strade

di Anthea_
(/viewuser.php?uid=824868)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alessandro ***
Capitolo 2: *** Andrea ***
Capitolo 3: *** Alessandro ***



Capitolo 1
*** Alessandro ***


Un mese prima
 

Eppure s'accorse che da un po' di tempo questa vita per lui andava, impercettibilmente, perdendo sapore.

(Italo Calvino, Gli amori difficili)

 

Settembre è un mese strano, il più strano dell'intero calendario. Un mese di inizio e fine. Un mese di prospetti e bilanci. Un mese che mi confonde perché mi ricorda i miei fallimenti, ma allo stesso tempo mi dà la possibilità di avere un nuovo inizio. È stato così sin da sempre, quest'anno però è diverso. Vedo chiari dinanzi a me i miei fallimenti, però non c'è nessun buon proposito, nessun nuovo inizio per me. Non ha più senso ormai volerne uno.

Osservo il soffitto bianco della mia stanza, con le mani intrecciate dietro la testa, mentre me ne sto disteso sul letto e non riesco a far a meno di pensare a tutto quello che è successo negli ultimi mesi. Sembra quasi un incubo, il mio incubo e a volte vorrei tanto che lo fosse, vorrei tanto svegliarmi nel mezzo della notte col cuore a mille solo per capire che quello che sto vivendo non è reale, ma so che non sarà così.

In queste settimane ho scoperto che ricordare è importante, ti permette di sapere chi sei, ma la verità è che a volte ricordare ti distrugge, vorresti tanto poterne fare a meno, però non si può. Ad essere peggiore, forse, è la consapevolezza che il dolore che sento è il più temibile, è un dolore insopportabile perché lento, terribilmente lento, così tanto che mi costringe a vivere in una costante agonia.

All'inizio mi ripetevano che tutto sarebbe passato, che il tempo mi avrebbe aiutato, d'altronde io stesso ho sempre pensato che si va avanti cercando di mettere ordine, di dar senso a tutto ciò che ti circonda, a tutto ciò che ti succede affrontando i problemi singolarmente, così da poter passare a quello successivo sentendosi più leggeri, poi ho scoperto che a volte ti imbatti in qualcosa che non riesci a risolvere, qualcosa a cui non sai dare un ordine, qualcosa a cui non sai neppure dare un senso ed è allora che iniziano i problemi, quelli veri.  

Il "ci si abitua a tutto" è solo una bugia, anche se a fin di bene. Non è affatto vero, alcune cose non si superano, sono sempre lì dietro l'angolo ad aspettarci e così, quando ho capito di non aver via di fuga, ho deciso di arrendermi. Scappare sarebbe stato inutile, ma la realtà è un'altra: non ho mai provato a farlo perché nonostante il dolore sia forte è anche l’unica cosa che mi permette di ricordare ciò che di bello c’è stato. mi permette di ricordare momenti che non torneranno mai, che sono ormai solo miei ed è proprio per questo che voglio siano ben vividi in me. Anche se il dolore è tanto vale la pena sopportarlo, soprattutto se questo è l'unico modo per non cancellare tutto ciò che mi resta.

«Alessandro?», sento la voce di mia madre provenire dall'altra stanza. Non voglio alzarmi, ma so che se non lo farò tra non molto arriverà qui urlando, così mi faccio forza e la raggiungo in cucina, proprio mentre mi chiama per la seconda volta.

«Siediti, pranza con me», dice mentre è ancora indaffarata tra i fornelli. Sposto lo sguardo sulla tavola imbandita e vedo che ha apparecchiato per due, segno che mio padre non è in casa.

«Tieni, mettiti pure seduto», dice passandomi un piatto di pasta al sugo fumante. Lo afferro, lo poggio al mio solito posto e mi siedo osservando mia madre fare lo stesso. Sorride guardandomi e ricambio debolmente il sorriso. Continua a mangiare, mentre io non faccio altro che giocare con la forchetta rigirando la pasta nel piatto.

«Non ti piace?», domanda nonostante sappia perfettamente che non ho neppure assaggiato il cibo che ho davanti a me. Lo fa per farmi parlare, per capire cosa mi passa per la testa, ma come posso esprimere quello che sento, quando i miei stessi sentimenti confondono anche me? Sarebbe impossibile esprimerli e così non lo faccio.

«Mi sono svegliato da poco, quindi non ho molta fame», mento, in realtà ho semplicemente lo stomaco chiuso. Non mi va affatto di mangiare.

Gli occhi di mia madre sono fissi su di me, come per spronarmi e così cedo. Mi porto la forchetta alla bocca per farla felice, ma non appena assaporo il cibo è come se la fame che non sentivo da un po' improvvisamente tornasse. Lentamente mangio quasi tutto quello che ho nel piatto e colgo, con la coda dell'occhio, il sorriso compiaciuto di mia madre.

