Planet Hell - Il Pianeta Inferno

di GothicGaia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - il messaggio ***
Capitolo 2: *** Il consiglio delle Tre Nazioni unite ***
Capitolo 3: *** La Simulazione ***
Capitolo 4: *** 10 Anni Dopo ***
Capitolo 5: *** 4 Risveglio ***



Capitolo 1
*** Prologo - il messaggio ***


Prologo

 
La giovane donna correva con il respiro affannato, non osando neanche pensare di fermarsi, per riprendere fiato. Il suo inseguitore non si sarebbe fermato, e lei non gli avrebbe concesso un vantaggio. Con tutta la velocità che il suo corpo le permise di correre, continuò a muoversi rapidamente, tra le grigie pareti della caverna rocciosa, avvolta dalle tenebre.
Respirava a fatica. La ferita le doleva. Lo squarcio che si apriva sul fianco destro, vicinissimo al ventre, le bruciava come se la bestia stessa che l’aveva colpita, la stesse divorando.  Usciva sangue. Tanto sangue. Con una mano premuta sul profondo taglio, tentava invano di fermarlo. Le sue dita ne erano completamente intrise, mentre un grosso grumo stava formando una crosta sugli indumenti che le aderivano appiccicosi addosso. Nella mano destra invece, reggeva un apparecchio tecnologico, da cui non si sarebbe separata neanche a costo della su stessa vita: un trasmettitore. Da quell’oggetto dipendeva il destino del suo mondo. La Terra. Chi la inseguiva non ne era interessato. Voleva solo lei. Voleva solo la sua carne. Il suo sangue. Forse l’avrebbe uccisa, ma lei non gliela avrebbe data vinta così facilmente. Non gli avrebbe permesso di ucciderla. Non prima di aver portato a termine il suo compito. Ansimando tra le gallerie buie, scavate nella roccia corrosa, dalle acque del mare, continuò la sua corsa, e fuga. Si fermò per un solo istante, senza respirare, o emettere fiato.
Silenzio.
Il suo inseguitore non conosceva movimento che potesse provocare alcun tipo di rumore, in grado di rivelare il suo arrivo. Era come un fantasma. Solo che non era un fantasma. Era reale. Riprendendo a correre, la donna s’infilò in uno stretto cunicolo che s’allargava verso l’alto, mentre una serie di rocce appuntite pendevano dalla volta della caverna. La galleria dalle pareti perfettamente circolari, continuava la sua strada in salita, sempre più in alto, rendendo la sua corsa ancora più faticosa. Ma non le importava. Continuò a procedere al buio, finché non inciampò in un masso spigoloso, che le trafisse una caviglia, scorticandole la pelle. Istintivamente sollevò il braccio, con cui reggeva il trasmettitore, e stendendo il gomito in avanti, lo protesse dalla caduta. Facendo forza sulla mano appiccicosa di sangue si  sollevò sulle ginocchia e si rimise immediatamente in piedi, riprendendo a correre. Il buio totale le impediva di vedere, e ad ogni movimento le veniva la tentazione di fermarsi, per portare lo sguardo verso il basso, nel tentativo di scorgere un qualsiasi segno di vita, da parte del trasmettitore. La salita si fece più ripida, a dopo pochi istanti, alla sua destra, cominciò a intravedere un bagliore luminoso, che rifletteva una luce grigia, sulla parete rocciosa. La creatura era vicinissima. Lo percepiva. La paura glielo diceva. Presto l’avrebbe presa. Con il cuore che le martellava nel petto, si diresse verso quei raggi, in direzione della luce, a seguendo il corso serpeggiante del cunicolo, intravide in lontananza un’uscita, che si apriva circolare nella parete. La luce abbagliante che la riempiva, impediva di vedere qualunque cosa ci fosse oltre. Con un senso di entusiasmo si mise a correre ancora più veloce di prima. Ancora più determinata a raggiungere la meta. L’uscita divenne sempre più gande, man mano che si avvicinava. Il lungo tempo che aveva trascorso nell’oscurità gli impediva di guardarla, e dovette attendere un po’ per abituarcisi. Una volta raggiunto l’ingresso del cunicolo, fu investita da una raffica di vento, talmente potente che la fece oscillare sulle sue stesse gambe, costringendola a piantare saldamente i talloni al suolo, per non essere gettata a terra. Stringendo il trasmettitore con entrambe le mani, osservò il paesaggio che la circondava, mentre il vento le scompigliava i capelli scuri lasciando che alcune sottilissime ciocche le ondeggiassero sul viso.
Il sole di quel mondo brillava di una luce bianca. Pallida e fredda, come quella di un ricordo sbiadito, lasciando che il cielo in basso all’orizzonte apparisse quasi nero, mentre dense nuvole grigie si ammassavano come le creste d’un’onda oceanica.
Lì nulla era come sulla Terra.
“E qui che morirò?” si chiese la giovane donna, che osservò le onde infrangersi sulla scogliera alta, con tanta violenza che alcuni frammenti di roccia si sgretolarono, disperdendosi nella spuma increspata.
Alla sua destra un sentiero serpeggiava lungo la costa, conducendo su un’alta roccia, che formava una lunga scala scavata nella pietra. Quella scala raggiungeva un isola, circondata da quelle onde, dove sorgeva un tempio antico, dalle alte colonne per metà distrutte e consumante, di una civiltà perduta, morta con la sua storia ormai da millenni. Correndo in direzione del sentiero ansimando, raggiunse la scalinata in pietra. Stringendo il trasmettitore che mai come in quel momento, le era parso un oggetto morto privo di qualsiasi vita deglutì, osservando l’enorme precipizio che si apriva nello strapiombo, sotto la scalinata. Era un altezza superiore ai venti metri, e le onde che superavano i primi dieci, si schiantavano con tale violenza da schizzare perfino lei e le scale.
Cominciando a salire le scale con lentezza sollevando un piede alla volta, mentre piccole gocce d’acqua salata le bagnavano le caviglie ferite, procurandole un bruciore tremendo. In cima alla scala torreggiavano due antiche statue risalenti a un epoca sconosciuta, dalla civiltà aliena che le aveva costruite. I loro corpi dalle pance gonfie, erano piegati sulle ginocchia, mentre i loro volti dalle labbra eccessivamente carnose, aperte per mostrare i denti appuntiti, erano un ghigno malevolo, quasi demoniaco.
Raggiunse la cima della scalinata con il vento che le fischiava nelle orecchie, e attraversando un lungo ponte che sorgeva anche esso su un alto strapiombo, si introdusse nelle rovine del tempio.
Correndo tra una moltitudine di colonne spezzate e capitelli infranti al suolo, raggiunse l’ampio piazzale che sorgeva nel centro: un enorme cortile di pietra, dalla planimetria ovale. Scendendo un paio di gradini arrivò fino al centro e si gettò al suolo con le lacrime agli occhi.
Poggiò l’apparecchio e tentò di attivarlo.
“Avanti! Avanti!” implorò, non smettendo di guardare il piccolo vetro della luce che avrebbe dovuto captare il segnale.
“Avanti! Ti prego!” implorò ancora. Nulla. Il trasmettitore, che aveva protetto con la sua stessa vita, era inerme. Freddo, come un cadavere in decomposizione, che non si ha il coraggio di seppellire.
Il suo inseguitore stava arrivando. L’avrebbe trovata. Il sangue delle sue ferite bagnò la pietra grigia su cui era inginocchiata.
“Dannazione!” La donna si portò le mani al viso in un gesto disperato.
Era finita. Era morta, insieme alle sue speranze che aveva riposto in quell’antico luogo, e in quell’oggetto così piccolo, che mai più avrebbe preso vita, troppo lontano dal luogo in cui era stato creato. Troppo lontano dalla Terra.
La donna scoprendosi il viso per portare la mano alla ferita sanguinante, pensò che sarebbe morta lì su quel pianeta, dove il girono era grigio anche quando il cielo era scoperto. Dove le onde erano troppo grandi per poter farsi i bagni, come nelle splendide estati calde sulla Terra. Dove il vento era talmente forte da trascinarti via. Dove un enorme luna invadeva l’orizzonte anche di girono, così vicina che superava la grandezza di un monte. Ora sorgeva poco distante dalla superficie del mare, nero di tenebre, come un enorme sfera che dava un senso d’oppressione a chiunque la guardasse.  Come se potesse collassare sul pianeta da un momento all’altro.
E pensò se ne valesse la pena. Valeva la pena portare l’umanità lì, in quell’incubo? Quel pianeta rappresentava davvero una speranza di salvezza per l’umanità? Valeva la pena portare l’umanità in un luogo dove non si sarebbe mai sentito a casa, come un tempo s’era sentito sulla Terra, prima che finisse l’acqua?
Prima che smettesse di piovere. Prima che gli animali e le piante corressero il rischio d’estinguersi.
Il mare non era azzurro come sulla Terra. Era nero, e profondo, come l’inchiostro. Il sole non era doro. Era bianco. Quel sole non era caldo come quello che risplendeva sulla bellissima Terra. Le montagne, erano tutte così alte, che ognuna di loro era perennemente ricoperta di ghiaccio, sulla cima. Ma soprattutto le creature che dimoravano su quel pianeta, rappresentavano un pericolo per l’umanità.
Con la mente piena di dubbi, resa folle dalla solitudine e dai pericoli che aveva affrontato in quegli ultimi mesi, la donna gettò un ultima occhiata all’trasmettitore, che per un attimo lampeggiò con la sua luce rossa.
La guardò senza neanche rendersi conto di quello che aveva appena visto. Solo a un secondo guizzo di luce, le sue palpebre si spalancarono. Ma poi non accadde più nulla. Era stata solo un illusione. Una illusione della sua folle disperazione.
Era impazzita. Ne era convinta.
Il trasmettitore si accese, brillando.
La donna si rese conto solo allora di avercela fatta. In quel momento tutti i suoi dubbi scomparvero dalla sua mente. C’era una speranza di salvare l’umanità! Lei avrebbe dato una speranza all’umanità di salvarsi!
Con le lacrime agli occhi, armeggiò con il trasmettitore in modo da aumentare le frequenze.
“Mi sentite?” gridò con tutta la voce che aveva in gola. “Mi sentite? Sono Kate Nolan! Ripeto! Sono Kate Nolan, l’assistente del Dottor James York! Sono viva, anche se non per molto! Sono atterrata insieme al resto dell’equipaggio della Dedalo, quattro anni fa, sul pianeta Neo Terra! Vi sto inviando questo messaggio per riferirvi che il pianeta Neo Terra è abitabile! Ripeto il pianeta Neo Terra è abitabile! Anche se è molto pericoloso! Non è come la Terra! Qui la tecnologia non funziona! Abbiamo provato a scoprirne la causa, ma non ci siamo riusciti! Resta un mistero! Questo è uno dei motivi per cui la Dedalo ha perso completamente funzione nel momento in cui ha attraversato la atmosfera della Neo Terra! Il sole fa dei giri più lunghi, le ore sono maggiori, e come anche le stagioni. In quattro anni ho visto solo due inverni, tanto freddi che uno di questi ha ucciso la metà di noi. Ma non è stato solo il freddo ad ucciderci! Molti di noi sono morti contraendo malattie che sulla Terra non conoscevamo. Altri sono morti mangiando bacche e frutti velenosi. Ma soprattutto sono stati uccisi da bestie selvagge. Bestie dalle fattezze simile a quelle dell’uomo che si cibano di carne viva. Sono sopravvissuta al pianeta Neo Terra, finora. Ma è un pianeta pericoloso! Affermo senza mezzitermini che il pianeta è pericoloso, e se vi sto inviando questo messaggio e per dirvi che dovete assolutamente cambiare il programma inziale e il progetto di James York, morto divorato da un demone a cui non è stato attribuito alcun nome! Per salvarsi su questo pianeta non occorrono degli architetti in grado di costruire grandi città come quelle della Terra! Né politici in grado di istaurare un governo! Occorrono persone in grado di adattarsi a una natura ostile che cercherà di respingerle! Se volete preparare i vostri figli a un nuovo futuro, insegnategli a vivere senza l’uso della tecnologia! Insegnategli ad andare a caccia! Insegnategli ad accendere il fuoco! Insegnatile a trovare l’acqua! Insegnategli a costruire con il legno e la pietra! Insegnategli a combattere con le lame! Se davvero volete offrigli una possibilità di salvarsi preparateli ad affrontare questo realtà! La verità è che questo pianeta è l’Inferno!”
Kate chiuse il trasmettitore. L’unico luogo dove la strumentazione era in grado di funzionare era lì in quel tempio.
Un luogo morto come lo sarebbe stata lei molto presto.
Il suo inseguitore l’aveva raggiunta.
Kate si voltò e pur essendo consapevole che nessuno l’avrebbe sentita, né salvata, non poté fare a meno di lanciare un grido, tirando fuori tutto quello che si prova in punto di morte.

