare! >> tuonò lei, con le guance che diventavano rosse dalla rabbia.
<< Riflettici! Con queste informazioni finalmente potremo far pagare a quell’uomo e ai suoi clienti tutti i loro crimini. Non possiamo lasciarci sfuggire quest’occasione! >>.
<< Non è compito tuo decidere cosa fare o non fare! Io ti ammazzo bastardo, giuro che ti ammazzo! Sempre se non ci ammazzano prima loro! Smettila subito! >>.
<< Senti Pifferaio, non so come tu sia stata abituata dai partner che hai avuto prima, ma con me non funziona. Non puoi darmi ordini, solo il Generale Marchand può, quindi smettila di dare in escandescenze perché so quello che faccio. Se non vuoi collaborare qui, almeno mettiti di guardia all’uscita e avvisami se passa qualcuno >> disse Kieren, chiudendo ogni possibilità di replica.
Hadiya strinse forte i denti e sospirò rumorosamente, trattenendosi a malapena dal mollare un ceffone al collega; dopodiché, recuperate lucidità e fermezza, si diresse verso la porta, pregando fra sé e sé che tutto andasse per il meglio.
Quando dal fondo del corridoio cominciò a venire fuori il rumore di lenti e pesanti passi, Hadiya mise immediatamente in allarme il collega. << Sta arrivando qualcuno. Sbrigati a finire quello che stai facendo, ché non saprei proprio come giustificare la presenza mia e di un cameriere nello studio di Aguilar >> gli disse a voce bassa, attraverso la trasmittente. Cox ignorò le sue parole e continuò a scaricare i dati sulla penna.
<< Per l’amor di Dio, quanto tempo ti ci vuole ancora? >> riprese la donna con maggiore concitazione, sempre più preoccupata dai passi che si avvicinavano.
<< Se la smettessi di parlare farei più in fretta >> rispose con tutta calma l’uomo.
<< Non abbiamo più tempo ormai! >> tuonò Pifferaio.
Il rumore di passi si fece sempre più chiaro e distinto, fino a quando qualcuno svoltò l’angolo e la trovò lì, immobile e col vestito sgualcito, a poca distanza dall’ufficio del Capo. Hadiya lo riconobbe subito: era il capo degli uomini della sicurezza di Aguilar.
<< Che ci fa lei qui? >> chiese con aria interrogativa l’omone.
<< Sono andata in bagno ad incipriarmi il naso >> rispose lei spostandosi dolcemente i capelli biondi dietro all’orecchio.
<< Il suo bagno non è dall’altra parte della tenuta? >> chiese guardingo e sospettoso l’uomo.
<< Questo in fondo al corridoio era più vicino, mi scappava troppo >> rispose l’agente, fingendo un leggero imbarazzo per aver parlato dei suoi bisogni.
Proprio quando sembrava che il tipo della sicurezza si fosse lasciato convincere dagli occhioni dolci di Sherry e si fosse allontanato, facendo tirare per un attimo un sospiro di sollievo ad Hadiya, l’omone lanciò un’occhiata verso la porta dell’ufficio di Aguilar. Era semi aperta.
<< Che cazzo sta succedendo qui? >> tuonò, tentando di prendere la sua trasmittente per ordinare al resto dei suoi uomini di raggiungerlo. Hadiya non poteva assolutamente permetterlo e messa alle strette, si sentì obbligata a fare ciò che detestava di più: agire d’istinto. Prese l’uomo di spalle e lo tramortì con forte colpo alla testa, trascinandolo poi lungo il corridoio fino all’interno dello studio.
Alla vista dell’uomo semi-incosciente, gli si gelò il sangue nelle vene. Cox si passò agitatamente le mani fra i biondi capelli e le disse: << Che ci fa quello lì? >>.
La donna lo prese per il collo e lo sbatté violentemente contro il muro, impedendogli di respirare.
<< Brutto bastardo! Hai anche il coraggio di chiedere cosa ci fa quello lì? Ti avevo avvisato che stava arrivando qualcuno, ma tu mi hai deliberatamente ignorato >> disse l’altra con gli occhi iniettati di sangue. Un piccolo bip proveniente dalla penna avvisò i due che finalmente il download dei dati era completato. Cox, ancora stretto in faccia al muro, con i piedi sospesi per aria e il viso rosso, indicò il PC, strabuzzando gli occhi. La collega lo rimise lentamente a terra e lui, dopo aver ripreso aria, si avventò sulla penna, mettendosela in tasca; poi uscì dalla stanza come se nulla fosse. Hadiya lo tirò per il colletto della camicia e lo sbattè nuovamente in faccia al muro.
<< Dove pensi di andare? Questo pacco regalo lo vuoi lasciare qui, per caso? >> disse sarcastica, indicando il tizio della sicurezza.
<< Che problema c’è? Ormai abbiamo tutto quello ci serve! Al massimo nascondiamolo da qualche parte e andiamocene alla svelta. Abbiamo tutto il tempo di tornare alla base >> rispose scrollando le spalle il collega.
Hadiya si massaggiò le tempie con le dita della mano socchiudendo gli occhi. Guardò l’omone della sicurezza con attenzione, rimuginò per un attimo, poi gli diede una forte botta in testa con il calcio della sua stessa pistola, lasciandogli uscire un rigagnolo di sangue dal sopracciglio; l’uomo perse conoscenza.
<< Non possiamo lasciarlo qui e fuggire. Quest’uomo è il capo della sicurezza della casa, risponde direttamente a Novak. La sua assenza verrà immediatamente notata e quando lo ritroveranno mezzo tramortito e legato come un salame, non ci metteranno molto a fare due più due. Aguilar capirà che il suo sistema di sicurezza è stato violato e sposterà la data e il luogo dello scambio col nostro uomo per non essere beccato dall’Agenzia o, peggio ancora, rinuncerà definitivamente all’affare >> disse lei a voce bassa, scandendo bene ogni singola parola << a quel punto avremmo gettato alle ortiche una complicatissima operazione durata due anni >>.
Il viso di Cox si rabbuiò. Per quanto odiasse ammetterlo, Pifferaio aveva ragione, non sarebbero usciti facilmente da quella situazione e se la missione fosse andata in fumo sarebbe stata solo colpa sua e della sua testardaggine. L’unica cosa che poteva fare ora, era fare ammenda per la sua scelleratezza. Chiese scusa sommessamente alla collega e le chiese le nuove disposizioni.
Dopo essersi spremuta le meningi e aver girato per un po’ in tondo sul tappeto persiano color porpora dello studio di Aguilar, Hadiya pensò che la prima cosa da fare fosse uscire da quel’ufficio e trovare un luogo tranquillo in cui riflettere. L’unico posto che le venne in mente in cui non sarebbero stati visti e sentiti dagli ospiti, era l’hangar del vecchio, il cui accesso era a poca distanza dallo studio. Prese le dovute precauzioni e assicuratisi che nessuno fosse in giro, i due agenti si portarono all’interno dell’hangar, trascinando con sé, ancora privo di sensi, il capo della sicurezza, immobilizzato con mezzi di fortuna.
<< Che facciamo ora? >> chiese annaspando Cox; non era stata esattamente una passeggiata trasportare a peso morto un uomo di 100 Kg sulle spalle.
Hadiya gli fece segno di rimanere in silenzio e, dopo aver frugato tra le tasche dell’omone, gli prese il portafogli di pelle nero. La donna diede una rapida occhiata al suo contenuto: circa 50 euro in varie valute, qualche spicciolo nel porta monete, una targa di riconoscimento con nome e indirizzo di casa e la foto ingiallita di due bambine di circa sei e tre anni. Rimesso apposto il portafogli nella tasca della giacca, la donna si strappò un pezzo del costoso vestito portatole quel pomeriggio da Aguilar e lo usò come bavaglio per l’ostaggio, dopodiché gli diede un forte schiaffo nel tentativo di farlo risvegliare. Quando l’uomo riprese conoscenza, si ritrovò con una pistola con silenziatore puntata alla tempia e la donna del capo davanti agli occhi.
<< Bentornato tra noi! >> gli disse Hadiya con voce fredda ed espressione spietata. L’uomo emise dei mugolii indistinti e cercò in qualche modo di slegarsi dalla sedia, invano.
<< Dunque, caro Saleem, a causa di una serie di sfortunate e imbarazzanti circostanze, i nostri destini si sono incrociati. Vedi, io avrei evitato volentieri questa seccatura; avrei voluto semplicemente prendere ciò che mi serviva e sparire per sempre da questa casa senza lasciare tracce… ed è ancora quello che voglio, in realtà. Il fatto è che sarebbe piuttosto spiacevole lasciarmi qualche vittima alle spalle, mentre esco dalla porta di servizio. Mi stai ascoltando, Saleem? >>. L’uomo ancora frastornato fece un leggero cenno di assenso col capo.
<< Bene, mi fa piacere. Ascoltami bene ora, Saleem al Zarkhawi. Tutto ciò che dovrai fare adesso per uscire da questa stanza sulle tue gambe, è fare finta di non averci mai visti. Mi hai capito? >> chiese con un’inquietante fermezza quella che all’apparenza sembrava una normale ragazzina sulla metà dei venti. L’uomo farfugliò ancora qualcosa attraverso il lembo di tessuto che aveva tra i denti.
La donna fece cenno al compare di togliergli il bavaglio, così la guardia rispose: << appena metterete piede fuori da questo hangar vi lancerò contro tutti i miei uomini e la polizia, fosse l’ultima cosa che faccio >>. Hadiya era in piedi davanti all’uomo con una mano sul fianco destro e la gamba sinistra puntata in avanti; dopo aver udito la misera minaccia dell’uomo, roteò gli occhi verso l’alto, fece un profondo sbuffo e borbottò qualcosa di incomprensibile tra sé e sé.
<< Lo sapevo che saremo arrivati a questo punto Saleem. Si arriva sempre a questo punto con quelli come te >> disse poi con un sorriso da far raggelare il sangue. D’improvviso, con un’espressione truce, diede all’uomo un pugno nello stomaco, << non volevo arrivare a tanto Saleem, ma mi ci stai costringendo. Sai perché dovresti proprio ascoltare le mie richieste? Lo sai? >>. L’uomo ignorò le sue parole e si beccò un calcio sugli stinchi.
<< Va bene, dato che non lo sai te lo dico io. Sarebbe un vero peccato se quelle due belle bambine dovessero svegliarsi domattina senza un braccio o una gamba… o peggio ancora, se domani mattina non dovessero svegliarsi e basta >> disse la finta bionda, sventolando la foto delle figlie sotto al naso dell’uomo. Lo sguardo di Saleem si fece cupo. << Basterà una sola parola all’uomo che sta dall’altro capo di questa ricetrasmittente e le tue dolci figliolette potrebbero essere rapite, vendute a qualche bordello o, se mi gira così, ammazzate a sangue freddo. E non credo che tu abbia voglia di provare che quello che sto dicendo sia vero, giusto? >>.
L’uomo abbassò gli occhi sconsolato, poi annuì.
<< Lo sapevo che avremmo trovato un accordo! Adesso tu ti metti in contatto con Novak tramite la tua radiolina e gli comunichi che stai tornando a casa per un’urgenza, che so, che ti sei ustionato nel tentativo di domare l'incendio, dopodiché il mio amico ti porterà con sé e ti rilascerà al massimo domani notte, quando saremo già spariti. Vedi di non fare scherzi ed essere convincente o la testa delle tue figlie salterà in aria, parola mia >>. Avvicinata la radiolina alla bocca dell’uomo, Saleem ripeté a Novak esattamente ciò che la sua carceriera gli aveva detto. Il braccio destro di Aguilar rimase un attimo interdetto, ma credette alla storia dell’altro e gli raccomandò di tornare appena possibile.
Conclusa la faccenda con la guardia, Hadiya prese Cox da parte, gli diede la chiavetta con le informazioni e disse a voce bassa: << adesso prendi quell’uomo e sparisci da questa casa prima che qualcuno ci scopra. Recupera la tua auto, dirigiti senza fermarti alla periferia della città, uccidi il nostro amico Saleem e torna subito alla base. Io devo restare qui per non far insospettire Aguilar >>.
Kieren sudò freddo davanti alla spietata richiesta della collega e dopo aver deglutito rumorosamente, disse: << C-come uccidilo? Ha già detto che non parlerà no? Perché lo devo uccidere? >>.
<< Sei un ingenuo se credi che quel tipo non avviserà la polizia appena tornato a casa e assicuratosi che le figlie sono al sicuro. Non possiamo correre questo rischio, devi eliminarlo >> rispose tagliente la donna.
<< Ma… ma sono sicuro che c’è un’alternativa… deve esserci un’alternativa! >>.
<< Non c’è alcuna alternativa. E’ triste da dire, ma certe cose devono essere fatte e basta, è il protocollo. Per stasera l’abbiamo già ignorato abbastanza >>.
Kieren strinse forte i pugni, al punto da farsi male alle nocche, poi con fermezza disse: << non credo di poterlo fare, mi dispiace. Lo terrò rinchiuso da qualche parte fino a domani notte e, a scambio avvenuto, lo lascerò andare >>.
<< Sei più stupido di quanto avessi pensato all’inizio >> disse con freddezza l’altra, che fece per uscire dall’Hangar.
Tutt’ad un tratto, con la destrezza di una gazzella, si girò nuovamente verso il biondo, gli prese la pistola dalle mani e sparò un colpo netto alla tempia di Saleem. Cox rimase immobile per qualche secondo, con la bocca spalancata e lo sguardo fisso nel vuoto.
<< Non posso permettere che vada di nuovo storto qualcosa a causa sua >> disse con durezza Hadiya.
La collera dell’altro esplose come una bomba ad orologeria. << Tu! Sei un mostro! Come hai potuto? Potevamo risparmiarlo! Potevamo farlo tornare dalle sue figlie! Non ti dispiace neanche un po’ per quelle due creature innocenti? >> urlò con tutta l’aria che aveva nei polmoni Cox.
Pifferaio gli corse incontro e gli premette forte la mano sulla bocca: << sei impazzito? Vuoi che ci scoprano tutti? Non ho vissuto tutto questo tempo con quel verme per veder bruciare tutti i miei sforzi a causa di una leggerezza simile >>.
Kieren scosse la testa, in visibile stato di shock << la vita di un uomo innocente è una leggerezza per te? >>.
Hadiya sbuffò, gli si avvicinò lentamente e gli disse: << Sono due anni che lavoro in questo paese e sono quasi quattro mesi che sono sotto copertura in casa di Aguilar. Ne ho viste di cose, io; ne ho viste troppe, tante. L’ho visto passare bustarelle ai più alti esponenti della politica locale per ottenere appalti illeciti e sfruttare la manodopera dei poveracci nelle sue fabbriche di armi. L’ho visto torturare fino alla morte degli innocenti ragazzini solo per estorcere loro informazioni sui signori della droga rivali. Ho visto centinaia di ragazzine minorenni essere sfruttate per soddisfare gli appetiti sessuali dei suoi alleati. L’ho visto uccidere padri e madri di famiglia solo perché non gli avevano pagato gli interessi su somme irrisorie. A lui… che se volesse potrebbe fare il bagno nel denaro tutti i giorni. L’ho visto fornire armi agli estremisti del Qatar, che a loro volta hanno ucciso centinaia di persone innocenti semplicemente perché quella mattina avevano deciso di andare al mercato a fare la spesa. Tu forse non lo sai, ma è a causa di gente come Aguilar se questa parte di mondo fa schifo. Di Aguilar e di tutti coloro che lo difendono, coloro che vedono cosa succede in queste quattro mura e non si ribellano, di coloro che sanno e tacciono, di coloro che accettano i suoi soldi sporchi. Quindi sì, mi dispiace per le figlie di Saleem, ma non perché ho ucciso loro il padre corrotto, ma perché sono nate, vivono e probabilmente vivranno per sempre in questo paese di merda, a causa di gente che invece dovrebbe proteggerle. Quindi ora smettile di frignare, alzati e mettiti al lavoro >>.
La donna si rimise a posto i capelli e tornò di nuovo alla festa, dove il vecchio Aguilar la stava aspettando a braccia aperte. Cox si occupò di ripulire il sangue dell’uomo, dopodiché, ancora un po’ scosso, caricò il cadavere di Saleem sull’auto con cui era arrivato e, come se niente fosse, si allontanò dalla faraonica villa del trafficante d’armi.

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Capitolo 3
*** Traffici notturni ***


3


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Il luogo in cui doveva avvenire lo scambio tra Aguilar e il misterioso acquirente era un vecchio magazzino in disuso alla periferia di Zagora, ai confini marocchini del deserto sabbioso di Ilkhikhn n Sahara. Le armi, costruite e progettate nella enorme fabbrica algerina del vecchio, erano state equamente distribuite in due camion e nascoste all’interno di robuste casse di legno, ricoperte da strati di lana pregiata. Nella fabbrica, infatti, ufficialmente venivano prodotte costose e raffinate stoffe per abiti tradizionali che rifornivano tutte le grandi sartorie dello stato nord-africano, comprese quelle che confezionavano le scintillanti Djellaba per i ricchi borghesi locali, arricchitisi durante la grande guerra. L’estesa fama del marchio, unita alla sapiente opera di infiltrazione di Aguilar ai piani più alti del corpo di polizia, avevano permesso all’uomo, negli anni, di trasportare tonnellate di armi tra i confini dell’Algeria e del Marocco, rendendolo di fatto il più potente e ricco trafficante d’armi del Mediterraneo. L’incontro doveva avere luogo alle 22, ma Aguilar aveva deciso di anticiparsi di qualche minuto per sincerarsi della genuinità delle intenzioni del cliente e, soprattutto, per evitare eventuali trappole dei servizi segreti continentali.
<< Quanto manca ancora? >> chiese il vecchio all’autista della limousine, mentre si aggiustava la costosa cravatta viola.
<< Non molto signore, cinque minuti al massimo >> rispose il giovane indigeno.
<< Credo ancora che la situazione sia troppo pericolosa per lei, signore; avrebbe dovuto lasciare a me i dettagli e restare a casa a riposare >> gli disse ancora una volta Novak che, nonostante le rassicurazione del capo, era ancora convinto che presentarsi di persona allo scambio era un rischio troppo grande da correre, troppo grande persino per quell’enorme montagna di denaro.
<< Non dire sciocchezze ragazzo, ci sono troppi soldi in ballo per lasciare a qualcun altro le redini del gioco. I miei camion sono a poca distanza da qui, tutti sorvegliati da uomini armati. Appena ci saremo accertati delle buone intenzioni del nostro amico, chiederemo alla flotta di raggiungerci, faremo controllare la nostra merce all’uomo del mistero, gli faremo trasferire il resto del denaro sul mio conto e infine, senza esserci sporcati le mani, ce ne andremo da questo lurido magazzino… e da questo paese >> rispose con disinvoltura il vecchio.
Novak annuì con poca convinzione e riprese a guardare distrattamente fuori dal finestrino.
<< A proposito, hai visto Sherry oggi? Volevo salutarla prima di partire, ma in casa non c’era >> gli domandò poi Aguilar.
<< No Signore, l’ultima volta che l’ho vista è stata ieri sera alla festa; era ubriaca fradicia. Probabilmente si sarà svegliata tardi e poi uscita a fare shopping >> rispose annoiato il braccio destro, stanco e anche un po’ infastidito dall’interessamento morboso che il capo mostrava nei confronti della bionda ragazzina.
<< Già, probabilmente hai ragione. Sto diventando vecchio amico mio >> aggiunse infine Aguilar, dandogli una pacca sulla spalla. Il brasiliano sapeva che il suo cuore si era intenerito nel corso degli ultimi anni e, proprio per questo, sentiva sempre di più la necessità di ritirarsi a vita propria, nel suo paese natale, lasciandosi alle spalle l’aura dello spietato e capace trafficante d’armi che era sempre stato. Questo Novak non lo riusciva a capire; ma il vecchio sperava che, un giorno, il fido braccio destro avrebbe compreso e forse anche perdonato la sua debolezza.

La macchina arrivò al magazzino dello scambio appena due minuti dopo, come aveva predetto il giovane autista; il luogo era di quanto più desolato e discreto ci fosse al mondo, localizzato a pochi passi dall’inizio del gelido deserto del Sahara. Tutto intorno regnava il silenzio più assoluto e Novak e il vecchio Aguilar, tesi come corde di violino, non poterono fare altro che tirare un enorme sospiro di sollievo quando si resero conto che non c’erano trappole in giro: erano le uniche forme di vita presenti nel raggio di un miglio. I due non dovettero aspettare a lungo prima che un imponente fuoristrada nero si fermasse a pochi metri di distanza dalla limousine, in perfetto orario sulla tabella di marcia. Da esso uscì prima un elegante uomo in giacca e cravatta, con i capelli rossi e la barba incolta, poi un altro, vestito informalmente e dallo sguardo inquietante. Aguilar aprì lo sportello della limousine e scese dall’auto, facendo cenno al braccio destro di seguirlo; si impiantò a gambe divaricate davanti all’uomo con la cravatta e, dopo essersi presentato, gli porse con sicurezza la mano destra. L’altro gliela strinse con un timido sorriso, senza proferir parola. Dopo essersi fatti perquisire dai rispettivi secondi e aver discusso gli ultimi dettagli, Aguilar diede l’ordine ai rimorchi di avvicinarsi con cautela al magazzino; come da manuale, i due camion arrivarono sul posto qualche minuto dopo, pronti ad essere consegnati al facoltoso acquirente.
<< C’è tutto quello che ha chiesto, signore >> disse il vecchio, allargando il braccio destro per mostrare la flotta ai due << siamo riusciti a farci stare tutto in appena due rimorchi. Roba da veri professionisti >>. L’uomo con la barba diede una rapida occhiata ai camion, dopodiché disse ad altri tre uomini di scendere dal fuoristrada e di cominciare a controllare la merce, sepolta sotto metri e metri di lana.
<< Non possiamo fidarci di nessuno di questi tempi >> disse egli, rivolgendosi ad Aguilar. << Ma certo, lo capisco. Fate pure con comodo >> rispose l’altro.
Intanto, dietro ad un piccola duna localizzata a poca distanza, una squadra speciale di agenti scelti, guidati da Cox, osservava attentamente la scena, pronta ad entrare in azione appena si fosse concluso lo scambio. << E’ riuscito a scattare qualche foto ai due uomini Cox? >> chiese il capitano Huber, che, attraverso le telecamere poste sui caschi di protezione degli agenti, osservava dalla sala riunioni tutta la scena; quella sera, insieme a tutta la sezione speciale, era presente anche il Generale Marchand.
<< Appena qualche scatto Capitano, ma la qualità è pessima, siamo troppo distanti ed è buio. Cercherò di farne di migliori una volta che ci saremo avvicinati. Attendo il suo segnale >> rispose con fermezza Cox, che spiava la trattativa attraverso un binocolo termico.
<< Attendiamo solo che il denaro finisca nelle mani di Aguilar: appena il vecchio aprirà la portiera dell’auto, entrerete in azione. La squadra dell’agente De Wit è a poche centinaia di metri, motorizzata, pronta ad agire in caso di emergenza. Si tenga pronto >> concluse seccamente l’uomo.
Dopo circa venti minuti, i tre scagnozzi del rosso diedero l’ok al capo: il vecchio Aguilar aveva tenuto fede al patto.
<< Stiamo inviando il denaro al suo conto. I documenti per l’espatrio le saranno recapitati tra un paio di giorni in una cassetta di sicurezza della Banca Centrale. L’operazione sarà conclusa tra pochi minuti >> disse il misterioso uomo barbuto al vecchio, che faticava a nascondere il suo sorriso compiaciuto. La transazione fu improvvisamente interrotta dal cellulare del rosso, che squillò insistentemente. L’uomo rispose con aria seccata, ma, dopo aver scambiato qualche parola con l’interlocutore in una lingua che Aguilar non riuscì ad identificare, il suo viso si fece pallido. Dopo essersi dato una rapida occhiata intorno, urlò ai suoi uomini: << Dobbiamo andare via da qui! E’ una trappola! >>.
Il rosso e i suoi scagnozzi si precipitarono verso il fuoristrada nero, lasciando Aguilar e la sua truppa senza parole, ancora frastornati dalla piega che avevano preso i fatti. Non potendo più contare sull’effetto sorpresa, il capitano Huber diede l’ordine immediato alla squadra di Cox di intervenire; una ventina di uomini armati, vestiti di nero, accerchiò il magazzino nel giro di qualche secondo. Aguilar ormai era in trappola. Il fuoristrada nero riuscì abilmente a farsi strada tra la barriera umana creata dagli agenti speciali e imboccò un sentiero dissestato che portava nel centro del deserto, facendo lanciare non poche imprecazioni al giovane capo squadra, che tentò invano di bloccarli sparando sui pneumatici.
Il capitano Huber ordinò a Cox di occuparsi dell’arresto di Aguilar, affidando alla squadra dell’agente De Wit l’incarico di catturare l’uomo rosso: la squadra, dotata di veloci mezzi di trasporto, si trovava a quasi un kilometro di distanza sulla statale che tagliava tangenzialmente la stradina sterrata del magazzino. Una manciata di uomini si infilò immediatamente nei grossi fuoristrada grigi dell’Agenzia e si lanciò all’inseguimento del misterioso acquirente, percorrendo la strada asfaltata. Hadiya, in sella ad una moto da cross, si allontanò dal gruppo principale e tagliò attraverso la gelida sabbia del deserto, riuscendo a staccare i suoi colleghi. L’impervio sentiero, delimitato malamente dai solchi lasciati da qualche vecchio fuoristrada, si snodava per chilometri lungo il deserto del Sahara, illuminato solo dal pallore della luna, che risplendeva solitaria in mezzo all’enorme distesa di sabbia blu scuro, i cui confini si confondevano con quelli del cielo notturno.
Il buio e la polvere sollevata dal SUV dei malviventi non le permettevano di avere una buona visuale e, aggiunti ai frequenti scossoni causati dai massi nascosti sotto il pelo della sabbia, le avevano fatto perdere terreno. Decisa a non lasciarli fuggire, Hadiya spinse al massimo il motore del suo veicolo, cercando in qualche modo di mantenere stabilità e controllo. Con un pizzico di esperienza e molta fortuna, la donna prese il fucile con la mano sinistra e cominciò a sparare diversi colpi alle ruote del SUV; dopo qualche colpo andato a vuoto, riuscì a forare una delle gomme posteriori, facendolo sbandare vistosamente. L’agente approfittò della situazione per portarsi accanto al SUV, al lato guidatore. Sapeva che difficilmente sarebbe riuscita a catturare il rosso, ma sperava almeno di riuscire ad immortalare il suo volto per poterlo poi confrontare con il database dell’Agenzia.
<< I finestrini sono oscurati, accidenti! >> disse, digrignando i denti.
Le sue silenziose maledizioni furono interrotte da uno degli scagnozzi del rosso che, dal finestrino anteriore, cominciò a sparare dei colpi nella sua direzione, nel tentativo di farle perdere il controllo della moto. La donna riuscì miracolosamente ad evitare quella scarica di proiettili, procurandosi solo qualche graffio superficiale, ma uno di essi si conficcò nel serbatoio anteriore della benzina.
La moto si fermò bruscamente dopo qualche metro, sputando con forza la donna in avanti. Hadiya si ritrovò distesa ai piedi di un albero, con lo sguardo rivolto verso l’alto, sentendo allontanarsi sempre di più il rumore delle gomme del SUV nero che slittavano sulla sabbia.
“Cazzo, li ho persi!” pensò l’agente, che poi si accorse del sottile rigagnolo di sangue che fuoriusciva dal casco. La sua vista cominciò ad offuscarsi; la luna piena, che fino a qualche secondo prima brillava alta nel cielo, cominciava a farsi sempre più sottile, fino a che non scomparve completamente davanti ai suoi occhi, inghiottita dalla totale oscurità.

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Capitolo 4
*** Mezze verità ***


4



Quando l’agente De Wit si risvegliò, vide intorno a sé le fredde e asettiche pareti bianche dell’ infermeria della base. Aveva una grossa fasciatura bianca intorno al capo, una discutibile vestaglia a pois beige indosso e delle ventose attaccate al torace; la macchina futuristica posta accanto al letto, che monitorava i suoi parametri vitali e l’attività cerebrale, emetteva una fastidiosa serie di bip squillanti, che non facevano altro che peggiorare il suo atroce mal di testa. A giudicare dall’odore dello shampoo alla pesca che emanavano ancora i suoi capelli e dalla manicure quasi intatta di Sherry, non si trovava lì da più di quarantotto ore. Dopo aver battuto violentemente la testa nella notte dello scambio, la donna era stata ritrovata e recuperata dalla sua squadra, che l’aveva portata con urgenza in uno degli ospedali locali affiliati all’Agenzia. I medici del posto le avevano diagnosticato un moderato trauma cranico causato dall’impatto di quella notte, la cui gravità era stata sicuramente attenuata dal casco di protezione; dopo essere riusciti a stabilizzarla, era stata trasportata immediatamente alla medicheria della base, immersa a poche decine di chilometri dalla costa marocchina. Hadiya si alzò lentamente dal letto, cercando di staccare con cautela tutti gli elettrodi che le avevano applicato; la testa continuava a farle maledettamente male, ma doveva parlare subito con il Capitano Huber: doveva sapere cosa era successo al rosso e ad Aguilar quella notte. Appena aprì la porta scorrevole della stanza, vide una giovane infermiera correrle incontro agitata; la donna le ordinò di ritornare immediatamente a letto, ma Hadiya, troppo stanca e frastornata per mettersi a discutere, la spinse via violentemente.
Reggendosi al freddo muro di metallo con la mano destra, la donna percorse a piccoli passi il lungo corridoio che portava al ponte di comando, tentando in tutti i modi di non destare l’attenzione degli altri membri dell’equipaggio.
Quando finalmente arrivò alla porta della sala riunioni, sentì distintamente la voce di Ben McIntyre che discuteva di qualcosa con il capitano, insieme ad un chiacchiericcio indistinto.

La sala riunioni era un’enorme e spoglia stanza rettangolare localizzata immediatamente sotto al ponte principale di sinistra. Le pareti, così come tutte quelle della base, erano costituite da delle spesse lastre d’acciaio verdastro consumato dalla salsedine, appena illuminate da una lampadina al tungsteno posta al centro della stanza. Al di sotto di essa, v’era un lungo tavolo rettangolare di legno, i cui piedi erano fissati al pavimento con dei bulloni allentati. Di fronte al tavolo si trovava uno schermo ultrapiatto a coprire quasi tutta la parete, permettendo agli ufficiali e al resto della sezione di seguire in diretta le operazioni degli agenti operativi.
Il capitano Huber in genere sedeva al capo destro del tavolo, nella posizione che dava la migliore visuale sullo schermo, mentre tutti gli altri si disponevano ai suoi lati, seguendo un ordine gerarchico ben preciso. Quella sera, invece, a capo tavola era seduto un uomo di mezza età dai capelli bianchi, che sorseggiava quello che sembrava dello scotch da un bicchiere di vetro decorato; alle sue spalle, in piedi, si trovava il giovane agente Kieren Cox, che indossava l’uniforme della squadra: un pantalone nero militare con delle ampie tasche anteriori, degli anfibi dello stesso colore che arrivavano alla caviglia e una canottiera bianca su cui cadeva una sottile medaglietta d’alluminio. Hadiya si aprì con un po’ di difficoltà la massiccia porta scorrevole e si ritrovò gli occhi di mezza squadra puntati addosso.
Il capitano Huber, seduto accanto all’uomo con lo scotch, guardò con disappunto la sua subordinata in vestaglia e le chiese: << Che ci fa qui, agente De Wit? >>.
<< Buonasera a tutti, chiedo scusa per il ritardo, ma quelli della medicheria non mi lasciavano andare. Il rosso… siamo riusciti a catturarlo? >> chiese la donna, accennando un saluto ai presenti.
Dal lato sinistro del tavolo si levò una minuta ragazza dai capelli biondo scuro e gli occhi azzurri, che lanciò uno sguardo preoccupato al Capitano; dopodiché si avvicino ad Hadiya e sussurrò, stringendole il braccio: << Credo che dovresti riposarti ora. C’è tutto il tempo per avere dettagli sull’esito della missione >>.
Hadiya si liberò dalla stretta della ragazza e replicò cortesemente: << Sto benissimo Eeki, non c’è bisogno che ti preoccupi per me. Ditemi cosa è successo, piuttosto >>.
<< Il signor McIntyre ci stava giusto dicendo che è riuscito ad identificare l’uomo rosso >> disse intromettendosi nella conversazione il vecchio dai capelli bianchi, che indossava una divisa verde militare con parecchie stellette appuntate sulle spalle.
Hadiya lo guardò con aria perplessa, dopodiché l’uomo si presentò porgendole la mano: << sono il generale Marchand. Ho sentito molto parlare di lei, De Wit >>.
L’uomo le stava mostrando un sorriso compiaciuto e apparentemente benevolo, ma i suoi occhi, glaciali e impenetrabili, tradivano tutt’altra inclinazione. Hadiya rimase interdetta per qualche secondo, dopodiché gli tese a sua volta la mano e si presentò educatamente, scusandosi per l’abbigliamento inadeguato. L’altro le disse di non preoccuparsi troppo delle formalità e di prendere una sedia e accomodarsi: Ben aveva delle importanti notizie da fornire alla squadra.
L’informatico si alzò in piedi e, schiaritosi la voce, disse: << Dunque, dopo aver sudato sette camicie e aver perso almeno dieci anni di vita, sono riuscito a migliorare la qualità della foto che ha scattato Cox la sera dello scambio; un vero lavoraccio. Ho poi incrociato la foto con i database della polizia, dell’Interpol e delle telecamere di mezzo mondo per vedere se c’era un riscontro. Un vero lavoraccio anche quello, sono stato tutta la notte in piedi per controllare che nessuno interrompesse il flusso di informazioni e… >>, Ben si interruppe quando vide lo sguardo di disappunto del Capitano Huber, il quale mal tollerava i flussi di coscienza del logorroico informatico, << …e a voi non interessa sapere tutte queste cose, quindi arrivo al punto. L’uomo con la barba rossa è una nostra vecchia conoscenza. Certo, nel corso degli ultimi anni ha perso qualche kg, diciamo anche molti kg, si è fatto crescere barba e capelli e probabilmente ha fatto una rinoplastica, ma il mio programma di riconoscimento facciale ultra avanzato non mente: è Karl Huseynov >>.
La maggior parte dei presenti alla riunione rimase totalmente impassibile davanti a quel nome dal sapore nordico, mentre gli sguardi preoccupati del Capitano Huber e dell’agente Eeki Soren si rivolsero spontaneamente verso l’agente De Wit, che fissava il vuoto con gli occhi sbarrati. Il viso del generale fu di nuovo segnato dal sorriso compiaciuto che tanto aveva infastidito Hadiya poco prima, mentre Kieren Cox, resosi conto che quel nome aveva portato un certo scompiglio tra i suoi nuovi colleghi, chiese lumi al capitano.
<< Karl Huseynov era un membro di spicco di un’organizzazione terroristica di nome Renaskigo, rinascita in esperanto, che abbiamo smantellato cinque anni fa dopo una lunga e complessa operazione internazionale di spionaggio. Dato il silenzio degli ultimi anni avevamo supposto, o per meglio dire, sperato, che tutti i suoi membri fossero morti o caduti in rovina, ma a quanto pare c’è ancora qualcuno di essi in giro >> rispose mordendosi le labbra il Capitano Huber, << ma non posso fornire ulteriori dettagli sull’operazione, le informazioni sono altamente confidenziali >>.
<< Come ha intenzione di procedere ora, Capitano? Tutte quelle armi nelle mani delle persone sbagliate potrebbero rappresentare un serissimo problema >> chiese con tono pacato il Generale Marchand.
<< Nulla, purtroppo. Quel SUV sembra si sia volatilizzato nel deserto e a nulla è valsa la diffusione capillare delle foto dei fuggitivi: ancora non abbiamo idea di dove possano essere. L’unica nota positiva è che siamo riusciti ad impedire loro di prendere possesso delle armi; ovunque siano, non hanno gli strumenti per fare grossi danni. Per ora, possiamo solo tenere gli occhi aperti e tenerci pronti ad un nuovo attacco >> rispose grattandosi il mento Huber, che continuava a guardare di sottecchi la sua sottoposta, seduta in silenzio religioso al lato opposto del tavolo.
<< Tornando al secondo motivo per cui siamo qui stasera, uno dei nostri contatti dell’intelligence nord-africana ci ha dato una soffiata su un colpo di stato imminente. Pare che la vita del presidente Nadym sia a rischio >> continuò il capitano.
<< Crede ci sia una connessione tra il colpo di stato in Nord-Africa e la faccenda di Huseynov? >> chiese Eeki Soren, mentre sfogliava il fascicolo con le informazioni sul presidente Nadym, fornito precedentemente da Ben.
<< Fare ipotesi di questo tipo è prematuro e controproducente, anche se non mi sento di escludere categoricamente questa possibilità. Ad ogni modo, secondo la nostra fonte i ribelli reazionari della zona sud-est del paese, ormai completamente in balia di Amal Akarfi e dei suoi uomini, stanno pianificando da tempo un colpo di stato militare. Dopo le agitazioni popolari degli ultimi mesi dovute al nuovo crollo dei prezzi del petrolio e all’aumento dell’inflazione, la situazione nel nord Africa è quanto mai instabile. Un vuoto di potere in questo periodo potrebbe avere delle conseguenze economiche e politiche catastrofiche, non solo per il nord-Africa, ma anche per la nostra confederazione. Dal ministero abbiamo ricevuto l’ordine di proteggere il neo eletto presidente e tutta la sua famiglia, almeno fino a che l’intelligence e l’esercito africani non saranno riusciti a catturare il capo dei ribelli e a riprendere il controllo del sud-est >> disse con voce ferma e determinata il capitano.
<< La squadra capitanata da Cox è la più indicata per portare a termine questa missione >> aggiunse il generale Marchand, dando una pacca sulla spalla al suo pupillo in segno di incoraggiamento.
Hadiya fece una risatina sarcastica, non facendo nulla per nascondere il suo dissenso per le parole del generale: ciò che era stata costretta a fare a causa dell’inettitudine del novellino biondo nella tenuta del vecchio le pesava ancora sul cuore come un macigno. << Voglio partecipare anche io >> aggiunse poi, evitando di fare ulteriore polemiche.
<< E’ fuori discussione, agente De Wit >> rispose immediatamente il generale Marchand, il cui sguardo severo incrociò quello determinato della donna << il ministro della guerra si è personalmente raccomandato affinché il risultato delle prime elezioni democratiche del Nord-Africa venga preservato dalle azioni dei terroristi e, alla luce delle nuove rivelazioni su Huseynov, credo che lei sia la persona meno adatta al compimento di questo scopo >>.
<< Oh, andiamo Marchand, non sappiamo neanche se Huseynov sia effettivamente coinvolto in questa storia! Le sue sono tutte speculazioni >> replicò immediatamente il Capitano.
<< Mi spiace dover fare l’uccello del malaugurio capitano, ma non credo davvero che sia una coincidenza il fatto che quest’uomo sia ricomparso dal nulla, dopo anni di oblio, in una compravendita di tonnellate di armi da fuoco, proprio mentre i ribelli del sud-est pianificano un colpo di stato. Se vuole la mia opinione, De Wit deve restarne fuori >>.
Hadiya si alzò in piedi e sbatté vigorosamente il pugno sul tavolo, facendo tremare il bicchiere di scotch del generale, che le rivolse uno sguardo infuocato. Prima che la donna potesse proferir parola e peggiorare ancora di più la propria situazione, fu messa a sedere da Eeki, che le intimò di non immischiarsi ulteriormente.
<< Non si metta così apertamente contro di me signorina, potrebbe finire davvero male stavolta >> disse Marchand con tono provocatorio, ponendo un accento ironico sulla parola signorina.
<< Adesso basta! >> tuonò infine Huber, che mal sopportava chi metteva il naso tra gli affari suoi e dei suoi agenti, << la Renaskigo è stata smantellata ufficialmente molti anni fa, non c’è nulla che ci induca a credere il contrario. Huseynov potrebbe lavorare da solo o per qualunque altra organizzazione o governo di questo complicato mondo. Se il medico lo riterrà opportuno, l’agente De Wit partirà immediatamente per Tripoli insieme a Cox e agli altri. Non c’è altro da aggiungere >>.
Il Generale Marchand si alzò compostamente dal tavolo della sala riunioni, prese il suo bastone di legno appoggiato alla sedia e si avviò verso l’uscita, facendo cenno al pupillo di seguirlo.
<< Stavolta faremo a modo suo Huber, ma sta commettendo un grosso errore. Se ne accorgerà presto >>, poi, rivolgendosi ad Hadiya, disse severamente: << forse questo governo è stato abbastanza clemente da averle evitato il carcere a vita e la forca, forse il suo capo ha la memoria abbastanza corta da averle permesso nuovamente di lavorare nella sua squadra, ma si ricordi De Wit, che al mondo ci sono persone che non sono né clementi, né di memoria corta e io sono una di quelle. La terrò d’occhio >>.

Uscito di scena il generale, il Capitano Huber cominciò a distribuire gli ordini al resto della squadra, ancora scossa dalle terribili parole dell’uomo. L’agente De Wit sarebbe stata a capo delle operazioni insieme a Cox, come raccomandato da Marchand, mentre l’agente Eeki Soren e l’esperto di armi Misha Nikolaidis, uomo di origini greche sulla quarantina dai capelli ricci e il naso aquilino, avrebbero fatto da supporto. A loro si sarebbero uniti anche Ben McIntyre e un altro paio di agenti speciali dell’Agenzia.
Prima che Hadiya potesse ritornare in infermeria a riposare, il Capitano Huber le si avvicinò con cautela e le mise una mano sulla spalla: quello era da sempre il massimo contatto che le concedeva quando smetteva le vesti di superiore e entrava in quelle di padre. La ragazza spostò cortesemente la mano dell’uomo e si girò verso di lui con uno sguardo impassibile: non aveva bisogno di certe accortezze, non più almeno. << Va tutto bene capo, ormai ho imparato a convivere con quella storia. Non mi crea più problemi >> disse con decisione la ragazza, forse con troppa decisione per risultare credibile agli occhi di un uomo che la conosceva sin da quando era bambina.
Il capitano annuì, le diede due pacche sulla spalla sorridendo amaramente e infine si avviò verso la porta. Un attimo prima di uscire si girò di nuovo verso di lei e le disse con tono sincero: << Ti conosco meglio di chiunque altro al mondo e posso solo lontanamente immaginare cosa ti stia passando per la testa in questo momento. So che ormai sei forte abbastanza da superare tutti gli ostacoli che ti si presenteranno, Huseynov o non Huseynov, ma non sopravvalutarti troppo, non fingere che vada tutto bene. Qui ti abbiamo perdonato tutti da un pezzo Hadiya, forse è arrivato il momento che lo faccia anche tu >>.

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Capitolo 5
*** Sofyane ***


5



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La piccola matita a strisce gialle e nere con cui aveva fatto almeno un migliaio di crocette stava cominciando a scivolarle dalle mani a causa del sudore. In quella piccola stanza piena di banchetti e sedie faceva un caldo insopportabile, difficile da gestire anche per chi, come lei, era abituato a sfide ben peggiori.
Riarrangiando a mo’ di elastico il braccialetto nero di pelle, si alzò i lunghi capelli castani in una alta coda, che terminava qualche centimetro sotto alle spalle, mentre dei ciuffi di capelli più corti le cadevano ai lati della fronte. L’orologio analogico appeso alla parete continuava incessante il suo ticchettio, quando mancavano appena cinque minuti alla fine del test scritto. Sapeva perfettamente di dover totalizzare un punteggio superiore a quello del 80% dei contendenti se voleva avere qualche possibilità di entrare a far parte del gruppo scelto e, successivamente, di diventarne il capo. Il suo intero futuro dipendeva da questo. Ricontrollò con attenzione le centinaia di domande del test psicoattitudinale, compiacendosi delle risposte risolute che aveva dato, mentre si sentiva meno certa su quelle di nozionistica generale; del resto, nonostante gli enormi sforzi compiuti per coniugare il lavoro ai suoi studi all’università alla confederazione, non aveva mai avuto occasione di mettere in pratica le sue conoscenze di fisica nucleare e scienza dei materiali: era sempre stata una da azione sul campo, lei. Ed era proprio nelle prove di resistenza fisica che sperava di accumulare i punti necessari per entrare a far parte della nuova squadra di Ricognizione e Bonifica del dipartimento di Recupero dei beni culturali, architettonici e naturali, ramo del Ministero dell’Interno.
Il segnale acustico, proveniente dagli altoparlanti installati in tutto l’edificio, segnò ufficialmente la fine della prova. I candidati consegnarono uno ad uno la busta con il proprio foglio delle risposte al buffo incaricato ministeriale, che li riordinava con precisione in ordine alfabetico, impilandole una sopra all’altra in una fila che sembrava arrivare al soffitto.
<< Allora Sofyane, com’è andata la prova? >> le chiese stiracchiandosi le braccia un ragazzo dai capelli neri, mentre aspettavano pazientemente il loro turno di consegna del test. Erano gli ultimi.
<< Non ne sono certa Mark, ma credo di essere passata >> rispose lei sorridendo, << a te invece? Ci rincontreremo anche all’addestramento? >>
<< Ah, spero proprio di sì sorella! Mio padre mi ha già avvisato che se non passo neanche quest’anno mi taglierà i viveri. A quel punto sarei costretto ad andare a lavorare in qualche cooperativa su, al nord, rinunciando per sempre al mio sogno >> disse con un velo di sconforto il giovane.
Sofyane gli diede un piccolo colpetto sulla spalla e, abbozzando un sorriso sincero, gli disse che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero passati entrambi. In realtà con quelle parole stava cercando di convincere sé stessa, più che l’amico.
La fila si mosse più velocemente del previsto e i due ragazzi, dopo aver firmato anche l’uscita sul foglio delle presenze, consegnarono le proprie buste all’omino con gli occhiali, che rivolse loro un sorriso cordiale; mentre si affrettavano a recuperare le borse dall’appendiabiti in fondo alla stanza, per poi andare a mettere qualcosa sotto ai denti alla mensa dell’edificio, un uomo brizzolato sulla quarantina, con uno sguardo freddo e impassibile, entrò a passi ampi nell’auletta, si avvicinò al funzionario ministeriale e si fece consegnare le buste con i compiti. Dallo sguardo intimorito e dall’inchino riverente che gli porse l’omino buffo, Sofyane intuì che doveva essere un pezzo grosso del ministero.
Fece un cenno ai due uomini che erano con lui, uno biondo con gli occhi scuri e l’altro dai tratti orientali, di controllare attentamente che ogni cosa fosse al suo posto e si mise seduto su un banchetto, accendendosi un sigaro. L’odore acre emanato dal tabacco in combustione si diffuse in pochi secondi in tutta la stanza. Sofyane e Mark continuarono ad osservare i movimenti di quei tre uomini come magnetizzati, incapaci di staccare loro gli occhi di dosso. Uno dei due scagnozzi, il biondino, fece inavvertitamente cadere a terra uno scatolone, spargendo a destra e a manca i fogli pieni di crocette. Il capo gli lanciò uno sguardo truce e gli ordinò di raccogliere tutti i fogli svolazzanti prima che uno di essi andasse perso. L’altro tirapiedi, vestito con un elegante abito nero e una cravatta scura, abbozzò un leggero sorriso e continuò a controllare la sua pila. Il biondino iniziò mestamente a raccogliere i test, incluso quello che era finito, trascinato via dagli spifferi, davanti ai piedi di Sofyane. La ragazza si abbassò nell’intento di raccogliere il foglio e porgerglielo, ma quello glielo strappò di mano con fare brusco e le lanciò un’occhiataccia. La ragazza corrugò la fronte e ricambiò lo sguardo piccato.
<< Non si azzardi mai più a toccare questi fogli!>> gridò il tipo, forse preoccupato che la ragazza potesse in qualche modo manomettere la busta.
<< Mi scusi, cercavo solo di essere gentile>> replicò l’altra, non riuscendo a capire cosa avesse fatto di così grave.
Il biondo le rivolse un altro sguardo indignato e si rimise al lavoro, senza dirle una parola.
Dopo qualche minuto, i due giovani terminarono il proprio lavoro e si ritirarono portandosi via gli scatoloni; il capo, invece, si intrattenne ancora un attimo a parlare con l’omino buffo, da cui poi si congedò educatamente. Uscì anche lui, sbattendo la porta dietro di sé.
<< Wow! Chi diavolo erano quelli?>> chiese inarcando le sopracciglia Sofyane, sconcertata dalla fredda efficienza del trio.
<< Come fai a non sapere chi è quello più anziano?>> chiese scuotendo il capo Mark, << è Erlend Dahl, il coordinatore delle squadre di Ricognizione e Bonifica del dipartimento. Sarà lui il nostro diretto superiore… se passeremo il test, ovviamente!>>
<< Sì, mi pare di averne sentito parlare… ma pensavo fosse un vecchio matusalemme ibernato nella naftalina!>> rispose con aria di sorpresa lei, riuscendo a strappare un sorriso all’amico.
<< E’ uno dei pezzi grossi del dipartimento, un vero mastino, anche se non è molto ben visto da Martines. Pare che si trovino spesso in disaccordo su come portare avanti le operazioni di bonifica; inoltre, è uno che si è fatto da solo, partito facendo la gavetta e arrivato lì dov’è senza l’aiuto di nessuno. Martines, rampollo di una nobile famiglia che ha sempre avuto la strada spianata, non lo sopporta e fa di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote. In modo neanche troppo velato, in realtà >>.
<< Cavolo, sembra davvero un osso duro!>> replicò pensierosa Sofyane; poi, con un ottimistico sorriso, disse: << beh, ci preoccuperemo di lui quando sarà il momento! Andiamo a pranzo ora, sto morendo di fame!>>.

I risultati del test psico-attitudinale furono resi noti la settimana successiva. Sofyane aveva ampiamente superato l’80% degli altri candidati, passando il test, così come Mark, seppur con un punteggio inferiore. I vincitori furono convocati qualche giorno dopo nella sede centrale del dipartimento, un edificio in mattoni di modeste dimensioni, situato nella periferia della capitale della Confederazione.
Erlend Dahl, l’uomo che avevano visto i due ragazzi in aula, prese la parola e, con la sua tipica impassibilità e voce piatta, fece: << Non ci saranno discorsi di benvenuto o di congratulazioni qui oggi. Prima imparate che in questo dipartimento si lavora in maniera precisa, efficace e puntuale e che non amiamo i giri di parole, prima riuscirete a fare qualcosa di buono per il vostro paese. Trovare nuove sorgenti di acqua potabile non contaminate dalle radiazioni sta diventando ogni giorno più difficile e tuttavia urgente per questa confederazione democratica. Voi quindici siete i vincitori del concorso ministeriale, il meglio che le scuole di fisica e ingegneria di questo paese abbiano da offrire; pertanto, entrerete a far parte della nuova squadra di Ricognizione e Bonifica del dipartimento, a supporto delle altre due già esistenti. Prima di cominciare il lavoro sul campo però, dovrete portare a termine un addestramento fisico e tecnico altamente specializzato della durata di sei settimane, al termine del quale sosterrete una nuova prova psico-attitudinale e una di forza fisica che decideranno definitivamente se meritate di lavorare per noi. O meglio, per i vostri concittadini>>. Un lieve brusio si alzò nella sala in seguito alla notizia diffusa dal capo dipartimento. L’uomo si schiarì la voce, intimando ai nuovi arrivati di fare silenzio.
<< Gli addestratori che vi seguiranno in queste sei settimane sono i due uomini alle mie spalle>> disse poi, indicando i due scagnozzi che Mark e Sofyane avevano incontrato la settimana precedente << tutto quello che diranno sarà la vostra Bibbia ed eseguirete in silenzio e senza fiatare ogni ordine che uscirà dalla loro bocca>>.
Dopo aver intercettato dei vaghi cenni di assenso sui volti delle nuove reclute, l’uomo si congedò frettolosamente e si chiuse nel suo enorme studio, il cui ingresso dava direttamente sull’androne centrale.
<< Accidenti, ci mancava solo questa! Il biondino già mi detesta>> disse indispettita Sofyane all’amico.
<< Non disperare Sof, se la fortuna ci assiste -e una volta tanto dovrebbe pur farlo- quello non si ricorda neanche chi siamo!>> replicò con un velo di speranza più che di reale convinzione l’altro.

I ragazzi furono accompagnati in un loft che sarebbe diventato la loro casa nelle settimane successive. Delle quindici persone che avevano superato il test, tredici erano uomini, mentre, a rappresentare il gentil sesso, c’erano solo Sofyane e un’altra ragazza dal fisico imponente e i capelli rasati, tale Natasha Rilubova. Queste ultime furono sistemate in una stanza sul fondo del corridoio a cui si accedeva attraverso un’ampia anticamera, ben separate dagli alloggi degli uomini.
Sistemate le proprie cose negli spartani armadietti di legno, le matricole furono radunate nella palestra della struttura per cominciare la preparazione fisica.
L’uomo biondo, già indicato in precedenza da Dahl, fece disporre i cadetti in una rigida riga al centro della palestra. Camminando avanti e indietro a passi ampi e lenti, il tizio cominciò a spiegare ai presenti il programma delle successive sei settimane: << come ha già ampiamente chiarito il coordinatore capo qualche ora fa, in questo dipartimento non ci si perde in chiacchiere. Seguirete un addestramento fisico e tecnico-cognitivo altamente specializzato della durata di quarantacinque giorni, al termine del quale sosterrete una prova omni-comprensiva che ci permetterà di capire se avete o meno la stoffa per entrare a far parte della nuova squadra. Io sono Leeroy Shaw e quel tipo taciturno lì in fondo è il mio collega, Lee Tae Jun. Dovrete eseguire senza discutere ogni nostro ordine e suggerimento, non solo per riuscire a passare il test finale, ma soprattutto per portare a casa la pelle. Vi ricordo che il nostro obiettivo principale è quello di analizzare e, eventualmente, bonificare territori contaminati dalle radiazioni dell’ultima guerra, quindi state attenti a dove mettete i piedi. Detto questo, disponetevi uno dietro all’altro e cominciate subito a fare quaranta giri di campo a velocità sostenuta>>.
Davanti agli sguardi perplessi dei colleghi, Sofyane prese coraggio e, cercando di essere cordiale, disse ad alta voce al biondino: << mi scusi signore, ma non abbiamo ancora le nostre tenute sportive. E’ un po’ complicato correre in jeans e camicia>>.
Shaw le si avvicinò con uno sguardo accusatorio e dopo averla osservata attentamente, le disse: << eppure pensavo che uno dei requisiti fondamentali per essere ammessi al test psico-attitudinale fosse il non avere problemi d’udito. Non mi ha sentito un secondo fa? Se ordino qualcosa, quella cosa va fatta, in un modo o nell’altro. Cominciate a correre, anche nudi se volete, ma fatelo>>.
L’uomo fece un sorrisetto compiaciuto e Sofyane non poté fare altro che restare in silenzio, sforzandosi di non dargli un pugno in faccia.
Dopo essersi guardati per un attimo con aria spaesata, i candidati si disposero in fila indiana e cominciarono a correre a velocità media intorno al campo, tenendosi tutti, prevedibilmente, i propri vestiti addosso.
Superati i primi dieci giri, alcuni cadetti cominciarono a decelerare vistosamente, mentre altri mantennero un ritmo costante. Il biondo, dal centro della stanza, li esortava a correre utilizzando espressioni ed epiteti poco gentili, mentre il suo compare se ne stava sempre immobile sul fondo della palestra, appoggiato con la spalla ad una colonna, apparentemente disinteressato a ciò che gli succedeva intorno.
Sofyane, ancora ben salda nel gruppo di testa e annoiata dalla corsetta, si spostò più indietro in direzione di Mark, ponendosi accanto a lui per fare due chiacchiere. Lo spostamento non passò inosservato al mastino al centro della stanza, che le si avvicinò con aria infastidita e le intimò di tornare immediatamente in fila indiana.
<< E’ già la terza volta in pochi giorni che mi irrita, signorina. Le consiglio di cambiare atteggiamento se vuole avere vita facile qui dentro>> ringhiò lui, tornandosene poi al proprio posto.
Sofyane sbuffò vistosamente e riprese controvoglia la sua posizione iniziale, alle spalle di un muscoloso moro nel gruppo di testa. “Tre volte in pochi giorni ha detto… questo significa che si ricorda di me e dell’incontro avvenuto la settimana scorsa” pensò fra sé e sé, “devo stare attenta, questi qui hanno la memoria lunga”.

