What's the difference between Love and Death?

di TheMadnessInMe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Love isn't always fair ***
Capitolo 2: *** The romance I never had ***
Capitolo 3: *** Drag it to the grave ***



Capitolo 1
*** Love isn't always fair ***


E mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.❞Ugo Foscolo, Alla Sera

Chanel POV


Benvenuti gentili lettori e grazie per aver deciso di dedicare un minimo del vostro tempo alla lettura di questo mio scritto, di questo mio ricordo.
Grazie per aver deciso di vivere insieme a me quel giorno, quegli attimi che hanno segnato il resto della mia vita.
Ma prima di cominciare, lasciate che mi presenti: il mio nome è Chanel, ho vent’anni e sono originaria di Boston, Massachusetts ma attualmente mi trovo in Italia, più precisamente a Roma. Mi sono trasferita qui per frequentare l’Istituto di Disciplina, Arte, Musica e Spettacolo, meglio conosciuto come DAMS, dopo aver interrotto i miei studi in America.
Forse vi sembrerà una scelta stupida, probabilmente vi chiederete perché mai un americano dovrebbe voler venire a studiare in Italia.
Ve lo dico io il perché: perché l’Italia ha un patrimonio culturale e artistico vastissimo e ricchissimo, gli artisti italiani sono famosissimi e molto apprezzati in ogni parte del Globo, e sì, forse essendo americana sarò “di parte” ma dovreste seriamente imparare ad apprezzare maggiormente la vostra terra, dovreste provare a guardarla con gli occhi di uno straniero.
L’Italia mi sembrava il luogo migliore per intraprendere il mio corso di studi e devo ammettere che non ho commesso un errore.
Riassumendo ai minimi termini quello che è stato il mio primo anno a Roma, vi posso dire che sono riuscita a fare amicizia relativamente in fretta e in particolar modo ho stretto un bel rapporto con un ragazzo di nome Dante e una ragazza, Florence ed è proprio lei il punto cardine di questa storia.

Tutto ha avuto inizio verso la fine dell’anno, quando tutti stavano iniziando a dedicarsi ai loro progetti per l’esame finale. A quanto pare sia Dante che Florence erano a corto di idee, così come lo ero anche io.
Era da alcuni giorni che ognuno di noi provava a trovare qualcosa su cui far vertere il proprio esame finale ma nessuno ebbe un’idea geniale per almeno due settimane, fino a quando, come al solito, ci incontrammo al bar Night And Day in via Ventuno Aprile, con la precisa intenzione di trovare una soluzione efficace al nostro problema.


«Sono arrivata, scusate il ritardo.» - dico, prima di posare la tracolla ai piedi della sedia e prendere posto accanto a Florence. «Qualche idea?» - domando speranzosa.
«Macché.» - sentenzia Florence mentre sbuffa dal naso e batte ripetutamente un piede a terra con fare nervoso.
«E come se non bastasse il tempo stringe.» - aggiunge Dante.
«Okay, innanzitutto vediamo che tipo di esame dobbiamo dare singolarmente.»
«Perché, tu hai un’idea?» - chiedono all’unisono i miei amici, con gli occhi che brillano di speranza.
«Sì, ma… Non so se potrebbe andare.» - rispondo.
«Io dovrei scrivere un testo teatrale.» - dice Dante mentre addenta un cornetto.
«Io dovrei dare l’esame di pittura ma mi manca il soggetto.» - afferma Florence, nascondendo il viso dietro una tazza di tè fumante.
«Allora…» - mormoro, più a me stessa che ai due, cercando di far conciliare i tre esami nella mia mente. «Dal momento che io dovrei mettere in scena qualcosa, stavo pensando che forse…»
«Che forse…?» - mi fa eco Dante.
«E dai, Chanel, il tempo stringe!» - sbotta Florence, ormai visibilmente sull’orlo di una crisi di nervi.
«Florence vedi che se ti arrabbi poi non so più distinguere il tuo viso dai tuoi capelli!» - la punzecchio, trattenendo una risatina. Non è raro, infatti, che quando la ragazza si altera, le sue guance assumano una tinta dello stesso colore dei suoi capelli.
«Quando saremo fuori dal bar verrai schiacciata.» - sibila Florence.
«Ma se sei alta solo dodici centimetri più di me!» -ribatto, putandole un indice contro con fare inquisitore. Ogni volta che puntualizzo su questo particolare del suo carattere, Florence scatta sulla difensiva e ribatte dicendo che lei è “più alta”, anche se in realtà non di molto. Non che io sia bassa sia chiaro, sono alta un metro e settantatré ma chiaramente un metro e settantatré centimetri sono meno di un metro e ottantacinque.
«In ogni caso…» - dico, alzando di poco la voce per attirare l’attenzione. «Dante potrebbe riscrivere un testo per Giuditta e Oloferne, io potrei interpretare Giuditta e Florence potrebbe fare delle tele per delineare meglio gli ambienti in cui si svolge la vicenda. Ah, e dovresti anche interpretare il ruolo di Oloferne.» - aggiungo, rivolgendomi alla ragazza.
«Aspetta… Io dovrei fare Oloferne?» - balbetta lei, incredula.
«Sì. Insomma, è l’unica buona idea che mi è venuta in mente. Ti prego accetta… Ti prego, ti prego, ti prego…» - le faccio, alterando il suono della voce e giungendo le mani in segno di preghiera.
Di tutta risposta Florence sbuffa e alza gli occhi al cielo, rassegnata. «E va bene.» , dice. «Ma solo perché siete voi.»

