Fiori secchi

di Liv49
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fiori secchi ***
Capitolo 2: *** Il suo sorriso ***
Capitolo 3: *** Il legame del dolore ***



Capitolo 1
*** Fiori secchi ***


Tutto nel giardino era morto. Più toccava la terra arida, l'erba bruciata dal sole e più sentiva che non c'era più nulla per lei lì. Provò a sfiorare i petali dei fiori che si sgretolavano tra le sua mani, la loro purezza persa per sempre. Il sole aveva distrutto tutto. Kore prese la valigia ai suoi piedi e se ne andò. Non pensò a sua madre che piangeva al piano di sopra, la sua mente era via prima che i suoi scarponi toccassero l'asfalto della lunga strada che aveva davanti. Camminò a lungo, non era sicura di dove andare, ovunque si girasse l'odore di bruciato la seguiva: le strade erano deserte, le persone chiuse in casa, vinte dal caldo. Kore aveva smesso di sentire il caldo: in lei solo il gelo regnava.
Non sapeva quanta strada avesse percorso, ma abbastanza perchè si mettesse a piovere. L'acqua le fece aderire i vestiti al corpo, gravandola di un peso che era una carezza. La pioggia la toccava come non aveva più permesso a nessuno di fare. Per la prima volta da tanto le venne da sorridere. L'acqua stava lavando via il dolore, permettendole di respirare. Con gli occhi chiusi, rivolti ad un cielo che prometteva la notte, non si accorse della macchina che le si avvicinava. Fu il clacson a svegliarla, per avvisarla di spostarsi dal centro della strada, e mentre si scostava, lentamente, l'uomo alla guida uscì e un brivido la scosse in tutto il corpo: il suo, un volto che non poteva dimenticare. Il volto di un uomo troppo giovane per quell'espressione composta, gli occhi troppo freddi per appartenere a qualcuno che doveva essere poco più di un ragazzo. -Che stai facendo qui? Non sei la figlia di Jonas Handerson?
A questa, di  domanda, sapeva già rispondere, glielo leggeva negli occhi.-Devo prendere un treno.
-E tua madre lo sa?
-Se la cosa ti riguardasse, ti direi di sì- mentire era diventato molto più semplice da quando non sentiva più nulla.
-Sta piovendo.
-Grazie dell'interessante osservazione.- lui fece finta di non sentirla.-Sali, ti accompagno, non puoi andare in giro a piedi con questo tempo.
-Non mi sembra di aver chiesto la tua opinione.
-Infatti.  Forza, sali. Non ho tempo da perdere.
- Grazie, ma no grazie.- Continuò a camminare, la pioggia che attutiva il rumore dei suoi passi. Si aspettava da un momento all'altro di vedere la macchina superarla, ma quando si voltò vide che la stava seguendo. Era Ade Havern, il becchino che si era occupato della tumulazione di suo padre. La sua agenzia di pompe funebri era schifosamente costosa, ma a sua madre non era importato, si muore una volta sola, diceva ridendo tra le lacrime. Aveva comprato il pacchetto completo, con tanto di rose rosse e bara in mogano. Non era sorpresa che si ricordasse di lei: al funerale, un mese fa, aveva inziato a urlare al momento di chiudere la bara, aveva cercato di buttarsi addosso a suo padre per impedire che lo portassero via. Via da lei. Dal loro giardino. Era stato Ade a trattenerla, almeno aveva risparmiato a sua madre l'imbarazzo, non potendo risparmiarle il dolore. Lo avrebbe anche ringraziato dopo, se solo il suo fosse stato un gesto dettato dalle emozioni. Ade l'aveva fermata perchè assicurarsi che tutto procedesse senza problemi era il suo lavoro, un lavoro che evidentemente svolgeva molto bene, per lei o sua madre non aveva provato pietà,  e certamente non provava rimorso per i lividi che le aveva lasciato, stringedola troppo forte.
-Se non te vai chiamo la polizia e dico che c'è un maniaco che mi sta seguendo.
-Prego, così potrò fargli chiamare tua madre. Sono sicuro che sarà felice di sapere dove sei. Magari mi ringrazierà anche, chissà, è ancora una bella donna in fondo.
-Mi fai schifo, e ti ho già detto che sa dove sono.
-E io dovrei anche crederci, secondo te?
-Credi quello che vuoi, non mi interessa.
- Io la vedo così: puoi salire in macchina e lasciare che ti accompagni dove diavolo hai deciso di scappare, così magari mi assicuro che non ti vendano al mercato nero, o puoi restare dove sei e guardarmi mentre chiamo tua madre. Ho ancora il numero.
-Scappare? Scusa se te lo dico, ma sono libera di fare come voglio.
-Certamente, ma i minorenni sono sotto la responsabilità dei genitori.
-Beh allora è davvero una fortuna che io abbia 19 anni- Tra 13 mesi.
-Ah, sì? 19 anni? E io che te ne davo 16. - non mi contraddice ma so che non mi crede. Probabilmente si ricorda anche quando sono nata, tutte informazioni che gli abbiamo dovuto dare.-Allora dall'alto della tua età, donna matura, sono certo che capirai che un passaggio in macchina in mezzo alla pioggia è un colpo di fortuna.
- La pioggia mi piace, grazie.
-Oh certo, anche a me, ma credo che la febbre alta, presa durante un tentavo di fuga, ti piacerà molto meno.
- Se salgo mi porterai dove dico io? Senza fare domande?
-Ovunque tu mi dica, ma non prometto sulle domande.
-Non prometti?- inziò davvero ad alterarsi.
-Non faccio mai promesse che non sono sicuro di poter mantenere.
​Lo guardò per qualche istante, in quegli occhi grigi come la rugiada e freddi come il ghiaccio, e salì in macchina, senza dire niente. -Ti chiami Kore, giusto?
​Kore, si direbbe che un nome si consumi dopo essere stato pronunciato molte volte, ma per lei Kore era il simbolo del dolore, della perdita. Aveva sentito tante volte quel nome pronunciato dalla bocca di suo padre, e ora era stanca. -Chiamami Persefone.
​Allora Ade la fissò intensamente, in un modo che la faceva sentire nuda.- Va bene.

