Amore mio, portami via

di thebrightstarofthewest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mary e Matthew ***
Capitolo 2: *** Anna e John ***
Capitolo 3: *** Edith e Michael ***
Capitolo 4: *** Cora e Robert ***
Capitolo 5: *** Thomas e Jimmy ***



Capitolo 1
*** Mary e Matthew ***


I. Mary e Matthew
Tu portami via
Dalle ostilità dei giorni che verranno
Dai riflessi del passato perché torneranno

Dai sospiri lunghi per tradire il panico che provoca l’ipocondria

Il vento spirava freddo da nord, trasportando con sé piccoli e candidi fiocchi di neve ed una nebbiolina umida abbastanza gelida da entrarle nelle ossa.
Ma non era per questo che Mary Crawley stava tremando.
Elegante e sinuosa come una rosa, se ne stava eretta davanti ad un’imponente lapide. Sopra, vi era un nome: Matthew Crawley, amato marito e padre.
Lontano, oltre alle mura del cimitero, Mary poteva sentire il suono dei bambini che strillavano giocando con la neve, rincorrendosi, chiedendo ai loro genitori cosa avrebbero ricevuto in regalo. E come biasimarli, d’altronde? Era la mattina di Natale.
Ma Natale, per Mary, non poteva più essere lo stesso. Non dopo che, qualche mese prima, aveva perso Matthew, l’uomo che l’aveva cambiata, che l’aveva capita e rispettata; l’unico che aveva saputo vedere in lei del buono, oltre che del banae bello.
Era sgattaiolata fuori da Downton prima ancora che il freddo sole facesse capolino tra le nuvole plumbee e si era recata lì; voleva stare sola: non voleva che suo padre la abbracciasse per confortarla, né che sua madre la guardasse con dolcezza, tantomeno che Edith la commiserasse. Voleva semplicemente starsene da sola… o meglio, con Matthew.
“Io…”, mormorò ad un certo punto, esalando una piccola nuvola bianca dalla bocca. Non sapeva bene cosa dire, non era molto brava quando c’erano di mezzo i suoi sentimenti. “Non ho idea del perché sono qui, amore mio… tu non vorresti vedermi qui adesso, questo lo so. Mi diresti che fa freddo e che devo stare attenta”. Fece una pausa. “Ma tutto questo… ha qualche importanza, ormai? Ora che tu non ci sei più, per chi devo preservare la mia salute, la mia bellezza?”. La voce le si ruppe e per qualche istante fu costretta a fermarsi. Teneva i pugni talmente stretti che era sicura che le unghie avrebbero perforato il tessuto dei suoi guanti e poi il palmo delle sue mani.
“Ho sempre creduto di essere forte”, bisbigliò, forse più diretta a se stessa che non alla lapide immobile, “Ma forse sono solo una sciocca vanitosa. Sybil era forte. Tom è forte. Mamma e papà, a loro modo, lo sono. Ma io? Io non lo sono. Non senza di te”.
A quel punto, le forze le mancarono: con le mani tremanti davanti al volto, crollò in ginocchio davanti alla tomba, bagnandosi l’abito con la neve e le guance con le lacrime.
Per l’ennesima volta da quando Matthew non c’era più, si domandò perché non fosse stata lei a morire.

(numero di parole: 416)
Prossimo aggiornamento: 6 marzo 2017


Angolo dell'autrice:
Buongiorno a tutti/e! Spero vi sia piaciuto questo capitolo iniziale di questo mio nuovo progetto. Inutile a dirsi, la nuova canzone di Moro mi è balzata alle orecchie per caso in radio ed ho subito pensato a loro: ai fantastici uomini e donne di Downton, con tutti i loro difetti, le loro mancanze e la loro bellezza. Spero vi sia piaciuta e, in caso, fatemi sapere in un commento. Un abbraccio.

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Capitolo 2
*** Anna e John ***


II. Anna e John

Tu portami via 
Se c’è un muro troppo alto per vedere il mio domani
E mi trovi lì ai suoi piedi con la testa fra le mani 
Se fra tante vie d’uscita mi domando quella giusta chissà dov’è

