All the things i hate about you.

di JacquelineKeller01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Tu sei la mia nuova migliore amica. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Va bene, Mamma. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Non fotti con Roselyn Elizabeth Davis. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Fammi posto. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 - Bimba non piangere. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 - Stavo per dire cunicolo nasale. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7 - So prendermi cura di me stessa. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8 - Sei migliore di quel che credi. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 - So che non sei un cucciolo ferito. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 - Non è la tua battaglia, Bambi. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 - Cerca solo di non farti male. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Ne sai davvero così poco di musica? ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Domani arriva mamma! ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - E' stato difficile? ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Dovrà sempre esserci un Hall da Betsy. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - Io sono a casa. ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Io e te non parliamo mai. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - E' più complicato di così. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 - Che ci fai qui? ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Mi piaci tu. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Sei sotto un treno. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Non posso farlo. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 - Hai prove per sostenere la tua tesi? ***
Capitolo 25: *** QUESTO NON È UN CAPITOLO. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24 - Ti aspetto. ***
Capitolo 27: *** Capitolo 25 - Non sono innamorato. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 - Ero nel panico. ***
Capitolo 29: *** Capitolo 27 - Non essere drastica. ***
Capitolo 30: *** Capitolo 28 - Promesso. ***
Capitolo 31: *** Capitolo 29 - Red? ***
Capitolo 32: *** Capitolo 30 - Non chiamarmi così. ***
Capitolo 33: *** Capitolo 31 - Sono Peter Wilson ***
Capitolo 34: *** Capitolo 32 - Tu mi hai lasciato (Parte 1). ***
Capitolo 35: *** Capitolo 33 - Tu mi hai lasciato (Parte 2) ***
Capitolo 36: *** Capitolo 34 - Che giorno è? ***
Capitolo 37: *** Capitolo 35 - Perché ti sei tolto la maglietta? ***
Capitolo 38: *** CHIEDO PERDONO. ***
Capitolo 39: *** Capitolo 36 - Avrei dovuto essere qui. ***
Capitolo 40: *** Capitolo 37 - E' la mia mamma (Parte 1). ***
Capitolo 41: *** STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Lea non metteva piede ad Harpool Bay da anni oramai. 
L'ultima volta era stata durante il giugno del 2006; la prima estate dopo il divorzio. La ricordava bene, in quel periodo era successo di tutto. Dal braccio rotto che si era procurata quando suo fratello Aiden l'aveva fatta cadere dalla casa sull'albero, al trasferimento da Gabe, all'incidente di Dean...
Tornare era strano; in quella piccola baia, dispersa tra le più grandi metropoli della California, l'orologio, quasi, sembrava essersi fermato. Se non fosse stato per il chioschetto, appena aperto, sul fondo della strada avrebbe giurato di essere tornata indietro nel tempo.
Persino le vecchie stanze sue e di Aiden erano rimaste le stesse; suo padre, leggermente imbarazzato, si era giustificato dicendo che nei primi tempi aveva sperato in un loro ritorno poi quel briciolo di speranza che covava dentro di se si era trasformato in malinconia, finché passare davanti a quelle porte chiuse non era diventata l'ennesima abitudine di cui avrebbe volentieri fatto a meno.
Lea l'aveva trovata una cosa dolcissima, ma non aveva espresso i suoi pensieri ad alta voce, limitandosi a rivolgergli un sorriso.
Non vedeva né sentiva suo padre da dieci anni oramai, era ancora bizzarro pensare che sarebbe tornato a fare parte della sua vita così, da un momento all'altro.
«Guarda, guarda chi è tornato all'ovile dalle pareti rosa confetto.» Esclamò, improvvisamente, una voce maschile, a lei totalmente sconosciuta, facendola sobbalzare. Lea, confusa si guardò attorno, completamente stranita, alla ricerca di colui che l'aveva distratta dai suoi pensieri, prima di ricevere l'indizio vincente. «Fuori dalla finestra, Genio.» La canzonò il ragazzo, sospirando sonoramente.
La giovane spalancò il finestrone ed uscì in balcone ritrovandosi faccia a faccia con un tipo a lei totalmente ignoto ma che, però, sembrava avere qualcosa di familiare. 
Lo fissò per qualche istante senza spiccicare parola, arrovellandosi alla ricerca di qualche particolare che potesse ricondurlo ad una persona concreta che aveva conosciuto nella sua infanzia ad Harpool Bay.
Fece correre lo sguardo sulle lunghe gambe fasciate dai jeans neri, sulle braccia coperte da tatuaggi, sulla mascella squadrata, sul naso dritto e gli occhi infossati fino alla massa di riccioli biondi che gli ricadevano sulla fronte madida di sudore.
Furono proprio quei riccioli biondi, oltre ovviamente al ricordo, ora vivido più che mai, di chi occupava quella casa, a far scattare l'interruttore nella sua mente. Quasi non si strozzò con la sua stessa saliva. «Isaac?» Domandò con voce strozzata. Cristo, se era cambiato da quando erano bambini.
«Duh!» Esclamò lui con falso entusiasmo, portandosi una sigaretta alle labbra.
Isaac Hall era l'essere più irritante che Lea Wilson avesse mai incontrato in vita sua. 
Si era trasferito nella casa accanto all'età di sette anni, lei ne aveva ancora cinque e lui si divertiva ad utilizzare quella piccola differenza di età come pretesto per usarla come pungiball ambulante.
«Vedo che sei ancora vivo, purtroppo!» Esclamò piccata, portando le braccia conserte sotto il seno.
Isaac sorrise, ma non le rivolse neanche uno sguardo. Si limitò semplicemente buttare fuori un'ultima boccata di fumo prima di gettare la sigaretta a terra e pestarla con la punta del piede. In risposta si aspettava un commentino acido o un pugno, visto che era fermamente convinta che la sua età cerebrale fosse rimasta quella di un bambino di sette anni. «Come mai di nuovo qui?» Domandò, invece, ignorando completamente la sua osservazione.
«Problemi in paradiso.» Si limitò a rispondere, facendo spallucce. Non era del tutto vero, ma neanche del tutto falso. «Tu invece? Non dovresti essere al college?»
«Me ne sono andato.» Replicò, imitando il suo gesto.
«Te ne sei andato o ti hanno espulso?»
«Hai una così bassa considerazione di me?»
«Si!»
Isaac scoppiò a ridere sonoramente e, sebbene volesse restare seria, non poté fare a meno di lasciarsi scappare un sorriso. Irritante o meno, aveva la risata contagiosa.
«Ho dato fuoco alla Phi Kappa Psi e mi hanno cacciato.» Esclamò, incontrando per la prima volta, da quando quella conversazione aveva avuto inizio, i suoi occhi.
La mascella di Lea toccò il pavimento prima ancora che l'altro potesse finire la frase. «Stai scherzando, vero?»
Il ragazzo rise di nuovo, probabilmente della faccia sconvolta che aveva appena assunto. «Ovvio che si! Semplicemente ho capito che le Scienze Politiche non facevano per me, sono tornato qui e ho preso a fare il musicista.»
«Idiota.» Bofonchiò.
Un altro motivo per cui quel ragazzo non le era mai piaciuto era perché, sin da bambino, non sapevi mai cosa aspettarti da lui. 
Sia chiaro, in fatto ad azioni era decisamente prevedibile ma con le parole era sempre stato bravo; era capace di far passare qualsiasi cosa per vera, per poi sbatterti la realtà dei fatti direttamente in faccia, finendo con il farti più male di quanto avrebbe fatto saperlo da subito.
Dopo svariati istanti di silenzio Lea capì che non avevano altro da dirsi così gli voltò le spalle e fece per andarsene, ma la voce di Isaac la fermò sulla soglia.
«Aiden?» Domandò. 
Questa volta il tono della sua voce era seriamente interessato, decisamente diverso da quello che aveva usato poco prima parlando con lei, dove si vedeva palesemente fossero solo domande di circostanza fatte tanto per riprendere da subito l'abitudine di stuzzicarla.
«Aiden che cosa?» Domandò a sua volta, fingendo di non voler capire che cosa, realmente, le stesse chiedendo.
«Aiden dov'è?» 
«A casa nostra, a New York. Dove vuoi che sia?»
«Che ne so, pensavo fosse il momento per una bella rimpatriata della famiglia Wilson!»
Lea scosse il capo, umettandosi le labbra.
«Si, è ancora incazzato con te, se te lo stai chiedendo.» Lo informò lei, senza troppi giri di parole.
Sapeva che un tempo quei due erano rimasti in contatto anche dopo il loro trasferimento e che erano stati legati come fratelli, ma poi tutto era finito, come se niente fosse mai successo; Aiden non aveva voluto dirle il perché e lei non aveva indagato oltre, sapendo che se mai avesse avuto il bisogno di dirlo a qualcuno, probabilmente, lo avrebbe detto a lei.
«Questo lo so bene, Bambi!» Puntualizzò con un pizzico di irritazione nella voce. 
«Ancora con questo nomignolo?» Esclamò, roteando gli occhi.
Glielo aveva affibbiato quando erano ancora bambini e da quando aveva scoperto che le faceva venire l'orticaria non aveva mai smesso di chiamarla a quel modo.
Isaac si strinse nelle spalle, infilando ambo le mani nelle tasche dei Jeans. «Ci vediamo in giro, Bambi!» Disse, mentre si allontanava dalla ringhiera e scompariva all'interno della sua stanza.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Tu sei la mia nuova migliore amica. ***


«Papà sto uscendo!» Esclamò a gran voce, prima di chiudersi la pesante porta alle spalle.
Dopo una settimana dal suo ritorno ad Harpool Bay aveva finalmente deciso di abbandonare la depressione che l'aveva colta subito dopo il suo arrivo ed uscire a prendere una boccata d'aria.
Ne aveva bisogno o prima della fine del mese sarebbe finita con l'impazzire. Inoltre doveva riprendere padronanza delle conoscenze del luogo e vedere se i suoi ricordi erano affidabili come credeva.
Se in un primo momento quella piccola cittadina le era parsa la stessa dei ricordi della sua infanzia, camminando tra quelle stradine consumate non poté non meravigliarsi nel notare quante cose, in realtà, fossero cambiate nel corso degli anni, come ad esempio il ristorante a base di pesce lungo la strada per il molo; Lea era più che convinta che tempo prima fosse stata una scuola elementare, la stessa frequentata da lei. Se si concentrava bene poteva quasi dire di rivedere le pareti gialli, le impronte delle manine sporche di vernice sulle finestre o la staccionata bianca che delimitava il cortile. Un moto di nostalgia la colse alla sprovvista, ma lo ignorò.
Fortunatamente il piccolo locale in cui suo padre la portava a fare merenda ogni pomeriggio, quando era bambina, era ancora lo stesso. Persino gli interni erano quelli di una volta e Lea non poteva che esserne felice.
Ricordava che lei ed Aiden si erano rifugiati lì dopo l'incidente di Dean, così come dopo aver scoperto del divorzio dei genitori.
Camminava a passo spedito in direzione del bancone, già pregustando il pezzo di Cheesecake ai frutti di bosco che avrebbe messo sotto i denti, quando un diavolo di borsone non rischiò di farle battere il sedere per terra.
«Scusami, non volevo lasciarlo in mezzo!» Esclamò un ragazzo dal tono gentile, abbassandosi per aiutarla a liberarsi le caviglie dalla tracolla.
Lea si soffermò un breve secondo a guardarlo truce, prima di trovare dentro di se stessa la forza di mettere da parte l'irritazione e forzare un sorriso. «E' tutto a posto, non preoccuparti.» Affermò, muovendo un passo indietro.
Il giovane le sorrise di rimando e dopo un breve scambio di sguardi, spostò la borsa, lasciandole così libero il passaggio.
«Lea Marie Wilson, smettila di provarci con i miei amici.» Tuonò una voce fin troppo familiare.
Un brivido le corse lungo tutta la spina.
Ovviamente, dopo aver convissuto pacificamente una settimana, vedendosi poco e parlandosi ancora meno, Isaac non poteva perdere l'occasione di metterla in imbarazzo pubblicamente. Chissà, magari stava aspettando solamente quel momento.
Rossa come un pomodoro e rigida come un pezzo di legno, si voltò in direzione del tavolo. Si ritrovò a chiedersi come avesse fatto a non notarlo prima, ma constatò che evidentemente sua madre aveva ragione: quando si trattava del suo stomaco Lea non vedeva neanche ciò che si trovava ad un palmo dal suo naso. Preda del più completo imbarazzo, si umettò le labbra. «Non ci sto provando con nessuno!» Affermò, stringendo i pugni.
«A me sembrava proprio di si.» La provocò lui, con quell'aria derisoria che le dava sui nervi. Come tutto ciò che lo riguardava, d'altro canto. 
«No, invece ho semplicemente accettato le sue scuse.» 
«E' tutto a posto, non preoccuparti.» La canzonò utilizzando le sue stesse parole ma con un tono di voce melenso ed irrisorio.
Livida di rabbia, fece correre lo sguardo su tutti gli altri ragazzi in cerca di aiuto, ma tutto ciò che ricevette furono un sacco di risatine e un'insaccata di spalle da parte del giovane del borsone.
«Non ho usato quel tono di voce.» Esclamò esasperata, portando ambo le mani ai fianchi.
«Andiamo, Lea, avevi anche la bavetta alla bocca!» Enfatizzò Isaac.
L si chiese se per caso lo stesse facendo solo per farsi vedere davanti ai suoi amici o se quello fosse il suo vero carattere, anche se non voleva credere che un ragazzo della sua età potesse essere così immaturo.
«Isaac smettila di infastidire i miei clienti!» La voce di una giovane ragazza, gentile ma allo stesso tempo risoluta, fu in grado di mettere a tacere l'imbarazzante teatrino che si era andato a creare in quegli ultimi minuti. 
Lea si voltò nella sua direzione, convinta di avere gli occhi a cuoricino. Chiunque lei fosse era la sua salvezza.
«Adiamo Red, sto solo prendendo un po' in giro una mia vecchia amica.» Il tono di Isaac era lamentoso ed irritante. Forse non lo aveva giudicato tanto male quando aveva pensato avesse il cervello di un bambino.
Red, almeno così aveva capito chiamarsi la ragazza, si avvicinò al tavolo e poggiò su di esso quattro birre. «E pensare che dovresti avere quasi vent'anni. Ogni volta che apri bocca sono sempre più convinta tu ne abbia cinque, invece.» Sospirò sonoramente, muovendo un passo indietro. 
Isaac si portò una mano al cuore, fingendosi offeso, ma non replicò oltre e Lea approfittò della situazione per sgattaiolare dritta verso il bancone dove la giovane cameriera la raggiunse qualche istante più tardi.
«Scusali, sono degli idioti patentati. Isaac Hall più di tutti.»  Si giustificò, poggiando i palmi sul banco di mescita.
Avrebbe voluto replicare dicendo che conosceva la sua idiozia dal lontano 2004 oramai, ma rimase in silenzio invece, limitandosi ad annuire. 
«Che cosa posso offrirti?» Domandò qualche istante dopo, stampandosi un solare sorriso sul viso.
Lea non poté non notare che era davvero una bella ragazza, con quei lunghi capelli biondo fragola e gli occhi verdi. Sicuramente il tipo che avrebbe ben visto in compagnia di quel teppista del suo vicino di casa. Se non altro era una che avrebbe saputo tenergli testa e rimetterlo al suo posto.
«Una Cheesecake ai frutti di bosco ed un succo d'arancia, grazie.» Esclamò, facendo correre lo sguardo sul bancone imbandito sebbene fosse partita da casa con le idee ben chiare.
Red le poggiò il piattino ed il bicchiere sotto il viso un paio di momenti più tardi. «Questo lo offre la casa.» Esclamò sorridente, facendo scivolare uno scontrino nel bidoncino lì accanto. «Prendile come le mie scuse per quella banda di scimmioni là.»
Lea le rivolse un sorriso ricco di gratitudine, prima di avventarsi su quella delizia.
Sebbene la ricetta si chiamasse New York Cheesecake, quelle assaggiate nella Grande Mela non avevano niente a che vedere con la delizia che servivano in quel piccolo locale ad Harpool Bay.
Lea avrebbe voluto incominciare una conversazione con la giovane cameriera dai capelli rossi, ma non era mai stata un'asso nei rapporti umani ed anche volendo non avrebbe saputo davvero da che cosa incominciare. L'ultima volta che aveva provato a fare amicizia con qualcuno gli aveva chiesto se gli piaceva il formaggio; come fosse andata a finire era abbastanza ovvio. Fortunatamente non ce ne fu affatto bisogno e Lea si ritrovò a ringraziare un qualsiasi Dio.
«Sei nuova qui? Non ti ho mai vista da queste parti.» Domandò l'altra, poggiando i gomiti sul bancone ed il viso sui palmi della mani.
«Si e no.» Rispose lei, pulendosi gli angoli delle labbra. «Ho vissuto qui fino all'età di sette anni, poi i miei genitori hanno divorziato ed io, mia madre e mio fratello ci siamo trasferiti a New York dal nuovo compagno di Mamma. Sono tornata una settimana fa.» Spiegò brevemente.
«Immagino che Harpool Bay debba sembrarti uno schifo rispetto alla Grande Mela.»
«Ma neanche tanto, sai? Preferisco Harpool Bay per certi versi, è più tranquilla e meno caotica. E poi non ho mai sopportato dovermi addormentare con i suoni dei clacson nelle orecchie.»
Red rise sonoramente, non potendo non darle ragione. Sebbene non avesse mai abbandonato la Baia di HB, avrebbe potuto affermare con forza che addormentarsi con il rumore delle onde che si infrangono contro il bagno asciuga era impagabile.
«Frequenterai la John Abrams High School o tornerai a casa per l'inizio della scuola?»
Lea, fino a quel momento, non si era soffermata a pensare al fattore scuola. Aveva dato per scontato sarebbe tornata a Philadelphia, nella scuola che aveva frequentato fino a quel momento, ma effettivamente era una cosa abbastanza improbabile, a pensarci bene. 
«Suppongo frequenterò la John Abrams..» Mormorò, tentando inutilmente di celare la tristezza nella sua voce. 
Quasi non riusciva a credere che non avrebbe più rivisto tutti i suoi amici. Accantonò il pensiero quando una stretta le attanagliò il petto. Non era quello il momento adatto per pensarci.
«Speriamo allora di avere almeno qualche corso in comune.»
Lea forzò un sorriso ed annuì.
Sia chiaro, Red le stava davvero molto simpatica e le sarebbe piaciuto da morire dare il via ad un'amicizia con lei, era il pensiero di dover incominciare di nuovo tutto da capo in una nuova scuola a metterle a dosso l'ansia.
Lo scampanellio delle campanelle degli angeli appese alla porta la riportarono alla realtà e Red tornò in posizione eretta, pronta per ricevere una nuova serie di ordinazioni.
«Sono, Lea Wilson, comunque!» Solo in quel momento aveva realizzato di non essersi ancora presentata.
La giovane le rivolse l'ennesimo sorriso. «Roselyn Elizabeth Davis e tu sei la mia nuova migliore amica.»

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Va bene, Mamma. ***


«Red quante altre volte dovrò ripetertelo? Mio padre non mi permetterà mai di andare ad una festa organizzata da ragazzi del College.» Ripeté per l'ennesima volta Lea, passandosi una mano sul volto.
«Ed io quante volte dovrò ripeterti che non è necessario lo sappia? Digli semplicemente che vieni a dormire a casa mia.» Replicò l'altra, quasi fosse la cosa più normale del mondo.
«Dovresti sapere che non mi piace mentire a mio padre.»
«Infatti non ti sto chiedendo di mentire, ma di omettere.»
«E' la stessa cosa.» 
«Per niente. Non si finisce in carcere per un'omissione.» Dal canto suo avrebbe voluto dirle che si trattava comunque di intralcio alla giustizia e che si rischiavano fino ai cinque anni di galera, ma, invece, si limitò a sbuffare. «Andiamo L, saremo di ritorno il prima possibile e al mattino tornerai a casa sana e salva. Sarà come se niente di niente fosse mai successo..»
La verità era che a Lea le feste non erano mai piaciute; le poche a cui aveva partecipato si erano rivelate essere esattamente quello che pensava: un ritrovo per adolescenti alla ricerca di una notte brava e\o alchool facile e a lei, francamente, non interessavano nessuno dei due.
«Se dicessi di si, smetteresti di stressarmi?» Domandò quindi, esasperata.
Dall'altro capo del telefono Red si passò una mano tra i capelli, non potendo trattenere un risolino. «Mi conosci così bene..»
«Allora suppongo verrò..» Cedette, infine, pentendosene immediatamente dopo. «Ma resteremo il minimo indispensabile, su questo non voglio discutere.»
«Grazie, grazie, grazie.» Esclamò la sua migliore amica, aumentando di una decina di ottave il suo normale tono di voce.
«Mi hai capito, Red?» Domandò. «Il minimo indispensabile.» Ma l'altra aveva già attaccato. 
Con un sospiro frustrato Lea nascose il viso contro il cuscino.
Non voleva andare a quella festa; non era il posto adatto ad una persona come lei. Piagnucolò, già sentendo l'odore acre del sudore entrarle nelle narici. 
«Potrei fingermi malata!» Esclamò tutto ad un tratto con rinnovato entusiasmo.
Durante quei tre anni passati a Philadelphia aveva imparato diversi trucchi per saltare i compiti di algebra e sicuramente neanche l'uragano Red avrebbe potuto niente contro una violenta influenza.
Si trattava di perfezionare gli ultimi dettagli, come ad esempio quando incominciare a tastare il terreno o quando dare il via alla vera e propria malattia, quando il rumore persistente ed uggioso di qualcosa che sbatteva contro il vetro della sua finestra la costrinse a voltare il capo. 
Le ci volle qualche istante prima di individuare la sagoma appostata fuori dalla sua finestra e che un grido spaventato lasciasse la sue labbra.

Quando Lea Wilson, quel mattino, aveva programmato la sua giornata, starsene in ginocchio sul pavimento con un sacchetto di patate al forno sul naso di un semi-sconosciuto non rientrava nei suoi piani.
La sua idea iniziale, quando aveva visto Patrick alla sua finestra con il volto tumefatto e sanguinolento il suo primo istinto era stato quello di chiudere le tapparelle e chiamare la polizia, ma alla fine il suo istinto da crocerossina aveva preso il sopravvento e quindi eccola lì...
«Fortunatamente il naso non è rotto...» Esclamò, allontanando la busta dal suo setto nasale per controllare che il sangue avesse smesso di scendere. «Ma resto comunque dell'idea che tu debba fare un salto in ospedale e farti dare una controllatina. Potresti avere un trauma cranico o qualche roba simile ed io non voglio averti sulla coscienza.»
«Cristo Santo!» Esclamò Patrick, portandosi un braccio sugli occhi. «Aveva ragione Isaac nel dire che sei di una gentilezza disarmante.»
Lea gli rivolse uno sguardo truce. «Se lo sapevi, perché sei venuto qui invece di andare da lui?»
«Perché è stato lui a ridurmi così.»
Chissà perché, ma la cosa non la stupiva poi così tanto. Isaac era sempre stato un ragazzino particolarmente violento, ciò che più la stupì fu che il tempo non lo avesse cambiato di una virgola.
Senza perdere altro tempo in chiacchiere, tornò in posizione eretta, decisa a rimettere al posto il sacco di patate e rispedire Patrick a casa; dal momento che oramai stava bene non aveva più nessun motivo di trovarsi lì.
«Se vuoi darti una lavata, il bagno è la porta azzurra accanto alle scale.»
Lea si prese una manciata di minuti per rimettere a posto il cumulo di bende, cerotti e garze varie che si era creato sul bancone della sua cucina oltre che per togliersi di dosso il sangue incrostato. Quando tornò in salotto il ragazzo era ancora lì, steso sul divano con il braccio piegato a coprirgli la parte superiore del volto.
Odiava ammetterlo ma, nonostante i lividi ed il sangue incrostato, restava comunque un bel ragazzo. Con quei capelli biondi, le labbra piene e gli occhi smeraldo sembrava uscito direttamente da una favola.
«Mi stai fissando.» Mormorò d'un tratto il giovane, facendola sobbalzare ed arrossire.
«Ti sto osservando.»
«E' lo stesso.»
«Quindi, immagino di meritare delle spiegazioni non credi?» Esclamò Lea, dopo un primo breve momento di pausa, decisa a cambiare argomento e non lasciare spazio a terribili silenzi imbarazzanti.
«Non credo, ma dubito mi lascerai uscire di qui senza avertene date.» Replicò lui, con una vena di sarcasmo.
La giovane si strinse nelle spalle. «Hai avuto la tua occasione di sgattaiolare via senza darmi nessuna spiegazione, ma hai preferito restare spiaggiato sul mio divano. Quindi no, non ti permetterò di andartene di qui senza avermi spiegato cosa è successo.»
Patrick si alzò quindi a sedere, piegandosi poi per legare le stringhe delle scarpe da Tennis.
«Quindi..» Lo esortò lei, incrociando le gambe.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, apprestandosi poi ad indossare nuovamente il chiodo. «Effettivamente non c'è molto da raccontare.» Esordì lui, stringendosi nelle spalle e mettendosi in piedi. «Ho semplicemente detto qualcosa che non dovevo dire.»
«Che cosa hai detto?» Purtroppo per lei era nata pettegola e la curiosità, in quel momento, la stava mangiando viva.
«Stavamo litigando, come spesso succede tra amici, e ho tirato fuori la questione di suo padre. E' stato stupido, me lo sono meritato.»
Lea aggrottò la fronte con aria confusa. «La questione di suo padre?»
Patrick scrollò le spalle, recuperando anche il casco della moto da terra. «E' una lunga storia.»
Lea avrebbe volentieri continuato ad indagare, ma si stava facendo tardi ed il turno di suo padre sarebbe finito a momenti; l'ultima cosa che voleva era che la trovasse in compagnia di un ragazzo.
«Capisco...» Replicò semplicemente, avvicinandosi alla porta d'entrata.
Patrick la seguì qualche istante dopo, poggiandosi con l'avambraccio allo stipite e piegandosi, leggermente, verso di lei.
«Come posso sdebitarmi?» Domandò.
In tutta risposta la ragazza mosse un passo all'indietro, portando le braccia conserte sotto ai seni. A Patrick tale mossa non passò inosservata e Lea si ritrovò, inevitabilmente, ad arrossire. 
Si schiarì la gola, tentanto di mantenere un tono di voce il più risoluto possibile. «Potresti incominciare con il non farmi prendere mai più spaventi del genere..»
«Va bene, Mamma..» La derise lui bonariamente, scompigliandole i capelli.
Lea gli rivolse un'occhiataccia, aggiustando il nido in cui Patrick aveva trasformato la sua testa. 
«Ridi quanto vuoi, ma è stata la cosa più spaventosa che mi sia successo dopo quando irruppi in bagno mentre mia zia Kelly stava facendo la doccia. Giuro, credo di aver tirato un grido talmente forte da...»
«Sarai alla festa di Scott Norris, venerdì?» Domandò lui, deciso a mettere fine al fiume di parole che si stava riversando fuori dalle labbra della giovane.
Lea sbuffò. «Sfortunatamente si!»
«Allora vedrò di sdebitarmi con te lì, regalandoti la sera più bella della tua vita.»
La giovane sbuffò davanti ad un tale egocentrismo e sicurezza in se stessi, ma dovette comunque mordersi l'interno guancia per trattenere un sorrisetto divertito.
Senza perdere altro tempo, aprì lui la porta di casa, invitandolo, con un gesto della mano, ad accomodarsi all'esterno.
Patrick non se lo fece ripetere due volte e, dopo averle rivolto un cenno di saluto, prese a percorrere il vialetto. Si fermò a metà strada e si voltò nuovamente.
«Lea..» La chiamò, rivolgendole il sorriso più abbagliante del suo repertorio. «Sono felice di aver lasciato quel borsone nel bel mezzo della strada.»

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Non fotti con Roselyn Elizabeth Davis. ***


Alla fine il fatidico venerdì sera era arrivato e Lea si era stupita nel ritrovarsi stranamente euforica all'idea di andare alla festa di Scott Norris.
Effettivamente, però, non era tanto il party ad entusiasmarla quanto il fatto che avrebbe rivisto Patrick. 
Dalla sera in cui si era presentato alla sua finestra, pieno di lividi e sporco di sangue, si era ritrovata a pensare a lui e alla promessa della serata più bella della sua vita sempre più spesso. Nemmeno il fatto che fosse il miglior amico del suo peggior incubo aveva potuto niente contro il chiodo fisso che era diventato per lei.
Le venne da ridere nel pensare che, per farsi notare da lui, era persino arrivata ad infilarsi in una minigonna. Cristo, si stava comportando esattamente come tutte quelle ragazze che aveva sempre criticato.
«Sei sicura che non vuoi che ti accompagni?» Domandò suo padre, poggiando la testa contro lo stipite della porta. 
Lea alzò lo sguardo dallo zaino nel quale stava riponendo tutto l'occorrente per la notte e gli rivolse un caloroso sorriso. «Grazie, Papà, ma passa a prendermi Red quando stacca dal lavoro.» 
«Andrete da qualche parte stasera?»
Se fosse stata sua madre a porre quella domanda Lea, probabilmente, si sarebbe ritrovata a pensare di essere stata brutalmente scoperta nel tentativo di fregarla, ma si trattava di suo padre e niente di ciò che Peter Wilson faceva aveva un doppio fine, presumibilmente era pura e semplice curiosità e ciò le rendeva ancora più difficile dovergli mentire.
«Non penso..» Esclamò, tentando di ignorare l'enorme groppo alla gola. «Credo che passeremo la serata sul divano a guardare film e mangiare Pop Corn.»
Suo padre annuì, passandosi una mano sul mento coperto dalla barba ispida. Aveva l'aria pensierosa e sembrava voler dire qualcosa.
«Come sta tua madre?» Domandò, poi, puntando lo sguardo avanti a se.
Lea rimase spiazzata da tale domanda. 
I suoi genitori erano anni che non si rivolgevano la parola, e l'uno sembrava aver cancellato l'altro dalla propria vita, sentir suo padre interessarsi a sua madre così apertamente era una cosa più unica che rara. 
«Si sta riprendendo.» Fu tutto ciò che si sentì di dire a riguardo. 
Parlare di sua madre stava a significare parlare di Gabe e lei non voleva parlare di Gabe.
«E tu? Tu come stai?» Inquisì l'uomo.
Già, lei come stava? Lea non se lo era mai chiesto veramente.
Era viva ed illesa, quindi le sembrava d'obbligo rispondere di star bene. Ma era veramente così? Non era sicura di volerlo sapere.
Prese un profondo respiro, cacciando indietro le lacrime che si erano accumulate agli angoli dei suoi occhi. «Sono stata meglio!» Mormorò, chiudendo la zip dello zainetto.
Suo padre poggiò ambo le mani sulle sue spalle; non si era neanche accorta si fosse avvicinato...
«Se vuoi parlarne io sono qui, lo sai che...»
Non lo fece neanche finire; non era pronta a sostenere una conversazione del genere. Sgusciò via dalla sua presa, fiondandosi fuori dalla porta della sua stanza.
«Red sta per arrivare. L'aspetto nel vialetto.»

«E quindi gli ho detto: No, amico, non fotti con Roselyn Elizabeth Davis.» Esclamò Red, tenendo lo sguardo dappertutto tranne che sulla strada.
Generalmente glielo avrebbe fatto notare, ma, al momento, era l'ultimo dei suoi pensieri, visto che aveva la testa da tutt'altra parte. 
La conversazione con suo padre aveva riportato a galla dei brutti ricordi che Lea avrebbe, volentieri, lasciato a New York, a miglia e miglia di distanza da lei.
«Hey, Lea, mi stai ascoltando?» La richiamò la sua migliore amica, passandole una mano davanti agli occhi.
«No, scusa. Stasera ho la testa tra le nuvole.» Esclamò, dopo essersi ripresa dal suo momentaneo stato di trance, passandosi una mano sul volto.
Il ghigno che si dipinse sulle labbra scarlatte di Red la diceva lunga sulla piega che stava per prendere quello scambio di battute. 
Quel sorriso non prometteva niente di buono.
«Stavi pensando a qualcosa, o magari qualcuno, in particolare?»
Da quando Lea le aveva raccontato del suo incontro con Patrick l'altra non aveva fatto altra che punzecchiarla e prenderla in giro, asserendo che quando si prendeva una cotta per qualcuno era ancora più carina. Ma Lea non aveva una cotta per Patrick, era affascinata da lui ma non lo conosceva abbastanza per poter dire di avere una cotta.
«Non sto pensando a Patrick.» Replicò, rivolgendole un'occhiataccia di fuoco.
La sua migliore amica si strinse nelle spalle, decisamente poco convinta delle sue parole. «Se lo dici tu.»
Parcheggiarono pochi minuti dopo ed un paio di isolati da casa Norris. 
Il quartiere dove abitava Scott era un quartiere chiuso, formato da villette bianche, a parer suo, tutte uguali accompagnate da enormi giardini in cui fare Barbecue la domenica. A Lea quel posto ricordava vagamente Wisteria Lane, il quartiere residenziale di Desperate Housewives. 
Sebbene fossero solamente le dieci di sera, la maggior parte dei ragazzi era già completamente ubriaca mentre chi ancora non lo era si trovava sulla strada giusta per diventarlo. La musica, proveniente dall'interno, era così alta che faticava a sentire i suoi stessi pensieri; si chiese come mai nessuno avesse ancora chiamato la polizia.
Con un sospiro frustrato, si fece largo tra l'ammasso di adolescenti sudaticci ed entrò in casa, finendo con il confermare, nuovamente, ciò che aveva sempre pensato: non era il posto adatto per una come lei.
«Vado a prendere qualcosa da bere. Tu vuoi qualcosa?» Urlò Red al suo orecchio, in un disperato tentativo di farsi sentire.
Lea annuì. «Dell'acqua. In una bottiglietta, chiusa.» 
Sapeva di poter apparire noiosa e guastafeste, ma con i suoi amici aveva passato così tanti sabati sera davanti al televisore a guardare ''Scomparsi nel nulla'' che, oramai, era terrorizzata all'idea che qualcuno potesse drogarla, per poi rapirla e vendere i suoi organi ad un trafficante messicano. 
Red annuì e si allontanò con un la promessa di tornare presto, ma chissà perché Lea non sembrava crederci neanche un po'. E, indovinate un po', aveva ragione. 
La sua migliore amica sembrava scomparsa nel nulla, probabilmente drogate e rapita, sulla strada per il Messico dove un trafficante avrebbe venduto i suoi organi.
...Okay, doveva smetterla di guardare quei programmi.
«Non credevo saresti venuta davvero!» Esclamò qualcuno alle sue spalle, facendola sussultare.
Sebbene l'avesse sentita solamente due volte, per Lea non fu troppo difficile riconoscere la voce di Patrick.
«Sinceramente, nemmeno io!» Esclamò a gran voce, voltandosi nella sua direzione con un gran sorriso stampato sul volto.
«Beh, mi fa piacere essermi sbagliato.» 
A parte una piccola parentesi con un suo compagno di corso a Philadelphia, Lea non aveva molta esperienza con i ragazzi specialmente se belli come Patrick Hennig, quindi non c'era molto da stupirsi se l'ansia del momento le faceva sudare persino i palmi delle mani. 
«Sei bellissima, stasera.» Le mormorò all'orecchio, all'altezza del quale indugiò per qualche istante.
Lea si sentì arrossire.
Un'altra cosa alla quale non era abituata erano i complimenti. L'unica a farglieli era sua madre e, probabilmente, appunto perché era sua madre..
Ringraziò mentalmente le luci psichedeliche che l'aiutarono a nascondere il rossore.
«Ti ringrazio, anche tu.» Ed era vero.
Patrick indossava una camicia bianca di cui aveva i lasciato i primi due bottoni aperti e le maniche arrotolate fin sopra il gomito, le gambe avvolte dai dei normalissimi pantaloni marroni e ai piedi le fedelissime scarpe da tennis. Era un look casual che su chiunque altro sarebbe apparso noioso, ma niente di Patrick era noioso.
Il ragazzo volse per un istante la testa all'indietro per poi tornare a fissarla. Aveva la mascella contratta, ma tentava di mascherare la cosa con un sorriso. 
«Ti dispiace continuare fuori? Qui c'è troppa gente e non mi va di urlare per dover parlare con te.» Esclamò, indicando la porta alle sue spalle.
Lea fece scivolare lo sguardo oltre lui ed incrociò gli occhi cupi e furenti di Isaac. Era immobile, rigido quasi quanto la parete contro cui poggiava le spalle. Il suo sguardo saettò verso Patrick, per poi tornare su di lei. Scosse impercettibilmente la testa. 
In modo velato, Isaac le stava chiedendo di restare lì, vicina a lui, dove avrebbe potuto tenerla d'occhio. 
«Lea..?» La richiamò Patrick e Lea si ritrovò costretta a riportare lo sguardo su di lui. 
Sorrise, per rimediare alla pessima figura fatta. «Mi piacerebbe ma sto aspettando Red, se torna e non mi trova finirà con l'andare nel panico.» Esclamò, affondando i denti nel labbro inferiore.
«Non credo tornerà per un bel po'. Norris l'ha presa in ostaggio e non mi sembra le dispiaccia poi così tanto.» Replicò lui, indicando un punto indefinito alle sue spalle.
Lea seguì la traiettoria con lo sguardo ed incontrò la figura della sua migliore amica intenta a scambiarsi effusioni con quello che, a quanto pare, doveva essere Scott. Sentì il sangue ribollirle nelle vene, sia perché l'aveva lasciata lì come una stupida sia perché stava mandando in fumo la promessa di riportarla a casa il prima possibile. 
Emise un lungo e sonoro sbuffo mentre tornava a guardare davanti a se.
«Quindi..?» La incitò Patrick, mostrandole un sorriso che, improvvisamente, le parve estremamente viscido.
Maledì Red per averla lasciata sola, maledì Isaac per averle gettato addosso quella tremenda sensazione di disagio e maledì se stessa per essere così facilmente influenzabile.
Se il suo piano era quella di metterla a disagio, beh, c'era riuscito ma certamente Lea non gliela avrebbe data vinta tanto facilmente.
Si forzò a sorridere di rimando. «Certamente.»

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Fammi posto. ***


Alla fine parlare era l'ultima cosa che Patrick voleva fare; a Lea non c'era voluto molto per rendersene conto.
Da quando avevano abbandonato l'abitazione alla ricerca di un posto più 'appartato', il ragazzo aveva incominciato a farsi sempre più vicino a lei, a passarle un braccio attorno alle spalle, baciarle il capo e soffermarsi a sussurrarle parole dolci all'orecchio.
Generalmente un contatto del genere con un così bel ragazzo non le sarebbe dispiaciuto, ma il gesto di Isaac l'aveva inquietata a tal punto da non riuscire a godersi a pieno il momento.
Dio se lo odiava per quello.
«Va tutto bene?» Le domandò il ragazzo. «Sei stranamente taciturna e da quel poco che conosco di te posso dire che sei una gran chiacchierona.» La schernì con una risata.
Lea forzò un sorriso, scrollando le spalle. «Si, si, va tutto bene!»
Patrick non sembrava del tutto convinto, ma fece finta di crederci. «Che ne dici se ci fermiamo qua?» Domandò, indicandole una panchina poco distante da loro.
Per quanto la riguardava avrebbe voluto tornare all'interno, ma oramai aveva accettato quindi non le restava che sedersi su quella panchina e sperare che Red uscisse a cercarla alla svelta.
Prese posto ed il ragazzo fece lo stesso dopo di lei, circondandole, nuovamente le spalle con le braccia.
Per una manciata di minuti restarono entrambi immobili ed in silenzio, intenti a fissare l'asfalto davanti a loro, fin quando Lea non decise di mettere fine a quella situazione fin troppo imbarazzante.
Aveva delle domande e decise che magari, approfittando di quel momento, avrebbe potuto trovare delle risposte ad alcune di loro.
«Tra te e Isaac come è andata a finire?» Domandò la ragazza, inclinando la testa di lato.
Patrick si irrigidì e cambiò svariate volte posizione. Sembrava a disagio. «E' andata. Amici come prima.» 
«Davvero? Perché, quando sono entrata, vi ho visti e mi sembrava che i vostri rapporti fossero più freddi rispetto al solito.» Esclamò con fare innocente. Non era necessario sapesse che stava bluffando.
«Beh, è ovvio. Non puoi dare del fallito ad una persona e pretendere che tutto torni come prima, o sbaglio?»
«Credevo si fosse arrabbiato perché avevi tirato fuori qualcosa riguardo suo padre.»
«Si, ho parlato di suo padre e gli ho dato del fallito.» Il tono era duro e rabbioso, decisamente non aveva nessuna voglia di rivangare l'argomento.
Contrariamente Lea non era intenzionata a lasciarlo cadere tanto alla svelta.
«Si, ma..»
Avrebbe voluto continuare la sua sessione di domande, ma le labbra di Patrick la zittirono prima che potesse dire altro.
«E' da quando sei entrata che non vedo l'ora di baciarti.» Sussurrò sensualmente, prima di tornare sulla sua bocca.
Lea sentì lo stomaco fare la capriole, ma per il disgusto. Era un bel ragazzo, ma non sapeva baciare, inoltre era ben evidente che lo avesse fatto solamente per sfuggire ad ulteriori domande scomode.
Quando il ragazzo le passò la lingua sulle labbra, quasi a chiedere il permesso, la giovane si ritrovò costretta a schiudere la bocca e lasciare che le pulisse i denti. Perché questo era, una sessione dal dentista non un bacio.
Non avrebbe saputo dire quanto durò quella tortura, ma si ritrovò a ringraziare un qualsiasi Dio, nel momento in cui il suo cellulare prese a squillare.
Si allontanò da Patrick, rivolgendogli un sorrisetto di scuse, sebbene dentro di se stesse saltando di gioia.
Si portò il cellulare all'orecchio senza neanche preoccuparsi di guardare il mittente, convinta che si trattasse di Aiden o alla meglio di suo padre.
«Pronto, chi parla?» Domandò, alzandosi in piedi.
Attese ma dall'altro capo non ricevette alcuna risposta.
Allontanò il telefono per controllare che dall'altra parte fossero ancora in linea e si stupì nel non riconoscere il numero impresso sullo schermo.
Aggrottò la fronte, tornando in ascolto.
Dall'altro capo ''Should i Stay or Should i Go'' dei The Clash suonava in sottofondo, accompagnata dalla risata sommessa di qualcuno che Lea conosceva benissimo.
Improvvisamente tutti i brutti ricordi a cui per mesi aveva evitato di pensare la investirono in pieno. Ricordò la sensazione delle guance brucianti per gli schiaffi, il sapore metallico del sangue in bocca e la sensazioni delle sue mani che le si stringevano contro il collo mentre lei si dimenava sotto il suo peso in un disperato tentativo di sopravvivere.
Prima che potesse anche solo rendersene conto il cellulare le era caduto di mano e si ritrovava in ginocchio sul freddo asfalto, annaspando alla ricerca di aria.
Patrick, ancora seduto, la fissava spaventato e tremante, incapace anche solo di muovere un muscolo. 
La decisione di alzarsi ed aiutarla a poggiare le spalle contro la panca fu del tutto istintiva.
«Aspettami qui. Non muoverti.» Esclamò lui, stringendola per le spalle.
Come se avesse potuto muoversi di lì. Aveva le gambe tremolanti e le mani addormentate, se avesse provato a muoversi sarebbe finita a terra in meno di un secondo.
Si ritrovò ad infilare le mani tra i capelli e a nascondere il viso tra le ginocchia, con un unico pensiero che le vagava per la testa: ''Non poteva star succedendo davvero. Non di nuovo.''
Per svariati istanti tutto attorno a lei divenne silenzioso, poi, sebbene i suoini e i rumori le arrivassero lontani ed ovattati, riuscì comunque a riconoscere la voce di Isaac.
«Ma che le hai fatto?»
Patrick, bianco come un fantasma e tremante come una foglia, balbettava, nel panico più totale, sforzandosi di spiegare la situazione, con scarsi risultati.
Quando le mani di Isaac si posizionarono sulle sue guance, andando ad asciugare quelle lacrime che lei non ricordava di aver pianto, e poggiò la fronte contro la sua, Lea sentì il battito del suo cuore diminuire notevolmente.
Non lo avrebbe ammesso mai, nemmeno a se stessa, ma trovarsi tra le sue braccia, in quel momento, era estremamente rassicurante.
«Lea, guardami..» Le ordinò lui con il tono più dolce e pacato che riuscì a trovare dentro se stesso.
Sebbene dentro di se stesse dando di matto, era più che convinto che, tra i due, almeno uno dovesse tenere la testa sulle spalle e lei non era esattamente nelle condizioni per farlo; infatti la giovane dovette far ricorso a tutte le sue forze per riuscire ad obbedire ed alzare lo sguardo dall'asfalto per incrociare quello dell'altro.
A Lea gli occhi celesti non erano mai piaciuti, eppure in quel momento il profondo azzurro degli occhi di Isaac era il suo colore preferito.
«Respira..» Le sussurrò piano.
«Non.. Non ce la faccio!» Balbettò lei in risposta, ritrovandosi a stringere con forza il suo polso.
«Si, che ce la fai, Bambi..» Esclamò lui, accarezzandole le guance arrossate. «Piano. Non hai bisogno di tutta questa aria, prendi dei respiri profondi, butta fuori e poi di nuovo tutto da capo.»
Tornare a respirare si rivelò essere l'impresa più difficile che Lea avesse mai fronteggiato, ma il fatto che Isaac fosse lì le fu estremamente d'aiuto. 
Ben presto il suo cuore tornò a pompare sangue ad una velocità normale ed il panico di poco prima le scivolò addosso. L'aria nei polmoni bruciava da morire, ma era niente rispetto a quello che aveva già passato...
«Grazie!» Sussurrò, nascondendo il capo nell'incavo del suo collo. «Grazie, grazie, grazie.» Probabilmente il giorno seguente sarebbe tornata a comportarsi come una vera stronza con lui, ma in quel momento non aveva altro desiderio che continuare a ringraziarlo.
Isaac le poggiò una mano sul capo, voltandosi quel poco che gli bastava per lasciarle un bacio sulla tempia. «Andiamo. Ti porto a casa.»
Rialzarsi in piedi, si rivelò un'impresa titanica. Se non ci fosse stato lui a sostenerla probabilmente non ce l'avrebbe fatta.
La testa le doleva ed i ricordi incominciavano a farsi confusi nella sua mente. Chiuse gli occhi, ismentre uno strano, quanto invitante, torpore la avvolgeva. 
Prima che tutto attorno a lei diventassero nero e lontano, sentì Isaac ringhiare. «Ti avevo già detto di starle lontano ma non mi hai dato ascolto. Se ti avvicinerai un'altra volta non mi limiterò a picchiarti, ti sotterro direttamente.»

Quando riaprì gli occhi Isaac le stava rimboccando le coperte.
«Hey..» Biascicò con la voce ancora impastata, voltandosi su un fianco.
«Hey...» Mormorò lui, rivolgendole un sorriso appena accennato. «Hai perso i sensi subito dopo esserti rialzata. Volevo portarti in ospedale, poi ho pensato che magari prima dovessi mettere al corrente tuo padre ma quando sono arrivato qui ho scoperto che aveva il turno di notte al pronto soccorso, così ho deciso di metterti a letto ed aspettare che ti svegliassi così mi avresti detto tu cosa fare!» Parlava a vanvera, passandosi nervosamente le mani tra i capelli.
A Lea venne da ridere. Aveva sempre visto il giovane Hall come una roccia, vederlo andare nel panico in quel modo era strano oltre che tenero.
«Hai fatto bene.» Lo rassicurò, portandosi a sedere e stringendo le gambe al petto. «Hai già avvertito mio padre?» Domandò, poggiando il mento sulle ginocchia.
«No, stavo per farlo ma ti sei svegliata.»
«Non farlo, non vorrei fargli prendere un colpo inutilmente.»
«Hai avuto un'attacco di panico non mi sembra tanto inutilmente.»
«Non importa. Per favore, non chiamarlo.»
Sospirò sonoramente, ma alla fine cedette, annuendo piano. 
Gliene fu grata. Suo padre era già fin troppo preoccupato per lei, non c'era motivo di allarmarlo inutilmente.
«Ti senti bene? Posso fidarmi a lasciarti da sola?» Domandò Isaac, avvicinandosi di qualche passo al letto.
Lea nascose nuovamente il viso tra le ginocchia, troppo imbarazzata dalla proposta che stava per fargli.
Boccheggiò qualche istante, prima di lasciare che le parole le fuggissero di bocca.
«In realtà..» Incominciò. «Ti dispiacerebbe restare? Solo finché non mi addormento.»
Dire che rimase di sasso davanti ad una richiesta del genere era un eufemismo; i componenti della famiglia Wilson non erano certamente famosi per i loro slanci di sincerità, non c'era da stupirsi se c'era rimasto con un palmo di naso.
Se, solo il giorno prima, qualcuno gli avesse detto che Lea Wilson lo avrebbe invitato a restare con lei in un momento di debolezza, probabilmente gli sarebbe scoppiato a ridere in faccia. 
La ragazza, percependo il suo tentennamento, fece per tirarsi indietro. 
«Sai, che cosa? E' stata una domanda stupida, dimentica..» 
«Va bene.» La interruppe Isaac, stupendosi persino di se stesso. «Fammi posto.»

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Capitolo 7
*** Capitolo 5 - Bimba non piangere. ***


Il mattino seguente Lea si svegliò sola.
Dall'altra parte del letto le coperte erano ancora aggrovigliate ed il materasso leggermente infossato e caldo, segno evidente che chi lo aveva occupato doveva essersene andato da poco.
Probabilmente la sera prima Isaac doveva essersi addormentato e al mattino si era dileguato prima che lei si svegliasse.
Lea affondò il volto contro il cuscino, mordendosi con forza il labbro inferiore.
Con il senno di poi, quella di chiedergli di restare, non era stata una grande idea. Se l'aver avuto un attacco di panico, apparentemente immotivato, non gli avesse dato da pensare, il fatto che lo avesse letteralmente pregato di non lasciarla sola avrebbe finito con l'accendere in lui un campanello d'allarme.
Con un sonoro sospiro, tornò supina ed allungò la mano verso il comodino alla ricerca del cellulare.
Le caselle delle chiamate e dei messaggi erano intasaste da Red, da Aiden, persino da Patrick. Li cestinò tutti senza neanche preoccuparsi di leggerli.
Era arrabbiata, stanca e frustrata. Tutto ciò che voleva era chiudersi nella sua stanza e lasciare tutto il mondo fuori. 
Purtroppo per lei, c'aveva già provato ed era arrivata alla conclusione che, sebbene lei credesse di aver finito con il mondo, il mondo non sembrava aver finito con lei.
Con l'ennesimo sospiro fece scorrere il dito contro il contatto di suo fratello, avviando la chiamata.
Aiden rispose al terzo squillo.
«LEA MARIE WILSON!» Tuonò suo fratello, provocandole un brivido lungo la schiena. Dio come odiava il suo nome per intero. «HAI IDEA DI QUANTE CHIAMATE TI HO LASCIATO? O DELLO SPAVENTO CHE MI HAI FATTO PRENDERE?»
Lea allontanò il cellulare dall'orecchio. Si era svegliata con un terribile cerchio alla testa e non si sentiva esattamente in vena di star a sentire la paternale da ragazzina mestruata di Aiden.
«Ieri sera ha chiamato Gabe.» Esclamò di punto in bianco, interrompendo il suo sproloquio. «Non ha parlato, ha chiamato con un numero sconosciuto, ma era lui.»
«Bastardo.» Ringhiò suo fratello a denti stretti. Quasi poteva immaginarselo mentre si passava le mani tra le ciocche castane e si soffermava a tirarle, nel tentativo di restare lucido. «Come stai?» Le domandò con tono adirato, ma decisamente più amorevole.
Lea puntò lo sguardo sul soffitto, prendendosi il tempo di elaborare una risposta; come sempre non se lo era chiesto, aveva evitato di pensarci, aveva evitato di pensare.
«Sto bene...» Mormorò. «...Ma non so come avrei fatto se non ci fosse stato Isaac.»
«Isaac?» Inquisì Aiden. «Isaac Hall?»
Annuì, sebbene fosse evidente che non potesse vederla. «Già.»
«Non mi va che lo frequenti.»
«Non lo sto frequentando.»
«Allora perché avrebbe dovuto aiutarti? Credevo che vi odiaste.»
«Mi ha aiutato, non mi ha fatto una proposta di matrimonio.»
«Stagli lontana.»
«Io non capisco. E' stato il tuo migliore amico per anni, perché lo odi così tanto?»
«Non sono affari tuoi.» Sputò fuori acido, per poi attaccarla in faccia.
Lea restò a fissare lo schermo per svariati minuti, interdetta dalla conversazione appena conclusa. 
Suo fratello le nascondeva qualcosa e, comportandosi così, le rendeva difficile mantenere il suo proposito di lasciargli i suoi spazi.
Mezz'ora dopo, trovò la forza di alzarsi dal letto ed uscire dai vestiti della sera prima. Si gettò sotto la doccia, lavando via sudore, lacrime e sporcizia, per poi tornare nella sua stanza ed infilarsi nel suo adorabile pigiama a quadri. 
Dal piano di sotto proveniva un invitante odore di pancake; questo poteva significare una cosa sola: suo padre era rientrato dal lavoro.
Scese le scale e lo raggiunse al piano di sotto. Era fermo davanti al piano cottura e le dava le spalle, non si era neanche accorto di lei, infatti, quando parlò, salto letteralmente in aria.
«Come mai già a casa?» Domandò con un sorriso. «Credevo fossi ancora a casa dei Davis.»
Lea si morse il labbro, indecisa se dire la verità o meno. Aveva impedito ad Isaac di farlo, ma, effettivamente, sarebbe stata la scelta migliore.
«Non mi sono sentita bene ieri sera, quindi sono tornata a casa.» Alla fine non era neanche una bugia. Si era davvero sentita male e davvero era tornata a casa prima; nessuno avrebbe potuto accusarla di essere una bugiarda.
Suo padre aggrottò la fronte, posizionandole il piatto sotto il viso. «Non ti sei sentita bene? Che cosa hai avuto? E perché non mi hai chiamato?»
«Non ti ho chiamato perché mi sembrava stupido allarmarti per una cosa come un semplice mal di pancia.» Ecco, adesso avrebbero potuto accusarla di essere una bugiarda.
Peter Wilson fece vagare lo sguardo dalla figlia al piatto che le aveva messo davanti, improvvisamente non del tutto sicuro che la colazione dei campione, come amava chiamarla lui, fosse adatta se la sera prima non si era sentita così bene.
Lea intercettò il suo sguardo ricco di preoccupazione e si spostò sul divano, con il piatto in grembo, prima che l'uomo potesse sequestrarglielo. Nessuno doveva mettersi in mezzo tra Lea Wilson e il suo cibo. Nessuno.
Suo padre la raggiunse qualche minuto più tardi.
«Sai, noi non parliamo mai.» Esclamò, interrompendo il silenzio che da una manciata di minuti era calato su di loro.
La giovane alzò lo sguardo dal suo piatto mezzo vuoto con aria interrogativa. «Che intendi?»
«Intendo che noi ci rivolgiamo la parola per rivolgersi frasi di circostanza e per parlare senza mai però dire niente.»
«Probabilmente perché se parlassimo non avremmo niente di felice da raccontare.» Esclamò lei in tutta risposta, stringendosi nelle spalle.
«Prima del divorzio eravamo felici, potremmo parlare di quello. Ricordare la vita che avevamo prima che tutto andasse a rotoli.» Il tono dell'uomo sembrava estremamente malinconico.
Lea non si era mai soffermata a pensare a che cosa significasse la situazione che stavano vivendo per i suoi genitori, per tutti quegli anni era sempre stata estremamente concentrata sul suo di dolore da non riuscire a vedere quello della gente che le stava attorno. Ma adesso lo vedeva chiaramente, dipinto negli occhi azzurri di suo padre, quella malinconia che si portava a dosso come un profumo.
«La ami ancora?» Gli domandò, portandosi la forchetta alle labbra. 
I pancake si erano ormai freddati ed avevano la stessa consistenza della gomma, ma continuò a mangiare, forse terrorizzata all'idea che quello straccio di rapporto che stava recuperando con suo padre si sarebbe concluso con la fine della colazione.
Peter Wilson si strinse nelle spalle, puntando lo sguardo sul suo piatto. «Non lo so, ma è sicuro che tua madre sarà sempre l'amore della mia vita.»
«Perché l'hai lasciata andare?» Mormorò, stringendosi contro se stessa. «Dopo l'incidente di Dean quello che voleva era che le restassi accanto, mentre tu l'hai allontanata. Perché?»
Suo padre emise un lungo sospiro, passandosi una mano sugli occhi. «Sono le stesse parole che mi ha detto lei l'ultima volta che ci siamo visti. ''Perché Peter, perché?'' continuava a ripetere, ma il perché non lo so neanche io.» Ammise, incrociando finalmente il suo sguardo. «Forse è perché ognuno vive il dolore a modo suo e nonostante non fosse mio figlio io l'ho amato come fosse tale, quando è morto è stato come ricevere una pallottola nello stomaco. Mi sono chiuso in me stesso nel tentativo di superare il dolore della perdita e quando sono uscito dal tunnel avevo perso anche tutto il resto.
Lei, Aiden, te... Oh, bimba non piangere.»
Lea, senza neanche accorgersene, era scoppiata in lacrime. Sapeva in che direzione stava per vertere quella conversazione e non voleva neanche pensarci.
Istintivamente gettò le braccia al collo a suo padre, lasciando che la stringesse forte come quando era bambina e Aiden ed Isaac le facevano i gavettoni. 
«Tu non ci hai perso, Papà, né me né Aiden e so cosa stai per dire ma niente di ciò che è successo è colpa tua. Non è colpa di nessuno. Non potevi sapere come sarebbe andata a finire.» Mormorò contro il suo petto.
Suo padre faceva vagare le mani lungo la sua schiena, cercando di calmare lei e i singhiozzi che la stavano scuotendo.
Con sua madre non avrebbe mai potuto avere quel tipo di rapporto; non aveva mai potuto gettarsi tra le sue braccia e sfogarsi o parlare con lei della vita che avevano vissuto prima che Dean morisse, non perché l'altra fosse restia, ovviamente, ma perché, in un certo senso, la incolpava di aver gettato su di lei quella catastrofe che portava il nome di Gabriel Richardson.
Quando il campanello suonò padre e figlia sussultarono pericolosamente e si ritrovarono costretti a separarsi. 
«Vado io, tu aspetta qui!» Esclamò l'uomo, passandole una mano sulle gote.
Lea annuì e si asciugò con le maniche del pigiama i residui del pianto appena consumato.
Suo padre fece ritorno qualche istante dopo, accompagnato dall'ultima persona che si sarebbe aspettata di rivedere dopo gli ultimi avvenimento.
«Tesoro, Isaac è venuto a trovarti.»