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Capitolo 2
*** Il consiglio delle Tre Nazioni unite ***


1

 
15 Dicembre 2599 - Consiglio delle Tre Nazioni Unite.
 
La Presidentessa delle Nazioni Unite, Mary Alanis, guardò con aria entusiasta gli uomini seduti insieme a lei, al grande tavolo di vetro rotondo.
“Mai avrei sperato in una notizia come questa!” disse la presidentessa, intrecciando le dita. “In quattro anni avevamo temuto che non ci fosse più nulla della Dedalo, e ora sappiamo che sono sopravvissuti per tutto questo tempo!”
“Si! Ma come avrete notato, dalle notizie della signorina Nolan il pianeta, se pur abitabile, è molto pericoloso!” disse il consigliere del Secondo Stato, un uomo anziano, dai corti capelli bianchi e il naso adunco, che non mancava mai di ribattere ogni sua parole, in sede di consiglio.
“Ha anche specificato che stava per morire!” accennò il segretario del consigliere, un uomo dalla folta barba grigia e la testa calva.
“E in oltre a quanto pare non c’è modo di avere contatti, a causa del malfunzionamento dei dispostivi tecnologici!” aggiunse il consigliere del Primo Stato.
Ci fu un lungo silenzio dopo quell’affermazione. La presidentessa delle Nazioni Unite guardò uno ad uno gli uomini seduti al tavolo rotondo. I tre consiglieri, e i loro segretari erano gli uomini più importanti del mondo. Al momento il destino dell’umanità dipendeva non solo da lei, ma anche da loro. Per quello che ne restava dell’umanità. Ormai erano sei mesi, che non pioveva una goccia d’acqua. In ottant’anni il clima sulla Terra era radicalmente cambiato. Inizialmente il caldo era sopportabile, ma era peggiorato, man mano aumentando. Con l’aumento del caldo, i ghiacciai s’erano sciolti, più in fretta del previsto, fino a sommergere la maggior parte della superfice della crosta Terrestre. L’Europa, l’Asia e l’Africa erano state letteralmente inghiottite dal mare. Non esistevano più. Sole le cime dei vulcani più alti, che sorgevano come isole, erano l’unica traccia del passato. Lo stesso era accaduto anche in Australia, in Cina in Giappone, e negli Stati Uniti. Ora restava solo in piccolo brandello, di quelli che un tempo venivano chiamati Stati Uniti, ribattezzati con il nome di Nazioni Unite. Lì sopravviveva ciò che restava dell’umanità. Un decimo di quello che era un tempo. Molti s’erano salvati, radunandosi lì, al centro, e ora vivevano tutti mescolati negli unici tre stati rimasti, che venivano chiamati: Primo Stato, Secondo Stato e Terzo Stato.
“Dunque non vedo alcuna buona notizia!” concluse il consigliere del Secondo Stato, con tono pessimistico. “Il pianeta è pericoloso! Un inferno, come lo ha descritto lei! Io non intendo mandare i mei figli a rischiare la vita in un luogo ostile!”
Erano proprio quello che la Presidentessa si aspettava di sentire. Tirando le labbra in un sorriso appoggiò i gomiti sul tavolo. “E’ proprio per questo che ho deciso di finanziare un grande progetto!” attese alcuni istanti, osservando le loro facce sorprese, che le stavano chiaramente dicendo di continuare il suo discorso. “Non saranno i nostri figli a lasciare la Terra!”
A quelle parole la maggior parte dei presenti mormorarono per alcuni secondi.
“cosa intende dire Presidentessa?”
“Le risorse di cibo e acqua non dureranno all’infinito, ma se ci sbarazzassimo di una parte della popolazione, forse vivremmo abbastanza da vedere i nostri figli e in nostri nipoti, crescere qui a Central City! Loro infatti non lasceranno la Terra! Saranno le persone meno illustri e adagiate, ad andare sulla Neo Terra!”
“Siete la Presidentessa delle Nazioni Unite, e volete mandare il vostro popolo a morire?” Domandò il Consigliere del Secondo Stato.
“Moriranno comunque, Consigliere Charlton! Non c’è acqua per tutti! La rivolta che è in atto, contro di noi, ci ha fatto perdere molti bravi uomini, negli ultimi anni! I civili sono pronti ad ucciderci, pur di ottenere le nostre riserve d’acqua! Ma a lungo andare finirà anche per loro, che tra l’altro sono molti più di noi! Io intendo offrirgli la possibilità di provare ad adattarsi su un nuovo pianeta! Sarà anche un luogo pericoloso, ma lì c’è l’acqua, e il cibo! Impareranno a riconoscere cosa mangiare e cosa no, e alla fine si adegueranno! Mentre i nostri figli vivranno una vita tranquilla e in pace, qui sulla Terra, senza esser a rischio di morte, da parte dei ribelli che tentano di sopravvivere con le loro riserve, che noi stiamo cercando di conservare per loro!”
A quelle ultime parole tutti i presenti annuirono in segno d’assenso.
“Mi sembra l’idea migliore! Se non prendessimo l’idea in considerazione, l’acqua non basterà per tutti! Se li mandiamo lì, forse potremmo concedergli una possibilità di salvarsi!” concluse li Consigliere del Primo Stato, favoreggiando il suo punto di vista.
“Ma come faremo? Se consideriamo anche che una volta giunta lì non potrà più ripartire, è impossibile farle ritornare indietro sulla Terra, per prelevare altre persone! E non abbiamo un astronave abbastanza grande da contenere tutti!” Disse il segretario del Secondo Stato, favoreggiando il suo superiore.
“Ed è per questo che selezioneremo dei giovani adatti, che verranno qui a Central City per addestrarsi e imparare a sopravvivere! Non saranno moltissimi, pochi eletti! Ma ovviamente dovremmo sbarazzarci anche della maggior parte della popolazione, per questo abbiamo deciso di far costruire delle astronavi speciali, che una volta giunte in vista della Neo Terra, sganceranno delle capsule con a bordo i passeggeri, senza dover atterrare, e torneranno indietro a raccoglierne altri! Così toglieremo la maggior parte dei ribelli di mezzo!” disse lei.
“Allora a che scopo scegliere dei giovani da portare qui a Central City, per essere addestrati, se volete mandare tutti la gente possibile sulla Neo Terra?”
“Come avete detto voi Consigliere, io sono la Presidentessa! Essi saranno il futuro dell’umanità! Loro impareranno, e quando arriveranno sulla Neo Terra, saranno in grado di sopravvivere e aiutare maggiormente chi è già lì. In tanto chi si trova già lì avrà l’opportunità di fare maggiori esperienze dei luoghi, e potrà indirizzare meglio, chi è appena arrivato, e più forte nell’affrontare i percoli!”
“Far si che la popolazione si aiuti a vicenda!”
“Esatto!” rispose la Presidentessa.
“Ma come faremo a convincere la gente a salire a bordo di una nave che li porterà sulla Neo Terra, sapendo che è pericolosa? La gente è ignorante, ma non così stupida da credere che per quattro anni l’equipaggio della Dedalo non si sia fatto vivo solo perché si stava divertendo su un pianeta meraviglioso! Saranno scettici!”
“Proprio per questo ho in mente un piano!” disse la Presidentessa “Finora ci siamo sempre dimostrati ostili, verso la nostra gente che si sta a mio pare, ‘giustamente’ ribellando! Non abbiamo fatto altro che mandargli contro eserciti e soldati pronti a schiacciarli! Ma questa volta, sarà diverso! Gli offriremo dell’acqua, in delle piccole taniche!”
“Ma così consumeremo le nostre scorte!” osservò il consigliere del Secondo Stato.
“Solo in una minima parte! Perché le taniche verranno riempite d’acqua solo pochi millilitri l’una. Il resto della tanica verrà riempito di un gas stordente, che gli farà perdere i sensi non appena apriranno il tappo!”
“Si ma sicuramente molti la scamperanno, e andranno a raccontarlo in giro, che è tutto un trucco!”
“Signor Consigliere!” lo richiamò la Presidentessa trattenendosi a stento dal ridere “Voi dimenticate che il nostro popolo sta morendo senza l’acqua! Voi non lo sapete, perché non avete mai sofferto la fame e la sete, ma un uomo è pronto a rischiare la vita, pur di prendersi un sorso d’acqua che gli permetta di vivere anche un solo giorno di più!”