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Capitolo 2
*** Il suo sorriso ***


-Dove devo portarti?
-Alla stazione.
Ade guardava dritto davanti a sé, la camicia attillata sui muscoli tesi delle braccia. Persefone avrebbe voluto scuoterlo, colpirlo fino a incrinare quella calma destabilizzante. Il silenzio non l'aveva mai fatta sentire a disagio, non come in quella macchina. Tutto in lui sembrava asettico: i pantaloni neri, senza una piega, la pelle bianca, come se non avesse mai visto il sole. Gli occhi di un grigio uniforme, innaturale. Era bello, sarebbe stato difficile negarlo, ma la sua era una bellezza vuota, spenta di ogni emozione, ogni impulso, eterea come solo la morte sa essere. Si chiese come sarebbe apparso quel volto se un'emozione, solo una piccola, semplice, emozione, l'avesse turbato. Immaginò quei lineamenti duri contratti in un sorriso, probabilmente sarebbe stato così bello da non poter distogliere lo sguardo.
-Tu non sorridi mai?- si ritrovò a chiedergli.
-Non di recente.
- Credi di esserne ancora capace?
-Non saprei.
-Sorriderai almeno una volta prima di lasciarmi alla stazione?
-Ti ho già detto che non faccio promesse che non sono sicuro di poter mantenere.-Il silenzio calò di nuovo, come una nebbia fitta che attutisce ogni sensazione e confonde la vista. Persefone distolse lo sguardo da lui e guardò fuori, non aspettandosi che Ade ricominciasse a parlare.
-Non mi fido a lasciarti alla stazione, a che ora parte il tuo treno?- Non sapeva come rispondere, non voleva dargli troppe informazioni. Lui parve cogliere la sua esitazione.-Non devi dirmi dove vai, ma voglio aspettare fino a che non sali sul treno e ho degli impegni che devo posticipare. Ti sto solo chiedendo di quanto.
Se fosse gentilezza o senso del dovere, non avrebbe saputo dirlo, ma la stazione non era un posto sicuro e la sua presenza l'avrebbe fatta sentire meglio, perciò probabilmente gli doveva almeno la verità.
-Non lo so, non ho ancora deciso dove andare. Mi dipsiace, ma non so dirti quanto dovrai aspettare.- Poteva averlo immaginato, ma le parve che gli angoli della bocca di Ade si fossero alzati, in un fugace sorriso.
-Beh, in fondo dovevo aspettarmelo. Attenderò tutto il tempo che serve.
-Grazie.-Se voleva turbare la sua calma, quella semplice parola sembrò riuscirci. Ade voltò lo sguardo, vagamente sconvolto, e stavolta un sorriso vero gli illuminò gli occhi.
-A quanto pare avrei potuto mantenere quella promessa.- Persefone capì di aver avuto ragione: smettere di guardarlo fu davvero diffcile.