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Capitolo 8
*** Capitolo 6 - Stavo per dire cunicolo nasale. ***


Lea non si aspettava di rivedere Isaac tanto presto, convinta del fatto che, da quel momento in poi, le sarebbe stato alla larga, trovandola una ragazzina piena di problemi e disturbi. Ed invece era lì, con lo sguardo fisso sul parquet, probabilmente alla ricerca di spiegazioni.
Pensare che si era talmente immersa in quella chiacchierata a cuore aperto che aveva finito con il dimenticarsi del possibile campanello d'allarme che il suo ''piccolo'' attacco di panico doveva aver acceso in lui.
Suo padre sorrise candido, dando una possente pacca sulle spalle del ragazzo, che barcollò leggermente.
«Stavamo giusto facendo colazione...» Lo informò, invitandolo, con un gesto della mano a prendere posto sul divano. «...Vuoi unirti a noi?»
Isaac scosse il capo, accennando un sorriso di rimando. «La ringrazio, Signor Wilson, ma ho appena finito di fare colazione con mio padre.»
Lea lesse sul volto di suo padre una sfumatura di compassione, e le tornarono in mente le parole di Patrick. 
''Ho tirato fuori la questione di suo padre.'' 
Ma di quale questione stava parlando?
«Bene, allora io vi lascio soli.» Esclamò l'uomo, intimando alla figlia, con lo sguardo, di comportarsi bene. «Se vi servisse qualcosa non chiamatemi e prendetevela da soli, io sarò di sotto a sfare l'asciugatrice.» Esclamò prima di scomparire oltre la porta del seminterrato.
Seguirono momenti di puro silenzio.
Si rese conto che capitavano spesso da quando si era trasferita nuovamente in quella cittadina e poteva giurare che era arrivata in cima alla lista delle cose che più odiava.
«Che cosa ci fai qui, Isaac?» Domandò improvvisamente, più brusca di quanto volesse.
Sapeva di dovergli tanto e che probabilmente non avrebbe mai finito di ringraziarlo e sdebitarsi, ma l'idea che potesse ''costringerla'' a rivelare più di quanto, in realtà, volesse la metteva sulla difensiva.
Isaac alzò il capo, accarezzandosi il mento ricoperto da un lieve accenno di barba.
«Sono passato a vedere come stavi.» Esclamò, rivolgendole uno sguardo che la mise leggermente in soggezione. Non la stava osservando, né studiando, ma letteralmente scannerizzando. «Ieri sera eri abbastanza sconvolta, volevo accertarmi che ti fossi ripresa.»
Lea inarcò un sopracciglio, non riuscendo proprio a tenere a freno la lingua. «Perché mai te ne importa? Neanche fossimo amici.»
«La faccia della gentilezza.» La schernì lui, provocando un leggero rossore per l'imbarazzo.
Non voleva trattarlo a quel modo, ma era preda di un mare di emozioni che si ritrovava a non saper gestire.
«Mi spiace..» Mormorò, infatti, dopo qualche secondo di silenzio. «Non volevo trattarti male.»
Isaac rise, stringendosi nelle spalle. «No, credo di meritarmelo dopo tutti i pugni che ti ho scaricato a dosso quando eravamo bambini.»
«Giusto! Ritiro tutte le mie scuse, te li meriti tutti i miei insulti e le mie cattiverie, razza di scimmione.» Esclamò, provocando una nuova risata nel ragazzo. 
Era strano pensare che fosse passata dal trattarlo male, al riderci e scherzarci come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Sinceramente era abbastanza convinta di star ancora sognando, dal momento che una cosa del genere non sarebbe mai stata possibile nella realtà, ma d'altro canto neanche invitarlo a vegliare su di lei lo era, quindi...
«Sei passato solo per vedere come stavo?» Domandò, questa volta utilizzando un tono decisamente più dolce. 
Gli occhi azzurri di Isaac presero una sfumatura più scura ed una nuvola nera sembrò calare su di lui.
«In realtà sono venuto qui per chiederti un favore, anche se so che probabilmente farai apposta a fare tutt'altro.» Lea gli rivolse un'occhiata truce. La prima volta che si erano rincontrati, l'aveva accusata di avere una bassa considerazione di lui. C'era da dire che anche lui non riponeva troppa fiducia in lei. «Sta lontana da Patrick.»
In tutta risposta, la giovane roteò gli occhi.
Ma era per caso la giornata ''Diciamo a Lea di stare lontano da qualsiasi cosa respiri finché non si ritroverà a morire sola nel suo monolocale a New York con un bicchiere di vino in una mano ed un pasticcino nell'altra mentre i cani Alsaziani si cibano della sua carne in stile Bridget Jones''?
«Mio fratello mi ha detto la stessa cosa. Riguardo te, però.» Lo informò, senza troppi giri di parole.
Isaac cambiò posizione, visibilmente a disagio nel dover parlare del suo ex migliore amico. «Tu ed Aiden avete parlato di me?»
Lea si rese tristemente conto del cambiamento repentino che aveva subito dopo aver sentito parlare di Aiden. 
In un certo senso vederlo in quello stato le faceva uno strano effetto; quei due erano stati molto più che migliori amici, ma fratelli. La fine di quel rapporto aveva irrimediabilmente spezzato entrambi; ma se Isaac sarebbe anche stato disposto ad implorare perdono, Aiden non era disposto a darglielo.
Istintivamente si ritrovò ad afferrargli la mano. 
Le stesse mani forte che la sera prima l'avevano rimessa in piedi con una facilità disarmante adesso sembravano quasi tremare.
«Isaac posso farti una domanda?» Domandò cauta, accarezzando con il pollice, il dorso della sua mano. «Cosa è successo tra te ed Aiden? Se non vuoi rispondere va bene lo stesso, non sei costretto.» Lo rassicurò.
Isaac scosse il capo, con un sorrisetto amaro dipinto sul volto. «Mi sono comportato da idiota e ho finito con lo spezzargli il cuore.»
Lea si ritrovava con più domande di prima al momento, ma decisa di non indagare oltre. «Sai ti fa sembrare come qualcuno di molto Gay, vero?» Domandò con l'unico intento di sdrammatizzare.
Il ragazzo, che nel frattempo sembrava aver ritrovato colore e vitalità, le lanciò a dosso un cuscino, rivolgendole poi un sorrisetto malizioso.
«Se vuoi posso dimostrarti quanto ti sbagli a riguardo!»
«Pompato.»
«Non fare la difficile ed ammetti che ti alletta l'idea.»
«Come un dito su per il cu..»
«Non essere scurrile.»
«Stavo per dire cunicolo nasale.»
La risata cristallina di Isaac si propagò per tutto il salone e Lea lo imitò con qualche secondo di ritardo.
Per un momento si ritrovò quasi a pensare che che le sarebbe piaciuto avere un rapporto di amicizia con lui, ma allo stesso tempo era convinta a priori che non avrebbe potuto funzionare. 
«Allora, lo farai?» Domandò lui, tornando improvvisamente serio.
La giovane si grattò il capo, cercando di capire a cosa si stesse riferendo. «Intendi stare lontana da Patrick.» Il ragazzo le annuì. «Solo se mi darai un motivo valido per farlo.»
«Non puoi trovare in te la forza per fidarti di me?»
«Vuoi che perda tempo a risponderti o ci arrivi da solo?»
Isaac sbuffò, passandosi nervosamente una mano sul volto. «Non è un ragazzo sincero.»
«Probabilmente neanche tu.»
«Ti vede solo come un giocattolo.»
«Veramente mi sembrava davvero preso da me.»
«Non lo era.»
«Come fai ad esserne tanto sicuro?»
«Perché mi ha proposto una scommessa su chi dei due ti avrebbe rimorchiata prima.»
Lea sentì il respiro bloccarsi in gola.
Sapeva che qualcosa non andava in Patrick, ma non si aspettava di essere presa in giro in modo così meschino.
''Probabilmente avrebbe persino vinto'', pensò amaramente.
«Hai accettato?» Ringhiò a denti stretti.
Isaac scosse la testa. «Lo avrei fatto con chiunque altra, ma non con te.»
«E perché mai? Non è un segreto che non mi sopporti, sarebbe stata solo l'ennesima palla curva che mi lanciavi addosso.»
Se gli sguardi avessero potuto uccidere probabilmente oramai sarebbe stata morta e sepolta. «Perché sei la sorella del mio migliore amico, ed il fatto che io non sappia come parlare con te non significa che io ti odi.» Replicò lui, adirato.
In un certo senso si sentì sollevata nel sentire certe parole, segno che evidentemente, almeno un pochino, ci teneva a lei. 
«E' questo il vero motivo per cui vi siete picchiati?» Improvvisamente le cose si stavano facendo più chiare nella sua testa. 
L'entrata in scena quasi teatrale, la promessa della sera più bella della sua vita, i continui complimenti, l'estrema confidenza, il gesto di Isaac, quel bacio dato tanto per farla stare zitta..
«Volevo farlo da un po'. Tu sei stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.»
«Grazie per non aver accettato e per avermi avvertita! Gli starò lontana.» Acconsentì Lea. 
L'aveva letteralmente salvata da una delusione, almeno questa glielo doveva.
Non poteva dire, però, di non essere nemmeno un pochino triste. Magari non sapeva baciare, ma in un certo ci si era immaginata al fianco di Patrick.
Il ragazzo sorrise, sporgendosi per baciarle la fronte.
«Solo io posso prendermi gioco di te, Piccola Wilson.» Esclamò ridendo.
«Questo significa che non mi libererò mai di te?» Domandò fingendosi disperata ed esasperata.
«Mai.»
Lea emise un sospiro frustrato, anche se, in un certo senso, non era più tanto sicura di volerlo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 7 - So prendermi cura di me stessa. ***


«Lea una torta al cioccolato al tavolo cinque!» Esclamò con tono squillante Johnny, allungandole la comanda sopra piano di mescita.
«Subito Jo!» Esclamò con altrettanto entusiasmo, abbassandosi per afferrare il piattino con la fetta di dolce.
Da quando Red aveva preso un mese di vacanza per andare a trovare sua nonna in North Carolina, il piccolo bar dove lavorava si era ritrovato con un sacco di turni scoperti e troppi pochi dipendenti per poterli coprire. Già da un po', Lea aveva sentito il bisogno di impiegare le sue energie in qualcosa di più produttivo e quando la sua migliore amica l'aveva messa al corrente di questa opportunità, non ci aveva messo che un secondo a proporsi come tappabuchi.
Inizialmente Roy, il proprietario del locale, aveva gentilmente asserito di non aver bisogno di qualcuno di inesperto per ricoprire quel ruolo e le aveva chiesto di andarsene, ma quando non era stato capace di trovare nessuno disposto a lavorare in un piccolo bar con una paga da pidocchi, era letteralmente tornato da lei strisciando.
A Lea lavorare come cameriera piaceva. Le persone erano sempre gentili, sorridenti e disposte ad avere una conversazione intelligente e matura. Molto spesso si era chiesta come mai Red si lamentasse tanto, ma era arrivata alla conclusione che, probabilmente, era lì per una motivazione diversa dalla sua.
Nonostante fosse bravina in quello che faceva, non poteva ancora definirsi un asso e quindi, alla fine della sua prima settimana, era ancora affiancata da coloro che si trovavano lì da più tempo di lei.
Fino a quel momento aveva avuto la fortuna di ritrovarsi sempre di turno con Johnny, un ragazzo poco più grande di lei che viveva ad un paio di isolati da casa sua, quindi l'idea di condividere l'altra metà del turno con una ragazza di cui conosceva solamente il nome, e che le era stata descritta come qualcuno di torbido, l'aveva messa un po' in soggezione.
Lea si era aspettata di trovarsi davanti una temibilissima punk, con più piercing e tatuaggi che ricordi, non di certo una giovane donna con una cascata di capelli castani ed un viso che avrebbe fatto invidia ad una bambola di porcellana.
Non che ne fosse dispiaciuta, anzi affatto, le faceva piacere sapere di lavorare con qualcuno più ''simile a lei'', era semplicemente sorpresa.
«Allora io vado, Leus.» Esclamò Johnny, circondandole le spalle con un braccio e stringendola frettolosamente a se. «Ci vediamo domani e vedi di non combinare altri casini.» Le intimò bonariamente, prima di imboccare la porta d'uscita.
Avrebbe voluto urlargli dietro che lei non faceva mai casini, ma avrebbe mentito.
Adesso Lea era sola con questa Nina e le cose si stavano facendo leggermente strane.
Nessuna delle due sembrava intenzionata a muovere un passo verso l'altra e la tensione non mancava di farsi sentire.
Con Johnny era stato diverso. 
Quel ragazzo era un'esplosione di buon umore e vitalità, fare amicizia con lui era stato un gioco da ragazzi, ma adesso che si ritrovava assieme a qualcuno con il suo stesso carattere chiuso le cose incominciavano a complicarsi.
Per svariate volte Lea aveva cercato di instaurare una conversazione con l'altra, ma erano tutte finite ancora prima di iniziare.
«Una bottiglietta d'acqua.» Esclamò uno dei ragazzi appena entrati. 
Lea rischiò quasi di cadere dallo sgabello nel sentire la voce graffiante di Patrick.
Da quando Isaac le aveva raccontato della scommessa che aveva così bene architettato, lo aveva deliberatamente evitato; era arrivata al punto di cancellare  il suo numero per non cedere alla bruciante tentazione di comporlo ed urlargli contro tutti gli insulti che il suo cervello fosse in grado di partorire in quel momento.
Alla fine però la rabbia era scemata e Lea era andata semplicemente avanti con la sua vita, non sentendosi per niente in dovere di continuare a ritenerlo una parte di essa. 
«Naturale o frizzante?» Domandò atona, con voce quasi meccanica, poggiandosi con i mani contro il lavandino.
Patrick la scrutò con quel sorriso che solo una settimana prima le era piaciuto tanto, ma che adesso le dava tremendamente fastidio perché simboleggiava quanto fosse facilmente abbindolabile. 
«Frizzante.»
Lea si abbassò e tirò fuori dal frigo una bottiglietta e gliela porse. «Tre dollari.» Esclamò annoiata, spostando lo sguardo altrove.
«Non hai più risposto ai miei messaggi. Ero preoccupato per te.» Mormorò il ragazzo, allungando la mano per poterle accarezzare il viso, ma si allontanò prima che potesse arrivare a toccarla. «Che c'è Isaac ti ha convinto a non farti neanche toccare da me?» Domandò con tonò derisorio.
Lea mantenne il suo sguardo freddo e duro. «Isaac mi ha semplicemente detto la verità.»
«Ci sono sempre due versioni della stessa verità.»
«Tre dollari.» Ripeté a denti stretti, intimandogli con lo sguardo di fare alla svelta.
Patrick, con ancora un ghigno divertito dipinto sul volto, le allungò i tre dollari ed afferrò in cambio la bottiglietta. «Ti facevo diversa, Lea, invece prendersi gioco di te è stato come rubare le caramelle ad un bambino.»
«Anche io ti reputavo diverso.» Replicò con profondo astio. «Invece ti sei rivelato il classico ragazzino di un paesino di campagna dimenticato da Dio che ha bisogno di stupide scommesse per sopperire al fatto che è solo un fallito.»
Patrick per un istante parve confuso, poi da gran bastardo quale era, rispose nell'unico modo che i bulli come lui conoscevano.
«Hey, Caleb, non sai cosa ti sei perso venerdì scorso da Norris. E' stata una festa da far tremare le gambe.» Esclamò a gran voce, mantenendo però gli occhi fissi su di lei. «Roba da togliere il fiato.» 
«Davvero, amico?» Domandò in risposta Caleb, un ragazzetto basso e magro dai capelli color carota, che, fino a quel momento, non aveva neanche notato.
«Si, da panico.»
Lea era sconvolta.
Non riusciva davvero a credere che Patrick si stesse prendendo gioco di lei, di quello che aveva passato... ma la cosa che più la rendeva incredula ed arrabbiata era il fatto che avesse scelto quell'argomento per vendicarsi di lei, sapendo che l'avrebbe ferita.
Prima ancora che potesse rendersene conto, la sua mano si era alzata verso l'alto ed aveva colpito il viso del ragazzo con talmente tanta forza da girarlo dall'altra parte.
In tutto il locale calò il silenzio e lo sguardo dei presenti si spostò su di loro.
Patrick si portò una mano alla guancia, prima di voltarsi verso di lei con occhi iniettati di sangue. «Brutta puttana!» Sputò fuori, afferrandola per il colletto della maglia e tendendo l'altro braccio quasi volesse restituirle lo schiaffo.
Sotto un certo punto di vista era più che convinta che non si sarebbe fatto problemi a farlo. 
«Hey, Pat..» Esclamò Nina, abbracciandolo da dietro e poggiando il mento sulla sua spalla. 
Il ragazzo, che non si sarebbe mai aspettato un comportamento del genere dalla giovane, infatti la fissò per un breve istante con aria interrogativa, seppur faticando a nascondere un sorrisetto. Era sempre stato estremamente consapevole del suo ascendente sulle ragazze, ma Nina non era mai stata interessata a lui, ecco il perché di così tanta sorpresa.
In meno di un millisecondo si dimenticò di Lea Wilson, della scommessa, dello schiaffo... e si concentrò solamente sulla giovane donna che lo stava saldamente abbracciando da dietro.
Nina, sbatté le lunghe ciglia da cerbiatta, scivolandogli davanti. «E' da un po' che non ci vediamo...» Esclamò con voce sensuale, facendo correre la mano lungo il suo avambraccio, fino a lasciare che si posasse sul pettorale destro. Un sorrisetto indecifrabile le si dipinse sul volto da bambolina. «L'ultima volta, se non ricordo male, eri nella stanza di mio fratello e stavi piangendo come un bambino dopo un misero piercing al capezzolo. Dico bene?»
Lea giurò di non aver mai visto nessuno sbiancare così tanto. Era abbastanza sicura che non avesse preso un po' d'aria subito le sarebbe svenuto ai piedi del bancone. Patrick Hennig, in lacrime, dopo essersi fatto un piercing al capezzolo. Dio se era qualcosa che avrebbe voluto vedere.
«Allora?» Ripeté Nina, poggiandosi con la schiena al bancone e portando le braccia conserte sotto il seno. «Dico bene?»
Il ragazzo non rispose, rivolse ad entrambe uno sguardo fulminante ed imboccò la via per l'uscita più che velocemente, neanche avesse avuto il diavolo alle calcagna.
Sapeva che avrebbe dovuto inginocchiarsi e baciare la terra dove camminava, ma al momento era troppo triste per fare qualsiasi cosa.
Non si aspettava certo che pregasse per il suo perdono, ma neanche che si comportasse a quel modo. Forse una parte di lei, aveva semplicemente sperato che ammettesse di aver sbagliato. 
«Hey, non prendertela. E' solo un coglione.» Esclamò Nina, rivolgendole uno sguardo ricco di dolcezza e compassione, mentre chiudeva il sacco della pattumiera.
Lea scrollò le spalle, accennando un sorriso. «Grazie per prima...» Sussurrò. «...Ma so prendermi cura di me stessa.»
«Non ne dubito, ma a volte devi solo prenderti una pausa e lasciare che qualcuno si preda cura di te al posto tuo.» Replicò, scomparendo nel retro bottega.
Lea sorrise, questa volta per davvero.
Aveva come l'impressione che quello sarebbe stato solo l'inizio di una grande amicizia.

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Capitolo 10
*** Capitolo 8 - Sei migliore di quel che credi. ***


Da brava ragazza, quale era sempre stata, Lea non aveva mai, nei suoi quasi diciotto anni, fatto nulla di stupido o insensato; non aveva mai preso una sbronza colossale, non aveva mai saltato la scuola o rubato in un supermercato, quindi era del tutto inspiegabile come fosse possibile che in una sola notte avesse infranto più regole che in tutta la sua vita.
Dopo il suo incontro\scontro con Patrick, aveva passato il resto del turno con la testa da tutt'altra parte. Non riusciva a smettere di pensare al fatto che non fosse stata capace neanche di difendersi da sola e che, quando il ragazzo aveva alzato la mano, pronto a renderle lo schiaffo, era stata solo capace a chiudere gli occhi e attendere l'impatto finale.
Si era sentita tremendamente vulnerabile ed era una sensazione che odiava profondamente, poiché credeva di essersela lasciata alle spalle diverso tempo prima. 
Era stata Nina a risollevarle il morale quando, prima di procedere con la chiusura del locale, le aveva chiesto se volesse unirsi a lei e al suo gruppo per una sana serata tra amici. In un primo momento aveva rifiutato, essendosi lasciata condizionare da tutte le raccomandazioni che le erano state fatte su quella ragazza, ma alla fine aveva deciso che doveva smettere di comportarsi come se avesse avuto un palo piantato su per il didietro e l'aveva seguita.
Se qualcuno glielo avesse chiesto non sarebbe stata in grado di definire il momento esatto in cui, dal rifiutarlo, si era ritrovata a fumare uno spinello. Fatto sta che avrebbe preferito restare ferma sulle sue idee e continuare a rifiutare.
Il mattino seguente, con il senno di poi, se ne sarebbe sicuramente pentita. Ma non era qualcosa di cui doveva preoccuparsi al momento, anche perché non era nelle condizioni esatte per fare nulla.
«Nina..» Chiamò, poggiando la testa contro la spalle della giovane. «Dove stiamo andando?»
«Stiamo andando a casa tua. Esattamente come cinque minuti fa.»
«E che ore sono?»
«Esattamente cinque minuti più tardi rispetto all'ultima volta in cui lo hai chiesto.»
Quando Nina aveva chiesto a Lea di passare la serata assieme a lei e i suoi amici, questo non era esattamente quello che aveva preventivato. Si era aspettata una serata tranquilla, passata a ridere, scherzare e bere birra, non di certo di dover fare da baby sitter alla versione fatta di Biancaneve.
«Nina..» La chiamò nuovamente l'altra, ricevendo in risposta solo un grugnito. «Quel fungo ci sta ancora seguendo? Aveva una faccia losca, non vorrei ci facesse del male.» Lea fece una breve pausa. «Secondo te i funghi hanno la faccia?»
Eccola che tornava alla riscossa con la storia del fungo.
La ragazza aveva chiesto ai suoi amici di distrarre la piccola Wilson mentre lei entrava nel Pub per prendere un paio di birre; era stata via meno di dieci minuti, probabilmente, ma quando era tornata Lea le era corsa incontro, affermando di essere perseguitata da un temibile fungo assassino che voleva drogarla e rapirla per poi vendere i suoi organi ad un trafficante Messicano. 
''Distrarla? Io avevo capito farla.'', ecco l'unica spiegazione che erano stati capace di darle i suoi migliori amici.
Sospirò sonoramente, roteando le iridi scure. «No, i funghi non ce l'hanno la faccia.»
In tutta risposta ricevette un singhiozzo. «Ed è così triste che i bambini del terzo mondo non abbiano dell'acqua...»
Nina strinse la presa contro il fianco della ragazza, prendendo un profondo respiro e prendendosi del tempo per contare fino a dieci e calmarsi.
Non era mai stata una ragazza particolarmente violenta, eppure mai come in quel momento, aveva sentito il bisogno di prendere a pugni qualcuno. Fortunatamente meno di una decina di metri dopo, riuscì ad intravedere la facciata color talpa di casa Wilson.
Dire che sprizzava felicità da tutti i pori era un eufemismo.
Sebbene fosse oramai l'una passata, la luce in quello che doveva essere il salotto era ancora accesa, segno evidente che il padre di Lea era ancora sveglio. Nina emise un sospiro frustrato e con un ultimo sforzo, scivolò nel cortile retrostante alla ricerca della porta sul retro.
«Queste cose non le avrei fatte neanche per mia madre. Sentiti fortunata.» Esclamò, puntandole l'indice contro, dopo averla aiutata a sedersi sul piccolo dondolo azzurro.
Aveva il fiato corto ed era talmente sudata da fare schifo persino ad un maiale. Col cavolo che il mattino seguente si sarebbe alzata per andare a fare jogging, per quella settimana aveva già dato.
Quando si avvicinò alla porticina bianca e la trovò aperta, decise che avrebbe smesso di lamentarsi di quella cittadina dove mai niente di pericoloso o straordinario accadeva.
«Quando ti ho detto: ''Tienila d'occhio ed aiutala a distrarsi'', non intendevo: ''Riportamela fatta come una pigna''.» Esclamò Isaac, con tono di rimprovero, poggiandosi contro la staccionata bianca.
Nina gli rivolse un'occhiataccia di fuoco. Sia per lo spavento che le aveva fatto prendere, sia per non aver risposto alle dodici chiamate che gli aveva lasciato prima che partisse per riportare Lea a casa.
«Non prendertela con me se la tua ragazza non è capace di stare lontana dai guai!» Replicò, più acida di quanto volesse.
«Non è la mia ragazza.» Si apprestò a chiarire il ragazzo.
La giovane si strinse nelle spalle, del tutto disinteressata alla vita amorosa dell'altro.
Isaac e Nina erano probabilmente la coppia più strana che avesse mai camminato su questa terra; il momento prima si odiavano, l'altro si lasciavano andare a confidenze anche fin troppo personali, per poi tornare ad insultarsi un istante dopo. Non sapevano neanche loro come definire quel rapporto, ma alla fine loro non avevano bisogno di etichette.
«Hai intenzione di restare a guardarmi oppure vuoi aiutarmi?» Sbottò preda alla rabbia più ceca, mentre cercava, per l'ennesima volta, di trascinare Lea lontano da quel dondolo.
Isaac rise sommessamente, prima di scavalcare agilmente il divisorio e raggiungendola con due grandi falcate.
Fin quando se ne era rimasto seminascosto nell'ombra, Nina non aveva notato il labbro spaccato e tanto meno il rivolo di sangue che, dalla fronte, gli scendeva lungo tutto il viso, fino alla mascella.
Senza rendersene conto, lasciò andare il braccio della ragazza, avvicinando la mano al viso del giovane al suo fianco.
Isaac si ritrasse immediatamente, quasi il suo tocco lo avesse scottato, pulendosi con la manica della felpa nera la scia cremisi.
«Non è mio!» Esclamò, allontanandola bruscamente.
«E' successo di nuovo?» Domandò, dopo essersi presa qualche istante di silenzio per pensare ad una domanda che non risultasse troppo stupida.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, prima di caricarsi, senza il minimo sforzo, la piccola Wilson su di una spalla, come un sacco di patate. «Siamo alle solite.» Si giustificò, ignorando i deboli lamenti di Lea.
«Non dovresti lasciare che ti metta le mani addosso, Isaac.»
«E che cosa dovrei fare?»
«Conosci la mia risposta. Non è la prima volta che affrontiamo questa conversazione.»
«Non lo denuncerò...»
Nina sospirò sonoramente, passandosi una mano tra i lunghi capelli castani. 
Non avrebbe saputo dire quante volte avevano sostenuto quella conversazione, né quante volte se ne era andata con il magone e le lacrime agli occhi.
Lei non era sarebbe stata in grado di sostenere una situazione del genere, ma infondo Isaac era sempre stato più forte di lei. Era sempre stato più forte di tutti loro.
«Non capirò mai il perché...» Mormorò sconfitta, tirando su con il naso. «Hai già rinunciato a tanto per quell'uomo. Non gli devi niente.»
«E' mio padre...» 
«Non è una giustificazione.»
«Lo è.» Ringhiò, avvicinandosi di un passo. Erano talmente vicini che Nina poteva sentire il suo respiro accarezzarle il viso. «Io non sono come te, non ho un fratello che mi aspetta dall'altra parte del paese, pronto a rimediare e perdonare tutti i miei casini. Se perdo anche lui, io non ho nessun'altro.»
«Forse è meglio che me ne vada...» Mormorò, una manciata di minuti dopo, muovendo un passo all'indietro. 
La situazione stava degenerando e preferiva andarsene prima di ritrovarsi a dire qualcosa che non pensava. 
«Dille di chiamarmi quando si sveglia, voglio sapere come sta.» Esclamò la ragazza, indicando con una mossa del mento Lea che continuava a dimenarsi e lamentarsi.
Isaac, che adesso sembrava visibilmente più calmo e a suo agio, inarcò un sopracciglio verso l'alto, rivolgendole uno sguardo divertito e allo stesso tempo malizioso.
«Credevo che il tuo tipo fossero le rosse.» La schenì.
Nina sorrise, mostrandogli il dito medio. «Vaffanculo Isaac.»
L'atmosfera era decisamente più leggera al momento.
«Siete una bella coppia!» Esclamò lui in risposta, poggiandole la mano libera sulla spalla. «Vedi di non fartela scappare.»
«Lo sai bene, che non dipende da me.» Esclamò, sottraendosi alla sua stretta, scivolando di lato. La situazione stava prendendo una piega sbagliata e Nina non sapeva se desiderasse più cambiare discorso o andarsene. «Tu vedi di trattarla bene. Ha la faccia di chi ne ha passate tante.»
Il ragazzo le rivolse uno sguardo stranito. «Lea è forte.»
«Sarà forte ma è umana.» Mormorò, più a se stessa che altro. «Non ci sarò sempre io a tenerla d'occhio ed evitare che si metta nei casini, Isaac.»
«Che cosa mi suggerisci?» Domandò, piantando i denti contro il labbro inferiore. 
«Ti suggerisco di mettere da parte l'orgoglio ferito del bambino di nove anni che è in te e lasciarla entrare.»
«Se la lascio entrare, si sentirà in dovere di salvarmi. Ha sempre avuto questa sorta di ossessione per i cuccioli feriti.»
«Ma tu non sei un cucciolo ferito, tu sei un mastino. Non le permetteresti mai di salvarti.»
«Ma lei non lo sa. Non conosce questo lato di me.»
«Credo che ti conosca meglio di quanto credi.»
«Quelle poche volte in cui sei sobria, sei quasi saggia, Carson. Mi stupisci sempre di più.»
Nina gli tirò un pugno scherzoso sul braccio, non riuscendo a trattenersi dal sorridere. «Idiota!»
Isaac le sorrise in rimando, avvicinandosi alla porta sul retro. Se fosse rimasta ancora qualche altro minuti in quella posizione, probabilmente, Lea gli avrebbe vomitato nella schiena e la serata aveva già fatto abbastanza schifo, non aveva bisogno di concluderla ancora peggio.
«Nina..?» Chiamò, bloccandola mentre svoltava l'angolo. La ragazza gli rivolse uno sguardo interrogativo, inarcando un sopracciglio verso l'alto. «Sei migliore di quel credi, un giorno o l'altro se ne renderà conto anche Red.»

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Capitolo 11
*** Capitolo 9 - So che non sei un cucciolo ferito. ***


«Caro Diario, Isaac è un figo. 
E' il ragazzo più bello ed intelligente che abbia mai visto in tutta la mia vita. Non riesco a smettere di pensare a lui e ai suoi bicipiti scolpiti. E' così carismatico e pieno di talento...
Oh, come mi piacerebbe che fosse lui a rubare la mia verginità.»
Lea, che fino a pochi minuti prima viaggiava nel meraviglioso mondo dei sogni, si alzò di soprassalto, incapace di assimilare ciò che aveva appena sentito.
Isaac, invece, seduto in una sedia accanto al suo letto, la guardava con occhi pieni di lacrime a causa delle troppe risa. Stretto tra le mani, aveva il suo diario segreto risalente alla terza elementare, all'interno del quale, sicuramente, non c'erano scritte certe cose.
Lo trucidò con lo sguardo, prima di lasciarsi ricadere pesantemente sul letto.
«Razza di imbecille...» Bofonchiò, tornando a dargli le spalle.
«Oh, andiamo Lea...» Esclamò lui con tono lamentoso, prendendo posto nel lato del letto rimasto libero. «Quel diario era pieno di ''Isaac è insopportabile'', ''Odio Isaac'', ''Isaac ha fatto questo'', c'era bisogno di qualche nota di amore nei miei confronti.»
«Hai letto tutto il mio diario?» Domandò, voltando solamente il capo così da poterlo guardare negli occhi.
Isaac si strinse nelle spalle, poggiando il quaderno dalla copertina rosa sul comodino lì accanto, poi le rivolse un sorrisetto sornione. «Puoi stare tranquilla, non dirò a Joseph, Tyler, Mark, Andrew e Silas che hai avuto una cotta per loro durante tutta la terza elementare.» 
«Conosci il significato della parola privacy?»
«Mi sembra di averti appena detto che manterrò il tuo segreto.»
Lea sospirò sonoramente, oramai arresa al fatto che non se ne sarebbe andato permettendole così di riprendere sonno, e poggiò le mani sul materasso, issandosi a sedere. 
«Che cosa sei venuto a fare?» Domandò la giovane, stropicciandosi gli occhi.
Si sentiva leggermente in imbarazzo in quel momento, non tanto perché, per la seconda volta in nemmeno due mesi, stessero condividendo lo stesso letto, quanto a causa dei flash della sera precedente che le passavano in mente dal momento in cui si era svegliata.
Ricordava vagamente qualche frammento della sua conversazione con Nina; ricordava il momento in cui aveva asserito di aver chiesto alla ragazza di tenerla d'occhio, quello in cui aveva ribadito che non avrebbe denunciato suo padre o quando l'aveva letteralmente accusata di avere la sindrome della crocerossina.
Come sempre, quando si trovava in sua compagnia, aveva tante domande e poco coraggio per porle.
Il ragazzo si aggiustò a sedere, volgendo poi il capo verso di lei, con aria terribilmente seria. Per un istante le balenò in testa l'idea che avesse saputo del suo incidente con Patrick e che fosse lì per rimproverarla.
«Sono qui per avvertirti che andrò alla centrale, stasera.» Lea sgranò gli occhi, mentre il suo cervello andava letteralmente in pappa. Che cosa diamine doveva andare a fare Isaac alla centrale? E perché lo stava dicendo a lei? Che avesse deciso di seguire il consiglio di Nina e denunciare qualsiasi cosa suo padre gli facesse? «Non posso passare sopra le tue azioni Lea. Non posso permettere che si ripeta una seconda volta...»
«Vorresti denunciarmi per aver fumato uno spinello?» Domandò lei corrucciando la fronte.
Stava facendo sul serio?
In tutta risposta, scosse il capo con aria mesta. «No, certo che no. Ma ieri ero così spaventato quando hai toccato il mio pacco.»
La giovane voltò il capo di scatto, sentendo il suo cuore perdere un battito. 
«COSA AVREI FATTO?» Urlò, portandosi le mani a coprirsi il viso. Era sicura di essere arrossita dalle dita dei piedi alla punta delle orecchie.
Non poteva essere vero. Non poteva dannatamente essere vero. Diamine, Isaac si sarebbe preso gioco di lei per il resto della vita.
''Promemoria per il futuro.'' Pensò. ''Non ubriacarti se poi hai intenzione di fumare una canna.''
«E non è finita qui. Continuavi a strusciarti su di me e dire: ''Oh, mio Dio, Isaac ma è enorme.»
Lea lo fulminò con lo sguardo, cercando di non far trasparire quanto in realtà si stesse vergognando di se stessa. «Okay! Questo sono sicura di non averlo detto!»
Il ragazzo scoppiò nuovamente in una fragorosa risata, cingendole le spalle con un braccio. «Cristo, Lea Wilson, mi era mancato così tanto prendermi gioco di te.»
Invece a lei non era mancato per niente essere la vittima sacrificale dei suoi stupidi scherzi, anche se, per quanto le bruciasse la cosa, doveva ammettere che negli ultimi tempi le stesse prese in giro che anni fa l'avrebbero mandata su tutte le furie, adesso facevo ridere anche lei.
«Hai già fatto colazione?» Domandò la giovane, scostandosi leggermente.
Non era mai stata una grande amante del contatto fisico, la storia di Gabe non aveva fatto altro che accentuare questo aspetto del suo carattere ed il terribile bacio di Patrick, aveva solo peggiorato la situazione...
Isaac scosse il capo, balzando in piedi. «No e sto morendo di fame. Andiamo donna, voglio una festa di quella deliziosa crostata che tuo padre ha messo a raffreddare fuori dalla finestra questa mattina.»
«Cavernicolo.»

Neanche dieci minuti dopo stavano entrambi seduti all'isola della cucina, con una fantastica fetta di crostata alle albicocche tra le mani. 
Isaac non smetteva di fare la vittima ed allontanarsi da lei quando si avvicinava a lui anche solo per sbaglio. ''Mi sono sentito violato'', continuava a ripetere con aria estremamente teatrale. 
«Smettila di comportarti come se ti fosse dispiaciuto!» Sbuffò infine Lea, lanciandogli a dosso il piattino di plastica in cui aveva appoggiato la sua colazione.
Il ragazzo si portò una mano al petto, offeso. «Mi sono sentito estremamente molestato. Avrei voluto vedere te al mio posto.»
La giovane si ritrovò ad abbassare lo sguardo, trovando improvvisamente il piano in granito della sua cucina estremamente interessante. Quella di Gabe non era stata una molestia vera e propria, bensì un gioco psicologico ma che però aveva sortito lo stesso effetto. 
«Se solo sapessi...» Sussurrò talmente piano che faticò a sentire lei stessa le sue stesse parole.
Lea aveva sempre paragonato l'essere molesto del suo patrigno al modo di fare di un gatto che trattiene il topo per la coda. Non lo mangia, ci gioca; lo illude di poter scappare, poi attacca. 
Il gatto controlla la vita del topo, così come Gabe controllava la sua.
Non importa quanto lontano scappasse, in un modo o nell'altro sarebbe sempre stato capace di controllare la sua intera esistenza.
«Hai detto qualcosa?» Domandò Isaac, afferrando il bordo della crostata che lei aveva lasciato e portandosela alla bocca. 
«Ma tu non fai mai domande?» Esclamò lei, inclinando la testa di lato. 
Da quando era tornata ad Harpool Bay e da quando lo aveva, involontariamente, trascinato nei suoi casini, si era resa conto di non averlo mai sentito porre domande scomode o chiedere spiegazioni. Sembrava quasi non ne sentisse il bisogno.
Se fosse stata lei a quest'ora lo avrebbe riempito di così tante domande da fargli venire il mal di testa.
«Che intendi?» Le domandò lui con aria stranita.
«Intendo che non importa in quanti casini io mi cacci, tu non chiedi mai spiegazioni. 
Potrei buttarmi da un ponte e tu saresti lì sotto pronto ad evitare che mi schianti, ma non a chiedermi delle spiegazioni.»
«Mi stai dicendo che hai intenzione di buttarti da un ponto o che speri che io ti salvi?»
«Ti sto dicendo che non ti capisco.»
«E cosa c'è da capire, Lea?» Sospirò lui, passandosi una mano sul viso. «Se fossi io quello sul ponte e tu quella pronta a salvarmi, io non vorrei che una volta tornato con i piedi per terra tu mi chiedessi spiegazioni ma che mi dessi un motivo in più per non provare a rifarlo.»
Lea si passò le labbra sulla lingua, prima di incastrare il labbro inferiore tra i denti.
Isaac Hall si stava rivelando ogni giorno più maturo di quello che avrebbe mai immaginato.
«Sei un mistero per me, Isaac Hall!»
Restarono a fissarsi per istanti che parvero infiniti. Tutto intorno a loro c'era silenzio, ma questa volta non c'era niente di imbarazzante o assordante, si stavano solo guardando.
«Che cosa fai domani sera?» Domandò lui, tagliandosi un'altra fetta di crostata.
Lea si strinse nelle spalle. «Quello che faccio tutte le sere, Mignolo: tentare di conquistare il mondo.»
«Sii, seria per una volta.» Esclamò lui, dandole un buffetto sul naso.
La giovane si strinse nelle spalle. «Probabilmente me ne resterò chiusa nella mia stanza a recuperare le puntate dell'ultima stagione di Narcos.»
«Vuoi venire con me da Betsy?»
«Betsy?»
«E' un pub poco fuori città.»
«Perché vuoi portarmi in un Pub?»
«Mi hanno chiesto di suonare e mi farebbe piacere se ci fossi anche tu.»
«E perché mai?»
«Per urlare al microfono che mi hai toccato il pacco. Secondo te?»
Lea scoppiò a ridere, scuotendo il capo. «E' per quello che ha detto Nina?»
Isaac assottigliò lo sguardo. «Che cosa diavolo ne sai di quello che ha detto Nina?»
«So che non sei un cucciolo ferito.»
«Cos'altro hai sentito?» Domandò a denti stretti.
Sembrava teso, quasi temesse che avesse scoperto qualcosa di troppo.
Lea ritrovò nel suo modo di fare un parte della sua stessa insicurezza.
«A che ora devo farmi trovare pronta?»
«Devo essere lì per le nove.»
«Sarò pronta per le otto.»

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Capitolo 12
*** Capitolo 10 - Non è la tua battaglia, Bambi. ***


​Lea fissò la sua immagine riflessa nello specchio, trovandola estremamente insoddisfacente.
Aveva passato più di un'ora chiusa in bagno nel tentativo di rendersi presentabile ed il fatto di non esserci riuscita, per i suoi standard, la rendeva estremamente irritabile.
Fece correre lo sguardo sui capelli raccolti in quella banalissima crocchia disordinata, sul top che la lasciava un po' troppo scoperta e su quei pantaloncini a vita alta che improvvisamente le sembravano fin troppo corti. 
Non poteva finire così ogni volta che doveva andare da qualche parte. Era dannatamente ingiusto.
«Tesoro!» Esclamò suo padre dal piano di sotto. «Isaac ti sta aspettando.»
Bene. Non aveva neanche il tempo di cambiarsi. 
Grugnì frsutrata.
«Scendo Papà.» Esclamò a gran voce, afferrando il chiodo dall'attaccapanni. 
Era agitata e si odiava per questo. Dopo la sua ultima, disastrosa, esperienza l'idea di ritrovarsi nuovamente sola con un ragazzo la metteva in ansia. Poco importava se era lo stesso ragazzo che l'aveva aiutata a rialzarsi in piedi, quando tutti gli altri, attorno a lei, si erano fermati a guardare. 
«Bimba!» Chiamò suo padre, quando la sentì scendere l'ultimo scalino. Lea scivolò in cucina, dove suo padre stava preparando gli ingredienti per dei deliziosissimi Tachos. «Prima che tu vada devo farti una domanda.» La giovane annuì, invitandolo con lo sguardo a continuare. «Ho notato che in quest'ultimo periodo tu ed Isaac avete legato molto...» Incominciò con fare impacciato l'uomo, grattandosi il capo. Effettivamente c'era stata una sorta di avvicinamento, sicuramente litigavano meno ma non era sicura si potesse parlare di lagame, lei la avrebbe definito più una tacita sopportazione reciproca. «...C'è qualcosa tra di voi?»
La tempestiva risata che si riversò fuori dalle labbra della ragazza fu una risposta più che eloquente e Peter Wilson sentì il cuore, leggermente, più leggero. «No, Papà, non c'è niente tra me e Isaac.» Esclamò comunque, dandogli la conferma effettiva.
«Bene...» Mormorò l'uomo, schiarendosi la gola. «...Allora andate e fate, cioè non fate. Ma se proprio dovete fare, proteggetevi.»
Lea uscì di casa con un solo chiodo fisso in testa: suo padre aveva davvero provato a farle un discorsetto sul sesso? Ma soprattutto: era davvero convinto che sarebbe stata tanto stupida da finire nel letto di Isaac? 
Incredibile oltre che estremamente imbarazzante!
«Mio padre ha appena provato a farmi un discorso sul ses...» L'aria le si bloccò in gola e fu costretta a sbattere le palpebre un paio di volte prima di riuscire a riprendere padronanza del suo corpo.
Isaac era poggiato contro il cruscotto della Range Rover nera e fumava in silenzio. Era come durante il loro primo incontro dopo il suo ritorno, avvolto nei suoi jeans neri ed i tatuaggi che si vedevano dalla la canotta. Per la prima volta in vita sua si ritrovò a dover realizzare quanto in realtà fosse bello. Non era il tipo di bellezza che ti volti a guardare per strada né quella troppo perfetta che non puoi fare a meno di notare; Isaac aveva la mascella troppo squadrata, gli occhi troppo infossati, il viso troppo scavato ed il naso troppo dritto, eppure in quel momento non le veniva in mente un'altro aggettivo, all'infuori di bello, che potesse descriverlo.
«Ti sei imbambolata?» La schernì lui, arricciando il naso.
Lea scosse il capo, avvicinandosi a grandi falcate alla macchina, senza replicare. Erano già abbastanza in ritardo, non c'era bisogno che si mettessero a battibeccare.
«Mi avevi detto che ti saresti fatta trovare pronta per le otto.» Esclamò il ragazzo, mordendosi l'interno guancia per non perettere ad un ghigno divertito di dipingersi sulle sue labbra e gettandole in grembo un paio di CD.
«Già, come ti stavo dicendo prima, sono stata bloccata da mio padre.»
«Ti ha detto di non bere?»
«Veramente ci ha chiesto di non fare sesso.» Isaac inchiodò bruscamente e Lea si ritrovò presto schicchiata contro il sedile. «MA SEI PER CASO SCEMO?» 
Era una fortuna che in quella strada non ci fosse nessuno oltre loro.
«Ti sembra il modo di dirmi certe cose?»
«E a te sembra il modo di frenare questo? Ma chi diavolo te l'ha data la patente?»
«Cristo!» Sospirò Isaac, sbattendo il capo contro il poggiatesta. «Dopo questa rivelazione mi è passata tutta la voglia di fare sesso, con te o con qualsiasi altra persona.»
Lea si ritrovò inevitabilmente ad arrossire davanti a quell'ultimo commento, ma nonostante l'imbarazzo decise di prendere la palla al balzo e stuzzicarlo come lui si divertiva a fare con lei.
«Quindi vorresti fare sesso con me?» Domandò con aria civettuola.
Si sarebbe aspettata un'espressione stupita o almeno un accenno di rossore, ma tutto ciò che comparve sul volto del ragazzo fu un ghigno malizioso.
Lo sguardo di Isaac scivolò sulla sua mano, ancora poggiata sulla sua coscia, pericolosamente vicina al cavallo dei suoi pantaloni. «Ho frainteso i tuoi segnali?»
«Mi sono aggrappata a te quando hai frenato. Non farti strane idee.» Bofonchiò, allontanando la mano inorridita.
«Se ti aiuta a dormire la notte, Maniaca.»
Il resto del viaggio passò tranquillamente, tra Isaac che la accusava di essere una maniaca stalker che lo osservava dormire e una sosta per una romantica cenetta da McDonald.
«Mi brucia dirlo, ma mi sto divertendo.» Esclamò Lea, portandosi alla bocca l'ennesima Chicken Nuggets.
«Non ne dubito!» Sbuffò il ragazzo, riponendo il portafogli all'interno della tasca posteriore dei jeans.
«Sei ancora arrabbiato con me perché ti ho fatto fare la figura del ragazzo con disturbi alimentari davanti alla cameriera carina?» Domandò con fare innocente, sbattendo le lunghe ciglia.
«Non sono arrabbiato, sono stranito.»
«Da cosa?»
«Da te?» 
«Me?»
«Due BigMac menù con doppio formaggio, la scatola da venti Chicken Nuggets e il gelato con le praline? Ma dove la metti tutta quella roba?»
La giovane si portò le mani ai fianchi, inclinando leggermente il capo di lato. «Devo crescere, mi serve nutrimento. Poi tu hai detto di ordinare quello che volevo.»
«Si, ma mi avrebbe fatto piacere se avessi lasciato almeno il cameriere.»
Lea rise sonoramente, prima di dirigersi all'interno del locale senza preoccuparsi di controllare che l'altro la stesse seguendo. 
Se dall'esterno il locale sembrava l'ultima delle discariche, l'interno era tutta un'altra storia; elegante e sofisticato, aggettivi con cui non si sarebbe mai sentita di definire un pub.
«Era un vecchio cinema.» Urlò Isaac al suo orecchio, nel tentativo di sovrastare la musica.
«E' molto bello.» Esclamò a gran voce la giovane, guardandosi attorno e riconoscendo tutti i tratti caratteristici di una cabina cinematografica; dalla platea adibita a pista alle pareti bombate il cui unico scopo era quello di insonorizzare la sala. «Fra quanto dovrai salire sul palco?»
«Non prima di mezz'ora...»
«Quanto durerà la tua esibizione?»
«Un'ora circa. Pensi di riuscire a startene buona senza finire in qualche casino?»
Lea gli colpì il petto, fingendosi offesa. «Hey, sono perfettamente in grado di prendermi cura di me stessa.»
«Beh, dati i tuoi precedenti temo di non poterti prendere in parola.» Questa volta il suo tono era decisamente serio.
«Che cosa intendi esattamente?» 
Era confusa non sapeva se le pensasse davvero quelle cose o se si stesse la stesse prendendo in giro come al solito.
«Esattamente quello che ho detto, che hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te, perché è abbastanza ovvio che da sola non resisteresti un giorno.»
Lea sentì il sangue ribollirle nelle vene.
Ma chi si credeva di essere, esattamente?
Poteva fingere il contrario, ma Isaac non la conosceva. Non sapeva quello che aveva vissuto e quanto questo avesse inciso nel forgiare il suo carattere. 
Okay, poteva essersi cacciata in qualche guaio che le era poi scappato di mano dal suo arrivo, ma non per questo gli avrebbe permesso di denigrarla.
«E questo qualcuno dovresti essere tu?» Assottigliò lo sguardo, non preoccupandosi neanche di nascondere la nota di acidità mista a sarcasmo presente nella sua voce. «Anzi, rispondi a questo, sono qui perché così potessi tenermi d'occhio?»
Il volto di Isaac aveva assunto un'espressione annoiata, quasi si aspettasse da lei un tale comportamento. «Sei qui perché ti volevo qui.»
«E per tenermi d'occhio.»
«Ho preso due piccioni con una fava, Lea.»
«Vaffanculo, Isaac.» Replicò allontanandosi.
Era dall'età di undici anni che ogni suo comportamento veniva strettamente tenuto sotto controllo e per quanto le facesse piacere sapere che c'era qualcuno pronto a guardarle le spalle in ogni momento, odiava il fatto che tutti la ritenessero così dannatamente delicata.
Lea Wilson era un concentrato di forza, doveva solamente trovare di tirarla fuori senza che la distruggesse.

«Wow. Non mi aspettavo che Isaac si annoiasse del nuovo giocattolino così alla svelta.»
Lea alzò lo sguardo sulla figura maschile poggiata contro lo stipite della porta sul retro e sentì un conato di vomito salirle su per la gola nel riconoscere nientemeno che Patrick Hennig.
Senza neanche premurarsi di rispondere, si alzò in piedi e prese a camminare in direzione del parcheggio. 
Già l'aver litigato con Isaac le aveva rovinato la serata, non aveva nessuna voglia di mettersi a replicare la scena di qualche ora prima anche con Patrick. 
Peccato lui non sembrasse avere la stessa idea.
«Andiamo, Lea, stavo solo scherzando.» Esclamò, afferrandole il polso.
«Che diavolo vuoi, Patrick?» Domandò, strattonando il braccio e liberandosi così dalla sua presa ferrea. «Non mi sembra che io e te abbiamo niente da dirci.»
«Infatti, semplicemente mi facevi pena seduta lì, tutta sola.»
«Che ne dici di tornare a provare pena per me altrove? Tipo in Alaska o semplicemente a 'Fanculo?»
Patrick roteò gli occhi, prima di portare le braccia conserte al petto.
Aveva l'aria di chi aveva avuto una pessima serata, forse persino peggiore della sua, ma quella sera Lea non ne aveva per nessuno.
«Ho provato a chiamarti, volevo scusarmi per quello che ho fatto.» Incominciò il ragazzo, prendendo un profondo respiro. «Ma non hai mai risposto.»
«Ho bloccato il tuo numero.»
«Immaginavo.»
Il silenzio calò su di loro e Lea fece per muovere un passo all'indietro, ma venne bloccata nuovamente.
«So che quello che ho fatto è imperdonabile e che non è una giustificazione ma ero completamente fatto in quel momento, non sapevo che cosa stavo dicendo.» Si grattò il capo visibilmente a disagio.
«Hai finito?» Domandò, assottigliando lo sguardo. «No, sai, perché ho cose molto più importanti ed invitanti da fare piuttosto che stare ad ascoltare le tue scuse, come ad esempio strapparmi uno ad uno i capelli o schiacciarmi le unghie con un sasso.»
«Veramente volevo chiederti di rincominciare da capo. Provare ad essere amici...»
Sembrava seriamente pentito e ciò smosse qualcosa all'interno del suo stomaco. Per quanto volesse restare arrabbiata con Patrick, schiaffeggiarlo una seconda volta ed andarsene, sentiva di non poter ignorare la persistente vocina della sua coscienza che tornava in superficie sempre nei momenti meno opportuni.
''Una seconda possibilità non si nega a nessuno!''
Dio quanto avrebbe voluto aggrapparsi al dolore che la scoperta della scommessa aveva scaturito in lei, Dio quanto avrebbe voluto poter mettere dei paletti alla sua magnanimità...
«LEA.» La voce di Isaac la riportò alla realtà e fece irrigidire Patrick che, dopo essersi fatto indietro di un paio di passi si era del tutto allontanato, non senza, però, chiederle di pensare alla sua proposta.
«Se devi venire qua per sbraitarmi contro come un Mastino, vattene. Non ho nessuna voglia di litigare con te.»
«Il mondo non gira intorno a te, Lea, fattene una ragione.» Ringhiò in risposta afferrandole il polso. Isaac aveva uno strano sguardo negli occhi, un misto di preoccupazione e rabbia; per quanto ferrea la sua stretta tremava e nonostante il fastidio che le provocava lungo tutto il braccio il suo tocco, non si sottrasse. «Dobbiamo tornare a casa.»
Fece per muoversi ma la giovane lo bloccò per un lembo della canottiera nera. «Stai bene?» Domandò, portando una mano sul viso.
Poteva essere arrabbiata quanto voleva, ma lo sguardo terrorizzato del ragazzo aveva il potere di spezzarle il cuore. Non sapeva che cosa fosse successo, ma il suo istinto le suggeriva che non era niente di buono.
In risposta, scosse semplicemente il capo, tirandole delicatamente il braccio. «Andiamo.»
Il viaggio verso casa si svolse nel più totale silenzio, interrotto solamente dal ritmico battito delle dita di Isaac contro il volante.
Era terribilmente agitato, poteva notarlo dalla sua postura rigida e dalla mascella contratta. 
Avrebbe voluto dirgli che le era dispiaciuto non sentirlo cantare e di essersi infuocata per quello che, con il senno di poi, era un nonnulla; avrebbe voluto spiegare che quello era per lei un argomento delicato, che le provocava emozioni contrastanti che poi non era in grado di gestire, ma era evidente che Isaac avessi grilli decisamente più importanti per la testa e rimase in silenzio. Semplicemente allungò la mano, posizionandola sul suo ginocchio; non era molto, ma voleva capisse che lei c'era per lui, tanto quanto lui c'era per lei.
Il ragazzo parcheggiò distrattamente davanti al vialetto ed uscì dalla vettura come una furia. Lea lo seguì con qualche istante di ritardo, essendosi fermata a fissare la figura accasciata contro le scale del portico.
Era il padre di Isaac.
Al suo fianco la signora Dale, la padrona della villetta difronte, tentava di tenerlo più dritto possibile e scostargli i capelli da davanti al viso.
Era ubriaco marcio e da come tutti si stavano comportando poteva immaginare non fosse neanche la prima volta.
«Vai a casa, Lea.» Le ordinò Isaac, quando la sentì avvicinarsi.
Non aveva bisogno che vedesse quello spettacolo, che provasse pena per lui o che passasse notti intere a chiedersi come potesse sopportare una cosa del genere; era già abbastanza frustrante ricevere quello sguardo ricco di compassione da tutto il resto del mondo, non aveva bisogno che anche la piccola Wilson lo guardasse in quel modo.
«Hai bisogno di una mano, io non ti lascio in queste condizioni.» Replicò lei perentoria.
«Non è la tua battaglia, Bambi.» Esclamò spazientito. Non era arrabbiato con lei, non era arrabbiato con nessuno, provava solo disgusto per quel mondo che gettava sulle spalle di un ragazzo un peso così grande. «Sei vuoi davvero aiutarmi, allora vai a casa...»

«Papà?» Mormorò Lea, allontanando da sotto il viso la ciotola ricolma di cereali. «Tu te lo ricordi come era Norman Hall, prima che Soraya morisse?»
Il padre alzò lo sguardo sulla figlia, chiedendosi che cosa potesse averla spinta a porre una domanda del genere.
Lea non era mai stata particolarmente interessata a ciò che riguardava la famiglia Hall, sia perché Isaac aveva reso parte della sua infanzia un vero e proprio inferno sulla terra sia perché con il trasferimento a New York, aveva smesso di pensare a loro una volta per tutte. 
La verità era che dopo ciò che era successo la sera prima non era stata capace di prendere sonno; il suo cervello, invece che dormire, preferiva continuare ad interrogarsi sul quell'evento.
Il Norman Hall che ricordava era un uomo distinto e pulito, neanche lo spettro dell'ubriacone che puzzava di vomito riverso sulle scale che aveva visto la sera prima.
«Migliore.» Fu la risposta di Peter Wilson. «Un miglior vicino, un miglior padre, un miglior uomo...» Fece una breve pausa, concedendosi una lunga sorsata di caffé. «Sai non ho mai visto un amore puro come quello che Isaac ha nei confronti di suo padre.»
Lea sentì qualcosa nel suo stomaco stringersi, in una morsa estremamente dolorosa. «Che intendi?»
«Intendo che non importa quante volte suo padre tocchi il fondo, lui sarà sempre pronto ad aiutarlo a tornare in superficie.
Potrà picchiarlo, insultarlo, desiderare che non fosse mai nato, ma Isaac non lascerà mai il suo fianco, non finché vivrà in quelle condizioni.»
«E' per questo che ha lasciato l'università?»
Suo padre annuì mestamente e Lea volse lo sguardo verso la finestra.
Chi diavolo era veramente Isaac Hall?

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 - Cerca solo di non farti male. ***


Se c'era una cosa che Lea odiava profondamente era essere ignorata ed Isaac, con il suo tentativo di evitare qualsiasi tipo di contatto con lei, stava seriamente mettendo alla prova la sua pazienza.
Era consapevole di dovergli dare il suo spazio, di lasciarlo gestire le sue cose per conto suo senza essergli d'intralcio, ma non poteva entrare ed uscire dalla sua vita a suo piacimento. Doveva scegliere se andare o restare.
Il problema, al momento, era riuscire a trovarlo e porlo davanti a quella scelta.
Isaac, in quell'ultima settimana, era del tutto sparito dalla circolazione. Usciva presto, stava fuori tutto il giorno, rientrava a notte inoltrata o per niente...
Inizialmente non ci aveva fatto troppo caso. Avevo dato per scontato avesse semplicemente bisogno di un momento di stacco, ma quando la cosa si era ripetuta anche nei giorni seguenti era giunta alla conclusione che volesse un momento di stacco da lei.
«Pensi che sia strana?» Mormorò la giovane, sbirciando al di fuori della finestra.
Red dall'altro capo della cornetta, le rispose con quella nota di sarcasmo pungente che la caratterizzava e che la mandava sui nervi. «Perché mai dovrei pensarlo? Infondo ti sei solo intrufolata nella camera da letto del tuo vicino di casa mentre era fuori per essere sicura che non possa evitare il tuo terzo grado.»
«Okay, nella mia testa aveva un altro tono e suonava meno strano.»
«Ma perché lo stai facendo, Lea? L'ultima volta in cui ho controllato, non mi sembrava fossi così entusiasta della sua compagnia.»
«E' una questione di principio, Red.» Esclamò la giovane, grattandosi il capo. «Che io sia volente o nolente, è entrato a far parte della mia vita. Io voglio solo sapere se è intenzionato o meno a restarci.»
«Ma sei pronta all'idea che possa decidere non farlo?»
«Non ci voglio pensare adesso.»
«E quando allora? Il tempo è agli sgoccioli.»
«Se dovesse succedere, me ne occuperò al momento.»
«Cerca solo di non farti male, Lea.»
«E' arrivato, ti chiamo più tardi.» Tagliò corto, fissando la macchina di Isaac parcheggiare silenziosamente nel vialetto.
Lea, che aveva pianificato minuziosamente questo suo diabolico piano, si appiatì cautamente dietro la porta pregando che il ragazzo non la aprisse con la sua solita grazia e finisse con il romperle il naso.
Il ragazzo scivolò nella sua stanza qualche minuto dopo, guardandosi attentamente attorno prima di avvicinarsi alla finestra e chiudere le imposte.
Lo stronzo tirò un sospiro di sollievo, procedendo con il togliersi di dosso il chiodo.
«Lo sapevo.» Esclamò Lea, sgusciando fuori dal suo nascondiglio e lanciandogli contro la prima cosa che le era capitata a tiro, la quale si era rivelato il essere il manuale d'istruzioni del termostato.
Isaac si irrigidì immediatamente, voltandosi verso di lei con estrema lentezza. Il viso contratto a mal celare un'espressione sorpresa.
«Che diavolo ci fai qui?» Domandò atono, ritrovando parte del controllo che da sempre lo aveva contraddistinto. 
Era contrariato nel saperla lì, glielo si leggeva chiaro in faccia.
Lea sentì il suo coraggio venire meno ed una strana sensazione di disagio, rivoltarle lo stomaco. Improvvisamente avrebbe voluto aver preso in considerazione l'idea che avrebbe potuto decidere di smettere di far parte della sua vita, se non altro sarebbe stata pronta.
«Perché mi stai evitando?» Domandò con voce flebile, mordendosi il labbro inferiore. 
«Sono stato occupato.»
«Occupato a fare cosa?»
«Cose.»
«Che genere di cose?»
«Cose mie. Tra un tuo casino e l'altro ho una vita anche io.»
Ouch. Questa faceva male.
Lea non gli aveva mai chiesto di prendersi cura di lei o di risolvere i suoi guai, era sempre stata una sua decisione quella di accollarsi i suoi problemi; non capiva, quindi, come mai, proprio adesso, le stesse riversando addosso tutto quell'astio. Non credeva di meritarlo.
«Va bene...» Balbettò, umettandosi le labbra e muovendo un passo all'indietro verso la porta. Alla fine il timore di Red si era rivelato giusto e si ritrovò a dover ammettere che si sentiva estremamente triste. Aveva saputo fin dall'inizio che tra loro non avrebbe mai potuto esserci un rapporto d'amicizia, eppure in quel periodo aveva incominciato seriamente a sperarci e ad investirci dei sentimenti. Ma infondo avrebbe dovuto saperlo che Isaac Hall non sarebbe mai cambiato e che non avrebbe mai perso occasione per ferirla. «Allora io vado. Mi dispiace averti disturbato.»
Sentiva il suo sguardo bruciarle la schiena, tra le scapole, ma non si voltò, sebbene la curiosità fosse tanta.
Aveva detto alla sua migliore amica che si sarebbe occupata di come reagire nell'eventualità in cui Isaac avesse rifiutato di continuare a far parte della sua vita nel momento in cui sarebbe successo, eppure in quel momento non aveva idea neanche di come si sentisse figuriamoci di come reagire. Voleva urlargli contro, ma allo stesso tempo non voleva dargli la soddisfazione di fargli sapere che era capace di farle del male...
Stava per scendere il primo scalino, quando un braccio muscoloso le circondò la vita, trascinandola nuovamente indietro.
Il ragazzo chiuse la porta alle loro spalle, prima di prendere posto sul letto.
«Scusami.» Esclamò in un soffio, passandosi le mani sul viso. Erano magre, quasi scheletriche ed avvolte da alcune garze che sembravano aver visto giorni migliori. «Non è stato un bel periodo.»
«Immaginavo.» Mormorò Lea, avvicinandosi di qualche passo. 
Isaac le circondò nuovamente la vita con le braccia, poggiando il capo contro il suo ventre. «Non volevo evitarti.» Esclamò dopo qualche istante di silenzio. «La sera in cui ti ho portata da Betsy era l'anniversario di morte di mia madre. Volevo passare una bella serata con te, per staccare la spina e dimenticare quel giorno infernale. Avevo nascosto tutti gli alcolici e tutte le chiavi per evitare che mio padre potesse trovarli, ma non so come c'è riuscito lo stesso. Dopo che siamo tornati, l'ho infilato nel letto ed ho incominciato a ripulire il casino che aveva fatto. Tra i vetri ed il vomito, a terra, c'era una foto di mia madre ed ho provato così tanta rabbia nei suoi confronti, da non riuscire più a ragionare. Ho incominciato a distruggere e prendere a pugni qualsiasi cosa mi capitasse a tiro.
Non sapevo neanche per cosa ero arrabbiato, sapevo solo che ero arrabbiato con lei.
Mi dispiace averti esclusa, ma sei l'unica che non cammina sulla uova quando parla con me e non potevo sopportare l'idea che potessi guardarmi come tutti gli altri. Non credevo sarei stato abbastanza forte.»
Isaac aveva espresso così bene a parole tutti i sentimenti che anche lei si trascinava dietro da anni. Tutto il desiderio di scappare dai suoi problemi, da quell'essere costantemente additata come la vittima, da quel sentirsi sempre tanto, troppo, debole.
Forse, tutto sommato, quei due erano più simili di quanto gli piacesse ammettere. Distrutti ma simili.
«Ha ragione Patrick...» Sussurrò il ragazzo con voce strozzata. Se non avesse saputo chi aveva davanti, avrebbe giurato fosse sul punto di scoppiare in lacrime. «Diventerò come lui. Diventerò come mio padre.»
«Isaac guardami!» Ordinò la giovane, poggiando una mano sotto il suo meno, costringendolo ad alzare il viso. Quegli occhi azzurri, che a Lea avevano sempre ricordato il terso cielo estivo, erano attraversati da una sfumatura oscura che li rendeva, quasi, burrascosi. Si rese conto in quel momento di non aver niente di intelligente da dire, di non sapere in che modo consolarlo. 
Lei aveva sempre avuto suo fratello ed in un certo senso la consapevolezza della sua presenza aveva reso il macigno che le sfondava il petto decisamente più sopportabile. Ma Isaac? Isaac non aveva mai avuto nessuno con cui condividere quel peso, era sempre stato lui e lui soltanto. Non poteva neanche immaginare che cosa, dover affrontare tutto quello da solo, potesse significare. «Patrick è un coglione. La maggior parte delle volte in cui apre bocca, non ha idea di quello che sta dicendo. Probabilmente parla solamente perché è gratis.» Beh, insultare Patrick le sembrava un buon inizio per un discorso d'incoraggiamento, no? No? Va bene. «Tu sei cento volte meglio di tuo padre. Il fatto che lui si sia lasciato sopraffare dal dolore e sia finito con il toccare il fondo, non significa che tu farai la stessa fine.»
«Ma se dovesse succedere?»
''Ci sarò io ad impedirtelo'', avrebbe voluto dire. «Non succederà e lo sai anche tu. Sei un mastino, non un cucciolo ferito.»
Isaac restò per un attimo in silenzio, prima di lasciari scappare una risatina triste. «Anche se mi sono aperto con te, ti trovo ancora la persona più irritante di questo mondo, Lea Wilson.»
Un giorno anche lei avrebbe deciso di renderlo parte del suo mondo. Un giorno... non ora.

Alla fine lei ed Isaac avevano celebrato quel breve momento di confidenza, concedendosi una sana coppa di gelato al limone davanti ad un film. Lea, poi, non aveva posto la domanda che più l'aveva tormentata in quella settimana, consapevole che il loro rapporto avesse commesso il naturale passo successivo e che il ragazzo non se ne sarebbe andato.
«Perché non vieni a cena da noi?» Domandò la giovane, stiracchiandosi scompostamente.
Il film che Isaac aveva scelto si era rivelato talmente tanto noioso che aveva quasi finito per addormentarsi sulla coppa del gelato, sempre che non lo avesse fatto. C'erano dei buchi nella trama e dubitava seriamente fossero dovuti alla pellicola in se.
«Verrei volentieri ma tuo padre cucina Tacos in continuazione ed io non sono esattamente un gran fan della cucina Messicana o dei Messicani in generale.»
Lea roteò gli occhi, alzandosi in piedi e trascinando, con non poca fatica, il ragazzo con se. «Stasera ordineremo cinese.»
«Non mi piace neanche la cucina cinese.»
«Allora prenderemo una pizza. Hai qualcosa anche contro gli italiani?»
«Non mi lascerai stare fin quando non dirò si?»
«Ho altri 193 Stati da nominare. A te la scelta.»
«Va bene.» Cedette infine il ragazzo, con un lungo sospiro. 
Scavalcare la ringhiera per tornare nella sua stanza si rivelò un'impresa titanica che strappò più di un sorriso al viso, fin ora crucciato ed affranto, di Isaac.
«Mi era sembrato decisamente più facile oggi pomeriggio.» Borbottò Lea, aggiustandosi il cavallo dei pantaloni mentre guardava il suo vicino di casa scavalcare i due parapetti con un'agilità inaudita.
«Come fai ad essere bravo in qualsiasi cosa fai?» Domandò, facendogli strada verso le scale che li avrebbero condotti in salotto.
«Come fai a fare schifo in qualsiasi cosa fai?»
«Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda. Maleducato.»
«Sei irritante.»
«Sei un'idiota.»
«Perdente.»
«Credevo di averti detto di stare lontana da lui.»
Lea si zittì, facendo saettare lo sguardo verso chiunque avesse parlato.
Il suo cuore perse un battito nell'incontrare quegli occhi color cioccolato così simili ai suoi.
«Aiden?»

