Shadowhunters ~ Seeing the Future

di proudtobea_fangirl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ~ Profeta delle nazioni ***
Capitolo 2: *** Donna malvagia ***
Capitolo 3: *** Chi punge un cuore ***
Capitolo 4: *** Si raccoglie ciò che si semina ***
Capitolo 5: *** Pánta rêi ***
Capitolo 6: *** Sogni non interpretati ***
Capitolo 7: *** Errori dello spirito ***
Capitolo 8: *** Aeterna fama ***
Capitolo 9: *** Per ogni faccenda sotto il cielo ***
Capitolo 10: *** Delle paure ***
Capitolo 11: *** Deficere ***
Capitolo 12: *** Licaone ***
Capitolo 13: *** San Tommaso ***
Capitolo 14: *** Anna ***
Capitolo 15: *** Alea iacta est ~ Parte prima ***
Capitolo 16: *** Alea iacta est ~ Parte seconda ***
Capitolo 17: *** Canzoni di redenzione ***
Capitolo 18: *** Vita informe ***
Capitolo 19: *** Ciò che tu ami ***
Capitolo 20: *** La rupe ***
Capitolo 21: *** Dolore dal sapere ***
Capitolo 22: *** Servire la luce ***
Capitolo 23: *** Deteriora sequor ***
Capitolo 24: *** Terrore ai malfattori ***
Capitolo 25: *** Non cadere ***
Capitolo 26: *** Se ho peccato ***
Capitolo 27: *** Non limitare il mare ***
Capitolo 28: *** Epilogo ~ Veleno ***
Capitolo 29: *** Ringraziamenti ***



Capitolo 1
*** Prologo ~ Profeta delle nazioni ***


Prologo - Profeta delle nazioni

Prologo ~ Profeta delle nazioni

4La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: 5«Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni.»

 [Geremia 1, 4-5]

 

Alicante ~ Primavera 2032

Non è esattamente una pacchia avere come genitori i due Shadowhunters più famosi del mondo.
  A volte, addirittura non mi sento figlia loro.
  Sono sempre appartenuta più ai piani alti che a questa dimensione monotona e maligna che chiamiamo Terra.
  Sembrerebbe facile vivere ad Alicante, lontana dalla baraonda di New York e del mondo lì fuori, che ho conosciuto solo grazie ai racconti della mia famiglia e a qualche visita sporadica all’Istituto da zio Simon e zia Isabelle. E invece, udite udite, non lo è affatto.
  Il mio posto “d’onore”, come chiunque avrebbe giudicato e giudicherebbe la mia condizione, in realtà era peggio di una panca misera e malandata in ultima fila.
  Per me sarebbe stato meglio sedere su uno sgabello mezzo rotto e rischiare di rompermi l’osso sacro piuttosto che guardare tutto dall’alto, oziando bellamente su una comoda poltrona rivestita di velluto.
  Il Consiglio? Oh certo, per loro ero una leader. Contavo quasi più del Console e di quello stronzo dell’Inquisitore – che teoricamente è mio nonno. Ma fuori da quell’aula, persino il più ignobile dei demoni era trattato meglio di me.

  Lorianne, prendi bei voti solo perché sei raccomandata! Lorianne, non ti becchi mai una nota se arrivi in ritardo o non fai i compiti! Lorianne, perché tu puoi sottrarti alle interrogazioni senza sorbirti un rimprovero o prendere un impreparato?
  E questo è solo ciò che dicevano i miei compagni di classe alle mie spalle nelle ore scolastiche.
  Lo odiavo. Odiavo vivere così. Mi sentivo come un filo d’erba nelle mani di un bambino: torturata, schiacciata – spezzata.
  Come se non bastasse, ci si metteva anche Raziel.
  Qualsiasi altro Shadowhunter avrebbe pagato oro, dato un occhio e pure di più, pur di parlare, o anche solo vedere, l’Angelo. Io avrei fatto altrettanto per togliermelo dai piedi. Anzi: dalla testa.
  Tecnicamente il sangue angelico che scorre nel mio corpo appartiene per metà a Raziel e per metà a Ithuriel. Ma per sfortuna – o per fortuna, mettetela come vi pare – solo il primo dimorava nel mio cervello.
  Qualsiasi cosa facessi o anche solo pensassi era condizionata da quella ripugnante vocina che brontolava di continuo. Raziel non stava un attimo zitto; non mi lasciava mai un momento di tregua. Mi appariva persino in sogno, pressoché ogni notte.
  Continuava a ripetermi la stessa frase: Vieni con me.
  Lo ammetto, a volte riusciva quasi a corrompermi. Non raramente sono stata tentata di seguirlo. Per pura forza di volontà mi sono costretta a restare, a rimanere qui sulla Terra. Avevo buoni motivi per farlo, o almeno così pensavo.
  C’è stato un periodo in cui la tentazione era aumentata. All’epoca mi capitava quasi quotidianamente di meditare su che vita avrei potuto avere, se avessi ascoltato Raziel. Se fossi andata con lui, in qualsiasi luogo avesse voluto portarmi. La prospettiva di passare il resto dei miei giorni in Paradiso era molto allettante.
  In ogni caso, in quel tempo ero così debole, psicologicamente e fisicamente, da non essere all’altezza di fare nulla.
  Ogni cosa in cui credevo – poche, comunque – era crollata di botto. Le persone nelle quali riponevo la mia più cieca fiducia mi avevano tradita, voltandomi le spalle senza ripensamenti né rimorsi. Il Consiglio, forse la mia unica certezza, mi aveva abbandonata proprio quando avevo più bisogno del suo aiuto – e di un buon tribunale.
  Tutto era diventato troppo.

 

Da piccola ero felice. Non che negli anni successivi io non lo sia stata, ma l’infanzia è stata di gran lunga la parte migliore della mia vita. All’epoca Raziel non mi parlava ancora, avevo le visioni sì e no una volta ogni sei mesi, ed era molto più facile alzarsi dal letto la mattina per affrontare una nuova giornata.  
  Non tutti ricordano quel periodo della loro esistenza; in fondo si è ancora piccoli per comprendere il senso del mondo e il modo in cui gira. Io invece lo ricordo perfettamente.
  Uno dei ricordi più impressi è la nascita di Jonathan. Già dalla prima volta in cui ho visto il pancione di mamma ho capito che era incinta, anche se avevo solo cinque anni. Ovviamente non sapevo tutto ciò che c’era dietro quel pancione – per mia fortuna, oppure ne sarei rimasta traumatizzata.
  È stato... interessante scegliere il nome di mio fratello.
  Agli altri bambini venivano raccontate le favolette dei Grimm, di Perrault o di Andersen; io ascoltavo la mitologia greca e romana e le peripezie dei miei genitori. In particolare mi piaceva la storia del loro viaggio a Edom. Era inquietante e allo stesso tempo bellissima. Solo verso i tredici anni mamma mi rivelò la versione integrale, comprensiva di tutti i risvolti incestuosi della vicenda, ma lo zio Sebastian mi ha affascinata sin da subito.
  Così, quando papà mi chiese quale nome avrei voluto dare al fratellino che stava per nascere, risposi: — Jonathan — senza ripensamenti.
Loro storsero un po’ il naso, ma alla fine acconsentirono. Immagino che per loro debba essere stata dura. Comunque fui io a chiamarlo così per la prima volta, quando finalmente potei entrare nella stanza della Basiliade dove mamma aveva quasi perso l’uso delle corde vocali e vedere quella piccola creatura che ronfava nella culla.
  Non credo di essere mai stata gelosa di Jon sul piano affettivo. Sono gelosa però dei suoi magnifici capelli rossi, perfettamente ricci – non come i miei, biondi e indecisi tra il liscio e il mosso – e ovviamente del fatto che lui sia un normale Shadowhunter.
  Eh già, la genetica mi ha tirato un brutto scherzo. Jon è semplicemente più veloce e più forte della norma, come papà del resto. Solo la mia testa è dimora fissa di Raziel.
  Jonathan mi adorava, e io adoravo lui. Mi piaceva guardarlo gattonare nel prato e sporcarsi di terra, mi piaceva quando mamma cercava di fargli mangiare qualcosa di disgustoso e lui arricciava la bocca in quel modo buffissimo, mi piaceva sentire il suo respiro sulla guancia mentre dormiva.
  Crescendo, il nostro rapporto è cambiato di poco. Litigavamo, certo, e non potevo dirgli nemmeno un piccolo segreto perché sapevo che l’avrebbe spifferato. Ciononostante non mi è mai pesato avere un fratello, nemmeno quando dovevo aiutarlo con i compiti oppure ero costretta a rimanere a casa per fargli da babysitter.
  Chrysta mi invidiava per questo. Voleva avere anche lei un fratellino o una sorellina, ma per zio Magnus e zio Alec era già troppo avere solo lei.
  Chris l’ha capito sin da subito. Ha sempre saputo che, arrivata a un certo punto della vita, sarebbe cambiato tutto. Avrebbe visto uno dei suoi genitori invecchiare e morire, e l’altro restare sempre uguale. Il suo stesso corpo sarebbe rimasto uguale. Ma, parlando sinceramente, lei non ci ha mai dato molto peso.
  Almeno Chrysta aveva una certezza. Io invece no. Per quanto ne sapevo, anch’io potevo essere immortale. Al contrario di Chris, ci pensavo continuamente.
  Non sarei mai riuscita a vivere con quella consapevolezza.
  E paradossalmente il dubbio era anche peggio.

 

Dall’adolescenza tutto divenne più difficile. Raziel prese a sussurrarmi all’orecchio, e le mie giornate si fecero progressivamente più pesanti.
  I miei genitori, Jonathan, gli zii Magnus e Alec e Chrysta l’avevano notato, e avevano cominciato a pormi un milione di domande credendo che io avessi una risposta a ciò che mi stava succedendo. Non ce l’avevo, naturalmente.
  Andavo a scuola senza voglia, senza scopi, senza obiettivi. Era raro che facessi i compiti o mi impegnassi almeno ad ascoltare durante le spiegazioni. Malgrado ciò i miei voti non calarono, quindi iniziai a sospettare che i professori avessero davvero delle preferenze nei miei confronti. La conferma mi fu data quando la prof di Lingue Demoniache mi diede una A ad un compito sul quale avevo scritto solo il nome e scarabocchiato qualcosa di non troppo carino.
  I pettegolezzi dei miei compagni di classe si diffusero molto velocemente. Venni etichettata come la lecchina di turno, quella che si becca sorrisetti e pacche amichevoli sulle spalle invece di ramanzine e rimproveri. Provavo a spiegare che la realtà non era quella, ovviamente senza risultati. Alla fine mi ci abituai.
  Una parziale svolta nella monotona e tutt’altro che piacevole routine ci fu quando Logan e Trish vennero a stare da noi perché il loro mentore, Sikh, era dovuto scappare in Egitto per motivi familiari, e nessun altro tutore aveva le referenze richieste da zia Iz. Così si iscrissero all’Accademia, nella mia stessa classe – abbiamo nove mesi e più di differenza, ma loro hanno iniziato a studiare un anno prima.
  Prima di allora li vedevo una volta ogni morte di Papa, e non esagero nel dire che non ricordavo nemmeno la loro voce. Con Trish parlavo relativamente spesso, ma Logan era per me quasi uno sconosciuto. Non ero legata a loro come lo ero, e lo sono tuttora, con Chrysta.
  Quando si presentarono alla nostra porta ero sola in casa. Pensavo che avremmo trascorso le tre ore che ci separavano dal ritorno dei miei genitori in un imbarazzante silenzio, ma invece Trish attaccò a chiacchierare a manetta. Rimasi sorpresa da fino a che punto riuscì a trascinarmi nella conversazione, e dalle capacità oratorie che aveva.
  Trish – che all’epoca chiamavo ancora con il nome completo, Patricia – è molto simile a zia Iz nel carattere, però di fisico sinceramente non so di chi abbia preso. Certo, zia è formosa, ma non quanto Trish. Lei è decisamente oversize. Già a quattordici anni aveva un fisico a pera invidiabile, e i capelli lunghi e ricci la rendevano una mini Sophia Loren. Zio Simon invece la paragonava a Jennifer Lawrence.
  Non si può dire che Logan non regga il confronto. Sotto il profilo del carisma Trish lo batte – anzi, lo umilia – ma la sua irrefrenabile curiosità e la gioia che gli sprizza da tutti i pori compensano questa mancanza.
  Ripensandoci ora, a distanza di anni, forse fa anche un po’ schifo dire che mi ero presa una cotta tremenda per mio cugino. Mi correggo: ero innamorata pazza di mio cugino.
  Logan chiaramente non ricambiava. All’epoca stava con Tara, una Seelie. O era un’Unseelie? Non ricordo... in ogni caso, sul piano amoroso ha preso dalla madre.
  Così io mi sentivo morire dentro.
  No, sul serio, non ero disperata fino a quel punto. Capivo che Logan non fosse interessato a me: ha sempre amato l’avventura e qualsiasi cosa di estremo, e io non potevo – non posso – esattamente definirmi tale.
  Capivo anche che il mio essere Chiaroveggente allontanasse chiunque. A molti faceva paura. A me stessa faceva paura. E a volte mi stava bene così: la paura mi tratteneva dall’azzardare azioni di cui poi avrei potuto pentirmi. Come, ad esempio, seguire Raziel.
  Con la mente del tutto occupata da pensieri legati alla scuola, agli amici e a Logan – soprattutto a lui – al tempo non ci davo più di tanto peso. La voce di Raziel nella mia testa era stata soppiantata da quella di Logan, le immagini dell’Angelo sostituite dai film a luci rosse con protagonista, sottolineo, mio cugino.
  Ma Raziel si vendicò. Approfittò di un mio momento di debolezza per inculcarmi un’idea che in circostanze diverse non avrei mai nemmeno lontanamente contemplato.
  E, come nella maggior parte delle normali situazioni drammatiche successe alla maggior parte dei normali adolescenti, c’entrava il mio ex-fidanzato.

  

Quando conobbi Jean non volevo ammettere che mi piacesse. Logan occupava ancora il primo posto nel mio cuore, e così per i primi tempi frequentai il signorino Argentsang – mi piaceva chiamarlo così, lo faceva andare in bestia – senza realmente essere interessata a lui.
  Be’, con Jean c’è stato il colpo di fulmine. In fondo, chi non sarebbe attratto da un meraviglioso francese dall’adorabile accento con tanto di erre moscia e un fisico da fare invidia allo Shadowhunter più allenato del mondo?
  E poi, mi chiamava Lorian. Si mangiava l’ultima sillaba e trasformava la e in una a. Questo suo difettuccio di dizione era terribilmente sexy. In realtà, Jean era sexy da capo a piedi.
  Era simpatico, aperto, divertente, ma anche cupo e misterioso. Si presentò in classe senza conoscere un’unica parola in inglese – si sa, i francesi sono talmente nazionalisti da non parlare lingue diverse dalla loro, figuriamoci poi se sono Shadowhunters – e totalmente sprovvisto di libri e altro materiale didattico. Ciononostante sorrideva come un bambino, e non smise nemmeno quando il professore iniziò a rimproverarlo. (In effetti, credo non capisse niente di ciò che gli stava dicendo).
  Nei primi tempi fu difficile riuscire a comunicare con lui. Chiesi a papà di insegnarmi il francese – anzi, di rinfrescarmelo in quanto seppur avendolo studiato non ricordavo nulla – e ascoltai ogni singolo album di Céline Dion per imprimermi nella memoria la corretta pronuncia. Mossa abbastanza sbagliata, dato che Céline e le licenze poetiche, in particolare nella pronuncia, andavano molto d’accordo.
  Quando finalmente ero in grado di formare un periodo sensato senza confondere gli articoli francesi con i loro corrispettivi in greco antico e avevo preso in mano tutto il mio coraggio per provare a intavolare una conversazione con Jean, lui aveva già imparato l’inglese. Coglione.
  Ma naturalmente questo andò a mio favore. Chiacchieravamo tanto, anche se capitò svariate volte che “the pen is on the table” e “le stylo est sur la table” fossero decisamente più logici di qualsiasi altra frase ci fossimo detti.
  Al sesto appuntamento ci scappò il bacio. E da allora i baci furono all’ordine del giorno.
  Non sapevo, però, che con quei baci Jean mi avesse marchiata come Giuda aveva fatto con Gesù.
  Non sapevo che con quei baci mi avesse designata come traditrice.

  

E così, dopo aver lasciato Jean senza ripensamenti né rimorsi ed essermi chiusa in camera mia con il calendario costantemente sott’occhio in attesa del fatidico giorno cerchiato in rosso, Raziel ebbe la sua occasione per infilarmi nella testa quell’idea.
  Chiunque ti sia vicino si fa del male, Lorianne. E fa del male anche a te. Sei destinata a una vita solitaria, figliola. Tutti noi Angeli lo siamo, anche se vogliamo farvi credere il contrario. Ma magari potresti mettere i tuoi talenti al servizio di una causa superiore. Rinunciare a qualche piacere per avere finalmente uno scopo. Puoi farcela, Lorianne. Lo so, e lo sai anche tu.
  Sì, lo sapevo. Sapevo cosa fare.
  Il problema era dirlo alla mia famiglia.



MA CIAAAO!

 Yu-uh, ho pubblicato come mio solito con due settimane di ritardo! YEE!

 Avrete sicuramente notato un cambio nello stile: niente più POV (narrerà solo ed esclusivamente Lorianne), passato al posto del presente, trattini invece delle caporali, linguaggio e registro un po’ più aulici e ambientazione MOLTO futura. Nel 2032 Lorianne ha quasi 18 anni, Chrysta quasi 19, i gemelli Lewis quasi 17. Per quanto riguarda i nostri Shadowhunters avranno tutti più o meno 41-42 anni, se non mi sono fatta male i conti.

 Bene, volevo presentarvi un po’ il personaggio di Jean. Ciò che è successo tra lui e Lorianne verrà rivelato integralmente verso i ¾ della storia, ma darò man mano degli indizi per farvi rosicare e scervellare. Jean è sì francese, ma ha origini nordiche in quanto secoli fa un ramo della sua famiglia (i Vertlance) disertò e si rifugiò tra i vichinghi. Per la sua storia ringrazio infinitamente Althea Matijacic, alla quale avevo solo chiesto un cognome Shadowhunter francese. Ma lei è così, mi sorprende sempre.

 La ringrazio anche per il banner, ancora in costruzione.

 Vi avevo anticipato che StF sarebbe stata ambientata a Gaeta, e in effetti sarà così tra un po’. Prima, be’... c’è qualche casino da combinare a Idris e New York. Ritorneranno due nostre vecchie conoscenze che collaboreranno per rompere indirettamente le scatole a una persona, e ho già detto troppo. Anche Cameron e Nathan saranno presenti, ma comunque non eccessivamente. Ad ogni modo ho iniziato a scrivere la minilong su di loro, e forse non sarà tanto mini.

 E come potete constatare non ho perso il vizio di concludere i capitoli lasciandovi sulle spine. Penso però di annunciare qual è l’idea di Raziel nel prossimo capitolo, che è anche quella “soluzione” menzionata nella trama; non credo che questo dubbio si protrarrà troppo a lungo, per la vostra gioia. Ma di dubbi e domande ne avrete molti altri, naturalmente.

 Volevo dire solo un’ultima cosa: dovete capire che per me questa storia è qualcosa di indescrivibile. C’è così tanto di me nelle parole che ho scritto e che scriverò da far quasi sembrare che la protagonista non sia Lorianne, ma me stessa. Non vi preoccupate, non sono depressa come lei. Più che altro la mia mentalità, il mio modo di pensare e di fare, la mia anima e il mio cuore verranno fuori quando inizierà la parte ambientata a Gaeta, città in cui sono cresciuta e che mi ha cambiata. Sono molto più emotivamente coinvolta qui che in RtP e LtP, e credo fermamente che questo maggior interesse si noterà a occhi bendati durante la lettura.

 Bene, fatemi gli auguri per le semifinali delle Olimpiadi d’italiano che disputerò il 19 febbraio a Latina. Se passo quelle poi vado a Firenze per le nazionali, e addio alle prove di grammatica: lì si scrive sul serio.

 VOTATE e COMMENTATE, bye!

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Capitolo 2
*** Donna malvagia ***


2 Donna malvagia

Donna malvagia

24Dalla donna ha avuto inizio il peccato,
per causa sua tutti moriamo.

25Non dare all’acqua un’uscita
né libertà di parlare a una donna malvagia.

26Se non cammina al cenno della tua mano,
toglila dalla tua presenza.

 
[Siracide 25, 24-26]

 

Raccogliere tutto il mio coraggio non fu tanto difficile; d’altronde lo facevo ogni volta che chiudevo gli occhi nel mio letto, la sera, in attesa di incontrare Raziel nei sogni, rifiutare nuovamente la sua offerta e ascoltare qualsiasi cosa avesse da dirmi.
  La parte complicata iniziò quando dalla finestra di camera mia vidi Chrysta avvicinarsi sorridente alla porta di casa ed entrare senza aver bussato.
  Sentii la sua voce salutare i miei genitori e Jon, poi il ticchettio delle sue scarpe sulle scale, infine i suoi braccialetti che tintinnavano mentre spingeva in basso la maniglia e varcava la soglia della mia camera.
  — Ciao — esclamò lasciandosi cadere sul letto, accanto a me. — Mi aspettavo una tua telefonata. — Lanciò un’occhiata al calendario appeso alla parete. Solamente tre giorni ci separavano dalla fatidica data cerchiata in rosso. — Ancora niente?
  — Niente — negai. — Né dolori né altre avvisaglie. Solo il nulla totale.
  Chrysta mi poggiò una mano carica di anelli sulla spalla. — Ehi, Lori, tranquilla. — Mi scrollò scherzosamente. — Sai che gli sbalzi di temperatura possono influenzarlo.
  — Non penso che la temperatura possa influenzarlo, Chris — ribattei mestamente. — Dura quattro mesi, cioè due stagioni. E non è mai arrivato in ritardo, mai.
  — Dannazione, aspetta di averne la certezza e non saltare a conclusioni sbagliate! — Chrysta cominciò a scaldarsi. — Lo sai che mi dai sui nervi quando fai così!
  Scattai in piedi, furiosa. — Menti! — le urlai contro, poi mi ricordai che in casa non eravamo sole e mi costrinsi ad abbassare il tono. — Non sono io a darti sui nervi — sibilai tra i denti. — Ti dà sui nervi il fatto che potrei mettere fine a tutto questo semplicemente guardando nel futuro come faccio quotidianamente e invece non ci penso nemmeno.
  Anche lei si alzò di colpo e mi si parò davanti. Con quei tacchi mi superava di buoni dieci centimetri. Mi sovrastava in altezza e in ira. — Hai ragione — ammise. — Non ti rendi conto del tuo potenziale, Lorianne, e so che te lo ripeto praticamente da quando entrambe abbiamo iniziato ad avere coscienza della tua situazione, ma sai che da questa bocca non è mai uscito altro che verità. A parte in certi casi, ovvio — aggiunse in fretta. — Tu continui a sostenere che essere una Chiaroveggente significhi essere quella presa in giro, quella vessata, quella insultata, quella sfruttata. Per carità, nessuno nega che tu abbia avuto la tua dose di brutte esperienze legate al tuo potere. Ma è proprio per questo che non riesci a cogliere il lato positivo.
  — Il lato positivo? — gridai, ormai troppo esasperata per contenere la rabbia. — IL LATO POSITIVO? Ho tentato un omicidio di massa a causa della Chiaroveggenza, Chrysta! E tu hai il coraggio di venire a parlarmi del lato positivo?!
  Lei strinse le mani a pugno. Dalle dita serrate prese ad uscire del fumo viola. — Non è stata colpa tua, e lo sai. Era autodifesa.
 Afferrai il portapenne di vetro e lo scagliai a terra, frantumandolo in mille pezzi. Chris lo riparò subito con un cenno del mento. — Autodifesa un corno! Io volevo ucciderli! — strillai a squarciagola.
  — Tu volevi difenderti — mi corresse Chrysta. — Volevi scappare.
  — NON È VERO! — Cercai di impedire alle lacrime di sgorgare, ma il mio tentativo fu vano. Mi gettai tra le braccia di Chrysta e crollai a piangere come una bambina. — Io volevo ammazzarli — dissi fra i singhiozzi. — Lo volevo io, non Raziel. Lo volevo io. Sono malvagia. Disumana. Oscura. Che paradosso, eh? La ragazza angelo è tutto meno che angelica.
  — E cosa dovrei dire io, allora? — sospirò lei accarezzandomi la schiena. — La donna che mi ha partorita è chiusa in un istituto di igiene mentale e il mio padre biologico è un demone non meglio identificato che si è infilato sotto le sue lenzuola. Ho due orecchie da pipistrello, un nido di cicogne al posto dei capelli e la pelle più nera del cioccolato fondente. Eppure ho trovato qualcuno che mi ama.
  Tirai su col naso. — Non tutti sono come zio Magnus e zio Alec.
  — Parole sante — commentò. — Ma lì fuori c’è il tuo principe azzurro – o la tua principessa rosa, dipende – che ti sta aspettando. E poi ci siamo noi: la tua bellissima e colorata famiglia multietnica. In pochi possono vantare di avere una cugina nigeriana, uno zio indonesiano, un altro zio ex-ebreo e un padre con lontane origini gallesi. — Mi strinse forte a sé. — Ti senti meglio adesso?
  — Sì... grazie. — Mi staccai dall’abbraccio e subito tornai a sprofondare nel letto. Mi stiracchiai fino a sentire il crac delle vertebre della schiena e presi un respiro profondo, preparandomi all’inevitabile rivelazione. — In realtà ti ho chiamata per un altro motivo. Certo, uno sfogo non mi avrebbe fatto male, ma la ragione è diversa.
  Chris si sedette sulla scrivania. — Vai.
  Respirai nuovamente a fondo e piegai le ginocchia. — Per favore, non interrompermi.
  — Non lo farò.
  — Bene. — Diedi un colpetto di tosse. — Chrysta, ascoltami, io... io non ce la faccio più a continuare a vivere in questo modo. La voce di Raziel nella testa, le visioni costanti, i sogni rivelatori e quel cazzo di sangue angelico che ogni tanto si ricorda di non essere degno della Terra e inizia a bruciare. Hai idea di quanto mi faccia male, Chris? Mi sento andare a fuoco, a volte divento trasparente; le vene mi ribollono sotto la pelle come se fossero piene di petrolio incandescente. Non posso andare avanti così. Prima ogni tanto le visioni aiutavano, e le avevo una volta ogni morte di Papa, ma ora sono sempre più ravvicinate e inutili. Ieri pomeriggio
sai cos’ho visto? Che mia madre avrebbe preparato coniglio al forno per cena! Ti sembra utile, una cosa del genere? NO! Mi reca solo fastidio, e dolore, un tremendo dolore, e rottura di scatole.
  Ripresi fiato. Avevo la bocca secca. — Quindi, sai che ti dico? Me ne vado. Vado via da Idris, via da questa terra troppo angelica. Potrei andare in Inghilterra, a Londra magari, o a New York con zio Simon e zia Isabelle, ma non voglio. È questo il problema.
  Rabbrividii, rendendomi conto che ero arrivata al punto cruciale. Al succo del discorso.
  — Ultimamente... sto pensando di unirmi alle Sorelle di Ferro. Almeno lì potrò essere una persona normale. Fare cose normali, per quanto sia possibile in un convento di suore di clausura. Non proverò più l’ebbrezza del sesso né rivedrò il cielo azzurro; le mie mani diverranno rosse e rugose per l’azione combinata del fuoco e dell’adamas rovente, ma potrò mettere i miei talenti al servizio di una causa maggiore. Forse non mi servirà nemmeno indossare le protezioni, per colpa del sangue angelico, e forse le mie mani rimarranno uguali. Ti prego di non giudicarmi, Chris. So che tu odi essere immortale, odi il significato stesso della parola, ma è meglio una vita lunga e tranquilla piuttosto che una corta e sofferente, no?
  Chrysta si era irrigidita. Aveva gonfiato il petto, serrato la mascella e stretto le mani sull’orlo della scrivania. Aveva perfino smesso di far dondolare le gambe avanti e indietro. Ed era un brutto, brutto segno. — Stai delirando. — Scosse la testa energicamente. — Tu stai delirando. Mi dispiace, Lorianne, ma questo non posso accettarlo.
  — Dovrai — ribattei secca. — Perché sono davvero molto motivata.
  — No, tu sei depressa! — urlò lei. — Ti rendi conto di cosa stai dicendo? La ragazza che fino a qualche mese fa non parlava d’altro che degli addominali di Jean e di quanto fosse bravo a letto ora vuole farsi monaca! — Saltò giù dalla scrivania. — E non permetterti di tirare in causa l’immortalità. Io preferirei vivere dieci anni o persino dieci giorni con tutti voi piuttosto che dieci secoli senza le persone che amo. Non pensi alla tua famiglia, Lorianne? Non ci pensi? Sai cosa sei? Sei un’egoista! — strillò. — Metti da parte te stessa, per una volta, e ricordati che esistiamo anche noi! 
  Scattai in piedi. — Allora non lo capisci, eh? — ribattei, ormai incazzata nera. — È proprio per voi che voglio diventare una Sorella di Ferro! Sono solo un peso sulle vostre spalle. Non potete negarlo, e non dovete.
  Le labbra di Chrysta iniziarono a tremare. — No no no, quella che non capisce sei tu — disse agitandomi l’indice davanti al viso. Una scia di scintille viola seguì i movimenti del dito. — Non capisci che non ti lasceremo andare nemmeno per tutto l’oro del mondo, Lori.
  — Non sto chiedendo il vostro permesso — ringhiai. — Ho preso la mia decisione. — Alzai il mento in segno di sfida. — Nessuno potrà farmi cambiare idea.
  — Per Lilith, credi che non lo sappia? — replicò Chrysta, furibonda. — Credi che non sappia che vuoi averla sempre vinta e l’ultima parola dev’essere la tua? Lasciamelo dire, Lorianne, sei insopportabile quando fai così.
  — Ecco! — esclamai con un gesto eloquente della mano nella sua direzione. — Hai ammesso che la mia presenza nella vostra vita non è gradita.
  Chrysta fece per protestare, ma riconobbe che si trovava dalla parte del torto e stette zitta. — Io non ho ammesso proprio un bel niente — sibilò infine. — Non comprendi quanto tu sia importante per tutti noi. — Mosse un paio di passi verso la porta e l’aprì. — Logan e Trish stanno organizzando una vacanza in Italia. Tre mesi, da maggio a luglio. Ho già accettato l’offerta di unirmi a loro. Ti avrei chiesto di aggregarti a noi se solo tu non avessi messo in chiaro che hai fatto la tua scelta e non hai intenzione di ripensarci. 
   Si voltò in modo da darmi la schiena. — Tra una settimana vado a New York, e da lì poi prenderemo l’aereo per Roma. Ci sono ancora alcuni posti liberi. Ti consiglio di valutare la proposta, anche se sono sicura che la risposta sarà no. Ti faccio notare che questi mesi potrebbero essere gli ultimi che passiamo insieme. Hai tempo fino a domenica. — E su questa nota allegra uscì sbattendosi la porta alle spalle.

 

 

Papà salì in camera un quarto d’ora dopo. Avevo appena finito di piangere come una bambina fino a disidratarmi, in compagnia del suono dei miei singhiozzi e della voce collerica di Raziel, e l’espressione grave sul suo viso mi fece venir voglia di ricominciare.
  Si lasciò cadere sul letto, poggiò i gomiti sulle ginocchia e vi seppellì la testa. — Perché, Lorianne? Non metterò bocca su nulla, giuro sull’Angelo. Non ho la benché minima intenzione di costringerti a fare qualcosa contro la tua volontà. Tra l’altro ho appena finito di ripetere a Jon che non deve permettersi di andare al laghetto delle anatre con la sua ragazza, e ne ho abbastanza di rimproveri per oggi. Ma dimmi il perché.
  — Non ti ha già spiattellato tutto Chrysta? — sbottai, girandomi sul fianco per non doverlo guardare in faccia.
  — Sì, ma io voglio sentire la tua versione.
  — Bene. — Sbuffai. — La mia versione, papà, è che quella che sto conducendo da dicembre non è vita. Prima almeno avevo Jean. Avevo l’amore. E riuscivo a tirare avanti, seppur faticosamente. Adesso invece non ho più niente. Dammi un buon motivo per restare. Ti ascolterò.
  Papà sospirò e si avvicinò a me. — I buoni motivi te li ha dati Chrysta — replicò. — Lorianne, fidati, so cosa significa vivere senza amore. Fino ai dieci anni la mia quotidianità era l’allenamento. Allenarmi e studiare, allenarmi e studiare. Valentine mi concedeva un po’ di libertà e qualche estrema manifestazione di affetto solo il giorno del mio compleanno. Non mi ha mai baciato, stretto con tenerezza o preso in braccio, tanto che quando nascesti tu avevo paura anche solo a sfiorarti, perché ti vedevo così fragile, così piccola e innocente da temere che il mio tocco più lieve potesse farti male. Poi sono andato all’Istituto di New York e ho conosciuto i Lightwood. Ho conosciuto Alec, che è diventato il mio parabatai. E tempo dopo è arrivata Clary. Pensaci, Lori: il bambino che aveva smesso di piangere, che si era costruito una corazza di ostilità e sarcasmo per allontanare chiunque avesse oltrepassato il limite di sicurezza, che non era mai stato innamorato, si scopriva circondato d’amore. Questa perifrasi per dirti di non lasciarti vincere dalla tristezza e dalla delusione. 
  Allungò una mano per accarezzarmi dolcemente un braccio. — Non ti ho mai vista così, figlia mia — mormorò mestamente. — Hai sempre affrontato tutto a testa alta, con la mia arroganza e la cocciutaggine di tua madre. Dov’è finita la ragazza che amavo, Lori? Dov’è quella persona che sarebbe scappata dalla finestra a costo di non restare più di un’ora chiusa in camera?
  D’istinto abbracciai il cuscino e ruotai su me stessa fino a trovarmi a pancia in giù. — Quella persona se l’è portata via Jean — ribattei in tono aspro. — Non c’è più, papà. È scomparsa. E non c’è modo di riportarla indietro.
  — Potremmo fargliela pagare. — Papà strinse i pugni alzando la voce. — Potremmo sputtanarlo davanti a tutta Idris. Ne godrei terribilmente.
  — Sai cosa succederebbe se lo facessimo. Ha in pugno l’intero Consiglio. Ci screditerà, ci infamerà, ci lascerà letteralmente in mutande, e nessuno avrà il coraggio di opporsi a lui. Non ne avranno motivo, dato che qualsiasi cosa diranno contro di noi – soprattutto contro di me – è vera.
  — Ed ecco che ricomincia ad autocommiserarsi — commentò papà, ironico. — Solo ora capisco quanto sia irritante. Clary ha ragione a schiaffeggiarmi ogni volta che lo faccio.
  Mi scappò una risatina, ma cercai di nasconderla affondando il viso nel cuscino. — Sul serio mamma ti schiaffeggia?
  — Sul serio — sghignazzò lui. — È la donna più manesca al mondo. Una notte è stata talmente violenta da lasciarmi otto graffi paralleli sulla schiena. E considera che all’epoca era ancora casta e pura. C’era anche Sebastian... lunga storia.
  Al nome dello zio Sebastian scattai impulsivamente a sedere. — Era il periodo in cui giravate l’Europa?
  — Sì — confermò. — Mi pento di non esservi tornato. Praga e Parigi erano meravigliose, ma Venezia è imbattibile. E a proposito dell’Italia... — Si slanciò in avanti, mi afferrò per la vita e mi attirò a sé. Tentai di liberarmi, ma la sua presa era ferrea. — Perché non vai a Gaeta insieme a Chris, Logan e Trish? — mormorò mentre mi spostava i capelli su una spalla. — Potrebbe essere una perfetta occasione per meditare sull’idea di unirti alle Sorelle di Ferro e rilassarti un po’. E divertirti, magari. Divertirti in quel senso, se sarà necessario.
  — Parla quello che fino a qualche mese fa voleva castrare Jean — osservai ridacchiando.
  — Ehi, darti dei consigli è una cosa, vedere che li metti in pratica è un’altra! — Papà rise e mi schioccò un sonoro bacio sulla guancia. — Ho sentito che gli italiani sono i migliori a letto — insinuò, malizioso.
  Mi abbandonai all’indietro, stretta tra le ferme e sicure braccia di papà. Piegai leggermente la testa di lato per sentire il profumo del suo dopobarba, un odore che adoro fin da quando ne ho memoria. — Grazie, papà — bisbigliai chiudendo gli occhi. — Nella mia vita c’è amore, e ce n’è moltissimo. L’ho finalmente capito. Ma non è il tipo di amore che desidero.
  — Troverai la tua anima gemella — mi sussurrò lui all’orecchio. — Te lo auguro. Me lo auguro. E ne sono sicuro.
  — Te lo auguri o ne sei sicuro?
  Si batté una mano sul petto. — Touché — dichiarò con aria teatrale. — Comunque direi entrambi.
  — Sono un tantino discordanti, non trovi?
  — Forse — ammise. — Ma non sarebbe divertente vivere senza contraddizioni. Il mondo è bello perché è vario.
  — Io non l’ho visto, il mondo — commentai malinconica.
  — Lo vedrai. Te lo auguro. Me lo auguro. E ne sono sicuro. — Tacque, ma riprese subito: — Brevetterò la citazione. 
  Gli tirai una gomitata alla cieca sogghignando. — Oggi non te la cavi tanto bene con le parole, eh?
  — Sto invecchiando, Lori, sto invecchiando — si lagnò. — A tal proposito ho una bella frase dritta dritta, nemmeno a farlo apposta, dall’Italia, precisamente dal Principe Totò: “Ogni scarpa diventa scarpone”. In napoletano sarebbe più figo. — Mi diede un ultimo bacio e si alzò stiracchiandosi. — Cucino io. Salmone al vapore. E non provare a lamentarti.
  — Deve cuocere di più — lo avvertii. — Non rovinare di nuovo un meraviglioso trancio di salmone. Cameron e Nathan ci rimarrebbero molto male.
  — Si sono messi nei guai da soli decidendo di darci un terzo di quanto hanno pescato in Alaska — puntualizzò.
  Presi il primo cuscino che mi capitò sottomano e glielo lanciai addosso. — Venti minuti.
  — Venti minuti — affermò lui rimandando indietro il cuscino. — E stavolta ci metto anche la scorza del limone oltre al succo.
  — Bravo. — Prima che uscisse, gli ricordai: — E lascialo marinare!  

 

 

Come dessert quella sera ci fu un tortino di Chrysta condito con lettere da New York. Nome del piatto: casini in arrivo.
  Chris si materializzò all’improvviso davanti al caminetto spento, mentre papà aiutava Jon a tradurre Catullo con il vocabolario di latino sulle ginocchia e mamma ed io spettegolavamo tranquillamente su qualsiasi argomento interessante.
  — Mio padre è nei guai — rivelò sedendosi sul divano senza tanti complimenti.
  — Chrysta, cara, odio farti questa domanda, ma devo — replicò papà. — Quale dei due?
  — Magnus — chiarì lei mostrandoci un’articolata busta in simil-pergamena con un finto sigillo di ceralacca. — L’ha scritta Camille. Camille Belcourt.
  — Non credo che zio Magnus sia stato con più di una Camille — osservò intelligentemente Jon. — Era ovvio che fosse lei. E poi, anche se ce ne fossero state altre, nessuna avrebbe avuto un conto in sospeso con lui poiché sarebbero tutte morte.
  — Chiudi la bocca, sapientino — lo zittì Chrysta. — Camille rivendica una vecchia offerta di un drink. E vuole parlare anche con me.
  — Perché mai dovrebbe? — obiettai. — Insomma, non ti ha nemmeno vista.
  Chrysta mi lanciò un’occhiata stranamente pacata, considerando la situazione e quanto era successo poche ore prima. — Non lo so, Lori, non lo so. E c’è dell’altro. — Ci indicò la seconda busta, bianca e con l’indirizzo del mittente in filigrana. — È dell’orfanotrofio dove mi hanno accolta da piccola — spiegò. — Dicono che mia madre è in libertà.
  Tutti trattenemmo il fiato. Per Chrysta era quasi un tabù parlare di sua madre, e se tirava fuori l’argomento significava che la questione era critica.
  — Oh — sussurrò mamma. — E quindi tu pensi che le due cose siano collegate?
  — Forse — disse Chrysta, laconica. — Dopotutto chi avrebbe potuto far uscire una pazza immigrata senza documenti, familiari ed effetti personali se non una donna di una certa presenza come Camille?
  — Hai ragione — ammise papà. — Così avrebbe un senso anche il volerti parlare.
  — Esatto. — Chrysta si riprese le lettere. — Parto domani per New York — dichiarò seria. — Ormai è inutile rimandare fino a domenica.
  — E verrò anch’io — annunciai alzandomi in piedi. — Sempre se la proposta è ancora valida.
  Chrysta mi guardò per un istante, poi si aprì in un sorriso a trentadue denti. — Oh, la mia cuginetta vuole uscire dal guscio! — Mi abbracciò e mi scompigliò i capelli. — Andiamo, ti aiuto a fare le valigie.


E rieccomi qui, a distanza di otto giorni (?) dalla pubblicazione del prologo. Dai, non ho fatto troppo tardi.

Ecco che si manifesta l’idea di Raziel, ed ecco che ritorna la prima delle due “vecchie conoscenze” di cui vi avevo accennato nella precedente NdA.

Avete capito cosa rappresenta la data cerchiata in rosso? Su, siete quasi tutte ragazze. E i ragazzi intendano senza domandare, tanto lo sanno. E se ve lo steste chiedendo sì, Lorianne ha un culo incredibile ad averlo ogni quattro mesi, cioè solo tre volte all’anno. MAGARI.

Bene, non credo di aver altro da dire. Nel prossimo capitolo incontreremo i gemelli Lewis e rivedremo i loro genitori, ossia il mio adorato Simon (che Alberto Rosende interpreta MAGISTRALMENTE) e Isabelle.

VOTATE e COMMENTATE, ciao!

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Capitolo 3
*** Chi punge un cuore ***


3 Chi punge un cuore

Chi punge un cuore

 
Chi punge un occhio lo fa lacrimare, chi punge un cuore ne scopre il sentimento.

[Ecclesiaste 22, 19]

 

 

Lettera Camille

Carissimo Magnus,

   Immagino perfettamente la tua reazione nel ricevere questa mia lettera, ma credo che te la saresti dovuta aspettare, no? Dopo quello che è successo, ho riflettuto per un attimo su tutte le azioni da me compiute, magari ti interessa sapere a quali conclusioni sono arrivata. In più, mio caro, bisogna mantenere la parola data ed io attendo il drink che mi hai promesso.

   Comunque, avresti potuto evitare quel ridicolo tentativo di uccidermi, ma per questa volta metterò da parte il rancore, sono di buon umore. Che non accada più, per questo secolo ho già rischiato la morte troppo spesso.

   Ma non ti ho scritto per parlare di cose così pesanti, è semplicemente una specie di memorandum.

   Aspetto questo invito, non farmi attendere troppo.

Camille.

 

   P.S. Che sciocca, ho dimenticato una cosa importante. Desidero parlare con la tua di sicuro adorabile figlia, Chrysta. Credo sia meglio avvisarti, così da evitare discussioni future. Tranquillo, non devi rispondere a questo mio post scriptum, ne nascerebbe una conversazione piuttosto futile dal momento che, in un modo o in un altro, parlerò con lei.

 

 

Chrysta continuava a ripetere ininterrottamente le parole di Camille ad alta voce. Ormai non aveva nemmeno più bisogno di leggerle: le sapeva a memoria.
  Tra lei e zio Magnus che non la smetteva di prendersi a schiaffi in faccia dandosi del coglione mentre zio Alec, impotente, giocherellava nervosamente con la corda dell’arco, il pre-partenza fu tutto meno che tranquillo. Mettendoci anche il mio ancestrale terrore per i Portali otterremo un perfetto inizio per un’altrettanto perfetta vacanza.
  Il “piccolo contrattempo” non avrebbe interferito con nulla: come da programma saremmo partiti lunedì ventisei aprile, un mesetto a quella parte, dal JFK di New York – Logan aveva insistito nel voler usare i mezzi mondani – e atterrati a Roma Fiumicino sette ore dopo, poi avremmo preso un treno fino a Formia e da lì un autobus per Gaeta.
  Avevo fiducia nella scrupolosità dei miei cugini, soprattutto di Logan, ma sapevo per esperienza personale che quando il piano è perfetto e apparentemente incrollabile c’è sempre qualcosa che va storto. Quasi fosse una legge dell’Universo. È inutile che ti metti a giocare a Temistocle e Pericle, a fare lo stratego, tanto ti ritroverai comunque i bastoni fra le ruote.
  La sera prima Chrysta aveva svuotato il mio armadio e riempito una valigia allargata magicamente che faceva un baffo alla borsa di Mary Poppins con il necessario per il nostro soggiorno di tre mesi a Gaeta, non dimenticandosi di lasciare al proprio posto tutto quello che mi aveva regalato Jean. Il che era un bel problema, dato che Jean mi aveva regalato i migliori capi d’abbigliamento che possedevo.
  — Per Lilith, Lori, mi vergogno di non averti dato lezioni di stile — commentò Chris in tono di scherno mentre ficcava nella valigia un paio di ballerine. — Menomale che ci ha pensato il tuo ex. Sempre detto che i francesi sono i migliori in fatto di moda.
  — Non parlare di Jean — scattai. — Sarà argomento tabù fino a quando non ritorneremo a casa. 
  — Okay, come vuoi — acconsentì. — Ma, stanne certa, avremo il tempo di rimediare a questo disastro. Passeremo le tre settimane newyorchesi in giro per la città a fare shopping con Trish e zia Iz. Almeno così potrai vestire decentemente.
  — Chris, sai già che non metterò nulla di tutto ciò che compreremo — replicai sbuffando. — Voi punterete su scollature, strappi, vedo-non vedo e cose del genere, mentre io mirerò a tenermi il più coperta possibile. — D’istinto allungai il braccio dietro la schiena e mi toccai un punto ben conosciuto tra le costole. — Sai che non posso mostrare la cicatrice.
  Da piccola non ce l’avevo. O meglio, ce l’avevo ma non si vedeva. La scoprii due giorni prima del mio undicesimo compleanno. All’epoca c’era uno specchio su entrambe le ante dell’armadio; le avevo lasciate aperte per sistemare dei vestiti, e così quando mi girai per chiuderle vidi riflessa nel vetro quell’orribile immagine.
  Anche mamma e papà hanno delle cicatrici che sottolineano la loro natura particolarmente angelica, ma le loro sono piccolissime.
  Al contrario la mia è grande, liscia, bianca; arriva fino all’osso sacro e parte dalla base del collo. E ha l’inconfutabile forma di un paio d’ali.
  Dopo quell’episodio chiesi a papà di togliere uno degli specchi. Gli scagliai ripetutamente contro una spillatrice per spaccarlo in mille pezzi, in modo da avere una scusa per farlo rimuovere.
  Dicono che rompere uno specchio porti sette anni di sfortuna. Di sfiga. Ed effettivamente i successivi sette anni non furono proprio stupendi.
  Ma mancava solo qualche mese alla fine della maledizione. Solo qualche mese e sarei diventata maggiorenne. Solo qualche mese e sarei finalmente uscita dai diciassette ed entrata nei diciotto.
  Quindi, cosa meglio di una vacanza avrebbe potuto commemorare un avvenimento di tale portata?
  Problema: c’erano più contro che pro.
  Mentre aspettavo che zio Magnus terminasse di approntare il Portale e che i miei genitori e Jon ci raggiungessero alla Guardia per salutarci, mi misi a stilare mentalmente una lista di tutti i punti a vantaggio e a svantaggio della nostra imminente gita in Italia.
  In primis c’era la mia condizione di Chiaroveggente, che m’impediva di godermi qualsiasi cosa per il sopraggiungere inaspettato e repentino delle visioni. Seguiva il ricordo di Jean e del perché lo odiavo, che ero sicura mi avrebbe perseguitato ad ogni ora del giorno e della notte. Naturalmente si aggiungeva il fatto che l’Italia fosse la nazione più santa e angelica al mondo, con una chiesa ad ogni angolo e reliquie dappertutto, ossia una fonte di potenziale sofferenza per una come me che si sentiva mancare anche ad un chilometro dalle torri di adamas. 
  Poi però tutti questi pensieri negativi venivano meno al confronto con ciò che avrei potuto fare, una volta a Gaeta. L’avevo già sentita nominare; ricordavo che fosse una cittadina sul mare con un bagaglio di storia non indifferente, che spaziava dalle varie dominazioni – romani, spagnoli, Aragonesi, Borboni – fino all’Unità d’Italia e alla Seconda Guerra Mondiale. Volevo provare i piatti tipici, ascoltare la musica del posto, conoscere la cultura locale, e conoscere pure qualche bel tipo. Quello era il mio obiettivo primario: trovare qualcuno che mi facesse dimenticare, anche solo per una notte, quanto era successo con Jean.
  Avevo appena concluso la lista quando arrivarono i miei e Jon, quest’ultimo con la testa bassa e le mani affondate nelle tasche.
  — Animo, Rosso Malpelo! Non sto andando alla NASA per diventare astronauta e ritirarmi in una stazione spaziale, ma in vacanza. — Gli punzecchiai il fianco con un dito, facendolo sorridere.
  — Lo so, Lori, ma non sei mai stata fuori casa per più di un mese — replicò lui con un sospiro abbattuto. — Mi manchi già da adesso. E detesto fare il sentimentale.
  Papà avanzò e gli mise un braccio sulle spalle. Da piccolo Jon assomigliava molto di più a mamma, ma più cresceva più i tratti spigolosi degli Herondale prevalevano su quelli morbidi dei Fairchild. Entrambi quindi, in quella posizione, sembravano la stessa persona con la sola differenza dell’età e del colore dei capelli. — Non hai tutti i torti — concordò. — Anch’io devo ammettere che sarà difficile stare senza il nostro fantasma piagnucolone.
  — E senza qualcuno con cui spettegolare — aggiunse mamma. — Però ora basta. Te ne stiamo dicendo di cotte e di crude, Lorianne. Ma a ragione.
  Vi presento mia madre. Diretta e schietta. Come avrei voluto essere io. — Sì, bravi, tacete — sbottai, e zio Magnus mi fermò prima che potessi replicare più duramente.
  — Che bel quadretto familiare — commentò con più di una sfumatura d’ironia nel tono. — Il Portale è pronto, comunque.
  Abbracciai mamma, papà e Jon contemporaneamente e li strinsi più forte che potevo. — Ci sentiamo — mormorai, poi mi staccai a malincuore e seguii zio Magnus fino al Portale, cento metri più avanti.
  Zio Alec, rigido, non aveva ancora abbandonato l’arco, sul quale continuava a serrare nervosamente le dita che così erano diventate bianche. Chrysta aveva invece messo via la lettera, ma non smetteva di borbottare il nome di Camille a bassa voce.
  Zio Magnus li osservò mordendosi il labbro. — Perché, perché le ho fatto quella promessa? — sibilò tra i denti.
  — Perché dovevi sterminare le Bardane e cercavi di perdere meno tempo possibile — gli ricordai. — Pensavi in quel modo di concludere una conversazione che al contrario si è protratta per più di venti minuti ed è sfociata in un combattimento quasi mortale per Camille, i cui effetti si sono riflessi anche sulla tua prontezza e lucidità al momento di uccidere il demone da te affettuosamente chiamato X, tanto che se non fosse stato per zio Alec ci avresti lasciato le penne glitterate.
  Zio girò lentamente la testa nella mia direzione e mi guardò con aria di rimprovero. — Certo che tu per fare coraggio sei la migliore.
  Allargai le braccia, esasperata. — Per la miseria, zio, devi solo incontrare una tua vecchia amante, mica salvare – di nuovo – il mondo!
  — Non è per questo, è per... — Respirò a fondo e curvò le spalle in avanti. — È per Alec — rivelò. — I suoi trascorsi con Camille sono a dir poco singolari e non proprio positivi. Senza dimenticare perché voglia parlare con Chrysta, che mi sembra una richiesta abbastanza inusuale per una come lei. Spero non c’entri niente con la rimessa in libertà di sua madre, oppure giuro su Lilith che stavolta me la paga cara. 
  Diede un colpetto di tosse per riscuotersi. — Okay, la smetto. — Fece segno a zio Alec e Chrysta di avvicinarsi. — Pronti? — Loro annuirono e varcarono il Portale senza esitazioni.
  Io mi voltai indietro per un’ultima volta e lasciai vagare lo sguardo sul paesaggio da cartolina di fronte a me, sulle dolci colline verdi, sulle stradine acciottolate, sulle imponenti guglie dell’Accademia in lontananza, sulle torri di adamas che il sole faceva scintillare come diamanti, come per imprimermi quell’immagine nella mente. Ma infine mi resi conto che quello era il posto dove avevo vissuto fino ad allora, e che ciò che stavo facendo era del tutto inutile, poiché nessuno poteva conoscerlo e ricordarlo meglio di me.
  — Lori? — Zio Magnus mi tese la mano, allo stesso tempo un’ancora di salvezza e un’ancora che avrebbe potuto farmi definitivamente toccare il fondo.
  Mi aggrappai a lui e lo tenni stretto finché non uscimmo dal Portale.

 

 

La prima cosa che vidi fu il nero. Nero totale. Poi mi puntellai sui gomiti e scoprii che quel nero era accostato al bianco e al fucsia in una fantasia zebrata che avrebbe fatto inorridire persino zio Magnus.
  Quindi, quando compresi che eravamo nel loft in cui gli zii avevano abitato per diversi anni, quasi mi venne voglia di condannare a morte il proprietario dell’appartamento per omicidio del buon gusto.
  Quel tappeto era ripugnante. Ma almeno era occupato da qualcuno che di ripugnante non aveva assolutamente nulla.
  Logan Maxwell Lewis, con il suo solito ciuffo ribelle che gli dava un’aria da cattivo ragazzo alla Danny Zuko, mi fissava ghignando maliziosamente, mentre sua sorella Patricia Eve era già scoppiata a ridere per il mio atterraggio non proprio perfetto.
  Dopo esserci scambiati i saluti di rito, come se fossimo stati perfetti estranei e non cugini, lui mi aiutò ad alzarmi e lei mi porse un ombrello, indicandomi la finestra alle sue spalle dalla quale s’intravedeva una fitta cortina di pioggia. Notai che entrambi portavano all’anulare destro l’anello della loro famiglia, che invece io ricordavo di avere circa due volte l’anno. E questo la dice lunga su di me.  
  — Voi andate — disse all’improvviso zio Magnus. — Resto qui ancora per un po’ e poi vi raggiungo.
  — Anch’io — risposero all’unisono Chrysta e zio Alec.
  Lasciammo quindi la famigliola felice al loft e uscimmo nella fresca aria di un marzo newyorkese, cercando di evitare che il vento rivoltasse gli ombrelli e ci trascinasse via stile Mary Poppins (il che faceva pendant con la mia valigia). A causa del brutto tempo il piano di Logan e Trish di tornare a piedi all’Istituto per migliorare il mio orientamento nella metropoli saltò, e così fummo costretti a prendere un taxi.
  Durante il tragitto Trish si stufò di stare zitta e attaccò a chiacchierare, scegliendo come argomento per rompere il ghiaccio proprio ciò di cui non volevo parlare. Chiuse il finestrino che ci separava dal tizio al volante ed esordì: — Non ho ancora capito perché non smascheri Jean davanti a tutta Idris, Lori.
  Sbuffai e alzai gli occhi al cielo. Gliel’avevo spiegato qualcosa come una quindicina di volte. — Perché lui volgerebbe la situazione a suo favore e controbatterebbe accusando me di tentato plurimo omicidio e la mia famiglia di occultamento di reato e tradimento.
  — Ma non ne hai la certezza, no? — intervenne Logan. — Insomma, sei tu ad avere più prove a conferma della tua tesi, non il contrario. Non puoi prevedere con sicurezza cosa succederà in Consiglio.
  — Potreste giurare con la Spada — suggerì Trish, poi, accortasi del mio brivido di terrore, si corresse: — Come non detto.
  — Credetemi, ragazzi, se potessi lo farei subito — sospirai lamentosamente. — Il problema è che non ne ho i modi né i mezzi. Ad essere sincera non ne ho nemmeno il coraggio.
  — Quello non ti è mai mancato — replicò Logan. — Ti conosco poco, Lorianne, ma ti conosco abbastanza da sapere che il coraggio è uno dei tuoi molti punti forti.
  — E infatti lo era, fino a qualche mese fa — scattai. — Forse ora non lo è più.
  — Quel “forse” è pur sempre una speranza — osservò intelligentemente Trish, e qui si concluse la conversazione.
  Giunti di fronte all’Istituto – tra le proteste dell’autista, che naturalmente non vedeva altro che una chiesa abbandonata e con molte probabilità pensava che fossimo dei drogati in procinto di infilarci un ago nel braccio – scendemmo dal taxi sollevando schizzi d’acqua dappertutto e facemmo tacere il conducente allungandogli una mancia. Quando fummo sicuri di non essere osservati varcammo il cancello, sparendo agli occhi dei mondani.
  Appoggiata al portone stazionava mollemente una figura ben nota, con gli occhiali cascanti sul naso e il sorriso sbilenco uguale a quello del ragazzo che mi stava accanto.
  — Mirtilla Malcontenta! — esclamò correndomi incontro, per poi abbracciarmi e sollevarmi di dieci centimetri da terra. — All’Istituto serve assolutamente uno spiritello lamentoso come te!
  — Andiamo, zio, non ti ci mettere anche tu! — borbottai con la voce soffocata.
  Zio si staccò ridacchiando, prese la mia valigia da perfetto gentiluomo e mi fece segno di seguirlo oltre l’entrata. Logan e Trish svoltarono l’angolo e scomparvero. — Io mi ci metto eccome. Lo sai che mi piace stuzzicarti. Passiamo insieme sì e no una settimana l’anno, è ovvio che mi senta in dovere di farti ridere un po’, almeno in quei pochi giorni in cui mi è concesso di farlo.
  Eravamo arrivati nell’atrio. Era l’unico posto che odiavo in tutto l’Istituto; troppo buio e troppo freddo per i miei gusti.
  Zio accese una stregaluce con un cenno della mano, rischiarando così quell’ambiente tetro e decisamente poco accogliente. — Sono il peggior padrino della storia — sospirò lamentosamente, spingendo il tasto per chiamare l’ascensore.
  — E io la peggior figlioccia della storia...
  L’ascensore annunciò il suo arrivo con un tremendo cigolare di cardini. Entrai nella cabina con un certo timore, ma zio non sembrò farci caso. Per fortuna la terrificante corsa finì subito; nonostante quell’ammasso di ferraglia fosse, appunto, un ammasso di ferraglia, funzionava alla perfezione.
  Zio Simon mi condusse lungo un corridoio disseminato di porte chiuse, poi per un secondo corridoio le cui porte erano invece tutte aperte e rivelavano camere chiaramente abitate. Una sola era ancora libera, e non appena ne varcammo la soglia mi lasciai cadere a peso morto sul letto.
  — Come puoi constatare abbiamo molti ospiti — disse zio, notando che ero rimasta sorpresa alla vista di tante stanze occupate. — Negli ultimi cinque anni o giù di lì il Conclave ci ha mandato parecchi Shadowhunters, sia di nascita che Ascendenti, e altrettanti sono venuti qui di loro spontanea volontà. La fama di Sikh ha attirato e attira tuttora una folla piuttosto consistente.
  — È tornato dall’Egitto? — gli domandai, ricordando che l’anno precedente Logan e Trish si erano iscritti momentaneamente all’Accademia poiché motivi familiari avevano costretto il loro mentore a scappare nel suo Paese d’origine.
  — Sì, un mesetto fa — confermò lui. — E con una bella sorpresa, per di più.
  — Oh... auguri.
  — Nascerà a breve — continuò zio, — ma Zahirah non ha ancora deciso se partorire qui o alla Basiliade.  
  — Ma questi non sono miei problemi.
  Zio poggiò la mia valigia nell’armadio e si sedette sulla poltrona di fronte alla finestra. — Quali sono i tuoi problemi, allora?
  Avevo attribuito a zio Simon il titolo di psicologo. Nella mia mente l’avevo addirittura elevato a luminare della psicanalisi. Quando parlavo con lui inevitabilmente arrivava a scavarmi nella testa.
  Mi tolsi le scarpe e poggiai le gambe sul letto. — Li conosci così bene che potresti chiamarli per nome, zio.
  — Hai ragione — concordò lui. — Li conosco così bene che potrei chiamarli Raziel.
  — Vedi? È inutile chiedermelo.
  — Negare la tua natura non ti servirà a nulla, Lorianne — dichiarò zio per quella che mi parve la milionesima volta.
  — Questa frase ha perso tutto il suo senso, se mai ne ha avuto uno — brontolai secca. — Adesso mi dirai che anche tu hai passato un periodo particolare, che da un momento all’altro ti sei ritrovato vampiro e bla bla bla, ma comunque al mondo c’era qualcuno come te, che poteva aiutarti e farti sentire parte di qualcosa. Io al contrario sono unica.
  Zio si sporse in avanti nella mia direzione. — E allora perché non accogliere quest’unicità? — ribatté, le pupille brillanti dietro le lenti degli occhiali. — Perché non amarla?
  — Perché sono una pecora nera tra sette miliardi e mezzo di pecore perfettamente bianche — replicai. — Ti spiego una cosa, zio: chi è diverso non viene mai accettato, seppur a molte persone piaccia far intendere che sia così. E quindi al diverso non resta altro che adeguarsi alla massa.
  — Secondo il tuo ragionamento una pecora nera potrebbe diventare bianca, il che effettivamente non è impossibile, ma non sarà la pecora ad averlo scelto.
  — Ho sbagliato esempio, okay? — sbottai, e incrociai le braccia sul petto.
  Zio si passò le mani fra i capelli e respirò a fondo. — Senti, Lorianne, io non posso importi cosa fare della tua vita. Ma lascia che ti dia un consiglio: impara a considerare il bicchiere mezzo pieno, piuttosto che mezzo vuoto. Sii ottimista.
  —   Come faccio ad essere ottimista con un Angelo che ha il monopolio sui miei pensieri? — esplosi, buttando fuori tutta l’ira repressa. — Come faccio a considerare il bicchiere mezzo pieno se questo si è rotto in mille pezzi?
  Zio si alzò dalla poltrona, si inginocchiò di fronte a me e mi strinse delicatamente i polsi. — Ricomponilo. Frammento dopo frammento, scheggia dopo scheggia. Ti ferirai, certo, ma ad ogni taglio la tua pelle si riparerà sempre più velocemente.
  — E se invece mi ferissi a tal punto da non poter più guarire?
  Zio si morse un labbro e distolse per un attimo lo sguardo. — Anni fa zia Isabelle disse che i cuori s’infrangono, e anche quando guarisci non sarai più lo stesso. E non aveva torto. — Si tirò di nuovo in piedi e si avvicinò alla porta. — Non sarai più lo stesso, sì. Ma ciò non toglie che tu possa essere migliore.


Ciao! Pubblico con il mio solito ritardo, sì u.u

Il fatto è che questo capitolo doveva essere mooolto diverso. Volevo già inserire l’incontro tra Magnus, Chrysta e Camille, ma poi mi sono resa conto che sarebbe stato troppo frettoloso oltre che stupido metterlo nel secondo capitolo e quindi si è posto il problema di come riempire il vuoto che si era creato. Ho dunque sfogliato tutti i miei appunti (circa 14000 parole, niente di che) miliardi di volte e ho infine trovato un piccolo passaggio che mi ha ispirato a scrivere ciò che avete appena finito di leggere.

Voglio farvi una domanda prima che mi dimentico: state seguendo la serie? Io sì, e nonostante sparino certe cazzate incredibili mi sta piacendo moltissimo. Simon e Magnus sono il TOP. Tra l’altro la sto facendo vedere anche al mio fratellino mondano e babbano e via dicendo, e fooorse riesco a convincerlo a leggere Shadowhunters (pregate per me).

A proposito di preghiere... no, non sono passata alle nazionali delle Olimpiadi d’italiano. Pazienza, ho altri quattro anni per riprovarci. E ve lo prometto: sentirete parlare di me.

Ah, seconda domanda: qualcuno tra di voi ha finito le Cronache dell’Accademia? Io sì, e... *piange*
Mi sono accorta che il Simon delle Cronache e il mio Simon sono praticamente uguali. Molti suoi atteggiamenti e pensieri in questi racconti, in particolare la sua considerazione degli Angeli, sono la fotocopia dei suoi atteggiamenti e pensieri in RtP, LtP e anche nel passaggio di StF (che forse non inserirò, ma che posso comunque farvi vedere) da cui ho tratto lo spunto per questo capitolo. Oltretutto nelle Cronache Simon e Clary si ritrovano alla Bethesda Fountain and Terrace, dove guarda caso i Sizzy si sono sposati alla fine di LtP. Ve lo giuro, ho scritto le parti di cui sopra prima di leggere le Cronache.
Ora, o conosco il personaggio di Simon talmente bene da essere al livello della sua creatrice o sono anch’io una Chiaroveggente come un mio personaggio.

Vabbe’, non vi ammorbo ulteriormente. Mi concedo qualche altra riga per ringraziare Althea Matijacic, che non ha bisogno di presentazioni, per la lettera di Camille che trovate a inizio capitolo (anche l'immagine, yep) e per essersi gentilmente resa disponibile per scrivere insieme a me l’incontro tra la suddetta vampira e i due Stregoni, che spero di pubblicare al più presto possibile.

VOTATE e COMMENTATE, alla prossima guys! ♥

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Capitolo 4
*** Si raccoglie ciò che si semina ***


3 Si raccoglie ciò che si semina

Si raccoglie ciò che si semina

Forse è per questo che Dio ci fa prima piccoli e vicini al suolo. Forse è perché sa che dovremo cadere spesso e sanguinare molto prima di imparare quell’unica, semplice lezione. 
Si paga per quel che si ottiene, si ottiene ciò per cui si paga... E prima o poi quel che ti appartiene torna a te. 

[Stephen King, It]

Zio Magnus allungò per l’ennesima volta lo sguardo sull’orologio del tizio seduto al divanetto accanto per guardare l’ora.
  Eravamo lì ormai da quaranta minuti, lui era già al secondo piattino di noccioline e Camille non si era ancora fatta vedere né sentire. Dai suoi sbuffi capii che stava pensando di alzare i tacchi ed andarsene, soprattutto perché Chrysta stava visibilmente per esplodere dalla tensione e zio Alec stava consumando l’arco a furia di passarvi continuamente le mani.
  Quando finalmente Camille entrò nel locale, fermandosi per il tempo necessario affinché gli uomini notassero la sua presenza, vidi che il suo sguardo corse allo stesso orologio poco prima consultato da zio Magnus. Più tardi zio mi disse che quarantadue minuti di ritardo erano troppi persino per lei, che al massimo aveva ritardato di un paio di minuti.
 La vampira tornò a guardare davanti a sé, studiando rapidamente l’ambiente. Deglutì e si passò la lingua sulle labbra, come se non avesse mangiato per giorni e avesse intenzione di assaggiare il sangue di ogni singola persona presente nel locale. Ma resistette alla tentazione e si diresse verso zio Magnus.
  I suoi passi erano calcolati alla perfezione, i capelli gettati dietro le spalle in modo che la scollatura fosse messa ben in risalto. Ostentava un sorriso candido, innocente.
  — Magnus — lo salutò, lasciandosi cadere con eleganza sul divanetto, di fronte a lui. Accavallò le gambe e il lungo cappotto smeraldo scese a scoprire lo spacco generoso della gonna nera.
  L’unica cosa che mi passò per la testa dopo aver osservato l’abbigliamento di Camille e i suoi atteggiamenti da femme fatale fu: “Che zoccola.” Ma sicuramente il mio giudizio era offuscato da ciò che avevo sentito dire su quella donna e dalle circostanze del momento che mettevano a dura prova la mia pazienza.
  — Camille — ricambiò zio, chiaramente sollevato che la vampira lo avesse degnato della sua presenza e al contempo spaventato di come avrebbe potuto evolversi la situazione, essendo a conoscenza del vero motivo per cui l’incontro era stato richiesto. — Allora, come hai trascorso questi diciassette anni? A tramare nell’ombra preparando la tua vendetta?
  — I miei passatempi sono più vari, lo sai bene — rispose lei e si sistemò una ciocca ribelle che le ricadeva sulla fronte. — La vendetta è un contorno a cui mi dedico ogni tanto, in certi periodi. Credo anche tu sia d’accordo, se dico che entrambi conosciamo passatempi di gran lunga più divertenti. — Allargò il sorriso, inclinando leggermente la testa, e appoggiò gli avambracci pallidi sul tavolo sporgendosi verso zio.   — Anzi, sono piuttosto certa che tu ti diverta persino più di me, in quel modo.
  — Mmm, di questo puoi esserne più che certa — sussurrò zio con un sorriso compiaciuto. — Sai, anche se a volte mi capita di ripensare a quelle meravigliose, intense, passionali notti ottocentesche, tu non mi hai mai dato ciò che invece mi dà Alec.
  Al diretto interessato sfuggì un piccolo sospiro. Staccò le mani dall’arco e si sedette a gambe incrociate sul freddo pavimento della terrazza esterna del Plunge, con maggiore rilassatezza rispetto a pochi secondi prima. Si concesse addirittura un secondo per ammirare il magnifico panorama che si estendeva a perdita d’occhio, con l’Empire State Building proprio di fronte a noi.
  — Già, il tuo adorabile Nephilim. Come sta? Spero bene, l’ultima volta mi si è spezzato il cuore nel sapere che soffriva. — Camille fece il labbruccio come se gliene importasse, ma i suoi occhi rimasero puntati in quelli di zio Magnus, una scintilla di divertimento nelle pupille senza fondo. — In ogni caso, Magnus, vorrei ricordarti che sei stato tu a baciare William, non il contrario. Se non lo avessi fatto probabilmente ora tutto questo non sarebbe successo. — Si sistemò le maniche della giacca nonostante fossero impeccabili prima di alzare rapidamente un braccio per chiamare un cameriere.
  — Vorrei ricordarti che sei stata tu a tradirmi con una decina di amanti, non il contrario. — Zio inspirò e trattenne il fiato per un secondo, poi espirò lentamente per calmarsi. — E Alec sta a meraviglia, anche e soprattutto con qualche capello bianco.
  — Non si può di certo considerare un tradimento pari al tuo, hai baciato William davanti a me e a casa mia. Sei stato veramente sgarbato — lo riprese Camille, ma sfoggiava un sorriso serafico che annullò del tutto l’asprezza che avrebbero potuto avere quelle parole. — In più, quegli amanti di cui parli non erano minimamente paragonabili a te, ma non puoi di certo pretendere che una donna come me non accetti alcuni svaghi... alternativi. — Rivolse l’attenzione al cameriere e chiese un calice di Champagne Dom Pérignon Rosé del 2002.
  Mi accorsi che nel parlare Camille si era spostata leggermente di lato, verso la grossa siepe dietro alla quale ci eravamo acquattati. Sebbene fossi sicura che fossimo nascosti perfettamente, Camille riuscì a incrociare il mio sguardo. Mi aspettai che ci sgamasse trascinando tutti e tre al tavolo o buttandoci fuori dal locale, ma inaspettatamente restò al suo posto come se non avesse visto niente.
  — Per riprendere il discorso, caro, capisco cos’aveva William di tanto affascinante, ma Alexander cos’ha, a parte l’aspetto?
  Zio si interessò alla lista dei cocktail. Nel leggere gli scappò un sorrisetto divertito, che si rivelò essere la reazione al nome di un cocktail, l’Alexander. — Parli del diavolo... — commentò, poi ordinò quel drink e mandò via il cameriere. — Alexander ha molto, Camille, e non sto qui a parlartene. La cosa più importante, e dovresti prenderne esempio, è che ha un’anima. Un’anima votata al dovere e all’amore verso la famiglia e ciò per cui è nato. La cosa più importante è che riesce a guardarsi allo specchio la mattina. Tu ci riesci, Camille, a guardarti allo specchio, dopo tutto quello che hai fatto?
  — Tu riusciresti a privarti del tuo riflesso, Magnus? — domandò lei. — Non essere sciocco, anche perché io ho un’anima e tu lo sai bene. Un’anima a pezzi, ma è pur sempre un’anima. — Si incupì appena, ma si riprese quasi subito. — Perdonami, ogni tanto mi perdo nel passato. Per la maggior parte del tempo è stato così bello, vero? Poi tutto è andato al diavolo, ma comunque noi due abbiamo un lungo trascorso alle spalle, seppur per molti aspetti doloroso. Ma chi non ha dovuto superare infiniti ostacoli, per trovare la felicità?
  — Camille, ci siamo detti esattamente le stesse cose diciassette anni fa — replicò zio, scocciato. — Se non sbaglio ti dissi che dopo aver superato infiniti ostacoli avevo trovato la felicità — la scimmiottò sorridendo ironicamente. — E per la seconda volta ti stai intromettendo in questioni che non ti riguardano per niente.
  — Stai diventando bravo ad evitare le parti del discorso che ti mettono in difficoltà — gli fece notare lei, imperturbabile. Congiunse le mani sul tavolo e la luce si rifletté sullo smalto lucido. — Ma non dovrei esserne tanto stupita, dato che sei persino riuscito ad arrivare a mentire a te stesso. Non è da te, caro. — Con un sospiro appoggiò una guancia al pugno chiuso, lasciando cadere i capelli in parte su una spalla e in parte sul tavolo.  — In ogni caso ti fidi davvero così poco di me? Hai dovuto proprio portare la guardia del corpo?
  — Le uniche parti del discorso che mi mettono in difficoltà sono avverbi e congiunzioni. Faccio un enorme sforzo per riconoscere la differenza tra le due. Ad ogni modo, Camille, la guardia del corpo è qui per interessi personali, e certamente non per proteggere me. Sai benissimo che posso arrivare ad azzardare azioni di cui non mi riterresti capace.
  — Lo so molto bene, ma tu sai altrettanto bene che poi verresti travolto dai sensi di colpa — replicò lei tranquilla. Allungò una mano verso il calice posto sopra al vassoio che in quel momento il cameriere appoggiò sul loro tavolo e ne bevve un sorso, dopo aver studiato il colore del vino con un’espressione pignola. — Tu puoi farmi del male, verbalmente o fisicamente, ma se tu mi togliessi la vita non riusciresti più a rimanere in pace con te stesso. Sbaglio? — chiese e sbatté appena le ciglia, con aria candida.
  Zio studiò per un attimo il suo cocktail e avvicinò le labbra al bicchiere, poi ci ripensò e le rispose: — Onestamente non saprei. Ormai ho chiuso con il passato e non ha senso rivangarne il ricordo, per entrambi molto doloroso. Non riuscirei a rimanere in pace con me stesso se tu non mi dicessi cosa diavolo vuoi da mia figlia e cosa c’entra quella povera donna che hai tirato fuori dal manicomio.
  — Hai seriamente bisogno di una risposta o è una domanda retorica? — domandò Camille, prima di prendere un altro sorso di vino e leccarsi via le gocce residue dalle labbra. — Comunque avevo chiesto di parlare anche con la tua adorata figlioletta.
  — La mia adorata figlioletta, come hai potuto constatare, è qui. Preferisci una chiacchierata fra donne o mi è permesso di restare?
  — Oh, tranquillo, questa sera mi interessa parlare con te. La tua... Christina ed io parleremo quando tu non potrai intrometterti. Sai che divento irritabile se qualcuno si intromette in quello che faccio.
  — Si chiama Chrysta — la corresse zio con un moto di stizza, — e non ho intenzione di starmene qui a sottolineare la tua ipocrisia, tantomeno ho intenzione di incontrarti di nuovo. Ergo, adesso me ne vado, così avrai Chris tutta per te e non vi starò tra i piedi.
  — Se anche fossi arrivata qui totalmente cambiata tu avresti continuato a considerarmi nella stessa identica maniera, Magnus — affermò e le sue palpebre si abbassarono pigramente sugli occhi, gettando a zio un’occhiata da sotto le lunghe ciglia.  — Sei pieno di pregiudizi, hai eretto una barriera di ghiaccio tra i tuoi sentimenti per me e il resto. Come ho già detto, hai fatto come me. Solo che io non permetto ai pregiudizi di parlare per me. — La sua voce era l’opposto della sua espressione: tagliente, offesa e sarcastica, in attrito con la maschera impassibile in cui, subito dopo aver parlato, aveva irrigidito i suoi lineamenti.
  — Se anche tu fossi venuta qui totalmente cambiata non avrebbe mutato né influenzato quanto hai fatto anni fa, Camille. — Zio posò sul tavolo il cocktail ancora integro. — Ho parecchi secoli alle spalle, e ho dimenticato tante cose, ma come ne ho dimenticate tante ne ricordo tante, nel bene e nel male, e di certo ricordo cos’hai fatto tu. Avrò pure eretto una barriera di ghiaccio, Camille, però sei stata tu a crearne le fondamenta.
  — Cos’ho fatto? Ti ho mentito, non ho fatto altro, e tu ti sei anche vendicato. — Passò improvvisamente al tono “gattina-che-fa-le-fusa”. — Se provi ancora rancore per questo vuol dire che tieni a me più di quanto vuoi ammettere.
  Zio le sorrise malignamente. — Ne discorrerò a tempo debito con uno psicologo.
  — Ne puoi discorrere con la diretta interessata — propose lei e incrociò lo sguardo di zio Magnus con una strana scintilla negli occhi. — Ora che siamo entrambi lucidi sarei davvero curiosa di apprendere perché te la sei presa tanto. Mi conoscevi, sapevi che avevo sofferto e che ero diversa. Sapevi molte cose di me, più di tutti gli altri. Tu mi conoscevi meglio di chiunque altro, Magnus, di chiunque altro io abbia mai frequentato. Lo sai.
  — Non ne ho voglia, ti ringrazio — rifiutò zio con un sospiro di impazienza. — Ti basti sapere che riponevo fiducia in te, Camille, una fiducia immensa, e chiunque tradisca la mia fiducia è destinato a scontare una pena alquanto dura. — Giusto per fare qualcosa assaggiò il drink, a cui però non era più interessato. — Io invece sarei davvero curioso di apprendere perché in quella lettera è comparso anche il nome di mia figlia.
  — La stessa fiducia che io riponevo in te, ma alla fine mi hai spezzato il cuore. Hai fatto quello che avevi promesso di non fare mai — ribatté lei, ma era palese che la conversazione ormai non le interessasse più. — Per quanto riguarda tua figlia volevo solo conoscerla.
  Zio scoppiò a ridere sarcasticamente. — Ti credo nello stesso modo in cui crederei a chi affermasse davanti al sottoscritto che la magia non esiste.
  — Se non vuoi credermi suppongo di non poterci fare nulla, caro. Hai dimostrato chiaramente di non credere a nulla di ciò che dico.
  — Non mi hai dato motivo del contrario.
  — Oh, queste sono solo scuse. Qui non sono l’unica che ha tradito.
  — E l’abbiamo appurato in circa un miliardo di modi — sospirò zio, stufo. — Sono stanco di ripetere sempre la stessa solfa. Arriviamo al punto e arrivederci e grazie.
  — Temo tu ti stia sbagliando. Non abbiamo mai parlato di questo. Mi hai tradita, ti ho tradito e l’argomento non è mai stato trattato — gli ricordò Camille, rigirando il vino nel calice. — Il punto era mantenere la promessa che mi hai fatto quando hai tentato di uccidermi. E avvisarti che... sospetto tu sappia già cosa voglio dire. — Le sue labbra si piegarono in un sorriso compiaciuto.
  Zio accavallò le gambe e fece una smorfia seccata. — Senti, Camille, abbiamo un’eternità davanti e non comprendo per quale strana ragione tu abbia voluto riscuotere il mio debito proprio adesso. Accusami pure di evitare l’argomento “tradimento” ed annessi e connessi, perché in effetti è quello che sto facendo e non lo nego. Ma il fatto è che insieme alla tua lettera ne è arrivata un’altra dall’orfanotrofio dove Chrysta è stata accolta da bambina, ed è una coincidenza piuttosto bizzarra per essere appunto una coincidenza, soprattutto dal momento che tu hai chiesto di Chris. Entrambi vogliamo la verità: tu su una questione, io su un’altra. Un tempo c’era fiducia reciproca tra di noi. Ora è completamente svanita, e parlando sinceramente non so se potremo – potrò – mai riconquistarla. Oggi abbiamo l’opportunità di compiere un primo passo verso una riappacificazione o quantomeno una tregua, perché sì, Camille, c’è stata una guerra fra noi e non puoi contraddirmi senza mentire a me e anche a te stessa. Però ho bisogno che tu sia onesta. Sento che è in atto una vendetta contro di me, e tu non ne sei l’unica artefice. Ho torto?
  Camille ascoltò in silenzio, poi posò lentamente il calice sul tavolo e congiunse le mani. — Non sarei mai artefice di una cosa simile, non nei tuoi confronti. Ma non hai torto.
  — E allora chi è stato, Camille? — sussurrò zio, sporgendosi in avanti verso di lei. — Chi vuole che io paghi per qualcosa che forse non ho mai fatto? Chi ha avuto il coraggio di commettere un atto tanto ignobile come coinvolgerti in questa situazione?
  Camille lo fissò attentamente, poi abbassò un attimo lo sguardo sulle sue dita. Tra i suoi anelli ne spiccava uno con un grosso rubino incastonato tra dei viticci argentati, ed era proprio quello l’oggetto delle sue attenzioni. Ricordavo vagamente una storia raccontatami da zia Isabelle secondo cui il gioiello di rubino che lei portava sempre al collo fosse, secoli fa, di Camille. — La risposta è più facile di quel che pensi. Anzi, credo che tu già la conosca.
  Lui espirò, abbattuto. — Asmodeo.
  Il sorriso di Camille era strano, sulle sue labbra. Quasi dispiaciuto. Bastò quello per rispondergli.
  Zio Alec, accanto a me, afferrò nuovamente l’arco e imprecò a denti stretti. Chrysta iniziò a schioccare le dita riempiendo l’aria del profumo di cannella, come faceva quando era nervosa.
  Zio Magnus chiuse gli occhi. — Lo sapevo. Lo sapevo, dannazione. Ha impiegato diciassette anni, ma alla fine ci è riuscito. Ed è stato tanto astuto quanto spregevole nel colpirmi indirettamente scegliendo mia figlia come bersaglio. — Riaprì gli occhi e scrutò Camille con un cipiglio triste, quasi disperato. — Perché hai deciso di aiutarlo? Hai detto che non saresti mai artefice di una cosa del genere nei miei confronti. E stranamente ti credo. Quindi, perché?
  — Non è una mia decisione, agisco per qualcuno di più potente di me.
  — E così... — Zio trattenne un moto di rabbia e si lasciò andare all’indietro, appoggiandosi allo schienale del comodo divanetto. — E così tu saresti andata contro le tue convinzioni per compiacere mio padre? Anch’io sono andato contro le mie convinzioni, alla Morris-Jumel Mansion, ma almeno allora c’era in gioco la salvezza del pianeta e non la felicità di un demone! — gridò, irato.
  — C’è in gioco la mia vita — replicò Camille senza batter ciglio. — Non ho avuto scelta.
  — La tua... vita — sibilò lui. — La tua vita. — Ridacchiò con un’espressione beffarda stampata sul viso. — Non hai mai permesso a nessuno di avere diritti sulla tua vita, Camille. Tantomeno a chi ti amava. — Tornò serio e le rivolse un’occhiata dura, severa, ferma. — Confessalo. Sei più coinvolta di quanto vuoi ammettere. Anche tu vuoi prenderti una rivincita su di me.
  — Per farlo mi basterebbe ammazzare chi ami in questo secolo, ma non ho fatto nulla di simile se non sbaglio — ribatté la vampira, serafica. — Già una volta ho permesso che comandassero la mia vita, ricordi? E quella volta ci hanno rimesso la pelle i miei piccoli.
  — Motivo in più per far sì che non succeda di nuovo.
  — Se non lo aiuto mi ucciderà.
  — Glielo impedirò. Te lo prometto. Te lo giuro su Lilith. Ma ora aiuta me. Aiutami a trovare la madre di Chrysta.
  — Se accetto, riuscirai davvero a proteggermi da tuo padre? Riuscirai a impedirgli di uccidermi o di togliermi ciò che ho di più caro? — In un gesto che sembrò del tutto inconsapevole, le sue dita scivolarono sulla superficie di legno del tavolo fino a sfiorare quelle di zio Magnus.   Inclinò leggermente la testa; i boccoli biondi scesero dolcemente a incorniciarle il volto.
  La vampira che fino a poco prima mi era sembrata una fiera leonessa ora assomigliava a una gattina spaurita. E solo in quel momento mi resi conto di quanto, un tempo, doveva aver amato zio Magnus.
  — Posso affidarti la mia vita?