“Dunque attirerete la gente in un luogo specifico dove poi potrete prelevarla?” Domandò il consigliere del Primo Stato.
“Si! Vedo che voi siate l’unico a capirmi Consigliere Grey! Manderemo degli aerei in una zona aperta, lontana da Central City, ovviamente! In modo tale, che anche per loro sia più facile arrivarci! Molti si uccideranno, pur di averle, e in questo modo si elimineranno tra loro!”
“Ma come fate ad essere così sicura che apriranno le taniche al momento, e non attenderanno di arrivare in luogo lontano, per poter aprire i tappi e lasciare fuoriuscire il gas, senza che loro lo respirino?” domandò ancora scettico, il consigliere del Secondo Stato.
“Ovviamente ho pensato anche a una simile probabilità! Perciò quando le persone saranno radunate tutte in un punto, arriveranno i soldati con i carri, a circondarli e gli elicotteri dall’alto! Inoltre una volta aperta la tanica, in gas impregnerà anche l’acqua! In un modo o nell’altro verranno storditi e accerchiati! Non tutti saranno così forti da resistere per fuggire con le taniche chiuse, vorranno bere all’istante, e in tal modo, stordiranno chi cercherà di fuggire! Il tempo di lottare per chi dovrà prendersi le taniche, darà al nostro esercito il tempo di accerchiarli!”
“Voi siete una mente geniale presidentessa!” esclamò il consigliere del Primo Stato.
“E con questi giovani selezionati?” domandò il consigliere del Secondo Stato, che non mancò anche questa volta di dimostrarsi scettico. “Come intendete sceglierle, e addestrarli?”
“Gli faremo fare una serie di prove e di test, per verificare se sono adatti! Ma tra questi giovani, a cui noi daremo il nome di ‘Scelti’ ne formeremo un corpo speciale, che verranno indirizzati esclusivamente all’uso delle armi! La maggior parte verranno selezionati, per diventare, medici, in grado di curare malattie e ferite, altri verranno indirizzati all’agricoltura! Altri ancora impareranno a costruire case, barche, e carri! Mentre altri ancora, su cui dovremo investire un somma maggiore verranno addestrati a combattere, per difendere la popolazione non ché il genere umano, dai pericoli e le minacce della Neo Terra, che la signorina Nolan ha definito come ‘Demoni’. Essi verranno chiamati ‘I Vigilanti’ e avranno il compito di proteggere l’umanità! Per questo verranno sottoposti a un duro addestramento, rigidamente superiore a quello degli altri!” in fine Mary posò la mano dalle unghie smaltate di rosso, sulla spalla dell’uomo che le sedeva affianco. “Ed è per questo che ho deciso di approvare il progetto del Dottor Snake!”
L’uomo che fino a quel momento aveva seguito la conversazione dei politici in solenne silenzio si alzò in piedi e mostrò dei documenti.
Mary aveva notato che la maggior parte dei Consiglieri e dei Segretari avevano lanciato più d’un’occhiata al dottor Snake, ma nessuno di loro aveva posto alcuna domanda sul motivo della sua presenza.
“Per questo, ho dato il consenso al Dottor Snake d’introdurre la sostanza Amethyst, da lui scoperta di recente, al interno del sangue dei giovani che verranno addestrati a diventare Vigilanti!” disse lei.
“Abbiamo sentito parlare di tali esprimenti!” affermò il Consigliere del Secondo Stato. “e a quanto ne sappiamo molti sono morti!”
“E vero!” affermò lo scienziato prendendo la parola per la prima volta, sistemandosi la montatura degli occhiali verdi. “fra atroci sofferenze!” continuò “ma l’abbiamo perfezionata! Non nego che rischieremo di farne morire altri! Ma ora sono certo che i più forti sopravvivranno! I maschi reagiscono maglio all’effetto! Sulle femmine è più pesante! Ma alcune di loro resistono! Una di queste è il soggetto 13-94. Inoltre trai maschi sopravvissuti abbiamo 13-87 e il 13-88 che si sono rivelati molto forti. Saranno loro ad addestrare i giovani Vigilanti all’uso delle armi e alla sopravvivenza sulla Neo Terra, e come lo chiamo io il Pianeta Inferno!” l’uomo fece una lieve ghigno, in fine, quasi lo divertisse lo scetticismo dei presenti.
“Inoltre!” riprese la parola la Presidentessa “Affiderò a Hector Russell il compito di trovare questi giovani adatti per l’addestramento!” L’uomo che sedeva accanto al Dottor Snake, si alzò dalla sedia e fece un lieve soluto con un cenno del capo. Era un uomo alto, a imponente, con le spalle larghe, i capelli neri, pettinati all’indietro che lasciavano i mostri i lineamenti duri del suo volto, e un paio di occhi azzurro ghiaccio, che avevano la capacità di congelare psicologicamente chiunque lo guardasse.
“Sono molto onorato di ricevere tale incarico!” disse “Spero d’esserne all’altezza!”
“Ma voi non comandavate le truppe contro i ribelli?” domandò il consigliere del Secondo Stato.
“Infatti per questo mi è stato affidato tale compito! Preleverò i giovani sia tra i ribelli, sia tra i concittadini più pacifici, che preferiscono morire di fame, piuttosto che attaccare il loro governo!”
“Non l’ho scelto solo perché è un uomo in gamba!” disse la Presidentessa “Il Comandante Russell sa come e quando utilizzare la forza! E in questo caso sarò necessaria la forza, per separare i figli dai loro genitori! Inoltre…” fece una lieve pausa, poiché le ultime parole sarebbero state quelle che avrebbero colpito maggiormente gli uomini presenti  “Voglio che egli uccida le loro famiglie!”
Gli uomini la guardarono pallidissimi in volto.
“Presidentessa ma perché?” domandò il consigliere del Primo Stato, in tono preoccupato.
“Se i giovani sapessero che i loro genitori sono vivi, non vorranno mai lasciare la Terra. In un caso o nell’altro la lascerebbero comunque, ma il loro cuore continuerebbe a pulsare su questo pianeta, nella speranza di rivedere le loro famiglie! Se invece sapessero di non avere più una famiglia, avranno meno rimpianti, nel lasciare il nostro mondo!”
“Ma non potremmo mandare le loro famiglie sulle navi insieme ai ribelli!”
“la maggior parte di loro sono ribelli consigliere! Alcuni sicuramente li manderemo! Ma non possiamo mandarli tutti! Il pianeta è destinato ai giovani! E i giovani che non potranno permettersi il lusso di rivedere i loro genitori sul nuovo pianeta, è meglio che si abituino all’idea che sulla Terra non c’è più nulla per loro!”
Con quelle ultime parole, la Presidentessa concluse il Consiglio delle Tre Nazioni.  
I presenti si alzarono tutti, consapevoli che la conversazione fosse conclusa, tranne Hector Russell, che attese che tutti fossero andati, via. Mary si alzò dal suo seggio e raggiungendo la parete di vetro da cui era visibile l’intera Central City osservò il traffico di auto volanti, e di moto razzi, che invadevano le alte strade sospese nel cielo, passare sotto i ponti e in mezzo ai grattacieli.
Guardò la propria immagine riflessa nel vetro. I capelli biondi che le arrivavano alle spalle, si posavano delicatamente sulla giacca blu, intonata alla gonna che le arrivava alle ginocchia. Era dimagrita negli ultimi tempi.
“Non vi deluderò presidentessa! È una promessa!” disse l’uomo dagli occhi freddi come il ghiaccio, appoggiandogli una mano sulla spalla.
“Come farete a sbarazzarvi delle loro famiglie?”
“Mi servirò di un uomo speciale! Uno a cui il dottor Snake ha iniettato una sostanza su cui sta lavorando da poco, che gli farò dimenticare ogni cosa! Perfino il suo nome!”
“Se è delle sostanze del Dottor Snake che stiamo parlando allora sono sicura che non mi deluderà!” disse Mary con la consapevolezza che stava per mandare l’umanità all’Inferno.
 

