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Davanti
ai miei occhi si svolge il filo del Destino.
Feroce urla il Corvo dinanzi alle Schiere Oscure,
gracchia nei cieli del mondo alla ricerca del sangue perduto,
trama contro i figli di Yggrasil.
Dalle stelle del Nord, il sole arrossa la terra,
là dove Vita e Morte camminano fianco a fianco.
Nel tempo del lupo, la terra
si impregnerà di sangue innocente.
Il Guardiano spezzerà i lacci
per combattere la guerra del Mondo nato dal Nulla.
Arriverà alla fine dell'orizzonte, con la Morte come sua
fedele compagna e seguace.
Sprofonderà nel cuore della terra, con la luce del Padre a
fargli da guida.
Calcherà le Lande dei Primordi, con Amarnwyn e i figli di
Yggrasil.
Allora il Protettore dell'Abisso vestirà le carni del figlio
del Corvo.
[La Profezia della Veggente, parte perduta]
L’odore di sudore
e il tanfo della malattia aleggiavano nella stanza, permeando ogni cosa.
Ciotole di sangue giacevano ai piedi del letto. Lysandra le guardò appena, mentre attendeva che la
serva, nonché ultima amante viva di Voren II, terminasse di
aiutarlo a indossare l’armatura: quella mattina il re, suo
marito, era riuscito a parlare e aveva ordinato che gli venisse
portata. Ovviamente quell’umana, una donna che Lysandra non
considerava nemmeno, era accorsa subito, pronta a obbedire agli ordini
del suo sovrano, nonché benefattore. Con tutti i soldi che
le aveva dato in quegli anni, la sua famiglia avrebbe vissuto negli agi
della città alta per almeno altre tre generazioni.
Il re grugnì qualcosa tra i denti, spalancò gli
occhi e aprì la bocca inspirando quanta più aria
poteva. Lysandra si girò a guardarlo. Il baluginio dorato
dell’armatura imperiale le riempì gli occhi. Era
ancora perfettamente integra, lucida, senza nemmeno
un’ammaccatura. Voren II non era mai stato un uomo forte
né di mente né di corpo e la guerra
l’aveva vista solo attraverso gli specchi magici; eppure nel momento della dipartita, voleva mostrarsi come un guerriero. Un lieve
sorriso arcuò le labbra di Lysandra quando la serva si
chinò per asciugargli il rivolo di bava rossa che gli colava
da un lato della bocca.
- Mio signore… - esordì incerta, - non sarebbe
meglio aspettare che arrivi il chierico di corte? -
L’uomo scosse la testa e una scintilla di consapevolezza si
accese in fondo alle iridi offuscate. Poi, facendosi aiutare dalla sua
amante, si puntellò sui gomiti e tentò di
mettersi seduto.
Lysandra osservava, immobile, le braccia incrociate sul corpetto nero,
ricamato con merletti e gemme d’ossidiana lucente, e le
labbra lievemente storte in una smorfia piena di biasimo. Voren non
aveva nulla di Sejrel, il suo defunto padre. Era un sempliciotto, un
uomo di ormai sessantasette anni che non aveva concluso nulla. Se non
fosse stato per lei, a quell’ora le casse della capitale
sarebbero state vuote e la guerra che lei lo aveva spinto a dichiarare
sarebbe già stata perduta da un pezzo.
“L’unica cosa buona che tu possa fare è
morire, mio caro.”
La porta della camera si aprì con uno schianto e Rogar, il
chierico di corte, fece il suo ingresso col respiro ansante a l'aria
trafelata. La lunga veste bianca frusciava ad ogni suo passo,
donandogli un’andatura leggera, aggraziata, in netto
contrasto con l’espressione torva del viso e le mani callose
e tozze tipiche della sua razza.
- Delia, cosa stai facendo? Il re deve riposare. -
La ragazza occhieggiò nella sua direzione, per poi tornare a
concentrarsi sulle labbra del sovrano che, adesso, si erano schiuse in
una smorfia tremante e grottesca. La malattia che gli anneriva il
sangue e lo gettava in lunghi periodi di catatonia stava di nuovo
prendendo possesso del suo corpo. Ormai, pensò con piacere
Lysandra, la coscienza lo abbandonava per settimane, a volte per mesi
interi.
- Ho… ho il permesso della regina e del re. - si difese con
un fil di voce, stringendo appena il braccio del sovrano.
Rogar spostò lo sguardo sulla donna che Delia aveva appena
chiamato regina, squadrandola con una delle sue solite occhiate
inquisitorie. Lysandra però rimase impassibile, trattenendo
un sorriso dietro la linea pallida delle labbra serrate. Le sarebbe
bastato poco per farlo condannare, uno sguardo insolente di troppo e le
guardie non avrebbero esitato a trascinarlo giù nelle
prigioni, ma sapeva che con un gesto del genere avrebbe perso
l’appoggio di Cal’doran e di Valakas e non poteva
permettersi di inimicarsi due tra i senatori più influenti
del Consiglio, non ora. Questo però non significava che
avrebbe lasciato correre qualora quel nano spocchioso avesse tentato di
mettersi palesemente contro di lei. Non era così stupido da
osare sfidarla apertamente, ne era consapevole, ma la sua rabbia
silenziosa costituiva un ottimo spettacolo nell’attesa del
momento propizio.
Dopo un lungo silenzio, Rogar sospirò. La luce obliqua del
sole invernale si rifletté sulla fascia di bronzo e ferro
battuto che gli cingeva il capo chino.
- Permettetemi di dargli un po’ di latte di papavero,
maestà. - disse rivolto alla regina.
- Come volete, maestro. Siete voi l'esperto. - rispose Lysandra.
Il nano serrò i pugni e per un istante parve sul punto di
scoppiare, tanta era la collera che stava reprimendo. Poi parve
calmarsi, prese una delle fiale che portava alla cintura, la
stappò e si avvicinò al re, ma questi lo
allontanò con un debole gesto della mano.
- Non mi serve, Rogar. - rantolò sofferente.
- Vostra altezza… -
- Ho detto di no. - ripeté con più decisione,
prima di piegarsi in un eccesso di tosse.
Il sangue gli sporcò le labbra e gocciolò in
lacrime scarlatte sui gambali dell’armatura lucente. Delia lo
pulì con un fazzoletto e, in silenzio, tutti rimasero in
attesa che recuperasse il fiato.
- Volete anche l’elmo, sire? -
- No, quel coso mi soffoca. Portami la spada, piuttosto. -
Il chierico aprì la bocca per ribattere, ma bastò
un’occhiata del re per metterlo a tacere. Un’altra
delle sue buone qualità, pensò distrattamente
Lysandra, era la sua cocciutaggine infantile, quella testardaggine
insofferente che manifestava ogniqualvolta uno dei suoi Consiglieri
tentava di dissuaderlo. Voren si era sempre impuntato, forte della sua
autorità e del presunto rispetto che pensava i suoi sudditi
nutrissero per lui, senza mai rendersi conto che qualsiasi scelta
avesse fatto negli ultimi quindici anni di regno era stata decisa da
lei.
“Sei debole, Voren, debole come un bambino, sia nella mente
che nel corpo.”
Quando si era infiltrata a corte sotto le spoglie di una normale umana
era stato difficile conquistarsi la fiducia di Sejrel Varaldien. Il
monarca, per quanto giovane, era un uomo acuto, intelligente, che non
si faceva abbindolare dal fascino o dalle parole di Wecilia Mallus,
l'identità che aveva assunto per avvicinarci a lui. Aveva
dovuto fargli terra bruciata intorno e instillare il seme del dubbio
sulla fedeltà dei suoi sudditi per averne il pieno controllo
e, anche dopo che l’unico che gli era rimasto accanto era
Xerxas Ascrocell, il precedente sovrano di Esperya non si era mai
totalmente piegato al suo volere. Quando era venuto il momento di
ucciderlo, le era quasi dispiaciuto.
Lo sferragliare dell’armatura la ridestò dai
ricordi e, quando puntò lo sguardo su Voren, lo vide
infilarsi i guanti d’arme per poi alzarsi per prendere lo
spadone dalla rastrelliera. Strinse l’elsa tra le mani e con
un gemito lo sollevò. La luce morente del giorno rifulse
sulla lama affilata, scivolando in una dorata carezza liquida sulla
guardia rastremata, sul pomo pesante istoriato con le fauci snudate di
un leone. Quando tornò a sedersi, il suo respiro era un
rantolo affannoso. La coscienza, la scintilla di vita che si era accesa
in fondo a quelle iridi torbide, lo stava lentamente abbandonando.
Lysandra non sapeva a cosa fosse dovuta quella malattia che lo
consumava da dentro, ma ciò di cui era sicura e che aveva
davvero importanza era che non era curabile, nemmeno con la magia. Non
con quella così primitiva degli umani, almeno.
- Fate chiamare i membri del Consiglio… -
La sua voce era un sibilo appena udibile. La mano tremava appoggiata
all’elsa della spada, così come tutto il suo
corpo, piegato dal peso dell’armatura.
- Ho già mandato un messo, mio re. - Lysandra si sedette
vicino a lui e gli prese delicatamente la mano, - Arriveranno a
momenti, non ti preoccupare. -
Mentre lo diceva, al suo orecchio giunse il rumore di una moltitudine
di passi. Si concentrò un istante e subito
identificò dodici cadenze differenti, alle quali
associò ad ognuna i vari sussurri che riusciva a captare,
anche se tra lei e gli undici Consiglieri c’erano due doppie
porte e un lungo corridoio.
Posò piano le labbra su quelle del re, ignorando il sapore
maleodorante del suo alito, intrecciando con voluta lentezza le dita
con quelle tozze e callose di lui. Quando le due guardie si spostarono
per far entrare i membri del Consiglio, Lysandra si
allontanò lentamente da Voren, incrociando gli occhi
falsamente tristi con quelli sinceramente afflitti di Eron
Ked’Alith e Ferul Cordwyn, che le risposero con un
impercettibile segno di assenso.
- Vostra Altezza… -
- Niente formalismi, oggi. -
Arduin Valakas assentì, fece un passo nella stanza e si
inchinò, seguito da tutti gli altri che, fino a quel
momento, si erano limitati ad abbassare il capo in un silenzioso segno
di rispetto, trattenendo le smorfie di disgusto e raccapriccio alla
vista del sangue nelle ciotole. A Lysandra non era sfuggita
l’ombra che aveva attraversato i suoi occhi neri quando li
aveva visti scambiarsi quell’effusione, ma la regina era al
corrente di quanto quel giovane diplomatico allampanato dai lunghi
capelli chiari avesse sempre disapprovato le numerose amanti del re,
fin da quando la sua legittima consorte era morta. Ovviamente, a causa
dei numerosi nemici che brulicavano alla corte.
- Prego, sedetevi, ho un annuncio da fare. -
Lysandra, che nel frattempo si era alzata, schioccò le dita
e dei servitori entrarono portando dodici sedie. Li aveva avvertiti
preventivamente la mattina stessa, quando Voren aveva consegnato il
sigillo reale nelle mani di Eron e Ferul. Delia, assieme a Rogar, si
erano defilati non appena i dodici erano entrati, a malincuore,
consapevoli che qualsiasi cosa sarebbe accaduta tra quelle quattro
pareti loro non l’avrebbero saputa prima di qualche tempo.
Ancora una volta, Lysandra dovette ricacciare indietro un ghigno
compiaciuto.
Calò il silenzio, interrotto solo dal respiro spezzato del
sovrano. Anche se non lo stimavano, erano costretti a rimanere
lì, in attesa che fosse lui a prendere la parola, amaramente
consci che quell’uomo che per quindici anni avevano
osteggiato o supportato rimaneva comunque il loro re, superiore a tutti
loro in quanto autorità e forza. Se avesse voluto, sarebbe
bastata una semplice parola per portar via le loro terre, il denaro e
l'influenza a corte.
- Ormai la mia ora sta per arrivare. - esalò Voren con un
fil di voce, - Rogar e i chierici continuano a dire che se mi curassi,
la mia vita si allungherebbe ancora di qualche anno, ma io, come penso
tutti voi, so che questa è solo una bugia. Bisogna essere
coraggiosi e sinceri di fronte alla morte, che prenderà
tutti noi prima o poi. Scansarla non serve a niente. -
Si interruppe per riprendere fiato, le labbra screpolate schiuse nel
tentativo di ispirare ancora più aria. Anche in quel
momento, con il viso contratto in un’incrinata maschera
severa e la bocca serrata in una smagrita linea pallida, sembrava solo
il simulacro di un re, una statua di cera sciolta
dall’espressione risoluta liquefatta dalla malattia.
- Non ho avuto eredi e l’unico che ho potuto stringere tra le
braccia è morto assieme alla mia adorata regina. La lady qui
vicino a me, - allungò la mano tremante, cercando quella di
Lysandra, - mi è stata di conforto, ma gli Dei non ci hanno
concesso il dono di un figlio maschio. La tradizione vorrebbe che io
nominassi uno dei miei cugini o nipoti, ma, ahimè, nella
famiglia di mio padre si sono insediate delle terribili serpi, vermi
che attendono solo la mia dipartita per mettere le mani su un trono che
spetta ai Varaldien per diritto di nascita. -
Lysandra prese il bicchiere di cristallo sulla scrivania di mogano
intarsiata con fiori e foglie d’edera sui bordi e lo
aiutò a bere. Il sudore lo faceva apparire ancora
più pallido, malato, e le guance scavate e le profonde
occhiaie violacee non facevano che accentuare
quell’impressione.
- Cosa avete dunque deciso di fare, sire? -
A parlare era stata Kitiara Azlan, la consigliera più
anziana assieme a Ferul Cordwyin. Indossava la lunga tunica quasi
monacale della sua casata, con il giglio bianco ricamato sul petto e i
capelli striati di grigio raccolti in una coda laterale. Per un
istante, quando i loro occhi si incrociarono, quelli del re sembrarono
riprendere vita. Sbatté le palpebre un paio di volte per
riscuotersi dall’intorpidimento che stava lentamente
prendendo possesso del suo spirito e sostenne il suo sguardo
impassibile. L’aveva sempre considerata una sorella maggiore
ed era stata l’unica a cui aveva dato retta, anche contro il
volere di Lysandra.
La regina la osservò di nascosto e digrignò i
denti.
“Un’altra amica di Xerxas che dovrò
premurarmi di far sparire.”
- Ho intenzione di fare la cosa giusta, Consigliera. -
replicò in un sibilo affannoso, - Ho discusso a lungo con i
giuristi, nel nostro codice è previsto che io debba passare
il potere a uno dei miei consanguinei, ma ci sono stati casi in passato
che hanno visto una regina sedere sul trono. Io reputo che, visti tutti
i nemici che anelano ingiustamente a prendere il mio posto, sia il caso
che sia Wecilia, la mia amata consorte, a sostituirmi. -
Un brusio costernato riempì la camera. I Consiglieri, a
parte Ked’Alith e Cordwyn, si scambiarono delle occhiate
preoccupate, senza che però nessuno trovasse il coraggio di
aprir bocca. Persino Kitiara era rimasta pietrificata, sbigottita da
quella decisione di cui lei era totalmente all’oscuro.
- Vostra Altezza, con tutto il rispetto per voi e per lady Wecilia, non
mi sembra una scelta saggia... - tentò di dissuaderlo, ma il
sovrano scosse la testa.
- Ho già deciso. - la interruppe brusco, - Wecilia
è la scelta migliore. In tutti questi anni è
rimasta sempre al mio fianco ed è capace di governare anche
meglio di alcuni di voi. Non ho intenzione di cambiare idea. -
Kitira chiuse gli occhi, mordendosi la lingua. Era ovvio che non fosse
d’accordo, ma non poteva opporsi alla decisione del suo
sovrano. Forse avrebbe tentato nuovamente di convincerlo se, come da
copione, Ked’Alith non si fosse intromesso.
- Io sono d’accordo con voi, mio re, anzi, penso che sua
maestà lady Wecilia si sia dimostrata più volte
all’altezza di saper governare. -
Occhieggiò in direzione di Cordwyn, che continuò:
- Appoggio pienamente quello che è stato detto. Posso capire
che sia un evento assai inusuale, ma abbiamo dei precedenti di una
certa importanza. Se il nostro sovrano pensa che questa sia la scelta
migliore, chi siamo noi per opporci? -
Un coro di assenso si diffuse tra gli astanti che, poco dopo,
annuirono. L’unica che rimase immobile con le mani strette a
pugno fu Kitiara.
- Consigliere Azlan, voi…? -
La donna ispirò profondamente. Gavyn Erdarwell, il secondo membro
più anziano, le strinse forte la spalla, come per avvertirla
del pericolo in cui il suo astioso silenzio la stava mettendo, ma lei
non parlò comunque, chiusa in un mutismo interrotto solo dal
respiro controllato. Man mano che il tempo passava, la tensione
cresceva e le facce, da allibite, divennero sempre più
nervose. Quello del re si era ormai offuscato, adesso la sua testa gli
ciondolava sul petto. Una parola aleggiò
nell’aria, muta e inespressa negli occhi spaventati dei
Consiglieri.
Con passo aggraziato, Lysandra si chinò su Voren e gli
accarezzò i capelli sudati, resi ribelli dai nodi che
nessuno aveva voluto sbrogliare.
- Non siete ancora d’accordo, Consigliera? Eppure mi sembra
che voi siate sempre stata la prima a millantare l’importanza
della democrazia. -
I loro sguardi si scontrarono. Lysandra sorrideva, sfidando apertamente
la donna a dire la sua, mentre con la mano accarezzava la spalla del
re. Per un lungo momento assaporò quel momento di vittoria,
quel silenzio che stava per diventare un pretesto per accusarla di
tradimento. Alla fine, però, la Consigliera
abbassò il capo. Bastò quel gesto di
sottomissione perché la tensione si allentasse.
- Bene, allora la decisione è presa. - dichiarò
Lysandra, prendendosi il suo tempo per scrutare uno ad uno tutti i
Consiglieri, - Se non avete altro da aggiungere, lasciateci soli.
Voglio passare gli ultimi momenti con mio marito. -
Nessuno osò ribattere.
Quando udì i passi svanire in lontananza, si concesse una
lunga risata, cristallina, squillante, vittoriosa.
Il re si riscosse un istante dal suo intorpidimento e alzò
la testa, incrociando i suoi occhi. Annegò in due iridi di
brace, di un rosso scuro e denso come quello del sangue nelle ciotole
ai piedi del letto. Esalò un lungo e sibilante respiro, con
gli occhi strabuzzati in un’espressione di profondo terrore
che fece ridere la Lich ancora più forte. Poi il suo cuore
smise di battere e la bellissima spada d’oro
scivolò dalle sue mani inerti, sbattendo sul pavimento con
un tonfo metallico.
La Lich abbandonò il cadavere di Voren sulle coltri sudate e
allungò le gambe, facendosi scrocchiare il collo. Che il re
avesse capito qualcosa in punto di morte non aveva importanza, i morti
non possono parlare.
“Non se io non lo desidero.”
Si umettò le labbra e, da sotto il colletto alto
dell’abito, sfilò una piccola sfera blu
perfettamente circolare. Il laccio argentato a cui era legata, sottile
come un capello, rifulse del lucore perlaceo della prima luna. Non
importava se il re aveva capito qualcosa, né se
c’era ancora qualcuno che avrebbe osato opporsi al suo
volere, avrebbe avuto tempo per schiacciarli. Ora che possedeva il
Cuore di Sershet, nessuno avrebbe più potuto fermarla.
Angolo Autrice:
Ebbene
sì, dopo quasi due anni, sono tornata. Mi dispiace avervi
fatto aspettare così a lungo, purtroppo avevo bisogno di
buttarmi su altro, scrivere altro, non perchè Fuoco non mi
piacesse, ma perchè assorbiva ogni mia energia. Adesso, con
l'inizio del nuovo anno, ho deciso di riprendere in mano e farvi
leggere le avventure di Ledah e Airis, non senza un po' di timore (le
mie solite paturnie mentali, ormai le conoscete... .) Allora, prima le
informazioni di servizio: la storia verrà aggiornata ogni
10/12 giorni questo mese e forse anche il prossimo, questo
perchè la seconda parte di Fuoco è un po'
contorta e quindi preferisco prendermi più tempo per
rileggere. In secondo luogo... in questi giorni metterò un
sunto del primo libro sulla mia pagina
così potrete rinfrescarvi la memoria qualora non vi
ricordaste gli avvenimenti precedenti. Uhm... credo di aver detto
tutto... sì, direi che non c'è altro da dire a
parte che spero che questa seconda parte vi piaccia e vi appassioni
come la precedente. Vi chiedo solo di non sparire e di farmi sentire la
vostra presenza, anche solo con un messaggio privato in cui mi dite
“ehi, bella, continua.” Mi servirà per
tenere a bada le mie continue seghe mentali XD
Ora vi lascio al capitolo, prossimo appuntamento fissato al 20 di
gennaio.
Hime
Camminava
attraverso
il
lungo corridoio di pietra nera, con
la polvere e la cenere che turbinavano nell’aria immobile ad
ogni suo passo. Una fitta foschia ammantava ogni cosa, stemperando e
come assorbendo la luce calda delle torce appese alle pareti.
Airis non sapeva come fosse arrivata lì, né cosa
di preciso la spronasse a proseguire, ma stranamente non le importava,
non in quel momento. In quel luogo, dove riposavano coloro che nel
corso delle ere avevano compiuto la sua stessa scelta, estranei
partecipi del futuro del Mondo Nato dal Nulla, nessun pensiero poteva
perturbare la pace eterna.
Continuò ad avanzare nel silenzio più assoluto,
sotto lo sguardo spento dei guerrieri nelle alcove, uomini e donne in
armatura che sedevano su troni d’onice e ossidiana. Percepiva
i loro occhi sulla pelle nuda delle spalle e, anche se una parte di lei
sapeva che non volevano farle male, non riusciva a non provare timore.
Airis cercò nelle loro figure la presenza di una scintilla
di vita, ma nessuno di loro batté ciglio, cristallizzati,
pietrificati in un limbo in cui il tempo aveva cessato di scorrere.
Alcuni indossavano sontuose cappe d’ermellino, di velluto
scarlatto, di morbida seta; altri portavano armature istoriate
d’oro e d’argento, impreziosite con gemme ed
elaborati arabeschi. I loro volti non erano noti ad Airis, ma sapeva
chi erano, poteva indicare il nome di ognuno di loro, raccontarne le
gesta, gli errori, gli atti eroici. Forse anche lei un giorno avrebbe
seduto in mezzo a loro, su un trono uguale, in quel posto dove solo a
quelli che avevano abbracciato il suo stesso destino era possibile
riposare.
Dopo qualche passo percepì una specie di sussulto alla sua
destra. Si fermò e girò il capo nella direzione
di quel timido suono, eppure così forte da incrinare
l’eterno silenzio che impregnava la pietra. Uno dei
dormienti, un umano seduto su uno scranno di lame smussate e narcisi
sbozzati nell’alabastro, sollevò le palpebre e
incontrò il suo sguardo. Per un fugace momento la guerriera
ebbe la sensazione che la vedesse, che i suoi occhi di un indaco
liquido l’avessero osservata mentre avanzava a testa alta in
mezzo al corridoio. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma
il suono si congelò nell’aria stantia prima di
poter prendere forma. Provò di nuovo a parlare, ma, ancora,
quello che giunse alle orecchie di Airis fu solo un mormorio inudibile.
Decise di proseguire, lasciandosi alle spalle quegli occhi sempre
più offuscati e la loro disperata invocazione.
Non seppe per quanto impose alle sue gambe di muoversi, forse
un’ora, forse qualche minuto: lì il tempo perdeva
di significato. Di tanto in tanto guardava dietro di sé
cercando di penetrare l’oscurità che, come un
essere vivo, inghiottiva la luce delle torce. Ormai, delle cinquanta
che l’avevano accolta quando aveva cominciato a camminare, ne
erano rimaste accese solo venti. Venti, come i guerrieri allineati
lungo i due lati del corridoio. Un’altra sfrigolò
e si spense in un fruscio quando oltrepassò il trono dove
era seduto un nano, sulle ginocchia un arco d’oro tempestato
di gemme preziose.
Il buio strisciò sul pavimento, allungandosi fino a
sfiorarle i piedi. Airis gettò appena un’occhiata
alla lunga ombra, rendendosi conto di non averne paura. Non
c’era niente, in quel luogo, che le facesse paura.
Un’altra torcia si spense dietro di lei, in risposta a un
altro passo, e la nebbia si sfilacciò come il tessuto di un
vecchio abito, per poi avvolgersi in volute fumose attorno a un trono
di ebano e acero, con venature di ferro e bronzo che si attorcigliavano
sullo schienale, compenetrandosi e allontanandosi in una danza di rune
e disegni intricati. Osservando quelle linee, Airis sentì
l’impulso di sedersi, di abbandonarsi al sonno che le pesava
sulle palpebre, ma sapeva che non era per quello che le era stato
mostrato.
Spostò lo sguardo davanti a sé, sulla nebbia che
le ostruiva la visuale. Ancora una volta, senza che nessuno glielo
avesse detto, capì che non doveva procedere oltre, che non
c’era ragione che lei vedesse quello che si nascondeva al di
là di quel muro grigio. Così si
avvicinò al trono, pulì il seggio dalla polvere e
vi si sedette. Non c’era altro suono se non il suo lento e
quasi inudibile respiro.
- Guardiana. -
Una voce rimbalzò sulle pareti di roccia. Il timbro era
insieme maschile e femminile, come se un uomo e una donna avessero
parlato in coro.
- Figlia mia, finalmente sei qui. -
Airis chiuse appena gli occhi. L’armatura – quando
l’aveva indossata? Non aveva sentito il suo peso mentre
camminava – le gravava sulle spalle, sulle braccia, sulle
gambe, una gabbia aderente d’acciaio e ferro da cui non
poteva scappare. Non fu facile trovare la forza di parlare, dare corpo
a quella domanda che premeva prepotentemente sulla lingua.
- Chi… chi sei? -
- Sono colui che diede respiro a Vita e Morte. -
Una stretta gelata le avvolse le tempie, mentre una mano invisibile le
accarezzava delicatamente la guancia. Era liscia e ruvida al tempo
stesso, in qualche modo le ricordava quella di suo padre e di sua madre
al medesimo tempo.
- Dove ci troviamo? -
- Nel luogo che ti appartiene, dove un giorno, se vorrai, potrai
riposare. - un refolo d’aria tiepida le fece turbinare i
capelli sul viso, - Ora ascolta ciò che coloro che hanno
accettato il tuo stesso destino hanno da dirti. Ascoltali e poi bevi,
abbandonati tra le braccia dell’oblio. -
Nel corridoio di pietra calò di nuovo il silenzio. Airis
attese un momento, il tempo di un battito di ciglia, prima che una
miriade di echi si riverberassero nell’oscurità,
nella sua stessa mente.
“Caillean.”
Sentire pronunciare il suo vero nome la riscosse dal torpore.
Sbatté più volte le palpebre, mentre apriva e
chiudeva i pugni ritmicamente, combattendo contro l’istinto
di alzarsi dal trono.
- Chi… -
La sua voce era poco più di un bisbiglio roco, flebile
persino alle sue stesse orecchie. Perché parlare era
così difficile?
- Chi siete voi? Cosa volete? - formulò con più
forza.
“Noi siamo te.”
Le ombre si agitarono e la nebbia alla sua destra si avvolse in spirali
sempre più intricate.
“Siamo i tuoi antenati. Sei qui per ricevere la
Verità, per vedere i giorni che ancora non esistono e le
cicatrici di quelli che ora non sono più.”
Airis scosse debolmente la testa: - Non capisco… -
“La comprensione è figlia della conoscenza,
Guardiana. Tu hai accettato il destino che era già stato
scritto per te e noi ora ti renderemo partecipe di quello che fu e di
quello che potrebbe essere. Chiudi gli occhi e ascolta, guarda,
ricorda.”
Le voci le martellavano nella testa, si alzavano
d’intensità, senza che nessuna bocca si muovesse
nell’aria immobile, senza che nessun respiro incrinasse il
silenzio che regnava attorno a lei, mentre il suo cuore rallentava
sempre più, così come il suo respiro.
“Questo è il nostro dono per te.”
All'improvviso, davanti ai suoi occhi si spalancò una
visione. Assistette a una battaglia sanguinosa tra due eserciti, uno
capeggiato da un elfo dalla corona d’argento e l'altro da un
uomo dagli occhi di bragia. Udì il loro grido bellico e
subito dopo le prime file si schiantarono le une sulle altre, e il
primo sangue venne versato. Ricordò il nome del condottiero
delle terre libere, Arawan di Llanowar, e per un istante
pensò di sbagliarsi, che quello fosse Ledah. Ma non era
così. L’uomo che cavalcava sul possente baio aveva
i lineamenti delicati dell’elfo, ma i suoi occhi erano
azzurri come il ghiaccio perenne dei picchi a nord, non verde muschio.
Lo scenario cambiò repentinamente. Vide un uomo dalla pelle
bronzea e gli ispidi capelli neri seduto su un trono d’oro e
gemme preziose. Alle sue spalle, ricamato su un arazzo sdrucito, c'era
il vessillo di un leone di fuoco. Udì il suo respiro greve
diventare un gemito gorgogliante, mentre la sua vita si spegnava sotto
le pugnalate di dodici uomini incappucciati, con indosso tutti delle
vesti riccamente decorate, nobiliari. Quando il corpo si
accasciò in una pozza di sangue, Airis ricordò il
suo viso. Era lo stesso dell’uomo che aveva tentato di
parlarle.
“Caillean, Figlia della Morte e Guardiana
dell’Ordine, ascolta le nostre parole.”
La visione mutò di nuovo. Nella penombra di una cripta,
Airis distinse i lineamenti di un vecchio seduto in mezzo a un cerchio
magico, i viso pieno di rughe, i capelli radi e le vene bluastre che
emergevano da sotto la pelle tirata. In mano, stretta tra le unghie
così nere da sembrare marce, teneva una piccola sfera blu.
Risuonarono nel buio dei rumori di passi, un ticchettio seguito dal
rumore strascicante di piedi, e d'un tratto un giovane elfo venne
buttato ai piedi del vecchio. In quel momento, la guerriera
associò gli occhi di bragia del dio delle tenebre a quelli
di quell’essere.
“Venti leghe al sud dovrai andare, oltre il Grande Mare la
nave dovrai condurre fino all’Oceano di fuoco e ghiaccio. La
tua meta è persa oltre l’orizzonte, nel castello
avvolto dalle nuvole e stretto dall’illusione di un
imperituro inverno.”
Sempre più rapide arrivarono le visioni, un vorticoso caos
di voci, suoni, ricordi che la violentavano e la stordivano.
Una bambina con i capelli blu e gli occhi più scuri della
notte correva nell’erba alta.
Un atrio tratteggiato nella calda luce del tramonto risuonava del canto
delle arpe e dei flauti, accompagnando in un valzer fin troppo sensuale
uomini e donne dalle ali sottili come farfalle.
Un drago con le squame lucide e gli occhi come tizzoni ardenti spiegava
le ali, vomitando un inferno di fuoco su due eserciti in lotta.
Airis era lì in mezzo e combatteva senza né scudo
né elmo, armata di una spada dalla lama scintillante di rune
e vene rosse.
“Procedi attraverso il Ponte che unisce i due Mondi e giungi
alla rocca dove giace la principessa eterna. Raccogli le lacrime dello
sposo e inginocchiati al cospetto della Madre della Montagna. Prega con
lei, danza con le sue figlie, odi e ignora il loro canto da
sirene.”
- Basta… basta! -
Provò a tapparsi le orecchie, ma le sue braccia erano
incollate al trono, pietrificate come se fossero anch’esse
delle sculture di legno. Gemette e un’ondata di calore le
percorse la pelle, riducendo le parole a un rantolo affannoso.
Vide un lupo e un falco che percorrevano una rorida prateria, col sole
dell’alba che dorava i pistilli delle neonate primule.
Udì il gracchiare iroso di un corvo e un forsennato battito
d’ali agitò l’aria immobile nella volta
stellata. E, negli occhi verde muschio del falco accoccolato vicino
alla lupa ormai morta, prima che un turbinio di piume nere lo
avvolgesse, rivide lo stesso sguardo disperato di Ledah.
- Ledah! -
Il suo urlo si spense in un gemito di dolore.
“Segui il percorso che scende nel ventre della Madre,
prosegui oltre le paure, oltre i fantasmi. Paga il più
atroce tributo e spendi il sangue di quanto più amavi dopo
che il Cigno ha deposto il suo scudo e prima che la Cerva fugga nel
firmamento.”
Il lezzo di sangue le penetrò nelle narici, invadendole la
gola, il petto. I cadaveri giacevano a mucchi sulla radura del Rashaar,
riversi in laghi di sangue che andava raggrumandosi. Molti erano
mutilati, senza braccia, gambe, gli occhi cibo di vermi e corvi
affamati. Airis fece spaziare lo sguardo in quella landa desolata, dove
assieme al grido degli spettri senza nome echeggiava il coro dei
vincitori, cavalieri dalle armature nere e i capelli bianchi come neve.
Poi un ruggito rimbombò in cielo e davanti a sé
gli steli arrossati divennero pipe d’oro e il sangue vino
speziato in calici luccicanti. Gli invitati giacevano scomposti a un
tavolo imbandito, con le mani ancora strette sulle cosce di pollo e la
faccia annegata nel piatto strapieno. In fondo alla sala, seduta su un
trono rialzato di spade insanguinate e teste mozzate, sedeva
l’uomo dagli occhi di bragia, le labbra arcuate in un sorriso
crudele. Sul capo portava una corona di rubini e teschi.
“Quando l’ultima torcia si spegnerà e il
ringhio del fuoco farà tremare le alte mura del castello
oltre le nuvole, lascia le lacrime dell’Eterna Sposa ivi dove
si posa lo sguardo. Allora estrai la lama del Padre dal cuore di roccia
e la mano che la difende dalla bocca della Madre.”
Airis urlò e stavolta la sua voce rimbalzò nel
corridoio di pietra col fragore di mille tuoni, eppure incapace di
sovrastare il brusio assordante che gli trafiggeva il cervello, un coro
di sussurri e di frasi infrante, confuse in un caos di sillabe e parole
strascicate.
- Basta, basta, andate via! -
Infine tornò il silenzio, denso e schiacciante, improvviso,
che le mozzò il respiro.
La prima sensazione che
strisciò nella sua coscienza, prima ancora che nel suo
corpo, fu il freddo. Poi avvertì qualcosa che spingeva sotto
la schiena, scricchiolando ad ogni suo movimento. Airis
tentò di rotolare via, ma prima che potesse completare
l'azione, l’oggetto che le pungolava le carni si ruppe con un
secco “crack”. Portò una mano dietro di
sé e le dita sfiorarono il legno di un ramo.
Sbuffò e strizzò gli occhi per riprendere
contatto con la realtà.
Si sorprese di quanto le venisse facile pensare ora. Si sentiva ancora
intontita, ma, nonostante un fastidioso ronzio nelle orecchie, riusciva
a mettere insieme una frase di senso compiuto. A fatica, si
tirò su a sedere e abbassò lo sguardo sulle
proprie mani, sulla pelle bianca delle dita trafitte dai raggi del
sole. Inspirò ed espirò per un lungo minuto,
quindi si decise a guardarsi attorno. Un istante più tardi
si impietrì.
Un cadavere, il suo, giaceva riverso a terra in una pozza di sangue
nera, il viso cereo rivolto verso il cielo, le ciocche rosse
sfilacciate nell’erba alta e le dita debolmente chiuse
attorno all’elsa di un pugnale dall’impugnatura in
argento alchemico. La tunica strappata lasciava esposta una profonda
ferita alla destra del cuore, poco sotto il costato.
Un disgusto gelido, accompagnato dalla paura più profonda,
le fluì nel ventre, le conficcò gli artigli nelle
viscere e tirò. Airis si piegò boccheggiando,
l’aria che le bruciava nei polmoni lasciandola senza fiato.
Se avesse avuto qualcosa nello stomaco, lo avrebbe vomitato. Non era
preparata a quella vista e Cyril non le aveva accennato nulla.
Immobile, come paralizzata, rimase per un lungo momento a fissare il
suo vecchio corpo, la testa che le pulsava furiosamente e il ronzio che
le assaliva le orecchie.
“Sarà… sarà per depistare
Lysandra.”
Tentò di convincersi, ma lo shock era stato enorme. Facendo
forza sulle braccia, si trascinò più lontano che
poté, finché la stanchezza non ebbe di nuovo il
sopravvento. Cadde distesa sull’erba, annaspando. Chiuse gli
occhi e tentò di concentrarsi sui suoni attorno a lei, sulla
voce della natura. Focalizzò la sua attenzione sul proprio
respiro, sul fruscio delle foglie mosse dal vento, sul battito
d’ali di uno stormo d’uccelli, che, come un essere
unico, volavano verso lidi più caldi in attesa della
primavera. Il ronzio diminuì fino a sparire e, dopo una
breve esitazione, riaprì gli occhi. I colori avevano ripreso
la loro naturale gradazione e, quantomeno i contorni delle cose
più vicine, avevano smesso di sfarfallare, permettendole di
scrutare il familiare paesaggio. Accarezzò con lo sguardo i
roridi steli d’erba, scivolò su di essi e si
spinse al di là delle cime imbiancate degli alberi, sulla
catena montuosa dei monti Eresse che, imponente come un drago
dormiente, svettava contro il cielo grigio. Alla sua destra riconobbe
il crepaccio, quello dove era precipitata quando…
Sospirò e si sollevò, spazzolandosi via la
polvere dalla tunica di lana e spesso cotone che indossava, la stessa
del suo cadavere. Scosse bruscamente il capo e allontanò
quel pensiero, richiamando alla mente i ricordi che aveva di quel luogo.
Sì, se la memoria non l’ingannava, doveva trovarsi
ancora vicino a Luthien e all’accampamento dei sopravvissuti.
Il ricordo di tutto quello che era accaduto
l’assalì, togliendole il fiato: Felther, il suo
tradimento, Lysandra, Baldur che cavalcava a perdifiato assieme a
Raiza, la viscosità del sangue che le imbrattava i vestiti e
le si attaccava alla pelle. Gemette e si morse le labbra fino a quando
il dolore non fu abbastanza forte da scacciare quelle immagini di morte.
“Devo rimanere calma, lucida. Respira, respira.”
Barcollò fino a un albero, un antico faggio dalle radici che
affioravano dal terreno fangoso, un misto di terra e neve sciolta che
le inzuppò i piedi. Vi si appoggiò con la schiena
e trasse un profondo respiro, lasciando che l’aria fresca,
quasi gelata, le decomprimesse i polmoni.
Le ultime parole di Cyril riemersero dalla memoria.
- Un anno. Un misero anno per salvare il mondo. Un po’ poco
per un’impresa di questo genere. I bardi avranno di che
comporre canzoni. -
Sorrise amara, per poi osservarsi le mani lisce, femminili, senza
più calli. La tunica copriva il suo nuovo corpo, ma
più Airis lo guardava, più non riusciva a
capacitarsi che appartenesse a lei. Non sapeva spiegarsi, ma lo
percepiva come estraneo, non suo. Forse, si disse, doveva solo di nuovo
abituarsi ad essere viva. Rammentava che anche la prima volta, quando
Lysandra le aveva impedito di morire, si era sentita nello stesso modo.
Il solo riportare alla mente il nome della sua vecchia aguzzina le
procurò una fitta allo stomaco. Era lei la causa di tutto
quel dolore, di tutta quella devastazione. Strinse i pugni e contrasse
la mascella così forte da far scricchiolare i denti.
- Ti ho promesso che ti avrei ammazzata, un giorno. Un Cavaliere
mantiene sempre le sue promesse. - sibilò.
Ingoiò la rabbia, imponendosi autocontrollo. Avrebbe messo
ordine nella sua testa più tardi, adesso doveva trovare
qualcosa di più pesante da mettersi e, magari,
un’arma.
Con un ringhio si staccò dall’albero e si
guardò attorno con più attenzione, alla ricerca
di un indizio che l’aiutasse ad orientarsi, ma a parte la
foresta e il cielo coperto di nubi non c’era niente.
Sospirò e si massaggiò le tempie. Da qualche
parte a nord dovevano trovarsi le rovine di Luthien e, probabilmente,
anche l’accampamento. Non sapeva se fosse scampato qualcosa
alla devastazione del drago e, sinceramente, cercava di non pensarci.
Il ricordo di Copernico con il suo sorriso affabile riemerse da un
angolo della sua mente, la ghermì con forza e la
trascinò di nuovo in quel caos di gemiti e urla. Le gambe
tremarono e Airis temette che non ce l’avrebbe fatta a
compiere un passo in più. Invece continuò,
ansimando ogni volta che il dolore le infliggeva una stilettata,
straziandole il cuore; proseguì finché non
riuscì più a trattenere le lacrime. Solo allora
si fermò e lasciò che la loro carezza umida le
scivolasse lungo le guance.
Pianse a lungo, nascosta all’ombra di un abete ricoperto di
muschio e mangiato dall’edera. Pianse per Copernico, per la
sua famiglia, per tutti gli abitanti di Luthien. Pianse in silenzio e
con quelle lacrime regalò la sua ultima preghiera per loro,
per i loro corpi insepolti e mai onorati.
Quando la crisi le diede tregua e fu in grado di ricacciare il dolore
in fondo all'anima, si impose di mettere un piede davanti all'altro.
Aveva un obiettivo ora, doveva salvare Ledah e non poteva permettersi
errori: quello che era accaduto era stato frutto della sua indecisione
e delle scelte sbagliate che aveva compiuto, continuare a rimuginarci
non avrebbe riportato in vita nessuno. L’unica cosa che
poteva fare era andare avanti a testa alta senza mai fermarsi e
adempiere allo scopo per cui Cyril le aveva donato quella nuova vita,
serbando nella memoria le voci, il calore e i sorrisi di quei giorni.
Quei ricordi, a differenza delle ferite, non si sarebbero rimarginati,
mai.
Esalò un sospirò stanco e obbligò la
sua mente a ricordare qualcosa di quel bosco. Il Tabor, il grande fiume
che divideva le regioni di Ferya ed Eleuterya, aveva molti affluenti,
per lo più fiumiciattoli di poca importanza. Quando era
all’accampamento riceveva regolarmente acqua, quindi le venne
spontaneo pensare che nelle vicinanze dovesse essercene uno. Si
guardò intorno e aguzzò l’udito,
controllando persino l’intensità del suo respiro.
Un sibilo di vento le portò all’orecchio un suono
ritmico e scrosciante a circa mezzo miglio da dove si trovava lei.
Prima di avviarsi, Airis raccolse un ramo da terra, quello che le
sembrava il più robusto, e riprese ad avanzare, stando bene
attenta a ogni rumore o fruscio sospetto. Non sapeva quanto tempo fosse
passato da quando i soldati di Felther avevano raso al suolo
l’accampamento, ma si augurava di non imbattersi in nessuno
dei suoi non-morti, anche perché in quel caso ci sarebbe
voluto ben più di un pezzo d’albero per cavarsela.
Con suo gran sollievo non accadde nulla e quando distinse la striscia
argentata del corso d’acqua, trasse un sospiro di sollievo.
Si inginocchiò sul terriccio umido e bevve con
avidità. Non si era resa conto di avere così sete
e, soprattutto, fame, fino a quando il suo stomaco non
protestò.
“Oh, fantastico…”
Raccolse le mani a coppa con tutta l’intenzione di lavarsi la
faccia, quando si pietrificò a guardare il suo riflesso.
Aveva gli stessi capelli, dello stesso identico rosso acceso, e anche
il viso non era cambiato, ma i segni indelebili che la guerra, le
battaglie e il passato le avevano lasciato addosso erano svaniti.
Sbalordita, arrotolò le maniche della tunica e poi quelli
dei calzoni fino al ginocchio. Niente cicatrici, niente segni di
bruciature, nulla.
“Che anche quella sia…?”
Con una certa titubanza, infilò la mano sotto la stoffa,
trattenendo il respiro. Quando le sue dita incontrarono la cicatrice
sul petto, il suo cuore perse un battito. Percorse quel vecchio taglio
per tutta la sua lunghezza, gli occhi socchiusi e le labbra serrate
nella morsa dei denti. Perché quella c’era ancora?
Perché Cyril non l’aveva fatta sparire come tutte
le altre? Domande a cui, per ora, non poteva dare risposta.
Riprese a camminare verso nord, tenendo sempre come punto di
riferimento il muschio che cresceva sul tronco degli alberi. Da quando
si era pugnalata, non ricordava assolutamente nulla, era come se avesse
dormito fino al momento in cui si era risvegliata nella Casa della
Cenere, il luogo dove riposano i vecchi Guardiani. Non sapeva quando e
come avesse acquisito quell'informazione, ma anche tutte le altre, che
si era resa conto di possedere mentre camminava verso il trono in fondo
al corridoio, sembravano essere spuntate dal nulla.
“In linea del tutto teorica, Cyril potrebbe
averle… trascritte nella memoria del nuovo corpo, ma
è pura speculazione. Avrebbe potuto dirmi qualcosa prima di
rispedirmi qui, sarebbe stato molto gentile da parte sua.”
Dopo aver riflettuto un po’, accantonò tutte
quelle domande e accelerò il passo. Il sole era
già alto e avrebbe preferito arrivare e lasciare
l’accampamento prima di sera. Tenendo sempre
sott’occhio il nastro di fumo che si alzava oltre le cime
degli alberi, risalì il fiume.
Pian piano l'astro diurno cominciò la sua parabola
discendente e la luce divenne sempre più tenue al di
là della coltre di nuvole che oscurava il cielo, mentre il
freddo diventava sempre più pungente. Quando finalmente
scorse la sagoma di una tenda rimasta miracolosamente in piedi, era
ormai l'imbrunire.
Solo dopo aver scandagliato l'ambiente circostante, Airis si decise a
entrare con cautela nell’accampamento, o meglio, di quel che
ne rimaneva. I soldati di Felther non si erano nemmeno degnati di far
sparire i corpi, lasciati in balia delle bestie selvatiche. Molti di
questi giacevano nella stessa posizione in cui la morte li aveva colti,
riversi nelle loro stesse interiora o in pozze di sangue ormai
raggrumato, gli occhi e la bocca spalancati invasi dai vermi e dalle
mosche. Sentì la rabbia montare. Scrutava quei volti lividi,
le loro espressioni di terrore, cercando di imprimersele nella memoria,
le dita serrate intorno al ramo e l’espressione del viso
impassibile che celava la tempesta nel suo animo.
Più volte si inginocchiò per chiudere gli occhi
dei morti, racchiudendo in quel gesto, l’unico che potesse
fare, una preghiera perché trovassero la pace in qualsiasi
posto fossero andati. Non distolse mai lo sguardo, nemmeno quando
urtò la testa di un bambino con l’espressione
terrorizzata ancora stampata sul viso e le lacrime gelate sulle guance
cianotiche. Il suo corpo mutilato giaceva poco più in
là, nascosto sotto quello di una donna a cui era stato
strappato un braccio.
Passò oltre tutti gli abitanti di Luthien, oltre i loro
cadaveri dissacrati, fatti a pezzi. Quando arrivò al centro
del campo, si diresse con sicurezza verso la tenda di Felther.
Alzò uno dei lembi e rimase per un lungo momento in silenzio
a contemplare le varie macchie di sangue che annerivano il terreno nei
punti in cui Raiza e Baldur avevano combattuto. Se mai un giorno li
avesse rivisti, si ripromise, li avrebbe ringraziati per averla
salvata. Il suo pensiero andò poi al Cavaliere del Drago,
alla speranza che aveva portato, per poi trascinarla nel fango assieme
alle donne, ai bambini, agli uomini innocenti che avevano creduto in
lui. La pelle sulle nocche della mano che stringeva il ramo si tese
così tanto da farle male.
- Non hai onore, Felther. - mormorò invelenita.
La luce del giorno sfumò nel rosso, per poi scurirsi nel
viola del crepuscolo. Da lontano, le orecchie di Airis colsero
l’ululato prolungato di un lupo e il cupo bubolare di un
gufo. Volse gli occhi al cielo e valutò che le mancassero
circa due ore prima che la notte calasse del tutto. Voltò le
spalle alla tenda e cominciò a setacciare
l’accampamento in cerca di un’arma e di qualcosa di
più resistente da mettersi addosso. Ricordava che, tra i
sopravvissuti, c’erano alcune guardie cittadine.
Sepolto sotto una delle tende al limitare del bosco, trovò
un uomo con un’armatura ancora in buone condizioni. Un
pugnale lungo gli trapassava da parte a parte il collo.
Prima di rivoltarlo di schiena, Airis prese un profondo respiro. Doveva
farlo o non sarebbe sopravvissuta. Sciolse le cinghie e con delicatezza
gli sfilò la corazza e cotta di maglia, stando bene attenta
che i capelli non si impigliassero negli anelli. Le sarebbe stata un
po’ larga, ma non poteva pretendere di più.
Riluttante, infine, tenne ferma la testa ed estrasse il pugnale in un
unico, rapido movimento. Lo pulì come meglio poté
sull’erba e lo infilò nella cintura di cuoio.
“Questo è per le emergenze. Mi serve qualcosa di
meglio per combattere.”
Si guardò intorno e, ancora una volta, dovette obbligarsi
per alzarsi e dirigersi verso il cadavere di un uomo vicino ai resti
del focolare. Una freccia lo aveva colpito alla schiena ed era uscita
dal basso ventre, dopo aver fracassato il bacino e aver squarciato
l’intestino e le arterie. Stretta ancora tra le dita gelate,
teneva una spada dalla lama in acciaio incrostata di fango. Il fodero
pendeva dalla cintura rimasta miracolosamente intatta.
La mano del morto si aprì senza che dovesse fare il minimo
sforzo. Prima di rimettersi in piedi, abbassò il capo,
ringraziando quell’uomo senza nome per il dono che le aveva
fatto, poi rinfoderò la nuova arma.
“Bene, ora… ora devo solo avviarmi verso la prima
città e…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che le sue orecchie colsero
un fruscio dalla parte opposta del campo, seguito dal tenue lucore di
una torcia.
- Chi va là? Aspetta, aspetta, non scappare! -
Airis non stette a sentirlo. Scattò, correndo verso il
bosco. Scivolava veloce nell’ombra, agile come non si sarebbe
mai aspettata, i piedi che toccavano appena terra e il sangue che
scorreva rapido nelle vene al comando concitato del cuore.
- Maledizione, aspetta! Voglio aiutarti! -
“A morire? No, grazie, semmai faccio da sola.”
Spostò un ramo che si frapponeva sulla sua strada,
saltò una radice particolarmente spessa e si
precipitò verso l’affluente del Tabor. Da
lì sarebbe stato facile far perdere le sue tracce o, almeno,
così sperava. Gettò una rapida occhiata alle sue
spalle e imprecò tra i denti, vedendo la figura del suo
inseguitore alle calcagna. Non aveva più la torcia e
chissà come riusciva a seguirla in quella fitta
oscurità.
Airis si addentrò ancora di più nel sottobosco,
frenò e girò quando colse lo sciabordio familiare
dell’acqua. Con i polmoni che le bruciavano e i muscoli che
protestavano per lo sforzo, si costrinse ad aumentare
l’andatura. Ma il suo inseguitore era sempre più
vicino e guadagnava terreno, a momenti le sarebbe stato addosso.
Quando vide il nastro argentato che tagliava il bosco, si
fermò all’improvviso e sguainò la
spada, descrivendo un ampio semicerchio davanti a sé.
L'altro si fermò poco prima di finire infilzato sulla lama.
- Stai indietro. - ringhiò.
- Va bene, va bene, calmati ora. Non voglio farti del male, solo
parlare. -
- Chi sei? -
Lo sconosciuto sospirò, si morse le labbra e rimase fermo
per qualche secondo, come se fosse indeciso sul da farsi. Poi
alzò entrambe le mani e fece un passo nella sua direzione.
La luce bianca della luna si infranse sul pettorale argentato,
illuminando le due ali dorate che circondavano una spada istoriata con
l’effige di un lupo.
- Sono Arghail, un soldato dell’esercito di Sershet. Ero di
stanza a porto Eamone e, quando io e i mei compagni abbiamo visto
quella luce accecante, ci siamo diretti subito qui. - fece un cenno con
la testa, indicando un punto alle sue spalle, - I miei compagni si sono
accampati poco lontano, ma io sono comunque voluto venire in
avanscoperta per vedere se c’era qualcuno. -
Airis lo scrutò, diffidente. Da quella distanza riusciva a
vederlo abbastanza bene. Era un ragazzo alto quanto lei, se non poco di
più, con i capelli castani che gli si appiccicavano alla
fronte sudata. Aveva le spalle larghe, rese ancora più
possenti dagli spallacci che le ricoprivano, e al fianco portava una
spada lunga, di ferro e acciaio temprato.
- Corri molto veloce per essere una ragazza. - buttò
lì Arghail, le labbra atteggiate in un sorriso
accondiscendente, - Devi avere un’ottima resistenza, visto
che non è di certo facile tenere quell’andatura
così sostenuta con quel peso. Eri per caso una guardia
cittadina? -
Airis fece un passo indietro. La carezza gelida dell’acqua
contro lo stivale le procurò un brivido freddo lungo la
schiena.
- Ascolta, davvero, non voglio farti del male. Siamo… sono
qui per aiutarti. - insisté, poi, vedendo che la sua
interlocutrice non sembrava avere intenzione di collaborare,
sospirò, - Puoi almeno dirmi dove sono i tuoi compagni e se
hanno bisogno di aiuto? Ho visto i morti, siete forse stati
attac… -
- Non c’è niente da salvare. - la voce le
uscì più ostile di quello che avrebbe immaginato,
- Non si è salvato nessuno, purtroppo. Non so cosa sia
successo qui, io… stavo solo cercando delle armi tra i
cadaveri. -
Il ragazzo aprì la bocca, per poi richiuderla senza dire
nulla. Un istante dopo sgranò gli occhi, incredulo e
sconcertato, e un flebile mormorio gli scivolò dalle labbra.
- Generale… -
Sentendosi chiamare con quell’appellativo, Airis si
immobilizzò. Fu allora che la testa cominciò a
girarle e tutto il mondo divenne un miscuglio frenetico di colori e di
sagome senza più contorni. Perse la presa sulla spada e
cadde in ginocchio, mentre il coro indistinto delle voci degli antichi
Guardiani le assaliva le orecchie e le invadeva la mente.
L’ultima cosa che vide prima di accasciarsi al suolo furono
gli occhi di Arghail.
Occhi chiari, di un indaco liquido illuminato da una sincera
preoccupazione.
Occhi come quelli del re nella Casa della Cenere.
Una supplica riecheggiò nel cervello, levandosi al di sopra
delle altre.
“Aiuta mio figlio a diventare re!”
Quel giorno il sole sembrava
splendere meno del solito. Nascosto dietro una coltre di nubi che
preannunciava neve, illuminava la valle con una luce tiepida, opaca,
che si smorzava sul verde sfumato degli steli d’erba e sulle
pietre bianche che punteggiavano quell’oceano frusciante.
Con un sospiro, Mirya tornò a guardare il libro che aveva
posato in grembo. Da ore continuava a leggere sempre la stessa frase e,
da altrettanto tempo, continuava a distrarsi guardando fuori.
Erano giunti ad Alabastria da poco più di una settimana e
ancora non si era abituata alla sua nuova condizione.
Chiuse il libro e ne accarezzò la costa logora, perdendosi
ancora una volta a osservare i disegni ormai quasi cancellati
dall’usura del tempo. Spostò poi lo sguardo sulla
stanza, sul tavolo in radica di noce, sul letto a baldacchino rifinito
in oro rivolto verso la finestra, sullo specchio cesellato di gemme
preziose abbracciato da pregiate stoffe di lampasso di seta gialla e
blu.
Chiunque avrebbe invidiato la sua condizione, al sicuro, servita e
riverita dal mercante più ricco della città. Da
quando era stata costretta a lasciare Amount-vinya, aveva sognato
spesso di vivere in pace, lontana dal sangue e dalla violenza, ma mai
avrebbe pensato che il suo desiderio si sarebbe realizzato
così in grande, per di più ad Alabastria, la
roccaforte dei nani del nord, la città-fortezza che, dopo
Lotka, aveva la fama di non essere mai stata espugnata. Le due
però non potevano essere più diverse. La prima
era stata fondata alle radici dei monti Eresse e si sviluppava
interamente sottoterra. Solo la grande facciata del grande castello,
scolpita direttamente nella roccia, vedeva la luce del sole. Mentre
viaggiavano, Myria aveva scorto i tre portoni di ferro in lontananza,
ma Baldur aveva optato per proseguire oltre: i nani di Lotka erano
feroci, ostili e lui non conosceva nessuno lì in
città che avrebbe potuto accoglierli. Alabastria era
tutt'altra cosa, invece. Costruita su dei vecchi terrazzamenti, si
inerpicava su una collina di quasi cento braccia, sviluppandosi in
altezza con le sue case, le sue botteghe e i suoi palazzi fino alla
vetta, dove, in tempi così remoti da perdersi nella memoria,
era stato eretto il Castello di Ferro. Quando avevano scorto
l’imponente portone di faggio, Myria e i bambini non erano
riusciti a celare lo stupore, restando a bocca aperta. Mentre Baldur, a
cavallo di Raiza, faceva loro strada, la donna si era domandata come
avesse fatto un popolo così rozzo e burbero a costruire una
città così bella ed elegante.
Le venne quasi da ridere quando ripensò allo scambio di
battute tra il nano e le guardie che pattugliavano le mura, al modo
così cameratesco di interagire tra di loro, come se fossero
cugini o amici di vecchia data. Le aveva scaldato il cuore anche
l’accoglienza di Nordri, l’amico di Baldur, il
mercante di vino più ricco della città, che non
aveva esitato ad offrire a degli umani sconosciuti, sporchi e cenciosi
un tetto sopra la testa e una zuppa calda.
“Sono stati gentili, ma non possiamo rimanere qui per
sempre.”
Sospirò ancora e spostò la tendina di raso
sottile, osservando le spalle del figlio. Aveva giocato per ore con gli
altri ragazzi, suoi coetanei o poco più grandi, ridendo e
scherzando con loro mentre si affrontavano in un duello
all’ultimo sangue. Ora che tutti erano tornati alle loro
case, si godeva il vento del primo pomeriggio, seduto sulla balconata
di pietra bianca con le gambe a penzoloni e la spada di legno che gli
aveva intagliato Baldur poggiata in grembo. Gli piaceva starsene
lì da solo o in compagnia di Melwen a osservare il
paesaggio, con lo sguardo perso al di là
dell’orizzonte e i capelli ormai lunghissimi e indomabili che
ondeggiavano al vento.
Guardandolo, Myria si rese conto di quanto fosse cresciuto in
così poco tempo. Certo, balbettava ancora e si faceva
facilmente trascinare da Melwen nelle sue “avventure
esplorative” nei luoghi più improbabili della
città, ma era riuscito a integrarsi perfettamente nel
gruppetto di ragazzi che vivevano nelle case vicine. Era difficile non
volergli bene, riusciva a farsi amare da tutti.
Sorrise mesta, ripensando ai loro primi tempi lì. Melwen e
Zefiro avevano trascorso più di quattro giorni in completo
silenzio, e anche successivamente si erano limitati a rispondere solo a
monosillabi. Myria, dopo i primi infruttuosi tentativi, aveva
rinunciato. In fin dei conti, capiva il loro bisogno di solitudine:
quello che era successo a Luthien, il sangue, la morte, quegli esseri
mostruosi, doveva essere stato ancor più orribile e
spaventoso dal loro punto di vista. Fino ad allora la guerra e tutto
ciò che essa portava con sé era stata solo un
fantasma, un evento lontano che era oggetto dei discorsi degli adulti e
dei canti dei bardi. Quel giorno di due settimane prima, invece, era
piombata loro addosso nel modo più brutale che potessero
immaginare ed era diventata improvvisamente reale. Mentre a Melwen era
stata strappata via tutta la sua famiglia, Zefiro aveva perso Alan, un
padre, un amico fidato.
Myria si morse le labbra, ricacciando indietro le lacrime al ricordo
del viso sorridente del soldato: tutti avevano perso qualcuno, quel
giorno. Una parte del loro cuore era morta con i loro cari.
Riaprì il libro, cercando il punto su cui si era interrotta,
anche se, in quel momento, sapeva che avrebbe fatto fatica a
concentrarsi. La sua mente vagava altrove, persa tra ricordi che
sapevano di sale. Le lacrime premettero prepotentemente da dietro le
ciglia e, prima che se ne accorgesse, percepì la loro
carezza umida sulle guance.
- Strei? -
Myria trasalì, non si era accorta che Skjaldi, la sua
cameriera personale, era entrata nella stanza.
- Strei, avete visite. -
- Fatelo entrare. - rispose subito Myria, asciugandosi velocemente le
lacrime.
Essere chiamata “signora” con quel tono
reverenziale le faceva uno strano effetto e non si era ancora abituata.
La cameriera si inchinò e aprì di nuovo la porta
per lasciar passare l'ospite.
- Baldur? -
- E chi altri, mea
strei? - le sorrise il nano, prendendo posto su una
sedia di rovere addossata alla parete, - Per tutti i martelli di
Gurhavat, adesso per parlarti devo pure chiedere un’udienza!
Tra poco ti troverò seduta sul trono di Alabastria. -
A quelle parole, Myria scoppiò a ridere: - Detto da te lo
prendo come un complimento, Baldur Pugno d’Acciaio. -
- Come fai a conoscere il mio soprannome? -
- Oh, sai, la città sarà gigantesca, ma i
pettegolezzi girano, soprattutto in una casa dove la maggior parte
della servitù è costituita da donne. -
Skjaldi si portò una mano davanti alla bocca per nascondere
un sorriso divertito, ma Baldur le rivolse comunque
un’occhiataccia, prima di consegnarle il pesante mantello.
Probabilmente avrebbe aggiunto anche un insulto, se la cameriera non si
fosse defilata nell’immediato. Subito dopo, anche se Myria
non li aveva chiamati, fecero il loro ingresso nella stanza Farl e
Fili, i due camerieri più giovani della casa, e in completo
silenzio allestirono il tavolo di faggio con brocche
d’argento cesellato e piatti di dolcetti al miele, mandorle e
zenzero. Le pastafrolle appena sfornate spandevano un delicato profumo
zuccherino nell'ambiente.
- Avete bisogno d’altro, strei? -
- No, grazie. Lasciateci soli. - disse Myria e i due si accomiatarono
subito.
Quando la porta si chiuse, Baldur si afflosciò sulla sedia,
le guance più rosse delle tende di broccato
nell’atrio.
- Maledette oche, sempre a spettegolare stanno. -
Myria ridacchiò: - Però è stato
divertente ascoltare la storia di come hai tentato di picchiare quel
povero asino. Mi hanno anche riferito che… -
- Va bene, va bene, non voglio sentire quante altre cose sai. - la
interruppe brusco, - Come stanno i bambini? -
- Abbastanza bene. Non hanno più gli incubi e sono riusciti
ad integrarsi. - si sedette anche lei e si lisciò la gonna
della sopravveste color pesca, - Melwen a volte ricerca la solitudine,
ma penso sia normale. Ha perso tutta la sua famiglia, credo non le
passerà mai del tutto. -
- E Zefiro, invece? Mi ha chiesto di intagliargli una spada, ma non me
ne ha voluto rivelare il motivo. -
- Non ne posso essere certa, ma penso che sia tutto legato a una
vecchia discussione. Zefiro stava parlando del suo futuro con Alan e, a
un certo punto, gli aveva chiesto perché avesse scelto di
diventare una guardia cittadina. Non ricordo esattamente cosa gli
rispose Alan, ero nella stanza accanto a parlare con un’amica
che si era appena sposata, però… -
sospirò e si morse le labbra, le lacrime che già
le inumidivano gli occhi, - Non lo so, in certi momenti non lo capisco.
-
- Quello che è successo a Luthien e ad Amount-vinya lo ha
cambiato. Purtroppo, la guerra costringe i bambini a diventare adulti
prima del tempo. -
- Lo so. - inspirò profondamente, inghiottendo il groppo che
le serrava la gola, - Tu che mi racconti? Dove sei stato? Sono giorni
che non sento parlare di te. -
Baldur prese una manciata di frutta candita e la masticò per
un po’, prima di rispondere: - Diciamo che sono andato in
giro a cercare una persona. -
Myria rimase in silenzio qualche istante. Da quando erano arrivati, il
nano era andato a trovarla spesso, quasi ogni sera, ma per un paio di
giorni non l’aveva visto. Quando aveva chiesto a Nordri sue
notizie, il padrone di casa era stato molto evasivo. Sapeva qualcosa,
ma fino al ritorno del suo fidato amico e compagno non le avrebbe
rivelato nulla. Durante le lunghe giornate passate e leggere o a
parlare con le cameriere di casa, si era fatta un’idea su
quale potesse essere l’obiettivo di Baldur, ma non aveva
certezze. Almeno fino a quel momento.
- È stato un viaggio piuttosto faticoso, ma credo di aver
trovato quel che ci serve per fare un po’ di luce su Melwen. -
- Sei riuscito a trovare un mago? -
- Più o meno, oserei dire che è stato lui a
trovare me. Si chiama Nyi ed è un mago girovago.
All’inizio, come tutti i lancia-incantesimi che si
rispettano, non ne voleva sapere di collaborare, ma è
bastato che facessi il nome della bambina per fargli cambiare idea.
Chissà, forse la conosce addirittura. -
Myria trasse un respiro di sollievo. Quando l’accampamento
era stato attaccato, lei, Melwen e Zefiro si erano salvati
perché la figlia di Copernico, di punto in bianco, era
riuscita a rendere tutti invisibili. Non sapeva esattamente come avesse
fatto, era certa di non aver sentito nessuna parola magica uscire dalle
sue labbra, eppure quando il soldato che li stava inseguendo era
arrivato davanti a loro, si era limitato a guardarsi intorno smarrito,
per poi tornare indietro. Era stato solo grazie a quella magia che si
erano salvati, evitando la stessa fine di tutti gli altri sopravvissuti.
- È già in città? - domandò
infine.
- Sì, arriverà a breve assieme a Nordri. Non so
cdi cosa debbano parlare, ma dall’espressione di Nyi sembrava
qualcosa di molto importante. - disse, rigirandosi la coppa
d’argento tra le mani.
Myria sentiva che voleva aggiungere altro, così attese in
silenzio che continuasse. Quando Baldur si protese verso di lei, si
accorse che le lunghe trecce rossicce della barba celavano un viso
tirato, segnato dalla stanchezza, che si accumulava sulle profonde
occhiaie violacee.
- Mentre ero in viaggio, mi è sembrato di essere seguito. -
- Da chi? -
- Non lo so. Mi viene in mente solo un nome e spero di sbagliarmi. -
Lo sguardo di Baldur si rabbuiò, così come quello
di Myria, le dita intrecciate sul grembo scosse da un lieve tremito.
- Le mura di Alabastria sono le più resistenti di tutta
Esperya, i bambini non corrono alcun rischio. - la
tranquillizzò il nano, posando una mano tozza su quelle
della donna e stringendole appena, per confortarla, - Però
non dobbiamo abbassare la guardia. Appena Nordri e Nyi arriveranno,
vedremo di trovare una soluzione. Non ti capiterà
più nulla, né a te, né a Melwen,
né a Zefiro, vi proteggerò io. -
Myria annuì e poi lo abbracciò, affondando il
viso nella sua spalla. La sua pelle sapeva di sale, sudore e erba
bagnata, ma lei non ci fece caso, così come non
badò all’impercettibile irrigidimento del nano. Le
bastava che fosse lì, che fosse tornato. Non avrebbe
sopportato di perderlo, non dopo quello che aveva fatto per salvare lei
e i bambini. Nel suo cuore c’erano già troppe
lapidi.
- Grazie. - esalò.
- Sono un mercenario, Myria, ma ho un cuore anch'io. - le
batté una mano sulla schiena e sciolse
l’abbraccio, - Non sarò un prode cavaliere come
Airis, però posso assicurarti che non ti
abbandonerò, almeno finché non sarò
certo che tu sia al sicuro. - tossicchiò imbarazzato e si
guardò intorno, - Fa caldo qui dentro, comunque. -
- È un modo come un altro per chiedermi di far portare
qualcosa? -
- Per gli Avi, sì! Ho cavalcato in fretta e furia per
tornare e riferirti le mie scoperte e tu nemmeno mi offri qualcosa da
bere? Sei una pessima padrona di casa, lasciatelo dire. -
Ancora una volta, Myria non riuscì a trattenere un sorriso.
I modi bruschi di Baldur le ricordavano le giornate ad Amount-vinya,
quando il sole spandeva i suoi raggi caldi sulle pietre bianche della
città e Alan veniva a cena a casa sua per tenere compagnia a
lei e a Zefiro. Questo accadeva appena l’estate precedente,
pochi mesi, un secolo. Eppure il nano era ancora lì, con lei
e i bambini, un porto sicuro in un oceano in tempesta.
- Penso sia rimasta un po’ di birra doppio malto nelle
cantine. -
Baldur si strofinò le mani con aria soddisfatta: - Ho giusto
un po’ di sete, fai portare una pinta abbondante. Anzi,
meglio due, una sicuramente non basta. -
- Pensi di riuscire a sostenere un discorso sensato dopo? - lo prese in
giro Myria.
- Dubiti della mia resistenza, donna? -
- Diciamo che non vorrei che si aggiungesse qualche altro epiteto
accanto al tuo nome. -
Il nano grugnì qualcosa tra i denti e Myria, stavolta,
scoppiò a ridere di gusto, prima di suonare la campanella
per chiamare la servitù.
- Sei sicura che sia una buona idea? -
- Perché non dovrebbe? Stiamo andando ad esplorare la parte
vecchia della città, mica ci stiamo inoltrando fuori dalle
mura. -
Zefiro sospirò e, ancora una volta, forse la decima da
quando si erano infilati in quei cunicoli, si maledisse per aver dato
retta a Melwen. Era cominciato tutto quella mattina, quando, mentre
facevano colazione, la sua amica aveva proposto di fare una gita
esplorativa. Ovviamente lui le aveva detto di no e lei, ovviamente, non
l’aveva presa bene, ma non smaniava dalla voglia di ripetere
l’esperienza della volta scorsa, quando era finito in un
prato di ortiche. Purtroppo, Melwen non sapeva accettare i rifiuti.
Così, appena i suoi amici si erano ritirati nelle loro case
a mangiare, l’amica lo aveva raggiunto e, dopo un lungo
discorso intercalato da minacce, adulazioni, preghiere e promesse era
riuscita a convincerlo.
Armati, dunque, con due spade di legno, uno zainetto, una lanterna e un
sacchetto pieno di focaccine, avevano corso attraverso la
città, saltando gli scalini che collegavano i vari livelli e
lasciandosi alle spalle l’Alabastria alta, per inoltrarsi
nelle strade congestionate della parte più viva e popolosa,
gremita di persone, case, botteghe e carretti trainati da muli e
cavalli stanchi. Le nuvole si erano diradate e la luce abbacinante del
sole accarezzava le strade, risplendendo sui ciottoli, sulle teste dei
mercanti e sulle barbe bianche dei nani più anziani, assisi
su sedie di legno fuori dall'uscio delle loro dimore a fumare la pipa.
Quando finalmente giunsero a uno degli ultimi terrazzamenti, Melwen
tirò dritto fino a una stradina laterale che si immetteva in
un’altra viuzza ancor più piccola e claustrofobica
e la percorse fino alla fine. Da lì, il terreno declinava
verso un ampio spazio pianeggiante che i bambini sapevano estendersi
fino alle mura della città. Anche a quell'ora, era gremito
di nani, uomini e donne dai visi sporchi di terra e caligine che, come
formiche, facevano avanti e indietro dalle gallerie. Melwen si
fermò a guardarli, nascosta all'ombra dell'ultima casa, le
sopracciglia corrucciate e lo sguardo attento di chi cerca di fare
mente locale, mentre Zefiro attendeva sue istruzioni. Nessuno, nemmeno
i suoi amici, potevano affermare di conoscere bene le miniere di
Alabastria e, persino tra i minatori più anziani, erano
davvero pochi quelli che sapevano orientarsi con facilità in
quel labirinto di cunicoli e gallerie. Aveva sentito dire da Nordri che
i giacimenti di ferro erano stati il motivo che aveva spinto i nani nei
tempi remoti a buttare le fondamenta della città proprio su
quella collina e il bambino non aveva motivo di dubitarne, considerando
che i più grandi mastri armaioli risiedevano proprio
lì, ad Alabastria. Anche Lotka e Alcarin avevano delle vene
metallifere, ma da quello che sapeva era la roccaforte nanica del nord
a mantenere il primato.
- Bene, noi dobbiamo andare di là. - Melwen si
inginocchiò e, dopo aver lanciato un'occhiata circospetta a
destra a sinistra, gli indicò un punto vicino a una
galleria, - Dobbiamo passare oltre quel tunnel. Ne seguiranno altri due
o tre e poi ci sarà uno spiazzo desolato dove ci sono alcuni
capanni degli attrezzi e vecchie carrucole. Nascosto dietro una pila di
legno, ci dovrebbe essere quello che interessa a noi. -
- Ma... non sarà sorvegliato? Se quella galleria conduce
alla città vecchia, ci sarà qualcuno che
controlli che nessuno ci vada. -
- Di solito, a quest'ora, le guardie vanno a mangiare, quindi in
realtà il passaggio dovrebbe essere libero, ma qualora le
trovassimo... - si mordicchiò l'interno della guancia e si
grattò l'orecchio arricciando le labbra, - Ci inventeremo
qualcosa. Dobbiamo essere positivi. -
Zefiro annuì, ma in cuor suo sperava che qualcuno li
fermasse. Ovviamente, la fortuna non fu dalla sua parte. Melwen, non
sapeva come, lo guidò fino al tunnel, dapprima passando per
le stradine della città, poi lungo un sentiero di terra
battuta che li condusse nello spiazzo dove, a parte loro e dei merli
accoccolati nel loro nido, non c'era nessuno né
lì intorno, né davanti all'entrata della
galleria. L'unico ostacolo che si frapponeva tra loro e la discesa
nella città vecchia, era una porta di legno marcita, chiusa
da spesse catene, ma che era bastato un semplice movimento della mano
di Melwen perché il grosso lucchetto si aprisse.
“Perchè tutte a me...”
- Sei davvero sicura di quello che stiamo facendo? - domandò
incerto Zefiro, - Ci sarà un motivo per cui nessuno viene
più qui, non credi? -
“Anche se non mi spiego perché non si siano dati
il cambio per la guardia.”
- Non ne ho idea e sinceramente non mi interessa. Insomma, pensaci: ci
stiamo inoltrando nelle viscere della terra per vedere la vecchia
Alabastria. Magari troveremo qualche tesoro! - cinguettò
contenta Melwen, che avanzava davanti all'amico con la lanterna accesa,
- Non sarebbe così strano. Tutti gli eroi, quando vanno ad
esplorare i ruderi di una qualche antica e prospera città,
trovano gioielli, diademi, spade magiche… -
- Vorrei farti presente che, l’ultima volta che hai detto
così, abbiamo trovato soltanto le carcasse di un gatto e di
un cane mummificati. E tu hai tentato di convincermi che fossero i
resti rispettivamente di un unicorno e di un cucciolo di drago. -
Melwen gli rivolse uno sguardo infuocato: - Era buio, non vedevo bene,
mica sono un elfo! -
- Hai continuato a ripeterlo anche il giorno dopo. - precisò.
- Beh, non è colpa mia se i disegni anatomici sui libri sono
tutti uguali. Ho sempre sostenuto che i maghi dovrebbero affidare la
tiratura dei loro tomi ai giovani che hanno ancora gli occhi buoni. -
Il bambino sbuffò, roteando gli occhi. Era impossibile
spuntarla quando Melwen voleva avere ragione.
- Va bene, va bene. - si passò una mano tra i capelli e
sospirò rassegnato, - Hai per caso una mappa della
città sotterranea? Vorrei evitare di perdermi. -
- Ho anche di più. Mentre girovagavo per la biblioteca di
Nordri, ho trovato un libro vecchissimo dove non c’era un
disegno decente, ma ho notato delle didascalie a piè di
pagina molto interessanti. -
- Capisci il dwarvish antico? -
- Più o meno. Mio… mio padre mi aveva insegnato i
rudimenti della lingua. -
Quell’ultima frase le rotolò fuori dalle labbra in
un sussurro strozzato e Zefiro sentì l’impellente
bisogno di abbracciarla, ma si trattenne. Doveva essere lei a cercarlo
e, anche se era straziante vederla in lacrime, non poteva fare altro
che trasmetterle conforto con la sua presenza. Fino a quel momento
aveva preferito lasciare le cose come stavano, non aveva mai provato a
insistere né a parlare di quello che era successo. Ricordava
ancora i discorsi vuoti che sua madre e Alan gli avevano propinato per
consolarlo, quando aveva appreso che suo padre non sarebbe
più tornato. Adesso, a distanza di tempo, capiva quanto si
erano sentiti impotenti vedendolo chiudersi in se stesso, nel suo
dolore, senza poter fare nulla se non aspettare.
Rimasero in silenzio per un lungo minuto. La pietra, resa scivolosa
dell’azione erosiva del tempo e dell’acqua che
sgocciolava dal soffitto, era stata invasa dal muschio e da una pianta
rampicante simile all'equiseto i cui steli si allungavano fino al
soffitto, costituendo una ragnatela fitta e impenetrabile quasi come il
buio umido che li avvolgeva man mano che proseguivano. Mentre
continuavano la loro discesa, con la scusa di evitare brutte cadute,
Zefiro le strinse la mano, intrecciando le loro dita. Ci fu un momento
in cui temette che la sua amica lo avrebbe respinto, ma poi i loro
palmi aderirono e una sensazione di sollievo lo pervase.
Proseguirono per un tempo che Zefiro non seppe calcolare. Potevano
essere ore o minuti, non avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ombre
danzavano sulle pareti di roccia, allungandosi e appiattendosi in un
ondeggiare frenetico che ricordava quello dei tentacoli di un mostro
marino. La luce della lanterna si spandeva in un cerchio aranciato
attorno a loro, riuscendo appena a squarciare lo spesso velo nero che
li circondava come un sudario. Girarono a destra, poi a sinistra,
seguendo un percorso che solo Melwen sembrava conoscere. Più
di una volta, la lanterna disegnò il profilo di alcune rune
incise nella pietra, segni che Zefiro interpretò come delle
specie di antiche indicazioni. A un certo punto, infilarono una
galleria che terminava con una rampa di scale che si approfondava
nell'oscurità. Con il cuore che batteva a mille, Zefiro
sfiorò con la mano libera il profilo della spada di legno:
se mai si fossero imbattuti in un cane randagio, si sarebbero potuti
difendere.
- Quanto pensi che manchi? -
- Non molto. -
La voce incerta di Melwen suonò ben poco convincente, ma il
bambino decise di non insistere. Prima o poi, si disse, sarebbero
arrivati.
“Tutte le scale portano da qualche par…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che dovette fermarsi di
colpo per non andare a sbattere contro la sua amica. Grugnì
contrariato, ma qualsiasi imprecazione gli morì in gola,
soffocata da un sussulto stranito.
Davanti a loro si estendeva una grande piazza ortogonale, circondata
dai contorni di quelle che Zefiro intuì essere le vecchie
abitazioni di Alabastria. Al centro, circondata da massi e ricoperta da
una ragnatela di rampicanti, giaceva la statua bronzea di Gurhavat, Dio
Artigiano, creatore dei nani.
- Oh dei, Zefiro, ma è meravigliosa! - l'esclamazione
emozionata di Melwen rimbalzò sulle pareti di pietra, mentre
si addentrava nella piazza tenendo alta la lanterna, - Questa doveva
essere la piazza del mercato, quindi lì, da qualche parte,
ci dovrebbe essere il quartiere dei pellicciai e degli armaioli.
Chissà se è rimasto qualcosa, magari una spada o
uno scudo con il primo stemma… -
- Ferma, ferma, ferma! Stai parlando troppo in fretta e io non sto
capendo. Siamo venuti qui per cercare qualche vecchio cimelio? -
- No, non proprio. Tieni la lanterna, ti faccio vedere. -
Zefiro obbedì. Melwen poggiò la borsa a terra,
tirò fuori un libro dalla copertina spessa e lo
aprì. Le pagine in pergamena erano sottilissime e ingiallite
dal tempo. Illuminate dalla fievole luce della lanterna, scorrevano
frusciando sotto le dita delicate di Melwen, dando
l’impressione che si sarebbero potute sbriciolare da un
momento all’altro. Il cinguettio eccitato della sua amica lo
avvisò che aveva trovato ciò che cercava.
- È la mappa? -
- Sì. - accarezzò il disegno con un sorriso
sognante, passando i polpastrelli sul tratto sfumato
dell’inchiostro, - Vedi questa casa? Ecco, leggendo la
didascalia e qualche paragrafo più in là, ho
scoperto che corrisponde alla biblioteca personale del re. -
- Aspetta, quella che si dice contenere pergamene con incantesimi per
distruggere intere città? -
La bambina alzò gli occhi al cielo: - Quelle sono
semplicemente dicerie, per di più infondate. I nani non sono
mai stati amanti della magia, men che mai di quella proibita. Solo uno
sciocco crederebbe davvero a una storiella del genere. -
Zefiro storse le labbra e incassò in silenzio.
- In ogni caso, - riprese Melwen, - l’autore di questo libro
sostiene che il re dell’epoca, tale Urgavat V, teneva una sua
personale collezione di libri storici. In particolare dovrebbe
possedere una delle versioni più belle e preziose della
Mablung Ringëril. -
- Il libro sacro degli elfi? E perché un nano dovrebbe
tenere quella roba nella sua biblioteca? -
- La tua ignoranza a volte è imbarazzante. -
- Scusami, sono solo un povero guerriero zuccone. Io sono il braccio e
tu la mente, ricordi? -
La bambina sbuffò divertita: - Non è una storia
che conosco molto bene, ma papà mi ha raccontato che
all’inizio tutte le razze avevano un unico libro di
riferimento. Poi, dopo la guerra del centesimo solstizio e la firma dei
vari trattati di pace, questa unità religiosa è
andata perduta, anche se i nomi degli dei e i testi di riferimento non
hanno subito sostanziali modifiche. Ora, non possiamo spingerci fino al
palazzo reale, è troppo all’interno della
città e non penso sia una buona idea, viste le condizioni in
cui versano le case qui intorno. -
- Perché spingerci fino alla biblioteca sarebbe meno
pericoloso? -
- Ci stavo arrivando, se la smettessi di interrompermi… -
- Scusami, vai pure avanti. -
- Dicevo… la biblioteca è molto più
vicina. Basterà oltrepassare la piazza e proseguire sempre
dritto lungo la strada. Se ci teniamo al centro, dovremmo evitare
qualsiasi problema. - dichiarò decisa, - Allora, che ne
pensi? -
Zefiro si mordicchiò le labbra nervoso.
- Non lo so, non mi sembra comunque una buona idea. Insomma, pensavo
fossimo venuti qui per vedere qualche muro crollato, invece adesso mi
dici che vuoi andare a esplorare un’antica biblioteca dove
pensi di trovare chissà che libro. Ma poi, se è
davvero così prezioso, non dovrebbero averlo già
trovato? - le fece notare.
- No, altrimenti sarebbe conservato da qualche parte. Ascolta, prometto
che, se non troveremo niente di interessante o vedessimo qualcosa si
sospetto, scapperemo a gambe levate. Però non rinunciamo a
quest’occasione, proviamoci almeno. -
L'amico esitò. Da una parte era curioso di inoltrarsi nelle
rovine della città e, anche se non l’avrebbe mai
ammesso davanti a Melwen, il pensiero di andare alla ricerca di questo
prezioso libro lo elettrizzava; dall’altra aveva paura di
quello che poteva nascondersi nelle lunghe ombre dei palazzi distrutti.
Certo, probabilmente, a parte loro e la muffa, non c’era
niente di vivo lì sotto, ma non riusciva a non sentirsi
intimidito. Strinse l’elsa della spada per farsi forza e
respirò a fondo.
- Va bene, ma alla prima minaccia… -
- Sapevo che avresti accettato! - esclamò briosa Melwen, -
Dai, su, muoviamoci. La curiosità mi sta mangiando viva. -
Oltrepassarono la piazza e, dopo aver superato un arco trionfale
crollato, si inoltrarono lungo una strada silenziosa, costellata di
detriti e macerie distrutte.
Zefiro si guardava intorno con circospezione, la mano serrata sulla sua
arma di legno. Non sapeva da quanto tempo la città fosse
stata abbandonata, ma gli steccati degli orti mangiati dai tarli e le
ragnatele di crepe che ricoprivano i muri delle case gli suggerivano
che fossero passati molti, moltissimi anni. Gli edifici sembravano
ammassarsi gli uni sugli altri, blocchi di pietra pieni di fenditure e
crolli che non avevano conservato nemmeno l’ombra
dell’eleganza e maestosità di un tempo. Un
silenzio denso come melassa aleggiava intorno a loro, permeando
l’aria satura del soffocante odore di chiuso e morte. Zefiro
rabbrividì non appena scorse le ossa di una mano schiacciate
da un blocco di marmo e non riuscì a trattenere un sussulto
quando rischiò di calpestare un teschio spaccato, fin troppo
piccolo per appartenere ad un adulto.
“Cosa è successo qui?”
Come se gli avesse letto nel pensiero, Melwen sussurrò: -
Tempo fa, i nani vivevano sottoterra. Un giorno una forte scossa di
terremoto fece crollare tutto. Non ci sono stati moltissimi morti,
però… -
- Però nessuno è voluto tornare dopo. -
La bambina assentì e scavalcò i resti di una
colonna.
- Quindi questa città, la vecchia Alabastria…
è un cimitero? -
- Non ufficialmente. -
Zefiro deglutì e affrettò il passo.
Passarono davanti a un edificio sventrato, lasciandosi alle spalle una
piazza dove, sotto le tracce nere degli incendi, si celavano delle
profonde fenditure, squarci che sfregiavano la pavimentazione simili
alle artigliate di un mostro. Melwen osservò meravigliata la
facciata divorata dalle fiamme di un altro edificio, che
spiegò al suo compagno essere stata la Casa del Ferro, una
delle più grandi e famose armerie di tutta Esperya. Poi
rimase catturata dai bassorilievi in avorio che decoravano il pozzo di
un patio scoperto. Di tanto in tanto, un’ombra di turbamento
le offuscava lo sguardo quando nei suoi occhi si rifletteva
l’immagine delle ossa bianche e degli scheletri dei morti
insepolti, distrutte, frantumate.
Nel momento in cui scorse il profilo imponente della biblioteca, Zefiro
trasse un respiro di sollievo. Si affiancò a Melwen e, senza
nessuna esitazione, la prese per mano. Vedendo l’espressione
spaesata della bambina, un sorriso incerto gli arcuò le
labbra.
- È solo per precauzione. Tu sei lenta a correre, se
qualcosa ci attaccasse ti trascinerei via più velocemente. -
In risposta ricevette un’occhiata non molto convinta, ma alla
fine optò per non dire nulla. Salirono i tre scalini che li
separavano dall’entrata e, con una lieve spinta, Melwen
aprì la porta. Fece un solo passo all’interno
prima di bloccarsi, mentre il suo mormorio sorpreso, assieme al cigolio
dei vecchi cardini, si perse nell’aria satura
dell’odore di carta e inchiostro.
Davanti a loro si apriva un’ampia stanza poligonale, con alte
scaffalature che si innalzavano verso l’alto, confondendosi
nell’ombra del soffitto a cassettoni. Un antico lampadario
sormontava il pavimento a mosaico, dove un tempo le tessere componevano
le due asce di ferro e lo scudo di legno, simbolo e stemma della
città di Alabastria. Il profilo dei tavoli, carichi di libri
dalle copertine rilegate in cuoio e di pergamene arrotolate, si
intravedeva appena e la luce della lanterna bastava giusto ad
illuminare uno stretto cerchio attorno a loro.
- Accidenti… - Melwen si guardò intorno
meravigliata, - Ti rendi conto del posto in cui ci troviamo? Delle
conoscenze che sono nascoste qui dentro? -
Zefiro annuì distrattamente, troppo concentrato a
perlustrare la zona in cerca di eventuali pericoli. Intravide alcuni
mozziconi di cera a pochi passi da lui. Di certo non era una mossa
saggia aggirarsi in quel luogo pieno di carta secca e facilmente
infiammabile con delle candele.
“Dovremo accontentarci di quello che abbiamo.”
Seguì Melwen, che si era infilata in mezzo ai corridoi tra
le scaffalature.
- Secondo te che ore sono? - le domandò a bassa voce.
- Non lo so e adesso non mi importa. - prese dei volumi e, dopo aver
dato una rapida occhiata ai titoli, li impilò per terra, -
Tu guarda se c’è qualcosa d’interessante
qui in mezzo, magari qualcosa che possiamo portare su. -
- Tu… tu vuoi davvero portare via qualcosa da qui? Sul
serio? -
- Mi sembra ovvio. - Melwen parve stupita.
- Ma… ma non sarebbe una specie di profanazion… -
- Ascolta, già per il fatto che siamo venuti qui
è come se avessimo profanato questo luogo. Se ci fossero dei
fantasmi o delle presenze, penso che si sarebbero già
manifestate, no? -
- Potrebbe essere, non ho mai incontrato un fantasma. -
La bambina sbuffò spazientita: - Allora muoviamoci. -
Zefiro notò un tremolio nella sua voce, che gli fece intuire
che quella spavalderia era solo una maschera: Melwen aveva molto
più coraggio di lui, ma quel luogo la metteva molto
più in soggezione di quanto volesse far vedere.
Con un sospiro, aprì il primo libro e cominciò a
sfogliarlo. Era scritto in dwarwish antico e la maggior parte delle
lettere erano state cancellate. Riuscì a dedurre che era una
biografia di un qualche vecchio re solo perché
trovò una cronologia in fondo, accompagnata da vari ritratti
di un uomo basso e tozzo che veniva incoronato davanti a una folla di
altri uomini bassi e tozzi.
Andò avanti così per un po’, con Melwen
che continuava a mettergli libri in mano e lui che tentava di capire di
cosa parlassero. La maggior parte erano scritti in lingue che non
conosceva, idiomi così arcaici da costituire solo le radici
fondamentali dell’elfico, del dwarwish e della lingua comune
attuale. L’unica cosa che poteva fare era guardare le figure
o i disegni per cercare di intuire quantomeno l’argomento di
cui trattavano. Più volte tentò di far notare a
Melwen che sarebbe stato meglio se fosse stata lei a controllare i
volumi, ma la bambina era troppo assorbita dalla sua ricerca per dargli
realmente retta. Così, Zefiro si rassegnò a
proseguire quell’infruttuoso lavoro, anche se, in cuor suo,
era contento di vedere la sua amica così piena di
entusiasmo, di quell’allegria contagiosa e trascinante che
aveva conosciuto a Luthien.
Durante tutta l’ora successiva si spostarono spesso,
scivolando da un corridoio all’altro in completo silenzio.
Controllavano ogni scaffale, scandagliando con attenzione tutti i
volumi, dapprima quelli con le pagine decorate in foglia
d’oro e la copertina istoriata con pietre dure e gemme
preziose, in seguito si limitarono a quelli con il titolo scritto con
le lettere allungate ed eleganti tipiche della lingua elfica.
Quando alla fine Melwen cominciò a guardare i tomi che
ingombravano uno dei tavoli ancora in piedi, lo sguardo di Zefiro venne
calamitato da un libricino che giaceva sotto la semisfera di un
mappamondo rotto. Posò la pergamena che aveva in mano e lo
raccolse da terra, sfogliandolo rapidamente fino a metà.
Osservò il disegno di un castello di cristallo, dipinto
sullo sfondo di un cielo terso solcato da un arcobaleno. Sotto di esso,
spiccava il verde acceso di un giardino in fiore, dove fate e folletti
vestiti con abiti colorati e sgargianti giocavano, rincorrendosi in un
labirinto di siepi e rose.
“Ma che bello! Che sia un libro di favole?”
Con incredibile delicatezza, girò la pagina con la punta del
dito. A fianco di un lungo paragrafo scritto con una calligrafia fitta
e incomprensibile, trovò un altro disegno, stavolta di un
salone in festa, dove gli stessi nobili che erano stati rappresentati
prima ballavano sotto un luminoso soffitto a volta. I loro visi,
tratteggiati con una minuzia quasi maniacale, mostravano delle
espressioni felici, divertite. I due troni in fondo alla sala erano
vuoti, così come lo sguardo dell’uomo che
osservava le coppie ballare da una balconata in penombra.
- Che leggi? -
La voce di Melwen lo spaventò. Era arrivata da dietro senza
che lui se ne accorgesse.
- N-niente, un semplice libro di favole. - col cuore che rischiava di
scoppiargli nel petto, si girò e glielo porse, - Ho solo
guardato due pagine, però, a giudicare da quello che ho
visto, non credo si tratti di quello che stiamo cercando. -
- No, infatti, ma è interessante. - aprì il libro
alla prima pagina e lesse il titolo, - Landiel’id Oberon an
Titania… sì, questo è il
libro che
racconta la tragica storia d’amore del re e della regina
delle fate. -
- Ah, sì, ho capito, quello dove… -
Non fece in tempo a finire la frase che tutta la struttura
tremò e un paio di scaffali caddero a terra con un rumore
assordante. Alcuni pezzi del soffitto precipitarono al suolo,
sbriciolandosi all’impatto. Seguì
un’altra scossa e un’altra ancora e piano piano
l'ambiente intorno a loro cominciò a collassare su se stesso.
Senza pensarci due volte, Zefiro afferrò la lanterna e
Melwen e si mise a correre verso l’uscita. Non sapeva
cos’era accaduto, né chi o cosa avesse generato il
terremoto, ma dovevano andarsene. Infilò la porta e
saltò gli scalini che lo separavano dalla strada dissestata,
per poi darsi lo slancio e gettarsi in una folle corsa verso l'uscita.
La terra sotto i loro piedi continuava a tremare, così come
i colonnati, le case, gli archi. In un istante tutto iniziò
a cadere a pezzi.
- Melwen! -
Un pezzo della facciata di un palazzo per poco non li
schiacciò. Melwen cacciò un urlo e Zefiro la
strattonò con ancora più forza.
- Non ce la faccio! - gridò la bambina.
La sua voce era spezzata dal pianto, copiose lacrime ora le rigavano il
viso. Zefiro strinse i denti e aumentò l’andatura,
i muscoli dei polpacci tesi per lo sforzo, il fiato che gli bruciava in
gola. Saltò un masso, ne evitò un altro,
tirò via la sua compagna prima che il capitello di una
colonna le crollasse addosso. Dovevano farcela, la piazza del mercato
era poco più avanti, già riusciva a vedere il
profilo della statua di Gurhavat in lontananza.
In quel momento, la facciata di un palazzo cedette e i detriti
travolsero quello adiacente. Nell’aria polverosa, Zefiro
distinse nitidamente quell’enorme massa di pietra, mattoni e
legno che si piegava, chiudendosi lentamente sopra di loro. Un attimo
dopo, una luce accecante lo avvolse.
Una goccia cadde a poca
distanza da lui. Poi un'altra e un'altra ancora. Quel suono ritmico,
snervante, monotono, era l’unico che sentiva da giorni, se si
escludevano i continui mormorii dei suoi carcerieri. Ledah
sollevò appena la testa, cercando nella
semioscurità in cui l’avevano confinato di
individuare l’ubicazione precisa di quel ticchettio liquido.
Tuttavia, perse la concentrazione quasi subito – gli capitava
spesso, di recente – e si riaccasciò con un
sospiro sulla fredda pietra. Ad un tratto, udì il cigolio
stridente dei cardini di una porta, seguito da un ordine sussurrato a
mezza voce. Poi ogni suono cessò e rimase solo quella specie
di maledetto ticchettio.
Non avrebbe saputo dire da quanto tempo era rinchiuso in quella
prigione, ma di sicuro tra poco lui sarebbe venuto a fargli visita.
Veniva sempre, tutti i giorni alla stessa ora, a volte accompagnato da
Lysandra, altre volte da solo, ma non mancava mai di fargli visita.
Ledah si era domandato a più riprese perché lo
facesse, perché non si limitava ad aspettare che passassero
quelle cinque settimane. Alla fine era giunto alla conclusione che
provasse un piacere perverso a vederlo in quello stato pietoso,
prostrato sulle ginocchia piagate, la testa a penzoloni e le braccia
sospese come in croce, senza più nessuna speranza se non la
dolorosa consapevolezza che la sua fine sarebbe giunta presto. Sorrise
e cercò di appoggiarsi al muro, ma le catene glielo
impedirono. Le afferrò e le strattonò senza
particolare enfasi, più per un riflesso incondizionato che
la vera convinzione di potersi realmente liberare. Le rune incise sugli
anelli, a quel debole atto di ribellione si illuminarono, stirando le
sue braccia ancora più alto, mentre la magia si riversava su
di lui come un’onda. Ledah digrignò i denti e
ingoiò le lacrime che premevano da dietro le ciglia, di
nuovo esausto, senza fiato.
- Dovresti aver capito che da qui non c’è via
d’uscita. -
L’elfo non dovette nemmeno alzare la testa. Sapeva chi era,
era l’unica altra voce che sentiva, oltre a quelle nella sua
testa.
- Però ti ammiro, sai? Molti si sarebbero arresi, invece tu
continui a lottare, anche se sai benissimo di non poter contrastare gli
incantesimi di contenimento di Elladan, o Lysandra, come le piace farsi
chiamare adesso. Sei davvero mio figlio, caparbio e arrogante. - si
abbandonò ad una risata roca e sorrise orgoglioso.
- Non chiamarmi così. -
- E come dovrei chiamarti? Ledah il Distruttore? - sbuffò
con scherno, - Nelle tue vene scorre anche il mio sangue. Per quanto tu
possa negare i fatti, la realtà è questa.
Accettala e basta. -
Avanzò a passi lenti fino al cerchio di rune e si
fermò ad osservare i simboli disegnati col sangue che
sfavillavano nell’oscurità. Ledah lo
squadrò con fierezza dal centro della sua prigione, quella
che sua madre aveva progettato apposta per non farlo fuggire. Dopo un
lungo momento, l’uomo fece un gesto noncurante della mano e
una fiamma si accese sul palmo. La luce improvvisa accecò
l’elfo, che di riflesso nascose il viso contro la spalla. Per
un lungo minuto rimase immobile, poi, quando le macchie davanti agli
occhi cominciarono a svanire, incontrò di nuovo le iridi
rosso brace del suo aguzzino.
La prima volta che era venuto a trovarlo, Ledah lo aveva fissato con
sgomento. Aveva letto moltissime cose sul suo conto, ma non era
preparato a vederlo sotto quelle sembianze: l’immagine di
Aesir, il dio oscuro con il fisico e la possanza di un guerriero, si
era sgretolata per lasciare il posto a un vecchio dall'aspetto fragile
e avvizzito. Aveva riconosciuto le fattezze di un Drow nei lineamenti
aggraziati del viso e nella pelle scura, anche se
dell’originaria bellezza non era rimasta che un lieve
accenno: la carnagione aveva assunto una malsana sfumatura violacea,
mentre le unghie non erano altro che un moncherino annerito e
scheggiato che lasciava scoperta la carne viva.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, Aesir sogghignò e in
un attimo attraversò il cerchio di rune come se non
esistesse, la mano che reggeva il fuoco magico davanti a sé.
- Hai lo stesso spirito combattivo di tua madre. Ogni volta che ti
guardo, mi pare di vedere lei. Scommetto che piuttosto che piegarti al
mio volere, preferiresti farti spezzare. - gli sibilò in un
orecchio.
Ledah rise, una risata rauca che gli graffiò la gola.
Avvertì il sapore ferroso del sangue in bocca e, in seguito,
un rivolo denso e viscoso gli colò sul mento Ormai faticava
a parlare, persino mangiare e bere erano una tortura, a malapena
riusciva a trangugiare quella poltiglia di avena e chissà
cos’altro che gli portavano ogni giorno per mantenerlo in
vita. Eppure, nonostante tutto, non si sarebbe mai dichiarato sconfitto.
- Ti diverti a vedermi ridotto così? - sputò per
terra un grumo di sangue e saliva e tornò a sfidare il dio
con la sola forza dello sguardo.
- Non più di tanto. Magari all’inizio
sì, adesso mi urta quasi vedere il mio prossimo contenitore
trattato come una bestia da circo. Sarebbe più semplice se
accettassi questa situazione. Ti ricordo che potrei rigenerare il tuo
corpo in pochissime ore, se solo mi lasciassi entrare. Non sei stanco,
Ledah? Coraggio, accoglimi! Ti aiuterò, te lo prometto. Non
sentirai più alcun dolore. - lo blandì pacato,
proprio come avrebbe fatto un padre affettuoso con l'amato pargoletto.
Gli sollevò il mento e Ledah si tirò indietro
all’istante. Le manette attorno ai polsi si strinsero e le
catene gli torsero violentemente le braccia, mentre una scarica
elettrica gli scuoteva tutto il corpo. Solo facendo appello a tutta la
rabbia che provava riuscì a trattenere le lacrime. Faceva
male e il dolore ogni volta gli mozzava il fiato, ma non si sarebbe mai
arreso.
- Già, tu non mi tratteresti in questo modo, infatti. -
rispose sarcastico quando tornò a respirare, - Cosa vuoi da
me? - grugnì affaticato.
Aesir si alzò e cominciò a girargli attorno. Alla
luce tenue delle rune e della fiamma il suo viso appariva ancora
più scavato, spettrale come quello di un morto.
- Lysandra mi ha riferito una cosa e io ho pensato che potesse
interessare anche te. -
La sua voce rimbombò tra le pareti di pietra, fredda e
raschiante, un suono che a Ledah ricordò il ringhio di una
belva feroce.
- Se vuoi dirmi che il re degli umani è morto e che Lysandra
ha preso il comando di Sershet, non ti scomodare, le guardie non
parlano d’altro. Per quanto i vostri non-morti siano sempre
ligi al dovere, in questi ultimi giorni non fanno che discutere dei
piani della loro regina. -
Il sorriso sul viso del vecchio si allargò: - Eh,
già. Immaginavo che la notizia sarebbe giunta fino a qui.
D’altronde, nel regno degli umani tutto ciò che
succede a corte è motivo di pettegolezzo. Ma no, non era di
questo che volevo parlarti. Di' un po', sai che fine ha fatto la Morte
Bianca, il Generale Airis Lullabyon? -
Ledah si impietrì di colpo. Percepì il poco
sangue rimasto defluire dal volto e l'angoscia stritolargli il cuore in
una morsa d'acciaio. Un cattivo presentimento si fece strada nella sua
coscienza, tanto da bloccargli il respiro in gola. In quei giorni di
prigionia aveva pensato spesso ad Airis, alla promessa che si erano
scambiati prima di dividersi a Luthien. Anche mentre era in viaggio
verso la capitale, durante la notte si svegliava in preda ai tremori,
con quel pensiero troppo doloroso conficcato in testa. Aveva faticato
ad accantonarlo, ancora adesso tremava, eppure qualcosa doveva essere
successo, lo sentiva.
- Vedi, un paio di giorni fa Lysandra ha mandato alcuni esploratori a
cercare il corpo del Generale. Sai, alcune voci sostenevano di averla
scorta per le strade di Luthien prima dell’attacco del drago
e degli elfi. Oh, non fare quella faccia inorridita, Ledah! A qualcuno
dovevamo pur dare la colpa di quello che è accaduto e quale
capro espiatorio migliore se non gli eterni nemici degli umani? -
- Voi… -
- Noi cosa? Siamo dei mostri? No, siamo solo degli attimi attori,
migliori della maggior parte delle pedine che si muovono sulla
scacchiera. - replicò, continuando a girare in cerchio.
- Gli elfi non farebbero mai una cosa simile! - ruggì Ledah.
Intuì che Aesir era alle sue spalle, vicinissimo, quando
avvertì il suo fiato gelido sulla nuca.
- Gli umani hanno tutt’altra opinione del tuo popolo. -
bisbigliò il dio, fintamente dispiaciuto, - Hanno
dimenticato le antiche alleanze, ciò che una volta
rappresentavate l’un per l’altro. Nei loro cuori
sopravvive soltanto il ricordo del male che avete compiuto, mentre le
gesta eroiche giacciono sotto cumuli d’ossa e cenere. -
I suoi occhi divennero ancora più rossi. Si portò
di fronte a Ledah in un lampo e incatenò i loro sguardi.
- È in memoria di tali pregiudizi che continuerà
questa guerra fratricida. Llanowar è caduta, Luthien
è stata distrutta e molte altre la seguiranno. Varestei e
Alfeir, gli amati figli di Yggrasill, zittiscono il loro dolore
versando altro sangue, perpetrando le atrocità per cui hanno
pianto, e combattono per i loro morti senza rendersi conto che ormai
sono succubi della loro natura assassina, della voluttà che
l'atto di togliere una vita porta con sé. Ma
c’è anche un altro sentimento che li consuma e
alimenta la loro fame di morte. - gli mise le mani sulle spalle e lo
fissò con un'intensità tanto forte che Ledah si
sentì schiacciare, - Parlo della disperazione, quella
lacerante sofferenza che deriva dall'aver perso qualcuno di caro.
È nella disperazione più nera che la follia
pianta le sue radici. È questo il segreto, figlio mio. -
L’elfo scosse il capo con veemenza, incurante del dolore che
quel gesto gli provocò. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie,
urlare, fuggire, ma le catene glielo impedivano.
- Airis Lullabyon, il Cavaliere del Lupo, è morta. Hanno
trovato il suo cadavere in un burrone, si è tolta la vita
per sfuggire a un’imboscata dei tuoi amati fratelli. Felther
ha riportato la sua spada a corte qualche giorno fa. -
dichiarò Aesir senza altri indugi, godendosi l'espressione
sbigottita e cerea di Ledah.
Quelle parole aleggiarono nell’aria, rimbalzarono sulle mura
di pietra in un’eco impossibile da ignorare. La paura gli
attorcigliò le viscere, il dolore lo trafisse nel petto alla
stregua di una lama arroventata e l'incredulità gli chiuse
la gola come un cappio. Le voci che a lungo lo avevano tormentato
tornarono ad assalirgli le orecchie, sibili suadenti che nulla avevano
di umano. Morta. Airis è morta. Sei solo, ora.
- No... non è vero… non può essere...
- rantolò.
- Puoi non credermi, ma sai che non ho alcun motivo per mentire. Vedi,
per quanto ti ammiri, quando mi svestirò delle spoglie di
questo mio servo, preferirei non dover intraprendere una lotta contro
la tua anima per il controllo del mio nuovo corpo. Questi incantesimi,
quelli che Lysandra ha inciso su queste catene, sono potenti, ma non
abbastanza. - accarezzò uno degli anelli con la punta delle
dita, le labbra distorte in un sorriso crudele, - So che provavi
qualcosa per Airis, lo so per certo, è così
chiaro che non è mai stato necessario entrare nella tua
mente. Ma vedi, Ledah, l’amore è quanto di
più effimero e stupido esista, persino mio padre lo sapeva.
Eppure, quando è arrivato il momento di fare la scelta
giusta, non è riuscito a rinchiudermi. Mi ha esiliato a
camminare nelle Profondità, illudendosi che gli anni e i
secoli passati nelle ombre avrebbero cancellato la rabbia che provavo
per lui e i miei fratelli. Invece questa è maturata,
è diventata disperazione, accecante e cupa disperazione, per
poi tramutarsi in odio. -
- Stai zitto! -
- Sarebbe molto più semplice se accettassi la sua morte.
L’amore non fa per noi, non ci appartiene. Il dolore e la
disperazione che stai provando non hanno senso, non ne avranno mai.
Prendi atto della realtà, figlio mio, ti prometto che
diventerà tutto più facil… -
- Io non sono tuo figlio! - urlò, le unghie affondate nei
palmi nelle mani, il verde muschio ormai bruciato da un rosso denso,
ardente.
Strattonò le catene, tirandole con tutta la forza che aveva
in corpo, incurante delle scariche elettriche che lo scuotevano fin
nelle ossa. Alzò lo sguardo, incontrando il ghigno beffardo
del dio, e si sentì sommergere da quell’oceano di
voci assordanti, che ripetevano sempre la stessa cosa.
Airis è morta. Morta. Sei solo.
Si protese verso Aesir, allungò un braccio per afferrarlo,
ma le catene lo tirarono violentemente indietro, sollevandolo da terra
fino a quando non rimase solo la punta di un piede a contatto con la
pietra. Si dimenò in preda alla furia nel vano tentativo di
scappare, mentre Aesir lo guardava inespressivo. Infine rimase
immobile, schiacciato dalla sofferenza, senza più forze e
con solo la compagnia di quei sussurri nelle orecchie.
Il dio schioccò la lingua e sorrise: - Era questo che volevo
vedere. -
Poi gli diede le spalle e uscì.
- Generale? Generale, vi sentite bene? -
La voce di Arghail interruppe il suo sonno leggero. Mentre apriva
lentamente gli occhi, Airis percepì l’odore
selvatico della pelliccia e la consistenza ruvida di una coperta di
lana. Fece perno sui gomiti e, non senza fatica, si mise a sedere. La
luce del sole filtrava attraverso il tessuto madido
dell’umidità notturna in lame luminose, delineando
l’ambiente spartano di una tenda. Vide i tizzoni anneriti nei
bracieri e un supporto in ferro occupato da un pettorale e una cotta di
maglia familiari.
“La mia armatura?”
- Generale. - la richiamò il soldato e Airis si accorse che
la stava scrutando.
- Arghail. - esalò, prima di prendersi la testa tra le mani,
- Dove siamo? -
- Nella mia tenda, nell’accampamento provvisorio. -
- In quanti ti hanno visto portarmi qui? -
- Solo i miei compagni che facevano la ronda ieri notte, ma per ora non
hanno fatto molte domande. Credo stiano semplicemente aspettando una
spiegazione che io, al momento, non posso dare. - intrecciò
le dita sotto il mento e scosse la testa, - Stento a credere che siate
viva. Perché vi stavate nascondendo nella foresta? -
Airis trasse un profondo respiro e incrociò lo sguardo di
Arghail. Adesso che lo osservava da vicino, riconobbe i tratti
dell’uomo che aveva incrociato nella Casa della Cenere.
Stessi capelli biondo-rossicci, stessa mascella volitiva, stesse labbra
sottili. Era come se avesse davanti la medesima persona con una decina
d’anni in meno. Di sicuro avevano qualche legame di sangue,
anche se dubitava fossero padre e figlio.
- È una storia un po’ complicata. - rispose con un
sospiro, si spostò una ciocca e fece per aggiungere
qualcosa, quando i suoi occhi catturarono un dettaglio che
l’allarmò, - Mi… mi hai per caso
svestita tu? -
Il soldato scoppiò a ridere di gusto, ma davanti
all’espressione minacciosa Cavaliere del Lupo si ricompose
subito.
- No, non mi sarei mai permesso. Ho chiesto a una mia compagna di
occuparsi di voi, la tunica che avete addosso è la sua. Io
ero impegnato a convincere Ferul e Garth a non parlare con nessuno di
quello che avevano visto. -
Airis lo scrutò in cerca di una ruga, qualsiasi segno che le
comunicasse se le stesse mentendo, ma le parve sincero, quasi quanto la
smorfia risentita che gli storceva le labbra.
- Mi credete davvero un uomo capace di approfittare di una donna
svenuta? - strinse i pugni e scosse la testa, - Ho fatto un giuramento,
Generale, io non… -
- Lo so. Ma la guerra cambia le persone e toglie sacralità
ai giuramenti. - si alzò e poggiò la mano sul
petto, all’altezza del cuore, - Ti sono grata per avermi
salvato e anche per aver mantenuto celata la mia identità ai
tuoi compagni, eppure non posso dire di fidarmi di te. -
Arghail sospirò e annuì comprensivo.
- Chi devo ringraziare per avermi dato degli abiti puliti? -
domandò, sfiorando un lembo della semplice tunica in lana
azzurra.
- La incontrerete oggi. Si chiama Hallende, è la cerusica.
Dovrebbe passare a controllare le vostre condizioni a momenti. -
Il fruscio della tenda che si apriva richiamò la loro
attenzione. Entrò una donna con
l’estremità della sopravveste blu raccolta sul
braccio destro, la tunica dorata le accarezzava la punta dei piedi ad
ogni passo, stretta in vita da una fusciacca purpurea. Non appena la
vide, Arghail si affrettò ad alzarsi per lasciarle posto.
Lei si sedette e nel farlo i pendagli d’argento che le
agghindavano le trecce emisero un leggero tintinnio.
- Come vi sentite stamattina, Generale? Vedo che vi siete ripresa e che
la tunica vi calza a meraviglia. - le si rivolse con un sorriso gentile.
Airis notò gli occhi leggermente a mandorla e
l’incarnato scuro del volto, tratti tipici dei
Chàyl, il popolo che viveva nei deserti dell’Oquea
del sud.
Inspirò profondamente e spostò le ciocche ribelli
dietro la testa: - Mi sento meglio, sì. Grazie per avermi
dato qualcosa di pulito. -
- Non merito nessun ringraziamento per aver svolto il mio dovere.
Piuttosto, sono molto sorpresa di vedervi… viva. -
scambiò un’occhiata veloce con Arghail, - Il
Cavaliere del Drago ha riportato la vostra spada alla capitale e meno
di una settimana fa si sono svolti i funerali vostri e di Ignus.
Pensavamo tutti foste morta durante l’esplosione di Llanowar.
-
- No, sono riuscita a salvarmi, anche se per pura fortuna. - si
passò una mano sul viso, riportando alla mente gli eventi
accaduti dopo che quella luce accecante aveva distrutto tutto.
Il viso di Ledah riemerse con prepotenza dalla sua memoria, assieme a
tutti i momenti che avevano condiviso e alla promessa che si erano
fatti prima che lei fuggisse con i cittadini sopravvissuti.
- A parte me, qualcun altro è scampato all'esplosione? -
domandò speranzosa.
Hallende scosse la testa: - No, nessuno, a quanto sembra. Soltanto
Felther è tornato vivo da Llanowar. -
- E al campo? -
- Ho mandato i miei uomini in perlustrazione mezz’ora fa. -
intervenne Arghail, le labbra atteggiate in una smorfia amara che
già lasciava presagire cosa avrebbe aggiunto, - Ma dubito
che troveranno qualcuno di vivo. -
Airis annuì. Erano davvero tutti morti. Contrasse la
mascella e si morse le labbra, abbassando lo sguardo sulle mani strette
a pugno. Sussultò quando percepì una presenza al
suo fianco. Le dita di Hallende si chiusero sulle sue, delicate e
premurose.
- Non oso immaginare quanto abbiate patito in questi mesi. Persino per
un Generale navigato come voi dev’essere stato orribile. Se
posso fare qualcosa… -
- No, è solo... doloroso. - scrollò la testa e si
scostò, - Ma immagino che non siate venuti qui per
consolarmi. -
Hallende e Arghail non risposero. Ancora una volta i loro sguardi si
cercarono e Airis colse nei loro occhi la domanda che non avevano
ancora avuto il coraggio di porle.
