Detoxication || Newtmas

di anonymus_00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Satellite Moments ***
Capitolo 2: *** Unsteady ***
Capitolo 3: *** Una settimana ***
Capitolo 4: *** Attacco di Panico ***



Capitolo 1
*** Satellite Moments ***


1

Satellite Moments [1]


Dolore. Come un calcio nello stomaco. Anzi, non come.

È un calcio nello stomaco.

Trattenendo un gemito mi porto le mani al ventre. Devo cercare di non dargli soddisfazione, così forse smetterà. Il successivo è ancora più forte del primo.

Non urlare. Non urlare. Non urlare.

Lo ripeto nella testa come un mantra, sperando che possa isolarmi dalla realtà portandomi ad un livello superiore dove il dolore e la paura non esistono. Dove non esiste questa vita: la mia vita.

A volte penso cose terribili. Penso che il desiderio delle persone di avere figli sia puro egoismo: costringono i bambini a vivere in mondo che non capiscono senza possibilità di scegliere, sono strappati dal nulla nel quale galleggiano senza esistere, in un paradosso, per essere precipitati in questo mondo folle.

Se me lo avessero chiesto, se mi avessero chiesto "vuoi vivere?" io avrei risposto: No!

Ma nessuno me l'ha chiesto e per sedici anni non ho vissuto, sono solo rimasto a galla cercando di non toccare il fondo, anche quando gli altri mi ci spingevano, a fondo.

Forse Hamilton ha capito questa mia sofferenza nei confronti della vita, forse questo è il suo modo per cercare di liberarmi dal vincolo della vita. Forse, prima o poi, esalerò l'ultimo respiro sotto i suoi calci e di me non resterà che un involucro vuoto.

Ma anche io, nel mio cinismo, riconosco che morire nel cortile della scuola non sarebbe una fine decorosa. E così stringo i denti e, ancora una volta, cerco di tenermi a galla. A galla sulla vita.

- Basta...- gemo quando credo di sentire una costola incrinarsi. Mi raggiunge un conato di vomito e non riesco a trattenermi, in uno spasmo giro il collo e sputo il sangue che mi è risalito dagli organi menomati.

- Cos'hai detto? Parla più forte, non ti sento. - mi schernisce Hamilton e alcuni ragazzi nel cortile, che si sono raccolti per godere dello spettacolo, si mettono a ridere.

Ormai sono sospeso in una sorta di transe e quello che accade lo vivo come in terza persona: vedo il mio corpo steso a terra sul cemento crepato del cortile, sono piegato in due, la testa incassata tra le spalle, la bocca sporca di sangue esattamente come il naso. Lo zigomo è ricoperto da una macchia violacea. Sono sovrastato dal corpo muscoloso di Hamilton, ma alle sue spalle è comparsa una persona che non avevo sentito avvicinarsi; afferra Hamilton per il collo della giacca sportiva  e lo allontana da me.

- Ha detto: basta. - sibila il prof di chimica fissandolo dritto negli occhi.

Il professor Simmons ha uno sguardo capace di farti desiderare di essere morto, ma Hamilton sembra non notarlo e non capisco se si tratti di stupidità o di coraggio. Opto per la prima ipotesi.

- Tornate tutti in classe ragazzi, lo spettacolo è finito, vaglierò l'ipotesi di mettervi tutti in punizione questo pomeriggio per essere rimasti passivamente a guardare. Siete colpevoli esattamente come il sigor Anders. -

In un attimo il cortile si svuota tra mormorii e altre risatine trattenute a stento.

- Dal preside, muoviti.- ordina ancora il professore a Hamilton spingendolo verso l'ingresso della scuola senza troppi riguardi.

Vorrei restare qui, in questo limbo etereo.

Non esisto. Non esisto. Non esisto.

La mia formula magica è cambiata. È meraviglioso il potere che ho di riuscire a manipolare la mia mente con le parole. Ma il professor Simmons non ne è influenzato e si china porgendomi la mano, spezzando l'incantesimo.

- Come ti senti? - lo sguardo duro dedicato a Hamilton si è completamente dissolto, lasciando spazio a due occhi preoccupati e gentili. Dall'aspetto nessuno potrebbe mai dire che si tratti di un professore: Noah Simmons ha venticinque anni ed è appena uscito dall'università. Nonostante l'insperienza è subito riuscito a guadagnarsi il rispetto degli studenti e l'invidia di molti colleghi, oltre ad aver disseminato irrequietezza nella parte femminile del corpo docenti a causa del suo bell'aspetto.

Non si aspetta davvero una risposta. D'altronde come potrebbe sentirsi un adolescente che è appena stato preso a calci a sangue davanti a tutti i suoi compagni? Danni fisici e morali. I primi curabili, i secondi non proprio. Forse con qualche anno di terapia.

- Ne vuoi parlare? -

Scuoto il capo ripetitivamente senza guardarlo. Odio incontrare lo sguardo delle persone. Mi fa sentire vulnerabile, come se già non lo fossi abbastanza.

- Thomas. Lo sai che devo avvertire i tuoi genitori? -

Sembra rammaricato.

Continuo a scuotere il capo.

- La prego non lo faccia.- riesco a mormorare.

