Gli angeli di Daniel

di Dakota Blood
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


-Perché Dio è così crudele?-
 
Questo è l’ultimo ricordo che ho del mio migliore amico prima che accadesse. Prima che gli uomini con le divise antipatiche con sopra degli strani simboli lo chiudessero in un enorme stanza assieme ad altri bambini, uomini che gridavano e donne dall’altro lato che piangevano chiamando i propri mariti.
Ricordo di aver sentito quelle ultime parole, urlate a squarciagola, mentre io, un bambino di soli otto anni lo guardavo da dietro un filo spinato, osservando il fumo che fuoriusciva da quella grande fornace, convinto che qualcuno stesse per prepararci dei buoni dolci fatti in casa.
Il fumo era ovunque, annebbiava la vista, ricordo che mi pizzicavano forte gli occhi ma continuavo a guardare dritto davanti a me, nell’orrore, nella fine di milioni di vite spezzate solo perché ritenute di razza inferiore.
Gli uomini cattivi, comunemente chiamati nazisti, davano ordini con le loro facce schifate, come se stessero guardando dei vermi e non uomini straziati e strappati alle loro famiglie.
Il mio migliore amico, Frank, era tra quelle persone sfortunate che non si son potute difendere e hanno dovuto abbandonare per sempre questa terra troppo giovani.
Quando chiudo  gli occhi, dopo trent’anni, posso ancora rivedere il colore di quel cielo nero e le facce terrorizzate delle vittime innocenti, e piangere nel cuore della notte mentre mi sembra di udire nel silenzio assoluto, i richiamare tremendi dei soldati privi di coscienza e pietà.
Il telefono che squilla mi riporta alla realtà, al presente, nel mio studio ampio e ventilato in questa calda mattinata di luglio del 1975, dove i ricordi si mischiano con i pensieri della vita di tutti i giorni.
Alzo la cornetta che, nonostante qua dentro ci siano solo 15 gradi, scotta.
-Chi è?-
-Dan, sono io, Michael-
Michael è un mio caro amico, vive a più di trenta chilometri dal mio paese, Welzerz, e non sta passando un bel periodo. Vive costantemente in ansia per esser stato abbandonato dai suoi genitori biologici alla nascita, e l’ha scoperto solo qualche giorno fa. Gli starò vicino.
-Dimmi tutto, ti ascolto-
-Ecco, so che non è facile per te…-
Alzo gli occhi al soffitto e vedo un ragno enorme che cerca di tessere la sua ragnatela sul grande lampadario di Swarosky luccicante. Ha scelto il posto meno adatto.
-Michael, ci sono eh, dimmi-
Un attimo di silenzio, sento solo il suo respiro lento e in lontananza qualcuno che alza troppo la voce verso di lui. Detesto le persone che comandano sulle altre, che invece  di parlare civilmente urlano come se si sentissero in diritto di obbligare qualcuno a obbedirgli.
Li detesto da quando ho sentito quegli uomini, tanti anni fa, che gridavano con ferocia contro delle persone che per paura di esser picchiate, stavano zitte e subivano ogni sorta di maltrattamento. Se non avanzavano verso quei grandi forni che non producevano niente di buono.
-Ecco, con mio grande rammarico, sono obbligato a darti questo incarico, da parte del generale Hans Zaner, da oggi sarai convocato come membro ufficiale della ‘Deutchland Union soldiers. So che per te è un duro colpo, ma non posso fare altro che riferirti gli ordini del superiore-
Mi cade quasi la cornetta di mano. No, la Union no. Non voglio commettere gli stessi errori di mio padre  e di tanti altri uomini, colpevoli di aver distrutto vite valorose e di aver seminato morte e disperazione. Non voglio dover rivivere tutto.
Mi sembra già di sentire l’odore di bruciato, di vedere una giovane sposa che viene allontana dal suo uomo perché le donne devono stare da una parte e i maschi da un’altra, vedo già gli occhi tristi di un bambino che vuole abbracciare il papà che è lontano, forse già in paradiso... mentre lui lo aspetta con occhi speranzosi, si, perché i bambini non dovevano sapere niente, per loro è come un gioco dove vince il migliore, il più coraggioso quello che non ha paura di diventare cenere nel vento.
-Ci sei?-
La voce di Michael mi fa quasi trasalire e ci manca poco che faccio cadere sul tappeto il posacenere di vetro regalatomi dalla mia ex Helena. Lo trattengo con la punta delle dita e riesco a non frantumarlo in mille pezzi.
-Ci sono… io, dove possiamo vederci? Ho bisogno di parlare con qualcuno al più presto-
Trattengo a stento le lacrime, guardo di fronte a me e vedo una foto che ritrae due bambini molto piccoli che sorridono mentre si abbracciano come due fratelli.
Due bambini simili tra loro, entrambi biondi e con qualche graffio sulle ginocchia, qualche dente spezzato e una ruota ai loro piedi con cui giocare.
Due bambini uguali, se non fosse per il loro abbigliamento diverso. Uno indossa dei normali pantaloncini che possono sembrare da calcio assieme ad una maglietta a maniche corte, l’altro invece non ha potuto scegliere cosa indossare perché è ebreo.
Ha dovuto mettere una divisa sudicia a righe con un numero cucito sulla tasca sinistra.
Un numero.
Le persone  non sono dei numeri! Eppure quel bimbo sorride all’obiettivo proprio come fa l’altro, perché in fondo sono uguali e poi giocheranno assieme e si dimenticheranno di non appartenere alla stessa nazionalità.
0815.
Un numero tra tanti, eppure per me era speciale e non ho mai visto alcuna differenza tra me e lui.
-Ci vediamo al ‘Sonne und Nacht’ di James Herverz, tra un ora. Ciao-
-Ciao, a dopo Michael-
Appoggio la cornetta e mentre fuori inizia a piovere, una pioggia leggera estiva e piacevolissima, sorrido a quei due bambini e quasi non li riconosco più.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Arrivo al locale che sono appena le diciotto e trenta, sono puntualmente in anticipo sia che devo incontrare un vecchio amico, sia che si tratti di lavoro o entrambe le cose assieme. Mi passano davanti un uomo ed un bambino, il primo avrà circa settant’anni mentre il piccolo non credo abbia già dieci anni. Si vede subito che c’è una buona intesa tra di loro perché l’anziano sorridere al bambino in modo affettuoso e lo accompagna a guardare una vetrina a pochi metri da me, un negozio di dolci e caramelle. Il piccolo molla la mano dell’uomo e gioisce contento buttandogli le braccia al collo, come solo i più affettuosi sanno fare. Non c’è dubbio che quei due siano nonno e nipote, meravigliosi nella loro complicità. Sorrido mentre li vedo sparire sotto il tendone verde del negozio, e girandomi dall’altra parte noto che qualcuno mi fa un cenno con la mano mentre aspetta che le macchine lo facciano passare. Lo riconosco quasi subito, con il suo portamento da aristocratico freddo e cinico ma in fondo buono e dal cuore puro. È Michael che viene verso di me per parlare di qualcosa che non avrei nemmeno voluto pensare, quel dannatissimo lavoro che vorrei dovesse toccare a qualcun altro e non certo a me. Mi si avvicina e mi mette una mano sulla spalla respirando con fatica. -Scusa se sono in ritardo ma c’era traffico, ho parcheggiato lontanissimo e poi con l’asfalto bagnato è un casino- Scuoto la testa per rassicurarlo. -Non fa niente, sono io in anticipo come sempre. Entriamo. Saranno passati sei mesi dall’ultima volta che ho messo piede al Sonne und Nacht, ma non è cambiato per niente. Le sedie in legno sono impeccabili nel loro splendore, le tovagliette a quadri bianchi e rossi danno quel tocco di familiarità perfetto, sembra quasi di fare un pic nic tutti assieme. Vedo che una giovane ragazza ci si avvicina con un sorriso bellissimo, avrà circa venticinque anni e ha delle labbra rosse carnose che potrebbero appartenere ad una donna di almeno trentasei anni. -Volete ordinare?- Ha una voce soave e melodiosa, Non assomiglia per niente ad Helena, eppure la trovo incredibilmente attraente e dolcissima nella sua linea perfetta. Guardo Michael che è assorto nei suoi pensieri e decido di pendere in mano la situazione per non risultare maleducati. -Per me un hamburger con patatine fritte e per lui insalata con mais- -Ok, da bere?- Lo guardo anche se non mi sembra sia su questa terra e faccio a modo mio tentando di ordinare la sua bibita preferita giusto per andare sul sicuro. -Due birre e siamo a posto, grazie- Mi sorride e chiude il taccuino dandoci le spalle. È davvero bella. Mi guardo intorno, il posto non è affollato ed è un bene perché non ho assolutamente voglia di parlare di una cosa tanto seria mentre mezza città ci ascolta facendosi gli affari nostri. -Hey, allora spiegami tutto dall’inizio alla fine- Il mio amico mi guarda e nei suoi occhi leggo solo tanta tristezza e questo mi fa male al cuore non solo perché in questa situazione chi deve stare davvero male sono io ma anche perché il suo dolore sembra dettato da un senso di colpa che io non voglio assolutamente che lui provi. Mi parla ma senza riuscire a trovare subito le parole giuste. Giocherella con il bicchiere passandoci sopra indice e pollice senza guardarmi in faccia. Solleva la testa verso di me mentre non dico niente, perché in certi momenti non si sa bene cosa dire, poi decido di rompere questo triste silenzio. -Guarda che sono venuto qui perché voglio essere a conoscenza di tutto, non ho paura del passato, dimmi pure ti prego- -Va bene… Ieri mattina intorno a mezzogiorno, quando tu eri ancora a Henzer, mi ha convocato Hans. Mi ha telefonato dicendomi che dovevo andare da lui perché era urgente e credimi, me l’ha detto con una voce fredda sì, ma allo stesso modo triste, come se volesse evitare tutta questa faccenda- Annuisco mentre per il nervosismo stringo forte il tovagliolo bianco che ho vicino al bicchiere, mi sudano le mani e il battito cardiaco è piuttosto accelerato. -Continua- -Ecco, sono andato da lui e li ho trovati tutti immobili, nelle loro divise orribili con i simboli che tu non vuoi ricordare. Li ho guardati dritti in faccia e ho visto gli occhi di tutti gli uomini che sono morti senza colpa. Ho abbassato lo sguardo perché ho provato vergogna al posto loro. Mi sono seduto e Frank mi ha illustrato la situazione. In una parola sola posso dirti che è ricominciata- -Cosa intendi per ‘rincominciata’?- Mentre deglutisce come se stesse per avere un attacco di panico da un momento all’altro, vediamo arrivare dal bancone verde, la graziosa cameriera con la sua lunga coda di cavallo bionda, che assieme agli occhi azzurri come il mare la fa sembrare una vera principessa, come quelle delle fiabe. -Ecco qua, il conto lo porto appena avete finito, non c’è fretta, siete i benvenuti qua. Dopo cena porto un omaggio dalla casa, buon appetito- La ringraziamo con dei sorriso forzati mentre lei ce ne rivolge uno talmente vero e splendido da far mancare il respiro. Ha denti bianchissimi e regolari, e per un attimo mi perdo completamente in tutto quel candore. Guardiamo i piatti pieni di cose buonissime ma non abbiamo poi tutta questa fame. -Con ‘ricominciata’ intendo che è arrivata l’ora che temevamo da quando eravamo solo dei bambini ingenui e inconsapevoli di quando fosse orrendo il mondo. Frank mi ha mostrato le legge che sono state emesse qualche settimana fa, mi ha rilasciato tutti i moduli, quelli da firmare obbligatoriamente. Non avrei mai voluto chiamarti per darti questa notizia ma ho dovuto farlo, Mi spiace- Mi pizzicano gli occhi, cerco di non scoppiare in lacrime solo perché non voglio che qualcuno si preoccupi e mi si avvicini chiedendomi spiegazioni quando invece non ho voglia di parlare con nessuno. Michael si abbassa fin quasi a scomparire sotto il tavolo e poco dopo rispunta fuori con un fascicolo enorme pieno zeppo di documenti, fogli inutili e doveri militari assurdi. -è tutto qui- Li prendo in mano ma decido di non guardarli, non ancora. Non è né il momento giusto né il luogo adatto. Li consulterò una volta arrivato a casa in tutta tranquillità. Vedo che Michael ha uno sguardo strano, come se cercasse di nascondermi qualcosa e allo stesso tempo volesse sputare la verità. -Che c’è?- -Non è tutto, Dan. Purtroppo c’è dell’altro. Quando Frank e gli altri hanno finito il colloquio, mi hanno trattenuto per farmi vedere delle scene orribili. Mi hanno mostrato tutte le foto che sono state scattate più di vent’anni fa in quello stesso campo di concentramento ed erano orribili. Quelle non me le hanno lasciate portar via ed è molto meglio così. Poi Frank ci ha fatto fare un giro di perlustrazione nei vecchi corridoi, nei vecchi angoli di morte e stavo quasi per vomitare sulle mie scarpe. Ma ho proseguito per non dover fare la parte dello scemo che ha lo stomaco debole e non sa toglier fuori le palle. Abbiamo proseguito in tutti i posti inaccessibili e abbiamo visto cose che nemmeno i più malvagi avrebbero immaginato- Fa un respiro lungo e poi prosegue. -In una stanza c’erano ancora le bambole di pezza delle ragazzine che passavano le ore giocandoci e spazzolandole per non dover pensare alle proprie mamme tropo distanti tra loro. In un angolo, nel muro, abbiamo persino trovato delle scritte ormai logore dal tempo e una era breve, semplicissima ma profonda. Frei. Libero. Allora ho capito che camminando su quel pavimento non solo mi sentivo un codardo ma anche un profanatore, un sacrilego. Hai presente quei film dell’orrore in cui si va ad aprire le vecchie tombe dei vampiri per piantargli il paletto nel cuore? -Si- -Ecco, mi sentivo come quei cacciatori di demoni, solo che in questo caso i veri mostri eravamo noi. Noi che non avevamo nessun diritto di disturbare il sonno di quelle povere anime innocenti e che dopo tutto il dolore che gli avevamo provocato in vita, continuavamo ad ossessionarli. Volevo fuggire via, correre prima che gli spiriti arrabbiati ci rincorressero e si impossessassero delle nostre anime facendocela pagare fino in fondo- Lo ascolto rapito, con gli occhi sbarrati, come se mi stesse raccontando di aver fatto un viaggio in capo al mondo e mi stesse descrivendo le tribù conosciute e i loro bizzarri nomi. -Poi cosa è successo? Siete andati via?- -Aspetta, ancora non sono arrivato al nocciolo della questione. Vicino alle stanze dei bambini abbiamo trovato dei fogli sparsi ovunque, con delle strane scritte indecifrabili. Li abbiamo raccolti e con una lente di ingrandimento abbiamo cercato di capirci qualcosa ma senza risultato. C’erano dei strani simboli, alcuni raffiguravano delle stelle assieme ad alcune svastiche e sopra vi erano tracciate delle enormi X che cancellavano quei bizzarri segni che non capivamo in alcun modo. Uscendo da quel piccolo corridoio buio, ci trovammo vicino alle docce… sai bene a cosa mi riferisco giusto?- Inizio a tremare e le gambe iniziano a muoversi quasi contro la mia volontà. -Si, so benissimo a cosa ti riferisci- -Ecco, siamo passati lì nei dintorni, tra gli scarafaggi e le formiche che passeggiavano tranquilli sbucando dalle mattonelle come testimoni di una guerra senza vincitori ma vinti. Lì per terra, abbiamo trovato qualcosa che ci ha spiazzati completamente. Erano dei libri con le copertine marrone, o meglio, all’inizio pensavamo che fossero dei libri, ma una volta averli presi in mano per consultarli ci siamo resi conto che erano dei diari. Pagine scritte in momenti di paura, di follia, di tensione incredibili. Ti rendi conto Daniel? Dopo tutti questi anni abbiamo trovato i pensieri di quelle persone! Non ho approfondito la lettura, non ho voluto, ma di nascosto dagli altri ho portato via qualcosa. Qualcosa che devi assolutamente avere- -Che cos’è? Io non credo di voler avere qualcosa che riguarda quel posto, non voglio e non posso, davvero- Michael mi zittisce in un secondo, scuotendo la testa e prendendo ( per la seconda volta in pochi minuti) dei fogli dalla borsa. -Tieni, devi averlo. Credo sia un tuo diritto dopo tutto che vi hanno fatto- All’inizio non riesco proprio a capire, poi vedo il libro che tiene tra le mani e capisco, dalla rilegatura e dallo spazio per metterci il lucchetto, che si tratta di uno dei diari. Ho un colpo al cuore e inizio a sudare, allento il colletto della camicia e credo di essere avvampato come un ragazzo che è appena stato visto dalla sua ragazza mentre bacia un’amica. Faccio per parlare ma dalle mie labbra non esce alcun suono. -Si, hai visto bene. Credo che qua dentro ci siano anche varie lettere sparse qua e là. Devi conservarle e tenerle con te, tutto questo è come un dono, credimi.