  — Certamente. Ed io ti affiderò la mia e quella di mia figlia.


È nato! È nato! Finalmente dopo un lungo travaglio è nato! 

No ragazzi, non vi rendete conto di quanto tempo e lavoro abbia richiesto questo capitolo.

Dalla presenza di Camille avrete capito – immagino – che l’ho scritto in collaborazione con la FENOMENALE Althea Matijacic, che tra l’altro mi ha anche detto che a breve mi manderà la nuova copertina di LtP per Wattpad (*w*) e spero anche quella definitiva e il banner per questa storia. Naturalmente ringrazio Althea per... tutto, tipo xD.

Qualche chicca a scopo informativo: il Plunge è un bellissimo bar su terrazza di New York, proprio di fronte all’Empire State Building, e l’ho scoperto cercando su Google “bar su terrazza” (LOL). 

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La scelta dei drink è anch’essa opera di Althea, che ha subito puntato sul Dom Pérignon per Camille e mi ha sciorinato una lista infinita di cocktail per Magnus per poi dirmi “Oh, c’è l’Alexander!”

Scusate per l’immenso ritardo, ma in questo periodo non ho proprio voglia di scrivere. Cioè, ho voglia di scrivere ciò che succederà tra taaanto tempo, soprattutto un paio di capitoli (di uno dei quali ho anche scelto il titolo, “La rupe”) che hanno bisogno di parecchia concentrazione e molte correzioni. Oltretutto ho scoperto una nuova droga, X-Files, e Mulder si arrabbia se non guardo almeno un episodio al giorno.

Non parlo della 01x12 di Shadowhunters perché... ho già sclerato fin troppo.

Okay, VOTATE, COMMENTATE e a presto! (Si spera...)

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Capitolo 5
*** Pánta rêi ***


4 Panta Rei

ΠΑΝΤΑ ΡΕΙ  

«Nessuna cosa avviene per caso ma tutto secondo lógos e necessità.»  

[Leucippo, fr.2]

Hai fatto la più grande cazzata della tua vita, papà.
  Chrysta era infuriata nera. In realtà, era già nera di norma. Quindi, se possibile, lo era ancor di più.
  Durante il viaggio di ritorno in taxi dal Plunge all’Istituto non aveva smesso di fissare fuori dal finestrino con aria contrita borbottando chissà cosa e non rispondendo alle timide domande di rito che le ponevano i genitori, imbarazzati.
  Dal canto mio – e in questo ero d’accordo con Chrysta – pensavo che l’incontro con Camille non avesse portato a nulla a parte la scoperta, comunque non eccessivamente sbalorditiva, che fosse Asmodeo a muovere i fili. Tuttavia ero del parere, al contrario di Chris, che a zio Magnus dovesse essere concessa un po’ di tolleranza per il modo in cui si era comportato con la vampira.
  Lei forse non comprendeva quanto un vecchio amore potesse influenzare situazioni del genere. Io invece sì. E magari era per questo che non volevo fare causa a Jean: in un modo o nell’altro sentivo di essere ancora legata a lui attraverso uno strano, sottile e nascosto filo che nessuno dei due riusciva a scoprire, e commettere un simile atto contro di lui sarebbe stato come denunciare me stessa.
  Così come valeva per me valeva anche per zio Magnus. Aveva deciso, oltre ogni propria e altrui aspettativa, di dare un’ultima chance a Camille. A tutt’oggi non posso negare che se Jean fosse venuto da me pentito, fintamente o meno, come Camille, non gli avrei concesso un’altra possibilità.
  Nel bene o nel male, Jean faceva parte del mio passato; Camille del passato di zio Magnus. E sebbene entrambi fossimo persone proiettate nel futuro non avremmo mai rinnegato quanto si trovava dietro le nostre spalle.
  Conoscendola, sapevo che Chrysta avrebbe ragionato non appena si fosse calmata, ma contenere la sua ira era pressoché impossibile, specialmente quando si trattava della sua famiglia.
  I tempi erano cambiati e gli Shadowhunters non erano più gli stessi di una volta. I matrimoni omosessuali erano stati legalizzati – in effetti non c’era una legge che lo vietasse e non c’è tuttora – e le richieste di adozione di piccoli Nascosti o Nephilim rimasti orfani aumentavano di anno in anno, nonostante non fossero ancora viste di buon occhio dalla maggior parte degli abitanti di Idris. 
  Chrysta si era semplicemente trovata dal lato opposto rispetto a quello dove stazionava oziosamente buona parte del Sottomondo. Camminava contromano, nell’altra direzione. E lo faceva sempre a testa alta, sempre con un fiero sorriso stampato sul volto. Purtroppo nessuno lo apprezzava, nessuno gliene dava atto.
  Sin da quando ne ho memoria, sono state davvero poche le persone che si sono avvicinate a Chris senza alcun pregiudizio. Era rispettata, certo; da molti anche temuta. Ma si possono contare sulle dita di una mano coloro che, oltre a noi familiari, si sono da subito fidate di lei non curandosi del fatto che fosse cresciuta in un modo “diverso” dal loro.
  Perciò, in qualsiasi caso in cui fossero tirati in causa i suoi genitori, diventava una B.F., come mi piaceva soprannominarla.
  E non significa Best Friend. Significa Belva Furiosa.
  Un paio d’anni dopo quel giorno, zio Magnus mi rivelò che aveva riflettuto se rinchiuderla o meno in un cerchio di contenimento per impedire che se ne uscisse di nascosto e andasse a cercare Camille per infilarle un paletto di frassino nel cuore – o in qualche altro posto. Fortunatamente Chris ci risparmiò quest’ingrato compito.
  Ma appena arrivammo all’Istituto, lei esplose.
  — Peccato che non abbia il dono della lettura della mente, papà, perché vorrei seriamente sapere cosa ti passa per quella cavolo di testa! Hai sostituito il cervello con i glitter o cosa?
  Zio Alec ed io le mettemmo una mano sulla spalla. — Chrysta, ascolta... — iniziammo in coro, ma lei ci interruppe all’istante.
  — Ascolta un corno! — sbottò, poi schiaffeggiò via le nostre mani e puntò un dito accusatorio verso zio Magnus. — Quelle meravigliose, intense, passionali notti ottocentesche... andiamo, non ci crederei nemmeno se lo vedessi di persona. Camille non è capace di amare, papà, dovresti averlo capito. E tu ti illudi di averla amata solo per non ammettere a te stesso che in tempo di burrasca ogni buco è porto.
  A quel punto non sapevo se ridere, piangere, correre a registrare il marchio per farci i miliardi vendendo magliette, tazze e cover per cellulari o vomitare dal disgusto.
  Zio Alec scelse la quarta opzione. — Per l’Angelo, Chrysta! — gridò, sbiancando. — Era proprio necessario?
  — Sì che lo era — ribatté lei, quasi ringhiando. — Ti do un consiglio: quando la rivedremo – perché sì, dannazione, la rivedremo, certo che la rivedremo, e sta’ pur sicuro che se non mi dirà cosa voglio da lei le staccherò uno ad uno quei bei ricciolini d’oro e mi ci farò un tappeto – ripensa a quelle meravigliose, intense, passionali notti del nuovo millennio con papà Alec e lascia nell’Ottocento ciò che appartiene all’Ottocento. 
  Zio Alec arrossì violentemente. — Lorianne, per favore, aiutaci tu... — supplicò in tono disperato.
  — Nemmeno per sogno! — me ne tirai fuori. — Ormai è partita per la tangenziale. Se non si sfogasse sarebbe peggio.
  — Brava, Lori — mi ringraziò lei. — Almeno qualcuno qui mi comprende.
  — Non è vero, non ti comprendo — replicai. — Ti capisco, ma non ti comprendo.
  Tre facce che formavano una strana scala cromatica, dal cioccolato fondente di Chrysta al bianco porcellana di zio Alec, si voltarono verso di me con un’aria più che stranita.
  — Okay, mi spiego meglio — sospirai. — Ti capisco perché riconosco che tu ti senta tradita, offesa e messa da parte per dare la priorità ad una donna che francamente non piace molto neanche a me, perciò è bene che ti scarichi un po’. Non ti biasimo né ti rimprovero in alcun modo per questo, figurati, sono la prima a proporre una bella scenata con tutti i santi crismi come principale metodo di sollievo. Tuttavia non ti comprendo, in quanto i tuoi insulti contro tuo padre sono dettati dalla rabbia e certamente non dalla parte più logica di te alla quale avresti dovuto fare appello. Inoltre sono fermamente certa che in altre situazioni non avresti detto parole tanto taglienti e maligne contro un uomo che ha l’unico torto di essersi innamorato della persona sbagliata. Non ti sto chiedendo di tenerti dentro ogni cosa e non liberarti di quanto è per te ragione di sofferenza, solamente di smettere di inveire nei confronti dei tuoi genitori. Sì, entrambi, Chris — aggiunsi quando quel poveretto di uno Shadowhunter, sino ad allora estraneo al motivo della lite, mi rivolse uno sguardo sorpreso. — So che rimproveri anche zio Alec per non aver interrotto o addirittura messo fine alla discussione tra zio Magnus e Camille, pacificamente o meno. So che avresti voluto che scoccasse una freccia dritta nel cuore della vampira.
  Colpita, Chrysta abbassò la testa e si rifugiò nell’abbraccio di zio Magnus. — Perdonatemi — si scusò quindi, vicina alle lacrime. — Devo ancora imparare a non cedere alla collera e tenere a bada il rancore. Suppongo mi servirà saperlo fare, nei prossimi anni.
  — Nei prossimi secoli — la corresse con un fil di voce zio Magnus, chiaramente cercando di non farsi sentire. — Quando ci saremo solo tu ed io. E forse Camille.
  — Se non la uccido prima.
  — Se non la uccidi prima — ridacchiò cupamente zio Magnus, poi le diede un bacio sulla fronte e la strinse un’ultima volta. — E adesso corri a farti una doccia, sei zuppa.

 

Il sostantivo “doccia” aveva per Chrysta il valore di “periodo di tempo indefinito, variabile dai quindici ai quarantacinque minuti, dedicato per la maggior parte del tempo a tentare invano di rendere idrofilo quel nido di cicogne, di norma idrofobo, che mi ritrovo in testa”.
  Come suo padre, non voleva sprecare magia per il suo aspetto fisico – i fornitori di gel per capelli consideravano zio Magnus il loro miglior cliente in assoluto – per cui la sua lotta contro quel cespuglio di rovi era combattuta a colpi di shampoo, balsamo e litri e litri d’acqua. Avrebbe cambiato idea, in seguito. Aveva perso la guerra già dall’inizio.
  Tuttavia la meravigliosa chioma afroamericana stile anni ’80 aveva anche risvolti positivi: donava qualche curva al suo corpo longilineo, quasi privo di forme, inusuale per una donna delle sue origini, e soprattutto nascondeva le vistose orecchie da pipistrello. Orecchie che odiava e al contempo ammirava, in quanto simbolo della sua natura di Stregona.

  Tra lei e il suo vero io c’era un rapporto di odi et amo. Detestava essere sterile e immortale, ma adorava ciò che i suoi poteri le permettessero di fare, dai più semplici trucchetti ai complessi e pericolosi incantesimi che parecchie volte avevano ribaltato la situazione a suo e nostro favore.
  Zio Magnus le aveva trasmesso tutto il suo bagaglio di conoscenze acquisite nell’arco di più di mezzo millennio, oltre a consigliarle di cogliere l’attimo ed amare la vita così com’è; zio Alec le aveva insegnato l’importanza del rispetto, della lealtà e dell’onore.
  Cresciuta da un lato come Stregona, dall’altro come Shadowhunter. Divisa tra due mondi, tra due modi di vivere, eppure non se ne lamentava mai. Aveva sempre il sorriso stampato sul volto, sempre gli occhi brillanti, contornati da piccole rughe di espressione.
  Vederla con il muso era un avvenimento epocale, e in pochi potevano colpirla nel profondo facendola davvero star male. Sicuramente tra quei pochi c’era anche Camille. 
  Finita la doccia, verso le otto di sera, mi raggiunse nella mia stanza legandosi i capelli con una striscia di tessuto rosso a pois, molto pin-up.  — Zia Isabelle ha detto che fra tre quarti d’ora sarà pronta la cena — mi informò sedendosi sul letto.
  La ringraziai con un cenno del mento. — Passata la voglia omicida?
  Storse la bocca in una smorfia. — Abbastanza, ma Camille avrà lo stesso la sua dose di botte.  
  — Chris, non è colpa sua — osservai. — L’ha detto, è stato Asmodeo a costringerla.
  — Ha colpa proprio per essersi lasciata convincere da quel demone — ribatté lei. — Senza contare il fatto che cerchi ancora di riprendersi papà Magnus usando tutti i mezzi a sua disposizione, che forse è la cosa che mi dà più fastidio: la scollatura profondissima, la gonna corta, i boccoli biondi, gli occhioni verdi... bah. — Schioccò la lingua in segno di disapprovazione. — Non so cosa papà trovi di tanto interessante in lei.
  — È molto bella — affermai, quasi invidiosa. — E poi, tout le monde sur le balcon, cara, non lo dimenticare.  
  — Oh, quanto odio quel detto! — replicò Chris portandosi istintivamente una mano al petto. — Noi due siamo una più piatta dell’altra e qualsiasi donna intorno a noi si sente in dovere di sbatterci in faccia una terza o una quarta. Se solo la chirurgia non mi terrorizzasse e non fossi immortale non ci penserei un attimo a rifarmi il seno. E che cavolo!
  — Magia no?
  — Per Lilith, no! — negò immediatamente. — Incantesimi del genere sono momentanei, non permanenti, e, se pur lo facessi, a lungo andare mi indebolirebbe parecchio.
  — E allora non c’è speranza per noi tavole da surf — commentai in tono lagnoso. — La nostra unica spiaggia sono i push-up.
  — Chiunque ci sia lassù, santificate chi ha inventato i push-up, per favore — pregò Chris rivolta al soffitto.
  Mi incupii all’istante. — Lassù c’è Raziel.
  Chrysta allargò le braccia in un gesto esasperato, facendo tintinnare i braccialetti che portava ai polsi. — E rieccola — sbuffò. — Era strano che oggi non l’avessi ancora nominato. Dunque, vediamo, qual è il tormento del giorno? Ti ricordo che qui la persona che ha un motivo per essere demoralizzata, arrabbiata o quel che ti pare sarei io.
  — Tormento standard — risposi piagnucolando. — Alias Chiaroveggenza.
  Chris si stiracchiò e accavallò le gambe. — Quante visioni, finora?
  — Quattro, da stamattina.
  — Cos’hai visto? — mi chiese, come sempre curiosa e un po’ spaventata nel domandarmi quale fosse l’oggetto delle mie visioni.
  — Una montagna molto, molto alta, quasi completamente innevata. Un lama. Sì, un lama, Chrysta, non fare quella faccia — aggiunsi prima che potesse scoppiare a ridere. — La terza è quella ricorrente, quella in cui mi vedo accarezzare un lupo mannaro. E la quarta... la quarta è... criptica. Pressoché incomprensibile.  
  — Dai dai, racconta — mi incalzò Chris, eccitata.
  — Non saprei raccontartelo — contestai, chiudendo gli occhi per richiamare alla mente il ricordo. — Ho avvertito qualcosa di vivo e non vivo allo stesso tempo. Una specie di incrocio tra un vampiro e un fantasma, a livello percettivo. In qualche modo c’entrano anche le prime due visioni, ma non ho idea del come e del perché. Infine è comparso un simbolo.
  — Potresti disegnarlo? — Mi porse il tablet che avevo lasciato sulla scrivania. — Potremmo mostrarlo a papà Magnus o a Sikh.
  Aprii il programma di disegno e selezionai la matita. — Ci provo.
  In alto tratteggiai appena una linea ondulata orizzontale con sole due curve, di cui quella sinistra più arricciata rispetto alla destra. Sotto di essa tracciai una lettera T con la barra verticale arcuata verso sinistra, alla quale poi attaccai un ciuffetto dal lato opposto. — Eccolo. Ti dice niente?
  — No — negò lei. — Però, ricollegandoci alla tua sensazione di vita-non vita, potrebbe essere un marchio o una parola di potere per animare la materia inanimata. Ricordi la questione del golem di Praga, un paio d’anni fa?
  — Sì — affermai. — Durante una celebrazione nella Sinagoga Vecchia-Nuova furono uccise due persone, e molti dei testimoni identificarono l’assassino in una grossa figura antropomorfa. Gli Shadowhunters del posto vennero chiamati a indagare ma senza risultati, così il caso passò al Consiglio, che scelse di mandare mio padre. Buco nell’acqua anche per lui, che però trovò in un libro il racconto di un golem costruito dal rabbino Judah Loew e conservato nella soffitta della sinagoga, quindi una possibile convalida alla teoria dei testimoni.
  — Esattamente — confermò Chrysta. — Sono le parole ad animare un golem, e se questo segno – che comunque non mi sembra ebraico – fosse una parola potremmo avere a che fare, in futuro, con un’entità abbastanza difficile da sconfiggere — concluse rattristandosi.
  — Di’ la verità, speravi che avessi visto come si evolverà la situazione di Camille e tua madre, vero? — la interrogai, seppur conoscendo già la risposta.
  — Sì — ammise. — Io... io veramente non so come reagire a tutto questo, Lorianne — confessò cupa. — Ho avuto anch’io i miei momenti di sconforto, durante i quali scoppiavo a piangere, urlavo e lanciavo incantesimi a casaccio ripetendomi perché diavolo una donna dovrebbe voler abbandonare il proprio figlio dopo averlo portato in grembo per nove mesi e partorito con grida, sangue e dolore. Però poi vedevo i miei genitori abbracciati sul divano e mi consolavo al pensiero che magari sto meglio dove e come sto e ho fatto la felicità di due persone. Ora mi domando se avrei potuto fare la felicità anche di una terza persona. — Tirò un respiro tremolante. — Ti credo quando dici che il tuo sangue angelico ha più lati negativi che positivi, ti ho sempre creduto, ma tu hai mai immaginato come sia avere sangue demoniaco? Io volevo dei figli, Lori, figli miei, che non crescessero in una famiglia che non è la loro, che non avessero genitori di cui ignorano l’esistenza, soprattutto che non venissero lasciati dalla madre, la madre, la donna a cui erano letteralmente legati e continueranno ad esserlo fino alla morte e anche oltre, in un orfanotrofio dopo poche ore dalla nascita! — Iniziò a singhiozzare istericamente. — Se mi fossi trovata nei suoi panni, nei panni di quella baldracca che mi ostino a chiamare mamma sebbene sia tutto meno che quello, mai, mai mi sarei permessa di fare quanto ha fatto, nemmeno se in mio figlio avessi riconosciuto l’Anticristo! Mi chiedono: perché sei a favore dell’aborto? Be’, perché penso sia meglio non far mai venire al mondo un bambino se poi non lo si desidera! Perché combatti per le adozioni da parte di coppie omosessuali? Basta guardarmi, guardarmi dentro, e sforzarsi di ascoltare la mia storia. Ero relegata in quella stanza dell’orfanotrofio da un anno e nessuno tranne una dipendente aveva voluto adottarmi. Forse per il colore della mia pelle, forse per queste orecchie da pipistrello che non sono proprio il massimo dell’estetica. E sai cosa, Lorianne? Sono fermamente convinta che se Raziel non avesse fatto incontrare la direttrice dell’orfanotrofio e Catarina Loss io sarei ancora lì, disperata e sola. Chiamale coincidenze; io le chiamo fato. E se il fato ha voluto che succedesse questo casino allora dovrà pur significare qualcosa.
  In quel momento mi si presentò una Chrysta diversa, totalmente opposta alla ragazza di pietra che avevo imparato a conoscere e che aveva imparato a conoscermi. Una Chrysta che per la prima volta si metteva a nudo di fronte a chi per anni si era messa a nudo davanti a lei. Una Chrysta che aveva bisogno di essere confortata invece che confortare. Una Chrysta più umana.  
  — Chris, sono l’ultima persona che può darti una risposta — sospirai abbracciandola stretta. — Io sto cercando la mia da più di un decennio e non ne sono mai stata tanto lontana quanto lo sono adesso. E ti risparmio il discorso sull’accettare il tuo destino perché sarei ipocrita. L’unica strada è vedere come vanno le cose e comportarsi e decidere di conseguenza.
  — Pánta rêi — sussurrò. — Tutto scorre. Tutto è in mutamento. La dinamicità è vita, la staticità è morte. Non puoi mai bagnarti due volte nello stesso fiume.
  — Non potrà capitarti di nuovo un guaio del genere, Chris — le mormorai all’orecchio. — È meglio affrontarlo e lasciarselo definitivamente alle spalle.
  — Potrebbe capitarmene uno peggiore, però — bisbigliò lei di rimando. — Quel simbolo nella tua visione non me la conta giusta.
  — Hai ragione — concordai, — ma in ogni caso non è detto che si presenti a breve. Parecchie mie visioni si sono avverate dopo moltissimo tempo.
  — Già — concluse Chrysta. — Be’, a questo punto dobbiamo solo dormirci su con lo stomaco pieno. Ho una fame tale che mangerei anche la tristemente famosa zuppa di zia Iz. Scendo, vieni anche tu?
  — Tra un po’, concedimi qualche minuto.  
  Lei si congedò con un cenno della testa ed uscì dalla stanza richiudendo la porta.
  Afferrai subito il telefono, composi un numero e restai in attesa.
  — Spero tu abbia un buon motivo per chiamarmi a quest’ora, Lorianne. Per tua fortuna sto facendo il turno di notte.
  — Ciao, Cameron — esordii. — Scusami, mi ero dimenticata del fuso orario.
  — Scuse accettate. Colpa del jetlag — replicò lui. — Allora, sbaglio a credere che la ragione di questa telefonata sia quel cerchio rosso sul calendario? Lori, sia chiaro: se stai per dirmi ciò che penso, corro immediatamente ad avvertire i tuoi genitori. E se è maschio hai l’obbligo di dargli Cameron come secondo nome.
  — No no, fortunatamente no — negai all’istante. — Anzi, il contrario. È possibile che io abbia i dolori il giorno prima? Insomma, la data prevista è domani e mi sto contorcendo già da un paio d’ore. Non è mai arrivato in anticipo.
  — Tesoro, prima di scegliere Medicina volevo laurearmi in Matematica. Modestamente, i miei calcoli sono perfetti.
  — Modestamente, dovresti ridimensionare il tuo ego — sbottai. — Errare umanum est, Cameron — lo canzonai sogghignando.
  — Oh cara, ma io non sono umano — ribatté in tono mellifluo. — Ed è grazie alla mia inumanità, il che fa molto Agents of S.H.I.E.L.D., che ti comunico che sei incinta.
  Mi irrigidii. Il cuore mi balzò in gola. — Cameron, fai il serio.
  — Lo sono.
  — No, non lo sei.
  — Invece sì. — Un rumore di sottofondo disturbò la linea, poi comparve una nuova voce. — Non è vero, non lo è. Salve, Miss Herondale. 
  — Salve, Mister Ryecatch — lo salutai. — Cameron, lui sì che è un gentiluomo. Nathan, dimmi la verità.

  — Certamente — assicurò lui. — Qui a Idris è il 23 marzo, mentre a New York è ancora il 22. Sotto l’aspetto tecnico sei puntuale come sempre, anche se a te non sembra.
  — Prostrati ai miei piedi, donna di poca fede! — Era Cameron. — E prendi quell’antidolorifico che ti ho consigliato, oppure passerai una nottataccia. Ci sentiamo domani, okay?
  — Okay. A domani, allora.
  Terminata la telefonata, tirai un lungo sospiro di sollievo.
  Quella fu l’unica volta in cui ringraziai tutti gli Angeli del cielo, compreso Raziel, che mi fosse venuto il ciclo.


Ta daaa! Aggiornamento a sorpresa post-attacco d’ispirazione dovuto a una sistemazione dei mensili di Mistero, dove ho ritrovato quel marchio. L’ideale sarebbe stato inserirlo nel testo, ma non mi piaceva l’effetto e così ve lo metto qui:

Tulpa

Se siete curiosi fate la ricerca per immagini, tuttavia suppongo che se non conoscete la parola a cui è associato non troverete molto.

A proposito, Althea non sa nulla dell’inserimento di questo simbolo e del conseguente cambio di ruolo per Camille. Non ho ancora preparato il discorso per spiegarglielo. Magari le mando l’articolo di Mistero.

Come titolo abbiamo Πάντα ῥεῖ, una delle più famose massime greche. Grazie, prof Pacifico e Greco Lingua e Civiltà Edizione Gialla.

Ricollegandoci al greco vi annuncio che ho scelto il titolo dello spin-off sulla storia di Lorianne e Jean: Γνῶϑι Σαυτόν (ghnóti sautón, “conosci te stesso”). Lo spin-off su Nathan e Cameron invece, come vi annunciai tempo fa, s’intitolerà Per ardua ad Astra (“attraverso le difficoltà [arrivi] fino alle stelle”).

E sì, guys, mi sono anche dilettata nella creazione delle copertine, ovviamente molto fab.

Ghnoti Sauton

Per Ardua ad Astra 

E... niente.

VOTATE, COMMENTATE e alla prossima!

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Capitolo 6
*** Sogni non interpretati ***


5 Sogni non interpretati

Sogni non interpretati

Un sogno che non viene interpretato è come una lettera che non viene letta.

 [Talmud]

Correva.
  A perdifiato, senza una meta, come se qualcuno lo stesse inseguendo.
  Col fiatone e la lingua penzoloni.
  Alla sua sinistra, l’oceano si sollevava in alte onde schiumose, minacciose, e gli spruzzava la pelliccia di acqua salata.
  Alla sua destra, correvo io.
  Avevo i capelli più corti, mi arrivavano fino alle spalle. Avevo messo su qualche chilo o un po’ di massa muscolare. Cosa più strana, avevo la schiena completamente scoperta, con la cicatrice in bella mostra, resa ancora più bianca dalla luce argentea della luna piena.
  Il lupo cambiò bruscamente direzione e si diresse lontano dalla spiaggia, verso la città, inoltrandosi in un angusto vicolo completamente buio.
  Poi, all’improvviso, guaì di dolore e si accasciò a terra, morto.

 

 

Per la frustrazione tirai un pugno al cuscino.
  Era la terza volta che facevo quel sogno, e per la terza volta mi ero svegliata prima di scoprire chi fosse il mannaro, come fosse morto e perché diavolo ci fossi anch’io.
  Era lo stesso licantropo della mia visione ricorrente, ne ero certa. Ma neanche la visione mi mostrava cos’avrei voluto sapere sul suo conto, né mi suggeriva un modo per capirlo.
  Quel lupo stava diventando ossessivo, opprimente, assillante. Compariva dappertutto, in qualunque momento abbassassi le difese, e non raramente mi sembrava di vederlo per strada o dietro l’angolo.
  Ogni giorno mi chiedevo cosa potesse significare. A parte nonno Luke nessun altro licantropo occupava un posto nella mia vita, e sinceramente non comprendevo perché qualcuno che a quanto pareva avrei conosciuto in futuro avrebbe dovuto occuparne uno tanto importante.
  Se fosse stato solo un sogno l’avrei interpretato soggettivamente e non oggettivamente, in quanto i miei sogni sono manipolazioni della realtà e non rappresentazioni precise della stessa come invece sono le visioni.
  Invece il fatto che quel mannaro fosse presente anche in una visione, peraltro ricorrente, mi dava l’assoluta sicurezza che prima o poi avrei avuto a che fare con lui, e sarebbe stato un rapporto che mi avrebbe portato a provare affetto o quantomeno un cieco rispetto nei suoi confronti.
  Tuttavia, quel giorno aveva la precedenza un’altra questione.
  La sera prima zio Magnus si era rifiutato di dare un’occhiata al simbolo che avevo disegnato dicendo di avere già troppi pensieri nella testa, dunque aveva rimandato alla mattina seguente.
  Quindi a colazione, quando tutti tranne lei eravamo ancora in pigiama e mezzi assonnati, Chrysta gli ficcò in mano il tablet
a forza dopo avergli riempito fino all’orlo la tazza di caffè. — Forza, scava nella tua centenaria memoria e illuminaci.
  Zio abbassò pigramente lo sguardo sul disegno. — Non è ebraico, questo è certo — affermò sbadigliando. — Non è nemmeno giapponese, cinese o coreano, ma la zona di provenienza è comunque l’Asia. Escluderei Thailandia, Birmania, Indonesia e Filippine, e punterei sul Nepal o sul Tibet. Lì il misticismo è molto diffuso e praticato, e questo simbolo mi dà una sensazione, non so... mistica.
  — Meraviglioso, ci sei stato molto d’aiuto! — commentò Chrysta, il tono tagliente come una lama appena affilata.
  — Chris — la rimproverò zio Alec meccanicamente. — Però, Magnus, potresti impegnarti di più.
  — Ma non a quest’ora! — protestò il diretto interessato sbattendo la tazza sul tavolo e versando gocce di caffè dappertutto. — Non quando i miei capelli hanno ancora la forma del cuscino. — Li indicò. — Non riesco a ragionare se ho i capelli in disordine.
  — Tu li hai sempre in disordine — sbuffò Chrysta, scocciata.
  — Non è vero. Io li ho sempre disordinatamente pettinati.
  Afferrai Chrysta per un braccio prima che potesse trasformare il caffè di suo padre in qualcosa di ben più disgustoso. — Chris, smettila. Zio, smettila pure tu.
  — Cosa sto facendo di sbagliato, di grazia? — scattò lui. — Non so cosa significhi quel simbolo. Ecco, l’ho ammesso. Cercavate questo, ragazze? Vi ho servite. Non lo so.
  Zio Alec brontolò qualcosa a mezza bocca. — E poi mi rimproveravi per aver desiderato di uccidere Camille.
  — Non ti rimproveravo per quello, io...
  Me ne scappai trascinandomi dietro Chrysta per non assistere un momento di più a ciò che si prospettava diventare uno dei tanti litigi già accorsi in tale sede e su tale argomento tra gli zii Alec e Magnus. Per le scale si sentivano ancora le loro voci, intervallate da zio Simon che, in qualità di psicologo di coppia, interveniva per sedare gli animi.
  Spinsi Chris in biblioteca e le dissi di cominciare a rintracciare qualche testo sul Nepal, che tra i due paesi mi ispirava di più, poi mi fiondai in camera mia per lavarmi e togliermi di dosso il pigiama.
  Mentre stazionavo davanti all’armadio in attesa che i vestiti da indossare saltassero fuori da soli senza che dovessi sprecare tempo e fatica per cercarli, mi capitò di spostare lo sguardo sullo specchio affisso ad una delle ante.
  Tra la clavicola sinistra e il collo avevo un livido violaceo dal diametro di quasi quattro centimetri, come se qualcuno mi avesse sbaciucchiato un po’ troppo. Cosa che, per inciso, non accadeva da quattro mesi e passa.
  — E questo cosa diavolo sarebbe? — imprecai a denti stretti.
  Ero sicura che prima non ci fosse. Naturalmente anche in bagno c’era uno specchio, ma il riflesso non mi aveva rimandato l’immagine che guardavo ora. Era apparso così, di punto in bianco.
  Mi passarono per la mente decine di nomi di orribili patologie che potevano provocare la comparsa improvvisa di ematomi, ma sapevo che una malattia non poteva esserne la causa. Sangue angelico uguale immunità.
  Per cui non mi prodigai più di tanto a tentare di scoprire quale fosse l’origine di quello strano livido e, dopo aver indossato a casaccio un paio di pantaloni della tuta e una maglietta con lo scollo abbastanza alto, tornai nella biblioteca.
  Trovai Chrysta seduta su un tavolo con un grosso tomo polveroso in mano. — Niente di nuovo sul fronte occidentale. Anzi: orientale — commentò girando la pagina. — Questo coso parla solo di meditazione, viaggi astrali e sogni lucidi.
  Aggrottai le sopracciglia e mi sedetti accanto a lei. — Sogni lucidi?
  — Hai presente quando sai di star sognando?
  — No.
  — Fingi di saperlo — borbottò per tutta risposta. — Comunque, i sogni lucidi possono essere controllati. Puoi decidere cosa farne e come svilupparli. Puoi creare la tua storia personale. Dalì e Magritte affermavano di trarre l’ispirazione per i loro quadri proprio dai sogni lucidi. A me capita abbastanza spesso. — Sospirò. — E la maggior parte delle volte va a finire con la sottoscritta che pomicia in pubblico con quel gran pezzo di ragazzo di Daniel Cartwright.
  — Dio mio, dichiarati! — sbuffai, ormai stanca di sentire Chrysta che fantasticava sulla sua cotta irraggiungibile.
  Anni prima era stata lei a dispensarmi consigli amorosi – ben lungi dall’essere produttivi, ma comunque dati in buona fede – e ora quel ruolo spettava a me. E allo stesso tempo mi stavo anche prendendo la mia vendetta: Chris mi aveva assillata per mesi pretendendo che facessi il primo passo, e non avevo la minima intenzione di lasciare impunita la sua ostinazione.
  Qui gladio ferit, gladio perit.
  — Non sei nella posizione per dirmi cosa fare in amore, Lorianne — cantilenò con un sorriso palesemente falso stampato in viso. — Inoltre, ho altre priorità. Abbiamo altre priorità.
  Guardai sconsolata le file e file di scaffali zeppi di volumi. — Nonostante sia stata mia l’idea di provare con una ricerca tradizionale in biblioteca non credo che restarcene chiuse qui dentro possa servire a qualcosa che non sia riempirci i polmoni di polvere. Tuttavia, dove altro potremmo andare? Cos’altro potremmo fare?
  Chris si strinse nelle spalle. — Shopping? Trish mi ha detto... — Si bloccò di colpo. — Lori.
  — Sì?
  — Ce l’hai anche tu. — Si alzò la manica e mi mostrò il braccio, dove spiccava un ematoma identico al mio. — L’ho notato poco fa. Giuro su Lilith che ieri non c’era.
  Sbalordita feci per replicare, ma una voce m’interruppe: — Oh, allora siete qui.
  Zio Alec attraversò velocemente la stanza e si fermò di fronte a noi. — Posso darvi una mano?
  Chrysta balzò giù dal tavolo. — Papà. Stai immobile.
  — Chris, ma cosa...
  Lei gli mise due dita sotto il mento e gli sollevò la testa. — Lori.
  — Lo vedo.
  Pur nascosto da un velo di barba, un terzo livido campeggiava sulla mandibola di zio Alec.
  — Qualcuno ti ha tirato un pugno di recente, papà?
  — No, perché?
  Gli illustrammo in poche parole la situazione. Non ci aspettavamo che rispondesse, ma invece ci colse di sorpresa: — Magnus ne ha uno uguale. 
  Ci fissammo negli occhi per un breve momento, poi sfrecciammo giù per le scale fino alla camera degli zii, dove trovammo zio Magnus davanti allo specchio intento a sistemarsi la chioma. A suon di grida e qualche ignota promessa di altrettanto ignota natura sussurratagli all’orecchio da zio Alec, lo convincemmo a togliersi la maglietta.
  — Lo so. È orribile. — Abbassò lo sguardo sulla grossa macchia viola che gli copriva lo sterno. — E dire che volevo presentarmi ai casting per la prossima campagna pubblicitaria di Dolce&Gabbana Underwear.
  — Stanotte si agitava. Avrà avuto un incubo, forse. Ho immaginato si fosse colpito durante il sonno — spiegò zio Alec. — Malgrado, in verità, neanch’io lo credessi. E alla luce di ciò, la mia teoria va comunque in fumo.
  Zio Magnus fece subito due più due. Batté le mani ed esclamò: — Signori, vi annuncio che portiamo il marchio dell’incorporeo.
  — Il cosa? — chiesi confusa.
  — Un segno lasciato da un’entità non fisica — chiarì Chrysta. — Ma non capisco perché ce l’abbiamo solo noi. Insomma, nell’Istituto siamo gli unici ad averlo, a meno che non sia stata io a non farci caso.
  — Ed è impossibile che la causa sia a Idris o in un altro posto di New York, dato che siamo arrivati tre giorni fa e non ci siamo mossi da qui — aggiunsi, ancora più disorientata di prima.
  — Quindi qual è il luogo incriminato? — domandò zio Alec, per poi illuminarsi in volto e battersi una mano sulla fronte. — Oh. Giusto. Il...
  — Plunge — concluse zio Magnus, trionfante. — Dove, per pura coincidenza, c’era anche Camille.
  — Dunque è Camille la fonte del problema — dedusse Chrysta, ostentando un’espressione da “ho-sempre-ragione”.
  Zio Magnus si passò le dita fra i capelli e tirò un lungo sospiro esasperato. — Chris, stai facendo di Camille il capro espiatorio di tutti i mali dell’umanità.
  — Be’, perché forse lo è!
  Zio Alec picchiò forte il pugno sul comò, facendoci trasalire. — Per l’Angelo, Chrysta! Quella donna non piace neppure a me, ma adesso stai esagerando! Dannazione, pensavo di averti insegnato a ragionare con fredda logica e moderazione, non di saltare a conclusioni sbagliate come una rana salta tra una pozza d’acqua e un’altra!
  Era raro, molto raro che zio Alec si abbandonasse all’ira, ma quando accadeva era per un ottimo motivo. Infuriato, faceva davvero paura. Riusciva a farti pentire delle tue azioni con parole mirate che avrebbero colpito al cuore chiunque. Cosa più ammirevole, riusciva a rimanere perfettamente e spaventosamente lucido anche in preda alla collera.
  Su Chrysta, poi, l’effetto era triplicato.
  Si afflosciò come una pera secca e si sedette sul bordo del letto. — Bene, allora. Ragioniamo con fredda logica e moderazione. — Non aveva perso la vena sarcastica, ma aveva chiaramente deciso di lasciare la vampira fuori dalla conversazione, quantomeno per non beccarsi un’altra ramanzina.
  — Il marchio dell’incorporeo... — commentai. — Cosa lo provoca?
  — I non vivi — rispose zio Magnus rimettendosi la maglietta. — Non vampiri, non demoni, ma esseri animati esclusivamente dalla magia o dal pensiero.   
  — Oppure esseri animati da parole di potere. Come i golem — mormorò Chrysta. — Quel simbolo è una parola di potere, come ipotizzavo ieri.
  — Il problema è scoprirne il significato — ribatté zio Alec poggiando una mano sulla spalla della figlia, che si rilassò sotto il suo tocco.
  — Ma, ora come ora, credo nessuno abbia voglia di dedicarsi allo studio minuzioso dei grimori e dei sillabari magici — replicò zio Magnus con un sonoro sbadiglio. — Io in primis. Ho dormito male e così anche Alec, e voi, ragazze, non sembrate molto riposate.
  Rifiutai di precisare quanto per l’esattezza avessi veramente dormito, senza sognare di correre accanto a un lupo sconosciuto o essere tormentata da Raziel, e preferii mettere su una smorfia da “con me sfondi una porta aperta”.
  Poi all’improvviso ricordai l’allusione di zio Alec alla possibilità che zio Magnus avesse avuto un incubo, quella notte, e iniziai ad avvertire una strana sensazione. Una vocina mi diceva che tra le mie visioni del giorno precedente e il suo sogno c’era qualche analogia.
  — Zio, cos’hai sognato? — gli chiesi in tono innocente.
  Lui mi guardò socchiudendo gli occhi prima di rispondere: — L’Everest. Uno di quei monaci buddhisti, i lama tantrici. E qualcos’altro che mi ha terrorizzato. Non so cosa.
  Una montagna molto, molto alta, quasi completamente innevata. Un lama.
  — Zio...
  — Sì?
  — Credo di aver visto l’Everest, ieri — bisbigliai. — E anche un lama. L’animale, però... non il monaco.
  Chrysta stroncò sul nascere un intervento di zio Alec balzando in piedi. — In biblioteca leggevo un testo sul Nepal. Ma l’Everest si trova in Tibet.
  — In realtà potrebbe non essere l’Everest — obiettò zio Magnus. — Potrebbe essere una montagna qualsiasi dell’Himalaya, e l’Himalaya arriva anche in Nepal.
  — Ma in quel libro non ho trovato nulla che riconducesse al simbolo disegnato da Lori.
  — Ergo, chiediamo a lei — concluse zio Alec. — Lori, tu che ne dici?
 Era troppo tardi. La visione mi aveva già travolta.

 

Quel lupo.
  Di nuovo.
  Stavolta però il posto era diverso. Non ci trovavamo in spiaggia, né in un vicolo sperduto o in un altro luogo che non conoscevo, ma nella biblioteca dell’Istituto.
  Nello sguardo del lupo leggevo umana intelligenza e sovrumana astuzia. Le pupille nere brillavano alla luce di un candelabro sul cui braccio centrale bruciava una fiamma senza candela.
  Il licantropo si voltò con grazia e mi condusse verso uno scaffale. Diede un colpetto col muso ad una mensola, facendo cadere un libricino che mi affrettai a raccogliere.
  La copertina era completamente blu, fatta eccezione per un rettangolo più chiaro al centro. Non c’era titolo né nome dell’autore, solamente uno scarabocchio nell’angolo in alto a destra. Passandoci le dita sopra, scoprii che le linee non erano state tracciate casualmente ma secondo un certo ordine. Misi quindi il libro in controluce e non restai molto sorpresa nel riconoscere nello scarabocchio quell’ignoto simbolo. 
  Il lupo sbuffò di disapprovazione e pestò una zampa a terra. Ovviamente non parlavo il lupese, così mi inginocchiai e tentai di approcciarmi a lui come a casa facevo con Cash prima e Freya poi. Allungai la mano e, esitante, gli accarezzai la testa. Sembrò apprezzare.
  — Cosa c’è? — sussurrai. — Dimmi, cosa c’è?
  Mi fissò con aria di rimprovero. Non capivo come un lupo potesse assumere un’aria di rimprovero né come io potessi pensare una cosa tanto assurda, ma in fondo le assurdità per me erano all’ordine del giorno.
  All’improvviso il mannaro guaì e indietreggiò con la coda e le orecchie basse. Poi, di colpo, girò sui tacchi e scappò via come se fosse inseguito da un accalappiacani.
  Alzai gli occhi e mi ritrovai Camille davanti. La vampira sfoderò un sorriso di ghiaccio, afferrò il libro che per il momento avevo poggiato a terra e molto deliberatamente strappò la prima pagina, sempre ghignando come se ne sapesse una più del diavolo. Mi agitò il foglio stropicciato a un centimetro dal naso, impedendomi di metterlo a fuoco. Quando ci riuscii, notai che vi era stampata la bandiera francese.
  — Amour sacré de la Patrie, conduis, soutiens nos bras vengeurs! Liberté, Liberté chérie, combats avec tes défenseurs!
  Camille cantò l’inizio dell’ultima strofa della Marsigliese. Conoscevo solo la prima strofa e il ritornello, ma ormai parlavo fluentemente il francese e mi fu facile tradurre.
  Amore sacro per la Patria, conduci, sostieni le nostre braccia vendicatrici! Libertà, cara Libertà, combatti con i tuoi difensori!
  E tutto svanì nell’oscurità.

 

 

Rinvenni scattando a sedere. Per poco non tirai una testata a zio Alec, che si era chinato su di me. — Raziel! — imprecò, così mi affrettai a scusarmi con un debole: — Ops. Riflesso condizionato.
  — Arriverà il tempo in cui non reggerò più i tuoi svenimenti fulminei, Lorianne — commentò Chrysta, pungente. — E sarò la prima Stregona a morire di infarto.
  — Per l’Angelo, Chris! Sei davvero molto d’aiuto! — la riprese zio Alec. — Lori, forza, dicci cos’hai visto — aggiunse poi addolcendo il tono.
  Raccontai loro la visione. Zio Alec e Chrysta mi interruppero spesso per farmi delle domande, soprattutto riguardo Camille e il libro senza titolo; zio Magnus al contrario rimase in religioso silenzio, appoggiato alla parete con caviglie e braccia incrociate, fissando il vuoto.
  Parlò solo quand’ebbi concluso da più di due minuti: — Da quanto tempo hai questo tipo di visioni, Lorianne?
  — In che senso? Non capisco.
  — Lori, fino a prova contraria tu vedi il futuro — chiarì. — Sinceramente a me pare alquanto improbabile che nel futuro Camille riuscirà a calpestare il suolo consacrato dell’Istituto, andrà nella biblioteca, strapperà la prima pagina di un libro sulla quale è disegnata la bandiera francese e si metterà a cantare la Marsigliese. Senza contare il lupo.
  In effetti non ci avevo fatto caso. Ripensandoci, anche le due visioni del giorno prima – l’Everest e il lama – erano strane, in particolare perché non avevo alcuna intenzione né di scalare il tetto del mondo né di farmi un viaggetto nel Sudamerica per farmi sputare in faccia da un lama. Mi era bastato incontrare un lama imbalsamato in un diorama del Museo Americano di Storia Naturale e ascoltare la brutta esperienza di una mia compagna di classe per decidere di non aver mai niente a che fare con quell’animale. Pertanto era quasi impossibile che presto o tardi vivessi quelle esperienze invece che vederle.
  Più che visioni sembravano sogni: la realtà si manifestava, alterata, sotto forma di eventi difficilmente verificabili o circostanze pressoché irrealizzabili.
  Come se non avessi avuto già abbastanza tormenti per la testa.
  — Non so, zio — gli risposi dopo aver riflettuto per un po’. — Sempre meglio questo che vedere il futuro, comunque. Almeno non ho la certezza che ciò che ho visto succederà inevitabilmente.
  Zio si grattò il mento, pensieroso. — Il tuo potere si sta... evolvendo — disse spostando lo sguardo su di me. — Andando avanti così potresti arrivare a controllarlo del tutto. Potresti... slittare consapevolmente.
  — Ci ho provato — confessai sussurrando. — A slittare di proposito. Non è stato facile, e nemmeno bello. E mi ha stancata ancor di più delle normali visioni. Non lo farò, zio. Non lo asseconderò neanche per tutto l’oro del mondo.
  Assecondarlo avrebbe significato dare a Raziel ciò che desiderava. Renderlo felice per la mia sofferenza.
  Assecondarlo avrebbe potuto portarmi a prevedere avvenimenti disastrosi e catastrofici. Il che non sarebbe stato affatto un male, se avessi potuto cambiare il corso del destino e scrivere il futuro come volevo.
  Il vero motivo per cui odiavo tanto la Chiaroveggenza era la possibilità che un giorno o l’altro l’oggetto delle mie visioni sarebbe potuta essere la morte di qualcuno a me caro. La mia morte.
  Con lo scorrere del tempo mi avvicinavo sempre di più a quel momento. Era certo che accadesse. O almeno, ne ero più che convinta.
  — ... a cercare quel libro — concluse la voce di zio Alec.
  Scossi la testa per riprendermi. — Cosa?
  — Torniamo in biblioteca.

 

 

La ricerca del libro non fu molto semplice.
  Nonostante avessimo ristretto il campo alla sezione nuova della biblioteca – il libro infatti sembrava essere abbastanza recente e non era rilegato in cuoio o velluto come i volumi più antichi – c’erano comunque parecchi scaffali da esaminare.
  Ironia della sorte, un’intera collezione di saggi sull’Estremo Oriente aveva la copertina blu.
  Prendemmo una pausa di un’oretta per pranzare, poi ci rimettemmo all’opera. Quasi metà dell’Istituto disse di voler collaborare alle indagini, ma rifiutammo: avrebbero solo peggiorato le cose. Soprattutto perché pareva che volessero farsi gli affaracci nostri.
  Verso le tre Chrysta, malgrado fosse la più coinvolta nella situazione, annunciò che ne aveva abbastanza e si ritirò in palestra per sfogarsi un po’. Qualche minuto dopo Sikh mandò a chiamare zio Alec perché tenesse una lezione di tiro con l’arco in Armeria, così anche lui ci abbandonò.
  Zio Magnus dava a vedere di essere ancora interessato, ma sapevo che avrebbe voluto rinunciare. Tuttavia si costringeva a restare, forse per non lasciarmi sola.
  Quando persino io ero sul punto di esclamare un’imprecazione e andarmene, zio Magnus, voltandosi, provocò uno spostamento d’aria e fece cadere tra le mie mani una pagina strappata e ingiallita.
  «Avevo ascoltato racconti di materializzazione e mi chiedevo se fossero pure immaginazioni. Incredula com’ero, volli fare io stessa l’esperienza, e per non farmi influenzare dalle forme impressionanti delle deità tibetane decisi di scegliere un personaggio insignificante: immaginai un lama bassotto e corpulento, un tipo innocente e gioviale. Dopo qualche mese l’ometto era formato. Egli a poco a poco si “fissò” e divenne per me una specie di ospite permanente. Non aspettava, per apparire, che io pensassi a lui, ma si mostrava anche nel momento in cui io avevo la mente rivolta a tutt’altre cose. L’illusione era soprattutto visiva ma mi accadde, più di una volta, di sentirmi come sfiorata dalla stoffa di un abito e di sentire la pressione di una mano posata sulla mia spalla. In quei momenti non ero in un ritiro o in meditazione: godevo come d’ordinario di eccellente salute fisica e psichica. Gradualmente, però, nel mio lama si andò operando un cambiamento. L’aspetto che io gli avevo dato si modificò, la sua complessione si fece più minuta e l’uomo prese un’espressione vagamente scanzonata e cattiva. Divenne inopportuno. In breve, sfuggiva al mio controllo. Un giorno fu un pastore a vedere il fantasma creato da me, e lo scambiò per un lama in carne e ossa. Quel fatto mi spaventò: significava che anche altri riuscivano a vedere la mia creazione. Avrei forse dovuto lasciare che il fenomeno seguisse il suo corso, ma la presenza indesiderata del lama mi innervosiva e si andava trasformando in un incubo. Mi decisi perciò a dissipare l’allucinazione della quale non ero completamente padrona. Ci riuscii, ma dopo sei mesi di sforzi...»
  Zio Magnus, quand’ebbi finito di leggerla ad alta voce, sussurrò le stesse parole scritte a matita nell’angolo in alto a destra della pagina.

  — Alexandra David-Néel. Mistici e maghi del Tibet.


MA BUONSALVE.

Ritorno sulle scene con il nuovo capitolo dopo un mese e una settimana, gente. Ho quasi superato il mio record *si asciuga una lacrimuccia di commozione*

Bene, non so se essere felice o triste per questo testo. Non so se mi piace o no. Ci sono parti fighe, parti noiose, parti scritte bene e parti scritte male.

La cosa che mi piace di più è il riferimento – anzi, i riferimenti – al lupo. Comparirà fisicamente, però molto ma molto più avanti, quindi non esaltatevi.

L’idea di base era diversa e comprendeva un’altra collaborazione con Althea – che sa solo sommariamente quali sono le mie intenzioni – ma ho deciso di spostarla al prossimo capitolo, mi serve più tempo.

Non ammazzatemi per il ritardo.

VOTATE, COMMENTATE e a risentirci il più presto possibile, guys!

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Capitolo 7
*** Errori dello spirito ***


6 Errori dello spirito

Errori dello spirito

         Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia.

[Giordano Bruno]

Mistici e maghi del Tibet era un libraccio dalle pagine ingiallite e segnate da decine di orecchie alle estremità. Molte di esse, tra cui quella che avevo in mano, erano strappate o penzolavano dalla rilegatura appese ad un unico lembo di carta sfilacciata.
  Zio Magnus lo trovò grazie ad un incantesimo di localizzazione dietro ad una collana di classici dell’avventura, nella sezione sbagliata della biblioteca e messo di traverso sulla mensola. Perché fosse in quelle condizioni era inspiegabile, data la – forse eccessiva – severità con cui Lee, il responsabile della biblioteca, gestiva le entrate e le uscite dei libri, ma demmo la colpa al destino e non ci pensammo più di tanto. In fondo, era ancora leggibile e quello era l’importante.
  Prendemmo posto ad uno dei tavoli. Zio aprì il libro e cominciò a leggere ad alta voce.
  La David-Néel descriveva il suo viaggio verso Lhasa, la capitale del Tibet, i suoi incontri con la gente del posto e soprattutto ciò che aveva imparato dai monaci buddhisti. Mi colpì in particolare il suo racconto riguardo la pratica del Tummò, un esercizio di Hatha Yoga grazie al quale Alexandra fu in grado di sedersi nuda nelle nevi dell’Himalaya senza alcun problema.
  — Be’, potrei farlo anch’io — commentò zio Magnus. — Ho i miei metodi. Ma non è ciò che ci interessa.
  Schioccò pigramente le dita. La pagina che avevo poggiato sul tavolo si alzò in volo e si riattaccò al libro, dopodiché un foglietto di carta sul quale qualcuno aveva scribacchiato qualcosa scivolò fra le mani di zio Magnus. — Mmm... interessante. Questo non era previsto.
  Mi sporsi verso di lui. — Cosa c’è scritto? — gli domandai, curiosa.
  Zio abbassò gli occhi sul foglio. Osservai la sua espressione cambiare da sorpresa a rassegnata. — C’è scritto eggregora.
  — Traduzione?
  — L’eggregora è un’entità incorporea creata attraverso speciali tecniche di meditazione. In questo caso, si tratta di un tulpa. Il simbolo che hai disegnato — rialzò lo sguardo, — è il simbolo del tulpa. Avrei dovuto capirlo prima, ma non vado in Oriente da molti anni, ormai. Mi sono... occidentalizzato.
  — Fermo restando che non ho la minima idea di cosa sia un tulpa — replicai, — Alexandra David-Néel parlava di uno di questi?
  — Esattamente. E noi siamo entrati a contatto con un tulpa al Plunge, ieri. Dio, che ignobile... Sta fingendo, fingendo tutto... — sussurrò scuotendo il capo. — Nulla è reale.
  — Non capisco — ribattei. — Cosa stai blaterando, zio? Cosa non è reale?
  — La madre di Chrysta. E forse Camille. No, Camille non potrebbe essere... no, lei no.
  A quel punto pensai che su Mistici e maghi del Tibet dovesse esserci un qualche tipo di maledizione o una droga invisibile, perché zio era andato completamente fuori di testa. Balbettava, farfugliava frasi senza senso e continuava a ripetere “È un’illusione”.
  Decisi di reagire. L’unico metodo possibile per far riprendere zio era una ricalibrazione cognitiva. In altre parole, una bella botta sul cranio.
  Gli assestai una gomitata all’altezza delle prime vertebre cervicali. Purtroppo per me avevo mirato fin troppo bene, così mi beccai una fitta lungo tutto il braccio che mi lasciò le dita formicolanti e un dolore pulsante all’altezza del nervo radiale. Imprecai e zio mi imitò: — Ahia! Lorianne, si può sapere cosa diavolo ti è passato per l’anticamera del cervello?
  Strinsi i denti e mi tenni il gomito martellante con l’altra mano. — No, cosa diavolo è passato nella tua, di anticamera! Mi illumini, per favore?
  — Okay, okay, dammi un secondo. — Si passò le mani fra i capelli e prese un respiro profondo prima di cominciare: — Tulpa in tibetano significa “costruire, creare”. Chiunque è in grado di realizzarne uno, ma necessita di una grande concentrazione e di singolari tecniche meditative che possono essere apprese solo con l’aiuto dei grandi lama tantrici. Oltretutto non si può fare in poco tempo: la David-Néel infatti dice di aver impiegato dei mesi per formare il suo monaco fantasma.
  — Continuo a non capire — brontolai, confusa. — Perché hai nominato Camille e cosa c’entra un tulpa in tutta questa storia?
  Zio mi fissò con i suoi occhi da gatto. — Riflettici, Lorianne: dove potrebbe essere la madre di Chrysta ora che è libera?
  — Non so... in un appartamento di Camille, magari.
  — Giustamente. Ma se in quell’appartamento ci fosse qualcosa che simula di essere lei? Se la vera lei fosse ancora in manicomio?
  Mi lasciai ricadere sulla sedia a peso morto. Avevo la bocca spalancata per la sorpresa. — E così Camille avrebbe creato un tulpa per mettere in scena questa farsa?
  — Già — confermò zio arricciando le labbra in una smorfia. — A quanto pare al Plunge ieri c’era anche il tulpa. Probabilmente, se la situazione avesse avuto un esito diverso, Chrysta avrebbe potuto persino parlargli. O parlarle... insomma, hai capito. È impressionante quanto sia simile ad un umano, quando è fatto come si deve.
  — Ergo, morale della favola?
  — Morale della favola... — Zio si alzò in piedi. — Diciamo tutto a tutti e convochiamo Camille.

 

 

Chrysta entrò a passi larghi e veloci. La folta chioma era legata in una coda alta e indosso non aveva che una salopette di jeans larga e una maglietta di cotone leggero, ma stava sudando. Non avrebbe dovuto mostrarsi così: la vampira avrebbe sentito il suo odore ancor prima di percepire la paura che le sfrecciava silenziosa sotto la pelle. Dietro di lei, richiusi la pesante porta del Santuario.
  — Qui si tratta di una donna, e tra donne parleremo. Buonasera, Camille.
  — Buonasera, ragazze. — Ci salutò educatamente con un cenno della mano, sfoggiando un ampio sorriso da Stregatto che le arrivava da orecchio a orecchio. Quel sorriso però nascondeva qualcos’altro. Sorpresa, forse. — Ma certo, accomodatevi.
  Zio Magnus aveva fatto in modo che nel Santuario venissero portati un modesto divano, due piccole poltrone e un tavolino. Camille era seduta – forse sarebbe meglio dire sdraiata – sul divano, le gambe molto deliberatamente poggiate sui cuscini. I tacchi alti scavavano due buchetti nel bracciolo.
  Chrysta prese posto sulla poltrona più lontana da lei; io invece preferii tenermela vicina.
  — Chrysta, quale piacere! — esclamò Camille, gli occhi verde smeraldo puntati nei suoi.
  Non aveva sbagliato il suo nome, stavolta. Voleva accattivarsela.  
 
— Non posso dire altrettanto — replicò lei, sostenendo a fatica il peso dello sguardo indagatore della vampira. —  Vedi, hai quasi ucciso mio padre.
  Camille assunse un’espressione affranta. — Oh, no, tesoro, io non ho fatto nulla. L’ho trattenuto, certo, ma è stato lui a dare quella svolta alla situazione. A tal proposito, credevo che sarebbe venuto lui.
  Sembrava... delusa.
  Ripensai al giorno precedente e a come mi era apparsa al Plunge: un’impavida leonessa prima e una gattina spaventata poi, quando il vero motivo della conversazione era finalmente venuto a galla.
  Asmodeo la terrorizzava, era evidente. Era immersa fino al collo in una questione in cui non avrebbe mai messo le mani, e come se non bastasse si trovava dalla parte del burattino. Tuttavia cercava di restare imperturbabile, con il completo controllo sulle sue azioni, immune a qualsiasi provocazione.
  La ammiravo per questo.
  — Lo ripeto, Camille: parleremo tra donne — ribatté Chris, ora più spavalda. — Qualunque cosa tu voglia dire a lui puoi tranquillamente dirla a me. A conti fatti, in fondo il bersaglio sono io, no? Inoltre, mi pare che la tua lettera dimostrasse un certo interesse nei miei riguardi. È un puro interesse personale o ha un secondo fine?
  Qualcosa guizzò nelle pupille di Camille, una vampa sfolgorante che si spense in un attimo. — Ti sbagli, Chrysta. Il bersaglio è Magnus. Tu sei soltanto un tramite innocente, e non sai quanto mi addolori. Come ho già detto a tuo padre, non sarei mai artefice di una cosa del genere nei suoi confronti, mai. Chi ha architettato tutto è Asmodeo. E come te, io sono un tramite. — Sorrise mestamente. — Sono sinceramente dispiaciuta. Tu non hai alcuna colpa. Sei giovane, troppo giovane per averne. Ma chissà, forse tra qualche secolo ti ritroverai al mio posto. Non è semplice evitare le colpe, quando hai l’eternità davanti.
  — Be’, io almeno ci proverei — tagliò corto Chrysta. — E ti sbagli anche tu, Camille. Non esiste un mondo in cui noi due siamo uguali, fosse pure per un unico aspetto. Io sono un tramite inconsapevole. Tu sei un tramite consapevole. E la sola consapevolezza di quanto sia ignobile ciò che stai facendo basta per renderti l’artefice.
  Camille abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate. — Sei libera di non credermi, Chrysta. Dopotutto, non ne hai motivo.
  — Ovvio che non ne ho motivo — ringhiò Chris. Dai pugni serrati cominciò a filtrare del fumo viola. Le lanciai un’occhiata ammonitrice, ma lei la ignorò. — Finora non hai fatto altro che mentire, mentire e mentire. Mia madre non è uscita dal manicomio, vero? È tutta una grossa farsa.
  La fulminai con gli occhi, e la forza del mio sguardo fu sufficiente per farla voltare verso di me. Avevamo convenuto di non accennare a ciò che avevamo ipotizzato prima che Camille si fosse dimostrata un po’ più aperta; anzi, sarebbe stato meglio se fosse stata lei ad alludere al tulpa. Ma ormai, quel che era fatto era fatto. 
  
La vampira s’irrigidì e rialzò la testa. Rifletté in silenzio, stringendo le labbra come se volesse impedire alle parole di uscire, ma infine riconobbe che non aveva senso stare zitta. — Quanto sapete esattamente?
  — Sappiamo che Asmodeo ti ha costretta a creare un tulpa — intervenni, mentre Chrysta sbuffava di disapprovazione. — E relativi annessi e connessi, compreso, ovviamente, che la lettera dell’orfanotrofio è un eccezionale falso.
  Camille appoggiò il mento al dorso della mano. — Be’, complimenti. Addirittura, arrivare a scoprire che è un tulpa... ammirevole.
  Chrysta mise su un ghigno sfacciato. — Ti ringrazio. Abbiamo avuto... gli strumenti adatti.
  — Non ne dubitavo. Tuo padre sa sempre, sempre, come tirarsi fuori dai guai. E, insomma, ve l’ho fatta facile. Come vanno i lividi?
  — Bene, grazie — rispose Chris in tono sfrontato. — E ora che lo hai ammesso... — Si alzò in piedi. — Possiamo considerare conclusa la conversazione. Papà provvederà a proteggerti e ad aiutarti a far sparire il tulpa. Quanto a me, mi rivedrai all’inferno.
  Camille rimase dov’era, fissando Chrysta da sotto in su. — Oh no, ti prego, spiegami quali sono questi... strumenti adatti. Sono davvero curiosa.
  Stavano per cascarmi le braccia. — Per una buona volta, Camille, fatti una forchettata di cavoli tuoi! — sbottai esasperata.
  — Esattamente ciò che intendevo. Strumenti adatti. — Si passò la lingua sulle labbra e spostò lo sguardo da Chrysta a me. — Tu sei Lorianne Herondale, vero? La Chiaroveggente. Tutto il Sottomondo sa di te, non dovresti esserne sorpresa.
  Trattenni il fiato. Odiavo quando qualcuno diceva quella frase. Odiavo che l’intero Mondo Invisibile conoscesse il mio nome e la mia reputazione. Odiavo la mia fama.
  — Così dicono — mi limitai a ribattere, troppo stufa per aggiungere altro.
  Camille non aveva intenzione di demordere. — Sei come... santo cielo, dovrebbe essere tuo zio, se non cado in errore. Il Diurno, volevo dire. Sei... qualcosa che non dovrebbe esistere.
  Ai margini del mio campo visivo apparve del fumo viola. Stavolta non fermai Chrysta.
  — Chiariamoci: alcuni potrebbero considerarti un abominio, una condannata alla gogna, ma non io. Io ti reputo... interessante. Speciale. E assaggerei molto volentieri il tuo sangue.
  In un attimo le fui a un centimetro dal naso. — Prova a ripeterlo — sibilai, — e l’unico sangue che assaggerai sarà il tuo.
  Camille mi sorrise, e i canini scattarono come molle. — Ormai le minacce di morte mi scivolano addosso come acqua.
  — Non se a minacciarti di morte sono io.
  La porta del Santuario sbatté alle spalle di zio Magnus, che si fiondò a separare me dalla vampira. — È ora che te ne vada, Camille — disse senza guardarla. — Torna qui domani al tramonto. Manterrò la mia promessa e terrò Asmodeo lontano da te. Va’.
  Era incredibile l’effetto che zio Magnus riuscisse ad avere su di lei. — Bene. — Balzò in piedi e fissò Chrysta dritta negli occhi. — Per quanto possa valere, mi dispiace. — Le tese la mano.
  Chrysta gliela strinse dopo un impercettibile – ma non per me – attimo di esitazione. — Per quanto possa valere, dispiace anche a me.  

 

 

Cestinai il disegno del simbolo del tulpa con un sospiro di liberazione. Quel capitolo era finalmente quasi chiuso: adesso spettava a zio Magnus e Camille, nei mesi successivi, archiviarlo e buttarlo nel dimenticatoio.
  Mi rigirai per l’ennesima volta, tornando a stendermi supina. L’antidolorifico avrebbe fatto effetto – se avesse funzionato – nel giro di dieci minuti al massimo, ma ogni secondo che passava mi sembrava un’eternità. Era una sorta di scherzo del destino: il mio ciclo durava sì quattro mesi, però quando arrivava si faceva sentire. E anche parecchio.
  Sullo schermo del tablet comparve la bolla di un messaggio. Aprendo la casella mi resi conto che questo risaliva a un paio d’ore prima, e l’applicazione mi stava avvisando perché lo leggessi. Era di zia Isabelle: Lori, S o XS?
  Non avrebbe avuto senso rispondere, così mi limitai a cliccarci sopra per dare la visualizzazione e zittire l’orribile trillo della notifica. Oltretutto, rivelare la mia taglia a zia Isabelle avrebbe potuto portare risultati disastrosi.
  Non immaginavo certo che quella fosse una domanda retorica.
  Scesi di sotto in preda ai crampi per vedere se la palestra era libera e Sikh disponibile a mostrarmi qualche posizione di Yoga per alleviare i dolori mestruali. Trish me ne aveva parlato bene, così decisi di tentare. Sempre meglio che restare a contorcermi sul letto.
  Arrivata in fondo alle scale, una mano mi strinse una spalla e mi trascinò per una buona decina di metri prima che potessi reagire. — Ahia! Logan, ma che combini?
  — Ordini di mamma — si scusò lui, per poi riafferrarmi il polso e condurmi quasi di corsa fino al salotto.
  Sulle prime pensai che zia Isabelle avesse cambiato l’arredamento della stanza in preda alla follia e con la consulenza stilistica di zio Magnus. Non vedevo altro che pizzi, piume, lustrini e tessuti lucidi che riflettevano la luce del lampadario. Jordan il cagnolino mise il naso in una nuvola di paillettes e starnutì, dopodiché zampettò verso di noi e guardò Logan con intenzione. Lui lo prese in braccio sbuffando. — Leone codardo — lo rimproverò. — Succederà di nuovo, sappilo.
  — Cosa esattamente succederà di nuovo? — lo interrogai, in quel momento più che mai incline all’irritazione.
  — Un attacco di shopping — spiegò lui. — I saldi sono per mamma una valida alternativa all’allenamento. E papà non può protestare, considerando che può fare i bicipiti con le borse piene di vestiti.  
  
— E io cosa c’entro in tutto questo?
  — C’entri eccome — ribatté Logan, — perché stavolta mamma non ha comprato solo per sé. Ha fatto scorta di magliette, pantaloncini e cose varie anche per te, per quando andremo in Italia. Noi ne abbiamo già abbastanza.
  — Loriii! — Zia Isabelle spuntò da dietro una poltrona con degli shorts oscenamente corti in mano e mandò via Logan. — Provateli, dovrebbero entrarti. E se non ti vanno dalli a Chrysta, tanto avete la stessa taglia. 
 
— Se non sbaglio me l’avevi chiesta, la taglia — borbottai mentre mi sfilavo i leggings.
  — Nah, so che in realtà porti la M. — Zia tirò fuori da una busta una camicia bianca a maniche corte e me la passò. — Provati anche questa. E questa. E questa. Ah, e ovviamente quest’altra.
  Continuò a piazzarmi tra le braccia capi su capi per più di mezz’ora. Quasi tutti mi calzavano a pennello, e feci buon viso a cattivo gioco per non far dispiacere zia Iz, ma alla fine decisi che ne avrei concretamente indossato solo un terzo. A meno che in Italia non facessero quaranta gradi all’ombra non avrei girato per Gaeta con tanta pelle scoperta.
  Dopo aver aiutato zia a sistemare i suoi acquisti raggiunsi la palestra, dove Sikh era in procinto di cominciare una lezione di TRX.
  Gli elastici occupati erano una dozzina, quelli liberi tre, di cui uno per Sikh. Se solo ne avessi avuto voglia sarei andata a cercare zio Magnus e Chrysta in qualsiasi luogo avessero potuto nascondersi per poi costringerli ad appendersi al TRX e lavorare come mai avevano fatto prima. Ero davvero curiosa di sapere come facessero entrambi a mantenersi in perfetta forma, e altrettanto curiosa di vederli sudare e implorare pietà, per una volta.
  Sikh era spietato. Avevo seguito parecchie sue lezioni all’Accademia – veniva spesso chiamato come istruttore ospite – e non si poteva certo definire caritatevole. Massacrava chiunque fino all’osso. Persino mio padre, quel giorno invitato in Accademia ufficialmente per tenere una conferenza sulla Guerre Oscura e ufficiosamente per deliziare gli animi delle fanciulle presenti comprese le professoresse e lo stesso Rettore, aveva finito per cedere di fronte all’implacabilità dell’egiziano, che solo a prima vista pareva carino e coccoloso.
  — Ehi, ciao! — mi salutò mentre controllava la lunghezza di un elastico. — Vuoi unirti a noi?
  — Nemmeno per sogno — negai all’istante. — Un’ora di allenamento in stile Navy Seals è l’ultima cosa che mi serve in questo momento. Non posso proprio.
  — Problemi femminili?
  — Esattamente.
  Sikh mise su una smorfia dispiaciuta. — Sei capitata male, non posso disdire la lezione. Puoi aspettare finché non termino, oppure vengo a chiamarti io quando ho finito.
  — No, aspetto qui — risposi, segretamente entusiasta all’idea di guardare gli altri soffrire standomene seduta e tranquilla. — Posso aiutarti con qualcosa?
  Lui scrollò le spalle. — Per ora no, ma se avrà bisogno di una mano non esiterò a chiedertelo. Forza, al TRX!
  Chi sbuffando e chi pregando a mezza bocca, gli allievi di Sikh presero il loro posto.
  — Pronti, ragazzi? — esordì scrutandoli attentamente uno ad uno. — Spero di sì, perché oggi vi ammazzo.
  — Ma no, non ammazzerai nessuno. — Zio Simon entrò trionfalmente in palestra sventolando il pugno chiuso. — Stavi per iniziare senza musica, Sikh, sono sorpreso.
  Sikh afferrò la memory card che zio gli stava porgendo. — Sarei venuto a prenderla se non l’avessi portata tu. E adesso muoviti, non vorrai sprecare quest’occasione.
  — Ah no! — Zio fece per andarsene, ma Sikh lo trattenne per un braccio. — Okay, okay, hai vinto.
  — Si mette male — sussurrò un tizio all’orecchio di un altro. — Di solito con Simon è clemente. Se è così anche con lui significa che è veramente intenzionato ad ucciderci.
  — Silenzio! — ruggì Sikh, infilando la memory card in uno slot dell’impianto stereo in un angolo. La playlist si aprì con un trillo di campanelli, segno che era stato Logan a mixarla. — Lasciate gli elastici, per adesso. Sciogliete spalle, gomiti, polsi, ginocchia e anche. Se li sentite scrocchiare non spaventatevi, è naturalissimo. Qualcuno mi sa dire a cosa serve?
  Perfetto, oltre alla pratica pure la teoria.
  — Ad aumentare l’afflusso del liquido sinoviale nelle articolazioni — rispose gongolando quel sapientino di Lee. Era strano vederlo fuori dalla biblioteca: faceva l’effetto di un topo in una convention di gatti. — Il crac è provocato dallo scoppio delle bolle d’aria che si formano nel liquido.
  — Se credi che seppur interessante quest’informazione extra ti salvi dall’essere trucidato ti sbagli di grosso. Bravo, comunque — commentò Sikh annuendo in segno di approvazione. — Almeno qualcuno mi sta ad ascoltare — aggiunse poi guardando storto due piccoli Shadowhunters che impallidirono all’istante. — Prendo il TRX! — urlò infine, e da lì ebbe inizio lo sterminio.
  Dopo il quarto d’ora di riscaldamento di rito, durante il quale Sikh intelligentemente li fece restare abbastanza in verticale e non azzardare movimenti troppo ampi o faticosi, gridò: — Squat! Trenta, ventinove, ventotto, ventisette, DAI!
  Ora, lo squat al TRX è facile, se si ha l’appoggio su entrambe le gambe. Ma alla fine delle trenta ripetizioni Sikh passò agli squat su una gamba sola, e quelli sono tremendi. Necessitano di un equilibrio pazzesco, cosa un po’ complicata per chi non è molto ferrato nella core stability
  Non prestai molta attenzione al resto della lezione, poiché Sikh si ricordò di alcune lame che dovevano essere affilate e mi passò il compito. Notai però che faceva spesso lavorare sulle punte con gli elastici al contrario; inoltre diede molta importanza anche alle gambe e, ovviamente, al famigerato plank.
   Concluso l’allenamento, Sikh mi pregò di attendere ancora una decina di minuti mentre lui si faceva una doccia veloce. Ammazzai il tempo ferma nella posizione della farfalla, che alleviava il fastidio che l’antidolorifico non era riuscito ad eliminare.
  Appena uscì dal bagno Sikh riprese le vesti di istruttore: — Qual è l’importante secondo te in queste situazioni? A cosa dobbiamo puntare?
  — Mmm... a non contrarre e irrigidire ma distendere e allungare?
  — Giusto — confermò. — E ora... il cammello.
  Quella posizione del cammello non aveva nulla, ma era comunque molto confortevole. Sentii la pressione sul basso ventre diminuire sempre di più, fin quasi a scomparire. Dopo, Sikh mi mostrò l’arco e il bambino. In sottofondo, una musica piacevolissima che mi rendeva semplice liberare la mente.
  — Che tipo di yoga è questo? — gli domandai, improvvisamente ripensando agli scritti della David-Néel nei quali si accennava all’Hatha Yoga.
  — Kundalini — mi rispose spingendomi le spalle all’indietro per correggermi. — Devo aggiornarmi, però, perché a quanto pare è il Silvanada la disciplina più adatta.
  — Lo sai che non ci sto capendo niente, vero?
  Sikh rise. — Lo so, lo so.

 

 

Se non fosse stato per quel dannato lupo avrei passato una notte meravigliosa. Lo Yoga mi aveva completamente rilassata, ed ero subito sprofondata nel sonno. Ma nemmeno lo Yoga poteva molto contro l’ostinazione del licantropo a comparire costantemente nei miei sogni.
  Eravamo ad Alicante. Contro la schiena sentivo qualcosa di duro e freddo; voltandomi, scoprii che era una delle torri antidemoni. Strano: l’adamas mi faceva un brutto effetto, sia a livello fisico che psichico, e il fatto che potessi toccarlo e già solo stargli vicino senza conseguenze era alquanto bizzarro. Oltretutto, le torri mandavano un bagliore azzurro. Azzurro, come in tempo di Accordi.
  Il mannaro colpì la torre col muso, poi si alzò sulle zampe posteriori e iniziò a graffiare l’adamas con quelle anteriori. Sotto i colpi dei suoi artigli venne fuori un disegno. Uno stemma, formato da tre gigli su sfondo blu che sovrastavano un motivo di strisce rosse e bianche.
  D’un tratto il lupo diede un’altra zampata, facendo scomparire tutto lo stemma salvo uno dei gigli. Mi guardò, soppesandomi con quei suoi occhi tanto animali quanto umani. Infine scappò via, proprio mentre una spada trafiggeva la torre penetrando fino all’elsa. La lama tagliò perfettamente il giglio a metà.
  Trattenni il fiato.
  Conoscevo bene quell’immagine.
  Una spada – per la precisione, una claymore vichinga – che infilzava un giglio era lo stemma della famiglia Argentsang.

  La famiglia di Jean.


*Va a nascondersi in un luogo segreto per sfuggire all’ira dei lettori*

Perdonatemi. Perdonatemi, davvero. Vi voglio tanto bene. Lo sapete che non lo faccio apposta ad aggiornare così lentamente. Il fatto è che tra la fine della scuola, gli ultimi compiti, le interrogazioni in extremis, Althea che non si faceva sentire e una rediviva Francesca Paduano il tempo e la voglia sono venuti a mancare. Poi ovviamente ci si mette anche il fatto che cinque giorni su sette sono a mare per almeno cinque ore, e ciò vuol dire impossibilità di scrivere. Come se non bastasse il 16 mi scadrà l’abbonamento ad Office – infatti mi sto dannando da tipo un mese e mezzo per rintracciare il compare di nozze dei miei che può installarmelo piratato – e l’ansia che nel giro di poche settimane avrei potuto non avere più il mio amato Word ha influito sulla tempistica e sull’ispirazione.