- Sono felice che tu non abbia perso la lingua nello scontro. Sai dovresti ricordare di stringere qualcosa tra i denti quando Hamilton ti pesta così, se no rischi di mordertela e e tagliartela. -

Sarcasmo. Rabbrividisco all'idea.

- Ma ovviamente non accadrà più una situazione del genere, vero Thomas? Perchè tu ora verrai nel mio ufficio e faremo due chiacchiere. -

E di cosa dovremmo parlare?

Mio malgrado sono costretto a seguirlo nel suo ufficio.

Lui mi porge un bicchiere d'acqua e lascia che mi ambienti. Non è la prima volta che vengo qui. Solo nell'ultimo mese è la sesta. Mi piace questo posto, è piccolo, ma accogliente, pieno di libri dai titoli stranieri impossibili da leggere. Nonostante la materia che insegna sia chimica mi ha confidato essere un grandissimo appassionato di letteratura.

Quando avvicino il bocchiere alle labbra la pelle spaccata mi brucia, ma cerco di non darlo a vedere e lascio che il liquido mi scivoli giù per la gola, attraversando il mio corpo spezzato.

- C'è qualcosa che vuoi dirmi Thomas? -

Scuoto il capo. Ancora.

- Hai provato a seguire il corso che ti ho consigliato? -

Due settimane fa mi aveva proposto di iscrivermi ad un corso di teatro.

Annuisco.

- E?- mi incalza lui.

- Non mi sono trovato bene. -

- Come pensavo. - sospira lui.

Era stata terribile la lezione. Ci avevano proposto esercizi in cui era necessario mantenere il contatto visivo con gli altri ragazzi e spesso era stato necessario anche il contatto fisico.

Terribile. Terribile. Terribile.

- Lo sai che Hamilton continuerà a infastidirti se gliene lascerai l'occasione?-

- Infastidire mi sembra un po' un eufemismo. - trovo il coraggio di replicare sentendo ancora il sapore del sangue sulla lingua.

- Si, hai ragione. -

Il silenzio che cala nella stanzetta è imbarazzante, mi sento perquisito dallo sguardo del professore ma non ho il coraggio di ricambiarlo.

- Thomas. -

Aspetta che io alzi la testa, ma non lo faccio.

- Lo sai che ci tengo a te? -

Non sapendo cosa rispondere scrollo le spalle.

- Non continuare a farti del male. -

Detto questo mi lascia libero di andare.

Non capisco cosa dovrebbe significare, non sono io a picchiarmi in cortile, sono gli altri a farmi del male. Io esisto e basta. E questo sembra non andare bene a molte persone.

*

Quando scendo dal treno il cielo è meno cupo di questa mattina. Siamo a marzo e il clima freddo e piovoso sta lasciando spazio all'aria fresca e al cielo azzurro. Le persone in stazione mi rivolgono sguardi di compassione soffermandosi sui lividi che ho sul viso e sulla camicia a scacchi sporca di sangue. Mi sembra come se io abbia un cartello tra le mani che annuncia a tutti che vengo picchiato a scuola.

Non voglio tornare a casa. Voglio perdermi in questa città e vivere nei passi delle altre persone. Si può capire molto dal passo di una persona: alcuni sono veloci, rapidi, precisi. Persone sempre di fretta, metodiche. Quelli delle persone in ritardo sono ugualemente rapidi ma meno precisi, sono più che altro traballanti e rischiano spesso di inciampare. Poi ci sono i sognatori: camminano quasi sulle punte, con passi leggeri, a volte incrociando i piedi. C'è chi striscia le suole delle scarpe, chi corre, chi saltella. Ognuno trasmette le sue emozioni e le manifesta attraverso quella che sembra la parte meno significante del corpo: i piedi.

Attraverso la piazza e un suono attira la mia attenzione. È una chitarra. Viene da sotto i portici. La musica si diffonde sopra le teste delle persone e si perde in quest'aria tersa. È una musica allegra, ma quando la voce si unisce al suono delle corde percepisco un contrasto: è una voce pulita, candida, ma piena di cupezza e ciò che dice trasmette un profondo senso di solitudine. Resto pietrificato in mezzo alla piazza a sentire questa canzone avvolgere tutti i presenti: quelli di fretta, quelli in ritardo, i sognatori, gli innamorati, quelli delusi...

Who are the people that make you feel alive?

are any of them standing by your side?

are you chasing every sunset?

are you facing every fear?

are you reaching even higher?

when your dreams all disappear? [1]

[...]

Cerco di trovare, con lo sguardo, colui che sta risvegliando qualcosa dentro di me con questa melodia. Quasi mi sembra di essere l'unico a percepire la musica e mi chiedo se non si tratti solo di uno scherzo della mia mente provocato da tutti i colpi presi a scuola. Magari una commozione cerebrale. È così bella, non sarei in grado di immaginare qualcosa del genere.

cause all our lives are just satellite

here and gone like satellite

satellite moments, light up the sky,

satellite moments, just passing by

[...]

Finalmente lo vedo e, per un istante, il mio cuore perde un battito. È un ragazzo. Avrà all'incirca la mia età, ma lo sguardo sembra racchiudere molti più anni di vita, una vita difficile che odora di pioggia e di fango, di sole e di polvere.

