Una nuova vita [primi due capitoli]

di psword
(/viewuser.php?uid=1018735)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1






Il treno sarebbe partito alle cinque in punto. Avevo lo stomaco in subbuglio perché sapevo che da quel giorno sarebbe iniziata una nuova vita per me. La mamma mi aveva dato un passaggio fino alla stazione, forse perché non sopportava di separarsi da me prima del previsto.
«Scrivimi, quando arrivi». Mi disse scombussolandomi i capelli sulla nuca. I suoi occhi azzurri, identici ai miei, mi fissavano con un velo di amarezza.
«Non preoccuparti», risposi con un sorriso. «Andrà tutto bene».
Quella di andare a vivere lontano da casa, era una decisione che la rendeva orgogliosa di me. Ma ero anche consapevole che non sarebbe stato facile per nessuno dei due abituarsi a quella separazione. Dopotutto, eravamo stati sempre io e lei. Nessun altro.
Mentre il treno si avvicinava, la salutai un' ultima volta. Abbracciandola, ispirai il suo dolce profumo di pesco.
Poi un ultimo sorriso e salii sul treno con il cuore gonfio di sentimenti contrastanti. Ero felice di partire. Felice di lasciarmi alle spalle quel piccolo paesino di provincia che detestavo. Eppure, una parte di me, quella più prudente e riflessiva, era invasa da mille dubbi e paure.
«Sarà una figata!».
Mi aveva assicurato Max, il proprietario del ristorante in cui avevo lavorato per anni. Era stato lui a propormi di trasferirmi a Milano: un suo amico, Giorgio, stava cercando un giovane commis de rang disposto a prestare servizio nel suo antico ristorante di cucina italiana. Ero stato indeciso fino all'ultimo momento sulla possibilità di accettare quel lavoro. Non ero sicuro di essere adatto per un posto elegante e raffinato come Il Cavaliere. Ma poi, dopo settimane di inutili ripensamenti, mi ero finalmente deciso a fare il grande passo. 
«Sei davvero sicuro di voler andare a Milano da solo?». Mi aveva chiesto la mamma, quando le avevo comunicato le mie intenzioni. Quella notizia l'aveva colta completamente alla sprovvista.
«Starò bene, vedrai. Con lo stipendio che mi daranno, potrò permettermi di pagare l'affitto e anche le bollette!».
«Non ne dubito, ma...Milano è una grande città. E se non dovessi trovarti bene?». 
La mamma e le sue ansie ingiustificate!
«Andrà alla grande. E' un lavoro serio. E poi, mal che vada, potrei prendere il primo treno e tornare a casa, no?». 
Mentre osservavo il paesaggio naturale, i profili delle varie case che si alternavano davanti i miei occhi, mi sembrava di rivedere ancora il volto sorridente della mamma: i suoi grandi occhi da bambina mi scrutavano attenti, mentre i capelli biondi si muovevano piano mossi dal vento. Era sempre stata una grande avventuriera. Adorava le sfide, le novità, ma quando si trattava della mia incolumità, poteva diventare la persona più fifona del mondo.
«Questa è la mia grande occasione. Lo sento». 
Per tutta la durata del viaggio, mi sforzai con tutto me stesso di allontanare il suo pensiero dalla mia testa. Per quanto potesse apparire crudele e insensato, volevo buttarmi alle spalle il passato. Dopo la morte di mio padre, la nostra vita era cambiata irreparabilmente, lasciandomi dentro un segno indelebile; un segno che stavo cercando in tutti modi di dimenticare.

***

«Milano! Fermata: Milano!», sentii urlare, ad un tratto, nel dormiveglia. Aprii gli occhi lentamente e gettai un'occhiata al finestrino del vagone. La stazione di Milano era già affollata a quell'ora del mattino. Mi levai le cuffie dalle orecchie e aspettai che il vagone si svuotasse completamente, prima di recuperare la mia roba ed uscire. 
Quando fui finalmente fuori dal treno, tirai su il naso verso le monumentali volte di ferro e vetro che si stagliavano sopra la mia testa. Ovunque, sentivo il chiacchierio dei passeggeri – valutazioni sull'andamento della borsa, commenti sul cattivo tempo che si era abbattuto in quei giorni sul nord Italia. A Milano, come al solito, stava piovendo, ma non mi stupii. Avevo detto addio per sempre al caldo sole della mia Sicilia da tanto tempo, e precisamente da quando, all'etá di sei anni, i miei genitori mi avevano portato in quel piccolo paesino della Brianza, dove ero cresciuto. Mentre camminavo trascinando la mia valigia piena, diedi uno sguardo alla piantina che la mamma mi aveva regalato. La esaminai attentamente, seguendo la direzione della folla. Ad un tratto, mi ritrovai nel bel mezzo della stazione. Spostai il peso da una gamba all'altra, perdendomi nella visione di quel via vai frenetico.
Fu proprio in quel momento che un ragazzo dai modi vivaci mi venne incontro come se mi conoscesse da sempre. Le sue labbra si distesero in un sorriso.
«Tu devi essere Sam, non è vero?». Mi domandò lo sconosciuto fissandomi con un pelo di curiosità. Era un ragazzo dai capelli corti, radi. La carnagione era piuttosto scura, per quella stagione dell'anno. Sembrava appena ritornato da un viaggio nelle Hawaii. 
«Dal  silenzio, devo desumere che sei proprio tu…». Sorrise. «Io sono Alberto, il maître del Cavaliere. Giorgio mi ha mandato a prenderti». 