Comunque, alla fine questo capitolo non è uscito una schifezza come pensavo. Anzi, è discretamente buono. Finalmente chiudiamo il capitolo newyorkese e, dal prossimo, iniziamo la parte italiana che, ve lo assicuro, sarà molto ma molto succosa.

E, udite udite, Seeing the Future non sarà l’ultima storia ambientata nel “mio” Mondo Invisibile. Concluderà certo la saga Past, Present and Future, ma lascerà molte questioni in sospeso nonché una bella ship che meriteranno di essere approfondite in una nuova trilogia. Riavremo come protagonista Lorianne e, sentite un po’, il lupo che ora le sta rompendo le scatole. Inoltre come personaggi secondari – oddio, non proprio, diciamo che la loro condizione è quella di Maia in TMI – avremo il già citato precedentemente Daniel Cartwright, qualche new entry e un paio di nostre prossime conoscenze.

Tornando al capitolo... si nota che Camille non è la Camille di Althea, vero? Ho deciso di scrivere io anche la sua parte, sia per mettermi alla prova sia perché sinceramente non avevo voglia di stare lì ad aspettare Althea e a metterci d’accordo su un sacco di punti; dopotutto così sono sicura che le cose prenderanno la piega giusta.

Bene, non credo di aver altro da dire se non ringraziare la Paduano per la frase iniziale.

VOTATE e COMMENTATE, mi raccomando!

Alla prossima, bye bye!

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Capitolo 8
*** Aeterna fama ***


7 Aeterna fama

Aeterna fama

 

Tu quoque litoribus nostris, Aeneia nutrix, aeternam moriens famam, Caieta, dedisti. 

Tu pure ai nostri lidi, nutrice di Enea, morendo desti, Caieta, eterna fama. 

[Eneide, capitolo VII, vv 1-4]

 

Non rividi mai più il lupo dopo averlo sognato la notte successiva all’incontro con Camille nel Santuario. E non sapevo se questo fosse un bene o un male.
  Nella settimana seguente, con l’aiuto di Chrysta e zio Magnus, cercai di dare un’interpretazione a ciò che avevo sognato, ma l’unica cosa che emerse fu la già assodata certezza che quel licantropo avrebbe avuto una grande importanza per me. Il fatto che poi nel sogno fosse comparso anche il simbolo della famiglia di Jean mi fece pensare che il mannaro mi avrebbe aiutato con quella questione, nonostante per il momento restassero solo congetture.
  La mancanza di qualcosa su cui indagare e per la quale scervellarsi si fece sentire, e le giornate – che andavano man mano allungandosi – divennero sempre più pesanti. Nemmeno le retate nei tunnel della metropolitana e nei vicoli di Manhattan in cerca di demoni da ammazzare servirono a molto, così come gli estenuanti allenamenti con Sikh, i quali, però, almeno ci facevano crollare dalla stanchezza non appena toccavamo il materasso.
  Ma una fresca mattina di metà aprile a zia Isabelle venne l’idea del secolo: pulizie di primavera, in rigoroso stile mondano, in tutto l’Istituto.
  Ordinò a zio Magnus di far comparire scope, stracci, secchi, detersivi e quant’altro, si armò di vecchi vestiti e una bandana per i capelli e iniziò a commissionare incarichi a chiunque avesse più di dodici anni, ossia praticamente l’intero Istituto meno i figli di una coppia in permesso da Toronto. In teoria anche Jordan il cagnolino, che di anni ne aveva quattro, sarebbe dovuto rimanere fuori dai giochi; tuttavia zia gli attaccò un deodorante al collare e lo mandò in giro per i corridoi a profumare gli ambienti. 
  
A me e Logan fu dato l’ingrato compito di staccare le tende da tutte le stanze del primo piano. Impresa facile, se le sopracitate tende non fossero state piene di polvere e Logan tremendamente allergico agli acari. Per fortuna la sua allergia era una di quelle che causavano solo improvvise e violente raffiche di starnuti e non peggio, come, non so, gola gonfia o shock anafilattico.
  E poi, era bello poter passare un po’ di tempo con mio cugino. Prima che arrivasse Jean avevo una spaventosa cotta per lui, e anche se ora non provavo più quei sentimenti nei suoi confronti era comunque affascinante osservarlo mentre si allungava verso l’alto per sfilare un bastone dal supporto oppure si aggiustava un ciuffo ribelle. Al collo portava ancora la catenina d’oro con appeso il suo primo plettro, e al dito l’anello dei Lewis con la stella di Davide infuocata.
  Mi capitò di spostare lo sguardo sul suo avambraccio. L’incavo del gomito era l’unico punto in cui non c’erano rune. Quello infatti era il posto riservato alla runa parabatai.
  In quel periodo le discussioni tra i gemelli sull’argomento erano più frequenti del solito. Trish non la finiva di supplicare Logan e lanciargli ogni genere di frecciatine, ma lui continuava ad essere titubante.
  Che due fratelli diventino parabatai è raro, ma pur sempre possibile. Immagino che due persone che sono già cresciute insieme non vogliano essere legate l’una all’altra per l’eternità da una promessa tanto potente e straordinaria che implica accollarsi un impegno al quale non si può mancare.
  Logan sosteneva che il legame parabatai non li avrebbe avvicinati ma allontanati. Trish, la minore, cercava da sempre di emanciparsi e farsi notare al di là del duo “gemelli Lewis”, e il legame non avrebbe fatto altro che indebolirla. Lei controbatteva – a volte quasi urlando – che avrebbe potuto emanciparsi anche se fosse stata la sua parabatai e che, anzi, in quel modo chiunque l’avrebbe guardata sotto una nuova luce, per cui Logan doveva solo starsene zitto e smetterla di accaparrare scuse.
  Personalmente, notavo tra di loro quella particolare affinità che caratterizza i parabatai anche senza che lo fossero veramente, per cui mi meravigliavo che Logan fosse tanto restio a partecipare alla cerimonia. Come parabatai sarebbero stati più agili, più veloci, più forti; in una parola, sarebbero stati migliori. E mi sbalordiva che proprio Logan, il quale aspirava al meglio da quando era nato – o meglio, riteneva di essere tenuto a farlo in quanto figlio di due eroi della Guerra Oscura – rifiutasse una tale occasione.
  Come compromesso aveva acconsentito a non marchiarsi nell’incavo del gomito in attesa della runa parabatai, che forse non vi sarebbe mai stata tracciata. Trish aveva fatto lo stesso nel medesimo punto. Avevano ancora un anno per decidere; chissà se la vacanza in Italia avrebbe aiutato anche loro a maturare una scelta.
  Sulla mia, di scelta, per il momento non avevo dubbi: sarei diventata una Sorella di Ferro. Ora come ora, non volevo altro che scappare da una società che mi stava stretta e fuggire dal mio passato. Certo, mi rendevo conto delle conseguenze che avrei causato unendomi alla Sorellanza, ma ormai ero quasi maggiorenne e avevo tutto il diritto di stabilire cosa fare della mia vita, che la mia famiglia lo volesse o no. Almeno, prima di andarmene avrei potuto vedere l’Italia.
  In quei giorni, molte delle mie visioni riguardavano l’Italia. Uno scorcio di mare, dei gabbiani che si alzavano in volo, l’interno di un ristorante e, strano ma vero, qualcosa che somigliava ad un casinò. A giudicare da quanto avevo visto e percepito, la vacanza sarebbe andata abbastanza bene. Con qualche eccezione, certamente.
  E la prima di queste si presentò proprio alla partenza dall’aeroporto di New York.

 

 

Per colpa mia quasi perdemmo l’aereo.
  Avevamo salutato zio Simon all’ingresso del terminal e fatto il check-in, e stavamo aspettando che chiamassero dagli altoparlanti il nostro volo seduti di fronte ad una filiale di Starbucks. Logan studiava degli spartiti, Trish scaricava informazioni su Gaeta in italiano e Chrysta sfogliava l’ultimo numero di Vogue. Io mi limitavo ad osservare le persone che correvano da una parte all’altra del corridoio trascinandosi dietro trolley e figli urlanti, mentre cercavo di non pensare che avrei dovuto passare sette/otto ore senza toccare terra.
  Mio cugino non avrebbe potuto avere un’idea migliore. Vacanze rigorosamente mondane. Comportamento mondano, mezzi mondani, solo lo stilo e un pugnale di riserva in tasca. (Ovviamente nelle valigie avevamo anche altre armi, nascoste dagli incantesimi di zio Magnus e Chris. Si sa, la prudenza non è mai troppa).
  Alle sette precise – miracolo! L’aereo non era in ritardo! – la voce sensuale di un’hostess annunciò ai passeggeri del volo 673 New York-Roma Fiumicino delle sette e trenta di presentarsi al gate per l’imbarco.
  Fatto sta che Logan aveva preso fischio per fiasco e ci aveva portati dalla parte opposta rispetto a dove avremmo dovuto essere.
  Ci guardammo in faccia per un secondo, poi iniziammo a correre.
  A metà strada, avvertii una fitta all’addome e inciampai.
  Raramente le mie visioni avevano un carattere tragico o drammatico. E ancora più raramente vedevo scene del genere. Scene di morte.
  Capitava una volta ogni morte di Papa, inoltre, che provassi tanto dolore fisico.
  Mi accasciai a terra, le mani premute sullo stomaco, in preda a tremendi crampi. Notai che le vene erano diventate luminescenti e attraverso la pelle s’intravedeva il sangue scorrere.
  Trattenni un urlo e intimai a Chrysta di nascondermi alla vista dei mondani. Fu l’ultima cosa che feci prima di catapultarmi nel futuro.

  
 

Mi trovavo in una sorta di studio; lo capivo grazie alla presenza di una massiccia scrivania in legno sotto la mia schiena, alla quale ero legata per i polsi e le caviglie. C’era anche qualcos’altro sulla scrivania, qualcosa di caldo e vivo, forse un grosso cane, che ringhiava e a tratti guaiva.
  Percepivo, oltre al mio e a quello dell’animale, tre battiti, tre cuori che palpitavano in modo irregolare. Riuscivo quasi a sentire il suono del sangue che sfrecciava nei loro corpi.
  Poi tutto accelerò. La scena prese a scorrere velocemente davanti ai miei occhi, fotogramma dopo fotogramma, come in uno di quei vecchi film muti in bianco e nero.
  Adesso, oltre a sentire il suono del sangue, ne sentivo anche l’odore, ferroso e intenso. Per fortuna non era il mio, ma non era nemmeno normale sangue umano o Shadowhunter. Era più... primordiale, antico, ed evocava immagini di fitte foreste e boschi bui.
  Urlavo. Urlavo a squarciagola. Urlavo in una lingua completamente diversa dall’inglese, una lingua che non ero sicura di conoscere, e urlavo una sola parola che in qualche strano modo collegavo allo zio Simon.  
  Urlavo perché qualcuno aveva sparato, sparato con estrema precisione, e qualcuno era morto.
  E urlavo perché qualcun altro era stato pugnalato, e stava morendo.

 

 

Chrysta purtroppo non era riuscita a compiere l’incantesimo in tempo. Venni beccata da uno degli addetti alla sicurezza dell’aeroporto, che mi portò di peso nell’infermeria non appena ebbi ripreso conoscenza.
  Il medico mi sottopose agli esami di routine, e dopo un quarto d’ora che sembrò durare un’eternità mi giudicò idonea al viaggio. Mi rendo conto che avrei dovuto ringraziarlo o perlomeno non guardarlo male per averci fatto rischiare di perdere l’aereo, ma la visione mi aveva lasciato talmente stanca e irritabile che per poco non gli mostrai anche il dito medio.
  Durante il tragitto perlopiù dormii o sonnecchiai per riprendere le forze. Quella visione mi aveva inquietato a tal punto da non riuscire a pensare ad altro, così, semplicemente, decisi che non ci avrei pensato e chiusi gli occhi. Per fortuna non venne a perseguitarmi anche in sogno.
  Il sogno però fu ugualmente scioccante.
  Sognai la mia famiglia. Mamma, papà e persino Jon, che in teoria non avrebbe potuto essere dov’era, stavano partecipando ad una riunione del Consiglio ad Alicante. Come sempre da un po’ di tempo a quella parte, la discussione verteva sugli omicidi di tre Nascosti – un vampiro e due lupi mannari – sul suolo di Idris, ancora irrisolti.
  Omicidi di cui sia io che la mia famiglia sapevamo qualcosa, io più di loro. Ma nessuno di noi avrebbe tirato fuori la questione e il nome del colpevole fin quando in sala era presente anche Jean Argentsang, o almeno uno dei suoi fedeli – che erano davvero tanti. Se l’avessimo fatto, lui avrebbe spostato l’attenzione di tutti su di me, su di noi, accusandoci di occultamento di reato. E se la sarebbe cavata alla grande, uscendone con le mani pulite e pronto a continuare la sua ascesa al potere.
  Evitavo di pensare che un giorno al posto di mio nonno ci sarebbe stato Jean. Sì, ne ero certa. Avevo... i miei motivi per esserlo.
  Prima che succedesse quello che era successo, osservavo Jean ammaliata e intrigata dai suoi discorsi su come avrebbe cambiato le carte in tavola, da Inquisitore. Non aspirava al ruolo di Console; non voleva essere la mente, ma il braccio.
  Era sempre stato un tipo molto pratico, nonostante a volte si perdesse nei suoi pensieri. Una sera, mentre danzavamo al suono di un quartetto d’archi, mi disse che attribuiva questa sua caratteristica al suo passato da ballerino: non si balla mai bene se si resta a pensare, ma è altrettanto controproducente comportarsi come una macchina ripetendo ogni movimento automaticamente e non lasciandosi trasportare dalla musica.
  Non dubitavo che avrebbe raggiunto i suoi obiettivi, che, persino alla luce delle sue più recenti azioni, continuavo a considerare retti e giusti. Dubitavo piuttosto sui metodi che avrebbe utilizzato per raggiungerli.
  Dopo che aveva conosciuto quell’ambiguo forestiero e questi l’aveva portato con sé fuori da Idris per un’estate intera, Jean era cambiato. Non avevo idea del perché, ma vi era sicuramente implicato lo straniero.
  Tornato ad Alicante, Jean smise di cercare suo padre.
  Non l’aveva mai fatto. Mai.
  E già questo avrebbe dovuto far suonare il mio campanello d’allarme.
  A mia discolpa, posso dire che ero troppo innamorata per accorgermene.
  Troppo innamorata anche per rendermi conto che lui aveva smesso di amarmi.

 

 

Tutte queste riflessioni mi attraversavano la testa in quei pochi minuti in cui ero sveglia. Quando un’hostess comunicò di allacciarci le cinture poiché eravamo in fase d’atterraggio, immaginai di infilare in una scatola qualsiasi cosa riguardasse Jean e poi chiuderla fissandola con una tonnellata di nastro adesivo.
  Era quanto di più simile ad una cassaforte potessi creare. Per il momento, non ne avevo le forze. Pregai perché un giorno, finalmente, riuscissi ad acquisirne a sufficienza.
  Scesa dall’aereo e toccato il suolo italiano per la prima volta, buttai mentalmente una pietra sulla scatola. Ero in Italia ormai, e i seguenti tre mesi sarebbero potuti essere gli ultimi che passavo da normale Shadowhunter, perciò feci silenziosamente voto di pensare solo e soltanto a me stessa. Jean ed annessi e connessi sarebbero rimasti a Idris.
  Logan ci fece strada fino al check-out, orientandosi grazie ai milioni di cartelli informativi scritti in italiano, inglese, arabo, greco, russo e cinese. Mangiammo qualcosa, poi ritirammo le nostre valigie – menomale che c’erano tutte – e seguimmo nuovamente Logan per una miriade di corridoi, che alla fine ci portarono in una stazione ferroviaria all’interno dell’aeroporto.
  — Andiamo in treno fino a Formia, poi lì prenderemo un autobus per raggiungere Gaeta — spiegò Trish, controllando gli orari degli arrivi. — Dovremmo partire tra cinque minuti.
  Magari fossero stati solo cinque minuti. Il treno arrivò dopo tre quarti d’ora esatti, senza che il ritardo venisse annunciato.
  — Benvenuti in Italia — brontolò Logan.
  Due ore dopo eravamo a Formia. A parte i passeggeri del nostro treno, in stazione non c’era quasi nessuno. Gli orologi dei nostri cellulari – che nel frattempo si erano settati sul fuso orario italiano – segnavano mezzanotte e mezza.
  Per fortuna l’autobus era già lì. Non che quindici minuti facessero una grande differenza, considerato il ritardo di Fiumicino, ma non avevo voglia di starmene ancora seduta a far niente. E poi, volevo assolutamente vedere Gaeta.
  Gaeta non mi deluse. Niente di speciale: una piccola cittadina circondata per tre lati dall’acqua, ex repubblica marinara. Ma era meravigliosa.
  La prima immagine che ebbi del paese, visto dalla spiaggia di Vindicio, fu un mandolino spaccato a metà per la lunghezza immerso in un mare azzurro e calmo, popolato da stormi di gabbiani. La luna si rispecchiava nell’acqua, rendendo il paesaggio simile a un quadro impressionista.
  Mi formicolavano le dita, e mi ritrovai a disegnare ghirigori invisibili sulla mia coscia. Quanto avrei voluto avere il tablet – o anche un foglio e una matita – a portata di mano, in quel momento!
  Non appena l’autista svoltò una curva e un cartello annunciante “Villa Irlanda – Hotel & Restaurant” comparve nella nostra visuale, Gaeta mi apparve come un mostro marino dormiente, con metà del corpo in acqua, che aspetta il momento propizio per svegliarsi e trasportare tutta la cittadina e i suoi abitanti all’altro capo del mondo.
  Mi tornò in mente uno dei miti greci che amavo tanto ascoltare da piccola, seduta in braccio a papà di fronte al caminetto: la storia dell’isola galleggiante di Delo, dove Leto partorì Artemide e Apollo. 
  
Lungo la strada, occhiai lo scheletro di un vecchio cantiere navale e i resti di una fabbrica, della cui insegna s’intravedevano solo una P, una O e una G.
  — Era la Pozzi Ginori — mi spiegò Chrysta, notando dov’era diretto il mio sguardo. — Produceva sanitari e altri oggetti in ceramica e porcellana; molto tempo fa erano famosi i piatti e le mattonelle decorati a mano. — Mi indicò un edificio che avevamo sulla destra. — Quella, invece, è la dogana. E più dietro, dove si trova quel murale del bambino circondato dai giocattoli, ci sono i Vigili del Fuoco.
  — Come fai a sapere tutte queste cose?
  — In realtà non sono io a saperle, ma Trish.
  — Esattamente — confermò la diretta interessata dal sedile dietro il mio. — Ho iniziato a passarle informazioni mentre sorvolavamo il Mediterraneo. Ho scaricato parecchia roba al JFK, e poi a Fiumicino ho, diciamo così, hackerato un sito di prenotazioni per trovare un algoritmo che ha automaticamente selezionato i locali e i ristoranti migliori.
  Sentii Logan ridere. — Sei terribile.
  — Non per niente il mio nickname da hacker è Attila, il flagello di Dio.
  Stando alle voci di corridoio che circolavano in famiglia, Trish, che già da piccola aveva mostrato familiarità con la tecnologia, si era inizialmente fatta il culo sul web da autodidatta e poi aveva ricevuto un qualche tipo di aiuto da un tizio misterioso di cui nessuno sapeva il nome, forse neanche lei. Se provavi a tirar fuori l’argomento, Trish sfuggiva alle tue domande con la facilità con cui un’anguilla ti scivola dalle mani – sì, ho tenuto un’anguilla in mano. O, perlomeno, ho tenuto in mano un demone che vi assomigliava.
  Comunque, l’abilità di Trish ci è risultata utile molte volte. Ha stanato parecchi culti demoniaci infiltrandosi nel deep web e ha persino scoperto un traffico illegale di armi magiche gestito da un ifrit del Bronx. Sulle prime il Consiglio si era dimostrato un po’ restio davanti a questo metodo d’investigazione “alternativo”, ma una volta visti i risultati si era immediatamente ricreduto. Dopotutto, Trish era riuscita ad entrare nel sistema della polizia di New York ed aveva annullato diverse multe a carico di membri del Conclave locale che avevano parcheggiato la macchina nel posto sbagliato o commesso qualche altra infrazione, quindi non avevano motivo per disprezzare lei e il suo infallibile portatile.
  In quel momento, però, avrei tanto voluto che non fosse così brava.
  Quando il conducente comunicò che la prossima fermata sarebbe stata la nostra, Trish colse l’occasione per annunciare che non avremmo alloggiato in un hotel bensì in una casa vacanza che aveva scovato nelle profondità di HomeToGo.
  Chris soffocò un urlo. — E me lo dici solo ora? Io ti... ah, sei fortunata perché dopo tutta quella faccenda di Camille ho acquisito un minimo di autocontrollo!
  Non esitai a darle manforte. — Sul serio, Trish? Siamo in vacanza, per la miseria!
  — Ehi, calmatevi — intervenne Logan, sempre pronto a sedare gli animi. — È stata una decisione sofferta e meditata tra gemelli. Punto primo: non vorreste davvero dividere una quadrupla, spero. Per quanto mi riguarda, è già tanto aver dormito nella stessa stanza con Trish fino ai dieci anni. Ahi! — La sorella doveva avergli dato una gomitata, perché proseguì con il fiato spezzato: — Punto secondo: anche se la villa – sì, gente, è una villa – che abbiamo affittato ci è costata un bel po’, un hotel sarebbe stato molto più caro. Punto terzo: avevate veramente intenzione di mangiare ogni giorno in un ristorante per tre mesi?
  — Tu sei solo tirchio — sbottò Chris.
  — No, cara, io sono parsimonioso — la corresse lui. — Ve lo prometto: non ve ne pentirete. Mi ci gioco il ciuffo.
  Sgranai gli occhi. — Oh, wow. Allora dev’essere una cosa seria.
  Chris si allungò all’indietro e gli scompigliò i capelli. — In effetti, cuginetto, mi pare che questi siano un tantino lunghi.
  — No. — Logan le scacciò via la mano. — Vanno benissimo così.
  — Ragazzi, è la vostra! — urlò l’autista, impedendo a Chrysta di replicare. — Aspettate, vi aiuto con le valigie.
  L’autista se ne sarebbe rimasto a posto se non avesse constatato che avevamo almeno tre valigie ciascuno, ma gli fummo comunque grati e Chrysta insistette per dargli una mancia.
  Mi guardai intorno. L’autobus ci aveva lasciati in un parcheggio all’inizio di una serie di salite, non molto ripide ma comunque faticose. Trish ci fece strada, controllando una mappa sul cellulare. — La casa è nascosta in una macchia di vegetazione. Logan sospetta che sia abusiva.
  — Certo che è abusiva, Trish! — replicò lui. — Questa è un’area protetta, anzi, se non sbaglio è addirittura un Parco Regionale. Dovrebbe essere vietato costruire qui.
  — E infatti Villa Orlando è appena fuori dal territorio del Parco — continuò Trish, raggiante. — Di qua.
  Chrysta sbuffò. — Okay, mi sono scocciata. — Ad un suo schiocco di dita tutte le valigie si alzarono in volo. — Adesso sì che si ragiona.
  La ringraziammo con un coro di “Alleluia”, che subito si trasformarono in esclamazioni di sorpresa.
  Abusiva o non abusiva, Villa Orlando faceva la sua figura.
  Era una recente costruzione a due piani più mansarda dipinti di bianco con gli infissi in alluminio scuro. La porta d’ingresso era coperta da una tettoia in legno sulla quale si erano avviluppati dei rampicanti che arrivavano fin quasi a terra. Tutt’attorno al perimetro erano sistemati dei vasi in terracotta contenenti orchidee gialle e rosa e grosse piante di cycas.
  Il primo piano ospitava la zona giorno, con un ampio atrio, un salotto, una graziosa cucina con penisola e un piccolo bagno di servizio; il secondo piano era invece dedicato alla zona notte, con il bagno padronale e tre camere da letto: una matrimoniale, una singola e una doppia. La mansarda era chiusa a chiave; Trish ci disse che quello era lo studio personale della padrona di casa, tale Rita D’Amante.
  — Be’, con una villa del genere non mi sorprendo che abbia voluto tenere chiusa la mansarda — commentò Logan. — Chissà quanti cadaveri nasconde lì dentro.
  Trish gli assestò un pugno sulla spalla. — Macabro come sempre.
  — La matrimoniale è mia! — Chrysta sfrecciò su per le scale con le valigie al seguito.
  Ci affrettammo a raggiungerla e Trish la bloccò di fronte alla porta della stanza. — No, la matrimoniale va a Lori. Se troverà un bel tipo con cui tentare l’avventura di una storia estiva avrà bisogno di un letto più grande, no?  
  — Esatto — concordò Chris, zittendomi con un incantesimo. — Di sicuro non farai certe cose nel mio letto. È tutta tua, cuginetta.
  Logan corse verso la singola. — Questa ovviamente me la prendo io. Non dormirò di nuovo con Trish, scordatevelo.
  — E chi ha detto che avresti dovuto dormire con me? — ribatté la sorella. — Era già nei piani originari che la doppia sarebbe andata a me e Chris.
  Provai a parlare, ma l’incantesimo di Chrysta era ancora attivo. La guardai in cagnesco. — Oh, scusa Lori. — Mi liberò con un cenno della mano.
  — Se permettete, io vado a farmi una doccia — annunciai. — Devo assolutamente togliermi di dosso lo sporco dell’aeroporto e della stazione.
  — Certamente — convenne Logan. — Ma spicciati e non farci aspettare!
  Sogghignai. Eccome che li avrei fatti aspettare.
  Per curiosità, prima di entrare nel bagno impostai il cronometro sul cellulare. Quando uscii, segnava quaranta minuti e cinquantatré secondi.
  Ignorai le proteste dei miei cugini e mi buttai sul letto. Era l’una passata, vale a dire le sette di sera a New York, ma evidentemente il jetlag non funzionava con me. Nonostante avessi riposato in aereo, mi sentivo come se avessi combattuto contro un Demone Superiore per un’intera giornata. Ancora postumi della visione, probabilmente.
  Non fu una notte proprio tranquilla – colpa dei soliti sogni – ma dormii come un sasso fino a mattina inoltrata.
  Mi svegliai alle nove e per abitudine aprii subito le finestre. Tirava una fresca brezza proveniente dal mare, che portava l’odore della salsedine.

  Con il sole che mi baciava la pelle e una vista spettacolare davanti agli occhi, decisi che, considerando che avrei trascorso il resto dei miei giorni rinchiusa in una fortezza di adamas, mi sarei goduta ogni singolo attimo di quella vacanza e ne avrei serbato il ricordo in eterno.


Ciao! Dai, stavolta non vi ho fatti attendere troppo.

Capitolo mezzo buono mezzo cattivo, questo. Ci sono parti che mi piacciono e altre che odio. Mi fa piacere aver inserito una parentesi sui gemelli Lewis, come qualche tempo fa feci con Chrysta, e soprattutto aver presentato Gaeta nel modo migliore, per ora.

Come avrete letto, la frase ad inizio capitolo è tratta dall’Eneide. A titolo informativo vi dico che potete trovare Gaeta anche nella Divina Commedia (è citata due volte, se non erro). Molti di voi non la conoscevano prima di questa storia, ma ehi, Gaeta è famosa. La prossima volta che dovete programmare le vacanze lasciate da parte la Grecia e la Croazia e venite a mare qua. Ci sono sette spiagge, una più bella dell’altra. Ma adesso mi tappo la bocca; verrà il momento in cui narrerò tutto ciò che c’è da sapere su questa magnifica città.

Vi avverto di fare molta attenzione alle visioni di Lori, e in particolar modo ai dettagli. Lo so, lo so, non è facile – specialmente con gli aggiornamenti così distanti fra loro – però è davvero importante. Così avrete la possibilità di prevedere cosa succederà più avanti MUHAHAHAHAHAHA.

Okay, mi fermo qui. VOTATE e RECENSITE, alla prossima guys!

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Capitolo 9
*** Per ogni faccenda sotto il cielo ***


8. Per ogni faccenda sotto il cielo

Per ogni faccenda sotto il cielo

 

Gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime prima ancora che i corpi si vedano. Generalmente, essi avvengono quando arriviamo a un limite, quando abbiamo bisogno di morire e rinascere emotivamente. [...]
Allora l’ignoto si manifesta e il nostro universo cambia rotta. 

[Paulo Coelho, Undici minuti]

 

 

Salutai sorridendo zio Simon, zia Isabelle e il piccolo Amos e chiusi la conversazione.
 I Meziane, scappati ad Alicante un paio di settimane prima della nostra partenza, erano appena tornati all’Istituto in compagnia dell’adorabile figlioletto appena nato, che da quanto scalciava tra le braccia di zia Iz già si prospettava diventare temibile come suo padre.
  Ero sola in casa. Logan e Trish erano andati chissà dove a fare chissà cosa, mentre Chris era uscita di corsa a comprare del balsamo – “ORRORE! È finito!”
  Era ancora troppo presto per andare in spiaggia, anche se in teoria la stagione balneare era iniziata il venticinque aprile e noi avevamo già prenotato un ombrellone a Serapo via Internet, e a parte girovagare per Gaeta o le cittadine limitrofe non c’era poi molto da fare. Inoltre, come se non bastasse, una perturbazione atlantica aveva portato pioggia, vento e freddo.
  In altre parole, mi stavo annoiando a morte.
  In cerca di qualcosa con cui ammazzare il tempo, nel bene o nel male – anzi, nel bene e nel male – avevo ricominciato a leggere i rapporti stilati dal Console e dall’Inquisitore sul probabile omicidio di massa di lupi mannari di cui, nel caso fosse appunto stato un omicidio, si cercavano ancora il movente e l’assassino. Zio Alec me li aveva passati sottobanco con la raccomandazione di non parlarne con nessuno, nemmeno con i miei familiari, in modo da evitare di coinvolgerli ulteriormente nella questione.
  Dal canto mio, non avevo certo intenzione di andarlo a sbandierare ai quattro venti anche prima che zio me lo proibisse, però non era un’ottima cosa rifletterci da sola senza avere a disposizione un’altra mente cui chiedere pareri. Ho sempre avuto il brutto vizio di trarre conclusioni affrettate, soprattutto in mancanza di qualcuno che possa aiutarmi ad esaminare la situazione da un diverso punto di vista, e nonostante all’epoca tutti fossimo portati quasi per costrizione ad arrivare ad un’unica soluzione per l’enigma – nemmeno fosse un’equazione di primo grado – io ero sicuramente la persona più influenzabile e manipolabile.
  Parafrasando, pensavo sempre a Jean.
  Jean di qua, Jean di là, Jean potrebbe aver fatto questo, Jean ha fatto questo.

  Certo, non era la prima volta che la mia testa era occupata solo e soltanto da lui. Insomma, avevo passato la bellezza di due mesi a sognarlo di notte e a scrivere il suo nome circondato di cuoricini praticamente dappertutto, e poi c’era stato il periodo immediatamente successivo a La Sera. Però era raro che questi pensieri fossero di carattere puramente oggettivo, freddo e analitico.
  Morte per avvelenamento, citavano i referti delle autopsie. Trattandosi di licantropi, il veleno in questione era ovviamente l’argento, del quale erano state trovate tracce nell’esofago, nello stomaco e nell’intestino. Ciò indicava che fosse stato ingerito, chiaramente non per spontanea volontà.  
  Quindi era palese che fosse un omicidio, di massa perlopiù. Problema: killer invisibile, cause sconosciute, data e ora precisa dell’avvelenamento ignote.
  Data la natura dell’assassinio era stata avanzata un’accusa secondo la quale sarebbero stati i vampiri di Idris a commettere il reato, durante una delle tante cene in compagnia del branco di mannari stanziato a Brocelind. Tuttavia i due clan non si incontravano ufficialmente da parecchio; per di più il signore dei vampiri in quei giorni era fuori sede, dunque era del tutto improbabile che gli altri si fossero divertiti in quel modo senza che anche il loro capo potesse godere dello spettacolo. Inoltre, tra di loro correva buon sangue.
  Ricordavo da una delle tante sedute in Consiglio l’intervento di un tizio dal nome parecchio strano che aveva azzardato l’ipotesi del suicidio di massa, la quale non era da scartare, ma è noto che i lupi mannari non possono maneggiare l’argento – e pure se avessero usato guanti o altro era poco plausibile che fossero riusciti a non venirne mai in contatto diretto – e comunque mancava una motivazione alla base.
  Mmm... chi conosceva alla perfezione i metodi d’indagine degli Shadowhunters e nutriva un inspiegabile odio verso i licantropi?
  Jean.
  Peccato però che lui non si trovasse ad Alicante all’epoca dei fatti.
  E lui non era il tipo da fidarsi dei complici, né peraltro delle persone in generale. Stesso motivo per il quale era un ballerino solitario e ballava raramente in gruppo.
  Per cui, ciao ciao denuncia per omicidio.
  Nulla mi vietava però di denunciarlo per altro. Ma non volevo farlo. Ero troppo vigliacca. Egoista. Codarda. E svogliata.
  Sbadigliai e chiusi i fascicoli, quindi mi avviai al piano di sopra e, sentendo la porta d’ingresso sbattere, mi affrettai a nasconderli sul fondo di una delle valigie nella mia stanza. Stavo per scendere di nuovo quando Chrysta mi bloccò sulla porta. — Oggi si investiga — annunciò, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
  — E dove? — le chiesi, incrociando le braccia sul petto. — Fuori piove.
  Lei fece su e giù con le sopracciglia. — Se non si può fare fuori si fa dentro — sussurrò in tono ambiguo, poi mi afferrò per un braccio e mi trascinò su per le scale.
  Feci immediatamente due più due. — Ah no, eh! — esclamai. — La mansarda no!
  — La mansarda sì! — replicò Trish, spuntata all’improvviso con Logan al seguito.
  — Andiamo, Lori... — mi supplicò lui, ghignando maliziosamente. — Lo sappiamo che sei curiosa. Io scommetto venti dollari che ci nasconde i cadaveri, là dentro.
  L’ultimo gradino scricchiolava in maniera inquietante. — E dai, ragazzi, possiamo non ficcare il naso negli affari altrui, per una volta?
  Logan mi balzò davanti con l’agilità di un felino. — Ma noi siamo Shadowhunters, ficcare il naso negli affari altrui è il nostro scopo nella vita — replicò con grande senso pratico. — Signorine, a voi l’onore.
  Gli scoccai un’occhiata confusa e lui mi rispose con una smorfia di scherno. — Parlavo con le altre signorine, quelle che oggi lo sembrano, almeno. Ma ti sei pettinata, come minimo?
  — Sì, mi sono pettinata e sì, sei uno stronzo. — Gli sorrisi fintamente.
  Lui ricambiò il ghigno. — Oh, così mi piaci, cugina. Comunque, dicevo... — Si fregò le mani come nel miglior film di mafia e si rivolse a Trish e Chrysta: — A voi l’onore.
  Mentre Trish armeggiava col cellulare, Chris fece scattare la serratura con uno schiocco delle dita. — Telecamere — spiegò, indicandomene una piazzata strategicamente dietro un pilastro.
  — Anche piuttosto vecchie, direi — aggiunse Trish, per poi esultare con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. — Fin troppo facile metterle offline e cancellare le ultime ventiquattr’ore di registrazione.
  Logan le batté il cinque. — Sei la migliore, Attila.
  — Mai quanto Imperator. — Chris le diede di gomito, ridacchiando. — Di’ quello che vuoi, ma io non credo che non vi siate scambiati qualche foto hot, o che lui non ti abbia insegnato qualcos’altro oltre a come scoprire le password...
  L’irritazione per aver contravvenuto al volere della padrona di casa svanì nel momento esatto in cui Chrysta nominò il mentore di Trish. Be’, forse era complice anche il fatto che la mansarda fosse soltanto un semplice studio privo di cadaveri ma pieno di polvere, ecco.
  Logan si fiondò sulla poltrona girevole con un grido di giubilo. — Le amo queste cose! — Poggiò sfacciatamente i piedi sulla scrivania e intrecciò le mani dietro la testa. — Ah, adesso si ragiona. Anche Imperator aveva una sedia così, sorellina?
  — E le manie di comando, come suggerisce il suo nome? — gli fece eco Chrysta, insinuante. — E un grande, grosso p...
  — CHRYSTA!
  — Portatile? — finì lei, facendo scoppiare a ridere tutti tranne la povera interrogata.
  — Con una grande, grossa webcam? — continuai io, appollaiandomi sul bordo della scrivania. — Ahia! E questo cos’è?
  Contenta di poter sviare la conversazione su un altro argomento, Trish mi sfilò una cartellina di cartone con dentro infilata una penna da sotto il sedere.
  — Lori, non ti lamentare... — mugugnò Logan, mentre la sorella passava in rassegna ogni singolo foglio contenuto nel raccoglitore. — Con Jean sarai stata abituata a ben altro...
  — E NO! — gridai. — Non lo accetto! È vietato cambiare la vittima del terzo grado!
  — Ah sì? — Chrysta rise. — E chi l’ha detto?
  Mi finsi offesa. — È una delle leggi non scritte dell’Universo, cugina, mi sorprendi! Inoltre, con Jean ero consenziente, invece questa penna ha cercato di violarmi contro la mia volontà.
  Complimenti, Lorianne, hai scherzato su Jean! Facciamo progressi, facciamo progressi. Applausi.
  Trish mi schiaffeggiò alla cieca con la mano libera. — Prima di riuscire a violarti quella penna avrebbe dovuto attraversare il fortunatamente sottile strato di cotone dei pantaloni e poi quella roba assurda che tu chiami coulotte e io cintura di castità.
  — Ehi, non è colpa mia se ho bisogno del push-up per tenere su questi glutei flosci!
  — Lo è, invero — si inserì Logan, fastidioso come al solito. — Mi duole dirle, milady, che se negli ultimi mesi si fosse allenata o almeno avesse spartito il letto con qualcuno ora non avrebbe avuto tali problemi di tono muscolare.
  Gli feci una pernacchia, inondandolo di saliva. — Mi duole dirle, milord, che se condividessi anche solo una goccia di sangue in meno con lei la ammazzerei qui e adesso.
  Chrysta alzò una mano. — Tecnicamente, non condividet...
  — Lo sappiamo! — la zittimmo entrambi.
  Lei fece per ribattere, ma Trish la stroncò sul nascere. — Ehi, ragazzi, guardate un po’ qua...
  In un attimo fummo tutti dietro di lei, gli occhi puntati sul piccolo pezzo di carta bianco e rosso che stringeva tra indice e pollice.
  Logan fischiò. — Wow. Contravviene alla legge, signore e signori. Un piccolo pensierino per i cadaveri lo farei, a questo punto. 
  A malincuore, dovetti concordare con lui. — Ma per prescrivere farmaci non serviva la laurea in Medicina?
  — Esatto — confermò Trish. — E la nostra Rita D’Amante non ce l’ha.
  Chrysta avvicinò il foglio agli occhi. — Cosa c’è scritto? Non si capisce.
  — Quando mai si è capita la scrittura dei dottori... — borbottai.
  — È un nome maschile, perché l’ultima lettera è una O, così anche il cognome, che sembra iniziare per M ma con una zampetta in più — tentò Logan. — Trish, anche tu fai la M con quattro zampette!
  — Separate alla nascita — commentò Chrysta.
   Trish le pestò un piede. — Ma va’ a fanculo.
   — Ci sono già — canticchiò lei, imperturbabile.
   Trish respirò a fondo per calmarsi, poi richiuse la cartellina e la rimise sulla scrivania. — Stasera me la paghi.
   — Stasera? Perché non subito? — Già mi immaginavo con i popcorn in mano. Non potevano rovinare i miei piani per la giornata.  
  Chrysta arricciò le labbra in un ghigno. — Non vorrai...
  — Oh sì.
  Dance-off! — gridò Logan, entusiasta. — Freestyle, pista casuale, giudice il pubblico. Mi piace!
  — Ciò vuol dire... — Mi presi la testa fra le mani. No. No. NO!  
  La Stregona esultò. — Che si va in discoteca!

 

 

La musica altissima mi rimbombava nelle orecchie scandendo un ritmo sincopato e irregolare, tipico dei brani di quel periodo, quando andavano di moda i suoni più distorti e discordanti che si riuscisse a produrre.
  La voglia di restare lì era pari a zero, idem per la voglia di andare a ballare o fare altro che non fosse sorseggiare qualcosa seduta su un divanetto, osservando e criticando, magari con Chrysta, le sconvolgenti mise della maggior parte della gente nel locale.
  Ma Chris si stava scatenando sulla pista con Trish – la battaglia era finita con un pareggio – e Logan si era infilato dietro alla postazione del DJ per ammirare la consolle di ultima generazione, così ero rimasta sola in mezzo a una miriade di corpi accaldati e sudati, con il rischio di essere spintonata e urtata senza il minimo riguardo e toccare qualche fluido corporeo di sconosciuta origine al cui confronto l’icore dei demoni faceva decisamente meno schifo.
  Le discoteche. Che meraviglia.
  Sbuffando, mi feci largo a gomitate tra la folla fino a raggiungere l’angolo bar e lasciarmi cadere sull’unico sgabello libero, tra una tizia che batteva nervosamente le unghie sul bancone e un tizio curvo in avanti.

  Ordinai un cocktail analcolico che somigliava molto a un Mojito. Nell’attesa, tirai fuori il cellulare e controllai che non ci fossero chiamate perse o messaggi non letti. Controllai anche l’ora: mezzanotte. Menomale che la mattina seguente saremmo dovuti essere alla Montagna Spaccata per le nove. Di certo io non sarei riuscita a svegliarmi prima di mezzogiorno.
  Il barista, un tipo abbastanza carino sui venticinque, mi consegnò il non-Mojito e mi fece un grosso sorriso che io non ricambiai, preferendo abbassare lo sguardo sul bicchiere e cercando di non dargli uno schiaffone per aver azzardato delle avances – retaggio dei tempi in cui stavo con Jean e le attenzioni degli altri ragazzi mi sembravano solamente modi per portarmi a letto. Cosa che, per inciso, non avrei mai neanche immaginato di accettare.
  Hi!
  Qualcuno mi aveva salutato in inglese. D’istinto pensai fosse il barista, perché era l’unico a cui avevo parlato e probabilmente aveva colto l’accento nella mia voce. In ogni caso, però, chiunque avrebbe potuto salutarmi in inglese.
  Alzai pigramente la testa verso il barista, ma lui era da tutt’altra parte. A parlare era stato lo sconosciuto seduto alla mia destra.
  Hi — gli risposi nella stessa lingua. — Come hai fatto a capire che sono inglese? — aggiunsi poi in italiano.
  — Ti ho letto nella mente. — Rise spensieratamente. — No, sul serio, ho visto la data sul tuo cellulare. È impostata secondo il modello americano. E tu, invece? — mi interrogò curioso. — Come hai fatto a capire che sono italiano?
  — Istinto. Non scherzo. — Bevvi un sorso del drink. C’era un po’ troppa menta, ma non mi dispiaceva. — Sei qui solo soletto?
  — Eh già. — Colsi una nota di amarezza tra le righe. — Diciamo che dovrei lasciarmi alle spalle il passato, ma provo uno strano e sadico piacere nel rigirare il coltello nella piaga ricordando i bei momenti passati in questo posto e in molti altri.   
  — Una perdita di recente? — gli domandai, cercando di non sembrare irrispettosa.
  — Due — mi corresse lui. — Il mio migliore amico e la mia ragazza.
  — Ahia — commentai, sinceramente dispiaciuta. — Com’è successo?
  — Me l’hanno detto. Mi hanno detto che stavano insieme e facevano anche altro, alle mie spalle, da più di un anno.
  E io che credevo fossero morti...
  Ottimista, insomma.
  — Santo cielo — replicai sbalordita, prendendomi mentalmente a pugni per essere stata tanto stupida. — Il peggior tradimento, non c’è che dire.
  — Compagna di sventure? 
  
Che ficcanaso.
  — Esattamente — confermai bevendo un altro sorso. — Non la tua stessa sventura, ma comunque tua compagna.
  — In Italia per dimenticare?
  — Esattamente — ripetei. — Per dimenticare e... per riflettere. Su una decisione che non ammette pentimenti.
  — Qualcosa del genere “giuro eterna e cieca fedeltà all’Uomo che fuma”?
  — Qualcosa che ha suppergiù il medesimo livello di pericolosità — affermai, ridacchiando per il riferimento da nerd. — Sei fortunato che mio zio mi abbia fatto vedere X-Files, oppure mi sarei limitata ad alzare le sopracciglia e girarmi dall’altra parte, stile “mi hai definitivamente scocciata”.
  — Andiamo, è una serie cult!
  — Sì, che ha la stessa età dei miei genitori!
  — Be’, hai genitori giovanissimi — commentò lui. — Insomma, li hai diciott’anni, no? E quindi quando ti hanno avuta, a ventidue?
  — Ventitré.
  
— Appunto, giovanissimi — ribadì. — Da che pulpito, poi... mio fratello è nato quando i miei ne avevano venticinque.
  Notai che parlava con assoluta naturalezza, come se non gli importasse che stesse raccontando tali informazioni a una perfetta estranea. Percepii anche una punta d’orgoglio nel suo tono, molto sicuro e tranquillo. Da ciò intuii che dovesse essere abituato a colloquiare apertamente con una massiccia quantità di persone, anche e soprattutto di quanto riguardava la sua famiglia.
  Decisi perciò di ricambiare con la stessa moneta. Se all’inizio ero determinata a restarmene sulle mie e a non concedergli altro che qualche chiacchiera scambiata formalmente, in seguito il suo carisma mi fece cambiare idea.
  Aveva un certo fascino, malgrado non fosse il tipo di fascino che avrebbe potuto seriamente far colpo su di me. A prima impressione sembrava un ragazzo logico, pratico, schietto, eppure il brillio degli occhi e il modo in cui il suo sguardo a volte cadeva sulla runa Voyance tradivano una parte più enigmatica e misteriosa.
  Con un sussulto mi resi conto che quella parte più enigmatica e misteriosa di cui avrei tanto voluto scoprire origine e scopo avrebbe finito per portarmi alla rovina, come già era successo con Jean.
  Ricambiare con la stessa moneta, a quel punto, non era più una saggia decisione.
  — Mattia Nardone. — La sua mano comparve all’improvviso nel mio campo visivo, distogliendomi dai miei pensieri.
  Gliela strinsi. Era piccola, liscia, diversa dalle mani Shadowhunter che ero abituata a stringere. — Lorianne Herondale.
  — Come? Lorraine? 
  
— No, Lori-anne — scandii. — È un nome molto strano, lo so.
  — Non è strano, è solo... poco comune — ribatté lui. — Il che è un bene. Adoro tutto ciò che è poco comune.

  Allora se sapessi quanto sono poco comune io mi ameresti, pensai, e per un attimo fui tentata di rispondergli così. — Sei di qui?
  Mattia annuì. — Di Serapo, precisamente. Tu? Da quale parte del Nuovo Continente provieni?
  — Sono nata a New York, ma non abito in America da quando avevo cinque mesi — gli spiegai. Una buona bugia contiene sempre una parte di verità. — Faccio parte di una... comunità che vive fra la Francia, la Svizzera e la Germania. Siamo presenti in tutto il globo, ma lì c’è la nostra... patria ancestrale.
  Mattia fischiò sommessamente. — Wow. Dev’essere interessante. Cioè siete una specie di... tribù? Come gli Amish?
  — Mmm, non precisamente. Tra di noi siamo simili nella maggior parte degli aspetti – in particolar modo gli usi e i costumi – ma allo stesso tempo siamo immensamente diversi.
  — È per questo che hai quei... tatuaggi?
  D’istinto mi coprii la mano destra con la sinistra per nascondere la runa Voyance. — Sì. Ma anche questi variano di persona in persona. Alcuni sono obbligatori, diciamo, altri facoltativi.
  Mattia fece vagare lo sguardo su per il mio braccio scoperto, dal polso alla spalla. Mormorò qualcosa che non riuscii a comprendere del tutto a proposito di una nonna e un pescatore, poi si riprese e mi sorrise. — Be’, piacere di averti conosciuta, Lorianne!
  — Come, già te ne vai?
  Feci il labbruccio. Me ne pentii. Lo feci di nuovo. Me ne pentii di nuovo.
  Per informazione, io faccio il labbruccio solo in casi precisi. Molto, molto raramente. Ne era passato di tempo da quando l’avevo fatto l’ultima volta.

  Perfetto, Lorianne. Ti sei presa una cotta.
  Alla faccia del “non è il tipo di fascino che
potrebbe seriamente far colpo su di me”... E gli alti standard dove li mettiamo?
  Lui saltò giù dallo sgabello e sbadigliò. — Eh sì. Dopo cinque ore di scuola e due di volontariato in ospedale è già un miracolo se riesco a stare sveglio fino alle dieci. 
  
Alla parola volontariato l’asticella segnapunti di Mattia schizzò in alto e colpì la campanella sulla cima, facendo DONG!
  Il suono mi schiarì le idee. Ma certo, perché non ci avevo pensato prima?
  Intendiamoci, non sono esattamente un’autorità in materia d’intraprendenza, sia in fatto di ragazzi che in generale, ma tutti quegli anni con Jean avranno pur portato i loro frutti, no?
  Mi alzai in piedi, stiracchiandomi fintamente. — Forse è meglio se anch’io me ne vado. Domani – cioè oggi – dobbiamo essere alla Montagna Spaccata entro le nove, sperando di riuscire a trovare qualcuno che ci faccia da guida.

  Dai, lo pregai. Cogli l’antifona... Insomma, guardami, sono adorabile!
  — Hai detto “dobbiamo”. Devo dedurre che non sei da sola.
  Mi morsi l’interno della guancia, reprimendo un moto di stizza. E va bene, tizio pressoché sconosciuto. Con me hai chiuso. — Sì, sono insieme ai miei cugini.

  Ciò significa che se non ti ucciderò io lo faranno loro.
  Mattia mi fissò per un attimo, poi si voltò verso il bancone e afferrò un tovagliolo da una pila tenuta ferma con una stella marina imbalsamata. Tirò fuori una penna dalla cover del cellulare e scribacchiò qualcosa sul tovagliolo, quindi me lo premette nel palmo.
  Non mi azzardai ad abbassare lo sguardo per tre secondi buoni. Che avesse scritto il suo numero?
 
Ma no, nessuno scriveva più il proprio numero su un tovagliolo da vent’anni ormai...
  Infatti, sulla fragile carta spiccavano delle parole: Lupo di Mare, Via Bausan 6, Gaeta medievale.
  — Veniteci a trovare al ristorante, qualche volta. Vi consiglio di prenotare.

  Ovvio, prenoto subito! Oh, aspetta, ma tu non mi hai dato il numero!
  Mi diedi un calcio da sola per sbollire la rabbia e mi costrinsi a sorridere. — Certamente. Allora... ci si vede?
  Mattia mi strinse la mano, poi mi rivolse un sorriso talmente raggiante da farmi dimenticare che ero furiosa. — Ci si vede. Ciao, Lorianne!
  — Ciao — lo salutai, e quando fui sicura che se ne fosse andato mi lasciai cadere sullo sgabello e ordinai un altro drink.

  Alcolico, però.


SONO VIVA! VIVA! V-I-V-A!

Lo so, lo so. Sono una stronza, una bastarda e tutto quello che volete. Tre mesi. Tre mesi ci sono voluti per questo capitolo. E vi dirò di più: tutta la seconda parte era già bell’e pronta, pure da parecchio tempo. Il problema è stata la prima, che infatti non ha il benché minimo senso. Però era importante spendere qualche riga per Jean, per la D’Amante e per il misterioso hacker mentore di Trish. Tanto importante da spenderci tre mesi.

Non ho giustificazioni per il ritardo, e non le ho mai avute. Ho sempre cercato di essere il più schietta possibile, nei limiti del decente e del politically correct, per cui non vi dirò esattamente cos’ho fatto in questi tre mesi di assenza, grilli che frinivano e cespugli che rotolavano nel deserto, inframmezzati da un paio di post nella bacheca di Wattpad che saranno stati visti sì e no da cinque persone e un breve salto per cambiare la grafica del profilo su Wattpad (su questo ritornerò dopo). Vi dirò soltanto che l’abbonamento di Office ha scelto il momento peggiore per scadere (ma ora sto scrivendo da Word di Office 2016 Professional Plus piratato e quindi FUCK YEAH), poi sono andata a mare, tornata a casa tante volte perché è venuto a piovere, fatto qualche gita fuori porta delle quali una in Puglia in cui È VENUTO A PIOVERE e una a Firenze in cui fortunatamente c’è stato il sole ma comunque faceva ABBASTANZA FREDDO per il periodo in corso (#mainagioia) e passato quattro o cinque o dieci notti insonni – che per me equivale a stare sveglia fino alle due – a ruolare con la grandissima Francesca Paduano di cose che vedrete in House of Sa... ops.

Vabbe’, ormai ve l’ho detto: la tetralogia sequel si farà!

*Lanci di pomodori*

Come una personcina a caso (*fischietta*) ha notato, ebbene sì, la nuova grafica del mio profilo ha a che fare con la serie The Houses, composta da quattro storie: House of Cards, House of Sand, House of Wood e House of Stone. 

Concludo questa NdA assurdamente lunga e assurdamente prova di senso (proprio come il capitolo – che però non è assurdamente lungo, mannaggia, volevo scrivere qualche parolina in più dopo tutto questo tempo) con un ATTENZIONE: chi l’ha notato l’ha notato, chi non l’ha notato non l’ha notato. Cosa? BOOOH. Rileggetevi il capitolo (la seconda parte in particolare) e magari i capitoli precedenti e capirete, se saprete collegare i pezzi. Ricordate: nulla, nulla, è messo a caso.

E ora me ne torno nel mio angolino a fustigarmi. Non c’è bisogno che mi uccidete.

Baci e abbracci,

Federica

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Capitolo 10
*** Delle paure ***


9. Delle paure

Delle paure

Vieni. Inseguimi tra i cunicoli della mia mente tastando al buio gli spigoli acuti delle mie paure.  

[Saffo]

C’è un motivo ragionevole per il quale ti stai arrampicando su quelle scale come un’artista circense? Noi non entreremo di nuovo in quella mansarda, mai più!
   Fissavo a braccia conserte Trish dalla soglia della mia camera, con la coda che premeva fastidiosamente contro il muro. Era stato non tanto il rumore dei suoi passi veloci sul pianerottolo a svegliarmi, quanto piuttosto lo scricchiolio sinistro dell’ultimo gradino, del quale, evidentemente, non si era ricordata.
   Ma le parole Trish e divieto non andavano d’accordo, più di quanto facessero a pugni Trish e rimorso: infatti quella ebbe la faccia tosta di rivolgermi una linguaccia e aprire la porta della soffitta con uno strattone, fregandosene altamente.
   Sbuffando, me ne tornai nel letto ancora caldo. Era inutile ormai fare l’arpia della situazione, considerando soprattutto che i miei cari cugini si erano distrattamente dimenticati di chiudere a chiave lo studio e rimettere le telecamere di sorveglianza online, ed ero più che sicura che questa dimenticanza si sarebbe perpetuata nel tempo. Ragion per cui evitavo di dare aria alla bocca, non avrei comunque ottenuto alcun risultato.
   Affondai la faccia nel cuscino con un sospiro di sconforto. Eravamo tornati a casa alle due, io mi ero addormentata alle tre e mezza ed ero stata costretta ad alzarmi solo cinque ore dopo, ossia la metà di quelle che mi servivano a seguito di una serata – più che altro nottata – del genere. Inoltre, avevo meno di trenta minuti per lavarmi, vestirmi, rifarmi una coda decente e partire per la via della Montagna Spaccata, dove speravamo di trovare un’anima pia gaetana che ci portasse un po’ in giro.
   E a proposito di anime pie gaetane, il rifiuto di Mattia – o la sua idiozia, che fosse voluta o reale – mi bruciava ancora. In realtà mi bruciava anche il fatto che ci avessi provato così spudoratamente, molto in stile donna dai facili costumi o ragazzina in calore, ma il torto maggiore apparteneva a lui: per uno che faceva volontariato, accettare il gentilissimo invito di una povera vacanziera a fingersi una guida turistica per un solo, misero giorno sarebbe dovuto essere più facile che bere un bicchier d’acqua.
   A quanto pare, accontentare un’americana disperata non era nella sua lista delle priorità. Nella mia lista delle priorità, invece, in un punto non ben precisato tra tagliarmi i capelli e urlare al Consiglio e più in generale al mondo intero che Jean è uno stronzo era comparso vendicarmi di Mattia Nardone.
   Un urlo di Chrysta dal piano di sotto mi riscosse dai miei pensieri, rammentandomi che era tardi e nessuno aveva ancora inventato un modo per rallentare il tempo. Perché lei è sempre così gentile.
   Alla fine riuscimmo tutti ad essere pronti con solo qualche secondo di ritardo sulla tabella di marcia, dovuto principalmente al fatto che a Villa Orlando la colazione era un privilegio riservato a chi se la preparava da solo, e nessuno si sarebbe azzardato a compiere un atto di carità nei confronti del dormiglione di turno, nemmeno con la promessa di un cospicuo guadagno.
   In fondo in famiglia i soldi non mancavano affatto: messi insieme lo stipendio ordinario del Conclave, con varie aggiunte dovute alle straordinarie imprese passate e presenti del gruppetto, mamma e nonna Jocelyn che ogni tanto vendevano i loro quadri, i lavoretti occasionali di zio Magnus, papà e zio Alec spesso chiamati in Accademia a tenere lezioni e conferenze e nonno Robert che una volta al mese mandava la paghetta ai suoi cari nipotini, avevamo accumulato un patrimonio abbastanza cospicuo da spartire tra di noi. Così zio Simon aveva rimodernato l’Istituto, papà aveva ristrutturato la villa degli Herondale col pensiero che un giorno potessi andare ad abitarci io – Sì, come no, aspetta e spera, gli ripetevo sempre, specialmente nell’ultimo periodo – zio Magnus aveva contribuito alla costruzione di un orfanotrofio ad Alicante e nonno Luke aveva donato negli anni un centinaio di dollari al rinascente Praetor Lupus.  
  
Per quanto riguarda noi ragazzi, io sinceramente non sapevo quali casse riempire con quelle somme esorbitanti, quindi le tenevo da parte e spendevo il necessario. Chrysta non è che sperperasse il proprio denaro, ma si concedeva qualche acquisto futile che poi buttava nel fondo dell’armadio o regalava a me, senza sapere che io gli avrei riservato lo stesso infelice destino. Trish, oltre a un’insana ossessione per lo shopping compulsivo, cercava di stare sempre al passo con la tecnologia, anche se spesso e volentieri preferiva scambiare l’usato con il nuovo e pagare la differenza, per evitare di rivendere tutto. Logan era un po’ più misurato, ma non risparmiava sui regali, tant’è che più di una volta ci siamo trovati tra le mani un pacchetto all inclusive per una spa della Florida, un biglietto in prima fila per un concerto compreso di accesso al backstage o l’ingresso in un club esclusivo.
   Per cui, di quella vacanza non mi spiegavo tante cose: in primis perché non avessimo preso una stanza di albergo – almeno lì la colazione te la portavano in camera, o perlomeno te la preparava qualcun altro; oltretutto non potevamo dire che Gaeta fosse carente in materia: certo non potevi pretendere il lusso più sfrenato, ma avevo avuto modo di vedere che almeno un hotel aveva ottenuto le cinque stelle ed era anche vicino alla spiaggia, cosa che Villa Orlando non era affatto.
   Poi, perché Gaeta. Nulla da contestare alla piccola cittadina, che in effetti era molto graziosa e sembrava amata dai turisti, ma con tutto ciò che offre l’Italia mi stupivo che i miei cugini, abituati al mare delle Bahamas, all’area urbana di New York e alle altezze mozzafiato degli Appalachi, avessero preferito una meta più moderata invece che puntare allo spettacolare, come, non so, la Costa Smeralda in Sardegna o le Dolomiti.
   Forse avevano visto così tante meraviglie che ormai non si stupivano più, quindi tanto valeva scegliere la mediocrità, per una volta. O forse avevano semplicemente bisogno di tranquillità.
   Dopotutto, la più bisognosa di tranquillità era proprio la sottoscritta, dal momento che parlavo con un Angelo. Sarei dovuta essere l’ultima a poter mettere bocca su quell’argomento, dato che di più assurdo di una conversazione con un tizio splendente quanto l’incarto di un Ferrero Rocher – la mia droga nei mesi in Italia – c’è veramente poco, se non nulla.
   Tuttavia, mi sarei ricreduta.
   E mi sarei ricreduta anche su Mattia Nardone, perché fu lui, qualche tempo dopo, ad introdurmi a qualcosa di ben più assurdo.

 

 

In realtà mi ricredetti su Mattia Nardone non appena vidi la sua longilinea figura aspettarci sulle scale del Santuario della Ss.ma Trinità, i gomiti appoggiati a qualche gradino più dietro e le lunghe gambe distese in avanti. Se ne stava lì seduto, tranquillo, a prendere il sole come una grossa lucertola. Non era esattamente una visione divina – come suggerivano il contesto e la doppia ripetizione della radice sant- nel nome della chiesa – ma, ecco, ci si avvicinava.
   Lo riconobbi soltanto per la mascella alquanto squadrata che caratterizzava la sua silhouette: metà del volto era nascosta da un paio di Ray-Ban dalla montatura spessa, e il vento aveva arruffato i riccioli castani, che la sera prima erano stati pettinati o quantomeno sistemati. Era in perfetta tenuta da scampagnata, con una maglietta leggera sotto una giacca di jeans, pantaloni di cotone e Converse incredibilmente pulite.
   Ci squadrò da sotto gli occhiali, che gli erano scivolati sulla punta del naso, sorridendo sotto i baffi. In particolare si soffermò su Logan.
   Se non mi avesse parlato della sua ex ragazza, avrei detto che era gay. Magari era bisessuale.
   — Lui — furono le sue prime parole, — è l’unico con un po’ di cervello qui.
   L’idiota che mi ritrovo per cugino non perse tempo con i convenevoli, tipo domandargli chi diavolo fosse e perché si rivolgesse a noi, e nemmeno gli chiese di parlare in inglese per poter capire meglio, nooo. Semplicemente si fece arrivare gli angoli della bocca alle orecchie e con una voce squillante dichiarò: — Ma grazie!
   L’italiano si passò una mano tra i capelli. — Come non detto. Comunque, signorine — proferì alzandosi, — io sono Mattia Nardone, e ieri sera ho avuto il piacere di parlare con quella che credo essere vostra cugina, mi sbaglio?
   Trish per poco non sbavava, e Chrysta non era da meno. Cosa ci fosse da sbavare non lo so: non è che Mattia fosse questa grande statua greca, eh. Jean sì che era un tipo per cui versare secchiate di bava. Ma in generale Jean era un tipo per cui avresti fatto ogni cosa possibile su questa terra. Nel bene e nel male.
   Data la scarsa se non nulla serietà delle mie care compagne di viaggio, decisi che per quel giorno – soltanto per quel giorno – avrei messo da parte il rancore nei confronti del signorino Nardone e mi sarei prodigata al fine di non farci fare una pessima figura. Come se a quel punto mi importasse di non fare una pessima figura con lui. Tzé.
   — Sì, sono loro cugina. Ciao.
   Lui si mostrò fintamente sorpreso. — Oh, ma ciao! Non ti avevo vista. Evidentemente ero troppo impegnato a pensare a una frase ad effetto per la mia entrata in scena. — Ghignò. — Allora, andiamo?
   Trish scosse la testa come un cane bagnato. — Andiamo... sì. Quanto vuoi?
   — Nulla. — Mattia si spinse gli occhiali sul naso. — Anzi, specifico, nulla di materiale. Però vi obbligo a non stare mai zitti a meno che non ve lo dica io, la strada è lunga e se non parliamo la fatica si fa sentire. A tal proposito, rinnovo i miei complimenti al baldo giovane, qui: bravo, hai capito che servono i pantaloni lunghi. Ragazze, vi riempirete di graffi e terra.
   Mi voltai verso Chrysta, trionfante. — HA! — esclamai, puntandole il dito contro. — Perché non mi state mai a sentire se sapete che ho sempre ragione? 
  
Logan mi si avvicinò con una falsa aria compassionevole e mi batté una mano sulla schiena. — Perché di secondo nome fai Cassandra. Povera, piccola profetessa condannata a parlare e non essere ascoltata.
   — Di secondo nome faccio Amatis — sbuffai.
   Mattia gli impedì di replicare infilandosi tra noi due. — Okay, non era questo che intendevo con non stare mai zitti. Preferisco condurre conversazioni intelligenti, se non vi dispiace. E suppongo non vi dispiaccia. Oltretutto, ma dalle vostre parti non si usa presentarsi?!
   — Oh, scusa. — Logan gli strinse la mano. — Logan Lewis. Quella bassa con il fisico di Christina Aguilera nei suoi anni d’oro è mia sorella Patricia, detta Trish, e Janet Jackson, lì, è la mia cugina preferita, Chrysta. E poi c’è lo spaventapasseri, non credo di dovertelo presentare.
   — Ma vaffanculo, va’! — Lo spinsi via brontolando. — Un giorno me la pagherai cara.
   — Uuuh, che paura! Così parlò Zarathustra! — Lui mi fece una pernacchia, sputacchiando saliva dappertutto.
   In tutto questo, Mattia ci fissava con le labbra arricciate e un sopracciglio inarcato. — Se continuate così mi farò seriamente pagare. Avete finito?
   — Sì, hanno finito — sibilò Chrysta. — Su, guida turistica abusiva, fa’ il tuo lavoro.
   Mattia ridacchiò. — Subito. Perdonate l’accento, nonostante abbia conseguito il C2 sono ancora carente nella pronuncia. Allo stesso modo, se parlassi italiano non mi capireste, tendo a cadere nel dialetto. — Si infilò le mani in tasca. —Abbiamo tre opzioni: fare chiesa, mano e Grotta del Turco e Montagna Spaccata; prendere la strada principale e vedere le tre polveriere; scegliere la via più lunga e salire fino al mausoleo. Io consiglio le prime due, ci vorranno poco più di un paio d’ore. Il mausoleo è meglio tenerselo da parte per un altro giorno. Ci state?
   Noi quattro ci guardammo negli occhi per un breve momento, poi Logan si fece portavoce: — Ci stiamo.
   Mattia sorrise. — Bene, partiamo!
   Si diresse spedito verso la chiesa, salendo velocemente i gradini che la rialzavano dal livello del terreno. Ci affrettammo a seguirlo. — Qui a dire la verità non c’è molto di interessante. — Prima di entrare si tolse gli occhiali da sole e, una volta arrivato al centro della navata, si fece il segno della croce. Solo allora notai che al collo gli brillava un piccolo crocifisso d’oro giallo. — Ci tengo a sottolineare però che il santuario è stato citato nel Don Chisciotte, e sorge in un contesto abbastanza insolito, dato che il posto è da sempre luogo di fenomeni mistici.
   Toccai la targhetta affissa a uno dei banchi. Il nome del donatore era quasi illeggibile. — Aspetta, mi pare di aver letto qualcosa. È implicata la Montagna Spaccata?
   — La Montagna Spaccata è implicata in tutto. Venite e vedrete.
   Non uscì se non dopo essersi rifatto il segno della croce.
   Nella mia (dis)onorevole carriera da Shadowhunter ho studiato e incontrato molte religioni, ma nessuna di esse mi ha affascinato quanto quella cristiana, soprattutto il ramo cattolico. Ovviamente, avendo a che fare con i demoni, ogni buon Nephilim sa che i nostri più validi alleati mondani sono gli esorcisti ordinati dal Vaticano – anche se persino in quell’ambiente c’è qualche infiltrato del Conclave, specialmente tra le Guardie Svizzere. Seppur con metodi diversi, alla fine combattiamo per la stessa causa.
   Mattia ci condusse oltre un arco, poi svoltò a destra. Davanti a noi si stendeva uno stretto corridoio scoperto, delimitato sui lati lunghi da due muri, nei quali, a intervalli regolari, erano scavate delle nicchie. Ce le indicò. — Le stazioni della Via Crucis, maiolica del 1850 o giù di lì. Per me è tappa obbligata il Venerdì Santo.
   Avanzammo lentamente, seguendo l’ordine delle stazioni. Non ci fu bisogno di descriverle o commentarle: tralasciando il fatto che le immagini parlavano da sé ed erano comunque accompagnate da una didascalia, conoscevamo la Bibbia sicuramente meglio di Mattia. 
  
— Tu fino a che punto credi? — gli chiese Trish a bruciapelo.
   Lui ci pensò un po’. — Dipende — sospirò infine. — I Vangeli di solito li prendo alla lettera, dopotutto è quella la base della mia religione. Fin quando si dice che Gesù resuscita i morti ed egli stesso fa altrettanto mi sta bene, però poi c’è Salomone che evoca i demoni e li costringe a stare ai suoi ordini, e insomma... ma anche no.
   Mi scambiai un’occhiata eloquente con i miei cugini. Era evidente che stessimo pensando tutti e quattro la medesima cosa: Meglio se non parlo. 
  
— Però credo agli angeli — riprese dopo un po’. — Mia nonna li vede, a volte. E ai fantasmi. Quelli li vede mamma, invece.
   E bravo Mattia, due su tre.
   Chrysta rise. — Tu non vedi niente?
   — I film horror. Di qua, venite. — Ci fece segno di stargli dietro. Sembrava camminare quasi in automatico. — Sulla destra, mentre scendiamo, potrete ammirare la mano del Turco.
   — Sì! — A Trish scappò un urletto sorpreso. La fulminai con lo sguardo, e lei di ricambio sillabò “Fottiti”. — È quel fatto della roccia che diventa burro?
   Mattia scosse la testa. — No. È quel fatto della roccia che diventa ricotta. All’asilo ce lo raccontavano così, e guai se lo interpretavamo a modo nostro. — Si fermò davanti all’impronta. — Eccola qua.
   Effettivamente, sul fianco della montagna era ben visibile il segno del palmo e delle cinque dita, diventato liscio per tutte le mani dei visitatori che vi si erano posate sopra. Non riuscii a trattenermi: dovetti toccarlo anch’io. — Wow.
   La nostra guida ridacchiò sotto i baffi. — Già. È la prima cosa sensata che ti sento dire da stamattina, Lorianne.
   Gli indirizzai segretamente una linguaccia. — È Lori-enn, non Lori-ann.
   Alle mie spalle, sentii Logan che sussurrava: — È Leviòsa, non Leviosà!
   — Come ti pare. — Lui scrollò le spalle. — E voi badate a non calcare troppo le T, odio quando mi chiamano Matttia. Comunque, a meno che non vogliate tradurre il latino o l’italiano, la storia ve la spiego io: c’era un marinaio, probabilmente turco, alquanto scettico circa la credenza popolare secondo la quale la Montagna si sarebbe spaccata a seguito del terribile urlo del Cristo poco prima della sua morte. Novello San Tommaso, venne qui, mise la mano sulla roccia e abracadabra, miracolo era fatto. Capirete da soli che questa è pietra calcarea, molto porosa, e con un po’ di umidità in più è facile che si deformi. Andiamo avanti, attenzione che si scivola.
   Nemmeno a farlo apposta, non appena Mattia ebbe finito di parlare Trish evitò un capitombolo aggrappandosi al fratello. L’italiano sbuffò. — Come volevasi dimostrare.
   Scesi gli ultimi gradini, arrivammo in un piccolo ambiente che conduceva a una minuscola chiesetta. Prima di entrare, Mattia ci fece notare una rientranza nella parete della montagna. — Questo è il letto di San Filippo Neri: passava qui molte delle sue notti, vicino alla cappella del crocifisso, che è stata visitata tra gli altri da Ferdinando II di Borbone e Papa Pio IX.
   Logan fischiò, ammirato. — E io che pensavo fosse solo una cittadina di provincia.
   Mattia si finse offeso. — Non insultare Gaeta! — lo ammonì. — È ed è stata custode delle reliquie di Sant’Erasmo, ultima roccaforte del Regno delle Due Sicilie, tremendamente bombardata durante le Guerre Mondiali e centro strategico americano per la Guerra del Golfo. E poi qua hanno inventato la tiella.
   — Tiella? — domandai, confusa. — Pensavo che in dialetto tiella significasse pentola.
   — No, quello è tiana, ma si può usare anche tiella, dipende da dove vai — precisò lui. — In effetti la tiella ha forma circolare, l’etimologia potrebbe essere questa.
   Trish arricciò le labbra. — Che cos’è? Si mangia? Io non l’ho mai sentita.
   — Sembrerà strano, ma si mangia davvero — rise Mattia. — È lo stesso impasto della pizza, ma con litri d’olio in più e steso molto più sottile. I ripieni sono vari, di solito è pesce – polipo, baccalà, calamaretti, alici – e verdure varie, dal pomodorino a broccoli o scarola. E peperoncino. Sempre.
   — Interessante — commentai. — Dove possiamo assaggiarne una fatta bene?
   — A casa di mia... — Mattia si interruppe di colpo, fissando un punto sulla parete davanti a lui. Rimase così per tre secondi buoni, tanto che mi chiesi se non stesse assistendo a un’apparizione divina. — Nonna — concluse, sussurrando. — Scusate, ho... niente. Forse era solo un’ombra. Risaliamo.
   Non spiccicò parola durante tutto il tragitto di ritorno.
   Nessuno di noi altri aveva visto o avvertito qualcosa, neanche Chris, molto sensibile alle presenze di ogni genere. — Magari è soltanto un po’ montato — mi mormorò all’orecchio mentre risalivamo le scale. — O suggestionato.
   — Suggestionato da cosa? — sibilai di rimando. — Non penserai sia stato influenzato dalle rune...
   — Possibile — si inserì Logan. — Chi potrebbe mai dimenticarsi degli infiniti sproloqui di Sikh sui nuovi studi condotti sull’argomento dai Silenti?
   Trish annuì. — Concordo. E poi, Lori, andiamo, tu sei una barra di plutonio radioattivo ambulante, chiunque impazzirebbe con te nelle vicinanze. Senza offesa, eh — si affrettò ad aggiungere. — È la pura e semplice verità.
   Suo fratello mi diede un colpetto sulla spalla. — Sempre detto che i Dursley sono cattivi perché hanno vissuto con un Horcrux per sedici anni.
   — Con te funziona più o meno allo stesso modo — ribadì Chrysta. — Tu hai visioni, la gente ha visioni. Te lo ricordi Francis Argentsang, quando...  
— Sì, sì, me lo ricordo, grazie — brontolai, grata che fossimo tornati di fronte alla chiesa e Mattia avesse riacquistato la voglia di parlare. — Chiudiamola qui, okay? — aggiunsi, mentre la nostra guida allungava la mano in avanti, in attesa di qualcosa.
   — Ehm... — Trish si stampò in faccia un sorriso colpevole. — Dicevi?
   Lui emise un verso stizzito. — Sganciate un euro ciascuno, serve per scendere nella Grotta. — Ci fissò uno ad uno, inarcando le sopracciglia. — E mettetevi l’anima in pace, che sono duecentosettantacinque gradini.
   Ossignore.

 

 

Mattia aveva paura di qualcosa.
   Non smise un attimo di guardarsi attorno né nella Grotta né durante il resto della nostra passeggiata; restò distratto e assente, parlando giusto per farci notare una vipera che si rintanava tra la boscaglia, un cespuglio di mirto profumatissimo o un arbusto di ginestra particolarmente rigoglioso. Dalle parti della terza e ultima polveriera, la Trabacco, che tra l’altro offriva un meraviglioso sguardo sul mare e gli scogli sottostanti, affrettò il passo a tal punto che dovemmo chiedergli di non correre.
   Parve calmarsi un po’ solo quando si sedette sul muretto circostante la polveriera, in attesa che noi facessimo le foto di rito e ammirassimo il panorama, dondolando le lunghe gambe davanti a sé. Mi accorsi che si toccava continuamente il crocifisso al collo, come se potesse infondergli coraggio. Dopotutto, pensai, per un credente come lui in effetti era così.
   Quando fui certa che Chris, Logan e soprattutto Trish fossero abbastanza lontani, mi avvicinai a lui titubante. — Che cos’hai visto — sillabai lentamente, — giù nella cappella?
   Teneva gli occhi puntati a terra. — Non sono nemmeno sicuro di aver visto qualcosa, figuriamoci se so cosa. — Si passò la lingua sulle labbra. — È da ieri sera che mi sento... osservato.
   Tirai internamente un sospiro di sollievo: la teoria secondo la quale ero io la causa della sua suggestione era comprovata. — Dai, sta’ tranquillo, ti sarai immaginato tutto.
   Lui rise, una risata breve, quasi tra i denti. — Ma io non mi immagino mai niente, Lorianne. Dannazione, nonostante la scuola – e sono all’ultimo anno, considera – riesco a fare affiancamento in ospedale, così da ridurre i tempi di tirocinio dopo che mi sarò laureato, vado a correre col mio cane tre sere a settimana, faccio da babysitter a mio nipote e addirittura aiuto i miei al ristorante quando serve... Sono una persona estremamente realista, terrena e materiale, come faccio ad immaginarmi qualcosa?!
   — Be’... — Mi strinsi nelle spalle. — I tuoi genitori o altri parenti sono stati uccisi da un assassino seriale e sei a tua insaputa in un programma di protezione dei servizi segreti?
   Mi guardò di sbieco. — Stamattina erano tutti vivi.
   — Uno spirito evocato da tua madre ti sta perseguitando?
   — Mamma non evoca gli spiriti, ci parla soltanto.
   — Sei invischiato con la mafia?
   Fece una faccia disgustata. — Per l’amor di Dio, no! Assolutamente no, non lo sarei mai. E poi qui non ci sono più i grandi clan di decenni fa, è alquanto improbabile.
   Mi azzardai a dargli una pacca sulla spalla. — E allora è solo stress. Se fossi in te mi stupirei di non essere nemmeno un po’ stressata, con tutto quello che fai.
   — Ma a me piace quello che faccio — ribatté lui con tono lamentoso.
   — E su, Mattia, può capitare a chiunque! — replicai allargando le braccia. — Forse hai ereditato i geni di tua madre e si stanno manifestando solo ora. Forza, non disperare.
   Lui si tormentò le labbra per un minuto buono. Infine disse: — Ma ti pare che una vacanziera americana pressoché sconosciuta deve farmi da terapista?
   Finalmente risi. — Ehi, quid pro quo: tu ti improvvisi guida turistica, io mi improvviso terapista, nessuno viene pagato. Uno scambio equo.
   — Grazie. — Mi rivolse lo stesso sorriso della sera prima, un sorriso sincero e spontaneo. — Andiamo, vi riporto indietro.

 

 

Quindi, ripetiamo: a parte casa di tua nonna, dove posso mangiare una buona tiella?
   La voce di Mattia mi giungeva un po’ disturbata. — Il forno Giordano in Via Indipendenza, ma il proprietario è un...
   — Ehi? Ci sei?
   Lui continuò imperterrito: — Il Mediterraneo sulla salita di Sant’Erasmo, e qui vi obbligo ad assaggiare le cozze al gratin, la zuppa di cozze o qualsiasi piatto comprenda le cozze; la Pizzeria del Porto vicino alla Guardia di Finanza, però questa ultimamente ha perso in qualità.
   — Chiaro. Abbastanza. Cosa dicevi a proposito del proprietario del forno? C’è qualche interferenza nella linea.
   — Ovvio, sono dentro un vicolo. Comunque, dicevo che è un montato del cavolo, si crede chissà c...

   E non terminò la frase.


Per citare me stessa in una NdA di Living the Present, a Natale io non sono più buona, sono più cattiva. E perciò vi lascio con un cliffhanger fino all’anno prossimo MUHAHAHAHA.

Dato che voglio farvi rosicare ulteriormente, beccatevi ‘sto bello snippet da House of Cards (volevo accompagnarlo con la copertina di Wattpad fatta da Althea, ma alla mia cover maker non si mette fretta):


— Tu come ti leggeresti?

— Dall’alto in basso, dal basso in alto e in entrambi i versi della diagonale, cerchiando tutte le maiuscole e anagrammandole in caso possano formare una frase di senso compiuto.