- Volete sapere cosa so di Luthien, giusto? - li prevenne.
- Sì, se possibile. Abbiamo visto l’esplosione da
porto Eamone e ci siamo subito diretti qui. Abbiamo marciato
più in fretta che potevamo, ma non siamo arrivati in tempo.
- disse il soldato con un fil di voce, gli occhi viola pieni di dolore,
- Sono stati gli elfi ad attaccarvi? -
Airis spostò la sua attenzione su un braciere
all’angolo della tenda, sfuggendo lo sguardo di Arghail, che
interpretò quel gesto come un’esitazione dettata
dalla sofferenza di ricordare quello che era accaduto. Si
avvicinò e prese posto sulla sedia di fronte a lei con un
impeto tale che per poco questa non cadde. Aprì la bocca per
dire qualcosa, ma un’occhiata ammonitrice da parte di
Hallende fu più che sufficiente a fargli capire che non era
il caso d’insistere, o così Airis si
augurò, perché non avrebbe saputo come
rispondere. La soluzione più logica sarebbe stata rivelare
che erano gli elfi i colpevoli di quel massacro, ma la
verità era un'altra.
- Purtroppo non vi posso aiutare. Ho vagato a lungo per la foresta di
Llanowar, e quando finalmente sono riuscita a uscirne era
già tutto distrutto. Anche quando sono arrivata al campo, la
notte scorsa, non ho trovato altro che cadaveri. -
Al pensiero di aver depredato quei corpi insepolti, la vergogna le
incendiò le guance. Percepì il calore della mano
di Hallende a un pollice dalla guancia, ma si ritrasse in fretta.
- C’è altro che dovete chiedermi? -
- Sì. - rispose Arghail dopo un breve silenzio, sembrava
quasi cercare le parole adatte per continuare, - Hallende, puoi
lasciarci soli? -
La donna esitò, ma poi, vedendo che il soldato non sembrava
intenzionato a cambiare il suo ordine, si alzò, fece un
rapido inchino e uscì fuori dalla tenda.
Rimasti soli, Arghail si concesse ancora del tempo. Fissava Airis con
un’espressione che non lasciava trapelare nulla, lo sguardo
perso in chissà quali riflessioni. Quando finalmente
parlò, aveva un tono gentile ma fermo.
- Perché quando mi sono annunciato vi siete nascosta? -
La guerriera si irrigidì, presa in contropiede.
- Dovresti sapere che sono cieca, soldato, non potevo vedere lo stemma
sul tuo pettorale. Erano settimane che non incontravo anima viva, non
potevo di certo immaginarmi di essermi davvero imbattuta in un mio
alleato. - spiegò nervosa.
- In altre circostanze, Generale, vi crederei, tuttavia non sembrava
che vi mancasse la vista, anzi, correvate come se sapeste con chiarezza
quali ostacoli avevate davanti. Tutti eravamo convinti che usaste
qualche artificio magico per combattere, ma quando Hallende vi ha
spogliata non vi ha trovato niente addosso, né tatuaggi,
né artefatti, né strane gemme.
Inoltre… - le indicò gli zigomi, - non avete
più le cicatrici attorno agli occhi, quelle che si dice vi
siate procurata quando vi è stata tolta la vista. -
Airis non seppe come ribattere. Pensò rapidamente a una
scusa che potesse giustificare quell’improvvisa guarigione,
ma non le venne in mente nulla di convincente.
Davanti al suo silenzio, Arghail incalzò: - Ascoltate,
qualsiasi cosa vi sia accaduta, qualsiasi cosa abbiate fatto per
sopravvivere io non vi giudicherò. Il vostro esercito
è stato spazzato via da un’esplosione, avete
vagato per più di un mese in una foresta distrutta e poi
rivissuto lo stesso incubo quando siete passata da Luthien. Per quanto
sangue e devastazione abbiate visto, alla morte non ci si abitua mai.
Vi prometto che quello che mi direte rimarrà tra me e voi. -
- Mi stai chiedendo di fidarmi di te? -
- So che è difficile e non posso pretendere che mi riveliate
tutto, però voglio che sappiate che vi ammiro, Generale. Non
avete niente di cui vergognarvi, non con me. -
Quella parola aveva un suono meraviglioso: fiducia. La guerriera se la
ripeté ancora e ancora, assaporandola nella mente. Guarda
caso l’ultima persona su cui aveva fatto affidamento era la
stessa che adesso avrebbe dovuto salvare. Con Ledah però era
stato diverso, era stata un’alleanza dettata dal bisogno di
sopravvivenza, che in seguito si era evoluta in qualcosa di
più, qualcosa che ancora non riusciva a capire. E ora
qualcuno la pregava di buttarsi di nuovo, così come aveva
fatto la prima volta che aveva incontrato Cyril.
Incrociò gli occhi con quelli di Arghail e lo
studiò in silenzio per capire cosa gli passasse per la
testa. Lui sostenne il suo sguardo senza avvicinarsi, senza muovere un
muscolo.
- Non posso rivelarti quello che è successo, non ora. Quello
che so è troppo importante e non posso permettermi errori. -
allungò la mano e gliela posò sulla spalla, - Per
favore, non farmi ulteriori domande e mantieni il segreto sulla mia
identità. È importante che nessuno sappia che
sono ancora viva. Quando arriverà il momento, quando
sarò certa che potrò fidarmi di te, prometto di
spiegarti ogni cosa. -
- Me lo state chiedendo? -
- No, soldato. È un ordine. -
Arghail annuì e abbozzò un sorriso: - Mi sembra
un buon inizio. -
- Diciamo di sì, ne ho avuti di peggiori. -
- Allora spero che un giorno me li racconterete. Bene, è
giunto il momento di andare. Riferirò ad Hallende di non
parlare con nessuno di quello che sa. - disse alzandosi in piedi.
- E ai tuoi compagni? Cosa dirai? E all’ufficiale superiore? -
- Ai miei compagni dirò che ieri notte ho trovato una
sopravvissuta e che la nostra cerusica ha rinvenuto i sintomi della
febbre rossa. Nessuno oserà avvicinarsi. Per quel che
riguarda la seconda domanda… - il sorriso sulle sue labbra
si allargò, - Sappiate che siete al cospetto del capitano
della guarnigione, ho una certa influenza. -
Ammiccò gentile, poi spostò il lembo della tenda
e la lasciò sola. Airis tornò a stendersi sulla
brandina e si tirò la coperta fino al petto. Era tornata in
vita in un corpo che non era il suo, senza niente, disarmata e con una
missione impossibile da portare a termine. Realizzò con
amarezza che l’unica cosa che ora poteva fare era sperare di
aver riposto bene la sua fiducia, che quell’atto di fede non
le si sarebbe rivoltato contro.
“Meno di sei settimane all’eclissi, prima che
Lysandra compia il rito e che Ledah diventi Aesir.”
Si toccò la bocca con una mano. Le labbra erano fredde e il
gelo era sceso anche sul cuore. Sarebbe riuscita ad abituarsi in tempo?
La luce del sole calante indorava la tenda e l’orchestra
della foresta si preparava ad accogliere la notte, ma Airis non
poté cedere alle lusinghe del sonno, il pensiero che volava
a Ledah e alle parole che non le aveva mai detto.
Fin da piccolo, Zefiro era
sempre stato un bambino tranquillo. Non amava andare in giro per
Amount-vinya a combinare guai come la maggior parte dei suoi coetanei,
ma passava la maggior parte del suo tempo a camminare per i boschi o
sulle mura della città, osservando curioso e meravigliato il
lavoro svolto dalle guardie. All’inizio sua madre non era
stata molto d’accordo che rimanesse per ore lontano da casa.
Se le mura di Amount-vinya erano molto vicine e sicure, girare nei
prati e nella boscaglia attorno alla città costituiva invece
un motivo di preoccupazione. Erano dovuti trascorrere circa sei mesi
perché Mirya si abituasse all’idea e smettesse di
lanciargli quelle occhiate di rimprovero che Zefiro odiava. Con
l’aiuto di Alan, la donna si era rasserenata e, anzi, dopo un
po’ di tempo aveva preso a fare delle domande al figlio, su
cosa avesse visto nel bosco, su che strada avesse preso per arrivare
alla collinetta delle rose o se avesse incontrato qualcun altro durante
le sue passeggiate.
Conscio di quanto fosse costato alla madre concedergli quella
libertà, Zefiro aveva fatto di tutto per non farla mai
preoccupare: cercava di non sparire per lungo tempo e, per quanto
possibile, si sforzava di tenerla sempre informata su dove fosse,
magari scambiando due parole con quella chiacchierona della
pescivendola o passando a prendere una focaccina dal panettiere in
piazza.
Tuttavia, un giorno si inoltrò un po’ troppo nel
bosco e tornò a casa ben oltre l’orario di cena.
Fu in quell’occasione che vide per la prima volta sua madre
arrabbiata. Le guardie e i vicini l’avevano fissato con
rimprovero mentre camminava a testa bassa verso di lei, che, da quando
lo aveva visto entrare, non aveva mai distolto lo sguardo dal suo, gli
occhi arrossati pieni di lacrime e le labbra storte in una smorfia che
lo spaventò. Lo schiaffo che gli diede non fu forte, ma
bastò quel gesto e la sua espressione delusa a farlo
scappare in camera prima di scoppiare in lacrime. Pianse per ore, con
la faccia affondata nel cuscino, le dita che artigliavano la federa
bagnata e il senso di colpa che gli serrava lo stomaco in una stretta
così dolorosa da togliergli il fiato. Quando finalmente
Myria era venuta da lui, era già notte fonda e il sonno era
già sopraggiunto da molto. Probabilmente era stato il
cigolio della porta a riscuoterlo, o forse era solo
un’impressione dettata dalla stanchezza ad avergli donato una
percezione distorta della realtà. Così Zefiro era
rimasto immobile mentre sua madre, seduta sulla sedia accanto al letto,
cominciava ad accarezzargli la testa e a dirgli quanto gli voleva bene.
L’aveva ripetuto a lungo con la voce resa tremante dai
singhiozzi, un sussurro pieno d’amore che lo aveva cullato,
accompagnandolo nel torpore del sonno. Il giorno dopo, nessuno dei due
aveva fatto menzione di quello che era accaduto. Si erano limitati ad
abbracciarsi un po’ più del solito, a godersi
l’uno la presenza dell’altra. Poi Zefiro si era
staccato ed era corso fuori, dirigendosi verso le mura cittadine, nella
mano sinistra il sacchetto con un panino al latte e nel cuore la
promessa che non sarebbe mai più stato la causa delle
lacrime di sua madre.
Aveva otto anni all'epoca, quando aveva giurato che non
l’avrebbe più fatta soffrire. Eppure, in quel
momento, sentiva come se il tempo non fosse mai passato. Myria spostava
lo sguardo gelido da lui a Melwen. Nordri e Baldur si erano tenuti in
disparte, ma la disapprovazione era dipinta chiaramente sui loro volti.
Nyi, il mago che li aveva salvati, era appoggiato al muro con il
cappuccio ben calcato sul volto.
Era stata la questione di un istante: un momento prima si trovavano
nell'antica Alabastria e una casa stava crollando loro addosso, poi una
luce accecante li aveva avvolti ed erano riapparsi lì, nella
camera di Nordri. Sua madre era corsa loro incontro e, scossa dai
singhiozzi, li aveva abbracciati fortissimo. Zefiro aveva sperato che
non sarebbe accaduto nulla, che forse avrebbero avuto tempo e modo di
inventarsi una scusa sul perché si fossero addentrati in
quei vecchi ruderi, però Myria si era alzata e si era
allontanata troncando ogi tentativo di spiegazione. Allora Zefiro aveva
capito che stavolta l’aveva combinata davvero grossa.
L’unico che pareva distaccato era Nyi, assorto nella lettura
di un libro dalla copertina consunta, uno dei tanti che costituivano la
libreria personale di Nordri.
- Come avete fatto a entrare nella parte vecchia della
città? - li interrogò Mirya severa, come la linea
dritta ed esangue in cui aveva serrato le labbra.
Zefiro fremette e Melwen gli strinse la mano, trasmettendogli coraggio
e sostegno. Eppure, nonostante l'amica fosse accanto a lui, Zefiro
avvertiva un grande peso sulle spalle, un senso di colpa schiacciante
che smembrava le parole prima che riuscisse ad articolarle.
Chinò la testa, improvvisamente interessato alle venature
del pavimento di legno, e si sforzò di spiegare.
- Abbiamo… abbiamo usato la magia. - balbettò.
- E come facevate a sapere dove si trovasse l’ingresso ovest?
Solo le guardie e pochi altri conoscono quell’entrata. -
intervenne Baldur.
- L'ho vista in uno dei libri di Nordri. - la voce di Melwen tremava,
così come le sue ginocchia, - Non è stata colpa
di Zefiro, è stata tutta una mia idea. Mi annoiavo e ho
letto che c’era questa immensa biblioteca nella
città sotterranea e così ho pensato che sarebbe
stato divertente… -
- Divertente?! Ma vi rendete conto che stavate per morire! -
sbottò il nano.
Avanzò verso di loro, la sua figura bassa e tozza che si
stagliava contro la luce facendolo sembrare più alto,
più imponente, tant’è che persino Myria
rimase impietrita.
- Baldur, per favore… -
- Myria, non dirmi di tacere. Non possono passarla liscia, devono
comprendere la gravita di ciò che hanno fatto. -
dichiarò duro e si avvicinò a loro
così tanto, che Zefiro poté sentire il suo
respiro sul collo.
- Cosa vi è passato per la testa? Lo sapevate che era
proibito scendere là sotto perché era pericoloso.
Maledizione! Se non fosse stato per Nyi, a quest’ora non
avremmo nemmeno dei corpi da seppellire. -
- Sì, lo so, ma… -
Baldur sbatté il pugno sul tavolo e la bambina
sussultò spaventata.
- Hai parlato abbastanza. - ringhiò, gli occhi ridotti a due
strette fessure.
Alternò lo sguardo da lei a Zefiro, la mascella contratta
sotto la barba rossiccia, poi lanciò un'occhiata di fuoco a
Nordri.
- Nordri, mi sai dire per quale maledetto motivo Bryonia non era
lì di guardia? - indagò.
Il padrone di casa sospirò e si versò un altro
bicchiere di idromele. Le rughe, che sprofondavano nella pelle assieme
alla cicatrice orizzontale che gli sfregiava il viso dalla guancia
all’orecchio, accentuavano ulteriormente
l’espressione cupa. Rimase in silenzio per un tempo che a
Zefiro parve un’eternità, gli occhi socchiusi
persi in chissà quali pensieri.
- L’ho trovata sbronza assieme a Sinar e Mali nella locanda
di Keli in piazza Spada. - riferì in tono dimesso.
Osservò il riflesso dorato dell’alcolico in
controluce. Era già il quarto che beveva, ma sulle sue
guance non c’era nemmeno l’ombra del rossore
dell’ubriachezza.
- Lo so che non sarebbe dovuto accadere, ma mi sembra che tu
stia esagerando, Baldur. I bambini stanno bene e hanno imparato la
lezione, rimproverarli ulteriormente non cambierà le cose. -
- Esatto, hanno capito la lezione. - Myria corse da Melwen e Zefiro e
li strinse entrambi a sé.
- Siete troppo indulgenti. - borbottò il nano, scuotendo il
capo.
La donna si frappose tra lui e i bambini, l’espressione
battagliera sul viso che faceva a pugni con gli occhi arrossati e i
capelli scarmigliati, sfuggiti dalla presa della treccia e delle
forcine. Percependo la sua mano che gli accarezzava la schiena, Zefiro
si sentì al sicuro, protetto.
Dopo un lungo momento in cui tutti trattennero il respiro, Baldur si
arrese, ma solo quando andò a sedersi al tavolo il bambino
osò tirare un sospiro di sollievo. Sapeva che il nano non
avrebbe mai fatto del male a nessuno di loro, però non
poteva negare di aver avuto paura quando in fondo alle pupille aveva
scorto una luminescenza fredda, furiosa, una rabbia a stento
trattenuta.
Quando la madre gli rivolse un incerto sorriso rassicurante, rimase
fermo, finché non la vide allontanarsi per prendere posto al
tavolo, la mano ancora stretta attorno a quella di Melwen, che non
accennava ad alzare la testa. L'amica tremava e, anche se non riusciva
a scorgere il viso dietro quella matassa di riccioli, Zefiro sapeva che
si stava sforzando per non lasciare campo libero alle lacrime.
In quel silenzio interrotto solo dai sussurri sommessi delle cameriere
che preparavano il pranzo, il bambino non sapeva cosa fare per
consolare Melwen, per farle capire che non era colpa sua,
perché lui le era andato dietro.
- Zefiro, Melwen, venite qui. -
L'esortazione pacata di Nordri li riscosse. Zefiro tirò il
braccio dell’amica e la condusse fino al tavolo di noce dove
avevano preso posto tutti a parte Nyi, che era rimasto appoggiato al
muro durante tutta la discussione. Il cappuccio del mantello gli
copriva il volto, ma il bambino poteva percepire il suo sguardo sulla
pelle, anche se qualcosa gli diceva che non era davvero lui
l’oggetto delle sue attenzioni. Istintivamente,
rinserrò la stretta attorno alla mano di Melwen.
- Signori, vorrei presentarvi una persona. - cominciò il
padrone di casa, ma venne subito interrotto da Baldur.
- Niente formalismi, abbiamo perso già abbastanza tempo. -
brontolò, evidentemente infastidito dal tono quasi
reverenziale usato da Nordri, - Chiediamo quel che dobbiamo chiedere a
questo Lancia-incantesimi e risolviamo la questione. -
- Elltida travlet, dwarv. - sorrise Nyi, chiudendo il libro che stava
leggendo e riponendolo sullo scaffale.
La sua voce aveva un timbro baritonale, profondo, che mal si sposava
alla bassa statura e alle spalle strette che si intravedevano da sotto
il mantello.
A quelle parole, il nano gli rivolse uno sguardo di fuoco: - Non ti
rivolgere a me chiamandomi in quel modo, gnometto. -
- Non serve scaldarsi, non sono qui per litigare. - replicò
tranquillo Nyi, - E comunque non è di certo con te che
desidero parlare. -
Si fece avanti senza nessuna esitazione, fece il giro del tavolo e si
inchinò in modo quasi aristocratico di fronte a Melwen.
- Sei davvero la figlia di Copernico. - la fissò
intensamente, la tristezza che traspariva dalle sue parole, - Mi
dispiace moltissimo per quello che è accaduto alla tua
famiglia, non oso immaginare quanto debba essere stato difficile per
te. -
Al sentir pronunciare il nome del padre la bambina si
irrigidì, ma Nyi parve non accorgersene.
- Lo conoscevo molto bene: durante il periodo in cui abbiamo
frequentato l’accademia siamo stati molto amici, poi
però abbiamo preso strade diverse e non ci siamo
più incontrati. - proseguì e con delicatezza le
poggiò la mano sulla spalla, - Mi dispiace davvero che abbia
fatto quella fine. Io… -
- N-non è carino parlare a qualcuno nascondendo la faccia. -
lo interruppe Zefiro, - Insomma… non è molto
cortese da parte vostra, ecco. -
Una smorfia di disappunto increspò le labbra del mago. Solo
allora Zefiro si accorse che una fitta peluria bionda e riccia gli
copriva il dorso e le dita dei piedi.
- Avete ragione, chiedo venia per la mia maleducazione. - si
allontanò e schioccò le dita.
Il mantello si aprì e volteggiò in aria,
piegandosi in modo impeccabile sullo schienale dell’unica
sedia rimasta vuota. Ma non fu quella piccola magia a catalizzare
l’attenzione dei due bambini. L'essere che si trovarono
davanti era in tutto e per tutto simile a un umano, eccetto che per le
orecchie a punta. A Zefiro ricordarono lontanamente quelle degli elfi.
Era alto quasi quanto loro, forse qualche pollice di meno, con la pelle
di un ricco color cannella e i capelli biondi che incorniciavano un
viso spigoloso e punteggiato da una leggera barba che gli indorava le
guance e il mento. Nonostante la sobria tunica nera e i monili
d’argento al collo e alle mani, i suoi occhi incutevano
soggezione e un timore reverenziale. Zefiro dovette reprimere
l’istinto di allontanarsi. Sebbene lo sguardo del mago non
fosse diretto su di lui, si sentiva comunque profondamente a disagio, a
differenza di Melwen, che invece lo fissava affascinata.
- A viso scoperto, il vostro cavalier servente si sente più
tranquillo? - lo sbeffeggiò apertamente.
- Nyi, non prenderlo in giro. Non è stata una giornata
facile per loro. - lo ammonì Nordri, scatenando
l’ilarità del mago.
- Non lo stavo prendendo in giro, anzi, chiedevo il suo permesso. Sia
mai che tenti di assalirmi con la sua spada di legno. - si
passò una mano sulle labbra piene e lanciò un
ultimo sguardo divertito a Zefiro, per poi posare nuovamente lo sguardo
su Melwen, - Sappi che mi dispiace davvero per quello che è
accaduto. Se posso fare qualcosa per te, io… -
La bambina scosse la testa: - No, non… non ora. Piuttosto,
perché Baldur è venuto a cercarvi? -
- Diciamo che c’è una cosa che desidera sapere e
io sono l’unico che gliela può rivelare. -
All'improvviso la porta si aprì e Magda, capo della
servitù, entrò assieme ad altre due ragazze. In
completo silenzio, senza fare quasi rumore, scivolarono verso il tavolo
e vi posero un vassoio di dolcetti allo zenzero e cinque pinte di birra
scura. Dopo un rapido inchino al padrone di casa, si dileguarono
chiudendo la porta alle loro spalle.
Baldur si servì subito, seguito da Nordri, mentre Myria
prese un dolcetto alle mandorle caramellate. Osservandola di sottecchi,
Zefiro si rese conto che le spalle le tremavano ancora, anche se
l’espressione arrabbiata aveva definitivamente abbandonato il
suo viso. Quando i loro sguardi si incrociarono, l’ombra di
un sorriso le sfiorò le labbra e la mano si strinse forte
attorno alla sua, come per infondergli forza.
A quel punto, Nyi riprese il discorso: - Sono l’unico a poter
dire a questi gentili signori in che stato è la tua magia,
fino a che livello si è sviluppata e quanto ancora
potrà crescere. -
- Cosa? Riuscireste a capirlo? - Melwen lo squadrò sorpresa,
- Mio padre mi aveva detto che c’era un modo, ma ha anche
aggiunto che… -
- Che bisogna che l'esaminatore conosca a fondo il paziente. -
completò il mago, - Sì, di solito è
così, ma ci sono alcune persone, come il sottoscritto, che
non si fanno fermare da certe piccolezze. -
- Vedi, Melwen, Nyi è un mago estremamente potente, un
cosiddetto Dominatore, capace di manipolare l’energia
elementale a proprio piacimento. Se si avvalesse della magia del
sangue, potrebbe captare la tua traccia magica per capire cosa sei. -
le disse Nordri.
Notando l’espressione sconcertata sul viso della ragazzina e
lo sguardo truce che Baldur gli aveva rivolto, il mago si
affrettò a spiegare: - Non è niente di proibito,
è solo il nome che è di pessimo gusto.
Semplicemente, sfrutterò la componente liquida presente nel
tuo sangue per mappare le vene, le arterie e i capillari. È
la base del potere di un qualsiasi Dominatore avvalersi della
componente elementale dell’universo per lanciare incantesimi.
-
- La componente elementale? Cioè? - si intromise Myria,
curiosa e intimorita.
- È un concetto un po’ complicato da spiegare a
chi è estraneo al mondo della magia. Vi basti sapere che
esistono due categorie di maghi: quelli come me traggono forza dagli
elementi, mentre gli Arcanes si sincronizzano con l’energia
intrinseca del mondo. -
- Mio padre era come voi? - domandò titubante Melwen.
- No, tuo padre era un Arcanes. Uno dei più potenti che
abbia mai avuto la fortuna di conoscere. - Nyi strinse le labbra e
serrò le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, - In
ogni caso, non sarà niente di invasivo, se è
questo che ti preoccupava. -
La bambina assentì, ma il nervosismo non accennava ad
abbandonarla. Continuava a spostare lo sguardo dal mago e Nordri, da
Nordri a Nyi, a volte con qualche deviazione in direzione della porta.
Era spaventata, confusa e, anche se non poteva scorgere
l’espressione sul suo viso, Zefiro riusciva percepire la
tensione attraverso i suoi palmi sudati.
- Sarà un processo doloroso? -
s'interessò, anticipando la compagna.
- Dipende. - un dolcetto si adagiò tra le mani del mago, che
l’addentò, - Il mio potere di Dominatore si affida
alla magia elementale. Fuoco, acqua, terra e aria sono le componenti
essenziali di tutti gli incantesimi, siano essi appartenenti alla
cosiddetta scuola bianca o scuola nera. Si potrebbe dire che la mia
è una magia molto più primordiale e grezza
rispetto a quella di tuo padre. che al contrario era un mago nel senso
più classico del termine, nonché grande
sostenitore della teoria secondo cui… -
- Arriva al dunque, Lancia-incatesimi, non ti abbiamo invitato qui per
una dissertazione accademica. - lo interruppe Baldur con un tono che a
malapena celava l’irritazione.
In risposta, Nyi levò gli occhi al cielo con un sospiro
esasperato e Zefiro dovette fare un grande sforzo di volontà
per trattenere una risata. Quel mezzo uomo non gli piaceva e vederlo
incassare in quel modo gli procurava una certa soddisfazione.
- Come stavo tentando di spiegare, - lanciò
un’occhiata truce al nano, - c’è una
teoria secondo cui l’energia elementale sta alla base di
tutto l’universo, è la forza generatrice di ogni
singola forma di vita esistente, dalle più semplici alle
più complesse. Col trascorrere dei secoli e dei millenni, le
tracce di questa magia sono diventate sempre più rare, a
parte in alcune razze che invece le mantengono vive con il continuo
esercizio. Ora, Copernico era un mezzosangue, quindi è
più che lecito pensare che tu abbia ereditato la sua stessa
forza. Se così fosse, sarei molto felice di prenderti sotto
la mia ala per allenarti. - terminò, scrutando Melwen con un
sorriso gentile.
Zefiro sussultò.
“Allenarla? Significa che la porterà via e che non
ci rivedremo mai più?”
La paura gli artigliò le viscere e divenne un dolore quasi
fisico quando vide lo sguardo della sua amica completamente rapito,
affascinato dalle parole di Nyi.
- Dovrò lasciare Albastria? - mormorò la bambina.
- Lo so che non è facile, ma è la cosa migliore.
-
- Esatto. - confermò Nordri, sorseggiando la sua birra, -
Dopo l’attacco a Luthien da parte di quel drago, non penso
che tu sia al sicuro qui. -
- Le mura di Alabastria non sono mai crollate, non
c’è posto più sicuro di questo. -
replicò accorato Zefiro.
Tutti si girarono a guardarlo, compresa Melwen, ma lui non vi
badò. Non sapeva dove avesse trovato tutta quella sicurezza,
ma si augurò che non si esaurisse troppo in fretta. Quando
incontrò lo sguardo penetrante del mago, il suo cuore perse
un battito. Tuttavia, prima che potesse fermarsi, le parole gli
scapparono di bocca.
- Avete detto che la porterete con voi, ma non pensate che correrebbe
troppi rischi girando per Esperya? Soprattutto ora che la guerra si
è inasprita, nessun luogo è più sicuro
della fortezza nanica del nord. Inoltre, dopo tutto quello che le
è accaduto, non penso sia una buona idea portarla via. -
- Anche io la penso come mio figlio. - approvò Myria, -
Sapevo che tradizionalmente i maghi adottano fanciulli e fanciulle
giovani per iniziarli alla magia, però questo mi pare
esagerato. -
- È l’unica soluzione che abbiamo, soprattutto
dopo gli eventi dell’ultimo mese. - ribatté
Baldur, con una voce che non lasciava spazio a repliche di alcun
genere.
Myria si chetò e intrecciò le mani in grembo,
combattuta.
Calò un silenzio saturo di tensione. Le occhiate eloquenti
dei tre adulti continuarono quel dialogo muto da cui i due bambini
erano esclusi. Per un lungo minuto nessuno disse più niente,
poi quando la donna trasse un profondo respiro e piegò le
labbra in una smorfia amara, Zefiro capì che la decisione
era già stata presa.
- È la scelta migliore, Melwen. - esordì Nordri,
- Nyi è un ottimo mago e, da quello che mi ha detto, anche
se non avessi le qualità che cerca, sarebbe disposto a
prenderti con sé per portarti da un suo amico a Sershet,
dove potrai imparare un lavoro. -
- E se invece mi dimostrassi valida? - domandò.
- In quel caso, diventeresti la mia apprendista. Ti insegnerei a
padroneggiare il tuo potere se fosse simile al mio, oppure ti affiderei
alle gentili cure dell’accademia di magia della capitale. -
rispose Nyi, - Se mi permetterai di controllare, ricercherò
attraverso la magia del sangue quelle tracce e vedrò quanto
grande è il tuo potenziale. Potranno farlo i tuoi futuri
insegnanti, ma preferisco occuparmene di persona, giusto per avere la
sicurezza di non perdermi un possibile allievo. -
- Ma non è giusto! - protestò Zefiro, - Non
potete obbligarla ad andarsene, lei… -
L’improvvisa stretta di mano della sua amica lo mise a tacere
e, quando si girò a guardarla, si accorse che sorrideva, un
sorriso accondiscendente che fu come una coltellata al petto.
- Non ti preoccupare, hanno ragione. Loro sono adulti, sanno quello che
è meglio per noi. - lo rincuorò.
- Ma… -
- Zefiro, basta. - lo gelò.
Senza aggiungere altro, scese dalla sedia e si avvicinò a
Nyi: - Puoi già controllare? -
Il mago annuì.
- Sarà una cosa veloce? -
- Sì, questo sì. - le posò le mani
sulle spalle, - Ora chiudi gli occhi e rilassati. -
La bambina obbedì. Per i dieci minuti a seguire nessuno
parlò, tutti concentrati su di loro. Zefiro rimase buono,
anche se avrebbe davvero voluto rintanarsi in camera a piangere. Si
sentiva messo da parte, ferito dal comportamento della sua amica e
tradito dal silenzio della madre. Nonostante sapesse che la partenza di
Melwen era la cosa più logica, poiché le avrebbe
assicurato un futuro lontano dai pericoli della guerra, il pensiero di
non vederla più, di perdere la sua amicizia, gli faceva
male. Sperò fino alla fine che Nyi non trovasse niente di
speciale in lei e, seppure fosse ben conscio che quella era solo una
stupida speranza, una sensazione di gelo gli chiuse la gola quando le
labbra del mago si arcuarono in un ampio sorriso.
Il mondo esterno, con i suoi suoni e i suoi colori, si
sfaldò fino a svanire. Zefiro smise di percepire le carezze
sulla schiena di sua madre e le goffe pacche consolatorie di Baldur, ed
ebbe quasi l'impressione di sprofondare. Solo dopo qualche minuto,
quando vide Melwen sparire oltre la soglia con la sacca a tracolla,
trovò la forza di seguirla.
Non appena entrò nella sua stanza, Melwen si
lasciò cadere sul letto ad occhi chiusi. Sentiva ancora il
rimbombo del battito del suo cuore nelle orecchie e nella testa i
pensieri si affastellavano veloci e caotici, senza che lei riuscisse
davvero a prenderne in considerazione nemmeno uno. Si sentiva euforica.
Nyi le aveva detto che la sua magia non solo era perfettamente
sviluppata, ma che possedeva anche tutte le doti per diventare
un’ottima maga. Anzi, una Dominatrice.
Non si sarebbe mai aspettata di essere così simile a Nyi,
non in una cosa così profonda e intima. Da un certo punto di
vista, quel dettaglio la spaventava. Suo padre le aveva ribadito
più volte che non sempre la prole di un mago era capace di
esercitare l’arte arcana, così come non era
impossibile che da un uomo perfettamente normale nascesse un bambino
con il dono della magia, ma non aveva mai accennato nulla al fatto che
ci potesse essere una discordanza tra il potere dei genitori e quello
dei loro figli.
E poi c’era Zefiro. L'amico non avrebbe mai accettato di
lasciarla partire così. Lo aveva visto nei suoi occhi, nella
determinazione con cui aveva risposto a Nyi. Non avrebbe mai creduto
che sarebbe stato in grado di imporsi in quel modo: ci voleva coraggio
per opporsi alla decisione di un mago, e di coraggio Zefiro ne aveva
ben poco, o almeno così aveva sempre creduto.
Si tirò su a sedere e si passò una mano sul
volto, inspirando profondamente. Non aveva voglia di pensare a
ciò che era accaduto, né tanto meno soffermarsi
su quello che sarebbe stato il suo futuro che, adesso si rendeva conto,
non era mai stato più certo di così. Eppure non
riusciva a esserne felice, non quanto avrebbe voluto.
Si allungò verso la sacca ed estrasse il libro che avevano
trovato nella biblioteca. Cominciò a sfogliarlo, cercando di
concentrare la sua attenzione sulle bellissime immagini che occupavano
intere pagine e decoravano le lettere di ogni inizio paragrafo. Aveva
sempre amato leggere. Pensandoci ora, era una cosa abbastanza ovvia,
suo padre non aveva fatto altro che raccontarle storie fin da
piccolissima e lei si divertiva spesso a inventarne di proprie. Era il
suo modo per isolarsi dalla realtà e sognare di essere
qualcun altro, immergendosi nelle avventure di cavalieri, principesse e
impavidi eroi. Ora però faticava a rimanere attenta e le
frasi scorrevano sotto i suoi occhi senza trasmetterle nulla, nemmeno
il loro significato più superficiale.
Alla fine, con un sospiro frustrato, scivolò sul bordo del
materasso, decisa ad alzarsi e andare a farsi un giro in
città. Restare chiusa tra quelle quattro mura rischiava di
farla impazzire e la sola idea di dover incontrare Zefiro la metteva a
disagio. Non era ancora capace di usare una magia di trasporto, ma era
sicura che sarebbe bastato fare un po’ di attenzione a non
farsi scoprire mentre sgattaiolava fuori.
Saltò giù dal letto e, tutta presa dai suoi
pensieri di fuga, non si rese conto che la porta si era aperta. Sulla
soglia apparve Zefiro, il volto arrossato dal pianto e lo sguardo
affranto, con le ciglia che trattenevano appena le lacrime. Melwen si
irrigidì e abbassò il capo, rifiutandosi di
guardarlo. Non voleva, non ce la faceva, non se la fissava in quel
modo.
Zefiro percorse la distanza che li separava lentamente, strascicando i
piedi sul pavimento, senza mai staccarle gli occhi di dosso.
La bambina attese, immobile, pronta a sentirsi rivolgere le peggiori
offese, ma inaspettatamente non accadde nulla di tutto ciò.
Zefiro l’avvolse in un abbraccio così forte da
mozzarle il fiato, le sue mani le stringevano le spalle intrappolandola
contro il suo petto, che non tardò a scuotersi in preda ai
singhiozzi. Era di mezza testa più alto di lei e Melwen
poteva sentire il suo cuore che batteva impazzito contro il suo
orecchio.
- Non andare via… - la supplicò affranto.
- Zefiro, non posso restare, lo sai. -
Il bambino si allontanò il necessario per poterla osservare
in viso.
- Ho capito che per te sarebbe una buona cosa, è solo
che… non mi va di perderti. -
- Oh, ma non accadrà. - lo rassicurò, facendolo
sedere sul letto, - Ti scriverò tutti i giorni e prometto
che verrò a trovarti spesso, così potremo giocare
assieme. -
- Hai già deciso che andrai con Nyi. - esalò
triste.
Melwen si grattò nervosamente la nuca, cercando le parole
giuste, ma queste le sfuggivano prima che lei potesse anche solo
provare a metterle in ordine. Quindi spostò il libro e si
sedette vicino a lui, allungando le gambe fin dove poté, nel
vano tentativo di scaricare la tensione e l’angoscia che
sentiva addosso.
- Sento che è la mia occasione, per quanto sia difficile e
mi faccia paura. - ammise, strusciando il piede sul pavimento, - Voglio
conoscere il mondo, scoprire i suoi misteri. Desidero imparare la magia
per poter essere d'aiuto in qualche modo, ma se rimango qui... -
sospirò, - Non mi va di lasciarti, Zefiro, ne abbiamo
passate tante noi due, però... -
- Potremmo viaggiare insieme. - suggerì lui con un sorriso
incerto.
- Ah, non so se Myria te lo permetterebbe. - sbuffò
divertita.
- Dopo avermi nascosto che stavano cercando un mago per
farti… beh, quello che ti hanno fatto, non voglio
più parlarle, almeno per un po’. -
- Già, soprattutto visto che hanno deciso tutto alle nostre
spalle. - si lasciò cadere distesa sul letto, - Non credo
che cambieranno idea. -
- Tu di certo non ti sei ribellata, eh… -
- Ascolta, lì per lì non avevo voglia di
litigare. - si stropicciò gli occhi e trasse un profondo
respiro, - Ho sempre sognato di diventare una maga, come mio padre, e
adesso che me ne si offre la possibilità non voglio
rifiutarla. Ma da un lato, se questo significa separarmi da
te… non suona più tanto entusiasmante, ecco. -
Vide Zefiro tirare su col naso e asciugarsi le lacrime con il dorso
della mano. Tremava ancora, ma si era calmato.
- Posso provare a parlare con Nyi per vedere se puoi venire con noi.
Insomma, anche se porta bene i suoi anni, ha una certa
età… - provò Melwen.
- Lo faresti davvero? -
- Certo. Annessa alla scuola di magia, a Sershet
c’è l’accademia militare.
Così potremo entrambi realizzare i nostri sogni. -
- Ma Nyi ha detto che vuole addestrarti lui. - obiettò.
- Nyi può dire quello che gli pare e piace, ma sa che il
posto più sicuro è proprio l’accademia.
Hanno deciso di mandarmi via d’Alabastria perché
dicono che qui è pericoloso. Bene, ora come ora Sershet
è il posto più inespugnabile che esista e offre
la miglior istruzione in materia di magia. Magari gireremo un
po’ e poi andremo lì o viceversa. In ogni caso,
comunque, dovrò fare l’accademia. -
- E non ti darà fastidio avermi intorno? -
- Scherzi? -
- Sicura? -
Davanti al suo viso speranzoso, Melwen avvertì
l’impulso di sorridere.
- Sicura, sicura. - giurò e poi insieme scoppiarono in una
risata lunga e liberatoria, che disperse l’angoscia e
cancellò l’inquietudine.
Quando finalmente si calmarono, avevano entrambi le lacrime agli occhi
e il respiro spezzato, le guance rosse non più per la
tristezza, ma per la gioia.
- Piuttosto, ho visto che hai cominciato a leggere il libro. Hai
trovato qualcosa di interessante? -
Melwen scosse la testa e si girò per prenderlo: - No, niente
di che, sembra un semplice racconto per bambini, anche se devo dire che
i disegni sono davvero meravigliosi. -
- Sì, è vero. - concordò Zefiro,
allungandosi per vedere meglio, - Chissà quanto tempo ci
avrà messo l’autore a farli tutti! -
- Sicuramente molto. È stata davvero una fortuna che si
siano preservati così bene. -
Melwen sfiorò con la punta delle dita il ritratto della
regina Titania, percorrendo la linea della matita lungo che
tratteggiava la mandibola e il collo di cigno. Era stata ritratta con
grande cura, prestando attenzione a qualsiasi dettaglio, come se
l’autore avesse davvero avuto davanti la sovrana.
- Però tu non sei convinta che sia solo una favola per
bambini, giusto? -
La domanda, posta con genuina naturalezza, sorprese Melwen, che, ancora
una volta, si ritrovò a chiedersi come facesse il suo amico
a interpretare con tanta facilità i suoi pensieri.
- Dai, non fare così, te lo si legge in faccia che non sei
convinta! - scherzò lui, puntellandosi sui gomiti.
- Non lo so, è come se… se ci fosse qualcos'altro
nascosto in queste pagine. Io non credo nel caso e, viste le
circostanze, sono portata a pensare che questo libro ci sia capitato
tra le mani per un motivo, ma mi sfugge quale sia. -
Davanti all’espressione perplessa di Zefiro, Melwen emise un
lamento frustrato. Aveva avuto la stessa sensazione anche quando Baldur
le aveva rivelato che Airis era morta. Razionalmente sapeva che non
c’era ragione di dubitare delle parole del nano, che le
lacrime che aveva versato per il Cavaliere del Lupo erano tutto
fuorché finte, eppure c’era una parte di lei che
non si era mai rassegnata all’idea che invece fosse
sopravvissuta. Il dubbio la mordeva nel profondo, implacabile, e non
riusciva a ignorarlo.
- Melwen? - la richiamò Zefiro.
La bambina si rese conto di essere rimasta imbambolata a fissare il
vuoto. Il suo amico la osservava, rifletteva, forse nel tentativo di
capire cosa le passasse per la testa. Alla fine, Zefiro si mise a
sedere a gambe incrociate e la fronteggiò serio.
- È come con Airis? -
- Sì, una cosa del genere. - confermò lei.
- Beh, ci vorrà del tempo prima della partenza. Fino ad
allora possiamo vedere se troviamo qualcosa in biblioteca.
L’hai detto tu che nei libri c’è la
soluzione a ogni problema, no? -
- Io dico un sacco di cose. - anche Melwen si tirò su e
sospirò, - Davvero mi credi? -
- Perché non dovrei? Tu sei quella intelligente, e sei pure
una maga. -
- Sono anche la più spericolata. - puntualizzò
ridacchiando.
- Questo è appurato, ormai lo sanno anche i sassi che sei un
tornado attira guai. - prese un bel respiro e la scrutò
intensamente, - Io ti credo, Melwen. Siamo amici, e se non ti dessi
fiducia io chi te la dovrebbe dare? -
- Hai ragione. - gli tirò un pugno sulla spalla e si
alzò in piedi, - Dai, andiamo a vedere se
c’è qualcos’altro
d’interessante nella biblioteca personale di Nordri. -
- Adesso? Dopo quello che abbiamo combinato oggi, non mi sembra il
caso… -
- Non fare il fifone. Ti ricordo che a noi piace andare
all’avventura. - ghignò.
- A te, forse. Io preferisco rimanere al calduccio a casa. -
Melwen aprì la porta e lo trascinò in corridoio
quasi di peso, coinvolgendolo in una risatina complice.
L’aria era permeata dal profumo intenso della carne arrostita
del cappone, accompagnato dall'aroma speziato delle mandorle tostate e
quello salmastro della zuppa di pesce. Presto la cena sarebbe stata
pronta, ma a loro non importava: intrufolarsi di nascosto in luogo
proibito era molto più emozionante.
Capitolo 6 *** Frammenti di Memoria - Il Prezzo del Silenzio ***
Fuoco 2
5
Frammenti di Memoria
Il Prezzo del Silenzio
Era passato del
tempo ormai e nella prigione era calata una quiete ovattata, interrotta
solo dal familiare e sporadico cigolio della porta e dai passi
strascicati della vecchia che le portava da mangiare. Caillean aveva
imparato a riconoscere la sua presenza, il suo modo di imboccarla e di
tenerle la testa quasi con gentilezza. Non le parlava,
d’altronde era già strano che la trattasse con un
minimo di riguardo, ma questo a lei non importava, non più.
Molte cose in quel lasso di tempo avevano perso significato, persino la
sua coscienza si era come disgregata in tanti minuscoli frammenti, che
sempre meno spesso le pungevano il cervello risvegliandola
dall’intorpidimento mentale in cui era caduta.
L’unica cosa che sembrava scuoterla era proprio il rumore
della porta che si apriva e l’ombra sfocata della vecchia. Caillean ispirò profondamente, cercando di
ricordarsi quand’era stata l’ultima volta che
l’aveva vista, ma perse la concentrazione quasi
all’istante. - Mamma… papà… -
mormorò. La voce le raschiò la gola secca, piegandola in un
eccesso di tosse che le tolse il fiato. Solo quando il dolore si
attenuò e l’aria tornò nei polmoni,
Caillean fece forza sulle braccia per raddrizzarsi. Il freddo della
pietra a contatto con la pelle le provocò un brivido lungo
la spina dorsale, che la strappò al torpore. Da quando il capo villaggio le aveva versato
l’acido negli occhi non era più tornato,
abbandonandola in quella stanza da sola, con quell’incendio
che le divorava il viso, le orecchie, il collo; un’agonia
lenta e straziante che l’aveva annichilita nel corpo e
nell’anima. All’inizio, i suoi carcerieri avevano continuato a
portarle l’acqua con regolarità, mattina,
pomeriggio e sera. Le arrivavano vicino, la vecchia e un uomo dalle
mani ruvide come il cuoio, e le tappavano la bocca con un bicchiere o
un mestolo, che poi riportavano fuori senza premurarsi di farglielo
vuotare tutto. La lasciavano lì, incuranti delle sue grida e
delle lacrime che l’acido non aveva ancora bruciato. Pian
piano, però, le visite si erano diradate, fino a quando non
era rimasta che la vecchia, la quale una volta al giorno apriva la
porta e si premurava di mantenerla in vita, anche se Caillean aveva
cercato in tutti modi di opporsi. Per un po’ c’era
anche riuscita, la donna non aveva abbastanza forza per infilarle il
mestolo tra le labbra, ma successivamente la paura della morte aveva
risvegliato il suo istinto di sopravvivenza e, alla fine, quando la sua
carceriera le accostava alla bocca un pezzo di pane stantio, si era
trovata a divorarlo senza proferire parola. Faceva fatica a mangiare,
con le labbra piene di tagli e il sapore nauseante del proprio sangue
che le impestava la gola. Quando l’uomo con le mani callose aveva sciolto le
cinghie che la legavano alla sedia per serrarle i polsi nella morsa
delle catene, l’infezione e la febbre erano già
sopraggiunte da molto, quasi alla stessa velocità con cui la
realtà circostante si era trasformata in una massa pulsante
di sangue raggrumato. In quei giorni, Caillean aveva continuato a
urlare, chiamando il nome del padre e della madre sempre più
forte, implorandoli di venirla a salvare, di tornare da lei, mentre la
luce svaniva dai suoi occhi e il mondo piombava
nell’oscurità. Ma nessuno venne mai in suo aiuto,
nessuno a parte l’uomo e la vecchia che si occupavano di lei.
In seguito, neppure loro tornarono per molti giorni, almeno
così le parve. Non ebbe più acqua, né
cibo, né il conforto di una presenza umana al suo fianco. I
suoi lamenti disperati rimbalzarono inascoltati contro le mura di
pietra della sua prigione, finché non si spensero in un
rantolo agonizzante. Un po' di tempo dopo, impossibile calcolare quanto,
udì un rumore di passi in avvicinamento e lo stridio della
chiave che girava nella toppa. Caillean non dovette nemmeno alzare la
testa per capire chi fosse. La vecchia litigava sempre con la serratura
borbottando tra i denti e solo dopo uno o due tentativi riusciva ad
aprire. Doveva essere davvero molto anziana. L'uomo, invece, era
possente e forte. Non aveva mai compiuto alcuno sforzo per sollevarla
e, anche quando l’obbligava a mangiare, la bambina non era
riuscita a opporre mai resistenza. In quel momento, egli entrò nella cella imprecando
per la puzza e con malgarbo le mise tra le mani una ciotola.
L’argilla di cui era fatta era ancora fresca, trasudava
umidità. Le dita di Caillean affondarono nel materiale
morbido e, guidate da un riflesso incondizionato, condussero il
recipiente alle labbra. Bevve a lungo e avidamente, ingollando quanta
più acqua potesse, prima che il suo carceriere se ne
riappropriasse. - Non capisco perché ti tengano in vita, strega.
-sbuffò seccato. Era la prima volta che Caillean sentiva la sua voce. Era
carica di risentimento, rabbia, disprezzo, tutte emozioni che ricordava
di aver provato anche lei un tempo. Percepì la sua presenza
incombente su di lei e quasi le parve di vederlo, con la bocca
atteggiata in una smorfia disgustata e i pugni serrati lungo i fianchi. - Verrà il giorno in cui il nostro capo villaggio
si stancherà di te. - il calore del suo fiato caldo le
accarezzò la pelle a pochi pollici dall’orecchio,
- Allora avrai davvero la punizione che meriti, figlia di Aesir. - La porta venne chiusa di schianto. Caillean cadde
raggomitolata sul fianco sinistro e si raccolse sulla paglia. Non
percepiva più il fetore di escrementi né di
urina, il suo olfatto aveva perduto la sensibilità. Le
catene che pendevano dal soffitto gemettero in una lamentosa ninna
nanna che la cullò, accompagnandola nel sonno. I giorni si susseguirono uguali, scanditi dalle visite del
suo carceriere e da quelle della vecchia. Caillean si
ritrovò a domandarsi sempre più spesso cosa ne
sarebbe stato di lei, se davvero l'avrebbero lasciata lì
dentro a marcire finché del suo corpo non sarebbero rimaste
solo che polvere e ossa. Un paio di volte tentò nuovamente
di chiedere cosa le sarebbe accaduto, ma in risposta ricevette solo
silenzio e calci. Fu durante una di quelle giornate che il capo villaggio
andò a trovarla. La sua visita venne annunciata dal
tintinnare delle catene e dall'ormai familiare cigolio della porta.
Caillean si appoggiò con la mano alla parete viscida
d'umidità e strisciò lungo di essa fino a quando
le manette di metallo non la bloccarono. - Puoi lasciarci da soli. - ordinò il capo
villaggio alla guardia. Dopo un momento, la porta si chiuse. Caillean aveva
riconosciuto quell'uomo ancor prima che parlasse. Radovan –
così aveva appreso chiamarsi il suo carceriere –
aveva un timbro baritonale, una voce profonda che la faceva tremare fin
nelle ossa, mentre l'anziana aveva un passo claudicante, come se fosse
zoppa. Il capo villaggio, invece, non aveva niente di particolare,
nemmeno una caratteristica che Caillean potesse sfruttare per
riconoscerlo. Semplicemente, sentiva che era lui, lo avvertiva in un
modo istintivo. - Ti trovo sciupata. - osservò e la bambina se lo
immaginò mentre sorrideva, beffandosi delle sue condizioni,
- Forse dovrei dire a Dana di portarti delle porzioni più
abbondanti. Non voglio che tu muoia, non troppo in fretta, almeno. - Si inginocchiò davanti a lei e le tirò
su il mento, poi Caillean lo udì armeggiare con qualcosa,
forse una sacca. - Ti ho portato un po' di vino da bere. Penso che sia molto
meglio dell'acqua sporca. - La bambina tentò di allontanarsi, ma la presa
dell'uomo era ferrea. Quando sentì il sapore amaro del vino
in bocca, lo stomaco le si contorse dolorosamente e credette di essere
sul punto di vomitarlo. - Ecco, brava bambina, così. - le
asciugò le labbra col dorso della mano e le
accarezzò i capelli sudici, - Allora, questo periodo qui
nelle segrete ti ha fatto riflettere? Pensi di poter accettare la mia
offerta? - La bambina aprì lentamente gli occhi. Anche se non
poteva vedere, percepiva la vicinanza del suo viso da quello dell'uomo. - Fottiti. - esalò, stringendo debolmente i pugni. - Oh, che parole! Non si addicono a una signorina. - la mano
del capo villaggio scivolò lungo il collo, sfiorando il
tessuto lacero della casacca, - Mi si spezza il cuore a ricevere un
altro tuo rifiuto. - - Dove... dove sono gli altri? - - Gli altri abitanti di Merite? Di loro non ti devi
preoccupare ormai, sono già stati giudicati. - Caillean aprì la bocca per ribattere, ma dalle sue
labbra uscì solo un rantolo sommesso. Si sentiva la testa
pesante e i pensieri fuggivano prima che lei potesse esprimerli. Era
stato il vino, quel vino troppo forte preso a stomaco vuoto le aveva
appannato la mente. - Cosa... cosa significa? Li avete uccisi? - - Uccisi... - sospirò l'uomo, spostandole una
ciocca dietro l'orecchio, - Diciamo che, semplicemente, la giustizia ha
fatto il suo corso. Chi era dalla parte dei figli di Aesir ha ricevuto
la punizione che meritava, mentre chi si è pentito della sua
stolida alleanza ha ricevuto una seconda possibilità. - “Il che significa che li avete torturati
finché non hanno detto quello che volevate sentirvi
dire.” L'ennesimo accesso di tosse la fece accartocciare su se
stessa. Passò qualche minuto, prima che riuscisse di nuovo a
parlare. - Non sarò mai la tua sposa. Piuttosto preferisco
morire. - La mano che le accarezzava il viso tremò appena.
Subito dopo, Caillean sentì il sapore del proprio sangue
esploderle in bocca, mentre un dente le scivolava fuori dalle labbra
spaccate e la guancia offesa iniziava a bruciare. Una lacrima, forse
l'unica che le era rimasta, le rigò la pelle lurida. - Schifosa ragazzina... - Un altro colpo, più forte del precedente, la
mandò a terra. La bambina tentò di raggomitolarsi
nel tentativo di ripararsi dalla scarica di calci che la
investì, ma non aveva abbastanza forza per difendersi.
Tremò, cercando di trattenere i singhiozzi, anche se i suoi
occhi erano asciutti. “Kale...” Il nome del padre le si affacciò alla mente,
assieme al viso sorridente di sua madre Iola. Il pensiero di mostrarsi
così debole la riempì di vergogna, una sofferenza
ancor più straziante di quella causata dalle percosse e
dalle ferite ancora aperte. Pregò che non la stessero
guardando, che non udissero i suoi singulti. - Piccola stronza ingrata... farai la fine di tuo padre! -
ringhiò furioso il capo villaggio. Un colpo le arrivò alla spalla. La clavicola si
ruppe di netto e Caillean urlò con la poca voce che aveva in
gola. Ne seguì un lungo momento di tregua, interrotta solo
dal respirare concitato dell'uomo e dagli ansiti rantolanti della
bambina. Il suo corpo era un grumo pulsante di dolore, così
insopportabile da renderle difficile persino respirare. Non si accorse
del peso dell'uomo sopra di lei finché l'aria non le si
incastrò in gola e qualcosa di duro non le premette contro
la coscia. - Non mi vuoi come marito? Bene, mi prenderò
ciò che voglio con la forza, allora. - le sibilò
all'orecchio. - No! - Si dimenò come poté, lottando per
strisciare via, ma non servì a nulla. Il manrovescio che la
colpì la lasciò riversa sulla pietra, incapace di
muoversi, senza fiato. Poi le mani dell'uomo si infilarono nei
pantaloni di pelle, le dita affondarono feroci nella pelle e la sua
bocca si chiuse sul suo collo con violenza. La riempì di
morsi e quando la baciò, Caillean non riuscì a
far altro che ricambiare, mentre lui armeggiava con i lacci dei
pantaloni. - Se avessi accettato sarebbe stato molto più
dolce. - le sussurrò, la mano che era scivolata nella
casacca a cercare forme che non c'erano, - Ora mi sembra giusto che
pag... - Un grido di allarme, seguito da altri, coprì le
ultime parole. Il capo villaggio alzò la testa e si
tirò su di scatto. Uno scalpiccio frenetico di passi, poi la porta si
aprì di schianto. - Signore! Signore, ci attaccano! - - Cosa? Chi? - - Elfi, signore, elfi! - - Non è possibile, siamo lontani dal confine! - Un altro grido vibrò nell'aria, rimbalzando sulle
pareti della prigione. Qualcuno berciò un ordine da qualche
parte e il clangore di armi e spade divenne il suono dominante. - Signore, dovete mettervi in salvo, non c'è tempo
da perdere. -lo incitò il soldato, palesemente agitato. Il capo villaggio non ribatté. D'altronde,
pensò vagamente Caillean, era in gioco la sua vita. Lo
sentì allontanarsi di corsa, seguito dai passi rapidi della
guardia. Nessuno dei due si premurò di liberarla dalle
catene e lei non si mosse, troppo stanca per tentare di liberarsi,
troppo spaventata anche solo per pensare con lucidità, il
vino che ancora le scorrev nelle vene ottenebrandole i sensi. Fuori da lì la battaglia infuriava, ma ogni suono
le arrivava lontano, ovattato. Forse al vino era stata mischiata
qualche strana sostanza per stordirla. La testa le girava e il suo
corpo disertava gli ordini della mente, incurante dell'istinto di
sopravvivenza che smaniava per convincerlo ad alzarsi e a correre verso
la libertà. La porta era stata lasciata aperta, era la sua
occasione. Eppure, nonostante finalmente avesse una via di fuga, i suoi
muscoli si rifiutarono di obbedire. Il terrore, come fango gelido, la
paralizzava e le serrava la gola, incatenandola al pavimento sporco.
Con le ultime forze rimaste, riuscì solo a rannicchiarsi
contro il muro e a tirarsi su i pantaloni. Un rumore concitato di passi attirò la sua
attenzione. Qualcuno fece il suo ingresso nella cella e cadde accanto a
lei in uno sferragliare assordante. - N-no, no ti prego, no! - Caillean si fece più piccola, appiattendosi contro
la parete più che poté. L'uomo prese a strisciare
verso il fondo della stanza, raschiando il pavimento con uno stridore
metallico. Qualcun altro entrò. Aveva un passo leggero,
sembrava quasi non sfiorare terra mentre avanzava verso il suo
bersaglio. - Ti prego, no... - L'intruso passò accanto a Caillean come se non la
vedesse. - Giuro... giuro che se ti avvicini ancora ti ammazzo. -
ringhiò in lacrime l'uomo, annaspando disperato fino al
muro, - Non mi farò uccidere come un cane da un elf... - La frase morì in un gorgoglio, un suono strozzato
simile al risucchio di un imbuto. Qualcosa scivolò vicino
alla bambina. La mano si mosse d'istinto e le dita sfiorarono la
consistenza dell'oggetto. Era freddo, tagliente. Un lampo di
consapevolezza la riscosse dal torpore. “Un pugnale.” Lo strinse con forza, facendo leva sulle catene per tirarsi a
sedere, gli occhi che saettavano nel punto dove sapeva essere l'intruso. Improvvisamente percepì una presenza al suo
fianco. Si impietrì col cuore in gola. Non si era accorta
che l'elfo le si era accostato. Non riusciva nemmeno a percepirne il
respiro. “Forse... forse non vuole che capisca che
è qui, accanto a me.” Si rese immediatamente conto di quanto fosse stupida
quell'ipotesi. Perché avrebbe dovuto essere cauto? Lei era
solo una bambina e lui un guerriero che poteva sopraffarla facilmente.
Con l'aria bloccata tra sterno e diaframma, girò lentamente
la testa alla sua destra e, anche se nei suoi occhi non c'era altro se
non tetra oscurità, Caillean ebbe la sensazione che l'elfo
la stesse fissando. Per un istante pensò d'essersi
sbagliata, che la paura le stesse giocando un altro brutto scherzo, ma
più il tempo passava, più quell'incertezza
prendeva una connotazione reale. Poteva sentirne lo sguardo addosso
mentre la studiava, osservandola con qualcosa che la bambina avrebbe
definito curiosità. Chissà, forse gli piaceva,
forse... forse l'avrebbe risparmiata. - Anairë lapse. - mormorò l'elfo,
allungando la mano verso di lei. “Stupida.” Quel pensiero le rimbombò nella testa,
riversandole nelle membra intorpidite una scarica di adrenalina che la
riscosse. La sua mano corse rapida all'elsa del pugnale e
colpì alla cieca. La pelle cedette con sconcertante facilità. La
lama penetrò nella carne fino alla guardia e il sangue
zampillò sulle sue mani. Un odore nauseabondo le
permeò le narici e le fece contrarre le viscere, ma non la
fermò. Tutto il dolore e la rabbia accumulati in quei giorni
fluirono nelle dita e continuò a colpire ancora e ancora,
urlando e piangendo. All'ennesimo affondo, il corpo dell'elfo cadde a
terra e lei gli si gettò addosso, conficcando il pugnale
fino a quando la punta non colpì il pavimento. Allora il
tempo parve fermarsi. Caillean rimase ferma, il respiro affannato e uno
strano gelo nelle ossa. Dopo un'eternità lasciò
la presa sull'arma, si scansò bruscamente e si
piegò in due per vomitare quel poco che aveva nello stomaco.
Non seppe quanto rimase in quella posizione, così come non
si rese conto della presenza di altri due intrusi finché non
le si avvicinarono. Tentò di tirarsi indietro, ma stavolta
nessun muscolo si mosse. Il caos di pensieri che si affastellavano
nella sua testa si congelò, cristallizzandosi in un'unica e
nitida consapevolezza. “Sto per morire.” Allungò la mano alla cieca alla ricerca del
pugnale, ma qualcuno se ne impossessò nel momento in cui
sfiorò coi polpastrelli il filo tagliente della lama. - Non avere paura, siamo qui per aiutarti. - le disse una
donna dalla voce gentile. Un gemito metallico e le catene si afflosciarono a terra.
Caillean non capiva cosa stesse succedendo, chi o cosa l'avesse
liberata e da dove provenisse quel calore rassicurante che le scaldava
la pelle dei polsi. Poi si sentì sollevare da braccia
maschili e stringere al pettorale di un'armatura. Trasalì a
quel contatto, ma non si ribellò, perché quella
presa salda e sicura la faceva sentire protetta. Anche se percepiva la
consistenza dura dell'acciaio contro la guancia e non poteva dare un
volto ai suoi salvatori, non ne aveva paura. - Andiamo, Fijit, qui abbiamo finito. - la esortò
un uomo in tono concitato. “Un soldato.” Cullata dal dondolio, Caillean si concesse di chiudere gli
occhi e abbandonarsi alla stanchezza. Si sentiva esausta, sfiancata, ma
l'odore del sangue, che le si era appiccicato addosso violentandole il
naso, le ostruiva anche la gola, rendendole difficile respirare e
rilassarsi completamente. “Sono un'assassina.” Quella constatazione le fece contrarre le viscere e, se non
fosse stata sicura di non avere più niente nello stomaco,
avrebbe vomitato di nuovo. - M... mi... mi dispiace. - pigolò e di riflesso
si portò le mani al viso per frenare lacrime che non c'erano. - Non avevi scelta. - rispose pacato l'uomo, stringendo la
presa attorno al suo corpo, - Era in gioco la tua vita, non potevi fare
altro. - Caillean questo lo sapeva, eppure non riusciva a smettere di
tremare. Si tirò piano le gambe al petto, facendosi sempre
più piccola contro il torace del soldato. - Non avevi scelta. - ripeté costui e la bambina
percepì la sua convinzione come se fosse la propria. Il cuore rallentò la sua corsa nel petto e l'aria
le riempì i polmoni, sciogliendo in parte il peso che
sentiva nella testa e nell'anima. Quando il sole le baciò la
pelle, il sonno l'aveva già avvolta nel suo delicato
abbraccio.
Quando si destò, con sorpresa Caillean si accorse
che il dolore era scomparso. Di riflesso si guardò intorno,
ma subito si ricordò che non poteva più vedere. A
fatica, lottando contro la coperta che la copriva fino al mento, si
mosse cercando di capire dove fosse, tastando con le mani intorno a
sé. - Finalmente ti sei svegliata. - Associò subito quella voce alla donna che si
chiamava Fijit. Aveva lo stesso timbro dolce della prima volta che
l'aveva udita parlare, permeata da una sicurezza che le conferiva
un'aura autorevole. Doveva essere giovane. Caillean girò la testa, cercando di sollevarsi sui
gomiti. - Non muoverti, sei ancora debole e ti ho appena cambiato le
medicazioni. - Fijit le si sedette accanto e le posò una
mano sulla fronte, - Ah, meno male, la febbre è passata. - - Dove... dove mi trovo...? Chi siete? - rantolò
spaesata la bambina. - Ci troviamo a Merite, precisamente nell'ospedale da campo
che abbiamo allestito dopo l'attacco. Noi siamo un distaccamento
dell'esercito che era stanziato a nord, stavamo tornando a Sershet
quando abbiamo ricevuto una soffiata su un possibile attacco degli elfi
in questa zona. - sospirò. Caillean se la immaginò mentre si mordeva le
labbra con un'espressione amareggiata. - Abbiamo cercato di arrivare in fretta, ma non è
stato sufficiente. - - Sono morti in tanti? - Fijit rimase un attimo in silenzio. Probabilmente si era
accorta del suo tono freddo, di quel “sono” che
metteva una certa distanza tra lei e gli abitanti del villaggio dove
aveva sempre vissuto, ma a Caillean non importava. Non si sentiva
più di appartenere a quel posto, non dopo tutto quello che
era accaduto. - Sì. - rispose cauta, allungandosi per
cospargerle una crema dal profumo di ginepro sotto gli occhi, - Mi
dispiace per quello che ti è accaduto. - La bambina non rispose. Strinse le mani a pugno, come se quel
gesto bastasse a respingere il dolore opprimente che le si era
conficcato nel cuore. - C'è una persona che ti vuole vedere. Te la senti
di incontrarla? - disse dopo un momento Fijit. Caillean esitò. Da fuori poteva udire il
chiacchiericcio del soldati e un perpetuo rumore di passi e zoccoli. Il
vento le portò alle orecchie il suono di qualcosa che
bolliva in una pentola, sicuramente minestrone di verdure a giudicare
dall'odore, quello che stavano servendo ai soldati e ai cittadini
sopravvissuti. - Va bene. - acconsentì. - Allora lo vado a chiamare. Tu aspetta qui e non sforzarti,
intesi? - Caillean se la figurò sorridere. Mentre sentiva
tintinnare le fibbie della sua bisaccia, la fantasia le
plasmò un viso a cuore, incorniciato da capelli corti e
neri, riccissimi, delicate onde color ebano che sfuggivano da una
fascia colorata. “Chissà se è davvero
così.” Trascorse meno di qualche minuto tra l'uscita di Fijit e
l'entrata dell'uomo che l'aveva portata in braccio. Probabilmente
doveva trovarsi nei paraggi o, più probabilmente, aveva
aspettato che la sua compagna gli desse il permesso di introdursi nella
tenda. - Tu devi essere Caillean. - cominciò, prendendo
posto su uno sgabello di legno accanto al giaciglio della piccola. Aveva la stessa voce profonda e distaccata di quando era
venuto a prenderla. La bambina immaginò che dovesse essere
un uomo davvero alto e grosso. - Sì... - confernò timorosa. - Come ti senti? - Come si sentiva? La verità era che nemmeno lei
avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ferite sul corpo non bruciavano
più, persino la mandibola aveva cessato di pulsare. Seppur
limitata nei movimenti dalle bende, riuscì a puntellarsi sui
gomiti e a mettersi a sedere. Eppure, sentiva un peso sul petto, un
martellare sordo che le sgretolava i pensieri e scoloriva ogni cosa. - Sto bene. Mi sento solo un po' stanca. - si
sforzò di sorridere per sembrare più convincente. Il soldato la osservò per un po', poi
sospirò e Caillean percepì la sua presenza farsi
più vicina. Istintivamente si ritrasse, anche se sapeva che
non voleva farle del male, ma per il suo corpo il solo fatto che fosse
un uomo costituiva una minaccia. - Mi diresti perché eri stata rinchiusa
là dentro? Iola era molto confusa quando mi ha parlato e... - - Mia madre è... è viva? -
balbettò incredula. - Sì. L'abbiamo incontrata sulla strada mentre
marciavamo fino a qui. Ho dato ordine che la scortassero a Caewen.
É lì che ti aspetta. - Caillean quasi stentava a crederci. Sua madre quindi non
l'aveva abbandonata, era semplicemente scappata per cercare aiuto. Il
sollievo che la pervase alleggerì il peso che le gravava sul
petto e gli artigli che le stritolavano lo stomaco allentarono la presa. - Come fate a conoscere mia madre? - - In realtà conoscevo tuo padre. - - Quindi voi siete il Generale Lullabyon? - - Davsten, solo Davsten, niente formalismi. Immagino che Kale
ti abbia già parlato di me. - La bambina annuì. Sì, suo padre le
aveva raccontato tutto del grande Generale Lullabyon, del suo valore e
del suo coraggio in battaglia. Ogni volta che menzionava il suo nome, i
suoi occhi si illuminavano e un'espressione fiera si disegnava sulle
sue labbra. Aveva sempre avuto solo parole di stima per quell'uomo e
Caillean aveva capito quanto lo riempisse d'orgoglio l'aver combattuto
al suo fianco. Il viso sorridente di suo padre fece capolino dalla sua
memoria. Lo rivide alto, forte, con in testa l'elmo sbeccato che
conservava nella sua cassa sotto il letto, la spada in pugno e indosso
l'armatura pesante, quella che le aveva proibito di toccare. Le parve
di udire la sua risata come quando l'allenava e i suoi occhi brillavano
di felicità, intensi, verdi come i primi steli d'erba. Poi
la visione scomparve e al suo posto apparvero le mura di Merite e la
picca con la sua testa in bella mostra, cosparsa di catrame e divorata
dai corvi. - Mi dispiace per quello che gli è accaduto, non
meritava quella fine ingloriosa. - commentò dispiaciuto il
Generale, ma non si avvicinò per consolarla, - Per questo
vorrei mi raccontassi cosa è successo negli ultimi dieci
giorni. - Caillean si morse le labbra e cominciò a
tormentarsi le dita. Non voleva parlare, desiderava soltanto
abbandonarsi sul letto e dormire fino a non svegliarsi più. - Non te la senti ancora? - Silenzio. - Puoi almeno dirmi chi è stato a farti
rinchiudere e perché? - - Il capo villaggio, mi ha accusata di aver ucciso Elyn, la
figlia della fruttivendola. - Davsten tacque, in attesa che lei continuasse. Forse, si
disse Caillean, avrebbe dovuto aggiungere altro, raccontargli cos'era
successo in quelle segrete, ma le parole rimasero lì,
intrappolate in un bolo di angoscia e dolore. - Stimavo molto tuo padre. - disse di punto in bianco
Davsten, - Era un uomo che aveva carattere e forza d'animo a
sufficienza per resistere nell'esercito, ma, a differenza di molti, non
ha mai perso la pietà e la gentilezza che lo
contraddistinguevano. È un particolare che ho sempre
apprezzato di lui, assieme al suo coraggio e al suo spirito di
sacrificio. Come molti, fu costretto a diventare un soldato quando la
guerra al nord divenne più violenta. Ci furono dei
reclutamenti di massa, così che nello stesso contingente,
mescolati agli allievi dell'Accademia e ai veterani, trovavi contadini,
maniscalchi, ladri, assassini. Le città al nord cominciavano
a cadere e c'era un urgente bisogno di uomini, poco importava la loro
capacità di combattere o il loro ceto sociale. Kale
all'epoca aveva più o meno la mia stessa età, ma
ebbe la fortuna di potersi allenare, prima di essere buttato in
battaglia. Combattemmo spalla a spalla e riuscimmo a tornare al campo
sani e salvi. Vedere i nostri compagni morire come mosche sotto le
frecce degli avversari aveva lasciato un segno indelebile nella nostra
memoria, ma non potemmo permetterci il lusso di piangerli. Li
seppellimmo nelle tante fosse comuni fuori dal campo e poi tornammo ad
allenarci per prepararci ai prossimi attacchi. Furono il tempo e il
dolore della perdita ad avvicinarci. Io ero un ragazzino vanaglorioso,
con in testa solo l'onore e il desiderio di distinguermi. Ero stato
reclutato con molti altri miei compagni circa due anni prima che
terminassi l'Accademia e, quando il mio Comandante mi spedì
ad allenarmi assieme a tutti gli altri, mi sentii offeso nell'orgoglio.
Cosa avrei mai potuto imparare io, il figlio di uno dei più
grandi Generali del re, da quel branco di straccioni? - La bambina rimase interdetta. Quell'immagine non
corrispondeva per niente a quella che emergeva dai racconti di suo
padre. Davsten ridacchiò. - Sì, diciamo che Kale mi stimava troppo per
riportare certi aneddoti, ma ti posso assicurare che ero tutto
furché l'uomo che sono adesso. Il tempo e la guerra mi hanno
cambiato, ma, soprattutto, l'amicizia con tuo padre. Ancora oggi mi
dispiaccio di essere stato l'unico a essere insignito del titolo di
Cavaliere. Lui ne aveva tutte le capacità e il diritto, e
mio padre era disposto a dargli il suo appoggio, ma Kale non volle
comunque. Sai perché rifiutò? - Caillean scosse la testa. Davsten le mise una mano sulla
spalla e la strinse leggermente. - Per lo stesso motivo per cui io ho deciso di entrare
nell'Ordine del Lupo: perché amava la sua famiglia, amava te
e Iola e desiderava proteggervi, e sapeva che se fosse stato nominato
Cavaliere non avrebbe potuto restarvi accanto come avrebbe voluto. - Caillean sentiva addosso il suo sguardo, le sue mani calde
sulla pelle le trasmettevano un calore rassicurante. - Lui ti amava, Caillean, ti amava così tanto da
andare al fronte per te. Tu hai ereditato la sua stessa forza d'animo.
Non sei una sopravvissuta, non sei come le persone là fuori.
Sei una guerriera, un lupo. Ti hanno picchiata, spezzata, umiliata, ma
nonostante questo hai combattuto, conservando la tua dignità
e la tua fierezza, anche se adesso ti sembrano perdute. - - Sono cieca... non vedo più niente... -
esalò con voce rotta, abbassò lo sguardo e scosse
la testa, ricacciando indietro le lacrime, - Anche volendo, non
potrò più diventare una guerriera. - - Solo se sei convinta che è impossibile, lo
sarà. Ricorda che in questo mondo non esiste niente di
più potente della volontà. Se lo desideri
davvero, se questo è ciò che vuoi, io ti
aiuterò. Ma prima devi perdonare te stessa per quello che ti
hanno fatto. Solo allora potrai tornare a vedere. - Rimasero così, lei con gli occhi spenti puntati in
quelli vivi dell'altro e il Generale con la mano ben ferma sulla sua
spalla. Quando la presa si allentò, Caillean
trasalì. - Pensaci e quando sarai pronta dimmi la tua risposta. -
aggiunse Davsten, per poi alzarsi e uscire dalla tenda, lasciandola a
riflettere.
Si misero in viaggio tre
giorni dopo, alle prime luci dell'alba. Arghail avrebbe voluto che
Airis si riposasse un po' di più, ma nemmeno le proteste e
le raccomandazioni di Hallende furono sufficienti a dissuaderla dal
partire. Airis spiegò al giovane comandante quanto fosse
importante che giungessero a destinazione nel più breve
tempo possibile e, alla fine, dopo una lunga ed estenuante discussione,
Arghail non poté far altro che acconsentire, ordinando ai
suoi uomini di cominciare a prepararsi. Alle loro domande sul motivo
per cui avesse deciso di muoversi così presto, si
limitò a rispondere che la sopravvissuta aveva bisogno di
ulteriori cure, poiché la magia di Hallende non era
sufficiente a guarirla dalla febbre rossa.
Quando sorse il sole, Airis venne scortata fuori dalla tenda dalla
guaritrice e assieme a lei prese posto nel carro dove avevano caricato
i vettovagliamenti. La guerriera percepì per tutto il tempo
gli occhi dei soldati puntati addosso, le pesavano sulla nuca, ma
nessuno osò avvicinarsi o rivolgerle la parola. D'altronde,
Arghail e Hallende si erano premurati di diffondere la notizia della
sua malattia in tutto il campo, dunque Airis dubitava che durante il
viaggio qualcuno si sarebbe azzardato a darle fastidio. Doveva solo
abituarsi a camminare con quel velo sul viso.
Appoggiò la schiena al legno trasudante umidità e
sbuffò. Hallende le sorrise e si allungò per
aggiustarle lo jalibeb, il velo fissato al capo che le copriva l'intera
testa lasciando solo gli occhi scoperti. Anche quello, le aveva detto,
era tipico dei Chàyl, la popolazione nomade che viveva
nell'Oquea del sud. Inoltre, la pesante blusa nera e gli shalaar, i
pantaloni larghi stretti sulla caviglia, proteggevano il corpo dal
vento e dal caldo di quelle regioni aride. Il modello che Hallende le
aveva prestato era però di lana e cotone, adatto al clima
più rigido del nord di Esperya.
- So che non vi sentite molto a vostro agio con questi abiti.
All'inizio anche io facevo fatica, mi ostacolavano molto nei movimenti.
-
- Sì, in effetti sono un po' scomodi, ma penso sia
perché sono abituata all'armatura. - commentò
Airis in un sospiro.
- Non vi ho ancora chiesto come vi sentite oggi. -
La guerriera spostò lo sguardo alla sua destra. Il vento
ingrossava la tela che celava il contenuto del carro alla vista,
lasciando solo un triangolo di paesaggio visibile. Gli steli d'erba
roridi si piegavano al loro passaggio, per poi ricadere sfiorando il
fango che contornava i solchi scavati dalle ruote. I cavalieri, i pochi
che Arghail si era portato dietro in quella spedizione, procedevano ai
lati e dietro al carro, parlottando del più e del meno,
scambiandosi battute sul tempo, sulla moglie del loro superiore o
sull'ultima notte di baldoria in città che aveva visto un
certo Darril fare a pugni con l'amante della sua donna. Nessuno parlava
della guerra e della desolazione che avevano trovato a Luthien.
L'orrore e la paura negli occhi degli uomini che Arghail aveva mandato
in ricognizione avevano fatto morire qualsiasi domanda.
- Arlena? -
Airis impiegò qualche secondo a capire che Hallende si stava
riferendo a lei. Infatti, oltre ai vestiti, per essere sicuri che
nessuno la riconoscesse Arghail aveva proposto di usare un altro nome,
una misura preventiva che lei stessa aveva approvato, ma non si era
ancora abituata alla sua nuova identità.
- Sì, scusami, ero soprappensiero. -
- L'avevo notato. - ridacchiò Hallende.
- Sto bene, non devi preoccuparti. - le rispose sorridendo, si strinse
nelle spalle e distese le gambe, cercando una posizione comoda.
Non aveva veramente freddo, non quanto ne avrebbe dovuto avere, ma il
suo corpo agì prima del pensiero, guidato dall'istinto e
dalla consuetudine, strofinando le mani contro il tessuto ruvido della
blusa alla ricerca di un calore non necessario.
- Avete freddo? Volete che vi dia qualcosa di più pesante? -
si allarmò Hallende e già aveva messo mano al suo
scialle prima ancora che Airis le facesse un cenno di diniego.
- No, no, davvero, è stato solo un brivido. -
minimizzò e ringraziò lo jalibeb che le copriva
la bocca.
- Sicura? - si avvicinò e abbassò la voce, - Non
vi dovete fare scrupoli, io posso usare la magia per scaldarmi. -
- Non me ne faccio, semplicemente sto bene così. -
Incrociò le braccia sul petto, spostando di nuovo
l'attenzione sul paesaggio che intravedeva dallo spiraglio tra il legno
e la tenda. Se n'era aperto un altro nell'angolo a destra e Airis
adesso poteva osservare i rami degli alberi che sfilavano sui bordi del
sentiero.
Hallende la fissò a lungo con cipiglio indagatore e, dopo
svariati secondi, si convinse che non stava mentendo. Tuttavia,
continuò a guardarla per molto tempo senza curarsi di farlo
con discrezione, mettendo a disagio Airis. Quest'ultima fece del suo
meglio per ignorarla, ma a un certo punto, stanca di quelle occhiate
insistenti, abbassò le palpebre e finse di dormire. Era
grata alla donna per la sua preoccupazione, oppure trovava a dir poco
esagerata tutta quella premura. Era un Generale, un Cavaliere, non una
ragazza indifesa, senza contare che era stata in grado di cavarsela da
sola per più di un mese a Llanowar. Va bene, a quel tempo
non era stata proprio da sola.
Davanti ai suoi occhi si disegnò il viso di Ledah, preciso
in ogni dettaglio, e avvertì un'improvvisa fitta al cuore.
Ancora una volta si domandò dove fosse e se sarebbe riuscita
davvero a salvarlo. Aveva meno di cinque settimane e non sapeva ancora
se era una buona idea prendere la prima nave per andare a Sershet.
“Perché deve essere tutto così
complicato?”
Marciarono per tutto il giorno, facendo alcune soste per permettere ai
cavalli di riposare e agli uomini di sgranchirsi le gambe.
Arghail chiamò Hallende fuori dal carro un paio di volte per
chiederle come stava la sopravvissuta. Airis ebbe cura di non farsi
vedere, maledicendosi per essersi fatta lasciare solo il pugnale, che
aveva nascosto nello stivale. Con i muscoli tesi come cordoni sotto
pelle, aspettò con lo sguardo puntato sulla tela, la mano
che sfiorava l'elsa dell'arma pronta a sguainarla in caso di
necessità. Rimase immobile, pronta a scattare,
finché Hallende non tornò. Solo allora la
tensione nel suo corpo si allentò e si lasciò
ricadere con un sospiro di sollievo contro il legno.
Arghail le aveva dato la sua parola che l'avrebbe protetta, ma Airis
non poteva permettersi il lusso di credergli. Si sentiva un po' in
colpa a dubitare così della sua promessa, ma la guerra e gli
orrori che questa aveva portato con sé avevano sminuito il
valore di qualsiasi giuramento. Erano solo parole, che senza un forte
senso dell'onore non significavano niente. Il tempo della fiducia era
passato.
Quella prima notte trascorse tranquilla. Hallende le offrì
della carne essiccata da mangiare e cenò con lei.
Più volte tentò anche di intavolare un discorso,
ma Airis non era in vena di parlare, né tanto meno aveva
intenzione di spiegarle come aveva fatto a recuperare la vista. Che
pensasse pure che aveva fatto ricorso alla magia elfica, non era
un'intuizione che differisse poi molto dalla realtà.
La mattina successiva venne svegliata dalla voce di Arghail, che
ordinava ai soldati di smontare il campo e rimettersi in marcia. Il
cielo era ancora grigio e il sole rosseggiava appena sulla linea
dell'orizzonte, nascosto da un banco di nuvole minacciose. Quando si
lasciarono alle spalle il bosco e imboccarono la strada che seguiva il
Tabor, i primi fiocchi di neve iniziarono a svolazzare nell'aria, una
spolverata di batuffoli delicata ma costante, dall'intensità
di una pioggerellina estiva. In poco tempo, il freddo si fece
tagliente, la vita si ritrasse tra le radici e nei tronchi e il
paesaggio venne coperto da uno strato bianco e compatto, alto almeno
due o tre pollici.
Proseguirono fino al tardo pomeriggio, quando Arghail
comandò di fermarsi di nuovo. Nelle vicinanze non c'erano
città dove cercare riparo, la maggior parte dei centri
abitati erano stati abbandonati durante le retate degli elfi, quindi
dovettero accamparsi in una radura poco distante dalla strada maestra,
con un boschetto che l'abbracciava da sud e il nastro scintillante del
Tabor a nord.
Mentre allestivano l'accampamento, Airis si abbandonò alla
pace che albergava in quel luogo. Il vento le portava lo scroscio
gentile delle acque del fiume e, di tanto in tanto, tra le fronde
imbiancate degli abeti udiva il frenetico battito d'ali di pettirossi e
merli in cerca di un rifugio. Erano a metà marzo, eppure il
freddo non accennava ad allentare la sua morsa gelida sulla terra.
“Dev'essere una conseguenza dell'esplosione causata da
Copernico.”
Si appoggiò ad Hallende e si lasciò condurre fino
alla sua tenda, che era stata allestita vicino a quella di Arghail. Era
un padiglione leggermente più piccolo di quello del
comandante, situato al centro del campo, nel punto più
protetto. Non appena entrò, Airis abbandonò il
braccio della guaritrice e si lasciò cadere sulla branda,
togliendosi lo jalibeb dal viso.
- Avete bisogno di qualcosa? -
- Solo di un po' d'acqua. - rispose stanca, passandosi una mano sulla
fronte.
A contatto del palmo, trovò la pelle era appena accaldata,
con un leggero velo di sudore.
- Vado immediatamente a prendervela. - disse Hallende e uscì
veloce.
Airis si distese sul materasso e soffermò lo sguardo sul
soffitto della tenda, riflettendo sulla situazione. Se avesse
continuato a nevicare, avrebbero impiegato almeno una decina di giorni
ad arrivare a porto Eamone. Come se questo non fosse abbastanza, in
quel periodo i khaalesh soffiavano con più forza del dovuto,
provocando tempeste che rendevano difficile la navigazione.
- Permesso? -
La voce di Arghail la fece alzare di scatto. Lui ridacchiò
e, dopo aver congedato le guardie, entrò. Non indossava
più l'armatura. L'unica cosa che lo distingueva da un
soldato qualunque era la lunga spada con un'effige di un lupo
sull'elsa. Nonostante la sua semplicità, cozzava con la
sobria tunica di lana scura e gli stivali al ginocchio da cacciatore.
- Sembri un baldo scudiero così vestito. -
commentò Airis con un sorriso, accettando volentieri l'otre
che le offriva.
- Sono solo un comandante molto stanco. - rispose Arghail, ricambiando
il sorriso.
- Da quando un comandante si occupa dei malati? -
- Da quando la malata in questione è più alta in
grado di me. - abbassò la voce, accostando l'unica sedia
della tenda alla branda.
Airis bevve un lungo sorso d'acqua, lanciandogli qualche occhiata di
sottecchi. La durezza del pugnale contro la coscia la rassicurava,
anche se era ben consapevole che scappare da lì si sarebbe
rivelata un'impresa suicida. Posò l'otre a terra e si
asciugò le labbra col dorso della mano.
- Grazie. -
- Ve l'ho già detto, è un onore avervi qui con
me. - un sorriso sincero gli increspò le labbra, - Mi
dispiace farvi viaggiare nel carro, spero non sia troppo scomodo. -
- Assolutamente. Hallende è un po' apprensiva, ma alla fine
è il suo lavoro. Piuttosto, a cosa devo la vostra visita? -
Arghail intrecciò le dita sotto il mento e si fece assorto.
I suoi occhi viola la studiavano con attenzione.
- Perché tutta questa fretta per arrivare a porto Eamone? Mi
avete detto di darvi fiducia, di non chiedere e io ho accettato senza
indugio, perché vi conosco e ho stima di voi.
Però ho degli uomini con me e ho promesso alle loro famiglie
che avrei fatto il possibile per riportarli a casa. -
- Pensi che potrei esporre te e i suoi soldati a dei pericoli? -
- Non lo so, questo dovreste dirmelo voi. Non mi piace brancolare nel
buio, soprattutto se ho delle vite da proteggere. Ditemi cosa sta
accadendo e per quale ragione desiderate così tanto
nascondere la vostra identità e arrivare il più
in fretta possibile a porto Eamone. Io vi ho dato fiducia, ora tocca a
voi. -
Airis si tormentò le dita, con una voglia pressante di
rivelargli tutto, pur di sgravarsi del peso delle
responsabilità che sentiva sulle spalle. Ma non poteva.
Sostenne il suo sguardo, vagliando le informazioni che gli avrebbe
riferito e quelle che gli avrebbe taciuto. Mai come in quel momento si
rese conto di quanto fossero assurde le avventure che aveva vissuto.
La conversazione venne interrotta da Hallende. Aveva in mano due piatti
con della carne arrostita e due fette di pane. Vicino a lei gravitavano
dei secchi pieni d'acqua, che a un suo cenno si posizionarono di fianco
al catino vicino ai bracieri. Solo in quel momento Airis si accorse che
la maggior parte della mobilia che c'era nella tenda doveva appartenere
al comandante. Si girò per ringraziarlo, ma Arghail
minimizzò con un gesto della mano.
- Riprenderemo più tardi, se per voi non è un
problema. - le disse alzandosi e incontrando nuovamente il suo sguardo,
prima di fare un inchino per accomiatarsi, - Se vi serve qualcosa, non
esitate a chiedere. -
- Grazie. - rispose Airis, e anche lei si alzò per
inchinarsi.
Rimasta solo con Hallende, la guerriera esalò un sospiro di
sollievo. Avrebbe avuto tempo per pensare a cosa dirgli e, soprattutto,
a come dirglielo.
- Dovreste parlargli. - la donna prese le posate e impilò i
piatti sul tavolo, - Sarà anche giovane, ma ha la mente
molto più acuta di quello che potrebbe sembrare. -
- Non ho messo in dubbio la sua intelligenza, ma è difficile
da spiegae. -
Hallende tacque. Si tolse lo shadar, il velo che le avvolgeva il capo,
e i pendagli tra le trecce candide ricaddero sulle spalle, lasciandole
scoperta la nuca rasata dove era stato inciso a fuoco un intrico di
crisantemi. Sopra le orecchie, invece, c'erano una farfalla posata su
un loto con moltissimi petali, mentre sulla parte sinistra ne era stata
tatuata un'altra adagiata su una stella.
- Avete paura che non possa capire? -
La guerriera non rispose. Come avrebbe potuto aprirsi? Persino lei era
rimasta incredula quando Copernico le aveva raccontato cos'era successo
a Ledah e chi sedesse a fianco del re di Esperya.
- Arghail vi stima molto e, qualsiasi cosa abbiate fatto o nascondiate,
non vi giudicherà. Inoltre, vi somigliate. Vi stupireste di
quante cose avete in comune. -
- Ad esempio? - domandò scettica Airis.
Hallende sorrise e i suoi occhi azzurri guizzarono divertiti. Congiunse
le mani davanti al viso, mormorando una bassa litania a fior di labbra,
e quando terminò dall'esterno della tenda non proveniva
più alcun suono.
- Niente paura, è solo una misura precauzionale per evitare
che qualcuno ci senta. - si affrettò a spiegare Hallende.
- Sono segreti così importanti da necessitare del riparo
della magia? - domandò confusa Airis.
- Preferisco essere sicura che le nostre parole rimangano qui dentro,
soprattutto visto che ora ci accingiamo a parlare di voi e non della
povera Arlena. - si lisciò le pieghe dell'abito e
cominciò a raccontare, - Siete stati entrambi adottati, voi
dal Generale Lullabyon, lui da una famiglia di mercanti. Quando era
piccolo, i suoi genitori lo hanno abbandonato in un tempio di Calime.
Non mi ha detto molto, non è un argomento di cui ami molto
parlare, ma è una cosa che vi accomuna, assieme alla scelta
di entrare nel corpo dei Cavalieri. -
Airis si massaggiò il mento con aria assorta. Quel primo
dettaglio poteva costituire un indizio importante che collegava Arghail
all'uomo nella Casa della Cenere.
- Non si sa niente della sua famiglia d'origine? -
- No, non se ne è mai interessato, e forse è
meglio così. A volte dal passato possiamo attingere il
fuoco, ma esso può solo ridarci indietro sterili ceneri.
Arghail è un brav'uomo, ne ho conosciuti pochi come lui.
Quando sono arrivata a Esperya con mia sorella, ha fatto di tutto per
difenderci. Qui da voi è raro vedere delle donne
nell'esercito e, quelle poche che ci sono, vengono considerate
inferiori agli uomini. Persino tra noi guaritori è difficile
incontrarne. Eppure a lui non è mai importato, non ci ha mai
fatte sentire inferiori. Certo, continua a trattarmi con i guanti di
velluto, ma mi considera un'alleata preziosa, indipendentemente dal
fatto che io sia una chaylita e una donna. -
- Vi conoscete molto bene. -
- Beh, sì. È rimasto con noi quando avevamo
più bisogno, ma, soprattutto, ha aiutato mia sorella quando
si è trovata a dover affrontare i pregiudizi e la diffidenza
dei soldati. - increspò le labbra in una smorfia amara, lo
sguardo perso nei ricordi, - Non ha esitato a intervenire quando hanno
tentato di farle del male, anche se inimicarsi quell'uomo significava
avere contro quasi tutti i nostri compagni, rischiando così
di essere espulso dall'esercito. Ha mantenuto sempre le sue promesse. -
spostò la sua attenzione su di lei e Airis
percepì nel suo tono di voce una profonda tristezza, -
Generale, vi portate un peso enorme sulle spalle, lo vedo dalle ombre
che albergano nel vostro sguardo e dalla tensione che cala su di voi
quando vedete o me o Arghail parlare con qualcuno. Non so cosa vi sia
accaduto, che cosa vi renda così diffidente nei nostri
confronti, ma ricordatevi che nelle battaglie siamo tutti responsabili
gli uni degli altri, nessuno di noi è solo. Non disdegnate
la mano che vi viene tesa, stringetela. Con me lo avete fatto. -
- Io non... non m sono fidata di te. Ho finto di farlo. -
ribatté Airis presa in contropiede.
- Vi siete fatta curare, vi siete affidata a me anche se ero un
estranea. Poter contare su qualcuno non è un male. Ogni
giorno per vivere compiamo innumerevoli atti di fiducia: per esempio,
lasciamo che il nostro scudiero si occupi delle nostre armi, che il
cuoco cucini il nostro cibo, che il nostro compagno attenda il nostro
ritorno a casa dalla guerra, che un estraneo mantenga il segreto gli
è appena stato rivelato, tutto questo senza alcuna garanzia.
Decidiamo di affidarci agli altri per le cose serie e per quelle
frivole, per le questioni vitali e per quelle meno importanti e lo
facciamo non perché lo vogliamo, ma per obbligo,
perché è indispensabile per vivere. -
- La fiducia rende ciechi. -
- La fiducia è l'unica che può permetterci di
camminare nel buio. Senza di essa, qualsiasi battaglia è
persa e qualsiasi essere umano è solo. -
Airis si passò una mano tra i capelli e scosse la testa: -
Mi ricordi molto una persona che, un po' di tempo fa, mi ha suggerito
di lasciarmi cadere nel vuoto. -
- Allora questa persona era davvero molto saggia, anche se la metafora
che ha usato è comunque un po' angosciante. -
ridacchiò, - Ora torno nella mia tenda. Domani riprenderemo
la marcia e devo ancora lavarmi. Buonanotte, Generale. -
- Buonanotte, Hallende. -
Lei fece un inchino e tolse il disturbo. Non appena ebbe oltrepassato
la soglia, i rumori del campo invasero nuovamente la tenda,
attaccandole le orecchie abituate alla quiete. Fece una smorfia
infastidita e sbuffò.
Quindi si spogliò e con calma cominciò a lavarsi,
godendosi la pace. L'acqua si era raffreddata, ma per lei non era un
problema. Si prese tutto il tempo per sciacquare via la polvere e la
sporcizia accumulate durante il viaggio, strofinando per bene la pelle
con la spugna e gli oli profumati che Hallende le aveva portato. Colse
l'occasione per osservarsi e ancora una volta si stupì di
quanto fosse cambiato il suo corpo, ma almeno, adesso, cominciava a
sentirlo un po' più suo. Controllò la cicatrice
vicino al cuore, percorrendone la linea zigrinata con i polpastrelli.
Le sembrava che fosse più in rilievo rispetto a quando si
era svegliata e, se possibile, anche più frastagliata, ma
attribuì quell'impressione alla stanchezza. Si
asciugò e si vestì con abiti puliti, un paio di
lunghe braghe e una casacca di lino e lana che le scendeva un po' sulle
spalle. Tentò di domare i capelli scompigliati, ma alla fine
capitolò e optò per una semplice quanto pratica
coda.
Quando si distese sulla branda, gli unici rumori che erano rimasti a
farle compagnia erano il chiacchiericcio delle guardie fuori dalla
tenda e il cigolio metallico delle armature dei soldati che facevano la
ronda, suoni familiari che ben si sposavano alla silenziosa orchestra
della natura. Per un po' rimase concentrata su quella melodia, che fin
da quando era bambina aveva la capacità di calmarla, le
permise di avvolgerla e al suo respiro di allinearsi con
l'impercettibile palpito della terra in letargo. La consapevolezza di
quello che doveva fare emerse dalla sua coscienza e finalmente, quando
il sonno venne a prenderla, per la prima volta da quando era tornata in
vita la sua mente si sgombrò da ogni pensiero.
Marciarono a tappe forzate per altri cinque giorni, seguendo la stessa
procedura. I soldati pian piano smisero di parlare, vinti dalla fatica,
dal vento sferzante e dal freddo. I più religiosi rivolsero
spesso preghiere al dio Faelivrin affinché mitigasse il
tempo, ma il cielo non era mai sembrato tanto taciturno e lontano.
Il sole sorgeva pallido e quasi malato al di sopra della linea
dell'orizzonte e si mostrava a tratti, solo quando le nubi si
squarciavano, per poi ricompattarsi in un muro grigio e impenetrabile.
Anche allora la sua luce era appena sufficiente a scaldare la terra
che, prontamente, veniva raffreddata dai khaalesh che spiravano dal
mare verso l'entroterra.
Durante quei giorni Airis origliò le conversazioni dei
soldati. Apprese che la guerra, nei mesi precedenti, era proseguita
senza nessun evento straordinario, a parte la caduta di Llanowar di cui
ancora pochi si capacitavano. Il re aveva spostato la maggior parte
delle sue truppe al sud, contro Sheelwood, e ne aveva stanziate altre
nei pressi delle foreste vicine, attuando una strategia di guerriglia
per fiaccare il morale degli elfi e convincerli alla resa.
Airis si ritrovò a riflettere abbastanza di frequente sulla
decisione che aveva preso, dato che non aveva nessuno con cui
chiacchierare a parte Hallende, che, per quanto gentile, amava
impicciarsi un po' troppo. E poi il freddo pungente aveva portato con
sé anche tutte le malattie invernali, così
Hallende dovette assistere i soldati e non era raro che sparisse per
intere ore. Di conseguenza, la guerriera rimaneva nel carro o nella
tenda in compagnia dei suoi pensieri, che si rincorrevano come cavalli
imbizzarriti per poi convergere su un'unica persona: Ledah.
Erano passate poche settimane da che si erano separati a Luthien e
Airis lo pensava quasi sempre. Pensava a com'erano stati bene durante
quella settimana a casa di Copernico o la festa in maschera; ricordava
con piacere quei momenti e non poteva esimersi dal sorridere e provare
ad abbracciarsi come aveva fatto l'elfo mentre ballavano, illudendosi
di riuscire ad avvertire ancora il suo calore. A volte le pareva
davvero di avere le mani dell'elfo su di sé, che la
stringevano trasmettendole un senso di sicurezza e
tranquillità che serbava solo nelle memorie legate al padre
e al Generale Lullabyon. Poi le tornava in mente che Ledah era un elfo
e gli elfi erano il nemico, e si costringeva a scacciare quelle
sciocche fantasie.
Al settimo giorno, non appena Arghail diede l'ordine di accamparsi,
Airis restò a guardarlo da dietro la tela del carro in
attesa di potergli parlare, occasione che si presentò solo
dopo cena. Quando l'uomo entrò nella tenda, vestiva con gli
stessi abiti dell'ultima volta che si erano visti.
- Mi avete mandato a chiamare? - esordì Arghail con un
sorriso affabile.
- Sì, accomodati, sarà una cosa un po' lunga. Ah,
aspetta, vorrei che ci fosse anche Hallende. -
- Vado subito a cercarla. -
Il comandante uscì e pochi istanti dopo fece ancora il suo
ingresso, seguito dalla donna. Si sedettero davanti ad Airis con
espressioni serie e aspettarono di essere messi al corrente del motivo
del colloquio. Dopo qualche attimo di esitazione, la ragazza si accinse
a raccontare. Disse loro della disfatta del Rashaar, del viaggio
attraverso Llanowar e dell'alleanza con Ledah. Poi narrò
della fuga da Alfheim, dei sopravvissuti di Amount-vinya, di Myria,
Alan e Baldur, e infine del drago, dell'assedio di Luthien, di
Copernico e del suo sacrificio. Le parole fluirono senza ostacoli, in
un fiume ininterrotto e costante, e via via percepì il peso
che le gravava sull'animo alleggerirsi.
Arghail l'ascoltò paziente, interrompendola solo qualche
volta per chiedere dei chiarimenti su certi dettagli o persone, il viso
una maschera indecifrabile che non lasciava trapelare nessuna emozione.
Hallende la osservò senza battere ciglio, interessata e
partecipe, ma, al contrario del compagno, non si intromise mai.
Quando Airis terminò, il silenzio cadde sul trio. Arghail si
prese un tempo che alla guerriera parve infinito, per riflettere,
valutare e soppesare quello che lei gli aveva riferito. Anche se non
voleva darlo a vedere, era turbato e scettico.
- Quindi, ricapitolando, avete stretto un'alleanza con questo elfo,
Ledah, che vi ha ridato la vista mentre stavate viaggiando verso
Alfheim. Lì siete stati attaccati dal Generale Ignus, che
era diventato un non-morto, e vi siete divisi per poi ritrovarvi a
Luthien, dove avete incontrato un ricercato per alto tradimento che ha
fatto esplodere il gigantesco drago assieme all'esercito di elfi
non-morti. E i pochi superstiti sono stati massacrati dal Cavaliere del
Drago che era giunto in vostro aiuto. Ho dimenticato qualcosa? -
- No, in sostanza è tutto. -
Arghail sospirò e si passò una mano tra i
capelli. La luce dei bracieri illuminò il tatuaggio di una
farfalla posata su una stella, inciso a fuoco sulla pelle del collo,
proprio come quello di Hallende.
- Mi riesce difficile crederci. - mormorò, occhieggiando in
direzione della guaritrice.
Hallende incrociò lo sguardo dell'uomo. Ci fu un breve
dialogo silenzioso tra i due, durante il quale Airis si
sentì a disagio, come se fosse un'intrusa. Un minuto
più tardi, Arghail tornò a guardarla sorridendo e
Airis sentì il sudore freddo evaporare insieme al
nervosismo.
- In primo luogo, vorrei ringraziarvi per esservi confidata con me,
immagino non sia stato facile. -
Airis spostò l'attenzione su Hallende, che si
limitò ad alzare le spalle e a chinare lievemente la testa.
- Se il vostro racconto corrisponde a verità, le certezze
che ci hanno tenuti in piedi fino ad ora non hanno più alcun
valore. - continuò Arghail, - Ammetto che da un lato non
è arduo accettare l'idea che gli elfi abbiano fatto uso
della necromanzia, ma dall'altro non riesco a raccapezzarmi
dell'esistenza di un uomo uguale a Felther che ha preso il suo posto
per macellare degli innocenti. Ciò implica che quel...
quell'essere che ha ammazzato i sopravvissuti di Luthien e Amoun-vinya
è il vero Cavaliere del Drago e non una copia creata dalla
magia degli elfi per seminare zizzania tra di noi. Accidenti, questa
storia è talmente assurda che potrebbe davvero rimettere a
posto tanti tasselli. - un'ombra scurì le iridi viola e
Airis si irrigidì, - Ci sono alcuni buchi nella versione che
mi avete riferito, ma... va bene così. Non vi fidate ancora
del tutto di me, ne sono consapevole, e dopo quello che avete passato
lo capisco. Rispetterò il vostro silenzio e vi
aiuterò. - si alzò e le tese la mano, - Se dite
che Ledah è essenziale per capire cosa sia realmente
successo a Llanowar, cercherò di farvi giungere a porto
Eamone il più presto possibile. Ne va del destino di
Esperya, giusto? - stirò le labbra in un sorriso sghembo, ma
gentile.
La guerriera fissò per un lungo momento la mano che Arghail
le tendeva, poi si alzò e gliela strinse con fermezza.
- Vi ringrazio. - disse, guardando sia lui sia la guaritrice, - Grazie
per avermi creduto e per aver scelto di aiutarmi. -
- Lo avremmo fatto comunque. Conoscendo Arghail, non vi avrebbe mai
abbandonata. - Hallende gli tirò un pugno sulla spalla,
guadagnandosi un'occhiata truce, - Oh, dai, hai passato tutte queste
sere e tormentarti su cosa le era accaduto! Ti sono venute pure le
occhiaie per la preoccupazione. -
- Direi che “tormentarsi” mal si adatta a definire
il mio stato d'animo degli ultimi giorni, non ero poi così
disperato. - borbottò risentito Arghail.
- Certo, certo. -
- Non mi sono tormentato! - insisté piccato.
Improvvisamente l'atmosfera nella tenda divenne leggera, allegra e, nel
silenzio che li circondava, la guerriera si sentì di nuovo a
casa, rasserenata dalla vivacità delle battute che i suoi
due nuovi alleati si scambiavano. Hallende aveva una risata argentina
che metteva di buon umore, mentre Arghail riusciva a recitare bene la
parte del finto offeso, ma al momento giusto lanciava una battuta che
zittiva donna. C'era una complicità speciale tra loro.
Quando si congedarono per lasciarla riposare, Airis ricadde a peso
morto sulla branda. Si sentiva svuotata, ma il nodo che le serrava la
gola e le viscere si era sciolto come neve al sole. Chiuse gli occhi e
inspirò profondamente il profumo che proveniva dai bracieri
per via delle spezie che vi erano state gettate all'interno per
mitigare l'odore forte dell'olio rosso. Si fece cullare da quella dolce
fragranza e presto cedette al sonno senza opporre resistenza.
Intorno a lei c'era solo una distesa infinita di bianco, priva di
qualsivoglia punto di riferimento. Airis sapeva dove si trovava e non
si sorprese quando vide Cyril andarle incontro. Le sottili e candide
ali che aveva al posto delle orecchie la sostenevano in volo, sbattendo
forti e aggraziate a ritmo sincronizzato.
- Ottimo lavoro, sono fiera di te. - le disse con voce flautata, che le
accarezzò le orecchie, calma e melodiosa, come il mormorio
dell'acqua di un ruscello.
- Ti riferisci al fatto che mi sono fidata, oppure che ho trovato il
prossimo erede al trono? -
Cyril si limitò a sorridere e Airis non se ne ebbe a male,
poiché in fondo sapeva che non le avrebbe risposto.
- Perché mi hai chiamata? Non penso ti interessino le mie
condizioni di salute. -
- È mio dovere preservare, per quanto possibile, la salute
fisica del Guardiano. Quindi sì, ti ho riportata qui
perché volevo parlarti. Quando sei entrata nella Casa della
Cenere, gli spiriti hanno legato subito l'anima al corpo e io non ho
fatto in tempo a dirti delle cose. -
- E adesso è arrivato il momento delle spiegazioni? Ero
convinta che avrei dovuto cercare tutte le risposte da sola. -
- Ascoltami, ti prego. Il processo che ti ha riportata in vita
è stato più rapido di quanto credessi, forse i
Guardiani avranno ritenuto opportuna la tua presenza nel mondo
materiale. Ormai tu non sei più né un essere
umano né una Risvegliata, Airis. La magia ti ha resa
più potente e ha temprato il tuo corpo rendendoti molto
più forte di qualsiasi creatura esistente. I maghi ti
chiamerebbero Homunculus, cioè un essere che racchiude in
sé l'energia primigenia dell'universo, che lo alimenta e gli
permette di vincere i limiti umani. -
- Quindi il corpo che ho trovato nella radura... -
- Era il tuo vecchio corpo, un guscio vuoto che è stato
donato alla terra. - completò Cyril.
Airis deglutì e si passò le mani sul viso e tra i
capelli. Aveva già vagliato quella possibilità,
ma averne la conferma era un'altra questione.
- Abbine cura, Airis, poiché l'energia che alimenta il tuo
corpo non è eterna. Col passare dei mesi, si
esaurirà. A differenza di quello degli altri Guardiani, il
tuo corpo non ha subito una mutazione, è stato proprio
ricreato dal nulla. Plasmando l'energia che vivificò il
Mondo Nato dal Nulla, la tua anima è stata ricucita a un
nuovo contenitore, nato dall'unione degli elementi che compongono tutto
ciò che esiste. La cicatrice sul cuore è il tuo
orologio e le lancette sono il tatuaggio che si disegnerò
attorno ad essa. Alla fine, quando si sarà preso ogni
centimetro della tua pelle, il tuo tempo scadrà. -
- Immagino di non poterlo fermare... -
- No, per questo è importante che tu ristabilisca
l'equilibrio in fretta. - sospirò e il suo sguardo si perse
nel vuoto per un istante, prima di spostarsi di nuovo su di lei, - Devi
andare a Sershet, salvare Ledah e trovare Amarnwyn. Non temere, io
rimarrò sempre al tuo fianco, anche se non potrò
parlare con te. -
- Lo farò, lo prometto. - la rassicurò Airis con
un sorriso.
Avrebbe voluto aggiungere che lo faceva perché sentiva il
bisogno di rivedere Ledah, di dirgli che la promessa che si erano
scambiati a Luthien per lei era ancora valida, invece restò
in silenzio. I sentimenti, di qualsiasi natura fossero, dovevano
rimanere fuori da quella storia.
Cyril incatenò gli occhi a quelli di Airis, che si
sentì nuda, esposta di fronte a quelle iridi che sapeva
essere capaci di leggerle dentro. Poi chinò il capo in segno
di saluto e le diede le spalle, lasciando che fossero i piedi e la
memoria del suo corpo a condurla fuori da quel luogo, che era ovunque e
da nessuna parte.
Mentre camminava, la voce di Cyril le giunse alle orecchie come un'eco
lontana.
- Airis, la tempesta è vicina. -
La guerriera si voltò di tre quarti, incontrando ancora
l'espressione seria di Cyril, le sue ali candide che si confondevano in
quel bianco infinito.
- Che giunga, io la sto aspettando. -
Al calar del sole del
quarto giorno giunsero a porto Eamone. La città si trovava
su un promontorio roccioso che si affacciava sul Mar di Ghiaccio.
Quando era stata fondata, le mura che la circondavano erano basse, ma
adesso, con l'inasprirsi della guerra, il governatore era stato
costretto ad alzarle. Da lontano si vedeva la differenza tra la vecchia
cinta difensiva di marmo levigato dal mare e la nuova, una striscia di
blocchi regolari disposti a file alterne di testa e di taglio. Il ponte
levatoio era abbassato e le guardie, vestite con le armature recanti lo
stemma della famiglia reale, presidiavano l'ingresso, facendo pagare il
pedaggio ai contadini e a quei pochi mercanti che ancora viaggiavano
per le strade.
Quando il carro si fermò, Airis udì Arghail
discutere rapidamente con uno dei soldati, che, non appena si rese
conto di chi aveva davanti, mise da parte qualunque rimostranza.
Proseguirono ancora per un po', inoltrandosi nella città.
Nonostante l'ora, umani, nani e gnomi giravano per le vie in un
continuo e caotico via vai che nemmeno la guerra era riuscita a
intaccare. L'aria, satura dei profumi penetranti del porto, portava con
sé le urla dei mercanti che rilanciavano sul prezzo, il
cicaleccio delle donne che passeggiavano e il cigolio dei carri carichi
di beni importati e d'asporto.
- Eri mai stata qui? - domandò Hallende.
- Sì, anche se è stato molto tempo fa. - rispose
Airis.
- Quando siete stata mandata al Nord dalla regina? -
- Sì, ma sono venuta anche molto prima. -
- Mi è concesso chiedere... -
- Magari un'altra volta. - disse con un sorriso stanco.
Hallende non insisté, anche se l'espressione delusa sul suo
viso lasciava intendere che le sarebbe piaciuto saperne di
più. Ad Airis dispiacque, ma non aveva nessuna voglia di
parlare del suo passato o condividere i ricordi che quella
città aveva risvegliato in lei. Memorie felici, frammenti di
una vita precedente che erano poi diventati mattoni sui quali aveva
ricostruito se stessa.
La loro guarnigione si mosse piano tra i vicoli, imboccando una delle
tante vie che si perdevano in quel labirinto di palazzi e case. La
guerriera non sapeva esattamente dove si stessero dirigendo, ma dal
panorama dedusse che non fossero poi così lontani dalla
Piazza Grande.
Quando si fermarono, Hallende scese dal carro agile come un gatto, dopo
averle fatto cenno di fare silenzio. Airis la sentì
discutere con Arghail, informandolo che le condizioni di Arlena erano
peggiorate. Non trascorsero che pochi istanti, prima che il comandante
desse l'ordine ai suoi uomini di entrare nella caserma e rimanere nelle
loro stanze. Quando lo scalpiccio e lo sferragliare dei soldati
svanì in lontananza, Hallende tornò dentro e
l'aiutò a smontare dal carro. Appoggiandosi al suo braccio,
Airis si trascinò fuori e si lasciò condurre
nella caserma. Era un edificio imponente, con un perimetro
quadrangolare, lati arrotondati e un lato obliquo, circondato da un
muro di qualche braccio in opera laterizia. La doppia porta che si
apriva sull'ambiente interno era di un pesante legno di quercia con
fregi in ferro, lavorato con una tecnica a sbalzo in modo da comporre
il lupo della famiglia reale nella parte sinistra e l'ippocampo alato
sulla destra.
Hallende la condusse per un lungo corridoio, tenendole una mano attorno
alla spalla, con Arghail che procedeva al suo fianco con ampie falcate,
ponendo domande alla sua compagna sulle condizioni di Airis. La
guerriera, dal canto suo, rimase in silenzio, mugolando di tanto in
tanto per rendere la messinscena più verosimile. Quando
giunsero all'ultima camera del corridoio, il comandante fece un rapido
inchino, prima di chiudersi la porta alle spalle. Probabilmente,
pensò distrattamente Airis, stava andando a controllare che
tutti i soldati fossero andati nella camerata.
L'infermeria era uno stanzone spartano, con una ventina di letti
allineati su due muri e tre ampie finestre che aggettavano sulla
strada. Hallende si affrettò a chiudere le tende, mentre la
guerriera combatteva contro lo jalibeb. Appena riuscì a
toglierselo, sequestrò la sedia dietro il tavolo di cedro
dove erano state posate bende e vari barattoli, accomodandosi con un
sospiro di sollievo.
- Vuoi mangiare qualcosa? - mormorò la cerusica,
appoggiandosi al capezzale del letto di fronte a lei, - Se resisti
un'ora o due, poi posso uscire per vedere se è avanzato un
po' di pane o un mestolo di minestra d'avena. -
- No, adesso ho altro per la testa. - la guerriera si
massaggiò le tempie, - Ti ringrazio per avermi aiutata, ma
devo partire. -
- Sì, per andare alla ricerca dell'elfo. -
sospirò Hallende, - Purtroppo non posso aiutarti, non
conosco molto bene porto Eamone per dirti quali e quante navi sono
dirette al sud. Dovresti provare a parlarne con Arghail, è
un esperto di queste terre. -
A sentire nominare il nome del comandante, un altro pensiero fece
capolino nella mente di Airis. Non sapeva ancora nulla di lui, a parte
che era un uomo d'onore, che era stato adottato e che, secondo uno dei
Guardiani, lei avrebbe dovuto aiutarlo a diventare re.
“Il che, ipotizzando che sia vero e possibile, è
davvero difficile.”
- Qualcosa non va? Non vi sentite bene? - la richiamò
preoccupata Hallende.
- No, no, è stato solo un viaggio lungo e sfiancante. - la
rassicurò prontamente, - Inoltre... parliamoci chiaro: come
fate a portare per ore questo scialle in testa? È
soffocante! -
La donna scoppiò a ridere a bassa voce. Una risata limpida,
cristallina, che contagiò anche Airis.
- Avete ragione, in effetti all'inizio è davvero fastidioso.