Dopo un lieve tentennamento, gli restituii la stretta sorridendo. Alberto aveva un’aria simpatica e cordiale; l’abbigliamento curato e il portamento si addicevano senz’altro al suo ruolo di caposala.
«Piacere mio».
«Finalmente ci conosciamo! Che ne dici se iniziamo ad incamminarci?».
«Certo…». Gli cedetti il manico della valigia che Alberto trascinò tra le rosse colonne della stazione, sino ad un auto parcheggiata in fondo alla strada. Mi coprii con il cappuccio del bomber e lo seguii affrettando il passo. 
«Com’è andato il viaggio?».
«E’ andato bene, grazie!».
«Lungo? Noioso?».
«Noioso!». Ammisi, spianando le labbra. 
«Piove spesso qui, vero?». 
Lui, dopo aver gettato un’occhiata verso gli enormi nuvoloni grigi, emise un sospiro scoraggiato.
«Meno che in altre città, anche se quest’anno si prospetta un inverno particolarmente turbolento!». E così detto, Alberto richiuse il cofano con un tonfo. In silenzio, montammo dentro il veicolo e io mi appuntai la cintura. 
«Conosci già Milano?».
«Non molto». Ammisi. «Ci sono stato una volta, ma solo di passaggio». 
Mentre gli parlavo, presi ad osservare di nuovo il cielo plumbeo e minaccioso, che quella mattina assomigliava alla tavolozza di un pittore. Un cumulo di sfumature bianche, grigie e nere. 
«Ho letto che hai vent'anni...».
«Ventuno!». Lo corressi l’attimo dopo. Alberto mi lanciò un'occhiata circospetta da sopra la spalla, prima di tornare a guardare la strada. Da lontano, vidi sfilare alcuni tram di città.
«Caspita!». Ridacchiò. «Sei davvero giovane! A dirla tutta, te ne avrei dati anche di meno…». 
Gli diedi corda. In fondo, non era una novità che qualcuno mi facesse quell'annotazione. Fisicamente ero minuto, smunto, con un folto casco di capelli biondi che tagliavo molto raramente. E poi avevo un viso piccolo, sottile, una pelle rosea da bambino.
«L’altro giorno, chiacchierando con Giorgio, ho dato una rapida occhiata alle tue referenze e sono rimasto davvero molto colpito. Sei giovane, ma ho letto che lavori nel settore da parecchi anni…».
«E' così. Lavoro da quando ne avevo sedici». Dopo la morte di mio padre, io e la mamma avevamo dovuto rimboccarci le maniche. Col tempo, lei era diventata un agente immobiliare molto ricercato. Io, invece, mi ero arrangiato a fare diversi lavori: barista, cameriere, aiuto cuoco.
«Com'è lavorare al Cavaliere?» Domandai sbirciando la strada. Nel frattempo, superammo anche alcuni semafori verdi. Non riuscivo a tenere gli occhi fissi in un punto. Dal finestrino vedevo alberi spogli, grandi pannelli pubblicitari, vetrine e palazzi signorili. Sui marciapiedi, la gente camminava a passo veloce con gli ombrelli spiegati.
Alberto abbassò un poco il volume della radio. «Il nostro è un lavoro molto faticoso, inutile negarlo. Ma riserva anche molte soddisfazioni».
Presi a giocherellare con le cordicelle del mio bomber nuovo.
«Max, il mio vecchio capo, mi ha detto che Il Cavaliere è un bel posto...»
«Beh sì. Un bel posto davvero!». Mi sorrise, forse divertito da quella definizione spicciola, che non dava affatto giustizia al luogo che avevo appena menzionato. 
«Da noi viene una clientela parecchio esigente. Gente importante, piena di soldi! Insomma, persone disposte ad aprire il portafoglio volentieri». 
Nell'udire quelle parole, avvertii una leggera fitta allo stomaco. Non sapevo se sentirmi più eccitato o nervoso, all’idea di dover servire una clientela di quella portata. 
«Comunque tranquillo. All'inizio ti seguirò io. Imparerai velocemente». Tirai un bel respiro e abbandonai la nuca sul sedile.
«Da quanti anni lavori lì? Al Cavaliere, intendo». Alberto fece un rapido calcolo.
«Avevo qualche anno in più di te quando ho cominciato. Dio...sembra passato un secolo!». 
Mi rivolse un sorriso frettoloso. 
«All'epoca, frequentavo la Cattolica, ma poi ho deciso di abbandonare gli studi e mi sono trovato un lavoro. Ho iniziato come te, come aiutante, poi, dopo diversi anni, ho ottenuto il ruolo di caposala. Il mese prossimo, festeggio tredici anni di servizio!». 
«Forte...».
Pensai ad alta voce, guardando il diretto interessato. Ad un tratto, l'auto si fermò proprio davanti ad un'alta palazzina, dalle pareti bianche e grigie. La osservai con attenzione, soffermandomi sugli ampi balconi dallo stile liberty.
«Eccoci: siamo arrivati!». Alberto spense il motore e tirò via la chiave dal cruscotto. Lo seguii fuori dall'auto e mi avvicinai al cofano per recuperare la mia valigia. Mi guardai attorno con interesse. Non molto distante da noi, un gruppetto di bambini se ne stavano al riparo sotto i balconi. Si stavano scambiando delle figurine, parlando ad alta voce.
«Che te ne pare?».
«La zona mi sembra tranquilla!».
«Vedrai, ti ci troverai bene! Dal ristorante sono pochi passi».