- -Ok, ti ringrazio- -Non devi. Appena arrivi a casa leggi tutto e sfoga la tua rabbia, ogni emozione possibile, sia positiva che negativa- E per quanto riguarda il posto alla Deutchland Union, mi dispiace da morire, non so più come dirtelo. Credo che questa storia mi porterà alla pazzia.- -Non è colpa tua, solo che vorrei sapere come è successo, come si è arrivati a questa decisione assurda. Cazzo, Mich, ormai erano più di vent’anni che non si commettevano queste barbarie. Gli ebrei erano un popolo libero, dopo tutto quel dolore, ora che cosa dobbiamo dimostrare al mondo intero, che i tedeschi sono dei luridi bastardi e basta?? Stiamo parlando seduti ad un tavolino come persone civili, così come lo sono gli ebrei, e quando invece ci ritroviamo faccia a faccia con loro dobbiamo fingere di essere dei pezzi di merda? È questo che dobbiamo fare??- Mi guarda in silenzio, non riesce a trovare le parole giuste per esprimersi, forse ho detto troppe cose vere e questo gli ha toccato il cuore e l’anima. -Senti, io non sono per niente d’accordo, voglio dire, andiamo ci conosciamo da una vita e sai benissimo che non farei del male nemmeno ad una mosca che tenta di rovinarmi la cena per cui da parte mia non troverai mai il consenso a questa legge assurda. Ma cosa potremo mai fare? Non siamo noi quelli che governano questa nazione. Dobbiamo attenerci ai nostri obblighi e doveri. Comunque, in poche parole Hans ci ha convocati per farci sapere che il generale Enzet è malato ed è sicuro che non camperà ancora per molto. Cancro al fegato e non c’entra niente il fumo. Non c’era nessun altro che avesse le nostre conoscenze e che nonostante la giovane età avesse talmente tanta esperienza di guerra e di lager da poter essere all’altezza della situazione. I nostri padri ci hanno segnato il destino eh?- -Si, mi hanno distrutto la vita- -Ora non pensarci troppo, ti scongiuro. Quando arriverà il momento di presentarci andremo anche se non ci farà piacere, ma siamo pur sempre uomini e soldati e ricordati un’altra cosa Dan- Non mi piace il suo tono di voce e neppure il modo in cui tiene l’indice sollevato indicandomi. -Siamo tedeschi- -Non mene frega niente, ecco come la penso. Vorrei cambiare il mio certificato di nascita, cambiare volto e nome. Vorrei bruciare la Germania intera, da est a ovest.- Mangia un boccone e mi parla con la bocca piena. -Io sto dalla tua, ricordalo.- Guardo in basso verso il mio piatto ancora pieno. Non abbiamo mangiato quasi niente, ma d’altra parte come potremmo? Mi si è chiuso completamente lo stomaco e non riesco nemmeno a buttar giù un sorso di birra. Mi giro e vedo la ragazza bionda che prende altre prenotazioni di due coppie arrivate da poco. Non cerco il suo sguardo e rimango in silenzio senza saper bene cosa dire o pensare. Michael fa un cenno alla ragazza che lo guarda incuriosita, mentre lui sorseggia un bicchiere pieno fino all’orlo con fare nervoso. -Andiamo via?- -Si, Dan, credo sia molto meglio. Ti ho detto tutto ciò che dovevi sapere e non credo di riuscire a finire di mangiare, mi sento un po’ sottosopra. Mi è passata la voglia di mangiare e chissà quando mi tornerà. Vedo che anche per te è lo stesso- -Già- La ragazza arriva, ci porta il conto e ci alziamo per andare ognuno nella propria direzione. Cinquanta euro per non aver nemmeno assaggiato il dolce della casa.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Si dice che la casa è dove si trova il nostro cuore e forse è vero perché non appena spalanco la porta e cerco l’interruttore mi sembra di sentirmi già meglio. Sento una strana calma ripercorrermi le vene e mi distendo sulla poltrona del soggiorno vicino alla tv che però non tento nemmeno di accendere perché è proprio l’ultima cosa di cui ho bisogno. Frugo tra le tasche del giaccone e stringo forte tra le mani quei fogli che risalgono a più di trent’anni fa, impolverati, gialli e testimoni di un male così vicino a noi. Ho quasi paura a controllare queste cose che mi ha dato Michael, mi sembra quasi di sbirciare nelle vite di questa gente o di rubargli i pensieri senza alcun diritto. Eppure lo faccio lo stesso e non me ne pento. C’è un diario, non tanto grande, con la copertina marrone e dei piccoli fiori neri incisi sopra, di quelli che puoi benissimo chiudere gli occhi e passarci le dita per sentire la consistenza di ogni petalo, dal più piccolo al più grande. Sembrano delle graziose roselline. Lo apro e prima di leggerlo mi cadono sui piedi dei fogli sporchi di sangue. Si vede benissimo che non è cioccolata perché il colore inconfondibile. Li raccolgo e li tengo ben stretti in mano, notando che dall’altro lato, quello nascosto, si vedono delle lettere e tante frasi scritte con dell’inchiostro nero, in una calligrafia piuttosto infantile e umile. Giro il foglio e mi ritrovo a tu per tu con una lettera datata 1945 probabilmente scritta da un ragazzino molto piccolo perché in fondo alla pagina ci sono delle figure piuttosto infantili, sembra quasi il disegno di un bambino delle elementari che mostra al mondo intero la sua famiglia perché glielo ha chiesto la maestra. 1 Gennaio 1945 Ciao fratellone! Sono tanti giorni che sono qui in questa camera fredda al buio, senza mangiare niente a parte un pezzo di pane duro che non piace nemmeno ai topolini che vengono a farmi compagnia. Non dovrei nemmeno scriverti! Non dobbiamo avere contatti con le persone di fuori, quelle che loro chiamano ‘ quelle che ci devono leccare le scarpe’. Non potremmo nemmeno tenere un semplice foglio segreto o scrivere ai nostri babbi e mamme. Ho preso in prstito da uno dei loro uffici una matita piccola piccola ma utile per scriverti qualcosa. Spero che ricevi queste lettere! Da qaundo ci hanno separati mi manchi moltissimo! Sento dei rumori, ti devo lasciare mi spiace, Se posso, ti riscrivo domani. Ti voglio bene. Tuo Frank. Chiudo gli occhi e inizio a sentire le lacrime che mi rigano le guance. Frank. Ancora non riesco a credere di avere in mano le sue lettere, quelle che nn ho mai ricevuto e di cui non sapevo nemmeno l’esistenza. C’è un’altra lettera e credo sia ancora di lui, quel bambino troppo piccolo ma con un grande cuore e una mente eccezionale. Il foglio è ingiallito e non riesco a capire alcune parole perché sicuramente la carta è entrata in contatto con dell’acqua, rovinandosi. Ma nonostante tutto il contenuto è comprensibile. 3 Gennaio 1945 Caro D. Non ________________________ di poterti scrivere ancora per molto tempo! //////////////////////////// Uomini armati che mi hanno allontanato da _________ e mia mamma che grida assieme ad altre donne sella sua stessa età! Mio padre è morto ieri, bang bang, ucciso e sdraiato per terra in mezzo alle mosche e al fango.. Lo so perché me l’hanno detto gli uomini cattivi e poi si sono messi a ridere agitando i fucili e cantando che La Germania non è terra per i topi ebrei. Non ho capito bene cosa volevano dire, bo bo bo. Uffa io ho fame e non ho nulla da mangiare. Sai che dopo che babbo è morto si sentiva odore di bruciato? Hanno detto che qualcuno, dopo che i padri muoiono, cucina delle cose buonissime, morbide come il pane. Solo che a me non danno mai nulla. Devo mettere a posto la matita, non posso scriverti per molto tempo fratellone. __________________- presto. Ti ricordi la fattoria del signor Welmer dove correvamo assieme ai maiali e alle oche? __________ ucciso anche lui assieme ________________ Forse muoio anche io! Ti scrivo di nuovo almeno altre parole più avanti. ________________PAURA DAN!!! Uomini cattivi vengono adesso qui da me, senti i passi. Aprono la porta e urlano delle cose che non capisco. Ti lascio. P.s: ho dormito con Pinkie, il maialino che mi hai regalato due mesi fa. Scusami ma l’ho rovinato giocandoci e gli manca un occhio. Mi vuoi ancora bene vero?- Tuo Frank fratellino. Piango. Come un ragazzino di dodici anni che legge lettere d’amore da una città lontana. Frank, il mio migliore amico, mio fratello non di sangue ma di cuore e anima. Rivedere il suo nome, poter leggere le sue parole dopo tutti questi anni mi riporta indietro nel tempo e rivivo ogni attimo passato con lui, con quel bambino speciale come nessun’altro. Chiudo gli occhi e mi rilasso completamente, e le pagine scivolano via dalle mie dita, atterrando sul freddo pavimento del salotto. È una giornata molto fredda, nevica. Saranno più o meno le sei di sera e io e Frank camminiamo lungo un viale alberato, nei pressi del campo di concentramento. Lui inizia a correre e ridere:- Non mi prendi, non mi prendi!- Lo rincorro ma non riesco a raggiungerlo perché tra i due quello che fa la parte della lumaca sono sempre stato io. -Dai fermati, mangiamo un frutto seduti qua, si sta benissimo- Mi ascolta, d’altra parte il più grande fra i due sono io e vedo che trema. Non so se è per il freddo o per la paura, in ogni caso mi avvicino a lui e lo abbraccio cercando di dargli un po’ del mio calore. -Grazie fratellone- -di niente piccino. Ci sediamo per terra, tra la cenere e i cumuli di neve bianchissimi che avvolgono i nostri piedi come se volessero accarezzarci. -cos’hai portato di buono?- Apro il cestino ed estraggo due tramezzini farciti con insalata e maionese, poi tolgo fuori due frutti rossi belli maturi. -Che fame! Non mangio da ieri mattina e a colazione ci hanno dato solo acqua sporca e un tozzo di pane nerissimo- Lo guardo e mi rendo conto di quanto sia stato fortunato ad averlo incontrato, di come sia potuta nascere una così bella amicizia in un momento così brutto. Decido di non toccare cibo perché lui ha la priorità, io almeno quando tornerò a casa troverò un piatto caldo e i miei familiari con i loro sorrisi, la mamma che con il suo profumo dolce mi inebria i pensieri e mio padre che toglie la divisa come fosse un medico mentre si sbarazza del camice. -è tutto per te, puoi mangiare anche la mia parte- Mi stritola gettandomi le braccia al collo e facendomi quasi cadere all’indietro, rido e lo stringo forte a me. Gli voglio un gran bene. Inizia a mangiare con avidità come se non toccasse cibo da una settimana e lo guardo mentre ogni tanto sollevo la testa verso il cielo spalancando la bocca assaporando il gusto della neve mista a pioggia ghiacciata. È buonissima. -Scusa, mh, ho una fame da lupi- -Fai pure, io sono qui e ti aspetto.Appena finisci facciamo una passeggiata- -Mh, ok- Mangia davvero come un lupo, divora prima il tramezzino come se niente fosse e il secondo gi scivola giù per la gola quasi intero, tanto che per un attimo ho il timore che possa ingozzarsi. -Mangia piano, non c’è fretta- -Sai che stamattina due uomini mi hanno detto che tra qualche ora morirò?- Non rispondo. Chiudo forte i pugni e mi faccio davvero male, ma quello non è niente in confronto al dolore che sto sentendo. Non voglio che dica certe cose, anche se possono essere vere. -Non devi credergli, lo sai. Te l’ho detto tante volte, Frank. Non succederà niente stai tranquillo- Mi guarda e mi sorride nonostante sappia che tra poco non potrà più farlo- -Ma è così, hanno ragione. L’hanno già detto a tutte quelle persone e ora di loro non rimane altro che cenere e vestiti.- -Smettila Frank. Non ti succederà niente di tutto questo, non ad un bambino come te- -Io me ne andrò e tu mi ricorderai sempre. La mia mamma mi diceva sempre che le persone speciali continuano a volersi bene anche dopo che si separano, che il loro bellissimo rapporto va’ avanti nonostante la morte. Io sarò sempre al tuo fianco, stupido tedesco- Mi abbraccia forte con le mani ancora sporche di maionese e gli sorrido mentre qualche lacrima mi fa il solletico sugli zigomi. -Andiamo adesso? Ho voglia di camminar- Si stacca dalla mia presa e inizia a correre a braccia aperte, verso il cielo nuvoloso che sembra stia per piangere con me. Comincia a piovere ininterrottamente e Frank inizia a ridere come sa fare solo un bambino della sua età, con la spensieratezza che dovrebbe avere sempre, allargando le mani e girando su se stesso divertito. Metto le mani a forma di imbuto vicino agli angoli della bocca e urlo con quanto più fiato ho in gola, perché voglio mi senta davvero. -Ti voglio bene- Si ferma e socchiude gli occhi, senza rispondermi. Poi sorride e scappa via. -Mi hai sentito?- -No, ti voglio bene. È proprio uno scemo. Lo guardo allontanarsi, mentre pian piano rallenta per prender fiato e scalciando pezzi di neve ancora solidi. Siamo uguali, io e lui, abbiamo gli stessi sogni, le stesse paure e prospettive, non c’è niente che ci differenzia, neanche il suo buffo pigiama a righe celesti e bianche. Si gira verso di me per farmi la linguaccia e io guardandolo non vedo un numero, vedo bambino proprio come me. Apro gli occhi e mi trovo nella mia stanza, guardo gli oggetti sul mobile di fronte a me e non li vedo realmente. Mi sembra piuttosto di scorgere una fitta nebbia, è tutto bianco attorno a me, attorno a noi… si, perché in meno di tre secondi mi rendo conto di non essere solo. Al mio fianco vedo il mio piccolo amico , in trasparenza come una figura evanescente, come quello che ormai è diventato… un fantasma! Mi sorride e dolcemente si avvicina al mio viso, con quelle piccole e delicate dita mi asciuga le lacrime e io sento che mi sta parlando, mi dice di non piangere perché ora lui sta bene ed è con la sua famiglia. Mi dice che ora finalmente è felice. Richiudo gli occhi per un istante solo, certo del fatto che quando li riaprirò lui non ci sarà più, infatti lui non c’è, guardo dritto davanti a me e vedo solo la finestra dove fuori il vento sta facendo agitare gli alberi e scaraventare sul vetro piccoli pezzi di legno. Non c’è nient’altro. Mi alzo e decido di non leggere più il diario, non mi sento pronto… lo conservo nel cassetto vicino alla scrivania. Credo proprio che andrò a letto, sperando che domani sia un giorno migliore di quello che abbiamo appena trascorso.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Ho dormito sul divano, ieri notte, o meglio sono decisamente crollato per la stanchezza e il sonno perso nelle notti precedenti. Cerco una sveglia ma poi mi rendo conto di averne una solo in camera da letto e mi dirigo lì, al piano di sopra. Sbadiglio come un cucciolo di gatto affamato ma decido che la colazione può attendere nonostante i crampi allo stomaco. Mi ricordo di aver fato un sogno, c’era Frank che giocava con una palla rossa sporca di nero per metà, rideva divertito mentre io gli portavo una tazza di the caldo perché faceva un sacco di freddo. Ma il freddo era il pericolo minore. Ricordo di aver sentito dei rumori, passi pesanti di uomini cattivi con i loro scarponi numero 46, di quelli che non trovi ovunque ma non dimenticherai mai. Poco dopo due giovanotti sui trentotto anni si sono avvicinati a noi chiedendoci cosa stessimo facendo lì nel loro territorio, dicendoci che lì era vietato giocare perché quella zona era riservata alle cattiverie e agli ebrei sporchi e sudici. Uno di loro, con aria da duro, si è avvicinato a noi talmente tanto da riuscire a vedergli le piccole efelidi lungo il naso e sulle guance. Ha toccato la punta delle spalle di Frank con il fucile e io ho provato un senso di terrore incredibile, come se il fucile l’avessero puntato su di me o mi avessero minacciato di morte. L’altro, molto più alto e grosso del primo, ci parla in tono accusatorio da duro. -Voi chi siete? Cosa volete? Chi è lui? Non abbiamo mai visto questo bambino!