La vita segreta di Ellie Dobner

di Dakota Blood
(/viewuser.php?uid=159886)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***



Capitolo 1
*** Primo Capitolo ***


~Capitolo uno: 

Casa.
Casa è un posto sicuro. Si dice che la casa è dove sta il tuo cuore. Ne siamo certi?
Guardavo fuori dalla mia finestra, vedevo il sole mentre scompariva dietro i tetti arancioni delle grandi case, quelle dove la vita funzionava bene, si insomma dove tutto andava come era giusto che andasse.
Mi chiedevo perché stessi guardado fuori anzichè alzarmi dal letto, sistemarmi i capelli con un picoclo pttine, guardarmi allo specchio e saltar via come un gatto, libera di correre per la strada e fare un giro.
Poi mi ricordavo che io non ero come quelle persone che vivevano in quelle grandi abitazioni di fronte alla mia  allora tutto iniziava a prendere la giusta direzione.
Stringevo gli angoli del lenzuolo come se dovessi prendermela con qualunque cosa mi balzasse all'occhio, come se anche gli oggetti potessero avercela con me.
Eppure il dolore non ha intelligenza, perchè riesce ad annebbiarti la mente e farti credere di essere la persona più stupida sulla faccia della terra. Inizi a fare cose che non immagineresti mai e non riesci a capire che comportanodoti in questo modo fai del male solo a te stessa, mentre coloro a cui vorresti sputare in faccia, nemmeno si accorgono del tuo silenzio disperato.
Solo l'intelligenza e l'amore possono salvarci.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Capitolo due: Mia madre entra nella mia stanza, non mi saluta. Ha ragione, poichè io non apro gli occhi e faccio finta di dormire come un ghiro. Sento i suoi passi accanto al mio letto mentre le sue pantofole ( con piccoli fiori rossi su sfondo beige) pestano il pavimento con sfumature marrone chiaro si avvicinano alla finestra, aprendola per metà sollevando l'avvolgibile. So che adesso sistemerà la mia borsa nera con uno scheletro disegnato sopra insistendo affinchè si capisca per bene che è stata spostata di qualche centimetro, come se fosse una sorta di rito da eseguire per forza. O lo fai o altrimenti non vivrai bene la tua giornata! Dopodichè allunga le sue braccia corte verso la scrivania e riordina i pacchi dei fazzoletti ecologici che ho comprato una settimana fa ( amo la natura e rispetto tutto ciò che la circonda) le confezioni di salviette struccanti all'aloe e le due matite nere che ho lasciato sparpagliate accanto al temperamatite per occhi, anzichè riporre il tutto nell'astuccio. Ok lo ammetto, sono disordinata, ma come dico sempre nel disordine trovo l'ordine di cui ho bisogno per non perdermi. Non oso muovermi. Quasi non respiro e nonostante il cuore mi batta all'impazzata a causa della tensione e del nervosismo, non cedo e rimango immobile come una statua greca. Lei si avvicina e mi sembra quasi di vederla mentre mi guarda dormire, non perché le piaccia occuparsi di me, ma perché deve farlo. è un dovere, le spetta comportarsi in questo modo proprio come è necessatio che ogni mattina alla medesima ora apra quella maledetta porta a vetri e compia gli stessi gesti, senza tardare nemmeno di un minuto. Sento che va via, ha sostato giusto il tempo dovuto e poi è sparita come un fantasma che attraversa un muro, facendomi finalmente respirare. Grazie a Dio anche per oggi è finita. Spalanco gli occhi incostrati di cispa e nel stropicciarli mi sento meglio, come s fossi rinata. Prendo in cellulare che ho lasciato sul comodino alla mia sinistra e guardo l'orario anche se non ne avrei bisogno. So che saranno le dodici in punto e infatti i numeri in rosso mi danno la conferma lampeggiando come lucine di Natale. 12:00 Il sole continua ad intrufolarsi nella mia camera, con insistenza, come un ladro che nonostante veda il pastore tedesco oltre il cancello, decida comunque di prendere un piede di porco ed introdursi in casa in cerca del suo tesoro. Io non voglio essere il tesoro di nessun sole, di nessuna luminosità. Se non odiassi gli occhiali li indosserei come potrei invece indossare senza problemi un paio di calze con i teschi o fatte a brandelli, di quelle che non indossa quasi nessuno per paura di essere giudicato male. In cucina il televisore è sintonizzato su un canale che trasmette principalmente musica elettronica e il DJ, con la sua voce squillante si introduce nella mia stanza, come se fosse seduto sul bordo del mio letto e volesse a tutti i costi buttarmi giù o farmi sentire il suo nuovo maledettissimo disco patetico. Ormai ci ho fatto l'abitudine e non sbuffo nemmeno più, ma i primi giorni è stato quasi come vivere in un incubo. Le mattine le trascorro sempre sola nella mia stanza a dormire fino a tardi perché non voglio dover pensare alla mia vita durante le ore diurne che detesto. Mia madre non lavora, o meglio, ora non ha nessun impiego ma tanti anni fa, molto prima che io nascessi, ottenne un posto nella sua città natale,che dista solo otto chilometri dal paese in cui vive assieme a tutta la famiglia da più di venticinque anni, solo che non l'hanno mai richiamata per dirle che l'avrebbero presa fissa. Se c'è qualcuno che è riusciuto a mettersi in proprio e mandare avanti tutti noi quello è il medico di casa. Non voglio chiamarlo padre e più avanti scoprirete il perché. Mia sorella, Theresa Dobren, ha venticinque anni e non posso certo dire di amarla come si dovrebbe invece amare una sorella. A lei piace uscire ogni sera con il suo ragazzo, Michael Lerner, uno stronzo di trent'anni con gli occhi celesti e i capelli biondo cenere. Io le dico sempre ( solo quando ha quei cinque minuti buoni da dedicarmi) che è un ragazzo sensa senso, che mi sembra un pupazzo, uno finto, ma a lei non interessa e mi guarda male se solo dico queste cose davanti a lei. Lui le regala vestiti corti e costosi, scarpe altissime e profumi dalle fragranze più seducenti e intense. Sembra di avere a che fare con uno sceicco ma in realtà è un mantenuto e non discende da nessun arabo, anzi! Lui la porta ogni estate a Barcellona, non perché voglia farle visitare il centro storico oppure i monumenti più importanti, no, solo perché è la città in cui ormai vanno tutti i ragazzi, è diventata una moda portare la propria ragazza in Spagna e quindi anche lui da perfetto ragazzo di merda deve far ciò che fano tutti i suoi amici e i suoi coetanei. Più ci penso e più mi viene da vomitare! Se lui è un idiota, lei è una di quelle classiche ragazze che si interessano solo di moda, di gossip, dei ragazzi che piacciono a tutte le ragazzette stupide della scuola, le interessa solo questo, solo apparire ed essere sempre in mostra. Tutto il resto, il mondo che c'è là fuori accanto a lei, per una ragazza come mia sorella è solo vuoto, è solo un cerchio che la soffoca e basta. Noi non siamo una famiglia, noi per lei siamo soltanto un peso. Non la telefono mai, non mi preoccupo di che fine possa fare, per me può andare al diavolo domani stesso! Torna ad orari assurdi mentre io sto dormendo e sento solo la sua voce ( impastata dall'alcool) mentre mi chiede se sono già sprofondata nel mondo dei sogni e prendendomi in giro perché vado a dormire troppo presto. Non mi muovo, proprio come non oso muovere nemmeno un braccio quando la mamma entra a controllare che tutto sia al solito posto, per il suo 'vizio dell'autocontrollo forzato' e respiro a fatica perché ho paura che se oso lasciarmi andare e tirare un lungo sospiro, lei possa sentirmi e iniziare a chiacchierare parlandomi di tacchi, di bevande alcoliche e di baci che le son stati rubati mentre ballava sul cubo. Non voglio sentire stronzate alle quattro del mattino. Mia sorella è un idiota senza cervello e non capisco come possa avere il mio stesso sangue. Domattina dovrò andare a scuola e ho mal di testa, mi sembra di avere qualcuno accanto a me che insistentemente sta calando un martello dritto sul mio cranio per farmi impazzire. Mi giro a sinistra allungando il braccio verso il vuoto mentre con la coda dell'occhio mi assicuro che lei si sia già sdraiata e magari stia dormendo, finalmente. La sento mentre sfila la maglietta e lancia i tacchi ( 20 centimetri) contro la parete rosa, la sua parete. Noi non abbiamo una camera singola, o meglio, dormiamo nella stessa stanza ma ognuna ha i suoi spazi, che sono completamente differenti l'uno dall'altro. La mia metà è più piccola e ha le pareti nere, qua e là ho appeso i poster delle band che mi stanno a cuore come gli Slipknot, i Motley Crue e gli Smashing Pumpkins, ho varie foto di cantanti come Ronald Joseph Radke e Sebastian Bach, mentre sorridono al pubblico e io immagino che