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Capitolo 3
*** La Simulazione ***


3

La Simulazione

 
L’uomo e la ragazza stesi su due piccole brande, uno affianco all’altro, apparivano ingannevolmente supini all’interno della capanna di canne. Il silenzio era assoluto, e il buio quasi totale. Poco e niente filtrava tra una canna e l’altra. I due combattenti attendevano con pazienza il momento per agire. Erano rilassati, ma pronti.
“Cosa credi che accadrà quando sarò pronta?” domandò Demetra stringendo la spada nella mano destra.
“Quando sarai pronta saprai cosa fare, e non avrai più bisogno di me. Ora dormi, che ci aspetta una dura lotta stanotte!” gli rispose Owen. L’uomo richiuse gli occhi addormentandosi all’istante. Una capacità unicamente sua. Demetra non sarebbe riuscita ad addormentarsi tanto facilmente, quanto il suo maestro. Era troppo ansiosa per la simulazione che l’attendeva. Era almeno la millesima a cui veniva sottoposta, ma come ogni volta, le dava ansia. L’idea che quel silenzio innaturale sarebbe stato interrotto da un momento all’altro non le faceva venire voglia di prendere sonno. Eppure c’era abituata. Aveva dieci anni, e si allenava da metà della sua vita. Il corpo sottile e snello era veloce e scattante, essendo stato trattato per quel genere di vita. Una vita che non veniva sottoposta a tutti i bambini. Dura, a cui molti non avrebbero resistito nemmeno un giorno. Ma Demetra era stata geneticamente modificata, e per questo ormai il mondo e la vita quotidiana dell’resto dell’umanità non avevano più niente a che fare con lei. Un rombo e una vibrazione nell’aria avvolse la capanna. Il maestro aprì gli occhi.
“Ora!” gridò. Demetra scattò in piedi all’istante e con tutto il peso del proprio corpo buttò giù la parete di canne, mentre il tetto di paglia  veniva sfondato sopra le loro teste. Demetra corse a prendi fiato, in mezzo alle piante alte, che le arrivavano alla vita. Un gigantesco Robot d’acciaio si erigeva alto sopra la piccola costruzione artificiale in cui era rinchiusa un attimo prima. Nel percepire la sua fuga, il robot alzò la testa metallica per guardarla con due occhi rossi abbaglianti.
“Demetra sconfiggilo!” gridò il suo maestro che uscì dalla capanna in gran fretta, andando a ripararsi dietro un grande albero. Demetra impugnò la spada con entrambe le mani, e guardò il suo nemico. Il robot alzò un braccio, che finiva con un lungo mitra. Demetra si lanciò alla carica verso di lui. Il robot cominciò a sparare a raffica verso di lei. Ma Demetra riuscì a schivare ogni colpo evitando perfino che la sfiorasse. Corse e in pochi istanti lo raggiunse. Quando gli fu sotto, si diede una lieve spinta con le gambe, e si lanciò in aria, sollevandosi a quattro metri da terra. Una cosa che a un qualsiasi ragazzino della sua età sarebbe risultato impossibile. Strinse la spada con entrambe le mani e  rovesciò la punta verso il basso, mentre il robot lentamente puntava il mitra in alto verso di lei. Troppo lentamente. Demetra scese rapidamente e atterrò con i piedi sulle spalle metalliche del suo nemico. Con tutta la forza che aveva in corpo affondò la sua spada nella testa del robot, sfondando il metallo duro. Gli occhi rossi lampeggiarono, e una scarica elettrica salì lungo il filo della lama e invase il suo corpicino. Demetra gridò, mentre le scariche elettriche si muovevano come fulmini, lungo il corpo del robot. Stava per esplodere.
“Demetra salta giù!” gridò Owen
Troppo tardi. Il robot esplose. Demetra saltò in aria a una ventina di metri di distanza, finendo a faccia in già sul terreno, priva di sensi. L’aria vibrò e un ondata esplosiva si propagò in tutta la stanza delle simulazioni. Quell’esplosione non l’avrebbe uccisa, ma ci sarebbero voluti almeno tre giorni prima che riprendesse conoscenza. La simulazione era finita. E quella era solo una delle tante dure prove che l’attendevano. Il maestro non si sconfortò dell’episodio fallimentare. 

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Capitolo 4
*** 10 Anni Dopo ***


NOTA Le vicende scritte in corsivo sono pezzi frammentati del passato dei personaggi, che si svilupperanno insieme alla trama e al loro presente. La storia inizia con Demetra che ormai è già una Vigilante, ma insieme alle insidie che dovrà affrontare sul pianeta Neo Gea, (Si ho cambiato il nome del pianeta! Ho pensato che Neo Terra era toppo simile a Terra, quindi ho optato per Neo Gea!) verrà rivelato anche il suo passato, attraverso i suoi sogni, che da quando gli è stato iniettato l’Amethyst sono molto più vividi.

3

10 Anni Dopo

 
“Sai perché ti ho chiamato così Demetra?” le domandò suo padre.
“Perché Demetra era la dea del grano, come quello che coltiviamo noi!” rispose la bambina.
“Non solo del grano, ma anche della vita! Il grano rappresenta la vita, e la vita è la cosa più importante che esiste! L’uomo ha fatto progressi che nemmeno poteva immaginare da quando i Greci hanno raffigurato la dea del grano. Ma non sarà mai in grado, con le sue invenzioni e le sue tecnologie di eguagliare la cosa più preziosa di tutte! La vita! La vita è il valore più grande di tutti Demetra, non dimenticarlo mai! E senza il grano con cui fare il pane, non c’è vita! Si può vivere senza tecnologia, ma non si può vivere, senza il pane per mangiare. E senza il grano è impossibile fare il pane!”
Suo padre era un uomo bellissimo, almeno per lei. Aveva dei lunghi capelli castano scuro, che portava sempre raccolti in una treccia che scendeva lungo la schiena.
“E per questo che mi hai chiamato Demetra?” domandò la bambina “Io sono la cosa più importante di tutte?”
“Si Demetra!” Rispose suo padre “Tu per me sei la cosa più importante di tutte! Più importante della mia stessa vita!”
“E io padre?” domandò sua sorella minore, seduta accanto a lei “Non sono importante anch’io?”
“Certo Persefone!” rispose il padre “Anche tu sei importante!”
“In che modo sono importante io papà?”
“Tu sei importante perché hai dato a Demetra un motivo per cui lottare! Demetra fu disposta a scendere negli inferi e affrontare l’ira di Ade, pur di riprendersi Persefone!”
“Ma perché lo fece?”
“Perché senza di lei non era in grado di fare il grano! Perché la dea a cui teneva più di qualunque altra cosa non sarebbe stata accanto a lei, se non avesse corso il rischio di riprendersela!”
“Ancora con questa storia?” domandò la madre entrando in salotto per sedersi accanto al marito. “Tuo padre ti avrà raccontato almeno dieci volte il motivo per cui ti ha chiamato Demetra!” Era una donna meravigliosa, con uno sguardo luminoso, e un sorriso che la faceva sembrare un angelo. Anche lei portava i lunghi capelli neri legati in una treccia, mentre lacune ciocche le sfuggivano sulle tempie, incorniciando il suo viso.
“Quando mi insegnerai a fare il grano, papà?” domandò Demetra.
“Anche adesso se vuoi! Dai! Prendi i capelli di tua sorella!”
Demetra prese delicatamente alcune ciocche dei lunghi capelli corvini di Persefone, attendendo che il padre continuasse a spiegarle come fare.
“Ora dividi la sua chioma in tre parti, e comincia a intrecciarle!” Demetra cominciò a intrecciare le ciocche avendo capito esattamente cosa fare. Aveva visto spesso suo padre farsi la treccia. Era il rituale del mattino, dopo la sveglia, prima di andare a lavorare nei campi, dove passava praticamente tutta la giornata, e tornava a casa solo la sera, stremato di fatica. Demetra lo fermava speso prima di uscire, con la sua manina piccola, implorandolo di fare una treccia ai suoi lunghi capelli castani, che altrimenti avrebbe tagliato con piacere. Era l’unico momento che poteva esigere con lui. L’unico modo per scambiarsi del affetto.
Con un ultimo movimento finì d’intrecciare i capelli a sua sorella. Persefone voltandosi la guardò con i suoi incantevoli occhi viola. Demetra aveva sempre invidiato sua sorella per quel piccolo particolare che la rendeva speciale. Era una bambina bellissima. Sembrava Biancaneve. La pelle candida, i capelli neri, le labbra carnose, e gli occhi di quell’intenso viola malava.
Lei invece aveva gli occhi azzurri, come quelli di suo padre, e i capelli castano scuro, con un ciuffo ribelle che scendeva al lato del viso.
“Ora tocca a me fare il grano sorellina!” disse Persefone prendendo i suoi capelli.
 
