fight a bit more

di Aysa R Snow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** fight a bit more ***
Capitolo 2: *** Chapter 1 ***
Capitolo 3: *** Chapter 2 ***
Capitolo 4: *** Chapter 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Journal ***
Capitolo 27: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** fight a bit more ***


 

Fight a bit more

 

Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l'andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra con il dio della morte prima dell'alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l'unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. "

- Haruki Murakami

 
 

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Capitolo 2
*** Chapter 1 ***


" Gli incontri avvengono sempre nei momenti in cui la mente è molto libera o molto affollata: nel primo caso avvengono per donare alla nostra anima qualcosa di nuovo, nel secondo per liberare la nostra vita da qualcosa di sbagliato. "

-Osho

Iniziò tutto in una mattinata come tante altre


Iniziò tutto in una mattinata come tante altre.
Quella mattina, il cielo era particolarmente nuvoloso ma niente di eclatante visto e considerato che eravamo in inverno inoltrato.

L'aria era umida e il freddo, trapassava senza pietà il mio maglione. 

L'unica cosa positiva era che quel giorno era dedicato agli studenti.

C'erano diversi forum a cui partecipare. Alcuni interessanti, altri per niente. Se ne trovavano di ogni genere: da quelli dedicati ai videogiochi a quelli dedicati alla lettura. 
Poi c'era Gio, ormai ventenne, che si occupava del cineforum.
Ripeteva il quinto anno per le seconda vola, dopo aver ripetuto, altrettante volte, il terzo anno. 
Ormai era di casa li. Era come un nipote per tutti i collaboratori scolastici.

L'intero istituto, al suono della campanella delle nove, si riversò nei corridoi. 

Decine e decine di ragazzi ammassati nei corridoi dalle pareti variopinte.

Io, dal canto mio, non avevo fretta di arrivare prima e accaparrarmi un posto in prima fila.

Non ero tipo da buttarmi tra la folla e spingere chiunque si mettesse tra me e il mio obbiettivo.

Anche volendo, sarebbe stato impossibile, visti i miei modesti centosessanta centimetri. 

Posai, senza fretta, il mio libro di psicologia e il piccolo quaderno degli appunti.

Mi sistemai lo zaino in spalla e andai anch'io alla ricerca della sala dove si sarebbe svolto il forum che avevo scelto il giorno prima all'ultima ora. 
 
Una volta fuori dall'aula mi accorsi che c'era ancora molta gente in giro.

" Perché c'è ancora così tanta gente per i corridoi? " chiesi ad una ragazza poco più bassa di me, capelli ricci e degli occhiali decisamente troppo grandi per il suo viso.

" Abbiamo avuto qualche problema nel gestire gli spazi, ma abbiamo quasi risolto tutto. " rispose lei con una punta di nervosismo nella voce.

Mentre la guardavo allontanarsi, mi ricordai il suo nome, Gaia.

Era una delle addette alla sicurezza durante questo tipo di giornate. 

Ripresi a camminare tranquillamente verso il bar.  

" Buongiorno Aria. Il solito? " domandò con tono gentile Giacomo.

" Sì, un caffè bello forte, grazie. " sorrisi gentilmente. 

Quasi tutte le mattine, avevo bisogno della mia dose di caffeina per iniziare a ragionare in modo più o meno lucido. 

" Aria! Eccoti finalmente!
Non puoi capire che sfortuna che ho.
Biologia, nonostante mancassero tre minuti alla fine della lezione, mi ha interrogata.
Vecchia arpia frustrata! "sbuffò sbattendo i pugni sul bancone.

" Com'è andata? " le domandai soffiando sulla superficie del liquido scuro, all'interno del piccolo bicchiere di plastica. 

" Meglio dell'altra volta, quattro. " scoppiammo a ridere, tanto lei era Giulia e ha sempre saputo cosa fare per non farsi bocciare.

Giulia ed io ci siamo conosciute alle medie.

È sempre stata una ragazza molto solare.

Odia non essere alla moda, e spesso questa sua ossessione/passione per la propria immagine, la fa sembrare una ragazza non proprio seria.

Studia più per la sua famiglia che per sé. 
Io invece ero e ancora adesso sono, il suo esatto contrario. 

Non sono mai stata sempre amichevole e sorridente con tutti.
Se la insultavi se ne fregava.
Io invece, rimuginavo per tanto tempo su ciò che mi veniva detto. 

" Ci vediamo all'uscita, Cris mi aspetta nell'aula affianco alla palestra per sistemare le ultime cose. " mi lasciò lì, a bere il mio caffè.

Mentre guardavo le notifiche dei vari social sentii due ragazze che parlavano di un litigio.

C'era molta confusione e non riuscii a capire molto.

Due ragazzi avevano litigato in palestra, nessuno sapeva il motivo.

Non so perché, forse per curiosità, andai in palestra per vedere se c'era ancora qualcuno.
Superati gli spogliatoi sentii distintamente il rumore di un pallone. 

Sporsi appena la testa e vidi un ragazzo alto con capelli castani che ondeggiavano ad ogni suo spostamento.

Mi avvicinai lentamente, con passo leggero, verso di lui.
Tirava la palla contro il muro. Con rabbia. 

Quando ormai ero a pochi metri di distanza da lui, fermò il pallone e rimase a guardare il muro, leggermente affannato.

" Che ti serve? " domandò senza voltarsi. 

Improvvisamente una strana sensazione si impossessò di me.
La sua voce aveva un qualcosa di diverso.

Era calda, dolce, ma allo stesso tempo fredda e, non so, sofferente quasi. 

" A dire il vero... non lo so. " ammisi sentendomi in imbarazzo. 

" Beh... " rise leggermente riprendendo a battere il pallone a terra con entrambe le mani. 

" Niente di importante immagino.
Nessuno mi dice cose importanti."
rimasi a guardarlo mentre si sfogava. 

" Perché nessuno ti dice cose importanti? " sospirò pesantemente per poi lasciar andare il pallone. 

" Senti, non so chi sei e non ci siamo mai visti.
Perché dovrei parlarti di me? " domandò con aria scocciata. 

" Tu fallo, poi troverò un senso. " dissi senza neanche rendermene conto.

Volevo solo restare lì ad ascoltarlo, senza un preciso motivo. 

" Come ti chiami? " chiese girandosi e guardandomi negli occhi. 

" Arianna. Ma preferisco Aria. " sentii un brivido correre lungo la mia schiena. 

" Mh. Okay. 
Io mi chiamo... " la porta si aprì bruscamente andando a sbattere contro la sedia che vi si trovava davanti. 

Chi è che ha bisogno di spalancare entrambe le porte per entrare se non la professoressa Domilli? 

" Voi non potete stare qui! Fuori, subito! " urlò interrompendo il ragazzo davanti a me. 

" Certo prof. " afferrai il ragazzo per la manica della felpa e lo trascinai con me. 

" Ma... tu trascini sempre le persone con te? " domandò, sistemandosi lo zaino che aveva lasciato sulla panchina, in spalla.

" Non proprio. " si passò una mano tra i capelli e rimasi scossa nel constatare che aveva un occhio arrossato. 

" Oddio, allora le hai prese per davvero... cioè scusa, sicuramente anche tu avrai fatto del male a lui... però... " provai a toccargli l'occhio ma si tirò indietro bruscamente. 

" Non sono affari tuoi. " si avviò a passo svelto verso la segreteria. 

" Sì, certo... mi stavo solo preoccupando per te. " si fermò improvvisamente e io andai a sbattergli contro. 

" Ahia! " ricordo che accusai il colpo sul naso, probabilmente, nella parte più dura del suo zaino. 

" Ti sei fatta male? " tolsi la mano e del sangue rosso scarlatto brillava sulle mie dita. 

" Ehm... hai un fazzoletto? " domandai piegando la testa all'indietro. 

" Mio Dio... " posò lo zaino a terra e mi porse un fazzoletto che aveva in tasca. 

" Vado a prendere del ghiaccio al bar. " aggiunse per poi sparire in un attimo.

Rimasi per un paio di minuti nel corridoio ormai deserto. 
Delle risate ovattate arrivavano alle mie orecchie.

Tenevo stretto il fazzoletto sotto al naso da un po' ma il flusso di sangue non pareva volersi fermare.

" Scusami se ci ho messo un po'. Il bar era pieno. " mi fece sedere su un banco lasciato in corridoio e mi aiutò a tenere il ghiaccio. 

" Va meglio? " domandò leggermente preoccupato. 

" Sì, diciamo che ci sono abituata. " lo tranquillizzai sorridendo. 

" Abituata? " un'espressione confusa apparve sul suo viso.

" Già, capillari del naso troppo delicati. "

" Ah... guarda il lato positivo, c'è chi sta peggio. " disse sorridendo leggermente. 

" Beh, sì. Sono stata abbastanza fortunata. " sorrisi a mia volta. 

" Comunque il mio nome è Davide. " guardai meglio i tratti del suo volto, pensando che quel nome, calzava a pennello con il suo viso.

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Capitolo 3
*** Chapter 2 ***


" L'amore che nasce all'improvviso è il più lungo a guarire. "

-Jean de La Bruyère


" Cosa dovevi fare in segreteria? " domandai sistemandomi lo zaino in spalla.

" Firmare un permesso. "

" Per andare via prima. " aggiunse

" Quindi, hai diciotto anni? "si fermò e mi guardò sorridendo.

" Molto perspicace. Watson" disse sarcastico

" Ma non serve."

" Cosa? Vuoi uscire senza permesso? " chiese stranito, al che feci cenno di sì con la testa.

" E come? Sentiamo. " mi sfidò con un ghigno divertito.

Afferrai la manica del suo cappotto e lo trascinai nei corridoi dei laboratori.

" Sei qui da cinque anni e non hai mai visto questa porta? " indicai con un cenno della testa la porta d'emergenza in fondo al corridoio.

" Sì, ma che ha di strano? " mi avvicinai senza dire nulla.

" Non è mai chiusa. " abbassai con cautela le maniglie antipanico.

La porta si aprì con un leggero cigolio.

" Come fai a saperlo? "

" Lo so e basta. " una volta fuori il freddo mi costrinse a stringermi nel mio cappotto.

" In giorni come questi nessuno controlla le uscite d'emergenza.
In realtà non controllano un accidente. " con la coda dell'occhio vidi che provò ad andare verso il cancello principale.

" No, non li! " si bloccò di colpo tenendo le mani in alto.

" Vieni con me. " facemmo il giro dell'edificio abbassandoci ogni qual volta c'era una finestra.

Arrivammo davanti la casa del custode, con cautela spostai una piccola palma e sotto al vaso, apparve un piccolo mazzo di chiavi.

" Mi spieghi come fai a sapere queste cose? " chiese titubante

Sbuffai, mettendo le chiavi in tasca.

" La mattina arrivo molto presto e mentre aspetto la mia amica giro intorno alla scuola.
Una mattina vidi il custode lasciare lì le chiavi. " aprii il cancelletto sul retro.

" Aspettami qui e assicurati che il cancello rimanga aperto.
Vado a rimettere queste sotto al vaso. " tornai nuovamente dove avevo preso le chiavi e le rimisi a posto.

" Possiamo andare. " chiusi il cancello alle mie spalle e ci avviammo a passo svelto verso il centro.

" Ti va di dirmi cos'è successo? " chiesi cercando un'altra volta di ricavare informazioni.

" Niente, roba di poco conto. 
Dove stiamo andando? " Cambiò discorso lui

Ci pensai qualche secondo.

" Da me.
Hai bisogno di qualcosa per l'occhio, va a finire che diventi un panda. "

" E cosa dirai ai tuoi? " chiese, e nel mentre mi sfuggì un sorrisetto amaro

" Mio padre non lo vedo da un paio di mesi, mia madre è a lavoro, non tornerà prima delle cinque. " strinse le labbra in una linea sottile.

" Divorziati? " domandò tentennando.

" Legalmente no, ma è come se lo fossero. 
Quando capita che s'incontrano neanche si guardano.
Si odiano... " sospirai infilando le mani in tasca.

Rimase in silenzio e aumentò il passo affiancandomi.

" Non volevo essere inopportuno. " si scusò una volta arrivati sotto casa mia.

" Nessun problema. 
Spero tu sia un tipo allenato, ci sono ben cinque piani da fare a piedi. " dissi infilando le chiavi nella toppa del vecchio portone di ferro battuto e vetri azzurrini.

" Ehm... d'accordo. " notai una strana espressione sul suo viso ma non ci pensai più di tanto. 
Arrivati al quarto piano mi girai a guardarlo.

Teneva la testa bassa e si reggeva con forza al corrimano.

" Un po' fuori allenamento? Stai bene? " alzò la testa tenendo gli occhi chiusi e annuì leggermente.
Ripresi a camminare pensando a ciò che era successo.

Quando mi ritrovai a dover aprire la porta di casa, un terribile senso di paura si fece spazio dentro di me.

Frugai nel mio zaino ma le chiavi di casa, con il piccolo peluche, non erano lì.

" Le hai in tasca. " mi fece notare Davide con ancora un po' di affanno nella voce.

" Ah... Dio che spavento. " mormorai spalancando la porta dell'ingresso.

" Accomodati. Vuoi qualcosa da bere? " urlai dalla cucina lanciando la cartella su una sedia.

" Un bicchiere d'acqua andrà benissimo. " urlò di rimando.

Presi la pomata per le contusioni dall'armadietto dei medicinali e tornai in soggiorno.

" Ecco a te. " gli porsi il bicchiere pieno quasi fino all'orlo.

" Siediti, forza. " si sedette senza protestare e si lasciò mettere la pomata.

" Mi dirai mai cos'è successo? " Chiesi, ma ancora una volta, sviò il discorso

" Sei del secondo anno? " mi fermai a fissarlo.

" Come fai a saperlo? " domandai curiosa.

" Diciamo che ho tirato a indovinare. " sorrise e riprese a bere.

" Ah sì? Interessante.
Non ti ho mai visto in giro. "

" Sono al secondo piano, voi delle seconde invece state al primo piano. " mi sedetti piegando una gamba sotto al sedere non soddisfatta della sua risposta.

" Neanche all'uscita. " ripresi con lo stesso tono curioso.

" Esco sempre per ultimo. " spiegò tranquillo.

" E all'entrata? "

" Arrivo spesso in ritardo. " disse guardandomi con un sopracciglio sollevato.

" Okay, okay. "

" Arianna, è questo il tuo nome, giusto? " domandò passandosi una mano tra i capelli.

" Preferisco Aria. " dissi prima di tornare in cucina.

" Perché sei venuta in palestra? " chiese rimanendo sulla soglia della porta.

" Tu perché hai fatto a botte? " replicai poggiando il libro di storia sul tavolo.

" Non si risponde a una domanda con un'altra domanda. " cantilenò infilandosi le mani in tasca.

" Beh, l'ho appena fatto. " risi aprendo il libro alla pagina dove avevo lasciato il segnalibro.

" Ma come siamo simpatici! " aprì il suo testo di biologia.

" Quindi è il tuo secondo anno al liceo? " annuii senza smettere di leggere.

" Come te la cavi? " mentre parlava mi accorsi che il suo sguardo era posato sulle foto di famiglia alle mie spalle.

" Abbastanza bene. " mi girai e vidi la foto che ritraeva me, mia mamma e mio padre in spiaggia.

" Non hai sorelle o fratelli? "chiese e io scossi appena la testa.

" Tu invece? " riprese a guardarmi.

" Una sorella di qualche anno più grande. " iniziò a leggere per poi bloccarsi di colpo.

" Devo andare in un posto, ti va di venire? " ci pensai su per un paio di secondi per poi annuire.

" D'accordo, sarà sicuramente più interessante della storia. " feci per mettere il libro nello zaino.

" Ma non adesso! " rise afferrando la mia mano.

Alzai lo guardo vidi che stava guardando le nostre mani.

" Ehm... " spostai la sua mano imbarazzata.

" Allora ti va qualcosa da mangiare? " scosse lievemente la testa per poi tornare a sorridere.

" D'accordo. " disse mentre infilava con naturale disinvoltura le mani nelle tasche della felpa.

Mi voltai verso il frigo e sentii il viso andare a fuoco.

Il suo comportamento era strano, ma non riuscivo ancora a capire perché.

Scossi la testa nel tentativo di ritornare in me.

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Capitolo 4
*** Chapter 3 ***


Nessun mortale è in grado di mantenere un segreto. Se le sue labbra sono sigillate, parlerà con le mani, la verità trasuderà da ogni suo poro.

-Sigmund Freud

" Dove stiamo andando? " chiesi impaziente. 
Non sono mai stata una persona paziente.

" Prima da me, poi beh... lo scoprirai. " alzai gli occhi al cielo ma lo seguii senza protestare. 
C'era qualcosa nella sua voce che mi trasmetteva sicurezza, fiducia.

" Non dovrebbe esserci nessuno. Mia sorella è in facoltà, mia madre e mio padre sono a lavoro.
Almeno in teoria. " prendemmo l'ascensore e arrivammo davanti ad una porta color mogano.
Le pareti dell'edificio erano ricoperte da lastre di marmo.
Piante sane e rigogliose accanto ad ogni pianerottolo.

" Ci metteremo due minuti. " girò la chiave nella toppa ed entrammo in un corridoio buio.
Ero dietro di lui e vidi che allungò una mano verso la parete, trovò il pulsante e una calda luce giallognola invase il corridoio.

" Aspettami qui, torno subito. " non appena terminò la frase una porta in fondo al corridoio si aprì.

" Cazzo Davide, mi hai fatto venire un colpo!
Tu non dovresti essere a scuola? " mentre la ragazza poneva le sue domande, mi spostai verso sinistra, rivelando la mia presenza.

" Potrei chiederti la stessa cosa. " mormorò Davide alzando gli occhi al cielo.
La ragazza mi guardava confusa.

" Chi è? " mi indicò con un lieve cenno del capo mentre provava a sistemarsi i capelli alla bene e meglio.

" Quella che lo ha aiutato ad evadere. " risposi ridendo.

" Che cosa? " vidi gli occhi sconvolti della ragazza posarsi su di me e poi sul fratello in modo frenetico.

" Lei intendeva dire... quella che mi ha aiutato ad arrivare ad un bar decente per... per bere un caffè. " inventò una scusa di sana pianta e per nulla convincente.

" Sì, proprio così. " affermai in suo aiuto.

" Vieni un minuto con me, devo parlarti. " la ragazza assunse un'espressione seria.
Spostai lo sguardo sul viso teso di Davide e mi mordicchiai le labbra.
Ero stata io a proporre di "evadere" senza il permesso della scuola.
Non volevo che quel povero ragazzo subisse una ramanzina per una mia pensata del cavolo.

" Ascolta, lui voleva anche andare in segreteria per firmare un permesso ma io... " Davide mi fermò tappandomi la bocca.
Al diavolo le persone alte pensai.
Provai a liberarmi ma senza troppi risultati.

" Vengo subito. Aria tu, resta qui. 
Sarò da te tra due minuti. " mi liberò ed entrò in una camera con la sorella.
Rimasi confusa a fissare la porta.
Perché non mi ha lasciato dire la verità?

Delle voci ovattate, provenienti dalla stanza dov'erano Davide e la sorella, arrivarono alle mie orecchie.

" Deve saperlo! Hai il dovere di dirglielo! " strillò lei.

" Lascia che sia io a gestire la mia vita Eli! Non ho dodici anni! Non più! " sentii un rumore sordo, poi la porta si aprì e Davide uscì di corsa.

" Andiamo. " si precipitò fuori senza aggiungere altro.
Buttai un'occhiata veloce alla sorella che se ne stava poggiata allo stipite della porta con le mani ai lati della testa e lo sguardo rivolto verso l'alto.

" Scusami, non avrei dovuto trascinarti in questa cavolata con me. " mormorai tenendo le mani in tasca.
Sorrise debolmente senza però guardarmi.

" Non era per quello. Anche lei ha mentito spesso quando era al liceo. " lo guardai confusa.

" Allora perché stavate discutendo? " teneva lo sguardo fisso davanti a sé.

" Sciocchezze. Niente di serio" arrivammo alla sua moto e mi porse un casco blu metallizzato.

" Ancora non mi hai detto dove dobbiamo andare. " sbuffò tenendo il casco con entrambe le mani.

" Ti toccherà fidarti di me. " sorrise saltando in sella.

" Ma se non mi fido neanche di mia madre. " lo provocai scherzosamente.

" Cos'è, hai paura che ti rapisca? " domandò mettendo in moto.

" No, non ho paura di te ma sai com'è, la regola: 《 non accettare caramelle dagli sconosciuti 》 vale anche per i passaggi. " lo vidi alzare gli occhi al cielo.

" Devo alzarti di peso per farti salire? " domandò ridendo.

" No, le mie gambe ringraziando Dio vanno ancora. " mi infilai il casco e mi misi seduta dietro di lui.

" Vuoi farti un viaggio in moto senza tenerti? Devi avere un equilibrio impressionante. " sbuffai per poi passargli le braccia intorno alla vita.

" Va piano! Dio sei uno squilibrato! " urlai stringendo la sua felpa tra le mani.

" Cosa? Vuoi che vada più veloce? Sei davvero una spericolata! Ma ti accontenterò! " accellerò ulteriormente facendo lo slalom tra alcune auto.

Dopo un altro paio di accelerate, una decina di mini infarti, svariate urla di pedoni e automobilisti, arriviamo dinnanzi ad una tendostruttura blu e bianca sbiadita dal sole.
Il parcheggio era quasi pieno e si sentivano urla, cori e fischi.

" A.S.D. basket Milano? " chiesi confusa.

" Vieni con me, ti faccio conoscere delle persone. " non dissi nient'altro ed entrammo. 
Il palazzetto era gremito di persone.
Ragazzoni di almeno due metri si passavano veloci la palla.
Davide se ne stava con le mani nelle tasche, mentre guardava sorridente il campo. 
Improvvisamente delle urla di tifosi felici riempiono l'intero palazzetto.

" Che succede? " domandi avvicinandomi a lui.

" Hanno vinto! Vieni, ti faccio conoscere i ragazzi. " mi trascinò in mezzo al campo.

" Li avete eclissati! " urlò euforico Davide facendo girare tutti i ragazzi.

" Davide! " si susseguirono una serie di buffetti amichevoli dietro la nuca e pacche sulle spalle.

" Non ti si vede da un bel po'. " affermarono un paio di loro.

" Beh, ho avuto qualche problema. " disse rimanendo vago.

" È la tua ragazza lei? " diventai paonazza.

" No, no! " mi affrettai a dire.

" Quindi non ti dispiace se ci faccio un pensierino? " domandò un ragazzo molto alto.
Alzai lo sguardo quando si avvicinò.
Capelli neri e occhi castani molto chiari.

" Beh... occhio alle manette. " rise un altro ragazzo tenendo i polsi incrociati.

" Sai come sei carino con una tuta arancione? " rise il più bassino.

" Ignorante, le tute arancioni le usano in America! " il ragazzo incrociò le braccia al petto crucciato.

" Sei un ventitreenne ignorante, chi mai avrebbe il coraggio di dartela? " scoppiai a ridere.
Davide sorrideva tranquillo, erano davvero un bel gruppo.

" Che ne dite di fare qualche scambio? " propose il più alto del gruppo. 
Davide mi guardò per qualche secondo.

" Mi sembra una buona idea! Io faccio l'arbitro. " dissi dondolando sui talloni.

" Tam, prendi la cesta dei palloni e il fischietto alla ragazza di Davide! " urlò un ragazzo con il numero 6 stampato a caratteri cubitali sulla maglia.

" Non stiamo insieme! " sbottai alzando gli occhi al cielo.

" Chiedo perdono. " il ragazzo alzò le mani in segno di scusa. 
Armata di fischietto iniziai ad urlare ai ragazzi di correre.
Mi misi tra i due ragazzi-montagna e tirai in alto il pallone. 
Mi feci subito da parte e li lasciai giocare.

" Fallo! " urlai dopo aver fischiato a pieni polmoni.

" Ma che ho fatto? " domandò confuso il povero ragazzo

" Gli stavi troppo addosso, non riusciva a muoversi. " dissi incrociando le braccia al petto.

" Ma... non è che posso lasciarlo stare e aspettare che faccia canestro! E poi secondo le regole non ho fatto nulla di male! " protestò avvicinandosi.

" Fermo! " fischiai ancora una volta.

" Protesti? Giallo per te! Alla prossima sei fuori. " mi guardò confuso.

" Andiamo Marco, quanto sei polemico! " urlò Tam.

Che razza di nome era Tam poi? Bah.

" Fortuna che non sei davvero un arbitro. " sbuffò Marco prima di riprendere a giocare. 
Mi girai e vidi Davide piegato in avanti con le mani sulle ginocchia.
Era rosso in viso e visibilmente affannato.

" Davide! " strillai andando verso di lui. 
Lo feci sedere in panchina.
Alcuni ragazzi si avvicinarono preoccupati, alcuni provarono a sdrammatizzare facendo battutine del tipo:

" Amico, non hai affatto una bella cera. "

" Sei diventato più pigro del mister? "

" Già, ma mi rimetterò in carreggiata. " sorrise asciugandosi la fronte imperlata di sudore.