sorridano perché vivono con me. Ho il comodino con sopra una lampada verde che detesto ma che non posso cambiare perché aspetto di compiere diciotto anni per andarmene di casa oppure trovare un buon lavoro che mi permetta di comprare le cose che mi piacciono. Theresa invece ha il suo lato ' da principessa' come piace chiamarlo a me, perché sembra di essere in un angolo di un castello in stile 'Raperonzolo', peccato che Michael non possa certo definirsi un principe azzurro. Preferisco i rospi ad uno come lui. Mia sorella di notte dorme con un pupazzo gigantesco di Helo Kitty con addosso un tutù rosa e al collo porta un bavaglio con la scritta 'I'm a perfect princess, and you?' E ogni qualvolta mi capita di imbattermi in quella schifezza penso, Non sono una principessa ed è meglio che non ti dica che cosa sono perchè non è niente di bello. Lei ama i peluche, io amo le borchie. La differenza non sta tanto nel fatto che ci vestiamo in modo diverso e ascoltiamo musica differente o frequentiamo posti completamenti diversi l'uno dall'altro, ma nel modo di comportarci con le persone e anche tra di noi. Io non la insulto mai, mentre lei non fa altro che prendermi in giro e a volte arriva persino a farmi dei dispetti nonostante siamo molto più grande di me. L'anno scorso, quando uno di suoi tanti ragazzi che le ronzano attorno l'ha lasciata per un'altra che aveva vinto ad un concorso di bellezza portandosi a casa la fascia di Miss Sorriso' se l'era presa con l'unico poster dei Green Day che ero riuscita a conservare con cura. L'aveva strappato in tre pezzi mentre tra le lacrime diceva che i miei gusti, i miei modi di fare e solo la mia presenza la rendevano nervosa e che addirittura lui ( Un certo Nik non so cosa, che nè io nè i miei genitori hanno mai visto nemmeno una volta) l'aveva lasciata perché si vergognava di uscire con una ragazza che aveva una sorella così strana. Io avevo riso dicendole di prendersi una camomilla e di lasciar perdere quel tipo di ragazzi perché tanto l'avrebbero solo usata e basta. Lei aveva imprecato urlando e dicendo che io dovevo stare zitta perché non potevo parlarle in quel modo, proprio io che non uscivo mai con nessun ragazzo. La principessa ora era stesa a terra con la gonna stropicciata e il rimmel che le colava giù per l guance trasformandola più in una prostituta che in una gran dama quale vuol far credere di essere. Che schifo ! Invidio tutti quelli che non hanno fratelli o sorelle, li invidio davvero! Ora dovrei parlarvi del dottore non è vero? Il medico di casa torna quando si ricorda che esistiamo, quando nella sua mente una lampadina, come un barlume di speranza, si accende a intermittenza e gli ricorda che più di vent'anni fa ha deciso di crearsi una famiglia e che non basta l'albero genealogico per dire che io sono sua figlia o un documento come la carta di identità dove appare il suo cognome accanto al nome Ellie. Torna con il suo sorriso da ebete, come se volesse dire ' eccomi, finalmente, sono tornato dalla grande guerra che stavolta devo ammetterlo mi ha trattenuto un po' troppo, ma oh sono qui e mai e dico MAI mi sarei dimenticato della vostra esistenza. Questo succede sempre. Che cosa dovrei pensare? Di essere voluta bene da un un uomo che sedici anni fa ha aiutato mia madre a generarmi? Dovrei essere certa del fatto che una persona che non mi guarda nemmeno in faccia non appena apre la porta di casa e tiene lo sguardo basso, possa essermi vicina nei momenti difficili? Sapete, quando avevo dieci anni presi la varicella per colpa di una compagna di classe che anzichè rimanere a casa per almeno tre settimane o un mese intero, si era incollata alla sedia e aveva voluto a tutti i costi seguire ogni lezione, senza preoccuparsi delle persone che avrebbe contagiato. Io beccai la malattia subito, assiem ad altre due ragazze, Rose Lorens e Virginia Pertrel. Me ne stavo a letto, a soffrire tra la febbre alta che a volte scendeva e a volte risaliva come se fossi su una montagna russa e il gioco fosse molto divertente, tra il prurito talmente forte che Dio solo sa cosa riusciva ogni volta a frenarmi dal non staccarmi la pelle a morsi! Per fortuna mia mamma ( quando ancora non aveva manifestato tutti i suoi sintomi da disturbi ossessivo-compulsivi) mi aveva spiegato che in casi come quelli, ( una sera d'estate mentre bevevamo una limonata ghiacciata sedute sul dondolo in veranda mi aveva parlato delle malattie dei bambini, quelle che prima o poi prendiamo tutti nella vita) l'unico rimedio per non diventar matti era cospargersi sul corpo del borotalco mentolato ( o in casi in cui non fosse possibile reperirlo in fretta, andava benissimo anche quello normale) che avrebbe reso la pelle fresca attutendo il malessero fisico dovuto alle vesciche. Diventai un mostro nel giro di due giorni, in una settimana assomigliavo ad una grossa fragola e in un mese, quando ormai le grosse bolle iniziavano ad abbandonarmi ( grazie tante!) finalmente potevo guardarmi alla specchio senza provare un senso di ribrezzo. Voglio dire, non sono così stupida da pensare di dovermi voler così male solo perché non potevo ammirare il mio faccino normale, ma andiamo! Chi non si è odiato nel vedere il proprio riflesso mutato, come se all'improvviso Biancaneve per uno strano sortilegio si fosse trasformata di punto in bianco in uno zombie o nell'abominevole uomo delle nevi.? Sarebbe riuscita a non disprezzarsi almeno un poco? Credo di no. Bene, in tutto quel tempo mio padre lo vidi solo due volte. La prima fu quando mi disse che era entrato nella mia stanza perché stava cercando il suo libro di medicina ( specificando che si trattava del volume riguardante i casi più esasperanti) e la seconda quando riuscii ( seppure a malapena) ad alzarmi dal letto e andare in cucina, aprire il frigorifero per prendere un bicchier d'acqua e tornarmene buona buona in camera aspettando che la malattia passasse del tutto. Lo trovai seduto di fronte al tavolo con una marea di documenti, fogli , ricette mediche e un computer portatile aperto su alcune pagine in cui si trattavano argomenti di psicologia e in cui alcuni utenti chiedevano consigli ai migliori medici della zona. Avevo sbirciato facendo finta di dover prendere un altro bicchiere e con la coda dell'occhio avevo letto il titolo in alto, come se si trattasse di una pagina di giornale. La frase, lampeggiante e scritta in rosso ( sembrava quasi un semaforo impazzito) diceva più o meno così: ' Peri i casi più disperati, i migliori dottori da esasperare' Quasi mi venne da ridere e per poco non lasciaoi cadere per terra la bottiglietta d'acqua e i bicchieri. Ero incerta se applaudire facendo sentire tutta la mia falsa accondiscendenza o andar via con passo svelto e silenzioso, poi optai per una scrollatina di capo e andai via chiudendomi l'accappatoio sul petto. Avevo i brividi sia per il freddo che per il gelo interno che avevo provato in quell'istante. Lui aveva sollevato solo per dieci secondi lo sguardo verso di me, e non sono nemmeno sicura se mi avesse realmente riconosciuta e addirittura VISTA. Non so se pensasse che fossi un fantasma, un apparizione mariana o se mi vedesse come una ragazza qualunque che si era introdotta nella sua cucina ( lui ci teneva molto affinchè tutti sapessero che quella era la SUA casa anche se in realtà non aveva mai fatto chissà quali sacrifici per ottenerla, solo botte di fortuna) senza che si sapesse realmente chi fosse. Ero contenta per lui, dovrei forse negarlo solo per salvare me stessa? Ero felice perché finalmente avevo capito che cosa non andava in lui. Finalmente sapevo che potevo mettermi il cuore in pace, lasciare che la mia vita proseguisse come un fiume in piena e arrivasse a sfociare da qualche parte, qualsiasi parte, senza sosta, finché non avrei sicuramente ottenuto di meglio, molto più di ciò che mi aveva potuto offrire lui con le sue mancanze. In lui non andavano tante cose, troppe. Non andava il fatto che non ci fosse mai, che quando rimaneva era come se la stanza fosse vuota. Lui era quel tipo di mancanza che quando non c'è ti manca ma allo stesso tempo hai paura di aver vicino perché sai che ti farebbe solo del male. Un po' come quando vogliamo avvicinarci ad un leone o ad un altro animale feroce perché amiamo i felini più di qualunque altro cosa al mondo ma abbiamo il timore ( anzi ne abbiamo la certezza, una certezza infinita e sepolta nel nostro cuore) che l'avvicinarci a loro significherà sentirci male e bene allo stesso tempo. Ci faranno male, un male da cani, ci sbraneranno di sicuro ma vogliamo stargli vicino perché poterli