Demetra si svegliò spalancando gli occhi. Si trovava in una angusta stanza buia, dalle pareti di cemento scuro, con una piccola porta di metallo al centro. Tutto intorno a lei, le pareti e il terreno, tremavano violentemente. Si alzò al istante, tentando di mantenere l’equilibrio, e corse di scatto verso la porta di metallo. Non c’erano maniglie, ne serrature, e con tutto che si getto su di essa, scaricando il proprio peso, non cedette. Bloccata. Il tremore della terra che la circondava cominciava ad aumentare, e una pietra cadde dal soffitto a poco meno di due centimetri da lei. Demetra si guardò addosso in cerca di qualcosa per farla esplodere. Frugando nella cintura trovò un piccolo tubetto di metallo. Lo aveva usato già altre volte durante le simulazioni. Aprì il tappo e spremette la densa crema ai piedi della porta. Corse dal lato opposto e piegandosi su un ginocchio, si appoggiò con una mano alla parete, e una altra per coprire il naso e la bocca. Poi si mise a contare.
Uno…
Due…
Tre!
La porta esplose. Demetra si lanciò con un salto in avanti, superando la soglia devastata dall’esplosione, e si chinò, pronta a fare una serie di capriole. Rotolo velocemente sul terreno ricoperto d’erba, mettendo una buona distanza con la piccola catapecchia in cui era rinchiusa, un attimo prima. Si rialzò in piedi sguainando la sua spada. Sollevando il tasto sull’elsa, attivò la funzione rovente, e un attimo dopo la lama divenne rossa come una lama incandescente di una fucina.
Davanti a lei un’orrida creatura, interamente fatta di matallo, emergeva dal suolo allungandosi verso l’alto, superando i cinque metri d’altezza. L’aveva già affrontata durante altre simulazioni. Una specie di verme gigantesco con una serie di tentacoli d’acciaio, sulla cima della testa, che si allungavano tutto intorno, sopra una decina di occhi rotondi, che lampeggiavano di una luce rossa. Tra i tentacoli di quella creatura orrenda tanto potente da far tramare la terra, si dimenava un ragazzo che doveva avere all’incirca la sua età, alto, dal fisico prestante, di chi come lei si allenava da anni a quel genere di vita. Demetra non aveva mai fatto una simulazione con altre persone, oltre al suo maestro. Allora capì. Le era stato detto che nelle ultime simulazioni avrebbe collaborato con un altro Vigilante. Questo significava che presto avrebbero affrontato la prova finale, e poi sarebbero partiti per la Neo-Gea. Senza esitare si lanciò in una corsa sfrenata e raggiunse il verme mostruoso. Con tutta l’energia che aveva in corpo si diede la spinta con le gambe e si lanciò in aria, superando il terreno di parecchi metri. Raggiunse l’altezza dei tentacoli, e con un gesto agile e veloce della sua arma letale tagliò di netto il tentacolo del mostro, che stringeva il ragazzo. Il tentacolo si staccò con una serie di scintille elettriche che schizzarono un po’ ovunque. Demetra atterrò abilmente sulle punte dei piedi, e il palmo della mano sinistra, mentre il ragazzo cadde disteso a terra. Un tentacolo d’acciaio si abbassò verso di lei e la colpì come una frusta, lasciando un taglio netto sul braccio, che prese a sanguinare. Demetra si scansò saltando a destra e rotolando. Il suo nuovo compagni di simulazione non appena si fu liberato del tentacolo mozzato si rimise in piedi all’istante. Demetra si sollevò facendo forza su braccia e gambe. Il ragazzo indossava una tuta rossa e nera, con le maniche che gli arrivavano ai gomiti, un paio di guanti neri a mezze dita, degli stivali neri, che gli arrivavano fino alle ginocchia, e una cintura in vita, da cui pendevano due coltelli lunghi e una spada simile alla sua, con la V dei Vigilanti incastonata sull’elsa.
Anche lei indossava gli stessi indumenti. Era la divisa dei Vigilante.
“Presto filiamocela da qui!” disse lui, senza aggiungere altro. Demetra si mise a correre, standogli dietro, cosa che si rese subito conto, non gli risultava affatto difficile. Il mostruoso verme strisciava veloce come un treno, alle loro spalle, allungando i tentacoli verso il basso, tentando di acchiapparli.
Si trovavano in un labirinto di siepi finte, dove i sentieri finivano in molti punti cechi.
“Non c’era bisogno che intervenissi!” disse lui in tono seccato, non smettendo di correre “Stavo per ucciderlo!”
“Oh, si! Ho visto infatti! Anche se a me sembrava fosse il contrario!” commentò lei di rimando sovrastando l’assordante ruggito del verme.
“Stai un po’ zitta, e vedi di fare quello per cui ti hanno addestrato! Scommetto che sei più mediocre di quanto sembri!”
Un lungo tentacolo si abbassò sfiorando le loro teste. Demetra si voltò di scatto, fermando la sua corsa, e sfoderando la pistola sparò tre colpi, al centro della testa del verme gigante. Il verme cadde sul terreno inerme.
A quel punto Demetra puntò la pistola contro la tempia del giovane al suo fianco. “Prova ancora a chiamarmi mediocre e giuro che ti faccio saltare quel cervello malfunzionante che ti ritrovi nella testa!”
“D’accordo! Ho capito sei bravissima! Non c’è bisogno di farmi saltare il cervello, per dimostrarlo!”
Senza dire altro ripresero a correre e superarono una stretta strada che si apriva davanti a una grade radura, dove tutto intorno era ricoperto di alberi e vegetazione, che sorgevano tra un sentiero e l’altro, dell’intrico di strade.
I due si lanciarono entrambi delle occhiate interrogative, chiedendosi cosa gli riservasse la simulazione. Solitamente bastava colpire un nemico, e subito dopo ne arrivava un altro.
“Siete stati selezionati per il prossimo imbarco!” disse una voce elettronica attraverso i microfoni sparsi all’interno della camera delle simulazioni. “D’ora in poi vi eserciterete insieme, fino alla prova finale, prima di salire a bordo dell’Astronave che salperà sulla Neo-Gea! Buon lavoro!”
Demetra guardandosi intorno osservò la falsa foresta in cui si trovavano. Molto probabilmente avrebbero dovuto svolgere una parte pratica, come trovare degli archi e frecce con cui andare a caccia, accendere un fuoco e costruirsi un rifugio.  
“E’ la prima volta che faccio la simulazione con qualcuno!” disse Demetra. “Questo significa che andremo lì insieme!”
“Avrei preferito che ci fosse un altro ragazzo ad accompagnarmi, invece di una femmina!”
Demetra si voltò verso di lui, lanciandogli un occhiataccia. “Se hai intenzione di farti odiare ci stai riuscendo proprio bene! Forse non l’hai notato ma io non sono una ragazza come le altre! Anche a me è stato somministrato l’Amethyst, per questo sono più forte di una persona normale! Più veloce! Più scattante! E anche più aggressiva se qualcuno mi fa incazzare! Inoltre…”
“Si ho capito! Come me, vedi al buio, non ti ammali facilmente, resiti sott’acqua più a lungo, eccetera! Lo so, quali sono gli effetti, del Amethyst non c’è bisogno che me lo ripeti anche tu! Lo fa già il mio maestro ogni fottutissimo giorno della mia vita!”
“Chi è il tuo maestro?” Chiese Demetra, quasi sperando che si trattasse di Owen.
“ Gregory!” rispose lui. “E adesso diamoci da fare! Credo che dobbiamo trovare i membri dell’equipaggio e delle casse con cui montare l’accampamento!”
“Si! Giusto!” annuì lei.
*
Demetra passò parecchie ore a girare e rigirare tra la vegetazione artificiale. I membri dell’equipaggio erano tutti Androidi dalle sembianze umane. Anche se in superficie erano rivestiti di un materiale simile alla pelle umana, all’interno i loro scheletri erano interamente fatti di metallo. Demetra lo sapeva perché più di una volta aveva trovato i loro corpi artificiali all’interno della stanza delle simulazioni, mentre si esercitava con Owen. Lui dopo aver radunato tutti gli Androidi, ne aveva preso alcuni da parte e con la spada rovente li aveva staccato gli arti, mostrandogli com’erano fatti i loro corpi all’interno. Demetra la prima volta era rimasta scioccata, poiché aveva veramente creduto che si trattasse di veri esseri umani. Ma poi a furia di esercitarsi aveva fatto parecchie esperienze e si era anche resa conto che più di uno ripeteva spesso le stesse frasi.