«Quando inizieranno i corsi?», chiede partendo alla carica su un altro argomento dolente: l'università.

«Non tornerò all'università, voglio portare in segreteria il modulo per la rinuncia agli studi», dico tenendo lo sguardo basso, sollevandolo solo alla fine per farle capire che faccio sul serio e che il mio non è solo un capriccio.

Lo sguardo dolce di mia madre si tramuta in una furia. «Tu non farai un bel niente, continuerai a studiare!», il suo tono non ammette repliche. Si alza e porta via il suo piatto ancora pieno dalla tavola senza neppure incrociare il mio sguardo, troppo delusa e ferita dalle mie parole.

«Invece lo farò, non voglio più studiare», ammetto per la prima volta ad alta voce.

«Devi!», urla. Vedo le sue spalle tendersi, mentre afferra e stringe con tutta la forza che ha la superficie di marmo della cucina.

«Non puoi rinunciare così, prova a riprendere gli studi. Tutto sta nell'iniziare, poi vedrai che sarà tutto più semplice. Ti chiedo di provarci per l'ultima volta, sei troppo vicino alla fine per mollare così», dice cercando di convincermi. «Un ultimo anno», propone, quasi come se stesse cercando un compromesso.

Ascolto le sue parole, mentre continuo a fissarmi le mani. So benissimo che ha ragione, non voglio negare l'evidenza, so di essere nel torto, ma non so cosa fare a riguardo. Da poco meno di un anno lo studio non mi interessa più, in realtà non mi è mai interessato particolarmente, però ora il mio rendimento ne ha risentito, negli ultimi mesi non ho studiato per nessun esame ed i miei genitori, per quanto comprensivi, non fanno altro che farmelo notare. Non riescono a capire che ho altro per la testa. Laurearmi non è affatto tra i miei primi pensieri. Non mi interessa più, non come mi importava un tempo, le cose mi vanno bene così come sono, però mentre sento mia madre urlare non posso far altro che capirla e sentirmi in colpa, terribilmente in colpa. Ha sempre fatto grandi sacrifici per me, così come mio padre, ma qualcosa in me si è spento e non so come tornare ad essere il figlio che lei vorrebbe, quello che sono stato un tempo, nonostante non sia mai stato perfetto. So che dovrei tornare ad essere quello di una volta, però le persone non sono come i computer, non esiste un modo per fare il downgrade del software, bisogna solo andare avanti e capire in che direzione dirigersi, ma soprattutto bisogna capire cosa fare per imboccare quella strada ed è proprio quello il mio problema perché non so davvero come fare, da dove iniziare. Ho grandi propositi, ma poche intenzioni.

«Mi stai almeno ascoltando?», chiede vedendomi totalmente disinteressato alle sue parole. Alzo lo sguardo giusto in tempo per vederla portare le mani sui fianchi e guardarmi con sguardo severo.

Non rispondo neanche questa volta, non voglio dire nulla perché so di non poterle promettere niente, non so neppure io cosa aspettarmi. Il silenzio mi sembra meglio di una bugia, così sto zitto.

«So che non è facile per te, - il suo tono cambia diventando nuovamente dolce e la cosa mi mette in allerta - però devi provarci, devi provare a superare la cosa, ad andare avanti. Fingere che non ti importa di niente e di nessuno non è da te, non è quello che...»

«Basta!», dico quasi urlando, mentre serro i pugni sul tavolo in un gesto istintivo, prima che possa aggiungere altro. Non voglio essere scortese con lei, so che le sto facendo passare già troppi brutti momenti, ma sa che sono testardo e sa soprattutto che parlare di certe cose mi fa scattare, quindi in qualche modo mi sembra quasi come se lei se la fosse cercata. Questo è quello che mi piace pensare, così da poter alleviare il mio senso di colpa.

«Sai che ti dico? Se vuoi comportarti da ragazzino, deciderò io per te. Quest'anno studierai e non accetto un no come risposta. Ora sparisci, non voglio averti tra i piedi», urla ancora, mentre la dolcezza che ha usato poco fa svanisce di nuovo a causa mia. Mi dà le spalle, troppo esausta per continuare la discussione e mi verrebbe quasi voglia di abbracciarla, di chiederle scusa, però alla fine non lo faccio anzi, in tutta risposta, vado via. Mi alzo, vado in camera mia restando sempre in religioso silenzio. Ogni parola potrebbe rovinare tutto, ancora di più, anche se non credo sia neppure possibile.

Una volta in camera vado spedito verso la finestra e la apro lasciando entrare il rumore assordante del traffico. Le strade sono affollate, ma a settembre è sempre così in città. Gli studenti universitari ritornano, le famiglie riprendono la loro solita routine e il silenzio viene rimpiazzato dal rumore. Un rumore che un tempo amavo, un rumore che sapeva di vita, mentre adesso preferisco di gran lunga la calma, il silenzio.