 

Tanto non riuscirete MAI a capire chi sta parlando. *Faccina malvagia*

Poi, restando in tema The Houses, vi ricordate Ghnoti Sauton e Per Ardua ad Astra (che poi in teoria la citazione corretta è Per Aspera ad Astra, ma dettagli), i due spin-off dalla trilogia Past, Present and Future? Bene, sono abortiti entrambi. Non precisamente, ma non esisteranno più come storie a sé. Nelle Houses narro in terza persona, perciò posso fare quel che cavolo mi pare; ergo, preparatevi ai flashback sulla storia di Lorianne e Jean, perché ce ne saranno a bizzeffe. Per quanto riguarda Nathan e Cameron e la creazione del Ministero della Sanità non vi prometto nulla, ma uno degli argomenti trattati nelle Houses sarà la “crisi” del Ministero, per cui nel caso ho diversi punti aperti a cui potermi collegare.

Ritornando al capitolo... mmh, non mi piace più di tanto. Oddio, dipende dalla parte. Però sono contenta di avercela fatta ad inserire, oltre al colpo di scena finale, di cui verrà rivelata la causa nel prossimo capitolo e voi DOVRETE capire quel che sarà sottinteso tra le righe, un easter egg tremendo che solo chi già conosce lo sviluppo della trama (leggasi: me e altre due o tre personcine) potrà cogliere. U_U #likeaboss

Quindi nulla, vi faccio i miei migliori auguri per un buon 2017!   

Un bacione, ciao!

Federica

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Capitolo 11
*** Deficere ***


10. Deficere

Deficere

Deficere est iuris gentium.

Essere irragionevoli è un diritto umano.
 

[Aristotele]

 

VAFFANCULO, Chris! 
  
Infuriata nera, le schiaffeggiai via la mano con cui mi aveva appena arruffato i capelli freschi di parrucchiere. Sul serio, non erano passati neanche cinque secondi da quando ci eravamo richiuse la porta alle spalle e lei già aveva da ridire. Idiota.
   Si ravviò la fluente chioma, noncurante. — Te li ha fatti troppo lisci. Sembrano spaghetti.
   — I tuoi no, eh? — sbuffai di rimando.
   Chrysta gongolò. — Ovviamente no. — Si stampò un sorrisone smagliante in faccia. — I miei sono setosi e voluminosi, guarda che meraviglia, guarda!
   Non guardai per due semplici motivi: primo, ero piuttosto incazzata; secondo, senza quella massa di ricci informi e spettinati che aveva da sempre caratterizzato la sua figura, Chris era alquanto strana. Non che non mi piacesse il suo nuovo look, anzi, le dava un’aria più seria e matura, ma necessitavo di un po’ di tempo per abituarmici.
   Esattamente come avevo necessitato di un po’ di tempo – un bel po’ di tempo – per metabolizzare l’interruzione della chiamata di Mattia qualche giorno prima.
   Ero certa che Mattia non avesse attaccato di proposito né fosse caduta la linea: i microfoni in dotazione ai cellulari erano notevolmente migliorati, ma ancora non riuscivano ad eliminare completamente i disturbi di fondo, come ad esempio il sibilo dell’aria che diventa sempre più forte e lo schianto dell’impatto col terreno.
   Non mi bevevo la teoria secondo la quale gli fosse semplicemente scivolato di mano: alla pari dei microfoni, avevano perfezionato anche la resistenza dei dispositivi agli urti accidentali, così che era quasi impossibile che il cellulare di Mattia si fosse fracassato a tal punto da non potermi richiamare né permettere a me di rintracciarlo in alcun modo, nemmeno con l’aiuto di Trish.
   Oltretutto, checché ne dicessero i miei cugini, io avevo sentito qualcosa dall’altro capo del telefono. Era ovviamente possibile che le mie orecchie mi avessero ingannato, posto che si possa chiamare inganno l’udire un distinto ringhio animalesco pericolosamente vicino.
   Ora, Mattia aveva accennato di avere un cane. Non conoscevo la razza, ma lui aveva detto di andare a correre in sua compagnia, perciò era deducibile che fosse di taglia media o grossa, o quantomeno un cagnolino piuttosto vispo. Era molto probabile che fosse vaccinato contro la rabbia, e ciò mi portava ad escludere l’opzione che avesse potuto saltargli al collo e, Raziel non volesse, azzannarlo. Era comunque plausibile, però, che avesse ringhiato per avvertirlo di un pericolo. O ancora era un randagio.
   In tutti i casi, la rottura del cellulare era perfettamente spiegabile: nella mischia, Mattia avrebbe potuto calpestarlo, idem il presunto aggressore; inoltre, non era così tanto inverosimile che il cane potesse scambiarlo per un giocattolino da mordere, considerata quell’orribile cover arancione fosforescente.
   Una volta tirate le somme, dopo circa tre ore di isteria totale, mi ero calmata e avevo deciso di lasciar perdere. A intervalli regolari controllavo le notizie locali, ma niente di più. In fondo, mi dicevo, se fosse successo qualcosa di fuori dall’ordinario i giornalisti l’avrebbero saputo, no?
   I giorni seguenti, poi, mi convinsi ulteriormente che non c’era nulla di cui preoccuparsi: il liceo scientifico Enrico Fermi continuava le sue lezioni regolarmente, senza macabre interruzioni per annunciare la morte di uno studente; il ristorante dei suoi genitori non era chiuso per lutto; la Polizia e i Carabinieri non facevano più del loro solito – ovvero niente, specialmente i primi; gli unici furgoni che battevano le strade erano i rifornitori dei bar e dei piccoli alimentari della zona, nessun accalappiacani all’orizzonte.
   Affinai le mie abilità di stalking durante quella settimana.
   Il mercoledì arrivò la prova definitiva: il computer di Trish, che lavorava ininterrottamente da domenica sera, trillò nel cuore della notte svegliandoci tutti. Aveva miracolosamente rintracciato l’ultimo segnale del cellulare di Mattia, affidandosi alle informazioni che questo aveva inviato al mio durante la chiamata.
   Il tempo di vestirmi ed ero già sulla scena del crimine: Vico Caetani, poco lontano dal ristorante Lupo di Mare, una breve ma abbastanza cupa scorciatoia per evitare di farsi la salita di Sant’Erasmo e arrivare direttamente nella piazza del campanile.
   Niente sangue. Niente segni di colluttazione. Niente piccole componenti di un telefono sparpagliate in giro. L’unica cosa degna di nota era un lungo, benché non eccessivamente profondo, graffio sul basalto. Poteva averlo fatto un gatto, o il cane di cui sopra, o ancora uno sbadato tecnico della lavastoviglie – parlo per esperienza, l’ho visto accadere, e allora si trattava di piastrelle di gres porcellanato, non porosa roccia vulcanica.
   Insomma, volente o nolente, dovevo lasciar correre e tornare a godermi il soggiorno in Italia.
   Fortunatamente il tempo era assai migliorato, e le tempeste di metà maggio avevano ceduto il posto ai primi caldi afosi della fine del mese. Andammo in spiaggia il venerdì mattina, e restammo lì finché il sole non tramontò, regalandoci uno spettacolo indescrivibile.
   Al contrario di quanto avevo pensato all’inizio, non mi feci molti problemi circa la cicatrice – se così si può chiamare – dietro la schiena. Naturalmente, se mi fossi abbronzata sarebbe risaltata di più, ma avevo intenzione di evitare il sole il più possibile, considerato soprattutto l’alto rischio di scottature. Inoltre, realizzai, era stupido mostrare i marchi e ciò che rimaneva di loro con tanto orgoglio e poi vergognarmi di una porzione di pelle un po’ più bianca del normale. Certo, era un simbolo della mia sottomissione a Raziel e bla bla bla, ma alla fin fine chi altri, a parte me e i miei cugini, poteva saperlo?
   C’è anche da dire che stranamente quel bastardo di un Angelo non mi aveva importunata troppo, durante quel periodo. Le visioni erano poche o nulle, quasi trascurabili, e i sogni talmente semplici da farmi quasi ridere al risveglio. Come conseguenza si erano ridotti anche i terribili mal di testa che mi assalivano ad ogni “attacco di Chiaroveggenza”, per usare le parole di Chrysta.
   Forse, finalmente, il cambio d’aria stava dando i suoi frutti.
   Peccato che la pace sarebbe durata ancora per poco.

 

 

La spiaggia di Serapo, un chilometro o poco più di sabbia dorata e pulitissima, quel giorno era gremita di gente. Prevedibile, dato che era domenica.
   Dall’alto del balcone della mia camera a Villa Orlando, con i capelli che svolazzavano alla brezza profumata di salsedine, osservavo le persone camminare e correre sulla battigia, affaccendarsi ad aprire gli ombrelloni, tuffarsi in acqua o crogiolarsi al sole come grosse lucertole. Sembravano tante piccole formichine, viste da là sopra, sempre in movimento, sempre con qualcosa da fare, anche se quel qualcosa era oziare in previsione della settimana successiva.
   Erano così spensierati, stravaccati su un lettino, a godersi un momento di pausa dalla frenetica routine quotidiana. Si addormentavano, cadevano preda di sonni profondi eppure non affatto ristoratori, mentre attorno a loro una mamma strillava contro i figli indisciplinati, il tizio delle granite e quello del cocco urlavano a gran voce le loro offerte e una comitiva di ragazzi della nostra età chiacchierava un po’ troppo rumorosamente.
   La prima ondata di gente si ebbe alle dieci, la seconda a ora di pranzo, la terza verso le quattro. Gli ombrelloni confinanti con il nostro erano tutti occupati già da prima che arrivassimo noi. E sfortunatamente gli occupanti non erano dei migliori.
   La signora alla nostra destra aveva uno strano modo di ridere, a metà tra una iena isterica e un babbuino in calore. Guai se il sole avesse toccato un centimetro della pelle del tizio di sinistra, peraltro assiduo ascoltatore di una pietosa stazione radio che mandava vecchi successi in dialetto napoletano. La famiglia davanti aveva seri problemi di pronuncia: il marito balbettava, la moglie non articolava bene la s ed entrambi i figli sputacchiavano. Avevo visto quello dietro baciarsi e flirtare pesantemente con tre ragazze diverse in tre giorni.
   C’era qualcosa di gratificante nel riuscire a leggere in tutto quel casino. Logan e Trish preferivano passare il loro tempo in acqua o in giro per i vari lidi a cercare possibili avventure di una notte, ma Chrysta, cosa alquanto sorprendente, restava a farmi compagnia, dedicandosi allo studio di un vecchio tomo dal titolo Della magia sessuale. Ovvio che anche lei cercasse avventure di una notte, ma almeno prima si documentava.
   Calcolai che approssimativamente a intervalli di tre pagine arrivava sulla battigia davanti al nostro lido un venditore urlante la sua mercanzia, da “Cocco fresco cocco bello!” a “Biscotti di Castellammare!” e “Ciambelle calde!”. Ogni capitolo circa, invece, l’altoparlante del bar annunciava un’offerta sui gelati o le granite (“Prendi tre paghi due!”), un bambino che si era perso, l’imminente inizio di una partita di campionato e i relativi goal, anche se per questi bastavano i boati di gioia e sconforto che mi facevano sanguinare le orecchie.
   Non che i miei occhi se la passassero tanto meglio: una volta smarrita la voglia di rileggere il classico Un oplà e un bang: gli Shadowhunters dell’era moderna, avevo optato per una relazione scritta a mano dal caro ex Ministro Ryecatch circa i motivi che l’avevano spinto, dopo la fine del suo secondo mandato, a richiedere un governo di tecnici e non un’elezione subito successiva, data la pericolosa crisi economica e organizzativa in cui versava il Ministero ormai da anni. E si sa com’è la grafia dei medici.
   Abbandonai l’opera quando anche Chrysta fece altrettanto, dichiarando di voler andare a buttarsi in acqua. Mi unii a lei: faceva decisamente troppo caldo per rifiutare. Magari per gli italiani quello era un clima mite, ma a Idris trenta gradi li avevamo solo ad agosto, se era un anno favorevole.
   La bellezza di Serapo si poteva ammirare nel suo insieme solo dal mare. All’estremità in cui calava a picco il promontorio di Monte Orlando, poi, si riusciva ad avere una visuale stupenda della curva della costa, colorata dalle centinaia di ombrelloni, aperti e non, e dalle migliaia di persone, con i loro diversi gradi di abbronzatura e costumi improbabili. Nei pressi della roccia, popolata da moltissime cozze, l’acqua era parecchio più fredda ma anche più limpida, di un turchese straordinario.
   Restammo in ammollo finché fu sopportabile, dopodiché ci facemmo una bella passeggiata lungo tutta la spiaggia, ufficialmente per asciugarci, ufficiosamente per buttare l’occhio su soggetti interessanti e criticare outfit assurdi, tra cui un pareo verde leopardato in fucsia e uno slip maschile eccessivamente sgambato.
   Al ritorno, con noi c’erano anche Trish e Logan, col muso lungo perché non avevano trovato nessuno con cui condividere il letto. Si consolarono con un gelato, a loro parere solo di poco migliore a quelli della Little Italy, ma secondo me infinitamente più buono, e soprattutto molto cremoso.
   Verso le sette cominciarono ad andarsene tutti. Noi aspettammo che venissero a cacciarci i bagnini: il sole che tramontava sull’orizzonte era uno spettacolo da non perdersi per nulla al mondo, in particolare per chi l’aveva sempre visto scomparire dietro i grattacieli, o al massimo toccare la punta di una montagna.
   Lasciai che i ragazzi se ne tornassero a casa e mi avviai nella direzione opposta, verso quello che mi avevano detto essere il vecchio Palazzetto dello Sport. Avevo sentito da qualche parte – e diverse zone della città ne portavano le prove – che Gaeta era ogni anno presa d’assalto da diversi urban artists internazionali, che realizzavano i loro migliori murales durante la notte. Un paio dei reperti delle prime edizioni di questa iniziativa erano dipinti proprio sull’ex Palazzetto, anche se ormai erano scrostati e sbiaditi per via della salsedine.
   Si stava piacevolmente freschi, e dal mare tirava una brezza profumata di iodio. I lampioni iniziarono ad accendersi lentamente, aumentando pian piano la luminosità. Era una luce calda, che ben si integrava col paesaggio e non dava un senso di artificialità. Non ero l’unica a godermi l’ombra della sera: una nonna portava a passeggio il nipotino appena nato, qualcuno accompagnava il cane a fare i bisognini, qualche coppia camminava mano nella mano e due signore facevano stretching appoggiandosi su una panchina.
   Mi sedetti a gambe incrociate sul muretto, osservando il disegno sulla parete anteriore dell’edificio. Non si distinguevano più i contorni, ed erano rimaste solo poche macchie di colore. Quello sul muro laterale, invece, si era conservato meglio, benché avesse perso le tinte accese che sicuramente dovevano averlo caratterizzato nei suoi anni d’oro. Per quello che ero riuscita a capire, entrambi avevano concept piuttosto carini: ne presi nota per i miei schizzi futuri.
   Spinta da uno strano impulso, con un sospiro mi sdraiai sul muretto. Gobba a ponente, luna crescente, pensai, lo sguardo rivolto al cielo. Molto probabilmente, massimo tre giorni dopo ci sarebbe stato il plenilunio. A Idris a volte era difficile dormire in quel periodo, con gli ululati dei mannari nelle orecchie.
   Chiusi gli occhi, stiracchiandomi. Sentivo il suono ritmico delle falcate di una corsa lenta e leggera che si avvicinavano progressivamente. Si fermarono poco lontano da me.
   — Ma allora mi pedini!
   Mattia.
   Alleluia alleluia.
   Scattai su col busto. — Questi sono inconfondibili, eh? — replicai, mostrandogli i Marchi sulle braccia.
   — Già — rise lui, mentre si toglieva gli auricolari e se li infilava in tasca. Notai che non aveva il fiatone; respirava soltanto un po’ più veloce del normale. — Che cos’è, henné?
   — Mmh — mugugnai per tutta risposta. — Tu non devi dirmi qualcosa? — continuai, insinuante.
   — Oh, sì. Piccola zuffa di strada. Cellulare fracassato. E ricorda che sei tu ad avere il mio numero, non il contrario. — Venne a sedersi accanto a me. Fatto da lui, sembrava un gesto quasi automatico, abituale, privo di qualsiasi doppio fine. Piegò con cautela la testa di lato per farsi scrocchiare il collo, ricoperto da una sottile patina di sudore. — Che settimana di merda — brontolò.
   — Cos’è successo? — gli chiesi per istinto, forse in maniera un po’ troppo invadente.
   Lui non parve farci caso. — Interrogazioni in ogni santa materia, compito di matematica, fisica e latino, il mio cane dal veterinario da lunedì mattina, un turno sfiancante nel ristorante di papà durante il quale mi sono anche bruciato con le posate appena uscite dalla lavastoviglie...
   Lo interruppi immediatamente. — Sul serio? — Per miracolo non scoppiai a ridere. — No, non ci credo.
   — Sono molto calde. Devono asciugarsi subito.
   Ero sull’orlo di una risata sguaiata. — E tu le hai toccate a mani nude?
   Mattia mi guardò storto. — Andavo di fretta, okay? C’era il vescovo ad aspettare e ovviamente avevamo apparecchiato col servizio d’ordinanza, non certo quello per le occasioni. Sua Eminenza, non che abbia qualcosa contro di lui, per carità, ci ha fatto una sorpresa nel peggior giorno che potesse scegliere, quando la sala era già mezza occupata da una comitiva di tedeschi urlanti, e io volevo solo restarmene a casa a far nulla. E che cavolo.
   Wow. Poco stressato, il ragazzo...
   Sembrava quasi un’altra persona, completamente diversa dal Mattia che avevo incontrato all’Eneas e rivisto alla Montagna Spaccata non così tanto tempo prima. Di sicuro quel Mattia non avrebbe gesticolato come un pazzo, né tantomeno parlato con un tono talmente isterico da sfiorare le soglie raggiunte da una donna in piena fase mestruale.
   — Ehi ehi ehi, calmo, eh — lo ripresi, lanciandogli un’occhiata ammonitrice. — C’è gente che sta peggio di te.
   Lui rispose con una risatina nervosa. — Sì sì, come no. Può esserci gente che sta peggio di uno che crede di avere una malattia autoimmune senza averne uno straccio di prova, mmh, Lorianne? Mi sento una schifezza da un’eternità, Dio mio, un’eternità! Voglio vedere se muoio prendendomi un raffreddore. — Quasi a rimarcare le sue parole, tirò su col naso. — E menomale che mi ero ripromesso di non cadere nella crisi del maturando.
   Per uno strano gioco di luce, i suoi occhi, puntati in basso, sembravano di parecchie tonalità più chiari. Lo facevano apparire più inquietante, stralunato, quasi non umano.
   Gli diedi una gomitata scherzosa nelle costole. — Una flebo di camomilla e sei come nuovo.
   Mattia si prese la testa tra le mani, intrecciando le dita dietro la nuca. — Altro che camomilla, qua mi ci vuole un Valium. In dose doppia. Facciamo pure tripla. — Si piegò in avanti con un verso lamentoso. — Oh mamma mia, sto uscendo pazzo.
   Stando in quella posizione, Mattia mi mostrava anche il braccio destro. Forse non era un caso che si fosse seduto in modo tale da nascondermelo.
   Allungai la mano per istinto. — Cos’hai fatto qui?
   Lui si rimise dritto di scatto, scacciandomi malamente. — Niente.
   Una grossa ferita guarita da poco non era niente. Era qualcosa. Un qualcosa di molto brutto e di cui Mattia non voleva parlare. Avrei rispettato la sua decisione, benché mi premesse di voler scoprire cosa fosse successo. Ma avevo i miei mezzi per farlo in un secondo momento.
    — Diciamo che ti credo — la conclusi lì, fingendo disinteresse. — Se guardassi me, vedresti che anch’io ho un paio di cicatrici tanto terribili da poter competere con la tua.
   Lui si voltò di tre quarti, poggiando il ginocchio sul muretto. — E perché non dovrei guardarti?
   — Non ho detto questo.
   — Hai usato l’imperfetto, indica distacco. L’hai sottinteso tra le righe — ribatté. — È difficile non guardarti.
   Stavo quasi per arrossire. Poi lui rovinò tutto.
   — Insomma, sei in tenuta da mare. Praticamente mezza nuda.
   Gli feci una pernacchia, sputacchiando saliva dappertutto. — Perché, tu come ci vai a mare?
   — In burkini.
   — Non eri cattolico? — gli chiesi ridacchiando.
   — Mi sono convertito.
   — E soprattutto, non eri maschio?
   Lui mi indirizzò uno sguardo fintamente malizioso. — Questo lo lascio appurare a te.
   — Senti, tizio... — Mi misi le mani sui fianchi, impuntandomi. — Se ci stai marciando...
   — Tranquilla, non ne ho alcun interesse — mi rassicurò subito. — Devo prima far sparire queste belle corna qua. — Puntò gli indici in alto, come a indicarle. — Buttarsi di testa giù da uno scoglio potrebbe servire?
   — A farti finire all’altro mondo, sì — replicai secca.
   — Mi consolo sapendo che nella mia forma da fantasma non ce le avrò più. — Mattia si distese di lungo sul muretto. I suoi capelli mi solleticavano le gambe. — Ossignore, perché dopo più di un anno ci sto ancora male?
   Alzai segretamente gli occhi al cielo. — Non tiriamo fuori l’argomento, per favore.
   Dubitavo che avrebbe sopportato fiumi di parole su quanto è figo Jean ogni volta che lo rivedo in giro per Idris mi frullano le farfalle nello stomaco quanto mi piaceva stare con lui ai bei vecchi tempi. D’altro canto nemmeno io ero disposta ad ascoltare i suoi piagnistei da single cornuto e mazziato, sia ben chiaro.
   Inoltre, ma questa era una cosa ovvia, ripensare a Jean in certi termini mi avrebbe fatto più male che bene. La Sera era un avvenimento ancora troppo recente per poterlo sorvolare.
   — Eppure non mi manca niente di lei, niente — continuò lui imperterrito. — Eccetto...
   — Il sesso — finimmo entrambi all’unisono.
   — Sì, il sesso — ripeté Mattia in tono sognante. — È l’unico aspetto sotto il quale sono il cattolico meno cattolico sulla piazza. Sì ai preservativi e no alla verginità fino al matrimonio. Non c’è alcun reato nel dare te stesso per il piacere.
   — Edonista — commentai, sorridendo leggermente. Con Jean sarebbe andato molto d’accordo.
   — Umano — mi corresse lui. — Perché mai saremmo noi a governare la Terra se non perché siamo l’unica specie che non fa sesso solo per riprodursi?
   Scossi la testa in segno di negazione. — Lo fanno anche i delfini — specificai.
   — Verrà il tempo dei delfini — filosofeggiò Mattia, minimizzando il tutto con un gesto eloquente della mano. — Per adesso ci siamo noi, e questo pianeta lo stiamo mandando sempre di più a puttane — proseguì, la voce ora dura e grave. — A proposito di puttane...
    — Tu hai un assoluto bisogno di fare un test della personalità.
    — ... Pare ci sia un bordello dalle parti di Marcianise. Credevo non esistessero da decenni.
   — È il mestiere più antico del mondo, Mattia — sospirai scrollando le spalle. — Cosa possiamo farci?
   — Io mi ci farei un giro.
   — Ma vaffanculo, va’! — Gli tirai un calcio nello stinco. — Suppongo che nessuno si sia mai meritato un vaffanculo da parte mia dopo così poche ore di conversazione.
   — Felice di essere il primo.
   Scoppiò a ridere di gusto. Notai che sugli incisivi c’erano lievi segni dalla vaga forma quadrata: doveva aver portato l’apparecchio da piccolo.
   Si rialzò all’improvviso con un movimento fluido, stiracchiandosi. — Grazie per aver tollerato il mio bipolarismo.
   — Ma no, sei giusto un po’ lunatico.
   Rise di nuovo. — Ciao, Lorianne.

   Come già avevo immaginato, quella non sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei sentito il suono della sua risata.


*Musichetta iniziale di Star Wars in sottofondo*

Innanzitutto, perdonate l’uso improprio dei due punti.

Seconda cosa, CI HO MESSO POCO PIÙ DI UN MESE, BACIATEMI IL CULO.

Questo capitolo è stato un altro mezzo parto, e non oso pensare ai successivi, che tanto semplici non saranno *sigh*

Il lato positivo, però, è che tra un po’ sarà il momento della grande triade Alea iacta est parte 1 e 2 e Capitolo non ancora intitolato che pensavo di chiamare Noli me tange ma poi ho studiato il verbo nolo e ho capito di star uccidendo il latino, seguiti da La Rupe, tutti e quattro anche detti migliori produzioni pre-Houses, risalenti più o meno ad aprile dell’anno scorso e addirittura novembre 2015. (Perché io faccio progetti a lungo termine).

Pensando a questo, di capitolo, sappiate che il titolo non è riferito soltanto a Lorianne e Mattia, che effettivamente sono irragionevoli, ma anche alla sottoscritta, dato che per scrivere certe idiozie la ragione devi averla spedita alle Maldive.

Sul serio, tutto il dialogo non ha un benedetto senso. Ma... eh, è il miglior modo per continuare a lasciare quelle famose briciole di pane che se seguite porteranno a scoperte incredibili. (Senza pressione: se non volete sfiacchirvi, queste scoperte le farete tutti quanti andando avanti con la storia).

Tale sopracitato dialogo, devo riconoscergli – e automaticamente riconoscere a me – un merito, è stato scritto con un lessico piuttosto studiato. Minimo tre parole sono assolutamente intenzionali e nulla è messo a caso. (Ma non la parte dei delfini. Quella è messa a caso).

Una piccola precisazione e poi vi lascio: tutti i posti citati in questa storia sono realistici al 100% salvo dove diversamente indicato. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone realmente esistenti potrebbe non essere casuale. Quest’estate venite a Gaeta. #OrgoglioGaetano #OraMiCaccianoDaFormia

Un buon 2017 in ritardo, e ci vediamo alla prossima!

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Capitolo 12
*** Licaone ***


11. Licaone

Licaone

Si fe d’un huom’, un lupo empio, e rapace
Servando l’uso de l’antica forma,
Che l’human sangue più che mai li piace,
De’ suoi vecchi desir seguendo l’orma.
 

(Ovidio, Metamorfosi, libro I)

Quella settimana ringraziai di non essere a Idris.
   In quei due mesi o poco meno in cui ero mancata erano successi un bel po’ di trambusti in Consiglio, e di questo ero già a conoscenza grazie alle telefonate di mio padre, ma prima che arrivassero a Villa Orlando delle lettere indirizzate a me e Chrysta non avevo idea che tali trambusti avessero portato a dei seri, seri provvedimenti.
   In uno degli ultimi sogni con protagonista il misterioso lupo avevo notato che le torri di Alicante erano tinte di azzurro, come in tempo di Accordi. In teoria, la ratifica dei Dodicesimi Accordi sarebbe dovuta avvenire nel 2037, come di consueto a quindici anni dalla convalida dei precedenti, gli Undicesimi, nel 2022. Mancava ancora un intero lustro.
   E invece no: alla luce dei recenti avvenimenti, tra cui la crisi del Ministero della Sanità e varie rivolte dei mannari di tutto il globo a seguito della morte per omicidio di ventisei licantropi sul suolo di Idris, di cui ancora si cercava il colpevole – o i colpevoli –, un’extrema ratio del Consiglio aveva ordinato, come mai era successo prima, la firma degli Accordi con ben cinque anni di anticipo.
   Qualche tempo dopo, con la testa di Mattia in grembo, le mani insanguinate e un pugnale d’argento abbandonato poco lontano, mentre urlavo a squarciagola un’unica, inutile parola, avrei aggiunto un altro, terribile motivo alla lunga lista dei già sufficienti presupposti perché avvenisse un evento tanto strano.
   Se la Chiaroveggenza avesse funzionato, forse avrei potuto evitarlo.

 

 

Il Sottomondo di Gaeta, contrariamente a quanto sembrava, era discretamente attivo. Certo non era New York, ma per una cittadina di provincia avere un clan di vampiri, un branco di mannari e una buona rappresentanza di membri del Popolo Fatato era seriamente encomiabile.
   Gli unici a mancare – come, alla fine, anche nel resto d’Italia – erano gli Shadowhunters. Un solo Istituto su tutto il territorio italiano, dalle parti di Roma, e vari Nephilim sparsi qua e là, assemblati in minuscoli gruppetti che messi insieme non contavano più di un migliaio di persone. Non che servissero: la presenza demoniaca nella penisola era, ed è, più o meno equivalente alla presenza di panda rossi in Asia. In fondo, quale entità infernale vorrebbe mai avventurarsi su un suolo così santo e benedetto?
   Risposta: un’entità davvero potente.
   Comprai un libro di leggende locali nella cartoleria sulla salita di Sant’Erasmo. Era la ristampa di un successo abbastanza datato e molto conosciuto dalla gente del posto, un must have per le vecchie e nuove generazioni. C’erano storie di tutti i tipi, dall’origine della rivalità tra Formia e Gaeta ai racconti sulla nascita della tiella, ma tra le tante una in particolare attirò il mio interesse.
   Aveva come protagonista un enorme, maligno serpente, che si era insediato nella piana di Sant’Agostino – una località alla periferia di Gaeta, dalla spiaggia sassosa e dall’acqua fredda e spesso agitata – e aveva reso impossibile coltivare i campi circostanti per via dell’immane terrore che incuteva ai contadini. Nelle notti ventose, il suo fetore si spandeva fino alla cittadina, e a volte il suo terrificante sibilo si confondeva col vento. Le navi passavano al largo da quella zona, poiché la capacità di ipnotizzazione del serpente era tanto forte da attirare i marinai sulla costa, per poi divorarli.
   In molti avevano provato ad ucciderlo: principi, potenti, cavalieri, con bombarde, cannoni, spade e pugnali; uno aveva addirittura proposto di esorcizzarlo col crocifisso, un altro di farlo specchiare per riflettere il suo stesso magnetismo. Inutilmente.
   Finché non arrivò il pazzo del villaggio, un uomo, guarda un po’, di nome Erasmo, il quale, a dispetto della gente che lo scherniva e gli rideva in faccia, decise di tentare un metodo tutto suo per mandare il serpente all’altro mondo.
   Si armò di pazienza e si trascinò fino a Sant’Agostino, dove appese dei formaggi a un cipresso, che poi cosparse di fuoco greco. Attese che il serpente uscisse dalla sua tana e avvolgesse le sue spire attorno all’albero, quindi incendiò il combustibile e se ne scappò a gambe levate.
   Sfortunatamente, gli abitanti del paese non vennero mai a sapere della riuscita dell’impresa a causa dell’eccessiva vanità del vecchio, che aveva voluto usare la macchina volante di sua invenzione per tornare in città ed era precipitato nel suo destino, peccando di superbia.
   Ora, potrei anche essere di parte, ma mi permetto di dire che questo fatto potrebbe effettivamente essere accaduto, con un Demone Superiore nelle vesti del serpente e qualcosa, nel piano di Erasmo, adatto ad ammazzarlo, come un’ingente quantità di fuoco greco, probabilmente benedetto, o un formaggio scaduto sul quale era proliferata una muffa mortale anche per i non umani.
   Per concludere, sì, sul piano demoniaco l’Italia è alquanto carente, ma quando un demone stabilisce di metterci piede... be’, sono cavoli amari.
   Peccato che non tutti i demoni siano come ce li aspettiamo.

 

 

Un demone che non è come ce lo aspettiamo, ad esempio, è mio cugino.
   Avrei dovuto rendermi conto che i gemelli Lewis, Logan in particolare, non sono tipi da appartamento, e pure incatenati riescono sempre e comunque a combinare guai.
   Nello specifico, il guaio combinato da Logan era stato infilarsi nel letto di una vampira che per sua sfortuna era la protetta del signore del clan. Tale signore si presentò a casa nostra la notte tra martedì e mercoledì poco prima dell’alba, tenendo Logan per un orecchio e gesticolando con la mano libera come se avesse dovuto scacciare uno sciame di zanzare particolarmente assetate di sangue. Stette alla povera e assonnata Chrysta scusarsi per lui e, più tardi, fargli una scenata da Oscar, mentre Trish ed io ce ne stavamo sedute sulle scale a sbadigliare di continuo. Finito il teatrino me ne tornai in camera, nonostante sapessi che difficilmente avrei ripreso sonno.
   Dopo una mezz’ora piena passata a girarmi e rigirarmi, prima sul fianco destro, poi sul sinistro, a pancia in su e a pancia in giù, mi alzai e me ne uscii fuori sul balcone a godermi la fresca aria mattutina. Il sole era sorto da pochissimo ma non faceva freddo, e sebbene fossero a stento le sei c’era già qualcuno in spiaggia, principalmente gente che faceva jogging o si concedeva una passeggiata prima di iniziare la giornata.
   Tra le diverse figurine che si muovevano qua e là, una mi strappò una risata: si trovava alla mia estrema destra, cioè a ridosso del promontorio di Monte Orlando dal quale io la stavo guardando, e correva nel modo in cui corre chi è stato scoperto a fare qualcosa di compromettente. Era impossibile da confermare, ma avrei giurato che fosse nuda. Notte brava?
   Nemmeno a farlo apposta, proprio in quel momento un altro reduce di una notte brava mi raggiunse sul balcone. Un iratze appena tracciato gli sfrigolava sul collo, cancellando i segni di un morso piuttosto appassionato.
   — Adesso posso definitivamente considerarmi non fidanzato — esordì, sedendosi con il busto contro la ringhiera per poter far dondolare le gambe nel vuoto. — Menomale che ho già rotto con Tara. Sennò sapessi che...
   — Fammi capire una cosa — lo stroncai sul nascere. — Hai già rotto con Tara ma solo adesso puoi considerarti definitivamente non fidanzato? Che diavolo di senso ha?
   Lui alzò le sopracciglia in un’espressione che urlava ovvietà. — Io ho rotto con lei, lei non ha rotto con me. Secondo il suo punto di vista stavamo ancora insieme, solo che ora l’ho “tradita” e sai com’è... — Si avvicinò l’indice alla tempia con una strana smorfia sulle labbra.
   — Matta.
   — Completamente fuori di testa — convenne lui, enfatizzando ogni singola parola. — Ha mangiato l’ikebana che avevamo in biblioteca, Lori. Mamma ci aveva messo secoli a comporla. E lei in due minuti se l’è divorata. Tutta intera.
   — E perché ti piaceva, scusa? Quella tipa è da manicomio, Logan!
   — Perché — fece mio cugino, di nuovo con quell’aria di superiorità, come se la cosa fosse talmente palese da risultare semplice da comprendere anche a un bambino, — è una gran gnocca.
   — E il fatto che sia una gran gnocca giustificherebbe la sua pazzia?
   — No — si ritrovò costretto ad ammettere, — ma la rende più sopportabile.
   Sbuffai, roteando gli occhi al cielo. — Seguendo questa logica, la smisurata avvenenza di Trish renderebbe sopportabile il suo ignobile comportamento nei confronti della schiera di ragazzi che lei ha lasciato fuori la porta coi vestiti in mano e il cuore sotto i piedi, e non mi pare che sia così, considerate le migliaia di lettere d’amore che continuano ad inviarle – e figurati che pensavo non esistessero più, le lettere d’amore.
   Logan si produsse in una breve risata. — Lorianne, devi comprendere che non tutti siamo monogami come te. Sei stata, quanto, tre, quattro anni con Jean, buon per te, congratulazioni, auguri e figli maschi. Sempre con Jean e solo con Jean, ad amarlo e idolatrarlo sul piano ideologico e sul piano fisico. E infatti si è visto com’è finita.
   Serrai le dita sulla ringhiera. — Logan... — sibilai tra i denti.
   — Sì, sì, okay, perdonami — aggiunse lui velocemente. — Ma il punto è che mentre tu ti sentivi bene a coccolarti con Jean e a pomiciare in quel frutteto di arance io mi sentivo bene a vedermi con una tizia al giorno e Trish con un tizio alla settimana, e non puoi giudicarci sulla base di questo, non più di quanto io possa giudicarti per aver preso una scelta a mio parere sbagliata, ma a tuo parere evidentemente giusta. — Congiunse le mani davanti a sé, ora serio. — Si tratta appunto di scelte, Lori, e fin quando queste scelte non danneggiano nessun altro a parte noi, e intendo danneggiare seriamente, non al livello di cuori spezzati e lacrime inutili, chiunque dovrebbe starsene zitto e farsi i fatti propri.
   Mi mordicchiai il labbro. — Trovala una persona che si fa i fatti propri — dissi piano.
   Stavolta Logan rise più forte. — Ce l’hai davanti a te, Lorianne, non la vedi? E Trish, Chrysta, i tuoi genitori, i miei, zio Magnus e zio Alec, Cameron, persino quel chiacchierone di Nathan, chi altri sarebbero se non persone che si fanno i fatti propri? — Alzò di scatto la testa per guardarmi negli occhi. — Oh, Lorianne, noi sappiamo determinate cose e tu sai che le sappiamo, eppure non le diciamo e tu sai che non lo faremo mai, e ci facciamo i fatti nostri, teniamo la bocca chiusa, non ci fiondiamo in Consiglio ad accusare quella persona che pure si fa i fatti propri nonostante possa liberamente non farseli e accusare te, quella stessa persona che molto probabilmente prenderà il posto di nonno Robert, e tutto questo solo perché tu vuoi che noi ci comportiamo in questo modo. E ancora non hai fede. Complimenti, cugina, vai, continua così!
   Le parole di Logan contenevano un’enorme quantità di verità estremamente difficile da riconoscere e da accettare, per me come per chiunque altro si fosse trovato nei miei panni. Quando qualcuno ti schiaffa in faccia un particolare tipo di argomentazioni, siano anche – come in quel caso – volte soltanto ad affermare che la sua tesi è migliore della tua, è sempre arduo fermarsi un attimo e riflettere seriamente e tranquillamente su ciò che si è detto. È molto più semplice, e più umano, abbandonarsi alla foga del momento e tentare di difendere strenuamente il proprio punto di vista, pure a costo di rimetterci la dignità. Tuttavia, complici forse il paesaggio che mi si estendeva davanti e quel venticello frizzante che portava il profumo del mare, non me la sentii di ribattere e iniziare così una discussione che sarebbe rimasta tale, priva di una qualsiasi reale conseguenza, e che avrebbe solamente contribuito ad inacidire gli animi in tutta la casa.
   Perciò mi cucii le labbra e rimasi in attesa, avvertendo che c’era ancora qualche frase sospesa in aria. E infatti poco dopo Logan sospirò profondamente, pronto a concludere l’arringa: — Ascolta, Lori, ad essere onesto non mi sembra che tutte quelle ragazze con cui sono andato a letto – e non lo nego, erano parecchie – abbiano ricevuto da me qualcosa in più di qualche ora di divertimento; di certo non le ho lasciate con una pagnotta in forno. E sebbene non sia interessato a sapere cosa combina mia sorella con le sue conquiste posso essere sicuro, mano sul fuoco, che non ne abbia mai castrata una. Niente gravidanze indesiderate, niente sifilide, solo decisioni personali e meditate. Abbiamo l’età che abbiamo e assieme ad essa anche una certa maturità, se me lo permetti.
   — Se me lo permetti — lo scimmiottai, con uno scatto nervoso del collo, — anch’io ho l’età che ho e una certa maturità, eppure mi pare che nessuno se ne renda conto.
   Logan balzò in piedi come una molla. — Solo perché abbiamo protestato contro la tua insana idea di farti monaca? Si chiama libertà di parola, Lorianne, lo insegnano ai bambini.
   — Quindi a te l’hanno insegnato quando, il mese scorso?
   Logan fece schioccare la lingua sul palato, scuotendo il capo in segno di disprezzo. — Parla, parla, cara cugina. Di’ pure le cose che vuoi dire e non quelle che devi dire.
   Lo guardai di sottecchi. — Che fai, fino a poco fa blateravi di libertà di scelta e libertà di parola e ora ti contraddici da solo?
   Lui si appoggiò alla ringhiera. — Riconoscine le conseguenze, Lori. Pensa a quello che hai fatto, a quello che non hai fatto, e alla condizione in cui ci hai messi. — Rise. Era inquietante. — Ci andiamo di mezzo anche noi, signorina. Così ci stai danneggiando, e se non sbaglio ho parlato anche di questo. Se non lo so io, quello che ho detto...
   Mi sudavano le mani. — C’è un tacito accordo tra noi due — proferii a denti stretti.
   — Mmm — fece lui, piccato. — E sentiamo, quand’è che avreste fatto quest’accordo? Prima o dopo quella notte al lago?
   — È tacito, Logan...
   — Aspetta! — mi interruppe violentemente, girandosi verso di me. — Di notti al lago ce ne sono state due, per di più una peggio dell’altra. Quando avreste trovato il tempo per stringere questo tacito accordo, eh, Lorianne? — Stava quasi urlando. — Tra un colpo di spada e l’altro? Tra un fiotto di sangue e l’altro? Tra una persona uccisa e l’altra?!
   A quel punto avevo perso la pazienza. — È tacito, Logan, tacito!
   — Vai, vai, continua a ripeterlo, ti piace così tanto quest’aggettivo?
   — Non avevamo bisogno di stringerlo — cominciai, tremando per quanto ero isterica, — perché se si fa avanti lui mi faccio avanti anch’io, e rovinerei Jean più di quanto lui possa rovinare me.
   Logan tacque per buoni trenta secondi. — Strano — disse infine. — Ti ho sempre sentito dire l’esatto contrario.
   — Non è l’esatto contrario! — protestai, gettando le braccia in aria. — Semplicemente, lui ha più prove. Molte più prove. Punto.
   Lui inarcò un sopracciglio. — E queste prove valgono a confronto con la tua testimonianza? La testimonianza di una donna?
   Avevo una voglia immensa di sbattergli la testa contro il muro e poi buttarlo giù, o in alternativa lasciarlo appeso alla ringhiera per le caviglie per tutto il giorno. Trassi un respiro profondo: non potevo dargliela vinta.
   — Logan... — iniziai, con tutta la calma che ero riuscita a racimolare. — Logan, lui ha dieci persone pronte a giurare sulla Spada.
   — E tu no? — ribatté lui in tono lamentoso. — Raziel, Lorianne, sei impossibile!
   — Fammi finire. La differenza sta nel fatto che queste dieci persone hanno visto, voi solo sentito, e per di più l’avete sentito da me, il che vi rende parziali. Ma il punto non è questo. Il punto è... che io non ricordo.
   Logan si bloccò a metà di un respiro. — L’avevo immaginato — mormorò. — Suppongo sia abbastanza normale. Ma la Spada...
   — La Spada non può nulla — spiegai. — Non è una memoria che ho perso, è più come una memoria che non ho mai avuto. Tuttavia so che è successo, ed è una cosa talmente assurda che a volte non credo nemmeno a me stessa.
   Finalmente Logan mi si piazzò di fronte. — Fermati. — Batté velocemente le palpebre. È un vizio di famiglia, lo facciamo per schiarirci le idee. — Cioè ipotizzi che te l’abbiano fatto dimenticare o qualcosa del genere?
   — Sì — asserii. — Bloccato o rimosso.
   — Come zio Magnus con tua madre?
   Annuii di nuovo, senza aggiungere altro.
   Logan sbuffò. — Possibile — ammise, laconico. — Zio Magnus può aiutare.
   Scossi la testa in segno di diniego. — Ho già chiesto a Chrysta.
   — Chrysta non è zio Magnus — rincarò lui. — Ma va bene, Lorianne; se non vuoi ricordarlo avrai i tuoi motivi, e su questo non ho dubbi. Però sta’ attenta. Prima o poi... prima o poi salterà fuori.
   Logan mi diede una pacca fraterna sulla spalla e se ne tornò dentro, lasciandomi a fissare Gaeta che si svegliava. E mentre gli abitanti di quell’infinitesimo pezzo di mondo si ridestavano tranquillamente, qualcun altro non aveva affatto dormito negli ultimi giorni, e altri ancora non dormivano da decenni.
   Raccolsi dal pavimento un piccolo fiore blu tutto stropicciato, caduto di dosso a Logan.
   Anche i vampiri di Gaeta avevano le loro buone paure.

 

 

Come da qualche settimana a quella parte, passammo il weekend a mare. Con la fine di maggio e l’inizio di giugno la cittadina stava cominciando a strabordare di turisti, soprattutto in vista della festa patronale di Sant’Erasmo. Quei pochi ombrelloni ancora liberi furono subito occupati, gli hotel registrarono clienti su clienti e i ristoranti fecero entrare in campo le riserve sia in cucina che in sala. Nel giro di pochissimi giorni l’intero lungomare, rischiarato da grosse luminarie, venne preso d’assalto da stand, bancarelle, camion e camioncini; ai balconi si vedevano bandiere rosse e dorate con l’effigie del santo; il campanile, la cattedrale e la chiesa dell’Annunziata grondavano di fiori e nastri.
   Mi sentivo quasi estranea a quell’esuberante euforia: a Idris non avevamo determinati eventi in cui la comunità tutta si riuniva per festeggiare, e in realtà non ne avevamo nemmeno l’occasione. Nonostante il popolo degli Shadowhunters sia più o meno unito dal punto di vista degli ideali, degli scopi e degli insegnamenti di base, ognuno mantiene le sue tradizioni e i suoi costumi; salvo casi particolari, come le funeste commemorazioni delle Guerre e l’anniversario della fondazione dell’MSS, i vari gruppi culturali restano separati e svolgono da sé i loro riti.
   Essere testimone di una tale situazione mi fece gradualmente sviluppare un senso di disagio nei confronti di quella che prima consideravo casa. Anche se nel corso degli anni sempre più Nephilim si erano stabiliti ad Alicante, eravamo comunque una popolazione abbastanza ridotta. Tutti sapevano di tutti. Eppure era sbagliato dire che tutti conoscevano tutti.
   Invece lì, tra centinaia di migliaia di persone, centinaia di migliaia di anime, visi e corpi, serpeggiava un senso di appartenenza, di fratellanza, di umanità che mai avevo visto prima.
   Era davvero, davvero difficile credere che quell’angolo di paradiso alternativo avesse anche i suoi lati oscuri. Ma quel fiore che Logan si era portato dietro, volontariamente o meno, era un pericoloso indicatore non di una discordia tra due parti, e nemmeno di una guerra, bensì di un potere totalitario e terrificante di una fazione sull’altra.
   Questioni del genere, benché ben nascoste e sconosciute ai più, sono fatali per chiunque. E purtroppo mi si presentò davanti, in un modo tanto imprevisto quanto, paradossalmente, previsto, una delle vittime.

 

 

L’avevo sognato per settimane. Ogni notte. L’avevo incontrato nelle mie visioni. Mi aveva condotto a Mistici e maghi del Tibet. Aveva preso a zampate le torri antidemoni di Alicante. E me l’ero pure trovato di fronte. Senza riuscire a riconoscerlo.
   Cosa più sconvolgente di tutte, si rendeva persino conto di essere un lupo mannaro.
   — Mia nonna ha il vizio di raccontare storie. Tante, ne racconta. A volte sono strane, inquietanti. Un pomeriggio mi raccontò del suo bis-bisnonno Carlo, o quel che era – non azzecco mai il preciso grado di parentela. Carlo era un pescatore, e all’epoca del fatto era in barca con un amico. Era una di quelle barche senza motore, a remi. Verso sera il suo amico cominciò a sentirsi male, a dimenarsi e a gemere. Ordinò a Carlo di vogare, vogare e vogare, il più velocemente possibile. Gli disse di lasciarlo sulla spiaggia e correre via senza voltarsi indietro. Carlo così fece. Alle sue spalle sentiva l’uomo urlare. Anzi, no: ululare. Alzò la testa e vide... vide che era luna piena.
   Lo toccai col fiore di aconito. Gridò.
   E poi si mise a ridere, a ridere come un pazzo.
   Perché pazzo era quello che pensava di essere.
   — Era l’alba, ed ero nudo.
   L’avevo visto. La mattina della discussione con Logan. L’avevo visto dal balcone di Villa Orlando. Correva, incespicando sulla sabbia morbida. Continuava a cadere sulle ginocchia.
   Sarebbe stato bellissimo vederlo più da vicino.
   — Per fortuna tengo sempre dei vestiti di ricambio in cabina. Ho rotto il lucchetto e l’ho buttato via. Per misericordia di Dio il mio cane non mi ha abbaiato contro quando sono rientrato in casa. L’aveva fatto per le due settimane precedenti. È per questo che l’avevamo mandato dal veterinario, perché mi aggrediva. Invece stavolta mi ha leccato il braccio.
   Istinto animale. Era successo tra Cash e nonno Luke, molto tempo prima. Nonno si era tagliato con la carta, e Cash l’aveva subito leccato. Quando nonno veniva a trovarci in periodo di plenilunio, papà doveva portare Cash fuori a fare una passeggiata. Freya, al contrario, si limitava a ringhiare.
   — Un susseguirsi di attacchi epilettici, probabilmente, con annessa amnesia. In passato dicevano che la luna influenzava il ciclo femminile. Si guardava al suo stesso ciclo per stabilire i giorni perfetti per la semina e la raccolta. A questo punto, perché non potrebbe regolare anche un attacco epilettico? Luci lampeggianti possono funzionare da stimolo per un attacco epilettico. Forse a me dà fastidio la luce della luna.
   Luna, luna, luna. Ricordava la luna, e la luna soltanto.
   — Una psicopatia. Teriantropia, per la precisione. Sì, sì, licantropia. Licantropia clinica.
   Si rendeva conto di essere un lupo mannaro. Ma non del tipo che conoscevo io.

   Perché Mattia Nardone era uno scienziato, e mai avrebbe ammesso l’esistenza di qualcosa che andava completamente contro la scienza.

                           


 

Chiamatela ispirazione divina: la domenica delle Palme finalmente pubblico il capitolo di svolta della mia più longeva storia (e sta durando un po’ troppo, questa storia, mannaggia a me mannaggia...). Come al solito perdonate il ritardo, ma stavolta le cause di questo allungamento dei tempi sono state molto più serie, tra problemi familiari uno dietro l’altro che non mi hanno lasciato nemmeno un attimo di respiro, impegni vari e una gitarella a Torino.

A proposito di Torino, BACIATEMI IL CULO: state ora leggendo le parole di nientepopodimeno che la terza classificata assoluta in categoria junior alle Olimpiadi di Italiano, babies! *Si infila gli occhiali da sole al rallenty*

Raziel, quanto sono orgogliosa. Raziel, quanto mi piace. Raziel, quanto mi sto frusciando. (Per gli ignoranti, frusciarsi vuol dire darsi delle arie).

Tornando seri, non ditemi che non avevate capito che è Mattia il famoso lupo perché non ci credo. La questione verrà ovviamente ampliata e ben descritta nel prossimo capitolo, che a livello di difficoltà è più o meno come questo, anche se non sarà un parto altrettanto doloroso. Ci stiamo avvicinando a quei tre capitoli di cui vi ho già parlato nella scorsa NdA e automaticamente ci stiamo avvicinando anche al capitolo La rupe, in cui si scoprirà finalmente cosa diavolo è successo tra Lorianne e Jean.

Venendo a questo, di capitolo, spero di avervi dato una bella soddisfazione con Logan che piglia a male parole Lorianne, perché non credo nemmeno che non la odiate, la odio persino io...

Però amo Mattia, e infatti gli farò passare tante belle cose MUHAHAHAHAHA.

Tenete bene in mente il fatto dell’aconito (che per i non adepti preciso essere soprannominato strozzalupo), poiché, come qualcuno – spero – avrà capito, la presenza di una difesa contro i lupi mannari nel territorio dei vampiri è una cosa piuttosto significativa.

Ultima curiosità e poi vi lascio: la nonna di Mattia comparirà fisicamente più avanti ed è un personaggio interamente modellato su mia nonna. [Ciao, nonna! Probabilmente sei l’unica che legge le mie note dell’autore ]. Inoltre, la storia del bis-bisnonno Carlo, salvo rapporti di parentela differenti, è vera.

Bene, vi lascio qui con gli auguri di Buona Pasqua, Pasquetta, 25 aprile e tutto quello che volete, ci rivediamo al più presto e, mi raccomando, almeno un 30% di voi lettori si faccia sentire, se non per commentare il capitolo almeno per aumentare un po’ il mio ego e farmi le congratulazioni per la vittoria alle Olimpiadi.

Hasta la vista, baby!

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Capitolo 13
*** San Tommaso ***


12. San Tommaso

San Tommaso

24Tommaso, uno dei Dodici, detto Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
25
Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il signore!».
Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi
e non metto il mio dito nel segno dei chiodi
e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». 

[Giovanni 20, 24-25]

 

 

Stai meglio coi capelli corti.
   Mattia non mi guardava in faccia. Teneva lo sguardo basso puntato su di sé, sulle sue braccia che stringevano il nipotino. Valentino, un bimbo meraviglioso di tre mesi massimo, gli stava sbavando sulla spalla, e aveva tutta l’aria di volersi ciucciare pure il papillon.
   Eravamo seduti sul muretto di fronte al suo ristorante, lui voltato verso il mare e io di tre quarti per poterlo scrutare bene. Aveva un aspetto decisamente migliore rispetto a quando l’avevo incontrato la domenica precedente, almeno a livello fisico; sotto il profilo psicologico, al contrario, sembrava aver appena varcato la soglia dello studio di uno strizzacervelli.
   Ovvio, considerando che credeva di essere pazzo.
   Per poco non mi convinsi di essere pazza anch’io, dato che non avevo riconosciuto la sua natura di lupo mannaro nemmeno dopo tutti i sogni e le visioni che mi avevano tanto tormentato a New York. Ma in fondo i veri e tangibili segni della sua licantropia erano pochi, magari giusto la cicatrice del morso sul braccio.
   Pensandoci più approfonditamente, però, mi resi conto non solo che avrei dovuto includere l’attacco di un mannaro tra le tante ipotesi che avevo formulato circa l’interruzione della sua chiamata tempo addietro, ma anche che l’ultima volta che ci eravamo visti, a Serapo, un paio di giorni prima del plenilunio, i suoi occhi erano più chiari certamente non per un gioco di luce. E dire che ero abituata a notare il cerchio giallo nell’iride di nonno Luke in periodo di luna piena.
  Con una riflessione posteriore arrivai alla conclusione che, in parole povere, non è che non ne ero stata in grado, anzi, non avevo voluto mettere insieme i pezzi del puzzle: io quel lupo l’avevo visto morto. Moriva continuamente, quel bastardo, in un infinito, terribile, assillante loop.
   E non è una bella cosa sapere della morte di qualcuno, che tu lo conosca o meno. In quel caso, considerato che si trattava di sogni e non propriamente di visioni, più che sapere della sua morte sapevo che il destino gli avrebbe riservato brutte sorprese, e io gli avrei fatto compagnia. Posto ovviamente che fosse lui quel mannaro, anche se ormai mi pareva abbastanza certo.
   Si risvegliarono in me le speranze, abbandonate quasi definitivamente a New York, che il lupo avrebbe potuto aiutarmi con la questione Jean. Oh, che bello: un ragazzo che nemmeno aveva idea di chi era veramente si sarebbe fatto in quattro per far salire a galla la verità su cosa era successo a dicembre dell’anno precedente in un paese che per lui non esisteva e che coinvolgeva un tizio sconosciuto e una vacanziera americana con una strana abilità nel parlare italiano senza accento. Che grandi speranze.
   Oltretutto, Mattia manteneva la calma solo grazie al nipote. La presenza di Valentino lì aveva il ruolo di freno inibitorio, che gli impediva di alzare la voce, gesticolare come un pazzo o compiere altri gesti avventati, quale ad esempio buttarsi in mare. Sospettai sin dall’inizio che non fosse casuale il fatto che, dopo aver visto fuori dalle finestre del ristorante che gli facevo segno di uscire, avesse prima preso in braccio Valentino e poi mi avesse raggiunta. Lui me lo confermò più tardi: aveva passato col nipote quasi tutta la settimana, dalla fine delle lezioni fino all’ora di cena, salvo quando aveva dovuto fare affiancamento in ospedale.
   La buttò lì, pratico e schietto. Partì parlando della nonna, che abitava nello stesso palazzo del ristorante, e arrivò con una naturalezza pazzesca al pezzo clue del racconto. Probabilmente neanche si aspettava che lo capissi. E invece io avevo capito tutto, persino più di lui.
   Dovevo portarlo sulla strada giusta. Non poteva continuare a credere di avere una strana patologia psichiatrica che forse era anche stata disconosciuta come tale, non poteva presentarsi impreparato alla prossima luna piena. Gaeta era troppo piccola e troppo piena di gente perché potesse permetterselo.
   Gli chiesi di farmi vedere il morso. Mattia si rifiutò; in effetti, per lui non aveva alcuna importanza. Insistetti e riuscii a convincerlo. Mentre Valentino, una volta deciso che la camicia dello zio era stata impiastricciata a sufficienza, giocava con la catenella del ciuccio, Mattia mi mostrò l’avambraccio. Era un brutto, brutto sfregio. — Ti hanno messo i punti? — gli domandai, tentando un approccio clinico.
   Ricevetti come risposta soltanto uno scatto nervoso del collo che non stava a significare né sì né no. — Sono saltati — disse dopo un bel po’. — La ferita si è rimarginata nel giro di mezza giornata, non ho più avuto bisogno neppure della fasciatura. E la cicatrice è parecchio restia ad andarsene, o almeno a ridursi.
   — Non se ne andrà, Mattia — gli annunciai, sincera. — Tantomeno si ridurrà.
   Lui osservò i tentativi del nipote di staccarsi la pinza del ciuccio dalla maglietta. — Con tutto il rispetto, tu cosa ne sai?
   — Mio nonno — gli spiegai, cercando di incrociare il suo sguardo. Guardandomi negli occhi, Mattia sarebbe stato in grado di riconoscere se stavo mentendo. — Anche lui è un lupo mannaro.
   — Mmm — fece, con un’intonazione crescente, sarcastica, che accompagnava un rapido contrarsi e rilassarsi della mascella. — E quindi adesso che intenzioni hai, consigliarmi una casa di cura e prevedere quale sarà il mio futuro da malato psichiatrico? Ho sentito che da qualche parte hanno ricominciato con l’elettroshock.
   Mi concessi una breve risatina. — La seconda opzione è praticabile.
   — L’elettroshock? No grazie. Preferisco una lobotomia.
   — Intendevo prevedere il futuro, idiota.
   — Oh, e come lo fai? — esclamò Mattia, sardonico, degnandosi di scoccarmi un’occhiata sbieca solo per prendermi per il culo. — Nonna legge i tarocchi. Tu invece guardi gli astri? Mi tracci la linea della vita sulla mano? Oppure tiri fuori una sfera di cristallo dalle tasche della giacca dove tieni anche quel pugnale?
   Trasalii, colta di sorpresa. Lui sbuffò. — Sì, certo che me n’ero accorto. Ho l’abitudine di controllare addosso alla gente per vedere se ha qualcosa di pericoloso, lo faccio da quando hanno tentato una rapina al ristorante. Lo sai, tu sei il tipo di persona che mi fa scattare sull’attenti — continuò in tono leggero. — Sei strana, tu. Con tutti quei... cosi stampati sulla pelle e un pugnale che ti sei portata appresso anche all’Eneas e a Monte Orlando. Mi fai l’impressione che mi farebbe un adepto della massoneria o di Scientology.
   Mi chiesi se fosse il caso di rivelargli chi ero in realtà. Forse quello era il modo migliore di sbattergli in faccia le cose come stavano e iniziare ad introdurlo al Mondo Invisibile. Di sicuro non mi avrebbe creduta neanche per sogno se fossi andata avanti con la storia del lupo mannaro: quello era – pur forzatamente – spiegabile con la scienza, o perlomeno con una pseudoscienza. D’altro canto, vedere un disegno che scaturiva a mezz’aria dalla punta di uno strumento privo di un qualsiasi genere di inchiostro, brillava e infine svaniva sotto i suoi occhi avrebbe potuto traumatizzarlo a vita.
   In tali occasioni l’illuminazione o arriva o non arriva, nessuna via di mezzo. E l’illuminazione me l’aveva offerta proprio Mattia su un piatto d’argento. Letteralmente.
   Mi sfilai con cautela il pugnale dalla tasca. Riflettei se mi sarebbe convenuto ferirlo o anche solo toccarlo, ma la vista di Valentino seduto sulle sue gambe mi fece desistere. Perciò semplicemente glielo porsi dalla parte del manico, tenendo la lama tra indice e pollice.
   Mattia sollevò le sopracciglia. — Sì?
   — Scommettiamo che riesci solamente a sfiorarlo? — lo provocai, sfoderando un ghigno di sfida.
   — È uno di quei dispositivi per la difesa personale, vero? — replicò subito lui. — Come minimo dentro ci sono un taser pezzotto e un allarme che mi farà sanguinare i timpani per quanto è forte.
   Scossi la testa, ancora sorridendo. — Non c’è trucco non c’è inganno. Lo farei testare a Valentino, ma sai com’è...
   Mattia schioccò la lingua sul palato in segno di scherno. — Da’ qua, dai. — Allungò la mano, impaziente.
   — No, prima i termini della scommessa.
   Ricevetti di rimando un sospiro esasperato. — Sentiamo.
   — Se vinco io — attaccai, già pregustando il sapore della vittoria, — mi stai ad ascoltare. Nient’altro, tutto qui. Se vinci tu, farò qualsiasi cosa tu voglia.
   Mattia mi fissò per un attimo, poi scoppiò a ridere sguaiatamente. — Ah, Lorianne, tu a me non mi fai fesso! — Era ridicolo, tutto bello convinto che di lì a pochi minuti non si sarebbe ritrovato il palmo coperto di bruciature. Ed era ridicolo pure che fosse caduto nel dialetto dopo aver mantenuto un ottimo italiano fino ad allora, l’accento di stampo napoletano adesso molto più marcato. — Non mi fregherai con questi giochetti psicologici, nossignore.
   Sogghignai. — Chi ci va a perdere di più tra te e me?
   — Appunto — rincarò lui. — Giochetti psicologici.
   — Riformulo. Cosa ci vai a perdere tu?
   Mattia finse di pensarci su. — Il mio preziosissimo tempo.
   — Oh, andiamo, Mattia, se non avessi voluto parlare con me non saresti nemmeno uscito dal ristorante — sbottai, irritata. — Parallelamente, se io non avessi voluto parlare con te ti avrei lasciato qui in preda ai tuoi deliri da psicopatico. Mi hai scaricato addosso una bella patata bollente, signorino.
   — Già. — Mi stava palesemente sfottendo. — E tu mi sei anche stata a sentire senza dire una parola. Chi sta messo peggio?
   — Va bene, Mattia, vaffanculo. Probabilmente non ti è chiaro che con quell’accenno a mio nonno volevo farti capire che io so qualcosa sul tema o quantomeno ne so più di te, e stavo solo cercando un pretesto per metterti un tappo alla bocca e costringerti a prestarmi attenzione, dato che stai stupidamente evitando l’argomento — per poco non urlai, trattenendomi solo per via di Valentino. Povero cucciolo, ormai non aveva più nulla da ciucciare. — Quindi, fammi questo favore, sii ragionevole e comportati da civile!
   Serrando le labbra, Mattia si alzò e mi si piazzò davanti. Si sistemò il nipotino a pancia in giù sul braccio e lo fece dolcemente dondolare avanti e indietro, scatenando un accesso di risa in quella meraviglia di bambino. — Ammira la reazione di paracadute — rincarò ancora, facendo cenno a Valentino che aveva per istinto spalancato braccia e gambe. — Sono così bravo a cambiare argomento...
   — E io sono così brava a infilarti quel pugnale su per il culo...
   Mattia incassò il colpo e me ne rispedì un altro ancora più forte. — Troveresti il passaggio bloccato, le corna sono talmente grosse che arrivano fino a là sotto, risalgono e mi escono dal naso.
   — Non ti dico quanto sono grosse le palle che mi stai facendo girare soltanto per decenza pubblica, guarda.
   Mattia si stampò in faccia un’espressione ammirata. — Te le ho fatte anche crescere, le palle, hai visto che bravo? — Fece una pausa ad effetto, mentre i suoi lineamenti si indurivano fin quasi a sembrare di pietra. — Hai visto che pazzo?
   Roteai gli occhi al cielo. — Ed ecco che riparte.
   — Hai una spiegazione migliore? Sono aperto a suggerimenti.
   Avrei potuto mettermi a cantare l’alleluia per quanto ero contenta. Mattia pareva essersi rassegnato, e ormai aveva iniziato a coccolare il nipote in maniera lenta e meccanica, senza pensarci troppo.
   Mi sistemai a gambe incrociate sul muretto e mi concessi uno sguardo trionfante prima di esordire: — Ammetto che non hai tutti i torti a chiamarla malattia, però sbagli il tipo, di malattia.
   Mattia aveva rialzato la testa non appena avevo detto malattia. — Sì?
   — Vedila come un’infezione — spiegai, — che si è trasmessa attraverso quel morso.
   Lui alzò la mano libera per fermarmi. — No, per favore. Non mi starai veramente parlando di lupi mannari nel senso mitologico del termine!
   — Okay, rigiriamo la frittata — gli concessi. — Mutazione genetica. Va meglio così?
   Mattia si passò Valentino sull’altro braccio, gemendo. — Mica tanto. Gli X-Men mi piacciono finché restano sotto forma di fumetti, poi per amor di scienza o li imprigionerei in un laboratorio o gli pianterei una pallottola nel cervello, e ovviamente annegherei Wolverine e Deadpool, loro hanno il fattore rigenerante.
   — Non lo faresti. — Gli scoccai un’occhiata saputa.
   — Non lo farei, no — ammise. — Mi ucciderebbero prima.
   Ridacchiai. — Io non sto cercando di ucciderti.
   Se aveva colto l’antifona – e l’aveva fatto – Mattia non mi diede corda. — Perché, quale bizzarra mutazione hai tu? Tutti in famiglia hanno gli occhi scuri e tu sei l’unica ad averli verdi? Oooh, wow, che figata, dovrebbero dedicarti un fumetto.
   Strinsi i denti, contenendomi. — Cosa vuoi sentirti dire, mmh, Mattia? Vuoi che ti accompagni al manicomio e ti tenga la manina mentre ti spogliano e ti buttano sotto una doccia di disinfettante? — Allargai le braccia esasperata. — Come può esserti così difficile accettare che potresti effettivamente essere un lupo mannaro se credi a qualsiasi – e dico qualsiasi – cosa ti imponga la tua religione?
   Tirare in ballo la religione era stato un grave, gravissimo errore. Se in precedenza Mattia era solo lievemente infastidito, ora era furioso. — Primo, la mia religione non mi impone un bel nulla. Secondo, il modo in cui la osservo non è affar tuo. Terzo, qua fino a prova contraria quello strano non sono io, sei tu, cara la mia signorina “potresti-essere-un-lupo-mannaro”. Ma ci pensi prima di sparare?
   — E tu ci pensi prima di darmi torto a priori, Mattia? — controbattei, il mento alto a ostentare sicurezza. — Conosco la tua versione, è tempo per te di conoscere la mia. Vediamo quale delle due regge.
   — Come faccio a sapere che non sei una pazza anche tu? — soffiò lui, stringendosi Valentino al petto.
   Sorrisi amaramente. — Tra pazzi ci si riconosce, no?
   Mattia sospirò a lungo. — Dammi quel pugnale, avanti — sbuffò infine, tendendomi la mano in attesa.
   — Non vuoi prima accertarti che non sia tarocco? — lo stuzzicai. La stavo tirando per le lunghe, me ne rendevo conto, ma era fondamentale che capisse che non stavo affatto giocando. — Io te lo consiglio.
   — E sentiamo, come dovrei farlo? — Roteò gli occhi al cielo, senza scomporsi eccessivamente. Mattia era il tipo di persona perfetto per fare l’insegnante: una dose pressoché infinita di pazienza, una certa lucidità anche nei momenti peggiori e un attacco isterico di tanto in tanto, quando una delle due veniva a mancare.
   Riflettei per un attimo. — Al ristorante non usate dei guanti per non lasciare le impronte su piatti e bicchieri? — azzardai.
   Lui annuì. — Ce li ho in tasca. Ma non ci riesco con Valentino in braccio — continuò riluttante.
   Scoppiai a ridere, alzandomi per potermi avvicinare a loro. — Tranquillo, non gli faccio niente. — Quel bambino pesava come tre o quattro cocomeri maturi. — Ciao, panzerotto!
   — Panzerotto è italiano, qui si dice panzarotto — mi informò Mattia mentre si infilava i guanti. Lanciò un’occhiata veloce al pugnale che avevo poggiato sul muretto, mordendosi il labbro. — Come fai a sapere così bene l’italiano? Insomma, in nessun corso di lingua è contemplata la parola panzarotto.
   — Te lo spiego dopo. Ahia! — Quel birbante di Valentino mi stava artigliando i capelli. — Su, la tua sposa ti aspetta — aggiunsi in tono allegro, accennando al pugnale.
   In tutta risposta, Mattia si mise a fischiettare la marcia nuziale. — Davvero molto divertente, signorina.
   — Ricordati la scommessa, signorino.

   — Sì sì sì, vabbè vabbè vabbè — minimizzò lui, sollevando il pugnale con cautela. Lo esaminò attentamente, da entrambi i lati, le lunghe dita avvolte dai guanti bianchi che ne tastavano ogni singolo rilievo e seguivano il filo della lama. — Sono sconvolto, non è tarocco! — fece quindi, ostentando una finta espressione stupita.
   — Perfetto, san Tommaso — approvai sorridendogli. — Ora posalo di nuovo sul muretto, togliti i guanti e toccalo. Io ci proverei soltanto con l’indice, se fossi in te, ma se ami l’avventura...
   — Non amo l’avventura — mi stroncò subito.
   Quanto avrei voluto il potere di farmi materializzare una ciotola di popcorn tra le mani per potermi godere il momento come meritava di essere goduto.
   Nonostante avesse mostrato una certa prudenza iniziale, dopo un po’ Mattia si era stufato e aveva calato l’intero palmo su tutta la lunghezza del pugnale, uscendone dolorosamente ustionato.
   Rimasi a guardarlo soddisfatta per due minuti buoni, aspettando che si riprendesse e realizzasse che la bruciatura sulla mano stava lentamente scomparendo. Quando si fu calmato a sufficienza gli mollai Valentino – quel birbantello mi aveva strappato abbastanza capelli – e lo invitai a sedersi accanto a me sul muretto. Stava ansimando: la scottatura poteva anche essere scomparsa, ma doveva fare ancora parecchio male. 
   — Suppongo che questa sia una prova piuttosto convincente — bisbigliò dunque, gli occhi bassi per l’imbarazzo.
   — L’argento è un buon ripiego, se non è bastato il plenilunio — convenni. — Capiscimi, Mattia: non posso permettere che tu metta a rischio la tua vita e la vita di chiunque lasciandoti all’oscuro di tutto. Devi sapere, con le buone o con le cattive.
   — Ora come ora, preferisco le prime — sussurrò lui, stringendo una manina del nipote che dava segni di stanchezza.
   Annuii comprensiva. — Certamente.
   — Non dovrò dire niente a nessuno, vero?
   — Sarebbe meglio di no — concordai. — Concedi il tempo di metabolizzare innanzitutto a te stesso, poi se vorrai... chiuderò un occhio, ecco.
   Mattia alzò la testa di scatto. — Chi sei tu, un agente dei servizi segreti? Perché dovrebbe interessarti se rivelerò tutto alla mia famiglia o no? Tanto ci andrei a perdere io — mugugnò amaramente.
   — Obblighi professionali — sintetizzai. — Ti spiego ogni cosa, Mattia, ogni cosa, non preoccuparti, ma per favore non mi interrompere se non è davvero importante. Okay?
   Mattia mi diede il via libera con un sospiro. — Vai.
   Mi rigirai il pugnale tra le dita mentre iniziavo a parlare: — Non mentivo, riguardo a mio nonno. È anche lui un lupo mannaro, sebbene la sua storia non sia delle più ortodosse. Questo — accennai al pugnale, — me l’ha regalato lui. Sembra strano, ma è così: un lupo mannaro mi ha regalato un’arma d’argento.
   — Ti prego, non dirmi che l’ha fatto per chiederti di ucciderlo — fece Mattia con un’intonazione a metà tra il sarcastico e il timoroso.
   — No, tranquillo — lo rassicurai sorridendo appena. — Onestamente non so perché l’abbia fatto, ma gli sono molto grata. Oltre ad essere d’argento è benedetto...
   — Vampiri — intuì immediatamente Mattia. — Andiamo bene...
   Mi trattenni dal ridere. — Sì, vampiri. Inoltre attorno all’elsa c’è un anello di ferro. E a cosa serve il ferro?
   — A fare la ruggine?
   — Serve contro le fate — lo corressi sbuffando. — E quelli che a te sembrano disegni sono in realtà rune.
   — E le rune sono per i troll — annunciò Mattia, con l’aria di chi ha appena avuto l’illuminazione del secolo.
   — Non per i troll, ma per qualcosa che ci assomiglia — negai. — Vedi, la Bibbia ha ragione a proposito di Salomone — la buttai lì, per metterla su un piano che lui conosceva.
   Lui mi fissava con un sorriso saputo. — Lorianne, ai demoni ci credo — dichiarò, spiazzandomi. — Lo stesso Gesù ne esorcizza parecchi nel Vangelo. La differenza sta nel fatto che Salomone è Antico Testamento, dove quarant’anni non sta a significare effettivamente quarant’anni e certo noi non siamo nati da Adamo ed Eva; Gesù invece è Nuovo Testamento, ed è quella la base della mia fede. E poi a questo punto sono pronto a credere a tutto — mormorò.
   — E bravo Mattia, un passo l’abbiamo fatto. — Gli allungai una pacca sulla spalla. — Pertanto, se ti dico Nephilim...
   — Ti rispondo che i Nephilim erano figli di uomini e angeli e hanno governato la Terra per generazioni, ma loro erano giganti e tu sei bassa.
   Rimasi di sasso. — Non ho affermato di essere una di loro.
   — L’hai affermato adesso. — Mattia gongolava come un cagnolino accarezzato dietro le orecchie. — Perciò siete veramente giganti e tu sei uscita fuori razza o cosa?
   — Non siamo giganti, ma io sono uscita fuori razza lo stesso — gli spiegai in breve. — La storia della nostra creazione è una bella favoletta: nel 1234 – tra un paio d’anni infatti festeggeremo otto secoli di lavoro tra le ombre per salvare il culo a voi mondani che nemmeno ci vedrete mai, ed è ovvio che la Bibbia si riferisca ad altri Nephilim, se sono davvero esistiti – l’angelo Raziel donò il suo sangue al primo di noi, tale Jonathan Shadowhunter, insieme ai tre Strumenti Mortali e bla bla bla. I miei genitori, e di conseguenza la sottoscritta, hanno anche il sangue di un altro angelo, Ithuriel, per ragioni troppo complicate da esporre. Per cui, Mattia, cos’ho io che gli altri Shadowhunters non hanno?
   — Stando a L’ordine della fenice, la profezia nell’Ufficio Misteri — azzardò lui. — O il naso, dipende dalle interpretazioni.
   — Fai il serio.
   — Ma sono serio. — Si finse offeso. — La profezia. Leggi il futuro, no?
   — Non lo leggo, lo vedo — chiarii. — Complimenti, Mattia, intuito formidabile. Ne avrai molto bisogno, in futuro.
   — Il futuro — sussurrò. — Cosa dovrò fare, in futuro?
   — In un futuro prossimo o in un futuro remoto? 
   Non è bello il tuo futuro, Mattia.
   — Entrambi.
   — Francamente non lo so — confessai a cuore aperto. — Per ora limitati a scendere a patti con la consapevolezza di essere un lupo mannaro, poi il resto con un po’ di fortuna verrà da sé. Goditi l’ultima settimana di scuola e la festa di sant’Erasmo, ma non appena sarai libero dalla maggior parte degli impegni dovrai cercarti un branco, non puoi restare da solo. Non siamo noi Shadowhunters ad occuparci di queste cose solitamente, ma ti daremo tutto l’aiuto possibile, fidati.
   Daremo. I tuoi cugini? — Non era precisamente una domanda.
   — I miei cugini — gli confermai. — Tranne Chrysta, lei è una Stregona.
   Mattia abbassò la testa e rimase a guardare il nipote, ormai addormentatosi, per quello che parve un tempo interminabile. Io invece riposi finalmente il pugnale al sicuro nella tasca della giacca, dopo averlo tenuto in mano senza un apparente motivo fino ad allora.
   Sobbalzai quando Mattia decise di provare a conversare, spezzando quell’innaturale silenzio: — Hai presente il bis-bisnonno Carlo?
   Neanche quella era una domanda, ma Mattia sembrava in attesa. Gli risposi di sì.
   — La nonna mi ha raccontato che un giorno, mentre rammendava la sua rete seduto sul molo di fronte al campanile, fu disturbato da un ragazzo straniero. Il tipo era vestito in modo austero, con giacca e pantaloni dal taglio sartoriale, ma aveva i capelli in disordine, sabbia dappertutto e la manica sinistra alzata. Sul braccio c’erano degli strani simboli neri, come impressi a fuoco. Come i tuoi.
   — Uno Shadowhunter — intuii.
   Mattia annuì. — Sì, suppongo. Carlo probabilmente pensò fosse un pirata, cose così. Comunicava abbastanza bene in italiano, senza accento. — Mi scoccò un’occhiata di sbieco. — Come te.
   — Abbiamo una runa apposita – sì, questi tatuaggi sono rune, come quelle sul pugnale — gli spiegai. — Altre Lingue. È utile anche per i linguaggi demoniaci.
   Lui rise brevemente. — Perché, i demoni parlano?
   — Insultano, più che altro, ma dipende sempre dal tipo di demone con cui hai a che fare.
   Mattia si mordicchiò il labbro. — Lo incontrerò mai un demone, Lorianne?
   — Può darsi — asserii. — A volte i mannari si uniscono a noi nella lotta contro il male. In effetti, tra tutti i potenziali compagni di battaglia voi lupi siete i più fidati. Oltretutto anche voi siete per metà demoni.
   — L’infezione di cui parlavi prima, giusto?
   — Giustissimo.
   — Wow, ne sto azzeccando una dopo un’altra. Sono un mostro.
   Scoppiai a ridere e gli tirai una gomitata scherzosa. — Visto? Non era difficile.
   Mattia scosse la testa freneticamente. — Adesso non è difficile, ma questione di un’ora massimo e riprenderò a credere di essere pazzo, sicuro al cento percento.
   Ridacchiai. — Puoi sempre chiedere a Valentino di testimoniare il contrario.
   — Se devo affidare la mia sanità mentale alla memoria di un bimbo di tre mesi... — gemette lui. — Tra l’altro ha dormito per tutto il pezzo clue, comunque non potrei farlo.
   — Affidala a me, allora — gli proposi, ardita.
   — Sì, a una che se ne va in giro con un pugnale d’argento benedetto e... runizzato in tasca!
   Gli feci l’occhiolino. — Almeno sei certo di avere la schiena coperta.
   Mattia sbuffò. — Non ho proprio nessun’altra opzione, eh?
   — Perché, ti sto antipatica?!
   — No, ma mi fai una paura fottuta — svelò lui con riluttanza. — Non che i tuoi cugini siano meno terrificanti, ora che penso a loro come... Shadowhunters, hai detto?
   — Shadowhunters, esatto. — Mi alzai in piedi respirando a fondo, e Mattia mi seguì a distanza di qualche secondo. Gli tesi la mano. — Buona fortuna, Mattia.

   Lui me la strinse. La sua tremava un po’. — Buona fortuna anche a te, Lorianne, col tuo tentativo di portarmi sulla retta via. E la Madonna ci accompagni. 


Solo tre settimane di attesa. Amatemi.

Sto esultando peggio di quando mi arriva la notifica di un commento. Questo capitolo è stato molto più semplice di quello che mi aspettavo, anche se ha comunque richiesto un impegno non indifferente, e finalmente la storia entra nel vivo, alleluia alleluia.

A meno che non mi faccia altri conti (cosa alquanto improbabile), vi annuncio che il prossimo aggiornamento sarà quadruplo. Eh già, è arrivato il momento della famosa triade. Alleluia alleluia pt. 2.

Stavolta non faccio una NdA lunghissima, per vostra fortuna, ma ci tengo a precisare una cosa: non so se qualcuno di voi ha letto Incontri, la OS su James Herondale e Grace Blackthorn, ma vi invito caldamente a farlo, capirete poi il perché (o almeno spero...).

Bene, mi raccomando, non lesinate su voti e commenti e fate contenta questa povera scrittrice che puntualmente assillate per sapere quando arriverà il prossimo capitolo.

Buon ponte del primo maggio, à bientôt!

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Capitolo 14
*** Anna ***


13. Anna

Anna

 

 

A mia nonna, seconda mamma e maestra di vita.

 

 

 

36C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. 
Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza,

37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni.
Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere.

38
Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio 
e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
 

[Luca 2, 36-38]

 

 

OSSIGNORE! Ma tu assommi sempre?!
   E menomale che l’avevo avvertito. — Faccio cosa?
   — Assommi. Compari così, dal nulla, puf!  
  