Mancavano ormai dieci giri alla fine dell’esercitazione, la maggior parte delle nuove reclute era stremata e senza fiato e anche il tipo suscettibile al centro aveva smesso da un po’ di urlare improperi, mentre la ragazza e un altro paio di persone continuavano a correre a passo svelto. Sofyane sapeva di non potersi svelare troppo e troppo in fretta, così si diede una netta decelerata e prese a camminare lentamente in circolo come gli altri. Percorrendo il lato est della palestra, si rese conto che l’uomo orientale, che si trovava esattamente dal lato opposto, non si era mosso di un millimetro dalla sua posizione. Continuava a scrutare impassibile il gruppo di corridori, allentandosi solo di tanto in tanto la stretta cravatta blu scuro che cadeva lunga sulla camicia bianca. Avvicinandosi un po’, Sofyane cercò di studiarlo senza essere scoperta: era alto e magro, vestito con un elegante completo nero; aveva dei grandi occhi scuri allungati, labbra carnose rosate e denti bianchi perfettamente allineati; le sopracciglia, sottili ai lati del naso, aumentavano di spessore via via che si portavano verso l’alto, ai lati del viso, donandogli uno sguardo penetrante. I loro occhi si incrociarono per un attimo, portando la donna a voltarsi leggermente dall’altra parte e poi a fermarsi completamente, a due giri dalla fine. Quando finalmente Shaw dichiarò la fine della prova, si congratulò senza troppe moine con coloro che avevano resistito fino all’ultimo giro e lanciò invece improperi a tutti coloro che si erano arresi prima del raggiungimento del traguardo.
<< Se gettate così facilmente la spugna è meglio che ve ne torniate subito a casa dalle vostre mamme. Parlo soprattutto con lei, Miss ho-un-nome-maschile-e-non-faccio-altro-che-polemizzare. Ha ceduto al penultimo giro: non c’è niente di peggio>> disse rivolgendosi a Sofyane, << adesso andatevi a fare una doccia, puzzate come delle capre>>.
Sofyane si diresse subito verso Mark, seduto sullo sporco pavimento blu della palestra, camminando lentamente, con i pugni stretti intorno alla vita per attenuare un po’ le fitte all’addome.
<< Ti sei già fatta un nemico a quanto pare!>> le disse con un mezzo sorriso Mark.
La ragazza gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi e annuì sommessamente.
<< Sapevo che sarebbe stato difficile, ma speravo almeno che i problemi cominciassero dopo qualche giorno dal mio arrivo, non ancor prima di aver messo piede qui dentro!>> rispose lei con aria divertita, consapevole che in passato aveva avuto grane ben peggiori delle stupide provocazioni di quel ragazzino viziato.
Mark, col poco fiato che gli rimaneva, corse in avanti uscendo dalla porta principale della palestra, congedandosi dall’amica.
Sofyane si apprestò a fare lo stesso, desiderosa di farsi una lunga doccia calda, ma appena prima che potesse varcare la soglia, sentì il suo braccio stretto da una morsa: ora lo sguardo impenetrabile dell’uomo in nero era puntato fisso su di lei.
<< Lei ci sta nascondendo qualcosa>> disse quello, monocorde.
Sofyane, per tutta risposta, inarcò le sopracciglia, perplessa. << Ad un certo punto, ad una decina di giri dalla fine, ha semplicemente smesso correre e si accodata a quelli dell’ultimo gruppo. Perché? Ho l’impressione che se avesse voluto avrebbe potuto continuare a correre fino a stanotte senza sosta>> incalzò l’altro, sempre con un tono piatto e apatico.
<< Non so di cosa stia parlando. Ero solo stanca>> rispose lei, abbozzando un sorriso, << se avessi avuto anche un solo briciolo di forza in più avrei continuato a correre, glielo garantisco>>.
L’altro continuava a fissarla con severità, senza proferir parola.
<< Posso andare ora?>> disse imbarazzata lei, davanti allo strano silenzio dell’uomo.
Quello annuì e le lasciò lentamente il polso. Fece un leggero inchino di congedo e poi, con il suo portamento signorile, uscì dalla palestra .
La ragazza lo guardò allontanarsi con aria preoccupata. Si massaggiò delicatamente il polso con la mano, lì dove l’uomo l’aveva stretta più forte, e sospirò rumorosamente. Forse i guai, quelli veri, erano cominciati per davvero.

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Capitolo 6
*** Fuoco ***


6



Il rosso si diede un’ultima sistemata ai capelli prima di bussare alla massiccia porta di metallo dello studio al centro del corridoio. Quando finalmente ricevette il permesso di entrare, la richiuse dietro di sé delicatamente e si diresse a passi ampi verso la scrivania di legno, posta sul fondo della sala, di fronte alla porta d’ingresso. La stanza era completamente al buio; l’unico tenue barlume di luce proveniva dal fuoco della vecchia stufa nell’angolo, che sarebbe riuscita a malapena a riscaldare uno sgabuzzino. La luce e il calore venivano filtrate dall’imponente figura dell’uomo che vi si trovava davanti, creando uno strano gioco di ombre sul pavimento.
<< Sono appena rientrato dall’Africa signore, sono venuto appena ho potuto. Porto solo brutte notizie, purtroppo. L’operazione con Aguilar è saltata all’ultimo minuto e non siamo riusciti a prendere le armi>> disse Huseynov con leggero disappunto.
<< Sei riuscito a capire chi fossero gli uomini che hanno mandato all’aria la nostra transazione?>> chiese con un tono gelido l’altro, continuando a dare le spalle al rosso per godere del calore del fuoco.
Huseynov rimase in silenzio. Se avesse potuto, avrebbe evitato in tutti i modi di dare al Capo quell’ulteriore gatta da pelare, ma allo stesso tempo sapeva che non era possibile nascondergli qualcosa per più di qualche minuto. Se le sentiva lui, le cose. Era una specie di dono viscerale.
<< Pensiamo che siano dell’Agenzia signore>> disse poi, con un velo di malinconia.
L’altro rimase immobile in silenzio a fissare il fuoco.
<< Ad ogni modo, non credo che ci abbiano presi di mira. Probabilmente erano sulle tracce di Aguilar già da molto tempo e abbiamo solo avuto la sfortuna di trovarci sulla sua strada proprio nel momento meno adatto. Lo hanno catturato quella stessa notte insieme al suo braccio destro. La buona notizia è che hanno avuto ciò che volevano, non credo ci daranno altri fastidi>> sentenziò trionfale il rosso, cercando di evidenziare i lati positivi della faccenda. Avrebbe fatto di tutto pur di uscire da quella stanza e andarsi a fare una bella dormita al caldo, anche leccare il culo al capo fino a farsi cadere la lingua, se fosse stato necessario.
<< Non sono la Confederazione e il suo patetico servizio di intelligence che mi preoccupano aI momento. Senza il rifornimento di armi del vecchio, i ribelli di Akarfi dureranno ben poco sotto l’assedio dell’esercito regolare, sono allo stremo da giorni. Dobbiamo dare inizio al piano B>> comandò serrando la mascella il capo.
<< Lo immaginavo signore, per questo ho già dato disposizione agli altri: partiremo per Sebha alle prime luci dell’alba>> rispose Huseynov con un filo di soddisfazione per aver anticipato le mosse dell’uomo. << Bene, se non c’è altro io andrei…>> aggiunse poi, sperando che quell’interrogatorio fosse finito. Diede le spalle al suo interlocutore e si avviò a passi ampi verso la porta.
<< Chi ti ha fatto quel graffio sulla guancia?>> bisbigliò tutto ad un tratto l’altro, impedendogli di lasciare l’ufficio.
Il rosso si toccò con la punta delle dita l’impercettibile ferita ancora bruciante e sospirò affranto: eccolo lì, il famoso sesto senso, il dono viscerale. Si era manifestato di nuovo. E stavolta, per leggergli nella mente, non aveva dovuto neanche guardarlo negli occhi.
<< Non ne sono del tutto sicuro, capo. Ma sì, è altamente probabile che sia stata lei>> rispose lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Non aveva senso continuare a mentire, lo avrebbe scoperto in ogni caso.
L’uomo si voltò verso di lui, lo guardò per un attimo con un’espressione asettica e poi si versò un dito di scotch in un bicchiere dal carrellino degli alcolici. Probabilmente era l’unico oggetto semi-ornamentale che si trovava in tutto l’edificio.
<< Pensavo fosse morta>> disse, dopo aver buttato giù in un unico sorso il pregiato scotch regalatogli da suo zio.
<< Lo pensavamo tutti, capo. Nessuno può sopravvivere ad un colpo del genere, ma a quanto pare la ragazzina ha più vite di un gatto>>.
<< Poco male, vorrà dire che sapremo esattamente dove mirare la prossima volta>> ribatté con un vago sadismo l’uomo, descrivendo con le dita la forma di una pistola puntata alla tempia e con le labbra il suono della parola “boom”. Era abituato da un pezzo alle uscite inquietanti del capo, ma davanti allo sguardo e a alla determinazione di quella sera, Huseynov non poté fare a meno di avvertire un brivido lungo la schiena.
<< Forse non ce ne sarà bisogno, capo. Come ho già detto, non credo che ci daranno altre rogne, almeno per il momento, è chiaro>> disse il rosso con poca convinzione, << adesso andrei davvero, ho ancora degli affari urgenti di cui occuparmi prima di ripartire. Con permesso>>.
L’uomo gli fece un silenzioso cenno di congedo e riprese a scaldarsi davanti alla stufa. Huseynov abbozzò un inchino e uscì velocemente dalla stanza, sollevato per la reazione pacata che aveva avuto l’altro davanti alle pessime notizie che gli aveva portato. Tutto sommato, l’interrogatorio non era andato poi così male.
Rimasto da solo nel grande ufficio buio, l’uomo si sedette compostamente sulla sedia a rotelle nera e aprì con cautela il cassetto chiuso a chiave accanto alla scrivania. Vi tirò fuori uno scatolino rosso, contenente una sottile medaglietta di metallo scolorato, con sopra impressa la torre Eiffel; lo osservò attentamente per qualche minuto con aria disinteressata, dopodiché si versò un altro dito di scotch nel bicchiere; poi se ne versò altri due. Prese l’oggettino e lo lanciò all’interno della caldaia della stufa, lasciandolo annerire e poi liquefare. Ripose lo scatolino rosso e chiuse delicatamente il cassetto. Un ghigno beffardo gli solcò le labbra.

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Capitolo 7
*** Confidenze ***


7



Erano ormai in viaggio da quattro ore quando finalmente raggiunsero il fortino dove erano stati condotti il presidente Nadym e la sua famiglia. Le ultime notizie dal fronte sud-est davano per prossima la resa dei ribelli, cosa che convinse il capitano Huber che tutta l’operazione non sarebbe durata più di un paio di giorni. Il fortino si trovava in una posizione strategica tra le alte dune del deserto Libico, nella regione del Fezzan, lontano dai tumulti di Al-Jawf, roccaforte dei ribelli; si estendeva per circa 300 mq, circondato da un muro di cinta alto almeno cinque metri ai cui angoli sorgevano imponenti delle torrette di sorveglianza, occupate da uomini armati. Gli agenti dell’Agenzia si divisero equamente i compiti: Nikolaidis e altri quattro uomini davano man forte alle forze di sorveglianza esterna dell’intelligence nord-africana, Eeki Soren controllava da vicino la camera dei due bambini e infine De Wit e Cox restavano al fianco del Presidente Nadym e della consorte.
La prima mattinata trascorse tranquilla: il neopresidente era stato impegnato fino all’ora di pranzo a sbrigare certi affari nel suo ufficio, mentre la moglie aveva aiutato i due figli a terminare i compiti. Gli agenti ebbero modo di riposarsi e di schiarirsi le idee, soprattutto dopo la concitata riunione che si era tenuta pochi giorni prima.
Dopo quella notte, a Cox era capitato spesso di ripensare alle dure parole del Generale e di chiedersi cosa fosse successo ai tempi della Renaskigo. A nulla erano valse le sue insistenze con Marchand, l’uomo si era categoricamente rifiutato di dargli informazioni riguardo all’operazione avvenuta cinque anni prima e così, da allora, non era riuscito a fare altro che continuare ad arrovellarsi senza soluzione su quella intricata faccenda. Se ad una superficiale osservazione, infatti, pareva che Hadiya De Wit non fosse poi così diversa dal solito -cinica ed efficiente sul lavoro, algida nei rapporti personali, fatta eccezione per quello con Eeki Soren, per la quale l’agente sembrava nutrire un affetto sincero- ad uno sguardo più attento, appariva evidente che c’era qualcosa di differente nello sguardo della donna: sembrava che qualcosa la tormentasse, che le stesse consumando l’anima.
Non potendo più sopportare quella martellante curiosità, decise di tentare un approccio frontale con la collega, nel frattempo impegnata a sorvegliare gli accessi del salottino buono, nel quale era stato servito il tè alla famiglia presidenziale.
<< Dunque hai avuto delle rogne col Capitano in passato eh? E’ proprio vero che ci sono guai anche in paradiso>> disse tutto ad un tratto Cox, sforzandosi di sembrare disinteressato alla faccenda.
Hadiya si girò nella sua direzione alzando un sopracciglio, infastidita dalla facilità con cui l’altro aveva fatto saltare fuori un argomento tanto delicato.
<< Non sono affari che ti riguardano>> rispose secca lei, dopo averci riflettuto un attimo.
<< Non volevo impicciarmi. Volevo solo sapere se, dopotutto, sei umana anche tu, come tutti noi>> riprese Kieren, facendo un sorrisetto compiaciuto.
<< Non illuderti Cox: io e te non apparteniamo alla stessa specie>> precisò con una certa boria Hadiya.
<< Ah, questo è poco ma sicuro! A casa tua non si sono mai chiesti come mai il battito del tuo cuore faccia un rumore metallico? O forse anche i tuoi sono dei robot e per voi è tutto normale?>> chiese sempre più divertito l’altro.
<< Dato che i miei sono morti quando avevo cinque anni e che anche quando erano vivi riuscivo a vederli solo nei week-end, non posso garantirti al cento per cento che loro fossero robot, ma posso farlo per me stessa: in pratica lo sono. Immagino succeda quando si vive da sempre in una base militare sottomarina con delle spietate spie a farti da madre e padre>> ironizzò la donna.
Cox rimase per un attimo interdetto: non si aspettava una tale franchezza da parte della collega, soprattutto su questioni così intime. Cercò maldestramente di riparare alla sua gaffe, sussurrando un semplice “mi dispiace, non lo sapevo”.
<< Non c’è nulla di cui dispiacersi, novellino. Come ho già detto, non li conoscevo nemmeno e riesco a stento a ricordare i loro volti. Non ti può mancare una cosa che non hai mai avuto, no? Ora smettila di fare domande e mettiti al lavoro>>; Hadiya chiuse definitivamente la questione, senza dargli possibilità di replica.
Malgrado quella breve chiacchierata l’avesse aiutato a capire qualcosa in più sulla donna e sulla sua freddezza, i dubbi che opprimevano Cox sul suo coinvolgimento con la Reneskigo si erano fatti ancora più stringenti. Era riuscita a parlare liberamente e addirittura a fare ironia sulla morte dei suoi genitori, ma si era chiusa a riccio appena aveva sentito nominare quell’operazione. Del resto, se il Generale aveva addirittura parlato di forca e di alto tradimento, doveva averla combinata davvero grossa. Che l’irreprensibile e super efficiente agente De Wit avesse commesso un errore fatale in gioventù? Gli era ormai chiaro che se avesse voluto saperne qualcosa di più sulla faccenda avrebbe dovuto indagare più a fondo e con maggiore discrezione, perché nessuno avrebbe toccato apertamente per lui quel tasto così dolente.

I pronostici degli informatori dell’agenzia non si rivelarono infondati: la notizia della resa dei ribelli del sud-est arrivò dopo appena quattro giorni dal loro insediamento nel rifugio di sicurezza del neo-eletto Presidente, ormai pronto a fare ritorno nella capitale del paese e prestare giuramento davanti ai suoi concittadini, proprio nel giorno della festa della liberazione dagli estremisti. Malgrado le rivolte fossero state sedate, il trasferimento dal fortino all’eliporto abbandonato di el Gatrun -un piccolo attracco nel deserto a pochi km di distanza, da cui poi avrebbe preso un elicottero destinato a Tripoli- era comunque un’operazione rischiosa, che richiedeva la massima attenzione.
Gli agenti Cox e De Wit avevano messo a punto una strategia classica ma efficace: dal fortino sarebbero partiti tre convogli costituiti da tre fuoristrada ciascuno; ad ogni convoglio sarebbero stati assegnati dieci agenti di guardia, provenienti sia dai servizi segreti Nord-Africani che dall’Agenzia; i tre convogli avrebbero raggiunto destinazioni diverse e seguito percorsi diversi, ideati da in tempo reale da McIntyre e comunicati attraverso una linea satellitare sicura. Solo uno dei tre convogli avrebbe effettivamente trasportato il Presidente e la sua famiglia verso l’eliporto, gli altri due avrebbero fatto da esca confondente per eventuali aggressori dell’ultimo minuto. Hadiya sarebbe partita con il primo convoglio insieme a Misha Nikolaidis, Cox ed Eeki Soren con il secondo e infine due generali africani avrebbero controllato il terzo.
Rifiniti gli ultimi dettagli, le nove auto a vetri oscurati vennero fuori una ad una dall’hangar sotterraneo e si aprirono a ventaglio in tre parti, sfrecciando a tutta velocità attraverso il sabbioso deserto libico.
<< Pifferaio a Fenice, va tutto bene lì?>> chiese Hadiya ad Eeki attraverso la trasmittente, dopo circa dieci minuti di viaggio.
<< Qui tutto tranquillo Pifferaio, nessuno movimento in vista>> rispose l’agente Soren dall’altra parte.
<< Dal terzo dicono che sia tutto sotto controllo>> le disse Nikolaidis, seduto accanto a lei alla guida del fuoristrada a capo del primo convoglio.
<< Notizie dal satellite?>>
<< Confortanti. Non c’è altro che arida sabbia nel raggio di un chilometro. Se tutto va come previsto, saremo a destinazione tra meno di venti minuti>>.
<< Lo spero davvero Misha. Ho proprio voglia di tornare a casa>> mormorò, stanca di non vedere altro che infinite e silenziose distese di sabbia intorno a sé.

In realtà la donna sapeva di non avere una vera casa a cui tornare; conclusa la missione in Africa avrebbe semplicemente fatto rientro alla base e occupato di nuovo la cuccetta nella stanza che divideva con Eeki quando quest’ultima non tornava in Finlandia dalla sua famiglia. Fatta eccezione per il Capitano Huber, che, nonostante fosse la figura che più si avvicinava a quella di un padre per lei, era pur sempre un suo superiore in comando, Hadiya trovava un porto sicuro solo nell’Agente Soren.
Si erano conosciute qualche anno prima lei ed Eeki, subito dopo il suo rientro in squadra, ed avevano condiviso prima diverse missioni in giro per il mondo, poi la stanza negli alloggi della base.
Con la giovane finlandese non fu amore a prima vista: all’inizio ci furono dei piccoli attriti, dovuti soprattutto al carattere spigoloso e inflessibile della mora, ma, col tempo e tanta pazienza, la nuova arrivata cominciò a intravedere la reale natura della compagna di stanza, seppur celata sotto allo spesso muro che si era costruita intorno, e a sperare che tra loro potesse nascere una sincera amicizia.
Eeki capì che se voleva conquistarsi la fiducia della compagna e scalfire quel muro, doveva essere lei a fare il primo passo: cominciò quindi a raccontarle delle sue giornate in Finlandia, della sua famiglia strampalata, delle sue paure più imbarazzanti, delle sue speranze per il futuro e infine anche dei suoi segreti più nascosti. Lo faceva di notte, sussurrandoli tra le coperte, sperando che nessuno potesse sentirli, proprio come avrebbero fatto due ragazze normali della loro età. Hadiya non capì subito perché la bionda volesse così disperatamente la sua amicizia e forse ne fu anche infastidita in qualche frangente, ma con l’andare del tempo cominciò ad apprezzare sempre di più quegli sparuti momenti notturni di normalità, fino ad arrivare a desiderarli più di qualunque altra cosa al mondo. Si limitava semplicemente ad ascoltarla, qualche volta persino a darle consigli sulle missioni e sugli allenamenti, senza mai esporsi fino in fondo, ma la bionda aveva ormai imparato a non lasciarsi ferire da quella finta indifferenza e ad apprezzare i maldestri tentativi di Hadiya di mostrarle che teneva alla loro amicizia, tanto più che ormai riusciva a capire come si sentisse davvero anche solo guardandola negli impassibili occhi verdi.

Era una fredda notte d’inverno e la base si spostava tranquilla nelle profonde acque dell’oceano Atlantico quando Eeki le raccontò di Stellan. Lo vide per la prima volta in una tiepida mattinata di fine maggio, quando la gelida neve era ormai un ricordo e a i timidi raggi solari riscaldavano l’aria. Aveva diciotto anni allora ed era all’ultimo anno di scuola. Nella piccola cittadina in cui viveva con la sua famiglia, qualche chilometro a nord di Rovaniemi, fervevano i preparativi per la festa d’estate. La piazzetta centrale era stata adornata con decine di ghirlande di fiori freschi, che dal tetto del gazebo bianco di legno si irradiavano in tutte le direzioni, terminando sulle cime dei negozi che circondavano lo spiazzo centrale. L’uomo delle caldarroste aveva appena fatto la prima infornata della giornata e, dal piccolo banchetto rosso della sua famiglia, sentiva distintamente l’odore delle castagne che cuocevano sul fuoco. Come ogni anno, nella piccola cittadina rurale, le famiglie proprietarie delle fattorie del circondario avevano organizzato una vendita di beneficenza dei prodotti della loro terra, il cui ricavato, quella volta, sarebbe stato interamente devoluto all’ospedale locale, che necessitava di nuovi giocattoli per il reparto di pediatria. Eeki stava aiutando la madre a sistemare i biscotti al cioccolato e i vasetti di conserve sul bancone quando notò un giovane dai capelli ramati scorazzare in giro con aria incuriosita, intento a fotografare tutto con la sua macchina fotografica nera. Aveva un grosso zaino sulle spalle da cui spuntava, arrotolata come un tubo, una cartina della città e una bottiglia d’acqua. Non poteva dire che fosse di bell’aspetto: era vestito in modo stravagante e i capelli erano arruffati come quelli di un barboncino, ma gli occhi curiosi con cui osservava ogni singolo dettaglio e il modo in cui si concentrava a fotografarli avevano qualcosa di speciale, qualcosa che la colpì profondamente. Nonostante fossero passati ormai molti anni, ancora non riusciva a spiegare il motivo per cui quel giorno non smise di guardarlo neanche un attimo, neanche quando la sera, cominciata la festa, era stata impegnata a vendere le marmellate ai turisti e agli altri concittadini; appena aveva avuto un secondo libero, i suoi occhi erano andati immediatamente a cercare quella testa arruffata tra la folla. Da una parte aveva sperato che il ragazzo si avvicinasse al loro banco a comprare delle marmellate o dei biscotti: non ne poteva più di osservarlo da lontano, voleva disperatamente parlarci, conoscere il suo nome, guardare meglio il suo sorriso, chiedergli da dove venisse e cosa ci facesse lì. Dall’altra parte, invece, temeva che se si fosse avvicinato troppo si sarebbe accorto di lei e di come se ne stava lì immobile, dietro al suo banchetto, a fissarlo con lo sguardo da pesce lesso e la bocca spalancata. I suoi contrastanti sentimenti furono placati suo malgrado quando il tizio si avvicinò al banco delle marmellate e, dopo aver chiesto il permesso alla proprietaria, prese a fare delle foto al tavolino finemente decorato con centrini, fiori e frutti secchi. Dopo qualche minuto e una decina di scatti, il ragazzo chiese ad Eeki quali fossero i suoi gusti di marmellata preferiti. La biondina si prese qualche secondo per rispondere, poi, imbarazzata, indicò i barattoli di marmellata alle ciliegie; il suo sorriso non le aveva permesso di proferir parola. Il ragazzo ringraziò e le chiese di impacchettargli un barattolo di confettura alle ciliegie e uno alle albicocche, mentre tirava fuori dai jeans scoloriti una banconota stropicciata. Dopo aver pagato, scambiò qualche parola con la signora Soren, rivelando che il suo nome era Stellan, è che non era un turista, bensì il nipote della signora Hallsten, tornato in città con la sua famiglia per le vacanze estive. Eeki, che aveva attentamente ascoltato tutto ciò che il ragazzo aveva riferito alla madre, gli porse il pacco che aveva minuziosamente confezionato e si dedicò subito a servire un’altra donna che era arrivata poco prima. Il ragazzo si congedò da entrambe le donne e riprese a gironzolare facendo foto alla piazza e ai cantanti che si esibivano sotto al gazebo. A quasi venti minuti dal loro incontro, Eeki si accorse che le sue mani tremavano ancora e non smisero di farlo per tutta il resto della serata; i loro sguardi, purtroppo, non si incrociarono più, ma non poteva non essere felice del fatto che, a meno di grossi imprevisti, sarebbe rimasto da quelle parti almeno fino a settembre.
Nelle settimane successive Eeki lo incontrò spesso giù in paese, sempre intento a fotografare dei dettagli che il resto del mondo avrebbe ignorato. Si era sforzata tutto il tempo ad ideare una scusa per parlargli e per trascorrere del tempo con lui, dato che la sera della festa era riuscita a malapena ad articolare le due parole che servivano a dirgli il prezzo delle confetture, ma non sapeva proprio come fare. L’occasione della vita si presentò, come molte volte succede, quasi per caso, quando i loro rispettivi padri, compagni di classe al liceo, organizzarono una cena a casa dei Soren in memoria dei vecchi tempi. Senza neanche sapere come, i due finirono seduti l’uno accanto all’altro all’estremità del tavolo e, superato l’iniziale imbarazzo, cominciarono a chiacchierare del più e del meno, dei loro amici, delle loro famiglie, delle vacanze e dei loro sogni per il futuro. Eeki voleva diventare un’insegnante di Finlandese, mentre Stellan, di due anni più grande, lavorava già da un po’di tempo in uno studio fotografico di Helsinki, dove stava imparando le basi del mestiere. Non smisero di parlare e ridere neanche per un attimo, al punto che i due toccarono a malapena i deliziosi piatti che gli venivano serviti di volta in volta dalla signora Soren. Si salutarono a malincuore quella sera; se avessero potuto, sarebbero rimasti insieme a chiacchierare fino al mattino successivo ed entrambi sapevano, come capita quando si è innamorati, che l’altro provava la stessa identica cosa. Così il giorno dopo, non appena riuscirono a liberarsi dalle faccende domestiche, si rividero nel cortile dietro casa ed Eeki lo portò in giro ad esplorare le bellezze della zona. Si rividero alla stessa ora il giorno dopo ancora e poi quello successivo, fino a che, in una calda sera di luglio, davanti al laghetto dietro casa, non si confessarono i propri sentimenti.
Non si videro mai più dopo quell’estate. Lui tornò ad Helsinki per riprendere il lavoro e lei rimase nel suo piccolo paesino a terminare gli studi e aiutare la famiglia con la fattoria. Si scrissero assiduamente per le prime settimane, poi gli impegni lavorativi di lui e quelli scolastici di lei li portarono ad allontanarsi sempre di più, fino a che smisero semplicemente di scriversi. Poco prima di partire per l’addestramento dell’Agenzia, Eeki aveva sentito da suo padre che Stellan si era sposato con una donna della capitale e che presto avrebbero avuto un bambino. Sentì una piccola fitta al cuore appena udì quelle parole, ma subito dopo realizzò che, anche se le loro strade si erano separate prematuramente, l’importante era che avrebbe ricordato per sempre con infinita dolcezza il tenero bacio che si erano scambiati quella notte stellata al lago, quando i loro cuori e i loro corpi si erano uniti per la prima volta in quel magico silenzio spezzato solo dal frinire dei grilli e dal vento tra gli alberi. Aveva conosciuto e frequentato altri uomini in seguito, ma il ricordo di nessuno di quelli le faceva battere il cuore come quello del giovane dai capelli ramati e i jeans scoloriti.


<< E tu? Sei mai stata innamorata?>> le chiese sorridendo Eeki quella notte, dopo averle raccontato della sua storia con Stellan. Sapeva che con quella domanda così diretta aveva fatto una mossa azzardata e che invadere quel territorio inesplorato avrebbe potuto far sentire la collega a disagio, facendola chiudere nuovamente in sé stessa, ma lei era fatta così: spontanea e genuina, senza preconcetti. Voleva davvero sapere se l’amica avesse mai provato le stesse emozioni che aveva provato lei in passato.
Hadiya rimase per un attimo di stucco davanti alla domanda così esplicita dell’altra, poi, facendo finta di nulla si girò dall’altro lato del letto e si rimboccò le coperte. Eeki non aveva intenzione di desistere, quindi scese dal suo letto e si lanciò su quello della mora, ripetendole con tono deciso la domanda.
<< Non puoi pretendere che sia sempre io la sola a parlare!>> lamentò la biondina, scuotendo con vigore le spalle dell’altra. Hadiya, data l’insistenza della finlandese, comprese che quella notte non se la sarebbe cavata con il suo solito “non mi va di parlarne”, quindi si mise a sedere a gambe incrociate sul letto, fissò la ragazza seduta di fronte con aria seria e mormorò: << sì, lo sono stata>>.
Eeki strabuzzò gli occhi e tentò malamente di nascondere il suo stupore; non si aspettava davvero che la scostante compagna di stanza avesse provato quel genere di sentimenti, né tantomeno che lo rivelasse così liberamente, nonostante ci avesse sperato con tutta se stessa. Forse erano davvero diventate amiche.
Rincuorata dalla sua confessione, le chiese, stringendole forte la mano, se le andasse di parlargliene.
<< Non c’è molto da dire>> rispose con la solita freddezza l’altra << l’ho conosciuto durante una missione qualche anno fa e…>>. Lasciò la frase in sospeso e distolse lo sguardo, fissando l’angolino basso del letto.
Eeki le diede qualche secondo, poi, diretta come un treno, le chiese con nonchalance: << quale missione? quella che hai fatto prima che io arrivassi?>>.
<< Sì, ma sai che non posso dirti altro a riguardo, sono informazioni riservate>> rispose secca l’altra. Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, la finlandese aveva intravisto un velo di tristezza negli occhi della ragazza.
<< Non voglio sapere della missione, vorrei solo scoprire qualcosa in più su questo uomo del mistero. Doveva essere davvero speciale se è riuscito a conquistarti, eh?>> le chiese poi, cercando di non farle troppa pressione.
<< Sì, beh lui era… non speciale; diverso, direi. Non so spiegarti come, ma era diverso>> si fermò un attimo a prendere fiato, poi sorrise e disse: << tra noi non è stato amore a prima vista come tra te e Stellan, è stato complicato. Molto complicato>>.
Negli occhi di Hadiya la tristezza aveva ora fatto posto ad uno strano mix di sentimenti, quel misto di felicità e nostalgia che si prova quando si ricorda un momento felice della propria vita che non tornerà mai più.
<< Beh e ora dov’è? Lavora ancora qui?>> chiese sollevata Eeki, ormai definitivamente convinta che anche l’irreprensibile agente De Wit avesse delle debolezze.
<< No… E’ stato ucciso>> rispose tentennando Hadiya.
Eeki la guardò fisso per qualche secondo, indecisa su quali parole usare e se fosse il caso di chiedere altro a riguardo; poi disse semplicemente che le dispiaceva.
<< Oh no, non dispiacerti, davvero! Il tempo che abbiamo condiviso è stato davvero fugace, talmente breve che a volte mi chiedo se sia davvero esistito o se me lo sia solo immaginato>> fece agitando le mani la mora.
Eeki sentì una forte tristezza assalirla al suono di quelle parole. Le emozioni che proviamo attraverso i ricordi sono l’unica cosa che testimonia che quei momenti sono veramente esistiti, anche a distanza di anni, quando ormai sembrano lontani e irraggiungibili.
Cancellare i ricordi, felici o tristi che siano, equivale a non averli mai vissuti davvero, ad aver abbandonato questo mondo senza aver lasciato tracce del proprio passaggio, e non c’è niente di peggio che lasciare un luogo esattamente come è stato trovato. Era una cosa che le aveva detto il fratello quando erano bambini e da allora ne aveva fatto il suo personale mantra.
<< Beh, ora basta parlare di queste cose, è tardi e domani abbiamo una missione importante da preparare>> concluse infine Hadiya, che spense la lampada al neon sul comodino e si voltò dall’altra parte del letto, prima che l’amica potesse farle altre domande scomode su quella dolorosa faccenda.
Eeki non sapeva nulla di quello che era successo con la Renaskigo: era stata arruolata almeno un anno dopo quei terribili fatti e Hadiya non aveva mai osato raccontarle la storia, almeno non tutta. A volta si chiedeva se non lo avesse mai fatto perché non poteva, in quanto informazioni strettamente riservate, o perché aveva semplicemente paura. La minuta biondina una notte le aveva raccontato che suo fratello maggiore, uno stimato diplomatico in stanza al consolato finlandese di Roma, a cui lei era profondamente affezionata, aveva perso la vita nell’attentato di piazza San Pietro, ad appena trentadue anni. La vita sua e della sua famiglia era stata completamente stravolta da quell’avvenimento, portando la madre a tentare il suicidio e lei ad abbandonare gli studi di lettere in patria e a diventare un agente segreto al soldo del primo e più grande stato democratico che fosse stato creato dopo la sanguinosa guerra contro i fondamentalisti islamici.
Non aveva avuto il coraggio di dirle che avrebbe potuto evitarlo quell’attentato se avesse voluto. Non aveva avuto il coraggio di dirle che avrebbe potuto salvare la vita a duemila persone, compreso il suo adorato fratello, se non fosse stata così stupida e debole; non ce lo aveva proprio e probabilmente non lo avrebbe mai avuto. Avrebbe continuato a sentirsi così, colpevole di star raggirando l’unica persona che le voleva bene davvero e impotente davanti a degli errori a cui non poteva più rimediare, bloccata in un limbo da cui non sapeva uscire.
Odiava quel deserto silenzioso; il silenzio faceva risvegliare implacabile tutti i demoni del suo passato. Voleva tornarsene a casa sua, in quella rumorosa base sottomarina che navigava senza sosta nelle acque del Mediterraneo, a trascorrere le notti in bianco ad ascoltare i sussurri quasi impercettibili dell’unica amica che avesse. Voleva tornare nell’unico posto in cui i sussurri facevano più rumore dei suoi pensieri.

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Capitolo 8
*** Fuoco incrociato ***


8



<< Ci sono dei problemi in vista!>> la voce spezzata di Ben McIntyre risuonava chiara e forte nelle trasmittenti degli uomini dell’Agenzia, quando ormai mancavano pochi minuti all’arrivo a destinazione.
<< Che diavolo succede Ben? Parla!>> lo esortò concitata Hadiya.
<< Vedo dei fuoristrada non identificati in rapido avvicinamento all’eliporto. Non capisco da dove diavolo siano venuti fuori>>.
<< La nostra destinazione finale era super segreta! Come hanno fatto a scoprire che il convoglio col presidente era proprio diretto all’eliporto?>> tuonò Cox dall’altra parte.
<< Non riesco a spiegarmelo Anemone, ho calcolato i percorsi minuto per minuto e li ho comunicati direttamente ai convogli attraverso una rete sicura. E’ impossibile scavalcare il mio sistema di sicurezza e posso garantirvi che nessuno vi ha seguiti da quando avete lasciato il fortino>> rispose l’informatico mortificato, quasi a volersi giustificare per una colpa che si era automaticamente addossato.
<< Sappiamo che non è colpa tua Ben, hai fatto tutto secondo protocollo>> rispose con tono conciliante l’agente Soren.
<< Certo McIntyre, non ti crucciare. Piuttosto, è stato il nostro piano con le tre esche a rivelarsi un fallimento, non solo perché chiunque sia questo aggressore sapeva perfettamente dove ci saremmo diretti sin dall’inizio, ma anche perché adesso abbiamo la squadra divisa in tre parti, distanti diversi km tra loro e non possiamo fronteggiare al meglio questa banda di criminali>> aggiunse dopo aver fatto una lucida analisi della situazione Hadiya.
<< Questo chiacchiericcio non risolve il nostro problema>> disse intromettendosi nella conversazione Cox << cosa facciamo io e Fenice ora, Pifferaio? Cambiamo destinazione?>>.
Hadiya si massaggiò vigorosamente le tempie e si sforzò di ideare alla svelta un piano alternativo senza dare di matto. Far cambiare destinazione all’ultimo minuto agli agenti Soren e Cox era troppo rischioso: era ormai chiaro che gli aggressori sapessero che il presidente era con loro e, non vedendoli arrivare, avrebbero potuto inseguirli a distanza per ore, aspettando il momento buono per colpire; senza contare che, deviando dal percorso stabilito, il presidente non sarebbe mai arrivato in tempo a Tripoli per il giuramento davanti al parlamento; gli Africani erano superstiziosi, certe cose andavano fatte solo nei giorni più propizi dell’anno, come la festa della liberazione. Valutò in fretta un altro paio di opzioni improbabili, fino a che non si convinse che non avevano alternative: dovevano rischiare tutto. Ordinò a Nikolaidis e al suo seguito di cambiare direzione, dopodiché, rivolgendosi a Cox, disse: << Anemone, ascoltami bene ora, abbiamo un’unica pericolosissima chance di far arrivare a Tripoli, non in delle casse da morto, Nadym e la sua famiglia. Scinderemo il vostro convoglio in tre parti: l’auto che trasporta la moglie e i figli di Nadym farà dietrofront e tornerà al fortino, non abbiamo alcuna fretta di far rientrare in città anche loro, mettendoli seriamente in pericolo. L’auto con il presidente, invece, vi seguirà a debita distanza, protetto dagli agenti segreti africani e presto anche da noi, che siamo già in marcia a tutta velocità nella loro direzione. Voi due, invece, insieme ai due agenti di supporto che sono con voi in auto, continuerete il vostro percorso, arriverete all’eliporto e cercherete di sgominare la banda di criminali. Solo quando sarete riusciti a sventare l’attacco noi vi raggiungeremo con le nostre auto e faremo prendere al presidente quel maledetto elicottero. E’ tutto chiaro?>>.
Un eloquente silenzio si levò dall’altro capo della trasmittente; Cox, Soren e gli altri due agenti erano appena stati mandati al patibolo. Come avrebbero potuto contrastare l’azione dei terroristi da soli? Come avrebbero potuto sgombrare l’eliporto e permettere al presidente di partire senza avere una adeguata squadra di supporto e informazioni sullo schieramento e il numero dei nemici? La verità era che non potevano. Il rischio era davvero enorme e Hadiya lo sapeva, ma non aveva altra scelta. Non poteva permettere che la missione fallisse, anche se questo significava mettere a repentaglio la vita sua e dei suoi colleghi.
Cox socchiuse per un attimo gli occhi e respirò profondamente, dopodiché guardò con aria decisa l’agente Soren e fece un cenno col capo. L’altra annuì.
<< Ricevuto Pifferaio>> rispose poi con fermezza attraverso la trasmittente la biondina, mettendo in moto il rovente fuoristrada.
<< Buona Fortuna Eeki>> le augurò sottovoce l’amica.

Dopo circa dieci minuti, gli agenti Soren, Cox e gli altri due uomini dell’agenzia, Tura e Fanin, abbandonarono il fuoristrada nero a qualche centinaio di metri di distanza e si avvicinarono all’eliporto a piedi, cercando di coprire le proprie tracce e non fare rumore. Gli attentatori erano arrivati lì con tre grossi fuoristrada grigi, che avevano poi parcheggiato nel cortile posteriore, così come si intuiva dalle immagini del satellite fornite da Ben. Due di loro erano rimasti di guardia all’ingresso dell’edificio, mentre altri tre pattugliavano l’intero perimetro. Probabilmente ce ne erano molti altri all’interno, vicino alla pista di atterraggio, ma allo stato attuale delle cose non potevano esserne certi. Cox ordinò agli agenti di supporto di coprirgli le spalle, mentre lui ed Eeki si avvicinavano di soppiatto ai due omoni all’ingresso; prima che questi potessero accorgersi di loro e dare l’allarme, furono raggiunti dritti al torace da due proiettili silenziosi, lasciando i loro corpi senza vita accasciarsi dolcemente al suolo. I quattro avanzarono con cautela attraverso l’ampia sala d’ingresso dell’edificio, sul cui lato destro si stagliava una scrivania nera ricoperta di sangue: l’impiegato che teneva il registro degli ingressi e delle uscite era stato ucciso senza pietà sulla sua sedia di plastica sbilenca, con il braccio che cadeva penzoloni verso il basso. Anche gli altri quattro dipendenti dell’edificio erano stati uccisi e i loro cadaveri abbandonati accanto alle rispettive postazioni di lavoro: i terroristi non facevano prigionieri.
Si ritrovarono davanti un altro uomo incappucciato a guardia della porta sul fondo della stanza; non potendo più sfruttare l’effetto sorpresa, Tura, uno dei due agenti di supporto, si lanciò in un violento scontro corpo a corpo dopo essere riuscito a disarmare l’avversario.
Gli altri, nel frattempo, proseguirono verso l’anticamera che conduceva alla pista di atterraggio, dove dieci uomini attendevano il jet privato che avrebbe dovuto portare a Tripoli il presidente. Nascosti dietro alla parete che dava direttamente sull’ampio cortile posteriore, i tre aspettavano solo il momento giusto prima di lanciarsi in un disperato attacco frontale da cui probabilmente non sarebbero usciti vivi.
Cox inspirò profondamente da una sigaretta stropicciata che aveva appena tirato fuori dalla tasca dei pantaloni. Sorrise beatamente, come preso da una strana ed avvolgente quiete interiore. Buttò a terra la sigaretta, la spense con il piede destro e diede l’ordine silenzioso ai colleghi.
Fanin diede un forte calcio alla porta sul retro, lasciando uscire Eeki e Kieren che, con le loro mitragliatrici, cominciarono a sparare a raffica sugli uomini incappucciati. Questi, presi alla sprovvista, si ripararono meglio che poterono dietro ad una piccola cabina elettrica in disuso che si trovava sul fondo della pista. Dopo essersi riorganizzati, risposero al fuoco lanciando una bomba carta nella loro direzione, facendo crollare rovinosamente la parete dell’anticamera retrostante; riuscirono a scansarsi tutti miracolosamente. Soren trovò riparò dietro ad un carrello per i bagagli, da cui si affacciava ogni tanto continuando a sparare sui tizi in nero, mentre Cox e Fanin si ricongiunsero all’agente rimasto indietro, che aveva ormai sistemato il suo nemico. I tre avanzarono con cautela verso una delle colonne che costeggiavano i lati della pista, una di quelle alla cui sommità si attaccano gli indicatori di direzione del vento, beccandosi più di una pallottola nel breve tragitto. Uno dei due agenti di supporto era stato ferito all’addome, mentre Eeki continuava ad essere tempestata dai proiettili delle semi-automatiche dei terroristi. Dei dieci incappucciati presenti, quelli dell’Agenzia erano riusciti a farne fuori almeno due e ferirne gravemente un altro, ma erano ancora quattro, di cui uno colpito all’addome, contro otto: la matematica era contro di loro. Kieren, facendo attenzione a non esporsi troppo dal suo nascondiglio, notò che in una posizione più riparata, accanto alla cabina elettrica dismessa, c’era un uomo alto, vestito con un elegante abito blu, anch’egli a viso coperto, protetto da altri due signori armati fino al collo. Non poteva esserne sicuro, ma uno dei due sembrava proprio Huseynov; non solo per la stazza e l’altezza, ma anche perché dal cappuccio nero, che gli copriva solo in parte il collo, fuoriusciva qualche pelo di barba rossa.
Da lontano, un rumore di pale rotanti attirò l’attenzione dei presenti, che volsero all’unisono gli occhi verso l’elicottero del presidente, il cui atterraggio era ormai imminente. Cox approfittò del momento di distrazione degli aggressori per avanzare ancora in direzione dell’uomo in blu, facendosi coprire le spalle dai due uomini di supporto. Un paio di proiettili gli sfiorano il viso e le braccia, lasciandogli dei superficiali graffi sanguinanti. Si nascose nuovamente dietro ad una colonna laterale, qualche metro più avanti.
<< Pifferaio, se tu e gli altri siete in zona, credo che questo sia proprio il momento più adatto per entrare in azione!>> urlò Kieren alla trasmittente, cercando di esorcizzare la tensione di quei momenti con la sua solita ironia << il nostro elicottero si sta avvicinando e il presidente non può ancora mettere piede da queste parti, a meno che non abbia intenzione di diventare uno scolapasta!>>.
Non ricevette risposta, se non l’astruso crepitio della ricetrasmittente della collega. Un’altra bomba carta fu lanciata nella direzione dell’agente Soren, che fu costretta ad abbandonare il proprio rifugio dietro al carrello e a riparare rovinosamente dietro ad una delle auto degli aggressori. Senza il supporto di nessuno dei colleghi, la sua gita in avanscoperta le costò una pallottola nel braccio destro, da cui sgorgava una quantità di sangue tale da formare un sottile rigagnolo che scorreva al di sotto delle ruote dell’auto. Si strappò un pezzo di stoffa dalla maglia bianca e se lo strinse forte intorno al braccio, cercando in ogni modo di fermare l’emorragia.
<< Cazzo Pifferaio rispondi! Fenice è appena stata colpita. Ripeto: Fenice è appena stata colpita>> ripeté disperato alla trasmittente Cox, che, a quel punto, non poteva fare altro rispondere al fuoco nemico con qualche isolato colpo di pistola. Prima che potesse cominciare a dar fondo a tutti gli imprechi che conosceva, vide gli agenti De Wit e Nikolaidis, insieme agli altri del primo convoglio, raggiungere la pista di atterraggio, attraverso le macerie del muro mezzo crollato dell’anticamera.
Lo scontro a fuoco che coinvolse loro e gli attentatori durò almeno dieci minuti: persero la vita quattro agenti dell’Agenzia e altri tre tra i terroristi. Hadiya raggiunse con molta fortuna Cox dietro alla spessa colonna del vento e gli fornì munizioni per la sua pistola, mentre altri aiutarono Eeki a fasciare la sua ferita.
<< Giusto in tempo!>> esclamò sorridendo Kieren << pensavo davvero che vi foste dimenticati di noi!>>. << Te l’ho già detto Cox: io e te non facciamo parte della stessa specie. Ad ogni modo, ho contattato il pilota dell’elicottero e gli ho chiesto aspettare ancora un po’ prima di atterrare, temevo che i terroristi potessero danneggiarlo prima di avervi fatto salire il presidente>> fece quella con aria sicura << il punto è che il tizio ha detto di non avere abbastanza carburante per restare ancora in giro e riportare poi a Tripoli il nostro passeggero. Deve per forza atterrare tra un paio di minuti>>.
<< Ma ci sono ancora cinque di quegli uomini qui! Come facciamo a far partire in sicurezza Nadym?>>.
<< Non possiamo! Per questo dobbiamo giocarci il tutto per tutto ora. Il presidente sta arrivando, scortato dagli africani, e, una volta che avrà messo piede su questa pista, dovremo coprirlo a costo delle nostre vite, fino a quando non sarà salito su quel mostro volante… Inizia a pregare Cox>> disse Hadiya con fermezza.
Il biondo annuì e cominciò a ricaricare la sua semi-automatica, preparandosi psicologicamente a quello che sarebbe stato lo scontro finale. Ormai aveva tanta di quell’adrenalina in circolo che non sarebbe stato un problema gettarsi nell’ennesima missione suicida della giornata.
<< Il tipo laggiù in fondo, quello vestito in blu. Guardalo un attimo. Credo sia il loro capo>> disse poi alla collega, muovendo discretamente la testa in direzione della cabina elettrica.
Un’altra scarica di proiettili si abbatté su di loro, facendo staccare un grosso pezzo di granito dalla colonna del vento, ormai bucherellata come groviera.
<< Scusa Cox, ma adesso non posso, sono impegnata a gestire quel cretino che continua a spararci contro>> rispose Hadiya a voce alta, cercando di sovrastare il rumore degli spari. Quando questi ultimi si fermarono, la ragazza guardò di sottecchi l’uomo indicato da Cox.
<< Da come lo proteggono a vista direi che sì, è probabile che sia il loro capo. Ma non possiamo esserne certi>> fece la donna. Arrivarono altri spari e poi altri silenzi. Quel gioco infinito si protrasse per i successivi cinque minuti, fino a quando il rumore delle pale dell’elicottero non distrasse nuovamente i protagonisti di quell’incredibile partita a scacchi, il cui esito era quanto mai incerto.
<< Dobbiamo andare a prendere il presidente, presto!>> ordinò attraverso la trasmittente Hadiya, sfruttando la confusione creata dall’atterraggio per tornare all’ingresso dell’edificio a prelevare Nadym. A lei si unirono anche Eeki, che riusciva a sparare perfettamente col braccio sinistro e Cox, già informato del piano.
Quando l’agente De Wit prese sotto braccio il Presidente, si rese conto di quanto l’uomo stesse tremando. Gli mise una mano sulla spalla e gli sorrise, rassicurandolo del fatto che sua moglie e i suoi figli stessero bene e che, se avesse fatto tutto ciò che lei gli avrebbe detto, il giorno successivo a quell’ora sarebbe stato su un palco, in diretta televisiva mondiale, a tenere il suo discorso di insediamento davanti al parlamento del suo paese e ai suoi concittadini. L’uomo strinse forte i denti e annuì, cercando di trovare dentro di sé la forza per affrontare quell’enorme sfida.
Varcarono la soglia della pista di atterraggio e l’elicottero sembrò più lontano che mai; la strada che dovevano percorrere, seppur non smisurata, era completamente scoperta e si sarebbero trovati a lungo sotto il tiro degli uomini incappucciati.
Coperti solo dai colleghi disposti sui lati, i tre scudi umani avanzarono velocemente attraverso la pista di atterraggio, tentando di rispondere al meglio al fuoco nemico.
Dopo aver schivato decine di pallottole, una delle quali colpì Cox alla spalla, arrivarono infine al portello dell’elicottero, sospeso a qualche metro da terra per non essere danneggiato dagli spari. Dall’alto fu lanciata una sottile scala a pioli di corda, con cui il presidente avrebbe dovuto raggiungere l’abitacolo e prendere finalmente la strada di casa.
Mentre Hadiya cercava di districare la corda della scala per permettere all’uomo di salirvi, Cox notò che l’incappucciato vestito di blu si stava muovendo con una disinvoltura terrificante verso di loro, nel mare di pallottole che si stagliavano tutto intorno e che sembravano non sfiorarlo minimante, affiancato da quelle che, forse, erano le sue due guardie personali.
<< Fate fuoco su quelli che si stanno avvicinando all’elicottero!>> urlò Cox agli uomini di supporto, ormai stremati e senza sufficienti munizioni.
Hadiya era riuscita a sistemare la scala, tese la mano all’indietro al presidente per aiutarlo a salirvi e dare finalmente l’ordine al pilota di ripartire. L’uomo in blu era ormai arrivato a pochi metri di distanza da loro, completamente disarmato e coperto solo dai suoi due scagnozzi.
La ragazza lo vide con la coda dell’occhio. Cercò di ignorarlo per non farsi distrarre, ma poi la curiosità divenne troppo forte e si girò apertamente verso di lui. Cominciò a scrutarlo attentamente, facendo attenzione ad ogni minimo particolare, partendo dalle eleganti scarpe nere laccate, all’orologio in oro sul polso sinistro, alla cravatta di seta stretta al collo. La sua attenzione, infine, si concentrò sul suo volto, coperto quasi interamente dal cappuccio scuro, fatta eccezione per gli occhi e la bocca. Attraverso i due piccoli fori che erano stati ricavati dal cappuccio nero, intravide degli occhi scuri che la stavano fissando. Rimase paralizzata davanti alle scale, con gli occhi sbarrati e il respiro irregolare.
<< Pifferaio che diavolo stai facendo?>> le disse Cox alle sue spalle << aiuta il presidente a salire!>> Non ricevette risposta, Hadiya sembrava essere in un altro mondo.
Il biondo riprese, stavolta urlando: << Pifferaio maledizione svegliati!>>.
La prese per un bracciò e la scrollò forte, poi le girò il viso in modo che potesse guardarlo negli occhi e le urlò: << non so cosa diavolo ti sia preso, ma questa sembra proprio una delle stronzate che farei io. Tu sei di un’altra razza, quindi dimostralo e svegliati! >>.
Hadiya strinse le palpebre e scosse il capo, come se si fosse appena risvegliata da un lungo torpore, dopodiché annuì al collega, prese la mano del presidente e lo aiutò a salire sulle scale. Si mosse dietro di lui a fare da scudo fino a che non raggiunse l’ultimo piolo e attraversò la porta dell’elicottero, che, al suo ordine, si librò finalmente in volo.
Gli agenti si rivolsero immediatamente verso l’uomo in blu e il resto della banda, ma quelli, ormai decimati, avevano già raggiunto le loro auto e si erano dati alla fuga attraverso il torrido deserto.
I tre al centro della pista si guardarono negli occhi per qualche secondo, sorrisero lievemente, e poi si lasciarono cadere a terra, stremati. Cominciarono nuovamente a respirare.