Afferro una sigaretta dal pacchetto e la stringo tra le labbra, mentre l'accendo e inspiro tutta la nicotina che contiene, sentendo il fumo pizzicarmi la gola per lasciarlo poi penetrare nei polmoni. Il vizio del fumo negli ultimi tempi è peggiorato, quella che un tempo era solo una sigaretta fumata in compagnia, è diventata la mia più cara amica. Guardo nel pacchetto e fortunatamente vedo che non ne ho altre. Mi godo con lentezza quasi disumana questo piccolo e fugace piacere, mentre osservo fuori dalla finestra, cullato dai miei pensieri. Spengo la sigaretta e la getto fuori dalla finestra proprio quando sento bussare alla mia porta.

Sobbalzo leggermente a causa del rumore inaspettato, ma mi riprendo subito quando sento la voce di mia madre.

«Posso entrare?», chiede, ancora fuori dalla stanza.

«Entra.»

La porta si apre e la vedo venire verso di me con passo titubante. I suoi occhi sono lucidi e non capisco se sia in procinto di piangere o abbia appena smesso. Vederla così mi fa provare una fitta di dolore ancora più forte e così prima che lei possa dire qualcosa, vado da lei e l'abbraccio.

«Tornerò all'università», prometto e in quelle parole sono implicite anche le mie scuse, scuse che spero abbia percepito.

«Grazie», esclama e si allontana un po' da me per guardarmi negli occhi. «Grazie per aver capito le mie ragioni. Vederti così mi fa stare male, ho bisogno che tu prenda la tua vita tra le mani. Ho bisogno di vederti di nuovo entusiasta per qualcosa. Ho bisogno di vederti felice e spensierato come un tempo.»

Mi sforzo di sorriderle, non sapendo che altro dire. Non sono affatto convinto che tornare all'università possa servirmi, ma so che non voglio causare altro dispiacere ai miei.

«Andrà tutto bene», promette accarezzandomi il viso e in quel momento torno un po' bambino, mentre mi lascio calmare da quel leggero tocco protettivo.

          Si dice che bisogna sempre fidarsi della propria madre perché lei sa cos'è meglio per il proprio figlio e mi piace                   credere che sia così, ho bisogno che sia così perché da oggi in poi la forza che ho perduto la troverò in lei. Per lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Andrea ***


Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire.
(Alda Merini)

 

Il paesaggio scorre veloce davanti ai miei occhi. Il libro che stavo leggendo ormai non ha più segreti per me, sono arrivata all’ultima pagina con troppa facilità ed ora a farmi compagnia c’è solo il silenzio. Il pullman è quasi vuoto, fatta eccezione per tre signori seduti nei primi posti che hanno sprecato tutto quello che avevano da dirsi nelle prime ore di tragitto. Guardo l’orologio e vedo che non manca ancora molto, tra dieci minuti dovrei raggiungere la destinazione ed in effetti inizio a riconoscere le strade, gli edifici, persino il traffico caotico della stazione mi è familiare. Frugo tra la borsa alla ricerca del cellulare e quando lo trovo, sbloccandolo, vedo che Davide mi ha chiamata un paio di volte e mi ha scritto alcuni messaggi che decido subito di leggere.

“Sono alla stazione, ti aspetto al solito posto.”

“Sono qui da dieci minuti ormai, dove sei?”

“Vado al bar, se non mi trovi cercami lì. Ho bisogno di un caffé!”

        Sorrido nel leggere i suoi messaggi perché come al solito la sua impazienza si fa notare, odia terribilmente aspettare, ma puntualmente arriva in anticipo agli appuntamenti non capendo che questo suo atteggiamento è dettato da del puro masochismo che si riversa, poi, su di me che sono la vittima prediletta delle sue lamentele. Sto per rispondere, quando il pullman svolta nella piazzola di arrivo e così infilo frettolosamente il cellulare in tasca prendendo lo zaino e la borsa prima di scendere.

L’aria è calda, troppo per un pomeriggio di fine settembre, ma ormai so che da questa città posso aspettarmi di tutto, d’altronde l’originalità sembra essere la sua caratteristica fondante. Mi guardo intorno, però di Davide non c’è traccia, così prendo il mio trolley e mi incammino verso il bar della stazione dove sono certa di trovarlo. Cammino tenendo lo sguardo basso per non essere accecata dal sole, tenendo gli occhi fissi a terra per evitare di scontrarmi con qualcuno o, peggio ancora, per evitare, come al solito, di inciampare in qualcosa.