Bugia.

" Tornerò in campo. " affermò convinto.

Bugia, un'altra stramaledetta bugia.

" E riavrò la mia rivincita contro i testa verde. "

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


In three words I can sum up everything I've learned about life: it goes on

-Dr. Seuss

Passarono settimane tremendamente piatte, prive di grandi emozioni ma la mia mente, le ricorda perfettamente.
Verifiche, interrogazioni, solite cose.

Davide non lo vidi molto in giro a scuola.
Raramente ci incontrammo nei corridoi ma all'interno di quella scuola era dannatamente freddo e distaccato.

Andammo un paio di volte al cinema e a un paio di partite.
Notai che quando eravamo fuori da scuola era una persona completamente diversa.
Sorrideva più spesso, scherzava e qualche volta lo beccavo con lo sguardo perso e la testa tra le nuvole.

Mi disse che aveva smesso di giocare per problemi di salute.
Nulla di grave, a detta sua.

" Aria! Ti vogliono al telefono. " mi alzai e corsi in soggiorno per rispondere.

" Aria, ti va una giro al bosco? " chiese Davide allegramente.

" Mh, porto qualcosa da mangiare? " domandai mentre riordinavo la libreria.

" Ottima idea! Ti passo a prendere tra mezz'ora. " cantilenò prima di terminare la chiamata. 
Andai in camera mia. Ero entusiasta, felice. Lo ero sempre quando mi ritrovavo a passare del tempo con Davide.
Mentre decidevo cosa indossare mi arrivò un messaggio da parte di Giulia: 《 Vado in centro a fare compere, vieni con me? 》

《 Non posso, mi dispiace. Vado al bosco con un amico. 》risposi prima di lanciare il telefono sul letto.

《 Con Davide? Non starai con quello? 》chiese in un secondo messaggio.

《 Lo conosci? Beh... no, non stiamo insieme. Che ha che non va? 》rilessi la nostra conversazione prima di inviare la mia risposta.

《 Lo conosco, cioè non benissimo ma da quando a fatto a botte in palestra diciamo che lo conoscono tutti. Ha rotto il naso a quello sbruffone di Lombardi, ora capisci perché tutti lo conoscono? Dammi retta, sta lontana da quello, è anche strano... salta spesso le lezioni. 》rimasi tremendamente confusa da quel messaggio. 
Doveva essere successo qualcosa di serio se era arrivato al punto di mettersi contro Lombardi.

Solo uno squilibrato sarebbe così stupido da farsi odiare da Lombardi. Lui se ti prende di mira non ti molla finché non crolli.

《 Avrà avuto i suoi motivi. 》sbuffai e mi lasciai cadere sul letto.

《 Resta il fatto che è stato stupido. È malato non ha forza neanche per sollevare il suo zaino. 》mi scivolò il telefono dalle mani.

《 Stai scherzando vero? Cos'è  che ha? 》mancavano meno di dieci minuti quindi iniziai a prepararmi.

《 Non lo so, so solo che non è una cosa da niente. 》perché omettere dettagli del genere?

Lasciai perdere i milioni di punti interrogativi che scorrevano veloci nella mia mente e corsi verso la porta. Davide avrebbe dovuto darmi delle risposte.

" Aria, stai uscendo? Dove vai? Oggi devi stare con tuo padre. " mi colpii la fronte con il palmo della mano.

" Rimandiamo a domani. " provai a dire mentre tiravo su la zip della felpa.

" No. Domani tuo padre ha degli impegni di lavoro. " si piazzò davanti alla porta principale con le braccia conserte.

" Problemi suoi, no? " mormorai tenendo lo sguardo fisso sulla parete alla mia destra.

Io e mio padre non abbiamo mai avuto un bel rapporto.
Il ruolo di genitore non gli appartiene, non fa per lui.

" Aria, smettila. " sibilò mia madre con voce stanca.

" No mamma! Lui non ha mai disdetto nulla per me.
Ricordi la mia prima gara di nuoto? " mi guardò confusa.

" Sì, me la ricordo. Hai stravinto. " faci un sorriso amaro.

" Perché tu c'eri. Lui non mi ha mai vista gareggiare. 
E tu mamma... tu sei troppo buona.
Come puoi perdonare ogni suo errore? Anche quando era presente lo era solo fisicamente. " ispirò profondamente dal naso serrando gli occhi.

" Vai. Ci penso io a tuo padre. " l'abbracciai sorridendo.

" Grazie mamma. " uscii di casa velocemente.
Mentre scendevo le scale imprecavo contro la zip del cappotto.

" Aria! " alzai lo sguardo e vidi il padre di Alessia, una ragazza che viveva nell'appartamento affianco al mio.
Suo padre si occupava dell'amministrazione del palazzo e spesso la figlia ventenne gli faceva fare brutte figure con gli altri condomini.

" La figlia dell'amministratore non rispetta le regole e il padre glielo permette! "

In effetti Alessia organizzava spesso feste che finivano verso le tre del mattino.

" Salve, posso aiutarla? " chiesi guardandolo stranita. 
Di solito lo si vede in giro solo quando c'è da ritirare l'affitto.

" Beh... tua madre è sempre stata molto precisa... ma ha due mesi di affitto arretrati. " strabuzzai gli occhi. 
Mia madre che non paga l'affitto da due mesi? Non era mai successo prima.

" Ehm... glielo ricorderò stasera. Grazie e buona giornata. " corsi via.

" Hey, Aria! " Davide scese dalla sella della sua moto sfilandosi il casco.
Salii senza dire nulla e afferrai il casco che aveva in mano.

" Che ti prende? " domandò con le braccia conserte.

" C'è qualcosa che devi dirmi? O meglio, c'è qualcosa che avresti dovuto dirmi? " assunse per un paio di secondi un'espressione preoccupata.

" No... " si guardò intorno nervoso.

" Ne sei sicuro? " serrai la mascella mentre dondolavo nervosamente la gamba.

" Forse c'è qualcosa... ma tranquilla, niente di che. " saltò in sella.

" Se è niente di che perché non dirlo? " mise in moto e partì senza rispondere. 
Il breve tragitto sembrò durare decenni, se non secoli.

" Davide o mi dici la verità o giuro che questa è l'ultima volta che ci vediamo. Non voglio assolutamente vivere tra le menzogne. " Davide si passò  nervoso le mani sul volto.

" Non posso. Non è giusto capisci? Non sarei dovuto arrivare neanche a questo punto. " urlò allargando le braccia. Il suo viso diventò rosso.

" Che significa? " sussurrai completamente persa, non sapevo più a quali delle tante domande prestare attenzione.

" È difficile okay Aria? Ti prometto che te ne parlerò, ma non ora. " pestai un piede a terra come una bambina capricciosa.

" No, adesso. " replicai convinta.

" Forse è meglio se per un po' evitiamo di passare del tempo insieme. " mormorò tenendo lo sguardo basso.

" Cosa? Dio Davide! Cosa cavolo dici? " tutto sembrava così insensato, falso. Non avevo mai visto i suoi occhi così tremendamente vuoti e freddi.
Ma infondo cosa sarebbe dovuto importare a me? 
Credevo di non aver motivo di starci male, ma mi sbagliavo.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


" È bene imparare a lasciare andare ciò che ci sta lasciando un attimo prima che possa davvero lasciarci. Non mi piace vedere l'inesorabile declino degli eventi. Così si può sempre scegliere un finale piuttosto che lasciarlo scegliere agli altri. "

-Massimo Bisotti

" No! Perché dovremmo allontanarci? " urlavo procedendo a grandi falcate verso il fiume.

" È meglio così.
Ricordi quando sei venuta in palestra? " mi fermai a riflettere per qualche istante.

" Sì, ma cosa c'entra? " si fermò davanti a me.

" Era Lombardi il tipo con cui ho fatto a pugni. "

" Gli ha rotto il naso, lo sai questo? " annuì stropicciandosi il viso con una mano.

" So perfettamente come agisce, lo conosco da molto tempo. 
Pensa che quando era alle medie con me ripeteva la terza per la seconda volta.
È sempre stato così, anzi col tempo è peggiorato.
Farà affondare anche te per colpire me. "

" Perché mai dovrebbe prendersela con me? " chiesi incrociando le braccia al petto.

" Vorrà farmela pagare. 
Lui quando decide di vendicarsi lo fa nei peggiori dei modi, o ti umilia o ferisce chi ti sta intorno.
In pratica fa di tutto per farti restare da solo.
Così, basterà un niente per farti crollare.
Ha dei metodi subdoli, è un vero bastardo. 
Poi tu sei ancora "piccola" potrebbe mettere Dio solo sa quali voci in giro.
Voci che ti accompagneranno fino al quinto anno. " strinsi le labbra in una linea sottile.

" Così facendo però fai il suo gioco.
Resti comunque solo. " gli feci notare.

" Beh, almeno non ho la reputazione di nessuno sulla coscienza. " disse sarcastico. Provai a ridere, ma niente.
Nessuno doveva decidere il mio avvenire.

" Non è giusto. " sbuffai sedendomi in riva al fiume.

" Sto solo provando a limitare i danni. " si mise accanto a me, seduto a gambe incrociate.

" Lo so, ma... " sospirai pesantemente.

" Nulla. " scossi la testa.
Portai le ginocchia al petto e vi nascosi il viso.

" Avanti, parla. " rimasi in silenzio per un po'.

" Perché salti spesso le lezioni? " sospirò stendendosi.

" Perché vuoi saperlo? "

" Curiosità. " mentii. Volevo fosse lui a dirmi la verità.

" Sono spesso a fare controlli. " disse unendo le mani dietro la sua testa.

" Che tipo di controlli? " si alzò con uno slancio delle gambe.
Lo guardai mentre si ripuliva i pantaloni con una mano.
Teneva un braccio piegato dietro la schiena.

" Cosa nascondi? " mi alzai anch'io.

" Chiudi gli occhi. " sporsi le labbra in avanti incarnando un sopracciglio.

" Dai! " sbuffò senza però mandar via la felicità dal suo viso.
Chiusi gli occhi incrociando le braccia al petto.

" Aprili. " quando aprii gli occhi vidi una piccola margherita a pochi centimetri dal mio naso.

" Ho pensato fossa perfetta per te. " disse con un'alzata di spalle.

" Perché? Di solito si regalano rose alle ragazze. " chiesi sorridendo.

" Beh, mettila così: sono un ragazzo originale e non faccio i soliti regali.
E poi, una rosa non va bene per te.
Una margherita invece è perfetta. " lo scrutai confusa.

" Vedi, le margherite sono essenziali, semplici. 
Sono simbolo di purezza, e innocenza. "

" Ed io cosa c'entro? " presi il piccolo fiore dalle sue mani.

Tu sei una margherita. " affermò infilando le mani in tasca.

" E tu? Cosa sei? " sembrò pensarci su per qualche istante.
Sorrise e fece schioccare la lingua contro il palato.

" Credo un Giacinto rosso o una stella alpina. Forse entrambi. "

" Perché? " si grattò il mento pensieroso.

" Il Giacinto rosso è simbolo di dolore, la rosa alpina simboleggia il coraggio invece. "

" Come sai tutte queste cose riguardo i fiori? " domandai ridendo.

" In prima avevamo una prof di scienze fissata con i fiori. Ci obbligava a imparare a memoria tutti i nomi e i rispettivi significati. " si piegò per raccogliere un sassolino.

" Stai evitando la mia domanda? " incrociai le braccia al petto.

" Certo che no! Ti va un gelato? " domandò andando verso un chiosco di gelati.

" Ma se ci sono cinque gradi! " esclamai sgranando gli occhi.

" Meglio, non si scioglierà. " lanciò il sassolino che aveva preso nel fiume.

" Davide... "

" Due coni, uno cioccolato e cocco e l'altro... Aria, come lo prendi il gelato? " alzai gli occhi al cielo

" Mirtilli e fragola. " sorrise e ordinò i nostri gelati.

" Penseranno che siamo matti a mangiare gelato con questo freddo! " osservai prendendo un po' di panna con il cucchiaino.

" La gente avrà sempre da ridire Aria. Non sarai mai perfetta ai loro occhi. "

" Beh... lo so... " inclinò la testa come quando un cane si mette in ascolto.

" No, non mi dire che... sei a dieta? " incrociai le braccia al petto facendo attenzione a non sporcarmi.

" Può essere. " spostai lo sguardo altrove e lui scoppiò a ridere.

" No dopo questa... " non lo feci finire che lo spinsi via.

" Non mi farà male perdere qualche chilo di troppo. " mi giustificai.

" Ma non hai nessun chilo di troppo. "

" Non mi offendo sai? " risi prendo il mio gelato.

" Ma smettila. Dimmi, come vai a scuola? "

" Me la cavo, ma matematica proprio non la capisco. " si grattò distrattamente il mento.

" Posso aiutarti in matematica se vuoi. Me la cavo abbastanza bene. " sorrisi pulendomi la bocca con un tovagliolino.

" Ti piacciono le imprese impossibili? " scosse leggermente il capo sorridendo.

" Vedrai, chiuderai l'anno con un bel sette! " esclamò agitando le mani in aria mentre, il gelato sul suo cono, sfidava le leggi della gravità per non cadere.

" Mi fido? " lo presi a braccetto.

" Fidati. " affermò facendo scontrare i nostri gelati come bicchieri colmi di champagne.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


" Una promessa è una nuvola; l'adempimento è la pioggia. "

(Proverbio arabo)

" Orsini, sette. " scattai in piedi incredula, convinta di non aver sentito bene.

" Sette? " il professore mi guardò scocciato.

" Sì Aria, se non ti soddisfa posso sempre abbassare il voto a quattro. " fece spallucce.
Scossi la testa correndo alla cattedra.
Mi consegnò il compito senza guardarmi in faccia.

Agitai il foglio in Aria facendo ridere la mia compagna di banco.
Fiera, scattai una foto al compito per poi inviarla a Giulia che mi rispose con un finissimo:《 da chi cazzo hai copiato? 》

La campanella suonò, segnando l'inizio della ricreazione.
Corsi al secondo piano dove incontrai Davide.

" Sette! " urlai felice saltandogli in braccio.

" Ho avuto sette al compito di matematica! " continuavo a ripetere entusiasta.

" Vedi che sei brava? " esclamò scompigliandomi i capelli con una mano.

" Signorina Orsini! Il compito va riconsegnato! " tuonò il professore di matematica alla mie spalle. 
Alzai gli occhi al cielo e gli riconsegnai il compito.

Lo afferrò guardandomi bieco.
Nutriva un astio innato nei conforti di tutti i suoi alunni. E a quanto pare, questo suo odio era nato così, senza motivo.

Il secondo piano era molto spoglio.
Mi ricordava il corridoio di un ospedale.
I due laboratori di informatica erano dotati di pesanti porte blindate, nella vana speranza di scoraggiare i rapinatori che, molto spesso, facevano piazza pulita portando via tutto il materiale elettronico.

Inutili le installazioni di sbarre alle finestre, se le porte a stento si tengono in piedi.

" Ho bisogno di un caffè, biologia mi sta distruggendo. " sospirò Davide. 
Risi, prendendo a braccetto il mio amico e lo trascinai al bar al piano terra.

Ordinai due caffè e uscii dal retro.
Davide se ne stava seduto sui gradini della scala antincendio.

L'inverno ormai era agli sgoccioli e le giornate diventavano via via sempre più calde.

" Hai tagliato i capelli? " Davide serrò la mascella per poi forzare un sorriso qualche istante dopo. 

" Oh beh... sì. 
Sì, ogni tanto qualche cambiamento non fa male. " affermò abbozzando un sorriso.

Capii che Davide stava nascondendo qualcosa, non era del tutto sincero. 
Dentro di me sapevo che c'era qualcos'altro, ma non capivo cosa.

" Va tutto bene? " tirò su le maniche della sua felpa.

" Sì, perché? " scossi lievemente la testa non sapendo se insistere o meno.

" Sei strano. È successo qualcosa? " strinse il bicchierino ormai vuoto per poi gettarlo a terra.

" No. Devo rientrare, forse dovresti anche tu. " annuii, aveva ragione. Chimica me l'avrebbe fatta pagare se passavo ancora una volta la sua ora in giro. 
Mi salutò con un cenno veloce della mano e mi lasciò seduta sui gradini della scala antincendio.

Al mio rientro la prof, stranamente, si limitò a guardarmi male.

Sapevo che era sbagliato farlo, che a fine anno, di questo passo, la prof non mi avrebbe dato la materia neanche a minacciarla con un coltellino svizzero -che avrei rimediato nella cassetta degli attrezzi di mio nonno- alla gola.
Ma ero e ancora oggi sono, il tipo di persona che se odia una cosa è perché la odia per davvero.

Alle medie molti dei professori dicevano 《da giovane odiavo la matematica ma ora, mi ritrova ad insegnarla a voi》ma vi dirò, miei cari professori, che io ad oggi nonostante tutto, ancora odio biologia.
Niente e nessuno mi convincerà ad amarla.

Mi misi a sedere pregando ogni divinità in ascolto a fine di farle venire una crisi di tosse, o un terribile mal di pancia, magari dovuto a qualcosa che ha mangiato a casa.
Qualsiasi cosa.
A patto che stesse zitta.
La sua voce era così gracchiante e fastidiosa.
Un qualcosa simile allo stridere delle unghie sulla lavagna.

Afferrai il polso della mia compagna di banco per controllare quanto tempo restava ancora prima che quella terribile tortura finisse.
Solo cinque minuti.
I cinque minuti più lunghi della mia vita probabilmente. 
Iniziai a contare mentalmente secondo per secondo.

" Ed è per questo, che le temperature terrestri sono aumentate così tanto. " per ragioni a noi sconosciute, la prof aveva rimandato metà del programma di prima al secondo anno.
Quindi, ormai quasi alla fine del secondo anno, io e le mie compagne di classe ci ritrovammo a studiare cose come il sistema solare e l'atmosfera.

" Per domani, voglio una relazione per ogni argomento che ho spiegato questa settimana.
Invece tu Orsini, mi porterai una relazione per ogni argomento spiegato fin'ora. " sentenziò mettendosi a sedere dritta.

" Perché io dovrei portare delle relazioni per tutti gli argomenti spiegati fin'ora mentre il resto della classe porta solo i più recenti? " chiesi adirata.

" Per il semplice fatto che tu hai una grave insufficienza nella mia materia.
E suppongo che tu non voglia avere un debito, non è così? " domandò mentre sul suo viso si dipinse un ghigno soddisfatto.

" Ho la media del cinque virgola novantatre. " sbottai guardandola sconvolta. 
Non poteva mandarmi al recupero per un cavolo di cinque virgola novantatre!

" Non mi pare che sia sufficiente, signora Orsini. " abbassai lo sguardo per provare a calmarmi. 
Non è mai una buona idea mettersi un professore contro.
Rimasi in silenzio mentre la professoressa raccoglieva le sue cose.

L'ora di educazione fisica era una vera e propria boccata d'aria.
Di solito la trascorrevo seduta sugli spalti a leggere ma quel giorno decisi di fare un giro.
Attraversai il corridoio dove c'era la segreteria, svoltai a destra e mi ritrovai dinnanzi ad una scalinata che non avevo mai notato prima d'ora.
Il corrimano verniciato di rosso sembrava essere fresco di verniciatura.
Nessuna traccia di ruggine o altro.
Gli scalini erano ricoperti di polvere nei lati, segno che di lì quasi non passava nessuno.
Salii le scale lentamente quando mi resi conto, guardando fuori da una finestra, di essere nella parte posteriore della scuola.
Finite le rampe di scale, mi ritrovai davanti ad una porta in ferro socchiusa.
Avvicinai l'orecchio alla porta per provare a capire cosa si nascondesse dietro quella porta.
Non captai nessun rumore e così decisi di aprire la porta.

" Ma guarda... " borbottai stringendo gli occhi in due linee sottili per ripararli dalla luce del sole.
Socchiusi la porta alle mie spalle e camminai verso i motori dei condizionatori.

" Sono sulla sala professori. " pensai ridendo.
Spostai un telo di plastica tenuto a mo di tenda da un filo che andava dal bordo del tetto fin sopra la porta dalla quale ero entrata pochi secondi fa.
Inquadrai un ragazzo seduto di spalle.

" Davide? " il ragazzo si girò verso di me tranquillamente.

" Trovato! " esclamò sorridendo. 
Mi misi a sedere al suo fianco.

" Che ci fai qui? " chiesi curiosa.

" Abbiamo ora buca. Questo, mia cara, è il mio posto felice qui a scuola. " sorrisi sedendomi accanto a lui.

Scrutai attentamente il paesaggio circostante.
Molto verde a destra: campi coltivati e altri in attesa.
A sinistra, un'ampia strada a quattro corsie che scorreva a perdita d'occhio verso il centro di Milano. 
Un contrasto che mi ricordava il confine tra Manhattan e Central Park.

Certo, quella era la Manhattan dei poveri, e Central Park sembrava uno sciatto orticello... ma andava bene così.
Aveva il suo fascino nel suo non avere fascino.

Avevo visto quei campi e quella strada milioni di volte.
Probabilmente avrei potuto descrivere ogni particolare ad occhi chiusi.

Ci provai.
Chiusi gli occhi, abbassai il capo intrecciai le mani dietro al collo.

" Mi mancherà venire qui. " la voce di Davide mi riportò alla realtà mettendo fine al mio appello mentale.

" Non dovrai affrontare la maturità domani sai? " risi alzando gli occhi al cielo.

L'inverno era agli sgoccioli, certo.
Ma il cielo conservava ancora i suoi toni grigiastri e la sua aria uggiosa.

" Ho una proposta che è anche una sfida. " sentenziò dopo qualche secondo.

" Dovrei allarmarmi? " chiesi fingendomi preoccupata.

" Forse. 
Allora, tu verrai al mio esame.
Appena sarò fuori mi potrai nel tuo posto felice. " annuii leggermente.

" Dimmi, dove ti piacerebbe andare? " sorrisi senza neanche fermarmi a pensare.

" Norvegia. " affermai senza esitare.
Sorrise soddisfatto.

" La vedrai. " risi incrociando le braccia al petto.

" È assurdo. " constatai alzandomi.

" È una promessa la mia, signorina. " puntualizzò alzandosi a sua volta.

" E sentiamo, quale sarebbe la sfida? " chiesi portando le mani ai fianchi.

" Prima di tutto, superare la maturità. 
Poi beh... non perderci. " mi mordicchiai l'interno della guancia.
Era assurdo.
Ma nonostante tutto, non era poi un'idea così malvagia.

" Affare fatto. "

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Attenzione: all'interno del capitolo sono presenti affermazioni a "sfondo religioso" che potrebbero non essere condivise da tutti.
Vi chiedo, gentilmente, di non prendere tali affermazioni come offensive o altro.
Sono pareri, pensieri che ogni persona qui è libera di esporre.
Ovviamente utilizzando sempre le giuste parole e rimanendo educati
Grazie per l'attenzione e buona lettura.
 
 
***
 

Mi chiedevo se era quella la rassegnazione, quel vuoto aspettare, contando i giorni come i grani di un rosario, sapendo che non ci appartengono, ma sono giorni che pure dobbiamo vivere perché ci sembrano preferibili al nulla.

-Ennio Flaiano

 

 

 

In un mondo cinico, abituato alla violenza e ormai quasi privo di ogni emozione bisogna fare l'impossibile per tenersi strette le cose che ancora ci fanno sentire umani.

È incredibile come l'essere umano evolvendosi, abbia perso ogni traccia di umanità. Come abbia perso quel dettaglio che per secoli lo ha contraddistinto dalle bestie.

Eravamo dotati della ragione, avevamo la piena facoltà degli eventi, o quasi.

E ora? Eravamo convinti di poter gestire il nostro potere.
L'essere umano, in cima ad ogni cosa!
La specie, che svetta sulla piramide alimentare.
La specie più simile a Dio, i figli di Dio! 
Esseri che altro non stanno facendo se non autodevastarsi. I continenti, gli stati, i paesi; tutti inclini a distruggersi.

Abbiamo vissuto nella convinzione di essere i più forti.
I migliori.

Ma non si può essere migliori se non si fa altro che uccidersi tra simili.

Qualcuno disse che non puoi scoprire nuovi oceani fino a quando non hai il coraggio di perdere di vista la spiaggia.
E a quanto pare, è arrivato il momento di spostare lo sguardo altrove.

Ed io ci provai.
Provai a scoprire un nuovo oceano.
Ho tentato con tutta me stessa per anni a lasciare la mia piccola spiaggia.

Ma l'ignoto era così oscuro, poco prevedibile ed io avevo bisogno di stabilità.
Una stabilità tenuta da due pilastri forti e sicuri: la prevedibilità, appunto e la conoscenza.