- Non ci da’ nemmeno il tempo di respirare un attimo o di potergli rispondere che carica il fucile, prende la mira e spara. Vedo il mio amico stramazzato al suolo, inerme privo di vita, che guarda il cielo plumbeo per l’ultima volta con gli occhi vuoti, come orbite di un cieco. Non oso parlare, non riesco nemmeno a muovere un solo arto, rimango paralizzato mentre guardo il suo cadavere e il sangue che fuoriesce dal foro provocato dal grosso proiettile. Un colpo deciso alla testa, come se quel bambino non fosse altro se non uno stupido numero. Ma ai numeri non si può sparare… Le urla mi iniziano a salire dall’intestino, le sento mentre si arrampicano lungo l’esofago e arrivano alla gola, graffiandola e provocandomi un dolore atroce al cuore. Ormai lui è morto e non ho potuto fare niente per salvarlo. Mi siedo sul primo gradino, non riesco a salire tutti gli altri perché quel sogno mi ha scosso l’animo profondamente, come un temporale nel bel mezzo di una notte estiva. Piango mentre stringo in un pugno le lettere del mio migliore amico, quello che non potuto aiutare né in sogno e né nella realtà. Piango in silenzio nella mia casa che conosco quanto me, dove regna un silenzio paria al mio pianto, dove fuor tra il vento e il freddo pungente, qualche animale cerca riparo e qualcun altro questa notte stessa è morto senza che nessuno se ne sia accorto, perché molto spesso la morte non ha i testimoni giusti e passa inosservata. Squilla il telefono, lo sento appena perché da dove mi trovo io è piuttosto lontano. La cucina è dall’altra parte della casa e se non mi decido a muovere le gambe non riuscirò a rispondere alla chiamata. Non ho la minima idea di chi mi stia cercando, con Michael ho parlato giusto ieri sera e so che non mi cercherà tanto in fretta, la mia ex non penso che si ricordi il mio numero e gli amici che ormai non sento più da tempo credo stiano pensando a tutt’altro che chiamare me alle prime luci dell’alba. Lascio i documenti che mi ha fornito Michael sulle scale, li prenderò dopo per conservarli in un posto sicuro, e mi avvio verso la cucina a passo svelto. -Ma chi cazzo è che continua ad assordarmi?- dico esterrefatto dal mio stesso grido. Parlo a voce alta, come se la persona dall’altro capo del telefono possa sentirmi e darmi qualche minuto in più. Raggiungo l’apparecchio di corsa e quando prendo il mano la cornetta è quasi troppo tardi, l’ultimo squillo muore tra le mie mani e frettolosamente tendo l’orecchio per non perdermi la chiamata. -Pronto?- Si sentono dei bisbigli, dei rumori in sottofondo, qualcuno parla a voce alta e qualcun altro sembra stia spostando dei mobili ma non capisco bene cosa stia succedendo. Dopo qualche minuto sento una voce fin troppo familiare e avverto la presenza di qualcuno che mi tira metaforicamente un ceffone in pieno viso. La riconosco subito, e il primo pensiero che mi frulla in testa è quello di mettere giù, ma non lo faccio, penso a quello che mi ha detto Michael ed ha proprio ragione, il dovere è dovere e non si sfugge. -Daniel Daniel Schwarz?- -Proprio io, nessun omonimia- -Scusa se ti ho disturbato, ma sei una delle poche persone davvero perfette per collaborare con noi. Sei al corrente, immagino. Vorrei sputargli in faccia attraverso il telefono a quel bastardo di Frank. Chiamarmi per parlare di collaborazione, come se stessimo facendo volontariato o beneficienza! Che figlio di puttana. -Si, ieri ho visto Michael e mi ha detto tutto- - Bene allora è stato di parola- -Dimmi solo una cosa, Frank- Segue un minuto di silenzio che sembra non terminare mai. -Cosa vuoi sapere ancora?- -Perché?- -Perché cosa?- -Perché lo fate?- Sento una risata cristallina. Prolungata, come se qualcuno avesse appena raccontato una barzelletta anziché fare un discorso serio e questa cosa mi fa imbestialire. -Ti diverte, non è vero?- -Dio, sei così ingenuo Daniel. Non è una questione di divertirsi o meno, è qualcosa che va’ fatto. Quei... - - No dillo pure, quei bastardi? Quegli infami? Quelli che non meritano di vivere in grazia di Dio come te, è questo che pensi, giusto?- -Smettila, Dan so come ragioni ma in questo caso non ti appoggerò. Quegli ebrei sono ovunque cazzo. Lo vuoi capire che questa è la nostra Germania? Quella gente tra qualche anno prenderà il controllo della nazione e non si metterà problemi a farci fuori! E tu ti preoccupi per loro? Diamine, ragiona. Che cosa sei diventato, una specie di buon samaritano per caso?- -Che discorsi sono questi eh?Quelle persone sono stupende, e tu non sei di certo migliore di loro come non lo sono io.- -Dimentichi qualcosa forse- -Cosa? Accidenti!- -Siamo la razza superiore, non scordartelo mai. Il nemico va’ eliminato. Ti aspetto qua da noi tra due ore, non puoi rifiutarti, sei un soldato tedesco e se non ti avventurassi in questa esperienza con noi, il tuo rifiuto sarebbe come firmare la tua condanna a morte.- -A volte morire è molto meno doloroso che farsi comandare da chi si sente superiore- -fa come ti pare, sarai comunque dei nostri. Ciao- Non gli rispondo nemmeno e sbatto forte la cornetta scagliano il telefono dall’altra parte della stanza. Apro il frigorifero e mi verso un succo all’albicocca nel bicchiere con disegnati sopra i personaggi dei cartoni animati. Sorrido e mi sento ancora più triste perché quelle figure so piacerebbero ad un bambino. E allora penso ai miei due angeli, quelli che ho perduto per sempre. Penso a Frank che nei suoi undici anni non ha mai giocato con dei pupazzi o delle macchinine, non è mai andato alla pesca sul lago, non è mai uscito fuori dalla Germania e non è mai potuto entrare in un negozio qua nei dintorni perché era ebreo. Ripenso al figlio che non mai potuto stringere tra le braccia, che non mai potuto guardare negli occhi e a cui non ho mai potuto insegnare a leggere o a scrivere. Due lacrime scendono, silenziose e limpide, accarezzandomi le guance per poi insinuarsi sotto il mento e farmi il solletico sparendo tra le righe della mia camicia. Penso a cose che credevo di aver dimenticato e tutti gli avvenimenti mi piombano addosso talmente in fretta e senza avvertimento che devo reggermi ad una sedia per non cadere a terra. Ripenso a quanto era bella Helen la prima volta che la vidi sulla vecchia terrazza, avvolta da un tubino nero che le accarezzava le gambe come due mani leggere. Il suo profumo si mischiava con quello del mare, lei era la sirena ed io il marinaio e nessuno poteva separarci perché già dal primo istante sapevamo di appartenerci senza timore di perderci. Le serate passate a raccontarci i nostri viaggi fatti, i libri letti quando andavamo ancora al college ed eravamo solo due studenti che avevano paura di innamorarsi. E poi un faro, in un’isola conosciuta solo tramite le foto su internet. Una barca noleggiata qualche giorno prima senza sapere assolutamente in quale direzione andare. Ridere mentre si cercava di trovare l’interruttore della luce e un letto su cui potersi amare comodamente ad un passo dall’oceano e dalle piccole abitazioni del villaggio. Due settimane dopo scoprire di non essere più solo Daniel ed Helen ma anche due splendidi genitori di un maschietto sano. Sano, non malato di qualche rara forma di handicap, sano. Eppure il destino ci aveva voltato le spalle per la prima volta in dieci anni e non ci diede più l’opportunità di giocare le carte a nostro piacimento. Una caduta da cavallo mentre io ero impegnato a seminare morte e distruzione tra quelli che non meritavano di vivere secondo i canoni tedeschi, e mia moglie era finita all’ospedale senza che nemmeno me ne rendessi conto. Il sangue, l’odore dei medicinali sparso ovunque, il colore verde che compariva ovunque, stanze piene di gente che si dava da fare per salvare la vita ad entrambi. Bisturi, garze, la testa non voleva saperne di smettere di sanguinare, i suoi occhi chiusi mentre io non potevo far altro che guardare il suo bel viso da dietro uno stupido vetro a specchio. Paralizzato dalla paura. Il bambino era morto nel suo grembo a causa della caduta e la madre si era salvata per miracolo ma da quel giorno non sarebbe mai più stata la stessa. Da allora cambiò tutto, non ci siamo né più sentiti e né parlati. Un figlio può unirti per sempre o dividerti per tutta la vita. Sono passati cinque anni e lei ora vivrà sicuramente con un altro uomo che reputa migliore di me. Il nostro bambino, senza colpe, è volato il cielo senza aver visto nemmeno la luce del sole. Helen che mi dava le colpe di tutto, io ero troppo assente non l’avevo mai accudita o tenuta stretta a me per tutti i lunghi mesi e quando era quasi giunto il momento di partorire aveva rischiato di morire a causa di un bizzarro incidente. È strano come certi momenti della propria vita ci passino davanti agli occhi proprio quando siamo certi di averli rinchiusi definitivamente in un dei grandi cassetti della memoria. Abbasso gli occhi e mi rendo conto di non aver bevuto nemmeno un goccio del succo alla pesca. Vedo il mio riflesso nel piccolo cerchio, tra l’arancione scuro che mi sembra un mare di folla e pensando a ciò che dovrò fare oggi, vorrei affogarci all’istante. Appoggio il bicchiere sul tavolo e scaccio ogni tipo di pensiero inutile mentre mi dirigo alla camera da letto per cambiarmi la camicia ormai intrisa di sudore. Quando arrivo mi ritrovo faccia a faccia con un uomo molto magro, con dei capelli spettinati e un viso fin troppo sciupato. L’unica cosa che mi preoccupa davvero in quest’uomo non è il suo aspetto, ma il fatto di conoscerlo benissimo. Fuori un corvo gracchia debolmente per poi volare verso la sua meta, mentre io non so più chi sono e fisso muro lo specchio di fronte a me.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Quando si ritorna in un luogo dell’infanzia è come se non ci si è mai stati prima di allora. Tutto diventa nuovo, le strade che hai percorso da piccolo assieme ai tuoi genitori ora sono talmente diverse che non le riconosceresti nemmeno se ti mostrassero delle fotografie. I negozi in cui eri solito andare hanno ceduto il posto ad altri ben più forniti e spaziosi e ormai i commessi di un tempo che ti regalavano le caramelle sono stati rimpiazzati dai nipoti altrettanto gentili e amabili. Però, tra tutto questo insieme di cose, edifici ormai abbandonati, case in costruzioni dove prima ricordavi solo campi immensi in cui rotolasi e giocare, ora c’è qualcosa che all’occhio vigile e attento è alquanto familiare sia che lo si voglia o meno. Arrivo di fronte al campo di concentramento ormai vecchio e on i cancelli arrugginiti dal tempo, ma mentre leggo la scritta in alto ‘ Il lavoro rende liberi’ mi sembra di vederla lucida di vernice appena passata, di un nero penetrante ed opprimente. Uno stormo passa sopra la mia testa e mi chiedo come ci vedano loro da lassù, come quegli uccelli con i loro occhi rossi e rotondi scorgano questo luogo, ma so già che loro guardano da un’altra prospettiva. Gli animali si differenziano da noi per tantissime cose, aspetto, intelligenza, sensibilità, ma forse le qualità incredibili che li contraddistinguono da noi sono proprio l’amore, il senso di fraternità, tolleranza e umiltà. Non farebbero mai del male a nessuno, non conoscono sentimenti d’odio o razzismo e mai si sentirebbero al di sopra degli altri. Gli uomini dovrebbero imparare molto da dare anziché usarli come cavie di laboratorio per testare prodotti spesso inutili e pericolosi. Scendo dalla macchina e il gelo mi trafigge come mille lame affilate. I fiocchi cadono leggeri dolcemente sul mio cappello e sui miei indumenti, trasformandomi in un vero e proprio pupazzo di neve. Mio figlio sarebbe stato contento di mettermi una carota al posto del naso e aggiungere una bella sciarpa a righe rosse e verdi attorno al collo per proteggermi la gola.Anche Frank l’avrebbe fatto, lui che era il figlio della neve mentre la calpestava scalzo con quei piedi neri di fuliggine e terra. Mi avrebbe abbracciato perché ci volevamo bene, mi avrebbe stretto forte come se fossi sua madre e avrebbe cercato in me il calore che non riusciva ad avere da nessun’altro. -Daniel- Mi giro verso la voce che mi chiama e vedo il mio amico Tom con la sua vecchia divisa e i capelli quasi rasati a zero. -Ciao Tom, come va’-? Mi guarda imbarazzato e so che vorrebbe rispondermi dicendo ‘ Come vuoi che vada?’ ma non dice niente. -Ti dirò io come va’, a me potrebbe andare meglio. Vorrei dormire e svegliarmi quando tutto questo sarà finito.- -Ma non sapremo mai quando sarà finita- -Lo so- -Senti Dan, io non sono per niente d’accordo, ok? Voglio che almeno questo tu lo sappia- Lo abbraccio e ritrovo il mio vecchio amico di sempre, che non è cambiato nonostante tutto quello che è successo, perché la gente vera rimane se stessa anche se ha tutto il mondo contro. -Andiamo da Hans, ti sta aspettando- -Dov’è?- -Dove rimane praticamente venti ore al giorno, nel suo ufficio. Ci sono anche gli altri, ma ti avviso… vecchio sta piuttosto male, è quasi in punto di morte- -So già tutto. Questione di karma- Alza un sopraciglio e spalanca le braccia interdetto. -Mi ha informato Michael, qualche giorno fa’- -Non sapevo niente- Il suono di un telefono molto vicino ci interrompe e dopo pochi secondi vedo Tom che si controlla in tutte le tasche ma non riesce a trovare nulla. -Accidenti- Poi trova il telefono in un piccolo taschino interno e fa’a ppena in tempo a rispondere alla chiamata. -Pronto?- Sento qualcuno che grida parole che non riesco a decifrare, ma il tono sembra quello di una persona con poca pazienza. -Si, si stiamo arrivando, no… ancora, no. Dacci due minuti e siamo li. Calmati!- Chiude la conversazione e sbuffa guardando in alto come uno che non ne può veramente più di tutto quello stress continuo. –Era Hans, giusto?- -Si, andiamo, o quando ci vedrà ci pietrificherà con una sola occhiata, quel lurido bastardo!- Lucfficio di Hans Von Trier è uno stanzino piccolo ma ben arredato. I mobili antichi riempiono ogni spazio, dagli armadi ove riporre fascicoli e documenti ai tavolini con le piante ben curate per finire con due scrivanie in legno massello risalenti al primo novecento. Sembra di essere in una vecchia libreria nonostante di libri se ne vedano ben pochi, ma l’odore di umido che aleggia nell’aria è paragonabile alle grandi stanze in cui riporre enciclopedie e manuali di ogni genere. Hans è chino sulla sua scrivania personale, quella posta al centro della camera e non si è nemmeno reso conto che siamo arrivati tanto è occupato dal compilare una miriade di fogli e a controllarne altri ancora chiusi nelle apposite cartelline trasparenti. Tom avanza piano e tossisce per attirare l’attenzione. -Oh eccovi finalmente, saputelli. Non ci speravo più, avevate altro di meglio da fare forse?