Il mese precedente all’esame finale era stato interamente dedicato all’esame stesso: era come se Florence, Dante e io non avessimo alcun tipo di relazione se non quella che lega un collega a un altro. Un collega, sì, perché era questo che eravamo diventati. Questo perché il lavoro da fare era davvero tanto e trattandosi di un esame, cercavamo di rendere il tutto quanto più “perfetto” – e soprattutto omogeneo –  possibile. Da un lato non vedevamo l’ora di mettere in scena il nostro lavoro, così da «poter finalmente riprendere a respirare» - come eravamo soliti dire negli ultimi giorni prima della prova, dall’altro però eravamo titubanti e avremmo desiderato che quel giorno non arrivasse mai. In particolare, io avrei preferito non aver dovuto sostenere quel maledetto esame.

La nostra prova si sarebbe svolta nell’aula di teatro, la quale era grande abbastanza da poter ospitare tutti i docenti di entrambi i corsi di studio da noi scelti.
Dante aveva lavorato giorno e notte per portare a termine i dialoghi e la sceneggiatura, Florence aveva dato il massimo nella realizzazione delle tele raffiguranti gli ambienti e io ho concentrato tutte le mie attenzioni sulla messa in scena dei dialoghi, delle posture e dei gesti che avremmo dovuto portare sul palco.

«Diamine ma perché devono esserci tutti i docenti?» - chiede retoricamente Florence, sbirciando da dietro una spessa tenda di colore rosso posta su una delle metà del sipario.
«Perché devono esaminarci, genia.» - sentenzia Dante mentre cammina ripetutamente avanti e indietro.
Io non posso che cercare di nascondere il mio nervosismo. «Dante, la sceneggiatura è molto curata e lo sono anche i dialoghi. Non hai nulla di cui preoccuparti.» - gli dico, dandogli qualche pacca su una spalla per confortarlo. «E tu, Florence...» - aggiungo, posandole entrambe le mani sulle spalle «… tu hai fatto davvero un ottimo lavoro. Non solo hai realizzato le tele per la scenografia, ti sei anche messa in gioco. Mi hai aiutato nei dialoghi.»
Ritiro le mani dalle spalle della ragazza e, scostando un ciuffo biondo ossigenato dal viso, sbircio al di là del sipario, notando che i docenti stanno iniziando a prendere posto. Tiro un profondo sospiro, sparendo nuovamente dietro alla stoffa rossa.
«O la va o la spacca.» - dico allungando una mano verso il centro, invitando in modo indiretto i due ragazzi a far lo stesso, come forma di incoraggiamento reciproca prima di entrare in scena con Florence.


In tutto questo non c’è nulla di strano, nulla di sconvolgente, lo so. Quello che ha lasciato senza fiato chiunque, ciò che mi ha distrutto, è accaduto dopo quel che vi ho riferito fino a questo momento.