avere al nostro fianco ci renderebbe felici almeno per qualche ora, vogliamo provare piuttosto che provare ad avere dei rimpianti. Io avevo paura di lui eppure avevo molta più paura di non averlo più un domani o il giorno stesso in cui magari non sarebbe più tornato a casa. Perché doveva succedere questo? Incontravo tante persone che vedevo per due minuti soltanto e nonostante mi rimanessero impressi nella memoria come puzzle, dopo qualche ora li scordavo come si dimenticano i vecchi amori adolescenziali. Avevo solo cinque anni quando mi resi conto che era il padre sbagliato, non solo perché non fosse presente, ma soprattutto perché era presente nella maniera più errata possibile e questo faceva più male del suo 'starò via per molto tempo perché sono occupato, piccola mia' Ciò che lui non capiva era che io non volevo essere chiamata piccola mia, io avrei preferito esser trattata come una tossica, come se fossi una stupida o come se non fossi la bambina che lui avrebbe voluto, avrei preferito qualche schiaffo a tutti quei silenzi. Io non sopportavo la sua mancanza d'affetto, il suo non volermi mai parlare, il suo abbassare lo sguardo quando io cercavo i suoi occhi per cercare di fargli capire che se solo mi avrebbe guardata avrebbe capito che io gli volevo davvero bene. Non lo chiamavo mai papà, forse è capitato qualche volta, raramente, ma ogni volta sentivo come se stessi riolgendomi ad un estraneo e così preferivo non dire nulla e chiudermi in me stessa, in un mutismo così sciocco per gli altri che spesso mi guardavano male, come se stando zitta avessi ucciso delle parole di un'importanza vitale. Ma loro non sapevano. Loro non sapevano niente. Non voglio dire che siano mai successe cose bruttissime nella mia famiglia, a parte il fatto che mia sorella una sera esordì dicendo che avrebbe chiuso con i libri per dedicarsi totalmente alla vita notturna, ma non posso nemmeno dire che siano stati anni idilliaci. Se fosse stato così ora non starei qua a parlarvi della mia vita segreta. Avete voglia di starmi a sentire giusto? E allora seguitemi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Terzo capitolo ***


Capitolo tre: Se state continuando a leggermi è perchè siete curiosi di sapere che cosa avrò da dirvi, bene, vi parlo con il cuore in mano perché ho tenuto questa storia segreta per troppo tempo, come un vecchio libro chiuso in cantina a prender polvere. Ora ho voglia di raccontare tutto a tutti. Non sono mai stata brava in matematica, ho sempre odiato i numeri proprio come una persona allergica ai latticini può detestare un piatto di pasta al burro. Sono nata per le parole, io mi ci immergo totalmente, in una canzone, in una poesia, in una frase scritta a metà sul muro di una vecchia stazione, non importa se siano le parole di un mendicante o di un letterato, non mi interessa se siano vecchie lettere scritte con la penna stilografica o parole scritte tramite un computer magari chattando. L'importante è che le sillabe, le lettere diventino immagini nella mia mente e riescano a farmi sentire libera e leggera. Per questo adoro leggere e scrivere, perchè le parole, i romanzi, mi fanno sentire amata L'amore non è qualcosa di incredibilmente unico e inafferrabile? Eppure posso prenderlo in mano ogni volta che compro un buon libro e posso riguardarlo altre centomila volta sullo scaffale della mia libreria prima di andare a dormire e sognarlo altre mille volte e mille ancora. Sull'amore possono fare anche gli sconti del 50% eppure rimane sempre un amore bellissimo e magico. Ciò che non ho mai capito è perchè siano proprio gli oggetti quelli che riescono a capirci meglio, proprio loro che non parlano, non trasmettono emozioni in quanto non dicono altro se non ciò che noi vogliamo che essi ci dicano attraverso i colori, i suoni, la forma che essi assumono. Forse perchè l'amore non ha bisogno di parole? è per questo? è possibile? è impossibile invece che un padre non riesca a farsi amare a ad amare, questo è davvero impossibile eppure possibile, tanto da preferire un qualsiasi libro a lui. Il 1995 è stato l'anno in cui è iniziato quello che potrei definire l'esordio, il preludio a tutta una serie di eventi che mi hanno portata a quella che sono oggi, una persona che se non avesse passato tutto quello che ha passato non avrebbe scritto queste parole. Come spesso si dice, a volte bisogna ringraziare coloro che ci hanno recato tanto male, perché in fondo sono gli unici che riescono a farci capire quando meritiamo di volerci bene. Tutti noi conosciamo bene la storia della Germania, non intendo TUTTA nel vero senso della parola, ogni piccola cosa che è successa, tutte le guerra, non dico che dobbiamo essere tutti a conoscenza degli orrori del nazismo, ma so per certo che almeno il 60% della popolazione mondiale sa bene che nel 1989 crollò il muro di Berlino. Per la Germania fu una liberazione, non vi erano più una scissione, tutti vivevano nella stessa zona, non si doveva più parlare di Berlino est e Berlino ovest. IL 1989 fu l'anno della vendetta, della ribellione e del riprendere in mano la propria vita. Per me il 1995 è stato il crollo delle mie certezze, il caos generale nella mia vita, quindi diciamo che anche dentro me è caduto un muro, ma che ha portato ad un collasso, ad una crisi nervosa senza precedenti. Ero la Berlino di cui nessuno avrebbe parlato mai nei libri scolastici o nei quotidiani. Ero l'unica, assieme a mia sorella e a mia madre a sapere che nella nostra famiglia, sotto lo stesso tetto, viveva un nazista non tedesco. Non sono mai stata in Germania eppure ho letto alcune cose riguardanti quel posto, un bellissimo luogo circondato dal verde, da alberi bellissimi, giardini, fiori, alberghi meravigliosi e persone dal cuore freddo ma gentili e particolari. Non ci sono mai stata perché non ho mai potuto prendere un aereo e partire all'avventura dato che ero molto piccola, ma anche se avessi potuto, non avrei scelto di visitare quella nazione, perché la Germania ce l'avevo in casa tutti i giorni, ad ogni ora. Se Maometto non va alal montagna, la montagna va a Maometto. Io ero molto piccola come dicevo, e la mia sfortuna sicuramente è stata quella di essere una bambina troppo sveglia, troppo sensibile, ma non sensibile nel senso che piangevo per ogni minima stupidaggine ( ok, piangevo moltissimo per una serie di cose che non sto ad elencarvi per non annoiarvi) nel senso che sentivo la vita in una maniera differente da come la sentivano la maggior parte delle persone. Vi faccio un esempio: a soli 5 anni, mentre mia mamma mi teneva in braccio ( nei periodo in cui vivevamo ancora nella vecchia casa dove al pianterreno stavano i miei nonni da soli) ad un certo punto sentimmo che qualcuno stava salendo le scale. Io mi voltai ( a detta del racconto che mi fece mia mamma molti anni dopo) e iniziai a sentirmi male, ad avere una sorta di premonizione nel momnto in cui vedevo che la persona che stava entrando in cucina era un signore ( non cattivo, secono quanto dicevano tutti in pase) che conoscevano bene i miei genitori perché era un parente alla lontana. Ero così piccola e indifesa, non potevo minimamente sapere il suo nome, non potevo sapere s fosse bravo o malvagio, non avrei distinto la bontà dalla cattiveria, eppure, nel mio cuore sentii che non era un brav'uomo, non ci si poteva fidare! Inizia a piangere non appena lui posò le mani accanto al mio viso per darmi una leggerea carezza, come un padre, e lui si ritrasse rimanendoci malissimo e ridiscendendo le scale, non prima di aver chiesto :- Ma che cos'ha questa bambina? Non le ho fatto proprio niente'- E aveva ragione, perché non aveva fatto proprio niente di male, e io non sapevo perché mi comportassi in quel modo, sapevo solo che avevo provato un senso di terrore nel vederlo. Ho sempre pensato di essere una bambina con segli strani poteri, non voglio dire che un giorno mi sia alzata e abbia dato fuoco alla casa tramite la pirocinesi o che abbia fatto volare i mobili della cucina per poi riposizionarli come prima, no niente di tutto questo. La mia caratteristica stava nel riconoscere a pelle, tramite la vicinanza, l'anima delle persone. Scrutavo ciò che avevano potuto fare, ciò che non avevano fatto ma avrebbero voluto fare con tutta l'anima. E spesso, quand qualcuno aveva in mente di compiere delle brutte azioni, come semplicemente tradire la propria moglie anche in futuro, piangevo e piangevo, impaurita dalla loro cattiveria. Raiallacciandomi al fatto che il 1989 fu in maniera distorta il mio personale 1995, voglio farvi capire quanto c'entri la mia condizione ( la mia dote naturale di prevedere tanti avvenimenti e sentire le negatività della gente) con tutto ciò che accadde da quell'anno in poi fino a qualche mese fa. Prima che io nascessi la vita del miei genitori filava in maniera corretta, non che fosse mai stata la classica coppia tutta rose e fiori ma non erano mai successe cose troppo strane o eccessivamenti brutte, quelle che io definisco ' gli errori di percorso irrimediabli'. Si erano conosciuti in montagna, mio padre a quel tempo ( aveva circa 20 anni) insegnava scii a delle ragazze molto carine che spesso perdevano la testa per lui, ma quell'uomo così schivo ma apparentemente dolce ed educato, non vedeva in loro altro che sesso. Vedeva delle belle gambe, delle curve prominenti ( forse si confondeva con i monti) e nient'altro. Poi, dopo circa tre anni di insegnamento, arrivò una bellissima ragazza di diciotto anni, magra e con i capelli biondo cenere ( mia madre portava sempre un fermaglio nero, diceva che era il suo portafortuna contro le malelingue delle signore anziane regalatole da mia nonna materna quando aveva solo otto anni, da allora non l'ha più tolto!) e lui, schivo e perfidamente meschino, non se ne innamorò ma se ne infatuò in modo malato tanto da farle credere che l'avrebbe amata alla follia. Da quel giorno, dopo soli sei anni e due mesi, si trovarono a dire un sì davanti al prete vestito di bianco che si dimenticò di avvertire il nazista che ora poteva baciare la sposa. La prese in braccio e uscirono dalla chiesa sommersi dai chicchi di riso che si infilarono ovunque, soprattutto tra i capelli di mia mamma che erano tenuti fra loro in alto, come una sorta di mogno, lasciando scivolare lungo le spalle due ciocche di capelli di un colore simile al ramato. Era bellissima e spesso piango riguardando quelle foto, sento come una specie di malinconia nel non esserci potuta essere quel giorni, in quella data così importante per lei. Il viaggio di nozze procedette abbastanza bene, scelsero di trascorrere una settimana e mezzo in Israele, ( non ho mai capito perché due sposini dovessero andare proprio in una terra così poco adatta per una luna di miele) scattarono tantissime foto, risero, si amarono come il primo giorno in cui si videro e poi tornarono a casa portando alcuni regali ai parenti più importanti. Poi arrivai io, due anni dopo il matrimonio. Arrivai a Gennaio, a metà mese. Arrivai tra i freddo e i ricordi di un Natale rascorso in compagnia di tutta la famiglia al completo, tra candele rosse, regali scartati in anticipo, dolci, buffet da far scoppiare la pancia anche ai più magri e giochi di soscietà da terminare alle tre del mattino. Arrivai in un modo inaspettato, non era nei loro piani avere un figlio e perci° non fui accolta con tutto l'amore del mondo. Beh non posso nemmeno dire di non esser stata voluta bene, per carità, d'altronde mi sarebbe potuta andare molto peggio, tutto sommato dal 1990 al 1994 tutto filò liscio come l'olio. Poi qualcosa cambiò, non so se si trattasse di un cambiamento dovuto al fatto che io fossi una bambina strana, ingestibile e che spesso evitava i contatti umani ( quelli che ritenevo cattivi, ma loro come potevano capirlo?)oppure se quella discesa verso l'inferno fosse la conseguenza di un caos generato anni prima e che solo ora si decideva a sfogare in un vero e proprio mare in burrasca. Credo che un insieme di fattori, orribili, abbiano fatto sì che il nostro microcosmo diventasse un vero e proprio mondo di merda. Una realtà dove tutto ciò che sarebbe dovuto essere normale diventava assurdo, già dal primo momento della giornata. Non c'è mai stato il momento in cui ci si sedeva attorno al tavolo e si faceva colazione davanti ad una tazzona di caffèlatte e miele o fette biscottate. Mai! Il pranzo è sempre stato qualcosa di passeggero, come se fosse un rito da eseguire solo per riempire lo stomaco, ma di sincero, di 'fatto con il cuore' non c'è mai stato nulla e questo, in una casa, è una delle cose più terribili che possano accadere, a mio parere. La colazione, il pranzo, la merenda, la cena. Magari fossero stati solo questi i momenti brutti, in cui succedevano le cose tremende. Il vero problema era mangiare con il cuore in gola mentre ci si chiedeva cosa sarebbe successo dopo, nelle ore vuote in cui ci deve essere sempre qualcosa da fare a meno che tu non voglia crogiolarti al sole come una lucertola nullafacente o d'inverno accucciarti come un gatto davanti al camino per tutta la sera. Io non ero una di quelle ragazzine che stavano ferme per troppo tempo, se non per il tempo necessario in cui mi dedicavo alla scrittura, al massimo tre ore al giorno. Dal 1995 in poi capii che il nostro microcosmo era ancora più micro di quello di tutti gli altri, dove non c'era posto per le belle sensazioni, per gli 'Happy Ending' e le risate spontanee. Da quell'anno capii, anzi imparai che la tristezza per me era un 'must' qualcosa che doveva esserci sempre sia che lo volessi o no. L'infelicità era la regola sancita da un uomo che non poteva in effetti chiamarsi uomo ma che tutti, all'infuori di mel lo consideravano così solo perché era un medico. Non sapevo che i medici avessero così a cuore la salute dei loro pazienti e un'incredibile nonchalance nei confronti della propria famiglia, Dio che bel mondo! Questo lo iniziai a pensare all'età di sette anni quando ero ancora troppo piccola per sezionare le parti più microscopiche delle persone e dividerle in medici bravi e medici scadenti. Più avanti, all'età di undici anni capii che quello che avrei dovuto chiamare Papà o Babbo ( ma che in realtà non avevo mai fatto, salvo due o tre volte in cui mi ci sentii costretta ) era tra i pochi dottori che riuscivano a comportarsi così incredibilmente bene con persone che non avevano mai visto prima ( e questo solo perché appena finita la visita spillava loro tanti di quei soldi che poi avrebbero dovuto mangiare pane e cipolla per almeno un mese intero)e così maledettamente male con quelle persone che avrebbe dovuto amare. Questo mi fece male e bene. Male perché msentii una fitta dolorosissima al cuore, come un tradimento, e bene perché iniziai a capire che quell'uomo non era tutto il mio mondo, non girava tutto attorno a lui fortunatamente. Furono gli anni del tutto e del niente, in cui lo vedevamo pochissimo, due o tre ore al giorno, ma non riuscivamo nemmeno a ricordarci come fosse vestito, se ad esempio quel martedì mattina avesse indossato lo stesso paio di pantaloni che aveva messo il lunedì sera o se avesse le occhiaie sotto agli occhi. Non riuscivo a capire se stesse male, se per caso avese bisogno di una camomilla ( mia mamma spesso rimaneva zitta e stringeva i pugni per trattenere l'imbarazzo causato dai suoi stranissimi comportamenti mentre rimuginava sul fatto che forse era l'ora di prendere una tisana che poi beveva puntualmente da sola) Iniziava a farsi conoscere per quello che era sempre stato o per quello che stava diventando, un mostro. Theresa ( mia sorella) non faceva caso al dolore che provava mia mamma, a lei bastava che gli abiti fossero sempre in ordine, che la mamma fosse sempre disponibile quando serviva qualcuno che mettesse in funzione la lavastovoglie, la lavatrice, il phon, la piastra elettrica per i capelli ( rigorosamente con piastre di ceramica per non sciupare i suoi preziosi capelli da Raperonzolo) ma per il resto, era come se nostra madre non esistesse. Scambiò l'amore per una forma di dovere, ci mise tutto il cuore possibile per farla impazzire, come se quella donna fosse la sua schiava, come se già non stesse soffrendo abbastanza per il disagio provocatole da suo marito ( che matrimonio fallito!) che la faceva sentire sola al mond, sola con i suoi fantasmi del passato. La mia famiglia a quel tempo era ed è stata per lunghissimi anni un apocalisse continua, una guerra sensa sosta, dove il nazista-medico tornava alle tre del mattino, spesso ubriaco fradicio e con addosso l'odore di alcune gocce di Chanel N°5 vicino ai lobi, ( quel profumo, sentirlo arrivare dal corridoio e infrangersi tra i muri delle stanze , compresa la loro camera da letto, era già di per sè la viva immagine della donna che l'aveva avuto addosso, quella sguattera dalle lunghe unghie laccate di un rosso vivo, un rosso d'amore a tradimento. Io lo chiamavo il rosso dell'amante) per poi andare a sbattere di continuo contro la porta del bagno, chiedendoci perchè cazzo avessimo spento tutte le luci della casa, se per caso non fossimo contro di lui, contro il re e lo stessimo prendendo in giro. Poi, sbatteva i pugni contro il mobile