La sola idea di non poterla sfiorare, di non poter baciare la sua pelle candida o carezzare con delicatezza i suoi capelli biondi, lo faceva impazzire di dolore. 
Quando dunque Anna si scansò per l’ennesima volta dal tocco della sua mano, John Bates sentì il proprio cuore infossarsi, sprofondare, cadere in un abisso senza fondo: un abisso di incertezza, di sofferenza e, forse… anche di senso di colpa?
John non riusciva a capire, né tantomeno a darsi pace: perché sua moglie, l’amore della sua vita, la donna che lo aveva fatto sentire nuovamente uomo, uomo davvero, adesso lo rifuggiva?
Sua Signoria aveva detto che era normale, che due persone intelligenti che affrontano insieme il tortuoso ma straordinario sentiero del matrimonio ogni tanto devono obbligatoriamente fermarsi, e, magari, persino compiere alcuni passi indietro. E Bates li aveva ripercorsi tutti, quei passi: aveva riflettuto, aveva analizzato, aveva cercato di comprendere… ma non c’era riuscito: non riusciva in alcun modo a capire perché Anna non lo amasse più.
“Anna…”, la chiamò piano, mentre la luce del sole morente giungeva sempre più rosata e tenue all’interno del seminterrato della servitù, “Ti prego…”.
Lei si teneva gli orli dell’abito nero, con i pugni chiusi nervosamente. “Non posso tardare”, mormorò, evitando di incrociare il suo sguardo. Gli mancava così tanto la luce gentile dei suoi occhi. “Lady Mary vorrà essere preparata per la cena”, concluse, e fece per andarsene. Ma no, no, no, non poteva andarsene: non poteva lasciarlo lì, boccheggiante, solo, con il cuore che traboccava di incomprensione e disperazione.
Con uno slancio sin troppo impetuoso di cui si pentì immediatamente, la afferrò per il braccio, bloccandone l’uscita dalla porta; Anna si girò di scatto, con un tremito violento. Sentirla tremare al proprio tocco fu come un pugno nello stomaco.
John sospirò, prima di parlare di nuovo. “Ti prego…”, bisbigliò, con urgenza, con gli occhi arrossati, con la voglia di urlare che l’amava e non capiva, non capiva, non capiva.
Per un istante, gli sembrò che gli occhi di Anna si illuminassero nuovamente, come se volesse dirgli tutto quanto, parlargli, farlo ridere, vivere, essere se stesso; John si perse in quel barlume di speranza. Gli era mancato, credere in qualcosa, anche solo per un fugace istante.
D’improvviso, la campanella della stanza di lady Mary suonò con un cigolio stridulo. Come in un sogno, la luce si ritrasse dalle iridi chiare di Anna e tornarono le tenebre. Lei abbassò lo sguardo e fece un passo indietro. “Io…”, biascicò, e la luce pallida della sera che si approssimava illuminò delle lacrime argentee nei suoi occhi, “Devo andare”.
Mentre la guardava allontanarsi, John Bates ripercorse per l’ennesima volta il sentiero del loro matrimonio, in cerca di un passo falso, di una svista, di un errore. Eppure non vi trovò niente, se non il timore, l’angoscia palpabile di non essere semplicemente mai stato abbastanza.

(numero di parole: 475)
Prossimo aggiornamento: 13 marzo 2017


Angolo dell'autrice:
Buonasera -o forse dovrei direttamente dire "buonanotte", dato l'orario-, soltanto un paio di parole: vorrei ringraziare di cuore gaialor95 per aver recensito! Non me lo aspettavo affatto e mi ha fatto un piacere incredibile. Spero che la storia possa continuare a rivelarsi interessante.
Un abbraccio,

 

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Capitolo 3
*** Edith e Michael ***


III. Edith e Michael
 

Portami via dai momenti
Da questi anni violenti
Da ogni angolo di tempo dove io non trovo più energia
Amore mio portami via