Eravamo ormai giunti al termine della rappresentazione teatrale: l’omicidio di Florence nei panni di un Oloferne ormai ubriaco a causa dei tre giorni precedenti passati a banchettare.
Ecco dunque che cautamente, avanzando con passo felpato, entro in scena pronta a sfoderare la spada con la quale uccidere il povero Oloferne alle spalle.
Inspiro profondamente dal naso, incamerando quanta più aria possibile principalmente per due motivi: per rilassare i muscoli dalla tensione accumulata fino a questo momento e per essere pronta a rendere quanto più reale possibile un colpo letale.
Ciò che accade dopo il mio respiro è un susseguirsi di azioni talmente rapide che ormai – se provo a ricordare quegli attimi– mi sembrano molto, troppo sfocate per poter essere considerate come reali.
La mia mano sinistra afferra i capelli di Florence tirando brutalmente il capo della ragazza verso di me, la lama della spada che tengo con la mano destra va a posarsi sulla sua gola, poco sopra le clavicole. Tutto questo mentre ritraggo il braccio con uno scatto, recidendo con violenza la gola della ragazza che cade di schiena non appena libero il mio arto sinistro.
Il mio cervello registra immediatamente le informazioni che riceve ma mi ci vuole qualche frazione di secondo in più per capire che cosa ho fatto.
La spada di scena, quella che sarebbe dovuta essere sicura, mi cade di mano, macchiata da un liquido di tonalità cremisi – la stessa tonalità del liquido che fuoriesce dalla gola di Florence, la stessa tonalità dei suoi capelli: un lungo segno scarlatto, profondo almeno quanto le sue idee utopistiche e il suo Io, le marca la gola, i miei occhi puntati su quell’erroneo squarcio fatale, così profondo eppure così delicato sul suo collo. Le luci sono putate tutte su di lei, tutte sulla sua ferita, sulla sua espressione di invadente agonia; è il momento indiscusso di climax ascendente di una tragedia che, per quanto elaborata, non può sfuggire alla realtà.
Prendo il suo corpo tra le mie braccia, lo avvicino al mio, avvicino le mie labbra alle sue, il mio orecchio al suo petto immobile; il suo corpo esanime non si tira indietro.
Copiosi applausi riecheggiano nella sala, la pervadono; gli spettatori si alzano battendo, compiaciuti e commossi, le mani con enorme fretta, come se allungando la durata dell’applauso possano donare a noi maggiore gloria e più profonda soddisfazione.
Il sipario inizia lentamente a chiudersi.
Quei lembi di stoffa rossa ci separeranno dal resto del mondo in modo definitivo; rimarremo solo tu e io amore mio, tu e io, da sole.
Le due metà del lenzuolo scarlatto si uniscono con un sinuoso movimento di perfetta coordinazione.
I suoi occhi si chiudono, lei spira.
La fine.

Maledico ancora quel giorno e quell’esame, maledico ancora la mia scelta di venire a studiare in Italia, maledico il giorno in cui arrivai qui a Roma e quello in cui strinsi amicizia con Dante e Florence ma soprattutto maledico il giorno in cui capii di essere innamorata di lei e nonostante questo, di non averglielo mai confessato.

Scrivo questo seduta al tavolino del bar Night And Day in via Ventuno Aprile, lo stesso bar che ero solita frequentare con Dante e Florence durante l’anno, con una tazza di tè fumante tra le mani – forse in memoria della ragazza. Ne assaporo ogni goccia, come se fossero le ultime della mia vita, prima che gli uomini in divisa alle mie spalle mi conducano verso il luogo in cui verrò punita per aver tolto la vita a Florence.
Non voglio che ve la ricordiate in questo modo però, priva di anima, inerme, resa fredda dal bacio dell’angelo della morte.
Il suo colore non era quello della morte ma il rosso: Florence –  bella come dice il suo nome, come Firenze –  era rossa.
Rossi erano i suoi capelli, rosse le sue guance quando mi divertivo a stuzzicarla. Rossa era la passione che aveva per ciò che faceva, rossa la sua rabbia, rosso il rossetto con cui impreziosiva le sue labbra già perfette. Quel rosso che tanto mi faceva girare la testa e battere il cuore, che mi faceva bollire il sangue nelle vene. Me lo fa bollire ancora e adesso continuerà a riscaldarmelo e a farmi luce, anche nel gelido buio in cui dovrò passare il resto della mia giovinezza.
 

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Capitolo 2
*** The romance I never had ***


Dante POV

Salve popolo di Internet.
Se vivete in Italia, probabilmente in questi giorni avrete sentito la triste vicenda che si è consumata al DAMS di Roma.
Oggi sarò io a raccontare la mia versione della storia, quindi – se ne avete la possibilità–  interrompete le vostre attività e dedicate un po’ del vostro prezioso tempo all’ascolto del mio racconto.

Con l’arrivo di settembre era arrivato anche l’inizio mio terzo anno scolastico e mi stavo procurando gli ultimi libri di testo che mi sarebbero serviti per studiare la teoria.
Ricordo il pomeriggio in cui, mentre tornavo in sede, mi sono imbattuto in una ragazza alta, dai lunghi capelli biondi e ossigenati e dagli occhi color ghiaccio che veniva nella mia direzione. Mi sembrava leggermente spaesata, così mi sono avvicinato e le ho chiesto se avesse bisogno di aiuto, al che lei, rivolgendomi un sorriso imbarazzato mormorò un «sì» nella sua lingua madre, l’inglese.
Venni così a sapere che il suo nome era Chanel, aveva vent’anni ed era originaria di Boston, nello stato del Massachusetts e che si era trasferita qui per terminare i suoi studi.

Dopo questo piacevole incontro ricordo di averla invitata al Bar Night and Day in via Ventuno Aprile, bar in cui avrei dovuto incontrare una mia amica, Florence. Ne approfittai, convincendomi del fatto che Chanel avesse bisogno di un punto di riferimento, di qualcosa da cui partite.
Ecco dunque, che alle tre e un quarto del pomeriggio io e Chanel varchiamo la soglia dell’ingresso del bar e raggiungiamo il tavolino dove Florence si sta già spazientendo.