Mia madre mi raccontava che la prima volta che ha provato a mettermelo,
l'ho buttato a terra e sono scappata via. Quando finalmente
è riuscita ad acchiapparmi, non le ho più parlato
per giorni. - tossicchiò, ricomponendosi, - Pensandoci col
senno di poi, se non avesse insistito mi sarei presa un'insolazione e
sarei stata male, ma all'epoca ero troppo piccola per capire certe
cose. -
- Non credo esistano bambini che condividano appieno le scelte che i
loro genitori fanno per loro. - commentò Airis, accavallando
le gambe e facendo scrocchiare la schiena, - Non avrei mai detto che
fossi così pestifera, comunque. Sembri così... -
- Calma e pacata? Sapete come si dice, no? La pazienza è la
virtù dei forti e io ne ho imparato il valore solo quando ho
capito quale fosse la mia strada. -
- Ti riferisci al tuo percorso per diventare una guaritrice? -
- Per lo più mi riferisco alla fede, a ciò in cui
credo. - la sua mano corse alla farfalla poggiata sul loto ai lati
della testa e il suo sguardo si adombrò, perse la
luminosità che fino a quel momento faceva vibrare le iridi
turchesi, - Solo... a volte mi sarebbe piaciuto non dover scegliere. -
Non aggiunse altro e Airis capì che non sarebbe stato giusto
domandare. Hallende aveva rispettato la sua riservatezza e aveva atteso
che fosse lei ad aprirsi; ora era il suo turno di aspettare.
- Sai, c'era un soldato tra i miei uomini che era credente. Durante le
pause tra un allenamento e l'altro, al posto di unirsi ai suoi compagni
per bere o andare a far baldoria, si rifugiava nella sua tenda e
pregava. L'ho visto spesso inginocchiarsi, con le mani giunte sul petto
e gli occhi chiusi, mentre recitava una preghiera rivolta ad Laeyr. Un
giorno gli chiesi perché lo facesse. Insomma, i miei
genitori non erano molto religiosi, e nemmeno io lo ero. Faticavo a
capire come mai dedicasse così tanto tempo a venerare un...
qualcosa che nemmeno sappiamo se esiste. Lui mi rispose semplicemente
che nella fede c'era abbastanza speranza per contrastare la
desolazione, e abbastanza amore per tollerare la solitudine.
Perciò, qualsiasi scelta tu abbia fatto, credo che sia stata
la migliore se ti ha resa la persona che sei ora. -
Un sorriso si dipinse sulle labbra di Hallende, che poi si
allungò e le strinse con delicatezza la mano, chinando
appena il capo fino a sfiorarle le dita in un tacito gesto di
ringraziamento. La guerriera la lasciò fare, senza tentare
di avvicinarsi né allontanarsi. Solo quando la
sentì allentare la presa, intrecciò le braccia
sul petto.
- Ah, puoi anche smetterla di darmi del “voi”. Odio
le formalità. - buttò lì Airis,
cambiando argomento.
- Non mi sembrava, anzi, mi avete... mi hai dato l'impressione di
bearti del tuo ruolo. - la prese in giro Hallende.
Airis scosse la testa, arricciando il naso in una smorfia fintamente
offesa, già pronta a rispondere a tono, quando sentirono
bussare. Subito si zittirono entrambe e Hallende, alzandosi, la
esortò a infilarsi sotto le coperte. La guerriera
obbedì e si girò dando le spalle alla porta,
obbligandosi a respirare con regolarità così da
dare l'impressione di star dormendo.
- Guardate che lo so che non state dormendo, Generale. -
La voce allegra di Arghail vibrò nell'aria immobile
dell'infermeria, mentre avanzava nella sua direzione. Airis
capì dalla pesantezza dei suoi passi che indossava ancora
l'armatura.
- Ha detto che possiamo darle del “tu”. - gli disse
Hallende, mentre si risiedeva sul letto.
A quel commento il comandante si fece serio: - Generale, siete sicura
che vi vada bene? Non vorremmo mai mancarvi di rispetto. -
- Come ho già detto, odio le formalità. In
pubblico le riesco a sopportare, ma in privato mi sembrano eccessive,
soprattutto dopo quello che ci siamo detti. -
Arghail annuì, poi prese la seconda e ultima sedia rimasta
dietro il tavolo di cedro e vi si sedette. Aveva un'espressione seria
sul volto e Airis intuì che quello che le stava per dire non
le avrebbe fatto piacere.
- Il re è morto, il male che lo divorava dall'interno non
gli ha lasciato scampo. Ha nominato come suo successore sua moglie,
Wecilia Mallus. Ho sentito un mercante che ne parlava mentre venivamo
qui. I funerali si svolgeranno tra un paio di giorni. -
Il cuore di Airis perse un battito e sentì un brivido gelido
serpeggiarle nelle ossa e avvilupparle lo stomaco. Si
massaggiò la radice del naso, imponendosi di restare calma e
non cedere all'angoscia . Cyril le aveva detto che il rito avrebbe
avuto luogo durante una particolare congiunzione astrale, quindi
dubitava che quell'episodio avrebbe influito sui suoi piani.
Ciononostante, non riusciva a non pensare a quanto potere quella donna
avesse accentrato nelle proprie mani: prima si era sbarazzata di
Serjel, poi di Copernico e infine di Voren. Adesso, tra lei e il
dominio assoluto della capitale, c'erano solo i dodici Consiglieri, e
forse, a breve, nemmeno loro.
“Devo sbrigarmi.”
- Qualcosa non va? - domandò cauto Arghail.
- No, sono solo sconvolta. É stato inaspettato. Non credevo
che sarebbe accaduto così presto. -
- Se non fosse che ora sul trono siede quella serpe, sarei quasi
contento di quello che gli è accaduto. - sibilò
lui, le dita intrecciate così strette da far sbiancare le
nocche.
Airis si mostrò d'accordo. Non poteva dire di aver amato un
sovrano come Voren, ma in fondo provava pietà per quell'uomo
che, come suo padre prima di lui, era caduto nella rete della Lich.
- Senti, ma... i tuoi uomini non hanno paura? -
- Paura di cosa? -
- Che tu ti possa ammalare. La febbre rossa è molto
contagiosa. -
L'uomo esitò, era evidente che non era preparato a una
domanda del genere. Era come se stesse valutando cosa dire, soppesando
le parole giuste da usare. Hallende non disse nulla, ma, da come lo
guardava, Airis capì che già sapeva cosa stesse
per dire.
- Non c'è pericolo, l'ho già contratta. -
rivelò infine, spiazzando la guerriera.
La febbre rossa era una malattia crudele, anneriva il sangue,
annichiliva la mente e distruggeva il corpo. Erano stati a centinaia i
bambini colpiti sei anni prima, per lo più figli di
contadini e mercanti girovaghi che non potevano permettersi le cure di
un bravo guaritore come Hallende. Ancora oggi quei pochi che si erano
salvati portavano i segni del loro calvario, menomazioni che impedivano
loro di camminare e che, spesso, paralizzavano anche i loro bambini. La
guerriera aveva dato per scontato che Arghail fosse il rampollo di una
famiglia nobile, che era stato adottato per succedere alla carica di un
qualche comandante d'alto rango senza eredi, ma quella rivelazione
cambiava le carte in tavola.
- L'ho contratta quando ero piccolo e vivevo ancora in campagna. Sono
stato fortunato che in quel periodo un giovane cerusico fosse stato
mandato a fare l'apprendistato nel paese vicino al mio, altrimenti non
ce l'avrei fatta. - spiegò con voce neutra, quasi atona, le
braccia intrecciate dietro la nuca, - Piuttosto... adesso cos'hai
intenzione di fare? Prendere una nave diretta a Sershet? -
- Sì, non ho molta scelta. Non sono sicura che Ledah sia
lì, ma considerando la posizione di Lysandra e quello che
vuole fare, non c'è posto più sicuro della
capitale. -
- Non posso che concordare, ma non sarà facile trovarne una.
In questo periodo i Khaleesh rendono difficile la navigazione, i
mercanti preferiscono viaggiare per terra piuttosto che affrontare il
rischio di un naufragio nelle acque gelide del Mar di Ghiaccio. Ma
forse posso chiedere a un amico se può darci un passaggio. -
- Stai parlando di Torvir? - chiese Hallende.
- Sì. - rispose, spostando lo sguardo su Airis, - Era un mio
commilitone. Abbiamo fatto l'Accademia insieme. -
- Ti fidi di lui? - s'informò Airis.
- Altroché, mi ha guardato le spalle un sacco di volte.
È come un fratello. -
- Sì, è vero, è un uomo con un grande
senso dell'onore. - confermò Hallende, mentre sulle sue
labbra balenava un sorriso divertito, - È uno scavezzacollo,
ma è una brava persona. Se glielo chiederemo, ci
aiuterà. -
Airis annuì, poi il suo sguardo si perse sulla danza di luci
che serpeggiavano sul vetro scuro della finestra.
- Non so se sia una buona idea uscire stasera. - proseguì
Hallende, scoccandole un'occhiata preoccupata, - Hai... abbiamo
affrontato un viaggio molto duro e abbiamo tutti bisogno di riposare.
Sarebbe meglio dormire qui stanotte e domattina andare a cercare
Torvir. -
- Sì, sarebbe la cosa più giusta. -
concordò Arghail, stropicciandosi gli occhi con indice e
pollice, - Domani dovrebbe arrivare anche Fadri per prendere il comando
al mio posto. Inoltre, ora come ora, non saprei in che buco si possa
essere andato a infilare quel pazzo. -
La guerriera si umettò le labbra pensierosa. Si sentiva
ancora carica, piena di energie, nonostante avesse affrontato un
viaggio a tappe forzate fino a lì. La cosa la sorprendeva e
allo stesso tempo la spaventava. Cyril le aveva detto che era un
homunculus, ma lei non sapeva esattamente cosa implicasse l'essere
rinata con quel corpo che sembrava immune a tutto.
Spostò nuovamente la sua attenzione su Hallende e Arghail,
concedendosi del tempo per pensare. La decisione arrivò da
sé: c'era in gioco qualcosa di grande, dalle sue scelte
dipendeva il destino di Esperya stessa, e non poteva permettersi il
lusso di rischiare tutto.
- Per me va bene. - acconsentì, fingendo di sbadigliare, -
Domani usciremo solo io e Hallende? -
- Sì, io vi raggiungerò quando Fadri
arriverà in città. - replicò Arghail
alzandosi, - Allora vi do la buonanotte, signore. Hallende, ti ricordi
com'è la nave di Torvir? -
- Perbacco! Ha scelto una polena talmente originale che è
impossibile dimenticarla! -
Il comandante sorrise, si inchinò e sparì oltre
la soglia, chiudendosi la porta alle spalle.
Prima di andare a dormire, Hallende studiò Airis per un
lungo momento.
- Domani devo fare una cosa. - bofonchiò tra sé e
sé.
- Cosa? -
- Niente di che, non ti devi preoccupare. -
Airis sospirò e non insisté. Una vocina nella sua
testa le ricordò che anche Myria aveva avuto la stessa
espressione prima della festa.
Hallende venne a svegliarla che era quasi l'alba. Le spiegò
a grandi linee cosa le avrebbe fatto e Airis si limitò a
sedersi sullo sgabello per lasciare che le pettinasse i capelli. Una
paletta mescolava un liquido nero vicino a un bacile pieno d'acqua,
profumava di miele, giglio e cinnamomo. Quando la donna si ritenne
soddisfatta del risultato, cominciò a spalmare l'impasto
sulle ciocche, dalla radice fino alle punte. L'operazione
durò per qualche ora. Hallende le lavò i capelli
e glieli pettinò nuovamente, per poi stringerli in una
treccia che partiva dalla sommità della nuca e dedicarsi al
trucco del viso. Per tutto il tempo Airis non parlò quasi
mai, ancora intontita dal sonno e dal brusco risveglio. Solo quando
l'altra le mise davanti un piccolo specchio, prese coscienza del
cambiamento.
- Come ti sembrano? Secondo me, ti donano. Ho scelto il colore
più scuro che avevo. -
- Sono strani... - commentò, guardandosi da ogni angolazione.
Faticava a riconoscersi nel proprio riflesso. La ragazza con i capelli
neri e l'espressione spaesata che la scrutava dallo specchio era lei,
eppure allo stesso tempo le sembrava un'altra persona. Anche le
sopracciglia erano state tinte, e le lentiggini che le punteggiavano
tutto il viso erano sparite. Soltanto gli occhi erano rimasti
invariati, ricordandole chi era davvero.
- Dai, vieni, dobbiamo sbrigarci. - la richiamò Hallende.
Aiutò Airis a vestirsi, avvolgendole il capo in uno jalibeb
nero appaiato con lo shaalar dello stesso colore. Sotto le fece
indossare dei pantaloni aderenti, una tunica di lana blu scura, dalle
maniche un po' troppo larghe per i gusti di Airis, e dei guanti di lana
che la coprivano fino all'avambraccio. Dopodiché, uscirono
dall'infermeria. Rifecero la strada del giorno precedente, completa di
sceneggiata, e quando oltrepassarono la porta, i due soldati di guardia
si spostarono senza dire nulla. Airis poté percepire i loro
sguardi di compatimento pesarle sulla nuca. Sapeva che doveva fingersi
ancora malata per evitare di attirare l'attenzione, eppure non
riuscì a trattenere una smorfia di disappunto.
Ad ogni modo, un minuto più tardi erano già
all'aria aperta, la caserma alle spalle e la via maestra di fronte.
Proseguirono a dritto per un po', poi Hallende svoltò
bruscamente in un vicolo deserto. Airis colse l'occasione e si tolse
scialle e tutto il resto, inspirando a pieni polmoni l'odore di
salsedine portato dal vento, che soffiava dall'oceano. A quel punto,
lontane da occhi conosciuti, si diressero verso il porto più
tranquille.
La strada su cui Hallende la condusse si snodava in mezzo alle case
come un serpente, zigzagando tra edifici dall'architettura disordinata,
eppure unica nel suo genere, influenzata dai vari governi che si erano
succeduti negli anni. Airis riconobbe, al di là dei tetti,
le alte torri squadrate costruite da Varian D'Uster, con le tipiche
gargolle dalla testa di drago, poi quella che fu la dimora di
Castellari Ferdians, con i balconi in pietra decorati con ibischi ed
edere rampicanti, e infine il grande tempio dedicato a Yius, il Leone
Splendente, con il suo mastodontico frontone e le colonne di marmo rosa.
La prima volta che Airis era giunta a porto Eamone, Davsten l'aveva
condotta per quelle stesse strade, descrivendole nei minimi particolari
ciò che vedeva, così che anche lei potesse godere
di quel paesaggio. Era una ragazzina allora, doveva ancora decidere
cosa fare della propria vita.
- Ti piace questo posto, vero? -
- Sì. Da cosa lo hai capito? -
- Stai sorridendo. Tu non sorridi quasi mai, non con il cuore. -
Airis indugiò, colta in fallo. Si rannuvolò
appena, poi rivolse alla donna un sorriso mesto.
- Sei una buona osservatrice. -
- È il mio lavoro. Muoviamoci, sia mai che Torvir trovi
un'altra sottana a cui correre dietro. -
Seguirono le viuzze in discesa, passando per scale scolpite
direttamente nella pietra e piazze gremite da nani, gnomi e umani
intenti a trattare sul prezzo delle merci in mostra sulle bancarelle.
In Via degli Arazzi, gioiellieri e sarti avevano aperto le porte delle
loro botteghe, esponendo abiti sontuosi o bracciali di pietre dure
provenienti da ogni parte del regno che affascinavano tutti, dal
mendicante alla donna sulla portantina. Airis ripensò alle
parole del Generale Lullabyon e a quanto fossero vere: poco importava
da dove venivi, chi eri o chi saresti voluto diventare, a Porto Eamone
avresti comunque potuto trovare un nuovo scopo o
l'opportunità di realizzare i tuoi sogni.
Dopo aver comprato qualcosa da mangiare da un venditore ambulante,
proseguirono a passo spedito fino a quando gli alberi delle navi
apparvero al di sopra dei tetti. Mentre si avvicinavano, la guerriera
si guardava intorno meravigliata. Era stata in quel luogo
più di una volta, eppure quella era la prima che lo vedeva
veramente: il porto era immenso. Si sviluppava su tutto il naturale
bacino scavato dal Mar di Ghiaccio e tutta la sua circonferenza era
occupata da approdi di ogni tipo, dove veleggiavano galeoni, galee e
vascelli maestosi o modesti. Una stretta striscia di osterie, bordelli
e negozi era stata costruita vicino al faro, che si stagliava contro
l'orizzonte in tutte le sue undici braccia di pietra bianca e
opalescente.
Hallende puntò sicura verso destra, dirigendosi verso un
piccolo approdo dove era stata ormeggiata una nave che Airis non
poté che definire particolare. La forma lunga e slanciata,
assieme al pescaggio poco profondo, le ricordava le navi da guerra di
mezzo secolo addietro, ma la vela rettangolare montata sull'unico
albero le suggerì che in realtà dovesse essere
ben più recente. Alla fine fu la prua ad attirare
maggiormente la sua attenzione, la polena plasmata come un drago
tricefalo dalle zanne snudate e gli occhi così grandi da
essere quasi sproporzionati.
- Hallende! Quanto tempo! - gridò una voce gioviale dal
ponte della nave.
Un uomo dai capelli bianchissimi, tagliati molto corti, si
sbracciò verso di loro attirando l'attenzione di Hallende,
che subito gli andò incontro.
- Torvir, come stai? Sempre occupato nei tuoi loschi traffici? -
- Sempre e comunque, mi conosci. - scherzò ammiccando, poi
si girò verso uno dei suoi sottoposti e, dopo avergli dato
istruzioni, scese sul pontile.
Aveva un accenno di barba sulle guance e sul collo e le orecchie
leggermente allungate ben in vista, adornate con orecchini d'osso di
varia grandezza. Gli occhi, di un rosso cupo, osservavano gli uomini
che stavano caricando una grossa cassa. A lavoro ultimato, si
girò a fronteggiarle, senza perdere il vago ghigno malizioso
che gli arricciava gli angoli della bocca.
Airis si stupì nel riconoscere nel suo volto un retaggio
elfico. Si domandò come fosse riuscito un mezzelfo a entrare
nell'esercito e sopravvivere. Torvir intercettò il suo
sguardo indagatore e ghignò più apertamente,
facendo scivolare le iridi scarlatte sul corpo della guerriera.
- E chi è questa meraviglia? Non mi avevi detto di avere
un'amica così carina! O forse me ne avevi parlato e io non
me lo ricordo? No, impossibile, non potrei certo dimenticarmi di una
simile bellezza nordica. -
- Smettila, non vedi che la stai mettendo in imbarazzo? - lo
rimproverò, per poi voltarsi verso Airis, - Scusalo, fa
sempre così... -
- Non ti preoccupare. -
- Ci sarai abituata, immagino. - si intromise Torvir.
- Decisamente. -
- Uh, aspetta. Hallende, non dirmi che è sposata o cose del
genere. No, perché nel caso non è un problema per
me, anzi, il fascino del proibito lo trovo particolarmente eccitante...
-
Prima che potesse andare oltre, Airis lo fermò: - Intendevo
dire che, essendo cresciuta con quattro fratelli maschi, sono abituata
a certi comportamenti. Ci vuole ben altro per scandalizzarmi. -
Con un gesto più rapido di quello che l'uomo si aspettava,
lo afferrò per le palle e le strinse come l'uva durante la
stagione della vendemmia, sulle labbra arcuate un sorriso
più divertito che minaccioso.
- Al tuo posto, terrei la bocca chiusa, capitano. E se pensi che io sia
una nave da abbordare come un pirata... ti sbagli di grosso. -
Torvir la fissò sorpreso, evidentemente spiazzato da quella
reazione. La guerriera si gustò la sua espressione per
ancora qualche secondo, prima di lasciare molto lentamente la presa.
Hallende si coprì la bocca per nascondere una risata, ma
nello stesso momento un paio esplosero nell'aria, accompagnate da una
sequela di battute e applausi provenienti dalle bocche dei marinai, che
avevano assistito dal ponte alla stregua di comari che spiano dalla
finestra.
Torvir, dopo un breve istante in cui non seppe che fare,
dardeggiò uno sguardo truce verso la ciurma, che si
zittì tornando al lavoro.
- Dicevamo... Hallende, è da molto che non ci vediamo!
Arghail come sta? - disse tossicchiando, nel tentativo di scacciare
l'imbarazzo.
- Bene, sta aspettando che Fadri venga per sostituirlo. - rispose
Hallende.
- Ah, quindi è qui in città? E come mai non
è venuto a trovarmi? Non dirmi che ce l'ha ancora con me per
la rissa alla taverna della volta scorsa. -
- No, non penso, sai che non rimane mai arrabbiato a lungo. Ha delle
cose da fare prima di partire. -
- Torna a Sershet? -
- Sì, diciamo di sì. Anche tu sei in partenza,
vedo. -
Torvir annuì e indicò con orgoglio la sua nave: -
Ho da trasportare un grosso carico di spezie fino alla capitale. Non
sarà una navigazione facile, con questo tempo
così instabile dovremo stare più attenti del
solito. Se fosse stato come ai vecchi tempi, avrei chiesto a te e ad
Arghail di seguirmi, ma... -
- Potremmo parlare da un'altra parte? -
L'uomo alzò un sopracciglio e la scrutò con
cipiglio sospettoso, prima di annuire.
- Lascio disposizioni a Sin e ti raggiungo al solito posto. -
- A dopo. - lo salutò la donna e quando furono abbastanza
lontane guardò Airis interessata, - È vero che
hai quattro fratelli maschi? -
- No, sono figlia unica. -
Hallende scoppiò a ridere e le batté una pacca
sulla spalla.
- Sei stata fantastica prima! -
- Non ho fatto nulla. -
- Sei riuscita a mettere in imbarazzo Torvir, ti assicuro che non
è un'impresa da poco. -
Airis si concesse un mezzo sorriso e assunse l'aria di una che la sa
lunga: - Diciamo che so come prendere un uomo. -
Si diressero verso la linea di edifici che si affastellavano vicino al
faro. Hallende tirò dritto fino a un palazzo basso e tozzo,
dalla facciata erosa dal tempo e dalla salsedine. Dalle finestre
accostate usciva il chiasso degli avventori.
- “Dalla Donna d'Oriente”. Non pensavo che Arghail
fosse un frequentatore di simili bettole. -
Hallende si rabbuiò e le sue labbra si incresparono in una
smorfia amara. Le dita della mano destra sfiorarono il tatuaggio,
mentre la sinistra si strinse sulla pesante maniglia di ferro nero
macchiato di ruggine. Poi, con un gesto fin troppo brusco,
l'abbassò.
Il freddo si dissipò nelle volute di fumo acre che salivano
fino al soffitto. Furono accolte dalle risate e dalle voci di uomini e
donne ubriachi, almeno quelli che non dormivano stravaccati sui tavoli
e sulle sedie mangiate dai tarli. Una cameriera vestita con un abito di
un rosso smorto diede loro il benvenuto con un sorriso stanco, mentre
sistemava bicchieri e piatti sul vassoio. L'oste dietro il bancone, un
uomo dalla stazza considerevole e il naso adunco, alzò lo
sguardo dall'orcio che stava lavando e, non appena notò le
sue nuove clienti, si immobilizzò, gli occhi puntati su
Hallende, che avanzava verso l'unico tavolo libero.
Di nuovo, Airis ebbe l'impressione che il rapporto tra Hallende e
Arghail non fosse così chiaro e limpido come cercavano di
dare a vedere. Avrebbe voluto capire cosa si nascondeva dietro lo
sguardo triste della guaritrice e cosa significava il suo tatuaggio, lo
stesso che Arghail aveva sul collo, perché ormai era chiaro
che non era un simbolo di fede. O, almeno, non era soltanto quello.
- Prendi qualcosa? - chiese Hallende.
- Sono a posto. -
- Va bene, allora aspettiamo. - sospirò massaggiandosi le
tempie, senza perdere di vista la porta.
Sembrava stanca, come se non avesse riposato durante la notte scorsa.
Nel dormiveglia, ad Airis era parso di udire il cigolio della porta che
si apriva e lì per lì lo aveva scambiato per un
sogno, ma ora, guardando l'espressione tetra di Hallende, non ne era
più così convinta.
- C'è qualcosa che non va? -
- Non ho dormito abbastanza, stanotte. - rispose la donna con un
sorriso incerto, - Tu, invece, mi sembri riposata. -
- Sì, alla fine la stanchezza mi ha vinta. Comunque, se non
vuoi parlarne basta dirlo. Tutti abbiamo dei segreti, in fin dei conti.
-
Hallende spostò la sua attenzione su un punto al di
là delle sue spalle, come se non riuscisse a sostenere il
suo sguardo troppo a lungo.
In quell'istante la porta si aprì e Torvir fece il suo
ingresso nel locale. Si era coperto il capo con il cappuccio di un
mantello foderato di pelliccia, chiuso con una spilla rotonda d'ottone,
e appesa alla cintola portava una spada lunga, infilata in un fodero
piuttosto anonimo. Quando prese posto, scandagliò l'ambiente
e richiamò l'oste con un cenno.
- Perché non ti togli il cappuccio? Non mi sembra che faccia
così freddo. - lo interrogò Airis, stranita.
Torvir si mostrò imbarazzato: - Lo so, ma vedi... Dena, la
cameriera... -
- Ho capito, non voglio sapere altro. -
Il capitano ridacchiò, poi rivolse la sua attenzione su
Hallende.
- Allora, di cosa volevi parlarmi? -
- Vai subito al sodo, come al solito. -
- Se fossi venuta solo per salutarmi, non mi avresti chiesto di venire
qui, per discutere lontani da occhi e orecchie indiscrete. Inoltre... -
puntò gli occhi su Airis, - lei ha un viso piuttosto
familiare... non vorrei fare nomi, ma... -
Le labbra della guerriera si curvarono in un lieve sorriso. Quell'uomo
non era uno sprovveduto, per niente.
- Allora evitiamolo. Dopo i complimenti di prima, potrei persino
offendermi. - allungò la mano verso di lui, - Mi chiamo
Arlena. -
- È davvero un piacere conoscerti, Arlena. -
ricambiò la stretta, calcando su quel nome con una certa
enfasi.
L'oste servì loro un piatto con del formaggio e del pane,
quindi se ne andò.
- Allora, dicevi di essere diretto a Sershet. - cominciò
Hallende.
- Sì, partiamo nel primo pomeriggio, se il tempo non si
guasta. -
- Bene. Ci chiedevamo se potessi dare ad Arghail e Arlena un passaggio
sulla tua Signora dei Mari. -
- Non possono andare con le navi dell'esercito? Sono più che
sicuro che il comandante che è venuto per prendere il posto
di Arghail non sia giunto via terra. -
- Diciamo che per questo viaggio preferirebbero un mezzo meno vistoso
per mantenere un basso profilo. -
- Tu non verresti, dunque? -
- No, io... no. Non con la tua nave. -
Torvir inarcò un sopracciglio e le fissò entrambe
dubbioso, ma non rispose, concentrandosi sullo spalmare il formaggio
morbido su una fetta di pane. Nonostante le palpebre abbassate, Airis
poteva percepire il peso del suo sguardo sulla pelle.
- Avete bisogno di non far sapere a nessuno che state tornando in
città, in sostanza. - addentò la fetta di pane e
accavallò le gambe, senza smettere di guardarle, - Non mi
piacciono i segreti, Hallende, soprattutto se coinvolgono direttamente
me e la mia nave. -
- Torvir, ascolta... -
L'uomo la fermò con un gesto annoiato della mano: - Immagino
che non abbiate intenzione di dirmi cosa avete in mente. Tu e Arghail
avete sempre questo atteggiamento che mi fa saltare i nervi, come
quelle persone che si aspettano di ricevere aiuto e favori senza
sentirsi porre domande. Dammi una buona motivazione per prendervi sulla
mia nave. Qualcosa di convincente, non la solita scusa che mi propini
ogni volta. -
La donna serrò i denti e cominciò a tamburellare
le dita sul tavolo, sostenendo lo sguardo di sfida del capitano, che
non sembrava intenzionato a mollare l'osso. Airis aprì la
bocca per intromettersi, ma, prima che potesse dire qualsiasi cosa,
Arghail fece il suo ingresso nella locanda. A grandi falcate si diresse
verso il loro e, senza troppe cerimonie, posò un sacchetto
sulle ginocchia di Torvir. Poi rimase un attimo imbambolato a fissare
Airis, incuriosito dai capelli neri, ma un'occhiata di Hallende fu
sufficiente a mettere a tacere qualunque domanda.
- Ciao, Torvir, ti trovo bene. - salutò cordiale, prendendo
una sedia dal tavolo vicino.
- Anche io ti trovo bene, anche se dovresti rifarti la barba. Sembra
che te l'abbia tagliata un macellaio. - grugnì, soppesando
il sacchetto, - Secondo te è sufficiente pagarmi per avere i
miei servigi? Pensavo fossimo amici. -
- Lo siamo, ovviamente, però so anche quanto tu tenga alla
tua beneamata Signora. Mi sembra un prezzo... ragionevole per ricevere
un favore da te. -
Torvir scoppiò a ridere, ma Arghail non si unì
alla sua risata.
- Quindi siamo giunti fino a questo punto? Piuttosto che rendermi
partecipe dei vostri piani, comprate il mio silenzio. -
commentò amareggiato, infilando la ricompensa nella
scarsella, - Come sono cambiate le cose senza che nemmeno me ne
rendessi conto... -
- Le persone cambiano, così come il rapporto che le unisce.
- rispose il comandante con un tono gelido, - Ascolta, ho bisogno solo
che cambi l'orario della partenza e che ci scorti fino alla capitale.
Non ti daremo problemi e sono sicuro che se lo dirai ai tuoi uomini,
sapranno tenere la bocca chiusa, sia quando saremo a bordo che quando
saremo sbarcati. -
- Vuoi navigare di notte?! Con i Khaleesh che non si placano da giorni
e il tempo più instabile degli ultimi dieci anni?
È una follia! -
- Non eri forse tu quello che diceva che non esiste niente di
abbastanza folle da fermarti? -
Il mezzelfo contrasse la mascella in una smorfia e scosse la testa,
versandosi un bicchiere di vino. Lo sorseggiò lentamente,
prendendosi tutto il tempo per riflettere. Airis rimase in disparte ad
osservarli. C'era una rigida determinazione nelle iridi viola di
Arghail, una fermezza che non ammetteva rifiuti. Avrebbe dovuto
sentirsi sollevata, eppure qualcosa le suggeriva che quella sua
insistenza non fosse dovuta solo alla promessa che le aveva fatto.
Strinse i pugni sotto il tavolo, imponendosi di rimanere in silenzio.
- Allora? Mi aiuterai? -
Torvir finì il suo bicchiere e lo squadrò con
un'espressione scettica prima di fare un gesto d'assenso.
- Fatevi trovare a mezzanotte al molo, Hallende ha visto dove
è ormeggiata la mia nave. Cercate di arrivare puntuali, non
ho intenzione di aspettarvi. - disse sbrigativo mentre si alzava,
calcandosi bene il cappuccio sulla testa.
- Tu, piuttosto, vedi di non partire senza di noi. - lo
rimbeccò Arghail.
Torvir gli lanciò un'occhiataccia e uscì veloce
dalla locanda. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, Airis
intercettò lo sguardo che Arghail scambiò con
Hallende, l'aria seria quando le invitò a seguirlo e il velo
di tristezza che oscurò gli occhi della donna. Senza alcun
dubbio, c'erano dei segreti di cui non era al corrente, oscure
dinamiche affioravano dietro quei gesti e contatti visivi, e tale
consapevolezza le creava disagio.
Note d'Autrice, aka l'angolino oscuro di
Hime:
Buongiorno!
Appaio perchè credo che prima o poi sia giusto per me fare
una qualche apparizione. Allora, innanzitutto, ci tengo a ringraziare
tutti i lettori, vecchi e nuovi, silenziosi e chiacchieroni, che sono
accorsi a leggere questo seguito. Davvero, siete stati in tantissimi a
rispondere ai miei messaggi e a sostenermi in questo progetto,
è stata una sorpresa piacevole e... e non so davvero cosa
dire se non “grazie”. Per ringraziarvi di tutto il
supporto e della vostra partecipazione ( saltello sempre quando trovo
una nuova recensione a questa storia **) ho pensato di indire un
Giveaway al raggiungimento della 50esima recensione che, per me,
è un traguardo importante. Che cosa si vince? Beh... una
piccola OS AU! Scelta da voi, con protagonisti i vostri beniamini u.u
per ora non vi dico di più, voglio che vi gustiate la
sorpresa quando metterò effettivamente il
“bando” sulla mia pagina autore, per ora sappiate
che il vincitore avrà voce in capitolo anche sulla trama
della suddetta OS u.u
Se volete rimanere aggiornati sullo stato del giveaway, mettete un like
alla Pagina.
Un bacione
Hime
Lysandra sospirò
stancamente alla vista dell'ambasciatore che entrava nella sala delle
udienze. Lancelith Cal'doran, secondogenito di Greleda e Reynridan
Cal'doran, era un ragazzo alto, allampanato e dalla mascella squadrata,
al quale la natura non aveva concesso né la bellezza
né una mente brillante. Tuttavia, per compensare tali
mancanze, possedeva un ego smisurato e assai poco buon senso. Come
tutti gli uomini che credevano di avere il mondo ai propri piedi,
Lancelith aveva dimostrato in ben più di un'occasione di
essere il figlio che nessun genitore avrebbe voluto avere, ma,
nonostante tutto quello che aveva combinato, sua madre non gli aveva
mai rimproverato nulla e si ostinava a mandarlo come emissario a corte,
forse nella vana speranza che la regina gli procurasse una moglie che
avesse la pazienza di sopportarlo per tutto il resto della sua vita. In
un certo qual modo, a Lysandra faceva pena la pochezza mentale di
quell'umano che amava fregiarsi del titolo di
“Magister”, come se quella parola avesse il potere
di renderlo la persona intelligente che avrebbe dovuto essere. Non
riusciva a sopportarlo, il suo modo di portare avanti la conversazione
era irritante a causa dell'obbligo quasi morale di parlare usando
l'ampolloso linguaggio accademico, intervallato qua e là da
espressioni bizzarre e pompose comprensibili solo per gli eruditi
– e spesso, a dire il vero, incontravano qualche
difficoltà pure loro.
- Benvenuto, Lancelith. - lo salutò con una smorfia che
voleva essere un sorriso di circostanza.
- Maestà. - il ragazzo s'inchinò ossequioso, -
Spero di non avervi disturbata. Posso solo provare a immaginare quanto
siate ancora addolorata per la perdita del vostro amato marito e nostro
re. -
Prontamente, un sorriso triste emerse sulle labbra di Lysandra. Non che
le venisse difficile fingere di essere afflitta, aveva il
più totale controllo sulle sue emozioni, però
quando era in presenza di Lancelith doveva sforzarsi soprattutto di
nascondere il fastidio. Per questo quando il paggio le aveva annunciato
che sarebbe venuto a farle visita, aveva optato di accompagnare l'abito
in sciamito di seta rossa con un velo di merletto nero in segno di
lutto. Trasse un profondo respiro e si asciugò una lacrima
invisibile dagli occhi, aspettando che Lancelith continuasse.
- Mio padre rinnova le condoglianze e si rammarica per non essere
potuto venire al funerale del re. Purtroppo, una banda di infidi
contadini riottosi ha tentato di attaccare i soldati che erano andati a
riscuotere le tasse e lui ha dovuto precipitarsi immediatamente nella
nostra tenuta fuori città. Mi ha scongiurato di venire qui
il prima possibile per porgervi le sue più sincere scuse. -
- Dite a vostro padre che non si deve preoccupare. Il mio caro marito
è morto, ma il mondo va avanti nonostante la sua assenza. -
scosse la testa e si portò una mano al petto, sfiorando la
piccola sfera blu.
- Il mondo all'improvviso appare più povero,
maestà. Anche il compito che il re vi ha lasciato
è molto gravoso. Io e la mia famiglia ci teniamo a farvi
sapere che avrete sempre il nostro appoggio, finché
governerete con giustizia e magnanimità. - Lancelith
sorrise, mostrando i denti storti e sporgenti.
“Fino a quando farò i vostri interessi, vorrai
direi.”
- Oh, lo so. Siete una famiglia di grandi cavalieri, sono fin troppo
consapevole di quanto siano importanti per voi le tradizioni.
Nonostante ciò, non penso tu sia venuto al mio cospetto solo
per ricordarmi quanto sia fortunata ad aver avuto il vostro appoggio. -
Lancelith intrecciò le dita dietro la schiena, sfoggiando il
suo sorriso migliore, a metà tra il misterioso e il galante.
- Mia madre vi chiede quando mi presenterete l'adorabile fanciulla che
diventerà la mia sposa. Ammetto di trattenere a stento la
curiosità. Se ha anche solo un frammento della bellezza di
vostra altezza, potrò considerarmi l'uomo più
fortunato di Esperya, anzi, di tutte le terre conosciute e non. -
- Dovrete attendere ancora, Lancelith, la dama a voi promessa
è difficile da trovare. I titoli dei quali vi fregiate sono
tanti e non vorrei mai fare un torto alla vostra famiglia legando un
giovane bello e intelligente come te a una donna la cui unica
qualità è il dono caduco della bellezza. -
- Mi lusingate. -
- Dico solo il vero, come il mio amato marito. -
Lysandra sventolò la mano e alzò gli occhi al
soffitto con un sospiro profondo, di quelli che faceva spesso da quando
Voren era morto.
- Come ho sempre detto, il nostro re era un modello per tutti noi. -
Lancelith si inchinò e abbassò la testa con aria
grave, - Ora perdonatemi, mi congedo. Non voglio disturbare
ulteriormente vostra grazia. -
Lysandra non disse nulla. Attese che il ragazzo uscisse dalla sala
delle udienze prima di far cenno al capitano delle guardie di
avvicinarsi. Era un uomo alto e possente, che Lysandra sapeva esserle
fedelissimo, soprattutto da quando aveva scoperto che aveva picchiato
fino a uccidere una prostituta nei bassifondi della città.
Quando incontrò il suo sguardo, nascosta sotto il nero pece
delle iridi e della minuscola pupilla, la Lich ravvide la stessa paura
e timore reverenziale che aveva quando lo aveva convocato per
mostrargli il cadavere della ragazza.
- A chi tocca? -
- Ci sono due ambasciatori della famiglia Erdarwell e Zagaloth che
attendono d'incontrarvi. -
- Darò loro udienza nel pomeriggio. - decise, alzandosi dal
trono.
Il capitano annuì e si congedò con un lieve cenno
del capo, uscendo dal salone a grandi falcate, mentre Lysandra si
avviava dalla parte opposta, verso la porta che conduceva alle sue
stanze. Le due guardie si spostarono per permetterle di passare, senza
che lei dovesse dire o fare nulla. Allo stesso modo, non appena
varcò la soglia, richiusero la porta in totale silenzio. Se
ne compiacque: Voren si era dimostrato inutile, un re incapace di
governare e guadagnare il rispetto dei propri sudditi, ma la sua
paranoia aveva contribuito a portare a corte soldati ciecamente
obbedienti, uomini e donne provenienti dalla Dracea nord-occidentale,
cresciuti per diventare guerrieri o assassini. Farsi tagliare la lingua
costituiva il loro battesimo del fuoco quando uccidevano per la prima
volta.
Camminò lungo il corridoio, passando davanti agli arazzi di
lana e cotone colorati e ai quadri di tutti i precedenti re e regine,
soffermandosi di tanto in tanto a osservare i loro volti. I Varaldien
erano tutti uguali, a parte per qualche dettaglio non c'erano molte
differenze nella fisionomia. Gli uomini avevano dei tratti molto
femminili, le labbra a cuore, le ciglia lunghe e i capelli biondi
leggermente mossi come quelle delle donne. Ognuno di loro riportava i
tratti di Rhegar Varaldien e Sigil Alchiria, compresa la forza d'animo
e un temperamento indomito che era valsa loro la nomea di
“Draghi d'Esperya”. L'unico che si discostava da
quella stirpe era Sejrel.
Si fermò a contemplare il quadro del precedente re di
Esperya. Il pittore lo aveva voluto catturare mentre cavalcava il suo
cavallo bardato di tutto punto, con la spada puntata verso il cielo e i
capelli rossi trattenuti a stento dalla tiara dorata. Se lo ricordava
quel ritratto: era stata la sua promessa sposa, la figlia di Kitiara
Azlan, a insistere affinché si facesse ritrarre in groppa al
nuovo stallone che suo padre gli aveva regalato. Lysandra ricordava
anche di aver pensato di farlo sostituire con uno in cui il giovane
sovrano era stato rappresentato a mezzobusto con la chiave di Sershet
tra le mani come i suoi predecessori, ma poi aveva cambiato idea. Un
sorriso beffardo si dipinse sulle sue labbra quando la memoria le
ripropose il viso congestionato di quella ragazzina al funerale, il suo
sguardo rabbioso e carico di rimpianto quando si erano incontrate al
ballo il giorno in cui Voren era stato incoronato re.
Il nome Sejrel nell'antica lingua umana significava
“speranza” e, per molto tempo, quel giovane aveva
rappresentato un faro nella notte per Sershet e tutta Esperya. Era
stato difficile farlo capitolare, e non solo perché era
sempre attorniato da uomini come il consigliere Xerxas Ascrocell:
Sejrel credeva davvero nella parità razziale e nella
possibilità di ricreare una pace duratura come quella dopo
la guerra del Centesimo Solstizio. Aveva persino creduto di rendere i
Drow un popolo libero, spingendosi a fare una visita alla saline, le
miniere in mezzo al deserto del Selyr, dove gli elfi oscuri erano
costretti a lavorare per estrarre le gemme preziose tanto care a nani e
gnomi.
- Saresti stato un grande re e una grande spina nel fianco. Te ne devo
dare atto. Per questo è stato necessario eliminarti. -
mormorò Lysandra, osservando assorta la tela.
- Mia signora, non è sicuro parlare qui. -
- E perché mai, Kvothe? - domandò divertita,
girandosi per incrociare gli occhi di ghiaccio del Cavaliere
dell'Aquila, nonché capo delle spie e del corpo di guardia
della regina, che la fissava impassibile appoggiato al muro.
La scimitarra di argento alchemico brillava al suo fianco e il fodero
di legno di frassino decorato con arabeschi dorati gli accarezzava la
gamba, sfiorando appena gli alti schinieri. Il mantello, di un blu
così scuro da sembrare nero, nascondeva tutta la sua figura,
lasciando scoperta solo la maschera di gesso, una colombina azzurra
traslucida impreziosita con intarsiature e rami verdi. Gli unici
dettagli che Lysandra riusciva a vedere erano la bocca e gli occhi, due
biglie ambrate incastonate in un viso che sapeva essere pallido,
cadaverico.
- Non si può mai sapere chi si può aggirare in
questi corridoi. - rispose il Cavaliere.
- Oh, mio caro, io so tutto di ciò che accade nel castello e
anche fuori, anche se la mia vista è limitata. Per questo ci
siete tu e i tuoi uomini, Kvothe. - fece un passo verso la porta delle
sue stanze e gli intimò di seguirla.
L'uomo chinò il capo e, silenzioso come un'ombra,
entrò subito dietro di lei. Ad accoglierli fu la fiamma
scoppiettante del caminetto e il calore avvolgente che scaturiva
dall'ipocausto vicino alla finestra sul lato ovest. Un grande letto a
baldacchino decorato con tralicci d'edera e rose rampicanti era
addossato contro il muro sud, rivolto verso la finestra ogivale che si
apriva sul balcone di marmo bianco. Sul tavolino nero dalle tozze gambe
leonine laccate in oro, posizionato vicino al caminetto, c'era una
scacchiera, e lì accanto due carrelli pieni di dolcetti alle
mandorle, pistacchi e frutta secca appena sfornati.
- Prego, accomodati pure, abbiamo molto di cui discutere. - lo
invitò Lysandra, prendendo posto sulla sedia e facendogli
cenno di fare altrettanto, - Sei anche fortunato, è l'ora
del tè e Sarge ha appena sfornato i pasticcini. Vuoi
favorire? -
- No, vi ringrazio, non ce n'è alcun bisogno. - sorrise
appena e con la grazia di un gatto si lasciò cadere sulla
sedia davanti a lei, lo sguardo già fisso sulla scacchiera
di onice e alabastro.
Tutti i pezzi erano stati bagnati nell'oro e nell'argento, secondo un
metodo antichissimo che si tramandava di generazione in generazione, a
detta dell'artigiano che l'aveva venduta al defunto re. Per quanto
Lysandra la trovasse di pessimo gusto, non poteva non apprezzare la
cura dei particolari che adornavano i due schieramenti e i quattro lupi
decorativi posti agli angoli della base, che sembravano incisi
direttamente nell'apatite.
- Ti piace? - domandò con noncuranza Lysandra, portando alle
labbra un dolcetto.
- Molto. È... davvero meravigliosa. - il Cavaliere prese
l'alfiere e se lo rigirò tra le dita, per poi portarlo al
viso con un'espressione strabiliata, - È un pezzo raro.
Vostro marito ha fatto un ottimo affare a comprarla. -
- Concordo. - mentì la regina, versandogli un goccio di
tè fumante nella propria tazza, - Veniamo al punto: cosa hai
scoperto? -
- Niente che non sapete già. La maggior parte delle famiglie
dei Consiglieri vi appoggia e il popolo, da quando avete promulgato
l'editto per la regolamentazione degli incontri nell'arena e della
distribuzione di cibo nei quartieri più poveri, vi adora. Le
casse reali non sono mai vuote e Shilazard continua a dire che era dai
tempi di Oesteron Varaldien che l'economia non era così
prospera. Oserei dire che se non fosse stato per la morte di Voren, del
Cavaliere del Lupo e del Cavaliere del Leone, avremmo assistito a
festeggiamenti infiniti. - disse e tolse il cappuccio, rivelando la
testa castana con i capelli tagliati corti fin sopra le orecchie.
- E i fatti di Luthien? -
- La rabbia e l'indignazione serpeggiano e fomentano sia i soldati che
la popolazione. Tutti vogliono che gli elfi paghino per quello che
hanno fatto. Non vedevo tutto questo fervore e questa voglia di
combattere dalla caduta di Edon e Mera. -
Lysandra annuì, compiaciuta di sentire quelle parole. La
settimana precedente, Felther era tornato con il corpo di Airis
Lullabyon e lo spadone di Ignus Adelon. Prima che cominciasse la
cerimonia funebre, la Lich si era occupata personalmente di verificare
che il corpo della guerriera fosse quello originale e che fosse davvero
morto. Quando aveva visto il sangue annerito attorno alla ferita vicino
al cuore, non era riuscita a trattenere un ghigno soddisfatto.
- Tuttavia, ci sono delle complicazioni. In primo luogo, non tutte le
famiglie sono felici del fatto che voi siate la nuova sovrana. Alcuni
nomi penso non vi siano nuovi, altri invece... sono rimasto stupito
persino io. -
- Davvero? -
- Sì, soprattutto se pensiamo che la famiglia in questione
non annovera tra i suoi antenati Cavalieri di grande valore. -
- Ti riferisci forse ai Lancers? -
Un sorriso da gatto si stirò sulle labbra di Kvothe.
Lysandra sospirò e spezzò una pasta all'amaretto
condito con frutta glassata e pinoli caramellati. Sapeva che non tutte
le famiglie nobili provavano simpatia nei suoi confronti e averne la
certezza non l'angustiava. Stava andando tutto secondo i piani.
- Hai delle prove concrete di quello che dici? -
- Per ora si tratta di voci, chiacchiere sussurrate dalla
servitù, ma il tempo mi ha insegnato che i pettegolezzi
delle sguattere sono una fonte d'informazione più
attendibile di molte altre. -
- Il problema, mio caro Kvothe, è che non bastano le
chiacchiere di una serva inacidita e invidiosa per procedere con
l'esproprio e la condanna a morte per alto tradimento. - si
tamponò le labbra con il tovagliolo di raso, in modo da non
rovinare il rossetto, - Quello che mi stai dicendo, lo sospettavo
già da tempo, non è una novità. Mi
serve qualcosa di più di un'antipatia. -
- E lo avrete, maestà. Io e miei uomini stiamo indagando, ho
già attivato la mia rete di spie per tenerli tutti sotto
controllo. Per ora sospetto stiano cercando un modo per detronizzarvi.
Non so ancora come o quando, ma sono più che certo che il
loro obiettivo finale sia questo e non una semplice e sterile polemica
contro di voi. Sanno fin troppo bene che il popolo vi ama e che i
Cal'doran, i Valakas, i Fellmoor e gli Erdarwel sono dalla vostra
parte. Per il momento presumo si limiteranno a una tenace opposizione
durante le sedute del Consiglio, almeno finché non capiranno
quali sono le forze in campo. -
- Se il loro capo è Kitiara Azlan è probabile che
attenderanno prima di agire. - convenne Lysandra con un tono quasi
annoiato, - È astuta quella donna. Se potessi, la eliminerei
subito. Ma la sua morte creerebbe scompiglio e i suoi alleati mi
additerebbero subito come colpevole. Meglio aspettare, osservare e
ponderare come muoverci. I giochi di potere sono mortali, o vinci o
perdi. E io voglio vincere. -
- Vincerete, mia regina, e sapete perché? -
- Illuminami. -
Kvothe sogghignò, mettendo in mostra una dentatura perfetta,
bianca, che contrastava con la lingua nera che gli umettava le labbra
cianotiche.
- Voi avete me. Con il sottoscritto al vostro fianco, nessuno
riuscirà a ostacolare la vostra avanzata. - si
alzò, si genuflesse ai suoi piedi e con fare teatrale le
baciò la mano, - Il giorno in cui mi avete riportato in
vita, ho giurato di servirvi e che la mia rete avrebbe strangolato
chiunque si sarebbe messo sulla vostra strada. Rinnovo il mio
giuramento qui, ora, davanti a voi, affinché vi ricordiate
che il vostro umile servitore vi coprirà le spalle. -
- Sei sempre molto modesto, Kvothe. -
- Dovevo avere pur qualche difetto. - ridacchiò, tornando a
prendere posto sulla sedia, - Ci tenevo comunque a comunicarvi che
anche Delia non costituisce più un problema per la corona. -
- Sono curiosa di sapere come ti sei occupato di lei. -
- Io? Nemmeno nella mia precedente vita ho mai alzato un dito su una
donna. Beh, non direttamente. È che la povera Delia dovrebbe
saperlo che non è una buona idea girare per le strade dei
bassifondi dopo una certa ora. Quelle stradine possono costituire una
rapida scorciatoia oppure una trappola mortale, soprattutto se si fanno
gli incontri sbagliati. - illustrò con aria vaga.
Lysandra ammiccò, si versò l'ultima tazza di
tè e vi buttò tre zollette, girando il cucchiaino
finché non le parve che lo zucchero si fosse sciolto
totalmente.
- Se mi concedete un commento, mia signora, il defunto re aveva dei
pessimi gusti in fatto di donne. Anche le altre, tutte quelle che
facevano parte del suo harem personale, non erano nemmeno lontanamente
belle come voi. Mi chiedo sinceramente per quale assurdo motivo, avendo
già voi al suo fianco, abbia dovuto rivolgere lo sguardo
verso delle amanti così imbarazzanti. -
- Le solite fisse della maggior parte degli uomini. E poi c'era la
questione dell'erede, sempre così importante per gli umani.
Per una donna di quasi quarant'anni come Wecilia Mallus è
difficile rimanere incinta. -
Lysandra tacque a lungo, fingendo di cercare di ricordare cosa dovesse
domandargli, quando sentì qualcuno bussare. Il Cavaliere
dell'Aquila portò la mano alla scimitarra e andò
ad aprire. Non appena vide Felther, sul viso di Kvothe apparve un
sorrisetto affettato, che venne ricambiato da un'occhiata di sussiego.
- Maestà. - esordì il nuovo arrivato,
inchinandosi.
- Puntuale come sempre, Cavaliere. - Lysandra finì di
sorseggiare il tè e si appoggiò comodamente allo
schienale, - C'è altro, Kvothe? -
- No, niente che non possa aspettare. -
- Bene, va' pure. Avverti Sarge che è finito il
tè. -
Il Cavaliere annuì e uscì dopo aver eseguito
alcuni inchini complicati e cerimoniosi.
Lysandra tornò subito a rivolgersi a Felther, che aspettava
immobile in posizione marziale di lato alla porta. Non le era sfuggita
l'occhiata di fuoco che aveva scoccato in direzione del Cavaliere
dell'Aquila, la rabbia celata dietro la sua solita espressione
imperscrutabile.
Il rumore di passi, già flebile di per sé, si
perse in lontananza, così Lysandra mise da parte gli indugi
e gli fece cenno di avvicinarsi. Felther obbedì, portandosi
al suo fianco. Indossava un'armatura semplice, spartana, con il simbolo
della casata reale inciso sul pettorale e quello del suo ordine, un
drago rosso con le ali spiegate, cucito sul mantello verde agganciato
al collo con una spilla d'ottone. Non portava l'elmo, come invece
l'etichetta imponeva durante le udienze ufficiali e non, lasciando
scoperto il viso pallido e le occhiaie scure che gli infossavano gli
occhi, di un grigio pastello che sfumava all'azzurro nell'intorno della
pupilla.
La Lich storse la bocca in una lieve smorfia.
“Dovrebbe nutrirsi di più.”
- Vostra altezza, vengo a fare rapporto dal fronte. -
- Spero buone nuove, Felther. Siediti. - gli ordinò Lysandra.
Rhanagar, il suo cameriere personale, entrò nella stanza
portando su un vassoio due tazzine di ceramica e una teiera fumante.
Come tutti i Drow, indossava il collare da schiavo, abbellito da rune
che rilucevano di un tenue bagliore verdastro. O almeno questo era
ciò che gli altri vedevano, perché in
realtà Lysandra aveva annullato la magia del collare da
ancor prima che Voren morisse.
La regina lo guardò appena mentre sparecchiava, molto
più interessata al viso del Cavaliere del Drago, che teneva
sotto controllo qualsiasi movimento del Drow. Da quando si era svolta
la parata in onore dei suoi compagni d'arme caduti, lo aveva mandato al
nord per verificare a che punto fossero i preparativi e, eccetto quando
lo contattava tramite la magia, non aveva avuto modo di osservarlo
meglio. A differenza di molti altri Risvegliati, quando aveva ricucito
l'anima al corpo le era parso che la trasformazione fosse andata a buon
fine. Però, guardandolo ora, aveva un'aria
“umanamente” stanca.
- Ti piacciono gli scacchi, Felther? -
- Abbastanza. Perché, mia signora? -
- Avevo voglia di una partita, ma Kvothe non è molto bravo. -
Lysandra attese che Rhanagar servisse a entrambi il tè,
prima di muovere il primo pedone.
- Dunque, parla. -
- Procede tutto secondo i piani. Abbiamo impedito ai Whorm di uscire da
Llanowar e Saradreza è riuscita ad addomesticarne altri
cinque. Ho fatto spostare le truppe nel cuore della foresta di
Noumenasse e ho stanziato un buon numero di soldati anche alle pendici
dei monti Eresse. Attendiamo solo ordini da voi. -
- Ottimo. Direi che quell'esplosione è stata un imprevisto
molto più utile di quello che pensassi.-
Felther assentì e mosse l'ultimo pedone sulla sinistra.
- Fenrir chiede se avete qualche preferenza sulla prova che vi deve
portare. - aggiunse in tono neutro, come se stesse parlando del tempo
atmosferico.
- Riferiscigli che mi basta anche il braccio, l'importante è
che quella bambina muoia. Il come lo lascio decidere a lui. -
accavallò le gambe e appoggiò il viso sul pugno
chiuso, muovendo l'alfiere per un contrattacco al centro, - Mi sembri
abbattuto negli ultimi giorni, Cavaliere. Qualcosa ti turba? -
Il labbro di Felther tremò in modo quasi impercettibile e
abbassò lo sguardo, arroccando lungo l'ottava linea. Una
mossa inutile, considerò Lysandra, le rendeva la cose fin
troppo semplici. Con la mano ornata di anelli, spostò il suo
alfiere, minacciando il re avversario e aprendo di forza la colonna
centrale per la propria torre.
- Tenendo conto del fatto che non hai bisogno né di dormire
né di mangiare e che sei un Generale esperto e temuto, mi
stupisco di vederti ridotto così. Lo sei diventato da quando
hai incontrato il Generale Lullabyon a casa sua. Non essere sorpreso,
sai che tengo sotto controllo chiunque in questa città. E
poi mi preoccupo per i miei sudditi. Sia mai che un turbamento
interiore possa compromettere la tua capacità di giudizio. -
Al silenzio che seguì, Lysandra si domandò se
avesse dovuto penetrare nella sua mente con la magia. Quasi Felther
avesse captato quel pensiero, si irrigidì e negli occhi
grigi guizzò improvvisa la consapevolezza di ciò
che sarebbe accaduto se non avesse risposto.
- Non credevo che il Generale avrebbe reagito come ha fatto. - ammise
dopo una breve esitazione, - L'ho visto andare in pezzi. Non si
è arreso solo perché doveva sostenere sua moglie.
È stato scioccante. -
Lysandra ridacchiò, una risata melodiosa che si diffuse
nell'aria calda nella stanza come il trillo di un campanellino. Era al
corrente anche di questo, la sorveglianza del vecchio Generale era
stato uno dei primi incarichi che aveva assegnato a Kvothe. Il
Cavaliere dell'Aquila le aveva riferito che l'uomo e sua moglie erano
distrutti dal dolore, ma non sembravano un pericolo.
- Tu, invece, come hai preso la morte della tua compagna? -
buttò lì suadente, gli occhi rossi che cercavano
quelli del suo nervoso interlocutore, - Non ci mentiamo, Felther, so
cosa provavi per lei e so cosa ha significato per te il suo rifiuto,
l'ho visto quando ho riunito la tua anima al corpo. E ho scorto nei
tuoi occhi il senso di colpa quando hai rimboccato la bandiera sulla
sua bara. -
Felther strinse i pugni sui bordi del tavolino, sostenendo lo sguardo
serio della regina. Se ci avesse messo più forza, avrebbe
potuto romperlo.
- Quello che provo è ininfluente. Airis Lullabyon si
è macchiata di alto tradimento e insubordinazione, questo
è un fatto che niente potrà cambiare. Essere un
Cavaliere significa anche compiere scelte di cui non si va fieri, ma
che sono necessarie per mantenere l'ordine. Se temete che la mia
fedeltà nei vostri confronti sia mal riposta, datemi la
possibilità di dimostrarvi il contrario. - scandì
deciso, la voce atona, tagliente come la lama del suo spadone.
- Oh, ma io sono più che certa che tu non sia quel genere
d'uomo, Felther. Mi fido. -
Lysandra puntò il suo sguardo ardente su di lui, lo
inchiodò sul posto, lasciandolo col braccio a mezz'aria
proteso verso la torre. Voleva che avesse l'impressione che tutta la
sua attenzione fosse concentrata su di lui, che nulla in quel momento
fosse importante come Eigor Felther. Penetrò nella sua mente
con estrema facilità, ne sfiorò i ricordi e ne
scandagliò i pensieri, frammenti di vetro che si componevano
in mosaici complessi di immagini e suoni, per poi rompersi nuovamente e
sparire, sgretolandosi in pezzi sempre più piccoli. Ne
contemplò uno in particolare, soffermandosi ad osservare i
colori che si riflettevano sulla sua superficie fino a quando non
svanì.
Lysandra sbatté un paio di volte le palpebre e dopo un
momento si ritrovò nel suo corpo, di fronte a un Felther
intontito e sgomento al tempo stesso.
- So che non mi tradirai, sei troppo attaccato all'onore. Volevo solo
assicurarmi che il senso di colpa non ti stesse condizionando. -
- Non mi sento in colpa. - replicò gelido, spostando la
torre lontano dal suo cavallo.
- Tutti gli uomini si sentono in colpa per qualcosa, è
sufficiente trovare il motivo scatenante e applicare la giusta
pressione per farla scoppiare. È un problema di tutti i
sentimenti, basta il peso di una piuma perché la diga della
ragione ceda. Adesso sei un Risvegliato, un essere sovrumano che non
sente il bisogno di nutrirsi, di dormire, di riprodursi, ma non
dimenticare che quella parte illogica e irrazionale che alimenta le
emozioni è rimasta intoccata. Sono proprio le emozioni a
renderti capace di intendere e di volere, ma allo stesso tempo, se non
le tieni a bada, potrebbero portarti alla rovina. Per conseguire il
potere e la vittoria c'è bisogno di pazienza, delicatezza,
intelligenza, equilibrio, tenacia, nonché una notevole forza
nel sopportare i fallimenti. Finora sei stato un soldato obbediente e
un Generale esemplare, ma mi preme ricordarti di non sottovalutare la
tua parte umana, che potrebbe confonderti e farti perdere di vista la
strada. -
Lysandra mosse la regina e imprigionò il re avversario con
un sorriso vittorioso, per poi colpirlo per farlo cadere.
- Scacco matto. -
Felther fissò la scacchiera e dopo un momento
chinò il capo in segno di rispetto e sconfitta.
Lysandra si alzò con gesti eleganti, avvicinandosi alla
finestra che aggettava sulla piazza principale. Da lì poteva
vedere tutta la città e, tratteggiata nella luce debole
eppure abbacinante del sole, scorse il profilo della statua del quarto
Guardiano, quella del Cavaliere del Lupo, con la spada lunga alzata
verso il cielo e l'elmo con le orecchie lupine allungate all'indietro.
- Non vi deluderò, mia regina. -
- Ne sono sicura, Cavaliere. Ora va', è il momento di
spegnere l'ultima speranza del nord. -
Quando la porta si chiuse, l'attenzione di Lysandra venne di nuovo
calamitata dalla scacchiera. La pedina del re sembrava scrutarla con i
suoi occhi metallici.
“È stato fin troppo facile.”
Angolo Autrice:
Sì
due angolini autore ravvicinati, sì non siete ubriachi.
Innanzitutto, scusate se non ho ancora risposto alle vostre recensioni,
le adoro e le leggo sempre e mi fa sempre strapiacere, ma sto
preparando un esame enorme ( aka, Biochimica <.<) e non
ho nemmeno tempo per respirare. Spero di sopravvivere fino al 20
aprile, così da dare una risposta a tutti, dal momento che
sono ben felice che troviate tutti il tempo di leggere i miei deliri e
le sfighe dei miei personaggi. Allora, emergo per dirvi tre cose: in
primo luogo, interrompo la pubblicazione di Fuoco fino al primo di
maggio, essenzialmente perchè sono rimasta senza quasi
capitoli da pubblicare e preferisco prendermi queste due settimane per
portarmi avanti con il lavoro, così da non farvi aspettare
troppo nei prossimi mesi. In secondo luogo, vabbè, ci tenevo
ad augurarvi buona Pasqua, perchè sì, la Pasqua
è sacra così come il cioccolato che vi
verrà fornito u.u In ultimo, vi ricordo che mancano solo 9
recensioni per il Giveaway! Spero che l'iniziativa vi piaccia e che
continuerete a recensire come avete sempre fatto ** autrice felice e
saltellante Per chi se lo fosse perso, vi lascio QUI
il link della pagina per rimanere sempre aggiornati sullo stato del
giveaway. Chi si aggiudicherà la OS premio per rendere
felici i nostri eroi?
Grazie mille per l'attenzione, un bacione a tutti e grazie ancora del
supporto!
Hime
Girarono per porto Eamone
per buona parte del pomeriggio, per poi cenare in una locanda in una
via del Quartiere d'Avorio, dove consumarono un brodo di pesce un po'
troppo speziato. Airis rimase sempre in disparte, limitando al minimo
indispensabile i suoi interventi nella conversazione tra Hallende e
Arghail. L'unica discussione che ebbero, se così poteva
essere definita, fu un battibecco davanti a un mercante d'armi, un tian
dalla pelle bruna e il naso a patata, che si risolse con un acquisto da
parte del comandante e un'occhiata torva da parte di Airis quando le
mise in mano la spada e l'arco che aveva comprato per lei.
All'imbrunire si avviarono verso il molo dove la nave di Torvir li
attendeva per la partenza. Là trovarono uno dei marinai che
Airis aveva visto quel pomeriggio. Se ne stava appoggiato vicino alla
murata, con una spada in bella vista appesa alla cintura e una sciarpa
nera che gli copriva parzialmente il viso, lasciando scoperti solo gli
occhi giallo-verdi come quelli di un gatto.
Non appena li vide, li squadrò da capo a piedi con uno
sguardo freddo, analitico. Quando Arghail arrivò sotto la
luce fioca della lanterna, l'uomo assottigliò lo sguardo e
lo studiò per un lungo momento, prima di fargli cenno di
seguirlo a bordo.
Si salutarono lì, Hallende li abbracciò e
augurò loro buon viaggio. Airis lasciò loro un
po' d'intimità, allontanandosi quanto necessario
affinché potessero sentirsi liberi di parlare. La chierica
le aveva detto che, non potendo prendere nessuna licenza, sarebbe
partita con la prima nave militare disponibile, possibilmente quando il
tempo fosse stato un po' meno instabile.
Salparono meno di mezz'ora più tardi. Il freddo quella notte
era intenso e tagliente e il vento che soffiava dal mare si insinuava
sotto le vesti, gelando le ossa e cibandosi del calore corporeo come
una belva feroce.
Arghail si strinse nel mantello e, dopo essersi guardato intorno,
andò verso prua alla ricerca di Torvir. Airis, invece, con
un sospiro sconsolato passeggiò sul ponte finché
non trovò un punto appartato. Si appoggiò alla
balaustra e contemplò l'acqua nera come l'inchiostro, su cui
si riflettevano a intermittenza le luci delle lanterne della nave.
Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dallo sciabordio, un
suono che da sempre fungeva da balsamo per la sua anima e i suoi
pensieri, permettendole di schiarirsi le idee. Il sospetto che Hallende
e Arghail le nascondessero qualcosa non le dava pace. Non avrebbe
dovuto stupirsene, in fin dei conti anche lei non aveva raccontato
tutta la verità. Però c'erano troppe cose che
ancora le sfuggivano. Nella trama complessa degli eventi di Esperya,
che ruolo avrebbe avuto, o aveva avuto, Arghail? Perché
quell'uomo, il Guardiano nella casa della Cenere, le aveva detto di
farlo diventare re? E Hallende, in tutto questo, cosa aveva a che fare?
Era una pedina importante da collocare sulla scacchiera o un semplice
pedone sacrificabile?
Si prese la testa tra le mani: tante domande e quasi nessuna risposta.
E intanto il tempo passava, uno stillicidio inesorabile che non faceva
altro che angosciarla.
- Stai bene? - le chiese Arghail, strappandola alle sue elucubrazioni.
Si era appoggiato all'impavesata e la osservava da sotto il cappuccio,
il viso leggermente arrossato e le palpebre socchiuse sulle iridi viola.
- Sì, sto bene. Come mai qui? Pensavo fossi andato a parlare
con Torvir. -
- È stato di poche parole. - sbuffò,
intrecciò le dita e allungò le braccia nel vuoto,
spostando la sua attenzione sul mare.
Nessuno dei due disse niente per un po'. Airis si focalizzò
sul via vai dei marinai in coperta, ascoltando distrattamente gli
ordini impartiti dall'uomo che li aveva attesi sul molo e da una donna
dalla pelle olivastra e le trecce bionde.
In un attimo mollarono gli ormeggi e la nave si staccò,
lasciandosi il porto alle spalle. La Signora dei Mari si tuffava tra le
onde velocissima, leggiadra e fiera come un albatro. Gli spruzzi
arrivavano quasi fino a loro, bagnando il sartiame già
umido. Al richiamo della donna bionda, cinque marinai sulla prua
accorsero e cominciarono a sollevare dei cordoni, facendo ruotare i
pennoni di legno per mantenere le vele ingrossate e tese.
- Lo so cosa stai pensando. - sospirò Arghail, senza
incrociare il suo sguardo.
- Da quando leggi nel pensiero? -
- Non ho ancora questa facoltà, ma vedrò di
svilupparla al più presto. - nella sua voce vibrò
una nota di divertimento, - Diciamo che tu, in ogni caso, non ti sei
curata di nascondere il tuo disappunto. -
- Non è disappunto, è solo questione di fiducia. -
- Non riesci proprio a fidarti di noi, eh? -
“Fosse solo questo.”
In realtà c'erano una miriade di interrogativi e incognite,
e più cercava di risolverli più la
verità sembrava sfuggirle. E poi c'era il tempo, il suo
scorrere implacabile a torturarla. Cyril le aveva detto che tra sei
settimane Lysandra avrebbe avviato il rito per riportare in vita Aesir
e ormai non era sicura di riuscire a impedirlo. Strinse i pugni e si
morse le labbra, obbligandosi a mantenere il sangue freddo. Non doveva
permettere al dubbio, all'angoscia e allo sconforto di farsi strada nel
suo cuore.
“Ho ancora un debito con te, Ledah. Non pensare di andartene
senza che io l'abbia pagato.”
- È complicato da spiegare. - esalò in tono mesto.
Arghail annuì, come se si fosse aspettato quella risposta.
Il mugghio delle onde riempì il silenzio e il rollio della
nave li distrasse per un po'. Ma dopo qualche minuto Arghail
tornò alla carica.
- Come mai hai deciso di arruolarti? -
La guerriera si spostò una ciocca nera sfuggita alla treccia
e seguì con gli occhi la parabola discendente di un
gabbiano, che, con grazia, si posò su una delle sartie.
Quando un marinaio gli si avvicinò per scacciarlo, l'uccello
cacciò un grido e si librò di nuovo in aria.
- Come mai ti interessa? -
- Girano molte voci su di te. Molti addirittura sostengono che tu sia
la figlia illegittima del Generale Lullabyon. -
- Hanno una gran fantasia a credere che ci sia un legame di sangue tra
me e lui. -
Arghail rise sommessamente, scuotendo la testa: - Sì,
è quello che ho sempre pensato io. -
- Non oso immaginare cos'altro dicano. - sbuffò e, arresa,
gli lanciò un'occhiata in tralice, - Va bene,
risponderò alla tua domanda, a patto che poi tu faccia lo
stesso. -
- Non c'è molto da sapere su di me. - ribatté
lui, sorpreso e confuso.
- Questo lascialo giudicare agli altri. -
Arghail sospirò e si grattò il mento, dubbioso.
Il vento gli gonfiava il cappuccio, scoprendo i capelli scompigliati e
le occhiaie scure. Lanciò un'occhiata alle proprie spalle,
come per assicurarsi che non ci fosse nessuno a origliare la loro
conversazione, poi assentì.
- Comincio io. - sentenziò la ragazza, mentre raccoglieva i
ricordi e cercava le parole giuste, - Fin da bambina ho sempre
desiderato diventare un Cavaliere. I bardi, con le loro storie sul
valore di questi uomini, mi affascinavano molto. pPoi c'era mio padre,
il mio vero padre, che era un soldato e spesso era occupato al fronte
nord, quindi non lo vedevo quasi mai. Le uniche testimonianze della
guerra erano quelle dei cantori che di tanto in tanto sostavano nel mio
paese. -
- Da dove vieni? -
- Un agglomerato di case a sud di Esperya, non penso tu nemmeno lo
conosca. - si strinse nel mantello, più per nascondere la
smorfia amara che per reale bisogno, - Mia madre non era
granché d'accordo, secondo lei avrei dovuto imparare a
cucinare, fare il bucato, prendere marito e, infine, trovare una casa
da un'altra parte, magari in una città dove sarebbe stato
più facile vivere, soprattutto per me. Io non ne volevo
sapere, ovviamente. Nonostante mia madre mi sgridasse, ormai avevo le
idee chiare. Mio padre non si è mai dimostrato contrario,
anzi. Non era raro che prendesse in giro mia madre ricordandole quanto
fosse pestifera alla mia età. Forse pensava che crescendo
avrei cambiato idea da sola, chi lo sa. -
Il vento era diventato ancora più freddo e gli ordini alle
loro spalle si susseguivano rapidi. I marinai correvano da una parte
all'altra del ponte, intenti a lascare e cazzare le sartie in modo che
le vele perdessero o catturassero le correnti.
Lo sguardo di Airis si perse oltre l'orizzonte, nel ricordo di
un'assolata giornata estiva.
- Alla fine, mia madre mi prese da parte e mi spiegò come
stavano le cose: la guerra non era un gioco, quello che i bardi
raccontavano non era neanche lontanamente simile alla
realtà. Mi disse che se avessi deciso di proseguire su
questo cammino, avrei incontrato molte più
difficoltà perché ero una donna. Non so per quale
ragione, ma quelle parole, al posto di demoralizzarmi, mi convinsero
ancora di più a intraprendere la strada per diventare un
Cavaliere. Volevo che la guerra finisse, che la gente non dovesse
più soffrire e che tutti potessero avere la
possibilità di realizzare i loro sogni, indipendentemente
dal sesso o dal ceto sociale. Ero certa di poter fare la differenza. -
- Ti sei mai ricreduta? -
- Ho risposto alla tua domanda, ora tocca a te. -
- È comunque inerente a ciò di cui stai parlando.
Se vogliamo essere pignoli, non bisognerebbe nemmeno conteggiarla come
un'altra domanda. -
La guerriera scosse la testa e abbassò le palpebre. Rivide
uomini in catene, cadaveri sfregiati fino a rendere irriconoscibili i
volti, elfi catturati mentre tentavano di scappare e poi messi al rogo,
bambine e giovani donne stuprate in modi così violenti che
in seguito i loro grembi non avevano potuto svilupparsi in modo
normale, neonati uccisi a colpi di martello la cui unica colpa era
quella di possedere il sangue del nemico nelle proprie vene. A tali
immagini di morte si sovrapponevano quelle delle giornate passate con
suo padre a imparare a cacciare e a tirare di spada, oppure Luthien in
festa, il profumo zuccherino dei dolcetti appena sfornati e il ballo
tra le braccia di Ledah, il suo calore, il modo in cui l'aveva guardata
attraverso la maschera; o ancora le risate di Melwen e Zefiro, le
premure di Myria, le parole cariche di speranza di Copernico.
- No, non mi sono ricreduta. Ho solo capito che bisogna possedere
davvero molta determinazione per cambiare le cose. - mormorò
flebilmente, per poi riscuotersi e raddrizzare le spalle, - Ora
è il tuo turno. -
- Prego, sono pronto. -
- Uhm... raccontami dei tuoi genitori, di com'erano e di come ti hanno
cresciuto. -
Il comandante si irrigidì e, quando Airis lo
spiò, lo scoprì con i pugni serrati. Sapeva di
aver toccato un tasto dolente, ma quelle informazioni le servivano. E
per quanto dolorosi potessero essere i ricordi, sapeva che le avrebbe
risposto.
- Hallende ti ha già anticipato qualcosa? -
- Più o meno, ma vorrei sentire tutta la storia dall'inizio.
-
Improvvisamente, uno dei marinai sbraitò qualcosa e
indicò nel mare, richiamando l'attenzione di tutti gli
altri, che, incuranti dei rimproveri feroci dei due sovraintendenti,
corsero alla paratia. Airis abbassò lo sguardo e rimase a
bocca aperta nel vedere degli ippocampi dal manto blu e azzurro nuotare
veloci accanto alla nave, mantenendosi perfettamente affiancati.
Saltavano e si tuffavano come in un gioco, nitrendo ogni volta che un
loro compagno si inabissava per poi riemergere vicino alla chiglia o in
fondo al gruppo, gli zoccoli palmati che fendevano l'acqua e la luna
che argentava la criniera d'alghe color pervinca.
- Non li avevi mai visti? - domandò divertito Arghail.
Airis negò a bocca aperta, incapace di distogliere
l'attenzione dallo spettacolo che si stava svolgendo sotto i suoi occhi.
- Li ho solo scorti durante alcune attraversate, ma non si sono mai
avvicinati tanto. -
- Infatti, di solito sono molto più timidi. -
commentò una voce sconosciuta dietro di loro.
Si girarono giusto in tempo per vedere l'uomo che li aveva fatti salire
a bordo affiancarglisi. Una semplice bandana gli copriva gli ispidi
capelli neri e il cappotto gli sfiorava gli stivali ad ogni passo. Solo
quando fu abbastanza vicino si abbassò la sciarpa, scoprendo
dei denti sporgenti simili alle zanne di un cinghiale.
Airis, incredula, sbirciò in direzione di Arghail, ma nei
suoi occhi non colse alcun un cenno di sorpresa.
- Davkar, non dovresti far tornare i tuoi uomini al lavoro? -
Davkar fece un gesto annoiato con la mano, come se volesse scacciare
una mosca fastidiosa.
- Per qualche minuto possono godersi la visione di questi animali. Il
vento è a nostro favore e stiamo precedendo con una
velocità di sette nodi. Torvir non si lamenterà,
te lo assicuro. - si appoggiò alla balaustra e si sporse per
guardare meglio, - Inoltre, anche io sono curioso, non li ho mai visti
così da vicino. -
Anche l'attenzione di Airis venne di nuovo calamitata dagli ippocampi.
Un cucciolo con la cresta membranosa invece che di crini
sollevò il muso e la fissò. Aveva occhi neri e
liquidi, con lunghe ciglia setose. La guerriera ebbe la strana
impressione di averlo già visto da qualche parte,
soprattutto quando l'animale cercò di coinvolgere Arghail e
nitrì finché non si accorse di lui. Si scrutarono
fino a quando il capobranco non saltò fuori dall'acqua, per
poi immergersi ancora insieme a tutti gli altri e scomparire alla vista.
Airis rimase a guardare le onde che si infrangevano contro lo scafo,
stupefatta e al contempo scossa per la sensazione che aveva provato. Fu
la risata divertita e bonaria di Davkar riportarla con i piedi per
terra, una risata gradevole che mal si sposava con l'aria truce tipica
di tutti gli ibridi di orco.
- Scusami, ma hai fatto una faccia così buffa! Un po' ti
capisco, anch'io la prima volta mi sono meravigliato, però
con questo vento ti consiglio di tenere la bocca ben chiusa, altrimenti
ti ritroverai la lingua cosparsa di sale. - la stuzzicò.
Airis non reagì, fece solo spallucce. Non aveva molta voglia
di parlare, non con lui almeno. Davkar dovette intuirlo
perché, prima che Arghail potesse intervenire, li
salutò frettolosamente.
- Sono tutti così propensi alle chiacchiere su questa nave?
- domandò, senza nascondere il sarcasmo.
- Di solito no, evidentemente la presenza di una donna che non sia
quella dispotica di Kyra li istiga. - fece un lieve cenno in direzione
della ragazza che urlava ordini al fianco di Davkar, - Sai, gli
aggettivi “aggraziata” e
“delicata” non le si addicono molto. -
- Se stai cercando di deviare dal nostro argomento di conversazione
principale, ti avviso che stai fallendo miseramente. -
- Non ci ho mai davvero sperato. - sospirò e si fece di
nuovo serio, - Allora, dov'ero rimasto? -
- Non hai mai cominciato. -
Arghail si umettò nervosamente le labbra. Quando
levò lo sguardo su di lei, Airis intravide una profonda
tristezza.
- Non so esattamente chi siano i miei genitori. Mio padre e mia madre
mi hanno trovato abbandonato sulla porta di casa loro, alla vigilia
dell'equinozio di primavera, e da quel giorno mi hanno cresciuto come
un figlio. Con gli anni ho iniziato a farmi delle domande,
perché gli altri bambini mi additavano come
“bastardo” o “figlio di
nessuno” e non ne capivo il motivo. I miei genitori hanno
provato a nascondermi la verità, fino a quando una sera mia
madre non mi ha fatto sedere davanti al fuoco per raccontarmi tutto. Da
una parte è stato liberatorio. Avevo sempre sospettato
qualcosa, tra me e loro non c'era quasi nessuna somiglianza, ma mi ero
sempre detto che era una coincidenza, una mia paranoia nata dagli
insulti che mi rivolgevano. Sapere la verità è
stato come prendere una boccata d'aria fresca, anche se sul momento il
mondo mi è crollato addosso assieme alle certezze che mi ero
costruito. -
- Dev'essere stato doloroso. -
Arghail sbuffò e fece una smorfia, poi infilò la
mano sotto il mantello e tirò fuori un anello d'oro legato a
una semplice cordicella a mo' di collana.
- Questa è l'unica cosa che i miei veri genitori mi hanno
lasciato. Non ho nessun ricordo legato a loro. Però nemmeno
mi interessa cercare informazioni, non più. -
- Hai mai provato a fare delle ricerche per scoprire la loro
identità? -
- Sì, è stata la mia ossessione per molti anni,
ma purtroppo si è rivelato come cercare un ago in un
pagliaio. L'unica certezza che avevo era che appartenevano a una
famiglia dell'aristocrazia e che qualcuno dei miei antenati si chiamava
Elisewin. -
Le si fece più vicino, tanto che le loro spalle si
toccarono, e rigirò l'anello tra le dita mostrandole
l'iscrizione all'interno, le lettere morbide ed eleganti vergate
nell'oro ancora brillante.
- Ho cercato a lungo, ma non ho mai trovato nulla, nemmeno nelle
genealogie delle famiglie nobili più antiche della capitale.
Alla fine ho rinunciato e ho deciso di andare avanti, senza
più guardare indietro. -
- Allora perché lo hai ancora? -
- Non lo so. Ogni volta che provo a liberarmene, c'è
qualcosa che mi ferma. So che potrebbero sembrare le parole di un
pazzo, ma è come se... come se sentissi di doverlo
custodire. -
Si sistemò la collana sotto il mantello e tornò a
contemplare il mare, che sulla linea dell'orizzonte pareva gonfiarsi
come se li volesse inghiottire.
Airis, dopo tutto quello che le era accaduto, ormai non si stupiva
più di nulla, perciò l'esistenza di un anello
magico non la turbava più di tanto.
- Hallende cosa ne pensa di questo? - buttò lì,
nella speranza di riuscire a estorcergli qualche altra informazione, ma
il sorriso furbo del comandante fu sufficiente a farle capire che la
conversazione era finita.
- Avevamo detto una domanda ciascuno, Generale. Se desideri sapere di
più, dovrai rispondere ad altre mie domande. - le
soffiò all'orecchio.
Lei si ritrasse appena, scoccandogli un'occhiata di sfida.
- Sei salvo, per questa volta. -
- Ci vuole ben altro per farmi cadere in trappola. -
- Prima o poi tutti commettono degli errori. -
- Forse, ma non stasera. È stata una conversazione
appassionante, magari ne potremo avere altre durante il viaggio. -
ghignò, e subito dopo sbadigliò.
“Puoi contarci.”
- Buonanotte, Arlena. - la salutò, poi alzò il
viso e inspirò a fondo corrugando le sopracciglia, - Vedi di
non fare troppo tardi. C'è molta umidità
nell'aria, sta arrivando una tempesta. -
- Va bene, rimango qui solo un altro po'. Buonanotte. -
Un banco di nubi più nere del cielo si stava addensando
sopra le loro teste, prendendo in ostaggio la luna e le stelle.
All'improvviso, nella mente di Airis risuonarono le parole
d'avvertimento di Cyril.
Nei giorni successivi il viaggio proseguì tranquillo, senza
alcun intoppo. Airis spesso si aggirava annoiata per la nave. Qualche
membro dell'equipaggio a volte tentava di attaccare bottone, ma la
conversazione moriva dopo qualche battuta, oppure proseguiva a
singhiozzi finché il marinaio non decideva che aveva di
meglio da fare. Per Airis non era una situazione insolita. Aveva sempre
preferito i fatti alle parole, e quando era stata nominata Generale non
aveva perso il vizio e la reputazione di pessima intrattenitrice. Anche
con i suoi uomini più fidati, con i quali era cresciuta e
aveva combattuto, difficilmente riusciva avere un dialogo che durasse
più di due parole in croce. Mai si sarebbe immaginata di
desiderare qualcuno con cui chiacchierare. Aveva provato a essere
partecipe, come faceva quando era ancora una semplice recluta
nell'esercito, ma ben presto si era resa conto che non avrebbe potuto
condividere nulla con la ciurma di Torvir. Non la conoscevano nemmeno
col suo vero nome, che cosa avrebbe potuto raccontar loro se non bugie?
Le sarebbe piaciuto parlare di nuovo con Arghail, ma il comandante era
sfuggente e nervoso. Airis non sapeva a cosa attribuire quel repentino
cambio di atteggiamento, anche se forse dietro c'era lo zampino di
Torvir, date le occhiate torve che si lanciavano ogni volta che
capitava loro di incrociarsi. Dopo l'ennesimo tentativo di spiegazioni
fallito, la guerriera aveva deciso che non era affar suo e si era
rintanata nella stiva, dove per passare il tempo aveva preso ad
allenarsi. Dapprima si era limitata al solito addestramento, fendente
dritto, sgualembro rovescio, taglio dritto, parata in spazzata dritta e
rovescio, una serie di tecniche concatenate che ripeteva
meccanicamente, concentrandosi sia sulla postura sia sulla potenza con
cui eseguiva ogni colpo. L'esercizio era reso più difficile
dal rollio della nave, ma presto vi si era adattata e aveva imparato
come assecondarlo col movimento di braccia e gambe. Paradossalmente,
non riusciva ad abituarsi alla sua nuova spada, troppo pesante e poco
equilibrata per i suoi gusti.
Durante quei momenti morti, quando il corpo e la mente non erano
abbastanza occupati, i ricordi la coglievano a tradimento, riemergendo
dalla memoria come fantasmi erranti. Ripensava ai primi anni passati
nell'esercito, alle difficoltà che aveva incontrato per
integrarsi e per dimostrare che valeva qualcosa, il fatto di essere una
donna non era un motivo valido per considerarla debole.
Inevitabilmente, rievocava la voce calma e pacata di Felther, la sua
attenta capacità analitica che destava stupore anche nei
soldati più maturi e persino in qualche veterano. Tutti
sapevano che sarebbe diventato il Cavaliere del Drago, così
come suo padre e suo nonno prima di lui, era una carica che quasi si
tramandava nella sua famiglia. Nessuno, tanto meno Airis, aveva capito
il motivo che lo aveva spinto ad avvicinarsi a lei. Era stato
improvviso, inaspettato: prima era seduta da sola a uno dei tavoli
più lontani della mensa, poi aveva percepito una presenza
prendere posto al suo fianco e, contemporaneamente, un forte brusio si
era diffuso nella sala. Era riuscita a cogliere solo qualche
esclamazione sorpresa e il nome del suo vicino: Eigor Felther. Le era
rimasto accanto per tutto il pranzo senza proferir parola, mangiando la
sua razione e aspettando che lei terminasse la propria.
Dopodiché, Airis aveva udito i suoi passi allontanarsi e
confondersi in mezzo a quelli dei loro compagni.
“Eravamo alleati, amici. Come abbiamo fatto ad arrivare a
questo punto?”
Ad un tratto, nell'aria risuonò il fragore di un tuono e
un'onda si infranse contro la nave con una tale forza da far cadere
Airis. Ne seguirono altre, ancora più violente, una furia
liquida che faceva rollare paurosamente il vascello.
Quando finalmente riuscì a rimettersi in piedi, Airis
uscì dalla cabina e si trascinò su per le scale
per vedere cosa stesse succedendo. I marinai correvano da una parte
all'altra del ponte, eseguendo lesti gli ordini che avevano ricevuti
dal nostromo, le cime e i pennoni che sfuggivano al loro comando come
farfalle in un tornado.
- Che succede? -
- C'è una tempesta e noi siamo nell'occhio del ciclone!
Torna sottocoperta! - le urlò Davkar a gran voce per
sovrastare l'ululato del vento.
Un'altra onda li aggredì e la nave si inclinò
pericolosamente, facendo temere ad Airis che si sarebbe ribaltata.
- Ditemi cosa posso fare per aiutarvi! -
Davkar la guardò sorpreso, ma bastò un altro
colpo per fargli riprendere il controllo. Le intimò di
seguirlo, facendosi largo tra il cordame e gli spruzzi che flagellavano
il ponte da ambedue le parti. Assieme a una dozzina di marinai,
aiutò a lascare le vele e a imbrigliarle ripiegando ampie
sezioni di tela bagnata, per poi tesare di nuovo le sartie. Airis
sentì un tuffo al cuore quando uno dei pennoni emise un
cigolio agonizzante. Nell'oscurità la costa sembrava
lontana, troppo.
- Maledizione! Mettersi alla cappa e poi rifugiarsi tutti sottocoperta!
Riferite l'ordine, il capitano non vuole vedere nessuno sul ponte dopo
la manovra! - sbraitò Davkar, poi puntò i suoi
occhi da gatto su Airis, - Va' ad avvisare Torvir non appena abbiamo
finito. -
- Sarà fatto. -
L'ordine rimbalzò da uomo a uomo e tutti si affrettarono
verso la randa e il fiocco.
- Ammainate le vele! -
Tirarono con forza, combattendo contro la furia del vento, la pioggia
battente e l'ondeggiare impazzito del vascello.
- Più forte! -
La voce stentorea di Arghail giunse alle sue orecchie. Airis vide la
corda tendersi ancora di più dietro di lei e la vela
dell'albero maestro cominciò a chiudersi, in contemporanea
con le altre due. Torvir era aggrappato strenuamente al timone, la
mascella contratta e i muscoli delle braccia sotto sforzo per non
perdere la presa e mantenere la rotta.
- Ci siamo quasi, non mollate! - li esortò Davkar.
L'ultima parola gli morì in gola quando uno squarcio si
aprì in una delle vele. L'albero cigolò,
così come tutta la struttura e i due pennoni.
- Per tutti gli dei... -
- Non ce la possiamo fare, si porterà via tutta la nave! -
- Che qualcuno salga per tagliare le corde che la tengono! -
- Non andrà nessuno, è un suicidio con questo
vento... -
- Silenzio! - berciò Torvir, avanzando verso di loro.
La coda si era completamente sciolta e i capelli bianchi ora gli
frustavano incessantemente il viso. Squadrò la ciurma con
espressione impassibile, ma il tremolio alle spalle tradiva la sua
paura.
- Il timone è fissato sottovento, ma se qualcuno non sale a
tagliare quelle maledette corde moriremo tutti! Non possiamo
permetterci di perdere un albero per nessuna ragione al mondo. -
- Vado io. - si offrì Arghail.
Airis pensò che gli avrebbe detto di rinunciare, avrebbe
mandato qualcun altro. Invece il mezzelfo tirò fuori un
pugnale dallo stivale e glielo porse.
- Muoviti. Voialtri finite di ammainare le vele e poi tutti
sottocoperta! Mi avete sentito? -
- Io rimango. Se la situazione dovesse complicarsi ulteriormente,
tornerò sottocoperta. - disse Airis.
Torvir si abbandonò a un lungo sospiro, ma non
replicò, spostando lo sguardo sulla sagoma di Arghail, che
si stava lentamente arrampicando sull'albero di mezzana. Ogni volta che
trovava una corda collegata alla vela, la tagliava senza esitare. Il
vento faceva svolazzare il mantello attorno al suo corpo e la pioggia
lo inzuppava, tanto da trasformarlo in una specie di frusta. Il
capitano guardava in alto con crescente apprensione, tenendo
sott'occhio la vela. Airis gli stava accanto, anche lei col cuore in
gola.
Quando Arghail giunse all'altezza della vela e tagliò le
ultime corde, il sollievo serpeggiò nei pochi membri della
ciurma rimasti sul ponte.
La nave intanto rollava sospinta dalle onde, si alzava e si abbassava
seguendo il ritmo impietoso del mare. All'improvviso, un'onda
più alta delle altre si abbatté su di loro,
ghermì Arghail e lo trascinò giù,
oltre il parapetto.
- Uomo in mare! -
- Arlena! Arlena, torna qui! - gridò Torvir, non appena la
vide partire correndo verso il punto in cui Arghail era scomparso.
Airis lo ignorò e avanzò schermandosi il viso
dalla pioggia, che penetrava nella pelle come migliaia di aghi
acuminati e gelidi.
“Non può morire! Se è davvero il
prossimo re di Esperya, non posso assolutamente lasciarlo
morire.”
Si sporse dalla balaustra e setacciò la distesa schiumosa in
cerca di Arghail, l'ansia che le annodava lo stomaco. Scorse una mano
allungarsi fuori dal pelo dell'acqua e una testa emergere tra i flutti,
per poi svanire di nuovo, inghiottita dalla furia della tempesta. Si
tuffò senza pensarci due volte.
L'impatto fu terribile. Il gelo le morse gambe e braccia e per
lunghissimi istanti rimase paralizzata col respiro bloccato nei
polmoni. Non seppe nemmeno lei come riuscì ad ordinare ai
muscoli di muoversi. Annaspò chiamando Arghail a
squarciagola, le onde che la sballottavano da una parte all'altra
allontanandola dalla nave. Il buio l'avvolgeva e, per quanto
assottigliasse lo sguardo, non vedeva altro se non acqua e nuvoloni
neri che galoppavano veloci, scontrandosi con un ruggito tonante.
Una mano, la stessa mano che aveva visto prima, emerse poco lontana da
lei e Arghail trasse un profondo respiro per incamerare ossigeno. Aveva
il viso pallido e le labbra violacee, chiari sintomi di ipotermia. Non
appena la individuò, si allungò nella sua
direzione, mentre Airis nuotava verso di lui più veloce che
poteva. Quando lo raggiunse, gli passò un braccio sotto le
ascelle e lo chiamò ancora, nel tentativo di scuoterlo dal
torpore in cui era precipitato e l'aiutasse a rimanere a galla,
perché se si fosse lasciato andare sarebbero morti entrambi.
Stava cercando di girarsi verso la nave, quando un'altra onda li
avviluppò. Vinta dalla fatica e dal freddo, la guerriera
perse la presa sul corpo svenuto di Arghail, la vista si
appannò e le forze l'abbandonarono.
Il fragore di un tuono lo destò di soprassalto. Fuori era
buio e nuvole nere avevano oscurato il cielo stellato, scaricando sulla
terra e sul mare la loro ira. Si alzò lentamente dal letto
di pellicce e si affacciò alla finestra, osservando il
terribile spettacolo all'esterno, la furia della natura che si
abbatteva contro la costa con un boato assordante. Ma non era stato
quello a svegliarlo.
Lei era lì, lo sentiva.
Saltò in piedi e si avvolse nel mantello, i bracciali di
crisoprasio che rilucevano alla luce fioca dei fuochi fatui. Doveva
sbrigarsi, non aveva molto tempo.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Come avete visto, la storia ha raggiunto le 50 recensioni! Quindi, come
promesso, si parte col giveawy dove, chi vincerà,
potrà decidere i personaggi e il mondo dove sarà
ambientata la OS che scriverò! Vi lascio QUI
il link della pagina e niente, se avete domande, sapete dove trovarmi!
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Uno scalpiccio
nel corridoio strappò Ledah a un sonno breve e inquieto. La
luce grigia della mattina non poteva filtrare attraverso la pietra, ma
lui sapeva che il sole era sorto: da quando era lì dentro,
aveva sviluppato la capacità di misurare lo scorrere del
tempo in base alle visite che riceveva e al tipo di silenzio che lo
attorniava. Si concentrò quindi sul rumore di passi in
avvicinamento, cercando di associare quell'andatura marziale a un viso
noto. Tuttavia, la sua attenzione venne presto calamitata, di nuovo,
dallo sgocciolio che proveniva da un angolo della cella, ai margini del
suo campo visivo. In quell'istante, come accadeva sempre non appena
quel suono ipnotico prendeva possesso delle sue orecchie, le voci
tornarono a farsi sentire, sussurrando maligne nella sua mente. Ledah, dove scappi? Pensi davvero che basti ignorarci per mandarci via? Ingenuo. Stupido. Codardo.
“Perché non state mai zitte?!”
All'improvviso, una voce familiare si insinuò nella sua
coscienza e lo riscosse dalla catalessi.
- Buongiorno, corvetto. - lo salutò Brandir, entrando nella
stanza.
Sotto un mantello verde scuro, indossava l'armatura nera del loro primo
incontro, con le daghe elfiche che tintinnavano contro gli alti
schinieri ad ogni passo. All'altezza della gola, dove la lama di Airis
lo aveva colpito, biancheggiava la cicatrice che, come una collana di
spine, gli deturpava il collo.
- Non mi tratterrò a lungo, sono solo venuto a vedere come
stavi. Mi sembri in forma, nonostante tutto. Le guardie mi hanno
riferito che sei stato un po' inquieto negli ultimi giorni, addirittura
riottoso. Qualcosa non va? -
Ledah sollevò stancamente il capo e fissò lo
sguardo in quello del suo vecchio compagno d'armi. Aveva gli occhi di
un verde slavato, opachi come quelli di un morto.
- Non hai voglia di parlare un po'? Sei solo da parecchio tempo,
rinchiuso in una gabbia di simboli magici e silenzio, lasciato a
impazzire, dovresti morire dalla voglia di scambiare due chiacchiere
con qualcuno, no? Oppure non ti ricordi più come si fa? -
- Cosa vuoi? - gracchiò Ledah con un fil di voce.
Il sapore acre del sangue gli riempì la gola e l'odore
dell'umidità gli permeò il naso, impedendogli di
percepirne altri all'infuori di quello del suo corpo, che puzzava di
sudore e sporcizia. Si protese verso Brandir, tirando le catene quel
poco che bastava per avvicinarsi. Le rune sugli anelli, come si
aspettava, non si attivarono.
- Speravo di ottenere una confessione. - rivelò il
visitatore.
- Una... confessione? -
- Esatto. Non guardarmi con quell'aria trasognata, corvetto, sai di che
cosa parlo. C'è solo una cosa che desidero udire dalle tue
labbra e non capisco perché tu non sia stato il primo a
chiedere alle guardie di farmi venire a chiamare. A breve
finirà tutto, tu smetterai di esistere e il Mondo Nato dal
Nulla rinascerà una seconda volta. Il tuo fato è
segnato, non c'è nessuna possibilità di salvezza.
Non ti resta più niente se non le ceneri ancora calde di
ciò che hai distrutto. Perciò confessa e chiedi
perdono per tutto il male che hai causato. -
- Ho già pagato per i crimini che ho commesso, ma forse
Lysandra non te ne ha reso partecipe: il nostro popolo mi ha esiliato,
Aiwen mi ha disconosciuto e ho vissuto a Llanowar come un reietto. -
- Non dovresti pronunciare il suo nome, anche se era tua sorella. Non
osare mai più nominarla, hai capito? Non dopo quello che ci
hai fatto! - ringhiò ostile, stringendo i pugni e
cominciando a girargli attorno come un lupo pronto a balzare sulla sua
preda, - Se non fosse stato per te, per la tua codardia, a quest'ora
niente di tutto questo sarebbe accaduto: io non sarei morto e la mia
bambina, la mia Vyndra, avrebbe un padre! -
- Non potevo consegnarmi a Lysandra! Lei non è la donna che
credi, non lo è mai stata. Haldamir non avrebbe mai tentato
di eliminare un'innocente. Se non credi alle mie parole, guarda ai
fatti. I nostri fratelli del Consiglio... -
- I membri del Consiglio? Loro sono colpevoli tanto quanto te, Ledah.
Mi sono sempre domandato come avessero fatto i nostri Anziani a non
capire quanto fossi pericoloso. -
- Brandir, non sono io il nemico. Apri gli occhi! -
- Aprire gli occhi? L'ho già fatto, caro il mio corvetto.
Sai, da quando sono diventato un Risvegliato, la verità mi
è stata svelata in ogni dettaglio. Ora tutto mi appare
limpido, chiaro, così semplice. - sospirò
sorridendo, passeggiando avanti e indietro di fronte a Ledah, - La
corruzione striscia ovunque senza risparmiare nessuno, né
elfi né umani, o qualsiasi altra razza. In passato gli
Alati, i figli prodighi di Yggrasil, furono puniti per la loro
insolenza, per essersi opposti al volere del loro Padre, ma
è evidente che la storia, la madre di tutti i mali, non ci
ha insegnato nulla. Adesso è il momento che il Caos prevalga
sull'Ordine, affinché dalle ceneri di questo mondo ne
rinasca uno migliore, più giusto, più
equilibrato. -
Mentre lo ascoltava parlare, Ledah si rese conto che Brandir credeva
davvero a ciò che diceva. Lo capì dallo sguardo
folle che gli aveva acceso lo sguardo e dalla fermezza che gli induriva
la voce. Sembrava un pazzo, impressione accentuata dal pallore del suo
viso, dalle pupille dilatate e le palpebre cerchiate di rosso.
- Brandir, non capisci che Lysandra ti sta ingannando? Ti ha manipolato
e reso suo schiavo. Ascoltami, te ne prego, non darle retta. Qualsiasi
cosa ti abbia detto, è stata soltanto per ammansirti e
trasformarti in un suo fedele servitore. Il Consiglio non avrebbe mai
mandato i loro migliori guerrieri a morire in una missione suicida, non
con una guerra in corso. Hanno sempre pensato al bene del nostro
popolo, sono sicuro che non fosse loro intenzione... -
- Ti volevano morto, Ledah! - sbottò diretto, esasperato
dalla sua cocciutaggine, - Eri considerato un nemico e da tempo avevano
pianificato di ucciderti. Non potevano condannarti a morte per il
sangue che ti scorreva nelle vene, eri pur sempre il figlio di Elladan
e, anche se col matrimonio con Haldamir lei aveva perso il diritto al
trono, rimanevi pur sempre un membro della famiglia reale, un
discendente diretto della stirpe Arawan. Nessuno avrebbe osato alzare
un dito su di te. Per questo era necessario un pretesto valido,
qualcosa che ti inchiodasse senza via di scampo. -
Brandir si spinse fino al limitare del cerchio di rune e si
piegò appena, scoccandogli dall'alto un'occhiata derisoria e
crudele.
- Però non avevano messo in conto una variabile di una certa
importanza: tu non sei un elfo normale, sei nato da una donna morta e
tuo padre è un dio. Si potrebbe dire che la vita sia stata
più che generosa con te, molto più che con gli
altri suoi figli. E tu, invece di accogliere questo dono e sacrificarti
per un futuro migliore, cosa hai fatto? Sei scappato. Non hai onore,
Ledah, tutta la tua vita è uno oltraggio! -
Ledah scoppiò a ridere e la sua voce raschiante
sembrò il cupo gracchiare di un corvo.
- Cosa ci trovi di divertente? - sibilò Brandir tra i denti.
- Vuoi davvero saperlo? - strinse i pugni, trattenendosi dallo
strattonare le catene, - Rido per non piangere. Perché
quello che ho davanti non è più l'elfo che ho
conosciuto, il mio più caro amico, un druido costretto a
vestire i panni del soldato per servire la patria. No, tu sei un
macellaio che si sta facendo manipolare da una Lich, il cui unico
obiettivo è mettere in ginocchio il mondo al fine di
agevolare un dio a distruggerlo! Non ti chiederò mai
perdono. Forse in passato lo avrei fatto, la prima volta che ci siamo
rivisti ti ho scongiurato di fermarti, ma ora ho capito: tu non sei
Brandir, ma un sacco di carne che di lui ha conservato solo la faccia.
Una brutta, cadaverica faccia. -
Trasse un profondo respiro, parlare per tutto quel tempo lo aveva
sfiancato, ma i pensieri galoppavano più veloci di qualsiasi
sensazione fisica e si riversavano fuori dalle sue labbra come un fiume
in piena.
Brandir lo fissò per un lungo momento e Ledah sostenne
fieramente quello sguardo: aveva la sensazione che se avesse incanalato
tutto il dolore negli occhi, il suo amico avrebbe potuto percepirlo
sulla pelle mentre gli scavava nella carne viva, fino ad addentrarsi
nelle ossa. Forse allora avrebbe capito che non gli stava mentendo.
Entrambi avevano perso qualcuno di caro.
Negli occhi di Brandir, tuttavia, c'era solo furia cieca, che gli
distorceva i lineamenti delicati del viso e lo trasfigurava in una
bestia. Gli bastò un passo per attraversare il cerchio di
rune e arrivargli vicino, tanto che Ledah poté inalare
l'odore marcescente che scaturiva dal suo corpo. Brandir gli
afferrò violentemente il cuoio capelluto, tirandolo indietro
e obbligandolo a mostrare la gola in segno di sottomissione. Poi gli
prese il mento e lo costrinse a venire avanti con uno strattone, che
fece pulsare i simboli sulle catene.
- Tu non sai cosa vuol dire perdere qualcuno che ami, non hai mai amato
nessuno a parte te stesso. - sibilò invelenito a un palmo
dal suo naso.
Ledah si contorse quando una scarica di dolore si irradiò in
tutta la faccia, una ragnatela ardente che gli fece venire le lacrime
agli occhi e gli arroventò le orecchie, mentre il cervello
si svuotava.
Cosa poteva dire? Che anche lui aveva amato? Quello che provava per
Airis cos'era?
“Non importa, tanto ormai lei non c'è
più.”
A quel pensiero, le voci lo aggredirono ancora, sovrapponendosi l'una
all'altra in un caos di parole. Non c'è più motivo di combattere. Vieni con noi, starai bene. Il dolore passerà, non sentirai più
nulla... avrai pace.
Quell'ultima frase scivolò nelle sue orecchie come miele.
Socchiuse le palpebre e si immaginò come sarebbe stato
abbandonarsi al torpore, che da un angolo della mente premeva per
fagocitare la sua coscienza e la sua volontà. Si rese conto
che sarebbe stato semplice, e forse finalmente avrebbe trovato la pace
che tanto agognava fin da quando era stato esiliato. Era stanco, stufo
di arrancare e trascinarsi su una strada che portava verso il baratro.
Arrendersi era una proposta molto allettante.
Non seppe da dove provenne la voce che rispose a Brandir, era la sua e
allo stesso tempo non lo era.
- Ti sbagli, c'è stata una persona che ho amato, una donna
piena di segreti con la quale non ho passato che poche settimane della
mia vita, nient'altro che frazioni di secondo in confronto ai secoli
che mi porto sulle spalle. Eppure so di averla amata. Ciononostante,
quello che ho perso non è abbastanza per farmi capitolare.
La sofferenza non è una scusa sufficiente per lasciarmi
schiacciare nel fango e convincermi ad abbandonare ciò per
cui ho lottato per tutti questi anni. - puntò gli occhi
lucidi di febbre in quelli dell'altro e curvò le labbra in
una smorfia amara, - Sono felice che né Aiwen né
Vyndra possano vederti adesso, non ti riconoscerebbero. -
Brandir lo fissò, per la prima volta senza parole
dall'inizio della conversazione. Poi gli sferrò un pugno che
gli strappò il fiato, e con esso i pensieri. Non
soddisfatto, si accanì sempre di più, lo
colpì ancora e ancora, grugnendo e urlando come un
disperato. Non era la metodica crudeltà di un carnefice a
guidare il suo corpo, quanto la lacerante consapevolezza di aver perso
tutto.
Ledah incassò senza tentare di ribellarsi o schivare,
poiché sarebbe bastato un movimento più brusco
degli altri per attivare le catene. A dispetto del dolore, mantenne la
testa alta e la bocca serrata, in modo tale che il suo aguzzino non
venisse premiato nemmeno da un singolo gemito.
Quando le guardie arrivarono richiamate dal trambusto, stava
già cedendo all'incoscienza. Però udì
fino alla fine le grida di Brandir, lo vide contorcersi nel tentativo
di aggredirlo nuovamente da dietro il velo rosso che gli copriva lo
sguardo. Prima di svenire, frastornato dalle botte e del panico che si
era scatenato nella prigione, Ledah captò un ultimo
particolare che lo fece sorridere vittorioso: la linea di sangue del
cerchio di rune, quella più esterna, si era rovinata.
Era mattina presto quando Ledah si svegliò. I
raggi obliqui del sole entravano dalle finestre smerigliate, delineando
i contorni del letto e della cassettiera sul muro opposto. L'elfo
allungò le braccia stiracchiandosi e si guardò
intorno con la vista ancora annebbiata dal sonno. La notte precedente era tornato relativamente tardi alla
Reggia dei Ginepri, ma nessuno sembrava essersi accorto del suo rientro
tardivo, anche se sospettava che un paio di guardie avessero scorto
quantomeno la sua ombra. Si mise a sedere e dopo un lungo sbadiglio scese dal letto. I
vestiti della sera prima erano appoggiati sulla sedia, impilati
ordinatamente gli uni sugli altri, mentre l'armatura luccicava sulla
rastrelliera, assieme al mantello verde scuro che aveva indossato
durante il viaggio. Aveva il lembo sinistro leggermente strappato:
avrebbe dovuto farlo riparare prima di partire in missione a Sheelwood,
ma gli era passato di mente. Sulla scrivania di legno scuro, un bigliettino piegato in
quattro era stato infilato sotto il vaso di fiori, in modo che solo un
angolo fosse visibile. Con un'espressione corrucciata, lo prese e lo
aprì. Riconobbe subito la calligrafia di Brandir, le lettere
vergate con una tale eleganza e precisione potevano essere solo che sue.
Oggi io e te abbiamo un impegno. Appena finito il colloquio,
seguimi. B. P.s: nell'armadio troverai ciò che ti serve e non
dimenticare di farti la treccia rituale.
Ledah inarcò un sopracciglio, perplesso e allo
stesso tempo divertito. Quindi andò in bagno e si
fermò davanti allo specchio. Osservò con
espressione critica e quasi di sfida le ciocche ribelli che gli
ricadevano sul viso e rilasciò un sospiro affranto.
Dopodiché impugnò il pettine con cipiglio
battagliero e arricciò le labbra, pronto a districare un
nodo particolarmente tenace sulla nuca. A Llanowar era usanza portare i capelli lunghi per dimostrare
il legame con il Padre della Foresta, e Haldamir aveva sempre preteso
che Ledah si adeguasse agli usi e costumi della foresta del Nord, anche
se questi odiava dover perdere minuti preziosi ogni mattina per
pettinarli. A distanza di anni dalla sua morte, però,
nonostante si fosse ripromesso più volte di farlo, non li
aveva mai tagliati. Trovò strano che gli fosse tornato in mente suo
padre, da diversi anni non ripensava a lui. Del resto, non avevano mai
avuto un bel rapporto, Haldamir era sempre stato molto scostante e
Ledah un ribelle. Più di tutto ricordava il suo sguardo
severo, che aveva il potere di farlo sentire insignificante come un
verme. Eppure non poteva biasimarlo per essersi comportato in quel
modo, aveva avuto le sue ragioni. Solo quando era spirato, Ledah si era
reso conto del vuoto che aveva lasciato. Non poteva dire di averlo
amato, semmai il contrario. A differenza di Aiwen, non aveva versato
nemmeno una lacrima mentre i capi tribù lo smembravano. Nei
giorni a seguire era tornato spesso al cimitero per osservare i resti
del suo corpo e, mentre i corvi e gli animali della foresta
banchettavano con ciò che rimaneva del suo cadavere, Ledah
aveva osservato la scena in religioso silenzio, finché non
erano rimaste che ossa rotte e schizzi di sangue rappreso sull'erba. Non sapeva se l'anima di Haldamir avesse trovato pace. Forse
i corvi lo avevano guidato nel paradiso in cui tanto credeva per
aiutarlo a diventare parte della natura, e qualora si fosse perso
durante cammino che conduceva all'Elwing Telperiën, avrebbe
potuto reincarnarsi e vigilare sul suo popolo.
“Spero davvero che alla fine tu abbia trovato la
serenità che in vita ti è stata
preclusa.” Prese un cofanetto di noce appoggiato allo specchio e
tirò fuori delle piume di falco e un nastro verde muschio,
per poi dividere i capelli in varie ciocche e cominciare a intrecciarli
fin dalla cute, aggiungendo di tanto in tanto le decorazioni che aveva
appoggiato sul ripiano. Una volta terminata l'acconciatura, rientrò in
camera e aprì l'armadio. Dentro c'erano un paio di calzoni
scamosciati nei toni del verde e una tunica corta con inserti in seta e
ricami sulle maniche svasate. Ad accompagnare il tutto, degli stivali
in pelle nera, con un'edera che si arrampicava lungo tutto il polpaccio.
“Almeno non è un abito.” Ricordò con un sorriso il giorno dell'investitura
di Aiwen, in cui suo padre costrinse lui e Brandir a indossare una
lunga veste dorata e un cerchietto d'argento sulla testa, come si
addiceva ai familiari e al promesso sposo di una candidata al
Consiglio. A Brandir non era dispiaciuto, anzi, agghindato in quel
modo, con i capelli stretti in una coda e la punta delle orecchie
adornata con orecchino d'onice, sembrava un druido dei boschi, proprio
quello che sarebbe diventato se la guerra non avesse preteso i suoi
servigi. Per Ledah, invece, era stato uno strazio: si era sentito
ridicolo con gli occhi truccati in modo da farli sembrare ancora
più sottili, e per di più la veste gli andava
stretta sulle spalle e sulle braccia. Si avvicinò allo specchio e si sistemò
il colletto e la treccia, assicurandosi che qualche ciocca non fosse
sfuggita alla costrizione delle piume e del nastro. Infine
uscì dalla camera, diretto alla sala dalle udienze. La Reggia dei Ginepri, così era stata
soprannominata la corte del re e della regina di Sheelwood, era una
struttura che sorgeva al penultimo piano del Padre della Foresta.