I lineamenti sarebbero dolci se non fossero spezzati dagli occhi duri che talvolta si chiudono come se stesse assaporando una nota più lunga delle altre. Come se ne sentisse il sapore estatico sulla lingua. I capelli biondi gli ricadono spettinati sul viso e il corpo è magro e scavato, quasi completamente nascosto dietro la chitarra segnata che fa suonare come mai ho sentito prima. Non è solo musica, è vita che vibra attraverso le corde.

Lui alza lo sguardo e, ferendo l'oceano di persone nel quale sto affogando, incontra il mio.

E io prendo fiato.

Per poi ricominciare ad annegare.

 

NOTE:

 [1] Satellite Moments - Charlie Fink & Luke Treadaway (Dal film "A Spasso con Bob")

 

Angolo autrice

Prima Newtmas che penso e che scrivo, non ho idea di cosa ne verrà fuori. Spero che siate sopravvissuti a questo primo capitolo, vi andrebbe di farmi sapere cosa ne pensate? Mi farebbe piacere :)

Scusate gli errori ma non ho tempo di rileggere, quindi pubblico di getto :)

Spero di tornare presto!

 

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Capitolo 2
*** Unsteady ***


2
Unsteady

- Sciò, via di qui! Vattene drogato! -

All'improvviso sento freddo e tutto precipita vorticando. Sono io che precipito o è il mondo e io semplicemente ci sono sopra e cado con esso? Cerco di aprire gli occhi.

Mi accorgo che sono già aperti. Ma non vedo nulla.

Sono ferito dalla luce. La voce continua ad inveire e un'esplosione mi scoppia nella testa e comincio a tremare.

Non so per quanto tempo io stia in questo stato, questo terribile stato, ma l'uomo non ha pietà di me e lo sento rigettarmi addosso la coperta che mi aveva strappato per urlare un'ultima volta:

- Se non sparisci immediatamente chiamo la polizia.-

Finalmente dopo un respiro profondo la vista comincia a farsi più nitida e catturo i primi istanti del mattino. Cerco di orientarmi, ma la città sembra non accennare a smettere di girare. Mi stringo la testa tra le mani per cercare di fermare tutto, ma girano anche le mani.

- Sto chiamando la polizia.- l'uomo torna alla carica mostrandomi il cellulare e enfatizzando il suo premere sui tasti.

Non posso permettermi un richiamo, non un altro. Mi alzo in piedi più in fretta che posso e questo fa aumentare i giramenti di testa e mi provoca un improvviso abbassamento della pressione.

Respiro.

Sono instabile.

Afferro la mia chitarra e mi allontano dalla vetrina del negozio dell'uomo.

 

Il mio primo impulso è quello di guardarmi il braccio.

Eccolo. Lì. Mi fissa sfacciato da metà dell'avambraccio. Mi ricorda tutto il potere che ha su di me.

Un foro, minuscolo, quasi invisibile, se non fosse per la pelle arrossata che lo circonda.

Non mi ricordo nemmeno dove me la sono procurata, ieri, la coca. So solo che ne ho ancora una traccia nel corpo. Mi scorre nelle vene, viene pompata dal cuore in ogni fibra del mio corpo.

Alla prima fontanella che trovo mi chino lasciando che l'acqua fredda mi scorra sulla testa, sul viso. Segue la curva del mio naso delicato, cade lungo gli zigomi, scivola sulle labbra secche, gocciola lungo i capelli.

Quando riemergo il mondo mi sembra un po' più vivo. Il cielo è leggermente velato e un sospiro di vento galleggia nell'aria. Rabbrividisco. Le strade cominciano a popolarsi. Cominciano a sentirsi i primi motori accesi, un antifurto parte poco lontano, un gruppo di ragazzi con gli zaini in spalla scoppiano a ridere.

La città si sta svegliando.

Un risveglio meno brusco del mio. Si stiracchia leggermente, distende le sue vie che sbadigliano nel mattino prima di essere calpestate dalle prime suole assonnate.

Suole.

Dò un'occhiata ai miei piedi. La scarpa destra è completamente rovinata: la punta squarciata lascia intravedere la calza sporca. La sinistra ha la suola che si sta staccando e a ogni passo raccolgo da terra polvere e terra portando con me un po' di mondo.

Infilo le mani in tasca alla ricerca delle elemosine raccolte ieri. Le mie dita non incontrano niente. Rivolto la stoffa in ansia.

Niente. Vuote. Come il mio stomaco. Come il mio futuro.

Fisso quel buco sul braccio. Quel dannato foro che si è risucchiato tutto ciò che avevo. Vorrei urlare, prendere a calci il cemento della strada. Grido pieno di rabbia. Qualcuno si volta a guardarmi, poi affretta il passo.

Un attimo dopo, invece, sono per terra, rannicchiato al suolo con le lacrime che si confondono con le gocce d'acqua che ancora mi scivolano lungo le guance. Stringo le braccia attorno alle ginocchia magre che mi premono contro il petto, contro le costole, spezzandomi il respiro. Annaspo in cerca di aria.

Lascio uscire tutto, il freddo, la rabbia, la fame, la frustrazione. Il niente. Sì perchè questo tutto ciò che mi rimane: niente.

Lo sento pesante attorno a me, mi schiaccia. 