Non volevo rischiare di ritrovarmi in situazioni a me sconosciute.
Prevedibilità e conoscenza.
Prevedibilità e conoscenza.
Prevedibilità.
Conoscenza.

Mi circondai di abitudini, la cosa per un po' sembrò funzionare.

Non vedevo Davide a scuola da quasi due mesi.
Ho provato a cercarlo al palazzetto, al parco.
Andai da lui ma la sorella rispose al citofono e con voce flebile, mi disse che Davide non c'era.

Stanca di girare a vuoto mi rassegnai all'idea che se avesse voluto vedermi, mi avrebbe cercata. 
E così fu dopo non molto tempo che simisi di cercarlo. 
Ci incontrammo al lago dove finalmente mi raccontò tutto.

" Ho un problema. " aveva iniziato col dire mentre percorrevamo la lunga strada in discesa con villette a destra e a sinistra.

" Perché solo ora mi cerchi? " domandai consapevole che sapeva benissimo da quanto lo stessi cercando io.
Ma ignorò la mia domanda è riprese a parlare.

" Proprio qui, e mi sta dando dei problemi. " disse indicandosi la testa.

" Ho provato con le chemio, ma non hanno funzionato. Quindi ho deciso di smettere. " sgranai gli occhi incredula.

" Smettere? Dio Davide! " esclamai sconvolta.

" Non puoi arrenderti! " scosse lievemente la testa.

" Sai, questo non è il primo tentativo.
E io sono stanco di star male per niente.
Non ci sono risultati per cui valga la pena lottare. " presi le sue mani e le strinsi.

" C'è sempre qualcosa per cui valga la pena lottare.
Quali sono i tuoi sogni? Cosa desideri dalla tua vita? " Davide alzò gli occhi al cielo coperto di nubi.

" Non ho niente per cui lottare, Aria. 
E i sogni non mi porteranno da nessuna parte. " scossi la testa spostando lo sguardo altrove.
Non volevo ascoltare.

" Mi hanno proposto di iniziare la terapia del dolore. " ritirai bruscamente le mani e incontrai il suo sguardo vitreo.

" Che cosa... cosa significa che vogliono iniziare la terapia del dolore? " chiesi con voce flebile. 
Davide si mise a sedere su una panchina all'ombra di un grande albero.

" Significa che non c'è più niente da fare.
Sono una bomba pronta ad esplodere.
C'è un maledetto timer proprio nella mia testa! E nessuno sa di preciso quando smetterà di ticchettare. " si chinò e prese una manciata di sassolini in una mano per poi restare ad osservarli.

" La terapia del dolore non mi darà più tempo.
Forse renderà quello che mi resta meno doloroso. " sospirò lanciando un sassolino nel lago.
Questo, rimbalzò un paio di volte sulla superficie del lago creando una serie di cerchi concentrici.

" Allora perché non farla? " chiesi confusa restando in piedi.

" Perché non voglio passare i miei ultimi giorni in una clinica imbottito di farmaci. 
O peggio sviluppare una dipendenza da morfina o qualcosa del genere. " mi misi difronte a lui e gli poggiai le mani sulle spalle.

" Cosa farai allora? Oltre a sperare in un miracolo. " puntò i suoi occhi nei miei e rise.

" Non credo nei miracoli. 
Anzi, non credo affatto. " lo guardai perplessa. Non andavo in chiesa da anni, ma mia madre mi ha da sempre cresciuta educandomi alla fede cattolica.
Non ho mai pensato a cosa in realtà credessi io.

" Non credi in Dio? " chiesi sedendomi al suo fianco.

" Non posso affermare se esista o meno, ma sono certo che non sia così buono e misericordioso con tutti.
Lui... lui non ci ama tutti. " lo guardai corrugando le sopracciglia.

" Perché dici questo? " Davide alzo gli occhi al cielo e sospirò.

" Ad ogni seduta di chemio, ad ogni 'suo figlio non sta rispondendo alle cure' o a notizie come quelle delle continue bombe sganciate sui paesi orientali, che ogni volta hanno messo fine a milioni di vite... non potevo fare a meno di pensare 'Se esisti, dove diavolo sei adesso? ' ." si passò le mani sul volto.

" Vedi, se io amo qualcuno, faccio di tutto per tenerlo al sicuro e per evitare che soffra.
Non gli rendo la vita difficile.
Non gli strappo via i figli.
Perché è così che va no? Siamo nelle mani del signore! Che sia fatta la sua volontà! " si alza e si avvicina alla riva del lago.

" Ma sai che c'è? Se è questa la sua volontà, che se la tenga per lui. Ho di meglio da fare che passare la mia vita incatenato ad un sadico. " rimasi in silenzio, non sapendo cosa rispondere dinanzi a tanta delusione e tanto dolore.

" Da piccolo andavo in chiesa con mia nonna.
Poi, la sera prima di andare a letto, pregavo per la mamma, per papà, per mia sorella.
Restavo inginocchiato vicino al mio letto a pregare in silenzio. " mi alzai e andai verso di lui.

" E guardami, guarda cosa ne ha fatto Dio di quel bimbo tanto devoto. " si indicò il volto con gli occhi carichi di rancore.

" Un maledetto straccio. " concluse esausto con voce tremante.
Si lasciò cadere sulle ginocchia e io mi chinai per sorreggerlo. 
Mi misi in ginocchio, ignorando i sassi che solcavano la pelle delle mie ginocchia nude.

Davide mi circondò le spalle con le braccia. Affondò il viso tra il collo e la spalla lasciandosi andare in un pianto silenzioso mentre gli accarezzavo la nuca.

 

Non era questo ciò che meritava. Nessuno merita tanta tristezza.
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

-Martha Medeeiros

Seguii Davide fin a casa sua.
Aveva uno sguardo impenetrabile e non aveva più detto una sola parola.

Sentivo un peso gravarmi sullo stomaco e mi sentivo mentalmente stremata.

Sapevo che Davide nascondeva qualcosa, era più che evidente, ma  non credevo potesse essere un qualcosa di così grande.

Non sapevo cosa fare e questo mi atterriva.

Spalancò la porta della sua camera e avanzò verso l'armadio. Lo aprì e gettò un pannello di legno ai piedi del suo letto. 
Mi avvicinai cauta e vidi che infilava delle banconote in un borsone. 

Senza dire nulla uscì dalla sua stanza e andò in quella dei suoi genitori rimasi sull'uscio della sua stanza quando lo vidi uscire con altri soldi tra le mani. Si avvicinò alla stanza della sorella e si fermò con la mano sul pomello. 

Mi avvicinai e gli poggiai una mano sulla spalla facendolo sussultare.

" Ne hai presi abbastanza no?" chiesi sforzandomi di apparire pacata e lui annuì senza guardarmi. 

Tornò sui suoi passi fino in camera sua ed io lo seguii silenziosa.

Prese dei vestiti e li mise alla rinfusa nella borsa. 
Aprì un cassetto, afferrò il passaporto, la carta di identità e una carta di credito.

" Hai un passaporto, vero? " chiese titubante con voce roca. 
Annuii confusa, ma non ebbi il tempo di chiedergli cosa avesse in mente che riprese a camminare su e giù per il corridoio.

" Davide! " lo chiamai dalla sua stanza.

" Che cosa vuoi fare? " domandai percorrendo il corridoio.

" Ti ho fatto una promessa. " affermò mentre scriveva qualcosa su un foglio.

" Vedrai la Norvegia. " spalancai gli occhi.

" Hey, Hey " gli poggiai una mano sul braccio " non pensi di star correndo un po'? " lui scosse il capo.

" Non so quanto mi rimane, Aria. " sospirò buttando il capo all'indietro.

" Scusa, avrei dovuto almeno chiedere il tuo parere. " borbotta graffiandosi il braccio in modo nervoso.

" Non è questo il punto... " gli prendo la mano fermando il suo tic nervoso "... hai la maturità, e manca quasi un mese alla fine della scuola. " Davide scosse la testa ridendo.

" La scuola è l'ultimo dei miei problemi. " affermò saccente.

" Ma non il mio. " ribattei incrociando le braccia al petto.

Un lampo di stupore sembrò illuminare per un attimo il viso di Davide, ma subito lasciò spazio ad un'espressione dura.

" Già, hai ragione. Non è un tuo problema. " afferrò il borsone e uscì di casa.

Rimasi per qualche istante immobile, prima di rendermi conto di essere stata troppo dura.

Abbassai lo sguardo sul ripiano della cucina e vidi un biglietto aereo.

Lo presi tra le mani e lessi il mio nome.

" Mio Dio... " sussurrai capendo che era il mio biglietto per Oslo. 

" Davide! " urlai scendendo le scale due a due.

" Accidenti, aspetta! " Davide non mi ascoltò e partì in sella alla sua moto.

Mi guardai intorno sperando di trovare qualcosa in grado di fermare Davide ma niente.

Non c'era anima viva.
Corsi nella direzione opposta a quella di Davide fino a scontrarmi contro Cris, il ragazzo di Giulia.

" Devi aiutarmi. " dissi senza troppi giri di parole.
Cris si mise in ascolto pulendosi le mani sporche di grasso per macchinari sulla salopette logora.

" Puoi accompagnarmi a casa e poi all'aeroporto? " lui annuii e chiese al padre di poter prendere una delle auto già pronte.

" Mi spieghi cosa sta succedendo? " domandò Cris senza distogliere lo sguardo dalla strada.

" Ho un volto tra un'ora. 
Scusami, lo so che stavi lavorando ma... " lui mi fermò sorridendo.

" Tranquilla, l'officina non andrà a rotoli. " gli sorrisi riconoscete.

Quando arrivai sotto casa non trovai mia madre e la cosa mi lascio perplessa.
Presi lo zaino della scuola e lo svuotai sul letto.

Ci infilai dentro alcuni vestiti, lo spazzolino e i documenti. 
Mi fermai un istante a fissare il passaporto mentre i ricordi dell'ultima vacanza in famiglia tornavano a galla.

Scossi la testa e lo misi tra le altre cose.
Decisi di scrivere un breve biglietto a mia madre, per avvisarla.
Le scrissi di star bene, e che l'avrei chiamata a breve.
Mi caricai lo zaino in spalla e tornai da Cris.

Partimmo a tutta velocità verso l'aeroporto nel più totale silenzio.

Quando arrivammo salutai velocemente il mio salvatore e corsi dentro.

Mancavano all'incirca venti minuti e dovevo ancora fare il check in.

Era quasi il mio turno quando mi resi conto che probabilmente non avrei passato il check in.

Tesa come una corda di violino, porsi il biglietto alla donna che mi sorrideva raggiante che dopo aver letto il mio nome ripiegò il biglietto.

" Suo fratello... il suo fratellastro scusi, ha già provveduto al check in. " spalancai gli occhi confusa. 
Ringrazia e ripresi la mia ricerca.

Le numerose voci che riempivano l'aeroporto rendevano difficile concentrarsi.

Afferrai un ragazzo per il polso e lo feci girare verso di me.
Con rammarico, mi scusai per l'errore e ripresi a cercare Davide.

Lo vidi appoggiato alla grande vetrata e quasi urlai dalla gioia.

" Davide! " lo chiamai a gran voce correndo nella sua direzione.

Alzò di scatto la testa e un'espressione stupita si dipinse sul suo volto.

" Non dovresti essere qui. " affermò mentre lo stupore lasciava spazio ad uno sguardo duro.

" Mi dispiace, non sarei dovuta essere così... insensibile. " ammisi sistemandomi lo zaino in spalla.

" No, Aria. Questa non è la tua battaglia d'accordo? Ho agito da stupido, credendo di poter trascinare te giù con me. 
Mi dispiace. " non aspettò una mia risposta e andò via.

" Allora perché hai fatto il check in per me, fratellastro? " Davide si fermò senza girarsi. 
Aspettai una risposta ma lui riprese a camminare. 

Sbuffai e gli corsi dietro.

" Davide, non puoi farlo! " gli urlai afferrandogli il polso.

" Ti prego, Aria.
Perché vuoi perdere il tuo tempo? Io non posso permettere che tu ti faccia peso di tutto ciò. " sussurra con voce tremante.

" Non m'interessa, tu hai fatto una promessa.
Io ho fatto una promessa.
Noi non ci perderemo Davide, non così. " 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


  "Che cosa sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di correre dei rischi?"

-Vincent van Gogh 

 

Strinsi forte la mano di Davide mentre sentivo il cuore battermi forte nel petto.

Avevo già preso un aereo, ma ero troppo piccola per ricordarlo.

"È la prima volta che voli?" chiese Davide ridendo.
Scossi la testa in segno negativo facendo lunghi respiri.

"Da piccola, mio padre portò me e la mamma in Irlanda." strinsi forte gli occhi.

"E la sua attuale compagna." cacciai un lungo sospiro di sollievo una volta terminato il decollo.

"Dev'essere stata dura..." scossi il capo lievemente sorridendo.

"No, per niente. Il ruolo di padre gli è sempre riuscito male." mi fermai improvvisamente non sapendo se continuare o meno.

"Lui... lui affermò che ero uno spiacevole incidente.
Una svista." risi amaramente

"Un errore al quale mia madre non ha voluto rimediare. 
Lei mi ha accetta." sussurrai fissando lo schienale del sedile difronte a me.

David mi passò un braccio sulle spalle e mi avvicinò al suo petto.

"Ora ciò che pensa lui non vale niente." bisbigliò poggiando il mento sulla mia testa.

"Saresti partito senza di me?" chiesi giocherellando con il laccio della felpa.

Aspettai una risposta da parte di Davide per un po' ma lui non rispose.
Mi tirai su per guardarlo negli occhi. 

"Forse è quello che avrei dovuto fare." si morse il labbro spostando lo sguardo verso il finestrino.

"Ma hai fatto il check in." alzò lo sguardo

"Perché sono un egoista." serrai la mascella pensando bene a cosa dire.

"Di cosa hai paura, Davide?" Davide restò per qualche secondo in silenzio puntando i suoi occhi nei miei.

"Di cosa ho paura?" un bambino iniziò a piangere dai posti dietro e subito dopo una voce dolce iniziò a cantare sottovoce. 
Il bambino si calmò e tutto tornò tranquillo.

Scosse la testa mordendosi l'interno  della guancia.

"Ho paura di svegliarmi un giorno e non ricordare chi sei.

Ho paura di non riuscire ad ascoltarti per il troppo mal di testa.

Di dover dipendere da qualcuno per tenermi in equilibrio, di non essere più capace di prendere decisioni o di essere troppo debole anche per pensare di potermi alzare dal letto.

Ma la cosa che più mi terrorizza , è che un giorno tu ti renda conto di non poter più reggere tutto questo.

Di star sprecando la tua vita per me." si bloccò di colpo come se si fosse reso conto solo al momento di aver parlato.

Rimasi in silenzio.
La situazione adesso era più chiara.
Avevo appena scoperto a cosa sarei andata incontro.

Che accidenti avrebbe dovuto fare una ragazzina in una situazione del genere?

Niente, perché una ragazzina non dovrebbe essere in una situazione del genere.

Inizia a riflettere sul da farsi.

L'aria condizionata mi fece rimpiangere di aver indossato solo una maglietta di cotone.

E se non fossi capace? Se dovessi solo peggiorare le cose? 

Si sentiva colpevole per avermi trascinata in un qualcosa di troppo grande per me.
 

Mentre io... beh, non avevo idea di come sentirmi. 

Come sarebbe andata a finire se mi fossi affezionata a Davide? No, troppo tardi, lo ero già. 

E se decidessi di non poter restare? Probabilmente mi sentirei in colpa per il resto della mia vita.

"Non posso..." sussurrai mentre vedevo gli occhi di Davide diventare sempre più bui.

"Hai... hai ragione. È stata una follia anche solo pensarlo. Scusa Aria, scusami." iniziò a farfugliare parole confuse. 

Afferrai il suo viso tra le mani e lui si bloccò di colpo deglutendo rumorosamente. 

"Hey, respira okay?" lui annuì poggiando le sue mani sulle mie.

"Faremo i biglietti appena arrivati." scossi la testa sorridendo lievemente. 

"Cosa, allora?" domandò confuso.

Mi inumidii le labbra con la punta della lingua prima di rispondere "non posso lasciarti." affermai accarezzandogli la guancia lievemente.

"Lo abbiamo promesso, ricordi?" sussurrai sorridendo. Davide annuii mentre un ampio sorriso si faceva spazio sul suo volto. 

Mi strinse a se affondando il viso tra i miei capelli "Grazie." portai una mano sulla sua guancia e mi accorsi che era umida. 

Alzai il capo e lo guardai dritto negli occhi.

"Posso darti un consiglio?" annuii guardandolo con un sopracciglio inarcato.

"Se la tua vita precipita, non permettere che nessuno ti salvi. Perché una volta salvata la tua vita non sarà mai più completamente tua. La dovrai sempre a chi ti ha salvata... e non sai mai chi potrebbe ereditarla." sbattei le palpebre più volte provando a capire cosa volesse dirmi Davide.

"Di cosa parli?"chiesi completamente spaesata.

Sorrise scuotendo lievemente la testa " non ancora. Ma ti prometto che capirai." 

Rimasi in silenzio sorridendo. 

Una voce ci avvisò dell'imminente atterraggio e mi affrettai ad allacciare la cintura.

Mi rilassai poggiando la testa al sediolino. 

L'aereo atterrò e mi voltai verso Davide con un sorriso stampato sul volto. 

 

"Pronta?" domandò, guardando fuori dal piccolo finestrino.

"Ci puoi giurare!" affermai ormai completamente euforica.

Davide si voltò e sorrise "Perfetto, casa ci aspetta." 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Soffriamo di ricordi, osserva Freud, ricordi
dimenticati, che non ci dimenticano.

 

-Ángel de Frutos Salvador

 

Un taxi ci portò in una casa sull'Oslo fjord.

Era mozzafiato, così come il paesaggio circostante.

Mentre eravamo in viaggio verso il fiordo Davide mi disse che quella che sarebbe stata la nostra nuova casa, apparteneva a lui e alla sua famiglia.

A quanto pare, il padre l'acquistò mentre era ad Oslo per lavoro.

La casa era molto luminosa, dalle forme semplici. Le mura erano quasi completamente sostituite tutte dalle vetrate. In molte zone le pareti erano nude e i mattoni sui toni del grigio dominavano l'ambiente.

I mattoni componevano anche la comoda penisola della cucina con un ripiano di marmo scuro e lucido.

Il soggiorno era anch'esso molto luminoso e spazioso. Un tappeto bianco copriva il centro della stanza e sopra di esso vi era posto un tavolo con il ripiano in vetro e la struttura in acciaio.

Un divano di pelle nera era rivolto verso la TV insieme ad altre due poltrone.

"Non credi che sia troppo grande solo per noi due?" chiesi continuando a guardarmi intorno.

"Non ci vive nessuno da anni. C'è solo Olaf che se ne prende cura." mi prende per mano e mi guida al piano superiore.

"Olaf il pupazzo di neve in Frozen?" Davide scoppiò a ridere.

"Il custode." precisò alzando gli occhi al cielo.

Arrivammo nella camera padronale e una lunga finestra rettangolare regalava una vista splendida.

Oltre il vetro, c'era uno specchio d'acqua che rifletteva le luci della casa creando un'atmosfera unica.

Sentii vibrare il telefono nella tasca dei pantaloni e sbiancai nel leggere il nome sul display.

"Mamma..." non riuscii a dire nient'altro che una marea di domande mi travolse.

" Si può sapere dove accidenti sei? Insomma Aria! Sai che ore sono? Il tuo hamburger si è ricongelato nel piatto!" allontanai il telefono dall'orecchio.

"Beh, ecco..." spostai lo sguardo preoccupata verso Davide e quest'ultimo lasciò la stanza senza dire nulla.

"Non sono a Milano." sussurrai tenendo gli occhi chiusi.

"Quindi dove sei?" mi passai una mano tra i capelli tirandoli leggermente.

"Mamma sto bene, e starò bene. Ma non potrò tornare a casa per un po'." mi misi seduta ai piedi del letto.

"Aria, hai esattamente tre secondi per dirmi dove sei." sbottò mia madre mentre io ero ormai nel panico più totale.

"Mamma sono in Norvegia." confessai tutto d'un fiato. Rimasi in attesa di una risposta ma niente. Pensai 'ecco, è svenuta.' ma dopo non molto riprese a parlare

"chiamo tuo padre." sgranai gli occhi tornando in piedi con un balzo.

"No mamma, ti prego. Posso spiegare tutto okay? Ma lascia fuori papà." sentii mia madre fare un respiro profondo e allora iniziai a spiegarle tutto.

Le raccontai di Davide, del suo calvario e in fine, della nostra promessa.

" Sta morendo mamma, ti prego. Andrà tutto bene. Non posso lasciarlo da solo." sussurrai sperando con tutta me stessa che capisse.

"Hai la scuola." affermò con voce stanca.

"Manca meno di un mese e io non ho fatto neanche un'assenza! E sono sicura che se andrai a scuola a parlarne con i professori loro capiranno. Ho ottimi voti in tutte le materie e Davide mi ha aiutata a recuperare matematica." parlavo a raffica, pregando ogni divinità in ascolto di aiutarmi.

"Hai quindici anni, Aria. Non posso lasciarti andare in giro per il mondo con uno sconosciuto, lo capisci?" una lacrima solitaria mi rigò il volto

"No, non lo capisco. Sbaglio o hai fatto lo stesso con papà a sedici anni? Siete scappati in Germania!" ora ero io ad urlare.

"C'era tua nonna lì." risi in modo nervoso.

"Non siete mai andati da nonna però." mi leccai il labbro inferiore soddisfatta, mi aveva raccontato della sua fuga d'amore con mio padre non molto tempo fa.

"Devi tornare a casa." disse decisa.

"Mi dispiace mamma, non posso. Ti voglio bene." non le lasciai il tempo di rispondere che chiusi la chiamata e tolsi la sim dal mio cellulare.

La spezzai in due e infilai i due pezzi in tasca.

Rimasi a guardare il cellulare abbandonato sul letto e decisi di togliere anche la batteria.

Chiusi tutto in un cassetto e raggiunsi Davide al piano di sotto.

"Scusami se ci ho messo molto." fece spallucce bevendo un sorso di birra.

Guardai alle sue spalle e vidi un'altra bottiglia vuota.

"Non credo che dovresti bere."

"È arrabbiata." sussurrò buttando giù l'ultimo sorso.

" Le passerà. " andai verso il frigo e aprii lo sportello.

"Olaf ha fatto la spesa?" presi una birra e mi misi a sedere.
Davide mi lanciò uno sguardo perplesso.

"Sapeva del nostro arrivo. " annuii avvicinando la bottiglia alle labbra.

"Hey, Gollum! Non hai l'età per bere." si sporse sul tavolo e provò ad afferrare la mia bottiglia.

"Mi paragoni a Gollum?"chiesi fingendomi offesa.

"Oh beh... siete alti uguali." fece spallucce rimettendosi a sedere.

"Molto simpatico, davvero." esclamai mordendomi il labbro inferiore per trattenere una risata.

"Lo so, sono pieno di qualità." sorrise intrecciando le mani dietro la testa.

Rimasi a guardare il suo viso, e cercando di fissare la sua espressione felice in modo indelebile nella mia mente, mi ritrovai a pensare come sarebbe stato vivere senza.





 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Hold up
Hold on
Don't be scared
You'll never change what's been and gone

May your smile (may your smile)
Shine on (shine on)
Don't be scared (don't be scared)
Your destiny may keep you warm
Cos all of the stars
Are fading away
Just try not to worry
You'll see them some day
Take what you need
And be on your way
And stop crying your heart out

-Stop Crying Your Heart Out, Oasis

 

"Accidenti, ho dimenticato il portafogli a casa!" imprecò Davide tastandosi le tasche.

"Laveremo i piatti da Starbucks a quanto pare." risi incrociando le braccia al petto.

"Non scherzare, non è divertente." sbuffò guardandosi intorno.

"Adesso chiamo Olaf e gli chiedo di portami il portafogli." prese il cellulare dalla tasca e compose il numero.

"Non è il tuo babysitter. È il custode, Davide.
Non puoi chiamarlo per queste sciocchezze."

"E sentiamo, cosa vuoi fare?" Mi sfidò poggiando il cellulare sul tavolino.

"Hai presente il negozio di fiori che c'è più avanti? Esci fingendo di star parlando al telefono e aspetta lì." mi guardò confuso.

"E tu?"sorrisi facendogli l'occhiolino.

"Al resto ci penso io." Davide annuì poco convinto e uscì fuori fingendo di parlare al cellulare.

Mi gaurdai intorno e alzai una mano non appena vidi una cameriera.

"Excuse me, can you take me my bill?" chiesi sperando che la ragazza parlasse almeno un po' l'inglese.
La cameriera si avvicinò sorridendo.

"Sure!" Sorrisi di rimando.

"Uhm... and can you show me where is the toilet?" rimasi ad aspettare che si allontanasse per alzarmi.

Andai verso il bagno alzando il cappuccio della felpa.

