Come un fiocco di neve

di Eleanor_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordici. ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindici. ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedici. ***
Capitolo 17: *** Capitolo Diciassette. ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciotto. ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciannove. ***
Capitolo 20: *** Capitolo Venti. ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno. ***


Capitolo Uno.

Spalanco improvvisamente gli occhi con il terrore di essere in ritardo. La stanchezza mi piomba addosso tanto veloce quanto lo fa il mal di testa. Mi sento uno straccio, e non ho ancora realizzato dove mi trovo.
Il mal di testa è maledettamente persistente e mi ci vuole qualche minuto prima di riuscire a mettere a fuoco la sveglia digitale che si trova sul mio comodino e che con i suoi numeri rossi e accecanti mi fa venire voglia di lanciarla contro il muro.
Segna le sette meno cinque.
Merda!
L’unico autobus che non fa un percorso di sessanta chilometri per arrivare al mio liceo passa fra meno di mezz’ora. Inferocita con me stessa per essermi dimenticata di mettere la sveglia, rotolo giù dal letto, senza accorgermi minimamente della persona che dorme pacificamente accanto a me. Non appena mi alzo in piedi mi accorgo di essere completamente e innegabilmente… nuda. O meglio, fortunatamente addosso ho almeno i miei orribili slip azzurri a fiori.
Mi abituo al buio angusto della mia stanza e comincio a rendermi conto di cosa sia successo appena qualche ora fa.
Infilo il reggiseno abbandonato ai piedi del mio letto in meno di tre secondi, poi mi copro il più possibile, indossando una felpa blu elettrico e un paio di jeans logori.
È solo allora, dopo un’accurata ispezione della scia di vestiti che parte dalla porta della mia camera e arriva al mio letto che mi rendo conto di non essere da sola qui dentro.
Ora, sfortunatamente, ricordo alcuni particolari della notte passata.
La macchina di Serena parcheggiata fuori da casa mia, io che mi preparo ed esco con lei. Ricordo il Cuba Libre, un locale appena fuori città e da quel momento in poi, so solamente di aver bevuto un po’ troppo.
Serena, una mia compagna di classe pluribocciata, non tocca un goccio d’alcol per tutta la sera, essendo una neopatentata. Deduco perciò di essere stata l’unica a dare spettacolo.
Mi sforzo il più possibile, mi spremo le meningi e tento di far riaffiorare qualche ricordo. Nel frattempo, la persona infilata nel mio letto si allarga su tutta la superficie e scopre una parte della testa scura.
È un ragazzo.
Lo capisco dal respiro pesante, dal taglio dei capelli e dalla lunghezza del suo corpo.
Con il cuore in gola, mi avvicino al mio letto e con delicatezza, scosto le lenzuola dal suo viso, giusto il necessario per capire chi è.
Il verso che mi esce è a metà fra un gemito e una risata.
No. È impossibile. Sto ancora sognando. Sì, sicuramente la sbronza deve avermi stesa peggio di quel che credevo.
Mi tiro uno schiaffo che mi fa più male che bene, inizio a camminare avanti e indietro per la stanza, ma purtroppo, accetto alla fine, è tutto dannatamente reale.
La sveglia sembra sia stata mandata avanti da un paio di mani invisibili, perché segna già le sette e dieci.
Devo decidere in fretta cosa fare. Valuto ogni possibilità, mentre mi dirigo verso la cucina.
Non c’è nessuno in casa, come al solito.
Mamma dev’essere uscita presto, e ha lasciato a me e ai miei fratelli dei piatti per la colazione sul tavolo della cucina.
Federico non inizierà i corsi all’università prima di un paio d’ore e ne approfitta per rimanere a dormire fino a tardi, quindi farmi portare a scuola da lui è fuori questione.
Un russare animalesco mi giunge alle orecchie ancor prima che raggiunga il soggiorno di casa mia e interrompe il filo dei miei pensieri. Dev’essere mio padre, tornato a casa nel cuore della notte. Conoscendolo, non si sveglierà prima di… be’, non si sveglierà, considerata la notevole quantità di vodka che ha tracannato. Con un verso disgustato volto le spalle al divano su cui è disteso e mi dirigo verso il tavolo della cucina, domandandomi perché mia madre non l’abbia ancora buttato fuori casa.
Apro il frigo e vi trovo dentro una bottiglia di latte, che mi verso nel primo bicchiere pulito che trovo. Faccio il giro del tavolo diretta alla dispensa in cui sono riposti i cereali, ma un biglietto dagli angoli malamente tagliati, una scatoletta azzurra e un disegno infantile attirano la mia attenzione.
Il disegno rappresenta una bambina biondissima che stringe fra le mani una specie di animale sconosciuto e lo porge a un altro orribile ibrido mezzo umano e mezzo troll con i capelli scuri legati in una coda.
Una freccia mi spiega che l’animale nelle mani della bambina è un gatto e che “questa sono io”, ossia mia sorella di dieci anni.
Io, invece, sono il mezzo troll con i vestiti scuri, e sorrido per ringraziarla del regalo. Sotto al disegno, il biglietto che riconosco essere stato scritto da mia madre, dice:
 
Buon diciottesimo compleanno, Clar.
Ti vogliamo bene, mamma, Vale e Fede.  
 
Scarto la confezione del regalo e vi trovo dentro un ciondolo con una pietra azzurra sfavillante, che emana luce ad ogni movimento. Sorrido e indosso subito la catenella.
Mangio velocemente e poi torno in camera mia, sicura di cosa fare.
Non appena varco la porta e mi trovo davanti un ragazzo a petto nudo che si guarda attorno con fare circospetto, a malapena riesco a trattenere un grido.
Raggiungo la mia finestra e facendo più casino del solito, alzo le tapparelle.
« Cazzo » si lamenta, coprendosi gli occhi.
« Te ne devi andare » lo avviso. Raccolgo da terra i suoi abiti, facendo particolare attenzione a lanciarglieli addosso.
« No, aspetta. » Sembra acquistare un po’ di lucidità e rendersi conto di dove si trova.
« Sei… Oddio, Clarissa. Clarissa, sei tu? Non ci posso credere. » Si squadra un momento, poi si volta, osserva il mio letto, le lenzuola spiegazzate e infine posa gli occhi su di me.
« No. Io, tu, no » balbetta, restando a bocca aperta. Ho l’impressione che stia trattenendo le risate.
Lancio uno sguardo alla mia sveglia e mi accorgo che sono già le sette e venticinque. Ormai prendere l’autobus è fuori questione. Ignoro il ragazzo e afferro il cellulare sulla mia scrivania. Digito il numero di Serena e le telefono.
« Stavo per chiamarti » mi saluta, con la bocca piena. « Tanti auguri! » sputacchia. No, anzi, non so se sputa, ma dal suono che sento al telefono, me lo immagino.
« Grazie » ribatto, secca. Uso poche parole per farle capire che ho bisogno di un passaggio a scuola. Lei accetta di passarmi a prendere fuori da casa mia fra un quarto d’ora. Riattacco senza ringraziare.
Lui intanto si è vestito e si sta dando un’occhiata intorno con sguardo imbarazzato. Non mi capacito che, proprio qualche ora fa, io e lui stessimo probabilmente… nel mio letto. Non so se la perdita di memoria sia un bene o un male.
« E così, questa è camera tua » sentenzia dopo qualche attimo di spiacevole silenzio.
« Già » rispondo, china sul letto per sistemare le lenzuola.
« Ricordi cos’è successo ieri sera? » chiede, alzando il mento con fare arrogante.
Dire che mi sento in imbarazzo è veramente un eufemismo. Vorrei che il pavimento mi inghiottisse in questo preciso istante, trasportandomi in un universo in cui i ragazzi non rendono discorsi come questi estremamente sgradevoli, e io passo serate da sobria ricordandomi ciò che è accaduto la sera precedente.
« Non… Non sono sicura… Credo che sia perché… »
« Abbiamo fatto sesso » chiarisce, con un tono strano, a metà fra l’interrogativo e il divertito.
Mi lascio sfuggire un colpo di tosse. Merda, non credevo che lui se ne ricordasse, ma ora non ci sono più dubbi.
Evito accuratamente di rispondere e anche quando si piega ad aiutarmi a sistemare il letto, non incrocio il suo sguardo.
« Devi andartene » ripeto, in modo più autoritario. « Ma aspetta qui cinque minuti » aggiungo. Esco dalla mia stanza, e mi chiudo a chiave nel bagno accanto alla mia camera.
Decido di concedermi una breve doccia, così mi infilo sotto il getto d’acqua calda e ne esco fresca e più lucida. Dopo essermi rivestita, mi lavo i denti, passo un filo di mascara e dell’eyeliner nero sulle palpebre e raccolgo i capelli che non superano le spalle in un piccolo chignon scomposto ma decente.
Lui è ancora davanti alla porta della mia stanza e mi guarda come se fossi un fantasma pronto a raccontargli del perché sono tornata dal mondo dei morti.
Nei suoi occhi scuri leggo diffidenza e arroganza.
Un suono squillante e cristallino arriva alle mie orecchie dall’atrio e capisco, anche dal rombo del motore che sento in strada, che è arrivata Serena.
Afferro il cellulare e la borsa con i libri.
« Seguimi » sospiro, chiudendomi definitivamente la porta della mia stanza alle spalle, appena ne usciamo.
Lui esegue, ma vedo che non è per niente contento di dover seguire i miei ordini.
Proprio quando stiamo scendendo le scale, la porta della camera dei miei genitori si apre, e ne esce una bambina di dieci anni, bionda e spettinata, con un pigiama verde e lo sguardo assonnato.
« Clary? » sussurra, come se stentasse a crederci. Fra le mani sta torturando un delfino di peluche.
« Tesoro » la chiamo. Mi avvicino e le sussurro di tornare a dormire, finché Fede non la sveglierà. Lei annuisce e sbadiglia, voltandosi verso la camera dei miei. Prima di entrarci, però, sembra accorgersi del ragazzo che sta in piedi, come pietrificato, dietro di me e acquista un po’ di lucidità.
« Ma lui, non è quello che abita… ? » comincia, indicandolo con un dito corto e sottile.
« No » la interrompo. « Torna a dormire Vale. »
Vergognandomi di ciò che è accaduto ieri sera, spingo il ragazzo. Un altro trillo mi fa comprendere che Serena è stufa di aspettare.
Una volta al piano di sotto, alzo la cornetta del citofono, assicurandomi che mio padre sia ancora in coma sul divano, e la avverto che sto per scendere.
Spalanco in fretta l’uscio di casa mia e faccio segno al ragazzo di uscire, spingendolo non troppo delicatamente sulla schiena.
« Be’… ci si vede? » dice lui. Capendo che non ho intenzione di rispondere, con un cenno del capo si congeda e sale le scale del condominio verso il suo appartamento al piano di sopra.
Già, il ragazzo con cui ho appena passato la notte non è altri che il mio vicino di casa, Leonardo Arcuri, che conosco da anni e a cui ormai non rivolgo più di un “ciao”.
Imbarazzata e sconsolata, scendo le scale e raggiungo la Mini nuova di pacca di Serena. Scivolo sul sedile del passeggero senza dire una parola e lei, mettendo in moto, mi guarda in modo strano.
« Buongiorno » dice, in tono gentile, masticando una chewing gum.
« Mmh » commento, guardando fuori dal finestrino.
« Divertita, ieri sera? » mi sorride, con sguardo malizioso. Si controlla le sopracciglia perfette nello specchietto, e poi si concentra sulla strada.
Ovviamente, lei sa cosa è successo. Lei sa sempre cosa è successo.
« Divertita un cazzo. Non ricordo niente, se non che… » Mi si bloccano le parole in gola. Mi vergogno di me stessa: gli unici ragazzi con cui sono stata, li frequentavo. Non mi sorprenderei se Leonardo mi ritenesse una puttana. Me lo meriterei.
« …sei andata a letto con Arcuri » completa lei per me. L’avevo detto: Serena sa sempre tutto.
« Merda » mi sfugge a denti stretti. E poi lo dico ancora e ancora, finché non mi sento abbastanza una merda.
Evito di raccontarle come mi sento semplicemente perché non mi fido abbastanza di lei da poterlo fare.
Raggiungiamo la scuola in venti minuti e mi si stringe un po’ lo stomaco. Tanto non posso incontrarlo, sicuramente oggi non verrà a scuola, cerco di ripetermi.
Mi faccio coraggio ed esco dalla macchina di Serena. Lei mi squadra, facendomi notare che sembro una disagiata, vestita in questo modo. Alzo il dito medio nella sua direzione e a piccoli passi raggiungo l’atrio del Da Vinci.
Sere mi afferra la mano e mi trascina con lei, entrando, in elegante ritardo, nell’aula della 4A. Per fortuna, constato, il professore non è ancora arrivato.
Sto guardando le facce dei miei compagni di classe in cerca di Jessica quando un paio di mani mi fanno voltare e mi abbracciano.
Prima che possa dire qualcosa, la mia migliore amica mi stringe fortissima.
« Buon compleanno, Claire! » esclama, gli occhi pieni di felicità, mostrandomi un sorriso così vero da farmi quasi male.
Una volta accomodate ai nostri posti ovviamente vicini, mi porge un pacchettino rosso.
« Jess, te l’ho detto tante volte: non voglio ricevere re… »
« Oh, taci e basta! » mi stronca.
Io eseguo, scartando il pacchettino, e mi trovo fra le mani una copia nuova di zecca di uno dei miei romanzi preferiti di Conan Doyle. La ringrazio con un sorriso e poi ripongo il libro dentro la mia borsa.
Durante le ore di lezione che ci separano dal magico momento in cui la campanella ci avviserà che siamo liberi e possiamo andarcene in pace, Jess ed io chiacchieriamo delle nostre vacanze natalizie, inserendo discorsi che spaziano dai gusti di caramelle che ci piacciono, ai problemi legati alle persone depresse. Quando parlo con la mia amica, va sempre a finire così.
Anche durante i momenti di silenzio, non mi sento in imbarazzo, non credo che sia scomodo, per il semplice motivo che entrambe sappiamo che piuttosto di sprecare fiato in discorsi inutili, preferiamo ascoltare i nostri silenzi e tentare di interpretare i pensieri che abbiamo in mente.
Cinque minuti prima della ricreazione, tiro fuori il cellulare dalla tasca e controllo i messaggi. Il nome di Serena appare sul display e ovviamente mi volto verso di lei, seduta qualche banco dietro di me e la trovo intenta a digitare sul touch screen.
 
Che palle
Aiutami!
Stasera si esce, vero?
Ah, non pensare che mi sia dimenticata di Arcuri. Devi raccontarmi cos’è successo
 
La prospettiva di raccontare ciò che è successo la scorsa notte a Jess, mi spaventa più di quanto credessi. Lei sa che ho avuto delle storie e dei trascorsi con alcuni ragazzi e ovviamente non li approva, soprattutto perché erano più grandi di me e non avevano esattamente la fama dei bravi ragazzi, ma allo stesso tempo mi dà sempre i consigli giusti, mi supporta in qualsiasi occasione e non mi criticherebbe mai.
Sovrappensiero, non mi accorgo che il Leoni mi sta rivolgendo una domanda. È solo quando Jess mi dà di gomito sulle costole, che mi risveglio dal mio stato di trance.
« Sì » balbetto. « Io… »
Lancio uno sguardo alla mia vicina di banco e lei, sussurrando, mi informa sulla domanda del prof di matematica.
« Ti ha chiesto di andare alla lavagna a spiegare il teorema di Ruffini » dice, a denti stretti.
Guardo il Leoni, che intanto mi sta fissando intensamente.
« Vengo alla lavagna? »
« Prego » biascica con la sua voce trascinata. Sposta la sedia in modo che la sua immensa mole non mi infastidisca ed io a piccoli passi raggiungo la lavagna.
Afferro il gesso e, appena mi rendo conto di non ricordare nulla di quelle maledette regole, il limpido e trillante suono della campanella, annuncia la ricreazione.
Sospiro di sollievo, senza ascoltare le raccomandazioni del prof.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo Due. ***


So long as men can breathe, or eyes can see,
so long lives this, and this gives life to thee.
-Sonnet 18, William Shakespeare.
 

Capitolo Due.


Tiro una boccata di fumo e poi la soffio fuori. Immediatamente mi sento girare la testa, come sempre, ma non ci bado. Sto tremando di freddo, ed è l’unica cosa a cui sto pensando.
È mentre sto per spegnere la sigaretta che la porta si apre e ne esce Sophia, con sua sorella Stephania e il suo ragazzo. Alla vista di Fabio, mi sembra di sentire il mio viso andare a fuoco e abbasso immediatamente gli occhi.
Afferro Sere per un braccio e riesco a infilarmi nell’apertura della porta poco prima che si chiuda.
Lei mi guarda male ma non protesta, perché, ovviamente, sa cos’è successo fra me e Fabio. È stato il primo ragazzo a interessarmi veramente.
Parlavamo per ore al telefono, uscivamo insieme qualche volta e non mi stancavo mai di passare il tempo con lui. Quando finalmente mi baciò per la prima volta, capii che cosa voleva dire un bacio vero. Dopo qualche mese, alla festa per il quindicesimo compleanno delle gemelle, vidi lui e Sophia che si baciavano.
Assorbii il colpo e non mostrai quanto mi avesse ferito, non dissi nulla a nessuno.
Serena mi prende a braccetto mentre ci dirigiamo in classe. Quel gesto mi infastidisce parecchio ma evito di farglielo notare.
« Giò combina qualche grammo a testa di neve per stasera. Andiamo alla Rimessa verso le nove, fumiamo, e poi ci dirigiamo al Cuba Libre » mi sussurra.
« No! » commento subito. Non ho la minima intenzione di farmi la sera del mio compleanno. Voglio che vada tutto bene, essere lucida e vigile.
« Ma che hai? » sospira infastidita, allontanandosi.
« Non voglio stare male la sera del mio compleanno. »
Aggrotto le sopracciglia, come a sfidarla a ribadire.
« Ma se ieri… » comincia, prima che la zittisca con una mano davanti alla bocca.
« Era solo alcol. La droga è un’altra cosa. »
 
Finalmente, l’annuncio del termine delle lezioni, mi travolge con sollievo e poco prima di uscire dall’aula, raggiungo Jessica, decisa a sputare il rospo su Leonardo.
« Devo raccontarti una cosa » comincio. Lei mi guarda con i suoi grandi occhi azzurri, poco prima che ci raggiunga Sam e la prenda per mano.
« Aspetta, amore, Claire stava per dirmi qualcosa » lo ferma.
Odio il fatto che Sam non riesca a stare lontano da lei per più di cinque secondi e si intrometta nelle conversazioni fra noi due, ma non dico nulla.
« No, io volevo solamente chiederti se ti andava di venire al Cuba Libre stasera. Sai, per festeggiare il mio compleanno… » cambio versione all'ultimo, pentendomene mezza frazione di secondo dopo.
Perché l’ho detto? Non mi piacciono i compleanni, non ne festeggio uno da quando avevo dieci anni. I regali, le odiose canzoncine, le torte, gli auguri dei parenti mi infastidiscono troppo.
Prima di riuscire a rimangiarmi l’invito, lei spalanca gli occhi entusiasta e strilla: « Sì! Sono da te alle sette! »
Mi esibisco in un sorriso e annuisco, poi esco dalla classe, seguita a qualche passo da Serena.
Una volta fuori, attraverso un paio di vie e mi trovo in mezzo alla marmaglia di ragazzi che attendono l’autobus come me, mi accendo una sigaretta e la fumo in compagnia di Sere.
Che persona futile e priva di spessore, penso, mentre lei, un paio di minuti dopo, si avvicina a un ragazzo di quinta e gli fa un sorrisetto sensuale. Si mordicchia il labbro colorato da rossetto rosso e si porta alla bocca la sigaretta accesa.
Lui sembra abboccare e ricambia il sorriso. Parlano per qualche secondo e poi lui tira fuori il suo cellulare e segna il numero che lei sta dettando.
Intanto, il mio autobus è arrivato. Do appuntamento a Serena fuori da casa mia alle dieci e la avverto che sarà presente anche Jess, poi la saluto alzando il mento e mi accomodo sul bus.
 
Salgo lentamente i pochi scalini che mi separano dal primo piano di casa mia, mangiando la mia stessa ansia e respirando aria al profumo di pane e brodo. Probabilmente l’anziana signora del primo piano sta già cominciando a preparare la cena.
Busso alla porta del mio appartamento e mamma, tutta rossa in viso, con un grembiule blu e bianco che le copre il completo giacca e pantalone, mi abbraccia forte.
« Buon compleanno! »
Io sbuffo ma ricambio l’abbraccio, e quando varco l’ingresso dell’abitazione, lei mi osserva dalla soglia, storcendo il naso.
« Clarissa! » mi rimprovera in tono di disapprovazione. « Come ti sei vestita? Sembri una spacciatrice. »
Tu sì che ci sai fare con i complimenti, donna.
« Mamma, dai, lasciami stare » le rispondo, infastidita. Infilo nuovamente le cuffiette e mi dirigo al piano di sopra, verso la mia camera.
Sfilo le scarpe e mi distendo sul letto finché i miei nervi non si rilassano.
Ha solo l’occhio leggermente bluastro e un taglietto sullo zigomo. Si è calmato. Si è calmato.
Non appena mi riprendo, mi lavo le mani e scendo in cucina ad aiutare mia mamma a preparare il tavolo.
« Fede? » Basta sempre e solo quella domanda per farle capire che le sto chiedendo in quanti saremo oggi a pranzo.
« Siamo noi quattro » risponde, tenendo la testa bassa.
Il sollievo mi riempie il petto.
Nemmeno cinque minuti dopo, seduta sul divano con un libro in grembo, sento il mazzo di chiavi di mio fratello tintinnare sul davanzale e una bella bimba bionda si getta su di me strillando. Tiene fra le mani un paio di piccole buste contenenti verdure colorate.
« Buon compleanno Clary! » Mi bacia le guance e stringe le sue manine attorno al mio collo.
« Grazie piccola » sorrido, stretta nel suo abbraccio e poi le sfilo la felpa rossa.
Fede si avvicina a me e mi stringe fortissima, augurandomi un buon compleanno.
« Chi era, stanotte? » mi domanda, alzando le sopracciglia con fare accusatorio quando Vale non ci sente.
Io alzo le spalle e distolgo lo sguardo.
Lui però mi afferra le braccia e mi fa voltare prima che io riesca a raggiungere la cucina.
« Senti, Clarissa, io lo dico per il tuo bene. Cosa ne guadagni a scopare una volta tanto con un ragazzo a caso? Devi trattarti meglio, meriti… »
« Fede, non ne voglio parlare. Quello che faccio io sono affari miei e basta » sussurro, guardando il parquet.
« Ma guardati. Sei una ragazza bellissima e intelligente, non puoi sprecarti così. » E con questo mi lascia in piedi a metà strada fra il soggiorno e la cucina.
 
« Stasera esco, mamma » la avverto, qualche ora più tardi, mentre sto distesa appoggiata sulla sua coscia guardando la TV.
Lei, ormai abituata alle mie fughe notturne, non fa una piega. Sa che il mio unico modo per svagarmi e dimenticarmi di mio padre e di tutti i nostri problemi. Nonostante abbia appena diciotto anni.
E comunque, con lei c’è sempre Fede. Non sarà mai da sola.
« Per che ora pensi di tornare? » mi domanda.
« Non lo so. Credo che per l’una sarò a casa, mi accompagna Sere. Jess può dormire qua? » rispondo, con la guancia schiacciata sulla seta dei suoi pantaloni.
« Certo » la sento rispondere, ma percepisco la riluttanza nella sua voce.
« Grazie, mamma. »
Dopo un’ora di zapping e chiacchiere con la mamma, Valentina scende dalla sua camera e si avvicina a me. Mi alzo in piedi e la prendo in braccio, mentre lei mi offre una caramella alla frutta.
« Clary, mi aiuti a fare matematica? La maestra Giada ci ha dato dei compiti oggi. Devo fare dei problemi, ma il testo secondo me è scritto male » mi annuncia, con fare molto professionale, muovendo la manina.
« Assolutamente sì, porta giù il quaderno e ti do una mano io. » Le poggio un bacio sulla testa bionda mentre lei schizza via.
Aiutare mia sorella con i compiti è uno dei momenti migliori della mia giornata. Mentre tento di insegnarle i metodi utili per fare le operazioni, parliamo delle sue giornate a scuola.
« Allora, vediamo di risolvere i problemi di questa brutta materia chiamata matematica » le sorrido, mentre lei si accomoda accanto a me.
 
Sento la porta di casa chiudersi con un tonfo. Un tintinnare metallico mi annuncia che mio padre è finalmente tornato a casa. Meraviglioso.
Sono le otto passate da poco e Jess, eccitata, sta decidendo cosa indossare questa sera. Lancia una serie di abitini cortissimi e attillati sul mio letto a due piazze, cominciando a stancarsi di non riuscire a trovare niente.
Sento il familiare trillo della mia suoneria e ripesco l’iPhone dalla mia tasca per controllare il mittente.
È un numero sconosciuto, ma non appena apro il messaggio, capisco chi è.
 Ho dimenticato il mio cappellino dei Bulls da te. Passo fra un’ora.
 Mi esibisco in uno sbuffo esasperato. Che razza di maleducato! A cosa gli è servito avvertirmi che sarebbe passato quando sarebbe stata la stessa cosa fare irruzione in casa mia?
« Che c’è? » domanda Jess, non degnandomi di uno sguardo. Ora è alle prese con un pezzetto di stoffa coperto di paillette. Quel genere di abiti sono il motivo per cui preferirò uscire per sempre in pantaloni.
Mi rendo conto nuovamente di non aver accennato nulla a Jess della mia notte passata con Leonardo. Ora il pensiero di doverlo fare mi annoda lo stomaco.
« Oh, ehm, è arrivato mio padre. Mangeremo in camera » svio il discorso.
Lei mi lancia uno sguardo furente. Credo che detesti mio padre quasi quanto lo odio io.
Sento la voce ovattata di mia mamma che mi grida di scendere.
« Aspettami qua, ci vuole un minuto. »
Scendo le scale in velocità e mi trovo davanti al viso di mio padre. Rughe d’espressione, barba perfettamente rasata, giacca e cravatta. Capelli brizzolati tagliati cortissimi e un auricolare all’orecchio che rende questa finta maschera di uomo d’affari quasi realistica.
« Clarissa » mi accoglie, spalancando le braccia. Odora di colonia e dopobarba. Mi dà il voltastomaco.
« Oggi è il tuo compleanno, auguri. » Sembra più una domanda che un’affermazione, dal tono che le dà. Non mi avvicino di un passo, e così lo fa lui. Mi circonda con le braccia forti per l’allenamento che ha fatto sul viso di mia madre in tutti questi anni ed io rimango immobile, respiro forte per calmarmi.
Scorgo sopra alla sua spalla il viso di Fede. Non traspaiono emozioni. Ha solo un cipiglio dubbioso, e so per certo che si è sorpreso quanto me di questo gesto d’affetto.
Dopo qualche secondo, mio padre appoggia la valigetta di cuoio nera al suo divano e vi si abbandona, tronfio, certo di aver compensato l’assenza di questi anni con dei semplici auguri.
Non riesco a sopportare di vederlo per qualche altro secondo, così mi dirigo verso la nostra cucina. Lui intanto risponde ad una telefonata attraverso l’auricolare.
« Mamma, io e Jess mangiamo in camera » la avviso. Tirando fuori da un cassetto un vassoio abbastanza largo.
« Ehm, no » mi sorprende. La guardo negli occhi e scorgo, come attraverso la crepa di un muro, tutta la sua fragilità.
È in questo preciso istante, che mi faccio una promessa. Per mantenere la mia dignità e il mio status di donna. Non diventerò mai così. Non permetterò mai di sentirmi debole per colpa di qualcuno. Ci sarò sempre e solo io a difendere me stessa.
« Perché? » sbotto irritata.
« Tuo padre è… felice. Credo che gli farà bene stare a tavola con tutti quanti stasera. »
Mi limito a sbuffare e rimettere il vassoio al proprio posto.
« Sai quanto me ne frega di quello che gli fa bene » borbotto, andandomene via.
« Clarissa, non usare quel… »
Non ascolto più una parola di ciò che dice mia madre e salgo in camera, evitando di ascoltare le risate sguaiate di mio padre, ancora stravaccato sul divano.
« Jess, mio Dio, portami via da qui » sussurro appena rientro in camera. Lei si avvicina e mi accarezza il braccio.
« Dobbiamo scendere a cena con loro… con lui. » Riprendo il mio tono neutro.
Lei annuisce mestamente e per sviare il discorso, mi mostra un abito di cotone nero, con la schiena e le maniche in pizzo.
Lo riconosco perché mi è stato regalato un paio di anni fa.
« Posso? È veramente stupendo. » Lo fissa con occhi sognanti.
« Sì sì. Ho un paio di scarpe che si abbinano perfettamente » aggiungo, indicando una scatola dove sono contenute calzature che non ho mai indossato né mai lo farò.
Lei inizia a scavare all’interno finché non ne estrae un paio di ballerine nere.
« Brutta stupida, cosa sono queste meravigliose creature? » Le studia quasi fossero pepite d’oro e poi le indossa. « Parfait » esclama.
Storco il naso e le faccio cenno di andare al piano di sotto.
Quando passiamo davanti al divano, ancora occupato da mio padre, le ordino esplicitamente di ignorarlo.
Aiutiamo mio fratello ad apparecchiare il tavolo mentre mia madre fa saltare in padella degli involtini di carne e delle verdure a parte per me. Sono vegetariana perché odio il sapore e la consistenza della carne e perché in ogni caso non riuscirei ad ingoiare i cibi conditi, unti e calorici che prepara mia madre.
Non appena i piatti fumanti vengono posati sul tavolo, ognuno di noi prende posizione.
« Jessica! » esclama mio padre quando la riconosce.
Lei si esprime in un sorriso cordiale ma distaccato. « Salve. »
« Come stai? Sono mesi che non ti vedo » domanda ancora, sedendosi a tavola e cominciando a tagliare il pollo.
Tento di concentrarmi sulle parole della giornalista che è appena apparsa in TV.
« …la scorsa notte, infatti, nella piccola cittadina del Marocco, un raid aereo… »
« Clary » mi richiama Vale, seduta accanto a me, toccandomi il braccio.
« Dimmi, piccola. » Mi chino verso di lei che, facendomi solletico al collo, mi sussurra: « Credo che papà abbia un regalo per te. »
Ridacchio e le assicuro che è alquanto improbabile.
« Ma no! » strilla, convinta. « Te lo giuro. Ho visto che aveva una cosa fra le mani quando è… »
Prima che possa terminare di parlare, addento un peperone bollente e per poco non mi scotto la lingua non appena mio padre prende la parola.
« Oggi compi diciotto anni, e ho un regalo speciale per festeggiare la tua maggiore età. »
Scruto gli occhi verdi di mio padre, troppo simili ai miei, troppo familiari eppure estranei. Non riconosco una persona cara in quegli occhi. Solo un mostro a cui troppa gente ha concesso affetto.
Si alza in piedi e raggiunge l’ingresso, dove poi prende una scatola incartata con cura.
Me la posa davanti agli occhi e io la ignoro per la restante durata della cena.
Quando alla fine decido di andarmene, mio padre mi lancia uno sguardo ferito.
« Non vuoi aprirlo? Sono sicuro che ti piacerà » mi incita. Si sbottona i pantaloni e sfila i buchi della cintura dalla fibbia.
Io, per un riflesso istantaneo, mi allontano con un sussulto. Lui però si limita a fissarmi.
Smettila. Adesso basta.
« Ti ringrazio, ma non lo voglio. » Sono le prime parole che gli rivolgo da molto tempo e mi fa uno strano effetto. Non sento di star parlando a mio padre, ma ad un adulto che non conosco per niente.
« L’ho comprato apposta per te, non rifiutarlo ti prego » risponde, leggermente stizzito.
Mia madre abbassa lo sguardo, sentendo odore di guai, mentre mio fratello alza il viso, per tentare di contenere una mia eventuale reazione. Fa segno a Vale di andare sul divano e lei, senza domandare perché, abbandona contenta il tavolo.
« Non voglio nulla che sia stato comprato da te » chiarisco, spostando rumorosamente la sedia. Sussurro a Jess di raggiungere la mia camera ma lei non vuole saperne di andarsene.
« Clarissa » mi richiama mio padre. Io mi volto verso di lui col viso in fiamme.
Sto per rispondergli a modo, quando la mano fredda di Valentina afferra la mia.
Quei grandi occhi verdi mi fanno passare immediatamente tutta la rabbia, e sospiro.
« Bene » commento. Afferro il pacchetto e mi dirigo a passi pesanti su per le scale, verso camera mia.
Lancio la scatola sul mio letto e tiro un pugno alla porta, non appena si chiude dietro a Jess.
La mia mano trema e tento di fermarla conficcandomi le unghie nei palmi.
 
Meno di mezz’ora dopo, sto allacciando il mio vestito sulla figura esile di Jess.
Lei mi sta riempiendo di domande riguardanti la serata che passeremo, facendomi sorridere a ogni grido di esaltazione che fa.
Mi sto curando le sopracciglia mentre il trillo del campanello mi risveglia dai miei pensieri.
Col cuore in gola, mi fiondo fuori dalla mia camera, con la pinzetta ancora in mano. Riesco ad aprire la porta prima che lo faccia mio fratello, che tiene in braccio Vale sulla poltrona davanti alla TV.
« Ciao » saluta Leonardo, sfilandosi una cuffietta dall’orecchio sinistro. « Mi dispiace aver… »
Profuma di shampoo e di una fragranza di quelle di marca.
« Zitto » lo redarguisco. Do un occhiata all’interno della mia casa. Solamente Fede mi sta osservando con uno sguardo curioso.
« Sì, Alex mi aveva avvertito che saresti passato per portargli gli appunti » recito, tenendo la voce abbastanza alta perché mi sentano anche i miei parenti.
« Storia, giusto? »
« Oh, ehm, boh. » Lo incenerisco con lo sguardo. « Sì, credo mi abbia detto storia. »
« Aspetta, te li porto fra un secondo. »
Rientro in casa alla velocità della luce.
La mamma mi ferma prima che possa avvicinarmi alle scale: « Chi è, Clarissa? »
Merda!
« Un amico di Alex. È qui per degli appunti » mento, mordendomi l’interno della guancia.
« Chi? » domanda ancora, grattando via il grasso da un piatto.
« Mamma » piagnucolo.
Lei si volta e quegli occhi scuri e innocenti mi fanno sputare fuori la verità, come se l’avessero arpionata ed estratta dal mio corpo: « Leonardo. »
« Quel Leonardo? » Sembra animarsi come se le avessi dato la notizia che ho ricevuto una borsa di studio.
Non riesco a sostenere il suo sguardo e me ne vado, prima che possa chiedermi altro.
Dal piano di sopra, mentre cerco dei fogli su cui ho fatto schemi di vecchi argomenti, riesco a sentire la voce squillante di mia madre e quella grave di mio fratello.
Tento di respirare a fondo mentre cerco il cappellino dei Bulls.
Jess non bada molto a me perché sta tentando di chiamare Sam e allo stesso tempo di mettersi l’eyeliner davanti alla mia specchiera.
Non trovo il cappello da nessuna parte e finalmente quando mi chino per guardare sotto al letto, lo noto, rovesciato in un angolo. Quando lo tiro fuori rischiando di slogarmi una spalla, è coperto da una patina di polvere grigia. Lo spolvero e, afferrando i fogli, mi lancio giù dalle scale.
Stizzita, noto che Leonardo si è accomodato al tavolo della cucina.
Mi rivolge uno sguardo imbarazzato quando scendo.
Valentina non si è accorta della sua presenza, troppo presa dai cartoni alla TV, mentre mio padre… non c’è più.
« Sei una maleducata! » mi rimprovera mia madre, squadrandomi. « Potevi farlo entrare. »
In due secondi trovo una scusa. « Mi aveva detto di avere fretta, e così… »
« Oh, sì, signora. Non si preoccupi. »
Si tende oltre il tavolo, verso di me e io gli porgo i fogli e il cappello.
« Grazie » dice, un po’ teso.
Mamma intanto si è seduta a capo tavola e lo osserva con un sorriso grande quanto la sua faccia.
« Sei davvero diventato un bel ragazzo » esordisce.
Io mi batto una mano sulla fronte.
« Mamma, lo infastidisci. »
Lui ride, e sulla guancia destra si forma una fossetta.
« Zitta tu » aggiunge lei.
Io mi volto per non dover continuare quella conversazione, ma lei mi blocca.
« Dove credi di andare? Aspetta cinque minuti. Sono anni che non vedo questo ragazzo per più di due secondi. » Mamma mi afferra il braccio e mi costringe a sedermi.
Ti odio donna.
« Fra poco passa Sere, lo sai » commento, glaciale. « Devo ancora prepararmi. »
Leonardo mi guarda con gli occhi socchiusi e io avvampo.
« Esci? » domanda, con un guizzo di sorpresa che mi dà i nervi.
« Sì » ribatto, monocorde. Mantengo il contatto visivo fino a che la mamma non gli fa un’altra domanda.
« Oggi compie diciotto anni. » Mi guarda orgogliosa e io stringo i denti.
« Veramente? Non me lo ricordavo! Auguri! »
« Grazie » rispondo, secca. 
Perché cavolo avresti dovuto ricordartelo? Non ci parliamo da dieci anni!
« Come stanno mamma e papà? Hai passato una bella estate? Ti ricordi di quando siamo andati insieme al mare? Quanto tempo è passato dall’ultima volta che abbiamo fatto una cena tutti assieme? » La valanga di domande con cui mia madre travolge il ragazzo mi fa sentire parecchio a disagio.
Tento di sviare il discorso e concederle di lasciarmi andare, ma lei non ha occhi che per lui. Finalmente, dopo quelle che mi sembrano ore, il suo cellulare trilla e lui, riempiendo mia madre di scuse, dice che deve andare via, perché i suoi amici lo stanno aspettando.
Lei, delusa ma felice come una Pasqua per la chiacchierata, lo bacia su entrambe le guance e mi costringe ad accompagnarlo alla porta.
« Scusala. Non le capita spesso di rivedere vecchie conoscenze » la giustifico. Alzo le spalle e gli auguro la buonanotte.




Note sul capitolo:
ed ecco il secondo, che sarà anche l'ultimo che pubblico oggi. Penso di aggiornare una volta ogni due settimane, così avrò il tempo di stendere e rivedere i prossimi capitoli. Be', che dire, commentate e fatemi sapere se posso continuare a pubblicare!

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre. ***


Vuolsi così colà dove si puote 
ciò che si vuole, e più non dimandare.

-Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto Terzo dell'Inferno
 

Capitolo Tre.


« Ti stanno molto bene questi jeans » commenta Jess quando il campanello squilla e Serena suona il clacson per avvisarci di essere arrivata.
« Mh » le rispondo, chiudendo la giacca pesante.
Non appena afferro la maniglia e lancio un saluto a mia madre, qualcuno spinge la porta dall’esterno, facendomi quasi perdere l’equilibrio.
« Come mai sei così alta?! » esclama mio padre, barcollando dentro casa. È vestito esattamente come prima, ma non puzza di alcol.
« Sono sempre stata così » sbuffo esasperata e spingo la mia amica fuori dall’appartamento, chiudendomi la porta alle spalle.
Oggi dev’essere proprio il giorno giusto per litigare, però, perché quella sottospecie di uomo con cui condivido dei geni, spalanca la porta ed esce sul pianerottolo.
« Clarissa, non comportarti così! » sputa sbraitando e puntandomi il dito contro.
Sono a metà della prima rampa di scale e faccio segno a Jess di proseguire. Lei, questa volta, mi dà ascolto.
« Io mi comporto come credo sia giusto comportarmi con uno come te! » lo affronto, sfacciata. Mi avvicino nuovamente e noto con piacere di stargli testa a testa.
« Non mi interessa se ti sei ricordato che oggi è il mio compleanno, se mi hai comprato un regalo o se sei tornato a casa sobrio. Sei e rimarrai per sempre una persona di merda, te l’ho già detto. »
Non appena termino questa scenata, accadono tante cose nello stesso momento: dal piano di sopra sento delle voci provenire appena dietro la porta e improvvisamente sulle scale si materializzano i signori Arcuri; poi, mamma esce da casa nostra e con una faccia sconvolta mi dice qualcosa, che non riesco a sentire per via del ceffone che mio padre mi ha appena tirato sulla guancia.
Rimango senza parole solo per qualche secondo. « Stronzo » gli soffio sul naso, prima di voltarmi e scendere di corsa le scale fino a entrare velocemente nell’auto di Serena.
« Claire, cos’è successo? » chiede Jess sfiorandomi il braccio con la punta delle dita. Con più decisione mi afferra la mano, ma io la caccio via.
« Parti e basta, cazzo » sibilo a Serena, che mi lancia uno sguardo scocciato attraverso lo specchietto retrovisore, ma lo stesso mette in moto.
 