Quando finalmente i tremori cessano trovo la forza di alzarmi e mi trascino per le vie frugando tra i cassonetti. Non ho altra scelta.

*

Un altro giorno sta passando. Il pomeriggio si va inoltrando. Raggiungo la piazza vicina alla stazione centrale. Non c'è molta gente e mi chiedo se davvero ne valga la pena, ma in mancanza di alternativa non posso che cominciare. Mi posiziono sotto i portici, come sempre, e stringo tra le mani la chitarra. Mi dà forza, mi fa sentire più stabile sui piedi e mi trasmette vita attraverso i polpastrelli. Quando chiudo gli occhi, quando ascolto la voce liberarsi nell'aria anch'io mi sento libero; posso sollevarmi con lei e guardare il mondo dall'alto senza esserne schiavo.

Comincio a pizzicare le corde. Ricevo i primi sguardi incuriositi. Vedo un bambino dall'altra parte della piazza tirare la mano alla mamma e indicarmi, ma la madre lo trascina via distraendolo promettendogli un gelato.

Ho perso il plettro la scorsa settimana.

Alterno gli arpeggi a dei battiti sulla tavola armonica della chitarra, per dare più ritmo.

Hold, hold on, hold on to me (Tienimi, stringiti, stringiti a me)
'Cause I'm a little unsteady (perchè sono un po' instabile)
A little unsteady (un po' instabile)
Hold, hold on, hold onto me (Tienimi, stringiti, stringiti a me)
'Cause I'm a little unsteady (perchè sono un po' istabile)
A little unsteady (un po' instabile) [1]

[...]

Un signore di fretta lascia cadere una moneta nella ciotola ai miei piedi. Gli rivolgo uno sguardo di riconoscenza ma quello è perso con lo sguardo al cellulare, indifferente a ciò che lo circonda. Un piccolo capanello di persone ogni tanto si ferma davanti a me per poi dissolversi.

Una canzone segue l'altra in quello che è il momento migliore della mia giornata, l'istante in cui non esisto, perchè esiste la mia musica al posto mio.

Mentre ripeto il ritornello di "Satellite Moments" mi perdo a guardare la piazza e vengo catturato da un paio di occhi scuri e ho di nuovo la sensazione di stare precipitando. Perdo una nota.

Le dita mi si impigliano tra le corde, ma non riesco a distogliere lo sguardo. Il tempo sembra dilatarsi e riesco ad osservare ogni singolo dettaglio del viso, del corpo, di questo misterioso ragazzo. Leggo nei suoi occhi una solitudine che mi fa paura, il viso sarebbe dolce se non fosse spezzato da un livido scuro sullo zigomo e dalle labbra ancora un poco sporche di sangue. I capelli scuri si alzano spettinati e sporchi sopra le orecchie e la camicia è macchiata in diversi punti di quello che penso sia sangue. I vestiti gli ricadono sulle spalle curve e le mani gli cadono stanche lungo i fianchi.

E resta fermo immobile a fissarmi, mentre io fisso lui.

È giovanissimo, solo un ragazzino. Come può racchiudere dentro di sé tutto quel dolore?

Questo istante sembra destinato a protrarsi all'infinito nel tempo trascinandoci con sé.

Ma l'infinito, l'eterno, non esiste. Nulla è destinato a durate: la vita, l'amore...prima o poi finiscono.

Una signora mi si ferma davanti e comincia a parlare. Non riesco a capire cosa mi stia dicendo, davanti a me il suo largo sorriso. Si china per lasciare cadere qualcosa nella ciotola e si allontana. Disperato cerco ancora lo sguardo del ragazzo ma trovo solo centinaia di occhi tra i quali mancano i suoi.

Chiudo gli occhi. Il mondo ha ripreso a girare. Mi sento come se avessi assunto un'altra dose, ma questa volta la cocaina non centra, è il cuore che sembra impazzito, batte fuori tempo, un istante troppo veloce e l'istante dopo troppo lento, in una corsa che non riesce a vincere.

Mi sento instabile, vulnerbile. Anche solo un sospiro sarebbe in grado di buttarmi a terra, morto. O forse vivo, ma senza vita.

Sono un po' instabile. Stringimi.

Note

[1] Unsteady - X Abbasandors

Angolo autrice: ammetto che l'idea iniziale non era di farlo proprio così triste, ma mi sta uscendo così e non posso farci niente, Newt mi stava trascinando con sé...prometto che i prossimi capitoli saranno meno deprimenti. Intanto grazie di aver letto anche questo capitolo! Come vi è sembrato l'incontro tra i due? Tra quanto si ritroveranno?

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Capitolo 3
*** Una settimana ***


3

Una settimana



Il libro aperto davanti a me non ha niente di allettante. Lo fisso per qualche istante, intensamente, immaginando che, se mi concentrassi abbastanza, le parole fluirebbero direttamente nella mia testa. Provo a leggere una frase, ma mi rendo conto che i caratteri neri rimangono solo macchie scure senza alcun significato. Devo rileggere più volte prima che l'argomento cominci a delinearmisi un po' più chiaro. Ma solo un po'.