— No, non assommo — replicai. — Sono solo molto silenziosa, e tra l’altro avresti dovuto sentirmi con il tuo nuovo udito da licantropo.
   Mattia gemette lamentosamente. — Il mio nuovo udito da licantropo ha un difetto di fabbrica: funziona come gli pare a lui.
   A quanto pareva, il signorino aveva la tendenza a precipitare nel dialetto quando era nervoso. — Impiegherai del tempo per abituarti a queste capacità, così come ti ci vorrà un po’ per essere completamente padrone della trasformazione — gli spiegai, — ma un giorno sarai capace anche di resistere alla luna piena, se avrai acquisito abbastanza controllo.
   — Controllo?! Cos’è, si mangia?
   — Smettila di fare il cretino, per favore — lo redarguii secca. — Sei in territorio nemico e hai bisogno di tutta la tua lucidità.
   Mattia socchiuse gli occhi per ripararsi dal sole. Stando a quel che mi aveva detto, il giorno della festa di Sant’Erasmo era successo qualcosa che l’aveva fatto infuriare a tal punto da frantumare le lenti degli occhiali che stringeva in mano. Sospettavo fossero implicati l’ex fidanzata e l’ex migliore amico di cui mi aveva parlato all’Eneas.
   — Non ci credo che i vampiri si siano veramente stabiliti qui.
   Lo scheletro dei vecchi cantieri navali Italcraft si stagliava davanti a noi. L’insegna rossa era a malapena visibile sui muri scoloriti e scrostati dalla salsedine; la ruggine ricopriva ormai tutto il ferro presente nella struttura, disegnando chiazze rosse sull’intera superficie dell’edificio.
   Tra un buco nell’intonaco di qua e un cornicione pericolante di là, l’unica nota stonata di quella straziante immagine di abbandono erano le finestre: tutte chiuse, intatte e coperte da pesanti drappi neri.
   Mattia me le indicò con un cenno del mento. — Mi hanno sempre detto che il nero ai vetri stava a simboleggiare il fallimento e la rovina dei cantieri — sospirò. — Che desolazione, un’eccellenza italiana andata allo sfacelo...
   — Non possiamo farci nulla, Mattia — tagliai corto, impaziente. — Su, veloce: più sale il sole, meno possibilità abbiamo di trovare qualcuno sveglio.
   Mattia fece un verso ammirato quando sbloccai il cancello cigolante con una runa. — ... Figata. La voglio anch’io una di queste cose.
   — Impazziresti, con una di queste cose — brontolai, facendo forza per spingere in avanti quell’ammasso di ferraglia. — Esistono delle rune valide per voi Nascosti, ma sono più che altro per occasioni particolari come i matrimoni, sebbene non sempre siano usate; di solito in quei casi si sceglie la cerimonia mondana. I miei nonni si sono sposati soltanto scambiandosi le fedi, per esempio.
   — Capito. C’è qualcos’altro di importante che dovrei sapere?
   Gli feci segno di seguirmi al di là dell’ingresso. — Dovresti sapere degli Accordi — riflettei, mentre scandagliavo con lo sguardo l’intero fabbricato alla ricerca di una possibile entrata. — Sono una serie di patti stipulati per la prima volta nel 1872 e rinnovati ogni quindici anni alla presenza di dieci rappresentanze del Mondo Invisibile per ogni razza. Per la cronaca, li stiamo violando in questo preciso istante.
   Mattia si produsse in una risatina nervosa. — Che bello.
   Gli scoccai un’occhiata sbieca sogghignando. — Te la stai facendo sotto, eh Mattia?
   — Un tantino — fu costretto ad ammettere. — Non sono esattamente il tipo da operazioni sottobanco.
   Mi fermai davanti alla porta d’ingresso. Su quella serratura arrugginita una runa sarebbe stata sprecata, perciò mi limitai ad aprirla con un calcio. — Non è sottobanco, è solo non autorizzata. E dato che è il capo di un Istituto a poter autorizzare cose del genere e un Istituto qui non c’è... possiamo dire che ho preso l’iniziativa. — Gli allungai una pacca amichevole su una spalla. — Tranquillo, Mattia, nessuno dei due ci rimetterà le penne.
   — Parla per te — lo sentii sussurrare debolmente, prima che avanzasse per starmi dietro.
   Il cambio di temperatura tra l’esterno e l’interno era considerevole, così come la repentina mancanza di illuminazione. Avevo dimenticato la stregaluce sul tavolo di Villa Orlando, quindi per ovviare al problema mi tracciai una runa di visione notturna e avvertii Mattia che le sue pupille si sarebbero abituate presto al buio. Lui non ne sembrava molto convinto, però, e procedeva con immensa cautela.
   Cautela che imitai, tenendo il pugnale a portata di mano. Adesso che sapeva cosa potevano fare quei pochi grammi di argento, Mattia stava ben attento a tenersene alla larga.
   L’ambiente era spoglio e umidiccio; tuttavia, niente faceva intendere che una volta lì ci fossero stati dei macchinari o degli uffici, nemmeno un singolo pezzo di mobilia o un mucchio di calcinacci. Tutto era incredibilmente pulito, per quanto possa essere pulito un posto del genere.
   Tale situazione mi lasciò così sorpresa che faticai ad accorgermi della fila di vasi addossati al muro che costeggiava l’intero perimetro del piano. Bloccai Mattia e preferii andare a controllare da sola, realizzando cosa vi cresceva: aconito. Lo stesso fiorellino blu che Logan aveva addosso più di una settimana prima.
   — Ti senti bene, Mattia? — gli domandai, pur già conoscendo la risposta.
   — Non eccessivamente — disse infatti lui. — Ma, su, credo sia normale, no?
   — Lo è, sì — asserii indicandogli i fiori. — Strozzalupo.
   — Oh. Ehm... okay. — Strinse le labbra in una strana smorfia. — Wow. Bel nome. Spero non ce l’abbiano con me in particolare.
   — Suppongo ce l’abbiano con tutti i licantropi, purtroppo e fortunatamente per te. — Mi chinai per osservare meglio le coltivazioni. — Molti gambi sono recisi. Ci sarà strozzalupo sparso dappertutto.
   — Esatto. E, in realtà, ne portiamo anche un po’ in tasca.
   Se a me venne quasi un infarto, non oso immaginare cosa possa aver provato Mattia quando un vampiro comparve all’improvviso ai piedi delle scale.
   Per essere attivo a quell’ora della giornata, ipotizzai, doveva essere, se non il signore del clan – che conoscevo perché aveva gentilmente accompagnato a casa Logan tenendolo per un orecchio – quantomeno il suo secondo. Di certo la sua immagine rifletteva un alto grado sociale, ma a differenza di altri vampiri che avevo incontrato costui otteneva quell’effetto solo con un abbigliamento assai curato: sebbene si mostrasse rigido e autoritario, almeno a primo impatto, qualcosa nella sua postura suggeriva che quell’impostazione non era affatto naturale, bensì il frutto della pratica e dell’abitudine. Apparentemente era giovanissimo, forse giusto un paio d’anni più grande di me, e non doveva essere tanto lontano nel tempo neanche il giorno in cui aveva smesso di invecchiare. Fingeva di respirare; notai che Mattia ne era scioccato.
   Fu proprio su Mattia che il vampiro concentrò la sua attenzione, comunque mantenendo le debite distanze. Io, per contro, mi ci avvicinai. — Lorianne Herondale, Shadowhunter fuori servizio. Non sono qui su ordine del Conclave.
   Il Figlio della Notte spostò gli occhi da Mattia solo per rivolgermi uno sguardo contrariato. Dalla sua pronuncia traspariva un leggero accento anglofono. — Questo lo so. Cosa mai avremmo potuto fare di male standocene qui al fresco a bere sangue che sa di plastica? — Si rivolse a Mattia con un sospiro stanco. — Un’altra vittima, vedo.
   — Aspetti un attimo — mi intromisi, sollevando le sopracciglia in un’espressione incredula. — Cosa intende con “un’altra”?
   — Cosa potrei intendere? — ribatté lui, la lingua che schioccava sprezzante sul palato. — Non sono una fata, Herondale, non parlo per enigmi.
   Incrociai le braccia sul petto, mentre un brutto pensiero iniziava a farsi strada nella mia mente. — Pertanto intende...
   Quello annuì in silenzio.
   — Raziel — imprecai sottovoce.
   Intravidi Mattia prendersi la testa tra le mani. — Signori, per favore, potreste attenervi a una conversazione comprensibile anche ai non Mondoinvisibiliani? Grazie — gemette sonoramente.
   Il vampiro si leccò le labbra pallide, poi scosse brevemente la testa e prese a salire su per le scale. — Silas Housley — fece, e lo interpretammo come un invito a seguirlo. Lasciai che Mattia mi precedesse per potermi guardare le spalle. — Non sei la prima Nephilim che viene a farci visita, Herondale — proseguì Silas in tono divertito. — Né peraltro sei la prima Herondale che incontro.
   — Immagino — ridacchiai. — Noi Herondale siamo pochi ma spuntiamo dappertutto.
   Silas si arrestò davanti a una porta sul pianerottolo e ce la tenne aperta per farci accomodare in quello che sembrava un vecchio studio. Spontaneamente Mattia ed io puntammo il divanetto; all’altro restò la sedia girevole dietro la scrivania. — Esatto.  Peccato non abbia avuto il piacere di avere a che fare con i membri più... illuminati della vostra famiglia. — Come a rimarcare le sue parole, accese la piccola abatjour nell’angolo. Solo ora potevo vederlo nei dettagli: biondo, pallidissimo e smunto, privo della tipica corporatura marmorea della sua specie. Non sembrava essere molto in forma.
   Mattia lo fissava stranito, busto proteso in avanti e mani strettamente intrecciate. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la sua impresa fu stroncata sul nascere da un fiotto di sangue che gli cadde sul mento. Gli erano spuntate le zanne.
   Silas si raddrizzò contro lo schienale della sedia, deglutendo. L’odore del sangue ormai impregnava la stanza. Per istinto, Mattia ringhiò. Quel suono mi fece impressione, a sentirlo provenire da lui.
   Il vampiro ormai soffiava come un gatto. Il desiderio di fame per poco non era visibile.
   Balzai in piedi e mi frapposi tra i due, che da un momento all’altro si sarebbero saltati addosso spinti da forze maggiori della loro volontà. — Smettetela, tutti e due — intimai nel mio miglior tono autoritario. — Mattia, asciugati quel sangue. Datti uno schiaffo in faccia per far rientrare le zanne o un ceffone te lo tiro io. E tu calmati, Silas. Dopo potrai mordere me, anche se non so quanto ti converrà.
   Mattia mi diede subito retta, mentre ci volle un po’ più di tempo per far placare Silas. Quest’ultimo alla fine si produsse in un esagerato sbuffo di circostanza e si scusò per l’impulsività, incolpando qualcuno o qualcosa di cui non riuscii ad afferrare il nome.
   Calò il silenzio per un po’. Mattia si leccava via meticolosamente il sangue dal labbro, una volta ripulitosi il mento con un fazzolettino. Potevo quasi toccare la tensione di Silas.
   Fu lui a riprendere parola, quando fu certo che ogni traccia del liquido rosso fosse svanita: — Perciò volete informazioni sui licantropi.
   Mattia teneva lo sguardo basso. — Mi pare di capire che non è una novità.
   — No, non lo è — concordò Silas con un cenno del capo. — Sfortunatamente, non posso esservi d’aiuto. Sapete, anni fa un grande saggio ha detto: “Vai dalle fate per gli ultimi pettegolezzi sui vampiri e dai licantropi se vuoi pettegolezzi sulle fate, ma non spettegolare mai sui licantropi, perché quelli ti strappano la faccia a morsi.”
   Sorrisi. — Conosco questo grande saggio.
   Un guizzo divertito della mascella tradì l’espressione seria di Silas. — Lo conoscevo anch’io, Magnus Bane. Ero con Lily Chen al Dumort, finché non arrivò Stephen Herondale e la uccise.
   Mi lasciai cadere sul bracciolo del divano con un verso di sconforto. — Avevi ragione, non hai avuto l’onore di incontrare Herondale illuminati — dichiarai amaramente. — Così sei scappato?
   Lui annuì. — Unica destinazione, Gaeta.
   — Scelta casuale o motivata? — intervenne Mattia, sempre animato da spirito patriottico quando si trattava di proclamare tutti i pregi della sua città.
   Assai motivata. — Il vampiro pose l’accento su “assai”. — Herondale aveva dei contatti, qui. Aveva saputo di Gaeta tramite una vecchia storia di famiglia, forse un antenato venuto a visitarla o cose del genere. Fatto sta che Stephen trovò pane per i suoi denti, e io trovai una scusa per potermi subito integrare nel clan.
   — Hai finto di essere un suo messaggero — intuii, e lui me lo confermò. — Il trucco più vecchio del mondo.
   — Sono vecchio anch’io.
   Mattia tossì di proposito per attirare la nostra attenzione, poi raccolse tutto il suo coraggio e si rivolse direttamente a Silas: — Parlami di quell’antenato, per favore — mormorò titubante.
   Colsi immediatamente il suo riferimento. Eravamo a quota due racconti della nonna rivelatisi reali. — Tutte le storie sono vere, Mattia.
   Lui emise un grave gemito sconsolato. — Questo l’avevo già inteso.
   — Non so nulla di questa persona, mi dispiace. — Silas ci scrutava con un sopracciglio alzato. — E, sia ben chiaro, nonostante sappia più di quanto voglia sapere sull’argomento, non ho la benché minima intenzione di parlarvi dei mannari.
   Mattia sprofondò nei cuscini sospirando. Con i capelli tutti arruffati sembrava molto più piccolo. — Ti ringrazio lo stesso.
   Silas si concesse di sollevare appena gli angoli delle labbra. — Ti ringrazio io per non insistere.
   — Sei determinato — ribatté Mattia, — e con la determinazione non si discute.
   — Sicuro, Mattia? — gli domandai dubbiosa. Lui parve ritornare sui propri passi per un breve attimo, ma infine fece segno di sì con la testa e a quel punto cedetti anch’io. — Grazie per il tuo tempo, Silas.
   Il vampiro finalmente sorrise da orecchio a orecchio. — Per le vostre gentili maniere vi farò un regalo. — Se possibile, allargò ancora quel sorriso enigmatico. — Santa Lucia. Cercate l’edificio con lo stemma dei Durazzo.
   Mattia scoppiò un una gioiosa risata liberatoria. — Mia nonna è di Santa Lucia.
   — Il tuo regalo sarà ricambiato. — Strinsi calorosamente la gelida mano di Silas e Mattia fece lo stesso. — Un’ultima cosa.
   — Certo.
   — I lupi mannari... — cominciai, non sapendo bene come continuare.
   — Sono camorristi.

 

 

Non avevo mai fatto caso al colore di quel palazzo: quattro piani dipinti di un giallo ocra con una cornice bianca attorno alle aperture, infissi d’alluminio scuro e ringhiere di ferro nero. Ciò che lo rendeva particolare era la sua vicinanza al mare e al campanile: avrei scommesso oro che dalla terrazza come da qualsiasi finestra o balcone la vista fosse a dir poco spettacolare.
  — È stato costruito nel dopoguerra — m’informò Mattia. — L’ascensore risale a una quindicina di anni fa, e già all’epoca era lento come una lumaca. Oltretutto per avviarlo ci vuole una chiave, che io non ho. Per cui, saliamo a piedi.
   Per uno scherzo del destino sua nonna abitava all’ultimo piano. Arrivai di fronte alla porta della casa con la lingua penzoloni e le gambe gonfissime – caldo maledetto.
   Mattia bussò tre volte. Ci aprì una signora sulla settantina che mi arrivava a stento alle spalle, dai capelli cortissimi castani e gli occhi dello stesso colore schermati da occhiali senza montatura. Spinse Mattia in casa dopo averlo salutato con un buffetto sulla guancia, poi mi sorrise e mi strinse la mano. — Sono Anna, molto piacere.
   Buffo, metà del mio nome era uguale al suo. — Lorianne, piacere mio. — Ricambiai istintivamente il sorriso e la stretta, era troppo adorabile.
   Mi fece entrare e mi condusse fino alla cucina, che in realtà equivaleva alla sala da pranzo. L’appartamento era minuscolo, con un solo bagno, un piccolo soggiorno e una camera da letto che affacciavano sul mare. C’era l’impianto di raffreddamento acceso, per fortuna.
   Senza aspettare un invito mi feci cadere su una delle sedie attorno al tavolo. Mattia mi imitò subito, e anche Anna ci seguì dopo averci versato due bicchieri di succo ghiacciato. Per sé preferì l’acqua del rubinetto, a temperatura ambiente. — A cosa devo la visita? — esordì scrutandomi da dietro le lenti.
   Mandai giù il succo il meno avidamente possibile per non sembrare maleducata, ma suppongo di non aver ottenuto ottimi risultati. Mattia non rispondeva, limitandosi a bere con un sorrisetto divertito stampato sul viso, così ci pensai io: — Principalmente motivi... logistici, ecco, ma Mattia riteneva che dovessi conoscerla.
   Anna fece su e giù con le sopracciglia in direzione del nipote, che ricambiò ridacchiando. — Oh, dammi del tu Lorianne. E sì, Mattia non ha tutti i torti. — Allungò la mano verso il mobile alle sue spalle e tirò fuori da un cassetto un oggetto di forma quadrata. — Mattia sa anche cosa succede in questi casi. Lui dice che lo faccio per saggiare l’intelligenza del mio avversario, ma in realtà è solamente perché mi piace.
   Capii cos’aveva in mano solo quando lo mise sul tavolo: una scacchiera. — Sono una campionessa a scacchi — commentai. — Gioco da quando avevo sette anni.
   — Non sottovalutare nonna — mi avvertì Mattia. — Non ha mai perso nemmeno una partita, credimi, e ha sfidato mezza Gaeta vecchia.
   Anna mi lanciò un’occhiata astuta. — Vedremo. Bianchi o neri?
   — Neri — scelsi, per lasciarle la prima mossa.
   — Io faccio squadra con te — disse Mattia. — Almeno in questo modo abbiamo una minima possibilità di batt... — Lo interruppe il cellulare che squillava. — Accidenti — imprecò. — È l’ospedale, chiameranno per l’affiancamento. Mi dispiace Lori, dovrai vedertela da sola. — Si alzò e sparì in salotto. Coglione.
   Anna mosse in avanti un pedone. — Nome interessante, il tuo. Così simile al mio.
   — Già — sussurrai, concentrata sulla scacchiera. Alla fine puntai anch’io su un pedone.
   Lei decise di spostare una torre. — Anna e sue varianti o composti non sono rari tra noi Veggenti, sai.
   Trasalii e serrai i pugni, tanto terrorizzata quanto sbalordita. Raddrizzai un cavallo che avevo fatto cadere con uno spasmo del braccio. — Mattia gliel’ha... te l’ha detto?
   — No — negò pacatamente. — So riconoscere chi ha il mio stesso potere, soprattutto chi come me è sotto l’influenza di Raziel.
   Di questo Mattia non era al corrente. Non poteva saperlo, non gliel’avevo mai nemmeno accennato. Così compresi che le parole di Anna erano assolutamente veritiere. — Spiegami tutto, per favore.
   — Secondo la Cabala ebraica Raziel è l’Arcangelo della Chiaroveggenza, oltre che dell’Intuizione e della Conoscenza. — Giunse le mani. Notai che aveva gli occhi completamente bianchi, come accadeva a me quando avevo le visioni: non era un riflesso del vetro, era reale. — La maggior parte di noi Veggenti è tale proprio a causa sua. Alcuni per un motivo, alcuni per un altro. Ad esempio io non ci sono nata, ma lo sono diventata. Quando mio marito fu ricoverato a Milano iniziai a desiderare di poter guardare nel futuro per avere delle certezze. Pregai, pregai e pregai, giorno e notte. Raziel mi ascoltò.
   — Non ci credo — replicai. — Non è così magnanimo.
   — A volte no, è vero — ammise. — In realtà dipende da molti fattori.
   Balzai in piedi e mi piegai in avanti, furiosa. Anna rimase impassibile. — E allora perché a me non ha mai dato una singola soddisfazione? — sibilai tra i denti. — Perché io sono da sempre la sua schiavetta da torturare e vessare ogni santissimo giorno? Perché ho paura di me stessa e di cosa sono capace?
   — Perché non lo conosci — argomentò. — Non ti conosci. E ciò che non si conosce fa paura. 
  
Trattenni il fiato per un attimo, poi espirai, riconoscendo che il ragionamento di Anna non faceva una piega. — Come posso imparare a conoscermi, dunque?
   — Ognuno percorre la propria strada — ribatté Anna filosofica. — Dovrai scegliere la tua via e avventurartici senza aiuti.
   — Naturalmente — borbottai, secca. — Raziel è anche l’Arcangelo Eremita. Quello che sta da solo.
   In fondo sapevo che ero destinata a una vita solitaria. Da quando avevo pochissimi anni avevo allontanato tutto e tutti, mi ero allontanata da tutto e tutti. Non potevo permettermi di avere nessuno al mio fianco. Come Raziel, dovevo essere un’eremita.
   Anna spezzò il silenzio: — Sono stati i tuoi genitori a scegliere il tuo nome, Lorianne?
Mi parve una domanda alquanto fuori luogo, ma risposi comunque: — Sì, mia madre, poco dopo il parto.
   — C’erano altre opzioni? — mi chiese.
   — Be’, papà aveva pensato a Leigh... — Sussultai, mentre una rivelazione sconcertante mi appariva alla mente. Mi afflosciai sulla sedia e mi presi la testa fra le mani. Tremavo. — Leigh-Anne.
   Anna allungò le braccia sul tavolo e si stiracchiò. — Alla fine è sempre Raziel a decidere come dobbiamo chiamarci. Sapeva che un giorno avrei ottenuto il potere, idem per quanto ti riguarda. Siamo sotto la sua ala dal nostro primo vagito, Lorianne. Che lo vogliamo o no, lui ci ha designati come suoi emissari sulla Terra.
   — Così non fai altro che avvalorare la mia tesi — brontolai. — Siamo i suoi schiavi. — Abbassai lo sguardo sulla scacchiera e mossi la regina.
   Anna fece saltare un cavallo. — La tua visione della situazione è offuscata da troppi dubbi e troppe preoccupazioni.
   — Niente di più corretto — ammisi mestamente spostando una torre. — Il dubbio che il mio posto non sia questo, e la preoccupazione che Raziel possa far soffrire le poche persone che mi sono rimaste vicine.
   Fissai la scacchiera malinconicamente. — Questi pedoni non giocheranno mai la partita. — Li indicai con un ampio gesto della mano. — Resteranno lì a guardare impotenti, mentre i pezzi attorno a loro decidono le sorti del conflitto. Se vinceranno, o se perderanno. Se mangeranno, o se saranno mangiati.

   — Esatto — disse Anna. — Ma ricorda che, a volte, sono proprio i pedoni a far pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte. — Ne mosse uno verso destra. — Scacco matto.

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Capitolo 15
*** Alea iacta est ~ Parte prima ***


14. Alea iacta est - Parte prima

Alea iacta esT ~   parte Prima


“Take a breath, take it deep
Calm yourself, he says to me”

 

Il vicolo era angusto e stretto. Tra i palazzi c’era a stento un metro, e dalle finestre di quello di destra si poteva sbirciare in quello di sinistra. Insomma, la parola privacy lì non esisteva.
   — Dio, come si fa a vivere così? — sussurrò Mattia, incredulo. — Nemmeno fossimo nel dopoguerra.
   — Già — concordai. — Sembra tutto meno che la residenza di un clan di lupi mannari camorristi.
   — Non ti fermare alle apparenze — mi avvertì lui. — A Secondigliano tempo fa sequestrarono la villa di un boss. Esternamente era una topaia, ma dentro faceva invidia alla Reggia di Versailles.
   — Voglio crederti — replicai scoraggiata. — Non vorrei essere venuta qui inutilmente.
   Mattia esitò un attimo, poi mi passò il braccio attorno alle spalle e mi strinse teneramente. — Ehi, andrà tutto a meraviglia.
   — Non dovrei essere io quella preoccupata — osservai. — Tu piuttosto come stai?
   — Abbastanza bene — gracchiò grattandosi la nuca. — Il pugnale d’argento è a portata di mano?
   — Sì, tranquillo — lo rassicurai tirandogli scherzosamente un pugno alla mascella. — Andiamo, dai.
   Tracciai una runa d’Apertura sulla serratura di un portone di legno che si aprì cigolando. Entrai per prima e Mattia mi seguì trepidante.
   Ci trovammo in un ampio atrio adibito a casinò: lungo le pareti c’erano file e file di slot machine, di fronte alle quali diversi tavoli da poker e da biliardo davano bella mostra di sé. Proprio al centro della stanza era stata scavata una grossa piscina piastrellata in ceramica verde e blu, ai cui angoli svettavano delle fontane in stile romano raffiguranti uomini lupo che versavano l’acqua dalle fauci.
   Ogni cosa era stata lucidata alla perfezione; non c’era nemmeno un granello di polvere.
   — Ed ecco dove vanno a finire i nostri soldi — sospirò Mattia. — Che vergogna.
   Feci per replicare, ma un rumore pericolosamente vicino mi mise in allarme. D’istinto avvicinai la mano alla tasca dei pantaloncini dove avevo infilato il pugnale.
   Tre tizi sbucarono da una porta nascosta nel muro. Quello al centro era chiaramente di parecchi gradini della scala sociale più in alto degli altri due, che invece parevano essere lì controvoglia.
   Gli scagnozzi vestivano di nero: camicia e pantalone di fattura sartoriale dall’aria molto costosa, ma un po’ stropicciati e consumati.
   Al contrario il boss era decisamente più colorato, e al suo confronto avrebbe fatto impallidire persino zio Magnus e Chrysta. Lo smoking crema era abbinato a una camicia a fantasie geometriche rosse e arancioni; nel taschino della giacca c’era un fazzolettino di seta che richiamava i colori dei calzini marroni a pois rossi. Al collo aveva l’immancabile croce d’oro, gigantesca e a dir poco pacchiana, e al polso un orologio Cartier da almeno trentamila euro. Come tutti i capiclan che si rispettino era grasso e pelato, e sulla testa calva spiccava un paio di Ray Ban modello classico.
   — Shadowhunter — esclamò con un ghigno sprezzante nella mia direzione. — Avevo sentito che in città erano arrivati dei Nephilim. Di dove siete? Inghilterra? Stati Uniti?
   — Idris — chiarii. — Alicante. E veniamo in pace.
   — Ragazzina, hai fatto irruzione nella nostra dimora, non credo proprio. — Il boss gonfiò il petto, ed ebbi seriamente paura che l’unico bottone superstite potesse abbandonarlo. — E per di più portando con te un ostaggio.
   Mattia, fino ad allora rimasto in totale silenzio, intervenne gridando: — Non sono il suo ostaggio! Sono ostaggio della mia licantropia, della licantropia che uno di voi mi ha trasmesso!
   — Esatto — confermai. — Chi è stato? — Li scrutai ad uno ad uno. Ormai le mie dita erano strette attorno all’elsa del pugnale. Se i mannari avessero mostrato anche il minimo segno di non voler collaborare sarei passata alle maniere cattive. — Lascerò correre se il morso è stato inflitto per sbaglio, o meglio ancora da un lupo alle prime trasformazioni, ma se vengo a scoprire che l’avete fatto apposta... — Tacqui con un sorriso di circostanza.
   Il boss mi guardò per un infinitesimo secondo, poi scoppiò a ridere. — Che ci fai? Ci uccidi? Non puoi. Tecnicamente non abbiamo commesso nulla di sbagliato.
   — No, non vi ucciderò — negai. — Vi consegnerò alla giustizia. E non a quella italiana.
   — Il vostro Clave non mi fa né caldo né freddo — continuò il boss imperterrito. — Quindi non ho paura a rivelarti che il morso era intenzionale.
   Mattia smise di respirare. Lo sentii ringhiare. — Bastardi!
   Il boss gli si avvicinò pericolosamente ostentando un sorrisetto irritante. — Bastardi? Bastardi? — lo schernì. — Noi ti abbiamo dato un’opportunità. Vedi di non sprecarla andandotene imprudentemente in giro con quella feccia degli Shadowhunters. — Distolse lo sguardo da lui e lo puntò su di me. — Ma ammetto che la compagnia di cui ti sei avvalso stasera è alquanto intrigante.
   Mattia scoprì le zanne e fece per balzare in avanti, ma io lo frenai all’ultimo momento. — Sono off-limits — scattai, tenendo fermo Mattia per il braccio. — Inoltre provengo da una relazione complicata.
   — Lori, non parlarne — sibilò Mattia, la voce alterata dai canini che, notai, gli stavano tagliando il labbro. — Non è esattamente il momento migliore per slittare nel futuro, come
ti ricordo che ne hai ampiamente discorso mentre venivamo qui fai ogni volta che ripensi a questo Jean.
   — Chiudi quella boccaccia — sbottai furiosa. — E non permetterti di alludere a Jean come se non fosse altro che il motivo delle mie visioni. È una persona, Mattia. O almeno lo è stata.
   Uno sbuffo del boss bloccò Mattia prima che potesse replicare. — Non ho tempo per i vostri litigi infantili e per sapere quante persone si contendano il tuo amore, Shadowhunter. — Agitò una mano guantata in aria come per scacciare una mosca piuttosto fastidiosa. — Ho una richiesta da fare al giovane licantropo.
   — Oh. — Mattia fece rientrare le zanne, colto di sorpresa. — Su, dica.
   — Seguimi. — Il boss girò sui tacchi e mosse qualche passo verso la porta da cui era apparso, poi si voltò nuovamente e mi indicò con un dito accusatorio. — Tu resta qui, ragazza. È una cosa tra lupi mannari.
   — Ma non ci pensate nemmeno! — proruppi estraendo il pugnale. Sia Mattia che il boss trasalirono. I due brutti ceffi, più lontani, si limitarono a deglutire. — Mattia, mi hai chiesto di accompagnarti. Di guidarti. Di proteggerti, anche se in modo implicito. Quindi scordati che ti lasci andare da solo.
   Il boss prese a ridere sguaiatamente tenendosi la pancia che strabordava dai pantaloni. — E chi saresti tu per dare ordini a me?
   — Sono Lorianne Herondale — dissi con orgoglio facendo volteggiare il pugnale in aria.
   — Herondale — sussurrò il boss. — Mmm, interessante. Il tuo nome è molto conosciuto nel Mondo Invisibile.
   — Il mio nome o il mio cognome?
   — Entrambi.
   Mattia diede un colpetto di tosse. — Ehm, Lori... la situazione sta diventando alquanto imbarazzante.
   — Stai zitto.
   — No, sta’ zitta tu!
   Il boss sospirò sonoramente e batté le mani due sole volte, ma abbastanza da farci tacere entrambi. — Va bene, potrai venire con noi, Shadowhunter.
   Ed ecco che tornava a chiamarmi Shadowhunter. Quel “ragazza” allora gli era scappato. Tuttavia non avevo tempo né intenzione di contestare il modo in cui mi stesse apostrofando. Rimisi il pugnale in tasca. — Forza, andiamo.
   Accompagnato dai due leccapiedi, che gli stavano dietro come se avessero dovuto reggergli lo strascico, il boss ci portò in una stanzetta nascosta nel muro, una specie di studio dominato da una grossa scrivania di legno massiccio.
   Trattenni il fiato.
   Era lo stesso posto della mia visione al JFK.
   Presto sarei stata incatenata alla scrivania. Presto avrei sentito gli spari e il fruscio della pugnalata. Presto due persone sarebbero morte.
   Con un sussulto mi accorsi che una di quelle due persone sarebbe potuto essere Mattia.
   Come mi aspettavo gli scagnozzi mi afferrarono per le braccia e provarono a stringermi una corda attorno ai polsi, ma io mollai un calcione nello stomaco a quello di destra e una ginocchiata nelle parti basse a quello di sinistra e ripresi il pugnale.
   Però non potevo cambiare il mio destino. Ero riuscita ad evitare che mi legassero, ma solo momentaneamente. Sarei comunque finita su quella scrivania, anche se non capivo come.
   Quei bastardi me ne diedero subito un’idea.
   All’improvviso sentii un ago infilarsi nel collo, e un liquido freddo e denso si fece strada nelle mie vene.
   Lasciai cadere il pugnale e mi accasciai sulle ginocchia, poi sul pavimento, da un momento all’altro debole, stremata, stanca, sfiancata, come dopo aver combattuto in prima linea per un’intera giornata.
   A stento capii che i due lupi mi avevano sollevata da terra e poggiata sulla scrivania, e stavano iniziando a bloccarmi polsi e caviglie.
   Quando si allontanarono da me il boss e Mattia presero il loro posto. Entrambi non proferivano parola, cosa che mi pareva abbastanza strana, soprattutto per Mattia; mi chiesi se l’Alpha avesse il potere di zittire un Beta, ma lo trovavo improbabile. Forse la scena aveva colpito Mattia a tal punto da fargli perdere la voce.
   Girai la testa – fortunatamente libera – verso il boss. In qualche bizzarro modo riuscii a trovare le forze per sibilare: — Che cosa mi hai fatto? — infondendo nel tono quanto più veleno possibile.
   — Ho semplicemente bloccato le trasmissioni neurali tra i tuoi muscoli volontari e il tuo cervello — spiegò lui come se stesse leggendo la ricetta di un dolce. — Sei del tutto impotente. Secondo te avrei mai potuto permettere che una Shadowhunter interferisse negli affari privati dei lupi mannari?
   Facevo un’enorme fatica a muovere labbra e lingua. — Interferire con i vostri affari è il nostro lavoro.
   Il boss ghignò e aprì un cassetto. La scrivania tremò leggermente sotto di me. — Non in questo genere di affari. — Rivolse l’attenzione a Mattia, immobile come una statua di sale e con un’espressione terrorizzata stampata sul viso. — Lo confesso: non so perché ti ho morso. Di solito mi prendo un po’ di tempo prima di decidere quale sarà la mia prossima vittima, ma con te è stato tutto velocissimo. E non capisco ancora cos’abbia tu di tanto interessante, ad essere sinceri. Quindi devi dimostrarmelo.
   — Io non dimostro niente a nessuno se non a me stesso.
   — Adesso mi stai dimostrando che sai rispondere solo con frasi fatte — replicò il boss gesticolando con una mano mentre con l’altra frugava nel cassetto.
   Già, come se lui parlasse meglio.
   L’Alpha trovò ciò che stava cercando e lo mise sulla scrivania. Dal suono intuii che fosse qualcosa di metallico, piuttosto pesante, e ne ebbi la conferma quando alzò l’oggetto e lo tenne fermo a mezz’aria davanti agli occhi inorriditi di Mattia.
   Una pistola a tamburo. 
  
La pistola che più tardi avrebbe sparato. 

 

  “If you play, you play for keeps
Take the gun, and count to three”

 

   Mi sarei irrigidita per la paura se solo non lo fossi già stata.
   Il boss ficcò di nuovo la mano guantata nel cassetto e ne trasse due proiettili, che dalla perizia con cui li maneggiava capii fossero d’argento. — Hai il cinquanta percento di possibilità di restare vivo e altrettante chance di morire — disse con voce completamente atona prima di infilare i proiettili nel tamburo e porgere la pistola a Mattia. — Adesso puntati questa alla testa e spara.
   — No! NO! Mattia, no! — Provai con tutta me stessa a muovere un braccio, e inaspettatamente ci riuscii. Era questione di minuti prima che riacquistassi il controllo sul mio corpo.
   Naturalmente, ora che le cose stavano cominciando a prendere una piega favorevole, comparve un altro ostacolo ad intralciarmi.
   Uno dei due ceffi balzò in avanti e atterrò in forma di lupo sulle mie gambe a un ordine del boss, che ficcò a forza la pistola nella mano di Mattia serrandogli le dita sull’impugnatura.
   — Mattia, non farlo! — urlai a squarciagola, ma lui aveva già accostato la canna dell’arma alla sua tempia. — MATTIA, NON FARLO! 
  
Mi sentivo una stupida, una sciocca, un’inutile ragazzina che era capace solamente di ripetere sempre le stesse parole.
   Non dovevo permettere che Mattia si sparasse, non potevo permetterlo, e non volevo, e invece eccomi lì, con la schiena contro un piano di legno e un licantropo addosso, a strillare inutilmente come l’insulsa protagonista di un film dell’orrore da quattro soldi.
   Mattia avvicinò l’indice al grilletto, lo piegò, chiuse gli occhi. Poi si fermò di colpo. — Non voglio morire così.
   — Non è detto che morirai — insinuò il boss in tono di scherno. — Spara, Mattia. Dimostrami di avere coraggio da vendere, e vi lascerò andare. 
  
— Pensavo che sarei morto vedendo il mare — continuò Mattia. — Voglio vedere il mare.
   — Da qui non puoi — ribatté l’Alpha, impaziente. — Puoi immaginarlo, però.
   — Mi aiuti a immaginarlo, dunque.
   — Bene — rispose l’altro con una singolare inflessione di voce di cui non afferrai il significato. — C’è una distesa d’acqua azzurra, calma, piatta come una tavola, spezzata dalle creste delle bianche onde spumeggianti. E ci sono gli scogli, grigi e marroni, marroni come questo fazzoletto. — Tirò fuori il fazzoletto dalla tasca della giacca.
   E me lo premette sulla bocca.
   Annaspai, improvvisamente a corto d’aria, e tentai di reagire, ovviamente senza risultati.
   Mattia fece per scattare verso il boss, ma questi si fece scivolare in mano una piccola misericordia e la spinse contro la mia gola. — Attento, Mattia. Se azzardi un altro movimento che non sia premere il grilletto, la tua fidanzata ci lascia le penne. In realtà, ci lascerà le penne anche se non ti sparerai entro un minuto.

 

“I’m sweating now, moving slow
No time to think, my turn to go”

 

   In quel momento, con un tempismo tremendo, ricordai una cosa. Gli Angeli hanno bisogno di meno ossigeno rispetto agli umani. I loro – e i miei – globuli rossi sono più piccoli.
   Prima che potessi riuscire in qualche modo ad avvertire Mattia di questa scoperta dell’acqua calda, lui aveva già fatto la sua scelta.
   Per un millisecondo interminabile pregai perché non ci fosse il proiettile in canna e che il tentativo del boss di giocare alla roulette russa fallisse miseramente.

   Ma il colpo partì.

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Capitolo 16
*** Alea iacta est ~ Parte seconda ***


14. Alea iacta est - Parte seconda

Alea iacta est ~ Parte seconda

 

“And you can see my heart, beating
You can see it through my chest
Said I’m terrified but I’m not leaving
I know that I must pass this test

So just pull the trigger.”

 

Il colpo partì.
   Il colpo partì, e io scoppiai a piangere.
   Il colpo partì, e il proiettile uccise.
   Il colpo partì, ma c’era qualcosa che non quadrava.
   Era troppo vicino a me. Il suono dello sparo proveniva dal punto dove si trovava Mattia, ma avevo sentito il fruscio del proiettile a dieci centimetri dal mio orecchio.
   Raccolsi tutto il mio coraggio e mi costrinsi ad alzare gli occhi su Mattia.
   Aveva uno sguardo spiritato, quasi folle, le labbra serrate in una linea sottile; era proteso in avanti e teneva la pistola nella destra, il braccio leggermente tremante per il peso e per il gesto appena compiuto.
   In un modo tanto inconcepibile quanto ammirevole era riuscito a sparare al boss.
   E per di più gli aveva sparato con una mano sola, senza poter mirare e senza la possibilità di contenere più agevolmente il rinculo dell’arma. Oltretutto c’era il rischio che in canna non ci fosse il proiettile, e che quindi Mattia avesse fatto una figura di merda colossale prima di, con tutta probabilità, morire di una morte ben più orribile rispetto a quella che gli sarebbe spettata se non avesse commesso quell’eroico atto disperato.
   Infusa di una nuova forza e ormai sciolta dall’effetto dell’iniezione di inibitori calciai via il licantropo che stava quasi per addormentarsi sulle mie gambe, liberai polsi e caviglie dalle corde e saltai giù dalla scrivania.
   Mi concessi un secondo per scrutare con attenzione il corpo dell’Alpha morente. Incrociai i suoi occhi da cui pian piano defluiva la vita, e il mio viso si aprì in un ghigno sfacciato.
   Mi sentivo quasi male a sorridere davanti alla morte. Ripensai a Jean, e a nonno Valentine e zio Sebastian, e a quante volte anche loro avessero sorriso davanti alla morte e alla sofferenza di persone innocenti.
   Ma infine ricordai a me stessa che quell’uomo disteso ai miei piedi non era innocente, e con le prove che avevo contro di lui – la più lampante delle quali era sicuramente Mattia – sarebbe stato comunque condannato alla pena capitale. Aveva morso decine di giovani per allargare il suo branco, violato gli Accordi in un’infinità di casi e istigato Mattia al suicidio.
   Ero entusiasta che il boss stesse per finire all’altro mondo, entusiasta che quel bastardo stesse crepando per mano di un novellino, entusiasta che questo novellino fosse il ragazzo per cui, volente o nolente, stavo cominciando a provare qualcosa.
   Lo stesso ragazzo che era crollato a terra tenendosi il fianco.
   Con orrore mi accorsi che il secondo scagnozzo, ripresosi dall’accaduto, aveva raccolto il mio pugnale da terra, gridando di dolore per essersi bruciato la pelle con l’argento, e accoltellato Mattia allo stomaco.
   In un impeto di rabbia mi scagliai contro di lui, gli tolsi il pugnale dalle mani e ricambiai il favore trapassandolo da parte a parte. Gli tirai una ginocchiata e lo feci cadere a terra, bloccando la fuga dell’altro ceffo ancora in forma di lupo.
   Velocemente mi sfilai lo stilo dalla tasca dei pantaloncini dove era rimasto al sicuro e tracciai in aria una runa che avrebbe creato un cubo protettivo attorno a me e Mattia, prevedendo che altri licantropi ci avrebbero raggiunti.
   — Mattia! MATTIA! — strillai a squarciagola, come avevo inutilmente fatto fino a poco prima intimandogli di non spararsi.
   Sapevo come curarlo, sapevo come guarirlo, sapevo che se mi fossi sbrigata lui non sarebbe morto tra le mie braccia. Eppure non riuscivo a muovere un muscolo. Riuscivo solo a continuare a gridare.
   — MATTIA! MATTIA!
   All’improvviso mi tornò in mente la visione al JFK. La visione in cui urlavo una parola che collegavo allo zio Simon. E allora capii il perché di quell’associazione.
   Entrambi i loro nomi sono nomi ebraici, nomi di cui conosco il significato, nomi che mai perdono il loro significato.
   Mattia, dono di Dio, stava recitando con un fil di voce una preghiera che già avevo sentito dire altre volte da altre persone.

 

“Say a prayer, to yourself
He says close your eyes,

Sometimes it helps”

  

   Stava recitando l’Atto di dolore.
   Si pentiva dei suoi peccati, e ammetteva di meritare i castighi di Dio.
   Mi chiesi quali orribili peccati avesse commesso per meritarsi un castigo tanto atroce.

   Conclusa la preghiera si fece il segno della croce. Mi aspettavo che la mano gli tremasse, ma invece era ferma e decisa.
   Ormai, mi resi conto con un sussulto, non aveva più paura di morire.
   Ma non poteva morire. Non doveva. Non lì, non in una stanza nascosta in un muro in un covo di lupi mannari camorristi. Non in quel momento, non nel fiore degli anni, non quando era a un passo dall’entrare nella Facoltà di Medicina, non quando aveva un nipotino da battezzare, non quando aveva da poco ottenuto un lavoro non retribuito da guida turistica per vacanzieri americani. Soprattutto non quando i miei precoci sentimenti per lui erano ancora segreti.
   Gli presi il viso tra le mani e seguii con le dita il contorno degli occhi chiusi, del naso lentigginoso, delle guance paffute, delle labbra morbide. E, con un gesto irragionevole e sensato allo stesso tempo, lo baciai.
   Non so perché, ma lo baciai.
   Forse pensavo che così avrei spezzato la maledizione e il Bell’Addormentato si sarebbe risvegliato. Forse era solo un modo per non sentire il dolore di ciò che rimaneva del mio cuore che si frantumava in mille pezzi. Forse era solo un sistema per non cedere alla magia angelica che reclamava di essere sfogata. Forse non volevo lasciarlo andare prima di avergli dato una prova del mio affetto.
   Mi staccai da lui e piansi, piansi tutte le lacrime represse.
  Avevo perso Jean, e stavo perdendo anche Mattia.
   Quasi non mi accorsi che una furia di nome Chrysta Bane si era fiondata nella stanza e aveva spazzato via i due cadaveri e il corpo dell’altro lupo ancora per poco vivo. Quasi non mi accorsi che altre due furie, all’esterno, stavano lottando contro un gruppetto di mannari che aveva ben poche possibilità di vincere contro i micidiali gemelli Lewis. Quasi non mi accorsi che Chris era entrata nel cubo e mi stava delicatamente allontanando da Mattia.
   — Lori, lascia fare a me — sussurrò, e io acconsentii.
   Raccolsi il pugnale da terra e sfrecciai via, menando fendenti alla cieca e ferendo parecchi licantropi. Non era necessario che mi trattenessi a combattere con Logan e Trish, sarei stata solo d’intralcio, quindi filai fuori il più velocemente possibile e mi fermai solo quando mi accasciai a terra con la schiena contro il portone di legno.
   La mia unica compagnia per parecchi minuti passati in contemplazione del nulla fu un gatto che si leccava placidamente le zampe sotto la fioca luce della mezzaluna.
   Era un gatto nero.
   E quando si stancò di starsene lì a farsi il bidet e mi passò davanti come si deve a tutti i gatti neri che si rispettino – l’ennesimo segno della sfiga che mi perseguitava dall’alba dei tempi – rientrai nel palazzo sbattendomi il portone alle spalle.
   Logan e Trish mi raggiunsero scrollando le lame angeliche per ripulirle dal sangue. Sul collo di entrambi andava scomparendo un iratze.
   — Mattia è vivo — si affrettò a precisare lei, — ma debolissimo. Dovrà stare da noi per un bel po’, credo. Non dobbiamo perderlo d’occhio.
   Il mio cuore fece i salti di gioia, ma tornò subito a sprofondare: nonostante Mattia fosse vivo e vegeto e non corresse alcun rischio grazie a Chrysta – l’avrei ringraziata per tutti i secoli dei secoli – c’erano ancora molte persone che lo volevano morto.
   I licantropi avrebbero voluto vendicare la fine del loro capo, ne ero certa. E non ero certa di poterlo salvare di nuovo.

   Ma forse Mattia sarebbe riuscito a salvarsi da solo.

 

 

“As my life flashes before my eyes
I’m wondering will I, ever see another sunrise?”

 

 

Si svegliò il pomeriggio seguente.
   A parte noi due non c’era nessuno in casa: Chrysta, incapace di sopportare la segregazione tra quelle quattro mura, se n’era andata in giro per Gaeta in cerca di spacci gestiti da Nascosti o qualsiasi altro posto in cui vendessero articoli per Stregoni; Logan e Trish si erano invece appostati di fronte al palazzo dei mannari in attesa di notizie e/o loschi movimenti da riferirmi.
   — Come ti senti? — gli chiesi non appena fu in grado di parlare. — Ricordi qualcosa di ieri sera?
   — Poco, davvero poco — rispose mettendosi seduto con un lieve gemito. — Ricordo solo che ho cercato di fare il supereroe e me ne sono pentito. È tutto abbastanza confuso. Giusto un paio di flash.
   — Quali flash? — gli domandai, allarmata. Se avesse ricordato che l’avevo baciato... be’, sarebbe stato alquanto imbarazzante. Non ero ancora pronta ad affrontare quella conversazione, anche se qualcosa mi diceva che avrei dovuto farlo di lì a breve. In ogni caso era inevitabile. Presto o tardi, sarebbe arrivato il momento di tirar fuori la questione. Meglio tardi, però.
   — Flash. Flash veri e propri, intendo. Tipo lampi di macchina fotografica.
   Sospirai di sollievo. — Sarà stata Chrysta. I suoi incantesimi tendono ad essere... appariscenti.
   — Spero di sì, altrimenti indicherebbe che il mio cervello è stato gravemente compromesso. — Allungò la mano sul tavolino e prese il bicchiere d’acqua che gli avevo portato poco prima. — Tu credi a chi dichiara di aver vissuto esperienze di pre-morte, Lorianne?
   — Dipende — commentai. — Non sempre riescono a convincermi. Ma in fondo io vedo il futuro, quindi perché no?
   Mattia bevve un sorso d’acqua e aggrottò le sopracciglia. — Sai, riflettevo...
   — Su cosa?
   — Stando a quanto ho letto – e, sai, io ho letto molto – il futuro non è mai chiaro. I Veggenti spesso sostengono di vedere diversi fili, diverse strade, di solito tre, in cui potrebbe evolversi la situazione. Invece tu lo vedi precisamente, nitidamente, e tutte le tue visioni si avverano alla perfezione. Giusto?
   — Abbastanza giusto.
   — E allora... — Mattia si sporse in avanti verso di me. — Come ti sarebbe possibile vedere il futuro se questo non fosse già scritto?
   La sua osservazione mi spiazzò. In effetti aveva ragione. Era evidente, ovvio, incontestabile. Ed era inspiegabile come fossi stata tanto sciocca da non accorgermene in precedenza. Un neo-Nascosto aveva battuto in intelligenza e intuizione una Shadowhunter/Chiaroveggente dalla nascita.
   Lo adoravo.
   — Io... io non ci avevo mai pensato — sussurrai sconvolta. — Davvero, Mattia... non avevo idea del perché potessi vedere il futuro così come lo vedo.
   — Ciò significherebbe che è impossibile cambiare il proprio destino.
   — Credo... credo di sì. 
   Mattia sprofondò nel divano con una risatina nervosa. — Ciò significherebbe anche che il libero arbitrio non esiste. Che non sono padrone delle mie scelte, padrone del mio corpo, padrone di me stesso, che faccio quel che faccio perché è qualcun altro a ordinarmelo. Che senso avrebbe la vita, dunque? Che senso avrebbe vivere senza essere realmente vivi?

   Aveva colpito nel punto. Centrato il bersaglio. Arrivato all’identica considerazione che dall’adolescenza era stata il mio peggior cruccio.
   Essere controllata da Raziel, fisicamente e mentalmente, mi aveva spinta a figurarmi come un burattino in carne e ossa il cui burattinaio viveva oltre le nuvole, oltre l’arcobaleno. Il che era uno dei mille motivi per cui odiavo Over the Rainbow.
   Tutti mi mostravano e mi dimostravano compassione, pietà, forse un briciolo di comprensione. Ma nessuno aveva mai affermato di sentirsi come me. Nessuno aveva mai condiviso con me il peso dello sconforto che da troppo tempo gravava sulle mie spalle, che presto avrebbero ceduto. Nessuno mi era mai stato così vicino.
   — Non lo so, Mattia. Non lo so. Ho gli stessi dubbi da anni. Mi pongo le stesse domande da quando ho imparato a porre domande.
   — Ci sarà, al mondo, una risposta?
   — Non lo so — mormorai. — Se c’è, io non l’ho ancora trovata.
   — Quando la troverai, fammi un fischio.
   Aveva detto “quando”. Non “se”. Riponeva in me una tale fiducia da essere più che sicuro che avrei scovato la soluzione ai nostri problemi.
   Mi commossi a quel pensiero: mi conosceva da solo un paio di mesi, e già aveva messo la sua vita nelle mie mani. Mani che avevano minacciato di lasciarla andare.
   Si era affidato totalmente e incondizionatamente a un’ambigua ragazza che si definiva Chiaroveggente e che gli aveva confermato l’esistenza di figure mitologiche e bibliche. L’ambigua ragazza aveva ricambiato la sua incrollabile fede in lei abbandonandolo col fianco pugnalato su un freddo pavimento in una dimora segreta.
   Ero stupida, stupida, stupida.
   Se trattavo in quel modo le persone che amavo, avrei fatto meglio ad unirmi alle Sorelle di Ferro.

 

“So many won’t get the chance to say goodbye
But it’s too late to pick up the value of my life”

 

   — Tu lo sapevi, vero Lorianne?
   La voce di Mattia mi riscosse dalle mie valutazioni. — Sapevo cosa?
   — Che non sarei morto. Perciò sei corsa fuori e hai lasciato campo libero a Chrysta.
   Be’, le cose non stavano esattamente così. Ma in fondo aveva affermato di ricordare poco o nulla, quindi non avrebbe avuto senso dirgli la verità proprio allora: avrei solamente innescato una bomba a orologeria che mi avrebbe portato a rivelargli tutto, compreso che l’avevo baciato. E non era affatto il caso. Specialmente perché se avesse saputo il vero motivo per cui ero scappata non mi avrebbe mai più guardata in faccia.
   — Ero sicura al novantanove percento che saresti sopravvissuto. Ma questa visione non era molto comprensibile. Era... diversa dalle mie solite.
   Mattia fece una strana smorfia e abbassò lo sguardo. — Sai, Lori, per quel novantanove percento potrei pure infuriarmi se fossi in vena di farlo. Non si gioca con la vita, Lorianne, e questo dovresti saperlo meglio di me. Personalmente, se avessi avuto anche un unico dubbio sulla veridicità di quella visione non me ne sarei scappato via come se fossi inseguito da un branco di segugi assetati di sangue.
   Boom. Aveva colto nel segno per la seconda volta.
   — Nemmeno io l’avrei fatto, Mattia — bisbigliai. — Non l’avrei fatto un tempo, almeno. Ora... ora non so più neppure chi sono. 
  
— Un giorno o l’altro mi racconterai cosa ti è successo, Lorianne?
   — Non posso giurartelo su Raziel. Ma ti do la mia parola che ci proverò. Non è facile.
   Mattia posò il bicchiere sul tavolino e mi fissò dritta negli occhi. Nei suoi potevo leggere lo sconforto. — Quindi adesso che cosa faccio? Che cosa facciamo?
   — In che senso?
   — Ho ucciso un uomo — disse in tono aspro. — Un camorrista. Un ricercato a livello nazionale. Ci sono le mie impronte su quella pistola.
   — Sistemerò... sistemeremo tutto — promisi sincera. — Non è nuovo per noi avere a che fare con situazioni del genere. La morte di un Nascosto è pur sempre una morte: lascia un cadavere, degli indizi, un movente, un assassino. Ma ai mondani basta poco per dimenticarsi del caso.
   — Basterà poco anche alla famiglia di quel poveraccio? — replicò bruscamente. — Dio, Lori, mi sono macchiato della più orribile colpa — sibilò. — Ho commesso un omicidio di secondo grado, per la miseria. E tu mi assicuri che sistemerai tutto con qualche intimidazione e un paio di incantesimi!

   Anch’io sono arrivata ad un pelo dal commettere un omicidio di secondo grado, ma ti assicuro che avevo buone ragioni, avrei voluto rispondergli.
   — È stata legittima difesa, non puoi negarlo — gli risposi invece. — Non potranno muovere alcuna accusa contro di te.
   Loro non potranno, chiunque siano questi “loro” — ribatté lui. — Ma io sì. Posso accusarmi da solo. E credimi, lo faccio da prima di premere quel grilletto.
   Mi passai le dita fra i capelli e mi avvicinai a lui. — Mattia... — iniziai, esitante. — Mattia, il Sottomondo è un posto crudele, feroce, disumano. Tu sei abituato a una vita vissuta in pace e tranquillità, priva di problemi irrisolvibili, un cognome di cui mantenere l’onore e inevitabili spargimenti di sangue. Il Mondo Invisibile è esattamente il contrario. Imparare ad orientartici è la prima indispensabile sfida che dovrai affrontare, e dovrai cominciare col renderti conto che un approccio diplomatico non è sempre il migliore. Spesso serve più una bella botta in testa che non una lunga chiacchierata.
   Lui si studiò le mani. Sulle nocche aveva ancora qualche goccia di sangue. — Se è davvero così orrendo come dici, non sono certo di volerne far parte.
   — Temo che sarai costretto a farlo — sospirai. — Perlomeno finché non avrai acquisito conoscenze e fatto esperienze che ti permettano di continuare a vivere tra i mondani. Mia nonna ha provato ad uscirne, e non è stato semplice. Ci si è ritrovata di nuovo dentro.
   — Che meraviglioso discorso d’incoraggiamento — sbuffò lui.
   — Sono l’ultima a poter incoraggiare qualcuno, dato che quella che dovrebbe essere incoraggiata sarei io. E allo stesso modo sono l’ultima a poterti esortare ad accettare la tua natura e bla bla bla, perché io non la accetto e non l’ho mai accettata. Dunque fai solo ciò che ti senti di fare — conclusi alzando le spalle. — Io non so dirti altro.
   — Ascolta, Lori... — Si mordicchiò il labbro. — Comprendo che dovrò percorrere questa strada unicamente con le mie forze, ma... ma non sono molto convinto di riuscire ad arrivare alla meta. Questa non è la tua battaglia... lo capisco. Però sei la persona di cui al momento mi fidi di più e una delle poche che può aiutarmi o quantomeno sostenermi...
   — Farò tutto il possibile. Contaci. 
  
S’illuminò in volto. — Sul serio?
   — Sul serio. Non ti abbandono proprio adesso. Non lo farei mai.
   Mattia tirò un profondo respiro e abbozzò un sorrisetto. — Ti ringrazio, Lorianne. Di cuore. Non so cos’avrei fatto se non ci fossi stata tu.
   — Ringrazia Chrysta — lo corressi. — È stata lei a salvarti. Non io.
   — Ti sbagli, Lori. — Scosse la testa. — Tu mi hai salvato molto, molto più di quanto non abbia fatto Chrysta.

 

 

Insistette per tornare a casa. Non volevo costringerlo a restare da noi, ma Chris mi aveva raccomandato di non perderlo d’occhio. In realtà me l’aveva ordinato.
   Così mi ritrovai nella villetta dei Nardone a Serapo, una graziosa abitazione circondata da un basso muretto che delimitava un piccolo giardino, nel quale crescevano rosmarino, basilico, salvia, mentuccia, lavanda, un alberetto di limoni profumatissimi e una piantina di pomodori.
   Mattia litigò con la serratura e solo dopo tre tentativi riuscì ad aprire la porta, che dava su un modesto atrio dominato da una cassettiera in legno di noce. Appese il mazzo a un portachiavi di ceramica e mi guidò al piano di sopra, dove si trovava la zona notte. — Scusami se non ti faccio fare il tour, anche perché ne varrebbe la pena, ma ho un assoluto bisogno di farmi una doccia e cambiarmi. Mi sento ancora l’odore del sangue addosso. Mi sento sporco.
   Le sue spalle tremavano.
   — Ti capisco perfettamente. È una delle peggiori sensazioni che abbia mai provato.
   Si fermò di colpo, ma riprese a salire quasi subito. — Non puoi capirmi. Questo sangue è umano, Lorianne. Non demoniaco. Umano. Non completamente, ma comunque umano.

   E invece no, Mattia, posso capirti eccome.
   Per la seconda volta, quel giorno, ripensai a quando anch’io avevo trovato conforto nell’acqua bollente dopo essermi macchiata le mani di sangue umano. Di sangue Shadowhunter. E desiderai, desiderai con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta me stessa, che il destino smettesse di essere tanto crudele, tanto avverso, tanto doloroso nei confronti di quel ragazzo colpevole unicamente di innocenza.
   Arrivammo nella sua stanza. Mattia si svuotò le tasche, gettando il cellulare e un bigliettino sul letto, afferrò velocemente un paio di vestiti dall’armadio e mi disse: — Cercherò di fare il più in fretta possibile. Nell’attesa, hai la libreria a disposizione. Da qualche parte dovrebbe esserci il libro di ricette di papà, se vuoi un genere poco impegnativo. — Dopodiché sparì nel bagno.
   Per buoni cinque minuti setacciai mensole e scaffali in cerca di quel libro, per poi accorgermi di un volume sospetto poggiato sulla scrivania. Mi avvicinai per prenderlo, ma il bigliettino sul letto attirò la mia attenzione.

   Non si fa, Lori, mi rimproverò la mia coscienza. Non si fa. Non si ficca il naso negli affari altrui. Saranno fatti suoi, no?
   No, Grillo Parlante, mi risposi da sola. Ho il dovere di scoprire se mi sta nascondendo qualcosa.
   Ma se sei tu la prima a nascondergli qualcosa!
   Taci,
la zittii, poi afferrai il foglio e lo spiegai.
   Aveva un’impostazione familiare, che avevo già visto da qualche parte. Immaginai fosse per la sua semplicità: presentava infatti una decorazione a zig zag di un viola chiaro che partiva dall’angolo superiore destro e sfumava in diagonale su sfondo bianco, con due numeri di telefono, un’e-mail e altri contatti sotto il nome.
   Realizzato qual era il nome, compresi immediatamente il motivo di quella familiarità.
   Mattia aveva sicuramente preso il bigliettino dalla pila sul mobile all’ingresso di Villa Orlando. Lì ce li aveva lasciati la signora Rita D’Amante, che ci aveva affittato la casa di cui era proprietaria. La dottoressa Rita D’Amante, psicologa e psicoterapeuta.
   Prima che potessi formulare un qualsiasi pensiero, mi sentii chiamare: — Lorianne! Lorianne!
   Corsi fino al bagno e accostai l’orecchio alla porta. — Mattia, che succede? Tutto okay?
   — No, Lorianne, no che non va tutto okay! — Il suo tono era impaurito e supplicante. — Per favore, Lorianne, per favore, aiutami.
   Con il cuore in gola, spinsi la maniglia ed entrai nel bagno mettendomi istintivamente una mano sugli occhi, mentre con l’altra agguantai un telo appeso allo scaldasalviette. — Esci subito dalla doccia, Mattia.
   Attesi che uscisse e si coprisse, poi aprii gli occhi. Tremava come una foglia. — Santo cielo, Mattia, che ti è preso? Cinque minuti fa stavi bene, e adesso...
   — Non lo so, Lorianne, non lo so — rispose lui battendo i denti. — Ho ripensato a quello che ho fatto ieri sera e...
   — Ehi, no — lo fermai. — Non dirlo. Basta, ora. Basta. Capito? Basta. — Gli cinsi le spalle con un braccio. — Vieni. 
  
Lo condussi nella sua stanza e lo feci sedere sul letto, poi aprii l’armadio e presi la coperta più pesante che trovai. Mattia ci si avvolse come se fossimo in inverno inoltrato e non in estate con trenta gradi all’ombra.
   Mi sedetti accanto a lui e lo abbracciai forte, accarezzandogli i capelli che si stavano già asciugando. — Calma, calma — gli sussurrai. — Respira e calmati.
 
Non smetteva di rabbrividire. — A te sembra facile — replicò bruscamente, — ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
   — Il mare! — esclamai. — Il mare. Pensa al mare. Il mare ti tranquillizza, no? Pensa al mare.
   — Oggi il mare è tempestoso, Lorianne, anche se a te non sembra — ribatté. — Quando è tempestoso mi terrorizza.
   — Però è proprio durante le tempeste che si fanno le migliori battute di pesca, giusto? Insomma, i pesci vengono a galla. Cioè, intendevo... ah, lascia stare.
   — No, hai ragione, vengono a galla — affermò. — A mangiare la palla di pelle di pollo, fatta da Apelle, figlio di Apollo.
   — Ma smettila! — Scoppiai a ridere, e lui con me.
   La sua risata, da vicino, era ancora più bella.
   C’era qualcosa nel suo essere impaurito, così accoccolato in quella coperta troppo piccola per lui, che quasi mi fece sporgere in avanti e cullarlo come fosse un cucciolo bisognoso d’affetto. Ma non era un cagnolino – certo, questo sempre se non si voleva far rientrare i mannari nella categoria.
   Non saprei esattamente dire come fossi finita a farlo, ma mi ritrovai a fissarlo quasi ossessivamente, e ben presto lui se ne accorse e ricambiò.
   — Vuoi che ti faccia una foto, così la metti sotto il cuscino? — chiese, ridacchiando, raddrizzandosi appena nelle coperte.
   Mattia indifeso era terribilmente dolce, almeno tanto quanto il Mattia più sicuro, che avevo ora di fronte, sembrava irresistibile.
   — Sfacciato — risposi. — Un secondo fa mi tremavi fra le braccia... Aspetta un attimo, non era mica tutta una tattica?! — domandai poi, guardandomi ironicamente la scollatura della canotta che indossavo – la quale, in ogni caso, non è che fosse questa gran bella vista.
   Forse fu quello che sbloccò definitivamente Mattia, o forse volle solo cogliere l’attimo. Fatto sta che comunque un secondo prima era rannicchiato davanti a me, e quello dopo... Be’, più che di davanti si sarebbe dovuto parlare di sopra, ecco, mentre con un sorriso sornione mi scostava un ciuffo dal viso e cominciava a baciarmi con una grinta che non gli avrei mai attribuito, ma diamine se mi piaceva!
   Idolatravo Jean per quanto fosse dannatamente esperto nel baciare – non per niente si chiama bacio alla francese – e mai avrei pensato che, un giorno, avrei trovato un ragazzo più bravo di lui.
   Invece mi ritrovavo a limonare, perché sì, è quello che stavamo facendo, con Mattia come se non ci fosse stato un domani.
   In effetti per lui il domani era oscuro e incerto, almeno in quel momento. Ero sicura che sulla sua testa incombesse una pesante taglia e che qualunque lupo mannaro sul territorio avrebbe voluto la sua vita.
   Motivo in più per carpere diem e baciarlo ancora più appassionatamente.
   Ma purtroppo
– o forse per fortuna – era tutto un meraviglioso film mentale.

 

 

Restammo fermi, in silenzio, per più di un quarto d’ora, finché Mattia non decise che era il momento di rivestirsi. Ci rimasi un po’ male, anche perché ci avevo preso gusto a coccolarlo, ma dopotutto, pensai, significava che il peggio era passato e forse quel bigliettino non sarebbe stato di alcuna utilità.
   Tornato in camera dopo essere sparito per un paio di minuti in bagno, mi fece la domanda del secolo: — Lorianne... uccidendo un Alpha non si prende il suo posto?
   Tale domanda, tale risposta. Valore: un milione di dollari.
   — Oddio, non lo so. — Strabuzzai gli occhi. — Di sicuro i mannari ti considereranno un capo, ma non ho idea se sarai un capo solo di nome o anche di fatto. In fin dei conti, non l’hai ucciso in un modo... licantropesco. Non ti sei battuto contro di lui con unghie e denti per il dominio, gli hai semplicemente sparato.
   — Morale della favola, sono il boss di un clan di camorristi — concluse Mattia sconsolato appoggiandosi alla scrivania. — Ma se sono veramente l’Alpha, che abbiano o meno fiducia in me, dovranno obbedirmi o sbaglio?
   — Non sbagli.
   — Allora cambierò le carte in tavola. I lupi mannari di Gaeta non avranno più niente a che fare con la criminalità organizzata. E i pezzi grossi finiranno dritti in prigione.
   — Hai grandi progetti per il futuro — osservai sorridendo.
   — Esattamente — confermò lui. — Accompagnami a Santa Lucia. Tra poco avrai l’onore di ascoltare il primo discorso del nuovo Alpha al suo branco.

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Capitolo 17
*** Canzoni di redenzione ***


15.

“Emancipate yourselves from mental slavery
None but ourselves can free our minds”

    

Mattia era una testa dura già per principio. Quando ci si metteva, poi, niente e nessuno avrebbe potuto fargli cambiare idea.
   Chrysta mi avrebbe ammazzata se avesse saputo che avevo acconsentito – per modo di dire – che Mattia tornasse nel luogo in cui era quasi morto, potenziale fonte di stress fisico e psicologico, per fare qualcosa che non solo si sarebbe potuta rivelare un’impresa suicida ma avrebbe anche rincarato la dose di stress fisico e psicologico.
   Come ci videro arrivare, Logan e Trish, appostati fuori al palazzo dei mannari con aria annoiata dall’ora di pranzo, ci corsero incontro esaltati.
   — Buoni, buoni — li calmai. — Mattia non vuole fare una strage. Vuole solamente parlare.
   — E spero voi sappiate che so parlare abbastanza bene — sottolineò il diretto interessato con finta aria di superiorità.
   — Uhm, okay — acconsentì immediatamente Logan. — Tanto per la cronaca, finora non c’è stato alcun movimento sospetto, a parte un uomo e una donna che sono usciti da una stanza sistemandosi i vestiti.
   — E tu come avresti fatto a vederli, considerando che al piano terra non ci sono camere se non quella nascosta nel muro? — lo interrogai aggrottando le sopracciglia.
   — Ho la runa di Lunga Vista — borbottò lui di rimando. Aveva le guance rosse. — Forza, andiamo.
   Trish aprì il portone e ci fece entrare, poi lo richiuse dietro di sé. — Domandina innocente: come faremo a chiamare a raccolta tutti i lupi senza farci scannare?
   — Grazie a me — disse una voce alle nostre spalle.
   Ci voltammo con un sussulto. A me balzò il cuore in gola.
   Una donna vestita di nero mosse un paio di passi verso di noi. I tacchi alti riecheggiarono sul marmo lucidissimo del pavimento. Portava i capelli raccolti in uno stretto chignon fermato con uno spillone dai riflessi dorati. Il tailleur rigoroso e l’espressione fredda la facevano assomigliare a una severa insegnante di danza classica.
   Trish trattenne il fiato. — Ho combattuto contro di lei ieri sera. Mi complimento per la bravura. 
   — La ringrazio — rispose la donna ricambiando l’uso della terza persona. — Conosco molti stili di lotta e ho avuto spesso a che fare con i Cacciatori.

   Ci chiamava alla maniera italiana, notai. Non come il boss, che preferiva “Shadowhunter”. Detto da lei, sembrava un complimento. O quantomeno non suonava dispregiativo.
   — Io sono – ero – colei che il capo di questo clan si ostinava a considerare “moglie” — riprese avvicinandosi ulteriormente e incrociando le braccia sul petto generoso. — Ho sposato quella razza di canaglia per... be’, un matrimonio combinato. La notte scorsa ho osservato da uno spiraglio quanto succedeva in quella stanza. — La indicò con un gesto della mano. — Mi dispiace di non essere intervenuta, ma se avessi anche solo bussato alla porta avrei fatto la sua stessa fine, Alpha — continuò rivolgendosi a Mattia. — Uccidendo Carmine mi ha tolto un grosso, grosso peso dalle spalle. Non lo dimenticherò mai. Non dimenticherò mai il servizio che tutti voi mi avete reso.
   Mattia si limitò a un formale e confuso cenno del mento, imitato da me e Logan.
   Trish al contrario dovette dire la sua. — Perché mi ha affrontato? Avrebbe potuto morire anche lei.
   — Ripeto: non è la prima volta che mi ritrovo faccia a faccia con un Cacciatore armato — replicò la donna. — So come difendermi, e in ogni caso avevo l’obbligo di dimostrare agli altri lupi che ero vostra nemica e non, come invece è in realtà, vostra amica. Vado a radunare il branco — concluse. — Voi aspettatemi qui. 
   Appena fu fuori portata d’orecchio, sussurrai a Mattia: — Wow. Entrata a sorpresa. Ti fidi di lei?

   — Sì — affermò lui. — Non per un secondo ho percepito che ci stesse mentendo. Anzi, in lei ho avvertito una sorta di... timore reverenziale. Potrebbe essere una forte alleata.
   — Sono d’accordo, ma non la sottovalutare. Certa gente ti volta la faccia quando meno te l’aspetti.
   — Non lo farò — promise. — Ho più motivi di chiunque, qui, per restare sul chi va là.
   Proprio in quel momento un rumore ci fece scattare in modalità sentinella.
   Dalle scale sulla sinistra cominciarono a scendere una ventina di persone, capitanate da un tizio vestito di nero – evidentemente andava di moda tra i mannari – che doveva avere più o meno la stessa età di Mattia.
   Il ragazzo ordinò alla folla di arrestarsi in fondo alle scale e ci venne incontro. Somigliava moltissimo alla donna che ci aveva accolto.
   — Salve — ci salutò freddamente. — Adriano Mallardo, figlio dell’ex boss Carmine che voi avete ucciso. Non vi giudicherò per questo, anzi, almeno su questo mia madre ed io siamo su un’unica linea di pensiero. Tuttavia non ripongo molta fiducia in te. — Incrociò lo sguardo di Mattia. — Sei troppo giovane per guidare un clan di queste dimensioni.
   — Oh, lo so — ribatté Mattia a bassa voce. — Ma tuo padre non la pensava allo stesso modo quando mi ha brutalmente morso e mi ha trasformato in una creatura che credevo fosse frutto della fantasia. Secondo lui ero abbastanza maturo per affrontare una questione di tali proporzioni, seppur in un ruolo diverso, quindi perché non dovrei essere adatto per questo incarico? Ti consiglio di riporre la tua fiducia in me. Se la tradirò, i cocci saranno solo e soltanto miei. Se non la tradirò, saprai che hai fatto un’ottima scelta.
   Adriano lo scrutò per un ultimo secondo, poi chinò leggermente il capo con riverenza. — Per ora, mi piaci. In futuro... vedremo.
   — Cercherò di non fartene pentire — rincarò Mattia. — Il branco è al completo?
   — Sì — confermò Adriano, poi si voltò e ci condusse verso il bordo della piscina al centro della stanza. Si fermò accanto ad una delle statue-lupo e ce la indicò. — Papà sospettava molto della fedeltà del suo branco. In ognuna di queste sono nascoste una microspia e un microfono panoramico. Ti sentiranno anche al piano di sopra. — Dopodiché sparì tra la gente.
   Assestai a Mattia una pacca sulla spalla. — Animo, horator. Dai il meglio di te.
   Lui sbuffò, nervoso. — Tenetevi pronti, nel caso la situazione dovesse sfuggirmi di mano. Sorvegliate la folla e fatemi un segnale se doveste notare qualcosa di strano.
   — Siamo nati pronti — lo rassicurò Logan con un sorriso d’incoraggiamento. — Male che vada, li convincerai tutti con un bel pranzo al ristorante. E, per inciso, stiamo ancora aspettando un invito.
Q   — La settimana prossima riapriamo. Lunedì verso l’una? — propose Mattia.
   — Perfetto — concordò Trish. — E ora bando alle ciance.
   Logan e Trish si divisero, andandosi a posizionare l’uno nei pressi di un tavolo da biliardo sulla sinistra e l’altra di fronte alla porta segreta, sulla destra. Io invece puntai il ballatoio, dal quale avevo la completa visuale dell’atrio.
   — Buonasera — esordì Mattia, palesemente agitato. — La maggior parte di voi non mi ha mai nemmeno incrociato per strada e sicuramente si sta domandando chi diavolo sia quel ragazzino che crede di avere il diritto di parlare a persone di un certo riguardo come voi. Perciò mi presento: Mattia Nardone, appena diciannovenne, catapultato in un mondo di cui mai avrebbe voluto conoscere l’esistenza da un uomo che, ieri sera, l’ha istigato al suicidio.
   Dall’alto, vidi che parecchi corpi avevano sobbalzato. Le possibilità allora erano due: o non avrebbero mai immaginato che il loro capo potesse arrivare a tanto, o non era una novità.
   — Mi ha detto che mi aveva morso intenzionalmente — continuò Mattia, l’espressione dura come una pietra, e molte delle persone che avevano già sussultato trasalirono di nuovo. — So vagamente cosa siano gli Accordi, ma ne so abbastanza da essere certo che quanto ha fatto il vostro Alpha è totalmente contrario alle leggi che governano la vita di noi Nascosti. In realtà è contrario anche alle leggi dei mondani e a qualsiasi legge morale, ma vi ritornerò in seguito poiché qui questo genere di azioni illecite e, permettetemi, disumane non è l’unico. Dunque, non vi racconterò integralmente cos’è successo la scorsa notte, anche e soprattutto perché il ricordo è ancora recente e vivido nella mia mente e ripensarci mi fa male. Vi basti sapere che l’Alpha mi ha messo una pistola in mano e mi ha ordinato di spararmi. Per incentivarmi...
   Alzò la testa e mi guardò, come per chiedermi il permesso di parlarne. Gli feci cenno di sì.
   — Per incentivarmi ha bloccato le vie respiratorie alla ragazza che mi ha accompagnato, un’amica fedele e sincera, già legata alla scrivania per polsi e caviglie. A quel punto, ho sparato. Ma non a me stesso. Ho ucciso l’Alpha. L’ho ucciso io.
   Si bloccò e prese un profondo respiro, forse aspettandosi che chiunque in quella stanza gli saltasse in preda a una furia omicida.
   — Non so come vi siate spiegati o come vi abbiano spiegato ciò che è successo meno di ventiquattr’ore fa. Non so se la morte di almeno due lupi e diversi ferimenti siano stati insabbiati oppure ne siate a conoscenza. Anch’io ci sono quasi rimasto, essendo stato pugnalato con una lama d’argento da uno dei tirapiedi del boss. Fatto sta che tutto è iniziato con quello sparo. Me ne prendo la responsabilità, non nego né rinnego nulla. Da quando ho premuto il grilletto non è passato un unico momento senza che mi sentissi un brutale assassino, ma l’ho fatto per salvare non solo la mia vita, bensì anche quella di Lorianne. Di istinto di sopravvivenza dovreste capirne più di me. Comunque, fino a prova contraria adesso sono il vostro nuovo Alpha. Dovrete rispondere esclusivamente a me. E cominciamo col mettere un bel po’ di cose in chiaro.
   Mosse un paio di passi in avanti con più sicurezza rispetto a poco prima. — Chi, tra voi, ha subìto la mia stessa sorte non abbia paura a dirlo. Dimenticate quel regime di terrore nel quale vivevate fino a ieri, perché da oggi in poi tutto sarà diverso. Suppongo siano in minoranza, qui, coloro che hanno deciso autonomamente di condurre quest’esistenza basata sul significato letterale della parola “Nascosto”. Si deduce quindi che la maggioranza sia stata trascinata in questo mondo con la forza, come il sottoscritto, e che sia stata costretta a rimanervi. Se avete giurato fedeltà all’ex Alpha, se con lui avete fatto un patto di sangue, per me non ha alcuna importanza. Ormai è morto, e insieme a lui nella tomba sono finite anche tutte le disgrazie che avete dovuto patire. Se questa vita non vi piace, andatevene. Siete liberi di fare ciò che ritenete il meglio per voi. Se invece vi sta bene, restate. A me farà soltanto onore. Ci tireremo fuori da qualsiasi losco affare, ci ripuliremo le mani dal sangue e renderemo il Sottomondo di Gaeta migliore per chiunque. Attenzione, però: pretendo onestà e franchezza. Se mi rivelate di aver commesso qualche atto sbagliato, tranquilli, non vi giudicherò. Ma se invece dovessi scoprirlo da solo sarò inflessibile e vi consegnerò alla giustizia senza patteggiamenti. Sarà punito anche chi per uno strano motivo si sentirà in dovere di farmi una soffiata sulla condotta di questo o quell’altro.
   Si passò la lingua sulle labbra. — In sintesi, vi sto offrendo una possibilità. Non sprecatela. Offritemi una possibilità anche voi, e prometto che non la sprecherò. Qualcuno ha da obiettare?
   Un tipo alzò subito la mano. — Come possiamo essere sicuri che farà tutto quello che ha detto, Alpha?
   — Non potete — rispose schiettamente Mattia. — E per favore, smettetela di darmi del lei.
   — Io vorrei una garanzia — replicò una tizia dai capelli alla Crudelia De Mon. — Mi perdoni, ma sono una persona pratica e per me contano più i fatti che le parole.
   — Smettetela di darmi del lei — ripeté Mattia con un piccolo sbuffo di impazienza. — Avete ragione a dubitare delle mie parole. Purtroppo l’Italia non ha una buona fama in materia di promesse mantenute. Però io parlo inglese per la metà del tempo.
   L’innocente battuta sortì il suo effetto: molti lupi ridacchiarono.
   — Scripta manent, verba volant, dicevano i Latini — commentò Mattia. — Gli scritti restano, le parole volano.
   — Quindi perché non firmare una dichiarazione? — propose una terza persona. Era Adriano.
   — Se fossimo vampiri, un patto firmato col sangue avrebbe un diverso valore e mi vincolerebbe per sempre e senza scappatoie a quanto concordato — contestò Mattia, — ma se servisse a tranquillizzarvi lo farei immediatamente.
   — No. Impiegheremmo troppo tempo. — La donna che ci aveva accolti si fece avanti e raggiunse Mattia. — Andiamo, compagni, davvero non siete disposti a credere a...?
   — Mattia.
   — Mattia? — riprese lei. — Davvero non comprendete quanta verità c’è nel suo discorso? Voi tutti siete abituati a dar credito solamente alla violenza, e dovete ringraziare quel grandissimo bastardo di mio marito per questo. Prima vi lamentate di com’era bella la vostra vita prima che Carmine vi adescasse per le strade, vi mordesse e vi portasse in questo posto dimenticato da Dio, e poi quando vi viene concesso di tornare chi eravate anni fa ve ne fregate altamente! Per una volta, usate la testa al posto di denti e artigli! Per una volta, siate umani piuttosto che lupi!
   Fissò Mattia dritto negli occhi per un brevissimo istante, poi s’inginocchiò ai suoi piedi mostrandogli la gola.
Pian piano, lentamente, un lupo dopo l’altro la imitò. Nessuno escluso.
   — Rialzatevi — ordinò Mattia. — E che non si faccia mai più una cosa del genere. Abbandonate queste usanze da barbari. Siamo tutti allo stesso livello, qui. Scusatemi se ho fatto intendere il contrario.
   — No — negò qualcuno. Sporgendomi dal ballatoio, mi accorsi con sorpresa che era una minuta ragazza di massimo quindici anni. — Hai fatto intendere esattamente ciò che volevi far intendere.
   Mattia le rivolse un largo sorriso. — Ti ringrazio.
   — No — negò nuovamente lei. — Siamo noi a ringraziare te.