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Ne sai davvero così poco di musica? ***


Quando Lea pensava al momento più imbarazzante della sua vita, non poteva fare a meno di ricordare il giorno in cui aveva vomitato sulla torta di compleanno della sua amica Katy, in seconda elementare. Per anni aveva creduto che mai nient'altro sarebbe stato in grado di provocarle tanto disagio, fino a quella sera...
L'atmosfera era pensate nella sala da pranzo di casa Wilson e la tensione poteva benissimo essere tagliata con un coltello. Intorno a loro era calato il silenzio più assoluto, interrotto solo dal rumore ritmico del piede di Isaac che sbatteva contro il pavimento.
Subito dopo aver visto Aiden, aveva finito per chiudersi nuovamente nel suo riccio e più di una volta aveva espresso la sua volontà di tornare a casa, ma Lea, con l'immancabile appoggio del padre, era riuscita a convincerlo a restare.
Il ragazzo era terribilmente in ansia. Lo si vedeva chiaramente dal modo convulso con il quale si passava la mano tra i riccioli biondi, dalla mascella contratta e dai palmi sudati, che passava regolarmente contro la stoffa dei Jeans.
«Oggi mi sono arrivate le mestruazioni.» Sentenziò la giovane, decisa a mettere fine a quel silenzio imbarazzante.
Lo sguardo di tutti si spostò su di lei e Lea sentì le guance andarle a fuoco. 
Inutile. Potevano passare gli anni eppure questa tendenza a parlare a sproposito non le sarebbe mai passata.
«Hai abbastanza assorbenti, tesoro?» Domandò suo padre, schiarendosi la gola, anche lui evidentemente in imbarazzo.
«Si, grazie Papà.»
«Bene.» 
Il silenzio calò nuovamente tutto attorno a loro e Lea si sentì doppiamente stupida.
Non solo non era stata capace di mettere fine a quella situazione fastidiosa, era persino stata capace di peggiorarla, sempre se possibile.
«Sapete...» Incominciò suo padre, portandosi il bicchiere di vino alle labbra. «...Dopo cena potremmo guardare un film, tutti e quattro insieme.»
«Ti prego, non Brokeback Mountain di nuovo.» Protestò Lea.
«A me piace quel film!» Sentenziò Isaac.
«Due Cowboy su di una montagna che si ritrovano a fare sesso in una tenda? Non ricordavo fosse il tuo genere.» Sputò acidamente Aiden.
Era la prima volta che apriva la bocca dal loro rientro, eppure, quando era stato il momento, non si era risparmiato. Non avrebbe potuto, il rancore che provava nei confronti di Isaac era fin troppo radicato dentro lui.
Non era stato sempre così, c'era stato un lungo periodo della sua vita in cui aveva visto in quell'amico per cui, ancora, qualche volta, provava nostalgia, la persona più importante della sua vita. Poi era arrivata l'estate del 2012, Rebecca si era uccisa, Isaac aveva perso il senno ed Aiden aveva provato per la prima volta in tutta la sua vita il profondo dolore della perdita.
Isaac era stato un coglione, un'enorme coglione e non lo aveva mai nascosto. Ma era solo un ragazzino, distrutto e pieno d'odio. La situazione si era dimostrata più grande lui e si era ritrovato a non essere capace di gestirla.
Aiden poteva credere il contrario, ma non era stato l'unico a restarne ferito.
In quella stanza l'aria era oramai diventata irrespirabile. Chi sapeva voleva andarsene, mentre chi era all'oscuro si ritrovava preda di due fuochi, quali la curiosità ed il bisogno di non sapere.

«Non avresti dovuto trattarlo così!» Esclamò Lea, portando le braccia conserte sotto i seni.
Avevano finito di cenare in silenzio ed Isaac aveva finito con il dileguarsi il prima possibile, dicendo di non sentirsi troppo sicuro nel lasciare suo padre così tanto tempo da solo. Che fosse una scusa era palese a tutti, ma nessuno aveva replicato oltre, perché troppo arrabbiati o preda dei sensi di colpa per averlo sottoposto ad una situazione del genere.
Aiden distolse lo sguardo dal piatto che stava riponendo all'interno della lavastoviglie, per spostarlo su di lei. Aveva un sopracciglio inarcato verso l'alto, atto a coronare un'espressione di puro stupore. 
«Senti da che pulpito viene la predica!» Esclamò, tornando in posizione eretta. «Hai gettato merda su di lui per anni per degli stupidissimi scherzi infantili, ma quando sono io a farlo è sbagliato?» 
Lea strinse i pugni, sentendosi decisamente punta sul vivo ma allo stesso tempo sentendosi estremamente furiosa nei confronti di suo fratello.
«Non stiamo parlando di me.» Ringhiò la giovane. «Ma di te e del fatto che ciò che vi è successo in passato non ti autorizza ad essere uno stronzo.»
«Te ne sei sempre fregata di questa situazione, perché adesso te ne importa così tanto?»
«Perché Isaac ha bisogno di te in questo momento, la situazione con suo padre è terribile e tu non potrai essere arrabbiato per sempre per una stronzata da ragazzini.»
«Solo perché ne sei venuta a conoscenza adesso non significa che non ci fosse da prima. Questa situazione con suo padre esisteva ancora prima che andasse tutto a puttane, già quando eravamo bambini.» Aiden fece una breve pausa, prendendo fiato. Avevano entrambi alzato i toni ed adesso i loro petti si alzavano ed abbassavano ad un ritmo irregolare. «Non era affatto una stronzata, Lea.» Questa volta la sua voce era decisamente più bassa, quasi un sussurro. «Ci hanno sempre insegnato che le parole sono un'arma letale e quelle di Isaac mi hanno reso impossibile guardarmi allo specchio per anni. Non gli permetterò di distruggermi un'altra volta e tu dovresti fare lo stesso. Non è la brava persona che vuole farti credere.»
Non capitava spesso che litigasse con suo fratello, ma quando succedeva quei litigi si concludevano sempre con una Lea dalla parte del torto, ma questa volta  sarebbe stata differente: stavolta era del tutto convinta di quello che diceva.
«E' cambiato. Se ti prendessi la briga di dargli un'altra possibilità lo capiresti anche tu.» Mormorò la giovane, muovendo un passo verso il fratello.
Aiden fece, istintivamente, un passo all'indietro, scuotendo la testa. 
«Finisci di mettere a posto la cucina, per favore.» Sussurrò, prima di scomparire su per le scale.

«E poi se ne è semplicemente andato?» Domandò Red, incredula, passandosi una mano tra i capelli rossi.
Lea annuì mestamente, riponendo il bicchiere che stava asciugando sotto il bancone. «Già.» Confermò con un sospiro. «Di certo non mi ero immaginata così, la prima volta che avrei rivisto mio fratello dal mio trasferimento...»
«Beh, devi ammettere che sono successe un sacco di cose che non ti saresti mai immaginata in soli due mesi.» Esclamò l'altra, guardando attentamente le sue unghie laccate. 
«Diciamo che la situazione mi è sfuggita di mano. Non avevo una vita sociale così movimentata a New York.»
«Oh, beh, se questa ti sembra movimentata...»
«Ti dispiacerebbe aiutarmi?» Domandò stizzita Lea, lanciando lo straccio contro la sua migliore amica.
Era tornata in città quella stessa mattina ed era rientrata al lavoro quel pomeriggio, poiché aveva voluto, a tutti i costi, avere il turno con lei. La giovane aveva inizialmente trovato quell'idea terribilmente allettante, ma quale era stata la morale della favola? 
Red aveva voluto il turno insieme a lei, che si trovava ancora in prova, solamente per potere avere una scusa per non fare niente. Destino crudele.
Con un enorme sospiro la rossa, scese dallo sgabello sul quale era seduta e prese ad asciugare i piatti. 
Era una giornata morta ad Harpool Bay. 
Il locale era completamente vuoto. Se si sforzava poteva quasi sentire il rumore del vento e vedere la palla di fieno che si muoveva per il pavimento.
«Perdonami L, ma una domanda mi sorge spontanea.» Lea si bloccò, incitando, con lo sguardo, la sua migliore amica a continuare. «Ma perché se c'era Isaac io non sono stata invitata?»
«Ti prego dimmi che non me lo stai chiedendo davvero.»
«Voglio saperlo.»
«Eri ancora in North Carolina, forse?»
Red sbuffò sonoramente, assumendo un'espressione imbronciata. «Perché mi perdo sempre i drammi gay?»
La giovane fece saettare lo sguardo sulla sua migliore amica, fissandola a bocca spalancata.
Drammi gay? Ma di che diamine stava parlando?
«L'unico dramma gay è stato Brokeback Mountain.» Sentenziò Lea, improvvisamente non troppo convinta della sua affermazione.
«Ne sei così sicura?» Domandò l'altra, esaminandosi le punte dei capelli fragola. «A me sembra proprio di si. Pensaci su. Tutta la storia del cuore spezzato, le battutine su Brokeback Mountain, il fatto che le parole feriscano più delle armi. 
Probabilmente tuo fratello si è dichiarato e Isaac lo ha rifiutato. Ecco da dove nasce tutto questo rancore, a nessuno piace essere rifiutato.»
«Mio fratello non è gay. Ha avuto un sacco di ragazze.»
«Nominamene alcune.»
«Sally Cinnamon, Angie Richards, Polly Cobain, una certa Layla...»
«Stone Roses, Rolling Stones, Nirvana, Eric Clapton...» Esclamò Red, tenendo il conto con le dita. «Ne sai davvero così poco di musica?»
Lea scosse il capo, non volendo neanche prendere in considerazione l'idea che suo fratello le avesse mentito per tutto quel tempo. Se Aiden fosse stato gay lei sarebbe stata la prima persona a cui sarebbe corso a dirlo, no?

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Domani arriva mamma! ***


Nella vita di Lea non c'era mai stato nessuno più importante di suo fratello.
Aiden era sempre stato il suo porto sicuro, la sua colonna portante, l'unica persona dalla quale non sarebbe mai voluta scappare e l'unico a non averle mai mentito. Se qualcuno glielo avesse chiesto, anche solo il giorno prima, sarebbe stata pronta a mettere la mano sul fuoco per provare le sue parole, ma adesso... beh, adesso non ne era più tanto sicura.
Se le insinuazioni di Red si fossero rivelate vere, Lea non sarebbe più stata in grado di guardare in faccia suo fratello senza chiedersi su quante altre cose le avesse mentito.
«Ti stai facendo un sacco di paranoie, L. Incomincio a pensare che tu sia omofoba.» Esclamò Red, ripulendo con cura la sbavatura del rossetto color fragola.
Lea si voltò, fulminandola attraverso lo specchio. «Non si tratta di Omofobia, Red...» Esclamò stizzita. «...ma di mio fratello che evidentemente non pensa sia necessario mettermi al corrente di una cosa così importante.»
«Avrà sicuramente dei buoni motivi per avertelo tenuto nascosto.»
«Beh, mi piacerebbe sapere quali sono questi buoni motivi, perché sinceramente non riesco a venirne a capo da sola.»
«Questo perché non sei lui!»
Lea fissò la sua migliore amica stranita, ritrovandosi, improvvisamente, senza nulla da dire. «Che cosa intendi?» 
Red si voltò finalmente verso di lei, muovendo un passo, così da esserle abbastanza vicina da poterle poggiare le mani sulle spalle.
Roselyn era figlia unica, di conseguenza non aveva la minima idea di come funzionassero i rapporti tra fratelli, ma era più che sicura che non fosse quello il modo. Lea era Aiden ed Aiden era Lea, per quanto quella relazione fosse commovente e, a tratti, poetic< era altrettanto sbagliata, e la giovane che le sostava davanti doveva rendersene conto prima che fosse troppo tardi.
«Intendo che stai vivendo questa cosa come se si trattasse di te. 
Capisco tu ti senta tradita e presa in giro, ma la verità è che non è una scelta che dipende da te. Non puoi sapere come si sente, riguardo la sua sessualità e non puoi condannarlo per esserselo tenuto per se. Inoltre, non siamo nemmeno sicure sia vero, magari è solo un grande sfigato con le ragazze ed io una gran chiacchierona.»
Non si sentiva meglio, ma comunque rivolse alla rossa un mezzo sorriso.
Lei non conosceva la Lea di New York, non sapeva che cosa aveva passato e di come Aiden fosse stato l'unico a proteggerla, di come si fossero sempre consolati a vicenda o promessi di non nascondersi mai nulla. 
Forse se glielo avesse detto avrebbe capito, forse anche lei stessa si sarebbe sentita morire un po' meno...
«Sai Red, il motivo per cui sono torn...»
«SONO A CASA.» Nel sentire la voce di Aiden, Lea si allontanò di colpo, quasi il tocco della sua migliore amica l'avesse scottata.
La rossa, dopo un iniziale momento di confusione, le rivolse un sorriso dolce. «Tranquilla, me lo dirai dopo, adesso andrò a frugare nella tua mansarda e farò la Wynona Ryder.»
«Farai cosa?»
«Ruberò qualcosa e mettiti l'anima in pace: non la rivedrai mai più.»
Red uscì e Lea rimase sola ad ascoltare il battito furioso del suo cuore che aumentava ad ogni scalino bruciato da suo fratello.
Non parlava con Aiden dalla sera prima, escluso il ''Ciao'' che le aveva vomitato sulla soglia quella mattina prima di uscire. La cosa la metteva in ansia; non era mai successo che si tenessero il muso così a lungo e adesso si ritrovava a non sapere come gestire la situazione.
Suo fratello comparve sul pianerottolo e volse un fugace sguardo nella direzione della sua stanza, prima di dirigersi a passo spedito verso la sua vecchia camera.
«Aiden!» Chiamò Lea, bloccandolo sulla soglia.
«Si?» Domandò lui, dopo un primo momento di tentennamento.
«Possiamo parlare?»
«Al momento ho da fare.»
«Non ci metterò molto. Ti prego, è importante.»
«Ho detto che ho da fare.» Fece per andarsene.
«So che sei gay!»
Per un istante rimasero entrambi in silenzio, poi Aiden si voltò verso di lei, con un'espressione piatta, quasi annoiata. Se non fosse stato per la mascella innaturalmente contratta o i pugni stretti lungo i fianchi, avrebbe giurato di non averlo mai visto così calmo.
«Ma di che diavolo stai parlando?»
L'intento di Lea non era certo quello di aprire il discorso a quel modo, ma il suo essere così freddo e sfuggente non le aveva lasciato altra scelta. Peccato solo che adesso non avesse la minima idea di come continuare.
Tornando dal locale si era preparata una lunga e dettagliata scaletta su come avrebbe affrontato quella conversazione. Sarebbe successo con calma; avrebbe bussato alla porta della sua stanza, si sarebbe seduta sul letto, gli avrebbe esposto i suoi dubbi e, una volta chiarito il tutto, sarebbero passati sopra la questione come se niente fosse, o, più semplicemente, ci avrebbero provato. In quel momento le era sembrato un piano geniale, adesso le sembrava solamente stupido.
«Perché non me lo hai detto?» Domandò la giovane con un fil di voce, sentendo un nodo formarsi in gola.
«Perché non c'è niente da dire, Lea.» Esclamò velenoso, il ragazzo, muovendo un passo verso di lei che, istintivamente, ne mosse uno all'indietro. «La tua vita è davvero così noiosa da dover inventare stronzate sulla mia?» Aveva un tono rabbioso, quasi minaccioso. Le ricordava quello che aveva usato la mattina dopo la festa di Scott Norris, quando le aveva ordinato di farsi gli affari suoi. Quasi non lo riconosceva.
«Smettila di mentire.» Sibilò Lea.
«Sentiamo, su quali basi avresti elaborato questa tesi?» Ringhiò suo fratello in risposta.
«La domanda è su quali basi non ho elaborato questa tesi, Aiden. Andiamo, vuoi dirmi che la battuta su Brokeback Mountain ieri fosse totalmente casuale? O che è solamente una coincidenza il fatto che tutte le tue fidanzate, che tra l'altro non ho mai visto nemmeno in fotografia, portino i nomi di canzoni che hanno segnato la storia della musica?»
«Si può sapere perché ti comporti così?»
«Perché sei mio fratello ed in questo momento fatico a riconoscerti.» Il silenzio calò nuovamente su di loro e Lea si prese un'istante per regolare il respiro. Aveva urlato talmente tanto che poteva sentire la gola bruciare. «Come si chiamava la tua ultima fidanzata?» Domandò, dopo una manciata di istanti.
Aiden si irrigidì, ma rispose quasi subito. «Milena. Milena Jesenska.»
«Da dove veniva?»
«Repubblica Ceca.»
«Come l'hai conosciuta?»
«Studiava medicina alla NYU, era qui per un gemellaggio.»
«Perché vi siete lasciati?»
«Ho scoperto che aveva un fidanzato a Praga.»
«Come lo hai scoperto?»
«Si scambiavano delle lunghe lettere, ne ho trovata una.»
«KAFKA!» La voce di Red, proveniente dalla mansarda, fece sussultare entrambi.
Lea alzò lo sguardo in direzione della botola sul soffitto, dove faceva capolino il viso della sua migliore amica.
«Stavi origliando?» Le domandò la giovane, ritrovandosi estremamente sollevata, nell'aver spezzato quel momento di estrema tensione.
La rossa scosse il capo, spostando una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Voi stavate urlando e le pareti sono super sottili in questa casa.»
Aiden, fece per andarsene, una seconda volta, ma la ragazza fu abbastanza veloce da afferrarlo per un lembo del chiodo.
«Non ho finito con te.»

«Non era la prima volta che mi ritrovavo a fare certi pensieri, ma avevo sempre dato per scontato si trattasse di una fase di passaggio.
Avevo avuto una fase punk, una rock e persino una neomelodica, non potevo avere una fase confusa? Poi Rebecca è morta e Isaac aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui e lo amasse, in quel momento ho pensato che quella persona potessi essere io. Mi sono dichiarato e lui mi ha guardato come se avesse davanti un mostro della peggior specie. Non ero più suo fratello, non ero più il suo migliore amico, ero solo... contro natura.»
Subito dopo il litigio sul pianerottolo, Lea era riuscita a convincere suo fratello a parlare con più calma e tranquillità. Persino Red aveva accettato di dargli un momento di totale intimità tra loro, ma entrambi i giovani Wilson sapevano che la rossa era appostata dietro la porta ad ascoltare ogni parola del loro discorso.
Aiden aveva provato a negare e spiegarsi ancora per qualche minuto, poi aveva guardato sua sorella negli occhi e ne aveva letto lo sconforto, solo allora aveva ceduto.
Aveva parlato.
Aveva parlato e si era sentito bene,
Si era portato dentro quel segreto per così tanto tempo che quasi aveva dimenticato che cosa si provasse ad affermarlo ad alta voce.  Adesso si sentiva più libero, ma non era, di certo, ancora pronto a lasciare che lo sapesse anche tutto il resto del mondo.
«Per anni non sono stato in grado di guardarmi allo specchio senza che le parole di Isaac mi rimbombassero nel cervello. Mi ritrovavo sempre a pensare che se lui, che era stato più che un amico per me, mi vedeva in quel modo, lo avrebbero fatto anche gli altri...»
Lea era totalmente sconvolta. 
Per tutto quel tempo suo fratello si era portato dentro un fardello così grande e tutto ciò che lei era stata capace di fare era stato aggredirlo. Dio, che pessima sorella che era stata. 
«Ma perché non me ne hai mai parlato?» Domandò, portandogli ambo le mani al viso. «Mi hai sempre detto che parlare aiuta.»
«Perché tu continuavi a ripetere di volere al tuo fianco un uomo come me e continuavi a presentarmi le tue amiche... in un certo senso, mi sono sentito costretto ad essere ciò che tu vedevi in me. Avevo paura che se ti avessi rivelato di non essere il tipo d'uomo che avevi sempre idealizzato io fossi, mi avresti visto diversamente e non portevo sopportarlo.»
«Cristo!» Esclamò la giovane, nascondendo il viso tra le ginocchia. «Mi sento così stupida.» Possibile che fosse stata talmente tanto concentrata sul suo dolore da non riuscire a vedere quello della gente che le stava accanto?
«Voglio che tu sappia che io non te ne faccio una colpa.» Mormorò il ragazzo, poggiandole ambo le mani sulle spalle.
«Ma io si.» Sussurrò, trattenendo a stento le lacrime. «Potrai mai perdonarmi?»
Aiden boccheggiò qualche istante, incapace di credere che lo stesse credendo davvero. L'aveva già perdonata anni prima, prima ancora che lui stesso la incolpasse. 
Quando il fratello scoppiò in una sonora risata, la giovane rizzò immediatamente il capo, guardandolo con aria confusa.
Stava ridendo davvero? Era una cosa così divertente?
«Suppongo che sarai tu a dover perdonare me!»
«Perché?» 
«Domani arriva mamma!»

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - E' stato difficile? ***


«Quindi sono questi i programmi per il tuo compleanno?» Domandò Nina, con un sorrisetto divertito dipinto sul volto, portando ambo le braccia ai fianchi.
Lea alzò lo sguardo sulla ragazza e si strinse nelle spalle. «Anche se fosse, sarebbe meglio di quello che mi aspetta a casa.»
Subito dopo la fine del suo turno Lea non se l'era sentita di tornare a casa. Se lo avesse fatto sarebbe stata costretta ad affrontare sua madre e non era esattamente in vena.
«Già, perché dovresti tornare da una famiglia che ti ama e non aspetta altro che festeggiarti? E' la tortura peggiore che mi possa venire in mente.» La schernì l'altra, prendendo posto, sulla panchina, assieme a lei.
La giovane la trucidò con lo sguardo. «E' tornata mia madre.»
«Non andate d'accordo?»
Lea si fece scappare un risolino strozzato. 
No, che non andavano d'accordo, ma, infondo, come avrebbero potuto? Sua madre aveva sempre scelto di chiudere gli occhi quando le aveva chiesto aiuto. Ma era estremamente riduttivo limitarlo a quello.
Scosse il capo.
«E' più complicato di così.» Esclamò, accavallando le gambe e prendendo a giocare con un lembo del vestito giallo che aveva indosso. «Non saprei neanche come spiegartelo.»
«Provaci e basta.»
La giovane prese un profondo respiro, cercando di creare una linea temporale che potesse rendere il discorso comprensibile, ma la sua era una storia talmente tanto intrigata da risultare impossibile da raccontare senza rivelare troppo.
«Lei...» Mormorò, lasciandosi andare ad un sospiro frustrato. «Lei non è più la mia mamma!»
Nina le rivolse uno sguardo confuso. «Come non è più la tua mamma?»
Lea si umettò le labbra, aggiustandosi a sedere. «Io avevo un fratello maggiore, il suo nome era Dean. Era il primogenito e mia madre stravedeva per lui, probabilmente perché era l'unico ad aver ereditato i suoi capelli biondi o i suoi occhi azzurri o forse perché, come si divertiva spesso a dire, non si ama mai niente come il primo figlio.
Il giorno del suo sedicesimo compleanno uscì con alcuni suoi amici per festeggiare alla gola. Voleva tuffarsi dalla cima di una delle rocce, ma è scivolato ed ha battuto la testa. I suoi amici si sono spaventati quando hanno visto il sangue e si sono allontanati in cerca d'aiuto, quando sono tornati Dean era morto.»
Nina tratteneva il respiro.
Aveva sentito spesso parlare dell'incidente alla gola, ma aveva sempre sentito storie molto diverse tra loro a riguardo, finché non aveva incominciato a credere che si trattasse semplicemente di una diceria messa in giro da qualcuno per tenere i ragazzini lontani da quel posto. Sapere che era successo veramente e che si era trattato niente di meno che del fratello di Lea le metteva una strana sensazione addosso.
Al suo fianco Lea, sentiva di dover rimettere da un momento all'altro.
Non parlava di Dean da anni, oramai, nessuno ne parlava mai. Per sua madre era sempre stato un argomento tabù, suo padre soffriva troppo ogni volta che veniva nominato, Aiden sembrava quasi fingesse che quella parte di vita non fosse mai esistita mentre lei, da quando era lì, non era mai stata neanche capace di correre a fargli visita. Si vergognava troppo, si vergognava della parte di se che malignamente incolpava anche lui dell'inferno che stava vivendo.
«Mia madre ha passato l'intera nottata attaccata al telefono, in attesa di una telefonata di mio fratello. Quando si presentò lo sceriffo per dirci che non ce ne sarebbero più state mia madre ha avuto un crollo emotivo. Beh... il resto lo sai.»
Lea ricordava perfettamente quel periodo. 
Sua madre si era rinchiusa nella sua stanza per giorni. Non mangiava, non dormiva, non si muoveva... piangeva e basta. 
Quando aveva riaperto quella porta, ne aveva, inevitabilmente, chiusa un'altra: quella della loro famiglia. Da allora tutto era andato in malora, ed in men che non si dica i suoi genitori avevano divorziato e lei e suo fratello si erano ritrovati a New York.
Nina restò per un breve secondo in silenzio, forse assimilando ciò che Lea le aveva appena detto o forse semplicemente cercando di elaborare una risposta valida, poi parlò.
«Sono nata in una comunità Cattolica. Mia madre era la peggiore delle timorate di Dio, secondo la sua logica non potevo neanche respirare senza dover ringraziare, subito dopo, Dio per l'immenso dono che mi stava facendo.
Era una donna dalla mentalità limitata, classica di una chi è nato e cresciuto in un piccolo paesino del Sud. 
Quando mio fratello se ne è andato perché non sopportava più il regime del terrore che gli imponeva, tutte le sue attenzioni si sono riversate su di me. Se Jake era stato una totale delusione, io dovevo essere la figlia perfetta.
Quando sono andata al liceo ho realizzato qualcosa che avrebbe mandato mia madre su tutte le furie: mi piacevano le ragazze. Ricordo che quando glielo dissi mi costrinse a seguire uno stupido gruppo di correzione tenuto dal parroco del mio paese; purché smettesse di starmi con il fiato sul collo le dissi che il suo piano aveva funzionato, che era stata solamente una fase e che era passata.
Presi così ad uscire sporadicamente con quasi tutti i figli delle due amiche. Durante le nostre uscite mi fingevo più noiosa di quanto in realtà fossi e loro finivano con lo scaricarmi dopo il secondo appuntamento.» Fece una breve pausa e Lea vide una sfumatura di tristezza velare gli occhi della mora al suo fianco. «Circa quattro anni fa, all'inizio del mio ultimo anno, si trasferì nel mio paesino una coppia con un figlio. Thomas aveva solamente un paio di anni più di me; era bello, intelligente ed apparteneva ad una famiglia ricca. Mia madre mi costrinse ad uscirci. Si comportò in modo impeccabile per tutta la serata ed io, per una frazione di momento, pensai persino che la sua compagnia non mi dispiaceva, che forse avrei potuto dargli una possibilità. Magari non lo avrei mai amato, ma avrei potuto restare con lui comunque. 
Durante il tragitto verso casa, giocò a carte scoperte: se si era comportato come un perfetto gentiluomo per tutta la sera era solamente perché voleva da me qualcosa in cambio. Mi sono rifiutata e lui ha tentato di aggredirmi e quando mi sono difesa lui è andato su tutte le furie.
Mi ha picchiata così tanto quella sera, che ho quasi sperato di morire. 
Non fraintendermi, non credevo che la mia vita non valesse niente, ho solo pensato che mi sarebbe piaciuto vedere se mia madre si sarebbe sentita in colpa. Se avrebbe passato tutto il resto della sua vita con il rimorso di essere stata complice della fine della mia. 
Ma sono sopravvissuta e allora ho pensato che, da adesso in poi, sarebbe potuta cambiare, che avrebbe aperto gli occhi. Ma quando si è presentata in ospedale sai che cosa mi ha detto?» Lea, ipnotizzata dalle parole della giovane, si limitò a scuotere il capo. «Mi ha detto: ''Una donna non dovrebbe mai alzare le mani su un uomo''. 
Ho passato due settimane in ospedale. Quando sono uscita, ho preso le mie cose e me ne sono andata. E' stata la chiusura definitiva con una vita che non mi apparteneva.»
«E' stato difficile?»
«E' stato vitale.»
Lea sentì il cuore sprofondarle nello stomaco.
Il momento che tanto temeva era arrivato. Doveva fare una scelta.

Dentro di se aveva sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe dovuto decidere se tagliare definitivamente i ponti con sua madre oppure continuare a vivere in quel limbo soffocante, semplicemente non si sarebbe mai aspettata che quel momento arrivasse tanto presto.
Le parole di Nina l'avevano colpita come uno schiaffo in pieno volto e gettata brutalmente davanti alla realtà: anche per lei era vitale dare una chiusura definitiva a quel capitolo della sua vita.
Restò per svariati minuti impalata davanti alla porta prima di trovare il coraggio materiale per suonare il campanello. Le aprì Aiden e gli bastò solamente uno sguardo per capire che la tremenda conclusione alla quale era arrivata.
«Ne sei davvero sicura?» Le domandò il fratello, chiudendosi la porta alle spalle.
Lea lo guardò e scosse il capo. «E' vitale.» Sussurrò.
Sua madre era seduta sul divano e rideva davanti ad una commedia alla tv.
Non l'aveva mai vista così spensierata e felice negli ultimi dieci anni e questo contribuì solamente a farla sentire ancora più colpevole. Probabilmente, dopo quella sera, non avrebbe più riso così.
Non si accorse subito di lei e Lea lasciò che si godesse quegli ultimi momenti in santa pace.
«Bambina mia!» Esclamò la donna, alzandosi dal divano per poterla stringere forte a se. La giovane nascose il viso nella curva del collo della madre e respirò a fondo il suo profumo. 
Le lacrime le pizzicarono gli occhi quando si rese conto che sarebbe stata l'ultima volta in cui lo avrebbe sentito.
«Ciao Mamma...» Sussurrò.
Sua madre si allontanò, quel poco che bastava per poterla guardare in faccia. Le dita affusolate della donna accarezzarono il viso armonioso e delicato della figlia.
Le era mancata ed avrebbe voluto poter avere il coraggio di ammetterlo.
«Vieni, stavamo aspettando solamente te per festeggiare. Ah, non ci credo che la mia bambina è appena compiuto diciotto anni.» Era euforica.
«Mamma possiamo parlare?» Domandò Lea, trovando impossibile trattenersi dal lasciare che si dipingesse sul suo volto un'espressione mesta.
Sua madre perse una parte del suo sorriso, forse percependo a sua volta, parte del dolore e delle insicurezze che la giovane figlia provava. Sarebbe stata la prima volta.
Michelle Wilson annuì. «Si, andiamo.»
Lea si chiuse la porta della sua stanza alle sue spalle e fece cenno a sua madre di prendere posto sul letto. A sua volta fece lo stesso.
Puntò lo sguardo fuori dalla finestra e pensò a Nina. 
Aveva desiderato di voler morire quella sera. Si chiese quanto tempo sarebbe passato ancora prima di ritrovarsi lei stessa sul ciglio della strada e se ci sarebbe stato qualcuno pronto ad aiutarla.
«Prima che tu dica qualsiasi cosa, volevo darti questo.» Sussurrò sua madre, allungandosi sotto il letto e trascinandone fuori una scatola avvolta in una carta azzurra. «E' il mio regalo per te.»
Era uno scaffale minuscolo, della grandezza della scatola di scarpe. Sulla facciata c'erano dei piccoli scomparti numerati dall'uno al diciotto.
«All'interno di ogni casella c'è un ricordo importante.» Mormorò la donna, improvvisamente timorosa. «Il ciuccio di quando avevi pochi mesi, il primo disegno all'età di tre anni, la bandana dei Backstreet Boys che hai voluto ad ogni costo quando ne avevi cinque, il ritratto che hai fatto a tuo fratello a dodici, una ciocca dei tuoi capelli a diciassette...»
La casella dei diciotto anni era ancora vuota, constatò.
Improvvisamente non era più tanto pronta a mettere la parola fine a quel rapporto, a dire addio per sempre e lasciare che tutto quello scomparisse.
Pensò che se avesse lasciato andare tutto adesso, allora non ci sarebbero più state caselle da riempire e se anche un giorno avrebbe trovato la forza di perdonarla, sarebbero stati anni ed anni persi ad impegnarsi a lasciare caselle vuote.
Lea si asciugò le gote con il dorso della mano, prima di volgere lo sguardo verso sua madre che adesso era tornata a sorriderle esageratamente.
«Grazie!» 
«Di che cosa volevi parlarmi, bambina mia?»
La giovane si morse la lingua e si gettò tra le braccia di sua madre, nascondendo il viso contro il suo petto, come spesso faceva quando era una bambina.
Lasciò che il battito regolare del cuore della donna la cullasse e faticò a trattenere le lacrime quando realizzò che, forse, tutto sommato, vivere in quel modo le era ancora, almeno per un pò, necessario. 
«Niente, sono solo così felice di vederti.»
«Oh, bimba mia.» Sussurrò la donna, accarezzandole amorevolmente la schiena. «Io e Gabe non vediamo l'ora di riaverti di nuovo a casa. Non vediamo l'ora tornare ad essere nuovamente una famiglia.»
Lea si allontanò talmente tanto velocemente che rischiò quasi di cadere dal letto.
Sua madre le rivolse uno sguardo stranito e boccheggiò alla ricerca di qualcosa da dire. 
Lea realizzò in quell'istante che per sua madre non sarebbe mai stata importante quanto Gabe, che avrebbe potuto fare a meno di lei, ma non di lui.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Dovrà sempre esserci un Hall da Betsy. ***


21 Giugn 2012, Harpool Bay.

«Condoglianze, figliolo.» Esclamò Sam, il fornaio, poggiandogli una mano sulla spalla.
Isaac forzò un sorriso triste, tornando poi, immediatamente, a fissare la lapide davanti a se. La cerimonia era finita da una mezz'ora oramai, ma c'era ancora metà della città ferma in fila indiana, impaziente di porgli le proprie condoglianze. Avrebbe voluto che suo padre fosse lì in quel momento, così si sarebbero rivolti a lui e lo avrebbero lasciato libero di crogiolarsi nella sua disperazione, invece suo padre era disperso in chissà quale bar, ubriaco marcio, forse più del solito. Forse era morto anche lui. Una parte di Isaac lo desiderò disperatamente. Era tutta colpa sua se sua madre si era uccisa, era tutta colpa sua se lo aveva abbandonato.
«Hey!» La voce di Aiden lo riportò bruscamente alla realtà e lo spinse a ragionare più lucidamente. Era deploverevole anche solo pensare una cosa del genere. «Come stai?»
Isaac si strinse nelle spalle. Stava male, ma non voleva ammetterlo, ma, allo stesso tempo, sapeva benissimo che il suo migliore amico lo avrebbe capito lo stesso, da quella semplice insaccata di spalle. Era sempre stato migliore di lui nel comprendere le sue emozioni. «Voglio andarmene!»
«Mancano solo una trentina di persone, non ci vorrà molto.»
«Che si fottano! Voglio andarmene adesso.»
«Andiamo non fare il bambino, sarà come togliersi un cerotto.»
«Fottiti anche tu!» Ringhiò, cercando all'interno della tasca del chiodo il pacchetto delle sigarette. Se ne portò una alle labbra. «Sappi che me ne andrò con o senza di te.»

Alla fine Aiden si era convinto e si era lasciato trascinare dal suo migliore amico via da quel cimitero.
Si erano rifugiati sul retro di Betsy, un locale poco fuori città, in cui aveva lavorato per anni Soraya. Isaac gli aveva raccontato che spesso sua madre se lo era portato con se al lavoro pur di non lasciarlo solo con suo padre e di come si divertisse a girare per la cucina e scambiare le etichette alle bottigliette delle spezie. Più di una volta durante il racconto, Aiden aveva sentito lo stomaco chiudersi in maniera dolorosa; quello era un posto speciale, l'unico ricordo materiale che gli rimaneva della madre e l'unico che suo padre non avrebbe mai potuto distruggere.
«Un giorno lavorerò qui, sai? Prenderò il posto di mia madre, non in cucina certo, altrimenti chiuderemmo i battenti prima ancora di aprirli, ma lavorerò qui.» Biascicò Isaac, portandosi la bottiglia della vodka alle labbra. Non sapeva neanche da dove l'avesse tirata fuori, ma sospettava avesse forzato la serratura del magazzino lì affianco. Di certo, la cosa non lo avrebbe sorpreso. «Come deve esserci sempre uno Stark a Grande Inverno, dovrà sempre esserci un Hall da Betsy.»
Aiden annuì in assenso, sebbene non lo stesse veramente ascoltando. «E che cosa farai?»
«Suonerò.»
«Suonerai?»
«Sì, mia madre dice che ho la voce di un angelo.» Prese un lungo sorso di vodka, poi scoppiò a ridere. «Diceva.» Si corresse.
«Non dovresti bere così tanto.» Esclamò il giovane, avvicinandosi all'amico per allontanarlo dall bottiglia, ma l'altro, sebbene avesse più alcool che ossigeno in corpo, fu abbastanza veloce da allontanare la boccia prima che potesse prenderla.
«Non dovresti rompermi così tanto i coglioni.»
«Lo dico per il tuo bene.»
«Perché ti preoccupi così tanto per me?»
Aiden assottigliò lo sguardo, fissando il migliore amico di traverso.
Sapeva bene fosse l'alcool a parlare, ma era comunque infastidito dalla leggerezza che Isaac stava usando per affrontare quella conversazione. «Sai benissimo che mi sono trovato nella tua stessa situazione.» Ringhiò, stringendo le mani in due pugni.
Isaac scoppiò in una fragorosa risata. «Stai seriamente mettendo il mio dolore sullo stesso piano del tuo? Ho perso mia madre, Aiden. Tu solamente tuo fratello, se non sbaglio hai una sorellina che ti avanza.»
Non ebbe neanche il tempo di realizzarlo che il suo pugno colpì violentemente il naso del ragazzo che gli sostava di fronte. Dopo qualche passo barcollante all'indietro, cadde rumorosamente a terra, imprecando. Il giovane si prese qualche istante per placare la rabbia, poi lo aiutò a rimettersi in piedi.
«Mi dispiace.» Singhiozzò il suo migliore amico, poggiando il capo contro la sua spalla. «Non volevo dirlo, è che sono così arrabbiato. Sono sempre costantemente arrabbiato, non so neanche più come gestire questa situazione.»
Aiden strinse le sue braccia attorno alle spalle del ragazzo, stringendolo più vicino a se. Quando lo sentì ricambiare con decisione l'abbraccio, percepì i battiti del suo cuore aumentare esponenzialmente.
Quella tra i due non era mai stata una vera e propria amicizia, almeno non da parte sua. Sin da quando erano bambini, aveva sempre saputo di avere qualcosa di diverso rispetto agli altri bambini, un qualcosa che per anni aveva sempre tentato di tenere nascosto; solo durante l'adolescenza aveva veramente capito che cosa quel sentirsi diverso significasse davvero.
Isaac tirò su con il naso un'ultima volta, prima di puntare gli occhi azzurri nelle sue iridi scure. Aiden trattenne il respiro e, come prima, non realizzò neanche di aver baciato il suo migliore amico prima che questo lo spintonasse violentemente all'indietro.
«Ma sei impazzito?» Domandò l'altro, pulendosi convulsamente le labbra con la manica del chiodo.
«Mi dispiace.» Balbettò il ragazzo, preda dell'imbarazzo più totale. «Non ho idea di cosa mi sia preso.»
«Te lo dico io che cosa ti è preso.» Sputò acidamente Isaac, muovendo un ennesimo passo all'indietro. «Ti è preso che sei un dannatissimo finocchio e che dovresti farti curare. Sei totalmente contro natura, Aiden. Mi fai schifo.»
Aiden percepì quelle parole come lame. Un pugno nello stomaco gli avrebbe fatto meno male, seppure la sensazione di oppressione e dolore fosse la stessa in entrambe le situazione.
Sentì immediatamente il forte impulso di dover vomitare e, se le sue gambe non fossero corse via di volontà propria, probabilmente lo avrebbe fatto.

28 Agosto 2016, Harpool Bay.

Dopo il suo ultimo incontro con Aiden, Isaac non era stato capace di smettere di pensarci un solo momento.
I ricordi dell'ultima sera passata assieme avevano affollato la sua mente e si era sentito ancora più in colpa di quanto non avesse fatto negli ultimi quattro anni. Aiden non se le meritava le sue parole d'odio, e neanche il fatto che fosse ubriaco e nel periodo peggiore della sua vita giustificava un tale accanimento. 
La sera prima, dopo essere letteralmente scappato da casa Wilson, aveva sentito il bisogno di distruggere qualsiasi cosa gli si parasse davanti ma non lo aveva fatto. Aveva infilato i pantaloncini della tuta e si era buttato in strada. Aveva corso fin quando non aveva sentito i polmoni bruciare ed il petto dolere al minimo respiro.
Gestire gli attacchi di rabbia, ultimamente, si stava rivelando più difficile del previsto. Il disastro in casa ed i lividi che Patrick si era portato adosso per giorni e giorni, ne erano la prova.
Lo odiava. Odiava essere arrabbiato, era come se il ragazzino di sedici anni, stupido e ferito, non se ne fosse mai andato ed Isaac non aveva mai sopportato quello spocchioso figlio di puttana.
Il mattino seguente, si era svegliato con una febbre da cavallo ma, seppur con non poco sforzo, si era alzato dal letto e si era recato nell'officina dove lavorava. Suonare nei locali gli apportava un sostanzioso stipedio, ma non abbastanza da provvedere a due persone e a tutte le spese che mantenere una casa richiedeva. Inoltre stava anche risparmiando qualcosa per riuscire ad infilare suo padre in una comunità che riuscisse a rimetterlo completamente a nuovo, in sintesi: aveva bisogno di ogni singolo centesimo che i suoi due lavori gli davano.
Quando era rientrato a casa, a pomeriggio oramai inoltrato, si era addormentato di sasso con ancora tutti i vestiti a dosso. 
Al suo risveglio era notte fonte e Lea era seduta a terra accanto al suo letto.
«Buongiorno bella addormentata.» Esclamò, dandogli un leggero buffetto sul naso. Aveva un sorriso spento, ma era bella lo stesso.
«Hey...» Biascicò, stroppiacciandosi gli occhi. Gli faceva male tutto e sarebbe tornato volentieri a dormire, ma decise che era il caso di fare uno sforzo. «Da quanto tempo sei qui?»
«Abbastanza da sapere che parli nel sonno.» Disse, poggiando il mento sul materasso. «Abbiamo fatto una conversazione molto interessante, molto più interessanti di quelle che facciamo quando sei sveglio.»
«Come mai sei qui?»
«L'aria in casa mia era decisamente opprimente e poi volevo portarti un pezzo di torta.»
Isaac annuì, portandosi, a fatica, a sedere. Aveva tutti i muscoli indolenziti e si sentiva la testa estremamente pensante. Doveva avere la febbre terribilmente alta e chissà magari anche qualche allucinazione, forse Lea non era davvero lì.
«Che torta?» Domandò poggiando il capo contro la testiera.
«La torta del mio compleanno, idiota.» Esclamò stizzita la giovane, portandosi le braccia conserte sotto il seno.
Solamente la sera prima, allo scattare della mezzanotte, le aveva mandato un messaggio con i suoi auguri. Possibile che se ne fosse dimenticato?
«Nel cassetto...» Biascicò, indicandole pigramente il comodino. «C'è una cosa per te.»
Lea aveva espressamente chiesto che non le venissero fatti regali per il suo compleanno. Non ricordava tempo e secolo che ne avesse avuti e quindi non ne sentiva affatto la mancanza, poi dopo aver scartato quello della madre era sicura di non volerne per il resto della vita, ma stranamente l'idea che Isaac si fosse preso la briga di prenderle qualcosa la emozionava ed imbarazzava parecchio.
Lei non aveva nemmeno idea di quando lui compisse gli anni...
«E' la cosa più bella che mi abbiano mai regalato.» Esclamò la giovane, sporgendosi per potergli circondare il collo con le braccia e stampargli un piccolo bacio sulla guancia. «Grazie.»
«Sono felice che ti sia piaciuto, Bambi.»
«Come avrebbe potuto altrimenti?» Domandò, rigirandosi tra le mani il CD tra le mani. 
Era davvero il regalo più bello che le avessero mai fatto e a renderlo tale non era l'oggetto in se, quanto il fatto che fosse stato fatto e registrato solamente per lei. Dentro quel disco c'erano delle canzoni che appartenevano solamente a lei, e  per la prima volta in vita sua si rese conto di aver, finalmente, qualcosa per cui valesse veramente la pena essere gelosa.

«Hai bisogno di una mano per scavalcare?» Domandò Isaac, portandosi una mano alla gola gonfia e dolente. 
Lea scosse il capo, puntandogli un dito contro il petto. «Vedi di restare a letto. Domani mattina vengo a portarti qualcosa di caldo e qualche medicina, così vediamo di abbassare la febbre, ma tu non azzardarti ad uscire di casa neanche per scherzo. Sono stata chiara?»
Il giovane rise, annuendo. Sapeva di non poterla avere vinta contro di lei e quell'aria da dura che non avrebbe spaventato neanche un gattino.
Attese che Lea fosse tornata con i piedi per terra, prima di rivolgerle un'ultimo saluto e prendere la terribile decisione di scendere a bere qualcosa di fresco in cucina. 
Ad ogni passo sentiva dolorose scosse partirgli dalla pianta del piede fino alla punta dei capelli, per non parlare della testa: il suo cervello sembrava sbattere contro le pareti del cranio ad ogni suo minimo movimento.
Seduto all'isola della cucina, stranamente lucido, c'era suo padre; stava mangiando un Yogurt, cosa ancora più strana, e sembrava anche abbastanza in forma. Lo salutò con un cenno del capo, prima puntare lo sguardo sulla credenza alla ricerca di un bicchiere.
«Era la figlia di Michelle Wilson quella nella tua stanza?» Domandò l'uomo, con voce roca.
Isaac neanche la ricordava più la voce di suo padre da sobrio.
«Si, perché?»
«Non mi piace quella ragazza. E' come sua madre.»
«Non la conosci neanche.»
«Fidati di me, ragazzo. Quella lì è uno tsunami, distrugge tutto ciò che tocca.» 
Il ragazzo prese un profondo respiro, stringendo forte i pugni. «Non la conosci neanche.» Sillabò.
«Peter Wilson sta covando una serpe in seno, farebbe bene a metterla per strada prima che gli si rivolti contro.»
«Pensi di sapere sempre tutto di tutti, vero?» Sbottò infine, sbattendo un pugno contro il piano in granito della cucina.
Non aveva neanche più sete.
«Io non parlo, figliolo, ma osservo e so quello che dico. Non mi sono mai sbagliato. Ricordi quando ti ho messo in guardia su quel finocchio del tuo amico, non hai voluto credermi e guarda adesso... dovresti ringraziarmi.»
«Non smetterò di parlare con Lea Wilson a causa dei vaneggiamenti di un ubriacone.» Esclamò risoluto, riprendendo la via verso la sua stanza.
«Quando ti spezzerà il cuore non dirmi che non ti avevo avvertito.»
Ci mancava solo che prendesse lezioni di vita da suo padre. Aveva davvero toccato il fondo.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - Io sono a casa. ***


«Devi andare per forza?» Piagnucolò Lea, nascondendo il viso nell'incavo del collo di suo fratello.
Erano fermi, davanti all'entrata dell'aeroporto, da almeno mezz'ora e la piccola di casa Wilson non voleva saperne di lasciare andare il fratello maggiore.
Adesso che sapeva tutta la verità sentiva che il loro rapporto si era evoluto ed era spaventata che la distanza potesse mettere a dura prova la fiducia ritrovata.
«Devo Lea!» Sussurrò il ragazzo, accarezzandole il capo.
Lea si fece ancora più piccola contro il suo petto, godendosi quegli ultimi momenti insieme. 
«Non puoi prendere altre ferie? Tipo delle ferie supplementari per riprenderti dalle ferie?»
Il petto di Aiden venne scosso da una risata.
Per quanto gli sarebbe piaciuto, non poteva restare oltre. Poi c'era sempre la questione Gabe. Sua madre aveva deciso di restare ancora qualche giorno, a New York doveva per forza esserci qualcuno che giustificasse l'assenza della donna.
Lea tirò su con il naso. «Tornerai vero?»
«Tornerò.»
Una voce metallica si disperse in tutto l'aeroporto e consigliò ai passeggeri diretti nella grande mela di dirigersi al terminal.
Con grande sforzo, la giovane si allontanò dal fratello e lasciò che si avviasse verso casa.
Tornò al parcheggio.
Sua madre l'aspettava seduta su un divisorio in cemento con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto. Lea sentì la bile smuoversi ed un conato di vomito bloccarlesi in gola.
Suo padre era rimasto a casa. Peter Wilson aveva affermato di non essere pronto per guardare suo figlio andare via per una seconda volta. Sua madre, invece, non avrebbe potuto essere più contenta di accompagnarli, diceva che la faceva sentire utile. La verità era che cercava solamente un modo per restare da sola con lei.
Dalla sera del suo compleanno, avvenuta circa quattro giorni prima, Lea aveva fatto quanto più era in suo potere per evitare la donna, tanto che aveva finito per passare più tempo a casa di Isaac che nella sua.
Aveva usato la scusa, che infondo una scusa non era, che il ragazzo non si era ancora del tutto ripreso dalla malattia e si era letteralmente trasferita dagli Hall.
Un paio di volte aveva persino incontrato il padre del ragazzo, che le aveva semplicemente riservato un grugnito poco gentile.
Isaac le aveva sempre detto di non farci caso e di rivolgergli la parola il meno possibile. Quando era sobrio poteva essere più pericoloso che da sbronzo e lui non voleva che lei si facesse del male.
«Sei pronta?» Le domandò la madre, balzando letteralmente in piedi.
Lea la fulminò con lo sguardo. Suo figlio era appena partito per gettarsi nella fossa del leone e lei rideva. Che cosa ci fosse di tanto divertente, o lontanamente felice, non avrebbe saputo dirlo.
Sospirò annuendo mestamente. 
Se non altro quel breve tragitto in auto le avrebbe dato la possibilità di fare ciò che aveva sempre rimandato. Chiudere definitivamente ogni rapporto che ancora le legava.
«Ti va di andare da qualche parte?» Le domandò la donna, chiudendo la portiera. «Invece che rientrare subito, potremmo girare i negozi della città e passare una giornata madre e figlia come ai vecchi tempi.»
«Voglio tornare a casa.» Sibilò freddamente.
«Sicura? Sai, io sono sicura che potremmo divertirci insieme.»
«Ho promesso ad Isaac che avrei cucinato per lui.» Tagliò corto.
Non era affatto vero, non sarebbe stata in grado di cucinare nemmeno un cibo precotto, ma non era disposta a passare un momento di più con sua madre.
La ferita che le aveva inferto il giorno del suo compleanno bruciava ancora terribilmente e passare del tempo con lei non avrebbe fatto altro che gettarci sopra del sale.
Aveva fatto una promessa a se stessa quella sera: non si sarebbe più permessa di soffrire a causa sua.
«Quindi tu ed Isaac?» Domandò la donna, dopo un breve momento di pausa. «E' ufficiale?»
Lea le rivolse uno sguardo sconvolto, quasi schifato. Che cosa stava insinuando? «Io ed Isaac niente.»
«Tesoro, guarda che non c'è nessun problema se ti piace. Non so adesso, ma è sempre stato un bel bambino e scommetto che aveva una cotta per te. Ti cercava sempre...»
«Beh, giusto, come ho potuto non capirlo prima. I gavettoni pieni di pipì sono l'apoteosi del corteggiamento.»
«Non fare del sarcasmo con me, signorina. Poi lo sai come sono fatti i bambini: quando provano qualcosa per una bambina, le fanno i dispetti per farsi notare.»
«Allora, secondo la tua teoria, Isaac è ancora profondamente innamorato di me. Quasi quasi, mi dispiace doverlo mandare nella friendzone.»
Michelle Wilson rivolse alla figlia uno sguardo di traverso, ma che la diceva lunga su quello che le passava per la testa.
«A te non piace?» 
Lea si strinse nelle spalle, osservando lo scenario che le si stagliava davanti.
Non si era mai soffermata a pensare se le piacesse o meno Isaac.
Sicuramente era un buon amico ed era innegabilmente un bel ragazzo. Ma le piaceva più di quanto le potesse piacere qualsiasi altro?

«Ti ho portato le aspirine.» Esclamò a gran voce la ragazza, piombando nella camera di Isaac.
Si era aspettata di trovarlo ancora avvolto tra le coperte, profondamente addormentato. Invece la sua stanza era in ordine, completamente vuota.
Aggrottò la fronte, guardandosi attorno.
Il letto era rifatto, i vestiti erano scomparsi dalla sedia e nemmeno il chiodo era più appeso al appendiabiti dietro la porta.
«Lo stronzo se ne è andato.» Ringhiò, gettandosi di volata giù per le scale.
Giurava che lo avrebbe aspettato e che al suo rientro lo avrebbe picchiato talmente tanto che sarebbero stati in grado di riconoscerlo solamente dall'impronta dentale.
«Dove stai andando?» La voce di Isaac la bloccò con la mano sulla maniglia della porta.
Lea si voltò.
Era in cucina nel massimo del suo splendore.
Indossava una maglietta bianca, accompagnata dai pantaloni neri del pigiama. Era scalzo, il viso aveva ancora un colorito verdognolo, gli occhi erano cerchiati da profonde occhiaie scure e, se possibile, era più magro del solito.
In sintesi, stava da schifo.
«Credevo fossi uscito.» Esclamò, prendendo posto ad uno degli sgabelli dell'isola. «Ero già pronta ad inseguirti con torcia e forcone.»
Il ragazzo, rise, tornando a fissare il pentolino che aveva davanti. «So prendermi cura di me stesso, Bambi. Non devi starmi così tanto con il fiato sul collo.»
«Non riesco a crederti, se cammini a piedi scalzi e vai in giro a maniche corte.»
«Siamo in California, Lea, fanno quaranta gradi all'ombra.»
«Eravamo in California anche due giorni fa, quando sono stata costretta ad andare da Ikea a comprarti un piumone perché avevi freddo.»
Isaac sbuffò sonoramente prendendo posto nello sgabello davanti a quello della ragazza. «Non dovevo lasciare che ti prendessi cura di me. Adesso userai questa cosa contro di me per il resto della vita.»
«Mi conosci così bene.»
La conversazione si spense.
Lea rimase ferma a fissare il ragazzo mentre mangiava uno quel tristissimo brodino di pollo.
Ripensò a quella prima, unica, volta in cui aveva provato a cucinare per lui. Quel pomeriggio aveva pulito così tanto vomito che temeva, da un momento all'altro, qualcuno potesse offrirle un lavoro come colf.
Il suo sguardo vagò sulla figura del colosso che le stava davanti, soffermandosi qualche istante di troppo sulle labbra rosse che spiccavano contro il colorito smorto.
Pensò che se mai si fosse innamorata di lui, sarebbe stato a causa di quelle labbra.
«Un penny per i tuoi pensieri, un dollaro se sono sporchi.» Ridacchiò Isaac.
Lea sobbalzò sulla sedia, presa alla sprovvista, prima di allungare la mano. «Stavo pensando che hai delle bellissime labbra...» Mentire sarebbe stato inutile. Non ne era capace, lui se ne sarebbe accorto e l'avrebbe costretta a dirlo lo stesso, se non altro in questo modo aveva guadagnato un penny.
Il ragazzo frugò all'interno delle tasche dei pantaloni e ne estrasse un fazzolettino ed un pacchetto semivuoto di sigarette.
«A te la scelta.»
La giovane li fissò entrambi, fingendo di valutare quale delle due offerte la allettasse di più. «Avrei scelto il fazzolettino, ma sono troppo buona per privartene. Adesso vai e scrivi odi sulla mia magnanimità.»
«Se lo dici tu...»
Il silenzio calò nuovamente su di loro ed i pensieri di Lea tornarono a vagare sulla conversazione avuta con sua madre circa un'ora prima.
Alla fine non si era nemmeno risposta. Aveva infilato le cuffie nelle orecchie e si era costretta a dormire.
Non voleva pensare ai ragazzi o di niente che comprendesse investire dei sentimenti in generale. L'ultima volta in cui si era avvicinata ad una persona con l'intento di costruire qualcosa che andasse oltre una semplice amicizia, questi era finito in ospedale e lei si era vista costretta a scappare dalla sua stessa casa. Non avrebbe mai permesso che qualcuno pagasse per l'inferno che stava vivendo, specialmente non qualcuno come Isaac, che dalla vita aveva avuto ben poche gioie.
«Mia madre pensa che tu avessi una cotta per me quando eravamo bambini, incredibile vero?» Esclamò la ragazza, accennando una risata strozzata. 
Voleva togliersi il dubbio una volta per tutte. 
Se la teoria di sua madre sui bambini fosse stata sfatata, beh, neanche i suoi dubbi avrebbero avuto ragione di esistere.
«Cristo santo, no!» Imprecò Isaac, scoppiando poi a ridere subito dopo. «Ma come diavolo le è venuto in mente una cosa del genere?»
Sebbene una parte di lei fosse sollevata all'idea che non avesse mai provato nulla nei suoi confronti, l'altra era decisamente offesa. Che cosa stava a significare quel ''Cristo santo, no''? Non la riteneva abbastanza, forse?
Okay... stava impazzendo. 
«Non ne ho idea. Credo sia solamente una mamma: vede coppie innamorate ovunque.»
«Anche mia mamma faceva così. Non potevo portare a casa nessuna che automaticamente era la mia ragazza.»
«E lo erano?»
«Molto spesso si, ma era mia madre: non le era dato saperlo.»
Scoppiò a ridere, soffocando con allegria quel senso di gelosia che le stava arrovellando il fegato; gelosia, probabilmente, scaturita dal sapere di non essere stata l'unica ad essergli stata così vicina.
Da sempre era stata una persona molto gelosa; che si trattasse di cose, animali o persone, se qualcuno si avvicinava troppo, Lea Wilson incominciava a ringhiare.
Non ne andava fiera, ma era così.
«Come stai? Oggi non te l'ho neanche chiesto.» Sussurrò, umettandosi le labbra.
Forse era meglio cambiare discorso...
Il ragazzo si strinse nelle spalle, voltandosi per riporre nella vasca del lavandino il piatto ed il cucchiaio. «Sto bene. La febbre è passata ed anche i brividi di freddo... Tu come stai?»
Lea aggrottò le sopracciglia. «Sto bene, non si vede?»
«Intendo in generale, Bambi... Come stai?»
Se c'era una cosa che Isaac aveva ereditato da suo padre era sicuramente la capacità di leggere le persone. Poteva fingere altrimenti, ma era abbastanza bravo da sapere che il motivo che aveva spinto Lea ad abbandonare New York non era affatto la troppa mancanza dal padre. 
Bastava guardare quanto, dopo due mesi, si sentisse ancora tremendamente fuori posto lì.
La ragazza ingoiò un grumo di saliva, guardando altrove ed aggiustandosi a sedere sullo sgabello. Sembrava quasi di essersi seduta su un cespuglio di rovi, anzi, ripensandosi, le spine sarebbero state più confortevoli.
«Sto bene, va tutto bene. Alla grande...»
Poteva sembrare fin troppo euforica come risposta, tanto da sembrare finta, ma era abbastanza perché l'altro non facesse domande. Lui non faceva mai domande.
«Puoi parlarmene. Non sto dicendo che devi farlo per forza. Io mi fido di te e mi sono aperto, voglio solo che tu sappia che puoi fidarti di me.»

Di ritorno a casa, Lea seppe di non poter più temporeggiare.
I suoi genitori erano comodamente seduti al tavolo apparecchiato e la fissavano con un gran sorriso. Per un istante solo le parve di vedere Dean scendere di corsa lungo le scale e gettarsi per primo sul posto a capo tavola, temendo che Aiden potesse scappare fuori da chissà dove e soffiarglielo.
Sorrise al ricordo, mentre percorreva, con gambe sempre più pesanti, la tratta che divideva il salotto dalla cucina.
«Come sta Isaac?» Domandò suo padre, allungandole il piatto del sushi.
''Proprio come ai vecchi tempi'', pensò.
«Sta meglio. Domani tornerà a lavorare.»
«Dovrebbe riposarsi ancora un po'.» Puntualizzò sua madre. «Non può mica fare tutto da solo, eh. E' un ragazzo, dovrebbe pensare a vivere la sua vita invece che stare dietro al padre.»
«Sai bene che suo padre non è nelle condizioni di fare nulla. Se non fosse per Isaac farebbero la fame.» Replicò Lea.
«Norman Hall è un incosciente. Un genitore non dovrebbe permettere che un figlio viva una situazione del genere.»
«Ti permetti di criticare lui quando stai facendo esattamente lo stesso?»
Sua madre si irrigidì bruscamente. Sapeva di che cosa stava parlando, solo non voleva ammetterlo a se stessa perché avrebbe segnato il fallimento del suo secondo matrimonio. Michelle Wilson non avrebbe potuto permettersi una cosa del genere...
La donna prese una boccata d'aria, fissando altrove, prima di riportare lo sguardo, freddo come la notte artica, sulla figlia.
«Quando tornerai a casa, signorina, discuteremo della tua punizione.» Fece una breve pausa. «A proposito, hai già incominciato a fare le valige?»
Lea sostenne lo sguardo bruciante della madre, alzando il mento con alterigia. «Non tornerò a New York.»
«Mi avevi detto che saresti tornata a casa.» Replicò la donna stizzita.
«Appunto. Io sono a casa.»


ANGOLO AUTRICE!
E' il primo angolo autrice che scrivo e non ho la minima idea di che cosa scrivere, sinceramente, quindi perdonatemi.
Il capitolo è noioso, ne sono consapevole, ma avevo bisogno di questo intermezzo per dare via ad una determinata vicenda ed introdurre, nei prossimi aggiornamenti, un paio di personaggi che, per la storia, avranno una parte semi-fondamentale. Beh, almeno uno delle due.
Poi volevo prendere un piccolo spazio per ringraziare tutti quelli che si sono presi la briga di leggere questa storia, a chi ha commentato ed anche ai lettori silenziosi.
Ultimo, ma non meno importante, volevo dirvi che ho postato il primo capitolo di una mia nuova storia e che mi farebbe davvero molto piacere se decideste di passare a dare un'occhiata e magari di farmi sapere se, secondo voi, è il caso che la continui o che la lasci stare.
Beh, non so che altro dire. 
Baci, I.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - Io e te non parliamo mai. ***


Ho riscritto il capitolo perché, personalmente, odiavo il precedente. Rileggendolo l'ho ritrovato stupido e ricco di di avvenimenti che avrei potuto spiegare meglio e più avanti, quindi... spero questo sia migliore dell'altro! Scusate e buona lettura a tutti!