Sospiro, sbuffo. Guardo fuori dalla finestra. Un piccione sopra il filo dell'alta tensione sembra improvvisamente così interessante...persino la mosca che continua a sbattere testarda contro il vetro riesce a guadagnarsi più attenzione di Martin Lutero [1]

Cosa mi sta succedendo? Non ho mai trovato così difficile concentrarmi. A scuola, se si sorvola sui problemi relazionali, non ho mai avuto difficoltà, mi è sempre piaciuto studiare, ma ora la mia concentrazione continua a perdersi spostandosi su un unico dettaglio.

Il suo sguardo. I suoi occhi.

Scuri. Liquidi. Un oceano di dolore e momenti difficili che stava cercando di dimenticare perdendosi nella sua musica, nella sua voce. La sua bellissima voce.

Vorrei studiare la sua, di storia, non quella di Lutero, perchè avrà anche guidato una rivoluzione di importanza mondiale, ma i tumulti che si stanno combattendo dentro di me sono più violenti di qualsiasi protesta.

Scuoto il capo. Devo smettere di pensarci, quel ragazzo non ha nulla a che fare con me, la sua vita non è intrecciata alla mia.

Ma vorrei che lo fosse. Quell'istante, quell'attimo fuggente, è stato come vedermi allo specchio e ho percepito  brividi corrermi lungo la schiena nel vedere la mia tristezza riflessa nella tristezza di qualcun altro.

È la voce di mia madre a sollevarmi da tutti questi problemi. Scendo al piano inferiore per unirmi ai miei genitori per la cena e appena lo sguardo di mia mamma si posa su di me si fa allo atesso tempo severo e preoccupato:

- Che cosa ti è successo Thomas? - mi si avvicina e mi prende il mento tra le mani prima che io possa ribellarmi e avvicina il viso per osservare meglio il livido sulla guancia.

Profuma di mimosa.

Non appena sono arrivato a casa mi sono fatto la doccia cercando di lavare via lo sporco e il sangue e ho messo a bagno la camicia in un secchio d'acqua per la stessa ragione. Ma i lividi non si possono lavare.

Alzo le spalle.

- Niente di che, sono caduto dalle scale. - rispondo senza darci troppo peso.

- Forse perchè qualcuno ti ha spinto? - domanda mio padre, già seduto al tavolo, guardandomi con uno sguardo indagatore.

- Ma che dici papà...- cerco di divincolarmi dalla stretta di mia madre, ma capisco che sanno qualcosa.

- Se non sbaglio anche settimana scorsa sei caduto provocandoti quell'ematoma sul braccio, o sbaglio? Ah no, non eri caduto, avevi detto di aver sbattuto contro la ringhiera del cortile giocando a basket. Esattamente come quando hai sostenuto di essere inciampato in palestra durante la prova di salto ad ostacoli, o quando sei scivolato sul pavimento bagnato. -

Mi meraviglio della memoria di mio padre e non trovo le parole per replicare.

- Perchè non ce ne hai mai parlato? Thomas cosa sta succedendo? -

Deve essere stato il professor Simmons. Avrà chiamato i miei raccontando di come mi sono provocato veramente tutti questi lividi. Un unico nome, causa di tutti: Hamilton.

Mia mamma ora ha assunto la sua espressione più preoccupata, immagino che ora si lascerà andare nel ricordo dei tempi in cui ero un bambino allegro che raccontava tutto per poi passare a domandermi cosa mi ha portato a chiudermi in me stesso. Il problema è che nemmeno io ho una risposta. Non lo so.

Mi sento solo. Senza alcuna vera ragione apparente, mi sento sperduto in un gioco di cui non capisco le regole, tutti tirano i dadi e avanzano sul tabellone e invece io continuo ad andare nella direzione sbagliata.

- Vogliamo parlare con i genitori di questo Hamilton. - dice mio padre con un tono che non ammette repliche.

- Non ce n'è bisogno. - cerco di alleggerire la situazione. A scuola le cose peggiorerebbe soltanto, per Hamilton diventerei il fifone che ha fatto la spia, quello che chiede aiuto a mamma e papà e che non sa difendersi.

- Forse non ti rendi conto della situazione Thomas, ma ti stanno facendo del male. -

Proprio perchè io e il mio stomaco ci rendiamo perfettamente conto della situazione ti dico di non intervenire, vorrei rispondergli, ma le parole mi sfuggono. Lui sembra però leggere il mio sguardo disperato:

- Una settimana Thomas, ti do una settimana per dimostrarmi che queste sono solo ragazzate e per farle finire. Dimostrami di star diventando un uomo. -

Lo guardo negli occhi e stringo le labbra. Un uomo. Mi sento solo un bambino che ha appena imparato a camminare e si muove traballando sul pavimento cadendo ad ogni difficoltà.

Annuisco. Una settimana.

Dal forno comincia ad arrivare un odore fastidioso.

- Le patate! - esclama mia mamma correndo ad abbassare la temperatura. Ci sediamo tutti a tavola, in silenzio.

*

Sto rileggendo un passo di Romeo e Giulietta quando mi trovo ricoperto dalla sostanza non bene identificata che prima era nel piatto. Il pallone da basket è rimbalzato sul mio vassoio sollevando il piatto che ha schizzato il suo contenuto per metà su di me e per metà sul libro e facendo rotolare la mela a terra e ora giace abbandonata in una pozzanghera.