«Sei in ritardo, scemo.» dice Florence senza degnarmi di uno sguardo mentre scosta un ciuffo rosso dagli occhi color ambra.
«Lo so ma ho incrociato questa ragazza e dal momento che viene da Boston ho pensato che potremmo darle una mano.» le dico con tono pacato indicandole Chanel. Soltanto adesso Florence si volta, dirigendo tutte le sue attenzioni alla ragazza al mio fianco.
«A che corso ti sei iscritta?» - le chiede Florence.
«Al corso di teatro.» - risponde la bionda.
«Ah, il mio stesso corso allora!» - dico entusiasta.
Di tutta risposta Chanel mi rivolge un sorriso gentile e passiamo il resto del pomeriggio in gruppo.
A dir la verità abbiamo passato tutto l’anno insieme, noi tre: abbiamo girato per la città, abbiamo frequentato il nostro bar abituale e abbiamo organizzato serate fuori; insomma ci siamo divertiti finché ne abbiamo avuto la possibilità.
Ma come ben saprete ogni anno si chiude con un esame e ben presto quel momento arrivò.
Eravamo a dir poco nei guai fino al collo, in quanto nessuno di noi tre sapeva che cosa portare agli esami fino a quando, un pomeriggio, ci incontrammo– come nostro solito– al bar.

«Sono arrivata, scusate il ritardo.» - dice Chanel, prima di posare la tracolla ai piedi della sedia e prendere posto accanto a Florence. «Qualche idea?» - domanda con un certo fare speranzoso.
«Macché.» - sentenzia Florence mentre sbuffa dal naso e batte ripetutamente un piede a terra con fare nervoso.
«E come se non bastasse il tempo stringe.» - aggiungo.
«Okay, innanzitutto vediamo che tipo di esame dobbiamo dare singolarmente.»
«Perché, tu hai un’idea?» - chiedo assieme a Florence, con gli occhi che brillano di speranza.
«Sì, ma… Non so se potrebbe andare.» - risponde la biondina.
«Io dovrei scrivere un testo teatrale.» - affermo mentre addento un cornetto.
«Io dovrei dare l’esame di pittura ma mi manca il soggetto.» - dice Florence, nascondendo il viso dietro una tazza di tè fumante.
«Allora…» - mormora Chanel, più a sé stessa che a noi due, come se stesse cercando di concentrarsi. «Dal momento che io dovrei mettere in scena qualcosa, stavo pensando che forse…»
«Che forse…?» - dico interrompendola e facendole eco.
«E dai, Chanel, il tempo stringe!» - sbotta Florence, ormai visibilmente sull’orlo di una crisi di nervi.
«Florence vedi che se ti arrabbi poi non so più distinguere il tuo viso dai tuoi capelli!» dice Chanel stuzzicando l’altra ragazza mentre trattiene una risatina.
A quanto pare ha già memorizzato come reagisce Florence quando si innervosisce.
«Quando saremo fuori dal bar verrai schiacciata.» - sibila Florence.
«Ma se sei alta solo dodici centimetri più di me!» -ribatte l’altra, putandole un indice contro con fare inquisitore.
«In ogni caso…» - dice, l’americana alzando di poco la voce per attirare l’attenzione. «Dante potrebbe riscrivere un testo per Giuditta e Oloferne, io potrei interpretare Giuditta e Florence potrebbe fare delle tele per delineare meglio gli ambienti in cui si svolge la vicenda. Ah, e dovresti anche interpretare il ruolo di Oloferne.» - aggiunge in seguito, rivolgendosi alla rossa.
«Aspetta… Io dovrei fare Oloferne?» - balbetta lei, incredula.
«Sì. Insomma, è l’unica buona idea che mi è venuta in mente. Ti prego accetta… Ti prego, ti prego, ti prego…» - le fa, alterando il suono della voce e giungendo le mani in segno di preghiera.
Di tutta risposta Florence sbuffa e alza gli occhi al cielo, rassegnata. «E va bene.» , dice. «Ma solo perché siete voi.»

È inutile che vi dica che le settimane a seguire furono costituite solo e soltanto da duro lavoro. Ci siamo spaccati la schiena e abbiamo perso ore di sonno per cercare di rendere tutto perfetto, per far sì che le cose andassero come volevamo. Ognuno aveva dato il meglio di sé nella realizzazione del proprio lavoro e finalmente il giorno dell’esame finale era arrivato.

Dal momento che l’incarico della sceneggiatura è stato affidato a me, decido che è meglio andare sul set prima delle ragazze, in modo da avere più tempo per controllare che tutto sia pronto per la messa in scena della mia opera. Con l’aiuto dei tecnici controllo che le luci funzionino, che gli abiti di scena siano pronti e, cosa più importante, che le spade di scena siano sicure.
In questo momento sento dei passi e ripongo le spade al loro posto, essendo sicuro che si tratti di spade innocue.