«Andrea», sento urlare. Istintivamente mi fermo e sollevo il capo per capire chi mi sta chiamando, ma quando la voce si ripete capisco subito chi sia. Passano un paio di secondi prima che riesca a individuarlo tra le varie persone e appena i nostri sguardi si incrociano lo vedo sorridermi, mentre mi viene incontro e non riesco a non ricambiare il sorriso. Sono felice di vederlo, mi è mancato tantissimo negli ultimi mesi e non voglio nasconderlo.

Quando mi raggiunge non proferisce parola, si limita ad abbracciarmi con forza; il suo gesto mi spiazza e resto immobile tra le sue braccia, mentre mi stritola con tutta la sua forza. Non sono abituata alla sua mancanza di parole, ma a stupirmi ancora di più sono i gesti d’affetto così evidenti perché sono una vera novità, però vederlo sotto questa nuova luce non mi dispiace affatto.

«Piano», dico cercando di fargli capire che il suo entusiasmo mi sta quasi facendo male. Scioglie l’abbraccio e mi guarda intensamente con i suoi bellissimi occhi nocciola, con la testa leggermente inclinata verso sinistra, lasciando ricadere i suoi capelli scuri su parte della fronte abbronzata. Il suo bellissimo sorriso è contagioso, mi ipnotizza.

«Finalmente sei tornata», rompe il breve silenzio.

«Il dovere chiama», rispondo ironicamente sapendo bene cosa vuole che gli dica, ma non voglio accontentarlo, è troppo abituato a sentirsi dire sempre ciò che vuole e così decido di tenere per me i miei pensieri anche se non sono, in questo momento, poi tanto difficili da scoprire.

«Poche parole, ma efficaci», ripete quello che l’anno scorso era il suo modo fisso per sottolineare con ironia la pragmaticità delle mie risposte e sentirglielo dire nuovamente mi fa capire che sentirò questa frase molto spesso anche quest’anno.

Alzo gli occhi al cielo. «Che ne dici di aiutarmi con le valige invece di prendermi in giro?», domando retoricamente e subito sembra ricordarsi il motivo della sua presenza qui.

«Scusa, hai ragione. Andiamo!»

Prende il mio zaino e il trolley e mi fa strada raccontandomi in modo molto sintetico, ma allo stesso tempo accurato, ciò che ha fatto in questi ultimi mesi. Mi racconta di aver trovato una nuova fidanzata  estremamente bella, ma troppo gelosa per i suoi gusti. Mi spiega cosa dovrà studiare alla scuola di fotografia e dei progetti che ha in ballo per questo nuovo anno accademico, dei nuovi professori che avremo all’università, professori su cui si è già informato. Mi parla perfino delle ultime novità in città un po’ come fossi il suo diario perché riversa su di me un fiume di parole senza aspettarsi nulla in cambio.

«A te invece? Cosa è successo negli ultimi tempi? Non mi hai detto molto quando ci siamo sentiti», dice, infine, mentre le porte della metro, che è appena arrivata, si aprono. Saliamo, ma non ci sono posti liberi così restiamo in piedi con la schiena premuta contro la parete, attenti a non far cadere nulla.

«Non ti ho raccontato nulla perché non c’è nulla da dire. Sono stata via solo un mese e ho trascorso le giornate con la mia famiglia e i miei amici. In pratica mi sono divisa tra casa e mare», spiego stringendomi nelle spalle, come mio solito fare.

«Sei andata tutti i giorni al mare e sei ancora così bianca?», mi prende in giro, ma effettivamente ha ragione. Osservo il mio braccio e vedo che l’unica cosa a dar colore al mio incarnato sono le lentiggini che mi ricoprono interamente in estate a causa del sole.

«Non riesco a stare per troppo tempo al sole. Poi fa male, quindi sei tu piuttosto che dovresti starci attento», ribatto acidamente, sapendo bene quanto lui ami essere abbronzato, ma d’altronde non ha i miei stessi problemi. È il tipico ragazzo meridionale: occhi scuri, capelli scuri e carnagione olivastra, non deve temere come me il sole e sembra saperlo bene.

«La nostra fermata», esclama Davide.

Mi sono distratta e non mi sono accorta che ormai siamo arrivati. Mi affretto a scendere, attenta a non urtare nessuno e per fortuna ci riesco nonostante il vagone sia estremamente affollato.

«Avrai nuove coinquiline quest’anno?», domanda e annuisco.

«Sì, ormai Anna e Martina si sono laureate lo scorso anno».

«Conosci già le ragazze con cui abiterai?»

Scuoto la testa. «No, non so nulla. Se non sbaglio per ora la signora Adele ha trovato solo un’altra ragazza a cui affittare l’appartamento e l’unica cosa che so è che studia biologia».

«Non ci potrà esser d’aiuto», suona quasi sconfitto.

«Eccoci, siamo arrivati», dico entusiasta. Guardo l’imponente palazzo dai colori scuri e tetri e tutto quello che riesco a pensare è solo di esser tornata a casa. Finalmente.