Somigliava a un castello principesco. Si estendeva per quattro piani ed
era ornato con pinnacoli, balconate, sculture ornamentali e numerose
torri che svettavano orgogliose con più di duecentosessanta
piedi di pietra bianca. Su quella più alta, sita sul lato
ovest, sventolava la bandiera della casata reale, una foglia dorata
inscritta in una rosa dei venti. La prima volta che Ledah era andato a
Sheelwood, l'aveva vista solo da fuori, ma già all'epoca era
rimasto colpito dalla magnificenza delle statue e dei bassorilievi che
decoravano le bifore e le trifore dai vetri coloratissimi. L'interno rispecchiava la stessa spettacolare opulenza
dell'esterno. Aveva sentito dire che ci fossero oltre duecento camere,
incluse quelle della servitù e dei soldati della guardia
personale del re e della regina. Gli alloggi del suo gruppo erano
nell'ala est, vicino al cortile interno, con una piccola serra privata
dove le dame passavano la maggior parte del tempo a parlare di cose
frivole e di poco conto. Con passo svelto, Ledah si orientò nei corridoi e
raggiunse la Sala delle Udienze. Quando si avvicinò alla
porta, le due guardie lo squadrarono da capo a piedi. - Chi va là? - - Sono uno dei guerrieri di Llanowar. Sono stato convocato
dal re. - si annunciò. L'elfo sulla sinistra, che sfoggiava una cicatrice sul labbro
e un occhio glauco, si prese un momento per studiarlo, prima di
rivolgere un cenno al suo compagno e farsi da parte. Ledah
passò oltre a testa alta. La Sala delle Udienze era imponente e ampia. Le tre arcate
che la circondavano sui tre lati culminavano in un'abside, dove si
trovava il trono di rovere. Lo schienale, intagliato nell'effige di un
antico albero, si innalzava verso il soffitto, per poi fondersi con
esso sfaldandosi in radici nodose che, come una ragnatela, penetravano
nella pietra. Merli e cardellini svolazzavano in qua e là,
per poi tornare a rifugiarsi nel loro nido, nascosto chissà
dove nell'intrico di rami e foglie. Ledah fissò incantato quella struttura, che
sembrava tutto fuorché un semplice sfoggio di opulenza. Se
avesse chiuso gli occhi, ne era certo, avrebbe percepito il respiro del
legno e l'odore della clorofilla che lo irrorava e vivificava. I suoi compagni già presenti, tutti vestiti con
abiti eleganti, gli rivolsero un cenno di saluto. Brandir gli
riservò una smorfia che voleva dire “sei sempre in
ritardo”, ma Ledah lo ignorò deliberatamente e si
accinse a prendere posto con aria innocente, sapendo che avrebbe fatto
arrabbiare l'amico. Re Meidras e sua moglie, la regina Vedra, sedevano
affiancati, lui sul trono intagliato in un albero, lei su uno scranno
di legno bianco, con rami esili e penduli che si allungavano verso
l'alto intrecciandosi tra loro e con quelli dell'altro trono. Avevano
entrambi la pelle ambrata, in un curato contrasto con i capelli corvini
e gli occhi finemente truccati. Vedra stringeva la mano del marito,
mentre quest'ultimo abbracciava la sala con lo sguardo, vagando da un
viso all'altro con un'espressione ansiosa a indurirgli le labbra. Non
appena vide che Ledah si era allineato con gli altri, si
schiarì la voce e iniziò a parlare. - Bene, ora ci siete tutti. Benvenuti a Sheelwood, stimati
guerrieri. Mi dispiace avervi fatti venire per questioni
così poco piacevoli, ma, come di sicuro saprete, la guerra
è giunta fin qui. Immagino che il Consiglio vi abbia
già edotti sul nemico che ci sta insidiando. - - Sì, vostra maestà, ho conferito ieri
pomeriggio con i vostri Anziani. Non credevo che tra gli uomini ne
esistessero anche alcuni capaci di usare la magia e di essere allo
stesso tempo così scaltri. Il comandante del manipolo
accampato a oriente è molto più furbo di quanto
mi aspettassi. - rispose prontamente Brandir. - Proprio per questo vi abbiamo chiamati. Siamo preoccupati.
Sebbene il Padre della Foresta sia celato alla vista dai nostri
migliori incantesimi di occultamento, non possiamo escludere che questo
mago sia in grado di tracciarne la posizione. Se così fosse,
saremmo tutti in pericolo. - il re trasse un profondo respiro e si
massaggiò la radice del naso, gli occhi adombrati
dall'agitazione e dall'angoscia, - So che al Nord siete riusciti
più volte a respingere l'avanzata degli umani e
ciò fa di voi i candidati più adatti alla
missione. Abbiamo perso fin troppe foreste per permetterci di
sottovalutare la minaccia. - Ledah si stupì a quelle parole. Tra Llanowar e
Sheelwood non correva buon sangue da ormai molto tempo: gli abitanti
della foresta del Sud reputavano quelli del Nord dei barbari ancora
tenacemente attaccati alle tradizioni più antiche del loro
popolo. Quando avevano perso le prime foreste, l'Assemblea dei Pari
aveva mandato una delegazione da Meidras per offrire loro una mano, ma
questi aveva rifiutato, troppo orgoglioso per accettare un'alleanza.
Perciò sentirgli pronunciare un discorso del genere che
nascondeva una chiara richiesta di aiuto lasciò di stucco
tutti, persino la stessa regina. - Saremmo onorati di assistervi, maestà. Quando i
vostri guerrieri torneranno dalla spedizione, parlerò col
loro comandante per organizzare un piano efficace. Sappiamo cosa
aspettarci, abbiamo combattuto abbastanza per provare a prevedere le
mosse dei nemici. Per quello che riguarda il mago, conto di ricevere
notizie a breve sulle sue capacità. Sapere se è
un Dominatore o un Arcanes ci aiuterebbe molto. - disse Brandir. Il re annuì con aria affranta, intrecciando le
dita con quelle della moglie. Un sorriso affiorò sulle
labbra dell'elfo e, quando incrociò gli occhi della sua
amata, la paura che li oscurava si dissolse, sostituita da una
scintilla di speranza. - Il ritorno di Baraja è previsto tra poco
più di una settimana. Non appena sarà qui, la
manderò subito da voi, comandante. Per ora prendetevi del
tempo per riposare. Deve essere stato un lungo viaggio. -
proferì Meidras. - Grazie, maestà. - - Bene, siete congedati. - Tutti si inchinarono, compreso Ledah. Per tutto il colloquio,
la regina non gli aveva staccato gli occhi di dosso, neanche per un
istante. Anche mentre si allontanava, gli sembrava di sentire il peso
del suo sguardo sulla nuca, come se volesse trafiggerlo da parte a
parte. Quando le porte si chiusero alle loro spalle, per Ledah fu un
sollievo. Ad un certo punto, Brandir invitò i commilitoni ad
avvicinarsi. - Avete la giornata libera, ma ricordatevi di non ubriacarvi,
sia mai che si lamentino della nostra maleducazione. - - Non preoccupatevi, siamo dei bravi ragazzi. - gli rispose
ridacchiando Gerania, la loro compagna più giovane, - Dai,
andiamo, questo incontro mi ha fatto venire sete. - - Anche a me. - concordò Ràl, -
Seguitemi, ho visto una locanda al secondo piano del Padre. Se ci
andiamo adesso, forse non troviamo troppa gente. - Ledah abbozzò un sorriso divertito. Prima che
Gerania potesse proporgli di accodarsi a loro, le fece un cenno di
diniego con la testa. Aveva già bevuto abbastanza la sera
addietro, per quel giorno era a posto. Rimasti soli, Ledah studiò Brandir di sottecchi,
cercando di non farsi notare. L'amico si comportava in modo strano da
quando erano arrivati a Sheelwood e il fatto che non avesse voluto
condividere con lui i dettagli che gli Anziani gli avevano riferito era
solo uno dei suoi numerosi atteggiamenti sospetti. Anche mentre parlava
con i sovrani era apparso teso.
“Cosa mi stai nascondendo? Cosa ti turba
così tanto da farti tenere la bocca chiusa?” - Corvetto, puoi smetterla di fissarmi? È
irritante. - Brandir gli schioccò le dita davanti al naso per
risvegliarlo dai suoi pensieri. Sorrideva come sempre, ma Ledah sapeva
che c'era qualcosa che non andava. Si sforzò di ricambiare
il sorriso e di mostrarsi disinvolto, nonostante il nervosismo e la
tensione. - Sì, scusami. È che sei
così... colorato. Un pavone a confronto è un
canarino sgraziato. - - Lo prenderò come un complimento. - gli diede un
pugno sulla spalla e gli fece strada lungo il corridoio, - Forza,
cammina, anche noi abbiamo un impegno. - - E tu odi fare tardi, lo so. - sospirò Ledah, le
mani affondate nelle tasche dei calzoni, - Piuttosto, hai intenzione di
dirmi di cosa si tratta, oppure devo indovinarlo? - - Sono quasi tentato di tenertelo nascosto ancora un po'
facendoti rodere il fegato, ma credo sia giusto che tu lo sappia. - - Ecco, adesso sono preoccupato. - Brandir ridacchiò e dopo un istante di esitazione
dichiarò: - Io e Aiwen ci sposiamo oggi e tu ci farai da
testimone. - Ledah lo fissò a bocca aperta, a corto di parole.
Sapeva che prima o poi avrebbero compiuto il grande passo, era
nell'aria, ma non immaginava che avrebbero compiuto il grande passo
proprio quel giorno. Brandir aveva sempre detto che avrebbero aspettato
la fine della guerra, così da poter indire una grande festa,
sia a Llanowar che a Sheelwood, ma erano passati quasi quarant'anni e
Ledah immaginava che fossero stanchi di attendere. Dopo essersi
ripreso, lo abbracciò e gli assestò poderose
pacche sulla schiena. - Finalmente! L'idea di avere una sorella zitella mi ha
sempre tormentato, ma forse ora potrò mettermi il cuore in
pace. - Brandir scoppiò a ridere, imitato da Ledah, e le
loro risate felici rimbalzarono sulle pareti di marmo bianco,
richiamando l'attenzione degli elfi che passeggiavano per i corridoi.
Essi si girarono a guardarli con disapprovazione, e quando Brandir e
Ledah passarono vicino a uno di loro, che se ne stava con il naso
arricciato come se ci fosse un cattivo odore nell'aria,
l'ilarità crebbe assieme all'entusiasmo e scacciò
via i cattivi pensieri. Corsero fuori dalla reggia e attraversarono i ponti d'ambra
continuando a scambiarsi battute, senza che il riso li abbandonasse
mai. Incuranti della gente che sbirciava incuriosita nella loro
direzione, scesero fino al piano di mezzo e si infilarono nei sentieri
che si districavano sui rami dove sorgevano case, funghi variopinti e
statue dedicate a divinità elfiche. Giunsero in
prossimità di un ramo spesso e robusto, che sembrava
invitarli a entrare in un gazebo avvolto da una veste sgargiante di
clematidi e ipomee in fiore. Brandir si fermò al centro,
mentre Ledah si appoggiò allo steccato, le braccia
incrociate sul petto e il cuore in fermento. Di lì a poco,
un'elfa agghindata con un semplice abito bianco e una spada di
cristallo nero di Valhalla tra le mani arrivò da una
stradina laterale, una delle tante che si snodava nei rami periferici
del Padre della Foresta. Al suo fianco, nascosta da un mazzo di fiori
troppo grande, c'era una bambina con le trecce rosse e gli occhi dello
stesso azzurro dei fiumi di montagna, mentre alla sua sinistra avanzava
un elfo con i lunghi capelli bianchi e delle leggere rughe ai lati
della bocca e sulle mani screpolate. Ledah e Brandir li fissarono finché non arrivarono
ai primi scalini e lo sposo trasse un profondo respiro, prima che Aiwen
lo affiancasse. Accarezzò la testa della bambina e, con un
sorriso che gli illuminava gli occhi, le sussurrò qualcosa
all'orecchio che Ledah non capì, ma che fece sorridere la
diretta interessata. Poi, saltellando, quella si appiccicò
allo steccato, affondando il viso nel mazzo di fiori. Non appena anche Ledah si fu avvicinato, il sacerdote diede
inizio alla cerimonia. Verso la metà, gli sposi disegnarono
con la spada l'Amashta, il cerchio magico che, secondo la tradizione,
li avrebbe protetti dagli spiriti maligni. Aiwen percorse la prima
metà del cerchio, poi passò la spada a Brandir,
gli occhi sprofondati in quelli dell'altro e il sorriso più
felice che Ledah avesse mai visto. Nel frattempo, ripetevano le parole
del sacerdote a bassa voce, scambiandosi le promesse.
Accolgo la tua protezione con la spada di Celebrinda nel fuoco dell'amore e nei quattro elementi, sotto le stelle del firmamento e sotto gli dei antichi e
nuovi, e giuro sul sangue che ciò che provo è più puro della Verità
Assoluta.
Il sacerdote compì un gesto con la mano e dal
legno emersero delle candele. Brandir prese una stecca d'incenso dalle
tasche e accese la prima, che per magia si dissolse in un vortice di
petali rossi che il vento fece turbinare sul cerchio sacro. Aiwen gli
si accostò e intrecciò le dita con le sue, prima
di accompagnare la sua mano verso la seconda e la terza candela.
Bastò un momento perché anche queste si
sparpagliassero ovunque creando un tappeto floreale rosso, blu e giallo.
Tuo è il potere di Yggrasil, il sommo Padre, tua la virtù di Galathien la saggia, tua la fede di Lash'ar il mite tue le gesta degli eroi che furono, sono e saranno tua l’eleganza di Calimie la bella tua l'indole del paziente Selindrior, tua l’audacia di Tariel la cacciatrice, tuo il fascino di Xana l'incantevole.
Tu sei la delizia d’ogni giorno, la luce del sole appena nato, il focolare acceso nelle notti gelide, la stella più lucente che guida i marinai, la prima spiga di grano, il cervo che danza sui monti, la grazia della colomba della pace, il desiderio più profondo e anelato, l'anima più gentile che il Padre mi ha concesso.
A questo punto, il sacerdote prese in custodia la spada e
passò agli sposi un pugnale dalla lama ondulata, che
catturava la luce come un piccolo sole. Aiwen strinse le dita attorno
all'elsa e, dopo momento d'esitazione, si incise il polso destro. Il
suo viso non tradì alcun dolore o paura, c'era solo
determinazione, fiducia e amore. Brandir, non appena ella gli porse il
pugnale, fece lo stesso, lo sguardo fisso in quello della sposa. Quando
il sacerdote legò attorno ai loro polsi una striscia di
stoffa bianca, che non tardò a macchiarsi di sangue, le loro
voci si unirono per cantare un inno.
Ora il laccio che ci lega non si spezzerà
più. Imparerò da te ciò che la Vita non mi
ha insegnato e lo stesso sia per te, finché ciò che
abbiamo cresca e ciò che ci manca ci venga concesso. Quel che ho amato, prometto d'amarlo sempre, finché il Padre non ci prenderà con
sé. Il mio cuore sarà per te, la mia anima sarà per te, il mio amore sarà per te, ora e per sempre.
Quando anche l'ultima nota si spense, Brandir e Aiwen si
scrutarono in attesa, impazienti di ricevere dal sacerdote il segnale
che la cerimonia si era conclusa. Non appena questi annuì e
sorrise, Brandir sollevò Aiwen tra le braccia,
affondò le dita tra i suoi capelli e baciò la sua
risata.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Oggi si è concluso il Giveaway e abbiamo un vincitore,
finalmente u.u Nelle prossime due settimane mi impegnerò per
mettere online la Os che vi ho promesso. Non vi dico ancora su chi
sarà, ma vi assicuro che non appena la leggerete, vi
verrà subito l'illuminazione u.u Bon, la prossima
pubblicazione di fuoco è spostata all'11 giugno, ci si vede
per allora!
Hime
La città era
avvolta da una nebbia così densa che la regina Eliria,
nonostante fosse ormai abituata a quella presenza invadente, ne rimase
comunque stupita. Osservò Alabastria, la sua Alabastria, da
dietro la finestra del Castello di Ferro, la lunga tunica di lino e
pizzo a cingerle il corpo e i capelli rossi sciolti sulla schiena.
Quel candido vello bianco conferiva alla città un'aura quasi
onirica, le riportava alla mente le storie sulle fate e i folletti che
la sua balia le raccontava quando era bambina. Prima di andare a
dormire, quando lei e le sue sorelle erano le uniche ancora sveglie,
Gwill rimboccava loro le coperte, prendeva il “vecchio libro
rosso” – così lo chiamavano per via del
colore della copertina e perché non aveva un titolo
– e cominciava a leggere le gesta di Oberon e dalla sua amata
Titania contro i figli di Aesir e la loro tragica storia d'amore. Ora
la sua voce era quella stentorea del principe che risollevava il morale
delle truppe prima della battaglia, ora si abbassava e, sibilando,
evocava il viso della strega Mangiaossa quando persuadeva la fata ad
accettare la mela avvelenata; poi ancora declinava dolcemente in
un'inflessione delicata da soprano mentre recitava le ultime parole di
Titania prima di cadere nel suo sonno eterno. Era la parte che Eliria
amava e odiava di più: doveva sempre reprimere le lacrime,
nonostante la descrizione della bellissima città di Asiria,
che la vecchia Gwill tratteggiava con una precisione tale che
più volte Eliria e le sue sorelle si domandarono se non
l'avesse vista davvero, perché tutte quelle informazioni nel libro non c'erano.
Ecco, in quel momento Alabastria somigliava più che mai alla
città fatata: abbracciata da un lenzuolo di nebbia che
sfocava i contorni delle cose, sembrava il prodotto della fantasia di
un bardo in estasi compositiva, con la neve che si era depositata sui
bassi tetti e sui rami degli alberi disegnando arabeschi contorti e
candidi, simili alla tempera che si usava per ritoccare i dettagli
più insignificanti dei quadri.
Eliria sospirò e poggiò i polpastrelli contro il
vetro freddo della finestra. Il tempo sembrava impazzito nelle ultime
settimane: un giorno spirava il profumato vento primaverile e quello
successivo l'inverno ghermiva la terra nella sua gelido abbraccio. Di
quel passo, avrebbe fatto impazzire non solo i contadini, ma anche la
sua servitù, che ogni volta doveva cambiarle i vestiti del
guardaroba. Non che fosse un disturbo, dato che molte delle domestiche
amavano poterla abbigliare come una bambola.
Intrecciò le braccia sul petto e si strinse nelle spalle
quando percepì delle mani calde e ruvide adagiarsi sui suoi
fianchi.
- Cosa ti turba, geba? Se hai freddo, dico a Merara e Raessa di
portarti altre coperte. -
- No, sto bene, ho solo fatto un brutto sogno. Nulla di che. -
- A me non sembra, stai tremando. -
Quelle stesse mani la girarono con delicatezza e gli occhi azzurri di
Eliria incontrarono quelli carbone di Balor. Le trecce, quelle che lei
aveva insistito per fargli, ricadevano disordinate sul petto nudo,
setosi nastri neri che si sfilacciavano in ciocche sempre
più piccole e sottili. Amava infilarci le dita quando
facevano l'amore, tirarle e stringerle nei momenti in cui il piacere
raggiungeva il culmine e poi abbandonarcisi sopra, affinché
il profumo di suo marito l'accompagnasse anche nel sonno. Quello,
assieme al suo calore, riusciva a calmarla e permettevano a Uborh di
traghettarla attraverso le acque impetuose dei sogni fino al mattino
seguente, quando l'alba allungava le sue rosee dita sul mondo. Quella
notte, tuttavia, non era stato sufficiente a conciliarle il riposo.
Eliria afferrò una ciocca e cominciò a
giocherellarci, prendendo tempo. Balor la trasse a sé fino a
ridurre lo spazio che separava il suo petto da quello di lei di solo
qualche pollice. La regina sapeva che non le avrebbe fatto pressione
per parlare, aveva imparato a conoscere e a rispettare i suoi silenzi.
Egli avrebbe atteso finché non fosse stata lei ad aprirsi,
anche se questo significava aspettare ore e, a volte, giorni. Almeno,
così era di solito: adesso, nella stretta sui fianchi e
nella tensione delle braccia, Eliria percepiva tutta l'apprensione che
provava. Perché, ne era certa, Balor l'aveva sentita
svegliarsi di soprassalto, l'aveva vista alzarsi dal letto madida di
sudore e trascinarsi, tremante e scossa dai singhiozzi, fino alla
finestra. Come tutte le volte che aveva un incubo, non era intervenuto,
proprio come lei gli aveva fatto promettere, in attesa che si calmasse.
Appoggiò il viso sul suo torace e risalì sul suo
collo per assaporare il profumo di mirra e lavanda ancora una volta,
come se dovesse addormentarsi tra le sue braccia in quel momento. Le
mani di Balor scivolarono sulle sue costole e l'avvicinarono ancora di
più, per poi appoggiarsi sul pancione che sporgeva da sotto
la camicia da notte, quasi volesse reclamare anche lui delle carezze.
- È la piccola peste che non ti fa dormire? - chiese e
alzò la tunica il necessario per poter toccare il suo
ventre, i baffi che celavano appena il sorriso sulle labbra, - Mia
madre diceva che più scalciano, più saranno forti
quando nasceranno. Non vedo l'ora di tenerlo in braccio e mostrargli
quale madre meravigliosa ha fatto così tanto penare. Si
pentirà di averti fatto passare tutte queste notti insonni,
parola mia. -
Eliria si coprì la bocca per soffocare una risata e si
lasciò condurre verso il letto, dove si sedette. Balor si
inginocchiò ai suoi piedi e le baciò la pancia,
proprio all'altezza dell'ombelico, dove la regina sentiva la testa del
bambino, che scalciò di rimando.
- Vedi? Smania per venire al mondo. - mormorò l'uomo
sorridendo.
- Sì... è già un guerriero. -
- Un guerriero indisciplinato, però. Appena sarà
abbastanza grande, mi occuperò personalmente di metterlo in
riga. Sconterà ogni singolo giorno che ti ha fatto dannare o
ti ha portato via il sonno. -
La regina assentì piano e abbassò lo sguardo
quando Balor si accomodò al suo fianco. Quella era la prima
gravidanza che Gwynasiae le permetteva di portare avanti. Nei mesi
precedenti, aveva sognato spesso di perdere il bambino, com'era
successo per i precedenti. La sua più grande paura era
sempre quella di svegliarsi con la sensazione vischiosa del sangue tra
le cosce, la vita di suo figlio che si spandeva dolorosamente in rivoli
rossi sulle lenzuola bianche. Ma il sogno che aveva fatto quella notte
era diverso e metteva a nudo un'altra sua paura, ancora più
recondita e radicata nel suo animo.
- Domani è necessario che tu vada al tempio? -
bisbigliò, così piano che Balor dovette sforzarsi
per capire.
- Il popolo deve vedere il suo sovrano, soprattutto ora che ho preso
questa decisione. - rispose mesto, le mise una mano sulla spalla e le
stampò un bacio sulla tempia, - Inoltre, domani devo
discutere di alcune faccende importanti con mio fratello e Rekkr, non
posso rimandare. -
- Ne sono consapevole, ma... ti prego, falli venire qui. Ho sognato uno
stormo di corvi che volteggiava sul tempio e in lontananza ho udito il
latrato dei cani. So che non credi in queste cose, ma se non lo vuoi
fare per te stesso, fallo per me: questo è un presagio
funesto, non mi sentirei tranquilla a saperti lì fuori. -
- Non sarò da solo, geba. Avrò una scorta armata
a seguirmi. Non mi posso di certo far spaventare da quattro uccellacci,
non ora che Wecilia Mallus ha preso il posto di Voren. Quella non
aspetta altro che un passo falso per screditarmi. -
- La fama si può riguadagnare, la reputazione riabilitare,
ma la vita no. Quando è perduta, lo resta per sempre. -
- Ho spie sparse in tutta la città e nessuna di loro mi ha
mai riportato la voce di una possibile congiura ai miei danni. I
Neriroccia e i Fiammaforgia non sono mai contenti, ma imporre ulteriori
dazi sulle loro importazioni di ferro è stata una scelta
obbligata. Per ora se ne stanno in silenzio quando sono presente e si
limitano a borbottare solo tra di loro. La cosa importante è
che non appoggiano nemmeno loro la nuova regina. Se anche fossero
così intelligenti da non farsi scoprire dagli agenti di
Hannarr, credi davvero che attenterebbero alla mia vita in un luogo
sacro? Wecilia sarà anche una donna senza scrupoli, ma
dubito si spingerebbe a tanto. -
Eliria annuì, eppure in cuor suo non si sentiva ancora
tranquilla.
L'incoronazione della nuova regina era stata una delle feste
più grandiose a cui avessero mai partecipato. Non avevano
badato a spese e il banchetto si era protratto fino a sera inoltrata.
Tutti gli invitati sembravano felici della loro nuova regnante e loro
si erano ben guardati dal fare rimostranze, anche quando la regina era
ben lontana, però Eliria aveva avvertito per tutta la sera
un profondo senso di disagio. Gli occhi di Wecilia, sebbene finemente
truccati, le facevano paura, le ricordavano quelli di un serpente,
bellissimi e al tempo stesso mortali; sembravano seguirla ovunque e
l'impressione di essere sempre osservata l'aveva angosciata per tutta
la serata, insieme ad una terribile sensazione di
estraneità. Quella era davvero la reggia di Voren che aveva
visitato appena cinque anni prima, quando era convolata a nozze con
Balor? Se lo era, allora perché non c'erano i visi noti e le
persone amiche con le quali aveva legato durante il suo soggiorno? Se
era vero ciò che diceva Rekkr, che la regina aveva fatto
sostituire quasi tutte le guardie e la servitù del castello
e che il nuovo Cavaliere dell'Aquila si era occupato personalmente di
far sparire tutta la famiglia dell'amante del vecchio re, Eliria non
era sicura di cosa Wecilia fosse capace, soprattutto ora che Balor le
aveva negato il sostegno militare nella campagna contro gli elfi di
Sheelwood.
- Se non vuoi sfilare con me domani, va bene. Nessuno te ne
farà una colpa e il popolo capirà, ma io non
posso esimermi. Sono il re, è mio dovere mostrarmi forte e
impavido sia in pace che in guerra. -
Balor le accarezzò i riccioli ribelli e le alzò
il mento, in modo da poterla guardare negli occhi. Dapprima Eliria
oppose una leggera resistenza, poi il bisogno di essere rassicurata
ebbe la meglio. Anche Balor era turbato, le rughe sulla fronte e agli
angoli della bocca non facevano che sottolineare il suo stato d'animo,
ma la regina sapeva che non l'avrebbe mai ammesso.
- Non c'è proprio possibilità di farti cambiare
idea...? -
- No, non darò a quella serpe un pretesto per infangare la
mia reputazione. Il mio bisnonno era ossessionato dall'idea di essere
tradito e credeva a tutti i sogni che i suoi oracoli e maghi gli
riferivano. A causa di questa paura, ha trascorso la sua intera
esistenza barricato nel castello, delegando il compito di incontrare
gli ambasciatori stranieri alla moglie e al suo consigliere. Senza
nulla togliere a te e a Rekkr, ma non è questa la vita che
io desidero. -
- Allora domani sarò con te. In quanto tua legittima
consorte, non posso farti sfigurare di fronte al popolo. -
- Geba, davvero, se non te la senti Rekkr troverà una scusa
convincente. Sei incinta di sette mesi, non è strano che...
-
Eliria gli pose l'indice sulle labbra per zittirlo.
- Ho passato tutta la vita a nascondermi, prima dietro le gonne di mia
madre, poi dietro la spada di mio padre e infine dietro il tuo scudo.
È ora che anche mi dimostri una degna signora del Castello
di Ferro. -
Balor rimase interdetto un momento. Quindi sorrise e
l'abbracciò, facendola distendere sul materasso. Le ombre
delle fiamme si proiettavano sul suo petto, diventando anch'esse parte
del mosaico di tatuaggi sulle braccia, fino all'ombelico. Ognuno di
essi era il ricordo di una battaglia, di un nemico abbattuto. Tutti
tranne uno, una piccola luna circoscritta in un cerchio di stelle che
richiamava il nome della sua amata, Eliria, “signora degli
astri”.
- Dormi, domani sarà una lunga giornata. - le
sussurrò, mordicchiandole l'orecchio.
- Mi prometti che farai attenzione? -
- Te lo prometto solo se anche tu mi prometti una cosa. -
- Che cosa? -
- Che se stanotte avrai un altro incubo, mi permetterai di
abbracciarti. Non c'è niente di male a farsi consolare,
tanto più se a farlo è il proprio marito. -
- Anche se si è la regina del Castello di Ferro? -
Balor le pizzicò la guancia e le sorrise complice: -
Soprattutto se sei la regina del Castello di Ferro. Anzi, dovresti
farlo più spesso, visto il nano che dorme nel tuo letto. -
Eliria non riuscì a trattenere una risata. L'inquietudine
non aveva ancora abbandonato il suo cuore quando posò la
testa sul cuscino, ma il calore di suo marito e la vicinanza del suo
corpo seppellì ogni insicurezza sotto il velo
dell'incoscienza.
*
Nella foresta di Noumenasse faceva freddo, molto più freddo
di quanto Felther ricordasse. Chiuse la mano a pugno e
sollevò la testa, incontrando uno stretto groviglio di rami,
visione ormai divenuta familiare. Erano un intreccio fitto che
schermava la luce della luna e degli astri, la respingeva come un
ospite sgradito, preservando l'oscurità e la nebbia
soffocante. Un tempo, gli aveva raccontato Saradreza, quel pezzo di
terra era la dimora di folletti, silfidi e ninfe, ma poi la resistenza
elfica aveva ceduto e gli umani erano riusciti a penetrare fin nel
cuore della foresta e a uccidere il Padre. Era accaduto agli albori
della guerra, uno dei tanti episodi che avevano inasprito i rapporti
già tesi tra umani ed elfi.
Un batuffolo bianco, della consistenza del cotone, si infilò
in una fessura tra i rami e si depositò sulla sua mano.
Felther rientrò nella tenda e lo osservò mentre
si scioglieva lentamente sul palmo, freddo quasi più
dell'atmosfera che lo circondava. Kvothe gli aveva detto che era
normale, per mantenere una temperatura costante avrebbe dovuto
concentrarsi e far defluire il sangue dagli organi interni fino alla
superficie più esterna della pelle, ma Felther non ci
riusciva ancora. Per quel giorno non sarebbe stato necessario sembrare
umano, però si ripromise comunque di impegnarsi di
più per non rischiare di destare sospetti, come aveva
raccomandato la regina.
- Generale, i preparativi sono ultimati. - disse Feliar entrando nella
tenda e si mise in posizione marziale in attesa di ordini.
Indossava un'armatura elfica di un verde-giada traslucido, con gli
spallacci, il pettorale, la panciera e la scarsella che si articolavano
tra di loro con giunture argentate, quasi a costituire un'unica
struttura, avvolgendo il guerriero come i petali di un fiore. Se il
Cavaliere del Drago non avesse visto con i suoi stessi occhi quanto
fosse resistente e flessibile, avrebbe bollato quell'armatura di cuoio
come una gabbia da suicidio.
- Inreeniace quante pozioni ha prodotto? -
- Duemila, come avete ordinato. -
- Dille di farne almeno un altro centinaio. L'alba è ancora
lontana, dovrebbe stare nei tempi. Poi manda a chiamare Saradreza e
riferiscile che devo parlare urgentemente con lei. -
Il soldato annuì e uscì subito a passo di marcia.
A Felther faceva uno strano effetto essere attorniato da tutti quei
Drow. Era abituato a vederli nelle case dei nobili, servi e schiavi
impiegati nei lavori più umili, con il collare che impediva
loro di usare la magia bene in vista. Coloro che erano stati richiamati
per la missione erano liberi, invece, guerrieri pronti a combattere e a
morire per lui. Con sua grande sorpresa, aveva scoperto che essere a
capo di quel piccolo contingente non era poi così diverso
dal comandare un'ala dell'esercito umano. Quegli elfi dalla pelle nera
come l'ebano e gli occhi più scuri della notte erano avvezzi
a obbedire, disciplinati, si piegavano ai suoi ordini senza esitazione
e combattevano con una ferocia gelida e controllata.
“Se avessero contato tra i nostri ranghi degli elementi
così ligi al dovere, gli umani avrebbero già
vinto la guerra da un pezzo.”
Ripensare a quando era umano gli faceva ancora male e quel dolore
dell'anima risvegliava il bruciore della ferita sul petto. Quando si
tolse la tunica, il suo sguardo venne calamitato dalla cicatrice che
campeggiava poco sotto la clavicola. Lysandra gli aveva detto che la
freccia che lo aveva trapassato gli aveva sfiorato il cuore, mezzo
pollice più a sinistra e sarebbe morto sul colpo, senza
possibilità di resurrezione.
Anche Airis ne aveva una simile, ma la sua cicatrice era stata lasciata
da una lama. Si era domandato spesso come se la fosse procurata, da
quando aveva scoperto che era come lui. Più cose apprendeva
sul suo conto, più la curiosità cresceva,
pretendendo altre informazioni, altra conoscenza che Felther non poteva
fornirle: Airis era morta, portandosi nella tomba tutti i suoi segreti.
Sbatté le palpebre per scacciare il suo viso e i ricordi
che, inevitabilmente, portava con sé. Memorie felici,
vivide, passate, e proprio per questo troppo dolorose da sopportare.
Ingoiò il groppo in gola e strinse le cinghie del pettorale,
come se fosse sufficiente quel pezzo d'acciaio a proteggerlo dai demoni
che portava nel cuore. O forse sperava che li contenesse, in modo che
questi potessero pascersi delle sue carni senza che gli altri fossero
spettatori di quell'agghiacciante banchetto.
- Generale, mi avete mandata a chiamare? -
- Sì, Saradreza, entra pure. -
La Drow fece il suo ingresso e si richiuse la tenda alle spalle. La
lunga tunica le disegnava i fianchi, per poi riversarsi a terra in un
tripudio di rune e simboli rossi, il cui significato Felther ignorava.
I capelli, più rossi dei suoi occhi, erano raccolti in una
treccia sulla nuca che ricadeva sul seno appena accennato, in
un'acconciatura perfetta e ordinata come si confaceva alle maghe
più potenti e rispettate di Seshamath.
- Hai novità? -
- Sono riuscita ad addomesticarne altri tre, come mi avevate richiesto.
-
- E ora siamo a quota venti, correggimi se sbaglio. -
- È giusto, Generale. -
Felther saldò i bracciali e si assicurò che le
cinghie delle manopole fossero ben salde. Avrebbe preferito avere anche
le dita coperte, ma la finzione doveva essere perfetta.
- Per quello che riguarda la mia pozione? -
Saradreza sorrise e posò una piccola fiala sul tavolo.
Felther ripose gli schinieri sul manichino e se la rigirò
tra le mani. Il liquido all'interno era denso, simile all'olio.
“Diventerò il nemico che ho combattuto per
anni.”
Quella considerazione aveva uno strano retrogusto e portava con
sé una sensazione di estraneità che non sapeva
come interpretare. Prima che potesse anche solo soffermarcisi
però, l'apatia, quella stessa gelida apatia che lo investiva
ogni volta che si interrogava sul perché di quella tattica,
si impadronì di lui e della sua coscienza.
“ Non è mio compito farmi domande.”
- Con questa sembrerete un elfo a tutti gli effetti, nessuno vi
potrà associare al famoso e irreprensibile Cavaliere del
Drago. - ghignò Saradreza e si sedette sulla branda, gli
occhi grandi accesi da una luce maliziosa, - Se mi permettete,
però, le orecchie a punta e i capelli lunghi non vi donano.
-
- È il tuo disprezzo a parlare. -
- Anche, ma solo un cieco potrebbe dire il contrario. A me piacete
molto così come siete. - gli accarezzò la
guancia, incatenando i loro sguardi mentre indugiava sul profilo delle
sue labbra, - Dopo questa vittoria, spero abbiate un po' di tempo da
dedicare alla vostra umile servitrice che tanto si prodiga per essere
sempre bella e piacente ai vostri occhi. -
Il Cavaliere la lasciò fare, si concesse di perdersi in
quelle iridi scarlatte e nella promessa taciuta della sua bocca, che
tanto spesso aveva potuto assaporare. Saradreza era bella, come quasi
tutte le Drow che aveva incontrato, ma era l'unica che avesse i capelli
di un rosso naturale, una caratteristica più unica che rara
che destava sempre stupore e invidia in tutte le sue sorelle. Ma agli
occhi di Felther quella chioma fulva richiamava l'immagine di lei e la
sua mente le sovrapponeva, modellando Saradreza fino a farla coincidere
con Airis. C'erano notti in cui riusciva a distinguerle e a lasciare il
suo ricordo fuori dalle lenzuola, altre in cui il bisogno di rivederla
affogava nel fango ogni suo proposito di onestà e
correttezza.
Si massaggiò la fronte con indice e medio, prima di
allungare il braccio per riprendere gli schinieri.
- Non lo so, ultimamente la regina mi affida degli incarichi di vitale
importanza e non posso permettermi distrazioni. Inoltre, non appena
avremo terminato qui, dovrò recarmi di nuovo alla capitale
per far visita a mia moglie e alla mia famiglia. -
Saradreza storse le labbra in una smorfia risentita. Si
alzò, lisciandosi le invisibili pieghe della tunica, e si
prodigò in un inchino ridicolmente plateale.
- Se mi è concesso, Generale, andrei a ultimare i
preparativi. - proferì algida, il capo chino che non
dissimulava l'irritazione nella voce.
Felther la congedò con un gesto della mano, senza
distogliere la sua attenzione da quello che stava facendo. Saradreza
era intelligente, la sua mente affascinante e da quando era tornato in
vita gli era sempre stata accanto, ma non era lei, non lo capiva e mai
avrebbe capito quanto fosse pesante il fardello che si portava sulle
spalle. Ma adesso non importava, il dovere lo chiamava: era un
Cavaliere del Drago, la sua fedeltà e l'onore di Sershet e
della sua sovrana venivano prima di ogni altra cosa.
“I traditori meritano un solo destino.”
Si infilò l'elmo, prese la fiala dal tavolo e trasse un
profondo respiro.
- Lunga vita alla regina. -
La stappò e ne bevve il contenuto, mentre nella sua mente si
levava sempre più forte la voce che recitava il motto del
suo ordine: obbedienza, potere, gloria.
*
La mattina seguente fu una lama di luce grigia a svegliare re Balor. Il
nano aprì gli occhi, se li stropicciò e, prima
che la voglia di girarsi dall'altra parte e godersi le grazie di sua
moglie avesse il sopravvento, si alzò. Eliria dormiva
ancora, con i riccioli rossi sparsi sul cuscino in una matassa ribelle.
Rimase a osservarla inebetito finché la ragione non
scacciò definitivamente il torpore del sonno.
Si avvicinò all'armadio e cominciò a rovistare in
cerca degli indumenti che avrebbe dovuto indossare quel giorno. Avrebbe
potuto chiamare la servitù, ma non voleva svegliare Eliria
troppo presto e soprattutto desiderava rimanere da solo, senza nessun
altro intorno se non l'ingombrante presenza di se stesso.
Le parole di sua moglie l'avevano turbato e, per quanto avesse provato
a rasserenarla, lui era il primo a non sentirsi tranquillo. I cattivi
auspici erano molti, si assommavano e gli pesavano sulla coscienza,
senza che la ragione riuscisse a districarsi in quel guazzabuglio di
segni o presunti tali. Tutto era cominciato quando aveva deciso di
togliere il supporto militare alla regina e aveva ordinato di far
ritirare le truppe, nonostante la chiara disapprovazione della sovrana
e dei suoi sostenitori, che vedevano una fonte di guadagno nel
perpetrare la guerra. Per quel che lo riguardava, Balor non ne voleva
più sapere. Alabastria e il suo popolo erano stanchi di
tutta quella devastazione, i mercanti avevano perso troppo per
continuare a impegnare i loro fondi. Suo padre, Baltazar VI, non lo
aveva capito e per questo nessuno lo aveva compianto quando era passato
a miglior vita, ma lui non aveva intenzione di fare la sua stessa fine.
Non c'era disonore più grande per un re che morire
disprezzato dai propri sudditi e Balor desiderava essere ricordato per
la sua indulgenza e capacità di discernimento, non solo per
la sua forza e il suo coraggio.
Eppure, nonostante tutti i buoni propositi, non riusciva a rilassarsi.
La sera in cui aveva dettato a Rekkr la missiva da consegnare alla
regina, era apparsa nel cielo una cometa. La sua luce aveva illuminato
la volta celeste per poco più di qualche istante, ma tutti
gli uomini presenti alla riunione, tra cui il suo consigliere, suo
cognato e i capi delle famiglie più influenti, avevano avuto
tempo il vederla prima che il suo lucore si spegnesse al di
là dell'orizzonte. Una settimana dopo, un corvo grosso
quanto un falco si era posato sul davanzale della finestra e lo aveva
fissato a lungo, incurante delle sue occhiatacce e dei tentativi di
scacciarlo. Soltanto quando aveva sfoderato la spada l'uccello si era
deciso a levare le tende, lasciandolo con l'impressione che quella
bestiaccia maledetta fosse venuta lì con l'intento di
spaventarlo, il suo sguardo era troppo intelligente per appartenere a
un semplice animale. Anche in quel caso, si era sforzato di riderne,
dandosi più volte del paranoico e del superstizioso, ma
dentro di sé sentiva la viscere contrarsi.
Si morse le labbra e scosse la testa: non poteva lasciarsi condizionare
da sciocchezze senza fondamento proprio in quel momento, doveva
mostrarsi forte, sia per il suo popolo che per sua moglie.
- Geba, è ora. - la chiamò, accostandosi al
letto, - Mando a chiamare le ancelle. -
- Sì... sì, ti ringrazio. - sbadigliò
Eliria, mettendosi seduta.
Balor non riuscì a trattenere un sorriso: gli veniva
spontaneo, lei aveva il potere di rischiarare anche le mattine
più nere. Fece come aveva detto e andò ad aprire
la porta della camera. Senonché, trovò Laecla e
Mererka, vestite di tutto punto, proprio lì dietro, che non
aspettavano altro che il risveglio dei sovrani. Si inchinarono
rispettosamente e oltrepassarono la soglia, cominciando subito a
lavorare. Il re le guardò colpito e si compiacque di tanta
solerzia.
Prima che Eliria fosse completamente nuda, Balor uscì e si
diresse direttamente in giardino. L'aria fredda del mattino gli
sferzò le guance, fece turbinare le foglie ai suoi piedi e
le spazzò via. Il nano ne seguì le acrobazie
finché non scomparvero alla vista, poi intraprese una
passeggiata priva di meta. Aveva bisogno di camminare e non pensare,
come faceva quando doveva prendere una decisione difficile. Ad un
tratto rammentò che avrebbe dovuto chiamare i suoi di
attendenti per aiutarlo a mettersi l'armatura sotto i vestiti e farsi
acconciare i capelli in modo rendersi presentabile, ma un altro soffio
di vento portò via tutto, assieme alle foglie secche.
Sospirò e osservò la sua dimora con espressione
assorta, pur avendo la mente sgombra.
Il Castello di Ferro era la tipica fortezza nanica, imponente e
sgraziata. Nel corso dei secoli i vari re avevano cercato di
abbellirla, dopo la guerra del centesimo solstizio. Era stato un lavoro
nel quale Baltazar VI si era prodigato a lungo e che Balor non poteva
dimenticare. Suo padre aveva convocato gli architetti più
famosi, per lo più gnomi e umani provenienti da Sershet, per
modificare, addolcire e rimaneggiare quell'austero fortilizio con
armoniosi porticati e facciate eleganti, in modo da scacciare la
severità intrinseca di una roccaforte militare e,
soprattutto, ammodernarla per non sfigurare durante le visite di
messaggeri e importanti ospiti stranieri.
Da che Balor ricordava, Baltazar VI aveva perseguito il suo intento
fino alla morte, lasciando dietro di sé una corte indebitata
fino al collo e uno stuolo di concubine e figli illegittimi. Sua madre,
la regina Rissa, aveva preso il comando della città e, con
l'aiuto di Rekkr, era riuscita sia a riassorbire il debito che a
rimpinguare le casse reali. Sicché, quando il trono era
passato a Balor, lui non aveva dovuto preoccuparsi di nulla. Dopo aver
consolidato il proprio potere, Balor aveva sposato Ysylla, la
secondogenita dei Barbanera, una prestigiosa e potente famiglia di
mercanti di spezie. Era stato un matrimonio regale, un'unione
necessaria per riportare in auge una corte ancora povera. Non c'era
amore tra loro, nessuno dei due lo aveva desiderato o cercato. Pochi
anni dopo erano nate due bellissime figlie e, successivamente, Ysylla
aveva dato alla luce anche un maschio, che Balor non aveva visto
crescere perché Sejrel lo richiamò ai suoi
doveri. La lettera che il messaggero gli recapitò diceva che
doveva recarsi a difendere Edon e Mera assieme all'esercito regolare,
poiché c'erano stati degli scontri violenti con gli elfi, ma
Balor aveva letto il messaggio non scritto tra le righe: la guerra
stava arrivando, e per quanto Sejrel avesse fatto di tutto per
evitarlo, ormai erano arrivati a un punto di rottura. Pochi mesi dopo,
il giovane monarca morì, assassinato dal suo più
fidato amico, il consigliere Xerxas Ascrocell, e Voren II, il suo
successore, aveva dichiarato guerra agli elfi. Durante quello stesso
autunno, Ysylla aveva perso la vita dando alla luce un figlio morto.
Balor non aveva potuto fare altro che scrivere ai familiari dal fronte
e non aveva potuto visitare la tomba della moglie. Soltanto allora era
potuto tornare a casa. Era già passato un anno e lui, di sua
moglie, non ricordava altro se non lo sguardo triste di quando l'aveva
salutata. Poi la vita era andata avanti, incurante delle perdite e del
sangue versato. Aveva combattuto difendendo il nord e attaccando il
sud, richiamando le truppe quando necessario e piegandosi a eseguire
ordini che non condivideva.
Era stato durante l'inverno di cinque anni prima che aveva conosciuto
Eliria. Non l'aveva mai notata e, se la solitudine non avesse acuito la
sua capacità d'osservazione, sarebbe passato oltre senza
soffermarsi. Era la terzogenita degli Spezzalancia, una famiglia che
non era nobile, ma che si era conquistata una certa fama grazie
all'audacia dei suoi membri, che annoveravano tra i loro ranghi
guerrieri di grande spessore. Il padre di Eliria aveva da subito
intuito l'interesse del re per sua figlia e l'aveva incoraggiata a
frequentare di più la corte del Castello di Ferro. Anche se
sapeva che non l'aveva fatto per bontà di cuore, Balor
doveva ringraziarlo. Grazie a lui aveva avuto modo di conoscere Eliria,
di apprezzarla e di innamorarsene nel breve tempo che avevano trascorso
insieme prima che la guerra lo reclamasse. La sua anima era rifiorita
in sua compagnia, e con essa era rinato anche l'amore per le cose
belle, per l'arte, per la musica e la poesia. Per lei aveva richiesto
che nei giardini, da tempo abbandonati alle cure disattente di due
pigri giardinieri, fossero piantati tulipani, petunie, ellebori e
astilbe, perché desiderava che Eliria avesse un luogo dove
potersi sedere a leggere e ad ammirare lo spettacolo della natura in
fiore durante le stagioni più miti.
Si chinò per inspirare il profumo di un laurotino e ne
accarezzò le delicate corolle. Abbracciò con lo
sguardo il centro del giardino, dove si innalzava una fontana
raffigurante le due dee dell'amore, Ivmera ed Ehena, le dita
intrecciate sopra le teste e le labbra vicine come se si stessero per
baciare. Balor si avvicinò per poter osservare da vicino le
pieghe del peplo e i capelli, scolpiti in modo che le ciocche delle due
sorelle avvolgessero i loro corpi. Stette lì per un tempo
che non seppe calcolare, ammaliato dalle loro forme e dalla bellezza
dei loro visi, della posa aggraziata, delle labbra schiuse a sussurrare
segreti al vento. Poi i pensieri cupi tornarono ad assalirlo e la magia
si dissolse.
Non poteva permettersi di darla vinta ai dubbi. Quella guerra che tanto
gli aveva portato via doveva finire. Se Wecilia e i suoi sostenitori
volevano continuare, che chiedessero il sangue e il denaro degli altri
alleati, perché da lui non avrebbero più visto
nemmeno una moneta.
- Mio signore, mi dispiace disturbarvi, ma Rekkr mi ha mandato a
ricordarvi che dovete indossare l'armatura prima di andare alla
cerimonia. -
- Riferiscigli che sono adulto, non è necessario che mi
faccia da balia. - rispose con un sorriso Balor al giovane nano che era
venuto a cercarlo.
- Sì, mio signore. Mi manda inoltre a dirvi che il
parrucchiere è nelle vostre stanze che vi attende. -
Il re levò gli occhi al cielo, esasperato.
Quand'è che Rekkr avrebbe capito che i suoi novantadue anni
non erano solo un numero da riportare nella sua biografia?
- Digli che arrivo. - rispose e si diresse verso la fortezza.
Il resto della mattinata procedette senza alcun intoppo, tra i
preparativi per la sfilata verso il tempio. Balor si lasciò
pettinare e abbigliare secondo i gusti del suo consigliere, che aveva
scelto per l'occasione una tunica rossa, accompagnata dal pesante
mantello foderato di pelliccia del precedente re, ricamato con fili
d'oro e ornato di frange. Balor non lo apprezzava, lo trovava
ingombrante ed eccessivo, ma l'annuncio che doveva fare richiedeva che
si mostrasse vestito nel modo più maestoso possibile, quindi
non obiettò. Anche a sua moglie era toccata una sorte
simile, con la sola differenza che lei amava quegli abiti principeschi,
sebbene le parve meno entusiasta del solito. Sebbene sorridesse, Balor
la conosceva troppo bene per non intravedere l'angoscia celata dietro
il trucco e la sua eterea bellezza.
Poco prima di avviarsi, mentre Rekkr e Hannarr davano disposizioni alla
guardia armata, Balor avvertì l'impulso irrefrenabile di
salutare ancora i suoi figli. Li fece scendere da cavallo e li
abbracciò forte, sia le due ragazze, Soryan e Neall, che
avevano ereditato i capelli neri di Ysylla, sia Thraed, che ormai lo
superava di ben due pollici e splendeva nella sua armatura come Bofed,
il campione del vecchio dio della guerra Gurhavat.
- Vi voglio bene, siete la cosa più importante per me. -
sussurrò a tutti in un orecchio, in modo che solo loro
potessero udirlo.
Dopo averli baciati incurante degli occhi indiscreti, sciolse
l'abbraccio e montò sul suo stallone.
Il portone si aprì, ma nel momento in cui il sole
sparì tra le nuvole, la terra tremò, facendo
impennare i cavalli e innervosendo tutto il corteo. Rekkr gli
lanciò l'ennesima occhiata di ammonimento, pregandolo
tacitamente di seguire i suoi consigli e fare l'annuncio dalla
fortezza, ma Balor scosse la testa e massaggiò la criniera
dello stallone fino a quando non percepì più il
peso dello sguardo dell'anziano consigliere sulla nuca.
“Non è niente, queste scosse non sono rare. E poi
non posso più tornare indietro.”
- Mio signore.-
Eliria gli si accostò e gli sfiorò la mano con
una carezza. Anche lei aveva paura, non serviva che parlasse
perché anche lui condivideva i suoi stessi timori.
Guardò la moglie, fiera e bellissima al suo fianco, che
sembrava risplendere di luce propria nell'abito di porpora rossa e
filigrana argentata che indossava. Lui non poteva essere da meno, non
dopo il discorso della sera precedente.
- Avanziamo. - ordinò, impartendo il segnale.
Un tenue raggio di sole si insinuò in un varco tra le nuvole
illuminando il loro passaggio. Balor si augurò che fosse di
buon auspicio.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Allora... ho messo il capitolo con due giorni d'anticipo visto che mi
sentivo particolarmente magnanima... no, scherzo, mi è
piaciuto moltissimo scriverlo, quindi non potevo non sottoporlo
più presto del solito al vostro giudizio u.u Bon, non ho
altro da dire se non, per chi non l'avesse vista, è uscita
la OS su Melwen e Zefiro ( la trovate QUI)
e... niente, spero che i
feels siano tanti u.u
QUI
come al solito trovate la mia pagina per domande e imprecazioni XD
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
La biblioteca privata di
Nordri era la stanza più grande della casa dopo la sala da
pranzo. Era di pianta ottagonale, con esili pilastri a garantire un
sufficiente supporto alle pareti, perforate dalle numerose finestre
architravate, i cui vetri sfoggiavano lo stemma di Alabastria,
circondate da grottesche e armi. Da quando i bambini l'avevano scoperta
– o per meglio dire, avevano tormentato il povero nano
finché questi non aveva dato loro la chiave –
passavano la maggior parte del tempo lì a leggere e a
bighellonare tra gli scaffali in cerca di qualche nascondiglio segreto
o di un codice antico scritto in una lingua dimenticata. Purtroppo per
loro, specialmente per Zefiro, non c'era niente di tutto ciò
nella biblioteca e la maggior parte dei tomi, per quanto vecchi e
polverosi, trattavano argomenti troppo difficili o troppo noiosi,
oppure Melwen li aveva già letti e si limitava a storcere il
naso in una smorfia critica, prima di scuotere la testa e tornare a
concentrarsi sulla storia d'amore di Oberon e Titania. Zefiro, in tutta
sincerità, non capiva cosa ci trovasse di tanto
entusiasmante: nonostante la sua amica conoscesse la leggenda a
memoria, dato che aveva già riletto quel libriccino almeno
una decina di volte, quando correvano a rifugiarsi nella biblioteca
prendeva posto al tavolo sotto la finestra e si immergeva di nuovo
nella lettura, senza rivolgergli la parola per tutto il tempo che
rimanevano lì.
Zefiro sbuffò e scoccò un'occhiata risentita a
Melwen, che, dimentica del mondo, girò pagina e
incrociò le gambe sulla sedia.
“Arciuffi, smettila d'ignorarmi!” avrebbe voluto
gridarle il bambino, ma un moto d'orgoglio lo spinse a inoltrarsi di
nuovo tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa da fare. Frugare tra i
libri era inutile, aveva appurato che non c'era nulla di speciale;
giocare col mappamondo in... come lo aveva chiamato Melwen? Lino
laminato, forse. Beh, non era più così divertente
come le prime volte; a giocare ai “cacciatori di
tesori” da solo non c'era gusto. Se non avesse trovato subito
un passatempo, sarebbe morto di noia.
Bofonchiando tra sé e sé, prese un libro quasi
intonso e si lasciò cadere schiena contro lo scaffale.
Provò a concentrarsi sulle frasi, sillabando le parole,
anche quelle più semplici, così come gli aveva
spiegato sua madre, ma queste scorrevano veloci davanti ai suoi occhi
senza che la sua bocca riuscisse a scandirle con correttezza e
fluidità. Alla fine della prima pagina, poggiò il
libro a terra e abbandonò le braccia lungo i fianchi. Stare
lì non aveva niente di magico se lui e Melwen non erano
assieme.
- Ci vuole impegno in tutte le cose, solo così si
può sperare di raggiungere lo scopo. - diceva spesso Nyi,
anzi lo ripeteva tutte le volte che la sua amica sbagliava un esercizio
o si abbatteva quando, all'ennesimo tentativo, il risultato della magia
non era quello sperato, - Impegno, Melwen, impegno. -
Gli piaceva molto quella parola, amava riempirsene la bocca e infilarla
in ogni discorso, Zefiro sospettava per darsi delle arie, sebbene
dovesse riconoscere che sapeva il fatto suo. Da quando aveva preso
Melwen sotto la sua ala, la sua compagna aveva imparato alcuni
rudimenti della magia, per lo più accenni teorici senza
alcun applicazione pratica. D'altronde, Nyi era stato molto chiaro su
quel punto: Melwen aveva le carte in regola per essere una potente
Dominatrice, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che cominciasse a
padroneggiare correttamente tutti gli elementi.
- Visto che attraversare Esperya ora come ora non è sicuro,
preferisco che la mia allieva impari prima le basi, così che
si possa difendere. - aveva sentenziato circa una settimana prima, - Io
farò di tutto per proteggerla e tenerla lontana dai
pericoli, ma il mondo là fuori sa essere spietato. -
Quando sua madre gli aveva riferito la notizia, Zefiro non poteva
essere più felice: avrebbe potuto passare altro tempo con la
sua amica, godere ancora della sua compagnia, così da
rendere il distacco meno doloroso.
La sua gioia era durata poco però. Nyi sequestrava Melwen
per buona parte della giornata e la sera era troppo stanca persino per
parlare. Per giunta, nei rari momenti che potevano trascorrere assieme,
lei lo invitava nella biblioteca di Nordri, per poi rintanarsi in un
angolo a leggere sempre quel maledetto libro. A volte Zefiro l'aveva
anche vista prendere appunti, anche se non aveva la più
pallida idea di cosa scrivesse così tanto febbrilmente.
Aveva provato a chiederglielo, ma a parte un mugolio scocciato non
aveva ottenuto altro.
Almeno oggi avrebbe visto qualcosa di interessante, si
consolò, ripensando al messo che due giorni prima aveva
annunciato che tutta la famiglia reale richiedeva l'adunanza del popolo
al tempio di Yggrasil. Era una delle tante cose che gli piaceva di
Alabastria, anche se non aveva avuto il tempo di visitarlo, ma da
quello che aveva sentito era davvero molto grande e maestoso,
più di tutti gli altri. Durante i primi giorni passati
lì, Baldur e, in seguito, Nordri avevano raccontato che
nella città erano presenti tredici templi, ognuno dedicato
alle divinità che costituivano il pantheon ufficiale,
sebbene fossero ancora in molti a venerare gli dei
“pagani”, quelli che per secoli avevano condiviso
con gli elfi.
- Alla fine, sono la stessa cosa. Ivmera ed Ehena sono i corrispettivi
di Calime e Xana, così come Ovenar è Gurhavat,
solo con un nome diverso. Ovviamente anche noi ci siamo adeguati al
cambiamento e in via ufficiale è a loro che rivolgiamo le
nostre preghiere, ma ci sono molti nobili mercanti che conservano nelle
loro residenze private dei tempietti dedicati alle precedenti
divinità. - aveva spiegato il padrone di casa, mentre si
gustava un cannolo ripieno di ricotta, mandorle e miele.
Quando Zefiro gli aveva fatto notare che era una cosa strana, il nano
era scoppiato a ridere così forte che parte del contenuto
del cannolo gli aveva sporcato la barba.
- Hai ragione, ragazzo, ma che ci vogliamo fare? Sono i re che decidono
tutto, anche chi e cosa merita di ricevere le nostre preghiere. -
Zefiro non aveva mai creduto in nessun dio. Aveva accompagnato sua
madre al piccolo tempio di Amount-vinya quando glielo chiedeva e si era
divertito a ridipingere le statuette degli Athairi e degli Ithei, ma
per lui non avevano alcun significato. Erano statuette, nulla di
più. Le curava, si occupava di tenerle sempre pulite e le
pregava quando era necessario, ma lo faceva più per sua
madre, per farla sentire meno sola. Il giorno in cui i soldati compagni
di suo padre erano venuti a bussarle alla loro porta, aveva capito che
non c'era nessuno spirito protettore a vegliare su di loro.
- Zefiro! Zefiro, vieni subito qui! -
Il bambino scattò in piedi e si diresse quasi di corsa al
tavolo. Melwen saltellava tutta eccitata, bacchettando col dito sulla
pagina del libro.
- L'ho trovato! -
- Trovato cosa? -
- Come cosa? La mappa! - prese il tomo e glielo mise sotto il naso, -
Guarda qui. Ci ho messo un sacco per decifrarla, ma finalmente ci sono
riuscita. -
Zefiro rimirò a bocca aperta i contorni luminosi di una
terra che non aveva mai visto. Le montagne si innalzavano agli angoli
della pagina, circoscrivendo una piana. A nord si ergeva il profilo di
una foresta, mentre al centro era stato vergato con una calligrafia
elegante “Asiria”. Zefiro si grattò la
nuca, dubbioso. Melwen lo fissava con la sua solita espressione da
maestrina, quella che assumeva quando intuiva che il suo amico non
sapeva di cosa stesse parlando e si preparava a una lunga e dettagliata
spiegazione, con annesso un rimprovero da
“so-tutto-io”, ma stavolta Zefiro non aveva
intenzione di capitolare così facilmente. Si spremette le
meningi, aggrottò le sopracciglia e strizzò gli
occhi, vagliando tutte le storie, le leggende e anche le dicerie che
aveva sentito. Non poteva essere così difficile, diamine!
- Se non lo sai te lo dico io... - sogghignò Melwen.
- So benissimo cosa è Asiria, solo in questo momento mi
sfugge. -
- Ti sfugge. -
- Sì, mi sfugge! -
La sua amica gli tirò il naso e gli diede le spalle
risentita.
- Ahia, mi hai fatto male! -
- Non era certo mia intenzione farti una carezza. -
Zefiro si massaggiò la parte offesa e tornò a
guardare il libro, ma rimase interdetto quando sotto i suoi occhi non
trovò altro che la miniatura del re e della regina delle
fate stretti in un abbraccio sensuale sotto un ginepro in fiore.
- Ma... ma dov'è la mappa? -
- Sei stato lento ed è sparita. È una cosa
segreta, cosa ti aspettavi? Che rimanesse lì in eterno? -
Melwen gli si accostò e passò il dito sulla
pagina, mormorando a bassa voce una litania incomprensibile. Le parole
e il disegno svanirono, assorbiti dalla carta stessa, e il profilo
luminoso della mappa si tratteggiò ancora sotto i loro
occhi, come se un pennello invisibile la stesse delineando proprio in
quel momento.
- Allora? Cosa pensi che rappresenti? - tornò subito alla
carica Melwen.
- Dunque, se stiamo parlando della leggenda di Oberon e Titania...
credo... - gettò un occhio sulla mappa, - Potrebbe essere la
città imperiale? -
- Hai tirato a indovinare, scommetto. -
- Può darsi, ma dalla tua faccia capisco d'aver indovinato.
- sghignazzò Zefiro.
Melwen sospirò e lo invitò a condividere la
poltroncina assieme a lei. Era stata pensata per far sedere un nano
grande almeno quanto Baldur e loro due, anche se stretti, potevano
stare vicini.
- Comunque è inesatto chiamarla città imperiale.
Le fate, almeno questo dice la leggenda, si sono ritirate in questo
luogo-non-luogo, perduto chissà dove dopo la Guerra del
Centesimo Solstizio, e il loro regno non è così
grande. -
- Non sapevo che tra le armate di Arawan ci fossero anche loro... -
- Nemmeno io, l'ho scoperto leggendo qui. - poggiò il libro
contro le gambe e lo sfogliò fino alle prime pagine, -
Secondo l'autore, il re degli elfi intraprese un viaggio fino al loro
regno per chiedere un'alleanza con Oberon e Titania. Vedi? Qui aggiunge
che fornirono loro non solo le loro armate, ma scesero anche in
battaglia al loro fianco. -
- Strano che nessuno li abbia mai menzionati. -
- Non così tanto. Alla fine, la guerra contro Aesir
è stata combattuta tanti secoli fa, magari si sono perse le
testimonianze di allora. -
- Ma quindi... tu per tutto questo tempo hai cercato questa mappa?
Perché, poi? È così importante? E
soprattutto come facevi a sapere che era proprio in questo libro?-
- Lo avevo letto in uno dei libri della biblioteca di mio padre. Non
credevo possibile che un essere umano fosse davvero riuscito ad andare
e a tornare dal regno delle fate e avesse trascritto la mappa in un
libro di storie, però è evidente che mi debba
ricredere. - chiuse di colpo il libro e alzò la testa, i
capelli ricci e ribelli che ricadevano oltre lo schienale, - Pensaci,
se queste informazioni giungessero alle orecchie giuste, potremmo
cambiare le sorti di questa guerra. Potremmo evitare altre stragi,
altri morti, altra sofferenza se le fate decidessero di lottare al
nostro fianco come tanti anni fa. -
Zefiro tacque, limitandosi ad appoggiare la mano sul suo ginocchio,
abbastanza lontano per non sfiorarla e abbastanza vicino
perché bastasse poco per stringere quella di Melwen se lei
l'avesse voluto. Melwen allungò il mignolo e lo
intrecciò con il suo, finché le loro nocche non
si toccarono. Zefiro sapeva che il suo cuore sanguinava ancora e che
quelle parole nascondevano il desiderio che nessun altro provasse lo
stesso dolore che aveva straziato lei.
- Quindi cosa hai intenzione di fare? -
- Ne parlerò con Nyi. So che a te non piace, ma è
un Dominatore davvero bravo e credo che saprà dirmi cosa
è più giusto procedere. Se non fosse stato per
lui, per le sue lezioni di magia, non sarei riuscita a individuare la
mappa nascosta.-
Zefiro annuì greve. No, non gli sarebbe mai piaciuto. Le
stava portando via la sua migliore amica. Non sarebbe mai riuscito a
perdonarlo.
- Forza, sarà meglio prepararci per la cerimonia. Ti ricordi
che stamattina dobbiamo andare al tempio, vero? -
Melwen si raddrizzò di scatto e lo fissò con
tanto d'occhi. Zefiro incrociò le braccia sul petto e le
porse la mano per aiutarla ad alzarsi, trattenendo a malapena un
sorriso divertito.
- Dici che il tonto sono io e tu ti dimentichi di una cosa tanto
importante? - la prese in giro, mentre uscivano dalla biblioteca mano
nella mano.
- Sono stata così presa dall'allenamento con Nyi e dalla mia
ricerca che l'ho accantonato... -
- Non ti devi giustificare, anche io spesso e volentieri mi dimentico
le cose. -
Non era vero, lui ricordava qualsiasi cosa, anche il più
stupido dettaglio, ma con lei era più divertente giocare al
finto smemorato.
Uscirono dalla biblioteca e Zefiro l'accompagnò nella camera
di sua madre, dall'altra parte della villa rispetto a dove si trovavano
loro. Myria li attendeva sulla soglia, con le mani sui fianchi e le
labbra arcuate in un sorriso che condivideva con Skjaldi, la sua
cameriera personale. A Zefiro aveva da subito ispirato simpatia e,
anche se si vergognava a dirglielo, i suoi capelli, di un castano
dorato, erano belli quasi quanto quelli di sua madre.
- Strei, se volete posso occuparmi io di entrambi. - esordì
la serva, inclinando la testa verso Myria.
- Assolutamente no. Ho sempre desiderato avere una femminuccia di cui
occuparmi. Zefiro è dolce, ma non posso di certo fargli
indossare gonne e merletti. -
- Anche perché sarebbe molto imbarazzante, mamma. -
ribatté il diretto interessato con una smorfia di disappunto.
- Secondo me invece ti starebbero anche meglio che a me. - si intromise
Melwen, ma il sorrisetto che le distendeva le labbra la diceva lunga su
quanto credesse a quelle parole, - Fila via ora, le donne hanno bisogno
dei loro spazi e tu non sei il benvenuto. -
- Va bene, va bene, me ne vado, non serve cacciarmi così. -
Alzò le mani in segno di resa e lasciò che
Skjaldi lo conducesse nella stanza attigua, un'ampia camera spartana
riscaldata da un camino di marmo. La luce si faceva largo tra le pieghe
delle tende e si rifletteva sui mobili incerati e sul basso tavolino di
legno di quercia con le gambe intagliate a zampa di leone, accentuando
al contempo il color pastello delle coste lise dei tomi sugli scaffali
della grande libreria a muro. Zefiro presuppose che fosse un'altra
camera degli ospiti, la villa di Nordri ne era piena. E non c'era
stanza in cui non ci fossero libri.
- Vostra madre ha scelto personalmente cosa dovrete indossare. Il
nostro signore spera che le misure fornite siano quelle giuste e
desidera dirvi, qualora avesse sbagliato, di comunicarglielo presto. -
Zefiro annuì, sebbene si sentisse un po' in imbarazzo a
sentirsi trattare con così tanta reverenza.
- Mi dovret... - si interruppe e tossicchiò, - Dovrai
vestirmi tu? -
- Come preferite. Il mio ruolo è quello di aiutarvi, ma se
vi fa sentire a disagio posso attendere qui fuori. - gli
scoccò un'occhiata complice, come se sapesse cosa gli
avrebbe risposto.
In effetti, quando Zefiro confessò che avrebbe preferito
fare da solo, non parve sorpresa.
- Vi lascio, allora. Se avete bisogno di me, chiamatemi. -
La donna chinò la testa e rimase così,
finché il bambino non capì che stava aspettando
che lui la congedasse. Con un impacciato cenno del capo, le diede il
permesso di uscire e, non appena la porta si chiuse alle sue spalle,
passò a esaminare gli abiti che sua madre aveva scelto per
lui. La camicia, distesa sul materasso del letto, era di un rosso molto
scuro che si sposava con quello nero delle braghe e ai guanti di pelle.
Erano molto aderenti alla mano e Zefiro si stupì quando si
accorse quanto fossero lunghi. Si stupì ancora di
più nel vedere la tunica di lana morbida che avrebbe
indossato, di un rosso acceso e con le maniche ampie ricamate con fili
bianchi e gialli. Ma la cosa che più gli piacque fu il
berretto di feltro che Skjaldi aveva appoggiato sul cuscino: era
bellissimo e caldo, e abbinato con la spada di legno che gli aveva
regalato Baldur lo faceva sembrare un principe. Un principe vero, come
quelli delle favole che Melwen adorava.
Corse fuori con un solo stivale e, mentre tentava di infilarsi l'altro,
quasi inciampò. La serva lo guardò con un ghigno
divertito, ma non commentò. Zefirò la
ignorò, smanioso di vedere la sua amica e sapere che abiti
avrebbe indossato. Lei che amava i vestiti graziosi ed eleganti, non
avrebbe preteso niente di meno.
Si appoggiò alla parete di fronte alla sua porta e rimase in
trepidante attesa, fantasticando su come sua mamma l'avrebbe fatta
vestire. In un angolo del suo cuore, sperava che anche lei avrebbe
visto un cavaliere senza macchia e senza paura e non il suo solito
amico fifone, quello che si divertiva sempre a prendere in giro.
“Potrei essere il tuo Oberon, se lo volessi.”
- Le piacerete, ne sono certa. -
Skjaldi gli si affiancò e gli rivolse un sorriso
d'incoraggiamento. Zefiro puntò gli occhi sulla punta dei
piedi e non provò nemmeno a negare, non era mai stato bravo
a mentire.
- Come fai a dirlo? -
- Sono una donna, so cosa ci piace. Dubitate forse della mia parola? -
- N-no... -
- Allora, se acconsentite, vi darò un altro consiglio. - gli
si mise davanti e gli fece arcuare le labbra, - Sorridete, una donna
che vede il proprio compagno sorridere si sentirà ancora
più bella. -
Zefiro avvampò fino alle orecchie e stava già per
bofonchiare una serie di scuse senza senso, quando la porta si
aprì. Un sorriso si dipinse spontaneo sulle sue labbra.
Melwen indossava un vestito turchese damascato, con una lunga gonna
ricamata con inserti di velluto verde. La cintura di seta le circondava
i fianchi per poi intrecciarsi sul davanti, ricadendo in due nastri
fino quasi a terra. Mentre avanzava fece una piroetta per farsi vedere
da Skjaldi.
Zefiro non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: con i riccioli che
le vorticavano sulle spalle e la ghirlanda di calendule sul capo,
sembrava una fata. Quando Melwen si accorse di lui, gli andò
incontro e si inchinò, tirando su la gonna come una vera
principessa. Zefiro si affrettò a fare lo stesso, ma si
piegò troppo e quasi le cadde addosso.
- Sei il solito imbranato... - ridacchiò Myria e gli si
avvicinò per lisciargli le pieghe dell'abito, - Stai
davvero, davvero, davvero bene. Non trovi, Melwen? -
- Sì, gli abiti gli calzano a pennello. Il sarto di Nordri
ha fatto un ottimo lavoro. -
- Oh, non è stato nulla di che, ha solo preso alcuni vecchi
abiti del signore e li ha rimessi a nuovo. Da quello che mi ha riferito
il suo aiutante, si è anche divertito. -
puntualizzò Skjaldi, poi si rivolse a Zefiro, - Posso
riferirgli che ha fatto un buon lavoro e che non ci sono modifiche da
fare? -
- S-sì, ditegli che sono molto soddisfatto. -
farfugliò, prima che il suo sguardo venisse nuovamente
calamitato da Melwen, una domanda sulla punta della lingua.
“Vuoi essere la mia dama?”
- Camminare con quelle scarpette non deve essere semplice. Se vuoi
puoi... puoi appoggiarti a me. - offrì, sentendosi avvampare.
La bambina annuì convinta e lo prese a braccetto. Il rossore
imporporò le guance e le orecchie di Zefiro, ma era troppo
felice per farci caso. Notò appena le occhiate che sua madre
e Skjaldi si scambiarono.
All'ingresso della villa c'erano sia Nordri che Baldur ad aspettarli,
il primo vestito di tutto punto, con in più un mantello
color antracite drappeggiato sulle spalle, l'altro con addosso dei
semplici calzoni, stivali alti e una tunica di lana grezza con il collo
foderato di pelliccia, la fidata ascia ben in vista attaccata alla
cintola. Zefiro invidiava la sua tempra d'acciaio, pareva che nulla
potesse scalfirlo, nemmeno il vento gelido che spazzava la
città a quell'ora del mattino.
La strada che conduceva al tempio era ampia e scendeva verso di esso
senza nessuna deviazione d'interesse. La gente, avvolta chi in pesanti
mantelli preziosi, chi con degli indumenti più semplici,
procedeva sull'acciottolato a passi lenti a causa del freddo pungente,
ma anche perché man mano che ci si avvicinava al sagrato la
folla aumentava sempre più e muoversi diventava difficile.
Più di una volta a Zefiro calpestarono i piedi, ma
l'emozione era talmente forte da offuscare il fastidio. Con Melwen a
braccetto che cinguettava allegra, raccontandogli quello che si erano
dette lei e Myria, tutto passava in secondo piano. Si
vergognò moltissimo quando la scossa di terremoto lo spinse
a cercare sua madre con lo sguardo. Nel momento in cui sentì
le sue braccia avvolgerlo smise di tremare, ma ormai la magia era
rotta. L'unica cosa che lo consolava era che tutti, Baldur compreso, si
erano spaventati. Sospirò e strinse la mano della sua amica,
fingendo di guardare altrove: almeno la sua pavidità per una
volta sarebbe passata inosservata.
- Per Gurhavat, stavolta ha tremato davvero forte! -
commentò Nordri.
- Di questi tempi, la terra è più instabile del
solito. Non mi sorprenderei che fosse tutta colpa di quella maledetta
esplosione. - mugugnò Baldur, - Cosa dice quel
lancia-incantesimi? -
- Come fai a dire che ha detto qualcosa? -
- Perché deve fare l'intellettuale, figurati se non ha una
sua personale teoria su quello che sta accadendo. -
Myria si coprì educatamente la bocca per nascondere un
sorriso, mentre Melwen gli scoccò un'occhiata torva. Zefiro
dovette obbligarsi a rimanere imperturbabile.
- Sì, ha detto qualcosa riguardo all'energia sprigionata
dall'esplosione, che potrebbe essere la causa
dell'instabilità del tempo e della terra, ma ammetto di non
aver capito bene. - ammise Nordri, incassando la testa nel collo di
pelliccia, - Quando torneremo a casa, gli chiederò
delucidazioni. -
- Sono certo che non vede l'ora di sbrodolarti addosso le sue
supposizioni. -
- Sei troppo diffidente nei suoi confronti. Ha accettato di aiutare
Melwen, la sta addestrando e presto la porterà via da qui.
Di quale altra dimostrazione di fedeltà hai bisogno per
convincerti che non ha intenzione di raggirarci? -
- Ha ragione, Baldur. - lo precedette Myria, sfiorandogli la spalla, -
Io non conosco bene Nyi, forse è un po' misterioso e si
diverte a parlare in modo criptico, però non credo che
potesse diventare un amico così ben accetto se Nordri non
l'avesse reputato degno di fiducia. -
- Esatto! Quindi non parlare male di lui! - lo rimbeccò
Melwen, mentre si liberava dalla stretta di Zefiro e a fatica si
avvicinava, puntandogli un dito sul petto, - Può non
piacerti, ma è il mio maestro e non ti lascerò
dire pesti e corna di lui solo perché sei prevenuto verso
quelli come noi. -
Messo alle strette, il nano dapprima guardò Nordri, poi
Mirya, infine Zefiro. Quando però si rese conto di essere
sotto assedio e che i rinforzi non sarebbero arrivati, alzò
le mani in segno di resa e, borbottando tra sé e
sé, li incitò a farsi largo per andare
più avanti. Zefiro gli avrebbe voluto dare man forte, ma
aveva troppa paura dell'ira della sua amica.
Avanzarono fino alla seconda fila, incuranti di essersi lasciati alle
spalle una sequela di grugniti e mezzi insulti. Baldur era davanti a
tutti, seguito da Nordri e infine, come uno spirito protettore, Myria.
Zefiro avrebbe preferito che stesse qualche passo più
lontana, ma il timore nel suo sguardo e la tensione nelle spalle lo
indussero a tacere. Allungò la mano libera e prese la sua,
elargendole il sorriso più rassicurante di cui fosse capace.
Era l'unica cosa che potesse fare e, seppure piccola, sperava che
bastasse perché sua madre si rasserenasse un poco. Myria lo
ringraziò con lo sguardo e gli passò la mano
sulla schiena.
Il sole si era aperto un varco nello strato ovattato di nubi e nebbia.
Opache lame di luce illuminarono il sagrato del tempio e guizzarono
sulle armature bronzee dei cento cavalieri del re che stavano
attraversando la piazza e le vesti della famiglia reale, baluginando
sugli ornamenti d'oro e infrangendosi sui tessuti raffinati, velluti,
broccati, merletti e ricami preziosi delle ampie gonne. I cavalieri
montavano dei Dizit, i quali esibivano le quattro zanne seghettate che
fuoriuscivano dalla bocca ornate con degli anelli affilati sulla punta.
Avanzavano disciplinati, in formazione attorno al re, per nulla
spaventati dalla folla assiepata per assistere al corteo.
Zefiro osservò i Dizit a bocca aperta, come se fosse la
prima volta. Somigliavano a dei cinghiali, ma erano più
grossi, più pesanti e più feroci. Baldur gli
aveva rivelato che la loro pelle era così dura da poter
respingere anche la lancia di un cavaliere in carica.
Balor procedeva in groppa a un morello, affiancato da sua moglie
Eliria. Lui indossava una corona di una disarmante
semplicità, un cerchio d'oro con una semplice gemma preziosa
incastonata al centro, in pendant con la tunica rossa e il pesante
mantello foderato di pelliccia che copriva la groppa del cavallo ben
oltre la sella. Suo figlio, Thraed, avanzava risoluto e impettito
dietro di lui, elargendo sorrisi a tutti e fingendo di ignorare le urla
di giubilo che si alzavano come in un coro disarmonico dalla folla.
Smontò immediatamente dopo suo padre e sua madre, per poi
aiutare le sue sorelle a scendere da cavallo.
- Dei, le hai viste? Hai visto i loro abiti? - mormorò
meravigliata Melwen.
Myria non sapeva che dire, era senza parole, così ci
pensò Zefiro ad annuire. Come avrebbe potuto non accorgersi
di loro? Soryan e Neall erano splendide nei loro abiti di seta, in
netto contrasto con i capelli nerissimi, intrecciati con fili dorati e
nastri colorati. Tutta la folla esplose in uno scroscio di applausi.
- Quello lì chi è? - domandò dopo un
momento, indicando un nano in groppa a un sauro in coda al corteo.
- È il consigliere del re, si chiama Rekkr. È il
braccio destro di Balor, lo segue fin dalla tenera età e il
re gli è molto affezionato. - rispose prontamente Melwen,
accostandosi per farsi sentire, - Deve rimanere indietro rispetto alla
famiglia reale perché non c'è nessun vincolo di
parentela tra di loro, ma il fatto stesso che sia qui e non al Castello
di Ferro sottolinea quanto Balor lo tenga in grande considerazione. -
Quando tutta la famiglia reale fu entrata, i cavalieri diedero il
permesso alla folla di fluire nel tempio. I sacerdoti, nani e nane
adornati con ampie vesti bianche e a piedi scalzi, diedero il benvenuto
al loro re e si allinearono ai piedi della statua di Yggrasil, una
decina di passi dietro l'altare. La luce del sole filtrava dalle
vetrate e la statua del Padre di tutti gli dei seduto su un trono si
ergeva imponente con i suoi quasi quaranta piedi d'altezza, dando
l'impressione che se si fosse alzato avrebbe scoperchiato il tempio;
fissava la folla con i suoi occhi di pietra, reggendo nella sinistra lo
scettro con Vedrafnir e Nordranfir, l'aquila e il falco suoi
consiglieri, e nella destra Anerwyn, la Forbice del cielo, la spada con
cui aveva sconfitto Aesir. Zefiro si sentì intimorito da
quello sguardo severo e, istintivamente, nel togliersi il capello
abbassò il capo, prima che Melwen lo trascinasse verso gli
ultimi posti rimasti a sedere a metà della navata.
- Mamma, se sei stanca posso... -
Myria negò e si accucciò vicino a lui,
così da non occludere la visuale a nessuno. Sorrideva
incantata, senza riuscire a staccare lo sguardo dal re e dalla sua
famiglia. Persino Nordri, che di solito non si scomponeva mai,
osservava rapito la scena. Baldur era al suo fianco, ma non sembrava
stupito, come se fosse abituato a manifestazioni del genere.
Un'altra scossa fece tremare le colonne, crepò le vetrate e
per un lungo istante la tensione si poté tagliare come un
coltello. Con il viso nascosto nel collo di sua madre e con le unghie
di Melwen piantate nel braccio, Zefiro si costrinse a ricacciare
indietro le lacrime.
Quando tornò a regnare la calma, Balor aggirò
l'altare, si inginocchiò brevemente davanti alla statua del
dio e, fronteggiando di nuovo il popolo, levò alta la voce,
che riecheggiò nel tempio sicura e ferma.
- Popolo di Alabastria, giungo qui dinanzi a voi non in veste di re, ma
di semplice uomo. Questa corona, per quanto bella, è un
fardello che grava su di me e sulla mia famiglia da secoli.
È il simbolo del potere, della forza, ma l'oro con cui
è stata forgiata è intriso di sangue, sudore e
angosce. - si tolse la corona e se la rigirò tra le mani,
per poi sollevarla in modo che tutti potessero vederla, - I miei
antenati la fecero forgiare dai loro migliori artigiani e decisero
l'ordine in cui incastonare le pietre secondo i principi su cui si
fonda la nostra città: forza, nobiltà d'animo,
coraggio, rispetto, saggezza. Come vostro re sono tenuto ad essere un
esempio, un modello per tutti, ma oggi non vi parlerò in
vesti di regnante. Questa guerra, questa lunga e dolorosa guerra, ci ha
portato via tanto. Non mi riferisco solo alle risorse naturali o al
denaro. Parlo del tempo e dei nostri cari, i fratelli che giacciono
insepolti davanti a Llanowar, cibo per corvi e cani randagi. La foresta
non esiste più, come ben saprete, è stata
distrutta. Molti hanno gridato al miracolo, altri hanno maledetto gli
elfi e ringraziato gli dei per la punizione che hanno loro inferto, ma
la verità è che questa non è che
un'effimera vittoria, una candela tremolante nel bel mezzo di una
bufera. -
Si rimise la corona e scrutò in mezzo alla folla, come se
stesse cercando qualcuno, un colpevole da punire, mettere a morte.
Zefiro si irrigidì quando il suo sguardo si posò
su lui e il respiro gli rimase incastrato in gola finché non
passò oltre.
- Abbiamo vinto, fratelli. La foresta è caduta, gli elfi
sono stati uccisi e ora della loro roccaforte non rimane altro che
cenere. Ci ergiamo vincitori su una pila di cadaveri, li irridiamo,
mentre i vermi e gli avvoltoi banchettano sui nostri nemici, dimentichi
che tra quei corpi giacciono anche quelli dei nostri padri, dei nostri
amici, dei nostri figli. Sono lì, carne carbonizzata senza
nome, senza onore, irriconoscibili anche ai nostri occhi, mentre noi ci
beiamo di aver sconfitto i nostri nemici, perché la guerra
ci ha resi ciechi e sordi e l'unica cosa che riusciamo a vedere
è quella fiammella incerta nella tempesta. Possiamo
alimentarla, ma prima o poi si spegnerà. Allora ci renderemo
conto di essere di nuovo soli, di nuovo infreddoliti, di nuovo
disarmati davanti alla terribile forza della natura. Sono anni che
siamo intrappolati e non abbiamo mai pensato di fermarci, di
raccogliere i nostri morti e di tornare a casa, al riparo. Abbiamo
chiuso gli occhi davanti alla realtà, asserragliati nel
nostro orgoglio e nelle nostre credenze; abbiamo continuato a
combattere contro il vento, senza renderci conto che non c'è
arma che lo possa ferire o freccia che lo possa uccidere. La
verità è che io non ricordo più
perché abbiamo mosso guerra agli elfi, cosa ci ha spinti a
radere al suolo le loro foreste. Voi vedete la nostra città
più ricca? Vi sembra che le nostre strade sono
più ampie, le nostre miniere più piene, i nostri
commerci più prolifici? Le vostre tasche sono forse
più pesanti? Vi dirò quello che vedo e che ho
visto io: dolore, sofferenza, vuoto. Abbiamo pagato un pesante tributo
in questi anni, lo abbiamo fatto perché siamo dei guerrieri,
perché siamo nati per combattere, perché nel
nostro sangue scorre la lava dei vulcani e le nostre ossa sono fatte di
ferro, ma alla fine abbiamo perso molto. Ricchezza, vite, tempo: queste
cose ci sono state indebitamente sottratte e, se non ci svegliamo, ci
verrà richiesto di farlo ancora, ancora e ancora,
finché i fiori della terra non nasceranno dello stesso
colore delle nostre viscere. -
La folla cominciò a bisbigliare, alcune donne si strinsero
ai loro uomini e i bambini fissarono i loro genitori, nei loro sguardi
un'inespressa preghiera.
- Abbiamo firmato un accordo tempo fa, un'alleanza tra nani e umani. I
re di allora decisero che saremmo dovuti intervenire in favore gli uni
degli altri per difenderci e combattere un nemico comune. Una guerra
giusta, perché la pace non è che una fievole luce
nell'oscurità e noi abbiamo il compito di difenderla. Ma in
questo conflitto non c'è niente di onorevole, di glorioso,
niente che valga la pena proteggere. - trasse un profondo respiro e
alzò le mani al cielo, - Per questo io oggi dichiaro che
Alabastria non manderà più truppe! Sershet non
avrà più alcun supporto militare o economico da
parte nostra! Non mi farò accecare dall'orgoglio, dal
desiderio di vittoria, dalla brama di potere. Sono un re e il mio primo
compito è proteggere il mio popolo. E voi avete
già pagato il vostro tributo di sangue troppo a lungo. Non
lo permetterò più, mai più, lo giuro
qui, davanti al Padre, che la morte mi colga se non dovessi rispettare
il mio giuramento! -
La terra tremò di nuovo, un rombo di tuono si
riverberò in tutto il tempio, rimbalzando sulle pareti come
se le volesse sfondare. Il marmo resistette, le colonne anche,
così come il soffitto, tutta la struttura si oppose alle
scosse. Non sarebbe crollata, tutti sapevano che era stata
appositamente costruita per rimanere in piedi, ma la paura
serpeggiò tra le fila, fece serrare la folla come dei
bambini spaventati. Gli sguardi rimasero puntati sulla figura del re,
che, come un campione divino, si ergeva davanti all'altare, stringendo
a sé i suoi familiari con le braccia, e con gli occhi tutti
i presenti. Lui era lì per loro, li avrebbe protetti, questo
diceva il suo portamento e la determinazione che brillava nelle iridi
color onice.
Quando la terra si placò, dall'esterno si udì un
tramestio e poi qualcuno cominciò a farsi largo in mezzo al
muro di nani che riempiva il tempio. Zefiro intravide appena un
baluginio metallico e una barba ispida.
- Fatemi passare, devo parlare con il re! -
Balor scese i tre scalini che lo separavano dalla prima fila di panche.
Bastò un semplice cenno della sua mano affinché
le persone ammassate si aprissero lasciando un varco, facendo passare
un nano in armatura pesante, con gli occhi verdi spiritati e la faccia
pallida. Subito dietro lo seguiva Rekkr a passo svelto.
- Maestà, ci attaccano! - sbraitò il nuovo
arrivato.
Balor si irrigidì: - Chi? -
- Gli elfi, signore. Sono qui, alle porte della città.
Avanzano da ovest e da est, sono un'intera armata! -
- Non è possibile, non ci sono più elfi qui al
nord, sono stati tutti sterminati. - intervenne Bofed, la voce
incrinata dall'agitazione.
Prima che potesse aggiungere altro, Balor gli intimò di
tacere e poi si rivolse alla folla.
Zefiro sudò freddo. Non riusciva a respirare e la paura
cresceva ad ogni istante che passava. Negli occhi di Melwen, di Myria e
di tutti gli astanti lesse lo stesso profondo, terribile orrore.
“Dei, non di nuovo...”
- Tornate nelle vostre case e barricatevi dentro. Rekkr, mobilita
l'esercito e fa' preparare le armature. Smar di che numeri parliamo? -
- Il doppio, forse il triplo del nostro esercito attuale. - rispose il
nano dagli occhi verdi.
Il re non si scompose, ma la sorpresa era evidente nel suo sguardo.
Tutti i presenti attendevano col fiato sospeso.
- Smar, va' alle prigioni, di' ai prigionieri che la corona li richiama
al loro dovere. Prometti loro una grande somma e falli scortare alla
porta sud della città. Trova il comandante delle guardie
cittadine. - si scambiò un'occhiata con il suo consigliere e
poi si rivolse a Bofed, - Figlio, porta tua madre e le tue sorelle al
Castello di Ferro e rimani lì a proteggerle. -
Il giovane principe storse le labbra e aprì la bocca per
obiettare, ma bastò un'occhiata ammonitrice del padre per
ridurlo al silenzio. Chinò il capo e prese la regina
sottobraccio, mentre le guardie sgomberavano il tempio.
Prima di essere trascinato via da Baldur, Zefiro vide le mani di Eliria
e quelle di Balor sfiorarsi e i loro occhi adombrarsi, come se quello
fosse il loro ultimo incontro. Poi il re si voltò e, assieme
a Rekkr, uscì fuori.
*
- Che ne pensi, Negan? -
Il comandante delle sue armate, il più anziano ed esperto,
scrollò le spalle in modo eloquente: - Sono tanti, mio
signore. -
Balor strinse appena le briglie e scrollò le spalle. Non aveva mai
visto così tanti elfi riuniti in un solo esercito, tanto
più fuori dalle loro amate foreste. In verità,
non credeva avrebbe mai più rivisto quelle armature verdi e
bianche traslucide, che all'evenienza potevano assumere la stessa
colorazione della neve e della vegetazione più fitta. Aveva
combattuto a Llanowar troppo a lungo e per troppi anni per non
riconoscerle.
Si morse le labbra e trasse un profondo respiro, prima di girarsi a
guardare là dove gli arcieri si erano posizionati,
acquattati in modo da avere un buon campo di tiro e allo stesso tempo
essere dei bersagli difficili, irraggiungibili.
Balor trasse un profondo respiro, stringendo le briglie del suo Dizit.
Aveva affrontato gli elfi molto spesso in battaglia, conosceva i loro
punti di forza e le loro debolezze e sapeva che avrebbe dovuto gioire
nel vederli così scoperti, lontani dal riparo sicuro della
loro foresta. Tuttavia, più osservava quella marea verde
più quel sentimento d'inquietudine gli raffreddava il
sangue. Non aveva senso che fossero lì. Per quanto in
superiorità numerica, non sarebbero mai riusciti a prendere
Alabastria con un attacco frontale, avrebbero dovuto saperlo. A meno
che non avessero un asso nella manica.
Il Dizit sbuffò, raspò la terra con gli zoccoli e
scosse la testa.
- Buono, bello, buono. - Balor gli accarezzò il collo e la
criniera, tirando appena le redini per farlo retrocedere.
- Anche lui sente l'eccitazione e la fame di sangue, maestà.
- Negan sorrise e con lui anche gli altri capitani che lo affiancavano.
Erano nani che comandavano un centinaio di armati, uomini duri,
temprati dalla guerra e protetti da pesanti armature. Nonostante il suo
discorso, Balor poteva leggere nei loro occhi una rabbia fredda,
controllata, che non attendeva altro che il suo segnale per scatenarsi.
Volevano che gli elfi pagassero, sembrava quasi sperassero che
venissero sotto le loro mura per farli a pezzi così come
loro li avevano falciati con le loro maledette frecce.
“Vogliono vendetta.”
Non poteva biasimarli, anche lui aveva covato un profondo rancore fino
a quando non aveva conosciuto Eliria. Doveva combattere per lei,
respingerli per garantire la sua vita e quella del bambino che portava
in grembo.
- Ho spedito un messo a Lotka per chiedere rinforzi, come mi avevate
chiesto. - lo informò Rekkr, mentre controllavano le fila
dell'esercito, - Mi è concesso un commento, mio signore? -
- Anche se te lo negassi, troveresti un modo per esprimerlo. Quindi
parla. -
Il consigliere abbozzò un sorriso. Era molto anziano e le
sopracciglia cespugliose e le rughe sulla fronte lo facevano sembrare
ancora più stanco, ancora più vecchio, eppure
teneva la schiena dritta, come se l'armatura, l'ascia e la lancia non
gli pesassero.
- Non vi sembra un po' strano? Decidete di ritirare il vostro appoggio
militare e gli elfi, quelli di Llanowar, non di Sheelwood, decidono di
attaccare... -
Balor mugugnò un assenso. Era stata la prima cosa che aveva
pensato, in effetti, ma gli sembrava troppo incredibile e assurda
perché avesse un senso.
- Perché lei avrebbe dovuto farlo? -
- Perché vi teme, mio signore. Non siamo gli unici stanchi
di questa guerra e il vostro gesto avrebbe messo in crisi l'alleanza
non solo con i nani, ma anche con tutti gli altri. - guardò
il re e poi si voltò, percorrendo con lo sguardo la piana
fino alla prima linea degli elfi, una perfetta e ordinata barriera di
scudi, lame e armature, - Sapevo che era affamata di potere, ma non
credevo che sarebbe stata disposta a stringere un'alleanza con i nostri
secolari nemici. -
Balor scosse la testa. Non sapeva cosa pensare, non voleva accettare
un'eventualità del genere. Soprattutto si domandava come
fosse possibile che fossero sopravvissuti così tanti elfi.
- Per ora concentriamoci sulla battaglia. -
Girò il Dizit e si portò al centro dello
schieramento, attorniato dai suoi soldati e da pochi cavalieri armati
con lancia e la fidata ascia o spada al fianco.
Attesero che l'esercito elfico si avvicinasse: dovevano difendere e
l'unica cosa che potevano fare era aspettare che il nemico arrivasse
alla portata degli arcieri. Gli elfi rimasero fermi per ancora un'ora
prima di cominciare ad avanzare, veloci, compatti, una marea pronta a
travolgerli. I nani li osservarono immobili e imperscrutabili, ma Balor
poteva vedere il nervosismo nei loro occhi, la loro smania di
combattere nelle mani sudate, strette attorno alle armi.
Man mano che le distanze si accorciavano, si rendeva conto che c'era un
divario enorme tra i loro due eserciti. Cercò con gli occhi
i comandanti di quell'immenso schieramento, ma non c'era nulla di
diverso. Tutti vestivano nello stesso modo, almeno nelle prime file.
Sulle ali, la cavalleria avanzava compatta, con le aste puntate verso
l'alto, le punte affilate sembravano fendere la luce obliqua del sole.
Vide alcuni cavalieri marciare di fianco delle colonne, ma a parte
qualche occhiata nessuno di loro apriva mai bocca. Il profilo delle
macchine d'assedio si stagliava minaccioso contro il cielo.
“Almeno i Lycos non ci sono. Magra consolazione.”
Strinse la cinghia dell'elmo e rivolse una preghiera a Yggrasil. Li
avrebbe respinti a qualunque costo, anche se avesse dovuto dare la
vita. Doveva fermali.
Alzò la mano e il vento gli portò alle orecchie
il sibilo delle corde tese. I picchieri si fermarono e la cavalleria si
arrestò. C'era una striscia di terra a dividerli, a malapena
duecento iarde. Balor strinse i denti e ridusse gli occhi a fessure, il
cuore che gli martellava contro il pettorale, riecheggiando nella cassa
toracica ad ogni respiro. Si aspettava che avrebbero tirato fuori archi
o balestre, che avessero i mente una strategia. Quasi non ci credette
quando i cavalieri dettero di sprone e cominciarono a galoppare contro
di loro, mirando al centro del loro schieramento, le lance in resta e
gli zoccoli che rimbombavano sul terreno.
Balor attese il momento giusto, poi abbassò bruscamente la
mano. Una tempesta di frecce sibilò nell'aria e come una
pioggia mortale ricadde sugli elfi. La prima linea si ruppe, i cavalli
colpiti a morte rovinarono a terra, trascinando con loro i propri
cavalieri e schiacciandoli col loro loro peso. A parte i nitriti,
però, nel silenzio che precedeva un'altra raffica di frecce
nessuno dei morenti emise un gemito.
Il re corrugò la fronte ed esitò, stranito.
Persino Rekkr non aprì bocca. Gli altri cavalieri si erano
fermati e i cavalli scalciavano e si impennavano, innervositi
dall'odore di sangue, ma gli elfi che li montavano erano impassibili.
Sembravano più innervositi dall'indisciplina delle loro
cavalcature che da quello che era appena successo.
- Soldati, avanti! - gridò Balor.
Rekkr spronò il suo Dizit e tutta la colonna centrale
dell'esercito si mosse. Mentre le frecce sibilavano sopra le loro
teste, attaccando al suolo elfi e bestie moribonde, il consigliere e i
suoi si abbatterono sui cavalieri alle spalle di quel mucchio di carne
senza vita. I soldati, bramosi di violenza e sangue, si allargarono a
ventaglio, si strinsero sulle linee e si fecero strada tra gli elfi a
colpi di ascia e spada, con una furia bestiale che puntava a fare a
pezzi il nemico. Li disarcionarono e a quelli che non furono
prontamente in grado di reagire tagliarono di netto testa, braccia,
gambe; li fecero a pezzi come maiali. Le frecce ricadevano oltre la
prima linea, una pioggia di legno e ferro, mietendo sempre
più vittime e creando vuoti.
Balor studiava lo spettacolo dall'alto della sua sella. Vide gli elfi
gettare le lance a terra e sguainare le daghe ricurve, contrastando
fendente dopo fendente l'incalzante furia dei loro avversari, mentre
molti dei suoi penetravano nelle linee nemiche.
“Sono troppi.”
Imprecò a mezza voce e si rivolse ai messaggeri che gli
cavalcano al fianco.
- Trovate il comandante Hagan, ditegli di mobilitare immediatamente la
sua fanteria prima che quella elfica ci attacchi ai fianchi. -
Mentre il messaggero galoppava verso gli uomini rimasti indietro, Balor
diede l'ordine di avanzare. Fece saettare lo sguardo a destra e
sinistra, alla ricerca del generale o capitano elfico che stava
dirigendo quell'attacco suicida. Non doveva essere molto esperto,
né doveva conoscere molto bene il campo di battaglia, se
sperava di poterlo schiacciare solo con la superiorità
numerica.
Rekkr socchiuse gli occhi e alzò il viso verso il cielo,
come per pregare. I cavalieri elfici si stavano lentamente ritirando
dall'ingorgo di morti e asce che era diventato il fulcro del campo di
battaglia e lasciavano il posto a schiere di picchieri freschi o,
almeno, ci stavano provando. In quel caos, non era una manovra
semplice, ma d'altronde già l'attacco frontale era stato un
azzardo. Tutto in quella battaglia era totalmente atipico.
I nani non si arresero, uccidendo chiunque si parasse loro davanti.
Molti, avanzi di galera reclutati per l'occasione, di tanto in tanto
gettavano delle occhiate feroci verso il re, per poi rivolgere la loro
fame di sangue sugli elfi rimasti indietro. Volevano impressionarlo,
far sì che quando fossero ritornati vincitori ad Alabastria
lui non solo accordasse loro la libertà, ma anche la
ricompensa che aveva promesso.
Balor era combattuto: non soltanto non godevano più del
supporto degli arcieri, ma rischiavano di essere colpiti sui fianchi e
di rimanere tagliati fuori dal resto dell'esercito. Guardò
in lontananza e si sentì la gola secca. Aveva sperato in una
rotta che facesse ripiegare le linee elfiche, ma il loro esercito
sembrava immune alla paura e al dolore. Soltanto le bestie annusavano
l'odore della morte, nitrivano, scalciando terrorizzate quando vedevano
altri loro compagni a terra, eppure quei soldati sembravano non avere
un'anima. Rekkr avrebbe dovuto ordinare la ritirata, ma la cavalleria
pesante di Hagan stava già avanzando, muovendosi sulle ali,
con gli arcieri che marciavano ordinati alle loro spalle in modo da
poter avere i nemici di nuovo a portata di tiro. No, non doveva
abbandonarsi allo sconforto: avevano un vantaggio e dovevano sfruttarlo
al meglio.
I picchieri abbassarono le loro armi e caricarono, un'orda di demoni
uniti in un'unica linea di aste e minacciose punte rastremate. I nani
alzarono gli scudi e si prepararono a respingere l'attacco, spalla
contro spalla, le spade e le asce già sguainate.
All'impatto, la maggior parte riuscirono a mantenere la posizione, a
scostare la testa della picca e a uccidere l'elfo, ma alcuni, molti di
più di quelli che Balor sperasse, furono sbalzati via o
rimasero impalati.
- Ritiratevi! Ritiratevi e riprendete la formazione! - urlò,
sperando di con tutto se stesso che Rekkr e i suoi lo avessero sentito
al di sopra del frastuono della battaglia.
Tornò indietro al galoppo di un centinaio di iarde, prima di
girarsi nuovamente verso il fronte nemico. I nani arretrarono, rapidi e
disciplinati, ma i picchieri incalzarono, falciando chiunque rimanesse
indietro e calpestando i corpi dei nemici e dei compagni.
- Arcieri! -
Le frecce sibilarono sopra la testa di Balor, disegnarono una parabola
perfetta e precipitarono giù spinte dalla forza di
gravità. Gli elfi cominciarono a cadere, uno dopo l'altro,
lasciando dei vuoti nella linea d'attacco. Balor gioì dentro
di sé. Le armature degli elfi erano magiche, ma anche i loro
archi di frassino, più piccoli e potenti di quelli delle
altre razze, lo erano. Così esposti, senza uno scudo o una
qualsiasi altra protezione, erano dei facili bersagli. Ma nonostante
tutto continuavano ad avanzare, senza esitazione alcuna, lo sguardo
spento diretto sugli arcieri ordinati in file distanziate tra loro,
vestiti con armature di cuoio e spallacci più piccoli e
leggeri rispetto a quelli di tutto il resto dell'esercito. Se li
avessero uccisi, per loro sarebbe stata la fine.
- Avverti Kugnar, digli di tenere gli occhi aperti e lanciare quando
non saremo più a portata. -
Il messaggero girò il Dizit e lo spronò a correre
più veloce.
- Arretrare! Arretrare! -
I soldati obbedirono, aumentarono il passo per quanto poterono,
lasciandosi dietro una marea di morti, mentre le linee dei picchieri si
riformavano. Alcuni arcieri non fecero in tempo a ritirarsi e sparirono
in quell'oceano di lame, ma la maggior parte riuscì a
mettersi in salvo, tornando nelle retrovie o dietro i loro pavesi.
Il rumore del braccio della catapulta, seguito da uno spostamento
d'aria e poi dal rumore di cocci rotti, si riverberò per
tutta la piana. All'impatto si innalzò una nuvoletta di fumo
bianco, che aleggiò nell'aria per qualche secondo, simile
allo zucchero a velo sulla superficie di una torta. Poi la fiammata
causata dalla calce viva investì i bersagli: ad alcuni
entrò negli occhi e cominciò a divorarli,
scavando nelle orbite fino al cervello, mentre ad altri la pece si
attaccò alle armature, accendendole come torce. Il caos si
diffuse nell'esercito elfico e gli arcieri dei nani ritrovarono il
coraggio perduto. I dardi volarono bassi, i tiri precisi, mortali, si
piantavano nel petto o in mezzo alla fronte dei nemici mettendoli in
ginocchio. Quelli ben più grossi delle balliste si
concentravano sulle linee retrostanti, con un ritmo serrato, impalando
gli elfi che non avevano avuto i riflessi rapidi per schivarli. I loro
ranghi cominciarono a svuotarsi e le picche si infilzarono nel terreno.
Ciò che restava del fronte elfico si arrestò alle
spalle delle file smagrite dei picchieri. Balor li osservò,
coperti di sangue e barcollanti, e per un attimo si concesse di tirare
un sospiro di sollievo. Ma l'euforia si spense quando spostò
lo sguardo al di là della prima linea nemica, su quella
foresta di ferro, cuoio e acciaio. Ne avevano uccisi molti, ne era
più che certo, ma l'impressione era che quell'esercito non
avesse subito perdite, che fossero arrivati lì senza che
loro avessero opposto alcuna resistenza. Lui, invece, in quella prima
azione aveva perso almeno mille, forse duemila uomini. Strinse le
briglie e imprecò. Gli elfi avrebbero attaccato di nuovo, lo
sapeva, riusciva a vedere le truppe fresche che non avevano ancora
partecipato alla battaglia. Non potevano asserragliarsi in
città e aspettare i rinforzi da Lotka, non era nemmeno
sicuro che il messaggero sarebbe arrivato sano e salvo, ma non poteva
nemmeno rimanere lì a far morire i suoi uomini. Doveva
pensare a qualcos'altro.
All'improvviso ci fu un'esplosione, poi un rombo e delle grida.
Quando Balor si girò, vide due colonne di fumo nero alzarsi
verso il cielo. Mentre la terra tremava, i corvi posati sulle mura si
levarono in volo gracchiando, come per deridere il re e le sue speranze.
- Baldur, gli elfi... gli
elfi sono tornati davvero? -
La voce di Melwen tremava, per quanto si sforzasse non riusciva
renderla salda. Intorno a loro la tensione era alle stelle, densa e
soffocante come fango nelle narici. I nani, tutti, sia quelli che erano
presenti nel tempio sia quelli che erano rimasti fuori, stavano
tornando alle loro case a passo di marcia, sospinti dalla fretta e
dalle guardie che tentavano di mantenere l'ordine. I bambini si
tenevano stretti alle gonne delle loro madri, i più piccoli
nascondevano il viso nei seni, raggomitolandosi tra le loro braccia,
mentre gli altri, i loro padri, i loro fratelli più grandi,
avanzavano facendosi largo tra la folla per arrivare il più
in fretta possibile alle loro abitazioni.
Baldur strinse la mano di Melwen e la prese in braccio prima che una
famiglia fin troppo numerosa la travolgesse.
- Ce la caveremo, non preoccuparti. -
Melwen appoggiò il viso sulla sua spalla e si avvolse il
mantello attorno alle spalle. Era un incubo, doveva esserlo. Si diede
un pizzicotto e serrò forte le palpebre, inghiottendo il
sapore acido e la consistenza grumosa della bile che sentiva risalirle
in gola.
“Non di nuovo... dei, vi prego, non di nuovo.”
Tenne gli occhi chiusi ancora un po', tentando di convincersi che i
suoni che sentiva, le urla, le parole intrise di paura, non fossero
altro che frutto della sua mente. Quando trovò il coraggio
di guardare, Alabastria era ancora lì, assieme al caos e al
terrore.
Zefiro era in braccio a Myria e la fissava. Melwen sapeva che anche lui
stava pensando le stesse cose, eppure manteneva il contatto visivo con
lei. Sembrava dire “sono qui, non me ne vado” e il
suo debole sorriso era l'unica cosa che riuscisse a vedere
distintamente. Sorrise a sua volta e si strinse a Baldur, che nel
frattempo aveva aumentato il passo.
Stavano procedendo sulla stessa strada dell'andata, ma in quel momento,
con tutte le persone assiepate le une contro le altre, Melwen aveva
l'impressione che si fosse ristretta, che le case si fossero spostate
dalla loro posizione e che si stessero chiudendo su di loro. Era
così concentrata a tenere sotto controllo il respiro che
nemmeno si rese conto di ciò che accade.
Improvvisamente un'onda d'urto li scaraventò a terra e
l'aria divenne rovente, irrespirabile. Melwen ruzzolò
sull'acciottolato, rotolò per qualche piede e poi si
fermò, supina. Il cielo sopra di lei si era rannuvolato, il
sole era tenuto prigioniero dietro un'accecante coltre di nubi bianche.
Chiuse gli occhi, tastandosi la tempia lì dove sentiva
dolore. Quando ritrasse la mano, la punta delle dita era insanguinata.
Si rialzò a fatica, confusa, traballando sulle ginocchia
molli. La testa le girava e la vista era appannata, sfarfallava come
una candela sotto un vento mutevole e incostante. Persino i suoni, il
marasma cacofonico di mormorii, borbottii e preghiere che aveva udito
fino a quel momento, si erano tramutati in un fievole e indistinto
brusio. Con le mani sulle ginocchia, alzò il capo e si
guardò intorno. Baldur era a terra e Nordri lo aveva preso
sottobraccio per aiutarlo a tirasi su; Mirya stringeva forte Zefiro,
gli occhi spalancati fissi davanti a lei e la testa di suo figlio
appoggiata alla spalla. Melwen seguì la traiettoria del suo
sguardo con un strano senso di oppressione nel petto, quando alle sue
narici il vento portò un intenso e stomachevole odore di
legno e carne bruciata.
- L'armeria... è saltata l'armeria! - urlò una
voce di donna dietro di lei.
- I feriti! Dobbiamo tirarli fuori dalle macerie! -
- No, non avvicinatevi, rimanete vicini. -
- Lì davanti c'erano mio marito con mia figlia! -
- Che qualcuno spenga il fuoco! -
Una colonna di fumo si alzava da un edificio sventrato a destra,
spiraleggiava verso il cielo e lo anneriva. Una nube fuligginosa
ricopriva ogni cosa, ostruendo la visuale, e soltanto quando si
depositò a terra tutti poterono vedere la moltitudine di
cadaveri che giaceva ai piedi di ciò che rimaneva
dell'armeria. Erano riversi al suolo, le fiamme che ne divoravano la
carne e i vestiti.
Melwen li osservò senza capacitarsi di come fosse finita
lì, quasi all'imbocco della strada, poiché
ricordava che Baldur l'aveva presa in braccio ben dopo che si erano
lasciati alle spalle il tempio. Indietreggiò fino ad andare
a sbattere contro Nordri, senza riuscire a staccare gli occhi da
quell'orrore. I sopravvissuti, coloro che non erano morti schiacciati
dalle macerie, si aggiravano qua e là smarriti, come
fantasmi; tenevano le braccia in avanti, piene di schegge, mentre si
trascinavano verso la folla attonita, gli occhi ridotti a grumi neri
nelle orbite e la pelle a brandelli. Erano così sfigurati e
gonfi che non si capiva se fossero uomini o donne. Molti avevano perso
gli arti e arrancavano come potevano chiamando i nomi dei loro cari,
pregando per avere aiuto, specialmente acqua, ma nessuno osò
avvicinarsi. Nelle case vicine, le finestre erano esplose e le fiamme
ne lambivano i tetti e i camini a una velocità
impressionante.
Un'altra esplosione fece tremare la terra. Baldur strinse Melwen a
sé. Nordri si fece largo fino a Myria e la
trascinò a ridosso di una casa, sotto la tettoia che era
sopravvissuta all'onda d'urto.
- Cosa... cosa sta accadendo? -
- Non lo so, qualcuno ha fatto saltare l'armeria. - il mercenario si
voltò in direzione della seconda colonna di fumo e
rinserrò la presa sull'ascia, - Qualsiasi cosa sia,
è dentro la città. -
“Non può essere, Alabastria è
inespugnabile!” avrebbe voluto urlare Melwen, ma la
realtà era lì a prendersi gioco delle sue
aspettative. Guardò le facce dei nani che ancora gremivano
la strada, le loro espressioni attonite. C'era chi tentava, invano, di
aprirsi un varco verso il tempio, qualche guardia che accorreva sul
posto per capire cosa fosse successo e come intervenire, ma i
più erano pietrificati e nei loro occhi Melwen lesse lo
stesso stupore e la stessa paura che le gelavano il sangue.
C'era anche qualcos'altro, però, un'energia debole che
pulsava all'interno dell'armeria distrutta, sotto la roccia spaccata,
al di sotto del pavimento.
- Dobbiamo trovare Nyi. -
La voce di Baldur, sebbene ancora attenuata, riuscì a
riscuoterla. La folla retrocesse e i sopravvissuti avanzarono, con le
mani protese in avanti. Le labbra, o quel che ne rimaneva, si muovevano
senza riuscire ad articolare le parole. Persino le guardie cittadine
esitarono ad andare loro incontro. Il fuoco non si estingueva,
continuava ad ardere e a divorare la struttura dell'armeria.
Melwen comprese subito di cosa si trattava: il Respiro del drago. Ne
aveva sentito parlare, ma non credeva che qualcuno avrebbe avuto il
coraggio di usarlo. Nessuno, se non un mago, avrebbe potuto estinguere
quell'incendio.
- Dobbiamo andare. - le intimò Baldur.
Le afferrò il polso e girò lo testa verso una
stradina incuneata tra due case. Nordri fece lo stesso con Myria, la
sospinse gentilmente per farle capire di muoversi e la donna
obbedì. Melwen si domandò perché
tenesse in braccio Zefiro, perché non lo avesse
già messo a terra. Sarebbe stato più semplice
avanzare, avrebbero potuto anche correre, così da arrivare
il più in fretta possibile a casa, dove, ne era certa, Nyi
avrebbe risolto tutto, dando loro una spiegazione razionale, talmente
semplice che tutti ne avrebbero riso per non esserci arrivati prima.
Alabastria era un baluardo inattaccabile, imprendibile, e quello che
stava accadendo era una tragedia legata a una dimenticanza di qualche
soldato. Sì, doveva essere così, e anche Zefiro,
quando si fosse svegliato, avrebbe concordato con lei.
Un grido risuonò nell'aria. Baldur si voltò di
scatto e sfoderò l'ascia. Nordri spinse Myria nel vicolo e
puntò lo sguardo in mezzo alla folla, dove un uomo fissava,
tremante, le figure che emergevano dalle macerie in fiamme. Il fumo ne
sfumava i contorni, ma Melwen seppe istintivamente cosa fossero,
perché la paura che provava era la stessa di quel giorno.
Come spettri emersi dai suoi peggiori incubi, gli elfi si fecero strada
tra architravi e mattoni sbriciolati, le spade che brillavano sotto la
luce grigia e opaca del sole e l'armatura che da nera passava a un
verde sempre più intenso. Uno di loro si guardò
intorno e quando posò lo sguardo su di lei, Melwen ebbe la
netta sensazione che fosse lì per lei, per ucciderla.
Il loro capo, un elfo più alto della norma, si
avvicinò a uno dei sopravvissuti all'esplosione, un nano
senza più abiti addosso e con i muscoli e le ossa della
mandibola esposti. Lo trafisse da parte a parte e lo tiro su come un
maiale sullo spiedo. In mezzo alle fiamme che ardevano sotto i suoi
piedi, lambendo gli schinieri senza attecchire, l'elfo sembrava un
mostro partorito dalla mente allucinata di un folle. Osservò
il nano dibattersi, annaspare in cerca d'aria, gli occhi nascosti
dall'ombra dell'elmo fissi in quelli della sua vittima. Riusciva a
tenerlo alzato con la sola forza di un braccio, quello che impugnava la
spada, mentre il sinistro era attorno al suo collo. Melwen
udì lo scricchiolio della spina dorsale ancora prima che
gliela rompesse. Quando l'elfo buttò a terra il cadavere del
nano, tutti gli altri elfi che erano alle sue spalle si gettarono sulla
folla.
Il terrore dilagò come una malattia e il caos, fino a quel
momento trattenuto, esplose. Le urla dei primi caduti si unirono a
quelle dei fuggitivi, che, ormai incuranti di tutto, spingevano per
allontanarsi, buttando a terra i più deboli, calpestando gli
anziani, i bambini lasciati incustoditi, mentre gli elfi fendevano il
muro di corpi, disperdendoli a colpi di spada. Uno di loro
afferrò un nano che incespicava trascinando la gamba ferita
e gli aprì uno squarcio sulla schiena che lo fece rovinare a
terra. Non si soffermò a vederlo morire, lo
scavalcò in fretta e si gettò addosso a una donna
con un neonato in braccio, che correva a perdifiato verso una viuzza
secondaria.