- Oh povero Thommy, ti abbiamo disturbato? - non ho bisogno di alzare gli occhi dal piatto per capire a chi appartiene questa voce.

Una settimana. La voce di mio padre mi risuona nella testa. Dimostrami di star diventando un uomo. Respiro a fondo e chiudo gli occhi un istante.

Non devo dar loro soddisfazione, solo così smetteranno.

Non lo guardo nemmeno e mi alzo per raccogliere il piatto e la mela e andare a buttarli dopo essermi ripulito in qualche modo il viso dalla minestra di lenticchie. Almeno non mi piaceva, così ho una buona scusa per non mangiarla.

Ecco Thomas, così, non darci peso. Questa volta la voce di mio padre la sto solo immaginando, ma mi solleva sentire la sua approvazione, in un modo o nell'altro.

Non faccio nemmeno in tempo a muovere un paio di passi che mi sento afferrare il colletto della camicia:

- Non ti hanno insegnato che si risponde alle domande? Non essere maleducato, mi offendi. -

Con tutto il coraggio che ho in corpo, cercando di ignorare la paura che da un momento all'altro comincerà a farmi tremare come una foglia, riesco a far uscire la voce:

- Mollami Hamilton. -

Dietro di lui il suo gruppo di amici, o meglio, di leccapiedi si producono in una serie di vocine falsamente terrorizzate.

- Avete sentito? Thommy vuole fare il duro. -

Mi mordo la lingua, maledicendo mio padre e me che gli stavo dando retta.

Chiudo gli occhi aspettando il pugno sperando che sia diretto allo stomaco dove almeno sarà più facile nascondere i segni, ma al suo posto arriva una voce. Una voce che non conosco. La voce di una ragazza.

- Non credete che non sia uno spettacolo adatto ad una ragazza? -

Apro gli occhi ma lei è alle mie spalle e non riesco a capire di chi si tratti. Vedo però l'espressione di Hamilton mutare completamente e squadrare la ragazza con un sorriso malizioso.

Mi lascia andare spingendomi tanto che barcollo all'indietro.

- Ti fai difendere dalla fidanzatina Thomas? - gli altri ragazzi scoppiano a ridere e rivolgono occhiate cariche di sottointesi alla ragazza fino a che Hamilton non ci da le spalle e si allontana e allora eccoli, tutti ordinati, a seguirlo come marionette senza fili.

Dovrei ringraziarla, chiunque lei sia, ma mi sembra che le cose siano solo peggiorate. Ancora.

Quando alzo gli occhi mi trovo davanti un sorriso gentile e due occhi blu luminosissimi che mi osservano da sopra un naso leggermente all'insù su cui sono cadute una manciata di lentiggini. I capelli neri sono lunghi e lisci lasciati liberi sulle spalle e tra le braccia tiene alcuni libri tra cui riconosco trigonometria del quarto anno. Non credo di averla mai vista prima.

- Sai, un semplice grazie sarebbe sufficente. - mi suggerisce senza smettere di sorridere.

- G-grazie. - balbetto un po' confuso.

Lei mi porge la mano cercando di tenere i libri tra la sinistra e la spalle per non farli cadere.

- Sono Teresa. -

- Thomas. -

- Senti Thomas, hai voglia di farmi vedere un po' la scuola? -

***

Devo trovare Lupo. Ne ho bisogno. Ora.

Sento come se il tempo fosse dilatato, percepisco ogni cosa ad una lentezza esasperante, i suoni sono amplificati. L'antifurto di una macchina mi riempie la testa confondendomi. Posso percepire perfettamente ogni singola goccia di sudore che mi scivola sulla fronte. Il mio corpo si lascia andare a tremori regolari che si diffondono fino alle mani che non riescono più a stringere le mani.

Le gocce di pioggia mi scivolano addosso infilandosi nel colletto della maglietta e appicicandomela addosso. I fari di una macchina all'improvviso e il suono di un clacson che mi sembra arrivare da molto lontano mi fanno scoprire di essere in mezzo alla strada. Cerco di orientarmi.

Dall'altra parte. Devo arrivare dall'altra parte.

Sono cosciente solo del battito del mio cuore impazzito e del respiro affannato che mi fa tagliare in due dall'aria che entra a prepotenza nei polmoni. Non so per quanto tempo vago per la città.

Ma alla fine lo trovo. Trovo quello che voglio. Quello di cui ho bisogno.

L'ultima cosa che vedo, prima di sprofondare nell'incubo, sono un paio di occhi marroni che mi osservano, in mezzo alla folla.

 

Note:

riferimenti puramente casuali...oggi ho avuto la verifica :')

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Capitolo 4
*** Attacco di Panico ***


5

Attacco di Panico


- Voglio te. -

C'è qualcosa nella sua voce, nel suo sguardo, che mi fa desiderare di avvicinarmi di più, colmare lo spazio che ci separa che ora sembra infinito.

E invece scoppio in una risata. Una risata amara. È solo un ragazzino. Scuoto il capo divertito. 

Lui sembra ferito, il suo sguardo si adombra, gli occhi appena lucidi che ora guardano in basso. Ha le guance imporporate e il respiro si è fatto più affannato.

- E che cosa mai potrei darti? - domando senza guardarlo, osservando invece la piazza ancora vuota.