«Che la sfida abbia inizio», scherza Davide parlando con le valige ben consapevole che sarà un’impresa ardua portar su tutta queste cose.

«Coraggio!», lo incito e inizio a salire dopo aver preso lo zaino.

L’affanno si fa sentire più del previsto, sapevo non sarebbe stato semplice, ma sono davvero stanca, però dopo un po’ di sforzi riesco a raggiungere il terzo piano; arrivo di fronte alla porta di casa e frugo nella tasca anteriore dello zaino alla ricerca delle chiavi che trovo facilmente. Apro e la prima cosa che faccio è bere.

«Acqua anche per me», implora Davide che beve avidamente tutta l’acqua rimasta nella bottiglia che avevo con me. «Bene, la fase uno è stata completata, ora passiamo alla fase due.»

«Sarebbe?»

«Andare a pranzo fuori. Ho fame, quindi prendi quello che ti serve e usciamo senza troppe storie».

«Vado in bagno e torno. Due minuti», prometto e mantengo la parola data. Avevo bisogno di questa sosta dopo ore di viaggio. Prendo la borsetta con dentro il cellulare, le chiavi e sono subito pronta a uscire.

«Fatto», esclamo quasi esultando. «Chiudi tu la porta, intanto mando un messaggio ai miei per dirgli che sono arrivata».

Scendiamo le scale in fretta e prima che me ne renda conto sono di nuovo nella città che tanto amo: Napoli. L’anno scorso quando ho deciso di trasferirmi qui non immaginavo che mi sarei potuta innamorare di una città, eppure è successo.

Napoli è vita, Napoli è poesia e lo capisco in ogni istante. Il nuovo che si mischia al vecchio, i colori che si mescolano col grigio dei vecchi palazzi, la storia che incontra il presente, il mare, il sole, il calore della gente. Non è possibile non amare questa città, il suo fascino colpisce tutti e infatti tanta bellezza ha da subito colpito anche me.

Cammino e mi guardo intorno, bramosa di rivedere tutto ciò che mi manca, sono persa nei miei pensieri e non ascolto neppure quello che Davide mi sta dicendo, mi limito a seguirlo perché non ho la minima idea di dove mi stia portando.

«Allora? Davvero non hai nulla da raccontarmi?», borbotta incredulo il mio amico. Sollevo le spalle, davvero non ho nulla da dirgli e sa che è vero perché ormai ha imparato a conoscermi.

Sospira sconsolato e si perde a guardare il cellulare, digitando freneticamente. Lancio uno sguardo fugace al display e vedo che sta parlando con una ragazza, presumibilmente con la sua nuova fidanzata, così decido di lasciargli i suoi spazi. Solo quando torna alla realtà decido di interrompere il lungo silenzio.

«Sai credo che questa sia una delle pochissime volte che ti vedo senza macchina fotografica a seguito» ed è vero, da quando lo conosco l’ha sempre tenuta con sé perché come dice lui “l’ispirazione arriva all’improvviso e non bisogna mai farsi trovare impreparati”.

«Lo so, volevo portarla, ma non mi è sembrato il caso. Non sapevo quante cose ti fossi portata dietro e non volevo rischiare di romperla, ma domani ti devo assolutamente far vedere degli scatti», dice entusiasta.

Gli sorrido e lui prende il mio gesto come incentivo a continuare il suo sproloquio. Mi parla dei progetti che ha realizzato in estate, di quelli che gli erano venuti in mente e cerca persino di convincermi a prendere parte ad alcuni di essi.

«Sai che odio essere fotografata», esclamo decisa.

«Lo so, ma nonostante ciò ho tantissime tue foto e sono fantastiche», esulta vittorioso e nonostante non lo confesserò mai quelle foto sono davvero belle, forse perché spontanee.

Lo scorso anno è nato una sorta di gioco tra di noi, ogni volta che provava a fotografarmi mi nascondevo nel modo in cui potevo. Ero esasperata, ma quando un giorno mi fece vedere le foto rimasi piacevolmente sorpresa.

«Ma dove stiamo andando?», domando esasperata, dato che stiamo camminando da tempo ormai. Sono stanca, il viaggio è stato estenuante, ma non voglio lamentarmi troppo e rischiare di sembrare scortese con lui.

Davide si ferma e dice: «siamo arrivati. Ordino al volo due cose da portare via, così possiamo sederci su quelle panchine», dice indicandole con il dito.

Annuisco e mi vado a sedere in attesa che lui torni, cosa che fa davvero presto. Mangiamo voracemente e nel mentre scambiamo due chiacchiere che hanno per lo più come protagoniste i passanti che ci fanno sorridere.

Stare con Davide mi era mancato, è tutto così semplice quando sono con lui e mentre questo pensiero mi passa per la testa mi viene da sorridere.