«Diamine ma perché devono esserci tutti i docenti?» - chiede retoricamente Florence, sbirciando da dietro una spessa tenda di colore rosso posta su una delle metà del sipario.
«Perché devono esaminarci, genia.» - sentenzio mentre inizio a camminare ripetutamente avanti e indietro.
«Dante, la sceneggiatura è molto curata e lo sono anche i dialoghi. Non hai nulla di cui preoccuparti.» - mi dice Chanel dandomi qualche pacca su una spalla per confortarmi.
Questa ragazza è incredibile: con due semplici pacche su una spalla mi ha fatto tornare la fiducia in me stesso.
 «E tu, Florence...» - aggiunge, posandole entrambe le mani sue spalle «… tu hai fatto davvero un ottimo lavoro. Non solo hai realizzato le tele per la scenografia, ti sei anche messa in gioco. Mi hai aiutato nei dialoghi.»
Ritira le mani dalle spalle della ragazza e, scostando un ciuffo biondo ossigenato dal viso, sbircia al di là del sipario. Poi tira un profondo sospiro, sparendo nuovamente dietro alla stoffa rossa.
«O la va o la spacca.» - dice allungando una mano verso il centro, invitandoci in modo indiretto a seguire il suo esempio, come forma di incoraggiamento reciproca prima di entrare in scena con Florence.
A questo punto esco di scena, nascondendo la mia presenza in un angolo in penombra della sala per far sì che l’attenzione dei docenti sia interamente rivolta verso le due ragazze.

La messa in scena ha inizio e prosegue secondo i piani ma più si avvicina la fine e più un senso di ansia, anzi, di angoscia, mi pervade. Per cercare di calmarmi vado dietro le quinte, intenzionato a controllare nuovamente lo stato delle spade poco prima della scena finale, quella che prevede l’omicidio di Oloferne per mano di Giuditta.
Sto giusto dando un’attenta occhiata a una delle spade di scena, quando Chanel fa la sua comparsa e mi dice di passargliene una. Senza esitazioni le allungo quella che ho in mano e, dopo averla vista sparire mentre torna sulla scena, ritorno a guardare il mio sceneggiato dal mio angolo in penombra.

Ecco dunque che Chanel entra in scena pronta a sfoderare la spada con la quale ucciderà la ragazza che interpreta il ruolo di Oloferne.
Ella inspira profondamente e mette fine alla mia tragedia: con una mano le tira i capelli e con l’altra le taglia la gola con una violenza che non avrei mai immaginato potesse possedere.
Ben presto realizza di averla uccisa e la spada di scena, quella che credeva essere sicura, le cade di mano, macchiata dal sangue di Florence che sgorga anche dallo squarcio sul suo collo.
Ecco allora che altri scenografi puntano le luci su Florence per far aumentare negli spettatori il senso di angoscia e di terrore, sensazioni che molto probabilmente sta provando anche Chanel.
Sul mio viso si forma un sorriso, un ghigno, che viene subito mascherato da un’espressione di terrore mentre mi preparo psicologicamente ad accogliere Chanel tra le mie braccia per confortarla.
Quel che accade una frazione di secondo dopo però mi lascia secco, anzi, mi fa inferocire: Chanel si accascia sul corpo di Florence– come rassegnata, come se in qualche modo stia accettando il fatto che la ragazza stia morendo e che lei sia l’unica responsabile della sua morte–, avvicina l’orecchio al suo petto– solo per scoprire, suo malgrado, che la ragazza sta morendo– e come se non bastasse la bacia.
La prende tra le proprie braccia e la bacia! Dovrei essere io a ricevere quel bacio, non quella! Che cos’ha lei che io non ho? Non sono stato io a condurla al bar, quel pomeriggio? Non sono forse stato io a farle conoscere Florence? Ho fatto di tutto per lei e lei che fa? Si innamora di Florence!
Forse è inutile arrabbiarsi tanto, ora come ora: Florence è morta, Chanel dovrà per forza venire da me.


I docenti si alzano e battono le mani soddisfatti del lavoro svolto, venendo verso di me per complimentarsi.
Con la coda dell’occhio noto Chanel alzarsi e sparire dietro il sipario per riapparire poco dopo con la tracolla su una spalla. Contrariamente a quel che avevo calcolato, Chanel non mi approccia nemmeno adesso; al contrario, esce dalla sala. L’ultima cosa che vedo sono i suoi occhi chiari arrossati dal pianto e il trucco sbavato sulle sue guance.
Dove era diretta e che cosa è successo in seguito, lo sapete anche senza che ve lo dica io.

 

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Capitolo 3
*** Drag it to the grave ***


Florence POV

A coloro ai quali giungeranno le mie parole voglio fare solo una semplicissima premessa: non so se questi miei pensieri riusciranno a sfiorarvi, ma se così dovesse essere, sappiate che vi sto lasciando questa testimonianza dall’oltretomba, mediante un processo di cui non mi è dato sapere.