bianco dove sopra c'era una piccola piantina che innafiavamo ogni giorno e ricordo di aver sempre pensato ' Oh per fortuna non c'è una boccia con dei piccoli pesci rossi che sguazzano allegramente, altrimenti credo che avrebbero fatto una fine orrenda prima o poi'. A lui piaceva imporre il proprio dominio, far sentire che lui era l'uomo di casa, non poteva farsi mettere i piedi in testa da noi donne, non voleva e non poteva perché altrimenti cosa avrebbero mai pensato i suoi colleghi se avessero saputo che si faceva sopraffare da delle femmine? Poi, l'indomani, tornava a lavoro, impeccabile nel suo camice bianco, accendeva il motore della sua Buick azzurra e andava all'ospedale, a curare i feriti, a visitare l'ennesima donna che aveva subito l'ennesima mancanza di rispetto da suo marito ( mancanza di rispetto che stava a significare un occhio nero , un volto irriconosibile, il lato sinistro della faccia completamente tumefatto e tutta una serie di vessazioni fisiche e psicologiche da cui non uscirne più nemmeno tra dieci anni) tornava a fare la sua vita normale, a mostrarsi per ciò che non era, a far credere al mondo intero che lui, il primario dell'Hospital Down Center Falls, era uno per bene di cui ci si poteva fidare, e che noi, noi eravamo l'esempio vivente di infantilisimo femminile. D'altronde, chi avrebbe mai diffidato di un medico? Lui era il Dio e noi eravamo solo delle poveracce, sole. Sole e nella merda.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Capitolo 4. Non ci volle poi troppo tempo affinchè mi abituassi a sentirmi un 'essere senza senso' in quella casa che ormai consideravo più una prigione che altro, non ci misi molto ad abituarmi all'idea che quella bambina così fragile ed emotiva, proprio per questo suo modo di essere, fosse additata come l'ultima ruota di scorta, o come quella che dovesse soffrire troppo. Mi ci abituai, certo, ma questo non significava che tutta quella situazione mi piacesse o che non ci stessi male... anzi! Ma che cosa potevo fare di fronte ad un uomo che iniziava a lamentarsi continuamente, a dire che non valevamo a nulla, che ero stata uno sbaglio, che la loro vita era stata meravigliosa ( non ci avrei mai creduto!) solo prima della mia nascita e dopodiché ( come se io fossi un mostro) era stata tutta una discesa verso gli inferi, senza riuscire a tornare indietro verso la tranquillità. E così, senza sapere il motivo, senza averne le colpe, inizia a subire maltrattementi psicologici da parte del medico, da parte dell'uomo che mi avrebbe dovuta proteggere dal resto del mondo. Non ho mai avuto una buona concezione degli uomini proprio a causa di quel signore per bene che poi in realtà era uno schifosissimo pezzo di merda violento e maschilista. Usciva di casa alle sei del mattino fischiettando e tenendo sotto il braccio il quotidiano che si faceva comprare dalla domestica ( noi avevamo la signora delle pulizie che in realtà era come una seconda mamma, La signora Jerser, che mai dimenticherò!) anzichè muovere le chiappe e andarselo a comprare lui con i suoi piedi enormi chiusi in quelle scarpe costose. Era un sollievo vederlo sbattere la porta dietro di sè mentre spariva girando l'angolo della strada, accendere il motore della macchina e sapere che sarebbe tornato tardi, molto tardi, addirittura il giorno successivo se avesse avuto troppi impegni ( e io speravo con tutto il cuore che la sua agenda fosse stracarica di appuntamenti giornalieri.) Quando lui non c'era mia madre era come spenta, iniava a gironzolare per tutta al casa, specialmente in camera da letto, nella mia cameretta e nel bagno, senza motivo, come se avesse preso le chiavi, si fosse infilata il giubbotto e avesse deciso di fare un giro nella piazza del paese. Ciò che mi preoccupava davvero ( e me ne resi conto nonostante avessi solo undici anni) era il suo sguardo. Non c'era, era completamente assente, come se la sua presenza fosse lì solo in senso fisico ma la sua mente fosse altrove, molto lontata dalla casa che stavamo condividendo. Ogni tanto mi sorrideva ma se provavo a parlargli del comportamento sbagliato di suo marito lei si allontana o alzava gli occhi guardando il soffitto ( mi sono sempre chiesta se in quei momenti non stesse per caso sperando che il tetto le crollasse addosso e la facesse finita così, senza doversi sentire in colpa) evitando in tutti i modo possibili il mio sguardo. E io allora abbassavo il mio, sentendomi in colpa, come se fossi la causa di tutto quel casino. Ma non era così, solo che lo capii molto tardi, troppo. Le giornate andavano avanti così, allo stesso modo, come un rito scritto da uno psicopatico. Lui si svegliava e se la sua luna era buona la baciava sulle labbre e le preparava anche il caffè, ma se per un caso si alzava con il piede sbagliato, allora erano schiaffi anche se lei non apriva bocca. La buttava giù dal letto e non le chiedeva nemmeno se avesse ancora sonno, decideva quando dovesse alzarsi, come dovesse vestirsi e poi allora poteva tranquillamente girare per casa come un cane lasciato libero ai giardini pubblici. Io non osavo parlare, ma dentro di me morivo dalla voglia di prenderlo a pugni, volevo far capire alle persone che solo io e mia mamma conoscevamo il vero volto del medico che guariva le persone, quello che spesso riceveva bigliettini a forma di cuore dalle corteggiatrici molto più giovani di lui ( a 50 anni vniva idolatrato come un ragazzino di 15 da ragazze di 30!) solo perché se la tirava come se fosse un giovanotto e anzichè spendere un poì del suo tempo prendendosi cura di noi, non faceva altro che conciarsi per bene, mettedo la gelatina ai capelli e passando almeno un quarto d'ora davanti allo spechio scegliendo la cravatta da abbinare al nuovo completo gessato. Che uomo patetico! E ogni volta che qualcuno di noi ( più spesso io, perché mia madre e mia sorella rimanevano sempre in silenzio ognuno per motivo diversi; mia mamma perché dipendeva da lui e quindi non poteva aprir bocca e Theresa perché 24 ore su 24 stava con il collo chino e gli occhi fissi su quel maledetto schermo del telefonino) si azzardava a dire qualcosa, come ad esempio che forse non era il caso che usasse tutto quel profumo o che facesse così tardi ogni notte ( nemmeno i medici che si occupavano delle autopsie rincasavano ad orari assurdi quanto i suoi) volavano non solo parole non troppo dolci ma anche sberle. Mia madre sorrideva, si accarezzava la guancia arrossata con noncuranza, come se si trattasse di una pagina di giornale e non del suo bel viso e si girava dall'altra parte, ovvero verso il muro, dove nessuno poteva vederla piangere in silenzio. Io andavo nella mia camera e mi tappavo le orecchie dondolando sul letto ( spesso assomigliavo ad una psicopatica dei film thriller come la ragazza di 'Don't say a word) facendo finta che non fosse nuccesso niente, cercando di togliere dalla mente l'immagine di un uomo che dovrebbe proteggere sia te che tutta la tua famiglia e che invece la terrorizza costringendola ad odiarlo come se fosse un mostro vero e proprio. Questo accadde due, tre, quattro, cento, duecento volte, e ogni volta era sempre peggio ma anche meglio. Peggio, perché mi stavo sempre più rendendo conto che non sarebbe finita tanto facilmente, e meglio perché capivo che tutto ciò che vedevo, le scene che ogni giorno mi toccava subire, stavano assumendo dei tocchi quasi familiari, come se tutto fosse normale. L'abitudine, quella sorta di routine macabra e perversa stava facendo il suo effetto malato, come una droga, una pericolosissima e involontaria guerra con se stessi e le proprie paure. Senza che nemmeno me ne rendessi conto, dopo diversi anni trascorsi tra minacce, paure, umiliazioni e mancanze da ogni parte della famiglia, ( non avevo parenti che mi facessero compagnia, non avevo zii o zie che mi cercassero per portarmi al parco o cugine che mi volessero a casa loro per giocare assieme o fare anche solo una passeggiata lungo il sentiero che portava al mare non lontano da casa)finii per rinchiudermi in me stessa, nelle mie paure, nei miei tormenti più neri, come se fossi sola al mondo. Piangevo, mi buttavo sul letto e mi abbandonavo ad un pianto silenzioso ma intenso, in cui le lacrime sgorgavano a fiotti, come da una fontana inarrestabile. Piansi per giorni, per mesi, piansi per ogni volta che i miei occhi avevano visto delle scene disumane, piansi quando non ne potevo più e quando lui alzava troppo la voce perché voleva dimostrare ai vicini che in quella casa comandava solo lui. Andai avanti così, mesi e mesi, a piangere di nascosto, ad uscire dalla