«Hai già deciso che corsi seguire questo semestre?», domanda.

Annuisco. «Te seguirai quelli che ho scelto io o hai delle preferenze?», lo stuzzico sapendo che sarebbe capace di seguire qualcosa che non gli piace pur di stare con me e soprattutto pur di potersi poi far prestare i miei appunti.

Solleva gli occhi al cielo esasperato. «Ok, ti dico quelli che pensavo di seguire e vediamo se sono quelli che piacciono anche a te», propone e inizia a elencarmi i vari corsi che hanno stuzzicato il suo interesse con annesse motivazioni. Seguo il suo discorso con interesse perché si lascia sfuggire informazioni anche sui professori, informazioni che sono avida di conoscere.

«In pratica abbiamo scelto le stesse cose, anche se io non penso di voler seguire il corso di gnoseologia. Credo che per ora passerò, nel caso darò quest’esame alla magistrale», spiego e lo vedo riflettere.

«Forse hai ragione, anche perché il professore è uno tosto, ma quest’anno dovrebbe andare in pensione.»

Continuiamo a parlare dell’università finché un suono che si fa sempre più forte non ci interrompe.

«Scusami un attimo», dice Davide prendendo il cellulare, mentre si alza e si allontana di qualche metro.

Mi limito a guardarmi intorno, cercando di evitare di origliare, ma purtroppo non si è allontanato troppo da potermelo impedire. Le parole mi arrivano frammentare, non seguo il filo del discorso, ma riesco lo stesso a capire che sta parlando con la sua ragazza e che presto arriverà qui.

«Era Elisa, voleva sapere dove fossi», spiega e gli sorrido.

«Se hai qualche impegno vai pure, tanto ormai ci vedremo tutti i giorni», dico come se vederlo mi pesasse.

«Sta venendo qui, quindi posso stare con te un altro po’, anche se so che ti libereresti di me volentieri», continua anche lui a punzecchiarmi e la conversazione continua così finché una ragazza dai lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri come il cielo si avvicina a noi e ci interrompe.

«Finalmente sei arrivata», esordisce Davide.

La ragazza guarda nella mia direzione facendo un piccolo sorriso di circostanza. Mi sento impacciata, non so bene cosa fare e così decido di alzarmi e presentarmi porgendole la mano che lei con riluttanza stringe.

«Andrea è la mia amica di cui ti ho tanto parlato», interviene Davide e non capisco se si stia difendendo da un possibile attacco o stia semplicemente cercando di rompere il ghiaccio dato che in questo momento la tensione è alle stelle senza che io riesca a capire il perché.

«Penso che andrò via, ho delle commissioni da sbrigare», mi affretto a dire un po’ per scappare da lì e un po’ perché è vero; si è fatto tardi e devo passare al supermercato prima di tornare a casa.

«Resta un altro po’ con noi», insiste Davide, mentre la sua ragazza resta muta e si limita ad avvinghiarsi al suo braccio.

Scuoto la testa decisa. «Devo passare al supermercato e poi sono stanca, sarà per la prossima volta», dico poco convinta.

Alla fine Davide si rassegna, mi saluta e prima che possa aggiungere altro vado via giusto in tempo per vedere Elisa avventarsi sulle sue labbra.

Cerco di cancellare questi ultimi avvenimenti dalla mia testa, per allontanare la sensazione strana che quella ragazza mi ha trasmesso e mi perdo nuovamente a osservare con meraviglia la città. Mi perdo così tanto nei miei pensieri che non mi rendo conto di nulla e prima del previsto mi ritrovo al supermercato dove in poco tempo riesco a comprare tutto quello che mi serve.

In pochi minuti arrivo a casa e mentre sto per aprire il portone per accedere all’atrio sento dei forti miagolii, così istintivamente mi volto e vedo che poco distante da me ci sono cinque gattini piccoli che giocano tra di loro. Mi chino e cerco di richiamare la loro attenzione, ma tutti sembrano ignorarmi, così faccio per alzarmi quando vedo uno di loro, l’unico dal manto nero, intento ad avvicinarsi. Resto ferma, continuo a chiamarlo e in men che non si dica è a pochi centimetri da me; lo guardo sorridendo e vedo i suoi occhi gialli fissarmi. Allungo la mano per toccarlo, ma fugge via, così decido di arrendermi e di andare a casa.

          Il tempo scorre in fretta prima che mi ritrovi a letto stremata, ripenso a questa lunga giornata e prima che possa accorgermene
          cado in un sonno profondo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Alessandro ***


 

Il coraggio, uno non se lo può dare.

(Alessandro Manzoni - I promessi sposi)

 

Soporifera. Soporifera è l’unica parola in grado di descrivere la lezione del prof. Santoro. Mi accascio sul banco e inizio a giocare con la penna. So bene che dovrei prestare attenzione a questa spiegazione perché particolarmente importante, ma la voce del professore è così lenta, monotona, piatta da rendere​ vano ogni mio sforzo di concentrazione.