Trascinai la valigia, mentre Alberto faceva tintinnare le mie chiavi tra le mani. Entrammo nell'atrio e prendemmo l'ascensore in silenzio. Al terzo piano, le porte si aprirono automaticamente e noi ci avvicinammo ad uno dei portoni del pianerottolo. Mi asciugai i piedi sullo zerbino, mentre Alberto infilava la chiave nella serratura. 
Appena varcai la soglia, sentii un intenso odore di cannella. Era così forte che Alberto fu costretto ad aprire tutte le serrande.
«Mia cugina...». Borbottò. «E' fissata con i deodoranti per gli ambienti! Per un po' ha vissuto lei in questa casa. Ora, invece, si è trasferita al piano di sopra, in un appartamento più grande. Se dovessi avere bisogno di qualcosa, puoi rivolgerti a lei! Ma ti avverto: è un tipo un po’ strambo! La conoscerai stasera. Lavora anche lei al Cavaliere».
Adagiai la valigia sulle mattonelle e seguii Alberto in cucina. La casa in cui avrei vissuto nei mesi seguenti era un bilocale molto accogliente, con un'ampia zona giorno, munita di tutti i comfort.
«Quella in fondo è la tua stanza...». Disse Alberto indicando una porta bianca smerigliata che si affacciava nel bel mezzo del corridoio. La camera da letto era parecchio grande, con un letto a due piazze, una scrivania vuota proprio sotto la finestra. Sulla sinistra, invece, era posizionato un armadio a muro che occupava quasi tutta la parete. Alberto tirò su le serrande e la stanza si riempì di una pallida luce naturale.
«Eccoci qui. Spero ti piaccia».
«Direi che è perfetta». Alberto si accostò all'armadio e spalancò un'anta. Quindi mi fece segno di darci un'occhiata.
«Qui dentro ci sono le camicie e la tua divisa nuova. Dovrebbero essere della tua taglia». 
La divisa era elegantissima: uno smoking nero con giacca e pantalone isacco dello stesso colore abbinato ad un cravattino di seta. 
«Devo davvero indossare un abito così?». Domandai meravigliato. 
«Temo di sì». Fu la risposta ironica di Alberto.
«Davvero... E'...».  Non trovavo più le parole. Era così bella, che avevo il timore di rovinarla.
«Noi del personale indossiamo la divisa poco prima del servizio in sala. Sai com'è... Giorgio ci tiene che siamo sempre in ordine. Ogni settimana, consegnerai lo smoking e le camicie sporche al reparto lavanderia. Ogni lunedì la ritroverai bella e pronta nei camerini del ristorante...».
Mi limitai ad annuire ed Alberto chiuse nuovamente l'anta dell'armadio. 
«Perfetto. Credo di averti spiegato più o meno tutto». Mi consegnò le chiavi della casa che io presi con la mano che mi tremava un poco.
«Ti aspetterò giù alla fermata verso le sette. Mi raccomando, cerca di essere puntuale». 
Alberto fece un sorriso e mi diede una pacca sulla spalla. Lo seguii per accompagnarlo sino all'uscita.
«Bene, allora a stasera».
«A stasera». 
Alberto annuì con un sorriso ed uscì dalla porta. Lo vidi rientrare in ascensore e scomparire in fretta dalla mia vista. Chiusi il portone e poggiai le spalle al muro, tirando un bel respiro. In quell’ambiente a me poco familiare, mi sentivo spaesato. Non avevo mai provato niente del genere, prima di quel momento. Quando riuscii a recuperare un po’ di autocontrollo, presi a gironzolare qua e là per l'appartamento. Terminata quella veloce ispezione, rientrai nella mia stanza e presi a sistemare in fretta la mia roba nell'armadio. Ero stanco per il viaggio, così, non appena finii di riordinare la stanza, mi distesi sul letto. Sentivo solo il rumore della pioggia che picchiava forte sui vetri, il brontolio continuo del temporale che si avvicinava.
Non mi erano mai piaciuti i temporali. Da bambino, per sconfiggere la paura, correvo sempre da mio padre, perché lui era l'unica persona che mi facesse sentire al sicuro. Poi, col tempo, dopo la sua morte, avevo imparato a fare da meno di lui. Mi coprivo con le lenzuola fino al naso e rimanevo rannicchiato nel letto fino a che i rumori non cessavano del tutto. Mi tolsi le scarpe e mi infilai sotto le lenzuola. Rimasi in quella posizione, in silenzio, con gli occhi completamente chiusi. L'ultima cosa a cui pensai, prima di addormentarmi, fu il sorriso di mio padre mentre mi teneva stretto a sé, tra le sue braccia forti e vigorose. La sua pelle odorava di erba e di limoni fioriti. Quelli della nostra Sicilia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2






Mi fermai a guardare la mia immagine riflessa nello specchio. Avevo indossato la mia nuova divisa di lavoro. Annusandola, si sentiva un intenso odore di lavanda. Non riuscii a frenare un sorriso nell'ammirare il ragazzino che ero camuffato dietro quell'elegantissimo smoking nero che mi faceva apparire molto più grande della mia età. 
Ero quasi irriconoscibile.
Il viso, dalla pelle color avorio, era incorniciato da una cascata di capelli biondi, quasi rossicci, sempre troppo difficili da domare, nonostante li avessi spazzolati a dovere. Alcuni ciuffi ricadevano prepotentemente sulla mia fronte, disegnando delle morbide onde.
Soddisfatto del mio aspetto, presi a rassettarmi i bordi della giacca e tirai un profondo respiro. Feci una lunga giravolta su me stesso, per accertarmi che tutto fosse in ordine. Gettai anche un'occhiata alle mie scarpe di vernice, nuove di zecca. 