Il volume altissimo all’interno della discoteca attutisce il rumore dei miei pensieri. Ora il mio scopo è ballare fino a sentire male alle gambe, fino a non riuscire più a tenere le braccia in alto. Fino a dimenticare che la serata sta finendo e che tra poco dovrò tornare a casa.
Avverto Sere di voler andare fuori a prendere una boccata d’aria ma lei è troppo impegnata a strusciarsi sul ragazzo che ha adocchiato oggi fuori da scuola.
Jess, che sta cantando a squarciagola un’orribile canzone dei The Script remixata, mi nota appena in tempo e intreccia le sue dita alle mie in una presa ferrea.
Non appena usciamo dal locale strapieno, cerco una tettoia sotto cui ripararci dalla pioggerella che sta cadendo come zucchero a velo e del freddo di inizio gennaio.
Mi accendo una sigaretta e ridacchio con Jess criticando i vestiti da drag queen che indossano certe donne fino a che non vedo, a una decina di metri da dove ci troviamo, due teste che conosco fin troppo bene: Leonardo e Alex.
Quest’ultimo non sembra notarci, troppo preso dalla ragazza mora che gli sta facendo le fusa ma Leonardo, emarginato dal suo amico, si guarda attorno in preda alla noia.
Non appena i nostri occhi si incontrano, io abbasso lo sguardo e prendendo Jess per mano, ritorno dentro il locale.
Mi bastano due minuti per localizzare Serena, che sta esplorando la bocca del ragazzo con la sua lingua.
Dando spettacolino di palpeggiamenti e gemiti, i due si dirigono verso l’uscita. Sono certa di dove stanno andando ad appartarsi e la cosa mi dà il voltastomaco.
Controllo l’orologio e noto con piacere che il coprifuoco scatta fra appena mezz’ora. E la metà del tempo sarà occupata dal tragitto fino a casa mia.
Con la gola asciutta, strisciando tra i corpi per evitare di essere schiacciata, percorro le poche scale che portano al bar al piano di sopra e ordino un paio di drink alla barista.
Porgo a Jessica, sudata e febbricitante, un cocktail analcolico, che lei tracanna volentieri.
Non appena torniamo in pista, iniziamo a muovere anche e braccia andando a ritmo con musica, e per un po’ riesco a dimenticare tutto quanto.
Quando mi decido a controllare l’orologio di nuovo, stanca di ballare, capisco che anche se Serena schiacciasse a tavoletta l’acceleratore, non riuscirei mai ad arrivare a casa in tempo.
Jessica è appoggiata al bancone del bar con un paio di bicchierini accanto a sé, e sta flirtando con il nerboruto barman dalle braccia totalmente ricoperte da tatuaggi. Nonostante l’aria spaventosa, il barista si sta sciogliendo in un sorriso compassionevole.
Verifico l’ora sull’orologio appeso alle spalle del ragazzo e purtroppo accerto che è già l’una meno cinque. Tento in ogni modo di localizzare la mia amica tra la folla di persone che stanno cominciando a sciamare all’esterno per una boccata d’aria, ma Serena non si trova da nessuna parte.
« Jessica! » la richiamo, strattonandole il braccio. « Dobbiamo andare a casa! »
Lei mi guarda con il broncio e mi prega di rimanere ancora un po’. Nel suo fiato c’è odore di alcol.
« Dio, Jess, sei ubriaca » mi disgusto, sollevandola dalla sedia.
Le copro le chiappe che sono sfuggite al bordo corto del vestito. « Meno male che avevi detto di reggere bene » aggiungo.
La mia migliore amica mi tira una sberla sulla nuca e io mi giro irritata.
« Cosa c’è? » sbraito, per tentare di sovrastare il rumore della musica.
« Mi scappa la pipì » mima con le labbra, e con uno sguardo innocente negli occhi.
Sbuffo e la accompagno alle toilette luride e puzzolenti del locale, poi la chiudo in un gabinetto.
Nel frattempo tento di chiamare Serena, ma nonostante il telefono mi dia linea libera, nessuno risponde dall’altro capo. Stremata e infastidita la riempio di messaggi ben poco lusinghieri.
Dopo quella che mi pare un’eternità, Jess esce, sistemandosi le mutande e canticchiando. Le consiglio di lavarsi le mani e lei mi schiocca un bacio sulla fronte.
« Serata grandiosa, Claire! Buooooon compleanno! » Mi butta le braccia al collo e mi stringe, mentre io tento di trascinarla fuori dal locale.
Intravedo Alex e la ragazza che si fissano, poi cammino sotto la pioggia fino al luogo in cui Serena ha parcheggiato la macchina, sperando di coglierla in flagrante e umiliarla, ma una volta lì, il mio cuore si ferma: il posto è vuoto, l’auto non c’è più.
Con un orribile presentimento, mi volto verso Jess, che mi ha seguita barcollando. Le afferro le spalle e tento di calmare più me che lei, effettivamente sembra piuttosto spensierata.
« La macchina di Serena non c’è, cosa cazzo facciamo?! » le urlo in faccia.
Lei sembra riprendersi quel tanto di lucidità che mi basta in questo momento.
« Alex. Chiedi a lui. »
In un secondo e mezzo l’ho già raggiunto.
Sapendo di stare interrompendo un momento che avrebbe portato allo spogliarsi reciproco, tento di sembrare il meno piagnucolosa possibile quando gli faccio una domanda frutto di un’idea che mi è venuta sul momento: « Dov’è Leonardo? »
Alex mi fissa come se gli avessi domandato di risolvermi un’equazione al momento, ma poi risponde: « Qua dietro », dà un tiro alla sua sigaretta e riprende a fare gli occhioni alla ragazza.
Seguo l’indicazione che mi ha dato Alex e trovo immediatamente Leonardo.
È appartato dietro allo stipite di una finestra, e sta parlando con qualcuno.
Mi avvicino fregandomene dell’importanza delle sue questioni e mi rivolgo direttamente a lui, assicurandomi solo che Jess, ora un po’ meno confusa, mi stia seguendo.
« Ehi, senti, Serena avrebbe dovuto accompagnarci a casa e la sua macchina nel parcheggio non c’è. Non risponde a messaggi e chiamate… Il punto è che sarei dovuta essere a casa un quarto d’ora fa e non so più come tornarci, adesso. »
Leonardo beve un goccio della sua birra, mi guarda negli occhi e nonostante sia buio noto il bagliore nelle pupille, immagino il colore scuro delle sue iridi ad appena qualche centimetro dalle mie, guardo la sua bocca anche se non ne scorgo un sorriso, solo per assicurarmi di non essermi sognata tutto, perché quelle labbra, appena un giorno fa stavano baciando le mie.
« Scusa, ma cosa dovrei farci io? Vuoi che ti chiami un taxi? » ridacchia.
Il suo amico, che riconosco essere Tommaso, gli batte un pugno sulla spalla e si allontana di qualche passo, raggiungendo un gruppo di altri ragazzi dalle braccia tatuate a qualche metro di distanza. Ha un passo cadenzato e ritmico, che mi rapisce per qualche secondo.
« Chiedi ad Alex, ha lui le chiavi della mia auto. » Queste sono le sue ultime parole. Poi mi passa accanto ed entra nel locale, venendo inghiottito dalla musica, dal calore e dal puzzo di gente sudata e ubriaca.
Sbuffo sentendo montare le lacrime agli occhi ma non do loro la soddisfazione di farmi sentire debole, quindi prendo un profondo e lungo respiro. Esco un attimo sotto la pioggia per bagnarmi il viso e schiarirmi le idee, poi mi rivolgo alla mia amica.
« Jess, ti prego, chiediglielo tu. Io non posso sempre fare la figura della scroccona. »
La mia amica mi guarda infervorata e con un gesto molto teatrale, mi punta un dito sul petto. « E dovrei farla io, la scroccona, allora? »
« Non dico questo. Semplicemente, tu hai modi molto più gentili per chiedere le cose. »
Mi gratto la nuca e nascondo i miei occhi ai suoi.
La verità è che io e Alex non abbiamo mai avuto un rapporto stretto e ho paura che possa reagire allo stesso modo di Leonardo. Lui e Jess, invece, sono buoni amici da anni.
Prima che possa aggiungere una parola, lei si volta e non appena individua il nostro compagno di classe, con grandi falcate spedite, si frappone fra lui e la ragazza, che si stanno parlando da quelle che stimo come ore, ormai.
Con un gesto rapido e un po’ imbranato, gli afferra la nuca e si avvicina a lui. Poi gli stampa un bacio sulle labbra. Alex tenta più volte di staccarsi, ma in poco tempo sembra fregarsene se quella ragazza sia fidanzata oppure no, e il bacio si trasforma in una pomiciata vera e propria.
Sconvolta, corro verso i due per separarli mentre la compagna di Alex, infuriata, lancia un urlo e una serie di parole che hanno poco a che fare con i complimenti alla mia amica e al ragazzo, e se ne va verso il parcheggio, sbraitando contro chiunque le si avvicini.
« Jessica! Porca miseria, cosa stai facendo?! » la sgrido, afferrandole le braccia saldamente. Lei non mi presta molta attenzione e si rivolge al ragazzo che intanto è rimasto impietrito a fissarla, mormorando parole apparentemente senza alcun senso. Ha la faccia di uno che nel bel mezzo dell’interrogazione si è dimenticato qualsiasi cosa dovesse dire.
« Se mi porti a casa, ti prometto che puoi salire con me » ammicca Jess, leccandosi le labbra. Evidentemente l’effetto che ha avuto su di lei l’alcol è più forte di quanto pensassi e non è ancora svanito del tutto.
« No, non puoi » ribatto stizzita.
Con il senso di colpa che si insidia nella parte più remota del mio cervello, pronto a fare capolino appena ne avrà l’occasione, chiedo scusa ad Alex, da parte di entrambe, per l’imbarazzante performance e per avergli rovinato il noiosissimo momento di conversazione che stava intrattenendo con la ragazza.
« Non serve a nulla chiedere scusa. Me la stavo ingraziando perché è una studentessa universitaria che avrebbe potuto darmi ripetizioni gratis. Ormai è andata » sbotta lui, asciugandosi le goccioline di pioggia che si sono poggiate sulla sua fronte.
« Tanto vale, andiamo a casa » conclude, lanciando una frecciatina che non credo sia di puro odio verso Jess. Lei non se ne accorge.
« Vado dentro a cercare Leo » ci avverte. « Potete prendere le chiavi ed entrare in macchina, comunque. Sai qual è, vero? »
Mi guardo intorno, con gli occhi offuscati da una patina di pioggerella e tento di ricordare. È una Fiat Punto bianca del ’97 che ho visto tantissime volte nel parcheggio sulla strada davanti al mio condominio.
« Non dovrei avere problemi a riconoscerla » gli assicuro. Prima che entri nel locale, passandosi più volte la mano tra i capelli bagnati, gli afferro il braccio e sussurro alla sua schiena: « Ti devo un favore. Grazie Alex. »
 
Afferro nervosamente la mano di Jess e la trascino prima dietro al Cuba, e poi nel parcheggio circostante, mentre lei canta a memoria ogni maledetta canzone che viene messa dal DJ. Riconosco la macchina solo dopo tre tentativi diversi e ormai stremata e sull’orlo di una crisi di nervi mi avvicino alla Punto, a circa dieci metri da me.
Una voce aspra e roca mi giunge alle orecchie ancora prima di riuscire a voltarmi.
« Ehi, bellissima, ti va se ti offro qualcosa? » chiede un uomo sulla trentina, con i lunghi capelli bagnati dalla pioggia. Ha il naso largo, la bocca storta e emana un odore di birra rancida indescrivibile.
Con uno sprazzo di panico, mi accorgo che si sta rivolgendo alla mia amica.
« Lasciala stare » sbotto, con voce meno ferma di quanto suonava nella mia mente.
Non apro la macchina, temendo che potrebbe non essere una buona idea. Spingo Jessica, improvvisamente zitta, dietro di me e le poso una mano sul braccio.
« Non parlavo con te, amore, anche se, effettivamente, potresti venire tu a bere con me. »
L’uomo si avvicina a noi e riesco quasi a percepire l’odore di profumo sotto a quello di birra stantia.
Con il cuore che tenta di saltellare fuori dal mio corpo e abbandonarmi lì, da sola, inghiotto la saliva in eccesso e tento di sembrare più sicura di quello che sono.
Ma lo sappiamo tutti. In queste situazioni non riusciresti mai a fare la principessa coraggiosa che si salva da sola.
« Lasciami in pace » balbetto. Mi graffio i palmi delle mani tentando di farle smettere di tremare. Per qualche secondo funziona, poi, quando l’uomo si avvicina ulteriormente, non riesco più a controllarmi. Mi prende la mano con un gesto sorprendentemente morbido e mi chiede, più gentilmente: « Ti offro qualcosa e chiacchieriamo un po’, ti va? »
« Te lo giuro su Dio, se non te ne vai in questo momento, urlo così forte da far voltare tutte le persone là fuori e anche forarti un timpano. »
La mia voce suona estranea alle mie orecchie, sembra un pigolio. Vorrei non sembrare così spaventata.
L’uomo, spiazzato, alza le mani e si allontana piano, con una smorfia sulla brutta bocca.
Non mi accorgo nemmeno delle unghie di Jessica conficcate nella mia schiena, non mi accorgo delle mie mani che tremano. Non mi accorgo dei respiri mozzi che sto facendo. Passano diversi minuti, interi secondi vuoti e non mi accorgo dell’arrivo di Alex e Leonardo, il quale, dietro all’amico, sta mormorando a mezza voce.
Infilo le chiavi nella toppa e sblocco la macchina, poi mi fiondo dentro senza aggiungere una parola.
Leonardo si mette alla guida, mentre Alex lascia a Jessica il posto del passeggero, per evitare che durante il tragitto vomiti tutto l’alcol che ha bevuto e la cena.
Io taccio ogni singolo secondo, non emetto nemmeno un suono.
Il silenzio in auto, interrotto da qualche battuta scambiata tra i due ragazzi e qualche lamento da parte della mia amica, mi aiuta, purtroppo, a rivivere i momenti appena passati della serata.
Il comportamento di Serena mi fa salire i nervi: un patto è un patto, e non solo non si può spezzare senza darci troppo peso come ha fatto lei, lasciando me e Jess da sole, sapendo che non abbiamo un’auto e avendo promesso che mi avrebbe riportata a casa all’orario stabilito, ma non si dovrebbe nemmeno mettere in dubbio di averlo stretto.
Non avrebbe dovuto pensare a uscire con il suo nuovo amico e svignarsela. L’amicizia, o perlomeno, la nostra amicizia, è sempre stata un rapporto di rispetto e aiuto reciproco. Non ci vogliamo bene, non usciamo a prendere un caffè insieme: siamo compagne di classe che vogliono qualcosa l’una dall’altra, e sono disposte a piacersi per ottenerlo. Per questo non mi sorprende, ma mi fa incazzare ancora di più, che abbia pensato come al solito prima a se stessa.
Ci vogliono una decina di minuti per raggiungere la casa di Alex.
Da quello che riesco a vedere grazie ai piccoli faretti sparpagliati apparentemente a caso lì attorno e ai pochi lampioni che emettono una luce triste e cupa sulla via, è una bella villetta a schiera di quelle che comprano le famiglie che hanno il tempo di accudire un cane, preparare un barbecue la domenica e falciare l’erba settimanalmente.
Arcuri non scende dalla macchina, ma saluta Alex con un cenno del capo e basta. Questo mi fa inevitabilmente pensare a ciò che facciamo io e Serena ogni volta che ci vediamo. Mi chiedo se anche i ragazzi, che visti dal mio punto di vista sembrano amici per la pelle disposti a tutto l’uno per l’altro, nel profondo in realtà non nascondano un disprezzo reciproco.
Ancora dieci minuti e la Punto di Arcuri finalmente raggiunge il nostro condominio.
Esco dal piccolo abitacolo a due porte che profuma di Arbre Magique a uno di quei gusti strani come menta fresca o acqua di colonia e salgo le scale senza preoccuparmi di fare silenzio, con un’ora di ritardo, un’amica ubriaca a carico, i piedi stanchi e gli occhi che mi bruciano per il trucco sbavato e la pioggia. A tutto questo, si aggiunge il fatto che non ho avvertito mia madre del ritardo con cui sarei rientrata. Probabilmente la troverò distesa sul divano ad aspettarmi, e le prenderà un infarto non appena mi vedrà. Dopo essersi ripresa, però, mi rifilerà una filippica di quelle pesanti.
« Grazie. » È la prima parola che dico da mezz’ora a questa parte e non la sto rivolgendo a nessuno in particolare. Infilo le chiavi di casa mia nella toppa e spingo Jessica dentro.
Non sento nessun movimento. Leonardo resta immobile alle mie spalle.
« Notte » aggiungo, aprendo la porta e sgusciandoci dentro. Prima che possa richiuderla, lui dice qualcosa, di cui riesco a percepire solo una parte.
« …più riconoscente, che cazzo. »
« Riconoscente? » chiedo. Apro uno spiraglio e gli lancio uno sguardo di odio puro. Non ce la posso fare a discutere ancora, non a quest’ora, non stanca come sono.
« Ho portato entrambe a casa e mi sputi un grazie. Non ero tenuto a farlo, era solo un favore. »
Non riesco a credere a quello che sento. Il senso di stanchezza viene messo in secondo piano rispetto all’impulsività, che prevale come sempre.
« Non venire a fare l’offeso da me, quando sei tu quello che mi ha detto un chiaro arrangiati e ha lasciato la responsabilità di riaccompagnarmi a casa al suo amico. E credi pure che ti debba dei ringraziamenti? L’unico che dovrei ringraziare è Alex, che non ha esitato a dirmi di sì. Se stavi ancora un po’ dentro al locale a fare quello che hai fatto tutta la sera, io e Jessica… » Chiudo la bocca all’istante, ho già detto troppo.
« Cosa? Eh? Vi sareste stancate e avreste chiesto a qualcun altro di portarvi a casa? E questo pensi che avrebbe accettato di farlo senza problemi? »
« Oh, ma sta’ zitto » gli intimo, socchiudendo gli occhi per placare la rabbia.
Vengono a galla nella mia mente, nonostante cerchi di cancellarli, frammenti sempre anneriti della scorsa serata. Sono sicura di essere arrivata a casa mia con Leonardo, in qualche modo, e di averlo baciato e spogliato, di essere finiti a letto. Ma non è ancora chiaro il perché né il come. Che fosse troppo ubriaco anche lui per ricordare qualcosa?
« Sei ancora piccola, e nonostante ti comporti e assomigli ad un adulta, non sai minimamente com’è il mondo fuori. Ti consiglio di pensarci e magari rivedere i tuoi atteggiamenti. »
Si è voltato e sta per salire le scale e raggiungere la sua casa, ma non ce la faccio a ingoiare tutto ancora una volta, come faccio sempre.
Spalanco la porta e mi piazzo davanti alle scale, alzando lo sguardo per fissarlo intensamente negli occhi. Be’, in realtà guardo un punto imprecisato alle sue spalle, ma è troppo buio perché lo noti.
« Non permetterti di fare l'uomo vissuto con me. Non mi interessa quello che pensi di me e… »
« Clarissaaa. Posso vomitare? » Una voce soffocata e strascicata mi giunge alle orecchie da dentro il mio appartamento. La prima persona che mi viene in mente è mia sorella, a cui la voce di Jess, in questo momento, assomiglia molto.
Non ci penso due volte e chiudo la porta in faccia a Leonardo, dopodiché mi avvicino alla mia amica, piegata sulle ginocchia sul tappeto del corridoio.
« Nononono » sussurro, facendola alzare in piedi.
Lei si trascina fino al lavandino, dove, dopo un paio di secondi, libera tutto il cibo e l’alcol che ha dentro allo stomaco, in un getto disgustoso e puzzolente. Mi volto e mi tappo il naso.
« Jessica, alzati » ordino troppo duramente alla mia amica, scivolata al suolo.
Lei solleva la testa con uno scatto fulmineo e si trascina in piedi, seguendomi finalmente verso la mia camera.
Passando davanti al soggiorno, non noto mia madre in attesa di punirmi né nessun uomo stempiato e brizzolato russare sul divano e tiro un sospiro di sollievo. Almeno per stasera non dovrò litigare di nuovo con nessuno.
Saliamo le scale a chiocciola che portano al piano superiore e Jess, senza pensarci due volte e senza preoccuparsi di fare silenzio, sguscia in camera mia.
Io alzo gli occhi al cielo e passo davanti alla mia stanza, oltrepassandola, ed entrando nel bagno munito di vasca fra la mia camera da letto e quella dei miei fratelli. O meglio, che ora è di mio fratello ed è stata di Christian, prima che partisse per Venezia per frequentare l’Accademia.
Mi spoglio dei miei vestiti e li butto nella cesta dei panni sporchi, dopodiché mi strucco gli occhi, mi lavo la faccia e i denti, spalmo un po’ di crema sul viso, indosso il mio pigiama pesante e raccolgo i capelli troppo corti in una coda. Sono più i ciuffi sgusciati fuori di quelli tenuti insieme dall’elastico, ma non me ne preoccupo.
Una volta tornata in camera mia, scivolo sotto il piumone, accanto a Jessica che sta già dormendo, ancora vestita con tanto di scarpe.
Poso la testa sul cuscino e, come se sulla federa ci fosse un sonnifero, chiudo gli occhi all’istante.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro. ***


"Curioso questo Poirot!
E' un genio? E' un pallone gonfiato?
Svelerà questo mistero? Impossibile.
Non vedo come potrebbe riuscirci,
c'é una tale confusione in questo affare!"
-Agatha Christie, Assassinio sull'Orient Express.
 

Capitolo Quattro.

Il gracchiare del mio orologio si insinua pesantemente nel mio sogno. Davanti a me vedo solo il viso di un ragazzo, non ho la minima idea di chi sia. Ha i lineamenti sfocati, vibranti, in continuo movimento, come se non mi fosse permesso ricordarmi chi è. Dall’alto del mio sogno, nella mia scatola cranica, sento l’eco della sveglia.
È come un picchio che tenta di scavarmi il cervello e bucarlo. Lo soffoco con il mio guanciale, ma questo, purtroppo, non attutisce di molto quel gracidio sordo.
Sento un corpo muoversi accanto a me, rotolare su se stesso e esprimersi in un lamento.
Jessica. Credo che abbia i postumi di una sbornia bella e buona, e le sta bene. Spero solamente che non si ricordi nulla di ciò che è accaduto ieri sera. Soprattutto dal momento in cui ha appiccicato la sua bocca a quella di Alex.
« Claire, voglio dormire » mi saluta, spiaccicando la faccia sul cuscino accanto al mio.
« Sei ancora vestita » rispondo, atona.
La sveglia sta ancora trillando, ignara del fastidio che si sta insinuando nella mia testa come un serpente velenoso.
Mi sveglio inferocita sei giorni su sette. Oggi però, sono ad un livello superiore.
Con il pugno chiuso, premo il pulsante di disattivazione dell’orologio analogico.
Faccio scrocchiare le mie dita costantemente fredde e le spalle, poi mi alzo dal letto e indosso le mie pantofole.
Rovisto nella mia borsetta, senza preoccuparmi dei lamenti di Jessica, che sta tentando di addolcirmi tirando fuori la scusa del mal di testa.
« C’è un’aspirina nel bagno dei miei. Sai dov’è. Nessuno dei due è mai a casa a quest’ora quindi fai un po’ quello che ti pare. Ma ti consiglio vivamente di sistemarti e farti una doccia. Puzzi come se fossi entrata in un fusto di birra. »
Detto questo, prendo il mio pacchetto di sigarette, una camicia e un paio di jeans anonimi, la biancheria intima e mi sbatto la porta alle spalle.
Entro nel bagno accanto alla mia camera da letto e con un giro di chiave mi concedo il lusso di escludermi, per meno di mezz’ora, dal mondo esterno.
Una sigaretta è ciò di cui ho bisogno per stemperare un po’ la tensione e la rabbia. Ed è vero che quando si tratta di dipendenza, non è così semplice smettere.
Mentre attendo che l’acqua della doccia si scaldi, iniziando ad evaporare e riscaldando tutta l’aria del bagno, mi lavo la faccia un paio di volte per svegliarmi.
La verità è che io odio fumare. Mi aiuta con il nervosismo, certo, ma anche lo sport lo farebbe. Più che altro, odio aver cominciato a fumare. È successo semplicemente come succedono le cose più stupide: lo fanno tutti. E nella compagnia di cui, per la prima volta, mi sentivo parte, un bel po’ di ragazzi fumavano.
Ho iniziato quasi per gioco, perché Alberto, ciò di più simile a un ragazzo io abbia mai avuto, più di tre anni fa, mi sfidava a provare. E succedeva sempre: quando eravamo insieme, mi offriva un tiro, poi mi porgeva una sigaretta intera, e poi mi comprava i pacchetti.
Quando infine decise che ci frequentavamo da abbastanza tempo perché anche i suoi amici potessero conoscermi, ho capito che sarei dovuta sembrare più grande di quello che effettivamente ero. Avevo quindici anni, in una compagnia in cui erano quasi tutti maggiorenni. Ma funzionava. Mi invitavano fuori con loro, si offrivano di accompagnarmi a casa e di portarmi fuori. Alice, Bea, Lorenzo, i gemelli… Gente meravigliosa, che difficilmente non ti entra nel cuore.
È stato lì che ho conosciuto meglio Serena. Aveva due anni più di me e tutta la classe di una ragazza che ha cominciato a vivere alla giornata da quando è entrata alle superiori. Usciva ogni pomeriggio e rientrava a sera tarda, conosceva tutto il quartiere, ogni ragazzo si voltava a guardarla. Ed è disgustosamente ricca, punto in comune con me. Suo padre è un avvocato gonfio di soldi e di donne, come mio padre. Tranne per le donne. L’unico vero amore di mio padre è la vodka.
Serena frequentava uno che non può essere nemmeno definito uomo, perché di umano non ha nulla a parte le sembianze.
Quando ne aveva la possibilità, si faceva così tanto che ogni volta in cui uscivamo tutti insieme, non ricordava nemmeno chi fosse il suo ragazzo e più di una volta l’accompagnava a casa il più fortunato fra gli amici di Alberto, mentre il suo tipo si incazzava a morte, minacciando di lasciarla.
Ma a me piaceva quella ragazza. Era così bella, con un seno prominente che usciva dal reggiseno, i capelli biondi sempre puliti e ordinati, lunghi fino al bacino, e i vestiti firmati. Si muoveva sui tacchi meglio di una modella d’alta moda. Ma Serena non è mai stata vanitosa. Si curava maniacalmente, voleva, pretendeva di essere bella. E lo era, parecchio.
A me, però, non è mai interessato. I miei sentimenti per lei si sono sempre ridotti all’ammirazione. Sono sincera quando dico che non volevo essere come lei, e tuttora non voglio. Conoscendola meglio, anche se solo superficialmente, ho capito che la nostra storia è troppo simile. E ho deciso di tenermi più a distanza possibile da lei e dalla sua vita, di evitarla, di chiuderle il mio mondo, per non vedere più in lei quello che io stavo diventando.
L’acqua bollente mi ustiona la pelle, mi scivola addosso e cade sul piatto della doccia. Lo scroscio dell’acqua mi riporta alla realtà ma non lava via dalla mente l’immagine di Serena, che si fuma una canna, una sera come un’altra. Non voglio ricordare e mi immergo completamente nella musica che la radio sta dolcemente diffondendo nell’aria, a basso volume perché Federico e Valentina dormono ancora.
 
And the tears come streaming down your face
When you lose something you can't replace
When you love someone but it goes to waste
Could it be worse?
 
Sbuffo infastidita da questa lagna malinconica senza ritmo, ma non cambio stazione.
Le note della canzone mi pesano sulla testa come un emicrania difficile da mandare via.
Sì, potrebbe andare peggio. Perché c’è sempre di peggio, anche quando pensi che in realtà tutto sta andando bene. C’è sempre qualcosa che vorresti cambiare e non andrà secondo le tue previsioni o volontà.
E allora cosa puoi fare? Non tutti hanno la forza di rialzarsi, di combattere, di andare avanti. Non tutti hanno il coraggio di affrontare ciò che la vita gli ha dato. Ed è una bella vita, si potrebbe pensare. Perché ci sono persone che vivono in condizioni peggiori, che non dispongono della metà delle cose che possediamo noi. Ma che senso ha vivere sentendosi vuoti dentro?
Parliamoci chiaro: la mia famiglia fa schifo. Christian è praticamente uscito dalla vita di tutti quanti non appena ha compiuto diciotto anni. E comunque, non è veramente mio fratello. È nato, come Federico, dal primo matrimonio di mia madre e un uomo di cui nessuno parla mai.
Mio padre, inoltre, è una testa di cazzo, che non riesco neanche a chiamare “papà”.
E poi mia madre… Forse lei è la delusione peggiore.
Quando la guardo, in realtà riesco solo a vederla. Non c’è più una donna in lei, non c’è più la mamma che mi portava al cinema e che mi comprava la cioccolata, quella che mi faceva assaggiare il sugo di pomodoro ogni volta che cucinava perché sa che ne sono golosa. Io purtroppo, o per fortuna, ricordo ancora quella mamma. Ogni sera, prima di andare a dormire, mi stringeva a sé e mi lasciava andare solo dopo che le avevo restituito l’abbraccio. Era una specie di paladina, la mia eroina, la donna che sarei voluta diventare.
Vedo ogni giorno come si sta svuotando, annullando la sua personalità, perché rimanga, alla fine, solo il fantasma della persona che era.
Chiudo il getto dell’acqua, stringendomi la testa.
Basta.
Smettila di pensare.
Mi asciugo il corpo passandoci sopra un asciugamano ricamato, uno dei regali di matrimonio dei miei. Poi infilo meccanicamente l’intimo, i jeans, la camicetta.
Pettino i miei capelli scuri, tento di lisciarli con il phon ma alla fine mi arrendo e mi accontento di legarli in una piccola coda di cavallo.
Controllo l’ora e noto che ho a disposizione ancora una decina di minuti, così decido di utilizzarli per truccarmi e rendere il mio aspetto cadaverico un po’ più vivace.
Termino il restyling appena in tempo per scendere a fare colazione.
Con mia grande sorpresa, seduta al tavolo della cucina, con tanto di braccia incrociate e sopracciglia aggrottate, trovo mia madre.
Mi coglie una stretta alla bocca dello stomaco, ma mi avvicino ugualmente alla donna. So esattamente così mi dirà, il tono che utilizzerà e la punizione che mi infliggerà. Ciò che devo fare è semplicemente tacere e far finta di ascoltarla. Ciò che farò, invece, non è questo.
« Buongiorno » mi saluta, indicando la sedia accanto a sé. Come a sfidarla, non rispondo, e mi accomodo invece di fronte a lei.
« Ieri sera sei tornata molto tardi. Credo tu mi debba delle spiegazioni. »
« Io invece credo di no. »
« Clarissa, sono di buon umore, oggi, e se mi racconterai cos’è successo, potrei anche pensare di non darti una punizione troppo esagerata. »
« Hai appena detto che sei di buon umore? Come mai? Notte focosa con quello stronzo di tuo marito? » la sfido, assumendo la sua stessa posizione, ma stravaccandomi sulla sedia.
Una vena sul suo collo sottile si ingrossa e diventa più visibile ad ogni battito. Fantastico, la sto facendo incazzare.
« Chiedi scusa! » sbotta, assumendo una tintarella che va dal rosa scuro al rosso chiaro.
« Perché dovrei? Senti, ho fatto tardi e non ti ho avvertita, ma non c’è nessuna spiegazione da dare. »
Non è che voglia veramente farla arrabbiare, ma preferisco coprire Serena: se scoprisse la verità potrebbe non farmi più uscire con lei. In più odio mentire, e se piuttosto posso optare per nascondere la verità… Be’, meglio così.
Mia madre comincia a scaldarsi, ma so che il suo livello massimo di incazzatura non lo raggiungerà mai a causa mia. Il suo preferito riguardo a litigi è e rimarrà per sempre Christian.
« Sei una maleducata e finché vivrai sotto il mio tetto decido io cosa mi riguarda e cosa no. »
Grande. Anche se sono diventata maggiorenne, per lei non significa nulla.
« Te l’ho già detto più di una volta che me ne andrei volentieri da qui. Ho solo bisogno di una giornata per portare via le mie cose e sistemarmi. »
Sgranocchio un biscotto ai cereali e inghiotto un po’ di succo di arancia, ma ho lo stomaco decisamente chiuso.
« Con quali soldi vivresti, scusa? Con le paghette della nonna e gli spiccioli che guadagni facendo la babysitter? E soprattutto, dove credi che alloggeresti? In un appartamento in centro? Oppure vivrai a carico di Serena, o Jessica? Metti i piedi per terra, Clarissa, o il mondo non sarà mai un posto per te. »
Il tono di minaccia nella sua voce fa scattare un interruttore dentro di me. Ricordo le parole dette da Leonardo ieri sera e improvvisamente, incontrollabilmente, mi alzo in piedi spostando rumorosamente la sedia.
« Mi arrangerò! Qualsiasi casa al mondo è meglio di questo covo di matti, cazzo! »
E senza aggiungere altro, do le spalle a mia madre. Non prima, ovviamente, di aver udito la mia sentenza: « Giuro su Dio che non ti farò uscire fino alla fine dell’anno, Clarissa. E ringrazia se non ti sequestro il cellulare. »
Mi volto solo per un istante, le lancio un’occhiata e salgo le scale. Appena arrivata in cima, però, non mi risparmio di buttare fuori ciò che penso: non saresti capace, mamma. Non hai mai avuto le palle.
 
Mezz’ora dopo, Jessica, con una brutta cera e un sorriso da manuale stampato in faccia, mi aspetta nell’atrio dell’appartamento.
« Andiamo » intimo, sbattendomi la porta di casa alle spalle. Mia madre, già quando Jessica è scesa al piano terra, non era in casa.
« Sei arrabbiata con me? » domanda così innocentemente la mia amica, da farmi voltare nella sua direzione.
Varchiamo il portone del condominio e ci immettiamo nelle strade poco trafficate di questa parte di periferia.
Ci vogliono poco meno di cinque minuti per raggiungere la fermata dell’autobus, e nonostante ne abbiamo a disposizione dieci, comincio ad affrettare il passo.
« No » sentenzio. Non sono di buon umore, non è il momento adatto per fare conversazione.
« È successo qualcosa che non so? »
« Stai tranquilla, va tutto bene. »
« A me pare proprio… »
« Ho detto che va tutto bene, okay? Capisci quello che dico? » sbotto, pentendomi delle mie parole appena le pronuncio.
Poi, senza chiederle scusa, crollo. Fisicamente. Non mi sento più le gambe e semplicemente cado lì, mi siedo sul bordo di un marciapiede.
Jess non fa nulla, rimane in piedi e sa, perché lei, un po’ come Serena, sa sempre tutto. Ma quel tutto riguarda quello che sento io, non quello che faccio.
Due minuti dopo aver preso dei respiri profondi, mi alzo in piedi e continuo il mio percorso, seguita da Jessica.
Mi accorgo che accanto a noi c’è una Punto bianca del ’97 solo quando sento il rombo del motore modificato, il casino dei bassi che fuoriesce dalle casse e la voce di un ragazzo.
Sussultando, vedo appena in tempo Leonardo sfrecciare in direzione sud.
 
 
 
Note:
Intanto voglio ringraziare tutti i lettori silenziosi, sperando che prima o poi arrivino anche delle recensioni, per farmi sapere se sia il caso oppure no di continuare con questa storia, a cui tengo in particolar modo.
Lo so, questi primi quattro capitoli non sono per nulla allettanti, ma avendo scritto fino al 10, posso assicurarvi che nei prossimi succederanno parecchie cose, si conosceranno personaggi nuovi e la storia ingranerà.
Questo è un capitolo introspettivo, conosciamo meglio la fredda ed ermetica Clarissa e anche un po’ della gente che le sta attorno.
Spero solamente che ci sia qualcuno disposto a seguire la storia per i futuri aggiornamenti!
Ellie
 

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque. ***


L'uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto.
-Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare.



Capitolo Cinque.



Sull’autobus che ci porterà a scuola salgono sempre le stesse persone: una quarantina di studenti di tutte le età, qualche ragazzino delle medie, un paio di madri dai tratti indiani con i rispettivi figli, qualche barbone che odora di sudore da fare schifo e un gruppetto di vecchiette che puntualmente ogni lunedì e giovedì si incontrano per andare al mercato.
Poco prima di entrare in città, vicino al Polo Scientifico dell’Università, salgono sul mezzo una decina di ragazzi e ragazze, dall’aria stremata, occhiaie violacee, vestiti spiegazzati e borse strapiene di fogli e libri. In quattro anni che prendo questo autobus non ricordo di aver mai visto nessuno salire da questa fermata.
Non bado molto a quella mandria di universitari sfigati, che oltre ad aver probabilmente passato la notte nell’ateneo, non hanno nemmeno il posto per sedersi.
« Claire, ho baciato un altro ragazzo. Ho… È considerato tradimento? Ero ubriaca, non so cosa mi sia preso. Io amo Sam. Lo amo  veramente » dà sfogo ai suoi pensieri la mia amica, e dal tono capisco che era da un bel po’ che ci stava pensando.
« Non so cosa dirti, Jess. La coscienza è tua e sei tu a dover capire cosa ti fa sentire meglio. »
« Io non glielo posso dire. Mi lascerebbe, geloso com’è. E poi, in fondo, ci siamo solo baciati. »
« Avete solo limonato parecchio, vorrai dire… »
« Ti prego non farmi sentire peggio. »
Passo una cuffietta a Jess, che si assopisce qualche secondo dopo, sulle dolci note di una canzone dei Nirvana.
Il conducente, sbraitando contro qualche pedone, lancia occhiatacce agli studenti che si reggono a malapena in piedi per la stanchezza. Entriamo in città e puntualmente il traffico congestionato costringe l’autista a frenare bruscamente, fino a che una delle studentesse non viene sbalzata indietro lungo il corridoio e finisce con la schiena sul bracciolo del mio sedile. Con un gemito di dolore, si scusa e si massaggia i reni.
Le sorrido gelida, ma mi alzo immediatamente. « Noi scendiamo fra un paio di fermate, ti lascio il posto. »
Lei rimane sorpresa dal mio gesto e si affretta a rifiutare, ma dopo un po’ di insistenza da parte mia, finalmente si accomoda sul sedile, insieme ad un ragazzo veramente alto, con la barba di qualche giorno di troppo e un profumo di bucato buonissimo, dove poco prima sonnecchiava Jess, che ora è sveglia e sembra ancora più stanca di prima.
Prima di scendere dal bus, il ragazzo mi lancia uno sguardo riconoscente e accenna un sorriso.
 
Serena entra in classe solo alla terza ora di lezione. Ha i lunghi capelli biondi legati in una coda e indossa una scollatissima maglietta bianca che mostra troppo di ciò che possiede.
La prima cosa che faccio non appena si siede al suo banco, è sospirare di sollievo. Non è stata stuprata, uccisa e gettata in un cassonetto.
Dopo aver realizzato ciò, nel momento in cui suona la campanella che annuncia l’intervallo, mi fiondo davanti al suo banco, in preda alla rabbia.
« Sei una lurida troia. »
« Ciao Clar » risponde atona, limandosi l’unghia perfetta dell’indice destro.
« Dove cazzo sei finita ieri sera? Ti ho chiamata e ti ho mandato un sacco di messaggi. Ti rendi conto di avermi, anzi di averci, lasciate al locale da sole e senza un passaggio?! Ma il tuo senso di responsabilità è andato a puttane assieme al tuo cervello? » sbraito, con un tono di voce che non è da me. Non urlo mai, nemmeno quando qualcuno mi provoca. Stavolta è diverso, è di Jessica, oltre che di me, che si tratta.
« A me pare che tu non ti sia fatta problemi, l’altra sera, ad andare via con Arcuri per scopartelo. Mi hai lasciata da sola con Tom, e ringrazia che avevo la macchina! »
« Be’, e quindi questa sarebbe stata la tua ripicca? Ho dovuto elemosinare un passaggio da Arcuri, e non ero nemmeno sola. C’era Jess con me, se te lo ricordi! »
Sbatto la mano sul banco così forte da far girare un paio dei miei compagni di classe rimasti in aula, nonché Jess e Samuele.
« Avete combinato lo stesso, no? E allora che bisogno c’è di farmi una ramanzina? La prossima volta scordati che ti porti da qualche parte se questo è il tuo modo di ringraziarmi! »
« Non verrei con te nemmeno se fossi costretta, così sei libera di farti fottere da tutti gli stronzi che incontri per strada, senza preoccuparti di chi riportare a casa, Serena. »
« Tra noi due, quella che non si ricorda nemmeno con chi ha fatto sesso sei tu, Clar. »
E con questa ultima, definitiva, bastarda affermazione, si alza dal banco ed esce sculettando dalla classe.
 
Seduta su una panchina del parco della scuola, ripenso per l’ennesima volta alle parole così simili di Serena e Leonardo.
Come se fossi io a dovervi ringraziare, brutti stronzi. Una ci ha abbandonate al Cuba per andare a divertirsi con il suo amico appena conosciuto. All’altro sembra che sia costato uno sforzo immane doverci portare a casa, neanche abitassimo a dieci chilometri di distanza.
Giocherello con il braccialetto che ho al polso da sempre, una semplice catena d’oro da cui pende una C. Mi perdo nei miei pensieri mentre osservo i rami totalmente spogli degli alberi, tremolanti quasi avessero freddo anche loro, segno di un inverno che sta appena raggiungendo il suo apice. Guardo le radici degli arbusti, grandi quanto la mia gamba, mi immagino tutta la linfa che ne scorre e che raggiunge ogni estremità di quell’albero, un po’ come il nostro cuore, che pompa il sangue per farlo arrivare ad ogni capillare sparso nel nostro corpo.
Non mi accorgo di una Punto bianca del ’97 parcheggiata dietro di me, che improvvisamente prende vita, comincia a produrre una musica potente e ritmata, fa retromarcia e sfreccia via. Non mi accorgo di Samuele che si avvicina a me e mi chiede come sto. Non mi accorgo del mio telefono che vibra nella tasca dei miei pantaloni e mi annuncia che mia madre è arrivata a prendermi. Sono in uno stato catatonico, mi sento come addormentata e le cose attorno a me sono ferme, quindi sono io a muovermi?
Improvvisamente, sento i miei occhi bruciare e dell’acqua scendere sulle mie guance, sulla mia fronte, sui capelli, entrarmi in bocca.
Perplessa mi scrollo da quel torpore e mi tocco il viso. Sto piangendo? Sento un tuono, lieve ma udibile, da qualche parte sopra di me e capisco che sta solo piovendo.
Samuele, il ragazzo di Jess, mi sta toccando una spalla. Probabilmente pensa che io sia fatta. Lui ha questa impressione di me, crede che abbia una pessima influenza sulla sua ragazza, nonostante io e Jess ci conosciamo da prima che loro si mettessero insieme, ed è sempre rimasta la stessa, una persona assolutamente non influenzabile.
« Sì, cazzo, sto bene, lasciami in pace. »
Siamo già venerdì, questa settimana mi è pesata addosso quanto un macigno, ma fortunatamente è quasi finito tutto, e non mi resta che godermi il weekend a casa.
Samuele alza le braccia in segno di resa, e si allontana verso la scuola, il libro di filosofia a fargli da ombrello.
Mia madre sta continuando a telefonarmi ed è solo alla seconda chiamata che rispondo:
« Dove sei? » mi chiede, stizzita. Ce l’ha ancora con me per come mi sono comportata l’altro giorno con lei, ma oggi mi ha proposto di andare a comprare la torta per festeggiare il compleanno.
« Fuori scuola, dai ma’, che piove. »
« Arrivo, aspettami davanti, dove passa il bus » chiude.
Mando a quel paese la pioggia e raggiungo il posto indicato da mia madre.
 
« L’hai fatto apposta! » sibilo, non appena vedo comparirmi davanti una torta rettangolare, coperta di panna e cioccolata e con la scritta “Tanti auguri Clarissa!” piena di fronzoli.
Mia mamma paga e usciamo dalla pasticceria, dove l’odore di zucchero e lievito mi faceva venire il voltastomaco.
« Tanto tu non l’avresti comunque mangiata » commenta lei, e non posso darle torto.
« Potevi almeno evitarti la scritta » dico, storcendo il naso.
« Non ti meriti nemmeno la festa, brutta ingrata che non sei altro, la scritta te la tieni senza fiatare. »
Cosa? Ho sentito bene? Mia madre ha cominciato a tirare fuori la voce? Ci dev’essere qualcosa che non va.
Non appena arriviamo a casa, mi tolgo le scarpe piene d’acqua e mi catapulto sotto la doccia.
Durante la cena, Fede comincia a commentare la stupidità degli show in prima serata, io mangio di gusto le lasagne vegetariane che ho cucinato il giorno prima e mia sorella parla eccitata con mia mamma del mio compleanno.
« Mami, la nonna viene, vero? » domanda, impugnando la forchetta come fosse una pala per scavare.
« Certo. »
Valentina però non sembra soddisfatta e continua a fare domande.
« E la zia? Lo zio Sergio? E la moglie dello zio Sergio? Mamma, ma Nicole e Bia vengono domani vero? Perché gli ho prestato il mio Cicciobello e loro ancora non me l’hanno tornato. E ovviamente lo rivoglio indietro » sbuffa esasperata. Credo siano tre anni ormai che non gioca più con i bambolotti, ma nonostante ciò, è ancora affezionata al suo Cicciobello.
« Vengono tutti, Vale, tranquilla » chiude il discorso mia madre, ingurgitando la misera porzione di cibo che tristemente se ne sta nel suo piatto.
Richiamo l’attenzione di mia sorella con un fischio e le faccio l’occhiolino. Lei, buffamente, tenta di copiarmi, ma non riesce a chiudere solo un occhio e scoppio a ridere nel vederla esprimersi in quelle smorfie.
 