Lea non aveva mai sperato in un riavvicinamento dei suoi genitori, i due, infatti, non le avevano mai dato motivo di sperare. Eppure, adesso, mentre li guardava ridere, scherzare, cucinare insieme, dormire abbracciati, sentiva un briciolo di speranza crescere dentro di lei. 
Alla fine la permanenza di sua madre si era prolungata ancora. 
Se, inzialmente, sarebbe dovuta restare solamente qualche giorno, adesso il suo soggiorno era arrivato a quota due settimane. Trovava sempre una scusa per restare, che fossero delle turbolenze preoccupanti, la salute, ultimamente troppo, cagionevole dell'ex marito, il bisogno di restare accanto alla figlia... questa volta l'ultima scusa era il desiderio di volerla accompagnare al cacello il giorno del suo primo ultimo giorno di scuola.
«Sei emozionata?» Le domandò la madre, poggiandole ambo le mani sulle spalle. «Domani sarà il tuo primo giorno di scuola.»
I rapporti tra le due non si erano ancora del tutto ricuciti; si parlavano poco e quelle poche volte finivano sempre in violente liti in cui una delle due diceva qualcosa che non pensava e feriva l'altra. 
Lea fissò la loro immagine nello specchio e trattenne una smorfia di disgusto.
Odiava assomigliarle così tanto, avere i suoi stessi occhi castani, lo stesso viso allungato e le stesse labbra carnose. 
Le persone dicevano che le avesse rubato il viso, che doveva essere fiera di avere gli stessi tratti dolci della madre, che era un dono... ma Lea non lo vedeva come un dono. Bensì come una condanna. Voleva tagliare i ponti con lei, ma non poteva farlo se era lei.
«Si e no!» Replicò semplicemente, abbassandosi per allacciare le stringhe delle scarpe da tennis.
«Come si e no? O si o no.»

«Possibile che hai da rimbeccare su qualsiasi cosa?» Sbottò, alzandosi in piedi. «Si e no. Non c'è un perché, fine della conversazione.»
Sua madre si zittì, visibilmente offesa dal suo modo di porsi, e si avvicinò alla porta.
«Che ci è successo, Lea?» Domandò una volta sulla soglia. «Prima mi raccontavi tutto, adoravi passare del tempo con me, eri la mia bambina... adesso sembra quasi che la mia vista ti disgusti. Che cosa ho fatto di così terribile per meritarmi un simile trattamento da te? Ho provato ad essere una madre al meglio delle mie capacità, mi sono rialzata dopo la morte di Dean e ho fatto di te e Aiden la mia forza. Vi ho vestiti, lavati e nutriti, anche quando avevo solamente voglia di chiudermi nella mia stanza a piangere tutte le lacrime che Dio mi aveva messo a disposizione. Ho messo voi, te, davanti a tutto e tutti, ma non sembrate apprezzarlo. 
Dimmi che cosa devo fare perché io, davvero, sono al limite. Non so più che cosa provare per ritrovare nei tuoi occhi la mia bambina.»
Lea sentì una morsa stringerle lo stomaco, ma si rese tristemente conto di quanto, dopo anni ed anni, facesse sempre meno male. Se inizialmente quelle parole le provocavano dolori lancinanti, ora come ora provava solamente un leggero fastidio, che non faceva altro che farla arrabbiare ancora di più.
«Stai seriamente cercando di fare la vittima con me?» Domandò la giovane, assottigliando lo sguardo. «Hai davvero la faccia tosta di chiedermi come puoi fare perché io torni ad essere la Lea che conoscevi un tempo? Sei seria o mi stai prendendo in giro.» Michelle Wilson fece per replicare, ma la figlia la zittì prima che potesse aprire bocca. «Potresti aprire gli occhi, ad esempio.
Quante volte mi hai chiudermi nella mia stanza terrorizzata? Quante volte sono rimasta a dormire a casa dei miei amici per giorni sebbene abitassero a solo un paio di isolati da me? Quante dannate volte ti ho chiesto di lasciar perdere Gabe e tornare ad essere una famiglia solo noi tre? Decine, centinaia, migliaia di volte, ma tu hai sempre voltato lo sguardo da un'altra parte.
Non potevi credere che proprio Gabriel Richardson, l'amore della tua adolescenza, l'uomo che aveva fatto di te la donna che sei, il padre del tuo figlio preferito potesse essere un dannatissimo pazzo psicopatico. Non potevi e non volevi crederlo, questo segnerebbe la fine del tuo secondo martrimonio e una donna come te non può permettersi una cosa del genere. Dico bene?»
Era arrabbiata e stanca. Stanca di tutta quella situazione stressante che sembrava non voler mai trovare una fine. 
«Smettila di comportarti come se Gabe fosse il problema, Lea.» Esclamò sua madre, battendo un piede per terra. «Gabe ci tiene a te, ci è rimasto davvero male quando ha saputo che non volevi averlo qui per il tuo compleanno. Ti ama come se fossi sua figlia e ti vuole a casa forse più di chiunque altro, mi chiedo come sia possibile da parte tua essere così ingrata nei suoi confronti...»
«Va bene, fa come vuoi. Continua a non credermi.» Cedette esasperata, indossando il chiodo. «Sappi solo che stai per perdere un'altro figlio, ma questa volta, sarà solo colpa tua.»


«Io e te non parliamo mai.» Piagucolò Red, portandosi ambo le mani ai fianchi.
Lea scese dall'auto, rivolgendo alla sua migliore amica uno sguardo stranito. «Io e te non facciamo altro che parlare, Red.» Esclamò la giovane, alludendo alla lunghe telefonate con le quali la rossa la teneva sveglia fino a notte fonda ogni singolo giorno.
«Non intendo questo, Lea, e lo sai.» Mormorò l'altra imbronciandosi. «E' vero, io e te parliamo, ma non diciamo niente.»
«Scusa, ma non riesco a seguire il filo del tuo discorso.»
«So qual'è il tuo secondo nome, il tuo piatto ed il tuo colore preferito, ma per il resto non so niente di te. Non so niente della tua vita a New York, non so niente della scuola a Philadelphia, non mi parli mai della tua prima cotta o dei tuoi amici. A volte, ho come l'impressione che tu non mi ritenga abbastanza importante per mettermi al corrente di ciò che succede nella tua vita.»
Lea si sentì improvvisamente colta sul vivo.
Era vero, aveva spesso parlato con Red senza mai dirle nulla. Era sempre stata attenta alle parole che uscivano dalla sua bocca, per paura di ritrovarsi a spiattellare qualcosa di troppo, per paura di ritrovarsi a dover dare spiegazioni. Non era un comportamento da vera amica, lo sapeva benissimo, ma semplicemente non voleva trascinare anche Roselyn, l'unica cosa pura che restava nella sua vita, in quel tremendo ed orrendo casino che era la sua vita.
Boccheggiò, incapace di formulare una risposta o una giustificazione al suo comportamento.
''Parla'', ordinò a se stessa, ''Parla o la perderai''.
«Scusa...» Mormorò Red, notando il suo tentennamento, e scuotendo il capo. «Io... io non avrei dovuto dirlo. Sei semplicemente una persona riservata, io lo capisco, davvero...»
«Seth!» Esclamò, interrompendo il suo sproloquio. «Il nome della mia prima vera cotta era Seth!» Si sentiva in imbarazzo a parlarne, ma avrebbe dato ad entrambe una sicurezza ad entrambe. La rossa avrebbe finalmente compreso la fiducia che l'altra riponeva in lei e Lea avrebbe messo alla prova quella stessa fiducia che tanto ostentava. «L'ho conosciuto durante il mio primo anno a Philadelphia, frequentava la mia classe di chimica. Mi ha chiesto di uscire dopo avermi tirato un pugno sul naso, non era destinato a me, ma questa è un'altra storia. Ci siamo lasciati dopo che l'ho portato a casa per le vacanze estive.»
«Perché?»
«Al mio patrigno non andava a genio che io avessi una relazione; ha dato di matto. Per un momento ho creduto gli mettesse le mani a dosso.» 
«E' molto protettivo? Il tuo patrigno, intendo.»
Lea si umettò le labbra, abbassando lo sguardo sulla punta delle scarpe. «Qualcosa del genere.»
Più che essere protettivi, era essere ossessivi, ma non se la sentiva di parlarne. Non ancora.
«Dovremmo entrare.» Sussurrò Red, forse terrorizzata all'idea di rovinare quel momento di intimità che si era andato a creare tra loro.
La giovane spostò lo sguardo sull'edificio che le si stagliava davanti e deglutì a vuoto. La sua migliore amica l'aveva trascinata a forza in quella che sarebbe stata, dal giorno seguente in poi, la sua nuova scuola. 
''C'è il Senior Scribe, Lea'', aveva detto, ''Nessun Senior può permettersi di perderlo''. Ma lei se lo sarebbe volentieri perso.
Il Senior Scribe era un mettere una firma su un qualcosa che era stato, ma Lea non aveva vissuto quel posto, non aveva mai camminato per quei corridoi, ne aveva mai mangito in quella mensa. Non aveva nessun diritto di stare lì, insieme a tutte quelle persone che, invece, erano cresciute lì dentro.
«Io non me la sento...» Mormorò, portandosi una mano al ventre. Era sicura che da un momento all'altro avrebbe potuto vomitare.
«Non costringermi a trascinarti dentro con la forza, Lea Marie Wilson.»
Con un sospiro frustrato la giovane lasciò che la sua migliore amica la conducesse entro quei corridoi, che dal giorno dopo in poi sarebbero stati un po' anche suoi, fino alla biblioteca, dove altre decine e decine di studenti aspettavano ansiosi il proprio turno per lasciare il loro segno su quegli scaffali.
«Credevo fosse stato Isaac...» Esclamò Red, portandosi una mano sotto il mento.
«Come scusa?» Domandò l'altra, voltando il viso. 
«La tua prima cotta.» Replicò la rossa. «Credevo fosse stato Isaac.»
Lea evitò di rispondere, tornando a fissare davanti a se. 
C'era stato un periodo durante il quale aveva avuto una mezza cotta per Isaac, ma si era trattato di, al massimo, un mese, quando aveva sei anni. Con il senno di poi, la cosa le sembrava assurda e divertente, nonostante ciò, non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, nemmeno sotto tortura.
Quando arrivò il suo momento, un ragazzo le porse il pennarello nero e le indicò con un cenno del mento lo scaffale più basso. Fissò il piano qualche istante, prima di trovare il punto perfetto dove posizionare le sue iniziali. 
«Se lo venisse a sapere ti prenderebbe in giro per tutta la vita.» Sussurrò Red.
La giovane si strinse nelle spalle, rivolgendo un'ultimo sguardo al suo nome, segnato vicino a quella I e quella H scritte in quella grafia disordinata che conosceva alla perfezione.


Il mattino seguente Lea aveva sofferto nel dover aprire gli occhi alle sette del mattino.
Abituata a svegliarsi oltre le undici, doversi alzare a quell'ora si era rivelato più difficile di qualsiasi altra cosa avesse mai fatto in tutta la sua vita. Alzarsi e vestirsi si era rivelato ancora più terribile, per non parlare del dover uscire di casa con il fresco pungente del mattino: quella era stata una vera e propria tortura.
Camminava piano in direzione della scuola, strusciando i piedi ad ogni passo e lamentandosi ad ogni metro.
Sua madre aveva insistito per poterla accompagnare, ma Lea non aveva voluto. Le sarebbe piaciuto se ad accompagnarla fosse stato il padre, ma l'uomo le aveva spiegato quanto non le sembrasse giusto questa disparità che stava mettendo tra i genitori e, alla fine, si era ritrovata a dover andare da sola.
«Hai bisogno di un passaggio?» La voce di Isaac la distrasse dai suoi pensieri. Poi, pensieri... il suo cervello sembrava rifiutarsi di partorire un qualcosa di senso compiuto. Lea si voltò lentamente e vide il ragazzo trasalire alla sua vista. «Bambi, stai da schifo.»
Avrebbe voluto mandarlo a quel paese ed urlargli contro di guardarsi allo specchio per se, ma:
1. Non era capace di pensare e parlare contemporaneamente. 
2. Inutile mentire, era bello anche di prima mattina.
«Lasciami perdere.» Sussurrò, portandosi una mano davanti alla bocca per soffocare uno sbadiglio e riprendendo a camminare.
«Dimmi solo se hai bisogno di un passaggio e poi ti lascio perdere.»
«Io su quel coso non ci salgo, quindi immagino di no.» Replicò, indicando con un cenno del capo, la moto sulla quale il giovane era a cavallo.
Le dava fastidio l'alta velocità ed ultimamente la stretta vicinanza con lui le provocava strane sensazioni alla bocca dello stomaco. Non sarebbe stato carino se, dopo che si era presa cura di lui, le avesse attaccato qualche tipo di influenza, inoltre era appena guarito, non era ammissibile si beccasse, nuovamente, qualche virus.
«Se continui di questo passo non arriverai mai in tempo a scuola.»
«Hai detto che mi avresti lasciata in pace.»
«Mi aspettavo una risposta affermativa.»
«Se salgo prometti di andare piano?»
«Ci proverò.»
Con un sospiro frustrato, salì a cavalcioni della moto e strinse le sue braccia saldamente attorno al busto del ragazzo. Inutile non ammettere che, forse, non aspettava altro.
«Se vai troppo veloce, giuro che scendo.»
«Ai suoi ordini, signor Capitano.»

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - E' più complicato di così. ***


«Pensi di riuscire a scendere da sola o hai bisogno di una mano?» Domandò Isaac, non preoccupandosi neanche di nascondere il sorriso di scherno che era affiorato sulle sue labbra.
Erano parcheggiati a pochi metri dalla porta d'entrata da almeno una decina di minuti e Lea proprio non ne voleva sapere di scendere.
Era in ansia e non sapeva come gestire la situazione. A Philadelphia era stato tutto più semplice; era stato un trasferimento dovuto da alcune importanti necessità, di piacere alle persone era qualcosa che passava benissimo in secondo piano, ma adesso che era ad Harpool Bay, completamente al sicuro, apparire diventava una questione di maggiore importanza.
«Si, scendo tra un secondo.» Mormorò, grattandosi il naso.
E se non fosse piaciuta a nessuno? Se l'avessero presa di mira? Lei era piccolina, era facile da sottomettere...
Con non poco sforzo, scese da quel trabiccolo infernale, comunemente chiamato moto, e prese a camminare verso la porta d'entrata. Non fece neanche un metro che si ritrovò a ripercorrere lo stesso percorso in direzione opposta.
«Ma se saltassi il primo giorno di scuola?» Domandò, poggiando ambo le mani sul manubrio. «Posso sempre accompagnarti in officina, ti passo le chiavi inglesi. Oppure posso tornare a casa e dire che non mi sento bene. Mio padre è un infermiere e se ne renderebbe conto subito che è una bugia, ma a quel punto sarebbe troppo tardi. Oppure potrei scappare e fingere che mi abbiano rapita gli alieni... tu che dici?»
Isaac scoppiò in una fragorosa risata.
Era intenerito da quella sua timidezza che se ne usciva fuori sempre nei momenti meno opportuni. Insomma, non era mica così timida quando si trattava di prenderlo a parole per qualsiasi, e dico qualsiasi, cosa facesse.
Si agiuscò con il palmo alcune lacrime che erano sfuggite al suo controllo, prima di poggiare le mani sulle spalle della ragazza.
L'unico consiglio che aveva da darle era quello di essere se stessa. Insomma, era Lea Wilson, era impossibile che non piacesse a qualcuno.
«Lea, cercherò di fare il serio, quindi tu evita di ridermi in faccia.» ''Ti sembrasse semplice'', puntualizzò tra se e se la giovane. «Chi sei tu?»
Lea lo fissò stranita. «Cosa?» Con quel ragazzo non sapeva mai dove volesse andare a parare... «Che centra questo adesso?»

«Rispondi e basta.»
«Io sono Lea Wilson.»

«Appunto, sei Lea Wilson e la Lea Wilson che conosco non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Se non gli piaci, pace, problema loro. Ma se vogliono fare gli stronzi, ricorda che stanno facendo gli stronzi con la stronza sbagliata.»
La giovane roteò gli occhi, passandosi la lingua sul labbro inferiore. «Sei così sempre così fine. Potrei commuovermi.»
«E' questo lo spirito.» Solo dopo aver ritratto la mano si rese conto di averle appena dato una pacca sul sedere. Non che gli fosse dispiaciuto, però, ad essere totalmente sinceri.
«Ma che diavolo fai?» Domandò Lea, massaggiandosi la natica. Non c'era mica andato particolarmente piano.
«Scusami. L'euforia del momento.»

«Poi hai anche il coraggio di dare a me della maniaca.» Sbuffò. 
«Red si sta sbracciando...» Mormorò il giovane, preda del più completo imbarazzo. «Credo dovresti raggiungerla.»
Lea si voltò quel tanto che le bastava per vedere la figura della sua migliore amica, poggiata contro la sua Kuga bianco perla, nel parcheggio vicino all'entrata. Già, forse era il caso la raggiungesse, prima che ci pensasse lei a trascinarla lì per un orecchio. 
«Immagino di si.» Sussurrò, avvicinandosi di un passo. «Grazie per il passaggio.» E, dopo avergli lascio un tenero bacio sulla guancia, si allontanò.


«Potevi andare a prendere il gelato con i tuoi amici, da Starbucks, non dovevi per forza venire con me.» Esclamò Lea, aggiustandosi la tracolla sulla spalla.
La mattina era passata tranquillamente e, incredibile ma vero, nessuno aveva fatto troppo caso a lei. Aveva persino fatto amicizia con il gruppo di Red, che si era rivelato gentile e disponibile; pensare che l'avevano persino invitata a prendere qualcosa con loro nel pomeriggio, rendendola partecipe di quella che avevano chiamato ''tradizione del primo giorno'', ma sua madre sarebbe partita nel pomeriggio e suo padre non aveva voluto che la donna se ne andasse senza aver ricevuto nemmeno un saluto dalla figlia, sebbene quest'ultima ne avrebbe fatto volentieri a meno.
«Stai scherzando, vero?» Domandò la rossa, portandosi una mano al petto, scioccata. «Sei la mia migliore amica, dove vai tu vado io. Poi non sarebbe divertente senza di te...»
«Se lo è stato per tutti gli anni precedenti al mio arrivo, perché non dovrebbe esserlo adesso?»
«Perché prima non ti conoscevo e non avevo idea di che cosa volesse dire condividere qualcosa di così profondo con qualcuno.»
Lea sentì qualcosa smuoversi nel suo stomaco e salire fino al petto, dove una strana sensazione di calore si liberò, scaldandole l'intera cassa toracica. 
Prima di conoscere Red aveva avuto un sacco di migliori amiche, che si erano guadagnate questo appellativo con il tempo, ma nessuna era mai stata come la giovane al suo fianco. Non si era mai fidata così tanto di nessuno, non aveva mai lasciato entrare nessuno così tanto. Ma sapeva che con Red non se ne sarebbe pentita.
«Un giorno ti racconterò tutto, lo sai, questo vero?»
Red si voltò verso di lei, rivolgendole uno dei suoi migliori sorrisi. «Un passo alla volta.» Sussurrò. «Con te è così, e va bene!»
Il tragitto verso casa si svolse in silenzio, almeno fin quando Red non lo interruppe. «Conosci quella bambina che è seduta sul tuo portico?»
Lea alzò lo sguardo dal cellulare che teneve stretto tra le mani, puntandolo in direzione della veranda con aria stranita. 
Seduta sulle scale c'era una bambina, di una decina di anni circa, con i lunghi capelli castani raccolti in due codine ai lati della testa. Era grassoccia, bassottella e con una meravigliosa pelle olivastra. Per quanto si sforzasse non ricordava di averla mai vista in vita sua.
«Hm... scusa? Stai cercando qualcuno?» Domandò Lea, accovacciandosi davanti alla bambina. Red, alle sue spalle, si esaminava la manicure.
La ragazzina alzò lo sguardo con fare annoiato, prima di imitare la rossa, ed fissare minuziosamente le sue piccole unghie laccate di rosso. «No, sto solo aspettando che i nostri genitori la finiscano di limonare.»
La sua prima reazione fu la sorpresa.
Davvero qualcuno diceva ancora limonare? E davvero una bambina ne sapeva il significato? Ma, soprattutto: suo padre stava davvero limonando qualcuno?
Entrò in casa e, per un istante, desiderò di non averlo mai fatto.


«Quindi lo hai davvero trovato con la lingua infilata nella bocca di una donna?» Domandò Isaac, scoppiando nell'ennesima risata.
Lea storse la bocca, decisa a voler dimenticare quella scena una volta per tutte. 
Quando era entrata in casa, la prima cosa che aveva visto era suo padre steso a pancia in sotto sul divano, solo in un secondo istante aveva visto la donna sotto di lui. Fortunatamente era entrambi vestiti e, almeno per il momento, non sembravano intenzionati ad andare oltre... ma la cosa le faceva rivoltare lo stomaco lo stesso.
Andiamo, era suo padre. Era troppo vecchio, oramai, per avere atteggiamenti intimi con una donna e poi che donna. 
Marìa Elèna Alvàrez era il prototipo di donna perfetta. Non troppo alta, magra, con le forme al punto giusto nei punti giusti, la pelle olivastra più bella che avesse mai visto ed un viso che avrebbe fatto invidia a qualsiasi modella in circolazione. Era fin troppo per un uomo come suo padre.
«E' stato peggio di quella volta in cui ho trovato Aiden a giocare con l'elicottero.»

«Che c'è di male nel giocare con l'elicottero?»
«Sai benissimo di che elicottero parlo...»

«Oh...»
Lea nascose il viso contro il cuscino, indecisa se urlare per il disappunto o scoppiare a ridere. 
Era felice che suo padre fosse finalmente riuscito ad andare avanti e rifarsi una vita, tra i due genitori era probabilmente quello che se lo meritava di più, solo avrebbe voluto saperlo prima ed in modo diverso. Ma infondo non lo biasimava. Con tutte le bugie che lei gli raccontava, non poteva pretendere che lui fosse totalmente sincero con lui.
Quando tornò supina, Isaac non aveva più la maglietta addosso.
Dopo aver visto quello spiacevole teatrino nel suo salotto, la prima cosa che aveva fatto era stata quella di rifugiarsi nella sua stanza, troppo imbarazzata per incrociare lo sguardo del padre e quando aveva visto il suo vicino rientrare dal turno di lavoro, non aveva potuto fare altro se non scivolare nella casa accanto e metterlo al corrente dell'ennesimo capitolo de: ''Le sfighe di Lea Wilson''.
«Ti basta un fazzoletto o hai bisogno di un secchio?» Domandò il ragazzo, passandosi un dito sull'angolo delle labbra.
Lea distolse lo sguardo, arrossendo visibilmente. «Non stavo sbavando, smettila di prendermi in giro.»

«Se no?»
«Se no me ne vado!»

«Sai dove è la porta o la finestra, scegli la via d'uscita che preferisci.»
«Stronzo.» Ringhiò tra i denti, alzandosi dal letto. Non voleva stare, dove non era gradita.
In realtà sapeva che il ragazzo stava solamente scherzando, ma quel suo modo di fare, ogni tanto, aveva ancora il potere di irritarla al massimo.
Fece un passo in direzione della finestra, ma Isaac le si parò davanti prima che potesse muoverne un secondo.
«Eddai, non prendertela, Bambi.»
Lea gli rivolse uno sguardo ammonitore, prima farlo correre su tutta la sua figura.
Fissò il fisico asciutto e tracciò con gli occhi i contorni dei suoi tatuaggi. Fissò la rosa sul pettorale destro, il testo di una delle canzone degli Shinedown sul costato, la bussola sul fianco... una volta aveva accennato al fatto che tutti i suoi tatuaggi avessero un significato speciale per lui. 
''Mi sembrava stupido marchiarmi la pelle a vita senza un motivo valido'', le aveva detto. Si chiese se per caso, tra quei simboli, ce ne fosse, o se ce ne sarebbe mai stato, uno dedicato a lei. 
Il suo sguardo scivolò ancora più in basso, fino ad incotrare una cicatrice seminascosta dall'elastico dei pantaloni. 
Era tondeggiante e frastagliata, sembrava quasi... 
«Il fondo di una bottiglia.» 
Lea alzò immediatamente il capo, incrociando gli occhi del giovane. «Come scusa?» Aveva la gola secca, dovuta al sospetto, che stava per rivelarsi fondato.
«La cicatrice. E' stato il fondo di una bottiglia.»
«Come è successo?» Domandò, ritrovandosi ben presto, a carezzare i contorni di quella pelle rappresa.
«Era da poco morta mia madre, neanche un mese forse. Mio padre era rientrato a casa più ubriaco del solito; a quel tempo non avevo capito che non potevo prendermela con lui per le condizioni in cui si trovava, non avevo capito che non sarebbe servito a niente. Litigavamo spesso e quella sera si rivelò più violento del solito.
Sedici punti e tre settimane di medicazioni.»
Non parlava quasi mai della situazione che viveva in casa, quindi le parole faticavano ad uscire dalla sua bocca. A volte sentiva il bisogno di aprirsi, ma non lo faceva mai; non che non avesse nessuno con cui farlo, sia chiaro, chiunque ad Harpool Bay conosceva la situazione di Norman Hall, solo che tutti erano terrorizzati all'idea di ricevere una risposta.
«Perché non lo hai denunciato?» 
«Perché non hai denunciato il tuo patrigno?»
Lea trasalì e ritirò di scatto la mano. 
Se non voleva apparire colpevole, beh... questo non era affatto il modo.
«Che ne sai tu del mio patrigno?»
«Non sono stupido, Lea, e neanche sordo.» Esclamò Isaac, muovendo un passo verso di lei che, istintivamente, ne mosse uno all'indietro. «Abitiamo a neanche un metro di distanza e la voce tua e di tua madre aumenta di almeno una decina di ottave quando litigate.»
«Da quanto lo sai?»
«Lo sospetto da un po', ma ne ho la conferma da poco. Era lui alla festa di Scott Norris?»
Distolse lo sguardo, volendo guardare tutto tranne che lui. «E' più complicato di così!»

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 - Che ci fai qui? ***


New York, 21 Settembre 2016.

«Hai intenzione di lasciarmi perdere o devo bloccare il tuo numero?» Sbuffò Aiden, portandosi il cellulare all'orecchio.
Quella doveva essere almeno la dodicesima chiamata che sua sorella gli lasciava nel corso della giornata. Aveva davvero così poco da fare? Niente compiti o uscite con gli amici? Beh, fortunata lei…
«Ti lascerò perdere solamente quando sarò sicura che tu stia finendo di impacchettare la mia roba.» Esclamò Lea e quasi poteva immaginarsela accavallare le gambe e gonfiare le guance.
In realtà non lo faceva più da un po', era più un'abitudine che aveva quando era una bambina, ma ad Aiden piaceva immaginarsela ancora in quel modo: bassa, grassottella e con un monociglio tale da fare concorrenza a Frida Kahlo.
«Ti ho detto che ti mi manca poco, tra qualche giorno ti spedirò il resto delle tue cose.»
«Non tra qualche giorno, Aiden, domani...»
«Ma domani...»
«Non mi importa di cosa devi fare. Sono tre mesi che mi prometti che tra qualche giorno spedirai ciò che ho lasciato, ma non ne ho mai visto traccia.»
«Ma non mi bastano gli scatoloni e gli altri sono in cantina ed in cantina ci sono le bambole di porcellana di mamma, sai che ne sono terrorizzato.» Rabbrividì solo al pensiero. 
I loro occhi privi di vita, che fissavano costantemente nel vuoto, e quel sadico sorrisetto che avevano sulle labbra avevano il potere di fargli tremare le budella.
La chiamata si interruppe ed Aiden sospirò di sollievo all'idea di averla scampata dall'ennesima discussione con sua sorella, quando la richiesta di una chiamata su FaceTime interruppe il suo breve, quanto intenso, viaggio su Instagram.
Avrebbe dovuto saperlo, Lea Wilson non avrebbe mai cadere una discussione tanto facilmente.
«Dannazione, Aiden, ho quattro vestiti nell'armadio!» Esclamò a gran voce Lea, spostando l'inquadratura sull'armadio alle sue spalle.
Effettivamente contava quattro vesititi in croce. Probabilmete, allora, non aveva mentito quando aveva detto che il loro caro papà l'aveva costretta a farsi la lavatrice da sola e che non aveva più niente da mettere. La sua piccola incapace…
«Va bene...» Cedette, infine, alzandosi dal letto sul quale era comodamente steso. «Sto andando.»
Meglio togliersi subito il pensiero.
La chiamata si concluse ed Aiden, si diresse verso la stanza della sorella.
Se non aveva mai finito di imballare quegli scatoloni non era certo a causa di quelle bambole, che si facevano la loro parte, ma non erano il motivo principale, bensì perché finire di svuotare quella stanza avrebbe reso più reale il fatto che Lea non sarebbe mai tornata.
Non averla per casa non era strano, anche quando abitava lì non c'era quasi mai. La scuola a Philadelphia la teneva fuori per tutti e nove mesi del periodo scolastico e, al suo ritorno, per le vacanze estive, cercava sempre di passare più tempo possibile fuori casa. Ma smantellare la sua stanza sarebbe stato devastante; non avrebbe più avuto un porto sicuro dove sentire un po' meno la mancanza di sua sorella.
Spinse la maniglia verso il basso e l'imposta verso l'interno. Sobbalzò. 
Semi nascosto dalla pila di scatoloni, c'era Gabe. Lo stesso Gabe che lo aveva salutato solo qualche ora prima dicendo di dover andare al lavoro e che non sarebbe rientrato fino a notte inoltrata.
Aggrottò le sopracciglia, sentendo un brivido percorrergli tutta la spina dorsale. «Che ci fai qui?» Domandò il giovane, atono.
L'uomo, che doveva essersi reso conto della sua presenza dal momento in cui era entrato, continuò a far scivolare lo sguardo dappertutto ancora per qualche secondo, prima di spostarlo definitivamente su di lui.
Per un breve istante, rivide in quei tratti tanto sconosciuti quanto familiari, il volto di suo fratello Dean. Pensò che se gli fosse stata data la possibilità di invecchiare, sarebbe diventato esattamente come lui. Fisicamente parlando...
«Stavo passando qui davanti e ho visto gli scatoloni.» Se tendeva bene l'orecchio, poteva quasi sentirlo sibilare. «Tua sorella è davvero decisa, allora...»
«Si!» Affermò con decisione, avvicinandosi, poi, alla scrivania ed incominciano a radunare tutto il materiale da disegno di sua sorella. Non gliel’avrebbe mai perdonata se si fosse dimenticato di spedirli.
«Questa notizia ha davvero distrutto tua madre, sai?» Sussurrò, dopo qualche istante di silenzio, con aria grave.
Lo stava facendo seriamente? Stava davvero usando sua madre per raggiungere i suoi sporchi scopi? 
Strinse i denti, trattenendo, a malapena, la rabbia che si stava lentamente facendo strada dentro di lui. Non voleva parlare di Lea con Gabe, anzi, non voleva affatto parlare con Gabe. Mai. Di nessunissima cosa al mondo.
«Se ne farà una ragione.» Il suo tono era perentorio, non ammetteva repliche. «Avrebbe dovuto dirle addio comunque prima o poi. Lea non è come me, ha dei progetti, se ne sarebbe andata al college...»
Lea era sempre stata migliore di lui sotto questo punto di vista. Aveva sempre avuto le idee ben chiare su ciò che voleva dalla vita ed aveva sempre avuto ben in mente il percorso da seguire per raggiugere la meta.
''Faccio progetti, per non impazzire.'' Gli aveva rivelato una volta. ''Sai, ho sempre avuto questa strana sensazione, sin da quando ero bambina, come se ci fosse un'altra persona dentro di me. Una coscienza fisica, se vogliamo chiamarla così. Era questa vocina maligna che ripeteva sempre: vivi ogni giorno come se non ci fosse un domani, finché non ce ne sarà uno per davvero. Muoviti, non c'è troppo tempo''.
«Secondo me dovresti provare a convincerla a tornare. Ci sono diverse scuole valide anche qui a New York e potrebbe frequentare un college in California, se vuole stare vicina a tuo padre, sai... si tratterebbe solamente di aspettare.» Gabe si schiarì la gola. «Se lei tornasse saremmo tutti più felici.»
Aiden alzò il capo ed incrociò lo sguardo dell'uomo.
Gabriel Richardson non gli era mai piaciuto; non quando sua madre glielo aveva presentato la prima volta, non quando aveva scoperto la reale natura del rapporto che, in un certo senso, aveva sempre avuto con la sua famiglia e tanto meno quando si era insinuato, come la serpe che era, nelle loro vite. Ciò che era successo con sua sorella non gli aveva dato che un altro motivo per odiarlo.
«Saremmo tutti più felici se tu uscissi, una volta per tutte, dalle nostre vite!» Non aveva mai espresso questo pensiero ad alta voce, ma era comunque ovvio a tutti, al diretto interessato specialmente, che, sebbene cercasse in tutti i modi di mascherarlo, lo disprezzava a sua volta. «Ma dal momento che non ne vuoi sapere di andartene, no, non convincerò mia sorella a tornare. Anzi, forse lo farò, ma solo quando uscirai a piedi pari da questa casa e non la smetti di starmi tra le palle, te lo giuro Gabe, succederà a breve.»


Harpool Bay, 22 Settembre 2016.

Se c'era una cosa in cui Lea Wilson non era mai stata troppo brava, era arrivare in orario a scuola. 
Inutile, era più forte di lei. Quando, la mattina, la sveglia suonava, il suo cervello si rifiutava di assimilare il suono e la spediva nel più profondo dei sonni, il che, inevitabilmente, la costringeva a svegliarsi di soprassalto e fare di corsa il tragitto che la separava da scuola, in una disperata corsa contro il tempo.
Quella mattina non faceva eccezione, se non per il fatto che, nel momento in cui aprì gli occhi, si scoprì più in ritardo del solito.
Generalmente era suo padre a trascinarla fuori dal mondo dei sogni, quando incominciava a farsi troppo tardi, ma quella mattina aveva il turno in ospedale e questo significava solamente una cosa: era completamente sola a casa.
Saltò fuori dal letto in meno di pochi secondi, avvicinandosi allo specchio per poter controllare in che condizioni fosse. 
Era assolutamente terribile. I capelli sembravano un nido di vespe, il viso era pallido e segnato da profonde occhiaie, le labbra screpolate e gli occhi ancora mezzi chiusi a causa del sonno.
Mancavano solamente venti minuti al suono della prima campanella e, a piedi, da casa sua, ce ne volevano almeno trenta. Era assolutamente, fottutamente, fottuta.
A meno che...
Spalancò la finestra e si gettò, di volata, sul terrazzino di fronte al suo.
Isaac aveva il giorno libero e sicuramente avrebbe preferito dormire piuttosto che accompagnare lei, ma era una questione di vita e di morte. Non si sarebbe abbassata a chiedere a lui, altrimenti. 
«Isaac!» Esclamò, scuotendolo, ma in risposta ricevette solamente un mugugno scocciato. Aveva già avuto a che fare con il profondo sonno del giovane Hall, quando dormiva non lo svegliava nemmeno una cannonata, ma in quel momento era necessario lo facesse uno schiaffo.
«MA SEI PER CASO IMPAZZITA?» Domandò il ragazzo, portandosi a sedere, con una mano poggiata contro la guancia, che adesso stava prendendo un colorito rossastro. «Si può sapere che diavolo vuoi da me?»
Lea si inginocchiò davanti al letto, con le mani giunte.
Sarebbe finita a quel modo lo stesso, tanto valeva ottimizzare i tempi. «Accompagnami a scuola su quel tuo trabiccolo infernale. Ti prego, farò tutto quello che vuoi, ma tu accompagnami a scuola.»
Sul volto del ragazzo si dipinse un ghigno divertito e la giovane quasi si pentì di aver chiesto a lui. «Tutto quello che voglio?»
Deglutì a vuoto. «Tutto quello che vuoi.»

«Grazie per il passaggio!» Esclamò la giovane, stringendo l'elastico ed aggiustando la codina sopra la testa. «Vedrò di sdebitarmi il prima possibile.»
Grazie alla guida spericolata di Isaac erano riusciti ad arrivare anche con qualche minuto di anticipo, il che le dava la possibilità di ringraziarlo per bene.
«Ed io ti farò sapere come, il prima possibile.» Replicò l'altro, armeggiando con il laccetto del casco. La cosa lo rendeva stranamente, ed estremamente, euforico.
Sebbene fosse stata una sua proposta, l’idea di aver dato ad Isaac la possibilità di scegliere la modalità con cui avrebbe dovuto ‘riscattarsi’ la metteva, giusto un pochino, un pochino tanto, in ansia.
Sebbene le avesse dimostrato più di una volta di potersi fidare di lui, non poteva non ammettere di non sentirsi affatto tranquilla. Maturo per maturo, alcune volte, aveva ancora la mentalità di un ragazzino annoiato.
«Si, beh, a proposito di questo!» Incominciò la giovane, spostando lo sguardo e portandosi una mano al capo. «Quando ho detto ‘’Farò tutto quello che vuoi’’, non intendevo esattamente proprio tutto. Si, insomma, nei limiti della decenza e della legalità…»
«Me lo immaginano, rovini sempre tutto il divertimento.»
«Ascolta, non è colpa mia se…» Lea riportò lo sguardo davanti a sé e non poté trattenersi dall’esprimere a parole l’ondata di stupore che l’aveva colpita in pieno.  «TU PORTI GLI OCCHIALI?» Allora, non era perfetto come voleva farle credere.
Isaac le rivolse uno sguardo di traverso, aggiustandosi la montatura tondeggiante sul naso. Lo facevano sembrare un po’ Nerd, ma gli stavano davvero bene. Dannato lui. «Mi hai detto di fare il prima possibile, non avevo tempo di mettermi le lenti a contatto. Tu, invece, che scusa hai? Non hai avuto tempo per metterti dei vestiti addosso?»
Non gli andava troppo a genio che andasse in giro così scoperta. Era una bella ragazza e nemmeno un cieco avrebbe potuto dire il contrario, era questo a mandarlo su tutte le furie. Non avrebbe saputo spiegare il perché di quelle sensazioni, ma, probabilmente, erano dovute dal fatto che la conosceva da tutta una vita. Semplice senso di protezione. Ecco tutto.
La giovane spalancò la bocca, abbassandosi maggiormente, la gonnellina azzurra della sua divisa da Cheerleader.
«Non farmi sentire più a disagio di quanto non mi senta già.» Lo rimbeccò.
Mai in vita sua Lea avrebbe mai pensato, o immaginato, che, prima o poi, si sarebbe ritrovata ad indossare una divisa del genere.
Quando, ancora, frequentava le scuole medie a New York, aveva provato a fare il provino ma era stata brutalmente scartata; le sue compagne l’avevano, infatti, definita troppo grassa, sebbene avesse solamente uno o due chili di troppo, mentre a Philadelphia, quando avrebbe avuto persino il fisico adatto per farlo, avendo frequentato un istituto privato, in cui andavano solamente individui particolarmente ricchi e con la puzza sotto il naso, un’attività del genere era stata ‘abolita’, poiché definitiva troppo puerile.
Arrivata  ad Harpool Bay, al suo ultimo anno, non sentiva neanche più il bisogno o la voglia di fare parte di un corso del genere, ma l’uragano Red non le aveva lasciato altra scelta: doveva prendere parte ad almeno un corso in cui c’era anche lei e dal momento che la rossa frequentava un solo corso di quelli proposti dall’istituto, le possibilità di scelta erano state minime.
In un primo momento si era ritrovata terrorizzata all’idea che potesse essere accettata, contrariamente quando il verdetto della capo Cheerleader era stato rivelato, si era sentita estremamente sollevata all’idea di non essere stata scartata una seconda volta.
L’unica pecca, però, era, appunto, quella dannatissima divisa.
Lea non era particolarmente a suo agio con il suo corpo, non lo trovava perfetto o sexy come le sue compagne, anzi lo riteneva sproporzionato e ricco di imperfezioni, quindi l’idea di mostrarlo e dover fingere di non notare le occhiate che i ragazzi le indirizzavano, le facevano mancare il respiro per la vergogna.
«Perché ti sei candidata se non ti senti a tuo agio? Non sei il tipo di ragazza che passa la vita a fare solo ed unicamente quello che vuole e che la fa stare bene con se stessa?» Domandò Isaac, passandosi una mano tra i capelli.
«Red!» Esclamò, semplicemente, in risposta lei, insaccando le spalle.
«Ah, allora ho capito.»
«Hai capito che cosa?» Domandò Red, circondando le spalle con un braccio alla sua migliore amica.
Probabilmente si era soffermata ad origliare dal momento preciso in cui avevano messo piede nel parcheggio. La cosa non avrebbe stupito nessuno. Chiunque sapeva che Roselyn Elizabeth Davis aveva una passione innata per i pettegolezzi.
«Ho capito che è il caso che io me ne vada.» Replicò il ragazzo, infilandosi nuovamente il casco.
Aveva sonno e non vedeva l’ora di tornare a dormire. Se si fosse fermato a parlare con Red sapeva benissimo che, in un modo o nell’altro, sarebbe riuscita a farglielo passare e nossignore, Isaac Hall non avrebbe sprecato la sua unica giornata libera a rimuginare su qualsiasi cosa qualsiasi cosa gli avrebbe detto Red. Già lo tormentava con lunghi messaggi prima di andare a letto, ci mancava solamente che si accollasse la versione in carne ed ossa, di prima mattina per giunta…
Non attese una risposta da parte delle due giovani, rivolse loro un cenno di saluto, e si gettò nuovamente per le strade semideserte di Harpool Bay.
«Che cosa aveva capito?» Domandò innocentemente la rossa, trascinando la migliore amica verso l’entrata.
La prima campanella era già suonata da qualche minuto e non voleva arrivare in ritardo ed assicurarsi un’ora di detenzione già alla seconda settimana, non adesso che era stata così brava da scamparla alla prima.
«Non fingere di non saperlo già.»
«Sapere che cosa?»
«Red…»
«Uffa! Non mi dai soddisfazioni, volevo sentirlo dire da te che stavate sparlando di me.»
«Non stavamo sparlando.»
«Che stavate facendo, allora?»
«Stavamo semplicemente parlando. Non so se conosci il termine, significa scambiare opinioni, riguardo qualcosa, o raccontare qualcosa in generale, con un'altro individuo. »
«Io vi shippo.»
Lea roteò gli occhi.
Non aveva idea di quante volte avesse sentito la sua migliore amica dire una cosa del genere e non sapeva, nemmeno, cos’altro fare per farle capire che tra lei ed Isaac non ci sarebbe mai stato niente. A prescindere dal fatto che nessuno dei due provava dei sentimenti per l’altro, la giovane non sarebbe mai stata abbastanza coraggiosa da iniziare una relazione, ancora troppo terrorizzata all’idea di poterlo mettere in pericolo.
Era successo con Seth ed era bastato a darle una lezione.
Lea Wilson sarebbe morta da triste zitella.
Si avvicinò al suo armadietto e, una volta aperta l’anta azzurrina, incominciò a riporre i libri che le sarebbero serviti per l’intera mattinata al suo interno.
Red, al suo fianco, parlava e straparlava del nuovo ragazzo con cui stava uscendo. Diceva che era un ragazzo più grande, che faceva il tatuatore e che spesso si prodigava anche a fare piercing.
Le sembrava di riconoscere una descrizione del genere, ma non ci diede neanche troppo peso, del tutto convinta che, alla sua migliore amica, sarebbe passato l’entusiasmo alla svelta. Succedeva sempre…
«Ma quello è Patrick?» Domandò Lea, fissando la figura maschile ad una decina di armadietti dal suo.
La rossa seguì la direzione del suo sguardo, prima di riportarlo su di lei ed annuire con decisione. «Si, è stato bocciato e deve ripetere l’anno. Ma non preoccuparti, non c’è pericolo di incontrarlo. Non viene un giorno si e l’altro pure…»
La mora aggrottò le sopracciglia. «La cosa non mi torna.» Mormorò, portandosi una mano sotto il mento. «Lui ha la stessa età di mio fratello, di conseguenza, anche se ha bocciato, avrebbe dovuto finire le scuole un anno fa.»
«Ha perso un anno a causa dell’incidente.»
«Incidente?»
Red le rivolse uno sguardo stranito. Tutti erano a conoscenza dell’incidente di Patrick Hennig, era una sorta di leggenda ad Harpool Bay; come quella del ragazzo morto alla gola. La classica storia che si racconta ai bambini per dare man forte ad un isegnamento che si vuole infondere loro. Possibile che il padre di Lea non gliene avesse mai parlato?
«Ha avuto un incidente d’auto e suo fratello minore è morto sul colpo, circa quattro anni fa. Da quel giorno ha preso un giro strano, si vedeva poco in giro e quando lo si vedeva era fatto o collassato in qualche vicolo. E’ stato in comunità per parecchio tempo…»
«E’ uno stronzo. A guardarlo non lo diresti mai che è qualcuno che ha sofferto così tanto.»
«Già, è per questo che ti insegnano a non giudicare mai dalle apparenze.»

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 - Mi piaci tu. ***


Lea non era mai stato un topo di biblioteca. Per quanto le piacesse leggere, aveva sempre preferito l'intimità di un Book Bar, o quella della sua della sua stanza, all'austera rigidità di una libreria; ma Harpool Bay non era New York, non aveva Book Bar, la sua casa era costantemente affollata e, di conseguenza, la biblioteca scolastica era la sua unica possibilità per leggere qualcosa in santa pace.
Dopo aver litigato, almeno mezz'ora, con la bibliotecaria su quale dei capolavori di Jane Austen fosse il migliore, Lea aveva afferrato la sua copia di 'Orgoglio e Pregiudizio' ed era andata a cercarsi un posto a sedere.

Generalmente i romanzi storici non rientravano mai tra le sue prime scelte, dal mometo che preferiva generi più contemporanei, ma, volente o nolente, doveva ammettere che l'opera della Austen era decisamente valida e, in modo più che sorprendente, rientrava tra i suoi libri preferiti, motivo per cui non aveva né sbuffato né si era lamentata quando il suo professore di Letteratura aveva deciso di introdurli al Preromanticismo, chiedendo loro di leggere e commentare uno dei libri del maggior esponente di quella corrente.
''
Elizabeth, che s'era piuttosto aspettata di ferirlo, rimase meravigliata della sua galanteria; ma v'era in lei un misto di dolcezza e birichineria che le rendeva difficile offendere la gente; e Darcy non era stato mai tanto affascinato da una donna quanto si sentiva ora affascinato da Elizabeth.''
Lea si lasciò scappare un sospiro sognante.
Poteva quasi immaginarsi con l'aria trasognata e gli occhi a cuoricino. Chiunque, da fuori, l'avrebbe, probabilmente, scambiata per una ragazza innamorata.

«Non smetterò mai di chiedermi che cosa ci trovino le donne in un tipo come Mr. Darcy!» Esclamò una voce maschile, distraendola dalla sua lettura.
La giovane rizzò immediatamente il capo, guardandosi per un breve istante attorno, volendosi accertare stesse davvero parlando con lei, poi sorrise.
«Fitzwilliam Darcy è il prototipo di uomo perfetto!» Che cosa c'era da capire?

Il ragazzo che le si stagliava davanti, senza neanche aspettare un invito, prese posto sulla sedia libera al suo fianco. 
Non sembrava uno studente di quella scuola, anzi aveva tutta l'aria di essere più grande, persino più grande di Isaac, forse. Era carino ed il suo sorriso era luminoso, ma non aveva le fossette, e a Lea le fossette piacevano; non quelle troppo evidenti, come le sue, ma quelle piccole, poco accennate, come quelle del giovane Hall... Okay, stava divagando.

«Un arrogante asociale?»
«Mr. Darcy non è un arrogante asociale.» Mormorò la ragazza, alzando gli occhi al cielo, ma non potendo reprimere un sorrisetto divertito. «E' un uomo leale, che non si preoccupa di apparire simpatico per forza. Non è narcisista o iprocrita e preferisce aspettare di essere sicuro di avere di sentimenti prima di dichiararsi. E tutto ciò che una donna vorrebbe nell'uomo al suo fianco.»
«E che mi dici della sua alterigia?»
«E' semplice disagio. In realtà è un uomo onesto e generoso.»
«Qualsiasi cosa dirò continuerai a difenderlo?»
«Puoi scommetterci.»
«Hey, voi due. Siamo in una biblioteca, non in piazza.» Tuonò la bibliotecaria, fulminandoli con lo sguardo.
Qualcuno doveva assolutamente spiegare a quella donna che stava urlando anche lei...
Con un sospiro, Lea, tornò a fissare lo sguardo sul libro davanti a se, sperando di riuscire a distrarre la mente dalla terribile cena che a cui avrebbe dovuto partecipare quella sera. Suo padre aveva invitato Marìa Elèna e la figlia a cena, la cosa la deprimeva...
«Vedo che la vecchia Doris è ancora ligia alle regole.» Mormorò in uno sbuffo il giovane al suo fianco, aprendo la sua copia di It. «Sono Manuel, comunque.»
«Lea.»



Alla fine lei e Manuel erano rimasti insieme per tutto il pomeriggio e le loro letture erano rimaste incomplete. 
Avevano parlato a lungo del più e del meno, si erano conosciuti meglio e la giovane si era stupita di quanto in realtàlui fosse stato capace di metterla completamente a suo agio in così poco tempo. Le aveva rivelato di star studiando al quarto anno di università, a Stanford, ma di essere in realtà originario di Harpool Bay ed di essere tornato in città per il compleanno del padre, uno dei professori della HB High School. Dal canto suo non si era sbottonata molto ma aveva parlato di quelle due o tre cose basi che servivano per gettare le basi di un'amicizia; la morte di suo fratello, il divorzio dei genitori, l'istituto a Philadelphia. 
In sostanza, aveva ripercorso con Manuel tutti i piccoli passi compiuti dal suo arrivo in città.
Quando la scuola aveva suonato l'orario di chiusura aveva persino permesso che la riaccompagansse a casa.

«Quindi il tuo sogno è quello di frequentare NYU?» Domandò il ragazzo, accostando davanti al vialetto della sua ''villetta'' color talpa.
Lea si strinse nelle spalle, mordendosi l'interno guancia per soffocare un sorriso. «Si, ma in realtà non so neanche se andrò al college.»
«Come mai?»
«Diciamo che la vita continua a mettersi in mezzo.»
«Non puoi incuriosismi e poi rispondermi a metà.»
«Se ti dicessi il motivo preciso, poi, dovrei ucciderti.»
«Ne varrebbe la pena.»

Scoppiarono entrambi a ridere e la giovane, quasi, si ritrovò a pensare che era bellissimo starsene lì, in quell'auto, con quel ragazzo, quando il tempo sembrava fermarsi.
Peccato che tutte le cose belle dovessero arrivare ad una fine. 
Con un sospiro poggiò una mano contro la maniglia. 
«Grazie per la bella giornata, Manuel.»
Manuel sorrise a sua volte, sbloccando la portiera. «Grazie a te per avermi fatto cambiare idea su Mr. Darcy e se mai dovessi cambiare idea e voler venire a Stanford ricordati di farmelo sapere.»
Annuì con decisione e, con non poco sforzo, scese dall'auto, salutando il giovane dal vialetto. Solo quando lo vide svoltare alla fine della strada, si decise a voltarsi e dirigersi verso casa. 
L'auto di Marìa Elèna era parcheggiata davanti al garage e, dalla finestre aperte, poteva sentire suo padre ridere e scherzare. Non ricordava con certezza quando fosse stata l'ultima volta, un strano moto dilagò dentro di lei, all'altezza dello stomaco.
Non si fidava di quella donna, temeva fosse solamente una delle tante arrampicatrici sociali che giravano attorno a suo padre, ma non poteva non ammettere che vederlo così felice la rendesse estremamente felice. Peter Wilson se lo meritava.
«Chi era quello?» Domandò Isaac, facendola sobbalzare pericolosamente.
Lea si aggrappò alla ringhiera della veranda, portando poi una mano all'altezza del ventre. Cristo santo, l'aveva spaventata a morte.
Perché doveva apparire dal nulla? Non poteva salutare e, che ne so, fingere di essere interessato alla sua vita come qualsiasi altra persona normale?
«Mi hai spaventata.» Lo rimproverò, avvicinandosi al divisorio bianco.
«Scusa.» Mormorò in risposta il giovane, mordendo una mela. «Chi era quello?»
Se non lo avesse conosciuto abbastanza bene, avrebbe giurato di aver sentito una punta di gelosia nella sua voce. Scacciò quel pensiero con uno scossone della testa. Era ridicolo anche solo immaginare una cosa del genere.
«Manuel Gallagher.»
«Il figlio del professore di Storia Americana? Credevo se ne fosse andato anni fa...»
«E' tornato per il complenno del padre.»
«Non mi piace.»
«A te non piace nessuno.»
«Mi piaci tu.»
Il suo cuore perse un battito e le sue gote si colorarono di un delizioso colore rossastro. Distolse lo sguardo, rimgraziando le luci del tramonto che, almeno un po', stavano mascherando la cosa.
Non sapeva perché, ma, sebbene sapesse che si trattava solamente di un contesto di amicizia, la cosa le provocava strane sensazioni. Sarà che non era abituata al lato di Isaac che diceva le cose senza filtri, esattamente come le pensava, o forse sarà stata la stanchezza, ma giurò di aver sentito lo stomaco farle una capriola. Si morse il labbro inferiore, puntando gli occhi in quelli del giovane.
Un sorriso le pizzicava le labbra.
«Vieni a cena da noi?» Domandò, nel tentativo di cambiare discorso. «Non credo di poter sopportare una cena del genere da sola.»
Il ragazzo scosse il capo, indicando con un cenno del mento l'abitazione alle sue spalle. «Devo gestire dei parenti serpenti, stasera.»
Da quando il resto della famiglia Hall era venuta a conoscenza del suo piano di mettere suo padre in comunità, tutti i parenti che, fino a quel momento si erano del tutto fregati di lui e della sua esistenza, avevano deciso di voler venire in suo aiuto, proponendosi anche di restare fin quando Isaac non avrebbe compiuto ventunanni o Norman Hall fosse tornato a casa. La cosa lo disgustava. 
«Chiama se hai bisogno di una mano...»
«Certo. A proposito, tieni il telefono a portata di mano, potrei aver bisogno di una fidanzata incinta.»
«Cosa?»
«Ti spiego un'altra volta.»


«Quindi siamo rimaste solamente io e te.» Esclamò Lea, portandosi alla bocca l'ultima fetta di crostata ai lamponi.
Carmensa, al suo fianco, le rivolse uno sguardo truce, aggiustandosi a sedere sul divano. «Vedi qualcun altro qui?»
La cena, tutto sommato, era piuttosto bene se si escludeva il momento in cui la neo coppia aveva deciso di dare alle figlie il colpo di grazia: in meno di un mese sarebbero diventati tutti parte di una grande famiglia felice.
Marìa Elèna e la figlia Carmensa, o Carmen, come le piaceva farsi chiamare, si sarebbero trasferite a casa Wilson. Il motivo del perché così presto sarebbe stato riferito loro più avanti, quando la situazione in casa si sarebbe stabilizzata; il che significava mai. 
Lei non poteva sopportare che delle estranee entrassero nella sua vita e nella sua casa, mentre la bambina al suo fianco non voleva ancora accettere che qualcuno potesse prendere il posto di suo padre nella vita della madre. Le due motivazione messe insieme avrebbero creato il disagio generale, ricreando, per lei, una sorta di New York 2.
«Guarda che non devi essere così sgarbata.» La rimbeccò la giovane, trucidandola con lo sguardo. «Era solamente per fare conversazione.»
«Non fingere che questa storia non dia fastidio anche a te.»
«Non sto fingendo nulla. Sono assolutamente contraria a questa cosa, così come lo sei tu.»
«Io non voglio essere tua sorella.» Piagnucolò la ragazzina, tirando su con il naso. «I miei amici mi prenderebbero in giro se sapessero che sono imparentata con una come te.»
Lea alzò immediatamente il capo, con la bocca spalancata.
Una come lei? Che cosa voleva dire? Ma soprattutto: perché avrebbero dovuto prenderla in giro per essere imparentata con lei? 
Insomma, non sarà stata la faccia della bellezza ma era una bella ragazza, interessante ed intelligente. 
...Perché doveva arrivare quella bambina, di soli otto anni, e far vacillare tutte le sue convinzioni?
«Una come me?» Domandò, inarcando le sopracciglia. «Una come me, come?»
Carmensa le rivolse uno sguardo carico di compassione. «Non vuoi saperlo.»
«E invece si, voglio saperlo.»
«Va bene, ma non volermene.» Si umettò le labbra. «Sei sciatta, piatta e noiosa. Preferirei morire piuttosto che restare chiusa in una stanza con te.»
«Sei chiusa in una stanza con me.»
«Secondo te perché ho mangiato tutto quel pesce a cena? Speravo di ritrovare una resta abbastanza grande da uccidermi.»
Okay, forse avrebbe preferito non sapere.
In genere cosa pensava la gente di lei non le interessava, ma i bambini erano la bocca della verità, quindi...
«Tu non mi piaci, sappilo.» Mormorò tra i denti la giovane, portando le braccia conserte sotto i seni.
«Sai che me ne frega...» Replicò l'altra.
No, quella non sarebbe stata la prima di una lunga serie di serate tra sorelle.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 - Sei sotto un treno. ***


«Te lo ricordi Manuel Gallagher?» Domandò Isaac, prendendo posto ad uno degli sgabelli sotto il bancone.
Nina, intenta a pulire i bicchieri del Roy's, si voltò con il busto verso l'amico, rivolgendogli uno sguardo confuso. «Intendi il Manuel Gallagher che si prese una cotta per me durante l'ultimo semestre al liceo?»
«Conosci qualcun altro con questo nome?»
La giovane si strinse nelle spalle, tornando a ripulire le attrezzature. «Certo che me lo ricordo.»
Manuel era stato il suo primo vero amico, quando, da Glenpool, si era trasferita ad Harpool Bay. Quando la loro amicizia si era interrotta perché il ragazzo desiderava da lei qualcosa che, però, non poteva dargli, il cuore di Nina si era spezzato.
«E' tornato in città, sai?»
«La cosa ti interessa?»
«Mi interessa sapere solo che tipo è.» Mormorò Isaac, allungandosi verso il bancone di mescita per appropriarsi di una bottiglia di soda. La mora ci poggiò sopra un paio di bicchieri qualche istante dopo, come di consueto.
Nina conosceva benissimo l'avversione del ragazzo verso l'alcool e del suo istinto da crocerossina nei confronti di chi ne faceva uso, quindi, in sua presenza evitava, ed in ultimo, ma non per importanza, era ancora in servizio. Poco importava se il locale era deserto, non aveva ancora finito il suo turno.
«E' un tipo a posto, Isaac. Probabilmente una delle persone migliori che io abbia mai conosciuto da quando sono qui.» 
Potevano passare gli anni ma ne sarebbe rimasta convinta per sempre.
Manuel aveva scavato dentro di lei con gentilezza e l'aveva tirata fuori da quel guscio che si era costruita attorno. La sua presenza era stata importantissima, quando Nina, reduce dall'ennesima delusione della vita, aveva persino pensato che forse il mondo sarebbe stato un posto migliore senza di lei.
Manuel l'aveva salvata come Isaac stava salvando Lea.
«Perché questa domanda?» Mormorò scuotendo il capo e stringendo gli occhi. Odiava le bibite gassate, le bollicine le arrivavano al cervello...
Isaac si strinse nelle spalle, portandosi una mano davanti alla bocca e distogliendo lo sguardo. «Così.»
Se cercava stava cercando di nascondere qualcosa, beh, non ci stava riuscendo. Nina era brava in certe cose, gli avrebbe fatto vuotare il sacco in un modo o nell'altro.
Sperò, però, vivamente che decidesse di lasciar stare.
«Si tratta di Lea, vero?» Aveva un sorrisetto sornione dipinto sul volto e ad Isaac quel sorriso dava l'orticaria. Era il sorriso di chi pensava di saperla lunga. 
«Non farti strane idee, sono solo preoccupato che possa farsi male.» Mugugnò, senza però riportare lo sguardo su di lei.
«DIO MIO!» Esclamò la giovane, portandosi i palmi delle mani alle tempie. «TI PIACE.»
«MA SEI IMPAZZITA?» Replicò, balzando immediatamente in piedi. «Ma che diavolo vai a pensare, Nina.»
Ci mancava solo che si prendesse una cotta per la piccola Wilson, come se non avesse già abbastanza problemi in vita sua.
Il suo era semplice senso di protezione. Si era preso cura di lei fino a quel momento, perché avrebbe dovuto smettere adesso?
«Sei sotto un treno.»
«Smettila!» Ringhiò il ragazzo, assottigliando lo sguardo. «Se ti sentisse qualcuno potrebbe persino crederci.»
«Ma a chi vuoi darla a bere? Non esci con una ragazza da mesi.»
«Magari non ne ho voglia?»
Nina inarcò un sopracciglio verso l'alto. 
Non sarà stata una grande esperta in situazioni di cuore, ma non era certo stupida; Isaac poteva negare quanto voleva, prima o poi se ne sarebbe reso conto anche lui. Probabilmente gli serviva solo qualche tempo in più per ammettere a se stesso che aveva perso la testa per la ragazzina che si era sempre divertito a tormentare. 
«Tu perché sei qui? Credevo il tuo turno finisse due ore fa.» Esclamò di punto in bianco, deciso a cambiare discorso.
Non aveva nessuna intenzione di lasciarsi psicanalizzare. Sapeva cosa provava per Lea e non era nulla che andasse oltre una semplice amicizia...
Nina si rabbuiò e tornò a ripulire i bicchieri.
Si strinse nelle spalle. 
«Mio fratello è a casa con una certa rossa ed io non me la sento di stare lì a fare il terzo incomodo.»
«Roselyn Elizabeth Davis e Philip Carson?» Domandò Isaac, non riuscendo a trattenere un'espressione di puro stupore. «Ma ci saranno dodici anni di differenza.»
«Dieci.» Rispose atona, la ragazza.
Rimase in silenzio. 
Sapeva benissimo cosa si provasse ad essere innamorati di qualcuno e non essere corrisposti, proprio per questo non si sentiva di rivolgerle frasi di circostanza. Era l'averlo provato ad avergli insegnato quanto il silenzio fosse ben più apprezzato in momenti come quelli. 
«Siamo dei casi umani, Nina Carson!» Mormorò il giovane, mantenendo lo sguardo fisso sulla soda rimasta sul fondo del suo bicchiere. «Sarà per questo che siamo migliori amici.»
Nina si voltò, un piccolo sorriso le curvava le labbra screpolate verso l'alto. «Non me l'avevi detto mai.»

Alla, fine, tra una chiacchiera e l'altra era rimasto l'intera nottata seduto sul molo, a parlare con Nina. 
Non lo faceva da un po', tanto che aveva quasi dimenticato il senso di liberazione e leggerezza che si proava nell'esprimere ad alta voce, tutti quei pensieri che ti affollano la testa. 
Se ne era andato solamente quando aveva visto il sole sorgere, donando alle acque del pacifico sfumature violette ed arancioni. 
Al suo ritorno, era oramai mattino inoltrato e Manuel e Lea erano sul vialetto.
Il ragazzo si stava lamentando di un qualche teppistello annoiato che si era divertito a rigare le fiancate della sua auto.
Isaac fissò, per un breve istante, il mazzo di chiavi che teneva ancora stretto tra le mani e, con un sorrisetto beffardo dipinto sul viso, entrò in casa.