Quando finii di esaminare la mia uniforme, presi le chiavi che avevo posato sul davanzale della finestra, indossai il mio solito bomber e uscii di casa. 
Per fortuna aveva smesso di piovere: l'aria era fresca e profumava di terra bagnata. 
Le mie scarpe nuove squittivano sull'acciottolato bagnato dalla pioggia. Cercai di muovermi con cautela, evitando, per quanto possibile, le pozzanghere. 
Alberto mi aspettava vicino la fermata dell'autobus.
«Ci avrei giurato che non avresti resistito!». Mi disse scuotendo la testa divertito. Capii in un lampo che si riferiva alla mia nuova uniforme.
«Scusami, è che l'ho messa addosso e non sono piú riuscita a toglierla». 
«Tranquillo! Fa quest'effetto un po' a tutti la prima volta». 
Iniziò a scrutarmi dall'alto in basso, con attenzione: a giudicare dalla sua espressione, era soddisfatto del mio aspetto da damerino quasi quanto il sottoscritto.
«Mmmh... ». Alberto mi costrinse a girarmi di spalle. «Ti calza a pennello!». 
«Dici sul serio?». 
Mentre mi rassettavo il colletto, lui fece un cenno di approvazione.
Attendemmo qualche minuto, prima di vedere arrivare il tram che ci avrebbe portati alla meta. Da casa il ristorante distava solo dieci minuti a piedi. Salimmo l'uno accanto all'altro e mostrammo i biglietti. Durante il viaggio, rimasi in piedi reggendomi all'inferriata. Il mezzo si muoveva in modo incerto in mezzo al traffico milanese, così che dovevo fare ogni volta un grande sforzo per rimanere in equilibrio.
«Mi raccomando...». Disse ad un certo punto il mio accompagnatore con il chiaro intento di far conversazione. «Se vuoi fare colpo sul capo, non trascurare mai le buone maniere». 
«Buone maniere?». L'autobus stava svoltando ad un angolo e io dovetti aggrapparmi al sostegno con entrambe le mani.
«Parlo del portamento: non dimenticarti mai di tenere le spalle sempre dritte. Quando rivolgi la parola ad un cliente, usa sempre formule di cortesia: prego, signore; va bene, signore; dica pure, signore. Queste frasi devono essere ben incise nella tua testa come un ritornello». 
«D'accordo. Ci proverò».
Superammo l'ennesimo semaforo e rimanemmo in attesa fino a quando l'autobus non raggiunse la fermata successiva. A quel punto, scendemmo dal mezzo e attraversammo velocemente le strisce pedonali, inoltrandoci in una stradina dal pavimento di mattoni grezzi. Nel camminare, sentivo crescere l'agitazione. Avanzavo sul marciapiede stretto, senza parlare, mentre Alberto continuava a chiacchierare delle cose più disparate. Ad un tratto, si bloccò e allungò un dito verso un enorme palazzo d'epoca, circondato una lunga cancellata. Ai lati dell'ingresso, erano collocate due piante ornamentali dai fiori gialli. Osservai da lontano la struttura con un pelo di soggezione. 
«Eccolo lì, il Cavaliere». 
Alberto accelerò leggermente l'andatura. 
«Forse Giorgio te l'ha già detto: il Cavaliere è uno dei ristoranti più antichi e rinomati della città». 
Indirizzai lo sguardo verso la struttura dallo stile ottocentesco. Più ci avvicinavamo, più diventava imponente ai miei occhi. Superammo i cancelli e, dopo un lungo tratto, ci trovammo di fronte al portone che segnava l’ingresso del ristorante. Presi ad asciugarmi i piedi sul tappeto rosso.
«Incute un certo timore...».
«Solo all'inizio. Vedrai, col tempo ti sembrerà di stare a casa».
Alberto aspettò che le porte si aprissero e mi fece segno di stargli alle calcagna. Quando fui dentro, posai l'ombrello in un orcio e seguii il mio accompagnatore nel reparto camerini. Assomigliava allo spogliatoio di una palestra, zeppo com'era di armadietti, ognuno assegnato ad un nome specifico. 
«Lascia pure tutto qui. Dopo ti sistemerai». 
Alberto mi indicò un angolo vuoto. 
L'atmosfera del ristorante era calda e accogliente. Dopo aver attraversato un breve corridoio, mi ritrovai catapultato nel reparto accoglienza, alle cui pareti erano appesi quadri di vario genere. 
Sulla sinistra, proprio davanti l'ingresso delle cucine, era collocato un enorme bancone in legno massello, dietro al quale sedeva un uomo vestito di tutto punto. Dopo un attimo di titubanza, lo riconobbi. Era Giorgio, il proprietario del ristorante. 
«Seguimi...». 
Alberto mi rivolse un sorriso di incoraggiamento. Raggiungemmo la postazione, camminando uno affianco all'altro.
«Ehi! Già all’opera?». Giorgio, nel frattempo, batteva freneticamente le dita sulla tastiera del suo computer portatile. Aveva un viso magro, rugoso, occhi grandi e incavati.
«Amo il mio lavoro, Alberto. Dovresti saperlo».Giorgio aveva una voce appuntita come un chiodo arrugginito. La sua voce e i suoi modi erano meno amichevoli di come li ricordavo. Alberto arcuò le sopracciglia in una smorfia e fece un occhiolino al mio indirizzo.