Una guardia tentò di fermare due elfi. Non fece in tempo a
menare un colpo d'ascia che un affondo lo raggiunse da sinistra,
sfondò l'armatura e penetrò nel fianco. Il
braccio rimase sospeso a mezz'aria, come se il tempo si fosse fermato.
Non ebbe neanche modo di gridare, perché un attimo
più tardi la sua testa rotolò sull'acciottolato.
La lama elfica descrisse un semicerchio di gocce rosse e il sangue
schizzò sugli astanti.
L'elfo che aveva incrociato lo sguardo di Melwen passò oltre
il capo mozzato, incurante della pozza di sangue che si allargava
insozzando i capelli e la barba, e si diresse verso di lei. Melwen
rimase paralizzata, gli occhi incatenati ai suoi: erano rossi come
quelli di un Drow e su tutta la sua persona, lo sentiva, c'era una
forte aura magica.
- Andiamo! Via, via, via! -
Baldur l'agguantò per un braccio e cominciò a
correre. Imboccò la strada dove Myria li attendeva e subito
anche lei lo seguì, con Nordri che li seguiva in coda.
Melwen lo vide liberarsi dal mantello e lanciarlo contro il loro
inseguitore, che però lo schivò. Era veloce e
aveva le gambe lunghe, troppo.
“Devo... devo fare qualcosa.”
Melwen strinse i pugni. Aveva ancora le orecchie tappate, ma la paura
era un carburante che risvegliava il suo potere.
- Lascialo fluire. È sempre lì, a portata di
mano, tu devi solo dirigerlo. -
La voce di Nyi presente nei suoi ricordi riecheggiò nella
sua mente. Era più dolce, più calorosa, sembrava
quella di suo padre. Un fremito familiare le percorse le braccia e si
concentrò nelle sue mani. Una scarica elettrica si
accumulò nel palmo della sua mano. Si allungò
oltre la spalla di Baldur e mirò a un barile rotto,
abbandonato lì in mezzo a paccottiglia e spazzatura.
Aprì la mano e, concentrandosi, lo scagliò
addosso all'elfo. Il legno andò in frantumi e l'inseguitore
sbatté violentemente contro il muro.
- Non so cosa tu abbia fatto, ma, se puoi, continua. - le
sussurrò il nano senza fiato.
Girarono l'angolo e imboccarono una strada in salita. Si misero in fila
indiana, obbligandosi a mantenere la stessa andatura. Myria mise un
piede in fallo, e sarebbe finita a terra se Nordri non l'avesse
afferrata in tempo. La sostenne finché non riuscì
a raddrizzarsi e poi riprese a correre, la testa di Zefiro riversa
sulla sua spalla. Il bambino aveva perso il capello di feltro e sul
collo della tunica si era espansa una grossa macchia di sangue. A
quella vista, Melwen si sentì morire. Si morse le labbra e
con un enorme sforzo riuscì a ricacciare indietro le
lacrime: non poteva abbandonarsi allo sconforto, non ora che poteva
fare qualcosa per aiutarli ad arrivare a casa.
Cambiarono direzione spesso, evitando più che potevano la
ressa delle strade principali. In più di un'occasione Baldur
si dovette fermare bruscamente per imboccare un'altra via, molto
più piccola, più stretta, più
claustrofobica. Melwen mantenne la concentrazione sul suo potere, i
sensi vigili e i muscoli tesi.
Un elfo li intercettò. Sgozzò la guardia con cui
stava combattendo e si gettò all'inseguimento.
Afferrò una freccia dalla faretra sulla schiena e
incoccò. Melwen aprì i pugni e stavolta due sassi
volarono contro di lui: uno lo colpì sul naso, l'altro
rimbalzò contro l'elmo. L'elfo indietreggiò
coprendosi la parte lesa e abbassò l'arco, il sangue che
colava copioso tra le dita.
“Non è abbastanza.”
Melwen trasse un profondo respiro. La ferita alla tempia pulsava, i
suoi sensi acuiti dal potere percepivano il bruciore che si irradiava
fin dentro l'orbita, ma si impose di ignorare il dolore e la paura e di
mantenere la calma. Richiamò altro potere, lo
lasciò fluire nel palmo della mano e lo sospinse con la
forza di volontà come Nyi le aveva insegnato. Quando
però tentò di spingerlo fuori dal suo corpo, esso
rimase sotto pelle, mentre la stanchezza le ghermiva le palpebre e le
mordeva gli arti. Senza che potesse fare nulla, le braccia ricaddero
inerti contro la schiena di Baldur.
- Maledizione... -
Il nano aveva il respiro mozzo e correva sempre più piano.
La casa era vicina, Melwen aveva percorso quella strada già
un paio di volte con Zefiro, dieci minuti al massimo e sarebbero
arrivati, eppure nessuno, lei compresa, era più in grado di
muovere un passo.
L'elfo ghignò, ripose l'arco e sguainò le spade,
lunghe lame ricurve percorse da un tripudio di simboli luminescenti.
Baldur rinserrò la stretta su Melwen, spostando febbrile lo
sguardo dall'ascia al loro nemico, poi a Myria. Non potevano rimanere a
combatterlo e allo stesso tempo non potevano nemmeno continuare a
scappare, non con un inseguitore tanto rapido alle spalle. Il
mercenario si morse l'interno della guancia, combattuto sul da farsi.
Melwen poteva avvertire la sua indecisione.
“Ti prego, non lasciarci...”
Le parole restarono incastrate in gola, i muscoli della bocca immobili,
come atrofizzati. Il sangue le colava sugli occhi e le appiccicava i
riccioli alla fronte, si sentiva sempre più debole, stanca
come non lo era mai stata e, sebbene desiderasse pregare Baldur di
rimanere, non riuscì a fare altro che a abbandonarsi con il
naso così vicino alla sua barba da poterne inalare il
profumo.
Nordri agì. Strappò l'ascia dalla mano del
mercenario e si fece avanti. Aveva il viso segnato e i capelli
scompigliati, tanto da sembrare una criniera grigia. Impugnò
l'arma senza fatica, e con una tale sicurezza che Melwen quasi non lo
riconobbe come il gentile e premuroso padrone di casa che si era preso
cura di loro fino a quel giorno: con la tunica strappata e
l'espressione determinata sul volto, sembrava un vecchio leone tornato
sul campo di battaglia.
Baldur esitò, allungò il braccio come per
trattenerlo, ma poi chiuse la mano a pugno e se la batté sul
petto in silenzio, prima di voltarsi, afferrare Myria e riprendere a
correre. Melwen si sforzò di tenere aperti gli occhi, di
seguire lo scontro. Man mano che si allontanavano la figura di Nordri
sbiadì sempre più, sfumando assieme al suono
metallico delle armi.
Quando girarono l'angolo, l'ultima cosa che udì fu un
gorgoglio e un raspare disperato di piedi, seguito da uno scalpiccio e
da degli ordini in elfico.
Giunsero finalmente a casa. Baldur era così stanco che quasi
si trascinò per gli ultimi passi. Senza più la
sua amata ascia, aveva avvolto anche il braccio destro attorno al corpo
sfiancato di Melwen.
- Skjaldi, Far, Fili che qualcuno ci apra! - urlò sfiatato.
Myria abbatté il pugno contro la porta, la voce rotta dalla
paura. Zefiro non aveva ancora ripreso i sensi e il sangue era colato
sulla spalla della madre.
Dopo qualche secondo, dall'interno rimbombarono dei passi e Skjaldi
fece capolino sulla soglia. Aveva una spada insanguinata tra le mani e
la camicia era strappata in vari punti.
- Entrate, presto! -
Non appena furono tutti al riparo, Far e Fili chiusero velocemente la
porta e la serva personale di Myria li scortò nella sala da
pranzo. Le finestre erano state sprangate e il corridoio e tutte le
stanze erano illuminate solo dalla luce delle candele.
Baldur ripose Melwen su una sedia e le posò una mano sulla
spalla. Un'altra mano le toccò la fronte e, quando la
bambina racimolò la forza per aprire gli occhi, si
ritrovò il viso del suo maestro a un palmo dal naso, che la
scrutava con cipiglio critico. Un rumore di qualcosa che veniva
trascinato attirò l'attenzione di Melwen, ma Nyi le
impedì di distogliere lo sguardo. Aveva la tunica bruciata
sulle maniche, un occhio tumefatto e un brutto livido sulla guancia,
tuttavia mentre la controllava non si lamentò mai.
- Ti avevo detto di dosare il potere, adesso non potrai praticamente
muoverti. - le spostò una ciocca di capelli per controllare
la ferita alla tempia, per poi rivolgersi a Baldur, - La ferita non
è grave, potrei guarirla, ma mi ci vorrebbe del tempo. Di' a
Far di tamponarla, mentre io... -
- Me ne occupo io, tu alza il culo e fai qualcosa per Zefiro. -
La preoccupazione traspariva dagli occhi e dalla voce di Baldur. Melwen
inclinò la testa per vedere dove fosse il suo amico, ma
qualsiasi movimento facesse, anche il più piccolo, si
tramutava in una fitta al cervello.
Nyi indugiò un momento, poi le diede le spalle e si
avvicinò al lungo tavolo di quercia al centro della sala
dove Myria aveva disteso Zefiro. Nella luce tetra delle candele il suo
viso appariva senza vita, una funeraria maschera di cera bianca.
- Nordri dov'è? - sentì Skjaldi chiedere con
apprensione.
Anche Nyi alzò il capo, in attesa di una spiegazione. Myria
parve afflosciarsi e Baldur si limitò a scuotere la testa.
Non ci fu bisogno di aggiungere altro, il silenzio valeva
più di qualsiasi parola. La nana rinserrò la
presa sulla spada e si stropicciò gli occhi umidi, i denti
piantati nel labbro inferiore. Far e Fili sbatterono le palpebre,
dapprima increduli, ma quando la consapevolezza di cosa era successo si
fece strada nella loro coscienza non riuscirono a trattenersi. Piansero
in silenzio, poche lacrime e nessun gemito Melwen quasi non lo
udì e nonostante il dolore non si fecero fermare: si
tirarono su le maniche e si affaccendarono, stando dietro agli ordini
di Nyi, mentre Skjaldi teneva sott'occhio la porta della sala.
- Mi... mi dispiace. - esalò Melwen.
- Non è colpa tua, piccola. - la consolò Baldur.
Prese un pezzo di stoffa e lo imbevette con del vino, conservato in una
delle tante bottiglie che erano state spostate sul tavolo. Un profumo
speziato permeò l'aria, un effluvio stuzzicante di bosso e
di ginestra così dolce che Melwen non poté fare a
meno di associare al viso rubicondo di Nordri, quando durante una delle
loro prime cene nella sua casa aveva stappato la sua “annata
migliore” per dar loro il benvenuto. Una lacrima le si
impigliò nelle ciglia.
- Non piangere, non l'avrebbe voluto. -
Il nano le tamponò la ferita e l'intorno con delicatezza,
come se si stesse occupando di un animale ferito.
- Diceva spesso che gli sarebbe piaciuto essere ricordato mentre
mangiava i suoi amati cannoli o mentre se ne stava spaparanzato a
leggere un libro davanti al camino acceso. Più di una volta
l'ho sentito dire che le uniche lacrime che vale la pena versare sono
quelle di felicità. Sono certo che se adesso ti vedesse
così, te lo ripeterebbe. -
Melwen tirò su col naso e si asciugò il moccio
con il bordo della manica.
- Zefiro...-
- Lui ce la farà. -
- Come fai a esserne sicuro? -
- Perché non te ne vai se hai una promessa da mantenere. -
Baldur puntò il suo sguardo in quello di lei e la bambina vi
lesse tutto il dolore e la sicurezza che aveva impresso in quelle
ultime battute. Non le stava regalando una falsa speranza, credeva
davvero che Zefiro sarebbe sopravvissuto, e Melwen si
aggrappò con tutta se stessa a quelle parole, che
nell'istante in cui tutto, ogni cosa, sembrava crollarle addosso,
costituivano il suo unico, possibile appiglio per non sprofondare nello
sconforto.
- Come facciamo ad andarcene da qui? -
- Forse potremmo aspettare i rinforzi. -
- Rinforzi? Quali rinforzi, Fili? Anche se Lotka decidesse di
intervenire, quando le truppe arriveranno sarà ormai troppo
tardi. -
- E allora cosa possiamo fare? -
- Posso portarvi via io. -
Skjaldi, Myria, Fili e Far si girarono verso Nyi. Il Dominatore era
salito su una sedia ed era chino su Zefiro, la destra posata sopra la
sua mano e l'altra che si muoveva a ritmo, come se stesse dirigendo
un'orchestra.
- Conosci incantesimi di teletrasporto? -
Anche Melwen era sorpresa quanto Baldur. Suo padre era stato capace di
qualsiasi cosa, se lo rammentava bene, ma durante le loro lezioni Nyi
le aveva ribadito più e più volte che la
capacità di manipolare gli elementi di un Dominatore non
sempre può competere con quella di un Arcanes, soprattutto
quando si tratta di incantesimi che coinvolgono più persone.
- Ne conosco più d'uno, ma il punto è un altro.
Oltre a me stesso, posso portare solo altre quattro persone, non una di
più. -
Un silenzio denso come melassa calò in tutta la sala. Tutti
si lanciarono delle occhiate furtive e per un bel po', Melwen non seppe
quanto, nessuno osò parlare.
- Inoltre, ho bisogno di concentrazione per fare una cosa del genere:
ci teletrasporteremo a un paio di miglia di distanza da qui, quindi non
saremo al sicuro: una volta fuori, rischieremmo comunque di morire, non
sappiamo quanti sono là fuori. -
- Stai... stai dicendo che qualcuno dovrà rimanere qui? -
mormorò Fili.
Nyi annuì con aria cupa.
- La figlia di Copernico verrà con me, perciò
rimangono solo tre posti. - aggiunse e saltò giù
dalla sedia, scrutandoli uno per uno, - Vedete voi chi, ma fate in
fretta, non ho intenzione di aspettare che altri elfi vengano per
ammazzarmi. -
Melwen avrebbe voluto urlare, ma la paura e la stanchezza la tenevano
incollata alla sedia, la paralizzavano da capo a piedi senza che lei
potesse fare nulla se non osservare la scena che si stava consumando
davanti ai suoi occhi: Zefiro steso sul tavolo, ancora privo di sensi
con il torace che si alzava e si abbassava lentamente, sua madre che
singhiozzava, Far e Fili che giravano inquieti per la stanza, Skjaldi e
Baldur che si scambiavano delle strane occhiate, in un dialogo muto
portato avanti dagli occhi e non dalle bocche. Se soltanto non avesse
esagerato con il suo potere, forse avrebbe potuto fare qualcosa,
aiutare Nyi, salvare tutti.
“No, anche nel pieno delle forze sarei stata inutile. Non
sono che una bambina di dodici anni che si è appena
approcciata alla magia.”
L'evidenza della logica era lì, davanti a lei,
materializzata nella figura del suo maestro, che con una serie di
eleganti movimenti delle braccia, quasi fossero dei passi di danza,
aveva dato corpo all'aria e la stava plasmando in una cornice ovale e
fumosa che pian piano andava allargandosi. Non era una cosa di cui
Melwen sarebbe stata capace, eppure non riusciva a darsi pace, ad
arrendersi all'ovvietà dei fatti: si sentiva impotente e
quel sentimento glaciale la stava scorticando da dentro.
- Io rimarrò qui. - esordì Skjaldi.
La voce era incerta e le tremavano le spalle, persino la presa sulla
spada non sembrava più così salda. Strinse l'elsa
a due mani e si parò davanti a Baldur, che la
guardò boccheggiando.
- Tu non puoi morire, Pugno d'Acciaio, la parte dell'eroe non ti si
addice più da un po', ormai. - lo prevenne la serva e gli
diede un buffetto sulla guancia, le lacrime che già le
bagnavano il colletto della camicetta, - Non sei un soldato a nessun
bardo piace cantare le gesta di un mercenario con un cuore tenero. Le
dame di corte lo troverebbero banale. -
- Rimaniamo anche noi. - Fili si fece avanti, tirando per il polso
anche suo fratello, - Il nostro signore è morto qui, non
possiamo andarcene. Sapete come si dice, no? Il capitano affonda con la
sua nave. -
- Non... non è giusto. - Myria si alzò e
accarezzò la guancia di Skjaldi.
- Lo so, strei, lo so, ma non vi chiederei mai di rimanere. Nordri
avrebbe voluto che tu e i bambini vi salvaste e noi dobbiamo esaudire
le richieste del nostro signore fino alla fine, anche e soprattutto
rispettare i suoi ordini quando lui non c'è. - la nana le
sfiorò la mano e si voltò per fissare i due
fratelli, per poi gettare un'occhiata triste a Zefiro, - Potreste
dirgli di ricordarsi di sorridere sempre e che alle donne piace vedere
il proprio uomo sorridere? -
- Lo farò. -
Myria fece un passo indietro e si asciugò una lacrima: - Non
so davvero come ringraziarvi... -
- Non sei obbligata, Skjaldi, né tu né i ragazzi
lo siete. - intervenne Baldur.
- Sì che lo siamo. - si intromise Far, - Tutto
ciò che avevamo era questa casa. Se sopravvivessimo, non
riusciremmo a ricominciare. Abbiamo dei doveri, sia nei vostri
confronti sia verso i nostri morti, abbandonarli qui... non
è qualcosa che possiamo fare. -
- Inoltre, Baldur, tu sei l'unico che può difenderli fuori
di qui. Io saprò maneggiare una spada, ma non ho mai voluto
fare la vita del soldato: sono una cameriera, niente di più
niente di meno. - Skjaldi gli mise una mano sulla spalla e si
sforzò di sorridere, - Ognuno ha i suoi doveri, il tuo
è quello di proteggere Myria, Zefiro e Melwen. -
A quel punto, la serva estrasse da una tasca del grembiule il libro di
fiabe di Melwen e le si accostò per porgerglielo.
- Tieni. L'ho trovato nella biblioteca privata di Nordri. Volevo
portartelo in camera, ma poi è scoppiato il finimondo,
così... -
Melwen lo accettò grata, un sorriso appena accennato sulle
labbra. Accarezzò il libro come se fosse una reliquia rara.
La pace ebbe breve durata. Dei colpi e poi il rumore dei cardini che
cedevano interruppero la conversazione. Skjaldi si mise in posizione,
mentre Fili e far si armarono con due attizzatoi. Baldur
afferrò l'ascia che stava sopra il camino, un'arma
ornamentale, inutilmente pesante, ma con una lama che rifulgeva
minacciosa nella luce tremolante delle candele.
- Myria, prendi i bambini e spostati vicino a Nyi. - le
ordinò affiancandola.
La donna assentì e piano. Tenendogli la testa sollevata,
appoggiò Zefiro alla parete a pochi passi dal Dominatore.
Quando si avvicinò a Melwen, un altro colpo fece tremare le
porte del salone. I vetri della cristalliera tremarono e andarono in
frantumi quando la lama di un'ascia trapassò il legno. Ne
seguirono altre subito dopo. Non c'era nessun vociare dall'altra parte
e il silenzio era interrotto solo dallo spostamento d'aria che
precedeva l'impatto dell'arma.
- State pronti. - sibilò Skjaldi.
Quando la cristalliera cadde a terra e la porta cedette, tutti
trattennero il respiro. Dall'ombra emersero le figure di tre elfi, i
primi due armati con due asce, l'altro con delle lame ricurve. Dalla
sua pozione, Melwen riuscì a intravedere gli occhi nascosti
dall'elmo: erano rosso sangue.
*
Lusil correva verso le gallerie assieme ai sopravvissuti della sua
famiglia e agli altri membri della popolazione, quei pochi che erano
riusciti a scampare al carnaio. Sua moglie Terna gli strinse il braccio
e Lusil di riflesso fece lo stesso, infilando una mano nella chioma
scura di loro figlio Serin.
Era successo tutto così in fretta: dapprima le guardie
avevano loro ordinato di tornare nelle loro case, poi, sulla via del
ritorno, la caserma era saltata in aria e gli elfi erano sciamati nelle
strade. La sorpresa era stata così tanta che nessuno,
nemmeno le guardie cittadine rimaste, era riuscito a reagire, non
subito almeno, e i loro nemici, il loro peggior incubo, avevano fatto
una carneficina. Lui, Terna e Serin erano riusciti a mettersi in salvo
solo perché erano lontani dall'esplosione e avevano avuto il
tempo per scappare. La loro casa era troppo lontana e per arrivare
avrebbero dovuto attraversare mezza città, così
Lusil aveva condotto la sua famiglia verso gli ultimi terrazzamenti,
quelli che aggettavano sulle miniere, con il proposito di fuggire
attraverso le gallerie d'emergenza alla cui costruzione lui stesso
aveva preso parte.
Purtroppo però, non era stato l'unico ad avere quell'idea:
giunti alle miniere, avevano trovato una marea urlante di uomini,
donne, bambini e anziani che si spintonavano per entrare, in un caos
che nemmeno le guardie cittadine riuscivano a domare, troppo occupate a
pattugliare le strade da cui potevano arrivare gli elfi.
Lusil continuava a guardarsi alle spalle. Aveva militato nell'esercito
di Balor per una decina d'anni e, sebbene la vita del soldato non
facesse per lui, si sentiva nudo senza un'arma tra le mani. L'unica
cosa che lo rinfrancava era che, fino a quel momento, i pochi nemici
che avevano assaltato la folla erano stati respinti dalle guardie.
Cullò Serin e gli schioccò un bacio sulla guancia
paffuta, inspirando il profumo di pesca della sua pelle. Il cuore
rallentò la sua corsa e i polmoni compressi si distesero
appena, richiamando l'aria che fino a quel momento era rimasta
incastrata in gola.
“Ce la faremo. Le guardie stanno resistendo e il re combatte
qui fuori: non appena ne avrà la possibilità,
manderà qualcuno a darci man forte.”
Scambiò una lunga occhiata con la moglie. Terna
arricciò le labbra in un mezzo sorriso e
intrecciò le dita con quelle di lui, traendo a sua volta un
profondo respiro.
- Tra poco saremo al sicuro. - affermò convinta e Lusil
annuì.
Un elfo sbucò da sopra le scale e le saltò
caricando a testa bassa, mentre un altro incoccava due frecce, mirando
verso il cielo.
- Muovetevi! -
Le guardie, un manipolo di una decina di nani ben corazzati,
alzò gli scudi. I dardi sibilarono, percorsero una
traiettoria a parabola e rimbalzarono contro il metallo. Il nano dietro
Lusil lo spinse con una tale forza che quasi lo mandò a
terra, se non fosse stato per la presa salda di Terna.
- Sbrigatevi, presto! - la voce stentorea di Smar riecheggiò
sui muri, - Uomini, mantenete la posizione! -
L'elfo era a pochi piedi di distanza, avanzava rapido e feroce come una
pantera, l'armatura verde giada che rifletteva la luce del sole. Altri
dardi piovvero su di loro, stavolta non solo dall'elfo in cima alle
scale, ma anche da sopra di lui e dalla sua sinistra. L'anziana davanti
a Lusil cadde a terra, trafitta da parte a parte da una freccia, e
così anche il suo vicino, un nano dalla barba bionda e gli
occhi scavati dalla paura: l'asta gli trapassò il cranio e
la punta fuoriuscì dall'occhio, facendo esplodere sangue e
materia cerebrale sugli astanti. Una donna urlò e alle sue
grida se ne aggiunsero altre, ancora più impaurite, ancora
più terrorizzate, simili a quelle delle pecore al macello.
Uno dei soldati sfoderò la balestra che aveva al fianco. Si
tenne nascosto dietro il muro di scudi e, quando l'ebbe caricata,
mirò. Il dardo fendette l'aria e l'elfo, il primo ad essere
apparso, cadde al suolo in mezzo al prato di aste impennate alle sue
spalle.
Lusil ricacciò in gola l'impulso di vomitare e
scavalcò i corpi dei caduti. Quando percepì la
carezza dell'umidità sulla pelle, si abbandonò a
un sospiro di sollievo: non importava quanti ce ne fossero davanti a
loro, erano salvi.
- Retrocedere! -
Qualcuno gli diede una gomitata, un altro ancora tentò di
spostarlo per passare avanti, ma Lusil lo spinse dietro di
sé e aumentò il passo, pestando i piedi ai
più lenti o a chi non riusciva a procedere abbastanza in
fretta. Le pareti di roccia si chiusero sopra di loro e la luce
diminuì man mano che avanzavano, Lusil però
conosceva quelle gallerie come le sue tasche e sapeva dove condurre la
sua famiglia. Sì, ce l'avrebbero fatta, a breve avrebbero
fatto crollare il passaggio e...
L'esplosione alle loro spalle fu così forte da farli cadere.
Lusil rovinò a terra, Serin ancora stretto tra le braccia.
Riuscì a lasciare la presa sulla mano di Terna in tempo per
proteggere la testa del piccolo. Quando riuscì ad alzarsi,
con il sapore della polvere in bocca si guardò intorno,
completamente spaesato. Alle loro spalle, da dietro il muro di pietre
che ostruivano l'entrata, udirono le grida delle guardie e dei
cittadini rimasti fuori. Non comprese cosa stessero dicendo, un timpano
gli era scoppiato e un rigolo di sangue gli scivolava fuori
dall'orecchio, ma la poca luce che traspariva attraverso le fessure
illuminò il viso preoccupato di sua moglie.
- Perché hanno fatto crollare l'entrata prima che fossimo
tutti dentro? -
- Bastardi, ridatemi i miei bambini! - una donna si scagliò
contro quel muro, graffiando le pietre fino a farsi sanguinare le dita,
- Ridatemeli, ridatemeli! -
Altri si unirono al suo lamento funebre, tentando in tutti i modi di
spostare i massi. Ma erano troppo grossi e loro, a parte le mani, non
avevano attrezzi per spostarli. Dall'esterno le urla aumentarono
d'intensità, così tanto da sopraffare gli ordini
delle guardie. I sibili delle frecce fendevano l'aria a ritmo
cadenzato, sembrava stesse piovendo.
“Non ce n'erano così tanti prima, ci hanno
raggiunti...”
- Dobbiamo andare. - tirò su sua moglie e levò la
voce in modo che tutti udissero, - Avanti, proseguite! -
- Non possiamo lasciarli, dobbiamo... dobbiamo spostare i massi per
permetter loro di entrare. - si opposero subito alcuni, spaventati per
la sorte dei cari al di là della barriera di massi.
Lusil scosse la testa: - Non possiamo fare nulla, sono già
morti. -
La caduta di altre pietre ridusse tutti al silenzio. Il nano si
voltò e chiuse gli occhi, concentrandosi per capire se ci
fosse pericolo di frana. Il rumore di qualcosa che strisciava gli
mandò il cuore in gola, ma nel buio non era in grado di
individuarne la direzione.
- Lo hai sentito anche tu...? - mormorò Terna, avvicinandosi
a lui.
Lusil stava per risponderle, quando le grida provenienti dalle file
più avanti ruppero la stasi. Si irrigidì,
deglutì e accarezzò suo figlio per calmarlo. A un
tratto, della bava gli gocciolò sulla spalla.
Sollevò lentamente la testa, solo per imbattersi in otto
occhi gialli che lo fissavano famelici dal soffitto. Lusil rimase
paralizzato a studiare la sua chiostra di zanne di quella creatura, il
suo corpo vermiforme. Non ebbe tempo di emettere un singolo suono prima
che la cosa gli staccasse la testa.
*
Balor infilò le staffe nei reni del Dizit e lo
incitò: - Più veloce, più veloce! -
La bestia sbuffò infastidita, ma aumentò
l'andatura. Dietro di lui, i settecento membri che aveva scelto come
scorta e truppe di rincalzo diedero di sprone per stargli dietro.
Un elfo gli si parò davanti, tentò di colpire il
Dizit alle zampe, ma il re gli separò la testa dal collo con
un unico, fluido gesto del braccio. Il sangue schizzò sul
muro di una casa e il corpo si afflosciò a terra come una
bambola. I due nani che gli cavalcavano poco più indietro
lanciarono una rapida occhiata al cadavere, per poi tornare a guardare
la schiena del loro signore, le aste lunghe strette tra le mani.
La notizia di quello che stava accadendo in città era
arrivata fino a loro. Balor li aveva mandati all'interno delle mura per
raccogliere informazioni e, non appena aveva saputo della mattanza in
atto, aveva affidato il comando a Negan, Hagan e Rekkr, ordinando loro
di far ripiegare l'esercito. Aveva dovuto reprimere l'istinto di dare
le spalle alle sue truppe per precipitarsi al Castello di Ferro. La sua
famiglia era in pericolo, ma se avesse lasciato i suoi uomini allo
sbaraglio sarebbe stata la fine per Alabastria stessa.
Una freccia sibilò a un palmo dal suo viso. Balor
alzò lo sguardo: due elfi, entrambi armati di arco, si erano
appostati sopra una casa, le loro figure parzialmente coperte dal
comignolo. Il primo, quello che aveva appena tentato di ucciderlo,
incoccò di nuovo, mentre l'altro prendeva la mira.
- Proteggete il re! -
Il generale Andavari e altri tre nani si portarono ai suoi fianchi e
alzarono gli scudi. I dardi si infransero contro l'acciaio temprato,
spezzandosi in due.
Balor strinse i denti e serrò la presa sulle redini nel
tentativo di tenere la freno la rabbia: eccoli lì gli
assassini del suo popolo, gli elfi che per anni aveva combattuto e dai
quali ora doveva fuggire.
Altri colpi, stavolta tre, alla sua sinistra. Il nano vicino a lui, con
la barba nera e ispida come quella di un'istrice, grugnì,
sforzandosi di mantenere lo scudo alto, mentre altre frecce piovevano
contro di lui. Con la coda dell'occhio intravide uno dei suoi incoccare
l'arco per rispondere al tiro, udì la corda tendersi e poi
il sibilo del rilascio. Un grido seguito da un'imprecazione lo fece
sorridere e gli diede coraggio.
- Non abbandonate le vostre posizioni. Se gli elfi si pareranno sulla
nostra strada, uccideteli, ma non perdete tempo. - ordinò
con voce stentorea, sovrastando lo scalpiccio degli zoccoli dei Dizit e
dei cavalli in corsa.
Il caos era tanto e le urla provenivano da ogni direzione. Balor
sperava che la maggior parte dei cittadini fossero riusciti a fuggire
attraverso le gallerie scavate nelle miniere. In cuor suo pregava che
gli dei avessero avuto misericordia almeno dei bambini, ma una parte di
lui, quella più fredda e razionale, continuava a domandarsi
se non fossero stati proprio quei cunicoli a permettere agli elfi di
penetrare in città.
“Ma come? Nemmeno Lysandra li conosceva.”
Scosse la testa e relegò quel pensiero in un angolo del suo
cervello: non doveva abbandonarsi allo sconforto, non doveva distrarsi.
L'unica cosa che contava era portare in salvo la sua famiglia.
Si fecero largo tra le strade ingombre di gente, uccidendo gli elfi
quando ostruivano loro il passaggio. Le guardie sopravvissute lo
acclamarono quando lo videro arrivare e i suoi soldati aggredirono gli
assalitori con così tanta furia che, alle volte, Andavari
dovette richiamarli all'ordine.
Nonostante cercassero di non farsi fermare, spesso dovettero combattere
per aprirsi la strada. Gli elfi erano tanti, ma meno dell'esercito che,
da fuori, premeva contro le loro mura. Balor perse un battito quando
vide il profilo delle loro macchine d'assedio, trabucchi ed elepoli di
legno rinforzato, farsi sempre più vicine. Gli uomini
rimasti sui camminamenti correvano da una parte all'altra, caricando
baliste e onagri sotto gli ordini urlati dai loro comandanti, mentre
altri combattevano sulle scale, respingendo l'assalto degli elfi.
Il primo colpo d'ariete fece tremare il ponte levatoio e
sembrò scuotere la città fin dalle sue
fondamenta. Gli arcieri cominciarono a scoccare e quelli più
vicini ai merli rovesciarono calderoni di olio e pece bollente sulle
truppe ammassate sotto le mura.
- Resistete! -
Continuarono a risalire le strade fino alla parte più alta
della città. Quando giunsero al Castello di Ferro e
trovarono il ponte levatoio divelto a terra e in fiamme, il cuore di
Balor mancò un battito.
- Di qua! Con me! -
Saltò giù dal Dizit e assieme agli altri soldati
fece irruzione nella sala principale. I mobili stavano ancora bruciando
e i corpi della servitù giacevano contro i muri o sul
pavimento, alcuni con il viso così deturpato dal fuoco da
renderli indistinguibili ammassi di carne bruciata senza volto e senza
identità.
Prima ancora che potesse fare un passo, come se li avessero aspettati,
un drappello di elfi si affacciò dalle scale. Le frecce
piovvero su di loro, precise, letali, attaccando al suolo chi non
riuscì ad alzare in tempo gli scudi.
- Avanzate! -
Balor era circondato dai suoi uomini. Uno di quelli più
indietro gli passò uno scudo e poi tornò nelle
retrovie, imbracciando il piccolo arco che portava nella faretra.
Procedettero, passo dopo passo, sotto la tempesta di frecce.
Metà dei soldati tenevano gli scudi rivolti verso l'alto,
gli altri con le lance in resta, mentre quelli più lontani
rispondevano al fuoco, ribattendo colpo su colpo per quanto lo spazio
poco ampio glielo permettesse.
Non appena la maggior parte dei suoi uomini riuscì a entrare
nella grande sala, Balor ordinò la carica. Nello stesso
momento, dalle scale scesero gli elfi. A capeggiarli era una donna: non
indossava l'elmo e i capelli rosso sangue le ricadevano languidi sulle
spalle, appena scompigliati. Attorno a lei orbitava una barriera
evanescente dai riflessi bluastri e, quando un arciere tentò
di colpirla, il dardo rimbalzò su di essa.
“Deve essere un incubo.”
- Ferma i tuoi uomini, Balor. -
- E perché mai dovrei farlo? - ringhiò il re di
rimando, l'ascia ben stretta in pugno.
L'elfa sorrise, mettendo in mostra i canini leggermente affilati. Fece
un cenno a qualcuno, forse un elfo rimasto nascosto su per le scale.
Dopo qualche istante, Eliria e i suoi tre figli cominciarono a
scendere. Thraed zoppicava, a malapena riusciva ad appoggiare il piede
a terra, sebbene si sforzasse di mostrarsi fiero, la testa alta e le
spalle indietro. Aveva la mascella slogata e l'occhio tumefatto. Non
appena vide suo padre, l'ombra di un sorriso di sollievo gli
attraversò il viso, per poi tramutarsi in una smorfia
sofferente.
- Cani! Come avete osato! -
Balor fece un passo verso di loro. La donna afferrò Eliria e
le puntò un pugnale alla gola, il braccio ben serrato sulle
sue spalle.
- Non oseresti... -
- Non esistono regole in guerra, caro re. - il suo tono era irridente e
i suoi occhi brillavano, accesi da un sadico divertimento, - Non
farmelo ripetere, di' ai tuoi uomini di abbassare le armi. -
Il re esitò. Tentò di raccogliere i pensieri, ma
la logica sembrava svanita, così come la sua
capacità di ragionare razionalmente, seppellita sotto
l'immagine di sua moglie morta, dei suoi figli massacrati. Si morse
l'interno della guancia e, semplicemente, alzò la mano e la
fece ricadere lentamente lungo il fianco. In silenzio, tutti i soldati
obbedirono.
- Bene, adesso ordina a tutti di entrare e di sbarrare le porte. -
spostò lo sguardo sulle sue truppe e ghignò, -
Tutti quelli che possono, almeno. Gli altri e gli arcieri, fuori. -
- Mio signore, non possiamo lasciarvi qui, è... -
- Obbedite. -
Andavari aprì la bocca, ma Balor non lo voleva ascoltare, e
comunque non ci sarebbe riuscito. La sua attenzione era calamitata
dalla sua famiglia, i vestiti macchiati di sangue di sua moglie, le
dita rotte di Soryan e Neall. Se mai fossero uscite vive,
pensò, avrebbe dovuto chiamare i migliori cerusici di
Esperya per far tornare le loro mani com'erano prima.
- Obbedite, fate quello che vi ha detto di fare. - ripeté,
imponendosi di mantenere la voce ferma.
Andavari annuì. Prese un profondo respiro e fece un cenno ai
soldati. Piano, molto piano, si ritirarono. Man mano che la scorta
fluiva fuori, coloro che erano rimasti ammassarono tutto ciò
che c'era di integro vicino alla porta: pezzi di legno, mezzibusti di
statue, tutto. Quando chiusero le porte, il silenzio divenne assoluto,
pesante come pietra.
- Veniamo al punto. - esordì allora l'elfa, sollevando
trionfante il mento, - Alabastria è nostra, avete perso: i
vostri soldati possono combattere quanto vogliono, ma siete in netta
inferiorità numerica e i cittadini sono imprigionati nelle
gallerie d'emergenza. Quello che vi chiedo è una resa
incondizionata: se sarete ragionevole, vi lascerò quel
manipolo di uomini che vi rimane e la vostra famiglia. -
- Che garanzia ho che manterrete la vostra parola? -
- Nessuna, ma se rifiutate darò l'ordine ai miei di
uccidervi tutti ora. A me non cambierebbe molto, ma... -
lasciò la frase in sospeso e tracciò una lieve
linea rossa sulla gola di Eliria, - Non penso abbiate il fegato di
giocare così con la vita dei vostri familiari. -
Sua moglie digrignò i denti. Cercò di mostrarsi
forte, eppure tremava come una foglia tra le braccia dell'elfa. Neall e
Soryan tenevano il capo basso, senza degnarlo di uno sguardo,
singhiozzando in silenzio.
Balor serrò i pugni e gettò un'occhiata alle sue
spalle, ai duecento uomini che si erano disposti attorno al muro con le
armi abbassate. Lo fissavano seri e nei loro occhi il re non lesse
nessun rimprovero, nessun biasimo: erano lì per lui e per
lui sarebbero morti. Poteva udire anche gli altri all'esterno, che
rumoreggiavano appena come se volessero preservare il silenzio luttuoso
che, come un velo, stava inesorabilmente avvolgendo la
città. Le urla erano lontane, così come il rumore
dell'ariete che colpiva il ponte levatoio e gli ordini dei soldati
sulle mura. Di tanto in tanto, un'esplosione faceva tremare la terra,
ma la confusione che c'era fuori scoloriva, sbiadendo in una eco
lontana. L'unica cosa reale era quell'elfa e il pugnale puntato alla
gola di sua moglie, assieme all'odore intenso e penetrante di alcol che
permeava la sala. Era così intenso da fargli lacrimare gli
occhi.
- Accetto. -
Non era la sua voce, quella, era troppo bassa, troppo roca.
- Inginocchiati e butta a terra la corona, Balor. - gli
intimò l'elfa.
Il suo corpo si mosse da solo. Mentre i suoi uomini gli aprivano un
varco per permettergli di passare, il re tenne la testa alta e gli
occhi fissi davanti a sé. Un passo dietro l'altro,
arrivò proprio ai piedi delle scale, sotto l'elfa e sua
moglie. Eliria lo guardava con espressione supplice e Balor
poté leggere nei suoi occhi che lo stava pregando di non
farlo. Si concesse un momento per osservarla e imprimersela nella
memoria, e quasi gli parve di sentire i suoi capelli tra le dita.
Portò le mani alla testa e chiuse gli occhi, rievocando
altri ricordi: Soryan che ballava con Neall, le mani intrecciate e gli
sguardi complici, belle come la loro madre, la luce che aveva
illuminato le sue giornate; Thraed che montava il suo primo Dizit, la
sua risata scanzonata, l'orgoglio dei suoi occhi; Eliria che sorrideva
sotto i cipressi del suo giardino e il suo profumo dolce di cannella,
fiordalisi e nontiscordardime.
Le dita sfiorarono il metallo e le spalle si accasciarono.
Sconfitto.
La corona cadde con un rumore sordo.
Balor riaprì gli occhi e si scontrò col ghigno
vittorioso dell'elfa.
- Ops. Ho mentito. -
Un secondo più tardi affondò la lama del coltello
e tagliò la gola a Eliria. Contemporaneamente, gli altri
elfi pugnalarono a morte Thraed e le sue figlie. Quando il corpo della
regina cadde a terra, una fiamma proruppe delle mani dell'elfa e la
stanza si trasformò in un inferno di fuoco.
*
La testa gli pulsava e il dolore si propagava da un punto preciso
dietro la nuca, poco sopra l'altezza del collo. Zefiro portò
la mano lì a fatica e toccò appena i bordi gonfi
della ferita. Non sanguinava, almeno non gli sembrava, ma faceva
davvero male, così tanto che non appena la sfiorò
ritrasse la mano in un basso gemito sofferente.
Un rumore improvviso lo fece sussultare. Ansiti, sibili, grugniti...
aprì piano gli occhi e si sforzò di penetrare la
nebbia che gli ostruiva la vista. Sette figure indefinite,
più ombre che altro, si muovevano nel suo campo visivo: tre
impugnavano delle lunghe lame, le altre tre avevano armi diverse ed
erano molto più basse
Il dolore lo costrinse di nuovo a chiudere gli occhi e Zefiro si
trovò di nuovo a brancolare in un'oscurità di
puntini colorati, dove oltre al buio erano presenti anche le immagini
di ciò che era accaduto – almeno di quello che
presumeva fosse accaduto. Provò a soffermarsi sui frammenti,
a ricomporli per dare un senso a quel caotico mosaico, ma
più si sforzava più il dolore aumentava
d'intensità e gli si conficcava nel cervello come un milione
di aghi.
Una mano si strinse attorno alla sua e una voce, la voce di sua madre,
penetrò nel buio.
- Sei vivo... -
C'era sorpresa in quelle due parole, sorpresa e sollievo. Zefiro
inclinò appena la testa. Avrebbe voluto parlare, ma le
labbra erano impastate da una sostanza appiccicosa mista di sangue e
saliva.
- Andrà tutto bene. - mormorò Myria e gli cinse
piano le spalle, - Andrà tutto bene, piccolo mio,
andrà tutto bene. -
Un tonfo e un urlo risuonarono nell'aria. Myria si staccò da
lui e Zefiro aprì gli occhi di scatto, spaventato. Era come
se quel grido avesse aperto uno squarcio nella nebbia.
La sala da pranzo era tutta in disordine, c'erano mobili e bottiglie a
pezzi ovunque, mentre il tavolo, il lungo tavolo dove di solito
mangiavano, era chiazzato di sangue. A pochi passi c'era Nyi e davanti
a lui una specie di specchio fumoso a grandezza d'uomo. Skjaldi, Fili e
Far combattevano contro due elfi. Erano ricoperti di ferite, i visi
stanchi e sfiancati, mentre Baldur era schiena al muro, il respiro che
gli raschiava la gola e lo sguardo stralunato.
- Melwen! - gridò il nano. e Zefiro cercò la sua
amica con lo sguardo.
Era accoccolata su una sedia, con la testa inclinata languidamente
sulla spalla. Dormiva tranquilla, con un libro stretto al petto, ignara
dell'elfo che si stava avvicinando. Impugnava una spada dalla lama
ricurva nella sinistra. A Zefiro mancò il respiro quando
vide che aveva gli occhi rossi.
“Fenrir.”
Quel nome emerse dalla sua memoria e si inabissò, soppresso
dalla rabbia e dalla paura di cosa ciò significava. Zefiro
tentò di alzarsi. Si puntellò sulle mani e
ordinò alle gambe di issarlo, di correre, ma il dolore lo
aggredì e lo inchiodò alla parete.
“Devo fare qualcosa.”
Per quanto ci provasse, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo,
mentre l'elfo era sempre più vicino.
Nyi si voltò, il viso imperlato di sudore. Aprì
le bocca in un urlo che Zefiro non udì e lo specchio
tremolò pericolosamente, la superficie si incrinò
come se si stesse per rompere e il Dominatore dovette distogliere lo
sguardo.
“Alzati, dannazione!”
Non seppe dove trovò la forza, non se ne curò
nemmeno. Conficcò le dita nel muro e si mise in piedi, gli
occhi fissi in quelli dell'elfo, sulla sua lama arrossata. Il dolore
rese i colori, i suoni e gli odori più vividi, li
amplificò e Zefiro quasi ne rimase frastornato.
Sbatté le palpebre e trasse un profondo respiro, inebriato
ed eccitato da quella nuova realtà.
“Posso farcela.”
Riaprì gli occhi e scattò. In un istante fu
addosso all'elfo e affondò i denti nel collo con una
facilità disarmante, penetrando fino alle labbra. Il suo
sangue sapeva di ferro e sarebbe dovuto essere disgustoso, ma sul suo
palato assumeva un retrogusto dolciastro, tanto, troppo piacevole.
L'elfo mollò la spada e gli afferrò la testa, si
dimenò, menando gomitate in preda al dolore. Zefiro
affondò ancora di più e strinse ancora
più forte lo spallaccio a cui si teneva. Il cuoio si
piegò, si deformò come se fosse fatto di carta.
Per un momento il bambino si domandò come fosse possibile,
ma presto la coscienza si addormentò, soppiantata da un
elettrizzante senso di potere, che permeò ogni fibra del suo
corpo. Il dolore era sparito, la ferita non bruciava più,
c'erano solo lui e l'elfo che si contorceva in preda all'agonia.
Andò a sbattere contro la parete e lo schiacciò
contro di essa fino a togliergli il respiro. Zefiro provò a
mantenere la presa, ma gli mancava l'aria. L'elfo lo
agguantò per la nuca, si scostò appena e lo
scaraventò su una sedia con una tale violenza che Zefiro
sentì le ossa della cassa toracica rimbalzare contro la
pelle.
- Kopel rivvil. - sputò, rivolgendo a
Zafiro un gelido sguardo assassino.
Baldur lo buttò a terra con una spallata. Le trecce della
barba si erano sciolte e il sangue sgocciolava dal labbro spaccato.
Zefiro osservò la sua figura sdoppiarsi, triplicarsi, mentre
il dolore tornava a farsi vivo. I suoni si attenuarono, divennero un
unico miscuglio che gli si infilava nel cervello e lo raschiava come se
volesse strapparglielo.
Con le forze che svanivano e il sapore del suo sangue sul palato e
sulle labbra, si mise supino e poi a gattoni, cercando di raggiungere
Melwen. Ma la sua amica non era più sulla sedia.
Udì qualcuno gridare un ordine e mosse la testa a destra e a
sinistra nel panico. Qualcun'altro lo prese sotto le ascelle e lo
sollevò prima che potesse reagire. Zefiro si
ritrovò faccia a faccia con il volto umido di lacrime di sua
madre. Fiutò un forte odore salino, che si
amalgamò a quello del sangue e del sudore. Alle sue spalle
c'era Nyi con Melwen in braccio, svenuta.
Myria rimase immobile un istante, quindi si voltò e
iniziò a correre verso lo specchio fumoso. L'elfo
colpì Baldur alla tempia e si accanì su di lui
finché non andò a terra, poi scattò
verso di loro. Ma il nano riuscì ad afferrargli le gambe e a
farlo cadere.
- No! - urlò Zefiro, - Baldur! -
Il sorriso tronfio di Baldur fu l'ultima cosa che vide prima di
oltrepassare il portale.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Allora, nemmeno io ci credo, ma siamo giunti a metà ** Eh,
sì, questo è il 14esimo capitolo e quindi
sì, siamo a metà. Sono emozionatissima, non
potete capire ** Comunque... come sempre mi faccio sentire per
comunicarvi un paio di cose ( in realtà una, ma still...):
visto che ad agosto conto di andare in vacanza (finalmente) non
aggiornerò. Tornerò per i primissimi di ottobre (
diciamo attorno al 10 ottobre) con i nuovi capitoli. Purtroppo sono
lenta, lenta, lenta a scrivere i capitoli, ma capitemi, ce la metto
davvero tutta >-< Quindi, come al solito, vi rimando alla
mia pagina
FB dove però posterò spoiler di vario
genere (ne ho uno che è molto, molto pieno di feels) e poi
vi segnalo una storia che ho cominciato a pubblicare negli ultimi mesi:
il titolo provvisorio è Summer tale, presto lo
cambierò in Fighting Fire. Anche questa è ferma
fino a settembre, però comunque mi sono interrotta in un
punti abbastanza di cesura. SE voleste passare e dirmi cosa ne pensate
ne sarei felice, dal momento che è la prima volta che mi
cimento in una storia con ambientazione da "La Mille e una notte." Vi
lascio il link,
così se siete curiosi potete andare a sbirciare.^^
Quando Airis si
risvegliò, la prima cosa che attirò la sua
attenzione fu il forte odore di ruta e caprifoglio. Socchiuse appena
gli occhi e si massaggiò la fronte, il cervello ancora
annebbiato dal sonno. Solo in un secondo momento, quando si
puntellò sui gomiti su una superficie morbida, si rese conto
di essere distesa su un pagliericcio e che, a parte una coperta, non
aveva altro addosso.
- Ti sei svegliata, lupa. -
Airis girò la testa di scatto nella direzione da cui
proveniva la voce e allungò la mano al suo fianco senza
guardare, ritrovandosi però ad artigliare il vuoto.
- Se stai cercando la tua spada, è lì sopra. - lo
sconosciuto le indicò un basso tavolo con un movimento del
capo, - Non ti servirà ora, non ho intenzione di farti del
male. -
- Dov'è Arghail? - gracchiò, la gola secca e
infiammata.
- L'uomo che viaggiava con te? È nella camera della mia
compagna, non si è ancora svegliato. -
Lo sconosciuto si alzò dallo sgabello in cui era rimasto
seduto fino ad allora – e chissà per quanto
l'aveva osservata dormire in silenzio, pensò Airis con un
brivido di inquietudine – e si avvicinò al
davanzale della finestra alla sua sinistra, da dove prese un mazzolino
di erbe da un cestello a terra per poi metterle in un piattino per
bruciarle assieme ad altre, la maggior parte delle quali erano
già ridotte in cenere. Subito nella stanza si diffuse un
odore simile a quello dell'incenso, e in qualche modo Airis
avvertì le proprie membra rilassarsi.
- Ti sei buttata in acqua per salvare il tuo amico. Un gesto molto
nobile, il tuo. - commentò l'uomo in tono casuale, come se
stesse discutendo del tempo.
Airis spalancò gli occhi. Si sentiva ancora un po'
intontita, ma ricordava perfettamente quello che era successo.
- Chi sei? - indagò cauta sforzandosi di restare aggrappata
alla lucidità, nonostante la percepisse scivolare via pian
piano, sempre di più.
Egli non rispose subito. Si avvicinò al focolare sotto la
finestra dove sobbolliva una pentola e, dopo aver aggiunto un po' di
legna, passò la mano sulle fiamme. Bastò quel
semplice gesto perché queste si ravvivassero, alzandosi
allegre fino a lambirgli le dita, senza però ustionarle.
Airis lo fissò sbalordita mentre lui continuava a regolare
il fuoco. Di spalle sembrava ancora più alto e slanciato di
quanto le era parso all'inizio.
- Sei un mago? -
- Tra la tua gente forse mi chiamereste così, sebbene sia
una definizione generica e imprecisa. -
Si voltò e la trafisse con uno sguardo penetrante. I suoi
occhi erano ambrati, leggermente sporgenti, con la pupilla ridotta a
una fessura nera. I capelli erano della stessa tonalità
delle braci ardenti, un arancione vivo che sulla punta della lunga
treccia sfumava in un giallo paglierino chiarissimo. Nascoste tra le
ciocche chiare, intravide delle orecchie a punta grandi come quelle di
un uomo, ma affusolate come quelle di un elfo.
- Non hai ancora risposto alla mia domanda. -
- Il mio nome è Urian, lupa rossa. Ti trovi tra quelli che
sono noti come i Monti Neri, più precisamente nella mia
casa. -
- E come fai a sapere cosa è successo? Perché ci
hai salvati? Come hai fatto a... - la sua voce si spense e in un attimo
la sua mente si perse nei ricordi della tempesta, della sensazione
dell'acqua che le riempiva i polmoni, della paura di morire annegata in
mezzo ai flutti violenti del mare.
Urian stirò le labbra in un mezzo sorriso: - So molte cose.
Vedo e ho visto frammenti di ciò che fu e di ciò
che sarà, anche se spesso non sono riuscito a interpretare
il loro significato. -
- Sei un... veggente? Un oracolo? -
Urian annuì solenne. C'era così tanta convinzione
in quel gesto che Airis si rese conto che non stava mentendo. Era
assurdo, irragionevole e impossibile, ma, come la maggior parte delle
cose che le erano successe negli ultimi anni, anche se stentava a
crederci era reale.
“Ed è anche la meno strana di tutte.”
- Tu sei la lupa rossa che vedo fin da quando sono nato. - Urian prese
il mestolo appeso alla parete sopra il tavolo e lo girò
nella pentola appesa a un gancio di ferro sopra le fiamme del
caminetto, - Sei sempre stata presente, anche se non ti sognavo tutte
le notti. Mi sono chiesto se esistevi davvero e cosa significassi per
me, se non fossi un crudele scherzo della mia mente, e sino ad oggi
credevo che sarei morto senza capire. -
Airis non sapeva come rispondere, così preferì
tacere e sfruttare la pausa per raccogliere le idee. Coprendosi il
corpo nudo con il lenzuolo, si mise a sedere e gettò
un'occhiata intorno. Si trovava in una stanza non molto grande, pervasa
dal profumo degli incensi che bruciavano sui davanzali delle due
finestre e dall'odore di minestra di verdure cotte. Il tavolo dove era
stata appoggiata la sua spada era ingombro di erbe, libri e pergamene,
mentre gli utensili da cucina, così come le pentole di rame,
erano attaccati alla parete su dei semplici chiodi di bronzo. Una
pelliccia di orso bruno fungeva da tappeto, con una zampa protesa verso
di lei e l'altra verso la cassapanca alla sua destra.
- Ora, invece, cosa credi? - lo interrogò dopo un momento.
Urian riprese a girare la minestra, prima in un senso poi nell'altro.
Si girò appena e fissò lo sguardo sulla porta
socchiusa, quella che dava sull'interno della casa. Un respiro un poco
più forte arrivò alle orecchie di Airis, seguito
dal crepitio della paglia schiacciata.
- Vado a vedere come sta il tuo compagno. Anche lui avrà
molte domande. -
Urian le passò accanto, uscì e sparì
oltre la soglia. La guerriera lo seguì con lo sguardo e,
quando fu lasciata sola, trasse un sospiro di sollievo. La presenza del
veggente la metteva a disagio, anche se non sapeva spiegarsene il
motivo.
La sala era calda e accogliente e la coperta la proteggeva dagli
spifferi che si intrufolavano sotto le finestre. Si alzò dal
pagliericcio e ispezionò l'ambiente con più
attenzione ai dettagli. Dietro le file di libri e fogli che infestavano
il tavolo scorse il profilo dello schienale di una sedia, sulla quale
era stata piegata la sua tunica con la sua biancheria. Era leggermente
umida e le maniche erano ancora bagnate, ma era sempre meglio che
andarsene in giro nuda. Indossò sul torace la fascia per
contenere il seno e la tirò finché non fu
abbastanza stretta.
In quell'istante la porta cigolò alle sue spalle e Urian
condusse Arghail verso il tavolo. Airis si riavvolse velocemente nella
coperta, si scostò e gli porse la sedia, ma il suo compagno
la rifiutò con un cenno. Aveva delle brutte occhiaie e il
taglio aperto sulla guancia gli conferiva un'aria ancora più
stanca.
- Non penso serva che ti chieda come ti senti. - gli disse con un
sorriso tirato.
- Immaginate bene, Generale. - ridacchiò lui, senza che gli
occhi si accendessero, - Vi... ti devo la vita, non so davvero come
ringraziarti. -
- Siamo compagni d'armi, non potevo lasciarti morire. -
Arghail annuì e portò la mano al collo, alla
ricerca della collana con l'anello. Quando le sue dita si strinsero
sulla pelle, si morse le labbra con espressione contrita ed
esalò un profondo sospiro carico di tristezza e
rassegnazione.
- Dove siamo? -
- Sui Monti Neri. Sei caduto dalla nave e la lupa rossa si è
buttata per salvarti. - spiegò rapidamente Urian.
- Sì, quello me lo ricordo, solo... - si interruppe e
alzò lo sguardo sul veggente, poi lo spostò su
Airis, - Una lupa rossa? -
- Ti spiego dopo. -
Arghail si massaggiò le tempie e strizzò gli
occhi per scacciare l'emicrania. Indossava una cioppa di lana grigia
con le maniche lunghe e abbastanza ampie, la quale metteva in mostra la
tunica a collo alto dello stesso colore che sottolineava più
del necessario il colorito pallido delle guance appena imporporate dal
calore della stanza.
- Mi dispiace che tu abbia perso la collana. - mormorò
Urian.
Arghail sussultò e lo fissò con tanto d'occhi.
- Tuttavia, non tutto ciò che è perduto lo rimane
per sempre. - aggiunse il padrone di casa con un sorriso enigmatico.
Quindi prese tre ciotole dalla credenza e li servì con due
mestoli di minestra a testa, prima di invitarli a sedere attorno al
fuoco. Arghail esitò e lanciò un'occhiata
dubbiosa ad Airis per vedere cosa avrebbe fatto, ma lei era
più concentrata su un altro dettaglio: i cucchiai, come i
chiodi alle pareti, erano di bronzo.
- Avete rischiato di morire nell'acqua gelida, dovete restare al caldo.
- mentre parlava, Urian aveva già ingoiato la prima
cucchiaiata, - Non c'è tempo per la diffidenza: per il
viaggio che vi attende dovrete essere in forze. -
Arghail si accigliò e lo studiò con gli occhi
ridotti a fessure: - Come fai a sapere che... -
- So molte cose, giovane aquila. Gli dei mi hanno maledetto rendendomi
partecipe del destino del loro creato, così che io potessi
essere la loro voce nel Mondo Nato dal Nulla. - sollevò
appena il capo e guardò Arghail, - Ho sentito molte cose del
cielo, altrettante della terra e forse di più dal Fanciullo,
dalla morte. -
- Sei... una sorta di profeta? -
- Presumo siano queste le definizioni corrette. Per la mia gente ero di
Darhaid, ma è passato molto tempo da quando ho smesso quelle
vesti. -
- Perché non lo sei più? -
- La conoscenza riservata solo agli immortali è difficile da
comprendere, a volte persino per gli stessi dei. E quando l'unica cosa
che i secoli possono intaccare è la mente, quello che
è un tempo era un leone diventa una fiera folle alla ricerca
del conforto del Fanciullo. -
Arghail annuì cupo, e così anche Airis, sebbene
non fosse convinta di aver capito davvero. La guerriera si sedette tra
lui e Urian e si godette il sapore della minestra sul palato. I pezzi
di carne avevano assunto il retrogusto dell'aglio e sulla lingua la
cannella pizzicava appena, mitigata dal sapore dell'alloro. Airis
divorò la sua porzione, incurante dei pezzetti d'aglio che
le si infilavano tra i denti, mentre Arghail mangiò con
calma, gustandosi ogni singolo boccone. Di tanto in tanto gettava delle
occhiate a Urian, intercettando il suo sguardo imperturbabile, ma
nessuno dei due aprì bocca se non per mangiare.
- Sei un Fae. - dichiarò Airis dopo interminabili minuti di
silenzio.
Urian sospirò, posò la scodella di fianco e la
spostò lontano. Le fiamme si riflettevano negli occhi
ambrati e le loro ombre danzavano sul viso e sulla pelle del collo e
delle mani, sottile come organza sulle vene in rilievo.
- Curiosa denominazione. L'avevo dimenticata. - sussurrò con
un sorriso mesto, lo sguardo basso sulle mani intrecciate in grembo, -
Fae, fate, popolo fatato... nomi generici, eppure molto più
precisi di molti altri. Da cosa lo hai capito? -
- Non ho visto ferro nella tua casa. -
Urian abbozzò un sorriso compiaciuto e accarezzò
una lingua di fuoco con la punta del dito.
- Sei un'attenta osservatrice, lupa rossa. -
- Perché ci chiami così? - intervenne Arghail, -
Lei “lupa rossa”, io “giovane
aquila”. Abbiamo dei nomi veri, sai? -
- Lo so, ma è meglio che io non li conosca. I nomi hanno
molto potere. - Urian socchiuse le palpebre un momento e poi le
riaprì, - Come stavo dicendo alla tua compagna prima che ti
svegliassi, l'ho sempre sognata, sin da quando ho memoria, con le
sembianze di una lupa rossa. Dapprima l'ho vista come una cucciola che
viveva assieme ai suoi genitori in un branco di lonze. Poi i suoi occhi
sono diventati bianchi e ha camminato dietro un altro lupo dal manto
grigio, lasciandosi alle spalle la sua foresta in fiamme e il corpo di
suo padre. -
Urian inclinò la testa verso di lei e Airis si impose di non
distogliere lo sguardo. Poteva percepire gli occhi di Arghail sulla
nuca e il suo desiderio di sapere, ma lo ignorò. Urian
conosceva ogni cosa, lo sentiva, e il fatto che non ci fosse segreto di
cui lui fosse all'oscuro le spaventava, la faceva sentire vulnerabile,
scoperta, esposta.
- A un certo punto, per molti anni non ti ho più sognata.
Alle volte ricomparivi in frammenti di visioni più leggeri
di una piuma, ma la mattina seguente il sole e il vento li avevano
già trasportati lontano. Ho tentato di richiamarti, di
trattenerti, eppure non ci sono mai riuscito: era come fare il tiro
alla fune con un gigante. Quando sei tornata, eri cambiata. I tuoi
occhi avevano ripreso colore e ti accompagnavi a un corvo, mentre
intorno a voi imperversava una tempesta di fuoco e fiamme di un bianco
abbacinante, che inghiottiva ogni cosa a parte voi. - si interruppe e
strinse nel pugno la cenere incandescente che si alzava verso l'alto, -
Questo è solo uno dei sogni che ricordo. Altri,
più di quanti vorrei ammettere, sono scivolati nell'oblio,
incompleti e incompresi. L'ultimo è stato quello della notte
scorsa, lo stesso che mi ha spinto a scendere fino alla spiaggia. -
Airis non ebbe il coraggio di parlare. Se anche prima poteva avere dei
dubbi su chi o cosa fosse, ora aveva la certezza che Urian non le stava
mentendo.
- E tu, giovane aquila. - disse rivolto ad Arghail, - Ti ho incontrato
solo nel sogno di ieri. Il tuo passato mi è precluso e il
tuo futuro... è una marea instabile, mutevole come il vento
e capriccioso come una femmina. L'unica cosa che so e che mi
è dato sapere è che sei importante. La chiave che
apre la tua porta spalancherà pure quella su un nuovo mondo,
se riuscirai a trovarla. - inclinò l'angolo della bocca in
un sorriso stanco che gli adombrò lo sguardo invece di
accenderglielo.
Arghail aprì la bocca per poi richiuderla senza proferire
parola. La delusione era racchiusa nella smorfia assunta dalle labbra,
nei pugni chiusi sulle ginocchia e nelle spalle basse. Airis gli si
avvicinò e gli batté una pacca sulla schiena, e
così rimase finché lui non trasse un profondo
respiro e si raddrizzò.
- Cosa credi significhino i tuoi sogni? -
- Possono voler dire tante cose, tutto è il contrario di
tutto e la logica collassa muta dinanzi a ciò che vedo.
Quello che ho potuto scorgere mi ha riportato alla mente una delle
antiche profezie della Volva. -
- La Volva? - ripeté con un misto di meraviglia e
soggezione.
- Erano trentatré. Trentatré Veggenti scelte tra
gli Alati, la stirpe creata da Yggrasil stesso. Esse, al Crepuscolo
degli dei, riferirono il messaggio ai più degni tra tutte le
razze create. Molti le trascrissero, altri si affidarono alla loro
memoria, ma il tempo è tiranno e i libri, così
come i ricordi, sono soggetti al suo imperituro scorrere. I
più hanno dimenticato e pochi non ne conservano altro che
frammenti senza senso. O se anche ce l'hanno, un senso, questo
è completamente stravolto. -
- E tu, invece? La conosci? -
Urian scrutò Arghail di sottecchi e iniziò a
recitare senza indugio.
- Ammantato delle tenebre degli Abissi,
il Protettore delle Profondità marcerà sul Mondo
Nato dal Nulla,
portando con sé la Stirpe forgiata dal suo stesso sangue.
I Popoli prenderanno le armi e la Morte li divorerà.
Tempo di spade, vento di distruzione, fuoco e cenere,
s'infrangeranno scudi e si alzeranno grida.
Tempo di tempesta, tempo di gelo.
Gemerà il suolo al tonfo dei cadaveri
e il crepuscolo avvolgerà il Mondo al calar del centesimo
inverno.
Sotto un unico stendardo i Popoli leveranno le armi al cielo
e riforgeranno i vincoli di sangue dimenticati.
Tempo di luce, vento di primavera, fuoco purificatore.
Splende, fulgida, Amarnwyn nella sinistra del Guardiano.
Davanti ai miei occhi si svolge il filo del Destino.
Feroce urla il Corvo dinanzi alle Schiere Oscure,
gracchia nei cieli del mondo alla ricerca del sangue perduto,
trama contro i figli di Yggrasil.
Dalle stelle del Nord, il sole arrossa la terra,
là dove Vita e Morte camminano fianco a fianco.
Nel tempo del lupo, la terra
si impregnerà di sangue innocente.
Il Guardiano spezzerà i lacci
per combattere la guerra del Mondo nato dal Nulla.
Arriverà alla fine dell'orizzonte, con la Morte come sua
fedele compagna e seguace.
Sprofonderà nel cuore della terra, con la luce del Padre a
fargli da guida.
Calcherà le Lande dei Primordi, con Amarnwyn e i figli di
Yggrasil.
Allora il Protettore delle Profondità vestirà le
carni del figlio del Corvo. -
Airis boccheggiò attonita.
“La stessa profezia che mi aveva riferito Cyril. Significa
che è lei la Volva?”
Arghail ascoltò rapito la profezia e, quando Urian tacque,
parve riscuotersi.
- Tu credi davvero che Airis abbia a che fare con... - si interruppe e
una risata isterica gli fece tremare le labbra, - Tutto ciò
non ha il benché minimo senso. -
- La realtà spesso non può essere misurata con un
metro di giudizio umano, giovane aquila. - Urian incrociò le
gambe e ravvivò le fiamme con un gesto della mano, -
Ciò che io credo potrebbe corrispondere al falso
può rivelarsi vero e viceversa. Non c'è certezza
nell'interpretazione dei sogni, se non che essi sono eventi che
saranno, furono o potrebbero essere. -
Arghail si passò una mano sulla faccia e sbuffò
frustrato.
- Di' quello che devi dire, Urian. - lo esortò Airis.
Il Fae rimase per un po' in silenzio, abbastanza da farle credere
d'averlo offeso per il tono brusco che aveva usato. Ma quando prese la
parola, la sua voce era pacata e seria.
- Credo tu sia la Guardiana, colei che è stata scelta dagli
dei per riportare l'equilibrio nel Mondo Nato dal Nulla. Il tempo
è il tuo peggior nemico, più del Fanciullo che ti
alita sul collo. Sei alla ricerca di Amarnwyn, la Forbice del cielo, e
della grazia per la realtà contingente che non ti
è più cara. Tuttavia, le uniche guide a cui ti
puoi affidare sono te stessa e i consigli di coloro che furono prima di
te. Quello che mi domando è se sei davvero degna di
ricoprire questo ruolo dopo ciò che hai fatto. - concluse,
trapassandola con un'occhiata talmente intensa da farla sentire nuda.
Airis si morse l'interno della guancia e istintivamente si
portò una mano sul petto, all'altezza del cuore.
- Perché dovrei dimostrare a te di essere degna? Chi sei
davvero? -
- Sono molte cose, a seconda di chi mi vede. Per te, lupa rossa, sono
un giudice e la mia gente i testimoni. -
Arghail strinse i pugni, ma, prima che decidesse di compiere qualsiasi
gesto avventato, Airis lo afferrò per la spalla. Il suo
doveva essere un semplice ammonimento, eppure il suo compagno non
riuscì nemmeno ad alzarsi. La squadrò stranito,
guardando prima la mano e poi lei, e solo allora Airis si rese conto
che lo stava tenendo fermo con solo la forza del braccio e senza alcuno
sforzo. Lo ritrasse lentamente e si osservò la mano, aprendo
e chiudendo le dita divenute fredde, come se il sangue fosse
improvvisamente defluito.
- Cosa accadrà se non dovessi risultare degna? -
- Per valicare i Monti Neri ti servono provviste, delle cavalcature
adatte e un consiglio sulla via da intraprendere. -
- Moriremo, quindi. - constatò Arghail con una smorfia, - Se
secondo il tuo giudizio Airis non sarà degna, moriremo. -
Urian si alzò, prese la spada che era posata sul tavolo e la
porse alla sua legittima proprietaria.
- Se non ce la facessi, il mondo come lo conosciamo finirà.
- mormorò Airis.
- Vorrà dire che la Volva ha errato nella sua scelta e che
quest'era di caos dovrà attendere la venuta di un altro
Guardiano. - disse Urian con voce calma e al contempo gelida.
La guerriera non capiva come potesse rimanere così
tranquillo. Strinse l'elsa della spada e la legò alla
cintola, mentre Arghail l'affiancò.
- Arghail, ascolta, so che è difficile da credere e capire,
ma... -
- Non ho detto che gli credo. Ciò che ci ha rivelato esula
da ogni schema logico e io non penso di... potermi fidare. Ancora
stento a credere che i Fae delle leggende siano creature realmente
esistenti. - bisbigliò e lanciò un'occhiata di
sottecchi alla porta, al di là della quale Urian era
sparito, - Ma tu gli credi e io ho promesso di avere fiducia in te. Ti
giuro qui e adesso che ti seguirò fino alla fine. Urian ha
ragione: non posso misurare le tue motivazioni con il mio secchio,
né giudicare secondo il mio parere, non finché il
quadro non sarà completo. Fino ad allora rimarrò
fedele alla mia parola. -
- Sei un uomo d'onore. -
- È una delle poche cose che posso dire di essere. -
Urian tornò qualche istante dopo con una pesante pelliccia
di muflone. Quando la porse ad Arghail, questi invitò Airis
a coprirsi, ma la guerriera rifiutò. Il capitano
alzò entrambe le sopracciglia perplesso, per poi mettersela
sulle spalle senza ulteriori insistenze.
Fuori l'aria era immobile e tirava un vento freddo che piegava i pochi
steli d'erba sopravvissuti alle gelate. La luce era obliqua, opaca,
fendeva il banco di nubi in lame sottili che non portavano alcun
calore. Non c'erano molte case e i pochi Fae che incrociarono erano
tutti imbacuccati come Arghail, anche se ce n'erano alcuni con gli
stessi capelli e occhi di Urian che giravano a gambe scoperte.
Una donna teneva un falco grosso come un'aquila reale sull'avambraccio,
una bestia dal piumaggio della testa nero con riflessi rossastri e il
becco color ardesia arcuato, quasi affilato. Non appena le passarono
accanto, ebbero addosso tre paia d'occhi, le due del rapace, grandi e
scure come piccole biglie, e quelle della Fae, con un'iride grande e
una pupilla così piccola da apparire come una fessura nel
blu.
Urian la oltrepassò come se non l'avesse nemmeno notata e
ignorò gli sguardi di tutti i Fae che erano all'esterno.
Airis invece ricambiò ogni occhiata senza mai lasciarsi
intimorire e, mentre avanzava, notò con un certo orgoglio
che anche Arghail li fronteggiava senza paura.
Non erano molti quelli che giravano per il villaggio –
perché quello era, un villaggio, con poche case di pietra
con il tetto di legno intrecciato –, ma quei pochi che
incontrarono sulla loro strada li scrutavano ostili, alcuni talvolta
facevano addirittua schioccare i denti d'argento, sorridendo
minacciosi.
Una ragazza che agli occhi di Airis doveva dimostrare sì e
no quindici anni abbassò il capo e svanì in un
turbinio di polvere e foglie secche; un bambino alto massimo quattro
piedi, con i capelli ricci e il naso schiacciato, elargì
loro un sorriso grifagno, anche lui scoprendo la dentatura argentata da
squalo; un uomo con i capelli tagliati poco sopra le orecchie, ispidi
come aghi di pino, e dagli occhi neri sprovvisti di iride li
degnò appena di uno sguardo, prima di montare su quello che,
di primo acchito, sembrava un cavallo dal collo tozzo come quello di un
toro e gli zoccoli biforcati. Airis notò le piccole corna e
la presenza di una coda canina. Nessuno però, nemmeno le tre
donne con la coda serpentina che sibilarono loro contro, ebbe il
coraggio di avvicinarsi. Bastava una semplice occhiata di Urian per
rimettere in riga i più bellicosi.
Quando furono fuori dal villaggio, Arghail si abbandonò a un
sospiro di sollievo e Airis allentò la presa sull'elsa della
spada. Attraversarono lo spiazzo erboso che abbracciava il villaggio e
si diressero verso est, inerpicandosi su un sentiero che si inoltrava
in un bosco di larici. Il vento faceva stormire le fronde e trasportava
con sé un profumo appena percepibile di salsedine,
così tenue da sbiadire, sopraffatto dall'intensa e fresca
fragranza del sottobosco, un misto di muschio, primule ed erica. Di
tanto in tanto una marmotta o una faina tagliava la strada di corsa,
andandosi a nascondere in un cespuglietto di mugo o in una tana scavata
tra le radici di un albero.
Urian era l'apripista, camminava davanti con ampie falcate senza
però distanziarli mai troppo. Li lasciava indietro quel che
bastava per garantire loro un po' di intimità o, come Airis
pensò, per metterli a loro agio e lasciar loro il tempo di
pensare, oppure semplicemente per permettere alla calma naturale del
bosco di permeare le loro menti e placare i loro animi.
Nel silenzio imperante, interrotto solo dai rumori degli animali o dal
mormorio del vento tra gli alberi, Airis si sentiva in pace con se
stessa, in comunione con la parte più profonda del suo
essere, e anche Arghail le sembrava rilassato, l'inquietudine scacciata
sia dal suo sguardo che dal suo corpo.
La vegetazione si diradò e il percorso uscì dal
bosco, proseguì su un clivo ripido dove l'erba cresceva
più rada e li condusse a fiancheggiare una parete rocciosa
nera tra le cui fessure ondeggiavano delle campanule dai petali viola,
i pistilli che brillavano come piccole gemme, ancora roridi di rugiada.
Da quell'altezza si poteva vedere il villaggio e il bosco di larici che
si estendeva a perdita d'occhi fino quasi alle pendici della montagna,
una vastità verde che toglieva il fiato.
Urian non disse nulla, né su come dovessero muoversi
né su dove dovessero mettere i piedi. Per lui era facile,
avanzava con la familiarità di chi conosce e vive da anni in
quei luoghi, senza mai esitare o fermarsi paralizzato dalla paura e
dalla meraviglia. Airis e Arghail procedettero a tentoni, lentamente,
affidandosi in tutto alla loro guida: si aggrappavano dove lui metteva
le mani, schivavano le pietre che lui evitava e si appoggiavano a
quelle che lui reputava sicure. Avevano entrambi le mani umide, ma il
sudore sul viso e sul collo si asciugava in fretta grazie alle continue
correnti che piegavano le saponarie e i crochi che spuntavano tra i
massi, questi ultimi protesi verso il sole, quasi anelando, supplici,
il calore di una primavera che tardava ad arrivare.
- Siamo arrivati. - li informò pacato Urian quando giunsero
in cima.
Airis dovette fare appello a tutta la sua dignità e orgoglio
per non lasciarsi cadere distesa sull'erba. Arghail azzardò
qualche passo e poi si sedette su una roccia che spuntava in mezzo a
una piccola foresta di romici e bucaneve, mentre Urian si spinse fino
al centro del prato, nel mezzo di un cerchio di pietre nere, alte
più di cinque piedi, attorno alle quali si erano radunati
una decina di Fae. Airis riconobbe anche qualche viso e le venne
spontaneo domandarsi come avessero fatto ad arrivare fin lì
senza che lei se ne accorgesse.
“Magia, ovviamente.”
Urian le fece cenno di avvicinarsi. Airis lanciò un'ultima
occhiata ad Arghail prima di avviarsi. Era già stata
convocata in un luogo come quello, quando ancora non era un Cavaliere e
la sua appartenenza all'esercito era opinabile. Quel giorno si era
sentita come in quel momento, con il cuore leggero e un fuoco freddo
che le serpeggiava nelle vene, rinforzando il suo coraggio e forgiando
la sua determinazione. Quando oltrepassò il cerchio di
pietre, il vento prese a soffiare più forte.
- Trentatré pietre, trentatré testimoni degli
dei. Lei è colei che la Volva ha scelto, la nuova Guardiana.
Quello che accadrà tra queste pietre è il volere
dei nostri genitori. Se sarà degna, metteremo da parte le
nostre divergenze con gli umani e l'aiuteremo nel suo compito; se
dovesse fallire, allora lasceremo che siano le Montagne a emettere
l'ultimo giudizio. - Urian aveva mantenuto lo stesso tono di voce,
eppure nel silenzio quasi totale ad Airis era sembrato un leone, - Non
dovrai dimostrare né la tua forza né il tuo
acume, Guardiana. Sei stata chiamata a rimettere in equilibrio la
bilancia del Caos e dell'Ordine. È questo il tuo fine
ultimo, il risultato che dovrai perseguire a qualsiasi costo, qualunque
sia il prezzo richiesto. -
Airis annuì. Gli altri Fae rimanevano fuori dal cerchio e
lei era il fulcro della loro attenzione. Glielo poteva leggere in
faccia che speravano nel suo fallimento.
“Bastardi.”
- Cosa devo fare per provarti che Cyril non ha sbagliato? -
Urian sollevò le sopracciglia e Airis si godette la ruga di
sorpresa sulla fronte. Dopo un momento, il Fae tornò
impassibile e riprese a parlare come se non gli avesse detto
alcunché.
- Ti verrà posta una domanda e dalla tua risposta
capirò se questo compito ti appartiene. -
Airis storse le labbra: - Pensi davvero di potermi giudicare da una
risposta? -
- Le parole, lupa rossa, sono importanti. Talvolta immiseriscono quello
che si cela nel cuore di un uomo, lo riducono a un cumulo di sillabe
che si perdono nel vento; ci sono volte, però, che sono
più potenti di qualsiasi magia o incantesimo, e anche un
semplice “sì” può cambiare il
mondo e dire molto di più di cento azioni. Un baro
risponderebbe alla domanda senza ponderare il peso di quelle parole o
carpirne il loro vero significato, l'essenza recondita che esse portano
con sé. E avrebbe errato, perché non è
ciò in cui crede davvero. -
Levò le braccia al cielo e una fiamma si generò
tra le sue mani.
- Sei un politico e fai parte di un collegio di tuo pari. Il tuo paese
è in guerra da molti anni con un altro, più forte
e potente. Tuttavia, negli ultimi mesi il vostro esercito ha riportato
diverse vittorie contro ogni pronostico. Il Consiglio deve decidere
cosa fare. Da un lato, metà di esso, così come
metà del tuo popolo, desidera la resa, che
trasformerà il vostro uno stato vassallo. In questo caso, la
guerra terminerà e gli uomini, ormai sfiancati dalle
innumerevoli morti e battaglie, potranno tornare a casa dai loro
familiari per arare la terra, rimpinguare la casse con il loro salario
e rendere più florido il commercio ormai da anni stagnante.
In più, dovrete rinunciare alla vostra religione, ai vostri
costumi e alle vostre tradizioni e adottare quelle dello stato
vincitore e, probabilmente, il Consiglio di cui tu fai parte
verrà sciolto. Dall'altro lato, potete continuare la guerra,
così come propone il tuo migliore amico. Egli desidera
proseguire, anche se questo significa armare ancora una volta
l'esercito e sacrificare la vita di molti uomini. Le casse dello stato
sono sufficienti per fornire armi per una sola, ultima battaglia,
quella che potrebbe decretare la fine o l'inizio di tutto. Se
perderete, diventerete schiavi, se ne uscirete vincitori vi potrete
arricchire, i vostri confini si estenderebbero fino al mare e potrete
vantare una ricchezza capace di rivaleggiare con quella dei re delle
leggende. Tu sei la piuma che potrà far pendere l'ago della
bilancia dall'una o dall'altra parte: se deciderai di schierarti con
chi desidera la pace, il tuo amico verrà avvelenato,
così da stroncare gli animi degli altri avversari e
raggiungere l'unanimità. Se invece parteggerai per lui,
l'unica cosa di cui avrai la consapevolezza è che altro
sangue verrà versato e, forse, inutilmente. -
Urian si zittì e fece un passo indietro, portandosi a
ridosso del cerchio. Airis non lo perse di vista finché non
si fermò, così vicino a una delle pietre che gli
sarebbe bastato far ondeggiare la mano per toccarla.
Trasse un profondo respiro e rilassò le spalle, spostando lo
sguardo sugli astanti e poi oltre, fino a trovare la rassicurante
presenza del cielo. Il vento aveva sfilacciato le nubi, liberando il
sole dalla sua prigionia coatta. Portava con sé il rombo
attutito di una cascata e lo sciabordio placido di un corso d'acqua.
Airis si riempì i polmoni di quell'aria fresca e chiuse gli
occhi. I suoni della natura le colmarono la mente ancora una volta e
misero a tacere ogni obiezione, ogni angoscia. Erano solo lei e il
vuoto pieno della vita in attesa della primavera.
La risposta emerse con una limpidezza disarmante, si profilò
davanti alle palpebre chiuse come se fosse sempre stata lì.
Puntò lo sguardo su Urian e poi lo passò su tutti
gli altri membri della comunità Fae lì raccolti,
per poi tornare sul Darhaid. L'ombra di un sorriso aleggiava sulle sue
labbra.
- Combatterò. - dichiarò ad alta voce, sicura e
ferma, - Combatterò perché un popolo senza
più un passato smette d'esistere. Combatterò
perché è giusto onorare il sacrificio dei caduti.
Combatterò perché non possiamo permettere alla
guerra di portarci via i valori che ci hanno resi uomini,
perché una pace nata dalla resa incondizionata ci
toglierebbe la libertà. -
- Anche se il risultato potrebbe essere una tragedia? -
- Ho smesso di aspettarmi certezze molti anni fa. - si mise una mano
sul petto, sopra la cicatrice che l'aveva condannata, - Che debba
vivere o che debba morire, mi prenderò le mie
responsabilità, nel bene e nel male. -
Urian la fissò negli occhi con un'espressione
imperscrutabile. Tutti attorno a loro trattenevano il respiro, anche la
natura sembrava imprigionata in un momento di stasi. Quindi
avanzò fino a lei e le posò una mano sulla
spalla, esercitando pressione per farle capire di inginocchiarsi.
- Il volere degli dei è sancito. - decretò
solenne, non appena Airis fu in ginocchio.
Tirò fuori dalla tasca un orecchino con la forma filiforme
di un drago. Era di cristallo nero, con le squame disegnate su tutto il
corpo e le ali appena aperte, come se si fosse appena svegliato. Glielo
accostò all'orecchio e, senza alcun preavviso,
cacciò dentro il primo ago nel lobo e il secondo nell'elice.
Airis inghiottì un urlo e si schiacciò la mano
contro l'orecchio, ma Urian l'allontanò con una manata.
- A... a che cosa serve? -
- Avevo sognato una lupa dal manto rosso che, in compagnia di una
giovane aquila, valicava i Monti Neri. - le disse, ignorando il suo
commento, la voce sempre calma e controllata, - Alle sue spalle il
Fanciullo raccoglieva le farfalle danzando tra le macerie, mentre
davanti a lei il buio ingoiava la luce e il Protettore delle
Profondità banchettava con il cuore del Corvo. -
Prese la parte restante della coda del drago e la infilò
nell'ago sul lobo, per poi assicurare la parte superiore con una
rotellina.
- Ledah... Ledah non ce la farà? È questo che mi
stai dicendo? - domandò col cuore in gola.
- Le scelte hanno un peso sull'avvenire, lupa rossa: ne basta una a
volte per cambiare il futuro che sarebbe potuto accadere domani. -
Airis aprì la bocca per chiedere ancora, ma Urian si era
già girato.
- Fornite alle Guardiana e al suo compagno tutto quello che
sarà necessario per il viaggio. - disse oltrepassando il
cerchio di pietre e si rivolse alla donna che era sparita non appena li
aveva visti, - Porta il mio messaggio agli altri membri del villaggio e
fa sì che la voce si sparga. -
- Volete davvero aiutare un'umana? Dopo tutto quello che ci hanno fatto
passare, come potete... -
Urian mise a tacere il Fae che aveva parlato con un gesto imperioso
della mano. Era un uomo alto e grosso, dagli occhi felini, la mascella
volitiva e le spalle larghe.
- Gli dei non sbagliano mai, Morel. - sibilò Urian e
l'occhiata gelida che gli scoccò lo costrinse ad abbassare
la testa, - Ora va' e riportali al villaggio. -
- Sì, Darhaid. -
Non appena Urian si allontanò, il Fae fece come gli aveva
ordinato. Arghail si era accostato ad Airis e le aveva stretto la
spalla con un sorriso trionfante che le scaldò il cuore.
L'abbracciò, incurante dell'improvvisa rigidità
della sua compagna.
- Lo sapevo che ce l'avresti fatta. - le sussurrò.
- Sì... sì, va bene, ma ora lasciami. -
Il soldato scoppiò a ridere e si allontanò, le
mani alzate in segno di resa. Sorrideva scanzonato e, sebbene nei suoi
occhi fosse rimasta un'ombra di inquietudine, la tensione aveva
abbandonato il suo corpo.
Quando il Fae fu abbastanza vicino, il vento turbinò intorno
ai loro corpi sempre più in fretta, alzando foglie,
strappando steli d'erba e alcuni sassolini. L'aria prese forma in un
cornice rettangolare fumosa, quasi tangibile. All'interno vi era una
fitta foschia, al di là della quale non si vedeva nulla.
Airis deglutì, la pelle leggermente imperlata di sudore, ma
non fece in tempo a fare o dire nulla che il Fae la spinse all'interno.
Si ritrovò al villaggio, davanti alla porta di Urian. Con le
gambe che le tremavano, si dovette appoggiare al muro prima di vomitare
tutto quello che aveva nello stomaco. Una parte schizzò
sulla pietra, ma la maggior parte le imbrattò i piedi.
- Airis, cos'hai? -
Arghail corse verso di lei e fece passare il braccio sotto l'ascella
per sostenerla. La guerriera aveva la bocca impastata e il sapore
rancido della bile sulla lingua. Era così forte che
vomitò di nuovo, stavolta con un po' più di
contegno.
- È refrattaria alla magia. -
Urian comparve alle loro spalle in un vortice di cenere accesa, al suo
fianco una donna con i capelli così chiari e sottili sa
sembrare trasparenti. Anche quelli del Fae che li aveva riportati
lì, osservò Airis, erano così.
- È una storia lunga. - rispose quando ebbe ripreso fiato, -
Ora dateci quello che ci serve e lasciateci andare. -
- Ho già dato disposizioni in merito. Entro un paio d'ore
sarà tutto pronto. -
Urian passò loro accanto, scostò la pozza di
vomito e aprì la porta, lasciandola aperta. Arghail, sempre
sorreggendola, la portò dentro e la fece sedere sul
pagliericcio.
- Hai molti più segreti di quelli che pensassi. -
Airis appoggiò i gomiti sulle ginocchia, lasciando le mani a
penzoloni. Sentiva ancora un fastidioso malessere in fondo allo
stomaco, ma era abbastanza sicura di essersi svuotata del tutto.
- Solo un po' più degli altri. -
- Già. - ridacchiò l'amico e si sedette anche
lui, - Non avevo mai sentito dell'esistenza di un'allergia simile. -
- Sono l'eroina di un'epopea epica... dovevo pur avere qualcosa di
speciale, no? -
Arghail rise di nuovo.
- Lassilsan aveva un'ascia capace di spaccare le montagne, Chanim era
in grado di parlare con gli animali e la grande Airis, Cavaliere del
Lupo, grande Generale dell'esercito umano vomitava al primo sentore
magico. -
- Almeno sono originale. - lo rimbeccò.
- Questo non si può negare. Potrò sapere qualcosa
di più sulla mia misteriosa compagna di viaggio prima di
imbarcarci nella nostra missione? -
Airis esitò prima di rispondere. La sua testa era altrove,
concentrata su ciò che Urian le aveva detto, l'ultima frase
che le aveva rivolto prima di abbandonare le Pietre Giudici. E il suo
pensiero volò a Ledah, alla promessa che si erano fatti
prima di dividersi a Luthien, e poi alle parole di Hallende,
così simili a quelle di Davsten. Forse era davvero il
momento di cominciare a ricambiare la fiducia che tante persone avevano
riposto in lei.
- Un giorno. - sospirò con un sorriso mesto, guardandolo di
sbieco, - Un giorno ti dirò tutto. -
Arghail assentì e si alzò, scrollandosi la
polvere dalla cioppa.
- Tu riposa pure, ti sveglierò quando dovremo partire. -
Per la terza volta nella sua vita, Airis sentì di poter
dormire sonni tranquilli. E così fece.
Partirono poche ore dopo,
non appena i Fae ebbero loro consegnato i viveri essenziali. Diedero
loro anche quelle strane cavalcature che avevano visto prima di
ascendere alle Pietre Giudici. Si chiamavano Gedharvha e, oltre ad
avere gli zoccoli biforcuti, avevano le zampe striate e un pelo lucido
come quello di un cane. Quando Arghail allungò la mano per
accarezzare il suo esemplare, l'animale alzò il muso tozzo
per andare incontro al suo palmo, emettendo un verso simile alle fusa
di un gatto. Erano stati sellati con delle selle dall'arcione alto e le
sacche con tutti gli alimenti per la loro sopravvivenza erano fissate a
questa con delle corde molto spesse.
Prima di muoversi, Urian si avvicinò. Indossava gli stessi
abiti di quella mattina e sul suo viso permaneva la solita espressione
impassibile. Offrì ad Airis un sacchetto di cuoio chiuso da
legacci.
- Che cos'è? -
- Varie erbe. Il cibo che vi abbiamo fornito è sufficiente
per una settimana, il tempo necessario per valicare i Monti, ma qualora
vi ritrovaste senza, dovrete fare attenzione a ciò che
prendete: sia gli animali che le piante che crescono qui possono essere
letali. -
- Tendi a sopravvalutare le mie capacità, Urian. Sono un
soldato, non una cerusica. Anche volendo, non saprei distinguere il
rosmarino dalla menta. -
- Non serve che sia tu a conoscerle. -
- Cosa intendi? -
Il Fae non rispose e Airis capì che, anche se avesse
aspettato, non avrebbe ricevuto altro che silenzio. Accettò
il sacchetto e lo infilò nella tasca all'interno della
giornea.
- Grazie per tutto quello che hai fatto. -
- Non ringraziarmi, giovane lupa. Non ci sarà clemenza nella
vita che ti attende. -
Le lanciò un'ultima occhiata, poi le diede le spalle e
allontanarsi verso la sua casa. Airis lo seguì con lo
sguardo finché la sua testa fulva non sparì al di
là della porta. Anche gli altri Fae fluirono via, ognuno
tornando alle proprie faccende.
Airis spronò il Gedharvha e raggiunse Arghail, che
l'attendeva sul limitare del villaggio, la mappa che Urian aveva loro
prestato già srotolata e un'ascia avvolta in stracci legata
alla cintola con delle corde. Anche Airis aveva fatto lo stesso e aveva
rinunciato al fodero, assicurando la spada attraverso una serie di nodi
attorno alla guardia: faceva troppo freddo e non voleva correre il
rischio che la spada rimanesse incastrata per la brina. Quando lo
raggiunse, Arghail rimise la mappa nel portapergamene e le fece cenno
di seguirlo.
L'ora di pranzo era passata da un pezzo e il vento aveva dissipato il
muro di nubi, liberando il cielo e il sole. Non seguirono il percorso
della mattina, ma ne intrapresero uno che si inoltrava verso ovest nel
bosco di larici. Era una stradina sterrata, una scia appena segnata,
nascosta in mezzo al fogliame e ai bassi arbusti, che però i
Gedharvha sembravano conoscere molto bene. Avanzarono risoluti, con la
testa alta, quasi non sentissero il peso delle borse ai fianchi,
fermandosi solo di tanto in tanto per brucare qualche mirtillo. Ne
erano così golosi che a un certo punto sia Airis che Arghail
dovettero tirare le briglie per impedire loro di deviare dal percorso.
Dopo circa un paio d'ore, il sentiero divenne più impervio e
il pendio, dapprima appena accennato, divenne una vera e propria
salita. I larici lasciarono il passo a un bosco di cirmoli dal tronco
nero e le foglie rosse, così alti da dare l'impressione di
toccare il cielo con le loro fronde. Regnava un profondo silenzio e i
passi dei Gedharvha erano l'unico disturbo nell'aria permeata dal
profumo di fresco e resina.
- Li hai mai visti? - domandò Airis.
- Ne ho solo sentito parlare da Hallende. Nella sua lingua non so
pronunciare il loro nome, ma da come me li ha descritti dovrebbero
essere gli Alberi Guerrieri. -
- Un nome alquanto inusuale. -
- Deriva da una leggenda. Si dice che un vecchio cavaliere,
sopravvissuto al tempo e ai suoi stessi figli, abbia deciso di
suicidarsi per permettere al suo albero avvizzito di tornare a fiorire.
È il motivo per cui sia le sue foglie che i suoi fiori sono
dello stesso colore del sangue. -
Airis inarcò un sopracciglio e Arghail scoppiò a
ridere.
- Lo so, è una leggenda molto macabra. -
- Doveva tenerci davvero molto per compiere un gesto così
estremo. -
Arghail fece spallucce, strinse appena le briglie e
accarezzò meditabondo la corta criniera del Gedharvha: - Il
paese da cui viene Hallende ha delle usanze diverse dalle nostre.
Alcune ai nostri occhi possono sembrare molto bizzarre. -
- Ci sei mai stato? -
- No, ciò che so me lo ha raccontato lei. -
- Siete... molto legati. - commentò cauta Airis.
Non sapeva nulla di lui, a parte le poche informazioni che era riuscita
a scucirgli durante il primo giorno di traversata a bordo della Signora
dei Mari. Era come viaggiare con uno sconosciuto, per certi versi.
Forse, si disse, se avesse saputo qualcosa di più avrebbero
potuto... essere amici? Meglio di no, tutti quelli con cui instaurava
un legame rischiavano di finire nella tomba prematuramente.
- Sì, in passato. -
- A me sembra che lo siate ancora. -
- Era diverso, molto più profondo, se così si
può dire. - si strofinò il collo, proprio
all'altezza del tatuaggio che condivideva con Hallende, la farfalla
posata su una stella, - Ho commesso troppi errori per pensare che sia
rimasto uguale dopo tutti questi anni. -
- È per quello che è successo a sua sorella? -
azzardò Airis.
Arghail corrugò le sopracciglia e la fissò
perplesso. Dopo qualche secondo storse le labbra in una smorfia amara e
scosse la testa.
- Sua sorella, è così che ti ha detto. -
- Mi dispiace, non volevo essere indiscreta. -
Il capitano le fece cenno con la mano di non preoccuparsi. L'ombra che
gli aveva attraversato lo sguardo però era ancora
lì e fagocitava la poca luce che filtrava tra le fronde
degli alberi, trasformando l'indaco delle iridi in un viola scuro,
tetro.
- Meglio che aumentiamo il passo o il temporale ci
raggiungerà prima di sera. - sospirò e
spronò il Gedharvha.
L'animale sbuffò risentito per quell'improvviso cambiamento
di andatura, ma obbedì. Airis lasciò che la
sorpassasse finché non arrivò al limite del suo
campo visivo. Quando la nebbia l'ebbe quasi inghiottito,
affrettò il passo.
Gli Alberi Guerrieri li circondavano come sentinelle e le ombre dei
tronchi e dei rami si protendevano su di loro, simili a fauci pronte a
ghermirli non appena avessero abbassato la guardia. La nebbia era
sottile come un foglio di carta bagnata e si sfilacciava in lembi
più o meno fitti, serpeggiando nel sottobosco e innalzandosi
fino ai primi rami. Il vento faceva stormire le cime e produceva un
rumore frusciante a raso terra, tra le ortiche e rododendri che
sbucavano di poco dal suolo.
Airis non faceva altro che guardarsi intorno, la mano sempre vicino
all'impugnatura della spada. Aveva la sensazione di non essere la
benvenuta e il rosso intenso delle foglie degli Alberi Guerrieri
rinforzava quella convinzione, la definiva nei contorni della certezza
e la rendeva nervosa. Quando Arghail afferrò la sua ascia,
anche Airis fece lo stesso e si portò al suo fianco,
assottigliando lo sguardo alla ricerca della minaccia che l'aveva messo
in allarme. La foresta rispose con uno sprezzante silenzio. La
guerriera scosse la testa e masticò un'imprecazione. Era il
luogo a suggestionarla e la stanchezza non aiutava.
- Troviamo un posto dove passare la notte. - suggerì e
Arghail assentì.
Il ruggito lontano di un tuono fece tremare l'aria immobile.
- Sì, e anche in fretta. -
Arghail si inoltrò nel bosco e su ogni albero incise una X
con la lama dell'ascia.
Quando le prime gocce di pioggia cominciarono a picchiettare sul
terreno, avvistarono la tana di un animale, abbastanza grande per
entrambi. Il terreno in quel punto cedeva in un dislivello di un paio
di braccia e l'albero su cui sorgeva era inclinato così
tanto che le radici, emerse dalla terra, parevano dita adunche
aggrappate ai sassi e ai ciuffi d'erba.
Airis smontò e si avvicinò per controllare. La
luce le venne fornita da un fulmine che esplose sopra le loro teste,
spaventando uno scoiattolo e i suoi cuccioli, rannicchiati gli uni
contro gli altri per proteggersi dal freddo. Non appena la videro, la
fissarono per qualche istante e al successivo tuono scattarono fuori e
sparirono veloci nel sottobosco.
- Non abbiamo di meglio per stanotte, dovremo accontentarci. -
- Ho dormito in posti peggiori. - rispose Arghail con ironia e
abbozzò un sorriso che contagiò anche Airis.
I due Ghedharvha opposero resistenza quando provarono a tirarli
all'interno. Strattonarono le redini con forza, sbattendo gli zoccoli a
terra con gli occhi fiammeggianti. Nemmeno i tuoni e la pioggia
battente sembravano convincerli.
All'ennesimo tentativo fallito, con i capelli che gli gocciolavano
sugli occhi, Arghail porse le redini ad Airis.
- Dove stai andando? -
- Fidati di me. -
Le fece l'occhiolino e lei lo osservò finché il
tramestio della pioggia non coprì quello dei suoi passi.
“Almeno la nebbia si è diradata...”
Il suo Ghedharvha aveva gli occhi piccoli e le ciglia corte e curve,
simili a quelle di una mucca. Dalle narici emetteva delle nuvolette di
vapore che si dissolvevano nella pioggia. La fissava con
curiosità frammista a una palese irritazione, resa ancora
più evidente dalle froge dilatate e i muscoli del collo tesi
sotto la pelliccia bagnata.
- Sei proprio una bastian contraria. - Airis la tenne per la cavezza
senza alcuno sforzo quando l'animale scosse la testa, - E non credere
che ti lasci andare in giro per questi monti sotto la pioggia, sappilo.
Mi servi per arrivare sana e salva a casa e no, non puoi rimanere qui
fuori a infreddolirti tutta. -
L'animale sbruffò, trafiggendola con un'occhiata
infastidita, mentre il suo compagno si era chinato per brucare l'erba,
incurante del conflitto in corso.
- Sei una bestia intelligente, non capisco per quale motivo devi essere
così intrattabile. -
- Perché ha paura del buio, come molti animali. -
Arghail spuntò da dietro un cespuglio. Era bagnato fradicio
e i vestiti di panno pesante gli si erano attaccati alle spalle e alle
braccia come una seconda pelle. In mano aveva alcune bacche di mirtillo
e foglie di rododendro. Non appena anche gli animali si accorsero della
sua presenza e lui fu abbastanza vicino, protesero i musi per afferrare
le bacche. Airis li vide rilassarsi sotto le carezze del capitano
mentre banchettavano.
- Se vi infilate lì sotto, dopo cena ve ne vado a prendere
altre. - si offrì e si pulì le mani sui calzoni,
gli occhi che passavano da un Ghedharvha all'altro.
Arghail sbatté le palpebre un paio di volte e fece un passo
indietro. I due Ghedhravha si piegarono sulle zampe e si infilarono
nella tana.
- Come... che cosa hai fatto? -
Il capitano la fissò trasecolato e poi aggrottò
le sopracciglia. Il sorriso che le rivolse era pallido come il suo
volto.
- Nulla, ho solo pensato che, somigliando a dei cavalli, potesse
bastare dar loro quello che desideravano. E ora conviene anche a noi
ripararci o rischiamo di ammalarci. - disse, poi si
inginocchiò e avanzò nell'oscurità
prima che Airis potesse chiedere ulteriori spiegazioni.
La tana era più larga che profonda di quanto sembrava
dall'esterno ed era invasa dalle erbacce e dalla mobilia dei suoi
precedenti ospiti: un letto di foglie marce, diversi segni di graffi
sul terreno e varie ossa sparse un po' ovunque, piccole e sottili come
quelle di un coniglio. Il soffitto era abbastanza alto per permettere a
entrambi di muoversi con sufficiente facilità, sebbene
dovessero tenere la testa bassa.
Fecero ordine come poterono, addossando alla parete in fondo tutta la
sporcizia, per poi prendere il cibo dalle borse appese ai Ghedharvha.
Mangiarono delle strisce di carne secca, accompagnata con del pane di
segale e alcune nocciole. Si spartirono equamente la loro parte e si
strinsero alle loro cavalcature, che già sonnecchiavano. Il
vino che avevano mischiato con l'acqua era di pessima
qualità e il sapore di tappo pungeva la lingua, ma bastava a
scaldare le mani e i piedi intorpiditi dal freddo e
dall'umidità.
Airis teneva il capo contro la parete di terra, il braccio destro
disteso sul ginocchio piegato e le spalle morbide. Non si sentiva
stanca, non quanto immaginava. La sua mente era sveglia, concentrata
assieme ai suoi sensi verso l'esterno. La pioggia ticchettava sulle
foglie e sul terreno fradicio, mettendo le ali ai piedi ai pochi
animali che non avevano avuto la celerità o l'accortezza di
correre al riparo quando c'erano state le avvisaglie del temporale.
“Domani sarà difficile proseguire.”
Anche se i Ghedharvha erano abituati a procedere su quei sentieri
accidentati, non era sicuro mantenere un passo troppo sostenuto col
terreno molle. Avrebbero dovuto continuare con più cautela,
prestando attenzione a più dettagli, in una foresta
sconosciuta. La loro unica guida era costituita da un pezzo di
pergamena e dal loro buon senso: perdere l'uno o l'altro significava
morire o, ancora peggio, non arrivare in tempo per interrompere il
rituale.
- Troveremo un modo, tranquilla. - disse Arghail, sedendo vicino a lei,
spalla a spalla.
I suoi abiti erano bagnati tanto quanto quelli di Airis, ma il calore
che lasciavano filtrare era piacevole e la calmava.
- Riusciremo ad arrivare sani e salvi e al momento giusto. - aggiunse
con più determinazione, - Abbi fiducia, ce la possiamo fare.
Io ne ho passate di peggio, tu anche e non sarà di certo un
temporale a fermarci. -
- A rallentarci sì, però. -
- Ce la faremo lo stesso. Sei un Generale, non puoi essere
così pessimista, sennò abbatti il morale dei tuoi
uomini. -
- Direi che realista mi si addice di più. -
- Questo tuo realismo non contribuisce alla riuscita dell'impresa. - si
girò a guardarla e stirò le labbra in un sorriso
stanco, - Non vedere tutto nero, Airis. Vedrai che ce la caveremo. -
La guerriera sospirò. L'angoscia le rimestava le viscere,
affondava i suoi artigli e li faceva a brandelli ogni volta che si
fermavano a riposare. La mente correva frenetica, una lepre e un lupo
al tempo stesso, preda e predatore di se stessa e delle sue paure.
C'erano troppe cose da giostrare, troppi problemi a cui pensare, eppure
se voleva essere libera doveva trovare un modo per risolverli tutti.
Aveva l'occasione di aggiustare le cose e consegnare il mondo a persone
che l'avrebbero reso migliore. Hallende, Arghail, Melwen, Zefiro,
Myria, tutti loro avevano il diritto di vivere.
“Anche Ledah. Soprattutto Ledah.”
- A chi stai pensando? -
Arghail aveva appoggiato la testa vicino alla sua e la fissava di
sbieco, con la sola coda dell'occhio. Non c'era durezza nella sua voce,
solo una curiosità appena venata da una saputa conoscenza,
come quella di un amico con il quale è impossibile avere dei
segreti. Airis rimase paralizzata dentro di sé: avrebbe
voluto scaricare quel fardello, avere una persona al mondo che sapesse
tutto quello che aveva fatto, tutto quello che era e le sarebbe
piaciuto essere. Tuttavia, quel qualcuno non poteva essere Arghail.
- Ledah. - mormorò.
- L'elfo che devi salvare, giusto? -
Airis annuì.
- È importante per te. -
- Lo è per tutta Esperya, per capire... -
- Sì, ma al di là di questo, ha fatto molto per
te, come tu per lui. Siete compagni. - sbadigliò e
allungò le gambe, - E i compagni non si abbandonano mai. -
- Non ritorcermi contro le mie stesse parole, soldato. -
borbottò Airis, senza riuscire a nascondere un piccolo
sorriso.
- Solo ciò che mi colpisce particolarmente. - Arghail
ridacchiò e si lasciò scivolare lungo la parete,
fino a rannicchiarsi contro di essa, - Svegliami tra un paio d'ore, ti
do il cambio per la guardia. -
Airis assentì e si avvolse nella cappa fino alla cintola,
come aveva fatto Arghail. Accompagnata dal leggero russare del suo
compagno, si concesse di ripensare alla festa di Luthien, quando aveva
danzato tra le braccia di Ledah.
Il secondo giorno si misero in marcia alle prime luci dell'alba. Airis
aveva preferito lasciar dormire Arghail e aveva montato la guardia da
sola. Non si sentiva molto assonnata, le palpebre erano solo un po'
più pesanti, come se la sera prima avesse bevuto
più del normale.
- Avrei dovuto darti il cambio. - l'aveva rimproverata Arghail mentre
facevano colazione, - Essere una Guardiana non ti esenta dal dormire. -
- Dormirò in sella, tanto ci sono abituata. -
Non era vero, aveva sempre faticato a riposare in groppa a un cavallo,
ma era mattina presto e non aveva la forza mentale per sostenere una
discussione.
I Ghedharvha furono ben contenti di riprendere il viaggio. Non appena
avevano visto i loro cavalieri uscire per sgranchirsi le gambe, li
avevano seguiti quasi trotterellando, per poi brucare un po' d'erba.
Quando Arghail offrì loro alcune bacche di mirtillo,
sollevarono immediatamente la testa e gli si avvicinarono per mangiare
direttamente dalle sue mani.
La pioggia aveva reso il terreno morbido e scivoloso, tant'è
che i Ghedharvha stessi procedevano con cautela. I loro zoccoli erano
adatti per fare presa sulle rocce e, appesantiti com'erano, dovevano
prestare molta attenzione.
La nebbia, simile a spuma del mare, aleggiava nell'aria, lambendo i
rami più bassi degli Alberi Guerrieri con lo stesso tocco
gentile delle rosee dita dell'alba. La foresta era silenziosa, la
maggior parte degli animali stava ancora riposando. Da lontano si udiva
il chiacchiericcio di una capinera e il canto flautato e più
basso di un merlo. Era una melodia piacevole, che rompeva il silenzio e
svegliava la mente assonnata di Airis.
Fecero poche deviazioni e si fermarono solo per sgranchire le gambe e
per lavarsi. Il riflesso del sole sulla superficie del laghetto aveva
destato l'attenzione di Arghail, che aveva fatto fermare gli animali e
li aveva condotti fino alla polla. Due stambecchi si stavano
abbeverando e un altro si stava appropinquando dalla foresta. Non
appena li videro, scapparono via a rifugiarsi nella copertura data
dagli alberi. Sulla superficie galleggiavano le foglie degli Alberi
Guerrieri, aghi lunghi e rossi.
Airis si inginocchiò e si lavò la faccia con
l'acqua gelida fino a quando non dovette strofinarsi le mani
intorpidite dal freddo, mentre Arghail si occupò di riempire
gli otri. Quando tornò in sella, si sentiva finalmente
sveglia.
Dopo mezzogiorno si lasciarono alle spalle la foresta e assieme ad essa
la sensazione di spaesamento. Gli alberi divennero sempre
più radi e alla fine scomparvero del tutto, cedendo il passo
a un paesaggio roccioso, con il sole che illuminava ogni cosa. La neve
a quell'altitudine non si era ancora sciolta, cumuli bianchi
barbagliavano ai lati del sentiero, abbacinanti nel loro candore che
rievocava l'inverno appena passato. L'aria era rarefatta e fredda,
sfrigolava sulla pelle e penetrava attraverso i pori come centinaia di
piccoli aghi che affondavano sempre più a ogni alito di
vento.
Arghail si fermò per controllare la direzione sulla mappa e
fece un cenno di assenso ad Airis, indirizzandola verso una strada
nascosta dalle rocce nere che declinava fino a costeggiare una parete a
strapiombo sul vuoto. Non c'erano anelli a cui assicurarsi,
né tanto meno appigli a cui aggrapparsi se fossero caduti.
Era simile alla strada che Urian aveva scelto il giorno prima. Airis si
chiese se anche quella segnata sulla mappa non servisse a metterla alla
prova. Quando incrociò lo sguardo di Arghail,
intuì che anche lui stava pensando la stessa cosa.
I Ghedharvha si misero in fila indiana e avanzarono lentamente, gli
zoccoli che facevano presa sulle rocce con facilità.
Airis fissava la schiena del suo compagno. Lo vedeva rigido in sella e
anche lui guardava ostinatamene davanti a sé, come se non
avesse il piede a penzoloni sul vuoto. Il vento gli faceva turbinare i
capelli, strappava ciuffi dalla mezza coda e faceva turbinare le
ciocche biondo-rossicce sulle spalle.
- Soffri di vertigini? - gli chiese curiosa.
- Hai scoperto uno dei miei punti deboli. -
- Non hai fatto molto per nasconderlo. -
La risata che proruppe dalla bocca di Arghail era venata di nervosismo.
- È più semplice essere coraggiosi se non si
è l'apripista. -
Si fermarono altre due volte prima di decidere di accamparsi. Il buio
stava calando e il sole retrocesse abbandonando il palcoscenico del
cielo alla sua sorella e amante luna. Trovarono riparo in una grotta
che si protendeva nel ventre della montagna, così profonda
da non vederne la fine. Stavolta i due Ghedharvha non si opposero e si
lasciarono condurre all'interno, stendendosi vicino al fuoco che Airis
aveva acceso per riscaldarsi. Non si lamentarono nemmeno quando Arghail
ed Airis si accoccolarono con il viso contro il loro ventre,
continuando a masticare il pezzo di pane che avevano loro offerto per
non tenerli a digiuno.
- Vai a dormire, sarai stravolta. Non hai mai chiuso occhio. - disse
Arghail, già sistemato con l'ascia a portata di mano.
Era pallido e la stanchezza era evidente sul suo viso, ma Airis sapeva
che avrebbe insistito finché non avesse ceduto. Gli diede le
spalle e si tirò le gambe al petto, sistemando la spada
vicino al fuoco.
- Domani voglio sapere come hai fatto a domare queste teste dure. -
mugugnò.
- Non è così importante. - rispose Arghail dopo
un attimo di esitazione.
- Questo lascialo giudicare a me. -
- È un ordine? -
- No, solo mi piacerebbe sapere qualcosa di più su di te.
Non mi piace viaggiare con un quasi sconosciuto. -
- La pensiamo allo stesso modo, allora. - un fruscio fece capire ad
Airis che aveva allungato le gambe, - Poi non dire che era una storia
noiosa, io ti avevo avvertito. -
La guerriera rimase sveglia ad ascoltare il proprio respiro e quello
del suo compagno, le mente impigliata in una ragnatela di domande senza
risposta. Chi era davvero Arghail e che ruolo avrebbe giocato in quella
partita? Era davvero lui il prossimo re di Esperya? Perché
Urian lo aveva visto sotto le sembianze di una giovane aquila? Quel
dettaglio le sembrava importante, ma, come per la profezia, non
riusciva a coglierne il vero valore.
Prima di addormentarsi captò un suono lontano. Il vento era
teso e all'inizio credette di aver sentito male. Ma poi il rumore
continuò, riecheggiò sopraffacendo l'ululato
delle raffiche. Un boato potente, simile al suono di una tromba.
Il giorno successivo ripresero la loro marcia che il sole era
già sorto. Arghail l'aveva svegliata per il turno di guardia
e si erano alternati finché Airis non lo aveva svegliato per
fare colazione. Il pane era così freddo che dovettero
ravvivare la brace per farlo sciogliere.
Il sentiero sulla mappa scendeva di un paio di metri e poi riprendeva a
salire verso un'altra cima che, a prima vista, sembrava un poco
più bassa di quella da cui provenivano. Varie chiazze di
neve ne sporcavano i crinali e la punta era ricoperta da un cappuccio
bianco latte simile alla glassa di una torta per quanto era compatto.
- Hai sentito il boato ieri notte? - le domandò Arghail.
- Sì, anche se era lontano. Hai idea di cosa potesse essere?
-
- Non ne ho idea, ma credo lo scopriremo presto. - indicò la
montagna e rinserrò la presa sull'ascia appesa alla cintola.
Si inerpicarono per un sentiero costeggiato da licheni e rocce nere
colonizzate da muschi ed epatiche, per poi ridiscendere ancora di
quota, fino a una foresta di abeti bianchi retrostante una vallata,
dove pascolavano quelle che parevano delle alci. Soltanto quando si
trovarono a percorrere una lingua di terra che passava propria sopra il
prato, Airis si avvide che erano tutto fuorché alci. Avevano
il collo più lungo e meno tozzo e un palco di corna ossee
orlate che fuoriuscivano dal centro del muso corto e carnoso, con una
barba di un marrone più scuro della pelliccia che ricopriva
il petto e la gobba a ridosso della testa. La guerriera notò
che diversi esemplari possedevano un ulteriore paio di corna,
più piccole delle altre, simili a quelle di un cervo ma
ribaltate, rivolte verso la bocca.
- Sono... giganteschi. - commentò meravigliata e fece
fermare il Ghedharvha dove il sentiero si allargava.