Quella sera, distesa a letto, sto scrivendo a Jess.
Io: È tutta la settimana che mi sto scervellando per capire gli avvenimenti di domenica sera, ma proprio non riesco a ricordare come sia potuto succedere…
Jess: Sono stanca di ripeterti che devi chiederlo a lui. Io sicuramente non posso sapere cosa sia successo!
Mi immagino la sua voce maliziosa nel dirlo, e mi scappa una risata.
Io: Be’, poco ma sicuro, io a quell’idiota non farò una domanda del genere.
Jess: Tua madre non l’ha invitato alla tua festa, domani sera?
Io: Ha invitato la sua famiglia, lui ha altro da fare il sabato sera. E anche io ce l’avrei, se non fosse per colpa di quella…
Jess: Claire, smettila di dare la colpa a Serena, ormai quel che è fatto è fatto.
Io: Odio quando fai così.
Jess: Così come? J
 
Finalmente, ieri pomeriggio, sono riuscita a confessarle quello che è successo il giorno prima del mio compleanno, al locale. Jess non ha commentato nulla, ha detto che la vita è mia e devo viverla come meglio credo, però so, dallo sguardo che mi ha lanciato, che non le è piaciuto affatto ciò che ha ascoltato.
 
La mattina dopo, succede una di quelle cose che pensi siano il segno che quella sarà veramente una giornata di merda.
Sono più in ritardo del solito, forse perché è sabato e non ho molta voglia di andare a scuola, o forse perché il traffico è raddoppiato nel weekend.
Arrivo in fermata con dieci secondi di anticipo, grazie al mio scatto felino. Sto ansimando come se avessi corso per un chilometro, ma almeno non dovrò farmi portare a scuola da mia mamma, che sta già cucinando per la festa di stasera.
Non solo l’autista rischia di chiudermi la porta addosso per la fretta, ma non appena salgo mi accorgo con fastidio che ogni singolo posto è occupato. Ma cosa succede in questa città di sabato?!
Sbuffo e mi appoggio ad un sedile in cui sta sonnecchiando un bambino di più o meno tre anni, scorrendo la home di Facebook dal cellulare.
Sento una voce alle mie spalle, che mi sembra di riconoscere, ma non mi volto e infilo le cuffiette nelle orecchie.
Qualcuno però mi posa una mano sulla spalla facendomi gelare il sangue. Velocemente mi trovo faccia a faccia con la stessa universitaria che appena qualche giorno fa ho fatto sedere al mio posto.
« Ciao » mi saluta cordialmente. Sembra molto più riposata oggi.
Ricambio con un sorriso di repertorio. Lei va avanti, ignorando la mia poca predisposizione alla conversazione.
« C’è un posto libero vicino a me, se ti va di sederti » mi indica un sedile doppio vuoto. Ha un accento del nord Italia, apre le vocali come i milanesi.
« Ti ringrazio ma sto bene anche in piedi. »
« Dai, insisto » ritenta, afferrandomi il braccio.
« Grazie » dico semplicemente, una volta sedute.
« Dove vai a scuola? » mi domanda, tirando fuori dalla borsa la cartina, il filtro e il tabacco per rollarsi una sigaretta.
Mi scappa una sospiro di sorpresa che a lei non sfugge.
« Cosa c’è? » chiede, alzando lo sguardo.
« Nulla… »
« Tutti hanno un’idea sbagliata di noi » mi interrompe, capendo a cosa mi riferissi in realtà. « Pensano che siamo dei secchioni costantemente incollati ai libri ma in realtà sappiamo divertirci tre volte più dei liceali. »
Sorrido freddamente.
Quando termina di preparare la sigaretta, mi porge nuovamente la domanda.
« Dove vai a scuola? »
« Al Da Vinci. »
« Non dirlo, anche io ci sono andata! Scientifico? »
« No, linguistico. »
« Ma quanti anni hai? Non voglio essere indiscreta, ma non dovresti essere già uscita dalle superiori? »
« Diciotto. »
« Che? Scherzi? Sei in quarta? »
« Già » ribatto irritata. Questa ragazza sta iniziando ad urtarmi i nervi.
« Sto andando in centro per incontrare dei miei amici, ti va di bigiare e venire con noi? » cambia improvvisamente discorso.
« Scusa ma non ho capito… » balbetto, allontanandomi di poco.
« Non dite così qua? Ah, io sono di Milano, penso l’avessi intuito dal mio accento » ride, facendomi irrigidire ancora di più. « Bigiare vuol dire saltare scuola… Fare chiodo, ecco. »
Questa sconosciuta di cui non so nemmeno il nome mi sta chiedendo di andare con lei in centro per incontrare dei suoi amici… ma siamo pazzi?
« So che ti sta spaventando, di solito è questo l’effetto che fa la prima volta che qualcuno la incontra, ma tranquilla che Ale è la persona più buona del mondo. »
Dopo che una voce alle mie spalle interviene, mi sento rigida come un pezzo di ghiaccio. Mi volto piano e riconosco un’altra delle ragazze dell’università.
« Io sono Alessia, piacere! » la ragazza seduta accanto a me mi tende una mano.
Esito un attimo ma i suoi occhi chiarissimi mi danno l’idea di essere sinceri, così gliela stringo.
« Clarissa » ricambio.
« Queste due » indica col pollice le due ragazze sedute dietro di noi. « Sono Ilaria e Silvia. »
« Clarissa » ripeto, con un sorriso un po’ forzato sulla bocca.
« Stavo scherzando comunque, non ti avrei mai incitata a bigiare, anche se sei maggiorenne » ammicca Alessia.
Rilasso un po’ i muscoli e tento di sorriderle. Infondo non ha la faccia da delinquente.
Guardo fuori dal finestrino e mi accorgo di essere quasi arrivata a scuola, un paio di fermate e dovrò scendere.
« Spero di incontrarti di nuovo » dice Alessia dopo qualche minuto di silenzio, guardandomi dritta negli occhi.
« Già, be’, ciao » chiudo la conversazione, scendendo dal bus.
 
 
 
 
Note sul capitolo:
Questo è solo uno “spezzone” di passaggio, serve a conoscere Alessia, che d’ora in poi troveremo spesso, e ad infarinare la festa di compleanno di Clarissa.
Oggi pubblicherò anche il sesto capitolo, visto il notevole ritardo dall’ultimo aggiornamento.
Spero che qualcuno cominci a seguire e recensire la mia storia, giusto per farmi sapere se è il caso di continuarla…
Ultimamente, non avendo ricevuto commenti, non sono spronata ad andare avanti, non sapendo cosa voi ne pensiate. Comunque, nella speranza che qualcuno si faccia sentire, vi lascio questo e il prossimo capitolo.
Ellie
 

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei. ***


«Quello è Hercule Poirot, il famoso investigatore» disse la signora Allerton.
[...]
Tim Allerton si raddrizzò con insolita vivacità.
«Quell'ometto ridicolo?» chiese incredulo.
«Quell'ometto ridicolo.» 
-Agatha Christie, Poirot sul Nilo.
 


Capitolo Sei.
 

Non lo ammetterò mai davanti a lei, ma questa volta mia madre ha veramente superato se stessa: sul tavolo del soggiorno si trova qualsiasi cibo, dai semplici stuzzichini ai panini con formaggio o affettati, due tipi diversi di riso alla greca, qualche torta salata, delle focacce ai pomodorini secchi, alle olive, alla ricotta o alla pancetta, salatini, crostini, pasta sfoglia e tantissimi altri cibi.
Mi sento male solo a immaginare di dover assaggiare tutto.
La nonna, seduta sul divano con un piatto in mano, sta ridendo davanti alla televisione, intenta a seguire una serie TV su Rai Cinque che va in onda da anni.
Le mie cugine Nicole e Bianca e anche mia sorella stanno giocando a Monopoli sul pavimento del soggiorno, mentre Federico e mio cugino più grande, con la sua ragazza, stanno chiacchierando con un bicchiere di spumante in mano.
Mia madre si avvicina a me e mi porge un tramezzino.
« Provali, li ha fatti la zia. »
Sento lo sguardo della sorella di mia madre alle mie spalle, e per evitare di farla rimanere male, inghiotto quell’insieme di maionese, funghi e pane. Il resto del tramezzino lo butterò dopo.
I signori Arcuri, silenziosi e un po’ fuori luogo tra il vociare chiassoso dei miei parenti, si avvicinano al tavolo della cucina, dove mia madre sta sfornando… un pollo intero. Stile tacchino del Ringraziamento. È proprio grasso questo pollo.
« Clarissa, aiutami! » urla lei. Mi precipito accanto a lei giusto in tempo per sorreggere la teglia prima che cada dalle mani di mia madre.
« Un pollo, mamma? Non ti sembra un po’ troppo? » la rimprovero.
« Ma non hai visto quanti siamo? E comunque il mio pollo al forno piace sempre a tutti » si vanta, tronfia.
« Non c’era abbastanza roba, Elena? »
La nonna, quatta quatta, ha raggiunto la cucina. Dev’esserci la pubblicità in TV, nient’altro spiega il perché si sia alzata dal divano.
« Mamma, ti ci metti anche tu adesso? »
« No cara, dicevo solo che potevi evitare un lavoro in più visto che c’è già molto da mangiare. »
« Mamma è tutto buonissimo » le faccio i complimenti, per farle capire che le sono veramente grata. « Hai… fatto un ottimo lavoro, grazie. »
La nonna sghignazza sotto i baffi e mi trascina con lei sul divano.
« Non c’è nulla di più bello di questa sitcom. Forse solo Beautiful. »
 
La signora e il signor Arcuri si sono ambientati molto più in fretta di quanto pensassi: verso le dieci è arrivato mio zio, l’altro fratello di mia madre, con sua moglie sudafricana, e come se fossero amici da sempre, hanno cominciato a parlare con i nostri vicini, tanto che ora, all’una e mezza, sono ancora seduti al tavolo del soggiorno, giocando a carte e scambiandosi aneddoti.
Gabriele, mio cugino, a detta dello zio “sarebbe tanto voluto passare, ma stasera è uscito con quella gran figa della sua ragazza”. Lo sguardo di fuoco della zia mi fa scompisciare dalle risate. Suo fratello Alessandro, invece, è rimasto a casa a studiare per gli esami di ammissione al quarto anno di medicina.
Sto aiutando mia madre a sparecchiare e a mettere in frigo gli avanzi, quando il campanello suona improvvisamente. Sobbalzo e mi affretto ad aprire prima che mio padre, trattenuto al lavoro, svegli tutto il condominio.
« Buon compleanno. »
Il ragazzo che spalanca la porta non è certo mio padre.
Christian, un metro e novanta di altezza, mi abbraccia stretta, senza darmi il tempo di realizzare che mio fratello è veramente qui.
Mi ci vuole un minuto buono, e qualche pizzicotto sul braccio per rendermi conto del suo arrivo.
« Chris » singhiozzo, quasi con le lacrime agli occhi. « Se-sei venuto. »
« Non potevo assolutamente perdermi il tuo diciottesimo compleanno, Ris. »
Gli getto le braccia al collo e, nonostante odi i gesti d’affetto, nonostante mi dia fastidio il contatto, nonostante litighiamo ogni volta che ci vediamo, lo stringo fortissimo, e vorrei che non se ne andasse mai più via, che non tornasse a Venezia, che non mi lasciasse da sola.
« Grazie, grazie » riesco a sussurrare.
Mia madre, intenta a pulire i piatti, fa capolino dalla cucina con uno strofinaccio e il grembiule.
« Ciao mamma » la saluta mio fratello.
È da metà novembre che non vediamo Christian: l’ultima volta che è stato qui, mia madre l’ha cacciato di casa dopo una lite che aveva come oggetto… mio padre.
« Christian. »
Vedo le spalle di mia madre irrigidirsi, la bocca diventare una sottile linea contrita che esprime tutta la sua tensione. Le mani stanno convulsamente giocherellando con il bordo del canovaccio.
Mio fratello si avvicina a lei e riesco solo a vedere come mia madre gli posa una mano sulla spalla, perché poi inizia a piangere e sparisce in cucina.
Dal soggiorno sento i discorsi che stanno intrattenendo gli Arcuri con gli zii, e un nome di certo non sfugge alla mia attenzione.
« …infondo Leonardo ha diciannove anni, non gli si può dire più di tanto a che ora tornare  a casa » sta spiegando la signora Arcuri a mia zia.
« Hai ragione, ma io sono del parere che fino a quando i miei figli vivranno sotto il mio tetto, sono io a dettare le regole. Per esempio, Gabriele stasera è uscito con la sua ragazza al cinema, ma anche se noi non siamo a casa, gli ho detto di non tornare più tardi dell’una. Ha solo sedici anni! »
Mi sembra di sentire parlare mia madre…
« E comunque c’è Alessandro a controllare che rispetti le regole » aggiunge lo zio.
« A noi basta che ci avverta se decide di passare la notte fuori. Ci fidiamo molto. In più è indipendente, avendo la macchina… » continua la signora Arcuri.
Cagate.
Decido di evitare di origliare ancora, così prendo in braccio mia sorella, che si è addormentata sul divano, e la porto al piano di sopra, nella nostra camera.
So che lei preferisce dormire nella camera dei miei, perché dice che russo troppo e non le faccio prendere sonno, ma mi sento in colpa a stare in una camera unicamente mia, quando per anni i miei fratelli si sono dovuti dividere la loro.
La poso delicatamente sul letto sotto la finestra, la spoglio, le infilo il pigiama di cotone e la copro con il lenzuolo.
Sento i rumori del salotto, le sedie e i piedi e le voci degli Arcuri che se ne stanno andando, lo zio che parla con Christian. Ascolto con l’orecchio premuto contro la porta fino a che non sento solo silenzio, poi mi distendo sul mio letto, guardo il nero che mi circonda e mi addormento.
Alle quattro, un rumore secco mi sveglia dal mio sonno leggero. Proveniva dalle scale. Rimango immobile nella mia posizione e socchiudo la porta.
« Merda, che male » impreca Federico da qualche parte sulle scale. Le sale massaggiandosi il piede e raggiunge la sua camera da letto.
Sto per tornarmene a letto quando sento il rumore delle chiavi che girano nella serratura e odo la soave voce di mio padre. Non mi ci vogliono più di una manciata di parole per capire: ha bevuto. Strano.
Esco velocemente dalla mia camera e, certa che mio padre avrà uno scontro con mio fratello, raggiungo il piano di sotto. Mi arresto appena in tempo per sentire lo scambio di battute fra i due, bloccata da una incontrollabile paura e da ricordi per nulla piacevoli.
« Sei tornato. » Quell’uomo è particolarmente perspicace ultimamente.
« E prima che tu lo chieda, non ho intenzione di andarmene immediatamente » commenta Chris con tono di sfida.
« A casa mia decido io chi può rimanere e chi no. »
« Ha perso la borsa di studio. Hanno detto che fino a marzo non lo richiameranno » si intromette mia madre.
Cosa? Christian ha perso la sua borsa di studio? È uno degli studenti più eccezionali che siano mai stati al Da Vinci, non penso che improvvisamente si sia dato alla pazza gioia e abbia abbandonato lo studio. Per di più, il lavoro che fa basta a malapena a pagargli da vivere, sicuramente non riuscirebbe mai a coprire il costo della retta dell’Accademia…
« Ti pago io tutto quello di cui hai bisogno, basta che tu esca da qua » propone mio padre.
Certo, la carta del riccone. Come se i suoi soldi potessero comprare tutto.
« Non voglio i tuoi soldi. Non li ho mai voluti. »
« E io non voglio te in casa mia. »
« Non è casa tua! Anche se tu non sei mio padre, mia madre e i miei fratelli abitano qui. È più casa mia di quanto non lo sia per te. »
« Cosa vorresti dire? » sbraita mio padre, che sta cominciando a scaldarsi.
Ma perché devono litigare ogni volta che si vedono? Non possono semplicemente ignorarsi?
« In questa casa non hai nessuno che ti voglia bene. Io invece sì. Anche se paghi il mutuo, questo è solo un posto in cui vieni a dormire e in cui ti fai servire la cena. »
« Brutto stronzo, non ti permettere di parlarmi così. È solo grazie a me che hai vissuto tutti questi anni, ingrato che non sei altro. »
« Giacomo, ti prego, smettila » intima mia madre, con voce flebile.
« Non ti sto chiedendo nulla. Sto solo dicendo che per un paio di mesi dovrò rimanere qua. Troverò un lavoro. »
« Tu credi che dopo mesi che non ti vediamo, dopo che non ti sei fatto sentire per tanto tempo, dopo aver fatto soffrire tua madre e i tuoi fratelli… Tu credi semplicemente di poter tornare qua, al tuo albergo personale, per poi fare le valige quando avrai di nuovo la borsa di studio e sparire per altro tempo? »
« Non sta dicendo questo, vuole solo rimanere qua con noi per un po’. Farà bene anche ai ragazzi… »
« Tu sta’ zitta! » urla mio padre alla mamma.
Io sussulto, spaventata. Trattengo il respiro temendo che incominci a picchiarla: quando è ubriaco è totalmente imprevedibile.
« Non parlarle così! Sappi che non ho nessuna paura di denunciarti. So tutto quello che hai fatto alla nostra famiglia. E so che l’unico motivo per cui nessuno ha ancora aperto bocca è per risparmiare a te la galera e per i tuoi soldi. »
« Non osare aggiungere una parola in più. Tu non sai un cazzo. » La voce di mio padre si è fatta più dura, ora si sta arrabbiando.
« Giacomo, adesso basta. Ne parleremo domani tutti insieme » cerca di calmarlo mia madre.
C’è una pausa di tre secondi in cui nessuno fiata, e poi, mio padre cede.
« Come vuoi. Dormi sul divano. Elena, andiamo. »
Torno in camera mia e quando sento la porta della loro camera chiudersi, mi infilo a letto. Inutile dire che non riesco più ad addormentarmi.
 
« Christian! » urla Vale, non appena scendiamo a fare colazione.
« Ehi, piccola » la saluta lui, posandole un dolce bacio tra i capelli biondi. « Come stai? »
« Chris, non andare via, ti prego. Mi manchi. »
Christian, a questa dichiarazione di mia sorella, si immobilizza per qualche istante e i suoi occhi si svuotano di luce.
« No, per un po’ rimango con voi, sta’ tranquilla Vale… » la rassicura, ma sento dal suo tono che nemmeno lui ci crede tanto.
Ovviamente mi tornano in mente spezzoni della conversazione che ho udito ieri sera e mi volto appena in tempo per vedere scendere mio padre dalla tromba delle scale.
È così strano averlo con noi la mattina che devo avere un’espressione a metà fra l’idiota e l’addormentato in faccia.
« Vale, siediti, tra poco mangiamo » le intimo, allontanandomi da mio padre.
« Federico! » urla la mamma, sperando che quel pigro di mio fratello si alzi dal letto. Sta spremendo un paio di arance rosse con forza.
« Christian, vai a chiamare tuo fratello per favore. Tra due minuti i cornetti saranno pronti. »
La sua voce, nonostante cerchi di mascherarlo, nasconde molta freddezza.
Mi accomodo al mio posto al tavolo accanto a Valentina e bevo un goccio di latte freddo.
Quando anche Fede scende, i capelli sparati sulla testa e il pigiama ancora caldo e spiegazzato, mio padre decide di prendere parola. Ha la barba perfettamente rasata e le rughe sotto gli occhi, sembra contrariato ma allo stesso tempo rilassato.
« Buongiorno a tutti » ci saluta Fede, abbandonandosi sulla sua sedia.
« Possiamo parlare, ora che siamo tutti qua? » interviene subito mio padre.
« Parlare? » chiede Vale, addentando il suo cornetto al cioccolato.
« Sì, amore. Ora che Christian è tornato ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare. La mancanza di gratitudine, per esempio. »
« Non puoi evitare di parlarne ora? » ringhio, indicando con gli occhi mia sorella.
Lui non si scompone minimamente e io inizio già a scaldarmi.
« Dunque, ci ho pensato parecchio stanotte » prosegue rivolto a Christian, evitando la mia domanda. « E ho deciso che puoi rimanere da noi per tutto il tempo che ti serve. »
Rimango spiazzata un paio di secondi, ma poi guardo mio fratello con un sorriso che lui restituisce sia a me sia a Fede.
« Però devi pagarmi l’affitto. » Ecco. Ti pareva se quello stronzo non avrebbe tirato fuori una delle sue clausole.
« Stai scherzando spero! » si indigna Fede.
« Chicco sta’ zitto, sono affari miei » lo zittisce Christian.
Federico, appena sente il suo nomignolo, quello con cui solo Chris lo chiama, rimane di stucco e fissa nostro fratello.
« No, parlo seriamente. Visto che ritieni questa casa un albergo, ti chiedo almeno di pagarmi l’affitto. Non sarà molto, sui mille al mese. »
« Cosa?! Ma sei andato fuori di testa?! » intervengo io, lasciando cadere il mio cornetto, irritata.
« Ris, stessa cosa per te, me la vedo io. »
« Ma è assurdo! Mille euro sono sì e no quello che guadagni in un mesi! È una follia! » mi scaldo, cercando di contenere i toni.
« Quanto pensi che costi un appartamento come questo, tre camere su due piani, ad appena mezz’ora dal centro della città? » mi sbeffeggia mio padre, con il tono di uno che la sa lunga sugli affari immobiliari.
« Clarissa, nessuno ha chiesto il tuo parere » interviene mia madre, che come al solito prende parola solo quando deve sgridarci.
« Queste sono le tue condizioni? » riprende Chris.
« Queste sono le mie condizioni. Facciamo che mi sento buono, dopotutto sei mio figlio, ti abbasso a ottocentocinquanta. »
« Lui non è tuo figlio. »
Tutti si voltano verso Fede. Ma non è stato lui a parlare. Sono stata io.
« Cosa? »
« Lui non è tuo figlio » ripeto con lo stesso tono. « Però io lo sono, e a me non fai pagare l’affitto. Non è giusto. Devi trattarci tutti allo stesso modo, specialmente me che sono tua figlia legittima. »
Chris e Fede si scambiano uno sguardo.
Mia madre mi afferra il braccio.
Valentina tiene la testa fissa sul suo piatto.
Mio padre posa una mano sul giornale accanto a sé.
« Clarissa, quando imparerai a tenere chiusa quella bocca? » sospira infine.
« Mai, soprattutto non se tratti così i miei fratelli. »
« Tu non ti devi permettere di parlarmi in questo modo. »
« Io ti parlo come voglio. »
E poi succede di nuovo tutto in un attimo.
Lui si alza, sposta la sedia, si avvicina a me e alza il braccio, le dita della mano tese, pronte a colpirmi il volto. Si arresta a due centimetri dalla mia guancia. Non so perché.
Forse perché è sobrio, forse è la paura dei miei due fratelli decisamente più grandi di lui, forse è per rispetto di mia sorella minore. Ma comunque si ferma, e io rimango immobile.
« Se lui è d’accordo tu non dici una parola in più! » urla, spostandomi i capelli dal viso col fiato. 
« Allontanati da lei » si intromette Fede, che si è alzato in piedi quando l’ha fatto mio padre.
« Federico! »
Christian è l’unica persona al mondo di cui Federico ascolta gli ordini. Basta solo che pronunci il suo nome per farlo sedere.
« La questione è chiusa » annuncia mio padre con tono che non ammette repliche, tornando al suo posto e cominciando a leggere il giornale.
Valentina è terrorizzata, ma non lo dà a vedere. Suppongo che dopo tutti questi anni, si sia abituata a sentire i nostri litigi.
Quella mattina continuo la mia colazione mangiando la mia rabbia assieme al cornetto.
 
 
 
 
Note sul capitolo:
Come avete letto, qua presento l’ultimo e maggiore fratello di Clarissa, Christian.
Ovviamente suo padre non ha buoni rapporti con nessuno. Come avete potuto notare, è un uomo violento, che picchia la moglie e con la passione per l’alcol. Clarissa lo odia più di tutti, ma più avanti verranno spiegati i vari motivi. Comunque, un punto debole ce l’ha anche lui, ma si scoprirà più avanti.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette. ***


Lo scrittore originale non è quello che non imita nessuno, bensì quello che nessuno può imitare.
- François-René de Chateaubriand.

 

Capitolo Sette.
 

« Dove vai? È quasi ora di cena. »
Mia madre deve aver sentito i miei passi e il tintinnare delle mie chiavi.
I miei fratelli stanno preparando il tavolo, ma io non posso fermarmi a mangiare con loro.
« Esco, ehm, c’è Serena che mi aspetta a casa sua, dobbiamo finire un lavoro di filosofia » mi invento sul momento.
Sono passate ormai un paio di settimane da quando Christian si è trasferito da noi e l’atmosfera in casa si sta facendo veramente troppo pesante.
Mio padre conduce la vita di sempre, lavora fino all’ora di pranzo, poi torna a casa, pranza, picchia mia madre solo quando non gli va bene un caso, quindi raramente, torna al lavoro, si ubriaca quasi ogni sera, rientra a casa a notte fonda e riparte alle sei del mattino.
Mio fratello maggiore lavora dalle sette del mattino alle sette di sera per potersi guadagnare l’alloggio, Federico va all’Università e ci rimane fino a tardo pomeriggio quasi tutti i giorni, mentre Valentina sta a scuola fino alle cinque e mia madre… be’, a pranzo, quindi, rimaniamo solo io e i miei genitori.
E io sento che a momenti avrò una crisi di nervi.
« Serena abita a dieci chilometri da qua, come pensi di arrivarci a casa sua? » chiede mia madre.
« È venuta a prendermi, è qui sotto » mento.
Mi mordo la lingua finché non sento un sapore metallico in bocca. Mi sento uno schifo a mentire a mia madre, anche se ormai ci sono abituata.
« Falla salire allora, fate tutto qua. Tanto, posto per un’altra persona al tavolo c’è. »
« No, grazie. Sono di fretta, ora vado. »
« Sei ancora in punizione. »
« Non puoi mettermi in punizione a diciotto anni! » esclamo, un piede già puntato verso la porta di casa.
« Posso farlo anche quando ne avrai quaranta, sono sempre tua madre. »
« Dai, ma’, devo andarci » la supplico, facendo tintinnare le chiavi.
« Ma’, lascia che vada. Tanto di stare con noi non ne ha voglia e si vede » interviene Christian, stranamente dalla mia parte.
Gli lancio un’occhiata riconoscente, e mi sento ancora peggio, ad avergli nascosto la verità.
« Grazie Chris… »
Do un bacio veloce a Vale sulla testa, distesa sul divano a guardare i Simpson, ed esco di casa, fiondandomi giù dalle scale.
« Pensavo non scendessi più » mi saluta Sere, la sigaretta accesa fra le dita e il suo nuovo ragazzo a braccetto.
Sono quasi più alta di lui, e questo mi mette parecchio a disagio.
« Matteo, piacere » si presenta lui, un sorriso di repertorio sul viso.
Indossa una giacca pesante, una cuffia schiacciata sul capo e ha l’aria da furbo, gli occhi che brillano come il suo sorriso.
« Clarissa » ricambio, senza avvicinarmi.
« Dai, andiamo, gli altri ci stanno aspettando » intima Serena, schiacciando il mozzicone sotto lo stivale.
Dopo la scenata fatta in classe a causa della sua fuga con Matteo, Serena ed io non ci siamo parlate per un po’. Non che sentissi la sua mancanza, insomma, non siamo quello che definirei “amiche”, però non mi piace ricevere sguardi d’odio, soprattutto da parte sua. O di chiunque altro.
Quindi è stato piuttosto naturale, ci siamo incrociate in corridoio, una mattina a scuola, e semplicemente abbiamo ricominciato a parlare come abbiamo sempre fatto.
Ci vogliono dieci minuti per raggiungere la Rimessa, dove io e Sere ci incontriamo da anni con i nostri amici. Non sono un gruppo di disagiati come pensa mia madre, sono persone normalissime, un po’ più grandi di me, che mi hanno sempre accolta come facessi parte della loro famiglia. Sono persone meravigliose, con tante storie alle spalle, esattamente come me. Persone che studiano o che lavorano, che hanno una vita normale come la mia. Be’, chiamala normale…
« Clary! » mi accoglie subito la voce di Alice, una studentessa di medicina che frequentava il Da Vinci.
Non appena raggiungiamo la Rimessa, cerco di riconoscere un po’ tutti i membri della comitiva, ma nonostante i faretti ad illuminare la gente, siamo ancora troppo lontane.
Questa zona della periferia, verso quest’ora della sera, comincia a prendere vita: ristoranti e pub restano aperti fino a notte fonda, pronti ad ospitare gli uomini d’affari che escono dagli uffici, gli autisti degli autobus che fanno i turni serali, o semplicemente i turisti, anche se in questa stagione ce ne sono veramente pochi.
« Ali! » la saluto quando la raggiungo, col sorriso che mi spunta sulle labbra solo quando sono assieme a tutti loro.
« Peste, come stai? »
La voce di Alberto, inconfondibile, distoglie la mia attenzione da Alice.
Alberto si avvicina e mi posa due baci sulle guance. Profuma di lui, un profumo che non saprei descrivere né associare a qualcun altro.
« Sto bene, non mi posso lamentare. Tu, invece? »
Non che mi interessi saperlo. Insomma, è pur sempre il mio ex, quello che mi ha lasciata perché riteneva fossi troppo piccola per i suoi gusti. Un po’ di risentimento devo nutrirlo nei suoi confronti.
« Tutto bene. II lavoro sta ingranando, devo dire che qualche spicciolo in più lo guadagno adesso » annuncia, vantandosi come al solito.
Alberto ha appena aperto un’autofficina assieme a Riccardo e Jacopo, due gemelli romani che, poco dopo, spuntano da dietro il loro Pandino scassato.
« Non vi avevo mica visti » mi illumino non appena li noto.
I due fratelli, decisamente più bassi di me, mi lanciano un bacio in contemporanea.
« Ragazzi, io sto morendo di fame » rompe il silenzio Bea, mano nella mano, guarda un po’, con Lorenzo.
Quei due stanno insieme da prima che io nascessi, probabilmente.
« Rosy ha posto per noi, basta stringersi un po’ e ci stiamo tutti. Cena al Giglio? » ci propone subito, per l’appunto, Lorenzo.
« Ma Sam e Giò? » chiede Serena, al posto di rispondere.
Matteo, al suo fianco, sta intrattenendo una conversazione con un ragazzo alto e dal fisico asciutto, di cui non riesco a vedere il viso in penombra.
So cosa vuole Sere in questo momento, e non si tratta certo di una buona pizza al Giglio Bianco.
« Oggi fanno chiusura, non arriveranno prima delle dieci » la informa Alberto, alludendo alla ferramenta che gestiscono i due fratelli Samantha e Giorgio.
Controllo l’orologio al mio polso: sono appena le sette e mezzo ma sono sicura che se non torno a casa per le dieci, mia madre chiamerà la polizia per venirmi a cercare, temendo che sia stata rapita e uccisa.
« Non abbiamo ancora festeggiato il tuo compleanno! Non pensavi mica che ce lo fossimo dimenticato » esclama Alice, avvicinandosi a me.
« Noi vi raggiungiamo fra poco » annuncia uno dei gemelli, salendo sul Pandino assieme ad Alberto e all’altro fratello.
Beatrice fa okay con la mano e ci avviamo tutti verso il Giglio Bianco, il ristorante in cui si sono conosciuti e lavorano i due fidanzati.
« Ti prego Ali, sai che odio ‘ste cose… »
« Non mi interessa » alza le spalle lei. « Diciotto anni sono un traguardo importante. »
« Che palle con questi diciotto anni, sono solo un numero in più. E poi, non capisco cos’abbiano di speciale, ora posso solo fare legalmente tutto ciò che facevo prima. E finire in prigione. »
Alice ride di gusto e comincia a tartassarmi con i suoi lunghissimi discorsi sull’ultimo professore figo che le è capitato a lezione la settimana scorsa, oppure sulle ragazzine di prima liceo che salgono in bus con lei (a suo dire “scandalose”). E nonostante io odi quando la gente parla a vanvera, mi fa piacere ascoltare Alice, perché a parte Jessica e Beatrice, è l’unica amica vera che ho.
Ci siamo conosciute, ovviamente, quando Alberto mi ha inserita nella compagnia.
Alice ha solo due anni più di me, la stessa età di Serena, ma ne dimostra almeno venticinque, il contrario della sua migliore amica Beatrice, che di anni ne ha ventitré, ma ne dimostra a malapena sedici.
Ali è alta quasi quanto me, e la cosa non può che farmi piacere, visto il mio spropositato metro e settantacinque, ha un fisico formoso, leggermente troppo in carne, i capelli rossi e una frangetta che solo lei sa portare bene. Ha la pelle chiarissima e una buona quantità del corpo tatuata.
Da quel che so, ha sempre avuto la passione per la medicina, infatti, una volta finiti gli studi e il tirocinio, vorrebbe diventare pediatra.
Non vedo l’ora di vederla curare i bambini con le braccia tatuate e i capelli rosso fuoco che escono dalla cuffia.
Parlando del più e del meno, viene fuori il nome di Leonardo.
« Ovvio che lo conosco » mi risponde, quando le pongo la domanda, più in imbarazzo che sorpresa.
« Eravamo in classe assieme, finché non ha pensato bene di farsi bocciare. »
« Giusto, dimentico che è ancora in quinta… Lui abita nell’appartamento sopra al mio. »
« Lo so, lo so. Qualche volta ci sono andata, a casa sua… » mi informa con lo sguardo che si perde davanti a noi. C’è dell’altro, a quanto sembra dal suo tono, ma non penso voglia aggiungere qualcosa.
« Te l’ha detto Sere, vero? Che fastidio, non sa tenere la bocca… »
« In realtà, c’ero anche io, quella domenica, al Cuba » mi sorprende. « Ti ho vista andare via con Leo, e mi sono incuriosita. »
« Tu… Tu c’eri? » realizzo. « E… mi sai dire com’è iniziato tutto? »
« Sì, be’… Io stavo ballando con Bea, quando ho intravisto Tom, il migliore amico di Leo. Gli sono corsa in contro, l’ho abbracciato e ho notato che c’eri anche tu. Ho provato a salutarti ma tu ti stavi, come dire, strusciando contro Leo e così ho lasciato perdere. »
« Oddio, che imbarazzo. » Mi nascondo il viso tra le mani. « Penserà di essere stato con una puttana! E non ha nemmeno tutti i torti » do voce ai miei pensieri, confessando le mie preoccupazioni ad Alice.
« Clar, stai tranquilla. Se c’è una cosa che so di Leo, è che non giudica mai e poi mai la gente se non la conosce. E comunque… Mi pare strano che si sia approfittato di te in un momento in cui non avevi il pieno controllo di te stessa. Non è decisamente un comportamento da lui. »
Pensierosa, mi scruta per qualche istante.
« Mi sono svegliata solo con le mutande addosso. I nostri vestiti erano sparsi per la mia camera e… be’, lui era accanto a me » le spiego, provando ancora una volta un moto di repulsione.
Non deve capitare mai più una situazione del genere, che io conosca il ragazzo in questione oppure no. Devo capire quali sono i miei limiti e non superarli mai più.
« Dai, vedrai che se n’è già dimenticato… Infondo non è tipo che si fissa molto su una cosa » cerca di rincuorarmi Alice, beccandosi un’occhiataccia da parte mia.
Raggiungiamo il Giglio in poco tempo e una volta accomodati a tavola, mi accorgo di avere di fronte a me il ragazzo alto che prima stava parlando con Matteo, seduto per l’appunto accanto a lui.
« Ehi, io ti conosco » attacca per primo, aggrottando le sopracciglia.
Anche il suo viso mi sembra vagamente familiare, ma non saprei proprio dire dove l’ho già visto.
« No, mi spiace, non so chi sei » dico, alzando le spalle.
Essendo timida di natura, è molto difficile aprirmi con le persone, anche se si tratta di gente socievole e alla mano.
« Forse siamo all’università assieme » azzarda, ritenendomi ancora una volta più grande di quello che sono.
« Vado al liceo » rispondo stizzita, fissando la sua barba.
« Ma sì, ti ho già vista da qualche parte… » insiste.
Noto che il suo accento non è di qua, è leggero, ma ha decisamente una cadenza milanese. È allora che qualcosa scatta nel mio cervello, anche se ancora non riesco a capire chi sia.
« Com’è che ti chiami? »
« Clarissa. »
« No, non mi dice nulla… E ce l’hai un cognome, moretta? »
Sussulto a quell’appellativo e mi porto involontariamente una mano ai capelli.
Odio il mio colore biondo, simile a quello di mia sorella, ed è per questo che mi tingo della tonalità più vicina al nero possibile.
« Argenti. »
« Io sono Sebastiano, per la precisione Sebastiano Ferrari, ma per tutti sono Seba » risponde alla mia presentazione il ragazzo.
Sembra così allegro che non mi spaventa guardarlo negli occhi. Il colore che hanno mi colpisce subito e mi attrae neanche avesse due calamite al posto degli occhi: non sono azzurri ma neanche grigi, è una via di mezzo; sono così profondi che lo sguardo che mi lancia mi sembra mi stia trapassando la pelle.
« Cos’è che mi racconti? » riprende subito dopo, un bel sorriso stampato sulle labbra sottili nascoste appena dalla barba scura che gli copre parte del viso.
Di solito, a queste domande, rispondo seccata che non ho nulla da dire, soprattutto non ad un estraneo come lui. L’interlocutore alza le mani in segno di resa ed evita il contatto con me per il resto del tempo.
Ma questo ragazzo mi sembra così diverso che, a pelle, non riesco a dire che cosa mi spinga a rispondere cortesemente e senza paura. Non è il suo sorriso cordiale, né il suo piacevole accento, non è nemmeno il fatto che è decisamente affascinante e più grande di me… È qualcosa di inspiegabile ma ancora più nascosto dentro di lui.
« Non ho idea di cosa mangiare, e so che se chiedo alla mia amica mi risponderà “una cotoletta” perché non accetta che io non mangi carne » sputo tutto d’un fiato, chiudendo la risposta con un sorriso appena accennato.
« Seba, che prendi tu? » lo distrae Matteo, infilandogli fra le mani il menù del ristorante.
Sebastiano distoglie lo sguardo dal mio e sento improvvisamente tanto caldo, nonostante siamo quasi a febbraio. Mi affretto a togliere il giaccone, i guanti e la sciarpa e ad appoggiarli sulla sedia.
Quando mi volto, ho di nuovo i suoi occhi incastrati nei miei.
« Sei vegetariana? Da quanto? » riprende il discorso, come se non fossimo stati interrotti.
« Saranno un paio di anni, ma non ho mai amato la carne… e il pesce, ancora peggio… » gli concedo di sapere, facendo una smorfia.
Lui fa una risata di cuore spiegando che « Hai fatto una faccia! » e continuando il discorso subito dopo.
« Quindi niente etica. Nessuna roba del tipo “salviamo il mondo dagli allevamenti intensivi” stile Green Peace… »
« No, no » confermo. « Anche se, a dir la verità, non è affatto male come scusa. »
« In realtà, è un mucchio di balle. Studio scienze ambientali e so bene che non è quello che porterà l’inquinamento a livelli irreversibili. »
« Non me ne parlare, preferisco essere ignorante in materia, o rischio che mi venga una crisi ogni volta che getto un mozzicone a terra… »
« Cosa? » si fa improvvisamente buio in volto.
Deglutisco e arrossisco, certa di aver sbagliato in pieno con quella battuta.
« Io, ehm, era solo una battuta » tento di pararmi il fondoschiena.
Il rossore mi tradisce e immediatamente Sebastiano si fa gelido: « Ma lo sai che i mozziconi di sigaretta stanno più di due anni a degradarsi? »
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo a quella ramanzina, cambiando l’opinione che stavo formando su quel ragazzo così interessante.
« Dai, moretta, stavo scherzando! Cioè, in realtà è vero, ma c’è talmente tanta gente che se ne frega che sicuramente una in più non fa differenza » ride.
« Okay… » dico, ancora in imbarazzo.
« Ma fumi? »
Mi agito sulla sedia, come sempre quando mi fanno troppe domande personali.
Non che questa lo sia, ma parlare di me decisamente non è tra le mie cose preferite da fare.
« Sì. »
« E perché? »
« Oh ma Seba, fatti i cazzi tuoi, no? » interviene Lorenzo, un paio di posti più in là, che deve aver sentito le domande che mi ha fatto il ragazzo.
« Lore, vai a cagare » gli risponde quello con un sorriso e inevitabilmente penso al ragionamento che stavo facendo in macchina di Leonardo, sul fatto che i rapporti fra ragazzi siano o no in qualche modo simili a quelli fra le ragazze.
« Eddai, lasciali stare, Cristo » si intromette Bea, dando uno schiaffo sul braccio al suo ragazzo.
Una cameriera bassa e sottile, con i capelli raccolti in una coda spaventosamente alta, si avvicina al nostro tavolo, salutando i due fidanzati, che stasera avevano turno libero.
« Cosa vi porto? » chiede, tenendo in mano un blocchetto di carta.
« Veramente noi staremmo aspettando… » risponde Ali prima di venire interrotta dalla sua migliore amica.
« No, i gemelli e Alberto mi hanno detto che hanno avuto dei problemi, non vengono stasera. »
Io e Ali ci scambiamo uno sguardo interrogativo ma poi mi affretto a scorrere il menù per evitare la solita figura ed finire ad essere l’indecisa del gruppo.
« Insalata greca? » mi sorprende la voce di Sebastiano, e ci vuole qualche secondo per capire che mi sta facendo una domanda.
« Mh, no… » rifiuto, passando avanti.
« Per voi, ragazzi? »
La cameriera, dietro di me, mi fa sussultare.
Scorro velocemente le pagine ma quando sento la voce di Sebastiano non posso evitare di fissare il suo pomo d’Adamo coperto dalla barba.
Deglutisco, stranamente a disagio.
« Prendiamo una pizza Americana e una Tempura di verdure con patate al forno a parte. »
« Okay » è la secca risposta della ragazza, che torna in cucina con le ordinazioni.
« Hai appena ordinato per me o sbaglio? » sputo con tono acido.
« Moretta, se aspettavamo che ti decidessi, arrivava notte quindi… sì, ho appena ordinato per te. »
« Non mi chiamare moretta! » ribatto, senza riuscire ad evitare che un sorriso, mio malgrado, mi spunti sulle labbra.
Sebastiano mi lancia uno sguardo intenso.
« Non dirmi che non ti piace la Tempura! Tutti amano la roba fritta! »
« Infatti: FRITTA! » sbotto, alzando gli occhi al cielo. « Odio la “roba fritta” » lo scimmiotto imitando il suo accento.
« Ma se ti sei fermata almeno dieci volte su quella pagina » mi liquida chiudendo il menù e sorseggiando un goccio della sua birra fredda.
Come fa a berla con due gradi sotto lo zero?!
« Cosa sei, uno stalker? » lo prendo in giro, versandomi l’acqua.
« No, un osservatore. Mi piace guardare la gente, soprattutto quella interessante. »
Poso la bottiglia sul tavolo imporporandomi. E così, mi trova interessante? Non mi azzardo a domandarglielo per non distruggere la mia convinzione.
« Non ti ho ancora fatto la domanda più importante… » cambio argomento, sperando che non noti quella tintarella sulle guance che non è proprio tipica del mio personaggio.
« Cosa ci faccio qui? » mi precede, lasciandomi un attimo a bocca aperta.
Questo non può averlo notato dal mio comportamento.
Non mi lascia il tempo di rispondere che ha già attaccato il suo discorso.
« Oggi pomeriggio ho avuto l’esito di un esame, in cui ho preso novantacinque. Lore, che è mio amico da quando siamo nati, ovviamente doveva stare con Bea, ma voleva anche festeggiare il risultato. Così, mi ha invitato a stare con voi. Diceva che saremmo venuti a cena qua, e che avrei dovuto pagare da bere a tutti quanti. »
« Lorenzo » ridacchio, osservando il ragazzo in questione, che sta ridendo di una battuta fatta da Alice.
« Ehi! » chiama Sebastiano, distogliendo la mia attenzione dalle mani intrecciate di Bea e Lore.
Io mi volto, pronta a ribattere che ci sento e non serve che urli, ma scopro che non stava chiamando me.
« Mi puoi portare una bottiglia di… avete Dom Pérignon? » chiede alla cameriera.
Sgrano gli occhi e boccheggio un attimo. Quello champagne costerà non meno di cento euro!
« Mi dispiace, abbiamo solo un altro tipo di champagne. »
« Va bene lo stesso, grazie. »
Non appena la ragazza si allontana, Matteo guarda Sebastiano più o meno con la stessa espressione che devo avere io in faccia.
« Ma sei fuori? Vuoi bruciarti lo stipendio per caso? »
« Stai buono che non sono affari tuoi » lo zittisce Sebastiano, intimandogli di tornare a parlare con Serena, che nel frattempo sembra agitata e controlla continuamente il telefono.
Non mi ha degnata nemmeno di uno sguardo ed è molto strano visto che quando mi vede parlare con un ragazzo per più di dieci minuti, sta già facendo congetture sul nostro matrimonio.
« Torniamo a noi » si rivolge a me Sebastiano, e per la prima volta da tanto, tantissimo tempo, non mi dà nemmeno un po’ fastidio ricevere delle attenzioni.
 