12 Ottobre, 2016 - Harpool Bay.

I primi di ottobre, Marìa Elèna e Carmensa erano entrate a far parte, a tutti gli effetti, della famiglia Wilson. 
In seguito ad un matrimonio lampo e ad un altrettanto fulmineo trasferimento, Lea si era ritrovata casa invasa da quelli che per lei erano estranei. 
Non si era lamentata, non aveva dimostrato quanto in realtà la giovane sorellina e la neo matrigna le stessero sullo stomaco e tanto meno quanto quella situazione la stressasse. In più lei, come se non fosse abbastanza, ed Isaac si erano visti sempre meno durante quel periodo, entrambi troppo presi dal casino che stavano diventando le loro vite.
La cosa era deprimente.
A Lea mancava, tentava di pensare ad altro ed altri, ma le mancava.
Fortunatamente nelle ultime due settimane c'era stato Manuel a tenerle compagnia ed aiutarla a distrarsi, ma adesso che lui era tornato a Santa Monica, sorvolare sulla cosa sarebbe stato decisamente più difficile.
Era ciò che stava spiegando a Red al telefono, prima che Carmensa, quel diavolo dalle forme di bambina, piombasse nella sua stanza come una furia.
«Tuo padre ha detto che devi andare a ritirare la posta.» Esclamò con aria saccente, incrociando le braccia al petto.
Lo faceva spesso quando voleva avere l'aria autoritaria, il che le riusciva anche abbastanza bene. Lea la odiava per questo.
«Non puoi andare tu? Io sono al telefono.» Esclamò la giovane, con aria annoiata, stringendo il cellulare al petto.
«E' troppo lontano ed io sono una bambina.»
«Solo quando ti pare e poi è il quartiere parallelo a questo. Ti basterebbe scavalcare nel giardino dei Keller.»
«Sei forse stupida? Ho detto che sono una bambina e non posso.»
Lea prese un profondo respiro, contò fino a dieci, poi scese dal letto. 
Carmensa aveva il potere di irritarla come mai nessuno prima d'ora. Una volta l'aveva persino sculacciata e la vipera era corsa da suo padre, costringendola ad una settimana di punizione (il fatto che non avesse scontato la sua pena, alla fine, però, era un'altra storia!). Aveva quindi imparato che con lei l'arma migliore era l'indifferenza.
Salutò frettolosamente Red e si chiuse la porta della stanza alle spalle.
Era l'unico modo per evitare che quel demonio si appropriasse della sua stanza durante la sua assenza. Ci aveva provato; una volta, al ritorno da scuola, aveva trovato i suoi vestiti accatastati nel pianerottolo. Sarebbe bastata una sola ora in più e sarebbe stata cacciata dalla sua stessa camera.
Dannato Isaac e quel suo sorrisetto sghembo che aveva fatto perdere la testa a Carmensa, dannato anche quel maledetto postino che continuava a recapitare la loro posta alla vecchia casa della nuova compagna del padre.
«Torno fra un po'!» Esclamò, uscendo di casa.
Aveva una strana sensazione, come un nodo allo stomaco. Il cielo plumbeo rifletteva in tutto e per tutto il suo stato d'animo.
Non sapeva di cosa si trattasse esattamente, ma da quando si era svegliata quella mattina, aveva avuto la terribile sensazione che qualche terribile disgrazia si stesse per abbattere contro di lei.
Aveva giustificato il tutto, pensando che, probabilmente, era colpa sua, che non era abituata a vedere andare tutto bene, ma infondo infondo sapeva benissimo che non era affatto così.
Casa Torres non distava troppo dalla sua, come aveva detto prima a Carmensa, non era altro che il quartiere parallelo. Era una villetta azzurra dalle imposte bianche, completamente in legno. A Lea ricordava la baita di suo nonno Richard in cui festeggiava il Natale quando era bambina.
L'asta rossa della casella postale era alzata. 
Si avvicinò e ne estrasse le sette lettere all'interno. Erano tutte indirizzate a Marìa Elèna, fatta eccezione per due. Una bolletta della luce ed una busta che era stata spedita dall'ospedale.
Sapeva di non doverla aprire, dal momento che erano fatti di suo padre, ma il timbro rosso con su scritto ''Ultimo avviso'', aveva risvegliato in lei una curiosità che non sentiva da mesi.
L'ultimo avviso era riferito ad una visita che suo padre aveva fatto qualche mese prima e che non era stata pagata. 
Tra la marea di termini che non capiva, Lea riconobbe un termine che le fece gelare il sangue.
Le lacrime le inondarono gli occhi ed un conato di vomito le salì su per la gola. Strinse forte gli occhi, sperando che si trattasse solamente di un brutto sogno.
Non era disposta a perdere suo padre. Non adesso che lo aveva finalmente ritrovato.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 - Non posso farlo. ***


Lea fece appena in tempo a rietntrare in casa prima di ritrovarsi piegata sul water a vomitare.
Era sconvolta.
La malattia di suo padre era stata come un fulmine a ciel sereno, o almeno lo era stato per lei.
Improvvisamente tutti i tasselli di quel terribile mosaico stavano tornando al loro posto; la costante pallidità e spossatezza di suo padre, gli edemi sul viso e sulle braccia sempre più frequenti, la pedita di peso...
Vomitò di nuovo, vomitò fin quando, all'interno del suo corpo non rimasero che i succhi gastrici.
Scivolò di lato, aggiustandosi a sedere, prima di tirare lo scarico.
Aveva dolore dappertutto, ma non era un dolore fisico; era come se qualcosa dentro di lei si fosse spezzato e le provocasse delle enormi fitte, talmente forti da intontirla, da renderla incapace di capirne il punto d'origine.
Nascose il viso tra le ginocchia, permettendolo, alle lacrime che aveva respinto fin ora, di scendere.
Marìa Elèna aveva capito da subito che qualcosa non andava.
Lea non si era mai comportata così; sebbene fosse chiaro a tutti che la sua presenza non le andasse poi così tanto a genio, si era sempre premurata di dimostrarsi gentile e disponibile, era quindi estremamente strano che passasse come una furia, senza neanche fermarsi a salutare. Che involontariamente le avesse fatto qualcosa che non le era andato a genio?
Le bastò dare un veloce sguardo alla posta, gettata alla rinfusa sul tavolinetto da fumo in salotto, per capire quale fosse in realtà il vero problema.
Chiuse gli occhi, scuotendo il capo.
Sapeva bene che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma aveva sempre immaginato se ne sarebbe occupato Peter. 
Sospirò mestamente, bussando alla porta ed affacciandosi subito dopo. 

«Possiamo parlare?» Domandò la donna, chiudendosi la porta alle spalle.
Lea tirò su con il naso, cercando di contenere i singhiozzi. Per qualche strano motivo non voleva mostrarsi debole e sofferente davanti a lei. «Vattene, voglio stare da sola.»
«Mi spiace, ma questo non posso farlo.» Replicò l'altra, prendendo posto accanto alla giovane. La puzza di vomito sembrava aver impregnato anche i muri, ma non era esattamente quello il momento di lamentarsi. «So che in questo momento ti senti a pezzi, ma restare sola... chiudersi a riccio non è la soluzione!»
La ragazza alzò il capo, rivolgendo alla donna uno sguardo fulminante. «Ti sbagli!» Esclamò con una freddezza glaciale. «Non hai idea di come mi sento. Non è tuo padre che sta morendo.»
«Ma è mio marito.»
«Non fingere che non aspettassi altro.»
Lo schiaffò che le colpì in pieno la guacia la fece saltare bruscamente all'indietro. 
Lea si portò una mano al viso, sentendo la pelle arrossarsi sotto le sue dita. Gli occhi sgranati e la bocca spalancata erano puntati contro il viso della matrigna che, adesso, aveva perso tutta la dolcezza che aveva pochi istanti prima. 
«Non mancarmi di rispetto, Signorina, non sono una tua amica.» Tuonò la donna. «Non hai idea di chi io sia o di cosa ci sia tra me e tuo padre, sei solo una ragazzina arrabbiata che si diverte a sputare sentenze.»

Dal trasferimento non avevano mai passato troppo tempo insieme, la giovane non aveva mai voluto, ma era sicura di non aver mai visto la matrigna arrabbiata, nemmeno quando Carmensa superava il limite della sopportazione.
Abbassò il capo, sentendosi colpita sul vivo.
Era vero, non la conosceva e non conosceva le basi della relazione tra lei e suo padre, aveva semplicemente costruito delle teorie su fondamenta che non stavano neanche in piedi.
Il senso di colpa la invase.

«Spiegamelo, allora.» Mormorò piano, evitando di incrociare il suo sguardo.
«Aiuterebbe a riscattare l'immagine che hai di me?»
«Forse.»
Marìa Elèna fissò la giovane ancora qualche istante. Era sul procinto di scusarsi, ma non lo fece. Anche se non lo avrebbe ammesso, le parole della ragazza l'avevano ferita, profondamente. Ci teneva davvero a mettere su una famiglia ad essere felice, ma come poteva farlo se chiunque dubitava dei suoi sentimenti? 

Si umettò le labbra, prese un profondo respiro, poi parlò.
«Ho conosciuto tuo padre i primi di Marzo poiché il postino continuava a recapitare la vostra posta a casa mia.
Per i primi due mesi le nostre interazioni si sono limitate a questo e qualche caffé quando ci incontravamo in giro per la città, niente di più. Poi una sera ha bussato alla porta di casa mia con un mazzo di fiori e una bottiglia di vino. Stava per rivedere sua figlia per la prima volta in quasi dieci anni. Voleva festeggiare ma non voleva farlo da solo.
Non ho idea di come abbia fatto ad innamorarmi di lui, ma è successo. Un mattino mi sono svegliata e mi sono resa conto che non ero mai stata così felice di ricevere bollette che non erano mie.
Ho vissuto con lui uno dei periodi più belli della mia vita e quando, a fine agosto, mi ha regalato quest'anello, ho camminato ad un metro da terra per giorni.
Qualche settimana dopo è venuto da me, aveva addosso un bel vestito ed un sorriso radioso, ma era strano, non era il mio Peter. Mi ha presa per mano e mi ha detto: ''Sposiamoci, oggi, io e te. Creiamo insieme la nostra famiglia''. Quando mi ha rivelato della malattia, qualche istante dopo, ho rifiutato. Gli dissi di chiedermelo quando sarebbe guarito, per il momento avrebbe dovuto accontentarsi della mia presenza come fidanzata. Volevo che avesse qualcosa in più per cui lottare, che lo costringesse ad attaccarsi alla vita con le unghie e con i denti, ma lui mi ha risposto che non me lo stava chiedendo per me o per se stesso, ma per qualcuno di ancora più importante...»

Aveva ascoltato il racconto in silenzio, assorta, e adesso si ritrovava con la gola secca. «Chi?» Mormorò, asciugando con il palmo alcune lacrime.
«Per te.» Concluse la donna.
Lea chiuse gli occhi, sbattendo il capo contro il muro alle sue spalle. Adesso tornava tutto, si sentiva così tremendamente stupida.
«Lo ha fatto perché non dovessi tornare a New York.» Sussurrò, portandosi le mani al viso. «Ho diciotto anni. Posso scegliere con quale dei miei genitori preferisco restare. Se lui fosse morto, lasciando ad Harpool Bay un tutore riconosciuto dalla legge sarei potuta restare ugualmente. Dio che deficente.»
Marìa Elèna annuì semplicemente, le sembrava stupido replicare altro.
Si alzò in piedi, diretta alla porta.
La ragazza adesso aveva solamente bisogno di fermarsi a pensare. Aveva scoperto fin troppi altarini per la giornata, poteva immaginare quanto ciò la rendesse esausta.
Sorprendentemente fu la voce di Lea a bloccarla sulla soglia.
«Pensi che potrai mai perdonarmi? Per come ti ha trattata e per quello che ho detto...»
La donna sorrise piano, restando di spalle. «Sono una mamma...» Mormorò. «...Ti ho già perdonata.»


Per i giorni succesivi, la giovane uscì dalla sua stanza solo per raggiugere il bagno.
Marìa Elèna le aveva permesso di restare a casa da scuola, giustificando la cosa con suo padre come una terribile influenza. Per quanto riguardava l'uomo non gli parlava dal giorno in cui aveva scoperto della sua malattia. Non se la sentiva di affrontarlo, non ancora. Se lo avesse fatto l'avrebbe reso reale e Lea voleva sperare, ancora per un po', che si trattasse solo di un brutto sogno.
Aveva ignorato anche tutti i suoi amici. 
Aveva smesso di rispondere ai messaggi e alle chiamate di tutti, limitandosi a starsene seduta sul letto, in posizione fetale, mentre le tapparelle abbassate le evitavano qualsiasi interazione con il mondo.
Dentro di se, non provava che odio.
Odio per suo padre che aveva deciso di escluderla, per se stessa che non era capace di reagire davanti ad un ostacolo tanto grande e odio per la vita che non faceva altro che metterla davanti a sfide sempre più grandi di lei.
Il cellulare sul comodino prese ad intonare le note di ''Where is the love'', svegliandola dal suo sonno.
Non aveva fatto altro per tutta la settimana...
Con un sospiro, allungò svogliatamente la mano fuori dalle coperte, afferrando il telefono. Sullo schermo spiccava una sua foto sulla spalle di Isaac, sorridevano entrambi e Lea si ritrovò a pensare che, al momento, quei giorni le sembravano così lontani.
Bloccò lo schermo, mettendo fine alla chiamata.
Erano le tre del mattino, anche se fosse stata una nottata normale non gli avrebbe risposto. Si voltò dall'altro lato, dando le spalle alla finestra.
«Lea Marie Wilson smettila di ignorare le mie chiamate, so che non sei morta.» Tuonò a gran voce il ragazzo.
Lea sobbalzò pericolosamente, portandosi una mano al petto. Prima o poi le sarebbe venuto un infarto, se lo aspettava. «Vattene via e non urlare, solo perché tu soffri di insonnia non significa che agli altri non preferiscano dormire.»
«Non avrei urlato se non avessi rifiutato tutte le mie chiamate.»
«Ti è venuto in mente che magari non avevo voglia di sentirti?»
«Impossibile! Chi non ha voglia di sentirmi?»
«Io!» Brontolò Lea. «Adesso vattene.»
L'unica persona che voleva realmente vedere era suo fratello, ma lui, per quanto avrebbe voluto, le aveva espressamente detto che, almeno per il momento, non poteva assentarsi dal lavoro ma che sarebbe tornato in città il prima possibile.
«Mi spiace ma questo non posso farlo.»
Lea si alzò dal letto come una furia ed alzò le tapparelle solo per il gusto di spintonarlo all'indietro.
Era furiosa e non perché l'avesse svegliata a quell'ora o per qualsiasi altra cosa, ma perché la situazione era stancante e stressante. 
«Perché non potete nessuno?» Domandò, spingerlo nuovamente. «Perché nessuno mi lascia mai sola? Marìa Elèna, mio padre, Carmensa, Red, Nina e adesso tu. Che cosa diavolo volete tutti quanti da me?»
Isaac la fissò intensamente, riconoscendo in lei parte della rabbia che aveva caratterizzato il periodo più buio della sua vita.
«Vogliamo farti stare meglio!»
«Io non voglio stare meglio, voglio solo stare sola.»
«Stare sola non migliorerà le cose...» Sussurrò.
Quella situazione rendeva l'aggressività del tutto normale ma non era qualcosa che voleva vedere in Lea. Quelle sensazioni potevano portarti alla deriva e tornare indietro era impossibile.
«Perché sembrate capire la situazione tutti meglio di me? Continuate a ripetere che stare sola non mi aiuterà, ma cos'altro dovrei fare? Uscire, fingere che vada tutto bene, tornare a casa e continuare a fingere che questa storia non mi stia provocando un'ulcera?»
«Anche restare chiusa nella tua stanza a piangerti addosso ti provocherà un'ulcera.»
«Allora cosa vuoi che faccia?» Domandò, sbattendo i pugni contro il suo petto. Voleva piangere, ma aveva pianto talmente tanto nelle ultime settimane da non avere più lacrime. «Dimmelo tu, perché, sinceramente, io non lo so. Non riesco a vedere una via d'uscita.»
Le braccia del ragazzo si strinsero attorno alle sue spalle, spingendola contro il suo torace. 
Starsene tra le sue braccia aveva un qualcosa di estremamente rassicurante, ma non era comunque abbastanza. 
Aveva paura di perdere suo padre, di doversi svegliare al mattino e rendersi conto che lui non ci sarebbe più stato. 
Prese un profondo respiro e chiuse gli occhi, tentando di calmare il battito del suo cuore e l'andamento ansante del suo respiro.
Odiava urlargli contro, ma farlo era anche l'unico modo che aveva per riuscire ad aprirsi del tutto con lui. Era come se non fosse capace di essere del tutto sincera con lui, se non quando litigavano.
«Dovresti smettere di pensarci.» Sussurrò il ragazzo al suo orecchio, lasciandole poi un tenero bacio sulla tempia.
«Come posso farlo? E' costantemente al centro dei miei pensieri.»
«Fatti una doccia e raggiungimi di sotto. Stanotte ho intenzione di insegnarti a smettere di pensare.»

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 - Hai prove per sostenere la tua tesi? ***


«Perché siamo fermi davanti ad un Luna Park?» Domandò Lea, aggrottando la fronte.
Isaac non aveva voluto rivelarle niente su cosa avrebbe fatto per aiutarla a non pensare, si era limitato a bloccare la portiera dell'auto ed alzare il volume della radio ad un livello tale che la giovane aveva faticato, per tutto il viaggio, a sentire persino i suoi stessi pensieri.
Il ragazzo le sorrise, passandosi la lingua sul labbro superiore. «Non è un semplice Luna Park. E' il Pacific Park.»

«Scusami, riformulo. Perché siamo fermi davanti al Pacific Park?»
«Scendi.»
Con un sonoro sbuffo ed estrema titubanza, scese dall'auto e per poco non cadde quando i suoi piedi non toccarono la superficie livellata dell'asfalto ma quella usurata del molo di Santa Monica.
Rivolse uno sguardo truce al giovane, che mal soffocava una risata. Già si era pentita di aver acconsentito a quella follia.
In realtà, volendo essere sinceri, quando aveva visto Isaac calarsi nel giardino, grazie alle fronde del pesco tra le due proprietà, aveva quasi preso in considerazione l'idea di chiudere nuovamente le tapparelle e tornare ad ignorare il mondo intero. Ma poi si era resa conto di quanto in realtà fosse stanca di quel suo modo di fare; stanca di lasciarsi scivolare le situazioni addosso senza reagire. Era stata allora che si era convinta a racimolare la sua roba e rinchiudersi nel bagno al piano di sotto per una bella e rigenerante doccia.
Aveva incominciato a pentirsene nel momento in cui la Jeep nera aveva imboccato l'autostrada...
«Cosa pensi di fare esattamente? E' chiuso, se non lo avessi notato.» Puntualizzò la ragazza, stringendosi nella felpa rossa.
L'aria era pungente quella sera e la brezza trasportata dalle onde del mare non l'aiutava particolarmente; aveva ancora ai capelli bagnati ed il mattino seguente si sarebbe sicuramente svegliata con un bel raffreddore. Accidenti a lei e quando aveva deciso di non volersi comportare da persona per bene e non svegliare l'intero vicinato con il rumore del phon...
«Ma non mi dire.» Brontolò sarcasticamente, Isaac. «Se non me lo avessi detto tu, non me ne sarei mai accorto.»
Lea roteò gli occhi, sbuffando sonoramente. Ultimamente tendeva spesso a dimenticare quanto quel ragazzo potesse essere dannatamente irritante. «Allora cosa vuoi fare?»
«Voglio entrare.»
«Ma è chiuso!»
«La cosa non mi ha mai fermato.»
«La cosa non avrà fermato te, ma io non ho intenzione di intrufolarmi in un Luna Park.» Esclamò perentoria la giovane, portando le braccia conserte sotto il seno. 
Poteva fare un sacco di cose, ma entrare in un parco giochi deserto, in piena notte, non se ne parlava. Chissà quanta gente stramba c'era lì dentro, in quel momento, e poi, soprattutto, le metteva addosso inquietudine tutto ciò che poteva essere ricollegato ai Clown in generale. Traumi infantili.
«Perché no?» Domandò Isaac, inarcando un sopracciglio verso l'alto. «Non sarai ancora traumatizzata da...»
«Si, sono ancora traumatizzata da ''It il Pagliaccio assassino''.» Confermò lei, battendo un piede a terra. «Quindi ringrazia nient'altro che te, se ho mandato in fumo i tuoi piani, Isaac.»
«Ma sono passati dodici anni ed in più era solo uno stupido scherzo.»
«Era uno stupido scherzo anche quando ho incominciato ad urlare come una pazza dentro Starbucks perché sono incappata in una veglia funebre di Clown...»
«Perché mai dovrebbero fare una veglia funebre da Starbucks?» Mormorò il giovane, corrucciando la fronte. «Anzi, no. Non rispondere. Non voglio saperlo.»
Lea si strinse nelle spalle, avviandosi nuovamente verso la macchina.
Le dispiaceva aver mandato in frantumi il suo tentativo di farla stare meglio, ma quello era uno dei suoi tanti limiti. Probabilmente uno dei pochi che non sarebbe mai riuscita a superare. Basti pensare che quando, circa tre anni prima, aveva incominciato a girare la notizia di bande di Clown Assassini attive in tutto il paese, aveva costretto Seth, ogni sera, a dormire con lei.
«Vuoi andare a casa?» Domandò Isaac, piazzandosi alle sue spalle. 
La giovane si voltò così da poterlo guardare dritto in viso. Scosse il capo.
Assolutamente no. Adesso che si era allontanata da quella casa ed aveva respirato aria ''pulita'', adesso che era lontana da tutte le preoccupazioni del mondo, no, non voleva tornare a casa. 
«E' un Linfoma.» Sussurrò Lea. «E' un tumore del sangue che colpisce i globuli bianchi. Non è particolarmente difficile curarlo, ma tende a tornare in maniera più aggressiva...»
Isaac aveva la gola un po' secca.
Tutti in paese oramai sapevano che Peter Wilson era malato. Tutti lo sospettavano da un po', ma erano state le dimissioni dal lavoro che avevano confermato il tutto. Solo nessuno sapeva cosa questa malattia realmente fosse.
Dal canto suo si era sempre limitato a sperare fosse una bufala. Il signor Wilson era sempre stato come un secondo padre per lui. 
Lo aveva aiutato a rimettersi in piedi quando sua madre era morta, ad uscire da tutti i pessimi giri nei quali si era cacciato, si era preso cura di suo padre quando aveva si era lasciato convincere ad andare al college e lo aveva rimproverato quando, a malincuore, aveva deciso di tornare ad Harpool Bay.
Saperlo morente era per Isaac come una stilettata allo stomaco, come perdere un altro genitore.
«Ce la farà.» Non sapeva bene cosa replicare, tutto ciò che gli passava per la mente gli sembrava indelicato o troppo stupido.
«E se tornasse?»

«Supererà anche quello!»
«Si, ma quanti altri tumori dovrà superare prima che uno di loro me lo porti via?»
Lea aveva di nuovo le lacrime agli occhi e lo stomaco sottosopra. 
Se avesse avuto qualcosa nello stomaco, probabilmente avrebbe vomitato.
«Hey, hey!» Esclamò il ragazzo, portando le mani al viso della giovane. «Siamo qui per non pensarci. 'Fanculo il Pacific Park, guardiamo le stelle, ti va?»
La giovane annuì timidamente, prima di lasciarsi trascinare verso la fine del molo.
Una piccola barba a remi era attraccata ad uno paletti piantati sul bagnasciuga. Le onde le si infrangevano contro, creando in sottofondo un rumore secco e fastidioso, in contrasto con la quieta bellezza della notte.
Lea si stese, soffermandosi a fissare le stelle che si stagliavano sopra di lei.
Il piano ''aiutiamo Lea a non pensare'' non stava funzionando, ma aveva comunque apprezzato lo sforzo. «Cosa avevi intenzione di fare dentro l Parco Giochi?» Domandò, umettandosi le labbra.
Isaac sorrise, continuando a mantenere lo sguardo fisso sul cielo. «Ti avrei portato sulla cima della ruota panoramica.»
«Sai come far funzionare i comandi?»
«No, ma conosco qualcuno che sa farlo.»
«Immagino, quindi, che non sia la prima volta che vieni qui!» Inquisì la ragazza, combattendo il desiderio di voltarsi sul fianco. «Chi altro hai portato qui prima di me?»
Il giovane sembrò rabbuiarsi per un istante, prima di ritrovare la serenità di qualche momento prima. «Isabella Monroe.» Esclamò, lasciandosi scappare un risolino. «E' stata la mia prima vera ragazza!»
«L'unica con cui non hai avuto un rapporto di una sola notte?»
«No, l'unica di cui io sia mai stato veramente innamorato.»
Lo stomaco di Lea, fece un movimento strano, mentre sentiva le mani prudere per il fastidio. 
Quella doveva evidentemente essere un posto importante per lui, allora perché aveva voluto portarci lei? Perché proprio nel posto in cui aveva portato il suo primo amore? 
Deglutì a vuoto, mordendosi una guancia.
«Cosa è successo tra voi?» Era un desiderio masochista quello di volerne sapere di più. 
In un certo senso la figura di Isabella la affascinava. La portava a chiedersi che cosa avesse di tanto speciale quella ragazza per essere riuscita a mettere in ginocchio qualcuno come Isaac.
In tutta risposta, le rivolse un'insaccata di spalle. «Ci siamo lasciati.» Disse semplicemente. «Io ero innamorato e volevo qualcosa di più, mentre lei no. Semplice.»
«Pensi più a lei?»
«Mai. Ho altri grilli per la testa...»
Era triste il fatto che si sentisse sprizzare gioia da tutti i pori nel sentire quelle parole. Davvero triste.
Il silenzio tornò a regnare intorno a loro, per un tempo che le parve infinito.
Sorprendentemente, non pensò a niente almeno fin quando la gamba del giovane non colpì, involontariamente, la sua, riportandola con i piedi per terra.
«Sei sparito!» Mormorò, trovando finalmente il coraggio di voltare il capo nella sua direzione.
Trovò quegli occhi tersi già intenti a fissarla e rabbrividì. Non perché le mettessero inquietudine o chissà cos'altro, semplicemente la facevano sentire nuda e vulnerabile.
«Non sono sparito.» Replicò lui, con voce roca. «Sei tu che hai preferito passare il tuo tempo con Manuel.»
«Sai benissimo che avrei di gran lunga preferito passare del tempo con te.»
Gli occhi di Isaac parvero brillare per un breve istante, prima che il suo sguardo tornasse il solito misto di scherno e malizia. «Stai diventando soffocante, Lea Wilson, credo di volermi prendere una pausa da questa relazione.»
Lea dapprima spalancò la bocca, incapace di trattenere un'espressione divertita, poi si convinse che colpirlo era la risposta migliore. Peccato solo che il ragazzo avesse dei riflessi decisamente più sviluppati dei suoi e, quando la giovane si alzò a sedere, pronta a colpirlo con uno scherzoso pugno sul petto, si ritrovò nuovamente stesa a terra.
Isaac aveva afferrato il suo polso prima dell'impatto finale e se l'era trascinata vicino. 
Adesso il capo della ragazza giaceva sul suo pettorale sinistro, il braccio del ragazzo le stringeva le spalle e le dita della mano sinistra erano intrecciate alle sue.
Sorrise contro il suo torace, ritrovandosi a pensare che chiunque, da fuori, avrebbe benissimo potuto scambiarli per una coppia di innamorati.
Intrecciò le gambe a quelle di lui, prima di chiudere gli occhi. 
«A volte penso che lo scopo della vita sia quello di vivere momenti come questi.» Si lasciò scappare la giovane.
«Momenti come questi, come?»
«Di pura e semplice serenità.»
Le mani di Isaac presero a carezzarle i capelli e Lea tracciò la linea del suo collo e il contorno della mascella con la punta del naso.
Esattamente come pochi minuti prima, quando alzò il capo per guardarlo negli occhi, lo trovò a fissarla. 
Non sembrava affatto imbarazzato né aveva lo sguardo di chi si era fatto beccare con le mani nel sacco, era semplicemente tranquillo, come se, per tutta la vita, non avesse aspettato altro che quello.
Si sorprese di se stesse, quando si ritrovò ad allungare il collo verso di lui e a spostare lo sguardo sulle sue labbra. Ancora più sorprendente fu il fatto che il ragazzo non si stesse ritirando ma che stesse facendo esattamente la medesima cosa.
Erano così vicini l'uno a l'altra che sarebbe bastato un soffio di vento a far collidere le loro labbra.
Lea socchiuse gli occhi.
Generalmente si sarebbe allontanata e avrebbe riso di se stessa, ma in quel momento i suoi sentimenti erano come anestetizzati. Non sentiva più niente, se non il suo cuore che batteva all'impazzata all'altezza della gola.
«Hey, ragazzi, non potete stare qui!» Tuonò, probabilmente, il guardiano, costringendoli a separarsi bruscamente.
Fu Isaac a rispondere, seppure non distogliendo mai lo sguardo dal suo. «Si, ce ne stavamo giusto andando.»


«E lui mi ha detto: ''Rose so che ci conosciamo da poco, ma io... io sono tremendamente innamorato di te''. A quel punto sono scoppiata a ridere, credevo fosse uno dei suoi soliti scherzi ed invece era serio...» Esclamò Red, aggiustandosi su di una spalla la chioma rossa. «Mi ha costretta a passare alle maniere forti, così l'ho fatto sedere, ho preso le sue mani tra le mie, l'ho fissato dritto negli occhi e ho detto: ''Hai delle prove per supportare la tua tesi?''»
Lea trattenne un risolino, mentre scivolava fuori dall'accappatoio in feltro e rientrava nei suoi soliti e montoni vestiti.
Era sfinita. Quella mattina era rientrata a casa dopo le sei e alle sette del mattino si era ritrovata in piedi davanti all'entrata di scuola, poi, come se non fosse abbastanza, era stata costretta ad un doppio allenamento con le Cheerleader così da recuperare quelli della settimana precedente. Ritmi del genere erano umanamente impossibili, almeno per una ragazza come Lea Wilson.
«Quindi la storia tra te e Lip Carson è finita?» Domandò, abbottonando i jeans.
Red sembrò pensarci su qualche istante, prima di stringersi nelle spalle. «Immagino di si.» Fece una breve pausa. «Non credere che io sia una ragazza senza cuore, ho adorato stare con Philip, semplicemente non sono pronta ad avere una relazione tanto seria.»
«Questo perché non sei una persona disposta ad essere felice, Red.»
«Non è affatto vero.» Brontolò la rossa. «Io sono disposta ad essere felice, quello che non sono disposta a fare è soffrire. Per un uomo, poi...»
Lea prese un profondo respiro, incominciando a riporre all'interno dello zainetto tutta la sua roba.
Era ancora abbastanza scettica sul se raccontare o meno alla sua migliore amica gli avvenimenti della sera precedente. Aveva bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, ma allo stesso tempo non voleva che l'amica si facesse strane idee. Sapeva bene, oramai, quanto viaggiasse la mente della giovane.
«Mi stai ascoltando, Lea?» Domandò la ragazza, schioccando le dita davanti al volto dell'amica.
Lea si riprese immediatamente, sobbalzando. «No, scusami ero immersa nei miei pensieri.»
«Ti ho chiesto se ti va di venire con me da Starbucks.»

«Sono in punizione?»
«Cosa? Perchè?»
«Potrei come non potrei essere scappata di casa nel bel mezzo della notte ed essermi dimenticata di lasciare un biglietto per avvertire mio padre.» Esclamò la giovane, grattandosi il capo.
Quando lei ed Isaac erano rientrati a casa quella mattina, avevano trovato l'intero corpo di polizia di Harpool Bay parcheggiata nel vialetto di casa Wilson. Era stato imbarazzante spiegare loro quel colpo di testa, specialmente dopo che suo padre aveva dato di matto.
Red scoppiò a ridere, circondandole le spalle con un braccio.
«La tua vita è improvvisamente diventata interessante. Non tenermi fuori.» 
Lea storse la bocca, guardando dappertutto tranne che nella direzione della sua migliore amica. «Non c'è molto da raccontare.» Mormorò. «Semplicemente Isaac mi ha portata al Molo di Santa Monica stanotte ed io mi sono dimenticata di avvertire.»
Lo sguardo di puro sgomento sul volto della rossa sarebbe stato da fotografare, in quel momento. Odiava quando Lea non la rendeva partecipe della sua vita, la faceva sentire esclusa. «Ti sembra niente questo? Voglio tutti i particolari ora.»
«Ma ti ho detto che non c'è niente da raccontare.»
«Mi conosci, sai quanto posso essere irritante e pedante. Vuoi davvero vedermi così?»
La giovane sospirò, scuotendo il capo. Non l'avrebbe mai avuta vinta con Elizabeth Davis. «No.» Mormorò sconfitta, procedendo poi con il raccontare il tutto nei minimi dettagli. Quel dannatissimo quasi-bacio compreso.
«E come ti sei sentita dopo?» Indagò Red, sbattendo le lunghe ciglia scure.
Lea si strinse nelle spalle. «Sinceramente non lo so nemmeno io. Una parte di me si è sicuramente sentita sollevata, un bacio avrebbe sicuramente complicato tutto, mentre l'altra era dannatamente arrabbiata con quel custode, perché, infondo infondo, lo voleva da morire...»

 

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Capitolo 25
*** QUESTO NON È UN CAPITOLO. ***


Allora, volevo intanto scusarmi per aver cancellato i precedenti due capitoli, ma davvero non riuscivo a farmeli piacere. Ho intenzione di ripostarli nuovamente, sperando di poter fare di meglio. Purtroppo ultimamente scrivere mi costa una fatica immane, anche perché a scuola mi trovo sommersa da compiti in classe ed interrotazioni, e quando ho un po' di tempo libero l'ispirazione manca. In questo ultimo periodo probabilmente i capitoli arriveranno a maggior tempo di distanza l'uno dall'altro e vi prego di non volermene, perchè davvero mi rimane impensabile gestire entrambe le cose, scuola e storia, allo stesso tempo. Spero capirete e che continuerete a seguire la storia, nonostante il rilento con cui andrà avanti, in caso contrario non importa, vi ringrazio comunque per averla seguita fin qui.. Ci tengo a precisare che non sto mettendo in pausa la storia, ma vi sto solo avvertendo che avrà un ritmo meno veloce e che non ci saranno altri "aggiornamenti" del genere.. Grazie a tutti per l'attenzione.

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Capitolo 26
*** Capitolo 24 - Ti aspetto. ***


«E non ti spaventa?»
«Cosa?»

«Questo cambiamento, queste sesazioni...»
«Mi terrorizzano.» Ammise Lea, grattandosi il naso.
Isaac era indubbiamente un bravo ragazzo, ma non era di certo il Romeo Montecchi del Ventunesimo Secolo, anzi, lui era più un giovane Heathcliff, naturalmente buono ma sempre in bilico sul baratro del Male e lei ne aveva abbastanza di tutto quel male che sembrava portarsi addosso come un profumo.
«Quindi avevo ragione io...» Azzardò la rossa, chiudendosi il pesante portone alle spalle. «Lui ti piace.»
La giovane si limitò a scrollare le spalle.
Le piaceva? Non le piaceva? Francamente non lo sapeva nemmeno lei.
C'era dell'attrazione, quello era oramai innegabile, ma non avrebbe saputo dire fino a che punto ma non avrebbe saputo dire fino a che punto si spingesse il desiderio e dove avessero inizio i sentimenti, sempre ammesso che ce ne fossero. 
«Non mi è indifferente.»
L'urletto della migliore amica per poco non le perforò un timpano e le braccia, strette al suo collo, quasi non la soffocarono.
Red lo aveva sempre saputo, o meglio, ci aveva sempre sperato.
Dal suo arrivo, non aveva mai visto Lea tanto felice come quando era in compagnia di Isaac, nemmeno quando era con lei. Era come se il ragazzo fosse capace di creare attorno a loro una bolla di sapone dove tutto il suo dolore non era che un ricordo lontano.
La rossa, nonostante la gelosia, non poteva che essere felice e sperare che il giovane Hall non decidesse di rovinare l'ultima, ed unica, cosa bella, e sana, rimasta nella sua vita.
«Ho detto che non mi è indifferente, non che sono follemente innamorata di lui.» Brontolò Lea, aggiustandosi la tracolla sulla spalla. 
«Oh, ma fidati, Bimba, è solo questione di tempo.»



Lea si chiuse la porta alle spalle, lasciando che un sorrisetto le si dipingesse sul volto.
Per la prima volta in tanto tempo era serena, serena e tranquilla, come, probabilmente, non lo era mai stata in tutta la sua vita. Si sentiva pervasa da uno strano torpore, da qualcosa che non le apparteneva più da tempo; decise che non ci avrebbe pensato troppo e che se la sarebbe goduta fin quando sarebbe durata.
Poggiò il chiodo sull'isola della cucina, dirigendosi verso il salotto, dove Carmensa, comodamente seduta sul divano, intenta ad ascoltare un vinile di Annie Lennox, rigorosamento suo, e a frugare tra la posta arrivata.
Lo faceva spesso e sbuffava ad ogni bolletta o qualsiasi volta non si ritrovasse davanti qualcosa di interessante. Come gli assegni che Nonna Wilson inviava mensilmente alla nipote...

«Che hai da sorridere?» Bofonchiò non appena la vide. «Hanno trovato una cura per il cancro?»
Lea, non appena si risvegliò dal suo stato di trance, rivolse alla sorellastra uno sguardo confuso. «Cosa?»
«Ho detto: hanno trovato una cura per il cancro?»
«No...»
«Allora smettila di sorridere, mi stai irritando.»
Trattenersi dal prenderla per i capelli ed infilarle la testa nel water si rivelò pi difficile del previsto.

Quella bambina doveva essere il suo Karma; accidenti a lei e alla stupida decisione di sputare la gomma da masticare tra i capelli di Bobby Lee...
«Dove sono i nostri genitori?» Domandò, dopo qualche istante di silenzio, prendendo posto sul divano, il più lontano possibile dal braccio destro di satana.
«Sono usciti a fare un Pic Nic romantico, torneranno in serata.» Mormorò in risposta Carmensa, lanciando all'indietro l'ennesima bolletta. «Ne stanno facedo molti, ultimamente.» Constatò.

Aveva ragione. Peccato solo non sapesse che quella delle scampagnate da fidanzatini non fosse che l'ennesima scusa atta a coprire le sedute di chemio di suo padre.
Peter Wilson non ne aveva ancora parlato con nessuno. Marìa Elèna le aveva detto di portare pazienza, che gliene avrebbe parlato quando avrebbe riteuto fosse il momento più giusto. Lea lo stava facendo, stava portando pazienza, ma il momento giusto sembrava non arrivare mai. 

«Già.» Replicò in risposta, spostando lo sguardo fuori dalla finestra aperta.
Norman Hall, seduto sulla veranda, stava guardando nella sua direzione.
Sul volto uno sguardo sconfitto. Scosse il capo ed, emettendo un sospiro rassegnato, entrò in casa. 
Quell'uomo aveva un vero e proprio odio ingiustificato nei suoi confronti. Isaac le aveva detto di non preoccuparsene, che era solo un uomo burbero ed annoiato, il cui unico e vero proposito rimasto era quello di ubriacarsi fino a cadere addormentato, per i successivi due giorni, sul divano, ma lei non ne era troppo convinta.
Lo squillo del cellulare, la fece sobbalzare pericolosamente.
Si era di nuovo incantata, succedeva spesso ultimamente.
Estrasse il cellulare dalla tasca, e fissò con aria stranita l'immagine di suo fratello sullo schermo. Se lo portò all'orecchio.
«Ho fatto un casino, Lea...»



-New York, Il giorno prima-
«Non credevo saresti venuto.» Mormorò Aiden, spingendo il bicchiere di Whisky che gli aveva ordinato.
Dorian prese posto al tavolo, scandando con il dorso della mano la bibita, indicando, solo qualche istante dopo, il distintivo della cintura.
Ovviamente. Era in servizio.
«L'idea mi ha sfiorato la mente, ma poi mi sono detto che doveva essere successo qualcosa di davvero grosso, se ti sei deciso a chiamarmi dopo quasi tre mesi.»
Aiden gli rivolse un'occhiataccia di traverso, intimandogli con lo sguardo che quello non era né il luogo né il momento per trattare quel genere di discorso.
I due si erano conosciuti a fine agosto, entrambi di ritorno da un viaggio in California. Erano vicini di posto e si erano tenuti compagnia fino allo scalo a Minneapolis, dove le lunghe chiacchierate si erano trasformate in un amplesso memorabile. 
Era stata una meravigliosa parentesi, ma gli era bastato scendere da quell'aereo, per farlo rendere conto della necessità di troncare, qualsiasi cosa ci fosse stata, già da subito.
«Va bene, ho capito che non sei in vena di chiacchiere.» Esclamò sbrigativo l'agente, facendo passare un dito sul bordo del bicchiere di finto cristallo. «Allora muoviamoci, ho un appuntamento con qualcuno di decisamete più simpatico di te.»
«Apputamento galante?»
«Non immagini quanto.»
«Lui come si chiama?»
«Lavoro.»
Aiden nascose un sorrisetto soddisfatto dietro il bicchiere, distogliendo lo sguardo.
Quel senso di sollievo non era affatto normale, almeno non in quel momento.
Poggiò nuovamente il bicchiere sul tavolo, prima di infilare una mano all'interno della tasca dell'impermeabile. Ne estrasse una busta bianca e la spinse sotto il viso dell'uomo.
«Non credo di capire...» Mormorò Dorian, una volta finito di leggere la lettera. «E' solo una lettera ad un ex fidanzato in carcere, perché mai dovrebbe essere così scandalosa?»

Il giovane Wilson alzò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore.
Si fidava di Dorian, era un agente dell'FBI, era sicuramente la persona più adatta per gestire quella situazione, ma d'altra parte sarebbe stato come tradire sua sorella.
Era ad un bivio.
Si era trascinato in quella situazione, senza sapere bene come gestirla.

«Ti ricordi quando ti raccontai della famiglia? Ti dissi che avevo una sorella ed un fratello...»
«Me lo ricordo.» Affermò l'agente, annuendo piano. «Ricordo anche che hai parlato più nel dettaglio solamente di tua sorella.»

Aiden prese un profondo respiro. «Mio fratello Dean, è morto dieci anni fa. Lui non era esattamente mio fratello, lo era solo da parte di madre. Non ha mai voluto rivelarci chi fosse il padre, fin quando, a inizio dicembre, un uomo, Gabe, si è trasferito a casa nostra...»
«Ma in questa lettera l'uomo a cui lei si rivolge si chiama Robert...» Concluse Dorian. «Qualcosa mi dice che la storia che stai per raccontarmi non mi piacerà per niente...»
«Lo penso anche io!»


«Sei un dannato incoscente, Aiden.» Tuonò Dorian, chiudendosi la porta di casa sua alle spalle. «Mi spieghi come diavolo ti è ventuo in mente di voler giocare al supereroe?»
Era furente.
La storia che gli era stata raccontata si era rivelata persino peggiore di quello che si era immaginato e tutto perché il giovane Wilson aveva deciso di voler gestire la situazione da solo. Si poteva essere più stupidi? Andiamo, neache non avesse mai visto un film poliziesco o più semplicemente la signora in giallo...
«Non stavo giocando a fare il supereroe, è che non ho trovato nessun aiuto, ho dovuto per forza prendere in mano la situazione.» Si giustificò l'altro, improvvisamente sulla difensiva. 
Non stava mentendo. Più di una volta, lui e sua sorella, avevano tentato di far emanare un ordine restrittivo o una semplice denuncia, ma ogni volta i loro tentativi si erano rivelati inefficaci. Il verbale scompariva ancora prima che finissero di compilarlo.
«Avresti dovuto rivolgerti a qualcuno più in alto...»
«Non credevo all'FBI interessassero certi casi minori.»
«Gli interessano se ci sono di mezzo poliziotti corrotti!»
Aiden rimase in silenzio, non sapendo come replicare oltre. Aveva fatto uno sbaglio, ma lo aveva fatto in buona fede, non credeva che la sua azione potesse portare a delle conseguenze tanto grandi.
Quando aveva fatto scappare Lea, non aveva certo immaginato di aver dato inizio alla caccia...
«Dove hai trovato questa lettera?» Domandò l'agente, sbloccando lo schermo del Mac.
Il giovane prese posto sulla sedia libera al suo fianco. «Nella sua borsa della pesca.»
«Quando?»
«Stasera.»
«C'era dell'altro?»
«Una macchina fotografica, una cartina e le chiavi di una Chevrolet Montecarlo.»
«Pensi che si sia accorto del furto?»
«Dubito.» 
Solo sua madre lo aveva visto con le mani infilate in quel borsone ed era riuscita ad intortarle una scusa plausibile, urlandole contro di dire a quell'idiota di suo marito di non lasciare la sua roba per strada. Effettivamente non le aveva neanche mentito, quella roba era davvero in mezzo alla strada, il fatto che si fosse messo a curiosare, poiché stranito da questo improvviso interesse da parte di Gabe per la pesca, beh... era un'altra storia.
«Più o meno, quanto tempo fa sarebbe stato arrestato?» Domandò Dorian, risvegliandolo dal suo momentaneo stato di trance.
Aiden fece un breve calcolo mentale, che, data la sua incapacità con i numeri, gli portò via più tempo del previsto. «Ventisei anni fa, forse ventisette...»
Ci vollero meno di venti minuti buoni, poi finalmente i primi risultati apparvero sul database.
«Credo che questo sia il nostro uomo.» Esclamò l'uomo, girando lo schermo verso di lui.
Un conato di vomito salì su per la gola di Aiden, quando, fissando la foto, riconobbe il ghigno malefico del patrigno, sicuramente più giovane, ma ugualmente viscido. Dovette trattenersi con tutte le sue forze per non vomitargli sul parquet.
«E' lui...» Sussurrò sconfitto, facendo passare lo sguardo sulla scheda di notificazione.
Diceva che era stato arrestato per aggressione su minore. Tre ragazze erano morte per mano sua. Tutte con lo stesso canone di ''bellezza'', alte, more e dagli occhi scuri. Come sua madre... come Lea.
«C'è solo un problema, Aiden.» 
«Dimmi.»
«Robert Andrews è morto in una rissa tra detenuti circa dieci anni fa.»
Di bene in meglio, pensò sarcasticamente, portandosi una mano sugli occhi.
Si chiese se sua madre avesse sempre saputo tutto. Se il suo accettare di buon grado il trasferimento a Philadelphia ed il successivo ad Harpool Bay non fosse dovuto solamente alla sua coscienza sporca.
Se possibile gli veniva ancora più da vomitare.
Si portò i palmi delle mani sugli occhi, facendoli poi scivolare lungo tutto il viso.
«Che faccio adesso?» Pigolò tristemente.
Dorian prese un profondo respiro. «Adesso chiamerai tua sorella e le dirai tutto ciò che abbiamo scoperto, glielo devi, poi prenderai il primo aereo per la California e le starai accanto.»
«E che ne sarà di Gabe? Finisce semplicemente qui? Sappiamo cosa ha fatto e ce ne infischiamo?»
«Io resterò qui e prenderò in mano la situazione.»
Sapeva che quello di mandarlo via era solo un modo come un altro per evitare che scoppiasse di rabbia e facesse qualcosa di cui poi si sarebbe pentito, e generalmente si sarebbe sentito offeso da un trattamento del genere, ma quella volta si sentì solamente sollevato. Per la prima volta in vita sua sapeva di aver messo la vita di sua sorella nelle mani di qualcuno degno di fiducia.
«Grazie.» Sussurrò, non trovando, però, il coraggio di guardarlo negli occhi.
«Giuro, Aiden Wilson, che se questa è stata solo una scusa per rivedermi, ti arresto.»


Harpool Bay, 22 Ottobre, 2016.

«Ho capito.» Sussurrò Lea, trattenendosi dal tirare su con il naso.
Aveva ascoltato il racconto del fratello in religioso silenzio, rinchiusa nella sua stanza per evitare che Carmensa carpisse qualche informazione. 
«Ti aspetto...» Aggiunse, prima di chiudere la telefonata.
Aveva l'amaro in bocca. Si sentiva male anche solo a muovere un muscolo.
Quindi allontanarsi, scappare, non era servito a niente, aveva solamente fatto si che sentisse maggiormente l'odore della caccia, che la desiderasse di più. 
Questo stava a significare che chiunque le fosse accanto, adesso, era in pericolo e che tutta la bella vita che aveva vissuto fino a quel momento non era che l'ennesimo castello campato per aria.
Cristo, come aveva fatto ad essere tanto stupida e pensare che potesse sopravvivere normalmente?
Pensò a quelle povere ragazze, quelle tre giovani che non avevano avuto un Aiden a prendersi cura di loro e che erano state ritrovate riverse in qualche vicolo. Strappate alla vita troppo presto. 
...Probabilmente, presto sarebbe successo anche a lei.
Se avesse avuto qualcosa nello stomaco probabilmente avrebbe vomitato.
Si alzò da terra, prendendo posto alla scrivania. Doveva assolutamente parlarne con qualcuno o tutte quelle sensazioni l'avrebbero portata alla pazzia. Ma chi?
Il suo sguardo si spostò istintivamente nella camera di fronte.
Isaac era appena rientrato dal locale e si stava cambiando la maglietta prima di doversi trasferire al suo turno in officina.
Non poteva parlarne con lui, avrebbe sicuramente dato di matto. Avrebbe fatto qualcosa di stupido, come partire per andare a cercare Gabe e si sarebbe fatto male...
Nina? Infondo lei già sapeva parte della storia, sarebbe stato più facile aprirsi. Ma per quanto fossero amiche, non si erano mai lasciate andare a confidenze senza che ci fosse un vero e proprio momento di mezzo e poi lei sarebbe sicuramente corsa da Isaac...
Forse Red... ma Red era Red, avrebbe sicuramente dato di matto e lei sarebbe andata in panico.
Tristemente Lea si rese conto di quanto misera e povera fosse la sua lista di amici. 
Sospirò, evitando di temporeggiare oltre, aveva bisogno di parlarne, poco importavano le conseguenze. Senza ulteriore indugio avviò la chiamata e si portò il cellulare all'orecchio.
«Ho bisogno di te.»

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 25 - Non sono innamorato. ***


«Piccola, sei già in piedi?» Domandò Marìa Elèna, facendo capolino dalla porta accostata.
Dal quel giorno, sedute contro il pavimento del bagno, in cui Lea aveva deciso di dare alla matrigna una chance, le cose tra loro erano solo andate migliorando, tanto che, la giovane, si era quasi sentita in dovere di rivolgersi a lei, quando aveva sentito il bisogno di gettare fuori tutto il suo passato.
Non aveva idea di come fosse possibile che, in meno di un mese, quella donna si fosse guadagnata la sua fiducia, il suo rispetto ed il suo amore. Ma, ad essere sincera, non era nemmeno particolarmente interessata alla risposta. Sapeva di aver trovato in lei la figura materna che cercava e le andava bene così.
«Si, avevo voglia di disegnare.» Esclamò la giovane in risposta, senza, però, distogliere lo sguardo dal blocco da disegno che aveva davanti agli occhi.
Arrivati alla metà di Novembre, la questione Gabe era finalmente tornata in secondo piano e la vita, ad Harpool Bay, sembrava essere tornata a scorrere normalmente, se non, avrebbe osato dire, in modo migliore.
L'idea di avere finalmente le spalle coperte da qualcuno di competente la faceva sentire bene, tanto che Lea si era praticamente sentita costretta a riprendere in mano le redini della sua vita del suo futuro.
Aveva ripreso a praticare le sue vecchie passioni, come il disegno, la pittura e l'arte in generale, ma aveva anche sfidato se stessa e si era prodigata in qualcosa di totalmente nuovo e diverso da lei. Ad esempio aveva compilato e spedito diverse domande per il college, una delle quali alla NYU.
Chi lo avrebbe mai detto? Lei, di sicuro, no, ma era piacevolmente sorpresa dalla piega positiva che stava prendendo la sua vita.
«Cosa stai disegnando?»
Lea coprì con le braccia il foglio, non appena sentì i passi di Marìà Elèna farsi più vicini a lei.
«Non è ancora finito.» Mormorò, in imbarazzo, rivolgendole un sorrisetto di scuse.
A dire la verità era molto più che finito, Lea stava solamente aggiungendo le ultime sfumature e poi sarebbe stato archiviato nella sua cartellina. Lontano dagli occhi di tutti. Per sempre.
«Oh, beh, allora voglio essere una delle prime a vederlo quando lo sarà.» Esclamò la donna, stampadole un bacio tra i capelli, prima di allontanarsi. «La colazione è tra dieci minuti.»
Giusto, un'altra novità, a cui si era piacevolmente adattata era la colazione in famiglia.
Prima di allora capitava di rado che lei e suo padre riuscissero ad alzarsi allo stesso orario e mangiare assieme, mentre adesso che era Marìà Elèna a gestire la casa, quella dei pasti, era una tradizione che nessuno aveva il diritto di rompere.
Solo quando sentì la porta chiudersi e i passi della donna giù per le scale, si permise di allontanare la braccia.
Sul foglio, nero e colori, su bianco era impresso il viso di Isaac. 
Lea non aveva idea del perché avesse scelto proprio lui come suo primo soggetto ma era felice di averlo fatto. Aveva ricreato una foto che gli aveva scattato a tradimento qualche giorno prima, durante una passeggiata sulla spiaggia tra amici. In quella foto il giovane Hall aveva gli occhi ridotti a due fessure, delle adorabili rughette li contornavano e la bocca era allargata in un bellissimo sorriso che andava a mettere in evidenza le sue adorabili fossette. I riccioli biondo cenere gli ricadevano sulla fronte imperlata di sudore, sprigionando riflessi oro e platino. In quella foto era talmente bello che alla giovane veniva quasi quasi il batticuore...
Red continuava imperterrita a sostenere la sua tesi, affermando che certe reazioni erano dovute al sentimento che stava lentamente crescendo dentro di lei. Inutile dire, che Lea aveva cercato un'altra ragione, decisamente più razionale. 
Probabilmente tutte le torte che aveva mangiato in quel periodo dovevano averle causato un picco al colesterolo che le aveva, sicuramente, attappato le arterie. Non era amore, ma solo un principio di infarto...
Diede un ultimo spruzzo di colore agli occhi, prima di riporre la matita a terra e rivolgere lo sguardo fuori dalla finestra.
Isaac era sul vialetto, piegato sulla vecchia auto che il signor Dale gli aveva gentilmente chiesto di riparare. Poco distante da lui, seduta a terra, tra l'erba umida, c'era Rebecca Montgomery.
Lei ed il giovane Hall uscivano da un paio di settimane e già erano una delle ''coppie'' più chiacchierate di tutta la baia di Harpool Bay. In primo luogo perché le loro origini così diverse avevano da subito fatto scalpore ed in secondo luogo perché il loro aspetto li faceva assomigliare ad un live action di Barbie e Ken, provvisti di genitali.
A Lea, Rebecca, stava tremendamente antipatica. 
Le era bastato darle uno sguardo veloce per farsela stare sullo stomaco a pelle e, quando poi l'aveva conosciuta ed aveva scoperto persino quanto in realtà fosse amabile, la situazione non aveva fatto altro che peggiorare.
Non augurava il male a nessuno, ma sperava davvero che qualcuno decidesse di darle un batticinque. In faccia. Con una sedia.
Prese un profondo respiro, ripose il blocco nella tracolla e scese le scale.
L'ultima cosa che voleva era rovinarsi la mattinata guardando quei due e lasciando trasparire in superficie quel diavoletto maligno che, ogni volta, non faceva altro che chiederle che cosa le importasse di quei due.
Non le importava niente. Solamente non voleva che il suo vicino ne restasse ferito, anche se era praticamente impossibile, dal momento che, tra i due, era lei quella ad aver perso la testa.
«Quella bambina è un mostro.» Esclamò Aiden, scendendo come una furia le scale. «Potrebbe essere usata come arma di distruzione di massa dalla CIA.»
Lui e Carmensa, sin da subito, non erano andati particolarmente d'accordo.
Lei, che aveva preso possesso della stanza del ragazzo, non voleva più lasciarla e lui, che invece ne rivendicava il diritto per nascita, non era disposto a cederla. La situazione li aveva portati a condividere la stessa stanza. Si contendevano il letto, una notte per uno, sebbene, molto spesso, fosse Aiden quello destinato a dormire sulla brandina sotto la finestra.
La situazione metteva Lea particolarmente di buon umore, che si vedeva, finalmente, lasciata in pace.
«Che cosa ha fatto oggi?» Domandò la giovane, prendendo posto sulla sedia, alla sinistra di quella del padre.
«Che cosa ha fatto? CHE COSA HA FATTO? HA INTASATO IL TUBO DELLA DOCCIA, CON QUEI SUOI DANNATISSIMI CAPELLI E QUANDO L'HO COSTRETTA A PRENDERSI LE SUE RESPONSABILITA' E PULIRLO, SI E' VENDICATA FACENDOMELI TROVARE NELLA TASCA DEL CHIODO.
L'HO PAGATO SESSANTA DOLLARI QUEL CHIODO E ADESSO E' ROVINATO.»
Le sarebbe piaciuto replicare che lo aveva pagato lei quel chiodo, ma restò zitta, limitandosi a fare un'espressione schifata, prima di scoppiare in una risatina sommessa.
Per quanto potessero odiarsi, la presenza di Carmensa aveva tremendamente aiutato Aiden che aveva trovato il modo di distrarsi.
Era l'unico a non essersi ancora perdonato per tutta la storia di Gabe, non importava quante volte la sorella cercasse di convincerlo del cotrario...
«Te l'avevo detto che non l'avresti passata liscia, Demence.» Esclamò la piccola, sedendosi a sua volta.
A quel punto Lea fu incapace di trattenersi e si lasciò scappare una risata sguaiata. 
Da quando aveva scoperto che il secondo nome del giovane Wilson era Clarence, non era passato giorno in cui non l'avesse chiamato in quel modo. Cattivo ma originale. Doveva ammetterlo.
«Tu piccolo mostro, la pagherai cara.»

«Ti strappo un assegno, al momento non ho contanti.»
Era incredibile pensare come e quanto la sua vita si fosse trasformata in soli cinque mesi. 
A New York non aveva amici, non aveva una famiglia, non viveva serenamente e soprattutto non sorrideva... forse la vita ad Harpool Bay non era come se l'era immaginata, sicuramente più disordinata e caotica di quanto si fosse aspettata, ma se c'era un qualcosa di cui era certa e che non l'avrebbe scambiata nemmeno per tutto l'oro del mondo.


«Secondo me per il progetto di Biologia, dovremmo parlare del sesso.» Esclamò Red, passandosi una mano tra i capelli. «Nessuno dei nostri compagni ne parlerà, perché è troppo imbarazzante piazzarsi davanti ad una commissione ed esporre i motivi per il cui il sesso è importante, di conseguenza guadagneremo qualche punto anche solamente per l'originalità e poi potremmo mettere in luce i suoi aspetti positivi, nel senso che non è solo un meccanismo di riproduzione, ma anche un bisogno fisiologico ed un antistress, in utilmo, ma non per importanza, il sesso fa perdere peso...»
Lea aveva spento il cervello ed aveva smesso di ascoltare dal primo momento in cui avevano messo piede fuori dall'aula di Biologia.
Il professor Reynolds, subito dopo pranzo, aveva chiesto loro di scegliersi un compagno ed un argomento, che individualmente avremmo trattato per l'intero semestre, e che avremmo esposto davanti ad una commissione in periodo d'esame.
Red non le aveva neanche dato il tempo di razionalizzare le informazioni che subito le si era appiccicata addosso, pregandola di accettarla come sua partner, aiutandola così ad aumentare la media. La giovane Wilson non aveva potuto nulla davanti a quegli adorabili occhi verdi da cucciolo, erano irresistibili. Quindi adesso si ritrovava a dover assecondare i continui sproloqui della sua migliore amica, fingendo di starla ascoltando.
Non spegneva il cervello per cattiveria, ma davvero non riusciva a stare dietro al fiume di parole che trabordavano dalla bocca di Red. Era davvero incredibile il fatto che non le si seccasse mai la bocca o che, più semplicemente, non le si addormentasse la mascella. Qualcosa di totalmente inumano.
«Tu cosa ne pensi?» Domandò la rossa, quando oramai avevano raggiunto la casetta color talpa dei Wilson.
«E' una bellissima idea.»
«Non hai sentito nulla di quello che ho detto fin ora, vero?»
«Nemmeno una parola.»
«Perfetto così.»
Mentre percorrevano il giardino per raggiungere la porta sul retro, Lea si rese conto che Isaac era ancora impegnato, come quella mattina, nell'aggiustare l'utilitaria dei Dale. Rebecca però non c'era più e si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo nel constatare la cosa.
«Tu sali!» Disse a Red, porgendola anche la sua tracolla. «Ti raggiungo in cinque minuti.»
La rossa obbedì, ma non prima di averle rivolto un sorriso sghembo dei suoi.
Lea roteò gli occhi, prima di avvicinarsi al divisorio bianco e poggiarci le braccia conserte sopra. 
Piccina come era ci arrivava a malapena e rischiava di sbattere il mentro contro il legno ogni volta che muoveva di un solo millimetro la gamba. Sicuramente la posizione più scomoda che avesse mai assunto, ma era anche l'unico modo per poter avere una conversazione con il giovane Hall senza che lui vedesse solamente la sua nuca.
«Sai che ti è permesso anche riposarti nel tuo giorno libero, vero?»
Isaac alzò lo sguardo dal motore e le sorrise.
Da quando usciva con Rebecca i loro incontri si erano un po' diradati, ma un po' era dovuto anche dal fatto che Aiden gli ringhiava addosso ogni volta che provava anche solo ad avvicinarsi al perimetro della loro proprietà o a Lea in generale. Sembrava un cane da guardia. Mancava solamente che si mettesse a farle pipì addosso per marcare il territorio...
Un po' gli era mancata, doveva ammetterlo. Infondo quella tra loro era ben presto passata dall'essere una serie di incontri sporadici ad una quotidinità vera e propria, quindi mantenere certe distanze era decisamente strano ed inusuale.
«Non avrò un giorno libero fin quando non riuscirò a rimettere in piedi questo vecchio catorcio.» Ammise, poggiando la chiave inglese a terra. Si avvicinò alla ragazza, pulendosi le mani sporche di grasso sulla canotta bianca. «Mi sta dando del filo da torcere.»
«Hai provato a controllare il motore?» Azzardò Lea.
«Perché non ci ho pensato prima? Ah, va beh, infondo non sono mica un meccanico.» La schernì lui, con un sorriso, e lei si sentì in dovere di piazzargli uno scherzoso pugno sul petto.
«Non prenderti gioco di me, Isaac Hall!» Brontolò, grattandosi il naso.
Per quanto fosse incredibile anche solo pensarlo, era lì e non sapeva cosa dire. 
Avrebbe voluto chiedergli di Rebecca, ma allo stesso tempo aveva paura di conoscere le risposte. Sapeva, inoltre, di non poter tirar fuori l'argomento di suo padre, tanto meno dei suoi amici o della sua vita. 
Dall'altra parte Isaac si trovava nella medesima situazione. 
Chi lo avrebbe mai detto che sarebbero mai arrivati a quel punto?
«La nostra vita sta andando alla grande.» Esclamò, infatti, il ragazzo, pentendosene subito dopo. Che cosa diavolo stava a significare quella frase?
«Già.» Mormorò Lea, distogliendo lo sguardo. «Pensi che durerà?»
«Francamente ne dubito.»
«Ma andiamo, non dovresti avere l'ottimismo che caratterizza qualsiasi ragazzo innamorato?»
Gli occhi ed il viso del giovane si fecero improvvisamente seri. «Non sono innamorato.» Chiarì con una freddezza che non gli aveva mai sentito usare prima di allora.
Sembrava tutta un'altra persona.
«Beh, però mi sembri molto preso da Rebecca.» Azzardò, sporgendo le braccia oltre la steccionata così da potersi mantenere meglio in equilibrio. «Anche perché non mi sembri il tipo da passare il tempo con qualcuno che non gli piace...» Bastava prendere in esempio Patrick. Da quando Isaac aveva scaricato su di lui la sua furia omicida, non passava più neanche per sbaglio in quel quartiere.
«Mi piace passare del tempo con lei, ma non ne sono innamorato.»
«E lei lo sa?»
Il ragazzo si strise nelle spalle, passandosi una mano sul mento, dove si intravedeva un accenno di barba della sera precedente. 
«Sa che penso che l'amore sia sopravvalutato.»
Dio solo sapeva quante volte gli aveva sentito pronunciare quella frase, specialmente nell'ultimo periodo. Dopo averle raccontato di Isabella sembrava molto più propenso a parlare d'amore, sebbene i termini che usava non erano certamente carini come quelli che riservava lei.
''L'amor che move il sole e l'altre stelle'' citava spesso lei e lui le rispondeva sempre con battutine acide o con un semplice: ''Dante è l'ultima persona al mondo a poter parlare d'amore. Non l'ha mai neanche conosciuta questa Beatrice, è solo un coglione a cui piace fantasticare su qualcosa che non conosce''.
«Ma così le hai lasciato una porta aperta, sicuramente starà pensando a come farti cambiare idea.» Esclamò Lea, mordendosi l'iterno guancia. Si trovava in quella scomoda posizione di chi sta per dare un consiglio, ma spera vivamente che l'altro non lo segua. «Forse dovresti provare a darle una possibilità. Chissà davvero che tu non riesca ad innamorarti di lei.»
Isaac scosse semplicemente il capo, prima di puntare quegli occhi azzurri, gelidi come il ghiaccio, nei suoi. «La base di una relazione amorosa stabile è la fiducia, questo implica rivelare all'altro tutti i segreti, anche quelli più oscuri, che gli si tengono nascosti ed io non me la sento di rivelarle questa parte di me.» Fece una breve pausa, sospirando sonoramente. «Con lei sto bene. Quando siamo insieme mi fa dimenticare del mondo all'esterno. Non me la sento di trascinarla in tutta questa merda. Poi tra due settimane tornerà a Baltimora e chissà quando ci rivedremo, quindi va più che bene così.»
Lea però non lo stava più ascoltando, non riusciva a smettere di pensare al fatto che avesse deciso di trascinare lei nella sua vita, ma non Rebecca. 
''Veramente sei stata tu ad infilartici come il peggio parassita. Non dare la colpa a lui, se sei troppo orgogliosa per ammettere che ti da tremendamente fastidio il modo in cui parla di lei''.
Con sconforto crescente, per aver constatato che la vocina nella sua testa aveva tremendamente ragione, si morse il labbro inferore.
«Mi chiedo come tu faccia ad essere così perfetto Isaac Hall.»
«Non sono perfetto.» 
«Ma sei sicuramente il prototipo di uomo di cui ogni donna sogna di innamorarsi.» Ammise, forse più a se stessa che all'altro.
Isaac rise, avvicinandosi nuovamente a quell'auto che sembrava intenzionata a tutto tranne che tornare a funzionare. «Già, ma sono sicuro che quando sarò io ad innamorarmi, verrò brutalmente scartato.» E no, un pensiero tale non era dovuto alla brutta esperienza con Isabella, quanto alla sua incapacità di amare qualcosa di umanamente raggiungibile.
«Non essere così ottimista, non vorrei mi contagiassi.» Risero entrambi. «Senti mi chiedevo se stasera ti andasse di...» Ad interromperla fu il suono del cellulare del ragazzo. Il nome di Rebecca appariva a caratteri cubitali sullo schermo, proprio sopra una foto di loro due sulla spiaggia, mentre si scambiavano un tenero bacio sulle labbra.
Lo stomaco di Lea si attorcigliò e sentì l'impellente bisogno di ritirarsi altrove.
Senza neanche preoccuparsi di salutare, imboccò la porta di casa e sparì su per le scale fino alla sua stanza, lasciandosi alle spalle un Isaac confuso e stranito. Red, nel frattempo, si era comodamente messa a frugare nel suo armadio.
Infondo una ragazza doveva pur occupare il tempo o per lo meno fingere di non aver spiato la migliore amica fino a quel momento.
«Che cosa succede?» Domandò la rossa, notando la sua faccia sconvolta.
La giovane si portò le mani sul viso, ritrovandosi davanti ad una situazione che mai e poi mai avrebbe voluto trovarsi ad affrontare. «Cristo! Sono fottuta.»