«Sam, Giorgio. Giorgio, Sam. Immagino che vi conosciate già». Il capo alzò finalmente lo sguardo su di me e mi sorrise melenso. Ricordavo bene il suo viso. Dal giorno del colloquio non lo avevo dimenticato. I suoi lineamenti, non so perché, mi facevano pensare ad un cratere greco.
«Sam, benvenuto. Ti stavamo aspettando!». Allungò una mano con finta cortesia. Io, di tutta risposta, la strinsi, anche se con minore decisione.
«Alberto ti ha già spiegato quello che dovrai fare?».
«Pensavo di mostrargli tutto ora che è qui». Rispose il maître strappandomi le parole di bocca.
«Bene! Sam, come ti ho anticipato durante il nostro ultimo incontro, per oggi seguirai le direttive Alberto, che è il nostro caposala: lavorerai a stretto contatto con lui, quindi per qualunque problema sai a chi rivolgerti».
Mi limitai ad annuire.
A quel punto, Giorgio aprì un cassetto e tirò fuori una piccola chiave. 
«Questa tienila: è del tuo armadietto personale. Mi raccomando, cerca di non perderla».
«Grazie». La presi e la infilai in una tasca interna della giacca. 
«Okay, credo che possiate andare. Mi raccomando Alberto: conto su di te!».
«Agli ordini, capo!».
Salutai timidamente Giorgio e lasciai che Alberto mi guidasse verso l’area principale del ristorante. A quell'ora era già piena di camerieri impegnati nei preparativi. Era una sala molto ampia ed elegante, con ampie colonne di pietra, soffitti a cassettoni, decorazioni barocche ed elegantissimi tendaggi di velluto color aragosta. Per metà dava sul cortile interno del Palazzo, l'altra metà sul giardino anteriore. In ogni punto rivolgessi il mio sguardo, vedevo quadri appesi alle pareti e piante sempreverdi.
«Oh, eccoti: finalmente sei arrivato!». Esclamò all'improvviso una ragazza venendoci incontro con un cumulo di tovaglioli nelle mani. Era alta, snella, con una cascata di capelli rossi raccolti in una treccia e le guance coperte di lentiggini. 
«Tu devi essere Sam! Che piacere conoscerti!». La rossa, in un lampo, lasciò i tovaglioli puliti sul tavolo e mi abbracciò calorosamente.
Arrossii senza volerlo.
«Sophie…Vacci piano! Hai visto? Lo hai messo in imbarazzo!». 
«Dio, quanto sei noioso! Volevo solo dargli il benvenuto!». 
«Perdonala Sam. Mia cugina ha il debole per i ragazzi biondi!». Sophie, di tutta risposta, gli tirò un colpetto sul braccio.
Sorrisi svogliatamente.
«Ciao Sam! Bel posto, vero?». Un secondo cameriere sbucò alle nostre spalle, trascinando con le mani un enorme carrello pieno zeppo di tovaglie. Era alto, magrissimo. Un cumulo di ricci biondo cenere.
«Sam, loro sono Paolo e Sophie. Sophie è mia cugina, la ragazza che abitava nel tuo appartamento!».
«Benvenuto nella nostra squadra! Ma accidenti… Il tuo viso non mi è nuovo. Assomigli a quell’attore. Com’è che si chiamava? Hunter o qualcosa del genere!». 
Spianai le labbra nel vedere gli altri ridere come se Paolo avesse appena pronunciato la battuta del secolo.
«Basta con queste sciocchezze, avanti!» Alberto agitò la mano e fece segno ai due colleghi di tornare ai loro posti. 
«Sophie, finisci di aiutare Paolo ad apparecchiare i tavoli. Invece tu, Sam, vieni pure con me». 
«In bocca al lupo...». Sophie mi fece l'occhiolino prima di lasciarmi completamente nelle mani di suo cugino. Le lanciai uno sguardo perplesso.
«Avanti ragazzi!» Esclamò il caposala rivolgendosi ad altri due camerieri fermi a chiacchierare. 
«Tutti ai vostri posti. Tra meno di un'ora apriamo e i tavoli non sono ancora pronti!». Notai, proprio mentre seguivo Alberto, che avevano indosso una divisa diversa dalla mia, sebbene fossero poco più giovani di me.
Chiesi ad Alberto il perché.
«Oh, loro sono commis débarasseur. Si occupano prevalentemente dello sbarazzo dei tavoli».
Li guardai ancora: indossavano una giacca bianca e un papillon di colore nero.
«Il nostro ristorante offre alcuni posti agli studenti più meritevoli dell'Istituto Alberghiero.». Mi spiegò Alberto. «Un giorno, dopo una lunga gavetta, diventeranno anche loro dei commis de rang!».
Insieme, ci avvicinammo ad un ampio mobile, pieno di scompartimenti. Distolsi lo sguardo dai due ragazzini e presi ad esaminare il lungo ripiano di ebano. Lì sopra c'era davvero di tutto: piatti, posate, bicchieri, vari tipi di biancheria, il necessario per il servizio della fingerbowl, carte delle vivande e liste dei vini, vassoi, penne e cavatappi. Mentre ero lì, avevo come l'impressione che tutti i camerieri della sala avessero lo sguardo puntato verso di me: ma era più che normale. D'altronde, ero l'ultimo arrivato. 
«Questo mobile che vedi si chiama panadora. Immagino tu sappia cosa sia...»
Lo sapevo, anche se non ne avevo mai vista una così grande. Feci un cenno per tutta la risposta.
Soddisfatto, Alberto aprì un tiretto e tirò fuori alcuni copritavola, tovaglioli e tovaglie pulite, adagiandole poi su un elegante gueridon parcheggiato lì vicino. 