- Ci squadra dalla testa ai piedi e poi è su di me che si concentra, con una faccia disgustata e divertita allo stesso tempo. Sta fumando i suoi sigari preferiti,quelli che ogni mese gli spedisce suo fratello Walter direttamente da Cuba. -Non terrai quella roba per molto Dan, hai i giorni contati. Tempo un giorno e avrai anche tu una bella divisa delle SS- Lo guardo serio mentre lui non toglie mai quel sorriso sornione dalla faccia. -Certo, perché io vi dico che come tutte le grandi vere aziende anche noi dobbiamo avere i nostri bei camici puliti e profumati, giusto? Dobbiamo sentirci tutti uguali ed essere sempre in ordine!-Appoggia il sigaro sul posacenere e congiunge le mani in modo serio e diligente. -Sedetevi- Sembra che non abbia nemmeno sentito le mie parole ma non dico niente. Ci sediamo di fronte a lui e almeno riusciamo a tranquillizzarci un po’ ed essere meno nervosi, non voglio che Hans capisca che sono terrorizzato, non voglio dargli questa soddisfazione. -Forse tu non hai capito niente della vita- Guardo il mio amico che mi fissa interdetto quanto me senza capire cosa stia succedendo e soprattutto a chi è riferito il capo. -Ce l’ha con me, per caso?- -No Tom, sta’ zitto nessuno ti ha interpellato. Ce l’ho con il tuo caro amichetto qua, il paladino della giustizia, l’angelo custode degli ebrei. Tu non hai capito niente di come va’ la vita, sei uno stupido se pensi che la tolleranza combaci con quella razza di merda- -Sei tu che non capisci il senso della vita. Uccidere tutta quella gente non ti salverà la vita né ti farà sentire un uomo migliore hai capito? Vuoi dimostrare agli altri che sono sei conigli e tu invece il lupo cattivo o il cacciatore?- -Aahahahha sei proprio uno stupido ingenuo. Voglio difendere la mia terra e basta. Non permetterò che della gente inutile la inquini con la loro religione, i loro usi e le loro stupide facce- -Adesso basta Hans! Daniel, cosa vorresti dimostrare al mondo intero eh? Sei davvero senza cuore- Prende il sigaro ormai quasi consumato e se le mette tra le labbra dandogli un espressione ancora più odiosa e spregevole. -Io non vi ho chiamati perché mi facciate sapere qual è la vostra opinione, vi ho interpellati per assegnarvi il vostro incarico. Da domani entrerete nel vivo della situazione, vi aggirerete per tutto il campo ed eseguirete i miei ordini proprio come un tempo hanno fatto i nostri padri e nonni e bisnonni- -Significa che se noi non vogliamo fare una determinata cosa, non possiamo opporci e dobbiamo star zitti come se in gioco non ci siano delle vite umane ma dei burattini?!- - è tutto sbagliato Hans, pensaci bene. Nel 1850 i nostri nonni hanno distrutto milioni di vite e per cosa? Per una questione morale, ma non esatta! Non è normale pensare di sterminare una popolazione intera solo perché non la si ritiene alla proprio altezza, è un comportamento assurdo. Ti invito a ripensarci per l’ultima volta. Hans sorride scuotendo il capo in modo nervoso e si agita sulla sedia, quasi pronto ad esplodere da un momento all’altro. -Io vi invito a riflettere piuttosto! Non potete dire di no, non c’è alcuna possibilità che voi vi rifiutate e con questo ho finito, non c’è altro da aggiungere. Domani vi farete trovare all’interno del campo nel capannone B dove vi mostrerò tutte le persone che ho già collocato al suo interno- Il modo in cui si esprime è fuori da ogni normalità, è incredibilmente sadico e bastardo. Per lui tutto questo dolore inutile non solo è naturale ma anche doveroso al fine di preservarci! Come se stessimo parlando di un virus e non di gente normale. Rimaniamo in silenzio e l’unico rumore che ci permette di distrarci è quello dell’orologio appeso alla parete a forma di casetta da cui fuoriesce un simpatico uccellino. Il suo cucù mi fa’ sorridere per un attimo, ma se mi guardassi allo specchio vedrei il volto di un uomo terrorizzato. -Chi tace acconsente. E ora se non vi dispiace dovrei terminare di controllare la lunga lista di nomi che mi sono pervenuti oggi, sapete, sono davvero moltissimi- -Lurido figlio di- -ALT mio caro Daniel, ti ricordo che sarai proprio tu assieme agli altri tuoi colleghi a fare il grande lavoro, quindi se proprio ci tieni a definirmi così, vorrei farti sapere che non sono il solo ad esserlo- Mi guardo intorno e vedo alcuni visi tristi, altri abbassati con lo sguardo rivolto verso le scarpe appena lucidate, come dovrebbe averle chi lavora in un albergo di una notevole importanza e non certo chi si sottomette senza replicare. Guardo i miei amici, quelli che non proferiscono parola, che se ne stanno immobili in un angolo accanto alla stufa in legno, nel piccolo spazio che ci tiene tutti uniti e stretti. -Gustav! Verner! Non dite niente?? Non potete essere d’accordo con lui! Non voi. Noi non siamo delle cattive persone cazzo. Dobbiamo porre fine a tutta questa faccenda, non possiamo stare zitti. E tu Greg? Proprio tu che avevi perso la tua più cara amica in questo modo, non puoi non far niente, ti prego.- Ormai sono in piedi, sperando che qualcuno dei miei vecchi amici mi ascolti e cambi idea, mi dia retta per una buona volta evitando di spargere tanto sangue innocente. Ma non vedo nessuno disposto a fare qualcosa. -State facendo il gioco più sporco che io abbia mai visto!- Tom mi mette una mano sulla spalla ma io non la vedo nemmeno tanta è la rabbia e la frustrazione. -Andiamo Dan, non possiamo fare nulla, siamo due contro tutti, smettila- -Siete dei vigliacchi e basta- Hans continua a fumare il suo sigaro e a far finta di niente compilando vari moduli mentre mi rendo conto che Greg ha finalmente deciso di sollevare la testa e di non fare lo struzzo. -Daniel, ormai è stato decretato. Non puoi e non possiamo tornare indietro- -Che significa?- Verner guarda negli occhi Greg e poi distoglie lo sguardo puntandolo dietro l sue spalle, con una faccia assorta e allo stesso tempo colpevole. -Vedi- continua Greg -La corsa settimana tutto l’esercito, compresi noi, abbiamo firmato affinché rientrasse in vigore la vecchia legge del 2840, quella in cui si diceva che ogni ebreo residente in territorio tedesco dovesse venire soppresso entro due mesi dalla sua cattura nel campo di concentramento. La legge è rientrata in circolo dopo ben trent’anni si è vero, un periodo di tempo lunghissimo e forse non è la legge migliore che sia stata approvata, ma non si poteva far altro che firmare.- -E voi come degli scolaretti di prima elementare avete fatto i vostri compiti altrimenti il maestro vi dava i colpi sulle mani con la bacchetta, non è vero?- Qualcuno bussa alla porta e mi giro per vedere chi ha interrotto il mio discorso. -Avanti- è Hans a parlare mentre il fumo lo avvolge quasi completamente, facendolo assomigliare ad un fantasma nella nebbia. La porta si spalanca ed entra Michael con la sua nuova divisa verde militare e l’immancabile svastica rossa sul cuore, come se fosse una sorta di fazzoletto in un abito elegante da sera -Scusate il ritardo- Hans gli fa’ cenno di accomodarsi accanto a noi. -Stavamo chiacchierando e ad un certo punto Daniel ha avuto la brillante idea di fare la morale a tutti quanti- -michael, diglielo che anche tu la pensi come me. Non è giusto che tutto questo accada, ti prego, diglielo!- Non mi guarda nemmeno e inizia a giocherellare con le dita, torturandosele in ogni modo per il nervosismo che prova. Poi si alza e ci guarda con gli occhi colmi di lacrime ma senza versarne nemmeno una. -IO… non posso rifiutarmi Dan. È vero tutto quello che ti ho detto, che è un’ingiustizia e che non è corretto, ma questo è il nostro lavoro- Non posso crederci. -Tu mi stai dicendo che per sfamare la tua famiglia ne distruggeresti altre migliaia solo perché per lui non valgono a nulla?- Hans smette di fumare e si alza venendomi incontro, si avvicina a me con fare minaccioso come è solito fare con tutti quelli che considera non ai suoi livelli. -Senti, è ora che te ne torni a casa femminuccia. Qua non è posto adatto per parlare di cose da donnette o di lasciarsi andare a sentimentalismi o discorsi strappalacrime. Quasi lavora ed è meglio se inizi a fartene una ragione- Si allontana ma solo dopo aver spalancato la porta facendoci cenno di andarcene il più in fretta possibile. Non mi muovo e vedo che solo alcuni vanno via, mentre Michael e Tom rimangono nell’ufficio assieme a me, muti come pesci. -Dan, il nostro incontro dell’altro giorno è stato tutta una farsa, ti ho detto la verità. Io non credo che tutto questo vada fatto, ma cosa potremmo farci noi? Opporci forse? Rischiamo di non avere più una casa, una vita, una famiglia. Potrebbero allontanarci per sempre dalla nostra terra e non farcela rivedere mai più- Questa è la terra degli ingiusti- Abbassa lo sguardo a terra e non aggiunge altro. -Fuori di qui, immediatamente, mi avete capito? Se dovete lamentarvi sul vostro lavoro fatelo al di fuori di queste mura e di queste orecchie- Hans alza il tono di voce e sembra in tutto e per tutto un orco delle fiabe dei fratelli Grimm, solo che questa è la realtà e non mi sembra di vedere un lieto fine. -Me ne vado subito Hans, Michael, andiamo- Guarda Hans e questo non mi piace per niente, perché tra di loro mi sembra di scorgere una strana complicità che non mi sarei mai aspettato dopo il discorso fatto da poco. Mi segue e andiamo via, chiudendo forte la porta e sentendo alcune frasi incomprensibili pronunciate da Hans mentre si capisce chiaramente che sta scaraventando a terra fascicoli e documenti. -Il capo è furioso- -è meglio se non dici nulla, Michael. Mi si para davanti e non posso far altro che bloccarmi senza opporre resistenza -Dan ti prego non odiarmi. Se faccio capire a quel bastardo che non sto dalla sua parte sono spacciato. Non ho più niente, capisci? Non ho più una vera famiglia, non ho dei parenti dei genitori veri, mi sento abbandonato dal mondo intero, lo capisci questo? -Non capisco come possa farti star meglio aiutare Hans- Non mi fa star meglio, ma almeno posso rimanere in Germania! Non voglio capitare in un posto lontano e ritrovarmi solo. Qui ci sei tu e tutti gli altri. È un periodo difficile per tutti, per me lo è ancora di più. Sai cosa mi ha detto la signora Wilma? Che non mi aveva raccontato la verità perché a volte questa fa’ male e per proteggermi ha mentito per tutti questi anni. -Sai cosa ti dico Michael? Che in questa vita siamo tutti colpevoli di qualcosa e forse tacciamo per non dover mentire a noi stessi- Rimane in silenzio mentre i primi veri fiocchi di neve cadono ovunque trasformando il campo di concentramento in un sorta di igloo ad alta temperatura. Fa’ piuttosto caldo nonostante tutto ma io continuo a sentire il cuore ghiacciato.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


Arrivato a casa decido di farmi un bel bagno caldo sperando che mi faccia bene. Da chi ho sentito questa frase? Ah si, da mia madre. Quando ero piccolo e non potevo andare a scuola perché avevo preso una brutta influenza o mi faceva male la pancia, preparava una camomilla bollente e riempiva la vasca per farmi sguazzare dentro come un pesce. Non ho mai amato particolarmente l’acqua o nuotare nel lago, ma quei momenti erano così dolci e tranquilli che mi immergevo fino alle orecchie, lasciando giusto le narici fuori per poter respirare. Rimanevo così a farmi avvolgere dall’acqua calda e dalla schiuma profumata, anche per un ora intera e dopodiché uscivo avvolgendomi al grande accappatoio a nido d’ape, quello regalatomi da mia nonna con i pupazzi gialli. E constatavo che la mamma ha sempre ragione, che dopo un bel bagno si sta meglio e passa tutto, anche i malumori. Ora mia madre non c’è più ma ho ancora il mio vecchio accappatoio di quando avevo otto anni. Salgo in camera da letto e arrivo davanti al grande armadio a muro, con delle piccole rose azzurre dipinte sopra, lo apro e l’odore di chiuso mi investe come una folata di vento. Da quanto tempo non controllavo questa roba? Sicuramente da parecchi mesi, eppure non so dirlo con certezza Rovisto un po’ tra i vecchi abiti tra la biancheria intima, asciugamani bianchi e celesti, lenzuola di mia madre usate nel lungo periodo in cui era ammalata e poi tra tutto questo ben di Dio lo vedo e mi sembra di guardarlo con gli stessi occhi di quando ero piccino ed ero ancora innocente e puro. Ripenso a quante volte ho passato la mano rossa di calore sul vetro appannato e ho scritto le iniziali della ragazzina che mi piaceva ma che non avevo il coraggio di invitare a casa a giocare con me e poi mia mamma arrivava e cancellava tutto. Mi vien da pensare a quando avevo raccontato a Frank che quella ragazzina un giorno sarebbe diventata mia moglie e avremo fatto il giro del mondo. Lui rideva divertito e mi diceva che ci saremo riusciti e che non dovevo preoccuparmi di niente perché a chi credere davvero nei sogni la fortuna sorride sempre. E io ci avevo creduto per davvero, e quella donna l’avevo sposata ma non eravamo riusciti ad essere in tre per quello scherzo del destino. Helen dai capelli biondi come raperonzolo. Forse mi rendo conto solo adesso che Frank era un bambino diverso da tutti gli alti e per questo non è più con me, con noi, non ha potuto sposare una donna, non le ha mai potuto regalare un mazzo di rose o portarla fuori a cena, perché agli angeli è consentito solo rimanere nel cuore di chi li ricorda ancora e volare in alto, sempre di più. L’accappatoio se l’era infilato solo una volta, quando l’avevo portato di nascosto a casa mia ed ero riuscito a fargli fare un bel bagno caldo come forse non faceva da quando aveva solo un anno. Ora lo indosso io e il contatto fresco mi fa accapponare la pelle riempiendola di puntini in tutte le braccia e nelle gambe. Vado in bagno e inizio a far scorrere l’acqua bollente, e in un attimo la stanza si trasforma in una vera e propria sauna. Mi spoglio e mi siedo al centro della vasca, tenendomi forte le ginocchia con entrambe le braccia, come facevo da piccolo quando aspettavo che la mamma arrivasse ad insaponarmi la schiena e lavarmi i capelli facendomi ridere quando mi spruzzava l’acqua in faccia. La schiuma a volte si insinuava nelle narici facendomi starnutire e provocando una risata generale dove poi mia madre mi faceva calmare dicendomi che era ora di uscire perché la cena era quasi pronta e non voleva che la trovassi fredda. L’acqua inizia ad arrivarmi alla pancia, mi distendo completamente e chiudo gli occhi senza pensare a nulla, quasi non ricordo di essere in un bagno e di essere immerso in una vasca comoda e calda. Mi rilasso e in un attimo l’acqua mi ricopre quasi tutto il corpo, arrivando al collo e tappandomi le orecchie. Mi sollevo giusto il tanto per sentire i rumori intorno a me e poi mi ritrovo in un altro luogo a più di vent’anni di distanza da qui. Non c’è l’acqua calda, anzi fa piuttosto freddo e nessuno sa che mi trovo qui. Se qualcuno della mia famiglia dovesse scoprirlo non potrei più tornare e mi metterebbero in castigo per diverse settimane. Sto tremando ma non mi copro perché c’è il mio migliore amico che ne ha più bisogno di me, io se voglio posso tornare in camera e avvolgermi nel letto caldo, lui non può e quindi ho portato una grossa coperta per le notti gelide come questa. Lo vedo tra tutte le persone ammassate che cercano di riposare ma non riescono a chiudere occhio per oltre un minuto. -Frank! Sono io!- -abbassa la voce, ragazzino, qui non si gioca- È un uomo molto pallido a parlare, smunto e sicuramente denutrito. Non ha forze nemmeno per reggersi in piedi. -Mi scusi, sto solo cercando il mio amico. Andiamo Frank, ho qualcosa per te!