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Capitolo 9
*** Radioactivity ***


9



Erano passate appena due settimane dal loro arrivo al campo di addestramento, ma a Mark e Sofyane sembrava di essere lì da un’eternità. Il corso intensivo si era rivelato più duro del previsto e l’atteggiamento a dir poco dispotico dei due coordinatori non rendeva di certo le cose più facili. Shaw e Lee si alternavano regolarmente tra la direzione degli addestramenti fisici e le lezioni teoriche e se il primo aveva sin da subito dato dimostrazione della sua intolleranza e suscettibilità, il secondo, seppur più taciturno e meno sprezzante del compare, non era stato da meno in quanto a severità e superbia. Dopo quel piccolo incidente in palestra, Sofyane aveva sentito gli occhi inquisitori dell’asiatico tutti puntati su di sé, ma, non avendogli dato di modo di sospettare ulteriormente di lei, ebbe l’impressione che il tipo si fosse convinto della sua sincerità e avesse cominciato a marcarla meno stretto, anche se qualche volta lo beccava ancora a fissarla da lontano, tentando di non farsi scoprire.
Alle reclute non erano state fornite molte spiegazioni quando, quella mattina, furono svegliati alle prime luci dell’alba e messi su un autobus bianco diretto verso la periferia. Quando dopo qualche ora finalmente scesero dall’angusto mezzo, si ritrovarono alle porte di una piccola cittadina rurale, con le case in mattoni e i comignoli dei camini che sporgevano dai tetti a spiovente, circondata da enormi campi da coltivazione e basse collinette.
<< Wow, che bel posto!>> disse stropicciandosi gli occhi con le nocche Mark << potrei trasferirmici con la mia futura famiglia tra qualche anno!>>.
Sofyane arricciò le labbra in segno di disappunto, lo prese con una mano per la mascella costringendolo a guardare in avanti e con l’altra indicò un palazzo diroccato, << guarda meglio genio, questo posto è abbandonato da almeno venti anni!>>.
Delle risatine soffocate si levarono davanti all’espressione esterrefatta di Mark.
<< Non ci sarà molto ancora da ridere>> fece con tono serio Lee intromettendosi bruscamente nel discorso, << oggi farete la vostra prima prova sul campo>>.
Il giorno in cui i cadetti avrebbero finalmente messo in pratica quanto avevano appreso tra i banchi e in palestra nelle ultime settimane era arrivato. I due uomini di Dahl avevano scelto come banco di prova un’analisi, piuttosto semplice in realtà, di una falda acquifera che si trovava in un campo abbandonato a poche decine di chilometri di distanza dalla capitale, ad est della cittadina abbandonata. Se la falda fosse risultata non contaminata avrebbe contribuito ad ampliare le scarse risorse idriche della più popolosa città della confederazione e a tamponare, almeno in parte, quella che era ancora considerata un’emergenza umanitaria.
<< Come molti di voi avranno già notato, questa ridente cittadina è stata abbandonata circa venti anni fa, dopo l’attacco nucleare sferrato dai fondamentalisti islamici. Fino a qualche anno fa i livelli di radiazioni erano talmente alti da rendere l’aria irrespirabile, ma di recente, dissoltasi la nube radioattiva, è stato possibile studiare meglio la zona. Grazie anche a delle vecchie mappature geologiche risalenti a prima della guerra, abbiamo scoperto che c’è una falda acquifera a circa due km da qui, nel campo a nord-est. Non sappiamo quanto le rilevazioni dell’epoca siano precise, né se quell’acqua sia ancora contaminata. Il vostro compito oggi è quello di effettuare profondi carotaggi nel raggio di 500m dal supposto centro della fonte per rilevare i livelli di metalli pesanti e, soprattutto, individuare precisamente l’origine della falda e misurarne i livelli di radioattività>> spiegò l’orientale alle reclute; poi, indicando due furgoncini che avevano appena accostato, << ora scaricate i carotieri dai furgoni e prendete il resto dell’attrezzatura>>.
I giovani si misero immediatamente all’opera e dopo aver indossato tute e guanti di protezione, si diressero verso nord-est, attraversando l’esteso campo su cui ormai cresceva solo una giallognola erbetta bassa, sollevata dal vento che spirava da ovest. Trasferite le attrezzature in posizione e messi all’opera i quattro carotieri, controllati da circa otto persone, il resto della truppa, compresi Mark e Sofyane, si dedicò all’individuazione della falda.
Dopo circa un’ora di trivellazioni, venne fuori una prima vena d’acqua.
<< Mi scusi signore, abbiamo trovato l’origine della falda>> disse all’asiatico Freeman, un giovane geologo di origini inglesi compagno di Sofyane e Mark.
Lee, impegnato con uno dei carotieri, lasciò il controllo al collega e si diresse a passo svelto verso la vena appena scoperta. Il liquido che sgorgava era poco, ma sicuramente era acqua: ce l’avevano fatta.
<< A che profondità ci troviamo?>> chiese l’uomo mentre ispezionava la fonte.
<< Ad appena quindici metri, signore>> rispose il geologo dopo aver dato un’occhiata alla scala del trivellatore.
Lee aggrottò le sopracciglia con aria preoccupata, << questa falda è inutile>> disse, scuotendo il capo.
<< Cosa? Perché?>> chiesero quasi in coro Sofyane e Freeman, fino ad un attimo prima entusiasti per la scoperta appena compiuta.
<< I ragazzi dei carotaggi hanno rilevato tracce di metalli pesanti fino a 12m, la falda è troppo vicina al limite per essere pulita>> rispose secco l’altro, mentre si asciugava le mani bagnate con uno straccetto preso dal tavolo.
<< Non è detto che l’acqua sia contaminata! Potrebbe esserci uno strato di pietra impermeabile che ha impedito ai metalli di scendere più in profondità!>> replicò Sofyane, mordendosi l’interno delle guance per la rabbia.
L’uomo le lanciò un’occhiata interrogativa, poi con tono pacato le disse: << ci sono appena tre metri di distanza tra la falda e l’ultimo strato contaminato, sono troppo pochi per isolare la vena. Non fatemelo ripetere: la falda è inutilizzabile>>.
Prese tutti i carteggi che aveva lasciato sul tavolino di plastica sbilenco e cominciò ad arrotolarli, facendo segno agli altri uomini della squadra di levare le tende: non avevano più nulla da fare lì. Gli altri eseguirono senza batter ciglio. L’indignazione di Sofyane cresceva sempre di più mentre vedeva i colleghi, arresisi immediatamente agli ordini del superiore, smontare i carotieri e la trivella. Stringeva forte i pugni cercando di mantenere la calma e di fare quanto le era stato ordinato anche dai suoi superiori: tenere un profilo basso. Ma non era forse garantire il bene dei cittadini e del suo popolo il fine ultimo del suo lavoro? E lasciar perdere quella enorme montagna d’acqua, non era forse uno sgarro ben peggiore che mandare all’aria il suo lavoro di infiltrazione?
<< Signore, mi spiace dover insistere ma stiamo gettando all’aria come se nulla fosse una preziosissima risorsa per gli abitanti della capitale. Dovrebbe almeno lasciarci fare qualche controllo più approfondito prima di lasciar perdere>> disse all’asiatico con tono deciso, dopo averlo tirato per la manica della giacca.
Quello strabuzzò gli occhi e scuotendo vigorosamente il punto in cui la ragazza lo aveva toccato, come se fosse stato infettato da qualche strana malattia, le disse con tono imperioso: << davvero crede che non sappia quanto sarebbe importante questa fonte per la città? Mi ha preso per uno stupido? Ma tre metri di separazione sono troppo pochi per garantire la limpidità della vena e scendere fin laggiù, attraversando dodici metri di terreno contaminato, per prelevare un campione puro di quell’acqua sarebbe troppo rischioso. Il gioco non vale la candela>>.
<< Con una corda lunga, una doppia tuta di protezione e un contatore Geiger si potrebbe fare>> rispose sicura Sofyane.
<< Due tute di protezione dice? Quel pozzo è profondo quindici metri. Nella migliore delle ipotesi un individuo esperto e altamente addestrato impiegherebbe venti minuti solo per arrivare sul fondo, altri cinque minuti per prelevare un litro d’acqua dalla sottile vena, poi altri due minuti per dare il tempo al contatore Geiger di valutare i livelli di radioattività e infine altri dieci minuti per risalire, anzi quindici, considerando il peso aggiuntivo dell’acqua prelevata. In totale, sarebbero circa quarantacinque minuti di esposizione ravvicinata ad una fonte radioattiva. Sa quanti rischi questa persona correrebbe?>> replicò l’altro sempre mantenendo il suo aplomb << e poi chi sarebbe questo esperto? Lei per caso? Non è altro che una recluta in prova per ora, non si attribuisca capacità che non può avere>>.
Le diede le spalle e si diresse verso il collega, intento ad aggiornare telefonicamente Dahl sulla situazione.
Sofyane fece un respiro profondo e, dopo aver riflettuto un attimo, disse: << sì, sarei io. Posso farcela in trenta minuti>>. L’uomo si voltò bruscamente e le fece uno sguardo truce.
<< Così crede di poterci mettere trenta minuti?>>.
<<< Non lo credo, ne sono sicura>> rispose Sofyane sostenendo senza timore lo sguardo infuocato dell’altro.
L’asiatico strinse gli occhi e abbozzò un sorriso compiaciuto, poi diede a tutti l’ordine di fermarsi e le disse con aria di sfida: << va bene, se crede di essere tanto brava ci provi pure signorina Sofyane Bertrand, ma se tra una settimana si troverà a doversi sfilare la pelle dalle gambe come un calzino a causa delle radiazioni, dovrà dare la colpa solo alla sua superbia>>.
La ragazza fece un cenno di assenso e cominciò immediatamente a prepararsi per la lunga scalata, col supporto di un esterrefatto Mark.
<< Tu sei pazza>> bisbigliò il ragazzo una volta che l’amica ebbe finito di sistemare la trasmittente con cui sarebbe rimasta in contatto con i colleghi.
<< Mi raccomando Bertrand, non toccare mai direttamente le pareti del pozzo se non con gli stivali di gomma isolante e appena vedi che sono passati venti minuti comincia a risalire, non importa se hai finito di fare i rilievi o meno. Tutta questa storia non vale quanto la tua vita>> le disse mettendole una mano sulla spalla Freeman.
La donna annuì e gli sorrise timidamente, poi disse: << grazie del sostegno, ma ce la farò>>.
Lee Tae Jun dal canto suo, si sistemò a braccia conserte davanti al pozzo, osservando con espressione severa tutta l’operazione, mentre il resto della squadra e Shaw si disposero accanto a lui in silenzio religioso. Una volta assicurata la corda ad un paletto poco distante e connessa la trasmittente con il microfono tenuto dal geologo, la ragazza cominciò la sua discesa nel pozzo, aggrappandosi con una mano alla fune e con l’altra reggendo una torcia.
Dopo diversi minuti di trepidante attesa, una voce scricchiolante proveniente dalla trasmittente spezzò il silenzio del gruppo: << ci sono! Sono arrivata sul fondo!>>.
Freeman guardò con la bocca aperta e gli occhi sbarrati i minuti segnati sul suo cronometro << ci ha messo dodici minuti e trentasette secondi! Dodici minuti e trantasette secondi! Come diavolo è possibile?>>.
Lee inarcò le sopracciglia e si allungò verso il geologo per controllare meglio il tempo riportato dal suo orologio da polso dorato. Aveva detto il vero: erano passati meno di tredici minuti da quando Sofyane era partita ed era già arrivata al fondo del pozzo.
<< Ho appena fatto partire il contatore Geiger. Quanto tempo devo aspettare prima di avere la misura precisa?>> chiese la ragazza.
<< In teoria più tempo resti lì sotto più il campionamento è preciso, ma ad occhio e croce dire che due minuti possano bastare>> rispose grattandosi il mento il geologo. Dalla trasmittente le reclute e i due coordinatori potevano sentire distintamente i bip prolungati emessi dal contatore Geiger di Sofyane; esattamente trenta secondi dopo i bip cominciarono a farsi sempre più distanti, fino a che scomparvero del tutto dopo circa un minuto.
<< Sono passati due minuti, il contatore indica 0,25 microsievert! Siamo nei limiti di radioattività consentiti dalla legge!>> disse festosa la voce proveniente dal pozzo << adesso raccolgo il campione di acqua e risalgo>>.
Un caloroso applauso e diversi fischi partirono alla buona notizia portata dalla giovane, sempre più vicina a raggiungere il suo obiettivo, ormai diventato una vera e propria sfida contro se stessa e il suo superiore; ma le grida di gioia e ammirazione del gruppo lasciarono ben presto posto ad un silenzio carico di tensione e aspettative. Passarono, infatti, prima tre minuti, poi quattro, poi cinque: la trasmittente non dava segni di vita.
<< Stiamo cominciando a preoccuparci Sofyane! Quanto ti ci vuole a prendere quell’acqua?>> tuonò Mark al microfono, tenuto su a stento dalle mani tremolanti del geologo. Il nervosismo e la tensione cominciavano a farsi sentire.
La donna, però, rispose dopo un attimo: << la vena che abbiamo trovato è più sottile di quanto pensassimo. Mi ci vorrà ancora un po’ a riempire il contenitore!>>.
<< Cosa? Non esiste! Sei lì sotto da venti minuti ormai, devi cominciare a salire!>> replicò forte l’amico.
<< Non posso, ancora non ho finito qui!>>.
Mark non ebbe il tempo di risponderle che vide strapparsi con ferocia il microfono dalle mani. L’orientale fece un profondo sospiro e con aria severa disse nella trasmittente: << sono passati ventuno minuti da quando è là sotto, il che significa che gliene restano solo nove per risalire senza riportare danni. Lasci perdere quel campione e risalga!>>.
<< Mi manca ancora poco per raggiungere il litro, non posso salire ora o tutto quello che ho fatto sarà stato inutile!>> rispose piccata l’altra.
L’uomo si schiarì la gola, poi ripeté con voce profonda ed un’espressione inquietante: << mi ascolti bene Bertrand, se non lascia immediatamente perdere quel campione e non inizio a sentire entro due secondi esatti i suoi passi lungo la parete del pozzo, le do la mia parola d’onore che stasera sarà fuori dal dipartimento>>, dall’altra parte ci fu solo un lungo silenzio << Bertrand sappia che questa insubordinazione le costerà veramente cara!>>.
<< Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta, sto risalendo!>> urlò trionfale la donna quando ormai era lì sotto da ben ventitré minuti, rispondendo a tono alle minacce del capo.
<< Andiamo Sofyane, hai sette minuti esatti per risalire in sicurezza il pozzo. Andiamo!>> la incitò Mark alla trasmittente.
I secondi sembravano non passare mai. Il cronometro di Freeman continuava a ticchettare incessante e lo stritolarsi nervoso delle mani di Mark divenne talmente intenso che probabilmente gli avrebbe lasciato dei segni visibili fino al giorno dopo.
Dopo otto minuti e trenta secondi, una piccola mano sporca che reggeva un contenitore a tenuta stagna si levò dal pozzo, facendo tirare a tutti un sospiro di sollievo. Ce l’aveva fatta. La matricola era riuscita in un’impresa a dir poco impossibile. I suoi compagni la accolsero con tutti gli onori che si riservavano ad un eroe di guerra: abbracci, pacche sulla spalla e poderose strette di mano.
Sofyane sorrideva gioiosamente e, mentre cercava di divincolarsi dalla folla che le si era riunita intorno, guardava fisso negli occhi il coordinatore Lee, che ricambiava con la solita espressione impenetrabile. Liberatasi dalla stretta presa di Mark, dai cui occhi era sgorgata anche qualche lacrima, la ragazza si avvicinò all’uomo e gli si parò davanti a gambe divaricate; gli porse con aria di sfida la tanica contenente il campione d’acqua e gli disse soddisfatta: << sul fronte radiazioni siamo apposto, ma credo che anche le analisi sui metalli pesanti diano risultati incoraggianti. Cosa faremo ora?>>.
L’asiatico rimase immobile a fissarla senza far trasparire emozioni. Fu Leeroy Shaw, comparso alle spalle del collega, a rispondere alla domanda della donna: << adesso chiameremo il dipartimento e faremo inviare una squadra per la costruzione di un tubo di conduzione. Lei domani mattina, come prima cosa, andrà dal medico della base e si farà fare una visita preliminare completa>>. Sofyane annuì soddisfatta, poi il biondo fece agli altri: << adesso smettetela di fare baccano e finite di smontare le attrezzature, dobbiamo tornare al campo di addestramento prima del tramonto. Forza, al lavoro!>>.
Come da comando, le reclute si mossero verso i carotieri e la trivella e cominciarono a smontare tutti gli strumenti ancora rimasti sul terreno.
Shaw mise un braccio sulla spalla al collega e con un sorriso compiaciuto cominciò a sbeffeggiarlo: << ti ha proprio fottuto la ragazzina, eh?>>.
Tae Jun si voltò verso il compare e sospirò annuendo, dopodiché, guardando Sofyane intenta a giocherellare con Mark e i compagni, gli angoli delle sue labbra si alzarono in un sorriso genuino. Stava sorridendo da un po’ e non se ne era neanche accorto. Sapeva perfettamente di non potersi permettere quel genere di cose; ma in fondo, che male poteva mai fare un sorriso?

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Capitolo 10
*** Talpa ***


10



<< E’ ancora vivo>> disse Hadiya con ferma convinzione al Capitano Huber, intento a sistemare delle scartoffie seduto alla scrivania del suo studio, nell’ala ovest della base.
<< Hadiya?>> chiese sorpreso l’uomo, alzando lo sguardo e spostandosi gli occhiali rotondi sulla punta del naso << tu e gli altri siete già di ritorno da Tripoli?>>.
<< E’ ancora vivo>> ripeté l’altra senza batter ciglio.
<< Di chi parli?>>.
<< Di lui>>.
<< Lui chi?>> incalzò di nuovo Huber, ormai esasperato dalla enigmaticità della ragazza << per l’amor del cielo, parla in una lingua che possa capir…>> si interruppe bruscamente non terminando la frase.
L’espressione inferocita e allo stesso tempo spaventata della sottoposta gli aveva suggerito la risposta alla sua domanda.
<< Credo che tu sia solo sconvolta da tutti i recenti avvenimenti… dovresti riposarti un po’>> disse poi, concentrandosi di nuovo sul suo lavoro.
<< Capo, so quello dico: era lui. Era lì, ieri, all’eliporto, mi si è parato davanti quando ho cercato di far salire il presidente sull’elicottero>> controbatté Hadiya sedendosi su una delle due sedie poste davanti alla scrivania di Huber.
<< Ti stai solo lasciando suggestionare dall’improvvisa ricomparsa di Huseynov. Abbiamo lasciato quell’uomo morente in un edificio che è esploso pochi minuti dopo. Non c’è alcun modo in cui possa essersi salvato>>.
<< Le sto dicendo che era lui. Io… io riconoscerei quegli occhi ovunque>> fece la donna abbassando lo sguardo.
Il capitano sospirò, si alzò dalla sua scrivania e le si avvicino lentamente. Le sollevò il mento con l’indice e la costrinse a guardarlo negli occhi, << so quanta rabbia provi nei confronti di quell’uomo per quello che ti ha fatto, per le persone… o meglio, per la persona di cui ti ha privato, e so anche che daresti la tua vita per poterlo uccidere con le tue mani, ma quegli uomini erano incappucciati e per quanto io mi fidi del tuo occhio da lince, devi ammettere che non è possibile riconoscere una persona solo dagli occhi, tanto più che ormai sono passati cinque anni>>.
L’altra annuì e abbozzò un sorriso poco convinto.
<< Ora non voglio sentirti mai più ripetere queste sciocchezze, soprattutto davanti al Generale Marchand. Abbiamo già le nostre belle gatte da pelare senza la sua sospettosità>> continuò Huber, che poi tornò alla sua postazione e prese a scrivere velocemente a macchina, facendo susseguire vorticosamente i tintinnii del rullo. Hadiya resto lì ferma, sbuffando.
<< Perché sei ancora qui?>> le chiese infastidito il capo, << vatti a fare una doccia e una dormita, stasera abbiamo la riunione sulla brillante missione portata a termine in Africa e voglio il tuo rapporto preliminare sulla scrivania tra massimo tre ore>>.
La donna gli lanciò un ultimo sguardo truce, seccata dalla brevissima scadenza datale dal capo, poi si diresse verso la sua stanza, lasciandolo solo.
Appena fu uscita dalla porta, il capitano Huber interruppe il frenetico movimento delle dita sull’antica macchina da scrivere e inspirò profondamente. Tirò via il foglio che aveva appena scritto e lo osservò con attenzione: sopra c’erano solo parole e frasi senza senso.
Lo appallottolò e lo lanciò verso il cestino nell’angolo della stanza, mancandolo. Si distese sulla sua sedia in pelle appoggiando i piedi sulla scrivania e si massaggiò vigorosamente le tempie: non sapeva per quanto tempo avrebbe potuto continuare ad ignorare quei segni, né per quanto tempo avrebbe potuto continuare a proteggere la sua sottoposta. La resa dei conti si stava avvicinando e non aveva la più pallida idea su come affrontare l’intera situazione.

Le immagini del giuramento del presidente Nadym davanti al parlamento di Tripoli scorrevano rapide sul megaschermo della sala riunioni, accolte felicemente dai presenti. La stanza era al solito illuminata solo da una lampadina, lasciando nella semi oscurità metà del tavolo. Dalla sedia centrale si alzò il capitano Huber, che, dopo aver bloccato le immagini, si complimentò con tutti gli agenti che avevano preso parte alla missione in nord-Africa, perfettamente riuscita nonostante l’intoppo finale. Tutti i presenti si levarono in un lungo e commosso applauso, rivolto soprattutto agli ancora convalescenti agenti Soren, Cox, Tura e Fanin, che, con il loro spirito di sacrificio e abnegazione, erano riusciti a gestire al meglio una difficile situazione, in cui la vita loro e quella del presidente era stata seriamente messa a rischio. Il più sincero degli applausi venne proprio da Hadiya, che aveva personalmente assistito, seppur dalle retrovie, all’ottimo lavoro compiuto dai colleghi.
<< Purtroppo le buone notizie sono finite qui>> disse mestamente il capitano dopo che i presenti si furono acquietati, << l’analisi delle impronte digitali dei terroristi rimasti cadavere sulla pista dell’eliporto non ci ha portato da nessuna parte: si trattava perlopiù di mercenari al servizio del migliore offerente o ex galeotti in cerca di denaro facile; gli incappucciati sopravissuti, invece, si sono dileguati fuggendo attraverso il deserto, verso nord, scomparendo dai nostri satelliti circa tre ore dopo la fuga. In poche parole, brancoliamo nel buio>>.
Cox, ancora col braccio sinistro fasciato a causa del proiettile, lanciò uno sguardo fugace al generale Marchand, che annuì invitandolo a parlare.
Kieren fece un profondo respiro e alzò incerto il braccio destro per attirare l’attenzione dei colleghi, << ecco, in realtà io credo di aver riconosciuto uno di quegli uomini>> disse.
Il capitano Huber lo guardò incuriosito e gli fece segno di continuare.
<< Premetto che è solo una mia personale sensazione, perché, come ha già detto lei capitano, gli uomini che sono riusciti a fuggire erano tutti incappucciati e non posso essere certo della loro identità, ma mi è sembrato che uno di quelli fosse proprio Huseynov>>.
Il capitano inarcò le sopracciglia e guardò in direzione di Hadiya, che dondolava stravaccata sulla sedia a braccia conserte, al lato opposto del tavolo, come se la questione non la riguardasse affatto.
<< Quindi questa sensazione su cosa si basa?>> chiese indispettito Huber, virgolettando la parola sensazione.
<< Beh, più che altro direi dalla corporatura esile e da qualche pelo rosso che fuoriusciva dal cappuccio>> rispose quello girandosi i pollici, nervoso.
<< Va bene Cox, lo scriva nel suo rapporto preliminare -che, tra parentesi, non mi è ancora arrivato- e indagheremo anche su questa traccia>> disse secco il capitano << c’è altro che vuole aggiungere?>>.
Cox si girò spontaneamente verso Hadiya. Era certo che né lei, né Eeki avessero accennato alla strana reazione che la mora aveva avuto poco prima che il presidente salisse sull’elicottero, così come era convinto che la cosa avesse una certa importanza e non potesse essere lasciata al caso: doveva dirlo al resto della squadra, anche se questo gli sarebbe costato la lealtà delle colleghe.
Decise di rimandare di qualche minuto il suo dilemma sul fare o meno la spia, nel senso più letterale del termine, e riprese con aria più serena: << sia io che l’agente De Wit abbiamo notato che durante l’assalto uno degli incappucciati era completamente disarmato e veniva protetto a vista da altri due, tra cui anche il presunto Huseynov. Abbiamo pensato potesse essere il loro capo…>>. Cercò l’appoggio della mora voltandosi verso di lei.
La donna smise di dondolarsi e si sedette compostamente facendo battere rumorosamente a terra i piedi della sedia, << confermo quanto detto dall’agente Cox: non so per quale motivo avrebbe dovuto essere lì, ma c’era un tizio vestito elegantemente che sembrava essere il capo della cricca. Potremmo anche sbagliarci, comunque>> disse Hadiya spassionata.
<< Non ha molto senso quello che state dicendo. Per quale assurdo motivo il mandante diretto dell’omicidio avrebbe dovuto partecipare in prima persona ad un’operazione così pericolosa, per di più disarmato?>> chiese esterrefatto l’agente Nikolaidis, seduto accanto ad Hadiya.
<< Non sto dicendo che ne abbia, sto solo riportando ciò che ho visto, anzi, abbiamo visto!>> ribatté Cox con un certo livore.
<< Riportare troppe sensazioni non supportate da fatti a volte può essere fuorviante…>> il greco, un fedelissimo del Capitano Huber, ormai lo aveva apertamente sfidato.
<< La prossima volta puoi venirci tu sul campo di battaglia in mezzo alle pallottole a raccogliere fatti, se vuoi>> Cox enfatizzò di proposito la parola “fatti” per indispettire il collega, pronto a sua volta a rispondere a tono, ma intervenne il capitano Huber a gettare acqua sul fuoco.
<< Adesso basta con queste scaramucce, siete dei professionisti, non dei ragazzini al liceo!>> tuonò il capo, lanciando un’occhiata fulminea ai due uomini << e ora, ha qualcos’altro da dirci agente Cox o pensa che così possa bastare?>>.
Kieren stava di nuovo per aprire bocca quando Eeki, seduta accanto a lui, gli diede una poderosa gomitata facendogli cenno di restare in silenzio; la ragazza sapeva che l’uomo avrebbe tirato fuori la storia di Hadiya e del suo black-out e non poteva permetterlo.
<< No, non c’è altro>> disse infine Cox, massaggiandosi il punto dove era stato colpito. Hadiya, dall’altra parte, lo guardò stupefatta per qualche secondo, poi riprese a dondolarsi sulla sua sedia cigolante.
<< Bene, visto che non c’è altro da aggiungere, direi che è arrivato il momento di affrontare l’altra grande questione della serata; dobbiamo ancora capire come abbiano fatto gli incappucciati a scoprire del trasferimento del presidente all’eliporto>> fece Huber, chiedendo all’informatico di intervenire.
<< Non abbiamo molti indizi purtroppo. I terroristi avevano due soli modi per sapere dove fosse diretto il convoglio del presidente: o violando il mio sistema di sicurezza o ricevendo direttamente l’informazione da qualcuno e vi posso garantire che il primo è... semplicemente impossibile>> disse serio Mcintyre: quando c’era in gioco la sua professionalità, non c’era ironia che tenesse.
<< Sta forse insinuando che c’è una talpa tra noi, signor Mcintyre? >> lo punzecchiò il generale Marchand, curioso di scoprire se Huber e i suoi avrebbero prima o poi accusato lui e i suoi uomini di alto tradimento.
Huber zittì l’informatico e si intromise nella conversazione, rispondendo al posto suo: << nessuno sta insinuando nulla, generale. Penso solo che sia ragionevole dare il via ad un’approfondita investigazione interna dopo i fatti dell’eliporto, una che coinvolga tutti: me, lei, i miei uomini, i suoi uomini e anche quelli dell’intelligence africana>>.
<< Non c’è bisogno di alcuna indagine, io mi fido ciecamente dei miei uomini! E’ lei che ha più di una mina vagante tra i suoi>> rispose secco Marchand, non volendo sentire ragioni. Hadiya ruotò gli occhi all’indietro, annoiata dall’ennesima frecciatina lanciatale dal generale.
<< Per quanto ne dica, generale, anche io mi fido ciecamente dei miei, ma non sarebbe giusto nei confronti della Confederazione e dei nostri connazionali se non indagassimo a fondo sulla questione, mettendoci in gioco in prima persona. Se può farla sentire più tranquillo, però, ho intenzione di cominciare le ricerche tra gli uomini dell’intelligence africana, sono loro i maggiori sospettati per ora>> replicò Huber, cercando di mettere in pratica l’ordine che aveva dato prima ai suoi sottoposti: mantenere la calma e la professionalità.
<< Va bene capitano, faremo di nuovo come dice lei, ma stavolta la missione sarà affidata all’agente Cox>> rispose deciso Marchand.
<< Andiamo generale! Il ragazzo è ancora in convalescenza! Diamo a lui e all’agente Soren il tempo di rimettersi in sesto>>.
<< Bubbole! Se il ragazzo se la sente, per me può partire anche domani>> chiuse infine l’uomo del ministero della guerra, guardando il suo pupillo in cerca di un cenno di adesione.
Cox ormai era stato coinvolto apertamente nel tafferuglio tra i due uomini e non sapeva proprio come uscirne indenne: avrebbe sicuramente preferito starsene a riposo ancora un paio di giorni, magari tornare a casa dalla sua famiglia per le vacanze estive, ma allo stesso tempo non se la sentiva di deludere il suo superiore, non dopo che aveva riposto in lui tutta la sua fiducia designandolo come erede spirituale e portandolo con sé in giro per il mondo, quando non era ancora che un pavido ragazzino inesperto. Che fare dunque? Dopo un’attenta riflessione, il senso del dovere prese il sopravvento e l’uomo accettò, seppur a malincuore, di partire di nuovo alla volta del continente nero per indagare sugli agenti che li avevano affiancati nell’operazione di qualche giorno prima. Messi a punto gli ultimi dettagli della missione, cui avrebbero partecipato anche De Wit e Nikolaidis, la riunione si sciolse e gli agenti furono congedati. Prima che il Capitano Huber potesse allontanarsi, Hadiya gli corse incontro e lo fermò, aspettando che fossero usciti anche tutti gli altri presenti prima di fargli un’inaspettata richiesta.
<< Vorrei parlare con Aguilar prima di partire>> gli disse con l’aria di una che non avrebbe accettato un no come risposta.
Il capitano Huber le chiese sorpreso per quale motivo volesse parlare con quell’uomo, mentre Cox ed Eeki, che erano ancora fermi sull’uscio in procinto di uscire, sentita la bizzarra domanda della collega, si erano trattenuti per sentirne la risposta.
<< Voglio farmi dare informazioni sugli uomini che gli hanno commissionato il famoso carico di armi e dettagli su come riuscivano a comunicare tra loro>> rispose decisa l’altra.
<< Arrivi tardi De Wit, l’uomo e il suo braccio destro sono stato interrogati per giorni e giorni dai nostri esperti e non hanno aperto bocca. Cosa ti fa credere che Aguilar parlerebbe con te?>>.
<< Nulla, probabilmente sarà un tentativo a vuoto, ma devo provarci. La prego signore, è una questione di poche ore, nessuno verrà a saperlo. E’ ancora in una delle nostre celle, vero?>> chiese quella speranzosa, giungendo le mani e mettendosi quasi in ginocchio.
<< Hadiya, se stai ancora pensando a quella faccenda faresti bene a smetterla>> bisbigliò avvicinandosi all’orecchio della donna il capitano, preoccupato dalle orecchie indiscrete che erano ancora presenti nella sala riunioni.
<< Non è per quello, glielo assicuro. Voglio solo avere un confronto diretto con il vecchio, in fondo è merito mio se adesso è nelle mani della giustizia, no?>> fece la donna con un pizzico di orgoglio.
<< E va bene, ma Cox e Soren, se non sono troppo stanchi, ti faranno da spalla. Cerca di non fare casini>> concluse il capitano, coinvolgendo nella faccenda anche i due spettatori indesiderati, sperando che la loro presenza fungesse da deterrente all’animo infuocato della mora.
I due si lanciarono un’occhiatina complice e accettarono di buon grado di partecipare allo strano interrogatorio: erano troppo curiosi di sapere a cosa mirasse l’eccentrica collega.

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Capitolo 11
*** Confronti ***


11



Quando Hadiya vide attraverso il vetro oscurato il vecchio Aguilar, seduto con lo sguardo spento e gli occhi stanchi nella stanzetta degli interrogatori, ripensò al tempo trascorso nella sua immensa magione sotto le mentite spoglie di Sherry. Non provava alcuna pietà per lui; ricordava perfettamente chi fosse quell’uomo e quanto male avesse fatto ed era felice di averlo assicurato alla giustizia, ma sentiva comunque una certa tensione all’idea di doverlo incontrare faccia e faccia nelle sue reali vesti, in quelle dell’agente segreto che aveva mandato per sempre in fumo il sogno di ritirarsi a vita privata nel suo paese natale a godersi le montagne di denaro accumulate negli anni.
Un inaspettato nodo allo stomaco le si presentò quando tirò la maniglia della porta e si sedette silenziosamente di fronte a lui. L’uomo alzò gli occhi annoiato e quando si trovò davanti la donna, provò una morsa simile a quella di lei, una sensazione di stupore mista a rabbia. La piccola e deliziosa Sherry, la ragazza bionda dallo sguardo dolce che aveva amato e accudito per mesi, si trovava ora di fronte a lui, con i capelli corti e scuri, la divisa dell’Agenzia indosso e lo sguardo impietoso di una che non fa sconti. Dopo qualche secondo di silenzio, entrò in stanza anche Cox, mentre Eeki rimase ad osservare l’interrogatorio nella saletta accanto, attraverso il vetro oscurato.
<< Cosa? Ma tu…>> balbettò egli, appena ebbe modo di ordinare i pensieri e mettere due parole in fila. << Sorpresa!>> disse lei alzando un sopracciglio e facendo un sorrisetto irrisorio.
<< Non ci posso credere>>.
<< Oh andiamo vecchio, non avrai mica creduto davvero alla storia della povera e stupida orfanella di Béjaia, venduta dal meschino padre ad un bordello, che si innamora del grasso e sudaticcio trafficante di armi, vero?>>.
<< Dunque è a causa tua che mi trovo qui>>. Aguilar sorrise amaramente, diviso tra la rabbia che provava verso la donna che lo aveva raggirato e la vergogna che provava verso sé stesso per non averne capito l’inganno.
<< Sì, è esattamente a causa mia e della missione sotto copertura che ho portato avanti per due anni se sei qui, in una lurida cella federale in mezzo al mare, nel posto che più ti spetta>> rispose la donna, impassibile. Poche cose al mondo lo avevano ferito come lo stavano ferendo gli sbeffeggi dell’agente in quel momento, in quel luogo dimenticato da Dio sul fondo dell’oceano, e più la donna gli sorrideva compiaciuta, più sentiva crescere l’esigenza di ferirla allo stesso modo.
<< Due anni in cui mi sono fatto delle belle scopate, Sherry cara>> disse ammiccando il vecchio, facendo poi uno scurrile segno di apprezzamento nei confronti della ragazza al collega biondo seduto accanto.
Cox sgranò gli occhi e si voltò immediatamente verso Hadiya aspettando che la donna desse in escandescenze o si seppellisse dall’imbarazzo, ma quella non fece una piega e, sorridendo beffardamente, rispose: << beh sono contenta per te Aguilar, peccato che io non possa dire lo stesso… E comunque, non sono Sherry, ma l’agente Hadiya De Wit>>.
La risposta pungente della donna fece indispettire ancora di più il brasiliano che, se non fosse stato ammanettato, a quell’ora l’avrebbe già uccisa con le sue mani, nonostante non fosse un fan della violenza sulle donne; al di fuori dal letto, si intende.
<< Ad ogni modo, non sono qui per fare chiacchiere da tè, voglio informazioni sui tuoi clienti; anzi, su uno in particolare>>.
Il vecchio fece una sonora risata, << sono stato interrogato per giorni e giorni dai tuoi amichetti e non hanno ottenuto un cazzo, cosa ti fa credere che parlerò con te adesso?>>.
L’agente ignorò la domanda e tirò fuori una busta gialla dalla tasca dei pantaloni.
<< Riconosci quest’uomo?>> chiese lei, indicando un tizio seduto su una panchina in una vecchia foto sbiadita.
<< Mai visto in vita mia>> rispose il brasiliano dopo aver dato un’occhiata fugace alla foto.
<< Guarda meglio Aguilar, sei sicuro di non averlo mai visto prima? Io non sono come gli altri agenti che ti hanno interrogato; le telecamere sono spente, nessuno sa che siamo qui, questo incontro non è neanche segnato sul registro degli interrogatori. Non c’è nessuno a proteggerti, nemmeno la legge. Se mi dici stronzate, per te finisce male>>.
Il vecchio non si fece spaventare dalle sue minacce, << sicurissimo>> rispose.
<< Ok, diciamo che per questa volta ti credo, la foto è un po’ vecchiotta e anche sgranata, ma proviamo con questa>> ne estrasse un’altra e la mostrò ad Aguilar << l’uomo rosso, lo riconosci?>>.
Il vecchio sospirò << sì, è il tizio a cui avrei dovuto vendere quelle armi, ma questo lo sapete già, no?>>.
<< Sì, sappiamo che si chiama Karl Huseynov, è una nostra vecchia e cara conoscenza. Voglio sapere da te quando ne hai sentito parlare per la prima volta, chi vi ha messi in contatto e come e qualunque altra informazione tu abbia su di lui e sulle sue intenzioni>>.
<< Mi spiace tesorino, ma credo di non poterti aiutare. O almeno, non se prima non mi dai qualcosa in cambio>>.
Hadiya ruotò gli occhi all’indietro e lanciò un sonoro sbuffo verso l’alto, << odio quando iniziano a chiedere di fare accordi!>>
<< Che cosa vorresti in cambio?>> chiese Cox, intromettendosi nel lungo botta e risposta dei due.
<< Voglio tornarmene in Brasile, da uomo libero>> prese posizione il vecchio a braccia conserte e sguardo fiero.
<< Scordatelo Aguilar, tu e il tuo compare marcirete per sempre all’interno di una prigione statale della Confederazione>> disse con tono di sfida Hadiya, irritata dall’atteggiamento presuntuoso del detenuto.
<< Allora non ho più niente da dirvi>>, il brasiliano si passò il pollice e l’indice sulle labbra, mimando la chiusura di una lampo.
Hadiya, all’ennesima provocazione dell’uomo, scattò in piedi e batté forte le mani sul tavolo con aria minacciosa; Cox le fece segno di sedersi e di restare un attimo in silenzio, socchiudendo gli occhi come a chiederle di fidarsi di lui. La mora, dopo un attimo di esitazione, si rimise a sedere volgendo lo sguardo verso il vetro oscurato, oltre il quale sapeva esserci Eeki in ascolto.
<< Vedi, il fatto è che non c’è nulla a questo mondo, né informazioni, né liste di contatti, né numeri di telefono, né indirizzi di depositi, né il segreto per viaggiare più veloci della luce, nulla caro Aguilar, che tu possa darci che ti farebbe ottenere in cambio la tua libertà. Morirai in una delle carceri di massima sicurezza della Confederazione, dovesse cascare il mondo>> disse con fermezza Cox, che poi si prese un attimo di pausa per accendersi una sigaretta. Fece delle boccate intense, lasciando che una nube di fumo avvolgesse l’intera stanza, poi la spense nel portacenere nero di plastica quando era consumata appena a metà, << chiarito che non rivedrai mai più la luce del caldo sole brasiliano, l’unica cosa che puoi fare ora è far si che queste vacanze obbligate nel nostro paese siano quanto più confortevoli possibili, non ti pare?>>.
<< Avere un letto più comodo non mi serve a niente se devo restare rinchiuso in quattro mura>> disse con un filo di sconforto il vecchio.
Cox sghignazzò rumorosamente, poi si sgranchì le braccia verso l’alto e si avvicinò al viso del trafficante d’armi, guardandolo dritto negli occhi << parli così perché non sei mai stato in un carcere di massima sicurezza, vecchio. Ho visto come ti trattavi laggiù, in Marocco, in mezzo a tutte quelle belle auto e la vasca idromassaggio in piscina. Beh, vuoi sapere come la vedo io? Tra due mesi sarai talmente disperato per aver avuto la possibilità di avere un bel letto comodo ed essertelo lasciato sfuggire, che ci mostrerai la tua nuova cravatta di corda dondolando dal soffitto>>.
Aguilar fece una risatina provocatoria, poi con espressione fiera e orgogliosa disse: << non hai neanche idea di dove abbia vissuto e di quello che abbia passato nella vita, bamboccio. Mentre tua madre ti cambiava i pannolini, io bazzicavo nei ghetti più squallidi di Algeri tenendo testa a mafiosi e signori della droga>>.
<< Non ne dubito, ma è passato molto tempo da allora e tu ormai hai una certa età, Ignacio. Ok, ammettiamo anche solo per un attimo che tu riesca ad adattarti ai bagni sudici, alle lenzuola sporche e consumate, al cibo razionato e senza sapore, al freddo materasso duro come la pietra… ma come la mettiamo con i tuoi reumatismi? Ho letto sul tuo fascicolo che soffri di una grave forma di artrosi. Lo immagini il dolore lancinante che proverai quando non ti verranno più somministrati i farmaci?>> chiese con un sorrisetto sadico Cox.
Aguilar deglutì rumorosamente e cominciò a massaggiarsi involontariamente il ginocchio, quello che gli doleva ogni notte da qualche anno a questa parte. Il biondino aveva ragione: quel giovanotto spregiudicato che aveva dormito sotto i ponti e fatto il digiuno anche per settimane, che era riuscito a mettere su un vasto impero criminale dal nulla, destreggiandosi abilmente in ogni sorta di malaffare, era scomparso da molti anni; ma di una cosa il vecchio era certo: se forse il suo spirito d’adattamento non era più quello di un tempo, il suo orgoglio e la sua forza d’animo erano rimasti immutati. Non avrebbe scambiato il proprio onore e la propria dignità per degli antidolorifici e una doccia calda.
<< Le tue minacce non mi spaventano ragazzino. Portatemi dove vi pare, anche alla forca se volete, io non ho nient’altro da aggiungere>> disse infine quello, soddisfatto.
Prima che il povero Cox potesse aprire bocca e rincarare la dose, l’agente De Wit si avventò con furia animalesca sul vecchio brasiliano, sbattendogli forte la testa sul tavolo di marmo antistante. << Sai che cosa penso che potremmo fare, invece, per convincerti a cantare vecchio bastardo? Potremmo chiuderti per un paio di mesi in una bella cella di isolamento, senza né acqua, né cibo, né luce, senza neanche un cesso, senza nemmeno un lampadario o un lenzuolo, senza niente di niente, così che, quando la disperazione ti avrà consumato l’anima e sarà diventato doloroso anche solo respirare e l’unica cosa che vorrai fare sarà lasciare per sempre questo mondo, l’unico modo che avrai per ucciderti sarà prenderti a testate nel muro fino a quando non ti si sarà spappolato il cervello>> gli sussurrò all’orecchio digrignando i denti Hadiya.
Aguilar rimase in silenzio stringendo forte i pugni per non urlare dal dolore: non voleva darle quella soddisfazione.
Hadiya, per tutta risposta, lo tirò all’indietro, prendendolo per i capelli, e poi lo spinse ancora più forte sul tavolo, spaccandogli il naso e facendo sporcare di sangue le foto di Huseynov, << allora bastardo? Ti decidi a parlare?>>.
Cox si alzò dalla sedia con gli occhi sbarrati e prese la donna per il braccio, cercando di allontanarla dal detenuto << che cazzo stai facendo De Wit? Non puoi torturare un prigioniero!>>.
La donna si divincolò dalla stretta di Cox e sbatté un altro paio di volte il viso di Aguilar sul tavolo, intimandogli di cominciare a parlare. Eeki fece il suo ingresso nella stanza interrogatori prima che l’amica potesse infliggere un altro violento colpo all’uomo, colpo che forse gli avrebbe fatto perdere i sensi, e la implorò di smetterla di fargli del male, di smetterla prima che facesse qualcosa di cui si sarebbe pentita per il resto della vita. La mora non la degnò neanche di uno sguardo, mentre il sangue del vecchio ormai aveva raggiunto il pavimento e si avviava verso la porta.
<< Non so niente di questa gente, lo giuro! Mi hanno raggiunto qualche mese fa, attraverso un mio contatto in stanza ad Algeri, dandomi solo l’indirizzo mail attraverso cui avremmo parlato e le coordinate del conto su cui mi avrebbero versato l’anticipo!>> urlò a quel punto il brasiliano, disperato e mezzo tramortito.
<< Chi è questo contatto?>> la donna allentò un po’ la presa per permettergli di rispondere.
<< Tahar Ouary! E’ un povero disgraziato che bazzica nei ghetti della città guadagnandosi da vivere con furtarelli e spaccio di droga, di tanto in tanto mette in contatto gente con altra gente, che a sua volta conosce altra gente… E’ un po’ come le scatole cinesi, nessuno conosce direttamente quello che sta più avanti nella catena>>.
<< Sai che se quello che mi stai dicendo si dovesse rivelare una stronzata ti ammazzo con le mie mani, vero?>> chiese quella, facendo di nuovo pressione sull’uomo, che poi giurò solennemente di aver detto la verità.
Hadiya lo lasciò rialzare tenendolo però fermo per i capelli, << se ti sei ricordato qualcos’altro è arrivato il momento di dirlo>> lo avvertì seria.
Il vecchio sospirò e si pulì il sangue che scorreva dal naso con la manica della giacca arancione della divisa, poi aggiunse: << la notte della consegna del carico, il rosso ha ricevuto una chiamata da qualcuno proprio pochi minuti prima che entraste in scena voi. Chiunque fosse, sapeva della vostra imboscata e ha pensato subito ad avvisare il compare: è così che è riuscito a dileguarsi attraverso il deserto>>.
<< Cos’altro si sono detti?>>.
<< Non lo so, parlavano una lingua che non sono riuscito a riconoscere, ma sono sicuro che il rosso abbia detto più volte un nome. Adesso non ricordo bene, mi pare fosse qualcosa come Nick o Niko…>>.
<< Nicholas>> sussurrò a labbra semichiuse la ragazza.
<< Sì, Nicholas! Esatto>> disse sollevato Aguilar.
Hadiya si allontanò dal vecchio e si morse forte il labbro inferiore, fino a sentire il sapore del sangue che le accarezzava la lingua. Eeki e Cox la osservavano smarriti mentre girava in tondo con le mani sui fianchi con espressione severa.
Ad un certo punto, senza alcun motivo apparente, smise di girare e si fermò accanto al vecchio; come posseduta da un demone, lo fece alzare dalla sedia e gli diede un pugno nello stomaco che lo stese definitivamente, facendolo cadere a terra nel suo stesso sangue; seguirono calci e pugni e improperi, che vennero infieriti con sadico piacere, fino a quando Eeki e Cox, con enorme sforzo, riuscirono a staccare la donna dal detenuto e a portarla fuori.
<< De Wit che cazzo ti è preso lì dentro? Hai forse perso il lume della ragione?>> chiese infuriato Cox alla donna, che ancora furibonda stringeva i pugni sporchi del sangue del vecchio << potresti essere sospesa una cosa del genere, lo sai?>>.
Eeki uscì dalla stanza subito dopo aver aiutato Aguilar a sedersi e aver chiamato degli infermieri. Spintonò Cox per farlo allontanare dalla amica e prese il suo volto tra le mani, << che diavolo ti sta succedendo Hadiya? Non è da te pestare con tale ferocia qualcuno, neanche un criminale come Aguilar!>> le disse con voce spezzata.
Hadiya si appoggiò con le spalle al muro e si lasciò scivolare a terra, poi, nascondendo la testa tra le braccia e respirando affannosamente, cominciò a ripetere delle parole a voce bassa, come una preghiera: << Winterfeld Strasse numero 52, Helmond… Winterfeld Strasse numero 52, Helmond… Winterfeld Strasse numero 52, Helmond>>.
<< E’ impazzita? Che diavolo sta mormorando adesso come un’ossessa?>> chiese con gli occhi sbarrati Cox.
<< E’ una specie di mantra che ripete per calmarsi quando perde il controllo. Non ho idea di cosa rappresenti quell’indirizzo, so solo che se inizia a ripeterlo all’infinito la situazione è davvero grave >> disse passandosi le mani tra i capelli la bionda, ormai seriamente preoccupata per lo stato dell’amica.
Hadiya ripeté per l’ultima volta la sua preghiera, si diede qualche colpetto sulla guancia, si alzò in piedi e con fredda lucidità si pulì le mani sporche di sangue con un fazzoletto, poi disse ai colleghi: << mi spiace per quello che è successo prima… so di aver perso completamente la calma e di aver esagerato, ma non sono riuscita a fermarmi, immagino succeda quando ti trovi davanti un mostro che hai dovuto compiacere e fingere di amare per due anni. Almeno ora abbiamo una pista da seguire>>.
I colleghi la guardarono con un’espressione accigliata, non riuscivano ancora a togliersi dalla testa la ferocia e la sete di sangue che aveva mostrato poco prima. Quella ragazza che ora, con quell’aria smarrita e gli occhi stanchi, sembrava la persona più indifesa al mondo.
<< Sto bene Eeki, io… ho solo perso la calma, tutto qui>> Hadiya si sforzò di sorridere e mise una mano sulla spalla all’amica, << come prima cosa domani mattina parleremo col capitano Huber di quanto ci ha detto Aguilar stanotte, probabilmente il capo vorrà farci fare due chiacchiere con questo Ouary, poi penseremo anche alle questione della talpa. Per adesso è meglio se andiamo a riposare, soprattutto voi due che siete ancora in convalescenza. Ora scusatemi, ma ho davvero bisogno di farmi una doccia>> disse quella guardandosi i vestiti sporchi.
Si congedò in fretta e furia ancora frastornata, poi si diresse verso gli alloggi.
Eeki girò le spalle per seguirla, ma fu bloccata da Cox, che la prese per un braccio impedendole di andare oltre.
<< Adesso mi dici tutto quello che sai su questa faccenda di De Wit e della Renaskigo o giuro che vado dritto dritto da Marchand e gli racconto tutto, dovessi pure disturbarlo mentre va di corpo>> fece quello con tono severo.
<< Non sono affari che ti riguardano Cox>> ringhiò la bionda dopo essersi scrollata di dosso la mano del collega.
<< Senti Soren, sei stata tu prima a chiedermi di parare il culo alla tua amica schizzata durante la riunione, io ho acconsentito senza fare troppe domande perché non volevo mettermi voi due contro, ma dopo quello che ho visto stanotte in quella maledetta stanza degli interrogatori, penso di avere tutto il diritto di sapere in che diavolo mi sto immischiando>> minacciò Cox puntandole contro l’indice.
Eeki sapeva che questa volta il novellino aveva ragione e, per quanto volesse bene ad Hadiya, non poteva continuare ad aspettarsi l’incondizionata lealtà dell’altro se non avesse cercato almeno di spiegargli la situazione. Fece un bel respiro e cominciò a parlare con l’espressione di una che stava per tradire la fiducia della sua più cara amica: << la verità è che non ne so molto neanche io. Come hai già potuto notare, Hadiya è una donna algida e controllata, nonché un’agente brillante, ma quando viene fuori l’argomento Renaskigo perde completamente la bussola. A volte diventa triste e si chiude in se stessa, altre volta si arrabbia fino a diventare una belva, come è capitato un attimo fa, altre ancora sembra che l’argomento le sia indifferente. Questo strano caleidoscopio di emozioni riesco a spiegarmelo solo se ripenso a quanto mi ha confessato una notte di molti anni fa…>>.
<< Cosa ti ha confessato?>> chiese incuriosito Cox, che, se avesse potuto, si sarebbe volentieri seduto su una poltroncina di velluto a sgranocchiare dei popcorn caldi alla cannella, come quelli che vendeva il cinema del suo paese d’origine.
<< Pare che in passato abbia avuto una sorta di fidanzato e…>>, Cox la interruppe prima che potesse finire la frase.
<< Un fidanzato? Quella psicopatica? Oh per l’amor di Dio, abbiamo tutti una speranza allora!>> disse, facendo poi una risatina.
Eeki gli diede una gomitata alla stomaco e gli ringhiò contro, poi, dopo che l’altro si fu scusato, continuò con più calma: << credo fosse un uomo dell’Agenzia o forse un civile con cui ha lavorato durante questa misteriosa missione sotto copertura. La loro intensa storia è finita prematuramente dopo che il tizio è stato ucciso, probabilmente proprio da Huseynov o da questo tale Nicholas. Non conosco le dinamiche dei fatti, ma, se la conosco abbastanza, si sta ancora dando la colpa per non avergli salvato la vita, per non aver fermato in tempo la Renaskigo, nonostante siano passati ormai cinque anni>>.
Cox ripensò subito a quello che Hadiya gli aveva raccontato durante la loro missione in nord Africa, alla morte dei genitori e all’infanzia trascorsa all’interno delle fredde pareti metalliche di quel sottomarino, senza nessuno con cui poter giocare, senza nessuno che le potesse raccontare delle favole prima di andare a dormire. Un dolore ancora più grande lo colse quando realizzò quanto detto da Eeki: anche da adulta, quando era riuscita a trovare qualcuno che la amasse davvero, la felicità le era stata portata via nel modo più brutale. Che diritto aveva lui, che era nato e cresciuto in una ricca famiglia felice, di giudicare una donna che aveva affrontato tutte quelle miserie e nonostante ciò stava ancora in piedi sulle sue gambe? Cosa avrebbe fatto lui al suo posto? Un brivido gli corse lungo la schiena. Probabilmente avrebbe fatto la stessa fine che aveva delineato per il vecchio brasiliano: sarebbe finito con una corda al collo appeso al lampadario.
<< Ora capisco perché è sempre così cinica e distaccata>> disse infine scuotendo la testa il giovane.
<< Oh prima non era così, sai? A lei non l’ho mai detto, ma ogni tanto, quando ho un po’ di tempo libero, vado in sala macchine a parlare con il capo macchinista, il signor Otterton, un simpatico sessantacinquenne che ne ha viste di tutti i colori e che conosce tutti quelli che hanno messo piede su questo trabiccolo. Lui Hadiya la conosce sin da quando era una bambina e qualche volta mi ha raccontato di lei e delle sue gesta. Mi ha raccontato di una persona diversa, di una ragazza solare e divertente, armata di un profondo senso della giustizia e sempre pronta a rischiare la vita per gli altri, altezzosa e un po’ incosciente, ma dotata di un immenso talento e rispettata da tutti, nonostante tutto. Dopo quella missione è stata via per quasi un anno prima di essere riammessa in sezione, poco prima che arrivassi io, ma quella che è tornata indietro non era più la stessa persona di prima, la ragazza sorridente che era partita. Faticavano tutti a riconoscerla, in primis il capitano Huber. Quando penso che non avrò mai l’occasione e l’onore di conoscere quella donna, quella che era ancora capace di sorridere e di amare, la vera Hadiya, sento un dolore bruciarmi nel petto. Capisci perché non puoi parlarne con Marchand?>> disse Eeki asciugandosi una lacrima che le era scorsa lungo la guancia.
Kieren non sapeva cosa dire, quindi le mise una mano sulla spalla cercando di consolarla.
<< Ok, adesso basta fare i sentimentali. Hai avuto quello che volevi no? Notizie frammentate e confusionarie che non hanno fatto altro che incasinare ancor di più il quadro generale. Andiamo a dormire adesso, che domani ci aspetta una dura giornata di lavoro>> disse Eeki, aspirando dal naso ancora colante e facendo posto ai paramedici che stavano portando via Aguilar in barella. Cox annuì e si avviò verso la sua camera: non c’era altro che potevano fare per quella notte, potevano solo riposarsi e mettere a punto una spiegazione plausibile per quanto accaduto col vecchio. Tutto il resto, i misteri, le domande irrisolte, i drammi, lo avrebbero affrontato giorno dopo giorno.

Non lontano, Hadiya entrò nella sua camera sbattendo la porta. Si passò la mano sulla fronte e poi sulle guance, cercando di recuperare la calma dopo quanto aveva scoperto. Fece un profondo respirò e si avvio verso il suo armadio. Si sgranchì le mani, poi aprì con solennità l’anta di legno cigolante, cercando di non fare troppo rumore: odiava quel cigolio, ma ancora non si era decisa ad oliare i cardini.
Tirò fuori qualche vecchio vestito e le altre divise di ricambio, gettandole disordinatamente sul pavimento. Sollevò l’asse di legno sulla mensola più bassa, mostrando un doppio fondo nell’armadio, al cui interno c’era una scatola con un bel mucchietto di foto scolorite: in una era stizzita durante una giornata di pesca in riva al lago con Nikolaidis e il capitano Huber, che avevano pescato almeno il doppio delle sue trote; in un’altra era sorridente, col tocco in testa, davanti all’ingresso del dipartimento di fisica dell’università della Confederazione; un’altra ancora la mostrava orgogliosa il giorno del diploma all’accademia militare; in un’altra mordeva con gioia la medaglia d’oro vinta alle nazionali di tiro con l’arco; in una molto vecchia, di quando era bambina, soffiava le quattro candeline presenti sulla torta al cioccolato con i genitori e il capitano Huber alle spalle. Una foto incorniciata risaltava su tutte le altre: c’era lei al centro di una pista da ballo, con un lungo vestito blu scuro e i capelli raccolti, e di fronte a lei, a cingerle i fianchi e a darle un bacio sulla fronte, un ragazzo sorridente e ben vestito. Sorrise dolcemente alla vista di quei fogli rettangolari su cui erano immortalati tutti i momenti più felici della sua vita.
Mise da parte le foto e prese una bustina bianca con fiori rossi dal fondo della scatola, la aprì lentamente e fece scivolare sul palmo aperto della mano una lamina ovale di metallo, in cui, su un lato, vi era impressa l’immagine della Torre Eiffel. La strinse forte nel pugno, portandolo vicino al petto, poi rimise tutto a posto curandosi di richiudere bene la busta e il doppio fondo.
Si andò a buttare sotto la doccia bollente per lavare via i segni di Aguilar sulla sua pelle. Le lacrime, che le solcavano copiose il viso, si mischiarono a quelle del gettito d’acqua della doccia. Quella notte consumò tutte le lacrime che aveva negli occhi e che non aveva versato negli ultimi cinque anni.
Uscì dalla cabina e afferrò un asciugamani con cui tolse via l’acqua dai capelli, poi la arrotolò sotto alle braccia, all’altezza delle clavicole. Pulì con una mano la condensa sullo specchio e si guardò all’interno di esso tirandosi verso il basso la pelle del viso, mostrando l’interno della congiuntiva arrossata. Si diede qualche schiaffetto leggero sulle guance, poi si specchiò di nuovo con aria sicura e sorrise: adesso, volente o nolente, doveva chiudere per sempre col passato.