« Quindi questa “rimpatriata” serviva anche a festeggiare il tuo compleanno » ripete Sebastiano, una volta soli, fuori dal Giglio Bianco.
Dopo aver mangiato la Tempura (purtroppo devo ammetterlo, era deliziosa), abbiamo fatto un brindisi sia al novantacinque di Sebastiano sia ai miei diciotto anni, cosa che non eravamo riusciti a fare prima.
Saluto Alice, Lorenzo, Beatrice e Rosy, la proprietaria del Giglio, e mi allontano a piedi, affiancata da Sebastiano, ad appena qualche passo da Matteo e Serena, che ha parcheggiato la macchina dietro al mio palazzo.
« Già. Alice ha detto che diventare maggiorenne è importante e bla bla bla. Io mi sento esattamente uguale a com’ero prima, però. »
« Solo che ora puoi andare a votare » aggiunge il mio accompagnatore, con un’espressione così seria da farmi scoppiare a ridere.
Forse è stato lo champagne, o forse è la differenza di temperatura che c’è tra dentro il locale e l’esterno, ma mi sento le guance calde e febbricitanti.
« Non serve che vieni fino a casa mia » mormoro, improvvisamente fredda, verso quel ragazzo.
Durante tutta la cena si è dimostrato veramente cortese, divertente e carismatico, sempre con la battuta pronta e con un pensiero interessante nella manica, ma se volesse già qualcos’altro? Se non appena arriviamo a casa mi chiedesse il numero e volesse uscire con me? Non sono mai stata una tipa che si lega così alle persone… A parte Alberto, con cui sono stata per un anno circa, non ho mai avuto relazioni che fossero durate più di qualche mese.
C’era stato Mattia, con cui sono uscita un’estate, ma che non ha avuto neppure il coraggio di darmi un bacio. E poi Fabio, la mia prima vera cotta…
Anche Raffaele, che è stato dolce, un ragazzo gentile e premuroso, finché non ho scoperto che si scopava altre due ragazze, mentre stava con me.
Ho sbagliato tanto, me ne rendo conto, sono stata con dei ragazzi che non amavo, forse per convincermi che avevo il controllo almeno sul mio corpo, forse per sentirmi più ribelle… L’ultimo a quanto pare è stato Leonardo, che più che un errore è stato una mancanza totale di controllo.
A parte Alberto, comunque, non c’è stato nessuno a cui abbia detto “ti amo”. E la prospettiva di uno come Sebastiano nella mia vita mi spaventa parecchio.
Stai correndo più di un treno, non si è nemmeno avvicinato a te, non ha fatto una di quelle battutine che possono farti capire che ci sta provando, e non ti ha mai ammiccato. Smettila.
Cazzo… e se prova a baciarmi?!
Okay adesso basta, succederà quel che succederà. Se ti chiederà il numero, se ti bacerà, se ti chiederà di uscire, sicuramente non lo puoi sapere ora. Aspetta e non saltare a conclusioni affrettate. Magari non gli interessa nulla di più di un’amicizia.
« Non potrei mai lasciarti da sola con quelle due sanguisughe » sorride Sebastiano, indicando col mento i due ragazzi davanti a noi stretti l’uno accanto all’altra.
Chissà se Serena è realmente interessata a quel Matteo. Chissà come mai si è avvicinata a lui, quel giorno a scuola… Vuole solo un altro giocattolino da usare e buttare via quando le fa comodo? Oppure sta veramente bene quando sono insieme?
Persa nei miei pensieri non mi accorgo che Sebastiano mi sta fissando, un sorrisetto nascosto sotto la barba.
« Che c’è? » sbotto, stringendomi nella sciarpa. Estraggo dalla tasca le sigarette e ne accendo una, sotto lo sguardo di quel ragazzo che mi ha colpita così tanto.
« Eddai, moretta, ti annoio tanto? » mormora, sempre il tono arrogante, mentre si sfrega le mani.
« Vuoi i miei guanti? » offro, sfilandomeli. « A me non servono. »
« Hai le mani troppo piccole » osserva.
Effettivamente, le sue, di mani, sono spropositatamente grandi.
« Sei tu che hai due bidoni al posto delle mani » obietto stizzita.
« Due bidoni? » Sebastiano si mette a ridere come se avessi fatto la battuta del secolo.
Mi trovo a ridere anche io della mia stessa spontaneità, e mi accorgo di quanto bene mi abbia fatta sentire, in appena un paio di ore, quell’universitario…
« Oh cavolo! »
Come avessi avuto un’illuminazione divina, mi accorgo di averlo veramente già visto e mi ricordo esattamente dove: « Tu eri sull’autobus, quella mattina! Sei salito assieme a quell’altra ragazza milanese… »
« Alessia! » conclude lui per me. « Mi pareva di conoscerti. Sei quella che ci ha ceduto il posto. Dobbiamo averti fatto compassione, eh? Avevamo appena fatto la notte. »
« L’avevo intuito » ridacchio, ricordando il profumo di abiti puliti che si portava dietro quel ragazzo. « Siamo arrivati » annuncio poco dopo, sentendo svanire il mio entusiasmo.
Mi fermo sotto l’albero di fronte all’ingresso e guardo il mio accompagnatore negli occhi, per quello che la scarsa luce mi permette.
Serena mi lancia un bacio e fa il giro del palazzo con Matteo, che alza il pollice in direzione di Sebastiano.
« Come lo conosci? » gli chiedo, sperando di trattenerlo il più a lungo possibile. Penso ancora che sia parecchio strano che mi apra così tanto con uno sconosciuto, e soprattutto che di mia spontanea volontà me ne interessi… Ma Sebastiano è stato un caso particolare fin dall’inizio e non mi preoccupo più di tanto di cosa sia insolito per me e cosa no.
« Giochiamo a calcio insieme » risponde, alzando le spalle. « Che poi, si è trovato veramente un gran pezzo di… »
« Clarissa? »
Una voce che proviene da qualche finestra sopra alle nostre teste mi sorprende.
Infilo la sigaretta tra le lunghe dita di Sebastiano ed esco dalla penombra.
« Sì, sono io, salgo tra un secondo. »
È stata mia madre a parlare, deve aver sentito delle voci e come al solito si sarà insospettita.
« Scusami. »
Tento di riprendere la sigaretta ma Sebastiano se la spegne sotto la scarpa e me la restituisce così, spenta e storta.
« Ma che cazzo…? »
« Mi ha fatto piacere conoscerti » mi saluta semplicemente, portandosi due dita alla fronte. « E butta quel mozzicone nel cestino. »
Si allontana piano, camminando all’indietro, e guardandomi negli occhi.
Scuoto la testa ma gli concedo un sorriso, dopodiché lui si volta, e comincia a correre, sparendo in fondo alla via dopo un paio di secondi.
Getto la sigaretta nel cestino, con uno stupido sorriso sulle labbra.
Niente bacio della buonanotte, niente scambio di numeri di telefono, niente di niente. Sorrido a me stessa, che come al solito ho corso troppo con la fantasia, senza riuscire a ingoiare, però, un pizzico di delusione.
 
 
 
Note sul capitolo:
okay, questa volta mi sono lasciata prendere la mano. Come avrete notato, è un capitolo leggermente più lungo degli altri. Il fatto è che non riuscivo a smettere di scrivere. Forse per la prima volta nella mia vita, sono soddisfatta di com’è venuto fuori, di come ho inserito Sebastiano, che sarà molto importante d’ora in poi, e di com’è la sua personalità.
Un ringraziamento enorme va a Soul_Shine che ha iniziato a seguire e commentare la mia storia, dandomi la spinta ad andare avanti.
Al prossimo capitolo,
Ellie

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto. ***


Solo, il povero negretto
in un bosco se ne andò:
ad un pino s’impiccò,
e nessuno ne restò.
-Agatha Christie, Dieci piccoli indiani.

 
Capitolo Otto.


L’ho già detto e lo ripeto: non è facile, per me, aprirmi con le persone. Legarmici, invece, è maledettamente più semplice. Ed è una cosa che odio, tenere troppo alle persone, intendo. Sempre ammesso che prima, ovviamente, mi sia decisa a conoscerle.
Purtroppo per me, Sebastiano si era prepotentemente inserito nei miei pensieri, e non era esattamente una cosa piacevole. I primi giorni dopo l’uscita al Giglio, avevo quasi maniacalmente controllato il mio profilo di Facebook, nella speranza di trovare una notifica da parte sua. E avevo quasi altrettanto insistentemente estenuato Bea, chiedendole esplicitamente che non dicesse un’acca a Lorenzo dei discorsi che avevamo avuto sull’universitario.
Speranze vane, dal momento che il sopraccitato mi guardava con un sorrisetto allusivo e ammiccava nella mia direzione ogni volta che poteva.
Comunque, il fatto che Sebastiano non mi avesse chiesto l’amicizia, dopo più di due settimane che ci eravamo “conosciuti”, poteva andare. E poteva anche andare che non avesse chiesto nulla di me a Lorenzo o a Beatrice. Potevo sopportare il fatto che non mi avesse chiesto il numero, quella sera.
Ma sicuramente non potevo assolutamente tollerare il fatto che, dopo essersi dimostrato così socievole e interessato a me, avermi indirizzato i suoi sorrisetti del cavolo, avermi accompagnata a casa e avermi conosciuta molto più di quanto mi faccia conoscere solitamente, mi evitasse. Ed è un dato di fatto. Almeno cinque volte, non che le abbia contate, chiaro, in quelle settimane, l’avevo scorto attraverso il finestrino dell’autobus alla fermata dell’università. E ogni volta, nonostante Alessia e le sue amiche fossero salite, lui era rimasto a terra.
Andiamo, non prendetemi per ossessiva, ma lui sapeva benissimo che sull’autobus c’ero anche io!
La cosa che più brucia sul mio orgoglio è questo sentirmi spoglia. Perché le persone, in genere, non mi colpiscono mai. Non c’è mai stata una volta, nemmeno quando ho conosciuto Jessica, in cui io abbia fatto il primo passo per conoscere una persona perché mi ispirava simpatia.
Eppure Sebastiano, con il suo fare schietto e l’accento milanese, la barba scura e il sorriso sempre sulle labbra, ha fatto crollare la freddezza che di solito mi caratterizza. E senza questa corazza, mi sento spiacevolmente nuda.
La colpa, però, è solo mia. Mi sono illusa con delle battutine e l’interesse che ho pensato potesse nutrire nei miei confronti.
 
Corro fino a perdere il fiato, fino a sentire caldo nonostante sia metà febbraio. E l’autobus mi passa davanti come a volermi prendere in giro.
Mi appoggio ad un albero, respirando pesantemente per riprendere fiato.
Devo smettere di fumare.
Stremata e realizzando che nessuno può portarmi a scuola, pesco il telefono dalla borsa che mi sta scivolando lungo il braccio.
« Pronto? » risponde Serena all’altro capo del telefono.
« Sere, riesci a portarmi a scuola? Ho perso il bus » le spiego in fretta, ancora con il fiatone.
« Veramente oggi ci vado in macchina con Matteo… » dice, con la voce più bassa.
« Ah, okay. Fa niente, non verrò… » decido al momento.
« E salti il compito di biologia? Sai che quella si incazza… »
« Mi tocca, non c’è nessuno a casa mia. Le dirò che sono stata male. »
« Bene, ci vediamo domani Clar. »
Chiudendo la chiamata, penso che effettivamente mi fa comodo rimanere a casa e studiare meglio.
Riprendo a camminare verso il mio appartamento, pregustandomi qualche altra ora di sonno e una mattinata di studio, quando una Punto bianca del ’97 mi passa davanti proprio mentre sto per attraversare le strisce pedonali.
« Cazzo! » esclamo senza pensarci.
Mi porto una mano al petto e rimango qualche secondo ferma immobile, poi lancio uno sguardo assassino alla macchina di quell’incosciente di Arcuri e proseguo a testa alta, velocemente.
Sento la macchina andare in retromarcia e prima che abbia raggiunto la via di casa mia, Leonardo ha abbassato il finestrino e mi sta urlando, fermo così, in mezzo alla strada.
« Non dirmelo: hai perso il bus. »
È dalla scenata nell’atrio del nostro appartamento che non ci parliamo. Spesso ci siamo incrociati nei corridoi della scuola, oppure nelle cantine del nostro palazzo, mentre lui prendeva l’uscita sul retro per uscire all’insaputa dei suoi e io portavo i vestiti lavati in asciugatrice, ma non ci siamo mai rivolti più di un ciao di circostanza. Come sempre, d’altronde.
« Sì. »
« Ti do uno strappo, dai. Tanto a scuola purtroppo ci devo andare anche io. »
« No, grazie… Resto a casa, ho pure compito di biologia… » declino l’offerta.
« Chi hai? » mi sorprende, non sembrando intenzionato a liberare la strada dal suo piccolo catorcio.
« La Fedeli » rispondo, a disagio.
Afferro la borsa pesante prima che mi scivoli dalla spalla su cui è poggiata e mi stringo un po’ di più nel cappotto. L’adrenalina della corsa è passata, e ora è ritornato il vento freddo ad insinuarsi tra i miei vestiti.
« Uuh… La vedo dura per te. Quella non perdona un’assenza neanche se le facessi vedere un piede rotto. Dai, sali cazzo, mica sono un maniaco. »
Ci penso un attimo ma la prospettiva di prendere un brutto voto ma recuperabile, paragonata a quella di ricevere le maledizioni della Fedeli per i prossimi due anni, mi fa prendere una decisione.
Chiudo la portiera della macchina e appoggio la borsa sulle gambe.
Leonardo e la sua auto profumano parecchio, l’uno di shampoo, menta e pelle, l’altra sempre di quella fragranza strana a cui non sono riuscita a dare un nome.
« Potevi metterla dietro, ti darà fastidio lì. »
Mi volto e osservo il suo profilo, il naso lungo e le ciglia scure.
« Cosa? »
« La borsa. »
« Ah, no. Va bene così. »
La tentazione di chiedergli di quella notte è grande. È passato ormai un mese, e nessuno dei due ha mai accennato a volerne parlare. La mia curiosità, sicuramente, non verrà meno finché tutti i miei dubbi non saranno risolti. La mia timidezza, d’altra parte, non mi permetterà mai di porgli apertamente alcuna domanda.
Dopo qualche minuto di imbarazzante silenzio in cui guardo la strada fuori, Leonardo allunga il braccio ed accende lo stereo, dal quale escono immediatamente la violenza delle bacchette sulla batteria e lo stridore di una chitarra elettrica.
Riconosco immediatamente la canzone in questione e grugnisco.
« Metallica… »
« Ehi, sei appassionata di heavy metal? » tenta con tono incerto.
« Macché, è Christian… Cioè, è mio fratello che non fa altro che ascoltarli. »
Wow. Una frase che non si riduce ad un sì o ad un no. Sono fiera di me.
« So chi è Christian… » mi fa notare, mentre la voce rauca del cantante del famigerato gruppo bercia chiassosamente.
La conversazione cade lì e per parecchi minuti non resta che la musica a riempire il silenzio.
Ci fermiamo davanti ad una fila di appartamenti dall’aria squallida, in una zona che non conosco. Sto per chiedere cosa cavolo ci facciamo qui quando improvvisamente Leonardo suona il clacson, facendomi sobbalzare.
Due secondi dopo, Tom, ex di Serena e migliore amico di Arcuri, apre la portiera.
« Ehm… »
Non appena si accorge di me, aggrotta la fronte e chiede spiegazioni al suo amico, abbassandosi per guardarlo negli occhi.
Percependo il suo disappunto, slaccio la cintura e mi offro di passare sui sedili posteriori, ma Leonardo mi ferma con una mano sulla spalla.
« No, stai ferma, che il signorino si accomoda pure dietro » lo scimmiotta, facendogli segno di spostarsi.
« Vai a cagare » lo prende in giro Tom, facendo però come gli ha detto l’amico.
« Come mai abbiamo l’onore di avere qui con noi… » attacca bottone poco dopo, osservandomi attraverso lo specchietto laterale.
« Clarissa » conclude per lui Leonardo.
« Ho perso il bus » confesso, sempre più a disagio. Mi stringo la borsa al petto e torno a guardare fuori, il cielo grigio cupo che preannuncia temporale e le cime degli alberi scosse dal vento.
« Ma non hai tipo vent’anni? Potevi fare chiodo! » irrompe ancora una volta il ragazzo, i lunghi capelli ribelli a coprirgli parte del viso.
« Ho compito con la Fedeli » spiego, una punta di acidità nella voce.
« Ah, con la Cristi » sogghigna poi, alludendo al nome della donna.
Nessuno di noi apre più bocca fino all’arrivo a scuola.
 
« Grazie, veramente » ringrazio Leonardo, questa volta con sincerità.
Lui ammicca poi chiude l’auto e si allontana con Tom, colpendolo con una spallata e cominciando a ridere.
Controllo l’orologio al mio polso e constatando che sono già le otto e cinque, comincio a correre, per la seconda volta nel giro di mezz’ora, per poi sentirle ugualmente dalla Fedeli che mi lancia un’occhiataccia non appena entro in classe.
Almeno sono venuta, vecchia megera.
 
Passate le sei ore di lezione, mi avvio assieme a Jess alla fermata degli autobus. Oggi, fortunatamente, non torno a casa, ma pranzerò assieme alla mia amica e passerò da lei il pomeriggio per completare un progetto di inglese.
« Devo timbrare! » mi ricordo, alzandomi in piedi poco prima che l’autobus parta dalla fermata dell’ospedale.
Quando ho convalidato il mio biglietto, mi volto per tornare a sedermi accanto a Jess ma l’autista in quel momento schiaccia l’acceleratore e mi sbalza in avanti, facendomi quasi andare a sbattere contro un’anziana signora a cui chiedo scusa.
Lancio uno sguardo truce al conducente che sembra non notare nulla, poi rivolgo lo sguardo a Jessica. Gli occhi però, si fissano su un’altra persona, distante qualche posto da me.
Rimango a bocca aperta e mi affretto a raggiungere la mia amica, sedendomi e più o meno involontariamente fissando la nuca di Sebastiano.
È lui, non ci sono dubbi. Barba, sopracciglia folte, labbra grosse. Nonostante abbia una cuffia premuta sulla fronte, sono sicura che sia lui.
Jessica mi sta parlando, ma io sono ancora scossa per la visione appena avuta, così mi ci vuole qualche secondo prima di tornare sulla terra.
« Cazzo, odio quando fai così! » sbuffa Jess, guardando fuori dal finestrino come farebbe una bambina offesa.
« Ma così come? Siamo vicine di banco, mi riempi la testa ogni ora di lezione, non è che se mi distraggo per un paio di minuti, muori! » sbotto, a voce bassa.
Lei sbuffa di nuovo e non ci parliamo per il resto del tragitto.
Mancano un paio di fermate per l’arrivo a casa di Jess quando Sebastiano si alza in piedi pronto a scendere. Cerco di far finta di nulla e mi maledico per aver dimenticato le cuffiette a casa quella mattina.
Per la seconda volta in quel giorno, però, sembra che la fortuna (che il passaggio di Leonardo sia stato una fortuna, vista la pessima verifica che ho fatto?) abbia deciso di voltarsi e guardarmi in faccia, perché Sebastiano mi riconosce immediatamente.
« Ehi, moretta! Chi si rivede! »
Già, chi? Tu che non ti sei fatto sentire per due settimane.
Okay, Clarissa, mantieni la calma.
« Ehi, ciao » rispondo con calcolata cortesia, ma anche con un certo distacco.
« Abiti in queste zone? »
« No, vado a casa della mia amica » dico, accennando a Jess, di cui sento gli occhi puntati addosso.
« Ah, okay. Ehi, senti, ti hanno detto della festa per il compleanno di Lore? Ci sei vero? Non abbiamo ancora finito di parlare, io e te. »
Rimango spiazzata per qualche secondo.
Che cosa?! E tutta questa galanteria e interesse, da dove cavolo vengono fuori?
Non faccio in tempo a rispondere che siamo arrivati alla fermata di Sebastiano.
« Be’, ci vediamo, moretta! » mi saluta, dopodiché scende agilmente dal mezzo.
Cinque minuti dopo, io e la mia amica stiamo camminando a testa bassa, il cappuccio calcato sulla fronte, tentando di bagnarci il meno possibile. Missione che risulta parecchio difficile, dal momento che è in atto un temporale di quelli che si vedono una volta all’anno.
« E vaffanculo anche alla pioggia! » esplodo quando non ce la faccio più.
Abbasso il cappuccio e mi fermo in mezzo al marciapiede, le braccia larghe e la testa sollevata, con l’acqua che mi scorre lungo le guance, dentro la maglia e sui capelli.
« MA SI PUÒ SAPERE CHE COSA DIAVOLO STAI FACENDO? » strilla Jess, con il solito tono acuto che assume quando è irritata, con me in special modo.
« Stai calma, e prova anche tu. »
Afferro il suo braccio minuto e le tolgo il cappuccio, non senza qualche resistenza e insulto da parte sua.
« E ora restiamo in silenzio. »
Mi svuoto completamente, lasciando che l’acqua piovana porti via tutti i miei pensieri. Rimaniamo in piedi l’una accanto all’altra per qualche minuto, finché un tuono non ci scuote e ci costringe a correre fino a casa di Jessica.
Una volta nel tepore della sua casa profumata, dopo esserci cucinate un ottimo pranzo ed esserci più o meno asciugate, Jess mi pone la domanda che, ci scommetterei una mano, voleva farmi da quando ha visto che Sebastiano mi ha rivolto la parola.
« Chi era quello? »
« Quello chi? » faccio la vaga, scottandomi la lingua con una forchettata di risotto.
« Dai, Claire. »
« Quello del bus dici? Oh, un amico d’infanzia di Lorenzo. »
Jess ovviamente conosce tutti i miei amici, ma nonostante li trovi simpatici, non ha mai tentato di inserirsi nel gruppo. Forse perché non vuole sentirsi un’infiltrata. O forse perché la compagnia di Samuele le è sempre valsa anche come amicizia.
« E come l’hai conosciuto? » indaga ancora, questa volta fissandomi negli occhi.
« Una sera, al Giglio… » rispondo laconica, ripulendo del tutto il mio piatto.
Un rumore secco e improvviso mi fa sobbalzare. Guardo Jessica, che ha ancora il pugno chiuso sul tavolo.
« Ma si può sapere perché ti comporti in questo modo? Perché non mi racconti più nulla? Conosci un ragazzo così carino, e non lo dici a me che dovrei essere la tua migliore amica? »
Non trovo le parole per rispondere a quell’accusa così resto zitta, la faccia da ebete e la bocca semi aperta.
« Non mi guardare così! » si scalda Jessica, al che mi risveglio.
« Ma cosa stai dicendo? Mi è solo sfuggito di mente… »
« Sfuggi… Oh, per piacere, dillo a qualcun altro. »
« Come fai ad arrabbiarti per una cretinata del genere? »
In realtà, non è assolutamente vero che mi era sfuggito. Ci avevo pensato anche troppo, in quelle settimane. Solo che il pensiero di dar voce alle mie preoccupazioni, e soprattutto di rendere partecipe Jessica di quel mio effimero momento felice, avrebbero fatto sì che fosse tutto più reale. E io non sono fatta così, non sono una che sta male se un ragazzo non si fa sentire… Io sono fredda e apatica, e questo lo sanno tutti.
« Cretinata? Non mi racconti più niente ormai. Serena ha saputo di Leonardo prima di me, non mi avevi avvisata che tuo fratello fosse tornato a casa e nemmeno che ci fosse questo nuovo… ragazzo nella tua vita! » esclama, inviperita.
« Stai dando i numeri! Non lo faccio apposta, Jess, lo sai che sono una a cui non piace dire i fatti suoi in giro. »
« Ma io sono la tua migliore amica. »
« Sì, lo sei… Però io sono fatta così, e mi dispiace, ma non posso cambiare. »
« Se lo volessi, potresti. »
« Sì, questo è vero, ma… »
« Ma a te va bene così. »
« Senti, lo so che ti dà fastidio essere all’oscuro di tutto, ma ti assicuro che non è mia intenzione escluderti dalla mia vita. È che da troppo tempo ho imparato a tenermi le cose per me, ormai ci ho fatto l’abitudine » le spiego, la testa bassa a guardare il piatto vuoto.
« Non ti chiedo di dirmi tutto quello che fai. Solo, vorrei che ti aprissi di più, almeno con me… » chiede, un sorrisetto che le spunta sulle labbra.
« Ci proverò » le assicuro, poco convinta. Stavolta, è tutta la verità quella che le ho detto. Da tanto tempo ho capito che far vedere i lati più profondi di te alle persone è sempre una fregatura, e nonostante si tratti di Jessica, una delle persone più buone, umili e tranquille che abbia mai conosciuto, non riesco a non essere leggermente diffidente.
« Allora… chi era quel tizio? » riprende il discorso, con un sorrisetto allusivo sul volto.
Io sospiro e sorrido, decisa, almeno questa volta, a raccontarle tutto l’accaduto.
Più o meno.
 
 
 
Note sul capitolo:
Pensare che ho scritto questo capitolo e il precedente in appena tre giorni e che per pubblicarli ci ho messo più di un mese non mi fa onore. Proprio no. Ma ero in vacanza, quindi spero che chi mi segue, in particolar modo Soul_Shine e Kim_Sunshine, non se la siano presa. Vi chiedo scusa!
Comunque, in questo capitolo vediamo la ricomparsa sia di Leonardo, che ancora, almeno dal mio punto di vista, non è un personaggio molto chiaro, sia di Sebastiano, che apparentemente si dimostra gentile e cordiale con Clarissa allo stesso modo della cena al Giglio.
Nel prossimo capitolo ci saranno la festa di compleanno di Lorenzo e la conoscenza tra due personaggi…
A presto!

   

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Capitolo 9
*** Capitolo Nove. ***


Amami o odiami, entrambi sono a mio favore.
Se mi ami, sarò sempre nel tuo cuore,
se mi odi, sarò sempre nella tua mente.
- William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate


Capitolo Nove.


« Ciao » mi saluta Leonardo, scendendo gli scalini della rampa che collega i nostri piani. Mi supera in velocità, io con il ciao ancora sulle labbra, ed esce dal condominio.
Con una faccia piuttosto confusa, chiudo la porta di casa e controllo l’orologio: oggi, stranamente, sono puntuale, e posso evitare la corsa mattutina.
Una volta arrivata alla fermata degli autobus, noto però di non essere in compagnia dei soliti ragazzini delle medie, delle donne indiane con i figli in braccio e di qualche compagno di scuola: anche Leonardo, appoggiato ad un lampione con gli occhi chiusi, sta aspettando l’autobus con me.
Una volta saliti tutti sul mezzo, mi accomodo su un paio di sedili vuoti verso la fine del bus, dalla parte opposta rispetto al mio vicino di casa.
Gli lancio uno sguardo di sottecchi e quando anche lui alza gli occhi su di me, gli rivolgo un cenno di saluto, intenzionata ad infilarmi le cuffiette nelle orecchie e a rimanere in silenzio fino all’arrivo a scuola.
È solo martedì e non ne posso già più.
« Com’è andata la verifica? » mi sorprende Leonardo, prima che riesca a infilare le cuffiette.
« Ehm, non granché, spero nel sei… » rispondo in modo piuttosto stupido, a disagio.
« Io se prendo sei con la Fedeli mi ritengo un miracolato! » esclama, come se gli avessi appena detto qualcosa di sconvolgente.
La suoneria del suo cellulare gli impedisce di pormi un’altra domanda.
Lo ripesca dalla tasca della giacca e risponde, a voce un po’ troppo alta.
« Ma che cazzo vuoi? »
Buongiorno, insomma.
« Non lo so a che ora arriva, Tom, non prendo ‘sto coso da tre anni! »
Silenzio per un po’, poi si volta verso di me.
« Scusa, sai a che ora arriveremo in via Petrarca? Quella che porta a Bellosguardo » mi domanda.
Faccio un veloce calcolo mentale, riporto alla mente la zona e gli rispondo « Una ventina di minuti. »
Fa okay con la mano e poi torna a parlare col suo amico.
« Ah, dici? » riprende sarcasticamente. « Be’, non so, il meccanico ha detto una settimana, o poco più. »
E così, ha rotto la macchina, deduco. Proprio il giorno dopo la verifica che a quel punto avrei benissimo potuto evitare. Grazie, Fortuna. E io che pensavo che finalmente ti fossi accorta di me.
Apro il quaderno di storia dell’arte e ripasso per l’interrogazione di oggi, mentre Leonardo continua il suo discorso con Tom, anche se a voce più bassa.
Alla fermata dell’università, con mia grande sorpresa e fastidio, Alessia si siede accanto a me.
« Ciao liceale » mi saluta.
Non alzo il capo per controllare se c’è anche Sebastiano, ma quando la ragazza comincia a parlare e viene fuori il suo nome, non posso più fingere di non stare ascoltando.
« Seba mi ha detto che sei un’amica del suo amico Lorenzo. »
« Già. »
Alessia non sembra notare il mio tono scocciato, ma abbandona immediatamente l’argomento Sebastiano e passa a sbirciare i miei appunti.
« Posso aiutarti in qualche modo? »
Mi volto verso di lei con la fronte aggrottata.
« No, ti ringrazio, sto solo ripassando » sottolineo, tornando a posare lo sguardo sul mio quaderno.
« Figurati. Se hai bisogno del mio aiuto non esitare a chiederlo. »
Le mostro un sorrisetto tirato, concentrandomi sui miei schemi.
Non noto, almeno in un primo momento, i sorrisetti che lancia nella direzione di Leonardo.
Quando arriva il momento di scendere, distoglie controvoglia lo sguardo dal ragazzo e poi ci saluta entrambi, con voce squillante.
Leonardo le lancia uno sguardo confuso, che mi fa alzare gli occhi al cielo.
 
Dopo l’interrogazione più che riuscita di storia dell’arte, finalmente la campanella suona.
Quel pomeriggio devo incontrarmi con Alice, che a quanto pare, testuali parole, ho veramente bisogno di vederti e uscire con te, Clary, non ce la faccio più a studiare.
Così, mentre aspetto che esca dall’università per prendere un aperitivo insieme, ne approfitto per studiare.
« Tu studi sempre? » sbuffa Alice, arrivata al bar di gran carriera, le guance arrossate per il freddo e la sciarpa che sfiora quasi il suolo.
« Ciao Ali » le sorrido, spostando una sedia per farla accomodare. « Vado a ordinare e poi sei libera di raccontarmi tutto. »
« Tu sì che mi capisci. »
 
« Cos’è questa storia del compleanno di Lore? Non fa gli anni questo sabato? » mi viene in mente.
L’auto di Alice profuma di gelsomino, proprio come lei. La mia amica stringe le mani sul volante e poi si dà una pacca sulla testa.
« Cavolo! Il regalo! Bice mi aveva detto di avvertire te, i gemelli, Albi, Sere, Giò e Sam e io ovviamente mi sono dimenticata! »
« Ali, calmati, è solo martedì, ce la facciamo ad avvisare gli altri. »
Afferro il mio cellulare e scrivo un messaggio a tutti, annunciando l’idea e informandoli della festa a casa di Lorenzo, quel sabato sera.
Mi rispondono tutti positivamente tranne Alberto, così chiamo Beatrice.
« Ciao Bea. »
« Clary! » esulta, come se non mi sentisse da un secolo. « Dimmi tutto. »
« Ali mi ha detto del compleanno di Loren… »
« Sì sì » mi interrompe, cominciando a parlare a macchinetta e riempiendomi la testa di idee per il regalo, di indirizzi dove poterlo comprare e di orari a cui arrivare da Lorenzo sabato.
« Bea, ti prego, mi sto perdendo » sospiro esasperata ad un certo punto. « Ho capito. Ora io e Ali andremo a cercare il regalo. Sarò da Lore alle sei di sabato pomeriggio. Poi però torno a casa a cambiarmi. Giusto? »
« Sì, perfetto. In settimana passo a scuola e ti do le chiavi di casa sua, entrambi lavoriamo fino al pomeriggio quel giorno, quindi penso che prima delle sette non saremo a casa. »
« Mi faccio dare una mano da Serena o Alice, allora » decido, guardando la ragazza chiamata in causa. Lei fa un cenno di assenso.
« Benissimo, ci vediamo sabato allora! » squittisce ancora una volta Beatrice, all’altro capo del telefono.
« La tua mica è poco emozionata eh? » sospiro, mettendo giù.
« Mi ha spaccato i timpani a sentirla da qua. »
Raggiungiamo casa mia dove passiamo il resto del pomeriggio sul divano a mangiare pop corn e guardare film e mi sento bene in compagnia della mia amica, come non mi sentivo da parecchio tempo.
 
Sabato si avvicina con una lentezza spaventosa, ma purtroppo, quando finalmente mi sveglio quella mattina, non desidero altro che la giornata finisca il prima possibile.
Perché ci sono certe giornate, molto più di altre, in cui mi sveglio con “la luna storta”, citando mia sorella, e funesti avvenimenti durante la giornata, non fanno altro che accrescere il mio nervosismo.
Quella mattina, stiamo facendo colazione tutti insieme, tranne Federico, ovviamente il più sfaticato di tutti, che è ancora a letto.
« Posso accompagnarti a scuola? Non ho mai visto il tuo liceo » chiede mia sorella, con l’ingenuità di una bambina di dieci anni.
« No, vado a scuola in corriera » le rispondo, versandomi un bel po’ di latte nel caffè. Distratta dalle chiacchiere di Valentina, rovescio la tazza, mollando un grugnito esasperato e macchiandomi la maglia bianca.
« Stai zitta un attimo! » mi esce, involontariamente, contro mia sorella, che assume un’espressione spaventata.
« Clarissa, chiedi scusa a tua sorella! » mi ordina mio padre, non alzando gli occhi dal giornale.
« Dai, asciuga quella pozza » rincara mia madre, continuando a spalmare la marmellata sulla sua fetta biscottata.
Già con i nervi a fior di pelle di prima mattina, sposto la sedia con un calcio, facendomi un male cane all’alluce e raccolgo uno straccio, con cui asciugo alla bell’e meglio il pavimento macchiato.
Alzando la testa, prendo lo spigolo del tavolo sulla cima del cranio e questa volta non risparmio un vaffanculo, che viene subito accolto con un sospiro da parte di Christian.
« Ma allora! » s’indigna mia madre.
La fulmino con lo sguardo, poi do un bacio a Valentina e mi chiudo in camera mia, dando un pugno alla porta.
Quando scendo per andare a prendere il bus, mio padre decide di volersi interessare a me.
Hai un tempismo perfetto, non c’è che dire.
« Non mi hai detto se ti è piaciuto il tuo regalo di compleanno. »
Con la bocca aperta per la sorpresa, mi ricordo della scatola ancora incartata appoggiata da più di un mese sulla mia scrivania.
« Sì, sì. »
Faccio per uscire, ma lui riprende: « Era quella che volevi no? »
« Sì, più o meno. Ora devo andare. »
Senza salutare, mi fiondo giù dalle scale, seguita a qualche metro da Leonardo.
« Non fate altro che litigare, in quella casa? » comincia, ma il mio sguardo penso gli faccia capire che non ho alcuna intenzione di intrattenere una conversazione.
Alza le mani in segno di resa e non apre più la bocca fino all’arrivo alla fermata.
Quando Alessia, che per tutta quella settimana si è seduta accanto a me, raccontandomi i fatti suoi, quando io, evidentemente scocciata, quasi non le prestavo orecchio, sale alla fermata dell’università, mi accorgo di non riuscire a sopportare anche lei.
Fortunatamente, però, si accomoda vicino a Leonardo, che le sorride confuso.
« Buongiorno » si rivolge a me.
Le rivolgo il solito sorriso poco spontaneo, non prima di notare quello che mi sta dicendo col labiale.
“Quanto è figo!” esclama, sorridendo con gli occhi.
Alzo entrambe le sopracciglia, imbarazzata e poi mi infilo le cuffiette nelle orecchie, per non sentire le sue risatine.
 
« Quattro e mezzo. Bene. Grande. Grandioso. Giusto per aggiungere una bella notizia ad una giornata iniziata male. »
Jess mi appoggia una mano sul braccio, tentando di rincuorarmi mostrandomi il suo quattro.
La prof di biologia si sentiva particolarmente ispirata nel correggere i compiti di una “banda di ignoranti come noi”, difatti i voti spaziano dai più fantasiosi due meno meno, ai più classici sei meno. Nessuna sufficienza, a parte per le due gemelle, con due identici sette e mezzo che mostrano orgogliose a tutta la classe.
« Ma chi se ne frega! » urla qualcuno dal fondo dell’aula, scatenando le risate della classe, e le grida furiose di Sophia e Stephania.
Una volta fuori dalla classe, diretta finalmente a casa, il Leoni mi ferma.
« Argenti, niente corso di potenziamento oggi? »
Elaboro un attimo le sue parole per poi realizzare che oggi è il terzo sabato del mese, e purtroppo per me devo rimanere fino alle quattro a scuola per frequentare un corso extra di matematica.
« Ma porca… Sì, certo prof, esco a mangiare qualcosa e poi arrivo. Alle due, giusto? »
Mi maledico mentalmente per la mia scarsa memoria quando si tratta di questioni importanti, dopodiché esco dalla scuola, in compagnia di Serena, che ha acconsentito a stare con me.
« Mi spieghi perché io continuo a fare ‘ste cose, dopo quattro anni di liceo? » le chiedo, bevendo la cioccolata calda che mi concedo come pranzo.
« Mi spieghi perché io mi lascio sempre convincere da te? » risponde lei sbuffando e sorseggiando un tè verde.
Mando un messaggio ad Alice, avvertendola del nostro ritardo: avremmo dovuto pranzare insieme da me, preparare la casa di Lorenzo e ordinare le pizze per stasera, ma a quanto pare Ali dovrà cominciare il lavoro da sola.
Mi risponde in modo piuttosto stizzito qualche secondo dopo, facendomi rendere conto che ovviamente la giornata può andare ancora peggio.
 
Alice: Hai tu le chiavi di casa, genio. Passo a prenderle alle due e mezza, quando esco da lavoro.
Io: Sono a scuola fino alle quattro.
Alice: COSA? Facciamo così, chiedi di andare in bagno e aspettami in segreteria.
Io: Va bene… Scusa Ali, me n’ero completamente dimenticata.
Alice: Fa nulla. Per che ora pensate di arrivare a casa di Lore?
Io: A questo punto è meglio se ci prepariamo prima, e poi veniamo a darti una mano, così evitiamo di andare avanti e indietro.
Alice: Ricevuto. A dopo.
 
Spengo il telefono e sbuffo, già stanca di quella giornata passata solo per metà.
 
« Cosa vuol dire che non va in moto, Serena? » piagnucolo, quando lei conferma che purtroppo c’è qualcosa che non va nella sua auto.
Ma non è possibile! Ci mancava solo questa, no?! Non so cos’aspettarmi ancora dalla serata… A questo punto, penso, è meglio se rimango a casa.
« Chiamo mio fratello » stabilisco al momento, decisa a non farmi buttare giù da alcuni piccoli inconvenienti.
Fortunatamente, Chris non lavora, così acconsente a passarci a prendere… Non prima delle quattro e mezza, visti i venti minuti di tragitto da casa mia al Da Vinci.
« Bene, e così ritardiamo ancora. Alice ci ammazzerà » avverto Serena, sprofondando nel sedile.
Grazie al cielo, sono riuscita a lasciare le chiavi ad Alice, così sono sicura che almeno una persona stia preparando la casa di Lorenzo per stasera.
Serena afferra il cellulare e compone un numero ma solo dopo qualche minuto capisco che sta parlando con il meccanico, o comunque con qualcuno che di auto se ne intende.
« Non lo so, ti dico! Ora ti invio le coordinate, così passi a pre… »
Tace improvvisamente e assume un’espressione scandalizzata.
« Martedì?! Non prima?! Oh, ma che razza di… » si blocca appena in tempo. Conoscendola non si sarebbe risparmiata gli insulti. « Bene. A martedì, allora. Buona serata anche a te. »
Blocca il telefono e poi lo fissa: « Ma vai a fanculo. »
Io rido e vedo Christian, venuto a salvarci, sbucare dalla via alle nostre spalle.
 