- Si fa spazio tra tutta questa folla disperata e mi viene in contro sorridendo. -Ciao Dan! Che bello vederti!- Sorrido e mi guardo intorno Uomini morti che piangono senza più una famiglia a cui pensare, uomini a cui hanno tolto tutto, persino la propria dignità e ai quali hanno affisso al petto un triangolo, ognuno di colore differente. -Perché hanno quei simboli sul torce?- -Ah quelli dici, perché ognuno ha la propria colpa senza aver commesso alcun crimine- -spiegati meglio- Mi indica tutte quelle persone con un dito. -Vedi quegli uomini laggiù che si stringono forte?- Ci sono due ragazzi che credo abbiano più o meno trent’anni mentre dormono abbracciati e piangono in silenzio- -Si li vedo- -sono omosessuali, l’ho sentito dire dagli altri ma non so bene che significhi- -Forse vuol dire che si mano tra di loro- -Può darsi. Loro hanno il triangolo rosa per questo motivo. Mentre quei quattro uomini che sono distesi su quella brandina sono dei criminali, infatti spesso ho paura che possano uccidermi- -Non lo faranno, vedrai- -Ti credo. Loro hanno il triangolo verde per questo motivo- Non capisco come si possa etichettare delle persone in questo modo scegliendo un colore per ogni crimine che li caratterizza. Rimango esterrefatto. -Io invece, dato che non sono un assassino e ancora sono troppo piccolo per scegliere di amare qualcuno ho solo questa piccola stellina. È sempre più bellina di un triangolo, giusto?- Sorride e non so cosa dirgli perché la sua allegria e voglia di vivere sono davvero incredibili. Rimane tutto il giorno e tutta la notte chiuso in una baracca eppure basta pochissimo per farlo sorridere e riesce a scherzare nonostante tutto il casino attorno. La stella di Davide è l’unica a fargli compagnia quando non ci sono io, eppure non è niente di positivo perché non è giusto che un bambino debba vivere ogni giorno della sua vita con una sorta di marchio imposto dagli altri. L’unica colpa che ha di essere ebreo, ma si può incolpare davvero qualcuno per la sua razza o religione? La coperta che gli ho coperto è a quadri enormi, bianchi e verdi con dei piccoli orsacchiotti disegnati sopra. -Grazie Dan, sei un amico- -Figurati, sei un ghiacciolo- Rabbrividisce e gli metto la coperta intorno alle spalle, facendolo quasi sparire come un mago. -Dio, sei talmente secco che non riesco quasi a trovarti sotto questa roba- -Non mangiamo quasi niente, lo sai, sono abbastanza denutrito. Ci tengono tutto il giorno chiusi al buio dentro quelle cavolo di baracche con addosso solo e sempre questi stupidi pigiami a righe e non ci danno altro che un tozzo di pane nero- -Mi dispiace non poter fare niente per voi- -Oh smettila, fai già tanto. Se tua madre dovesse sapere che hai rubato da casa questa magnifica coperta per portarla a me non so cosa potrebbe farti. Stai rischiando parecchio- -Non lo saprà mai tranquillo- Continuiamo a camminare lungo del sentiero di ciottoli ormai candidi dalla neve che scende ad una velocità incredibile e ci ritroviamo davanti al filo spinato che come sempre ci divide. -Il giro finisce qui per oggi, grazie, Dan- Lo abbraccio e vorrei tanto portarlo a casa con me e farlo sedere alla nostra grande tavolata così da potersi scaldare lo stomaco e recuperare qualche chilo, ma sono costretto a separarmi da lui come ogni volta da due mesi a questa parte. -Su, ora vai, non vorrei che qualcuno ti vedesse- -Si, ciao fratellone- Gli sorrido e lo vedo correre via diretto verso quella prigione che chiamano baracca. Appena tornato a casa trovo mia madre e mio padre che preparano la tavola silenziosamente, lei con il suo tailleur blu impeccabile e il rossetto rosso, lui con ancora indosso la divisa. -Ciao Dan, finalmente! Io e tua madre iniziavamo già a pensare che ti fossi perso. Inizio ad agitarmi e sento il sangue affluirmi alla testa colorandomi il viso di un rosso acceso. La mamma si avvicina e con aria spaventata mette una delle sue graziose mani piene di gioielli sulla mia fronte. -Stai scottando, hai la febbre Dan, dove sei stato? Non hai visto il freddo che fa?- Non la guardo perché so benissimo che se incroci lo sguardo di una mamma lei scopre sempre la verità. Con i padri inverse, loro non si accorgono di ciò che succede ai propri figli nemmeno impassibili a leggere le notizie sul giornale o a fumare la pipa in totale silenzio. –Dan!- mi dice mia mamma -Si?- -Non voglio mai più che tu esca con questo freddo senza prima esserti coperto bene, fila a letto, non mangerai niente per punizione.- Non dico una sola parola, mi avvio silenziosamente verso la camera con un grosso sorriso stampato sulle labbra. Sono già distante da loro due ma riesco a sentire le parole di mia madre urlate a gran voce. -Tuo figlio ha qualcosa di strano, non me la racconta giusta! Si è mai visto, dico io, un bambino che sorride in un momento del genere?- Mio padre sospira pesantemente e sento il rumore del giornale posato sul tavolo. Inizia la cena. Io vado a letto sorridendo e con lo stomaco vuoto perché so che almeno per una notte potrò sentirmi anch’io un ebreo a digiuno senza aver fatto niente di male.

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


L’acqua inizia a raffreddarsi ma non quasi niente, perché con la mente e con il corpo non mi trovo dentro questa vasca da bagno, sono in un campo enorme dove vari uomini stanno lavorando la terra mischiata con la neve gelida che accarezza le loro schiene nude ricoperte di graffi profondi. Stringo forte gli occhi e mentre in questa stanza la schiuma mi solletica le orecchie, là fuori, a trent’anni di distanza, il freddo mi congela il naso trasformandolo in un enorme punto rosso insensibile. Aspetto dietro il filo spinato, aspetto mentre il gelo si insinua nelle scarpe e mi tortura i piedi senza però impedirmi di muovermi per non rischiare che me li debbano tagliare via entrambi. Poi lo vedo, il mio amico Frank, mentre cammina a passo svelto facendosi spazio tra tutta quella gente disperata che lavora spaccandosi le mani tutto il giorno finché non sanguinano copiosamente. Alzo il braccio per farmi notare e mi viene incontro correndo, nascosto per metà dalla coperta che gli ho regalato qualche giorno fa’. -Ciao Dan- Mi abbraccia e sento che trema, quasi come sempre. Nonostante abbia indosso il mio regalo ha freddo come se fosse completamente nudo, quasi come Gesù Bambino nella culla. -Ciao fratellino, come stai?- Starnutisce e mi guarda con un occhio mezzo chiuso. –insomma, ho il raffreddore e l’occhio gonfio. Credo di essermi beccato un colpo di’aria. -Non ti ha aiutato nemmeno la coperta?- -Macché, l’ho usata per mezz’ora e poi i soldati cattivi ci hanno controllati nel cuore della notte e l’hanno trovata. La stavano per bruciare quando ho avuto ‘idea di raccontare che dovevo restituirla ad un bambino tedesco che l’aveva persa- -Mi dispiace davvero, ma dimmi, sei pronto? Oppure non te la senti di seguirmi? Si avvolge meglio e cerca di guardarmi sforzando l’occhio dolorante. -Si, andiamo. Ho deciso che non mi importa se ci scoprono- -Siamo nella stessa situazione- -Eh no Dan, è ben diversa la cosa. Se mi beccano io verrò sicuramente ucciso, bisognerà solamente decidere il metodo di tortura e il come farmi fuori il prima possibile. Mentre tu al massimo andresti in giro con qualche livido che ti passerà nel giro di qualche giorno, ma poi sarà tutto come prima.- -Ti sbagli, niente sarebbe come prima. Se dovessi perdere un amico caro come te vorrei piuttosto morire- Rimaniamo in silenzio a guardare i fiocchi di neve che ci cadono sul viso bagnandolo completamente, mentre quei poveri schiavi continuano a lavorare senza tregua. -Dan, posso dirti solo una cosa?- Mi giro a guardarlo in modo serio -Dimmi pure- -Perché?- -Cosa perché?- Credo di non capire cosa intenda. -Perché fai tutto questo per un povero ebreo?- Bastano quelle parole affinché il mondo mi crolli addosso come un grattacielo dopo un attentato. -Tu sei amico mio Frank e con gli amici si cerca di fare il possibile, si da’ il cuore e l’anima sempre, in ogni situazione- -Io tuo amico, va bene. Però tu sei tedesco, tutta la tua famiglia lo è come lo sono i tuoi antenati. Mentre io, i miei genitori, non siamo altro che degli ebrei senza alcun diritto- -Non parlare così. Non c’è differenza tra un bambino tedesco ed uno ebreo, entrambi sorridono mentre giocano e assieme si rialzano quando cadono ferendosi. Solo gli adulti rovinano tutto e non capiscono che siamo tutti uguali! Ma gli adulti comandano su di noi Dan! Sono stati loro ad uccidere mia mamma e mio padre il mese scorso- Inizia a piangere e le lacrime bagnano il tessuto morbido della coperta già inzuppata per metà dalla neve che lentamente si è sciolta. -Non sono tutti uguali Frank. Quelli sono adulti cattivi, ma ce ne sono altri che si comportano bene, non devi pensare che il mondo sia fatto solo di persone malvagie.- Si siede per terra e mi guarda dal basso. -Lo credi per davvero?- -Ma certo fratellino. Si alza e mi butta le braccia al collo quasi facendomi perdere l’equilibrio. -Sei il mio angelo, sei il mio angelo fratellino!- Rido e mi guardo intorno perché temo che i nazisti possano vederci e separarci, ma prima di tutto ho paura che possano punire lui. -Tu sei un angelo, Frank- -Un angelo ebreo ha le ali come un angelo tedesco?- -Certo, gli angeli sono identici e si vogliono un gran bene tra di loro- -Andiamo a casa adesso- La neve continua a scendere sempre più velocemente ricoprendo di un manto bianco e soffice i campi, i fucili dei soldati, le case vicine e e lontane e due bambini schiavi dei più grandi che corrono con quanto più fiato hanno in gola, in cerca di un po’ di felicità. A casa, al riparo dagli uomini cattivi e dal resto del mondo. -Sh fai silenzio Frank, anche se i miei genitori non ci sono potrebbero sentirci i vicini, quei vecchiacci antipatici- Lui entra nel grande bagno ben arredato e lussuoso, con i rubinetti dorati e la vasca bella spaziosa e accogliente. Si guarda intorno con occhi spalancati e ancora non crede di essere in quella stanza che per lui significa quasi il paradiso. -Io non ci sono mai stato in una casa così bella, sei molto fortunato- -Grazie, adesso ti aiuto a lavarti- Lo faccio sedere sul bordo sulla vasca, prima di chiudere la porta guardo da un lato e dall’altro per assicurarmi che i miei genitori non siano ancora tornati e torno dentro chiudendo a chiave. -Hai mai fatto il bagno prima d’ora Frank?- Ride di gusto e cerca di leggere le etichette dei prodotti che usa la mamma per pulire i pavimenti -Vi lavate con questi?- -No, quelli fanno male alla pelle. Non devi nemmeno avvicinarti alla candeggina, guarda, questi sono quelli che ti servono- Mi giro e apro il mobiletto bianco sistemato vicino alla lavatrice ora completamente in disuso. -Ecco, c’è questo alla lavanda, questo al mughetto e quest’altro al talco, quale vuoi?- -Ma Dan, secondo te mi importa qualcosa? Lanciamene uno e basta. Io tutti i giorni mi lavo con dell’acqua fredda e un pezzo di sapone che ormai dovrà avere più di due anni, per non parlare del fatto che dobbiamo usarlo in sette e pure in fretta.- -Scusami, a volte sono proprio uno stupido- -No, sei tedesco, non puoi capire- Me lo dice con il sorriso sulle labbra, facendomi capire che mi giustifica per quelle parole insensate. L’acqua inizia a scendere, bella calda per rincuorare gli animi in questa giornata così fredda. –Io vado fuori, quando hai finito bussa e io arrivo subito. Gli asciugamani sono alla tua destra- -Va bene. Senti, credo che ne approfitterò un bel po’,non mi capita mica ogni giorno di avere un bagno vero e proprio. -Lo so- Esco e questa volta non chiudo la porta a chiave, la abbasso soltanto e mi siedo sui primi gradini aspettando che mi chiami. Appoggio lievemente la testa alla parete colorata di rosa antico e chiudo gli occhi mentre il martellare del cuore mi rimbomba nelle orecchie. Paura. Paura che arrivino i miei genitori, che abbiano dimenticato le chiavi di casa o qualcos’altro, paura che la mamma mi guardi in faccia e capisca che le sto nascondendo qualcosa perché le mamme si accorgono sempre di tutto. Terrore che entri in bagno e veda che un bambino ebreo è nella sua cara vasca a sporcare e contaminare tutto. Mentre le paure e i pensieri circolano in modo frenetico nella mia mente, come mille luci in un tunnel nerissimo, mi assopisco e mi distendo sugli scalini. Dopo un tempo che sembra interminabile, sento delle mani fredde che mi toccano la pelle delle braccia, mi strattonano prima dolcemente e poi sempre più forte fino a svegliarmi spaventato e inquieto. Immagino mia madre mentre mi guarda con una faccia scandalizzata e mi tira un ceffone graffiandomi con quelle sue unghie impeccabili e sempre laccate, la vedo mentre inizia a d urlare come una pazza perché ha scoperto che suo figlio nasconde un amico particolare nella sua casa, solo per potergli dare un piccolo aiuto nonostante lei non voglia. Mi giro e vedo non mia mamma ma una figura molto più piccola, che mi sorride con gli incisivi spezzati a metà. -è da mezz’ora che ti chiamo ma non rispondi mai! Non hai fatto altro che dormire eh?- Mi guarda fisso mentre si friziona i capelli cortissimi con un asciugamano giallo e pulito, non come quelli che usi tutti i giorni. Mi stiracchio e sento le ossa del collo e della schiena scricchiolare come le assi del pavimento. Un dolore forte alla nuca mi preme come se qualcuno mi avesse posizionato un masso pesante, un macigno. Devo aver dormito tutto il tempo in una posizione scomodissima,ma come ho fatto a non rendermene conto? -Scusami fratellino, davvero, ma evidentemente sono crollato per la stanchezza di oggi. Hai bisogno di qualcosa?- gli dico, premurosamente. -No, sto benone- -Ah ora che ci penso! In bagno ti avevo preparato un accappatoio comodo che dovrebbe essere perfetto per te, vado a prendertelo, non rimarrai tutto il tempo con quell’asciugamano fradicio addosso, così ti prenderà un colpo!- -Va bene ti aspetto qui- Attraverso il piccolo corridoio dove sule pareti sono appesi i ritratti di alcuni nostri antenati e un quadro che raffigura dei girasoli bellissimi, talmente belli da riuscire a sentirne perfino il gradevole aroma dolciastro. Apro la porta del bagno e vedo tutta l’acqua che scorre nella vasca, chiudo i rubinetti e la faccio scendere giù ripulendo via tutta la schiuma per non lasciare la minima traccia. Prendo l’accappatoio che avevo lasciato sul mobile accanto al lavandino e lascio la camera a passi veloci. Quando torno nel pianerottolo trovo Frank che ormai ha i capelli completamente asciutti ma continua a tremare e sentir freddo. -Tieni eroe, è per te- Glielo lancio e lo acchiappa al volo con le sue braccine dalle ossa fragili e smunte, come un piccolo cerbiatto -Grazie, con questo si che si sente un gran caldo. Beato te- Mi guarda in modo molto serio. -Scusa, non volevo- -Non fa’ niente, hai ragione, anzi sei fin troppo paziente con me. Non avrei preteso che tu venissi qua da me, dopotutto questa è la famiglia che ti tiene prigioniero, i miei genitori ti stanno facendo morire e guarda tu cosa fai… ti lavi proprio nella nostra casa, usi la nostra acqua e mi sei amico. Ti voglio così bene Frank- Si avvicina e mi abbraccia e finalmente dopo tanto tempo posso sentire che la sua pelle non è fredda. Sto piangendo. Un uomo forse non dovrebbe piangere così tanto ma non posso farci nulla, così come non posso non pensare ai momenti passati con quel bambino fin troppo speciale. Saranno passate più di due ore da quando ho messo piede in questo bagno e il vapore ormai è ovunque, non riesco a vedere quasi niente un po’ a causa dell’ambiente troppo caldo e un poco per via delle lacrime. Metto la testa sott’acqua e vedo un altro paio di occhi, sorridenti, quelli di Frank. Gli sorrido anche se so che è solo frutto della mia immaginazione ed esco dalla vasca fumante. L’accappatoio, minuscolo, è lo stesso di trent’anni prima, è cambiato solo il colore che ora risulta sbiadito, ma non appena lo faccio aderire al corpo la sensazione è la stessa: di pace e di tranquillità. Mi sembra di avvolgervi il fragile corpicino di Frank pieno di cicatrici e tagli da guarire. Apro la porta e raggiungo il telefono in soggiorno. Tre chiamate perse, tutte di Michael.