Continuando ad esplorare la vegetazione radunò più Androidi possibile. Molti si trovava imprigionati trai rovi, con i vestiti laceri, mentre gridavano il suo aiuto. Altri invece spesso si trovavano imprigionati tra le fiamme. Quelle genere di simulazioni servivano nell’eventualità che l’astronave atterrasse sulla Neo Gea in modo così disastroso da fare un incidente.
Demetra uscì da un boschetto e raggiunse la riva di un lago. Al centro dell’acqua galleggia a testa in giù un corpo inerme. Togliendosi la cintura con i pugnali e le pistole si immerse nell’acqua. Prendendo a nuotare raggiunse il corpo inerme dell’androide e sollevandolo sotto le braccia lo trascinò fino a riva. Era un uomo alto, dalla corporatura robusta, con indosso un paio di Jeans e una canotta grigia. Una volta giunta a riva, lo depositò sul erba, e sollevando lo sguardo verso il cielo finto, osservò i numeri in rosso sullo sfondo azzurro che segnalavano i membri dell’equipaggio che ancora non erano sati ritrovati. Ne mancava ancora uno.
Dirigendosi verso la radura centrale, rincontrò Derek. “Hai trovato l’ultimo membro?” le domandò lui.
Lei scosse il capo in senso di diniego.
“Dividiamoci! Tu vai a nord io vado a sud!”
Demetra annui e voltandosi si rimise in cercare l’ultimo membro.
Girovagò per parecchio tempo, perlustrando ogni singolo angolo della stanza delle simulazioni, ma proprio quando stava per perdere le speranze, sul trovare l’ultimo membro, si accorse che c’era ancora un luogo che non aveva esplorato. Dietro una radura, si trovava una roccia da cui scorreva una piccola cascata che finiva in una stagno. Lì c’era una piccola catapecchia, dove spesso venivano messi dispostivi e oggetti pratici e si poteva facilmente dare per scontato che non ci fossero persone. Demetra ci si avventurò e raggirando la roccia, trovando la piccola catapecchia di pietra, identica a quella in cui si era risvegliata lei. La porta era chiusa. Questo significava che chiunque fosse al suo interno, non era ancora uscito. Non da solo. Demetra estrasse dalla cintura, una piccola bomba a mano, dalla forma stretta e lunga, e facendo alcuni passi indietro la lanciò contro la porta di metallo. Si abbassò tappandosi le orecchie. L’esplosione fu assordante, mentre li fuoco infranse il metallo facendolo saltare, e l’aria vibrò sollevando le chiome della vegetazione. Demetra si alzò in piedi e sguainando le pistole si avviò tra le colonne di fumo che avvolgevano la pietra. Dentro era talmente buio, che difficile distinguere quello che ci fosse dentro. Ma da quella poca luce che proveniva dall’esterno, si poté vedere la straziante scena che si presentava. Demetra alzando la testa vide l’ultimo membro dell’equipaggio, appeso a delle grosse catene di ferro, completamente nudo. Teneva la testa reclinata verso il basso, privo di sensi. Puntò le sue pistole verso le catene e tenendo le dita sui grilletti sparò due colpi simultaneamente. Le catene si spezzarono, ma l’uomo non cadde a terra, ben si tra le sue braccia, che lo afferrarono al volo. Era stata rapidissima a rinfoderare le pistole nella cintura, per poter avere le mani libere. Aveva una pelle artificiale bianchissima. Gli prese un braccio e se lo mise intorno al collo. Lo trascinò fuori e lo adagiò tra i fili di erba alta. Dopo averlo osservato per alcuni istanti, si alzò in piedi ed estrasse dalla sua cintura una aggeggio di metallo a forma di orologio, con una serie di pulsanti che gli giravano intorno. Premette il grande pulsante rosso e lo avvicinò alle sue labbra. “Lo ho trovato. Era nella capanna, evidentemente volevano che lo liberassimo noi!” disse.
“Dove ti trovi?” domandò la voce di Derek attraverso la trasmittente.
“A nordovest!” gli rispose lei.
Passarono pochi minuti, prima che Derek la raggiungesse. Pochi minuti in cui il cielo divenne scuro, come di notte.
“Bene! Si è fatto buio, credo che dovremmo tornare all’accampamento per accendere il fuoco!” disse lui.
“Ti raggiungo fra un attimo!” Demetra aveva smesso di ascoltarlo, e immersa tra i suoi pensieri si alzò in piedi e si diresse verso il casolare in cui aveva trovato l’ultimo Androide. Ormai il fumo si era quasi del tutto spento. Entrò a fece un giro dell’interno. Con gli stivali passò sopra ogni singola mattonella di pietra. E solo dopo averci girato per ben due volte, posando il piede su una di esse, si accorse che non era del tutto stabile. Fece ondeggiare il piede dalle dita al tallone, seguendo il movimento instabile della pietra, e spostandolo si inginocchiò. Posò la mano e togliendoci la polvere, l’afferrò con entrambe le mani e la sollevò. Era troppo buio perché si potesse vedere qualcosa, così Demetra sfilò la piccola torcia che portava alla cintura e la accese proiettando la luce bianca. All’interno del riquadro mancante, si apriva una piccola botola. Sul fondo poggiava una piccola valigetta di metallo. Demetra ci infilò la mano dentro e la tirò fuori. Era piuttosto pesante, ma lei era abituata a sollevare pesi ben più grandi. Così si alzò in piedi e uscì dal casolare.
Derek stava ancora armeggiando con il legno a le pietra, nel tentativo di fare fuoco, quando Demetra lo raggiunse gettando la valigetta ai suoi piedi.
“Ho trovato questa!”
Lui alzò lo sguardo su di lei e la guardò con aria interrogativa.
“E quindi?” domandò inarcando un sopracciglio.
“Non ti va di scoprire cosa nasconde?”
“No!” Rispose e con un gesto forte e veloce strofinò la pietra sul legno. Una scintilla scaturì da esso e una piccola fiamme si accese divampando sul mucchio di tronchi.
Ma dopo un attimo tornò ad osservarono la valigetta di metallo.
D’accordo!” sbuffò “Proviamo ad aprirla!” e  si piegò tastando i lucchetti. Ma era bloccata. Allora il giovane estrasse un coltello dalla sua cintura e tentò di fere forza infilando la punta in mezzo ai due coperchi. Ma non accadde nulla.
“Serve un codice!” fece notare dopo un attimo indicando la tabella di numeri sopra la chiusura. Demetra estrasse la sua pistola dalla cintura e sparò un colpo preciso al centro della chiusura. Derek si voltò lanciandogli un occhiataccia. La valigetta era aperta.
“Ma sei matta!” disse lui. “potevi farmi saltare in aria le dita!”
“Però adesso è aperta e la tue dita sono ancora attaccate al dorso della mano!” gli rispose lei.
Derek si voltò rassegnato e sollevò il coperchio della valigetta. All’interno c’era un trasmettitore d’epoca, con l’antenna e tutto il resto.
“E cosa dovremmo farci con questo?” domandò Derek con aria interrogativa.
“Avete trovato il trasmettitore!” disse la voce attraverso il microfono “Questo oggetto dovrà essere tenuto e protetto con cura, da uno di voi, quando vi ritroverete su Neo Gea! La tecnologia lì non funziona, eppure la dottoressa Nolan è riuscita ad usarla! Una volta giunti lì se vorrete salvare la Terra, dovrete provare a farla funzionare!  La vostra esercitazione si conclude qui per oggi!”
Improvvisamente tutto ciò che li circondava, e che riempiva la sala delle simulazioni scomparve, perfino il cielo stesso, lasciando un’immensa camera dalle pareti metalliche, completamente vuota.  
“Eppure finora nessuno è riuscito a contattare la Terra a parte lei!” disse Derek “Chissà cosa ci attende?” 