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Capitolo 28
*** Capitolo 26 - Ero nel panico. ***


«Francamente non riesco a capire quale sia il problema di fondo.» Esclamò Nina, riempiendole per l'ennesima volta la tazza di caffè. 
Subito dopo essere rientrata nella sua stanza, Lea si era ritrovata faccia a faccia con una verità sconvolgente che stava seriamente mettendo a repentaglio la sua sanità mentale: era gelosa.
La scelta di trascinarsi fino al Roy's era stata dettata dal bisogno di di avere un parere diverso da quello tremendamente eccitato ed orgoglioso della sua migliore amica.
«Il problema è la gelosia, Nina.» Esclamò la giovane, infilandosi le mani tra i capelli. «Io in quel momento ero gelosa di Rebecca. Ma non gelosa al punto da insultarla alle spalle, ma al punto di salire in macchina, andare da lei ed investirla, ripetutamente, fin quando l'unico modo per riconoscerla sarebbe stata l'impronta dentale. L'unica cosa ad avermi fermato è il fatto che non ho la patente.»
La cosa triste, e allo stesso tempo spaventosa, era che non stava affatto enfatizzando le cose. Nel momento in cui il cellulare di Isaac aveva incominciato a squillare ed aveva visto la foto sullo sfondo, Lea aveva sentito la morsa della gelosia attanagliarle lo stomaco e il serial killer che era in lei, risvegliarsi dopo diciotto anni di sonno profondo.
Era una situazione completamente estranea, che si ritrovava a non saper come gestire.
C'erano state delle volte in cui era stata gelosa delle attenzioni che le ragazze rivolgevano a Seth, ma mai al punto da sentire il bisogno fisico di reclamare ciò che lei riteneva di sua proprietà, sebbene il giovane Hall fosse un essere umano e non un soprammobile.
«La gelosia è un sentimento normale, L.» Mormorò Nina, guardandola con apprensione. «E non necessariamente deve essere lagato alla sfera amorosa. Puoi essere geloso di un amico senza, però, provare niente per lui. Probabilmente sei solamente infastidita dal fatto che la presenza di Rebecca ti toglie parte di quelle attenzioni che fino ad un mese fa erano solo per te. E' assolutamente normale.»
«Oppure si sta finalmente rendendo conto di starsi innamorando.» Esclamò Red, infilandosi in bocca l'ennesima patatina.
«Sai, voglio credere che la tua perseveranza nel farle aprire gli occhi su i suoi sentimenti sia un puro e semplice atto di buon cuore e non dal bisogno di vivere una storia d'amore per riflesso.»
La rossa, che fino a quel momento aveva partecipato alla conversazione più che passivamente, commentando di tanto in tanto, giusto per rafforzare maggiormente la sua tesi, si lasciò cogliere, per un momento, alla sprovvista dal commento acido dell'altra. 
Non credeva di meritarsi un trattamento del genere, ed infatti non se lo meritava. Probabilmente qualcuno prendeva i rifiuti fin troppo sul personale...
«Come, scusa?» Domandò, sporgendosi con il busto leggermente in avanti. «Di cosa mi staresti accusando, esattamente?»
Nina che non si lasciava certo intimorire da qualche sguardo fulminante, si spostò una ciocca castana dietro l'orecchio. «Di niente, semplicemente sto dicendo che, secondo me, è plausibile che tu abbia bisogno che Lea provi qualcosa per Isaac, e viceversa, per distrarti dal fatto che tutte le tue relazioni sono un completo fallimento.»
«Parli proprio tu. L'ultima volta che ti ho vista uscire con qualcuno stavi accompagnando Roy a fare l'esame della prostata, non so nemmeno quanti anni fa.»
«Già, perché io preferisco circondarmi di gente che amo davvero, invece che avvicinarla, farla innamorare e poi spezzarle brutalmente il cuore.»
«Questa è un allusione a tuo fratello o a te stessa?»
«Ragazze mi sono persa qualche venerdì?» 
«Sta zitta!» Tuonarono entrambe, all'unisono, facendola sobbalzare sulla sedia.
«Scusate.» Brontolò, offesa.
Lea aveva seguito quello scambio di battute con attenzione, ma, alla fine, ne era uscita persino più confusa di prima. 
Adesso, oltre i dubbi su i suoi stessi sentimenti, si chiedeva anche cosa non le avessero raccontato le sue due amiche.
Le ragazze si scambiarono ancora qualche sguardo di fuoco, poi presero entrambe la loro strada. Red imboccò l'uscita, dicendole che l'avrebbe chiamata più tardi per spiegarle meglio le cose, mentre Nina si era semplicemente rifugiata dietro il bancone senza dire una parola.
Ed eccola quindi, seduta lì, sola, con tante domande, un conto da pagare e nel portafogli non abbastanza soldi...
...Che triste riepilogo della sua esistenza.
Fece per alzarsi e raggiugere la mora dietro il bancone quando, Roy, il proprietario del locale, un vecchietto tanto arzillo quanto pedante e noioso, le si parò davanti.
«Dove staresti andando, signorinella?» Domandò sgarbatamente.
Roy la odiava, testuali parole, con l'intensità di migliaia di soli. Il motivo? Perché, secondo lui, era frivola e non aveva fatto nulla per cambiare il mondo, mentre lui aveva combattuto la guerra. Poco importava continuare a ripetergli che non era ancora nata in quel periodo, l'odio restava ed aumentava ogni giorno di più.
«A pagare e poi a casa.» Esclamò la giovane, passandosi una mano su gli occhi. Era mentalmente distrutta, non aveva le forze per sostenere l'ennesimo litigio con il suo capo. 
«A casa? No, no, no. C'è un tir pieno di birre da scaricare sul retro ed io sono troppo vecchio per farlo da solo.»
«Ma oggi è il mio giorno libero.»
«Non c'erano certo giorni liberi mentre io ero in Vietnam.»
«Si... ma ce ne sono adesso.»
«Non se non vuoi essere licenziata. Muoviti.» 
Lea sospirò e si trascinò a fatica nel retro bottega. 
Ho per caso, già, fatto menzione al fatto che Roy la odiava con l'intensità di migliaia di soli?

«Sono distrutta.» Piangucolò Lea, dondolandosi sui piedi che gridavano pietà. «Mi odia. Quando sono arrivata sul retro c'era un fattorino che si è offerto di scaricare le casse al posto mio e Roy lo ha cacciato, dicendogli che ce l'avrei fatta benissimo da sola...»
«Roy non ti odia.» Replicò Nina, chiudendo con una doppia mandata la porta del locale. «E' affezionato a te, è solo incapace di dimostrarlo.»
«Non ha problemi a dimostrare quanto adori te, però...»
«Sono qui da più tempo di te, Lea, pensi di poter entrare tra i privilegiati senza neanche fare un po' di gavetta?»
La giovane si lasciò scappare un sorrisetto divertito, mentre, insieme all'amica, faceva il giro del locale per controllare che tutte le porte e le finestre fossero chiuse.
Era da tempo che non passava una serata con Nina fuori dall'orario di lavoro. Con precisione dalla sera in cui si erano lasciate andare a rivelazioni sulla loro vita passata, seduti sulla panchina sul retro.
Era stata la prima volta in cui si era davvero aperta con qualcuno. Non aveva detto nulla che già non sapesse chiunque altro, ma era stato comunque bello parlare con qualcuno, raccontarsi tutto da capo e rendersi conto, anche un po' tristemente, che nonostante la ferita fosse ancora lì il dolore era scomparso da oramai lungo tempo, quasi del tutto.
Si ritrovò immediatamente a pensare che la connessione con la giovane Carson fosse quanto di più simile c'era a quella che aveva con Isaac.
«Vai subito a casa?» Le domandò, qualche istante dopo, la ragazza, risvegliandola dal suo momentaneo stato di trance.
Le ci volle qualche istante per tornare con i piedi per terra e realizzare che, oramai, si erano lasciate il Roy's alle spalle da un bel pezzo.
«No, farò un salto da Red. Forse resto a dormire da lei, al momento proprio non me la sento di tornare a casa ed incappare in Isaac.» Ammise la giovane, grattandosi il naso. 
Ora che l'altra sapeva tutta la storia sarebbe stato abbastanza inutile mentire. «Tu?» Domandò.
Nina sembrò pensarci su qualche istante, prima di risponderle. «Farò un salto da Isaac, ho bisogno di qualcuno su cui scaricare i miei problemi.»
«Puoi scaricarti anche con me, lo sai, vero?»
«Non credere che io stia dando la tua amicizia per scontata, Lea.» La rimproverò. «Non sentirti esclusa. Isaac è il mio migliore amico, anche se sembra assurdo anche dirlo ad alta voce, se mi rifugio da lui e perché mi conosce meglio delle sue tasche e tu in questo momento hai qualcun altro a cui pensare.»
Ad essere sincera, però, si sentiva un po' esclusa, ma allo stesso tempo capiva il suo punto di vista.
Nina, in quel momento, aveva bisogno di parlare con qualcuno che non la giudicasse ed Isaac, che conosceva tutti i suoi segreti, di certo non lo avrebbe fatto. Aspirava lei stessa ad avere un rapporto del genere con qualcuno, ma sapeva bene che ciò non sarebbe stato possibile se prima non avesse messo delle basi di solida fiducia.
«Posso chiederti solo un piacere?» Domandò Lea, congiungendo le mani, imitando la posizione di preghiera. L'altra le fece cenno di continuare. «Se Isaac te lo chiede tu non mi hai vista?»
«Perché?» Domandò la mora, aggrottando la fronte.
«Mi ha scritto prima, chiedendomi come mai fossi scappata a gambe levate ed io gli ho detto di aver mangiato dei gamberi andati a male e che mi sono beccata un disturbo gastro-intestinale.»
«Quindi lui adesso crede che tu sia piegata sul water a liberare il tuo intestino?»
«Ero nel panico!»
«Sei davvero un personaggio singolare, Lea Wilson.»

«E' una birra quella che vedo?»
«No, è aranciata.»
«Come ti sbagli.» Brontolò Nina, prendendo posto sul divano, accanto al ragazzo.
Isaac le passò un braccio intorno alle spalle, trascinandola più vicino a se. Poggiò la testa sulla sua spalla in un gesto totalmente spontaneo.
Alla televisione stava andando in onda un vecchio film in bianco e nero, uno dei preferiti del ragazzo, ma lui non lo stava guardando. O meglio, stava fissando lo schermo senza però vederlo realmente.
Nella sua testa riviveva in loop la scena di quel pomeriggio e si arrovellava il cervello cercando di dare una spiegazione logica al comportamento di Lea.
Dubitava fortemente la sua fuga fosse dovuta ad un attacco di dissenteria, specialmente visto che poi era sgattaiolata fuori di casa come un ladruncolo qualsiasi.
«Sai chi è passata al locale oggi?» Domandò Nina, grattandosi il naso.
Isaac le rivolse un grugnito che, nel suo gergo, era un invito a continuare. Temeva che se avesse parlato l'amica avrebbe percepito l'urgenza nel sapere che si trattava di Lea.
Quella ragazza con tutte le sue stranezze gli stava seriamente fottendo il cervello. Se non fosse stato per quel forte sentimento, a cui non si azzardava a dare un nome, che sembrava legarli in maniera indissolubile, probabilmente si sarebbe costretto a prendere le distanze.
«Josie.»
Sperò vivamente che dal suo viso non trasparisse la crescente delusione che stava dilagando dentro di lui. «La bionda?»
«In persona.»
«E perché mai dovrebbe interessarmi?»
«Non sto cercando qualcuno che mi smonti, ma qualcuno che sazi il mio desiderio di spettegolare, quindi stai zitto ed ascoltami.» Esclamò perentoria la giovane, appropriandosi del telecomando e mettendo fine a quello strazio che la gente chiamava film. «Dicevo: Josie è venuta al locale, ed era praticamente disperata.»
«E perché mai?» Mormorò Isaac, ostentando finto interesse. Non gli piaceva nemmeno Josie, ma, infondo, aveva ragione Lea: a lui non piaceva nessuno... 
«In città tutti sanno che Josie e Hunter sono pazzi l'uno dell'altro, probabilmente gli unici a non rendersene conto sono loro due. Ma non è questo il problema, Jo mi ha raccontato che nell'ultimo periodo Hunter ha incominciato a frequentare una ragazza e lei si è riscoperta tremendamente gelosa e la cosa la spaventa a morte...»
«Non capisco quale sia il problema di fondo, Nina. Parla chiaro. Se devo perdere tempo ad ascoltarti almeno vai subito al sodo.»
«Non fare lo scontroso.» Lo rimproverò Nina, dandogli una leggera gomitata contro le costole. «Lo so che ti piace quando ti racconto i pettegolezzi.»
«Non quando la prendi alla lunga. Ci metti sempre un secolo e quando arrivi a fine storia non ricordo più neanche di cosa stavamo parlando...»
«Va bene, va bene... Ho capito!» Borbottò lei, portando le braccia conserte sotto il seno. Con un sospiro riprese il racconto, sperando che, prima della fine, comprendesse l'allusione. «Insomma, dicevo che lei era disperata e tra un piagnucolio e l'altro spiffera che, secondo lei, lui non è nemmeno tanto preso da questa qui. Quindi, adesso, quello che mi chiedo è: Hunter non ha il coraggio di dichiararsi a Josie, per paura di rovinare il loro bel rapporto, e quindi frequenta un'altra o il suo è solo un piano per testare i suoi sentimenti? Chissà magari aspetta la conferma di essere ricambiato, oppure...»
«Hai preso, per puro caso, in considerazione l'idea che questa ragazza potrebbe piacergli davvero?» 
Nina seppe che il suo discorso aveva sortito l'effetto sperato quando vide Isaac portarsi una mano la testa e massaggiarsi il collo. Lo faceva spesso quando era nervoso o quando venivano toccato argomenti che non gli piacevano particolarmente.
Non la stava guardando, ma era sicura che i suoi occhi sarebbero stati lo specchio della colpevolezza.
«Si, ma l'ho scartata subito. Per due motivi.»
«E sarebbero?»
«1. Non ne ha mai parlato con nessuno.
Hunter sta sempre a parlare di Josie, in continuazione, a volte è persino noioso starlo a sentire.
2. Non gli piacciono le conquiste facili e quella lì era innamorata di lui ancora prima di conoscerlo.»
Il giovane si irrigidì ancora di più e Nina trattenne a stento un sorrisetto soddisfatto.
Così imparava a tenerla all'oscuro.
Le aveva fatto male venire a sapere della sua relazione da terzi.  
Insomma, credeva che una volta compiuto un passo così importante sarebbe stata la prima da cui sarebbe corso. O almeno lo aveva dato per scontato. Infondo lei lo aveva fatto quando aveva baciato Red.
«Che cosa stai cercando di dire Nina?» Domandò Isaac, dopo una breve pausa.
Era stanco di quel giro di parole.
Se voleva delle risposte doveva parlare chiaro. Era già stanco di tergiversare inutilmente.
«Che intenzioni hai con Lea?»
Dritta al punto. Ecco la vera Nina Carson.
Se l'era aspettata una domanda del genere, ma non poteva non ammettere che lo cogliesse leggermente impreparato. Non sapeva come porre la risposta senza che questa gli si ritorcesse contro.
«Nessuna intenzione. E' mia amica.» Sembrava la risposta più ovvia, ma era evidente ad entrambi quanto in realtà non lo fosse davvero. 
«E con Rebecca?»
«Rebecca niente. Sto bene con lei, ma quando se ne tornerà a Baltimora, tornerà anche alla sua vita e tanti saluti. E' stato bello finché è durato.»
«Credi sia la scelta più giusta?»
«E' la scelta più giusta per me.»
«Ma non ci sei solo tu al mondo, te ne rendi conto?»
Certo che se ne rendeva conto. 
Era da tutta la vita che metteva gli altri al centro del suo mondo. Tutta la vita che si tagliava fuori da solo.
Non potevano biasimarlo se per una sola volta in più di dieci anni aveva deciso di prendere una decisione solo per se stesso. «Ciò che è meglio per entrambe è non farsi coinvolgere. Rebecca ha la sua vita, non ha bisogno di qualcuno che gliela incasini e Lea ha già abbastanza merda a cui pensare.»
«Ma ci sei o ci fai?» Nina poteva sentire il sangue ribollirle nelle vene. «Non esiste un ''E' meglio non farsi coinvolgere'', nel momento in cui lasci entrare qualcuno nella tua vita, nel momento in cui incominciano ad amarti, non c'è nient'altro da fare. Sono già coinvolte.»
«Credevo il tuo lavoro fosse dispensare bevande, non consigli.»
La giovane emise un sospiro frustrato, scuotendo il capo rassegnata.
Non voleva parlarne e non l'avrebbe fatto.
Lo conosceva abbastanza da sapere che continuare in quella direzione non avrebbe portato a niente. Poteva essere cambiato quanto voleva, ma spesso l'odioso ragazzino ferito dalla morte della madre tornava ad offuscargli la ragione ed in genere non era mai un bene per nessuno.
Decise di scoprire la sua ultima carta.
L'aver perso la partita non significava che non era possibile spingerlo a riflettere sulle sue azioni. 
«Le ho detto di prendersi del tempo per fare chiarezza su i suoi sentimenti. Di partire e visitare qualche college, di incontrare gente nuova e vedere se al ritorno pensa ancora a te.»
«Andrà da Manuel!» Non era una domanda, sapeva benissimo che cosa stava dicendo.
«Si e se fossi in te mi prenderei del tempo a mia volta per chiarire i miei sentimenti.
Pensaci bene, Isaac, o rischi di perderla per sempre.»

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Capitolo 29
*** Capitolo 27 - Non essere drastica. ***


Lea ci aveva pensato su per quasi tutta la notte e l'idea di lasciare Harpool Bay, sebbene per un tempo breve e limitato, non la entusiasmava particolarmente. Poi dubitava fortemente suo padre le avrebbe dato il permesso di saltare la scuola senza un motivo valido, e, di certo, fare chiarezza su i suoi sentimenti non lo era.
Per quanto le sarebbe piaciuto rivedere Manuel, la visita a Santa Clara avrebbe dovuto aspettare ancora qualche mese...

«Dovresti dormire da noi più spesso. Mia madre non è mai così gentile, quando siamo solo nei tre in casa.» Esclamò Red, slacciandosi il grembiulino rosso. «Perché non rimani da noi anche stasera? Sono sicura che le farebbe piacere.»
Lea sorrise.
L'idea era allettante, le avrebbe permesso di prendere le distanze da Isaac ancora per un po', ma si ritrovava costretta a rifiutare. Quella sera sarebbe stato il nono compleanno di Carmensa e avrebbero dato una grande festa subito dopo cena. Almeno cinquanta invitati. E pensare che lei ne aveva avuti solo tre, uno dei quali non era nemmeno poi così gradito...

«Tornerò, ma per adesso devo aspettare che a mio padre passi la rabbia.» Esclamò, raccogliendo i capelli castani in un cipollotto scomposto sulla cima della testa. «Si arrabbia come una bestia quando prendo decisioni ora per subito senza avvertirlo.»
«E' molto protettivo. A volte, penso, persino troppo.»
«Sta cercando di imparare ad essere il genitore di un adolescente. Infondo mi ha lasciata andare quando avevo solo sette anni e non ha più avuto nessuno su cui esercitarsi.»
«Credevo che tuo fratello avesse continuato a tornare qui anche dopo il divorzio.»
«Lo ha fatto, ma aveva, certamente, molto più buon senso di me. Aiden è uno di quelli di cui ti fidi facilmente.»
Red si strinse nelle spalle, bonfonchiando tra se e se.
La sua migliore amica non vedeva di buon occhio suo fratello, sebbene ritenesse che tutto quel ben di Dio fosse davvero uno spreco. 
Sin dal loro primo incontro, avvenuto solo qualche minuto dopo la rivelazione sulla sua sessualità, lo aveva inquadrato come una persona burbera ed altezzosa. Non pretendeva certo che scoppiasse di amore per lei, ma almeno un po' di rispetto si; infondo gli aveva fatto un favore. Se non fosse stato per lei, sarebbe stato solo l'ennesimo ragazzo troppo imbarazzato per esprimere a pieno se stesso che si ritrova a cinquant'anni sposato con una donna che non ama, un figlio che non voleva e che il sabato sera si rinchiude nei vecchi cinema alla ricerca di un rapporto occasionale con qualche sconosciuto.
...Guardava molti documentari sulle vite delle star. Fin troppi, effettivamente.
«Tu non mi hai ancora raccontato cosa è successo tra te e Nina!» Esclamò Lea, di punto in bianco.
Aveva aperto il discorso come se niente fosse, come se stesso parlando di cosa avrebbero mangiato quella sera a cena.

Red si irrigidì, continuando a stringere le stringhe delle sue scarpe. Improvvisamente anche quella le sembrava un'impresa titanica e le tremavano le mani.
Si umettò le labbra, cercando di controllare il suo tono di voce. 

«Non c'è niente da raccontare.» Sussurrò cercando di sembrare il più decisa possibile, ma il lieve balbettio aveva tradito il suo intento.
Sapeva di aver promesso a Lea di raccontarle tutto, ma non se la sentiva. Quella tra lei e Nina era stata una situazione particolarmente strana, che si aveva messo fine a qualsiasi dubbio avesse sulla sua sessualità, ma aveva anche incrinato quello che era il loro rapporto.
«Vuoi davvero farmi credere che non è successo niente? Ieri sera vi siete lanciate addosso frecciatine a non finire. Ho davvero temuto che prima o poi una delle due afferrasse un macete e lo piantasse nella testa dell'altra.»
«Non essere così drastica.»
«Non sono drastica. Giuro che da fuori davate quell'impressione.»
«Questo perché eri sconvolta di tuo e non eri obbiettiva. A proposito, cosa gira per la tua testolina oggi?»
Lea sapeva che l'intento di Red era quello di cambiare argomento e glielo avrebbe volentieri fatto notare, ma questo non avrebbe portato comunque a niente. Si zittì, consapevole del fatto che sarebbe corsa da lei quando avrebbe ritenuto il momento giusto per parlarne.
In tutta risposta si strinse nelle spalle, caricandosi in spalla, lo zainetto.
Nemmeno lei aveva particolarmente voglia di parlarne. «Un giro al centro commerciale, ecco cosa. Devo fare il regalo a Carmensa.»
«Vengo con te, ne ho davvero bisogno.» Replicò l'altra, alzandosi immediatamente in piedi.

Sorrise. Chissà perché, la cosa non la stupiva per niente.


«Perché sei qui?» Domandò Carmensa, masticando a bocca aperta un chewingum. «Avevo detto a mia madre che non ti volevo alla mia festa.»
Lea roteò gli occhi, chiudendosi la porta alle spalle.
Era appena rientrata e il quel nano odioso le stava già dando addosso. Che cosa diavolo doveva aver fatto di male nella sua vita passata per meritarsi una punizione del genere come sorella?
«Puoi stare tranquilla, me ne starò nella mia stanza senza darti alcun fastidio!» 
«Impossibile. E' la tua intera esistenza a darmi fastidio.»
«Prima o poi te la taglio questa linguaccia.» Tuonò a denti stretti la giovane, attaccando la borsa all'attaccapanni.
Quasi si pentiva di averle regalato quei dannati biglietti per il concerto dei Bastille, quella band che le piaceva tanto. 
Ricordava ancora quanto avesse pianto la sera in cui Marìa Elèna le aveva espressamente detto che non l'avrebbe portata a quel concerto nemmeno se l'alternativa fosse stata gettarsi sotto un treno in corsa. Lea aveva pensato che avrebbe potuto accompagnarla lei e chissà, magari, avrebbero potuto anche fare amicizia. Non che la cosa le interessasse particolarmente, però...
«Questo è il tuo regalo.» Esclamò, porgendole la busta bianca.
Carmensa se la rigirò tra le dita, prima di aprirla. Il suo viso era calmo ma i movimenti malfermi delle sue dita, tradivano le sue emozioni. Era contenta.
Gli occhi della bambina brillarono quando videro il contenuto della busta ed un sospiro di pura sorpresa uscì dalle sue labbra.
Quello era un regalo che si sarebbe aspettata da suo padre, che si comprava il suo amore attraverso certe infime piccole cose, non certo da Lea che sembrava tollerarla come si tollerano le nocciole quando si è allergici.
Le labbra tremavano per la contentezza, ma non avrebbe mai dato alla sorellastra la soddisfazione. «Avrei preferito un cellulare.»
La giovane scosse il capo, nascondendo un sorriso. Non si aspettava un ringraziamento. Sapeva di averla fatta contenta e quello le bastava. Adesso sperava solo che la matrigna non decidesse di fustigarla pubblicamente.
«Non c'è di che!» Esclamò, abbassandosi a lasciarle un bacio sulla testa.
Odiosa o no, Lea non poteva non ammettere di aver incomiciato a volerle bene, tutto sommato, ma non glielo avrebbe mai detto.
«Senti, tanto che sei qui, che ne dici di renderti utile?» Domandò Carmensa, afferrandola per un lembo della manica. «Stiamo per mangiare la torta, che ne dici di andare a sentire se Isaac ne vuole un po'? Tuo padre ha detto che stasera è a casa da solo e, chissà, magari potrebbe fargli piacere un po' di compagnia.»
La bambina aveva le gote arrossate, segno evidente che, ancora, la cotta per Isaac non le era passata.
Dal canto suo dubitava che il vicino avrebbe preferito ad una serata tutta per se la compagnia di una marea di ragazzine delle elementari, ma non le sembrava il caso di contraddirla anche il giorno del suo compleanno.
«Ma sono appena rientrata!» Protestò scherzosamente.
Carmensa la squadrò da capo a piedi con aria schifata prima di parlare di nuovo. «Muoviti e non lamentarti. Potrebbe aiutarti a smaltira tutti quei dolci che hai ingurgitato negli ultimi giorni!»
Lea aprì la bocca, totalmente incredula.
Ricordi quando ho pensato di volerti bene?, pensò, beh.. non è più vero.
Con un sospiro frustrato uscì di casa, chiudendosi la porta alle spalle. Avrebbe potuto benissimo passare per la finestra, come faceva di solito, ma si sentiva le gambe malferme e l'ulitima cosa di cui aveva bisogno era cadere dal secondo piano e sfracellarsi al suolo.
La sua vita andava già abbastanza male così, non aveva certo bisogno di peggiorare le cose.
Salì i gradini della veranda bianca di casa Hall e fissò la porta qualche istante prima di riuscire a bussare.
Voleva vederlo, ma non voleva vederlo...
La porta si discostò dalla soia subito dopo aver assaggiato il suo tocco, in uno stridere di cardini. Lea aggrottò le sopracciglia. Non succedeva mai che le imposte di casa Hall fossero aperte, ad eccezione della stanza di Isaac, la casa era sempre blindata. La cosa era particolarmente strana.
«Isaac?» Domandò, facendo capolino.
La sua macchina era parcheggiata nel vialetto e le luci all'interno erano accese, segno evidente che qualcuno in quella casa, c'era. «Isaac?» Chiamò nuovamente.
Nessuna risposta. Decise allora di entrare. Magari era sotto la doccia o forse stava suonando e non l'aveva sentita. 
Il salone era deserto, l'unico rumore era quello dell'orologio a pendolo che segnava lo scandire dei minuti. Controllò la cucina, il bagno e la stanza degli ospiti. Tutte completamente vuote. 
Incominciava a preoccuparsi. Si chiese, allora, se per caso, non ci fosse un intruso e se lei non lo avesse interrotto proprio nel bel mezzo di un furto.
Sentiva il cuore batterle a mille mentre percorreva la strada a ritroso e si avviava, con il fiato sospeso, verso il corridoio dove le scale, illuminate solo dalla flebile luce proveniente dal salotto, avevano un'aria tutt'altro che invitante.
Si bloccò ai piedi della scalinata, quando sentì un tonfo sordo. Il cuore le balzò in gola, mentre i suoi occhi captavano, a terra, quello che aveva tutta l'aria di essere un pezzo di stoffa. 
Era un vestito da donna, un adorabile vestitino blu a fiori. Lo stesso che aveva indosso Rebecca la prima volta che si erano incontrate. La consapevolezza di ciò che stava succedendo in quella casa, la investì in pieno.
Lea sentì qualcosa rompersi dentro di lei; era come se qualcuno le avesse infilato un coltello tra le costole. 
Le veniva da piangere, ma allo stesso tempo era stanca di piagnucolare ogni volta. Tirò su con il naso, uscendo di volata fuori di lì. Le lacrime minacciavano di uscire da un momento all'altro e lei doveva fare ancora una cosa prima di lasciare che seguissero il proprio corso.
Rientrando non rivolse nemmeno uno sguardo a Carmensa né, tanto meno, a chiunque altro fosse lì. Si diresse nella stanza di suo fratello, dove Aiden, steso sul letto, parlava al telefono. L'espressione crucciata sul suo viso le suggeriva che stesse parlando con l'Agente Coleman; generalmete si sarebbe soffermata a chiedere degli sviluppi sul caso Gabe, ma non quella sera.
Il fratello le rivolse uno sguardo stranito, prima di mettere in pausa la chiamata. «Aspetta un secondo!» Sussurrò a chiunque fosse dall'altro capo. «Che succede, Lea?»
Lea prese un profondo respiro. «Partiamo per Santa Clara.»


Per tutta la settimana, le serrande della stanza di Lea erano rimaste abbassate. 
Aveva evitato ogni interazione con Isaac, come si evita un appestato. Aveva fatto si che i suoi turni al Roy's venissero scambiati, in modo da non incrociarlo quando rientrava o quando usciva. Aveva rifiutato tutte le sue chiamate e non aveva risposto ai suoi messaggi. Aveva persino dormito da Red una sera si e l'altra pure. 
Quando finalmente la domenica sera era arrivata e, con lei, il momento di preparare la valigia, si era riscoperta estremamente sollevata.
Non sapeva perché stesse partendo, in realtà. Oramai, era abbastanza ovvio che non erano solamente delle attenzioni che le venivano negate ad ingelosirla, bensì l'intera storia di quei due.
Il suo era un comportamento stupido, anche questo sapeva bene, ma non sapeva in che altro modo comportarsi.
Insomma, c'è differenza tra l'immaginare che due persone facciano sesso e l'averne la conferma. Specialmente se ci si ritrova ad avere dei sentimenti particolarmente forti per una delle suddette due persone.
«Fai partenza?» Domandò Isaac.
Lea si irrigidì e sentì il peso del borsone trascinarla verso terra. 
Red aveva portato con se fin troppe cose per una sola settimana...
«Già.» Mormorò, evitando di alzare lo sguardo.
Si era ritrovata a fissarlo, qualche volta, nascosta dietro le tende della sua stanza o dagli spiragli lasciati dalle imposte e si era resa conto di essersi improvvisamente ritrovata a guardarlo con occhi diversi. Prima di allora non aveva mai voluto soffermarsi abbastanza su di lui per rendersi conto di quanto fosse perfetto. Sembrava fatto su misura perché lei perdesse la testa.
E non si era trattato di una cotta flash, nata e cresciuta nel giro di due settimane, assolutamente... la ''storia'' con Isaac era stato come la caduta di Alice nel tunnel che l'avrebbe condotta nel paese delle meraviglie. Lenta ed inarrestabile.
«Penso che mi mancherai, sai?» Esclamò lui, dopo qualche istante di silenzio, poggiandosi contro il retro del rover di suo fratello. «Sai, sono abituato ad averti sempre intorno e a sapere che, quando non ci sei, mi basta alzare lo sguardo per trovarti.»
«E' solo una settimana, sopravviverai.»
«Certo che sopravviverò ma volevo essere carino, una volta tanto.»
«Non mi piace quando sei carino. Risulti finto, ti preferisco quando ti comporti come una testa calda.»
La verità era che il suo essere carino la spaventava a morte. 
Il suo essere carino le faceva immaginare cose che non c'erano e le provocavano mille di quelle sensazioni che poi finivano, inevitabilmente, per distruggerla. 
«Ti vedo particolarmente nervosa, oggi!» Constatò Isaac.
Francamente lo era anche lui. Avrebbe voluto sapere quando sarebbe avvenuta questa partenza, avrebbe voluto avere la possibilità di fermarla.
«Ho dormito poco.»
«Non vedi l'ora di rivedere Manuel?»
No! «Si!»
Restarono entrambi in silenzio, sebbene di cose da dire ne avessero a iosa. 
Parlare avrebbe solo peggiorato le cose e l'ultima cosa di cui avevano bisogno era separarsi arrabbiata. Andava sicuramente meglio così...
«Lea è arrivato il momento di andare.» 
La voce di Aiden riportò entrambi alla realtà. Erano talmente immersi nei loro pensieri che non avevano sentito gli altri due giovani arrivare. In quel momento si pentirono di essere rimasti in silenzio.
«Allora ti auguro buon viaggio!» Esclamò Isaac, sentendo la gola improvvisamente secca.
Lea annuì e, senza replicare oltre, salì in auto. Doveva allontanarsi di lì prima di dire o fare qualcosa che avrebbe, poi, sicuramente, rimpianto.

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Capitolo 30
*** Capitolo 28 - Promesso. ***


Quando Isaac aveva visto il Rover di Aiden abbandonare il vialetto e scomparire dietro l'angolo, il suo primo istinto era stato quello di salire in auto e raggiungerli; a mente fredda aveva poi deciso di distrarsi, rifugiandosi tra le braccia di Rebecca, o meglio, tra le sue gambe.
I giorni a loro disposizione stavano per finire e lei sarebbe ben presto rientrata a Baltimora. 
Il giovane sapeva benissimo che sarebbe bastata una sua semplice telefonata per farla scattare sull'attenti. Infondo era stato abbastanza un solo mese a far si che fosse completamente assuefatta da lui e ne era orgoglio, sebbene sapesse benissimo quanto insana e malata fosse la cosa.
Come aveva già chiarito a parecchie persone, il bello di uscire con quella ragazza era la sua capacità di trascinarlo in un mondo lontano. Una bolla di sapone dove Lea Wilson non esisteva e non poteva raggiungerlo.
In poche parole, il paradiso in terra.
Quando l'aveva vista chiudersi la porta alle spalle ed incominciare a sciogliere i bottoncini del prendisole azzurro, si era convinto che ben presto il pensiero della piccola Wilson che si allontana sempre più da lui non lo avrebbe sfiorato, nemmeno minimamente. Eppure, non erano bastati gli ansimi ed i gemiti di Rebecca a fargli dimenticare quel senso di bruciante gelosia che sembrava spaccargli le ossa.

«Ti vedo pensieroso.» Miagolò la bionda al suo fianco, disegnando con le unghie laccate dei ghirigori in giro per il suo petto.
Isaac le rivolse uno sguardo distratto, prima di tornare a fissare il soffitto. «Non è niente.» Chiarì, portando le mani unite dietro il capo.
La giovane poggiò il capo contro il suo petto, mentre le sue dita vagavano in giro per tutto il suo corpo. 
La prima volta in cui l'aveva vista, stretta nella sua tutina nera, un tocco del genere aveva avuto il potere di mandarlo in visibilio, mentre quel giorno era come abitare un corpo morto. Si sentiva privato di qualsiasi emozione degna di nota.
«Sei sicuro?» Mormorò l'altra. «Non è che stai pensando a lei?»

Il volto del ragazzo si piegò nella sua direzione con una mossa felina. Gli occhi solcati da quella che sembrava una venatura di pura preoccupazione. «Lei chi?» Inquisì a denti stretti.
«Come chi? La tua vicina. Come si chiama Lena? Luna...?»
«Lea.»
«Si, lei. Lea.»
Isaac scosse il capo, decisamente irritato dal fatto che stesse tirando in ballo Lea. «Ti pare che mi metto a pensare a lei quando sono a letto con te.» Mentì.
«Sarà meglio!» Esclamò Rebecca, alzandosi a sedere. Lo fissò con il suo sguardo di ghiaccio. Occhi negli occhi. «Perché per quanto io sia presa da te, non sono disposta a condividerti.»
Il giovane sorrise piano, portando le mani sui fianchi di lei. Non sapeva bene se voleva rassicurarla o liberarsi di lei. La guidò a cavalcioni sul suo bacino e le accarezzò il viso candido.
Rebecca era indubbiamente bellissima, avrebbe fatto perdere la testa ad un sacco di uomini nel corso degli anni, ma non a lui.
Per un momento pensò che era strano non riuscire a smettere di pensare a Lea nemmeno in quel momento, nemmeno quando davanti una bellissima ragazza completamente alla sua mercé.
Pensò che se ci fosse stato più tempo, forse avrebbe potuto costringersi a darle una possibilità. A costringersi ad innamorarsi di lei. 
«Perché non resti?» Domandò, prima ancora di aver assimilato i suoi stessi pensieri.
In quel momento gli era sembrata la proposta più egoisticamente giusta.
La bionda, schiuse le labbra stupita, prima di boccheggiare qualche istante.
Aveva immaginato un momento del genere dalla prima volta che aveva messo gli occhi su di lui. Aveva passato notti intere a fissare il soffitto ed abbracciare il cuscino, sognando un'evenienza del genere; mille e mille scenari si erano ripetuti nella sua mente e si concludevano sempre allo stesso modo: con loro due che camminavano mano nella mano verso il tramonto.
Non aveva idea del perché, proprio adesso, non avesse la benché minima idea di cosa rispondere.
Si umettò le labbra, improvvisamente secche. «Restare qui? Ad Harpool Bay? Con te?»
«Si, con me. Con chi altro sennò?»
Rebecca era al settimo cielo, o almeno lo era una parte di lei. L'altra non riusciva a fare altro se non ipotizzare tutte le cose che sarebbero potute andare male se non si fosse soffermata a prendere una decisione ponderata.
«Non posso lasciare gli studi i miei genitori mi ucciderebbero e poi non avrei nemmeno un posto dove stare. Non posso certo dormire sotto un ponte.» Esclamò, mordendosi il labbro inferiore.
«Puoi stare qui. Mio padre se ne andrà poco dopo Natale e tu potresti chiedere il trasferimento al College di Santa Monica. Faresti da pendolare, ma saremmo insieme.»
La ragazza titubò ed Isaac le rivolse uno sguardo speranzoso.
Era il suo sguardo da cucciolo bastonato. Il tenero broncio con il quale riusciva a realizzare la maggior parte dei suoi obbiettivi.
Isaac sapeva di starla usando per il solo e semplice scopo di riuscire a mettere fine a qualsiasi cosa provasse per Lea e la cosa peggiore era che non si sentiva nemmeno in colpa.
Era davvero una pessima persona.
«Ma come faccio con il lavoro? Mi serve per pagare le spese universitarie e tu non puoi prenderti carico di tutto...» Rebecca fece una breve pausa. «Ci sono così tante cose a cui pensare. Pensi che riusciremmo a gestire tutto?»
«Non lo so.» Ammise il giovane, alzandosi a sedere a sua volta. Le stampò un bacio sull'angolo delle labbra. «Promettimi solo che ci penserai.»
Rebecca si lasciò beare dalle sensazione che quella scia rovente di baci le stava provocando, socchiudendo gli occhi. «Lo prometto.» Sussurrò.


 
Quando Lea aprì gli occhi, l'auto di suo fratello stava parcheggiando sul retro del parcheggio del Glenn Motel.
Si era addormentata poco dopo essersi lasciata alle spalle Harpool Bay, vinta dalla stanchezza e dallo sconforto. Dormire era stato anche l'unico modo per smettere di pensare a ciò che lasciava indietro e vincere il desiderio di scendere dall'auto, oltre che non essere costretta ad ascoltare i litigi continui di Red ed Aiden.
Seriamente non sarebbe stata capace di sopportarli per cinque ore consecutive.
Durante il viaggio le cuffie le erano sfuggite dalle orecchie e adesso sostavano sul tappetino. La loro musica non faceva più da sottofondo, segno evidente che il suo cellulare doveva essere morto vinto dalla traversata.
Con un mugugno di dissenso, si alzò a sedere, asciugando un rivolo di saliva che le pendeva da un angolo delle labbra.
Decisamente non attraente.
«Siamo già arrivati?» Mormorò, portandosi una mano alla fronte.
La testa le doleva terribilmente e si sentiva estremamente intontita. Sembrava reduce da una sbronza colossale più che da una soda dormita...
«Già?» Domandò in risposta suo fratello, tirando il freno a mano. «Vorrai dire FINALMENTE.» Tuonò. Sul suo volto era disegnata un'espressione spaventosa. Più che da un viaggio, sembrava reduce dalla guerra. «Hai idea di che cosa voglia dire viaggiare con questa qui?» Indicò Red. «Non si azzitta un attimo, non le va mai bene quello che dici, continua a darti dritte su come guidare, su quale strada sarebbe meglio prendere... Se questo viaggio fosse durato anche una sola ora in più, l'avrei abbandonata alla prima stazione di servizio.»
«Ah, beh, perché viaggiare con te è una passeggiata. Dico bene?» Brontolò Red, fulminandolo con lo sguardo. «Vai a venti in una strada il cui limite è settanta, canti, sebbene tu sia più stonato di una campana, vuoi giocare a degli stupidi giochi che consistono nel contare le macchine azzurre, rimbecchi tutto quello che dico ed ogni volta che apri bocca mi sembra di star parlando con una dannata enciclopedia.»
«Parlare con te invece è come parlare con un oca. Anzi, probabilmente l'oca sarebbe di maggior compagnia.»
«Scusa, signor musone, se non sono interessato al diametro del lago chicchesia.»
«Potrebbe solo farti che bene un po' di cultura.»
«Stai per caso insinuando che io non sia acculturata? Vorrei ricordarti che ho fatto cadere la tua dannata copertura da quattro soldi in uno schiocco di dita, dannato intelligentone dei miei stivali.»
Lea sospirò, portandosi due dita alle tempie.
Perché diamine aveva parlato? Non poteva semplicemente bearsi, in silenzio, del fatto che fossero arrivati?
Con un secondo sonoro sospiro, scese dall'auto diretta alla reception, dove un uomo, che sembrava appartenere all'epoca del mausoleo di Augusto, le rivolse uno sguardo annoiato.
«Come posso aiutarla?» Domandò, masticando insistentemente una gomma.
Quel modo di fare le ricordava, vagamente, quello di Carmensa. Chissà che i due non fossero imparentati.
«Ho una prenotazione.» Disse.
«Nome?»
«Wilson o Davis. Non ne sono sicura.»
«Non è sicura di come si chiama?»
Lea roteò gli occhi.
Non era decisamente in vena di certe battute da quattro soldi. «Non sono stata io a prenotare.» Esclamò perentoria.
L'uomo freddato dal tono glaciale della ragazza, fece correre lo sguardo sul registro, datato 1987, fino all'ultima prenotazione ricevuta. Dopo di che, le porse le chiavi, rivolgendole un sorriso sdentato.
«Non le consiglio di uscire di sera, qui gira gente losca e le converrebbe chiudere a chiave la porta della sua stanza prima di andare a dormire. Ah, e se dovesse fare qualche capriccio durante l'apertura, le dia una sonora spallata. Non si preoccupi dei danni.»
La giovane spalancò gli occhi, allontanandosi verso le scale, che l'avrebbero condotta alla sua stanza, senza riuscire a smettere di chiedersi in che diamine di posto l'avesse trascinata suo fratello.
 
 
 
«Quindi fa davvero così schifo l'hotel?» Domandò suo padre, dall'altro capo del telefono.
Lea, che era appena uscita dalla doccia, diede uno sguardo veloce alla stanza che condivideva con la sua migliore amica, incapace di trattenere uno sguardo disgustato.
Schifo era dire poco. Persino un maiale si sarebbe rifiutato di alloggiare in quel posto.
Era un buco di stanza, con un bagno minuscolo annesso. Le pareti, coperte da una carta da parati rossa mezza scrostata, sembravano aver visto tempi migliori, così come i due lettini singoli sgangherati e quelle orrende coperte a fiori azzurri. Per non parlare della polvere o della sporcizia in generale; quella camera sembrava non aver visto una ramazza dai tempi del dopoguerra...
«Diciamo che Aiden avrebbe potuto fare di meglio!» Minimizzò, stringendosi l'asciugamano contro.
Non c'era nemmeno l'aria condizionata e l'unico modo per riuscire a rinfrescare l'ambiente era piazzare una busta di ghiaccio davanti ad un vecchio ventilatore a cui mancava persino una pala.
Probabilmente qualcuno doveva averla usata per suicidarsi e, francamente, viste le condizioni di quel Motel, non si azzardava nemmeno a biasimarlo.
«Non darei la colpa a lui. Insomma, c'ero anche io e su internet sembrava valido.»
«Su internet ci sono un sacco di stronzate. Anche io posso sembrare una modella brasiliana magra come un chiodo su internet, ma non lo sono.»
«Potresti esserlo, se smettessi di mangiare tutti quei dolci. Mi stupisco di come tu faccia ad entrare ancora nella divisa da Cheerleader.»
Lea decise di ignorare il commento, non avendo nessuna voglia di arrabbiarsi.
Poi, ultimamente, aveva fatto voto a se stessa di non prendersela più con il padre. Marìa Elèna le aveva detto che la rabbia ed i dispiaceri potevano solo mandare in fumo i suoi miglioramenti abbastanza precari e lei non voleva caricarsi di un peso del genere...
«Tu, Papà, come stai?» Domandò.
L'uomo, dall'altro capo, emise un sospiro ed il cuore della ragazza scese nello stomaco. «Sto bene, tesoro.»
«Sei sicuro?»
«Sicuro.»
«Da uno a centomila quanto sei sicuro?»
La risata di suo padre, la rassicurò almeno un pochino e si sentì improvvisamente stupida per quella preoccupazione che agli occhi di molti poteva risultare eccessiva.
Purtroppo, ultimamente, aveva sempre più paura di svegliarsi al mattino e non trovarlo più. Di scoprire che se ne era andato e lei non era stata capace di dirgli tutte le cose che avrebbe voluto dirgli.
«Quando tornerai a casa dobbiamo parlare di una cosa molto importante.» Il suo tono lasciava trasparire ancora la scia di un'ultima risata e questo le diede il diritto di crogiolarsi nella speranza di una bella notizia.
«Posso avere uno spoiler?»
«Nemmeno per sogno. Voglio che sia una sorpresa.»
«Immagino, quindi, sia una bella notizia.»
«Bellissima.»
Si era pentita subito della sua partenza, convinta che si fosse trattato di un semplice capriccio da ragazzina ferita e che l'unica cosa che avrebbe le avrebbe portato via non sarebbe stato il dolore, ma solo del tempo prezioso da passare con suo padre. Quell'ultima notizia la faceva sentire già meno colpevole e decisamente più leggera.
«Io tuo fratello lo ammazzo!» Tuonò Red, sbucando fuori dalla doccia indignata.
Lea fece scivolare lo sguardo sulla sua figura, avvolta in un accappatoio rosa due volte più grande di lei, dalla testa fino ai piedi, dove due assorbenti le facevano da ciabatte.
Le rivolse uno sguardo confuso. «Posso chiedere?»
La sua migliore amica seguì la traiettoria dei suoi occhi, rivolgendole poi un'occhiataccia furente. «Sopravvivenza stile Piper Chapman. Aggiornati amica mia.»
«Ma non ti sei portata un paio di infradito?»
«No. Dove sono andata io li metteva sempre a disposizione l'Hotel.»
«Ma questo è un Motel di bassa lega. Che cosa ti aspettavi?»
«Che non andassimo in un Hotel di bassa lega.»
La giovane roteò gli occhi, procedendo con il rivestirsi.
Litigare con Red sarebbe stato inutile. Voleva trovare un motivo per picchiare Aiden da quando aveva messo piede in auto e l'aveva appena trovato.
Sarebbe stato come cercare di bloccare un tornado con una sedia.
«Ma a parte questo, tu come stai?»
Lea non alzò il viso, sebbene sentisse lo sguardo bruciante dell'amica, perforarle la schiena. «Sono stanca.» Ammise.
«Non intendo fisicamente. Come stai?»
In risposta si strinse semplicemente nelle spalle. «Mi sembra che l'aria sia meno pesante qui, di riuscire a respirare meglio.»
«Spero tu stia parlando in senso figurato...»
«Ma ovviamente, Red...» Replicò piccata. «Qui è come quando sono arrivata ad Harpool Bay. Triste perché ho abbandonato tutto, ma sollevata nell'essermi liberata di un problema.»
«Sai di dover tornare indietro, questa volta, vero?» Dal tono della rossa traspariva una tristezza ed una compassione crescente che non avrebbe voluto sentire mentre si parlava di se.
Storse la bocca con aria disgustata.
Certo che sapeva di dover tornare indietro, e voleva tornare indietro, solo non ora.
Alla fine di quella settimana Rebecca se ne sarebbe andata, allora niente di tutto ciò che le aveva fatto male sarebbe più importato. Tutto sarebbe tornato esattamente alla normalità, come prima di conoscerla.
...Tranne per il fatto che non sarebbe mai più entrata nella stanza di Isaac. Non voleva stare nello stesso luogo dove c'erano stati loro, nudi e sudati.
Il solo pensiero le faceva accapponare la pelle.
«Esco un secondo, avverto Manuel del nostro arrivo. Gli chiedo se vuole cenare con noi stasera...» Esclamò Lea, finendo di allacciare il bottone degli shorts a vita alta.
Gli stessi che aveva indossato la sera in cui l'aveva portata da Betsy.
Okay, doveva smettere di pensare a lui.
Anzi, doveva smettere di pensare in generale.
Chissà che provare a distrarsi non potesse sortire l'effetto giusto, una volta tanto.
«Non importa quanto cerchi di evitare il confronto, Lea. Arriverà prima o poi e posso assicurarti che, nonostante ciò che credi, non sarai l'unica a restarne ferita.»

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Capitolo 31
*** Capitolo 29 - Red? ***


Quando la gente guardava alla vita di Roselyn Elizabeth Davis la vedeva perfetta. 
Una bella ragazza, con una famiglia affettuosa ed un sacco di amici. Che cosa si poteva volere di più dalla vita?
Niente, se tutto ciò fosse stato vero. Ma non lo era.
Red non si sentiva affatto bella, non proveniva da una famiglia nemmeno lontanamente affettuosa e i suoi amici si potevano contare sulle dita di una mano. 
Non riusciva quindi a capire, come mai, ad Harpool Bay, ci fosse così tanta gente irrimediabilmente invidiosa di quel poco che aveva.
Persino Nina, una volta, le aveva rivelato di trovare ingiusto una ripartizione d'amore e ''perfezione'' così sbilanciata.
Nina.
Oh, Nina...
Da quella sera al locale, la mora aveva fatto si che i suoi turni venissero cambiati così da non doverli più condividere con lei e quando si era presentata al Roy's o a casa sua l'aveva brutalmente liquidata o, più semplicemente, si era fatta negare, mandando così in fumo la sua possibilità di spiegarsi meglio, di dare la sua versione dei fatti.
Aveva agito d'impulso e male, lo ammetteva, ma era stata colta alla sprovvista, e nessuno poteva biasimarla per questo.
«Red, Red!» La voce di Aiden, la riportò improvvisamente con i piedi per terra.
Quando Lea e Manuel erano usciti per passare una serata assieme, la giovane non se l'era sentita di rinchiudersi nella sua stanza a dormire su un letto nel quale, probabilmente, c'erano bacilli di malattie ancora del tutto sconosciute all'uomo. Aveva deciso quindi di uscire, cercare un tabacchino o qualsiasi altro locale vendesse un pacchetto di sigarette.
Non si era preoccupata di avvertire l'altro, del tutto convinta che non potesse interessargli di meno di ciò che andava facendo lei.
Il fatto che l'avesse seguita la stupiva e le scaldava il cuore allo stesso tempo.
«Ti sto chiamando da mezz'ora. Non mi hai sentito?» Le domandò il ragazzo, piegandosi sulle ginocchia e prendendo dei profondi respiri nel tentativo di riuscire a regolarizzare il fiato.
La rossa scosse il capo, storcendo la bocca di lato.
Le capitava spesso di estraniarsi dal mondo quando si soffermava a pensare. Non che in genere non lo facesse, Red non smetteva un attimo di pensare, semplicemente non lo faceva mai seriamente. 
«No, scusami!» Mormorò, stringendosi nelle spalle. «Volevi dirmi qualcosa?»
Il giovane Wilson si riportò in posizione eretta, affiancandola. «Ti stai allontanando troppo dal Motel e non mi va che tu te ne vada in giro da sola.»
«Da quando in qua ti preoccupi per me?»
«Da quando rischio di andare in galera, se ti perdo da qualche parte.»
«Suvvia, ammetti che, almeno un po' ci tieni a me.» Esclamò euforica, stringendogli le braccia al collo.
Aiden roteò gli occhi, trattenendo a stento un sorrisino. «Se ti piace pensarlo.»
La pura verità era che quei due non si stavano poi così antipatici, semplicemente gli piaceva punzecchiarsi e mandare su tutte le furie la povera Lea che non ne poteva più di sentirli litigare, ed erano lì da soli tre giorni...
«Come mai sei venuta qui fuori da sola?» Le domandò il ragazzo, qualche metro più tardi, interrompendo il silenzio. «Si, insomma, perché non mi hai chiesto di venire con te?»
Red si strinse nelle spalle, affondando le mani nelle tasche dei pantaloncini della tuta. «Avevo bisogno di pensare.»
«Pensare a cosa?»
«Non lo so. Un po' a tutto, credo.» Mormorò. «Sai, non ho nessuno con cui parlare quindi esco fuori casa e parlo da sola.»
Le capitava spesso, quasi tutte le sere.
Dopo cena, salutava i suoi genitori ed usciva con la scusa di un turno al locale o di un uscita con gli amici, poi cercava un posto isolato ed incominciava a camminare avanti ed indietro fin quando non riusciva a fare chiarezza.
Faceva delle lunghe conversazioni, delle volte litigava persino...
«Come fai a non avere nessuno con cui parlare?» Inquisì il giovane, aggrottando le sopracciglia.
«Beh, mio padre, il pastore Davis, non capirebbe. Mia madre non si sforzerebbe nemmeno di provarci e i miei fratelli sono troppo grandi per ascoltare i ''vaneggiamenti'' di una ragazzina annoiata.»
«Che mi dici dei tuoi amici?»
«Ho solo due vere amiche. Una ha altri grilli per la testa, mentre l'altra credo di averla persa per sempre.»
«E io?»
«Noi, non siamo amici.»
«Beh, io credevo di si!»
Red si voltò verso il ragazzo, trattenendosi a stento dal sorridere.
Quindi era così. Aiden Wilson la riteneva un'amica. Sembrava qualcosa di troppo incredibile per essere vero.
Si diede un pizzicotto sul braccio, giusto per controllare di non star sognando. No, era sveglia e l'indomani sul suo braccio ci sarebbe stato un ematoma delle dimensioni del Pantheon.
«Allora immagino che lo siamo!» Sussurrò, spostando lo sguardo altrove.
Macinarono ancora qualche metro prima che il giovane Wilson decidesse di mettere di nuovo un punto a quel silenzio imbarazzante. 
«Perché non me ne parli?» Domandò, grattandosi il naso.
Poteva non sembrare, ma era un buon ascoltatore. Non sapeva dare consigli, ma era bravo ad ascoltare la gente e consolarla quando avevano bisogno di una spalla su cui piangere. 
La rossa sembrò pensarci su qualche istante, seriamente combattuta su quale fosse la scelta giusta.
Parlare o lasciare tutto come era?
Infondo, non ne aveva parlato nemmeno con Lea, la sua migliore amica, perché mai avrebbe dovuto aprirsi proprio con Aiden? Ma, allo stesso tempo, perché no?
«Conosci Nina Carson?» Domandò. Il ragazzo annuì. «Lavoriamo insieme al Roy's e sin dal mio primo giorno lì si è dimostrata sempre molto gentile e disponibile nei miei confronti. E' stata, forse, la mia prima vera amica.» Fece una breve pausa, prendendosi il tempo per costruire un filo conduttore nella sua mente. «Non avevo idea che quella che per me era una semplice amicizia per lei era molto di più. Un paio di settimane fa, eravamo al locale, stavamo pulendo; ridevamo e scherzavamo come al solito, poi d'improvviso mi ha baciata.»
Da giorni, quella scena, continuava  a ripetersi nella sua mente senza sosta.
Le labbra di Nina sulle sue, il suo allontanamento tempestivo, lo sguardo ferito dell'altra e la sua fuga. Era un loop infinito di cui le sembrava impossibile riuscire a liberarsi.
«E...?» Indagò Aiden, grattandosi il naso, ritrovando in quella vicenda uno strano deja-vu.
«E non ho sentito niente. Una delle mie migliori amiche mi ha baciata ed io non ho sentito niente.»
«Sembra quasi che ti dispiaccia.»
«Perché è così: mi dispiace.»
Il giovane era confuso.
Non riusciva a capire a pieno il pensiero della ragazza.
Era dispiaciuta perché non aveva sentito niente? O era dispiaciuta perché i sentimenti di Nina avevano ''rovinato'' tutto?
«Non capisco.» Mormorò.
Red non si aspettava capisse, infondo, era qualcosa che non capiva a pieno nemmeno lei. Figuriamoci qualcun altro.
Prese un profondo respiro. «Mi dispiace perché le ho spezzato il cuore. Non solo quella sera, ma cento altre volte prima di quella...» 
Quante volte si era confidata con lei riguardo i ragazzi che le giravano attorno, quante volte le aveva raccontato dettagli confidenziali della sua vita amorosa senza sapere di starle facendo del male. Diamine, aveva persino frequentato suo fratello.
Si sentiva davvero una persona orribile.
«Vedi, Aiden, è difficile da credere, ma alcune volte prova più dolore chi ferisce che il ferito.» 
Aiden deglutì a vuoto.
Aveva vissuto quella stessa scena sulla sua pelle, quattro anni prima. Solo che lui era quello ad essere rimasto scottato.
Voleva credere alle parole della rossa, ma allo stesso tempo il ricordo del dolore bruciante che lo aveva piegato in due per settimane gli impediva di essere obbiettivo.
«Non è il mio caso...» Sussurrò.
La giovane decise di non continuare oltre.
Quando aveva deciso di confidarsi, fargli del male o riportare a galla ricordi indesiderati non era il suo obiettivo. 
Si, sentiva più libera, però.
Percorsero il tragitto a ritroso con leggerezza. Ridevano come si conoscessero da una vita e si prendevano in giro come amici di vecchia data.
Era una bellissima parentesi, che, però, era destinata a finire presto.
Ferma davanti alla porta della sua stanza, Red guardò il giovane Wilson infilare la chiave nella toppa della porta.
Non voleva restare da sola, ma se era per questo, non voleva nemmeno pregare Aiden di restare con lei.
Lea era andata ad una festa e le aveva detto che sarebbe rientrata tardi, di non aspettarla sveglia...
Sospirò, incominciando a frugare tra le tasche alla ricerca della copia della sua chiave.
«Red.» La chiamò il ragazzo, facendo capolino, quando sentì la serratura scattare. La giovane voltò capo, esortandolo, con lo sguardo, a continuare. «Non mi va di stare da solo. Perché non resti da me fin quando non torna Lea?»