mia stanza con gli occhi rossi e gonfi, chiudendomi in bagno e sciacquandomi il viso con dell'acqua tiepida. Guardavo la mia immagine riflessa sullo specchio e vedevo la vergogna che provavo nel guardare il mio viso. Mi sentivo in colpa per non esser riuscita a fermare quell'uomo, per non avergli bloccato le braccia, per non averlo potuto denunciare. Mi sentivo uno schifo al posto suo, e così, lentamente, con il passare dei mesi, capii che tutta la rabbia che provavo per me stessa e per lui si stava tramutando in odio immenso. Le lacrime si asciugarono e diventai dura con me stessa e con gli altri, provando ad indossare una maschera che non mi apparteneva. Inizia con il detestare mia mamma perché non poteva aiutarsi e quindi aiutare me, odiavo quell'uomo perché era la causa di ogni male, odiavo mia sorella, quel'idiota così egocentrica che non si rendeva conto di quanto dolore ci fosse nella nostra famiglia. Odiavo tutto e tutti, iniziai a detestare la luce del sole al mattino appena sveglia, odiai tutte le luci della casa, volevo vivere nel buio più completo circondata solo dalla musica che riusciva a sollevarmi il morale. Mi mettevo le cuffie alle orecchie, selezionavo i brani che più si avvicinavano al mio stato d'animo e chiudevo gli occhi lasciandomi cullare dalle melodie dei vari gruppi che amavo. Una settimana la dedicavo agli Slipknot e quindi al nu-metal, alcuni giorni non potevo fare a meno di mescolare la mia angoscia con il post-hardcore ascoltando gli Escape the Fate e tante altre band che stimavo come fossero miei fratelli. Quella era la mia vera famiglia, le loro storie, quelle che cantavano, facevano parte di me, pulsavano nelle mie vene come sangue vivo e caldo, mi facevano sentire amata, come se anche io facessi finalmente parte di un mondo che non riuscivo più a sentire mio. Ma non bastò. Cioè, questo grande coinvolgimento durò molti anni, quasi sette, ma poi non riuscii a farmelo bastare, pensai che forse ero viziata sotto sotto. Si, pensai di volere troppo dalla vita, ma in realtà non era questo il problema. Il vero disastro non ero io o i miei strani pensieri, il vero caos interno era la rappresentazione involontaria dell'estremo caos familiare a cui ero troppo abituata. Il dolore causatomi dalle incomprensioni, dall'amore che non c'era e non poteva mai esserci, mi portarono a desiderare sempre di più, a volere il doppio della metà che mi era sempre bastata, che forse mi ero convinta potessi farmi bastare, ma non era più così. Volevo amore vero, volevo mangiare a ogni ora del giorni, sopratutto dolci che mi facessero ingrassare e dimenticare tutto. Il mio obiettivo ormai non era essere necessariamente felice, no, il mio chiodo fisso era quello di azzerare tutto ciò che mi recava sofferenza. La musica non bastò, allora mischiai il metal e il rock con il cibo, mi ingozzai fino a svenire e non riuscii ugualmente a placare questa mia incredibile sete di vendetta, un intorpidimento forzato dei miei sensi più profondi e quasi sconosciuti. Che cosa stavo diventando? Una persona talmente macabra da spaventare persino se stessa, una nullità o qualcosa di ancora peggio? Non dormivo, spesso facevo degli incubi ricorrenti in cui le continue vessazioni di mio padre mi rincorrevano come serial killer armati di coltelli affilati precendendomi in ogni più piccola mossa in strade di campagna senza via d'uscita. Arrivai ad un punto di non-ritorno on cui ero sicura di perdere la testa, e infatti la perdetti senza più riuscire a ritrovarla. Feci di tutto pur di farmi male, mi chiusi in casa evitando qualsiasi contatto, odiando centinaia di persone che nemmeno pnsavano alla mia condizione, vedevo gli altri come nemici, come abominevoli esseri che ridevano delle mei disgrazie, che mi burlavano di me come fossi un fenomeno da baraccone. Nel mio inconscio da ragazzina disadattata, ero convinta che tutti, nessuno escluso, godessero nel sapere che nella loro città vivesse una persona così distrutta psicologicamente. Non trovavo nessuno che potesse salvarmi da me stessa e questo mi uccise a tal punto che pensai di farla finita. Che cosa potevo fare? Spesso trascorrevo le serata chiusa in casa a guardare la pioggia che batteva sui vetri e si mischiava alle mie lacrime senza mai toccarle veramente. Non era la vita che avrei voluto, accidenti! La cosa che più mi dava fastidio, a parte il dolore per mia madre, era che sapevo benissimo di meritare qualcosa di più. Non ero nata per vivere in un buco di città di merda come quella, con una famiglia di merda che non mi capiva e mi faceva sentire come se fossi un fantasma! Volevo diventare una rockstar ma non trovavo nessuno che condividesse le mie stesse passioni, i ragazzi della mia età amavano quasi tutti la musica dance, il rap e ballavano l’hip hop per sentirsi fighi. Non ero di quel mondo io. Il mio mondo era nero, nel mio mondo vivevano i cantanti che amavo e che mi avevano salvato la vita non so quante volte e sapevo per certo che l’avrebbero fatto ancora, all’infinito, con le loro bellissime canzoni, con le melodie rock che coprivano le urla del nostro medio nazista. La musica e le parole erano la mia medicina, ma sentivo che il cuore mi esplodeva ogni giorno sempre più senza riuscire a far niente per bloccare il corso impetuoso delle mie esuberanze. A 18 anni scoprii una droga eccellente, la più pura che potessi mai trovare, e non la lasciai mai più. Non si trattava di eroina, di cocaina o hashish, si trattava di autolesionismo, quello vero, non i soliti taglietti fatti in un momento di follia per poi raccontare in giro che era tutta colpa del gatto. Iniziai a sentirmi meglio ogni volta che la lama penetrava nelle mie carni e riusciva a togliere tutto il dolore che sentivo nel cuore, come se stessi purificando il mio spirito. Era una sensazione strana, mai provata prima. Provai paura, emozione, sconcerto e amore. Amore, per la prima volta sentivo di essere amata da qualcosa che non era né una persona, né un animale e né me stessa. Il sangue mi faceva sentire amata, mi faceva sentire piena di vita. Non è strano pensare che qualcosa di così macabro e tetro potesse regalarmi la felicità perduta? Eppure, nel mio inconscio, sapevo che stava sbagliando tutto. Non era possibile trovare la serenità in un qualcosa di così triste, eppure non potei più farne a meno. Ero schiava del dolore. Quel dolore che era così dolce e bello.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


CAPITOLO 5 L’anno successivo, in ritardo, rispetto a tutti gli altri, mi iscrissi al liceo linguistico dove feci la conoscenza di una ragazza di nome Stella. A quel tempo portavo sempre le magliette a maniche lunghe, anche nelle giornate calde di Maggio e spesso, soprattutto i più piccoli, mi guardavano con dei visi stralunati, come se avessero visto un fantasma che passeggiava tranquillamente nei pressi della loro scuola. Stella, invece, non mi disse mai nulla, anzi, ricordo il primo giorno in cui facemmo amicizia. -Sei nuova?- Mi disse, avanzando verso di me e aggiustando il coletto della camicia. La guardai, con diffidenza, avevo paura di lei eprché mi sorrideva in modo troppo gentile. Non eroabituata ad essere trattata bene dagli altri, perciò rimanevo molto sulle difensive. -Hey dico a te, che hai paura forse? Non mangio mica- avvicinò la sedia al mio banco e si sistemò meglio, porgendomi la mano. Allungai la mia e ci stingemmo in un contatto vivo e sincero, che mi aiutò a sorriderle proprio come aveva fatto bonariamente lei. -Non volevo nemmeno venirci in questa scuola, poi però ho cambiato idea ed eccomi qui- Mi morsi le labbra nervosamente e strinsi i pugni, come se attendessi un qualcosa di impossibile se sentissi tutto il peso esaustivo dell’attesa. -Da quanto fumi?- Notai la sigaretta spenta, una Chesterfield sputata poco prima, si vedevano ancora le strisce di bava nella parte anteriore. Non sapevo che dire o che fare, mi lasciai trasportare dall’emozione, dall’estasi del momento. Non seppi che dire, non lasciai spazio ad altro se non all’immaginazione e gli saltai addoso, fatta come un pinguino. Un pinguino nel bel mezzo del gelo polare. Eh si, i termosifoni erano spenti e nessuno mi aveva mai scaldato il cuore, erciò il casino stava proprio nel nascere, nella mia iperbole del dolore. Io amavo solo coloro che mi facevano impazzire di dolore. Forse perchémio padre era un medico? Forse perché mia sorella non era altro se non una stupida puttanella? Non lo so, ma riuscivo solo a farmi del male, come le droghe. Arrivò il professore, perciò mi staccai da quell’abbraccio tentacoloso, mi rubai la prima scena da sola, come un ladro vigliacco di emozioni e baci. La tipa mi fissò con faccia esterrefatta. Forse era la sua prima esperienza lesbo, la mia idem.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