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Capitolo 12
*** Scuse ***


12



Il lampione che si trovava all’angolo della strada era l’unica fonte di luce dell’intero isolato, se si escludevano le fioche luminescenze che provenivano dalle finestre dei modesti appartamenti sui lati. La cabina telefonica, quasi del tutto inutilizzata, squillò tre volte prima che Sofyane vi entrasse dentro e alzasse la cornetta. Una voce metallica dall’altro lato del telefono elencava gli sconti del discount nella periferia del paese e la ragazza ne approfittò per dare un’occhiata in giro: era completamente sola, l’unico a farle compagnia era un cane randagio in cerca di cibo tra i rifiuti. Appena la voce ebbe finito di parlare, la ragazza premette quattro numeri sulla tastiera, ormai oscurati da scarabocchi fatti a pennarello, e attese che la voce dall’altro lato le rispondesse: << Pronto centralino, come posso aiutarla?>>.
<< Agente 33-452-X-0, chiedo il permesso di parlare col Sergente>> rispose seria la donna.
<< Inserisca il codice di sicurezza, prego>>.
Tenendo la cornetta appoggiata tra la spalla e la testa, la ragazza premette altre dieci cifre e attese che la centralinista la mettesse in contatto con il capo sezione.
<< Sofyane…>> fece stavolta una voce maschile, roca ed esasperata, << sei in ritardo sulla tabella di marcia, avresti dovuto fare rapporto ieri sera>>.
<< Lo so capo, lo so, ma non ho potuto raggiungere il punto prestabilito per…>> tentennò un attimo prima di mentire spudoratamente << per un’esercitazione a sorpresa! Non ho potuto lasciare il loft in alcun modo, c’è ancora quel terribile capo squadra di cui le parlai qualche settimana fa che ci marca strettissimo. Un vero incubo>>.
<< Un vero incubo, posso immaginarlo. E così è stata colpa di un’esercitazione a sorpresa se ieri hai saltato l’appuntamento, eh? Bene, mi fa piacere. E’ tutto a posto allora. Lieto di sentire che quello che è successo durante la valutazione delle falde acquifere di Rakovnik non c’entri nulla con il tuo ritardo>> l’uomo fece un finto sospiro di sollievo e poggiò la cornetta all’altro orecchio, << sì, è davvero un sollievo>>.
La ragazza deglutì rumorosamente e cominciò ad arricciare il filo del telefono con l’indice, nervosa al solo pensiero della strigliata che le avrebbe fatto il sergente se solo non fossero stati a migliaia di chilometri di distanza; << sa che non salterei mai un appuntamento se la faccenda non fosse davvero seria>>.
<< Non osare mentirmi Sofyane e soprattutto non osare prenderti gioco della mia intelligenza! So che sai bene che hai messo seriamente a rischio la tua copertura ieri. Credi che le normali ragazze di ventiquattro anni si dilettino a scalare pozzi radioattivi durante il tempo libero arrivando a percorrere quindici metri in meno di tredici minuti? Se lo credi davvero permettimi di smentirti, le tue coetanee hanno ben altri passatempi!>> tuonò l’uomo in un climax che raggiunse il culmine qualche secondo dopo; << ti devo ricordare che sei lì solo a causa della tua età e delle tue competenze nel campo della fisica? Avrei dovuto fidarmi del mio istinto all’epoca, ho sbagliato ad assegnarti una missione così complessa>>.
<< Scusi capo, ma come fa a sapere del pozzo e del tempo che ho impiegato a scalarlo?>> chiese stupita la ragazza, balzando sul proprio posto.
<< Non hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto, vero?>> disse l’altro sospirando, << io so sempre tutto, anche quando l’agente che dovrebbe aggiornarmi sui risvolti della missione salta gli appuntamenti perché ha paura di un rimprovero. Per ora sorvolerò sulla questione e ti lascerò al tuo posto solo perché la tua copertura è stata salvata dall’informatico, che all’ultimo secondo ha aggiunto al tuo curriculum un passato da ginnasta professionista… uno dei tuoi superiori si era già messo a fare ricerche su di te; fortuna che l’abbiamo preso in tempo. Per di più non ho altri agenti che possano sostituirti, non a questo punto della missione almeno. Sei una donna fortunata Sofyane, ma la prossima volta che farai un casino del genere non la passerai liscia, lo giuro sul mio onore>>.
<< Ha ragione capo, ho fatto un casino. Sono davvero mortificata, le prometto che non accadrà mai più nulla di simile, righerò dritto da oggi in poi>>, il tono sommesso della ragazza al telefono era in netto contrasto col sorriso che aveva stampato in faccia: l’unica cosa che contava in quel momento era restare sulla missione e fare un buon lavoro fino alla fine, del resto se ne sarebbe occupato poi.
<< Lo spero davvero, soprattutto per la mia salute mentale. Adesso passiamo a cose più serie: cos’hai scoperto su Djogo Martines?>>.
<< Per adesso nulla capo. Martines non si è presentato in ufficio negli ultimi giorni e in ogni caso, anche se si dovesse far vedere, sono ancora troppo in basso nella piramide sociale per avere a che fare con lui. Per il resto qui mi sembra tutto tranquillo, non ho visto infrazioni, né comportamenti sospetti da parte di Dahl o degli altri funzionari>>.
<< So che è una situazione logorante, ma non potevamo farti entrare in dipartimento fin da subito con un ruolo importante senza attirare l’attenzione di Martines e i suoi. Continua a tenere un profilo basso e cerca di entrare in squadra come tutti i comuni mortali. Anche se lentamente, i risultati arriveranno, vedrai. Ora torna al campo di addestramento, ci sentiamo la settimana prossima per l’aggiornamento>>.
<< Va bene capo, ci sentiamo la settimana prossima capo. Non farò più casini capo, lo prometto>>.
<< Non fare promesse che non puoi mantenere, ragazzina. E smettila di dire sempre “capo”>> fece quello annoiato.
La ragazza soffocò una risatina, << buonanotte allora… capo>>.
Riagganciò la cornetta e si volse all’indietro verso il cane randagio. Si avvicinò un po’ e gli tirò un pezzo di torta alle more che aveva nella borsa; il cane si avventò sul dolce e lo divorò nel giro di pochi secondi. Sofyane gli diede una carezza sulla testa, poi si avviò sollevata alla sua auto, parcheggiata in fondo alla strada.

Attraversò, spingendola con una mano, la porta pieghevole di legno chiaro che delimitava l’ingresso dell’irish pub. Facendo attenzione a non lasciar incastrare il foulard verde acqua tra le due porte, si diresse verso il tavolino alto a cui erano seduti alcuni dei suoi colleghi; diversi bicchieri di birra vuoti si erano già accumulati su di esso, lasciando presagire che quella sarebbe stata una serata movimentata. Mark agitò il braccio facendole segno di andarsi a sedere accanto a lui.
<< Sofyane!>> fece quello ondeggiando, già brillo << dove eri finita? Siamo già al terzo giro qui!>>.
La ragazza sorrise e prese posto tra i compagni. << Roba da donne Mark, non potresti capire>> disse, facendo l’occhiolino; l’amico stropicciò le labbra in segno di disgusto e non domandò altro.
Se c’era una cosa bella dell’essere una donna, e in particolare un’agente donna sotto copertura, era che con la frase “è roba da donne!” si poteva giustificare qualunque assenza, altrimenti inspiegabile, senza che nessuno facesse troppe domande, soprattutto gli uomini.
<< Allora, vedo che vi state godendo al massimo queste poche ore di libertà, eh?>> domandò ai compagni dopo essersi messa in ordine i capelli.
<< Puoi dirlo forte sorella! Non sappiamo quando avremo un'altra serata libera, ti conviene farti un paio di birre per festeggiare!>> poi, rivolgendosi alla grassa cameriera dai capelli ricci, Mark disse: << ehy, bellezza! Un’altra scura per la mia amica qui. Anzi, due! Lei è la star della serata!>>.
Sofyane si avvicinò alla donna e le disse che una chiara piccola sarebbe stata sufficiente, << qualcuno deve pur riportarli a casa>> si giustificò poi, indicando i colleghi barcollanti.
<< Oh, andiamo Sof! Ci sono quei due che ci possono portare al campo in tutta sicurezza!>> si intromise nel discorso Bianchi, un’altra recluta di origini italiane. Sofyane si volse nella direzione indicata dall’uomo e vide i due supervisori seduti al bancone a discorrere quietamente.
<< Oddio! Che ci fanno quei due lì?>> bisbigliò quella coprendosi le labbra con la mano, come se i due potessero leggerle le labbra anche se seduti di spalle << pensavo fosse la nostra serata libera!>>.
<< Beh, a quanto pare non ci sono molti altri luoghi ricreativi da queste parti, era normale che ci saremmo ritrovati tutti qui>> rispose sconsolata Natasha, l’altra donna del gruppo.
Sofyane li osservò per un attimo, poi distolse lo sguardo quando gli occhi suoi e quelli dell’asiatico si incrociarono. Si sentiva ancora in difetto per la sfacciataggine del giorno precedente e non sapeva se fosse il caso di scusarsi con l’uomo, cercando di riparare al danno che aveva fatto, o se fosse meglio lasciare tutto com’era, facendo finire la faccenda nel dimenticatoio il prima possibile. Lee la guardò con sufficienza, poi si girò di nuovo verso il compare e fece come se nulla fosse.
Arrivò anche la sua birra, poi quelle dei compagni, una dietro l’altra. Dopo un’ora la situazione nel pub era degenerata: Mark e il geologo erano diventati i re del karaoke cantando una vecchia canzone folk strappalacrime e gli altri si unirono in coro agitando le braccia a ritmo di musica, proprio come se fossero ad un concerto. Sofyane, per quanto sobria, si unì all’allegra combriccola cercando di stare al passo con i colleghi, decisamente più euforici di lei.
Quando vide che il biondino si era alzato dal bancone per andare a fumare una sigaretta lasciando solo Lee davanti ad un bicchiere di scotch, la donna decise di andare a parlargli, non riuscendo in alcun modo a lasciare in sospeso le questioni personali e lavorative.
<< Salve!>> fece sorridendo e sedendosi senza permesso al posto di Shaw.
L’asiatico alzò un sopracciglio guardandola con sufficienza, poi si girò verso il bancone a osservare le decine di bottiglie colorate appoggiate sugli scaffali e fece un sorso dal bicchiere, ignorandola. Sofyane invece ordinò un’altra birra, che fu subito servita dal barman con indosso una T-shirt bianca con una stampa di una nota marca di birra e un jeans strappato, cioè esattamente la mise che ci si aspetterebbe da un barman di un irish pub.
<< Come mai non sei con i tuoi amici a cantare?>> le chiese tutt’ad un tratto Lee, continuando però a fissare la bottiglia di gin che aveva di fronte.
<< Ci ho provato per un po’, ma credo di non essere ancora abbastanza ubriaca per continuare!>> rispose lei agitando le mani. L’uomo rimase ancora in silenzio a fissare il vuoto.
Sofyane cominciò a girarsi i pollici e a mordersi l’interno delle guance nervosamente: il disagio che aveva provato quando il tizio l’aveva derisa e mortificata il giorno prima, era nulla in confronto a quello che stava provando davanti al suo silenzio in quel preciso istante. Si schiarì la voce e decise di cominciare a parlare, non lasciando che l’imbarazzo le impedisse di fare ciò che l’aveva spinta a sedersi accanto a lui.
<< Volevo scusarmi per ieri>> mormorò con un filo di voce << credo di essere stata davvero troppo supponente e sfacciata. Le ho mancato di rispetto e me ne dispiaccio sinceramente>>.
L’uomo si girò verso di lei e la guardò sorpreso, poi rispose con poca convinzione: << Già, lo credo anche io>>.
<< Certo, alla fine tutto è andato per il meglio e il medico che mi ha visitato stamattina ha detto che non sembrano esserci problemi per quanto riguarda la mia salute e grazie a quella falda gli abitanti della capitale avranno molto più acqua, ma…>>.
<< Pensavo fossero delle scuse per la tua avventatezza queste, non un’occasione per elogiare di nuovo la tua grande impresa>> la interruppe bruscamente Lee.
<< No… sì… cioè, sì, erano delle scuse, non volevo vantarmi! Mi dispiace>> rispose Sofyane confusa.
<< Va bene, ho capito. Ti dispiace un po’ per tutto stasera>>.
Un altro lungo silenzio scese tra i due.
<< Allora, non dici nulla?>> si lamentò la ragazza, cercando di trovare con i suoi occhi quelli dell’uomo.
<< Il fatto che io ti stia dando del tu non significa che possa farlo anche tu. Sono pur sempre un tuo superiore>> fece secco quello.
<< Sì ha ragione, mi scusi>> disse Sofyane portandosi una mano alla bocca. La boria del suo interlocutore stava cominciando seriamente ad infastidirla.
<< Cristo, non ho mai sentito di pronunciare la parola “scusa” così tante volte come stasera in tutta la mia vita. E comunque, Bertrand, non ho nulla dire, perché le scuse servono a ben poco dopo quello che hai combinato ieri. Se ci avessi lasciato le penne sarebbe stata solo colpa mia; probabilmente sarei stato licenziato da Dahl e poi allontanato per sempre da ogni incarico governativo>>.
<< Ma non ci ho lasciato le penne come può ben vedere, signore!>> rispose ironicamente la ragazza dopo essere balzata in piedi ed essersi mostrata in ottima salute con un gesto delle mani.
<< Chi lo sa, magari se sono fortunato tra qualche giorno cominceranno a caderti i capelli e le unghie o e a comparire eritemi in luoghi che non pensavi di avere>> disse scanzonato l’altro, dandole una occhiata fugace.
<< Mi dispiace informarla che il medico ha detto che sono sana come un pesce>>.
<< Beh, il medico potrebbe sbagliarsi>>.
<< No, invece, non si sbaglia. Se ne renderà conto tra un paio di settimane, quando sarò ancora qui, viva e vegeta, pronta ad entrare a far parte della squadra di ricognizione come sua pari>> disse con sicurezza la donna.
<< Farò meglio a trovarmi un altro lavoro prima che arrivi quel giorno, allora>> mormorò quello, cercando invano di non farsi sentire.
<< Cos’ha detto scusi?>>; aveva sentito perfettamente quello che aveva detto il suo superiore, ma voleva capire se l’uomo avesse avuto la sfacciataggine di ripeterlo ad alta voce.
<< Nulla, lasci stare>> rispose l’altro, riprendendo a darle del lei e facendo segno al barman di versare un altro dito di scotch nel bicchiere.
<< Potrebbe almeno rispondermi quando le parlo>>.
<< Senta, è stata lei a venire qui un attimo fa a disturbarmi senza ragione, io stavo solo sorseggiando un drink in santa pace dopo una stressante settimana di lavoro. Cosa vuole che le dica ora?>>.
<< Disturbarla? Ero venuta a scusarmi per l’amor di Dio!>> disse indignata Sofyane, la cui pazienza era ormai arrivata al limite.
<< Sì, lo so, ho sentito le scuse, va bene?>> fece Lee indispettito, << adesso se ne vada, ho davvero bisogno di riposarmi e… Cazzo, sa che la sua voce è davvero fastidiosa?>>.
Sofyane non riusciva a credere alle sue orecchie. L’uomo, probabilmente ancora bruciante per la sconfitta che le aveva inferto il giorno prima, in quella che era ormai una guerra aperta, dichiarata sin dal primo giorno di addestramento, stava cercando di umiliarla e provocarla in tutti i modi possibili.
<< Lei è un idiota. Un idiota maleducato>> disse con una certa avventatezza la donna: forse le due birre appena scolate stavano cominciando a fare effetto.
<< Bertrand, mi dica solo che vuole da me e facciamola finita prima che si arrivi ad un punto di non ritorno>> bofonchiò Lee, ormai esasperato.
<< Accetti le mie scuse e poi si scusi per avermi dato della stalker molesta>> rispose Sofyane incrociando le braccia e guardandolo con aria di sfida.
<< Cosa? Ma io non le ho mai dato della stalker molesta!>>.
<< E’ come se lo avesse fatto>>.
<< Va bene, va bene>> disse quello cercando di calmarsi e stringendo forte i pugni, << accetto le sue scuse e mi scuso a mia volta per averle dato implicitamente della stalker molesta. Va bene così?>>. Alzò forzatamente gli angoli della bocca fingendo un sorriso innaturale e allargò le narici, furente.
La ragazza lo guardò un attimo, poi scoppiò a ridere e disse: << va benissimo così! Accetto anche io le sue umili scuse>> gli diede una pacca sulla spalla e se ne tornò dai suoi compagni a cantare, portandosi dietro il bicchiere di birra quasi finito. Lee Tae Jun rimase qualche secondo sbigottito con la bocca spalancata a rimuginare su quanto era successo, poi inghiottì in un sorso lo scotch rimastogli e uscì dalla porta, raggiungendo Leeroy, impegnato in una conversazione con una bella moretta dagli occhi luminosi.
<< Che fine avevi fatto?>> tuonò Lee nervoso.
<< Ero qui a scambiare due chiacchiere con Irma>> rispose il biondino, sorridendo alla donna.
<< Passami una sigaretta>>.
<< Ma tu non fumi!>> esclamò arricciando il naso l’altro.
<< Da stasera sì, ti spiace?>>.
Shaw scrollò le spalle e tirò fuori il pacchetto dal taschino, porgendo una centos al collega << ti vedo molto meno controllato del solito ultimamente, ti è successo qualcosa per caso?>>.
<< A parte essere stato attaccato da una tigre inferocita? No, nulla>> rispose, facendo grosse boccate dalla sigaretta.
Shaw fece finta di capire a cosa si riferisse il collega, poi si congedò in fretta e tornò a dedicarsi alla sua ultima conquista. Tae Jun rimase fuori fino quando non ebbe finito la sigaretta, poi tornò dentro, prese le sue cose e senza guardare nessuno uscì dalla porta sul retro. Accese i motori della sua auto e si diresse verso il dormitorio, muovendosi quasi a scatti, come un robot.

Quando Sofyane appoggiò la testa sul cuscino dopo i bagordi della serata, non poté fare a meno di rimuginare su quanto accaduto quella sera. Le dure parole del sergente al telefono le avevano fatto capire che da quel momento in poi non avrebbe potuto più sbagliare, che non le sarebbero state concesse terze possibilità, che se voleva portare a termine la missione avrebbe dovuto evitare ogni tipo di distrazione e debolezza, mettendo al bando orgoglio e sentimenti. In realtà quelle erano tutte cose che sapeva da un pezzo; le sapeva da prima della chiacchierata col capo, da prima della sua partenza per la capitale, da prima che entrasse ufficialmente nell’Agenzia. Erano cose che aveva imparato sin da quando era una ragazzina: il rigore e la disciplina, l’importanza del duro lavoro, il senso del dovere, lo spirito di sacrificio e adattamento, l’amor patrio. Ci era cresciuta insieme a questi valori e non le era mai pesato vivere rispettandoli, ma per qualche motivo, quella notte, il solo pensiero di dover proseguire la missione come stabilito, per poi lasciare per sempre quel dipartimento senza lasciarvi alcuna traccia, senza poter mostrare a nessuno chi era davvero, le aveva tolto il sonno. Si girò e rigirò nella brandina incapace di addormentarsi, torturata dagli strani pensieri che stava facendo da quando aveva messo piede in quell’edificio. A mettere fine alla sua agonia ci pensò solo la sveglia, il mattino seguente: un nuovo giorno era cominciato e doveva sforzarsi a tutti i costi di arrivarvi alla fine senza mandare all’aria ciò per cui aveva lavorato una vita intera.

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Capitolo 13
*** Il mago di Oz ***


13



Il professor Scherbasky, appollaiato sulla scaletta a pioli, aveva appena tirato fuori Il meraviglioso Mago di Oz dal penultimo scaffale della sua libreria a muro quando la teiera fischiò forte. Scese rapidamente le scale, facendo ben attenzione a non sporgersi troppo, -il figlio, una volta, quando era poco più che un bambino, cercando di prendere una vecchia enciclopedia aveva perso l’equilibrio e si era procurato una bella commozione cerebrale sbattendo con la testa sullo spigolo del tavolino al centro della stanza- e corse in cucina togliendo l’acqua dal fuoco. Prese dalla credenza una vecchia tazza di ceramica bianca, ornata da alcuni disegni violacei sul bordo, e, dopo avervi appoggiato sul fondo il filtro del suo tè nero preferito, vi versò all’interno l’acqua bollente, che rilasciò un tiepido vapore nell’aria, appannandogli tutti gli occhiali. Si sedette sulla poltrona di pelle nera, accanto alla finestra che dava sul cortile, illuminato solo dai lampioni di strada, poggiò il te sul tavolino accanto e inforcò gli occhiali ripuliti, aprendo il libro alla prima pagina del primo capitolo. Era il libro preferito di suo figlio il Mago di Oz e amava rileggerlo di tanto in tanto dopo una lunga e stressante giornata di lavoro. Insegnare all’università non era roba da poco; al contrario di quanto si dicesse in giro, invecchiare passando intere giornate a ripetere gli stessi concetti a orde di studenti che diventano sempre più giovani, era un vero strazio per l’animo, soprattutto per lui, che non avrebbe mai visto il suo di giovanotto varcare la porta dell’aula magna con in mano una pergamena ingiallita e un tocco in testa. Dopo la morte di Davyd, la sua vita coniugale era semplicemente scomparsa, volata via insieme al ragazzino biondo; lui e la moglie avevano trascorso mesi chiusi nel silenzio più totale: a tavola, a letto, durante le rare occasioni mondane che si erano concessi, persino durante i momenti di intimità. Avevano semplicemente smesso di parlarsi, di considerarsi, di vivere. Non una recriminazione, non un urlo, non un litigio, solo puro e perfetto silenzio. Ma lui lo sapeva che lei, in cuor suo, lo riteneva responsabile per quello che era accaduto al figlio, per quel maledetto viaggio per la maturità che gli aveva concesso in quel momento così delicato della storia, quello a cui lei si era fermamente opposta per mesi.
Lo sapeva bene, anche se ella non aveva mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce; se lo era tenuto dentro, come un grido silenzioso che le aveva lentamente macerato la carne, giorno dopo giorno, fino a ridurla a un ologramma, una pallida immagine di ciò che era un tempo.
Così, quando una mattina fece le valigie e se ne andò, ancora una volta senza dire una parola, nel silenzio che tanto le era stato caro, lasciandolo solo in quella enorme ed elegante casa sommerso da decine di libri e ricordi, il professor Conrad Scherbasky non ne rimase affatto stupito.
Si era chiesto spesso dove fosse andata, se fosse ancora viva, se la loro vita sarebbe stata diversa se avesse cercato di trattenerla, se non avesse lasciato che quell’inerzia opprimente prendesse possesso delle loro anime; ma erano pensieri flebili, vaghe speculazioni: che senso aveva pensarci, dopotutto? Niente sarebbe mai più stato come prima, non dopo quel maledetto viaggio a Roma.
La verità era che, nonostante all’apparenza il loro fosse stato un matrimonio di amore e felicità, nonostante si fossero scelti e voluti fra centinaia di persone e che si fossero ripromessi che a loro non sarebbe mai capitato, erano diventati anche loro, col tempo, una di quelle coppie tenute insieme solo dall’amore per i figli. Una volta scomparso il loro adorato Davyd, non c’era nulla che li tenesse ancora uniti.
La parola d’ordine della sue giornate era vacuità. Erano anni ormai che viveva in quel limbo cui lo costringevano da una parte il desiderio di abbandonare per sempre questa vita, questo mondo in cui non aveva più molto altro da fare, e dall’altra quel terribile istinto naturale che Madre Natura instilla sin dalla nascita ad ogni essere vivente, quello che costringe a respirare anche quando ci si sforza a non farlo.
Si sarebbe mosso come un automa per il resto della sua vita, sarebbe rientrato a casa dal lavoro e avrebbe letto e riletto il mago di Oz col suo adorato tè nero nella sua tazza preferita accanto, fino alla fine dei suoi giorni, fino a che la morte non lo avesse richiamato a sé.
Aveva fatto male i suoi calcoli il professor Scherbasky, per la prima volta nella sua lunga carriera di luminare accademico. Il suo silenzioso e mesto rituale serale fu interrotto da un rumore assordante di vetri infranti proveniente dalla cucina. Istintivamente prese la antica lampada dorata dal tavolino per difendersi, poi la lasciò lì dov’era; se il suo momento era infine arrivato, ebbene che così fosse. Lui di certo non avrebbe opposto resistenza.
Due uomini vestiti di nero e con in pugno una pistola avanzarono attraverso le porte del salone, dietro di essi, a passi lenti, un altro uomo, alto e con un abito formale, lo guardava fisso negli occhi.
Si fermò a poca distanza dalla poltrona di pelle, si diede un’occhiata in giro e poi disse con aria quieta: << lei è il professor Scherbasky, vero?>>.
<< Sì, sono io. E voi chi siete? Cosa volete da me?>> l’uomo indietreggiò un po’ e si pentì di non aver tenuto stretta quella maledetta lampada. Il dono di Madre Natura si face sentire ancora una volta.
Per tutta risposta, il tizio alto prese una busta dal fodero della giacca e gliela porse. Il professore tentennò un attimo prima di afferrarla, poi mordendosi le labbra, la prese e ne guardò il contenuto.
<< Cos’è questa roba?>>, disse, dopo aver osservato con attenzione le decine di fogli ricchi di complessi disegni e calcoli matematici. Impiegò quasi dieci minuti a capire cosa diavolo avesse avanti.
<< E’ la roba che dovrà progettare e costruire per noi>> rispose mostrando un sorriso cortese l‘altro.
<< Bah, lei deve essere uscito fuori di senno. E’ una tecnologia che anticipa i tempi di almeno un decennio, embrionale ed incompleta, impossibile anche solo pensarla per come siamo messi oggi. E poi, mi dice perché mai dovrei mettermi a lavorare per degli sconosciuti che mi sono piombati in casa nel cuore della notte?>>.
L’uomo alto fece un cenno del capo ai suoi sottoposti, che caricarono le pistole e le puntarono dritte verso la testa del professore.
<< Casca male se crede che quelle possano spaventarmi. Anzi, semmai le doveste usare, mi fareste un grosso favore>> disse con un ghigno malinconico il professore, imbarazzato per la situazione paradossale a cui la sua vigliaccheria l’aveva condotto, a implorare dei delinquenti di fare ciò che lui non aveva avuto il coraggio di fare negli ultimi anni.
L’uomo alto sorrise nuovamente, << beh, non si può certo dire che non l’avessi previsto>> disse, rivolgendosi ai suoi scagnozzi.
<< Ho con me anche questa>> tirò fuori un’altra busta dalla tasca della giacca, la allungò al Prof. con delicatezza ed egli la prese sbuffando, annoiato da quella situazione che si era ripetuta una volta di troppo. Stavolta però, la busta non conteneva astrusi progetti, ma una foto.
Una foto sfocata e traballante di piazza San Pietro, scattata subito dopo l’attentato di cinque anni prima. Sullo sfondo, la basilica maggiore devastata dalle fiamme e dal fumo nero; al centro della piazza, centinaia di persone ferite nel corpo e nell’animo che cercano riparo dalle lingue di fuoco che ancora fuoriescono dall’edificio principale.
Non capiva dove volesse andare a parare il tizio con quella foto, che non faceva altro che ricordargli quanto miserabile fosse la sua vita; poi la guardò con più attenzione e lo vide. Era lì, un ragazzino biondo dai capelli ondulati e i lineamenti gentili, con un giubbino rosso e una sciarpa a quadretti, che con espressione impaurita e confusa si avvicinava ad una delle ambulanze di primo soccorso.
Gli occhi gli si gonfiarono di lacrime. << Come… come è possibile?>>.
<< Beh, in fondo non hanno mai ritrovato il suo corpo, vero? L’hanno semplicemente classificato come uno di quelli troppo carbonizzati per essere riconosciuti. Quella bara sotterrata nel cimitero cittadino è vuota come questa casa>> fece il tipo alto, strappandogli di mano la foto.
<< Lei come fa a saperlo?>> chiese con voce rotta Scherbasky.
<< Questo non è importante adesso, ciò che è importante è che un uomo di circa ventitré anni, ritrovato senza documenti e senza uno straccio di ricordo nei pressi del Vaticano dopo l’attentato, che corrisponde perfettamente alla descrizione di suo figlio Davyd, è ospite da quattro anni in una delle nostre strutture psichiatriche, più su, al nord>>; tirò fuori altre foto che confermavano la sua versione.
<< Dov’è? Per l’amor di Dio, dov’è? Devo vederlo!>> urlò il professore prendendo l’uomo alto per il colletto.
Gli uomini armati si fecero subito avanti per allontanare Scherbasky, ma il capo allargò le mani chiedendo loro di restare al proprio posto. Si tolse quelle dell’uomo dal bavero della camicia con forza e dopo essersi messo a posto al cravatta, gli disse con aria solenne: << questo dipenderà solo da lei, professore. Mi costruisca quel dannato affare e le do la mia parola d’onore che tra meno di sei mesi si ricongiungerà col suo amato ragazzo>>.
Un’espressione di orrore si fece spazio sul volto dell’accademico; << sei mesi? Questa è fantascienza! Nessuno riuscirebbe a fare una cosa simile in così poco tempo! Riconosco che il progetto di base è davvero impressionante, ma la realtà è tutta un’altra cosa>>.
<< Lei si sottovaluta troppo. In fondo, è merito suo se siamo riusciti a recuperare buona parte delle nostre conoscenze in campo ingegneristico ed informatico dopo la distruzione perpetrata dei fondamentalisti islamici, no? E comunque, per quanto noi ci fidiamo delle sue superbe capacità, ci rendiamo conto che non potrebbe farcela da solo nemmeno in un milione di anni. Per questo avrà a disposizione uno stuolo di meccanici, ingegneri, informatici e matematici con cui lavorare, le menti e le tecnologie più brillanti che questo paese ha da offrire>> lo incalzò lo sconosciuto.
<< Non lo so… io… Se questa cosa dovesse mai vedere la luce del sole e finisse nelle mani sbagliate, potrebbe cambiare per sempre l’aspetto del nostro mondo, più di quanto non abbiano fatto le armi nucleari>> disse il professore scuotendo tristemente la testa, incerto sul da farsi.
Se davvero fosse riuscito a costruire quella macchina infernale, se davvero quello sconosciuto gli avrebbe poi permesso di incontrare quel giovane e se quello si fosse rivelato davvero il suo Davyd, con quale coraggio si sarebbe mostrato ai suoi occhi? Con quale dignità gli avrebbe dato conto dell’essersi reso partecipe della messa al mondo di un tale scempio?
Diede uno sguardo alla copia finemente rilegata e illustrata del Mago di Oz, ancora poggiata sul tavolino del soggiorno, piena di orecchie alle pagine che il piccolo Davyd aveva fatto nel corso del tempo per mantenere il segno, poi alla cornice in cui era custodita una delle letterine scrittegli alle scuole elementari per la festa del papà, poggiata su una delle mensole. “Al papà più forte del mondo” diceva la scritta in stampato, con le lettere sbilenche scritte con un pastello a cera azzurro. Di nuovo le lacrime gli offuscarono la vista e non ce la fece a non guardare di nuovo quelle foto sul tavolino, quelle di quel giovane tanto somigliante al suo Davyd, imbalsamato in una triste vestaglia bianca, con gli occhi spenti e privi di anima, chiuso in un’asettica stanza d’ospedale. Era troppo debole in quel momento per seguire i deliri della sua coscienza, troppo debole per rivestire i panni dell’eroe nazionale che, anni addietro, aveva salvato il mondo dal medioevo tecnologico cui la guerra lo aveva destinato. La sua razionalità e la sua forza d’animo si sciolsero come neve al sole. Si asciugò le lacrime che gli solcavano il viso e, senza indugiare ulteriormente, strinse la mano dello sconosciuto.
<< Lo farò, ma solo se mi assicurerà che il ragazzo sta bene>>. Lo sconosciuto dallo sguardo inquietante annuì.
Senza neanche dargli il tempo di rimettersi in ordine, fu condotto dai tre uomini all’auto nera accostata sul retro, che scomparve a gran velocità oltre l’angolo in fondo al vialetto. Pochi giorni dopo, alcuni operai di una anonima ditta di traslochi entrarono in casa Scherbasky. Raccolsero gli averi dell’uomo, come vestiti, computer e strumenti vari, in delle scatole di cartone e le caricarono su un furgoncino bianco, lasciando in casa tutto il resto, libri, letterine e bustine di tè compresi. Chiusero tutto per bene e dopo qualche ora il cartello “vendesi” venne piantato nel verde giardino anteriore, alla vista di tutti i passanti e i vicini. Nessuno avrebbe mai più rivisto il professor Conrad Scherbasky, da quelle parti.

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Capitolo 14
*** Buio ***


14



<< Cosa? Un’altra gita fuori porto?>> chiese ai suoi colleghi Mark, quasi strozzandosi mentre sorseggiava la bibita gassata appena comprata alla caffetteria della mensa.
<< Già! E a sorpresa per giunta!>> rispose grattandosi il mento Natasha, seduta accanto a Sofyane e ad altre cinque reclute al tavolo al centro della stanza, tutti intenti a fare colazione << e comunque, mi spieghi come diavolo fai a bere quella merda a quest’ora del mattino?>>.
<< Non mi piace il caffè, ho bisogno di fonti alternative di caffeina>> un risucchio uscì dalle labbra del ragazzo, che poi emise un rutto in direzione della donna.
<< Accidenti Mark, sei ripugnante!>> disse Sofyane strizzando gli occhi per il disgusto, poi gli diede una forte gomitata allo stomaco. Mark emise un lieve grido di dolore e ricambiò la cortesia facendo una tiratina di orecchie all’amica.
<< Smettila idiota! Se stamattina ti fossi alzato in tempo avresti sentito anche tu l’annuncio di Dahl>> gli disse infine la ragazza, divertita.
<< Se fossi stato alto, bello e prestante come quei due, adesso sarei un attore ricco e pieno di donne e non starei qui con voi, a marcire in questo buco infernale, mangiando topi morti per colazione e rischiando di beccare una radiodermite ogni due per tre! Ma, purtroppo, le cose non vanno sempre come vorremmo…>> disse quello, indicando Shaw e Lee, intenti a chiacchierare con un il capo ufficio.
Freeman, il geologo inglese, vide Sofyane immersa nei suoi pensieri e dopo aver schioccato un paio di volte le dita cercando di attirare la sua attenzione, le disse scuotendole il braccio: << a cosa pensi Sof? Anche tu credi che ci sia qualcosa di strano sotto a questa storia, vero?>>.
La ragazza alzò le sopracciglia e scosse la testa come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno, poi sorrise e rispose: << sì, in effetti credo anche io che qualcosa non quadri>>.
<< A cosa vi riferite ora, voi due geniacci?>> chiese incuriosito Bianchi.
<< Beh ragazzi, pensateci solo per un attimo: ci comunicano di primo mattino, a mensa, quando ancora non abbiamo cominciato l’addestramento, che faremo un’uscita in esterna, ufficialmente una esercitazione a sorpresa, che però è assolutamente fuori programma e ad appena una settimana di distanza dalla precedente; ci chiedono di prepararci in fretta e furia e di essere pronti per domani all’alba; ci dicono che sarà un test semplice, ma non ci forniscono alcun dettaglio sul luogo e le specifiche della prova, senza contare poi che vi parteciperà anche una delle squadre di ricognizione ufficiali e Erland Dahl in persona… Può darsi che sia solo una mia paranoia, ma credo che quella di domani sia molto di più di una semplice esercitazione>>.
<< L’hanno chiamata missione di recupero di oggetti di alto valore culturale… chissà cosa significherà!>> aggiunse pensierosa Natasha.
<< Ora che mi ci fate riflettere, forse avete ragione. Cosa pensate ci possa essere sotto?>> intervenne di nuovo Bianchi, con un’espressione spaventata.
<< Non lo so, ma qualunque cosa sia, è sicuramente qualcosa di grosso>> ribatté Sofyane.
Mark si intromise nella conversazione dopo aver fatto un sonoro sbadiglio, << bah, secondo me questo posto vi sta facendo diventare tutti paranoici! Avranno semplicemente deciso di tirarci un altro dei loro brutti tiri, tutto qui>>.
<< Ah, di sicuro qualche rotella in meno ce l’avremo tutti quando usciremo da qui, su questo non ci piove!>> rispose lei, dandogli una pacca sulla spalla << ma adesso basta fare speculazioni, tanto scopriremo tutto domani, finiamo in fretta di mangiare e prepariamoci per quello che ci aspetta>>.
<< Accidenti, neanche il tempo di fare colazione in santa pace! Che brutta vita che mi sono scelto!>> concluse esasperato il ragazzo.


Il mattino seguente, le reclute e i membri della squadra di ricognizione ufficiale furono istruiti da Erland Dahl in prima persona sulla missione che avrebbero svolto. Furono condotti, col solito bus dalle tendine verde radioattivo, in un grosso centro urbano abbandonato dopo la guerra nucleare, non troppo lontano da quello che avevano visitato la settimana precedente, ma il cui aspetto era completamente diverso. Era una cittadina che in passato doveva aver ospitato almeno centomila abitanti, dotata di un’estesa area industriale, che occupava tutta la regione a nord, e di deliziosi quartieri residenziali nella parte centrale, con giardini, scuole e palazzi eleganti, ormai caduti in rovina. Le due parti della città erano in netto contrasto tra loro, ma nel complesso l’assetto urbano era decisamente armonioso, fatta eccezione, ovviamente, per il fatto che fosse abbandonata e fatiscente. Anche quella volta Dahl non si perse in chiacchiere: l’aria era stata da pochissime settimane dichiarata nuovamente respirabile e, anche se il terreno era ancora troppo contaminato per pensare ad un ripopolamento, era possibile sfruttare in modo diverso le immense ricchezze di quella vecchia città. Il museo di arti figurative cittadino, un tempo un florido centro di scambi culturali, gestito e curato dalla università locale, era localizzato all’interno di un moderno edificio in vetro nel centro città ed arrivò ad esporre, nel suo momento di massimo sviluppo, circa mille opere d’arte, tra dipinti, sculture e ritratti di varie epoche. Qualche decina di metri sotto al livello superiore, vi era invece un enorme magazzino distribuito su due piani, nel quale erano contenute almeno un altro migliaio di opere, lì stipate in attesa di essere studiate, catalogate ed infine esposte. L’arrivo della guerra, e con essa delle bombe, aveva distrutto gran parte dell’edificio e delle sue ricchezze e il colpo di grazia venne inferto quando sciacalli senza scrupoli depredarono la città in rovina. Secondo approfondite ricerche svolte dagli studiosi del governo però, la localizzazione profonda del magazzino, associata ai moderni sistemi di sicurezza utilizzati all’epoca per isolarlo, erano stati sufficienti a garantire la sua preservazione fino ai giorni nostri. Gli straordinari capolavori in esso contenuti si trovavano ancora lì, in attesa che qualcuno li riportasse alla luce. E quella era la loro missione, quel giorno: le reclute avrebbero dovuto accedere ai sotterranei del museo attraverso il sistema fognario, poiché l’accesso principale era inagibile, orientandosi nel complicato labirinto, localizzare le stanze del magazzino e riportare, infine, i reperti in superficie. La squadra di ricognizione ufficiale, al cui capo era stato posto il funzionario Shaw, avrebbe coadiuvato i lavori esplorando la parte ovest della rete fognaria, mentre le reclute, affidate a Lee, si sarebbero occupate di quella est.
Quella mattina, Dahl aveva tenuto a precisare più volte che il recupero delle opere era una questione di massima importanza non solo per il ritorno economico e di immagine di cui avrebbe beneficiato la confederazione, ma anche e soprattutto perché, dopo i numerosi tentativi che avevano compiuto gli estremisti islamici di cancellare la cultura europea, mettendo a ferro e a fuoco i siti archeologici e i musei del vecchio continente, riacquisire pezzi del proprio passato e della propria storia poteva contribuire a dare una nuova speranza al popolo, ormai arrivato allo stremo e la cui identità vacillava più che mai dopo la istituzione quasi forzata di una confederazione di stati estremamente eterogenei. Impartiti gli ultimi ordini e fatte le usuali raccomandazioni, Dahl si ritirò nel suo minivan in attesa di ricevere notizie dal ministero dell’interno, con cui stava portando avanti un’importante trattativa.
I due gruppi si misero immediatamente in marcia seguendo direzioni opposte, raggiungendo, quando il sole era già alto nel cielo, i due accessi ancora agibili della rete fognaria.
<< Tutto quello che sappiamo di questo sistema fognario deriva, come ci è già capitato altre volte, da alcune vecchie e incomplete planimetrie recuperate dagli archivi di stato. Secondo questa mappa, di cui ho fatto per voi diverse copie, nello snodo principale che abbiamo sotto ai nostri piedi ci sono ben otto diramazioni. E’ inutile dirvi che dobbiamo esplorarle tutte; purtroppo non conosciamo il percorso preciso di ognuna di esse e, di conseguenza, nemmeno quale ci farà avvicinare di più al nostro magazzino, che si trova più o meno qui>> disse con aria seria l’asiatico alle sue reclute, indicando con l’indice un punto sul centro del foglio.
<< Impiegheremo giorni per ispezionare tutti i corridoi e a riportare su tutto il materiale!>> polemizzò Mark dopo aver dato un’occhiata in giro.
<< Non se ci divideremo, signor Stern. Formeremo otto gruppi di due persone ciascuno e percorreremo con cautela tutti i corridoi, tenendoci sempre in contatto con le ricetrasmittenti>> fece secco il capo squadra, che, dopo aver distribuito le radioline, riprese <>.
<< Benissimo allora, io sto con Sofyane!>> disse entusiasta Mark avvicinandosi all’amica e alzandole in alto il braccio, esponendola come se fosse un trofeo.
<< La fermo subito Stern. La signorina Bertrand starà con me oggi>> fece categorico Lee, senza dare ulteriori spiegazioni.
Sofyane e Mark restarono per qualche secondo impalati con la bocca spalancata, non capendo precisamente il motivo della decisione dell’uomo, ma, dopo che egli ebbe rivolto uno sguardo truce alla donna intimandole di sbrigarsi, quella sbuffò rumorosamente e, liberandosi della stretta dell’amico, caricò lo zaino in spalla affiancandosi al superiore. Il folto gruppetto si inoltrò nelle fogne scendendo una stretta scala di metallo al di sotto di un tombino e si ritrovò, qualche minuto più tardi, all’interno di una grossa stanza circolare da cui si dipartivano le otto gallerie. Lee ordinò alle coppie di dividersi, poi fece cenno a Sofyane di seguirlo, dopo aver imboccato la strada più buia delle otto.
Il sentiero era particolarmente stretto e accidentato; nella parte centrale della galleria si trovava un incavo profondo circa quaranta centimetri, che un tempo aveva dovuto contenere l’acqua reflua dai canali di scolo, che ora ospitava al massimo delle pozzanghere qui e là. Sulle pareti laterali risaltavano lunghe chiazze di muffa verdastra che formavano, riunendosi nella parte centrale della volta, degli archi quasi ornamentali; l’inquietante silenzio che dominava l’ambiente era interrotto soltanto dalle piccole goccioline d’acqua che cadevamo al suolo e da qualche isolato squittire dei ratti. Sofyane credette di averne visti almeno quattro, enormi, dalla pelliccia grigiastra e gli occhi rossi. La ragazza si sforzò di non cercare più con lo sguardo la ripugnante fauna che popolava la zona e seguì Lee a brevissima distanza, grattandosi energicamente le braccia scoperte, sfiorate continuamente da ragnatele e insetti di vario genere che scendevano dai muri. Si stava maledicendo già da un bel po’ in tutte le lingue del mondo per non aver indossato una maglia a maniche lunghe e dei pantaloni che arrivassero almeno al ginocchio, quella mattina.
<< Come sono i livelli di radiazioni?>> chiese tutto ad un tratto Lee alla sottoposta, continuando a bucare il buio antistante con la piccola torcia elettrica.
<< Innocui, direi>> rispose la ragazza, il cui compito era quello di controllare i valori riportati dal contatore Geiger mentre il superiore cercava di orientarsi tra i vari svincoli.
<< Ne abbiamo ancora per molto?>> chiese poi annoiata Sofyane, stufa di dover restare in silenzio a fissare il contatore.
<< Ne abbiamo ancora per quanto ne abbiamo>> rispose senza mezzi termini l’asiatico, non rivolgendole neanche uno sguardo.
<< E’ sicuro che al bivio di poco fa non dovessimo andare a sinistra? La strada mi sembrava molto più ampia>>.
<< Ne sono sicurissimo>> l’uomo roteò gli occhi verso l’alto annoiato dalle continue interruzioni della partner, << se fossimo andati a sinistra ci saremmo ricongiunti col suo amico Stern, nel corridoio parallelo. Le manca già così tanto?>>.
<< Ah beh, Mark non sarà di certo una cima, ma di sicuro riesce lui a fare un po’ di conversazione>> disse Sofyane, scoccando la freccia più velenosa al suo arco. La ragazza cominciò poi a guardarsi intorno fischiettando, fingendo un disinteresse che non faceva altro che sottolineare quanto non sopportasse il silenzio del suo superiore.
<< Non sono qui per fare quattro chiacchiere con lei Bertrand, ma per fare il mio dovere in quanto funzionario governativo. Se non sopporta il silenzio, vada a lavorare in una sala di concerti; farebbe un piacere a se stessa e anche a me, che non sarei più costretto a vederla tutti i giorni>> rispose altrettanto velenosamente Lee.
<< Toh guarda, non l’avrei mai detto! Io, invece, ho scelto questo lavoro appositamente per fare conversazione con lei, sa? Trascorro così il mio tempo: penso a come tormentarla durante la giornata>>.
<< Strano, avrei giurato che rompere le scatole al prossimo fosse una sua dote naturale>>. Sofyane fece un grosso respiro e si mordicchiò il labbro inferiore con i denti, stanca di tutte quelle battute sarcastiche; << le hanno mai detto che lei è simpatico come un calcio negli stinchi?>>.
<< No, nessuno è mai stato così stupido da dirmelo apertamente>>.
L’uomo si fermò un attimo, si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto e riprese la sua marcia, mantenendo sempre la sua espressione impassibile.
Sofyane capì che, anche sforzandosi, non sarebbe riuscita a spillare a quel tipo più di due parole messe insieme e così, dopo un lungo sbuffo, si rimise in marcia dietro di lui, con l’intenzione di restare in silenzio fino alla fine del lavoro.
Dopo qualche minuto, i due si trovarono ad attraversare un tratto di corridoio molto stretto e basso, la cui volta aveva parzialmente ceduto, probabilmente a causa dei bombardamenti degli anni precedenti. Lee chiese alla sottoposta di restare indietro, mentre lui avanzava con cautela per valutare la stabilità della struttura sovrastante. Dopo aver tastato più volte con un vecchio bastone di legno i margini della voragine, il funzionario decretò che la struttura era stabile e che avrebbero potuto proseguire, passandovi al di sotto in tutta sicurezza. Sofyane superò con un piccolo salto il cumulo di macerie che era franato sul pavimento e si affiancò al suo superiore, restando solo qualche passo indietro.
Nel terrificante silenzio dell’ambiente circostante e, soprattutto, in preda alla noia più totale, Sofyane prese ad osservare il viso dell’uomo, illuminato appena dalla luce della torcia, senza che egli se ne accorgesse; i grandi occhi neri erano puntati fissi in avanti e si abbassavano di tanto in tanto solo per dare uno sguardo al vecchio foglio con la mappa, ormai tutto stropicciato, mentre le sopracciglia erano curvate in una espressione severa e concentrata. Nonostante la freddezza e l’inespressività che quel viso mostrava ad una prima osservazione, le sottili rughe intorno agli occhi e il colore opaco dell’iride gli davano un’aria stanca e miserabile; gli angoli della bocca rivolti verso il basso, che entravano in contraddizione con le tenere fossette che li contornavano a livello delle guance, e la fronte corrugata sembravano l’espressione di una grande incertezza e di un profondo tormento. Soltanto nell’oscurità e nel silenzio totale era stata capace di notare tutti quei dettagli in quel viso; un viso che, fino ad allora, nonostante l’avesse osservato attentamente per settimane, le era sempre sembrato poco più che ordinario, così maledettamente imperscrutabile. Aveva come la sensazione che, nel buio e con la consapevolezza che non ci fosse nessuno a guardarlo, l’uomo avesse lasciato uscire fuori il suo vero stato d’animo e che quella poker face che mostrava tutti i giorni non era altro che una maschera indossata ad hoc per allontanare il resto del mondo. Persa tra i suoi pensieri e le sue raffinate elucubrazioni, Sofyane abbandonò per un attimo la discrezione che aveva fino ad allora usato, cominciando a fissare l’asiatico in maniera fin troppo palese. L’uomo si accorse ben presto di essere osservato e, abbassando un attimo la cartina, si girò lentamente verso la donna, alzando stupito le sopracciglia. La ragazza non poté fare altro che sorridergli calorosamente, sperando che non avesse notato il rossore che era appena comparso sulle sue gote. Inaspettatamente l’altro ricambiò il sorriso, incavando ed evidenziando ancora di più le fossette intorno alla bocca, e riprese la sua opera di esplorazione. Era la prima volta che lo aveva visto sorridere da quando lo aveva conosciuto e si chiedeva se fosse proprio il suo sorriso ad essere così dolce o se era il fatto che lo mostrava di rado a renderlo tale; o se non stesse semplicemente impazzendo per le ragnatele che le si attaccavano sulla pelle sudata e i topi che le sgusciavano veloci tra le scarpe.
<< Perché mi stava fissando, poco fa?>> chiese lui dopo qualche minuto di silenzio.
<< Come scusi?>> la donna sentì di nuovo le sue guance ardere dall’imbarazzo: se ne era accorto.
<< Qualche minuto fa, mi stava fissando con aria assorta. Anche la mia faccia ha qualcosa che la irrita?>>.
<< Oh no io…>> balbettò la donna, stringendo forte una mano nell’altra, << io stavo solo guardando le sue rughe, tutto qui>>.
<< Rughe? Davvero? Ho appena compiuto trent’anni, pensavo non si vedessero!>>. Lee cominciò a toccarsi con la mano la pelle del viso, alla ricerca di un segno che mostrasse che forse non era così tanto vecchio.
<< Cavolo, quindi ha trent’anni?>>.
<< Perché lo dice con quell’espressione? Me ne avrebbe dati di più?>> chiese quello con aria interrogativa.
<< Sì. Cioè, no. O meglio sì, ma non per il suo aspetto. E neanche per le rughe, che sono quasi impercettibili, tra parentesi. E’ solo che il suo sguardo è…>> Sofyane rifletté un attimo per trovare la parola giusta con cui concludere la frase << spento. Come se qualcosa le avesse tolto tutto il luccichio che c’è negli occhi dei giovani, delle persone ancora innamorate della vita>>.
Il funzionario si girò nuovamente verso di lei e la guardò fisso negli occhi, cercando di mettere a fuoco i lineamenti della ragazza. Qualche secondo di silenzio dopo, l’uomo scoppiò in una fragorosa risata, che rimbombò forte in tutta la galleria.
<< Mi dispiace deluderla Bertrand, ma non ho nessuna storia strappalacrime alla spalle che spieghi il motivo del mio non-luccichio. Sono un uomo normale, nato e cresciuto in una famiglia normale, che ha scelto un lavoro che gli permettesse di avere un buono stipendio e una buona posizione sociale. Forse dovrei solo usare un po’ di collirio al mattino>> aggiunse poi, cercando di nascondere un sorriso tra le mani.
Sofyane lo guardò con aria truce e sbuffò rumorosamente, infastidita dalla ennesima umiliazione che l’uomo le aveva inflitto, proprio quando pensava di aver capito qualcosa in più sul suo conto.
Il suo livore e i suoi istinti omicidi, però, furono attenuati dalla scoperta dell’ingresso ai magazzini del museo. Un’enorme parete di acciaio rinforzato, ancora lucido e splendente, si era aperta davanti ai loro occhi alla fine della galleria. Presi dall’entusiasmo per aver trovato ciò che stavano cercando, i due cominciarono a dirigersi a passo svelto verso la camera, non prestando attenzione al pavimento, che, sotto di loro, aveva cominciato a cedere. Prima ancora che potessero rendersi conto di quanto stava succedendo, il pavimento franò sotto ai loro piedi, facendoli precipitare in una profonda voragine che pareva non avere fondo.