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Hans fuma la sua pipa davanti a noi, in piedi e rigidi senza poter guardare la luce del sole che filtra dalla finestra. Ci ha convocati tutti: Me, Michael e gli altri soldati affinchè non abbiamo la guardia e la testa, proprio come se lui fosse un re. Io in questo momento ho solo voglia di sputargli in faccia, mi fa’ proprio schifo. -Volevo parlarvi degli ultimi aggiornamenti, qua ho tutti i fascicoli riguardi le persone che sono ‘in più’ fra di noi, la merce di scarto. Vi do un numero approssimativo, trentaduemila.- Il cuore mi batte troppo velocemente e inizio a sentire le guance in fiamme, sono sicuro di essere bordeaux in faccia, mentre per quel poco che riesco a vedere, tutti i miei amici sono freddi e non si sono affatto scomposti, come se non fosse successo nulla. Hans, crudele come nessun altro, si rende subito conto del mio nervosismo e non perde tempo per punzecchiarmi. Fumando la pipa inizia a fare un giro per tutta la stanza e si posiziona proprio davanti a me, guardandomi negli occhi e sistemandosi il cappello sulla testa. -Hai qualcosa da dire, nostro Daniel?- Sorride divertito, sa che non posso rispondergli e questo gli piace perché lo fa’ sentire potente, importante. Vedo che cammina intorno a me, scrutandomi attentamente e scuotendomi la giacca all’altezza delle spalle. Chiudo gli occhi e lui se ne rende conto in men che non si dica, come un’aquila o un altro rapace. –Occhi bene aperti e testa alta soldato!- Ride di gusto e appoggia la pipa sul tavolo, accanto ai documenti. -Signore forse dovrebbe lasciarlo stare, sa…- -Silenzio1 non voglio sentir volare una mosca! Quando parlo io, che sono il vostro superiore, nessuno deve interrompermi.- Il silenzio è insopportabile e pesa su tutti noi, forse ancor più su di me che mi trattengo a malapena giusto per non scatenare una vera e propria guerra. Hans sorride e mi tira un calcio negli stinchi, come se stesse picchiando un tavolo di legno, per poi darmi le spalle e dirigersi verso la scrivania. Sento le lacrime iniziare a farsi largo nei miei occhi, ma le ricaccio indietro con tutta al forza di spirito possibile e la volontà che ho sempre avuto. Non voglio che quel mostro mi veda debole, devo essere forte sia per me stesso ma soprattutto in onore di quel bambino che trent’anni fa’ mi ha fatto capire la differenza tra persone degne di vivere e altre che invece non valgono poi a tanto. Per un attimo, anche se è soltanto un momento breve, vedo nella mia mente l’immagine di Frank, il suo viso e i denti spezzati. Poi la figura diventa sempre più piccola e trasparente, fino a scomparire del tutto ed essere sostituita dall’altra, molto simile a quella di prima… eppure sono certo che siano due persone completamente differenti. -Papà sono qui, ti voglio bene- Spalanco gli occhi, non riesco a sentire niente intorno a me, non mi rendo nemmeno conto che Hans sta continuando a dare delle indicazioni ai miei amici, che sta quasi urlando conto qualcuno di loro senza motivo. Lo sento ma non lo sto ascoltando affatto. Sono completamente rapito dalla voce che assomiglia molto a quella del bambino piccolo, sicuramente avrà sei o sette anni, ma non riesco a capire chi sia e cosa voglia dirmi, ma soprattutto non capisco perché abbia scelto di parlare con me. Vedo Michael farsi più vicino a me fino a raggiungermi e scuotermi per un braccio… mi sta facendo male, mi stringe troppo ma non glielo dico, decido di lasciar perdere. Ora è davanti a me e mi urla qualcosa in pieno viso, poi simette le mani tra i capelli come se volesse strapparseli uno ad uno e dopodiché inizia ad agitarsi e assomiglia molto ad un mio compagno delle elementari che sedeva nel banco accanto al mio e soffriva di crisi epilettiche. Ogni volta che gli capitava di trovarsi in quella situazione provavo una sensazione tremenda di impotenza e tragedia imminente e volevo nascondermi per stargli il più lontano possibile, ma constatavo che gli altri compagni, anche i più bulli e maleducati, gli stavano accanto e lo soccorrevano. Ricordo mentre la maestra ci osservava attenta dalla sua cattedra e chiudeva il libro di aritmetica facendo un tonfo molto forte, la sua gonna lunga a fiori e balze sventolava e i suoi tacchi calpestavano i mattoni gridi dell’aula, venendo in nostro aiuto. Il suo profumo era talmente forte ( forse era acqua di colonia) che a volte, quando me la ritrovavo troppo vicina, ero costretto ad allontanarmi almeno di poco per non dover tossire, oppure spesso mi coprivo il naso e la bocca con il braccio e così stavo un poco meglio. Il mio amico, ora a pochi centimetri da me, era identico al mio compagno di classe solo che adesso non dovevo spostarmi dall’altro lato della stanza per evitare la maestra, dovevo vedermela con il vero nemico che non potevo evitare: Hans il maledetto. Ritornare al presente mi fa’ sempre male, mi riporta alla dura realtà e potrei paragonarmi ad un pesce viene liberato in mare aperto dopo esser stato chiuso per molti mesi in una piccola boccia senza ossigeno. Quel pesce si sente bene perché finalmente è di nuovo nel suo habitat ma allo stesso tempo è frastornato, ha paura che la stessa mano nemica lo prenda alla sprovvista, in un momento di debolezza e gli rinneghi per la seconda volta la sua meritata libertà. Guardo fuori dalla finestra e una farfalla viola con le punte delle ali di un nero corvino inizia a svolazzare colpendo il vetro con un’incredibile energia. Ha una forza incredibile…Eppure il suo corpo è minuscolo e sottile, è così fragile e bella… Non so per quale motivo vedo gli occhi di mia moglie nelle piccole chiazze nere della farfalla e mentre continua a sbattere le ali, io rivedo sempre di più Helen, i suoi occhi neri che mi guardano, ma non stanno osservando i miei occhi azzurri con dolcezza, no mi scrutano con minaccia e rimprovero. Urlerei se non vedessi le mani di Michael sul mio viso e Hans che accanto alla sua scrivania ride e cerca di accendersi una delle sue infinite pipe. Mi auguro che prima o poi la prossima sia quella che lo porterà alla tomba. -Bene,bene,bene qui stiamo affrontando un discorso ma qualcuno sogna ad occhi aperti. Dicci Daniel, che osa hai visto in uno dei tuoi viaggi mentali?- Mi prudono le mani e questo non è un segno positivo, significa che sono nervoso e in momenti come questo potrei combinare un gran casino. Michael si allontana da me e vedo che sta piangendo come un bambino. Guardo per l’ultima volta Hans, quello sguardo colmo di odio e strafottenza e mi giro verso la finestra. La farfalla non c’è più, così come i miei pensieri. Le fotografie sono sparse ovunque sul pavimento, sporche di sangue. Oggi due di noi ci hanno lasciato per sempre.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Quando succede qualcosa di brutto in genere è un po’ come se tutto il mondo ne sia colpevole. Si tende ad odiare tutti e non si vuole nemmeno uscire di casa, se si incontra un vecchio amico lo si guarda con occhi spenti e l’altro rimane stupito, così rischiando di perdere l’unica persona che per anni ci aveva supportati con grande affetto. Ma non è colpa nostra, è il nostro cuore, il nostro spirito, che per difendersi attuano un sadico meccanismo che annienta il proprio dolore annullando il mondo che ci circonda, nonostante sappiamo bene che non è giusto. Mi fa male la testa, non ho fatto colazione e se provo ad alzarmi dalla poltrona anche solo per sgranchirmi le gambe mi vengono le vertigini, rischiando così di stramazzare al suolo. È una giornata di sole, la neve si sta sciogliendo lentamente eppure dentro di me è ancora una lunga notte tenebrosa e ghiacciata. Non posso cancellare dalla mia mente quelle immagini, tutto quel sangue sparso sul pavimento e il viso impassibile di Hans mentre fuma tranquillamente come se fossimo invitati ad un circolo letterario. Non ci riesco a far finta di nulla, è impossibile. In tutti questi anni ho visto delle scene tremende, ancora oggi a distanza di tanti anni mi sembra di scorgere i fucili puntati sulle fronti sudate e pallide di bambini innocenti, vedo gli occhi vuoti delle donne che non hanno nemmeno più la forza di piangere, ma tutto questo si sa, è la guerra. La guerra che non vorremmo ma che non abbiamo mai potuto annientare con quelle stesse armi con cui abbiamo ucciso milioni di innocenti. Guardo le mie mani callose e mi sembra di vederci sopra delle chiazze di sangue, grandi come quelle che ricoprivano le foto, ma è solo un attimo perché poi spariscono e l’unica cosa che riesco a vedere bene solo le varie linee che segnano percorsi perfetti su entrambi i palmi. Come sono finito in questa situazione? Non riconosco me stesso, non oso guardarmi allo specchio per paura di vederci riflesso il volto di mio padre o di qualche altro soldato maledetto quanto lui. Le notti stanno diventando interminabili e pesanti, dormo solo cinque ore per notte e non riesco ad aiutarmi nemmeno bevendo tre camomille al giorno. Mi sveglio sudato e in preda a tremori pazzeschi, faccio degli incubi tremendi in cui vedo la mia figura sporca di sangue dalla testa ai piedi, tutt’attorno a me è buio e io non so dove mi trovo. Ad un certo punto delle persone mi vengono incontro, camminano in modo strano, sono molto lenti e si trascinano su delle gambe stanche e scheletriche, assomigliano molto a degli zombie. Poi si accende la luce, capisco di essere prigione rio in una stanza con una grande doccia alle mie spalle da cui fuoriesce un gas che inizia a farmi mancare il respiro e girar la testa. Poco prima di perder del tutto conoscenza guardo quegli uomini, bambine e donne che mi si fanno sempre più vicini e solo allora capiscono chi siano veramente: gli innocenti fantasmi a cui è stata strappata un’intera vita. Gli spiriti che al posto di indossare i lenzuoli bianchi hanno dei pigiami a righe con dei numeri cuciti sopra. Non mi capita spesso di sognare Frank, forse perché con lui è tutta un’altra storia, non possiamo vederci quando vogliamo come capita invece con i miei parenti deceduti parecchi anni fa. L’anno scorso mia nonna Clara mi ha fatto visita nei miei sogni per quasi un mese intero, dicendomi che con mio nonno continuavano a litigare sempre per le solite sciocchezze e poco prima di svegliarmi mi salutò augurandomi tanta felicità, posando le sue morbide labbra sulla mia guancia fredda di sudore. Vorrei sognare Frank così come sognavo la mia cara nonnina, ma credo che per ogni defunto ci siano dei sogni specifici e sono convinto del fatto che siano loro a decidere quando è il momento migliore per manifestarsi. In ogni caso, lo aspetterò sempre. La testa ora mi fa’ meno male e decido di andare in cucina a prendere qualcosa da bere, ma appena mi alzo dalla poltrona il telefono mi richiama a sé prepotentemente. All’inizio faccio finta di niente e quasi sparisco dal soggiorno, ma poi rifletto che forse, si, qualcuno potrebbe avere un’urgente bisogno di me e cerco di raggiungere l’apparecchio di corsa, inciampando sul grande tappeto rosso. -Pronto?- -Dan, sono io.- È Michael, anche se mi ci sono voluti dei secondi prima di riconoscerlo, dato che ha al voce rotta e sembra abbia smesso da poco di piangere. -Ti disturbo?- -No figurati. È successo qualcosa?- Urla dall’altro lato del telefono, una donna che ha appena scorto il tradimento del marito e mi costringe a chiudere forte gli occhi per l’impatto profondo. - Se è successo quacosa? Mi chiedi se è successo e non mi dici altro? Tu hai bisogno di qualcuno bravo che ti aiuti, non credo che questa situazione ti stia facendo bene, Daniel- - -Ok, hai ragione tu, ho sbagliato, andrò da uno psicologo, credo di aver perso completamente la testa in quest’ultimo periodo, ma parlami di te ora- Piange e non riesce quasi a dirmi nulla che non sia frammentario. -Michael? Respira e calmati, anche io sto male, credimi. Ieri non ho reagito così solo perché ero molto turbato, non so cosa mi sia successo, a vote mi capita di estraniarmi dal mondo, di avere delle visioni, robe del genere, e non mi rendo conto di ciò che ho davanti agli occhi- -Va bene- Si prende qualche secondo di tempo per soffiarsi il naso, tossire e chiudere il pacchetto dei fazzoletti, per poi tornare al discorso con me. -Ti ho chiamato perché oggi andiamo tutti al funerale di Tom e Andy, ovviamente se non te…- -No no, andrò anche se non sto affatto bene. Sono a pezzi ma ci sarò- -Verrà anche lui- Inizio a star male, quasi come ogni notte e come il giorno precedente, quando Tom ed Andy si sono fatti saltare in aria le cervella davanti a noi e di fronte al divertimento di quel mostro. -Dan sei li? Non devi star cosi male, sappiamo molto bene che tutto questo ti fa soffrire, forse fra tutti noi sei quello che maggiormente soffre nel sentire le parole di Hans ma ti prego non prenderla troppo sul personale, lui ci tratta tutti di merda- -Non è solo questo il problema, è un casino, credimi. Prima tutte quelle lettere di Frank, poi dover fare un lavoro che non mi appartiene, forse dovrei essere felice nel sapere che avrò la coscienza sporca? Non dormo più come un tempo, sento che la mia vita sta prendendo una brutta piega. Sapevi che non riesco più a guardarmi allo specchio?- -Non dovresti odiarti,non te lo meriti, tu non hai fatto niente- Sbatto forte il pugno contro il tavolino, non riesco più a controllare le mie emozioni e sento che questa situazione prima o poi mi travolgerà come una marea. -Io non ho fatto niente, è proprio questo il problema! Tu non eri lì quando ho perso Frank, non ho fatto altro che stare in piedi con le mani che tenevano strette la recinzione, aspettando che lo portassero via da me, via dalle persone che per tutti quei mesi gli erano state vicino, l’ho accompagnato verso la sua morte!- Daniel basta, ora smettila! Se continuerai a torturarti in questo modo alora sì che lo porterai alla morte. Non capisci che lui vive in te? Ti guarda, ti ha aiutato a diventare l’uomo forte e coraggioso che sei diventato. Non puoi incolparti per qualcosa che non hai mai fatto.