Mi stupisco nel voler sentire la risposta. Il mio corpo è palcoscenico di sentimenti confusi e discordanti tra loro. Sono spaccato in due e non sono io a decidere quale sia la parte che ora prevale e ora perisce. 

Lui fa un passo indietro e sembra rivolgersi più a se stesso che a me, un tono basso e soffocato.

- Ho sbagliato, non dovevo venire. Ho sbagliato. - il suo disagio è palpabile.

Ora i suoi occhi si muovono senza trovare un punto dove soffermarsi, rimbalzano agitati e lui si volta all'improvviso. Ha il passo traballante e sembra stia per mettersi a correre. 

Ma non glielo permetto, qualcosa scatta in me e senza che quasi me ne renda conto faccio un passo avanti e lo afferro per il braccio facendolo voltare.

Ora siamo vicinissimi. Posso respirare il suo respiro, un respiro denso di ansie e di paure. 

***

Il mio corpo non è in grado di sopportare tutto questo. I cambi improvvisi di umore di questo ragazzo mi gettano in un perpetuo stato di confusione e disagio, a tratti anche paura e non capisco cosa sia, nonostante questo, ad attirarmi così tanto.

Sento la stretta della sua mano sul polso. Ha le dita sottili, ma la sua presa è salda. Mi trattiene e credo di aver smesso di respirare. Il cuore un' esplosione nel petto.

Quando ho sentito la sua risata schernirmi è stato come se mi fossi completamente svuotato, le gambe non sarebbero state in grado di reggere il mio peso a lungo e lo sguardo mi si è annebbiato mentre nelle orecchie è risuonato un ronzio sordo, come se mi fossi trovato nel bel mezzo di un'esplosione che, senza uccidermi, mi lascia in fin di vita privandomi dei miei cinque sensi.

Questo cambio repentino di atteggiamento mi sconvolge, forse, ancora di più. Sentire la sua stretta, la sua mano, mi provoca una serie di piccole scariche che dal braccio si disperdono per tutto il corpo. Vorrei non aver messo la felpa questa mattina, così il contatto sarebbe diretto; pelle contro pelle.

Sento il viso avvampare, mentre il suo rimane impassibile nella sua maschera dagli occhi vuoti e persi. 

Persi nei miei? I miei lo sono, nei suoi.

Eppure, nonostante stia cercando di mantenersi indifferente posso chiaramente sentire sulla pelle del mio viso il suo respiro che si fa accelerato.  

La mia vita è annullata. La scuola, la famiglia, la mia esistenza, tutto si perde al cospetto di questo istante. Questo inebriante istante. Non esiste più la piazza, non esiste più il mondo intero. Esiste solo lui. 

E io che lo guardo.

Il bacio che segue è inaspettato, quasi violento e sento che potrei svenire. Ormai incapace di intendere o di volere sono in balia di un'emozione primordiale a me sconosciuta.

Sento le sue labbra gelide sulle mie bollenti assaggiarmi senza un minimo di pudore spingendomi con la lingua a dischiuderle.

In un attimo la situazione si fa insostenibile, da eccitante e passionale si fa spaventosa. Non ho più il controllo e sento la presa salda del ragazzo spingermi contro la colonna dei portici.

L'impatto con il cemento risveglia leggermente i miei sensi. Lui si stacca da questo bacio rubato e mi tiene fermo per le spalle, fissandomi con uno sguardo che ora sembra nascondere una scintilla di follia.

- Allora? Non era questo che volevi? Hai paura? - la sua voce è un sussurro bisbigliato al mio orecchio mentre sento la sua mano avvicinarsi ai miei jeans, a mio malgrado, pulsanti.

Quello che ora mai è per me terrore puro a lui sembra divertire. Comincio a tremare violentemente e sento una lacrima ghiacciata rigarmi il volto accaldato. 

Chiudo gli occhi spaventato. 

E' strano come chiudere gli occhi sia reazione di difesa ad una situazione spaventosa. Forse crediamo che non vedendo il male, quest'ultimo non vedrà noi e saremo in salvo, protetti dalla tenda nera della nostra paura che ci protegge da ciò che non capiamo, cullandoci come un abbraccio confortante.

Non so per quanto tempo io resti così, con le palpebre serrate, scosso dai tremiti, incapace di pensare, bloccato, attendendo il peggio. Eppure il tempo continua a scorrere e l'unica cosa che sento è la stretta del ragazzo allentarsi.

I miei muscoli contratti provano un istantaneo sollievo e trovo il coraggio di riaprire gli occhi. Lui è ancora davanti a me, a un passo di distanza. 

Il suo sguardo. Come una calamita mi attira sempre in quella direzione. Mi sembra di trovarmi, ora, davanti ad una persona completamente diversa. Riesco a decifrarvi della paura, del disgusto, un senso di colpa straziante e non capisco come tutto questo possa annidarsi dentro quegli occhi che fino ad un secondo fa erano carichi di rabbia e voglia incontrollabile.

- Vattene. - 

***

Thomas non se lo fa ripetere. Quasi inciampando indietreggia, lentamente, come se non credesse davvero di essere libero. Poi si volta e comincia a correre. 

Mi lascio scivolare lungo la colonna con le mani tremanti. Me le passo sul viso, chiudo gli occhi. 