CAPITOLO SESTO Chiusa la storia con Stella mi avventurai nel mondo della droga con maggior insistenza, sempre lasciando il dubbio a gli altri che stessi più o meno bene, non riuscivo nemmeno io ad agitarmi per davvero o calmarmi come un pulcino appena nato. Detestavo avere gli occhi addosso dei miei parenti. Per esempio i Natali, quando entravamo in chiesa, tutti mi fissavano con sguardo alacre ed osceno. Mia zia materna mi regalò un completino intimo che usai per accendere il fuoco di quel dicembre freddo e ispido, mia mamma non si rese conto che era tempo di auguri e mia sorella cambiò di nuovo ragazzo, come se questo le facilitasse il compito di oca giuliva che ricopriva da quando aveva solo quindici anni. Senza avere una minima idea di cosa volessi fare appena compiuti i vent’anni, oziavo standomene in giro, lasciando che la mia vita segreta fosse resa pubblica dalle mie scorribande a scuola. Ancora frequentavo la terza superiore. Ero stata bocciata per ben tre volte e mentre mia madre mi richiamava circa il mio assurdo comportamento, io le sbattevo in faccia le pagelle più orrende che una figlia possa mostrare in casa. Zero in condotta, uno in italiano e tre in matematica, per non parlare delle lingue straniere e dell’educazione fisica in cui chiedevo sempre di lasciar perdere a causa del ciclo abbondante. Ma non era mica vero. Ero bravissima ad inventare ogni giorno una scusa nuova e ad apprezzare sempre più il dolore. Mi chiudevo in bagno. Limone, cucchiaino, vena e laccio emostatico. Quello era il mio cibo preferito. La mia essenza. Aun giorno, inaspettatamente, all’uscita di scuola, vidi una macchina ferma davanti ai gradini, di fronte al grande cancello rosso. Alla guida vi era sistemato un signore di mezza età, con il volto quasi coperto da una sciarpa e dal giornale che stava leggendo. Mi fece cenno di avvicinarmi. Non provai la benché minima paura. A quel tempo non mi spaventava nulla, a parte il non far niente. -Bella ragazza, che ci fai qua tutta sola?- mi disse, avvicinandosi con l’abitacolo per guardarmi meglio. Dopo cinque minuti giacevamo assieme in una camera d’albergo nettamente pagata da lui, nonostante fossimo in un albergo di lusso e lui non fosse il principe di Glles. Eppure mi piaceva. La situazione era incredibilmente folle eppure mi agitava il fatto di essere fra le braccia di un uomo di quasi cinquant’anni, che mi ricopriva di fiori, di attenzioni e di lussureggianti amori estivi. Passarono tre estati, tre stagioni perfette, fatte di droga, sesso e rock and roll. I suoi dischi erano fighissimi e per lui rinunciai addirittura alla scuola. Quell’uomo dal viso mascherato, dalla bellezza primigena, era diventato il mio aguzzino. Mi prese in custodia, mi legò a sé come un negoziante con la sua bella merce. Mi detestava a morte eppure provava per me un amore quasi viscerale, malato e morboso. Io iniziai a sperimentare i primi sintomi di quella che viene definita sindrome di Stendhal, e lo apprezzai sempre più, nonostante tutto. L’estate finì e con essa anche i fighissimi CD dei Rolling Stones. Mia madre tornò dalle vacanze estive e mi beccò tra le braccia del mio amante malfattore, un fottuto ladro spacciatoe di serie B, che ci teneva a far vedere che sapeva farci con le ragazze esperte di eroina. Mi ricordai di quel ‘bel ragazza’ pronunciato tre anni prima, pensai che ora stavo diventando proprio una gran bella donna con due seni favoosi, e che il ciclo non mi arrivava da due mesi. -Sei incinta?- mi disse, sorridendo. Io non prendevo la pillola perché avevo paura delle controindicazioni, il bugiardino mi metteva l’ansia solo a guardarlo, perciò si, il rischio e l’ipotesi erano altissime, ma non era detta l’ultima parola, e infatti l’ultima fu no. Non aspettavamo un bambino, così come Maria non attese Giuseppe per rimanere incinta. Il sesso mi disgustava. Lo amavo, si, ma non era la mia priorità. C’erano delle sere in cui proprio non mi andava, vuoi per il mal di pancia, vuoi per il mal di testa, spesso declinavo l’invito con un sonoro vaffanculo smorzato dall’enfasi dell’essermi presa il vantaggio dell’azione su di lui. E il mio caro maritino si rigirava dall’altra parte, mentre io pensavo soo alla pera del giorno dopo. Se Eva avesse avuto il mio nome, avrebbe peccato ugualmente.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


CAPITOLO SETTIMO Arrivò l’inverno e mentre attraversavo per caso il passaggio a livello della mia città vidi Stella con un pancione più grande di lei. -Stella- le dissi, ma non mi sentì affatto. Lasciai perdere, ma non mi sfuggì il lividio enorme che aveva sullo zigomo destro. Cosa mai le sarebbe potuto accadere se il bambino si fosse fatto male? E se il padre fosse uno zoticone quanto lo era suo padre tre anni fa, quando la conobbi? Me ne andai piena di dubbi e di isteria e per il sicuro mi feci prescrivere dieci gocce di Valium contro l’ansia, giusto per starmene tranquilla nella mia comfort zone. Tornai a casa tranquilla e beata, accesi la tv, sintonizzandomi sul cinque. Non c’era un cazzo di niente. Il gatto mi guardò impassibile. Lo chiamai perché volevo dargli da mangiare, magari qualche piccola crocchetta, qualche caramellina di quelle commesitibili per i gatti, ma lui iniziò a ronfare e socchiudere gli occhi. Con quello sinistro sbirciò l’atrio, e solo dopo capii il perché, mentre con quello destro abbracciava l’idea che Morfeo gli stesse alle calcagna. La porta si aprì ed entrò Carlo, il mio coinquilino con cui facevo sesso disperato da tre anni, e mi prese con forza per le braccia, io urlai oin un moto nervoso e agitato e lui mi strinse più forte il collo, lasciando poco spazio all’ossigeno. Sto morendo pensai, ma solo poco dopo, circa cinque secondi dopom notai che in mano aveva un mazzo di fiori e che la presa si stava allentando. E soprattutto capii che nel calendario era segnato primo Aprile, il giorno degli scherzi. -Bello da parte tua fingerti un serial killer, non ti basta già che quando ci siamo conosciuti sembrava volessi rapinare una banca?- gli dico, accarezzandomi il collo doorante. La sindrome di Stendhal non mi passerà mai più. Lui ride e accarezza Bicio, il gatto arancione che va a spasso con Morfeo, e mi guarda fisso, per poi baciarmi sonoramente e promettermi che non lo farà mai più. Uomini, come potergli credere? - Ho fame- gli dico, stravaccandomi sul divano letto. Lui mi porta qualcosa di cinese, sushi con salmone raffermo, e faccio la faccia un po’ schifata. - Non hai qualcosa di più buono? Che ne so, una fiorentina?- - -No, mi spiace- wow finalmente ha parlato. L’uomo del silenzio si è espressamente concordato con la solitudine affinché non dicesse mai una sillaba o una vocale ed ora invece l’incantesimo si è rotto, come una siringa. Spezzato come un dolore al cuore. - Lo abbraccio ma con poca forza, mangio qualcosa al volo e mi cambio. Chiamo mia sorella, quella troia, e sento che non è raggiungibile. Spargo qualche libro qua e là, vedo Margaret Mazzantini mentre vola fra Khaled Hosseini e Stephen King, il mio autore preferito, e spolvero un po’ in giro, dove capita, tanto c’è sempre tempo per la casa. Casa è dove abbiamo il nostro cuore. - Lui si è addormentato sul divano e non lascia spazio all’immaginazione. Proprio carino mentre sonnecchia come un bambino che vuole il suo bel ciuccio. - La tv decido di spegnerla, e mentre cambio canale, proprio sul più bello, mi suonano alla porta. - Vado ad aprire e trovo Stella con un fagottino in braccio. - -Posso?- mi chiede, con una faccia distrutta. - Vorrei dirle che l’altro giorno è stata molto maleducata a non rispondere e non avermi salutata, ma lascio perdere. Do’ una sbirciatina al mio maritino, ma dorme come un ghiro e potrei benissimo evitare di svegliarlo facendo meno rumore possibile, invitando emtrambi al silenzio e a togliere le scarpe per non lasciar tracce in giro. Ho una bellissima camera per ospiti proprio accanto alla tv, quindi alla cucina. - -Prego, entrate- - Stella mi sorride, ma i suoi occhi piangono. - Mentre li faccio entrare il mio maritino si rigira tre volte verso destra e mi incute il raro timore che possa farci del male. Chissà perché a volte ho paura che possa sclerare e mandarci tutti al diavolo, me compresa, o puntarmi un coltello alla gola e mandarmi al creatore. Invece non succede nulla di tutto questo e li accompagno in camera da letto. Lei appoggia il piccolo sul letto e scoppia a piangere silenziosamente, abbracciandomi. - -Se non avessi te!, se non avessi te!