Quando Sofyane aprì gli occhi, vide tutto buio intorno a sé: nero sotto e nero sopra. Non sapeva da quanto tempo fosse lì, con la schiena appoggiata su un freddo cumulo di pietre che si conficcavano nelle coste come dei grossi aghi. Provò ripetutamente a mettersi in piedi, ma, prima che potesse distendere le gambe, si rese conto che a pochi centimetri dalla sua testa vi era un’asse di legno che le impediva anche di allungare il collo, come il coperchio di una bara; tentò di spostarla con tutte le sue forze, ma non ci riuscì. Sopra di essa vi erano probabilmente cumuli di macerie che ostruivano il passaggio; l’unica cosa che poté fare, fu urlare. Dopo qualche minuto, o forse qualche ora, udì la voce del superiore Lee che la chiamava; sembrava vicino, eppure il rimbombo del cunicolo lo faceva sembrare tremendamente lontano.
<< Bertrand, mi sente?>> ripeté di nuovo Lee.
<< Sono qui…>> rispose quella con un filo di voce, cercando di trovare il viso dell’uomo nel buio.
Tutto ad un tratto, una piccola luce soffusa comparve a poca distanza da lei, la luce di una torcia, e il volto del funzionario Lee, imbrattato di sangue e polvere, che la stava cercando con lo sguardo.
<< Lei sta bene?>> chiese annaspando alla sottoposta. Un lieve mugolio di assenso si levò dalla bocca della donna.
<< Bene, bene, perfetto>> fece con poca convinzione Lee, << non ne sono certo, ma credo che siamo finiti in un canale di raccolta che trasportava le acque di scolo verso il fiume. Delle assi di legno devono essersi frapposte tra noi e i ciottoli della pavimentazione, evitandoci brutte contusioni. Il che è ovviamente un bene, ma dall’altra parte queste cose ci impediscono di uscire. E respirare. Non so neanche da quanto tempo siamo qui sotto e… Mi sente?>>. Ottenne un altro mugolio come risposta.
<< Credo, con un po’ di fortuna, di riuscire a recuperare l’indicatore di posizione per lanciare un SOS agli altri componenti della squadra. Forse non ci sarà linea subito, forse ci metteranno molto tempo a trovarci, ma è la nostra unica possibilità…>> si fermò all’improvviso e si voltò verso la collega, puntandole contro, dopo aver fatto più di qualche manovra per spostarla da una mano all’altra, la torcia; lo spazio limitato d’azione, gli permise di illuminarla solo fino al torace. Sofyane era distesa al massimo ad un metro di distanza da lui e a separarli c’erano solo dei cumuli di pietra e pezzi di legno sparsi qui e lì. Sembrava stare bene.
<< Bertrand, mi ha fatto spaventare con questi suoi strani silenzi>> disse l’uomo, tirando un sospiro di sollievo, ma la donna continuava a non rispondere.
<< Cristo Bertrand, ha intenzione di dirmi qualcosa o no?>> cercando di ruotare al massimo il braccio nella sua direzione, Lee riuscì finalmente ad illuminarle il viso << ma che diavolo..?>>; il suo volto si rabbuiò immediatamente.
Gli occhi di Sofyane erano rivolti verso l’alto, persi nel vuoto; una lacrima le solcava il viso scendendo dalla guancia arrivando fino alle labbra. Il suo respiro era flebile, la pelle pallida e umida di sudore. Dal braccio scorreva un rivolo di sangue che le sporcava la maglietta bianca. Era in un silenzio tombale, non rispondeva alla continue chiamate del superiore. Ad un tratto, il suo respiro cominciò a farsi sempre più forte e irregolare, il pianto sempre più rumoroso, a diventare quasi un latrato: Sofyane detestava i luoghi chiusi e bui, sin da quando era una bambina; la sola idea di essere imprigionata in un profondo cunicolo, sotterrata da metri e metri di macerie, al buio e senza aria, le dava un senso di angoscia che partiva dallo stomaco e si irradiava a tutto il corpo. Aveva provato all’inizio a resistere, ci aveva provato con tutte le sue forze, ma il terrore aveva preso il sopravvento e l’unica cosa che pensava di poter fare era piangere. All’improvviso, sentì la sua mano stretta forte da un’altra, grande e dalla pelle ruvida; non si voltò, non la strinse di ricambio, rimase ferma e immobile con gli occhi sbarrati verso l’alto. L’uomo pensò che doveva avere una sorta di attacco di panico.
<< Sofyane, guardami>> le disse una voce e calda e conciliante << guardami solo un attimo>>.
La ragazza si girò lentamente nella direzione dell’uomo, che le sorrise con un sorriso sincero.
<< Ascoltami attentamente adesso. Pensa a qualcosa di bello, ad un bel posto all’aria aperta, un posto in cui sei stata quando eri bambina. Pensa ad una spiaggia, al mare o ad un bel parco in mezzo al verde, con il vento che ti accarezza i capelli e il sole che ti fa splendere il viso. Lo senti? Lo senti il sole?>>. La ragazza fece un leggere cenno col capo. << A cosa stai pensando? Raccontamelo ad alta voce>>.
Sofyane tirò su il moccio con il naso e stringendogli forte la mano, gli disse con la voce rotta e singhiozzante: << sono ad una festa di compleanno. La mia festa di compleanno, quella dei miei quattro anni. Siamo nel giardino della mia vecchia casa, quella col giardino grande, in Olanda. C’è il sole alto nel cielo, indosso un bel vestito bianco con una fascia blu in vita e delle scarpette bianche laccate, quasi da comunione. C’è mia madre che sta accendendo le candeline sulla torta, mentre mio padre mi tiene in braccio. Sono tutti lì, intorno a me a cantare e a sparare coriandoli, non c’è niente al mondo che non vada bene. Va tutto bene lì, è tutto perfetto>>.
<< Brava Sofyane, continua a ripensare a quella giornata. Cos’altro c’era poi?>>.
<< Tanti regali; tanti, tantissimi pacchettini con la carta colorata e i nastri a pois intorno che contengono vestiti, giochi e peluche. La mamma ha chiesto a me e agli altri bambini di disporci in cerchio per cominciare a giocare a nascondino, siamo tutti entusiasti e cominciamo a correre in giro per la casa, nascondendoci nei posti più disparati…>>, la ragazza si fermò di colpo lasciando la frase a metà.
<< Cosa c’è? Perché ti sei fermata?>>.
<< Non posso, io non ce la faccio…>> i suoi occhi erano di nuovo terrorizzati e pieni di lacrime.
Lee si morse forte le labbra, pensando a cosa avrebbe potuto fare per distrarla in quella assurda situazione.
<< Va bene, allora proviamo a fare così, tu devi solo ascoltarmi e fare quello che ti dico, ok?>> le disse con convinzione << ripeti ad alta voce una frase che ti aiuti a distrarti, un elenco di parole o di colori, oppure una canzone, qualcosa che ti ricordi di questo compleanno fantastico. Ripetila all’infinito, come se fosse una specie di preghiera, ripetila fino a quando non ti sanguineranno le orecchie e non riuscirai a pensare ad altro. Ripetila tutte le volte che ti senti in difficoltà. Quando non ce la fai, stringimi forte la mano, anche a costo di rompermela: è la tua occasione per farmela pagare, ok?>>. Sofyane abbozzò un sorriso e annuì. << Vai allora, io nel frattempo cerco di recuperare l’indicatore di posizione dalla tasca dei pantaloni e ti prometto che saremo fuori di qui in un attimo>>.
Aveva fatto, nella sua mente, una lunga lista di tutte le cose che avrebbe potuto dire per calmarsi; per quanto non ci fossero stati poi tutti quei momenti felici nella sua vita, aveva scavato a lungo nei suoi ricordi, anche quelli più distanti e sfumati, ma tutto quello a cui riuscì a pensare, alla fine, fu all’indirizzo della sua vecchia casa, quella vera, quando ancora il suo mondo non le era crollato addosso.
<< Winterfeld Strasse numero 52, Helmond. Winterfeld Strasse numero 52, Helmond. Winterfeld Strasse numero 52, Helmond. Winterfeld Strasse numero 52, Helmond>>.
E così cominciò la sua lunga orazione, ripetendo quell’indirizzo in un tempo che le sembrò infinito, così come le sembrò infinito il tempo che quelli della squadra ufficiale di ricognizione impiegarono per individuarli e poi tirarli fuori da quel buco, dopo che Lee aveva attivato il segnalatore GPS.
Forse erano passati solo pochi minuti o forse dei giorni; Sofyane non lo sapeva, l’unica cosa che sapeva era che aveva ripetuto quella frase almeno un migliaio di volte e che se forse a nessun essere umano è concesso capire cos’è l’eternità, di certo lei quel giorno ci era andata molto vicina.
Quando finalmente rivide il cielo sopra di sé, si era ormai fatto buio. Era stata accerchiata da tutti i suoi compagni in apprensione, allontanati subito dopo per permetterle di raggiungere l’auto dei soccorsi, localizzata in una zona appartata, dove dei paramedici le fasciarono la ferita e le diedero del caffè caldo. La temperatura si era notevolmente abbassata, l’escursione termica in quella regione era forte come dicevano in TV. Dopo che il personale sanitario si fu accertato della stabilità delle sue condizioni, la lasciarono a riposare su una barella in mezzo ad un esteso campo di edera ai confini del centro urbano, circondata dal resto degli uomini della sezione che continuavano ad entrare e uscire dalle porte della città, trasportando dipinti, vasellame e statue meravigliose, tutte provenienti dal magazzino. Almeno la missione era stata portata a termine, pensò.
Il funzionario Lee comparve all’improvviso staccandosi dal gruppo principale di formiche laboriose; aveva un cerotto sulla fronte a coprirgli la ferita che si era fatto qualche ora prima. Le si avvicinò cautamente porgendole una coperta e dell’acqua per pulirsi il viso, poi le si sedette accanto, restando in silenzio ad osservare i colleghi che, grazie alle loro indicazioni, stavano facendo anche il loro lavoro.
<< Cos’è successo là sotto, Bertrand?>> chiese poi con naturalezza l’uomo.
<< Non lo so io… soffro di claustrofobia, ecco tutto>> disse secca l’altra, prendendo un sorso di caffè dalla sua tazza.
<< Appena una settimana fa è scesa da sola, calandosi da una corda, in un pozzo radioattivo profondo quindici metri e solo ora viene fuori che soffre di claustrofobia? Quello era un attacco di panico vero e proprio Bertrand, non dovrebbe sottovalutare certe cose>> disse l’uomo strabuzzando gli occhi davanti all’assurdità della faccenda.
<< Il pozzo era largo, sopra di me avevo la luce del sole, sentivo la voce dei miei compagni dalla trasmittente: non è stata la stessa cosa di oggi. Mi spiace di non averlo detto prima, ho sempre avuto la fobia dei luoghi chiusi. Mi dispiace sul serio>>.
<< Ha mai avuto altre crisi simili?>> chiese Lee con tono ossequioso.
<< Sì, qualche volta, quando ero più piccola. Da allora ho sempre cercato di tenermi fuori da situazioni simili, ma oggi è stata una cosa davvero inaspettata>> rispose timidamente la ragazza. Il superiore annuì senza aggiungere altro.
<< Senta, prima ho sentito i paramedici parlare di un semplice svenimento dovuto alla caduta e alla ferita al braccio, nessun riferimento all’attacco di panico. Non è che per caso lei…?>> fece Sofyane girandosi i pollici, imbarazzata.
Lee si alzò dalla barella e si tolse la polvere ancora rimasta sui vestiti scuotendoli un po’, poi disse: << mi sta chiedendo se l’ho coperta con gli altri? Chissà Bertrand, forse sì, forse no>>.
Con quella risposta enigmatica, diede le spalle alla donna e fece per avviarsi al Tir che avrebbe condotto i manufatti recuperati nella capitale, intenzionato a dare una mano, per quanto possibile, ai colleghi super indaffarati.
Prima che potesse allontanarsi troppo, Sofyane lo fermò prendendolo per la mano ruvida e spigolosa che aveva stretto poco prima. L’uomo si voltò verso di lei e la guardò con aria stupita.
<< Grazie>> disse quella sottovoce, nascondendo il viso tra le pieghe della coperta.
Lee sospirò, allontanò la mano di lei dalla sua e, con un lieve inchino, si congedò senza dirle una parola. Sofyane si distese sulla barella e prese ad osservare le stelle sopra di lei; rifletté per un po’ su quanto le era accaduto quel giorno, su cosa avrebbe dovuto dire al capo, se mentirgli o dirgli tutta la verità, su come si sentiva, su quello che forse provava. Stava commettendo troppi errori e non sarebbe passato troppo tempo prima che il sergente se ne accorgesse.
Poteva l’aspirazione e il senso della sua intera vita essere gettata così alle ortiche? Pensò e ripensò a lungo, senza riuscire a trovare una risposta convincente alla sua domanda. Dopo un po’ capì che era inutile continuare a tormentarsi: quella giornata ne aveva vissute fin troppe per pretendere di trovare una via d’uscita. Qualunque cosa sarebbe successa, qualunque cosa avrebbe fatto, ci avrebbe pensato il giorno dopo. Chiuse gli occhi e cadde in un sonno profondo.

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Capitolo 15
*** Una gatta da pelare... a volte. ***


15



<< Quanto ci mette quella fottuta vecchia ad uscire da quella fottutissima casa?>>.
L’ennesima imprecazione dell’agente Cox disturbò irrimediabilmente il sonnellino di Hadiya, che, esasperata dalla noia, accese di nuovo la radio della vecchia auto cercando una stazione che non passasse solo pessima musica pop locale.
<< Dio Cox, ti hanno mai detto che come partner di appostamenti fai veramente schifo?>> disse poi, quando l’uomo cominciò anche a tamburellare le dita sul cruscotto, contribuendo con quel rumore assordante a peggiorare il suo terribile mal di testa.
<< Siamo fermi fuori a questa casa da quasi tre ore, la vecchia bastarda avrebbe dovuto uscire circa due ore fa. Mi chiedo cosa diavolo stia facendo ancora lì dentro…>>.
<< Forse ha solo deciso di restarsene in casa a rinfrescarsi con l’aria condizionata. Con il caldo che fa in questo paese, non stenterei a crederlo>> fece la donna, che dopo essere riuscita a trovare della musica decente, si lasciò scivolare sul fondo del sediolino e appoggiò le ginocchia sul volante, cercando di rilassarsi un po’. Cox lanciò un’altra occhiata furtiva alla elegante casa sulla collina abbassandosi gli occhiali da sole sulla punta del naso, poi sbuffò di nuovo alla vista della porta ben chiusa.
<< Ehi>> fece poi rivolgendosi alla collega con non chalance << cosa ti ha detto poi Huber quando ti ha convocata nel suo ufficio, dopo l’interrogatorio di Aguilar?>>.
Fino a qualche settimana prima, Hadiya avrebbe glissato la domanda senza grossi problemi rispondendogli di farsi gli affari suoi, ma dopo le numerose prove di lealtà che Kieren le aveva dato da quando erano tornati dall’Africa, non poteva più sottrarsi così facilmente alle sue domande. Alimentare i rapporti di fiducia era importante tra colleghi, soprattutto il quella particolare situazione; era una cosa che capiva perfettamente anche lei. Fece un sospiro profondo, si aggiustò il ciuffo castano con le mani e disse: << mi ha fatto una bella strigliata, giusto per usare un eufemismo. Credo che non mi abbia licenziato solo perché sono riuscita a farmi dare il nome di quel contatto dal vecchio. Se così non fosse stato, adesso sarei in qualche squallido motel della capitale a controllare la pagina degli annunci e a bere tequila>>.
<< Beh, considerando che ora sei chiusa in un’angusta auto sotto il sole cocente di Tripoli a far arrostire la pelle aspettando che una vecchia esca per fare Dio-solo-sa-cosa, forse la tequila e il motel non sarebbero stati così male. In ogni caso, non si può certo dire che non te lo saresti meritato... Il licenziamento, dico>> azzardò Cox, alzando gli occhi al cielo.
<< Già, beh… mi rendo conto di essere davvero una brutta gatta da pelare, a volte>>.
<< Una gatta da pelare a volte, sempre per usare un eufemismo>> la corresse lui.
Hadiya si stava preparando a sferrargli un pugno sul braccio sano, quando si rese conto che la vecchia governante stava finalmente uscendo dalla porta principale della villetta. I due agenti si lanciarono uno sguardo di approvazione e, dopo aver aspettato che la donna svoltasse l’angolo, si avvicinarono cautamente alla porta di servizio, passando attraverso il giardino retrostante.
<< Resta tu di guardia, mi occupo io della porta>> le disse Kieren, mentre tirava fuori un borsello nero in pelle dalla tasca dei pantaloni.
<< E quella roba da scassinatore di quarto ordine da dove salta fuori?>> chiese Hadiya, non nascondendo un leggero sorriso alla vista degli attrezzi dorati che l’astuccio conteneva.
<< Questa roba da scassinatore di quarto ordine mi ha salvato il culo più volte di quante possa raccontare>> rispose Cox mentre infilava uno dei minuscoli aggeggi a forma di mazza da Hockey all’interno della serratura.
<< Immagino. Lo aggiungerò alla lista dei desideri per il mio prossimo compleanno, insieme allo yacht e il viaggio ai Caraibi>> aggiunse sarcastica Hadiya.
Dopo qualche minuto di lavoro, la serratura emise un click e la porta si aprì; Cox alzò i pugni al cielo in segno di vittoria. Attraversarono la bella cucina classica in laminato e, arrivati nel salone d’ingresso, fecero un rapido giro di ricognizione: erano soli. Presero le scale di marmo bianco con le fini venature nere che portavano al piano superiore e diedero un'altra occhiata in giro.
<< Quanto tempo hai detto che abbiamo?>> chiese Cox, varcando la soglia della stanza padronale, sul lato destro del corridoio.
<< La vecchia dovrebbe essere impegnata coi suoi corsi di yoga e pilates per almeno due ore, un’altra mezz’ora dovrebbe perderla a spettegolare con le amiche e impiegare altri venti minuti circa per rientrare a casa a preparare il pranzo. Per farla breve, dobbiamo essere fuori di qui prima delle dodici>>
<< Dio benedica le vecchie emancipate>> disse divertito Cox.
L’agente De Wit entrò con cautela all’interno dello studio del generale Essid, situato accanto alla camera da letto, e fece: << mi raccomando, nessuna traccia della nostra permanenza in questa casa>>.
Dopo circa quaranta minuti, l’agente Cox raggiunse Hadiya nello studio, dove, seduta a gambe incrociate sul tappeto persiano accanto alla libreria, stava spulciando con precisione chirurgica le pagine della montagna di libri disposte sugli scaffali di legno.
<< Nulla in camera da letto?>> gli chiese quella poi, stiracchiandosi le braccia ed emettendo un lungo sbadiglio.
<< No, come al solito. E’ la quarta casa che perquisiamo, perché non abbiamo ancora capito che nessuno tiene le prove di un alto tradimento tra le mutande? A proposito, la prossima volta comincio io dallo studio e vai tu in camera, sono stufo di rovistare tra la biancheria intima degli sconosciuti>>.
<< Smettila di lamentarti e aiutami con questi libri, ché di questo passo non finiremo neanche per domani mattina. Non ho neanche trovato la cassaforte; forse è in qualche altra stanza>> concluse seccata la ragazza.
Cox sbuffò rumorosamente e si mise al lavoro accanto alla collega, cominciando a rovistare tra gli effetti personali del Generale.
Nelle ore successive, i due agenti passarono al setaccio ogni centimetro quadro della stanza alla ricerca di elementi incriminanti; dai fogli volanti della scrivania, alle scartoffie dei libri contabili, ai DVD e CD di musica contenuti nei raccoglitori, fino alle foto all’interno delle cornici.
<< Niente anche qui, cazzo!>> gridò esasperato Cox dopo aver frugato nei luoghi più impensabili e non aver trovato nulla, << siamo sicuri che nel computer e nell’ufficio al lavoro non ci sia nulla?>>.
<< Tutti i dispositivi elettronici delle presunte talpe sono stati messi sotto controllo da settimane e i loro uffici perquisiti a fondo, non è saltato fuori nulla di compromettente. Se il nostro uomo ha qualcosa da nascondere, di sicuro la tiene in casa propria>>.
Hadiya uscì dall’ufficio e fece un giro al piano superiore; delle cinque porte che si aprivano ai lati dell’ampio corridoio, le due sul lato destro immettevano nello studio e nella stanza padronale, quella sul fondo portava al bagno, tramite quella piccola sulla sinistra si accedeva alla lavanderia, mentre la porta della stanza accanto era chiusa a chiave.
<< E’ chiusa a chiave, pensi di riuscire ad aprirla?>> chiese a Cox, che l’aveva appena raggiunta, sfilando lentamente la pistola dalla fondina legata alla coscia.
L’uomo la guardò soddisfatto e compiacente, mentre tirava fuori il suo borsello di pelle dalla tasca dei pantaloni, << cosa dicevi, riguardo al tuo prossimo regalo di compleanno?>>.
Hadiya sferrò il pugno che aveva tenuto in serbo per il collega in auto e gli intimò di rimettersi al lavoro. Una volta aperta la porta, entrambi gli agenti rimasero piacevolmente sorpresi da ciò che vi trovarono all’interno: non un ostaggio imbavagliato, né una postazione riservata in cui condurre traffici illegali di informazioni, né un centralino criptato, ma la cameretta di una bambina. Al centro della stanza c’era un lettino bianco di legno verniciato, ricoperto da una trapunta a fiori colorati e diversi peluche dal pelo morbido, di fronte all’ingresso, una grossa finestra che illuminava giochi e bambole e, dalla parte opposta, una scrivania ordinata con delle penne e dei quaderni. Hadiya cominciò a frugare con attenzione tra le cose della bambina, restando in un religioso silenzio.
<< A cosa stai pensando?>> chiese Cox alla collega, accarezzando uno dei peluche a forma di cane poggiati sul lettino.
<< C’è qualcosa che non quadra qui. Abbiamo tenuto sotto controllo questa casa per giorni, appuntato chiunque entrasse o uscisse, segnato tutti gli orari e le attività dei suoi abitanti, dalla moglie del generale fino all’ultimo dei giardinieri, e non abbiamo mai visto nessuna bambina, neanche da lontano>> fece massaggiandosi il mento con l’indice e il pollice la donna.
<< Mah, forse hanno una figlia che studia in qualche collegio prestigioso fuori città, che ne possiamo sapere?>>, Cox mise a posto il piccolo barboncino e si accasciò sul lettino abbandonato.
<< Se anche fosse, perché non è tornata a casa per le vacanze estive? E perché la sua camera è chiusa a chiave? Questo letto è intonso da settimane, c’è ancora la coperta pesante sistemata sul letto e fuori ci sono almeno quaranta gradi!>>.
Cox rimase in silenzio, non riuscendo a trovare una spiegazione logica alle osservazioni della collega; rimise a posto il letto così come lo aveva trovato e chiese sospirando: << cosa facciamo ora?>>.
<< Tu per ora richiudi la stanzetta, contatta McIntyre e chiedigli di fare qualche ricerca sulla famiglia di Essid e controlla il resto del piano superiore. Io, intanto, scenderò di sotto a cercare la cassaforte>>. Kieren fece un cenno di assenso e tirò fuori il suo telefono satellitare dalla tasca.
Al piano sottostante, Hadiya cominciò con tanta pazienza a cercare la cassaforte a partire dal salone d’ingresso e dalla cucina; guardò in eventuali doppi fondi delle assi del parquet, dietro ai mobili, accanto alle porte e alle finestre, nei condotti di aerazione e persino nella cella frigorifera della cucina, senza risultato. Attraversò poi la sala da pranzo che affacciava a nord sul giardino con piscina, al centro della quale si trovava un elegante tavolo di legno intagliato, sormontato da candelabri dorati alle estremità, e agli angoli delle statue di marmo raffiguranti donne seminude. Sulla parete sud, invece, vi era una credenza che ospitava dei raffinati servizi di piatti e bicchieri di cristallo e, al di sopra di essa, un enorme quadro simil rinascimentale che occupava tutta la parete. “Ma no, vuoi vedere davvero che…?” pensò la donna, mentre sollevava il dipinto dal muro bianco calce. Una forte risata risuonò in tutta la casa, giungendo anche alle orecchie di Cox, che aveva appena sceso le scale.
<< Che diavolo ti prende?>> chiese quello inarcando le sopracciglia.
<< Guarda un po’ qui>>. Hadiya mostrò incredula la sua scoperta al compare: una luccicante ed ultra moderna cassaforte a manopola, in doppio acciaio rinforzato, di un pluridecorato generale africano dei servizi segreti, nascosta dietro ad un quadro della sala da pranzo.
<< Cavolo, credevo che queste cose si vedessero solo nei telefilm>> disse grattandosi la nuca Cox, che poi riprese << al piano di sopra non ho trovato nulla di interessante, ho rimesso tutto in ordine e richiuso la stanza. Per quanto riguarda la piccola, secondo i nostri dovrebbe essere l’unica figlia di Essid e della prima moglie, morta qualche anno fa in un incidente stradale. Mcintyre dice che dovrebbe avere circa dieci anni ed essere iscritta alla scuola elementare del quartiere. Non sono noti altri parenti in vita che potrebbero ospitarla, eccetto una vecchia zia malata che abita in un ospizio fuori città, e non si conoscono altre residenze del generale al di fuori di questa villa>>.
<< Che diavolo di fine ha fatto questa bambina, allora?>> chiese scuotendo il capo Hadiya.
<< Non lo so e di certo non lo scopriremo restando qui impalati a farci beccare. Abbiamo solo venti minuti prima che la vecchia torni, penso sia meglio non sfidare la sorte e andare via. Torneremo domani mattina con gli strumenti adatti per aprire la cassaforte>> le disse Cox tirandola per il braccio.
Hadiya si divincolò dalla sua stretta, portò l’indice al naso chiedendo al collega di fare silenzio, poi aprì lo zainetto che aveva sulle spalle e tirò fuori un fonendoscopio nero dalla campana luccicante; lo appoggiò contro lo sportello della cassaforte e infilò nelle orecchie l’altra estremità.
<< Fai sul serio? E poi sarei io lo scassinatore da quattro soldi?>> disse Cox strabuzzando gli occhi. Hadiya gli fece di nuovo cenno di restare in silenzio e cominciò con solennità a ruotare la manopola auscultando ogni singolo click che emetteva.
<< Bingo!>> disse dopo circa dieci minuti, quando, dopo aver inserito la corretta sequenza, lo sportello si aprì. Cox non poteva credere ai suoi occhi; era riuscita a scassinare una cassaforte rinforzata in appena dieci minuti.
<< E’ questo quello che vi insegnano in accademia?>> chiese, ancora sconcertato.
<< Non essere sciocco Cox, questo è il mio personalissimo passatempo domenicale>> rispose Hadiya divertita.
All’interno della cassaforte gli agenti trovarono circa due milioni in contanti, diverse decine di titoli di stato dei paesi più disparati, una pistola, un foglietto con diversi numeri ed infine un libro ingiallito: Anna Karenina.
<< Abbiamo appena trovato la nostra chiave!>> disse Hadiya soddisfatta sfogliando il libro.
<< Non capisco di cosa parli, come al solito>> ribatté seccato il biondo.
Hadiya corse veloce nello studio al piano di sopra, recuperò dalla agenda del generale un post-it volante ricco di quelli che apparentemente sembravano numeri di telefono, a cui prima non aveva dato grossa importanza, e, una volta ritornata nella sala da pranzo cominciò a cerchiare delle parole tra le pagine del romanzo russo.
<< E’ un messaggio cifrato. I malviventi gli recapitano per posta un foglio con delle cifre accoppiate a tre a tre e gli indicano qual è il libro da utilizzare; il primo numero della tripletta corrisponde alla pagina, il secondo al rigo e il terzo alla parola da evidenziare. L’insieme delle parole indica il luogo e la data dell’incontro. Capisci?>> disse la donna entusiasta. Cox rimase impalato con la bocca aperta e lo sguardo confuso per qualche secondo.
L’agente De Wit si appoggiò al tavolo della sala da pranzo, pescò una matita dallo zaino e prese a cerchiare tutte le parole indicate dal messaggio.
<< Dunque, vediamo un po’, questo dovrebbe essere l’ultimo numero. Centodiciotto… undici… quattro… Eccolo!>> urlò soddisfatta.
<< Allora? Che dice sto’ coso?>> chiese interessato Cox.
<< L’incontro si terrà alle dodici davanti alla moschea della piazza centrale, non lontano da qui>>. Guardò l’orologio da polso che segnava le undici e quaranta, << merda! Ci dobbiamo muovere o lo perderemo! Rimettiamo tutto in ordine e usciamo alla svelta>>.
L’agente Cox, ancora frastornato per l’enorme quantità di informazioni apprese nell’arco di cinque minuti, annuì e seguì le indicazioni della collega senza batter ciglio. In un tempo che parve ridicolmente breve anche a loro, furono fuori dalla villa del Generale, seduti in auto pronti a raggiungere la piazza centrale.
<< Cazzo, di questo passo non arriveremo mai!>> Cox fece un gesto di stizza battendo i pugni sul clacson, che risuonò insieme a quelli degli altri automobilisti paralizzati nel traffico della capitale.
<< Hanno scelto l’ora di punta per l’incontro proprio per mescolarsi alla folla>> disse Hadiya mordendosi le labbra e guardando preoccupata l’orologio, che continuava a ticchettare incessante.
<< Io continuo a piedi>> disse tutt’ad un tratto la donna, << tu parcheggia appena puoi e poi raggiungimi>>. Scese in fretta dall’auto e controllò che la pistola nella fondina fosse a posto.
<< La piazza dista almeno 2 Km, non arriverai mai in tempo De Wit!>> urlò Kieren disperato dal finestrino. Hadiya si voltò a guardarlo e poi allargando le braccia verso l’alto gli gridò: << lo so, ma devo almeno provarci>>.
Cox vide la collega scomparire nel fiume umano che intasava i larghi marciapiedi di Tripoli. Hadiya cominciò a correre più forte che poteva, scontrandosi continuamente con le donne dai vestiti colorati e i capelli racchiusi in un velo. Cominciò a non sentire più le gambe, il respiro si fece affannoso e un dolore urente cominciò ad irradiarsi dal fianco sinistro a tutto il torace quando mancavano appena cinque minuti a mezzogiorno. Se fosse arrivata in ritardo, se non fosse riuscita ad individuare il generale in mezzo alla folla, il loro lavoro sarebbe stato vano. Solo quando arrivò ai piedi della piazza, qualche minuto dopo, si fermò un attimo piegandosi con le mani sulle ginocchia a riprendere fiato. Le goccioline di sudore le scendevano copiose sulla fronte arrossata e le fitte al torace cominciavano a farsi così insistenti da impedirle di respirare. Alzò lo sguardo verso la piazza e l’immagine che vide contribuì ulteriormente a toglierle il fiato.

Martyrs’ square era una enorme piazza a pianta circolare che fungeva da raccordo per due delle quattro strade principali della città. Al centro di essa sorgeva la più grande moschea del paese, un edificio rettangolare con diversi gazebi e tendaggi annessi, decorato con splendide pietre nere e dorate e colonne di finissimo marmo bianco, che sostenevano archi a sesto acuto. Il pavimento era una distesa di marmo bianco luccicante, interrotto da diversi disegni di fiori azzurri e rigogliose piante rampicanti. Le ventiquattro cupolette sul tetto, disposte in quattro file da sei, erano rivestite da lamine di oro puro, che, riflettendo il caldo sole libico, accecavano gli spettatori anche a centinaia di metri di distanza.
La più orribile delle sue previsioni si era rivelata fondata. La preghiera di metà mattino stava richiamando frotte di fedeli alla moschea e gli uomini e le donne praticanti, disposti in lunghe file davanti ai due ingressi separati, avevano occupato gran parte del perimetro circostante. Scorgere il generale in mezzo a tutta quella gente sarebbe stato difficile quanto trovare un ago in un pagliaio.
Cercando di farsi strada tra le centinaia di fedeli, con strattoni e spinte poco cortesi, Hadiya cominciò la sua impossibile ricerca, sperando che Cox la raggiungesse quanto prima e la aiutasse.
Quando ormai mancavano pochi minuti all’incontro e aveva perso ogni speranza di trovarlo, vide da lontano il generale, come un miraggio in un’oasi del deserto, vestito con dei semplici abiti tradizionali bianchi, che si dirigeva verso una delle colonne posteriori.
L’uomo si guardò intorno con fare circospetto, poi lasciò all’interno di una scanalatura della colonna una busta bianca delle dimensioni di un foglio A4. Senza più guardarsi indietro, si allontanò come se nulla fosse dal luogo dello scambio ed entrò insieme agli altri uomini in fila all’interno della moschea. Hadiya si nascose dietro ad una delle colonne a decine di metri di distanza da cui godeva di un’ottima visuale del pacchetto, tanto più che con l’inizio della preghiera la piazza stava cominciando lentamente a liberarsi. Il telefono cominciò a vibrare nella sua tasca; rispose senza mai perdere di vista la busta.
<< Dove sei? Io sono appena arrivato in piazza>> le disse Cox annaspando; doveva aver corso forte anche lui.
<< Sono dietro ad una delle colonne della moschea, quella più bassa col capitello d’ottone scolorito. Il nostro uomo ha appena infilato una busta bianca in una scanalatura a sud-est e se n’è andato a pregare>> rispose Hadiya, coprendosi le labbra con il palmo della mano.
<< Probabilmente passerà qualcuno a recuperarla a momenti, così da non avere alcun contatto diretto con il Generale. Cosa facciamo ora?>> incalzò di nuovo il collega, che stava ricominciando a prendere fiato.
<< Aspetto che si presenti il galoppino dei terroristi e poi lo seguirò ad una certa distanza per vedere se ci porta dai suoi mandanti. Tu sbrigati ad arrivare che essere in due renderà la cosa più semplice>>.
<< Va bene, dammi due minuti e arrivo>> tagliò corto Cox, poi riagganciò.
Come previsto, dopo circa cinque minuti dalla fine della telefonata, un tizio ordinario, vestito con un jeans e una camicia bianca a righe blu e un berretto, prelevò con un gesto rapidissimo la busta lasciata dal generale e la infilò all’interno di una ventiquattro ore nera. Dopo aver dato una fugace occhiata in giro, l’uomo si allontanò a passo svelto attraversando la parte posteriore della piazza, ancora piena di gente nonostante l’inizio della preghiera. Hadiya comunicò a Cox la descrizione dell’uomo, che dall’aspetto pareva essere del posto, e cominciò a seguirlo ad una distanza di almeno venti metri. Il tizio si fermò tutto ad un tratto nel centro del piazzale, rispose al telefono con aria annoiata, e poi riprese il suo cammino. Il suo passo si fece sempre più svelto, attraversò la strada trafficata che lo divideva dal corso principale della città e imboccò la direzione del mercato.
Hadiya aggiornò Cox sulla direzione intrapresa dal sospettato e riprese il suo inseguimento destreggiandosi tra bancarelle di frutta, abiti e cianfrusaglie varie, donne con carrozzini e passanti in bicicletta. La città nell’ora di punta era un vero e proprio inferno. Cox spuntò dall’altro lato della strada dopo aver tagliato attraverso un vicoletto stretto laterale.
<< Se quel maledetto arriva al mercato o si infila in un’auto, lo abbiamo praticamente perso>> disse Hadiya preoccupata al telefono.
<< E’ già abbastanza difficile stargli dietro così, dannazione>> aggiunse l’altro stringendo i pugni.
Dopo circa cinque minuti, il tizio attraversò la strada raggiungendo Cox dall’altra parte, poi svoltò in una piccola stradina collaterale, che si inseriva ad angolo retto sulla principale, si tolse il cappellino e la camicia bianca, restando solo con una t-shirt sottile, e li gettò in un bidone poco distante. Quando l’agente della confederazione, mantenutosi a distanza di sicurezza, svoltò l’angolo, non vide più l’uomo. Cominciò a correre lungo la stradina, a guardare in ogni negozio e bazar, ma del sospettato non c’era più traccia: si era apparentemente dissolto come neve al sole. Tornò indietro in direzione di Hadiya, arrabbiato con sé stesso per essersi fatto sfuggire l’uomo come il peggiore dei pivellini e pronto a sorbirsi la meritata lavata di capo della donna.
<< L’ho perso, mi spiace>> fu l’unica cosa che riuscì a dirle quando la vide corrergli incontro.
La donna lo superò, si avvicinò al bidone della spazzatura retrostante e tirò fuori gli indumenti del tizio lasciati sui rifiuti; tirò un calcio ad una lattina caduta da una busta.
Si avvicinò al biondo e, mettendogli una mano sulla spalla, gli disse: << non è stata colpa tua Cox, hanno organizzato lo scambio a quest’ora proprio per permettere al tizio di confondersi con la folla. Se l’avessimo marcato troppo stretto ci avrebbe notati e non avremmo più potuto contare sull’effetto sorpresa>>.
Kieren inarcò le sopracciglia, sorpreso dalle parole gentili della collega, << cosa facciamo ora?>>.
<< L’unica cosa che possiamo fare è andare a fare quattro chiacchiere con il nostro generale. Anche se sono convinta che non sappia nemmeno per chi lavora, ci potrà di sicuro comunicare il luogo e l’ora del prossimo scambio. A quel punto, non ci faremo trovare impreparati>>.
<< E se invece dovesse rifiutarsi di collaborare?>>.
<< Non lo farà. Ha un’accusa di alto tradimento pendente sulla testa, farà di tutto pur di non essere giustiziato… O almeno lo spero>> rispose quella, senza essere troppo convinta delle proprie stesse parole. Hadiya si allontanò per riferire gli ultimi sviluppi al Capitano, poi lei e Cox, ancora deluso e amareggiato, tornarono all’auto, pronti a ideare una nuova strategia per incastrare definitivamente la talpa africana e attraverso essa arrivare agli ideatori dell’attacco al presidente.
Quando quella sera il generale Essid uscì dal quartier generale dell’intelligence Nord-africana, non troppo distante da Martyrs’ square, per dirigersi alla sua auto posteggiata nel parcheggio sotterraneo, non si aspettava di certo che due agenti della Confederazione gli facessero una visita di cortesia. Entrò come suo solito nell’ascensore che lo portava ai piani inferiori, mostrò il badge di riconoscimento alla guardia, che lo salutò con un lieve cenno della mano, aprì col comando a distanza la sua costosa berlina a tre volumi tedesca e prima che potesse inserire la chiave nel cruscotto e mettere in moto, si sentì puntare una pistola alla tempia da qualcuno che era rimasto tutto il tempo lì, acquattato in silenzio sui sedili posteriori.
<< Che cosa volete da me?>> balbettò l’uomo alzando le mani, << se è il denaro che volete, ho il portafogli nella valigetta…>>.
<< Non sono i soldi che cerchiamo, generale>> disse Hadiya fissandolo con occhi accusatori attraverso lo specchietto retrovisore, << ma solo qualche notizia sulla gente a cui passa informazioni riservate da qualche mese a questa parte>>.
L’uomo strinse gli occhi e inspirò profondamente, consapevole che prima o poi il momento della resa dei conti sarebbe arrivato; si allentò il nodo della cravatta, si girò con cautela in direzione dei due aggressori e disse con un filo di voce, prima di crollare in un pianto disperato, << hanno preso la mia bambina>>.
Hadiya e Cox si guardarono negli occhi cercando sostegno l’uno nell’altro, non sapendo bene cosa fosse giusto fare; poi la donna infilò di nuovo la pistola nella fondina, mentre Cox tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e lo porse all’uomo, i cui singhiozzi erano diventati talmente forti da impedirgli quasi di respirare. << Ora si faccia forza Generale e mi ascolti attentamente>> fece l’agente De Wit con tono gentile ma deciso, << mi racconti tutta la storia sin dall’inizio e le prometto che andrà tutto bene>>.
L’uomo annuì e cominciò il lungo racconto dei mesi più spaventosi della sua vita.

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Capitolo 16
*** Giù la maschera ***


16



I primi fiocchi di neve della stagione stavano cominciando a cadere sulla città ormai buia. Il vento ispido soffiava ululando attraverso le grondaie e faceva sbattere violentemente le finestre e le porte dei balconi. Sofyane tentava di riscaldarsi le mani soffiando sulla lana rossa dei guanti a manopola, tenendo la cornetta del telefono tra la spalla e l’orecchio, mentre la voce del centralino continuava a mandare le solite offerte del discount. Dopo essere riuscita con qualche difficoltà ad inserire il codice sul tastierino, udì la voce del sergente dall’altro capo del telefono.
<< Che notizie porti dalla capitale?>> chiese quello senza troppi giri di parole.
La voce del sergente, per quanto rauca ed inflessibile, le fece venire un po’ di nostalgia. Sorrise amaramente per la sua volubilità: aveva cercato per anni di allontanarsi dalla base e di portare a termine la sua prima missione come agente speciale ed ora che si stava avvicinando all’obiettivo sentiva sempre di più la necessità di tornarsene al nido, a riabbracciare tutti coloro che si era lasciata alla spalle. Proprio lei che fino ad allora non avrebbe abbracciato neanche i suoi, se fossero stati ancora vivi.
<< La settimana prossima si terranno le prove finali per l’ammissione alla squadra ufficiale. Ci saranno un test scritto e una prova pratica; non ci hanno ancora dato molti dettagli, ma pare che per la seconda abbiano scelto qualcosa di particolarmente brutale>> rispose la donna, tirando su il moccio del naso << una volta sostenute le prove, ci concederanno una settimana di vacanze per trascorrere il Natale in famiglia e poi ci comunicheranno i risultati e i nomi degli ammessi nella prima di gennaio. Per metà mese la squadra dovrebbe essere già operativa e…>>
Il sergente la interruppe prima che potesse continuare la frase << non puoi tornare qui per le festività, Sofyane, mi dispiace>>. La ragazza rimase in silenzio, come pietrificata, davanti alla notizia.
<< Devi restare in zona e assicurarti che tutto fili liscio, non possiamo mollare proprio quando siamo in dirittura d’arrivo. E comunque, anche se ti lasciassi tornare, resteresti delusa: non c’è quasi nessuno da queste parti, sono tutti fuori in missione o a casa dalle proprie famiglie, per chi ce l’ha. Quest’anno il ministero ha anche deciso di dare qualche giorno di ferie agli operai e agli inservienti. In questo periodo, a dire il vero, l’atmosfera su questo vecchio macinino cigolante è alquanto spettrale>>.
Ci furono degli interminabili secondi di silenzio tra i due, un silenzio che mascherava un latente e crescente senso di insoddisfazione e sfiducia. In tanti anni non c’era mai stato del vero astio tra di loro, neanche nei momenti peggiori. Si erano sempre detti tutto a viso aperto, anche le cose più terribili; il silenzio non aveva mai fatto parte del loro rapporto.
<< Va bene capo>> rispose poi con poca convinzione la ragazza, sperando che la voce rotta non lasciasse trasparire la sua delusione <>.
<< Sofyane, so che dovrebbe essere inutile spendermi in ulteriori raccomandazioni, ma, dopo tanti anni che ti conosco, ho capito che con te non si è mai troppo prudenti. Devi assolutamente volare basso durante le prove finali, soprattutto durante quella pratica, ti è chiaro? Non voglio sorprese dell’ultimo secondo come con la faccenda di Rakovnik. E’ una questione di vita o di morte, lo sai anche tu. Non farmi pentire di averti dato fiducia>> le disse l’uomo, evidentemente ancora irritato per quanto accaduto qualche settimana prima col pozzo radioattivo.
Sofyane sospirò e strinse forte le palpebre, risentita del fatto che ancora le venisse rinfacciato quell’errore, << sì capo, le giuro che righerò dritto. Ora vado, si sta facendo tardi e tra poco chiuderanno il loft, non vorrei dover dormire fuori con questo gelo polare>>.
Proprio mentre stava per riagganciare, sentì di nuovo la voce del sergente richiamarla.
<< Ah, Sofyane…>> fece l’uomo, esitando << trascorri un buon Natale, mi raccomando. E ricordati che, anche se di recente le cose si sono complicate, qui c’è sempre qualcuno che ti aspetta>>.
<< Grazie capo. Trascorra un buon Natale anche lei. Ci risentiamo presto>>.
La fine della chiamata fu sancita dal rumore delle monetine che scendevano all’interno dei tubi metallici del telefono.
Uscì dalla cabina chiudendo adagio la porta dietro di sé, lasciò qualche avanzo di arrosto della cena al cane randagio che bazzicava di solito nel quartiere e poi entrò di corsa nella utilitaria blu a due porte, sperando che i riscaldamenti funzionassero.

Quella notte continuò a girarsi e rigirarsi nel letto senza riuscire a trovare pace. Nonostante gli stressanti allenamenti del mattino l’avessero stancata e nonostante le cattive notizie portate dal sergente non avessero fatto altro che aumentare il suo desiderio di farsi una bella dormita, non riusciva a chiudere occhio. Cosa avrebbe fatto per le vacanze natalizie? Il dipartimento sarebbe rimasto chiuso e lei non aveva altro posto dove dormire; avrebbe potuto chiedere a Mark di unirsi a lui e alla sua famiglia per il cenone natalizio, ma, probabilmente, agli occhi dell’amico sarebbe risultato piuttosto insolito il fatto che non trascorresse le festività in famiglia con il suo finto padre, nel suo finto paese natale. Altri contatti dell’Agenzia, in quella zona, non ne aveva e di sicuro non poteva permettersi di rientrare alla base contravvenendo agli ordini del sergente, già abbastanza spazientito per gli errori commessi in precedenza.
Cosa fare dunque? Non riusciva proprio a trovare una soluzione al suo problema, tanto più che aveva deciso che per quella volta se la sarebbe cavata da sola, che non avrebbe disturbato i suoi colleghi per una simile inezia, non dopo aver ricevuto l’ordine categorico del capo di non dargli altre grane. Avrebbe dormito in auto al freddo e al gelo, piuttosto che richiamarlo e pregarlo di trovarle una soluzione.
Stanca di restare lì immobile a torturarsi, decise che quella notte avrebbe fatto qualcosa di più proficuo; cercando di non svegliare la compagna di stanza, indossò la tuta sportiva e le scarpette da tennis, prese una borsa dall’armadio, ci infilò dentro degli asciugamani, una bottiglietta d’acqua, il suo fido mp3 e uscì senza far rumore dalla stanza. Percorse il corridoio che la divideva dalla camerata degli uomini, poi il cortile centrale; tutto intorno regnava un tenebroso silenzio: gli uffici del dipartimento erano chiusi da un pezzo e gli uomini delle pulizie erano andati via già da qualche ora. Era l’unica rimasta sveglia in tutto l’edificio. Spinse lentamente la porta della palestra, camminò percorrendola lungo il perimetro fino al magazzino degli attrezzi e poi tirò fuori il sacco da boxe. Si fasciò le dita con una benda bianca, si cosparse le mani col gesso, infilò le cuffiette con la musica a tutto volume nelle orecchie e cominciò a tirare pugni e calci al sacco. Era un metodo che aveva sempre usato alla base per sfogare la rabbia e scaricare la tensione, ma da quando era finita in missione non aveva mai avuto modo di riprendere la vecchia abitudine; quando qualche giorno prima, in uno dei suoi giri di esplorazione, aveva scoperto che le porte della palestra non venissero chiuse a chiave e che non vi fossero allarmi all’interno della struttura, il suo primo pensiero fu quello di tirare fuori la rabbia e ricominciare a picchiare duro.
I primi pugni che sferrò erano decisamente leggeri, aveva ancora bisogno di tempo per riabituarsi alla durezza della sabbia; poi, lentamente, i colpi diventarono sempre più intensi, la corda che legava il sacco all’asta metallica sempre più oscillante, fino a che il sangue che le cominciò ad uscire dalle nocche non colorò di rosso le bende bianche.
Prima che potesse sferrare un altro colpo, sentì una mano prenderla per il polso e bloccarle il braccio a mezz’aria. Sofyane si girò di scatto, spaventata, ritrovandosi una luce puntata contro. Si portò il braccio libero sulla fronte, cercando di scrutare la figura che la tratteneva, poi, finalmente, dopo che i suoi occhi si furono adattati alla luce, vide quelli del funzionario Lee che la fissavano contrariati, le sue sopracciglia inarcarsi in un’espressione inviperita e infine le labbra muoversi con fare autoritario.
Si tolse immediatamente le cuffie dalle orecchie, giusto in tempo per sentire la voce dell’uomo, che le stava chiedendo, più esasperato che arrabbiato in realtà, che diavolo ci facesse lì a quell’ora. Sofyane cercò attentamente le parole da usare prima di rispondere, poi, asciugandosi il sudore con una delle sua tovagliette, disse: << lei piuttosto, che ci fa qui?>>.
<< Io? Non saprei, l’ultima volta che ho controllato il ministero mi pagava per gironzolare di notte tra i corridoi del dipartimento a controllare che fosse tutto apposto. Mi pare che lo chiamino “lavoro retribuito”. E’ lei, invece, quella che dovrebbe essere a letto già da un pezzo! Mi dica, perché è qui?>>.
<< Non riuscivo a dormire>> rispose con aria indifferente la ragazza, alzando le spalle come se la questione non la riguardasse.
Il funzionario le fece un’altra occhiataccia. << Non riesce a dormire e quindi, al posto di farsi una bella camomilla, se ne va in palestra nel cuore della notte a fare a botte col sacco?>>.
<< Perché, c’è forse qualche regola che lo vieta?>> ribatté Sofyane con aria di sfida; era davvero troppo stanca e arrabbiata per interpretare la docile ragazzina sprovveduta.
<< Ce ne sono almeno una decina, in realtà. Se vuole gliele elenco tutte>> rispose faceto l’altro.
Sofyane si liberò dalla stretta dell’uomo e raccolse la borsa dal pavimento, << non ce n’è bisogno, grazie. Prendo le mie cose e vado via, mi è appena tornato il sonno. Non capiterà mai più, glielo giuro>>.
Nonostante l’ambiente fosse illuminato solo dalla tenue luce che emetteva la torcia, il funzionario Lee scorse le tracce di sangue lasciate sulle bande intorno alla dita della giovane.
<< Dove crede di andare in quello stato?>>. Le prese di nuovo la mano, nonostante la ferma resistenza opposta da lei, e poi le tolse la lentamente la fasciatura; Sofyane strinse forte i denti nel tentativo di resistere al dolore lancinante che stava provando.
<< Ha le ossa della mano completamente deformate>> disse quello osservando per bene sotto alla luce le ferite della donna << deve aver tirato molti pugni nella sua vita>>.
Sofyane distolse lo sguardo senza proferir parola, poi aggiunse, ricordandosi ciò che le aveva detto il sergente qualche tempo prima: << sono stata una ginnasta professionista in un’altra vita. Bella disciplina, ma quando smetti ti ritrovi le mani di uno scaricatore di porto>>.
<< Comunque non può rientrare in stanza così, devo medicarla. L’infermeria è chiusa a quest’ora e può aprirla solo il personale medico, ci sono troppe sostanze d’abuso lì dentro; ma credo che dovrebbe esserci un kit di pronto soccorso in cucina>>.
La donna ruotò gli occhi verso l’alto e, cercando di fermare il sangue con un asciugamani, seguì controvoglia il superiore nelle cucine della mensa.
Lee aprì con la sua chiave le porte del refettorio, accese la piccola lampadina di una delle cappe, prese due sgabelli da un tavolo e li sistemò sotto ad un bancone di marmo che si trovava accanto ai fornelli. Invitò la sottoposta a sedersi, poi cominciò a cercare all’interno della dispensa il kit di pronto soccorso. Sofyane si appoggiò con la testa sul tavolo e prese a giocherellare con un cucchiaio di legno, probabilmente lasciato lì da qualche aiuto cuoco sbadato.
<< Hai freddo? Stai tremando>> le disse Lee, dandole del tu; appoggiò la cassetta bianca sul bancone e si arrotolò due o tre volte le maniche della camicia.
<< Sì, un po’>> rispose la ragazza guardandosi le spalle nude, coperte appena dalle bretelline nere del top. L’uomo si tolse la giacca e gliela poggiò sulle spalle. << I riscaldamenti si accenderanno solo tra qualche ora, quando cominceranno ad arrivare i primi addetti della mensa per preparare la colazione. Con i tempi che corrono, non possiamo permetterci di sprecare energie per riscaldare ambienti vuoti>>.
Tirò fuori una boccetta scura dal kit e ne versò un po’ su una garza bianca, le prese la mano e cominciò ad applicare il disinfettante sulle ferite aperte; Sofyane ritrasse la mano per il bruciore.
<< Oh andiamo, hai rischiato di lasciarci le penne sotto ad un cumulo di macerie in un fosso buio di una fogna abbandonata e adesso fai i capricci per dei graffietti?>> le chiese quello con aria contrariata.
La donna convenne che il superiore non aveva poi tutti i torti e quindi gli porse a malincuore la mano. << La nostra situazione energetica è disperata, vero?>> gli chiese d’improvviso. Aveva fatto una domanda stupida di cui conosceva già la risposta, ma avrebbe fatto di tutto pur di non pensare al dolore che stava sentendo.
<< Disperata è dire poco. La nostra società potrebbe implodere da un momento all’altro a causa della crisi di risorse>> - l’uomo soffiò sulle ferite aspettando che il medicinale si asciugasse- << è per questo che in tanti ci tengono ad assumere una posizione importante in questo dipartimento: a conti fatti, siamo il futuro. Ormai tutto il paese dipende da noi e da quante fonti di energia pulita riusciamo a trovare in giro per il mondo. Ma tu sei qui per un altro motivo, no? Hai quell’assurdo sogno di migliorare il mondo che sembrano avere molti abitanti di questa confederazione>>.
<< Sì, beh, almeno in parte. In realtà il mio sogno da bambina era quello di diventare archeologa. Avrei voluto studiare in sud America le civiltà pre-colombiane o magari i segreti delle antiche dinastie imperiali in Cina. I grandi popoli del passato mi hanno sempre affascinato>> rispose quella sorridendo, come quando si pensa ad un sogno infantile che ormai è troppo lontano per provocare tristezza, ma ancora abbastanza vicino da mettere di buonumore.
<< E come mai non lo hai fatto? Ne avresti avuto tutte le capacità e io, probabilmente, non avrei avuto tutti i problemi che mi hai dato da quando sei arrivata>> disse l’uomo quasi senza riflettere sul significato nascosto delle sue parole.
<< Se avessimo vissuto in un mondo diverso, in un mondo che non sia sempre sull’orlo del baratro, in cui le nostre vite non siano appese ad un filo, in cui la morte non ti aliti sul collo sin dalla nascita, allora lo avrei fatto; avrei fatto le valigie e sarei partita senza guardarmi indietro. Purtroppo però si devono fare i conti con la realtà e non credo davvero che sarei riuscita a vivere così spensierata dall’altra parte dell’equatore sapendo quanto soffrono i miei concittadini. Ho bisogno di sentirmi utile, ecco>>.
Il disinfettante si era finalmente asciugato, così Lee prese delle bende pulite dalla scatola e le avvolse dolcemente intorno alle dita piccole e sottili della ragazza; << e non ti sei mai pentita della tua scelta? Neanche per un attimo? Ora potresti essere in qualche paese tropicale a prendere il sole, invece che essere rinchiusa in questa fredda cucina con un uomo che non sopporti a fasciarti delle ferite orribili sulle mani>>.
<< Sa, secondo me al mondo non esistono cose come i rimpianti o le opportunità perse. Credo che le cose in realtà vadano sempre come dovrebbero andare e questo non perché creda nel destino, nella fatalità o nell’esistenza di qualunque altra sciocchezza mistico-religiosa che possa governare il nostro agire, ma solo perché sono fermamente convinta che ogni cosa accada sempre in conseguenza ad un nostro comportamento e ogni comportamento dipenda sempre dalla nostra volontà. Se avessi voluto sul serio perseguire quel sogno infantile, lo avrei fatto, senza scuse e senza mezzi termini. Se sono qui, è perché dentro di me sapevo che questa era la mia strada… sono qui perché è qui voglio essere davvero>> disse con solennità Sofyane, mentre faceva delle prove di apertura e chiusura del pugno. Le mani erano a posto.
<< Se posso permettermi, è davvero una bella filosofia la tua. Forse un po’ troppo semplicistica per quel che mi riguarda, perché penso che nella vita spesso entrino in gioco delle variabili che sono indipendenti dalla nostra volontà e che ci costringono a fare cose che non vorremmo fare, ma comunque mi piace il tuo pensiero self-confident, questa idea che in fondo tutto dipenda da noi>> disse Lee guardandola fisso negli occhi, poi sorrise e si mise a ripulire il tavolo dai residui della medicazione.
<< Beh, ho comunque ancora tanti altri sogni da avverare e tanti altri posti da esplorare, la mia vita non si fermerà di certo qui, in questo dipartimento. Ammirare la skyline notturna della capitale dall’ultimo piano della Tower of Lights è uno di questi, per esempio>> riprese la donna, sorridendogli a sua volta.
<< Non mi sembra poi una cosa così difficile da fare. Come mai non ci sei mai andata fino ad ora?>>.
Sofyane si alzò dalla sedia e cominciò a frugare all’interno degli ampi mobiletti di legno della dispensa della cucina, << non è così semplice come sembra. Per accedere all’ultimo piano ci vogliono dei permessi speciali, roba da ministri e funzionari di altro grado. Sa, le solite rigide misure di sicurezza contro il bioterrorismo; ma un giorno sarò così importante e stimata da riuscire ad avere le credenziali per accedervi. Vedrà>>.
<< Non ne dubito Sofyane, sul serio. Ma… che stai facendo ora?>> le chiese Lee con l’espressione di uno che non avrebbe sopportato altre sorprese per quella notte.
La donna si voltò e gli sorrise con un’espressione truffaldina. << Non le andrebbe una bella cioccolata calda? La mia è fenomenale, glielo assicuro>>.
Dieci minuti dopo, i due erano davanti a delle tazze fumanti di cioccolata calda la cui dolce fragranza si era diffusa in tutta la stanza. Sofyane fece subito un lungo sorso dalla sua, disegnandosi, senza accorgersene, due lunghi baffi marroni ai margini della bocca.
Lee, invece, continuava a fissare inerte con le braccia incrociate il marshmallow rosa che galleggiava nella sua tazza piena fino all’orlo.
<< Non mi dica che non le piace neanche la cioccolata>> gli disse Sofyane con un’espressione contratta. L’uomo finalmente sollevò lo sguardo dalla sua tazza e scosse la testa, come se in tutto quel tempo fosse stato da un’altra parte, e guardò la donna imbronciata che gli stava seduta accanto.
Scoppiò in una risata fragorosa che risuonò in tutti gli angoli della cucina. Sofyane strinse le palpebre in attesa di avere spiegazioni per quella reazione che per lei, che chiaramente non aveva modo di guardarsi in viso, era incomprensibile.
L’uomo si alzò dal suo sgabello, le si avvicinò sorridendo e, sollevandole il viso con l’indice sotto al mento, le tolse col pollice la striscia di cioccolata.
<< La cioccolata va benissimo>> le disse poi dolcemente, restando lì a fissarla con le dita che le carezzavano le labbra, ad una distanza troppo ridotta perché lei potesse ragionare lucidamente. I secondi le sembrarono minuti e le ore le sembrarono attimi. Le regole del tempo si erano completamente sovvertite.
Tutt’ad un tratto Lee si allontanò bruscamente, si rimise al suo posto, bevve velocemente la sua bevanda senza dire una parola e poi, uscendo dalla cucina, le disse: << appena ha finito rimetta tutto in ordine e torni nella sua stanza. Deve dormire e riposarsi, domani mattina la aspetta una giornata lunga>>.
Sofyane sentì solo il rumore delle due porte chiudersi dietro di lui prima che potesse dire una sola parola. “Come puoi pensare che riesca a dormire dopo quello che è successo un attimo fa?” pensò tra sé e sé riuscendo a malapena a nascondere il rossore che le era comparso sulle guance. Ma era davvero successo qualcosa? O se lo stava solo immaginando?
Fu presa da un’agitazione ancora più forte di quanto non lo fosse prima, quando era uscita dalla sua stanza per schiarirsi le idee. Mise in ordine le tazze, cancellò ogni segnò di quelle ore trascorse clandestinamente con l’uomo nelle fredde cucine del dipartimento e si preparò a passare l’ennesima notte insonne da quando era cominciata quella missione.
Quando riappoggiò la testa sul cuscino, pensò seriamente di non farcela. Desiderò con tutta se stessa di fare i bagagli e tornarsene alla base, ad occuparsi di nuovo di tutto quel tranquillo lavoro d’ufficio e di quelle missioni secondarie di cui tanto si era lamentata in precedenza, quelle che non la vedevano abbastanza protagonista.
<< Le missioni sotto copertura non sono uno scherzo>> le aveva detto una volta il sergente, quando, in occasione del rientro di un altro agente da una operazione durata sette mesi, si era per l’ennesima volta proposta come agente speciale per una missione.
<< Pensa davvero che non riuscirei ad adattarmi in un ambiente ostile? Pensa che non riuscirei a stringere rapporti con altre persone che non siano lei o i miei colleghi? O a scovare informazioni importanti in mezzo ad una banda di criminali? Posso calarmi perfettamente in ogni parte, lo sa bene, mi addestra da quando ero una bambina apposta>> aveva poi ribattuto ingenuamente lei.
<< E’ proprio questo il tuo problema, ti adatti fin troppo bene e ti fai coinvolgere eccessivamente da ciò che ti sta intorno. E credimi, non c’è niente di peggio per un agente sotto copertura che essere troppo coinvolto>> le aveva risposto infine l’uomo.
Forse solo ora, a distanza di diversi anni, stava riuscendo a cogliere il senso delle parole del suo superiore, parole a cui all’epoca non diede troppo peso.
Da mesi ormai stava vivendo una vita che non era la sua, conoscendo persone e stringendo legami con esse con un’identità e una personalità che non erano le sue. Nessuna di quelle figure con cui parlava tutti i giorni e a cui si stava sinceramente affezionando la conosceva sul serio, nessuno la amava per ciò che era davvero. Non era lei quella ragazzina che da piccola desiderava girare il mondo alla scoperta di civiltà antiche, non era lei quella che voleva entrare con tutte le proprie forze nel dipartimento di Ricognizione e bonifica per cercare nuove fonti di energia e aiutare il suo popolo, non era lei quella che voleva diventare importante abbastanza da osservare la città dal tetto più alto del mondo, non era lei quella che avrebbe preparato una cioccolata calda ad uno sconosciuto nel cuore della notte solo per fermare ancora un po’ il tempo, per impedire che quel momento scivolasse via per sempre. Quella persona era solo una proiezione della sua fantasia, non era lei e non lo sarebbe mai stata. O forse sì? E se i desideri e le emozioni che Sofyane provava stavano diventando talmente forti e reali da scavalcare completamente i suoi? Le sembrava a volte di sdoppiarsi e di guardare la propria vita dall’esterno, come se a muovere il suo corpo ci fosse qualcun altro e non sapesse più da che parte stare.
Aveva bisogno di calare un attimo quella maschera, aveva bisogno di riprendere contatto con la realtà, la sua realtà. Il giorno dopo, durante la pausa pranzo, si allontanò di soppiatto dal dipartimento e si recò di nuovo alla cabina telefonica da cui aveva parlato con il sergente la sera prima.
Compose un numero diverso stavolta, un numero personale. Ci furono un paio di squilli, poi una voce nota rispose dall’altra parte.
<< Salve signor Otterton, come sta?>> disse la ragazza, quasi sul punto di piangere.
<< Hadiya, che sorpresa! Io sto bene e tu? Da dove chiami? Pensavo fossi in missione, non ti si vede da mesi da queste parti ormai>> le disse il macchinista con entusiasmo.
Sentirsi chiamare col suo vero nome dopo tutto quel tempo le fece venire un nodo alla gola.
<< Io… sì, sono in missione. La chiamo solo perché volevo solo sentire una voce amica. Tutto qui>>.
<< Beh, lo sai che puoi chiamare ogni volta che vuoi, questo vecchio signore non ha poi molto da fare durante la pausa pranzo>>.
<< Lo so signor Otterton, anche se in realtà io davvero non potrei farlo… ora devo andare, mi ha fatto tanto piacere sentirla. E non dica nulla al sergente Huber di questa chiamata, la prego, mi metterebbe sul serio nei guai. Grazie di nuovo, grazie per tutto>> riagganciò prima che l’uomo potesse chiederle altro, prima che la voce rotta tradisse il fatto che le lacrime stavano già solcando impietose il suo viso.
Si accucciò nell’angolo della cabina con la testa tra le ginocchia, lasciando che tutta la rabbia e la tristezza che aveva sentito in quei mesi venisse fuori. Non poteva più continuare a quel modo; ormai era davvero sull’orlo del baratro, come il mondo che tanto stava cercando di proteggere.