Una volta sicura di non essere vista dalla cameriera corsi verso l'uscita.

"Via! Via corri!" urlai raggiungendo Davide al posto prestabilito poco prima.

Corremmo a perdifiato per quasi un chilometro.

Arrivammo in un parco e mi appoggiai ad un albero scoppiando a ridere.

"È stato fantastico!" esclamai ancora con il fiato corto.

Davide mi guardò sorridendo mentre cercava di recuperare fiato.

"Cosa? Scappare senza pagare o correre come dei matti?" chiese terribilmente affannato.

"Beh..." feci un respiro profondo mentre il battito del mio cuore iniziava a rallentare "direi entrambi."

"Con questa siamo a due." Guardai Davide inclinando la testa di lato.

"Fughe, è la seconda." Precisò notando il mio sguardo confuso.

Scossi il capo sorridendo.

"Tre.
Scuola, Norvegia e ora Starbucks." lo corressi sedendomi sull'erba umida.

"Ne hai altre in programma?" chiese sedendosi al mio fianco.

Rimasi in silenzio per qualche istante fissando un altalena dondolare dolcemente avanti e indietro.

"Non so, vedremo." scattai in piedi.

"Dove vai?" mi urlò Davide.

Presi posto su una delle due altalene e iniziai a dondolarmi.

"Scommetto, che riesco ad andare più in alto di te." Affermò Davide avvicinandosi.

"Ah sì?" si appoggiò con la spalla allo scivolo rosso.

"Già. Da piccolo vincevo sempre io."

"A quanto pare sei anche un campione in modestia." risi scendendo dall'altalena con un balzo.

"Ero un bambino con meno anticorpi che corni d'oro." fissai Davide sorridendo per lo strano paragone.

"Gli altri bambini mi lasciavano vincere." sussurrò fissando i suoi piedi sorridendo leggermente.

"Lo avevo capito, ma lasciavo che loro pensassero di farmi felice." Disse alzando lo sguardo e facendo spallucce.

"Da quanto tempo va avanti?" Domandai avvicinandomi un po' di più.

Mi domandavo da tempo quando avesse iniziato a star male.

A come fosse iniziato tutto e sei mai avesse avuto una fine, se pur breve.

"I primi esami che hanno dato esiti positivi quando avevo circa undici anni." serrai la mascella trattenendo il respiro.

Davide si inumidì le labbra con la punta della lingua.

"I miei provarono a convincermi che non fosse niente di grave,che si trattava di un malanno un po' più insistente, ma capii che non era così nell'esatto momento in cui mia madre scoppiò a piangere." rimasi a guardarlo mentre provavo a mandare giù il terribile groppo alla gola che mi rendeva difficile addirittura respirare.

Davide iniziò a camminare.

"Non ho mai chiesto ai miei perché tutto ciò stesse succedendo proprio a me, a noi."

"Ma l'hai pensato." sussurrai affiancandolo.

"Sì, ovvio. Chi non lo fa quando si ritrova in situazioni spiacevoli?"annuii silenziosa.

"Dopo un anno di terapia, i medici dissero che la malattia era in remissione e che presto sarei tornato a casa.

E fu così.

Tornai a casa, ripresi la scuola e gli allenamenti di basket." la voce di Davide si spezzò improvvisamente. Voltai il capo verso di lui e vedi che stringeva le labbra in una linea sottile.

Scosse la testa stringendo gli occhi e fece un respiro profondo.

"Durante le vacanze estive, prima dell'inizio del quarto anno del liceo, iniziai a non sentirmi bene.

Mi faceva male spesso la testa, mi si appannava improvvisamente la vista e notai di non riuscire più a reggere i ritmi dei miei compagni durante gli allenamenti.

Incolpai lo stress, le ore piccole e mi tranquillizzai pensando che si sarebbe risolto tutto da se una volta ripresa la solita routine." rimase in silenzio per qualche istante, eravamo quasi arrivati a casa.

"Tornai a scuola e mollai la squadra di basket quando mi accorsi che i sintomi peggioravano di giorno in giorno.

Feci degli esami che rilevarono la comparsa di un nuovo tumore.

Più esteso, più veloce e più aggressivo dell'ultima volta." candidi fiocchi di neve iniziarono a volteggiare nell'aria.

"Le hanno provate tutte" sorrise debolmente con gli occhi spenti e cupi "ma hanno perso tempo e basta." entrò in casa lasciandomi immobile mentre la neve inumidiva i miei capelli e arrossava la pelle delle mie gote.

Mi misi a sedere nella veranda al coperto che dava sul bosco.

Le chiome degli alberi sembravano un'unica cosa, uno sfondo nero dai bordi irregolari.

La neve scendeva giù lenta ed elegante, come una sposa nel suo ampio abito bianco.

Nuvoloni neri ricoprivano il cielo oscurando i deboli raggi di luce.

 

"So a cosa stai pensando, Aria." sobbalzai spaventata dall'improvviso arrivo di Davide.

"Pensi che io sia un folle a non voler tentare nessun trattamento.

Probabilmente, in cuor tuo speri di riuscire a farmi cambiare idea." mi borse una birra già stappata.

"Non è così?" presi la mia birra sorpresa.

"Dovresti indossare qualcosa di più caldo." borbottai spostando lo sguardo sugli alberi ancora una volta.

"Perché? Sennò mi ammalo?" domandò ridendo.

Gli lanciai un'occhiataccia ma non risposi. Non potevo farlo.

"Perché sei ancora qui, Aria?" passai il pollice sul vetro disegnando forme astratte sulla condensa.

"Abbiamo fatto una promessa." scosse il capo posando bruscamente la sua birra sul tavolino alla sua destra, proprio in mezzo a noi.

"Cazzate! Cosa speri di ottenere esattamente? Eh?" sbraitò puntando i suoi occhi nei miei.

"Io..." provai a parlare ma non ottenni nessun risultato. Le parole proprio non ne volevano sapere di mettersi una dopo l'altra.

"Perché ti ostini a volerti far carico del mio dolore?" la sua voce tremò rivelando tutta la sua paura.

Paura di morire, di non aver vissuto abbastanza, di aver sbagliato tutto.

Tremò rivelando tutta la sua insicurezza.

Perché mentre lui lottava contro il tempo ogni sua certezza crollava come fragili foglie in autunno.

Tremò, rivelando tutta la tristezza.

 

Non parlai, ma mi mostrai a lui guardandolo nel modo più sincero che potessi.

Senza paura di ferirlo o deluderlo.

 

Gli sussurrai tutto il mio affetto nei suoi confronti senza aprir bocca.

 

Si alzò, e andò via

mentre il rumore della sua anima che si sgretolava rimbombava tutto intorno.

 

Alzai gli occhi al cielo ormai buio ed entrai in casa.

Arrivai dinnanzi alla porta della sua camera ed esitai per qualche istante sul da farsi.

Poggiai la mano sul pomello freddo e feci un respiro profondo.

"Non pretendo che tu riprenda le cure." affermai qualche istante dopo essere entrata.

La stanza era in penombra e non riuscivo bene a scorgere il profilo di Davide tra le coperte.

"E se sono qui, è solo ed esclusivamente perché non meriti di vivere tutto questo da solo."sussurrai sedendomi sul bordo del materasso dandogli le spalle.

"Non pensare che io sia una stupida a volerti restare accanto" risi con voce rauca "o a voler dividere il tuo dolore.

Perché non appena il tuo avrà fine per me ne inizierà un altro." strinsi i pugni poggiati sulle ginocchia.

 

"Mi dispiace, d'accordo? Non avrei voluto essere in questa situazione, esattamente come te."

"Ma la vita è una gran bastarda, e non sempre riesci a fregarla." mormorai mentre una lacrima mi solcava una guancia.

Udii il lieve fruscio delle coperte e subito dopo sentii due braccia stringermi da dietro.

Mi lasciai andare in un pianto liberatorio ma silenzioso mentre Davide mi trascinò giù, stesa con il viso contro il suo petto.

"Shh... non fare così, Aria." sussurrò stringendomi a se.

"Non cercare di fermarmi, te ne prego." mi accarezzò piano la testa in un gesto consolatorio.

"Smettila di piangere, non aver paura. Tutto questo non cambierà mai ciò che è stato."

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


La vita
sarebbe
forse più semplice
se io
non ti avessi mai incontrata
Meno sconforto
ogni volta
che dobbiamo separarci
meno paura
della prossima separazione
e di quella che ancora verrà

-Erich Fried

Mi svegliai nel cuore della notte nella stessa posizione in cui mi ero assopita poche ore prima.

Mi districai piano dalle braccia di Davide facendo attenzione a non svegliarlo.

Scivolai via dal dolce tepore delle coperte e rabbrividii per il freddo.

Un terribile mal di testa iniziò a farsi strada nella mia testa.

Aspettai che la vista si abituasse al buio prima di muovermi all'interno di quella stanza ancora estremamente estranea. 

Arrivai senza grossi problemi in soggiorno. 

Allungai una mano e cercai a tastoni l'interruttore.

La pioggia batteva incessante sui vetri.

Mi resi conto che erano le sei del mattino nonostante fosse ancora buio fuori.

Tornai in camera per prendere dei vestiti puliti e andai in bagno per farmi una doccia.

Infilai i jeans e il maglione quando sentii un rumore sordo provenire dal piano terra.

Con ancora i capelli umidi andai verso la cucina mentre un rumore di vetri rotti mi riempì le orecchie. 

Era vuota.

" Davide, sei tu? Hai sentito quel rumore? " Chiamai a gran voce ma non arrivò nessuna risposta.

" Davide? " raggirai la penisola della cucina e vidi Davide accasciato contro la lavastoviglie.

" Mio Dio! Davide! " mi inginocchiai al suo fianco.

" Che ti succede? " Chiesi preoccupata passandogli un braccio dietro la testa

" Devi... devi chiamare Olaf. "sussurrò stringendo forte gli occhi.

" Capanno... alberi " mormorò stringendo forte la mia mano.

Dopo qualche secondo passato a pensare a cosa fare scattai in piedi improvvisate lucida.

Uscii di corsa dall'abitazione e mi inoltrai nel bosco.

Mi ritrovai a correre lungo lo stretto sentiero umido con il freddo che mi trapassava le ossa.

Frenai bruscamente rischiando di cadere.

Osservai bene il posto sperando di scorgere il vecchio capanno di legno ma niente.

Il cielo era buio e non vedevo ad un palmo dal mio naso.

Ero terrorizzata e il cuore sembrava voler esplodere.

Ripresi a correre e finii con l'inciampare in una radice.

Mi sporcai le ginocchia di terra e delle piccole pietre mi provocarono delle piccole ferite ai palmi.

Mi rialzai nonostante la caviglia dolorante e svoltai a destra.

Finalmente vidi un camino fumante e quasi scoppiai a piangere dalla gioia.

" Hey! Hey c'è qualcuno? " urlai sbattendo i palmi contro la porta di legno che tremava sotto i miei colpi.

"Per favore! Mi serve aiuto, adesso!" strillai disperata.

Improvvisamente la porta si aprì e dell'oscurità della casa uscì uomo.

Mi puntava la canna del suo fucile da caccia sul petto.

" Oh mio Dio! " Urlai facendo un balzo indietro.

" Hvem er du? "domandò senza abbassare la guardia.

" Eh? " esclamai confusa con il cuore che rischiava di esplodermi nel petto.

" Hvem er du? " rimasi a fissarlo come un ebete finché non ripresi coscienza grazie a un colpo ben assestato con la canna del fucile alla testa.

Crollai sul terreno bagnato ma mi tirai subito su.

" Che diavolo ti prende Olaf? Mi hai vista qualche ora fa! Con Davide! " Urlai allargando le braccia.

L'uomo abbasso il fucile fissandomi confuso.

" Du er venninne av Davide? " annuii sorridendo.

La pioggia non sembrava voler accennare a smettere ed io ero competente inzuppata e sporca di fango da capo a piedi.

" Sì! Davide! " lo afferrai per il braccio e lo trascinai fuori dalla boschiva.

Entrammo in casa e condussi Olaf da Davide.

Lo ritrovai disteso per terra immobile.

" No, no, no! Accidenti no! " mi inginocchiai al suo fianco.

Accostai il mio viso al suo per controllare il respiro.

" Chiama un'ambulanza! "ordinai aprendo un cassetto ai piedi della cucina.

Arrotolai uno strofinaccio e lo misi sotto la testa di Davide.

Mi voltai verso Olaf che mi fissava con i suoi piccoli occhi blu.

" Chiama una maledetta ambulanza! " urlai ancora.

Ero consapevole che non capisse una sola parola di ciò che gli stavo urlando contro, ma in una situazione del genere cos'altro di ovvio c'è da fare?

Mi sporsi sulla penisola e afferrai il telefono di Davide.

Cercai su internet un numero per le emergenze passai il telefono ad Olaf che finalmente aveva capito cosa fare.

Dopo non molto arrivò un ambulanza e Davide fu trasportato in ospedale. 

Non appena l'ambulanza partì arrivò un taxi.

Guardai Olaf con un sopracciglio sollevato.

" Finalmente ti sei attivato. " sbuffai salendo a bordo.

" I'll tell you one last time" sospirai sul punto di una crisi di nervi " My friend was brought here two minutes ago! " l'infermiera mi squadrò scocciata.

" Well, are you guy's family member? " mi morsi il labbro inferiore annuendo.

" Yeah, I'm his half sister. " mentii sperando di sembrare almeno un minimo convincente.

" And he? " chiese indicando con un cenno Olaf alle mie spalle. Socchiusi gli occhi e respirai profondamente.

" He " andai verso Olaf poggiandogli una mano sulla spalla " He is my sweet dad. Say Hi dad! "esclamai fingendo un sorriso raggiante.

Olaf dal canto suo se ne stava muto e fissava con diffidenza la donna.

"Per la miseria abbiamo il diritto di sapere come sta!" urlai disperata.

" You can wait in the waiting room. " lasciai cadere le braccia lungo il corpo.

Non mi avrebbe mai permesso di vedere Davide, non in quel momento almeno.

Ma io avevo bisogno di sapere cosa gli fosse successo, non potevo restarmene seduta a far niente.

Mi guardai intorno, provai a ricavare quante più informazioni possibili dai vari cartelli.

L'infermiera mi lanciò un'occhiata truce ed io ricambiai con una di sfida.

Con uno scatto rapido corsi verso il corridoio centrale.

Sentii che mi urlò qualcosa, ma cominciai solo a correre ancora più veloce. 

Salii a piedi fino al primo piano e svoltai a destra. Sbirciavo velocemente in ogni stanza fin quando non trovai quella di Davide.

Era immobile in un letto affiancato da un medico e un'infermiera.

Entrai e subito i due interruppero la loro discussione.

Rimasi a scrutare il viso rilassato di Davide, la pelle chiara del suo petto e poi vidi una serie si fili e altre cose che lo tenevano collegato a macchinari che producevano sbuffi e altri rumori fastidiosi.

Camminai lentamente fino ai piedi del letto.

Sentii dei passi veloci correre lungo il corridoio.

Mi voltai e vidi l'infermiera che non voleva darmi informazioni fissarmi furibonda con il viso rosso.

Ordinò qualcosa ai due infermieri che l'avevano seguita e quest'ultimi si avvicinarono a me.           
Mi afferrarono per le braccia e mi trascinarono verso l'uscita.

" No! Lasciatemi andare subito! " sbraitai scalciando. 

Mi girai a guardare Davide mentre i due continuavano a trascinare via.

" Vente! "i due uomini si fermarono e io mi voltai a guardare il medico alla mia destra.

L'infermiera mi lanciò un ultima occhiataccia e se ne andò, seguita dai due infermieri.                                                                                                  
Il medico dai capelli scuri fece un cenno con la testa alla donna al suo fianco che uscii senza fiatare.

" Vieni con me. " disse con un sorriso cordiale mentre usciva dalla stanza.

 Lo seguii meravigliata, finalmente qualcuno con cui poter parlare in modo chiaro e senza fraintendimenti.

" Matteo Galli, neurologo. " si presentò porgendomi la mano senza fermarsi.

" Lei è italiano? " domandai mentre entravamo in ascensore.

" Sì, ma vivo ad Oslo da quasi due anni. " annuii incrociando le braccia al petto.

" Almeno lei mi dirà qualcosa? "  

" Cos'è che ti interessa sapere? " alzai lo sguardo verso di lui.

" Sta bene? " chiesi con un filo di voce mentre speravo con tutta me stessa di non dovermi preparare al peggio.

La pioggia aveva smesso di scendere giù e aveva lasciato spazio a un timido sole pallido che tentava di farsi spazio tra i nuvoloni.

" Dovresti contattare un parente. " disse sedendosi su una panchina.

" Perché? La prego, mi dica cosa sta succedendo. " l'uomo si appoggiò con la schiena contro il legno umido della panchina.

" Non dovrei, non posso dare informazioni a estranei. " lo guardai sbalordita.

" Estranei? Sul serio? Sono letteralmente scappata da scuola con quel ragazzo.
Siamo venuti qui senza dire niente a nessuno e qualche ora fa siamo scappati da uno Starbucks senza pagare.
Non sono un familiare, ma ho condiviso non poche cose con lui.
Ho tutto il diritto di sapere cosa sta succedendo al mio amico! " affermai sicura, riuscendo addirittura a controllare il mio tono di voce.

" Non importa quanto sia contro le regole, lei deve dirmi cosa sta succedendo. "

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


 And even when you know the way it's gonna blow, 

It's hard to get around the wind.

It might not hurt now but it's gonna hurt soon.  

-It's Hard To Get Around The Wind, Alex Turner 

 

***

Molte volte, la vita ci chiama a scegliere. 

Ci mette dinnanzi ad un bivio e ci chiede di fare una scelta.

E aspetta

Con incredibile pazienza 

Il nostro permesso per continuare a scorrere.

A volte, la vita, chiede se sei sufficientemente pronto per riprendere a marciare.

A volte, ti lascia indietro così che tu possa capire come in realtà

Non hai scelta.

Osservavo angosciata il viso stanco dell'unica persona che realmente sapeva cosa stesse succedendo a Davide.

Il vento iniziò a soffiare gelido mentre le persone che entravano ed uscivano, da quello che oserei quasi definire "un purgatorio in terra", si stringevano nei loro cappotti.

" Suppongo fosse già a conoscenza delle condizioni di salute del ragazzo. " annuii incitandolo con lo sguardo a continuare.

Stringevo forte l'orlo della mia manica mentre la mia mente iniziava ad elaborare svariate ipotesi.

" La situazione è critica, non resta molto tempo. " scattai in piedi tenendo i pugni serrati lungo i fianchi.

" Cosa significa? Lui sta bene? " domandai, sentendo lo stomaco rivoltarsi. 

Tutto diventò confuso.
Il cuore iniziò a battermi forte nel petto e i miei occhi diventarono lucidi.

Non ascoltai nient'altro e corsi verso l'entrata dell'ospedale. 

Non poteva essere vero. 

No, non ancora. 

Crollai al suolo priva di forze. Non posso fermarmi, non c'è tempo per questo. 

Mi aggrappai alla maniglia di una porta e mi tirai su.

Attesi qualche istante prima di ricominciare a correre. 
 

" Mamma, perché papà sta caricando delle valigie in auto? " chiedo senza ricevere nessuna risposta. 

Sento le gambe farmi male, sono sfinito nonostante non abbia fatto niente.

" Mamma! Risponderti ti costa così tanto? " lei si volta a guardarmi sorseggiando del vino rosso dal suo bicchiere di cristallo. 

" Torna in camera tua, Davide. " la ignoro ed esco in giardino.

" Dove vai? " chiedo con un soffio di voce.

" Ho degli impegni di lavoro. " chiude bruscamente lo sportello dell'auto senza guardarmi.

" Cazzate. " mi piazzo tra lui e lo sportello.

" Non usare questi termini. " sbotta duro.

Mi guarda, e capisco che quello nei suoi occhi non è rabbia, ne voglia di mentire.

È paura.
 

" Davide! " mi piegai sulle ginocchia prendendo la sua mano nella mia.

" Come ti senti? " lo vidi guardarsi intorno frastornato.

" Dobbiamo tornare a casa. " sussurrò puntando i suoi occhi nei miei.

Annuii, facendo il possibile per trattenere le lacrime che minacciavano di scorrere lungo le mie guance.

" Ci penso io, tu riposa. D'accordo? " mi avvicinai di più al suo viso spostandogli una ciocca di capelli dalla fronte.

" Preparo tutto io. " sussurrai con la voce che faticava ad uscire. 

Davide mi strinse debolmente la mano.

" Non guardarmi così, Gollum. Va tutto bene. " sollevò gli angoli della bocca sorridendomi. 

" Il peggio deve ancora arrivare. Tua madre sarà parecchio incavolata. " sollevo le sopracciglia ridendo leggermente. 

Annuii, sorridendo appena. 

" Va a casa, fa una doccia e riposati " spostò lo sguardo sulla porta alle mie spalle " io me la caverò. Domani sarà una lunga giornata. " esitai, ma alla fine cedetti e raggiunsi Olaf che aveva atteso con incredibile pazienza.

Un taxi ci riportò a casa, Olaf entrò e preparò la cena per poi tornare nella sua casa di legno tra gli alberi. 

Restai immobile a contemplare lo stufato bollente senza muovere un muscolo.

Con il mento appoggiato sulle ginocchia piegate all'altezza del petto mi persi a pensare a tutte le cose fatte con Davide.

Una sensazione mai provata prima iniziò a graffiarmi dall'interno.

Paura, tristezza e la consapevolezza di non poter fare niente.

Di essere ferma, immobile.

 Obbligata a vedere come le cose accadono senza che  io possa dire la mia.

Costretta a sottostare a decisioni tragiche che porteranno solo sofferenza.

 

No, non poteva essere così.

Non aveva senso.

Quindi perché doveva comunque accadere?

 

Scattai in piedi, rovesciando la sedia.

Avevo il respiro affannato e il battito accelerato. 

Infilai le mani tra i capelli e strinsi forte gli occhi.

 

Mi sembrava di essere in un sogno.

Uno di quelli dove corri a perdifiato senza però muoverti di un millimetro. 

 

Come può, una persona, vivere sapendo che morirà prima del previsto? 

Come può non urlare in preda alle disperazione?

Come si può non impazzire?

Come si fa a non impazzire di dolore dinnanzi ad una certezza tanto dura? 

 

Andai verso la cucina e aprii il rubinetto lasciando l'acqua scrosciare per un po'.

Scossi il capo per ritornare alla realtà e riempii un bicchiere con dell'acqua.

 

Lo portai alle lebbra e bevvi un sorso d'acqua. 

Abbandonai il bicchiere sul ripiano in marmo e mi vi appoggiai con la schiena scivolando lentamente fino a terra. 

Portai le ginocchia al petto e ci poggiai sopra la fronte.

C'era solo da aspettare che l'inevitabile facesse la sua ultima mossa.

E poi?

E poi sarebbe finito tutto.

Scomparirà ogni traccia di speranza e non mi resterà che raccogliere i cocci. 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


" È nella separazione che si sente e si capisce la forza con cui si ama. "

- Fëdor Dostoevskij

 

Restai con la fronte appiccicata al piccolo finestrino per quasi tutta la durata del viaggio.

Davide aveva firmato delle scartoffie prima di abbandonare l'ospedale.

Non aveva affatto un bell'aspetto, ma stava leggermente meglio rispetto al giorno prima.

Lo guardai mentre dormiva.

Lo coprii meglio, l'aria condizionata avrebbe potuto peggiorare le cose.

 

Avevo chiamato mia madre con il cellulare di Davide prima di salire sull'aereo.

Inutile dire che ignorai le mille domande che mi urlò e riconsegnai il telefono a Davide.

Non avevo la minima intenzione di subirmi un'ora di urla, non avrei saputo neanche cosa rispondere.

 

Poggiai la testa contro il sedile e sospirai silenziosamente.

Come avrei potuto continuare ad essere felice senza il suo non saper controllare o nascondere neanche la più piccola emozione?

Come avrei potuto concepire che smettesse di esistere, come se niente fosse.

Come avrei affrontato le interminabili ore di matematica e biologia senza le scappatelle al bar con lui?

Con chi mi sarei lamentata dell'odio sproporzionato che nutrivo nei confronti della matematica?

Come poteva rappresentare così tanto per me solo dopo pochi mesi?

 

Guardai nuovamente fuori e intravidi il suolo italiano. 

Mi si strinse il cuore in una morsa dolorosa.

 

La Norvegia aveva fatto nascere in me un lieve barlume di speranza.

Sapevo di starmi illudendo, ma quella sensazione era troppo piacevole da lasciare andare.

 

Ma quando l'aereo toccò terra dovetti aggrapparmi a tutta la forza che avevo in corpo per non scoppiare a piangere. 

Era più che chiaro, era finita.

Non c'era più niente in cui sperare.

 

 

Recuperammo i nostri zaini e rimanemmo immobili.

Nessuno dei due osava parlare.