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Capitolo 5
*** 4 Risveglio ***


 

4

Risveglio 


Demetra con il palmo della mano aperta, accarezzava le spighe di grano, lasciando che i sottilissimi aghi le solleticassero le punte delle dita, mentre sfilava in mezzo al campo a passo lento. Suo padre davanti a lei, portava in spalla un fucile, e camminava a passo spedito. Una leggera brezza di vento le scompigliava il ciuffo di capelli che le ricadeva al lato del viso, mentre il resto della chioma legata nella sua tipica treccia si agitava come una fune. Il cielo rosso del tramonto gettava una luce tiepida sul paesaggio che li circondava. I campi si estendevano tutto intorno a loro: una vasta distesa dorata che ondeggiava al soffio del vento. All’orizzonte si stagliava alta, la foresta. Era lì che stavano andando a caccia, con la speranza di trovare qualche animale da mettere in tavola. Non che fossero molto sostanziosi, anche la carne degli animali, ormai era magra. Suo padre voltandosi verso di lei, le fece cenno di sbrigarsi, a raggiungerlo. Lei si mosse impacciata dal giaccone che portava indosso, troppo largo per una bambina della sua età. Era di suo padre. Un lungo giaccone verde mimetico. A lei piaceva, e se lo metteva sempre per andare a caccia con lui. Riteneva che portasse fortuna.
“Se non troviamo nulla anche questa volta, ci toccherà digiunare vero padre?” domandò una volta che ebbero raggiunto il limitare del bosco.
“Non essere così pessimista piccola dea!” gli rispose suo padre. “Forse qualcosa troveremo!”
Infiltrandosi nella boscaglia cominciarono a testare il terreno in cerca di tracce di selvaggina. Passarono parecchio tempo, chini con gli occhi fissi, in cerca di un qualsiasi segno. Il sole tramontò del tutto e presto calò il buio, rendendo per entrambi quasi impossibile scorgere delle orme. Allora suo padre prendendo delle torce dallo zaino le accese e ne passò una a Demetra.
In quel momento uno colpo d’arma da fuoco partì, facendoli voltare entrambi nella direzione da cui era giunto. Gli uccelli e i rapaci si sollevarono in volo, oltre le fronde, gracchiando.
“Demetra, aspetta sui!” disse suo padre in tono allarmato, poggiando una mano sulla sua spalla per farla chinare a terra. “Spegni la torcia!” disse dopo un istante.
“Dove vai Pà?” gli domandò, Demetra cercando di trattenere il fremito nella voce, mentre con una mano spegnava la torcia.
“A vedere cosa succede! Non muoverti da qui!” ripeté infine.
Demetra accovacciata al suolo lo guardò farsi largo tra le erbacce e gli arbusti con il suo coltello da caccia.
Rimase immobile per parecchi istanti. Udì una serie di voci maschili, che gridavano in cerca di qualcuno.
“Dov’è andato?”
“Dovrebbe essere qui!”
“Trovatelo!” gridò la voce di quello che doveva essere il capo.
Si udirono altri colpi. Altre grida. Uno più forte, più vicino, la fece sussultare. Una donna gridò, per la prima volta, implorando pietà.
Un attimo dopo Demetra sentì la voce di suo padre che gridava furioso, e l’inconfondibile suono del suo fucile da caccia.
Un rumore proveniente dalla sua destra la fece istintivamente voltare, giusto per vedere una serie di cespugli che venivano spostati da qualcosa che tentava di passarci dentro senza farsi notate. Allora Demetra dimenticando le raccomandazioni di suo padre si sollevò in piedi correndo verso quella qualsiasi cosa che si stava muovendo e si gettò al suo inseguimento.
Corse a più non posso, con il respiro affannoso. Ci furono altri colpi di fucile. Vicinissimi.
 Demetra facendosi largo tra la selva, una volta superato un grosso abete scuro, si ritrovò davanti a una radura.
Al centro esatto suo padre con il fucile puntato, teneva sotto tiro tre uomini. Uno giaceva al suolo in una pozza di sangue che impregnava il terreno.
Demetra trasalì alla vista del cadavere.
“Non ve lo ripeto più!” disse suo padre “Questa è la mia terra! E nel mio territorio nessuno entra armato!”
“Fatti da parte se non vuoi, che ti ammazzi! Chiaro stronzo!” gli rispose quello dall’aria del capo.
In quel momento uno degli uomini spostando il capo portò lo sguardo verso di lei. L’aveva vista. Demetra trasalì ancora una volta, e nel guardarlo si accorse che stava lentamente portando la mano alla cintura… verso una pistola.
L’uomo continuò a tenere il suo sguardo puntato dritto su di lei, mentre la mano raggiunse velocemente la cintura, estraendo la pistola.
La puntò verso di lei.
Demetra con il cuore in gola chiuse gli occhi, consapevole che sarebbe morta.
Il colpo partì.
Il cuore di Demetra sussultò e lei si lasciò sfuggire un grido, seguito da una percossa che le scese lungo la schiena.
Riaprendo gli occhi, vide l’uomo che giaceva al suolo, con gli occhi vitrei privi di vita. La pistola giaceva a pochi centimetri di distanza dalla sua mano.
“Demetra scappa!” gridò suo padre tenendo il fucile ancora puntato.
Demetra non se lo fece ripetere una seconda volta, e voltando le spalla alla scena che gli si parava davanti prese a correre come un diavolo, nel tentativo di allontanarsi.
Non aveva mai sentito il suo cuore battere tanto forte come in quel momento. Tanto da farle tremare l’intero corpo.
Suo padre aveva ucciso un uomo.
Suo padre era in grado di uccidere un uomo.
Corese senza fermarsi nella foresta avvolta dalle tenebre della notte, per parecchio tempo. La voce degli uomini che gridarono e un altro colpo del fucile di suo padre raggiunsero le sue orecchie.
D’un tratto inciampò e cadde. Il rumore di una figura in movimento la costrinsero istintivamente ad alzare lo sguardo. Un cespuglio davanti a lei, si mosse. Demetra sollevandosi in piedi riprese a correre nella direzione della figura misteriosa che si aggirava nella foresta.
Demetra, seguì quel movimento fino a raggiungere un grande albero di castagno, dove si apriva una cavità alla base delle radici del tronco. Spostando parecchi rovi spinosi, trovò una piccola figura rannicchiata, che si stringeva le ginocchia con le braccia nel tentativo di rpteggersi. Demetra prese la sua torcia e l’accese. Facendo luce sulla figura spalancò gli occhi, inorridita e allo stesso tempo meravigliata.
Un bambino, dai capelli ingrovigliati, la guardò con degli intensi occhi azzurri, che brillarono sotto la luce della torcia, colmi di terrore. Era privo di vestiti. Il corpo da cui s’intravedevano le ossa sotto pelle in modo agghiacciante, era sporco, ricoperto di graffi e tagli, da cui fuoriusciva il sangue.
Demetra tentò di avvicinarsi, ma il bambino si scostò bruscamente, spostandosi sul terreno all’indietro.
“Stai tranquillo!” disse Demetra “Non voglio farti del male!” spegnando la torcia si inginocchiò difronte a lui e le poggiò delicatamente una mano sul ginocchio.
Il bambino la guardò ancora una volta con lo sguardo spaventato.
Inizialmente Demetra si era sentita un po’ incerta sulla sua sessualità, ma ora era certa che quello fosse un maschio.
In quel momento la voce di suo padre la chiamò, riportando la sua attenzione alla realtà.
Lei gli rispose alzando appena un po’ la voce.
Alcuni momenti dopo suo padre raggiunse il punto in cui si trovava, e sollevandola in piedi per il giaccone le gridò in faccia: “Ti avevo detto di restare dov’eri! Perché mi hai disubbidito?”
“Avevo visto qualcosa che si muoveva davanti a me pensavo che fosse un animale!” si scusò “Ma mi sbagliavo! Ho trovato qualcosa di meglio di un animale!” e indicò il bambino, che si trovava ancora lì, stretto a se stesso.
“I bambini non si posso mangiare Demetra! Come può essere meglio?”
Demetra si divincolò dalla stretta del padre “Portiamolo a casa papà! Ti prego!” lo implorò accovacciandosi accanto a lui.
“Tua madre non sarebbe d’accordo!”
“La convinco io! ” disse lei.
Suo padre piegandosi sulle ginocchia si avvicinò osservando il bambino.
“Come ti chiami ragazzo?” gli domandò.
 Il bambino rimase in silenzio per alcuni istanti. “Mi… Mi… chiamano marmocchio!” gli rispose infine.
“Non hai un nome?” gli domandò suo padre.
“Che… Cos’è un nome?” domandò il bambino confuso.
Demetra osservando suo padre vide dipingersi sul suo volto, un espressione colma di compassione per quel piccolo essere maltrattato.
“Il nome è il metodo più semplice con cui il mondo può comunicare con te! Se non hai un nome, gli altri non sanno come rivolgerti quello che devono dirti!” disse suo padre.
“Saremo noi a darti un nome se non né hai già uno!” disse Demetra.
Il bambino scosse il capo.
Suo padre si arrese con uno sbuffo. “Fallo alzare!” gli rispose in fine cominciando ad avviarsi verso i margini della foresta.
Demetra sfilandosi il giaccone di suo padre, lo depose sulle spalle del bambino e gli infilò delicatamente i polsi all’interno delle maniche, dopo di ché lo aiutò a rimettersi in piedi. Il bambino oscillando sulle sue gambe posò una mano sulla sua spalla.
Demetra tirando su la cerniera lampo chiuse il giaccone per fare in modo che il suo copro rimanesse coperto.
Dopo di ché lo guardò a lungo negli occhi, trovando il suo viso bellissimo.
“Ti chiamerò Andros! Nella mia lingua d’origine significa maschio! Ti piace?”
Il bambino fece un alzata di spalle, come se la cosa gli fosse del tutto indifferente. Demetra non gli badò e afferrandolo per un braccio lo trascinò dietro di sé per raggiungere il padre.
Riattraversando i campi di grano immersi nella notte raggiunsero la loro casa, che emergeva nella vallata come uno soglio in mezzo al mare.
Persefone che li attendeva affacciata alla finestra corse ad aprire la porta. Nel vedere il bambino fece un espressione costernata, ma subito si spostò per farli passare. Demetra che gli passò a canto le fece una strizzata d’occhio. La casa era calda e accogliente. Il fuoco nel camino era acceso, dalla cucina proveniva un intenso odore di pane cotto al forno e di stufato di verdure.
Sua madre che stava apparecchiando la tavola nel vedere il bambino, fece un espressione interrogativa.
“Lui chi è?” domandò allontanandosi dal tavolo, per raggiungerli.
“Un nuovo membro della famiglia!” disse suo padre levandosi il fucile dalla spalla, per posarlo in un angolo dietro la porta d’ingresso. “L’ha trovato Demetra!” aggiunse subito dopo.
“Ti sembra che possiamo permetterci poveri in casa?” domandò sua madre incrociando le braccia.
“Non è un povero!” si affrettò a dire Demetra “lo stavano inseguendo! Papà ha ucciso due uomini con il fucile stanotte!”
A quelle parole il volto di sua madre sbiancò.  “State forse scherzando?” disse, portandosi le mani al viso. Anche Persefone sbarrò gli occhi.
“Quattro uomini!” si affrettò a dire suo padre “di cui uno armato di pistola che avrebbe ucciso nostra figlia se non fossi intervenuto!”
“Buon dio!” esclamò sua madre. Con le lacrime agli occhi si avvicinò a una sedia per mettercisi sopra.
Tra loro calò un cupo silenzio, carico d’orrore. Per alcuni istanti si dimenticarono del piccolo bambino, che ora si aggirava per la stanza del salotto, guardandosi intorno meravigliato. Con le dita sfiorò la collezione di sassi delle due bambine, che si trovava su un ripiano, per poi passarla su vaso di fiori, e su una corda arrotolata. Sembrava non avesse mai visto una casa prima d’allora.
Demetra era l’unica che l’osservava
“Come si chiama?” domandò sua madre, che lo controllò con lo sguardo dopo alcuni momenti di distrazione.
“Chiunque fossero le persone che lo hanno tenuto finora non ritenevano importante dargli un nome, e così l’ho chiamato Andros!” disse Demetra.
“A me sembra più una femmina!” disse Persefone.
“Toglietegli il giubbotto!” protestò la madre “Non mi piace che lo indossi!”
“Non ha nient’altro addosso!” disse suo padre. “Sarà meglio che gli faccia un bagno! Demetra mi vuoi aiutare?”
“No! Non esiste proprio!” continuò sua madre “Ti rendi conto che riusciamo a stento a sfamare noi stessi? Dove lo mattiamo un altro bambino dimmi? Dove?”
“Sarò io ad occuparmi di lui!” si affrettò a ribattere Demetra “Gli darò metà del mio cibo, dividerò il letto con lui!”
“Demetra figlia mia!” prese a parlare sua madre “Sei ancora piccola! Ma devi imparare a comportarti come un’adulta, perché la vita lo richiede! E’ meglio che ti scordi la gentilezza, perché chi è gentile è una preda facile ormai! Sai quanti bambini ci sono al mendo come lui ormai? Migliaia! Vuoi forse fare la carità a tutti?”
“E se anche fosse? Non credi che tutti meritino una possibilità mamma?”
“Nessuno può fare un bene così grande Demetra!”
 