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Capitolo 17
*** Un futuro migliore ***


17



Quando gli agenti Nikolaidis e Molinaro, altro uomo della squadra di Huber, arrivarono alla fabbrica abbandonata -in realtà uno dei tanti nascondigli dell’Agenzia in terra africana- in cui Hadiya e Cox avevano condotto e successivamente interrogato il generale Essid, trovarono l’uomo ammanettato e legato ad una sedia al centro della stanza e i due colleghi, seduti ad un vecchio tavolo traballante, impegnati a ordinare una lunga pila di videocassette consumate.
<< Finalmente hanno mandato qualcuno ad aiutarci>> disse sbuffando Kieren ai due nuovi arrivati, non staccando un attimo gli occhi dai nastri.
<< E’ un piacere rivederti anche per me, Cox>> rispose piccato Nikolaidis, che non aveva ancora dimenticato lo scambio al veleno avvenuto qualche tempo prima col biondino.
Dopo quei fatti, e soprattutto dopo la scoperta del tradimento di uno dei più stimati generali alleati, la tensione all’interno dell’Agenzia non aveva fatto altro che aumentare, il conflitto tra Huber e Marchand si era inasprito e la squadra si era ormai spaccata in due, influendo negativamente anche sui rapporti già incrinati tra Cox e il greco.
Hadiya invece, al contrario del suo collega, si mostrò subito contenta del loro arrivo. Prima si alzò in piedi facendo il formale saluto militare, poi prese dalle braccia del greco un vecchio videoregistratore inviatole direttamente da McIntyre e infine gli sorrise calorosamente, prendendogli la mano e stringendola forte. L’uomo rispose con altrettanto calore; sembrava non si vedessero da un pezzo.
<< A che diavolo vi serve quel coso?>> chiese poi incuriosito Misha, che, spedito nuovamente a Tripoli con il compito urgente di recapitare ai due colleghi più giovani quel preistorico aggeggio, non aveva avuto neanche il tempo di chiedere spiegazioni al capitano.
<< Vi preparo una tazza di caffè e poi vi racconto tutto>> rispose seria la donna.
Salito il caffè, i quattro si spostarono insieme alle loro tazze in una stanzetta in fondo al corridoio e si sedettero intorno ad un tavolo rotondo, simile a quello della base sottomarina, dove Hadiya riferì ciò che la talpa aveva confessato durante l’interrogatorio, mentre Cox rimase tutto il tempo con gli occhi bassi, distratto da chissà quali altri pensieri.
Tutto era cominciato quando, una sera di nove mesi prima, la moglie del generale aveva contattato l’uomo durante una missione all’estero per informarlo della scomparsa della figlia Jala. Il mattino precedente, infatti, la bambina era uscita da sola a piedi per andare a scuola, distante appena 500m da casa, mentre la madre adottiva si era dedicata a sbrigare certe questioni lavorative nel suo ufficio. La mattinata, uguale a tante altre, era trascorsa tranquilla e la donna si aspettava che la ragazzina rientrasse come al solito nel primo pomeriggio, appena suonata la campanella; ma le cose non andarono come previsto: il tempo passò, ma della bimba non si vide neanche l’ombra.
All’inizio la madre pensò che dovesse essersi trattenuta con qualche amichetta al parco giochi, ma quando cominciò a fare buio la donna iniziò seriamente a preoccuparsi e decise di contattare insegnanti, amici e parenti per avere notizia della figlia, facendo una terribile scoperta: nessuno sapeva dove fosse, nessuno l’aveva vista, a scuola non ci era mai arrivata. La polizia, avvisata seduta stante, se ne lavò le mani dicendo che prima dello scorrere della canoniche ventiquattro ore non era possibile cominciare le ricerche. L’unica cosa che le restava da fare, ormai, era avvisare il capofamiglia.
Il mattino seguente il generale tornò a casa con uno dei peggiori mal di testa della sua vita; aveva sonno, era preoccupato per la figlia e sicuramente non era pronto ad affrontare tutto ciò che poi gli sarebbe capitato. Prima ancora che riuscisse a varcare la soglia di casa per prendere un’aspirina, si dovette fermare davanti alla cassetta della posta a ritirare un pacco, il primo dei tanti, che gli avrebbe cambiato per sempre la vita. Era rettangolare, appoggiato sulla sommità della cassetta, troppo grande per essere imbucato e non aveva né mittente né destinatario. Un caleidoscopio di pensieri si affollò in quel momento nella sua testa: e se all’interno di quello scatolo ci fosse stata una bomba? Se qualcuno avesse voluto uccidere lui e la sua famiglia? O peggio ancora, se gli avessero spedito un dito o una mano della figlia, come in quelle scene cruente che si vedono in certi film?

Lo aprì lentamente, spaventato ma tuttavia deciso a fare chiarezza. Ciò che vi trovò all’interno lo inquietò ancora di più di quello che aveva immaginato in precedenza: una videocassetta e un bigliettino, guardalo da solo. Approfittando della assenza della governante e della moglie, ancora impegnate nelle ricerche della bimba tra i compagni di scuola, l’uomo fece partire il filmato: la protagonista era la bambina, la sua adorata Jala, col viso gonfio e arrossato, il sangue che le sgorgava da un taglietto sulla fronte, seduta su una sedia in una stanza buia, -in una posizione non molto diversa da quella in cui si trovava lui mentre raccontava la storia ai due agenti della Confederazione- che reggeva il quotidiano del mattino e dietro di lei, a puntarle contro un fucile, un uomo incappucciato. Doveva aver pianto a lungo quella notte; poteva dirlo dal rossore dei suoi occhietti scuri, dal moccio rappreso sotto alle narici. Doveva aver cercato la mamma e il padre, doveva averli chiamati disperata, urlando, chiedendo perché fosse finita in quel guaio, lei che non era mai stata cattiva, lei che aveva sempre fatto tutti i compiti assegnati dalla maestra. Chi mai aveva potuto fare una cosa del genere ad una bambina di dieci anni? Quale animale vile e disgustoso aveva deciso di strappare via dalle cure della sua casa e della sua famiglia un indifeso esserino quale era lei? E a quale scopo, soprattutto?
Quasi come se qualcuno avesse sentito la sua domanda, in sovraimpressione comparve una scritta, ancora bruciante, indelebile nella sua memoria, che diceva: se vuoi rivedere viva tua figlia, presentati oggi alle dodici al Tripoli National Park davanti alla fontana centrale, da solo; se dovessimo anche solo sospettare che tu abbia allertato la polizia, la bambina verrà fucilata all’istante.
Verrà fucilata all’istante. Quelle quattro parole gli rimbombarono nella testa per un tempo che sembrò infinito. All’orario stabilito si fece trovare davanti alla fontana del parco; all’incontro si presentò inaspettatamente un ragazzino di circa quindici anni con uno skateboard che, senza neanche assicurarsi che fosse la persona giusta, gli consegnò un’altra busta anonima. Riuscì a farsi dire, prima che questi si dileguasse tra la folla, solo che era stato ben pagato da un tale per fare la consegna, uno alto e ben vestito che non aveva mai visto prima, uno che non lo aveva neanche guardato in faccia e che quindi non avrebbe saputo né descrivere né riconoscere.
La busta conteneva una esplicita richiesta di informazioni riservate, un libro, Il giovane Holden, e un altro fogliettino con una serie di cifre che sembravano dei numeri di telefono. Sul retro, le istruzioni per decifrare l’ora e luogo del successivo incontro -secondo il metodo già scoperto da Hadiya e Cox due giorni prima- che si tenne una settimana dopo in una viuzza del centro di Tripoli.
E così, di volta in volta, settimana dopo settimana, libro dopo libro, i misteriosi uomini gli avevano fatto recapitare a casa altri pacchi, con nuovi messaggi da decifrare, nuovi video della ragazzina con cui consolarsi e nuove richieste di informazioni; informazioni sempre più ardite, che il generale aveva silenziosamente fornito senza batter ciglio a quell’entità sconosciuta, a quel mostro che gli aveva rovinato la vita e di cui non conosceva neanche il volto. Questo fino a quando, qualche tempo prima, non era stato scoperto dagli uomini dell’Agenzia. Se lo aspettava, la storia dell’attentato al presidente Nadym era troppo grossa per sfuggire all’attenzione dell’Intelligence. Il suo tempo da traditore della patria era ormai finito.

<< Accidenti, che brutta storia! Ho bisogno di una sigaretta>> disse provato il greco ai colleghi; poi, dopo essersi acceso un drummino, indicò un punto sulla scrivania, << e quelle videocassette? Cosa sono?>>.
<< Sono tutti i video che hanno consegnato a Essid nel corso del tempo in cambio delle informazioni: pare mostrino la bambina con in mano dei quotidiani freschi di stampa a dimostrazione del fatto che sia viva e, se così si può dire, in buona salute. Li abbiamo recuperati da una cassetta di sicurezza appena qualche ora fa. Li aveva nascosti lì dentro contravvenendo all’ordine dei sequestratori di distruggerli subito dopo averli visionati. Per una volta nella sua vita, quel tipo ne ha pensata una giusta>> fece strofinandosi gli occhi la donna, che aveva evidentemente trascorso più di qualche notte in bianco, << fino ad ora li abbiamo solo catalogati per data e ora, ma adesso che abbiamo il videoregistratore possiamo finalmente cominciare a spulciarli uno ad uno, sperando che in almeno uno di essi ci sia qualcosa ci aiuti a trovare la piccola>>.
Non riuscì a finire la frase ché sbadigliò rumorosamente: era davvero stremata, aveva bisogno di una bella dormita. E di una vacanza.
<< Chissà perché hanno utilizzato un mezzo così desueto come i VHS per registrare i video>> disse poi pensieroso Molinaro.
Cox si girò per la prima volta verso i colleghi e rispose dondolandosi sulla sedia: << I bastardi sono stati furbi: le videocassette non lasciano alcuna traccia informatica, non si può risalire alla loro origine da un computer ed essendo state consegnate a mano non possiamo neanche seguirne a ritroso il percorso; anche l’analisi delle impronte digitali si è rivelata totalmente inutile, ci abbiamo trovato solo quelle di Essid, come se prima di lui nessuno le avesse mai toccate, come se si fossero registrate e consegnate da sole. Sarà davvero un’impresa trovare la piccola Jala… sempre se non l’hanno già fatta fuori>>.
Hadiya lo fulminò con lo sguardo. Il padre della bambina era a pochi passi da loro, separato solo da una parete sottile, e non era il caso di peggiorare ulteriormente la situazione lasciandosi andare a catastrofici proclami. Cox si rese presto conto del suo sbaglio e chiese scusa con un cenno del capo ai colleghi. Ha ancora tanto da imparare, pensò Nikolaidis davanti alla sua ingenuità.
<< Vi ha detto che genere di informazioni gli hanno chiesto i terroristi? Magari se siamo fortunati, riusciamo a capire che razza di intenzioni hanno. Dubito che il loro obiettivo finale fosse davvero l’assassinio del presidente, c’è di sicuro qualcos’altro sotto>> disse l’uomo dal naso aquilino.
<< Hanno chiesto di tutto e di più, anche informazioni che apparentemente non hanno utilizzato. Liste di nomi di agenti, turni di guardia, coordinate bancarie, orari delle visite mediche, codici di sicurezza. Se avessero voluto avrebbero potuto distruggere dall’interno l’intelligence africana, invece l’unica cosa che hanno fatto è stata tentare di uccidere Nadym. Tutto quello che hanno ora è inservibile, quelli dell’A.I.S. hanno cambiato persino il fornitore di acqua per i distributori. Forse avevano solo bisogno di esche confondenti per nascondere ciò a cui erano interessati davvero>>.
<< E il generale? Volete tenerlo legato lì come un salame fino a quando non ci saranno novità? I terroristi, se sono davvero furbi come dite, potrebbero accorgersi della sua assenza e cambiare nascondiglio, o peggio ancora, potrebbero davvero uccidere la ragazzina. Tanto a quel punto il padre come contatto sarebbe bruciato, perché dovrebbero tenersi tra i piedi una minorenne che potrebbe addirittura averli visti in faccia?>> chiese poi Nikolaidis sottovoce, con una certa cognizione di causa.
<< Avevamo già pensato a questo problema, ma la verità è che abbiamo avuto talmente tante cose da fare che non abbiamo ancora trovato una soluzione. Tu cosa consigli? Non pensi sia troppo rischioso rispedirlo a casa e fidarci sulla parola che non farà scherzi?>> chiesa la donna con sincera preoccupazione.
Davanti a quella domanda spontanea, Cox rimase profondamente sorpreso: era la prima volta che vedeva la collega chiedere umilmente consiglio a qualcuno su una questione di lavoro.
Aveva capito sin dai primi giorni quanto Hadiya stimasse il greco e quanto si fidasse di lui, almeno sul piano lavorativo, ma solo ora, vista anche la confidenza con cui si erano salutati poco prima, stava intuendo che forse c’era dell’altro tra loro, addirittura dell’affetto; forse la sua vita a bordo del sottomarino gigante non era stata poi così vuota e terribile come aveva pensato; o forse questo era solo ciò che voleva credere per non sentirsi più così a disagio e impotente davanti al suo triste passato. Forse aveva bisogno di credere che c’era ancora qualcosa di buono nel mondo.
<< Dobbiamo immediatamente portarlo a casa sua e fare in modo che continui a vivere la sua vita come se nulla fosse, per nessuna ragione al mondo dobbiamo dare modo ai rapitori di sospettare qualcosa>> rispose serio Nikolaidis dopo aver riflettuto un attimo sul da farsi. << Io e Molinaro terremo d’occhio lui, la sua famiglia e ogni canale di comunicazione ventiquattro ore su ventiquattro e ci accerteremo che non faccia brutti scherzi, mentre tu e Cox vi occuperete di scovare il luogo dove nascondono la ragazzina. E’ il massimo che possiamo fare al momento, con mezza base spedita in giro per il mondo da Huber a indagare sugli strani fatti delle ultime settimane>>.
Cox e DeWit si guardarono negli occhi e, dopo qualche tentennamento, accettarono di seguire il piano proposto dall’uomo, che compose il numero del capitano Huber dal suo cellulare satellitare per informare il superiore sugli ultimi risvolti e per dirgli che avrebbero avuto bisogno dell’aiuto di Ben per controllare le linee telefoniche di Essid.
Messi a punto gli ultimi dettagli, i due rinforzi inviati dall’Agenzia e l’uomo dell’intelligence africana partirono alla volta della villetta assolata nella periferia di Tripoli, pronti a mettere in piedi quella sceneggiata che avrebbe permesso a Cox e Hadiya di portare avanti le proprie indagini senza interferenze. I due si congedarono con garbo e si misero immediatamente al lavoro.
Passarono diverse ore e i due agenti, nei circa tre quarti dei video visionati, non riuscirono a trovare alcun indizio utile. Erano dei filmati brevi, dalla durata di al massimo un paio di minuti, di cui la maggior parte mostrava la bambina seduta immobile su un letto all’interno di una stanza buia e senza finestre, alla quale si accedeva attraverso una porticina nella parete posteriore; altri, invece, mostravano la bimba intenta a mangiare brodini incolori o a giocare svogliatamente con delle costruzioni. Sul suo visino spento si percepiva tutta la disperazione e la stanchezza della prigionia.
Nonostante l’attenzione cui prestarono ad ogni minimo dettaglio, non trovarono nulla, neanche il più banale degli indizi, che potesse suggerire dove tenessero la piccola. Erano davvero in alto mare e sapevano anche che non sarebbe passato molto tempo prima che i terroristi venissero a sapere che Essid era stato scoperto. La loro si configurava sempre di più come una corsa disperata contro il tempo.

La noia del caldo pomeriggio africano fu interrotta dallo squillo del cellulare di Hadiya, che si allontanò svogliatamente dalla sua postazione per rispondere. Cox, incuriosito dalla segretezza della collega, tentò di origliare la animata conversazione che ne seguì, ma non riuscì a coglierne il senso: era evidente che si stava esprimendo in una lingua a lui sconosciuta. Quando tornò alla postazione, la donna non gli diede spiegazioni, ma annunciò solo che sarebbe uscita a sbrigare una faccenda importante.
<< Continua a guardare tu quei filmati, tanto sono tutti uguali>> gli disse sbrigativamente, mentre sistemava la pistola nella fondina della divisa. << Se scopri qualcosa, avvisami sul cellulare>>.
Ormai Cox, seppur a malincuore, aveva pienamente accettato quel tacito accordo per cui la ragazza avrebbe smesso di essere una spina del fianco e l’avrebbe cominciato a considerare come un collega e non come una palla al piede, solo se lui non si fosse immischiato troppo nelle sue questioni private.
Se la donna avesse mai deciso di confidarsi con lui bene, sennò avrebbe fatto meglio a far finta di niente e a restare in silenzio. Le disse solamente di fare attenzione e di non mettersi nei guai, che se avesse avuto bisogno di aiuto o se si fosse trovata in pericolo lui sarebbe accorso immediatamente, poi la salutò con un cenno del capo. La vide mettere in moto il fuoristrada dell’Agenzia e allontanarsi a tutta la velocità attraverso le sabbiose strade della periferia.

<< E cosa dovrei farmene secondo te di questi quattro spicci?>> disse disgustato il vecchio dalla barba incolta e i capelli disordinati guardando i duecento euro che Hadiya gli aveva appena messo nelle tasche; li gettò a terra e li pestò con un piede, come se fossero stati ricoperti di blatte.
<< Che ne so, potresti farti un giro dal barbiere… o uno sotto la doccia, tanto per cominciare>>, rispose sarcastica l’altra, dopo aver dato un’occhiata alle condizioni in cui versava il vecchio.
L’uomo fece un sorriso amaro, mostrando i denti ingialliti. << Dammi qualcosa che mi faccia sopravvivere fino a Natale o giuro che non ti dico più nulla>>, replicò quello con aria decisa, incrociando le braccia. Hadiya lo afferrò per il colletto della camicia a quadri consumata e lo sbatté senza essere troppo brusca al muro retrostante, << senti Spookie, devo per caso ricordarti che appena quattro mesi fa ti ho passato quell’oggettino proveniente dagli scavi archeologici di El Cairo che ti avrà fruttato, al minimo della sforzo, almeno cinquemila bigliettoni? Con quello mi sono garantita la tua collaborazione per il resto della tua miserabile vita. I soldi di oggi sono solo un extra perché mi sento generosa, non ho alcun obbligo nei tuoi confronti. Quindi taglia corto e dimmi cosa sai di Ouary>>.
<< Va bene, va bene, ho afferrato il concetto. Ora mettimi giù però>> disse deluso il vecchio, che sperava di poter spillare altri soldi alla sua benefattrice. Si sistemò il colletto, si mise avidamente in tasca il denaro prima gettato a terra e poi cominciò a parlare: << è un moccioso di appena ventidue anni, è entrato nel giro da poco. Ha solo il compito di mettere in contatto gente con altra gente, nient’altro che un messaggero insomma, una nullità. Una volta, da ragazzino, è stato beccato dagli sbirri a vendere della coca ai tossici al parco, ma si è fatto solo qualche anno di riformatorio. Ora bazzica sempre in quel letamaio di Mamed giù al porto, all’ora di cena. Dovresti trovarlo lì insieme alla peggior feccia della città, tra birra e puttane. Lo riconosci facile: è alto quanto uno sputo e ha un uccello tatuato sul braccio>>.
<< Ah, la vecchia locanda di Mamed! La sua birra che sa di piscio e segatura mi è davvero mancata>> fece Hadiya con un sorriso fintamente nostalgico.
<< Resta sempre rintracciabile Spok, potrei avere ancora bisogno di te>> concluse l’agente, che si congedò salutandolo con la mano destra aperta tra medio e anulare. L’uomo le sorrise e le fece un inchino togliendosi il capello, << è sempre un piacere rivederti, zuccherino>>.

La locanda di Mamed era una fatiscente baracca di legno che sorgeva in un anfratto del molo turistico, lontano da occhi e orecchi indiscreti. Era gestita ancora dal vecchio Mamed in persona e sfamava da più di trent’anni le bocche dei più malfamati delinquenti di Tripoli, nonché quelle dei marinai dei mercantili che facevano sosta per la notte nel grande porto della capitale. La locanda era il luogo ideale non solo per procurarsi un po’ di divertimento facile, ma anche per entrare in contatto con gli scagnozzi dei signori della droga e del traffico d’armi. Lo stesso Aguilar, in passato, aveva costantemente tenuto uno dei suoi uomini di stanza al locale per procurarsi nuovi clienti e ampliare la sua già fitta rete di conoscenze. Hadiya, per non destare sospetti, subito dopo la chiacchierata col suo informatore aveva comprato e indossato dei jeans stretti e una semplice t-shirt bianca, si era poi diretta alla locanda arrivando alle sette in punto, proprio quando il proprietario stava servendo il primo giro della venefica zuppa di merluzzo. La ragazza prese posto su uno sgabello laterale del bancone e ordinò una birra scura al doppio malto; nel rumoroso vociare del locale, tra risate sguaiate, battutine volgari e palpatine promiscue, cominciò a cercare senza dare nell’occhio il ragazzino col tatuaggio sul bicipite.
Le si sedette accanto un ragazzotto sulla trentina, alto e con le spalle larghe quanto un armadio, che ordinò una birra uguale alla sua.
<< Come ti chiami, splendore?>> chiese quello cercando di mostrare un sorriso seducente. Hadiya continuò a sorseggiare dal suo bicchiere, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
<< Lo sai che mi piacciono i tuoi capelli, bambolina? Hanno questo aspetto così selvaggio, così mascolino. Dimmi almeno come va, dai>> riprese quello, per nulla scoraggiato dall’indifferenza di lei.
<< Fino a prima che arrivassi tu, bene>> rispose secca la donna.
<< Ho capito, sei una di quelle esigenti tu>>, fece l’altro con un sorrisetto malizioso stampato in faccia.
Il tizio tirò fuori cento dinari dal portafogli e li appoggiò sul bancone, << tra cinque minuti, io e te al piano di sopra>>.
Hadiya si girò lentamente verso il tipo, poi con un’espressione tra il divertito e l’indignato gli disse: << Hey amico, ti sembro una puttana per caso?>>.
L’uomo scosse il capo come imbarazzato dalla gaffe, poi però tentò lo stesso di toccarle il fondoschiena con un colpo di mano. La ragazza gli prese la mano assalitrice, la strinse forte nella sua facendogli sentire un dolore atroce, poi gli sussurrò minacciosa: << levati immediatamente di torno tu e i tuoi schifosi tentacoli o giuro che questo braccio te lo stacco e te lo faccio ingoiare>>.
L’uomo strabuzzò gli occhi, raccolse in fretta i suoi soldi dal bancone e dopo un po’ andò a fare la sua profferta ad un’altra donzella seduta qualche tavolo più in là.

Dopo circa mezz’ora di attesa, Hadiya finalmente riuscì ad individuare l’uomo indicatole da Spookie. Era un ragazzino dalla pelle e gli occhi scuri, alto al massimo un metro e sessanta, con un’ampia fenice tatuata sul braccio che scendeva fino al gomito. Si era avvicinato con cautela ad un tavolo di chiassosi omaccioni, probabilmente appena sbarcati da uno dei tanti mercantili che affollavano il molo, chiedendo loro se avessero bisogno di “roba”. Fu scacciato in malo modo, quindi prese posto al bancone e ordinò sconfortato una pinta di birra. La ragazza gli si avvicinò con naturalezza e tentò di cominciare una conversazione amichevole.
<< Stasera si batte la fiacca, eh?>> chiese con un sorriso benevolo.
Il ragazzo alzò le sopracciglia stupito, poi le disse con sgarbo: <>.
Gli tese la mano: << Piacere, sono Suni>>.
<< Sì, sì, come ti pare, io sono Tahar>> rispose l’altro svogliato.
Dopo qualche tentativo andato a vuoto e più di qualche birra, il ragazzo cominciò finalmente a scambiare due chiacchiere con l’agente. Le raccontò di come la sua situazione lavorativa fosse precaria e di come avesse urgente bisogno di denaro per prendere una nave e raggiungere la Confederazione, dove lo aspettava un lontano zio proprietario di un panificio.
<< Con tutta quella storia dei ribelli del sud-est, in questo paese di merda è diventato ancora più difficile tirare avanti onestamente, si può solo cercare di arrabattare qualcosa piazzando un po’ d’erba qua e là. Si è costretti a vivere giorno per giorno sul filo del rasoio, cercando di non essere presi dagli sbirri e di sfuggire in tempo ai creditori, che ormai di scrupoli non se ne fanno più, ti ammazzano anche alla luce del sole. E al TG ancora parlano della prima elezione democratica della storia del paese. Ah! Chi vogliono prendere in giro quegli stronzi? Il nuovo presidente è solo un bluff, dice tante belle parole, ha tanti begli ideali, ma alla fine si rivelerà uno stronzo come tutti gli altri, più interessato a fare soldi che alla nostra pelle. A questo punto sai cosa ti dico? Se ne vadano tutti affanculo, i poliziotti, i politici corrotti, questo paese disastrato, prendo tutto e me ne vado in Europa a fare il pane>> disse agitando l’indice per aria il moretto, facendo poi un altro sorso dal suo boccale. Cominciò a massaggiarsi le tempie con le dita, sofferente per le fitte e per il chiacchiericcio inconsulto del locale.
<< Volete chiudere per un secondo quelle maledette fogne? Bastardi!>> urlò ai marinai seduti al tavolo retrostante; gli uomini lo guardarono un attimo perplessi, poi lo ignorarono bellamente e ripresero a parlare.
<< Che hai, non ti senti bene?>> chiese Hadiya preoccupata quando lo vide roteare gli occhi all’indietro. << Sto bene, ho solo bisogno di un po’ d’aria. Credo di aver bevuto troppo>>.
Il ragazzo tentò di alzarsi dallo sgabello per uscire, ma inciampò rovinosamente su un’asse di legno divelta. Hadiya lo aiutò a rialzarsi, girò il suo braccio intorno al collo e lo portò fuori a prendere una boccata di ossigeno.
Il ragazzo finì per vomitare l’anima dietro ad una delle barche del molo, mentre l’altra lo osservava con le braccia incrociate. Passarono circa due ore prima che il moretto riuscisse a smaltire definitivamente la sbornia e a ritornare in sé. Hadiya attese pazientemente in silenzio, aiutandolo a ripulirsi e prendendogli del caffè, poi, di punto in bianco, senza giri di parole, gli chiese: << Senti, di quanto denaro hai bisogno?>>.
<< Almeno di duecento dinari>> rispose pulendosi la bocca con il bordo della maglia il ragazzetto.
<< Stasera sei fortunato, te li puoi guadagnare in un niente. Basta solo che tu mi dia qualche informazione su Ignacio Aguilar>>.
Al solo udire quel nome il ragazzo divenne più pallido di quanto già non fosse e cominciò ad arretrare verso la banchina. << Chi cazzo sei tu?>> le urlò spaventato, mentre cercava di non inciampare nei fili delle reti abbandonate del porto.
<< Nessuno che ti voglia fare del male, Tahar, te lo giuro. Mi serve solo che tu mi dica qualcosa su un certo cliente che hai messo in contatto con Aguilar due o tre mesi fa e poi non solo ti darò il denaro per andare in Europa o in America o ovunque tu voglia, ma ti troverò anche un buon posto di lavoro una volta giunto a destinazione>> disse con calma e gentilezza la donna.
<< E chi saresti tu, il genio della lampada? Non so perché lo fai, ma stai ficcando il naso in affari pericolosi. Quelli mi ammazzano se parlo! E ammazzano anche te!>> disse sempre più spaventato l’altro.
<< Ti posso proteggere, Tahar. La mia gente può farlo>>.
Il ragazzo fece una risatina amara e disse sconfortato: << non hai neanche idea contro chi ti stai mettendo. Quelli se ne sbattono della tua gente, se ne sbattono di chiunque>>.
<< Se ne sbattono anche dell’Agenzia?>> chiese, tirando fuori il documento di riconoscimento e mostrando la pistola che aveva nascosto sotto alla maglia.
Davanti a quel pezzo di carta il ragazzo parve calmarsi un attimo, poi mormorò: << stai dicendo che se non parlo mi arresti, o peggio, mi ammazzi?>>.
<< Sto solo dicendo che ti conviene pensare bene se vuoi metterti contro di me e la Confederazione ora o se vuoi fidarti di noi e metterti contro quella gente poi, quando avrai tempo per scappare>> rispose con una certa soddisfazione Hadiya.
<< Va bene, va bene, ho afferrato il concetto>>.
Il ragazzo si sedette su una cassetta di legno poco distante e cominciò a parlare tenendosi la testa tra le mani: << In realtà non posso dirti molto, solo che tre mesi fa è arrivato questo tizio ben vestito alla locanda, che sapeva perfettamente chi fossi, che mi ha chiesto se potessi passare qualche messaggio ad uno degli uomini di Aguilar. Gli ho detto di rivolgersi direttamente al tipo che il brasiliano mandava ogni sera in avanscoperta alla locanda, ma quello ha rifiutato e ha insistito affinché fossi io e solo io l’intermediario dell’affare, senza spiegarmene il motivo>>.
<< Non ricordi che aspetto avesse?>>, lo incalzò l’agente.
<< Bah, era un tipo davvero anonimo. Alto più o meno un metro e settantacinque, occhi scuri, capelli scuri pettinati all’indietro, naso dritto, labbra sottili. Poteva essere originario di qui come di mille altri posti. Parlava perfettamente l’arabo, ma non aveva nessuna cadenza, come gli attori dei film al cinema. Non aveva un tatuaggio, né una cicatrice, nemmeno un segnetto sul viso, nulla. Era calmo, tranquillo, posato, nessuna flemma o emozione. Potrebbe davvero essere chiunque>>.
<< E cosa voleva da te?>>.
<< Mi ha solo detto di consegnare, una volta che si fosse allontanato dalla locanda, una busta all’uomo di Aguilar e sparire. Mi ha mollato tre centoni e poi se n’è andato. Io ho fatto il mio dovere e non mi sono fatto vedere da queste parti fino a tre settimane fa, quando ho saputo che Aguilar era stato arrestato>>.
<< E nessun’altro si è fatto più vivo con te da allora? Né Aguilar, né l’uomo del mistero?>>.
<< Beh, è capitato solo un’altra volta che il tizio mi chiedesse di consegnare un messaggio al galoppino del vecchio alla locanda; sembrava una cosa piuttosto urgente, infatti mi è venuto a cercare a casa, ma ovviamente non so di cosa si trattasse. Questo è successo più o meno a fine maggio. Da allora nulla>>.
<< Sforzati un attimo Tahar, cerca di ricordare se c’è qualcosa, anche un dettaglio insignificante, che possa aiutarmi a capire chi è questo signor nessuno. E’ una questione di vita o di morte>>.
Il ragazzo stette un attimo a pensare grattandosi il mento con il pollice e l’indice, appollaiato alla meglio sulla cassetta di legno. Rimase in contemplazione del vuoto per almeno cinque minuti, quando, come se avesse avuto un’illuminazione divina sul senso della vita e del mondo, balzò in piedi e disse: << Ci sono!>>. Non continuò la frase; si riaccucciò di nuovo in silenzio: l’entusiasmo di un attimo prima sembrò placarsi.
<< In realtà non so se questa sia davvero un’informazione utile, ma quando il tizio è venuto a cercarmi la seconda volta aveva le mani e il polso della camicia sporchi di vernice. Erano delle piccole macchioline, nulla di esagerato, ma ricordo di averlo notato subito perché stonavano con lo splendore e l’eleganza del resto del vestito. Ah e indossava anche un pacchianissimo crocifisso dorato! Non c’è altro>> aggiunse con aria poco convinta.
<< Va bene Tahar, va bene così. Mi sei stato di grande aiuto>> gli disse Hadiya porgendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.
<< E la mia ricompensa?>> chiese fiducioso il ragazzo, sperando di non essersi sbagliato a fidarsi di quella sconosciuta incontrata appena qualche ora prima nella bettola di Mamed.
<< Sono una persona di parola, ho promesso che ti avrei aiutato e lo farò. Lasciami solo fare qualche telefonata>> rispose seria la donna, che si affrettò a chiamare il capitano Huber per trovare un passaggio veloce e sicuro al ragazzino. Dopo qualche minuto di fitte confabulazioni, l’agente tornò indietro con aria vittoriosa, << partirai domani mattina stesso con una nave mercantile dell’Agenzia. Sbarcherai al porto di Genova e da lì prenderai un treno verso casa di tuo zio; e senza sborsare un soldo, ovviamente. Fai il nome del capitano Huber e ti faranno salire a bordo senza problemi>>.
Gli scrisse tutti i dettagli su un fogliettino stropicciato e glielo consegnò con solennità. Il ragazzo strabuzzò gli occhi, ancora incerto se credere o meno alla immensa fortuna che aveva avuto quella notte di fine luglio, ma con tutta la voglia di fidarsi di quella sconosciuta, che gli sembrò davvero appena uscita da una lampada per esaudire tutti i suoi desideri. Le si lanciò addosso e la strinse in un lungo abbraccio, a cui Hadiya rispose imbarazzata con qualche pacca sulla spalla; non era abituata a quelle calorose dimostrazioni di affetto. Si salutarono qualche minuto dopo davanti all’ambasciata della Confederazione, dove la donna lo aveva condotto per trascorrere la notte. Gli strinse la mano forte, poi gli disse: << buona fortuna Tahar! E una volta arrivato a destinazione, mi raccomando, non metterti nei guai. Tutti abbiamo diritto ad una seconda occasione, ma la terza è un privilegio che spetta a pochi>>.
Il ragazzo fece un pegno solenne incrociando le dita, la ringraziò nuovamente e poi si girò verso il cancello in ferro battuto dell’elegante edificio, che gli si era aperto dinnanzi proprio come se fosse stato un re. Si incamminò lungo il sentiero alberato e proprio mentre stava per varcare la soglia d’ingresso, si sentì di nuovo chiamare dalla donna.
<< Ah, Tahar!>> fece quella urlando e agitando le mani, << ricordarti sempre che gira brutta gente al mondo, non dare confidenza agli sconosciuti nei bar!>>.
Il moretto sorrise e annuì, poi scomparve dietro le mura dell’ambasciata.

Era ormai passata mezzanotte quando Cox udì il rumore dei pneumatici del SUV arrestarsi davanti alla base. Hadiya rientrò cercando di non fare rumore, convinta che il collega fosse già a letto da un pezzo, e, senza neanche togliersi la pistola dalla fondina, si lanciò sullo sgangherato divano all’ingresso.
<< Allora, che novità ci sono?>> chiese Cox sbucando dall’ombra della stanzetta laterale.
Hadiya sobbalzò, spaventata dalla figura del collega che si intravedeva nel buio del corridoio.
<< Cazzo Kieren, mi hai spaventato!>> urlò lanciandogli contro uno dei VHS appoggiati al tavolino. L’uomo non si mosse di un centimetro; nonostante lo avesse visto perfettamente arrivare e quindi potuto anche scansare, lo beccò in piena fronte, nello spazio tra le due sopracciglia. In quel momento sentì, più che il dolore atroce per il colpo, uno strano calore che partiva dallo stomaco e che lo aveva paralizzato sul pavimento: era la prima volta che la ragazza lo aveva chiamato per nome. Rimase in silenzio nel buio ancora per qualche secondo, poi scosse la testa per risvegliarsi da quel torpore e le si sedette accanto sul divano.
<< Sei cretino? Perché non ti sei scansato?>> gli urlò quella quando vide il livido che gli si era formato da sotto all’attaccatura dei capelli fino al ponte del naso. L’altro non rispose, scrollò le spalle.
La ragazza corse a prendere un po’ di ghiaccio dal mini-frigo e glielo poggiò sulla fronte. Cox le scostò bruscamente la mano e si premette forte l’impacco sull’ecchimosi, dicendole che non c’era bisogno che si preoccupasse.
Hadiya, sentendosi troppo stanca per fare discussioni, si arrese e lasciò che facesse da solo. Si alzò e si tolse la pistola dalla fondina, poggiandola sul tavolino tra i ritagli di giornale e le videocassette.
<< Credo di aver trovato qualcosa>> le disse poi Cox a bassa voce.
<< In che senso?>> chiese l’altra mentre si toglieva anche le scarpe.
<< Tra i video intendo; credo di aver trovato qualcosa che ci possa essere utile>> continuò come se nulla fosse il biondo.
Hadiya gli si avvicinò di nuovo e gli prese il viso tra le mani, << davvero? E tu solo ora me lo dici? Parla, per l’amor del cielo! Cosa hai trovato?>>.
Il ragazzo la guardò dritto negli occhi e poi, accennando un sorrisetto malizioso, le disse: << Un calo di corrente. Ho trovato un calo di corrente>>.

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Capitolo 18
*** Mai arrendersi ***


18



Mancava poco più di una settimana al Natale, le sei settimane di addestramento erano ormai concluse e le tanto temute prove finali, che avrebbero decretato chi sarebbe entrato a far parte della nuova squadra di ricognizione e chi, invece, sarebbe ritornato a casa a mani vuote, erano infine arrivate. La prova pratica non spaventava Sofyane; così come era stata descritta da Dahl, consisteva in un semplice circuito di prove fisiche -corsa, sollevamento pesi, apnea e arrampicata su parete artificiale- da terminare ciascuna nel periodo di tempo stabilito, possibilmente senza stramazzare a terra alla fine. Non sembrava proprio uno scherzo, certo, ma era sicura di riuscire a superarla senza troppi problemi, dato il suo addestramento. Ciò che la metteva davvero in agitazione, invece, era la prima prova, quella tecnica: quella mattina infatti, sarebbero partiti alla volta di una ridente cittadina rurale di circa duemila abitanti, nel nord della Confederazione, dove i cadetti avrebbero davvero messo in pratica tutto ciò che avevano imparato durante i loro studi prima, e il corso di addestramento poi. Avrebbero dovuto ispezionare la cittadina, studiandone tutte le risorse e le fonti di energia, la centrale elettrica che la riforniva, il sistema idrico e di riscaldamento, il sistema di irrigazione dei campi e quello dei trasporti, dopodiché avrebbero dovuto scrivere un rapporto articolato sui punti forti e soprattutto quelli deboli del piano energetico, aggiungendo una serie di considerazioni personali su come avrebbero risolto o ridotto al minimo gli sprechi, nel tentativo di rendere il paesino più funzionale e auto-sufficiente. Una parte facoltativa della prova, invece, richiedeva una generalizzazione del modello energetico ideato per il caso specifico in modo da renderlo applicabile anche a realtà più grandi, come città industriali o rurali di medie dimensioni. Era davvero un compito arduo, non solo perché il progetto doveva avere ordine e coerenza, ma anche perché avevano solo sei ore a disposizione per scandagliare il sistema di approvvigionamento della cittadina in ogni sua piccola parte, inclusa la visita alla centrale idroelettrica. La giornata, un gelido sabato mattina, cominciò presto; le quindici matricole furono lasciate alle porte del paesino di primo mattino e lasciati liberi di muoversi all’interno di esso come meglio avrebbero ritenuto fino alle tredici, orario in cui era stata fissata la visita alla centrale elettrica che, per ovvi motivi di sicurezza, avrebbero fatto tutti insieme accompagnati dal direttore generale della struttura. Ben avvolti nei loro piumini, pronti a sfidare il freddo e il vento, i cadetti si avviarono a piedi lungo la via principale della città, separando poi le loro strade a poco a poco.
Il tempo passò in fretta. Sofyane ispezionò con cura il sistema idrico, la rete elettrica, l’illuminazione stradale e quella degli edifici pubblici, il sistema di trasporti pubblici. Prese fitti appunti sul suo block notes rivestito di pelle, segnando i punti critici in rosso e quelli di forza in nero. Perse la cognizione del tempo girovagando tra le viuzze del centro storico. Il paese, al contrario di quanto avesse pensato al mattino, era tutt’altro che desolato: all’avvicinarsi dell’ora di pranzo si era riempito di vita, di bambini che giocavano con la neve per strada, di adulti che si affrettavano a comprare gli ultimi regalini ai mercatini natalizi, di golosi che facevano la fila davanti al banco delle caldarroste e di anziani signori che commentavano le notizie del giorno nella piazzetta centrale. Restò lì ad osservare quella gente semplice e a stupirsi di come fosse in grado di cogliere il meglio della vita, di circondarsi di affetti e di piccole gioie, gente che sembrava chiusa in una palla di vetro, lontana da ogni pericolo, da ogni preoccupazione. Si chiedeva se sarebbe mai riuscita a vivere anche lei così un giorno, se sarebbe mai riuscita ad essere una persona normale.
Quando guardò finalmente l’orologio cominciò a maledirsi a voce alta. Era davvero tardi e per quanto ne sapesse, non c’erano autobus che fermassero nella zona della centrale elettrica, che si trovava molto fuori mano. Cominciò a correre a più non posso, arrivando davanti ai cancelli della centrale alle 13.01, affannata e con il cuore a mille, appena un attimo prima che i compagni, arrivati lì già da un pezzo, varcassero la soglia del candido edifico bianco. La struttura risaliva alla prima metà del novecento, era la centrale idroelettrica più antica al mondo ancora in funzione, e sorgeva su una piattaforma di metallo in mezzo al fiume, collegata al canale di derivazione attraverso delle eleganti arcate di pietra. Le turbine, messe vorticosamente in movimento dall’acqua fluente, facevano un rumore assordante e rendevano l’atmosfera, in quel piccolo scorcio di fiume immerso tra le montagne innevate, ancora più surreale.
<< Scusatemi! Scusatemi!>> urlò senza più un briciolo di fiato in gola agitando le mani nella direzione dei colleghi << ad un certo punto penso di aver smesso di guardare l’orologio>>. Mark la accolse con un sorriso, dandole una pacca sulla spalla, mentre gli altri si affrettarono a dirle di non preoccuparsi, ché in fondo non erano ancora partiti. Tutti si aspettavano che Lee l’avrebbe redarguita, che le avrebbe detto, col suo tono arrogante e supponente, quanto fosse stata folle e irresponsabile a presentarsi alla centrale a quell’ora, che se fosse arrivata anche un solo minuto più tardi avrebbe perso l’occasione di fare il giro di perlustrazione e quindi mandato a farsi benedire la prova, giocandosi l’ingresso alla squadra di ricognizione. E invece no: le lanciò soltanto un’occhiatina distratta e poi diede il via libera al direttore generale per far entrare le matricole.
Sofyane, invece, quell’indifferenza se la aspettava: dopo la chiacchierata che avevano fatto nelle cucine davanti alla cioccolata calda, una settimana prima, l’uomo non le aveva più rivolto la parola, né aveva mai incrociato il suo sguardo, neanche per sbaglio. Sembrava che si fosse semplicemente dimenticato della sua esistenza. Poco male, pensò lì per lì: meno strigliate, meno stress, migliori risultati sul lavoro.
Il tour della centrale elettrica fu molto interessante e durò relativamente poco: il direttore mostrò loro il sistema di derivazione dell’acqua fluente, proveniente direttamente dalle montagne, quello della turbine che giravano senza sosta e l’alternatore ad esse collegato, che riusciva a generare al massimo delle sue possibilità una potenza di 500 kWp e infine il trasformatore, che portava l’energia in città attraverso i tralicci e la rete elettrica. Alle 15.30 erano tutti già fuori, pronti per partire alla volta della sede centrale del dipartimento per cominciare la parte più complessa della prova. Il pranzo era stato rimandato ad ora da destinarsi.
Sofyane rientrò per la prima volta nella stanzetta in cui mesi prima aveva sostenuto il test d’ingresso con Mark, dove per la prima volta aveva incontrato Dahl e i due subordinati, dove aveva ricevuto la prima ramanzina di Shaw per aver raccolto uno dei fogli caduti a terra. Non era cambiato solo il clima da allora, diventato decisamente più rigido e inclemente, ma anche la sua opinione di se stessa: quel muro di certezze e di superbia dietro cui si nascondeva si era sgretolato, lasciando intravedere il suo lato più insicuro, più umano. Non era la stessa persona che era partita dalla base qualche mese prima, era diventata più consapevole dei propri limiti e delle proprie debolezze, del fatto che non tutto al mondo le dovesse essere concesso, che c’erano cose che si doveva guadagnare col sudore della fronte.
Quattro ore e molti fogli imbrattati dopo, Sofyane era fuori dalla angusta saletta. Era tutto sommato soddisfatta della sua prova; aveva elencato con ordine tutte le lacune notate durante la sua prolifica esplorazione mattutina e aveva giustificato e spiegato nel dettaglio tutte le misure che avrebbe messo in atto per ridurre gli sprechi: riparazione di tubi in perdita, utilizzo di materiali termoisolanti per la costruzione di scuole e uffici, illuminazione stradale intelligente, capillarizzazione della raccolta differenziata dei rifiuti, implementazione dei mezzi di trasporto pubblici a scapito di quelli privati, installazione di nuovi e più potenti pannelli solari e tanti altri. La parte facoltativa avrebbe potuto essere più precisa e meno campata in aria, ma tutto sommato, considerando il tempo limitato che le era stato concesso, era soddisfatta anche di quella. Attese che consegnassero anche i suoi compagni di sventure e poi si diresse insieme ad essi in mensa, affamata al punto da poter mangiare anche i tavoli e le sedie, se fossero stati commestibili. A tavola i ragazzi si confrontarono svogliatamente sul compito appena svolto, erano troppo stanchi per mettersi a pensare a cosa avrebbero potuto fare diversamente e ancora troppo lontani dalla meta per poter fare pronostici, quindi decisero di finire le proprie meritate birre e poi di concedersi un sonno ristoratore in attesa della altrettanto estenuante prova pratica, che si sarebbe tenuta due giorni dopo.
<< Hai sentito della novità Sof?>> chiese Mark, facendo un sorso della chiara insipida dal suo bicchiere, << pare che per la notte della vigilia di Natale l’ultimo piano della Tower of Lights sarà aperto ai visitatori>>.
La ragazza si voltò di scatto verso l’amico con gli occhi pieni di gioia, << cosa? Dici sul serio?>>.
<< Sì, l’ho sentito dire anche io>> si intromise greve Natasha << ma i posti disponibili erano davvero pochi, i biglietti sono andati a ruba dopo appena un’ora dall’apertura dei botteghini. Mi dispiace Sofy, mi sa che anche stavolta non riuscirai a goderti il panorama da lassù>>.
Il viso della ragazza si oscurò di nuovo. << Per un attimo mi ero illusa>> disse sospirando, poi aggiunse con ottimismo forzato << beh, poco male, vorrà dire che avrò più tempo per stare con la mia famiglia; e poi sono giovane, ho ancora tutta la vita davanti per salire lassù, no?>>.
Prima che i ragazzi potessero alzarsi per raggiungere le proprie stanze, furono trattenuti dal direttore Dahl, che si fermò al centro della stanza per fare un annuncio a sorpresa: oltre alla prova a circuito già prevista, ci sarebbe stata un’ulteriore prova fisica da sostenere. L’uomo non fornì altre spiegazioni, dato che l’intenzione del dipartimento era quella di saggiare le capacità delle matricole davanti a imprevisti e situazioni inaspettate, ma aggiunse che la prova era stata pensata dal vice-ministro dell’interno in persona, Djogo Martines e che quindi era importante prepararsi al meglio per affrontarla. Un chiacchiericcio indistinto si sollevò dal tavolo appena l’uomo uscì dalla stanza: chissà di cosa si tratta, chissà cosa ci faranno fare stavolta, hanno davvero voglia di torturarci, addirittura pensata dal vice ministro in persona. Conoscendo la sinistra fama che si era guadagnato Martines tra le alte sfere del governo, e dell’Agenzia, Sofyane si aspettava qualcosa di particolarmente cruento. In fondo, anche se il loro lavoro era decisamente diverso da quello delle forze dell’ordine, il dipartimento di Ricognizione e Bonifica era pur sempre una estensione dell’esercito. Si perse tra i suoi pensieri e le sue teorie, ignorando completamente i suoi colleghi, che continuavano ad agitarsi senza trovare pace e a parlarsi l’uno sull’altro senza alcuna soluzione di continuità. Non si acquietarono neanche quando Shaw e Lee si avvicinarono al loro tavolo.
<< Il capo ci ha appena detto in cosa consisterà la prova a sorpresa>> sghignazzò il biondo con un malefico sorriso stampato in faccia, << vi consiglio di cominciare a prepararvi psicologicamente, sarà un vero massacro!>>.
<< Cavolo, dateci almeno un indizio! Non potete lasciarci brancolare nel buio!>> pregò Bianchi seduto in fondo al tavolo, appoggiato poi da Mark e Freeman.
<< Anticiparvi di cosa si tratta e poi perdermi tutto il divertimento? Giammai!>> replicò assottigliando lo sguardo Leeroy, in segno di sfida. Volarono sbuffi, lamenti e anche qualche insulto, era tornato di nuovo il caos.
<< Tu>>, tuonò ad un certo punto Lee rivolgendosi a Sofyane, facendo placare nuovamente tutta la brigata. La ragazza però non lo sentì, così come non aveva sentito una sola parola di quello che era stato detto dopo l’annuncio di Dahl. Stava riflettendo sulla faccenda di Martines, l’obiettivo ultimo della sua missione, giocherellando con i fili della felpa azzurra.
Mark la risvegliò con una gomitata. Sofyane scosse il capo e rivolse uno sguardo interrogativo a Mark, che, con un rapido movimento di sopraciglia, le indicò Lee, che la fissava a braccia incrociate a poca distanza.
<< Si, signore! Mi dica>> fece Sofyane a voce alta, cercando di nascondere l’imbarazzo per aver incrociato per la prima volta da giorni i suoi occhi scuri.
<< E’ tornata tra noi, a quanto pare, ottimo! Ora ascolti bene quello che ho da dirle Bertrand, ché non ho intenzione di ripetermi: cerchi di non inscenare uno dei suoi soliti, ridicoli spettacolini durante la prova a sorpresa. So che è una inclinazione naturale per lei e che non riesce proprio a farne a meno, ma dopodomani è l’ultimo giorno di lavoro dopo sei settimane a dir poco estenuanti, quindi tenti, almeno tenti una volta nella sua vita, di non essere una palla al piede per tutti quanti noi e lasci che le cose vadano come devono andare. Si faccia una camomilla, se è il caso>> disse quello enigmatico. Poi, senza nemmeno aspettare che la donna replicasse, girò le spalle e si diresse verso l’uscita.
Sofyane rimase a bocca spalancata, immobile, ancora con i fili della felpa intrecciati tra le dita, osservata come un animale da zoo da tutti i commensali, tra risatine soffocate e commenti divertiti.
Sentì le gote ardere di rabbia, lo stomaco contorcersi in una rumorosa stretta, le mani tremare senza sosta e il respiro farsi pesante.
Ridicoli spettacolini. Palla al piede. Camomilla. Aveva usato proprio quelle parole, pronunciandole ad alta voce davanti a tutti i suoi compagni e superiori, usando un tono violentemente sarcastico e derisorio, con la precisa intenzione di ferirla, di umiliarla, di farla sentire piccola e stupida. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime; le ricacciò indietro con tutta la forza di cui disponeva: non gli avrebbe dato anche la soddisfazione di averla fatta piangere, nessuno l’aveva mai avuta e lui di sicuro non sarebbe stato il primo. Si alzò compostamente dal tavolo stringendo i pugni, salutò i suoi colleghi con un cenno del capo e si diresse verso la sua stanza. Aveva il cuore avvelenato. “Stupida! Stupida! Stupida!” continuava a ripetersi senza sosta, respirando profondamente. Cosa aveva pensato che significasse quello che era successo la settimana prima in quella cucina? Cosa aveva pensato li avesse uniti quel giorno nelle fogne, sotto metri e metri di macerie? Cosa credeva sarebbe successo, una volta che avessero avuto un momento per parlare? Ora lo sapeva: nulla, assolutamente nulla. Era chiaro come il sole che l‘uomo, in tutto quel tempo, l’avesse appena tollerata, sopportata, giusto perché era un suo superiore e non avrebbe potuto fare altrimenti. Ora che l’addestramento stava arrivando ad una fine, il superiore aveva dato voce senza remore ed insincerità a tutti i suoi sentimenti, a tutto quello che provava e pensava di lei. E per renderlo chiaro alla diretta interessata l’aveva prima ignorata per giorni, poi umiliata nel modo più terribile che si potesse immaginare. Lo detestava, lo detestava con tutte le sue forze. Se l’avesse avuto tra le mani lo avrebbe ucciso, di sicuro. Se fino ad allora Sofyane Bertrand aveva ingoiato più di qualche rospo, se era riuscita a far assopire per un po’ il suo lato cinico e calcolatore, se aveva pensato di provare qualcosa per quell’uomo così freddo e distante e si era convinta che forse non c’era niente di male a scoprirsi fragili, adesso Hadiya De Wit stava tornando più spietata di prima per rimettere a posto le cose, per riprendersi tutto ciò che le era stato tolto, per avere la propria rivincita, in un modo o nell’altro.