 

“How long shall they kill our prophets
While we stand aside and look
Some say it’s just a part of it
We’ve got to fulfill the Book”

 

Ci congratulammo con Mattia per la meravigliosa orazione. Lui accolse ogni complimento facendo il modesto, sebbene la modestia stonasse con l’aria autoritaria che aveva acquistato.
   — La fortuna è stata dalla mia parte — concluse scrollando le spalle. — E adesso... ci si mette all’opera!
   — Neanche per sogno! — protestai all’istante. — Adesso, usciamo di qui e ci facciamo il lungomare a piedi fino alle Poste.
   — Be’, non hai tutti i torti. Mi farebbe bene scaricare un po’ i nervi — confessò lui. — Però... uff, c’è un lavoretto che non voglio rimandare.
   — Ci pensiamo noi — lo tranquillizzò Logan. — Vero, Trish?
   — Verissimo — confermò lei. — Finalmente, della buona e sana attività investigativa.
   — Vi farò una statua — sospirò Mattia con riconoscenza. — Allora, dovreste perquisire la stanza nascosta nel muro e qualsiasi mobile su cui riusciate a mettere le mani. Radunate qualunque foglio o oggetto sospetto e magari interpellate la moglie del boss o suo figlio a riguardo, se è proprio sospetto sospetto.
   — Portiamo tutto a casa oppure lo lasciamo qui? — domandò Trish.
   — Decidete voi — rispose Mattia passandosi una mano sul viso stanco. — A me farebbe più comodo la prima opzione, ma la scelta è vostra.
   — Perfetto. — Logan ci salutò e insieme a Trish sparì nello studio segreto.
   Uscire da lì non si sarebbe rivelata un’impresa semplice. Infatti non riuscimmo ad allontanarci nemmeno di un centimetro prima che la faccia scura di Adriano si piazzasse di fronte a noi.
   Mattia alzò un sopracciglio. — Sai, vorrei andarmene.
   — C’è il funerale di papà — contestò Adriano. Non accennò minimamente agli altri lupi morti. — Non partecipare non sarebbe visto di buon occhio.
   — Sì, ma partecipare equivarrebbe a tributare onore a un uomo che di onore non ne aveva affatto — replicò bruscamente Mattia. — Oltretutto non me la sento, Adriano, davvero.
   Per tutta risposta Adriano girò sui tacchi e borbottando si avviò rigido al piano di sopra.
   Sua madre, scendendo, gli lanciò uno sguardo di fuoco e subito corse a scusarsi con Mattia. — Perdonalo — lo supplicò. — È ancora sotto shock.
   — Lo sono anch’io — ribatté lui in tono aspro. — Quindi, per favore, non trattenetemi qui.
   La donna annuì. — Capisco. Non lo faremo. — Tese la mano. — Comunque io sono Sabrina Monti.
   Mattia gliela strinse. — Mattia Nardone, se non si fosse capito.
   Lo imitai. — Lorianne Herondale... sempre se non si fosse capito.
   Sabrina sobbalzò leggermente. — Herondale... quegli Herondale?
   — Ci siamo solo noi — sospirai. — Sì, quegli Herondale. Il mio cognome a quanto pare mi precede anche in Italia.
   — Il cognome non è altro che un insieme di lettere — osservò Mattia. — Non dovrebbe pregiudicare chi lo porta.
   Sabrina s’incupì. — Io sono stata spesso pregiudicata per il mio cognome, da sposata e da nubile. Mi auguro che non succederà più in futuro.
   — Me ne assicurerò personalmente — le promise Mattia, poi la congedò con un cenno del mento e si diresse impettito verso il portone, seguito da me.
   Attraversato l’atrio e oltrepassata la soglia, il sole, nonostante fosse schermato dai palazzi e comunque abbastanza basso all’orizzonte, ci ferì gli occhi. Mattia, che doveva ancora fare i conti con le conseguenze della licantropia, iniziò a versare lacrime come se fosse tremendamente allergico ai pollini e si trovasse in mezzo a un campo di fiori in piena primavera.
   — Accidenti — imprecò a labbra strette. — E accidenti all’ottico che non mi ha ancora riconsegnato gli occhiali.
   — Non fare i capricci! — lo rimproverai scherzosamente. — Dai, tra poco sarà il tramonto. Sopporta e zitto.
   — In effetti, ho già parlato a sufficienza.
   Da Santa Lucia scendemmo sul lungomare, a quell’ora gremito di persone che facevano jogging, ragazzini con le biciclette e famiglie con i passeggini che si godevano il tepore del tardo pomeriggio.
   Mi ritrovai a pensare all’ambiente nel quale avevo vissuto fino ad allora ad Alicante. Lì al massimo si vedevano un paio di coppiette lungo la sponda del lago Lyn oppure in un vicolo sperduto; gli Shadowhunters che avevano figli in inverno preferivano restarsene al chiuso e in estate giravano il mondo di Istituto in Istituto.
   Tutto era più freddo, a Idris. Calore e cordialità lì non trovavano alloggio. C’era posto solo per indifferenza e ostilità.
   Guardai Mattia di sottecchi. Stava fissando il mare, in attesa che il sole sfiorasse l’orizzonte infuocando il cielo, un sorrisetto appena accennato sulle labbra.
   Rispecchiava alla perfezione l’opinione che in molti hanno dell’Italia, o quantomeno del sud della penisola: simpatia, umiltà e una porta sempre aperta. 
  
Mi resi improvvisamente conto che la mia, di porta, per lui era socchiusa. Se Mattia mi aveva detto qualunque cosa volessi e non volessi sapere, io celavo ancora dei segreti. Un segreto, anzi. Un segreto molto, molto grande.
   — Ehi, ma non è tua nonna? — La vista di Anna a braccetto con un uomo corpulento, probabilmente suo marito, mi fece ridestare. Quando lei ci avvistò, la salutai agitando la mano.
   — Ciao, nonnina! — Mattia la abbracciò e le diede un bacio su una guancia. Sebbene avesse i tacchi, Anna era più bassa di lui di trenta centimetri. — Di solito uscite prima, non pensavo di incontrarvi.
   — Ho fatto le tielle — disse Anna come se quell’affermazione bastasse a spiegare tutto. — Le ho fatte anche per te. Vieni a cena da noi, vero?
   — Nonna, sul serio, non è necessario. Sono figlio di un cuoco. So come badare a me stesso, e di certo non ho intenzione di rimanere digiuno.
   — Lo è, invece. Non voglio che resti solo, Matti’.
   — Nonna, dillo. Di’ che sono dimagrito e che devo mangiare.
   — Sei dimagrito e devi mangiare.
   Spostavo lo sguardo dall’uno all’altra come in una partita di ping-pong, tentando di non ridere. Era terribilmente esilarante vedere Anna incarnare lo stereotipo della nonna che cerca di farti ingrassare. Soprattutto perché Anna non era esattamente una nonna convenzionale.
   L’intervento del nonno mise fine alla lite. — Basta. State facendo una commedia davanti a questa bellissima signorina.
   — Oh, non preoccupatevi — li rassicurai. — Dopotutto, siamo pur sempre umani.
   Anna mi scoccò un’occhiata complice, chiaramente divertita dalla mia affermazione. — Ti chiederei di tornare con noi, Mattia, se non ci fosse Lorianne. O vuoi unirti a noi, Lorianne?
   — No, grazie — rifiutai. — Tranquilli, io posso continuare da sola. Inoltre, i miei cugini mi stanno aspettando. — Misi su un ghigno sarcastico. — Vai, Mattia. E mangia, che sei dimagrito.
   L’ultima immagine che ebbi di lui per quella sera fu suo nonno che gli scompigliava i capelli.
   Mi voltai e proseguii per la mia strada. Camminando incrociai gli sguardi di alcuni passanti, e mi domandai se anche loro vedessero Mattia come lo vedevo io.
   No, mi risposi poi. Ovviamente non sapevano ciò che sapevo su di lui. E magari, se pur lo avessero saputo, comunque non avrebbero concordato con me.
   Forse ero l’unica a vederlo in quel modo. O forse non lo ero, considerato quanto era successo nel palazzo dei mannari.
   Sperai che anche lui si vedesse così. Come un ragazzo che era rimasto in equilibrio sull’orlo del baratro. Come un uomo di grandissimo coraggio. Come colui che avrebbe portato speranza dove la speranza si era estinta. Come un liberatore.

 

“Won’t you help to sing, these songs of freedom
‘Cause all I ever had,
Redemption songs, redemption songs”


Aaand here we go.

Mamma mia, signori, non avete idea di che liberazione è stata pubblicare finalmente questi capitoli.

Ma andiamo per ordine.

 

Anna:

Niente di particolare da dire, così come il capitolo stesso non è niente di particolare. Lo so, è un po’ scialbo rispetto alla mia media, ma dovevo tenervi freschi per la triade. Rinnovo l’invito a leggere Incontri, comunque. E ovviamente Anna è mia nonna. La rivedremo moltissimo nelle Houses.

 

Alea iacta est ~ Parte prima:

Non so da quanto tempo ho pronto questo capitolo. Sicuro sicuro da marzo dell’anno scorso. Ho dovuto adattare sia questo che i successivi a delle particolari esigenze di trama e storyline, quindi magari qualcosa sarà risultata poco chiara o frettolosa – me ne rendo conto, sì, ma riprenderò tutto nei capitoli a venire – però è comunque un’ottima produzione per il periodo in cui è stato scritto. Entrambe le parti di Alea iacta est sono state scritte secondo lo stile della song-fiction su Russian Roulette di Rihanna.

 

Alea iacta est ~ Parte seconda:

Okay, questo già mi piace un po’ di più. E ci credo, sono pure 4300 parole. (Dovevo compensare le 2300 della prima parte). Mattia piuttosto badass.

 

Canzoni di redenzione:

Come Alea iacta est, anche qui song-fiction, questa volta su, appunto, Redemption Songs di Bob Marley. Mattia ancora badass. Adriano sarà importantissimo nelle Houses e anche Sabrina avrà la sua buona parte. Carmine invece sarà sempre presente nei ricordi di chiunque, come ogni uomo odioso e odiato che si rispetti. Da qui comincia la vera storia e da qui cominciano anche le Houses. (MUHAHAHAHAHA).

 

Niente, finisco qui. Anzi, altre due paroline ine ine: per carità divina FATEVI SENTIRE. Non credo proprio che a questo punto non abbiate nulla da dire; prima poteva anche essere, ma adesso... be’, proprio no. Ripagatemi questo sforzo, per favore, io faccio di tutto per arrivare a toccare la vostra mente e il vostro cuore. Davvero, almeno stavolta. Mi raccomando.

 

Alla prossima,

Federica

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Capitolo 18
*** Vita informe ***


16. Vita informe

Vita informe

 

Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe.
[...] La mia vita ha contorni meno netti: come spesso accade,
la definisce con maggior esattezza proprio quello che non sono stato:
buon soldato, non grande uomo di guerra; amatore d’arte, non artista
come credette d’essere Nerone alla sua morte;
capace di delitti, ma non carico di delitti.
 

[Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano]

 

 

Anna convinse Mattia a restare a dormire da lei per tutta la settimana.
   A quel punto mi chiedevo se fosse a conoscenza della difficile situazione che stava attraversando il nipote in quel momento, o perlomeno se sapesse della sua natura di lupo mannaro; tuttavia, dubitavo di entrambe le cose. E non perché non aveva avvisato Mattia – conoscere il futuro serve a ben poco, se non puoi cambiarlo – ma perché non aveva avvisato me.
   Nessuno meglio di me avrebbe potuto comprendere il vero significato di un certo tipo di visioni; se anche non avesse voluto dirlo a Mattia, sicuramente io avrei potuto trarne vantaggio. E invece niente, si era limitata a indicarci come arrivare all’edificio con lo stemma dei Durazzo, il giorno in cui eravamo andati a casa sua, e a fare la nonna amorevole con Mattia finché i suoi genitori e la famiglia di suo fratello non erano tornati dalla gita fuori porta che li aveva provvidenzialmente tenuti lontani da Gaeta in quel periodo.
   Cominciavo a sospettare che qualcosa di provvidenziale ci fosse veramente, nei motivi che avevano spinto Mattia a rimanere da solo in città mentre madre, padre, fratello, moglie e nipotino si concedevano una piccola vacanza al fresco dell’Umbria per festeggiare due anniversari di matrimonio. Ufficialmente, Mattia aveva da studiare per la maturità; ufficiosamente... be’, se non c’era davvero lo zampino di una qualche entità onnisciente, suppongo che Mattia avesse già iniziato a subodorare cosa sarebbe dovuto accadere.
   Comunque stessero le cose, tanto meglio per noi: io avevo la sicurezza che ci fosse una persona come Anna accanto a Mattia, nel caso si fosse verificato uno di quegli orribili scenari per scongiurare i quali non risparmiavo sui mezzi; lui in parallelo poteva andare e venire da Villa Orlando e da Santa Lucia ogni volta che voleva, a patto di tornare dalla nonna quantomeno per cena.
   E dalla nonna ci tornava; riluttante, ma ci tornava.
   Se avevo capito qualcosa di Mattia quello era il suo cieco e assoluto rispetto delle condizioni, sia che gliele imponessero altri, sia che se le imponesse da solo. Aveva detto che avrebbe fatto una determinata cosa? Bene, allora l’avrebbe fatta, punto e basta.
   Per sua somma fortuna, i mannari arrivarono quasi subito a questa conclusione. Quei pochi ai quali non era bastato il discorso pronunciato neanche ventiquattr’ore dopo la morte dell’ex Alpha si convertirono alla sua causa in seguito a una brevissima chiacchierata in privato, mentre un Mattia rivelatosi assai abile nei giochi psicologici si presentava alle teste seriamente dure come quello che riteneva essere l’esatto opposto del suo predecessore: un giovane uomo comprensivo, aperto e disponibile, la cui migliore arma e migliore difesa era la parola.
   Aveva da subito messo in chiaro che non avrebbe obbligato nessuno né a restare né ad andarsene; sottilmente, però, con una maestria tale che neppure il più esperto avvocato sulla piazza avrebbe potuto eguagliare, aveva celato tra le righe una tanto semplice quanto importante affermazione: se ve ne andate, i cavoli sono vostri.
   Contrariamente a tutte le sue e le nostre stime, i lupi, da trenta che erano, trenta rimasero.
   O almeno, trenta erano quanti abitavano al Palazzo.
   Secondo Adriano, contando anche le affiliazioni e aggiungendo uno scarto minimo delle vittime non riconosciute o accolte da altri branchi, il numero complessivo delle violazioni agli Accordi di Mallardo&Co si aggirava attorno ai settemila. Solo in Italia.
   Dal canto suo, Adriano recitava la parte dello gnorri e dell’indifferente, ma in fondo era quello, insieme a Sabrina, dalle cui spalle era stato tolto il peso più grande. Ed era anche quello che ne sapeva di più sull’argomento, dato che era il primo e unico figlio del boss, nonché prossimo erede dell’impero criminale dei Mallardo.
   Riguardo la faccenda dell’erede, quando Trish glielo accennò lui scoppiò a ridere amaramente. — Io? Io? Sì sì, come no... ma mi faccia il piacere!
   Ci aveva raggiunte in uno degli archivi al secondo piano – Mallardo doveva proprio amare il cartaceo – e se ne stava fermo sulla soglia, gambe divaricate e mani in tasca, a guardare me e Trish che sgobbavamo per liberare tutti gli armadi, deliziandoci con gioiose storielle tratte dal suo passato.
   È anche vero che la rispostaccia ce l’eravamo cercata con il nostro comportamento un tantino insolente, ma non eravamo affatto preparate a quello che seguì suddetta rispostaccia: — Per il giorno in cui mio padre avesse lasciato il trono, io sarei già stato sepolto sotto sette metri di terra da decenni.
   Per un’oscura ragione Trish, al sentire quella frase, sobbalzò più violentemente del dovuto. — Mi dispiace — mormorò, raccogliendo dal pavimento i fogli che le erano caduti di mano.
   Adriano sorrise appena, poi tirò un lungo respiro e prese a sbottonarsi lentamente la camicia. Arrivato al fondo spostò la stoffa di lato, scoprendo una grossa e spessa cicatrice che attraversava tutto lo sterno e finiva poco sopra l’ombelico.
   Ci raccontò che i suoi problemi erano letteralmente iniziati il giorno in cui era nato prematuro tra il settimo e l’ottavo mese di gravidanza, con una grave patologia cardiaca a complicare ulteriormente le cose e quel pazzo di suo padre che aveva tentato di morderlo non appena l’avevano lasciato uscire dall’incubatrice. Aveva passato l’infanzia in giro per ospedali e sale operatorie a stare ai comodi di medici illuminati che in sostanza lo usavano come cavia per sperimentare nuove tecniche e nuovi trattamenti, risultandone impedito ad andare a scuola e perciò dovendo essere educato privatamente.
   — Penserete che, con tutti quei soldi, a questo punto io sarei dovuto stare meglio di voi due messe insieme. E mi dispiace dirvelo, ma sbagliate, e di grosso pure. — Parlava come se avesse ripetuto quel discorso così tante volte da averlo imparato a memoria. Un po’ della mancanza di espressione nella voce mi ricordava il padre, ma a differenza di Mallardo senior Adriano aveva un ottimo motivo per non voler mostrare del sentimento. — Mio padre non ha mai voluto sborsare un singolo centesimo per me. Mi correggo: l’ha fatto, solo che non si è mai scomodato a cercare una soluzione definitiva.
   Faceva delle pause a effetto che sembravano scritte tra le didascalie di un copione, per quanto erano azzeccate. Il tono era amaro, ricco di rassegnazione, a tratti sarcastico. Era il tono che non avrebbe dovuto avere un ragazzo di vent’anni massimo. Era il tono del condannato alla gogna.
   — Fino a poco fa credevo che al mio funerale mio padre avrebbe buttato nella fossa, al posto delle rose, tutti i soldi che aveva rifiutato di dilapidare per salvarmi il culo. Immagino che dovrò cambiare le mie valutazioni del post-mortem.
   Mio padre, mio padre, mio padre. Non l’aveva mai chiamato diversamente. Una sorta di formale via di mezzo tra papà e Carmine. Mi ricordava come Jean si rivolgeva a René negli ultimi tempi.
   — Mi hanno impiantato un defibrillatore che dovrebbe aiutare a mantenermi su questa terra ancora per un degno periodo, ma per qualche strano e astruso motivo la mia condizione peggiora molto più velocemente della norma, perciò... evito di compiere grossi sforzi, anche quando dovrei e vorrei.
   Ci fece l’occhiolino. Era bello, Adriano, ma di una bellezza effimera e fragile, che ti svaniva sotto gli occhi non appena ti permettevi di distogliere l’attenzione. Era alto, serio e austero, ben vestito, senza apparente traccia di sbavature e imperfezioni. Eppure a uno sguardo più attento si notava che quest’immagine era solo un guscio, uno scheletro, una corazza per tenere insieme tutti i suoi pezzi: colletto alto che nascondeva un’eccessiva pulsazione della gola, maniche lunghe per celare un lieve edema dei polsi, un tintinnio sospetto nella tasca che rivelava la presenza di un tubetto di pillole – considerato l’edema, probabilmente diuretici.
   In lui c’era un qualcosa che avevo già visto anche in Mattia: maturità, risolutezza, acutezza d’ingegno, un pizzico di lucida follia. Era una preda facile da ottenere ma impossibile da accettare, con un piede sull’orlo del baratro e un’insana determinazione a volersi buttar giù piuttosto che indietreggiare.
  Da quanto ci stava dicendo era palese che la prospettiva di una morte improvvisa e senza troppa sofferenza lo stuzzicasse, perlomeno prima della morte del padre. Ma ora che al mondo c’era una ragione in più per vivere tutte le sue convinzioni, meditate in anni e anni, venivano messe alla prova.
   Per controbilanciare, lui metteva alla prova Mattia. E Mattia, nonostante a primo impatto si mostrasse leggermente indispettito, a modo suo gliene era assai grato.
  
La gratitudine non era un fatto nuovo per Mattia – fosse stato per lui, avrebbe ringraziato anche Carmine Mallardo per avergli ficcato in mano quella pistola – ma per Adriano lo era eccome. Citandolo letteralmente, solo tre persone gli erano mai state grate in tutta la sua breve vita, e Mattia era una di quelle.
   A quel punto, a Trish parve lecito domandare quali fossero le altre due persone. Adriano rispose subito, in quella maniera concisa ed enigmatica che lo caratterizzava: — Due ragazze – dannazione, adesso saranno due donne.
   — E cosa hai fatto a queste due donne?
   — Ti piacerebbe saperlo?
   — Sì — affermò schiettamente lei, e non c’era traccia di malizia.
   Adriano sospirò. Sembrava rammentare qualcosa di piacevole. — Ad entrambe mi sono concesso, sebbene in sensi diversi del termine. Per una ho speso il mio tempo, per l’altra ho speso milioni, e tali milioni sono il perché non posso trovare da solo i soldi per decidermi a salutare definitivamente questo cuore di merda. Ho avuto l’accesso a una parte del conto del clan alla maggior età, ma quel poco che potevo possedere l’ho usato tutto per un’impresa di cui ancora non so l’esito.
   — Le amavi? — chiese Trish esitante.
   Parve rifletterci. — No — dichiarò infine. — Insomma, la prima era un po’... difficile da amare, e per la seconda provavo un immenso affetto, ma niente di più. No, non le amavo, anche se credo che avrei potuto, in altre circostanze.
   Trish annuì. — Capisco.
   — Fidati, Patricia... — Adriano rise tristemente. — Tu non capisci.
   — Ma...
   — Non provarci nemmeno — la fermò immediatamente lui, sulla via della porta. — E non azzardatevi a entrare nella stanza chiusa a chiave al terzo piano, oppure ve la vedrete con me.
   E se ne andò.

 

 

Ovviamente, questione di cinque minuti ed eravamo già nella stanza non più chiusa a chiave al terzo piano. Fortuna che Trish si era portata dietro il tablet, adesso impegnato ad hackerare il sistema di sicurezza dell’edificio per poter accedere alle telecamere di sorveglianza ed eliminare ogni traccia della nostra visita di cortesia a quello che si era rivelato essere un vergognoso imbroglio: quel discreto numero di metri quadri – bisognava ammetterlo, la camera era piuttosto spaziosa – non ospitava altro che una grossa scrivania semicircolare con sedia girevole annessa, lampadario a led, qualche finestra e, orrore!, altri armadi. Armadi su armadi su armadi.
   Quel palazzo era una delusione totale. Solo armadietti, armadini e armadioni, cassetti, cassettini e cassettoni, fascicoli su fogli, fogli su fascicoli, fascicoli su raccoglitori, archivi e archivi e archivi. C’era carta dappertutto. (E per fortuna c’era anche dove serviva).
   Ragionevolmente, alla luce dell’avvertimento di Adriano pensammo che ci dovesse essere un qualcosa di compromettente racchiuso nei documenti di quella stanza. Trish provò a scannerizzare qualche pagina di prova e ad avviare un sistema di riconoscimento parole chiave, ma era un’operazione troppo complessa per un tablet che già stava dando il meglio di sé; oltretutto, la maggior parte di quelle informazioni era scritta a mano. Così lasciammo perdere l’approccio tecnologico e, sempre procedendo a caso, ci dedicammo alla lettura.
   Ciò che mi capitò di leggere inizialmente non era niente di troppo interessante: intercettazioni telefoniche di scarsa rilevanza, una lista di nomi sbarrati con un pennarello rosso, una serie di foto non proprio pudiche di una donna che assomigliava a Sabrina – se fossi arrivata a scoprire che quelle foto le aveva scattate Adriano, giurai, avrei vomitato anche l’anima – e un paio di vecchie cartelle cliniche di Sabrina stessa risalenti al periodo della gravidanza.
   Fu proprio sotto a queste che trovai un’altra cartella clinica, molto più corposa, che apparteneva stavolta ad Adriano. Serrando i denti la sfogliai velocemente per più di metà, cercando di non far cadere lo sguardo sugli orribili referti di quando era ancora bambino e sui tracciati di elettrocardiogramma dei quali persino io riconoscevo le gravi anomalie, finché non mi scivolò tra le mani, quasi tagliandomi, un piccolo rettangolo di carta: la fotocopia in bianco e nero di un originale che avevo visto a colori.
   Subito chiamai Trish per mostrarle il foglio, e se possibile lei rimase ancora più sbigottita di me.
   — Non ci credo — mormorò, a corto di fiato. Non potei far altro che concordare.
   Un trillo del tablet ci impedì di continuare la conversazione su quella linea. Trish si alzò riluttante per andare a controllare, e stavolta fu lei a chiamare me: — Lori, non riesco a bypassare il sistema.
   — Impossibile — replicai per istinto, senza darle corda. Faceva spesso così quando le cose si protraevano per più di dieci minuti.
   — No Lorianne, tu non capisci: io non ci riesco — ripeté sconsolata. La intravidi scuotere violentemente la testa. — Quando siete venuti qui tu e Mattia avevo trovato qualche difficoltà, ma niente in confronto a questo. C’è stato un cambiamento, un grosso cambiamento, nelle misure di sicurezza — aggiunse. — E il bello è che è tutto impostato nello... nello stesso identico modo in cui lo imposterei io. 
  
Stavo ancora fissando quel foglio, ma la sua affermazione mi fece rapidamente distogliere lo sguardo per puntarlo su di lei. — Perdonami, ma così non dovrebbe esserti più facile?
   Trish pestò i piedi indispettita. — No che non lo è! — ribatté, frignando come una bambina che fa i capricci. — Io uso uno schema a cubo di Rubik, una derivazione di mia personale invenzione dallo schema a labirinto.
   — E ciò significa...
   Sospirò. — Quarantatré miliardi...
   Quarantatré miliardi?!
   — No — negò subito. — Quarantatré miliardi di miliardi di combinazioni possibili. Solo per il primo livello.
   Mi misi le mani tra i capelli. — Quanto ti ci vuole?
   Trish ci rifletté su per un po’. — Minimo un mese, lavorando a pieno ritmo — rispose, imbarazzata. — Ma non avrebbe senso; a quel punto avranno già scoperto che siamo state qui.
   Sparpagliai i fogli sul pavimento in un raptus di frustrazione, poi respirai profondamente e a lungo per calmarmi. — Poco male, Trish. — Buttai la testa all’indietro sbuffando. — Al limite chiederemo l’intercessione di Mattia.
   — Perché, l’hanno già fatto santo? — fece lei, sarcastica, mentre azzardava un ultimo, estremo tentativo di far valere la sua sovranità di hacker. Tentativo che, anche se non servì al suo scopo primario, servì certamente a farci fare un salto dalla sorpresa.
   — Lori! — strillò Trish, saltellando per l’esultanza. — Lori, è comparso qualcosa!
   Scattai in piedi e mi avvicinai a lei per leggere la scritta apparsa sullo schermo nero: — Animula vagula, blandula, hospes comesque corporis, quae nunc abibis in loca pallidula, rigida, nudula, nec ut soles dabis iocos. — Mi accigliai. — Cos’è, un carme?
   — Suppongo — mugugnò Trish. — Non sono io quella che sa a memoria centinaia di poesie in tutte le lingue del mondo, Lorianne cara, quello è tuo padre. In ogni caso, se potessi navigare nell’Internet la cercherei qui ed ora, ma questo tablet maledetto non è capace di fare più cose contemporaneamente.
   Come se hackerare la rete di un clan di camorristi eliminando tutti i possibili virus, disinstallando le backdoor, smontando una configurazione creata a tavolino e facendo tante altre operazioni di cui non ho la minima idea non fossero più cose contemporaneamente, pensai, ma mi trattenni dal dirlo. — Potrebbe essere una specie di codice? — suggerii invece.
   Contro tutte le mie previsioni, lei mi diede ragione. — Può darsi — convenne infatti. — Ho bisogno del computer, però, il che rappresenta un altro motivo per tornare a Villa Orlando — concluse con una breve occhiata al pavimento, dunque prese baracca e burattini, mi salutò e mi lasciò sola tra le carte.

 

 

Poco dopo raggiunsi Mattia nello studio segreto al piano terra. In quei giorni non aveva fatto altro che dividersi tra l’ingresso, dove controllava assieme a Logan il materiale da inviare a Villa Orlando, e quella stanza, nella quale teneva i suoi colloqui coi mannari. Se Anna non gli avesse imposto di tornare da lei a determinati orari, ero certa che avrebbe anche mangiato e dormito sulla scrivania. Si era pure portato da casa una copia digitale della tesina di maturità e un paio di libri scolastici, così da poter studiare nei pochi minuti liberi. Mi faceva pena vedere il suo ambiente di vita ridotto a quel misero spazio, ma avevo compreso che con lui non c’era di che discutere quando era tanto ostinato su qualcosa.
   La porta era aperta, quindi entrai senza bussare. — Ehi, Matti... oh. Adriano. — Indietreggiai d’istinto. — Me ne vado, tranquilli.
   — Ecco, brava — bofonchiò quello in risposta, subito fulminato con lo sguardo da Mattia: — Vieni, Lorianne, e non starlo a sentire. Oggi è un po’ mestruato.
   Ricevette di rimando un verso di scherno, ma lo ignorò e riprese a parlare: — Come dicevo, Adriano, io dei soldi non me ne faccio niente, ergo spendeteli come vi sembra opportuno, io me ne frego.
   Adriano batté i pugni sui braccioli della sedia. — Mattia, ma mica pensi che noi con i soldi ci pulissimo il culo prima che arrivassi tu? Ci sono gli informatori da pagare, i potenti da corrompere, le piazze di spaccio da rifornire e i traffici da mandare avanti...
   — E tu mica pensi che io voglia mantenere lo stesso assetto che il clan aveva con tuo padre? — replicò, serafico, Mattia. — Allora non ci siamo intesi, Adriano.
   L’altro mi guardò male. — Ancora qua stai? I cazzi tuoi no, eh?
   Feci spallucce, sorridendo. — Se vuoi che tuo padre venga sputtanato davanti all’intero Sottomondo...
   — Ma è questo il punto! — gridò lui, furioso, scattando in piedi e quasi facendo rovesciare la sedia all’indietro. — Se sputtani lui sputtani anche noi, Mattia! Tutti noi! È un’ora che te lo ripeto!
   — Ed è un’ora che io ti ripeto che vi assicurerò protezione. — Mattia tentava di restare calmo, ma anche lui stava perdendo le staffe. — Dopotutto, cosa mai avete potuto fare di peggio di quanto ha fatto Mallardo?
   Adriano trattenne il fiato per un secondo, poi espirò violentemente scuotendo la testa. — Dio mio, Mattia, come puoi pretendere di sederti al suo posto senza sapere niente di noi, niente di me?!
   Mattia colse la palla al balzo. — Perché, cosa devo sapere di te? Cosa hai fatto, tu, che io dovrei sapere?
   Se ne fu anche minimamente colpito, Adriano non lo diede a vedere. — La domanda non è cosa ho fatto — bisbigliò in tono cospiratorio, — ma cosa non ho fatto.
   — Bene — sussurrò Mattia. — Cosa non hai fatto?    
  
La risposta giunse dal fondo dell’atrio: — Te lo dico io, cosa non ha fatto.
   Trish arrivò di corsa, stringendo in una mano un fascicolo familiare e nell’altra il tablet, con un sorriso da orecchio a orecchio stampato in faccia e gli occhi che brillavano. — Rita D’Amante — annunciò, gettando il fascicolo sulla scrivania. — È la tua psicologa, Adriano.
   — Oh, che novità — dichiarò lui, fintamente sorpreso. — Guarda, non lo sapevo.
   — E sei uno stupido, ti fai anche prescrivere farmaci da una che non ha l’autorizzazione per farlo — continuò lei imperterrita. — Comunque, vi rivelo che l’allieva ha superato il maestro: due anni fa ho inventato il metodo a cubo di Rubik e il mio caro mentore ha capito come usarlo da un paio di giorni soltanto, per di più con una grossa falla nel sistema che era sì ben celata ma altrettanto facile da smantellare. Inoltre, quel gran pezzo di cretino non ha neanche nascosto la sua identità e mi ha persino fornito ogni singolo mezzo per sgamarlo. Perciò ecco cosa Adriano non ha fatto: non è stato prudente.
   L’attenzione di chiunque era concentrata su Trish, ma tutti riuscimmo a vedere Adriano sbiancare.
 
 Mattia non ci stava palesemente capendo un tubo, mentre io pian piano misi insieme i pezzi di un puzzle sconvolgente. Logan aveva abbandonato la sua postazione all’ingresso ed era venuto a godersi lo spettacolo; un piccolo gruppetto di lupi curiosi l’aveva seguito.

   Trish si concesse una breve risata di gioia, poi afferrò Adriano per il bavero della giacca, trionfante. — Salve, Imperator.



*ba dum tss*

Io vi avevo detto che Adriano sarebbe stato importantissimo *fischietta*.

Niente, non ho altro da dire quindi bye bye!

(Ah, io sto ancora aspettando i commenti, eh. Non vorrei essere cattiva, ma che bei lettori che siete...)

Aspettatevi un capitolo il più presto possibile, alla prossima!

Federica

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Capitolo 19
*** Ciò che tu ami ***


17. Ciò che tu ami

Ciò che tu ami

 

Qual è la cosa più bella sulla terra nera?
Una schiera di cavalieri? Di fanti? Di navi?
Ciò che tu ami, io dico. 

[Saffo]

 

Dopo avergli urlato in testa un paio di cosucce non troppo carine, Trish si trascinò via un inebetito Adriano verso una destinazione sconosciuta. Non ero sicura al cento percento che anche lui fosse arrivato simmetricamente alla stessa conclusione di mia cugina, ma qualcosa doveva pur aver capito.
   Al contrario c’erano persone che – a ragione – non avevano capito un bel niente, perciò a me e a Logan toccò tenere un breve comizio per spiegare almeno i punti salienti della storia, a cominciare dai bei vecchi tempi in cui la nostra cara Trish altri non era che un’ingenua apprendista hacker adescata sulla rete da un tizio misterioso che si nascondeva dietro un nome d’arte piuttosto azzeccato.
   Inutile aggiungere che Mattia era furioso: se non avessi avuto la certezza che non se lo sarebbe mai sognato, avrei scommesso che di lì a pochi minuti sarebbe andato a cercare Adriano in qualunque posto fosse per, a dirla con le sue parole, “fracassarlo di mazzate”.
   Neanche i lupi che avevano assistito alla scena furono risparmiati dalla sua ira, tantomeno scamparono a una ramanzina in perfetto stile Mattia: — Ma quando avevate intenzione di dirmi che è un maledetto criminale informatico?! — Assomigliava in modo inquietante a una mamma che sgrida i suoi figli perché hanno rotto la finestra dei vicini giocando a calcio. — Quante volte vi ho ripetuto che dovete mettermi al corrente di qualsiasi cosa o altrimenti il cazziatone ve lo beccate doppio? Mi sembra di parlare ai muri, guardate, mi sembra di parlare ai muri.
   Mi veniva da ridere a vederlo sbraitare così, però in effetti non aveva torto: i mannari dovevano riporre fiducia in lui, sì, ma diametralmente anche lui doveva poter riporre fiducia in loro. Purtroppo lì non pareva valere il principio della reciprocità, quantomeno non nei modi in cui un cittadino civile si aspettava che valesse.
   Nel palazzo dei licantropi – e probabilmente anche nell’intero, enorme clan dei Mallardo – la reciprocità assumeva soltanto valori negativi: tu mi fai un torto e io ne faccio uno peggiore a te, in un’esemplare legge del taglione. Ciò che offriva Mattia temevo fosse per i lupi semplicemente inaccettabile. Ammiravo la sua perseveranza, ma prevedevo che i suoi buoni propositi un giorno sarebbero stati impossibili da attuare persino per lui, e allora Dio solo sa cosa sarebbe potuto accadere.
   A posteriori, molto a posteriori, realizzai che non mi sbagliavo affatto.

 

 

Presi da parte Mattia per poter chiacchierare un po’; era da quasi una settimana che non avevamo l’occasione di farlo seriamente. Era domenica, e in serata sarebbero rientrati in città i suoi genitori e la famiglia di suo fratello: dalla mattina dopo avremmo dovuto vedercela noi da soli, privi del suo aiuto e della sua presenza rassicurante. Ci saremmo comunque incontrati al ristorante – avevamo ufficiosamente prenotato un tavolo da quattro verso l’una – ma il Lupo di mare non era proprio il miglior posto per un briefing.
   Eravamo in una delle stanze al piano – il primo – che ospitava gli alloggi per i membri del branco. Ognuno di questi si componeva di una o due piccole camere da letto più un bagno e un modesto soggiorno; la cucina e la sala pranzo erano comuni a tutti e si trovavano in fondo al corridoio. Constatai che, nonostante il clima generale non troppo spensierato, lì doveva essersi formata una bella comunità. Di sicuro Carmine Mallardo sapeva bene come giocare le sue carte: una sistemazione del genere necessitava di fiducia, collaborazione e rispetto reciproco, e un’eventuale lite poteva essere facilmente sedata nello stesso modo in cui si sarebbero messi a tacere due vicini di casa che litigavano per la spazzatura. Considerate le sue abilità, non mi sorprendevo che fosse riuscito a creare e a mantenere per così tanti anni un impero di quelle proporzioni.
   Altro motivo, questo, per cui avevo il serio timore che Mattia sarebbe rimasto schiacciato sotto quell’enorme carico di responsabilità, prima o poi, o che peggio ancora, in futuro, il potere sarebbe stato in grado di corromperlo come aveva corrotto Mallardo. Mattia aveva tutte le buone intenzioni del caso e una testaccia dura che gli sarebbe servita non poco, ma a conti fatti era solo un ragazzino neppure uscito dal liceo, con una limitatissima esperienza di vita e ancor meno esperienza del Sottomondo, per non parlare della sua assai naturale e assai nobile avversione nei confronti delle attività illecite di cui ora, volente o nolente, era a capo.
   Anche adesso che la sua anima candida era indissolubilmente sporcata dalla macchia nera dell’omicidio, Mattia era circondato da una cappa di innocenza quasi bambinesca che mi rendeva difficile immaginarlo a doversi relazionare con un determinato tipo di situazioni, fosse pure perché vi era costretto; in parallelo, però, nemmeno ritenevo possibile che qualcuno volesse spontaneamente dargli una mano – i più “esperti” in primis – o addirittura si offrisse di prendere il suo posto, così come dubitavo alquanto che uno dei lupi si sarebbe azzardato a sfidarlo per strappargli il titolo di Alpha: nel bene o nel male il fantasma di Carmine Mallardo aleggiava ancora sui corpi dei suoi ex sottomessi, impedendo loro di compiere certe azioni o prendere certe decisioni, costringendoli a credere di essere ancora suoi burattini.
   Mi era capitato spesso, in quei giorni, di vedere lupi – soprattutto i più giovani – che esitavano a rivolgersi a Mattia in modo informale o persino a salutarlo con un ciao se incrociavano per sbaglio il suo sguardo. Lui aveva provato a intervenire su quelle abitudini sbagliate, ma aveva lasciato perdere quasi subito. Era lentamente arrivato alla conclusione di avere potere di vita o di morte su chiunque appartenesse al suo branco, dai neonati agli adolescenti e ai membri più anziani, di essere in sostanza intoccabile e inviolabile, quasi venerabile. E ne era altamente disgustato.
   Almeno questo mi rincuorava; in fondo, anche dal suo primo discorso era intuibile quanto tutto ciò lo ripugnasse. Eppure, non potevo fare a meno di ripetermi, chi disprezza compra.
   Riflettei se metterlo al corrente o meno di tali valutazioni, ma alla fine optai per il sì, sebbene non sperassi di ottenere chissà quali risultati. — Capisco, Lorianne, ma non posso farci niente — mi disse lui infatti. — Intanto ti do la mia parola che proverò a restare sulla retta via, e se non terrò fede a questa promessa hai tutto il diritto di venirmi a cercare e trapassarmi con quel tuo bel pugnale d’argento.
   — Perché dovrei venirti a cercare se saprò sempre dove sei? — ribattei per contro, sollevando le sopracciglia. — Ricorda, hai messo la tua sanità mentale nelle mie mani.
   Mattia sorrise mestamente. — La mia sanità mentale starebbe meglio lontano da me.
   Quelle parole non mi offesero né mi ferirono, ma certamente mi lasciarono un po’ turbata. Questo cosa significava, che voleva che io stessi lontana da lui oppure che riteneva opportuno tenere metaforicamente a distanza la sua ultima arma di controllo perché non venisse alterata dagli eventi in corso?
   Non contribuì a fornirmi una risposta, quantomeno non verbalmente. Preferì piuttosto mostrarmela.

 

 

Il lunedì non fu tanto orribile come avevamo temuto. Con Mattia assente, una persona insospettabile si assunse il compito di fare da mediatore tra noi e i lupi: Adriano.
   Trish era sicuramente implicata nel caso, dato che i due erano spariti chissà dove per una giornata intera; in effetti, interrogandola a proposito, mi sentii rispondere: — Come, cosa avete fatto?! Siamo andati a letto, è ovvio!
   Gongolava come una bambina. Era difficile restare indifferenti alla sua esuberanza, ma mi lasciai contagiare solo per lo stretto necessario: i miei pensieri erano tutti rivolti ad Adriano e alle conseguenze che le future azioni di Trish avrebbero avuto su di lui. Non mi aspettavo certo che mia cugina avesse intenzioni serie – non le aveva mai avute – né pensavo che si sarebbe concessa di essere un tantino più civile quando l’avrebbe scaricato senza alcuna remora, perciò mi preoccupava molto come avrebbe potuto reagire un soggetto emotivamente fragile quale Adriano. Inoltre, considerato cosa implicava essere il nuovo scaldaletto di Patricia Lewis, mi allarmavano anche i possibili cupi scenari in cui vedevo Adriano inevitabilmente morto – nel miglior modo in cui si possa morire, sì, ma sempre morto.
   Non che, per contro, Adriano non si tenesse in attività: da quanto la madre stessa ci aveva rivelato, la sua ultima fiamma era stata la ragazzina che poco meno di una settimana prima aveva ringraziato Mattia dopo il suo discorso. Con i suoi quasi sedici anni, Melissa era la più giovane del branco, morsa da Mallardo il Natale precedente. Lungimirante, Mattia l’aveva da subito coinvolta nelle operazioni di perquisizione del Palazzo – così, scoprii, i mannari chiamavano la loro sede, con tanto di p maiuscola – e lei era stata per noi un aiuto formidabile fin dal primo momento.
   Oltre che nello svolgere mansioni pratiche, Melissa collaborò con noi anche nella fase di raccolta informazioni circa Carmine Mallardo e il suo branco. A differenza dei lupi più anziani, lei non era ancora arrivata alla fase “non aprire bocca neanche per tutto l’oro del mondo” e si dimostrava aperta e disponibile. Da lei apprendemmo che Mattia era stato la prima vittima a seguito di un lungo periodo di pausa e c’era una buona probabilità che Mallardo non avesse mentito nel dire che le sue scelte erano meditate e ponderate, però per Mattia aveva agito la sorte. Ci fece qualche pettegolezzo persino sul conto dell’intera famiglia Mallardo, dichiarandosi convinta che Carmine avesse più di un’amante – “Mano sul fuoco, Sabrina lo sa!” – e non era escluso che lì fuori ci fossero pure suoi figli illegittimi; tuttavia non volle sbottonarsi ulteriormente e perse del tutto la parola quando provammo a toccare il tasto Adriano.
   Quel lunedì passai mezza mattinata ad elemosinare altri gossip da chi secondo me era malizioso abbastanza, ma alla fine mi ritrovai con un bel pugno di mosche e una fame – era proprio il caso di dirlo – da lupi.
   Per fortuna il Lupo di Mare non era lontano, e per una qualche sorta di intervento divino non era neppure troppo affollato. Il locale non era molto grande ma la studiata disposizione dei tavoli faceva sì che l’ambiente non risultasse chiuso e asfissiante; guardando con attenzione si capiva che in tempi relativamente recenti era stato fatto un restyling totale, dalle pareti all’arredamento e addirittura alle mattonelle. Dalla cucina proveniva un profumo delizioso e al di là delle porte semiopache si intravedeva la sagoma del cuoco, il padre di Mattia.
   Inizialmente ci servì un tale Leonardo, che solo dopo compresi essere anche lui un Nardone – per la precisione, il fratello maggiore di Mattia, ossia il padre di Valentino. Si assomigliavano pochissimo, ma entrambi avevano gli stessi occhi e lo stesso sorriso, oltre a quell’aria rassicurante che tanto mi piaceva di Mattia.
   Quest’ultimo si palesò verso le due e un quarto, quando eravamo già al secondo: a quanto pareva era salito dalla nonna per parlarle di qualcosa e Anna l’aveva trattenuto.
   Portava la divisa – pantaloni e papillon blu scuro, camicia bianca con le maniche lunghe arrotolate fino ai gomiti e gilet grigio ferro – che già gli avevo visto indosso il giorno in cui mi aveva rivelato di essere un lupo mannaro. Quei colori gli stavano a pennello, soprattutto ora che lo vedevo sorridente e solare. Eh sì, sistemato nel giusto modo Mattia era alquanto attraente.
   Da sotto il tavolo, Chrysta mi conficcò il tacco nel polpaccio. Da sopra, mi lanciò un’occhiata eloquente che interpretai con un “Logan ha avuto la sua avventura, Trish sta a posto, manchiamo soltanto noi due. Questo te lo vuoi tenere tu oppure posso prendermelo io?”
   Com’era materiale.
   Ma in fondo, mi resi conto, anche la sola idea che qualcun altro mettesse le mani addosso a Mattia in un determinato senso del termine mi faceva ardere d’ira.
   Cos’era, istinto di protezione? Desiderio di possesso?
   ... Gelosia?
   Fissai i residui della ricciola nel mio piatto come se avesse potuto darmi una risposta. Purtroppo, quel pesce era morto da già parecchio tempo. Non che da vivo sarebbe potuto servire a qualcosa, sia chiaro. Almeno aveva avuto una morte onorevole.
   In tutto ciò, Mattia era rientrato nei panni di cameriere e ci si era avvicinato: — ‘Giorno, ragazzi, come va il pranzo?
   — Ottimo — replicò immediatamente Chrysta tirandomi un altro calcio nello stinco, senza ottenere alcuna reazione da parte mia. Sbuffò piano, quindi aggiunse: — Però devo farti un appunto, Mattia: gli spaghetti erano...
   — Fammi indovinare: crudi — la precedette lui con un sospiro esasperato. — Sempre la solita storia. Siete voi che la mangiate scotta, la pasta, non noi che la mangiamo cruda. È al dente, cari miei, è così che si fa in Italia.
   Chris alzò le mani per scusarsi. — Mea culpa.
   — Mi hai colpito nel mio orgoglio di italiano, vergognati — ribatté Mattia, fintamente offeso. Un angolo della bocca leggermente sollevato lo tradì. — L’antipasto e il secondo?
   — Abbondanti — commentò Logan, e non potei far altro che concordare. — Non capirò mai come facciate voi italiani a infilarvi una tale quantità di cibo nello stomaco ogni giorno, credimi.
   Mattia scoppiò a ridere. — Abitudine, ci educano fin da piccoli. E poi, dai, vuoi confrontare la cucina italiana con quella americana o di qualsiasi altro paese?
   — Hai ragione — ammisi, — ma comunque non so come riusciate ad alzarvi da tavola, dopo.
   — Caffè e ammazzacaffè e passa tutto — minimizzò Mattia, mentre cominciava a prendere i piatti vuoti. Si notava la differenza tra lui e Leonardo: il fratello, che aveva fatto l’alberghiero, aveva una tecnica e un equilibrio che lui non avrebbe mai potuto eguagliare. — Frutta, dolce o entrambi? Mia cognata ha fatto una torta pere e cioccolato che è...
   Non lo lasciammo neanche finire di parlare. — Pere e cioccolato — si fece portavoce Trish. — Com
’è che si dice? Abbiamo fatto trenta...
   Facciamo trentuno — concluse lui, ridendo, avviandosi verso la cucina. — Due minuti e sono da voi!
   Stavolta toccò a Trish trapassarmi la gamba da parte a parte. — È una mia impressione o Mattia nell’ultima settimana è... maturato?
   — Ovvio che è maturato, Trish! — la rimbeccai. — Se ritrovarsi da un momento all’altro ad essere l’Alpha di un branco fuori dall’ordinario in quanto a dimensioni e potenza non è una buona spinta a maturare non so cos’altro possa esserlo, detto francamente.
   Logan ridacchiò. — Continua pure a tenere il prosciutto sugli occhi, Lori, tranquilla.
   — Il prosciutto ce l’ha anche sulle orecchie — lo corresse Chrysta con un gesto eloquente della mano, seguita a ruota da Trish: — E da qualsiasi altra parte.
   Indirizzai a tutti e tre una pernacchia sprezzante, inondando la tovaglia di saliva. Per carità di Raziel Mattia arrivò giusto un secondo dopo con i dessert. — Oh, e quella per cos’era?! — sghignazzò. — Non preoccuparti, Lorianne; vieni di là in cucina e ti do un po’ di melone, col prosciutto ci sta una meraviglia.  
  
I miei cugini naturalmente scoppiarono a ridere come pazzi, mentre io mi limitai a un bel vaffanculo ben piazzato. — Te lo ripeto, Mattia: sei l’unico che si è meritato una gita a quel paese da parte mia dopo così poco tempo.
   Lui mi sorrise beffardo. — Te lo ripeto anch’io: felice di esserlo.

 

 

Restammo al ristorante fino all’ora di chiusura, su insistenza di Mattia. Ci fece entrare in cucina e osservare la brigata all’opera, capitanata dal padre, Claudio, che era la copia spiccicata di Leonardo; dopodiché ci piazzò uno strofinaccio in mano e ci mise ad asciugare bicchieri – “Siamo a corto di personale, non è colpa mia”. Visto che ormai eravamo lì, ci adoperammo anche per risistemare il locale, chi spazzando a terra e chi pulendo pentole e piani da lavoro. Mattia era persino più pignolo di nonna Maryse e supervisionò le operazioni di pulizia pronto a rimproverare il poveraccio di turno che aveva tralasciato quell’angolo lì o non lucidato quelle posate là.
   Si erano fatte quasi le cinque quando finalmente uscimmo sul lungomare: l’aiuto cuoco e gli altri camerieri si avviarono alle loro case, Leonardo e Claudio salirono da Anna e Mattia prese la sinistra in direzione Serapo. Decisi di fargli compagnia: Chrysta aveva già stabilito con Trish un programma di shopping convulsivo a Formia e Logan si era poi unito a loro, molto probabilmente soltanto per fare da portaborse.
   Dalle parti della chiesa dell’Annunziata affrettammo il passo. Il vento spingeva le nuvole verso il mare e si sentiva già odore di pioggia. Mi resi conto che Mattia, senza accorgersene, fiutava l’aria.
   La conversazione verté in particolar modo sul pranzo e sulle ricette di tutti i piatti che avevamo assaporato. Era un argomento interessante e ricco di spunti per poter ampliare il discorso ma, ogni volta che andavamo eccessivamente fuori tema, in una maniera o nell’altra ritornavamo sul soggetto principale. Dopo un po’ questo cominciò ad infastidirmi, così gli chiesi se sapesse qualcosa che io non sapevo a proposito della persona protagonista dei miei pensieri per quel giorno: Adriano.
   Non appena feci quel nome Mattia storse la bocca. — Sono informazioni confidenziali, Lorianne. Dovrei tenerle per me.
   — Ricorda sempre che mi hai affidato un pezzo di te. Sotto certi aspetti, io sono te. Quelle informazioni rimarrebbero confidenziali.
   Rise piano. — Ti ho già detto che la mia sanità mentale deve starmi lontana.
   Per la seconda volta in poco più di ventiquattr’ore le sue parole mi disorientarono. — Bene, allora la terrò lontana — azzardai, tenendomi vaga. — C’è qualcosa in queste informazioni confidenziali che potrebbe influire sulla tua lucidità?
   Mattia abbassò lo sguardo. — Dio mio, Lori, quel ragazzo è... maledetto. — Scosse la testa, mordendosi il labbro. — Mallardo ha provato a morderlo quando era ancora piccolissimo.
   Sussultai. Non che non me lo aspettassi, dopotutto da Carmine Mallardo ci si poteva aspettare qualsiasi cosa, ma era comunque orribile ascoltare.
   — Non ha sviluppato la licantropia — continuò Mattia, con voce atona come per estraniarsi dal contesto, — e perciò il padre l’ha rinnegato. Gli ha precluso l’accesso al conto, l’ha fatto restare in bilico tra la vita e la morte, non credo l’abbia mai nemmeno preso in braccio. Non c’è da meravigliarsi se poi Adriano è così com’è.
   — Cioè? Com’è?
   Mattia ci rifletté su per un attimo. — Singolare.
   — In positivo o in negativo?
   — Entrambi — concluse enigmatico, e tenne la bocca chiusa per un bel pezzo.
   Eravamo quasi arrivati all’Hotel Serapo quando mi sorse spontanea una domanda: — Adriano ti ha detto come mai non si è rivolto a uno Stregone? — Non ci fu bisogno di specificare perché si sarebbe dovuto rivolgere a uno Stregone.
   — Ma l’ha fatto — replicò Mattia, spiazzandomi. — Il problema è che nessuno ha voluto mettergli le mani addosso. Sabrina sospetta che la causa sia la sua enorme fragilità di vita combinata a quel poco sangue demoniaco che deve avergli trasmesso il padre al momento del morso. Ora che me lo fai ricordare, devo farne parola con tua cugina, lei mi sembra la più adatta a fare luce sulla questione — aggiunse. — Fatto sta che non una sola persona si è azzardata a combinare qualcosa, si è rifiutato chiunque.
   — Non si può biasimarli, Mattia; operazioni del genere sono rischiose per tutte le parti coinvolte.
   — Immagino — convenne lui, — ma poveraccio, nemmeno con i metodi non ortodossi è in grado di trovare la pace...
   Feci per ribattere, ma un flash di luce seguito subito da un rumore improvviso mi mise in allarme. — Ahia, il lampo e il tuono erano vicini. Acquazzone?
   — Acquazzone — confermò Mattia, quindi mi afferrò per la manica e mi trascinò correndo per il lungomare. — Dai su, veloce, veloce!
   — Non sei tu quello con le scarpe scomode! — gli gridai dietro, mentre cominciavano a cadere le prime gocce.
   Al contatto con l’asfalto arroventato dal sole, la fredda acqua evaporava. Era una pioggia tutt’altro che rinfrescante, che contribuiva soltanto ad aumentare l’umidità e far infuriare chi come noi si trovava all’aperto.
   Dovendo stare attenta a non scivolare, non feci caso a qual era la nostra destinazione. Me ne resi conto solamente quando riconobbi la maiolica del numero civico sul muretto che delimitava il giardino dell’abitazione e il cancello che Mattia stava aprendo con un comando del cellulare.
   — Sotto il portico, Lori! — mi incitò lui, lasciandomi il braccio per poter prendere le chiavi in tasca. Mi fiondai all’ingresso e attesi che Mattia finisse di litigare con la serratura sciorinando un torrente di incomprensibili imprecazioni in dialetto, poi attesi il suo invito ed entrai in casa.
   — Benvenuta – di nuovo – nella mia umilissima dimora. — Mattia mi prese il coprispalle e lo appese all’attaccapanni accanto al muro. — Scusa il disordine. Quando sono solo, ecco... non è che mi dia alle pulizie.
   — Eppure al ristorante sei così meticoloso. — Mossi un paio di passi in avanti. L’atrio si restringeva in un corridoio che poi curvava attorno a un pilastro che avevo più avanti sulla sinistra, così mi bastò girare l’angolo per arrivare in salotto.
   Mattia mi fece segno di sedermi sul divano. Accettai subito: le mie gambe urlavano di dolore e le caviglie si stavano gonfiando. Invidiavo il modo in cui Chrysta e Trish portavano i tacchi per ore e ore senza effetti collaterali.
   — Be’, abbiamo uno standard di qualità da mantenere — spiegò. — E ciò implica anche, ahimè, un certo grado di pulizia.
   — Ci tornerò — sussurrai, giocherellando con la frangia di un cuscino sul quale erano ricamati dei gufi. — Al ristorante, intendo. Con la mia famiglia. C’è una bella atmosfera, lì.
   — Allora ti è piaciuto! — Mattia si lasciò cadere accanto a me e mi punzecchiò il fianco con l’indice. — Dalla tua faccia sembrava il contrario!
   — È solo che la cucina italiana è molto... — Schioccai le dita. Avevo la parola giusta sulla punta della lingua.
   — Condita? — mi suggerì.
   — Esatto. — Lo ringraziai con un cenno del mento. — C’è tantissimo olio.
   — Questo è niente — sghignazzò. — Considera che papà cucina leggero.
   — Sul serio ci sono cuochi che mettono ancora più olio? — esclamai, sorpresa. — Non mi dire!
   — Lo giuro! — assicurò con la mano sul cuore. — Una volta, per mangiare una tiella, ho dovuto arrotolarmi le maniche fino alle spalle.
   — Sì, okay, ma la tiella è un’altra cosa... Io non parlavo di pizze et similia — chiarii, prendendo mentalmente nota del colore dei gufi ricamati sul cuscino: lilla. Un gufo lilla non l’avevo mai visto, nemmeno a casa di zio Magnus dove tutto era possibile. Decisi che il prossimo gufo che avrei disegnato sarebbe stato di quel colore.
   Calò il silenzio per buoni due minuti. Proprio quando stavo per intavolare una conversazione, irritata dalla mancanza di dialogo, Mattia lo spezzò sussurrando: — Lori?
   — Sì? — Mi girai verso di lui.
   — Questa è casa mia, perciò, perché ti ho portata qui?
   — Forse perché... sta piovendo? — azzardai, poi mi maledissi mentalmente. Sì, come no, Capitan Ovvio. Ti ha portata a casa sua perché “sta piovendo”.
   Mattia tirò un respiro profondo, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì luccicavano. Mi accorsi che il cerchio dorato attorno all’iride andava pian piano allargandosi: tra due settimane sarebbe stata luna piena.
   — In realtà ci sono tanti, tanti motivi — sillabò lentamente. — In primis... — Prese fiato. — Non è vero che della... di quella sera... ricordo poco. Anzi, ricordo a sufficienza. Ricordo di aver sparato all’Alpha. Ricordo di aver visto tutto nero. Un dolore tremendo dalle parti dello stomaco. — Mi guardò da sotto in su, attraverso le ciglia. — Inoltre sono abbastanza sicuro che qualcuno mi abbia baciato. E vorrei davvero, davvero tanto che non sia stato uno dei lupi.
   Ops. Sgamata.
   Avrei dovuto accettare l’offerta di un incantesimo di memoria da parte di Chrysta. Lei aveva ragione: non volevo che rammentasse di essere stato baciato in circostanze del genere, con me sul punto di cedere per la seconda volta all’influenza della magia angelica e lui con il fianco squarciato, più di là che di qua.
   Mattia diede un colpetto di tosse. — Allora, Lorianne? Ho un pretendente licantropo, è stata tua cugina o la realtà è un’altra?
   Aprii la bocca per rispondergli, ma ne uscì solo un verso strozzato. Ci riprovai: stessa storia. Avevo il cuore a mille e il sangue correva così velocemente da rimbombarmi nelle orecchie.
   Mattia mi sfarfallò le dita davanti agli occhi. — Ehi?! Terra chiama Lorianne!
   Non reagivo. Tutti i suoi tentativi di farmi riprendere erano inutili. Ero dinamica come un baccalà sotto sale e cosciente come una zucchina.
   Mattia sospirò lentamente. — Bene. — Strinse la mascella. — Non pensavo di ritrovarmi in questa situazione. E vai col cliché.
   Si sporse in avanti di colpo, mi prese il viso tra le mani e mi baciò.
   Baciare un lupo mannaro era diverso dal baciare uno Shadowhunter. Non sapevo cosa sentisse lui, con il suo olfatto super sviluppato, ma io sentivo odore di pioggia, di foresta, di posti freddi e bui, in contrapposizione con quell’avvolgente profumo di mare, sabbia e sole che aveva sempre.
   Ed era caldo, molto caldo. Le sue labbra sopra le mie erano bollenti, le sue mani sulle mie guance roventi. Istintivamente lo artigliai per la camicia e lo attirai ancora di più a me, lasciando che il suo calore mi circondasse e scacciasse via il gelo e l’oscurità che mi avevano accompagnata per troppo tempo.
   Mattia si staccò il più piano possibile, restando però a pochi centimetri dalla punta del mio naso. Io non mi mossi di un millimetro, totalmente imbambolata.
   — Grazie per avermi accompagnato al covo dei lupi — mormorò. — Grazie per essere stata così stupida da non dirmi che avresti potuto restare senz’aria per un quarto d’ora – incolpa tuo cugino per avermelo spiattellato. Grazie per avermi fatto beccare una pugnalata all’addome. Grazie per avermi salvato la vita, anche se... be’, non in prima persona. — Mi passò l’indice sulle labbra. — Grazie per avermi baciato, Lorianne Herondale.

   Lo fissai dritto negli occhi per un istante, poi gli scoccai un ultimo rapido bacio a stampo. — Grazie per avermi dato un motivo per restare, Mattia Nardone.


Oh, finalmente. Qua molti di voi sclereranno come pazzi e altri moriranno di disgusto, ma chissenefrega, è una parte importante della storia e spiana la strada per le Houses, e in quanto tale doveva essere inserita.

Non mi sembra di dover dire altro, a parte FARESTE BENE A SHIPPARE TRISH E ADRIANO SENNÒ SONO GUAI. Poi se shippare o no Mattia e Lorianne sta a voi.

E non vi saluto nemmeno, tanto è doppio aggiornamento e vi saluto di là u.u

 

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Capitolo 20
*** La rupe ***


La rupe

La rupe

 

Prometeo: Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo. 
Ma gli dèi sono quelli che non sanno la rupe. Non sanno ridere né piangere. 
Sorridono davanti al destino. 

[Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò“La rupe”

 

Se Chrysta si fosse trovata lì in quel momento, avrebbe detto che stavo gongolando. E in effetti era così: ero talmente a mio agio tra le braccia di Mattia che per poco non mi misi a fare le fusa come una gattina.
   Fuori c’erano come minimo trenta gradi, ma dentro casa l’aria era fresca. Sotto il lenzuolo si stava una meraviglia. Davo le spalle a Mattia, che mi accarezzava il fianco con movimenti lenti e circolari del pollice. Ad un certo punto disse qualcosa che curiosamente sembrava una frase in latino.
  — Ehi, cos
’hai detto
  — Nihil est magnum somnianti.
  — Niente è impossibile a coloro che sognano?
  — Esatto. Cicerone a volte ha ragione. Nulla è stato irrealizzabile per me. Tutti i miei sogni si sono avverati... nel bene e nel male.
  — E cosa sognavi, giusto per curiosità?
  — Be’... di trovarmi nello stesso letto con una ragazza che stranamente somigliava a te — rivelò ridacchiando. Contro la schiena sentii la sua cassa toracica vibrare.
  — Lo prendo come un complimento — replicai con uno sbadiglio. Che romantica.
  — Tu invece cosa sogni, Lori? — mi sussurrò Mattia all’orecchio.
  — Troppo perché possa spiegarti tutto — bisbigliai, sentendo improvvisamente il morale sprofondare. Presi un profondo respiro; il cuore mi saltò un battito. — Al primo posto, sogno di dimenticare un intero periodo della mia vita.
  Percepii i muscoli di Mattia irrigidirsi, ma non smise di accarezzarmi. — Se mai vorrai parlarne — mormorò, — io sono qui.
  Sospirai a fatica e chiusi gli occhi. Quasi immediatamente avvertii la solita sensazione alla bocca dello stomaco, uno stretto laccio che mi impediva di fiatare. Dolori fantasma si risvegliarono in diverse parti del mio corpo.
  Il viso di Jean mi si affacciò alla mente. Vidi i suoi occhi grigi, il suo naso all’insù, da perfetto francese, le labbra che avevo baciato così tante volte. Vidi il pendente a forma di valknut che portava al collo.
  Boccheggiai. Avevo capito che di lì a poco avrei avuto una visione, come sempre quando mi capitava di ripensare a lui. Curioso: voler tornare indietro nel passato, e invece trovarsi nel futuro. Quasi fosse uno scherzo del destino.
  Ma quello che mi successe fu esattamente il contrario.

 

Ero abituata a slittare avanti nel tempo; in quei mesi lo facevo almeno una volta al giorno. Ma non mi era mai capitato di avere un flashback. Evidentemente Raziel aveva in serbo per me un’altra sorpresina.
  Non so spiegare con precisione cosa accadde. Fu come rivivere la stessa scena di nuovo, dallo stesso punto di vista, nelle stesse condizioni. Non avevo idea di nulla, nulla.

 

Camminavo mano nella mano con Jean lungo la sponda del lago Lyn. I lampioni di stregaluce, coperti da un drappo rosso-oro in vista del Natale, gettavano lunghe ombre sul suo viso, che in quel modo appariva ancora più misterioso. Stranamente aveva la barba incolta; soleva rasarsi quotidianamente. Lo preferivo così, in una sua versione un po’ più trasgressiva.
  Non sapevo perché mi avesse portata lì, tantomeno perché me l’avesse detto con così poco preavviso. Era solito avvisarmi giorni, anche settimane prima. Al tempo non me n’ero accorta, o forse avevo preferito non accorgermene. Adesso riesco a capire che era un maniaco del controllo.
  Mi fece sedere sulla riva, a pochi metri dall’acqua. Il clima lì era più mite, quindi non c’era neve né ghiaccio. Lui si accasciò al mio fianco dopo aver fatto vagare lo sguardo verso la foresta di Brocelind, punteggiata dalle fiammelle tremolanti accese dagli Stregoni per illuminare il bosco, altrimenti buio. ― Bella serata ― commentò.
  Vedendo che non continuava, replicai: ― Sì. Ci sono molte stelle.
  ― Guardare il cielo in notti come questa ti fa venire tanti dubbi ― sospirò malinconicamente. ― Ad esempio: quale sarà il nostro futuro? Ci sposeremo mai, avremo mai una famiglia?
  ― Sarebbe fantastico ― osservai. Lo adoravo quando si perdeva nelle sue elucubrazioni filosofiche.
  ― Potremo averne una certezza, sai. ― Mi cinse la vita con un braccio, e io abbandonai la testa sulla sua spalla, totalmente rapita. ― Con il tuo potere.
  Mi irrigidii. ― Jean, te l’ho detto non so quante volte. Non lo faccio sotto comando. Non è una cosa che posso controllare.
  ― Ma potresti, non è vero? ― All’improvviso me lo ritrovai davanti. Aveva assunto una posa felina, da pantera. I suoi occhi luccicavano. ― Non ci hai mai provato. Perché non provare ora?
  Sussultai, ma alzai subito il mento per sfida. ― No.
  ― Hai paura? ― sussurrò lui addolcendo il tono della voce. Sembrava realmente preoccupato per me.
  ― Sì! ― ribattei. ― Certo che sì! Tu non hai idea, Jean ― sottolineai, ― non hai idea di quanto Raziel possa essere vendicativo.
  ― Mi accollerò tutte le colpe ― insistette. ― Dai, Lori. Almeno tenta.
  Presi un respiro profondo. Dopotutto non mi sarebbe costato nulla. ― Okay ― acconsentii infine. ― Ma non ti do alcuna sicurezza.
  Al suo cenno di assenso mi alzai in piedi.
  Gli avevo mentito. Avevo già guardato nel futuro intenzionalmente, un paio di volte. Forse più di un paio.
  Lo scrutai attentamente. Me lo immaginai di lì a dieci anni: più robusto, con un’aria più dura, la barba come sempre fresca di rasatura, gli occhi grigi più maturi, simili a nuvole temporalesche.
  Sentii la solita stretta allo stomaco, e mi preparai a slittare.
  Ma non successe niente.
  ― Allora? ― indagò Jean, più invadente che curioso.
  ― Io... io non so perché... ― Scrollai le spalle. ― Non sono riuscita a vedere nulla, Jean, mi dispiace.
  Lui si tirò su. Sulle prime parve rassegnarsi, ma dopo nemmeno un minuto prese a camminare avanti e indietro nervosamente. — Tu... tu lo stai facendo apposta — sibilò tra i denti. — Non è... possibile... che tu non ci riesca.
  — E invece sì — lo contestai. — Andiamo, Jean, lascia perdere. So per esperienza che conoscere il proprio futuro non aiuta ad affrontare i problemi della vita. Anzi, li peggiora.
  — Lorianne, tu non hai capito che questo non m’interessa. — Jean si bloccò di colpo, stringendo i pugni. — C’è qualcosa di sbagliato nel voler sapere cosa mi accadrà tra un paio d’anni? Se sì, mi spieghi il perché?
  Non l’avevo mai visto così arrabbiato. Certo, era irritabile e molto suscettibile, oltre che alquanto permaloso, ma di solito la sua ira si placava quasi subito. Oppure mi accollavo io stessa la responsabilità di placarla, trascinandolo a letto.
  Non capivo cosa lo rendesse tanto furioso. Forse credeva che gli stessi mentendo? Aveva scoperto che ero uscita di nascosto con suo cugino? In tal caso avrebbe dovuto prendersela con lui, non con me, dato che era stato Francis a convincermi. E poi, avevo tutto il diritto di uscire amichevolmente con altre persone.
  Fatto sta che Jean era possessivo. Decisamente possessivo. Non mi concedeva nemmeno di guardare un ragazzo che non fosse lui oppure un nostro compagno di classe gay. Quasi per miracolo tollerava che andassi a fare una passeggiata con Chrysta.
  Purtroppo, all’epoca ero troppo cieca, troppo ingenua, troppo innamorata per accorgermi di tutto questo.
  — Jean... — iniziai, esitante. — Jean, sto dicendo la verità. Non riesco a guardare nel tuo futuro. Non so, forse stasera non sono in vena, o sono le circostanze ad essere avverse. Ci riproverò domani — azzardai, per cercare di calmarlo.
   — No. Tu devi farlo stasera. Stasera e basta. Mi hai sentito, Lorianne? — Mi si avvicinò a grandi passi. — Fallo. In questo preciso momento.
  A quel punto non avevo idea di come reagire. Scelsi la strada più facile, e la più veloce. Più tardi me ne sarei pentita.
  Annullai la distanza fra noi avanzando lentamente. Gli cinsi il collo e lo attirai a me. — La riva, Jean — gli sussurrai all’orecchio. — Guarda quanto è invitante. Ho una tremenda voglia di...
  Lui mi prese il viso tra le mani. Pensai che stesse per baciarmi, ma invece fece qualcosa di totalmente inaspettato: mi allontanò con uno spintone.
  — Lori, non tergiversare — sbottò. — Adesso guardi nel mio futuro, e mi riveli cos’hai visto. Sbrigati.
  — SMETTILA! — urlai. — Perché insisti, eh? Cosa vuoi sapere di tanto importante?
  — Ah, questo non è il mio campo! — gridò lui di rimando. — Sei tu la veggente qui, dovresti dirmi tu cosa voglio sapere!
  — Ma io... — Emisi un verso esasperato e serrai i denti, passandomi le mani fra i capelli.
  Riflettei: tutta quell’ostinazione doveva avere un’origine importante. Non era tipo da fissarsi su una cosa per più di dieci minuti; se non otteneva ciò che voleva, nella maggior parte dei casi lasciava perdere e non ci pensava più. Quindi era ovvio che avesse un ottimo motivo per essere così testardo.
  All’improvviso il mio cervello decise di rimettersi a lavorare. La risposta apparve di botto nella mia mente.
  — Oh no, oh no — mormorai, abbracciandomi stretta come per proteggermi. — Ti prego, non dirmi che l’hai rifatto. L’hai rifatto, Jean? Per favore, dimmi di no.
  — Sì — bisbigliò lui. — Ma non come... l’altra volta.
  — Hai di nuovo ucciso un Nascosto, Jean? — strillai. — Io... io non posso fartela passare liscia, mi dispiace, io vado a denunciarti! È il terzo Nascosto che ammazzi nel giro di un mese, te ne rendi conto? — Mi trattenni a sento dal rifilargli un calcio nelle parti basse. — E vuoi che io veda il tuo futuro per scoprire se ti beccheranno o no... bastardo! Ah, ma sai che ti dico? Sarò io a farti beccare, sarò io la causa della tua...
  Non potei finire la frase.
  Jean mi coprì la bocca. — Zitta. Non urlare. — Con una mano mi strinse il polso destro. Gemetti, mentre una fitta intensa si propagava in tutto il mio corpo. — La runa angelica ti fa male... credevi che non lo sapessi? 
  Rise. Adoravo la sua risata. In quel momento la odiai. Mi terrorizzò. — Su, Lori, siamo andati a letto troppe volte perché non ne fossi al corrente. Conosco ogni centimetro di te. I tuoi punti forti... e i tuoi punti deboli.
  Aveva ragione. Ma non aveva capito che la stessa cosa valeva anche per me.
  Lo assecondai. Smisi di divincolarmi, così lui allentò la presa. Sfruttai la situazione a mio vantaggio: gli afferrai il braccio e lo torsi con tutta la mia forza, allontanandolo dalla mia bocca. Voltandomi gli tirai una ginocchiata all’addome, dove sapevo che aveva una brutta ferita ancora in via di guarigione. Jean accusò il colpo e si piegò in due, ansimante.
  Approfittai dell’occasione e gli sferrai un calcio sul fianco con la punta dello stivale. Era di vera pelle: dura e molto dolorosa. Proprio perfetta per bastonare i fidanzati.
  Sfortunatamente Jean si rialzò in piedi prima che avessi il tempo di scappare. Mi agguantò la vita con un braccio e mi fece rovinare a terra, così caddi su una roccia appuntita che mi lasciò un profondo squarcio nella parte bassa della schiena.
  — Vergognati! — balbettai. — Vergognati! Stai picchiando una ragazza, Jean!
 — Oh, ma tu non sei una semplice ragazza — mi schernì lui, sedendosi su di me in modo da impedirmi ogni movimento. — Sai difenderti o no? Non me lo stai dimostrando, Lorianne. 
  Cercò di schiaffeggiarmi, ma io scansai la sua mano. — Brava — sussurrò con aria compiaciuta. — Ma non hai ancora raggiunto l’obiettivo. Cosa ti dico ogni volta che facciamo sesso, Lori?
  — Che devo impegnarmi di più — sibilai fra i denti, mentre tentavo di trovare una via d’uscita. — Credo di averti accontentato.
  — È vero, l’hai fatto — ammise. — Tuttavia non è abbastanza. Andiamo. Impegnati di più.
  Mi impegnai. Allargai le gambe, allungai le braccia dietro la testa e alzai il bacino di scatto facendo leva a terra, scaraventando Jean a un metro dal lago. Balzai in piedi e con dei colpi del tacco lo feci rotolare finché non toccò l’acqua con la punta del naso. 
  — Sai cosa succederebbe se tu facessi accidentalmente un tuffo lì dentro e sempre accidentalmente ti finisse un goccio d’acqua in gola?
  Lui non rispose, così ci pensai io: — Allucinazioni. Dolori incredibili. Mia madre ha provato quelle sensazioni e, be’... non serve che ti dica che non ci ricascherebbe nemmeno sotto tortura.
  — E se invece fossi tu a finire nel lago? — Jean ridacchiò. — Pagherei oro per vedere la tua reazione a quell’acqua così angelica, Lorianne.
  Nel giro di un secondo invertì le posizioni, in un modo che ancora oggi non riesco a capire. Forse aveva una doppia identità – cosa che non mi sorprenderebbe affatto – e nella sua seconda vita era una specie di ninja.
  Avevo la guancia bagnata sia dal sangue che scorreva da un graffio sullo zigomo sia dall’acqua del lago Lyn. La vocina di Raziel nella mia testa si fece sentire, seguita da un intenso bruciore in tutta la zona cervicale. Mi morsi il labbro per non gemere e tentai di mostrare il mio lato da dura. — Sei uno stronzo — sibilai. — Io ti faccio causa, Jean. Non credere che la passerai liscia. Ti farò rimpiangere di essere nato e di avermi conosciuta, brutto coglione. E dire che ero innamorata di te... mi fai schifo. — Posi l’accento sull’ultima parola.
  Jean parve punto sul vivo. — Io... per l’Angelo, cosa sto... — Si alzò di botto, liberandomi.
  Non so perché non lo colpii subito. Evidentemente pensavo – speravo – che si stesse pentendo.
  — Te lo chiedo per l’ultima volta: leggi nel mio futuro, Lorianne.
  — Sì, come no — brontolai, rotolando sul fianco per rimettermi supina. — Hai per caso perso l’udito? Ti ho detto che non ci riesco.
  — E io ti ho detto che devi riprovarci! — urlò, isterico. — Puoi anche scappare, ma non finirà qui. Se vuoi denunciarmi, fallo. Ma devi rivelarmi il mio futuro. Ad ogni costo, capito? Ogni costo.
  Scappai senza pensarci due volte. Lui non provò nemmeno a fermarmi.
  Corsi a perdifiato. Chrysta e Trish erano delle maestre nell’arte della fuga con i tacchi, ma anch’io me la cavavo piuttosto bene. Rischiai di inciampare su alcune pietre; fortunatamente scampai la caduta scivolando di lato e toccando terra con la mano per riprendere l’equilibrio.
  Arrivata al limitare della foresta di Brocelind, trovai il comitato di benvenuto.
  Più di dieci persone mi circondarono. La scarsa luce mi permise di riconoscere la sorella di Jean, Corinne, e un paio di nostri compagni di classe. Giurerei di aver visto anche il favorito nella corsa alla candidatura a Ministro Sanitario: Francis. Lo stesso Francis con cui ero uscita qualche sera prima, che mi era sembrato tutto tranne che pazzo.
  La comitiva strinse il cerchio. Jean s’infilò tra Corinne e un’altra tizia, sorridendo malvagiamente. — Non dire che non ti avevo avvertita.
  — Non l’hai fatto — ribattei. — Mi avevi concesso di scappare.
  — Esatto — ammise lui. — Ma ti avevo avvisata che non avresti fatto altro che rimandare l’inevitabile.
  Ero sola. Sola contro un manipolo di psicopatici assassini di Nascosti innocenti, che come minimo nascondevano un’arma in ogni fessura immaginabile. Anche considerando l’eventualità che li avessi battuti sfruttando l’effetto sorpresa, sarei stata comunque in svantaggio.
  Restava un’unica cosa da tentare.
  Non ci avevo mai provato, e non avrei mai pensato di farlo.
  Mi inginocchiai e misi le mani dietro la testa, in posizione di resa. Chiusi gli occhi. Spensi poco a poco tutti i miei sensi. L’udito scomparve per primo, seguito dalla vista e dall’olfatto. Tenni attivi tatto e gusto solo per accertare che il labbro e lo zigomo avessero smesso di sanguinare, poi eliminai anche quelli.
  Sentii un fuoco ribollire dentro di me. La voce di Raziel, l’unico suono rimasto, si fece più forte e insistente. Reclamava vendetta, guerra, castigo. Il sangue angelico divenne magia pura.
  La liberai in un singolo, potente urlo.
  Tutti furono sbalzati decine di metri lontano da me, atterrando con un orrendo tonfo.
  Quando, parecchi minuti dopo, mi tornarono i sensi e scoprii cos’avevo combinato, per poco non svenni dalla paura.
  Nessuno si muoveva. Corinne e il tipo che penso fosse Francis erano distesi in una pozza di sangue. Jean aveva viso e collo immersi nel lago.
  Li avevo uccisi.