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Capitolo 3
*** Il legame del dolore ***


Ade abbassò il finestrino per respirare l'odore della pioggia. Il profumo di Persefone aveva inondato la macchina appena era entrata, un odore dolce e selvatico di cui aveva bisogno di liberarsi. Quella ragazza lo stava torturando: il modo in cui si raggomitolava su se stessa, lasciando scoperte le gambe, pelle bianca indifesa sotto il vestito giallo, e i suoi capelli ancora bagnati, che sembravano riflettere le ombre. Non aveva ancora deciso cosa fare dopo averla accompagnata alla stazione: lasciarle prendere il treno sarebbe stato folle, ma chiamare sua madre per riportarla a casa non avrebbe risolto il problema. Se voleva andarsene, avrebbe trovato il modo di farlo, e non poteva biasimarla per volerlo. Ricordava con fin troppa chiarezza la forza con cui aveva provato a liberarsi dalla sua stretta, al funerale del padre, le urla e le lacrime. Il dolore l'aveva straziata, e lo stava ancora facendo. Lei provava a nasconderlo, a seppellire le emozioni sotto quel ghiaccio, ma scappare non sarebbe servito a nulla. Capiva meglio di quanto lei non credesse l'impulso a correre, più veloce di quanto le gambe possano fare, più lontano di dove la nostra mente possa immaginare, era stato un ragazzino spaventato come lei, in un periodo di cui non aveva più fatto parola. Ma lei non avrebbe commesso i suoi stessi errori, non glielo avrebbe permesso.
La stazione era spaventosamente vicina, e con essa l'addio che non avrebbe mai dato. Dopo il sorriso che le aveva sorprendentemente concesso, Ade non aveva detto più nulla. Poteva vedere i suoi occhi spostarsi su di lei di tanto in tempo, con un'espressione di preoccupazione mista a qualcosa che non era riuscita a riconoscere. La strada era deserta e poteva sentire il rumore della macchina sull'asfalto, mentre metro dopo metro arrivavano al parcheggio della stazione. Ade scese prima che lei potesse accorgersi che l'auto si era fermata, le aprì la portiera e prese la sua valigia. Ancora una volta, il confine tra gentilezza e senso del dovere era una terra di nessuno, i confini impossibili da definire. Si chiese se lo avrebbe mai rivisto, magari un giorno lontano, magari lui sarebbe ancora stato vestito con un completo nero. Fu tentata di prendergli la mano, di imprimere nella memoria il suo calore. Forse si sarebbe concessa di abbracciarlo prima di partire, poteva permettersi un ultimo peccato da ricordare prima di andarsene. All'improvviso un'urgenza sconosciuta le bruciò dentro e gli afferrò la manica della giacca. -Perché mi stai aiutando?
-Mi sento in dovere.-la sua risposta non la sorprese, ma sentiva che non poteva essere tutto.
-Ma perché ti senti in dovere? Non mi conosci, tutto quello che sai è che mio padre è morto.-Era la prima vota che lo diceva a voce alta e il suono di quelle parole ruppe qualcosa dentro di lei, qualcosa che era già gravemente danneggiato e che aveva provato disperatamente a proteggere. Si accorse di tremare solo quando Ade l'abbracciò, come quel giorno, con la stessa forza ma in qualche modo in maniera diversa, come se stesse cercando non di fermarla ma di tenerla insieme. Di impedire che tutti i pezzetti in cui si era rotta si perdessero. Iniziò a piangere mentre Ade cercava di calmarla. -Mi sento in dovere di aiutarti perché sei solo una ragazza, e non c'è nessun altro a farlo. Tempo fa ho provato cose simili a quelle che provi tu ora, e se c'è qualcosa che posso fare per risparmiarti altro dolore, per risparmiare altro dolore a tutti, la farò.
Disse così, ma nel modo in cui la strinse non c'era senso del dovere, ma soltanto la forza di un legame che solo il dolore può costruire.

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