Non era poi lontana, la Germania: alla fine, a separarla dall’aristocratica ed isolata Gran Bretagna c’era soltanto un misero lembo di mare. Quanto mai poteva essere distante, dunque?
La fredda, odiosa ed inospitale Germania! Per molti, quella nazione era soltanto fonte di problemi e discordia, ma non per Edith: per lei, Germania era stata sinonimo di silenziose speranze, di un nuovo inizio tanto misterioso quanto affascinante… di un amore grande, immenso, infinito.
Ma i tempi delle silenziose speranze erano finiti, erano giunti al termine i giorni dei nuovi inizi e l’amore… l’amore non era che un ricordo lontano, troppo distante per essere ancora tangibile: lo percepiva fluire via dalle sue dita, sfuggirle, scappare via… sarebbe mai tornato?
Erano questi i pensieri che affollavano la mente della figlia mediana di lord e lady Grantham, mentre sedeva in silenzio meditabondo nella biblioteca di Downton, le mani tremanti, gli occhi ricolmi di lacrime. Sì, sedeva in silenzio, ma avrebbe voluto urlare: urlare a tutti quanti che anche lei meritava la propria fetta di gioia, che anche lei aveva lottato per ottenere il proprio posto nel mondo, che anche lei aveva bisogno di essere amata. Amata sul serio: con dolci carezze e baci, ed abbracci, abbracci lunghi e pieni di significato. E anche parole, sì, un fiume infinito di parole affettuose.
E Michael era stato l’unico a darle tutto questo.
Michael l’aveva accolta nel suo mondo, ne aveva accettato pregi e difetti, ed aveva fatto di tutto per poterla sposare: se n’era andato nella fredda, odiosa ed inospitale Germania per lei. Per lei… Quanto era strano? Gli uomini di solito facevano pazzie per sua sorella Mary, ma non certo per la povera insignificante Edith.
Ma Michael era diverso. Lui le aveva fatto credere, per la prima volta concretamente, che tutto sarebbe andato per il meglio. Un sorriso amaro le spuntò sulle labbra: d’altronde, non era forse buffo come il destino avesse giocato con le sue speranze? Le aveva donato un uomo che l’adorava, l’adorava davvero… e poi lo aveva fatto scomparire, nella fredda, odiosa ed inospitale Germania. Di lui non v’era più traccia: la sera del suo arrivo a Monaco, era uscito dal suo hotel e da quel momento nessuno aveva saputo più nulla.
Era angosciante quel… non sapere. Forse non avrebbe più sentito il tocco delle sue mani, forse non avrebbe più udito il suono pacato della sua voce, forse non si sarebbe più persa nei suoi occhi. Forse, forse, forse!
Nella solitudine della biblioteca, Edith scoppiò in lacrime: forse Michael non avrebbe mai visto il suo bambino… quello che lei aveva in grembo.
In quell’istante, la Germania le parve infinitamente lontana.

(numero di parole: 439)
Prossimo aggiornamento: 20 marzo 2017

 

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Capitolo 4
*** Cora e Robert ***


IV. Cora e Robert
 

Tu portami via 
Quando torna la paura e non so più reagire 
Dai rimorsi degli errori che continuo a fare 
Mentre lotto a denti stretti nascondendo l’amarezza dentro a una bugia

“Non riesci a dormire?”.
La domanda, modulata da una voce dolce e ricolma di apprensione, una familiare voce dall’accento marcatamente americano,si perse nel buio della camera da letto.
E chi ci riusciva più, a dormire? Non Robert, sicuramente; perlomeno, non da quando… non da quando Sybil non c’era più. Scacciando via le lacrime che minacciavano di rigargli le guance da un momento all’altro, lord Grantham si girò pesantemente tra le lenzuola, trovandosi a pochi centimetri dal volto preoccupato di sua moglie, che ancora attendeva una risposta.
Cora. La sua Cora.
Con quel volto color perla, con quelle sfumature rosee che le dipingevano le guance, con quelle piccole rughe che gli ricordavano il tempo passato insieme. Erano sposati da trent’anni, ormai.
Cora. La sua Cora.
Quella donna che aveva sposato per soldi, ma che aveva finito per amare per la sua dolcezza, la sua sagacia, la sua determinazione. Quella donna che aveva rischiato di perdere per la sua cecità.
“No… scusa, non volevo svegliarti”, rispose, in un soffio stanco. La sua grande mano si posò sulla guancia della moglie, carezzandola delicatamente. Gli era mancato quel contatto.
“Nemmeno io dormivo, non ti preoccupare”, replicò lei, e poggiò il proprio palmo morbido sul dorso della sua mano, “Robert…”. Pronunciò il suo nome con particolare delicatezza, facendo una pausa immediatamente dopo. Lui sapeva già cosa voleva dirgli. “Penso di dovermi scusare per…”.
“Non devi scusarti”, rispose conciso lui, scuotendo il capo, “Non ce n’è ragione”.
“Ti ho accusato ingiustamente”.
Robert non disse niente. Certo, quando il dottor Clarkson gli aveva annunciato che Sybil non era morta a causa delle sue scelte, il conte si era tolto un peso, ma non aveva provato alcuna gioia, alcuna soddisfazione, alcun sollievo. Solo le braccia di Cora, il loro peso sulle sue spalle, la loro stretta forte, il loro profumo di colonia e viole, avevano fievolmente lenito il dolore, seppure per un mero istante. Credeva che non avrebbe più potuto trovare conforto tra quelle braccia. Credeva che lei non lo avrebbe mai perdonato. Credeva di essere stato davvero lui ad uccidere la loro bambina. Credeva che l’odio che serbava Cora per lui, adesso, fosse più che giusto. Si odiava anche lui, in realtà.
“Ti ho ritenuto responsabile per la morte di nostra figlia”, proseguì lei, con voce incerta, vacillante, “Non ho creduto in te e…”.
“E avevi ogni buona ragione. Non potevi sapere”, concluse lui, e fece per rigirarsi dall’altra parte: aveva sentito una lacrima scendere giù, sfiorandogli il naso, cadendo sulla superficie morbida del cuscino. Lei, però, lo fermò, prendendogli il volto tra le mani e costringendolo a guardarla.
“Io ti amo, Robert”, bisbigliò, con voce rotta, “E, qualunque cosa accada, troverò sempre una buona ragione per credere in te”. Lo strinse a sé e non appena il tessuto della sua camicia da notte sfiorò il suo corpo, entrambi scoppiarono in lacrime. Forse per paura, forse per amore.
Eppure, quel sussultare e singhiozzare insieme, quel dolore condiviso, era tutto ciò di cui avevano bisogno.