Quando Lea rientrò nella sua stanza, erano oramai le due del mattino passate.
Dopo una cena, pressoché disastrosa, lei e Manuel avevano deciso di fare un salto al party di metà semestre organizzato da uno degli amici del ragazzo, giusto per fare qualcosa di diverso.
Le sere precedenti se ne erano rimasti chiusi nella sua stanza ed avevano, per lo più, giocato a carte sul letto, parlando del più e del meno o guardando un film su quel vecchio televisore sgangherato. 
Lea aveva sin da subito dimostrato il suo disappunto, quando il giovane Gallagher le aveva proposto la cosa, asserendo che non era un tipo da feste e, per rafforzare la sua tesi, gli aveva persino raccontato, a grandi linee, i suoi precedenti, non risparmiandosi però i dettagli del suo catastrofico bacio con Patrick. Manuel era, però, comunque riuscito a convincerla promettendole che se ne sarebbero andati via il prima possibile. Ed infatti era stato così.
Non erano rimasti che una mezz'ora scarsa, poi il giovane aveva guidato fino a San Jose, solo per portarla a vedere Winchester House, la magione infestata, sebbene l'orario di visita fosse oramai finito da un pezzo.
Era stata una bella serata, tutto sommato, e ciò che la rendeva ancora migliore era il fatto che non si fosse mai, nemmeno una volta, soffermata a pensare ad Isaac.
Aveva davvero vissuto in una bolla di sapone, anche se solo per qualche ora, e adesso, nuovamente con i piedi per terra, si ritrovava a chiedersi se la sensazione di leggerezza e allegria che lei provava con Manuel fosse la stessa che il giovane Hall provava in compagnia di Rebecca.
Egoisticamente, sperava di no.
«Red?» Chiamò, notando che la sua migliore amica non era nella stanza.
Il che era abbastanza strano, visto che Red non aveva mai espresso il desiderio di uscire, anzi, incredibilmente, era sempre stata la prima a proporsi di restare al Motel.
Non sapeva se doversi preoccupare o meno.
Per fortuna, la rossa, prima di uscire, aveva lasciato un messaggio: ''Sono uscita a fare due passi. Se torni prima di me, non aspettarmi in piedi. -Red''.
Quindi, era sola.
Sospirò, muovendo un passo verso l'uscita. Non le andava di stare sola; se lo avesse fatto si sarebbe sicuramente messa a pensare e ripensare e, dopo una serata del genere, rimuginare, era l'ultima cosa di cui aveva bisogno.
Gettò la borsa sul letto, per poi avvicinarsi alla porta.
Aveva tutte le intenzioni di fare irruzione nella stanza di suo fratello, sapendolo, sicuramente, ancora in piedi, ma il suono del suo cellulare la bloccò sulla soglia.
Lo aveva lasciato in stanza.
Manuel le aveva messo così tanta fretta addosso che aveva lasciato metà della roba che aveva deciso di portare con se. Cellulare compreso.
Si avvicinò alla spina e fissò lo schermo illuminato.
In seguito alla miriade di chiamate che suo padre, Marìa Elèna e persino Carmensa le avevano lasciato, c'era un messaggio di Isaac.
Da quando era arrivata lì aveva provato a mettersi in contatto con lui solamente una volta. La sera del suo arrivo.
Lo aveva chiamato, poiché la chiacchierata con Red le aveva fatto venire voglia di sentire la sua voce, ma a rispondere non era stato lui, ma Rebecca. Aveva agganciato, prima ancora che l'altra potesse finire di parlare. Da quel momento nessuna interazione di nessun tipo, quindi, quel messaggio, del tutto inaspettato, la spaventava un pochino.
Dopo svariati istanti, persi a fissare praticamente il vuoto, prese il poco coraggio di cui disponeva e fece scorrere il dito sulla schermata, aprendo la casella dei messaggi.
Il cuore le tremava nel petto e mancava un battito si e l'altro pure.
Non era mai stata così tanto presa da un ragazzo e, la maggior parte delle volte, si sentiva stupida per il modo in cui reagiva davanti, anche, alle piccole cose. Ma purtroppo non era qualcosa che poteva controllare; era come se tutto, dentro di lei, fosse amplificato all'ennesima potenza. 
Stava perdendo il contatto con il suo stesso corpo e ciò la spaventava a morte.
''Mi manchi''.
Il respiro le si mozzò in gola.
Avrebbe preferito non sentirselo dire. 
Quelle due parole, non facevano altro che peggiorare la situazione. Impresse su quello schermo sembravano deriderla e nella sua testa, risuonava la risata di Rebecca.
«Dio, Red, perché non ci sei mai quando ho bisogno di te?»


Quando Aiden scivolò sull'altro lato del letto, Red utilizzò un lembo del lenzuolo per coprirsi il seno.
Era sicura di avere dipinta sul volto un'espressione sconvolta, la stessa che vedeva sul volto del ragazzo.
Non avrebbe saputo dire come era successo o perché, sapeva solo che quelli appena passati erano stati i due minuti più lunghi della sua vita.
«Dopo questo, sono ancora più sicuro che mi piacciano gli uomini!» Esclamò il giovane, con aria greve.
Red, che non aveva il coraggio di girarsi a guardarlo negli occhi, tirò su con il naso. «Io, invece, incomincio a dubitarne.» Le veniva da piangere.
«Lea non dovrà mai venirlo a sapere. Intesi?»
«Nessuno. Nessuno dovrà mai venirlo a sapere.»

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Capitolo 32
*** Capitolo 30 - Non chiamarmi così. ***


«Perché non mi hai mai detto che sono un'ipocrita?»
Furono queste le prime parole che Red si sentì rivolgere dalla sua migliore amica, quando, oramai a mattino inoltrato, fece ritorno nella sua stanza.
Era rimasta fuori tutta la notte, accartocciata contro il Rover di Aiden, a pensare al terribile sbaglio appena commesso. 
Andare a letto con il fratello della sua migliore amica... ma come le era passato per la testa? Ma soprattutto cosa diavolo era passato per la testa di Aiden quando aveva deciso di non fermarla?
Per l'ennesima volta aveva rovinato tutto.
Il giovane Wilson era stato così gentile con lei, prendendosi la briga di ascoltarla e consolarla e lei era stata solo capace a rovinare tutto, ancora una volta. 
Perché non poteva essere come qualsiasi altra ragazza al mondo? Perché mai non riusciva ad avere un rapporto con un uomo che non comprendesse un rapporto fisico? 
In tutta la notte era arrivata ad una sola risposta: la sua incapacità di stare da sola, si manifestava attraverso il suo elesimonare amore da qualuque essere vivente che la degnasse di un minimo di attenzione.
Era rimasta lì, seduta sull'asfalto, fino a quel momento, quando il proprietario del Glenn Motel non le si era avvicinato per chiderle se tutto andasse bene e lei era scoppiata in lacrime davanti a lui. 
Una volta rientrata la sua prospettiva era quella di farsi una doccia e rifugiarsi sotto le coperte fino al momento della partenza, che sarebbe avvenuta circa due giorni dopo, non di certo quella di avere conversazioni morali con Lea.
«Come mai questa domanda?» Domandò, mantenendo il capo chino.
Su per le scale aveva cercato di eliminare il trucco sbavato alla bell'e meglio, ma aveva ancora gli occhi rossi e il naso leggermente attappato e l'ultima cosa di cui aveva bisogno era che l'altra se ne accorgesse ed incominciasse a porre domande scomode.
Inevitabilmente si ritrovò a chiedersi come l'avrebbe presa se la cosa fosse venuta fuori...
Conoscendola si sarebbe arrabbiata a morte.
«Rispondi prima tu!» Le intimò l'altra.
Anche Lea era rimasta sveglia tutta la notte, seduta sul suo letto a fissare lo schermo del cellulare, dove spiccava, ancora senza alcuna risposta, il messaggio che la sera prima le aveva inviato Isaac.
L'assenza di Red le aveva dato di modo di pensare alle sue azioni e ai suoi sentimenti, senza nessuna pressione esterna ed era arrivata alla bruciante conclusione di essere una dannatissima ipocrita.
Per mesi aveva giudicato e punzecchiato la sua migliore amica, definendola come una persona fredda ed incapace di essere felice, senza mai rendersi conto che lei, a modo suo, stava facendo esattamente la stessa cosa.
«Avrebbe cambiato qualcosa?» Domandò la rossa, incominciando a disfare le coperte. «Se io te lo avessi fatto notare tu saresti scattata sulla difensiva e ne avremmo ricavato solamente l'ennesimo litigio.»
«Ma io con te lo faccio sempre. Perché non ti sei presa la tua vendetta personale?»
«Una vendetta comporta voler far del male a qualcuno ed io non voglio farti del male, Lea. Sei la mia migliore amica...»
Lea si morse il labbro inferiore, sentendo l'impellente bisogno di stringere a se la rossa.
In tutta la vita non aveva mai avuto nessun'amica che fosse anche solo lontanamente paragonabile a lei. Ma infondo come avrebbe potuto? Roselyn Elizabeth Davis era unica.
Quando aveva visto Red per la prima volta, aveva pensato fosse solamente una ragazza strana. Il passare del tempo le era stato d'aiuto per comprendere quanta tristezza si celasse dietro tutte quelle stranezze e si sentiva morire se pensava che, parte di quelle sofferenze, erano anche a causa sua.
Dio solo sapeva quanto le sarebbe piaciuto per essere una così buona amica anche solo la metà di lei.
Per l'ennesima volta promise a se stessa che le avrebbe detto tutto. Per l'ennesima volta seppe di essere una bugiarda.
Affondò il capo nella curva del collo della sua migliore amica, stringendola forte, quasi temesse potesse dissolversi in aria da un momento all'altro. 
«Ho deciso che non voglio essere un'ipocrita.» Sussurrò, socchiudendo le palpebre. «Ho deciso che voglio provare ad essere felice.»
Red sorrise, facendo scorrere le mani sulla schiena della giovane e stringendola a sua volta.
Sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato e sapeva anche che quello sfarfallio che sentiva all'altezza dello stomaco portava il nome della gelosia. Gelosia di un cambiamento che lei non avrebbe mai trovato il coraggio di fare.


Isaac aveva passato la notte insonne fermo a fissare lo schermo del cellulare in attesa di una risposta da parte di Lea.
Non aveva idea del perché le avesse scritto o di che cosa diavolo stesse a significare; sapeva solo che era stato un riflesso spontaneo.
Aveva spostato lo sguardo verso la finestra della giovane e, preda del sonno e della stanchezza, gli era quasi parso di vederla lì, seduta sulla ringhiera, con le gambe a penzoloni.
Era una cosa che la piccola Wilson faceva spesso quando faceva troppo caldo per restare a letto o quando troppi pensieri le affollavano la testa impedendole di dormire.
Spesso, anche lui si era fermato a farle compagnia.
Parlavano e ridevano, incuranti dei vicini che, molte delle volte, li minacciavano di chiamare la Polizia se non avessero abbassato il tono. 
Ultimamente non succedeva più.
A dire la verità, nessuna interazione tra loro c'era più stata, di nessun tipo e quella sera, mentre Rebecca gli si stringeva addosso, ne aveva sentito la mancanza più del solito.
Stare con Becky era bello, lo faceva sentire bene, ma quello che avevano lui e Lea era diverso. Era una connessione emotiva difficilmente trascurabile ed era stato il loro dolore a legarli a quel modo.
Quando, oramai all'alba, lo schermo del suo cellulare si era illuminato, Isaac aveva sentito il suo stomaco aggrovigliarsi su se stesso in maniera estremamente dolorosa.
Aveva aspettato quella risposta tutta la notte e, adesso, non aveva neanche il coraggio di scorrere il dito sullo schermo per guardare cosa vi era scritto dentro.
Quando fu ora di uscire, dimenticò, volutamente, il telefono attaccato alla spina, ben consapevole che, se lo avesse portato con se, non sarebbe stato capace di concludere nulla, preda della curiosità più cieca.

«Stai andando da qualche parte?» Domandò suo padre, quando lo vide infilare le chiavi di casa dentro la tasca del chiodo.
Isaac si voltò, guardando con aria interrogativa l'uomo che, adesso, gli stava difronte. 
Era quasi incredibile sentirlo parlare senza masticare inutilmente le parole.
Lo squadrò.
Si era vestito. Da solo. E si era persino fatto la barba. Da solo.
Appariva incredibile anche solo pensare una cosa del genere, ma non sembrava nemmeno l'uomo di un mese prima. Il giovane Hall riuscì a stento a trattenere l'emozione nel riconoscere, finalmente, il padre che credeva di aver perso tanti anni prima.
«E' giovedì.» Sussurrò, dopo essersi ripreso dal suo momentaneo stato di trance. «Vado a trovare la mamma!»
Norman Hall annuì, avvicinandosi all'attaccapanni. «Vengo con te.» Esclamò, infilandosi nella giacca bianca. 
«Sei sicuro?» Domandò incerto il figlio. «Insomma, non sei voluto andare da lei per cinque anni. Perché adesso?»

«Perché da quando è morta tutto è andato a rotoli, persino peggio del solito, e perché, oggi, sono abbastanza lucido da poter capire che prima di riuscire a farmi perdonare da te, devo guadagnarmi il suo, di perdono.»


La tomba di Soraya Hall era, come sempre, gremita di fiori di tutte le specie e colori. 
Quando era ancora in vita era stata molto amata dalla gente del suo paese e, quindi, erano ancora molti quelli che, spesso, passando di lì, si fermavano a lasciare un pensierino per quella donna, strappata alla vita troppo presto. 
Isaac passava di lì tutti i giovedì, essendo il suo giorno libero, e si fermava a ripulire.
Portava dei fiori freschi, toglieva quelli secchi e spazzava via le foglie lì intorno o ripuliva la lapide dalla polvere. Certe volte si fermava persino a parlare con lei e, almeno per un po', era come se non se ne fosse mai andata.
Durante le prime settimane, ricordava di aver visto, molto spesso, un uomo fermo davanti alla lapide di sua madre. Poggiava un mazzo di rose sulla tomba, si abbassa a stampare un bacio sulla foto, poi se ne restava lì, impalato a piangere finché non sentiva Isaac avvicinarsi, allora scappava a gambe levate. 

Una volta lo aveva rincorso, nel tentativo di riuscire a capire chi fosse, ma era stato troppo lento.
Non si era più fatto vedere, ma il giovane sapeva che le visite erano continuate: ogni giovedì mattina, sul cumulo di terra che nascondeva la bara di sua madre, spiccavano, più belle e fresche di tutte, un mazzo di rose rosse.
Essere lì con suo padre era strano, sarebbe stato inutile negarlo, tanto strano da apparire sbagliato. 
La consapevolezza, affilata come un coltello, gli si parò davanti agli occhi: non avrebbe dovuto portarlo lì.
Il signor Hall restò a fissare la lapide per un tempo che al ragazzo parve infinito, poi si inginocchiò scoppiando in un pianto liberatorio.
Non aveva mai pianto per la moglie, non credendola meritevole di un gesto tale; infondo, lo aveva tradito, e non si versano lacrime per i traditori.
Eppure, adesso, a distanza di anni, si stava rendendo tristemente conto che, quello a sbagliare, era sempre stato lui.
La morte della moglie, la miseria che ne era derivata e l'odio che sicuramente suo figlio provava per lui, non era altro che colpa sua.
Si meritava tutto ciò che gli era capitato nella vita: le risa di scherno dei vicini, la solitudine, l'incapacità di reggersi in piedi senza aver bisogno di qualcuno, l'odio e persino i pettegolezzi infondati che non facevano altro che infossare, ancora di più, la sua immagine di un tempo.

Per anni aveva creduto che ammetterlo non gli avrebbe fatto che male. La verità era che, per tutto quel tempo, aveva covato aspettative che si erano rivelate cento volte più in basso della realtà.
«Papà...?» Lo chiamò Isaac, inginocchiandosi accanto a lui. «Papà!»
«Non chiamarmi così.» Esclamò d'improvviso, scansando bruscamente il giovane che, ben presto, si ritrovò con il culo per terra. «Hai capito che non devi chiamarmi così?»
Isaac, sconvolto e confuso, aggrottò la fronte. «Come dovrei chiamarti allora? Sei mio padre, non posso certo chiamarti per nome.»
L'uomo scosse convulsamente il capo. Singhiozzava come un bambino. «Non è vero, non è vero.»
«Non è vero che cosa, Papà?» L'altro tentennò. «Cazzo, papà, rispondi.»
«Tu non sei mio figlio. Non chiamarmi così. Non sei mio figlio.»

Isaac squadrò la figura dell'uomo dal basso, incapace di muoversi anche di un solo centimetro.
Il terreno, zuppo della pioggia della notte precedente, gli stava infradiciando e sporcando i pantaloni. Ma questa era l'ultimo dei suoi interessi, al momento. 
Che cosa diavolo voleva dire che non era suo figlio? Ma, soprattutto, poteva fidarsi delle parole di un ubriacone?

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Capitolo 33
*** Capitolo 31 - Sono Peter Wilson ***


Harpool Bay, 19 Giugno, 2012.


Il diciannove giugno era incominciato, per il giovane Hall, come un giorno come tanti.
Si era alzato tardi, aveva fatto una doccia veloce, era sceso al piano di sotto ed aveva salutato distrattamente sua madre per poi uscire, diretto verso casa di Isabella.
Niente di speciale, era ciò che faceva tutte le volte da una decina di giorni a quella parte, ma gli sarebbe bastata qualche ora per apprendere che quella mattina, apparentemente perfetta, non era che la calma che precede la tempesta.
«Cos’è un isotopo?» Domandò Isabella Monroe, stretta nel suo vestitino a fiori, sedendosi a cavalcioni su di lui.
Isaac le rivolse un breve sguardo, trattenendo a stento un sorrisetto divertito, prima di tornare con gli occhi puntati sul soffitto in legno della stanza della giovane. «Un atomo?» Tentò.
«Un atomo, come?»
«Non lo so!»
«Come non lo sai? L’ho ripetuto adesso!»
«Non cambia il fatto che continuo a non saperlo!»
Isabella sbuffò sonoramente, spingendogli, poi, la copertina del libro di chimica contro il viso.
Era esasperata. Non era certo quello il livello di attenzione che aveva preventivato quando si era proposta di aiutarlo con lo studio estivo…
Erano fermi su quell’argomento da un paio di ore, ma Isaac non sembrava affatto intenzionato a collaborare. Anzi, sembrava avere la testa da tutt’altra parte.
Isabella, in parte, lo capiva; anche lei avrebbe di gran lunga preferito essere altrove, magari al mare, con le sue amiche, a godersi la spiaggia e le vacanze, ma, invece, se ne stava lì, con lui, a ripetere cose che sapeva alla perfezione, perché sapeva quanto gli bruciasse quel fallimento al corso di Chimica, così come gli bruciava il solo pensiero che, se non fosse riuscito a rimettere in sesto la sua media con il test di inizio anno, avrebbe dovuto abbandonare il sogno di entrare alla Brown.
«Posso sapere, allora, perché sei ancora qui?» Domandò la giovane, inclinando il capo di lato.
Nessuno lo aveva costretto ad accettare il suo aiuto così come nessuno lo stava trattenendo lì; la scelta era stata solamente sua, se voleva andarsene poteva benissimo farlo.
Volendo essere sinceri, uscendo di lì avrebbe fatto un piacere anche a lei che non avrebbe continuato a spendere energia sopra qualcosa che non avrebbe portato a nulla e si sarebbe impegnata a portare avanti quelli che erano i suoi progetti per l’estate.
Isaac portò le mani alla sua vita e la ragazza sentì un brivido percorrerle la spina. «Perché sei bella da guardare.» Disse semplicemente.
Bella arrossì e nascose la cosa dietro una ciocca di capelli.
Quel ragazzo le faceva uno strano effetto.
Quando la guardava, si sentiva come se un intero zoo si fosse trasferito nel suo stomaco, ma non voleva lo sapesse. Era convinta che, altrimenti, prima o poi, avrebbe trovato il modo di usare la cosa contro di lei e non era certo intenzionata a restare vittima dei suoi stessi sentimenti.
Isabella Monroe era una donna indipendente e non avrebbe mai permesso alle sue sensazioni di limitarla o farle del male.
Qualche istante dopo, il giovane portò una mano sotto il suo mento, costringendola a voltarsi verso di lui.
Aveva lo sguardo perso, fisso sulle sue labbra.
Stava per baciarla. Bella lo sapeva benissimo. Aveva quello sguardo ogni volta, come se tutta la sua vita dipendesse da quell’unico, breve, contatto.
Isaac si alzò a sedere e la ragazza si fece più vicina, stringendo le braccia attorno al suo collo. La sua fronte contro quella di lui.
Erano talmente vicini che la giovane era convinta l’altro potesse sentire il suo cuore battere.
Quando il cellulare del giovane Hall intonò le prime note della suoneria, Isabella non seppe se definirsi sollevata o infastidita. Lo amava, su questo non c’era alcun dubbio ma prima che qualsiasi cosa si facesse troppo seria voleva essere sicura che anche lui provasse lo stesso.
Il giovane imprecò tra i denti, buttando la ragazza, bruscamente, dall’altro lato del letto ed alzandosi.
Giurava di prendere a pugni chiunque fosse il mittente di quella stupida chiamata.
«Chi è?» Ringhiò, passandosi una mano tra i capelli.
«Isaac? Sono Peter, Peter Wilson!»
Isaac non aveva idea del perché Peter Wilson lo stesse chiamando o del perché il suo tono non mascherasse una certa nota di urgenza, ma con il senno di poi, avrebbe preferito continuare a non sapere.
«Devi tornare a casa. E’ successo qualcosa a tua madre.»


Isaac correva, correva come non aveva mai fatto in vita sua, veloce e disperato, incurante della gente che, fissandolo confusa, non vedeva che un ragazzino strano.
La chiamata del signor Wilson era stata la mazzata finale. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso e che, inevitabilmente, aveva mandato in frantumi tutto il suo mondo.
Non poteva essere vero.
Non poteva star succedendo davvero.
Non a sua madre.
L’aveva lasciata quella mattina, seduta all’isola della cucina. Faceva le parole crociate e mangiava pancake.
Ciò che il signor Wilson aveva detto non poteva assolutamente essere vero.
La sua mamma non poteva essere morta.
Era impensabile. Doveva trattarsi di uno scherzo. Adesso, sarebbe rientrato a casa e l’avrebbe trovata seduta sul divano, a leggere un vecchio libro giallo e con in mano la sua fedele tisana ai frutti di bosco. Quella con il sapore orribile, che ad Isaac faceva gonfiare la lingua. Doveva essere così. Per forza.
«Mamma, Mamma!» Esclamò il ragazzo, spalancando la porta di casa.
La prima cosa che vide fu suo padre, seduto sul divano, con il busto piegato e le mani tra i capelli. Tutt’attorno a lui la squadra dello Sceriffo Tucker si stava muovendo di tutta fretta. A terra, a pochi passi dalla porta del bagno del piano di sotto, c’era un sacco nero, ancora aperto.
Il volto di sua madre era bianco, cadaverico, e aveva le labbra blu. I capelli, ancora bagnati, le stavano attaccati alla fronte. Gli occhi chiusi.
Isaac sentì l’impulso di vomitare, ma era pietrificato.
«Ragazzo, non puoi stare qui!» Tuonò Camden Reynolds, uno degli agenti, aggiustandosi il cappello sul capo.
Il giovane Hall avrebbe voluto replicare che quella era casa sua, quella a terra era sua madre e quel mostro sotto shock era suo padre e che quindi aveva il diritto di stare dove cazzo voleva, ma tutto ciò che uscì dalle sue labbra fu solo un versetto strozzato.
«Me ne occupo io, Rey. Lascia fare a me.»
Le braccia di Peter Wilson gli si strinsero attorno alle spalle, trascinandolo all’indietro. Isaac lo lasciò fare, consapevole che quella stretta era l’unica cosa a mantenerlo in piedi.
Voleva urlare, sbraitare, strapparsi i capelli, riuscire a trovare un appiglio che gli suggerisse che, quello, era tutto un sogno…
Invece restò immobile. Non riusciva nemmeno a piangere.
«Isaac! Guardami!» Tuonò il Signor Wilson, poggiandogli le mani sulle spalle. Aveva uno sguardo distrutto o forse era solo il riflesso dei suoi occhi, non avrebbe saputo dirlo. «Andrà tutto bene, penserò io a te.»
Isaac, istintivamente, gli si strinse addosso e le braccia dell’uomo lo circondarono. Solo in quel momento riuscì a scoppiare a piangere.
Era forse quello, ciò che la gente chiamava, l’amore di un padre?



Harpool Bay, 4 Dicembre, 2016.


Erano state ben poche le volte in cui Isaac Hall poteva dire di aver avuto davvero paura.
La prima, indimenticabile, risaliva a quando era solo un bambino. Si era svegliato nel bel mezzo della notte ed era sceso al piano di sotto per prendere un bicchiere d’acqua.
Aveva beccato i suoi genitori durante un litigio ed era rimasto nascosto dietro la porta dello sgabuzzino ad origliare. Quando suo padre lo aveva scoperto gli aveva fatto passare la voglia di farsi gli affari degli altri.
Sette costole ed uno zigomo rotto.
La seconda risaliva ad una decina di anni più tardi. Ne aveva quindici e correva per le strade di Harpool Bay come se avesse il diavolo alle calcagna.
Quando era rientrato a casa sua madre era già morta.
La terza, ed ultima, invece, era avvenuta qualche mese prima. Alla festa di Scott Norris.
Quando aveva visto Lea, in preda al panico, seduta a terra e con le lacrime agli occhi, aveva sentito le ginocchia tremare. Sapeva che non avrebbe dovuto lasciarla sola con Patrick e lo aveva fatto lo stesso.
Era stata l’idea che, in parte, fosse stata anche colpa sua a spaventarlo a morte.
Credeva che non sarebbe più successo, credeva di avere sotto controllo la situazione, poi tutto era andato a rotoli.
Suo padre era scappato ed Isaac non sapeva cosa fare.
Lo aveva cercato per tutta la città e non era riuscito a trovarlo. L’idea che fosse morto, chissà dove, gli faceva perdere la testa.
«E’ sparito!» Esclamò, portandosi le mani tra i capelli. «Mio padre è sparito.»
Peter Wilson, ancora fermo sulla porta di casa, fissò a lungo quel ragazzo che per lui era stato come un figlio. Si era presentato lì pochi minuti prima e si era fiondato all’interno nel preciso istante in cui gli era stata aperta la porta.
Sembrava sconvolto.
Sudava freddo, tremava, era pallido e sputava fuori frasi incomprensibili.
Durante la sua longeva carriera di infermiere ne aveva viste di situazioni del genere. Sapeva come gestirle e calmarle, eppure, in quel momento, fu come se ogni nozione imparata negli anni avesse abbandonato la sua testa.
Si avvicinò con passo stanco al ragazzo.
Aveva da poco finito la seduta di chemio quindi si sentiva bene, ma non così tanto bene.
Maledì se stesso e quella malattia che gli impediva di mantenere fede alla sua promessa.
Poggiò una mano sulla spalla del ragazzo che, però, continuava a muoversi come una trottola per il salotto, incurante, o forse ignaro, dello sguardo spaventato della piccola Carmensa.
Isaac era consapevole di star spaventando tutti, ma davvero non era capace di trovare una soluzione. Era una situazione più grande di lui ed aveva bisogno di qualcuno che l’aiutasse a gestirla.
Il Signor Wilson era sempre stato il suo porto sicuro, la decisione di affidarsi proprio a lui era stata del tutto istintiva.
Non aveva calcolato che gli anni e la malattia potessero limitare il suo “potere”.
«Ragazzo!» Esclamò l’uomo, costringendolo a fermarsi. «Calmati. Siediti e raccontami quello che è successo!»
Cosa era successo? Cosa era successo?
Diamine, avrebbe dovuto raccontagli cosa non era successo. Avrebbe sicuramente fatto prima.
Isaac prese un profondo respiro, passandosi una mano sul volto.
Non si sedette. Sapeva che, poi, non sarebbe stato capace di rimettersi in piedi; aveva le gambe come gelatina in quel momento.
«Eravamo al cimitero…» Mormorò, gesticolando. Lo faceva sempre quando era nervoso, era un modo per riuscire a mantenere un contatto con la realtà e non perdere la lucidità. «Lui non è mai voluto venire. Ma… ma questa mattina era diverso. Si, diverso.»
«Diverso come?» Inquisì il Signor Wilson.
«Non lo so, diverso.» Disse. «Si era vestito da solo… voleva venire a trovare mamma. Era… era un papà diverso da quello che conoscevo io! Siamo arrivati lì e lui è scoppiato a piangere e farneticava… poi io… io mi sono allontanato per un secondo. Ero andato a prendere dell’acqua e quando sono tornato lui…»
«Lui non c’era più.» Concluso l’uomo al posto suo.
Il giovane annuì, riprendendo a camminare per il salotto. Il cuore gli batteva in gola.
«Se ne è andato e non so dove sia.» Pigolò.
«Hai già chiamato la Polizia?» Domandò Marìa Eléna, facendo il suo ingresso in salotto. Teneva tra le mani un bicchierino basso, pieno di un liquido trasparente. Glielo porse.
Isaac lo bevve tutto d’un fiato e sentì la gola bruciare.
Alcool. Ovviamente.
Tossì. «Vodka?»
La donna lo fissò con un mezzo sorrisetto di scuse, insaccando le spalle. «Aiuta a calmare i nervi.» Sussurrò. «Insomma? Hai già chiamato la polizia?»
Il ragazzo scosse il capo.
Non ci aveva nemmeno pensato. Aveva semplicemente corso in giro per la città urlando, come un pazzo, il nome di suo padre. Non era riuscito a pensare razionalmente, ma aveva dei forti dubbi qualcuno ci sarebbe riuscito, in una situazione simile.
«Allora lo farò io!» Esclamò, avvicinandosi per lasciargli una carezza sul viso. «Lo troveranno. Fidati di me.»
La Vodka, fortunatamente, aveva già preso a fare effetto. Isaac si sentì già più calmo e con la testa più leggera.
Odiava bere, ma non poteva non ammettere che in quel caso si fosse rivelato un vero e proprio toccasana.
«Hai detto che tuo padre stava farneticando!» Esclamò Peter Wilson, prendendo posto sul divano. Batté il palmo sulla seduta accanto alla sua e, questa volta, il giovane Hall, non ci mise che un istante ad accettare l’invito. «Su cosa stava farneticando?»
Il ragazzo poggiò il capo contro la testiera, passandosi le mani sul volto. Persino la lingua sembrava non impicciargli più in bocca. «Qualcosa sul non essere mio padre.» Mormorò, chiudendo le palpebre.
Non voleva credere fosse vero.
Infondo, Norman Hall non era certo il tipo d’uomo che si prendeva cura del figlio di un altro. Eppure perché, allora, non gli era mai sembrato così sincero?
Sperava che Peter Wilson ci ridesse sopra e lo convincesse del contrario, invece…
«Quindi te lo ha detto!» Sussurrò.
Isaac rizzò il capo, fissando l’uomo con occhi spalancati. «Detto cosa?» Domandò, assottigliando lo sguardo.
«Ti ha detto la verità. Ti ha raccontato del tradimento di tua madre.»
«Il tradimento di mia madre?»
«Aspetta, quindi non sai tutta la storia?»
«Non sapevo nemmeno ci fosse una storia, ma immagino lei ne sia a conoscenza.» Ringhiò tra i denti.
Era davvero possibile che, per tutto quel tempo, gli avessero mentito? Tutti quanti loro? Che sapessero molto più su di lui di quanto sapesse lui stesso e fossero rimasti zitti?
No. Non poteva davvero essere così.
Il Signor Wilson, quel padre che non aveva mai avuto, non poteva, davvero, averlo tradito così.
«Si, la conosco.» Disse semplicemente l’uomo, puntando i suoi occhi grigi in quelli del ragazzo. «Ma non spetta a me raccontartela.»
«A chi spetta, allora?»
«Dovresti chiederla a tuo padre!»
«Quale? Sa com’è, sono passato dall’averne a malapena uno ad averne due. La sua domanda lascia un po’ troppo spazio all’immaginazione.»
«Isaac.» L’ammonì l’uomo.
«Cosa?» Sbraitò, alzandosi in piedi. «Vuole seriamente riprendermi? Vuole davvero sgridarmi per il mio comportamento?» Era incredulo.
Come pensava l’avrebbe presa? Che si sarebbe stretto nelle spalle e gli avrebbe chiesto un altro giro di Vodka?
Diavolo no.
Era arrabbiato, terribilmente arrabbiato e Peter Wilson non aveva il diritto di biasimarlo per questo.
Le persone che più amava al mondo gli avevano mentito per tutta la vita. Gli avevano tenuto nascosto una parte della sua esistenza che avrebbe potuto cambiarlo radicalmente.
Riprese a camminare per la stanza, esattamente come qualche minuto prima. Questa volta, però, non serviva per placare il panico quanto la ceca rabbia che stava prendendo piede dentro di lui. Strinse con forza i pugni, fin quando non sentì le unghie penetrare nei palmi e la pelle delle nocche tirare.
Stava per avere un’altra crisi, se lo sentiva.
«Da quanto tempo lo sa?» Domandò, prendendo un profondo respiro.
Non doveva scoppiare. Non doveva scoppiare.
Se lo ripeteva come un mantra, ma non sembrava sortire l’effetto sperato.
L’uomo si prese qualche istante, poi parlò. «Il giorno in cui è morta tua madre.» Disse, passandosi una mano sul volto. «Prima che succedesse il tutto è passata a casa mia. Mi ha consegnato una lettera e mi ha chiesto di dartela solo quando sarebbe stato il momento adatto. Non sapevo di cosa stesse parlando, ma, in buona fede, ho accettato. Quando tuo padre l’ha trovata, nella vasca da bagno, con entrambi i polsi tagliati, ho capito.»
Da quel giorno di quattro anni prima, Peter Wilson si portava dietro un fardello enorme.
Se non aveva mai aperto la bocca era sempre stato per il bene del ragazzo. Anche se, molte volte, solo nella sua stanza, o mentre faceva la chemio, si ritrovava a pensare a quante cose sarebbero potute andare diversamente se gli avesse consegnato quella busta sin da subito…
«Perché non me lo ha detto?» Domandò, nuovamente, il ragazzo.
Quella era, probabilmente, la risposta che più gli premeva sapere.
«Non c’è mai stato il momento giusto.»
Isaac rise, una risata gutturale e senza allegria. «Non c’è mai stato il momento?» Ripeté, inarcando le sopracciglia verso l’alto. «Mi sta prendendo in giro? E tutte le volte che sono venuto da lei a farmi ripulire le ferite che mi faceva quel mostro? Tutte le volte in cui le ho detto di volerla fare finita perché non sapevo più come vivere una vita simile? Le bastano? No, perché ho milioni di altri esempi per rinfrescarle la memoria.»
«So come ti senti, ma…»
«Sa come mi sento? No, non lo sa. Dubito che lei sappia cosa significhi essere traditi da qualcuno nella quale si ripone massima fiducia.» Fece una breve pausa, prendendo un paio di profondi respiri. «E’ stato lei ad accompagnarmi a scuola quando mi svegliavo tardi, a venire ai miei colloqui genitori insegnanti, che ha preso le ferie per stare con me quando ho avuto quel terribile incidente in moto e che mi ha sgridato e tenuto il muso quando ho lasciato il college. Lei è stato come un padre per me e non mi ha mai detto niente. Dubito sia mai stato tradito così.»
Peter Wilson abbassò lo sguardo.
Aveva sbagliato, ammetterlo ad alta voce non avrebbe certo placato la rabbia di Isaac, anzi, se possibile, sarebbe stato capace di farlo arrabbiare ancora di più e non era il caso.
La sua unica possibilità, adesso, era quella di fare la scelta giusta.
Si alzò in piedi, con non poca fatica, e si avvicinò all’attaccapanni. Dentro la tasca del suo giaccone blu, quello che non gli era mai servito e che sostava, ancora inutilizzato, lì, da anni, c’era una busta bianca.
La calligrafia ordinata e tondeggiante di Soraya spiccava. L’uomo se la portò alle labbra e vi lasciò sopra un bacio.
Sperò che, almeno lei, potesse perdonarlo.
Quando si avvicinò nuovamente al ragazzo, Isaac gliela strappò letteralmente di mano.
«L’ha letta?» Domandò, evitando di incontrare il suo sguardo.
Peter Wilson annuì. «Lì dentro troverai tutte le risposte che cerchi!»
Annuì a sua volta, imboccando la strada per la porta.
Dentro quella casa l’aria si stava facendo irrespirabile e lui non voleva spendere un altro secondo della sua vita lì. Non insieme a persone che gli avevano mentito per tutto quel tempo.
Una parte di se era arrabbiata persino con se stesso.
Aveva rinunciato a tutto per suo padre. Tutto.
Non era andato a riprendersi Isabella, aveva rinunciato alla Brown, non aveva girato il mondo… tutto per prendersi cura di un uomo che non gli era niente.
Sentiva di aver sprecato la sua vita dietro un relitto d’uomo e questo lo faceva incazzare a morte.
Attraversò il giardino ed imboccò il vialetto di casa sua.
Non si soffermò nemmeno a guardarlo quando gli passò accanto.
«L’ho trovato fuori casa mia, ubriaco marcio! L’ho riportato qui.» Esclamò Rebecca, poggiandogli una mano sulla spalla. Isaac se la scrollò di dosso bruscamente. «Dove lo metto?»
Il giovane infilò la chiave nella toppa ed aprì il portone di casa. «Abbandonalo in autostrada. La gente fa così quando non vuole più gli animali tra i piedi, no?»

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Capitolo 34
*** Capitolo 32 - Tu mi hai lasciato (Parte 1). ***


Il giorno del suo ritorno, in quasi tutta la California pioveva.
Era il primo temporale invernale, violento ed improvviso. Li aveva colti a metà della l-5 S ed aveva prolungato il loro ritorno da Santa Clara di altre due ore.
Lea aveva passato tutto il tempo seduta sul sedile posteriore dell’auto, con le gambe strette al petto ed un sorriso da ebete stampato sul volto.
Fremeva all’idea che, di lì a poco, lo avrebbe rivisto.
Aveva sognato, ad occhi aperti, quel momento per giorni e adesso, che era finalmente arrivato, le tremavano le mani.
Gli era stata lontana una sola settimana eppure si era rivelata abbastanza perché la giovane buttasse a terra gran parte di quelle mura che aveva costruito attorno a se, per tenerlo fuori.
Aveva deciso che era arrivato il momento di smettere di guardarsi le spalle in continuazione, di chiudersi nella sua stanza a piangere ogni volta che l’Agente Nolan chiamava per metterla al corrente degli sviluppi sul caso e soprattutto era arrivato il momento di essere felice ed Isaac la rendeva felice…
…La maggior parte del tempo.
«Come ti senti?» Le domandò Red, non appena sorpassarono il confine di Harpool Bay.
Lea la fissò attraverso lo specchietto retrovisore, rivolgendole un ampio sorriso. «Mi sento felice.» Disse semplicemente e, per la prima volta, fu la verità.
Red, al contrario, invece sembrava estremamente triste.
Negli ultimi giorni si era comportata in modo strano; parlava di rado, mangiava poco e spesso e volentieri scoppiava a piangere senza un motivo ben preciso. Lea aveva tentato in tutti i modi di riuscire a farle vuotare il sacco su cosa non andasse, ma la ragazza aveva sempre e solo replicato che stava bene, che era solo più emotiva del solito.
Suo fratello non era stato da meno.
Sembrava su un altro pianeta, sempre distratto.
Più di una volta lo aveva beccato a fare lunghe passeggiate e a parlare da solo; quando gli aveva chiesto che cosa avesse, le aveva detto di farsi gli affari suoi.
Sembrava quasi che facendo chiarezza su se stessa avesse contribuito a far confondere gli altri…
Quando Aiden parcheggiò l’auto nel vialetto, Lea si fiondò fuori senza nemmeno preoccuparsi di prendere l’ombrello o aiutare a scaricare le valige.
Aveva atteso tanto quel momento e non voleva aspettare oltre.
Voleva solo salutare la sua famiglia e raggiungere Isaac il prima possibile.
Aveva così tante cose da dirgli che non sapeva nemmeno da dove incominciare. Poteva parlare dei suoi sentimenti, ma temeva di spaventarlo; poteva raccontargli della sua esperienza, ma aveva seri dubbi gli interessasse oppure poteva parlargli di Manuel…
Meglio di no, ad Isaac non piaceva Manuel.
Oh, al diavolo. Ci avrebbe pensato nel momento in cui se lo sarebbe trovato davanti, adesso doveva occuparsi della sua famiglia.
«Sono a casa!» Esclamò a gran voce, facendo il suo ingresso nel salotto.
Casa sembrava stranamente deserta. Aggrottò le sopracciglia.
Da quando Marìa Elèna e suo padre si erano sposati, casa sua non era mai, e dico mai, stata vuota. Era sempre sotto l’assedio di amici e parenti di cui lei non ricordava nemmeno l’esistenza; la malattia non aveva che peggiorato la situazione.
Con tutto quel silenzio non sapeva se dirsi sollevata o preoccupata.
Che fosse successo qualcosa?
«Papà? Marìa Elèna? Carmensa?» Chiamò, passandosi una mano tra i capelli fradici.
«Siamo in cucina.» Rispose la piccola di casa Wilson seccata.
Sempre di buon umore, pensò Lea.
Di casa le era mancato tutto, dalla colazione in famiglia al braccetto della doccia. Tutto ad eccezion della sorellastra. No, decisamente lei non le era mancata.
La cucina era immersa nel silenzio.
Quando Lea fece il suo ingresso lì trovò tutti immobili con le loro tazze di thé tra le dita.
L’aria era tesa.
C’era qualcosa che non andava. Qualcosa di grosso.
«Lea?» Chiamò qualcuno alle sue spalle.
Le servì voltarsi per riuscire a riconoscere quella voce.
Quasi non si strozzò con la sua stessa saliva quando due occhi color ghiaccio incrociarono i suoi.
«E tu che ci fai qui?»




Lea fissò Rebecca negli occhi.
Tra tutte le persone che si sarebbe aspettata di trovare sedute nella sua cucina, a bere thé con la sua famiglia, la giovane Gordon era certamente sul fondo della lista, preceduta persino da il Presidente Obama o da Hitler…
Suo padre le aveva detto che si era presentata lì poco prima del suo arrivo. Aveva chiesto di lei, affermando che fosse una cosa di vita o di morte; Lea era scettica su questo punto, ma aveva comunque deciso, nonostante il fastidio iniziale nel saperla ancora lì, di ascoltare cosa avesse da dire.
Sospettava di non piacerle ed aveva indizi non indifferenti per affermare la sua tesi, se, quindi, si era ridotta a chiederle aiuto, qualcosa di grosso doveva pur esserci dietro.
«Allora?» Domandò, passandosi la lingua sul labbro inferiore.
Erano chiuse nella sua stanza da una buona manciata di minuti e la bionda non aveva ancora aperto bocca sul vero motivo per cui si trovava lì.
Lea, dal canto suo, stava incominciando a spazientirsi.
Aveva visto tutti i suoi progetti crollare a terra per l’ennesima volta e non era certo in vena di compagnia. Voleva solo che Rebecca se ne andasse il prima possibile e la lasciasse sola a deprimersi.
Insomma, aveva passato gli ultimi due giorni felice come una pasqua, non voleva certo perdere l’allenamento…
«Si tratta di Isaac!» Sputò, finalmente, fuori l’altra, emettendo un lungo sospiro.
La giovane Wilson si irrigidì sulla sedia.
Sapeva per certo si trattasse di lui dal primo momento in cui aveva posato i suoi occhi sulla ragazza; era l’unico vero motivo che potesse legarle in qualche modo. Ma pensarlo era un conto, saperlo per certo era tutt’altro.
«E’ successo qualcosa?» Domandò in un veno tentativo di nascondere l’urgenza nella sua voce.
«E’ successo di tutto.» Replicò l’altra.
Rebecca le raccontò tutto.
Di come si fosse svegliata al mattino e non avesse trovato Isaac al suo fianco, del post it attaccato sulla scatola di cereali dove le diceva che si sarebbe passato da lei nel pomeriggio e di come avesse trovato Norman Hall, seduto sul prato davanti alla fontana di Rodeo Park, in preda ai singulti.
«Quando l’ho portato qui, Isaac mi ha detto di abbandonarlo in autostrada come si fa con gli animali. E’ stato tuo padre a spiegarmi il resto della storia.» Concluse.
Lea aveva ascoltato con estrema attenzione l’intera vicenda ed aveva sentito il cuore scivolarle nello stomaco.
Adesso si sentiva ancora più in colpa per essersene andata.
Non poteva prevedere il futuro, questo era vero, ma se solo fosse stata più coraggiosa, se non si fosse lasciata spaventare dai suoi sentimenti così facilmente, forse le cose sarebbero andate diversamente. Non che la sua presenza potesse in qualche modo condizionare il corso degli eventi, però, forse…
«Ed io, esattamente, come potrei esserti d’aiuto?» Era questa la parte che non riusciva a capire.
La storia sembrava aver preso una piega totalmente autoconclusiva. Quale sarebbe dovuto essere il suo ruolo in tutto quel teatrino?
«Mi farebbe piacere se parlassi con Isaac.»
Lea inarcò un sopracciglio verso l’alto. «Se non ha voluto parlare con te perché dovrebbe voler parlare con me?»
«Perché in questo momento non ha bisogno della sua ragazza, ma della sua migliore amica.»
Quell’ultima parola fu come uno schiaffo in pieno volto. A Lea non era certo sfuggito il tono leggermente cantilenante e canzonatorio con cui aveva pronunciato quella frase.
Quindi lei sapeva. Sapeva dei suoi sentimenti e non aveva realmente bisogno di aiuto, almeno non solo: Rebecca Gordon voleva tracciare un confine.
Deglutì a vuoto.
«Che razza di stronza.» Mormorò tra se e se, mordendosi l’interno guancia.
L’aveva appena messa con le spalle al muro.



Prima di quel momento, Lea non era mai stata alla gola.
Dopo la morte di Dean, quello era diventato per tutti un luogo tabù.
Lei, dal canto suo, non aveva mai sentito veramente il bisogno di visitare il luogo dove suo fratello era morto, di fermarsi ad immaginare come fosse successe o quante cose sarebbero potute andare diversamente solo se avesse fatto qualcosa di diverso.
Quando gli avevano detto che era esattamente lì che Isaac si trovava in quel momento, il respiro le si era mozzato in gola.
Due parti della sua vita che non era sicura di voler affrontare, non ancora.
Lea prese posto a sedere su un masso poco distante dalla riva.
Aveva smesso di piovere da poco, ma i grigi nuvoloni in cielo minacciavano un secondo violento acquazzone. Isaac non sembrava essersene accorto, nuotava tranquillamente.
Era estremamente distante dalla sponda, gli sarebbero bastate poche bracciate per riuscire a toccare l’altra parete rocciosa; inevitabilmente Lea si ritrovò a pensare che quella distanza era la stessa che sentiva tra di loro.
Non avrebbe saputo dire quando era successo, sapeva solo che si era svegliata una mattina e niente era stato più come prima e, per questo, non poteva incolpare nessuno se non se stessa.
«Posticino inquietante per una nuotata, dico bene?» Domandò la giovane, lasciandosi scappare un risolino imbarazzato.
Quando era uscito dall’acqua, Isaac non l’aveva notata. Aveva continuato a camminare con lo sguardo basso e l’aria arrabbiata; Lea si era chiesta se fosse o meno il caso di rivolgergli la parola, poi il suo subconscio le aveva dato un vero e proprio schiaffo morale e si era convinta: lui le era rimasto accanto per ogni minima stronzata, lei non aveva fatto altro che voltargli le spalle. Ogni volta.
Il ragazzo alzò il capo, colpito da quella voce.
Non si aspettava di rivederla tanto presto, tanto meno in un posto come quello.
«Che ci fai qui?» Domandò atono.
Quello era il posto dove si rifugiava ogni volta che voleva restare da solo, quando la realtà si faceva troppo opprimente e nemmeno la corsa riusciva a sfoltire tutti i pensieri che aveva per la testa. L’idea che lei fosse lì, nel suo porto sicuro, lo metteva a disagio oltre che irritarlo terribilmente.
In quel momento Lea Wilson era l’ultima persona al mondo che voleva trovarsi davanti.
«Sono venuta a vedere come stavi!» Rispose semplicemente la giovane.
«Sto bene, puoi andartene, adesso.»
«Isaac non escludermi, per favore.»
«Hai saputo vero? E’ per questo che sei qui?» Lea mosse un passo all’indietro, mordendosi il labbro inferiore. Si sentiva in estremo imbarazzo, quasi fosse stata beccata a rubare in chiesa. Dalle labbra del giovane uscì una risata gutturale. «Che c’è? La notizia ha già fatto il giro della città e sei qui per i dettagli scabrosi?»
Voleva che se ne andasse, glielo leggeva negli occhi, ma lei non era disposta a lasciarlo andare. Se avesse mosso ritirata, quello avrebbe sancito la fine effettiva del loro rapporto; Lea non era pronta a rinunciare a lui.
Sarebbe rimasta lì, avrebbe incassato qualunque insulto senza replicare.
In quel momento esisteva solamente Isaac; se avesse voluto parlare, avrebbero parlato. Se avesse voluto urlare, avrebbero urlato. Se avesse voluto sedersi in riva alla gola ad aspettare la pioggia, allora si sarebbero seduti in riva alla gola ad aspettare la pioggia.
Non gli avrebbe voltato le spalle un’altra volta.
«Ho saputo…» Ammise, dopo un breve istante di silenzio. «Ma non sono qui per sapere niente. Sono qui per te.»
Il viso del ragazzo si contrasse in una smorfia sprezzante. Scosse il capo. «Sei qui per me? Tu mi hai lasciato.»
Pretendeva forse, da lei, delle giustificazioni? Lea non ne aveva di valide…
«Non ti ho lasciato, Isaac. Avevo solo bisogno di un momento per me, dovevo fare chiarezza su delle cose. Averti vicino non mi avrebbe certo aiutata.»
Quella frase era uscita dalle sue labbra incontrastata, come fosse la cosa più naturale del mondo.
Avrebbe voluto mordersi la lingua, prendersi a schiaffi, ma oramai il danno era fatto.
Isaac la fissava.
Lo sguardo duro era imperscrutabile.
Per la prima volta, quegli occhi azzurri, quelli che l’avevano tranquillizzata milione di volte prima di allora, le parvero nemici, le misero soggezione.
«Ci sei riuscita?» Questa volta il suo tono di voce era più docile, ma le era comunque estraneo. Annuì. «E quali sono state le tue conclusioni?»
Lea sorrise mestamente, spostando lo sguardo altrove. Tirò su con il naso, ricacciando indietro le lacrime. «Non hanno più importanza adesso.»
Quando aveva visto Rebecca avrebbe voluto urlare.
Non lo aveva realizzato subito, le ci era voluto qualche istante per mettere fuoco alla situazione e poi era arrivato quell’opprimente bisogno di gridare. Grida che le erano, però, morte in gola.
Aveva pian piano razionalizzato il tutto e, alla fine, era sopraggiunta una verità che le aveva incrinato le costole: se lei era lì, era perché Isaac le aveva chiesto di restare.
“Quante cose sarebbero cambiate se, quella sera, sul molo, io, ti avessi baciato?”
Sospirò.
Pensarci troppo non avrebbe certamente migliorato le cose. Aveva perso la sua occasione, non le restava che farsene una ragione.
Restarono qualche istante a fissarsi in silenzio.
Nella loro relazione era qualcosa di ricorrente, succedeva spesso provassero dei sentimenti impossibili da esprimere a voce e quindi se ne restavano semplicemente lì, a guardarsi negli occhi in attesa che l’altro capisse.
Questa volta però era diverso. Lea non percepiva, davanti a se, una connessione bensì uno spesso muro di ghiaccio impossibile da buttare giù.
«Chi ti ha detto che ero qui?» Domandò Isaac.
Quella situazione era soffocante, per lui.
Lea era stata la prima persona capace, negli ultimi anni, di fargli provare qualcosa di puro. Averla così vicina eppure sentirla così lontana era una tortura, eppure, non riusciva a guardarla senza vedere l’auto di Aiden che scompariva dietro l’angolo.
«Nina.» Rispose la ragazza, avvicinandosi di qualche passo. Isaac, istintivamente, ne mosse altrettanti all’indietro.
«Ti ha per caso detto anche che quando vengo qui è perché voglio stare da solo?»
«Ti ho per caso detto che non me ne frega niente?»
«Lea, per favore, vattene.»
«Mi dispiace ma non posso farlo. Stare solo non migliorerà le cose.»
Il giovane Hall trattenne il respiro.
Era stato lui a dirgli quelle stesse parole, la sera in cui avevano raggiunto Santa Monica. La sera in cui l’aveva quasi baciata.
Quella notte sarebbe stato il più grande rimpianto della sua vita.
Sospirò, passandosi una mano sul volto.
«Sei la mia rovina, Lea Wilson.» Nella sua voce non c’era alcuna traccia di divertim

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Capitolo 35
*** Capitolo 33 - Tu mi hai lasciato (Parte 2) ***


«Sei la mia rovina, Lea Wilson.»
Lea boccheggiò per un istante, distogliendo lo sguardo.
In altre occasioni non le sarebbe rimasto tanto difficile crederlo, era già pienamente consapevole di portare orrore e disastro ovunque andasse, ma in quel determinato momento sapeva bene Isaac stava parlando solo ed esclusivamente per rabbia. Scaricava su di lei tutto il risentimento che provava contro suo padre e contro Norman Hall.
…Questo, però, non significava facesse meno male.
«Se allontanarmi è quello che stai cercando di fare, sappi che non funzionerà.» Esclamò perentoria, muovendo nuovamente un passo all’avanti. Questa volta il giovane restò dove era. «Per tutto questo tempo, non ho fatto altro che scappare davanti alla prima difficoltà, ma adesso basta. Sono stanca di scappare. Se vuoi che me ne vada, dovrai portarmi a forza via di qui.»
Isaac si passò una mano sul mento, spostando lo sguardo altrove.
Provava sentimenti contrastanti nei suoi confronti. Il petto gli diceva di mandarla al diavolo ed andarsene lui, la testa gli suggeriva di pensare razionalmente e non scaricare su di lei lo sbaglio di qualcun altro…
Cosa avrebbe dovuto fare?
«Perché lo fai?» Domandò, dopo una breve pausa. Il suo tono di voce era rabbioso ed aggressivo. Un mastino pronto all’attacco. «Sono per caso la tua buona azione del mese? Un atto di beneficenza?» Non voleva accanto a se qualcun altro che lo compatisse.
La mano della giovane colpì la sua guancia con una forza tale da fargli voltare il capo dall’altra parte.
Si portò una mano al viso, incapace di trattenere un’espressione stupita.
Lea, in tutta la sua vita, non si era mai sentita tanto umiliata.
Come poteva, Isaac, anche solo pensare una cosa del genere?
Lei era sempre stata l’unica a guardarlo negli occhi e riconoscere un ragazzino pieno di sogni infranti e non un teppista di strada o un violento. Era stata l’unica a non averlo mai giudicato per il passato di suo padre, ad esserselo preso e fatto piacere così come era.
Come poteva pensare una cosa del genere di lei? La sua Lea?
«Lo faccio perché sei mio amico ed io sono…» Cotta di te. Si morse la lingua. «…preoccupata per te. Io ti voglio bene.»
Le era quasi scappato.
Isaac aprì la bocca, ma il rombo di un tuono attutì le sue parole. Non si prese la briga di ripetere. Più semplicemente, si abbassò ad allacciare le scarpe e a raccogliere la maglietta. Qualche istante dopo si sedette vicino alla riva.
Lei fece lo stesso.
In tutti quegli anni, quel posto, se lo era immaginato diverso.
Nella sua mente, la gola di Harpool Bay aveva un aspetto infimo e cattivo, con strapiombi altissimi e massi acuminati. Mai avrebbe immaginato che fosse in realtà un così bel posto.
«Non me lo ero mai immaginata così!» Mormorò, spostando lo sguardo sulla cima della scogliera.
Suo fratello era scivolato da là.
Un volo di quattro metri nel vuoto, la sua testa aveva colpito le pietre e poco dopo era morto. Se qualcuno fosse rimasto e lo avesse trascinato fuori dall’acqua sarebbe stato ancora vivo, un solo passo in avanti e sarebbe caduto in acqua…
Deglutì a vuoto.
…Era proprio questo ciò che avrebbe voluto evitare.
«A Dean non sei mai piaciuto.» Esclamò la giovane, dopo qualche istante di silenzio, riportando lo sguardo sul ragazzo. Sorprendentemente lo trovò a fissarla.
Un mezzo sorriso sghembo si dipinse sul volto di Isaac, prima che questi si costringesse a tornare serio. «Nemmeno io provavo troppa simpatia per lui!» Brontolò.
Non aveva conosciuto abbastanza il più grande dei fratelli Wilson da poter esprimere un vero e proprio giudizio. Ricordava solamente che, quando era bambino, quel ragazzo gli stava sullo stomaco.
Si credeva il re del mondo con quei suoi vestiti scuri e la chitarra in spalla.
…Con il senno di poi sembravano esser diventati più simili di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere. Non essere figli dell’uomo che chiamavano padre compreso.
Lea sorrise, da qualcuno come Isaac non si sarebbe certo aspettata altrimenti. Anzi, si sarebbe preoccupata se avesse detto il contrario.
«Diceva che eri un idiota e che se non ti fossi dato una bella svegliata avresti fatto la fine di tuo padre, se non ti avesse ucciso prima.» Fece una breve pausa. All’epoca era troppo piccola per dare peso ad avvenimenti del genere e, poi, con gli anni, quelle parole erano scivolate nel dimenticatoio per poi tornare a galla tutte assieme. «Papà si arrabbiava così tanto quando diceva certe cose. Già allora ti considerava come un figlio.»
«Stai cercando di giustificarlo?»
«Voglio solo dire che per tutta la vita, tutto quello che ha fatto è stato prendersi cura di te. Se ha sbagliato lo ha fatto in buona fede.»
«Non aveva comunque il diritto di continuare a tenermelo nascosto, così come tu non hai il diritto di startene qui a raccontarmi queste stronzate di cui, francamente, non me ne frega niente.»
Lea sospirò ed una goccia le colpì la punta del naso.
Aveva lasciato un amico e, adesso, trovava davanti a se ad un muro.
Forse se lo meritava, sarebbe dovuta rimanere quando ne aveva l’occasione e non pretendere di potersene andare e tornare senza subirne le conseguenze. Avrebbe dovuto essere lì, con lui, quando quell’inferno era scoppiato e non trenta chilometri altrove a fare chiarezza su un sentimento di cui aveva già la completa certezza…
«Quindi finisce così?» Inquisì la giovane.
«Finisce così, cosa?» Replicò Isaac, visibilmente scocciato.
«Tutto. La tua vita, la tua famiglia, noi…»
«Non c’è mai stato un “noi”, Lea.»
«Questo perché tu hai deciso che non era il caso di provarci.»
Lea non riusciva a credere che fossero realmente arrivati a discutere di una possibile relazione. Con quella frase la giovane Wilson avrebbe voluto spingerlo a pensare, a chiedersi se fosse il caso di rinunciare a tutte le sicurezze di una vita a causa di una notizia, a questo punto, alquanto relativa.
Isaac aveva oramai quasi vent’anni, non aveva bisogno di un padre.
Voleva fargli realizzare che un figlio non è di chi lo fa, ma di chi lo cresce e che chiunque fosse il suo vero padre, evitando di prendersi cura di lui quando più ne aveva avuto bisogno, non poteva che definirsi un uomo all’altezza dello stesso Norman Hall, se non persino più in basso. Il vecchio Hall, a modo suo, perlomeno, c’aveva provato a crescerlo, quel figlio non suo. Invece il ragazzo aveva preso una sola, singola, informazione, la più irrilevante al momento, e gliel’aveva sbattuta in faccia.
«Vuoi incolpare me?» Domandò Isaac, assottigliando lo sguardo. «Ogni volta che ho provato a fare un passo verso di te, tu ne hai fatti cento indietro. Cosa avrei dovuto fare? Rincorrerti?»
«Sarebbe bastato chiedermi di restare.» Un lampo spezzò il cielo e subito dopo, il rombo di un tuono, precedette la pioggia più violenta e rabbiosa che Lea avesse mai visto in tutta la sua vita. Una chiara rappresentazione del loro stato d’animo. «Hai chiesto a lei di restare, una ragazza che conosci da quanto? Tre settimane? Lo hai chiesto a lei e non lo hai chiesto a me. Perché?»
«Perché non saresti rimasta.»
Lea boccheggiò. Non avrebbe saputo dire perché, ma quella frase piena di risentimento e sconfitta aveva avuto il potere di lasciarla spiazzata. «Ti sbagli, sarei rimasta.» Balbettò.
Il ragazzo scosse il capo, rivolgendole uno sguardo raggelante. «Non saresti rimasta. Perché non sono abbastanza. Non sono abbastanza per far restare nessuno. Né te, né mia madre…
Puoi stare tranquilla, non te ne sto facendo una colpa. Persino il mio vero padre ha deciso di bidonarmi, non vedo il motivo per cui non avresti dovuto farlo tu.»
Lea giurò di non aver mai sentito niente più triste in tutta la sua vita.



«Ti avevo chiesto di tranquillizzarlo, convincerlo a parlare, invece a quanto vedo hai fatto solamente peggio.» Brontolò Rebecca, portando le braccia conserte al petto.
Dopo l’ultimo commento del giovane, Lea non era stata in grado di replicare e quando se ne era andato, lasciandola sola sotto la pioggia, la giovane era stata capace solo di starsene lì a guardarlo scomparire oltre le fronde degli alberi.
Gli era parso più solo che mai e sapere di aver contribuito a renderlo tale era un merito soffocante.
Aveva pianto mentre tornava a casa.
Aveva pianto per debolezza, tristezza, solitudine e persino per il cuore spezzato.
Lo aveva detestato quando se ne era andato, quando aveva raccolto le sue cose e l’aveva lasciata indietro, eppure, anche volendo, non riusciva ad odiarlo. Sentiva solamente un profondo senso di vuoto. Che lui si fosse sentito così ogni volta che lei lo aveva allontanato?
Sperò di no, era una sensazione che non avrebbe augurato nemmeno al suo peggior nemico.
Avrebbe dovuto aiutarlo ed invece aveva solo peggiorato le cose. Aveva ridotto in pezzi tutto ciò che era rimasto di salvabile tra loro.
Quando era rientrata a casa, aveva trovato Rebecca sulla veranda.
Aveva pensato – sperato – che se ne fosse andata, oramai, invece era ancora lì come un avvoltoio a ricordarle in cosa aveva fallito. Sembrava quasi che ci provasse divertimento nel vederla stare male.
Lea ignorò il suo commento acido e prese a frugare nelle tasche della felpa alla ricerca del mazzo di chiavi, quando questa parlò di nuovo.
«Allora che cosa ti ha detto? Che ha intenzione di fare con suo padre? E con me? Ti ha detto niente?»
«Oh, ma va al diavolo!» Replicò la giovane Wilson sbattendole il portone in faccia.
Che si cercasse le sue dannate risposte da sola, lei non era il dannato intermediario di nessuno.