Mentre ci accostavamo ad un tavolo, subito mi fu chiaro quella che sarebbe stata la mia prima lezione del giorno. L'allestimento della sala era un momento fondamentale al Cavaliere - lo capii subito - in quanto bisognava curare tutto nei minimi dettagli, in modo che ogni elemento si armonizzasse con l'atmosfera dell'ambiente. Esisteva un vero e proprio regolamento. Per ogni postazione erano previsti in totale tre piatti, compreso quello per consommè, varie tipologie di forchette, cucchiai e coltelli, la cui funzionalità specifiche le appresi solo quel giorno. Era opportuno, inoltre, rispettare i vari rapporti di distanza tra il vasellame, la posateria, i bicchieri, imparare a piegare con eleganza i tovaglioli, in modo che rispettassero la forma convenuta.
«Tranquillo Sam....», disse Alberto vedendomi incerto nei movimenti, «col tempo diventerà tutto più semplice!».
Cercai di tenere alta la concentrazione. Fortunatamente, Alberto era un capo molto paziente. Mi seguiva e visionava il mio lavoro, senza fretta, dandomi ogni volta gli opportuni suggerimenti. Terminata quella lunga incombenza, Alberto mi mostrò il resto del ristorante: lo stanzino dei gueridon, la sala relax e la Camera delle colonne, una stanza privata che veniva adoperata per le cene importanti. La zona che, però, mi colpì più di tutte fu la Sala dei vini, collocata in una sfera remota del ristorante, lontana dalle altre aree operative. Era un locale molto grande, con pavimenti di mattoni di marmi spezzati. Ai muri, erano collocati imponenti scaffali pieni di vini. Un lampadario di vetro azzurro pendeva dal soffitto illuminando pigramente la stanza. Alberto mi aveva condotto lì per recuperare alcuni bicchieri che sarebbero serviti per la preparazione dei tavoli e ne ero rimasto a dir poco affascinato. 
Emanava un sentore strano, un'aura di altri tempi. 
«Nella Sala dei vini, verrai solo su esplicita richiesta mia o del sommelier». Mi spiegò Alberto mentre apriva la vetrinetta per estrarne un vassoio d'argento. Le sue parole assomigliavano ad una specie di raccomandazione. Mi guardai attorno incuriosito e presi ad osservare con attenzione le varie bottiglie adagiate sugli alveari di legno. Non avevo mai visto così tanti vini in un solo posto.
«Un luogo proibito...». Bisbigliai tra me e me. Alberto sbuffò un sorriso e mi passò uno strofinaccio pulito.
«Mettiamola così: se Marco ti vedesse gironzolare senza motivo da queste parti, non ci andrebbe molto per il sottile!».
«Chi è Marco?».
«Il nostro sommelier!». Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Da anni è lui che si occupa della cantina del nostro ristorante, dirige personalmente l'inventario e suggerisce a Giorgio le varie tipologie di vino da acquistare, di volta in volta. Ogni bottiglia che vedi qui è una specie di piccolo gioiellino che vive sotto la sua tutela. Sai cosa succederebbe se qualcuno, per sbaglio, ne rompesse una?».
Passò in controluce uno dei bicchieri che aveva pulito dopo averlo strofinato con cura. Cercai di imitare i suoi gesti. 
«Una volta, un cameriere ha fatto cadere sbadatamente una bottiglia di Chardonnay. Onestamente, non ricordo il prezzo, ma costava parecchio. Quando Marco è venuto a saperlo, è andato su tutte le furie e lo ha fatto licenziare! Questo posto, per lui, è una specie di tempio sacro. Non può entrarci nessuno senza il suo permesso».
Non risposi: tutte quelle informazioni mi avevano improvvisamente riempito di disagio. Dovevo stare attento, muovermi con estrema cautela. Iniziavo a sentirmi come un elefante in un negozio di cristalli.
«Questo Marco deve essere un tipo molto severo…». Nel frattempo, sistemai i calici che avevo pulito sul vassoio con estrema cautela.
«Puoi giurarci! Questo lavoro è tutto per lui. Pensa che l'anno scorso ha vinto un premio molto prestigioso a livello europeo. Chissà, magari tra qualche anno potrà anche gareggiare per il titolo di migliore sommelier del mondo!».
Inarcai le sopracciglia senza volerlo, mentre un rumore di passi alle nostre spalle rompeva il flusso dei miei pensieri.
«Ah, eccoti!». Esclamò Alberto distendendo le labbra in un sorriso. 
«Parli del diavolo...». Nell'udire quelle parole, il suono sordo delle suole sul marmo, ebbi un profondo tuffo al cuore. Per un attimo, mi sembrò come se il tempo si fosse improvvisamente fermato. Mi voltai lentamente, mentre il ticchettio delle lancette dell'orologio a pendolo risuonava nelle mie orecchie più scandito di un attimo prima. Il mio sguardo timoroso e incerto incrociò, per un brevissimo frammento di secondo, un paio di occhi dello stesso grigio delle nuvole del cielo. Erano freddi e profondi. La scia d'aria messa in moto dal rapido passaggio di quella sagoma indistinta, al mio fianco, mi fece irrigidire senza volerlo.