Settembre era ormai alle porte eppure non mi sembrava vero, in quanto la mia estate sembrava essersi volatilizzata dall’oggi al domani. Se da un lato non vedevo l’ora di sporcarmi nuovamente le mani di pittura, dall’altro avrei desiderato altre due settimane libere, desiderio – ahimè– ovviamente irrealizzabile.

Questo era quello a cui avevo pensato una mattina, mentre mi alzavo dal letto per aprire le tende e dare il mio buongiorno a Roma.
 La mia giornata era iniziata come ogni altra, caratterizzata dalla solita routine che sicuramente tutti voi conoscerete, ma non appena scoccarono le due del pomeriggio mi ricordai che quel giorno, alle quindici, avrei dovuto incontrare Dante –un mio amico– al bar Night And Day in via Ventuno Aprile.
Dopo aver dato un’occhiata all’orologio, dunque, decisi che sarebbe stato meglio iniziare a prepararmi e fu così che sparii dietro il mio armadio.

Dal momento che odio essere in ritardo, lasciai la sede con un minimo di anticipo non appena fui pronta, in modo da poter vivere con calma quella vita frenetica che, in qualche modo, sentivo caratterizzava anche me.
Si può dire infatti, che condivido la concezione romantica dell’artista, secondo la quale l’uomo romantico non può star fermo un momento a causa del proprio vortice di emozioni che lo spinge alla costante ricerca di qualcosa di migliore, qualcosa che –per immensa sfortuna– si rivela essere inconoscibile e irraggiungibile ma che ciononostante attira a sé il romantico come una calamita con un pezzo di ferro.
Il mio flusso di pensieri si arresta non appena scorgo l’insegna del bar Night And Day in via Ventuno Aprile, la mia destinazione. Una volta all’interno del bar, dunque, do un buongiorno generale ai baristi e, guardandomi attorno, decido di prendere posto a un tavolino più o meno appartato posto accanto alla finestra, così da poter guardare la fiumana di gente che ogni giorno popola le strade romane. Soddisfatta della mia scelta, posiziono un gomito sul tavolino e poggio una guancia contro il palmo della mano e, guardando distrattamente l’andirivieni presente in strada, quasi mi dimentico del mio appuntamento con Dante. Mi rendo conto che il ragazzo è in ritardo solo quando sento provenire delle parole dalla radio, le quali affermano che ormai sono scoccate le tre e cinque minuti. La mia attesa dura solo dieci minuti in più ma –devo ammetterlo– ci basta poco per farmi spazientire certe volte, ecco perché quando Dante raggiunge il tavolino gli rivolgo una sorta di rimprovero.

«Sei in ritardo, scemo.» - gli dico senza degnarlo di uno sguardo mentre scosto un ciuffo dagli occhi con fare spazientito.
«Lo so ma ho incrociato questa ragazza e dal momento che viene da Boston ho pensato che potremmo darle una mano.» mi dice con tono pacato mentre indica una ragazza accanto a lui. Soltanto adesso mi volto, dirigendo tute le mie attenzioni alla ragazza al suo fianco: ella ha lunghi capelli biondi ossigenati e gli occhi di un azzurro così intenso che, mentre li guardo, mi pare di star affondando, come sopraffatta dalla violenza del mare.
È semplicemente magnifica.
«A che corso ti sei iscritta?» - le chiedo, cercando di non mostrare un interesse eccessivo nei suoi confronti.
«Al corso di teatro.» - risponde la ragazza.
«Ah, il mio stesso corso allora!» - afferma Dante con una certa allegria.
Di tutta risposta, la ragazza– il cui nome scopro essere Chanel–, gli rivolge un sorriso gentile.
Dopo aver consumato qualcosa nel bar passiamo il resto del pomeriggio tra le strade di Roma, mostrando alla bella americana quel che preferiamo della città.

Passare i pomeriggi con Chanel e Dante, fare giri per la città assieme a loro e dormire tutti e tre in un’unica stanza era ormai diventato parte del quotidiano, così come lo erano diventate le risate che costantemente riempivano le nostre giornate. Sentivo che la mia giornata poteva essere davvero piena e perfetta solo se Chanel rideva. In particolare adoravo guardarla mentre gettava la testa all’indietro con quel suo fare adorabile rischiando quasi di soffocare tra le sue stesse risate.
La biondina ha riempito, in questo modo, molte delle mie giornate di quest’ultimo anno– almeno fino a poco prima che venissimo a conoscenza delle date degli esami finali, notizia che fu come una secchiata d’acqua gelida, in quanto eravamo decisamente a corto di idee.
Tuttavia, in uno dei pomeriggi che precedevano la data d’esame, incontrai nuovamente i miei amici al solito bar, bar in cui conobbi Chanel, per cercare di risolvere assieme al loro il problema riguardante i nostri esami.