Fissammo la grande vetrata per un po' fin quando non scorsi mia madre e mio padre correre furibondi verso di noi.

Vidi anche la sorella di Davide e genitori a seguito.

Sbiancai, vedendo due agenti in divisa seguire i nostri genitori.

 

Strinsi forte il laccetto della mia felpa sentendo le gambe farsi molli e il cuore battere forte. 

 

I due agenti afferrarono Davide per le braccia e lo zaino che teneva con una mano precipitò a terra con un tonfo.

 

Gli tenevano le mani bloccate dietro la schiena.

 

Scattai verso di lui ma qualcuno mi afferrò da dietro e mi trascinò via.

 

" Lasciatemi! Lasciatelo stare! Non ha fatto niente! " urlai scalciando e dimenandomi.

Vidi Davide guardarmi sconvolto.

Urlai con tutto il  fiato che avevo in corpo mentre la gente osservava, sconvolta, la scena.

 

Trascinarono via Davide mentre io ancora mi dimenavo disperata.

" Aria, Aria calmati! " ignorai la voce agitata di mia madre.

" Ho detto lasciatemi! Perché lo portate via? Davide! "crollai sulle ginocchia guardando sconvolta l'auto della polizia allontanarsi.

Mi sollevarono di peso e mi portarono via.

Non reagii.

Non urlai, non mi dimenai.

Non lottai più.

 

Ero stremata.

La gola bruciava e non riuscivo a fermare il mio pianto silenzioso.

Sperai che fosse tutto solo un incubo e che presto mi sarei svegliata.

 

" Cosa avete fatto? " mormorai non appena mio padre mise in moto.

 

" Cosa diamine avete fato? " urlai guardando gli occhi lucidi di mia madre dallo specchietto retrovisore. 

" Questo si chiama rapimento. " spalancai gli occhi incredula.

" Ditemi che non siete seri. " risi nervosamente.

" Sei minorenne! Non puoi andar via dall'Italia senza neanche dircelo! " sbottò mio padre.

Scossi la testa furibonda. 

Aprii lo sportello e un allarme iniziò a fischiare per avvisare che c'era uno sportello aperto.

" Chiudi lo sportello! "

" Ferma l'auto o giuro che salto! " urlai di rimando.

" Sei impazzita per caso?! " urlò mia madre.

" Non sono io quella che accusa un ragazzo che sta per morire di rapimento! " calò il silenzio nell'abitacolo. 

I miei genitori si scambiarono un breve sguardo. 

" Andrai a vivere con tuo padre per un po'  "affermò con voce incerta mia madre tenendo lo sguardo basso " in Germania. " spalancai gli occhi. Non avrei mollato tutto e tutti così facilmente. 

 

" Dovete ritirare le accuse, sono assurde! 

Se questa cosa andrà avanti voi non mi vedrete più. " mio padre strinse forte il volante tra le mani. 

Ero già scappata di casa.

A dodici anni, mio padre voleva a tutti i costi che io andassi a vivere in Germania con lui. 

Sanno che potrei rifarlo, e stavolta per sempre.

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Arrendersi sembrerà anche l'unica alternativa, ma potrai continuare ad essere libero dalle catene del rimpianto solo quando lotterai comunque, contro ogni previsione anche al costo di star solo sprecando energie.

Mi guardai intorno cercando una via di fuga con lo sguardo. 
L'auto era ferma e il motore spento.

Le chiavi erano state rimosse dal quadro d'accensione e non c'era modo di uscire.

Mi fermai improvvisamente mentre un ricordo mi balenò in mente.
Ricordai quando mio padre al mio compleanno dimenticò le chiavi di riserva nel piccolo portaoggetti tra i sedili.

Scattai in avanti sperando di non aver fatto un buco nell'acqua. 

Trovai la chiave e un piccolo grido di gioia uscì dalle mie labbra.
Passai al posto del guidatore e con le mani che mi tremavano provai ad infilare la chiave nel quadro.

Al terzo tentativo finito male feci un respiro profondo e guardai fuori.
Il finestrino bagnato dalla pioggia rendeva difficile distinguere bene le immagini. 

Una luce improvvisa mi abbagliò e mi costrinse a socchiudere chi occhi. 
Finalmente riuscii ad inserire la chiave e ad accendere l'auto.

Azionai i tergicristalli e finalmente riuscii a vedere meglio.

Vidi Davide uscire dall'auto e il mio cure iniziò a battere più forte.

Spalancai lo sportello e corsi verso di lui sotto la pioggia battente.

" Davide! " urlai mentre la pioggia inzuppava i miei vestiti.

Lui alzò la testa e socchiuse gli occhi per vedere meglio.

Lo abbracciai scoppiando a piangere.

Mi strinse a se, tenendo il viso nascosto contro la mia spalla.

" Mi dispiace... mi dispiace così tanto. " sussurrai con voce tremante.

" Non è colpa tua, andrà tutto bene. " 

Dicono che quando si è molto legati a qualcuno si possa sentire quando è in pericolo, o anche quanto soffre.

Erano passate solo poche ore dall'ultima volta che avevo visto Davide.

Non avevo chiuso occhio.
Ero distrutta, ma ciò non dipendeva dalla mancanza di sonno.

Sentivo il mio dolore crescere e graffiarmi dall'interno.

Avevo così tanta voglia di urlare, ma non ne avevo la forza.

Avevo un'unica possibilità per tirare fuori Davide da quel casino.

I miei genitori avrebbero annullato tutto e ritirato ogni accusa nei confronti di Davide ad una sola condizione: sarei dovuta andare via con mio padre.

Preparai una valigia con alcuni vestiti e sistemai con cura i miei libri.

Mi allontanai dal letto e rimasi ad osservare la mia stanza.

C'erano vestiti sparsi un po' ovunque.

Fogli sparsi sulla scrivania e le tende chiuse che rendevano la stanza buia e fredda.

Mi coprii la bocca con una mano mentre una lacrima solitaria mi bagnava la guancia.

Avevo meno di due ore.

Lasciai perdere i bagagli e afferrai il mio cardigan grigio e corsi fuori.

Corsi, come non avevo mai fatto in vita mia.
Con il cuore che pareva volere uscirmi dal petto.

Corsi, sentendo l'aria fredda di fine ottobre arrossarmi le gote e la punta del naso.

Arrivai ai piedi del palazzo dove viveva Davide e salutai gentilmente il portinaio.

" Salve, sono un'amica di... " mi bloccai, vedendo la sorella di Davide spuntare alle spalle dell'uomo dai capelli brizzolati.

" Aria? Non dovresti essere qui. " mi fece notare fredda.

" Ascoltami, per favore.
So che per colpa dei miei genitori avete avuto dei problemi, ma io non c'entro niente in tutto questo.
Devo vedere Davide, ti prego. " sussurrai ancora affannata.

" No, non se ne parla. Torna a casa. " camminò verso l'atrio.

" Aspetta! D'accordo, hai tutto il diritto di essere arrabbiata, okay? 
Ma io devo parlargli.
Non posso andar via sapendo di non avergli detto nulla. " lei si fermò e restò immobile per qualche istante.

" Non so perché te lo sto permettendo " sospirò alzando gli occhi al cielo " ma vai, fa quello che devi fare. " sorrisi e sussurrai un " grazie " prima di correre via.

Ero stata in quel posto solo una volta prima di all'ora, ma ricordavo perfettamente dove andare.

Bussai tre volte prima che qualcuno dall'altro lato desse segni di vita.

" Sei la sorella più fastidiosa del mondo, ti regalerò un portachiavi a natale! " esclamò Davide aprendo la porta.

" Vanno bene anche in paio di ciabatte. " dissi facendo spallucce.
Davide rimase a guardarmi meravigliato.

" Mi fai entrare o vuoi lasciarmi sul pianerottolo? " chiesi infilando le mani in tasca.

Lui abbassò lo sguardo e si spostò di lato per permettermi di entrare.
 

" Non dovresti essere qui. " alzai gli occhi al cielo sospirando.

" Perché non fate altro che ripetermelo oggi? " domandai corrugando la fronte.

" No, non rispondere. Non sono qui per fare domande. " seguii con lo sguardo Davide.

" Non ho molto tempo. " si mise seduto sul divano con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani intrecciate.

" Cosa devi dirmi? " la sua voce era stanca e lontana, come se non fosse pienamente presente.

Fissava con sguardo vacuo delle riviste sparse sul tavolino.

" Ultimamente non so più cosa succede. 

Sei sbucato dal nulla, ma sei diventato talmente importante che non riesco a spiegarlo.

Tra dieci anni mi fermerò a pensare a quante cose ho perso col passare del tempo.

Quanto ho sofferto, e va bene così.

Perché tra dieci anni, mi fermerò a pensare a tutto ciò che ho fatto senza dover rimpiangere un momento non vissuto perché non ho osato.

E non importa quanto mi sembreranno stupide le cose che ho fatto o che farò, perché non dovrò chiedermi come sarebbero andate le cose se invece di tentare avrei rinunciato. " mi fermai e feci dei respiri profondi.

 

" E tu Davide, mi lascerai tanto dolore che potrei arrivare a pensare che sia troppo, ma poi mi ricorderò di quanta bellezza hai donato alla mia vita e non potrò fare a meno di voler rivivere tutto ciò altre mille volte. " dissi in fine con voce rotta. 

Davide si alzò e venne verso di me.

Mi morsi il labbro inferiore e distorsi lo sguardo provando a trattenere le lacrime.

Lui mi spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi accarezzò piano la guancia.

Una lacrima scivolò lungo la mia guancia e lui l'asciugò con il dorso della mano.

" Hey, non piangere... " sussurrò poggiando la sua mano calda sul mio viso.

Alzai lo sguardo e incontrai il suo. 

Scrutai i suoi occhi ancora una volta.

Questa volta però, riuscii a vederli per davvero.

Avvicinò leggermente il suo viso al mio ma qualche istante dopo abbassò lo sguardo chiudendo gli occhi e serrando la mascella.

Si allontanò spostando le mani dal mio viso.

" Davide... " lo richiamai ma lui fece un passo indietro scuotendo il capo.

" Davide, ascoltami " dissi con voce più ferma. Finalmente riprese a guardarmi " va tutto bene. " sussurrai avvicinandomi.

Mi guardò con occhi lucidi.

Mi avvicinai cauta fino a ritrovarmi a pochi centimetri da lui.

Premetti le mie labbra sulle sue e quando finalmente chiuse gli occhi e si lasciò andare chiusi anch'io gli occhi imprimendo ogni istante nella mia memoria.

Non avrei mai potuto dimenticare quel momento, non avrei mai dimenticato un solo istante.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


C'era una stella sola e limpida nel cielo colore di rose, un battello lanciò un addio sconsolato, e sentii in gola il nodo gordiano di tutti gli amori che avrebbero potuto essere e non erano stati.

-Gabriel Garcia Marquez 
 

Mi ritrovai a camminare verso casa con gli occhi che bruciavano per tutte le lacrime che stavo trattenendo.

La pioggia aveva fatto aderire i vestiti al mio corpo come una seconda pelle.

Mi fermai e rivolsi lo sguardo al cielo pieno di nuvoloni grigi.

Una goccia di pioggia mi scivolò lungo il viso.

Ripresi a camminare per la desolata stradina di periferia.

Mi resi conto di non riuscire più ad avvertire niente.

Sembrava quasi che il dolore fungesse da anestetico, come una sorta di bolla che teneva fuori ogni tipo di emozione.

Non riuscii a dire addio a Davide, era troppo.

Rientrai in casa, consapevole di aver perso il volo e che mi aspettava una strigliata con i fiocchi.

Rimasi abbastanza meravigliata quando trovai mia madre seduta al tavolo della cucina che dava le spalle alla porta.

Notai che la valigia di mio padre non c'era più.

" Non potevo farti questo. " sussurrò scuotendo lievemente il capo.

Trattenni il respiro senza neanche rendermene conto.

Mia madre si alzò e si avvicinò lentamente.

" Mi dispiace, tesoro. Ho capito solo ora quanto tu stia soffrendo per il tuo amico. Ciò che hai fatto... non potevi agire meglio di così.

Siamo stati degli egoisti, non avremmo dovuto reagire così. " sorrisi incredula e incredibilmente felice.

Forse, avrei ancora potuto far qualcosa.
 

Il mattino seguente sentii mia madre parlare sottovoce al telefono.

La sua voce preoccupata arrivava alle mie orecchie come un fruscio.

Mi strinsi le braccia intorno al corpo rabbrividendo per un'improvvisa folata di vento entrata dalla finestra.

Udii distrattamente il notiziario.

Un grosso albero era stato abbattuto dalla furia del vento aveva bloccato per molto tempo una strada molto trafficata creando ingorghi e incidenti.

Versai del caffè in una tazzina e provai ad ascoltare mia madre che parlava nella sala da pranzo facendo avanti e indietro.

" Sì, le parlerò io. D'accordo, grazie per aver chiamato. " mia madre fece il suo ingresso a piccoli passi.

Era visibilmente tesa, e io avvertii la nausea farsi spazio nel mio stomaco.

" Va tutto bene mamma? " chiesi mettendo da parte la piccola tazzina verde.

Mia madre scosse leggermente il capo stringendosi le braccia intorno al petto.

Mi tenni al ripiano della cucina sentendo le gambe tremare. 


 

Non ricordo con precisione cosa mi disse mia madre.

Ricordo solo di essere scattata verso la mia camera, aver indossato il primo jeans e il primo maglione dall'armadio e poi la disperata corsa in bici verso l'ospedale.

La pioggia veniva giù fine, silenziosa.

L'asfalto bagnato rendeva difficile frenare e rischiai di finire fuori strada più di una volta.

Arrivai e abbandonai velocemente la bicicletta.

Mi guardai intorno, meravigliata di vedere così tante persone.

Il mio cuore sembrava essere impazzito.

Mi rimbombava nelle orecchie rendendo difficile pensare. 
 

Mi resi conto che era tutto vero, che non era un incubo.

Vidi la sorella di Davide abbracciata alla madre.

Si sostenevano a vicenda, complici di un dolore che le avrebbe segnate per sempre.

Mi avvicinai lentamente, ma non osai interrompere la loro sofferenza.

Il pianto disperato di una madre è per l'anima come il terribile suono di unghie affilate contro una lavagna.

Un suono perforante, che ti fa urlare nel tentativo di sovrastare tutti gli altri rumori. 
 

Entrai lentamente nella stanza in cui si trovava Davide e vidi un uomo seduto ai piedi del letto.

Indossava un completo elegante e mi rivolgeva le spalle.

Mi avvicinai ancora un po', e vidi che stringeva forte la mano di Davide.

" Cos'è successo? " chiesi con un filo di voce.

L'uomo scosse la testa, tirando su col naso.

" È successo tutto così in fretta.
Ha avuto un emorragia celebrare.
Era chiuso in camera sua... Non sapevamo cosa stesse succedendo.
L'ambulanza è rimasta bloccata nel traffico... non è arrivata in tempo. " sussurrò con voce tremante. 

Mi avvicinai lentamente dall'altro lato del letto.

Camminai piano, a piccoli passi a voler ritardare all'infinito tutto ciò.

Mi inginocchiai sul freddo pavimento di linoleum. 

Guardai il suo viso e vidi che era rilassato come non l'avevo mai visto.

Presi la sua mano ancora calda tra le mie e strinsi forte gli occhi.

Realizzai che non avrei potuto risentire ancora una volta il profumo della sua pelle.

Che non avrei più rivisto le sue labbra contrarsi in una smorfia ogni qual volta qualcosa non gli andava a genio. 

Realizzai di non avergli detto nulla, di non aver dimostrato del tutto ciò che sentivo.

La realtà mi colpì in pieno viso, facendomi bruciare l'anima e provocando in me una reazione mai provata prima.

E come la calma prima della tempesta, ecco che sentii il mio battito accelerare, il  respiro iniziò a diventare irregolare.

Iniziai a tremare, la vista mi si appannò e mi portai una mano al petto provando a respirare normalmente.

Mi misi seduta mentre sentivo il paura crescere dentro di me ed espandersi a macchia d'olio.

Sentii il cuore battere talmente forte contro lo sterno che arrivai a pensare che se avesse continuato di questo passo, sarebbe uscito dal mio petto. 

Vidi una figura confusa avvicinarsi e scuotermi leggermente.

Udii una voce ma mi arrivò ovattata e confusa.

Alzai gli occhi verso le luci al neon sul soffitto e nel mentre mi sentii sollevare da terra. 

Mi dimenai, sentendo la mia mano perdere la presa su quella di Davide.

Due braccia forti mi tennero giù mentre mi dimenavo e sussurravo parole confuse.

Mi fermai, esausta e vidi le luci a neon scorrermi davanti agli occhi veloci. 

" Hey, puoi sentirmi? Andrà tutto bene. " scossi debolmente il capo mentre le palpebre diventavano, via via, sempre più pesanti. 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


" Voglia di piangere  

e vergogna di non poter piangere. " 

-Nâzim Hikmet

 

 

Riaprii lentamente gli occhi, tremendamente confusa e disorientata.

Mi misi a sedere al centro del letto e mi guardai intorno. 

Pian piano, iniziai a ricordare tutto. 

Improvvisamente, la porta si aprì inondando di luce la piccola stanza scura.

" Tesoro, stai meglio? " annuii distrattamente. Tutta la mia attenzione era rivolta alle due buste bianche  che teneva tra le mani.

" Cos'hai li? " chiesi staccandomi la flebo con attenzione.

" Oh... ecco... sono delle lettere " disse sotto voce " per te. " aggiunse abbassando lo sguardo.

" Da parte di chi? Posso leggerle? " tesi in avanti la mano rivolgendo il palmo verso di lei.

" Ecco... puoi leggerle, certo.

Ma se devo essere del tutto onesta non credo sia ancora il momento adatto. " fece spallucce incrociando le braccia al petto. 

Guardai mia madre confusa, perché si comportava così?

" Mamma, mi dai quelle lettere? " lei si avvicinò tentennando e me le porse. 

" Sono da parte di Davide. " annuii debolmente trattenendo il respiro.

" Puoi... potresti lasciarmi de sola, per favore? " chiesi senza guardarla.

Lei attese qualche istante e poi uscì dalla stanza.

Vidi che sul retro di una busta c'era scritto il numero uno in rosso.

La girai, e lessi il mio nome sul fronte della busta scritto in corsivo.

La aprii, ed estrassi un foglio piegato su se stesso. 

" Mia cara Aria,

Mi son reso conto che ho ancora così tanto da dirti.

Per prima cosa, voglio che tu sappia cos'è successo qualche ora prima che tu arrivassi in palestra quel giorno.

Ho semplicemente fatto ciò che anche tu hai fatto con me, mi son fatto carico del dolore di qualcun'altro.

Più precisamente, una persona che era stata presa di mira.

Uno sconosciuto, ma dinnanzi alle ingiustizie non c'è scusa che tenga.

Altra cosa che voglio che tu sappia:

il lavoro dei miei sogni.

Fin da piccolo, desideravo essere un medico.

Volevo aiutare la gente.

Ma cosa più importante, volevo essere ricordato.

Probabilmente non realizzerò mai il mio sogno, ma spero che tu possa realizzare i tuoi.

 Ma ricorda che l'universo esiste affinché lo si possa vedere, tutto ha senso, niente esiste e basta.   Questo è quanto, sei semplicemente l'unica che sento di aver desiderato per davvero.

PS: c'è una piccola pennetta usb nella busta. Conservala con gioia, e non viverla mai con malinconia. 

Con affetto

Davide "

 

Socchiusi gli occhi e feci dei respiri profondi prima di aprire la seconda busta.

"Cara Aria,

Mi si stringe il cuore in una morsa a sapere che, se stai leggendo queste righe, è perché non ho mantenuto la mia promessa, non sono più con te.

 

Nella lettera precedente ho voluto darti qualche spiegazione, ma adesso, ho qualcos'altro da dire.

Giuro che avrei dato qualsiasi cosa, tutto pur di mantenere la nostra promessa.
Ma mia piccola Aria, chi gestisce lo spettacolo dall'alto ha deciso che, per me, era ormai arrivato il momento di uscire di scena. 
Perdonami, ti prego. 
Non pensare che io ti abbia abbandonata.
Non ne avrei mai avuto il coraggio.
Ricordi quando ci incontrammo per la prima volta? Ero così arrabbiato Aria. 
Poi sei arrivata tu. Sei entrata silenziosamente nelle mie giornate come se fosse la cosa più normale e giusta al mondo.

 

Sai, credo che tu sia stata l'unica cosa realmente bella.

Sapevamo entrambi che c'era qualcosa oltre i nostri sguardi complici.

Ma sappiamo entrambi che quel qualcosa non lo si poteva confessare.

Forse è stato meglio così, avrebbe reso tutto più complicato.

Faccio una tale fatica a scrivere questa maledetta lettera Aria.
Mi sembra tutto così surreale... eppure, le realtà mi colpisce dritta in faccia.
Un po' come quando tu andasti a sbattere contro il mio zaino.
Ricordi quando andammo via da scuola senza permesso?
Sì che te ne ricordi.
Sai, mentre scrivo mi sento uno stramaledetto egoista.
Forse, avrei dovuto impedirti di entrare a far parte della mia vita. 
Forse avrei dovuto tenere con me il tuo biglietto.
Forse, se lo avessi fatto, ti avrei evitato un bel po' di lacrime.
Mi spiace di non aver avuto il coraggio di tenere per me il mio dolore.
Mi spiace non poterti più abbracciare.
Mi spiace non poterti più aiutare con la matematica, anche se so che puoi capirla benissimo senza il mio aiuto.
Mi spiace non essere più lì con te.

Mi spiace non averti dato di più.

Mi spiace essere stato insopportabile in certi momenti.

E mi spiace non essere più io a svegliarti urlando dalla cucina.
Sai, ora che ci penso eravamo molto simili ad una coppia sposata da anni e anni.
Sei intelligente tu, molto. Hai capito anche troppo mia piccola Aria.
E proprio perché hai capito, mi aspetto che tu vada avanti.
Che diventi ciò che più desideri.
Avrei voluto esserci al tuo esame di maturità.
Avrei voluto fare tante cose. 
Che tu possa perdonarmi Aria.
Una ragazza di quindici anni non dovrebbe mai soffrire così come io sto e farò soffrire te.
Nessuno in realtà si merita così tanto dolore.
Ti prego Aria, abbi cura di te.
Sii forte.
Vivi senza paure, sfrutta ogni secondo che la vita ti concede. 
Vivi forte, vivi anche per me.
Perché alla fine la vita è solo una gran bastarda, ma tu puoi rigirartela come meglio credi. 
Non lasciare che nessun giudizio ti condizioni. 
Ricorda il nostro "mangia e scappa" in quello Starbucks appena arrivati a Oslo.
Io, in realtà, non ti abbandonerò mai. 
Quando la notte, nel tuo letto al buio ti sentirai sola, esci fuori e alza i tuoi occhi al cielo: ti renderai conto che non sarai sola.
Non lo sarai mai Aria.
Come ultima cosa, vorrei rispondere alla domanda che mi feci prima di atterrare ad Oslo.

Ho avuto modo di conoscere la vera te in questi ultimi mesi.

Ho visto quanto la tua anima sia buona, e fragile.

Ma ho visto anche quanto tu sia coraggiosa.

Ed è per questo che mi aspetto che tu non perda troppo tempo per lasciarmi andare.

Non permettere che qualcuno possa dire che gli devi qualcosa. Non per colpa mia.

Spero solo tu non abbia rimpianti.

Grazie, per aver reso ciò che mi restava da vivere, i momenti migliori della mia vita.

Con tutto l'affetto di questo mondo

Davide. "

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


Chi sa, forse non ci ameremmo tanto  

se le nostre anime non si vedessero da lontano

non saremmo così vicini, chi sa,

se la sorte non ci avesse divisi.  

-Nazim Hikmet
 

Il lunedì dello stesso mese, il calvario di Davide terminò.

Vorrei tanto poter dire che la sua anima ha lasciato il suo corpo con serenità, che ha fatto tutto ciò che voleva fare, che ha visto tutto ciò che c'era da vedere. 

Vorrei dire che ha smesso di illuminare le vite di chi gli voleva bene, a cent'anni, e non nel fiore degli anni.

Ma non è andata così. 

Ho pregato come non ho mai fatto in vita mia quest'anno.
D'altronde, non è così che facciamo? Crediamo in Dio quando ci fa comodo, quando non sappiamo più a cosa aggrapparci, quando ogni speranza sembra esser morta. 
Preghiamo e speriamo che qualcuno, sopra la nostra testa, metta fine alle nostre disgrazie.

C'è quasi del comico in tutto ciò.

Anche se la malattia non lo avesse ucciso, probabilmente, non avrebbe comunque potuto fare tutto ciò che avrebbe voluto fare.

Perché la verità è una sola, e noi non possiamo cambiarla.

Anche con tutta la nostra vita davanti, non avremmo mai abbastanza tempo per fare tutto ciò che desideriamo o per vedere tutto ciò che c'è da vedere.