Decido di avere veramente troppo poco tempo per scegliere cosa mettermi, farmi una doccia, sistemarmi i capelli e truccarmi, così afferro un maglione decente ma non eclatante, in cui sicuro starò benissimo viste le gelide temperature della casa di Lorenzo, un paio di leggings anonimi, poi mi fiondo sotto la doccia, friziono con forza la cute e una volta vestita, porto il phon fuori dal bagno, intimando Serena a lavarsi a sua volta.
Ovviamente i miei capelli, sottili e tanti come sono, sembrano un grumo di rovi, così mi pettino con energia, decidendo poi di farmi una piccola treccia. Passo infine al trucco nello stesso momento in cui Serena, perfetta nella sua gonna rossa, esce dal bagno in una nuvola di vapore.
I lunghi capelli sono mossi e il viso è perfettamente truccato.
Ma come fa ad essere sempre così bella?
« Sono pronta » si annuncia.
Sto per cominciare a spalmare un po’ di ombretto sulle palpebre, quando Christian mi intima di scendere.
« Ho fretta, Ris, stasera ho un impegno anche io! » urla dal piano di sotto.
Sbotto esasperata e salgo in macchina con Serena, abbandonando i trucchi sulla mia toeletta.
 
Arriviamo a casa di Lore alle sei e mezza, trovando, con mio grande sollievo, Beatrice a dare una mano ad Alice. Ormai è tutto pronto: i tavoli disposti lungo tutta la taverna, lo stereo, i divani e le decorazioni. C’è un buonissimo profumo di zucchero nell’aria e quando la madre del ragazzo scende in taverna, io e Serena ci intratteniamo per un po’ con lei a chiacchierare.
Il campanello suona insistentemente per un paio di volte, interrompendo i nostri discorsi, ed annunciando che i gemelli sono arrivati.
« Abbelle, se magna? » dice Riccardo, leccandosi le labbra. Riesco a riconoscere i due gemelli solo per un piccolo particolare: Jacopo porta i capelli lunghi fino alle spalle, ma non ha nemmeno l’ombra della barba; Riccardo invece è quasi rasato a zero, ma lascia la barba piuttosto incolta.
« E ‘spetta ‘n attimo! » lo rimbrotta suo fratello, dandogli una pacca sulla nuca.
« Dov’è Alberto? » domanda Alice, mentre la aiuto a stendere le tovaglie sui tavoli.
« Non poteva venire, ha avuto un impegno » spiega Jacopo.
« Vi saluta tutti. Anzi, tutte » aggiunge Riccardo, malizioso.
Serena intima loro di aiutarci e i due, stranamente, acconsentono ed eseguono.
È mentre sto stendendo la panna sulla torta appena sfornata dalla mamma di Lorenzo, che una presenza accanto a me decide di farsi viva, facendomi quasi cadere la spatola di mano dalla sorpresa.
« Ehi, moretta. »
Sebastiano mi passa semplicemente accanto e va a sedersi su una delle panchine attorno al tavolo, assieme a Matteo, a Serena che gli è già appiccicata, e a un paio di altri ragazzi, che conosco solo di vista.
Alice, di fronte a me, si sta togliendo il copri-spalle, esibendo un vestito graziosissimo e super adatto alla sua figura non proprio esile. Osservo anche Bea, splendida nel suo abito di lana, e Serena, ovviamente elegantissima.
Poi osservo il mio maglione azzurro sciupato e i miei noiosi leggings neri, sospirando. Neanche a farlo apposta, anche questa sera sono la ragazza che si nota di meno.
All’arrivo di Lorenzo, che era a conoscenza della festa che stavamo organizzando, ma che ugualmente rimane piacevolmente sorpreso, possiamo finalmente mangiare la pizza e i deliziosi spuntini preparati da sua mamma, tutti attorno al tavolo, oppure in piedi, stretti nella sua piccola ma accogliente taverna.
Passo una bella serata, parlo con i miei amici, ancheggio un po’ a ritmo della musica, guardo Lore scartare i regali, e mi dico che in fondo, nonostante tutta la mattina e buona parte del pomeriggio siano stati un susseguirsi di sfortune, ora sto bene, ed è questo che conta.
Purtroppo, noto con un filo di delusione, l’unica persona che vorrei si avvicinasse a me perché, a suo dire, “non abbiamo ancora finito di parlare”, sta intrattenendo un dialogo a quanto sembra molto interessante con la cameriera del Giglio, la stessa che ci ha serviti all’ultima cena lì.
Ingoio il boccone amaro con un goccio di prosecco, per rinfrescarmi la gola troppo secca.
I gemelli sono i primi ad andarsene, verso l’una, dicendo che il giorno dopo sarebbero dovuti tornare a Roma per andare a trovare la nonna.
Anche Serena e Matteo abbandonano la festa piuttosto presto, probabilmente andando prima ad appartarsi in macchina di lui.
Sul divano del soggiorno, un bicchiere di soda in mano, i piedi scalzi incrociati, in compagnia di Ali, che mi sta parlando di quale colore di tinta potrebbe farsi ai capelli, una risatina sommessa e il rumore di passi che salgono i gradini, annuncia che Sebastiano e la cameriera ci hanno raggiunte.
« Sapete dov’è Beatrice? » chiede per l’appunto la ragazza, seguita a qualche passo da lui.
« Non la vedo da un po’, effettivamente » risponde Alice, squadrandola.
La ragazza esce e Sebastiano mi fissa per un po’, raggiungendo poi la cucina.
Io indosso le scarpe, chiedendo scusa ad Alice, ed esco per fumare. Mi appoggio ad una colonna e scrivo a Christian se può passare a prendermi.
Lui mi risponde immediatamente che è ancora fuori e quindi passerà Federico, che si trova da queste parti.
In fondo, tra casa mia e quella di Lorenzo non c’è più di un chilometro, ma in mezzo si trova una strada statale che non mi piace fare a piedi, soprattutto non così tardi.
Sento il rombo della moto di mio fratello in lontananza, proprio quando Sebastiano esce.
« Va tutto bene? » mi chiede, lasciandomi spiazzata.
Chiude la porta di casa e si appoggia ad una colonna, incrociando le braccia.
« Sì, certo » rispondo circospetta, spegnendo la sigaretta e lanciando uno sguardo all’interno della casa, dove Alice ovviamente mi sta fissando.
Nonostante la poca illuminazione, riesco ad intravedere i suoi occhi che brillano di curiosità.
« Sembri… Scocciata. »
« Che? No, no, sono stanca » lo liquido semplicemente, rientrando in casa.
« Te ne vai? » mi chiede Ali.
« Sì, domani devo studiare » mento.
La realtà è che ora che se ne sono andati tutti mi sto annoiando, e mi dispiace lasciare Alice da sola, ma non ce la faccio più a tenere gli occhi aperti.
« Bene. Oh, senti, non starci male per il tipo, uno che si comporta così è un coglione. »
« Un… cosa? Aspetta, come fai a sapere… Soprattutto, chi cavolo… Beatrice » farfuglio, rassegnata al fatto che essendo la sua migliore amica, deve averle raccontato tutto.
Sento la moto di mio fratello che con una sgommata si ferma davanti alla villetta di Lorenzo.
« Buonanotte Ali » auguro alla mia amica, avviandomi verso l’esterno.
Mi chiudo la porta di casa alle spalle e lancio un’occhiata a Sebastiano, sentendomi osservata.
« Buonanotte » mi augura.
Gli rispondo allo stesso modo, ma prima di riuscire a trattenermi, mi esce in un sussurro che però lui coglie: « Pensavo mi avresti scritto. »
Lui non aggiunge altro, così esco dal cancelletto della villa di Lorenzo.
Fede mi porge il casco, e ci nascondo la testa dentro, evitando di pensare a Sebastiano, e rendendomi conto che purtroppo mi sento ancora troppo esposta, vulnerabile e ora anche incredibilmente stupida.
 
 
Note sul capitolo:
AVVISO! Ora che è cominciata la scuola, aggiornerò con meno costanza, probabilmente ogni 4 settimane/un mese. Mi dispiace per chi segue la mia storia, so che aspettare tanto è difficile, ma purtroppo non ho veramente mai tempo per scrivere, ultimamente.
 
Ringrazio di cuore Soul_Shine e Kim_Sunshine per le meravigliose recensioni che mi hanno lasciato e per il supporto infinito che mi danno. Non ci sono veramente parole per dirvi quanto vi sia grata!
Alla prossima, Ellie
 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo Dieci. ***


Non è quando si ride che si è più felici.
-Maeterlinck, L'Uccellino Azzurro

Capitolo Dieci.

 
Jessica non si presenta a scuola lunedì, e al suono della campanella non ha ancora risposto ai miei messaggi.
Non è da me preoccuparmi per qualcuno, non faccio mai congetture negative, ma da quattro anni, ogni volta in cui una delle due si assenta da scuola, avverte l’altra.
Non devo studiare questo pomeriggio, non ho compiti in classe pianificati, e nonostante faccia parecchio freddo e abbia cominciato a nevicare, decido di andare a casa di Jess, per assicurarmi che vada tutto bene.
Salgo sull’autobus che mi porterà a casa sua, timbro il biglietto e vado a sedermi, perdendomi tra i miei pensieri.
Mi accorgo di avere le cuffiette infilate nelle orecchie, ma non sto ascoltando musica, così le sfilo e le ripongo nella borsa accanto a me, quando l’occhio mi cade su una persona che sta salendo sul bus.
Sebastiano, che per la seconda volta trovo sullo stesso autobus di Jess.
La sua altezza e i suoi capelli scuri e ricci sono difficili da non notare, ma faccio il possibile per simulare nonchalance e tornare alle mie faccende come se nulla fosse.
In fondo, mi sono illusa con poco, e con altrettanto ho deciso che eviterò qualsiasi contatto con lui, d’ora in avanti.
Qualcuno lassù, evidentemente, si sta annoiando parecchio e deve aver deciso di godersi un penoso spettacolino, perché non appena Sebastiano si accomoda sul sedile appena dietro di me, inizia a parlarmi, come se fossimo amici di vecchia data.
« Ehi, moretta » attacca bottone, il solito tono allegro e cordiale.
« Ah, ciao. »
Cerco di esibirmi nel mio miglior sorriso, per evitare che si crei una situazione di ancora più grande imbarazzo. Mio, ovviamente.
« Senti, mi dispiace per l’altra sera. Guen non mi mollava un secondo. E poi, se avessi potuto… Oh, andiamo, posso sedermi lì? »
Guen? E chi è Guen, la tua fidanzatina?!
Indica con il mento il posto libero accanto a me e poi ci sguscia senza che gli abbia dato una risposta. Mi circonda una ventata di profumo di abiti puliti e di dopobarba.
Mentre mi parla, noto anche che il suo respiro profuma di caffè.
Maledizione, perché non può avere qualcosa che non va, così me lo tolgo dalla testa?
« Sei così strana. Io non riesco a capirti. Di solito mi basta qualche scambio di battute, un paio di sguardi e ho capito com’è fatta una persona. Ma tu non sei così. È difficile da spiegare. »
« Cos’è, stai cercando di studiare la mia psicologia? » sbotto, piuttosto sulla difensiva.
Odio quando la gente prende così tanta confidenza con me, quando cerca di capire come sono fatta.
« No, no, mi hai frainteso. Sto dicendo che mi sei sembrata interessante da subito, da quella sera al ristorante, e parlando con te, non hai fatto trapelare molto, è difficile inquadrarti. Ed è ancora più difficile capire cosa pensi di me. Per questo non ti ho mai cercata, per questo sabato sera ho evitato di starti troppo attorno: non capivo se l’interesse fosse reciproco. Poi, però, quando hai detto… quando mi hai chiesto perché non ti avessi scritto… »
Il suo tono di voce è allegro, ma allo stesso tempo percepisco la serietà nelle sue parole.
Ancora una volta, mi sono incantata a sentirlo parlare e quando si volta verso di me, devo avere una faccia piuttosto ebete.
« Oh, ehm… » mormoro, sentendomi arrossire.
« Esci con me? » mi sorprende, prima che riesca ad articolare una frase di senso compiuto.
Rimango totalmente spiazzata dalla repentinità di quella domanda, così, involontariamente, mi ritrovo a balbettare: « No. C-cioè, sì. No, ma come uscire? »
Mi sento veramente una cretina in questo momento, ma sono piuttosto sorpresa, non mi aspettavo una reazione del genere. Sono settimane che mi convinco a fare l’indifferente come sempre, a smettere di illudermi, a comportarmi come ho sempre fatto con i ragazzi, a non permettere che sia Sebastiano ad avere il coltello dalla parte del manico. E ora questo se ne esce con un… appuntamento? No, sto correndo troppo. E se lui pensasse solo a un’amicizia?
« Sì, insomma, uscire insieme. Ti va? »
No, decisamente non si tratta di amicizia! Oddio, mi sta chiedendo di uscire!
Rispondi, cretina, digli di sì!
« Okay. »
Che entusiasmo, mamma mia. Sei proprio un’apatica del cavolo.
« Diciamo venerdì, che non ho lezione? Volevo andare a fare un giro in macchina, a mangiare qualcosa magari. Non ci stiamo tanto, partiamo la mattina e per il primo pomeriggio ti riporto a casa… »
« Come? No, mi dispiace, non posso saltare scuola » lo interrompo, esplodendo di gioia dentro, ma mostrando solo la mia solita e ritrovata impassibilità, decisamente mista a stronzaggine.
« Ah, è vero, sei ancora una pischella. »
« Non mi chiamare così! » mi scaldo immediatamente.
Quelle parole fanno affiorare alla mia mente degli spiacevoli ricordi, che tento di sopprimere con tutta la forza di volontà di cui dispongo.
« Okay, scusami… » dice lui, aggrottando le sopracciglia. « Stai bene? »
Stringo il bordo del mio giaccone ed evito di guardarlo negli occhi.
Un ricordo a cui non pensavo da diversi anni, mi colpisce come un’onda, mozzandomi quasi il respiro.
 
« Non lo dico a tuo padre, lo sai che non lo farei mai. Non essere imbarazzata, non c’è nulla di male in questo » dice l’uomo, accarezzandomi la guancia.
« No, non lo dire a papà » lo supplico, asciugandomi il sudore della fronte con il dorso della mano.
« Stai tranquilla, pischella. Nessuno saprà nulla. »
 
« Sì, sto bene! » sbotto, allontanandomi di poco da lui, che con sguardo ferito e dubbioso alza le mani in segno di resa.
Rimaniamo entrambi in silenzio per qualche minuto, poi lui sembra accorgersi di avere poco tempo e riprende come se avessi appena risposto a qualche sua domanda.
« Passo a prenderti sotto casa tua alle otto e mezzo, va bene? »
« Ma non… non posso! » mormoro a bassa voce, sorprendendomi della mia stessa paura. Ci tengo veramente molto alla scuola, non ho mai saltato una lezione se non in casi necessari e se posso evitare di perdermi un giorno di scuola è meglio.
Non mi preoccupa la reazione che avrebbero i miei, in ogni caso non ho mai badato molto a quello che poteva o non poteva andare bene a loro.
« Li hai pur diciotto anni! » giustifica lui, come fosse la spiegazione più logica del mondo.
« Va bene » acconsento alla fine, quando lui si alza in piedi per uscire dal bus.
« Fantastico. A venerdì, allora, Clarissa. »
È la prima volta che mi chiama per nome, che suona molto bene detto da lui con accento milanese.
Arrossisco leggermente e lo guardo negli occhi. « A venerdì. »
 
« Jess, sono… non so nemmeno come dirlo, è qualcosa che non provo da troppo tempo! »
esulto, seduta sul letto della mia amica, tre secondi dopo aver appurato che ha solo una brutta influenza.
« Sei contenta, è semplicemente felicità. Spensierata felicità » mi fa notare lei con un sorriso bonario sul viso provato dalla febbre. « Non ti vedo sorridere così da mesi, Claire. Dovrà pur voler dire qualcosa. »
« Che cosa potrebbe voler dire? Con Fabio, con Alberto e Raffaele… con nessuno di loro ho provato così tanto interesse… »
« Ci sono persone che colpiscono molto più di altre. E direi che Sebastiano ti ha decisamente colpita… » allude con un sorrisetto malizioso. « Sei in astinenza da un po’? »
« Ma come ti permetti! Idiota » scherzo, tirandole un cuscino. « Comunque, non sono una ninfomane come te! »
Nonostante cerchi di sembrare spensierata, mi torna in mente Leonardo.
Lei scuote la testa e si fa improvvisamente seria. Mi tocca il braccio e capisco che sta per parlarmi di un argomento serio.
« Io e Sam ci siamo ridotti a fare l’amore sì e no una volta ogni due settimane. Prima, era sempre il momento adatto… Ora invece sembra voglia starmi lontano. Non capisco cos’abbia » mi confessa, mettendomi un po’ a disagio.
Parlare della vita sessuale che ha Jess con una persona che non mi sta particolarmente simpatica non è tra i miei passatempi preferiti. Però voglio bene a Jessica, e devo comportarmi da amica.
« Hai provato a parlarne con lui? »
« No. Sai che non sono brava in queste cose… e poi cosa posso dirgli? “Ehi, amore, come mai non facciamo più sesso come prima?” No. Farei veramente la figura della ninfomane. »
« State insieme da quanto? Un anno, due? Non so se per te sia così, ma quando stavo con Alberto, l’imbarazzo a un certo punto era sparito. »
« Sì, certo, noi ci diciamo tutto ma… non lo so. Questa volta è diverso. »
« Solo tu puoi decidere cosa fare, ma la soluzione migliore è parlarne faccia a faccia. »
Jessica annuisce, pensierosa, poi posa lo sguardo sugli appunti di letteratura che le ho portato e capisco che il discorso è finito lì.
 
Venerdì si avvicina troppo in fretta e fila tutto troppo liscio così, giovedì sera, quando ricevo una chiamata piuttosto preoccupante da parte della mia amica, non ne rimango granché sorpresa.
« Claire? Claire, puoi venire un momento a casa mia? Ti prego, ho bisogno di te… »
Faccio fatica a comprendere quelle parole, perché Jessica sta singhiozzando e balbettando disperatamente.
« Jess, ehi, stai bene? Cos’è successo? Calmati! » le dico, indossando immediatamente scarpe e giacca.
Scendo in soggiorno ancora col telefono incastrato tra spalla e guancia mentre lei tenta di spiegarmi cos’ha, mormorando in modo incomprensibile.
« Fede, ti prego, Jessica… Non so cos’abbia. Sta piangendo, portami da lei… » dico a mio fratello in modo piuttosto sconclusionato.
Federico dà uno sguardo all’orologio al suo polso e con sguardo contrariato mi fa notare che sono le dieci e mezza di sera, e fuori nevica.
« Lo so. Ti giuro che mi iscrivo a scuola guida il prima possibile, ma finché non ho la patente, non posso farci nulla. A piedi non posso andarci. »
Jessica, all’altro capo del telefono, sta balbettando frasi incoerenti.
« Jess, tra dieci minuti sono da te. »
« O-okay. »
« Prendo la giacca e le chiavi, aspettami in macchina » dice Federico alzandosi dal divano.
 
« Dai, Jess, smettila di piangere, non risolvi nulla così. »
Jessica sta ancora singhiozzando e non si è decisa a raccontarmi cosa le sia successo.
È ancora ammalata, e, me ne rendo conto ora, non le ho accennato nulla riguardo all’uscita con Sebastiano.
Non l’ho mai vista stare così male, e sono rare le volte in cui non ha avuto il sorriso sulle labbra.
Jess è una persona solare, allegra e vivace, di solito piange per i film romantici o se vede documentari alla TV in cui delle foche vengono mangiate dalle orche. Motivo per cui, temo, la questione in causa è solo una: Samuele.
Quando finalmente si decide a dirmi quello che è successo, stringe il bordo del piumone convulsamente.
« Ti ricordi di quella sera al Cuba, quando ho baciato Alex? » comincia.
« Come dimenticarlo… »
Mi scocca un’occhiata di fuoco con gli occhi arrossati dal pianto.
« Sam… Lui l’ha saputo, gliel’ha detto Tommaso. Mi ha rinfacciato tutto, mi ha chiesto se siamo stati a letto insieme. Mi ha dato della troia. Ma non mi ha lasciata, ed è questo il peggio. È stato con una ragazza, una di terza, una… una ragazzina. Se l’è scopata. E mi ha detto tutto questo come se nulla fosse. Ma io e Alex… Ci siamo solo baciati!
Gli ho chiesto scusa, gli ho detto di perdonarmi… E lui mi ha detto che si era portato a letto quella lì. »
Scoppia un’altra volta a piangere, facendomi digrignare i denti.
Non so cosa risponderle, perché oltre allo stupore per il comportamento di Samuele, c’è anche la rabbia. Una rabbia cieca, per quello stronzo vendicativo che si è comportato come un ragazzino offeso e impulsivo, tradendo la sua ragazza, che è estremamente fedele e lo ama veramente tanto.
« L’ultima volta che vi siete visti, cos’è successo? » le chiedo, ingoiando gli insulti che vorrei evitare di rivolgere a Sam.
« Mi ha scritto un messaggio dicendo che erano settimane che sapeva tutto, e che voleva vedermi, così oggi pomeriggio è venuto a casa mia, mi ha fatto un interrogatorio, e poi mi ha confessato tutto senza battere ciglio. Prima di andarsene mi ha dato un bacio ed è uscito, semplicemente, senza aggiungere altro. »
« Sta mentendo » assicuro, convinta, dopo i chiarimenti della mia amica, che si sia inventato tutto di sana pianta solo per farla soffrire.
« È stata la prima cosa che ho pensato anche io, ma poi mi sono detta che lui non mi ha mai mentito. Non riesco a dubitare di lui. »
« Senti, ti capisco, anche io spesso pensavo fosse impossibile che certa gente mentisse, ma mi sono ritrovata talmente tante volte a vedere la mia fiducia infranta che ormai non riesco a fidarmi di nessuno. Non fare anche tu così e parla a Samuele. Hai visto che evitare di parlare apertamente di certe questioni non fa altro che ingigantire i dubbi: ciò che è successo con Leonardo ne è un esempio… »
Jessica si asciuga le lacrime dal viso e respira forte, per calmarsi e schiarirsi le idee.
« Ora lo chiamo. »
La sua decisione improvvisa mi sorprende, ma non mi scompongo più di tanto: l’impulsività è sempre stata una caratteristica peculiare della mia amica.
« Va bene. Io comunque devo andare. Mio fratello si starà chiedendo cosa sta succedendo… »
Controllo l’orologio da polso e mi sorprendo che sia già l’una di notte.
Quanto sono stata in compagnia di Jessica? Per quanto tempo ha pianto?
Un po’ disorientata, avverto mio fratello di essere pronta per tornare a casa.
« Penso sia tardi per chiamare Samuele, magari prova domani… » la avverto.
Passano una decina di minuti ma Fede non risponde, così lo chiamo e lui, con voce assonnata, risponde che si era addormentato, perché sono rimasta da Jessica per più di due ore.
« Mi dispiace tanto, non volevo trattenerti così a lungo… »
« Stai tranquilla, Jess. Sai che se hai bisogno di me ci sono sempre. Oh, è arrivato Fede, io vado. »
Le appoggio una mano sul braccio e lo stringo forte, ma lei riesce ad avvolgermi in un abbraccio a tradimento.
« Ci vediamo domani, mi torni a trovare, no? Mamma non mi vuole far tornare a scuola. »
Si rigira nervosamente il telefono fra le mani.
« Oh, a proposito di questo… L’altro giorno sul bus ho visto Sebastiano, che mi ha chiesto di uscire. Domani vado a fare un giro con lui. »
« Cosa?! » sbotta la mia amica, saltando sul letto.
Ha gli occhi spalancati e un sorriso più grande di lei.
« Oddio, come sono contenta! »
Batte le mani, ma le intimo di fare subito silenzio: i suoi genitori erano già a letto quando sono arrivata io.
« Non vedo l’ora di sapere come va! » aggiunge, ancora esaltata.
Che dire di me, non vedo l’ora nemmeno io.
 
 
Note:
*partono cori angelici*
Ebbene sì. Eccomi qua.
*altri cori*
Ce l’ho fatta, con tremendo ritardo, chiedo venia, a pubblicare il decimo capitolo.
 
È un po’ più breve del solito ma serve da infarinatura all’uscita di Clar e Sebastiano. Allora, non so se avete inquadrato la nostra protagonista: è una persona “cupa e torbida” per citare Grey’s Anatomy, ha avuto molti problemi da piccola, è stata tradita da molte persone ed è diffidente, scettica, scorbutica e gelida, molto spesso. Sebastiano, però, le ha già lasciato un segno. Non perché sono opposti, tutt’altro… insomma, chi vivrà, vedrà, non voglio anticiparvi nulla!
 
Ringrazio di cuore Kim_Sunshine e Soul_Shine per aver recensito anche lo scorso (come tutti gli altri) capitolo, perché mi sostengono (sì care, è esattamente quello che fate) e riempirmi di complimenti nonché consigli: GRAZIE!
Grazie anche a tutti quelli che seguono silenziosamente la mia storia, a chi l’ha messa fra seguite/preferite/ricordate!
Ora vado, lo giuro!
A presto, speriamo ;)

 

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Capitolo 11
*** Capitolo Undici. ***


 
We know who we are but know not who we may be.
- Hamlet, W. Shakespeare
 
Capitolo Undici.

 
« Si prevedono nevicate in gran parte del nord e del centro Italia per le prossime dodici ore almeno. In Lazio e Toscana c’è lo stato di allerta, le strade sono pericolose a causa della lastra di ghiaccio che si è formata durante la notte… »
Il poco affascinante presentatore del telegiornale sta gufando la mia uscita con Sebastiano. E quando si tratta di iella, be’, non la puoi ignorare.
Qui da noi nevica molto raramente, e se succede la neve non si accumula per più di cinque centimetri. Quest’anno, però, qualcuno ha deciso di farci uno sgradito regalo.
Tutte le strade sono innevate, ghiacciate e scivolose, e farsi un viaggio in direzione chissaddove con questo tempo è decisamente fuori questione.
Metto piede fuori casa e vengo attraversata da un brivido di freddo. A piccoli passi mi avvio verso la fermata dell’autobus, sperando, essendo uscita con un po’ di anticipo, di non imbattermi in Sebastiano.
Dirò a Lorenzo di darmi il suo numero e mi scuserò più tardi: la priorità in questo momento è arrivare indenne a scuola.
Di Sebastiano non c’è l’ombra e così, una volta arrivata al mio Liceo, accendendo il telefono per contattare Lore, noto che l’universitario mi ha anticipata e mi ha già scritto un messaggio.
Leggendolo non può che spuntarmi un sorriso sulle labbra.
 
« Non vale quanto un bel giro in macchina, ma una cioccolata calda va bene lo stesso come prima uscita, no? »
Sebastiano mi sorride da sotto le lunghe ciglia, il naso infilato nella tazza di cioccolata fumante.
« Sì, certo » rispondo, tesa.
Da quando l’universitario si è presentato fuori dalla mia scuola ad ora, non ho spiccicato più di qualche parola.
Mi sento molto più in imbarazzo del solito, non sono a mio agio e non riesco a comportarmi normalmente, come le altre volte in cui io e Sebastiano siamo usciti.
« Ma che hai? Sei strana oggi… » nota infatti lui.
« Non sto molto bene, sono stanca e domani ho compito di inglese, vorrei tornare a casa » confesso, lasciando sul tavolo la cioccolata piena. « Mi dispiace molto. »
So di non stare facendo una bella figura, so che sto mandando tutto all’aria, con le paranoie che mi sono fatta sul suo interesse per me e tutto quanto, ma quando non sono in giornata, nulla riesce a tirarmi su, il mio modo di evadere dalla realtà è semplicemente chiudermi in me stessa.
Mi alzo in piedi e mi dirigo verso la cassa per pagare, ma mi trovo immediatamente affiancata da Sebastiano, che mi avverte di aver già sistemato tutto.
« Sei proprio come la neve » mi sorprende, appoggiandomi una mano sulla schiena e riconducendomi al tavolo.
« Come, scusa? » domando, bloccandomi in piedi davanti a lui.
« Ho detto che sei come la neve » sospira, guardando fuori dai grandi finestroni del bar proprio il ghiaccio bianco che scende al suolo. « È stata una delle prime cose che ho pensato di te. »
« Cosa significa che sono come la neve? » mi incuriosisco, massaggiandomi le tempie per scacciare il mal di testa.
« Significa che sei diversa da tutti gli altri, hai le tue particolarità, ma allo stesso tempo cerchi di fingerti parte della massa. Pensi che nessuno ti noti, perché non vuoi farti vedere, ti mescoli agli altri per sembrare uguale. Sei silenziosa, ma in modo positivo. Sei piena di sfaccettature, come i cristalli di un fiocco. Significa che sei come un fiocco di neve. »
 
« Leo mi ha detto che oggi non viene a scuola, posso sedermi? »
Sono un paio di settimane, ormai, che Alessia, l’universitaria, si siede accanto a Leonardo. La sua macchina è ancora dal meccanico, a quanto pare…
Tra i due c’è una chimica abbastanza forte, il carattere spumeggiante della ragazza è un po’ in contrasto con la calma e la riservatezza del mio vicino di casa, ma suppongo che questo sia ciò che gli piace dell’altro.
« Mi ha detto di essere il tuo vicino di casa! Non so come tu abbia fatto a resistere e a non saltargli addosso » ride di gusto, sistemando i fogli che ha sottobraccio nella cartellina.
Come un flashback, mi torna in mente una scena di ormai due mesi fa, la notte in cui ho dormito con lui…
 
« Ehi, che stai facendo? » chiede lui, le labbra appoggiate alla mia bocca mentre tento di aprire la porta di casa.
« Vieni su con me » dico io.
Mi sembra di sentire le parole uscire dalla bocca di qualcun altro.
Lui borbotta qualcosa che non riesco a capire e poi passo al ricordo successivo:
siamo sul mio letto, io in ginocchio, lui seduto.
« Dai, perché non ti lasci andare? È solo un po’ di sesso. »
Devo aver detto una cosa simile.
« Sei ubriaca, non ci penso proprio. »
Il sorrisetto che stava per formarsi sulle mie labbra si spegne e quasi con aggressività gli afferro le braccia e ricomincio a baciarlo con foga.
Dopodiché, non ricordo più nulla.
 
 « … finalmente si è sbloccato un po’, erano due settimane che parlavo solo io » sta dicendo Alessia, arricciandosi una ciocca di capelli sull’indice.
Mi osserva per un po’, noto con la coda dell’occhio, ma la mia mente è ancora concentrata sul tentativo di ricordare quella maledetta serata, capire cosa sia veramente successo.
Da quando ho parlato con Alice, non sono più sicura di nulla: sembrava piuttosto certa del fatto che Leonardo non avrebbe mai approfittato di me da ubriaca e non capace di volere, ma evidentemente sono stata io a insistere.
Quindi, che si sia ritrovato costretto… in quella situazione?
« Clarissa, mi stai ascoltando? » chiede sbuffando la mia compagna di viaggio.
« Scusami… Sì, sono contenta per te » rispondo meccanicamente, raccattando le mie cose e facendomi spazio per uscire.
Alessia si alza in piedi e mi lascia passare.
« Vengo a pranzo da Dante, dopodomani. Magari ci becchiamo fuori dalla tua scuola, che dici? »
Non vedo l’ora.
 
Quella domenica, mi trovo sugli spalti di un campo da calcio, le cosce e il culo congelati, a sfregarmi le mani per scaldarle.
Dopo la pessima prima uscita con Sebastiano, mi ha veramente rincuorato il fatto che mi abbia chiesto di uscire ancora una volta. E poi una seconda. E anche una terza.
Tra il parco della mia scuola, il bar della cioccolata calda e una pizzeria vicino a casa mia, ci siamo visti quasi ogni giorno da una settimana a questa parte.
Si è sempre offerto di riportarmi a casa, a piedi o in macchina, senza mai chiedermi di scomodarmi per raggiungere posti sì più vicini a casa sua, ma anche decisamente fuori portata per una che si è a malapena iscritta a scuola guida (almeno quel passo, finalmente, l’ho fatto!).
Così, l’ultima volta che ci siamo visti, mi ha proposto di assistere alla sua partita e quindi eccomi qua.
Per fortuna, a tenere vivo quel match così noioso, c’è Serena, seduta accanto a me per stare accanto al suo Matteo.
La mia compagna di classe pare veramente innamorata: non l’ho mai vista così presa per un ragazzo, nemmeno per i più seri che ha avuto, e non posso che essere contenta per lei.
« Che palle, però, odio quando l’albitro fischia » sbuffa appunto Serena, il viso coperto da una sciarpa di lana rosa.
« Si dice arbitro, Sere, con la erre » la correggo, senza riuscire a trattenere un sospiro.
A me piace molto il calcio, ma la mia amica, purtroppo, non ci capisce niente, e così non fa che tartassarmi di domande idiote e considerazioni stupide tipo “quella palla il portiere poteva anche prenderla, eh”, oppure “perché quel ragazzo corre solo su e giù?”.
A metà del secondo tempo, sul risultato di 1 a 1, viene effettuato un cambio tra un infortunato e un personaggio che conosco fin troppo bene.
Riesco a riconoscere i capelli cortissimi e l’andatura sciolta da qua e quando esclamo “ah!”, Serena non chiede nemmeno che cosa sia successo: anche lei ha capito che ha appena fatto il suo ingresso in campo Leonardo Arcuri.
Noto che Arcuri è mancino di piede ed è estremamente agile e scattante: ogni palla persa dagli avversari in difesa, ossia la squadra di Sebastiano e Matteo, è sicuramente un pallone recuperato da lui.
Sebastiano, dopo aver protestato contro l’arbitro per una punizione data all’altra squadra, accumula il secondo cartellino giallo, che quindi significa espulsione.
Il ragazzo esce dal campo imprecando e una volta assieme ai suoi compagni di squadra in panchina, lo vedo litigare con l’allenatore, che gli sta intimando, probabilmente, di stare zitto.
Intanto il silenzioso Leonardo, sta ingranando sempre di più, provando tre volte a fare goal, senza successo.
Mancano cinque minuti al termine della partita e Leonardo è decisamente il più veloce della squadra, il più rapido e il meno stanco.
Grazie ad un lancio lungo dal centrocampo, il mio vicino di casa fa uno scatto e si trova in un secondo nel cuore dell’area di rigore.
Dietro di lui, tre difensori che lo stanno raggiungendo. Davanti, il portiere avversario pronto ad agguantare la palla.
Leonardo non aspetta: guarda la porta, si ferma e tira un calcio alla palla.
Due secondi e la tribuna esplode: ha segnato il goal del vantaggio.
Mi mordo l’interno della guancia, non so se per trattenere l’impulso di ucciderlo o di esultare per il bel goal.
Sento un grido emesso da una voce che conosco bene, per le tante volte che mi ha riempito le orecchie: ad una decina di metri da me, stretta in un paio di pantaloni che mettono in mostra le sue gambe magre, c’è Alessia, in piedi, che sta esultando assieme alla sua amica dell’università, Ilaria o Silvia.
Passano pochi minuti e la partita termina con il triplice fischio.
La squadra di Leonardo corre ad abbracciarlo ed esulta, mentre quella di Sebastiano, capitanata da Matteo, si avvia silenziosamente verso gli spogliatoi, le spalle curve e la testa incassata.
Sto scendendo dagli spalti, quando la voce di Alessia mi trattiene e mi costringe a voltarmi.
« Ehilà! » mi saluta, una sigaretta accesa in mano. « Ciao Clarissa, anche tu qua? »
« Ciao » ricambio cordialmente, salutando anche la sua amica. Ma perché non riesco mai a ricordarmi i nomi? E dire che ho un’ottima memoria!
Evito di rispondere alla domanda: una strana sensazione mi parte dalla gola e scende allo stomaco. Alessia conosce bene Sebastiano, non ho intenzione di far sembrare già “intima” la situazione fra noi due, quindi preferisco evitare di parlarne con lei.
Voglio dire, durante la scorsa settimana, in cui ci siamo visti così spesso, non mi ha né sfiorata né tantomeno baciata, non è scappato nemmeno un abbraccio o un bacio sulla guancia…
Cosa posso sperare, dopo questo tempo? Come sempre, i dubbi continuano ad affollarmi la mente.
Sebastiano mi cerca regolarmente, mi chiede sempre di uscire, è gentile, disponibile e galante… È veramente un ragazzo meraviglioso, e mi sta piacendo sempre di più, solo che temo lui non provi lo stesso.
« Clar, c’è Sebastiano che ha chiesto di anda… »
Serena, che si era avvicinata al campo quando aveva visto Matteo, si blocca quando nota le due universitarie e mi raggiunge.
« Sebastiano? » chiede maliziosamente Alessia.
Ecco, questo tono di voce è esattamente ciò che volevo evitare.
D’altronde, non posso dare la colpa a Serena, lei non conosce Alessia e non sa del suo legame con Sebastiano.
L’amica di Alessia si intromette, con un tono decisamente poco amichevole: « Stai con Seba? »
Sbianco all’istante.
« Cosa? No. »
Non le devo altre spiegazioni e mi stringo nella mia giacca pesante, a disagio.
Alessia, come al solito, stempera la tensione e comincia a parlare a macchinetta di quanto le sia piaciuta la partita e di quanto Leo sia stato bravo.
Io le rispondo come al solito, abbastanza freddamente, e quando termina la sigaretta, mi dà due baci sulle guance, cosa che non aveva mai fatto prima, e si allontana con la sua amica.
Intravedo allora Sebastiano, appoggiato alla rete del campo, che sta parlando con Matteo.
Lancio un’occhiata a Serena, che mi prende a braccetto e si avvicina ai due.
« Buonasera signorina » mi saluta Sebastiano, un bel sorriso disegnato sulle labbra. Nonostante l’espulsione e la sconfitta sembra contento.
« Buonasera » ricambio.
Matteo si allontana verso gli spogliatoi per farsi la doccia e Serena, dopo un’occhiatina, mi lascia da sola e si dirige al chiosco.
« Mi dispiace che abbiate perso, ma hai giocato benissimo » gli dico, con sincerità.
Lui alza le spalle, ma vedo bene che ovviamente ci sta male: perdere non mette mai di buon umore.
« A parte essermi fatto buttare fuori? » commenta, spostandosi i capelli sudati dalla fronte.
« No, è stata la cosa migliore: la partita si è sbloccata quando te ne sei andato » ci scherzo.
Lui non sembra offendersi, anzi mi sorride e mi chiede, sorprendendomi: « Ti porto a mangiare fuori, che ne dici? »
Sarei tentata di accettare, ma come al solito qualcosa mi blocca.
Non so se sia perché mi sembra assurdo continuare a uscire ma non arrivare ad ammettere che cosa proviamo l’uno per l’altra oppure perché l’idea di rendere più ufficiale la relazione con lui mi metta panico, cosa che non mi è mai successa prima.
Fatto sta che rifiuto con garbo, tirando fuori delle scuse.
« Avrei preferito rimanere con te e staccare un po’, per oggi sono già rimasto abbastanza concentrato sul calcio » risponde, evidentemente deluso.
E quella risposta è la spinta a convincermi di ciò a cui ho pensato per giorni interi.
Perché sono stanca di avvolgermi nei dubbi che mi impediscono di vivere appieno i bei momenti che passo con Sebastiano, e sono stanca di aspettare sempre che le cose accadano, passivamente. Perché anche io, realizzo, quando sono con lui stacco dalla mia vita, e voglio godermi ogni istante.
« Sai cosa? Mi andrebbe molto di cenare con te » rispondo.
Lui mi fa l’occhiolino, evidentemente compiaciuto, e compie un gesto che mi spiazza totalmente: alza un braccio e fa uscire qualche dito dalla rete.
Io non reagisco per qualche attimo, ma poi sfioro le sue mani con le mie, e le guardo incantate.
Quando rialzo lo sguardo su di lui, mi sta fissando con un sorriso.
« Ci metto poco, aspettami al chiosco » mormora.
Spezza il contatto fra le nostre dita e si allontana correndo, lasciandomi con uno stupido sorriso di felicità sulle labbra.
Appena raggiungo Serena, che mi offre un tè, mi avverte che lei rimarrà a dormire da Matteo, ma che devo coprirla perché i suoi pensano che sia da me.
Non che le serva inventare scuse con i suoi genitori, a quasi vent’anni, però preferisce non tenerli al corrente delle sue fughe con i ragazzi.
A qualche metro di distanza da noi, vedo Alessia correre in contro a Leonardo, il cappellino che aveva lasciato a casa mia storto sulla testa, e abbracciarlo.
Lui rimane spiazzato da quel gesto e aggrotta le sopracciglia: evidentemente, non hanno la stessa idea sul loro rapporto.
Quando lui si avvicina al bancone, a pochi centimetri da me, e ordina una birra, posa lo sguardo sulla sottoscritta che a momenti si strozza con il tè.
« Ciao » mi saluta, cordialmente.
Ricambio.
« Che ci fai qua? »
Secondo te? Avevo voglia di farmi un giro la domenica sera, allora sono capitata qua per caso.
« Ehm, ho visto la partita » rispondo a disagio, tossendo ancora per colpa della bevanda.
« Ah, ti piace il calcio? »
« Abbastanza. Bella partita, comunque. Anche mettendo da parte il goal, sei stato bravo » mi complimento, sentendomi comunque studiata dai suoi occhi scuri.
« Grazie. Era una giornata importante oggi, c’era un osservatore venuto apposta per trovare qualche buon giocatore » mi spiega, stappando e bevendo un sorso della sua birra.
« Ah » commento, al solito delle mie capacità. « Allora ti auguro buona fortuna. »
Una figura alta quasi un metro e novanta si materializza accanto a me, i capelli bagnati sgocciolanti sulle spalle e il borsone in spalla.
Il profumo di bagnoschiuma e shampoo che emana mi dà alla testa.
« Eccomi, andiamo? Ho una fame » mi dice, posando a terra la borsa.
Solo quando si rialza nota la persona con cui stavo parlando e gli rivolge l’attenzione.
Io, realizzando in che situazione mi sto trovando, mi irrigidisco.
« Ferrari! »
Sebastiano gli batte il cinque e gli rivolge un sorriso.
« Arcuri, ehi, com’è? Era qualche mese che non ci incontravamo, cominciavo a chiedermi se avessi mollato. »
Sebastiano, come al solito, è espansivo e gioviale con tutti. Caratteristiche che stonano parecchio, accanto ad una come me.
Parlano per qualche minuto, senza degnarmi di uno sguardo, il che va benissimo vista la situazione imbarazzante, poi Leonardo mi fa un cenno col capo, sorprendendomi, e Sebastiano saluta i pochi compagni di squadra già usciti dagli spogliatoi, con me al suo fianco, che gli chiedono di rimanere e mi lanciano occhiate sconvenienti.
Raggiungiamo poi la sua macchina e, come ormai ho fatto tante volte, scivolo in quell’auto che, mi ha raccontato, ha lavorato tanto per avere.
« Ho cambiato idea » mi dice.
Mette in moto e partiamo in direzione periferia.
« Riguardo a cosa? »
« Ti porto a cena da me. »
« Che cosa?! » scatto, non rendendomi conto di ciò che ho detto.
Lui ride di gusto, probabilmente sapendo che avrei reagito così.
« Sì, voglio portarti a casa mia. Così conosci mio fratello » dice divertito, continuando a fissare la strada.
« No, Sebastiano, non credo sia il caso, non posso arrivare a casa tua adesso… e poi, chi mi riporta a casa… »
Ora le mie buone intenzioni si stanno sciogliendo come neve al sole. Non sono ancora pronta per conoscere la sua famiglia.
« Stai tranquilla, sai che ti riporterò a casa all’ora che mi dirai. E comunque, se fossi un’incomoda, non ti avrei certo invitata. Ho già chiamato Edo e sta preparando qualche roba vegetariana. »
Lo sto fissando con la bocca spalancata, presa in contropiede.
Lui mi lancia un’occhiata e ride, poi, per la seconda volta questa sera, mi prende la mano e incrocia le nostre dita.
« Nel caso te lo stessi chiedendo, non vivo con i miei. Non è ancora arrivato il momento di conoscerli. »
Scoppiamo a ridere e beata in quell’atmosfera così nostra, non dico più nulla fino all’arrivo a casa sua.
 