 
Demetra si svegliò con una accecante luce a neon che le bruciò gli occhi, costringendola a strizzare le palpebre. Non era la prima volta che sognava quel momento. La volta in cui suo padre si era battuto per difenderla. La prima volta che aveva salvato la vita a qualcuno. Ma quando aveva vissuto quella vita? Era passato così tanto tempo da quando aveva salvato quel bambino facendolo diventare il suo fratello adottivo, che quasi non gli sembrava più la stessa vita. Ormai non vede più la sua famiglia da anni. L’unico legame che aveva con quel mondo era soltanto il suo nome. Perfino lei stessa era cambiata a tal punto da non riconoscersi più. Da quando l’era stato somministrato l’Amethyst ogni suo sogno era diventato dieci volte più nitido dei prima. Riviveva i ricordi del passato quasi fossero un eterna ripetizione della realtà.
“Signorina Crisei? Mi sente signorina Crisei?” disse una voce femminile, dalla tonalità premuroso.
Un attimo dopo il viso di una donna si chinò su di lei, coprendo la luce della lampada. Aveva i capelli castani, raccolti in una cuffietta bianca, con alcune ciocche che gli sfuggivano, e una montatura di occhiali rossi.
“Va tutto bene?” le domandò ancora l’infermiera.
Demetra fece un cenno d’assenso, con la mano, mentre la giovane donna si spostava. A quel punto fu costretta a portarsi il dorso della mano davanti agli occhi per proteggersi dalla luce.
Contemporaneamente, facendo forza sull’altro gomito si sforzò di alzarsi, e con una spinta si tirò a sedere, sul lettino d’acciaio su cui si trovava.
“Vuole che le dia una mano signorina Crisei?” domandò l’infermiera.
Demetra facendo scendere le gambe dal lettino sollevò la mano in seno di diniego. “Non serve, la ringrazio comunque!”
Sentiva freddo. Un terribile freddo che le attanagliava l’intero corpo. Ma non era per il fatto che indossasse semplicemente una canotta e un slip nero. Non era un freddo che sentiva sulla pelle, anche se sarebbe stato certamente comprensibilissimo visto la temperatura dell’aria dei condizionatori. E non era neanche dovuto all’incubo che aveva avuto, a cui ormai s’era abituata. Era un freddo che percepiva dentro di se. Istintivamente si circondò le braccia con le mani, rabbrividendo. Si sentiva debole come se avesse perso molto sangue. E infatti ne aveva perso. Portandosi una mano alla spalla destra tastò con le dita il lungo taglio, che l’attraversava per intero, dove erano stati ricuciti una serie di punti. La ferita della prova finale, l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, con una cicatrice che non sarebbe mai più svanita. Non avrebbe mai immaginato che la sua prova finale sarebbe stata così orribile. Non avrebbe mai immaginato che l’avrebbe fatta sentire così male. Non avrebbe voluto lasciare la Terra in quel modo orribile. Con quella ferita addosso, che le avrebbe sempre ricordato quell’orribile prova, a cui era stata sottoposta, per diventare ufficialmente una Vigilante. Una protettrice della razza umana, su un pianeta di cui sapeva poco e niente, a parte il fatto che fosse un luogo notevolmente pericoloso, dimora di specie sconosciute, chiaramente ostili all’uomo.
Era lì per quello. Solo ed esclusivamente per proteggere gli altri, che avrebbero cercato di costruirsi una nuova vita, sul pianeta straniero.  
Ma lei non era più molto convinta che sarebbe stata in grado di rifarsi una vita. L’ultima volta in cui era cosciente, aveva fatto quello che non avrebbe mai potuto immaginare di fare. Quando aveva superato la prova finale. In quel momento aveva capito che lei non sarebbe mai più stata in grado di vivere come una persona normale. Né sulla Terra, né in qualsiasi altro luogo. Guardandosi intorno osservò la stanza dalle pareti metalliche occupata solo da due infermiere, oltre lei. C’era solo un paravento di tela bianca, una macchina per segnalare il battito cardiaco a cui era attaccato il suo braccio un attimo prima, e una lampada.  Rendendosi conto di trovarsi in un ambiente in cui non era mai stata, capì di esser già a bordo della Culla. La famosa astronave che si dirigeva sul pianeta Neo-Gea.
“Si sente bene signorina Crisei?” le domandò l’infermiera, notando il suo tremore.
“Per quanto ho dormito?” domandò Demetra sorvolando sul discorso.
“Siete stata nella capsula per quindici giorni!” gli rispose l’infermiera. “come tutti i passeggeri del resto! Li stiamo svegliando ora! Fra un mese arriveremo sulla Neo-Gea!”
“Dove sono i miei vestiti?” domandò. L’infermiera indicò una sedia nell’angolo in cui era ordinatamente ripiegato un completo nero. Demetra scese dal lettino e si avvicinò alla sedia. Prendendoli si rivestì in fretta infilandosi gli stivali alti fino al ginocchio e gli avambracci abbinati.
“Dov’è il bagno? Ne ho urgente bisogno!” domandò una volta pronta.
L’infermiera le si avvicinò dandole una carta magnetica. “il bagno e nella porta sulla destra! Questa è la chiave della vostra cabina!”
Demetra la prese senza ringraziare a avviandosi verso la porta del bagno ci si chiuse dentro. Gettandosi con la testa verso il water vomitò tutto quello che aveva in corpo, buttando via il senso di nausea che aveva dal momento in cui le avevano fatto i complimenti per aver superato la simulazione finale e per essersi dimostrata pronta per affrontare una nuova vita sul pianeta Neo-Gea.
Aprendo il rubinetto del lavandino si sciacquò la bocca, tenendosi i capelli con una mano. Per un po’ lasciò che la bocca lavasse via il saporaccio acido, poi sollevandosi si guardò allo specchio, maledicendo come ogni volta, i suoi occhi, non più azzurri, ma viola. Aveva vent’anni. Ormai era una donna, fatta e finita. Sempre che una donna dovesse avere un aspetto come il suo. Era cresciuta dall’ultima volta che aveva visto i suoi occhi azzurri. Era diventata alta, molto alta, come un uomo. Il fisico atletico frutto dei duri anni del suo allenamento erano la prova che fosse una Vigilante. I muscoli delle sue spalle larghe erano messi in bella mostra, dal corpetto in pelle nero, sbracciato. I fianchi ricurvi e la vita stretta, erano accentuati dai pantaloni aderenti, infilati negli stivali. Le sue mani erano grandi e forti, e il seno abbondante. Osservò il suo viso che l’età aveva reso duro e deciso. Il mento pronunciato non stonava sul suo collo rafforzato dai muscoli e il suo naso lungo e dritto, ben proporzionato ai lineamenti. I capelli castani le arrivava fino alla vita, con la riga pettinata al lato destro della testa, e un ciuffo smilzo che le scendeva al lato del viso. Dividendo i suoi capelli in tre ciocche diede inizio al suo rituale, facendosi la treccia. Non mancava mai di farla, prima di essere sedata per affrontare una simulazione. Quando fu certa che fosse perfetta, uscì dal bagno e superò l’infermeria. Uscì in un lungo corridoio dalla forma esagonale interamente fatto in acciaio con un tappeto verde scuro che lo attraversava per intero. Era vuoto. Osservando una piantina della nave disegnata su uno schermo che pendeva dal soffitto si diresse verso sinistra e raggiunse un porta automatica che si aprì direttamente sulle cabine dei passeggeri. Guardando una ad una le spesse porte grigie trovò la sua che riportava il numero 120, sullo schermo incastonato nel mezzo. Passando la carta sulla telecamera all’angolo della maniglia l’aprì ed entrò.
Era uno spazio angusto. C’era solo un letto d’acciaio con una coperta verde scuro, a ridosso della parete un armadio di metallo e una sedia appoggiata alla porta del bagno. Osservando la finestra rimase sbalordita nel vedere il cielo nero, completamente invaso dalle stelle. Solo in quel momento si accorse che sotto il ripiano della finestra era poggiata la sua spada. Quella che aveva sempre usato durante le simulazioni. Non credeva che gliela avrebbero lasciata portare. Era uno lungo spadone a doppio taglio, con l’elsa svitabile, che permetteva d’inserire un caricatore in grado di farla diventare rovente. In quel momento era attaccata al suo caricatore. Quel caricatore conteneva una ricarica liquida all’interno di una scatola di metallo nero, che non aveva bisogno d’essere inserita in una presa elettrica. Owen gliela aveva fatta fare apposta per non dover utilizzare l’energia elettrica sul pianeta Neo-Gea. Ripensando al suo maestro fu assalita da un orribile senso di tristezza, ben sapendo che non lo avrebbe mai più rivisto. Afferrando la spada premette il pulsante per attivare la funzione rovente. Un attimo dopo la lama si scaldò diventando completamente incandescente. La rispense subito dopo e infilandola nel fodero della cintura si sedette sul davanzale delle finestra appoggiando il gomito su un ginocchio, per osservare le stelle che brillavano nel libero spazio.
Non poté fare a meno di chiedersi che percoli l’attendevano sul nuovo pianeta.
Sarebbe stata in grado di difendere dei civili?
 
 
NOTA: Ormai è diventata una mia abitudine chiedervelo. Se trovate errori di battitura o bruttezze illeggibili fatemelo sapere. In questo capitolo abbiamo speso più tempo all’interno dei ricordi della protagonista che non nella realtà stessa. Anche se nei primi capitoli sarà così, più avanti andremo e più tempo passeremo sul pianeta in cui vivono delle avventure nel presente. 

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