- Adesso sappiamo chi ci ha svegliato ieri notte. - rise Arghail,
affiancandola, - Ammetto di non averne riconosciuto il verso, ma credo
si tratti di Ailanti. -
- Li avevo solo sentiti nominare, non credevo nemmeno potessero
esistere delle bestie così grosse. -
- Dopo aver visto i Lycos ti stupisci ancora? Sei una donna facilmente
impressionabile. -
Airis gli rivolse un'occhiata truce e tornò a guardare il
branco. Erano una quindicina, misti tra maschi e femmine, queste ultime
provviste di un collare osseo ramificato in lunghi spuntoni affilati e
con solo le due corna mandibolari, più simili a zanne che
altro. Eppure, mentre giocavano con i cuccioli, palle di pelo lanoso a
quattro zampe, si premuravano di non ferirli, strusciandogli il muso
contro la testa o leccando le ferite quando nella foga di una corsa
sfrenata uno di loro inciampava o urtava le loro corna.
- Sono... non trovo le parole per descriverli. -
- Giganteschi penso basti. -
Airis rimase incantata a osservarli. Non aveva mai avuto una
particolare affinità con gli animali. Quando Davsten le
aveva regalato il suo primo cavallo, ci aveva messo più di
un mese per riuscire a rimanere in sella, e non era andata meglio con
Mastino, il cane da caccia che amava saltarle addosso ogni volta che ne
aveva l'occasione. Però quando Cirno, il destriero di
Davsten che in battaglia mordeva e scalciava come una furia, diventava
un puledrino alla vista della sua compagna, il ghiaccio sul suo cuore
si scioglieva. Ancora adesso, assistendo a tanta premura nei confronti
di quei cuccioli avventati, non riusciva a fare a meno di sorridere.
- Proseguiamo. -
Fece girare il Ghedharvha e Arghail si rimise in testa. Man mano che si
allontanavano, il bramito degli Alianti divenne sempre più
lontano, fino a quando l'aria non divenne immobile.
Il sentiero che stavano battendo seguiva la curva della montagna. Man
mano che salivano, la vegetazione cedeva il passo a un terreno brullo,
dove le poche forme di vita verdi erano licheni, muschi ed ematiche.
Sporadicamente, tra i sassi spuntavano le corolle blu e viola di
genziana e genzianella, che facevano tanto gola quasi quanto i mirtilli
ai Ghedharvha.
Airis procedeva spedita, appuntando lo sguardo sui particolari del
paesaggio. Nel silenzio quasi assoluto ogni suono sembrava esigere la
sua attenzione e lei tentava di non rimanere impigliata nella ragnatela
di dubbi e domande insolute. Erano soprattutto i ricordi a rincorrerla
in quelle ore di quiete, i “se” e i
“ma” di un futuro che sarebbe potuto essere se non
avesse attuato determinate scelte.
“Penso troppo” si ammonì. Si impose di
rimanere presente a se stessa e di volgere tutte le sue energie alla
missione, senza mai riuscirci del tutto.
Sul far della sera trovarono un'altra grotta, più piccola di
quella dove avevano riposato la sera precedente, ma accogliente quanto
bastava per ospitare loro due e le loro cavalcature.
Mentre mangiavano, Arghail era teso come un fuso e le labbra esangui
risaltavano sul volto pallido come una ferita infetta. Tremava e
continuava a cambiare posizione, sfregandosi le mani vicino alle fiamme
per scaldarsi. Faceva freddo e, se Airis avesse avuto ancora un corpo
umano, anche lei sarebbe stata nelle sue condizioni.
- Bevi, ne hai bisogno. - disse e gli porse il suo bicchiere di vino.
Il capitano le lanciò uno sguardo obliquo, prima di
accettare la sua offerta. Pur con i guanti, aveva le dita intorpidite.
La lentezza con cui prese il bicchiere tra le mani era un indizio che
Airis notò subito. Le sue, invece, erano appena tiepide.
- Grazie. - esalò dopo un sorso, abbozzando un sorriso
incerto, - La resistenza al freddo è uno dei tuoi tanti
poteri? -
- Se non voglio passare alla storia come colei che era allergica alla
magia, qualcosa di bello lo devo pur avere. -
- Hai ragione, tu sei l'eroina che salverà il mondo. -
sbuffò Arghail in tono solenne.
- Avverto del sarcasmo nella tua voce? -
- No, è solo stanchezza. Non sono più abituato a
dormire all'addiaccio da un sacco di tempo. - trasse le ginocchia al
petto e si strinse nella cappa.
- Tieni, prendi anche la mia. -
Airis si alzò e si tolse il mantello dalle spalle. Quando
glielo tese, però, Arghail non lo accettò.
- Non posso. -
- Solo perché sono una donna non posso offrirti il mio
aiuto? -
- Non è questione di cosa sei o non sei. -
- Per non ferire il tuo orgoglio preferisci crepare di freddo? -
- Sto solo dicendo che il tuo mantello non mi serve. -
borbottò e contrasse la mascella, i suoi occhi la
trapassarono come lame, - Io sono un capitano, ho seguito un
addestramento da soldato, sono stato abituato a sopportare le
intemperie, il gelo, il caldo e la fame. Posso sopravvivere anche a
questo. -
Airis rimase a fissarlo, il braccio proteso verso di lui, la stoffa del
mantello stropicciata nella stretta del pugno. Arghail non si scompose
e continuò a ribattere a ogni silenziosa accusa che brillava
nello sguardo della compagna. Anche se nessuno dei due parlava, Airis
intuiva i pensieri dell'altro, li seguiva e ribatteva ad ogni obiezione
senza aprir bocca. Alla fine, sconfitta, si rimise la cappa sulle
spalle e si sedette vicino a lui, con i piedi che toccavano il cerchio
di pietre attorno al fuoco.
- Mi domando come tu abbia fatto ad arrivare vivo fino ad oggi. -
grugnì esasperata.
- Sono un uomo fortunato. -
- E cocciuto. -
- Mi pare ovvio. -
- Un giorno ti farai ammazzare. -
Arghail ridacchiò, una risata fievole e dimessa.
- Mio padre diceva “Meglio un uomo morto per i suoi ideali
che un uomo vivo senza coscienza”. -
- Non penso che tuo padre sarebbe stato della stessa opinione se si
fosse trovato col culo al gelo. - gli fece notare Airis.
- Anche questo è vero, ma in qualunque caso non
accetterò la tua cappa. E poi… - si
umettò le labbra con un'espressione serissima, - il rosso
non mi dona granché. -
Airis levò gli occhi al cielo e rimase a osservare le fiamme
per qualche minuto. Lo avrebbe volentieri preso a sberle se pure lei
non fosse stata orgogliosa quanto lui, un tempo.
Sistemò un ciocco con la punta del piede, lo fece girare
dalla parte non bruciata, e si alzò per prendere il
portapergamene nella borsa del Ghedharvha di Arghail. La mappa che gli
aveva fornito Urian era precisa, disegnava un percorso tra i monti e i
valichi che si snodava tra gole e cime innevate.
- Che stai facendo? -
- Cerco un'altra strada. Tu non ce la fai a proseguire così.
-
- Non è ver... -
- Non sussiste possibilità di dialogo. Sei a pezzi e siamo
solo al terzo giorno di marcia. Non posso permettermi di portarmi
dietro una zavorra semi congelata. Se mai ci attaccassero, come
potresti difenderti in queste condizioni? - lo zittì Airis
in un ringhio, - Preferisco correre qualche pericolo in più,
piuttosto che vederti morire di freddo in questo modo. -
Arghail non ribatté e girò la testa dall'altra
parte senza proferire parola. La guerriera attese e si
preparò a sostenere un'altra discussione, ma il capitano
rimase in silenzio. Dopo un po' Airis si accorse che si era
addormentato. Senza fare rumore, gli posò il suo mantello
sulle gambe e tornò a guardare la mappa.
“Che situazione di merda.”
Fuori il vento sibilava tra le rocce e un banco di nuvole aveva
occupato il cielo, imprigionando la luna e le stelle nelle loro spire.
Un lupo, in lontananza, ululò.
“Speriamo che domani non nevichi.”
Ma lei non era fortunata come Arghail.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Spero che questo capitolo vi piaccia! Lo so che proseguiamo un poco a
rilento, ma sappiate che sono tutte parti a loro modo importanti. Spero
che comunque vi piaccia u.u Piccolo avviso: io andrò al
Lucca, quindi se qualcuno è lì e vuole salutarmi
che me lo comunichi, sarò felice di incontrarlo! A parte
ciò, l'aggiornamento del 2 novembre è spostato al
5. Vi lascio il link della pagina
QUI
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Capitolo 17 *** Frammenti di memoria - Tornare ***
Fuoco 2
16
Frammenti di memoria - Tornare
Partirono per
Caewen una settimana più tardi, con al seguito i feriti
più gravi, caricati su un carro di fortuna trainato da un
mulo senza più padrone. Caillean ricordava a chi
apparteneva, nella sua memoria il ricordo di Eridun era inscindibile da
quello del muso punteggiato di bianco di quella bestia. Non si poteva
dire che fosse amico della sua famiglia, nessuno a Merite lo era, ma in
loro presenza era uno dei pochi che non si girava dall'altra parte o
che non si allontanava quando Caillean andava in paese per svolgere
qualche commissioni. Una volta, addirittura, le aveva offerto una mela
e le aveva augurato una buona giornata. Era una cordialità
scostante, accompagnata da un irrigidimento delle spalle e delle
labbra, ma Eridun era un vecchio burbero, scorbutico con tutti, anche
con chi gli mostrava gentilezza. Il suo mulo era come lui, un animale
riottoso, intrattabile, così tanto testardo che
più d'una volta lo aveva sentito lamentarsi, minacciandolo
di macellarlo se non si fosse dato una mossa. Quella mattina però, quando lo attaccarono al
carro, Caillean non udì il solito raglio infastidito. Nel
silenzio di quella mattina soleggiata, il vecchio mulo si fece mettere
il morso senza alcuna protesta, mentre i soldati attorno a lui si
preparavano per partire. Caillean attese finché Fijit non la venne a
chiamare. Come al solito, la chierica le cambiò le bende e
le disinfettò le ferite, avendo cura di farle il meno male
possibile. Caillean stringeva i denti, mentre le sue mani le spalmavano
quell'unguento all'essenza di timo, lavanda e menta. Le pizzicava sulla
pelle, pareva sfrigolare a contatto con le ustioni intorno agli occhi
quasi fosse olio sulle fiamme, ma dopo un po' il bruciore di calmava e,
assieme al buio rassicurante delle bende, sovveniva una sensazione di
fresco rilassante. Resistere al dolore era diventata una
necessità per dimostrare a se stessa che poteva farcela, che
era forte abbastanza da sopravvivere. Ma quando Fijit però
le rifaceva il bendaggio a forma di otto sulla clavicola, l'impulso di
piangere le faceva contrarre le viscere così forte da farla
tremare. Se le fossero rimaste lacrime da versare, se l'acido non le
avesse bruciate tutte, non sarebbe riuscita a trattenerle. Nonostante il suo stato di prostrazione fisica e mentale,
Caillean non ne volle sapere di viaggiare sullo stesso carro dei
feriti. Non poteva vederli, le loro occhiate sprezzanti non potevano
più ferirla e la morte aleggiava su di loro, minacciosa e
caritatevole come possono essere la paura dell'ignoto e il sollievo per
la fine di ogni male; eppure i sentirne i gemiti agonizzanti e le
preghiere sussurrate a mezzavoce non la faceva stare meglio. Non
provava compassione, loro non ne avevano avuta né per lei
né per suo padre, e il dolore, il suo amante, il suo
onnipresente compagno, soffocava la rabbia e la soddisfazione per
quello che era accaduto, per la punizione che gli dei o chi per loro
gli aveva inflitto. Non voleva più averci a che fare o
sapere nulla della loro sorte. Si aggrappò a quella convinzione quando Fijit
provò a persuaderla, vi affondò le unghie e i
denti a ogni sobbalzo, a ogni dondolio più forte, a ogni
fermata brusca del cavallo. Nel buio dei suoi occhi,
l'oscurità pulsava al ritmo della clavicola rotta e il
dolore la riempiva di evanescenti punti bianchi. Dalle labbra di
Caillean però non uscì che un sospiro. - Puoi ancora cambiare idea. - le sussurrò Fijit. Il tono era gentile, molto più delicato di quello
che si aspettasse. Caillean scosse appena la testa e il suo cervello
rimbalzò contro le pareti della scatola cranica dandole i
capogiri. - Va bene. - esalò, inspirando a fondo, - Ce la
faccio. - - Adesso, ma se dopo non te la sentissi più,
nessuno ti obbliga a rimanere in sella. - La bambina fece un lieve cenno d'assenso col capo e si
allontanò dalla sua schiena cui fino a quel momento era
rimasta appoggiata. La luce del sole le scaldava la faccia, penetrava attraverso
le bende e le carezzava la pelle escoriata e unta. Non si era ancora
riabituata e i suoi sensi percepivano tutto in modo più
intenso, come se il mondo fosse morto e reincarnato in suono e profumi
diversi che lei non aveva mai conosciuto. - Potrò... potrò mai tornare a vedere? - Uno spostamento d'aria l'avviso che Fijit si era raddrizzata.
Tendeva a inarcare le spalle e a spingersi troppo in avanti, come se
stesse per spronare il cavallo al galoppo da un momento all'altro. - Non lo so, non mi sono mai trovata davanti a un caso
simile. L'acido ha danneggiato i tessuti attorno agli occhi e la cornea
e le palpebre non sono in buono stato. A Caewen ci saranno altre
cerusiche, ne parlerò con loro e vedremo cosa possiamo fare.
- le rivelò in tono greve, - Non credo comunque di poter
fare molto: se ti avessi soccorso prima, forse avrei potuto salvare
qualcosa, ma nello stato in cui ti abbiamo trovato non credo nemmeno la
magia elfica possa aiutarti. - Caillean annuì, anche se dentro di sé
si sentiva morire. - Mi dispiace, piccola... davvero. - - É meglio così. Non mi hai illuso, sei
stata... corretta. - deglutì e fece una pausa per racimolare
la forza per continuare il discorso, - Se lo avessi scoperto dopo,
sarebbe stato più doloroso. - Fijit sospirò e il cavallo sbuffò,
dilatando le froge. - Vivere senza la vista è difficile, bisogna
reinventarsi e imparare a usare gli altri sensi in tutto, ma non
è impossibile. - tentò di consolarla e Caillean
se la immaginò che sorrideva a disagio, senza trovare il
coraggio di guardarla mentre le mentiva, - E tu sei una bambina forte,
ce la farai, vedrai. - Parole vuote, piene di vento, prive di significato. Caillean annuì. Mentre il cavallo avanzava,
l'oscurità ribolliva, pulsava spurgando la sua anima
sciolta, mentre nel buio sbocciavano fiori rossi punteggiati da macchie
nere. - Sì, sono certa che ce la farò. - Percepì lo sguardo di Fijit sulla pelle. Bruciava,
bruciava più del dolore, era una freccia arroventata nella
carne.
“Non sono una vittima.” Strinse i pugni e si morse l'interno della guancia. La pelle
sotto le bende si tirò così tanto da farla
sussultare. Stavolta Fijit non si girò. Il resto del viaggio trascorse in silenzio. Nessuno delle due
aprì bocca e nemmeno i soldati attorno a loro sembravano in
vena di scherzare. Caillean apprese da uno di loro, un uomo con la voce
nasale e roca, che Davsten guidava la processione, affiancato dal suo
secondo in comando, un certo Idwal. Suo padre non l'aveva mai nemmeno
menzionato, forse, pensò, non lo aveva conosciuto.
“O non ha avuto il tempo di
raccontarmelo...” Proseguirono fino al calar del sole e poi si accamparono in
una radura di erba stepposa, che scricchiolava sotto la suola degli
stivali. Il vento, un soffocante vento caldo che si appropriava del suo
respiro e le bagnava la nuca, le portò alle narici un forte
odore di pelo sudato. - Vieni, di qua. - Fijit la prese delicatamente per mano e la condusse nella
loro tenda. La fece sedere sulla branda e le cambiò le
bende. Caillean osò sfiorarsi le palpebre, prima di ritrarre
la mano come scottata. Erano prive di ciglia, gonfie, gibbose. - Non devi toccare o rischi di infettare la ferita. - Udì uno scroscio dapprima intenso, poi un semplice
gocciolare prima che Fijit le passasse un panno umido sul viso. Era
accaldata e il sudore copriva in parte l'essenza floreale dei suoi
vestiti. Tuttavia nella mente di Caillean, anche così era
una bellissima fanciulla, con i capelli biondi, gli occhi grandi ornati
da lunghe ciglia chiare e le labbra sottili, sempre atteggiate in un
sorriso incoraggiante, pronte però ad assottigliarsi in
un'espressione severa. Era così che se l'immaginava, la
fantasia, ormai, costituiva il suo unico ponte con la realtà. -Ti porto la cena tra poco. Tu non ti muovere, va bene? -
“E dove dovrei andare?” le avrebbe voluto
rispondere Caillean, ma si limitò a fare un cenno
affermativo prima di stendersi. Le balenò in mente che
avrebbe dovuto togliersi i vestiti e lavarsi e quel pensiero rimase
vivo e chiaro per un paio di secondi finché non si
sgretolò, sprofondando nel buio. - Non hai bisogno d'altro? - La voce di Fijit era più tenue, distante quel
tanto da farle capire che non era più vicina. Era stata
veloce oppure era lei a non essersi accorta di quando si era
allontanata? - No, non ti preoccupare. Ti aspetto qui. - Quando udì il fruscio della tenda che si chiudeva,
tutta la fatica del viaggio le piombò addosso come un lupo.
Si ritrovò a boccheggiare con il fiato che le si spezzava in
un rantolo, la volontà dissanguata uccisa dalla stanchezza. - Anairë lapse. - Le sue labbra scandirono quella frase un paio di volte,
finché non le mancò la voce. Erano le parole che
le aveva detto l'elfo. Non sapeva il loro significato, ma il tono con
cui erano state pronunciate, la meraviglia mista ad ammirazione di cui
erano colme, le suggerivano che erano importanti. - Oppure te lo sei solo immaginato. - La sua sicurezza tentennò. No, erano reali, ogni
cosa che era successa era reale. Quasi poteva ancora sentire la
consistenza vischiosa del sangue sulle dita, l'olezzo ferroso che si
propagava dai suoi vestiti. Deglutì e elevò le
mani in alto, fino ad averle davanti agli occhi con il cuore che le
batteva nelle tempie e lo stomaco dolorosamente contratto. No, la mente
poteva sbagliare, ma la memoria del corpo, quella ricordava tutto,
glielo aveva insegnato suo padre. - Spero che... che tu ora stia bene, ora. - un singhiozzo le
squassò il petto, - Scusami se non sono stata coraggiosa
abbastanza, scusami se non ho protetto la mamma, scusami se mi sono
fatta portare via la vista. - Si raggomitolò su un lato, portò le
gambe al petto, insensibile al dolore che si propagava dal viso in
fiamme. Suo padre aveva sempre offerto il sale e il farro agli Athairi
e sua madre si preoccupava che ogni sera gli incensi bruciassero vicino
alle statuette degli Ithei. Perché non li avevano protetti?
Perché erano rimasti sordi alle sue preghiere? - Sono un'assassina... - si piantò le unghie nella
cute, premette con forza fino a quando non sentì il sangue
sotto i polpastrelli, - Papà, perdonami per quello che sono
diventata. - Pianse lacrime che non aveva fino a quando non ebbe
più fiato. Quando non riuscì più a
starein quella posizione, racimolò le forze per tirarsi a
sedere. La testa era leggera, i pensieri inconsistenti e nell'aria
aleggiava una calma piatta, colma dell'odore di una zuppa calda.
Cercò la ciotola a tentoni, guidata dal naso, la
afferrò assieme al cucchiaio e portò il primo
boccone alle labbra. Aveva più sete che fame, almeno
così era fintanto che il sapore di fagioli e lupini non le
permeò la bocca. Divorò tutto, raschiando anche
il fondo della scodella per poi leccare i bordi. Non le interessava che
che qualcuno potesse vederla, si era già umiliata abbastanza
agli occhi di tutti. Davsten, Fijit, gli altri soldati, tutti la
compativano e la trattavano come una vittima innocente degli eventi. - Non sono una vittima. - ripeté e le parole
sibilarono minacciose tra i denti, - Io non sono una vittima. - Strinse i pugni e serrò la mascella, immaginando
di avere tra le mani la spada di suo padre. Era pesante, di ferro, con
l'impugnatura rivestita di cuoio ormai liscio. - Un giorno riuscirai a sollevarla. Anzi, ti dirò
di più, ne avrai una tutta tua. - Il sorriso orgoglioso di suo padre, la sicurezza con cui
l'aveva guardata, erano il suo ricordo più caro. Lui aveva
sempre creduto nel suo sogno. Si mise in piedi e tenendo le mani davanti a sé,
cercò l'apertura della tenda. Avanzò un passo
alla volta, incerta, dritta dove credeva di aver udito la voce di Fijit
prima che uscisse. Trovò il lembo, lo tirò e
questi catturò il vento, si ingrossò e le
sfuggì dalle dita, alzandosi verso l'alto. L'aria tersa
della seria le si infilò nelle narici e le pervase i polmoni. Si lasciò alle spalle la tenda,
proseguì ancora. I soldati, quei pochi che si destreggiavano
per mantenere viva la conversazione, continuarono a parlare. Caillean
li sentiva, udiva le loro voci provenire da ogni dove in quel buio
avvolgente, sembravano scaturire da dentro la sua testa.
Obbligò le braccia a rimanere stese e continuò a
camminare. Eccolo, il suono dell'acqua corrente, non è
così lontano, deve dirigersi a destra e poi sarà
lì. Andò a sbattere contro qualcuno e quasi non
ruzzolò a terra. - Che ci fai qui, bambina? Stavi cercando Fijit? - Era il soldato con la voce nasale. Non sembrava arrabbiato,
nemmeno aveva sentito il contraccolpo probabilmente, a Caillean parve
persino ci fosse un accenno di apprensione nel modo quasi incerto con
cui le si era rivolto. Ma era un uomo, un nemico.
“Non farti spaventare.” - Volevo solo prendere un po' d'aria. - tenne alto lo sguardo
mentre si rialzava, - Dentro la tenda fa molto caldo. - Una pausa. Il chiacchiericcio di sottofondo persisteva, basso
come un ronzio d'api in una torrida giornata estiva. A volte una voce
si staccava dal coro: una risata appena accennata, un colpo di tosse,
persino una pacca sulla spalla bastava a far vibrare la rete di suoni
che si era cucita attorno a lei. - Sì, qui al sud fa molto caldo. - si risolse a
dire, - Non sono più abituato a questo clima. - Caillean fece un passo indietro, fingendo di guardarsi
attorno come per cercare qualcuno. Il sudore le inumidiva la nuca e la
tunica sotto le ascelle, le aderiva alla pelle come un guanto e le
costringeva i polmoni. A ogni respiro, le sembrava di ingoiare sabbia. - Mi sapresti indicare dov'è il ruscello? - - Se hai bisogno di lavarti, posso andare a chiamare Fijit
per aiutart... - - Non mi serve aiuto. - Il suo corpo la tradiva, tremava spaventato, e la paura
sferzava il suo cuore al galoppo. Caillean strinse i pugni, contrasse
la mascella e piantò i piedi a terra. L'uomo non si era
mosso e manteneva il suo sguardo su di lei. - Non ho bisogno di aiuto. - ripeté,
più sicura, - Voglio solo sciacquarmi la faccia nel
torrente, tutto qui. - Un'altra pausa. Udì il grattare di qualcosa, come
mani su paglia secca.
“Ha una barba, una barba molto folta e
crespa.” - Sei proprio sicura di non volere nessuno? Il ruscello
è poco fuori dal campo, non è difficile
arrivarci, solo che... - si interruppe e Caillean se lo
figurò mentre si mordeva le labbra, - Ci sono molte persone
qui, rischi di andare a sbattere. - La sua determinazione si incrinò. Allontanarsi
dalla tenda, camminare nel buio, arrivare al torrente e poi tornare
indietro. C'erano troppi pericoli e lei era disarmata, cieca. Se uno di
quegli uomini l'avesse seguita, non sarebbe mai riuscita a sfuggirgli. - Farò il giro largo, allora. Spiegami come
arrivare senza passare tra i soldati. - L'uomo trasse un profondo respiro e le si accostò.
Il calore del suo corpo sudato le graffiava le braccia. - Sai contare? - Aveva imparato i numeri solo fino a dieci. - Sì, lo so fare. - - I punti cardinali, invece? - - Anche quelli. - - Bene, adesso il tuo sguardo è rivolto a est.
Volgilo verso ovest, poi conta quaranta passi. Al quarantunesimo, gira
a sinistra e prosegui sempre dritta. Fa un gran baccano quel
ruscelletto, lo sentirai quando sarai in rotta d'arrivo. - Caillean annuì. - Se hai bisogno, basta che fai un fischio. Le sentinelle ti
sentiranno, poco ma sicuro. - L'erba scricchiolò sotto i suoi piedi e la
sensazione di oppressione nel petto lo accompagnò mentre si
allontanava.
“Posso farcela.” Fece come gli aveva detto. Un piede avanti all'altro,
cominciò a contare mentre proseguiva in linea retta.
Quaranta era quattro volte dieci, quindi ogni volta che non sapeva come
proseguire, ricominciava. Era difficile tenere i numeri a mente, a
volte si dimenticava dov'era arrivata ed era costretta a fermarsi per
contarli sulle dita. Gli uomini le passavano accanto senza far caso
alla sua presenza. Era lì e allo stesso tempo non era
lì, era invisibile ai loro occhi così come il
mondo lo era ai suoi.
“Uno, due, cinque... no, prima del cinque viene il
quattro e prima ancora il tre.” Qualcuno la urtò così forte che per
poco Caillean non perse l'equilibrio. - Stai attenta a dove vai. - Un ragazzo, forse di una ventina d'anni. Doveva essere
giovane perché la sua voce aveva una sfumatura fanciullesca,
una vibrazione più alta rispetto a quella di un uomo adulto. - Scusami...-
“Non ti posso vedere.” L'inizio della sua risposta rimase nell'aria, troncato sul
nascere da un sussulto. - Dove stai andando? Stai cercando Fijit per caso? - Il tono si era ammorbidito e ora il suo respiro si infrangeva
sulle sue guance, vicino, troppo. Il corpo di Caillean si mosse in
fretta. Scattò senza pensare, rapido quel che bastava per
cogliere di sorpresa il ragazzo e smarcarsi. - Aspetta! - La sua voce si sfilacciò alle sue spalle. Caillean
correva più in fretta che poteva, alla cieca, senza
più contare, andando a sbattere contro tutti quelli che non
avevano l'accortezza di spostarsi. Correva lontana dall'accampamento,
da quel luogo brulicante di uomini pronti a metterle le mani addosso, a
giudicarla, a rinchiuderla, a sfigurarla. La sabbia era vetro in pezzi nei suoi polmoni, la lingua un
pezzo di cuoio usurato.
“Devo scappare, devo scappare via, via da
qui.” Girò a sinistra, urtò qualcuno, di
nuovo rischiò di cadere, ma non si fermò. L'erba
scricchiolava al suo passaggio, il piede aderiva a terra, si allungava
e poi si staccava dal suolo portandosi dietro alcuni pezzi di terra.
L'aria immota, senza un fil di vento, vibrava attorno a lei e la tela
di suoni con essa: le voci si interrompevano, così come i
passi e quando Caillean passava oltre, diventavano acuti, si
tramutavano in richiami che rimbalzavano di bocca in bocca. - La cieca. - - Dove va, perché corre? - - Qualcuno trovi Fijit! -
“Più in fretta, più in
fretta!” Due braccia la afferrarono e la tirarono su. Erano forti, la
presa ferrea passava sotto le ascelle e la stringevano sullo sterno,
poco sotto il seno. - Lasciami! - Caillean si dimenò,
arpionò le mani del suo aggressore e gli piantò
le unghie sul dorso, - Non mi toccare, lasciami, lasciami! - - Calmati. - Davsten. Era amico di suo padre, l'aveva salvata, non era un
pericolo.
“ É un uomo.” Quel pensiero la fece rabbrividire. Scalciò
più forte, dimenandosi come un'ossessa. Le mani si muovevano
da sole, scavavano nella pelle dei solchi sempre più
profondi. Il sangue, presto, le si infilò sotto le unghie. - Calmati. - la strinse ancora più forte. Caillean sputò l'aria che aveva nei polmoni. Lo
graffiò ancora, fino a quando il buio non si
riempì di puntini bianchi. La forza le venne meno e, pian
piano, con l'incedere della consapevolezza di ciò che aveva
fatto, una calma piatta calò nel suo cervello. - Dov'è Fijit?- Davsten si guardò
intorno, senza lasciare la presa, - Qualcuno la vada a chiamare,
subito. - Passi che si allontanano. Il chiocciare allegro del torrente
le arrivava attenuato, una risata beffarda che andava e veniva secondo
il suo capriccio. - Scusami, non so cosa mi sia pres... - - Zitta. - La durezza nella sua voce la fece trasalire e Caillean
rinunciò a qualsiasi tentativo di dialogo. Il cuore
rallentò fino a battere calmo, appesantito dal senso di
colpa e dalla vergogna. Quando Fijit arrivò, Davsten la mise
a terra e le strinse forte le spalle prima di sospingerla tra le
braccia della cerusica. Caillean non osò nemmeno girarsi a
guardarlo quando la donna la prese per mano e la accompagnò
alla tenda. - Dammi le mani. - le ordinò quando si sedette
sulla branda. Non c'era traccia di dolcezza in quelle parole. Caillean
obbedì e rimase immobile mentre la cerusica la lavava dal
sangue. Ne aveva così tanto che le si era appiccicato sui
palmi e tra le dita. - La prossima volta che hai bisogno di qualcosa, chiamami. -
strofinava con vigore, passando la spugna ruvida anche sul collo
sudato, - Non so perché tu abbia tentato di fuggire
né mi interessa saperlo, ora, ma voglio che tu sappia una
cosa: sei cieca ora, non puoi muoverti come ti pare e piace, come se
nulla fosse accaduto. Devi cominciare ad accattare questa nuova
condizione prima che sia troppo tardi e tenere a bada i colpi di testa:
hai idea di quello che ti poteva succedere se fossi uscita dal campo?
Basta una buca e finisci con una caviglia slogata o l'osso del collo
spezzato. - Caillean abbassò lo sguardo sotto le bende. Non
sapeva nemmeno lei perché lo avesse fatto, pensandoci a
mente lucida era stata una follia anche solo immaginare di arrivare al
torrente con le sue sole gambe. - Mi... mi dispiace. - - Non voglio le tue scuse, non me ne faccio niente delle
scuse e nemmeno tu. - le prese le mani umide e gliele strinse tra le
sue, - Quello che ti è successo è terribile, non
posso nemmeno immaginare quanto dolore tu abbia provato, ma sei
sopravvissuta. Se sei qui, se è stato il volere degli dei a
salvarti, non puoi buttarti via per nessuna ragione al mondo: tua madre
ha già perso l'uomo che amava, non può perdere
anche sua figlia. - Caillean si morse le labbra e strinse i pugni in grembo,
desiderando con tutta se stessa di sparire. Era stata stupida, stupida
ed egoista. - Tra quattro giorni saremo a Caewen e la potrai rivedere. -
le spostò una ciocca dietro l'orecchio e le
accarezzò la guancia con le nocche, - Insieme, tu e lei,
troverete un modo per andare avanti. Io mi consulterò con le
altre e cercheremo una cura per i tuoi occhi, ma tu nel frattempo non
devi fare altre pazzie, va bene? - - Va... va bene. - - Ora vai a dormire. Io sarò nel letto qui vicino,
se non riesci a dormire o se hai male, svegliami. - Attese che annuisse prima di alzarsi e andarsi a stendere.
Dopo poco, il suo respiro si regolarizzò e Caillean
sentì un fruscio che le fece capire che si era girata. Anche
lei si lasciò cadere sulla sua branda, gli occhi rivolti al
soffitto. - Anairë lapse. - mormorò, -
Anairë lapse. - Continuò a ripetersi quelle due parole
come una cantilena fino a notte fonda, fino a quando il sonno non la
prese per mano e l'accompagnò in un mondo dove poteva ancora
vedere. Ripresero il cammino la mattina seguente, poco
prima del sorgere dell'alba. Fijit si era alzata prima di lei per
andare a controllare i feriti che fuori era ancora buio. Aveva cercato
di fare meno rumore possibile, ma Caillean l'aveva sentita lo stesso.
Quando era venuta a svegliarla, l'aria era ancora fresca e permeata
dall'odore di rugiada e terra appena smossa. Fijit non le chiese se volesse viaggiare sul carro,
si limitò ad aiutarla a montare in sella dietro di lei. Fu un viaggio silenzioso, durante il quale nessuno
venne mai a disturbarle. Si fermarono due volte per far abbeverare i
cavalli e dare la possibilità a Fijit di cambiare le bende a
Caillean e occuparsi dei sopravvissuti sul carro. In quelle pause,
spesso, tiravano giù i corpi dei morti per seppellirli e
davano l'estremo saluto ai moribondi. Una bassa preghiera, le ultime
confessioni e l'augurio che Uborh li traghettasse nel Val'ha. Poi, un
sibilo e l'odore pungente del sangue si disperdeva nell'aria. Caillean
contò fino a dieci, all'undicesimo colpo, la sua mente si
rifiutò di proseguire. Quando ripresero il viaggio, apprese
da un brandello di conversazione che la terra aveva accolto trenta
anime, tra uomini e donne. Per i tre giorni seguenti, il rituale si
ripeté. Fijit prestava ascolto a tutti, per poi lasciare il
compito di liberarli dai loro dolori terreni ad altri uomini. Tra
questi, scoprì Caillean, c'era anche Davsten. Non le aveva
più rivolto la parola dalla prima sera, eppure lei capiva
quando le passava accanto o quando era lì vicino. A
differenza di quello di Fijit, frettoloso e disattento, il passo di lui
era grave e compassato, le trasmetteva la sicurezza che fosse
lì, mai troppo lontano. Si vergognava ancora per come si era
comportata, avrebbe voluto chiedergli scusa e dirgli che si era
comportata come una stupida, ma il coraggio languiva sotto la cenere,
soggiogato dai pensieri cupi che, ormai, erano i padroni della sua
mente. I ricordi del tempo passato con suo padre erano ricorrenti, la
braccavano nel sonno e la inseguivano nei sogni. Erano così
vividi che spesso Caillean si domandava se quella non fosse la
realtà e quella in cui si svegliava un incubo. Il dolore era
l'unico antidoto che le permetteva di rimanere lucida, il pugnale da
cui fuggiva e la bussola che l'aiutava a orientarsi. Quando era
presente a se stessa, si domandava cosa avrebbe fatto quando avesse
rivisto sua madre, se avrebbe trovato il coraggio di parlarle: lei era
lì, era tornata, mentre suo padre giaceva a Merite, senza
una lapide a cui inginocchiarsi e pregare. Davsten si era premurato di
far togliere la testa, assieme alle altre dalle picche, ma del corpo
non vi era traccia. “Sarei dovuta esserci io lì
sopra.” si diceva e, nonostante il disgusto che provava verso
se stessa e la sua debolezza, non riusciva a fare a meno di pensarci. Suo padre era morto e lei non era stata abbastanza
forte per impedirlo. “ Devi perdonare te stessa per quello
che ti hanno fatto.” Davsten le aveva detto questo, durante il loro
primo incontro, ma come poteva perdonarsi? Come poteva trovare un modo
per alleviare il senso di colpa che la schiacciava? Si mise le mani nei capelli e appoggiò
la fronte sulle ginocchia. La sua porzione di minestra di lenticchie e
fave era appoggiata ai suoi piedi, con ancora il cucchiaio pulito. Era l'ultima sera, il giorno seguente, nel tardo
pomeriggio, sarebbero arrivati a Caewen. - Non mangi? - La voce di Davsten proveniva da qualche passo da
lei e un refolo piacevole le scompigliò i capelli sporchi. - Non ho... fame. - L'uomo si avvicinò. Torreggiava su di
lei, un colosso la cui presenza avrebbe messo soggezione a chiunque. - Guardami quando mi parli. - Reprimendo l'istinto di infilarsi sotto la branda,
Caillean alzò la testa e diresse lo sguardo in alto, dove
credeva potesse trovarsi quello del suo interlocutore. - Hai riflettuto su quello che ti ho detto? - La bambina annuì, senza aggiungere
altro. Davsten rimase in silenzio finché non
arguì che doveva essere lui a continuare il discorso. - Hai capito cosa ti ho chiesto? - - Di perdonare me stessa. - - Pensi di poterlo fare? - - Non lo so. - si umettò le labbra e si
abbracciò, - Non so come si fa, in realtà. Di
solito, è qualcun altro che ci deve concedere il perdono. - Sospirò e si sedette davanti a lei,
sullo sgabello dove Fijit aveva posato la sua razione. Il fumo della
minestra le scaldava la punta i piedi. - So che ti senti responsabile per quello che
è successo a Kale e so anche che, per quanto io possa dirti
che non potevi fare nulla per impedirlo, tu continuerai a
colpevolizzarti. Posso ripetertelo anche mille volte, ma le cose non
cambieranno se non sarai tu a capirlo. - esordì la voce
bassa e greve, - Se non ci riesci, allora voglio che rifletti su quanto
tu sia importante per Iola. É scappata per venire a cercare
aiuto e mi ha scongiurato di salvarti. Ora è a Caewen che
aspetta di scorgere i miei uomini all'orizzonte e ogni giorno che passa
si domanda se mai ti rivedrà. - Caillean reprimette la tentazione di tornare a
fissare il pavimento. Non era una vittima, si era promessa che non lo
sarebbe più stata. - Tuo padre ha rinunciato alla sua carriera per
starvi vicino e tua madre si è consumata le suole in una
corsa attraverso i boschi. Se non avesse incontrato noi, piuttosto che
fermarsi sarebbe arrivata con i piedi insanguinati a Caewen. - si
fermò, riprese fiato e continuò, - Voglio che tu
tenga a mente da chi sei nata e cosa hanno fatto per te. Il dolore che
ti porti dentro non svanirà, né ora né
mai, ma non puoi permettergli di consumarti. Se non puoi vivere per te
stessa, allora fallo per loro, per Kale che ha dato la vita per
salvarvi e per tua madre che farebbe lo stesso. - - Non è semplice... - - Niente nella vita lo è. All'inizio
anche i neonati fanno fatica a camminare, cadono e incespicano; poi
però crescono e diventa parte di loro. E così
ogni cosa, perché crescere significa anche affrontare la
sofferenza, il dolore e il lutto. Faranno male, piangerai, ti
dispererai, ma alla fine diventeranno delle cicatrici da guardare con
orgoglio. - Un sibilo, il verso di una lama estratta dal fodero. - Avvicinati. - Come calamitata, Caillean si alzò.
Allungò la mano fino a toccare col palmo la consistenza dura
del metallo. - I soldati sono questo: combattono le battaglie degli altri
per garantire un futuro che non possono vedere. Ma per brandire una
spada, per poter scendere in campo e vincere, bisogna aver prima
accettato i propri demoni. - le prese la destra e la condusse
sull'impugnatura e Caillean la strinse, gli occhi negli occhi di
Davsten, - Se adesso non sei ancora pronta, vota la tua vita a tuo
padre e tua madre, vivi per loro e combatti per loro. - Caillean lo fissò e poi rivolse lo sguardo alla
spada. Era pesante, sul palmo percepiva l'usura del tempo e i segni
delle numerose battaglie. - Non sono una vittima. - disse e le prime dita si chiusero
attorno alla lama, - Non voglio più esserlo. - - Giura che combatterai. - - Lo giuro. - Dove aveva trovato quella fermezza? Quando era cresciuta
così in fretta? - Giura sul tuo sangue che lo farai per i tuoi genitori, per
Iola e Kale. - - Per Iola e Kale. - La mano di Davsten coprì la sua e le premette le
dita sul filo della lama. Il sangue stillò fuori in piccole
gocce ai suoi piedi, in mezzo a loro. Dopo un tempo che le parve infinito, l'uomo la
liberò e Caillean ritirò la mano. Il palmo
formicolava e la ferita bruciava, ma per la prima volta da quando era
stata catturata dal capovillaggio si sentiva di nuovo forte. - La tua anima è legata con questo giuramento.
Rompilo e inficerai la memoria di tuo padre. - - Non lo farò. - I passi di Davsten si arrestarono a pochi passi da lei. Aveva
già aperto la tenda per uscire. - Fatti fasciare la mano da Fijit, non voglio che quella
ferita si infetti. - disse e poi si allontanò. Il giorno dopo, quando giunsero a Caewen, nel cuore di
Caillean ardeva una nuova fiamma. Era piccola, il fuoco di una candela
nel buio, ma non sarebbe bastata una tempesta per spegnarla. E quando
sua madre le venne incontro gridando il suo nome e
l'abbracciò, capì che l'unica cosa che non era
mai stata sola, nemmeno nelle prigioni.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Buonasera ragazzi, come vedete finalmente ho messo online il capitolo che vi
avevo promesso ^.^ Spero sia di vostro gradimento, come al solito fatemelo sapere in qualche modo u.u. Vi
è piaciuto? Lo spero perché ci ho messo una vita
a scriverlo >.< Bon, credo di avervi tediato abbastanza,
se volete picchiarmi per il troppo angst ( o chiedere anche solo una spiegazione), il link è qui
sotto u.u
QUI
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Airis
sbatté un paio di volte le palpebre, la mente e la vista
ancora velate dalle nebbie del sonno. Si tirò su a sedere e
si stropicciò gli occhi per scacciare la sensazione di
intontimento. Soffiava un vento freddo nella grotta, che
però la brace accesa riusciva a tenere lontano.
- Potresti dormire ancora un paio d'ore. - le disse Arghail.
La guerriera sbadigliò e si versò un
goccio di vino. L'otre era rimasto vicino al fuoco e così il
suo contenuto era ancora caldo.
- Lo farei, se non dovessimo alzarci tra poco. -
Arghail ridacchiò. Era nella stessa posizione di
quando lo aveva svegliato, con l'ascia appoggiata sulle gambe ben
coperte dal mantello di Airis. Gli occhi indaco avevano assunto una
sfumatura violacea più scura e parevano brillare nella
penombra appena rischiarata dalle braci.
- È successo qualcosa mentre dormivo? -
- Calma piatta, mio Generale. Fa solo un freddo dannato. - si
strinse nel mantello e incrociò le gambe, - Davvero non ne
hai bisogno? -
Airis si passò entrambe le mani sulle braccia. La
giornea era foderata di pelliccia e le maniche della tunica sottostante
erano di lana grezza. Erano dei capi fatti apposta per sopportare dei
climi così rigidi, ma, nonostante tutto, un essere umano
normale, anche col calore del Ghedharvha accoccolato alle sue spalle,
avrebbe avuto quantomeno i brividi.
- Sono solo un po' infreddolita, ma niente di che. - rispose
e si scrocchiò le dita, - Tu, piuttosto? -
- Mi piacerebbe essere a casa mia, davanti al mio caminetto,
con una buona tazza di latte fumante sul tavolino. Non si dorme molto
comodi sulla pietra. -
- Non posso che concordare. -
- Gli unici che sembrano a proprio agio sono Droguan e Rubia.
-
Airis corrugò le sopracciglia: - Non ero
consapevole di avere altri due compagni di viaggio. -
- Oh, sì che li abbiamo. Solo che non parlano
molto. - accarezzò la testa del suo Ghedharvha con un mezzo
sorriso, - Il tuo si chiama Droguan, la mia Rubia. -
- È stato Uravan a dirti come si chiamano? -
- No, con lui non ci ho parlato. Però so per
esperienza che gli animali diventano più docili e mansueti
se li si tratta con la stessa gentilezza con cui tratteresti un amico.
Chiamarli “bestie” è come chiamare un
essere umano “rifiuto”. -
Arghail si soffermò a grattare dietro le orecchie
di Rubia e l'animale emise un verso compiaciuto, muovendo le zampe nel
sonno.
- Ecco perché hai deciso di dar loro dei nomi. -
- Ed è anche il motivo per cui tu vai tanto
d'accordo con gli animali. - scherzò.
Airis gli puntò il dito contro, un sorriso furbo
ad arricciarle le labbra.
- Non mi dimentico le cose che voglio sapere. Mi avevi
promesso che mi avresti svelato come hai fatto a domare questi due,
adesso pretendo una risposta. -
Il capitano sospirò sconfitto. Spostò
l'ascia dalle gambe e l'appoggiò a terra a portata di mano,
mentre si dedicava a pettinare la criniera di Rubia.
- Non c'è molto da dire. I miei genitori sono dei
mercanti, hanno una bottega di tessuti dove vendono tuniche, cappe,
pellicce e tutto ciò che va di moda. Io li aiutavo come
potevo quando ero bambino, occupandomi soprattutto di sbrigare le varie
commissioni che mia madre mi affidava. Una volta sono andato fuori
città per consegnare un tabarro a un loro amico che sarebbe
partito presto. Si chiamava Dendillion ed era un vecchio mercante di
stoffe in pensione. Non so perché, gli piacqui molto e,
invece di mandarmi via subito, mi invitò a farmi un giro
nella sua proprietà. Aveva una stalla con diversi animali,
tra cui diversi cavalli, pecore, capre, conigli e anche alcuni maiali.
A me erano sempre piaciuti, però i miei genitori si
rifiutavano di prendere anche solo un cane da guardia. Sono rimasto
lì tutto il pomeriggio e lui mi ha indicato il nome di
ognuno di loro, raccontandomi quando lo aveva preso, i pregi e i
difetti. - si passò una mano sulla bocca e poi la
intrecciò all'altra sulla pancia, - Sono tornato
lì spesso, finché non è morto. Mi ha
insegnato tutto quello che so sugli animali, specialmente come
trattarli per essere rispettati da ognuno di loro. -
- Doveva essere un uomo di buon cuore. - commentò
Airis.
- Solo con i miei genitori e i suoi amici pelosi. Dendillion
era giunto alla conclusione che gli animali erano meglio degli uomini e
alla veneranda età di sessantaquattro anni aveva conservato
pochi contatti col resto del mondo. Era una persona particolare,
diciamo. -
- Anche tu la pensi allo stesso modo? -
La mano del capitano tornò ad accarezzare il
Ghedarvha. Trascorse qualche momento prima che le rispondesse.
- Non lo so. A volte penso che aveva ragione, altre che fosse
un vecchio solo e pieno di rimpianti. Eppure, quando mi trovo meglio in
compagnia degli animali, li trovo più genuini e veritieri
nelle loro reazioni. Ho conosciuto molti uomini e donne, ma il calore
che Garwin, il mio cane, mi dona quando torno finalmente a casa, me lo
ha dato solo una persona. -
“Hallende” tirò a indovinare
Airis, ma si guardò bene dall'esprimere il suo pensiero.
Gettò un'occhiata fuori dalla grotta. Il cielo era coperto e
le nuvole grigie della sera precedente stazionavano minacciose sopra le
loro teste, foriere di tempesta.
- Non è una storia noiosa. - mormorò
assorta, - Anche se, vedendo come sono diventati mansueti questi
pelosoni, pensavo avessi scoperto di avere qualche potere. -
Arghail scoppiò a ridere: - Sono solo
più empatico con gli animali che con gli uomini. Mi
dispiace, qui l'eroina speciale non sono io.-
- Ah, ah, ah, quanto sei spiritoso. -
- Simpatia è il mio secondo nome. -
tossì un poi di volte e tornò serio, - Ora
però tocca a me. Cosa significa “Anairë
lapse”? -
Airis inarcò un sopracciglio.
- Lo hai ripetuto un paio di volte nel sonno. Sei molto
più chiacchierona mentre dormi. - spiegò Arghail,
- Ho fatto una domanda troppo personale, forse? -
- Più che altro sei sfortunato, perché
non ti so rispondere. -
Stavolta fu il turno dell'uomo di rimanere perplesso.
- È una frase che mi fu detta da uno degli elfi
che attaccò il mio villaggio. Lo uccisi prima che lui
potesse uccidere me. Non so perché, però le sue
parole mi sono rimaste impresse. -
- Non hai mai provato a scoprirne il significato? -
- No. A essere sincera, credevo di essermele dimenticate. -
sospirò e bevve un lungo sorso di vino, - Mi tornano in
mente molte cose in questi giorni. -
- “È nel silenzio che l'uomo trova se
stesso”, dice spesso Hallende, e io sono d'accordo. Nella mia
testa c'è sempre un gran baccano, solo quando metto a tacere
i pensieri riesco a capire cosa è giusto fare. Bene! - si
batté le mani sulle cosce e si alzò, imitato da
Airis, - Hai ricavato qualcosa dal tuo studio della mappa ieri notte? -
- Dovrebbe esserci un sentiero più in basso.
È stretto e passa in mezzo a valli e zone boschive,
però almeno non rischierai di morire di freddo. -
- Allungheremo il viaggio. -
- Di uno, massimo due giorni. Ce lo possiamo permettere. -
- Conduci tu, allora. Ti vengo dietro con Rubia. -
Airis levò gli occhi al cielo, ma
lasciò che fosse Arghail a svegliare i due Ghedharvha. Non
appena aprirono gli occhi, allungarono il muso per reclamare una
carezza. Le bacche di mirtillo che il capitano offrì loro
furono un ulteriore incentivo a essere più docili e mansueti.
Si misero in marcia poco prima che sorgesse l'alba. Le stelle
brillavano sempre meno e la loro luce fredda si affievoliva, sparendo
nell'aurora del mattino.
Airis si era ripresa il suo mantello su insistenza di
Arghail. Non si erano detti molto: Arghail si era avvicinato e le aveva
rimesso il suo sulle spalle prima di montare, l'ascia appesa alla sella
nuovamente avvolta negli stracci.
- Sei troppo orgoglioso. - lo aveva ammonito, ma lui si era
limitato a fare spallucce, con quell'espressione a metà tra
il serio e il faceto.
Per tutta la mattina il tempo fu clemente. A un certo punto
cominciò a nevicare, batuffoli di neve ondeggiarono
nell'aria, sciogliendosi non appena toccavano il suolo, senza
attecchire, nient'altro che un sottile strato bianco il più
delle volte interrotto da radi ciuffi d'erba.
- Dobbiamo comunque procedere il più spediti
possibile. - ci tenne a precisare Arghail, - Se veniamo investiti da
una bufera ora, non ne usciamo vivi. -
Scesero di quota. Solo quando ne sentirono l'estrema
necessità si fermarono per mangiare un po' di fave e
fagioli, per poi riprendere subito la marcia. Pian piano, la
vegetazione ritornò padrona del paesaggio,
finché, poco dopo l'ora di pranzo, non distinsero in
lontananza il profilo degli Alberi Guerrieri. Il vento faceva frusciare
le fronde, sibilava minaccioso, infilandosi sotto i vestiti pesanti
come un serpente velenoso.
Arghail aveva incassato la testa nelle spalle e, quando
pensava che Airis non lo vedesse, si strofinava le mani per trattenere
il calore. Tremava meno del giorno precedente e le guance avevano
riacquistato un po' di colorito, però il freddo lo sentiva.
- Fermiamoci lì. - Airis indicò un
laghetto semicongelato, - Sia tu che io abbiamo bisogno di riprendere
fiato. -
Arghail fece un cenno d'assenso e si mise al suo passo.
Controllarono i dintorni dello spiazzo prima di sedersi su un
tronco caduto a mangiare con i Ghedharvha, legati al ramo di un albero.
- Come ti senti? - lo interrogò Airis.
- Meglio, decisamente. - rispose, strappò un pezzo
di carne affumicata e lo masticò con calma, - Tu, invece?
Fresca come un fiore? -
- Come sempre. -
- Essere l'eroina della situazione ha i suoi vantaggi. -
- Molti più svantaggi che vantaggi, te lo
assicuro. -
Arghail accennò un sorriso e sorseggiò
dell'acqua. Rubia allungò il muso, annusò quello
che stava mangiando e poi lo ritirò, tornando a mangiare le
foglie dell'albero.
- Prima di arrivare alla capitale, dovremmo trovare un modo
per nascondere i tuoi capelli rossi. Così come sei ti
riconoscerebbero tutti. -
Airis guardò una ciocca. Sopravvivevano alcune
strisce nere, per lo più scolorite, e il rosso si stava pian
piano riappropriando della sua capigliatura.
- C'è la possibilità che Hallende sia
già a Sershet? -
- Potrebbe, ma non sono sicuro che sia già
ripartita da Porto Eamone. È molto brava, e con questo tempo
non so se ha potuto prendere congedo. -
- Speriamo che si calmino, allora. A parte mia madre, non ho
molte conoscenze in città. -
Arghail incrociò le braccia sul petto, meditabondo.
- Potremmo provare a farti entrare con il cappuccio sul capo,
ma è troppo rischioso. Di questi tempi, con la guerra che si
sta inasprendo sempre di più, molte persone decidono di
abbandonare le proprie case per cercare rifugio a Sershet. Per ordine
della regina, i controlli sono diventati molto, molto rigidi. Non ti
lascerebbero passare senza aver prima appurato che non sei pericolosa. -
- Immagino tu non conosca nessuno che ci possa aiutare. -
Il capitano si massaggiò la radice del naso: -
Potrei provare a mandare un messaggio alla consigliera Azlan per vedere
se può darci una mano. -
- Conosci la consigliera?! -
- Sì, l'ho incontrata un paio di volte. -
- Non mi dirai nulla di più, immagino. -
Arghail distolse lo sguardo.
- Mi dispiace... - sospirò e dal suo tono Airis
capì che era sincero.
- Se ci può aiutare a entrare in città,
farò finta che tu non mi stia palesemente nascondendo
qualcosa. - arricciò le labbra in una finta smorfia contrita
che lo fece ridere.
- Sai essere divertente anche tu, allora. -
- A volte. - concesse, mentre masticava una fava.
All'improvviso, tutto si fece quieto. Il vento era calato, il
freddo sembrava meno intenso nel silenzio perfetto che li aveva
avvolti. Airis saltò in piedi e afferrò la spada,
e Arghail impugnò l'ascia. Si avvicinarono, schiena contro
schiena, scrutando tra gli alberi. Ogni cosa attorno a loro taceva,
immobile.
Un'ombra passò tra i rami, seguita da altre due.
Il sole sopra di loro ne distorceva la figura, e la troppa
oscurità rendeva difficile capire cosa fossero. Quando
scesero di quota, entrambi si avvidero che erano falchi, grossi come
aquile. Faticavano a volare, la loro apertura alare era troppo ampia
per permetter loro grandi manovre in quelle fronde così
fitte. Tre ben presto si posarono sui rami più sporgenti,
mentre gli altri due esemplari continuarono a sorvegliarli dal cielo,
descrivendo cerchi concentrici.
- Non mi piace. - mormorò Arghail.
Airis serrò la presa sulla spada. Non sarebbe
servita granché se li avessero attaccati, ma stringere
un'arma le permetteva di pensare con più lucidità.
- Avviciniamoci a Rubia e Droguan e speriamo che non ci
attacchino prima. -
Il compagno annuì e cominciarono a indietreggiare.
Uno dei falchi, quello che si era posato sul ramo più basso,
sbatté più volte le ali, stridendo truce, gli
occhi gialli fissi sulle sue prede. Gli artigli neri scavavano solchi
profondi nel legno.
- Per caso sai ammansire quei cosi? -
- Non ho mai avuto a che fare con dei rapaci assassini,
chiedo perdono. -
Airis lanciò un'occhiata dietro di sé.
I Ghedharvha erano legati, ma se avessero corso abbastanza in fretta,
sarebbero riusciti a sciogliere il nodo e...
“Se lasciamo le sacche per scappare, moriremo. Se
non lo facciamo, moriremo lo stesso. Qualsiasi cosa faccia, non
c'è via di fuga.”
Senza preavviso, il falco si gettò in picchiata ed
emise uno stridio altissimo che fece tremare l'aria, come se un nugolo
di frecce l'avesse attraversata, squarciandola. Airis si
coprì le orecchie e Arghail l'abbracciò,
facendole scudo con il proprio corpo.
Attesero che l'attacco arrivasse loro addosso, di sentire gli
artigli e i becchi affondare nelle braccia, nelle gambe, ma non accadde
nulla. Il battito d'ali persisteva, però, così
vicino da coprire quello dei loro cuori, generando un costante
venticello freddo.
Quando Airis alzò lo sguardo, i tre falchi erano
lì, sospesi in aria, che li fissavano con i loro quattro
occhi d'ambra.
- L'orecchino sta brillando... -
L'espressione stupita di Arghail la convinse a spostare la
sua attenzione alla sua destra, a toccare con mano il drago di
cristallo nero. Era leggermente tiepido al tatto, un calore che si
sprigionava dall'interno. In quel momento Airis capì: non
era lei che guardavano, ma l'orecchino.
“Cosa mi hai dato, Urian?”
I falchi volarono in alto, svanendo nella penombra,
silenziosi com'erano arrivati. Quando rimasero soli, Arghail
sospirò e si piegò sulle ginocchia, l'ascia
ancora stretta in mano, prima di raddrizzarsi e slegare i due
Ghedharvha.
- Andiamo via, in fretta. - la esortò, porgendole
le briglie.
Airis non se lo fece ripetere due volte. Montò in
sella subito e piantò i talloni nei fianchi di Droguan per
costringerlo ad andare più veloce. Imprecò quando
colpì con una spalla un ramo troppo basso e gli aghi rossi
le rimasero impigliati nel mantello e nei capelli, ma
continuò a spronarlo finché non si furono
lasciati alle spalle la foresta. Soltanto allora Arghail si concesse di
trarre un vero sospiro di sollievo.
- Erano i falchi dei Fae? - domandò, la pelle resa
lucida dal sudore.
Airis si voltò. Scorse il profilo dei volatili in
lontananza, tre macchie nel cielo. A nord, dove si stavano dirigendo,
il cielo si era aperto e le nuvole erano spumoni sullo sfondo blu.
- Sì, direi proprio di sì. -
- Credevo Urian fosse dalla tua parte. -
- Non penso ci sia dietro lui. -
Sfiorò l'orecchino. Brillava ancora, anche se la
luce era diminuita assieme al calore che emanava. Li aveva fermati. Non
sapeva come, ma li aveva fermati.
- È più probabile che sia stata
un'iniziativa degli altri Fae. A parte lui, tutti ci guardavano male. -
aggiunse e riprese le redini.
Arghail si passò una mano sulla faccia e si
massaggiò la fronte.
- Qualsiasi sia la verità, ci conviene ripartire.
Fuori dalla foresta siamo dei bersagli ancora più facili. -
si avvicinò e gli batté una pacca sulla spalla
per richiamare la sua attenzione, - Se non ci fermiamo più
fino a sera, dovremmo arrivare a un'altra zona boschiva. Cercheremo
lì un riparo per la notte. -
Si rimisero in marcia. I Ghedharvha procedevano a passo
sostenuto, senza farsi quasi mai distrarre dai ciuffi d'erba che di
tanto in tanto spuntavano tra le rocce. Era come se avessero assimilato
l'inquietudine dei loro cavalieri e volessero anche loro arrivare il
prima possibile a destinazione. Più d'una volta, nel
pomeriggio, passarono sopra le loro teste vari falchi e aquile, ma le
bestie che avevano tentato di attaccarli non si rifecero vive.
Verso sera si inoltrarono in una foresta di pini. La neve
giaceva al suolo in macchie grigiastre e informi e aveva spruzzato di
bianco i rami più in alto. L'aria era più umida
che fredda e aderiva alla pelle come un vestito troppo stretto.
“Almeno non si gela.”
- Fermiamoci qui, siamo abbastanza riparati. -
Scelsero un pino vecchio, con le fronde abbastanza ampie e
serrate a costituire un tetto verde sopra le loro teste. Decisero che
fosse meglio non accendere il fuoco, per evitare di segnalare la loro
posizione ai falchi assassini o a qualsiasi altra creatura di
passaggio. Tennero la guardia alta per tutta la cena, masticando piano,
senza proferire parola. La paura acuiva i loro sensi e ogni rametto
spezzato, ogni fruscio poteva nascondere una minaccia.
- Due ore ciascuno, se ti va bene. Comincio io. - propose
Airis.
Arghail la squadrò circospetto: - Siamo sicuri che
mi sveglierai per darti il cambio? -
- Dormire sulla sella è scomodo, preferisco il
terreno, almeno posso sperare di chiudere occhio. -
intrecciò le dita sul pomolo della spada e vi
appoggiò il mento, - Quello che hai fatto oggi è
stato molto stupido. -
Il capitano aprì la bocca per ribattere, ma Airis
lo precedette.
- Sono un soldato, prima che una donna, e devi trattarmi come
tale: mi sono guadagnata il diritto di essere considerata una tua pari
e pretendo il rispetto che mi è dovuto.-
- L'ho fatto perché siamo compagni. Ci dobbiamo
coprire la spalle a vicenda. -
- Stronzate. - gli lanciò un'occhiata obliqua e il
suo tono si indurì, - Prima il mantello, ora questo. Non
sono una ragazzina indifesa, ficcatelo in testa.-
Arghail si fece serio e la fissò con
così tanta intensità che per Airis fu impossibile
distogliere lo sguardo.
- Non sono tanto stupido da pensare che abbiate bisogno di un
cavaliere che combatta le vostre cause, Generale. Quello che ho fatto,
l'ho fatto per te, così come lo avrei fatto per chiunque
altro, uomo o donna.-
La guerriera non rispose, impressionata dalle sue parole,
dall'ardore con cui le aveva pronunciate. Il fastidio però
rimase lì e la istigò, facendole venire ancora
più voglia di prenderlo a pugni. Scosse la testa e rivolse
gli occhi al cielo, oltre le chiome degli alberi. Era limpido, raso blu
intessuto di una moltitudine di stelle. Archi sottili e brillanti raggi
di luce iridescenti si perdevano nell'infinito e, come tende ingrossate
da un gentile vento estivo, ondeggiavano in un ventaglio di giallo,
rosso e verde.
- I Fuochi della Volpe. - mormorò Arghail senza
fiato.
Airis ci mise un attimo a capire cosa le avesse detto. Erano
uno spettacolo comune nelle terre innevate, ma il suo mondo, quando era
arrivata lì, era stato ancora tutto buio.
- Sono... sono davvero bellissime. - riuscì a dire.
- Non li avevi mai visti? Ma com'è pos... -
Arghail si zittì prima di terminare la frase, - Mi dispiace,
mi ero dimenticato. -
- Meglio, significa che per te non sono mai stata cieca. -
gli diede una pacca sulla spalla e tornò a sedersi, - Se
succede qualcosa, ti sveglio. -
- Svegliami anche per darti il cambio. -
Airis sospirò sconsolata. Aveva incontrato ben
pochi uomini così cocciuti in vita sua e lui doveva esserne
il capo.
- Hai bisogno anche del mio mantello? -
- No, ci penserà Rubia a non farmi morire
assiderato. - si stese vicino al Ghedharvha e si coprì come
poté, - Tieni gli occhi aperti. -
- Lo farò. Ora dormi. -
Arghail annuì e chiuse gli occhi. Si
addormentò dopo poco, vinto dalla stanchezza. Aveva la mano
stretta a pugno sul petto, dove fino a poco tempo fa portava l'anello.
Lo faceva ogni notte, persino nella posizione più scomoda:
era come se senza si sentisse perduto e dovesse tenerlo tra le dita per
non smarrire la strada. Anche lei, in passato, aveva avuto bisogno di
aggrapparsi a qualcosa per non sprofondare. Adesso, senza
più il peso del cristallo al collo, sentiva una forte
nostalgia.
“Mi manchi, Delia.”
Rivolse la sua attenzione al cielo e rifletté sul
fatto che i Fuochi della Volpe si potevano ammirare nei mesi
più bui, quando l'estate svaniva e l'autunno incalzava.
“Un altro effetto dell'esplosione.”
Tuttavia, non riusciva a preoccuparsene. L'angoscia si era
acquattata in un angolo della sua mente, nascosta assieme a Ledah, a
Lysandra, a Aesir, ammaliata dal balletto celeste. Toccò la
stoffa della tunica all'altezza del tatuaggio.
“Appena arriveremo alla capitale, lo
controllerò. E farò tutto ciò che
sarà giusto fare per vincere.”
Intanto la volpe correva veloce nel cielo, continuando a
colpire la coltre di neve.
Il quinto giorno, Airis svegliò Arghail poco dopo
che era sorto il sole. Fecero colazione scambiandosi giusto qualche
parola sull'ultimo turno di guardia e lei gli riferì che, a
parte qualche starnazzo notturno, non era successo nulla.
- Ottimo. Come stiamo messi a provviste? -
- Dovrebbero bastare per ancora qualche giorno. Se
iniziassero a scarseggiare, stringeremo i denti. -
Arghil assentì. Aveva i capelli tutti
scompigliati, anche peggio dei suoi, e delle brutte occhiaie.
- Ci credi che non vedo l'ora di arrivare a Sershet? Ho
bisogno di riposare in un vero letto. -
- Non credevo che lo avrei mai detto, ma anche io. -
concordò Airis.
- A tal proposito... hai intenzione di andare a casa tua? -
Le si bloccò il respiro in gola. Si
alzò di scatto e diede subito le spalle ad Arghail, fingendo
di controllare le cinghie che assicuravano le borse a Droguan.
- Non lo so. -
- Ho toccato un tasto dolente? -
- No, solo che non ho ancora deciso. - mormorò e
in parte era la verità.
Con tutto quello che era accaduto, non si era mai soffermata
a riflettere su cosa avrebbe fatto una volta arrivata a Sershet. Non
aveva un piano, non aveva avuto il tempo, o il coraggio, di studiarne
uno. Ora sentiva il cuore pesante e aveva le viscere aggrovigliate,
mentre il dialogo che aveva avuto con Davsten prima di partire per
Llanowar le si riaffacciava alla mente. Erano volate parole pesanti
quel giorno, e lei alla fine se n'era andata salutando soltanto sua
madre. Ora loro la credevano morta e l'ultimo ricordo che serbavano era
quel litigio. Non se lo sarebbe mai perdonata.
“Idiota.”
Inspirò l'aria frizzante del mattino e
lasciò che il freddo scacciasse gli ultimi strascichi del
sonno.
Arghail trattenne lo sguardo su Airis ancora una frazione di
secondo, prima di montare in sella e attendere che fosse lei a fargli
strada.
Percorsero una buona parte della strada in silenzio, i sensi
all'erta focalizzati su ogni movimento sulle loro teste. L'inquietudine
era un sentimento costante che aleggiava tra di loro, più
soffocante dell'umidità nell'atmosfera.
Airis spesso toccava l'orecchino per ritrovare la calma e
arginare il fiume di pensieri che rischiava di farla annegare.
Quando il sentiero cominciò a declinare, si
sentì più tranquilla. Le montagne si chiusero su
di loro man mano che si inoltravano in una gola molto stretta, dove la
neve si era accumulata così tanto da ghiacciare le pareti.
Il vento sibilava tra le rocce e le sporgenze, sferzava la strada e le
loro spalle. Arghail si alitò sulle mani e le
strofinò sui vestiti. Erano rosse e intorpidite, e si
serravano a fatica sulle redini.
- Una volta valicate queste montagne, saremo alla capitale in
tre, massimo quattro giorni. Lì potrai finalmente riposare
in un vero letto. - scherzò Airis.
- Non vedo l'ora, guarda, comincio a sognarlo anche di notte.
- borbottò, si raddrizzò sulla sella e trasse un
profondo respiro, massaggiandosi il fondoschiena, - Non ce la faccio
più nemmeno a cavalcare. -
- Adesso capisci perché preferisco viaggiare a
piedi? -
- Addirittura? Sei strana, lasciatelo dire. -
La guerriera si concesse una risata.
- Lo so, anche mio pad... -
Una freccia si piantò nel terreno a pochi pollici
dalle zampe di Rubia. Il Ghedharvha nitrì e
arretrò spaventato. Droguan tirò le briglie
così forte che Airis quasi perse la presa. Un altro sibilo
tagliò l'aria vicino al suo viso e rimbalzò con
su un masso alle sue spalle. Le ombre di tre falchi oscurarono il cielo.
- Imboscata! -
Si buttarono a terra, poco prima che i rapaci riuscissero a
ghermirli. Rotolarono per un paio di braccia e si rialzarono
leggermente scossi. I due Ghedarvha imbizzarriti tiravano cornate a
destra e a manca, senza mai colpire il bersaglio, scalciando come
forsennati per difendersi dalle artigliate che li colpivano da ogni
lato. Rubia tentò di scappare, ma le sacche erano tante e
pesanti, e i due falchi che l'avevano assalita la raggiunsero subito.
Emise un nitrito agghiacciante quando le strapparono un occhio.
- Andiamo, andiamo! -
Arghail la strattonò e Airis si rimise in piedi.
L'orecchino era caldo e brillava con forza.
“Non ci proteggerà, stavolta.”
Il suo sguardo corse alla spada. Giaceva a terra, sporca di
fango e ghiaccio sciolto.
- Corri! -
L'urlo di Arghail bastò a metterle le ali ai
piedi. Si precipitò verso di Rubia a zigzag, veloce come non
lo era mai stata, il fiato che si condensava in nuvolette di vapore
davanti al suo viso. Afferrò la spada e, senza fermarsi, con
Arghail alle calcagna, deviò verso la parete di pietra. Una
freccia le aprì un taglio sulla spalla e un'altra la
costrinse a cambiare traiettoria all'ultimo. Le ombre si nascondevano
tra i massi, troppo in alto perché potesse vederli. I
nitriti e gli scalpiccii disperati di Rubia e Droguan le giungevano
attutiti, così distanti da disperdersi nell'eco del suo
cuore al galoppo nel petto. L'unico suono netto erano i suoi passi e
quelli di Arghail, e i loro respiri spezzati.
I loro aggressori li seguivano da sopra. Erano
così veloci e leggiadri che quasi faticava a sentirli.
“Fae.”
Quel pensiero le raggelò il sangue e
bastò per farla accelerare. Era un'intuizione emersa dal
nulla, priva di basi, ma alimentò la paura come il vento le
fiamme di un incendio.
“Manca poco, ce la posso fare.”
Il sudore le imperlava la fronte e le bruciava gli occhi,
dandole l'impressione che il valico fosse più lontano di
quello che in realtà era.
Improvvisamente, delle figure saltarono giù dalle
pareti di roccia, atterrando a una trentina di piedi davanti a loro.
Airis rallentò fino a fermarsi, mentre Arghail si
bloccò di botto e quasi le venne addosso.
Quattro uomini, vestiti con abiti da cacciatore, li fissavano
dall'entrata della gola. Uno aveva i capelli fulvi come quelli di
Urian, gli altri sfoggiavano chiome castane o persino azzurro chiaro.
Avevano tutti un arco in mano e una faretra sulla schiena; alla cintola
era appesa una spada dalla guardia stretta, ancora foderata. Un falco
si posò sul braccio di quello più alto, un uomo
con la mascella squadrata e un sopracciglio solcato da una cicatrice
bianca. Il volatile aveva le zampe e il becco lordi di sangue.
- Merda. - sputò Arghail.
Airis strinse la spada. Non avrebbe trovato parole migliori
per definire la loro situazione in quel momento.
- Dacci l'orecchino, umana. - ordinò il Fae dai
capelli fulvi, - Appartiene al Darhaid, le tue mani luride non sono
degne di toccarlo. -
- È stato lui a darmelo. Estìar mi ha
scelta tra i candidati, Cyril mi ha investita e Urian mi ha messo alla
prova. In nome di ciò che sono, vi comando di lasciarmi
passare. -
Non era la sua voce, quella. Veniva da dentro di lei e
attingeva da una conoscenza antica, che non sapeva di possedere. I
contorni della gola divennero sfocati per un istante, si liquefecero al
limitare del suo campo visivo, per poi riassumere consistenza al primo
battito di ciglia.
I Fae la scrutarono intimoriti. Due, i più
giovani, persero le loro espressioni tracotanti e indietreggiarono. I
falchi alzarono il capo di scatto e appuntarono lo sguardo su di lei,
immobili.
- Sei un'umana, non sei degna di portare quell'orecchino. -
reiterò con un ringhio il Fae con la cicatrice, - Nessuno di
voi bestie lo è mai stato. -
- Airis, non so perché stai provando a ragionarci,
è inutile. - le fece notare Arghail.
“Non so nemmeno io cosa sto facendo.”
- Toglietevi dai piedi, non ho intenzione di ripeterlo una
seconda volta. - dichiarò e svolse la spada dagli stracci,
divaricando le gambe.
La risata che proruppe dalle labbra del Fae era armonica,
argentina. Se non avesse avuto una luce feroce negli occhi, Airis ci
sarebbe cascata.
- Vuoi davvero morire, allora. Vorrà dire che ti
mangerò mentre starai agonizzando a terra. Ho sempre amato
il sapore della paura. - le labbra tremarono e si schiusero sui denti
da squalo, - È da tanto che non assaporo carne umana fresca.
-
Airis inspirò piano. In quell'istante, il balugino
metallico dell'ascia richiamò la sua attenzione da sotto il
corpo esanime di Rubia.
- Riesci a recuperarla? - bisbigliò all'indirizzo
di Arghail.
Il Fae intanto si stava avvicinando. I suoi compagni lo
fissavano, indecisi sul da farsi. Quelli più giovani, due
ragazzi con i capelli verde acqua e il viso imberbe, si scambiarono
delle occhiate insicure tra di loro, prima di seguire gli altri. Tutti
avevano sguainato le spade, ma i falchi erano volati su uno sperone di
roccia. Il terzo, con ancora i brandelli di carne tra gli artigli, si
unì quasi subito. Non appena prese il volo, Arghail
afferrò l'ascia con uno slancio fulmineo e
affiancò di nuovo Airis.
- Spero tu abbia un piano. - le sibilò tra i
denti, attento a non perdere di vista nessuno dei nemici.
Airis fece saettare lo sguardo a destra e a sinistra. C'era
una rientranza nella parete di roccia a una decina di piedi alle loro
spalle.
- Hai ancora fiato? -
Arghail rimase un attimo interdetto. Arretrò con
lei, l'ascia stretta tra due mani davanti al viso, e girò
leggermente il capo.
- Potrebbero essercene altri nascosti. -
I Fae erano a una cinquantina di braccia e al loro capo
bastò seguire la traiettoria degli occhi di Arghail per
capire cosa avevano in mente. Il sorriso sulle sue labbra si fece
più largo.
Erano circa dieci di passi di corsa, quasi completamente allo
scoperto, sotto il tiro di altri arcieri, per infilarsi in una grotta
buia che conduceva chissà dove: un suicidio annunciato.
- Non abbiamo altra scelta. - rispose semplicemente.
Condivisero un ultimo sguardo d'intesa, poi Airis
scattò.
La caverna era
buia e stretta. I loro passi e quelli dei loro inseguitori
rimbombavano, echeggiando a lungo prima di perdersi nel nulla. Airis
correva senza guardarsi indietro, seguendo il percorso naturale scavato
nella roccia col cuore in gola e i muscoli delle gambe in fiamme. La
paura scorreva nelle vene e le pervadeva i sensi; era il carburante del
suo corpo, della sua mente.
- Prendeteli! -
- Sono là, li vedo! -
Arghail la superò, l'afferrò per il
polso e imboccò una galleria a destra. Airis
slittò, si diede di nuovo la spinta coi piedi e lo
seguì. Udì voci concitate, un rumore sordo,
un'imprecazione, un rapido e incomprensibile scambio di battute. Lo
scalpiccio si affievolì, per poi riprendere meno intenso.
Uno, due, tre nemici. Qualcuno era stato lasciato indietro.
Airis si infilò in un altro cunicolo,
più basso, ancora più stretto. Furono costretti
ad abbassare la testa, con le spalle che strusciavano contro le pareti,
uno dietro l'altra.
- Dove sono andati? - ansimò.
Arghail si mise un dito davanti alle labbra per suggerirle di
fare silenzio. I passi si divisero: un paio si gettarono al loro
inseguimento, gli altri due presero un'altra direzione. Arrivarono a un
bivio. Airis si fermò e Arghail sbirciò oltre la
galleria di sinistra. Il respiro aveva smesso di condensarsi e si
mescolava all'umidità crescente, che stava pian piano
impadronendosi del loro ossigeno.
- Dove? - chiese Arghail con voce rauca.
Airis girò la testa a destra e a sinistra. Non
riusciva a vedere niente, era buio pesto e i Fae si facevano sempre
più vicini. Avevano anche aumentato l'andatura per
raggiungerli. Presto li avrebbero trovati.
- Di qua. - decise.
Lo prese per mano e lo trascinò nella galleria di
sinistra. Il terreno declinava e si inoltrava nel buio a perdita
d'occhio. Arghail si sbilanciò in avanti, ma Airis lo
sostenne e lo strattonò. Lui emise un singulto soffocato e
riprese a correre a rotta di collo. Tremava per lo sforzo di non
rallentare, a volte mancava dei passi o ne strascicava un paio, ma poi
riacquistava il ritmo.
Nell'aria stantia e calda si fece strada il mormorio quasi
impercettibile dell'acqua. Era lontano, veniva da tutte le direzioni e
da nessuna.
“Resisti, maledizione, resisti.”
Airis contrasse la mascella e svoltò a sinistra,
poi destra e di nuovo a sinistra. I polmoni bruciavano, la cassa
toracica ne limitava l'espansione e l'aria era sempre più
calda, sempre più irrespirabile, ed entrambi accusavano
ormai i morsi della fatica, dell'acido lattico che induriva i muscoli e
li dilaniava dall'interno. I loro inseguitori, invece, non avevano mai
rallentato. Si bloccò prima di oltrepassare un'altra
galleria. Il corpo si inclinò, la caviglia sbatté
contro una sporgenza acuminata e per non cadere dovette aggrapparsi
alla parete. Si graffiò la mano e si ruppe le unghie
dell'indice e dell'anulare, ma il dolore le diede lo slancio per
continuare a correre.
Superarono cinque tunnel, prima di trovarne uno abbastanza
largo da non costringerli a mettersi in fila indiana, le mani sempre a
contatto, mai troppo distanti. Lo scrosciare di un corso d'acqua si
fece sempre più nitido. Doveva essere un fiume sotterraneo o
una vena acquifera abbastanza grande e impetuosa da generare quel
rumore: era lì che dovevano arrivare.
- Ferma! -
Troppo tardi. Airis si sentì mancare la terra
sotto i piedi. Il vento soffiò dal basso, e le
scompigliò i capelli dall'infinito vuoto sotto di lei. Il
tempo parve fermarsi e lei rimase sospesa, la bocca congelata in un
grido muto. Il cuore sussultò quando la gravità
la tirò giù.
- Airis! -
All'ultimo istante Arghail le agguantò il polso,
che scricchiolò in modo inquietante. Airis strinse i denti e
si morse la lingua per trattenere i gemiti di dolore, mentre il buio si
riempiva di pallini bianchi e rossi.
- Ti tengo. - la rassicurò e strinse l'altra mano
poco sopra il gomito.
I muscoli delle spalle e delle braccia tremavano per lo
sforzo. La issò di forza, la prese da sotto l'ascella e
tirò ancora. Airis tentò di aiutarlo,
appoggiò i piedi alla parete e spinse, mentre l'unica mano
libera rimaneva aggrappata alla sua spalla. Fece leva sulle suole, ma
la parete era troppo liscia, umida. Scivolò ancora di
più e il capitano perse la presa, andando giù con
lei.
- Prendeteli! -
I Fae erano arrivati. Erano lì, alle spalle di
Arghail, Airis poteva sentire distintamente i loro passi a poche
braccia da loro. Si scambiarono uno sguardo, uno solo. Nel buio, gli
occhi dell'amico erano dei riflessi a malapena visibili, o forse era
solo uno scherzo della paura, non poteva esserne certa.
- Vi avevamo detto che vi avremmo mangiati. -
Un risolino agghiacciante strisciò
nell'oscurità, assieme alle sagome indistinte dei Fae. Airis
guardò nuovamente il vuoto sotto di sé. Lo
scrocio sordo del fiume saturava il silenzio, un suono irridente che
faceva sembrare le esclamazioni eccitate dei loro inseguitori ancora
più spettrali e sinistre. Gli spruzzi si innalzavano fino a
lei, le avevano bagnato gli stivali e inumidito i pantaloni, ma non
c'erano garanzie: poteva essere a dieci braccia come a trenta, l'eco
non le permetteva di stimarlo. La scelta era spaccarsi le ossa o
diventare la cena dei Fae. Artigliò Arghail per le spalle e
lo tirò oltre la sporgenza, rompendo l'equilibrio precario
tra braccia e gambe. Il capitano fece appena in tempo ad afferrare
l'ascia.
Il dolore all'impatto la trafisse come mille spilli. Chiuse
gli occhi ed emise un gemito sofferente che sfociò in un
gorgoglio di bolle, mentre l'acqua le aggrediva la gola e le narici,
trascinandola in basso con il peso della spada e dei vestiti. La
corrente era forte, incontrollabile, e per quanto tentasse di
combatterla non riusciva a opporsi. L'acqua vinse la barriera del suo
respiro e Airis cominciò a soffocare. Arghail non era
più con lei, si erano divisi durante la caduta, non c'era
nessuno che potesse aiutarla. Sgambettò per cercare un
appoggio, un masso, una sporgenza, ma i suoi piedi si allungarono nel
nulla: stava annegando e non poteva fare niente per impedirlo.
“Delia, Davsten, madre... ”
Le sue grida divennero bolle. L'acqua si appropriò
delle sue forze, le palpebre divennero pesanti, il sangue si
raggelò fino a diventare piombo liquido nelle vene, pesante
e vischioso come il liquido che le stava riempiendo i polmoni. La
corrente la sbatté contro un masso, a cui Airis
tentò di ancorarsi. Allungò le mani alla cieca e
ne sfiorò appena la superficie bagnata, prima di essere
nuovamente travolta.
“Ledah...”
L'acqua si infiltrò nei suoi pensieri e li strinse
tra le sue dita ghiacciate fino a romperli. Esplosero tutti insieme e
le schegge, gelide e taglienti, le si conficcarono nel cervello,
inchiodando i lembi restanti della sua volontà alla parete
della scatola cranica.
Una mano l'afferrò per il braccio e poi,
improvvisamente, lo tirò finché Airis non
percepì la consistenza pesante della lana. La dita
affondarono nel costato, poco sotto il seno e tutti i muscoli si tesero
sotto la manica.
- ...is. -
Qualcuno la stava chiamando da mille miglia, ma lei non
poteva rispondere, non ci riusciva.
- Airis! -
La presa si serrò di più, abbastanza da
comprimere il diaframma contro il petto, così forte da farle
sputare l'acqua. Aveva un sapore acido, disgustoso, bruciava come bile
sulla lingua e in gola.
- Svegliati! Svegliati, maledizione! -
Airis tossì ancora, fino a quando la gola non
cominciò a farle male. Le tremavano le membra e la vista era
un vortice di pallini bianchi, però ora almeno respirava.
- Non... non ce la faccio. - gemette Arghail, - Non riesco a
tenermi... -
Un'onda lo investì in pieno viso e la sua mano
slittò sulla roccia. Airis udì la sua mascella
scricchiolare, mentre il capitano lottava per non essere trascinato
via. Pareva febbricitante mentre la stringeva a sé,
nient'altro che un peso morto tra le sue braccia. Un'altra onda, ancora
più forte della precedente, si schiantò su di
loro. Arghail venne sbalzato indietro. In un impeto, Airis distese il
braccio e piantò le unghie nella roccia. Le
infilò in due piccole rientranze asimmetriche, si tenne e il
capitano si aggrappò a lei prima che la corrente lo
inghiottisse.
- Arghail, non lasciarmi! - urlò per sovrastare il
ruggito del fiume.
- È troppo fort... - l'acqua gli finì
in bocca e gli ricacciò la frase in gola, - Non ce la
faccio, non resisto più. -
La guerriera serrò i denti. Aveva perso
sensibilità nella mano che stringeva la spada e le dita
nella roccia sanguinavano, spedendole continue scariche di dolore che
le facevano girare la testa. Raccolse le energie che le rimanevano e
tese i muscoli. Un'onda la investì, più
aggressiva e feroce delle altre. Airis perse la presa e le acque li
sommersero.
La prima cosa che Airis percepì quando riprese i
sensi fu la consistenza dura e fastidiosa di ciottoli sotto la schiena.
Le braccia erano dolorosamente stirate. Riaprì piano gli
occhi e vide sopra di lei il soffitto della caverna, adornato da
stalattiti di cristallo nero. La luce filtrava attraverso piccoli e
sporadici fori e rimbalzava sui lucenti blocchi cristallini, spade
lisce piantate al suolo alte più di nove braccia. Armi degli
antichi dei, incastrate nel suolo, uniche reduci di una battaglia.
Con la testa urtò un sasso. La vista
sfarfallò e dovette chiudere più volte le
palpebre per riacquisire lucidità. Il soffitto si era mosso?
O erano i cristalli a seguirla? Intorpidita com'era, non riusciva a
capirlo. Inspirò ed espirò.
Udì due voci che parlavano in una lingua che non
conosceva, ma la riconobbe come la stessa che aveva sentito in bocca ai
Fae che li inseguivano. Mosse le dita, le chiuse un paio di volte per
riacquistare sensibilità e concentrò la sua
attenzione sui polsi, legati con una corda. Allora era stato tutto
inutile: alla fine erano stati catturati. Non era il soffitto a
muoversi, erano i Fae che li stavano trascinando.
“Arghail?”
Girò la testa alla sua sinistra. Il capitano era
lì, anche lui con le braccia legate da un doppio nodo. La
sua testa sobbalzò quando urtò un cristallo
sbeccato e le palpebre tremarono, come se si stesse per svegliare.
Quando incontrò lo sguardo di Airis, questa gli fece segno
di rimanere in silenzio.
I Fae continuarono discutere tra di loro in una serie di
botta e risposta, intervallate da risatine e pugni sulla spalla. Quello
che trascinava Arghail era una donna con le spalle larghe e muscolose,
il collo taurino e i capelli tagliati corti così da scoprire
la nuca. Sulle braccia luccicavano delle scaglie rosate che sparivano
sotto la tunica. L'altra donna era più esile e alta, e i
ciuffi che sbucavano dalla coda di cavallo erano di un bianco quasi
trasparente. Portava la sua spada al fianco, legata alla spessa cintura
di cuoio con un piccolo anello.
“Pensa, Airis, pensa.”
Socchiuse gli occhi e guardò Arghail. Era umano,
non avrebbe potuto aiutarla. Avrebbe dovuto agire da sola e in fretta.
Trasse un profondo respiro e gli fece un cenno del capo in direzione
della Fae. Arghail annuì e Airis raccolse le forze.
“Vediamo quanto è forte questo nuovo
corpo.”
La Fae la strattonò e fece passare la corda sopra
la spalla. Airis andò a sbattere contro un cristallo nero.
Trattenne un gemito, strinse i pugni, vi si aggrappò con le
gambe e tirò con quanta più forza poteva. La
donna perse la presa, si sbilanciò e cadde a terra con un
tonfo sordo. Non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo che
Airis le saltò addosso. Le diede una gomitata in faccia, un
colpo netto e preciso che le spaccò il setto nasale. La Fae
urlò e si portò le mani al viso per difendersi,
mentre combatteva per liberarsi.
Airis captò un rapido movimento al limitare del
suo campo visivo. Girò di scatto la testa, pronta alla
lotta, quando Arghail afferrò l'altra Fae per la caviglia e
la fece inciampare. Le montò sulla schiena e le
passò la corda attorno alla gola, cercando di evitare i suoi
calci.
La distrazione le costò un pugno al fianco
sinistro. Grugnì e ne incassò un altro. La Fae
aveva gli occhi bianchi iniettati di sangue, le labbra sottilissime
schiuse sui denti da squalo. Airis le sferrò un colpo alla
tempia. Si chiese, forse per la decima volta, per quale maledetto
motivo qualsiasi essere senziente che incontrava si ostinava a metterle
i bastoni tra le ruote.
- Vuoi mangiarmi, figlia di puttana? - ringhiò
furiosa, - So io cosa farti assaggiare. -
Strinse la presa sul suo bacino con le cosce e la
colpì alla mandibola, poi alla bocca con una forza disumana.
L'osso uscì d'asse e le labbra esplosero imbrattando le sue
mani di sangue. Vicino a lei la lotta tra Arghail e la seconda Fae
andava avanti, ma Airis era concentrata sulla sua avversaria.
Caricò di nuovo.
- Muori. -
Il pugno andò a segno, così forte da
sfondare il cranio della Fae all'altezza della tempia. Airis
sentì con nitidezza lo schiocco agghiacciante dello sfenoide
che si conficcava nel cervello. Il sangue schizzò dal naso e
dalla bocca in uno zampillo violento.
Un urlo atroce e disperato riecheggiò nell'aria a
poca distanza dalla guerriera. La Fae rimasta assestò un
manrovescio ad Arghail con così tanta forza da buttarlo a
terra e si scagliò contro Airis, che ebbe appena il tempo di
allontanarsi dal corpo sotto di lei prima di essere investita.
Indietreggiò senza perdere d'occhio la donna che
era caduta in ginocchio accanto al cadavere della sua compagna.
Piangeva, ogni sua parola era interrotta dai singhiozzi, il viso
affondato nel petto della Fae morta.
Airis andò a scontrarsi contro una colonna di cristallo nero
obliqua. Il lato era tagliente, scheggiato in più punti. Vi
appoggiò la corda sui polsi e cominciò a segarla,
muovendo velocemente avanti e indietro le braccia.
La Fae superstite adagiò la testa dell'altra contro il masso
dove Airis si era attaccata e le sfilò la spada dal fianco.
Aveva negli occhi la rabbia della disperazione e mostrava i denti come
un lupo braccato dai cacciatori. Avanzò trascinando la punta
dell'arma sul terreno, lo sguardo spiritato fisso su di lei.
Raggiuntala, vibrò un colpo calante a due mani. Airis
riuscì a liberarsi per un soffio, prese la corda e
rotolò di lato, togliendosi dalla traiettoria della lama.
Riuscì a malapena a rialzarsi. La Fae mulinò la
spada una seconda volta, stavolta in obliquo. Airis balzò
all'indietro e ripristinò la distanza di sicurezza. Tese la
corda con entrambe le mani e si spostò, poi
cambiò ancora direzione e tornò sui suoi passi.
La nemica la seguì con lo sguardo. A volte i suoi muscoli
avevano uno spasmo, come se stesse per attaccare, ma poi restava ferma.
- Vieni a prendermi! - la provocò Airis e arretrò
fino al cadavere.
Non era sicura di essere capita, ma sinceramente non le importava.
- Cos'è, hai paura? -
Poggiò il tallone sulla mano della Fae morta e la
schiacciò. Le ossa emisero un gemito atroce. L'altra
ringhiò feroce e le corse incontro. Menò un
rapido colpo al ventre, ma Airis lo schivò,
strisciò di lato, si portò veloce alle sue spalle
e le strinse la corda attorno alla gola per strozzarla.
- Non vi permetterò di ostacolarmi ancora. - le
sibilò all'orecchio.
La Fae le tirò una testata che la prese sul naso. Caddero a
terra, una sopra l'altra. La guerriera legò le gambe attorno
al suo bacino e tentò di stritolarla, mentre le dita
rinserravano la presa sulla corda attorno alla sua gola.
- E chiunque si metterà sul mio cammino, lo
ucciderò. -
La Fae scalciò, raspò il terreno con i piedi, le
dita che raschiavano la corda e gli occhi rivoltati all'indietro. I
capillari scoppiarono e le labbra sbiancarono. Nella bocca spalancata,
la luce si rifletté in un barbaglio rossastro sui denti da
squalo.
- Adesso vai, raggiungi la tua compagna e ricordati di me. -
Il collo si ruppe con uno schiocco e, in rantolo sommesso, la Fae smise
di muoversi. La corda le aveva scavato due profondi solchi rossi nel
collo e, quando Airis si levò il corpo di dosso, si
staccò portandosi via una parte della pelle.
- Fottiti. - mugugnò tra i denti e si portò
vicino ad Arghail.
Il capitano si era messo a sedere e si teneva la faccia. Aveva un
occhio nero, uno zigomo rotto e le labbra tumide, nonché il
segno di un morso sul braccio.
- Riesci ad alzarti? -
Arghail annuì, ancora intontito. Quando si mise in piedi,
ebbe un capogiro e Airis lo dovette sostenere finché non si
tenne saldo sulle sue gambe. Anche in quel caso, le ginocchia gli
tremavano per lo sforzo.
- Lasciami, ce la faccio. -
- A me non sembra. -
Era un miracolo che fosse sopravvissuto alla colluttazione con solo
qualche livido e osso rotto. Come se avesse intuito i suoi pensieri,
Arghail arcuò le labbra in un mezzo sorriso: i due incisivi
di sopra erano spaccati e aveva perso un canino.
- Non sono una donnicciula indifesa, Generale. -
- I denti te li ha fatti saltare lo stesso, però. - sorrise
anche lei di rimando, cercando di alleggerire l'atmosfera, - Consolati,
le donne non resistono al fascino delle cicatrici. -
- Non serve che me lo ricordi, Torvir ne è la dimostrazione
vivente. -
Ripensare al capitano della “Signora dei Mari” la
fece impensierire. Era riuscito ad arrivare a destinazione nonostante
la tempesta? Quando il mare si era calmato, aveva mandato qualcuno a
cercare i loro corpi, o aveva proseguito come se nulla fosse accaduto?
Forse parò ad alta voce, perché Arghail rispose:
- Non lo so. È stata una persona importante per me, un
fratello, ma ci sono delle cose che non gli ho potuto e non gli posso
dire. -
“I segreti rovinano le amicizie.”
- Credi che ci abbia lasciati indietro, quindi? -
- Forse... non ne posso essere sicuro. Lui è un uomo che
cambia idea molto facilmente. -
- Non sappiamo com'è il mare ora. Se il maltempo ha
è durato a lungo, sarebbe già un miracolo se
fosse riuscito ad arrivare vivo e vegeto alla capitale. - gli fece
notare Airis, - In ogni caso, non è un problema che ci
riguarda. -
Il capitano concordò con un gesto del capo.
La caverna, un vero e proprio tempio di colonne di cristallo nero, si
perdeva nell'oscurità. Il sole sfolgorava luminoso
attraverso i fori del soffitto, non doveva essere nemmeno
metà pomeriggio. Il rumore del fiume si perdeva in
lontananza.
- Tu non eri sveglio mentre ti trascinavano, vero? -
- No. Dobbiamo tornare al fiume, è l'unica soluzione
possibile. -
- Senza sapere da dove siamo venuti, rischiamo di perderci e morire
qui. - sospirò Airis, - Se hai una proposta, io sono tutta
orecchie. -
Il capitano aggrottò le sopracciglia. Sudava e aveva il
respiro affannoso, ma Airis lo attribuì
all'umidità che permeava l'ambiente: era come essere in una
serra.
- L'unica idea che mi viene in mente la puoi realizzare solo tu. - si
umettò le labbra secche e la guardò, - Metti la
mano a terra e cerca di sentire le vibrazioni dell'acqua. Non so se
funzionerà, non ho mai provato. -
- Ci provo. -
Gli consegnò la spada, si inginocchiò,
appoggiò la mano aperta a terra e chiuse gli occhi.
Inspirò ed espirò finché il suo cuore
non si allineò sul ritmo tranquillo che precede il sonno.
L'aria calda le scorreva sulle braccia e sulla schiena, il sudore come
collante tra la sua pelle e il tessuto della cioppa. Corrugò
la fronte, rilassò i muscoli, escludendo quella sensazione
di unto che si sentiva addosso, e allontanò i pensieri,
tutti quelli che svolazzavano gracchiando nel suo cervello.
All'improvviso percepì un tremolio sotto il palmo.
Avanzò di un passo e allungò la mano. A destra si
affievoliva, più si protendeva sul terreno più
sembrava perdersi. Si spostò di poco più avanti.
La vibrazione persisteva, pareva accarezzarla, abbattendosi dentro di
lei come onde sul bagnasciuga. Poggiò sul suolo anche
l'altra mano e descrisse attorno a sé dei semicerchi,
respirando sempre più piano: doveva ascoltare, ricordare
come seguire senza gli occhi. Il corpo reagì prima della
mente. Proseguì ancora tastando il terreno, i tendini e i
nervi che vibravano con maggiore forza per ogni onda che li
attraversava. Quando aprì gli occhi, stavano puntando la
galleria di sinistra.
- Sei sicura? -
- Abbastanza. - lo prese sottobraccio senza troppe cerimonie, - Non
fare quella faccia, hai una pessima cera. -
- Le labbra e lo zigomo non mi fanno sembrare un prode guerriero appena
uscito da una sanguinosa battaglia? -
Airis abbozzò un sorriso: - Risparmia il fiato per pensare a
cosa faremo una volta usciti di qui. -
La galleria era buia, solo qualche foro permetteva alla luce di
illuminare il passaggio. L'umidità non accennava a diminuire
e la poca aria proveniente dall'esterno non era sufficiente a
rinfrescare l'ambiente o ad asciugare il sudore. Di tanto in tanto,
Airis si fermava per controllare che stessero procedendo nella giusta
direzione, ma faceva sempre più fatica a concentrarsi.
Arghail aveva il respiro affannoso, l'incarnato cereo e le labbra si
erano scurite fino a diventare livide. Più che camminare,
trascinava i piedi e si appoggiava completamente a lei.
Giunti a un'altra stanza sorretta da colonne di cristallo levigate, lo
adagiò a terra e gli mise la mano sulla fronte: scottava.
“Cazzo.”
- Arghail! Arghail, sveglia. - lo scosse finché il capitano
non schiuse le palpebre, - Ho bisogno che ti sforzi di non dormire,
chiaro? -
- Stavo... stavo solo riposando gli occhi. -
- Dimmi cosa senti. -
Il capitano deglutì. I capillari emergevano sotto la pelle
infiammata, tralicci avvizziti che si espandevano fino allo zigomo
viola.
- La testa... mi fa male. E ho caldo. - aprì di scatto gli
occhi ed ebbe uno spasmo quando tentò di tirarsi su, - Le
gambe... non sento più le gambe! -
- Mantieni la calma. - lo incoraggiò, poi gli strinse il
braccio e il capitano cacciò un urlo.
Airis ritirò la mano: il sangue che la macchiava era denso,
grumoso, più simile a una composta di mele. La ferita era
gonfia e spurgava pus. Tastò la cioppa all'altezza del
cuore, lì dove sapeva esserci il sacchetto. La
tirò fuori e la aprì, estraendo le erbe bagnate.
Sebbene secche, in qualche modo erano ancora integre.
“Quali piante usava Delia. Salvia, tiglio, rosmarino...
questa non lo so. Somiglia alla lavanda, ma non riesco a
capirlo.”
Un ansito sofferente la allarmò. Arghail aveva la schiena
piegata in un arco tesissimo, le dita contratte, le braccia e le gambe
rigide. Quando cominciarono le convulsioni, ribaltò gli
occhi all'indietro e spalancò la bocca in un grido senza
voce.
Airis gli bloccò le braccia, lottando per tenerlo fermo.
Nell'aria soffocante, l'improvvisa puzza di urina le fece quasi
lacrimare gli occhi. Non sapeva cosa fare, come aiutarlo.
- Non puoi morire ora! Sei il prossimo re di Esperya, non ti
lascerò crepare in questa grotta schifosa. Hai capito? Ti
proibisco di morire! -
La sua vista si annebbiò, i contorni divennero labili e i
colori sfumati. Solo Arghail era tangibile e reale. A quel punto una
calma innaturale scese su di lei e una coscienza estranea si
risvegliò.
Lasciò andare Arghail e ispezionò le altre erbe
nel sacchetto: biancospino, sambuco, echinacea, tiglio. Ne
masticò alcune sotto i denti e poi sputò
l'impiastro assieme a della saliva. Aveva un profumo fresco e intenso,
così come si aspettava.
- Sono qui, Arghail. Non ti abbandono. -
Arghail si irrigidì e il suo corpo si rilassò.
Tremava ancora, ma la stava guardando, di nuovo presente a se stesso.
- Brucerà, ma tu non devi muoverti, per nessuna ragione al
mondo. - lo avvertì e gli prese il braccio.
La ferita pulsava e la pelle tutta attorno era arrossata. Il veleno dei
Fae era entrato in circolo e avrebbe presto raggiunto il cuore. Le
crisi epilettiche erano solo il primo sintomo di una morte molto
più lenta e dolorosa. Anche lei, la Guardiana, era stata
ferita, ma il veleno sulla freccia non aveva effetto sul suo nuovo
corpo.
Strappò un lembo della manica e lo avvolse stretto attorno
al braccio dell'uomo.
- Chi sei? - esalò Arghail.
- Non ha senso sprecare parole per un morto, principe. Risparmia il
fiato, le ore che verranno saranno dure per te. - gli disse, si
alzò e prese la spada che era caduta a terra.
Arghail ebbe un altro spasmo e si inarcò di nuovo, ma meno
di prima. L'impacco stava già facendo effetto.
- Dov'è Airis? Sei un fantasma e ti sei... - storse le
labbra in una smorfia sofferente, - ti sei impadronita del suo corpo? -
Le venne da ridere. Non ricordava che i mortali potessero essere
così ingenui, era passato troppo tempo da quando era stata
una di loro.
- No. Non fare altre domande, non sarò io a dar loro una
risposta. - lo prevenne e gli diede le spalle.
Gettò un'occhiata alla ferita sulla spalla della Guardiana.
Puzzava, ma aveva già spurgato la maggior parte del veleno.
Prese delle foglie di drosera e zenzero e le masticò fino ad
ottenere un impasto più grumoso che si affrettò a
spalmare sul taglio.
- Vado a prendere dell'acqua, tornerò a breve. - si
voltò un'ultima volta e appuntò lo sguardo su di
lui, - Hai gli stessi occhi di tuo padre. -
Poi si avviò verso la galleria che l'avrebbe portata al
fiume.
Airis sbatté le palpebre per rimettere a fuoco. Davanti a
lei scorreva il fiume, il fragore delle sue acque era un ruggito che le
invadeva le orecchie. Si tolse la cioppa, rimanendo solo in pantaloni,
la immerse nella corrente e attese che si impregnasse. Si sentiva
ancora frastornata e il buio ai margini della vista era ancora coperto
da una patina biancastra. Durante il tempo in cui l'entità
aveva preso il suo posto, Airis aveva guardato attraverso i propri
occhi, relegata in un angolo, in silenzio. I pensieri fluivano dalla
donna verso la sua coscienza, erano suoi e allo stesso tempo non le
appartenevano, ma sentiva che, se avesse voluto, avrebbe potuto
riprendere il controllo del suo corpo senza che l'entità
opponesse resistenza.
Strappò la manica destra, quella che era stata tagliata
dalla freccia, e infilò la galleria per tornare indietro.
Procedette per un pezzo al buio, senza sapere che pensare: c'erano
già troppe domande insolute, aggiungerne altre le avrebbe
procurato solo un gran mal di testa.
“Urian sapeva.”
I fori sul soffitto ricomparvero dopo una lunga salita e il caldo parve
affievolirsi. Airis si appoggiò alla parete per riprendere
fiato e l'occhio le cadde sul petto. Dalle bende strette sul seno
fuoriuscivano dei segni neri, sottili capillari neri simili a quelli
della cancrena che si estendevano anche sulle costole. Erano in rilievo
e ruvidi al tatto, come se la pelle in quel punto non fosse che un
foglio di carta stropicciata. Non era passato nemmeno un mese e il
tatuaggio stava già espandendosi.
Un verso inarticolato di Arghail la riscosse. Strinse la mano attorno
all'elsa della spada, scattò e corse a perdifiato attraverso
la galleria, più veloce che poteva, lasciando che fossero le
sue gambe a condurla. La poca luce che filtrava dal soffitto
delineò, al suo arrivo, sei figure ingobbite con vestiti
laceri, più stracci che altro, e poche e sporadiche ciocche
di capelli su una testa altresì innaturalmente glabra. Occhi
senza iride o pupilla la fissarono, la bocca senza labbra irta di denti
adamantini aperta e piena di saliva. Erano vicini ad Arghail, non
avrebbero dovuto nemmeno distendere del tutto il braccio per
afferrarlo. Non lo fecero, però. Un ghigno famelico
precedette la loro carica contro di lei.
Airis schivò un'artigliata, si portò alle spalle
del mostro e menò un fendente in diagonale, che gli
aprì la schiena da parte a parte. Il sangue le
schizzò sul viso. Gli altri interruppero il loro assalto e
indietreggiarono nelle ombre. Respiravano piano, anzi sembravano non
respirare affatto. Persino per il suo udito sviluppato era difficile
sentirli.
Chiuse gli occhi e si rimise in guardia. Inspirò piano e
strinse la spada, tenendola davanti al viso. Dei sassolini rotolarono,
un acciottolio che produceva una bassa vibrazione nella terra: si
stavano muovendo sul perimetro della stanza, simili a una massa di
spettatori durante le lotte tra cani.
Balzò indietro e la bocca di un mostro si chiuse sul vuoto.
La lama schizzò in avanti, aprì un taglio nella
carne e si ritrasse, per poi affondare con maggiore forza. Il mostro
digrignò i denti, li sbatté come se avesse avuto
freddo e rinnovò l'attacco.
Airis si girò, affondò e falciò in
diagonale, dal basso verso l'alto. La spada incontrò la
resistenza degli artigli, ci strisciò sopra in un gemito
metallico. Si abbassò sulle ginocchia, descrisse un
semicerchio all'altezza dei suoi occhi e stavolta udì la
punta farsi strada nella carne ancor prima che l'essere urlasse. Airis
scattò e si infilò tra i due che le erano
arrivati alle spalle. Colpì il primo al volo, dove sapeva
esserci la carotide. Nessun affondo, un unico mezzo movimento
dell'avambraccio, rapido e letale. Si sottrasse all'ennesimo attacco
con movimenti agili, elegante come un gatto. Il sudore le colava sulle
braccia, le inumidiva le labbra e le imperlava le ciglia. Il sangue,
quello che era schizzato dal collo del mostro, tamburellò
sulla punta degli stivali. Compì tre passi e
caricò frontalmente il suo avversario, che però
se lo aspettava e arretrò prima che la spada gli aprisse il
cranio. Emise un ruggito che risuonò in tutta la stanza come
un incitazione di sfida.
Airis allargò le gambe per abbassare il baricentro.
Il secondo mostro la sorprese alle spalle. La guerriera
schivò, si girò e calò un fendente a
due mani. Il sibilo della lama non si interruppe quando
squarciò la carne. Udì un tonfo e un basso
rantolio, seguito dal rumore tenue di sassi mossi.
Una mano tentò di afferrarle il collo. Airis
danzò lontano, si voltò e colpì il
mostro al viso col pomo della spada. Le ossa del naso e della mascella
si ruppero con uno schiocco. Lo atterrò con un calcio, lo
schiacciò a terra che ancora si teneva uggiolando il viso e
lo trafisse al collo. La lama aprì il pomo d'Adamo,
trapassò l'esofago, divise la collonna vertebrale e si
piantò a terra. Airis gli mise un ginocchio sul petto e
appoggiò la fronte contro l'impugnatura della spada. Il
sudore le colava sulla schiena in gocce grosse e calde.
Inspirò finché non le parve di aver incamerato
abbastanza ossigeno e aprì gli occhi. Il mostro la fissava
dal basso, con il sangue, il muco e la saliva che gli colavano sulla
faccia grottesca. Guardandolo da vicino, Airis vide un'iride e una
pupilla azzurrine, così chiare da sparire nel fondo bianco
della sclera. Vide anche le orecchie, grandi come quelle di un uomo e
affusolate come quelle di un elfo.
“Un Fae.”
Sfilò la spada e se la rinfoderò.
Strappò gli abiti del mostro, o qualsiasi cosa fosse, e
prese gli stracci che avevano addosso gli altri cadaveri per legarli
assieme, in modo da fare una corda. Non sapeva quanto avrebbe retto.
Raccolse anche la sua tunica e accorse da Arghail. Era più
sudato di lei e respirava a fatica. Airis sperava che l'impiastro
avesse arrestato il veleno.
“In ogni caso, non ho le competenze per saperlo.”
Gli tirò su la testa, gliela deterse e poi gli diede un paio
di schiaffetti per svegliarlo. Il capitano schiuse le palpebre e la
fissò senza vederla davvero, lo sguardo febbricitante e
allucinato.
- Apri la bocca. - gli ordinò.
Non si aspettava che avrebbe recepito subito, invece Arghail
obbedì. Quando Airis gli strizzò l'acqua sulle
labbra, mugolò e strinse la tunica bagnata a sua volta,
attaccandosi come un bambino al seno della madre.
- Ora ti lego e ti porto sulle spalle. - mentre lo diceva, fece passare
la corda attorno alle gambe e al bacino, - Cerca di non muoverti
troppo, sei malato e il veleno ti ha debilitato molto. -
- … lasciami. - tossì e ripeté, -
Lasciami qui... -
- Scordatelo. -
- Se non lo fai, moriremo entrambi. -
- Non morirà nessuno. - rispose convinta.
Gli assicurò anche la braccia e se lo issò sulle
spalle: era più leggero di quello che si aspettasse.
- Riesci a tirare su le gambe? -
I muscoli ebbero uno spasmo, ma le gambe rimasero lì, inermi
a penzoloni. Un gemito proruppe dalle labbra di Arghail.
- Non... non ci riesco. -
- Va bene, va bene. - gliele prese lei e strinse la presa sui polpacci,
- Ti tengo io. -
- Sono un peso, lasciami. -
- Stai zitto, sei fastidioso. - ringhiò e si
incamminò.
Passi svelti, falcate ampie. Se avesse potuto, avrebbe corso fino al
fiume per lasciarsi alle spalle quella tana di... gli dei soli sapevano
cosa. Il battito del cuore sovrastava su qualunque altro suono, le
riempiva le orecchie in modo inversamente proporzionale al poco
ossigeno nell'aria.
Giunse al fiume in circa un'ora e cominciò a seguirne il
corso. Sperava con tutta se stessa che i nemici fossero finiti, non
aveva la forza di combatterne altri, e con Arghail ridotto in quello
stato sarebbe stata sola. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe dovuto
abbandonarlo, ma così facendo avrebbe fallito in parte la
sua missione di Guardiana.
Sospirò e si tenne alla parete per non scivolare. No, non
l'avrebbe abbandonato: Arghail sarebbe diventato il nuovo re, anche se
per farlo sedere sul trono avrebbe dovuto abbracciare la morte.
Era una giornata uggiosa e tirava un piacevole venticello. Fareun
osservava il suo gregge pascolare, uno stelo d'erba in bocca e il mento
appoggiato al bastone. Era piacevole, molto più che a valle,
dove una primavera inattesa aveva già fatto sbocciare i
crochi e le genzianelle primaticcie. Lì, al sud, l'inverno
non era mai durato molto, ma quell'anno era fuggito via fin troppo in
fretta, come un cervo spaventato da un cane da caccia. Un evento
inusuale, aveva pensato, ma poi aveva accantonato la questione quando
aveva condotto le pecore sul sentiero, fino a quel prato.
“Stavolta la fortuna ci assiste.”
L'abbaiare di Cucciolo richiamò la sua attenzione. Non fece
in tempo ad alzarsi che il cane era già scattato su per il
sentiero ed era sparito oltre la prima curva.
- Maledetto. - grugnì innervosito, - Mai vista una bestia
così ribelle. Mio padre non ti ha bastonato a dovere quando
eri piccolo! -
E dire che era stato proprio lui a insistere per comprarlo. Gli aveva
fatto una gran pena quando lo aveva visto in quella gabbia sudicia,
attaccato alle sbarre e atterrito da qualsiasi mano tentasse anche solo
di accarezzarlo. A distanza di quasi dieci anni, non si era pentito di
averlo preso, ma non poteva non imprecare quando, al posto di
sorvegliare il gregge, si allontanava per inseguire l'odore di una
femmina o di una possibile preda. Comunque, a parte prendersela con lo
spirito del padre per non averlo picchiato abbastanza, non aveva mai
alzato il bastone contro il suo cane.
- Stavolta però mi sente. - borbottò, poi
inspirò ed esclamò, - Mi hai sentito, bestiaccia?
Stavolta vedrai se non ti faccio uggiolare. Altro che bastone! Starai a
digiuno finché non impari un po' di disciplina! -
Cucciolo gli rispose con un latrato. Fareun accelerò il
passo, svoltò la curva e il bastone gli cadde di mano.
- Per tutti gli dei... -
Il cane stava leccando la mano a un uomo con la barba folta e il viso
sudato, pallido come un morto. Sotto di lui, giaceva una donna con i
capelli rossi come le fiamme.
Angolo
Autrice:
Hello
folks!
Dunque, mi paleso a voi per darvi due buone notizie. La prima
è che alla fine di questo secondo libro mancano "solo" dieci
capitoli. SE i miei calcoli sono corretti, Fuoco nelle Tenebre, la
Rinascita della Fiamma si dovrebbe chiudere col 30esimo capitolo. In
secondo luogo... siamo quasi a 100 recensioni ** Grazie davvero per
essere sempre partecipi e di farmi sapere sempre la vostra opinione.
Svusate se non ho ancora risposto alle recensioni, ma sono stanchissima
e l'università mi sfianca. Comunque, per celebrare le 100
recensioni, ci sarà un nuovo giveaway. Cosa cambia dalla
volta scorsa? Dunque, accetterò sia persone che si
prenoteranno qui su EFP (magari nella risposta alle recensioni vi
associo anche un numero) sia su FB. L'unica cosa che vi chiedo
è magari ti controllare sul post che farò sulla
pagina se il vostro nome c'è e non mi sono dimenticata
nessuno. Cosa si vincerà? Ecco, stavolta, il vincitore
sceglierà un personaggio (del primo o del secondo Fuoco) e
io scriverò una os su un episodio del suo passato. Vi piace
l'idea? Spero di sì, è una cosa che mi elettrizza
troppo XD Then, tenete sott'occhio la pagina e il contatore delle
recensioni. Allo scadere delle 100... prenotatevi! Il link della pagina
è
QUI
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Quando emersero dal
portale, l'odore acre di fumo si espanse nei suoi polmoni come un
olezzo mefitico. Zefiro aveva ancora le braccia protese e, per una
frazione di secondo, rimasero così, finché i
tremori gli risucchiarono tutte le forze. In lontananza, al cospetto di
un cielo plumbeo e ammantato di cenere e fumi neri, Alabastria
bruciava. Anche se Myria si rifiutava di guardare la città,
il frammento che aveva scorto quando era uscita dal portale si era
piantato nel petto come un punteruolo arroventato.
- Andiamo, non possiamo perdere altro tempo. - li esortò
Nyi.
Depose Melwen al suolo e infilò nella tasca della tunica il
libro che la bambina stringeva tra le braccia. Aveva la fronte
imperlata di sudore e gli aloni umidi si allargavano sotto le ascelle e
intorno al collo. Si sforzò di tenere le spalle dritte, ma
persino l'aria sembrava un peso insopportabile in quel momento.