«Sono arrivata, scusate il ritardo.» - dice Chanel, prima di posare la tracolla ai piedi della sedia e prendere posto accanto a me.
A quale forza devo far appello ogni volta per non avvicinarmi a lei e respirare il suo profumo, per non posare– in un momento di pura follia– le mie labbra sulle sue e rubarle un bacio.
«Qualche idea?» - domanda con un certo fare speranzoso.
«Macché.» - sentenzio mentre sbuffo dal naso e batto ripetutamente un piede a terra con fare nervoso.
«E come se non bastasse il tempo stringe.» - aggiunge il ragazzo seduto al tavolino insieme a noi.
«Okay, innanzitutto vediamo che tipo di esame dobbiamo dare singolarmente.» - dice Chanel.
«Perché, tu hai un’idea?» - chiedo in sincronia a Dante, con un’espressione speranzosa in volto.
«Sì, ma… Non so se potrebbe andare.» - risponde la biondina.
«Io dovrei scrivere un testo teatrale.» - afferma il ragazzo mentre addenta un cornetto.
«Io dovrei dare l’esame di pittura ma mi manca il soggetto.» - dico io, nascondendo il viso dietro una tazza di tè fumante.
«Allora…» - mormora Chanel, più a sé stessa che a noi due, come se stesse cercando di concentrarsi. «Dal momento che io dovrei mettere in scena qualcosa, stavo pensando che forse…»
«Che forse…?» - dice Dante, interrompendola bruscamente, seppur senza volere.
«E dai, Chanel, il tempo stringe!» - sbotto, ormai preda del mio stesso nervosismo dettato non tanto dalla scadenza per gli esami, quanto dalla vicinanza di Chanel. Averla così vicino a me, tanto da avere la possibilità di sfiorarle un braccio o una gamba, se solo volessi, mi rende nervosa.
«Florence vedi che se ti arrabbi poi non so più distinguere il tuo viso dai tuoi capelli!» dice Chanel stuzzicandomi mentre trattiene una risatina.
A quanto pare ha un’ottima memoria.
«Quando saremo fuori dal bar verrai schiacciata.» - le sibilo a denti stretti, con una sottile ironia che sono sicura che Chanel coglierà.
«Ma se sei alta solo dodici centimetri più di me!» -ribatte lei, putandomi un indice contro con fare inquisitore.
«In ogni caso…» - dice poi, alzando di poco la voce per attirare l’attenzione. «Dante potrebbe riscrivere un testo per Giuditta e Oloferne, io potrei interpretare Giuditta e Florence potrebbe fare delle tele per delineare meglio gli ambienti in cui si svolge la vicenda. Ah, e dovresti anche interpretare il ruolo di Oloferne.» - aggiunge in seguito, rivolgendosi a me.
«Aspetta… Io dovrei fare Oloferne?» - balbetto io, incredula mentre mi maledico per aver mostrato– seppur per un momento– una certa insicurezza.
«Sì. Insomma, è l’unica buona idea che mi è venuta in mente. Ti prego accetta… Ti prego, ti prego, ti prego…» - mi fa, alterando il suono della voce e giungendo le mani in segno di preghiera rendendo ogni obiezione da parte mia praticamente impossibile. Come potrei oppormi del resto, come potrei resistere a quegli occhi dolci in cui vorrei soltanto annegare?
Così, scacciando i miei pensieri e assumendo una finta espressione contrariata, sbuffo e alzo gli occhi al cielo, fingendomi rassegnata. «E va bene.» , dico. «Ma solo perché siete voi.»

Passammo tutti i giorni a seguire immersi nei nostri lavori: Dante lavorava alla sceneggiatura, io alle tele e Chanel, poverina, si destreggiava tra le proprie battute e le mie, dandomi di tanto in tanto qualche consiglio tecnico affinché io potessi rendere maggiormente sulla scena. Queste furono le attività di ognuno di noi fino al giorno precedente a quello della prova finale.

«Diamine ma perché devono esserci tutti i docenti?» -chiedo retoricamente, sbirciando da dietro una spessa tenda di colore rosso posta su una delle metà del sipario.
Dannazione, ho nuovamente dato cenno della mia insicurezza, devo prestare più attenzione. Come potrei sperare che Chanel possa provare interesse per me se mi mostro così debole?
«Perché devono esaminarci, genia.» - sentenzia Dante mentre prende a camminare ripetutamente avanti e indietro.
«Dante, la sceneggiatura è molto curata e lo sono anche i dialoghi. Non hai nulla di cui preoccuparti.» - gli dice Chanel dandogli qualche pacca su una spalla per confortarlo.
«E tu, Florence...» - aggiunge in un tono che posso definire semplicemente soave, facendomi fermare il fiato in gola. La ragazza, inoltre, posa entrambe le mani sulle mie spalle con fare gentile ma al contempo buffo, in quanto lei– più bassa di me di dodici centimetri– vuole confortare me.
 È quasi come se Pollicino stesse confortando il gigante.
«… Tu hai fatto davvero un ottimo lavoro.» - aggiunge. «Non solo hai realizzato le tele per la scenografia, ti sei anche messa in gioco. Mi hai aiutato nei dialoghi.»