Due giorni dopo, la prova di resistenza fisica si svolse come da programma: una corsa lungo un percorso accidentato di cinque chilometri, una sessione di sollevamento pesi in palestra, una arrampicata sulla parete finta e una prova di apnea nel vicino laghetto artificiale. Sofyane superò la prova senza grossi problemi, così come, chi più agevolmente, chi meno, anche il resto della combriccola. Il momento tanto atteso, e allo stesso tempo temuto, arrivò nel pomeriggio, quando Dahl convocò le matricole in palestra, facendole disporre ai lati di un enorme tatami blu disteso al centro della sala. Su di esso campeggiavano trionfali due bokken da addestramento. L’uomo prese in mano il megafono a cui Shaw era tanto affezionato, bevve un sorso d’acqua, si schiarì la voce e disse: << Per farla breve, questa prova a sorpresa servirà a scegliere i membri della squadra operativa ed, eventualmente, il futuro capo squadra>>.
Le reclute si guardarono negli occhi perplesse, poi cominciarono a fare commenti sotto voce, creando di nuovo quel fastidioso brusio udito anche qualche sera prima in mensa.
L’uomo fece cenno con le mani ai cadetti di restare in silenzio, poi riprese: << Data la gravosità della prova, in questi due giorni ho contrattato in prima persona con il vice ministro affinché potesse farvi qualche sconto e alla fine, dopo un lungo botta e risposta, sono riuscito nel mio intento. Il test è diventato, dunque, assolutamente facoltativo; chiunque abbia già deciso di voler fare lavoro d’ufficio e attività di ricerca o chi, semplicemente, non se la sente di affrontarla, può tranquillamente tirarsi indietro e godersi le proprie meritate vacanze aspettando fino a metà gennaio il risultato del test canonico. Chi, invece, volesse far parte di coloro che condurranno i giochi sul campo o volesse diventare capo squadra, può tentare la sorte oggi. Vi dico sin da subito che durante questa prova non saranno fatti sconti; età, sesso, estrazione sociale, nulla avrà più significato una volta che sarete saliti su questo tatami. Detto questo, arriviamo al punto. Dovrete disputare, a turno, dei semplici combattimenti corpo a corpo contro il nostro esperto, il qui presente signor Lee Tae Jun. Inutile dirvi che l’obiettivo sarà metterlo KO, ma dato che dubitiamo che qualcuno di voi possa riuscirci, ci accontenteremo solo di vedere un match equilibrato, o meglio, non troppo squilibrato. Sono ammessi tutti gli stili di combattimento, da quelli orientali allo street fighting, potrete anche ballare la capoeria se lo riterrete necessario o mirare sotto la cintola, l’importante è che non usiate armi, né tirapugni, né coltellini, nulla che non sia il bokken che vedete sul tappeto. Mi sembra scontato dire che non potete uccidere il vostro avversario; per il resto, tutto è consentito. L’incontro verrà dichiarato terminato quando uno dei due contendenti resterà al tappeto per più di dieci secondi o se decidesse di ritirarsi. Adesso, chiunque voglia cimentarsi in questa ardua impresa può disporsi in fila davanti al banchetto del signor Shaw, che vi farà firmare un consenso informato in cui, in pratica, scarichiamo su di voi ogni responsabilità se doveste finire in ospedale. Buona giornata e buon Natale a tutti!>>.
L’uomo spense il megafono e si andò a sedere, agitato, su una delle sedie disposte intorno al tappeto gigante, aspettando che il funzionario biondo finisse di sbrigare le ultime pratiche, per poi dare il via a quella barbarie. Se i suoi rapporti col vice ministro fossero stati meno tesi avrebbe sicuramente fatto un esposto direttamente al ministro dell’interno per impedire una simile efferatezza, ma dato che la sua situazione era già complessa, aveva ritenuto saggio non peggiorare ulteriormente le cose e restare in silenzio. Entro i limiti, si intende.
I cadetti si guardarono negli occhi spaventati per almeno cinque minuti; nessuno aveva il coraggio di esprimersi per primo, né in un senso, né nell’altro. Ci pensò Mark, come quasi sempre succedeva, a rompere il ghiaccio e a dire con grande entusiasmo: << Signori, è stato un vero piacere conoscervi! Io vado a fare le valigie e me ne torno a casa dalla mia famiglia. Sento già l’odore delle delizie che avrà preparato mia nonna per il cenone della Vigilia>>.
Tutti i presenti scoppiarono in una fragorosa risata, poi, poco a poco, dieci di loro, compresi Natasha e Bianchi, si accodarono al ragazzo, decidendo che per loro era sufficiente una tranquilla vita dietro ad una scrivania; si sedettero sulle sedie disposte alle spalle di Dahl. Sofyane rimase immobile, a metà strada tra i compagni meno avventati che si erano già seduti e il banchettino di Shaw, dove altri tre omaccioni, insieme a Freeman il geologo, desideroso di lavorare sul campo, si erano già messi in fila per firmare il consenso. La ragazza guardò velocemente nelle due direzioni: da una parte c’erano Mark e Natasha che le facevano segno di andarsi ad accomodare accanto a loro; dall’altra c’era Lee, che la stava guardando in cagnesco con gli occhi stretti e la fronte corrugata.
Capì che l’ultimo briciolo di buon senso di Sofyane l’aveva definitivamente abbandonata, quando, dopo essere arrivata al cospetto di Shaw, fece una H sulla linea in fondo al foglio. Cancellò la lettera, poi scrisse in calce: Sofyane Bertrand.

Lee non impiegò molto tempo a mettere al tappeto i primi quattro contendenti; solo il secondo, tale Rukinic, gli aveva creato qualche problema in più, ma nulla che non fosse riuscito a risolvere agevolmente con un minimo di sforzo. I presenti rimasero profondamente stupiti dall’abilità dell’uomo, che, nonostante fosse stato lui stesso nelle precedenti settimane ad insegnare e a raffinare le tecniche di kung fu e street fighting alle reclute, non aveva mai mostrato il suo pieno potenziale; del resto, non ce ne era mai stato alcun bisogno essendo tutti i cadetti poco più che dei principianti. Quasi tutti.
La ragazza aveva indossato di nuovo la tuta sportiva con cui Lee l’aveva beccata la settimana prima a tirare pugni al sacco in palestra; aveva immerso le mani nel gesso bianco e avvolto le dita nelle solite fascette di protezione. Fece qualche leggero esercizio di stretching e respirazione, poi attese in silenzio la fine dell’incontro precedente. Era consapevole che non avrebbe giocato al massimo delle sue possibilità: non solo la mattina aveva sostenuto la prova a tempo, che, per quanto relativamente semplice, l’aveva comunque affaticata, ma soprattutto erano mesi che non faceva l’allenamento speciale alla base, perdendo tono muscolare e prontezza nei riflessi.

Quando arrivò il suo turno, Sofyane rivolse un ultimo sguardo ai suoi compagni di avventura per cercare conforto e sostegno; li trovò tutti lì, sorridenti e con le dita incrociate a fare il tifo per lei. Quella vista le diede una grande carica. Salì sul tatami, fece un inchino al suo avversario, che si inchinò a sua volta, e poi si dispose in posizione di difesa. I due rimasero a girarsi intorno e a studiarsi con attenzione per un paio di minuti, poi la ragazza fece la sua prima mossa. Si avvicinò e sferrò un pugno, facilmente scansato dall’avversario. L’uomo a suo volta cominciò a colpire senza troppa foga la ragazza, mirando sempre al volto; questa inizialmente schivò i colpi, poi ne prese qualcuno dritto in piena faccia. Così, sentendosi in vantaggio, Lee cominciò a colpire basso, usando la tradizionale tecnica di Kung Fu del Nord, sferrando calci e pugni con movimenti fluidi ma potenti. Dopo dieci minuti dall’inizio dell’incontro sembrava già chiaro chi avrebbe avuto la meglio. Lee decise di chiudere in fretta la questione, immobilizzò l’avversaria arrivandole alle spalle e la trascinò con se a terra, aspettando che il giudice di gara facesse partire il conto alla rovescia. I due si trovavano faccia a faccia stesi sul pavimento: il funzionario la teneva stretta per le braccia, bloccandole con forza le gambe, mentre la matricola restava immobile e sofferente nella sua morsa. Quando il countdown arrivò a sette, Lee vide gli occhi dell’avversaria assottigliarsi e un sorriso sornione comparirle sulle labbra. Tutto ad un tratto, senza che l’uomo riuscisse neanche a rendersene conto, la donna riuscì a divincolarsi scaraventandolo con forza sul tatami. La situazione si era ribaltata: era Lee, ora, a guardarla dal basso in alto, col fondoschiena a terra. La ragazza lo provocò assumendo un’espressione divertita, alzò il sopracciglio e l’angolo della bocca destro, poi gli si lanciò addosso e inflisse una serie di colpi ad alta velocità. Lee riuscì a schivarne la maggior parte, poi cominciò ad prenderne qualcuno in viso e sulle ginocchia. Si allontanò della ragazza, si sgranchì il collo inclinandolo a destra e a sinistra, poi si preparò ad un nuovo, deciso attacco: aveva capito che l’avversaria che aveva di fronte non era da sottovalutare. Quello che successe nei minuti successivi sarebbe stato difficile da raccontare anche per chi ne era stato diretto testimone: i due cominciarono un lungo ed appassionante scambio di colpi, fatto di pugni, calci e salti all’indietro, uno scambio in cui i due corpi sembravano muoversi in sincronia, uno in modo complementare all’altro, quasi come se si stessero esibendo in una elegante, ma sanguinosa danza orientale. La magia fu interrotta quando, dopo essersi ritrovata sul fondo del tatami di schiena, Sofyane prese con la mano destra il bokken alle sue spalle e si rimise in piedi con un poderoso salto in avanti. Fece lo stesso anche il suo avversario, così cominciarono un nuovo atto di quella strana coreografia, ora impegnati a scambiarsi dei fendenti e dei colpi poco cortesi nelle parti basse, con la spada. Sofyane prese con le mani le due estremità della katana di legno, riuscì a far passare attraverso il cerchio costituito dalle sue braccia e dall’arma quella dell’avversario, poi lo disarmò con un rapido movimento all’indietro. Dopo aver lasciato l’uomo inerme, prese ad assestare diversi colpi all’addome, poi agli arti inferiori. Colpiva con una furia cieca, lasciando che tutta la rabbia che aveva accumulato in quei due giorni, dopo essere stata pubblicamente umiliata, venisse fuori e si scagliasse senza pietà sul superiore. Quando pensava di essere finalmente riuscita a metterlo al tappeto, il funzionario la colpì alla caviglia dal basso, facendola cadere a terra e disarmandola a sua volta. L’incontro divenne ancora più cruento. Lee le diede una ginocchiata dritta nella parte bassa dell’addome, facendola piegare in due dal dolore, poi le diede una gomitata a due braccia sulla schiena, facendola precipitare rovinosamente. La rialzò da terra tirandola su per la stoffa della maglia, poi le diede un pugno in pieno volto che le fece sputare sangue. Ormai entrambi aveva il viso completamente devastato, ricoperto di lividi, sangue e ferite, ma nonostante ciò nessuno dei due accennava a fermarsi. Sofyane cercò di rispondere come poteva, ma il dolore era diventato troppo forte e l’uomo la mise di nuovo al tappeto. La recluta aspettò qualche secondo per riprendere fiato, poi si divincolò di nuovo dandogli una poderosa testata che per un attimo gli fece perdere i sensi. I due si rialzarono, si sistemarono alle due estremità del tappeto e cominciarono a guardarsi intensamente, reggendosi i fianchi con le mani e cercando di asciugarsi con i vestiti il sangue che sgorgava dagli orifizi.
<< Forza Sofyane!>> urlò dalla tribuna Mark, cercando di spronare l’amica a resistere ancora un po’.
<< E’ assolutamente alla sua altezza, Freeman! Può farcela cazzo, può farcela!>> disse poi entusiasta al geologo vicino di posto.
L’uomo lo guardò scuotendo il capo, poi gli prese il viso con la mano destra e lo costrinse a guardare meglio. << Guardali bene, Mark. Sofyane è distrutta, ha il fiatone e non riesce nemmeno a reggersi in piedi, Lee invece è sicuramente messo male, ma ha molte più energie e forze da spendere. La nostra amica potrà anche cercare di resistere con tutte le sue forze, ma, mi dispiace dirlo, a breve sarà costretta a capitolare>>.
Mark rimase profondamente deluso dal resoconto che gli aveva fatto il collega; sperava sinceramente che l’amica riuscisse a prendersi la meritata rivincita sul superbo e orgoglio funzionario, ma, purtroppo, osservando meglio i due contendenti, non poté fare a meno di dare ragione al geologo: la ragazza non avrebbe resistito ancora a lungo.
Sofyane si preparò a sferrare un nuovo attacco: cercò di immobilizzare l’avversario prendendolo da sotto le ascelle, ma l’altro lesse in anticipo le sue intenzioni e riuscì a evitare il colpo bloccandole a sua volta le braccia. Si ritrovarono, alla fine, entrambi piegati in avanti con la testa dell’uno poggiata nell’incavo del collo dell’altro a guardare in basso, con le braccia a tenere ferme le spalle, spingendo con tutte le loro forze per far cadere all’indietro l’avversario.
<< Che diavolo stai facendo?>> chiese con un filo di voce Lee.
<< Cerco di batterti. E’ questo lo scopo della prova, no?>> disse la donna stringendo i denti per non cedere sotto la spinta dell’altro. Erano le prime parole che si scambiavano da quando avevano parlato quella notte in cucina, esclusa la strigliata fatta in mensa qualche giorno prima, in cui però, fondamentalmente, aveva parlato solo Lee.
<< Arrenditi Bertrand, sai benissimo anche tu che dovrai capitolare. Ti stai solo facendo del male così>>.
La ragazza non rispose, ma prese a spingere con maggiore forza, sentendo un dolore lancinante al torace che non la faceva respirare. Probabilmente aveva qualche costa rotta.
<< Ti avevo chiesto di non fare sceneggiate, ti avevo chiesto di agire con maturità e giudizio una volta tanto. Smettila di fare la ragazzina e arrenditi, devi andare in ospedale prima che finisca per romperti qualcosa>> disse quello di nuovo con tono sprezzante.
A quel punto Sofyane non ci vide più. Usò tutta la forza che le era rimasta in corpo per sollevare il suo avversario e farlo planare dietro di lei a schiena a terra, poi si girò rapida e gli bloccò le braccia e le gambe con il peso del suo corpo. Ora erano di nuovo faccia a faccia.
<< Preferisco morire ora piuttosto che arrendermi>> gli sussurrò la ragazza con gli occhi carichi di rabbia. Il giudice di gara fece partire il conto alla rovescia. Le matricole sugli spalti si sporsero sui bordi delle sedie per seguire meglio il match; la tensione era veramente alle stelle, l’esito dell’incontro era quanto mai incerto.
Quando il giudice arrivò a meno quattro, Lee fece un respiro profondo, la guardò intensamente negli occhi, poi le disse sottovoce: << Non mi lasci altra scelta>>. Si liberò dalla morsa della donna, rotolò su di lei fino a che si ritrovarono nella posizione opposta alla precedente, poi le diede un pugno nello stomaco. Sentì che la ragazza continuava a dimenarsi, così gliene diede un altro, e poi un altro ancora, fino a che non sentì la pressione sotto il suo corpo allentarsi, fino a scomparire. Sofyane aveva perso conoscenza.
L’uomo raccolse le ultime forze per alzarsi in piedi, facendo pressione sull’ematoma che gli si era formato sull’addome, aspettò che il giudice di gara contasse fino a dieci, poi si accasciò anche lui, distrutto, accanto all’avversaria priva di sensi. Il match era finito. Lee Tae Jun aveva vinto.

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Capitolo 19
*** Vilger ***


19



<< C’è la signorina Ikeda per lei, signore>> disse con la solita fredda cordialità la bella segreteria vestita di tutto punto, dopo essersi affacciata nel suo ufficio.
<< Oh, finalmente!>> rispose soddisfatto il dottore mostrando uno smagliante sorriso a trentadue denti << la faccia entrare subito Miss Cruz, grazie>>.
La donna annuì e si congedò chiudendosi la porta alle spalle senza far rumore. Il dottore spense a distanza la console, poggiò il joystick sul ripiano sopra alla Tv gigante a schermo piatto e poi si preparò ad accogliere la sua ospite su uno dei due divanetti bianchi posti al centro della stanza.
La signorina Ikeda, una bella donna giapponese sui quaranta, vestita con un semplice pinocchietto kaki e una camicia lunga bianca, entrò nell’ufficio del dottore a passi ampi. Fece un lieve inchino, si sedette compostamente sul divano di fronte al suo interlocutore, poi disse secca: << porto grosse novità. E non di quelle buone>>.
<< Hanako, amica cara, non ci vediamo da quasi un anno ormai, permettimi almeno di chiederti come stai. Com’è andato il viaggio? Ancora scombussolata dal jet lag? E la tua famiglia?>> rispose l’uomo, sfoderando di nuovo il suo sorriso benevolo.
La donna gli lanciò un’occhiata truce, ma il dottore non accennò a ritirare il suo sorriso. Alla giapponese non restò altro da fare che sorridere a sua volta e dire: << La mia famiglia gode di ottima salute Dottor Vilger, la ringrazio. Il viaggio è andato bene, la nuova linea è decisamente più comoda e veloce di quella precedente>>.
<< Bene bene, ne sono lieto. Come ben sai, ci siamo molto prodigati affinché la transatlantica diventasse più efficiente, fino a qualche anno fa assomigliava più ad una linea di aerei cargo, una cosa inaccettabile. Ad ogni modo, sono stato molto in pensiero per te in questi mesi Hanako, sei rimasta in silenzio per troppo tempo>> aggiunse con un velo di dispiacere il Dottore.
<< Abbiamo avuto problemi con l’orfanotrofio e l’ospedale, siamo stati oberati di lavoro sin dai primi giorni di gennaio>> si scusò con poca convinzione la donna.
<< Ah, davvero? Mi dispiace sentirlo Hanako, pensavo le cose fossero migliorate laggiù>> fece distrattamente l’uomo, guardando la sabbia bianca e il mare azzurro attraverso le vetrate dell’ufficio.
<< Sì, signore e a questo proposito, sono qui per dirle…>>. Vilger la interruppe prima che potesse completare la frase.
Si alzò dal divanetto, si avvicinò alla scrivania e pigiò sul pulsante dell’interfono, << signorina Cruz, ci porti del tè verde per favore… Anzi no, ci porti quel meraviglioso tè nero che abbiamo comprato io e mia moglie in Indonesia qualche mese fa e dei biscotti alla cannella; abbiamo un’ospite d’eccezione oggi, non posso certo permettermi di sfigurare>>.
La donna dall’altra parte rispose subito alla chiamata del superiore, dicendo che le sarebbero bastati solo pochi minuti.
La giapponese, che stava cominciando a stancarsi di tutte quelle frivole cerimonie, assottigliando lo sguardo e usando una buona dose di sfacciataggine, disse: << Per quanto apprezzi la sua cordialità signore, voglio ricordarle che non ho fatto più di sedici ore di viaggio per fare una chiacchierata davanti a tè e pasticcini>>.
<< Ti ricordavo più paziente e rilassata, Hanako>> rispose con un tono inquietante il dottore dopo averla osservata un attimo, << è evidente che gli anni trascorsi in quelle lande devastate ti hanno cambiata>>.
<< Signore, mi perdoni se mi permetto, ma lei non capisce quanto sia disperata la situazione laggiù. Ogni giorno arrivano decine e decine di feriti, l’orfanotrofio è più pieno che mai e le stanze dell’ospedale sembrano i vagoni di un cargo bestiame. Ormai viviamo in una polveriera pronta ad esplodere da un momento all’altro>> aggiunse con franchezza la donna.
<< E credi che non me ne dispiaccia? Ti ricordo che il novanta per cento del denaro della fondazione mia e di mia moglie è destinato al mantenimento di quelle strutture, Hanako. Non c’è nessuno che soffra più di noi per la terribile situazione in cui versate, ma questo non significa che non possa godermi una chiacchierata davanti ad un buon tè con una vecchia amica>> fece lievemente irritato il dottore, che poi si affrettò a mettere di nuovo su il suo rassicurante sorriso.
Ikeda, spiazzata da quelle parole amare, sospirò di nuovo e decise di restare in silenzio fino a che la signorina Cruz non avesse servito tè e biscotti: era inutile cercare di insistere, parlare con quell’uomo era come parlare con un muro. Quando finalmente la segretaria ebbe concluso la propria mansione, il dottor Vilger bevve avidamente un’intera tazza della bollente bevanda, mangiò due biscotti, poi prese a raccontare delle avventure universitarie dei due figli più grandi, che erano stati ammessi da pochi mesi al college. Ikeda cercò di restare in silenzio e ascoltare fingendosi interessata, poi, quando si rese conto che la cosa sarebbe andata ancora per le lunghe, decise di lasciar perdere i convenevoli e arrivare al punto della situazione.
<< Suo nipote si è messo in moto, dottore, e stavolta sembra deciso ad andare fino in fondo>> lo interruppe senza farsi troppi scrupoli.
<< Non riuscirò proprio a farti cambiare idea oggi, vero?>> chiese sconfortato l’uomo, mentre dava un morso al terzo biscotto. La donna fece cenno di no col capo, così l’altro riprese sospirando: << Lo so Hanako, lo so. Ne sono stato informato immediatamente, appena si è messo sulle tracce del professore. Come vedi, ho tutto sotto controllo, non c’è bisogno di perdere la calma. Ora mi dici perché sei così agitata? C’è qualche mistero sotto? Un uomo, forse?>>.
<< Se davvero è al corrente degli ultimi sviluppi, dottore, il vero mistero a questo punto è perché non è agitato anche lei quanto lo sono io>> ribattè schiettamente la donna, guardandolo con aria seria dritto negli occhi scuri. Ormai aveva perso la pazienza, non sarebbe riuscita a tenere un pelo sulla lingua neanche se avesse voluto.
Finalmente vide il sorriso sornione dell’uomo indebolirsi, fino a scomparire completamente.
Il dottore posò sul piattino l’ultimo pezzo di biscotto, strinse gli occhi riducendoli ad una fessura e con voce greve disse: << Perché io conosco il suo unico punto debole, Hanako; e credimi, quando sarà il momento, saprò usare il mio asso nella manica nel migliore dei modi>>.
Mangiò l’ultimo pezzo di biscotto, poi riprese a parlare, come se nulla fosse, della vita universitaria dei suoi figli.

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Capitolo 20
*** Ciao Sofyane ***


20



Cox sbadigliò rumorosamente stiracchiandosi le braccia, poi bevve tutto d’un sorso l’ultima goccia di caffè rimasto nella moka. Fuori era buio pesto e Hadiya, seduta accanto a lui, riusciva a vedere i suoi occhi stanchi e arrossati solo attraverso la tenue luce emessa dallo schermo del PC. Non era stata l’unica, infatti, ad aver trascorso le notti precedenti in bianco, ma al contrario di quanto si sarebbe aspettata, il collega non si era mai lamentato e aveva sempre lavorato con diligenza e costanza.
Fu solo in quei giorni di stretta collaborazione che la donna si rese davvero conto che il nuovo arrivato, nonostante gli screzi iniziali e il legame con Marchand, sapeva il fatto suo e che era anche piuttosto bello. I capelli biondi scompigliati e la barba di qualche giorno, infatti, gli davano un’aria matura, mentre le labbra sottili incorniciavano perfettamente i denti bianchi e allineati.
<< A che pensi?>> le chiese tutt’ad un tratto il ragazzo, voltandosi verso di lei.
Hadiya lo guardò fisso, poi gli disse senza imbarazzo: << Al fatto che potresti essere il protagonista di uno spot per dentifrici>>.
Cox increspò le labbra e le sopracciglia, poi le chiese: << Come scusa?>>.
<< Stavo scherzando>> rispose la donna, dandogli uno schiaffetto sul collo << sbrigati e fammi vedere cosa hai scoperto>>.
Cox parve perplesso, ma scosse il capo e lasciò perdere, premendo il tasto Play sul videoregistratore. Partì un filmato, della durata di circa due minuti, simile ai tanti altri che avevano già visionato nel pomeriggio; mostrava la bambina, Jala, seduta nella solita stanza buia che colorava svogliatamente il disegno di un cagnolino; qualche volta alzava gli occhi alla telecamera e sorrideva, poi ritornava a colorare. Secondo la data riportata sul quotidiano, risaliva al tre giugno di quell’anno.
<< E cosa avrei dovuto vedere?>> chiese Hadiya grattandosi il mento, alla fine della proiezione.
<< Sentire, non vedere! All’inizio neanche io ci avevo fatto caso, poi, riguardandolo, ho notato questo>> fece Cox sorridendo, prima di premere il tasto Rewind. Tornò al minuto 1.06, poi premette di nuovo Play.
<< Continuo a non capire>> fece con un certo disappunto la donna, dopo aver rivisto e riascoltato attentamente tutto il video.
Il biondino sbuffò, tornò di nuovo indietro, poi le disse: << Ascolta, ascolta! Proprio ora!>>.
Udì uno strano rumore, simile ad un click, al minuto 1.09.
<< Sì, ora l’ho sentito anche io, ma non saprei davvero dire cosa sia>> aggiunse ancora più confusa.
<< Questo è perché hai sempre vissuto in un sottomarino militare! Se avessi vissuto in una casa normale, avresti saputo sicuramente riconoscere il rumore che fa un generatore di emergenza quando si attiva dopo un black-out. E credimi, nelle città della confederazione, a causa della crisi energetica, i black-out sono molto frequenti… o almeno lo erano fino a qualche anno fa>> fece Cox soddisfatto.
Hadiya gli lanciò un’occhiata truce.
<< Cazzo, scusami! Volevo solo fare del sarcasmo, non intendevo offenderti o rattristarti, davvero! Dio che idiota che sono, immagino sia difficile per te ripensare alla tua infanzia>> disse quello, mordendosi il labbro inferiore e maledicendosi ancora una volta per la sua stupidità.
La donna scoppiò in una fragorosa risata, poi gli disse: << Sono un’adulta Cox, non scoppio in lacrime ogni volta che qualcuno accenna al mio tragico passato. E mi sono anche abituata alla tua boccaccia, ormai. Non ti preoccupare>>.
<< Meglio così, allora>> rispose ancora imbarazzato l’altro, << comunque, se ho ragione e quel click è davvero il rumore di un generatore elettrico d’emergenza, significa che, controllando in quali zone del paese c’è stato un calo di tensione il 3 giugno, potremmo restringere notevolmente il campo di ricerca>>.
Hadiya lo guardò fisso negli occhi con espressione inerte, poi gli sorrise entusiasta.
<< E bravo il novellino! Chi si sarebbe mai aspettato che fossi capace di tanto?>> gli disse dandogli una pacca sulla spalla. << Ora dobbiamo solo sperare che la corrente non sia mancata in una zona troppo estesa, altrimenti saremo punto e da capo>>.
<< Sempre se tengono la bambina ancora in Nord-Africa>> aggiunse con un certo sconforto Cox. Del resto, niente assicurava loro che i rapitori non avessero portato la ragazzina all’estero.
<< Hanno inviato la prima registrazione il giorno dopo il rapimento e Jala era già rinchiusa nella stanza buia; quasi certamente è ancora da queste parti. Per sicurezza, però, è meglio cercare in una zona più ampia>> rispose Hadiya fiduciosa.
<< Che facciamo ora, svegliamo Ben e gli chiediamo di controllare?>> disse poi l’agente, ancora incredulo per il primo segno di stima e apprezzamento ricevuto dalla scontrosa collega.
<< Ovviamente! Cosa vorresti fare, aspettare fino a domani mattina? Abbiamo i minuti contati qui>>.
Hadiya compose il numero del tecnico sul suo cellulare. McIntyre non fu entusiasta di essere disturbato nel cuore della notte, ma data l’urgenza della questione, si mise all’opera immediatamente, con il solito spirito. Richiamato anche il capitano nella sala in cui operava l’informatico, in verità più simile ad uno sgabuzzino che ad un ufficio, Hadiya raccontò del video e della scoperta di Cox, notizia che i due uomini accolsero piacevolmente sorpresi. Alla luce delle nuove informazioni fornite dai due agenti, Ben avrebbe dovuto, quindi, passare al setaccio i rapporti energetici di tutto il nord-Africa e individuare le aree coinvolte dal black-out il tre giugno; inoltre, poiché il video era stato recapitato al generale solo il sei ed era possibile che la data riportata dal giornale e quella di registrazione non coincidessero, il tecnico avrebbe dovuto estendere la ricerca anche ai giorni quattro e cinque giugno.
<< Potrebbe volerci un bel po’ di tempo>> li avvisò mezzo sonnecchiante Ben, << soprattutto per sovrapporre le zone in cui c’è stato il calo di tensione e quelle che sono coperte da un generatore d’emergenza. Potete anche tornarvene a dormire voi due, vi videochiamo io appena ho finito>>.
<< Perfetto Ben, ti ringrazio. Avvisaci appena scopri qualcosa>>, riagganciò ed emise un profondo sospiro di sollievo: forse stavolta c’erano davvero.
<< Cosa facciamo ora?>> chiese Kieren, sbadigliando di nuovo.
<< Che domande?>> disse serafica la donna, << ce ne andiamo a dormire>>.

Passarono circa cinque ore prima che il tecnico dell’Agenzia si rifacesse vivo. Cox, che aveva dormito sul divano accanto al computer, era stato il primo a sentire lo squillo della videochiamata e a rispondere al collega, poi era corso a svegliare anche Hadiya, che invece aveva dormito nell’altra stanza.
<< Dimmi che porti buone notizie>> supplicò la donna, piazzatasi davanti alla webcam col collega, dopo essersi data una ripulita.
<< Ne ho una buona e una cattiva>> fece il tecnico dall’altra parte dello schermo. Sullo sfondo comparve anche la figura del capitano Huber. I due sottoposti fecero il saluto militare di rito, poi il tecnico continuò: << quale volete sapere prima?>>.
<< Prima la buona per carità! Non ho intenzione di cominciare la giornata già col piede sbagliato>>, rispose seccato Cox, mentre i primi barlumi di luce cominciavano ad illuminare timidamente la stanza attraverso le finestre.
<< Bene, la buona notizia è che nell’arco temporale che mi avete indicato si sono verificati dei black-out solo il 4 giugno>>.
<< A quanto pare ci avevate visto giusto, i rapitori hanno girato il video il quattro e utilizzato come prova il quotidiano del giorno precedente; chissà, forse quel mattino si scocciavano di passare in edicola>> si intromise nella conversazione il capitano Huber, che poi passò subito alla questione più preoccupante. << Per quanto riguarda la brutta notizia, invece, McIntyre ha scoperto che quel giorno, a causa di un forte temporale estivo, la linea elettrica che rifornisce tutta Tripoli e un’area di cinquanta chilometri intorno ad essa ha subito dei gravi danni. Per farla breve, ci sono stati ben sei diversi mini black-out in differenti zone della città>>.
I volti dei due agenti si fecero scuri. La scoperta che li aveva tanto entusiasmati la sera prima, che aveva permesso loro di dormire sonni tranquilli per la prima volta da giorni, convinti che presto avrebbero riportato a casa la bambina, probabilmente non sarebbe stata così utile come avevano sperato.
<< Vi sto inviando una cartina con evidenziate le aree coinvolte nei primi due black-out, quello delle nove e quello delle tredici. Ho anche segnato una quindicina di edifici che, secondo le informazioni del satellite e del catasto, possiedono un generatore d’emergenza e una struttura adatta a nascondere un ostaggio. Garage, magazzini abbandonati, fabbriche, stazioni in disuso e quant’altro>> disse serio Ben.
<< Quindici edifici? Accidenti, non finiremo neanche per Natale in due!>> fece ancora più scoraggiato e insofferente Cox.
<< Non perdetevi d’animo, agenti. So che è chiedervi tanto, considerando che attualmente non ho rinforzi da potervi inviare, ma ricordatevi sempre che è della vita di una bambina di dieci anni che stiamo parlando. Quando avete deciso di unirvi alle forze speciali dell’Agenzia avete solennemente giurato di impegnarvi al massimo delle vostre forze, fino a sacrificare la vita, per proteggere la Madrepatria e i suoi cittadini, anche quelli dei paesi alleati. Se dovesse essere necessario, la cercherete in ogni singola casa del paese fino all’anno prossimo>> disse il Capitano con enfasi, cercando in qualche modo di motivare i due ragazzi.
Gli agenti si guardarono di nuovo negli occhi per cercare l’uno il supporto dell’altro, poi annuirono decisi. Il capitano aveva ragione: se era necessario ispezionare ogni anfratto di quella città per ritrovare la piccola, allora lo avrebbero fatto. La vita di Jala era più importante della loro pigrizia.
Chiusero le comunicazioni con l’ordine di tenersi in contatto con la base e di aggiornarli qualora ci fossero state novità; se la fortuna fosse stata dalla loro parte e fossero riusciti davvero a trovare la bambina, il capitano avrebbe immediatamente richiamato quelli delle squadre speciali, ovunque essi si trovassero, e avrebbe ordinato loro di raggiungere l’Africa per tirare fuori la piccola Jala Essid da quell’incubo. Fino ad allora, i due avrebbero dovuto agire da soli: il costo e l’impegno di un tale spiegamento di forze per una sola bambina, neanche cittadina della Confederazione per giunta, non era giustificabile agli occhi del ministero della guerra.

Passarono ben due giorni prima che Hadiya e Cox riuscissero ad esplorare senza dare nell’occhio tutti gli edifici evidenziati da Ben sulla cartina. Avevano guardato tra gli avanzi di diversi magazzini abbandonati, nei salotti di sconosciuti, tra i panni sporchi di una lavanderia e tra le scartoffie di una decina di uffici, ma della piccola non c’era traccia.
<< Siamo stati molto scrupolosi, signore. Se la bambina fosse stata in uno di quegli stabili l’avremmo trovata>> disse girandosi i pollici Hadiya al capo, non riuscendo a nascondere l’insofferenza crescente che stava provando da quando aveva cominciato quella missione così delicata, che sembrava non portare mai a nulla di concreto.
<< Capisco>> fece con tono greve il capitano, non sapendo cos’altro dire. Sapeva bene che, di ora in ora, le speranze di ritrovare viva la bambina diventavano sempre più flebili e, con esse, anche quelle di catturare i terroristi. Il generale Essid avrebbe ricevuto a giorni una nuova richiesta da parte dei rapitori e allora, probabilmente, questi si sarebbero accorti che l’Agenzia teneva d’occhio lui e tutta la sua famiglia.
<< McIntyre vi ha inviato la posizione delle strutture coinvolte nel terzo e quarto blackout. Speriamo di essere più fortunati stavolta>> disse Huber, con ritrovata forza e speranza nella voce.
<< Buon lavoro agenti e mi raccomando, tenetevi in contatto costante con Ben e con la base>>, chiuse la comunicazione senza dar loro il tempo di replicare.
Cox stampò la cartina che gli aveva appena mandato via mail il tecnico, la poggiò sul tavolo per farla asciugare, poi la studiò con aria affranta, seduto sulla vecchia sedia di legno cigolante.
<< Cazzo, stavolta gli edifici da ispezionare sono anche di più della prima!>> fece passandosi nervosamente le mani tra i capelli il biondino. Hadiya, invece, cominciò a guardare distrattamente la mappa dal PC.
<< In lista abbiamo un altro magazzino, un edificio abbandonato giù al porto, una gelateria, un binario morto della metropolitana e udite udite, anche un locale a luci rosse! Ah!>> aggiunse esasperato Cox, << come se fosse possibile tenere una bambina chiusa lì dentro senza che nessuno se ne accorga. Maledizione! Io direi di cominciare dalla gelateria, tu che ne pensi? Se ci dovesse venire fame, almeno sapremmo cosa mangiare>>.
Non ricevette risposta. Si voltò indispettito verso la collega, che stava guardando lo schermo con aria assorta.
<< Hey, ma mi ascolti?>> la incalzò di nuovo.
<< Lascia perdere il gelato, Cox e richiama Huber.>> disse Hadiya scura in volto, << Ho capito dove tengono la bambina>>.
<< Cosa? E dove?>> chiese sempre più stupito l’altro, non ancora del tutto avvezzo alle uscite gloriose delle donna.
<< Qui>> rispose quella, indicando un edificio grigio e scuro sulla piantina.
<< E cosa ci sarebbe lì?>>.
<< Una fabbrica di vernici>>.

Il fuoristrada dell’Agenzia sfrecciava a tutta velocità attraverso le strade della capitale, diretta alla fabbrica di vernici. Nonostante fossero da poco passate le nove, le viuzze strette della città erano già affollate da auto, biciclette e pedoni sconsiderati, rendendo particolarmente arduo il compito di Cox, che doveva cercare di andare veloce e allo stesso tempo di non ammazzare nessuno. Hadiya, dal canto suo, seduta sui sedili posteriori, a causa dei continui scossoni non riusciva a vestirsi, andando a sbattere continuamente con la testa contro il tettuccio.
<< Cox per l’amor di Dio, rallenta!>> gli urlò la donna, mentre cercava di infilarsi i pantaloni della divisa appena “chiesta in prestito” ad una gentile signora di Tripoli.
L’uomo la ignorò, cercando di nuovo di schiarirsi le idee su quanto gli aveva raccontato la collega qualche ora prima. << Quindi, dato che è stato il contatto del vecchio brasiliano a metterci sulla retta via, se davvero riuscissimo a trovare la bambina in quella fabbrica, avremmo la conferma che gli uomini che hanno tentato di uccidere Nadym sono gli stessi che volevano acquistare l’arsenale di armi da Aguilar?>> ripeté di nuovo, cercando di scansare i fossi sulla strada.
<< Esatto>> rispose la donna, mettendosi in testa il ridicolo berretto blu e giallo della divisa.
<< Ah-a! Quindi ci avevo visto giusto all’eliporto, il tizio con il cappuccio era davvero Huseynov!>> disse soddisfatto Cox, che per l’euforia della scoperta aveva lasciato il volante, rischiando di travolgere una vecchina che stava attraversando la strada, << voglio proprio vedere la faccia di Nikolaidis quando lo scoprirà>> aggiunse poi soddisfatto.
Hadiya gli lanciò un’altra delle sue occhiatine eloquenti, poi gli disse che non era il caso di saltare a conclusioni affrettate, poiché la bambina non era ancora stata ritrovata.
Cox le diede ragione, ma non poté fare a meno di continuare a sorridere per quella piccola rivincita che si era preso sul collega più grande.
Si fermarono circa venti minuti dopo nel grosso parcheggio di un supermercato, a poca distanza dall’edificio che ospitava la fabbrica di vernici, nella periferia di Tripoli.
<< Ricapitolando>> disse la donna al collega, mentre si sistemava nell’orecchio la mini-trasmittente collegata alla sala riunioni della base in cui si erano riuniti Marchand, Ben, Huber ed Eeki, ormai vicina al recupero totale dopo la pallottola beccata all’eliporto, << io entrerò dal retro spacciandomi per una dipendente dell’impresa di pulizie, tu ti farai passare per un uomo d’affari interessato ad acquistare un grosso quantitativo di barattoli di vernice. Io ispezionerò la fabbrica, tu i piani alti. Non sono ammessi colpi di testa, se uno dei due scopre qualcosa, avvisa immediatamente l’altro e aspetta con pazienza l’arrivo della squadra speciale che dovrebbe essere qui tra…>> guardò sul suo orologio da polso, << circa due ore. Tutto chiaro?>>.
<< Chiarissimo>> rispose Kieren, mentre si dava un’ultima sistemata alla cravatta prima di entrare in scena.
<< Capitano, ci sentite forti e chiari da lì?>>.
<< Vi sentiamo, Pifferaio. Seguite attentamente il piano e non fate sciocchezze>> si raccomandò di nuovo l’uomo.
I due agenti si strinsero la mano, poi si augurarono buona fortuna; un secondo dopo si divisero, imboccando ognuno la propria strada.
Il carrello dei detersivi era più pesante di quanto avesse immaginato; Hadiya avanzava lenta a testa bassa tra i corridoi della fabbrica, osservando con attenzione le decine di operai che si avvicendavano uno dopo l’altro alla macchina per la miscelatura e allo sverniciatore. La fabbrica non era molto grande: nella parte posteriore c’era il capannone, sede della catena di produzione, in quella anteriore, invece, una anonima palazzina a tre piani ospitava la contabilità, il settore vendite e gli uffici amministrativi. Da qualche parte, lì in mezzo, doveva esserci anche il laboratorio di ricerca.
Sfruttando il lungo giro di pulizie che facevano i suoi finti colleghi, l’agente ebbe modo di studiare anche la zona di scarico dei solventi e il magazzino; ad una prima occhiata, le era sembrato tutto in ordine. Solo dopo quaranta minuti di esplorazione, quando si stava apprestando a pulire il pavimento dopo che un operaio aveva fatto inavvertitamente cadere a terra un barattolo di vernice gialla, notò una strana porta chiusa con un voluminoso lucchetto nella parte nord del capannone. Completò la sua mansione e, lasciandosi il carrello alle spalle, si diresse verso di essa.
Gli operai erano troppo impegnati a lavorare per fare caso a lei, così, servendosi degli attrezzi tirati fuori da uno di quei borselli da scassinatore che le aveva gentilmente regalato Cox dopo l’incursione a casa di Essid, riuscì a forzare il lucchetto ed entrare nella zona riservata.
Rimase un po’ delusa quando scoprì che era solo un accesso secondario al laboratorio di ricerca, che immetteva in un corridoio attiguo a quello dell’entrata principale.
Decise comunque di entrare e dare un’occhiata in giro. Passò davanti ad una serie di piccole stanze messe in fila, all’interno delle quali, grazie alle porte di vetro, riuscì a vedere dei camici bianchi che trafficavano con provette e campioni di vernice, miscelando sostanze e producendo strani fumi sotto a delle cappe d’acciaio. Le porte erano aperte, i ricercatori instancabili e sembrava non ci fossero particolari anomalie nemmeno da quelle parti. Delusa per l’ennesimo buco nell’acqua, decise di tornarsene nella caotica fabbrica, luogo in cui sarebbe stato sicuramente più semplice per dei delinquenti nascondere l’accesso alla stanza di prigionia di un ostaggio. Prima che potesse mettere in atto il suo proposito, però, una massiccia porta blindata sul fondo del corridoio attirò la sua attenzione; non l’aveva notata prima poiché era nascosta all’interno di un incavo creato da un pilastro, alle spalle della porticina col lucchetto. Si avvicinò cautamente e notò che vi si poteva accedere solo strisciando una tessera magnetica sul sensore.
Uscì rapidamente dal corridoio facendo attenzione a non fare rumore, recuperò il suo carrello delle scope e si diresse verso i bagni. Sbarrò la porta con una mazza da scopa e aprì tutti i rubinetti.
<< Anemone, mi senti?>> chiese sottovoce, parlando nella trasmittente.
L’uomo rispose solo dopo qualche minuto.
<< Scusami, non potevo parlare. Ora sono solo, dimmi pure Pifferaio>> sussurrò il biondino dall’altra parte.
<< Ho trovato una porta blindata sospetta nel corridoio del laboratorio di ricerca. Per accedervi c’è bisogno di una tessera magnetica, ma né gli operai, né i ricercatori ne possiedono una. Credo tu possa essere più fortunato con quelli dell’amministrazione>>.
<< E’ più facile a dirsi che a farsi, non ho visto nessuno dei pezzi grossi, non so neanche dove siano. Fino ad ora ho solo aspettato la responsabile delle vendite in una sala d’attesa al secondo piano. Troverò una scusa per allontanarmi e ti contatterò appena scoprirò qualcosa>> rispose quello annoiato.
<< Va bene, ci sentiamo dopo. Sii cauto e non fare nulla che non farei io>> si raccomandò un’ultima volta la donna, prima di interrompere la comunicazione.
Senza ulteriori indugi, l’agente si alzò dal divanetto su cui l’aveva fatto accomodare la segretaria della signora Makhlouf, la donna che avrebbe dovuto incontrare da lì a venti minuti, e uscì dalla stanza.
<< Non è possibile fumare qui, vero?>> chiese sfoderando un sorriso smagliante alla gentile signorina con gli occhiali.
La donna nascose un sorriso imbarazzato dietro alla mano piccola e ben curata, poi rispose: <>.
<< Già, lo sospettavo>> disse quello fingendosi deluso, poi aggiunse ammiccando: << Allora credo sia meglio che vada a fumare questa bella sigaretta nel cortile, anche se la vista di cui si gode qui è decisamente migliore>>.
La donna sorrise timidamente, poi si scusò di nuovo per il ritardo del suo capo, trattenuta in aeroporto a causa di un serio contrattempo.
<< Si figuri, non avrei potuto fare questa piacevole chiacchierata con lei se la signora fosse stata in orario>> disse sornione il biondino, rincarando la dose.
La ragazza arrossì vistosamente, ma fece finta di niente, poi si aggiustò gli occhiali neri sulla punta del naso e tornò al suo lavoro.
Cox si diresse verso l’ingresso, chiamò l’ascensore e scese al primo piano. A giudicare dal numero di calcolatrici sulle scrivanie e dalla quantità di impiegati stempiati e occhialuti seduti dietro di esse, doveva essere finito all’ufficio contabilità. Perlustrò indisturbato il piano in lungo e in largo; l’ufficio era talmente confusionario e rumoroso che nessuno sembrò fare caso a lui. Purtroppo, come si aspettava, non vide tessere magnetiche in giro. Tornò di nuovo all’ascensore, stavolta pigiando il tasto numero tre. Quando le porte si aprirono, si ritrovò in un’elegante sala d’attesa con parquet. Sul fondo della stanza una bella porta di vetro, che immetteva su un corridoio illuminato, era controllata a vista da un massiccio uomo della sicurezza, che sedeva dietro alla scrivania nella guardiola. L’uomo si alzò all’in piedi e chiese allo sconosciuto ben vestito cosa ci facesse lì.
<< Credo di essermi perso>> fece grattandosi la nuca Cox, sporgendosi leggermente per vedere cosa ci fosse nel casotto, << dovevo incontrare la signora Makhlouf, la responsabile delle vendite. La conosce?>>. L’uomo sospirò, poi disse con aria annoiata, venendo fuori dalla guardiola: << Certo che la conosco, ma non la troverà sicuramente qui agli uffici amministrativi. Deve scendere al secondo piano, nel reparto vendite e assistenza clienti>>.
Cox fece appena in tempo a scorgere tra cartacce, tazze di caffè e voluminosi mazzi di chiavi, una tessera magnetica sulla scrivania accanto agli schermi della TVCC, prima che l’omone gli si parasse davanti e gli ostruisse completamente la vista.
<< Dunque questo non è il secondo piano? Accidenti, che sbadato che sono, devo aver sbagliato a premere il tasto sull’ascensore!>> disse il biondino, cercando di mostrarsi a disagio.
L’armadio a due ante lo guardò un po’ stranito, chiedendosi se potesse esistere davvero qualcuno di così stupido da confondere i due tasti, poi si ricordò di tutte le persone con cui aveva a che fare ogni giorno per via del suo lavoro e si convinse della genuinità delle sue parole.
Cox si scusò profusamente, poi si allontanò a passi lenti. Scese al primo piano, entrò di nuovo nella caotica stanza degli occhialuti contabili, sempre troppo presi dai loro numeri per prestargli attenzione e, come se nulla fosse, tirò fuori dal taschino una sigaretta, la accese con un fiammifero e li gettò entrambi in un cestino pieno di carte. Due minuti dopo, un sottile fumo nerastro si levò dal contenitore, l’allarme antincendio risuonò in tutto l’edificio e gli impiegati cominciarono a lasciare le proprie postazioni e a dirigersi verso le uscite di sicurezza. L’omone della terzo piano scese a tutta velocità facendo le scale, ruppe il vetro che teneva l’estintore chiuso nell’armadietto e si precipitò nell’ufficio per tentare di spegnere le fiamme. Era lui, secondo quanto diceva la targhetta appesa nella guardiola, il responsabile delle emergenze, nonché del primo soccorso sanitario. Nell’agitazione generale, Cox risalì con tutta calma al terzo piano, entrò nella guardiola lasciata aperta dall’omone e prese la tessera magnetica. Contattò subito la collega.
<< Immaginavo che ci fossi tu dietro a tutto questo trambusto>> gli disse la donna compiaciuta, che dal capannone aveva udito il suono dell’allarme antincendio.
<< Dovevo pur aiutarti in qualche modo, no?>> rispose Cox soddisfatto, passandosi un fiammifero tra le dita << allora, dove ci vediamo?>>.
<< Vieni all’ingresso principale del capannone, nessuno farà caso a noi>> rispose secca l’altra, << sembra che in questa fabbrica la gente non faccia altro che lavorare, non mi stupirei affatto se non facessero nemmeno caso alle urla di una bambina tenuta prigioniera sotto i loro occhi>>.