- La porto io. - disse Myria risoluta e poi si rivolse a Zefiro, -
Amore, ce la fai a camminare? -
Suo figlio non le rispose. Anche quando lo lasciò a terra
per prendere in braccio Melwen, Zefiro continuò a fissare le
fiamme che lambivano la città, così alte da
valicare le mura. Si innalzavano sprezzanti, come se volessero
carbonizzare anche il sole stesso, un sudario di cenere e polvere che
soffocava e anneriva il cielo.
- Ho lasciato degli amici in quell'inferno per salvare voi. Muovetevi.
- ringhiò Nyi.
Myria avvertì le mani formicolare, ma prima ancor prima
della rabbia, fu il senso di colpa a pervaderla, si
impossessò di lei, la imprigionò in un angolo e
la mise ai ceppi. Come in croce, legata e messa al rogo dal disprezzo
verso se stessa, si sentì improvvisamente svuotata. Era
sopravvissuta ad Alan, ad Airis e ora a Baldur: un altro legame reciso,
l'ennesima tomba in un cimitero sconfinato.
Si incamminarono più in fretta che poterono, combattendo
contro una stanchezza velenosa. La pianura che circondava Alabastria
era un oceano che, dalla casa di Nordri, pareva espandersi per miglia,
una distesa di un verde infinito e uniforme, dipinta da una lunga e
densa pennellata di colore che, solo di tanto in tanto, punteggiava il
muschio cresciuto sulle pietre, scogli bianchi su cui si abbattevano
gli steli d'erba. Alabastria emergeva simile a un faraglione, dominava
quella radura circondata dalle colline come una regina, così
bella da togliere il fiato, drappeggiata dalle sue mura e dallo
stendardo che garriva al vento. La prima volta che l'aveva
attraversata, Myria era una profuga, fuggita assieme ai bambini e a
Baldur da una città sventrata da un drago e dilaniata da un
male che non si sapeva spiegare. Ricordava che Raiza li aveva scortati
finché la prudenza l'aveva frenato. Era stato un addio, il
loro, che si era consumato in uno scambio di sguardi e poche, concise
parole. Poi il Lycos era corso via, finché non era diventato
un pallino bianco disperso nel verde.
Myria sorrise, tirò su la bambina e allungò il
passo per non farsi lasciare indietro da Nyi. Aveva davvero sperato che
quella sarebbe stata la sua ultima fuga, il termine di una corsa lunga
e faticosa, di cui lei era stata l'unica a tagliare il traguardo.
“Morire è la vittoria dei deboli”,
diceva spesso sua madre mentre lavava i panni di suo padre, quelli
macchiati di sangue. Non poteva andarsene, Amount-vinya era l'unico
posto che conosceva. La sua famiglia aveva le sue radici lì
e non avrebbe tollerato che un loro frutto cadesse lontano dall'albero.
Così era rimasta, con quel marito che la sera, quando
tornava e non trovava la casa in ordine o la cena abbastanza calda, la
picchiava finché il suo viso non era una mappa di lividi.
Mormorava quella frase a Myria con un sorriso che non aveva la forza di
scaldare nemmeno una candela.
Sua madre aveva corteggiato il sollievo della morte per anni,
finché questa non era venuta a prenderla subito dopo la
dipartita del marito, pochi giorni dopo che Alan aveva chiesto la mano
di Myria. L'avevano sepolta col suo abito più bello, con il
bouquet che le incorniciava il viso ceruleo. Per Myria era stata una
sconfitta, un dolore che aveva offuscato il giorno del suo matrimonio,
quando aveva percorso la piccola navata del tempio da sola fino
all'altare. Per sua madre, invece, morire era stata l'unica strada
percorribile: si era sottomessa a una vita che pretendeva la sua
presenza, e il sollievo per aver tagliato il traguardo dopo vent'anni
di danza con la morte era visibile nella serenità del suo
eterno sonno.
Forse, pensò Myria mentre camminava, c'era un fondo di
verità in quello che sua madre aveva detto. Era anche
l'unica spiegazione che la sua mente lacerata era disposta ad accettare
dopo tutte quelle perdite.
Non si fermarono finché il vento non disperse i fumi degli
incendi e le urla non divennero altro che un sibilo che si confondeva
tra lo stormire degli alberi. Quella notte, ad accoglierli e a fornire
loro riparo fu un boschetto di noccioli, sul lato destro di una
collina, una delle tante che incurvavano il terreno attorno ad
Alabastria. I bambini erano sfiniti, soprattutto Melwen, che nonostante
avesse camminato meno degli altri portava sul viso i segni della stessa
fatica di Nyi.
- Niente fuoco, sarebbe un rischio. Non ci sono grossi predatori su
queste colline, ma dovremo comunque fare dei turni di guardia. -
decretò il mago.
- E per il cibo? Come faremo? - chiese Myria.
- Tu sai cacciare, donna? - domandò, fissandola dritta negli
occhi, e davanti al suo silenzio si limitò a prendere altre
foglie e a lisciarle sul terreno, prima di tagliuzzarle con il pugnale
che portava alla cintura, - Dovremo sopravvivere con bacche e radici,
mi sa. Se e quando riuscirò a riprendere abbastanza forze,
potrò provare a catturare un pesce con la magia, ma fino ad
allora ci accontenteremo. -
Myria annuì. Il terreno era coperto da un fitto tappeto di
foglie e di grossi pezzi profumati di corteccia. Prese quelli
più sani, li radunò e ne fece un giaciglio per
sé e i bambini in modo da isolare i loro corpi dalla terra
fredda. Zefiro si era seduto vicino a Melwen e teneva la spada di legno
sulle ginocchia. Le stringeva la mano sulla spalla e le strofinava le
braccia quando la sentiva rabbrividire o quando la bambina apriva le
palpebre in un sussulto: continuava a entrare e uscire dal sonno,
svegliandosi solo per qualche momento, prima di riaddormentarsi. La
ghirlanda di calendule le era caduta durante le fuga e i riccioli erano
tutti aggrovigliati, con alcune punte rese appiccicose dal sangue
raggrumato.
Myria andò loro vicino e li circondò col suo
scialle, quello che si era premurata di prendere da casa di Nordri
prima di uscire. Skjaldi le aveva detto di portarsi dietro lo scialle
di lana più leggera, poiché durante il pomeriggio
non avrebbe fatto così freddo, ma Myria non le aveva dato
ascolto. La stoffa profumava ancora, nonostante fosse sporca e bruciata
alle estremità.
- Amore? -
Zefiro alzò la testa dal petto e incrociò il suo
sguardo. Era pallido e il sangue rappreso attorno alla bocca gli aveva
impiastricciato la tunica, già lorda di quello che aveva
perso dalla ferita alla testa. Guardando suo figlio, Myria non sapeva
cosa pensare: aveva azzannato Fenrir e aveva distrutto lo spallaccio
della sua armatura come se fosse stato non più duro del
vetro. Tutto ciò che rimaneva della belva che si era
scagliata contro il Drow ora era svanito, rimpiazzato da uno sguardo
vacuo e un viso gonfio, rigato dalle lacrime.
- Dimmi, mamma. -
- Come ti senti? -
Zefiro sospirò e chiuse gli occhi. Quando si avvide che
Myria si era accorta delle loro mani intrecciate, lasciò
quella di Melwen e la serrò di nuovo sull'impugnatura della
spada.
- Non lo so. Non... non lo voglio pensare. L'unica cosa che desidero
è dormire. -
- Devi mangiare qualcosa. Andremo io e Nyi a cercare il cibo. -
- Non so se ci riesco. -
- Puoi fare un piccolo sforzo per me? -
Si sedette al suo fianco e gli spostò i capelli per
controllare la ferita alla testa. Skjaldi l'aveva medicato come meglio
poteva e, per sua fortuna, non aveva ripreso a sanguinare.
Tastò con cautela la cute arrossata intorno al taglio e poi
abbandonò le braccia sulle gambe stese. Si umettò
le labbra e richiamò tutte le energie residue per prendere
le mani di Zefiro e portarle alle labbra. Avrebbe tanto voluto
abbracciarlo, cullarlo contro il suo petto e dirgli che sarebbe andato
tutto bene, ma la verità era che non c'erano certezze.
Alcarin era a sei giorni di cammino e loro erano appiedati, senza cibo
e alla mercé del tempo. Fenrir si era lasciato sfuggire
Melwen. Myria sapeva che chiunque lo avesse incaricato di ucciderla li
avrebbe cercati, deciso a stanarli ovunque si sarebbero nascosti. E
lei, come madre, non poteva fare nulla per proteggere nessuno.
Quell'impotenza le scioglieva le viscere e la metteva davanti ai suoi
limiti, era un altro chiodo arrugginito nel suo cuore infetto.
Zefiro abbozzò un sorriso, così debole da
risultare quasi spettrale sul viso stanco.
- Ora che ci penso, ho un po' di fame. - accondiscese.
- Vado a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. - gli sorrise, si
rimise in piedi e si voltò.
Nyi si sfregava le mani appoggiato a un albero, mormorando parole
indefinite a fior di labbra, in una lingua che Myria non riusciva a
comprendere. Non appena si accorse d'essere osservato, nascose le dita
nelle maniche della tunica lisa e le fece cenno di seguirlo.
- Non serve che mi accompagni. Posso procacciare la cena per tutti e
quattro. - gli disse quando lo raggiunse.
Nonostante fosse più basso di lei, il mago camminava a passo
sicuro e spedito, tanto che Myria faticava a stargli dietro.
- Preferisco scegliere da me la mia cena. -
La donna si arrese, nessuno dei due era in vena di chiacchiere, e le
parole non avrebbero fatto altro che appesantire quel silenzio
rumoroso.
Trovarono delle bacche di bosco nascoste dietro un cespuglio di rovi e
una pianta di ribes neri ancora carica di frutti. Nyi scovò
anche delle radici, che più che far venire l'appetito,
chiudevano lo stomaco per quanto puzzavano. Raccolse in una piccola
borraccia anche l'acqua da un torrente poco lontano da loro. Il suo
letto, piccolo e stretto, serpeggiava tra le rocce tranquillo,
scorrendo con calma piatta sotto le ombre delle fronde dei noccioli.
Era desolante quell'immobilità, così indifferente
e immutabile dinanzi alla tragedia che si era appena consumata.
Sembrava beffarsi del loro dolore, scrosciando via come l'acqua del
ruscello o le foglie che veleggiavano sulla sua superficie.
Mangiarono in silenzio, mentre Melwen dormiva con la testa sulle sue
gambe. Le bacche e le radici che avanzarono, decisero di conservarle
per quando la bambina si sarebbe svegliata. O meglio, Nyi decise che
avrebbero fatto così.
- È lei che dobbiamo proteggere. Se Melwen non arriva alla
capitale, tutto sarà perduto. -
Non era necessario aggiungere altro, il messaggio sottinteso era
chiaro. Myria dovette inghiottire l'acido che le irritava la lingua,
tentata di lasciarsi andare allo sfogo e urlare in faccia al mago che
Melwen era solo una bambina, non avrebbe dovuto portare un simile
fardello. Ma Nyi, sdraiato sul giaciglio, si era già girato
dall'altra parte, e quando schioccò le dita il venticello
che piegava gli steli d'erba diminuì fino a placarsi.
- Mamma, vuoi che cominci io il turno di guardia? -
- No... no, tu dormi. Rimango sveglia io. -
- Ne sei sicura? -
Myria annuì e il suo sguardo si posò sui capelli
di suo figlio. Erano castani, come quelli di suo padre, e conservavano
ancora alcuni ciuffi biondi dall'estate precedente, l'effetto delle
lunghe giornate passate a bighellonare tra le strade di Amount-vynia
sotto il sole di mezzodì.
- Quando tocca a te, ti sveglio. Va bene? -
Gli sfiorò il viso in una carezza e il bambino
catturò la sua mano tra la guancia e il collo. Gli era
rimasta qualche macchia di sangue che lei cancellò solo
quando Zefiro raddrizzò la testa.
- Quello che è successo a casa di Nordri... -
Myria gli poggiò il dito sulle labbra.
- Non è importante,. Siamo vivi e questa è
l'unica cosa che conta per stanotte. Domani proveremo a cercare delle
rispose. Inoltre... - gli fece un cenno col capo in direzione di
Melwen, - c'è qualcun altro che ha bisogno delle tue
attenzioni. -
Zefiro sistemò lo scialle sulle spalle dell'amica. Era tutta
raggomitolata vicino a lui, con le ginocchia tirate al petto, nascoste
sotto l'ampia gonna.
- Sì, hai ragione. -
- Lo so che ho ragione. Sono tua madre, so sempre cosa è
meglio per te. Ora stenditi, vi rimbocco le coperte. -
Prese lo scialle e lo scosse per ripulirlo da foglie e rametti, prima
di stenderlo di nuovo su entrambi i bambini, infilando i lembi sotto i
piedi e sotto la schiena in modo da non far fuggire il caldo. Zefiro
abbracciò forte Melwen e sprofondò il naso nei
suoi capelli, incurante dei riccioli che gli pizzicavano il naso.
- Mamma. -
- Sì, amore? -
- Ti voglio bene. -
Myria si sedette sul suo giaciglio poco più in là
e accarezzò con gli occhi il profilo di Zefiro nel buio.
- Anche io te ne voglio. - soffiò.
Attese finché non udì il suo respiro farsi
profondo. Quando rimase sola, si allontanò quel tanto che
bastava perché le sue lacrime non lo svegliassero. Vivido e
bruciante, il dolore la sommerse, lasciandola a terra, senza fiato. Non
sapeva per chi stesse piangendo, non sapeva nemmeno più a
chi rivolgere le sue preghiere e chiedere spiegazioni.
Perché non potevano vivere in pace? Perché ogni
casa che apriva loro le porte finiva sempre distrutta?
- Uborh, abbi pietà. Trasporta le loro anime nel Val'ha,
anche se non hanno moneta per pagare il pedaggio. - giunse le mani al
petto e vi poggiò la fronte, - Traghettatore delle anime,
invoco la tua benedizione sui loro spiriti inquieti, che tu possa
condurli nel grembo caldo delle Terre dell'Eterna Primavera. -
Si morse le labbra e rinserrò la stretta delle dita. Si
costrinse a non pensare a Nordri, a Skjaldi, a tutta la
servitù che li aveva accolti, accuditi, protetti, che era
stata capace con pochi gesti di farli sentire di nuovo parte di una
casa che non contava solo un tetto e quattro pareti. Quindi
tornò al suo giaciglio e si appoggiò con la
schiena all'albero, lo sguardo puntato davanti a sé.
Cercò di non pensarci, di tenerlo lontano, ma il viso di
Baldur, la sua espressione di trionfo prima che svanissero al di
là del portale, seguitava imperterrita a riemergere dalle
pieghe della mente, accompagnata dagli stralci dei tanti momenti
passati insieme. Tra tutte le croci che, prima o poi, avrebbe dovuto
piantare, sarebbe stata quella la più sofferente.
Perché Baldur era rimasto anche quando avrebbe potuto
andarsene e riprendere la sua attività di mercenario. Niente
lo legava lì, nessun patto, nessun contratto. Non c'era
stata nemmeno una ricompensa da riscuotere quando erano giunti ad
Alabastria. Eppure, Baldur era rimasto. Per Melwen, per Zefiro, per
lei. Aveva combattuto per loro all'accampamento, li aveva salvati,
sebbene non avesse alcun motivo per farlo. E, alla fine, era morto per
loro.
Si diede il cambio con Nyi altre due volte quella sera. Lui non chiese
niente dei suoi occhi rossi e Myria non indagò sui suoi
strani comportamenti. Lo aveva scorto sbattere i pugni a terra, con un
impeto rabbioso che si era esaurito dopo diversi colpi che gli avevano
scorticato le nocche.
Si destarono che il sole già indorava le colline. Melwen
aveva due profonde occhiaie e faticava a tenere dritta la testa. Se ne
stava con la testa appoggiata alla spalla di Zefiro e sbocconcellava le
bacche avanzate dal giorno precedente con alcune foglie di efedra.
- Dovresti sentirti meglio tra un po'. - le disse Nyi masticando una
radice, gli occhi fissi sulla bambina, - Mangia tutto, non ci fermeremo
molto oggi. -
Myria si accontentò dei ribes e annuì
distrattamente a una domanda del Dominatore che non aveva davvero
ascoltato, contemplando assorta il bosco. Era un'impresa tenere le
palpebre aperte, e un fastidioso mal di testa pulsava alla base del
cranio, azzannando il viso e le tempie. Avrebbe avuto bisogno di un
tè d'efedra, con un frammento di corteccia e una spolverata
d'ortica, ma preferiva tenersi quel dolore piuttosto che chiederne una
dose a Nyi.
Zefiro le si sedette accanto e le posò una mano sulla
spalla. Myria la strinse e d'istinto lo trasse a sé.
- Perché non mi hai svegliato? -
- Avevi bisogno di dormire. -
- Anche tu. -
Myria scosse la testa e trasse un profondo respiro, nella speranza di
trovare le parole per spiegargli che quello era l'unico modo per
proteggerlo, per permettergli di conservare la forze se Fenrir li
avesse raggiunti.
“Se arriverà, non potrò fermarlo. Non
sono abbastana forte. Ma prima di fargli del male dovrà
passare sul mio cadavere, questo è certo.”
Fremette quando suo figlio l'abbracciò, e si
sentì quasi mancare il fiato nel momento in cui la strinse
come se fosse lei la bambina da difendere.
- Stanotte il primo turno è mio. - sancì Zefiro
con una sicurezza responsabile.
Quando era cresciuto così in fretta? Dov'era il bambino
sorridente e impacciato che girovagava per le strade di Amount-vinya?
Zefiro si discostò appena e la guardò sorridendo.
- Mamma, puoi fare affidamento su di me. Non ti devi più
preoccupare. - fece una pausa e soffocò una risata tra i
denti, - O meglio, puoi farlo, ma meno del solito. -
Myria assentì e si appoggiò al suo braccio per
alzarsi. Poteva percepire il muscolo teso sotto il palmo. Tutto in lui
sembrava protendersi verso una forma definitiva e nei tratti del viso e
del corpo cominciavano a palesarsi le linee dritte e spigolose di un
uomo. Ora il suo sguardo irradiava la fermezza di un sopravvissuto alla
tragedia e di un guerriero pronto alla battaglia: stava diventando
adulto sotto i suoi occhi e lei non aveva che scorto un seme che, in
realtà, era già germogliato.
Nei giorni successivi, viaggiarono per le colline e pian piano le
foreste aperte che ne punteggiavano i clivi cedettero il passo ad ampie
praterie che ospitavano piccoli agglomerati urbani, paesi e sparse
fattorie. Su ordine di Nyi, si mantennero sempre lontani dalle strade
principali. Seguirono da lontano il Tabor e, giunti in
prossimità delle case, le oltrepassarono con un ampio giro.
Più d'una volta Myria propose di fermarsi, almeno per la
notte, a dormire sotto qualche tetto, ma bastava un'occhiata o una
parola del mago per mandare all'aria i suoi piani. Ogni sua
recriminazione venne messa a tacere quando prese coscienza del suo
aspetto. In quei giorni, la sua mente anestetizzata dal sonno e dalla
stanchezza aveva vagato tra i ricordi, senza mai soffermarsi davvero
sulla realtà che la circondava. I campi, i frutteti, persino
i cani da guardia, gli animali che più amava al mondo, non
erano stati sufficienti a distogliere la sua attenzione dai pensieri
cupi che l'accompagnavano in ogni dove. Fu una doccia fredda quando le
acque del fiume le rimandarono l'immagine di una donna sporca, con i
capelli scompigliati e unti e i vestiti come congelati nella presa del
sangue secco. Anche suo figlio e Melwen erano nelle stesse condizioni
pietose, con la sola differenza che su di loro i segni della fatica e
delle notti passate erano ancora più evidenti. Gli ematomi
erano divenuti delle macchie violacee sul viso e sul petto di Zefiro.
Myria gli aveva tastato le costole per assicurarsi che non si fossero
rotte, ma non avendo nessuna competenza ne aveva ricavato solo
ulteriore angoscia. Suo figlio, tuttavia, avanzava imperterrito, anche
quando era chiaro che era allo stremo delle forze e aveva bisogno di
riposare. Spesso era Myria a pretendere che si fermassero per qualche
minuto. C'era coraggio in quella sfiancante determinazione. I lividi,
le escoriazioni, il respiro ansante, così rauco da
trasformarsi in un rantolo, e i suoi calzoni deformati all'altezza
delle ginocchia non bastavano per intaccarla. Tuttavia, la donna non
poté fare a meno di notare che Zefiro teneva sempre la mano
sulla spada di legno e sobbalzava a ogni rumore, facendo saettare lo
sguardo a destra e a sinistra, come una lepre braccata da un branco di
lupi.
Dopo che si era svegliata, Melwen aveva chiesto dov'era il libro e, una
volta che si era accertata che fosse al sicuro, si era trincerata
dietro un muro di silenzio. Aveva gli occhi perennemente arrossati,
Myria non sapeva se per colpa dell'efedra o dei lunghi pianti che
turbavano il suo sonno. Con la gonna sgualcita e la cintura strappata,
sembrava un fiore appassito sul punto di sbriciolarsi.
No, non potevano avvicinarsi a nessun villaggio in quello stato: anche
con le monetine di rame che Nyi aveva con sé, nessun oste
avrebbe offerto loro una stanza. Myria invidiava la tempra di
quell'uomo e, in segreto, si domandava come facesse a camminare scalzo
su qualsiasi terreno. Gran parte del merito doveva andare alla peluria
che gli ricopriva i piedi, ciuffi biondi che, come un mantello di
grano, gli scaldavano il dorso e le dita, ma lei dubitava fosse solo
quello. La notte non soffiava mai vento e durante il giorno le nuvole
parevano sfilacciarsi al loro passaggio, salvo poi ricompattarsi in
coltri bianche e lattiginose alle loro spalle. Era chiaro che Nyi
stesse esercitando il suo potere sul tempo e Myria non escludeva che,
oltre alla protezione della tunica e del mantello, manipolasse gli
elementi per soffrire meno il freddo, ma, come molte altre cose, non le
era dato sapere nulla, se non ciò che il Dominatore reputava
necessario farle sapere. Lo avrebbe detestato e le sarebbe anche
piaciuto ritrovare la forza nella rabbia che l'odio portava con
sé. Sarebbe stato l'alcol che avrebbe rinvigorito la fiamma
fiaccata del suo essere e le avrebbe dispensato l'energia necessaria
per procedere senza mai voltarsi indietro, anche quando il corpo
minacciava di cedere alla stanchezza e la febbre dell'anima le
inceneriva ogni volontà di sopravvivenza. Ma le rispostacce,
le occhiate di sussiego e il malcelato rancore nei loro confronti era
una legna umida e giovane, che si infiammava poco, affumicando la gola
con un odore di bruciato che si scioglieva nella saliva. Erano uniti
per il filo spinato del lutto, ne condividevano il senso di vuoto, la
solitudine e il rimorso che stritolava il cuore. Non c'era riposo nei
sogni, per entrambi, solo la nostalgia di tempi e di luoghi che
sarebbero sopravvissuti fino a scolorire, assieme alle persone con le
quali figuravano nei quadri della loro memoria. Si erano lasciati tutto
alle spalle, lei e Nyi, e anche se avessero voluto trattenerli, il
tempo, l'incedere incessante dei giorni, delle settimane, dei mesi,
degli anni, avrebbero eroso tutto finché, di quei ricordi
preziosi, non ne sarebbe rimasto altro che il vago sentore. Mentre lei
aveva Zefiro su cui concentrare i suoi pensieri, Nyi non aveva altro se
non la rabbia. Due stampelle diverse per due persone ferite che
percorrevano la stessa strada.
- Cosa è esattamente tuo figlio? - le domandò la
sera del terzo giorno.
Myria aveva appena finito il turno di guardia ed era andata a
svegliarlo per il cambio. Non aveva fatto in tempo a scuoterlo che lui
si era girato verso di lei. Nel buio, i suoi occhi chiari parevano
accesi da un fuoco bianco.
- Co... come? -
- Ti ho chiesto cosa è tuo figlio. È saltato
addosso a quel Drow e ne ha distrutto lo spallaccio con la forza di una
mano. - si mise a sedere e un sorriso sardonico gli arcuò le
labbra, - Dunque, mia cara e bella Myria, a chi hai aperto le gambe
mentre tuo marito era via? -
La donna non ci vide più e lo schiaffeggiò
così forte da fargli scattare la testa di lato.
- Non ti azzardare mai più. Puoi odiarmi, se vuoi, ma non
osare metter bocca tra me e mio marito. Tu non sai niente né
di me né di lui. - sibilò minacciosa.
- Proprio perché non so, domando. - Nyi si
massaggiò la guancia offesa, spingendo la lingua contro
l'interno della guancia e sul labbro superiore, - Non è
umano, è inutile chiudere gli occhi davanti all'evidenza.
Conoscendo la scarsa capacità di voi donne umane di
mantenere giuramenti e promesse, non me ne sarei stupito. -
Myria si allungò per colpirlo ancora, ma il Dominatore
balzò indietro. Il suo ghigno era ancora lì,
tagliente, sprezzante, le faceva prudere le mani.
- Non ho intenzione di continuare questa conversazione. -
sibilò Myria.
- Sai che potrei darti una risposta. -
- Non sei il solo Dominatore in tutta Esperya. -
- No, ma sono l'unico che conosci e che ha visto con i propri occhi
quello che Zefiro ha fatto. -
Myria si distese sul suo giaciglio e si avvolse come poté
nella gonna. La magia teneva lontano il freddo che il vento portava con
sé, ma non bastava a riscaldare l'aria che li circondava.
- Dunque non vuoi sapere nemmeno sapere la mia teoria? -
- Voglio solo dormire. -
Ne seguì un lungo silenzio, incrinato dal bubbolare di un
gufo in lontananza.
- Un giorno lo vorrai sapere. Tuo figlio presto pretenderà
delle risposte. -
La donna gli diede le spalle, non voleva né ascoltare
né discutere. C'era ancora tempo.
Nyi si arrese con un sospiro: - Come vuoi. Ma il giorno in cui lo
capirà, perché non illuderti, Zefiro non
è stupido, dovrai dargli una spiegazione. E quando
accadrà, non vorrei essere nei tuoi panni. -
Myria attese che l'altro si allontanasse per trarre un respiro di
sollievo. Il sonno la reclamò tardi e nelle nebbie confuse
dei sogni non trovò nient'altro che angoscia. Profonda,
radicata e malevola angoscia.
La mattina del quarto giorno seguirono il fiume Tabor verso sud-ovest,
dirigendosi verso l'entroterra. La sera si fermarono a riposare in un
boschetto di castagni. Si erano lasciati alle spalle un borgo di
piccole dimensioni e avevano proseguito finché il sole non
era calato e non erano rimaste che le stelle a guidare i loro passi.
Era pericoloso proseguire di notte, ma nessuno aveva il coraggio di
disobbedire agli ordini di Nyi.
Myria stava ben attenta a non mettere i piedi in fallo, mentre con la
coda dell'occhio non perdeva di vista i bambini. Melwen aveva
riacquisito un po' di colorito e, dopo aver strappato una parte della
gonna, riusciva a muoversi con maggiore libertà. Zefiro
procedeva al suo fianco, la mano sempre tesa, pronta ad afferrarla a
ogni evenienza. Di tanto in tanto il figlio la cercava con gli occhi e
ogni volta era un ago nel petto, un piccolo dolore che minacciava di
mandarla in pezzi. Si sentiva sola, imprigionata dalla gabbia di quel
gran segreto che, negli anni, aveva cacciato in un angolo della sua
coscienza, sperando di trovare un giorno il coraggio di affrontarlo. Ma
il tempo era passato e lei aveva sempre rifuggito tutte le occasioni
per rivelarlo.
- Qui va bene. - Nyi indicò uno spiazzo erboso, - Melwen,
Zefiro, voi rimanete qui con Myria, io intanto vado a cercare qualcosa
da mangiare. -
Il bambino annuì e, non appena il Dominatore si fu
allontanato, si tirò su le maniche e si avvicinò
al fiume per lavarsi. La temperatura si era alzata e, a parte un vento
vespertino più umido che freddo, si stava molto meglio delle
altre sere.
Myria si sedette vicino a Melwen e mangiò le bacche avanzate
dalla sera precedente. Seppure fossero ancora abbastanza fresche, il
sapore di gesso dell'acqua predominava sulla fragranza succosa della
polpa.
- Ne vuoi un po'? - le chiese, ma la bambina scosse la testa in segno
di diniego.
Un altro effetto collaterale dell'efedra era la mancanza di appetito.
Melwen faceva fatica a mangiare, si doveva sforzare per inghiottire
ogni boccone. Vederla così sciupata era un pugno nello
stomaco.
- Ne sei sicura? -
Melwen rifiutò ancora e raccolse le gambe al petto. I suoi
occhi si spostarono seguendo i movimenti di Zefiro, lo tenevano sotto
tiro senza perderlo di vista. Sembrava diventato il centro del suo
mondo.
Myria frugò nella sua mente in cerca di qualcosa da dire per
non far morire la conversazione, ma ben presto si rese conto di aver
esaurito le parole. Sentiva la testa pesante, le comprimeva il cranio
come un elmo di ferro incandescente, scacciando i pensieri e
immobilizzandola. Gli occhi si abbassarono contro la sua
volontà. Provò a riaprirli, ma le palpebre
rimasero sigillate.
“Solo qualche minuto...”
Il rumore delle foglie calpestate non la allarmò subito. Lo
attribuì a Nyi che stava tornando e non ci diede peso. Lo
scricchiolare, però, non cessò e soltanto quando
fu abbastanza vicino la mente di Myria processò che dei
passi così pesanti non potevano appartenere al Dominatore.
Scattò in piedi come una molla, afferrò un ramo
sommerso dalle foglie e tirò Melwen a sé. Zefiro
la raggiunse d'un balzo, con ancora le maniche rimboccate fino ai
gomiti e il viso bagnato. Aveva messo mano alla spada di legno, ma poi
si era chinato e aveva preso un sasso da terra.
- Statemi vicino. - mormorò Myria.
Rinserrò la presa, stringendo il ramo con entrambe le mani,
e si tenne pronta, gli occhi fissi su un punto al di là
della boscaglia e i sensi protesi verso quel rumore sempre
più vicino. Il cuore le scivolò sotto i piedi
quando fece capolino il muso insanguinato di un lupo. Era grosso come
un cavallo, con il pelo bianco e le orecchie in avanti. Tra le fauci
teneva una lepre ancora calda.
- Raiza. -
Quel nome uscì in un sussurro e Myria ebbe l'impressione che
il lupo sorridesse. Melwen compì tre brevi passi e il Lycos
lasciò cadere la preda. Le permise di abbracciarlo e attese
che fosse lei a staccarsi, prima di sposare lo sguardo su Myria e
Zefiro. Nella semioscurità, i suoi occhi, uno dorato e uno
azzurro, sembravano due gemme preziose.
- È stata dura raggiungervi. -
- Come... come hai fatto a trovarci? - balbettò Myria
sbalordita.
- Anche se il tempo non è stato dei migliori, non potrei mai
dimenticarmi il vostro odore. -
Nyi irruppe in mezzo a loro con le mani avvolte dalle fiamme puntate in
avanti. Il Lycos indietreggiò bruscamente con un basso
ringhio.
- Nyi, fermo, non è una minaccia! - esclamò
Melwen e si frappose tra i due con le braccia aperte.
- Non ricordavo che i Lycos fossero nostri alleati.- replicò
Nyi caustico.
- Lui ci ha aiutati quando siamo fuggiti da Luthien. Non ci
farà del male. -
- Sì, è vero, da lui non abbiamo niente da
temere. - aggiunse Zefiro.
Il Dominatore sostò lo sguardo tra i due bambini e poi lo
appuntò su Myria, come per chiederle se stessero mentendo.
O, semplicemente, perché non sapeva dove posarlo. Lei, in
risposta, lasciò cadere il ramo a terra e tornò a
sedersi. Sentì il peso dei suoi occhi addosso per un po',
finché non udì Zefiro tirare un sospiro di
sollievo e Raiza smise di ringhiare.
- Ho trovato delle carote e degli asparagi selvatici. -
borbottò Nyi e si sedette contro l'albero dove prima c'era
la donna.
Raiza lo fissò sospettoso, vicino a Melwen e Zefiro, le
zanne ancora scoperte. Si rilassò solo quando il Dominatore
rivolse tutte le sue attenzioni alle radici, cominciando a ripulirle
dalle radichette laterali.
- Quella è per voi, io ho già mangiato. - disse
il Lycos e indicò col muso la lepre.
- Non possiamo accendere il fuoco. Sarebbe come mettersi un bersaglio
in fronte e gridare “siamo qui, veniteci a
prendere”. - replicò Nyi, alzandosi per andare a
lavare le radici nel fiume.
- Non ho visto nessuno mentre mi avvicinavo. Anche ora, a parte la
vostra puzza, non sento altro. - annusò l'aria e scosse il
muso, strizzando le palpebre, - Siete gli unici qui. -
- Ho detto di no. Siamo a un giorno e mezzo di marcia da Alcarin, non
voglio rischiare. -
- Se andiamo avanti così, non credo ci arriveremo. -
sibilò Myria.
Nyi la fulminò con un'occhiata, ma lei non ci fece caso. Si
umettò le labbra e trasse un profondo, difficoltoso respiro.
- Sono quattro giorni che mangiamo bacche e radici. I bambini hanno
bisogno di qualcosa di più sostanzioso per proseguire e
anche tu non puoi andare avanti così. Siamo tutti allo
stremo delle forze, dubito potremmo difenderci se ci attaccassero. -
- Quel che dice è giusto, piedi pelosi. -
concordò Raiza, - Perlustrerò i dintorni, voi
mangiate. -
Senza attendere oltre, balzò oltre un cespuglio di bassi
rovi e svanì nel sottobosco.
Nyi scosse la testa e indirizzò tutto il suo sussiego su
Myria: - Spero tu sappia ciò che fai. -
Lei fece spallucce, un gesto di indifferenza che lo
innervosì, ma non gliene importava granché. C'era
troppo nella sua testa per provare a fingere che le interessasse.
- Preoccupati di accendere il fuoco. - rispose e si alzò.
Nemmeno si accorse di star pestando un coltello finché Nyi
non le fischiò per richiamare la sua attenzione.
- Usa quello, ci metterai di meno. - le disse e Myria lo raccolse.
Prese la lepre e si sedette su una pietra sporgente sul bordo del
fiume. Si accucciò su un masso e chiamò Zefiro.
- Tienila in alto con le zampe aperte. - gli ordinò e
cominciò a scuoiarla.
Tagliò il bordo della pelliccia con cautela su tutte e
quattro le zampe della lepre. Incise senza metterci troppa forza, quel
che bastava per mettere in mostra la carne sottostante. Poi
tagliò l'osso della coda, stando attenta a non rompere la
vescica.
- Adesso tirerò via la pelle. - lo avvisò e
posò il coltello.
Zefiro fissava l'animale con le labbra serrate. Deglutì e
strinse la presa sulle zampe, allargandole ancora di più.
Bastò una leggera pressione perché la pelle si
strappasse con un suono appiccicoso, come se mille fili si spezzassero
contemporaneamente, liberando i muscoli insanguinati fino alla base del
cranio. La bestia era piccola, la testa e le orecchie morbide come
lana.
- Ti serve ancora il mio aiuto, mamma? -
- No, per la pelle sulle zampe posso fare da sola. -
Gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento e lo seguì con gli
occhi mentre si andava a lavare le mani. Le strofinò con
forza, finché il freddo dell'acqua non le arrossò
così tanto da intorpidirle. Myria attese che si fosse
allontanato, prima di rompere le ossa delle zampe e sbarazzarsi della
pelle rimasta. Mentre si preoccupava di sviscerare l'animale, si
ricordò di quanto Alan amasse la lepre come lei la cucinava.
Così, quando chiudeva la sua bottega, Myria andava a
prendere la maggiorana, le foglie di menta e d'alloro e le cipolle e
poi tornava subito a casa per mettersi ai fornelli. E quando lui
passava a “farle visita”, così amava
dire, gli faceva trovare la coscia condita già nel piatto.
Si sedevano attorno al tavolo rotondo, quello che suo marito aveva
intagliato con le sue stesse mani, e mangiavano, lei, Zefiro e Alan. Il
focolare dorava la piccola stanza e i loro pochi averi, accompagnando
le risate, i discorsi e le battute. Il calore di una famiglia, il
sapore dei piatti fatti in casa. Sorrise e inghiottì il
groppo amaro assieme alle lacrime.
“Non era destino.”
Nyi aveva acceso un fuoco. Le sue mani danzavano sopra le fiamme e si
allontanavano quando queste tentavano di lambirle, per poi avvicinarsi
ancora, fino quasi a toccarle. Lo scoppiettare del legno era la musica
che accompagnava quelle lente carezze. Più che magia,
sembrava che Nyi stesse percorrendo le curve di una donna. Myria lo
osservò per un po', rapita dal modo con cui manipolava le
fiamme come se fosse un incantatore di serpenti. Poi prese un ramo, lo
tagliò a mo' di spiedo e mise la carne a cuocere, mentre si
occupava di sbucciare le carote. Le mangiarono così, un poco
più cotte, assieme a un pezzo di lepre a testa.
Non parlarono quella sera, però andarono a letto con la
pancia piena. Raiza montò la guardia con loro,
controllò i dintorni e li rassicurò, ancora una
volta, che non c'era nessuno nelle vicinanze. Insistette
perché lasciassero dormire i bambini.
- Anche tu, umana, ne avresti bisogno. - osservò.
- Lo so, ma non riesco a riposare. - bisbigliò Myria,
alzando gli occhi al cielo, - Perché sei venuto? -
- Ero a caccia nella foresta di Noumenasse e ho visto degli elfi neri.
Erano accampati lì, un esercito intero. C'erano anche i
morti, quelli che hanno distrutto Luthien. Ho visto uno di loro levarsi
dalla tomba. Allora ho capito che sarebbe successo ancora. -
appoggiò il muso sulle zampe anteriori e un'ombra
attraversò i suoi occhi, - Non potevo fare nulla contro di
loro. Erano troppi, mi avrebbero ucciso e sarei diventato come gli
altri morti, una marionetta al loro servizio. Ho sorvegliato la
città da lontano finché il vento non mi ha
portato un odore familiare. Era una scia debole e incostante,
è stato difficile seguirla, soprattutto perché il
vento stesso che me l'aveva portata continuava a cambiare. - Raiza
posò lo sguardo sul Dominatore che, a quell'ora, riposava,
tutto infagottato nel suo mantello, - È grazie a lui. -
- Sa il fatto suo. - dovette concedere la donna, - Ci seguirai fino ad
Alcarin?-
- Non lo so, devo ancora decidere. Le foreste non sono più
sicure. -
“Non so più se esista un posto sicuro.”
Si prese il viso tra le mani e afferrò con la punta delle
dita delle ciocche di capelli. Il cuore le faceva male, ogni singola
parte di lei, anche la più piccola, era in pezzi. La paura,
una serpe viscida e gelida, le si insinuò tra le viscere.
- È un incubo... -
Raiza fece schioccare la mandibola.
- Sarebbe bello se lo fosse. Ora prova a dormire, se riesci. -
Il mattino successivo seguirono il fiume sino a un punto meno profondo
per poterlo guadare. Camminarono tutto il giorno, finché in
lontananza non scorsero il profilo di una città. Era solo
un'increspatura sulla linea dell'orizzonte, indistinguibile dal resto
se non per quella zigrinatura leggermente più scura su un
paesaggio di un verde eterogeneo. Almeno agli occhi di Myria questa era
l'impressione, ma era anche consapevole che la stanchezza le potesse
giocare qualche brutto scherzo. Così procedette a passo
svelto, fermandosi solo quando non sentiva più davvero le
gambe e aveva bisogno di appoggiarsi a qualcosa.
Sul far della sera, Alcarin prese consistenza. Le luci che la
illuminavano sembravano delle lucciole che ronzavano annoiate nell'aria
immobile.
- Sei fortunato che la persona da cui stiamo andando non abita in
città. - ghignò Nyi in direzione di Raiza.
Il Lycos non si premurò di rispondere.
A prendere la parola fu Zefiro: - Dove sta, allora? E, soprattutto, chi
è? -
Il Dominatore gli lanciò un'occhiata obliqua.
- È un amico. O meglio, era amico di Copernico, ma sono
sicuro ci ospiterà per il tempo necessario a farmi
riprendere. -
Una scintilla curiosa si accese in fondo alle iridi di Melwen. Myria
sperò che dicesse qualcosa, invece non schiuse nemmeno le
labbra. L'effetto dell'efedra era svanito e, come ogni sera, la
lasciava svuotata, in preda a un'abulia da malata. Zefiro le
passò una mano tra i riccioli e la trasse a sé,
in modo che potesse appoggiarsi al suo petto.
- E poi? Dove andremo? -
Nyi si bloccò, le dita che già stavano tirando
un'altra radichetta.
- Nel posto più sicuro per tutti noi: alla capitale. -
Raiza alzò di scatto le orecchie e si guardò
intorno.
- Hai sentito qualcosa? -
- Mi era sembrato di sentire un odore strano, ma... - annusò
l'aria per un momento e poi scosse la testa, - Qualche cervo deve aver
urinato sottovento. -
Tutti, compreso Nyi, tirarono un sospiro di sollievo. Per la notte
montarono la guardia lui e Raiza. Myria dormì a tratti, e
come Melwen spesso si svegliava in preda agli incubi, con un urlo
incastrato in gola e gli occhi umidi. In perenne bilico tra il sogno e
la realtà, le parve di udire il gracchiare di un corvo
chissà dove e il frullio delle sue ali tra le fronde.
A metà del giorno dopo, il fiume sfociò
nell'ampio bacino del lago Eliter. Al di là di esso, la
collina che ospitava il tempio di Ovenar svettava in tutta la sua
austerità, una costruzione tozza con la facciata decorata
con cornicioni, lesene e nicchie rettangolari che ospitavano la
riproduzione in bronzo delle armi impugnate dagli eroi delle leggende.
Anche con la luce del sole calante brillavano in lontananza,
barbagliando ogni volta che i raggi le colpivano. Nemmeno le mura
riuscivano a nasconderle.
Nyi, però, non li guidò verso la
città. Aggirò il lago per un pezzo e si diresse
verso una casa isolata dalle altre e dalla strada. Attraversarono un
campo di erba tagliata e si fermarono davanti allo steccato. Raiza non
era con loro, per sicurezza aveva deciso di fare il giro largo, per poi
rifugiarsi nella foresta di Lagrande, anche se Myria sospettava che
volesse controllare i dintorni. Gli elfi avevano abbandonato quella
foresta molto, molto tempo prima che lei stessa nascesse, sarebbe
dovuta essere sicura.
“Anche Noumenasse doveva esserlo.”
Doveva fare chiarezza, studiare un piano, capire quale fosse la scelta
migliore da fare. Checché Nyi ne dicesse, c'erano troppe
variabili e nessuno, nemmeno lui, poteva permettersi l'arroganza della
certezza. Non dopo quello che era successo, non dopo la scoperta che
l'esercito che aveva distrutto Alabastria era fatto di morti.
Nyi aprì la mano e soffiò, come se stesse
imprimendo la forza di volare a un petalo di rosa. Non trascorse che
qualche istante, poi la porta dell'abitazione si aprì.
Angolo Autrice:
Hello folks!
dunque, vi lascio questo piccolo avviso per avvisarvi che dopo questo
capitolo (che spero vivamente vi piaccia, nonostante la lunghezza
<.<) gli aggiornamenti riprenderanno l'8 di gennaio. Ho
ancora alcuni capitoli da parte, ma ho bisogno di tempo per
immagazzinarne altri, così da non farvi mai attendere troppo
tra un aggiornamento e l'altro. Ho visto che già alcuni di
voi sono interessati al giveaway, quindi tenete d'occhio il contatore
delle recensioni. Guardate, se prima di Natale sale a 100, prometto che
se non a Natale stesso, a santo stefano apro ufficialmente il giveaway
u.u Vi ringrazio ancora per tutto quello che fate, per la costanza con
cui mi seguite. Prima di salutarvi, vi chiedo una cosa: finora, come vi
è parso questo secondo libro? Meglio, peggo del primo? Vi
sta prendendo? E, soprattutto, a fronte di due libri ( di cui questo
che ha superato la metà) e un altro che devo ancora scrivere
(il terzo Fuoco, per intenderci), vi sembra che abbia la
potenzialità per diventare un libro vero? Fatemelo sapere
u.u come al solito, vi lascio il link della pagina
qui
sotto u.u
QUI
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Era una sera
tiepida e le stelle sembravano più vicine del solito.
Davsten aveva l'impressione che gli sarebbe bastato allungare la mano
per intrappolarne una nel palmo. Intrecciò le dita e
lasciò la mani a penzoloni oltre il parapetto, lo sguardo
che spaziava sulla città ancora sveglia. Come lucciole
stanche, le luci che punteggiavano le strade svanivano e riapparivano
quasi a intermittenza, muovendosi nelle vie e nei vicoli più
stretti e labirintici. Da lontano, le note di una musica allegra di
un'orchestra cavalcavano il venticello vespertino, spazzando i viali
alberati e innalzando un ventaglio di petali e foglie verdi.
“La primavera è arrivata in anticipo,
quest'anno.”
Si era alzato presto quella mattina, molto prima del solito. Iola
giaceva ancora addormentata accanto a lui. L'aveva guardata per un po'
e poi le aveva schioccato un delicato bacio sulle labbra, prima di
coprirle le spalle nude con le lenzuola. Sulla soglia, l'aveva ammirata
una volta di più, indeciso se svegliarla o meno. Le occhiaie
e i segni del pianto lo avevano fatto desistere, risvegliando il dolore
che la sera precedente non gli aveva dato requie.
Strinse forte il pugno e prese tra le dita un bocciolo di glicine. La
luna inargentava la corolla ancora chiusa e ne tratteggiava il profilo
che quasi spariva nella sua mano. Il profumo, intenso e delicato quanto
quello dei gelsomini, si spandeva dal suo palmo e gli sfiorava le
narici come la carezza di un bambino. Erano sbocciati presto, come i
fiori nella Via dei Re. Tutta la capitale aveva accolto la primavera e
si era trasformata in un tripudio di colori. Quando beveva troppo,
Idwal diceva che Sershet era come la sua regina: bella, vanitosa ed
egocentrica.
- Ma, soprattutto, una gran puttana. - aggiungeva con una grassa risata
e si riempiva nuovamente il boccale. - Forse è meglio che
sia morta. Non avrebbe potuto sopportare di vivere in una
città così ingrata e capricciosa. -
Davsten annuiva e brindava con lui. Ad Airis, che la sua anima riposi
in pace nel Val'ha, si dicevano. Che Ovenar l'abbia in gloria, che le
mani di Darmehana le rendano la vista che perse in vita. Idwal buttava
giù l'idromele in un sorso solo, per poi riempirlo di nuovo
e prendere il boccale vuoto di Davsten. Lo facevano spesso, quando
erano nell'esercito e l'alcol scarseggiava. In qualche modo si doveva
pur brindare, no? Anche adesso che si erano lasciati alle spalle i
campi di battaglia perseveravano nell'abitudine.
“Certi vizi sono proprio duri a morire.”
Abbandonò il grappolo di glicini e rientrò in
casa. Il caminetto era spento ed era stato ripulito di recente dagli
ultimi residui di cenere. Quell'inverno il tempo era stato piuttosto
mite, se possibile più caldo degli anni precedenti, e non
avevano dovuto accenderlo spesso. Iola aveva comunque insistito per
mettere a posto tutto, lavando e lustrando anche i servizi di piatti,
quelli che imbandivano la tavola nelle occasioni più
importanti, nonostante non ci fosse un reale bisogno. Davsten non
glielo aveva impedito, così come non si era opposto quando
Iola gli aveva chiesto di poter ordinare i glicini che coronavano il
balcone e il porticato del giardino interno. Era lei stessa a
occuparsene, ogni mattina. Li potava, controllava che non avessero
parassiti e sistemava i rami di sostegno. Spesso, Davsten l'aveva
sorpresa mentre sedeva sotto gli archi del gazebo e fissava i fiori,
con Lorcan che si divertiva a giocare con le ciocche sfuggite alla
costrizione delle forcine. Alcune strie bianche ingrigivano la sua
chioma nera e le rughe sul viso erano più profonde, dei
solchi che apparivano quando corrugava le sopracciglia o stringeva le
palpebre per ricacciare indietro le lacrime, talvolta anche permanendo
come ombre scure la pelle increspata.
- I glicini simboleggiano l'immortalità. - gli aveva
spiegato indicando uno stelo e col dito ne aveva seguito l'avvilupparsi
fino al tetto aperto del gazebo, - Fijit mi aveva detto che nelle loro
corolle si nascondono le anime in attesa del tempo in cui potranno
andare nel Val'ha. Durante il solstizio d'estate fioriscono e lasciano
che le anime prendano il loro posto al di là del cielo e
brillino attraverso di esso. Ogni stella non è altro che
un'apertura tramite cui i nostri cari ci fanno sapere che sono felici e
che stanno bene. - si era asciugata una lacrima e aveva lasciato che
Lorcan si appropriasse del suo mignolo con un sorriso malinconico,
sottile come la linea di matita sotto gli occhi, - Vorrei che Caillean
restasse a dormire tra i petali. Sono un'egoista a sperare che decida
di rimanere in questo giardino? -
Davsten non aveva saputo cosa risponderle.
Attraversò il salotto, prese il mantello dall'appendiabiti
nell'atrio e uscì. Sulla strada principale il via vai
continuava, imperterrito. Le bancarelle si erano assiepate sul
marciapiedi in cocciopesto realizzati di recente e i loro venditori
richiamavano i curiosi, esponendo la mercanzia con voce tonante,
talvolta prendendola in mano perché anche i clienti
più lontani potessero vederla. Sul lato destro, i tavoli
della “Tavola del Cavaliere” e “Il cuore
della regina” erano ancora occupati da commensali alticci,
che si divertivano a scambiarsi battute sulle loro conoscenze. Ve ne
erano altri, più lontani e meno rumorosi, che invece
discutevano a bassa voce, tenendo sott'occhio le guardie che
pattugliavano la strada. Nell'aria festosa e allegra, i loro sguardi
erano come un vento freddo in una sera afosa. Davsten li
guardò appena, senza troppo interesse, e poi
allungò il passo finché non se li
lasciò alle spalle.
Passando di fianco al forno della vecchia Catrin, si bloccò.
Era chiuso a quell'ora, eppure l'odore fragrante del pane appena
sfornato permeava l'aria. Davsten salì sul marciapiede e si
fermò davanti alla porta, al di là della quale
pendeva un campanellino. Di giorno trillava sempre, annunciando
l'entrata di un nuovo cliente, di mattina presto e soprattutto
nell'ultima ora prima della chiusura, quando i contadini e gli ultimi
mercanti si affannavano per accaparrarsi le ultime pagnotte.
Quella traccia di profumo diede una consistenza reale alla Airis nella
sua memoria. Nei primi tempi alla capitale, si fermava spesso
lì davanti, catturata dal profumo dei dolci appena fatti.
Non le piacevano granché, aveva sempre preferito le focacce
salate o alle olive, però l'aroma delle spezie e dei semi di
cardamomo le piaceva così tanto da farle rallentare il
passo. Si fermava proprio lì, davanti alla porta, anche solo
per qualche secondo e poi gli correva dietro, se lui non aveva fatto lo
stesso.
Davsten inspirò l'aria tra i denti, la trasse a
sé in un sibilo rumoroso.
“Non è qui.” si disse, ma
indugiò ancora prima di riprendere a camminare con
un'andatura più spedita. Girando le spalle a quel ricordo,
sperava che sarebbe rimasto lì, incatenato alla labile scia
di quel profumo, anche se tutta la strada era un affresco di momenti
passati assieme che gli scorrevano davanti agli occhi, una mostra senza
fine di contingenze e frammenti d'esistenza prima sbiaditi e poi
restaurati dal dolore nelle loro tinte più accese.
Alzò la testa e soffermò lo sguardo su ogni
tratto di strada che ne racchiudeva qualcuno. Come un'edera, la memoria
si sostenne ai muri delle case, ai tetti e inghiottì anche i
comignoli, avvolgendoli in un sudario di nostalgia. Ovunque andasse con
gli occhi, rimetteva insieme cocci di ricordi che nemmeno sapeva di
conservare, rimasugli di parole dette e poi dimenticate
perché poco importanti o così ovvie da non
meritare un posto nel suo corridoio consapevole, quello illuminato
dalla volontà razionale del ricordare. E anche se quelle
briciole non colmavano il vuoto che aveva al posto del cuore, Davsten
le raccoglieva tutte, anche le più piccole e senza valore.
Giunse alla fine della strada e imboccò un vicolo che si
snodava tra le case, con i balconi che aggettavano su di esso con i
loro fiori e le loro barocche architetture. Sfilavano ai suoi fianchi,
profilandosi nel cielo con le loro linee curve e sinuose che si
arrotolavano in ellissi e spirali sugli stucchi, e i marmi preziosi che
decoravano la facciata degli avancorpi e delle colonne giganti. Persino
quella zona della città, una delle più tranquille
e periferiche rispetto al centro, era stata investita dall'ondata
innovativa dello Stile dei Draghi. Tutto doveva essere costruito per
stupire, togliere il fiato e attirare l'attenzione di chiunque, non
solo dei pellegrini: Sershet doveva essere una città
ammaliante, rivestita dei marmi più splendidi, ingioiellata
con eleganza dai suoi architetti e dai suoi pittori; così
bella da spiccare tra tutte le altre come un diamante in mezzo a un
mare di zirconi. La città dei re. Una nomea e un'aura di
regalità che tutti i suoi sovrani si erano premurati di
cucirle addosso.
Eppure, bastava una semplice pioggia perché la regina delle
sabbie rivelasse il suo vero volto. Senza il trucco e il sole che ne
impomatava la facciata, Sershet diventava caotica, sgraziata, scevra di
ogni suo colore.
"Pacchiana."
Si calcò il cappuccio in testa e girò a sinistra.
Un carro trainato da buoi rallentava il traffico sulla strada. L'uomo
sulla cassetta sferzava gli animali e inveiva contro di loro, nella
speranza che questi aumentassero il passo, mentre gli uomini che lo
scortavano osservavano impassibili la scena. I capelli neri erano tutti
legati in una bassa coda e indossavano delle semplici armature di cuoio
senza insegne.
Davsten li riconobbe subito: Ajgara. Da quando Voren aveva
ufficializzato la sua unione con Wecilia Mallus, ne erano arrivati
sempre più, dapprima presi al soldo del re come sua guardia
personale, in seguito assunti dai mercanti più abbienti e
facoltosi che potevano permettersi il lusso di pagare quei guerrieri
provenienti dalla Dracea nord-occidentale.
Davsten passò accanto a una donna con gli occhi allungati,
sottolineati da un pesante trucco nero, e una cicatrice all'angolo
piegata verso l'alto come in un sorriso macabro. Non lo
guardò nemmeno, rimanendo ferma a fissare il suo committente
imprecare contro un suo servo, che, a sua detta, lo pagava per nulla,
se non era in grado di far muovere quei maledetti buoi.
Sul fondo della via Eryr si era creato un ingorgo di carri e un'accesa
discussione tra un sedicente mercante di spezie e una guardia che aveva
preteso di controllare il carico. Erano intervenuti anche altri,
compresi due soldati, ma le loro esortazioni a mantenere la calma e a
regolare i toni non erano state accolte. Se non fosse stato per un
giovane che si era mantenuto nelle retrovie durante la discussione,
Davsten sarebbe potuto passare indisturbato, senza che nessuno se ne
accorgesse.
Oltre la porta, la strada proseguiva dritta e, salvo i soliti curiosi
che facevano capannello per vedere cosa stesse succedendo, l'atmosfera
tesa si ammorbidiva e la tensione si rarefaceva fino a sparire. Da
quella prospettiva, Davsten poteva scorgere la testa dell'Aquila,
l'enorme statua che sorvegliava i dintorni al di fuori delle mura
più esterne della città. Le piume che dipartivano
dall'elmo si aprivano in un paio di ali aggraziate e il cimiero
scendeva oltre la gronda. Anche se non riusciva a vederne che una
parte, Davsten aveva ben impressi nella mente tutti i dettagli di
quella statua: era sempre lei a dargli il benvenuto ogni volta che
tornava in città, quando la guerra si era spostata verso
sud, contro gli elfi di Sheelwood.
Percorse la via per un tratto e poi svoltò in una strada che
digradava verso il basso. Le case pian piano diminuirono fino a sparire
in agglomerati di costruzioni molto alte, bambini zoppi e senza grazia
a confronto con quelle che proliferavano nei quartieri più
ricchi. Inondate dalla luce della luna, l'intrico di passerelle,
grondaie pericolanti e fili con i vestiti stesi ad asciugare appariva
come una sottile maglia d'argento senza più il suo ciondolo.
C'erano poche persone in giro a quell'ora, soprattutto in quell'area
della città. Davsten intravide qualche mendicante aggirarsi
per la strada e poi svanire in una taverna senza insegne, incuneata tra
due palazzine a due piani. La musica che lo aveva affiancato fino a
lì si era trasformata in una eco indefinita e lontana, che
risuonava come un sottofondo d'accompagnamento agli attutiti rumori
della sera. Il vento che stormiva tra gli alberi era un sussurro che
produceva una nenia frusciante, così bassa da risultare
quasi inudibile.
Davsten osservò il viale alberato che conduceva al tempio di
Yggrasil e di Laeyr in fondo alla strada. Erano due costruzioni
austere, senza statue od orpelli di sorta, in netto contrasto con lo
splendore della città. Semplici templi bianchi, come le
vesti dei loro abitanti, come il volto dei morti. A quell'ora i
sacerdoti giià dormivano, ma le candele all'interno
rimanevano sempre accese e davano vita a un gioco di luci che si
rifletteva sulle vetrate smaltate. La natura stessa si inchinava al
silenzio di quelle sale di eterno riposo.
Davsten trasse un profondo respiro. Si abbassò il cappuccio
per mostrare il viso alle due guardie ai lati del cancello e poi
procedette spedito.
Frassini dai rami spogli e nodosi, simbolo di Yggrasil, scandivano
tombe equidistanti le une dalle altre. Molte recavano ai propri piedi
dei fiori appena posati, ancora freschi e colorati, così
vividi in quella marea di bianco da essere accecanti pure nella
penombra. A essi si intervallavano tombe senza lapide, con solo un vaso
sbrecciato contenente una o due margherite o oggetti di poco valore,
come un semplice martello o un ferro di cavallo, appoggiati
direttamente sulla terra battuta. Nella zona più povera,
dove venivano seppelliti i corpi senza nome, c'era solo quella, ettari
ed ettari di nulla che si approfondivano nella notte: se Davsten avesse
dovuto rappresentare il dolore dell'assenza, sarebbe stata una voragine
liscia di terra appena smossa.
Si lasciò alle spalle una basilica sormontata da una cupola
appartenente alla famiglia Valakas, con lo stemma della testa del leone
dorato in campo rosso che spiccava sulla facciata e un'altra,
più piccola ma non meno modesta, con la losanga del lupo dei
Fellmoor incastonata proprio sotto il rosone. Tutte le dodici famiglie
nobiliari avevano delle cripte di famiglia e, quelle i cui membri
facevano parte del Consiglio, si erano fatte erigere, negli anni,
templi sempre più monumentali e stupefacenti.
"Come se la morte potesse essere abbellita."
C'era stato un tempo in cui aveva pensato che la morte andasse
glorificata, che fosse un'onta non celebrare la dipartita di un uomo
che aveva combattuto al suo fianco. Poi la guerra aveva preteso il suo
tributo di sangue e Davsten aveva visto cos'era davvero la tanto
acclamata morte per la patria: era visceri, acido e materia cerebrale
sul terreno; era setticemia, vomito e febbre nel campo. Non c'era
niente di eroico nella morte in sé, quanto nelle cause
efficienti che a essa conducevano. Aveva partecipato ai funerali dei
propri superiori e, in seguito, di molti dei suoi soldati, rimboccando
lo stendardo sulle loro bare quando richiesto. Le perdite erano state
una costante della sua vita, le aveva subite e le aveva accettate come
suo dovere di soldato. Perché quello comportava il suo
ruolo: perdere pochi affinché molti vincessero. Nessuno,
però, lo aveva preparato a quel dolore.
Si appropinquò a un tempietto in pietra calcarea anonimo,
con una porticina di legno rinforzata e un tetto spiovente. Lo stemma
della sua famiglia, uno scudo con una torcia nel centro, capeggiava
sopra la soglia, sovrastato da una pergamena su cui era stato inciso il
motto dell'Ordine del Lupo.
La spada della giustizia contro le Tenebre dell'oppressione.
Davsten sfilò la chiave dalla tasca e accostò la
porta alle sue spalle. Le scale si inoltravano nella
semioscurità, illuminata dalle torce appese al muro. Ne
accese una e la staccò per farsi luce mentre scendeva.
La cripta era umida e fredda, anche se meno lugubre del giorno
precedente. L'altare sul fondo era stato spolverato e anche il
pavimento lì attorno era stato ripulito. Sopravvivevano solo
alcune macchie nere che nemmeno l'olio di gomito avrebbe potuto
rimuovere. Le bare languivano in piccole nicchie scavate nel muro,
ognuna con sopra drappeggiata la bandiera della capitale. Davsten si
prese un po' di tempo per osservarle, prima di dirigersi a grandi passi
verso l'ultima, quella che davvero gli interessava.
Era uguale a quelle di tutti i suoi antenati, all'apparenza. Non
c'erano decorazioni all'esterno, se non lo stemma di famiglia e, sotto,
il nome e i titoli conquistati. Non una frase di commiato, non un
epitaffio, nulla. Davsten però l'avrebbe riconosciuta tra
mille.
Si portò sul lato e poi ripiegò la bandiera fino
a metà. Al di là del vetro, Airis sembrava
dormire. Se non fosse stato per le dita intrecciate sull'impugnatura
della spada e il viso cereo, immobile, Davsten avrebbe anche potuto
crederci. Ma la magia poteva solo sottrarre il corpo all'azione erosiva
del tempo.
Poggiò la mano sopra la sua guancia e rimase lì,
a fissarla. Non aveva pianto quando Felther gli aveva comunicato che
era morta, già lo sospettava da tempo, eppure non si era mai
soffermato abbastanza per permettere a quel pensiero di radicarsi in
lui. Era stato accanto a Iola, l'aveva sostenuta prima e dopo il
funerale. Non poteva crollare, se l'era ripetuto finché
quelle parole non gli si erano impiantate dentro, diventando esse
stesse la propria roccia, le stampelle che gli permettevano di
continuare a camminare, parlare, mantenere la lucidità
necessaria a mandare avanti la casa e gli affari. Più la
guardava, però, più le lacrime defluivano dagli
occhi in quel gorgo che gli aveva squarciato il cuore, che si allargava
sempre di più, giorno dopo giorno. Se avesse potuto aprirsi
il petto, ne era certo, avrebbe trovato un muscolo sfregiato e mangiato
dai vermi.
- I genitori non dovrebbero sopravvivere ai loro figli. -
mormorò e strinse la mano a pugno, - Mi dispiace, Airis. -
- È stata una grande perdita. -
Davsten trasse un profondo respiro per trattenere la rabbia.
- Una giovane davvero promettente. Ha portato alto il vostro cognome,
capitano. -
Non rispose. Si limitò a girarsi e a incrociare lo sguardo
della donna incappucciata che aveva parlato. C'erano altri due uomini
al suo fianco, entrambi con il volto coperto, ma Davsten sapeva
già chi erano.
- Siete venuti qui anche voi per pregare per mia figlia, Consiglieri?
Quale grande onore. -
- Anche. Non ho avuto modo di partecipare al funerale e tu sei stato
molto sfuggente in questi ultimi tempi. -
Kitiara Azlan si tolse il cappuccio e si passò una mano tra
i capelli per ridare volume alle ciocche schiacciate. La palpebra sotto
era truccata con un filo di matita azzurra, che sottolineava le iridi
verdi e distoglieva l'attenzione dalle rughe agli angoli della bocca e
dalla fossetta sul mento. Una forcina d'oro con un giglio perlaceo
teneva la frangia in ordine, piegandola proprio al di sopra
dell'orecchio.
Dopo una breve esitazione, anche Gavyn Erdarwell e Ynyr Fellmoor fecero
lo stesso.
Davsten li scrutò imperturbabile, finché la donna
non si avvicinò. Senza dire nulla, si spostò,
dandole modo di vedere il viso di Airis.
- Le bruciature intorno agli occhi non hanno mai deturpato la sua
bellezza. - commentò Ynyr.
Davsten non rispose. La figlia di Kitiara era bassa di statura, aveva
lunghi capelli biondi che incorniciavano un viso grazioso, senza alcuna
imperfezione se non un piccolo neo al lato della bocca. Era stata la
prima pretendente di Sejrel e, anche dopo il mancato matrimonio, ne
aveva avuti molti altri, prima di convolare a nozze. Airis, invece, era
alta, molto più delle ragazze nobili e di molti rampolli.
Aveva le mani screpolate e i palmi induriti dai calli, il viso
squadrato, screziato da una pazzia di lentiggini che le coprivano anche
le spalle. Non aveva mai avuto pretendenti, né prima
né dopo che aveva fatto carriera nell'esercito.
- La bellezza non è un valore importante per un soldato. -
- Ma Airis era la vostra unica discendente. Prima o poi si sarebbe
dovuta sposare per continuare la vostra genia. - sospirò il
Consigliere Gavyn, - Sarebbe stato fortunato l'uomo che l'avesse presa
in sposa: avrebbe avuto al suo fianco una donna forte, determinata e
sagace. Delle caratteristiche rare, oggi giorno. -
Davsten annuì e poi spostò l'attenzione su
Kitiara. Aveva appoggiato la mano sul vetro, esattamente sull'alone che
aveva lasciato la sua, e rimaneva in religioso silenzio a guardare il
viso di Airis. Anche Gavyn non aveva più aperto bocca e si
limitava a tenere le dita intrecciate in grembo e il capo basso. Le
labbra si muovevano piano, articolando i versi muti di una preghiera.
- So già cosa volete e vi ho già dato la mia
risposta. Non mi interessa entrare in questa faida politica. -
sibilò infine Davsten, incapace di reggere ancora la
tensione.
- Dovrebbe. È stata Wecilia a cominciare questa guerra ed
è a causa della sua stolidità che tua figlia
è morta. - lo fronteggiò Gavyn.
- Airis è morta perché era un soldato. Ha
compiuto il suo dovere al meglio e, alla fine, è salita
sulla barca di Uborh, come tanti altri prima di lei. - calcò
su quell'ultima parte e lasciò che la sua voce si facesse
foriera della sua rabbia e del suo disprezzo, - Voi, Consigliere,
dovreste comprenderlo, persino più di me. -
Gavyn chiuse le labbra in una linea sottile che sembrava quasi scolpita
nel volto scavato. Era un uomo dalla carnagione dorata e dalla figura
scarna, come tutti i Fellmoor. Suo figlio era sepolto in una cripta
poco lontana. Era morto che non aveva ancora compiuto il suo
diciottesimo anno di vita, trafitto da una freccia durante un'imboscata
a Sheelwood.
- Non sarà la vendetta a riportare indietro i nostri figli.
- riprese tagliente Davsten, - Niente e nessuno ce li potrà
ridare. -
- Questo è vero. Molti sono morti, ma non possiamo
permettere che altre vite vengano seppellite per la pazzia di una
regina. - Kitiara prese la parola, gli occhi accesi da una luce feroce,
così sinceri da essere disarmanti, - Dobbiamo fermarci,
Davsten, dobbiamo porre fine a questo conflitto, che dura ormai da
troppo tempo. Tu puoi far sì che ciò accada. -
- Non siamo gli unici a essere scontenti della scelta del re. Anche la
tenacia dei nani sta languendo e Balor stesso sta pensando di ritirare
il suo supporto militare dalle nostre truppe. - si accodò
Gavyn, - Col tuo aiuto e la tua esperienza dalla nostra parte, potremmo
ripristinare il giusto ordine delle cose e mettere sul trono un uomo
degno, disposto a servire e a sacrificarsi per il popolo. -
- È una bella espressione questa, per dire che volete
eliminare la regina. -
Tutti si congelarono a quelle parole, tranne Kitiara.
- Abbiamo l'appoggio di Balor e di molte famiglie nobili di
Lèdomoda e Plurgia. Abbiamo già stretto accordi
con i capitani delle loro truppe, quelle che la regina stessa ha
richiesto per ricostituire i ranghi del nostro esercito. Né
i Wias né gli Zagaloth ci aiuteranno nella riuscita del
piano, ma non ci ostacoleranno nemmeno. I rischi sono minimi. -
- Non ho intenzione di assassinare la regina durante la messa in
memoria dei caduti. - ringhiò Davsten.
Gavyn e Ynyr strabuzzarono gli occhi e li appuntarono, disorientati, su
Kitara.
- Non ho intenzione di macchiarmi le mani con lo stesso sangue che ho
giurato di proteggere. - continuò imperterrito, - Sono un
Cavaliere e ho giurato davanti agli dei che avrei protetto la stirpe
regale finché avessi avuto fiato in corpo. -
- Ma avete anche giurato che avreste protetto il popolo. Il vostro
stesso detto mette in risalto il vostro ruolo di campioni della gente
comune. E ora loro, là fuori, hanno bisogno di voi e della
vostra determinazione. - lo rimbeccò Kitara, - Sapete meglio
di me quanto questa guerra ci sia costata e la regina vuole comunque
continuarla, anche se ciò implica il tributo di centinaia di
migliaia di vite. Se lei non ha intenzione di finirla, è
giusto che qualcuno la fermi. -
- Arrivare a questo punto... credevo che l'avremmo destituita e basta.
- mormorò a bocca asciutta Ynyr.
Gavyn si umettò le labbra un paio di volte prima di parlare.
Nella luce fredda, le rughe sul suo viso risaltavano in una ragnatela
che si approfondiva sulla fronte e ai lati degli occhi. Era
più vecchio in quella cripta, l'impronta del tempo sul suo
corpo così evidente che nemmeno le spalle ancora muscolose e
il collo nerboruto avrebbero potuto dissimularla.
- Non c'è altra scelta. - ripeté, più
convinto, - È l'unico modo per assicurarci che non
costituirà mai più una minaccia. -
- Non possiamo permetterci pietà. Abbiamo parlato e discusso
a lungo, e rinviato anche quando ne avremmo avuto occasione. Basta
sentimentalismi, basta inibizioni. Gli occhi degli dei saranno puntati
su di noi, ma, sono certa, se è vero quello che millantano i
sacerdoti, allora Yggrasil perdonerà e ci
accoglierà comunque nell'Elwing Telperiën. -
commentò cupa Kitiara, guardando in faccia sia Ynyr che
Gavyn, - Abbiamo designato voi, Davsten Lullabyon, per questo incarico
perché siete un veterano e tutti a Sershet vi conoscono e vi
ammirano. La vostra famiglia ha conquistato il cavalierato grazie al
coraggio e alle azioni che hanno contraddistinto i vostri antenati,
fino a voi. La vostra fama vi precede e anche l'ultimo dei mendicanti
conosce la vostra storia. Se sentissero che siete stato voi, e non un
sicario qualsiasi, a calare la lama sul collo di Wecilia Mallus, tutti
si schiererebbero dalla nostra parte. Non ci sarebbe quasi nessuna
resistenza, i disordini sarebbero contenuti e le truppe entrerebbero in
città e occuperebbero il castello senza colpo ferire. -
Davsten fece un passo in avanti, finché ci fu una distanza
di mezzo braccio tra lui e la Consigliera. La superava di una spanna,
eppure la donna non era intimorita. Lo fissava risoluta, forte della
sua rabbia e del suo odio.
- Allora dovrete cercarvi un buon assassino. - replicò
asciutto, diretto come una freccia contro un bersaglio immobile, - Per
quanto odio possa provare per quello che è accaduto e per
quello che sta accadendo, questa non è la mia battaglia. Non
infrangerò un giuramento solo perché, adesso, non
ha più valore. Se mia figlia fosse viva, non riuscirebbe
più a guardarmi in faccia e, se per questo, nemmeno io. -
Guardò dapprima Gavyn e Ynyr e poi tornò su
Kitiara: era lei la mente che aveva macchinato tutto, il burattinaio
che tirava le fila del complotto. Fronteggiò il suo
sussiegoso silenzio a viso aperto, incurante nel giudizio nelle labbra
assottigliate e nei muscoli scanalati del collo come cordoni di un
galeone in tempesta.
- Non vi tradirò, ma non voglio essere coinvolto. Lasciate
stare me e state lontani dalla mia famiglia. Non fermate i miei
servitori, non mandatemi messaggeri, non invitatemi alle vostre cene,
non cercate il mio sguardo nelle occasioni in cui le circostanze ci
faranno incontrare. Portate avanti la vostra crociata da soli, con i
vostri alleati. Sono sicuro che troverete facilmente qualcuno disposto
a versare il sangue della regina, ma non sarò io il vostro
braccio armato. -
La donna non rispose subito, ma Davsten poteva capire dalla postura
rigida delle spalle che la sua risposta l'aveva contrariata. Il respiro
di Gavyn e Ynyr raspava il silenzio della cripta.
- Non c'è nessuna somma di denaro o promessa di terre che
potrebbe farvi cambiare idea, immagino. -
- Conoscete già la risposta. -
- Allora non abbiamo più nulla da dirci. - concluse, si
rimise il cappuccio e fece cenno ai Consiglieri di seguirla.
Nessuno dei due se lo fece ripetere. Salirono le scale, Davsten con
loro. Li seguì con gli occhi finché non li vide
sparire in lontananza, sotto la pioggia che inumidiva e rinfrescava
l'aria al di fuori della cripta. Attese che il ticchettio delle gocce
sopraffacesse il rumore dei loro passi, prima di rientrare nella
cripta. Si fermò sulla soglia e si appoggiò alla
porta. Quando Idwal era ubriaco diceva spesso che i giuramenti sono la
tomba della volontà.
- Onora il re, e onori il re. Difendi il popolo, e difendi il popolo.
Ma quando per difendere il popolo devi disonorare il tuo re? Quando,
per compiere gli ordini del tuo re, devi rivolgere la spada contro la
tua stessa gente? - si era pulito la bocca dalla schiuma e poi aveva
inclinato la testa a destra e a sinistra, squadrando il boccale con un
sorriso da faina, - È proprio vero, amico mio: i giuramenti,
come le promesse, sono fatti per essere infranti. -
Davsten prese la chiave dalla tasca e la girò nella toppa
per tutte e tre le mandate. Fuori la pioggia si era trasformata in un
burrascoso temporale, poteva sentirne la forza attraverso il rimbombo
delle gocce sul terreno. Rimase ancora un momento a fissare al di sopra
dello stipite della porta, all'altezza dove sapeva esserci il motto dei
Cavalieri del Lupo.
Giammai noi attaccheremo per primi. Giammai provocheremo per primi. Il nostro cuore conoscerà solo la virtù. La nostra spada abbatterà il Male. Il nostro scudo difenderà i deboli. Come un sol corpo, noi combatteremo. Non indietreggeremo di un solo passo, finché
avremo fiato. Davanti alle tenebre, ci ergeremo sui corpi dei nostri nemici. Chiunque rinnegherà questo giuramento,
sarà per noi e per gli dei un rinnegato. Nessun riposo, per noi.
- Tutto per la gloria del popolo e del re. - pronunciò ad
alta voce l'ultimo verso del giuramento.
Sospirò e scese di nuovo le scale. Per la prima volta in
vita sua, Davsten non sapeva se avesse preso la giusta decisione.
Angolo Autrice:
Hello folks!
perdonatemi se l'aggiornamento è arrivato in ritardo, ma mi
sono ammalata e il mio ragazzo con me >.< In questi
giorni mi applico per rispondere alle recensioni, giuro! E ancora,
scusate se sono sparita. Spero abbiate passato un buon Natale e un buon
fine anno tutti u.u Come sempre, link della pagina
QUI
e buona serata a tutti!
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Nonostante non
facesse molto freddo, il camino era comunque acceso. La legna era
ridotta a una brace annerita dai contorni rosseggianti che si
allargavano in un'aureola d'arancio sfumata. Talvolta una spolverata di
scintille si elevava in un guizzo fulmineo, per poi ricadere sui
tizzoni ardenti in grigi petali di cenere.
Lyssandra fissava quel gorgoglio di faville ammantata da una vestaglia
di chermes, chiusa sulla vita da una cintura di seta, che ricadeva
morbida fin quasi a sfiorarle i piedi nudi. Il calore trattenuto dalla
lana del tappeto e quello che si protendeva dal camino erano
più che sufficienti per non farle patire gli spifferi che si
intrufolavano da sotto la porta e la finestra.
- Lyssandra. -
La regina si voltò e gattonò sul letto, sopra il
corpo nudo e solo parzialmente coperto dalle lenzuola di Aesir. Era
bello, in quel nuovo corpo di Drow, giovane e perfetto come ci si
aspetterebbe da un dio. Si abbandonò a un mugolio
compiaciuto quando le accarezzò la guancia e poi la mano si
spinse tra i suoi capelli, dividendo le ciocche tra le dita e
stringendole con la stessa prepotenza con cui le aveva afferrate
durante tutto il rapporto.
- Quando inarchi la schiena in questo modo sembri proprio una gatta...
- le soffiò Aesir all'orecchio e si appropriò del
suo lobo, mordicchiandolo appena con i canini sporgenti, - O una tigre,
vista la tua ferocia. -
- Posso essere quello che desideri, lo sai... -
- Lo so. - passò le mani sulla schiena e si
soffermò sui fianchi, sui segni che disegnavano una trama di
graffi rossi e sanguinanti, - Hai la grazia e l'aggressività
silenziosa di una tigre. Bella, sensuale e paziente... tutte doti che
si addicono a una regina. -
Lyssandra annuì e si distese al suo fianco, la mano sul
dorso di quella di Aesir. Allacciò il suo sguardo a quegli
occhi di bragia, più scuri di quelli di un Drow normale, con
l'iride screziata da pagliuzze dorate che si irradiavano da due onici
nere e incandescenti, solcate da crepe vermiglie.
- Manca poco all'allineamento. -
- Non sei ancora riuscita a rompere la volontà del mio
ricettacolo, però. -
Lysandra abbozzò un mezzo sorriso: - Lo sarà ben
presto. L'odio di Brandir e la morte di Airis basteranno a logorarlo
quel che basta perché si inchini al tuo volere. -
- Mi sembra abbia digerito molto bene il lutto per quella donna. -
commentò il dio, prendendole il mento con pollice e indice,
- Forse hai commesso un errore di valutazione, mia cara. -
- Ti posso assicurare che l'amore che provava per lei era reale. -
- Più di quello che tu provi per me? -
La risposta le morì in gola, inghiottita dalla bocca vorace
di Aesir. L'artigliò per la nuca e le schiuse le labbra in
un bacio pretenzioso per impadronirsi della sua lingua. Quando la
prostrò, la avvolse con la propria e poi la morse forte,
tanto che Lyssandra percepì il sapore del proprio sangue sul
palato. Si azzardò ad accarezzargli il viso, l'accenno di
barba che gli punteggiava le guance, ma Aesir le ghermì il
polso e lo schiacciò sul materasso, le unghie conficcate
nella carne viva.
- Detesto i contrattempi, Elladan. Più di tutto, odio quando
mi si mente. Avevi detto che per l'allineamento il mio contenitore
avrebbe perso ogni sua volontà, eppure ancora mi sfida con
gli occhi. Avevi detto che il corpo era abbastanza forte da resistere
fino al rituale, eppure già dopo una settimana ha cominciato
a decadere. Quante ulteriori inesattezze pensi di poterti permettere?
Sono un dio molto paziente e magnanimo, ma vedo che stai disilludendo
molte delle mie aspettative. -
La regina deglutì. Rilassò tutti i muscoli e
smise di lottare, mentre Aesir le lasciava una scia di morsi lungo
tutto il collo.
- Io... ci sono cose che non avevo previsto, ma son certa che tutto
andrà per il verso giusto. Ho predisposto ogni cosa e non
c'è nulla che... -
Lui le torse un capezzolo a tradimento, lo schiacciò tra le
unghie appuntite stroncando le ultime parole in un rantolo sommesso.
- Non ho chiesti spiegazioni, me ne hai date già abbastanza.
Finora hai recitato bene la parte della regina degli uomini, ma la
politica non è tutto in questa partita. Hai volto lo sguardo
altrove, senza curarti delle serpi che covi in seno alla tua stessa
città. -
Allentò la presa e spostò la vestaglia,
titillando il capezzolo ferito con la punta della lingua, mentre con la
sinistra le palpava l'altro appena coperto dal tessuto. Le mani del
Drow erano lisce, senza alcuna imperfezion,e se non nelle dita lunghe e
troppo affusolate. Quelle stesse dita, appartenute a un giovane mago,
vibravano sul corpo di Lyssandra e lo percorrevano con l'accuratezza di
un acrobata, suonando le note nascoste sotto la sua pelle e negli
anfratti più intimi, i più nascosti, quelli che
le sue dame menzionavano a bassa voce, con la pudicizia propria delle
giovani vergini, non ancora avvezze al piacere. Sussultò
appena quando Aesir le tolse la cintura. La vestaglia
scivolò via, lasciandola nuda, esposta e vulnerabile alle
sue mani e alla sua bocca. Mentre il suo braccio calava, inarrestabile,
tra le pieghe del suo corpo, Lyssandra si stese e dischiuse le gambe.
- Hai un piano? -
- Sì, ho già in mente come stroncare i loro. -
Seguì il viso del dio che scivolava tra le sue cosce. Il suo
respiro le solleticava la pelle, la riempiva di brividi. Le venne quasi
istintivo affondare le unghie tra le ciocche scompigliate quando l'aria
calda si infranse sulle sue labbra umide.
- Ho messo tutti i Cavalieri dell'Aquila alle calcagna dei
più facinorosi. È Kvothe a dirigere le azioni e
sono più che certa che farà un ottimo lavoro. -
Aesir inspirò il profumo del suo fiore, la corolla esterna,
e ne profilò il contorno con la lingua.
- Ti fidi di lui? -
- È il più bravo. - sospirò.
- Non sempre il segugio col naso migliore è il
più leale. Non per altro, la sua vita è finita
appesa su una forca. - puntualizzò, mentre la apriva e
saggiava i suoi umori con la punta del dito, affondando il necessario
da sporcare solo la prima falange.
- Lo tengo sott'occhio... conosco i suoi trascorsi, so anche come
tenerlo a bada. -
Aesir sorrise nell'incavo della coscia, distratto dal tessuto soffice e
caldo in cui affondava il dito.
- Sai, non ho mai capito i mortali che strappano il piacere alle donne
con la forza. Cosa ci troveranno mai di eccitante nell'infliggere
dolore durante il sesso? -
Infilò due dita tra le grandi labbra, le aprì del
tutto e le immerse nell'intimità di Lyssandra, tastando le
pareti interne. Lyssandra rilasciò un piccolo gemito. Si
puntellò sulle punte dei piedi, alzò il bacino e
inarcò appena la schiena, percorsa da una scarica di piacere
che pervase ogni angolo del suo corpo. Aesir non le permise di chiudere
le gambe: le afferrò da sotto il ginocchio e le
piegò contro il suo petto.
- Kvothe non sa godere delle vere gioie della vita con una donna. -
affermò con un tono che era già di per
sé una sentenza, - Però concordo che sia un uomo
semplice: una bella dama di compagnia con cui giocare ogni notte
è sufficiente perché resti al suo posto. In fin
dei conti, è un buon cane. Non trovi? -
Lyssandra si umettò le labbra secche e agguantò
le prime parole che le vennero in mente, le uniche che era in grado di
pronunciare.
- Sì... sì, basta che possa soddisfare le sue
voglie. -
Aesir si erse sopra di lei e la ispezionò con una
meticolosità chirurgica. La mangiava con gli occhi,
Lyssandra ne scorse il desiderio in fondo alle pupille dilatate per
l'eccitazione, ma preservava ancora il controllo su se stesso. La
reazione fisica, quella di qualsiasi uomo davanti al suo corpo, era
disgiunta da quella mentale, psichica. Se c'erano istinti in lui, non
erano abbastanza forti da indurlo in tentazione.
- Per quello che riguarda Ledah, invece? -
- Ci devo pensare. - ammise, sapendo che sarebbe stata punita.
Aesir accennò un sorriso e Lyssandra scorse la punta dei
canini spuntare dal labbro superiore. Lunghi, affilati e lucenti nella
luce ovattata della camera da letto.
- No... no, ci andrò a parlare. Vedrò di farlo
cedere. - si corresse subito.
Udire la propria voce sconvolta dall'irrequietezza, sentire le parole
schiantarsi contro la fila dei denti e strisciare tra i loro spazi
stretti con una nota di supplica sibilante, era una sensazione a cui
era ormai avvezza, ma a cui non riusciva ad accettarla.
- Bene. Ora guardami. -
Lyssandra obbedì. Raddrizzò la testa, si
spostò i capelli dal viso – ora neri, come quelli
della vera Wecilia Mallus – e ricercò i suoi occhi
al di là della vista appannata dall'ebbrezza del momento.
- Anche con queste fattezze riesco a vederti. - le sussurrò
con un sorriso complice.
Appoggiò una delle gambe della donna sulla propria spalla, a
un soffio dal mento. Gli bastò inclinare la testa per posare
il primo bacio, proprio poco sotto la piega del ginocchio,
- Torna normale. O maschera l'aspetto insignificante di questa mortale.
È te che voglio. -
In un battito di ciglia la magia livellò le rughe intorno
agli occhi e alla bocca, schiarendo il colorito olivastro e le ciocche
scure. Era un banale trucco di prestigio, semplice come tagliare un
foglio di carta teso su tutto il corpo. Quando tornava a essere lei,
Lyssandra percepiva la pellicola dell'incantesimo distaccarsi dal
proprio corpo come se fosse stata reale.
Aesir appoggiò le mani ai lati del suo viso. Aveva assunto
quell'espressione impassibile che non lasciava trasparire nulla. Al di
là poteva celarsi la rabbia più profonda o la
passione più travolgente. Vivere in quel margine
d'incertezza, subirlo sulla propria pelle, la agitava tutte le volte.
- Hlodyn. - proferì a bassa voce, passò un dito
sulla clavicola e vi adagiò un bacio a stampo, - Ogni volta
che ti guardo, me la ricordi. Hai il suo aspetto. Come Elladan la
somiglianza era maggiore, ma anche ora che sei la mia serva
più devota la rivedo sempre in te. -
- Non sono lei. - dichiarò secca, travolta da una lieve
scarica di gelosia.
- E non lo sarai mai. Nessuna donna potrà mai eguagliarla. -
le avvolse la vita con il braccio e le si avvicinò
finché Lyssandra non fu costretta a inarcare la schiena, -
Voglio che tu te lo imprima nella memoria, Elladan: tu non sei che un
sostituto, una bella copia. Quando rinascerò, rimarrai al
mio fianco, ma non ti illudere che tu possa prendere il suo posto. -
- Non l'ho mai pensato. -
La girò come se non avesse peso, le afferrò i
capelli, li strinse in una coda abborracciata e li tirò
finché la spina dorsale di Lyssandra non descrisse una conca
perfetta, con la testa riversa all'indietro e i glutei ben in alto.
- Giusto... tu vuoi solo vendetta e potere. - sogghignò il
dio e si fece largo tra le sue natiche, strusciando il suo membro su e
giù soltanto per provocare, - Come ogni regina che si
rispetti, l'amore non fa per te. -
Lyssandra si morse il labbro inferiore, le palpebre a mezz'asta sugli
occhi adombrati dal piacere. I ricordi di quando era viva, di quando
era Elladan, ribollivano in fondo alla sua coscienza, pronti a risalire
a galla, ma il loro calore non scioglieva che la superficie del lago
ghiacciato al di sotto della quale erano reclusi.
- Amavi Haldamir? - le domandò Aesir.
- No. -
Il dio ritrasse il bacino e spinse un gluteo verso l'esterno.
- Amavi Haldamir? - le chiese ancora, più severo.
Lyssandra scosse la testa. Con la gola così esposta, si
sentiva come una puledra al macello. Soltanto che, in questo caso, il
suo aguzzino non impugnava un coltello.
- Sii sincera. -
- Elladan... lei lo amava. -
- E tu no? -
- No. -
La punta del membro di Aesir era leggermente umida, sporca di qualche
goccia di sperma. Lo strusciò ancora un istante, prima di
affondare due dita dapprima nella sua apertura fradicia, poi tra i suoi
glutei. Entrò e uscì varie volte, cospargendo le
sue pareti con i suoi stessi umori. A volte spingeva dentro fino
all'ultima falange, le piegava all'interno e riprendeva come se non si
fosse mai fermato.
Lyssandra fremeva, ogni nervo del suo corpo teso nei muscoli rigidi.
Gemeva, gemeva per lui, in un cantico di piacere che era dedicato solo
alle sue orecchie, esclusivamente alla sua persona.
Un tocco leggero al di là della porta. Cinque colpi, uno
dietro l'altro, scanditi in una isocronia perfetta.
- Fallo entrare. - ordinò Aesir, dolce come miele.
L'ansito che Lyssandra represse le gonfiò appena il labbro
inferiore.
- Avanti. - disse con fermezza, fiera che le corde vocali non avessero
tremato.
Kvothe scivolò all'interno in un elegante fruscio di seta.
Indossava una colombina diversa, sempre bianca, ma senza alcuna
decorazione. Quando si tolse il cappuccio, i capelli corti e mossi gli
ricaddero poco sopra le sopracciglia bionde. Furono l'unica cosa che si
mosse su un volto altrimenti imperturbabile.
- Spero tu abbia novità per la nostra regina, Kvothe. -
scandì il dio, continuando a massaggiare la carne di
Lyssandra con un sorriso che non aveva nulla di innocente.
- Sì, porto notizie importanti. - rispose Kvothe,
impassibile quanto una statua.
- Attendi pure lì. Quando la regina sarà libera,
potrai riferirle tutto quello che sai. -
Detto ciò, si piegò e imprigionò il
lobo dell'orecchio tra le labbra, i denti tra la pelle e l'orecchino di
perla.
- Sbaglio, Elladan? -
- No... -
La donna non incrociò lo sguardo di Kvothe, non serviva:
aveva visto nei suoi ricordi recessi l'increspatura perversa, il
piacere malato che ammantava le iridi ambrate quando sottometteva una
donna. O un altro uomo lo faceva al suo posto.
- E sia. - Kvothe fece un lieve inchino e si spostò
adiacente al muro, - Attenderò. -
Aesir sorrise apertamente e ridacchiò appena. Lyssandra
esalò un gemito simile a un ringhio quando lui la
penetrò.
Oh, sì, lei gli apparteneva e così sarebbe sempre
stato. Nella vita e nella morte. Nel corpo e nell'anima.
Ledah chiuse gli occhi e tese l'orecchio verso la porta. C'era soltanto
silenzio.
"Che se ne siano andati?"
Scosse la testa e si tirò in piedi. L'azione,
però, si rivelò uno sforzo immenso,
più doloroso di quanto avesse immaginato. Nonostante lo
costringessero a mangiare, il suo corpo era deperito. I muscoli si
erano indeboliti e assottigliati, perdendo forza e tono. Persino
assunse una posizione eretta, non riuscì a tenere le
ginocchia dritte come avrebbe voluto.
"Non arrenderti."
Aprì gli occhi e si guardò intorno, studiando la
circonferenza del cerchio di rune. Ogni simbolo sfavillava nel buio,
rilasciando un barlume violaceo che si arrampicava sulle catene fino a
toccare il soffitto. Ledah non aveva idea di quanto fosse alto, ma era
quasi certo che tutto quel buio nascondesse molto meno spazio di
ciò che poteva sembrare. Soltanto una runa emetteva meno
luce delle altre, quella che era stata in parte sbiadita da Brandir. Al
pensiero, avvertì una stretta al cuore.
"Non distrarti."
Il battito regolare rintoccava sommesso nel suo petto. Ne
seguì l'oscillazione e lasciò che lo cullasse
nella sua semplice ripetizione. La magia scorreva sul fondo del proprio
essere, una corrente di potenza che si irradiava e serpeggiava nel suo
corpo, irrorandolo attraverso le ramificazioni. La magia intrinseca al
cerchio di rune ne diminuiva il flusso, una frana continua e impetuosa
che ne tappava la sorgente.
Ledah si inginocchiò e spostò i detriti a fatica,
più in fretta che poté, prima che un nuovo crollo
la seppellisse. La corrente aveva conservato la sua iridescenza sporca,
intorbidita da un nero diluito. Osservandola, sembrava inchiostro
annacquato. Ledah la raccolse nelle mani a coppa e bevve.
“Vieni da me.”
La frana lo travolse, crudele e inaspettata. I ciottoli gli finirono
nel naso, in bocca, in gola: lo aveva sepolto vivo. Chili e chili di
terra gli comprimevano il petto e gli ostruivano le narici e la gola,
impedendogli di respirare o gridare aiuto. Ma, anche se avesse potuto
parlare, nessuno sarebbe giunto in suo soccorso: la sua mente era
intrappolata sotto le macerie e il suo corpo incatenato.
Rimase così per ore, o così gli parve. Nel buio
di quella prigione il tempo si disgregava, era la maschera di sabbia
ruvida che gli aderiva al viso.
Riemerse che il respiro gli raschiava la gola arida e sospingeva il
sangue dalle ferite lungo la curva del labbro inferiore. Le catene che
gli avevano torto le braccia si stavano pian piano allentando. Fu un
sollievo quando riuscì a toccare il pavimento con tutta la
pianta dei piedi. Non dovevi chiamarmi. Sei di nuovo senza forze.
L'elfo fece una smorfia all'udire quella voce autoritaria, seppur non
fisica, che sovrastava tutte quelle che gli infestavano il cervello.
Era più reale di loro e dalla goccia che stillava in
lontananza. Nella follia di pallini neri che gli sfarfallavano davanti
agli occhi, Ledah distinse la figura dello spirito di Aasterian.
"Dovevo fare qualcosa. Se mi arrendessi, loro mi schiaccerebbero." Ora che sei così debole, sarà una lotta
impari.
"Lo so, ma meglio questo che rimanere qui senza fare niente. Airis...
Airis è viva? Tu puoi trovarla?"
Aasterian non rispose. Lo spirito del capobranco dei Lycos lo fissava
da oltre il cerchio di rune, un'essenza dai contorni instabili e
trepidanti come le fiamme di un camino. Scintille blu si staccavano
dagli arti o dalla lunga coda e poi svanivano nell'aria senza alcun
rumore. Negli occhi luminosi, Ledah non scorgeva altro che il bianco
infinito e opalescente dell'eternità. Potrei, ma perché io possa continuare a
manifestarmi devo attingere energia da te. E poi... lei non te lo
permetterà.
"Fosse per lei, io dovrei essere già morto." Potrebbe essere una ricerca vana.
"Non mi interessa." Arawan sarebbe fiero di te.
Fu il turno di Ledah di raccogliere i pensieri. Sua madre era di sangue
reale, una discendente del Re, l'unico che aveva unificato gli elfi del
nord e del sud in un unico regno. Elladan – o quello che
rimaneva di lei – sua sorella e lui erano gli ultimi della
sua genia. Se le divergenze non li avessero portati a un'altra
separazione, se gli elfi di Llanowar non fossero ritornati alle vecchie
usanze, ora il trono sarebbe stato suo. Una pesante eredità
che non avrebbe voluto, appartenente a un antenato che conosceva solo
dai racconti di suo padre e dalle storie della sua gente. Non era il tuo posto, quello.
"Lo so. Riflettevo solo sul fatto che adesso le cose sarebbero diverse."
Aasterian si sedette sulle zampe posteriori e guardò in
alto, scrollando la folta criniera attorno al collo. Non ci è dato conoscere il futuro.
"Non mi è mai interessato conoscerlo. È che a
volte mi viene spontaneo domandarmelo." Lo so. Tutti i vivi lo fanno.
Ledah prese un profondo respiro. La magia che li teneva uniti era un
filo sottilissimo e liquido che riverberava di una luce blu. Sarebbe
bastata la forbice di un Arcanes inesperto per reciderlo, ma era la sua
unica possibilità per trovare Airis. Si era aggrappato
all'idea che fosse ancora viva, l'aveva coltivata e cullata dentro di
sé assieme a quella persistente sensazione che lo aveva
portato a maturare quella speranza, e non l'avrebbe mollata nemmeno se
fosse stato in punto di morte.
"Attingi a quanta più magia puoi. Lyssandra potrebbe
scoprirmi e interrompere il legame prima che tu riesca a rintracciarla." Se prendessi troppa energia, non riusciresti più a
respingere le voci.
L'elfo inspirò rumorosamente dal naso.
"Prendi ciò che devi e lasciami quel che basta per non
crollare." strinse i denti, sollevò la testa e
legò il suo sguardo a quello di Aasterian. "Trovala." Se è ancora viva, la troverò.
Il Lycos alzò di scatto le orecchie e si voltò di
tre quarti, piegando il capo di lato. Vado. Lei sta arrivando.
Svanì e in quel momento il rumore di passi che si
avvicinavano giunse chiaro anche a Ledah. Come svuotato, la testa gli
ricadde sul petto e le ginocchia cedettero alla stanchezza. Anche se
piccola, quella nuova deviazione della corrente principale
già lo logorava. Poteva sentire ogni goccia che usciva dalle
sue ramificazioni, percorreva il filo e si riversava in Aasterian. Il
dolore germogliò dal nulla e invase tutto: la pelle, i
muscoli, le ossa, ogni singola fibra del suo essere si
rattrappì. Il suo corpo smise di appartenergli. Non avrebbe
dovuto cedere alla magia. Non era sicuro nemmeno che avrebbe resistito
fino a quando Aasterian avesse trovato Airis. Non puoi fidarti di lei. Era una serva di Lyssandra. Traditrice! Ti avrebbe consegnato nelle sue mani!
Ledah strinse i denti. Combatté l'istinto di urlare,
schiacciò la disperazione contro la cassa toracica e la
raschiò contro lo sterno finché non rimase altro
che un gorgogliante grumo di sangue, che fluì tra le sue
dita. Le grosse gocce pesanti di quel sentimento viscoso si
depositarono sul fondo della sua anima in un lago ghiacciato,
abbacinante nel suo bianco mortale.
“Zitte. Silenzio.”
Le voci risero tutte insieme, un coro irridente di folletti maligni. Lo
afferrarono con le loro mani prive di consistenza e lo trascinarono in
basso. Anche schiacciato con la schiena contro la lastra gelida, Ledah
combatté con le unghie e con i denti. Urlò,
scalciò, tirò pugni finché l'incubo in
cui era stato trascinato non si dissolse in un crepuscolo arido e
popolato da sogni informi, abbozzati nella loro essenza, ma troppo
stanchi anch'essi per dominare la sua mente inquieta.
Quando si svegliò, ore o minuti dopo, si accorse subito di
non essere solo.
- Guardami - gli ordinò Lyssandra.
Ledah obbedì. Anche se non glielo avesse imposto, si
rifiutava di rimanere prostrato ai suoi piedi.
La donna che lo fissava non aveva l'aspetto di sua madre, ma lui
intuiva dal suo sguardo che quelle sembianze non erano altro che un
costume di scena.
- Vedo che le ferite sono guarite. - commentò indifferente,
per poi ripulirsi una sbavatura del rossetto all'angolo della bocca con
il pollice, - Sarebbe stato un problema se Brandir ti avesse
danneggiato troppo. -
- Sei stata tu a mandarlo qui? -
- Ci teneva molto a rivederti. -
Ledah scrollò il capo in modo da spostare le ciocche dagli
occhi. Così sciolti, senza nulla a trattenerli, erano una
folta criniera nera e liscia che gli copriva tutta la schiena e gli
tarpava il respiro.
- Come puoi fare tutto questo? -
- A cosa ti riferisci? -
- Servire Aesir. Posso capire il tuo rancore nei miei confronti, ho
vissuto la guerra e ho visto coi miei stessi occhi cosa significa lo
stupro per una donna. -
Serrò le palpebre, ma non servì a niente: i
Ferirael, i bambini mezzosangue, gli si erano impressi a fuoco nella
memoria. Lasciati a morire di fame, freddo e stenti appena nati.
Perché ogni vita andava accolta, ma che fosse la foresta a
decidere del loro destino.
- Dopo tutto quello che ti ha fatto, come puoi anche solo concepire di
stargli accanto? - continuò e i suoi occhi divennero delle
piccole fessure, - Perché non mi hai ucciso quando potevi? -
Non si aspettava una risposta. Quello che aveva detto era solo
ciò che si era sempre domandato. Si stupì quando
Lyssandra si avvicinò fino a sfiorare con la punta delle
scarpe il perimetro del cerchio di rune.
- Elladan avrebbe voluto abortire. Considerava ogni vita sacra,
così come Haldamir, ma quello che le stava crescendo dentro
le ricordava il dolore che aveva provato durante tutto il rapporto. Ha
provato a cancellarti dalla sua esistenza. Ha usato i semi di
trifoglio, prezzemolo e tutte le erbe che è riuscita a
procacciarsi. Che stolta: non si può uccidere il figlio di
un dio con radici di tannino o coriandolo. - sorrise e si
lisciò la gonna con un sorriso saputo, - Sei cresciuto e
alla fine sei nato. Elladan non voleva nemmeno toccarti. Hanno provato
a darti a lei dopo il parto, ma non ha voluto. Ti osservava, mentre la
levatrice ti puliva gli occhi e la bocca. Se avessi pianto, forse
avrebbe ceduto, ma tu ti limitavi a guardarla. L'unica che si
è azzardata ad avvicinarsi è stata sua figlia,
Aiwen. Le sue sono state le prime braccia che ti hanno stretto. -
La sua mano andò a un ciondolo che portava al collo, una
sfera blu perfetta, e lo fece scivolare sotto il vestito.
- “Colui che distrugge”, è il
significato del tuo nome. È stato lei a sceglierlo. -
- Lo so. È stata anche lei a risvegliare
l'eredità di Aesir latente in me. -
Lyssandra scosse la testa: - No, a quel punto della storia Elladan non
c'era più. Era morta poco a poco. Più tu
crescevi, più lei moriva. Si può dire che sia
stata la tua prima vittima. È stata una lunga agonia. A
volte ha creduto di poterti amare, ci ha pure provato, ma poi si
ricordava di come eri stato concepito. Bastava anche solo un lampo di
quei momenti per farla desistere. In ogni caso, prima di morire ha
sfruttato bene il suo tempo. Ha letto tutti i libri di Haldamir sulla
guerra degli dei, su Aesir, Yggrasil, tutte le leggende tramandate dai
popoli da loro creati. Ti stupiresti se sapessi cosa ha scoperto. -
Si innalzò di qualche spanna in aria e lo
inchiodò con gli occhi.
- Dicono che la storia la scrivano i vincitori, ma non è
vero. Non basta l'autorità di un bardo o di un re per
radicare una credenza nella realtà. Quella è solo
la prima di una lunga serie di passi, l'inizio, ma non l'essenziale.
Perché la storia diventi tale, bisogna ricercare un motivo
di odio. Disumanizzare il popolo che si ha appena sconfitto, rendere i
loro martiri dei folli, i loro soldati dei nemici. Era sufficiente un
solo dito puntato, qualcuno che accusasse qualcun altro di essere
l'artefice delle sue disgrazie. Da lì era solo una strada in
discesa: morte, sangue, dolore, rabbia e furore si accumulavano e
sommergevano la realtà oggettiva, la seppellivano sotto un
cumulo di macerie fumanti e, alla fine, ciò che restava non
era altro che una visione distorta della verità. E le cose
non sono mai cambiate, ancora oggi va così. -
La risata di Ledah sibilò tra i denti simile a un ringhio: -
Stai provando a farmi credere che Aesir sia il protagonista buono e
incompreso? -
Lyssandra non rispose subito e a Ledah venne da ridere al pensiero che
quello fosse il loro primo discorso madre-figlio, il massimo
dell'intimità che avessero mai condiviso.
- Se quella notte Haldamir non avesse fermato Elladan, se non l'avesse
uccisa prima di terminare il rituale, a quest'ora la verità
sarebbe emersa. Tutti voi vi opponete a ciò che millantate
di conoscere. Uomini, nani, orchi, elfi, tutti pensate di avere in mano
un diamante, quando in realtà stringete solo un insulso
zircone. Nonostante tutto ciò che hai subito nel corso della
tua vita, nemmeno tu riesci a capire, Ledah. -
L'elfo sussultò. Era la prima volta che pronunciava il suo
nome. E non era venato di rabbia od odio, come si era aspettato.
- Gli elfi si pensa siano la razza più bella e armoniosa del
mondo, eppure ne esistono molti che, pur essendo alti, sono brutti e
sgraziati, peggio degli uomini. I Drow sono conosciuti per la loro
spietatezza, per aver ridotto tutta Esperya in schiavitù,
eppure ci sono madri che amano i figli più di loro stesse. -
gli arrivò vicino e gli sfiorò la guancia con una
carezza quasi materna, - È conoscenza comune che le persone
coi capelli rossi siano i servi corrotti di Aesir, ma tu non hai
esitato a fidarti di una di loro quando sei rimasto solo. -
- Perché gli uomini sono superstiziosi. -
- Gli orchi credono che mangiare la carne degli animali uccisi doni
loro la forza, mentre gli elfi di Llanowar si scambiavano il primo
bacio sotto il vischio perché così l'amore
sarebbe stato eterno. Cosa sono queste, se non superstizioni? Non hanno
una logica se non la cieca fede in ciò che gli antenati
tramandano, eppure nessuno dubita. Sono verità sacrosante e
imprescindibili. È sufficiente guardarsi intorno per
accorgersi di quanto siano fallaci: le persone e i fatti smentiscono il
passato. Ma non basta, non basta mai ed è per questo che
è necessario un sacrificio, un'immolazione
affinché tutti sappiano. Affinché anche tu
sappia. - gli prese il mento e lo avviluppò nel suo sguardo
di fuoco, - Airis era una mia creatura. Io l'ho resa una mia
Risvegliata, io l'ho trascinata nel fango, io le ho strappato la sua
dignità. Ma sei stato tu, quando l'hai uccisa, a consegnarla
nelle mie mani. -
Fu come se gli avessero tolto la terra sotto i piedi. La voci gli
assalirono le orecchie, feroci, predatorie L'hai uccisa. Mostro!
- Non è vero... -
Lyssandra gli spostò una ciocca dietro l'orecchio, le labbra
coperte di rossetto aperte su un sorriso crudelmente sincero.
“È una bugiarda.” No, lei non mente mai. Hai le mani lorde di sangue. Del suo sangue, di Airis!
- Non è vero! Non l'avevo mai vista, io... -
Uno squarcio bianco occupò tutto il suo campo visivo.
Brandir a terra, il petto sfondato. I suoi compagni a terra, bambole di
carne dagli occhi di vetro, ancora caldi, coperti da tanti, troppi
altri. Alcuni non avevano nemmeno le orecchie a punta.
- La verità è un cristallo di ghiaccio. Se lo
stringi troppo forte, potresti tagliarti. - sussurrò
Lyssandra e uscì dal cerchio di rune per andarsene dalla
cella.
- Non l'ho uccisa io, non sono stato io! - gridò Ledah
strattonando le catene, ma esse lo tirarono indietro e lo sollevarono
da terra, - Non sono stato io! Non sono stato io! -
Lyssandra ghignò e la porta si chiuse nel buio con un tonfo
secco.
- Non sono stato io... -
Ledah voleva piangere, ma gli occhi erano asciutti. La voce si
frantumò in un singulto e le parole, le stesse che aveva
ripetuto al nulla, si persero nelle tenebre. Sei solo un assassino.
Lyssandra entrò a grandi falcate nella Camera del Consiglio.
I dieci consiglieri si alzarono in sincrono e attesero che la regina
prendesse il suo posto al tavolo. Luce calda bagnava la sala,
ammantandola con il chiarore ambrato del primo mattino. Il camino in
fondo era spento e l'unica cosa che bruciava erano gli incensieri, dai
quali si innalzavano volute della fragranza intensa dei ciclamini e dei
fiori d'acanto.
Un paggio, un ragazzo di sedici anni con i capelli legati in una coda
da guerriero e il naso a patata, accorse alle spalle dello scranno e lo
spostò per far sì che la regina potesse sedersi,
prima di defilarsi a un suo cenno.
- Buongiorno, consiglieri. -
- Salute a voi, mia regina. - Kitiara Azlan prese la parola, - Spero
che abbiate dormito bene stanotte. Dall'ultima volta che ci siamo
riuniti, mi si riempie il cuore di gioia a vedervi meno afflitta. -
- Anche se è difficile da sopportare, Voren ha scelto me per
tenere le redini del regno e non posso permettere al dolore di
sopraffarmi. Sono comunque felice che la mia salute vi stia a cuore,
consigliera – rispose, giunse le mani in grembo e le rivolse
un sorriso affettato.
La donna strinse appena le labbra. Nonostante fosse un'umana, Lyssandra
doveva riconoscere che aveva un ottimo sangue freddo. Sarebbe potuta
essere un'ottima pedina, se solo non avesse giocato dalla parte opposta
della scacchiera.
- Siamo qui per portare alla vostra attenzione alcuni nostri... dubbi.
Come ben sapete, la guerra dura da molto tempo e voi, così
come il nostro re, avete scelto di perseguire la sua causa. Nonostante
le altre città, umane e naniche, appoggino la vostra
volontà, desiderano sapere come intendete muovere l'esercito
e come e dove si svolgerà la celebrazione in memoria dei
caduti. -
- Considerando l'andamento delle ultime battaglie, reputo opportuno
indire un consiglio di guerra con i nostri comandanti. Llanowar
è caduta, ma le scorrerie dei suoi abitanti non sono
cessate. Il motivo dell'esplosione ci è ancora ignoto ed
è rischioso mandare degli esploratori a raccogliere delle
prove con questo tempo così instabile. Tuttavia, reputo
anche necessario capire qual è l'arma che gli elfi stavano
costruendo, affinché i nostri maghi possano essere
preparati: non sappiamo in quanti fossero coinvolti, se quello che
è accaduto è stato un vero e proprio suicidio o
se hanno perso il controllo della forza che stavano maneggiando. Questa
è nostra priorità. Il fronte a Sheelwood sta
avanzando, anche se la nuova alleanza con gli orchi è stata
improvvisa e inaspettata, ma i nostri uomini non cedono terreno. -
- E le città del nord? Sono rimaste in poche, tutte
addossate sulla costa sud-est. Il governatore di porto Eamone
è molto preoccupato, teme che gli elfi possano attaccare la
sua città. -
- Dubito che i nostri nemici si spingeranno mai così lontani
dalla loro amata foresta. Comunque avevo già preventivato di
inviare altri uomini. Anche se poche, non possiamo perdere quelle
città: sono dei porti, abbandonarli a se stessi
significherebbe cedere il nord agli elfi e questo non possiamo
permetterlo. -
- Io vi appoggio, ovviamente. - intervenne Caitriona Zagaloth.
Era una donna del sud, appesantita dal tempo, ma che manteneva ancora
il fascino della gioventù nelle curve disegnate dalla tunica
viola, con le due asce dorate della spilla che parevano pretendere
l'attenzione di tutti. I lunghi capelli ondulati erano sciolti sulle
spalle e conservavano qualcosa del loro riflesso violaceo. I magnetici
occhi scuri erano ombreggiati da lunghe ciglia nere, abilmente curvate
all'insù.
- La mia lealtà e quella della mia famiglia è
indiscussa. Abbiamo servito la casata reale per generazioni, senza mai
mettere in discussione il vostro sacro diritto di governare. Tuttavia,
per quanto io vi possa seguire, non posso non notare un certo scontento
tra le nobili famiglie delle province. Percepiscono il nord come una
terra lontana e distante, i più non si sono mai spinti al di
là dei Monti Neri. Non sto mettendo in discussione la loro
lealtà, ma non credo sia cosa nuova che molti si stiano
domandando per quanto dovranno ancora combattere. -
- Per il tempo che sarà ancora necessario. Purtroppo, non ho
incominciato io questa guerra, ma in onore dei miei predecessori non
posso deporre le armi ora: Llanowar è caduta e adesso anche
il dominio di Sheelwood sta scricchiolando. Voren era un uomo
lungimirante, ma non ha fatto in tempo a veder terminare la sua
muraglia. -
Era stata una sua idea: torrette di segnalazione non solo nelle
città, ma anche e soprattutto lungo tutta la costa e fin
nell'interno del continente, una rete capillare che innervava tutto il
Nord. Erano sempre esistite, ma solo negli ultimi anni erano state
spostate delle importanti somme di denaro per la loro ricostruzione,
gestione e manutenzione.
"Tutto merito mio."
- E Alabastria? - Kitiara Azlan la trafisse con uno sguardo di
ghiaccio, - Come pensate di gestire la ritirata di re Balor
dall'alleanza? -
La porta si spalancò e il paggio che le aveva spostato lo
scranno venne quasi travolto da un messaggero. Aveva gli abiti sporchi,
gli stivali e i pantaloni strappati e il capello di feltro stretto in
mano. Si inginocchiò rapidamente e fissò
Lyssandra dritta negli occhi.
- Mia regina... Alabastria è caduta. - disse tutto d'un
fiato.
Un mormorio spaventato serpeggiò tra i consiglieri.
Lyssandra trattenne il sorriso dietro le labbra.
- Com'è possibile? - obiettò Reynridan Cal'doran
con una nota isterica nella voce.
- Parla, ragazzo. - lo esortò Ynyr Fellmoor.
Il messaggero deglutì e prese un respiro profondo: -
Alabastria è caduta, consiglieri. Non appena hanno visto i
fumi alzarsi verso il cielo, l'esercito è stato mobilitato.
Le pattuglie che sono state mandate hanno solo trovato cenere e
macerie. Non sappiamo ancora nulla di Lotka, ma temiamo che... -
Ynyr si lasciò ricadere sulla sedia e Kitiara Azlan
allungò le braccia, intrecciando le dita davanti a
sé. Un silenzio sepolcrale invase la sala.
- Guardie. - enunciò Lyssandra.
Bastò quell'unica parola e i soldati entrarono.
- Assicurate un bagno caldo, cibo e un letto a questo messaggero. -
ordinò.
Quindi appuntò lo sguardo sui consiglieri al tavolo,
atterriti dalla notizia. Nascose la soddisfazione dietro il velo del
lutto, quello che portava da quando suo marito era morto, e si
schiarì la gola.
- Non disturbateci finché non avremo finito. - aggiunse
mentre la porta si chiudeva.