- Non so che dire e rimango in completo silenzio. Michael mi conosce molto bene, da ben quindici anni e sa perfettamente quando sono sul punto di crollare. Mi è sempre stato accanto nei momenti più duri, come nemmeno certi fratelli sanno fare. C’è stato quando mi chiudevo nelle mia stanza quasi tutto il giorno e non toccavo cibo a causa della mia forte depressione. Non mi ha lasciato mai solo in quegli interminabili mesi in cui non facevo altro che chiudermi nel mio dolore, al buio di una camera in cui le finestre non venivano mai aperte. Stavo con gli occhi chiusi e nella mia testa, ad intervalli di quindici secondi, si accavallavano milioni di immagini che rischiavano di farmi perdere la ragione. Vedevo il volto di Helen sciupato, con gli occhi rossi e colmi di lacrime e dolore, la vedevo mentre era paralizzata in quel letto d’ospedale, con le braccia che stringevano forte le ginocchia e lo sguardo perso nel vuoto. Ricordo il comodino pieno di dolci e di fiori per tirarle su’ il morale, rimembro tutto come se fossero passati soli due mesi e non diversi anni e spesso capisco di odiare me stesso anche per questo motivo: ricordo troppo e non posso farci niente, e tutto ciò mi fa soffrire più di quanto non soffrano gli altri. Ricordo i colori delle tendine da cui a malapena riusciva a filtrare la luce del sole, quel sole che delicatamente poggiava i suoi raggi sul viso della mia bella, mentre le tenevo le mani ben strette tra le mie prendendomi cura di quel corpo fragile, smunto ed ossuto, il corpo di una donna che ormai non era più lei. Guardarla in quel letto d’ospedale era come vedere un mostro steso in una fredda barella d’acciaio all’obitorio. -Dan, ci sei?- Michael mi chiama una, due, tre volte, e solo allora lo sento veramente, come una voce fantams estranea e lontana chissà quanti chilometri da me. Non voglio che si preoccupi troppo per me come quando avevamo quindici anni e spesso si accollava ogni mio piccolo problema pur di non farmi sgridare da mio padre che non era per niente simile al suo. Ma una volta che si cresce, bisogna sapersi prendere le proprie responsabilità e restituire ai propri amici il tempo che gli si è fatto perdere durante l’infanzia o l’adolescenza, maturando nonostante la sofferenza che portiamo dietro, giorno dopo giorno. –Si Michael, sono qui, non preoccuparti. Stavo solo pensando a delle cose, troppe vicissitudini del passato. Sai come sono fatto, è da quando ero solo un bambino che non faccio altro che avere flashback improvvisi che mi distraggono dalla realtà, sei il solo che mi abbia mai capito veramente e l’unico con cui ne abbia sempre parlato. Forse non ti ho mai ringraziato come avrei dovuto e beh, io lo faccio ora. Sei un amico sincero, un fratello, non voglio mai deluderti o pressarti con le mie problematiche. Michael è un uomo di quasi cinquant’anni eppure, nonostante sia il maggiore fra noi due, è molto più sentimentale di me e sotto certi aspetti spesso si comporta proprio come un bambino. Ricordo quando da ragazzi capitava di trascorrere i sabati pomeriggio al cinema ognuno con la propria fidanzatina e mentre io sceglievo un fil d’azione, fregandomene totalmente della noia mortale provocata alla mia Marie, lui lasciava scegliere sempre a Lucy, per poi piangere assieme a lei davanti all’ultimo film romantico appena uscito nelle sale. A distanza di quasi vent’anni mi rendo conto, con piacere, che il mio migliore amico non è cambiato affatto e mi compiaccio di questo, perché è veramente raro trovare una persona che nonostante l’età adulta conservi un cuore da fanciullo. Credo che questo sia uno dei tanti segreti per una vera amicizia e sicura felicità. - Beh che cosa… che cosa potrei dirti- - Rido e finalmente anche lui ride insieme a me e mi sento un bambino anche io. - Guarda, non devi dire niente, tu piuttosto come stai?- - Rimane un secondo in silenzio, forse non si aspettava questa domanda oppure non vuole parlare delle sue cose personali, comunque lo sento sospirare e poi rispondermi trattenendo le lacrime. - La vita va avanti. Ho incontrato un mio amico dei tempi dell’università proprio stamattina in libreria e sai cosa mi ha detto?- - Si mette a ridere e questo mi spaventa, perché non è la risata di una persona felice, è il classico atteggiamento di qualcuno che sta attraversando una crisi nervosa e nasconde tutto il dolore dietro falsi sorrisi. - Fingo di non rendermi conto del suo disagio e mi comporto nella maniera più normale possibile. - -Cosa ti ha detto?- - Ride ancora più forte. - -Che suo padre non è il vero padre e sua madre non camperà ancora a lungo- - Non so proprio cosa dire, non riesco a far altro che cadere in un’imbarazzante mutismo e mordermi le labbra fino a farle sanguinare, senza sentire alcun dolore. - -Mi dispiace moltissimo per lui- - -Anche a me, ma sai cosa ho capito? Che il destino si prende gioco di noi, cattura le nostre anime come se fossero delle pedine e le muove a suo piacimento, non certo per farci un piacere ma per rattristarci. Però ho capito anche un’altra cosa, che niente capita per caso, e questo mi fa sentire vivo, per davvero- - -Hai ragione. Comunque non ho molto tempo ora, ho dato uno sguardo all’orologio ed è quasi ora di pranzo, non ho niente in frigo e credo che darei meglio ad avvicinarmi al market più vicino, a meno che non voglia mangiare le mie stesse dita oggi- - -Non ci ho mai provato, altrimenti te le avrei già consigliate! Ahhhhahah so bene che non sei proprio il massimo in cucina- - -Assolutamente no, una frana direi- - -Dan, c’è un’altra cosa che volevo dirti- - Sapevo che me l’avrebbe detto, non è nelle nostre abitudini chiudere le conversazioni in allegria. Sicuramente c’è dell’altro e non far sentir meglio. - -Che cosa?- - -Ieri, ecco, quando Hans ti ha parlato in quel modo, era come guardare nelle pupille di un morto e credimi, mi ha fatto tremare di paura- - -Sai cosa ha veramente spaventato me invece? L’indifferenza di quel porco schifoso di Hans, la sua faccia sorridente e beata e quelle mani luride, grassocce che tamburellavano sulla scrivania. Come ha potuto? Sono morti due uomini in poche ore e lui ne era perfino contento.- - -è inutile agitarsi, Dan, non pensarci troppo. Il problema è un altro, che quegli uomini non sono morti, si sono uccisi e credimi non è stata una passeggiata vederli morire così davanti ai miei occhi e a quelli di tutti gli altri,scioccati ed esterrefatti. Tutto quel sangue, le foto di quei poveri innocenti sulla scrivania… Dan, noi siamo uomini forti! Per questo ti chiedo di non soffrire più così tanto, noi non siamo morti di fronte a quelle immagini! Siamo qui e nessuno si prenderà mai le nostre vite!- - Certo siamo qui, ma non è giusto quello che dici… io mi sento in colpa come sempre. Non ero lì con voi, io ero con mio figlio e con Frank capisci? Il passato mi sta strappando tutto, la mia vita, il mio presente, quel briciolo di felicità che mi era rimasto. Ho visto solo i corpi ed il sangue sulle foto, poi per il resto non posso aggiungere granché - Rivolgo l’attenzione all’esterno della casa, nel sole che si fa sempre più alto e mi fa capire che sicuramente è quasi mezzogiorno. Un uccellino grasso e dalle zampe minute si avvicina alla mia finestra, forse in cerca di qualche briciolo di pane. Non è l’unico ad avere fame. Decido di chiudere la telefonata prima che si faccia veramente tardi e in un attimo il piccolo usignolo sparisce dalla mia vista, diretto forse in qualche altra abitazione. -Scusa Michael, ma ora devo proprio fuggire via, non ti ho fatto nemmeno rispondere lo so, ma avremo il tempo per parlarne credimi, a proposito ti chiedo solo un’ultima cosa. A che ora sono i funerali?- -Alle quattro in punto. Ci vediamo vicino alla chiesa, vicino al bar di Hernest, a dopo e buon pranzo…. E riguardati, amico mio caro- -Lo farò, grazie e a più tardi- Mi guardo intorno e per la prima volta dopo tanti anni mi rendo conto di sentirmi davvero solo in una casa troppo vuota. Prendo il cappotto, la sciarpa bianca che mi aveva regalato mia madre qualche mese prima della sua partenza per la Francia ed esco di casa. L’aria gelida ed il caldo sole sulla fronte mi provocano un brivido incredibile lungo tutta la schiena, eppure so benissimo che tutto questo non è dovuto solo alla temperatura esterna. In questo incredibile ossimoro grottesco mi butto a capofitto nella triste realtà odierna, denunciando il mio povero cuore che ama troppo.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


La campanella sulla mia testa produce il suo delizioso suono metallico e attira l’attenzione del signor Greg, come al solito chino sulle sue parole crociate. Poggia la penna risucchiata per metà e mi fa un cenno sorridendomi. Non ho molta voglia di parlare, per cui saluto educatamente e mi dirigo a passo svelto verso il bancone dei surgelati, dove trovo sempre qualcosa di delizioso da preparare in cinque minuti. In momenti come questi mi rendo conto di quanto sia diversa la vita di un uomo quando condivide la casa con una donna e quando invece rimane da solo per parecchio tempo. Se qualcuno ora venisse a farmi visita troverebbe calzini e mutande sparsi ovunque per la casa, stoviglie da lavare e ferme lì chissà da quanti giorni, per non parlare delle confezioni di pop-corn e di patatine che devo schivare ogni volta che decido di guardare la tv. Noi uomini siamo così diversi dalle donne, ed è anche per questo motivo che ora sto guardando delle confezioni di pasta surgelata e non mi sono concentrato su un pacco di spaghetti da buttare nella pentola e da mangiare con un ottimo sugo. Dopo un po’ di indecisione compro quella che costa meno e mi avvio verso la cassa, dove il signor Greg ha pensato bene di piazzare una sorta di macchinetta in cui basta premere un pulsante per avere tutte le caramelle e le gomme che si desiderano- Questa cosa riesce a strapparmi un sorriso, forse l’unico davvero sincero negli ultimi due mesi, e mi sento un po’ strano, come se non dovessi rallegrarmi di nulla. Maledetti sensi di colpa che ti inseguono ovunque, persino nei market vicino casa. Il volto del signor Greg è più o meno quello di sempre, solcato da qualche ruga agli angola della bocca e vicino agli occhi e la sua abbronzatura lo rende molto simpatico. Non so perché, forse è proprio quella sua aria da turista disperso in un piccolo paesino, ma mi rende felice e nel guardarlo attentamente mi rendo conto di quanto sia buffo, proprio come un clown che diverte i bambini più piccoli al circo. -Signor Wennel, era un po’ che non ci vedevamo- mi dice, grattandosi la testa con la punta della penna e sbadigliando. -è vero, non passo più molto tempo in giro come quando ero ragazzo, però oggi ho voluto trasgredire la regola- Ride e passa il prodotto che ho scelto sul bancone, emettendo quel bip che tanto odiavo da bambino e che mi ricordava un suono che spesso avevo sentito all’ospedale quando attendevo il mio turno abbracciato alla mamma e con il cuore in gola. -Sono due euro e cinquanta. Oggi mangia tardi? Certo, un uomo che vive da sol…- Abbassa la testa e nonostante il suo colore naturale sia una sorta di marrone chiaro vedo chiaramente le sue guance dipingersi di rosse, come due fragole mature. -Non fa’ niente, d’altronde come si può pretendere che i propri fattacci rimangano un segreto quando si vive da soldati?- Abbozza un leggero sorriso e sposta lo sguardo sullo scaffale vuoto. Poveretto, non da proprio dove guardare. -Non è che mi darebbe una busta?- -O certo mi scusi, forse oggi non è proprio giornata- Gli sorrido giusto per non farlo rimanere troppo male ma non appena mi rendo conto che non può vedermi ridivento serio e apatico. Voglio tornare a casa, ora. Mi da’ una piccola busta di carta dicendomi che le altre le ha terminate e butto la confezione dentro, salutando e sbattendo forte la porta. -Dio che pazienza- Lo dico a voce alta e vedo che una signora bionda di circa sessant’anni, che sicuramente mi ha sentito, sorride mentre nasconde bene le mani sotto le maniche del pesante cappotto che indosso. Fa’ molto freddo e nonostante il termometro segni due gradi a me sembra di vivre al polo sud. Mi copro come posso con la mia sciarpa e attraverso di corsa la strada, per paura di dover attendere dieci minuti fermo come un ghiacciolo davanti al semaforo rosso. Finalmente si torna a casa. In questi ultimi mesi, soprattutto dopo aver ricevuto la telefonato di Michael e aver avuto le lettere di Frank, non ho molta voglia di uscire di casa e quando lo faccio non guardo mai nessuno in faccia, tendo a nascondermi come fanno gli struzzi che infilano la testa sotto terra. Credo che il mio sia un atteggiamento piuttosto normale nella mia situazione ma non lo è per chi mi sta accanto e sento di essermi lentamente e inconsciamente isolato a causa dei miei pensieri. Un uomo che pensa troppo non è forse già di per sé un uomo troppo solo? La mia casa non parla, è muta come una statua dimenticata in un museo antico dove nessuno andrà mai ad ammirarla o desiderare la sua copia. Butto il cappotto sul divano e guardo verso l’orologio a muro. È tardi, accidenti! Apparecchio velocemente e accendo, sintonizzandomi su un canale a caso, forse il quattro, e sento una musica dolce che conosco benissimo. Il Tg delle 14 e 30. Le notizie sono le stesse di ogni giorno, in primo piano la politica, qualche nuova legge che attende di essere approvata e in seguito qualche servizio di cronaca, due ragazzi sono morti dopo una lunga malattia a soli ventisei e ventotto anni e una signora di ottanta è caduta dal decimo piano. Mi vengono i brividi solo a pensarci, come se essere bellissima e allo stesso tremenda la vita! Nel frattempo la pasta è già pronta e con un mestolo trovato per caso nell’ultimo cassetto la rigiro un poco in modo da darle più sapore e amalgamare bene il condimento. Non aspettavo altro che questo momenti di beatitudine con il mio pranzo, la tv accesa e una bottiglia di buon vino rosso. Mi sembra quasi di aver ritrovato un po’ d’equilibrio e la casa non mi appare così tanto silenziosa e desolata. All’improvviso, proprio mentre avvicino la forchetta alla bocca soffiandoci sopra perché scotta, alla tv iniziano a trasmettere un servizio dove scorrono delle immagini molto strane e spaventose. In un secondo solo il cuore inizia a battermi velocemente, per poi perdere colpi e quasi fermarsi. Alzo il volume e sento la giornalista che parla di due suicidi avvenuti il giorno prima nell’ufficio del signor Hans Werder. Vedo degli uomini che giacciono per terra, con gli occhi spalancati e fissi sul muro bianco di fronte a loro, solo che non sono uomini come tanti altri, no, quelli sono i miei amici e solo ora mi rendo conto che non li rivedrò mai più. Adesso capisco veramente che cosa è successo ieri in quell’ufficio mentre io ero lontano mille miglia da quel luogo, perso nei miei pensieri. La ragazza mora che presenta il telegiornale continua a parlare mentre altre immagini scorrono al rallentatore, foto in cui si vedono altri uomini, stavolta vivi, che guardano altrove con delle espressioni che gelerebbero il sangue anche ai più duri di cuore. Io sono proprio uno di quegli uomini, soo che vedere la realtà davanti ad uno schermo è tutt’altra cos e non posso continuare a fare finta di nulla, non posso ingoiare più nemmeno un piccolo morso e non voglio nemmeno guardare la tv. Le lacrime mi scivolano lungo le guance finendo a terra e inzuppano uno dei cuscini con le rose disegnate sopra, lo stesso che usavo quando vivevo assieme ad Helen. Non ho mai pensato di cambiare quei cuscini, e in questo momento mi viene una gran voglia di buttarli e strapparli via, lanciarli in un luogo dimenticato da Dio. Dieci minuti fa mi sembrava che il mondo stesse iniziando a sorridermi o perlomeno non ce l’avesse con me, ma ora sento tutto il suo peso enorme cadermi addosso e schiacciarmi come se fossi una formica. Guardare quelle immagini mi ha fatto sentire nell’ufficio di Hans, di fronte a quel mostro che ride davanti a dei corpi privi di vita e ad un disastro che vedrà milioni di poveri innocenti trattati come se fossero belve disumane. Mi alzo di