Cox si diresse a passi ampi verso il capannone, muovendosi in senso opposto a quello degli impiegati, che si affrettavano, invece, ad uscire dall’ingresso principale.
Salutò Hadiya, che era appena arrivata insieme al suo fido carrello, con un cenno del capo. << Sai, ti sta proprio bene questo cappellino! E anche il carrello delle scope ti dona, mette in risalto i tuoi occhi verdi. Dovresti seriamente considerare l’idea di fare carriera nell’eccitante mondo delle pulizie>> le disse sarcastico Cox, soffocando una risata alla vista della ragazza con quella terribile tutina azzurra, che doveva appartenere ad una donna con almeno 15 kg in più a lei.
<< Quanto sei simpatico, novellino. Almeno a me sta bene tutto, tu invece, anche con quel bel vestito addosso, sembri sempre il solito stronzo>> rispose piccata la donna, strappandogli di mano la tessera magnetica.
<< Ah, quanto mi era mancata la tua gentilezza nelle ultime due ore>> sussurrò roteando gli occhi all’indietro. << Cosa farai ora? >> chiese poi serio.
<< Credo che farò un altro giro di pulizie straordinarie nei bagni. Quelli della squadra speciale sono già sbarcati al porto di Tripoli, in una ventina di minuti dovrebbero essere qui. Quando sarà il momento, loro faranno irruzione e io approfitterò del trambusto per entrare nella zona riservata a recuperare la ragazzina>> spiegò con sicurezza.
<< Sempre se è davvero qui>> ribatté l’altro, dondolandosi sui piedi con la mani in tasca.
<< Beh, se non dovesse trovarsi qui, non solo avrei preso il più grosso granchio della mia carriera, ma avrei anche creato un piccolo incidente diplomatico tra la Confederazione e lo stato del Nord-Africa. Roba da niente, in pratica>> rispose l’altra ironica.
Cox sorrise, dopodiché, quando si accorse che l’allarme era stato disattivato, le disse: << Pare abbiano già scoperto che l’edificio non crollerà tra le fiamme dell’inferno. Devo scappare ora, ho un appuntamento con la signora Makhlouf tra due minuti e la bella segretaria si aspetta ancora di vedermi dopo la sigaretta. Ti raggiungerò appena la squadra speciale sarà entrata in scena>>. Fece un cenno di saluto con la mano, poi sparì di nuovo tra le vetrate buie dell’edificio anteriore.
Hadiya rientrò nel capannone trascinandosi dietro il suo ormai inseparabile carrello delle scope. Camminò a testa bassa lungo i rumorosi corridoi della fabbrica per non dare nell’occhio, sperando di raggiungere i bagni il prima possibile. Come spesso capita, però, la troppa prudenza può fare tanto male quanto l’imperizia: non avendo una buona visuale di ciò che aveva davanti, si scontrò violentemente con un operaio che trasportava dei barattoli difettosi verso l’area di smaltimento rifiuti. I barattoli caddero tutti rovinosamente a terra, alcuni di essi si aprirono e sporcarono il pavimento, scatenando le ire dell’uomo.
<< Che cazzo fai, ragazzina? Non guardi dove metti i piedi quando cammini, eh?>> urlò il tizio infuriato.
<< Mi dispiace, ha ragione>> mormorò la donna, mentre si affrettava a sistemare di nuovo i barattoli sul carrello portacasse, << la aiuto subito a raccoglierli>>.
<< Di cosa ti dispiace? Hai visto cosa hai combinato? Le mie scarpe sono da buttare ormai, guarda!>> fece quello a voce ancora più alta, indicando nervosamente le scarpe immerse nella vernice.
Il baccano aveva già attirato le attenzioni dei lavoratori della zona, che ora li fissavano divertiti. Il vecchio Alì, quello era il nome dell’operaio, era sempre stato estremamente irascibile, soprattutto quando gli si sporcavano i vestiti e, considerando che lavorava in una fabbrica di vernici, tanto bastava a capire il motivo del suo costante malumore.
<< La prego, la prego, abbassi la voce. Mi dispiace per le sue scarpe, adesso pulisco subito>> supplicò quella portandosi l’indice al naso. Ma l’uomo non sembrava sentire ragioni e continuava a sbraitare chiedendo chi gli avrebbe ripagato le sue dannatissime scarpe.
<< Gliele ripago io>> disse la ragazza rimettendosi in piedi e guardandolo negli occhi. Prese cinquanta dinari dal portafogli, poi si guardò intorno preoccupata: il gruppetto di spettatori non paganti stava crescendo. Doveva andarsene subito, prima che qualcuno si iniziasse a chiedere chi diavolo fosse.
Nelle risatine generali, riuscì a scorgere da lontano la figura di un uomo in giacca e cravatta, molto distinto, che stava camminando nella sua direzione. Un uomo dai capelli rossi.
Quando riuscì finalmente a capire di chi si trattava, era ormai troppo tardi. Si abbassò la visiera del cappellino sugli occhi, lasciò il denaro nelle mani di Alì e si incamminò a passo svelto verso la sezione di ricerca.
<< Capitano, capitano!>> sussurrò agitata nella trasmittente.
<< Siamo tutti in ascolto Pifferaio, parla pure>> rispose concitato Huber.
<< Huseynov è qui e penso mi abbia riconosciuta! Che devo fare? Avrà capito che abbiamo intenzione di fare un blitz, forse ucciderà la bimba prima di levare le tende!>> disse quella affrettando sempre di più il passo.
Si voltò di nuovo, vide che il rosso la stava seguendo ad una certa distanza, aguzzando lo sguardo per cercare di mettere a fuoco la sua figura esile avvolta nella tuta blu.
<< Cosa? Esci immediatamente da lì Pifferaio! Subito!>> le urlò il capitano dall’altra parte.
<< Ma capitano, se vado via ora la bambina sarà spacciata!>> lamentò quella, ormai arrivata alla soglia della porta col lucchetto, aperta poco prima. Con la coda dell’occhio, si girò di nuovo a guardare Huseynov, che adesso stava parlando concitato al telefono, senza mai levarle gli occhi di dosso.
<< Pifferaio, è il tuo superiore in comando che ti parla. Segui i miei ordini ed esci immediatamente da quel capannone>> la supplicò l’uomo disperato, cercando però di mettere un filo di autorità nelle sue parole.
La ragazza si morse l’interno delle guance. Guardò di nuovo Huseynov, che si stava avvicinando a lei camminando a passi lenti. Ripensò alla bambina chiusa in quella stanza buia da nove mesi e al suo sguardo spaventato e privo di speranze; non poteva lasciare che morisse, non in quell’orribile prigione lontana dalla sua famiglia. Senza pensarci due volte, varcò di nuovo la soglia del laboratorio di ricerca, interrompendo ogni comunicazione con la base.
“Tanto la squadra speciale sarà qui a minuti” pensò, mentre faceva scorrere la tessera magnetica lungo il sensore. Lucine verdi, due bip, la porta si aprì. Tirò fuori la pistola, cominciò a correre lungo delle scale che scendevano nel sottosuolo, strette e illuminate da una fioca luce al neon. Arrivò in una specie di androne, sulla cui sinistra c’era un uomo armato a sorvegliare una porta. Hadiya gli si avvicinò puntandogli contro la semi-automatica; cominciò una colluttazione da cui uscì vincitrice dopo pochi minuti. Si tolse di dosso il ridicolo cappellino e quell’ingombrante divisa blu, restando con indosso l’uniforme dell’Agenzia, fino ad allora nascosta sotto la tuta di almeno due taglie più grandi. Nell’avanzare in quei corridoi stretti, incontrò un altro scimmione armato. Evitò con una buona dose di fortuna la pallottola che il tipo le sparò contro, poi rispose al fuoco, ferendolo ad una gamba.
Si avvicinò all’uomo, ormai disteso a terra, sofferente, e lo tramortì usando il calcio della pistola, poi, con estrema cautela e sempre con l’arma puntata, entrò all’interno di un’altra stanza vuota, enorme, buia. Fu allora che la vide: Jala Essid, la bambina tanto ricercata, legata ad una sedia al centro esatto del seminterrato. Le andò immediatamente incontro chiamando il suo nome a gran voce, ma la ragazzina non rispose. Solo quando fu a pochi passi da lei si accorse che aveva perso i sensi; poggiò la pistola a terra e le diede qualche colpetto sulla faccia, cercando di risvegliarla, ma la bambina non si riprese.
<< L’ho trovata! L’ho trovata!>> urlò nella trasmittente mentre cercava di slegarla <<è priva di sensi ma è viva! Fate venire un’ambulanza!>>.
<< Sei un’incosciente, maledizione! Sai quanto sono pericolose le persone con cui stai avendo a che fare, eppure sei entrata lo stesso in quel buco! E hai anche interrotto la comunicazione! Dovrei licenziarti solo per questo!>> disse Huber con una rabbia nella voce che la donna non gli aveva mai sentito prima, << adesso cerca solo di venire fuori da lì, Anemone e la squadra speciale stanno venendo a darti una mano. Devi solo resistere per un altro paio di minuti… Per favore, Hadiya>>.
Quando finalmente riuscì a slegare la bambina, tentò di caricarla sulle spalle a mo’ di cavalluccio e portarla fuori di lì il più presto possibile. Prima che potesse portare il suo braccino sottile intorno al collo, sentì un rumore di passi provenire dall’ingresso del seminterrato. Prese di nuovo la pistola con una mano.
<< Se fossi in te, quella la lascerei lì dov’è>> le disse una voce maschile calma e posata, che rimbombava nel vuoto della stanza.
La donna trasalì. Quella voce terribilmente familiare la fece bloccare con le mani a mezz’aria, come paralizzata, permettendole solo di poggiare di nuovo la ragazzina a terra. Cercando di restare calma, si girò lentamente verso la porta.
Fu allora che lo vide. Il cuore le si fermò per un attimo, tutti i suoi peggiori incubi erano appena diventati realtà.
L’uomo le disse, puntandole una pistola contro: << Ciao Sofyane>>.

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Capitolo 21
*** Anime in bilico ***


21



Erano passati appena due giorni da quando la prova finale per l’ammissione alla squadra di ricognizione e bonifica si era conclusa e la sede del dipartimento si era ormai svuotata. Le matricole erano tornate nelle loro città d’origine per trascorrere le feste natalizie, seguite a ruota dai pezzi grossi del dipartimento. Sofyane era ancora bloccata all’ospedale convenzionato, costretta dai medici a restare a riposo per almeno un’altra giornata; avrebbe potuto lasciare l’ospedale solo il pomeriggio seguente, il giorno della vigilia. Benché non avesse riportato ferite gravi, ma solo una lussazione alla spalla, delle ecchimosi e diverse contusioni, aveva comunque ricevuto l’obbligo di restare a riposo assoluto fino a quando non si fosse completamente rimessa. Aveva anche pensato di andarsene prima, firmando il modulo per la dimissione contro il parere dei medici, ma a che scopo? Non aveva un posto dove andare, né qualcuno con cui trascorrere le feste. A quel punto, era meglio restare in ospedale e approfittarne per leggere un buon libro, tanto più che era anche riuscita, con molta fortuna e un po’ di incoscienza, a parlare brevemente con il sergente dal telefono pubblico del pronto soccorso, rassicurandolo sulle sue condizioni di salute e sull’esito della prova.
I compagni di squadra erano passati a trovarla subito dopo il ricovero, portandole dolci, cibo, libri e riviste, tutto l’occorrente per farla sentire meno sola durante la convalescenza. Poteva resistere un’altra notte.
Si respirava un’aria strana negli asettici e freddi corridoi dell’ospedale quella sera: fuori era già buio, le nubi scure minacciavano un’altra nevicata e il cortile era illuminato solo dalle fioche lucine colorate dell’albero di Natale spelacchiato. Il reparto era immerso in un inquietante silenzio, interrotto solo dalle sirene lontane delle ambulanze e dal cigolio delle porte aperte dagli infermieri che distribuivano la cena. Una folata di vento fece aprire la finestra, facendo entrare nella stanza degli spifferi gelidi. Sofyane la richiuse solo dopo aver respirato un po’ di aria fresca, gelandosi la punta del naso e le dita.
Si sentì improvvisamente stanca, così decise di rimettersi a letto, leggere un ultimo capitolo del libro che le aveva regalato Natasha e poi andare a dormire.
Prima che potesse arrivare all’ultima pagina, sentì qualcuno bussare alla sua porta. Ne rimase piuttosto sorpresa, non aspettava visite quella sera. Poggiò il libro sul comodino e si alzò per andare ad aprire, tenendo la mano allungata verso il cassetto del comodino in cui teneva la pistola. Si trovò davanti Lee col sopracciglio spaccato e un occhio nero, residui dell’incontro tenutosi pochi giorni prima. Era vestito con un semplice maglioncino blu col collo a V, da cui fuoriusciva il colletto di una camicia bianca, e un jeans stretto scuro. Sofyane non l’aveva mai visto vestito così casual.
<< Posso entrare?>> chiese l’uomo educatamente. La donna non rispose, indicò semplicemente la sedia accanto al tavolo con un cenno del capo, poi si andò a sedere sul suo letto, a braccia incrociate.
<< Allora… Come stai?>> chiese un po’ impacciato il funzionario, mettendo da parte ogni formalità.
<< Bene>> disse secca l’altra, restando con la testa abbassata, senza guardarlo negli occhi.
<< Mi spiace non essere passato prima, ma anche io ho avuto i miei problemi>>; si mise in piedi, alzò il maglioncino fin sotto alle ascelle e mostrò una ferita ricucita con dei punti all’altezza del torace. Sofyane gli diede un’occhiata fugace.
<< Mi dispiace>> mormorò, guardando fuori dalla finestra con aria impassibile.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, non sapendo bene cosa dirsi, poi Lee si fece coraggio e le chiese a bassa voce: << perché l’hai fatto?>>.
<< Cosa? Quel taglietto che hai sulla pancia? Beh, era quello lo scopo della prova, no?>> rispose la donna, cercando di non lasciar trasparire emozioni.
<< No, non quello. Cercare di farti ammazzare>> fece serio l’altro.
Sofyane restò in silenzio mordendosi nervosamente il labbro, poi si alzò dal letto e si andò a sciacquare il viso in bagno. Quando tornò, si affacciò alla finestra guardando attraverso la condensa che si era creata sul vetro.
<< Che sei venuto a fare?>> gli chiese tutt’ad un tratto, mantenendo la sua espressione distaccata e la voce piatta.
L’uomo si strinse una mano nell’altra, giocherellando nervosamente con le dita. << Non lo so, forse a scusarmi>> rispose.
<< Per cosa?>> la ragazza si girò verso di lui, guardandolo per la prima volta negli occhi, << per avermi mandato in ospedale o per avermi umiliata davanti a tutto il dipartimento?>>, chiese poi con un sorrisetto ironico stampato in faccia.
<< Allora è di questo che si tratta.>> l’uomo sorrise amaramente << Hai rischiato di farti ammazzare per una stupida ripicca?>>.
<< Chi lo sa, può darsi. Dopotutto, non sono altro che una ridicola bambina viziata, no?>> rispose lei con tono di sfida, alzando leggermente il tono.
<< Maledizione Sofyane!>> l’uomo sbatté il pugno sul tavolino di plastica, facendo tremare l’acqua nel bicchiere di vetro.
La ragazza gli si avvicinò mettendosi in piedi di fronte a lui. << Cosa c’è che non va, signore? Vuole una camomilla per caso?>> gli chiese, prima di scoppiare in una fragorosa risata. Stava cercando palesemente di provocarlo, guardandolo divertita con gli occhi sottili.
Lee si alzò in piedi con calma, poi la prese per il polso, come quando si erano parlati in palestra durante il primo giorno di addestramento.
<< Ti rendi conto del rischio che hai corso per una sciocchezza simile?>> urlò quello con occhi inferociti.
La donna si liberò dalla sua presa, poi gli urlò a sua volta: << Sì, me ne rendo conto! E la vuoi sapere un’altra cosa? E’ stata solo colpa tua>>.
Si stava comportando come una ragazzina, lo sapeva perfettamente, ma era più forte di lei: per quanto si sforzasse di restare tranquilla e indifferente, non riusciva a darsi un tono, non riusciva a smettere di gridare e a desiderare di dirgli tutto ciò che si teneva dentro da quando le aveva stretto forte la mano, quel giorno sotto alle macerie di Rakovnik.
<< Con quale diritto mi giudichi e mi dai dell’immatura? Vuoi forse dire che quella terribile scenata che hai fatto in mensa era il normale ammonimento di un superiore a una sottoposta?>> chiese la donna alzando sempre di più la voce, << la verità è che l’hai fatta con la precisa intenzione di umiliarmi, di ferirmi, di farmi del male. Sapevi che non sarei rimasta impassibile davanti ad un affronto del genere, sapevi che avresti sortito l’effetto esattamente opposto chiedendomi di starmene buona, eppure l’hai fatto lo stesso. Perché? Me lo spieghi?>>.
I loro visi erano ormai a pochi centimetri di distanza, Lee poteva sentire sulle proprie labbra il respiro caldo della ragazza, poteva leggere nei suoi occhi una rabbia e una ferocia che non aveva mai visto prima.
<< Sì, su una cosa hai ragione: volevo ferirti, volevo farti male, volevo che ti sentissi umiliata, schiacciata, mortificata, vinta. Volevo tutte queste cose orribili, è vero, ma non immaginavo che così facendo ti avrei spinta ancora di più nella tana del lupo. In verità, avrei fatto di tutto per impedirti di segnare il tuo nome su quel maledetto foglio, anche legarti ad una sedia se fosse stato necessario, e lo rifarei ancora, un milione di volte>> disse a voce alta il funzionario, stringendo forte i pugni per la rabbia.
La donna inarcò le sopracciglia e scosse la testa, come sorpresa da quella rivelazione.
<< Ma perché?>> disse agitando le mani incredula, passandosele tra i lunghi capelli castani << che diavolo te ne importava di me? Per quale motivo volevi impedirmi di partecipare alla sfida? Non volevi che diventassi capo squadra?>>.
<< Cosa vuoi che me ne importi se diventi capo squadra o meno? Hai una vaga idea di come mi sia sentito quando sono stato costretto pestarti a sangue, senza potermi rifiutare? Quando ti ho dovuto dare calci, pugni e bastonate? Sai quanto mi sia costato vederti cadere a terra sofferente e poi pronta a rialzarti ogni volta, senza mai arrenderti, quasi a dirmi che ne volevi di più, costringendomi a rifare tutto daccapo? Lo sai?>> rispose l’uomo, facendo uno sforzo sovraumano per non urlare e strattonarla forte.
<< Non mi pare che con Freeman ti sia posto lo stesso problema, eppure lui sì che rischiava di brutto contro di te>> replicò la ragazza, che ormai stava parlando a briglia sciolta, senza alcun imbarazzo o timore.
<< Allora? Mi dici cosa c’è di diverso in me? O meglio, sei tu che mi vedi in modo diverso?>>.
Lee non disse nulla. Rimase immobile, in piedi di fronte a lei, respirando profondamente e serrando la mascella, come a voler trattenere qualcosa che cercava di uscire a tutti i costi dalla sua bocca.
Davanti all’ennesimo silenzio, Sofyane fece un sorrisetto amaro, lasciando cadere le braccia verso il basso.
<< Figuriamoci>> mormorò. Si sentiva stremata, debole, nauseata. Voleva solo andarsene a casa, voleva che tutti i pensieri smettessero di fare rumore nella sua testa, che quell’uomo scomparisse per sempre dalla sua vita.
Aprì la porta della sua stanza, facendogli segno con la mano di andarsene.
<< Sono davvero molto stanca ora, se per piacere se ne vuole andare…>> disse dandogli di nuovo del lei, senza guardarlo negli occhi.
Lee fece cenno di sì col capo, poi tirò fuori una busta bianca dalla tasca del cappotto e la poggiò sul tavolino; uscì senza dire una parola. Sofyane gli chiuse la porta alle spalle, rimettendosi a letto.
Per un po’ finse di non essere interessata al pacchetto che l’uomo le aveva lasciato, ma non resistette a lungo; lo aprì dopo qualche minuto, dopo aver combattuto con tutta se stessa per restarsene lì dov’era, per non dargli anche quella soddisfazione. Dentro alla busta c’erano due biglietti per salire all’ultimo piano della Tower of lights, la notte della vigilia.
Rimase come intontita a guardarli per qualche minuto, poi prese il suo giubbino dalla cappelliera, si infilò le scarpe e corse giù per le scale. Sentiva un freddo cane, considerando anche che indossava solo il ridicolo camice che le avevano dato in ospedale e che non aveva avuto neanche il tempo di mettersi la sciarpa, ma la corsa a perdifiato riuscì a farla riscaldare un po’, giusto quel tanto che le permise di raggiungere il funzionario Lee nel cortile, che con le mani in tasca e il naso puntato in alto, camminava verso il parcheggio osservando il cielo stellato.
Lo fermò tirandolo per un braccio, poi riprese fiato piegandosi sulle ginocchia, tenendosi con la mano il fianco che le faceva ancora male.
Si rimise in piedi a fatica, poi gli chiese, sventolandogli i biglietti sotto al naso: << Che diavolo sono?>>.
L’uomo inarcò le sopracciglia, sorpreso dalla stupidità della domanda, << I biglietti per salire sulla Tower of lights domani sera, pensavo ci fosse scritto. Tu volevi andarci disperatamente, no?>>.
<< Sì, ma cosa significano? E con chi dovrei andarci? Sentiamo!>>.
<< Non lo so, con chi vuoi. Sono un regalo per Natale>> rispose l’uomo senza troppo imbarazzo, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.
<< Tu sei uno squilibrato!>> gridò la ragazza dandogli dei leggeri pugni sul torace, << un vero e proprio squilibrato lunatico! Prima fai il bastardo senza cuore, mi minacci già il primo giorno di addestramento, mi rimproveri duramente per la questione del pozzo radioattivo, mi tratti malissimo quando cerco di scusarmi, poi tutt’ad un tratto, senza alcun motivo apparente, diventi la persona più dolce e premurosa del mondo, mi aiuti a superare l’attacco di panico nella fogna, mi copri con i superiori, mi fasci con cura le ferite della mano; poi ti tramuti di nuovo in un mostro, ignorandomi per giorni e umiliandomi davanti a tutti i miei compagni. Ora ti presenti qui, mi vieni a trovare all’ospedale, in cui –per la cronaca- mi hai spedita tu, e mi dai questi stupidi biglietti per la torre, dicendomi che posso andarci con chi voglio! Io… io davvero non capisco! Che diavolo vuoi da me? Vuoi farmi impazzire per caso?>>.
Sofyane sentì gli occhi diventare umidi e le labbra tremare. Aveva tanta voglia di piangere, di dirgli che non ne poteva più di quella partita a scacchi senza fine che stavano portando avanti da settimane, che doveva essere chiaro con lei, una volta per tutte; ma non doveva piangere, doveva impedirlo a tutti i costi. Si strofinò gli occhi e ricacciò dentro le lacrime.
Restò ad osservarla in silenzio per qualche minuto, poi l’uomo scosse il capo abbozzando un sorriso divertito e disse sotto voce, guardando verso l’alto: << Oh Dio mio, perché sono finito in questo brutto guaio?>>.
Dal cielo stavano cominciando a venire giù i primi fiocchi di neve, che rendevano l’aria ancora più fredda e pungente. Tae Jun le cinse dolcemente la vita con il braccio, passando a ponte da una parte all’altra, poi la strinse forte a sé. Sofyane rimase immobile, in silenzio, sentendo il cuore battere all’impazzata, quasi temendo che a momenti le sarebbe uscito fuori dal petto. Lee la guardò ancora per qualche secondo dritto negli occhi, poi si abbassò nella sua direzione.
Le loro labbra si unirono dolcemente, quasi come fosse stato il vento a spingerle le une contro le altre, si cercarono, prima imbarazzate e prudenti, poi sempre più decise e incessanti. La ragazza gli strinse le braccia intorno alle spalle, poi si alzò sulle punte per stargli più vicino. Sentiva che aveva bisogno di lui come l’aria per respirare, che lo desiderava come l’acqua nel deserto, aveva la sensazione che se l’avesse lasciato andare ne sarebbe potuta morire.
Si guardarono a lungo negli occhi sorridendo, con la fronte dell’uno che toccava quella dell’altro. Sofyane si mosse piano in avanti, toccando inavvertitamente la ferita sul sopracciglio dell’asiatico.
<< Ahia! Fai piano!>> le disse il funzionario, ancora sofferente per quel colpo che le aveva assestato la donna appena due giorni prima.
Sofyane si coprì la bocca con la mano, nascondendo una risatina. << Scusa>> sussurrò dolcemente, carezzandogli i capelli.
<< Questa ti va bene come risposta?>> le chiese un po’ frastornato.
<< Appena sufficiente>> scherzò, facendo la finta sostenuta.
L’uomo le lanciò un’occhiataccia, poi si infilò le mani nel cappotto.
<< Che ne dici se ce ne andiamo da questo posto orribile, ora?>> chiese di nuovo Lee, guardando con sdegno il grigiore dell’ospedale.
<< Non posso. Mi dimetteranno solo domani pomeriggio>> mentì, aprendo poi il giubbino e mostrando all’uomo il camice dell’ospedale, come a ricordargli che non era lì per una visita di cortesia.
<< Ah>> fece un po’ deluso, << dunque fino a domani pomeriggio ti terranno prigioniera qui dentro?>>.
<< Sì, è così che funzionano gli ospedali, sono loro che decidono quando lasciarti andare>>.
<< Già, mi pare di averlo letto da qualche parte. Allora…>> disse imbarazzato Lee, guardando i biglietti che Sofyane teneva ancora stretti tra le mani << domani sera sei libera?>>.
<< E’ un invito ufficiale?>>.
L’uomo rispose di sì, con un filo di voce quasi impercettibile.
<< Allora accetto>>.

L’indomani, di buon mattino, Sofyane firmò il foglio della dimissione. Tornò al dipartimento per prendere le ultime cose che aveva lasciato in camera, poi si diresse verso la solita cabina di periferia per parlare con il sergente: gli spiegò con dovizia di particolari ciò che era successo durante la prova e gli diede maggiori informazioni sul suo stato di salute. Omise, per ovvi motivi, tutto ciò che era successo la sera precedente tra lei e il funzionario, non sapendo come sarebbero andate avanti le cose, né come avrebbe coniugato quella storia clandestina con la sua missione. Una cosa, però, la sapeva per certa: il suo lavoro era tutta la sua vita e, per quanto difficile, avrebbe sempre anteposto il bene della nazione ai suoi interessi personali.
Dopo aver concluso la telefonata, riformulando gli auguri di Natale a Huber e a tutto l’equipaggio, si sentì profondamente in colpa per aver taciuto quel segreto al capo, l’uomo che l’aveva cresciuta da quando i genitori, anch’essi agenti al servizio della confederazione, erano morti durante la guerra contro i fondamentalisti islamici, ma in quella circostanza non poté fare altrimenti. Se, a missione compiuta, lei e Lee fossero stati ancora legati, allora avrebbe non solo parlato dell’uomo al sergente, ma avrebbe anche confessato al giovane la sua vera identità. Aveva davanti un cammino non facile, ne era consapevole, ma per la prima volta nella sua vita si sentiva felice, banalmente ordinaria e non aveva nessuna intenzione di rinunciare a quella sensazione di normalità che le era sempre mancata.
Tornò in città, dove il sergente le aveva trovato un posto in cui stare, uno dei tanti appartamenti/nascondiglio di proprietà della Agenzia, e vi sistemò le sue valigie. Decise che, dopo aver visto il panorama e aspettato la mezzanotte alla Tower Of Lights, avrebbe detto a Lee che nei giorni seguenti sarebbe stata con la sua famiglia per le feste e poi avrebbe tagliato la corda, chiudendosi in un amaro silenzio stampa nel suo monolocale. Ce la poteva fare a reggere tutto quel gioco, doveva solo restare fredda e concentrata.
Alle 19 in punto, come d’accordo, si ritrovarono davanti all’entrata principale della Tower Of Lights, quella che immetteva direttamente sulla piazza centrale della città. Sofyane indossava un vestito di lana cotta bianco, che le arrivava qualche centimetro sopra le ginocchia, e degli stivaletti marroni, mentre Lee aveva scelto un jeans scuro e una camicia blu. Alla ragazza piaceva guardarlo vestito in quel modo così informale, lo rendeva più umano, più vicino. Rimasero per un po’ in silenzio senza sapere bene come salutarsi e cosa dirsi, era ancora tutto strano e nuovo per loro, ma ben presto riuscirono a superare l’imbarazzo e a discorrere del più e del meno. La fila per l’ingresso avanzò spedita, entrarono nel lunghissimo ascensore di vetro esterno insieme ad un gruppo di altre venti persone e, dopo un viaggio panoramico di dieci minuti, arrivarono in cima alla torre, dove furono perquisiti con attenzione.
La Tower of Lights era alta circa 560m ed era stata costruita nel giro di cinque anni sulle macerie di un vecchio grattacielo della capitale, andato distrutto durante uno dei tanti dei bombardamenti sulla città dei fondamentalisti religiosi. Era un moderno edificio costruito interamente con materiali ecosostenibili, acciaio e vetro, illuminato dal basso verso l’alto da una serie di luci bianche a basso consumo, che lo facevano risplendere anche a decine di chilometri di distanza. All’epoca della sua erezione fu definito un vero prodigio dell’ingegneria e della tecnologia, soprattutto considerando lo stato in cui versava l’Europa, da poco riunita sotto la Confederazione, dopo la guerra. La torre fu ben presto riconosciuta come il simbolo del nuovo mondo, quello che rinasceva più forte sulle macerie del vecchio, il simbolo della nuova unione tra stati, la fine delle violenze e delle guerre.
Dall’ultimo piano della torre, una specie di terrazzo all’aperto circondato da un parapetto di protezione di vetro, si godeva una vista spettacolare. Tutta la capitale, illuminata a festa, si stendeva sotto ai suoi piedi, continuando nelle buie colline a nord e nella vivace pianura a sud. Da lassù si potevano ancora vedere le acque del fiume, che, aizzate dal vento, sbattevano contro i pilastri dei ponti di pietra, a dividere in due la città, mentre la folla, riunita nella piazza centrale, dall’alto appariva come una macchia scura di formiche brulicanti che si muovevano in tutte le direzioni. La neve avrebbe cominciato a scendere di lì a poco e Sofyane si sporse un po’ dal parapetto per respirare a pieni polmoni quell’aria gelida e pulita, poi aprì le braccia, quasi a volersi librare in aria e spiccare il volo. Si girò verso Lee, che già da un po’ la stava guardando divertito.
<< Cosa c’è?>> chiese quella inarcando le sopracciglia.
L’altro disse serio, << sembra che tu non abbia mai visto una città dall’alto prima d’ora>>.
Sofyane rimase un attimo interdetta; come avrebbe potuto spiegargli che per tutta la sua vita, ogni volta che aveva dato un’occhiata all’esterno, tutto ciò che era riuscita a vedere era stata sempre e solo un’immensa distesa d’acqua?
<< Ho sempre vissuto al piano terra>> rispose ironica e, cercando di cambiare argomento, gli chiese: << tu invece, dove hai vissuto? Non so nulla di te e della tua infanzia>>.
L’uomo si irrigidì un poco, poi sospirò. << Non mi piace molto parlare di me>>, disse.
<< Sì, questo l’avevo notato>> lo stuzzicò lei, << ma mi piacerebbe davvero sapere qualcosa in più su Lee Tae Jun>>.
<< Non c’è molto da dire, in verità. I miei genitori sono originari della Corea, ed è lì che sono nato, ma ho praticamente sempre vissuto nella capitale, almeno fino alla laurea, quando poi ho fatto domanda per entrare nel dipartimento. Mi hanno assunto, spedito un po’ qui e lì per i successivi cinque anni ed ora eccomi qui, tornato al punto di partenza, intento a trascorrere la vigilia di Natale insieme ad una strana ragazza sulla cima di una torre. La storia della mia vita riassunta in meno di un minuto>> fece quello guardando l’orizzonte, dritto davanti a sé.
Sofyane avrebbe voluto fargli tantissime altre domande sulla sua vita, sulla sua famiglia, sulla sua infanzia, ma sapeva che, se gliele avesse poste, poi avrebbe dovuto rispondere a sua volta alle sue domande, quindi lasciò perdere e decise di farsi bastare quel poco che le aveva detto l’uomo. Il resto l’avrebbe scoperto col tempo.
<< Rientriamo?>> chiese il funzionario sfregandosi le mani, << fa un freddo polare quassù>>.
La donna annuì e lo accompagnò nella sala interna, non prima di aver dato un’ultima occhiata e fatto un’ultima foto a quel panorama mozzafiato.
Il resto della serata trascorse tranquillo. Cenarono in uno dei tanti ristoranti che si trovavano ai piani inferiori della torre, passando continuamente da momenti di spontaneo divertimento ad altri di imbarazzato silenzio.
Fu proprio durante quegli strani silenzi, nel rumore creato da tutte quelle parole non dette, che Sofyane capì che c’era qualcosa che li legava, come una sintonia che li faceva vibrare all’unisono. Sentì che quell’uomo la conosceva davvero, nonostante a conti fatti non sapesse nulla di lei, nemmeno il suo vero nome, che anche lui aveva qualcosa che lo tormentava, qualcosa di oscuro che gli divorava l’anima. Erano come due anime in bilico sull’orlo dello stesso precipizio, che lottavano contro la stessa forza invisibile che cercava in tutti i modi di farle andare giù, che avrebbero potuto restare in equilibrio solo se fossero rimaste immobili a sostenersi a vicenda… due anime a cui sarebbe bastato solo il soffio di un alito di vento per precipitare sul fondo del baratro e restarci per sempre.

Passata la mezzanotte, decisero di fare un altro giro in centro. Dopo aver camminato un po’ lungo la via dello shopping, Sofyane imboccò di punto in bianco un vicoletto buio alle spalle della torre.
<< Dove vai ora?>> le chiese Lee senza ottenere risposta, camminando a passo svelto per starle dietro. La donna gli rispose solo dopo qualche minuto, dopo essersi fermata davanti a quello che sembrava un comune distributore di portachiavi, uno di quelli da cui, inserendo la moneta e girando la manopola, usciva un bussolotto contenente una sorpresa.
<< Souvenir dal mondo!>> disse entusiasta la ragazza, che poi cominciò a cercare qualcosa nella borsa.
Lee lesse brevemente la lista delle sorprese disponibili riportata sulla macchinetta: << miniature della Tower of Lights, portachiavi della torre di Pisa, pupazzetti della Statua della Libertà… ma è pazzesco!>> disse quello storcendo il naso.
<< Lo so, è assurdo vero? Perché dovrei volere una calamita della Sagrada Familia se sono a migliaia di chilometri di distanza da Barcellona?>> domandò sorridendo l’altra.
<< Cosa ci facciamo qui, allora? E cos’è che cerchi?>>.
<< Una monetina per prendere un souvenir, mi sembra evidente>> rispose Sofyane, che poi continuò a cercare il minuscolo portamonete di stoffa nella borsetta di cuoio. << Hai per caso un euro?>> chiese dopo un po’, resasi conto di avere con sé solo banconote.
<< Cosa? Ma hai appena detto che…>> replicò strabuzzando gli occhi l’uomo, sconvolto dalla naturalezza con cui la ragazza dichiarava tutto e il contrario di tutto nell’arco di un paio minuti.
<< Oh lasciamo perdere>> disse poi allargando le braccia. Le porse una monetina da due euro; << non ho altro, mi spiace>>.
La donna inserì la monetina nel distributore e tirò fuori il bussolotto; aspettò per un po’ che la macchinetta le desse il resto, ma non venne fuori nulla.
<< Accidenti, mi sa che non da resto>> disse dispiaciuta al suo accompagnatore, che la stava osservando indispettito a braccia conserte.
Lee sospirò stringendosi il ponte del naso tra le dita, poi fece: << poco male, ne prenderò uno anche io>>.
Girò la manopola, prese il suo bussolotto, poi lo aprì. Sofyane fece lo stesso.
<< Cosa ti è uscito?>> chiese con un certo disappunto la ragazza.
<< Una medaglietta con la figura della Torre Eiffel*, mi pare>> disse quello, sforzandosi di mettere a fuoco il disegno impresso sulla placchetta di metallo.
<< Non ci posso credere, è uscita la stessa cosa anche a me!>> disse stupita, mostrandogli la sua sorpresa, minuscola nel palmo della mano. << E’ davvero brutta>> aggiunse poi la ragazza, osservandola meglio. << Vorrà dire che la terremo chiusa in un cassetto>>.
<< Vuoi tenerla? Io pensavo di buttarla>> disse seria, scuotendo il capo.
<< Beh, è pur sempre un ricordo di questa sera, no?>> il funzionario alzò gli occhi al cielo, imbarazzato per quanto stucchevoli gli fossero sembrate quelle parole una volta uscitegli dalla bocca.
<< Non la facevo così romantico signor Lee>> lo punzecchiò Sofyane, ammiccando con le sopracciglia alzate.
<< Smettila o giuro che la butto via!>> minacciò l’uomo, sventolando il souvenir sulla bocca di un cestino.
<< No! No! No!>> gridò lei, tirando a sé il braccio del funzionario <>. L’uomo sorrise soddisfatto, poi si rimise in tasca la medaglietta.
Tornarono sulla strada principale, Sofyane guardava interessata le vetrine dei negozi, indicando qui e lì cose che avrebbe voluto comprare. Approfittando di un momento di distrazione della donna, il funzionario le prese di nuovo la mano, stringendola nella sua. Sofyane arrossì vistosamente per quel gesto così semplice eppure per lei così significativo, lei che non aveva mai ricevuto un abbraccio, né una carezza, se non dal sergente Huber e dall’agente Nikolaidis in rarissime occasioni, come nel giorno della sua laurea. Strinse le sue dita intorno a quelle dell’altro, poi sorrise. Passarono il resto della notte così, mano nella mano, sorridenti, girovagando per le strade piene di vita della città che non dormiva mai.
Sofyane era felice come non lo era mai stata, ancora inconsapevole della vera e propria bufera che si sarebbe abbattuta su di loro.



*si rimanda al capitolo 6

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Capitolo 22
*** Promesse ***


22



Ci mise più di qualche secondo a riprendere fiato. Era a terra, piegata sulle ginocchia accanto alla bambina ancora incosciente e lo guardava dal basso verso l’alto, ancora incredula per quello che le stava accadendo. Era la stessa persona di allora, eppure era del tutto diversa. Era invecchiato, tremendamente. Dei fili grigi e bianchi brillavano tra i capelli pettinati all’indietro, le rughe si erano approfondite intorno agli occhi e sulla fronte, l’espressione era austera e inamovibile, il viso statico non lasciava trapelare alcuna emozione. I profondi occhi scuri, in cui la donna un tempo aveva visto tormento e sofferenza, ma anche arroganza e caparbietà, erano spenti e bui, come due vetri che chiudono una stanza vuota. Quando poi si mise in piedi, allontanandosi cautamente dalla sua pistola, notò quel marchio a fuoco impresso sul suo volto. La pelle, accartocciata e scura, veniva fuori dal colletto della camicia e si estendeva su quasi tutto l’orecchio destro e parte della guancia; anche la mano destra, che gli stava puntando la pistola contro, era stata inevitabilmente segnata dalle fiamme.
Hadiya scosse il capo cercando di cancellare l’immagine di quelle brutte ustioni dalla sua mente, poi lo sguardo si posò di nuovo sugli occhi freddi e bui dell’altro e sentì le gambe tremare, proprio come quando era ancora una ragazzina ingenua, troppo sprovveduta e irruenta per accorgersi di tutto il marcio che aveva intorno.
Pensò di non farcela a reggere quella situazione, pensò che avrebbe incasinato di nuovo tutto come aveva fatto molto tempo prima, pensò che non era forte abbastanza per respingere quella bufera che la stava spingendo oltre l’orlo del precipizio. Ma poi, tutt’ad un tratto, come mossa da una mano invisibile, si girò verso la parete in fondo, dove un vetro oscurato e riflettente divideva il seminterrato dalla stanzetta dove era stata tenuta prigioniera la piccola Jala.
Guardò con attenzione la sua figura riflessa nello specchio e vide i capelli cortissimi incorniciare a malapena la nuca, la placchetta metallica della Agenzia cadere sulla maglia bianca della divisa, i pantaloni larghi cingerle le cosce muscolose, i segni della stanchezza e delle notti insonni disegnarle delle violacee borse sotto agli occhi. Si passò la mano sul viso, sentendo delle piccole rughette solcarle il volto e il rasato dei capelli solleticarle dolcemente la mano; poi la passò sul petto, infilandola attraverso la scollatura della maglia a pochi millimetri dal cuore, percependo il rilievo indelebile che aveva lasciato una cicatrice. Strinse gli occhi fino a ridurli ad una fessura, stupita da ciò che aveva visto e toccato, come se fosse stata la prima volta che aveva guardato in faccia a sé stessa dopo molti anni.
Fu solo allora che capì: non era più quella ragazzina che piangeva e si disperava, quella a cui batteva forte il cuore e tremavano le gambe, quella che si emozionava per una stretta di mano o per la vista di un panorama notturno, quella che si era arresa senza neanche lottare, indirettamente responsabile della morte di migliaia di persone. Sofyane Bertrand era morta molto tempo prima, il giorno in cui il suo cuore le era stato strappato dal petto, fatto in milioni di pezzettini e poi restituito sanguinante e dolente. Lei era Hadiya De Wit e non esisteva cosa o persona al mondo che fosse in grado di farle perdere il controllo, nemmeno quell’uomo.
Si voltò di nuovo verso il suo interlocutore guardandolo fisso negli occhi, poi piegò leggermente il capo arricciando le labbra. Sorrise.
<< Pensavo fossi morto>> disse compiacente, incrociando le braccia e tenendo le gambe divaricate, ben salde sul pavimento.
<< Potrei dire lo stesso di te>> rispose asettico l’altro.
La donna allargò le braccia facendo qualche passo nella sua direzione, << beh, come puoi ben vedere sono viva e vegeta>>. L’uomo rimase immobile nella sua posizione, senza rispondere.
<< Cosa vogliamo fare ora, prendiamo un tè con dei pasticcini?>> disse l’agente con tono quasi canzonatorio, grattandosi la punta dell’orecchio. Riuscì miracolosamente a riattivare la trasmittente con cui comunicava con la base, sperando che riuscissero a sentirla, a capire che era in pericolo e a mandarle Cox in aiuto, ma l’oggettino sembrava non dare più segni di vita: forse non c’era campo lì sotto.
L’uomo rimase ancora una volta impassibile davanti alle provocazioni di Hadiya, cominciò a camminare a passi lenti verso di lei, facendola arretrare fino a portarla con le spalle al muro; a quel punto, senza scomodarsi troppo, la sollevò da terra prendendola per la maglia e la sbatté forte contro la parete retrostante. Con la mano libera le puntò la pistola alla tempia, poi assottigliò gli occhi, cominciando a guardarla con attenzione.
<< Non pensavo che ti avrei mai rivista, Sofyane>> fece tutt’ad un tratto il tizio con la pistola, che ora sembrava mosso da un pizzico di risentimento, << ero davvero convinto che quella notte di cinque anni fa sarebbe stata l’ultima volta in cui i nostri sguardi si sarebbero incrociati. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Avevi una pallottola conficcata nel cuore, eri priva di coscienza e sanguinante, non c’era nessuno che potesse aiutarti nel raggio di centinaia di metri. Eri certamente morta: non c’erano alternative, non per me>>.
L’uomo si fermò un attimo come a riflettere su ciò che stava per confessare, poi, digrignando i denti e allargando le narici, strinse ancora più forte la presa intorno al collo dell’agente, che emise un gemito soffocato.
<< Ma la sai una cosa?>> riprese con maggiore foga, << nonostante ne fossi pienamente convinto, nei gelidi e vuoti mesi che ho dovuto trascorrere in clandestinità, ferito, incapace di muovermi e privo di qualunque mezzo di sostentamento, nella mia mente continuavo a pensare in quali e quanti assurdi modi avresti potuto salvarti. Ho sperato con tutte le mie forze che quella notte non te ne fossi andata, che in qualche modo fosse accaduto un miracolo che ti avesse salvata dalle fiamme dell’inferno. Sembra una contraddizione vero? Del resto sono stato io a spararti quella notte, ma avevo davvero un buon motivo per sperare lo stesso di non averti uccisa, Sofyane. E sai qual è?>>.
La donna non rispose, fece solo un cenno di diniego col capo, spaventata dall’odio e la rabbia che le stava riversando addosso con il solo sguardo.
<< Perché la sola idea che non avrei potuto guardare la tua espressione mentre il tuo paese si sgretolava e le persone a cui tenevi morivano, mentre i tuoi sogni bruciavano e si disperdevano come cenere nel vento, la sola idea che avrei potuto rifare tutto da capo e riuscire nel mio intento, ma che tu non saresti stata lì per vederlo, che comunque saresti rimasta morta con la consapevolezza che il tuo piccolo e stupido mondo fosse rimasto in piedi, mi faceva venire una rabbia tale che avrei potuto impazzire. Sarei sceso fino agli inferi e ti avrei riportata indietro se solo avessi potuto. Ma no, non potevo farlo, non mi era concesso un tale onore. Ormai te eri andata e dovevo accettarlo. Così ho deciso di agire lo stesso e in qualche modo ho ricostruito il mio impero, in cinque lunghissimi anni, mettendolo di nuovo su, mattoncino dopo mattoncino, lavorando nell’ombra e lontano da occhi indiscreti, mentre il tuo maledetto paese, quella maledetta madrepatria per la cui sicurezza avevi donato la vita, si rimetteva in piedi più forte e dispotica di prima, tessendo la sua tela come un ragno, inglobando tutto e tutti con la sua infinita forza corruttrice >>.
Hadiya serrò forte le mascelle davanti a quelle parole, sentendo una moto di disgusto nascere dal profondo delle viscere. Erano a pochi centimetri di distanza, poteva guardarlo dritto negli occhi, poteva vedere le fossette che si creavano intorno alla bocca quando parlava, sentire il suo respiro posarsi sulle labbra, così come era avvenuto tante volte tanti anni prima, con la sola differenza che tutte quelle cose ora le davano nausea, al punto che avrebbe potuto vomitare da un momento all’altro.
<< Ma ora>> riprese l’uomo col suo tono freddo e impassibile, facendo un sorriso malinconico << ora che ti guardo dopo tutto questo tempo, ora che ti ho davvero davanti a me, viva e vegeta, come avevo sognato per mesi e mesi in quel triste esilio forzato, sai cosa provo?>>.
Ancora una volta la donna rimase in silenzio.
<< Nulla. Pura e semplice indifferenza. Non mi importa più nulla di te, Sofyane>>.
La rimise giù tenendola ancora attaccata al muro con la mano, con l’altra, invece, impugnò la pistola e senza alcun preavviso sparò un colpo in pieno addome alla bambina, ancora priva di sensi e accasciata a terra a poca distanza.
Rumore, eco, silenzio.
Hadiya sentì lo stomaco contorcersi e i polmoni lacerarsi, emanò un sospirò mozzato che si bloccò a metà strada come un pugno. Jala Essid era morta. Il nome della piccola si era aggiunto alla già lunghissima lista di persone che non era riuscita a salvare, di figli, amici, fratelli che si sarebbe portata sulla coscienza per il resto dei suoi giorni.
Ancora confusa e frastornata, si rese conto che l’uomo si era girato di nuovo verso di lei e le stava puntando la pistola alla tempia.
<< Arrenditi ora e ti prometto che la tua sarà una morte rapida e indolore, ragazzina>> bisbigliò con gli occhi socchiusi l’altro.
Lasciò cadere le braccia lungo il corpo: non le sarebbe importato nulla se fosse morta lì, in quel preciso istante, sotto le sue mani. Poi, d’improvviso, come il flashback di un film, le passarono davanti agli occhi i volti dei suoi genitori, quelli sorridenti di Mark e Natasha, l’espressione severa del capitano Huber e di Misha, quella imbarazzata di Cox, la mano tesa e sempre pronta ad aiutarla di Eeki. E le parve di rivedere anche il viso di tutte le persone che erano morte in quegli anni bui, le facce di migliaia e migliaia di sconosciuti che non aveva mai visto, ma che ormai era convinta di conoscere una per una. Guardò di nuovo negli occhi quell’uomo dall’espressione indifferente, quel mostro che non si era fatto scrupoli ad uccidere a sangue freddo una ragazzina e si chiese com’era stato possibile amarlo così disperatamente, al punto da sentire il fiato mancare quando lo vedeva ridere, il cuore battere anche quando la sfiorava con un dito, lo stomaco attorcigliarsi quando si accorgeva che la stava guardando da lontano, si chiese come avesse potuto farsi crollare il mondo addosso quando aveva scoperto chi era davvero, come avesse potuto permettergli di renderla a sua volta quel mostro in cui si era trasformata dopo la sua finta morte, come avesse potuto permettergli di portarsi il suo cuore e la sua anima con sé, nella tomba.
<< Addio Sofyane>> fece a quel punto l’altro, interrompendo il suo flusso di pensieri, mentre si preparava a premere il grilletto.
Ma lei non poteva arrendersi. Non ora, non così. Doveva lottare e liberarsi, lo doveva a tutte le persone che le volevano bene, a tutti quelli che sarebbe ancora morti se non avesse fermato quel pazzo. Così come aveva già fatto in precedenza, allora, Hadiya raccolse tutta la forza che le era rimasta in corpo e si liberò dalla stretta dell’uomo dandogli una forte testata in fronte, facendogli perdere per un attimo i sensi, poi disse con aria di sfida: << Preferisco morire tra le peggiori sofferenze del mondo piuttosto che arrendermi>>.
Gli tirò un pugno sullo zigomo, poi gli diede un calcio negli stinchi e ancora un altro nell’addome. Allontanò la sua pistola scaraventandola dall’altra parte del seminterrato con un calcio. L’uomo cercò di rispondere utilizzando la sua tecnica precisa e raffinata, ma Hadiya non gliene diede modo e prese a picchiarlo ancora più forte, ancora più duramente. Riconosceva di non essere più fine ed elegante come lo era un tempo, quando i suoi incontri assomigliavano più ad un passo a due che a una vera battaglia, ma tutti quegli anni di terribili allenamenti e missioni estreme sotto copertura, l’avevano resa molto più efficiente.
<< Devo dire che il suo stile è molto peggiorato Bertrand>> bofonchiò l’uomo sputando sangue, dopo essersi divincolato dalla sua stretta ed essere rimasto in ginocchio a poca distanza da lei <>. La caricò afferrandola per la gambe, poi la fece cadere a terra e sbattere la testa contro il pavimento. Hadiya si alzò immediatamente, gli diede un altro calcio facendolo cadere di schiena sul pavimento, poi si mise a cavalcioni su di lui, impedendogli di muoversi.
<< Probabilmente ha ragione, ma sa cosa le dico funzionario Lee?>> domandò la donna con aria di sfida, pulendosi il labbro pieno di sangue con il bordo della maglia, lasciandogli intravedere l’addome e la sua biancheria intima <>. Tirò fuori una piccola semi automatica da una tasca del pantalone e gliela punto contro, caricando il grilletto.
<< Tanto per cominciare, porto sempre con me due pistole>> disse, leccandosi il labbro con soddisfazione << in secondo luogo, per lei non mi chiamo più Sofyane Bertrand, ma Hadiya De Wit>>.
L’uomo accennò un sorriso alzando le mani, poi indicò l’ingresso del seminterrato con le sopracciglia. Hadiya rivolse lo sguardo nella direzione indicata dall’asiatico e vide uno squadrone di uomini, capitanato da Huseynov, correrle incontro, per poi prenderla per le braccia e scaraventarla contro il muro, liberando l’ex-funzionario dalla sua morsa letale.
<< Tutto perfetto, peccato si sia dimenticata che gioca in terreno nemico… signorina De Wit>> le disse ironicamente l’altro ponendo l’accento sul suo nome, mentre si puliva la giacca e il viso con un fazzoletto prestatogli dal rosso.
Hadiya si morse forte il labbro inferiore, fino a farsi uscire il sangue. Aveva perso troppo tempo in chiacchiere, troppo tempo a riflettere e a rimuginare sul suo passato, sui suoi sentimenti; se si fosse mossa prima, se non fosse stata così debole, probabilmente se la sarebbe cavata e sarebbe uscita da quell’edificio indenne insieme alla piccola Jala. Continuava a darsi della stupida per aver aspettato il momento meno adatto per farsi venire una crisi esistenziale, mentre cercava di divincolarsi dalla stretta degli scimmioni di Lee, che le impedivano anche di respirare.
<< Siamo pronti ad andare via signore, basta solo che dia l’ordine>> disse Huseynov al capo, facendo un gesto di riverenza. L’asiatico annuì e gli restituì il fazzoletto ormai sporco di sangue.
<< Cosa ne facciamo di lei, capo? La uccidiamo?>> chiese poi un uomo castano dall’aspetto anonimo, che entrò dall’ingresso principale con molta calma.
<< Passami la tua pistola, Nicholas>> rispose Lee, allungando la mano verso il sottoposto, che gli porse la sua calibro nove come se fosse un gioiello prezioso. L’uomo quindi si piegò sulle gambe, mettendosi di fronte ad Hadiya, tenuta ferma da due uomini con le mani dietro alla schiena, in ginocchio.
La ragazza chiuse forte gli occhi, sicura che sarebbe morta da lì a pochi secondi, cercando di figurarsi una scena felice da imprimere nella mente come ultimo ricordo, magari una giornata trascorsa al parco giochi con i suoi genitori o una delle chiacchierate notturne con Eeki, anche l’immagine di una riunione alla base con Huber e Nikolaidis le sarebbe andata bene; qualunque cosa, ma non il viso dell’uomo che odiava di più al mondo che le puntava contro, soddisfatto, una calibro nove.
<< Io mantengo sempre le mie promesse>> le disse l’ex funzionario a bassa voce.
Un attimo dopo, avvertì un dolore atroce alla tempia e il solletico del sangue che le colava lungo la guancia. Cominciò a vedere la stanza intorno girare vorticosamente, fino a diventare completamente nera e gli occhi di Lee, che la guardavano fisso, farsi sempre più piccoli, fino a scomparire nella totale oscurità.

Quando Cox e la squadra di agenti speciali finalmente riuscirono ad arrivare al seminterrato, i terroristi erano già spariti. Kieren si avvicinò al corpo della bambina, riversa in una pozza di sangue al centro della stanza, e le tastò il polso. Avvertito ancora un flebile battito, la fece portare via dall’ambulanza, che era stata chiamata in precedenza dagli operai, allertati dal rumore dello sparo, insieme alla polizia locale. Pregò con tutto se stesso che la ragazzina, per quanto esangue e priva di conoscenza, potesse in qualche modo salvarsi, uscire da quell’incubo e tornare finalmente a casa ad abbracciare la sua famiglia. Si guardò poi attorno con fare circospetto, cercando di capire dove potesse essere finita la collega. Era spaventato ed inquieto: ad ogni passo che faceva, ispezionando le stanze di quel seminterrato buio e insonorizzato, sentiva sempre di più crescere la paura di trovare qualche residuo biologico che potesse far temere per la vita della donna. Avanzava cauto tra gli androni vuoti, puntando la pistola contro un ipotetico nemico invisibile che ancora si poteva annidare fra quelle quattro mura, coadiuvato e coperto dagli agenti della squadra speciale. Nulla. Oltre al sangue della piccola e qualche altra macchiolina in giro, non trovò nulla: Hadiya era scomparsa e non aveva lasciato alcuna traccia dietro di sé, eccetto i resti di una sedia distrutta e qualche striscia sul pavimento, segni di una possibile colluttazione. Solo dopo aver fatto un altro giro e prestando maggiore attenzione ai dettagli, Cox ritrovò la trasmittente della collega, ormai rotta e calpestata.
<< Nulla da fare capitano>> comunicò una volta risalito in superficie al capitano Huber << nessuna traccia di De Wit. Anche la sua trasmittente è stata abbandonata e distrutta; non abbiamo alcuna pista da seguire>>. Dall’altra parte ci fu solo un mesto ed eloquente silenzio. La sala riunioni era diventata simile ad un cimitero.
<< Cosa faccio ora?>> mormorò quasi sul punto di piangere Cox, che per la rabbia diede un calcio forte ad una lattina, che si andò a conficcare nella portiera di un’auto dell’Agenzia.
Ormai la fabbrica era stata evacuata dalla polizia e dagli agenti dei servizi segreti africani, il cortile era stato invaso dai fuoristrada neri dell’intelligence della confederazione e dagli uomini della scientifica, che, con le loro valigette bianche, erano pronti a passare al setaccio l’edificio.
<< Torna a casa Cox>> sentì la voce del generale Marchand attraverso la trasmittente, << sei troppo sconvolto ora per poter fare qualcosa di utile>>.
<< Non posso andarmene ora, maledizione! Non posso generale!>> gridò ancora una volta, in preda alla disperazione, << organizzate dei posti di blocco, ordinate alle teste di cuoio di sfondare le porte di tutte le case del circondario, chiudete l’aeroporto, la stazione ferroviaria, il molo… fate qualcosa per l’amor di Dio!>>.
<< Certo Cox, certo che lo faremo, cercheremo in ogni fosso, ogni pozzo, ogni maledetto angolo di quella città. Se la ragazza è ancora viva, allora…>> Marchand non ebbe tempo di finire la frase, interrotto dalla voce rabbiosa del suo pupillo.
<< Certo che è viva! E’ viva! Dovete cercare un essere umano dannazione, non un cadavere!>>.
Il capitano Huber prese dalle mani del generale il microfono, poi disse con voce calma e allo stesso tempo autoritaria: << ascoltami bene Cox. So quanto sei sconvolto ora, lo siamo tutti. Ma Hadiya era… è un’agente dell’Agenzia da più di quindici anni, sapeva benissimo a quali rischi andava incontro infilandosi in quel seminterrato da sola, senza copertura, e sapeva benissimo che non avremmo potuto organizzare un’estesa caccia all’uomo così su due piedi, per di più in terra straniera…>>
Il capitano Huber si interruppe per un attimo; sentì la gola bruciare per le parole ciniche e distaccate che erano uscite dalla sua bocca, per aver parlato di colei che considerava una vera e propria figlia come di una qualunque altra persona scomparsa, una delle tante il cui fascicolo arrivava sulla sua scrivania un giorno sì e l’altro no. Era distrutto per quanto era successo; si sentiva impotente ed arrabbiato, colpevole di non aver capito, o meglio, di aver deliberatamente ignorato tutti gli indizi che dimostravano quanto fosse grave la situazione, quanto tutto ciò che stava accadendo negli ultimi mesi in Africa fosse collegato con quella terribile storia di diversi anni prima e quali pesanti implicazioni questo avesse per la sua agente prediletta, la donna che aveva giurato di proteggere con la sua vita. Ma sapeva anche che quello era il suo lavoro: doveva essere razionale e ponderato, non poteva lasciarsi sopraffare dai sentimenti se voleva sperare di salvarla.
Riprese a parlare nel microfono, dopo aver bevuto un sorso d’acqua: << Te lo giuro sul mio onore e sulla promessa che ho fatto venticinque anni fa ai suoi genitori: la cercheremo con tutte le nostre risorse e tutti i nostri mezzi, la cercheremo fino in capo al mondo se dovesse essere necessario e la troveremo, viva e pronta a tornare a casa; ma lo faremo con raziocinio e cognizione di causa. Ora smettila di dare di matto e torna immediatamente alla base con l’agente Nikolaidis. Siete stanchi, avete lavorato troppo e abbiamo bisogno di entrambi al massimo del vostro potenziale per trovare l’agente De Wit>>.
Cox scosse il capo, ancora incerto e deluso per la freddezza mostrata dai suoi colleghi, poi sentì la mano forte di Misha dargli una pacca sulla spalla. Kieren si voltò nella sua direzione e vide per la prima volta gli occhi del greco arrossati, lucidi di pianto, sconvolti. Capì che nessuno più di Huber, Nikolaidis ed Eeki -che si immaginava in profonda pena, rannicchiata e muta, là, nel suo angolino buio della sala riunioni- volesse ritrovare Hadiya e riportarla a casa sana e salva, nemmeno lui. Seguì le istruzioni del capitano, uscì dal cancello principale della fabbrica, entrò nell’auto insieme al collega greco e si diresse verso il porto, pronto a prendere la prima nave diretta alla base sottomarina dell’Agenzia, che si aggirava inquieta tra le acque del Mediterraneo.



*FINE PRIMA PARTE*

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