I contorni delle piume dorate sulle ali che circondavano una spada
istoriata con l'effige di un lupo, incise nel centro del tavolo,
parvero svanire nella luce.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Eccomi a rapporto. Stavolta non vi dico nulla se non che mancano solo 3
recensioni per il giveaway ** Orsù, fatevi sotto! Per
seguire poi l'andamento del giveaway il link è QUI
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Melwen strinse le coperte
per proteggersi dagli spifferi che si infilavano tra i vecchi infissi e
fissò il soffitto, controllando l'intensità dei
suoi respiri. I polmoni erano costretti dalle catene della stanchezza e
un'irrequietezza notturna le serpeggiava tra i muscoli sotto forma di
un lieve e costante tremore. Era come se fosse caduta preda della
febbre. Quasi quasi sarebbe stato meglio.
Vicino a lei, Zefiro si girò, tirandosi le lenzuola fin
sopra la testa. Nel buio, Melwen lo visualizzò mentre
sprimacciava il cuscino e vi affondava il viso, una mano proprio sotto
la testa e l'altra allungata verso di lei, con le dita appena piegate.
Le sarebbe bastato protendere la propria per toccarla.
Deglutì e si leccò le labbra screpolate. La
saliva ammorbidì la pelle, che, come una calza troppo tesa,
si rilassò sui piccoli tagli umidi. Le facevano ancora male,
ma il sapore del miele sovrastava quello del sangue quanto bastava per
rendere quel fastidio sopportabile.
- Stai dormendo? - domandò Melwen.
La domanda aleggiò nella stanza, sfiorando la superficie di
silenzio notturno come una falena.
- No. -
Il fruscio delle lenzuola l'avvertì che Zefiro si era girato
ancora, stavolta verso di lei.
- Ti ho svegliato? -
- Non mi sono mai addormentato. - sbatté le palpebre e si
mise una mano sulla bocca per coprire uno sbadiglio, - La tisana di
Eogann non era poi così forte come diceva. -
Melwen si concesse un sorriso quando Zefiro si stropicciò
gli occhi. La coscienza la bacchettò per averlo destato dal
sonno, ma non riusciva a sentirsi veramente in colpa.
Si voltò verso di lui, poggiò la mano vicino al
guanciale e gli avvolse un dito. La pelle era fresca, pareva ghiacciata
a confronto con la sua.
- Sei caldissima. - constatò Zefiro con una punta di
preoccupazione, - Vuoi che vada a chiamare Eogann? -
- No, non può fare nulla. È... è
normale. Sarebbe successo in ogni caso, con quelle concentrazioni di
efedra. -
- È tutta colpa di Nyi. Se non avesse esagerato, ora non
staresti così male. -
Melwen fece un profondo respiro. Era inutile che cercasse di spiegargli
perché lo avesse fatto. C'era troppa rabbia in lui, troppo
rancore per quei giorni di marcia forzati, sotto lo sguardo rancoroso
del suo maestro di giorno e in fuga dai suoi demoni personali di notte,
quelli di cui le raccontava a mezza voce quando credeva che stesse
dormendo.
- Passerà. Un paio di giorni e sarò di nuovo in
forze. -
- Non riesco più a vederti in questo stato. A volte... a
volte sembravi come loro. -
- Loro? Loro chi? -
Zefiro storse le labbra, a disagio.
- Come quelli che ci hanno attaccato a Luthien e ad Alabastria. Avevi
gli occhi vuoti come i loro. -
Melwen rilasciò un sospiro. Sotto la patina di sudore che le
ricopriva il corpo poté sentire il brivido freddo della
paura.
Lo aveva pensato anche lei. Era stato un flash rapidissimo, che l'aveva
gettata al cospetto di un viso cinereo. Gli occhi inespressivi di
quelle creature, il lucore lattiginoso simile a pasta vitrea che ne
annebbiava lo sguardo era lo stesso che aveva visto al funerale
dell'amico di suo padre quando era piccola.
- Era solo l'effetto dell'efedra e della stanchezza. -
asserì con la voce che tremava appena.
- Lo so, ma non ho potuto fare a meno di pensarlo. È tutto
ancora così vivido, Melwen... mi basta chiudere gli occhi e
mi sembra di essere ancora lì. - le acchiappò un
altro dito e continuò in un sussurro, - Ho sonno e vorrei
dormire, ma ho paura di vederli ancora. O di svegliarmi e scoprire che
non siamo mai riusciti a scappare. -
Melwen non disse nulla. Ecco un altro segreto che Zefiro aveva
confessato soltanto a lei. Una volta le aveva detto che provava invidia
per il suo sonno leggero. Lui, invece, rimaneva intrappolato nei suoi
incubi fino al mattino: per quanto urlasse, la sua voce echeggiava solo
nella sua mente. Era stato sempre così, da quando era
scappato da Amount-vinya fino alla fuga da Alabastria, prigioniero fino
al sorgere del sole, come una maledizione.
Zefiro spostò le lenzuola e si puntellò sul
gomito.
- Mamma è preoccupata per te. -
- Perché non parlo? -
- Lei e Nyi non sanno che con me lo fai. Non ti fidi di loro? -
Melwen scosse la testa: - Non è questo. -
- Allora perché? -
- Non lo so. Loro... -
Non sapeva cosa rispondere. Come poteva spiegargli che aveva timore di
esporsi, di sentirsi ancora più colpevole di quello che
già era? Perché sebbene Melwen fosse
sopravvissuta, non poteva sentirsi grata di quel privilegio. Nei
racconti a salvarsi erano i migliori, gli eletti latori di grandi
cambiamenti. Ma lei? Cosa era la sua vita rispetto alle centinaia
falciate via a Luthien e ad Alabastria? Ogni volta che aveva osato
incontrare gli occhi di Nyi e di Myria si era sentita in dovere di
trovare una giustificazione al fatto di essere ancora viva. Suo padre,
Baldur, Nordri, coloro che avevano qualcosa da dare al mondo erano
tutti morti. Lei, invece, una bambina senza meriti, era ancora
lì.
- Melwen... -
- Non me la sento di affrontarli. Non ancora. -
Zefiro intrecciò le dita con le sue e le strinse forte. Lui
più di tutti poteva capirla. Erano uguali: due innocenti ai
ceppi, legati dalla colpa di essere vivi.
- Passerà. Un giorno capiremo perché. - il
bambino abbozzò un sorriso, - Il passato è una
certezza, il presente non esiste e il futuro è una sorpresa.
Magari c'è qualcosa in serbo per noi che darà un
senso a tutto questo. -
- Come nei libri. -
- Sì, come nei libri. C'è sempre un motivo dietro
la morte dei genitori dell'eroe o la dipartita di un amico. Lo hai
sempre detto anche tu: gli ostacoli servono per temprare i protagonisti
delle storie. -
Melwen si mise supina a fissare il soffitto, che nel buio era
punteggiato da una costellazione di incostanti macchioline colorate.
- Come fai a sentirti un protagonista dopo tutto ciò che ti
è successo? - gli chiese, inclinò la testa e
nascose lo sguardo dietro le onde dei propri riccioli, - Io mi sento un
personaggio secondario in balia dei capricci di uno scrittore indeciso
e incapace. Nessuno leggerebbe una storia così tragica e
senza senso. -
- No, hai ragione, piacerebbe a troppe poche persone. -
scherzò.
- Avrei detto a nessuno. -
- Solo perché la gente non sa aspettare. A me piacciono le
storie che si sviluppano lentamente, che danno spazio anche ai
personaggi di poco conto. Non so leggere molto bene, ma più
delle ballate dei bardi ho sempre apprezzato i racconti di Alan e di
mio padre. Loro davano importanza a tutte quelle piccole cose che nei
libri più famosi non vengono nemmeno presi in
considerazione. Dedicavano attenzione anche ai compagni meno
conosciuti, quelli con cui avevano scambiato solo qualche parola, o ai
mercanti, o agli accattoni o alle lavandaie. Nei loro racconti tutti
erano protagonisti, in un modo o nell'altro. Tutti abbiamo qualcosa di
speciale, Melwen. Solo che a volte è difficile da vedere,
tutto qui. -
- Quest'ultima frase la pronunciano spesso anche i peggiori cantori. -
- Ma non significa che non sia vera. -
- Tu sei sicuramente diverso dagli altri. -
Melwen si strappò le coperte di dosso e si issò a
sedere, le gambe incrociate sotto la leggera camicia da notte. Il
sollievo che provò quando l'aria fresca della stanza le
accarezzò la pelle accaldata le procurò un
piacevole brivido freddo lungo le braccia e la spina dorsale.
- Non so nemmeno spiegare cosa sia successo, Melwen... -
- Ma è un chiaro segno che c'è qualcosa di
speciale in te. Nessun uomo avrebbe mai potuto distruggere uno
spallaccio così. - lo fissò con gli occhi
sgranati, la mente di nuovo iperattiva che ricercava indizi, associava
ipotesi e creava collegamenti logici, - È da quando me lo
hai detto che ci penso, ma ancora non ho trovato una spiegazione. -
Zefiro seguì il suo esempio e si appoggiò alla
testiera del letto.
- Ho paura di quello che sono. -
- E perché mai? Tu mi hai salvata. Se non fosse stato per
te, sarei morta. -
L'euforia si infranse contro un muro di silenzio. Zefiro aveva giunto
le mani in grembo e fissava il pavimento con la testa incassata nelle
spalle, improvvisamente rimpicciolito, accartocciato su se stesso come
se volesse sparire. Il peso di qualcosa di non detto divenne tangibile
come l'aria che respiravano, sabbia in gola che si appiccicava al
palato e rattrappiva la lingua.
- C'è qualcosa che non so? -
Non doveva essere una domanda, ma Melwen voleva concedersi il beneficio
del dubbio.
- … no. - esitò, alzò lo sguardo su di
lei e si spostò i capelli con una ventata di mano, - Ho
molta sete. Ce la fai ad accompagnarmi in cucina a prendere un bicchier
d'acqua? -
Melwen si morse l'interno della guancia. La sua mente scalpitava,
avendo fiutato la bugia, e smaniava per il desiderio di stanarla,
eviscerarla, analizzarla. Si sentiva offesa dalla sua sfiducia, ma, per
quanto infastidita, l'istinto le cucì le labbra.
"Me ne parlerà. Ha solo bisogno di tempo, come me."
- Anch'io ho bisogno di qualcosa di fresco. - asserì e, si
rese conto, non era poi così lontano dalla realtà.
La cucina e il salotto erano una stanza unica, piccola ma molto
ordinata. La tovaglia era stata piegata accuratamente e sistemata sulla
sedia accanto al tavolo di noce dove avevano cenato, il pavimento
spazzato e le posate riposte nei cassetti. Le candele profumavano
l'ambiente e scacciavano il buio, spandendo assieme alla luce l'essenza
di limone, lavanda e cannella. Grosse e tozze, sembravano dei cristalli
opachi ricoperti da finimenti di cera.
Melwen si fermò e inspirò a pieni polmoni.
- È davvero buono... -
- Più che buono, rilassante. -
La bambina aprì gli occhi e annuì.
Andò fino al tavolo e prese la teiera di ceramica per il
manico, sollevandola dalle piccole braci calde che sfrigolavano a
qualche pollice dal legno.
- Avvicini le tazze? -
Zefiro non se lo fece ripetere. Le porse prima quella con un giglio
dipinto sulla superficie e poi quella con un soldato stilizzato in
groppa al suo destriero rampante. Almeno, quello doveva essere
nell'immaginario del piccolo artista che lo aveva dipinto.
"Anche io ne avevo fatta una per mio padre."
Seppellì la malinconia in un lungo sorso di tè e
si diresse verso la poltrona vicino al camino. Del fuoco non era
rimasto granché, solo qualche ciocco carbonizzato,
però bastava a riscaldarla. La maggior parte
dell'illuminazione proveniva dalle candele che Eogann aveva posizionato
anche sulla mensola, alternate a diversi giocattoli in legno e di
pezza. Il cerbiatto sull'angolo più lontano sembrava
indicare col muso la casetta rossa dipinta nel quadro sulla parete. Per
Melwen era semplice immaginarlo mentre la fissava con i suoi occhi
curiosi, indeciso se avvicinarsi al recinto dell'orto e rubare l'uva o
tornare correndo nel bosco dalla sua mamma. In quel crepuscolo, la sua
fantasia era un indomabile cavallo selvaggio.
- Non metti lo zucchero? -
Melwen scosse la testa e si bagnò le labbra sul bordo della
tazza.
- No, mi piace di più così. -
- Amaro? A te che piacciono i dolci con glassa, miele e pinoli? -
Zefiro si sedette sul bracciolo e la fissò, - Tu, signorina,
devi stare proprio male. -
Melwen si concesse una risata: - Mi piace assaporare l'essenza delle
diverse erbe. -
- Le riesci anche a riconoscere, scommetto. -
- Mi stai sfidando? -
Zefiro nascose il sorriso dietro la tazza, ma Melwen lo scorse
comunque. Si spostò un ricciolo che le solleticava il naso e
trattenne il tè in bocca per qualche momento.
- Verbena, menta, tiglio, papavero. -
- L'ultimo è sbagliato. -
- Non è possibile. Avrai preso un abbaglio tu. -
- No, riassaggia. -
Melwen sospirò e bevve ancora. Rimase a fissare i cerchi
concentrici che si allargavano dal punto in cui aveva immerso le labbra.
- Camomilla. - si corresse alla fine e si abbandonò a una
risata stanca, - Questo viaggio deve avermi proprio sfiancata per farmi
battere così da te. -
- Non sono così scarso come credi. Ti ricordo che mia madre
aveva un negozio di erbe ad Amount-vinya. -
- Non credevo però ti fossi mai interessato al suo mestiere.
-
- È vero, ma alcune cose a furia di aiutarla le ho imparate.
E poi mi sono sempre piaciute le tisane alla camomilla. -
- Mi sorprendi... non lo avrei mai detto. -
Zefiro fece spallucce e appoggiò la tazza vuota sulla
mensola del camino.
- Prima che mio padre morisse non le apprezzavo granché.
Mamma ha cominciato a prepararmele quando si è accorta che
non riuscivo più a dormire. Prima che si innamorasse di
Alan, anche lei la beveva tutte le sere. -
- Alan... era l'uomo che vedevo spesso assieme a lei? -
- Proprio lui. Non era il mio vero padre, ma da quando Tanet
è morto si è sempre preso cura di noi. -
piegò una gamba sul bracciolo, col ginocchio che sporgeva
verso l'esterno, - Mia madre aveva ripreso anche a fare le candele
profumate. Non erano belle come quelle di Eogann, ma quando le
accendeva sembrava che sotto il pavimento ci fosse un prato fiorito. -
Melwen lo ascoltava, rapita dalle sue parole e dai suoi occhi
brillanti, carichi di nostalgia. La sua voce era velluto, si stendeva
sugli eventi della sua storia come un panno su un servizio di piatti
antico e prezioso, sottraendolo alla vista e lasciando campo
all'immaginazione. E lei fantasticava su quella vita di cui non era a
conoscenza. Anche i più piccoli dettagli erano caramelle
succose per la sua mente affamata.
- So davvero poco di te. - lo interruppe e alzò lo sguardo
su di lui, - Da quando ci siamo incontrati non ti ho mai chiesto nulla.
-
- La mia vita è stata normale. Sei tu quella che ha aneddoti
interessanti da raccontare. -
Zefiro lasciò a penzoloni le gambe, prima di scendere dal
bracciolo e prendere tra le mani un soldatino. Indossava un'armatura
con lo stemma della capitale e un lungo ed elegante mantello arancione,
con la losanga dell'ordine del Leone cucito con un filo dorato. Le
braccia si sollevarono quando Zefiro alzò la sinistra,
quella che brandiva la lunga spada.
- Te lo ripeto, non sono una persona interessante. Sono nato e
cresciuto ad Amount-vinya finché Sershet non l'ha
abbandonata a se stessa, quando da avamposto militare si è
trasformata in una... bettola di gente affamata. - le sue spalle
tremarono quando sputò quelle ultime parole, per poi
rilassarsi, - E poi ho incontrato te. -
- Lo dici come se parlassi di un miracolo. -
Zefiro piegò alternativamente le gambe del soldato,
muovendolo sul piano della mensola come se stesse marciando in una
parata vittoriosa.
- Non dovremmo andare a letto? -
Il cambiamento repentino di argomento la lasciò senza
parole. Fissò il fondo d'erbe che galleggiava sulla
superficie del tè avanzato. I brividi si erano quietati e il
sudore le raffreddava la pelle calda sotto la camicia da notte. Non si
sentiva meglio, ma non era nemmeno peggiorata.
- Non ho voglia di alzarmi. - mugolò incrociando le gambe
sotto la gonna. - Qui si sta meglio che di là. È
più caldo, è più... -
- Familiare. - completò Zefiro.
A Melwen venne spontaneo sorridere di fronte alla sua
capacità di leggerle nel pensiero.
- Esatto. -
Il suo amico si guardò intorno, aprì la
cassettiera sotto il quadro della natura morta e tirò fuori
una pesante coperta di lana piena di pelucchi.
- Ma... ma che fai? -
- Rendo quella poltrona confortevole per la notte, mi sembra ovvio. -
spiegò e le drappeggiò la coperta sulle spalle
prima di sedersi vicino a lei.
Melwen si strinse contro l'altro bracciolo in modo da fargli posto e
intrecciò le gambe con le sue. Le guance di Zefiro si
imporporarono e l'imbarazzò gli incendiò anche le
orecchie, ma la bambina finse di non farci caso. Erano stretti l'uno
contro l'altra e ognuno poteva sentire e respirare l'aria dell'altro.
Fece passare un braccio attorno al petto e Zefiro le offrì
la spalla su cui appoggiare la testa. Il suo cuore batteva veloce
contro il palmo della sua mano aperta.
- Stai comodo? -
- Mh...-
- Lo prendo come un sì. Buonanotte, Zefiro. -
- Sogni d'oro, Melwen. -
La mattina li colse addormentati. Melwen poteva sentire il peso della
testa di Zefiro sulla propria, con il mento proprio sopra l'attaccatura
dei capelli. Serrò le palpebre e si portò il
braccio davanti al viso, ma era una barriera inefficace contro la luce
del sole mattutino. Si districò dall'abbraccio del suo amico
e, piano, spostandosi con attenzione, riuscì ad alzarsi.
I bracieri che la sera prima sostenevano in aria la teiera si erano
ridotti a una montagnetta di cenere uguale a quella che anneriva il
fondo del focolare. Melwen prese le tazze e si avviò verso
la cucina.
Si accorse di non essere l'unica sveglia quando vide che la porta era
socchiusa. Riconobbe anche la voce di Eogann che canticchiava a bassa
voce. Curiosa, si appoggiò con la schiena allo stipite per
ascoltare meglio le parole.
C'eran tre corvi all'angolo,
neri, brutti e tetri.
Uno disse all'altro:
- Ho fame, cosa mangiamo? -
Basilico, cannella e quadrifoglio.
- Laggiù c'è un gran campo di
bacche, funghi e grano.
Orsù, andiamo!
Il contadino se n'è andato. -
Basilico, cannella e quadrifoglio.
Volaron con foga nel blu
frecce veloci e rapide.
Giunsero là tutti assieme,
tra gli arbusti e le fronde inquiete.
Basilico, cannella e quadrifoglio.
Eogann si interruppe. Melwen non ebbe il tempo di reagire, che la testa
dell'uomo sbucò oltre la porta. I suoi capelli non avevano
visto un pettine dalla sera prima, eppure c'era un che di ordinato in
quelle ciocche castane che gli ricadevano sulla fronte alta, appena
solcate dalle rughe. Alle sue spalle, il fischio acuto della teiera sul
fuoco sprigionò il profumo di rosmarino e finocchio.
- Il letto non era abbastanza comodo? - le chiese con un sorriso.
Melwen intrecciò le dita dietro la schiena. Zefiro ancora
dormiva beato e lei si sentiva messa all'angolo. E non aveva alcuna
contromossa pronta.
- Non sono arrabbiato. Anzi, sono dispiaciuto più che altro:
è vero, quelli sono i letti dei miei figli e sono un po'
vecchi, ma non credevo fossero così vecchi. - scosse la
testa e si passò la mano tra la barba ispida e ribelle, - Ti
ricordi dove sono le posate? -
La bambina annuì incerta.
- Prendi anche la tovaglia dal primo cassetto dall'alto, va bene? -
Melwen capì che non era una vera domanda quando Eogann le
diede le spalle e tornò in cucina. Lo osservò
armeggiare con i cesti di erbe, mentre girava come una trottola aprendo
le ante dei pensili ed estraendo barattoli di marmellata, pane, burro e
altre leccornie, che ricordarono a Melwen quanta fame avesse.
Nonostante il borbottio allo stomaco, rimase imbambolata a fissarlo,
avvinta da quella dimostrazione di vitalità mattiniera.
Si coprì la bocca con la mano per nascondere uno sbadiglio e
si accostò alla cassettiera. Prese la prima tovaglia che le
capitò sotto mano, una di cotone leggera con il bordo ornato
con dei ciclamini, e si avvicinò al tavolo. La collinetta di
cenere era ancora lì e pareva sfidarla a toglierla.
- Ah! Giusto, mi era passato di mente. -
La risata prorompente di Eogann si addolcì nelle parole di
una formula magica. Il cumulo si alzò, compatto, e una bava
di vento lo mise alla porta – anzi, alla finestra, mentre un
panno schizzato fuori dalla cucina strofinava via gli ultimi residui.
- Sto davvero vedendo un panno che si muove da solo? -
Melwen si girò, trovandosi faccia a faccia con Zefiro. Aveva
ancora un occhio a mezz'asta e l'altro non del tutto aperto, ma aveva
riacquistato un po' di colorito, soprattutto sulle guance. Un po' lo
invidiava: gli era bastata una sola notte di sonno e il suo corpo
già si stava riprendendo.
- Eogann è un mago proprio come mio padre. - gli
ricordò mentre stendeva la tovaglia.
Zefiro si stropicciò più volte gli occhi prima di
rispondere.
- Sono cose che non si vedono proprio tutti i giorni, cerca di capirmi.
- intrecciò le dita e sollevò le braccia, facendo
scrocchiare braccia e spalle, - Posso aiutare in qualche modo? -
- Sì, prendi le posate. Ho una gran fame. -
Quando finì di dirlo si rese conto che era vero, che quel
brontolio non era dettato solo da un bisogno fisico, ma da una
piacevole voglia di assaporare ciò che Eogann aveva da
offrire.
"Non sono più nemmeno stanca."
La camicia era un po' umida sulla schiena e sotto le ascelle e i
capelli li sentiva pesanti e unti, ma non c'era traccia della sfibrante
stanchezza del giorno precedente. Anche la pelle era fresca e la sua
biblioteca mentale era in ordine: pensare con lucidità le
era di nuovo possibile.
Zefiro la raggiunse in contemporanea a Eogann. Il bambino si
bloccò a bocca aperta, mentre la teiera, il centrino, i
barattoli di marmellata e le tazze si disponevano da sole dove ci si
sarebbe aspettato di trovarle in una tavola imbandita per la colazione.
- Non ti stupire troppo. Sono solo trucchetti. - lo prese in giro
Eogann, depositando un quarto di torta sul tagliere.
Come se non avessero atteso altro, Myria e Nyi fecero il loro ingresso
nella stanza. Loro, a differenza di Eogann, si erano presi il tempo per
sistemarsi prima di presentarsi per la colazione. A Melwen faceva uno
strano effetto vederli di nuovo puliti, senza più i vestiti
laceri addosso. Le sembrava fosse passato un secolo da quando avevano
fatto colazione in una casa vera.
- Sedetevi e mangiate quello che volete senza fare complimenti.
C'è cibo per tutti. -
Eogann finì di accendere gli incensi sulla mensola davanti
al tavolo e prese posto a capotavola. Come per dare l'esempio, fu il
primo a servirsi: prese una fetta di pane caldo e la spalmò
con burro e marmellata di albicocche.
Nyi fu il secondo a sedersi. A differenza loro, sembrava perfettamente
a suo agio, come se quel trattamento di cortesia gli fosse dovuto.
Melwen aveva avuto modo di notarlo anche il giorno prima che non
mostrava alcun imbarazzo a mangiare al tavolo di un amico che non
vedeva da anni.
"Conoscente. Eogann era amico di mio padre."
Myria sospinse sia lei che Zefiro verso due sedie vicine, mentre lei
prese posto dall'altra parte del tavolo, di fronte al padrone di casa.
Anche lei ancora esitava, ma poi quando vide suo figlio allungare la
mano per prendere una fetta di torta, mise da parte ogni indugio e si
servì a sua volta.
- Ne taglio una fetta anche per te? -
Melwen annuì.
- È una torta ai ceci dolce. È dell'altro ieri,
ma dovrebbe essere ancora buona. - la informò Eogann, - Se
non ti piacesse, non ti crucciare, non sono un uomo che si offende per
certe cose. -
Sorrise e si versò il tè. Il grosso medaglione
d'argento che portava al collo scivolò lungo il petto,
arrivando a toccare il tavolo con un tonfo.
Melwen trattenne lo sguardo su di lui ancora un poco, poi
tornò a rivolgere le sue attenzioni alla fetta di pane
intrisa di marmellata. Le era parso di vedere un'ombra nello sguardo di
Eogann, la stessa oscurità liquida che gli aveva velato gli
occhi quando Nyi gli aveva riferito quanto accaduto ad Alabastria. E
mentre il suo maestro snocciolava i fatti come se stesse leggendo una
lista della spesa, Eogann lo aveva ascoltato con espressione cupa. La
presa attorno al medaglione si era fatta più stretta nel
momento in cui Nyi gli aveva spiegato perché Melwen era
lì e non a Luthien, con suo padre e la sua famiglia. Nel
salotto pervaso dal profumo degli incensi, mentre il fumo si innalzava
verso il soffitto, le parole si erano incuneate in
profondità, fino a ferire l'anima.
- … sa più giusta. -
Melwen alzò la testa dal piatto e si girò verso
Nyi. Non si era rivolto a lei, ma dal modo in cui guardava Eogann era
chiaro che ci fosse una conversazione in atto. Myria si era stretta
nelle spalle e teneva la tazza fumante vicino alle labbra, Zefiro aveva
appoggiato la guancia contro il pugno chiuso e il suo maestro aveva la
destra aperta protesa verso il padrone di casa.
- Indubbiamente. - concordò Eogann e zuccherò
ulteriormente il suo tè, - Potete rimanere quanto volete. So
che preferite partire al più presto, ma... -
- Eogann, Copernico era un mago molto più potente di te ed
è morto. Credi davvero di poterci proteggere? - lo sguardo
di Nyi era eloquente, - Più rimaniamo qui, più ti
mettiamo in pericolo. Se è vero che stanno cercando Melwen,
l'unica cosa che possiamo fare è rifugiarci alla capitale.
Lì sarà al sicuro. -
Le rughe sulla fronte di Eogann divennero più profonde.
Prese la tazza con entrambe le mani e se la portò alle
labbra, senza però inclinarla per bere.
- Allora ripartirete tra tre giorni. -
- Sì, è la cosa migliore per tutti quanti. -
- Bene, fino ad allora però risparmiate le forze.
Soprattutto tu, Nyi. - gli lanciò un'occhiata in tralice e
poi si alzò, - Voi finite pure di fare colazione. Io intanto
vado a rafforzare le barriere magiche attorno alla casa. -
Si congedò con un saluto militare e uscì senza
aggiungere altro. Myria scosse la testa e storse le labbra in una
smorfia di biasimo che non sfuggì a nessuno, nemmeno a Nyi.
- È per il suo bene. Prima ce ne andiamo, meglio
è. - ripeté senza scomporsi e afferrò
un biscotto dalla ciotola.
- Sei stato sgarbato. -
- Sono stato chiaro, è diverso. Copernico era un grande
mago, un Arcanes come non ne avevo mai conosciuti. Lui ci sa fare, ma
nemmeno prima di abbandonare gli studi poteva vantare la sua stessa
bravura. Perciò preferisco che non si faccia false speranze:
ripagherò la sua gentilezza, un giorno, ma non
può e non deve seguirci o fare più del
necessario. - si pulì una macchia di cioccolato all'angolo
della bocca, - Se rimaniamo troppo, esponiamo non solo lui, ma anche
tutta la sua famiglia. E voi non volete che, tornando, sua moglie e i
suoi due figli trovino un cadavere o gli dei soli sanno cosa, giusto? -
Mirya assentì, anche se non si tolse dalle labbra la smorfia
di sdegno. Si rivolse a Melwen con una voce molto più dura
di quello che lei si aspettasse, facendola sobbalzare.
- Avete bisogno di un bagno, voi due. - sancì.
- Fa' prima Melwen, io mi occupo di prendere e scaldare l'acqua. - si
propose in fretta Zefiro.
Non servì che dicesse altro. Melwen si alzò e
subito si defilarono.
Il bagno era una stanza piccola, ancora impregnata di vapore. Piccole
gocce d'umidità scivolavano lungo la superficie dello
specchio senza cornice. Due asciugamani erano stesi su un appendiabiti,
mentre un altro paio era impilato su una sedia vicino alla vasca.
- Sicuro che possa fare prima io? - chiese incerta Melwen.
- Sì. E poi a me non pesa sciacquarmi con l'acqua fredda. -
Zefiro si chiuse la porta alle spalle e fece avanti a indietro dal
pozzo di fianco alla casa un po' di volte prima di riempire la vasca.
All'ultimo giro, tornò con una tunica in velluto arancio a
maniche lunghe.
- Te la manda Eogann. - le riferì, per poi lasciarla sola.
Melwen si crogiolò a lungo nell'acqua calda. Eogann aveva a
lasciato a disposizione sul lavandino diverse boccette e piccole
ciotole di terracotta con creme dai colori più intensi e
disparati. Ne raccolse una all'essenza di limone, con la quale si
massaggiò i capelli e si strofinò vigorosamente
braccia e gambe. Si abbandonò contro il bordo della vasca
finché le dita non diventarono rugose e il calore era quasi
completamente evaporato. L'acqua che lasciò era
più scura e torbida di quella di una palude.
Quando si fu completamente asciugata, alzò lo sguardo e
scorse nello specchio un viso che, per un momento, la
spaventò. Erano passati pochi giorni dalla partenza da
Alabastria, eppure l'impressione era che fossero fuggiti per mesi. Il
viso era più magro, le guance meno piene e le braccia
più sottili. L'abito era lente in alcuni punti, e il tessuto
ricadeva in una piega informe e sgraziata. L'efedra e la tensione della
fuga avevano lasciato segni visibili, molto più di quanto si
aspettasse.
"Se mio padre mi vedesse ora, cosa penserebbe?"
Non era sicura di voler sapere la risposta. Anche solo il sentore che
avrebbe potuto guardarla con pietà, come un animale ferito e
braccato, le faceva male.
Quando uscì, trovò Zefiro ad aspettarla, seduto
sullo sgabello vicino alle scale che scendevano di sotto. Melwen gli
sorrise e gli promise di aspettarlo in salotto.
La tavola di cucina era di nuovo in ordine. Per terra non c'era traccia
di alcuna briciola. La bambina sbirciò tra i titoli dei
libri sulla mensola, senza trovare niente di interessante: aveva voglia
di qualcosa di più coinvolgente, che catalizzasse ogni suo
pensiero e un trattato sulle piante curative, per quanto accurato ed
esaustivo, non era ciò che le serviva.
- Tieni. -
Nyi la sorprese alle spalle, silenzioso come un gatto.
- Quando siamo fuggiti da Alabastria, me lo hai affidato. - le disse
aprendo il libro e sfogliò rapidamente le pagine, - Non so
cosa ci trovi d'interessante, ma sembra importante per te. -
Melwen lo prese e accarezzò la copertina. I bordi erano
appena bruciacchiati, ma a parte quello era intonso.
- Grazie. -
- Di nulla. - si passò una mano tra i capelli biondi e si
coprì la bocca quando sbadigliò, - Vado a
riposare un po'. Quello che Eogann ha detto a me, vale anche per te:
non sforzarti. Se senti tornare il mal di testa, fermati e chiedigli di
farti una delle sue tisane. L'efedra ci ha resi forti, ma ha delle
brutte controindicazioni. -
- Lo farò. -
Quando udì la porta della stanza di Nyi chiudersi, Melwen
prese posto a tavola e aprì il libro. Pronunciò
le parole magiche a bassa voce e sotto la sua mano si
disegnò il profilo luminoso della mappa di Asiria. Una fitta
alla tempia le riempì la vista di puntini colorati e un
senso di nausea violento le arpionò lo stomaco subito dopo.
Melwen ringraziò di essere seduta, certa che se fosse stata
in piedi sarebbe crollata. Dovette attendere alcuni istanti con la
testa sprofondata nelle mani e gli occhi chiusi prima di appuntare di
nuovo lo sguardo sulla mappa. Era come la ricordava, con il profilo
delle montagne a est che avvolgevano la terra come una corona e il
fiume Aniene che si districava tra foreste, pianure e colline.
Si rimise in piedi e spostò i libri sulla mensola
finché non trovò, infilati in un saggio sulle
tecniche di erboristeria, delle pergamene bianche. Ne prese una e
andò al camino, dove aveva visto dei carboncini colorati. La
lastra che chiudeva la scatola di legno lasciava in mostra quello verde
e quello azzurro, entrambi ridotti a un moncherino non più
grosso di una falange. Melwen controllò anche gli altri e,
alla fine, scelse quello marrone, l'unico che aveva ancora delle
dimensioni accettabili.
Quando tornò al tavolo, cominciò a copiare
ciò che poteva, cercando di mantenere il più
possibile le proporzioni. Non era mai stata molto edotta nel disegno,
ma si impegnò per riportare su carta una mappa dettagliata.
Se, come sospettava, era importante, non poteva continuare a usare la
magia per vederla. Era essenziale che la potesse avere sott'occhio
quando avesse voluto.
Quando Zefiro la raggiunse, non si accorse della sua presenza
finché non alzò la testa e lo scoprì
che sfogliava un libro, uno dei tanti manuali della biblioteca
personale di Eogann. Si scambiarono un'occhiata complice, poi lei si
rimise al lavoro. Soltanto quando ebbe completato la mappa, si concesse
una pausa. Aveva la testa pesante e la stanza girava attorno a lei.
- Melwen? Ti senti bene? -
Zefiro le si fece subito vicino e le prese la mano sinistra, quella
tutta macchiata d'inchiostro, tra le proprie.
- No... non così tanto. - mentì, anche se il tono
lamentoso tradiva il suo vero stato d'animo.
- Vado a chiamare Eogann, se vuoi. -
- Non è niente, non disturbarlo. Basta che mi riposi un
attimo e tra poco mi passerà. -
- E se peggiora? -
- Non accadrà. -
Non era stata molto persuasiva, ma Zefiro si risedette. La tenne
sott'occhio, preoccupato e teso come una corda di violino, senza
proferire nemmeno una parola di biasimo o rimprovero. Così,
come quando l'aveva vista usare la magia per richiamare la mappa, anche
in quel momento si limitò a rimanerle accanto.
- Riponi troppa fiducia in me. - gli disse quando si
assicurò di essere tornata sulla terra ferma.
- Devo. Tanto lo so che se quando ti impunti, non posso far nulla per
farti desistere. -
Melwen annuì piano e si abbandonò contro lo
schienale della sedia.
Quando Eogann rientrò, un'ora o forse due dopo, si sentiva
decisamente meglio. Zefiro l'anticipò e corse subito ad
aiutare il mago, caricandosi le braccia con verdure. Melwen lo
guardò in cagnesco quando le passò accanto, ma il
suo amico le mise una patata in mano e andò in cucina.
- Hai una brutta cera, Melwen. Vuoi che ti faccia una tisana? -
- Mi gira solo un po' la testa, nulla di che. -
- Ne sei sicura? Non devi fare complimenti, lo sai. -
- Allora... penso che approfitterò della tua gentilezza. -
Eogann le sorrise soddisfatto e iniziò a tagliare un cespo
di erbette con le foglie simili ad aghi. Senza che gli dicesse nulla,
Zefiro scattò fuori per andare a prendere l'acqua al pozzo.
- La tisana che ti farò sarà al serpillo, tiglio
e fiori d'arancio, la preferita di mio figlio Yezh. Anche lui soffre
spesso di emicranie, soprattutto dopo lo studio. - scosse la testa e si
passò una mano sulla fronte, - Quel ragazzo è uno
stacanovista, altroché. -
- Anche lui è un mago? -
- Sì e se si mette d'impegno, diventerà molto,
molto più bravo del sottoscritto. Ciara somiglia un po' di
più a me alla sua età. Ha il talento, ma non
sembra interessata ad affinarlo. Sua madre ha insistito per portarla
con sé per farle fare quattro chiacchiere con sua nonna.
Chissà, magari mia suocera riuscirà a
convincerla. -
Zefiro rientrò con il secchio riempito fino a
metà. Con un cenno, Eogann gli indicò di
appoggiarlo vicino all'ampia finestra alla sua sinistra, quella che
aggettava sull'orto.
- Dubito che quei due si sveglieranno. Avete fame? Volete che prepari
qualcosa per pranzo? -
- Io sono a posto così. -
- Anche io. - si accodò Melwen.
- Allora farete una merenda più sostanziosa. -
Mosse l'indice dal basso verso l'alto e un nastro d'acqua
riempì il pentolino. Il fuoco si accese la carbonella sotto
il fornello.
Sentendosi di troppo, la bambina capì che l'unica cosa che
potesse fare era dare meno fastidio possibile. La stanza era di per
sé piccola e c'era già Zefiro che stava aiutando
Eogann a pulire la verdura. Si sedette su un basso sgabello con le mani
tra le gambe.
- Grazie per il vestito. -
- E di che? A Ciara non va più e sono abbastanza sicuro che
non avrebbe fatto tante storie a dartelo. - si fermò e un
brivido, o almeno quello che agli occhi di Melwen sembrava un brivido,
gli scosse le spalle, - E poi è il minimo che possa fare per
la figlia di uno dei miei amici più cari. -
Eccolo, il momento che Melwen temeva di più.
- Era venuto qui prima di... prima che Uborh lo prendesse con
sé. Era da una vita che non ci vedevamo e io gli ho offerto
il mio mirto migliore. Abbiamo parlato dei nostri figli, degli ultimi
avvenimenti, di quanto il tempo fosse instabile. Abbiamo concordato
nell'affermare che quel fenomeno era imputabile all'esplosione di
Llanowar. Poi mi ha dato un frammento di un cristallo. Anche
lì, abbiamo concordato che fosse un catalizzatore e che
fosse la minima parte di qualcosa di più grande. Non
sapevamo però di cosa. Così ci siamo lanciati in
teorie. Io ero un mago mediocre rispetto a lui, ma Copernico era una
mente dispersiva e io ero le radici che lo obbligavano a rimanere a
terra. -
Melwen ricordò. La sera prima della partenza per Alcarin,
suo padre era venuto a darle il bacio della buonanotte. Le aveva
promesso che uno di quei giorni l'avrebbe accompagnata alla festa in
paese. Era stata l'ultima volta che lo aveva visto.
- Avete capito cos'era, alla fine? -
- No, solo quello che ti ho detto. Si è teletrasportato in
città senza dirmi nulla, portando con sé il
cristallo. Solo quando si è diffusa la voce che Luthien era
stata distrutta ho capito perché se n'era andato senza
salutare. - pulì il coltello con un panno e mise nel
pentolino le erbe tagliate, - Mi dispiace, Melwen. Ho pensato per
giorni di venire a cercarti, ma dovevo occuparmi della mia famiglia. E
quando ho provato a cercarti con la magia, c'era un'interferenza tale
da annullare qualsiasi tentativo. -
- Non è colpa tua... lo capisco. Hai fatto la cosa giusta. -
rispose Melwen con un fil di voce.
Eogann si inginocchiò e si lavò le mani, tenendo
lo sguardo basso. Zefiro restò di spalle e si
spostò di lato, più lontano, forse per lasciar
loro un po' di privacy.
- Non ricordo quanto zucchero debba aggiungere. Vado a prendere il
libro di là. - borbottò Eogann e uscì
dalla cucina.
Melwen fissò la schiena di Zefiro e i movimenti delle sue
dita mentre si occupava di togliere le cimette da un cavolo. Non sapeva
cosa fare. Si sentiva leggera, quasi avesse le ossa cave e i muscoli
ridotti a una sottile fila di fibre atrofizzate. Era come se la
pesantezza del suo essere si fosse estinta nel vapore dell'acqua che
bolliva e nelle nuvole calde che salivano verso il soffitto,
lasciandola con un'insostenibile debolezza. Stava sprofondando in quel
torpore simile al sonno che le ottenebrava i sensi e la dissanguava da
ogni sensazione. Quell'assenza era il massimo a cui la sua anima
potesse aspirare.
- Questa l'hai fatta tu, Melwen? -
Girò la testa verso la mappa che Eogann teneva in mano.
- È venuta peggio di quello che mi aspettassi. -
commentò stancamente.
- Manca solo un po' di proporzioni. - la girò e la
allontanò dal viso, - L'hai copiata da quel libro in
soggiorno? -
La bambina fece segno di sì con la testa. Eogann rimase
sovrappensiero a studiare la pergamena, finché il ribollire
dell'acqua non richiamò la sua attenzione. Spense il fuoco
con un gesto svogliato della mano e versò la tisana nella
tazza.
- Posso tenerla per stasera? -
- Solo la mappa, il libro lascialo. -
- D'accordo, vado a posarla nel mio studio. - disse, poi
arrotolò la pergamena e poi uscì.
Il resto della giornata si trascinò. Melwen fece visita a
Raiza e gli portò da mangiare dello stufato avanzato dalla
sera precedente. Il Lycos le lanciò una lunga occhiata
quando la vide entrare nella stalla e si prestò a farsi ad
accarezzare. In mezzo agli sparuti fili di fieno, con le lame di luce
polverose che rischiavano quello stanzone così grande e
vuoto, spiccava come la piuma di un cigno nero su un lenzuolo
stracciato. Non le disse nulla, si limitò a lanciarle
qualche occhiata tra un morso e l'altro. Dopo essere tornato
dall'ispezione notturna della foresta di Lagrande le sembrava
più tranquillo, anche se spesso, quando il vento si
sgusciava sotto la porta, alzava il muso per captarne gli odori.
Zefiro provò a insegnarle a giocare a dama, ma il cervello
do Melwen era troppo intorpidito. Riuscì a vincere soltanto
due volte sulle dieci partite che fecero, e solo perché
l'amico decise di concederle la vittoria. Ma alla fine non le
importava. Non c'era spazio in quel nulla troppo pieno.
A cena, Myria e Nyi mangiarono con loro la zuppa di ceci e le polpette
di cavolfiore. La conversazione si arenò spesso e non sempre
la madre di Zefiro riuscì a salvarla da un naufragio certo.
Fu un sollievo quando finirono anche le ultime fette della torta della
mattina e tornarono tutti nelle loro stanze.
- Dove vuoi dormire stanotte? - le chiese Zefiro quando si trovarono da
soli.
Melwen osservò la stanza. I due letti erano sfatti e le
coperte toccavano con i lembi il pavimento. Le dava l'idea di un
ambiente dimenticato, abbandonato a se stesso. Non avrebbe dovuto, ma
quell'apparente incuria le comprimeva la cassa toracica.
- Stiamo qui. - decise, sedendosi sul materasso freddo.
Zefiro si morse la lingua, trattenendo qualsiasi cosa volesse dire.
- Va bene. Se ti senti male o hai qualche incubo, svegliami. -
Melwen gli fu grata per la sua comprensione, per quel silenzio che
condividevano che la faceva sentire in pace con se stessa. Durante la
notte gli prese la mano e se la portò al viso. Non c'era
segreto che li potesse separare.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Si procede a spron battuto qui u.u eh, eh, eh, pian piano ci avviamo
verso la fine anche di questo secondo volume. Comunque, non so se avete
notato ma siamo arrivati a ben 100 recensioni! Quindi, da ora fino al
18 avete tempo per o iscrivervi al giveaway sulla pagina oppure
scrivermi in privato e confermarmi che siete ancora interessati u.u
Come sempre
QUI
c'è il link alla mia pagina autrice.
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime
Quella
mattina, al risveglio, Airis rimase sdraiata per un po' ad ascoltare i
suoni lievi del mondo esterno. Arghail riposava nell’altro
letto e il suo respiro era l’unico rumore che interrompeva il
silenzio nella stanza. Dopo qualche minuto, s i
tirò su a sedere e si massaggiò il collo. Aveva
tutti i muscoli indolenziti e dovette fare più di un
tentativo per riuscire ad alzarsi. Quando si sentì sicura
sulle proprie gambe, si avvicinò al tavolino
dov’era stata posata una brocca d’acqua e la sua
spada. Prese quest'ultima, controllò il filo e la
allacciò sul fianco. Poi si appoggiò al muro e si
massaggiò la radice del naso.
La
porta si aprì con uno scricchiolio sommesso e Fareun
entrò con un vassoio in mano. Non appena la vide in piedi,
la squadrò dalla soglia per qualche secondo prima di muovere
i primi passi all’interno. Cucciolo gli
trotterellò accanto e andò ad accoccolarsi ai
piedi del letto di Arghail, nel punto dove la sua mano sporgeva dal
materasso.
-
Non credevo di trovarti già sveglia. -
Fareun
posò il vassoio sul tavolino, si sedette sullo sgabello con
un sospiro stanco e inclinò la testa per vedere oltre le
spalle di Airis.
-
Il tuo amico dorme ancora. Bene, è un ottimo segno,
significa che le erbe hanno funzionato. -
-
Ti sei occupato tu di noi? -
-
No, è stata mia nonna. Anche se quando hai tentato di
colpirla si è spaventata molto. -
Con
una smorfia di dolore Airis si staccò dalla parete e prese
posto sulla sedia più vicina. Fletté le gambe un
paio di volte, cercando di ignorare le fitte ai muscoli.
-
Dille che mi dispiace. Non era davvero mia intenzione farle del male.
Mi sono svegliata, ho visto una figura sopra di me e ho reagito
d’istinto. -
-
Non abbiamo cominciato col piede giusto, ma di questo non ti devi
preoccupare. Mia nonna ha accudito nove figli e altri sei nipoti, non
rimane spaventata mai troppo a lungo. - ridacchiò e,
afferrando il coltello con la lama smussata, spalmò del
burro su una fetta di pane, - Tieni, mangia. Hai una brutta cera. -
Airis
accettò volentieri e diede subito un morso.
Mangiò in silenzio e, quand’ebbe finito,
prontamente Fareun le porse un bicchiere di latte colmo fin quasi
all’orlo. La sua mano era magra e la pelle, ricca di
cicatrici, scura come il cuoio.
-
Grazie per quello che avete fatto. Saremmo morti se non ci aveste
soccorso. -
-
Tu no, ma il tuo amico era in pessime condizioni. Non so che cosa vi
sia passato per la testa quando avete deciso di attraversare le
montagne. Lo sanno tutti che sono maledette. -
Airis
non commentò. Sorseggiò il bicchiere di latte e
tornò a guardare Arghail.
-
Le sue gambe come stanno? -
Faerun
prese un generoso pezzo di pane e se lo infilò tutto in
bocca. Mentre masticava, molti pezzi di mollica ricaddero sulla tunica.
-
Il tuo amico non ha niente di rotto, per fortuna, solo molte ferite,
alcune più brutte delle altre. Dove siete diretti? -
Airis
sapeva che prima o poi sarebbero arrivate le domande scomode.
Guardò il bicchiere di latte e lo roteò piano,
gli occhi fissi sui granuli di farina che vorticavano sulla superficie.
-
Non voglio farmi gli affari tuoi e del tuo amico, ma sarò
franco: io non voglio guai. - continuò Faerun e la sua
attenzione si appuntò sulle statuette di terracotta sulla
mensola vicino alla finestra, - I miei antenati mi obbligano a offrirvi
ospitalità, ma vorrei che ve ne andaste quanto prima. -
-
Non vi dovete preoccupare. Dateci il tempo di riprenderci e ce ne
andremo. Quanto dista la magione Lullabyon? -
-
Meno di una giornata a cavallo. -
Airis
si sgranchì le braccia e si alzò in piedi.
-
Avete un cavallo? -
Faerun
incassò il collo nelle spalle, come se un grosso peso gli
stesse gravando addosso. Dal suo sguardo diffidente Airis
intuì cosa stesse per dire.
-
Chi mi dice che non fuggirete con ciò che è mio?
-
-
Andrò da sola. - rispose e lanciò un'occhiata
preoccupata ad Arghail, - Il mio compagno rimarrà qui ad
aspettarmi. Se te ne prenderai cura e non farai parola di noi con
nessuno, quando tornerò vedrò di ripagare la tua
ospitalità. -
L’uomo
puntò gli occhi sulla sua spada, intrecciò le
dita tra le gambe e dondolò la testa in lievi cenni
d’assenso un paio di volte.
-
Vuoi partire subito? -
-
Prima parto, prima torno, prima ce ne possiamo andare. -
Faerun
le diede una pacca sbrigativa sulla spalla e, senza aggiungere altro,
uscì dalla stanza.
Airis
si avvicinò al letto di Arghail e si inginocchiò
al suo fianco.
-
Resisti, tornerò presto. - gli sussurrò
all’orecchio.
La
magione Lullabyon si stagliava contro il cielo notturno, imponente come
un drago. Dopo averci vissuto degli anni, Airis aveva disegnato nella
sua mente una mappa della sua grandezza, ma solo ora la vedeva con i
propri occhi per la prima volta.
Lo
stronfiare nervoso del cavallo la distolse dai suoi pensieri.
Legò le redini al ramo più basso, si
calcò il cappuccio sulla testa e si mosse tra gli alberi.
Aveva piovuto durante il tragitto e ora, a ogni soffio di vento,
l’aria umida le sferzava le guance. Giunta in
prossimità della magione, si acquattò in un
piccolo campo di margherite e ispezionò i dintorni con lo
sguardo.
Due
soldati sorvegliavano il cancello d’entrata. La luce delle
torce inestinguibili rischiarava l’oscurità
attorno a loro e appiattiva le ombre in figure lunghe e strette. Da
quella distanza era difficile distinguerli bene, ma la voce del
più anziano le ricordò subito quella di Moros.
Non riusciva a smettere di fissarlo. Era strano poter dare finalmente
un volto a quel timbro baritonale.
Airis
fece il giro, affidandosi alla memoria del corpo, e uscì
allo scoperto solo dopo essersi guardata ancora una volta intorno, per
assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi. Corse fino
alla siepe che delimitava il confine est e infilò il braccio
tra le foglie. Le venne da sorridere quando la sua mano si chiuse sul
vuoto, invece che toccare il cancello. Quando era bambina, era stato il
cane, Mastino, a mostrarle quell’insolita via
d’uscita. Incredibile che fossero già passati
dieci anni.
Scosse
la testa e si grattò il petto con le dita, come se assieme
allo sporco potesse scrollarsi di dosso anche la malinconia.
Spostò i rami della siepe, si chinò e
scavalcò l’inferriata. Lo spazio tra le sbarre era
stretto, molto più di quanto ricordasse. Abbassò
le ginocchia e strinse i denti, facendo forza con tutto il corpo. Ebbe
un moto di panico quando rimase incastrata con la spalla. Aveva anche
il respiro mozzo, come se l’aria che la circondava non fosse
sufficiente.
Un
corvo gracchiò in lontananza e lo zirlare di un tordo si
fuse con il frinire dei grilli. La natura sembrava impassibile al caos
che imperversava dentro di lei.
Con
un ultimo strattone, si diede la spinta e incespicò
dall’altra parte. Quando si raddrizzò, si
accovacciò sotto la tettoia dietro l’angolo. Da
quella prospettiva riusciva a vedere bene l’entrata
principale e buona parte del giardino.
Il
paesaggio la confuse: era familiare e, allo stesso tempo, estraneo.
Ricordava lo scricchiolio della rugiada sotto i piedi, il profumo
fresco della menta e il cigolio dell’altalena, quella che
Davsten le aveva costruito. L’albero su cui amava
arrampicarsi era ancora lì, vicino al capanno degli
attrezzi, infestato dall’edera. Pareva un vecchio prostrato
dalla malattia. Una stretta
al cuore le inumidì gli occhi. Si
avvolse nel mantello e, dopo essersi guardata ancora una volta alle
spalle, si diresse verso la cantina. La luna imbiancava la doppia porta
incassata nel terreno. Era chiusa da un catenaccio di ferro lucido a
forma di serpente. Si
inginocchiò e soppesò il lucchetto, un cubo
d’ottone grosso come il suo palmo. Appurando che non ci fosse
alcun arnese con cui aprirlo, lo strattonò decisa. Le catene
cigolarono, serrandosi attorno alle maniglie in una presa sempre
più stretta. Airis continuò a ruotare
finché gli anelli non si incastrarono gli uni negli altri. I
muscoli del braccio si tesero nello sforzo e il calore le
imporporò le guance quando aumentò la forza di
torsione. Il ferro si incrinò, per poi rompersi in un gemito
sommesso. Sfilò
la catena dalle maniglie, aprì la porta e scese a tentoni le
scale. Sotto
era buio pesto e l’umidità trasudava dalle pareti.
Airis allungò la mano e toccò la familiare
superficie liscia del portabottiglie. Percorse le scanalature nella
roccia e proseguì con cautela, stando bene attenta a dove
metteva i piedi. Almeno lì non era cambiato molto. Le botti
erano sempre sulla sinistra, a parte una che era addossata al muro di
destra. Le torce erano appese a portata di mano. La
polvere le pizzicava le narici e costellava
l’oscurità di tanti minuscoli puntini. Si
strofinò il naso per non rischiare di starnutire.
Salì
i quattro scalini che la separavano dalla “porta
nana”, come l’aveva rinominata da bambina,
perché tutti, eccetto lei, dovevano chinare la testa per
poter entrare. La luce che filtrava dallo spiraglio in basso era
così flebile che a malapena bastava a delineare il profilo
dei suoi stivali.
Un
lampo di incertezza la fermò prima che avvolgesse le dita
attorno alla maniglia. Cosa avrebbe detto a Davsten? Come avrebbe
reagito a rivederla dopo tutto quel tempo? Non sapeva nemmeno se le
avrebbe creduto o se l’avrebbe perdonata dopo quello che si
erano detti l’ultima volta. Lei non aveva mai dimenticato le
parole aspre che si erano scambiati prima che partisse per il nord.
Un
latrato improvviso le risucchiò via tutta l’aria e
la voce, lasciandola boccheggiante nella penombra.
-
Mastino! Mi farai venire un infarto! Cosa c’è? -
Airis
deglutì e attese, rigida, dietro la porta chiusa. Non aveva
il coraggio nemmeno di respirare. Il battito si arrestò
all'udire dei passi fermarsi proprio oltre la barriera di legno. Il
cane uggiolò e il collare tintinnò quando si
strusciò contro la porta.
Quando
la maniglia si abbassò e la porta si aprì, Airis
rimase immobile. Un cane grosso quanto un pony, dal pelo nero e il muso
schiacciato, le saltò addosso, scodinzolando contento,
spalmando tonnellate di bava sui suoi vestiti e sulla sua faccia.
-
Ba… basta! - protestò tra le risate, ma il cane
la ignorò.
Quando
riuscì a svincolarsi, Airis si spostò di lato e
oltrepassò la soglia.
- A
cuccia. -
A
quell’ordine, Mastino si calmò e si sedette vicino
al suo padrone. Parve quasi farle un cenno incoraggiante col muso, ma
lei mantenne lo sguardo basso, pronta a ricevere le urla e le accuse di
Davsten. Sussultò
quando percepì due braccia circondarle la schiena per
premerla contro un torace ampio, lo stesso sul quale da piccola aveva
cercato conforto dopo un incubo o durante un temporale. Persino i
vestiti avevano il medesimo odore. Un
singhiozzo le sfuggì dalle labbra e un velo di lacrime si
formò dietro le palpebre chiuse. Lentamente portò
le proprie braccia in alto, a cingergli il collo, e si stupì
quando non dovette sollevarsi in punta di piedi. Il peso dei sentimenti
le schiacciava lo sterno, eppure non lo avrebbe scambiato per niente al
mondo. -
Se sei un sogno, prego gli dei di non svegliarmi mai
più… - mormorò Davsten, affondando le
dita tra le ciocche rosse. Tremava
e il respiro incespicava a singhiozzi dalle sue labbra, come se facesse
fatica a riempirsi i polmoni di aria. Quando le sue gambe cedettero,
Airis lo strinse più forte e, finalmente, si concesse di
piangere. Non
seppe quanto rimasero rannicchiati sul pavimento, aggrappati
l’uno all’altra. Fu suo padre il primo a recuperare
il contegno. Si alzò barcollando e tese una mano ad Airis,
che l’accetto. Non appena furono entrambi in piedi, Davsten
si allontanò di un passo per osservarla meglio, facendo
scorrere le mani sul suo viso e lungo spalle e braccia. I suoi occhi
erano sgranati e un sorriso incredulo gli curvava le labbra. La
ammirò come un collezionista che venera una rara opera
d’arte.
Airis
si prese tempo per osservarlo a sua volta. Era come lo aveva sempre
immaginato. C’era una cicatrice sotto l’occhio
destro e il mento era ricoperto da uno strato di barba incolta. Un
formicolio esplose sul suo collo al ricordo di come quel cespuglio le
solleticava la pelle quando lo abbracciava. Memorizzò il
colore scuro dei suoi capelli e l’azzurro sporco delle sue
iridi. Poi notò il pallore del suo incarnato, le occhiaie
sopra gli zigomi sporgenti, le rughe sulla fronte alta e sulle guance
incavate. Era invecchiato, ma era sempre lui. Riuscire finalmente ad
associare una faccia alla voce che aveva imparato ad amare la
scombussolò e un soffice tepore le sbocciò nel
petto.
Davsten
appoggiò la fronte contro la sua, senza allontanare le mani
dalle sue guance.
-
Sei tornata… sei davvero tornata. - le accarezzò
la nuca, la abbracciò ancora e si allontanò lungo
il corridoio, - C’è del mirto nelle cucine. Vai a
prenderlo. -
Airis
si asciugò gli occhi e si avviò anche lei,
seguendo l’eco dei passi del padre. Davsten si diresse nello
studio, mentre lei deviò verso le cucine. I quadri e gli
arazzi le scorrevano accanto alla stregua di visioni oniriche. Aveva
quasi l’impressione di essere sospesa nel tempo e nello
spazio, prigioniera di un sogno che era anche un ricordo.
Quando
entrò nelle cucine, non trovò nessuno. Diverse
pentole erano state lasciate sul fuoco, tutte con il coperchio appena
spostato in modo tale da far fuoriuscire il fumo. Oltre a quello del
bollito, Airis riconobbe il profumo del sugo per le polpette.
Assaporò l’atmosfera di casa, riempiendosi il
cuore di quelle nuove e familiari forme. Poi, avvalendosi della memoria
del corpo, spostò gli stracci vicino al lavabo,
sollevò il coperchio di una botola e prese il mirto, assieme
a due tazze pulite. Davsten
l’attendeva accomodato su una poltrona, di fronte al camino
spento. Non appena Airis entrò, la invitò a
prendere posto vicino a lui. Il suo odore era più forte in
quella stanza. Sapeva di tabacco, cuoio e fieno. Era un abbraccio caldo
che la metteva a suo agio e raccontava quanto non fosse cambiato negli
anni.
-
Tua madre non è voluta venire. Dice che questa casa ha
troppi ricordi di te. - sospirò, appoggiò la
testa contro lo schienale e roteò gli occhi, - Io, invece,
la amo proprio perché mi ricorda te. Quando voglio sentirti
vicina, passo un paio di giorni qui. -
Airis
stappò la bottiglia e versò da bere a entrambi: -
Con gli anni sei diventato più sentimentale. -
-
La vecchiaia intenerisce il cuore di tutti gli uomini. -
Davsten
si alzò, andò alla scrivania dalla parte opposta
della stanza e tornò con un piatto in mano. Il profumo del
limone le stuzzicò le narici.
-
Erano il dessert di stasera. Anche se non sono più caldi,
sono ancora buoni. -
Airis
prese un biscotto e lo addentò senza esitare. Lo zenzero le
punse la lingua e la crema le esplose in bocca,
tant’è che una goccia le colò sul
mento. Non riuscì a reprimere un sorriso quando Davsten le
porse il suo fazzoletto di stoffa.
-
Venticinque e passa anni e ancora ti sporchi come se ne avessi nove. -
sbuffò bonario.
-
Non è colpa mia se Cara li riempie così tanto. -
Suo
padre scosse la testa, ma sorrideva anche lui, anche se le rughe
marcate e le occhiaie tradivano la sua stanchezza.
-
Quand’è stata l’ultima volta che hai
dormito? - domandò Airis.
-
Dormo, ma il sonno non mi fa stare meglio. - rispose e si
abbandonò contro lo schienale, il capo reclinato verso di
lei, - Ti ho seppellita qualche settimana fa, dopo mesi che non avevo
tue notizie, e ora sei qui, davanti a me, come se fossi appena tornata
da una passeggiata fuori città. Mi è difficile
credere di non essere uscito di senno. -
Airis
versò altro mirto in ambedue le tazze: - Prima di
raccontarti tutto, devo chiederti scusa. -
-
Per cosa? -
Lei
si passò le mani sul viso e le lasciò ricadere
sulle ginocchia con un sospiro. Era assurdo quante volte avesse
riflettuto su cosa dirgli e adesso, nel momento cruciale, non sapesse
da dove cominciare. Non c’era un vero inizio, solo preludi di
frasi e parole sconnesse.
-
Stai pensando a Felther? - indagò Davsten.
-
Tra le altre cose... -
-
È acqua passata, ormai. E dal tuo sguardo capisco che
è passato anche quello che provavi per lui. -
Airis
strinse appena la presa sulle ginocchia. Felther, l’uomo che
aveva amato e che poi non aveva esitato a sollevare la spada contro di
lei. La ferita del suo tradimento era ancora fresca e bruciava come
arsenico nelle viscere. Bevve di nuovo, sperando di soffocare
l’angoscia con il mirto. Si era dimenticata come scendeva
bene quello che produceva Cara, quanto forte fosse il calore che
sprigionava mentre attraversava lo stomaco. Socchiuse gli occhi e
inspirò forte per alimentare il fuoco. Che si alzassero,
quelle fiamme, che divorassero l’inquietudine e il senso di
colpa.
-
Tutti commettiamo degli errori. Forse avrei dovuto essere meno duro e
forse tu avresti dovuto provare ad ascoltarmi. Ora non importa
più. Quel che è fatto, è fatto. -
Davsten sospirò e levò in alto il calice, - Alla
salute. -
-
Alla salute. -
Il
vento fuori stormiva tra i rami e colmava il silenzio. Mastino
entrò nello studio trotterellando e andò ad
accucciarsi ai piedi del suo padrone. Non appena i suoi occhi caddero
sul piatto di biscotti, la bocca si riempì di bava. Airis ne
spezzò uno e lo fece cadere a terra, lì dove il
tappeto non copriva il pavimento.
-
Ti ricordi le regole di casa. - constatò Davsten,
compiaciuto.
- E
come dimenticarle? La sfuriata che fece mamma quando
sbriciolai i biscotti su questo tappeto mi resterà impressa
nella memoria per sempre. -
- E
aveva ragione. Quante volte ti aveva detto di non farlo? -
-
Me lo sono meritato. -
Risero
e Davasten le diede una pacca sulla mano, come sempre faceva quando
approvava quel che diceva. Poi corrugò le sopracciglia e la
luce nel suo sguardo si attenuò. Mentre i suoi occhi
vagavano per la stanza senza posarsi su nulla, la tensione gli
indurì di nuovo le spalle. Soffiò
le parole seguenti assieme a un sospiro, come se provenissero dal petto
e non dalla bocca: - Tre anni
fa è nato mio figlio. Si chiama Lorcan. - Airis
attese che aggiungesse altro, ma suo padre la guardava e basta, in
attesa di una sua reazione.
-
Ho un fratello, quindi. - proferì in tono neutro,
lo sguardo puntato sul bicchiere che stringeva tra le mani.
Fratello.
Il concetto le causò un tuffo al cuore e un’ondata
di sensazioni contrastanti. Le sentì diffondersi in ogni
fibra del suo corpo, un calore che le scaldava il petto e le
intorpidiva le dita. La vita era andata avanti mentre lei era in
guerra, mentre moriva.
-
Non ce lo aspettavamo. Si può dire che è stata
una sorpresa per entrambi, sia per me che per Iola. -
proseguì Davsten, - Tua madre dice che ti somiglia molto. -
-
Ed è vero? -
-
È ancora presto per dirlo. -
-
Beh, speriamo che… - si maledisse quando la sua voce
incespicò sulla lingua rigida, - Speriamo che Lorcan non
venga su come me. -
Davsten
allungò la mano oltre il bracciolo per prendere la sua. La
vita lontana dai campi di battaglia aveva limato i calli sul palmo, ma
ad Airis bastava stringere un poco di più per avvertirne le
lievi gibbosità nascoste sotto la pelle.
-
Nessuno è come te, figlia mia. E per noi sei e rimarrai
sempre la nostra primogenita. - le sorrise dolcemente, poi si
schiarì la gola, - Ora raccontami cosa ti è
successo. Io so che quello che ho seppellito era il tuo cadavere, ma tu
ora sei qui, respiri e hai anche recuperato la vista. Come è
possibile? -
Airis
non si era preparata un discorso, così cominciò a
narrare gli eventi seguendo un filo cronologico,
dall’esplosione di Llanowar fino alla fuga dai Fae. Non
tralasciò nulla, rivelandogli pure ciò che le
avevano detto Cyril e Urian. Si scoprì anche su Ledah e
spesso, durante tutto il resoconto, il suo nome tornò molte
volte, forse anche più del necessario. Quando
terminò, si abbandonò contro la poltrona,
esausta. Mastino
si avvicinò per leccarle le dita, come se volesse darle
conforto, e Airis si sentì in dovere di ricambiare le sue
attenzioni con una carezza. -
Sei tornata perché vuoi liberare questo elfo? -
-
Sì. -
Davsten
si alzò con aria cupa e assorta e prese a camminare per la
stanza, osservando di tanto in tanto gli arazzi appesi alle pareti.
Quando il suo sguardo si soffermò nuovamente su di lei,
Airis gli lesse negli occhi la domanda successiva.
-
Non sarebbe più saggio ucciderlo? Così facendo,
porresti fine ai piani di Aesir. -
-
Non se lo merita, non dopo tutto quello che ha passato. -
-
Concordi, però, che sarebbe la strada più facile.
-
-
Vero, ma ho molti debiti nei suoi confronti e non sarei un Cavaliere se
non li saldassi. -
Davsten
esalò un sospiro e scrollò il capo con
disapprovazione.
-
Ho fatto un giuramento quando sono entrata nell’Ordine del
Lupo. - insisté Airis, - Ho giurato che avrei protetto i
deboli e che mai avrei impugnato le armi contro la mia
città. Ledah non è né un debole
né un umano, ma è lui che mi ha ridato la vista e
mi ha salvata, anche se ero una sua nemica. Gli devo la vita, padre,
non posso abbandonarlo. -
Davsten
sospirò ancora. I raggi
lunari che filtravano attraverso le tende semiaperte gli accarezzarono
i capelli e le spalle larghe e appena ingobbite. Il dolore lo aveva
fatto invecchiare più in fretta, pur senza intaccare la sua
indole. Era un cavaliere, dentro e fuori.
-
Non credevo che la situazione fosse tanto complicata. Ho sempre cercato
di tenermi fuori dalla rete della politica, ma ormai è
evidente che non posso più fuggire. - disse Davsten dopo
qualche minuto di silenzio.
-
Che intendi? -
-
Pochi giorni fa, Kitiara Azlan, Gavyn Erdarwell e Ynyr Fellmoor mi
hanno seguito fin dentro la tua cripta per dirmi che hanno intenzione
di eliminare la regina durante la celebrazione dei caduti. -
-
Che cosa?! -
-
Ho rifiutato di prendere parte al complotto. Tuttavia, se avessi saputo
che abbiamo a che fare con un mostro… -
-
Nessuno ne era a conoscenza. Persino io ho faticato a crederci. -
-
Uhm. -
-
Cosa pensi di fare? -
-
Sono stanco e ho bevuto troppo per prendere una decisione stanotte.
Domani ne parleremo con calma, dopo che sarai andata a prendere
Arghail. -
-
Suppongo tu abbia ragione. - mormorò alzandosi, - Dove posso
dormire? -
-
Nella tua camera, come sempre. Ti ricordi dov’è? -
-
Sì. -
-
Allora, buonanotte. -
-
Buonanotte. -
Sulla
soglia, Airis si girò. Davsten non si era mosso e la
osservava attraverso le palpebre socchiuse. Quanto aveva combattuto per
non lasciarsi sopraffare dal dolore? Quante maschere aveva dovuto
indossare? Possibile che nessuno avesse notato la curvatura
delle spalle e i fili bianchi nella barba e nei capelli?
-
Ti voglio bene, padre. -
-
Anch’io te ne voglio, figlia mia. -
Quando
entrò nella sua vecchia camera, Airis rimase imbambolata a
fissare il letto e la scarsa mobilia. L’arredamento era
sempre stato minimo, al fine di agevolare i suoi movimenti nella
cecità. Le lenzuola sapevano di fresco e non c’era
traccia di polvere. Aprì la finestra, giusto per cambiare
l’aria, e poi si sdraiò sul letto, stremata fin
nel midollo.
Il
mirto le appesantiva le membra, trasformando l’angoscia in un
calore piacevole che la invitava a lasciarsi andare. Inspirò
a fondo l’odore di lavanda, legno e malva che permeava la
stanza. Il profumo di casa. Si tolse gli stivali e si
rannicchiò in posizione fetale, stringendo il cuscino al
petto, come quando era bambina e sognava di diventare un Cavaliere. Il
sonno la ghermì pochi minuti più tardi.
La
mattina seguente trovò il vassoio della colazione davanti
alla porta: pane caldo, marmellata di albicocche e una ciotola di latte
colma fino all’orlo. Mangiò con calma, godendosi
il silenzio.
Quando
suo padre venne a bussare, era già vestita e pronta a
cominciare la giornata. Rispetto alla sera prima, le sembrò
più rilassato e l’alone scuro attorno agli occhi
si era in parte riassorbito.
-
Ho dato a Cara e a tutti i servi un giorno di riposo. - le
comunicò, sedendosi sul bordo del letto, - Come hai dormito?
-
-
Bene, grazie. -
-
Anche se questo materasso è duro come la pietra? -
-
Trovo che sia comunque molto più comodo di qualsiasi
superficie su cui ho dormito ultimamente. Cosa hai deciso di fare? -
-
Se ho capito bene, non ti avrei mai riabbracciata senza il suo aiuto.
In quanto cavaliere e padre, gli devo molto. Perciò
d’accordo, ti darò una mano. - le
sfiorò la guancia e le spostò una ciocca dietro
l’orecchio in una carezza gentile e goffa al tempo stesso, -
Discuteremo i dettagli quando tornerai. Ora va’ a prendere
Arghail. -
La
gioia le riempì il cuore, così tanto e
così in fretta da provocarle un capogiro.
-
Grazie, padre. Significa molto per me. -
-
Lo so. - rispose con un sorriso.
Insieme
si diressero alla scuderia. Il cavallo di Davsten, Saetta,
sollevò il muso non appena percepì la presenza
del suo padrone, lanciando un lungo nitrito in saluto. Nella stalla
accanto dormicchiava tranquillo il morello che Faerun le aveva
prestato.
-
Tieni, questa è la… mancia per il disturbo. -
Suo
padre le mise in mano una scarsella di pelle nera, lavorata con inserti
di cuoio finissimi. Airis la accettò senza replicare. Si
appoggiò alla parete e lo osservò armeggiare con
la sella di Saetta con fare esperto. Davsten amava gli animali. In
quello era molto simile ad Arghail.
-
Ecco, prendila pure. E non dare troppo di sprone, sai che si
imbizzarrisce. -
-
Grazie. Sarò di ritorno in serata. - gli disse, scortando
Saetta per le redini fuori dalle scuderie.
-
Devo far venire un guaritore per Arghail? -
-
Arghail è molto legato a una donna di nome Hallende.
Dovrebbe essere arrivata in città da un po’. -
-
Dove posso trovarla? -
-
Al tempio di Hijan, o alla sede dell’Ordine del Lupo. -
Davsten
annuì e le aprì il cancello. Né Moros
né l’altra guardia più giovane erano
presenti.
-
Oggi andrò alla commemorazione dei caduti. Se dovessi
tornare tardi, nella scarsella c’è anche un mazzo
di chiavi di riserva. Stai attenta. -
-
Anche tu. -
Airis
montò su Saetta e guardò un’ultima
volta suo padre prima di dare di sprone. Saetta si impennò e
partì al galoppo con un nitrito bellicoso.
-
Sempre a fare di testa tua! - le urlò dietro il padre.
Lei
scoppiò a ridere, i capelli sciolti al vento e una scintilla
vispa negli occhi.
Raggiunse
la dimora di Faerun molto più in fretta di quanto si era
aspettata. Il padrone di casa la accolse con un cenno del capo, ma
storse il naso quando vide che non aveva riportato indietro il suo
morello. Si rasserenò un poco solo quando Airis gli mise in
mano le venti monete d’argento della scarsella.
Arghail
dormiva ancora nella stanza in cui lo aveva lasciato. Al suo capezzale,
ingobbita su una sedia, c’era la nonna di Faerun, intenta a
fissare il paziente con uno sguardo severo. I suoi capelli erano un
grigio groviglio di lanugine, la pelle una ragnatela di rughe. Non
proferì verbo, né accennò ad aiutare
Airis quando passò delle corde, fornitegli da Faerun,
attorno al busto di Arghail. Questi restò incosciente per
tutto il tempo. Airis lo trascinò fuori, lo issò
sulla sella e legò le estremità delle funi alle
cinghie, assicurandosi che non cadesse.
-
Non credo si sveglierà tanto presto. Gli abbiamo dato un
infuso di semi di papavero che stenderebbe anche un cavallo per quanto
era forte. - le disse Faerun.
Quando
Airis si accigliò, l’altro si affrettò
a spiegare.
-
Mugolava nel sonno e mia nonna pensava che stesse soffrendo. -
Airis
sospirò e spostò i capelli dietro le orecchie.
Saetta stronfiò ed emise un basso nitrito quando anche lei
montò in groppa.
-
Noi non siamo mai stati qui, chiaro? -
Faerun
annuì solenne, per poi sparire all’interno della
casa.
Un
paio di ore dopo, Airis intravide oltre gli alberi il profilo della
magione Lullabyon. Il cielo si era rannuvolato, tanto che pareva notte
invece che primo pomeriggio. La luce di una candela illuminava la
finestra della cucina. Airis condusse Saetta nelle scuderie e, prima di
andarsene con Arghail, le tolse la sella e la pulì con la
spazzola. Trascinando
l'amico verso la porta, gli ansimò incoraggiamenti
nell'orecchio, ignara se la sentisse o meno. Il suo
odore, un misto tra sudore e terra, le fece accapponare la pelle.
Conosceva fin troppo bene quella puzza, poiché era la stessa
che l’aveva spesso assalita nell’ospedale
dell’accampamento. Spinse
la porta della cucina con la spalla e barcollò
all'interno. Arghail
grugnì quando lo strattonò con un po’
troppa forza. Lo trasportò velocemente in salotto e lo
depose con cautela sul divano. Non appena il suo corpo toccò
i soffici cuscini, esalò un sospiro di sollievo.
Davsten
e Hallende li raggiunsero subito dopo. Lei andò ad
inginocchiarsi accanto ad Arghail, mentre Davsten si accostò
ad Airis. Le loro espressioni cupe la allarmarono
all’istante.
-
Che cosa è successo? - gli chiese col cuore in gola.
-
Esattamente ciò che temevamo: hanno attentato alla vita
della regina. -
Angolo Autrice:
Hello folks!
sì, finalmente sono tornata. Scusate il mega ritardo, ma...
beh, sono successe delle cose che mi hanno tenuta lontana da EFP. No,
non parlo solo dell'università. Quella sì,
c'è sempre, ma... beh, a dicemebre pubblicherò un
libro. Fermi tutti, niente infarti, lasciatemi spiegare xD Allora,
quest'estate ho deciso assieme a tre mie amiche di dar vita a un
progetto di beneficenza che porterà, per l'appunto, alla
produzione di una raccolta di racconti tema tarocchi. La cosa
più bella è che tutto il ricavato
verrà devoluto in beneficenza alla Telethon. é
stata davvero una bellissima esperienza e, anche se
bisognerà aspettare ancora un po' per l'uscita del libro (la
data è il 12 di dicembre) sono davvero felicissima di aver
contribuito ^^ Se volete saperne di più, vi lascio i link
delle diverse pagine social, così se volete supportare
questo progetto o, semplicemente, sbirciare per vedere meglio di che
cosa si tratta, vi basterà clikkare sul link apposito. Per
quello che, invece, riguarda le storie qui su EFP: allora, Whispering
Wind la sto scrivendo e conto di cominciare a pubblicarla a dicembre
(voglio avere un po' di capitoli da parte), mentre Fuoco la
pubblicazione riprende da oggi. Non vi posso dare la sicurezza di due
capitoli al mese, ma vi assicuro che da ora in avanti
proseguirò fino al termine di questo secondo volume. Un
bacione e fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo u.u
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La notte era il momento
più lungo della giornata, per Zefiro. Melwen dormiva vicino
a lui, schiacciata contro il suo fianco come un cardellino
infreddolito, avvolta nella coperta fino alla testa, con solo qualche
sparuto ricciolo sparso sul cuscino. Quando si muoveva, erano una
delicata carezza sulla sua pelle, come il suo respiro rilassato.
"Ti invidio… vorrei poter dormire anche io come fai tu."
Melwen mugugnò qualcosa di indefinito e si
rannicchiò ancor più. Tremava appena e un velo di
sudore brillava nelle increspature della fronte e delle sopracciglia.
Zefiro protese il braccio fuori dal letto e lo inumidì nel
catino d’acqua sulla sedia, prima di tamponarlo sulle sue
guance. Anche nel buio, riusciva a distinguerne il rossore febbrile.
- Vado un attimo a prendere una boccata d’aria, torno subito.
- le soffiò all’orecchio.
Come se volesse dargli il suo permesso, Melwen ritirò il
braccio contro il petto e si spostò sul bordo del letto,
dove il lenzuolo era scivolato via dall’angolo, lasciando
esposta una riga di materasso.
Zefiro le lanciò un’ultima occhiata, poi prese un
profondo respiro e compì il primo passo. Il legno sotto il
suo piede scricchiolò, un dirugginio d’assi che
riecheggiò nel silenzio della stanza. Zefiro fece una
smorfia e improvvisò una corsetta. Non controllò
che Melwen stesse ancora dormendo prima di appoggiare la mano sulla
maniglia e spalancare la porta, proseguendo fino al soggiorno.
Le candele, come la sera precedente, erano accese e sprigionavano un
intenso aroma di melograno e cannella. Sul tavolo dove levitava la
teiera, oltre alle braci per tenerla in caldo, Eogann aveva lasciato
anche due tazze. Zefiro afferrò quella con inciso sopra un
cavaliere in groppa al suo destriero rampante. Dopo averla riempita
fino all’orlo, si sedette e rimase a osservare il fumo che
spiraleggiava verso il soffitto, le mani che sostenevano il mento e le
palpebre socchiuse, senza pensare a null’altro se non al
profumo dello zenzero. Quando gli parve che la tazza fosse un
po’ meno calda, aggiunse un cucchiaino di miele e si mise a
sorseggiare la tisana.
- Come mai sveglio? Hai fatto un brutto sogno? -
Zefiro sussultò per la sorpresa e si voltò di
scatto. Il busto di Eogann spuntava per metà dalla rampa di
scale. Lo vide salire gli ultimi scalini e avvicinarsi con una candela
in mano.
- Non ho sonno. - rispose.
- È sempre così, oppure ti capita solo in questi
giorni? -
- La seconda. -
Eogann si sedette davanti a lui. Indossava una tunica di un azzurro
stinto, con le maniche così ampie da lasciar sbucare solo la
punta delle dita. A un suo cenno, la teiera si inclinò,
versando la tisana nell’altra tazza.
- E voi? Come mai siete sveglio? -
- Non serve essere così formali, Zefiro. Nemmeno i miei
figli sono così rispettosi. - si abbandonò a una
risata e soffiò per scacciare via fumo e calore, - Melwen
dorme? -
- Sì. È stata una giornata pesante per lei. -
- L’efedra è un’ottima erba, se presa
per un periodo limitato di tempo e in dosi non eccessive. Purtroppo,
nel caso di Melwen, gli effetti collaterali ci metteranno un
po’ a sparire. -
- Un po’ quanto? -
- Non posso darti una risposta certa, dipende da molti fattori. Posso
dirti, però, che già il fatto che stia dormendo
è un progresso non da poco. -
Zefiro annuì. I petali di lavanda galleggiavano sulla
superficie della tisana, urtandosi e urtando i bordi della tazza simili
a zattere alla deriva. Così come la sua mente, anche loro
avevano perso il nord.
- Non ti preoccupare, Melwen starà meglio. Tutti voi starete
meglio, non appena arriverete alla capitale. - Eogann bevve un lungo
sorso di tisana e si alzò, - Visto che anche tu non hai
sonno, perché non mi dai una mano? -
- Di che si tratta? -
- Vieni, te lo spiego nel mio studio. -
Zefiro saltò giù dalla sedia e lo
seguì. Scesero lungo una rampa di scale che sprofondava
nella penombra, attorcigliandosi su se stessa, con la ringhiera e il
palo di supporto in legno decorato con incisioni di foglie
d’edera. Quando scese l’ultimo gradino, Zefiro
percepì sotto le babbucce la consistenza morbida
dell’erba.
- Ma che...? -
- È solo un'illusione, tranquillo. - spiegò
Eogann.
Si avvicinò allo scrittoio e si accomodò su
quello che sarebbe potuto sembrare un albero, se non fosse stato per i
rami intrecciati a mo’ di schienale, per il cuscino di
muschio e le quattro radici a sorreggere il tutto.
- I miei figli dicono che sono un po’ troppo fissato con le
piante, ma che ci posso fare? Sono pur sempre un cacciatore. -
- Un cacciatore? -
- Sì, e pure molto bravo. Poi i fiori in casa mia hanno
cominciato a sbocciare anche in inverno e mio padre mi ha mandato a
calci nel sedere all’Accademia. -
Zefiro sprofondò nel cappello di un fungo rosso a macchie
bianche nello stesso momento in cui una farfalla si posò
sulla sua spalla. La fissò a bocca aperta, sbalordito dalla
sua grandezza. Quando le offrì il dito, il movimento delle
zampe a contatto con la pelle gli causò prurito, ma era una
sensazione piacevole, come il calore che soffondevano le grandi ali
blu. Non ricordava dove o quando, ma era sicuro d’averla
già provata.
- Sembri piacere a Ygerna. -
- Chi? -
Seguì la traiettoria dello sguardo di Eogann e
capì. Abbassò la mano e la farfalla
sbatté le ali, spargendo una polvere brillante
tutt’attorno a lei.
- È un famiglio? -
- Sì. L’ho comprata quando studiavo
all’Accademia e, da quel momento, i miei incantesimi sono
migliorati di molto. Il mercante che me l’ha venduta mi ha
detto di averla catturata nella foresta di Finnbharr. Ho sempre pensato
fossero solo parole, ma ieri ho dovuto ricredermi. -
Schioccò le dita e si accesero una decina di fiammelle blu
sopra di loro, illuminando la pergamena sullo scrittoio, quella che
aveva disegnato Melwen quel pomeriggio.
- Sai cosa è questa? -
Zefiro si affrettò a quietare i brividi strofinandosi le
braccia. Scosse con veemenza la testa per scacciare
l’inquietudine che quella visione gli procurava.
- Hai freddo? Vuoi che ti vada a prendere una coperta? - gli
domandò Eogann.
- No, no, sto bene. Per favore, andat… vai avanti. -
- Questa che ha disegnato Melwen è la cartina del regno
delle fate, la vera mappa.
Certo, è un po’ approssimativa, ma secondo Ygerna
è più che affidabile. -
- Ygerna parla? -
- Diciamo che si fa capire. - Eogann offrì alla farfalla il
palmo e la adagiò sullo scrittoio, sotto l’ombra
allungata di un calamaio, - Comunque, non l’ho mai sentita
così felice come quando ha visto questa mappa. -
- Non hai detto che è originaria di lì? -
- Sì, ma è risaputo che qualsiasi creatura che
abbandona il regno delle fate dimentica dov’è. Gli
studiosi ritengono che ci sia una specie di magia protettiva sul
confine. Purtroppo, possiamo solo ipotizzare che sia vero, anche
perché sennò non mi spiego come una farfalla
cristallo possa aver dimenticato una cosa così importante. -
Zefiro appuntò la sua attenzione sulle ali blu di Ygerna,
prima di tornare a guardare Eogann: - Melwen ha ricopiato la mappa da
un libro di fiabe. Potrebbe essere solo una fantasia e basta. -
- No, non lo è. - li interruppe Melwen, sbucando
all'improvviso accanto a Zefiro.
Si sistemò allo scrittoio e soffiò sulla tazza
fumante. Aveva tutti i riccioli scompigliati, gli occhi arrossati
leggermente lucidi e il libro della fiaba di Oberon e Titania
sottobraccio.
- Scusate, non volevo origliare. Mi sono svegliata, sono andata in sala
per bere la tisana e ho visto la luce, così... -
- Dovresti essere a dormire, tu. Hai bisogno di riposo. - la
rimproverò Zefiro.
- Anche tu, sai? -
- Avete tutti e due bisogno di dormire, ma se Altor non vi concede il
sonno, c’è ben poco da fare. - Eogann
batté una pacca sulla spalla a entrambi e tornò
ad appoggiarsi allo schienale, - E poi, considerando che è
proprio del suo disegno che stavamo parlando, è
più che benvenuta. -
Nell’appoggiare la bocca alla tazza, Melwen
increspò le labbra in un sorrisetto vittorioso. Anche se la
tentazione di prenderla di forza e riportarla a letto era tanta, Zefiro
si obbligò a rimanere seduto, con braccia incrociate sul
petto e le mani infilate sotto le ascelle. Le tirò fuori
solo quando Eogann gli porse la tazza di latte e miele, di nuovo calda.
- Ho copiato la mappa da questo libro. - disse Melwen porgendogli il
libro e nascose i piedi sotto la gonna della camicia da notte, - Lo ha
trovato Zefiro nella biblioteca della vecchia Alabastria. -
Eogann annuì, sfogliandolo: - Questi disegni sono davvero
belli. Sono delle vere e proprie opere d’arte. -
- La mappa si trova quasi a metà ed è stata
disegnata su due pagine. Ci ho messo un po’ a farla apparire,
ma alla fine ho trovato la giusta combinazione per decriptare
l’incantesimo protettivo. -
Si riappropriò delicatamente il libro dalle mani di Eogann e
scorse in fretta le pagine. Le bastava avvicinare le dita
perché queste girassero.
- Se fosse stata solo una fantasia, l’autore non avrebbe
avuto motivo di nasconderla. -
- Però lo sai cosa dicono le leggende: Faerie permette a
pochi di entrare e a pochissimi di uscire. -
Le dita di Zefiro si strinsero di più attorno alla tazza, ma
il calore non era neppure sufficiente a scacciare
l’intirizzimento alle dita. Così si
limitò ad avvicinare le gambe e a raggomitolarsi come
poteva, stringendo i gomiti ai fianchi e piegandosi in avanti, sullo
stomaco dolorosamente contratto.
- Faerie? - domandò Melwen.
- È il nome del regno delle fate. A nessun Sidhe piacerebbe
essere chiamato Fae. È come se io decidessi di chiamare un
uomo "coccodè". -
Il modo in cui fece il verso della gallina strappò un
sorriso a tutti e due i bambini.
- Comunque, questo racconta la leggenda. Entrare a Faerie è
difficile, uscirne è quasi impossibile, almeno per i
non-Sidhe. È il motivo per cui non ho creduto al mercante
quando mi ha riferito di essere stato lui stesso a catturare Ygerna. -
Melwen si mordicchiò il labbro inferiore, arrotolando e
srotolando un ricciolo sulla punta dell’indice: - Allora
rimangono solo due scelte. O l’autore era un Fa…
Sidhe, oppure era una persona così forte da riuscire ad
andarsene e a mantenere la memoria. -
- Oppure, era entrambe le cose. -
Eogann si alzò e andò a prendere un grosso libro
dalla libreria dietro lo scrittoio. Si inumidì le dita,
scorse le pagine e tornò dai bambini, seguito dalle
fiammelle che, subito, si ammassarono sopra la sua testa in
un’ordinata mezzaluna.
- “Al principio era Yggrasil, quando
ancora nulla esisteva. Non c'era né cielo bordato di nuvole,
né foresta, né gelide onde, né vento
caldo. Poi Egli uscì dalle pieghe del tempo e
modellò il Suo pensiero, cominciando a dare forma al mondo.
Sotto il suo tocco si formò la terra e, dove diresse gli
occhi, splendette il Sole, compagno della Luna, coprendo quelle lande
desolate di prati e germogli profumati. Infine, tese la mano e sotto il
suo palmo la terra si aprì, lasciando sgorgare l'acqua di
mari, oceani e fiumi. Con la forza degli elementi da Lui creati,
generò gli altri undici dei, Suoi amati Figli.” -
Continuò a leggere a bassa voce, muovendo le labbra senza
emettere alcun suono. Si fermò su una riga, ma gli occhi
continuarono proseguirono ancora un pezzo prima che la voce desse corpo
alle parole.
- “I Drokar sarebbero dovuti essere la
Stirpe perfetta, inferiore solo a quella di Yggrasil. Invece erano al
pari di tutte le altre, senza luce e senza gloria. Endemion, logorato
dalla gelosia, rifiutò di considerarla un fallimento e
giurò vendetta contro i propri Fratelli e Yggrasil
stesso”. -
- Yggrasil sapeva che Aesir sarebbe tornato. È per questo
che ha lasciato tre frammenti della sua anima nel Mondo Nato dal Nulla,
perché noi potessimo difenderci. Ma no, non fece
solo questo. No, chiese ai suoi figli di scegliere un eletto che
potesse operare il volere degli dei e potesse impugnare anche la
Forbice del Cielo. - Melwen aveva gli occhi spalancati e articolava
parole senza voce, battendo il piede come per scandire lo scorrere dei
suoi pensieri, - Ora tutto comincia ad avere un senso. -
Zefiro corrugò le sopracciglia e scosse la testa: - Che cosa
ha un senso? -
- Chi ha realizzato la mappa era un
Guardiano. È il suo lascito, capisci? -
- Perché dovrebbe interessarci? -
- Perché sono i Sidhe i custodi della Forbice del Cielo. -
spiegò Eogann.
Una pipa si alzò dallo scaffale più alto della
libreria e volò tra le sue mani. Schioccò le dita
e, sulla punta del suo pollice, si accese una piccola fiamma, con cui
l'accese. Al primo tiro, nell’aria si diffuse un odore
dolciastro.
- Nel Mablung Ringëril è chiamata
"Amernwyn", nella Seferìa "Forbice del Cielo". Qualunque sia
il suo nome, è la spada che Yggrasil usò per
sconfiggere Endemion, o Aesir. - aspirò, gonfiò
appena le guance e soffiò fuori una voluta di fumo, -
Ragioniamo per assurdo. Se colui o colei che ha disegnato questa mappa
fosse stato un Guardiano, avrebbe avuto non solo le capacità
per andare e uscire da Faerie, ma anche motivo sia per disegnare una
mappa sia per nasconderla. Considerato il grado dei dettagli, non
è da escludere che fosse un Sidhe a sua volta. -
Zefiro prese la pergamena e la strinse così forte da
accartocciarne i lati e creparne gli angoli.
- Tutto quello che state dicendo non ha il benché minimo
senso. Parlate di dei, Guardiani, spade magiche e mappe segrete come se
tutto questo fosse… fosse reale! -
- È molto meno assurdo di quello che potres… -
- No, è assurdo e basta. Sono leggende, Melwen. Come puoi
crederci? -
- Perché, paradossalmente, sembrano le uniche in grado di
darci delle risposte. - lo sedò Eogann, per
poi massaggiarsi la radice del naso e distendere le gambe
sopra una coccinella grossa quanto un gatto, - Dalla caduta di
Llanowar, il mondo è cambiato, e il tempo anche non
è più lo stesso. Ho sentito che la primavera, al
sud, è arrivata prima del previsto e che a ovest spirano dei
venti così forti da impedire la normale navigazione.
È come se qualcosa, nel cuore del mondo, si fosse rotto. -
- E quando l'equilibrio viene compromesso, compare il Guardiano. -
completò Melwen.
Il mago annuì, mordicchiando il dente del bocchino: - Devo
recuperare i miei appunti sul frammento che mi ha portato tuo padre.
Forse da quelli potrò… -
- Io vado a dormire. -
Zefiro si alzò e si pulì dalla polvere luccicante
che gli si era appiccicata alle dita.
- Zefiro, ma che ti prende? -
Melwen lo afferrò per il braccio. I suoi occhi avevano
assunto una sfumatura rossastra e il sudore le aveva macchiato la
camicia sotto le ascelle e sul collo.
- Mi prende che mi è venuto sonno e voglio andare a dormire.
Anche tu dovresti, hai bisogno di riposare. -
- Ma finalmente possiamo avere delle risposte! -
- Parla per te. A me non interessa. -
Tentò di liberarsi, ma Melwen non si arrese: - Non
è vero. È solo una bugia perché sei
uno stupido fifone! -
- Non sono un fifone! -
Zefiro si districò e la spinse a terra. Ignorando lo sguardo
disorientato dell'amica e i rimproveri di Eogann, marciò
fuori dalla stanza senza voltarsi indietro.
Un'ora dopo, tenne gli occhi fermamente chiusi quando udì
Melwen rientrare. La sentì infilarsi sotto le coperte,
girarsi e rigirarsi per un po’, finché il respiro
non si allineò sulla sequenza del sonno. Non si
svegliò mai e Zefiro non si azzardò ad
abbracciarla. Aveva paura che, se avesse percepito il suo calore,
l’avrebbe spinto via.
Distese le gambe e si fissò le mani. La luce della luna le
illuminava di un chiarore spettrale, esaltando il profilo delle ossa e
delle vene scure. Aveva spaccato lo spallaccio dell’elfo che
aveva aggredito Melwen con quelle mani. Lo aveva stretto e il cuoio si
era piegato come una foglia essiccata dal freddo. Aveva trovato
piacevole il sapore del sangue, la sensazione di potere che aveva
portato con sé, e più ci pensava, più
si rendeva conto che avrebbe voluto assaporarla di nuovo.
Ritirò un braccio sotto le coperte e allungò
l’altro sotto il cuscino, lasciando la mano a penzoloni fuori
dal letto. Nel buio sbocciarono grosse macchie di colore,
così grandi e vivide da sembrare fiori
nell’oscurità della stanza. Giravano su se stessi
come trottole. Più Zefiro assottigliava gli occhi,
più diventavano definiti, così come i visi
nascosti dal loro vorticare.
Intravide l’espressione distesa di suo padre davanti al
camino di casa. Le ombre delle fiamme si proiettavano sul tappeto,
sfiorando i piedi nudi e induriti dai calli.
Scorse Alan camminare per le strade di Amount-vinya. Lo seguivano le
guardie e alcuni bambini, tutti sorridenti sotto i riverberi del sole
sull’acciottolato.
Baldur intagliava la sua spada di legno seduto su uno sgabello in
giardino. I trucioli si erano depositati ai suoi piedi come petali dopo
la pioggia.
Nordri fissava il suo operato e lo intratteneva, riempiendogli il
boccale prima che il vino finisse.
Morti. Erano tutti morti.
Zefiro strinse il lenzuolo e abbassò le palpebre. I fiori
ricomparvero comunque, si aprirono e ripresero a vorticare fino
fondersi in un uniforme velo rosso.
Rivide sua madre con Nyi, nello spazio erboso dove si erano accampati
mentre fuggivano. Udì la voce di Nyi come se fosse
lì con lui in quel momento. - Non è umano, è inutile chiudere gli
occhi davanti all'evidenza. - - Non vuoi nemmeno ascoltare la mia teoria? - - Tuo figlio presto pretenderà delle risposte.
-
Buttò all’aria le coperte, corse in bagno e
sbatté la porta. Gli tremavano le mani mentre si scostava la
stoffa da una spalla. La voglia era lì, tra scapola e collo,
una macchia oblunga e nera come un livido.
- Cos’è quella? -
Zefiro afferrò la tunica e la frappose tra lui e lo sguardo
interrogativo di Myria: - Niente. Che ci fai qui? -
Sua madre compì un passo all’interno del bagno e
si chiuse piano la porta alle spalle, come se avesse a che fare con un
animale impaurito. Zefiro non si mosse. Si strinse la tunica al petto e
seguì con gli occhi sua madre mentre prendeva posto sulla
sedia di fianco alla vasca.
- Sai che puoi dirmi tutto. Sono tua madre, non
c’è niente che… -
- Tu non sei mia madre. -
Myria gelò.
- Non dire così, Zefiro. Io e Tanet ti abbiamo sempre amato.
-
- Quindi è vero. È… è come
diceva Nyi. Dimmi cosa sono. -
Le lacrime gli appesantirono le ciglia. Scansò la mano di
sua madre, protesa per elargirgli una carezza sul viso, e si
spostò di lato, fuori dalla sua portata.
- Sei mio figlio. -
- Basta bugie! -
- Non ti sto mentendo. -
- Smettila! Quello che ho fatto non è normale, lo sai anche
tu! -
Myria non rispose. La bocca si mosse, ma senza articolare alcuna
parola. Il suo respiro spezzato pervadeva il silenzio.
Zefiro lasciò cadere la tunica e avanzò verso di
lei: - Voglio sapere la verità. Me lo devi. -
- Non costringermi, ti prego… -
- Voglio sapere. -
Impresse in quel “voglio” tutta la sua
disperazione.
Sua madre intrecciò le dita in grembo e abbassò
il capo. I capelli scesero a incorniciarle la fronte e le guance.
- Ti ha portato tuo padre a casa. Mi ha detto di averti trovato
abbandonato in un vicolo di Amount-vinya. -
Zefiro deglutì. Le vertigini lo colsero e le ginocchia si
piegarono sotto il peso del suo corpo. L’impatto della
schiena contro la parete si ripercosse nella gabbia toracica e nella
spina dorsale, togliendogli il fiato.
- Non so chi fossero i tuoi veri genitori, né il motivo per
cui ti hanno abbandonato. Quando Tanet ti ha portato a casa, ero
soltanto felice del dono che gli dei mi avevano fatto. -
- Zefiro… Zefiro è…? -
- Il tuo nome, lo abbiamo scelto noi. - Myria si alzò e,
prima che Zefiro potesse spostarsi, gli circondò la testa
con le braccia, premendosela contro il proprio petto, - Io e tuo padre
ci eravamo promessi che sarebbe rimasto un segreto finché
non saresti stato abbastanza grande. E quando lui è morto,
tu eri ancora troppo piccolo. -
- Me ne avresti mai parlato? -
- Sì… sì, lo avrei fatto. -
Zefiro colse l’esitazione nella sua voce. Quelle parole gli
avevano cavato fuori tutto e, adesso, erano rimasti solo i muscoli e le
interiora gelate a trattenere il suo corpo vuoto. Piano, come in un
sogno a occhi aperti, spinse via la donna e uscì dal bagno.
Anche se era stata l’ultima a infilarsi a letto, Melwen fu la
prima ad alzarsi la mattina seguente.
Quando udì la porta chiudersi e i passi allontanarsi, Zefiro
si sedette sul materasso. Si trascinò in bagno, si
lavò e scese a far colazione. Non appena lo vide, Eogann gli
rivolse un caloroso sorriso, accompagnato da un
“buongiorno” che scalfì appena il suo
silenzio.
Myria e Melwen sedevano dall’altra parte del tavolo. Nessuna
delle due gli rivolse la parola. Soltanto sua madre, di tanto in tanto,
si azzardava ad alzare la testa per guardarlo. Zefiro
incassò le sue occhiate, le sostenne per un po' e le
lasciò cadere, abbassando lo sguardo prima che il bisogno di
andare ad abbracciarla prevalesse.
Si defilò non appena poté, senza rivolgere la
parola a nessuno.
Passò la mattina a gironzolare tra il giardino e
l’orto e, quando si stancò, andò a
rifugiarsi nella stalla. Reza lo accolse con una lunga occhiata
stizzita, ma non gli ringhiò di andarsene, né si
arrabbiò quando Zefiro si sedette vicino a lui.
Era un silenzio piacevole, quello che sussisteva lì dentro.
Il profumo di paglia e legno si accompagnava a quello dei cespi
d’erba lasciati a essiccare appesi alle pareti. Con la poca
luce che trapelava attraverso le varie fessure, tutto era avvolto dalla
semioscurità. Se soltanto non avesse avuto la mente
così affollata e rumorosa, Zefiro si sarebbe lasciato
volentieri vincere dalla stanchezza. Rimase lì
finché Eogann non si affacciò e lo
informò che era pronto in tavola.
Durante il pranzo, le conversazioni ebbero un andamento altalenante.
Nessuno si impegnò molto per evitare i silenzi. Zefiro
rimestò la sua zuppa di patate, ormai fredda, trincerato
dietro un muro di mutismo.
Quando gli adulti si alzarono e rimase solo Melwen, la bambina gli
scoccò un'occhiata incerta.
- Cosa è successo ieri con tua madre? Avete litigato? -
Zefiro si bloccò e alzò lo sguardo. Melwen lo
fissava dall’altra parte del tavolo con un contorno di
marmellata di fichi attorno alle labbra. Se non avesse avuto
un’espressione così seria, gli sarebbe venuto da
ridere.
- Credevo stessi dormendo. -
- Il tuo continuo sbattere le porte mi ha svegliata. -
addentò la fetta di pane e si pulì la bocca e la
punta del naso, - Allora? Hai intenzione di dirmi cosa ti è
preso ieri, oppure devo tirare a indovinare? -
Zefiro sollevò un pezzo di patata, lo portò
all’altezza degli occhi e lo lasciò ricadere nella
tazza.
- Puoi provarci, ma non credo ci riusciresti. -
- Per quanto ancora pensi di continuare a fare così? -
- Così come? -
- A comportarti da "cattivo", anche se ci sarebbe una parola molto
più volgare, e calzante, per descriverti. -
- Ma tu sei una brava bambina e non la dirai. -
- Sono seria. Voglio sapere cos’hai. -
Zefiro avrebbe voluto avere una bugia pronta da rifilarle, ma non gli
veniva in mente nulla. Le parole gli erano precipitate in gola e nello
stomaco si erano sciolte. Sobbalzò quando percepì
il calore di una mano sulla propria. Melwen si era seduta di fianco a
lui e sorrideva. Quel sorriso aveva il potere di calmarlo
più di qualsiasi tisana.
- Non sono arrabbiata con te. Cioè sì, lo sono,
ma non tanto da far finta di niente. -
- È complicato da spiegare. - sospirò arreso.
- Non c’è molto da fare qui. Ho tutto il tempo del
mondo. -
Zefiro allacciò le dita dietro la nuca e rimase in silenzio
a guardare la luce che ingrigiva il paesaggio.
- Andiamo fuori. Ho voglia di sgranchirmi le gambe. - propose, - Ce la
fai o sei troppo stanca? -
- No, ce la faccio. -
Il giardino di Eogann era ben curato, così come casa sua.
Avanzarono nell’erba bassa fino allo steccato e si sedettero
con le gambe a penzoloni. Il vento scivolava sulla superficie del lago,
increspando il riflesso della città e del tempio di Ovenar.
A guardarlo da lì, a Zefiro non sembrava così
maestoso come gli era parso qualche giorno prima.
- È davvero possibile che nessuno ci veda? -
- Con la magia si può quasi tutto. -
- Quasi? -
- Ci sono cose che soltanto un dio potrebbe fare. - disse Melwen, per
poi puntargli il dito contro il naso, - Non provare a distrarmi. La tua
tattica questa volta non funzionerà. -
- Non ci avevo pensato, a essere sincero. Mi stavo solo chiedendo se
eravamo davvero al sicuro come diceva Eogann. - sospirò di
nuovo e rilassò le spalle, - Il giorno dopo la caduta di
Alabastria mi è apparsa una macchia sulla spalla. -
rivelò sottovoce.
- Una macchia? -
- Sì. Il giorno prima non c’era e ora…
ora è lì. E ho paura e sono arrabbiato con mia
madre. - si passò entrambe le mani sul viso per scacciare le
lacrime, - Perché lei e papà sapevano che ero
strano, ma non mi hanno mai detto niente. Mi hanno tenuto nascosto che
non ero loro figlio e forse mamma nemmeno me lo avrebbe detto. -
Melwen si fece più vicina. Quando lo strinse a sé
in un abbraccio, Zefiro crollò. Le mura si sgretolarono e la
disperazione si riversò fuori in un singulto che lo scosse
fin nello stomaco.
- Sono un mostro... -
- No, non è vero. - protestò Melwen con veemenza,
- Non dirlo neanche per scherzo. -
- I miei veri genitori non mi hanno voluto. Mi... mi hanno abbandonato
in un vicolo, capisci? Non mi hanno nemmeno dato un nome. -
Più parlava, più sentiva la crepa dentro di
sé allargarsi. Ma, anche se avesse voluto, non aveva
più la forza di trattenersi.
- Non mi hanno voluto perché sono un mostro. Loro sapevano
quello che sarei diventato e hanno voluto sbarazzarsi di me. -
La sua voce si spezzò. I singhiozzi frammentarono le frasi,
riducendole a brandelli prima che potesse pronunciarle. Tuttavia, per
quanta rabbia potesse provare, non allontanò Melwen da
sé. Lei gli premette la testa contro la spalla e lo cinse
con tutte e due le braccia, finché i singhiozzi non
esaurirono.
- Sei la persona più dolce e gentile che conosca, Zefiro.
Non puoi essere un mostro. E anche lo fossi, io non ho paura di te,
perché so che non mi faresti mai del male. -
Zefiro tirò su col naso e si raddrizzò. Si
sentiva la testa svuotata e i pensieri, i pochi che erano rimasti, era
come se non avessero più peso e fossero diventati
d’improvviso inconsistenti.
- Come fai a esserne sicura? Ti ho detto che mi è piaciuto
il sang… -
- Ho sentito, e non penso proprio tu sia cattivo. Il mostro sotto il
letto di mia sorella lo era. Persino mia mamma, quando si arrabbiava,
faceva più paura, e tu hai visto quanto poco fosse
minacciosa. -
- Melwen, è una cosa seria. - la rimproverò, ma
le labbra si curvarono spontaneamente nel fantasma di un sorriso.
- Pure io lo sono. Magari non sei umano, ma questo non significa che tu
sia cattivo. Sei solo diverso, tutto qui. -
- Quindi non hai paura di me? -
- Come potrei? Sei il mio migliore amico. Mi hai anche salvato la vita,
proprio come un vero eroe. - disse e gli rivolse un sorriso a trentadue
denti.
Il vento si infilò tra le pieghe della gonna, aprendola come
la corolla di un fiore. Melwen scoppiò a ridere e
inclinò il collo per godersi la luce del sole che,
all’improvviso, si era fatta largo nelle nubi.
- Eogann potrebbe darti delle risposte su quello che sei. Credo che
dovresti ascoltarlo. -
- Pensi mi permetterà di andare nel suo studio? -
- Sì. Soprattutto Ygerna. Ecco, vedi? Se fossi cattivo, non
potresti piacere a una farfalla fatata. -
- A me fa strano anche solo pensare che esista una farfalla fatata.
O… o che esistano le fate, in generale. -
Melwen ridacchiò: - Mio padre diceva che il mondo
è strano e pieno di meraviglie da scoprire. Credo che, se
fosse ancora vivo, sarebbe stato felice di questa nostra scoperta. -
Rimasero a guardare il transitare di uomini e bestie sul sentiero
finché stare seduti sullo steccato non divenne troppo
scomodo. Allora, con le gambe formicolanti, balzarono a terra e
tornarono dentro casa.
Per cena mangiarono un bollito misto di spigola e code di rospo,
accompagnati da un brodetto aromatizzato con sedano, cipolle e
prezzemolo. Quand’ebbero finito, Myria si offrì di
andare a lavare i piatti, mentre Nyi raccomandò tutti di
prepararsi per la partenza del giorno dopo.
Eogann fu l’unico che rimase a tavola con i bambini. Zefiro
attese che finisse il suo bicchiere di vino, prima di seguirlo assieme
a Melwen nel suo studio al piano di sotto. Non appena mise
piede sull’erba, Ygerna si innalzò dalla corolla
di un tulipano e gli svolazzò attorno, spargendogli addosso
una nuvola di polvere luccicante.
- Allora… stai un po’ meglio rispetto a ieri? -
gli domandò Eogann.
- Perdonatemi, sono stato maleducato. - rispose con una smorfia
colpevole.
- Non preoccuparti. E smettila di darmi del "voi". Sedetevi, piuttosto.
In Accademia avrete tutto il tempo per stare in piedi e ingrassare
l’ego dei professori con le buone maniere. -
- Solo Melwen ci andrà. Io e mia madre… non lo so
cosa faremo. - disse Zefiro.
- Oh. -
Eogann prese la pipa e, come la sera precedente, l’accese con
uno schiocco di dita. Quando accavallò le gambe, le narici
si dilatarono appena nel spingere fuori il fumo.
- Bah, tipico di Nyi: prima i suoi allievi, sempre e comunque. -
Melwen strinse la copertina del libro e arcuò le spalle in
avanti. Di riflesso, Zefiro appoggiò la mano sulla sua. Poi
il bambino si rivolse al mago.
- Ho bisogno di parlarti. -
- Lo so. -
Zefiro si strofinò le mani sudate sui pantaloni e
focalizzò la sua attenzione su Ygerna, sul suo caotico volo
di fiore in fiore. Quando la farfalla si posò su una pianta
di malva, si sentì pronto a parlare.
- Ad Alabastria ho tentato di uccidere un elfo. - il solo ammetterlo ad
alta voce gli causò un brivido di ribrezzo, - Melwen era
svenuta e lui si stava avvicinando a lei e io… gli sono
saltato addosso. E quando l’ho morso e ho percepito il sapore
del suo sangue sulla lingua, mi sono scoperto a desiderarne ancora.
È stato brutto venire scaraventato contro una sedia, e non
solo perché ho ricominciato a sentire dolore. -
Girò le mani e rimase a guardarne i palmi. Il ricordo
tattile del sangue gli macchiò di nuovo le dita e per un
momento tornarono di nuovo appiccicose e sporche come quel
giorno.
- Poi è apparsa una macchia nera sulla mia spalla. Me ne
sono accorto la mattina dopo la caduta della città. -
- Fammi vedere. -
Zefiro abbassò il collo della tunica e alzò la
spalla. Eogann ispezionò la macchia, inclinando la testa in
modo da guardarla da più angolazioni.
- Ho letto qualcosa a riguardo. - spostò la pipa
all’angolo della bocca, sfilò un libro da uno
degli scaffali più alti e cominciò a sfogliarlo
in fretta, - Li chiamano Dhoìsidhe, o Eile. Sono i figli di
una fata e di un umano. -
Quelle parole lo colpirono come uno schiaffo. Zefiro fissò
stralunato il libro che Eogann teneva aperto sulle ginocchia,
focalizzando la sua attenzione sulla pagina che gli stava indicando.
Lì c'era un disegno in bianco e nero di una donna girata di
schiena. Sulla spalla aveva una macchia oblunga e scura.
- La carne umana è la preferita dei Sidhe. Anche se non si
avventurano mai al di fuori dei loro confini, si assicurano di attirare
le prede nei loro boschi per catturarle. Eppure, alcune leggende
raccontano di alcuni fatati che si sono innamorati di umani e hanno
deciso di abbandonare Faerie. Non si sa molto di queste coppie, se non
che il genitore Sidhe impone il Marchio alla propria progenie, prima di
abbandonarla. -
Zefiro prese il libro e sfiorò in punta di dita la macchia
scura sulla spalla della ragazza. Non riusciva a parlare. Le cose al
limitare del suo campo visivo erano sfocate, i suoni attutiti. Davanti
ai suoi occhi non c’era altro che quel disegno attorniato da
una nube di inchiostro disciolto.
- Perché abbandonano i propri figli? - chiese Melwen.
- Non lo sappiamo. Le leggende dicono che è
perché li disprezzano, altre perché desiderano
che vivano come umani finché non sentiranno il richiamo del
loro sangue Sidhe. Mi dispiace Zefiro… -
Il bambino scosse la testa. Si pizzicò forte il braccio, ma
lo studio non svanì né lui si svegliò
nel suo letto. Anche il dolore lo intorpidì appena.
- È assurdo. - esalò con un filo di voce.
- Molte di quanto sta succedendo è assurdo. - Eogann fece il
giro del tavolo, aprì un cassetto e porse un plico di fogli
a Melwen, - Questi sono i miei appunti sul cristallo che mi aveva
portato tuo padre. Credo sia giusto che li abbia tu. -
- Grazie per quello che hai fatto per noi. - disse Melwen,
prese le pergamene e le infilò dentro il libro delle fiabe.
- Avrei voluto fare di più, ma sono un mago
mediocre. - rispose Eogann con un lieve sorriso e svuotò la
pipa in un posacenere di terracotta scheggiato, - Ora andate a letto.
Se avrete problemi ad addormentarvi, vi lascio la teiera calda con un
infuso di camomilla sul tavolo. -
Zefiro si dovette appoggiare a Melwen per sollevarsi. Non si sentiva
più le ginocchia, le gambe, nulla. Dalla cintola in
giù i muscoli non erano altro che pietra.
Dormirono affiancati tutta la notte, mano nella mano. Poco dopo
colazione, si radunarono fuori assieme a Raiza, Myria ed Eogann. Nyi li
attendeva con le mani intrecciate dietro la schiena. Il sole,
così caldo e luminoso, gli dorava i capelli e i peli sul
dorso dei piedi. Diede loro le spalle e mosse le braccia descrivendo
degli ampi cerchi, mentre davanti a lui si apriva lo stesso specchio
fumoso che, giorni prima, li aveva teletrasportati fuori da Alabastria.
- Alla capitale sarete al sicuro. Non dimenticherete tutto, ma avrete
tempo per… dare un senso al vostro dolore. -
mormorò Eogann, inginocchiandosi dietro ai due
bambini, - Zefiro, ricorda che non è il nostro
sangue a decidere il nostro futuro. Le radici servono a dare
stabilità all’albero, ma sono i suoi rami a
permettergli di toccare il cielo. -
Quando mise una mano sulla spalla di Zefiro, Ygerna subito vi si
posò sopra.
- Andiamo, non ho intenzione di tenere aperto il portale per i vostri
stupidi addii. - borbottò Nyi.
Eogann li sospinse in avanti e Melwen trascinò Zefiro fino
al portale. Al di là non c’erano altro che ombre
immobili.
Il bambino esitò sulla soglia e si girò a
guardare sua madre, che li seguiva un paio di passi più
indietro. Aveva bisogno di tempo per capire se poteva perdonarla, ma in
quel momento si sforzò di abbozzare un sorriso per non farle
perdere la speranza.
Infine, racimolando il coraggio, trasse un profondo respiro e
seguì Melwen dentro il portale.