 

Tornai a casa per puro miracolo. Non ricordo di aver camminato; forse Raziel aveva deciso di darmi un aiutino e teletrasportarmi direttamente nella mia stanza.
  Era mezzanotte passata. Dalla camera dei miei genitori e da quella di Jon proveniva il sibilo dei loro respiri regolari. Strano: di solito avevano il sonno leggero, e si svegliavano anche al minimo rumore.
  Feci un bel po’ di casino. Buttai gli stivali a terra, rivoltai l’armadio per cercare il pigiama e aprii il miscelatore della doccia al massimo. Ma non me ne curai affatto.
  Nonostante mi fossi più o meno rilassata sotto l’acqua calda, faticai a prendere sonno. Continuavo a ripensare a cos’era successo al lago, all’eventualità che mi fossi veramente macchiata di così tanti omicidi. In cuor mio, però, sapevo che non era vero. O almeno lo speravo.  

 

Raziel mi apparve in sogno, come quasi tutte le notti. Non l’avevo mai visto in faccia; si limitava a mostrarmi le ali. Paradossalmente, in quel modo incuteva anche più paura.
  Non mi disse nulla, ma dalla tensione della schiena intuivo un certo risentimento. Probabilmente non si aspettava un gesto del genere da parte mia. Mi avrebbe punita, ne ero certa.
  E avevo ragione.

 

I miei genitori vennero a sapere dell’accaduto solo la settimana seguente. Ero riuscita abbastanza bene a nascondere lividi e graffi e a mascherare il mio stato d’animo.
Non pensai nemmeno una volta a tornare al lago.
  Avevo finito la scuola da un anno ormai, eppure continuavo a seguire alcuni corsi per passare il tempo. In quei giorni non vidi né Jean, né Corinne, né Francis. Non era raro che anche loro si presentassero a lezione; anzi, a volte venivano addirittura chiamati per sostituire i professori, come me del resto.
  Mamma e papà avevano notato che non ero tanto in vena, ma avevano lasciato perdere quasi subito. A loro avevo detto che avevo litigato con Jean, il che in effetti era suppergiù vero.
  Credo sia stato per colpa dei miei se il sabato mattina zio Simon si sia presentato alla nostra porta, con zia Iz, Logan e Trish al seguito. Più tardi anche Chrysta si sarebbe unita alla comitiva.
  Come al solito trascinai zio in camera mia. Dopo diversi minuti passati a tergiversare ed esitare, gli raccontai tutto. Elusi solo la parte in cui avevo dato libero sfogo alla magia angelica e, di conseguenza, la questione “li ho uccisi o no?”. Ovviamente lui, da bravo psicologo tarocco, lo rivelò subito ai miei genitori.
  Non sto qui a spiegare la reazione di papà. Dico solo che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe spezzato ogni singolo osso di Jean e avrebbe buttato i suoi resti in un canile pieno di bestie affamate.
  Piansi un bel po’, asciugando le lacrime sulla guancia di papà, ma mi liberai di quel grosso peso che avevo portato per troppo tempo.
  Tuttavia restava ancora una questione in sospeso.
  Non potevo sapere che quello stesso giorno avrei saldato il conto.  

 

Libertà, finalmente. Ero libera di fare qualsiasi cosa mi passasse per la testa, slegata dai vincoli che m’imponeva Jean. Così decisi di andarmene tranquillamente in giro per Alicante con Chrysta, Logan, Trish e un paio di nostri amici.
  Lasciai loro tutto il tempo per prepararsi – Chris impiegava secoli anche solo per scegliere le calze – e uscii di casa due ore prima del rendez-vous, fissato alle otto nel piazzale di fronte all’Accademia.
  Errai senza una meta per una buona mezz’ora, poi presi a quattro mani tutto il mio coraggio e mi diressi verso il lago Lyn. È strano, lo so, ma volevo vedere se c’erano ancora i segni della mia magia angelica. Se ci fossero stati, avrebbe significato che non mi ero immaginata tutto. E che avevo realmente ucciso Jean e gli altri.
 Arrivai sulle rive del lago. L’erba era un po’ smossa, come se ci avesse camminato qualcuno di recente – cosa molto probabile, dato che quella era tappa obbligata per le passeggiate romantiche – e bagnata per l’umidità, ma niente sangue né cadaveri nelle vicinanze.
  Il cuore mi salì in gola. Le possibilità allora erano due: o la mia mente mi aveva giocato un brutto scherzo, o ero una ricercata a livello mondiale per tentati omicidi.
  All’improvviso le mie orecchie captarono un fruscio. Mi girai di scatto, spaventando un innocente piccolo scoiattolo. Mi maledissi e tornai a guardare verso il lago.
  Dopo nemmeno trenta secondi, un altro scricchiolio. Ma stavolta non era uno scoiattolo.
  Qualcuno mi strinse i fianchi, impedendomi di voltarmi. — Sapevo che saresti tornata, Lorianne.
  — Jean. — Deglutii, incapace di aggiungere altro.
  — Sorpresa di vedermi?
  — Direi di no.
  — Hai provato ad uccidermi — mi fiatò lui all’orecchio. — Ci sei quasi riuscita.
  — Come fai ad essere vivo? — sibilai, chiudendo i pugni lungo i fianchi. — Non sai quanto desideravo sputare sul tuo corpo lurido e schifoso, pronto per il rogo. Avrei appiccato il fuoco di persona, puoi contarci. E lo farò.
  — Oh, siamo arrabbiate — rise. — Su, non portarmi risentimento — disse con falso tono supplicante.
  — Come fai ad essere vivo? — ripetei serrando i denti.
  — Fortuna — dovette ammettere. — Molti iratze, rune di trasfusione, rune di forza. E, soprattutto, le conoscenze di Francis. Sai, è conveniente avere un cugino candidato al posto di Ministro della Sanità. È facile così convincere i medici della Basiliade a tenere la bocca chiusa.
  — Avrei dovuto pugnalarti il cuore e affondare la lama fino all’elsa — replicai, mentre il mio occhio sinistro iniziò a contrarsi per un tic nervoso. — Avrei dovuto controllare che fossi morto. Mi pentirò della mia mancanza finché non sarò parte della Città di Ossa.
  — Ci andiamo pesante con le parole — mi canzonò, poi mi fece voltare verso di lui. Notai subito che non aveva più il pendente al collo; inoltre, una grossa cicatrice sistemata alla bell
e meglio gli deturpava la gola. — Sì, ho perso il valknut nel lago — confermò, senza fare alcun accenno alla ferita. — Era un cimelio di famiglia, molto, molto antico. Lo portava Colette Argentsang nata Vertlance.
  — Non ho mai capito perché i figli di Colette abbiano acquisito il suo cognome e non quello del padre — azzardai, tanto per prendere tempo.
  — Semplice: è una questione di orgoglio. Non precisamente, ma il succo è questo. A Colette sembrava giusto cambiare il cognome in Argentsang, dato che i suoi genitori erano morti per mano di una spada d’argento, e le parve giusto che anche la sua discendenza dovesse conoscere le proprie origini.
  — Già.
  — Te la senti di guardare nel mio futuro, Lorianne? — riprese. — Sul serio, è l’ultima volta che te lo chiedo con le buone. Poi passo alle cattive.
  Mi rassegnai. Tanto comunque non ci sarei riuscita; per un motivo incomprensibile non potevo slittare in avanti sulla sua linea. — Uff, okay.
  Mi concentrai al minimo, giusto per accontentarlo.
  E, imprevedibilmente, vidi.
 Vidi Jean di fronte al Consiglio, la Spada in mano. Vidi Francis e Corinne seduti in prima fila sulle gradinate, una strana espressione sul viso. Vidi Jia Penhallow seminascosta nella penombra e mio nonno confinato in un angolo. Vidi me stessa, trattenuta da due guardie, urlare e scalpitare.
  Jean non stava confessando tutti i suoi crimini. Stava giurando per diventare Inquisitore.

 

Uno schiaffo mi riportò alla realtà. — Brutta BASTARDA! — mi abbaiò contro Jean. — Ah, io lo sapevo che l’altra volta avevi finto! Cos’hai visto? DIMMELO!
  Trattenni un singhiozzo. — N-niente, non ho vi... — Gridai di dolore. Jean mi aveva afferrato la mano, e premeva con forza sulla runa angelica.
  — Non è vero! — Mi diede uno spintone. Normalmente avrei reagito, ma le visioni mi lasciavano sempre indifesa e spossata, così caddi a terra piangendo. — Devi dirmi cos’hai visto, Lorianne, e guai a te se ti permetti di mentire, perché te lo giuro su Raziel, te lo giuro sull’Angelo, se non me lo dici io ti ammazzo seduta stante.  
Ormai era sparito anche l’ultimo barlume di assennatezza in lui. Si era trasformato in un folle.
  — Non ti beccheranno, okay? — strillai, terrorizzata, menando pugni alla cieca.
  — Voglio i dettagli! — ruggì Jean.
  — Non ce li ho, i dettagli!  
  Jean prese a respirare profondamente. — Va bene. — Si inginocchiò su di me. — Va bene — ripeté. — Userò le maniere forti.
  Da lì in poi, nella mia mente c’è un vuoto. Non ricordo precisamente cosa accadde. Ho rimosso tutti i particolari, e non so se questa sia una fortuna o una sfortuna.
  Fatto sta che diverso tempo dopo – secondi, minuti, ore... – riacquistai il pieno controllo sul mio cervello. Realizzai di non avere più addosso la gonna, e le calze erano stracciate. Sentivo qualcosa di viscido sulle gambe; toccando, scoprii con orrore che si trattava di sangue. La giacca era volata qualche metro più in là. Avevo il trucco sbavato e il viso bagnato per le lacrime che continuavano a scendere.
  Era impossibile da credere, eppure era reale, tangibile, evidente. In tutta la mia vita credo di non aver mai avuto una certezza tale.
  Ero stata stuprata.

 

Tornai nel presente di colpo. Mi accorsi di essere sdraiata a terra, con le gambe alzate. Mattia, in evidente stato di panico, mi schiaffeggiava le guance. — Mio Dio, mio Dio Lori, che è successo? Altri due minuti e avrei chiamato l’ambulanza, santo cielo... — Mi poggiò due dita sul collo, come a constatare che fossi ancora viva. — Adesso ti porto in ospedale, non voglio sentire scuse!
  — Mattia, non...
  — Sei rimasta svenuta per la bellezza di mezz’ora, Lorianne, non provare a protestare! — continuò, indeciso se mostrarsi preoccupato o meno. Alla fine scelse la prima opzione. — Ringrazia Iddio che io non sia debole di cuore. Mi hai fatto quasi venire un infarto, te ne rendi conto? — sussurrò dolcemente, aiutandomi a tirarmi su. — Hai avuto una visione?
  — Ehm, non so se la definirei così — risposi, titubante. — È stato più un flashback.
  — Vuoi raccontarmelo? — mormorò, facendomi sedere sul letto.
  Respirai profondamente e mi sdraiai su un fianco. Misi le mani sotto il cuscino in un gesto istintivo. Lo faccio sin da piccola, quando ho paura di qualcosa. — Ti dicevo che sogno di dimenticare un intero periodo della mia vita...
  Pian piano che andavo avanti, tutto divenne più semplice. Le parole venivano da sole. Gli parlai di come avevo conosciuto Jean e del perché all’inizio non volevo ammettere che mi piacesse, dato che avevo una cotta tremenda per Logan. Gli raccontai del nostro primo bacio – e qui, notai, gli scappò un verso di disprezzo – e della notte in cui persi la virtù. Gli spiegai che ero talmente innamorata da non aver fatto caso a tutti i segnali dello squilibrio mentale di Jean. Infine, gli rivelai ciò che era accaduto in quei giorni infernali.
  Quando finii, Mattia non riusciva ad aprire bocca. E per me andava bene così. Non volevo qualcuno che fingesse di capire come mi sentivo e blaterasse falsissimi stereotipi. Avevo bisogno solo di una spalla su cui piangere, anche se stranamente non piansi. Ormai non ne avevo motivo: mi ero liberata, e i fantasmi del mio passato non mi avrebbero mai, mai più perseguitata.
  Mi addormentai dopo nemmeno cinque minuti tra le braccia di Mattia, che mi stringeva come se avesse paura che io potessi scappare da un momento all’altro.

   Quella fu la prima notte senza sogni. E, come avrei scoperto in un futuro non tanto remoto, non sarebbe stata l’ultima.



Ma io adesso mi commuovo. Da quanto tempo aspettavo di poter pubblicare questo capitolo *sigh*

Un paio di precisazioni: per la storia della famiglia Argentsang ringrazio l’onnipresente e onnipotente Althea Matijacic (e colgo l’occasione per ringraziarla anche per le copertine per Wattpad), mentre per titolo e citazione iniziale è doveroso porgere un ringraziamento alla mia prof di latino che ha tirato fuori quella frase di Dialoghi con Leucò l’anno scorso per la Notte Nazionale dei Licei Classici.

La storia degli omicidi perpetuati da Jean, della sua combriccola e del cugino Francis verrà ovviamente ampliata e ben descritta nelle Houses.

Niente, passate una buona estate e per carità divina fatevi sentire ogni tanto, in particolar modo ora che la trama è arrivata al suo culmine.

Arrivederci,

una Federica mezza appicciata perché la protezione 30 per lei non è abbastanza

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Capitolo 21
*** Dolore dal sapere ***


19. Dolore dal sapere

Dolore dal sapere

 
 
 
16Pensavo e dicevo fra me: «Ecco, io ho avuto una sapienza
superiore e più vasta di quella che ebbero
quanti regnarono prima di me in Gerusalemme.
La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza.»
17Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza,
come anche la stoltezza e la follia,
 e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento,
18perché molta sapienza, molto affanno;
chi accresce il sapere, aumenta il dolore.
 
[Ecclesiaste 1, 16-18]
 
 
Quando battezzi Valentino?
   — Quattordici agosto — mi rispose Mattia, staccando un bel morso dalla mela che aveva in mano. — Tu te ne vai alla fine di luglio, no?
   Annuii distrattamente. — Già.
   Non avevamo ancora discusso i termini della nostra ormai decollata relazione, e non sapevo bene cosa avrebbe significato tornare a Idris dopo così poco tempo passato insieme a lui. Da un lato, ero partita per l’Italia col presupposto che mi sarei concessa al limite una storiella estiva di qualche settimana, se proprio l’avessi voluto e soprattutto se ne fossi stata in grado; dall’altro, non volevo lasciare Mattia in quel modo, solo tra i mannari e sperduto nel Mondo Invisibile. Era – forse – troppo presto per dire che lo amavo, ma quel ragazzo mi piaceva davvero moltissimo e volevo tenermelo vicino. Peccato che ad Alicante ci fossero delle questioni che mi aspettavano.
   — Tornerò — decisi sul momento. — Ho un paio di cose da sistemare, che mi porteranno via qualche mese, ma poi sarò libera e potrò bussare di nuovo alla tua porta.
   Mattia sorrise da dietro la mela. — Ne deduco che non sono il benvenuto a casa tua.
   — Ehi, signorino, andiamoci piano — lo rimbeccai, — ma hai ragione, in un certo senso. Di questi periodi i licantropi preferiscono evitare Idris.
   Mattia si accigliò e venne a sedersi accanto a me attorno al tavolo. — Ah sì? E come mai?
   Gli indirizzai un’occhiata amareggiata. — Attento a ciò che chiedi, Mattia.
   Lui sorrise tristemente. — Lorianne, ho visto la morte in faccia. La mia e quella altrui.
   — Sei pronto a vederla un’altra volta?
   Fece segno di sì con la testa. Notai un che di titubante in quel gesto. — Se lo sei anche tu.
   Con un sospiro scostai la sedia e mi alzai in piedi. — Aspetta qui — intimai, quando ero già sul primo gradino.
   Salii fino in camera mia e recuperai dal fondo della valigia i rapporti che mi aveva passato zio Alec, quindi ridiscesi di sotto e li posai sul tavolo, davanti a Mattia.
   — Wow — commentò lui. — Plico consistente.
   — Purtroppo. — Mi appoggiai al lavello a braccia conserte. — Oltre ai ventisei lupi di cui si parla lì dentro ne sono morti anche altri due, singolarmente, più un vampiro che... conoscevo, a farla breve.
   Mattia mise a segno un tiro da tre coi residui della mela lanciandola nel cestino dall’altra parte della stanza e aprì il fascicolo. Il suo sguardo si incupì immediatamente. — Oh, Dio — sussurrò, mentre scorreva le pagine con rapida perizia. — Dio mio. Avvelenamento? Di massa?
   — Sì — confermai. — Ed eccetto questo si sa ben poco.
   Mattia rialzò per un attimo la testa. — Nemmeno il movente?
   — Potresti fare decine di ipotesi per un caso del genere — obiettai. — Sparo di avvertimento? Vendetta? Semplice sterminio? — Scrollai le spalle. — È impossibile avere qualcosa di certo, con una tale carenza di prove.
   Mattia allontanò i fogli da sé e ruotò la sedia per essere faccia a faccia con me. — Com’è avvenuto il tutto? Non... ce la faccio a leggere.
   Mi mordicchiai il labbro inferiore. Quel cuore tenero sarebbe stato la sua rovina.
   — L’intero branco si era riunito ai margini della foresta di Brocelind per una non specificata commemorazione in una villa che sostanzialmente è una sede distaccata dell’Hotel Silverscale – la si può affittare per pranzi, compleanni, matrimoni, cose così; i Silverscale hanno anche altre costruzioni di questo tipo, sia dentro sia fuori Alicante. — Sventolai la mano in aria come per scacciare quell’ultima informazione irrilevante. — Comunque, chi ha effettuato le autopsie ha concluso che la polvere d’argento doveva nascondersi nella frutta o nel dessert, considerato che durante tutta la durata della cena nessuno aveva accusato sintomi di alcun tipo, a scanso di un paio di bambini; ciò ha indotto il medico legale a supporre che una leggerissima dose di polvere fosse stata mescolata anche all’acqua.
   Mattia si coprì il volto con le mani. La sua voce mi arrivava attutita. — Se la situazione non fosse quella che è, ne sarei ammirato. È orribile da dire, ma questo killer sa il fatto suo.
   A malincuore, dovetti concordare. — All’alba erano già tutti alla Basiliade a sputare sangue. I più deboli, circa sei o sette, sono morti entro dodici ore. Nel giro di due giorni non ne è rimasto neanche uno.
   Mattia scosse violentemente il capo, sconvolto. — Com’è stata gestita l’emergenza?
   — Non so darti i dettagli, ma è stato fatto il possibile e si è tentato pure l’impossibile — gli risposi. — Hanno persino chiamato diversi Stregoni, tra cui mio zio Magnus – ti ho accennato di lui, se ricordi – e una sua amica di vecchia data, Catarina Loss, specializzata in magia curativa. Sembrava quasi che fossero riusciti a salvare l’Alpha, ma in realtà avevano peggiorato il peggiorabile. Alla fine non è restato altro che concedere a quei poveri lupi una morte indolore, con tre o quattro infermieri coraggiosi a consolarli e l’ago della morfina piantato nel braccio. — Ingoiai un groppo amaro che mi si era formato in gola. — Terminate le autopsie, non si è potuto neanche seppellire i corpi: l’argento aveva divorato ogni singolo lembo di muscoli, tessuti e organi. Erano rimaste soltanto le ossa.
   Mattia tirò un lungo respiro profondo. — Immagino che ci sia andato di mezzo il personale innocente.
   — Il personale innocente ci va sempre di mezzo — replicai mestamente. — Oltretutto, l’enorme quantità di DNA presente nella villa – sala e cucine in particolar modo – ha impedito di poter compiere delle analisi forensi, nonostante questi non siano esattamente i nostri metodi d’indagine. Per quanto riguarda la Basiliade, il Ministero della Sanità era già in crisi da molto prima che si aggiungesse anche questa macchia nera.
   Mattia si grattò il naso. — Ho sentito Sabrina blaterare qualcosa sull’argomento. Correggimi se sbaglio: la maggior parte dei licantropi vuole ratificare gli Accordi prima del solito aggiungendo degli articoli a proposito della tutela dei Nascosti nell’ambito del Ministero?
   — Esatto — asserii. — E se fino a qualche tempo fa c’era la remota possibilità che potessimo dissuaderli dal farlo, adesso non abbiamo più speranze. — Mi allungai in avanti e gli accarezzai lievemente una guancia. — Sei consapevole che tutta questa... storia, di Carmine Mallardo e del tuo branco, dovrà venire a galla, sì?
   Mattia strofinò il viso contro la mia mano, come un lupacchiotto in cerca di coccole. — Troveranno il modo di resuscitarmi per potermi ammazzare trenta volte, Lorianne.
   Aveva eluso la domanda. — Ti garantiremo protezione, Mattia, sta’ tranquillo. Sarai... come un pentito che collabora con la giustizia. Dopotutto, uscire allo scoperto è quello che vuoi, no?
   Lui chiuse gli occhi. — Sai cosa fanno ai pentiti, Lori? — Strascicò le parole le une sulle altre, con una lentezza inquietante. — Li ammazzano per strada.
   Aveva eluso anche la seconda domanda. — Mattia, sta’ tranquillo — gli ripetei. — Vorrei dirti che abbiamo tutto il tempo del mondo ma non è così. Di questo passo gli Accordi verranno firmati entro settembre, a meno che la pressione non aumenti e si arrivi addirittura a non attendere la nomina del nuovo Console e del nuovo Inquisitore. Sei costretto a prendere una decisione e a prenderla subito. E se persegui la verità dovrebbe esserti facile.
   Mattia mi circondò il polso con le dita. La sua stretta non era ferrea o dolorosa, ma comunque decisa. — Non andare sull’offensiva, Lorianne. Stai indurendo i toni soltanto perché ti rendi conto che le ultime due frasi si possono applicare anche a te.
   Mi liberai delicatamente dalla sua presa e ritornai ad appoggiarmi al piano della cucina. — Non ti avevo già detto che ho definitivamente abbandonato l’idea di farmi suora di clausura? Ringrazia te stesso, per questo.
   — Ecco, adesso la metti sul sentimentale. — Mattia assottigliò lo sguardo. — Sai bene che non intendevo quel che hai voluto intendere tu.
   Roteai gli occhi al cielo con un sospiro. Speravo che almeno lui mi avrebbe risparmiato la predica, ma in fondo Mattia Nardone era il re delle prediche. — Da dove devo cominciare, mmh, Mattia? Ti faccio il discorso standard o vuoi una delle tante versioni alternative?
   Lui mi lanciò un’occhiata di rimprovero. — Non difenderti, non ti sto attaccando e non voglio farlo. Però stiamo parlando di verità, e io davanti a me vedo una grandissima bugia.
   Serrai le dita sul marmo. — Non ho mai mentito — sibilai. — Mai, Mattia.
   Un guizzo delle sue labbra rivelò che si stava scaldando. — Qual è il contrario della verità?
   Rassegnata, crollai sulla sedia più vicina. — Non riuscirai dove schiere di altri hanno fallito, Mattia. È una battaglia persa in partenza.
   — Non sono il tipo che perde le battaglie senza combattere.
   Ridacchiai nervosamente. — Sì, questo l’avevo notato.
   Anche Mattia sorrise, poi tornò serio e si sporse in avanti verso di me. — Ce la fai a raccontarmi cosa... cos’è successo dopo, Lorianne?
   Feci spallucce, preferendo non rispondere a parole.
   — Okay, devo interpretarlo come un sì o come un no?
   — Scendi più nello specifico — sillabai velocemente. — Riesco a parlare meglio se ho un tema preciso.
   Lui annuì comprensivo. — Ascolta, Lori... — Sembrò radunare i termini adatti per esprimere il concetto. — L’altra sera abbiamo dormito insieme. Ti abbracciavo. Ti... toccavo.
   Intuii all’istante dove voleva andare a parare. — Già. Non me ne capacito neanch’io.
   — Com’è possibile, Lorianne? — mormorò. — Non ti ha agitata trovarti in determinate circostanze? Non che stessimo facendo chissà cosa – lungi da me – ma nella maggior parte dei casi si sviluppa un PTSD – Post-Traumatic Stress Disorder — tradusse a mio beneficio. — Eppure non mi sembri così sconvolta a riguardo.
   Fissai il pavimento, pensierosa. — Suppongo di dover ancora metabolizzare il tutto — azzardai. — Sotto sotto ero preparata all’eventualità che Jean potesse... perdere il controllo fino a quel punto. Il suo comportamento in tempi recenti avrebbe dovuto far suonare un campanello d’allarme, ma, come piace ripetere alla maggioranza degli Shadowhunters, le emozioni offuscano il nostro giudizio.
   Mattia sollevò le sopracciglia in una smorfia sarcastica. — Per questo ti do ragione.
   — Ti ringrazio, compagno di sventure — replicai, utilizzando l’espressione che lui stesso aveva usato la sera che ci eravamo incontrati. — Sbaglio o è la prima volta che mi dai ragione?
   Lui si permise di ridere brevemente. — Non ti ci abituare. — Sospirò. — Per cui pensi di non aver sviluppato un PTSD perché in cuor tuo – Dio, è orribile da dire – sapevi che sarebbe potuto succedere?
   — È solo il mio modesto parere non professionale — chiarii. — Inoltre, ti ho già informato del fatto che non ricordo... be’, non ricordo ciò che comunque non vorrei ricordare. — Avevo la bocca secca. — E se ti avessero riferito del dolore che si prova a farsi estrarre i ricordi dalla testa capiresti perché non voglio neanche affidarmi a uno strizzacervelli.
   — Okay. Okay, davvero, basta così — mi fermò Mattia. — Ora, per favore, dimmi che ti sei fatta visitare.
   — Mi sono fatta visitare — lo rassicurai, — da un medico che conosco benissimo, Cameron Bla-Orwell — mi corressi istintivamente, e la finii lì.
   Saggiamente, Mattia non mi incalzò a continuare. Prima regola per far sì che le persone ti dicano di più: non riempire il silenzio.
   Gliela diedi vinta, per quella volta: — Ho sbagliato ad aspettare la mattina per andare da lui; avrei dovuto farlo subito. Appena ho messo piede in casa, quella sera, mi è venuto naturale buttarmi sotto la doccia, e a quel punto addio sangue, fluidi e terra. Risparmiati la paternale, ci ha già pensato Cameron.
   Mattia schioccò la lingua sul palato. — Questo Cameron, che specializzazione ha?
   — Medicina interna, ed è pure parecchio competente: è stato nominato Ministro per due mandati.
   — Non dubitavo affatto della sua competenza, uno che fa di cognome Orwell ha già tutta la mia simpatia.
   — E infatti il pin del tuo cellulare obsoleto è 1984.  
   — Guarda qua che grande hacker, fai concorrenza ad Adriano — ironizzò lui, ma riportò immediatamente la conversazione sui binari. — Cosa ti aspettavi di trovare, Lori?
   — Sinceramente? Ben poco di ulteriore rispetto a quello che avevo potuto trovare io — confessai. — Avevo qualche livido su gambe e fianchi e si vedevano benissimo i segni delle mani e delle dita sulla pelle, ma Cameron non riuscì a capire da dove proveniva il sangue che mi ero lavata via di dosso – e per questo ero sicura di non essermelo, non so, immaginato – né scoprì altri segni di violenza sessuale.
   — Test di gravidanza?
   — No — negai. — L’HCG, come saprai, è rintracciabile solo dopo almeno otto giorni. Cameron mi sconsigliò di affidarmi alle analisi di laboratorio perché avrei dovuto giustificarle, e il governo di tecnici che manteneva – e mantiene tuttora – il Ministero ci teneva ad andare a fondo alle questioni; molto probabilmente l’avrebbero capito. Per dirla tutta, il cugino di Jean, Francis, è tra quei tecnici ed è anche candidato al posto di Ministro. Ero bloccata, Mattia.
   Lui espirò. — Capisco. E passati quegli otto giorni?
   Abbassai la testa. — Mi sono rifiutata di fare il test.
   — Mi fai cascare le braccia.
   — Puoi biasimarmi, Mattia? — mormorai, sempre tenendo lo sguardo puntato sul tavolo.
   Parve riflettere. — No — ammise infine. — Anche se dipenderebbe dalle circostanze.
   — Fidati, Mattia, a circostanze diverse non avrei reagito come ho reagito — gli risposi, e per un attimo sembrò che l’avremmo conclusa su quella nota.
  Mattia intervenne all’istante per non far cadere l’argomento: — Quando avevi avuto l’ultimo ciclo?
   — Alla metà del mese, suppergiù. Potrai immaginare il sollievo quando mi è tornato a marzo.
   Mattia alzò una mano. — Ehi, ferma lì. Se mi dici così è ovvio che penso male. — Deglutì. — Quella cosa che inizia per a... ti prego, ti prego, non avrai dovuto affrontare anche quello.
   Impiegai un po’ a realizzare a cosa stava alludendo. — Io... no, Mattia, no — lo rincuorai. — È solo che il mio ciclo è un tantino irregolare. O meglio, è regolare ma dura quattro mesi. Non ho idea del perché — lo precedetti, — ma sarà sicuramente implicato il sangue angelico. Francamente, non mi lamento.
   — E ci credo — commentò lui, accennando un lieve sorriso. — Perciò non vuoi e non puoi denunciarlo, giusto?
   Annuii. — Sarebbe la mia parola contro la sua. Ho potere in Consiglio, non fosse altro che per la famiglia a cui appartengo, ma molti diffidano di me in quanto “Shadowhunter impura” a causa di questa maledetta Chiaroveggenza e la maggioranza non oserebbe inimicarsi l’assai probabile nuovo Inquisitore.
   Mattia fischiò. — Wow. Jean, un ragazzino, Inquisitore? Mi stai prendendo in giro.
   Gli indirizzai uno sguardo che parlava da solo. — Seriamente, Mattia? Seriamente? Tu sei un boss della camorra a diciannove anni. Jean ha tutto il diritto di essere Inquisitore alla tua stessa età.
   — Lorianne, è il percorso che importa, non la mèta — ribatté lui. — Jean di sicuro non ci è arrivato per caso.
   — Siamo un popolo precoce sotto la maggior parte degli aspetti — chiarii. — Andiamo sul campo giovani, ci sposiamo giovani, abbiamo figli da giovani. Lo senti necessario quando la tua vita potrebbe finire da un momento all’altro. — Mi strinsi nelle spalle per minimizzare il tutto. — Jean ha le qualità adatte per quel ruolo, e dopotutto l’età non è mai stata altro che un numero. I miei genitori e i miei zii erano anche più piccoli di lui quando hanno scongiurato due catastrofi globali.
   — È per questo che chiunque conosce il tuo cognome?
   — La famiglia Herondale aveva una connotazione illustre già da molto prima di mio padre — gli spiegai. — Come in tutte le famiglie ci sono state delle pecore nere, ma il prestigio dei suoi membri ha superato di gran lunga l’infamia buttata sul cognome da quei singoli soggetti che ormai sono solo un lontano ricordo. Siamo un po’ come i Medici o i Kennedy.
   — O come i Nardone — si vantò Mattia.
   Risi. — Perché, anche i Nardone sono famosi?
   — Ovvio — millantò lui. — Mai sentito parlare di quel tale, Mattia, che a diciannove anni era già un boss della camorra?
   Gli tirai una gomitata nelle costole ridacchiando. — In effetti...
   Mattia allargò le braccia per ostentare potenza. — Guardami dal basso della tua posizione, plebea! Chissà se Mallardo aveva un trono.
   Emisi un verso di disprezzo. — L’unico trono adatto a lui è la tazza del gabinetto.
   Mattia scoppiò a ridere di gusto. — Questa me la segno, sul serio — sghignazzò. — Se non un trono, perlomeno la poltrona nel suo ufficio è comodissima.
   — Anche la tazza del gabinetto necessita di essere comodissima.
   — Ma chi abbiamo qui, un’aspirante designer di vespasiani? — mi stuzzicò, con un bellissimo sorriso che andava da orecchio a orecchio.
   Pecunia non olet — gli ricordai petulante.
   Mattia strinse la mascella. — Pecunia olet, fidati — ribatté con voce grave. — E a tal proposito, quale fine dovrei riservare al denaro del branco?
   Tamburellai le dita sul tavolo, riflettendo. — Adriano aveva ragione — dovetti ammettere. — Non puoi buttare all’aria tutto quello che Mallardo ha costruito. Secondo il mio modesto parere ti conviene farci la mano, imparare a capire come funzionano le cose, e solo allora, se vorrai e soprattutto se potrai, sarai in grado di iniziare pian piano a smantellare traffici, alleanze eccetera.
   — Mi stai suggerendo di fare buon viso a cattivo gioco? — mi chiese lui, dubbioso. —Temo di non esserne capace.
   — Dovrai esserlo — replicai. — Prendila come una sfida contro te stesso, poniti un obiettivo e cerca non solo di raggiungerlo, ma anche di superarlo. Dopo un po’ ci farai l’abitudine.
   Mattia si massaggiò le tempie con indice e medio. — Io ci provo, però tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
   Sorrisi lievemente. — Se non cado in errore, a te il mare piace.
   — Sono nato in una città di mare, deve piacermi per forza — contestò, ma aveva già perso la mestizia di prima. Mi rivolse uno sguardo sfuggente da sotto le ciglia. — Promettimi una cosa, Lorianne.
   — Parla.
   — Più sto insieme ai lupi, più apprezzo il quid pro quo. — Mattia fece una pausa studiata. Lui poteva anche credere di non essere un bravo attore, ma il modo in cui stava conducendo quel discorso diceva tutt’altro. — Perciò, se io per il momento mando all’aria i miei buoni propositi e mi comporto da bravo criminale, tu devi assolutamente – e sottolineo assolutamente – andare contro le tue errate convinzioni secondo le quali Jean se la caverà liscia sempre e comunque. Tentar non nuoce, Lori.
   — Mattia, ti do la mia parola, in questo caso potrebbe nuocermi — sussurrai.
   — E allora fa’ sì che questo non succeda. — Il suo tono non ammetteva repliche. — Purtroppo non posso assicurarti il mio aiuto, né tu potrai e tantomeno dovrai fare qualcosa per me – non permetterti di obiettare, hai i tuoi nemici da combattere e non puoi combattere anche i miei. Però, Lori, per quanto possa valere, pregherò il mio Dio per te.
   Non avevo mai pregato Raziel. Ne avevo avuto l’occasione, certo, ma non ne avevo mai sentito il bisogno né peraltro avevo mai voluto farlo. Sarebbe stato come dargli un’ulteriore prova del fatto che ero sua subordinata. L’idea non mi aveva nemmeno lontanamente sfiorata.
   Eppure di una cosa ero certa: se avessi mai avuto o avvertito la necessità di pregarlo, di rivolgergli una richiesta o anche solo di parlargli, l’avrei fatto per Mattia Nardone.
 


(Avviso pre-NdA: non ho la minima idea del perché la formattazione sia diversa. Boh.)
 
Dai, ci ho messo solo due settimane. Incolpate il caldo per il ritardo, avrei potuto finire in molto meno tempo.

Annuntio vobis magnum gaudium: non habemus papam ma habemus sinossi di HoC! (A dire la verità ce l’ho da un mese esatto e me ne sono ricordata solo adesso ma SSSSSH):
 
 
“Un soffio e crolla tutto.”
 
 
Un fragile, volatile, effimero castello di carte: è quello che Carmine Mallardo, boss della camorra e temuto licantropo, ha lasciato al suo ignaro successore Mattia Nardone, che ormai si trova a tenere in mano le redini di un impero. E non solo un impero italiano, bensì un impero su scala europea, se non mondiale.
Un fragile, volatile, effimero castello di fascicoli resi pubblici, morsi e transazioni di denaro sporco di sangue: è ciò che porta alla decisione di ratificare gli Accordi con cinque anni di anticipo, scatenando le proteste dell’intero Sottomondo. E mentre Mattia, a Idris nelle vesti di rappresentante dei mannari, trova conforto in Lorianne Herondale, qualcun altro trova conforto in dieci gocce di ansiolitico e nel pensiero che di lì a poco prenderà il posto dell’amato e odiato Robert Lightwood, diventando il nuovo giovane Inquisitore.
Un fragile, volatile, effimero castello di cartelle cliniche e segreti inconfessati: è il Ministero della Sanità, che ormai naviga in cattive acque da troppo tempo, e che vedrà uno dei suoi più esimi dipendenti venire coinvolto in uno scandalo dalle proporzioni gigantesche. Scandalo che comprende ben ventinove omicidi.
Un fragile, volatile, effimero castello di misteri celati, baci perduti e ricordi dispersi: è ciò che Jean Argentsang si augura di non far crollare, ma che vedrà crollare davanti ai suoi occhi.
È quello che Anna Incalzi ha costruito per la sua famiglia.
È quello a cui è legata la vita di Adriano Mallardo.
È quello che Sabrina Monti si è definitivamente lasciata dietro le spalle.
È un castello di carte.
 
 
— Non voglio insegnarti qualcosa di divino e demoniaco. Voglio insegnarti qualcosa di umano.
— Umano? — Rise. Gli faceva male la gola. — Dio, Nardone, nessuno di noi due è umano. Forse io meno di te.

 
 
 
Lo so che è figa assai, lo so. E detto questo, alla prossima, guys!

Federica
 

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Capitolo 22
*** Servire la luce ***


20. Servire la luce

Servire la luce

Agiamo nell’ombra per servire la luce.
 

[Dal serial Assassin’s Creed]

 

La maturità tenne impegnato Mattia per due settimane. Gli Esami di Stato, in tutta la loro storia, non erano mai cambiati molto: come di regola la prima e la seconda prova si svolsero in due giorni consecutivi, per la terza si aspettò il lunedì successivo e si fece in modo di riuscire a finire gli orali entro giugno.
   Mattia, che già non capiva più niente tra branco, crediti, tesina, formulari e vocabolari vari, dovette fare i conti anche con il plenilunio, che capitò a sproposito mercoledì 23, proprio nel mezzo di quel periodo caldo. Stando alle carte lunari in possesso dei mannari, inoltre, quel mese la luna sarebbe stata piuttosto forte; ergo, era possibilissimo che il Cambiamento avvenisse pure il 22 e il 24.
   Di nascosto da Mattia, andai preventivamente a parlare con Sabrina per capire come era d’uso coordinare la situazione da quelle parti. — Molti sono licantropi da parecchio — mi disse lei, — e non è raro che non si trasformino. I più anziani si occupano dei novellini, che di solito vengono tenuti nella cella nel seminterrato o raccolti al piano terra dentro la piscina svuotata. Il resto di noi si gestisce da solo; ci sono zone di Gaeta in cui è possibile errare indisturbati, e facciamo in modo di uscire sempre a gruppetti di tre o quattro così da poter scongiurare qualsiasi scenario tragico. — Sospirò. — Almeno su questo, Carmine è stato un buon Alpha.
   — Concordo — commentai. — Perciò, quali sarebbero queste zone sicure?
   Prima di rispondere, Sabrina mi portò davanti a una parete nascosta da un tendaggio scuro e pesante. Aprì la tenda nel mezzo con uno scatto delle braccia, rivelando una composizione in maiolica decorata a mano rappresentante un paesaggio che avevo ben scolpito nella mente: Gaeta vista da Formia. Un’anfora spaccata in verticale immersa nel mare, il campanile come una grossa matita quasi all’estrema sinistra, la gobba verde del promontorio sulla destra, la sagoma rettangolare del Castello in alto. La firma dell’artista era sapientemente contenuta nella forma della cresta di un’onda.
   — Se ti stai chiedendo il motivo per cui teniamo questa meraviglia celata agli occhi di tutti — mi anticipò Sabrina, — innanzitutto è perché alcuni dei dettagli sono in foglia d’argento. — Mi indicò le luci del Castello e il riverbero della luna sul mare, stando attenta a non toccare le piastrelle. — Inoltre, questo è stato il regalo di uno dei clan nostri affiliati, i Di Lella, che controllano buona parte della Campania. Abbiamo avuto... delle dispute con loro, e per sfregio Carmine ha voluto coprire quello che vedeva come il segno di un’amicizia incrinata. Aveva deciso di distruggerlo, ma l’ho convinto a non farlo.
   — Sarebbe stato un peccato distruggerlo — sussurrai, ammaliata dalla perfezione delle pennellate sulla ceramica sottile ma resistente, lucida e uniforme. Mi voltai verso di lei. — Mattia sa di queste dispute?
   Sabrina annuì. — Gliel’ho accennato io, poi suppongo abbia approfondito il discorso con Adriano. Lui conosce i Di Lella meglio di tutti noi. — Inarcò le sopracciglia, come se tra Adriano e i Di Lella ci fosse stato qualcosa che lei non approvava. — Comunque, indubbiamente i luoghi più adatti per vagare senza meta durante il plenilunio sono Monte Orlando e Calegna.
   Seguii il suo sguardo sul dipinto per poter comprendere dove fosse questa Calegna. Stava fissando un punto vuoto, quindi intuii che dovesse essere dall’altro lato della città, all’interno. — È necessario rimanere entro i confini?
   Sabrina fece spallucce. — Non abbiamo una legge scritta né ci siamo mai dati delle regole in questo senso, ma in pochi si avventurano verso Formia, sebbene anche lì ci siano lande sperdute in cui potersi rilassare – tra le tante, i Venticinque Ponti o la Tomba di Cicerone. In realtà si potrebbe salire su una montagna qualunque e stare in pace, e per noi Itri e Fondi sarebbero l’ideale; in ogni caso però conviene non allontanarsi troppo dal quartier generale, per questioni di sicurezza.
   — Capisco — asserii. — Dunque Mattia...
   — Sostanzialmente può fare quel che gli pare — chiarì Sabrina. — Il mio consiglio sarebbe di farsi un giro per Via Indipendenza, così ne approfitta per controllare il Mercato delle Ombre.
   D’istinto sollevai una mano per fermarla, incredula. — Gaeta ha un Mercato delle Ombre?
   Lei mi riservò un’occhiata di scherzoso rimprovero. — Continui a sottovalutarla, Lorianne.
   — Non è questo, è che... — Mi morsi la lingua. — Non ci sono più Mercati delle Ombre da quando è stata abolita la Pace Fredda. Dopotutto, erano nati per contrastarla e sono morti nel momento esatto in cui non aveva più senso protestare.
   Sabrina mi rivolse un sorriso enigmatico. — Ti sbagli. — Mi diede le spalle, cominciando a camminare nella direzione opposta rispetto a quella da cui eravamo arrivate. — Vieni, ti mostro una cosa.
   Curiosa, la seguii fino allo studio nascosto nel muro. Ormai avevo imparato come sbloccare l’entrata: bastava premere sul tramezzo sia col ginocchio che con la spalla in due punti particolari, e i cardini automatici avrebbero ruotato di conseguenza. Stavolta, però, Sabrina non aspettò che l’ingresso fosse completamente libero e sbatté la porta con una violenza tale che i quadri alle pareti tremarono.
   Si udì un clic e l’enorme libreria sulla sinistra, con molto meno rumore di quanto mi sarei aspettata, si spostò di mezzo metro più avanti. Sabrina sgusciò nell’intercapedine che si era creata e mi fece cenno di raggiungerla.
   Dietro quell’imponente scaffale si celava un secondo stanzino segreto illuminato da una fredda luce a led, in totale contrasto con gli sfarzosi lampadari in cristallo degli ambienti esterni. Anche la mobilia era diversa: non più costoso legno di manifattura ma leggero, gelido metallo, modellato in mensole, sostegni, tavoli e ripiani. Era chiaramente un magazzino, non tanto grande ma comunque ben fornito. Mi sembrò ancora più piccolo quando la libreria tornò al suo posto, scivolando su una serie di guide incassate nel pavimento.
   Mi accorsi di un minuscolo foro scavato nel legno: avvicinandomi, scoprii che da lì era possibile avere una visuale dello studio piuttosto chiara. Dal davanti quel subdolo spioncino non era visibile; pensai che dovesse essere occultato da un qualche libro messo in diagonale, per non oscurare la vista ma allo stesso tempo permettere di spiare.
   Sentivo che Sabrina stava sorridendo. — Ero qui, quella sera. Come vi ho già detto, potevo solo guardare. Sono stata in grado di uscire soltanto dopo che Carmine e gli altri due lupi erano morti.
   — E hai lottato contro mia cugina — mormorai, girando sui tacchi per avanzare verso il centro.
   — Dovevo salvare le apparenze — ribatté lei senza espressione. — Fosse stato per me, vi avrei portato torta e caffè. E se Patricia me ne avesse dato l’occasione avrei dovuto ucciderla. — Deglutì. — Ho ordinato la ritirata per il vostro bene.
   Mi appollaiai sull’unico tavolo che aveva un angolino libero. Non riuscivo a capire cosa diavolo contenessero tutti quei pacchi, pacchetti e pacchettini di cui la stanza era piena. — I lupi avrebbero davvero combattuto fino in fondo per vendicare Carmine?
   Sabrina sospirò. — Se c’è una cosa che apprezzo in un lupo, quella è l’imprevedibilità. E i lupi che ci sono qui sono tra i più imprevedibili al mondo, per una lunga lista di ragioni che ritengo inutile elencare. — Tirò di nuovo un respiro profondo. — Eppure il più imprevedibile di tutti resta sempre mio figlio.
   La guardai di sbieco. — Sotto quali aspetti?
   — Sotto la maggioranza di essi — replicò, e non aggiunse altro su quella linea; preferì spostare la conversazione sul motivo per il quale eravamo lì. — Prendi una di quelle scatole, su.
   Afferrai alla cieca il parallelepipedo di cartone più vicino a me. Percepivo i puntini in rilievo dell’alfabeto Braille su una delle facce. Qualcosa in quell’involucro – il peso, forse, o i colori della scritta, lievemente sbiadita – mi era familiare. Vi infilai le dita e ne trassi fuori due blister di ben note compresse per metà bianche e per metà rosa.
   Alzai la testa di scatto. — Questi sono...
   — Analgesici specifici per i dolori mestruali. Lo so, li uso anch’io. — Sabrina ostentò ancora quel sorriso ambiguo. — Chi pensi rifornisca il Ministero della Sanità?
   Mi rigirai le pillole in mano. Non potevo credere ai miei occhi. — Non è possibile — sibilai tra i denti. — Non è possibile che il Ministero si regga sul contrabbando.
   Sabrina agganciò i pollici ai passanti della cintura. Non l’avevo mai vista con vestiti diversi da camicia e pantaloni stretti, tacchi alti ai piedi, rigorosamente di colori scuri nonostante fosse estate. — Non mi sembra di aver menzionato il contrabbando — precisò, — ma in un certo senso hai ragione: noi acquistiamo di contrabbando e contrabbandiamo a chi poi vende legalmente i farmaci al Ministero. Semplice ed efficace. Questo sistema non ha mai dato problemi.
   — È una delle poche cose che funzionano bene, già — bisbigliai mentre scendevo dal tavolo con un salto. Mi guardai intorno, facendo una stima mentale di quanta merce dovesse esserci lì dentro. Anche un calcolo approssimato era impossibile. — Caricate di molto il prezzo iniziale?
   Sabrina mi porse un fascicolo dalla copertina verde. — Ci guadagniamo il minimo indispensabile, soltanto le spese di spedizione e una scarsa sovrattassa; non è da lì che proviene il grosso dei nostri soldi. Dà questo registro a Mattia — aggiunse. — Questo non è un traffico che può finire, ne andrebbe della stabilità del Ministero. Anzi, della sua stessa esistenza, considerato che già ora sta crollando sulle sue precarie fondamenta. Con tali circostanze, spero che Mattia non protesterà.
   Sfogliai brevemente il registro: erano annotate le date di partenza e arrivo dei prodotti, i costi, le informazioni sui vari farmaci. — Mattia non protesterà mai più — le annunciai. — Ha accettato tutte le implicazioni del suo ruolo, anche se a fatica. Sarà un buon Alpha.
   Le iridi gialle di Sabrina brillarono sotto i led. — La domanda non è se sarà un buon Alpha, Lorianne. La domanda è se diventerà come Carmine.

 

 

Il Mercato delle Ombre era stato la destinazione notturna di Chrysta fin dal giorno in cui avevamo portato un Mattia quasi morto a Villa Orlando dopo i funesti avvenimenti al Palazzo. Camminando tra gli stand e le bancarelle, con Mattia al mio fianco, mi chiedevo come non fossi riuscita a capire che Chris si stava dirigendo proprio lì, nel miglior posto dove poter trovare in terra straniera tutto ciò di cui uno Stregone ha bisogno.
   Sapevo che in valigia aveva messo l’essenziale per casi di emergenza, ma pensavo che tra quelle scorte rientrassero anche gli ingredienti – piuttosto comuni – per una pozione contro i peggiori effetti della luna piena; non avevo certo idea che se li fosse procurati all’occorrenza sul momento.
   Comunque, in qualsiasi modo li avesse ottenuti, la pozione era stata la mano di Dio per Mattia: non solo non aveva affatto sofferto la trasformazione, ma aveva persino mantenuto la lucidità, tanto da poter passeggiare tranquillamente in Via Indipendenza e rimanere indifferente agli sguardi dei Nascosti che lo avvertivano come una presenza oscura e ignota. Se percepivo che si stava scaldando, lo accarezzavo dietro le orecchie per calmarlo.
   La pelliccia del lupo conservava i colori caldi della sua forma umana, da un profondo nocciola a un marrone più chiaro; gli occhi splendevano come fuochi fatui nel buio. Il suo passo era silenzioso, misurato, l’andatura involontariamente fiera e maestosa. Incuteva timore reverenziale e rispetto nei licantropi che ci guidavano tra i vicoli di Via Indipendenza, gli stessi mannari – pezzi grossi del branco – ai quali era affidato il controllo del Mercato.
   Dal più loquace di questi, tale Pietro, avevo appreso nel pomeriggio che la funzione dei Mercati delle Ombre non era poi molto cambiata dai tempi in cui questi rappresentavano un modesto fronte di ribellione alla Pace Fredda: esisteva da sempre un mercato nero del Sottomondo, solo che prima della Guerra Oscura il contrabbando avveniva in zone sperdute e separate le une dalle altre; dopo, invece, si era formata una piazza comune dove quei brutti poliziotti Shadowhunters non avevano giurisdizione. Non aveva senso smantellare un’organizzazione del genere una volta destituita la Pace Fredda, soprattutto dal momento che con la nascita del Ministero della Sanità c’era stata una crescente necessità di pozioni e altre sostanze curative. Inoltre, giacché l’Influenza B e la conseguente creazione del Ministero avevano messo in discussione la legge che proibiva ai Nephilim di usare medicinali e metodi di cura mondani, il Mercato poteva offrire una degna soluzione al dilemma: farmaci, anche ancora in via di sperimentazione, opportunamente modificati da fate e Stregoni.
   Dopotutto, la storia che ci raccontavamo noi Shadowhunters non era molto differente, salvo il fatto che in quella versione non si faceva mai direttamente riferimento ai Mercati delle Ombre, preferendo indicare i luoghi di compravendita delle forniture per il Ministero come semplici industrie mondane con qualche eventuale infiltrato all’interno.  
  
Mi domandai quanti e quali dipendenti del Ministero sapessero come stavano realmente le cose; se queste fossero informazioni riservate al Ministro e ai suoi più stretti collaboratori, oppure se ne fossero a conoscenza anche i tizi che facevano le pulizie. Chiunque fosse custode di quel segreto, comunque, doveva essere assai bravo a nasconderlo.
   Il Mercato delle Ombre di Gaeta si sviluppava dove durante il giorno aveva luogo la sua controparte mondana, sostituendo banchi di frutta e verdura a chilometro zero con rivenditori di polveri e misture fluorescenti, tappezzando le innumerevoli piazzette di Via Indipendenza di coperte variopinte sulle quali sedevano rigattieri di ogni forma e specie, stendendo sottili teli di cotone su leggere impalcature in metallo per improvvisare un tendone. Sotto la lieve luce della luna che filtrava tra gli stretti palazzi, anche in un buio quasi completo, tutto il Mercato esplodeva in un caleidoscopio di tinte sgargianti e chiassose, che quasi ferivano gli occhi quando lo sguardo vi si posava troppo a lungo. 
  
Mi accorsi che c’era uno schema preciso nella disposizione dei colori, una perfetta tecnica di merchandising studiata per attirare e mantenere l’attenzione. Al suono di una melodia inumana che sembrava provenire dal nulla, passammo dal rosa gentile dei filtri d’amore al caldo rosso degli incantesimi erotici, dall’energetico arancio al giallo pulito, poi al clinico bianco – i farmaci erano quasi tutti smerciati in quell’area – per arrivare al nero, che portava con sé il sentore della magia proibita. Il nero si schiarì nel blu dei sortilegi meno pericolosi, nel marrone-viola del malocchio, nel profondo smeraldo della natura e nel verde chiaro della speranza, fino a tornare di nuovo al bianco dei medicinali.
   Tra questi ultimi, quando cominciai a interessarmi maggiormente alla merce in bella mostra tutto intorno a me, notai una confezione che pareva avere la mia età. In effetti, come mi assicurò il pixie proprietario del bancone, la mia età ce l’aveva davvero: in esso era contenuta una goccia del mio sangue. Anch’io, inconsapevolmente, avevo dato il mio contributo per debellare l’Influenza B.
   Mattia mi diede un colpetto col muso per comunicarmi che si sarebbe avviato verso la parte più remota del mercato, che terminava in Villa delle Sirene. Decisi di lasciarlo andare con la sola compagnia degli altri lupi; non volevo impicciarmi più di tanto negli affari del branco, e in fondo anche lui riconosceva che avrebbe fatto meglio a imparare a cavarsela senza il mio costante aiuto.
   Rimasi a guardare la mercanzia del pixie per un po’. Aveva aggiustato tutti gli oggetti sull’espositore con una precisione millimetrica e li aveva sistemati, da sinistra a destra, in una scala di gradazione crescente, dal bianco sporco delle ossa e degli artigli al riverbero lattiginoso di quello che avrei detto essere un estratto di un qualche fiore fatato. L’unica nota stonata su quella superficie altrimenti asettica era un vecchio mazzo di tarocchi impolverati, girati a faccia in su a mostrare le figure policrome disegnate su di essi e tenuti insieme da un nastrino di raso rosso.
   I tarocchi mi avevano da sempre appassionata. Non che mi servisse un altro modo per predire il futuro, ma c’era un qualcosa di misterioso in quelle carte che mi attirava come una falena è attratta dalla luce. L’impossibilità di avere una risposta esatta, forse, o magari i diversi metodi di lettura che variavano da secolo a secolo, da paese a paese, da cartomante a cartomante.
   Non ebbi bisogno di chiamare il pixie: era già direttamente di fronte a me, e mi stava scrutando con morbosa curiosità fin dal primo passo che avevo mosso in sua direzione. — Quanto, per questi?
   La piccola fata mi mostrò i denti appuntiti. — Se mi provi che quel licantropo è Mattia Nardone, gratis.
   — Cosa ci guadagneresti sapendo la sua identità? — domandai, sospettosa, mentre esaminavo la carta del Matto. — Oltretutto, come dovrei provartela?
   Il pixie si strinse nelle esili spalle blu. — Mi basta la tua parola. È Mattia Nardone?
   — Io posso mentire — obiettai. — Perché vuoi che te lo dica?
   — Affari — mi rispose, vago. — Ora che è lui il nuovo Alpha, il clima all’interno del Mercato è notevolmente cambiato.
   — E potrete imboscarvi in faccende ancora più losche, non è vero?
   — È una parte della verità. — Gli occhi ferini del venditore brillarono nella semioscurità. — È Mattia Nardone?
   — Sì — capitolai. — È lui.
   La fata sorrise di nuovo. — Coraggioso, a presentarsi così al Mercato. In molti qui amavano Carmine.
   Lentamente, realizzai qual era il quadro della situazione.
   I lupi avevano allontanato Mattia di proposito. La musica ammaliante che ci aveva accompagnati per tutto il tempo suonava anche a frequenze più basse, udibili a fatica, fastidiose e quasi ipnotiche per chi non vi era abituato. Il pixie, approfittando del fatto che non avevo seguito i mannari, mi aveva trattenuta volutamente in chiacchiere inutili.
   Mi ritrovai uno spadino puntato al collo. — En garde, Lorianne Herondale. 

 

 

A posteriori, mi resi conto che il mio metodo di fuga non era stato dei migliori.
   Papà mi aveva insegnato l’arte della ritirata, ripetendomi fino allo sfinimento di prestare attenzione all’ambiente circostante, di guardarmi dietro le spalle, di mantenere una stretta né troppo forte né troppo lenta sulla spada, di respirare con regolarità per evitare i crampi, ma non avevo la lucidità necessaria per ricordarmi tutte queste direttive, al momento.
   Mattia era in trappola e io avevo l’obbligo morale di strapparlo al pericolo, e in fretta.
   Disarmai il pixie ribelle con una facilità impressionante, tenendomi il fioretto – non avevo nulla a parte il pugnale di nonno Luke e una lama angelica, e una spada un po’ più lunga non avrebbe fatto male – per poi scattare verso il cuore del Mercato alla velocità massima che potevo raggiungere a freddo, saltando su tombini aperti, rovesciando bancarelle e tendoni, facendomi largo a spallate tra la gente e menando un pugno qui e una gomitata lì quando uno dei molti fedeli di Mallardo si azzardava a tentare di fermarmi.
   Mi ero marchiata con una runa di resistenza quando erano spuntate le prime stelle, e la sentivo bruciare sull’avambraccio accanto all’Enkeli. L’effetto delle rune su di me non era mai prevedibile: o duravano per ore o svanivano dopo mezzo minuto, e in entrambi i casi sembravano comportarsi come se avessero un intelletto e decidessero se urgeva il loro ausilio o no. Altro discorso con le rune di mia madre, che invece, forse proprio per la loro provenienza terrena, funzionavano sempre e comunque.
   Colta da un’intuizione improvvisa, mi sfilai lo stilo dalla tasca con la mano libera e tracciai una runa nell’aria davanti a me. Trattenni il fiato per un attimo e lo liberai soltanto dopo uno slancio grazie al quale macinai venti metri in pochi istanti, mentre la folla con torce e forconi che mi stava inseguendo veniva bloccata da un muro invisibile. Ovvio che i nemici fossero anche dall’altro lato della barriera, ma almeno erano in numero minore.
   Ingaggiai brevi combattimenti con chi tra loro mi preoccupava di più – due ifrit provvisti di grosse scorte di acidi demoniaci e una banshee che cercò di rompermi i timpani con il suo urlo assordante – e corsi ancora, ansimando, un dolore pungente al fianco sinistro e il sangue che mi colava giù da una ferita sulla gamba dove il colpo di una daga era andato a segno.
   Raggiunsi uno spiazzo aperto e girai sui tacchi per disegnare un’altra runa Erkos, poi a distanza di dieci passi ne disegnai un’altra, e dieci passi dietro un’altra ancora, per precauzione. Avevo già notato prima che il territorio del Mercato era limitato a Via Indipendenza e a Villa delle Sirene, per cui nessuno sarebbe potuto uscire dai vicoli sulla strada principale.
   Mi voltai di nuovo e mi fiondai nel centro di un parcheggio quasi del tutto vuoto, dove i tre lupi nostri accompagnatori avevano circondato Mattia e stavano lentamente compiendo cerchi dal diametro sempre più ristretto per avvicinarsi a lui.
   Mattia ringhiava, ma non era un ringhio aggressivo: lo capivo dalla posizione del corpo inarcato all’indietro, dalle orecchie basse, dalle labbra che scoprivano tutti i denti fino ai molari, dagli occhi che non fissavano i suoi Beta. Era terrorizzato, impietrito, confuso. Per un secondo restai immobile anch’io, percependo la sua paura.
   Mi chiesi perché i mannari non attaccassero, ma un’occhiata più attenta ai loro movimenti mi diede la risposta: ognuno di loro voleva diventare l’Alpha, e ciò avrebbe significato assicurarsi che Mattia morisse soltanto per mano sua. Avrebbero lottato l’uno contro l’altro, intuii, per poter avere quell’onore.
   — Ehi! — urlai, per farli distrarre dalla loro preda. Il pugnale d’argento si conficcò nel collo del licantropo più a destra con un piacevole gorgoglio, mentre i due rimasti volgevano la testa verso di me. — Vigliacchi!
   Anche Mattia mi stava guardando, scioccato, ma un lampo passò nelle sue pupille e in un attimo comprese il motivo del mio grido. In un balzo atterrò sulla schiena del lupo più vicino e gli inflisse un grosso graffio sulla guancia, ricevendo in cambio un morso che per poco non gli staccò un orecchio.
   Il terzo mannaro mi caricò abbaiando, e io riuscii a lacerargli il fianco con lo spadino prima di deviare di lato per recuperare il pugnale d’argento dal corpo del brutto ceffo numero uno. Scorsi Mattia spalancare gli occhi alla vista del cadavere umano, una debolezza che gli risultò quasi fatale: dovette sacrificare la zampa sinistra al fine di scampare a un attacco frontale.
   Il pugnale non incontrò resistenza nel trapassare l’addome del penultimo licantropo, che rovinò sul cemento abbandonando le spoglie animali. — Uccidilo, Mattia! — strillai, senza sapere se dovevo interferire nel duello o lasciare che regolassero i conti da soli. — Mattia, è l’unico modo! Uccidilo!
   Era impossibile ormai capire chi fosse chi: le due bestie si rotolavano sull’asfalto assestando zampate alla cieca e scrutandosi in cagnesco, incapaci di vibrare il colpo di grazia. Con un’imprecazione sibilata mi portai in mezzo a loro per separarli e dare a Mattia il tempo di respirare, mentre l’altro lupo latrava furioso. Lo tenni lontano per un po’, sfruttando il suo tallone d’Achille per l’argento, ma ora che Mattia non rischiava più la pelle l’adrenalina stava scemando, e cominciavo a sentire la stanchezza dovuta alla mancanza di rune e alla perdita di sangue. Non ero al massimo delle forze, non più.
   Un’ombra mi passò sopra e nel momento in cui posai lo sguardo su di essa Mattia aveva già toccato terra. Spinse il suo avversario verso un SUV nero lì parcheggiato, lo incastrò contro la portiera e gli squarciò la gola con gli artigli, uggiolando quando il sangue gli zampillò in faccia, finendogli in bocca e negli occhi. Tremava, e tremò ancora di più nel vedere il mannaro che aveva appena ammazzato trasformarsi in Pietro, il volto rotondo pietrificato nell’espressione vacua del suo ultimo istante di vita.
   Gettai le armi e mi scagliai su Mattia, afferrandolo per il busto e tirandolo via da quel massacro. Sotto le mani percepivo i peli ritirarsi e le ossa fondersi in un nuovo scheletro, e un Mattia nudo e sporco si aggrappò alle mie spalle per tenersi in piedi. Non ce la fece, e cademmo entrambi in ginocchio, abbracciati, io che quasi piangevo per il sollievo e lui che fremeva come una foglia, ricacciando indietro le lacrime.
   Si udì uno schiocco e Mattia urlò, afferrandosi la gamba ferita: Pietro gli aveva fratturato il femore, e ora l’osso si stava riparando con una lentezza esasperante. Lo strinsi forte a me, ricordando di aver letto da qualche parte che gli abbracci rilasciano ormoni inibitori del dolore, ripulendogli nel frattempo il viso dal sangue, scarlatto e ancora caldo.

   E mentre una nuvola oscurava la luce limpida della luna, mentre le barriere che avevo creato con le rune si infrangevano e i Nascosti del Mercato si riversavano nella piazza per assistere a quell’orrendo spettacolo, mentre accarezzavo Mattia e fissavo le chiazze vermiglie sull’asfalto, mentre tutto sembrava zittirsi e arrestarsi in contemplazione della morte, mi chiesi se quella battaglia, la battaglia contro Mattia Nardone e l’innocenza di Mattia Nardone, contro la determinazione e la fermezza di Mattia Nardone, la battaglia contro il coraggio di Mattia Nardone, sarebbe mai finita.
 



Per la vostra gioia, finalmente un capitolo con un po’ d’azione. Ringraziate Lord of Shadows per questo (onde evitare scleri inutili, no, non è ancora uscito in italiano, lo sto leggendo in inglese).

Ci avviciniamo sempre di più alle Houses, alleluia alleluia, e per farvi venire un po’ di curiosità – se non ce l’avevate già – vi lascio un’anticipazione da quello che conto di mettere tra i primi capitoli:

 
Mattia ritirò la mano. Era calato il silenzio. — Nonna — fece, crollando sulla sedia. — Nonna.
   Anna combatté per non distogliere lo sguardo. In quello di Mattia leggeva tristezza e tradimento.
   Non tu. Non tu, nonna. Non tu.


A parte questo, niente da dire, oltre a rinnovare l’invito a commentare. Ah, avete visto che la formattazione è tornata normale? Boh.

Stranamente so già come cominciare il prossimo capitolo, perciò stay tuned e aspettatevi un aggiornamento il più presto possibile, bye!

Federica

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Capitolo 23
*** Deteriora sequor ***


21. Deteriora sequor

Deteriora sequor

 

Video meliora proboque, deteriora sequor.
Vedo il meglio e lo approvo, ma seguo il peggio.
 

[Ovidio, Metamorfosi]

 

Mattia era una furia.
   Con l’aiuto di una Chrysta mezza assonnata eravamo arrivati via Portale al Palazzo, portandoci dietro anche i corpi dei lupi morti, e attendevamo da un’ora e mezza il ritorno del resto del branco, richiamato da Mattia grazie a una delle sue tante capacità da Alpha. Chris ed io ci eravamo sedute sul bordo della piscina nell’atrio a fissare il fondo di mattonelle decorate, non avendo altro da fare una volta abbandonati i tentativi di calmare Mattia; nel frattempo questi, dopo aver raccattato con l’aiuto di Adriano maglietta, pantaloni e un paio di scarpe, misurava a passi veloci il perimetro della parete in fondo, aprendo e chiudendo i pugni con malcelata rabbia.
   Aveva sistemato di sua mano i cadaveri di Pietro e degli altri due mannari sul pavimento e li aveva coperti con la pesante tenda di velluto rosso che aveva strappato da una delle finestre, incapace di sopportare quella vista ancora per molto. Poi, non contento, li aveva avvolti nella stoffa come agghiaccianti involtini a grandezza d’uomo e li aveva buttati in un angolo trascinandoli sul marmo, il volto contorto in una maschera d’ira.
   Zoppicava leggermente a sinistra e piccoli rivoli di sangue continuavano a scorrergli giù dalle ferite, sporcandogli i vestiti, ma a parte questo sembrava stare bene, quantomeno fisicamente. Sotto il profilo psicologico, però, assomigliava terribilmente a Jean in quella notte al lago, quando tutto il suo controllo era esploso in un raptus di follia distruttiva.
   Mi accorsi che Chrysta non gli staccava gli occhi di dosso, pronta a contenerlo nel caso fosse scoppiato anche lui. Io tenevo stretto il pugnale d’argento, malgrado sapessi che difficilmente l’avrei attaccato con un’arma mortale. Gli avrei volentieri spaccato il naso a pugni se ce ne fosse stato bisogno, ma mai mi sarei azzardata a mettere a rischio la sua vita, soprattutto non quando io stessa ne ero garante.
   Fu quasi necessario trattenerlo per le braccia nel momento in cui diversi licantropi già in forma umana giunsero al Palazzo, ricoperti di terra e sangue, e come da usanza si inginocchiarono davanti a lui mostrandogli la gola in segno di sottomissione. Mattia stava per aprire bocca e cominciare l’ennesima paternale, che stavolta avrebbe presentato toni parecchio più accesi del solito, ma l’entrata di un secondo gruppo di mannari lo stroncò sul nascere.
   Erano molti di più, questi, ed ebbero la sfrontatezza di restare stoicamente in piedi, sfidando l’Alpha, senza nemmeno degnarsi di abbassare la testa. Navigavano nel sangue, proprio e altrui, il cui odore metallico si spandeva nella stanza; tra di loro, anche morti o moribondi, che strisciavano all’altezza delle caviglie di chi riusciva a reggersi sulle gambe con acuti gemiti di dolore.
   Per ultima venne Sabrina, bellissima nella sua pelle di lupa bianca chiazzata di rosso, che stringeva tra le fauci il corpo inerme di quella che sembrava una minuta ragazza, dal fisico quasi bambinesco, il viso spaventosamente familiare.
   Melissa.
   Fu allora che Mattia si sbloccò e si fiondò verso le due donne facendosi largo a spintoni, subito seguito da Chrysta. Entrambi avevano capito che non era Sabrina la causa delle lesioni della giovane e che quello era il modo meno pericoloso per trasportarla fin lì; ora la stavano aiutando a deporre delicatamente Melissa a terra, mentre io mi piazzavo di fronte alla consistente folla per tenere un occhio sulla situazione.
   Intravidi Mattia scambiare qualche parola con Chris per accertarsi che si prendesse cura della sua Beta, poi si raddrizzò e urlò a pieni polmoni: — Codardi!
   Tutti si girarono verso di lui, chi era a terra e chi non lo era, chi si leccava le ferite e chi gonfiava il petto al fine di ostentare indifferenza e sfacciataggine. Il suono della sua voce riempiva l’aria, la rendeva carica di ansia, di frustrazione, di collera, di delusione.
   — Codardi! — gridò di nuovo. — Come osate insorgere contro di me, tramare contro di me, cospirare contro di me!
   Scandagliò con lo sguardo ogni singolo licantropo, uno ad uno, dal pauroso che chiedeva pietà allo spudorato che esibiva con orgoglio il suo trofeo di caccia: la testa di un suo simile.
   — E contro i vostri compagni! — continuò, indicando la decina di corpi che giaceva sul pavimento, di cui solo un ristretto numero riusciva ancora a respirare. Dopo aver stabilizzato Melissa, Chris corse ad occuparsi di loro.
   — Chi ha avuto il fegato e la stupidità di compiere questa strage, si faccia avanti per aver riconosciuti i propri meriti! Avanti, ho detto! — ruggì Mattia, le pupille che mandavano fiamme. — Forza, chi mi seguirà nel girone degli omicidi? Avanti!
   Nessuno proferì parola.
   Adriano mi comparve alle spalle, silenzioso come un gatto se non fosse stato per il respiro costantemente pesante. A quanto pareva, dormiva in tuta: era stranissimo vederlo senza i suoi soliti abiti eleganti. — Wow. — Fischiò. — È incazzato.
   Fissai Mattia aggirarsi con fierezza tra i mannari, provocandoli per indurli a confessare. — Eh sì —  concordai. — Incazzato nero.
   — È un bene — aggiunse Adriano. — Almeno così siamo sicuri che li punirà.
   Mi voltai leggermente verso di lui, senza perdere il contatto visivo con Mattia. — Che punizione suggerisci?
   — Papà uccideva — mi rispose lui, atono. — Come puoi immaginare, è alquanto improbabile che Mattia si spinga fino a quel punto. Oltretutto, se vuoi il mio parere, la morte è pura misericordia nei confronti di questa gente. Io punterei ad umiliarli.
   Mentre noi parlavamo, Mattia stava esaminando il sangue e i graffi sui corpi dei suoi Βeta per capire se fossero vittime o carnefici. Nel frattempo, non perdeva occasione per rimarcare la vigliaccheria di chi aveva attentato alla sua autorità in sua assenza e ora non aveva il coraggio per affrontarlo apertamente. — Mi correggo: che umiliazione suggerisci?
   Adriano mi rivolse un sorrisetto malizioso. — Lasciamo fare a Mattia. È già ingegnoso per conto suo.
   Il suddetto ingegno permise a Mattia di individuare tutti i responsabili della strage: tre di loro glielo avevano praticamente sputato in faccia, vomitando frasi su frasi riguardo l’inadeguatezza del nuovo Alpha e l’eredità di Carmine che doveva essere onorata; i restanti sei, fingendo timore reverenziale, si erano invece nascosti tra la massa.
   Ora Mattia li stava strattonando senza alcun riguardo per metterli in prima fila e poter quindi riversare direttamente su di loro tutta la sua indignazione: — Sareste così gentili da spiegarmi cosa diavolo vi è passato per quella testa bacata? — sbraitò, la voce potente che rimbombava tra le pareti. — Perfetto, noto che qui le parole non servono a niente! Cosa credete, che io non sia capace di alzare le mani? Mi ritenete un debole? Eh? Mi ritenete un debole?!
   L’uomo più sulla destra ghignò. Mi pareva di ricordare che si chiamasse Emanuele. — Esattamente.
   Mattia soffiò dalle narici, sarcastico. — Mi fa piacere che pensiate questo di me. Mi fa davvero molto piacere.
 — Vedi, Mattia, tu sei bravo a minacciare — rincarò Emanuele. A sentirsi dare del tu, Mattia trasalì. Anche se lui non voleva, quasi chiunque gli dava ancora del lei. — Il problema con te si pone quando bisogna agire sul piano fisico.
   Mattia indietreggiò, mentre la consapevolezza del vero motivo di quegli attacchi lo colpiva dritto allo stomaco. 
   — Bastardi — sussurrò, oltraggiato. — Bastardi. Voi sapevate che ci sarebbero state delle serie conseguenze e io sarei stato costretto quantomeno a riempirvi di mazzate. L’avete fatto apposta, l’avete fatto apposta...
   L’altro lupo allargò quel sorriso strafottente. — Quando vuoi, sai essere malizioso.
   — Vaffanculo, Emanuele — sbottò Mattia. Non aveva affatto l’aria di chi sta scherzando: quello era un insulto venuto dal cuore. — Bene, allora, vediamo di mettere in chiaro le cose.
   Astutamente, allargò le gambe e incrociò le braccia sul petto in una posizione di superiorità e dominanza. Ed era ancora convinto di non essere un buon attore.
   — Constato che eravate assurdamente certi di potermi prendere per il culo, con questo vostro ridicolo tentativo di obbligarmi a vendicare una mossa che non poteva restare invendicata e farmi apparire agli occhi di tutti come il fesso di turno che compie azioni violente esclusivamente per cause di forza maggiore. — Sul suo volto si leggeva il disgusto. — Ebbene, grandissimi stronzi, mi avete fregato, complimenti. Adesso, qualsiasi cosa faccia sarà interpretata come un vincolo, un’imposizione, un gesto che faccio contro la mia volontà, soltanto perché è ciò che vi aspettate che io faccia. Per cui, dato che ormai mi avete incastrato, vediamo perlomeno di renderlo memorabile.
   Il perfido sorriso da orecchio a orecchio che sfoggiò Mattia fece ridurre quello di Emanuele a una miserabile, insignificante piega della bocca. 
   — Sabrina — chiamò, e la donna gli fu subito al fianco. — Nei sotterranei.
   Percepii Adriano esultare tra sé e sé. — Ti accompagno, mamma. — Riservò a Mattia un’occhiata soddisfatta. — Non finirà qui, spero.
   — Ovviamente no — ribatté Mattia, con un luccichio pericoloso nelle pupille circondate di giallo. — Ma mi serve del tempo per riflettere e devo recuperare la lucidità. Preferisco prendere questa decisione a sangue freddo, piuttosto che cavalcare l’onda del momento.
   Se non avessi saputo che a posteriori si sarebbe fatto milioni di complessi, quella sera Mattia mi avrebbe quasi fatto paura.
   Sabrina annuì, zelante. — Resteremo lì di guardia — gli assicurò, e Mattia la ringraziò con un cenno imperioso del capo.
   Lei e il figlio scortarono i traditori nelle celle al seminterrato. Non appena l’ultimo licantropo fu sparito dietro l’angolo, Mattia abbandonò la maschera dell’Alpha inflessibile e sfrecciò fino all’altro lato della stanza, dove Chrysta stava ancora curando i molti feriti. Addossati al battiscopa giacevano quattro cadaveri. Per quella sera, la conta dei morti era già a sette.  
  
Mi accertai che il tragitto verso le prigioni stesse andando per il meglio, poi anch’io mi accostai a Mattia e Chris per poter aiutare in qualche modo. Per fortuna, Chris aveva stabilizzato la maggior parte dei mannari e ora si stava dedicando a un tizio sulla trentina con una spalla lussata, mentre Mattia dispensava parole di conforto ai più disperati.
   Mi accovacciai accanto a Melissa, distesa sul pavimento con la giacca arrotolata di Chrysta che le teneva sollevati il collo e il braccio sinistro. Il suo respiro era leggermente affannoso e sangue e terra le imbrattavano il corpo snello, ma nel complesso sembrava non correre rischi.
   — Ehi — la salutai. — Fa male?
   — Sì — mi rispose lei, in un soffio appena udibile. A parlare le si spaccò un labbro e dovette leccarsi via il sangue. — Meno di prima, però.
   — Non sforzarti, Melissa — la rimproverò Chrysta, multitasking come sempre. — Ti ci vorrà parecchio per guarire; non rallentare il processo.
   La lupa respirò a fondo, premurandosi di non riempire troppo i polmoni per evitare di provare altro dolore. — Si dà il caso che io non riesca a guarire — sussurrò, chiaramente tentando di non farsi sentire. Quando si accorse che sia io che Mattia l’avevamo sentita eccome, si produsse in un veloce sospiro di stizza.
   Mattia si congedò dalla donna che stava consolando e venne a sedersi al nostro fianco, appoggiandosi al muro. Scrutò la piccola lupa con attenzione clinica. — Come mai? Fa’ vedere.
   — La Stregona ha già fatto abbastanza — replicò lei, piccata. — E poi non potresti nemmeno toccarmi, Mattia: c’è dell’aconito nella ferita.
   — Aconito? — Mattia ignorò il tono sdegnoso di Melissa e si fece cupo. — Com’è possibile?
   — Vampiri — lo informò Chrysta, a cui evidentemente piaceva ficcare il naso nelle conversazioni altrui. — C’erano i segni dei loro canini su alcuni dei tuoi Βeta; ho ragione di credere che avessero un qualche tipo di estratto della pianta sui denti. Dopotutto, a quanto pare l’aconito è la loro specialità.
   Mattia si nascose la testa fra le mani. — Cazzo — sibilò. — Buon Dio...
   — Sì, come no — proferì Melissa, con un verso dal quale traspariva tutto il suo disprezzo. — Dio è proprio buono.
   Mattia la zittì immediatamente: — Taci. Non sopporto di essere attaccato pure su quest’altro fronte. Se non vuoi avere fede, non averla punto e basta. Sono stufo che mi si ripeta che devo smettere di essere cattolico solo perché ho ucciso un uomo, stufo marcio. Anzi, notizia flash: ne ho uccisi altri tre. Dovrebbe rendermi meno cattolico, questo? Al contrario: penso che ciò debba darmi un motivo in più per pregare il mio Dio, ora che sono un peccatore peggiore. — Strinse la clavicola di Melissa, autoritario. — Fa’ vedere.
   La mannara schioccò la lingua sul palato. — Non so se la tua fede così cieca e assoluta sia sinonimo di valore o di stupidità — rincarò. — Sto bene, Mattia. E oltretutto non puoi toccarmi.
   Chrysta si voltò per un attimo verso di lei, la bocca ridotta a una linea dura e perentoria. — Ti ho ripulita dall’aconito, Melissa. Lascialo fare. Il tuo Alpha ha conoscenze mediche, e potrebbe vincere dove io ho perso.
   — Ma...
   — Forse non hai afferrato il senso delle mie parole, Melissa. — Mattia rafforzò la stretta, quasi costringendo la ragazza a sollevare il busto per poterla controllare. — Non è una richiesta, è un ordine. Fa’ vedere.
   Tra gemiti, sbuffi e imprecazioni sottovoce, Melissa si tirò su a sedere e si piegò in avanti poggiandosi sulle ginocchia. Era ancora nuda, e mi resi conto che quell’atteggiamento scontroso proveniva dal suo imbarazzante disagio nello stare al cospetto del giovane e attraente Alpha. Non che, comunque, a lui ciò importasse; tutto il suo interesse in quel momento era rivolto alla grossa lacerazione sulla schiena di Melissa: partiva dal bicipite sinistro, attraversava la scapola e terminava sulla colonna all’altezza delle ultime vertebre. Chrysta l’aveva disinfettata e cauterizzata ma, un po’ per la fretta e un po’ per la stanchezza, non aveva potuto richiuderla.
   Mattia, dopo essere rimasto ad osservarla imbambolato per cinque secondi esatti, si rianimò e prese ad impartire ordini: — Qualcuno mi porti ago, filo da sutura e un antidolorifico di quelli potenti. Se non c’è l’ago curvo ne andrà bene uno lungo e sottile, eventualmente provvederò a curvarlo io; se non c’è il filo... pace, mi arrangio, tanto serve solo ad agevolare la cicatrizzazione. Chiaro?
   Un uomo balzò in piedi. — Cristallino. — Rivolse un cenno di assenso a Mattia. — Abbiamo una cassetta di pronto soccorso al primo piano, l’ago e il filo dovrebbero esserci, ma l’antidolorifico...
   — Morfina, Alberto — proclamò Mattia. — Su, non dirmi che tra tutta quella roba che spacciamo non c’è una benedetta fiala di morfina.
   — Ovvio che c’è, ma non so dove la teniamo.
   Scattai su come una molla. — Lo so io.
   Intimai ad Alberto di proseguire per la sua strada, quindi sfrecciai verso lo studio segreto, sbloccai il passaggio per lo stanzino nascosto dietro la libreria e una volta lì mi trattenni un paio di minuti per cercare la morfina tra i vari altri analgesici. La individuai dietro ad un’ingente partita di eroina, e se su entrambe le confezioni non ci fosse stato scritto il nome – con un pennarello cancellabile, naturalmente, per impedire l’identificazione – avrei potuto scambiarle con facilità. Be’, l’eroina avrebbe ugualmente fatto effetto, ma mi sarei beccata una bella predica da Mattia.
   Tornai nell’atrio con una boccetta in una mano e una siringa impacchettata nell’altra. Mattia, con Alberto che supervisionava le sue mosse, stava infilando un filo dall’aspetto inquietante nella cruna di un ago a mezzaluna. Melissa tremava.
   — Okay, signorina. — Mattia mormorò un ringraziamento nella mia direzione e si dedicò a riempire la siringa con perizia. — Ti spaventerò ulteriormente, però devo dirtelo: so come si fa, ma solo in teoria.
   Melissa roteò gli occhi al cielo. Ciononostante, la sua ansia era palpabile. — Oh, Mattia, fammi il piacere, quella morfina è la migliore in circolazione.
   Mattia ridacchiò malvolentieri. — Qua siete tutti drogati in un modo o nell’altro, eh?
   — La tentazione è grande.
   — Quindi non devo dirti che la morfina è tremenda, giusto? — Mattia calcolò attentamente l’angolo di iniezione e riuscì a non far neppure sussultare Melissa. Perlomeno, Melissa non sussultò per la puntura. — ... Ops. Forse dovevo dirtelo, sì.
   La ragazza trattenne il fiato e contrasse ogni singolo muscolo, diventando più rigida di una statua di marmo. — Vaffanculo, Mattia!
   — Non è colpa mia — ribatté lui serafico. — Dai, ora passa tutto.
   Nel giro di poco più di un minuto, Melissa si rilassò visibilmente. — Lori, per favore, mantienila — mi avvertì Mattia. — Non vorrei che perdesse il controllo sul corpo.
   — Ce la faccio — provò a protestare lei, ma le era difficile anche solo articolare le sillabe. — No, non ce la faccio.
  Mi inginocchiai e la tenni dritta per le braccia, mentre Mattia – dopo essersi fatto un rapido segno della croce per scaramanzia – iniziava a ricucire la pelle, la lingua tra i denti per la concentrazione.
   — Dove hai imparato? — gli chiesi, notando che non sbagliava un colpo. — Non sei un po’ troppo piccolo per essere già capace di certe cose?
   Lui distolse brevemente lo sguardo dal suo lavoro e mi sorrise. — Il mio rapporto con l’illegalità risale a ben prima di questa storia — raccontò, un luccichio divertito nelle pupille. — A parte il fatto che sono volontario in pronto soccorso da ormai un anno, ho scroccato alcuni corsi alla facoltà di infermieristica su all’ospedale – sì, c’è una sede distaccata della Sapienza da decenni, qui a Gaeta. Nonna è un’ex infermiera professionista e mi ha permesso di imbucarmi a molte lezioni; ho pure ricevuto tre o quattro attestati che avrebbero fatto salire esponenzialmente il numero dei miei crediti se fossi andato all’università. Purtroppo, questa prospettiva mi pare un po’ improbabile, alla luce dei... recenti avvenimenti.
   — Purtroppo, sì. — Mi morsi il labbro. — Ascolta, Mattia, la Basiliade offre la possibilità di seguire un percorso formativo anche in loco, in aggiunta alle varie filiali in tutto il mondo. Potresti fare domanda per studiare lì, e per la formazione che hai ti consentirebbero persino di cominciare ad esercitare...
   Il suo sorriso si allargò, e a quel gesto una bolla di gioia scoppiò nel mio petto. — Ho fatto domanda lunedì, Lori. Non appena saprò il voto finale della maturità dovrò notificarlo alla commissione per l’istruzione, ma hanno già comunicato che sono il benvenuto.
   — Non mente — confermò Alberto, che stava man mano svolgendo il filo di sutura per Mattia. — Io stesso gli ho consegnato la loro lettera di risposta. Vedremo se sarà così felice quando capirà con quale ambiente avrà a che fare.
   — È una sfida? — Mattia gli indirizzò un ghigno furbo.
   Alberto fece spallucce, ridendo. — Se vuoi intenderla come tale...
   — La intendo come tale. — Mattia annodò il filo, lo spezzò e si alzò scrollandosi la polvere dai pantaloni. — Alberto, fammi la cortesia di accompagnare Melissa in camera — declamò in tono categorico. — Voialtri, salite nelle vostre stanze e riposatevi. Per il resto del plenilunio, se riesco a procurarmi la pozione, rimarremo tutti umani.
   Ciò detto, si ritirò nello studio e si concesse di crollare.