Mio malgrado ritira le mani dalle mie spalle e, scostando un ciuffo biondo ossigenato dal viso, sbircia al di là del sipario. Poi tira un profondo sospiro, sparendo nuovamente dietro alla stoffa rossa.
«O la va o la spacca.» - dice allungando una mano verso il centro, invitandoci in modo indiretto a seguire il suo esempio, come forma di incoraggiamento reciproca prima di entrare in scena mentre mi limito a seguirla.

Quando Chanel mi aveva assicurato che non avrei più badato alla mia ansia da prestazione una volta iniziato lo spettacolo– devo ammetterlo– non le avevo creduto ma devo anche constare, adesso, che invece era vero: la messa in scena, infatti, sta procedendo senza intoppi e quasi mi sto divertendo a interpretare il ruolo di Oloferne, quasi mi dispiace che tra poco tutto questo avrà fine.
La penultima scena si conclude e, come da copione, Chanel va dietro le quinte per prendere una spada e mettere in atto la scena dell’omicidio, ricomparendo poco dopo sulla scena.
Dal momento che non percepisco alcun rumore di passi, mi domando quando arriverà Chanel con quella spada nella mano, quando me la punterà al collo per uccidere Oloferne, mentre l’ansia inizia lentamente a riprendere possesso della mia mente.
Questo processo però si arresta automaticamente quando mi sento afferrare per i capelli, il che mi fa capire che la fine della tragedia è ormai arrivata. Chanel mi punta la lama alla gola, posizionandola poco sopra le clavicole e, con un colpo secco, mi recide la gola in modo così realistico che anche il dolore sembra reale.
Quando avverto un forte bruciore alla base del collo però, nello stesso punto in cui pochi secondi prima era stata puntata la spada, capisco che la sensazione di bruciore è dovuta a una ferita reale che ha preso a sanguinare.
Chanel lascia la presa e io non posso impedire al mio stesso corpo, ormai morente, di cadere di schiena sul parquet del palco scenico.
Cerco in tutti i modi di restare cosciente, di tenere gli occhi aperti ma le mie palpebre diventano sempre più pesanti e sono costretta a chiuderle mentre l’oscurità si avvicina pericolosamente al mio corpo inerme.
Avverto le braccia di Chanel attorno ai miei fianchi, il suo petto muoversi a intervalli irregolari contro il mio e le sue labbra– quelle candide e dolci labbra che così tante volte avevo sognato di baciare– a contatto con le mie, ormai fredde.
Quest’unica sensazione di tepore e quest’unico bacio, che per così tanto tempo avevo sperato di dare o di ricevere, sono le uniche emozioni che mi è concesso di portare con me all’oltretomba, prima di dover lasciare la mia amata Chanel con un guscio vuoto tra le braccia. Lei, nonostante la sua insicurezza, ha avuto il coraggio di compiere un gesto semplicissimo ma che a entrambesoprattutto a me– sembrava essere irrealizzabile.

Non dovete pensare che io abbia lasciato Chanel da sola, però, perché non è così. In qualche modo io, dal luogo in cui mi trovo, veglio su di lei, la proteggo per quanto mi è possibile e cerco di illuminare le sue giornate nello stesso modo in cui lei ha illuminato le mie.

Conoscete già il punto di vista di Chanel e siete venuti a conoscenza anche di quello di Dante, che poverino, non sopportando l’idea di aver distrutto psicologicamente Chanel, si è gettato nelle acque del Lungotevere, assillato dall’idea dell’ergastolo e dai sensi di colpa e dal rimorso, ponendo così fine alla sua stessa vita.

A me non resta dunque che il ricordo di quell’anno passato a Roma, l’ultimo anno della mia vita, passato in compagnia del mio amico Dante di quella ragazza straniera, Chanel, che nonostante i miei tentativi di mostrarmi scaltra e sicura di me, aveva imparato a conoscermi per quello che ero realmente e che anzi, me ne rendo conto soltanto ora, amava particolarmente il lato più debole e umano della mia personalità.


Questa mano viva, che ora è calda e capace
di stringere forte, potrebbe, se fosse fredda
nel gelido silenzio della tomba,
ossessionare i tuoi giorni e raggelare le tue notti piene di sogni
così che tu vorresti prosciugare del sangue il tuo cuore
per far scorrere nuovamente nelle mie vene la vita scarlatta,
e avere finalmente coscienza tranquilla: ecco, prendila -
io la porgo a te.
— John Keats, This living hand now warm and capable, traduzione

 

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