- mi ripete, quasi come un mantra. - -Shh, è tutto aposto, calmati, che succede?- - - Lui, mi hai picchiata e mi ha mandata via di casa. L’altro giorno ti ho vista ma non potevo fermarmi da te, luimi stava seguendo e avrei potuto mettere in pericoo te e i tuoi familiari. Lui è molto potente e pericoloso, conosce i più ricchi del paese, sa benissimo a chi rivolgersi se vuole la mia testa su un piatto d’argento e sa bene come mettere ko tutti i miei amici più cari. Non vorrei mai che lui facesse ciò che ha fatto a me. Guarda- - Mi mostra il lato del viso meno consumato dall’avidità umana, dalla rabbia feroce di un mostro che non ha bisogno nemmeno di essere presentato: suo marito. - -Lurido bastardo!- dico io, trafelata e stanca morta. - -Possiamo rimanere un po’ di tempo qua da te?- - Cerco di non impazzire, metto a posto i circuiti della mia mente, i neuroni e poi le dico spazientita: - -Certo, ma non pensare di essere al sicuro qua- e glielo dico con estrema sincerità. - Lei guarda il divano e poi quasi sviene. - La sola presenza di un uomo in casa la destabilizza a tal punto che inizia a ricordarmi quanto siano stronzi gli uomini e quanto usino le donne solo per fare i loro comodi.- Gli attacchi di panico,- mi dice, -sono causati dalla loro presenza, perché esendo così meschini, scatenano in noi uno stato emotivo talmente sconcertante che noi nemmeno ce ne rendiamo conto e cosa possiamo fare? Nulla, se non denunciare- - Mi rendo conto che sta alzando un po’ troppo la voce e le chiedo gentilmente di abbassare i toni. - -Scusami, sono abituata al registro che tengo in casa mia- - Il bambino dorme come un angioletto e decido di preparare qualcosa che non sia la solita merda che prendo quando mi trovo in situazioni catastrofiche e solo ora mi rendo conto che l’unica cosa che davvero mi riesce bene è dorgarmi. Eroina pura. - -Tu ti droghi ancora Ellie?- ecco che la ragazza non si fa i cazzi suoi. Sembra avermi letto nel pensiero e nonostante le voglia un gran bene dell’anima la guardo un po’ storta, accorgendomi del suo rifiuto nel comprendere il mio atteggiamento. - -Si. Sono una grandissima e beatissima drogata. Ho un uomo che non si droga ma che sta con una che si fa’ dal giorno alla notte. Contenta?- - -Non era mia intenzione… se vuoi andiamo via- Prende il bambino in braccio e la fermo con un colpo leggero. - -No, voglio che stiate qua al sicuro. Lui è un po’ manesco, è vero, io sono una tossicodipendente, ma non siamo assassini come tuo marito- - Mi sorride e guarda suo figlio, chiedensoi in quale posto l’abbia mai portato. - Andiamo in cucina a sorseggiare un po’ di the alla menta e a ricordare i tempi passati. - -Ti ricordi quella volta che mi sei letteralmente caduta addosso davanti al prof?- - Rido sbrodolando. - -Veramente il mio ricordo personale sta piuttosto nella mancanzan dei termosifoni accesi. Faceva talmente tanto freddo che pur di scaldarmi mi sono finta lesbica.- Ridiamo ininterrottamente e sento lo sbdiglio del mio maritino arrivare dal salotto. - Stella sembra un po’ agitata e guarda il bambino che ciuccia beato il biberon come se fosse il seno della mamma. - -Non è nulla, vedrai. Non preoccuparti. Don’t worry be happy. Te lo ricordi il motto degli hippie?- E quando mettevamo le coroncine? Bellissime. Sono passati solo tre anni ma siamo cambiate tante. L’unica differenza sta nel fatto che tu hai avuto un figlio e io invece sono ancora una tremenda ragazzaccia- Mi meto in mostra di malavoglia pur di farla ridere e constato che ci sono riuscita fin troppo bene, tanto che versa il the sul linoleum nuovo. - -Oh scusa- mi fa’, realmente dispiaciuta. - -Ma di che?- le dico, raccogliendo tutto con uno straccio Vileda. - Il bambino ride, con gli occhietti chiusi, mentre Bicio soffia e sembra irritato. - Basta che si tratti di maschi, i rompicoglioni sono sempre al primo posto. - Il mio maritino si alza, si fa un goccio e torna da noi, accogliendo Stella con un saluto forzato. - Lei si immobilizza, ansiosa e preoccupata. Le stringo la mano e il the le scivola giù lungo la camicetta, freddo e sensibile al calo di energia del suo corpo. Il maritino vede la scena e si incazza. Volano piatti che non erano mai volati, e tutto per cosa? Perché anziché mettere il pavimento normale c’è questa merda di linoleum a cui tiene moltissimo. Stella urla, piange, il bambino vuole scappare, è piccolo ma sembra abbia già capito il sapore del malcontento, tutto va’ a rotoli e il gatto graffia la mia spalla, come se c’entrasse qualcosa in tutta questa scena. - Vedo Stella che apre la porta, azni la spalanca ed esce furtiva come se avesse visto l’angelo della morte, mi abbandona per sempre, mi allontana dalla sua vita. - -FanculFanculo troia!- le fa’ il mio maritino, appesantito dal sonno del pomeriggio. - Serataccia per tutti, ma che ci si può fare? - Mi vien quasi da piangere, poi mi ricordo dei bambini in Africa, che stanno mille volte peggio di me, e allora smetto e mi rialzo moralmente, rimettendo a posto i cocci di tutta una vita. Mi squilla il telefono, è mia madre. - Giornata di merda.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


CAPITOLO OTTO La casa sempre pulita mi da’ il voltastomaco, eppure a lei non sembra fare quest’effetto. Anzi, è così austera nella sua finta perfezione che quasi mi vien da vomitare. Il profumo Chanel numero 5 si sente da dieci chilometri di distanza e quell’anello, il finto solitario che tiene al dito, sembra più un rude esemplare di bigiotteria che un vero e proprio dono degno di gazza ladra. -Amore, se ti ho fatta venire qui è perché tuo padre, che come ben sai ormai da più di 14 anni è un medico ben rinomato, vuole farti un regalo che sa apprezzerai tantissimo- Mi gira la testa, sento le viscere che si attorcigliano fra di loro e mi uccidono all’istante. -Quale sorpresa?- -Ti regala la patente e la possibilità di studiare in una dele più rinomate facoltà del paese, ad Ashcroft. Non sei contenta tesoro? Chissà perché, le persone false hanno sempre il coraggio di affibiarti appellativi deliziosi e sdolcinati solo quando fa’ comodo a loro o in situazioni apparentemente imbarazzanti come questa. -Io non voglio guidare e poi mi basta il mio diploma linguistico, non ti ricordi tutti gli sforzi fatti tre anni fa? Io ora sto con il mio maritino, vogliamo una famiglia e non mi sembra il caso di avere questa cosa morbosa con mio padre, questo atteggiamento viscerale e stupido. Siete persone stranissime, mamma- Lei ci rimane male e si guarda l’anello, molto più importante di me. -Va bene- dice sorridendo, - almeno però non frequentare più quella schifosa di Stella, quella ragazza non promette nulla di buono- -No aspetta, che cazzo ne sai tu di Stella? Ti sei mai preoccupata di me in tutti questi anni? Mi hai mai incoraggiata o hai mai saputo quali fossero le mie priorità o amicizie? Se ho fatto tutti quegli sbagli è anche colpa tua- Mi chiudo la porta alle spalle e la lascio cantare ai quattro venti. Insopportabilmente acida e stupida come un criceto. Mi accendo una sigaretta che il vento rischia di portarmi via e mi lascio cullare dalle note di una meldoai che conosco già. The Bitter End che proviene dal mEdia World vicino casa. Aprofitto della scena patetica per rifarmi il cuore, per risanarmelo, ed entro nel negozio. Il CD dei Placebo, ormai quello vecchio, del 2003, è lì che mi osserva con aria nostalgica e malinconica. Prendo le cuffie enormi che sono disponibili solo nello store qua vicino a casa mia e ascolto tutti i brani, tenendo gli occhi ben chiusi. …In our comfort zone, reminds me of the second time that i followed you home, on this winters days. Canta Brian, canta, che la tua voce riesce sempre a tranquillizzarmi e farmi star bene. Non come il mio maritino che mi prende per il collo solo per via del pesce o come mia madre che vuole a tutti i costi che io diventi perfettina come mia mia sorella Lei vuole fare l’infermiera solo per addolcirsi il suo papà, io invece voglio diventare una cantante perché è nelle mie corde vocali, nei miei sogni e nella mia indole, così come lo è per gli scrittori scrivere e per i naviganti scoprire nuove terre. Io sarò una cantante, proprio come Lenny Filipova che in Hell.o manda a cagare tutti i demoni interiori, dicendo loro che non avranno mai la sua anima, e anzi gli ride pure in faccia! Mitica! Esco dal negozio e mi dirigo verso casa, stanca ma felice.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3666589