Mi volto ad osservare Luca, seduto accanto a me, e noto che lui invece è attento, affannato a prendere appunti senza farsi sfuggire nulla e quasi lo invidio. Vorrei avere la sua forza di volontà.

«Che palle!», sbutto frustrato. «Perché le lezioni devono iniziare così presto?», l’alzataccia, infatti, è uno dei problemi per cui la mattina rendo così poco. Essere obbligato ad alzarmi presto e fare cose che non desidero mi mette sempre di cattivo umore, preferisco di gran lunga studiare la notte, ma purtroppo per me l’università notturna qui non esiste ancora.

Luca ride, ormai non fa neppure più caso ai miei lamenti, difatti, ogni volta che mi comporto in modo scortese o antipatico lui ride. Inizialmente la cosa mi dava fastidio, ma poi ho imparato a capire che lui gestisce così il mio brutto carattere e anche se non glielo dico gliene sono grato. Ridere, d'altronde, è il suo modo di affrontare la vita. Non l'ho mai visto triste, cupo, spento e forse per questo mi sono così legato a lui, forse è vero che gli opposti si attraggono. A me ridere ormai viene difficile, ma quando sono con lui tutto  sembra essere più semplice.

Inizialmente, quello che è diventato il mio migliore amico, mi era indifferente, anzi oserei dire che mi era perfino antipatico. Quando mi ronzava attorno durante le lezioni cercavo di evitarlo, ma non si è mai perso d'animo e non so cosa l’abbia spinto a continuare a provare nonostante i miei brutti modi, non so il motivo che lo abbia spinto a volermi essere amico, non so perché abbia scelto proprio me tra tanti, però sono felice che sia così. Sono felice che non si sia arreso. Luca è riuscito a farsi spazio nella mia vita quando avevo deciso di chiudere la porta in faccia a tutti, ma la verità è che volevo solo qualcuno paziente, qualcuno in grado di sopportare i miei sbalzi d’umore, il mio essere burbero e a volte brutale senza alcun motivo e l'unica persona ad esserci riuscita in questo posto è lui.

Si può dire che sia l'unica ragione che mi permette di tenere in vita il vecchio me, anche se solo per poco, per momenti fugaci che passano in fretta, però è bello sentirsi se stessi, soprattutto quando pensi di esserti smarrito del tutto. Gli devo tanto eppure non l'ho mai ringraziato e conoscendomi è probabile che non lo farò mai e il bello di Luca, d’altronde, è che avrà capito anche questo, capisce sempre tutto, ma fa finta che non sia così.

«Prima iniziano e prima finiscono», dice senza sollevare lo sguardo dai suoi appunti e secondo me è questo a dargli la spinta per alzarsi così presto dal letto da un mese ormai. Non trovo nessun'altra possibile spiegazione.

«Cazzate», rispondo burbero, mentre continuo a scarabocchiare sul quaderno evitando accuratamente di prendere appunti. Luca sta continuando a ricopiare le formule scritte senza apparente logica sull'enorme lavagna nera e lascio che continui a farlo senza darmene pena, anzi sono felice che ci metta cosi tanto impegno sapendo bene che poi mi presterà i suoi appunti.

«Bene, per oggi abbiamo terminato. Domani riprenderemo da qui», conclude il professore poggiando il gesso sulla cattedra. Le sue parole sono subito seguite dal trambusto degli studenti che si affrettano a voler fuggire da lì, me compreso. «Fermi tutti!», urla. «Devo dirvi un'ultima cosa e poi vi lascerò liberi di andare. La settimana prossima inizierà un ciclo di convegni matematici-filosofici a cui io stesso parteciperò. Il tutto si svolgerà nella sede centrale del dipartimento di Lettere e Filosofia. Saranno tre incontri su argomenti diversi, il primo sarà lunedì, non aggiungo altro perché troverete tutte le informazioni sulla mia pagina docente, quindi vi invito ad andare a controllare in particolar modo perché due incontri su tre coincidono con le nostre ore di lezione.»

«Finalmente ha detto qualcosa di interessante», blatero. «Possiamo saltare due lezioni con lui.»

«Ha anche appena detto che le recupereremo. Non gioire troppo presto», dice e in tutta risposta alzo gli occhi al cielo e sento Luca ridacchiare, come sempre. «Inoltre penso che dovremmo andarci.»

Non appena sento queste parole mi volto verso di lui con occhi sbarrati. Spero davvero di aver sentito male o che questo sia uno stupido scherzo. La mia faccia deve aver parlato per me perché Luca si affretta ad aggiungere: «sono serio, ci andrò!»