(Numero di parole: 497)


Angolo dell'autrice:
Scusate l'imperdonabile ritardo, ma l'università non ha affatto aiutato. Cora e Robert sono i miei preferiti, spero dunque questo capitolo possa piacervi! Cercherò di aggiornare il prima possibile. Un abbraccio.
 

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Capitolo 5
*** Thomas e Jimmy ***


V. Thomas e Jimmy
 

Tu portami via
Se c'è un muro troppo alto per vedere il mio domani
E mi trovi lì ai suoi piedi con la testa fra le mani
Se fra tante vie d'uscita mi domando quella giusta chissà dov'è




Nel silenzio quasi totale della stanza dei servitori, Thomas Barrow alzò pigramente gli occhi dal giornale per sbirciare il volto di Jimmy… sembrava preoccupato. Sapeva che nelle ultime settimane stava provando a corteggiare Ivy, eppure qualcosa doveva essere andato storto: glielo leggeva nell’espressione corrucciata, la bocca piegata in una smorfia, le mani rigidamente chiuse a pugno sopra il tavolo.
Socchiudendo gli occhi celesti, Thomas si rabbuiò: doveva aiutarlo… in nome della loro amicizia.
A quel pensiero, un sorriso triste e sarcastico gli si dipinse in volto. Portò la mano fasciata davanti alle labbra: amicizia… quanto gli andava stretto, quel termine. Perché insomma, Thomas si era innamorato di Jimmy, negarlo era del tutto inutile: adorava i suoi corti capelli biondi, i suoi occhi spavaldi ed il suo viso regolare. Adorava tutto di lui, tutto.
Eppure, aveva dovuto lasciarlo andare… perché Jimmy, al contrario, non lo amava affatto. Girando pagina del Times, l’uomo si lasciò sfuggire un sospiro: era sempre, sempre così. Ognuna delle sue relazioni –o, più spesso, mere infatuazioni- finiva male o non iniziava neppure.
Questo perché lui era diverso. Questo perché lui era nato con addosso una maledizione che non poteva staccarsi dalla pelle, dalla mente e dal cuore: Thomas era attratto dagli altri uomini.
Avrebbe voluto urlare, in quel silenzio così snervante: perché proprio a lui? Perché la natura lo aveva creato sbagliato? Lui che voleva solo essere come gli altri e venire accettato. Desiderava soltanto poter esprimere ciò che era senza sentirsi così maledettamente in errore.
Strinse il pugno destro, la ferita di guerra sul palmo che ancora doleva appena… Sarebbe mai cambiato niente? Sarebbe mai riuscito ad amare liberamente, senza ostacoli o timori, senza quella terribile, attanagliante ed ossessiva paura del suo essere differente da tutti gli altri?
Ricacciò indietro le lacrime che minacciavano di rigargli il viso: no, non poteva piangere. Non di fronte a Jimmy, perlomeno. Thomas lo osservò ancora una volta, cercando di vedere il lato positivo di quella situazione così straziante: tutto sommato, con Jimmy era rimasto in buoni rapporti.
Certo, non poteva baciarlo dolcemente, né stringerlo a sé, né tantomeno accarezzarlo nel buio della notte, quando le pareti della stanza sembravano stringerglisi addosso.
Non poteva averlo. Come, d’altronde, non poteva avere la felicità.
Prendendo un profondo respiro, si alzò in piedi e si avvicinò a Jimmy, un sottile sorriso che gli aleggiava sulle labbra.
“Jimmy, mi sembri un po’ giù… c’è niente che possa fare per te, amico mio?”.

(Conteggio delle parole: 408)

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