Ad ogni essere umano servirebbe più tempo di quanto ne ha a disposizione.

I cambiamenti, le rivoluzioni e le guerre non durano mai una sola vita.

Una sola vita, non basterà per tenere viva la fiamma della speranza, ma una sola vita può essere una scintilla.

Può dare inizio a una nuova era, a una nuova vita.

" Ricordo, quando la sera del tuo decimo compleanno, provai a spiegarti l'importanza della scuola, della correttezza e del coraggio.
Ricordo ancora come mi guardavi, con i tuoi occhi pieni di ammirazione per un padre che non ti ha mai dato l'amore che meritavi. " il padre di Davide parlava a fatica. Aveva l'aria distrutta, sfinita.
I suoi occhi erano grigi e spenti.
Le parole uscivano a fatica dalla sua bocca.

" Pensavo di aver sprecato fiato, che eri ancora troppo giovane per comprendere.
Pensai " tra un paio d'anni mi toccherà rifarlo ".
Sono consapevole di aver quasi completamente fallito come padre. " fece un respiro profondo e si strofinò gli occhi.

" Dico quasi perché ho potuto assistere al tuo diventare un uomo, anche se troppo in fretta.
E nonostante il pessimo esempio che la vita di aveva offerto, sei riuscito comunque a crescere nel modo migliore.
Non hai avuto bisogno di un ulteriore discorso per capire cosa dovessi fare.
Lo hai sempre saputo. " il padre di Davide strinse a se sua moglie.

La donna, che sembrava essere invecchiata di dieci anni, piangeva in modo sommesso.

" Ci mancherai sempre, sentiremo la tua mancanza ogni singolo istante. " mi alzai lentamente e spazzolai la gonna del mio vestito con le mani.

I genitori di Davide avevano detto ciò che avevano da dire, ora toccava a me.

" La prima volta che vidi Davide aveva un occhio nero... " indicai il mio occhio destro sorridendo amaramente.

" Sì era messo contro il più bastardo dell'istituto.
Dio, ho pensato che fosse un maledetto idiota, un pazzo! " Lombardi mi guardò intensamente.
Non l'avevo mai visto così.
Per la prima volta in vita sua, era pentito.

" Nessuno al posto suo avrebbe fatto una cosa del genere. 
Per quale motivo poi? Per difendere un'altra persona.
Avanti! Tutti indignati quando sentono certe cose poi, quando assistono per davvero a della violenza gratuita, girano il viso e si tappano le orecchie.
Lui non era così.
Lui odiava essere impotente. " un fastidioso groppo alla gola mi costrinse a fermarmi.

" È per questo che in questi ultimi mesi è stato male il triplo. 
Nonostante i suoi sforzi... le lacrime... " strinsi forte gli occhi, non ancora, non qui.
Niente lacrime.

" Lui non poteva far nulla. " serrai la mascella, basta.
Sentivo di star per esplodere.

" In meno di un anno, mi ha insegnato più di quanto potessi imparare in altri dieci anni di studi. 
Lui amava pensare, aveva sempre un milione di idee per la testa.
Voleva diventare medico, voleva scrivere un libro, voleva lasciare traccia del suo passaggio... desiderava essere ricordato come un grande medico che salva la gente.
Beh... " feci un respiro profondo.

" Non è diventato medico, non ha scritto un libro e probabilmente, quando tutti noi termineremo il nostro soggiorno su questa terra, nessuno si ricorderà di Davide. 
Ma... ma una vita l'ha salvata, almeno in parte.
Prima non avevo idea di cosa volesse dire vivere.
Qualche volta ci ho pensato, ma non avevo vissuto abbastanza.
Una sera, mi disse che l'universo esiste affinché lo si possa vedere, tutto ha senso, niente esiste e basta. 

Che lo spazio è pieno di stelle e anche se una di esse muore, ce ne saranno altre mille, proprio come le occasioni che la vita ci offre.

E in fine, disse che le stelle, ci assomigliano non solo chimicamente;
Noi le guardiamo da lontano, crediamo che siano tutte bianche e uguali.
Ma se ci avviciniamo, ci renderemo conto di quanto in realtà siano diverse.
Ci sono stelle azzurre, rosse, bianche.
Ci sono stelle più calde e altre più fredde.
Alcune sono più vecchie, altre più giovani.
Ci sono stelle che se pur hanno smesso di vivere continuano a brillare.
Grazie a te ho capito quanto le stelle siano forti e coraggiose.

Volendo avrei avuto un milione di motivi per andar via, ma non l'ho fatto.
Non ho messo me stessa davanti a tutto e tutti.
E se mai qualcuno dovesse chiedermi se rifarei questa cosa, risponderei che sì, sceglierei la stessa alternativa un milione di volte ancora.
Nessuno, sa davvero quanto vivere sia così dannatamente bello e... tremendamente breve. "

 

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Capitolo 20
*** capitolo 19 ***


Nec sine te nec tecum vivere possum
Non posso vivere né senza te né con te

-Ovidio

Il problema, quello più grande credo, è che ho capito solo ora cos'è il vero dolore.

Ora capisco cosa porta una persona a tirare un pugno al muro o alla propria immagine riflessa nello specchio. 
Ci sono episodi della tua vita, che ti portano a star male. 
Un male che più che sentirlo a livello fisico lo senti dentro.
Nella tua testa, nelle tue membra, nelle tue viscere.
Ci sono notti, in cui non riesci a dormire per la troppa angoscia.
Fissi disperatamente il soffitto della tua camera come se potesse offrirti una via di fuga o una soluzione.
Ti sembra che il problema che hai dentro di te, abbia degli artigli con cui ti distrugge da dentro.
La tua gabbia toracica sembra essersi ristretta intorno al tuo cuore.
Ogni respiro diventa troppo faticoso da portare al termine.

Quando ti ritrovi dinnanzi a quel muro, o allo specchio, il dolore fisico sembra essere l'unica occasione per riprendere fiato.

Colpisci forte, tenendo gli occhi chiusi.

Percepisci il dolore dovuto al colpo.

La pelle sulle nocche si graffia e brucia.

Pensi "sta funzionando" ma ti rendi conto di aver ripreso a star male nello stesso istante in cui lo hai pensato.

I giorni che seguono una perdita non sono mai semplici.

Il dolore non ti da tregua.

Non ti lascia respirare.

Aver perso Davide mi ha fatto capire quanto in realtà io non abbia nessuna voce in capitolo.

Come tutte le nostre scelte in realtà non dipenderanno mai del tutto da noi.

" Molte volte, la vita ci chiama a scegliere.

Ci mette dinnanzi ad un bivio e ci chiede di fare una scelta.

E aspetta

Con incredibile pazienza

Il nostro permesso per continuare a scorrere.

A volte, la vita, chiede se sei sufficientemente pronto per riprendere a marciare.

A volte, ti lascia indietro così che tu possa capire come in realtà

Non hai scelta. " sussurrai, ripensando alla frase che avevo inciso sul mio diario.

Me lo rigirai tra le mani fino a quando non iniziai a sentire il peso di due notti in bianco gravarmi sulle palpebre.

Lo buttai sul comodino al mio fianco e afferrai la piccola pennetta USB.

La guardai a lungo, non notando niente di particolare.
Era una comune USB.

Spostai le coperte con un calcio le coperte e accessi il portatile collegando la USB.

Conteneva un solo file.

Lo aprii e partì un video.

Una casa tra gli alberi, tra le finestre si intravedeva una ragazza che giravano per l'enorme edificio.

Sorrisi, riportando alla mente quel momento.

Il video continuò e vidi Davide in primo piano sorridente.

" Com'è la casa?" domandò sollevando le sopracciglia.

" È enorme! Finirò per non trovare mai il bagno. " l'inquadratura traballò e la mia immagine apparì sullo sfondo del portatile. 
Sorrisi guardando l'obbiettivo e scossi la testa.

Pochi istanti dopo, l'immagine cambiò ancora.
Stavolta ero io a riprendere Davide.

" Qualcuno qui sta preparando la cena. " Davide sorrise senza smettere di guardare le sue mani muoversi abilmente tra i fornelli.

" Guarda Aria, guarda il cielo. " sussurrò mentre l'immagine di mille e più puntini bianchi invadevano lo schermo del mio computer.

" Sai che la luce delle stelle continua ad essere visibile anche dopo la loro morte? Per molto tempo anche. " ci furono attimi di silenzio che mi permisero di riportare alla mente quel discorso.

" Sembrano tutte uguali, da qui.
Da lontano " sussurrai a mia volta.

Chiusi gli occhi e mi ritrovai distesa su un prato bagnato dalla pioggia con lo sguardo rivolto verso un cielo nero pieno di stelle.

Girai la testa e vidi Davide nella mia stessa posizione.

" In realtà sono tutte diverse tra loro.
Se le si osserva da vicino risulteranno di colori, grandezza e temperature differenti.
Le stelle sono diverse tra loro, ma sono tutte bellissime. "

" Proprio come noi. " aprii gli occhi e tornai nella mia stanza.

Mi sentii come svuotata.
Chiusi il portatile e lo lasciai ai piedi del letto.

La scuola era ormai terminata, ero riuscita a superare l'anno senza debiti nonostante avessi saltato parecchie lezioni nell'ultimo periodo.

Puntai lo sguardo verso il soffitto e feci un respiro profondo.

Ora dovevo riprendere in mano la mia vita.

Tenere testa ai momenti di sconforto e tanto altro.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Mi chiedevo se era quella la rassegnazione, quel vuoto aspettare, contando i giorni come i grani di un rosario, sapendo che non ci appartengono, ma sono giorni che pure dobbiamo vivere perché ci sembrano preferibili al nulla.

-Ennio Flaiano

"Aria, Aria devi mangiare qualcosa." faccio cenno di no con la testa.

"Non puoi andare avanti così." non presto ascolto a ciò che dice.

"Aria..." la voce tremante di mia madre mi invade le orecchie.

"Non posso... non posso..." sussurro cancellando per la centesima volta la stessa linea

"Aria smettila! Questo non lo riporterà indietro!" strilla strappandomi il blocco da disegno dalle mani.
Rimango immobile come se fossi paralizzata.

È vero, è solo un inutile ritratto. La mia mano stringe semplicemente una misera matita, non una specie di macchina sforna miracoli.

Poso lentamente la matita sul tavolo tenendo lo sguardo fisso sul quadro appeso alla parete.

Ritrae una scogliera molto alta.
Il mare in tempesta scaglia con tutta la sua furia le onde contro la scogliera.

"Aria..." non so perché, o almeno non ne sono certa, ma da un paio di giorni la mia testa è nel caos più totale.

Forse è perché a breve dovrò tornare a scuola.

Fin'ora non ho mostrato più di tanto la mia sofferenza.

Ho evitato di far vedere a mia madre come la morte di Davide mi stesse logorando, sperando che l'angoscia andasse via da sé.

Ho provato a non pensarci, a non provare a pormi domande.

Ho tentato con tutta me stessa di non chiedermi come sarebbe andata se lui non fosse stato tanto sfortunato.

Se la vita gli avesse concesso un'ulteriore possibilità.

Ma è stato del tutto inutile.

Ad oggi, ho almeno un milione di incognite per la testa e un unico grande risultato: il nulla.

Niente che possa farmi sentire meglio, niente che possa ridarmi ciò che era ormai diventato parte integrante della mia vita.

Solo ora ho capito quanto sia sbagliato non elaborare ciò che ci accade.

Rimandare a domani la sofferenza.

Adesso mi ritrovo a dover fare i conti con tutto ciò che è successo.

La realtà, dura come la roccia e fredda come il marmo, mi ha scaraventata bruscamente in un mondo incompleto.

Ci sono cose che accadono all'improvviso.
Come un bicchiere che precipita al suolo finendo in mille pezzi, facendo un terribile frastuono e lasciando tutti senza parole.

Così è stato per me.
Inevitabile, ingestibile e destabilizzante.

8:00 AM

La campanella suona segnando l'inizio delle lezioni.

Ormai sono entrati quasi tutti.

Mi volto verso le scale antincendio aggiustandomi lo zaino in spalla.

Ci sono due ragazzi seduti sui primi gradini.

Le loro ginocchia si toccano leggermente e uno dei due tiene le mani a coppa protese verso l'altro.

Improvvisamente, rivedo me e Davide seduti al posto dei due ragazzi mentre parliamo senza dar peso al fatto di star perdendo ore importanti.

Un ricordo che per un istante mi scalda il cuore, ma che quasi subito riesce a far vibrare di malinconia ogni vena nel mio corpo.

Ritorno in me, faccio un respiro profondo ed entro a scuola.

L'ansia mi attanaglia il cuore.
Sento la gola stringersi in una morsa e la bocca mi si prosciuga.

Attraverso il corridoio deserto fino a quando non arrivo davanti alla porta della mia aula.

Entro senza bussare, sussurrando un flebile "scusate il ritardo" per poi sedermi al mio solito posto.

"Si figuri, signorina?" Alzo lo sguardo verso il mio interlocutore.
Deve avere all'incirca trent'anni.

"Orsini, Arianna Orsini." L'uomo mi guarda per qualche istante con meraviglia.
I riccioli castani gli coprono la fronte dandogli un'aria sbarazzina.

"Oh, quindi sei tu Aria." Faccio cenno di si con la testa guardandolo confusa.

"I tuoi compagni pensavano non saresti venuta, posso chiedere come mai?" mi guardo attorno, sperando che la smetta di pormi domande a cui non so rispondere.

"Non so" come molte cose, d'altronde. 
Vorrei potergli dire che me ne frego di ciò che pensano i miei compagni di classe. 
Che non m'interessa minimamente sapere perché pensano o meno cosa potrei fare.

Loro non sanno, lui non sa.
Addirittura io non so niente.

Come possono loro esprimere un giudizio?

Sento la rabbia montarmi nel petto, ma non riesco ad essere scortese con lui.

Sembra nuovo, non l'ho mai visto a scuola.

"Le persone sono fatte per pensare, no? È ovvio che si pongano domande.
Ma purtroppo ciò non significa che ogni idea che la mente partorisce sia giusta.
Non so gran che, ma se dovessi scegliere a quale domanda dare una risposta sicuramente non sarebbe "perché la gente non pensa ai propri perché". Non m'interessano le loro vite, per niente" abbasso lo sguardo e vedo che tiene tra le mani un'agenda con su inciso un nome.
Alessio Carpari.

"Ho ricevuto il messaggio, basta domande.
Scusami, non volevo invadere il tuo spazio personale." Annuisco rilassandomi leggermente.

"Bene ragazzi, come forse avrete già intuito sono il vostro professore, per l'esattezza, il vostro nuovo professore di letteratura." Prendo un quaderno e una penna dallo zaino intenzionata a prendere appunti.

"So che per le vacanze estive vi era stato detto di leggere un libro, o sbaglio? 
Bene! Chi di voi sa dirmi che senso ha la margherita all'interno del racconto?
Sappiamo che la protagonista, Margaret in realtà si chiamava Margherita.
Questo fiore è nominato più volte, perché?" Nessuno emette un fiato.
È palese che il libro non è stato letto ma il professore non demorde e continua ad aspettare.

Alzo titubante la mano.

"Margaret viene descritta come una ragazza genuina, innocente, ingenua e pura.

La margherita la rispecchia in pieno, essendo il fiore simbolo delle purezza." Il professor Carpari sorride soddisfatto.

"Perfetto." non del tutto.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


La rabbia è non solo inevitabile, è necessaria. La sua assenza indica indifferenza, la più disastrosa delle mancanze umane.
-Arthur Ponsoby

Al suono della campanella mi precipito fuori.

Non so cosa fare, la mia mente sembra essersi messa in moto, inizio a ricordare vari eventi.

Rivedo me e Davide camminare tranquilli per i corridoi. 
Il cuore inizia a martellarmi nel petto, senza sosta.

Sento la testa andare per conto suo, quasi mi manca la terra sotto i piedi.

Mi appoggio al muro con la schiena per sostenermi.

Provo a fare dei respiri profondi ma la situazione non cambia.

Corro, tenendo gli occhi chiusi.

Mi scontro contro qualcuno, ma non mi fermo.

Come un film proiettato a forza nella mia mente rivivo tutti i miei momenti con Davide.

Percorro la breve scalinata che porta al secondo piano due gradini alla volta.

Improvvisamente non sento più le lacrime premere per uscire.

Vedo dei ragazzi venire verso di me e allora mi nascondo all'interno del laboratorio.

Mi appiattisco contro la parete stringendo forte i pugni.

Le ampolle vuote, microscopi e libri di testo sono impilati su alcuni banchi.

Sento la rabbia montarmi nel petto, stringermi la gola in una morsa e rendermi completamente cieca.

Inizio a contare i secondi.

Uno, due, tre, quattro.

No, non funzionerà.

Mi guardo intorno, respirando a fatica.

"Concentrati, Aria!" Sibilo a denti stretti.

Inizio a contare le mattonelle.

Perdo più volte il conto, ma faccio finta di niente e vado avanti.

Le mattonelle terminano e la rabbia ritorna a sopraffarmi.

Batto ritmicamente la nuca contro il muro stringendo gli occhi quasi senza rendermene conto.

Non e giusto, non è così che doveva andare.

Tutte le speranze, i sogni, i desideri, le promesse.

Tutto scomparso, è scomparso tutto.

Come se nessuna speranza fosse mai stata immaginata.

Come se nessun sogno fosse mai stato segretamente curato.

Come se nessun desiderio fosse mai stato sussurrato ad un palmo di cuore.

Come se nessuna promessa avesse mai risollevato un'anima.

Davvero è così che finisce? Realmente non resta che una promessa che cade al suolo volteggiando come una fragile foglia in autunno?

Con un gesto carico di rabbia spazzo via i libri dalla cattedra.

Delle lacrime bagnano il mio viso mentre scaravento tutte le ampolle in ogni angolo della stanza.

Urlo, crollando al suolo.

Dalla mia bocca fuoriesce un urlo strozzato accompagnato da alcuni singhiozzi. 
Stringo gli occhi e mi rialzo, premendo i palmi contro il pavimento.

Ignoro le schegge di vetro che mi lacerano la pelle.

Urlo, sperando che qualcuno mi senta e che mi porti via.

Non m'importa delle conseguenze.

Non conta quanto male fa la gola ad ogni urlo.

Non conta quanto dolore mi provocano i ricordi, o la solitudine che in questo momento mi fa sentire come una piccola barca nell'oceano in tempesta.

La cosa che davvero mi toglie il fiato, che mi rende impotente, è la consapevolezza.

Esco a testa bassa, utilizzo l'uscita di emergenza, recupero il mazzo di chiavi nascosto sotto la palma, esco e corro a perdi fiato.

La consapevolezza mi urla in faccia quanto sia assurdo sperare di poter rivedere ancora una volta il suo viso.

Di poter tornare indietro.

Tutto ciò è insopportabile.

Ogni angolo in questa città sembra essere impregnato di ricordi.

Non posso restare.

Non ce la faccio.

"Sicura di volerlo fare?" annuisco, sistemandomi lo zaino in spalla.

"Ne ho bisogno." una voce metallica annuncia l'ultima chiamata per il mio volo.

Mia madre mi stringe forte contro il suo petto affondando il viso nei miei capelli.

"Andrà meglio, te lo prometto." sorrido godendomi ancora un po' il nostro caldo abbraccio.

Mia madre mi lascia andare a malincuore. 
Attraverso la folla e salgo sull'aero che mi porterà da mio padre, in Germania.

Per quanto io abbia lottato contro tutto e tutti per evitare di finire a vivere con mio padre, oggi mi ritrovo a vedere in lui l'unica possibilità che ho per prendermi una pausa da tutto ciò che è successo.

La scuola, il sempre più evidente distacco che c'è tra i miei e Davide.

Sì, Davide.

Colui a cui ho voluto bene fin da subito. 
Colui che mi ha portata in Norvegia. 
Colui che invece di regalare rose regala margherite. 
Lo stesso ragazzo che mi ha portata da Starbucks senza portarsi dietro un centesimo. 
Lo stesso ragazzo innamorato delle stelle, e della vita. 
Quello stesso ragazzo che anche se per poco, ho sentito di amare come mai avrei pensato di poter amare. 
E ancora, colui che non accenna lasciar spazio ad altri pensieri al di fuori di sé nella mia testa.

Ho bisogno di lasciar andare tutto. 
Anche solo per un giorno, ma devo farlo.

Ne ho bisogno. 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


 La morte non è la più grande perdita nella vita. La più grande perdita è ciò che muore dentro di noi mentre stiamo vivendo.
-Norman Cousins

 

5 anni dopo

 

"A domani Celine, ci sarai no?"domando avvolgendomi la sciarpa al collo.

 

"Certo, sarò la prima ad arrivare!"sorrido sapendo già che l'indomani, sarebbe stata davvero la prima ad arrivare.

 

Quella ragazza è sempre in anticipo, mai un ritardo da quando l'ho conosciuta.

 

"Aria! Ti serve un passaggio?"mi volto verso Jonas che mi sorride sornione.

 

"Sta nevicando, non è il caso di andare a piedi fino a Glassvindu." Annuisco, in effetti ha ragione.

 

Glassvindu, vetrata.
È così che la chiamano qui.

 

Quando tre anni fa decisi di trasferirmi in Norvegia e i genitori di Davide mi hanno proposto di vivere a Glassvindu ho esitato.

 

Insomma, non ho mai affrontato del tutto la perdita di Davide.

 

Finite le vacanze estive ho ripreso normalmente la scuola, facendo finta di niente.

 

Fingendo di non aver mai perso una parte di me.

 

Ma in realtà ancora mi atterrisce l'idea che lui non ci sia più.


Davide ha portato via con se anche una parte di me.

Ogni giorno non faccio altro che pensare che ogni giorno, muoiono delle persone.

Che ogni singolo giorno qualcuno smette di esistere, senza un perché.

Come se un musicista inesperto suonasse una nota al posto di un'altra.

Come se un bambino maldestro calciasse un pallone in un vetro mandandolo in frantumi.

Ma poi penso che un motivo c'era.

Il musicista era inesperto, il bambino maldestro e Davide aveva un cancro.

E poi capisco che in realtà niente accade e basta, c'è sempre un motivo.

E questo mi manda in bestia.

Il musicista può suonare ancora una volta il suo pezzo.

Il bambino potrà mirare meglio alla porta.

Ma Davide non potrà rivivere.

Ricordo ancora la nostra promessa.
Vorrei avere a disposizione un solo giorno in più.
Così da poter portare Davide nel mio posto felice.

"Hey Aria, ci sei?" domanda Jonas sventolando la sua mano a pochi centimetri dal mio viso.

"Eh... Cosa? Sì, andiamo." esco tenendo lo sguardo basso mentre gli ultimi stralci di ricordi tornano nel loro piccolo angolo solitario.

Salgo in auto e allaccio la cintura mentre Jonas aspetta che il motore si riscaldi.

Qui le temperature sono sempre così rigide che i motori delle auto necessitano sempre di un po' di tempo.

"Domani verrai con qualcuno alla festa?" mi volto verso Jonas che tenta disperato di scaldarsi le mani strofinandole sui jeans.

Lui evita il mio sguardo, tenendolo fisso sulla strada illuminata.

"No, verrò da sola." lui annuisce, e inizia a tamburellare con le dita in modo nervoso sul volante.

"Potrei passare da te, potremmo andare alla festa di Eva insieme, se ti va." sorrido leggermente.
Jonas è sempre stato molto dolce e impacciato.

Celine è convinta che io gli piaccia, e forse ha ragione.

"D'accordo, a che ora?" domando mentre l'auto inizia a muoversi.

"Passo a prenderti verso le otto?" chiede a sua volta Jonas entusiasta.

"Perfetto!" abbasso lo sguardo sul cellulare che poco prima aveva vibrato per un breve periodo.

Scorro sui vari messaggi e un attimo prima di metterlo via noto la data.

Due ottobre.

Come ho fatto a scordaremene?

Poso stizzita il cellulare nella borsa.
Poggio la testa contro il vetro maledicendomi più volte.

"A domani, Aria." mi saluta allegro Jonas fermandosi davanti casa.

"A domani." scendo velocemente senza guardarlo in faccia.

Mi sento in colpa quasi subito per essere stata così brusca con lui, ma ormai è tardi.
Jonas è già andato via.

Rientro in casa sbattendo la porta e lasciando la borsa accanto alle scarpe.

Faccio per andare in camera ma poi torno indietro per prendere il cellulare.
Cambio idea e mi fermo al centro della cucina con la testa in subbuglio.

Mi aggrappo al lavello, stringendolo con tutta la forza che ho in corpo.

Improvvisamente il senso di colpa mi attanaglia lo stomaco e la gola rendendomi difficile respirare.

Mi lascio scivolare a terra, prendendo la testa tra le mani.

Il cellulare nella mia tasca inizia a suonare.
Aspetto che finisca ma chiunque mi sta chiamando insiste.

Esasperata, lo prendo e lo scaglio via, distruggendo lo schermo.