scatto, violentemente, e per un attimo vedo tutta la stanza girarmi attorno, la tv non è più al suo posto accanto alla credenza ma si trova accanto al frigo e quando cerco di avanzare di qualche passo sono costretto a reggermi a qualunque appoggio finendo per buttarmi di peso sul divano bianco. Non oso aprire gli occhi per una seconda volta, li tengo ben stretti per non dover vedere la camera sottosopra o la televisione da tutta’altra parte rispetto a dove l’ho posizionata io. Non voglio vedere, eppure le immagini arrivano da sole, nel buio ipnotico della mia mente. Prima vedo un campo desolato e bianco, c’è neve ovunque ed è bellissima mentre scende silenziosa e si posa sul terreno fangoso, assomigliando ad una sposa che lascia scivolar via il suo lungo velo. Non c’è nessuno con me ma sento delle voci in lontananza, seguite dalle grida disumane di alcune donne e poi degli spari. Sono sicuro siano dei fucili che hanno appena mietuto giovani vittime. L’impulso è quello di correre, scappare il più lontano possibile da quel posto che sa di morte ma i miei piedi sono fissi nel terreno, come se dei grossi paletti stessero bloccando i miei movimenti. Guardo in basso verso le caviglie e non riesco a credere a ciò che vedo. Due bambini, molto simili tra loro se fosse per il loro abbigliamento differente, mi stringono forte aggrappandosi alle mie gambe. Non li riconosco subito perché i loro visi sono nascosto ma quando mi inchino per rivelare la loro identità spostando grosse ciocche di capelli, mi manca quasi l’aria. Frank mi sorride mentre tiene per mano Gregory, quello che sarebbe dovuto essere il mio amato figliuolo. Lo posso dire con certezza perché è identico a me e ha lo stesso dolci di Hellen, lo stesso che mi fece innamorare perdutamente di lei. I due bambini si guardano e ridono, nonostante siano molto tristi. Poi, il più grande Frank, si alza e nonostante mi abbia liberato dalla sua stretta mi rendo conto di non potermi muovere e capisco subito il perché: mio figlio non vuole lasciarmi andare mi stritola come se fosse un serpente pericoloso e inizia a piangere pregandomi di non abbandonarlo, di non andare via un’altra volta. Frank mi da’ la sua mano e mi parla accennando un dolce sorriso. -Non avere paura, Daniel, non vogliamo spaventarti, però devi fare delle cose per noi, solo tu sei in grado di fermare tutto questo dolore e tutto quello che sta per accadere, ricordi questo posto? Ricordi come scendeva la neve, come fuggivamo mentre i nazisti ci seguivano minacciando che se avessimo fatto un altro passo ci avrebbero sparato senza pensarci due volte! Eppure, nonostante tutto, nonostante la paura che provavamo entrambi, non mi ha mai lasciato solo, hai sempre cercato di difendermi e proteggermi in qualunque modo o circostanza. I bambini morivano davanti ai nostri occhi eppure non ci siamo mai fermati e quante volte, con il cuore che ci scoppiava nel petto e il fiato corto, abbiamo continuato a correre tra la neve e il freddo che trasformava i nostri visi in ghiaccioli, mentre i carri armati ci seguivano setacciando tutta la zona. Hai fatto di tutto per salvarmi e anche se alla fine non ci sei riuscito, ti sarò sempre grato per la tua bontà- Non riesco a rispondergli, sono cosciente eppure non riesco a distinguere il sogno dalla realtà, sono paralizzato ed è come se la mia lingua si sia immobilizzata o anestetizzata. È una sensazione che non avevo mai provato prima e mi fa molta paura anche perché mi è impossibile spalancare gli occhi, che sono bloccati da una sorta di energia mille volte più forte di tutto il mio corpo. Riesco a vedere i bambini e il campo di concentramento di fronte a me, solo tramite l’immaginazione e il buio assoluti. Credo sia una sorta di trance, è un po’ come aver oltrepassato la linea sottilissima di demarcazione che separa il nostro mondo con quello dei morti, immergendoci completamente. Greg mi guarda con insistenza, come se in me trovasse qualcosa di assolutamente divertente o curioso e poi mi sorride, nonostante i suoi occhi rivelino un animo molto triste e spaventato. Si alza e finalmente sento le mie gambe libere da quell’enorme peso, posso agitarle e il sangue riprende a scorrere normalmente. Qualcuno mi stringe il braccio e istintivamente mi ritraggo, come se mi avesse sfiorato un fantasma. Mi volto verso il bambino e vedo la sua mano che presa su di me, bloccandomi ancora. Lui accenna un lieve sorriso mentre Frank guarda da un’altra parte, verso il cancello che si separa dal lager, come se avesse deciso di lasciarci soli per un po’. Ora se c’è qualcuno che si sente come un fantasma quello sono io, nonostante sia l’unico vivo dei tre. Quello che sarebbe potuto essere mio figlio mi stringe sempre più forte ma nonostante mi faccia male, so che non è cattivo, so che sta cercando di avere un contatto con me. - Tu sei mio padre, ti avrei voluto bene, sai?- Sento che le sue parole sono sincere, che provengono dal centro del suo cuore, e questo mi rende felice e triste allo stesso tempo. Ho paura di rispondergli perché temo che possa andare via o svanire da un momento all’altro, quindi mi limito a fissarlo in quegli occhi che conosco molto bene, e speso possa capire il mio silenzio. Mi prende una mano e la bacia dolcemente tenendo gli occhi chiusi. È così dolce e fragile, come un piccolo cerbiatto. -Non sono arrabbiato con me e nemmeno con la mamma, so quanto mi avreste amato. Anche se non vi ho potuti conoscere o stringere forte. Qui con me c’è sempre Frank, giochiamo a rincorrerci nel grande prato verde con tutti i fiori colorati che profumano l’aria delicata. È un bel posto sai? Non ci manda via nessuno e non esistono uomini cattivi. Possiamo volerci tutti bene e non ci sono fucili o persone che urlano spaventate. È il posto più bello del mondo, non è vero Frank?- Lui si gira a guardarlo e sono felice di vedere che nei suoi occhi non appare alcuno velo di tristezza e finalmente sono sicuro che stia davvero bene in quel magico luogo di cui mi ha parlato Greg. -Si, è il posto più bello che io abbia mai visto, ci sono tanti bambini che giocano con degli animali molto graziosi, cani, gatti, tanti insetti colorati, ci sono anche le coccinelle che corrono tra le foglie- Ride e in quell’attimo sento che il sogno o la realtà in cui so fluttuano, diventano sempre più profondi e intensi, pieni di emozioni e flashback. Rivedo me stesso mentre lo aiuto a proteggersi dagli attacchi dei soldati tedeschi e lo prego affinché non faccia alcun rumore, tappandogli la bocca premendo sopra il palmo della mano soffocando le sue risate. Riusciva a trovare sempre qualcosa su cui ridere, anche nei momenti più difficili, e non ho mai capito dove trovasse questa forza d’animo, come facesse a divertirsi nonostante tutto quello che passava ogni giorno nel campo. Quel giorno, tra i suoi capelli si era infilato un piccolo ragno e lui trovava questo fatto molto divertente, sia per la situazione e sia perché le zampe, poggiando sulla cute, gli facevano solletico. Se non ci fossi stato io in quel momento, credo fermamente che lo avrebbero preso e fucilato senza chiedergli spiegazioni. Lui era fatto così, amava fare ciò che lo avrebbe potuto mettere in pericolo e questo ai miei occhi lo rendeva un bambino coraggioso e straordinario. Non dice niente ora, guarda la neve mentre scende con una lentezza incredibile e si mischia con il fango che gli ha sporcato le scarpe e l’abito. Sento di volergli un gran bene, allo stesso modo di trent’anni fa’, come quando eravamo solo due bambini e sento di volerlo abbracciare forte come facevo spesso nel lager e nel giorni in cui riuscivamo a vederci di nascosto a casa mia. Ma qualcosa mi trattiene, non credo sia la paura di un suo rifiuto, credo sia la consapevolezza che il passato ha questo nome per un motivo valido, perché le cose prima o poi passano, scivolano via come le stagioni che velocemente si susseguono l’una all’altra e i ricordi di ciascuna, comprese le emozioni stesse, non torneranno mai ad essere quelle di una volta. Devo lasciare ai morti la consapevolezza che essi non vivono più, non posso mischiare la vita con la morte, sarebbe troppo rischioso. Pian piano mentre mi tendono la mano in un gesto di incredibile dolcezza, i loro volti si fanno sempre meno nitidi, diventano evanescenti, aria e neve gelida. Ora, so di essere di nuovo nel mondo dei vivi, ma prima di riemergere completamente dal profondo del mio stato ipnotico, vedo i due bambini indicarmi una stradina deserta dove sono posizionati dei grossi ciottoli e delle erbacce secche. Non vi è alcuna indicazione, non un segnale o un cartello qualunque, si vede solo una luce intensa, quasi celestiale, che conduce in un posto che si trova nella nostra coscienza e a cui è giusto che accedano solo poche persone, quelle che amano davvero. Mi prendono per mano e mi sorridono mentre mi accompagnano nel mio ultimo viaggio, quello che mi condurrà a casa, lontano dal loro mondo incantato. Sento un nodo in gola al solo pensiero di doverli lasciare e capisco che Frank ha avvertito il mio stato d’animo perché mi si fa’ vicino e mi dice qualcosa all’orecchio. -Non saremo mai troppo distanti per non rincontrarci di nuovo. Nevicherà presto e io sarò là con Gregory- Mio figlio sorride e mi asciuga le lacrime accarezzando dolcemente le mie guance arrossate dal freddo. Il suo tocco è quasi impercettibile, come se al mio fianco ci sia una piuma leggera che mi accarezza teneramente. -Ti vorrò sempre bene, ricordalo. E quando vedrai la mamma dille che la proteggo sempre dal mio mondo, dalle sapere che nonostante lei non mi possa vedere, io sono sempre accanto a lei. Addio, per ora. Li vedo svanire, entrambi allo stesso modo, mentre mi tengono per mano stando uno alla mia sinistra e Frank al mio lato destro, percorrendo assieme il lungo viale di ciottoli e sterpaglie, quello che ci separerà e mi porterà a casa. Arriviamo nel punto in cui la luce si fa’ sempre più intensa, ormai è accecante e sono quasi costretto a tapparmi gli occhi per paura di non riuscire più a vedere, ma i due bambini mi sorridono e cercano di tranquillizzarmi con il loro modo gentile affabile. Frank mi guarda per l’ultima volta mentre svanisce davanti ai miei occhi e ciò che mi rimane impresso nella mente è il suo pigiama a righe, lo stesso di trent’anni prima. Anche Greg sparisce dalla mia vista, lasciando dietro di sé una scia di freddo e neve, come un fantasma nella nebbia. Ora sono solo, con la consapevolezza che nel mio lungo cammino ho ritrovato un caro amico e quello che è sempre stato mio figlio. Non so dire se ciò che ho visto è stata la pura realtà o se ho avuto delle allucinazioni incomprensibili, ma di una cosa sono certo e niente potrà farmi cambiare idea, che quando amiamo veramente qualcosa o qualcuno dal più profondo del cuore, essi non ci abbandonano mai e il tempo e la distanza non impediscono loro di venirci a trovare. La luce si spegne e mi ritrovo nella mia stanza, in quella stessa camera soleggiata che on ho mai abbandonato. Mi gira la testa e non riesco ad aprire gli occhi, non faccio altro che pensare ai due bambini e per un attimo mi torna alla mente mia moglie. È assurdo, anche perché sono passati più di tre anni dall’ultima volta che l’ho vista, lei ormai avrà un’altra vita e non sta più in Germani, eppure in questo momento è come se fosse qua vicino a me e anche se mi è difficile ammetterlo mi manca come se non ci fossimo mai allontanati. Un dolore alla testa, fortissimo, mi costringe a premere forte le tempie e a massaggiarle senza risultato alcuno. Riesco a malapena ad aprire gli occhi e ciò che vedo mi spaventa come quando da piccolo credevo di vedere un fantasma tra le tende bianche del salone, solo che ora è un corpo vero, fatto di carne e ossa. Hans Wennel è di fronte a me, con un fucile tra le mani. Vedo la stanza girarmi attorno, proprio come mi è successo quando ho incontrato i bambini, solo che non c’è nessuna luce e la neve non inizia a scendere candidamente. Ora è il buio.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


Le mani di un bambino sono sempre candide, sento quelle del mio piccolo amico tra le mie. Mi prende l’istinto di volergli stringere il corpicino tenero, di abbracciarlo a me, ma allo stesso tempo esso è evanescente e puro -Papà- mi dice, - sono il tuo piccolo figlio- devi smetterla con il tuo lavoro, la mamma non sarebbe d’accordo- Mi vien voglia di piangere, sento le lacrime che fanno capolino dai miei occhi già umidi. -Va bene figliuolo, non accetterò quell’incarico. Parlerò con Hans- -Hans è morto, padre. È andato all’inferno assieme a Hitler, me l’ha detto la Madonnina. Te lo ricordi il tuo amico? Quella frase… Babbo è Gesù, la Madonna è mamma e il diavolo non c’è più?- -Si, me la ricordo bene- Mi prende le mani, è in una nuvola di vapore, sento le sue dita fredde di morte, e ne rimango quasi suggestionato. -Quella frase significa solo una cosa, devi seguire me e il tuo amico- Mi prende quasi un colpo. Mi dirigo verso la luce, quella che nessuno vede quando è in vita, riesco quasi a sentirne la fragranza. Sono i fiori del paradiso. La Madonna è davanti a me, candida in tutta la sua meravigliosa luce. Accanto a lei c’è il mio piccolo amico con il pigiama a righe, e un fuoco che sale, luminoso. -Quello è l’inferno, Daniel, dove è finito Hans. Tu sei libero perché sei un uomo sincero. Solo, non dovrai accettare l’incarico. Milioni di ebrei sono morti a causa dell’Olocausto, è un orrore, ed io la Madonna assieme a Gesù, mio figlio, siamo atterriti dal dolore. Ora verrai con noi, per sempre- Il cielo si fa’ sempre più scuro, vedo angeli ovunque. Mi prendono per le spalle e mi portano in un posto luminoso, accanto a mio figlio e al mio migliore amico. -Ciao Dan, ti ricordi quella volta a casa tua quando mi insegnasti a fare il bagnetto?- Ride e la sua risata ha un gusto quasi metallico. -Certo che me lo ricordo- gli dico, e mi sorprendo di me stesso nel sentire la mia voce che non trema affatto. Gli angeli mi fanno fare un salto, vedo Hans tra le fiamme dell’inferno, mentre grida e si dibatte tra i denti dei demoni che lo fanno a pezzi. Ogni ebreo che ha ucciso è ogni piccolo dolore al cuore. Deve pagare per ogni uccisione. Per l’eternità. -Ora noi godremo delle grazie divine per sempre, e la mamma quando sarà pronta ci seguirà. Non sei contento?- Mio figlio mi da’ un leggero bacio sulla guancia fresca di barba e io sorrido, contento e appagato. La Madonna ci sorride, e in mano tiene un rosario. Lo stesso che aggrappa anche il mio migliore amico. -Noi qua recitiamo sempre il rosario, perché voi che siete sulla terra non sapete quanto dolore ci sia nel cuore della nostra cara mamma- La Madonna gli porge un piccolo fiore, una rosa matura, e lui la odora, evidentemente deliziato. -Fate benissimo, posso aggiungermi a voi?- Recitiamo tutti il rosario, i misteri gaudiosi, e poi ce ne stiamo in silenzio, a contemplare l’aria del Paradiso. Non so se sia un sogno, o se sia la mia nuova realtà, ma mi piace. Vedo il mio migliore amico mentre gioca con mio figlio, la Madonna che ride allegra e Gesù che indica il suo sacro cuore mentre gli angeli trovano pace solo nel vederci felici. Tutto questo è Paradiso e alla fine non credo che Dio sia poi così tanto crudele. -Papà vieni a giocare con noi?- Lo guardo, assieme al mio migliore amico. Sono unici e inseparabili. Tiro un calcio al pallone, e i fiori mi sorridono.

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