« Piacere, Clarissa! » mi saluta Edoardo, il fratello di due anni più grande di Sebastiano.
Ha la stessa età di Christian, penso.
È più basso del fratello, ma ha gli stessi occhi grigio-azzurri e i capelli ricci, molto più chiari di quelli di Sebastiano. La bocca e il naso hanno forme completamente diverse.
« Ciao » rispondo, tendendogli la mano.
Lui però mi tira dentro casa e mi stringe in un abbraccio.
Quel calore mi scioglie immediatamente e mi aiuta a sbloccarmi un po’.
Casa, comunque, è un parolone per definire il piccolo bilocale in cui mi trovo.
Due camere, un bagno e un soggiorno più cucina sproporzionato in confronto alle piccole stanze da letto.
È un appartamento bellissimo, e mi sento come a casa, qua. Ma non come a casa mia, la spiacevole sensazione che provo ogni volta che devo rimetterci piede.
Mi sento come quando entro a casa della nonna, che mi riempie di cibo da portare a casa, o come quando vado a pranzo da Jess e c’è sua madre, che mi tratta come fossi figlia sua.
È questa, la sensazione.
Il profumo di abiti puliti di Sebastiano si trova in tutto il bilocale, e ne sorrido, perché ricordo che è stata la prima cosa che ho sentito in lui.
Dal bagno, mentre Edoardo, chiacchierando con suo fratello, sta spadellando un indefinibile ammasso di cibo verde, esce un ragazzo con il fisico scolpito, un paio di pantaloncini a coprirgli appena le mutande e i lunghi capelli appiccicati al collo e alle spalle.
Rimango senza fiato alla visione di quel bellissimo ragazzo e temo che Sebastiano lo noti perché, con tono estremamente compiaciuto, mi presenta « Francesco, il ragazzo di mio fratello. »
La mia delusione dev’essere visibile ad un miglio di distanza, ma mi riprendo subito.
Non sono a casa di Sebastiano per guardare degli adoni fisicati: sono qua per Sebastiano.
Alla fine, l’ammasso di cibo verde si rivela essere un hamburger vegetariano parecchio buono, che apprezzo moltissimo.
La cena procede bene per tutta la sua durata, le conversazioni sono leggere, nessuno si sofferma sull’analizzare gli aspetti del mio rapporto con Sebastiano e Edoardo si rivela essere esattamente uguale al mio ideale del fratello di Sebastiano: esuberante, sarcastico e divertente.
« Devi tenerla stretta » lo prende in giro Edoardo, mentre stiamo sparecchiando. « Una ragazza che non scappa appena vede la tua barba non la trovi tutti i giorni. »
Io fisso Sebastiano, ridendo, che sta brandendo pericolosamente un coltello.
« Mi piace la tua barba » gli dico timida, voltandomi subito per non vedere la sua reazione.
Sebastiano ribatte poco dopo: « E io invidio Francesco, invece. Non sono molte le persone che vedono i tuoi piedi e non vomitano. Sai, Clarissa, mio fratello ha i piedi più brutti del mondo. Ti auguro di non vederli mai. »
 
Saluto Francesco ed Edoardo, rimanendo stretta nel suo abbraccio, ed esco di casa, seguendo Sebastiano verso la macchina.
Durante il tragitto, che occupa una mezz’ora buona, rimane stranamente silenzioso, ma penso sia solamente stanco, così faccio lo stesso, e guardo fuori dal finestrino il panorama che sfreccia veloce.
Quando Sebastiano si ferma davanti a casa mia, spegne il motore e mi fissa come se fosse estremamente indeciso sul da farsi.
Sgrano gli occhi e tento di cominciare, ma lui mi ferma.
« Grazie. È stata una bellissima serata. Ero davvero giù per la partita, era molto importante per me, ci era stato detto che c’era un osservatore… »
« Sì, Leonardo, cioè, ehm, Arcuri me l’ha detto. Continua, scusa. »
Tossisco imbarazzata.
« Ed è andata male. Ma mi sono reso conto che l’unica cosa che avrei voluto in quel momento era stare con te, stare bene con te, stare come stiamo noi quando siamo insieme… »
Non lo lascio terminare, certa di avere la conferma che aspettavo da settimane.
Faccio leva col gomito sul bracciolo, mi sporgo verso di lui e spingo le mie labbra sulle sue, per una volta senza paura, senza esitazioni, senza timidezza, senza alcun dubbio che attanaglia la mia mente.
E la sensazione che provo mi fa quasi venire da piangere.
Lui non rimane nemmeno per un momento spiazzato, accetta quel bacio come se l’avesse programmato, come se già sapesse che le nostre labbra dovessero incontrarsi.
Ci baciamo con una dolcezza e una calma tali da farmi stare bene, farmi dimenticare tutto. La mia lingua e la sua si incontrano e si accarezzano con lentezza tale da farmi venire i brividi.
Cerco la sua mano e la stringo forte, ricordandomi improvvisamente dove sono, che ore sono, e soprattutto che giorno è domani.
« Grazie per avermi fatto passare una serata così » gli sorrido, mentre mi accarezza il dorso della mano col pollice.
« Grazie a te. Buonanotte, moretta. »
Mi posa un bacio sulla guancia e uno sulla bocca.
« Buonanotte. »
 
 

Note sul capitolo:
Agli sgoccioli del 2016, ma ce l’ho fatta a pubblicare questo benedetto capitolo!
Ringrazio di cuore chi mette la mia storia tra le preferite/seguite/ricordate, ai lettori silenziosi ma soprattutto a Soul_Shine e Kim_Sunshine per aver recensito anche lo scorso capitolo <3
Buon 2017 a tutti!

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodici. ***


I have no name
I am but two days old.—
What shall I call thee?
I happy am
Joy is my name [...]
- William Blake, Infant Joy

 

Capitolo Dodici.


« Com’è che sei arrivata a casa così presto? » mi domanda mia madre non appena metto piede in casa.
« Ciao anche a te » sbuffo, posando per terra la borsa e asciugandomi le scarpe bagnate di pioggia sullo zerbino.
« Ciao, Clari. Com’è che sei arrivata a casa così presto? »
C’era da aspettarselo. Mai una volta che si faccia gli affari suoi.
« Mi ha accompagnata a casa Arcuri. »
« Leonardo?! » esclama mia madre.
« Sì, è la stessa cosa… »
Nelle ultime due settimane, Arcuri si è dimostrato estremamente gentile, offrendosi più volte di accompagnarmi a casa in macchina durante i diluvi di questi giorni.
Io mi sono sempre dimostrata abbastanza restia anche se alla fine ho sempre accettato. Insomma, una gentilezza simile da parte sua mi sembra non solo sconcertante ma direi sospetta. Perché si comporta così?
« Ciao, Clar. »
Valentina, che da qualche giorno ha febbre e influenza, è distesa sul divano a guardare i cartoni, tristissima perché non è potuta andare a scuola proprio il giorno del compleanno di una delle sue compagne di classe.
« Ciao, piccola. »
Evito di posarle un bacio sulla guancia a causa della mia salute cagionevole.
Lei emette un grugnito e poi dà qualche colpo di tosse, che interpreto come un ciao.
« Hai mangiato qualcosa stamattina? »
« La mamma mi ha detto che non posso bere il latte perché rischio che mi venga da vomitare. E io volevo solo il latte. »
« Ma quanto sei schizzinosa! » sbuffo, accarezzandole i capelli biondi. « Ti senti un po’ meglio? Vuoi una fetta di pane, un po’ di torta? »
Mia sorella solleva il capo dai cuscini e mi guarda con gli occhi sgranati.
« Sì! Un po’ della torta che hai fatto ieri, per piacere » chiede, con uno sguardo che mi fa sciogliere.
Vado in cucina a prepararle un piatto con il dolce, mentre mia madre riceve una telefonata che la agita parecchio, a quanto vedo.
« Chi era? » le chiedo quando riappende, sistemando sulla tavola i piatti per me, Federico, Valentina e la mamma.
« Cosa ci fai con quella fetta di torta? » risponde di rimando, guardandomi con aria profondamente contrariata.
« Vale ha fame. »
Mia madre alza gli occhi al cielo e sbuffa. « Ma è pronto il pranzo! Così si rovina l’appetito. »
Questa volta, decido di evitare a Valentina la solita litigata, e a mia madre di aggiungere ancora una preoccupazione alla sua non-tranquillissima vita, così le rispondo in modo calmo.
« Mamma, è una bambina, ed è pure ammalata. Preferisci che stia a digiuno o che si mangi questa stupida fetta di torta? »
Lei sospira e fa di sì con la testa, al che io servo a mia sorella il pranzo.
« Ecco qui, principessa. »
Vale si tira a sedere e comincia a divorare la mia torta alle gocce di cioccolato.
Fiera del mio lavoro, le accarezzo la testa e torno ad apparecchiare la tavola.
« Fede doveva essere qui dieci minuti fa… » dico, controllando l’orologio.
« Mi ha appena chiamata, ha detto che anche oggi si ferma a mangiare qualcosa in mensa… È la terza volta in una settimana » risponde mia madre, la bocca ridotta a una linea contratta.
« Mamma, è normale che voglia un po’ di indipendenza. Non so come fai a non essere sorpresa del fatto che a ventun anni venga ancora a pranzo ogni giorno a casa… »
« Sì, ma sento che c’è qualcosa che non va » dice vaga.
Il discorso cade lì ma anche io rifletto ancora un po’ su ciò che mio fratello sta combinando. Effettivamente, lui non vede l’ora di avere le lezioni alla mattina per poter tornare a casa, mangiare con calma e riposarsi.
Che abbia incontrato qualcuno che… No, non è da Federico invaghirsi di qualcuno al punto da sconvolgergli la routine. Dopotutto, le poche ragazze serie che ha avuto, da quello che so, l’hanno mollato proprio perché non le calcolava più di tanto e anteponeva qualsiasi altra cosa a loro.
No, non può essere.
Quando mia madre decide che è ora di pranzo, qualcuno bussa alla porta.
« È lui? » domando a mia madre, evitando di fare il nome di mio padre.
« No, oggi aveva una riunione… » risponde, aggrottando le sopracciglia.
Mi sciacquo le mani sporche della farina che sto impastando e mi dirigo verso la porta, rimanendo sconcertata non appena mi trovo il viso di Leonardo a qualche centimetro dal mio.
« Hai lasciato questi nella mia macchina » dice senza tanti preamboli, porgendomi un paio di libri che ho stupidamente dimenticato sul cruscotto della sua macchina.
« Oh, cavolo. Grazie. Sì » dico, improvvisamente preda dell’imbarazzo, come sempre quando mi trovo alla presenza di un ragazzo.
Mia madre, estremamente puntuale nell’arrivare nel momento sbagliato, fa capolino dalla cucina, esultando non appena riconosce Leonardo.
« Caro! Che piacere vederti di nuovo! »
« Salve signora, anche per me è sempre un piacere » ribatte lui, salutandola con un cenno della mano.
« Oh, forza, puoi anche darmi del tu » aggiunge mia mamma, avvicinandosi a noi.
Io alzo gli occhi al cielo provocando un sorrisetto impercettibile di Leonardo, che mia madre non nota.
« Bene, io andrei a prepararmi il pranzo » conclude lui, con un tono sapientemente socievole per mascherare l’imbarazzo.
« C’è tua madre, di sopra? Dovrei chiederle una cosa riguardo alla sua ricetta per la torta di radicchio. Io veramente ci ho provato, ma non sono riuscita a farla uguale a lei, e mi chiedevo… »
« Mamma! » la interrompo. « Non cominciare a blaterare. »
« Clarissa, vai a controllare come sta tua sorella. »
La sua reazione mi fa alzare le sopracciglia: davanti alle altre persone si comporta da madre severa? Sono colpita.
« Comunque no, i miei sono al lavoro » risponde Arcuri alla domanda di mia madre, cercando di stemperare la tensione con un sorriso.
« Ah, ma allora pranzi da solo? » lo trattiene ancora lei, cominciando a seccarmi al che, alzando gli occhi al cielo di nuovo, vado in camera mia a posare i libri.
Quando torno in salotto, la porta di casa è stata chiusa e mia madre è tornata in cucina. Sospiro di sollievo e rimango con Vale finché mamma non mi chiama a tavola.
« Mi fai un’altra torta così, oggi? »
« Lo sai che troppo zucchero ti fa male ai denti? » la ammonisco, carezzandole i capelli.
« Ma è così buona! »
Rido e prendo posto a tavola, rimanendo immobile non appena mi rendo conto che di fronte a me, mollemente appoggiato al tavolo, si trova niente meno che Arcuri.
Prendo un respiro e faccio per porgli una domanda, ma poi ci ripenso alzando le mani e scuotendo la testa.
« Metti il sugo nei piatti, Clari » mi ordina mia madre, mentre scola la pasta e Leonardo si alza in piedi avvicinandosi a noi due.
Nella nostra piccola cucina, chiede prima a mia mamma se può aiutarla, ma quando quella rifiuta e gli dice di accomodarsi, si avvicina a me, che mi volto di scatto per posare i piatti in tavola, e vado a sbattere con un cucchiaio zuppo di salsa di pomodoro sul suo maglione grigio, imbrattandolo ovviamente di sugo.
« Oddio, Arcuri, stai seduto! » scatto, sbattendo sul tavolo il piatto e guardandolo furibonda.
« Clarissa! » urla mia madre, gli occhi fuori dalle orbite.
« È stato lui a mettersi in mezzo, cazzo, non è stata colpa mia! »
« Modera i termini, e chiedi immediatamente scusa. Sei una maleducata, mi vergogno di te! » urla lei, una vena sul collo pericolosamente gonfia.
Sbuffo rumorosamente e guardo il mio vicino di casa arcignamente, cercando di racimolare le parole che mi servono per chiedergli scusa.
« Mi… Dio, non ci credo… mi dispiace. »
Leonardo è rimasto fermo a fissare la macchia rossa sul suo maglione che immagino sia costosissimo, ma quando gli parlo alza lo sguardo.
« Tranquilla, hai ragione, non è colpa tua, sono io che ti stavo addosso. »
Quelle parole mi lasciano a bocca aperta. Anzi, dire così è un eufemismo. Praticamente vedo la mia mascella sul pavimento.
Quelle parole sciolgono il nodo che mi si era formato in gola e sospiro, sentendomi improvvisamente in colpa per aver reagito così nei suoi confronti.
« Vieni con me, ti presto una maglia di mio fratello » sospiro allora, facendogli segno con la mano di seguirmi.
Lo porto fino in camera dei miei fratelli, poi rovisto nel cassetto di Federico, tirando fuori una vecchia felpa blu degli AC DC, che porgo al mio vicino di casa.
« Il bagno è in fondo al corr… »
Prima che sia riuscita a terminare la frase, Leonardo si è già sfilato il maglione macchiato, rimanendo a petto nudo, proprio come la mattina di qualche mese fa…
Non riesco ad evitare di intravedere il suo petto glabro e agli addominali leggermente segnati prima di aprire la porta e fiondarmi giù dalle scale con uno sguardo sconvolto negli occhi.
Quando anche lui raggiunge la cucina, un ghigno compiaciuto sulle labbra, abbasso il capo a fissare il mio piatto di pasta e rimango ad ascoltare la conversazione che mia madre intrattiene con lui.
« Quindi, Leonardo, cosa pensi di fare il prossimo anno? »
Alzo gli occhi al cielo: classica domanda da madre a cui nessun ragazzo sa mai cosa rispondere.
« In realtà non lo so ancora. »
Appunto.
« Immagino che tu voglia continuare a studiare. Tua madre mi ha detto che la ti piacerebbe studiare giurisprudenza. »
Vedo la mascella di Leonardo stringersi convulsamente e la forchetta giocherellare con un fusillo.
« Be’, non proprio. Ho altri piani. »
« Ah, strano, tua mamma mia ha detto che… »
« Sì » la interrompe lui, facendomi aggrottare ancora di più le sopracciglia. « Mia mamma ha un’idea tutta sua di cosa voglio fare. »
Nessuno tira più fuori l’argomento e passiamo a parlare d’altro.
« Sai, a Christian farebbe piacere rivederti. Si ricorda bene di te, e ora che è tornato… »
« È tornato? » si rivolge a me sorpreso.
« Sì, ehm, qualche settimana fa » rispondo monocorde.
« Ah… Ehm, comunque anche a me farebbe piacere parlare con lui, sono anni che non lo vedo. »
« Come Federico, anche lui ha sempre avuto un bel ricordo di te » dice orgogliosa mia madre.
Comincio a sparecchiare la tavola assieme a Leonardo che non accetta un no come risposta.
Quando controlla l’ora, dopo aver bevuto un caffè, chiede ripetutamente scusa prima di salutare e uscire in gran fretta da casa mia.
Più tardi mi ritrovo a pensare a cos’avesse di tanto importante da fare.
 
 
 
Note:
Wow, quasi tre mesi di ritardo... Decisamente sono imperdonabile.
Chiedo veramente scusa per non essermi fatta sentire per così tanto, ma sono stata assorta da tutt’altro e ho dovuto mettere in pausa la scrittura.
Ringrazio per le recensioni Soul e Kim, Kim e Soul, ora e per sempre, grazie ragazze <3
Spero vi sia piaciuto anche questo capitolo, alla prossima :D

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredici. ***


Nous sommes faits de rêves et les reves sont faits de nous.
-Pierrot le Fou, J-L. Godard

 

Capitolo Tredici.


« Mi dispiace dover essere andato via così da casa tua, l’altro giorno » si annuncia Leonardo, seduto sul cofano della sua auto parcheggiata davanti alla scuola, a mangiare un pacchetto di patatine. « Vuoi? »
« No, grazie. A me dispiace per il tuo maglione. »
« Ah, tranquilla, mia madre l’ha già portato in tintoria. A proposito, devo restituire a tuo fratello la felpa. »
« Già » commento, piatta.
« Comunque, se vuoi posso portarti a casa » si propone.
« Io… No, penso che prenderò l’autobus. Non serve che fai il gentile con me. »
« Non lo faccio per gentilezza. È solo che ho notato che hai più borse di quante ne riesci a portare e volevo solo darti una mano. »
Accartoccia il pacchetto vuoto e lo lancia in un cestino, mancandolo e facendo cadere a terra la plastica.
Non glielo faccio notare solo per non sembrare una rompicoglioni, e quindi mi accingo a raccoglierlo io ma non appena mi accoscio, la cartellina che porto sotto il braccio cade in mezzo alla terra del giardino rovesciando i fogli, la borsa a tracolla piomba a terra e in più anche il cellulare mi scivola fuori dalla tasca, meno rovinosamente del resto, grazie al cielo.
« ‘Fanculo » sibilo, a denti stretti.
« Te l’avevo detto » commenta lui, ridacchiando per la scena.
« Be’, allora mi aiuti o rimani lì a fissarmi, eh? » ringhio.
 
Quando Leonardo spegne il motore dell’auto, mi fiondo verso il nostro condominio, ringraziandolo educatamente ma nulla di più.
Non appena raggiungo il mio appartamento e suono il campanello, però, un’orribile sensazione si fa strada nel mio stomaco: non risponde nessuno.
Cerco di metterla a tacere cercando immediatamente le chiavi nello zaino, ma nutro pochissime speranze perché so di averle lasciate appese al chiodo sopra la mia scrivania.
Nel frattempo, con molta calma, Leonardo ha raggiunto il mio piano, e sento il suo sguardo curioso su di me.
Tiro fuori il telefono e chiamo mia madre, la quale mi risponde dopo parecchi squilli.
« Clarissa, che cosa vuoi? » dice, poco gentilmente.
« Ehm, non ho le chiavi, puoi venire a portarmele? » le chiedo, già con il cuore più leggero.
« Stai scherzando? Sono in riunione, al momento, e subito dopo ho i colloqui con le maestre di Vale. Non sarò a casa prima delle sette. »
« Che cosa?! » sbraito, cercando di mantenere la calma.
« Ti sta bene, così impari ad ascoltarmi quando ti parlo. »
« Sì, sì, la predica me la fai dopo » sbuffo gelida. « Federico e Christian? »
« Uno ha lezioni tutto il pomeriggio, l’altro lavora fino a tardi come sempre. »
« Merda. »
« Clarissa! »
« Sì, scusa. E… lui? »
« Chiude l’ufficio stasera. Senti, prova a chiamare la nonna, vedi se riesce a tenerti lei. Oppure prendi un autobus e va’ da qualche tua amica. »
« Oh, no… » realizzo, mentre capisco veramente di non avere alba di cosa fare. « Jess è dal medico e Serena è andata a casa di Matteo per aiutarlo con la patente. »
« Mi dispiace, non so in che altro modo aiutarti. Io devo andare, ora. Fammi sapere cosa farai. »
E mette giù, lasciandomi con il telefono ancora appoggiato all’orecchio.
Sto per comporre il numero della nonna, la mia ultima speranza, quando una voce profonda e vibrante mi coglie di sorpresa: « Puoi stare da me. »
« Come? » domando, abbastanza stupidamente.
« Sì, be’, così ti restituisco il favore dell’altro giorno. Tanto c’è solo mio padre a casa e tornerà presto al lavoro » propone Leonardo, alzando le spalle, come se fosse un normalissimo invito ad una sua amica.
« Assolutamente no, grazie ma… »
« Perché, hai di meglio da fare? » ghigna lui, indicando la porta chiusa di casa mia.
Gli lancio un’occhiata in tralice e poi sospiro.
« Fa’ quello che vuoi, io comunque sono di sopra se… »
« Va bene » acconsento, raccogliendo da terra il mio zaino.
Lo seguo su per le scale, non credendo nemmeno a quello che sto facendo.
È un gesto estremamente gentile da parte sua e lo apprezzo, credetemi. Ma questa storia mi puzza.
Com’è che dopo anni in cui non ci rivolgiamo la parola, improvvisamente si sta rivelando così gentile, disponibile e oserei dire amichevole? È possibile che la sera in cui abbiamo… la sera del mio compleanno, gli abbia detto qualcosa che non mi ricordo? Sono tanti gli episodi anneriti in quella serata, e sicuramente posso aver blaterato cose che magari nemmeno pensavo. Ancora una volta, l’ennesima, mi tornano alla mente tutte le domande che vorrei porgli, tutto ciò che vorrei ricordare…
Sono i primi di marzo ma le temperature, seppur decisamente miti, non sono ancora ideali. Infatti, non appena metto piede nell’appartamento Arcuri, mi ritrovo avvolta da un tepore creato dai termosifoni accesi.
Un brivido mi solletica la schiena e non appena incontro gli occhi del padre di Leonardo, vorrei subito scappare: sono di un azzurro chiarissimo, sembrano due sfere di ghiaccio, e mi stanno squadrando in modo piuttosto arrogante.
« Buongiorno » lo saluto civilmente, restando a distanza.
Nonostante lui e la moglie si siano presentati per la festa del mio compleanno, non ho avuto molto tempo da passare con loro. E, me ne accorgo ora, il padre di Arcuri è decisamente invecchiato.
L’appartamento, disposto su un solo piano, ha un buonissimo profumo, un misto di abiti puliti, lo stesso odore che ha Leonardo, e di pane, come se l’avessero appena sfornato.
« Ciao Clarissa » mi saluta lui, dileguandosi in quello che ricordo essere il soggiorno.
Leonardo mi fa segno di rimanere lì e lo segue.
Quando eravamo piccoli, vista la vicinanza d’età, e l’amicizia delle nostre madri, io e Leonardo passavamo parecchi pomeriggi insieme.
Poi, quando è arrivato per lui il momento di frequentare le scuole medie, mi ha decisamente dimenticata, rimanendo sempre in contatto con mio fratello, ma non rivolgendomi praticamente più la parola.
Non mi è sembrato un addio drastico, ci sono rimasta male, certo, ma ho liquidato il tutto pensando che si sentisse ormai troppo grande per frequentare ancora una bambina delle elementari.
Osservo le cornici appese ai muri della sua casa, appoggiate su mobili e panche: ritraggono tutte un bambino felice, con i capelli castani piuttosto lunghi, gli occhi brillanti e intelligenti.
In tutte le foto, noto, Leonardo è da solo. Non ce n’è una in cui sia presente assieme ai suoi genitori.
Aggrotto le sopracciglia e in quel momento lui fa la sua ricomparsa nell’atrio.
« Scusa. Ehm, vuoi darmi la giacca? » chiede, leggermente in imbarazzo.
« Sì, grazie. »
« Se devi andare in bagno sai dov’è. In cucina è già tutto pronto. »
Che gentiluomo…
Mi accomodo al tavolo troppo grande per tre persone, ma non riuscendo a stare ferma mi lavo prima le mani nel lavello e poi comincio a dare un’occhiata in giro, scoprendo che nel forno si trova del pollo arrosto e nel frigo una torta salata probabilmente agli spinaci.
« Ti piace il pollo? »
La voce profonda di Arcuri mi fa sobbalzare dallo spavento.
« No, io non mangio la carne. »
« Ah. C’è dell’insalata e quella roba lì con la verdura dentro » mi indica col mento. « Fa’ come se fossi a casa tua. »
Detto questo, si serve del pollo nel piatto e si siede, lasciandomi a bocca aperta.
Okay, ritiro tutto quello che ho detto sulla sua perduta gentilezza. Decisamente non è cambiato.
 
Verso le tre il padre di Arcuri ci saluta e torna al lavoro, mentre noi ci spostiamo sul suo divano dove controllo il mio cellulare e trovo un messaggio di mia madre:
non sei per strada a barboneggiare, vero?
Rido, ma la mia risposta è molto sintetica: no. Sono da Leonardo.
La sfilza di faccine e punti esclamativi che ricevo in seguito mi fa capire quanto mia madre sia innamorata di lui.
« Tua madre? » gli chiedo, cercando di stemperare un po’ la tensione.
« Lavora. »
« Ah. Spero che per tuo padre non sia stato un problema che io fossi qua. »
« Per mio padre nulla è un problema. »
« Sì ma intendo che magari aveva da fare e… »
« Ma che cazzo dici? Se sei qua è perché te l’ho chiesto io, non deve andare bene a lui. »
« Okay, come ti pare » termino, glaciale.
Dopo qualche minuto di silenzio, lui si volta verso di me, e con la voce bassa dice: « Senti, non ho un buon rapporto coi miei genitori. Effettivamente non li sopporto. Tu più di tutti puoi capire, eh? »
Lo fisso negli occhi scuri e in quel momento, sono certa lo sappia anche lui, in quell’istante stringiamo un legame, invisibile, sincero.
In quel momento, io e Leonardo decidiamo di diventare amici.
Non ce lo diremo mai, non definiremo mai ciò che siamo l’uno per l’altra, non accenneremo mai a come e quando sia successo. Ma è così che funziona. Certe cose non possono essere spiegate a parole. Certe cose sono così profondamente nostre che ci spaventa anche solo pensare di parlarne.
Sollevo leggermente l’angolo sinistro della bocca e lui fa lo stesso. Poi, distogliamo lo sguardo e rimaniamo in silenzio.
Questa volta però, non è un silenzio scomodo.  
 
 
Note sul capitolo:
Sarò breve perché è già tardi ma visto che non pubblico da troppo tempo mi sono detta o ora o mai più: chiedo scusa Soul_Shine e Kim_Sunshine per non aver risposto alle vostre meravigliose recensioni, che però ho ovviamente letto e apprezzato immensamente.
Appena ho un po’ di tempo corro, promesso <3
Intanto grazie ragazze e spero che questo capitolo vi piaccia!
 

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordici. ***


 “Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle,
le cose belle non succedono
.”
- Il vecchio e il mare, Ernest Hemingway
 
Capitolo Quattordici.

« Sei felice? »
Christian si abbandona accanto a me sul divano, stanco morto dopo la giornata passata al lavoro. Ormai sono più di due mesi che è tornato a casa, e l’Accademia ancora non l’ha richiamato.
Non ne ha mai parlato con me, ma sono certa che stia soffrendo moltissimo per questo.
Il trimestre è già iniziato e nonostante lui stia continuando a studiare da casa, non ha ricevuto nemmeno un segno o una parola, da parte dell’università, che possa dargli la speranza di tornare.
Lo vedo rientrare a casa dal suo lavoro, impiegato in un piccolo ufficio legale a venti minuti da casa, ogni giorno un po’ più spento e un po’ più stanco, come se si stesse consumando a vivere così.
« No » rispondo. Schietta, diretta, come sono sempre stata con lui.
Christian ha il potere di zittire Federico, di far incazzare come nessuno la mamma, di far morire dal ridere nostra sorella, di tenere testa a mio padre e di farmi dire tutta la verità con uno sguardo.
« Nemmeno io. »
« Chri… Il tuo posto non è questo. »
« Credi che non lo sappia? » ride, sarcastico, stropicciandosi gli occhi.
« Non era questo che intendevo. Te ne sei andato che avevi appena diciotto anni e ci hai lasciati qui, da soli, con lui. Eri l’unico di cui lui avesse paura eppure non ci hai pensato due volte prima di sparire. »
« Lo so. Puoi detestarmi per questo. Ma purtroppo, devo ammetterlo, se potessi tornare indietro, lo rifarei. Me ne andrei di nuovo, seguirei quella che è la mia passione e la ragione per cui studio. Odiami per questo, ma non biasimarmi, tu avresti fatto lo stesso. »
Sposto la coperta dalle mie gambe e lo guardo contrariata e infervorata.
Era così tanto tempo che volevo affrontare questa conversazione che ora non trovo nemmeno le parole giuste, nel mezzo del fiume di tutto ciò che vorrei dirgli.
« Stai scherzando?! Non potrei mai fare una cosa del genere alla mamma, né a Vale. Io rimarrei per loro. Io rimarrò per loro, almeno finché nostra sorella non sarà abbastanza grande da sapersi difendere. »
« Così vivresti da schifo per difendere una famiglia che odi? »
« Ho vissuto da schifo tutta la mia vita, ma vale la pena rimanere qua per lei, perché le voglio bene. Sei tu, qui, l’unico che odia tutta la sua famiglia. »
Abbiamo cominciato ad alzare la voce, scaldandoci come al solito quando litighiamo, e Valentina si è affacciata dalle scale, un libro sottobraccio, e la faccia spaventata.
« Clari? »
La sua vocina dolce mi fa passare un po’ della rabbia che sto accumulando verso Christian.
« Vale, torna su a fare i compiti, tranquilla. Appena finisci andiamo a prendere un gelato, ti va? »
Il suo viso si illumina e annuendo sparisce dalla nostra vista.
« La stai viziando. »
Quella è la goccia che fa traboccare il vaso. Che era già pericolosamente, pericolosamente pieno.
« Come ti permetti di mettere bocca nel modo in cui tratto mia sorella? Tu meno di tutti puoi parlare! Ci hai abbandonati, lo capisci? Senza rimorsi, senza spiegazioni. »
Gli do una spinta sul petto, con poca forza, ma tanta, tantissima rabbia.
« Cosa avrei dovuto fare? Rimanere qua e sprecare la mia vita? Sei così egoista che mi avresti trattenuto qua sapendo che ci muoio? »
« Non osare darmi dell’egoista. Io mi taglierei una mano piuttosto che lasciarle qui, con lui. »
« Oh, avanti, pensi che la mamma non se ne sarebbe già andata se avesse potuto? In realtà lei lo ama, ma non lo vuole ammettere. Lo ama troppo per lasciarlo. Sconvolta, eh? Non è una santa come la dipingi tu. Ha così tanti segreti che prima o poi scoppierà e le scapperanno. »
Sembra accorgersi di aver detto troppo, ma non ritira nulla delle velenose parole che ha sputato.
« Di cosa stai parlando? »
« Spera solo di non saperlo mai » dice, si alza in piedi e si dirige verso la cucina.
« Eri tu mio padre. E quando te ne sei andato, è stato come perderti. »
Non gliel’ho mai detto prima e ammetterlo fa male.
Quando Christian ha deciso di partire per Venezia, ero contenta per lui, ero fiera che mio fratello maggiore frequentasse una scuola così prestigiosa, che inseguisse il suo sogno e le sue passioni.
Aveva promesso a me e a Federico che ci sarebbe rimasto accanto comunque, che avrebbe chiamato spesso, che almeno una volta al mese sarebbe tornato a casa.
Per un po’, fu così. Chiamava di sera, quando sapeva che eravamo tutti a casa, mi chiedeva com’era stato l’ingresso alle superiori, parlava con Fede per ore, scherzava con Vale e non si sentiva così tanto la sua mancanza.
Durò poco, però, perché iniziò a mandarci messaggi pieni di scuse, spesso campate per aria. Diceva che doveva studiare, che non aveva tempo libero, ma mentiva.
Anche i suoi ritorni a casa si fecero più rari: una volta ogni due mesi, poi ogni tre.  
Finché le sue assenze non durarono l’intero semestre.
Si stava perdendo la crescita di Valentina, i momenti fraterni con Fede, i miei risultati scolastici.
Ogni volta che tornava a casa, era cresciuto di mezzo anno, ma lo eravamo anche noi.
Chris è sempre stato il mio albero maestro, il punto di riferimento qualora avessi avuto un problema. Il padre, sostanzialmente, che non mi picchiava e che non odiavo.
Christian si ferma e si volta a guardarmi con gli occhi azzurri pieni di confusione.
« Io… »
« Sì, sì, tu non lo sapevi e non potevi immaginarlo. Come vedi sono lo stesso qua, sono ancora viva e me la cavo. Non ti ho mai fatto una colpa di niente, ma questo non potrò perdonartelo. »
Salgo al piano di sopra e mi chiudo nella mia camera, urlando dentro al mio cuscino con tutto il fiato che ho nei polmoni.
 
Ho le mani infilate nel cappotto e la punta del naso congelata. Fa ancora freddo, ma la primavera è alle porte e con essa anche il bel tempo, si spera.
Valentina sta saltando qualche passo davanti a me, verso la gelateria che si trova a qualche strada di distanza dal nostro appartamento.
« Ehi. »
La voce di Leonardo alle mie spalle mi fa voltare.
« Ciao. »
Ora che la sua macchina è stata riparata, non prende più l’autobus alla mattina, ma dalla settimana scorsa ogni giorno lo aspetto fuori dal nostro liceo e lui mi offre un passaggio.
Ogni giorno.
« Dove stai andando? » mi domanda, impertinente come al solito.
Urlo a Valentina di fermarsi e aspettarmi e poi rispondo: « In gelateria, accompagno mia sorella. »
« Vengo con voi. »
Non è una domanda, non è una richiesta. È un semplice dato di fatto. Acconsento senza possibilità di scegliere.
Non appena Valentina individua Leonardo, strizza gli occhi e lo indica ma io, immediatamente conscia, la sgrido.
« Non si indicano le persone. Comunque, lui è Leonardo. »
« Ciao, Leonardo » sbuffa lei, guardandomi male.
“Maleducata” mimo con le labbra.
« Ciao Valentina » risponde lui, tendendole la mano.
Quel gesto mi fa sorridere e Vale se ne accorge, così gliela stringe e ricomincia a saltare davanti a noi.
« Probabilmente le piaci… »
Alzo le spalle e proseguo, mentre lui forma delle nuvolette leggere con il suo respiro.
« Tom mi ha detto del compleanno della tua amica, Jessica. »
Ci metto qualche secondo prima di realizzare che fra appena una settimana, Jessica festeggerà il suo compleanno.
Effettivamente mi aveva accennato a voler invitare Alex, e di conseguenza Tom e Leonardo si sarebbero sicuramente aggiunti, ma dopo il casino successo con Samuele, non pensavo l’avrebbe fatto davvero.
« Ah, sì? E ti ha invitato? »
« Be’, ha detto ad Alex che potevamo venire anche noi, quindi, più o meno… »
« Sì, sì, ho capito. »
Non è nel mio stile farmi i fatti degli altri, e sinceramente non mi frega più di tanto di chi sta con chi e di chi dice cosa a chi ma quando Leonardo inizia, velando la cosa, ad accennarmi alla storia di Jess e Sam, non ho scelta e devo entrare anche io in questione.
« Mi hanno detto che hanno avuto qualche incomprensione… »
« Sì, vabbè, Sam dice di averla tradita. Arriva al punto. »
« È la verità? » mi chiede, sollevando lo sguardo dal cemento e guardandomi.
« Stai facendo la pettegola? » ridacchio, tenendo d’occhio mia sorella che ha già adocchiato la gelateria a qualche metro da noi.
« No, è solo che… »
« È solo che è stato Tommaso a raccontare tutto ciò che è successo quella sera a Sam » affermo, convinta.
Il suo sguardo è decisamente una conferma.
« Perché l’ha fatto? Cosa c’entra, poi, in questa storia? » ringhio, irritata.
« E io che cazzo ne so? Tom è uno stronzo, si diverte a fare ‘ste cose. Alex non doveva dirgli niente e sarebbe finita lì. »
« E per quale motivo vi ha invitati alla sua festa? » chiedo, scettica e strafottente.
« Ma sei tu la sua amica o io? »
Sbuffo e affretto il passo perché abbiamo raggiunto la gelateria.
« Che prendi, Clarissa? » mi chiede Leonardo, guardando la vetrina.
« Nulla, grazie. Vale, scegline uno e prendi la coppetta. »
« Che rottura di coglioni… » sento Leonardo mormorare.
« Cos’hai detto, scusa? » gli dico, stizzita.
« Che io consiglio a Valentina di prendere due palline di cioccolata sul cono. »
Alzo un sopracciglio e lo guardo arcignamente.
« Clary, posso posso possooo? »
Mia sorella e il suo sguardo da bambina.
Sa che quando lo fa non riesco a dire di no.
« Va bene » acconsento, lasciandomi scappare un sorriso.
Lei batte le mani e ordina al gelataio, che intanto ha assistito ridendo a tutta la scena.  
Leonardo si aggiunge all’ordine, mentre io pago ed esco con mia sorella, felice come una Pasqua, e ci sediamo su una sedia all’esterno del negozio.
« Questo è per te. »
Leonardo mi sta porgendo un cono con quella che stimo come vaniglia, e si siede sulla panchina accanto alla nostra.
« Prego » dice, dopo aver visto la mia faccia a metà fra il sorpreso e l’incazzato.
Ferma, con il cono in mano, dichiaro: « Avevo detto che non prendevo nulla. »
« Senti, al posto di lamentarti, ringrazia e mangia quel benedetto gelato. Non ti fa certo male. »
Mi squadra, facendomi avvampare e mi stringo nel cappotto, e poi si fissa sull’orizzonte con uno sguardo strano, che non riesco a decifrare.
Verso una buona parte della pallina sul cono di mia sorella, che mi ringrazia con un sorriso enorme e tutto macchiato di cioccolata.
Penso che Leonardo le piaccia parecchio.
 
Qualche sera più tardi, mi sto asciugando i capelli sovrappensiero e in ritardo come al solito.
Fra una decina di minuti, Sebastiano mi passerà a prendere per andare a cena a casa sua.
È riuscito di nuovo a convincermi, nonostante gli abbia detto molte volte che non mi va di fare l’estranea fra lui e suo fratello.
Mi guardo allo specchio appeso in camera mia, mentre i miei capelli corvini, appena più corti delle spalle, mi svolazzano attorno al viso.
I miei occhi verdi, troppo simili a quelli di mio padre, sono spenti, non trasmettono nulla.
Osservo la linea rosa della mia bocca, il piccolo anellino che ho sul naso, le sopracciglia chiare e le guance rosee per via del calore.
Distolgo lo sguardo con fastidio. Non ce la faccio a piacermi. Non sono bella e vorrei tanto, troppo esserlo. Vorrei assomigliare a Serena, o anche a Jessica, a Bea… Vorrei non essere così piatta, avere un po’ di curve e un po’ di carne sulle ossa.
Un trillo del mio telefono mi avvisa che Sebastiano è arrivato.
Mi schiaccio un po’ i capelli sulla cima della testa e sbuffo di nuovo.
« Dove vai? » mi chiede Valentina, distesa sul suo letto.
« Da un mio amico. »
« Con amico intendi fidanzato? » chiede lei, maliziosa e furba allo stesso tempo.
« Qualcosa del genere. »
« Anche io ho il fidanzato, sai? » continua, civettuola.
« Non ci credo. »
« E invece sì. Si chiama Davide. »
« Aaah! E com’è che ti ha chiesto di stare insieme? » le chiedo.
Raccolgo in fretta il mio telefono, le scarpe e la giacca buttata sulla scrivania, che scopre un incarto. Un pacchetto che sta lì da parecchio tempo e che non ho ancora aperto.
Il mio regalo di compleanno.
Mentre mia sorella continua a raccontarmi una storia che non sto più ascoltando, lo prendo tra le mani e, decisa finalmente a scoprire cos’è, lo scarto.
Tra le mani mi trovo una scatola bianca, anonima, e dentro, infilata perfettamente, una cornice semplicissima, nera, elegante e formale, con custodisce una foto di almeno dieci anni fa: c’è Valentina, piccolissima, talmente bionda da sembrare bianca in braccio a mia madre, radiosa in viso e più giovane. Chris è un ragazzino biondino delle medie, con gli occhi vivaci e furbi, mentre Fede, quasi irriconoscibile, lo stesso colore di occhi di nostro fratello, è molto più scuro di capelli e più basso di quasi dieci centimetri.
Infine, alla destra di mia madre, c’è mio padre che sorride, la barba e i capelli cortissimi, una camicia che indossa alla perfezione, e mi tiene una mano sulla spalla. Anche io ho i capelli biondi, piuttosto corti, solo che i miei occhi sono verdi, come quelli di mio padre e di mia sorella…
Un dettaglio mi fa aggrottare le sopracciglia: anche mio padre ha gli occhi verdi, come ho sempre creduto, effettivamente, ma sono molto più scuri dei miei e circondati da un’aureola di marrone, della quale nei miei non ce n’è traccia.
Sorvolo su quel dettaglio e noto che sul fondo della scatola è rimasto un biglietto.
 
Volevo che ti ricordassi dei vecchi tempi.
 