Urlo, in preda al dolore.

Improvvisamente mi sento come svuotata, non sono più triste, arrabbiata o soffocata dai sensi di colpa.
Non fa più male, non sento più niente.

Me ne sto ferma a fissare il mio cellulare ormai distrutto, e resto così per tutta la notte.

Dalla mia stanza sento la sveglia suonare, sono rimasta sveglia tutta la notte ma non sono stanca.

Ho come l'impressione che il mio corpo non abbia mai avuto così tanta energia.

Mi alzo e inizio a riordinare casa.

Vado avanti fino alle sette e mezza, poi prendo il mio portatile e inizio a spulciare tra le varie offerte per un biglietto aereo.

Alle sette e quarantacinque qualcuno suona al campanello ed io vado ad aprire.

Jonas sorride sornione mentre io capisco di aver completamente dimenticato la festa di Eva.

"Oh accidenti, sono in ritardo vero?" domando facendolo entrare.

Jonas ride e mi segue in cucina.

"Un minuto e vado a prepararmi." Jonas si avvicina curioso.

"Cosa combini? Dove devi andare?" domanda senza distogliere lo sguardo dallo schermo.

"Italia, devo fare una cosa importante." mi siedo piegando una gamba sotto al sedere.

"Ho provato a chiamarti, ma partiva la segreteria quindi ho pensato di..."

"Il mio telefono si è rotto." dico subito mentre la stampante inizia a lampeggiare.

Aspetto senza fiatare che quest'ultima finisca.

Jonas inizia a passeggiare per la cucina quando ad un certo punto lo sento borbottare.

"Cos'è successo al tuo telefono?" lo raggiungo e vedo che ha il mio cellulare tra le mani.

"Niente, vado a cambiarmi. Torno subito."

<>

< Era in ritardo e quando ho provato a chiamarla partiva la segreteria.
Allora ho pensato di salire per accertarmi che non si fosse dimenticata e mi ha aperto con addosso i vestiti del giorno prima.
Mi ha fatto entrare e ha preso dei biglietti aerei per l'Italia online.
Si comporta come se fosse sotto l'effetto di una qualche droga, ma allo stesso tempo mi sembra di star guardando un fantasma.>>

<<È successo qualcosa? Sarà solo stressata.>>

"Come sto?" Jonas alza svelto lo sguardo dal cellulare.

"Oh Aria..." sussurra sorridendo leggermente.

"Sei... sei bellissima." faccio un giro su me stessa.

"Capelli raccolti o no?" chiedo tenendo i capelli raccolti in una mano.

"Lasciali così." sorrido, è sempre così carino con tutti?

"Andiamo, è tardi?" senza pensarci troppo lo supero e raggiungo la porta.

Gli faccio cenno con la testa di seguirmi.

Eva non ha badato ha spese, come sempre dopotutto.

L'enorme attico è gremito di persone.
Nonostante la folla la musica non troppo alta risulta comunque ben udibile.

Mi guardo intorno e noto tante facce familiari.
Ad un tratto sento tutta l'euforia abbandonare il mio corpo.

La gente, la musica e le luci mi fanno venir voglia di andar via.

Improvvisamente tutto sembra molto più caotico e istintivamente faccio un passo indietro.

"Questo vestito è troppo corto, non lo sopporto." penso tirando la gonna aderente verso il basso.

Resto immobile a torturarmi le dita, ma ad un certo punto sento una mano calda posarsi sulla mia spalla.

"Va tutto bene?" la voce calma di Jonas mi fa trasalire.

Faccio cenno di no con la testa spostando il mio sguardo verso il suo.

Senza aggiungere altro poggia una mano sulla mia spalla e con l'altro braccio mi avvolge la vita.

Andiamo via, senza che nessuno dei due dica nulla.

"Sai Aria, dal primo momento in cui ti ho vista non ho fatto altro che pensare a quanto fossi bella.
Anche prima di arrivare qui, quando ti ho vista un po' trascurata, con i capelli in disordine e con l'espressione di chi assiste al più bello dei suoi sogni ma allo stesso tempo al peggiore dei suoi incubi.

Nei tuoi occhi ho sempre intravisto una scintilla, flebile e quasi invisibile.
Cinque anni fa sei arrivata qui e sei stata un enorme mistero per tutti, per anni.

Chiunque ti vedesse pensava "chissà quanto dolore regge quel povero cuore" senza sapere che un giorno, quel dolore ti avrebbe portata a diventare un involucro vuoto.

Uno scrigno svuotato di tutte le sue ricchezze." Jonas si ferma, fissando le sue mani saldamente attaccate al volante.

"Però io so anche che tu, oltre ad essere una bellissima donna, hai anche una bellissima anima.
E l'ho capito guardandoti parlare a telefono con tua madre, con la tua amica.

Per un breve istante sono sicuro di aver intravisto un lato di te sepolto prima di arrivare qui.

Un qualcosa che solo in pochi hanno avuto la fortuna di vedere.

Quindi, l'unica cosa che vorrei chiedere a questo Natale è sapere cosa ti ha privata della tua felicità."

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Non lasciarti prendere dallo sconforto, e in secondo luogo non trasformarlo in un atteggiamento permanente.

-Osho

 

Le mie labbra si piegano leggermente all'insù.
Lo stupore si fa largo sul mio viso senza che io riesca ad impedirlo.
Jonas, nonostante i miei sforzi, era riuscito a scorgere dentro di me.
Più di quanto probabilmente lui stesso immaginava di poter fare. 
Improvvisamente mi rendo conto di aver lasciato cadere ogni difesa. Mi rendo conto di essere terribilmente stanca di fingere che non ci sia un peso enorme sul mio stomaco e mi sento più che sollevata di poter concedere a me stessa -anche solo momentaneamente- una tregua e lasciar che le mie difese crollino.
In meno di un minuto i muri costruiti in tutti questi anni sono crollati al suolo. 
Sento gli occhi pizzicare, e subito distolgo lo sguardo.

"Quando sono arrivata qui avevo intenzione di chiudere finalmente un capitolo della mia vita. 
Un capitolo abbastanza breve, ma che vissuto sulla propria pelle sembrava durare secoli. 
So che è brutto da dire, ma il luogo che fino a qualche tempo fa chiamavo casa non mi ha regalato molti momenti felici.
Anzi, se proprio devo essere sincera i miei ricordi più belli li custodisce la candida neve della Norvegia." interrompo il mio racconto, provando a rivivere uno ad uno tutti i bei ricordi di quella fuga programmata un po' a caso.

Jonas sospira e inizia a guidare. 
Picchietta ritmicamente i polpastrelli sul volante. 
Lo vedo scuotere leggerete il capo e sospirare, ma non do importanza a niente di tutto ciò, perché la mia mente è già altrove.
Non posso fare a meno di ripensare a Davide, e a tutto quello che abbiamo fatto.

Sembra incredibile, ma grazie a lui ho capito tante cose di me.
Passare del tempo con lui è stato come un insight.

Cose che prima sembravano non avere un motivo o una logica, improvvisamente, hanno avuto senso. 
Come quando provi a fare un esercizio di matematica, ma questo ti sembra talmente difficile da risultati privo di un procedimento logico.
Poi però, un giorno senza nessun motivo apparente, quella definizione e quella spiegazione hanno un senso. 
Come se una lampadina ti si accendesse dentro la testa facendoti trovare la risposta ad ogni problema.

E tu sei fermo, che fissi l'esercizio svolto chiedendoti com'è possibile che tu non ci sia arrivato prima.

Davide era la mia lampadina, la mia torcia.
Il suo essere spontaneo represso dalla voglia di voler mettere davanti a sé prima il bene degli altri mi portò ad avere speranza. 
Forse non tutto era perso, forse questa società ha ancora qualche possibilità.

Il mio flusso di pensieri viene interrotto dal rumore del motore che si spegne. 
E in pochi secondi, ammasso nuovamente tutti i miei ricordi nell'angolo più nascosto del mio cuore.

L'immagine del volto sorridente di Davide mi resta impresso dietro le palpebre nonostante ciò, non permettendomi comunque di mettere da parte tutto quello che da anni provo a chiudere ermeticamente da qualche parte giù, nella mia anima.

Mi spazzolo il vestito, anche se non serviva ed apro la portiera.

"Scusami" sussurro senza distogliere lo sguardo dalla strada "non volevo rovinarti la serata. Forse non avrei dovuto accettare di venire." faccio un mezzo sorriso che però non contagia Jonas.

"Non mi interessa più di tanto della serata.
Cioè, l'avrei passata volentieri con te, ma non è questo il punto." annuisco, comprendendo bene cosa volesse dire. 
Jonas è un libro aperto, e non è difficile intravedere la delusione sul suo volto.

"Ti va di entrare?" chiedo quasi sottovoce.
Mi volto a guardarlo e per un attimo nei suoi occhi sembrano brillare.

"No, non voglio disturbare." la sua voce tentenna, non è ciò che vuole. 
Vorrei dirgli che in realtà non disturba, anzi vorrei tanto non dover tornare in quella casa, da sola.
Vorrei non dover restare in quella casa tremendamente silenziosa.
Odio talmente tanto restare lì dentro da sola che dopo mezz'ora passata nel silenzio sola con il rumore del mio respiro mi vien voglia di urlare a squarciagola.

Ma non lo faccio, semplicemente scendo dall'auto chiudendo lo sportello.

Odio quella casa, odio ogni angolo, finestra. Odio ogni singola piastrella di quell'abitazione. Odio come ogni millimetro di ogni sua singola stanza mi ricordi ciò che ho perso.

Sto per arrivare alla porta quando mi fermo sul posto e dopo qualche secondo di incertezza tento con un altro invito.

"Sai, potremmo mangiare qualcosa. 
Non abbiamo ancora cenato, e credo di avere tutto il necessario per preparare un piatto italiano che sicuramente apprezzerai." sorrido, e mi rendo conto di star sperando con tutta me stessa che accetti.

Jonas posa le mani sulle sue gambe e sorride "d'accordo, va bene." esce dall'auto e mi raggiunge.

Era da tanto che non mi sentivo così... felice.

"Quindi, ricapitolando: fai bollire l'acqua, aggiungi la pasta, la fai cuocere facendo attenzione a non esagerare e poi dopo averla scolata aggiungi il guanciale rosolato e sopra... uovo crudo?" chiede un po' perplesso. 
Ricordo ancora quando mia madre mi disse che aggiungere l'uovo con la fiamma ancora accesa era da considerarsi un sacrilegio.

"Beh, spegni e lo versi sopra. 
Poi mescoli e un po' si cuoce comunque." prendo due piatti e divido tutto in due porzioni.

"Devo ammettere che sembra buona."osservo Jonas scrutare il suo piatto come se si trovasse dinnanzi ad un'opera d'arte. 
Beh, forse la carbonara è un'opera d'arte. 
Jonas si ficca in bocca una forchetta di pasta e dalla sua bocca fuoriesce un verso che è un misto tra un sospiro estasiato e un grugnito. 
Non posso fare a meno di sorridere.

"Come mai proprio la Norvegia?" la domanda di Jonas arriva come uno schiaffo in pieno viso. 
Era ovvio che me lo avrebbe chiesto, ma un conto è vedere ciò solo come una possibilità non ancora realizzata, un altro è ritrovarsi a dover dare una risposta.

Potrei mentire, ed evitare ancora per un po' di affrontare una questione inevitabile. 
Non solo per sedare i dubbi e le curiosità di Jonas, ma anche per rendermi conto effettivamente che cosa sto facendo.

"Ero al secondo anno, il liceo non era così male dopotutto, ora che ci penso." decido di non farlo, di non rimandare ancora questa cosa.
Ne ho bisogno.

"Incontrai un ragazzo. Sai quei tipi belli e tenebrosi che si vedono nei film? Quei ragazzi un po' problematici. 
Ecco, probabilmente molti lo consideravano tale. 
Io però, la pensavo diversamente." sposto lo sguardo sulla parete oltre la figura di Jonas.

Prendo un respiro profondo provando a mandar giù il groppo formatosi in gola.

Mi concentro su una foto, l'unica foto che ho di Davide. 
Ci siamo io e lui, comodamente seduti in veranda.

Ripenso ad una sera in cui ero talmente preoccupata delle conseguenze della nostra fuga che mi ritrovai a pesare di tornare a casa col primo volo. 
Allo stesso tempo però non volevo. 
Ricordo che Davide si mise a sedere accanto a me, sul divanetto e mi passò un braccio sulle spalle ed io appoggiai la testa contro il suo petto.

Mi accarezzava la guancia con il pollice senza dire nulla. 
Sapevo perfettamente che se solo glielo avessi chiesto, lui mi avrebbe riportata a casa all'istante. 
Presi la sua mano e intrecciai le mie dita con le sue. 
Sentivo un vuoto nello stomaco, che aumentò quando lui mi strinse a se così forte che quasi non riuscivo a respirare. 
Mi resi conto che ormai Davide non era più solo un amico, e probabilmente neanche io ero più solo un'amica. 
Mi voltai per guardarlo e fu impossibile per me non vedere le sue guance umide. 
Appoggiai la mia fronte alla sua, accarezzandogli piano il capo.

Poche volte ho visto Davide fragile, ma quella sera era diverso. 
Percepivo la precarietà della situazione come se fosse un macigno che faceva pressione sul mio petto. La sentivamo entrambi, sapevamo di avere una scadenza.

Sapevamo perfettamente di esserci chiusi in una bolla che presto sarebbe scoppiata lasciandoci devastati.

Lo sapevamo, ma non ci importava.

Avrei voluto più tempo, forse così io e Davide avremmo potuto avere di più.

"Cos'è che gli altri non avevano visto?" domanda piano Jonas.
La sua voce è bassa, come se avesse il timore di svegliarmi dal mio stato di trance.

"In realtà era un ragazzo semplice, con tutti i problemi che un diciottenne può avere più altri problemi che di solito un diciottenne non ha." sospiro quasi involontariamente. È passato molto tempo dall'ultima volta che ho parlato di Davide. 
In realtà è passato molto tempo anche dall'accaduto.
Eppure, nonostante io stessa ritenga assurdo tutto ciò, ancora non riesco a lasciarlo andare. 
Anzi, rettifico, io ancora non voglio lasciarlo andare.

Qualcuno probabilmente potrebbe pensare che io non sappia elaborare il lutto, o che semplicemente mi rifiuto di farlo.

Ma il mio problema in realtà è la paura. 
Paura di cambiare, di dovermi adattare e adeguare ad una nuova realtà o vita dove io sono qui e Davide è tre metri sotto terra.

Perché io so perfettamente che Davide è morto, andato. Non c'è più niente da fare. 
So che non posso far niente per cambiare ciò e so che non tornerà ma non ho mai voluto adeguarmi a ciò. 
Ho preferito mettere da parte l'accaduto, rimandando di giorni in giorno la resa dei conti.

"Sono anni che ci provo" sussurro portando le ginocchia al petto e appoggiandoci sopra il mento. 
Stringo le gambe con le braccia, come se così facendo, potessi scoprire.

Improvvisamente mi rendo conto di essere seduta esattamente come quando tornai a casa dall'ospedale. 
Rimasi a fissare lo stufato preparato da Olaf pensando a tutti i momenti passati con Davide mentre dentro di me sentivo crescere e avanzare la paura e la rassegnazione.

Scuoto leggermente la testa "sono anni che provo a lasciarlo andare."

-I want you here

An ache
So deep
That I
Can hardly breathe
This pain
Can't be imagined
Will it ever heal?
Ooh... ooh...
Your hand
So small
Held a strand of my hair
So strong
All I could do
Was keep believing
Was that enough?
Is anyone there?
wanna scream
Is this a dream?
How could this happen,
Happen to me?
This isn't fair
This nightmare
This kind of torture
I just can't bear
want you here
want you here
Ooh... ooh...
waited so long
For you to come
Then you were here
And now you're gone
was not prepared
For you to leave me
Oh this is misery
Are you still there?
wanna scream
Is this a dream?
How could this happen,
Happen to me?
This isn't fair
This nightmare
This kind of torture
I just can't bear
want you here
want you here
God help me,
God help me,
God help me
Breathe
wanna scream
Is this a dream?
How could this happen,
Happen to me?
This isn't fair
This nightmare
This kind of torture
I just can't bear
want you here
want you here
Ooh... ooh...
An ache
So deep
That I
Can hardly breathe

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


"Non devi aver paura di lasciare, tanto le cose importanti nella vita non ti lasceranno mai."

- dal film "Mine Vaganti"

 

"Non voglio morire, Aria. 
Non voglio. Ho paura. 
Ho paura Aria. 
Non posso, non ancora.
No, no, no!" Davide mi si avvicina con gli occhi lucidi. 
La voce gli trema così come le dita. 
C'è un qualcosa nella sua voce incrinata che mi trasmette angoscia.

Lui mi afferra per le spalle.

Posso sentire il mio cuore battere all'impazzata nel mio petto.

Posso percepire ogni singola pulsazione nelle tempie.

"Ti prego, Aria. 
Tu devi aiutarmi, non lasciarmi morire." scuoto la testa posandogli una mano sulla guancia umida.

Tutto intorno a noi il caos, non capisco dove mi trovo.

"Non so cosa fare..." sussurro con la voce che fa fatica ad uscire. Mi guardo intorno, sperando di intravedere qualcuno o qualcosa che possa aiutarmi, che possa aiutarci.

"Dimmi cosa devo fare Davide. Come posso evitarlo?" chiedo ansimando mentre le sue ginocchia cedono e lui crolla al suolo trascinando anche me.

"Davide" il mio sussurro è saturo di disperazione e suona quasi come una supplica "Come?" lui scuote la testa rassegnato.

"Mi dispiace... Non credo si possa. 
Dimmi che non te ne andrai, che non mi lascerai." annuisco mordendomi il labbro inferiore per fermarlo dal tremare.

"No, non ti lascio. Mai." Prometto lottando con tutta me stessa contro il magone che ormai mi rendeva difficile anche respirare.

Chiudo gli occhi, sussurrando che mi dispiace, e quando li riapro sono nel mio letto.

Rimango immobile per qualche istante, provando a mettere a fuoco la stanza. 
È buio e l'unica fonte di luce proviene dai led lampeggianti del mio portatile.

Butto i piedi fuori dal letto, rabbrividendo. 
Mi isso a fatica, la testa mi gira ma ho bisogno di prendere aria.

Quando arrivo in cucina trovo due bottiglie di vino rosso vuote buttate sul tavolo.

Accendo la luce nel soggiorno e quasi urlo dallo spavento quando vedo Jonas accucciato sul sofà che dorme.

E lui come ci è arrivato qui? 
La festa, giusto. Mi ha riaccompagnata lui. 
Vado verso il bagno con una scrollata di spalle raccogliendo la tuta grigia da una sedia.

Mi butto sotto il getto d'acqua freddo senza aspettare che l'acqua diventi abbastanza calda.

Non sento il freddo a contatto con la pelle, sono troppo concentrata a ricordare il mio sogno -o forse sarebbe meglio dire incubo- che mi ha risvegliata bruscamente poco prima.

Esco in fretta, rischiando di scivolare.

Mi pento subito di non aver chiuso la finestra in bagno quando esco dalla doccia.

Una ventata d'aria gelida mi fa rabbrividire.

Indosso velocemente la tuta grigia e mi passo una mano tra i capelli per assicurarmi di non doverli asciugare per evitare di prendere un raffreddore.

Una volta fuori, faccio un po' di stretching per evitare spiacevoli infortuni e parto.

Corro subito al massimo, ignorando il solito ciclo.
Ho bisogno di buttar fuori lo stress, almeno in parte.

Il mio battito accelera, il cuore pompa sangue in tutto il corpo e mi sembra quasi di poterlo sentire mentre scorre.

Nel sogno Davide era terrorizzato, e mi sembra anche normale vista la situazione.

Prima nel petto, poi attraverso le braccia e fin alle dita.

Eppure quando era in vita non lo ha mai detto espressamente, anche se lo ha lasciato intendere più volte.

I muscoli delle gambe iniziano a bruciare, ma non mi fermo.

Sì, era decisamente disperato.

I polmoni bruciano in cerca d'aria.

E ancora una volta non ho potuto fare niente per aiutarlo.

Aumento ancora la velocità mentre mi costringo a reprimere le lacrime che premono per uscire.

Sbatto un paio di volte le palpebre per ricacciare indietro le lacrime e scuoto la testa.

Arrivo alla fine del bosco e per qualche secondo rimango incantata a guardare il fiordo.

Improvvisamente, sento come se il cuore fosse esploso nel mio petto e urlo.

Urlo così forte che stendo a riconoscere il suono della mia voce. 
Stramazzo al suolo con un rantolo.

Il viso contorto in una smorfia quasi innaturale con gli angoli della bocca verso il basso e gli occhi persi nel vuoto, verso il cielo grigio.

"Per quanto ancora andrà avanti?" chiedo disperata al vento o forse al mare nordico.

"Quando finirà tutto questo? Non ne posso più! Non voglio più provare questa sensazione di impotenza." le mie urla di disperdono nell'aria.

"Io... Io non credo di poter sopportare altro dolore.
Questo è umanamente impossibile ed io sono una miserabile umana!" urlo ancora rendendomi conto di non aver provato così tanta rabbia.

Stringo tra le mani alcuni ciuffi d'erba, vorrei tanto sapere verso chi dovrei rivolgere tutta questa rabbia.

Lo so che è stupido. Che non ha senso.
Dio, ovvio che ne sono consapevole. 
So che non c'è nessuno ad ascoltare le mie domande, figuriamoci se c'è qualcuno che saprebbe darmi delle risposte.

"Perfer et obdura, dolor hic tibi proderit olim."

Mi giro di scatto riconoscendo la voce di Jonas.

"Mi hai seguita?" chiedo rialzandomi velocemente. Mi passo il dorso della mano sul viso senza voltarmi.

"È latino. Significa..." lo interrompo sollevando un dito davanti al suo viso.

"So perfettamente cosa significa, ho studiato latino per tutta la durata del liceo.
Ti ho chiesto un'altra cosa."

"Sopporta e resisti, un giorno questo dolore ti sarà utile." incrocio le braccia sul petto indispettita.

"Stai evitando la mia domanda." Torno a guardare il paesaggio. In verità, non mi sembra più così importante sapere se ha sentito o meno ciò che ho detto.

Il cielo è grigio, probabilmente a breve nevicherà.

"No, sei tu che stai evitando qualcosa.
Eviti te stessa, il tuo passato." stringo i pugni, non mi va di affrontare questo discorso.

"Anche se fosse, non credo sia un tuo problema." asserisco, rendendomi conto che la mia voce è più rauca del normale.

Mi schiarisco la voce, maledicendomi per non essere risultata ferma e decisa come avrei voluto.

"Lo hai scritto sulla prima pagina del tuo diario. 
Poi c'è una pagina scritta fitta. E sei stata tu a leggermela. Tutta." finalmente mi volto e lo guardo negli occhi. 
Non ricordo di averlo fatto.

Poi mi ricordo delle bottiglie di vino vuote in cucina.

"Se abbiamo bevuto perché solo io non ricordo niente?" Jonas sposta lo sguardo sulla vista alle mie spalle.

"Perché hai bevuto solo tu. Io sono astemio." sospiro, ha perfettamente senso. Jonas è lo stesso che a capodanno vidi fare il brindisi con dell'aranciata.

Quando ero diventata così suonata?

"Vuoi sapere per quanto tempo andrà avanti?
Per quanto tempo ancora dovrei sentire questo vuoto nel cassa toracica che sembra volerti risucchiare come un dannato buco nero? 
Forse mesi, anni o un solo giorno. 
Ma non sarà sempre così. 
Non dimenticherai ciò che è successo, non puoi. 
Ma prima o poi smetterà di far male. 
Così come ci si abitua al gelo norvegese, alle giornate corte e alle notti interminabili. 
Così come ci si abitua all'apparecchio per i denti da ragazzi. 
Così come ci si abitua a farsi da soli il bucato quando ci si trasferisce. 
Così come ci si abitua a dover trovare le soluzioni ai piccoli problemi di tutti i giorni dopo una vita passata con dei genitori che provvedevano a farti trovare sempre del cibo in frigo. 
Così ci si abitua al dolore, alla mancanza e certe volte alla solitudine.
Semplicemente smette di impregnare le tue giornate. 
Un giorno, mentre penserai a cos'altro c'è da fare, ti renderai conto che non ci pensi più. E che se lo fai sì, fa male, ma non più come prima." Jonas si ferma come se si fosse reso conto solo adesso di aver aperto bocca.

Mi avvicino a lui con piccoli passi.

"Credi che sia facile o che non ci abbia mai provato? O forse credi che io non sappia cosa dovrei fare? 
Notizia flash Jonas, lo so. 
So che dovrei affrontare una volta per tutte le mie paranoie, le mie paure e i miei sensi di colpa. 
Ma non so come. Vedo la mia vita scorrere via ed io che rimango ferma a fissarla. 
Non so cosa voglio, non so perché sono qui."