«Perché mai vorresti andare? Non ti basta annoiarti in classe?», chiedo ironicamente, mentre metto tutto nello zaino e mi alzo pronto ad andar via.

«Sì, ma sicuramente assegneranno dei CFU e a me servono per completare il piano di studi e in più il professore ha detto che i convegni si terranno nel dipartimento di Lettere e Filosofia, il che vuol dire una sola cosa», lascia in sospeso la frase.

«Cosa? Che saranno ancora più noiosi?», continuo ad essere ironico cercando di dimostrargli l'assurdità delle sue parole, ma so per certo che Luca è cocciuto e il mio lavoro non sarà poi così semplice.

«No! In realtà forse anche quello, ma parlavo d'altro. Studiare fisica mi piace, ma in questo dipartimento non si vede una ragazza neanche a pagarla, mentre lì ce ne saranno tantissime, quindi andremo e mi rifarò gli occhi. Come si suol dire: due piccioni con una fava.»

Non riesco a trattenermi e inizio a ridere. Luca è strano, a tratti folle, ma penso che questa sia la cosa più stupida che abbia mai detto e allo stesso tempo la più disperata.

«Ridi pure, ma tanto verrai con me», dice e si incammina fuori senza aspettarmi e così accelero il passo per raggiungerlo.

«Puoi scordartelo! Non vengo a lezione volentieri figuriamoci alzarmi presto per fare qualcosa che non devo fare. Se vuoi andarci fai pure, ma non contare su di me soprattutto perché la tua idea è veramente da idiota. Cosa pensi di poter fare? Attaccare bottone con le ragazze che ci saranno? Non parli mai con nessuna e non credo che quel giorno riuscirai ad essere così intraprendente.»

«Fa come vuoi», dice Luca e in un attimo mi rendo conto di averlo offeso. Sono sempre stato pessimo nei rapporti interpersonali, ma di solito con lui non ho problemi perché sopporta sempre i miei colpi di testa senza dire nulla, ma a volte esagero superando i limiti e questa volta credo di averlo fatto. Dopo tante volte che sopporti qualcosa che ti infastidisce scoppi e ora l’ha fatto anche lui anche se le sue sono più che altro implosioni. Non si arrabbia con me, ma si chiude in se stesso e questo mi mette in difficoltà perché preferirei di gran lunga che mi mandasse a quel paese piuttosto che fingesse che tutto vada bene. Siamo così diversi e non sono mai stato bravo a gestire la diversità, ma forse la verità è che in generale non sono mai stato bravo a gestire le persone.

«Mi dispiace», quasi sussurro tenendo la testa bassa. Chiedere scusa non è mai stato il mio forte, ma provo almeno a essere sincero perché credo che sia tutto lì il segreto per delle vere scuse. «Non volevo dirlo, solo che davvero non mi va di andarci.»

«Non importa, davvero», dice convinto, ma mi sento ancora in colpa. So essere davvero stronzo a volte e anche se in questo caso so di essermi contenuto sono perfettamente consapevole che gli amici vanno trattati in modo diverso, specialmente quelli che ti sono stati sempre accanto.

Respiro a fondo e so che sto per dire qualcosa di cui mi pentirò, ma penso che valga la pena farlo. «Verrò con te a quelle conferenze, però devi assicurarti di portarmi il caffè altrimenti non reggerò neppure un minuto in quell'aula. Inoltre se ne avrai bisogno ti aiuterò a farti notare dalla tua futura moglie», ironizzo sulla parte finale della mia frase, ma non sul mio desiderio di aiutarlo.

Sentendo le mie parole il volto di Luca cambia aspetto, sorride e annuisce entusiasta. «Affare fatto. Ora però andiamo in biblioteca, così ripassiamo gli appunti e tu puoi ricopiare i nuovi!»

«Ma soprattutto così tu puoi guardare la nuova bibliotecaria», lo prendo in giro sollevato dopo aver ristabilito la nostra normalità ed anche perché so che ha una palese cotta per quella giovane signora che da un mese delizia gli studenti della nostra facoltà.

«Lo faccio per te, ma mentre aspetto che tu studi posso guardarla quanto voglio perché penso sia una delle donne più belle che abbia mai visto», risponde convinto e in modo quasi sfacciato. Rido nel sentirlo parlare, mentre continua a descrivere tutto quello che le piace di lei senza mai essere volgare. A volte mi domando da che pianeta venga, ma non mi importa, sono solo felice che sia finito qui, nonostante so per certo che continuerà a parlarmi di lei finché non ce la ritroveremo davanti e solo allora tornerà ad essere il timido e goffo ragazzo di sempre che si limita ad osservare le donne con la bava alla bocca senza farsi avanti mai.

A volte è davvero strano, quasi atipico, ma a me piace questo di lui, infatti credo sia proprio questa la ragione per cui siamo amici.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3666740