Non c’è né la firma di mio padre, né altro.
Mi disgusta la sua orribile commedia da finto padre affezionato a sua figlia, così prendo il biglietto e lo getto nel cestino, accartocciandolo e lancio la cornice sulla scrivania.
Esco dalla mia camera senza salutare Valentina e scendo in strada, furiosa.
Non so nemmeno perché sono così arrabbiata. È stato un colpo basso da parte sua.
Sa benissimo che soffro da sempre per la situazione familiare che lui ha creato, e si permette di farmi provare dei sensi di colpa ingiusti per come lo tratto quando si meriterebbe veramente di peggio.
Non può sbattermi in faccia un ritratto della bella famigliola che eravamo, quando in realtà era tutta un’illusione.
Fumante di rabbia, salgo in macchina di Sebastiano, che mi saluta, tendendo la mano per afferrare la mia.
Io sto in silenzio per non scoppiare a urlare e lui capisce subito che c’è qualcosa che non va.
« Mio… mio padre » sussurro solamente.
Mi rendo conto di non aver mai fatto il suo nome a Sebastiano, di non avergli mai spiegato come stanno le cose nella mia famiglia e nonostante non voglia tenerlo all’oscuro, non ho intenzione di farlo ora.
« Non chiedermi niente, non voglio parlarne. »
Lui non fa domande, semplicemente mi guarda e annuisce, mettendo in moto la macchina.
Siamo quasi arrivati a casa sua e ho ancora decisamente troppa rabbia in corpo.
Sebastiano se n’è accorto, direi, perché continua a lanciarmi frecciatine e anche perché poco dopo fa una cosa che mi lascia senza parole.
Abbassa il finestrino dalla mia parte, mi slaccia la cintura e mi dice, come se fosse qualcosa che lui fa quotidianamente: « Sporgiti e urla più forte che puoi. Dopo chiudi il finestrino e ritorna in te. »
Scuoto la testa, pensando che sia diventato matto. « Non esiste »
Senza guardarmi, ridacchia.
Io lo fisso allibita per qualche minuto, ma non sento la rabbia svanire e così, lentamente, porto il viso fuori dal finestrino.
Il vento freddo mi graffia il viso ma cerco di ignorarlo e, timidamente, apro la bocca, anche se non ne esce nessun suono.
Riprovo un altro paio di volte, ma non accade nulla.
« Siamo quasi arrivati, moretta, è meglio se ti sbrighi, tra poco… »
Sento un urlo lungo e profondo e ne rimango quasi spaventata.
Mi accorgo solo più tardi che in realtà sono io che sto producendo quel grido così disumano.
Dura poco, non più di tre secondi, ma mi ritrovo immediatamente senza fiato.
Rientro nell’abitacolo e Sebastiano mi fissa come se non riconoscesse chi ha davanti.
« Va meglio? » chiede dubbioso.
Annuisco, ancora un po’ stordita.
Lui smette di fissarmi, parcheggia la macchina davanti a casa sua e, una volta fuori, afferra la mia mano.
E tanto basta per farmi sentire meglio.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo Quindici. ***


p.s. per questa volta il Calore ha mancato il colpo.
non immagazzinate più di quanto possiate ingoiare:
amore, calore o odio che siano.
- Charles Bukowski, Compagno di sbronze

Capitolo Quindici.

La settimana è quasi finita e finalmente domani ci sarà la festa di compleanno di Jess.
Io e Christian non ci rivolgiamo ancora la parola ma non è un evento degno di nota, visto che nessuno in famiglia parla molto con lui.
Sto tornando a casa (Leonardo non era a scuola e così ho dovuto prendere l’autobus), e non appena svolto la via di casa nostra, sento il ruggito della moto di Federico che si spegne.
« Non avevi lezione di pomeriggio, oggi? » è il mio preambolo.
Lui si toglie il casco e mi apre il cancello, dopodiché risponde vagamente: « Sì, sì, ma mancava qualche professore e siamo tornati a casa prima. »
Quella scusa non mi convince, ma non ci bado molto ed entro in casa.
Una vibrazione nella tasca posteriore dei jeans mi avverte di una chiamata in arrivo.
« Jess, che succede? » chiedo, chiudendomi in camera, dove la cornice abbandonata sulla scrivania mi fissa.
« Sono nel panico » risponde la mia amica, sinteticamente.
Sento dei rumori fastidiosi, come di oggetti pesanti che cadono, all’altro capo del telefono.
« Perché? Non sarà per l’invito ad Alex e alla sua banda di amichetti, vero? Ormai quel che è fatto è fatto e se hai intenzione di… »
« No, no, non è per loro, anche se su quella questione ci tornerò dopo. Il fatto è che la stanza che ho affittato non si libererà prima delle sei e io devo decorarla, portarci il cibo, le luci, il dj deve arrivare con la consolle e le casse! E ho solo tre ore di tempo! »
« Jessica, stai tranquilla, ti do una mano io. »
« Sì e in due come pensi che riusciremo a fare tutto? » domanda, scettica.
« Be’, potresti anche pensarci tu, visto che la festa è tua! » sbuffo.
« Siamo acide come il latte scaduto, eh? »
« Cosa stai cercando di chiedermi? »
Avevo capito dalla prima frase di questa telefonata che di mezzo c’era un favore che devo farle.
« Ehm… Visto che ultimamente tu e Arcuri siete culo e camicia… »
« Non lo faccio. »
« Oh, andiamo. »
« No. »
« Ma perché? » supplica lei.
« Perché direbbe di no! Non è per niente gentile. »
« Ah, non è gentile uno che ti accompagna ogni giorno a casa? Uno che ti porta a fare le guide con sé? Che ti invita a pranzo un giorno sì e uno no? Io questa la chiamerei maleducazione, già. »
« Finiscila » le intimo, sentendomi però un nodo in gola.
Possibile che Leonardo stia facendo tutto ciò per semplice amicizia? Che non ci sia sotto un’altra motivazione?
« Non ti costa nulla. E se dice di no, dai la colpa a me. Digli che sono stata io a insistere. »
Respiro sul telefono per qualche secondo e poi decido che non è un cattivo compromesso.
« Va bene. Sei terribile, però, lo sai? »
« GRAZIE CLAIRE! » urla lei all’altro capo.
 
Quel pomeriggio, Leonardo bussa immancabilmente alla mia porta.
« Sei invadente » lo saluto, vedendolo un po’ pallido e smunto.
« In realtà sei stata tu a rompere le palle perché andassimo a guidare, genio. »
Lo guardo male, ma al posto di rispondergli a tono, gli chiedo: « Hai una faccia orribile, che ti è successo? »
« Vomito. Non vuoi sapere i dettagli, fidati. »
Rabbrividisco e afferro la mia giacca, lancio un saluto a Fede ed esco di casa.
Leonardo, sempre bianco come un cencio, guida la sua Punto fino a un parcheggio poco fuori città, nei pressi di un grande centro commerciale chiuso da tempo.
Durante il tragitto gli spiego la situazione in cui si trova Jessica e lui, semplicemente, contro ogni mia prospettiva, dice: « Okay, avverto anche Tom. »
Una volta arrivati, scende dall’auto e mi fa sedere al suo posto.
« Dunque, Argenti, metta in moto l’autovettura » dice, il tono di un fastidioso professore.
« Ma che fai? » ridacchio, mentre eseguo.
« Devi abituarti al linguaggio degli istruttori. »
Ingrano la marcia e spingo delicatamente sull’acceleratore, fino a raggiungere una modesta velocità.
« Curvi a sinistra, Argenti. A sinistra, ho detto » continua Leonardo, pragmatico, fingendo di sistemarsi degli occhiali invisibili sul naso.
« Non parlano così! » rido io, quasi perdendo la concentrazione.
Provo svolte, parcheggi, brusche frenate, cambi di marcia, sempre accompagnata dai commenti di Leonardo che spesso mi fanno ridere talmente tanto da dovermi fermare.
« La prego, si arresti. Ci tengo alla mia persona » conclude, in uno dei rari momenti in cui lo vedo ridere.
Riprende il suo posto sul sedile e io controllo il mio telefono.
A parte la decina di messaggi in cui Jess mi ricorda di avvertirlo della festa di domani e le chiamate di Seba, mi balza all’occhio il fatto che sono passate quasi due ore da quando siamo usciti di casa.
« Scherzi? » si sorprende anche lui, quando glielo faccio notare.
Sembra preoccupato, ma dura un attimo, perché poi accende la radio e comincia a sputare velocemente una serie di parole in inglese, completamente inventate, cercando di stare dietro alla voce di Eminem.
Non appena arriviamo a casa e scendiamo dall’auto, io sono piegata in due dalle risate.
Il mio sorriso, però, si spegne non appena noto dei capelli biondi fin troppo conosciuti svolazzare fuori dal portone del mio condominio.
Alessia.
Ma che ci fa qua?
La risposta non si fa attendere.
« Ale? » domanda Leonardo a se stesso.
Esce dall’auto e le corre in contro: si trovano a qualche metro da me, punto dal quale riesco ancora a sentire tutta la conversazione.
Tragicamente breve, lo ammetto.
« È più di un’ora che ti aspetto e ti presenti qui con un’altra ragazza. Sei un pezzo di merda. »
« L’ho portata a guidare e non mi sono accorto di che ora era! »
« Ho notato che vi siete divertiti. Bene. Continua a divertirti senza di me. »
Alessia si libera dalla sua presa e scompare dietro l’angolo, lasciando Leonardo immobile che torna verso di me, scuotendo la testa.
« Le passa » sbuffa, come se non gl’importasse più di tanto, facendo per entrare nel palazzo.
Io mi blocco, le braccia incrociate.
« Non ci posso credere. »
« Che hai? » sbuffa, seccato.
« Voi state insieme » mi rendo conto.
Può sembrare pazzesco e irreale, ma in realtà, in più di un mese che io e Leonardo ci vediamo ogni santo giorno, lui non ha mai pronunciato il nome di Alessia, nemmeno per sbaglio. In più non c’è stata una sola volta in cui abbia visto la ragazza a casa nostra o nei paraggi. Non potevo decisamente avere dei sospetti su una relazione fra i due.
Eppure, mi accorgo ora, da un po’ di tempo Alessia non prende più l’autobus con me alla mattina.
Avevo liquidato la questione ringraziando il cielo ma mi rendo conto, come se avessi aggiunto l’ultimo pezzo ad un puzzle, che il motivo per cui Leonardo mi porta a casa solo al ritorno da scuola è che la mattina la sua auto è occupata da qualcun altro.
Dalla sua ragazza.
« Quindi? » conferma lui, aggrottando le sopracciglia.
« Quindi siamo stati fuori tutto il pomeriggio, da soli, mentre la tua ragazza ti aspettava qua! » alzo la voce.
« Sì, ma non avevo intenzione di perdere così tanto tempo… »
« Ah, capisco » concludo, glaciale.
« Non è quello che intendevo. Non fare l’incazzata anche tu adesso. »
« Senti, non sono incazzata, ho solo capito come stanno le cose. »
« Che cazzo vuol dire? »
Non gli rispondo, semplicemente sbuffo, salgo rapidamente le scale e quando entro in casa mi sbatto la porta alle spalle.
Per me e Leonardo è decisamente normale litigare, lo facevamo anche da piccoli. Non ci diamo mai troppo peso.
Nemmeno stavolta è diverso. O almeno lo credo.
 
« Te l’ho detto che non viene. »
Jess sta sistemando una fila di palloncini in un angolo della sala che ha scelto per il suo compleanno, mentre io sto appendendo un po’ di sue foto alle pareti.
« Sì che viene » risponde per l’ennesima volta lei.
« No! È solo un coglione e non ho intenzione di… »
Non riesco a terminare la frase perché la porta si apre e ne entrano Tommaso, Alex e un ragazzo alto poco più di me, gli occhi scuri che vagano nella stanza finché non si posano su di me.
I miei occhi si assottigliano e distolgo lo sguardo. Riesco a scorgere però le braccia di Jess posate sui suoi fianchi e un sorrisetto malizioso sulle labbra.
 
Sebastiano ci raggiunge più tardi, quando ormai la maggior parte del lavoro è fatto (e io e Leonardo non ci siamo ancora guardati in faccia).
Fa gli auguri a Jessica e si ferma a parlare con Leonardo per un po’, finché finalmente non si avvicina a me e mi bacia un orecchio, producendo uno schiocco odioso.
Sa che lo odio, ma probabilmente sa che odio di più i gesti d’affetto, per cui ha optato per ciò che mi avrebbe fatta incazzare di meno.
« Dai, smettila » protesto, allontanandomi leggermente.
« Come stai? »
« Come sempre. E tu? Non mi avevi detto che avevi allenamento? »
« Ho avvertito il mister che avevo un altro impegno » dice, come se fosse la cosa più semplice del mondo, anche se vedo chiaramente che gli dispiace non essere sul campo.
Lancio, senza rendermene conto, uno sguardo a Leonardo.
Seba però lo nota e mi scompiglia i capelli.
« Arcuri era piuttosto sorpreso quando gli ho detto che ero qui perché c’eri tu. Non gli hai detto di noi, vero? »
« Non me l’ha mai chiesto, non vedo perché avrei dovuto tirare fuori l’argomento » dico, dissimulando il fastidio.
« Cos’è successo? Non che di solito ti piaccia parlare di lui, ma ora sembri parecchio incazzata. »
Lo guardo negli occhi e gli racconto tutto senza esitare, perché ormai ho capito che è inutile nascondere qualcosa a Sebastiano: oltre a infastidirmi finché non gli racconto tutto, mi sento sempre molto meglio dopo essermi confidata con lui.
Una volta terminato di parlare, lui sembra molto pensieroso, le sopracciglia aggrottate e un solco in mezzo alla fronte.
« Sì, Ale mi aveva detto che stava frequentando un ragazzo. Solo che il suo significato di frequentare è piuttosto particolare. »
« Cosa vuoi dire? » domando.
« Be’, evidentemente tra lei e Arcuri sono piuttosto serie le cose. Eppure Ale è sempre stata una che cerca un rapporto più fisico che… »
« Oddio, okay, ho capito, non andare oltre » lo fermo, sentendomi avvampare.
Alessia e Leonardo a letto non sono esattamente un argomento di conversazione da trattare con Sebastiano.
« Io devo finire qui » gli annuncio, spingendomi sulle punte (gesto che non devo mai fare, vista la mia già spropositata altezza) per raggiungerlo.
Sebastiano allora mi bacia una guancia e si allontana per andare ad aiutare Jessica con le decorazioni, lasciandomi un po’ perplessa.
Un’oretta più tardi sto per tornare a casa a prepararmi per la festa vera e propria quando una voce mi coglie di sorpresa alle spalle.
« Pare che io non sia l’unico ad aver dimenticato di dire qualcosa. »
È Leonardo, appoggiato ad una parete, che mi fissa negli occhi.
« La differenza è che Sebastiano ha sempre saputo dove e con chi fossi » gli rispondo, arcigna, afferrando subito la sua allusione.
« Cos’è, devo farmi controllare da Alessia come tu fai col tuo ragazzo? »
« Sinceramente, non me ne frega un cazzo. Fai un po’ quello che ti pare. »
E detto questo, i denti e i pugni stretti, gli volto le spalle.

Note sul capitolo:
grazie alle carissime Soul e Kim per le recensioni e per il supporto che mi date, come al solito <3
So che vi aspettavate la festa in questo capitolo, ma visto che il prossimo (finalmente quello del compleanno di Jess), sarà piuttosto lungo, ho preferito dargli un'infarinatura... ma capirete tutto ;)
Un bacio!

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Capitolo 16
*** Capitolo Sedici. ***


Non era destinato a una vita facile.
Si prendeva tutto troppo a cuore e troppo dentro.

- Margaret Mazzantini, Nessuno si salva da solo

Capitolo Sedici. 

 

« Sei bellissima. »
Finalmente riesco ad avvicinarmi a Jessica, che indossa un meraviglioso vestitino blu che abbiamo comprato insieme.
Ha le guance arrossate ed è accaldata, e il bicchiere di liquido frizzante che tiene in mano conferma ciò che pensavo: ha già bevuto qualcosa di troppo.
Sorride con tutto il viso e mi abbraccia, ma stavolta non tento di allontanarla come al solito. Semplicemente, ricambio l’abbraccio della mia amica.
Dopo aver cercato invano Seba, che mi ha accompagnata alla festa, sto uscendo dalla sala per prendere una boccata d’aria quando una voce squillante e decisamente nota mi costringe a voltarmi.
« Clarissa! Stai benissimo vestita così! » trilla Alessia, che a giudicare dalle labbra gonfie e colorate di rossetto di Leonardo, in piedi al suo fianco, si è riappacificata col suo ragazzo.
« Grazie… » borbotto, a disagio.
« Ti dispiace se fumo una sigaretta con te? » chiede, accendendosene una senza attendere risposta.
E così rimaniamo nel cortile per una decina di minuti, mentre Leonardo resta a fissarci, a parlare del più e del meno. O meglio, lei parla e io rispondo a monosillabi.
« Ci vediamo più tardi, cara. »
Mi lancia un bacio al quale rispondo con un sorrisetto tirato e una smorfia non appena lei e Leonardo si voltano.
Tremando per il freddo serale, mi avvio verso due ragazzi che riconoscerei ovunque, anche con questo buio.
Quando sono abbastanza vicina da essere riconoscibile, Tom posa gli occhi su di me e, corrugando la fronte, dice: « Ah… Clarissa, vero? »
« Sì, sono io. »
Sorrisetto tirato.
Mi volto verso Alex, che tiene una birra in mano e non mi sta guardando negli occhi.
« Avete per caso visto… »
« Leo? Sì, è appena passato con la tipa » mi interrompe Tom.
« No. Sam. L’avete visto? » chiedo di nuovo, glaciale.
« Ah. Lui no. Ti va di bere qualcosa, Clarissa? » cambia discorso, con voce suadente.
« Sono a posto. »
« E dimmi, Serena come sta? » continua, con quella voce viscida.
Mi disgusterebbe, se non fosse che conosco Tom meglio di quello che pensa e so che sta solo facendo il cascamorto.
« Puoi chiederglielo tu, è proprio dietro di te » gli indico, dileguandomi velocemente non appena si volta.
Mi ci vogliono dieci minuti buoni per trovare il ragazzo di Jess e quando finalmente lo individuo, vorrei solamente prenderlo a calci nei cosiddetti fino a farlo parlare in falsetto.
Non è il caso, però, e così tento un approccio più civile.
« Samuele. »
« Ehi, Clarissa! Come stai? » risponde, decisamente allegro.
Lo ignoro e proseguo: « Sarò molto chiara: di solito non m’impiccio degli affari degli altri, ma stavolta è diverso. So benissimo che hai mentito riguardo al tradimento di Jess. Ma faccio finta di non sapere nulla di questa storia e voglio solo avvertirti che la fai stare male stasera, te lo giuro, dovrai andarle a chiedere scusa strisciando come un verme. »
Samuele realizza subito ciò che ho detto, e anche se non si spaventa, vedo chiaramente il suo sguardo irrigidirsi.
 

« Sebastiano, sei ubriaco. »
Dopo aver passato praticamente tutta la serata a cercare il mio ragazzo, mi ritrovo in bagno, accucciata accanto a lui, tentando di asciugargli il sudore dalla fronte.
« Clar, vorrei esserlo di più » boccheggia lui, tenendosi una mano sullo stomaco.
« Cosa? Sei impazzito? » Il mio tono di voce è decisamente acido, ma sono esausta e non posso dire di aver passato una bella serata.
« Magari, se fossi più ubriaco, non sarei consapevole del fatto che mi hai visto in queste condizioni. »
« E cosa ti importa se ti ho visto in queste condizioni? »
« Non dovresti e basta. Ci tengo un po’ troppo, penso, al giudizio che hai di me. »
Quelle parole mi fanno sorridere e mi ritrovo a fissare il bel viso ispido di Sebastiano.
Appoggio la mia fronte alla sua e gli passo un pollice sulla guancia, dolcemente, in modo da non dargli fastidio.
« Vieni qua » sussurra, indicandomi la sua spalla.
Con un grugnito, faccio quello che mi dice e mi scaldo un po’ contro il suo corpo caldo.
« Mi dispiace. Ti ho rovinato la serata. »
« Sì, l’hai fatto. Ma troverai un modo per sdebitarti » ridacchio.
« Come? »
« Prima di tutto, mangiando una mentina. »
Lui ride di gusto, tenendo gli occhi chiusi.
Io lo guardo bene, come mi è capitato di poter fare poche volte prima, e prima di alzarmi e portarlo fuori, Sebastiano dice una cosa che mi congela all’istante, ferma dove sono: « Sai, penso proprio di essermi innamorato di te. »
Sento il rimbombo della musica fuori dal bagno, ma è come se fosse lontanissimo, come se non mi trovassi nemmeno più alla festa di Jessica, ma ci fossimo solo io e Sebastiano, in un posto precluso a chiunque altro.
Solo io e Sebastiano.
Quel momento dura pochissimo, o forse dura troppo, fatto sta che ad un certo punto, la porta del bagno si spalanca e Tommaso, bianco come un cadavere, riempie un bicchiere di acqua fino all’orlo.
« Cos’è successo? » mi allarmo, pensando immediatamente e inspiegabilmente a Leonardo.
Lui non sembra sentirmi, così lo seguo fuori da lì, lasciando Sebastiano da solo, sempre gli occhi chiusi e ora leggermente sonnecchiante.
« Tommaso, cos’è successo?! » grido, afferrandogli un braccio.
« Io non c’ero, non so che cazzo gli è venuto in mente… Quello stronzo ha colpito Alex alle spalle e gli ha rotto il naso… »
La notizia che Leonardo non c’entra nulla mi fa tirare un sospiro di sollievo, che dura poco vista comunque la situazione.
Seguo Tom fino ad un punto del giardino in cui si è creata una piccola folla.
Per terra, la faccia insanguinata, c’è Alex, sollevato sui gomiti, che si copre il viso.
In piedi di fronte a una Jessica fuori di sé, invece, Samuele si sta tenendo la mano destra.
Senza pensarci due volte, mi fiondo in mezzo alla folla e aiuto Tom a pulire il viso di Alex. Accanto a me, non l’avevo nemmeno notato, Leonardo, che sta borbottando bestemmie e insulti a bassa voce, mentre tiene la mano di Alex.
« Scusa, amico, ma questo darà fastidio… »
Con un gesto secco, Tom gli lancia l’acqua in faccia, pulendolo un po’ dal sangue che si sta rapprendendo.
Leonardo urla a qualcuno di prendere dei fazzoletti e altra acqua, che arrivano qualche minuto dopo.
Mi assicuro che Alex stia bene e mi allontano, lasciando spazio a Leonardo, attonito, che ascolta i pesanti insulti che il suo amico sta rivolgendo a Sam, e le lamentele per il dolore al naso.
Al posto di mettere un piede davanti all’altro e dirigermi verso Jessica per calmarla, però, ne metto uno dietro all’altro e mi separo sempre più da quelle persone.
Improvvisamente, mi viene in mente Sebastiano e quello che mi ha appena detto.
Non regge la scusa dell’alcol, perché è decisamente abbastanza sobrio da sapere quello che dice.
Però non è possibile che lo pensi davvero.
Da quant’è che usciamo? E che stiamo insieme? Che poi, è veramente stare insieme? Non mi ha mai chiesto di essere la sua ragazza, abbiamo deciso insieme di continuare a vederci, ma senza l’impegno di appellativi come “fidanzati”.
In questo momento la confusione che ho in mente mi rende difficile pensare lucidamente, così mi volto, comincio a correre e raggiungo un gruppo di case lì vicino, lontano dal rumore della festa e dei miei pensieri e mi siedo su una panchina, tremando per il freddo ma ignorandolo completamente.
Rimango ferma lì a fissare un punto imprecisato davanti a me fino al momento in cui Serena, i capelli sempre perfetti ora leggermente arruffati, mi individua e si dirige verso di me.
« Cla, sei fredda come il ghiaccio » dice, turbata, sfiorandomi.
Mi sembra di vedere Matteo, la testa e le spalle basse, che si allontana in direzione opposta rispetto a quella da cui è arrivata Serena, ma non faccio domande e, senza rendermene conto, inizio a raccontarle quello che è successo.
Lo faccio di getto, quasi involontariamente, ancora piuttosto intontita.
Lei mi fa alzare in piedi e cominciamo a camminare, lì attorno, a piccoli passi.
Non sento il freddo né la stanchezza, sento solo i pensieri nella mia testa che si fanno sempre più confusi.
« Qual è il problema? Non è il primo ragazzo che te lo dice… »
« Parli di Alberto? Sai come sono andate le cose fra noi. Entrambi lo facevamo solo perché ci andava bene avere qualcuno accanto. »
« Sì, ma gli hai detto che lo ami! »
« Perché pensavo fosse così… Ma da quando ho conosciuto Sebastiano, mi sembra che tutto ciò che abbiamo passato io e Alberto non abbia più nessun significato. »
« Be’, è normale. Quando conosci una persona che ti piace davvero, quella giusta, sembra che tutto quello che hai vissuto prima perda valore. »
« E chi mi dice che in realtà anche tutto quello che stiamo vivendo io e Sebastiano non abbia nessun valore? »
« È assurdo quello che dici. Quel ragazzo ti lascerà un segno per sempre, indipendentemente da come andranno le cose. E avrà valore, se ogni volta che ci penserai, saprai che era qualcosa di indelebile. »
Rimugino un po’ sulle mie stupide paure e sulle parole di conforto di Serena.
Non mi ero mai aperta così tanto con lei, né avevamo mai approfondito il mio rapporto con Sebastiano.
Di solito sono estremamente riservata; non mi piace raccontare i fatti miei, come mi sento o cosa penso, soprattutto non a gente di cui non mi fido pienamente come Serena.
Inoltre, le paranoie che mi sto facendo non sono assolutamente da me. Non penso mai troppo al futuro perché ho imparato che non va mai, mai, come dovrebbe, né come avresti sperato. E piuttosto che rimanere delusa una volta in più, preferisco godermi i pochi momenti di felicità che vivo, soprattutto quando sono con Sebastiano.
Decido di non accennare più alla questione e assieme a Serena, salgo sulla sua auto, senza proferire parola.
Mi accompagna a casa e, una volta arrivate, ci salutiamo come al solito, un “ciao” lanciato e un sorrisetto.
Solo quando scivolo sotto le coperte del mio letto mi rendo conto di aver dimenticato la mia giacca e la mia borsetta al compleanno di Jessica.
Sono le tre passate da poco e sicuramente Sebastiano, Leonardo e tutti gli altri sono ancora là.
Io però, da codarda, non chiamo nessuno di loro, spengo la luce e poso la testa sul cuscino.

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Capitolo 17
*** Capitolo Diciassette. ***


Capitolo Diciassette.


Avevo promesso a Jessica che la mattina seguente le avrei dato una mano a sistemare la sala in cui ieri sera ha dato la sua festa di compleanno e così, alle otto e mezza di mattina, due tazze di caffè e qualche brioche in mano, mio fratello mi scarica più o meno davanti al punto in cui ieri sera Samuele ha preso a pugni Alex.
Trovo immediatamente Jessica, distesa su un materassino gonfiabile, accanto ad un paio di nostre compagne di classe con cui lei va molto d’accordo.
Non dorme, ma non è nemmeno del tutto sveglia. Sembra ancora molto sconvolta e ha sul viso evidenti segni di pianto.
« Buongiorno » mi saluta subito, tirando su con il naso.
Il bel trucco che aveva sugli occhi è scivolato via, lasciandole macchie nere sparse qua e là sul viso.
Ricambio il saluto e le porgo il suo caffè e il cornetto, offrendone anche alle due ragazze.
Mi sorridono e mi ringraziano e si allontanano immediatamente per cominciare a pulire il casino che è stato lasciato ieri sera.
« Mi dispiace molto che tu non ti sia divertita… » inizia subito, quando le faccio il resoconto della penosa serata passata tra l’evitare Alessia e Leonardo, il fare da babysitter al mio “ragazzo” e i discorsi con Serena sulla confessione di Sebastiano.
« Non è colpa tua se me le sono andate a cercare… Comunque l’importante è che tu abbia passato una bella serata, e se quello stronzo di Sam ha rovinato tutto, io… » rispondo, acida.
« Io e Alex ci siamo baciati di nuovo, Claire. »
« Tu cosa? »
Jess si prende la testa fra le mani e, boccheggiando alla ricerca delle parole, mi racconta tutto: « È successo poco prima che Sam gli rompesse il naso. Sono uscita a vedere come stavano andando le cose, mi stavo divertendo e volevo ballare col mio ragazzo ma non lo trovavo. Così, mi sono avvicinata ad Alex, che era lì, in piedi, a parlare con Tom. Mi ha vista prima lui e si è avvicinato per ringraziarmi dell’invito. Mi ha dato due baci sulle guance, facendomi gli auguri. Era così vicino alla mia bocca e quando ho sentito il suo profumo… Non ce l’ho fatta: quando si è allontanato l’ho immediatamente avvicinato a me, e l’ho baciato e lui mi ha baciata e… Non sono riuscita a fermarmi. Non ci sono scuse, anche se avevo bevuto, sapevo benissimo cosa stavo facendo e mi pesa ammetterlo. Volevo baciarlo di nuovo. Sam ci ha visti, gli ha urlato addosso e quando Alex gli ha dato una spinta, quello ha ricambiato con un pugno… »
« Sam si è comportato da stronzo dall’inizio alla fine con te. Ha finto di averti tradita per farti soffrire, che razza di persona è una che si comporta così? Non devi pentirti di niente. »
Come se non mi avesse sentita, lei continua: « Poi è stato lui a baciarmi e mi ha chiesto “perché continuiamo così? Ne dovremmo parlare”. »
« Sì, ho capito, ma comunque… »
« No non hai capito, intendo che ci siamo baciati ancora, dopo la lite con Sam » mi interrompe.
Ha gli occhi chiusi, come se si sforzasse di cancellare il tutto. « Ho urlato a Sam per dieci minuti, gli ho detto che ha dei problemi e che deve smetterla di comportarsi così. Lui mi ha dato della puttana, più e più volte e poi se n’è andato. E io sono andata a vedere come stava Alex, in bagno. Gli ho pulito il viso, gli ho chiesto scusa e lui mi ha baciata di nuovo. E ho sentito una scarica di emozioni in tutto il corpo. Non ci potevo nemmeno credere che stavo baciando un ragazzo che non è Sam… Ma mi sono sentita così bene che, più tardi, avevo le lacrime agli occhi. »
Non trovo le parole giuste da dirle e mentre sorseggio il mio caffè, la fisso, guardo quegli occhi chiari così brillanti e mi chiedo che cosa le stia passando per la mente ora, se anche lei si sta facendo le domande che mi sono fatta io riguardo a Sebastiano, se anche lei si sente come mi sento io quando sono con lui.
« Dovresti chiamarlo » le dico, quando riesco a rimettere in ordine i miei pensieri.
« Cosa? No, non posso. Lo vedrò domani in classe, e in base a come reagirà, saprò cosa fare, ne sono sicura » sorride, piena di speranza.
« E con Sam, cos’hai intenzione di fare? » le chiedo, certa che questa domanda romperà il momento di serenità.
« Gli ho già detto tutto quello che penso ieri sera, ora tocca a lui decidere come comportarsi. »
La sua risposta è breve e concisa e non riconosco nessun tono nella sua voce.
Direi quindi che dopotutto ha passato una serata indimenticabile, no?

È quasi mezzogiorno e, dopo aver ripulito la sala, io e Jess siamo sedute sul praticello all’esterno.
Sto fumando una sigaretta quando il mio telefono squilla e, non appena leggo il nome sullo schermo, faccio un verso di sorpresa.
Un po’ titubante, rispondo: « Sì, pronto? »
« Ehi, moretta. » La voce di Sebastiano è particolarmente roca e lo rende ancora più attraente, lo devo ammettere. « Buongiorno. »
« Ciao » rispondo, tentando di mantenere un tono di voce normale, nonostante i gesti di impazienza di Jessica, che vorrebbe sentire la nostra conversazione. « Come stai? »
« Sono stato peggio » ridacchia. « Passo a prenderti alle quattro, allora, siamo d’accordo? »
« Ehm… » rispondo, incerta. Cosa dovevamo fare alle quattro, oggi?
« Cinema, e poi a cena da me » aggiunge lui, come se mi avesse letto nel pensiero.
« Oh, sì, d’accordo. Sì, certo. Ah, senti, hai tu la mia borsetta e la giacca, vero? Ieri sera le ho dimenticate alla festa. »
« No, quando me ne sono andato non le ho nemmeno viste… »
« Ah. Okay allora, a dopo. »
Sento l’okay all’altro capo e riattacco, confusa, come se mi aspettassi di più da quella conversazione.

« So che ti arrabbierai. »
Sebastiano mi sta fissando, gli occhi grigi screziati di azzurro socchiusi.
« So anche io che mi arrabbierò se continui così. »
Sono seduta sul suo divano, una tazza di cioccolata calda tra le mani, un po’ fuori stagione viste le temperature in rialzo in previsione dell’imminente primavera.
Lui è in piedi davanti al piano cottura, le mani appoggiate dietro di sé, ancora con la giacca che profuma di popcorn del cinema addosso.
« Sì, ti incazzerai. »
« Sebastiano, io sono sempre incazzata, non so se l’hai notato. Non potrei mai esserlo di più con te. »
Le mie parole, in parte sincere, sembrano rincuorarlo un po’, perché sospira e sputa finalmente il rospo.
Non appena termina la frase però, vengo sorpresa da un’ondata di desiderio di fargli del male.
« CHE COS’HAI DETTO? »
« Ecco, lo sapevo, dovevo portarti direttamente a quella cena e fingere che fosse un incontro casuale. »
« Ma sei diventato scemo? Ti avrei volentieri insultato davanti a loro, in quel caso. Io non ci posso credere. Se c’è una cosa, una sola cosa che io ti ho sempre detto di odiare, da quando ci siamo conosciuti, è chi prende le decisioni per me. E le uscite di coppia. Non ci posso credere che hai organizzato una cena con Alessia e Leonardo! »
Sono veramente scioccata da questa notizia e deve essere abbastanza evidente, non solo dal mio tono di voce.
« Lo so, ma… »
« Zitto. Tu hai perso il diritto di parola. »
« Clarissa, stammi a sentire… »
« Non ci posso credere. Spiegami un po’ cosa dovremmo fare! Fingere di essere amichetti del cuore? No, in modo assoluto e categorico, no. »
« Clarissa! » alza la voce lui.« Lei ci tiene tantissimo. Sono uno dei suoi più cari amici e anche io le voglio bene. Pensa se ci fossero la tua migliore amica e il suo ragazzo al loro posto. Che faresti? »
« Contando che Jessica sa benissimo che non avrei mai e poi mai accettato una proposta del genere… »
« Sei così testarda. »
« E tu sai proprio come farmi incazzare, avevi ragione. Senti, è meglio se vado. »
Sebastiano si avvicina a me, e con veemenza dice: « Dovevi rimanere a cena. »
« No, torno a casa. Ne riparliamo un’altra volta. »
« Moretta, ti prego. Lo so che non sopporti Alessia e hai litigato con Arcuri e lo giuro, se non fosse importante per me, non te lo chiederei. Ma lo è, voglio fare questa cosa per lei, perché me l’ha chiesto, mi ha pregato di uscire insieme. Dai » dice, con voce allegra e quel sorriso a trentadue denti che adoro.
Si avvicina ancora un po’ a me e mi prende la mano, dopodiché tenta di baciarmi, ma io mi sposto.
« Perché devi comportarti così? Non pensi che faccia già abbastanza schifo per me vivere con gente che pensa di poter prendere sempre le decisioni al posto mio? »
Il sorriso scompare dal suo volto.
« Ora stai esagerando. Non ho preso una decisione al posto tuo. Se è così difficile per te fare questo sforzo, allora le dico che non puoi. »
« Stai girando la questione in modo che mi senta in colpa? »
Io e Sebastiano non abbiamo mai litigato, nemmeno discusso, prima d’ora e dopo ciò che mi ha detto ieri sera, mi fa stare veramente male questa situazione.
« Certo, è esattamente quello che voglio fare » risponde, con un tono sarcastico che non gli ho mai sentito usare.
Mi allontano leggermente e lo fisso negli occhi.
« Non voglio litigare per una cosa così stupida » sbuffo.
Lui mi fissa e sospira.
« Okay » dice, glaciale.
Mi avvicino a lui e, sentendo che è la cosa giusta da fare, anche se un po’ riluttante, gli dico: « Scusami. Ho esagerato. Verrò a quella stupida cena se ti fa felice. Ma solo questa volta. »
« Grazie. » Finalmente ritrova il sorriso che adoro e mi prende la mano.
« E quando dovremmo uscire con loro? »
« Domani sera. »
Tiro un sospiro irritato, ma stringo i denti ed evito di rispondere.
« Sei una persona orribile » ringhio.
« E tu sei pazza di me. »
Purtroppo, mio caro, è proprio così.

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Capitolo 18
*** Capitolo Diciotto. ***



Capitolo Diciotto.



Sto fissando il mio piatto da cinque minuti, apprezzandone gli angoli e le sbeccature… Tutto, pur di non tornare alla realtà di questa tremenda tortura.

È più di un’ora che sono seduta a questo tavolo, accanto a Sebastiano e di fronte ad Alessia.
A meno di un metro da me c’è Leonardo, che sta tentando in tutti i modi di non guardarmi. Vedo la sua mascella contratta e sono sicura che sia ancora infastidito per ciò che gli ho detto qualche giorno fa.
Non solo è estremamente permaloso, ma anche infantile e so che continuerà a tenermi il muso.
Abbiamo finito tutti e quattro di mangiare da un bel po’ e io mi sono saziata mettendo in bocca il primo boccone, tanto era il nervosismo che mi stava chiudendo lo stomaco.
Non ho ancora perdonato del tutto il tizio seduto alla mia destra e la prospettiva di passare una serata senza possibilità di fuga con quella gallina strepitante di Alessia mi ha decisamente fatto passare l’appetito.
« Lo dici sempre! » sta ridacchiando Alessia, parlando con Sebastiano.
Leonardo, al capo opposto del tavolo, ha il suo solito sorriso-non sorriso sul volto, come se non stesse ascoltando il discorso ma facesse finta di sì.
« Da quando conosco te e tuo fratello, non sono mai riuscita a vedere i suoi fantomatici piedi » continua, come tutto il resto della serata, rivolgendosi solo al suo amico.
« Lo fa apposta. Se sa che vieni a casa nostra, li tiene nascosti » ridacchia per l’appunto Sebastiano, spazzolando i resti del dessert dal suo piatto.
Per evitare di venire etichettata come musona asociale, ogni tanto mi introduco nei loro discorsi. Quando sento che devo farlo, però, mai di mia spontanea volontà.
« Vi conoscete da tanto tempo? » domando, atona, facendo voltare tre paia d’occhi verso di me.
« Oh, direi di sì! » esclama Alessia, guardando Sebastiano come se fossero soli al tavolo.
Non scatta in me un sentimento di gelosia, quanto un’insana curiosità, dettata probabilmente dal fatto che mi sembra di essere tenuta all’oscuro di qualcosa.
« Eravamo all’asilo insieme e siamo rimasti nella stessa classe fino alla terza media, quando entrambi i nostri padri, che lavorano per la stessa azienda, si sono dovuti trasferire qua. Al liceo abbiamo frequentato scuole diverse » spiega Sebastiano, sorridendo all’amica.
Quella spiacevole sensazione persiste fra stomaco e gola e un’idea assurda quanto plausibile si fa strada tra i miei pensieri.
« Siete fortunati ad avere un’amicizia che dura da così tanto tempo » insisto, tentando di sopprimere quel pensiero che mi fa stare così male.
« Sì, qualche volta è stato difficile… Ma siamo ancora qua, no? » conclude Alessia in tono mellifluo, dandomi praticamente la conferma che cercavo.
Capisco di non poterne più quando mi accorgo di avere i pugni stretti sotto il tavolo, con nonchalance chiedo scusa ed esco dal piccolo ristorante in cui ci troviamo, da sola, sperando di non essere seguita da Alessia.
Mi accendo immediatamente una sigaretta, sentendo il respiro farsi irregolare e le mie mani tremare. Non di certo per il freddo, questa volta.
Vengo raggiunta pochi minuti dopo da Sebastiano, il solito sorrisetto sul volto, ignaro della marea di sentimenti che mi sta travolgendo.
« Leonardo ha voluto pagare tutto » dice, strofinandosi le mani.
Poco prima che questi, seguito dalla sua ragazza, esca dal ristorante, metto in bocca un’altra sigaretta, che Sebastiano si accinge a sfilarmi velocemente.
« Ridammela subito » dico, la voce quasi rotta.
Lui mi fissa con tanto d’occhi e in quel momento mi riprendo la sigaretta.
Risponde: « Lo sai che è solo per il tuo bene che lo faccio » e ho appena il tempo di sibilare, glaciale: « Non sei nessuno per dirmi cosa fare » che l’altra coppia ci raggiunge.
Non dico nemmeno grazie a Leonardo, incollo gli occhi per terra e non li stacco finché il mio vicino, finalmente, propone di andare a casa.
Saluto Alessia, un po’ riluttante, scambiandoci due baci sulle guance, lancio un ciao a Leonardo e mi allontano assieme a Sebastiano, già pronta a tenergli il muso, quando una voce profonda e un po’ strascicata fa voltare entrambi.
« Ti porto a casa io. »
Non capisco se sia una domanda o un’affermazione.
« Tranquillo Arcuri, sono di strada… » tenta di opporsi Sebastiano, ma entrambi sanno che non è vero.
« Abitiamo nello stesso palazzo, è inutile che fai strada in più » risponde categorico Leonardo.
Sebastiano apre la bocca per replicare, ma avendone abbastanza per stasera, prendo la parola: « Va bene. »
Leonardo annuisce e si avvia con Alessia verso la sua auto, parcheggiata a qualche metro.
« Sei sicura? » mi chiede Sebastiano, come se fossi una bambina che ha detto di volere un giocattolo particolarmente brutto di cui potrebbe pentirsi.
« Certo » lo liquido. Faccio per allontanarmi ma lui mi bacia prima che riesca a scansarlo.
« No » sbotto.
La sua reazione potrebbe essere addirittura comica se non fosse per la situazione in cui ci troviamo in realtà.
« Cos’hai? »
« Perché non me l’hai detto? Pensavi che mi sarei ingelosita? Una come me?! »
Non tento nemmeno di trattenermi, questa serata mi ha veramente fatto venire i nervi a fior di pelle. E questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
È evidente che capisce subito a cosa mi riferisco, perché comincia a borbottare.
« Non so… Io non pensavo fosse così fondamentale, è acqua passata e… »
« Quindi non è stata una cosa seria? » lo incalzo, guardando un punto oltre la sua spalla.
« Sì, lo era, ma è successo tempo fa e… »
« Quanto siete stati insieme? »
Sebastiano esita un po’ prima di rispondere: « Quattro anni. »
Lancio un sospiro a metà fra il sorpreso e l’esasperato.
« Buonanotte » lo saluto, allontanandomi quando sento che Alessia mi chiama.
« Così la chiudi qua? Lasciamo le cose in sospeso? » grida lui, freddamente.
« Non è la serata giusta per affrontare questo discorso. »
« La tua risposta a tutto ultimamente. Come ogni volta che ti chiedo di conoscere la tua famiglia, no? Non è mai il momento giusto. »
Quelle parole sputate con tanto sarcasmo mi fanno voltare di scatto e, con voce tremante, riesco solo a dire: « Vaffanculo, Sebastiano. »
Mi dirigo verso la macchina di Leonardo respirando così pesantemente da sentire addirittura il cuore battermi nella scatola cranica.