Questi ultimi istanti mi sono sentito fuori controllo. Non ero più padrone dei miei movimenti, delle mie scelte. La mia coscienza era annebbiata, persa in un oceano nero senza una luce a guidarla. Gli occhi terrorizzati del ragazzo hanno avuto il potere di fermarmi e ho paura a immaginare cosa avrei fatto, cosa gli avrei fatto, se non fosse successo. Se fossi rimasto preda di quella furia incontrollabile di cui non voglio ammettere la causa.

Sento il braccio pulsare, come un promemoria costante. Vorrei che quel segno sparisse, vorrei strapparmelo via a forza a costo di sanguinare, ma è inciso nella mia pelle, nella mia anima. E' il mio padrone. Io ne sono schiavo.

Stringo i pugni fino a che le nocche non diventano bianche e sento le unghie ferirmi il palmo. Questo dolore ha il potere di calmarmi e il respiro comincia a farsi regolare.

Non riesco a cancellare l'immagine del suo volto terrorizzato.

Non riesco a cancellare l'idea di essere stato io causa di quel terrore.

Il braccio continua a bruciare.

***

Devo svegliarmi. E' l'unica soluzione. Deve esserlo. Deve essere solo un sogno, un incubo, un malato frutto del mio subconscio straziato.

I miei pensieri continuano al ritmo dei miei passi mentre attraverso l'intera città di corsa, con l'unica meta il mio risveglio. Ma per quanto io corra, per quanto io acceleri, non lo raggiungo.

Non lo raggiungo semplicemente solo perchè non sto dormendo. Non arriverà la sveglia a salvarmi, mai il suo suono mi è stato così desiderato. 

La consapevolezza di essere davvero sveglio, l'ammettere questa condizione, ha il potere di farmi fermare.

Respira Thomas. Respira. 

L'aria sembra non essere sufficiente, comincio ad annaspare. Improvvisamente non sono più in grado di reggermi sulle gambe e mi accascio a terra, in ginocchio. Una mano al petto e una a sostenere il mio peso per terra.

Qui l'aria sembra ancora più densa. Non arriva ai polmoni, la sento incastrarsi, vischiosa, all'imboccatura della trachea, creando un nodo in gola che mi fa soffocare. Il petto è sempre più pesante, le mani mi formicolano e il sudore mi imperla la fronte.

Respira Thomas. Respira.

Sento una voce arrivare da lontano. Ho un viso, davanti, che mi guarda, ma non ne percepisco i tratti. Due mani mi afferrano per le spalle, mi tengono fermo.

- Calma ragazzo. Calmati. Va tutto bene. Forza; insipira ed espira. - Chiudo gli occhi lasciando che questa voce sconosciuta mi guidi.

Lentamente i muscoli cominciano a rilassarsi e il nodo alla gola comincia a sciogliersi. Riesco a mettere a fuoco la persona davanti a me. E' un uomo sulla quarantina, vestito elegante con le ginocchia dei pantaloni ora sporche di terra e una valigia nera abbandonata sul marciapiede. Notare i dettagli mi aiuta a calmarmi. Attorno a noi si sono radunate alcune persone che guardano la scena senza sapere cosa fare. L'uomo li fa allontanare, chiedendo di lasciarmi aria. Gliene sono grato.

- Vuoi sdraiarti? Distendere le gambe? - mi domanda, ma io scuoto il capo. Continuo a respirare, lentamente. 

- Come ti chiami? -

Riesco a balbettare il mio nome e l'uomo lo ripete:

- Bene Thomas, ti capita spesso di avere attacchi di panico? -

Scuoto il capo. E' la prima volta ed è stato terribile. Ho creduto di morire.

Dopo circa mezz'ora di silenzio mi chiede se me la sento di alzarmi. Annuisco e mi aiuta a sorreggermi sulle gambe. 

- Vuoi chiamare i tuoi genitori? La scuola? Posso riaccompagnarti a casa...-

Scuoto il capo a tutte le sue proposte.

- Sicuro? Ti senti bene ora? -

- S-sì.- balbetto. Poi lo ripeto, più convinto.

- Posso riaccompagnarti a casa. -

Ancora una volta declino l'offerta. Ho corso così a lungo che ho attraversato gran parte della città e ora mi trovo poco distante da casa mia.

L'uomo insiste chiedendomi ancora e ancora come io mi senta, preoccupato. Vorrei rispondere che mi sento svuotato, morto, abbandonato, senza alcuno scopo, ma mi limito a ringraziare e lui, ancora dubbioso si allontana, voltandosi ogni passo a controllare se io sia ancora in piedi. 

Vacillando mi incammino verso casa dove spero di rinchiudermi, stando solo nella mia solitudine, che ancora una volta è tutto quello che ho. 

***

Angolo autrice: ammetto che quando mi sono messa a scrivere avevo un'idea completamente diversa di come sarebbe stato questo capitolo, però alla fine è uscito così, straziante come tutti i precedenti. Prometto che la storia non sarà tutta così (anche perchè se no tentiamo noi il suicidio) però questi primi capitoli mi servono ad inquadrare soprattutto la personalità di Newt. Sono curiosa di sentire le vostre opinioni! Grazie per tutto!

 

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