La mia voce trema, non ho bisogno di qualcuno che mi dica cosa fare.

Ora pero forse so con chi sono arrabbiata. 
Forse con Jonas, con me, con Davide, o con questo posto che non fa altro che riportare alla mente ricordi che ogni notte non mi lasciano dormire.

Sono furiosa perché sono debole. 
Perché la stanza dove dormiva Davide è vuota e i suoi vestiti sono ancora nell'armadio.

Sono incazzata perché adesso sto urlando contro Jonas, e lui non c'entra assolutamente niente con tutta questa storia.

Sono delusa da me stessa perché sono ancora qui, nonostante la Norvegia abbia smesso di piacermi molto tempo fa.

Faccio per tornare indietro per mettere fine a questa discussione, ma Jonas mi afferra il polso e mi costringe a restare ancora.

"Dovresti andar via." rimango spiazzata, senza parole.

"Cosa?" è tutto ciò che riesco a dire.

"Questo posto, la tua casa. Tutto questo. Dovresti iniziare con il lasciarti alle spalle tutto ciò che è materiale e che può ricordarti ciò che è successo. 
Più cose avrai, più sarà difficile. 
Lontano dagli occhi lontano dal cuore, no?"

"Non posso farlo, non da sola." 

 

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Capitolo 26
*** Journal ***


Ci sono giorni in cui il sole sembra non volerne proprio sapere di brillare, di splendere.
Se ne resta li, nascosto tra le nuvole, come quando io nascondevo il viso nel tuo maglione caldo.
Farlo mi faceva sentire al sicuro.
Le tue braccia intorno a me facevano da scudo e mi concedevano il lusso di lasciarmi andare.
Sapevi quanto odiassi farlo, sapevi come mi sentivo ogni volta che mi davi la possibilità di farlo.
Te ne stavi in silenzio, con le braccia strette a me, come a volermi trasmettere tutta la protezione di questo mondo.
Aspettavi fino a quando non eri certo che il tuo maglione avesse ormai assorbito tutte le mie lacrime e i miei singhiozzi silenziosi.
Restavi immobile, con tutti i miei pezzi tra le mani aspettando che io ti permettessi di rimetterli al loro posto.
Sospirando piano appoggiavi il tuo mento sulla mia testa, mi lasciavi un leggero bacio tra i capelli e con calma mi sussurravi quanto orgoglioso fossi della tua piccola e intrepida pulce.

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Capitolo 27
*** Capitolo 25 ***


"Ci sono cose che dobbiamo fare ma che non possiamo sopportare"

-Sorry for nowLinkin Park

 

Ci sono momenti, nella vita di ogni persona, che non andranno mai via.
Momenti che ti entrano nelle ossa, e ti cambiano all'inverosimile.

Di tutti questi momenti, uno in particolare lo ricorderò per sempre.

Il momento in cui decisi che avrei consacrato la mia vita a me stessa, con l'unico scopo di vivere al massimo senza lasciarmi sfuggire nessuna possibilità.

Vivere per me e per quel ragazzo che anni fa entrò nella mia vita e la rese, se pur per poco, un qualcosa di straordinariamente bello.

Perché se Davide si è visto sottrarre la propria vita dalla malattia, io non butterò la mia pensando a come avrei potuto evitare che ciò accadesse.

Ho accettato, non senza qualche riluttanza, l'idea che al mondo ci sono fin troppe domande che molto probabilmente non avranno mai risposta. 
Ma ho capito che va bene così, che non è il sapere tutto che mi permetterà di vivere come voglio la mia vita.

Ci sono momenti in cui non capisco mai del tutto se ciò che sta accadendo è davvero come sembra.
Come quando seno stesa nel mio letto di notte al buio con gli occhi aperti.
I miei occhi sono aperti, ma è come se fossero chiusi.
Certe volte capita che io inizi ad avere dei dubbi e allora stringo forte gli occhi, per avere la certezza di averli chiusi.
È così che vorrei fare in certe situazioni.
Vorrei poter stringere gli occhi e chiarirmi le idee.
Ma non funziona al di fuori del mio letto.

Jonas mi ha semplicemente sorpresa. 
L'ho sentito vicino per tutto il tempo che ha anticipato il mio ritorno in Italia. 
Il giorno prima della partenza si è presentato con uno zaino stracolmo e un trolley verde.

Mi ha sorriso, ed ora siamo su un volo che tra circa due minuti atterrerà a Milano. 
Lui è un architetto, ma per vari imprevisti familiari si è limitato a lavorare in un call center vicino casa, più o meno come la sottoscritta dopotutto.

Una volta terminati gli studi mi ero subito trasferita in Norvegia, per lasciarmi alle spalle gli ultimi anni.

Avevo deciso che sarei ripartita da zero, senza però mai riuscirci.

Mi accontentai di un lavoro part-time in una gioielleria nei pressi di Tøyen, non molto distante dal centro di Oslo.

Continuai a lavorare li per un anno, dopodiché mollai e rimasi a girovagare per un po' fino a quando non trovai un posto in un call center.

Jonas fu il primo a presentarsi e grazie a lui riuscii ad ambientarmi abbastanza velocemente .

All'aeroporto il solito via vai di persone sembra meno fitto del solito.

Una volta superati tutti i controlli ci imbarchiamo sul nostro volo.

Il viaggio non dura molto e dopo un paio d'ore dall'auto parlante una voce metallica inizia a fornire le solite informazioni prima dell'atterraggio.

Guardo fuori dal finestrino sentendo lo stomaco sottosopra. 
È passato parecchio tempo dall'ultima volta che ho visto Milano.

Guardo Jonas, che per certi versi mi ricorda me. 
Probabilmente non sa neanche lui perché è qui. 
Un po' come me quella mattina in palestra.

Attraverso l'aeroporto lentamente, rievocando ogni momento.
Le gradi vetrate, le voci caotiche della folla e il rumore delle valigie trascinate avanti e indietro. 
Una volta fuori, sospiro pesantemente camminando più veloce.

Trascino la mia valigia fino ad un taxi accostato poco distante dall'entrata vedendo Jonas seguirmi mentre si guarda intorno incuriosito.

Il taxi ci porta in un hotel non troppo lontano dal centro.
La hall è ampia, con un pavimento in freddo marmo grigio. 
Dopo aver dato i nostri nominativi ritiro le chiavi delle nostre stanze e l'uomo alla reception ci ringrazia augurandoci buona serata. 
Ci ritiriamo nelle nostre stanze prima di cenare, avrei voluto portare Jonas in giro, ma oltre alla stanchezza fisica c'è anche un peso che mi schiaccia il petto rendendomi difficile anche solo restare vigile.

Ne approfitto per fare una doccia, che dura più del previsto.
Passo circa mezz'ora sotto il getto d'acqua immersa nei miei pensieri.

Lascio che l'acqua calda che scende copiosa dal soffione in alto porti via un po' della stanchezza del viaggio provando ad organizzare tutto ciò che avrei dovuto fare a Milano.

Quando esco mi sento un po' più leggera anche se la stanchezza della giornata inizia a farsi sentire.
Asciugo i capelli e indosso un jeans chiaro con una maglione bianco.

Mi siedo sul letto fissando le miei mani poggiate sulle ginocchia.
Domani passerò da mia madre, poi da Giulia e infine, da Davide.

"Hey, Aria! Se hai fame possiamo andare a mangiare qualcosa.
O se non ti va posso portarti qualcosa da mangiare." mi alzo spazzolandomi i vestiti con le mani, e apro la porta ritrovandomi il petto di Jonas a pochi metri dal mio viso.
Lui fa un passo indietro per potermi guardare meglio e inclina leggermente la testa di lato in attesa.

"Pronto ad assaggiare la cucina italiana?"chiedo con tono solenne mentre prendo il mio cappotto abbandonato su una poltrona.

"Aspetto questo momento da una vita." afferma lui di rimando entusiasta. 
Sorrido e chiudo la porta alle mie spalle.

"Com'è la tua stanza?" domando guardandomi intorno mentre percorriamo il lungo corridoio.

"Normale, credo. La tua?" aggrotto le sopracciglia senza però voltarmi. 
Perché gli ho chiesto una cosa tanto stupida?

"Fredda. 
Non vedo l'ora di andar via." sussurro ficcandomi le mani nelle tasche dei jeans. 
Passiamo sotto ad un neon che sfarfalla e ripenso all'ultimo momento felice vissuto qui a Milano.

"Dovresti esserti abituata al freddo ormai, o almeno credo." Jonas ride leggermente, quasi come se temesse di disturbarmi.

"Non ci si abitua mai." sospiro, mentre finalmente usciamo dall'hotel.
Il freddo subito inizia a farsi sentire. 
Le nuvole coprono la luna rendendo il cielo una distesa di nero.

Le strade ben illuminate del centro sono gremite di persone.

Attraversiamo Piazza del Duomo e Jonas scatta qualche foto restando leggermente indietro.

Camminiamo ancora per un po', superando parecchi locali. 
Molti di questi erano locali chic, strapieni di gente avvolti in abiti da sera e completi eleganti. 
Sorrisi pensando alla felpa bianca che indossavo e i miei jeans ormai logori altamente inadatti ad un locale del genere.

"Questo sembra carino, non trovi?" faccio di no con la testa senza neanche girarmi a guardare il locale che aveva adocchiato.

Jonas, probabilmente deluso, riprese a camminare.

Finalmente arriviamo, ma ciò che ci si presenta davanti è una grigia saracinesca piena di graffiti.

Delusa, mi volto verso Jonas che mi guarda confuso.

"Qui c'era la miglior trattoria di Milano. 
Non vedevo l'ora di tornarci, ma a quanto pare ha chiuso i battenti." spiego grattandomi distrattamente il capo.

So che non è la fine del mondo, ma arrivare qui e scoprire che anche quel pezzo di passato fosse ormai andato perdere mi fa sentire tremendamente triste.

"Beh, possiamo sempre andare da un'altra parte." Annuisco alla proposta di Jonas con una scrollata di spalle, ma proprio mentre stavamo per andar via sento una voce alle mie spalle chiamarmi.

"Sei proprio tu, Aria! Ma che fine avevi fatto? Sono anni che non ti si vede!" sorrido vedendo il volto paffuto di Lucia. 
Conosco questa donna da sempre. 
Era proprio lei, insieme a suo marito, a gestire la trattoria.

"Sono stata via per un po', lunga storia.
Ti vedo in ottima forma, ma come mai siete chiusi? Ho un forestiero qui che non vede l'ora di assaggiare la cucina italiana." affermo indicando Jonas che saluta sventolando la mano.

"Accidenti, purtroppo abbiamo dovuto chiudere, sai era diventato troppo faticoso competere con tutti questi ristoranti chic. 
Escono fuori come funghi!" la donna si prende il mento tra le dita e si mette a pensare.

"Ma se volete, vi preparo una bella cena! A Giulio farà molto piacere rivederti!" guardo Jonas che non ha capito assolutamente nulla di ciò che abbiamo detto quindi si limita a sorridere.

"Per te va bene se andiamo a cena da loro no?" lui appare confuso, ma alla fine accetta.

Una serata così potrà solo farmi bene. 
Da domani si fa sul serio.

*

Milano non è cambiata affatto. 
Ripercorro ogni strada come se non fossi mai andata via, come se fossi ancora una liceale di ritorno da scuola. 
Cammino lentamente, dandomi il tempo di posare lo sguardo su tutto ciò che mi si presenta davanti. 
Il cielo è uggioso, il sole pallido e i vetri delle auto ricoperti di brina.
Il mio respiro diventa una nuvoletta bianca che evapora in pochi secondi.
Arrivo finalmente a casa e noto parcheggiata una automobile familiare.
Trovo cancello principale aperto e lo spingo per avere abbastanza spazio per entrare.
Il vecchio cancello di ferro battuto cigola e si apre.
Percorro pochi metri e mi ritrovo dinnanzi al portone interno, anch'esso già aperto.
Strofino i piedi sullo zerbino prima di salire.
Finisco le prime due rampe di scale senza troppi problemi, ma arrivati alla terza inizio a sentire il battito accelerare.
Mi rendo conto che non è stanchezza, ma ansia.

Busso due volte, e dopo qualche secondo mia madre apre la porta.
Mi sorride, sorpresa.
Sorrido anch'io, e sento una morsa allo stomaco quando noto che gli anni son trascorsi anche per lei.

"Aria! Sei qui!" annuisco sentendo gli occhi pizzicare.
La abbraccio forte e mentre i nostri petti sono attaccati, a stento capisco dove finisce il mio battito e inizia il suo.

Andiamo in soggiorno e trovo mio padre seduto a fare colazione.
Mi blocco sul posto, confusa.
Papà? Perché è qui?

Lui si pulisce la mani con un tovagliolo e si alza.
Viene verso di me con il viso contratto.

"Qual buon vento. Se mi avessero detto che saresti tornata non ci avrei mai creduto.
Eppure sei qui.
E in splendida forma a quanto pare." provo a sorridere.

"Già, ho delle cosa da fare qui e ne ho approfitto per fare un salto a casa.
Tu perché sei qui?" domando incrociando le braccia al petto.
Il suo sguardo e la sua voce sono ostili.

"Io ci vivo qui." asserisce alzando un sopracciglio.

"Ah, perfetto. Siete tornati insieme." sorrido leggermente, per niente entusiasta.
No, non mi fa piacere.
Mio padre è un pessimo marito quasi quanto è un pessimo padre, ma non trasformerò questo breve incontro in una lotta di supremazia.
Mi volto verso mia madre che nel frattempo è rimasta in silenzio ad osservare la scena con sguardo preoccupato.
Scuoto leggermente la testa, e lei capisce tutto ciò che avrei potuto dire a parole. 
Sa che la cosa non mi fa impazzire, ma sa anche che lo accetto. 
Accetto che sia lei a prendere decisioni che la riguardano e non la fermerò. 
Vorrei farlo, ma non posso.
È una donna adulta che sa cos'è meglio per lei. 
Anche se non sempre sceglie questo meglio.

"Io devo andare, ma mi ha fatto piacere rivederti." mi avvicino a lei guardandola negli occhi. 
Due pozzi azzurri che ho sempre adorato.

"Di già?" sospiro e la abbraccio nuovamente.

"Devo andare, devo necessariamente concludere ciò che mi ha portata qui." lei annuisce e lentamente allenta la presa per poi lasciarmi andare.

Mi chiudo la porta alle spalle senza voltarmi indietro. 
Avrei voluto rivedere se era tutto come l'avevo lasciato. 
La mia stanza con il poster dei Queen attaccato da sempre dietro la porta. 
La scrivania in legno chiaro con sopra il mio porta penne verde. 
La mia libreria piena di nuovi inizi e lieti fine.

Ma non l'ho fatto. 
Ricordo tutto alla perfezione, e non voglio scoprire una realtà diversa da come la ricordo.

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 26 ***



In my defence what is there to say? 
All the mistakes we made must be faced today
It's not easy now knowing where to start
While the world we love tears itself apart.

Cosa posso dire in mia discolpa? 
Tutti gli errori che abbiamo commesso devono essere affrontati quest'oggi. 
Non è facile adesso capire da dove iniziare, mentre il mondo che amiamo si distrugge.

In my defence, Freddie Mercury

Molti di noi, trascorriamo buona parte della nostra esistenza a programmare, prevedere e catalogare ogni evento della nostra vita. 
Organizziamo routine, creiamo tabelle di marcia.
Siamo terrorizzati dell'idea di poter dimenticare qualcosa. 
Andiamo di fretta, troppo. 
Non c'è più il tempo di sedersi al parco e osservare le nuvole cambiare forma nel cielo. 
Non c'è più tempo per conoscere la persona seduta due metri più a destra della nostra scrivania. 
Ci viene quasi naturale tracciare confini, innalzare muri. 
Mettiamo su una comfort zone e speriamo che nessuno decida di invaderla. Nonostante ciò, molto spesso ci concediamo il "lusso" di procrastinare qualcosa che proprio non abbiamo voglia di fare. Cerchiamo altro da fare, ci teniamo impegnati o semplicemente ci auto convinciamo che non sia importate e che per questo, possa aspettare.

Evitiamo, per quanto possibile, situazioni scomode, problemi, conflitti, confronti o ancora la realtà.

Perché la temiamo, la odiamo. Probabilmente è la cosa più spietata del creato. Non si fa problemi a farti crollare il mondo addosso. Non si preoccupa di addolcire la pillola.

Semplicemente e spudoratamente, ti travolge.

Per tutti questi anni avevo rimandato ancora e ancora questo momento.

Avevo fatto di tutto, come il trasferirmi a 2.020,8 km da Milano.

Avevo interrotto ogni contatto con la mia famiglia, con chiunque potesse preoccuparsi del mio stato mentale a tal punto da chiedermi come stessi.

Ma ormai sono qui, ed è arrivato il momento di chiudere definitivamente con tutta questa storia.

Ed è per questo che stamattina, con lo stomaco in subbuglio e le mani che mi tremano, sto percorrendo con estrema lentezza un piccolo vialetto sterrato con lo sguardo fisso davanti a me. L'aria fredda del mattino è tagliente sul mio viso.

Arrivo alla fine del vialetto dove, sotto la chioma spoglia di una vecchia quercia, c'è la tomba di Davide.

Fugit irreparabile tempus.

Il tempo fugge irreparabilmente, cita l'epitaffio ed io non posso che essere d'accordo.

Mi siedo sulla fredda lastra di marmo ed osservo la piccola foto in cui Davide sorride.
Noto un mazzo di fiori quasi del tutto secchi e mi rendo conto che mi sono completamente dimenticata di prenderne all'ingresso.
Improvvisamente mi sento in colpa, come se a lui potesse realmente fregar qualcosa di un mazzo di fiori.
Una lacrima calda mi riga il viso, ma sono consapevole che non è solo il senso di colpa per aver dimenticato di comprare dei fiori a farmi mancare il fiato.

No, non è affatto questo il motivo.
Il motivo è che mai come ora la verità, il fatto che Davide non ci sia più, è più che tangibile.
È come se solo ora mi fossi davvero resa conto di quanto mi sia mancato e come questa mancanza non potrà essere colmata.

Sento la consapevolezza entrarmi dentro, come il freddo del marmo a contatto con i palmi delle mie mani.

"Perdonami. Ti chiedo scusa.
Avrei davvero fatto di tutto per evitare tutto questo, anche prendere il tuo posto se fosse stato possibile.
Io ti amavo, ho amato ogni parte di te, la luce nei tuoi occhi, la sicurezza del tuo sorriso, il dolce tepore quando mi stringevi sul tuo petto.
Il fatto che non sia mai stata capace di dirlo ad alta voce mi rende tremendamente triste, anche se so che lo sapevi.
So che non avresti mai voluto arrecarmi così tanto dolore, ma sappi che non sono arrabbiata con te.

Lo sono stata per un po', lo ammetto, ma non soltanto con te.
Non è stato per niente facile. 
Anzi ad essere onesta credo di non aver mai sofferto così tanto. " sorrido lievemente, mentre le lacrime mi velano gli occhi.

"Prima di te non avevo mai perso nessuno.
Non sapevo cosa significasse, non ne avevo la minima idea. 
Avevo già visto persone andar via, mio padre prima di tutti.
Ricordo perfettamente quando all'età di sette anni, dopo una terribile discussione, lo vidi uscire sbattendo la porta, per non tornare più.
Il giorno dopo, suo fratello venne e portò via le sue cose" mi fermo per riprendere fiato e faccio un respiro profondo "nel giro di due giorni è andato via. 
Non ho rivisto mio padre per i successivi due anni.
E quando mia madre mi disse che avrei iniziato a passare del tempo con lui andai su tutte le furie.
Iniziai così ad odiare quell'uomo, che mai era riuscito ad essermi padre, ma non mi opposi per non creare problemi. 
Ovviamente tutto ciò non potrà mai essere paragonabile ad una realtà nella quale una persona che ami da un momento all'altro smette di esserci, irreversibilmente." le parole mi muoiono in gola, e abbasso lo sguardo sulle mie ginocchia. 
Mi prendo del tempo per pensare. 
Ci sono tante cose che vorrei dire prima di andar via.

"Ho bisogno di riprendermi la mia vita, Davide. 
Ho bisogno di smetterla di sentirmi in colpa, di pensare e ripensare fino a farmi scoppiare la testa a cosa avrei potuto fare. 
Sono stanca di essere triste, di sentire un vuoto al centro del petto che mi impedisce di vivere come dovrei. 
Ed è per questo, che ho bisogno di lasciarti andare, di riprendere in mano la mia vita da dove l'avevo messa in pausa. 
Io non riuscirò mai a dirti a parole quanto tu sia stato fondamentale. 
Ti amavo, e ti amerò fino alla fine dei miei 
giorni. 
Ci ho messo un bel po', è vero. 
Ma adesso sento di potercela fare. 
Ho conosciuto un ragazzo, Jonas. 
Credo ti sarebbe piaciuto. 
È estremamente gentile ed ha carattere. 
Penso che mi sarà molto d'aiuto." sorrido leggermente portandomi le mani in grembo. 
Mi isso in piedi infilando le mani in tasca.

"Addio, Davide. 
Sarai per sempre una parte fondamentale della mia vita." sussurrai prima di voltarmi e andar via.

 

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Capitolo 29
*** Epilogo ***


Tutto è determinato da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Vale per l'insetto come per gli astri. Esseri umani, vegetali o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile.

- Albert Einstein

Mi capita spesso, più di quanto possa io stessa immaginare, di pensare a come sarebbe adesso la mia vita se avessi fatto scelte diverse. 
Come ci sono arrivata qui? O meglio, quali sono state le piccole decisioni, quelle meno importanti, che hanno contribuito a portarmi qui? A volte mi sembra di avere tutte le risposte, altre invece dubito persino di chi sono.
Anni fa ho accettato che non sempre le cose vanno come tu le avevi programmate.
Allo stesso modo, a distanza di anni, ho accettato che se avere una vita perfetta è impossibile, non avere incertezze è anche peggio. 
Nonostante tutte le domande che mi ronzano per la testa, sono felice.

Ho trovato il mio posto nel mondo. 
Ho finalmente capito cosa conta e cosa invece può passere in secondo piano. 
Ho visto, in me stessa, un punto fisso nel bel mezzo del caos generale. 
Qualcuno su cui potrò sempre contare.
Potrà sembrare egocentrico da parte mia, egoistico quasi.
Forse lo è, forse lo sono. 
Ho visto a lungo me stessa, Aria, come qualcosa da mettere a disposizione del prossimo. 
Amo i miei amici, ho amato tantissimo. 
Amo con tutta me stessa mia madre, anche se ormai la sento solo a natale.
Amo Giulia, che vidi per l'ultima volta anni fa, in un bar a Milano con un bellissimo anello al dito.

Ogni giorno, è un nuovo giorno. 
Un mare di possibili scenari investe la mia vita, aspettando che io scelga quali vivere. 
Iniziare a lavorare qui, in Italia, vicina ma lontana dalla mia amata Milano, mi fa sentire come se finalmente avessi il controllo sulla mia vita. 
Milano, che insieme al mio cuore custodisce gran parte dei mie ricordi, non fa più male. 
Ora riesco ad essere a non così tanti chilometri da tutto ciò che anni fa ha cambiato la mia vita, senza però lasciare che questo influenzi negativamente la mia vita. 
Lavoro a stretto contatto con le famiglie di persone con amici o parenti malati di cancro.
Capita a volte, che un paziente non abbia nessuno, e faccio il possibile affinché possa combattere questa sfida contando solo le sue forze, ma anche con una persona sempre pronta a spronarli e a sostenerli. 
Non amo il mio lavoro, vorrei non fosse necessario. 
Vorrei che nessuno dovesse aver bisogno di me per queste cose, ma sono orgogliosa. 
Sono orgogliosa di tutte quelle persone che sono in grado di aiutare, ma anche di quelle che invece hanno bisogno di aiuto per comprendere ed accettare, che la persona che amano non c'è più. Sono fiera, di ricevere una mail da una ragazza che mi fa gli auguri di natale, e mi ringrazia. 
Sono fiera di avere al mio fianco Jonas, che ha preso in mano la sua vita e i suoi sogni, facendo ciò che davvero lo appassiona. 
Mi piace pensare di avere del merito, ma credo fortemente che avesse già tutto il necessario per farlo e necessitasse solo di un piccolo incoraggiamento. 
E per finire, sono fiera di me. 
Ho fatto cose che mai avrei pensato di fare. 
Ho amato in un modo che probabilmente, pochi riescono a provare. 
E irrimediabilmente ho sofferto, ma poi sono riuscita a tornare ad amare.

Non so ancora se ho tutto ciò di cui ho bisogno, ma dubito di assere arrivata.
Ho ancora molta strada da fare, cosa da vedere e da fare.
Voglio aprire un centro, dove persone che stanno affrontando ciò che ho già vissuto io, possano cercare supporto.
Farò tutto ciò che è in mio potere per rendere ciò che mi resta da fare, i ricordi più belli della mia vita.

 

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