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Capitolo 36
*** Capitolo 34 - Che giorno è? ***


Nel 1886 l’antropologo Francis Galton descrisse, per la prima volta, la “Regressione verso la media”. Tale fenomeno, consisteva nel prendere due valori estremi, sommarli ed, infine, dividerli in modo tale da ricavarne l’esatta metà. Una sorta di punto di equilibrio. Con il passare dei secoli tale espressione era diventata di uso comune, fin quando non era diventata il sinonimo più studiato del classico: “Non può piovere per sempre”.
Lea non c’aveva mai creduto, era sempre stata convinta che una formula matematica non potesse essere applicata alla vita di tutti i giorni, specialmente ad una come la sua dove il mondo sembrava divertirsi a piovere sul bagnato.
Fin quando non era stata costretta a ricredersi.
Da quando era arrivata ad Harpool Bay la sua vita si era svolta in un susseguirsi di disastri senza fine; il suo tentativo di vivere un’adolescenza pseudo normale l’aveva trascinata in un tunnel infinito di cui non riusciva a vedere la fine, poi una mattina era successo: aveva aperto gli occhi e tutto aveva preso ad andare per il verso giusto.
Le ultime analisi di suo padre avevano mostrato un restringimento del linfoma, dando alla famiglia uno spiraglio di speranza; Aiden aveva finalmente rivelato al mondo la sua omosessualità; Nina aveva avuto il coraggio di lasciar entrare Red e darle una seconda possibilità…
In tutto quel quadretto lei era l’unica a sentirsi una nota stonata.
La sua vita non era più un disastro totale, questo era certo, ma era fin troppo strano pensare di andare avanti senza Isaac al suo fianco.
Prima che partisse per Santa Clara, prima che l’intero mondo crollasse, lui le aveva detto che gli sarebbe mancato sapere che, quando non c’era, gli sarebbe bastato alzare lo sguardo per trovarla e sentirla più vicina. Lea c’aveva provato, aveva girato lo sguardo milioni di volte eppure quella distanza sembrava ogni volta più invalicabile.
«Tra qualche giorno sarà il compleanno di Isaac.» Constatò ad alta voce, asciugandosi le mani nel grembiulino rosso. «Potremmo organizzargli una festa. Pochi intimi. Pensi potrebbe fargli piacere? Ti ha detto niente?»
L’aveva buttato lì come un argomento di poco conto, una curiosità come tante, ma continuava a rigirarsi un lembo della maglietta tra le dita. Lo faceva quando era agitata. Nina lo sapeva.  Tutti quei mesi chiusa al Roy’s assieme a Lea le avevano dato un chiaro specchio di tutte le sue abitudini e stranezze; generalmente sarebbe stata in grado di dare una risposta al dubbio di fondo della giovane, ma non era quello il caso.
Purtroppo si trovavano entrambe sulla stessa barca.
«Evita anche me, Lea!» Replicò, avvicinandosi.
La piccola Wilson, trattenne il respiro, non potendo fare a meno di arrossire. Era stata beccata con le mani nel sacco.
Annuì, sospirando mestamente.
Qualche giorno prima aveva bussato alla sua porta. Non aveva ricevuto risposta. E così era stato quando lo aveva chiamato al cellulare o da fuori la finestra della sua stanza.
Isaac Hall sembrava scomparso nel nulla e lei non poteva fare a meno che preoccuparsi.
Nella sua testa si susseguivano una serie di scenari terribili che le mozzavano il fiato ogni volta. Continuava a chiedersi se per caso non si fosse fatto del male o se fosse il caso di chiamare la polizia, ma poi vedeva la luce accesa al piano di sotto e, almeno un pochino, si tranquillizzava.
«Stai per dirmi anche tu che ha bisogno di tempo?» Domandò Lea, lasciandosi scappare un risolino privo di allegria. «No, perché non riuscirei a sopportarlo.» Chiarì.
Nina scosse il capo.
Non era certo la persona più indicata per dare consigli e anche se lo fosse stata non ne avrebbe dati di quel tipo; trovava di dubbia utilità lasciare sola una persona ferita, non si sa mai come potrebbero reagire.
Isaac era forte, su questo non c’era alcun dubbio, ma ciò non cambiava il fatto che aveva appena visto il suo mondo crollargli sotto i piedi. Chiunque ne sarebbe uscito distrutto.
«Affatto!» Esclamò, passandosi la lingua sul labbro superiore. «Sono convinta che qualcuno dovrebbe spronarlo a ragionare lucidamente.»
«E chi?» Bofonchiò Lea. «Io c’ho già provato e non ne ho ricavato niente.»
«Pecchi di alterigia, Signorina Wilson. Non sei l’unica al mondo.»
«Era per dire…»
Nina rise, scuotendo il capo. Il giorno in cui Lea Wilson avrebbe compreso cos’era il sarcasmo, sarebbe stato troppo tardi.
«Parlerò io con Isaac.» Affermò con sicurezza qualche istante più tardi, incominciando a slacciare il nodo del grembiule. Aveva comunque finito il suo turno e voleva andarsene prima che arrivasse Red; poteva essere passata sopra alla cosa, ma l’imbarazzo era, ancora, comunque tanto.
«Ma come farai?» Domandò Lea, grattandosi il naso. «Evita ogni contatto con il mondo. Come pensi di convincerlo a lasciarti entrare?»
«Non tenterò di convincerlo. Entrerò e basta.»


Isaac era stato una delle prime persone che Nina aveva incontrato dopo il suo arrivo ad Harpool Bay.
Era stato durante la prima settimana del suo ultimo anno; se lo ricordava bene quel ragazzino arrabbiato, con più muscoli che cervello che andava in giro a picchiare chiunque. Aveva solo sedici anni e tutti lo temevano. Tutti tranne lei.
La prima volta che si erano parlati, la giovane era scappata sul tetto preda d’un attacco d’ansia e lo aveva trovato lì, steso sul lucernario della palestra con una canna tra le labbra. Era stato gentile. Aveva tentato di tranquillizzarla, le aveva chiesto che cosa le faceva paura e lei aveva risposto che le faceva paura il genere umano. Isaac aveva riso.
“A me fanno paura i luoghi senza via d’uscita”, aveva detto, “Un trauma infantile”. Ma non si era sbottonato troppo. Solo in seguito, molto in seguito, le aveva rivelato che la che quella paura era dovuta alla volta in cui suo padre lo aveva rinchiuso in cantina per tre giorni e che, da allora, teneva sempre, in ogni occasione, aperta la porta sul retro.
Sorrise nel constatare che era ancora così.
Quando entrò in salone, trovò davanti a se quello che poteva essere paragonato al disastro di Chernobyl.
Casa di Isaac non era mai stata il posto più ordinato del mondo, ma aveva un certo disordine organizzato, tutto sommato; quello che aveva davanti, invece, altro non era che una riproduzione casalinga di una discarica.
Piatti, bicchieri, bottiglie vuote, vestiti… persino una fetta di ciò che, in teoria, in origine, avrebbe dovuto essere una pizza.
Sentì un conato salirle su per la gola e fu costretta a far ricorso a tutte le sue forze per non rimettere sul posto.
Sembrava fosse passato l’uragano Irene...
Spostò lo sguardo altrove, cercando la figura del migliore amico.
Isaac era rannicchiato sul divano con indosso solo un paio di boxer ed una maglietta bianca che sembrava aver visto giorni migliori.
Sospirò, avvicinandosi.
«Isaac?» Chiamò, colpendolo piano con la punta della scarpa. Voleva toccarlo il meno possibile, nessuno poteva sapere che tipo di malattie e\o infezioni potessero esserci in quel posto. Il giovane mugugnò qualcosa di incomprensibile, prima di girarsi dall’altra parte.
Nina si portò una mano alla tempia. Non era mai stata un tipo particolarmente paziente. «Isaac!» Tuonò.
Quando questi si voltò di nuovo, mugugnando e tentando di cacciarla via, alla giovane non restò che gettare a terra i fiori rinsecchiti che sostavano sul tavolinetto da fumo e gettargli addosso l’acqua restante nel vaso.
Isaac si tirò su a sedere, incapace di trattenersi dal trasalire.
La testa gli doleva da impazzire ed il movimento brusco non aveva certo aiutato. Dannato dopo sbornia.
«Sei per caso impazzita?» Tuonò, fissando truce la migliore amica. «Mi hai inzuppato la maglietta oltre che il divano.»
«Non ti ho fatto che un piacere, puzzi più di una scarpa piena di maionese lasciata al sole per una settimana. Ma da quanto è che non ti fai una doccia?»
«Che giorno è?»
«Sei disgustoso.»
Il giovane Hall sospirò, aggiustandosi a sedere sul divano, prima di allungarsi a raccogliere da terra una sigaretta fumata a metà. Ciò che restava della sua cena…
«Insomma, che ci fai qui?» Domandò, coprendo la fiamma dell’accendino con la mano.
Nina si strinse nelle spalle, prendendo posto a sedere sul bracciolo della poltrona. Si appuntò mentalmente di bruciare i vestiti una volta tornata a casa. «Sono venuta a vedere come stavi.»
Isaac fece spallucce a sua volta.
Stava bene, come sempre, semplicemente non era felice. Non capiva come mai la gente dovesse farne un problema così grande…
«Sto bene.» Mugugnò, buttando fuori una boccata di fumo.
La giovane annuì. «Ne sono felice, ma non dirlo al tuo capo. L’ho incontrato mentre venivo qui, voleva licenziarti. Ringraziando Dio sono riuscita ad inventarmi qualcosa sul momento.»
«Che gli hai detto?»
«Che hai beccato un virus mentre mangiavi cinese e che sono quasi due settimane che soffri di dissenteria.»
Il ragazzo emise un verso strozzato prima di scoppiare a ridere.
Non lo faceva da un bel po’ di tempo, infatti il suo stomaco si contrasse, sin da subito, in maniera dolorosa.
«Hai detto al mio capo che ho la diarrea?» Dio, questa era una risposta che si aspettava da qualcuno come Lea, certo non da Nina.
«Era l’unica cosa che lo avrebbe convinto a non venire qui!» Esclamò piccata l’altra, portando le braccia conserte sotto il seno.
Che ridesse quanto voleva, la prossima volta non gli avrebbe salvato il culo. Avrebbe lasciato che lo buttassero per strada…
Aveva proprio ragione suo fratello: a lavare gli asini si perde solo tempo e sapone.
Isaac scosse il capo, portandosi nuovamente la cicca alle labbra. «Sei venuta qui solo per questo?» Qualcosa gli suggeriva che non era affatto così.
Voleva spronarlo a parlare anche lei. Tutti quanti volevano spronarlo a parlare.
Era davvero così importante ciò che passava per la sua testa?
«No, sono venuta qui perché sono preoccupata per te, in realtà.» Ammise l’altra.
Il giovane aggrottò la fronte. «Ti ho appena detto che sto bene.»
«Sai che non mi riferisco a questo.»
«Capisco.»
Era lì per sapere come aveva preso ciò che era contenuto in quella lettera.
Nina era stata l’unica con cui ne aveva parlato, l’unica che ne sapesse qualcosa, ad eccezione, ovviamente, di Peter Wilson.
Si strinse nuovamente nelle spalle.
«C’era scritta tutta la verità.» Mormorò. «Ho scoperto che mi sbagliavo.»
«Su cosa?»
«Su quasi tutto.»
«E perché lo dici come se non provassi niente?»
«Perché non riesco a provare niente.» Ammise. La giovane gli rivolse uno sguardo confuso.
Isaac non sapeva nemmeno come intavolare una conversazione del genere. Non riusciva a fare chiarezza nella sua testa, come poteva farne agli altri?
Prese un profondo respiro. «In questa lettera c’è tutto ciò che resta di mia madre. Una vita intera riassunta in due sole pagine. E’ da ieri sera che la rileggo e non riesco a capacitarmi di ciò che c’è scritto qui dentro; non riesco a realizzare di avere tutta la sua vita tra le dita.» Mormorò. «Ho passato tutti questi anni ad odiare mio pad… Norman perché credevo che l’avesse spinta lui a suicidarsi mentre, in realtà, era solo uno dei tanti motivi.» Faceva così strano chiamarlo per nome…
Non c’era abituato, per lui era sempre stato papà, nel bene e nel male. Una parte di lui lo rimbeccò, suggerendogli che, volente o nolente, lo sarebbe stato lo stesso.
Nina si morse il labbro inferiore, scivolando vicino a lui.
Adesso poco le importava più della puzza o dello sporco. Lui aveva bisogno di sentirla vicina. Poggiò la sua testa contro la sua spalla.
«Vuoi parlare?» Domandò, dopo qualche istante di silenzio.
Isaac rise sommessamente. «Parlare di cosa, Nina?»
«Di qualsiasi cosa.» Mormorò. «Non devi parlarmi di quella lettera, né dei tuoi sentimenti, solo… parliamo di qualcosa.»
Parlare con lui gli era mancato. Era sempre stata come una valvola di sfogo per lei, un modo per buttare fuori tutto il bello ed il brutto che si portava dentro senza rischiare di essere giudicata da nessuno.
«Io e Rebecca ci siamo lasciati.» Esclamò, di punto in bianco, il ragazzo. Poggiò il mozzicone di sigaretta nel posa cenere, prima di fissare la sua migliore amica con la coda dell’occhio.
Nina sorrise, avrebbe voluto fingere che le dispiaceva ma non ne era capace. Aveva sempre tifato per Isaac e Lea. «E’ per questo che ci sono tutte queste bottiglie di alcolici a terra? Hai dato un festino e non mi hai invitata? Giuro che se hai fumato dell’erba sul tetto senza di me potrei toglierti il saluto.» Scherzò.
Il ragazzo rise. «No, queste sono perché io e Norman ci siamo presi una bella sbronza ieri sera.»
«Non mi hai comunque invitata.»
«Era una chiacchierata tra gli uomini della famiglia Hall…»
«Allora perché c’eri anche tu?»
La risata cristallina di Isaac riempì la stanza e Nina lo seguì a ruota.
Erano così giovani, così pieni di vita e di speranza. Era davvero un enorme peccato che il mondo fosse così estremamente deciso a sottoporli a così tanto dolore.
«Nella lettera mia madre mi ha chiesto di ricordare i momenti migliori passati con mio padre ogni volta che avrei passato un momento buio. Mi sono reso conto che non ne avevo.» Fece una breve pausa. «Così, quando Rebecca è passata di qui ed ha mollato il vecchio sul divano, dicendo di non voler passare la vita a rincorrere un ragazzo che non l’amava, mi sono reso conto che quella era una mancanza che sentivo terribilmente.»
Nina inarcò un sopracciglio verso l’alto. «E qui hai ben pensato di crearne uno mandando a quel paese quattro anni di completa sobrietà.»
«A mali estremi, estremi rimedi.»
In realtà non era andata esattamente in quel modo.
Lui e suo padre si erano semplicemente seduti l’uno davanti all’altro ed avevano parlato per la prima volta in chissà quanti anni. Erano arrivati alla conclusione che quella situazione non poteva andare avanti, che era arrivato il momento, per il giovane Hall, di prendere una decisione: o lo lasciava andare per sempre o si impegnava a rimetterlo in piedi.
«Venderò la moto.» Esclamò, poggiando la guancia contro il capo della ragazza. «Con il ricavato avrò abbastanza soldi per pagare la retta della comunità.»
La cosa non gli andava particolarmente a genio, quella moto era una parte della sua vita, una parte importante, ma si trattava di una buona causa. Quindi andava bene così.
«Inutile dirti che non approvo.» Brontolò Nina. «Farai comunque di testa.»
Isaac annuì. «Ti andrebbe di venire con me? Non me la sento di andare da solo.»
La comunità si trovava a pochi chilometri da Harpool Bay, ma era comunque un viaggio che non se la sentiva di affrontare da solo. Segnava la parola fine ad un capitolo della sua vita, un capitolo di cui lo spaventava il continuo incerto.
Nina scosse il capo. «Mi farebbe piacere, ma penso sia il caso di chiederlo a qualcun altro.»
«Chi?»
«Una certa signorina che abita nella casa accanto e che aspetta solo che tu la lasci entrare.»
Il giovane si morse l’interno guancia.
Stava parlando di Lea.
Si era comportato da vero cazzone con lei e non era sicuro lo volesse ancora nella sua vita. Se così fosse stato, non l’avrebbe certo biasimata.
«Una certa signorina che sicuramente mi odia.» Mormorò, buttando giù il boccone più amaro della sua vita.
Lea era la cosa più pura che gli fosse mai capitata tra le mani, non poteva sopportare l’idea che lei lo odiasse.
«Lea non ti odia, è cotta di te. Non potrebbe mai odiarti.»
Isaac trattenne un sorriso, ma il sollievo e la soddisfazione non fu capace di celarli. «Come fai a saperlo?»
«Ho i miei informatori.»
«E’ stata lei a dirtelo?»
Nina schiuse la bocca, passandosi la lingua sui denti per poi  catturarvi nel mezzo il labbro inferiore. Voleva rassicurarlo ma allo stesso tempo non voleva tradire la fiducia di Lea.
Perché diavolo si metteva sempre in situazioni del genere?
«Sarai anche il mio migliore amico, ma non aspettarti che tradisca la femmibibbia.» Tuonò. «Se vuoi le tue risposte, cercatele da solo. Il mio compito è finito.»
Il ragazzo corrugò la fronte. «La femmichecosa? Anzi, non dirmelo. Non voglio sapere.» Esclamò, alzandosi in piedi alla ricerca dei pantaloni.
Se c’era anche una sola possibilità di rimediare con la piccola Wilson voleva coglierla al volo.
Scansò le gambe di Nina, diretto verso la porta, ma questa lo riportò a sedere sul divano tirandolo verso il basso per il passante dei Jeans.
«Prima fatti una doccia. Puzzi. Devi conquistarla non ucciderla.» 

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Capitolo 37
*** Capitolo 35 - Perché ti sei tolto la maglietta? ***


Se c’era una cosa in cui Lea Wilson aveva sempre riposto estrema fiducia era il suo istinto.
Non l’aveva mai tradita, non quando suo fratello Dean era uscito di casa per non tornare mai più, non quando un ciclista l’aveva investita sul marciapiede di ritorno dal Minimarket e non l’aveva tradita nemmeno stavolta, quando Isaac si era presentato fuori dalla sua scuola con in mano un Happy Meal e la faccia da schiaffi di chi sa di averla già vinta in partenza.
«Che ci fai qui?» Domandò Lea, cercando di controllare il tremolio della sua voce e mantenere un’espressione piatta.
Come se fosse possibile…
Stava provando mille emozioni in quel momento e non aveva idea di quale fosse quella più giusta.
Era felice nel saperlo lì, fuori dal suo letargo, sano e salvo. Era arrabbiata perché se ne era andato, l’aveva trattata come una pezza da piedi e poi era tornato senza nemmeno scusarsi. Era spaventata perché temeva potesse essere lì per un qualsiasi altro motivo che non aveva nulla a che fare con lei e che i suoi fossero solamente castelli campati in aria.
Isaac non rispose subito. Per svariati istanti il silenzio regnò padrone.
La piccola Wilson prese persino in considerazione l’idea di allontanarsi e tornare su i suoi passi, ma i suoi piedi sembravano ancorati a terra. Qualche istante dopo, il giovane si strinse nelle spalle, porgendole la busta marroncina.
«Il mercoledì pomeriggio non hai lezioni e non ti piace restare a mangiare in mensa. Dici che sembra cibo masticato.» Disse semplicemente.
La giovane boccheggiò qualche istante. Tutto vero, ma non era ciò che gli aveva chiesto . «Non hai risposto alla mia domanda.» Gli fece notare.
Voleva sentirselo dire, se era lì per lei allora voleva sentirlo dalle sue labbra.
Durante il loro ultimo incontro lei si era messa in gioco, glielo aveva detto chiaro e tondo: sarebbe rimasta se solo lui glielo avesse chiesto, sarebbe rimasta per lui. Se adesso era Isaac, quello con qualcosa da dire, non gli restava che parlare.
«Sono qui perché voglio scusarmi e…» Mormorò, lasciando la frase sospesa a metà.
Parlare con Lea non era mai stato così difficile.
Aveva la gola secca e le parole sembravano tutte fin troppo stupide, come se non fossero abbastanza per esprimere a voce ciò che provava in quel preciso momento. L’euforia, la paura, il rimorso, la speranza…
«E…?» Lo esortò la giovane.
«Dovevo vederti. Dovevo dirti che sono pazzo di te, Lea Wilson.» Ammise infine lui.
Lea espirò sommessamente. Non si era nemmeno resa conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
Quindi era davvero così. Non era l’unica a provare quei sentimenti…
Isaac mosse un passo verso di lei e la giovane dovette far ricorso a tutte le sue forze pur di non muoverne uno all’indietro.
Si sentiva intorpidita, incapace di provare alcuna emozione, quasi si trattasse di un sogno.
Abbassò lo sguardo, puntandolo altrove, per poi riportarlo sul giovane. Sospirò.  
Non aveva aspettato per mesi, eppure non si sentiva ancora del tutto pronta a perdonarlo. «Isaac io… Perché ti sei tolto la maglietta?» Domandò, aggrottando la fronte.
Non che la cosa le dispiacesse, sia chiaro, solo… perché? Perché adesso? Perché in un parcheggio pieno di gente? Ma soprattutto: perché nessuno diceva niente o chiamava la polizia? Non rientrava nella categoria degli atti osceni in luogo pubblico?
Isaac le sorrise, poggiandole un dito sulle labbra. «Fai troppe domande, Bambi. Rilassati e lascia che mi prenda cura di te.» Mormorò languido, poggiandole le mani sulle spalle.
Lea sbatté ripetutamente le palpebre. C’era decisamente qualcosa che non andava, ma tutto sommato, se la vita ti da i limoni…


Quando Lea aprì gli occhi, la prima cosa che si premurò di fare fu gettare a terra quell’aggeggio infernale che continuava a ronzarle nelle orecchie. In quel momento poco le importava che la sveglia fosse stata impostata sul cellulare, aveva ben altro per la testa.
Quindi si era trattato di un sogno…
Le sue emozioni, i suoi pensieri e le sue paure, tutte riassunte in un dannatissimo sogno.
Eppure sembrava così reale, quelle sensazioni devastanti e quelle parole… “Dovevo dirti che sono pazzo di te”, se si concentrava poteva ancora sentirne l’eco nelle orecchie.
Probabilmente gli eventi della sera prima dovevano averla sconvolta più del previsto.
Restare a cena a casa di Red non si era rivelata una grande idea, se invece di lasciarsi convincere fosse rimasta ferma sulla sua posizione forse avrebbe avuto occasione di parlargli. Forse, se se lo fosse trovato davanti, senza possibilità di fuga, non avrebbe permesso alla parte più codarda di lei di prendere il sopravvento. Invece era rimasta, e, al suo ritorno, era stata capace solamente di restare a guardare mentre rientrava nella sua stanza e chiedersi quanto tempo fosse rimasto ad aspettarla.
Sospirò, spingendosi il cuscino sul viso.
Aveva ragione Isaac: ogni volta che lui provava a fare un passo in avanti, lei ne faceva cento indietro.
Cosa diavolo non andava in lei?
«Papà si chiede se hai intenzione di uscire dal letto o se ci hai preso gusto a finire in detenzione!» Esclamò Aiden, prendendo posto in un angolo del letto.
Lea non lo aveva nemmeno sentito entrare. Evidentemente il rumore nella sua testa superava di gran lunga quello del mondo esterno.
«E’ successo solo tre volte.» Brontolò la giovane, voltando le spalle al fratello. «Non dovrebbe farla tanto tragica.»
«Solo tre volte, si, ma nell’ultimo mese. Non si entra così alla NYU!»
«Non andrò alla NYU!»
«Beh, non si entra così nemmeno negli altri college…»
La piccola Wilson sospirò, gonfiando le guance.
Cosa voleva saperne suo fratello? Nemmeno c’era andato al college. Ma soprattutto: perché doveva parlarle di prima mattina quando aveva la reattività di un bradipo ed il mal di testa facile?
«Pensi di andartene?» Domandò la ragazza, tirandosi  le coperte fin sopra la testa, più acidamente di quanto avrebbe voluto.
Si sarebbe alzata, prima o poi, dovevano solamente darle un momento.
Aiden annuì. «Vado, vado!»  Mormorò, alzandosi in piedi. «Ma se entro quindici minuti non scendi, manderò Carmensa a cercarti.»
Lea lo liquidò con un distratto movimento della mano, prima di rannicchiarsi su se stessa.
Doveva alzarsi dal letto, farsi coraggio ed andare a scuola eppure era così bella l’idea di poter tornare a sognare Isaac di nuovo, fantasie erotiche a parte.
Con un sonoro sospiro, l’ennesimo da quando aveva aperto gli occhi, la giovane si liberò dal suo groviglio di coperte, diretta verso il bagno. Un quarto d’ora dopo, s’infilava una fetta di pane tostato tra i denti ed usciva di casa.
«Hai bisogno di un passaggio?» Domandò suo padre, porgendole la busta del pranzo.
Lea se la infilò dentro la tracolla, scuotendo il capo. «Ho promesso a Red che saremmo andate insieme. Devo aiutarla a studiare per il test di francese.»
«A che ora è il test?»
«Alla prima ora.»
«E come pensa, esattamente, di riuscire a studiare un intero capitolo in meno di dieci minuti?»
«E’ Red.» Esclamò la ragazza, stringendosi nelle spalle. «S’inventerà qualcosa.»
Suo padre scosse il capo, mentre la guardava attraversare il vialetto tutta sola.
Era preoccupato. Temeva che gli eventi degli ultimi mesi potessero averla spinta sul fondo, sulla cattiva strada; temeva di non essere un buon genitore, perché aveva preso con se un’adolescente spezzata ed aveva lasciato che si leccasse le ferite da sola, perché era più semplice così.
Se solo lo avesse saputo, Lea lo avrebbe rassicurato del contrario. Ma se c’era un peccato che accomunava ognuno dei componenti della famiglia Wilson erano, sicuramente, le parole non dette.
«Pantaloncini corti e maglione della nonna? Non pensi sia un controsenso?»
Nelle ultime due settimane, uscendo di casa, la piccola Wilson, aveva smesso di voltarsi verso il giardino degli Hall. Si era rassegnata, oramai, all’idea che sarebbe passato molto tempo prima di rivedere Isaac inginocchiato sul pratino davanti a qualche auto mezza rotta o a cavallo della sua moto ed, quel mattino, invece eccolo lì, seduto sulla veranda con l’immancabile sigaretta tra le labbra.
Il suo cuore perse un battito ed inevitabilmente il sogno di quella notte le rimbombò nella testa.
L’aveva approcciata per primo, forse c’era ancora una qualche speranza per loro…
Lea si passò la lingua tra le labbra, prima di muoversi verso la staccionata bianca che divideva le due proprietà. Un sorrisetto le affiorò sulla bocca, ma tentò di reprimerlo.
Una piccola parte di lei era ancora arrabbiata, o meglio: delusa.
«Fa abbastanza freddo questa mattina.» Mormorò.
«E non hai freddo anche sulle gambe?»
«Ne ho di più sulle braccia.»
Quello scambio di battute sembrava così dannatamente impacciato. Sembravano due ex che non si vedevano da una vita e a cui andava bene così; quei tipi di coppie che si fermano a bere qualcosa in un bar e poi restano in silenzio, perché le cose tra loro sono finite male ma non hanno più nulla da dirsi.
Eppure loro non erano una coppia di ex fidanzati, solo due ex di un qualcosa a cui si erano impegnati a non voler dare un nome.
Restarono a fissarsi per quello che sembrò un tempo interminabile, poi, finalmente, Isaac tornò a parlare.
La sera precedente si era preparato un discorso nella sua testa.
Sapeva quello che doveva dire, sapeva come doveva dirlo, eppure era come se le parole non volessero uscire dalla sua bocca.
«E’ il mio compleanno!» Mormorò infine.
Lea sorrise. Lo sapeva. A Santa Clara gli aveva comprato un regalo. All’epoca erano già abbastanza in rotta, ma aveva dato per scontato che le cose non potessero che migliorare…
«Davvero?» Replicò, passandosi una mano tra i capelli.
«Si.»
«Auguri.» Poi, di nuovo, quell’odioso silenzio. «Pensi di andare da qualche parte?»
Una volta le aveva raccontato che quando era bambino lui e sua madre si mettevano in auto e non smettevano di guidare fin quando non trovavano un posto che ispirasse entrambi; anche dopo la sua morte aveva continuato a portare avanti quella tradizione.
Sapeva che anche quell’anno sarebbe andato da qualche parte, temeva solamente che se avesse lasciato calare il silenzio non ci sarebbe stata più una seconda occasione.
Il ragazzo annuì. «Andrò al Pacific Park, ho una questione in sospeso con una ragazza.»
«Mi hai quasi baciata, lì!» Le parole erano uscite dalla bocca della giovane senza che lei se ne rendesse conto. Eppure, per la prima volta nella sua vita, non provò imbarazzo né terroro, si sentì solamente più leggera, come se non esistessero parole più giuste di quelle.
«Lo so.» Mormorò l’altro. «Vuoi venire con me?»
«Non pensi che la tua ragazza sarebbe gelosa? Sappiamo entrambi che le tue conquiste non provano troppa simpatia per me.»
«Questa qui è diversa. Allora, ci vieni con me o no?»
Lea si morse il labbro inferiore, lasciando che quel sorrisetto, trattenuto dal primo istante, le si formasse sulla bocca.
Stava parlando di lei. La sua questione in sospeso era lei.
Il suo stomaco fece una capriola e si rese conto che le emozioni di quella mattina, quelle che aveva definito così reali, non erano nulla comparate a ciò che provava adesso. Comparate alla confusione, l’euforia e la gioia di quel momento. Non provava rabbia, non si chiedeva se fosse il caso di perdonarlo o meno, era già tutto chiaro.
«Io…» Riuscì a mormorare Lea, prima di venire brutalmente interrotta dalla sua migliore amica.
«No, lei viene con me.» Tuonò perentoria Red dall’interno della sua piccola auto carta zucchero. «Deve aiutarmi con il test di francese.»
La piccola Wilson si voltò verso la migliore amica, rivolgendole uno sguardo supplichevole. Non poteva farle questo adesso.
Red sapeva quanto aveva sofferto quella situazione e sapeva anche avrebbe trovato il modo di farsi perdonare in futuro. Non poteva, davvero non poteva, metterle i bastoni tra le ruote in quel momento. «Red…» La supplicò.
La rossa la fissò truce.
Sapeva cosa stava per succedere, stava per essere bidonata…
«Non puoi abbandonarmi adesso. E’ un idiota. Abbiamo parlato male alle sue spalle per tutto questo tempo!» Esclamò.
«Red, per favore…»
«Lea me lo avevi giurato!»
«Mi dispiace, mi farò perdonare.»
«E Billy? Gli avevi promesso che avreste pranzato insieme oggi.» Le ricordò l’altra.
Giusto. Billy.
Lea se lo era persino dimenticato.
Era un ragazzo che frequentava il suo stesso corso di matematica e dopo mesi e mesi di corte spietata era riuscito a spillarle un si per un appuntamento, in amicizia. Quando aveva visto Isaac la cosa le era totalmente passata di mente.
Quando era con lui non riusciva a pensare a niente, figuriamoci ad un altro ragazzo. «Coprimi. Per favore.»
Red la fissò con la bocca spalancata, prima di emettere un sonoro sospiro ed annuire. «Va bene, ma mi devi un enorme favore, Lea Wilson. Un gigantesco favore.»
La piccola Wilson sorrise, prima di attraversare di corsa il vialetto di casa Hall e fiondarsi all’interno dell’auto.
Faceva un po’ strano trovarsi lì, dopo tutto quel tempo.
Non ci saliva dalla sera in cui erano andati al molo, quella fatidica sera che avrebbe avuto il potere di cambiare tutto.
Il giovane salì dal lato del guidatore qualche istante più tardi, rivolgendole un sorriso  e continuando a fissarla a sottecchi.
«Quindi…» Bofonchiò, rivolgendole un’espressione di puro scherno. «Billy Dougherthy?»
Lea si voltò, piazzandogli uno scherzoso pugno sul braccio. «Pensa a guidare e a porgermi delle scuse decenti, non alla mia vita sentimentale.»
«Ed io che pensavo di averla scampata.»
«Pensavi male. Io pretendo delle scuse e pretendo che tu le porga anche a mio padre. Delle vere scuse, di quelle con i contro cavoli.» Esclamò con aria saccente.
Isaac alzò un sopracciglio verso l’alto, prima di infilare la chiave nel quadro. «Io parlavo dei rivali.»
Alla giovane non servì guardare il suo riflesso nello specchietto per sapere di essere arrossita.

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Capitolo 38
*** CHIEDO PERDONO. ***


Voglio scusarmi tanto per la lunga attesa per il nuovo capitolo, ma purtroppo il mio computer ha deciso di morire. Pensavo di sfangarla nel giro di una settimanata ed invece l'assistenza non sembra intenzionata a volermelo ridare indietro ancora per un po'. Proverò a scrivere qualcosa sul cellulare e pubblicarlo da lì, ma non prometto nulla, ci tenevo solamente a scusarmi e mettervi al corrente della mia inattività. Spero capirete e scusate ancora!

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Capitolo 39
*** Capitolo 36 - Avrei dovuto essere qui. ***


(Allor, ho scritto il capitolo dal cellulare non ho quindi idea di quanti errori possano esserci. Vi prego quindi di perdonarmi, in caso di veri e propri ORRORI, ho provato a fare una revisione ma dal cellulare non è poi così semplice. Detto questo, vi auguro buona lettura e spero che il capitolo vi piaccia. c:)


«Quindi non siete arrivati nemmeno al Pacific Park?» Domandò Red, con aria civettuola, comodamente spaparanzata sul letto della sua migliore amica, mentre osservava attentamente le lunghe unghie laccate.
Lea sospirò, scuotendo il capo per l’ennesima volta.
Erano chiuse in quella stanza da quel pomeriggio e la piccola di casa Wilson non aveva idea di quante volte la rossa le avesse posto quella stessa domanda. Decine, centinaia forse…
La rossa aveva incominciato a farle l’interrogatorio non appena la campanella aveva segnato la fine delle lezioni e, da allora, non sembrava intenzionata a cedere all’idea che tra lei ed Isaac non fosse successo assolutamente niente.
«Te l’ho già detto, Red!» Protestò la mora, facendosi scorrere davanti agli occhi gli indumenti appesi alle stampelle per l’ennesima volta. «Niente di niente.»
«Non riesco a capire se siete i due esseri più ottusi al mondo o se le circostanze vi siano solo avverse.»
«Forse entrambe.»
La giovane sospirò.
Gli eventi del giorno precedente erano stati per lo più eventi da dimenticare.
Quello che era iniziato come un vero e proprio viaggio verso il paradiso, si era poi trasformato in una strada per l’inferno.
A metà strada il Suv nero di Isaac aveva incominciato a fare i capricci ed il giovane aveva appena fatto in tempo a parcheggiare su di una piazzola prima che l’auto decidesse di morire del tutto.
Dopo arguti ed attenti esami durati quasi un’ora, il giovane Hall aveva affermato che il motore era grippato ed aveva proseguito imprecando e sproloquiando su un sacco di cose di cui Lea non aveva capito una mazza.
«Quindi la macchina si è semplicemente fermata, i cellulari non avevano segnale e voi avete camminato per cinque chilometri fino alla prima stazione di servizio?» Ricapitolò Red.
L’altra annuì. «Esattamente.»
«Avete passato cinque chilometri in silenzio?» Inquisì, allora, la rossa.
Lea si sentì arrossire.
Certo che non avevano passato cinque chilometri in silenzio.
Avevano parlato, parlato a lungo ed era stato strano ed elettrizzante allo stesso tempo. Per la prima volta da quando era lì aveva sentito la voglia di aprirsi totalmente con qualcuno, non lo aveva fatto ma era stato comunque un bel passo avanti.
«Isaac si è scusato!» Esclamò, voltandosi a guardare la migliore amica negli occhi. «Si è scusato, mi ha raccontato della lettera di sua madre, delle sue sensazioni, di suo padre…»
«Quale dei due?»
«Non essere una stronza, Red!»
La rossa sbuffò, poggiando la schiena contro il letto e le gambe contro il muro. La testa a penzoloni.
Non voleva essere una stronza, era solamente una domanda lecita. Non è che quell’appellativo, adesso,  indicasse qualcuno in particolare, anzi, era abbastanza vago, ma era meglio lasciar cadere l’argomento.
«E come siete arrivati a questo, allora?» Domandò, facendo scorrere lo sguardo sulla figura della mora.
Lea si strinse nelle spalle. «E’ successo e basta!» Sussurrò. «Eravamo sul vialetto, ci eravamo appena salutati ed io stavo per rientrare a casa, quando mi ha fermata. Mi ha detto che stasera saremmo usciti, solo io e lui, come ai vecchi tempi, che non era una domanda, e che si sarebbe stata una sola differenza…»
«Sarebbe stato un appuntamento.» Conclusa l’altra e la giovane si limitò ad annuire.
Aveva ostentato una calma che non le apparteneva fin quando non aveva raggiunto la sua stanza, le tapparelle erano ancora abbassate e solo allora si era permessa di sfoggiare il suo assurdo e ridicolo balletto della felicità.
Giurava di non essersi sentita mai tanto euforica in tutta la sua vita e persino in quel momento, dopo ore intere passate a razionalizzare la cosa, non poteva ancora fare a meno di sorridere al solo pensiero.
«Non ho mai pensato fosse il ragazzo giusto per te…» Esclamò la rossa, rivolgendole un sorrisetto apprensivo. «Credevo ti avrebbe fatta soffrire o che si sarebbe preso solamente gioco di te, ed invece mi sbagliavo. Ti ha insegnato tanto…» Aveva un tono solenne, quasi materno…
«Beh, sicuramente, da ieri, il mio repertorio di parolacce è decisamente più ampio!»



«Tesoro sei uno schianto!» Esclamò Marìa Elèna, stringendola in un abbraccio.
Lea fissò la matrigna con un mezzo sorriso, mentre ricambiava la stretta in maniera estremamente impacciata.
«Ti ringrazio, ‘Lèna!» Mormorò, abbastanza in imbarazzo, muovendo un passo all’indietro.
Nonostante fossero, ormai, quasi due mesi che condividevano la stessa casa e la stessa quotidianità, la giovane non si era ancora abituata a quegli scambi di affetto. Per anni aveva vissuto in un ambiente estremamente gelido, tutto quel calore, adesso, le era estraneo.
Sua madre non era solita a certe cose, la abbracciava poco e baciava meno, ma, allo stesso tempo, abbastanza affinché la giovane fosse del tutto incapace di voltarle le spalle.
Con suo padre e la nuova famiglia era diverso, doveva solamente farci il callo, poi quell’alone di stranezza sarebbe finalmente scomparso.
Lea sperava vivamente che l’altro alone a scomparire sarebbe stato quello che era calato su suo padre dal pomeriggio precedente. Le teneva il muso da quando, di rientro da quella pazza giornata, lo aveva avvertito del fatto che la sera seguente avrebbe avuto un appuntamento.
Diceva di sentirsi tradito.
«Io penso, invece, che tu sia troppo scoperta.» La rimproverò l’uomo, seduto all’isola della cucina, prendendo un sorso di thè verde dalla sua tazza. Se ne stava semplicemente lì e la fissava in cagnesco, se si concentrava abbastanza, era sicura, di poterlo sentire ringhiare.
Lea fece correre lo sguardo sulla sua figura riflesso nello specchio in salone.
Non le sembrava di essere così scoperta…
I pantaloni bianchi a vita alta le fasciavano le gambe fin sopra le caviglie ed il top azzurro a quadrettini bianchi le lasciava scoperte le spalle ed una fascia di ventre. Oggettivamente era andata in giro più svestita!
«Ma veramente…» Mormorò.
L’uomo la interruppe con un gesto distratto della mano. «Se non ti perdi in chiacchiere, fai ancora in tempo a cambiarti.»
«Ma io non voglio cambiarmi!»
«Dovresti.»
«Ho passato ore davanti all’armadio alla ricerca di un completo che mi stesse bene!»
«Allora continua a cercare, questo ti fascia i fianchi. Ultimamente hai messo su un po’ di pancetta.»
La piccola Wilson si portò le mani al ventre, spalancando la bocca stupita.
Se l’intento di suo padre era quello di farla vacillare, beh… ci stava riuscendo alla grande. Al momento non era più tanto convinta che quello fosse l’outfit più adatto per la serata!
«Oh, ma smettila, Peter!» Lo rimproverò la moglie, rivolgendogli uno sguardo fulminante. «Sta benissimo e farà girare un sacco di teste questa sera.»
Il padre sbuffò, alzandosi in piedi. «L’unica testa che girerà è la sua.» Borbottò. «Quei tacchi sono talmente alti che se guarda dove mette i piedi rischia un attacco di Acrofobia!»
Lea ringraziò il cielo quando sentì il clacson del rover di Isaac richiamare la sua attenzione.
“Di classe”, pensò mentre salutava velocemente l’intera famiglia e si trascinava fuori dalla porta.
«Dovevo portarti dei fiori?» Domandò il ragazzo, bloccando le portiere.
Non aveva mai avuto grandi problemi nell’organizzare, sia ad Isabella che Rebecca era sempre piaciuto uscire a cena ed andare al drive in o in qualche locale. Lea Wilson non gli rendeva le cose così semplici; non le piaceva bere, non le piaceva ballare, non le piacevano i locali pretenziosi, tendeva ad addormentarsi al cinema… Insomma, le sue opzioni erano decisamente più ridotte del solito.
Sulla questione dei fiori aveva riflettuto un intero pomeriggio ed era arrivato alla conclusione che non fossero necessari; le aveva detto che sarebbero usciti e che sarebbe stato esattamente come ai vecchi tempi. Ai vecchi tempi non le regalava fiori. Eppure, perché, adesso non era più così sicuro della sua scelta?
Lea trattenne per un secondo il respiro, umettandosi le labbra.
Era tutto così strano.
«Dei fiori o un Happy Meal…» Esclamò nel tentativo di riuscire a smaltire parte di quella tensione.
Il ragazzo emise un risolino, stringendo le mani sul volante, evidentemente a disagio. «A quello posso rimediare!»


«Non riesco a credere che tu abbia chiesto il menù delle carni in un ristorante di pesce!» Esclamò Isaac, ancora preda delle risa più incontrollate, passandosi le dita sotto gli occhi.
Lea lo fissò truce, portandosi le braccia conserte sotto il seno.
Il giovane Hall non aveva smesso di ridere su quel suo piccolo incidente di percorso, praticamente dal loro arrivo, e non sembrava intenzionato a farlo nemmeno nell’immediato futuro, il che non faceva che renderla estremamente irritabile. Lei non aveva certo riso di lui quando aveva saputo dei suoi problemi di dissenteria, il fatto che fossero fasulli faceva parte di un’altra storia.
«Ridi quanto vuoi!» Brontolò aumentando il passo. «Ma sappi che lo farai da solo perché io ho tutte le intenzioni di tornarmene a casa.»
Doveva sembrare una vera idiota mentre incepiscava nella sabbia nel vano tentativo di allontanarsi velocemente e non gettare sabbia in punti in cui la sabbia non dovrebbe essere, ma in quel momento poco le importava; aveva già provveduto a fare una pessima figura, quella sarebbe stata solamente l’ennesima che si aggiungeva all’elenco.
Stava arrancando verso l’uscita della spiaggia, con le scarpe strette in mano, quando le dita dell’altro si strinsero attorno al suo polso. Lea si voltò, mantenendo comunque la sua aria arrabbiata.
Sul volto del ragazzo c’era ancora lo spettro di quell’ultima risata, ma qualcos’altro si stava facendo largo nei suoi occhi, qualcosa che aveva una nota di urgenza.
«E va bene, scusami!» Mormorò, portando la mano libera a carezzare la guancia della giovane. «Non dovevo prendermi gioco di te, è che sei stata così dannatamente divertente!»
La piccola Wilson sbuffò e voltò il capo dall’altro lato, ma Isaac la costrinse a tornare con lo sguardo fisso davanti a se.
Le dita di lui le massaggiavano le guance e la tenevano, in un certo senso, ancorata.
«Mi sono dimenticato di dirti che sei bellissima.» Mormorò.
La verità era che, quando l’aveva vista sulla soglia di casa, impaziente di raggiungerlo, cervello e lingua avevano interrotto le comunicazioni. La sua testa era andata in tilt, forse perché tutto quello sembrava fin troppo strano per essere vero.
Un appuntamento con Lea Wilson, la stessa Lea Wilson a cui da bambino aveva tagliato i capelli e che aveva tormentato di pugni. Quella stessa Lea che non era nemmeno il suo tipo.
«Anche tu non sei male.» Bofonchiò la giovane, umettandosi le labbra.
Non avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura che aveva sentito le budella fare la capriole quando l’aveva visto.
Non che fosse vestito in modo così particolare, ma una parte di lei si sentiva speciale al pensiero che si fosse infilato in una camicia bianca solamente per lei. L’altra rimpiangeva gli abiti scuri, ma si stava lentamente abituando a quella versione così soft e QUASI sofisticata del suo vicino di casa.
«Sono solo non male?» Domandò, inarcando le sopracciglia.
«Sono solo bellissima?»
«Touché.»
Lea si lasciò scappare un sorrisetto divertito e poggiò la testa contro le clavicole sporgenti del ragazzo.
Profumava di buono, di muschio bianco e dopo barba.
Per tutta la vita, da quel momento in poi, avrebbe associato quegli odori solo ed esclusivamente a lui.
Inutile a dire ed inutile a fare, quando si trattava di Isaac Hall le bastava gran poco perché le passasse l’arrabbiatura.
Si staccò da lui solamente quando una goccia di pioggia le colpì la nuca.
«Sta incominciando a piovere.» Sussurrò Isaac, rafforzando la stretta sulle loro dita intrecciate. «Vuoi tornare a casa?»
Lea scosse il capo, muovendo un passo all’indietro, trascinando con se il ragazzo.
Tutt’attorno a loro l’intensità della pioggia aumentava e le poche persone rimaste incominciavano a muovere i primi passi verso le loro auto.
Alla piccola Wilson, invece, la pioggia piaceva e voleva godersi il momento fino alla fine. Voleva vedere il mare in tempesta, sentire i vestiti appiccicati contro il corpo, i capelli schiacciati contro la nuca ed il vento fresco che le accarezzava la pelle scoperta. Voleva sentirsi febbricitante.
«Avrei dovuto essere qui!» Esclamò di punto in bianco, bloccando il giovane sul posto. «Non c’è giorno che non me ne penta.» Aveva un enorme groppo in gola, ma se voleva davvero che tutto ciò funzionasse doveva riconoscere e prendersi la sua parte di colpe. «Tu avevi bisogno di me ed io non c’ero…»
«Lea…» Mormorò Isaac.
Non voleva sentire.
Aveva passato una bella serata e non voleva certo rovinare tutto riprendendo un discorso già finito. Aveva ammesso di aver sbagliato, c’era qualcos’altro di cui parlare?
«Ti prego, lasciami finire.» Lo interruppe lei, avvicinandosi e stringendogli il viso tra le mani. Se doveva dirlo, aveva bisogno che lui la guardasse negli occhi. «Io ti ho lasciato.» Esclamò. «Non avevo idea di cosa sarebbe successo, ma non ci ho nemmeno voluto pensare. Io…» Fece una breve pausa. «Io non sono brava con i confronti. Per tutta la vita li ho evitati nemmeno fossero peste solamente perché mi era stato inculcato in testa che non ero abbastanza forte per poterli sopportare, quindi li aggiravo. L’ho fatto sempre e, purtroppo continuo a farlo, anche quando non dovrei.» Un secondo istante di silenzio calò su di loro. «Invece di salire su quell’auto, quella mattina, avrei dovuto semplicemente dirti che sono pazza di te.»
Quelle parole erano uscite dalle sue labbra incontrollate.
Quando aveva lasciato casa sua, un paio di ore prima, non aveva certo calcolato che la serata avrebbe preso una piega del genere, non aveva dubitato del fatto che avrebbe spillato ogni cosa.
Sarà stata la pioggia o forse la bottiglia di vino che si era scolata a cena eppure sentiva di aver fatto, per la prima volta, la cosa giusta.
Isaac alzò lo sguardo su di lei.
Fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di guardarla negli occhi, aveva fissato le sue spalle ma non le aveva viste realmente, però aveva ascoltato attentamente, ma semplicemente non era ancora stato del tutto in grado di metabolizzarlo.
Si passò una mano sulla bocca, emettendo un sospiro roco.
Aveva la gola secca.
«Tu non sei il mio tipo!» Mormorò ed il cuore di Lea perse un battito, prima di scendere sul fondo del suo stomaco. «Tu sei mora e a me piacciono le bionde, mi piacciono le ragazze slanciate a tu sei alta un tappo ed un barattolo, non fai che lamentarti e spesso sei insopportabile. Parli in continuazione e mi fai venire mal di testa, hai questo modo di fare strano che a volte mi spaventa, esasperi le situazioni e sembri avere un vero e proprio talento nel cacciarti nei guai dai quali io, poi, devo tirarti fuori. Mi fai arrabbiare e a volte vorrei solamente potermi liberare di Lea Wilson.»
La giovane stava trattenendo il respiro ed in quel momento i suoi polmoni bruciavano alla disperata ricerca di aria, lo stesso facevano i suoi occhi ma per il desiderio di poter piangere.
Si umettò le labbra.
«Allora perché non lo fai?» Mormorò, la voce risultava tremolante e spezzata, ma non c’era modo che potesse mantenerla sotto controllo in quel momento. Stava per cedere. «Perché non ti liberi di me?» Domandò, sebbene non fosse del tutto sicura di voler sentire la risposta.
«Perché nonostante tutto, tra i due, penso di essere stato io quello ad aver perso la testa per primo.»

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Capitolo 40
*** Capitolo 37 - E' la mia mamma (Parte 1). ***


Il giorno di Natale in tutta la California pioveva. 
L'intera famiglia Wilson aveva emesso un sospiro di rassegnazione quando, alzandosi al mattino, aveva visto le gocce di pioggia scivolare lungo le vetrate, l'intera famiglia ad eccezione di Lea che aveva visto in quel mal tempo l'occasione giusta per indossare il suo solito maglioncino in lana rossa, con quell'enorme renna stilizzata ricamata sul petto.
Era stato un regalo di sua nonna a Natale 2011 e da quel giorno era diventata per lei una tradizione sacrosanta indossarlo, poco le importava di star letteralmente schiumando. Che si abiti in California, Alaska o Cuba, il venticinque di Dicembre si indossa il maglione di nonna Rachel.
«Ci pensi mai a come era il Natale quando eravamo bambini?» 
Lea ed Aiden si erano offerti volontari per aiutare con la preparazione del cenone di Natale. Quando erano più piccoli, quando ancora i loro genitori erano sposati e felici, lo facevano sempre. Si mettevano in un angolo a tagliare patate o modellare polpette; delle volte persino suo padre aiutava, o meglio: fingeva di farlo, all'epoca non era ancora in grado di cucinare niente che fosse lontanamente commestibile, era solo un modo per passare del tempo insieme, per creare dei ricordi.
Aiden annuì. «Dean mangiava sempre l'impasto della torta di Mele.» Nella sua voce c'era una vena malinconica, il che era decisamente strano da parte sua. Suo fratello non lasciava mai trasparire le sue emozioni riguardo al passato.
«Tu stavi attaccato alle gambe di mamma e lei doveva nascondere il sacco con l'impasto delle meringhe.»
«Tu, invece, rubavi spicchi dalle mele che sbucciava papà. Sei sempre stata la sua cocca.»
«Colpevole.»
Scoppiarono entrambi a ridere e la piccola Wilson si trovò a poggiare il capo contro la spalla del maggiore.
Da quanto tempo era che non vivevano un momento del genere? Un momento tranquillo in cui, per la prima volta, erano solo due ragazzi di quasi vent'anni?
Lea puntò lo sguardo fuori dalla finestrella e fissò il cielo finire d’imbrunire lentamente.
«E’ incredibile.» Mormorò dopo un breve istante di silenzio. «Ho passato anni senza mai pensare a Dean, senza mai chiedermi come sarebbe stato averlo di nuovo qui con noi, se per caso le cose sarebbero state diverse. Poi torno a casa, torno a casa dopo dieci anni e non riesco a smettere di pensare di lui.»
Aiden avrebbe voluto annuire, dirle che provava le stesse sensazioni ma sarebbe stato un po’ come mentire, perché nonostante tutti quegli anni non era mai del tutto riuscito a perdonare il fratello.
«Io lo incolpo ancora, però.» Mormorò. «Non so se è un modo per sentire di avere ancora un contatto con lui o se forse è solo l’ultimo sentimento che ricordo di aver provato nei suoi confronti, ma non riesco a smettere di pensare che se non si fosse comportato da coglione, se solo avesse dato ascolto a papà, mamma non sarebbe tornata da Gabe e tu saresti salva.»
«Sei sicuro di essere arrabbiato per questo?» Inquisì Lea.
Il giovane Wilson spostò il capo dall’altra parte, sentendo le lacrime pizzicargli gli occhi.
Non se la ricordava nemmeno l’ultima volta in cui aveva pianto, era successo tanti di quei secoli fa, ricordava solo di aver promesso a se stesso che non lo avrebbe fatto mai più e di certo non voleva rompere la promessa per Dean. Ne aveva versate fin troppe di lacrime per lui.
«Sono arrabbiato perché mi ha lasciato solo.» Ammise in sussurro.
Per anni Aiden Wilson aveva guardato al fratello maggiore con occhi sognanti. Voleva imitarlo, essere come lui, e nel perderlo non aveva perso solamente la sua famiglia o un migliore amico, aveva perso anche la sua bussola. «Perché ha lasciato in mano a me questa situazione di merda. Lui sarebbe stato capace di tirarti fuori dai guai, lui sapeva sempre come risolvere le cose.»
Lea tirò su con il naso.
Trattenersi dal piagnucolare era stato impossibile.
Discorsi del genere non ne faceva da anni, la sua famiglia aveva reso Dean un argomento tabù e quella che più ne aveva sofferto era la piccola Wilson che, per tutta la vita, aveva percepito questo fratello come un arto fantasma.
«Non riesco più a ricordare la sua voce o il suono della sua risata. Non ricordo più niente.» Singhiozzò.
Se ne era resa conto la sera del suo compleanno, quando era rientrata da casa Hall. Aveva proceduto all’interno della sua stanza nel buio più completo ed aveva urtato la scrivania facendo cadere a terra una vecchia foto.
Dean era piegato a terra, teneva Aiden sulla schiena e Lea gli aveva stretto le braccia al collo. Era stata una delle ultime foto che avevano scattato tutti insieme e lei non l’aveva mai notata prima di quel momento…
…Era stata la prima volta in cui lo aveva realizzato, realizzato di essere più grande di suo fratello maggiore e per un istante si era sentita colpevole di essere viva.
Il fratello maggiore restò per un breve istante a fissarla, incapace di muoversi, di pensare, persino di respirare. Voleva abbracciarla ma era come se l’interno mondo si fosse bloccato ad eccezione della sorella.
«Promettimi che tu non mi lascerai mai…» Sussurrò Lea, asciugandosi gli occhi con le maniche del maglione rosso.
Aiden fu solo capace di annuire. «Mai!»




«Norman benvenuto, ti trovo bene.» Esclamò Marìa Elèna stringendo l'uomo in un veloce abbraccio, prima di stampargli due baci su ambo guance.
Lea li fissò dal fondo della stanza e provò l'urgente bisogno di vomitare.
Aveva provato a farsi andare a genio quell'uomo, dieci, cento, migliaia di volte, ma proprio non ci riusciva; l'unico motivo per cui aveva acconsentito ad averlo lì quella sera e fare la gentile, era perché non era riuscita a convincere Isaac ad abbandonare suo "padre" e passare la sera di Natale insieme a loro. 
Fosse stato per lei lo avrebbe lasciato marcire sul fondo di un burrone, per quanto le importava…
«Buona sera.» Salutò l'uomo a bassa voce. «Ho portato questa.» Mormorò, mostrando una bottiglia scura e dall’aria costosa. «E' succo d'uva, sto cercando di restare sobrio e di non tenere alcolici in casa, ma mi sembrava brutto presentarmi a mani vuote.»
Le sembrava un po’ impacciato, avrebbe osato dire timido, un uomo nuovo. Ma non le piaceva comunque.
Una settimana di sobrietà ed un bel vestito non cambiano certo gli errori di una vita.
«Se continui a startene così imbronciata, ti verranno le rughe prima del tempo.» Sussurrò Isaac al suo orecchio, indugiando qualche istante a quell'altezza.
Lea sussultò sul posto, portandosi una mano all’altezza del petto.
«Mi hai spaventata.» Mormorò a sua volta, incapace però di trattenere un sorrisetto.
Negli ultimi tre giorni sorrideva sempre, sorrideva come un ebete anche quando non c’era niente per cui valesse la pena sorridere, ad esempio l’introduzione della prima Guerra Mondiale…
Da quel sera sulla spiaggia le loro interazioni erano state ridotte al minimo, entrambi troppo occupati con gli ultimi giorni di lavoro e di scuola prima delle vacanze Natalizie.
Si erano visti di sfuggita la sera prima, per meno di mezz’ora.
Lea stava facendo il turno di chiusura e si era recata sul retro a gettare il sacco della spazzatura. Isaac le aveva circondati i fianchi con un braccio, mentre con la mano libera le aveva tappato la bocca.
Per un istante la piccola Wilson aveva urlato e si era dimenata, preoccupata dalla possibilità che potesse trattarsi di Gabe, che l’avesse trovata e fosse intenzionato a finire il lavoro lasciato incompleto a New York.
Quando aveva visto gli occhi azzurri del giovane Hall, i suoi avevano perso la sfumatura di terrore che li aveva invasi e si erano letteralmente infuocati per la rabbia.
Inutile dire che avevano fatto pace subito dopo, baciandosi a lungo contro la porta di ferro battuto del retro bottega.
La giovane sorrise, mordendosi il labbro inferiore.
«Devo ancora darti il tuo regalo.» Sussurrò, prima di scivolare velocemente su per le scale, non lasciandogli la possibilità di replicare oltre.
Se in un altro momento Isaac l’avrebbe seguita con riluttanza, curioso e contento di quell’atmosfera gioiosa e calorosa, che lui non aveva mai del tutto conosciuto, in quel preciso istante lasciò che la ragazza lo trascinasse, decisamente più allettato dall’idea di restarsene da solo con lei.
«Non ho mai voluto un regalo.» Protestò il giovane, afferrandola per un passante dei pantaloni e spingendola all'indietro, bloccandola contro la porta ed il suo corpo. «Mi basta un saluto per bene.» Mugugnò.
La piccola Wilson si ritrovò inevitabilmente ad arrossire, prima di trovare il coraggio di sollevarsi sulle punte e stampargli un bacio, un vero bacio, sulla bocca.
Prima di lui, Lea non aveva mai baciato per prima, aveva sempre aspettato che fossero gli altri a fare il primo passo. Con Isaac era diverso, quando erano insieme si sentiva come calamitata verso di lui...
Il giovane morse le sue labbra, prima di passarci sopra la lingua, quasi a chiederle il permesso.
Era diverso da qualsiasi ragazzo l'avesse mai baciata prima d'allora; diverso da Seth immaturo ed inesperto, diverso da Patrick rude e violento...
...Baciare Isaac era un po' come tornare a casa dopo un'intera giornata d’inferno: rassicurante. Non c'era altra parola per descriverlo.
La prima volta in cui le labbra del giovane avevano toccato le sue, la piccola Wilson non aveva sentito le fantomatiche farfalle nello stomaco, quelli che erano impazzati dentro di lei erano dei veri e propri fuochi d'artificio. Quella sera le sue labbra sapevano di pioggia e di sale.
«Incomincio a credere tu abbia qualche sorta di fetish per le porte.» Sussurrò.
«Ti aspetti che ti risponda che ho un fetish per te?»
«Se ti aspetti che tutto questo vada avanti, no.»
«Grazie a Dio.»
Questa volta fu Isaac a baciarla per primo e Lea gli strinse le braccia attorno al collo.
Sarà stata l’inesperienza o forse il fatto che non aveva mai desiderato nessuno tanto quanto aveva desiderato lui, eppure, ogni volta che la baciava, la giovane non riusciva a ricordare che cosa, essere baciati, prima di quel momento, significasse.
Quando il giovane si allontanò dalla sua bocca, muovendo un passo all’indietro Lea non riuscì a trattenere un mugolio di dissenso.
Isaac ghignò soddisfatto. «Allora?» Esclamò, muovendosi in giro per la stanza. «Questo regalo?»
La piccola Wilson annuì, riscuotendosi da quell’improvviso torpore e tornando con i piedi per terra.
«Siediti sul letto.» Ordinò.
Trovare il regalo giusto per il giovane Hall non era stata certamente l’opera più semplice che la piccola Wilson avesse mai affrontato, i gusti del ragazzo erano decisamente discutibili e per la maggior parte aveva tutte le cose di cui aveva più bisogno.
Lea aveva passato giorni interi in giro per la città alla ricerca di quello che poteva essere il regalo più adatto. Poi, una mattina, mentre se ne andava a scuola, il dono perfetto le era letteralmente piovuto dal cielo.
Estrasse il piccolo pacchettino dall’interno del suo armadio prima di prendere posto sul letto, al suo fianco.
«Pacchetto artigianale?» La schernì lui, guardando quella confezione regalo un po’ troppo irregolare e stropicciata.
«Non devi portarti a casa la carta, aprilo e basta.» Lo rimproverò Lea.
Per prima cosa Isaac aprì la bustina annessa e fissò la vecchia fotografia, ingiallita dal tempo, che c’era al suo interno. Lui ed una piccolissima Lea se ne stavano seduti dentro una piscinetta gonfiabile nel giardino di casa Wilson, dietro di loro, una giovanissima Soraya Hall, li stringeva entrambi in un abbraccio mentre i due bambini cercavano di nascondere un faccino imbronciato.
Il giovane Hall se la rigirò tra le dita per qualche istante, prima di passare l’indice lungo i contorni del volto della madre.
Non se la ricordava così bella, francamente parlando, negli ultimi anni della sua vita non era mai stata bella…
«E’ la mia mamma!» Mormorò, la voce roca ed impastata. Sembrava non parlasse da una vita, mentre si trattava solamente di un paio di minuti.
Lea al suo fianco, cercò la sua mano, intrecciando le loro dita.
«L’ho trovata in soffitta, pensavo potesse farti piacere averla.»
In realtà aveva passato notti insonni pensando a quella foto. Una parte di lei temeva che potesse rifiutarla, che gliela rendesse o che potesse prenderla male, mentre l’altra cercava di essere razionale ed avere fiducia nella stabilità emotiva di Isaac…
«Vediamo il regalo!» Sussurrò lui, dopo una seconda breve pausa, infilando la foto nella tasca interna del chiodo.
Non sapeva come sentirsi a riguardo, era sicuramente felice, ma allo stesso tempo non riusciva a trattenersi dal provare una profonda malinconia.
Fosse stato una settimana prima avrebbe spaccato i muri.
Tutto sommato, quella lettera, probabilmente, aveva aiutato ad acquietare alcuni dei suoi demoni.
Le dita del giovane strapparono la carta violetta del pacchetto con più decisione quando quei pensieri sfiorarono la sua mente, rivelando, al suo interno, una tracolla in pelle nera, ricoperta di ricami colorati in cotone.
«Molto Indie.» Constatò, rivolgendo alla giovane un sorriso.
Avrebbe dovuto comunque comprarsene una nuova per la sua chitarra, quella nella sua stanza aveva letteralmente deciso di frantumarsi in mille pezzi.
«Lo ha detto anche la commessa.» Esclamò Lea, portandosi una mano dietro il capo. «In quel momento ho solo sorriso ed annuito, non me lo ricordavo il nome di quella musica  strana che fai tu.»
«Musica strana?»
«Si insomma, hai capito, quello stile un po’ così, lento, che ti fa pensare una cosa ed è tutt’altro. Quella musica strana che a me mette ansia.»
«Che ne dici se ti ringrazio e chiudiamo qui il discorso?»
Lea annuì. «Forse è meglio!» Mormorò, tentando di nascondere il rossore con una ciocca di capelli.
Isaac rise.
Lea Wilson non perdeva mai occasione per essere Lea Wilson.
«Sai cosa mi piace di tutta questa situazione?» Mormorò il giovane, poggiando la fronte su quella della ragazza. L’altra scosse il capo. «Posso baciarti senza dover chiedere il permesso.»
«Sai cosa piacerebbe a me in tutta questa situazione?» Mormorò una voce maschile alle loro spalle.
Lea ed Isaac si voltarono, incontrando, a soli pochi passi da loro, la figura imponente di Peter Wilson. «Mi piacerebbe se la smettessi di sedurre tutti i miei figli. E adesso scendete, è pronta la cena. Vi voglio entrambi a capotavola.»

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Capitolo 41
*** STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA. ***


Partendo dal presupposto che non è mai stata mia intenzione mettere in pausa questa storia, mi vedo inevitabilmente costretta a farlo. L'universo sembra essersi messo contro di me in questo periodo e la cosa è estremamente frustrante, perché non basta che il mio computer decida di morire, ci si mette pure il tecnico che lo finisce per sempre. Ho provato a scrivere dal cellulare ma è una tortura, non prende le parole, alcune le cambia a modo suo ed io ci metto del mio che mi scordo costantemente di salvare la nota... Quindi si, sono costretta almeno per un pò a sospendere la storia. Mi spiace aver fatto passare così tanto tempo dall'ultimo aggiornamento, speravo di riuscire a risolvere la cosa il prima possibile, ma non credo di riuscire a potermi procurare un nuovo computer prima di dicembre. Spero, comunque, continuerete a seguire la storia, una volta ripresa, e che mi perdonerete. Grazie a chi si è fermato a leggere queste quattro righe, un bacio.

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