«Di’ pure a quei due ragazzini che lavorano alle tue dipendenze, che non devono gironzolare da queste parti, durante la pausa pranzo. Ieri li ho beccati che fumavano nei corridoi!». E così Marco distolse subito l'attenzione da me. Mi stupii nel costatare quanto giovane fosse: poteva avere sì e no ventisette anni. Fisicamente era alto, slanciato, un folto casco di capelli castani, leggermente mossi. Con mia grande fatica, mi sforzai di tornare in me e continuai a sistemare i bicchieri sul vassoio, uno dopo l'altro, maneggiandoli con cura.  
«Lavorano per il ristorante, non di certo per me!». Ribatté Alberto con un pizzico di sarcasmo.
«Detesto quei ragazzini…». Grugnì Marco parlando tra sé e sé. «Pensano di venire qui a passare il tempo». 
Dopo qualche passo, si fermò di fronte ad uno degli innumerevoli scaffali del casellario, quindi prese in mano una delle bottiglia con un gesto elegante e la posò su un altro ripiano di legno. Nel farlo, egli ruotò di nuovo il capo verso di noi incrociando, per sbaglio, il mio sguardo intimidito. 
Automaticamente abbassai il mento e trattenni il respiro. Dovevo pensare solo ai bicchieri, mi ripetevo nella testa.
«Chi è quel pivello?». Domandò Marco riferendosi a me con sprezzo. Tenni il capo basso e non osai guardarlo.
«Lui è Sam. Il nostro nuovo aiutante». Credevo che, a quella dichiarazione, Marco si sarebbe avvicinato per presentarsi, e invece no. Rimase lì dov'era. 
«Mmh. Un altro aiutante. Mi domando quando la smetterà Giorgio di mandarci questa gente inesperta!». Ignorai volutamente quelle parole; lo sguardo di Alberto me l'aveva suggerito. Mentre finivo di allineare i calici, non riuscii a trattenermi dallo sbirciare, di nuovo, l' aitante figura del ragazzo dagli occhi di ghiaccio. Se ne stava davanti il ripiano su cui aveva posato la bottiglia, e teneva in mano un piccolo blocchetto su cui segnava qualcosa di tanto in tanto. Dopo un’attenta rassegna, egli aggrottò la fronte e venne verso di noi.
«Secondo i miei calcoli, mancano diverse bottiglie di bordeaux». 
«Come?». Alberto continuava a pulire i calici con movimenti rapidi.
«Nell’elenco… sei bottiglie di bordeaux sono sparite senza che nessuno abbia indicato la data di uscita!». Alberto esaminò attentamente la documentazione che Marco teneva in mano e fece una smorfia dubbiosa. Marco spiegò che era impossibile che fossero sparite tutte quelle bottiglie costose in meno di due giorni.
«Deve pur esserci una spiegazione logica...». Alberto storse il naso. «Dovresti chiedere ad Alen. La settimana scorsa è venuta molta gente: può essere che, nella fretta, abbia dimenticato di segnarle…». 
Alzai gli occhi un momento con aria innocente e mi accorsi che Marco stava osservando proprio me, quasi che fossi io il responsabile di quel misfatto. Le mie mani tremarono leggermente.
«Non vedo altra soluzione...» Concluse Alberto, rimettendo in fila l’ultimo bicchiere. «Su, Sam...Se hai finito lì, seguimi».
Senza farmelo ripetere, lasciai la stanza evitando di guardare Marco un'altra volta, ma mentre mi dirigevo verso l'uscita, ebbi come la sensazione di sentire i suoi occhi grigi su di me. Feci un enorme sforzo per non incespicare nei miei stessi piedi e seguii Alberto nella Sala Rossa. 
Fino alla fine dei preparativi, non vidi più Marco. Me lo ritrovai accanto poco prima dell'orario di apertura. Mentre il personale, come di consuetudine, si radunava vicino l'ingresso per l'accoglienza dei clienti, lo vidi; il suo corpo slanciato fasciato dall'elegante divisa da sommelier.
«Silenzio!». Esclamò Giorgio passandoci in rassegna uno per uno con un portamento quasi militaresco. Alcuni ragazzi che stavano chiacchierando tra di loro, si ammutolirono di colpo. Tutti rimanemmo immobili, l'uno accanto all'altro, come delle perfette statuine. Non ebbi il tempo di scambiare nessun'altra parola. 
Al contrario, con l'arrivo dei primi clienti, dovetti smettere di pensare e seguire Alberto nelle ordinazioni. 


***


«Ricorda Sam...». Disse il mio superiore mentre ci allontanavamo per raggiungere la consolle. Al tavolo a cui stavamo servendo c'erano due uomini e una donna. Lei vestita di tutto punto, con indosso un elegante tailleur color pesco e bijoux di perle. I due accompagnatori sembravano uomini d'affari: non facevano altro che commentare l'andamento della borsa.
«Quando un cliente entra, lo saluti e lo fai accomodare, spostando la sedia, come hai visto fare a me. Dopodiché dai la carta del menù e attendi qualche minuto». 
Alberto mi fece segno di prendere il porta borse. Quando tornammo nella sala, lo posizionai esattamente accanto alla donna e rimasi in piedi a visionare il lavoro, che poi avrei dovuto riprodurre con esattezza.
«Prego signori, cosa posso servirvi?».
«Tagliolini con tartufo e ravioli in salsa marinara, grazie».
Dall'alto della mia postazione, non riuscii ad evitare di dare una piccola sbirciata ai prezzi del menù: ci voleva davvero un capitale, per mangiare in un posto del genere!
«Altra regola...» In quel momento, io e Alberto stavano entrando in cucina. 
«Prima di rivolgerti a qualcuno, accertati che ti abbia notato. Sorridi sempre e dopo una breve attesa, se serve, ritorna al tavolo per capire se le portate siano di loro gradimento. Mi raccomando, sii discreto e dai sempre del lei».