Mi rendo conto di ciò che è successo stasera e di quanto sono incazzata solo quando manca poco più di un minuto all’arrivo a casa mia.
Sono seduta sul sedile anteriore, fissando fuori dal finestrino, la mia mano fredda posata sulla fronte.
« Grazie per aver offerto la cena, stasera. »
Come la sera del mio compleanno, le prime parole che rivolgo a Leonardo sono ringraziamenti.
« Figurati. »
Silenzio fino a casa.
« Ci vediamo » mi saluta, mentre mi sorpassa e sale le scale verso il suo appartamento.
« Ciao » sussurro, più a me che a lui.
Entro in casa, metto sul fornello un pentolino pieno d’acqua per prepararmi un tè e mi abbandono sul divano, accanto a mio fratello Federico.
« Mangiato bene? » mi chiede, cambiando programma alla televisione a intervalli di cinque secondi.
« Sì. »
« Bella compagnia? »
« Mh-mmh. »
« Con chi uscivi? »
« Mh-mmh. »
« Mi stai ascoltando? »
« Mh-mmh. »
« Pensi che potrei fondare una boy band? »
« Mh-mmh. »
Sento dei rumori provenire dalla porta di casa e mi allarmo, ma realizzo subito che è qualcuno che sta bussando piano, e mi alzo, lasciando Fede con una frase a metà.
Apro uno spiraglio e riconosco la sagoma di Leonardo.
« Mi sono ricordato di avere questi » attacca, mostrandomi qualcosa che tiene in mano.
Spalanco la porta e osservo la giacca e la borsetta che avevo lasciato alla festa, abbandonati fra le sue braccia.
Lo guardo e mi accorgo che anche lui mi sta fissando.
« Le avevi prese tu? »
« Non c’eri più e non volevo lasciarle là » replica schiettamente, porgendomele.
Lo guardo ancora negli occhi mentre sta per allontanarsi, ma al posto di dirgli grazie, dalle mie labbra esce: « Ti va di bere una tazza di tè? »
Lui non ci pensa e accetta subito.
Così finisce per rimanere da me fino quasi all’una di notte.
E cancelliamo tutto, fingiamo che non sia successo nulla.
Perché in fondo è così: non è successo nulla.

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Capitolo 19
*** Capitolo Diciannove. ***


Capitolo Diciannove.


È passata una settimana dalla festa di compleanno di Jess, e marzo è ormai agli sgoccioli.
Nessuna delle due, ammettiamolo, se la sta passando bene.
Per Jessica, in classe con il suo (ex?) ragazzo e Alex, che ha baciato più di una volta, anche volontariamente, non è certo una situazione rose e fiori.
Da quello che mi ha detto, ha già chiarito le cose con Samuele, e ora tocca a lui decidere cosa fare, se continuare la loro relazione o rompere una volta per tutte.
Eppure, ogni volta che Jess entra in classe, lui se ne va, si gira dall’altra parte o si allontana da lei, nonostante sono sicura che si renda conto che una risposta chiara e tonda ancora non gliel’abbia data.
Dall’altra parte c’è Alex, con cui siamo in classe da ormai tre anni, ma con il quale lei non ha mai stretto un rapporto di amicizia, né, a dirla tutta, con cui ha mai scambiato più di qualche parola. Tra le due, a conti fatti, sono io quella che lo conosce meglio e con cui ha legato di più.
L’improvviso interesse che a quanto pare entrambi provano verso l’altro, non riesco proprio a spiegarmelo. Tuttavia, tenendo conto dell’odio che provo verso Samuele, sarei contenta se nascesse qualcosa fra lei e Alex e sto aspettando fremente degli sviluppi. Anche se Alex, non si sa perché, la sta volutamente ignorando. Mi è parso come se un paio di volte avesse tentato di avvicinarla, ma Samuele era sempre nei paraggi e non sicuramente ha pensato che non è il caso di recitare scenate a scuola.
Comunque, ne ho già abbastanza dei miei problemi senza dover pensare anche a quelli degli altri visto che a casa, tanto per cambiare, la situazione sta degenerando, soprattutto per via degli infiniti litigi fra Chris e mio padre e fra mamma e Fede, che tenta in ogni modo di difendere nostro fratello, anche quando questo ha torto marcio.
Fede sa tutto della lite che io e Christian abbiamo avuto ormai qualche settimana fa e dalla quale ancora non ci siamo riappacificati, ma ovviamente appoggia il suo fratellone. Non perché sia nel giusto, semplicemente per abitudine.
In più, sul fronte sentimentale, non sento Sebastiano dalla sera della cena, e sebbene sia ancora furiosa per il modo in cui mi ha trattata e per le parole che mi ha detto, sto cominciando a sentire la sua mancanza, cosa che non mi è mai successo di provare prima per nessun altro essere umano.
Odio, odio sentirmi così per lui. Vulnerabile ed esposta, che è esattamente il mio stato d’animo quando si tratta dei miei sentimenti per Sebastiano.
E temo di essere terrorizzata da quello che mi ha detto sabato scorso, mezzo ubriaco, al compleanno di Jess, perché anche io penso di provare la stessa cosa.
In ogni caso, mi è rimasta ancora un po’ di dignità per non cercarlo.
Sì, okay, so cosa si può pensare: non si tratta di dignità ma di essere testarda e infantile.
Però sono fatta così, e non lo faccio per far stare male gli altri, semplicemente come arma di difesa. Non voglio rimanere ferita, così preferisco non dimostrare quanto ci tengo.
Anche se si tratta di una persona che amo.
Oh, l’ho detto.

« Stai vedendo qualcuno? » mi chiede improvvisamente mia madre domenica pomeriggio, quando, un broncio sulle labbra, la avviso che sto uscendo.
« No, vado a vedere la partita di Leonardo » le rispondo, sistemandomi la lunga giacca di panno sulle spalle, quella che Leonardo si è ricordato di prendere per me al compleanno di Jess.
« Allora è con Leonardo che esci? »
« No, mamma. Leonardo ha la ragazza » ribatto, stizzita al pensiero di quell’oca di Alessia e dei suoi giochetti di sguardi e frecciatine a Sebastiano, la scorsa settimana.
« Va bene, chiedevo solamente. Sai, sono sempre la tua mamma e mi farebbe piacere se mi dicessi, di tanto in tanto, se c’è un ragazzo che ti piace o con cui esci. »
« Sai che io non… »
« Lo so, lo so » mi interrompe lei, abbandonandosi sul divano e accendendo la televisione. « Pensavo solo che le cose qualche volta possono cambiare. »
Sospiro e la guardo, quella donna così fragile, che aveva tante occasioni nella vita e le ha abbandonate tutte per dedicarsi alla famiglia. Famiglia che ha costruito con fatica e passando attraverso tanto dolore, quando ha perso il primo marito, rimanendo sola con due figli piccoli.
All’improvviso, una sconcertante curiosità mi coglie e prima di riuscire a frenare la mia lingua, dico: « Mamma, parlami del padre di Christian e Federico. »
Se quella richiesta inattesa la coglie di sorpresa, non lo dà a vedere, come se si aspettasse che un giorno il discorso sarebbe venuto fuori.
Si limita a chiudere gli occhi azzurri che Fede e Chris hanno ereditato e a rievocare ricordi profondamente dolorosi.
« È difficile » è il suo preambolo. Poi tace per un po’, al che sono tentata di incalzarla, ma lei riprende, con un tono sofferente che non le ho mai sentito usare: « Si chiamava Stefano. Avevo ventun anni quando ci siamo sposati, lui ventiquattro. Avevamo una vita meravigliosa, lui aveva appena trovato lavoro in un’importante azienda edile e io lavoravo come maestra d’asilo la mattina e frequentavo corsi di ballo il pomeriggio. Era un passatempo stupido, ma mi faceva sentire così bene! Stefano mi seguiva sempre alle competizioni, gli piaceva vedermi ballare. Io mi divertivo tantissimo e cominciai a partecipare a gare nazionali, a girare per l’Italia. Passavamo dei weekend romantici dappertutto. – Io alzo gli occhi al cielo, sbuffando divertita – Tre anni dopo mi sono dovuta fermare perché ero rimasta incinta.
Così sono nati prima Christian e poi Federico. Era tanto che volevamo una famiglia, ed eravamo entrambi felicissimi, era tutto perfetto.
Qualche anno dopo, però, mentre stava giocando una partita a calcetto con la sua squadra, si è accasciato a terra, tenendosi il petto. L’hanno steso sull’erba in modo da farlo stare meglio e praticargli un massaggio cardiaco, ma non si è più rialzato. Io ero sugli spalti, l’ho seguito in ambulanza e poi in ospedale, dove ne hanno semplicemente accertato la morte. Infarto del miocardio, una patologia genetica. Non fumava, mangiava sano, faceva sempre sport… eppure è morto così, a trentun anni. A suo padre era successa la stessa cosa, quando Stefano aveva appena quindici anni. »
Capisco che la storia è finita quando vedo il suo labbro inferiore tremare e le lacrime scendere sulle guance.
Non ho mai visto mia madre piangere. Mai, nonostante tutto quello che noi e suo marito le abbiamo fatto, ha ceduto.
È uno spettacolo ancora più straziante.
« Mamma » sussurro, afferrandole la mano e carezzandola col pollice.
Lei si asciuga subito le lacrime e riprende il discorso di prima, come se non avessimo mai parlato del padre di Christian e Federico.
« Per quanto riguarda i tuoi problemi di cuore? »
« Non lo so » le rispondo, a bassa voce. « Un ragazzo c’è. Non so se c’è ancora qualcosa o se c’è mai stato. È complicato, non ne voglio parlare adesso. »
Non ho usato un tono astioso o sgarbato, e per una volta mi sento bene a non averla trattata male, ad aver perlomeno provato ad aprirmi con lei. Ad aver finalmente ascoltato mia mamma e ad averle confessato qualcosa su di me.
Qualche ora dopo, ancora un po’ disorientata e pensierosa a causa della dolorosa storia che mi ha raccontato mia madre, mi trovo circondata da una folla esultante, che gioisce per la vittoria della squadra di Leonardo, Alex e Tommaso.
Accanto a me, sorpresa sgradita che mi sono trovata davanti una volta in macchina di Leonardo, c’è Alessia.
Per tutta la durata della partita ha continuato a parlarmi di se stessa, di quanto sia difficile l’università e del suo strepitoso rapporto di sesso con Leonardo.
Non volete sapere, ve lo assicuro.
« Non si tratta solo di sesso, ovviamente » riprende una volta che i tifosi se ne stanno andando dalle tribune, diretti verso il chiosco. « Cioè ogni volta che lo vedo vorrei saltargli addosso, però è un ragazzo fantastico, fa di tutto per farmi felice… »
« Senti, sinceramente della tua vita sessuale non me ne frega un cazzo, mettiamo subito in chiaro le cose. »
Queste parole in realtà le tengo dentro di me, ma ad un certo punto smetto di ascoltare quello che dice e semplicemente mi immagino un meraviglioso scontro epico che si conclude con me in groppa ad un drago, la testa di Alessia in una mano e una spada grondante sangue nell’altra.
Sento il mio telefono vibrare nella tasca della giacca così interrompo il monologo della ragazza e rimango spiazzata quando, sul display, leggo il nome di Sebastiano.
Il mio cuore accelera, inspiegabilmente e stupidamente, e per un momento sono tentata di non rispondere.
Poi però, spinta dalla mancanza di Sebastiano, accetto la chiamata.
« Pronto? »
« Ehi » risponde lui, all’altro capo.
« Ehi » lo imito.
Silenzio per qualche secondo.
Lo sento respirare, poi sbuffare e riprendere a parlare: « Clarissa, devo parlarti, è molto importante. »
Quell’appellativo mi fa rimanere immobile per un po’: è incredibilmente serio, e la cosa mi spaventa.
« Va bene » rispondo, più fredda di quanto non intendessi essere.
« Dove sei? »
« Sono fuori, al momento. »
« Sei al campo, vero? Chi c’è con te? » ringhia, aggressivo come non l’ho mai sentito.
« Senti, datti una calmata e richiama, che con te non ci parlo se ti comporti così. »
Sto per riattaccare quando dall’altra parte sento le sue scuse affrettate ma sincere e la richiesta di vederci subito.
« Sì, sono al campo. »
« Dammi dieci minuti e arrivo, okay? »
Senza attendere risposta, butta giù.
Mi volto verso Alessia, che nel frattempo mi stava fissando fingendo nonchalance.
« Hai detto a Sebastiano dov’ero? » sibilo, piuttosto infastidita.
« Mi ha chiesto cosa facevo e gli ho semplicemente detto dove e con chi sono » replica, senza notare il mio tono astioso.
Non aggiungo altro e semplicemente mi volto, ma ci pensa lei a continuare la conversazione.
« So cos’è successo la sera della cena e so perché avete litigato. Sebastiano è il mio migliore amico da sempre. E sì, è vero, siamo stati insieme, ma decisamente non ha funzionato e abbiamo rischiato di rovinare tutto, quindi non puoi arrabbiarti se stiamo cercando di riallacciare i rapporti. »
« Non mi sono arrabbiata proprio per niente. Per quel che mi riguarda, potete anche essere stati sposati. Non mi interessa il suo passato, a me interessa il modo in cui si comporta con me, quello che mi dice e che mi nasconde. Ho le mie ragioni per comportarmi così, tu stanne fuori. »
Mi allontano tutta rossa in volto, senza pensare a quello che ho appena detto, senza sentirmi in colpa o voltarmi indietro.
Una volta accanto alla rete che circonda il campo, Leonardo mi corre incontro.
Mi fermo giusto il tempo per dirgli che me ne sto andando.
« Si tratta di Ferrari? »
« Sì, vuole parlarmi » rispondo laconica. « Hai giocato molto bene. Ci vediamo domani. »
Faccio per andarmene, ma lui mi trattiene.
« Veramente domani Alessia mi ha chiesto di riportarla a casa, quindi penso che mi fermerò da lei e… »
« Sì, certo, la tua ragazza mi ha ampiamente spiegato cosa fate durante il tempo libero » sbuffo a denti stretti.
« Oh, Cristo… Le dirò che tenga queste cose per sé » mi assicura, stranamente imbarazzato ma anche stizzito.
« Forse è meglio. In ogni caso, ci vediamo » lo saluto, ancora una volta.
« Clar. »
Mi volto, fissandolo negli occhi scuri, in attesa che mi dica qualcosa.
« Niente. Buonanotte. »
« Buonanotte, Leonardo. »
« Nemmeno mia madre mi chiama Leonardo » reagisce, ridacchiando.
« E va bene. Buonanotte, Arcuri. »
Alza gli occhi al cielo sbuffando, con un sorrisetto sulle labbra e io gli do le spalle.

« Ciao, moretta » mi saluta Sebastiano quando mi vede.
Ha le braccia incrociate ed è appoggiato alla sua auto. Indossa una giacca scura e ha i capelli leggermente umidi e scarmigliati. Mi basta guardarlo per un secondo e non resisto.
Non so cosa mi prenda, so solo che non voglio controllare l’impulso di stare accanto a lui, così cammino dapprima velocemente, e poi sempre più lentamente, fino a che non mi trovo davanti a lui, e gli getto le braccia al collo, stringendolo.
Lui ricambia la stretta con forza, dandomi un bacio sulla fronte.
Poi mi allontana, con delicatezza.
« Ci sono delle cose che devo mettere in chiaro » comincia, senza lasciarmi il tempo di realizzare quanto effettivamente mi sia mancato. « E la prima è che ti chiedo scusa per quello che ho detto l’altra sera. Non dovrei forzarti su cose che ti fanno stare male. Io mi fido di te e so che se ci sono questioni che non vuoi discutere, sicuramente hai le tue buone ragioni. »
« Io… sì… infatti… » balbetto attonita.
Com’è possibile che anche se sono ancora arrabbiata con lui, ogni parola che dice mi fa solo venire voglia di perdonarlo?
« Però c’è una parte che non ti piacerà sentire. Ti chiedo scusa da subito, e accetterò ogni conseguenza. »
« Mi stai spaventando » cambio improvvisamente tono, allontanandomi leggermente da lui.
« Non so nemmeno da dove cominciare… Posso iniziare spiegandoti il perché non ti ho detto che io e Alessia siamo stati insieme. »
« Sì, penso sia una buona idea. »
Deglutisco a fatica, con un brutto presentimento che mi preme sul petto.
« Il fatto è che lei è stata la mia prima, be’, a dirla tutta, la mia unica storia seria. Il primo ti amo, le prime uscite, la prima… Insomma, era importante, e quando ci siamo mollati ci sono stato male, e anche lei ci stava male e non capivo perché se entrambi soffrivamo, allora non poteva funzionare. Così ho continuato ad amarla, sperando che una volta maturati avremmo potuto ricominciare. E poi lei ha conosciuto altri ragazzi e io altre ragazze, e nessuna per me era importante. Lei invece ha avuto altre storie serie, ed ero geloso, stavo di merda per questo.
Poi, quando ha conosciuto Arcuri e ne parlava come avesse trovato l’amore della sua vita, non ci ho più visto e ho deciso che era il momento di chiarire con lei e magari riprovarci. Ma è cambiato tutto quando ti ho vista sull’autobus, e poi di nuovo tra gli amici di Lorenzo… non ho mai voluto così tanto qualcuno. »
Quando termina di parlare, non me ne rendo nemmeno conto, considerando lo stato di shock.
Balbetto qualche parola senza senso, cercando di fare ordine tra le mie idee.
« Mi stai dicendo che quando hai cominciato a uscire con me, eri ancora innamorato di Alessia e che mi hai usata per dimenticarti di lei? »
Mi metto una mano sulla fronte, per cercare di calmarmi e di metabolizzare quello che mi ha appena detto, ma lui mi afferra i polsi, tentando di farmi ragionare.
« No, non pensare questo. Sono stato un idiota e non avrei dovuto provarci così da subito con te, lo so. Ma credimi se ti dico che dalla prima volta che abbiamo parlato, mi sei piaciuta. Mi sono sentito attratto da te, dalla tua personalità e dal tuo sorriso, Clarissa. Lo giuro. »
« Pensi che le lusinghe cambino qualcosa? » sbraito, a voce un po’ troppo alta. « Adesso che so che l’unico ragazzo di cui mi sono fidata in realtà mi stava solo usando per… per cosa, Sebastiano? Per fare ingelosire Alessia? Per dimenticarti di lei usando un nuovo passatempo? »
« Clarissa, ti prego, ascoltami ancora un attimo. Non sono andate così, le cose. Va bene, magari all’inizio una parte di me ci aveva pensato, ma dal momento in cui mi hai rivolto la parola al ristorante, mi sono dimenticato di Alessia, per me esistevamo solo io e te. Lo giuro su Dio. Se come dici ti sei fidata di me, fidati ancora e credimi. Volevo solo spiegarti come sono andate le cose, in modo che non ci siano più segreti riguardo a questa storia. »
Rimango in silenzio per un po’, incollando i miei occhi ai suoi.
« Dimmi la verità. »
Lui chiude gli occhi e mi stringe le mani: « Chiedimi quello che vuoi, giuro che ti dirò tutto. »
« Provi qualcosa per lei? »
« No. »
È categorico. Non posso dubitare della sua sincerità.
« Provavi qualcosa quando mi hai conosciuta? »
Esita e poi risponde: « Sì. »
Anche qui, non posso dubitare.
Lo guardo, scuotendo la testa sconsolata.
« Penso che non ci sia altro da dire. »
Mi volto, la mascella contratta per la rabbia, e faccio per andarmene ma due mani mi afferrano e mi fanno voltare.
« Io credo invece che abbiamo ancora troppo da dire. Questioni in sospeso e troppe cose non ancora fatte. Ti ricordi cosa ti ho detto la scorsa settimana, alla festa di compleanno di Jessica? Io sì, ma non ne abbiamo ancora parlato apertamente, Clarissa. »
« Non penso sia il momento migliore » sibilo, stringendomi nella giacca.
« Era vero. È vero da un po’ di tempo » continua, ignorandomi. « Io ti amo. »
Me lo getta addosso come se fosse un peso dal quale voleva liberarsi, riversandolo su di me. Non in modo spiacevole, però. Doveva, voleva rendermi partecipe di questo, e la mia reazione è semplicemente rimanere a fissarlo, senza dire una parola.
« Non volevo dirtelo così, ma era un po’ che ci pensavo, ormai. »
Rimango ferma a fissarlo, poi faccio l’unica cosa che non dovrei fare, essendo ancora più arrabbiata di prima, sentendomi usata e la mia fiducia tradita: « Ti amo anche io, credo » dico, poco più che un sussurro.
« Credi? » ridacchia, un po’ preoccupato.
« Credo proprio di sì. »
Tempo che un sorriso compaia sulle sue labbra e si è già avvicinato a me, facendo incontrare le nostre bocche, i nasi, le lingue e le mani.
Ci baciamo con intensità, sento i brividi che mi percorrono le braccia, le gambe, la schiena, poi mi allontano e gli chiedo, improvvisamente e inspiegabilmente spaventata, se mi può portare a casa.
Lui non esita nel dirmi di sì e così saliamo sulla sua auto e in poco tempo, in silenzio tombale, schiacciata contro il finestrino del passeggero, raggiungiamo casa mia.
« Cosa c’è, hai paura che ti faccia male? » chiede Sebastiano, offeso, indicando la mia posizione.
« No » dico, sciogliendomi leggermente.
Mi sfiora il braccio, poi mi prende la mano, mentre con l’altra mi accarezza il ginocchio e la coscia coperti dai pantaloni.
Fisso i movimenti delle sue dita, stregata, anche se ancora molto, molto confusa e arrabbiata.
Confusione e rabbia che temporaneamente dimentico non appena comincia a baciarmi con passione e profondamente, più a lungo, prendendo sempre meno fiato tra un bacio e l’altro.
Non so come, improvvisamente mi trovo a scavalcare il sedile dell’auto e a scivolare su quelli dietro, seguita da Sebastiano, che dolcemente si stende su di me, sorreggendosi con un braccio e passando l’altro fra i miei capelli.
Io tengo entrambe le mani sul suo viso, per avvicinarlo il più possibile a me, assaporare la sua bocca e il suo respiro.
Cominciamo entrambi a respirare pesantemente, a baciarci con più foga e a cercare di stare sempre più vicini. Poi Sebastiano lentamente mi sfila la giacca, il maglione e la canottiera, fissandomi negli occhi. Ha le labbra e le guance rosse, gli occhi lucidi.
Mi bacia la punta del naso e le guance, il collo, il seno, la pancia e poi di nuovo la bocca.
Con una delicatezza incredibile, arriva all’ultimo capo, mi slaccia il reggiseno e lo sfila con calma, facendomi venire i brividi.
Io distolgo lo sguardo, imbarazzata come sempre del mio corpo.
Sebastiano però mi bacia il seno nudo, facendomi provare una sensazione totalmente nuova, un senso di appartenenza potentissimo.
E ricordandomi cose che vorrei dimenticare.

« Clarissa, te l’ho già detto: no. Sei ubriaca, non sai quello che fai. »
Ormai gli rimangono addosso solo i jeans e le mutande. Non ci stiamo più baciando da un po’, Leonardo si è improvvisamente fermato.
« So che voglio capire. Capire perché eravamo così amici e ad un tratto mi hai mollata, lasciandomi sola. »
« Sono cresciuto, e anche tu. Avevamo altre compagnie, altri stili di vita. »
« Non è una ragione, Leonardo! » sbraito, profondamente offesa.
« Shhht! Abbassa la voce o si sveglieranno tutti. »
« Non m’importa. La mezzanotte è passata. Ho compiuto diciotto anni. »
« Sì, mi ricordo quand’è il tuo compleanno » ridacchia. « Però non cambia il fatto che se fai casino, i tuoi si svegliano. E non vuoi che ti vedano così. »
Lo guardo storto, cercando di sbottonargli i pantaloni.
« Non mi vuoi fare un regalo? » ridacchio, il naso e la bocca appoggiati al suo collo caldo.
« Ferma, ferma. »
Mi afferra le mani con forza, guadagnandosi un’altra occhiataccia.
« Bene, se è così vattene via! » ringhio, cercando di divincolarmi.
« Detto da una ragazza ubriaca con addosso solo reggiseno e mutande è molto minaccioso » mi fa notare, continuando a tenermi i polsi.
« Se non vuoi me, cosa ci fai ancora qui? » continuo, ancora più offesa.
« Purtroppo è proprio questo il problema. »
Non aggiunge altro, io lo fisso per un bel po’.
Vorrei baciarlo, lo vorrei tanto, ma non lo faccio.
« Tu mi piacevi. Tanto. Poi te ne sei andato, e ti ho odiato. »
« Anche io mi sono odiato. »
Di nuovo è il massimo che dice.
« Resti? »
Non so se sia l’alcol o l’istinto a parlare, ma non provo imbarazzo ad averglielo chiesto.
Lui mi molla i polsi, mi sfiora le labbra con le dita e mi fa spazio nel mio letto piuttosto stretto.
Mi distendo, sfilo il reggiseno e lo getto ai piedi del letto.
Sento lui che ridacchia per il mio gesto, poi mi arrotolo un po’ tra le coperte, voltandogli le spalle e, senza alcun pensiero, mi addormento.
Mi risveglio verso le quattro, soltanto perché mi accorgo di essermi agitata nel sonno, trovandomi ora supina.
Noto le posizioni in cui siamo: Leonardo è accucciato sul fianco sinistro, il braccio destro teso verso di me e il palmo della mano appoggiato sulla mia pancia.
Ricordo di avergli preso la mano, avere intrecciato le nostre dita, ed essermi addormentata di nuovo.
Poi il risveglio alle sette.

Mi accorgo di aver ricostruito tutti i ricordi di quella sera, di sapere tutto ciò che è successo.
Io e Leonardo ci siamo addormentati insieme ma non abbiamo fatto sesso!
Tutto quello che credevo si è improvvisamente sbriciolato e un sorriso mi appare sul volto. Sorriso che scompare non appena mi rendo conto del fatto che Leonardo, la mattina seguente, mi aveva assicurato invece il contrario.
Per quale motivo?
Sebastiano, nel frattempo, accarezza le smagliature sui miei fianchi e quando poso di nuovo lo sguardo su di lui, mi sta guardando negli occhi, ma al posto di vedere i suoi, grigi e screziati di azzurro, mi sembra di averne davanti un paio scuri, neri, che non gli appartengono.
L’illusione dura un secondo.
Non ce la faccio a sostenere tutto quello che sta succedendo e disgustata da me stessa, mi sollevo, coprendomi il seno prima con il braccio e poi nuovamente con i vestiti, che indosso in fretta.
« Mi dispiace, scusa. So che era il momento giusto, ma per me… » dico, imbarazzata da morire, sistemandomi i capelli dietro le orecchie ed evitando di guardarlo.
« Scusa » dico, ancora una volta, poi esco dall’auto e mi dirigo in fretta verso la mia casa.
Sebastiano, come al solito, mi raggiunge prima che riesca a fare più di due passi.
« Moretta, non preoccuparti. Se non ti senti ancora pronta, aspetteremo. Io sono qui, lo sai. »
« Non è questo, Seba… » dico, la voce dura, senza motivo.
« Okay, hai reso l’idea, ogni cosa a suo tempo » mi interrompe, sorridendomi.
Lo guardo negli occhi per dargli delle spiegazioni, ma lui mi bacia, augurandomi la buonanotte a fior di labbra.
Un leggero senso di nausea mi sale alla bocca dello stomaco.

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Capitolo 20
*** Capitolo Venti. ***



Capitolo Venti.


La mattina seguente mi risveglio di umore nero. Nero come al solito, vi direte.  No, peggio, il che è tutto dire.
Mi sembra di aver dormito solo qualche minuto, ma mi accorgo che in realtà sono quasi tardi, essendo le sette meno cinque di un lunedì di fine marzo. Il primo giorno di una settimana che non voglio cominciare.
Mi preparo in fretta, mi sciacquo il viso, mi trucco, mi sistemo i capelli e scendo al piano di sotto per fare colazione, abitudinariamente, da sola, ingurgitando qualche cereale mischiato a un po’ di latte.
Le forze oggi non mi assistono, e trascinarmi in cucina è più faticoso del solito.
Tanto più che appena vi metto piede mi trovo davanti mio fratello maggiore, Christian.
Dopo la pesante lite che abbiamo avuto, nessuno dei due si è degnato di migliorare, o al limite rendere vivibile la situazione, preferendo chiudersi in un mutismo selettivo in presenza dell’altro.
Tuttavia, il peso di questo litigio mi sta schiacciando sempre di più, stringendomi una morsa sul cuore, e quando, per la prima volta da settimane, Christian mi rivolge la parola, un semplice “buongiorno”, potrei scoppiare in un grido disumano.
Tutto ciò che mi limito a fare è, però, ricambiare il saluto, servirmi la colazione e sedermi al tavolo, il tutto con la fretta che il ritardo mi impone.
Christian, tuttavia, non accenna a volermi ignorare come al solito, anzi, si volta verso di me e mi fissa con i suoi limpidi occhi azzurri.
Deglutisco a fatica, sentendo un senso di disagio tremendo.
« Forse ci ho pensato troppo e ho sbagliato a non rivolgerti la parola per così tanto… » esordisce mio fratello. « Ma dovevo metabolizzare tutto quello che mi hai detto. Tutte le accuse, mosse giustamente, tutti i miei errori. Sono stato egoista e infantile, ho pensato per anni solo a me stesso, alla mia vita e alla mia carriera scolastica, pensando che voi ve la sareste cavata perché siete in tre, avete un carattere forte e perché io non ce la facevo più a sostenere tutto quello che succedeva con Giacomo. La mia coscienza mi diceva che stavo facendo un errore, che avevate bisogno di me, ma più di una volta l’ho messa a tacere, pensando che non si può vivere per sempre per accontentare gli altri. Invece mi sbagliavo, e di grosso. Spesso Fede mi ha accusato di avervi abbandonati, ma pensavo che, essendo lui il più buono, disciplinato e sensibile fra di noi, fosse solamente un’emozione passeggera. Ma quando tu mi hai dato conferma dei miei dubbi, quando mi hai accusato delle cose che mi ero così tante volte convinto non fossero vere, mi sono sentito una merda… Ris, sto solo cercando di chiederti scusa. Dal profondo del mio cuore. Ti voglio bene, lo sai, e voglio che tu stia bene, e che fra di noi sia tutto come prima. »
Dopo il lungo discorso di Christian, rimango spaesata, come se il fiume di parole che ha detto mi avesse presa con sé, trascinata con la corrente e riportata a riva in un posto diverso da quello di partenza.
Mi dimentico che sono in ritardo, che devo prendere un autobus, perché in quel momento, le parole di mio fratello si scolpiscono nel mio cervello, lasciandomi senza possibilità di ribadire.
Balbetto qualche parola sconclusionata, ma riesco a formare una frase compiuta solo quando mia madre, allacciandosi il cardigan sul petto, entra in cucina e nota che sono ancora a casa.
« Sei in ritardo! Sono le sette e dieci, non riuscirai mai a prendere l’autobus… »
« Mi accompagni a scuola? » le chiedo, dimenticandomi per un secondo di Christian.
« Non posso » dice, in un tono particolarmente strano. « Christian, riesci ad accompagnare Clarissa? »
« Certo. Prendo la moto di Fede, non va all’università oggi. »
« Cosa?! » squittisce mia madre, sorpresa. « Tutta la scorsa settimana ha saltato le lezioni, e se ha intenzione di farlo anche questa… »
« Parlane direttamente con lui » suggerisce mio fratello, mentre si allontana per andare di sopra.
« Come mai tu ti sei svegliata così presto, invece? » le chiedo, una volta rimaste da sole.
Da un po’ di tempo, le conversazioni fra me e mia madre sono molto più civili, tranquille e oserei dire anche piacevoli.
« Esco a bere un caffè » risponde, vaga, lisciandosi i capelli sulla testa.
« Con chi? » la incalzo, ancora più curiosa, non aspettandomi assolutamente la reazione di mia madre.
Lei, infatti, abbassa lo sguardo, rimane in silenzio per un po’ e poi si volta verso di me, un sorriso enorme sulle labbra, che sta malamente tentando di mascherare.
« Un mio collega » risponde. Poi, prima che io possa aggiungere altro, afferra un biscotto dal contenitore e sale al piano di sopra.
Scuoto la testa, basita: sono successe troppe cose, per essere sveglia da meno di mezz’ora.

Il viaggio in moto verso scuola risulta imbarazzante e lunghissimo, dal momento che sono avvinghiata a mio fratello, senza potergli parlare a causa del rumore assordante del vento e dai caschi che impediscono una conversazione.
Non appena raggiungiamo il mio liceo, non gli lascio il tempo di mettere piede a terra che lo sto già travolgendo con il fiume di parole che mi sono preparata durante il tragitto.
« Avevo solo bisogno che te ne rendessi conto, Chris. Né delle tue scuse, né del tuo ritorno a casa. Volevo solo che sapessi che ci stavamo male e magari che ci stessi più vicino, semplicemente telefonando e facendoti sentire un po’ di più. »
« Sono stato uno stronzo, Ris. Il fatto che mi abbiano ritirato la borsa di studio, è stato semplicemente un segno che… »
« Ti hanno ritirato la borsa di studio?! » esclamo, confusa.
« Già… L’ho saputo un paio di giorni fa. Non tornerò all’Accademia. Hanno dovuto fare qualche taglio al budget e ovviamente gli studenti che vengono sovvenzionati sono stati i primi ad essere stati mandati a casa. »
« Mi dispiace tanto, Chris. »
Sono sinceramente dispiaciuta per lui. So perfettamente quanto ci tenesse, e soprattutto so che la sua vita ruotava attorno all’Accademia e agli studi. Dev’essere un colpo durissimo per mio fratello, e l’unica cosa che posso fare è sostenerlo, rassicurarlo ed evitare che si dia colpe che non ha.
« Starò più tempo con voi, adesso, però » cerca di tirarmi su il morale, anche se sono certa che, per quanto bene ci voglia, non vorrebbe che le cose stessero così.
« E tutti i tuoi amici? Li hai lasciati sperando di tornare ma non… ecco… » dico.
« La maggior parte di loro studiano ancora là, ci sentiamo con FaceTime oppure con qualche telefonata. Alcuni hanno fatto la mia stessa fine, e sono dovuti tornare a casa. »
Finalmente Christian riesce a scendere dalla moto e anche questa volta non gli lascio il tempo di reagire, abbracciandolo forte. Lui, anche se sorpreso, ricambia la stretta.
« Ho pensato di andare a trovarli durante il ponte del primo maggio, tra un paio di settimane. Volevo chiederti se ti va di venire con me » propone entusiasta.
Mi apro in un sorriso che però si spegne all’istante, quando realizzo i miei piani.
« Oh Chris, mi sa che non posso, vado in collina con degli amici... Ne riparliamo meglio dopo! » lo saluto in fretta, sentendo il richiamo della campanella.

In classe, per tutta la settimana, presto poca attenzione. È il periodo più importante, questo, per l’esito finale, ma non riesco a rimanere concentrata, a studiare, o ad applicarmi, e i risultati ben presto si vedono: oltre alle quasi scontate insufficienze in matematica e fisica, ricevo anche risultati negativi in scienze e filosofia, materie con cui non ho mai avuto feeling, ma che ho sempre dovuto digerire.
Ciò che mi occupa la mente sono i problemi dei miei fratelli: il maggiore, da quando ha scoperto che non potrà più tornare all’Accademia di Venezia, e Fede da quando ha cominciato a saltare le lezioni all’università, senza un perché, facendo preoccupare la mamma.
Inoltre, non mentiamo, la situazione incasinata fra me e Sebastiano, potrebbe essere migliore: non voglio che creda che non lo amo, o che non sono pronta ad andare un passo avanti, con lui. È solo che se ogni volta che mi bacia o che mi sfiora, mi appare il volto di Leonardo, al posto del suo, decisamente c’è qualcosa che non va. E quel qualcosa va risolto al più presto.
Rifletto sulla situazione per giorni, sentendomi molto in imbarazzo ogni volta che mi trovo in compagnia di Leonardo.
Non riesco a capire il motivo che l’ha spinto a mentire su ciò che è successo la notte del mio compleanno, ormai tre mesi fa: perché assicurarmi che siamo andati a letto insieme quando non è vero? Per di più, dal momento che è stato lui a rifiutarsi e addirittura ad accettare di dormire con me!
Non riesco ad immaginare le sue ragioni, e non so se avrò mai il coraggio di chiedergliele.
Certo, ogni volta che parlo con lui, adesso, vorrei tirare fuori l’argomento, ma imbarazzata ed evasiva come sono, temo di fare una figuraccia parlandone apertamente con lui.
Abbiamo veramente un buon rapporto, che si sta costruendo passo dopo passo, ma le nostre conversazioni hanno un limite, o meglio, di certe cose preferiamo non parlare, e ci è sempre andato bene così.
Perciò, anche se lo detesto, continuo a fingere di non sapere nulla, a vedere regolarmente Leonardo e a distogliere lo sguardo dal suo.
Per colpa della situazione scolastica che sta precipitando, inoltre, non vedo Sebastiano dall’ultima sera in cui abbiamo più o meno risolto, e sinceramente penso sia molto meglio così.

È durante un venerdì pomeriggio dei primi di aprile, quando Leonardo mi accompagna a casa, avvertendomi che si farà vivo nel pomeriggio, che sento che c’è qualcosa che non va.
Ancora prima di aprire la porta dell’appartamento, ho una sensazione spiacevole, che tento di scrollare via.
Busso un paio di volte, ma non è Valentina che mi accoglie alla porta, bensì mia nonna, quell’arzilla vecchietta che viene a farci visita solo per distribuire soldi e caramelle.
« Nonna! » esclamo, e mi faccio baciare le guance da lei, senza poter (e voler) ribattere.
« Cosa ci fai qui? »
« Clari, devi essere forte e non arrabbiarti. Avremo il tempo di discuterne ma, per ora, stai tranquilla. Lei sta bene. »
Con il cuore che batte all’impazzata, senza chiedere spiegazioni, sento varie voci provenire dalla cucina e mi ci dirigo, quasi timorosa, a piccoli passi.
Quando varco la porta, lo spettacolo agghiacciante che ho davanti mi fa trattenere il respiro.
C’è Federico, in piedi, le mani tremanti, che regge il capo di mia madre.
La sorella di mia madre, Betta, le sta disinfettando un taglio che le ha graffiato la guancia appena sotto l’occhio. Il resto del viso è completamente emaciato: ha il naso e un occhio gonfi e sanguinanti, un labbro rossastro e innaturalmente piegato verso l’esterno.
Altri taglietti e graffi le sfigurano il volto.
« Mamma » sussurro appena, sentendo le gambe che mi cedono, il vomito che sale fino alla gola.
Federico si accorge di me, e delicatamente lascia la testa di mia madre per correre e abbracciarmi, tenermi stretta e lontana da quello scempio di violenza e follia.
« Cos’è successo? La mamma sta bene? » borbotto, una volta che mi ha allontanata dalla cucina.
« Sì, lei… L’ho trovata così, stamattina, seduta al tavolo mentre beveva un caffè. Il viso coperto di sangue. Ho chiamato subito la nonna e zia Betta, non sapevo cosa fare. Non voleva che la toccassi e se le chiedevo qualcosa, non parlava. Sembrava pazza, lo giuro » spiega mio fratello, non riuscendo a calmarsi, le mani che convulsamente si muovono e gli occhi che saettano rapidi. « È stato lui, è stato Giacomo. Non so nemmeno come faremo a denunciarlo, da dove cominciare, dove finiremo noi, voi… »
Le sue preoccupazioni sono terrene, materiali. Federico è arrabbiato, lo so, ma sta tenendo da parte gli impulsi e l’istinto, per trovare una soluzione concreta e immediata.
Io no. Io sto bollendo di rabbia, una furia primitiva e sconvolgente che mi rode dentro, che chiede di essere liberata e che vuole, pretende di uscire.
« Dobbiamo dirlo a Chris. Lui lo sistemerà. Gliela farà pagare. Pagare per tutti questi anni. Quel miserabile schifoso deve soffrire come ha fatto soffrire noi per tutto questo tempo » sto sussurrando così piano da non riuscire nemmeno a sentire me stessa. Questo perché in realtà sto solo dando voce a pensieri che si susseguono velocemente nella mia testa.
Non mi è mai capitato di provare un odio così profondo, una collera così potente prima.
Mia nonna fa capolino dalla porta della cucina, tentando di calmarmi, mandando via Federico e rimanendo a quattr’occhi con me per parlarmi.
« Clari, cerca di trattenerti. So cosa vuoi fare a quell’uomo, so cosa cerchi di dimostrare, che vuoi bene alla tua famiglia, a tua madre, e non vuoi che nessuno di voi soffra più per colpa sua. Ma ci sono altri modi, oltre la violenza. Lui la usa. Lui che è un animale. Pensaci. »
E mi lascia di nuovo sola, con la mia rabbia, i miei pensieri, la mia testa confusa e sconvolta.
Mi siedo sul divano, tentando di calmarmi. Non torno in cucina perché non ce la faccio a guardare mia madre in viso, non riesco a vedere ancora una volta lo scempio che quel mostro di mio padre ha fatto.
Mia mamma, la persona più docile e tranquilla che conosco, anche se troppo debole e sottomessa, che per troppi anni io, come i miei fratelli e mio padre, abbiamo trattato male. Che non ha mai reagito, mai alzato un dito su nessuno. Che nonostante tutto non ci ha mai fatto mancare nulla.
« Vado a prendere Valentina a scuola, altrimenti penserà che l’abbiamo dimenticata » interrompe il mio flusso di pensieri mio fratello.
« Non salirà mai in moto, dopo l’ultima volta, lo sai » gli ricordo, il tono di voce piatto.
Mi ricordo ancora le ore che Vale ha passato a piangere tra le mie braccia l’unica volta in cui è salita in moto con Fede.
« Sì, ma è l’unica soluzione. Mamma non ha la macchina e la zia è venuta qui in autobus » mi fa notare.
« Ho io una soluzione. Ci vado io. Lascia fare a me. Preferisco stare un po’ fuori casa. »
Il mio tono è calmo, non tradisce nulla. Non mi riconosco quasi dalla collerica persona di qualche minuto fa.
« E come? » sospira lui, posando però le chiavi della sua moto.
« C’è una persona… »
Non finisco la frase. Prendo il mio telefono e, cercando nella rubrica, chiamo l’unica persona di cui so di potermi fidare.  

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