«Sempre del lei». 
Dopo due ore passate a fargli da assistente, avevo la salivazione corta. Alle nostre spalle, intanto, si muoveva una schiera numerosa di cuochi, guidati da un uomo tozzo e nerboruto di nome Tommaso. 
«Perfetto Sam». Disse Alberto catturando improvvisamente la mia attenzione. Prelevò il vassoio dal passe e mi lanciò un’altra occhiata.
«Hai visto che cosa ho fatto, come mi sono mosso. Saresti in grado di completare un ordine al posto mio?».
«Penso di sì».
«E allora vediamo di cosa sei capace. Chiedi a quei clienti se vogliono qualcos'altro». Deglutii e mi avvicinai al tavolo che mi aveva indicato, cercando di muovermi con una certa grazia. Fu meno complicato di quanto temessi, anche se, mentre rivolgevo la parola a quegli uomini dall'aria aristocratica, sembravo rigido come un palo di legno, rispetto ad Alberto che agiva in maniera sciolta e coordinata. Nel portare poi il vassoio dei dolci verso la sala, rischiai anche di inciampare sul pavimento. Per fortuna, non accadde nulla di grave e il servizio, alla fine, risultò soddisfacente.
«Come inizio non male». Dichiarò Alberto, quando tornai da lui. 
«Devi ancora lavorare sul portamento e guadagnare un po' di sicurezza. Ma, per essere la prima volta, te la sei cavata bene. Diciamo che sei stato credibile».
Credibile! Ero stato tutto fuorché credibile!
Sapevo che ero ancora lontano anni luce dagli standard di eleganza del ristorante. Lo sguardo indagatore di Giorgio, che nel frattempo mi teneva d'occhio da un angolo, ne era una malcelata conferma. Ma cercai comunque di non pensarci e continuai a seguire le direttive del caposala. Quest'ultimo, per tutta la serata, non mi lasciò di vista un solo attimo. Annuiva quando mi comportavo nella maniera convenuta, mentre se commettevo un errore, mi prendeva da parte e mi dava gli opportuni suggerimenti. 
«Terza regola». Mi disse a fior di labbra verso la fine della serata. 
«Non dimenticare mai di dare la priorità alle donne, quando consegni le portate. Al Cavaliere certi accorgimenti sono sacri, non dimenticarlo mai...».
Ad un tavolo numeroso, avevo distrattamente servito per primo il signore più anziano della compagnia, guadagnandomi, come risposta, un'occhiata di rimprovero dalla donna seduta al suo fianco.
«Bene, Sam! Come è andata?». Mi domandò Paolo quando fummo tutti negli spogliatoi a cambiarci. Iniziai a sbottonare lentamente la camicia. Dall'altro capo della stanza c'era anche Marco, ma era di spalle e stava parlando con Alen, il suo commis.
«Poteva andare meglio, credo...». Alberto mi rivolse un sorriso comprensivo.
«Sam è in gamba. Ha solo bisogno di un po’ di pratica». 
Mentre parlavano, non riuscivo a distogliere lo sguardo dal sommelier. Quella sera sembrava di pessimo umore.
«Beh, su. Tutto sommato non ti è andata così male! Lavorare sotto la guida di Alberto, è molto meglio che essere alle dipendenze di quel bulldozer!». 
Paolo seguì la direzione del mio sguardo.  Per fortuna Marco era troppo lontano da noi per ascoltare certi discorsi. 
«Povero Alen...Se fossi in lui, me ne sarei già andato da un pezzo!».
«Marco deve essere ancora arrabbiato per la storia delle bottiglie». Mormorò Alberto mentre si cambiava le scarpe.
«Di che bottiglie stai parlando?».
Intercettai con gli occhi lo sguardo sfuggente di Alen.
«Sono sparite delle bottiglie dalla cantina! Sai cosa significa questo?». 
«Caspita! Ora, come minimo, lo terrà due ore sotto interrogatorio». 
Entrambi rivolsero lo sguardo al mio indirizzo.
«Pensate che darà la colpa a lui?». Domandai. Alberto si rialzò stiracchiandosi le spalle. Quindi lanciò l'ennesima occhiata ai due interessati.
«Chi può dirlo?». Sospirò lentamente. «Quei due non sono mai andati molto d'accordo! Sono come cane e gatto. Non l'hai notato?».
Indaffarato com'ero nel servizio, non avevo avuto modo di notare, come Alberto, i segni di quella tensione nascosta. Solo un momento mi ero avvicinato a Marco. Mentre ero davanti la panadora per recuperare la saliera, me lo ero ritrovato accanto e, senza volerlo, ero rimasto incantato dal modo in cui aveva preso ad esaminare con attenzione un bicchiere di flûte. Il suo sguardo concentrato nell'operazione.
In quella circostanza mi aveva completamente ignorato. 
Era lì, ad esaminare il bicchiere, come se fosse isolato dal mondo.
«Su andiamo!». Esclamò Alberto facendo schioccare le dita davanti ai miei occhi e riportandomi alla realtà.
Sbattei ripetutamente le ciglia.
«Ho proprio bisogno di una bella dormita!».
Per leggere l'opera completa visita il sito Amazon:  https://www.amazon.it/Una-nuova-vita-J-Parker-ebook/dp/B072B92NFQ/ref=sr_1_2?ie=UTF8&qid=1494788001&sr=8-2&keywords=una+nuova+vita

Lo trovi anche su KOBO e iBook store

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3666895