 

 

Ci fu una mezz’ora orribile durante la quale Mattia si comportò come una donna in piena fase mestruale, tra sbalzi d’umore e ira incontrollabile, poi l’arrivo di Adriano mise fine al teatrino e riportò il lupo al suo ruolo di Alpha spietato.
   — Giù sta succedendo un casino della miseria, porco mio padre! — concluse l’hacker, nervoso. — Devi sbrigarti, Mattia, oppure romperanno le sbarre e la serata finirà in un bagno di sangue.
   Mattia si premette le dita sulla fronte. Era stanco, stanchissimo. Non c’era verso che tornasse a casa sua: una volta che quell’incubo fosse terminato, avrei avvertito i suoi e me lo sarei trascinato a Villa Orlando senza farmi raddolcire dalle sue proteste. Doveva dormire, profondamente e a lungo, e doveva recuperare le forze per l’esame orale. Aveva un bisogno disperato di assoluta tranquillità.
   — Io non li uccido, su questo non si discute — stabilì, e fu sorpreso nel constatare che eravamo tutti e tre d’accordo con lui, Adriano in particolare. — Adesso il problema è decidere cosa fare di loro.
   — Ti hanno propinato un bel servizietto, bloccandoti così, con le spalle al muro — commentò Chris, palesemente esausta anche lei.
   — Se volete la mia opinione, non credo l’abbiano fatto di proposito — si inserì Adriano, una mano sotto al mento in una posa riflessiva. — Sono semplicemente una massa di animali ignoranti, a scanso di pochi soggetti. Li avranno aizzati Emanuele e Pietro, e forse Stella — spiegò. — Gli altri non hanno le abilità e l’intelligenza necessarie per tali sottigliezze.
   — Qualunque sia il caso — lo interruppe Mattia, — devo emanare un verdetto definitivo e ne devo uscire degnamente e col culo parato. È inaccettabile che una cosa del genere accada di nuovo, inaccettabile. A questo punto, suppongo sia vero che è meglio essere temuti che amati.
   Mi accigliai. — Meglio essere temuti che amati... è Machiavelli?
   — No, la Regina Rossa di Alice in Wonderland — mi punzecchiò Adriano. — Certo che è Machiavelli.
   Mattia gli allungò una pacca sulla spalla. — Sono piuttosto sicuro che lo dica anche la Regina Rossa.
   — Ma è sempre una citazione di Machiavelli.
   — Ragazzi — li redarguì Chrysta. — Non c’è tempo per le sciocchezze.
   — Sì, non c’è... tempo. — Il volto di Mattia si illuminò all’improvviso. — Chrysta...
   — Sì?
   — Non è che sarebbe possibile una... inversione di tempi?
   Chris si appollaiò sulla scrivania, interessata. — Chiarisci il concetto.
   Mattia inalò una violenta boccata di ossigeno. — Un attimo, riordino le idee. — Si grattò il naso, meditativo. — Lupi di giorno e umani di notte, invece del contrario? È peggio.
   — Mmh. — Chrysta fece una smorfia dubbiosa. — È peggio, ma anche più pericoloso.
   Mi affrettai a rincuorare Mattia con una leggera carezza sulla guancia, accorgendomi che si stava demoralizzando. — Su, non perdere le speranze, la tua proposta non era poi così male.
   Adriano concordò: — Non era affatto male.
   — Dovresti estremizzarla, Mattia — suggerì Chrysta. Avrei scommesso oro che avesse già elaborato una soluzione al problema, ma voleva che ci arrivasse anche lui. — Ingigantiscila.
   Mattia ragionò per diversi minuti, massaggiandosi le tempie. In religioso silenzio mi unii a lui, e come me pure Adriano, ponderando ogni plausibile espediente.
    Malgrado la spossatezza, Mattia ci arrivò prima di noi. — Okay, questa è stronza — fece infine. — Davvero, davvero stronza.
   Adriano sogghignò. — Habla.
   Chrysta lo osservò compiaciuta mentre lui ci rendeva partecipi del suo piano: — Ripropongo la mia tesi precedente, ma in versione riveduta e corretta — esordì, leccandosi le labbra con aria soddisfatta. — Inversione di tempi 2.0. Umani per tre giorni, lupi per i rimanenti.
   Adriano batté le mani esultando a gran voce. Io mi limitai a un: — Oh wow. Oh wow.
   — Screanzato — lo schernì Adriano, ridendo. — Grandissimo screanzato.
   Ebbene sì, screanzato lo era eccome. Ma non sapevo se accogliere questa rivelazione con gioia o preoccupazione. Però, dopotutto, guardare la situazione dall’uno o dall’altro lato non aveva poi molto significato, in quanto stava comunque a indicare una e una sola cosa: Mattia aveva finalmente tirato fuori le palle.
   — Si può, Chrysta? — Lo domandai con un pizzico di esitazione, rendendomi conto soltanto in quel momento che quella trovata non mi piaceva fino in fondo.
   Quanto era giusto lasciarlo fare, non protestare contro una simile scelta? A una Shadowhunter sarebbe dovuto stare a cuore il bene del Mondo Invisibile, non la creazione di un nuovo mostro sul modello del precedente. Non era una delle priorità di un Nephilim porre dei limiti a determinati tipi di pensiero, evitare che il fiume strabordasse dagli argini, far sì che i Nascosti seguissero una strada precisa?
   Avrei contravvenuto al mio dovere se avessi acconsentito a un’opera di tale portata?
   C’era ben poco da fare, comunque, se l’ostinazione di Mattia era ai soliti livelli. E, sfortunatamente per me, lo era.
    Chrysta sostenne che si poteva, manifestando nel contempo tutto il suo assenso, ma negò di essere in grado di farlo subito: la serata era stata sfiancante anche e soprattutto per lei, e doveva riacquistare i pieni poteri.
   Mattia sembrò voler affrettare le cose. — Chris, la velocità è fondamentale.
   — Sì, ma la pazienza è tra le tue virtù — obiettai. — Così facendo instillerai ancora più paura nei tuoi Βeta, e avrai una stretta molto più salda sul metaforico manico del coltello. Ti conviene, Mattia.
   Lui scosse il capo. — No, non mi conviene — contestò. — Loro penserebbero che non farò nulla, e questo è proprio ciò che vogliono.
   — Sull’altra faccia della medaglia — valutò Adriano, — in questo modo li fregheresti alla grande, Mattia. Riflettici: non si aspetterebbero certo una ritorsione, ma solamente perché sarebbero portati a credere di essere riusciti ad avvelenare i pozzi. Quando scopriranno che bella sorpresina hai in serbo per loro...
   — Chiunque pagherebbe oro per essere al posto mio — comprese Mattia, che ormai aveva acconsentito a rimandare l’impresa all’indomani. Si riavviò i capelli sbadigliando. — Va bene, ragazzi, infiliamoci sotto le coperte e dormiamoci su. Vi voglio qui prima di mezzogiorno.

   Su quella nota ci congedò, caldo come il ghiaccio, e tutti, quella notte, andammo a dormire con un enorme macigno sul petto.   


E io che pensavo che la fine di StF sarebbe stata una palla. Vabbe’.

Innanzitutto ringrazio The Originals e la “abilità di mettere insieme i puntini” (cit.) di Francesca Paduano per la geniale punizione di quei cattivoni dei Beta di Mattia. Non ringrazio, invece, il caro OneDrive, che mi ha fatto PERDERE MEZZO CAPITOLO perché evidentemente pensa che la Federica del computer e la Federica del telefono siano due utenti diversi e dice che è “impossibile salvare le modifiche gne gne gne”. A causa sua ho pure smarrito nell’etere un bel po’ di parole su Trish e Adriano. E che cazzo.

A parte questo, starò per una settimana circa in giro per la Toscana –  ovviamente mi deve venire il ciclo – e ciò significa una settimana in meno per scrivere, anche se non è detta l’ultima parola dato che ho più o meno imparato a utilizzare Word da telefono. Comunque ci vorrà un po’ più di tempo del canone di quindici giorni con cui ho pubblicato ultimamente.

E niente, mi fermo qui.

Alla prossima,

Federica

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Capitolo 24
*** Terrore ai malfattori ***


22. Terrore ai malfattori

Terrore ai malfattori

 

15È una gioia per il giusto che sia fatta giustizia, mentre è terrore per i malfattori.

 

[Proverbi 21, 15]

 

 

 

Questa non è una tazza di cappuccino. Questa è la madre di tutte le tazze di cappuccino.
   Sedevo di fronte a Mattia a uno dei tavolini esterni del Bar Bazzanti, con le spalle all’antico colonnato della Gran Guardia. Una cameriera ci aveva portato le nostre ordinazioni – avevamo scelto entrambi la stessa colazione – e stavo fissando quella sorta di ciotola da insalata che sia Mattia sia lo staff del bar insistevano a chiamare tazza con un tale ostinazione che per poco non incrociai gli occhi.
   — No, io non ce la faccio; tutto questo latte a prima mattina no.
   Mattia si dedicò con falsa tranquillità ad aprire una bustina di zucchero di canna – come se non si rendesse conto che potevo quasi toccare la sua tensione.
   — Non dire che non ti avevo avvertita — mi rimproverò, con tutta l’intenzione di risultare scherzoso, ma l’ansia che sprizzava da ogni singolo poro sulla sua pelle rovinò l’effetto. — Male che vada, salti il pranzo e arrivederci a stasera.
   — Altro che pranzo, qua mi tocca saltare anche la cena — sussurrai, seria fino al midollo.
   — E la merenda. Non dimenticare la merenda. Non sopravvivrei senza merenda. — Mattia mescolò distrattamente lo zucchero nel suo cappuccino con cacao, mentre degnava appena di un’occhiata i cornetti alla Nutella che ci avrebbero fornito le restanti calorie per ammazzarci in definitiva. — La merenda è santa e sacrosanta.
   — Non ha senso aggiungere sacrosanta se è già santa, basterebbe un sacra.
   Mattia minimizzò la questione con un gesto scocciato della mano. Negli ultimi tempi era diventato bravo a fingersi distaccato e disinteressato. — Considerala una licenza poetica.
   Prese un sorso di cappuccino; sul labbro superiore gli restò un baffo di schiuma che mi fece venire voglia di baciarlo al fine di rimuovere quel ridicolo segno. Quando mi protesi in avanti per farlo, lui si allontanò.
   Mattia era restio ad abbandonarsi alle effusioni in pubblico: me n’ero accorta già da tempo. A chiunque fosse capitato per di lì, il pensiero che potessimo essere fidanzati non sarebbe neanche passato per l’anticamera del cervello. Certo, la vista di due ragazzi che facevano colazione da soli con tanto di mazzetto di fiori in mezzo al tavolo avrebbe dato da riflettere, tuttavia dubitavo che emanassimo la tipica aria da nuova coppietta felice e spensierata. In particolar modo perché felici e spensierati non lo eravamo affatto.
   Ovvio, con lui stavo bene, benissimo anzi, e speravo che per lui fosse lo stesso, ma non avevamo esattamente avuto il tempo necessario per poter legare più a fondo e approfondire la nostra relazione, a causa di quanto accaduto negli ultimi giorni. Il mio affetto per lui andava immensamente oltre una semplice amicizia, eppure dire che lo amavo non mi sembrava – non ancora, se Raziel fosse stato caritatevole – la verità.
   Mi ero innamorata di lui? Sì.
   Lo amavo? Al momento, no.
   Non sapevo se la mancanza di contatto fisico tra di noi fosse proprio il risultato di tale insicurezza nei miei sentimenti; magari Mattia l’aveva percepita ed era appunto da lì che derivava questo suo strano comportamento freddo. Non era proprio il periodo migliore per farsi un esame di coscienza a quei livelli, né per me né per lui, e c’erano questioni ben più importanti che richiedevano la nostra attenzione: questo lo comprendevo perfettamente. Eppure il giorno in cui avrei lasciato l’Italia per tornare a New York si avvicinava sempre di più, e ancora non avevo idea di cosa avrebbe significato quella partenza.
   Sarebbe stata un addio, o un arrivederci?
   Avrei portato con me qualcosa di diverso dal solo ricordo di una semplice vacanza come tante altre?
   Era già assodato che, in un modo o nell’altro e prima o poi, avrei rivisto Mattia a Idris: mi aveva promesso che avrebbe svelato al mondo i segreti del suo branco, e inoltre molto probabilmente sarebbe stato chiamato a firmare gli Accordi in veste di rappresentante dei mannari. Per quel tempo anch’io avrei avuto il mio da fare, e con un po’ di fortuna avrei ottenuto che Jean scontasse la pena che meritava – tutto ciò, naturalmente, posto che fossi riuscita ad aprire bocca davanti al Consiglio: questo era quanto io, in cambio, avevo promesso a Mattia.
   Per cui, sì, ci saremmo rincontrati. Lo richiedevano le circostanze.
   Il problema adesso era capire in quali panni il destino ci avrebbe messo inevitabilmente l’uno di fronte all’altra.
   Lo osservai di sottecchi. Non sembrava essere molto intenzionato a riempirsi lo stomaco, e centellinava il cappuccino nemmeno fosse del costoso bourbon da gustarsi con la maggiore lentezza possibile. Aveva le palpebre pesanti per il poco sonno, e la stanchezza trasudava da ogni suo movimento, persino il più piccolo.
   Eravamo arrivati a Villa Orlando verso le quattro, e avevo immediatamente ceduto la mia camera a Mattia per permettergli di riposarsi come si deve. Ma anche dal piano di sotto, con tanto di Chrysta che smuoveva pentole e padelle per preparare una dose da esercito di pozione antilupo e nel frattempo studiava ad alta voce come imporre la maledizione sui licantropi traditori, ero in grado di sentire che Mattia non la smetteva di girarsi e rigirarsi nel letto.
   Avvertiti i genitori di Mattia con un messaggio dal suo cellulare, mi ero appisolata sul divano alle cinque passate, dopo aver spiegato ai gemelli – che si erano svegliati per il troppo rumore – cos’era successo in quella notte infernale e aver aiutato Chrysta al massimo delle mie possibilità. A conti fatti, ma dopotutto me lo aspettavo, Mattia doveva aver dormito addirittura meno di me.
   Non che potessi biasimarlo: chiunque non avrebbe chiuso occhio col peso di una decisione del genere sul petto. Se pure Chris ed io, le più estranee alla vicenda, ne eravamo rimaste influenzate, non potevo immaginare come ne fosse uscito lui.
   Ci eravamo alzati tutti alle otto, di malavoglia, e avevamo preso strade differenti: Chrysta era sparita tra gli alberi di Monte Orlando per poter racimolare la concentrazione necessaria per l’incantesimo, Logan e Trish erano corsi al covo dei vampiri allo scopo di scoprire quale fosse la loro implicazione negli attacchi della sera precedente e io avevo trascinato Mattia fuori di casa per fare colazione.
   L’appuntamento era fissato per mezzogiorno al Palazzo, ed erano le nove. Avevo tre ore a disposizione per assicurarmi che Mattia non desse fuori di testa come già aveva minacciato di fare.
   Spinsi leggermente verso di lui il piatto con i cornetti. — Si faranno freddi se non li mangiamo entro breve.
   Mattia mise lentamente giù la tazza vuota. Guardandomi con sfacciataggine, staccò con indice e pollice la punta di uno dei cornetti e se la portò alla bocca. — Già freddi. E poi non ho fame.
   — Va bene, non ti costringerò — mi arresi, allungando una mano per poter stringere la sua. Stavolta, lui non si ritrasse. — Però, Mattia, smettila di rimuginare. Startene qui a pensare e ripensare non ti sarà di alcun aiuto.
   Mattia buttò fuori l’aria dalle narici in quella che voleva essere l’emulazione di una risatina sarcastica. — Purtroppo non riesco a fare altro, Lorianne.
   Con un sospiro imitai il suo gesto di poco prima e iniziai a smantellare il cornetto, in silenzio. L’operazione si fece complicata quando cominciò ad apparire la Nutella, dunque dovetti per forza di cose affondare i denti nella soffice pasta: non l’avevo fatto sin da subito per evitare di sporcarmi tutto il mento di cioccolata e zucchero a velo e ricoprirmi completamente di briciole. Fallii miseramente nell’intento di concludere una colazione con dignità, cosa che divertì Mattia al massimo grado.
  
— Sì sì, ridi pure — sbottai, mentre lui sghignazzava senza ritegno. Se non altro sembrava che così un po’ del suo nervosismo fosse volato via, lasciando immediatamente spazio all’appetito: in tempi non troppo lunghi, anche il secondo cornetto sparì oltre le labbra di Mattia. Avevo notato una certa riluttanza in lui, ed ero più che sicura che a pranzo non l’avrei affatto spuntata col mio tentativo di farlo mangiare, ma almeno con quella colazione sullo stomaco avrebbe avuto l’energia e la lucidità necessarie per ciò che lo attendeva al Palazzo. E di energia e lucidità gliene servivano parecchie.
   Non mi permise di pagare – cavaliere fino al midollo – e mi schiaffeggiò il polso quando provai a restituirgli quantomeno la mia parte del conto.
   — Non voglio fare la mantenuta, e dai! — protestai, ma lui fece orecchie da mercante e mi trascinò fuori dal bar, in direzione del lungomare. Mattia sceglieva sempre la strada del mare se aveva bisogno di calmarsi.
   Quel giorno faceva talmente caldo che un paio di persone passeggiavano addirittura con gli ombrelli per ripararsi dal sole, eppure, a detta di Mattia, non erano temperature eccessivamente alte per quel periodo: i tizi con gli ombrelli dovevano essere turisti. In effetti bastava solamente farci l’abitudine e camminare il più possibile vicino al mare per godersi la fresca brezza profumata di salsedine, e l’afa si sarebbe gradualmente trasformata in un calore tollerabile e a tratti persino piacevole.
   Erano ormai due mesi che ero lì in Italia e dai locali avevo imparato alcuni trucchi per sopravvivere all’estate: occhiali dalle lenti scure e adatte a filtrare i raggi UV, molta acqua, crema solare per le pelli più chiare, niente gioielli, tessuti o accessori che avrebbero potuto provocare irritazione, abiti freschi e traspiranti. Avevo scoperto una virtuosa passione per i vestiti in lino e fatto guadagnare una fortuna ai tanti negozi e bottegucce che li vendevano, sia a Gaeta che a Formia e dintorni; per tenere in ordine i capelli, più corti di come ero solita portarli, avevo fatto razzia di forcine, cerchietti ed elastici tra le bancarelle della festa di sant’Erasmo. Calcolai di aver riempito, con tutta quella roba, più o meno una valigia e un beauty case: fortuna che Chrysta aveva allargato magicamente tutti i nostri bagagli, altrimenti ognuno di noi avrebbe dovuto comprare una o due nuove borse affinché potessero contenere i nostri acquisti italiani.
   Quella valutazione mi fece riaffiorare alla mente il dubbio che da svariati giorni era protagonista dei miei pensieri. Non osavo immaginare come sarebbero state le cose, una volta preso il volo per New York. Il solo pensiero mi faceva salire un doloroso groppo in gola.
   E ancora mi chiedevo perché non volessi andarmene: perché non volevo lasciare Mattia, oppure perché non volevo lasciare Mattia da solo?
   Da cosa era dettata la mia paura? Mi rifiutavo di abbandonare come un cane quel ragazzo dal cuore d’oro, o soltanto di abbandonarlo al suo destino?
   Chi era lui per me?
   Chi era davvero lui per me?
   Con un sussulto realizzai che non avrei mai avuto la risposta a quelle domande. Non l’avrei mai avuta, se non avessi fatto qualcosa per incentivare il naturale corso degli eventi.
   Grazie alla mia esperienza di Chiaroveggente, ero consapevole che il futuro era invariabilmente fermo e inevitabile. Nessuno aveva una gomma per poterlo cancellare e una matita per poterlo riscrivere: io stessa ero unicamente in possesso degli elementi che mi consentivano di conoscerlo in anticipo, null’altro. Mai avuto voce in capitolo nella progettazione del grande disegno dell’universo.
   Dal mio punto di vista privilegiato, però, ero in grado di individuare ogni singolo filo dell’enorme matassa delle circostanze e sapere quali nodi era possibile spezzare o districare, e quali invece sarebbero dovuti rimanere ingarbugliati. Con un po’ di sforzo avrei potuto imporre la mia volontà. Avrei potuto – sì, avrei potuto cambiare il futuro.
   Come ho detto, ero in grado di individuare i fili e sapere della condizione dei nodi. Punto e a capo.
   Il motivo principale per cui litigavo così spesso con Jean negli ultimi mesi era la sua assoluta incapacità di comprendere che essere informato degli avvenimenti prossimi non gli sarebbe servito a un bel niente, perché comunque non v’erano i mezzi per modificarli a suo piacimento. E l’inesistenza – o forse la mancanza – di tali mezzi era ciò che faceva infuriare anche me: essere capace esclusivamente di prevedere il futuro mi faceva sentire imperfetta, incompleta; ridicolizzava le mie capacità fin quasi al punto di rendermi non migliore di quelle fate che, per finta o veramente, avevano qualche dote di divinazione. Che senso aveva essere rispettata e riconosciuta nell’intero Mondo Invisibile se poi in realtà non ero nessuno?
   Mattia, Mattia sì che meritava di essere rispettato e riconosciuto nell’intero Mondo Invisibile. Dannazione, persino Jean lo meritava. Non io.
   Con la coda dell’occhio fissai il profilo rigido di Mattia, stagliato contro lo sfondo azzurro del cielo limpido. Chi mai avrebbe potuto pensare che quel ragazzo non così dissimile dai suoi coetanei fosse un potente boss della camorra e per di più un lupo mannaro? Neanch’io, Shadowhunter dalla nascita, ero stata in grado di fare due più due.
   Eppure un qualcosa, in lui, era scattato: se non dal primo momento in cui Mattia era tornato al Palazzo dopo essere scampato alla morte per un soffio, il meccanismo si era azionato a seguito della notte appena trascorsa. Ed era un qualcosa di positivo o di negativo? Non ne avevo la benché minima idea.
   Chrysta mi aveva confidato che la linea d’azione di Mattia l’aveva scioccata. Lei non aveva neppure lontanamente immaginato un’eventualità del genere: la sua ipotesi, se avesse avuto l’opportunità di esprimerla, sarebbe stata rendere i traditori lupi a vita, certo non sovvertire il normale ordine della licantropia sottraendo i mannari all’influenza della luna. Avrebbe voluto concludere la questione lì e subito; un incantesimo di quel tipo – anzi, una maledizione – avrebbe richiesto ore e ore di preparazione. Non era nemmeno convinta di esserne all’altezza. Mattia l’aveva messa seriamente alla prova, cosa che a lei nella maggioranza dei casi non andava giù.
   Ma, se c’era qualcuno che poteva mettere seriamente alla prova mia cugina, quello era proprio Mattia Nardone.

 

 

Mattia aveva convocato l’intero branco: era deprimente vederlo dimezzato, ridotto a solo una quindicina di membri effettivi, più i ribelli che stavano per essere cacciati via a calci. L’atrio del Palazzo sembrava stranamente vuoto.
   I nove poveracci sui quali si sarebbe scagliata la furia di Mattia erano allineati sul bordo corto della piscina, di fronte al muro in cui era nascosto lo studio di Mallardo. Adriano e Sabrina – lei con indosso un paio di spessi guanti in cuoio – li avevano ammanettati con l’argento. Ciononostante, nessuno pareva spaventato o ansioso: mano sul fuoco, non uno di loro si aspettava che Mattia si sarebbe vendicato così duramente.
   Lui stazionava a gambe divaricate su una pedana evocata da Chrysta – come suo padre, Chris è piuttosto attenta a creare una determinata atmosfera. Si mordeva la lingua e non faceva nulla per celarlo a tutti noi, tantomeno tentava di mostrarsi fiero e altezzoso: evidentemente, l’effetto era voluto.
   Quando parlò, però, la sua voce riecheggiò alta e stentorea: — Codardi.
   Quell’unico vocabolo rimbombò come il suono di uno sparo. Le sue pupille mandavano fiamme di pura e primitiva rabbia ferina.
   — Pusillanimi. Vigliacchi. — Mattia rincarò la dose, non contento: — Grandissimi idioti. Ringraziate il cielo se non vi uccido personalmente – peraltro, mi stancherei pure a farlo, ringraziate anche la mia pigrizia. Vi auguro tutto il male del mondo, cari compagni. E che il Signore abbia pietà di voi.
   Scese dal podio con un’ultima occhiataccia ai suoi ex Beta e andò a posizionarsi accanto a me e al resto del suo branco, divisosi tra le scale e il ballatoio. — Chris, il palco è tuo.
   Chrysta avanzò con un’espressione terrificante stampata in faccia. Per l’occasione aveva rispolverato il suo migliore abito rituale, commissionato alla sartoria Firestorm dal padre per il suo diciottesimo compleanno: una lunga veste di un rosso talmente scuro da apparire del colore del sangue, con ricami giallo-arancioni lungo l’orlo delle maniche larghe e del cappuccio, chiusa sul davanti con quattro fibbie in quattro diversi materiali – ferro, oro, argento, elettro. Si era legata i capelli con un nastrino dorato per scoprire le orecchie da pipistrello. Tutto in lei urlava temetemi.
   — Luna di giugno — cominciò, indicando il soffitto. — Perfetta per reinventare la vita, non è vero?
   Sorrise. Quel sorriso fintamente rassicurante contribuì ad aumentare l’aura terribile che già emanava. — Tra meno di dodici ore la Luna sarà al suo apice, ma il plenilunio è stato forte questo mese, giusto? Domani la Luna vi terrà ancora in pugno, e così ha fatto ieri. E voi ne avete bellamente approfittato. Ed è per questo che ho consegnato ai vostri colleghi due fiale di pozione: perché possano rilassarsi dopo una notte tanto orribile, una notte tanto orribile per colpa vostra. Non che a voi importi, ovviamente.
   Falsò un sospiro rassegnato. — E va bene, vorrà dire che ne pagherete le conseguenze.
   Si fece buio di colpo. Tutta la luce della stanza corse a raccogliersi nel palmo di Chrysta, che la schiacciò sotto le dita. L’unica fonte di illuminazione restò un lieve bagliore scaturito dalla Stregona stessa, un brillio soffocato ma ampio, che si estendeva sino a coprire un’area di qualche metro quadrato. Non era difficile figurarsi di essere in una chiesa abbandonata al cospetto di una sacerdotessa di un culto pagano, o in un bosco dell’antica Gallia pieno di druidi in cerchio. Si sollevò una brezza leggera e profumata di cannella, la firma di Chris.
   Parole della figlia di Edom.
   Chrysta allargò le braccia, buttando il capo all’indietro. Il suo tono era grave e impetuoso: richiamava a sé la magia.
   Da Edom proviene il mio potere, in Edom mi nutro, per Edom vi punisco.
   Un sonoro sussulto percorse i corpi dei mannari disertori.
   Ascoltate, o figli della Luna: dalla Luna proviene il vostro potere, nella Luna vi nutrite, per la Luna siete già puniti. Vi libero dalla Luna, vi sciolgo dal vincolo della Bestia: per voi vado contro la natura, ma io sono la natura. Per voi vado contro la Luna, ma io sono la Luna.
   Una cappa d’ombra svanì rivelando nove figure inginocchiate, gli occhi spalancati, un’ingenua e misera speranza sui loro volti.
   Io sono una nuova Luna, una Luna che ristora e rinfresca, una Luna sotto la quale potrete trovare piacere invece che dolore. Io sono la Luna che dà pace e vi restituisce la vostra umanità battuta e sfiorita.
   I licantropi gemettero di sollievo.
   Infatti lupi sarete se non con la Luna, lupi sarete se non con me: io vi maledico.
   Urla. Odore di carne ustionata, crepitio dell’argento che sfrigolava.
   — Mattia! Mattia!
   — No! No! Mattia! Alpha! Non permetterà!
   — No... Mattia!
   Io sono Luna e argento e aconito: i miei raggi vi aprono la pelle in piaghe.

   A un cenno di Chrysta, un sottilissimo ma letale fascio di energia grezza frustò i mannari. Si levarono altre grida. Mattia era immobile al mio fianco.
   Io sono il vostro sogno e il vostro incubo, e io vi maledico.

   Scoppiarono i pianti.
   Che ogni mia sillaba, mia consonante, mia vocale sia incisa nella pietra e non svanisca tra le sabbie del tempo: per me voi sarete dannati. Io vi maledico, nel nome di mia madre Lilith e Lucifero e Asmodeo: che le potenze infernali mi assistano nel pronunciare questo giuramento.
   Sul petto dei licantropi iniziò a delinearsi un marchio.
   Così come Dio giurò al Serpente che la donna gli avrebbe schiacciato la testa in eterno, così io giuro che schiaccerò voi, riducendovi a miserevoli animali e facendovi soltanto assaporare il reale gusto della vita per giorni tre nel singolo mese.
   Il marchio era completo: linee spigolose, angoli acuti, curve severe. Feriva lo sguardo.
   Belve siete stati in forma di uomini e belve sarete in forma di belve: così richiede l’universo, così ordino io. E io ordino, e il vostro Alpha ordina, che le vostre anime siano bruciate e le vostre esistenze condannate: da questo momento su di voi pende il mio sigillo. E da questo momento voi siete maledetti!
   Le manette attorno ai polsi dei nove divennero catene. Nel corso di due secondi, chi era sul ballatoio dovette indietreggiare di scatto: Chrysta aveva legato i lupi alla ringhiera delle scale.
   Percepii Mattia fremere. — Più corte.
   Chris non capì al primo colpo. — Le catene — chiarì Mattia. — Le voglio più corte.
   Passandosi la lingua sulle labbra, Chrysta fece saltare via un paio di anelli. Quei bastardi adesso toccavano terra a malapena con la punta delle scarpe.
   Trattenni il fiato, sconvolta. Mattia era impassibile. Mi girai nella sua direzione, ma lui teneva ostinatamente gli occhi bassi sui suoi sottomessi, una stretta spasmodica sul corrimano della ringhiera.
   — Voltatevi — comandò, e i traditori furono costretti a ruotare la testa in modo innaturale per poterlo guardare. Lo sguardo degli altri membri del branco era già fisso su di lui da prima che parlasse. — Che questo sia di monito a tutti voi. Osate contestare la mia autorità e subirete la mia ira. Ricordate sempre che c’è ben di peggio della morte, e non c’è limite che non sono disposto a valicare. Godetevi il plenilunio.
   E filò fuori dal Palazzo, senza curarsi dei Beta che si inginocchiavano ai suoi piedi, riverenti, e dei corpi che si dibattevano disperati penzolando giù dalle scale.


Che figata pubblicare in diretta dal mare.

So, here we are, comunque a distanza di due settimane o poco più dall’ultimo aggiornamento nonostante le mie differenti valutazioni. Sarà il caldo che mi ispira.

Bene, mi sembra di non aver nient’altro da dire, a parte le solite raccomandazioni di votare e commentare (COMMENTATE, PER FAVORE, COMMENTATE!)

Un saluto dalla spiaggia di Vindicio, dove tira un venticello che è qualcosa,

Federica

P.S. Perdonate l’uso sconsiderato dei due punti e del punto e virgola. Colpa del liceo.

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Capitolo 25
*** Non cadere ***


23. Non cadere

Non cadere

 

7Il Signore di tutti non si ritira davanti a nessuno,
 non ha soggezione della grandezza,
 perché egli ha creato il piccolo e il grande
 e si cura ugualmente di tutti.

8Ma sui potenti sovrasta un’indagine rigorosa.
9Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie parole,
 perché impariate la sapienza e non abbiate a cadere.

[Sapienza 6, 7-9]

 

 

 

 

Il primo giorno dopo il plenilunio, il mare ci accolse come un vecchio amico.
   Potevo chiaramente percepire quanto Mattia fosse rilassato, in quell’ambiente semplice e familiare, dove non doveva fronteggiare assalti alla sua autorità e ponderare con la massima attenzione ogni sua singola scelta. Non era propriamente calmo e disteso, dato che di lì a ventiquattr’ore si sarebbe ritrovato davanti una commissione di suoi professori e perfetti estranei creata apposta per giudicarlo, ma era certamente un grosso passo in avanti rispetto alla pietosa condizione in cui aveva versato fino alla sera precedente. Speravo solo che, a quel punto, si ricordasse cosa significava vivere una vita normale.
   Perlomeno quella notte aveva dormito di più, anche se l’immagine dei nove traditori che, ancora incatenati alle scale, si trasformavano in lupi non appena sorgeva il sole doveva essergli rimasta ben impressa dietro le palpebre.
   In quell’ottica, Valentino era capitato a proposito: Leonardo e Fabiana gliel’avevano immediatamente scaricato in braccio quando erano arrivati in spiaggia e se l’erano filata alla volta del divertimento su un altro lido, lasciando noi a fargli da babysitter. Non che Mattia si lamentasse, e dopotutto non mi lamentavo neppure io.
   — Spesso penso che si sono sposati troppo presto — aveva commentato Mattia, osservando con un cipiglio di finto rimprovero la coppietta felice che correva a spassarsela. — Sono due bambini nel corpo di due adulti; davvero non mi capacito di come siano riusciti a metter su famiglia.
   E poi si era dedicato al nipotino, che stravedeva per lui come Leonardo stravedeva per la moglie. Nel giro di qualche minuto, ero anch’io a fare avanti e indietro dal mare per riempire la piscinetta gonfiabile, approfittandone per tirare un paio di secchiate d’acqua in testa a Mattia, e a ridere fino alle lacrime vedendo quella meraviglia di bimbo che strisciava sul lettino come un buffo vermetto.
   Purtroppo quel momento di serenità ebbe vita breve, poiché alle tre Valentino cominciò a mostrare segni di stanchezza e Mattia dovette percorrere tutta Serapo per farlo addormentare. Nell’attesa frugai nella borsa di Mattia, come avevo fatto tempo addietro nella sua camera a Villa Nardone, e ne tirai fuori un grosso volume dalla copertina cartonata. Il titolo, a lettere bianche e sottili, recitava La Biblioteca dei Morti.
   Curiosa, lessi la quarta di copertina, quindi il prologo e il primo capitolo. Le pagine si susseguivano veloci: venti, cinquanta, cento, centotrenta. Mi feci immediatamente trascinare dalla narrazione di Glenn Cooper.
   Erano descritte, tra le varie e frequenti analessi apparentemente non aventi nulla a che fare con l’intreccio principale, le vicende di un agente dell’FBI e della sua collega alle prese con un presunto serial killer che comunicava alle sue vittime la data precisa della loro morte. Peccato che ognuna di quelle vittime morisse nelle circostanze più disparate: per cause naturali, per suicidio, per un semplice incidente. Il killer era stato soprannominato Doomsday, giorno del giudizio. Tra le righe, si scorgeva una sottotrama paranormale.
   Ci volle un pizzico ben assestato da parte Mattia perché mi accorgessi che era tornato.
   — Perdonami — mi giustificai, colta con le mani nel sacco. — A mia difesa, questo libro è assai interessante.
   Mattia fece spallucce e venne a stendersi accanto a me. Mi spostai verso destra per fargli spazio. — Puoi tenertelo, se vuoi. Io lo sto rileggendo, non è un gran problema.
   Il motivo per cui Mattia aveva deciso di rileggerlo proprio in quel periodo mi fu improvvisamente chiaro: a modo suo, anche quel killer atipico prevedeva il futuro.
   — Va bene, allora stasera me lo porterò a casa. Tu non vieni?
   Un cenno di diniego del capo. — No. — Mattia sospirò. — Non fraintendermi, il tuo letto è stupendo, ma ho già scoperto mio padre che mi controllava portafoglio e comodino e mi piacerebbe evitare la seconda parte del discorso iniziato anni fa, grazie tante.
   Gli infilai un gomito tra le costole, ridacchiando. — Quel discorso?
   — Quel discorso, esatto — confermò. — Avendo beccato me e Maura in flagrante delicto, papà non ha sentito il bisogno di continuarlo. Ma adesso che sto passando le notti fuori e si sa quale piacevole compagnia femminile frequento... fai un po’ tu. Oltretutto, capiscimi, voglio la mia stanza.
   Mi girai su un fianco. — Certo, tranquillo — lo rassicurai. — Perciò tuo padre è un insegnante amatoriale di educazione sessuale?
   — Sostanzialmente — rise Mattia, poi gettò un’occhiata alla carrozzina alla nostra sinistra. Valentino ronfava beatamente. — Lui è un cuoco e io un futuro medico, non potremmo essere più diversi di così, eppure siamo entrambi completamente d’accordo sul prevenire è meglio che curare. Con Maura, invece, dovevo addirittura litigare. Diventavo una belva. Fortuna che in determinate occasioni l’ira repressa non fa male.
   — Non dirlo a me — commentai sarcastica. — Nell’ultimo mese, tra me e Jean era solo e soltanto ira. Però, ad essere onesta, abbiamo litigato per tutto ma mai per i preservativi. Prego che abbia usato precauzioni anche con tutte le altre sue conquiste.
   — Altre sue conquiste? — Mattia sgranò gli occhi, sollevando il busto per guardarmi. — Vuoi dire che ti tradiva?
   — Gli avrei cambiato gli attributi, se ci avesse provato — sbottai, secca. — No, Mattia, non mi tradiva. È stato dopo la... rottura. Dovunque andassi, a Idris c’era qualcuno pronto a giurarmi di aver sperimentato le gioie del sesso con Jean Argentsang. La figlia del panettiere, la sorella di Liza della sartoria Firestorm, Sally Horsefly, Andy Princewater – che avrà quindici anni, considera – persino il supplente di nuoto all’Accademia... tutti mi hanno assicurato che il mio ex ragazzo è un’autorità in quel campo. Quanto avrei voluto urlare in faccia a quegli emeriti idioti che Jean era vergine, prima di me, e se ha raggiunto quel livello ci è arrivato con la sottoscritta. Bastardi!
   — Ti saresti sentita proporre indecenti ménage a trois, dunque meglio non averlo fatto — ribatté Mattia, storcendo le labbra in una smorfia di disgusto. — Per di più, millantare certe esperienze davanti a te... sì, non sapevano cos’era successo fra voi due, ma che schifo lo stesso. Quanta bassezza, sul serio.
   — È stato piuttosto orribile, già. E comunque questa cos’è, gelosia retroattiva? — lo punzecchiai sorridendo.
   — Sono italiano, sono costantemente geloso. — Mattia si aprì in uno dei suoi sorrisi a trentadue denti che irradiavano più luce del sole. — A Idris dovrai indicarmelo, questo Jean. Non lo nego, sono... curioso, nel bene o nel male.
   Mi tornò alla mente l’ultimo sogno che avevo fatto su di lui, quando per me era ancora un anonimo licantropo. La stessa visione in cui lo osservavo prendere a zampate il simbolo della famiglia di Jean inciso su una delle torri antidemoni, che brillava di azzurro per gli Accordi.
   Dovevo dirglielo. Era inevitabile.
   Mi tirai su a sedere di colpo. Mattia sobbalzò, preoccupato. — Lori?
   — Tutto a posto — minimizzai. — È solo... ho ricordato una cosa. Sembra impossibile da credere, ma me n’ero quasi dimenticata.
   Anche Mattia si mise seduto, voltato di tre quarti con un ginocchio poggiato sul lettino e l’altro disteso in diagonale a formare un angolo di quarantacinque gradi con lo strato di sabbia. Mi balenò l’assurdo pensiero che avesse assunto quella posa, consapevolmente o meno, per essere pronto ad alzarsi e correre via. — Su, racconta — mi incoraggiò, una scintilla di interesse indiscreto che gli infiammava le pupille nere.
   Mi passai la lingua sulle labbra prima di esordire: — Sei stato protagonista delle mie visioni, a New York. Vedevo questo lupo, e vedevo me stessa, e la maggior parte delle volte ti vedevo morto.
   — Mi fa piacere — mi interruppe Mattia, sardonico.
   — Immagina quanto facesse piacere a me — continuai con altrettanta ironia. — Comunque, sei stato piuttosto ossessivo, caro mio, ma altrettanto utile nel risolvere una questione spinosa che ci ha tenuti impegnati in quei pochi giorni. Ti ho sognato la notte dopo aver tolto di mezzo quel problema, e mai più.
   Gli spiegai brevemente quale ruolo aveva assunto in quel contesto. Notai che la sua espressione si era indurita.
   — Se devo essere onesta, è avvenuto anche al JFK – l’aeroporto, intendo. Una visione, di gran lunga peggiore delle altre. Percepivo gli odori, avvertivo un peso sulle gambe, udivo il suono di uno sparo...
   Trassi un respiro tremolante. Mattia stava pian piano mettendo insieme tutti i pezzi del puzzle.
   — ... Capivo che c’erano due persone in fin di vita. Ma ho realizzato solo a distanza di settimane che c’entravi tu, e che avevo vissuto ciò che sarebbe successo con Mallardo.
   Mattia deglutì. — Mi sento in colpa per averti importunata così tanto, nonostante... be’, nonostante colpa non ne abbia. Se può rincuorarti, non... non ero io, quel lupo. Cioè, ero io, ma non sapevo di essere lì. Non l’ho fatto di proposito, ecco, posto che sia possibile farlo di proposito. Suppongo non debba essere stato stupendo sognarmi morto.
   — È stato molto peggio vederti morto — bisbigliai a testa bassa. — E, per la cronaca, neanch’io so se si possa fare di proposito.
   Mattia mi prese una mano. La sua stretta, seppur non dolorosa, era spasmodica. — Lori, ciò che ti ho detto, quel pomeriggio... hai presente, no, tutte quelle parole sulla falsariga di il novantanove percento non è abbastanza e avresti dovuto essere assolutamente sicura che non sarei morto per concederti di scappare. Io...
   Emise un verso di stizza. Faticava a trovare i termini adatti.
   — Mi dispiace, Lori. Non avevo idea che le cose stessero così come stavano – come stanno. Sono stato impulsivo e sconsiderato, ed ero spaventato...
   — Smettila, Mattia — lo bloccai, poggiando una mano sulla sua. — Non ti ho mai incolpato, per quello. Data la situazione, era normale essere avventati e irriflessivi.
   Mattia annuì e tornò a sdraiarsi sul lettino, le dita intrecciate dietro la nuca e gli occhi fissi sul decoro a righe dell’ombrellone. — Perciò tu ritieni che avrò una parte nella storia di Jean? — chiese dopo un po’.
   — Non lo ritengo soltanto, ne sono piuttosto sicura — lo corressi. — Quale sia questa parte, al contrario...
   — Non ne hai idea — mi precedette Mattia.
   — Esatto.
   Mattia si pizzicò la radice del naso, sbuffando. — Sarebbe indelicato domandarti se hai avuto qualche altra visione a tal proposito?
   — Nulla è indelicato se detto da te — gli risposi, — ma no, nessun’altra visione. In realtà — proseguii lentamente, — le visioni sono... scomparse. Non ne ho una da un tempo talmente lungo che addirittura non riesco a quantificarlo.
   Mattia si accigliò. — È possibile?
   — Non pensavo che lo fosse — mormorai. — Dopo il... flashback, quello delle notti al lago, è improvvisamente finito tutto. Già da quando sono in Italia il numero delle mie visioni si era considerevolmente ridotto. Ora non c’è proprio più nulla.
   Mattia diede voce al mio successivo commento: — E ti dispiace?
   — Per carità, assolutamente no! — Risi nervosamente. — Però è strano.
   Mattia si picchiettò l’indice sulle labbra. Avevo notato che lo faceva spesso quando ragionava su qualcosa. — Hai mai immaginato che fosse un effetto nocebo, Lorianne?
   — Un effetto nocebo? — ripetei, confusa. — Cosa?
   — L’eccessiva quantità delle tue visioni — chiarì lui. — Riflettici, Lori: mi hai raccontato che a Idris erano spropositate, giusto? E stupide, perlopiù; inconsistenti.
   Attese un mio cenno di assenso, quindi continuò: — Un bel giorno parti da Idris. A New York sogni subito me. In aeroporto vedi lo studio di Mallardo. Qui in Italia ti fai un viaggetto temporale fino a dicembre dell’anno scorso. Poi, da allora, nient’altro. Mi segui?
   — Sinceramente?
   — Sinceramente.
   — No.
   Mattia scoppiò a ridere di gusto. — Okay, ammetto che potrei essere stato criptico. Cerco di farmi capire: le cose sono migliorate non appena hai lasciato Idris, no?
   — Sì, esatto — concordai. — E?
   — E in Italia sono migliorate ancora.
   — Stringi e arriva al punto — borbottai.
   Mattia tamburellò le dita della mano destra sul mio braccio. — A Idris ne hai dovute passare tante, Lori. Non credi di aver sviluppato una sorta di forma psicosomatica di Chiaroveggenza, mentre eri lì, e che il cambiamento d’aria ti abbia fatto da placebo?
   Mattia aveva una spiccata capacità di arrivare alle conclusioni più impensabili, e lo faceva con un ragionamento dei più logici e sensati. Forse proprio per questo raramente aveva torto. 
   Non possedevo il privilegio di poter esaminare le vicende da un punto di vista medico come Mattia, ergo non ero neanche lontanamente giunta a una spiegazione del genere. Avevo interpretato il tutto come una conseguenza di quella “evoluzione del mio potere” ipotizzata da zio Magnus a seguito della mia inusuale visione su Camille e il lupo nella biblioteca dell’Istituto, archiviando la questione come secondaria rispetto a ciò che dovevo affrontare nel presente. Oltretutto, a dire la verità, l’assenza di visioni non era affatto fastidiosa, specialmente in giornate come quelle.

   — Potresti avere ragione — asserii. — Non sono nella posizione di poterti dare una conferma o una smentita, ma per quanto mi riguarda ci hai azzeccato.
   — Oh, perfetto — gongolò lui, tronfio. — Voglio un premio.
   — E il mongolino d’oro va a Mattia Nardone! — Gli consegnai un finto trofeo, alzando gli occhi al cielo. — Idiota.
   — Non sarò tanto idiota se sono riuscito a trarre una conclusione decente — obiettò Mattia, ancora con il sorriso sulle labbra. Poi si incupì all’istante. — Hai ricevuto dai tuoi cugini aggiornamenti riguardanti i vampiri?
   L’atmosfera si fece repentinamente più pesante. Anche il sole sembrò perdere un po’ della sua luce.
   Mi tenni sul vago: — Ni — gli risposi. — Sappiamo per certo che hanno messo la zampa negli avvenimenti dell’altra sera, ma Logan e Trish, avendoli solamente pedinati, non hanno fiutato nulla di sospetto.
   Le mie parole furono seguite da un lungo sospiro di esasperazione. — Perciò devo andarci io per forza di cose, non è così?
   Mi strinsi nelle spalle. — Spiacente, Mattia. Occupando una posizione come la tua, devi sbrigare da solo alcuni affari.
   Lui sibilò tra i denti serrati. — Credimi, Lorianne, fosse per me salterei giù da quel piedistallo qui e ora. Peraltro molti sarebbero deliziati dal mio gesto, considerando quanto mi disprezzano. Ma purtroppo c’è pure chi sarebbe pronto a legarmi con l’argento per impedirmi di lasciare il posto. E ho imparato a temerlo, l’argento.
   Giocherellai coi laccetti del costume per qualche minuto, in silenzio. — Jean fa di cognome Argentsang — dissi d’istinto.
   Mattia mi scoccò un’occhiata di sbieco. — Lo so, me l’hai nominato altre volte. E con ciò?
   — Con ciò... — Mi agitai sul lettino, a disagio. — Mattia, ormai abbiamo appurato che o ti incontrerai o ti scontrerai con Jean, in un modo o nell’altro.
   — E vorresti insinuare che mi farò mettere i piedi in testa da lui soltanto perché ha argento nel cognome? — replicò Mattia, ferito. — Ma dai, Lori! Per chi mi prendi?
   — Ti prendo, Mattia, per uno che ha pochissima esperienza del Mondo Invisibile, e questo è ovvio e palese — ribattei in tono severo. — Se questa è tutta una metafora dell’Universo per avvertirti di stare attento... io personalmente non ignorerei determinati segnali, se fossi in te.  
   Mattia schioccò la lingua sul palato, un ghigno sprezzante che gli si dipingeva sul viso. — Per favore, Lorianne! Mi hai visto o non mi hai visto rompere a unghiate il sigillo della sua famiglia? Come diavolo potresti interpretarlo se non come un’altissima probabilità che Jean ci buschi le mazzate anche per mio merito?

   Mi morsi l’interno della guancia per rimanere lucida. — Il sogno è terminato lì — gli ricordai. — Non so cosa succederà dopo.
   La scintilla minacciosa negli occhi di Mattia si spense lentamente. — Non sarebbe la prima ritorsione che mi ritrovo ad affrontare — sillabò con forzata calma. La linea dura della sua mascella era netta come marmo scolpito da un abile scalpello. — Proprio da te mi aspettavo più fiducia.
   — Raziel, Mattia! — per poco non strillai, contenendomi unicamente per via di Valentino e degli occupanti degli altri ombrelloni. — Secondo te ti avrei lasciato fare quello che hai fatto se non avessi avuto fiducia in te?
   — Già, perché giustamente tu hai un grande peso sulle mie decisioni! — Mattia balzò in piedi sbraitando. Il lato destro del mio corpo, non più a contatto col suo, sembrò improvvisamente più freddo. — Come se avessi potuto desistere se me l’avessi ordinato tu! Ossignore, ma tu guardala, entra nella mia vita senza permesso e pretende pure di tenerne le redini!
   — Sì che lo pretendo, brutto bastardo! — urlai, chiudendo i pugni con una violenza tale che le unghie, seppur corte, mi scavarono rossi solchi nella carne. — Ma guardati tu, che nel giro di neanche un mese già hai le megalomanie! Dove arriverai quando di mesi ne saranno passati due, tre, sei, dodici? Dove arriverai quando saranno passati anni, o decenni? In una fossa senza lapide come Mallardo, ucciso dal suo Beta più giovane? È questa la fine che vuoi fare?
   Mattia ringhiò. In quel momento mi resi conto che sarebbe stato capace di saltarmi addosso in forma di lupo, se l’avesse voluto. Sin da subito aveva saputo controllare le zanne; non mi sarei sorpresa se avesse già acquisito anche l’abilità di trasformarsi a suo piacimento. Nel bene o nel male – nel bene e nel male – il ruolo del licantropo gli calzava a pennello.
   — Se quella sarà la mia fine — scandì con tranquillità, — farò sì che tu sia abbastanza lontana da perderti lo spettacolo.
   Il mio cellulare trillò. Sobbalzai. Lo lasciai trillare.
   Tutta la mia attenzione era concentrata su Mattia, e sulla gelida e ponderata collera che leggevo sul suo viso. Era la prima volta che discutevamo seriamente su qualcosa. Dannazione, era la prima volta che litigavamo. Ancora nessuno dei due aveva capito se potevamo considerarci fidanzati o meno, e litigavamo. Litigavamo come una coppia. Dolce amaro paradosso.
   Non posso dire che fu quella l’occasione in cui mi accorsi dell’ambizione celata dietro la facciata da buon samaritano che Mattia sfoggiava ogni singolo giorno: anche se non volevo ammetterlo ad altri e soprattutto a me stessa, l’avevo realizzato già da quando avevo visto il nuovo Alpha promettere ai suoi Beta una vita migliore – o, perlomeno, una vita diversa.
   Sì, Mattia era ambizioso; ambizioso e orgoglioso e assai cocciuto. Avrei potuto spaccargli un cocomero in fronte e a rompersi non sarebbe stata la sua testa. Avrei potuto costruirgli un muro attorno e l’avrebbe fatto crollare a suon di spallate, persino al costo di fracassarsi l’articolazione.
   Avrei potuto mettergli davanti Jean, e avrebbe vinto.
   Chinai il capo sotto il suo sguardo fermo e fiero. Non in segno di sottomissione, ma in segno di accettazione. Non ero la sua balia e lui di certo non era un bambino. Seppur con le dovute proteste del caso aveva abbracciato la sua natura ed era stato costretto ad adattarsi a un difficile contesto che andava contro ogni sua precedente convinzione; le dita non gli si erano chiuse di loro spontanea volontà attorno allo scettro, ma ora la sua presa era forte e solida.
   Che mi piacesse o no, Mattia era un licantropo, era un Alpha, ed era un camorrista.
   Fino ad allora se l’era cavata egregiamente, e gli auguravo di riuscire a continuare così finché non fosse morto in pace a una veneranda età. Avrebbe imparato a sue spese le conseguenze di eventuali errori futuri. Io potevo solo aiutarlo a prevenirli.
   — Non mi scuserò per quello che ho detto, Mattia — sospirai infine, rialzando lo sguardo. — È ciò che penso, e non lo nego.
   Lui annuì. — Lo so.
   — Non vorrei vederti su un trono, ma ci sei e non voglio nemmeno buttarti giù — continuai. — Perciò tieni il culo attaccato a quel cuscino di velluto, tesoro, e ignora la proverbiale spada di Damocle sospesa a un centimetro dai tuoi bellissimi riccioli. Le forbici per tagliare quel filo ce le hai soltanto tu.
   Mattia si passò la lingua sulle labbra, quindi mi tese la mano con un gesto fulmineo. La strinsi vigorosamente e con calore. — Non dubitare di me, Lorianne — proferì con voce carica di sicurezza. — Custodisci la mia sanità mentale e non interferire. Abbiamo un patto, dopotutto. Io intendo rispettarlo, e lo rispetterai anche tu.
   Non mi sentivo come se mi stesse dando degli ordini: mi sentivo piuttosto come se stesse facendo una semplice constatazione. Ci eravamo presi un impegno e avremmo onorato l’accordo, ognuno con i propri mezzi e le proprie possibilità. In fondo in fondo eravamo come soci in affari.  
   — Lo rispetterò — gli assicurai, e lui mi rivolse un sorriso di gratitudine. — Non cadere, Mattia.

   — Non cadrò.
   Poi, con un’occhiata a Valentino che ancora dormiva, Mattia aveva afferrato La Biblioteca dei Morti e si era dedicato alla lettura.
   Dunque la conversazione era conclusa. Sulla Lista delle 10 cose da fare col proprio ragazzo era stata tracciata una linea su litigare e fare subito pace. Percepivo un bizzarro senso di appagamento tra i rimasugli dell’ira.
   Recuperai il cellulare dalla borsa e lo sbloccai con una scansione dell’iride. C’erano una chiamata persa e un messaggio in segreteria. Era Logan.
   Lori, dannazione, non ci sei mai quando servi! Trascinati dietro il tuo moroso e vieni a Villa Orlando. Immediatamente!
   Prima che potessi formulare un qualsiasi pensiero, sullo schermo comparve la notifica di un messaggio. Stavolta era Trish.
   Lorianne Amatis Herondale, per le divine mutande di Raziel, CI STANNO SFRATTANDO!
   Composi il suo numero alla velocità della luce. — Stanno facendo cosa? — strillai, senza darle neppure il tempo di riempirmi dei suoi soliti insulti. Mattia ripose il segnalibro tra le pagine sbuffando e mi puntò le pupille addosso.
   — Benedetto sia l’Angelo, Lorianne, ma sei dislessica? — sbraitò mia cugina di rimando. — Ci stanno sfrattando! Quella troia ci sta sfrattando!
   — Chi, Trish? — s’inserì Mattia. — Quella troia chi?
   — La tua Beta, Mattia! — Dalla cornetta giunse il rumore di passi affrettati insieme a un’imprecazione troppo dialettale e troppo maschile per poter essere di Trish. Mi parve di riconoscere il timbro di Adriano.
   — Ne ho quindici, di Beta, per la miseria! — replicò Mattia. — Nome e cognome, signorina!
   — Ma va’ a quel paese!
   — Ci vado volentieri se mi ci accompagni tu!
   — Smettetela! — Sì, quello era decisamente Adriano. Evidentemente per lui e Trish i letti e i divani del Palazzo non bastavano più. 
   — È Rita, Mattia! Rita D’Amante!

 


Okay, ci ho messo un mese. Motivi del relativo ritardo: caldo, computer che avendo qualche anno si scarica più velocemente, spiaggia, caldo, preparativi per lo stage di Ravenna (e relative incazzature varie) e per un battesimo, punti morti nel testo, caldo, poca ispirazione, citazione iniziale cambiata tre volte, sistemazione del prologo e ultimi ritocchi all’introduzione di House of Cards, imminente riapertura della scuola, ho già detto caldo?

Tralasciando gli scherzi, perdonatemi, ma questo si è rivelato un altro dei miei capitoli killer della voglia di scrivere e noioso fino al midollo (e ci credo, tutto è noioso a confronto con la questione degli attacchi multipli e della maledizione), però pazienza, anche questi sono parte della storia.

Giusto una nota a titolo informativo e poi vi lascio: La Biblioteca dei Morti è un libro davvero esistente, primo della trilogia omonima – comprendente anche Il Libro delle Anime e I Custodi della Biblioteca – di Glenn Cooper (dovrebbe esserci in realtà pure un quarto volume, ma a quanto ho capito è una sorta di spin-off/universo espanso). Li ho letti l’estate scorsa e ne sono rimasta estasiata; li consiglio a tutti gli appassionati del giallo e del paranormale, ma a chiunque in generale, perché sono veramente meravigliosi. 

Ci risentiamo il prima possibile con il prossimo aggiornamento, che spero sarà più interessante e meno statico. E mi raccomando, non lesinate sui commenti!

Al più presto,

Federica 

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Capitolo 26
*** Se ho peccato ***


24. Se ho peccato

Se ho peccato

 

20Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo?

Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso?

21Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia iniquità?

Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!

 

[Giobbe 7, 20-21]

 

Non mi inchinerò davanti a te!
   A quelle parole, Mattia sussultò, orripilato, come se avesse appena ingoiato un’anguilla viva. — Guardi, stavo proprio per chiederle di non farlo, la ringrazio per avermi anticipato. E, per la miseria, si tiri giù quella benedetta gonna!
   La donna – o, per meglio dire, la mummia – che rispondeva al nome di Rita D’Amante, nostra padrona di casa e Beta dell’ex branco di Mallardo, squadrò Mattia con un’espressione ancora più schifata e scelse saggiamente di restare in silenzio, aggiustandosi la gonna con uno scatto nervoso della mano. — Non posso credere che sia stato tu a uccidere Carmine!
   Mattia roteò gli occhi al cielo per quella che mi sembrò l’ennesima volta.
   I dieci minuti precedenti erano trascorsi con lui che tentava di capire quale fosse il problema e la D’Amante che, irremovibile, insisteva a ricoprirlo di insulti. Unendo al brodo anche Chrysta e Trish, che fino a un minuto prima non avevano fatto altro che urlare addosso alla lupa, e Logan, pericolosamente sul punto di ficcarle il mio pugnale d’argento in gola, quella era la peggior situazione in cui un tipo pratico come Mattia potesse capitare.
   — Che cosa vuole, una dichiarazione scritta? — fece quindi, esasperato. — Tra l’altro, perché le sto ancora dando del lei?
   — Perché mi devi rispetto, cosa che io non devo a te — replicò la D’Amante, con un ringhio che più che altro sembrò un pigolio.
   Mattia assottigliò le labbra. — Non le serve una dichiarazione scritta, vero? — scandì con calma, incurante della provocazione di lei. — Non le serve in quanto mi riconosce come Alpha. Lo percepisce. Lo sa.
   Rita sbatté la borsa sull’isola al centro della cucina. Mallardo doveva averla pagata bene: era una Michael Kors. Un tale accessorio d’alta moda su una persona come lei faceva l’effetto di una lampada da tavolo dell’Ikea alla quale fossero state attaccate gocce di cristallo di Murano. — Inammissibile! Inammissibile! — strillò, gesticolando animatamente con le mani inanellate ricoperte da scure ragnatele di vene e rughe. Aveva le dita sottili, ma non nel modo che le avrebbe rese affascinanti: sembrava quasi che ci fosse solo l’osso. — L’impero dei Mallardo affidato a un bambino!
   Mattia alzò lo sguardo verso il soffitto e proclamò in tono lamentoso: — Gesù, Giuseppe, sant’Anna e Maria, ma perché tutte a me?!
   Dovetti trattenere una risata.
   — Mi dite da chi altro ho già sentito questa solfa? — riprese Mattia, parlando in direzione del piano cottura contro al quale si erano appoggiati i miei cugini. Adriano aveva saggiamente scelto la via del terrazzo non appena eravamo arrivati Mattia ed io e se l’era svignata borbottando improperi a mezza bocca.
   — Facendo una stima... più o meno tutto il branco — gli rispose Trish.
   — Esattamente — confermò Mattia. — Perciò, che me lo ripeta anche lei non fa una grande differenza.
   Rita lanciò un’occhiata alle scale. — Adriano è a favore? Mi sorprende.
   — Adriano l’ho convinto — precisò Mattia, appollaiandosi sull’isola e mostrando perfetta padronanza di sé e dell’ambiente. Già stando in piedi poteva guardare Rita dall’alto in basso: ora lei doveva sentirsi una formichina a suo confronto.
   Rita emise un verso di disprezzo. — Adriano non si fa convincere.
   Con un poco di zucchero la pillola va giù... — canticchiò Mattia. Nascosi un sorriso: se la stava magistralmente mettendo in tasca. — Non è umiliando la gente che si ottengono risultati, Rita cara.
   — E tu non pensi di averlo umiliato costringendolo a sottostare a te, ragazzino? 
  
— Dipendesse da me, sotto ci starei io — commentò Mattia con tranquillità. — Purtroppo le cose sono andate come sono andate; certo io non me la sono cercata.
   Trish incrociò le braccia sul petto e indirizzò uno sguardo di fuoco alla D’Amante, impedendole di ribattere. — Oltretutto, su, quanti anni ha Adriano in più di lui? Uno? Due?
   Rita scoprì i denti macchiati di rossetto nella patetica imitazione di un ghigno intimidatorio. — Che c’è, signorina, vuoi sapere quante primavere ti separano dal tuo amante e magari contare quelle che gli rimangono?
    Dopo un millesimo di secondo, Trish le era a un palmo dal naso. — E lei ha per caso intenzione di continuare a peggiorare la sua posizione attuale, dottoressa? — le sibilò in faccia. — Mi lasci dire una cosa, Rita: lei da qui non uscirà né migliore di prima né uguale a prima. Ne uscirà ridotta a brandelli, per opera di Mattia, perché lui non è il fanciullo debole e inesperto che tutti ritenete che sia. Vada un po’ a chiedere in giro cos’ha fatto a chi l’ha tradito, vada, vada pure, e vediamo come ritorna. E se si permette di sprecare anche solo un’altra parola invece di starsene zitta e iniziare a subire, piuttosto che infliggere, e specialmente se tale parola sarà riferita ad Adriano, le garantisco, le prometto, le giuro che da quella porta non passerà altro che la sua anima.
   Saggiamente, la donna non fiatò.
   — Patricia ha tenuto testa a Sabrina, Rita — rincarò Mattia, visibilmente soddisfatto, mentre Trish indietreggiava senza fretta e con fierezza. Notai che dal provare fastidio per un determinato genere di complimenti era passato ad esserne compiaciuto. — Le assicuro che fa sul serio.
   — Come se le minacce di una sedicenne...
   Diciassettenne!
   — ... potessero farmi effetto — brontolò la D’Amante. — Ne ho ricevute di ben più orribili.
   Mattia aveva stampato sul volto il ritratto dell’esasperazione. — Mallardo la minacciava e lei seguitava a lavorare per lui?
   — Avevo fiducia in Carmine. Fiducia che in te non ho.
   Questione di poco e Mattia l’avrebbe riempita di schiaffi: si poteva quasi vedere la pazienza scivolargli via dal corpo. — Ancora con questa storia? Finiamola qui, per carità cristiana, e rimandiamola a un altro giorno. Ora, per cortesia, si può sapere perché diavolo ci ha degnati della sua rimarcabile presenza, mia cara dottoressa dei miei stivali?
   Rita arricciò le labbra. Ringraziai che non avesse optato per il botulino, o l’effetto sarebbe stato assai più terrificante. — Le notizie corrono veloci, Nardone. Il branco è dappertutto e ha orecchie dappertutto.
   — È in ritardo per il funerale di Carmine — la precedette Mattia, secco. — Pertanto adesso cosa ha intenzione di fare, tornare a farsi ribollire in una spa o godersi il suo nuovo ufficio al Palazzo?
   Rita indicò il soffitto sogghignando. — Il mio ufficio è due piani più su, tesoro.
   — Ma io gliene darò uno nuovo. — Mattia batté le mani, fintamente deliziato. Gli scappava da ridere: si stava divertendo un mondo a giocare con lei. — Non è contenta?
   La D’Amante sbiancò. — E con quale autorità lo faresti? — chiese. Le tremava la voce.
   Un lampo pericoloso balenò nelle pupille di Mattia. Saltò giù dall’isola con un balzo repentino e fronteggiò Rita con solennità. — Io sono il tuo Alpha, Rita D’Amante — sillabò, calcando ogni singola lettera. — Io sono il successore di Carmine, che ti piaccia o no. Se ti ordino di fare una cosa, tu la fai e non provi nemmeno a protestare. Intesi?
   — Intesi un corno — sibilò Rita tra i denti. A furia di tormentarsi l’orlo di pizzo della blusa se lo stava quasi sfilacciando. — Ho sentito cosa dicono di te, fuori. Tu predichi pace e bene, ma in fondo sei più nero di tutti noi. Uccidere Carmine... — Scosse la testa, disgustata. — Uccidere Carmine è stato solamente l’inizio.
   Mattia allargò le braccia e abbassò lievemente il capo in segno di assenso. Sorrideva. Non c’era nulla di solare o spensierato in quel sorriso. Era il sorriso del mulo che ha provato la violenza del bastone e scoperto che la carota è marcia, e non gli resta altro che tirare l’aratro unicamente con le sue forze.
   — Hai ragione, è stato solo l’inizio — concordò. — Hai sentito anche cos’ho fatto a chi mi ha tradito, Rita? Stamattina li ho visti fuggire lontano da me come conigli spaventati. Vuoi per caso provare anche tu la stessa sensazione? Mi basta un colpo di telefono.
   Rita schioccò la lingua sul palato. — Come pensavo. — Batté un pugno sul massiccio legno dell’isola per sottolineare l’ovvietà delle circostanze. — Non l’hai fatto tu di persona.
   — Avrebbe avuto scarsa possibilità di scelta, se l’avesse fatto lui di persona — intervenni, ormai stanca di stare lì soltanto ad osservare. — La sua decisione è stata la migliore.
   Mattia staccò gli occhi da Rita giusto per un secondo e mi rivolse uno sguardo che non riuscii a interpretare. C’era rimprovero, nelle sue iridi scure; c’era riconoscenza, disapprovazione, e distanza. — Grazie, Lorianne, ma so difendermi da solo.
   Incassai il colpo e mi stetti zitta. Non aveva torto: quello era un duello e doveva combatterlo alla pari con Rita, senza privilegi o aiuti esterni. Avrebbe conquistato la vittoria onorevolmente e correttamente.
   Mattia riprese: — Prima o poi Carmine sarebbe morto comunque. Magari non oggi, magari non domani, magari tra qualche anno, ma sarebbe morto. Qualcuno avrebbe raccolto il coraggio necessario – lo stesso Adriano, forse? Sabrina? – e l’avrebbe ammazzato.
   — Oh, non partire col discorso sul karma, il destino e quelle stronzate là, per amor del cielo — sbottò Rita. — Risparmiamelo.
   Mattia la ignorò: — Dovresti aver capito che, per la particolare struttura di questa organizzazione, è raro che un boss stia al comando per moltissimo tempo, e un raid ben programmato potrebbe risolvere tutto in pochi minuti. Io già mi guardo le spalle, e farlo mi è servito.
   — Uuuh, che novità, l’autorità di Mattia Nardone è stata sfidata!
   Se Mattia me ne avesse dato modo, le avrei spinto nell’esofago lo straccio per i pavimenti.
   Sfortunatamente, lui fu più veloce. — Chiudi quella fogna — le intimò, premendole una mano sulla bocca e tenendole l’altra dietro il collo. Le guance di quel surrogato di donna si chiazzarono di rosso. — Carmine ha ucciso i suoi genitori per ottenere il comando. Io ho ucciso lui. Mi ha fatto puntare una pistola alla tempia e mi ha detto di sparare. Ho sparato.
   La D’Amante si divincolò, ma la stretta di Mattia era ferrea. — Nei miei panni, Rita, cosa avresti fatto? Avresti salvato la tua vita o la sua?
   Le labbra della dottoressa si mossero sotto la mano di Mattia, ma non ne provenne alcun suono. Lui sembrava totalmente a proprio agio, come se avesse ripetuto quelle azioni milioni e milioni di volte. Quella consapevolezza mi arrivò come una pugnalata al cuore: Rita era un essere ripugnante, è vero, e si meritava tutto il trattamento che stava ricevendo; eppure, sebbene fino a un paio di minuti prima mi stessi godendo la disfatta della D’Amante ad opera del ragazzo di cui mi ero innamorata, in quel momento non potevo più ricavarne piacere.
   Mi trattenni a stento dal correre verso di lui e spingerlo via, via, in un’altra stanza, sul balcone, all’aperto sotto il sole. Un’immagine si sovrappose alla scena che si stava svolgendo davanti a me: Mattia, sull’orlo di un burrone, un piede nel vuoto; e Rita, aggrappata alla sua caviglia, che tentava di trascinarlo giù con sé. Sarebbe caduto.
   Mi tornò alla mente la conversazione che avevamo avuto meno di un’ora prima, in spiaggia.

   — Non cadere, Mattia.
   — Non cadrò.

   Era facile credergli, a sentirlo parlare. Era difficile credergli quando lo vedevi compiere un altro passo sul cammino che aveva portato Carmine Mallardo alla pazzia.
  
— Non avresti salvato la tua vita, Rita — proseguì Mattia, respirando velocemente. — Avresti salvato la sua. Perché la tua non vale niente. Sei miserabile. Anch’io preferirei lui a te.
   Con un acuto grido, Rita riuscì a liberarsi. — Sparite da casa mia, fottuti Nephilim! — strillò, sputacchiando saliva nell’aria. Le stavano spuntando artigli e zanne. Mattia le latrava contro. — Questa è la mia proprietà e queste sono le mie regole! Fuori da casa mia!
   Si udirono dei passi concitati scendere le scale e Adriano comparve sotto l’arco della porta. — Mattia, è in menopausa, fermala o te ne pentirai!
   — Sarà lei a pentirsene ― ringhiò Mattia di rimando. — Rita, la tua proprietà è mia! Mia!
   La D’Amante si azzardò ad avvicinarsi di dieci centimetri. — Non può essere tua.
   — E invece sì — continuò lui. — Io sono il tuo Alpha, Rita. Tutto ciò che è tuo è mio.
   I dieci centimetri guadagnati furono subito ripercorsi a ritroso. — Non puoi averla rivendicata.
   — No, infatti — concesse Mattia. — La rivendico ora.
   Percepii Adriano bisbigliare: — Brutto figlio di puttana.
   — Io rivendico Villa Orlando, dottoressa Rita D’Amante, e tutte le cose al suo interno e le persone che abitano al suo interno. — Mattia assunse un tono solenne, come un sovrano che parla ai suoi sudditi. — Tu, come chiunque altro del branco, avrai un alloggio e un ufficio al Palazzo. Villa Orlando sarà mia e mia soltanto.
   Adriano scivolò alle spalle di Mattia e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio. Mattia, per tutta risposta, lo scansò in malo modo. — Consegnami le chiavi, Rita — ribadì. — Non hai più potere qui.
   Rita strinse i pugni, conficcandosi le unghie appuntite nella carne. Arretrò fino a trovarsi con la schiena contro la parete, gli occhi ora bassi a fissare il pavimento. Mi fece quasi pena: chissà quante volte doveva aver subito soprusi di quel genere, ma in ogni caso questo non giustificava il suo comportamento riprovevole.
   — Ave, Alpha — pronunciò dunque, sputando via le sillabe. Si frugò in tasca e ne estrasse un mazzo di chiavi che lanciò a Mattia. — Ode al nuovo eroe. Ma non illuderti di star scrivendo la storia. Tempo qualche anno, e sarai diventato la leggenda di un passato da dimenticare.
   Mattia trasse un respiro profondo, rigirandosi il freddo metallo fra le dita. — Gli eroi vengono sempre ricordati, Rita. La storia la scrivono loro, dopotutto. Ma la storia si ripete, generazione dopo generazione, e gli eroi muoiono per fare spazio ad altri eroi.
   Si concesse un sorriso gelido. — Le leggende, al contrario...
   Fu Adriano a concludere la frase per lui: — Le leggende non muoiono mai.

 

 

Mattia passò gli orali col massimo dei voti. Nella seconda settimana di luglio – la stessa settimana in cui si scoprì che Silas Housley era diventato signore dei vampiri dopo aver brutalmente ammazzato il vecchio capo, che aveva organizzato gli attacchi ai licantropi e fornito l’aconito ai traditori – gli notificarono che aveva conseguito la maturità con 100 e lode. Questione di altri due giorni e la Basiliade lo inserì nel suo programma di formazione medica.
   La raccomandata con cui gli comunicavano di averlo accettato in facoltà arrivò a Villa Orlando insieme a una lettera scritta sua manu da Daniel Cartwright, segretario personale di nonno Robert, che richiedeva ad Alicante la presenza degli ambasciatori delle varie razze in vista dell’imminente nomina dei nuovi Console ed Inquisitore e l’ormai certa ratificazione dei Tredicesimi Accordi. In quelle righe, Mattia venne ufficialmente riconosciuto come rappresentante dei mannari.
   La cosa che mi sorprese, però, fu che sebbene quasi chiunque, nel Mondo Invisibile, avesse saputo dell’inaspettato cambio della guardia tra i licantropi di Gaeta – come aveva detto Rita, le notizie corrono veloci – nessuno al di fuori del branco aveva idea di come stessero veramente le cose. Non era trapelata una singola voce circa l’affiliazione dei lupi con la camorra, né tantomeno erano venuti a galla i rapporti che questi intrattenevano con nient’altri che il Ministero della Sanità. Per la maggior parte della popolazione Mattia era semplicemente il sopravvissuto di una delle tante lotte all’ultimo sangue così frequenti tra i mannari: nulla faceva riferimento alle decine e decine di violazioni degli Accordi commesse da Carmine Mallardo prima che Mattia lo uccidesse.
   In effetti, volendo mettere i puntini sulle i, le prove contro Mallardo che avevamo trovato in quel mese scarso in cui avevamo rivoltato come calzini tutti i benedetti archivi del Palazzo, sia i cartacei che i digitali, erano perlopiù di carattere soggettivo e impossibili da confermare o confutare con supporti oggettivi: le testimonianze dei vari Beta che, come Mattia, erano stati morsi di proposito valevano ben poco senza qualcosa di materiale da poter eventualmente portare in corte d’assise. Purtroppo, verba volant.
   Si giunse a una scioccante svolta nel caso quando Trish e Adriano riuscirono a desecretare l’ultima cartella ancora inesplorata: una volta rimosso ogni sistema di sicurezza e decifrato ogni codice di criptaggio, il titolo risultò essere Vendite, prestiti e donazioni sotto Carmine Mallardo – 2011-presente.
   Ci volle più di una settimana perché potessimo leggerne il contenuto senza che si inceppasse il computer o la stampante, ma l’attesa fu degnamente ricambiata.
   Trascorso il periodo degli esami, Mattia aveva felicemente lasciato i libri di scuola ad ammuffire sulla scrivania di casa sua e si era invece dedicato – di nuovo – a studiare la storia criminale del suo branco. Vendite, prestiti e donazioni era il suo documento preferito: vergate nello stile estremamente criptico e sintetico di Carmine Mallardo, centinaia e centinaia di annotazioni accumulate in più di vent’anni testimoniavano entrate e uscite economiche, pesi, prezzi, orari e luoghi di smercio di carichi di farmaci o droghe, date di inizio e di fine dei lavori di costruzione di determinati edifici, vittorie su clan rivali e conseguenti acquisizioni. Mattia considerava quel registro come una sorta di Ab Urbe condita: una fonte imprescindibile e insostituibile. 
  
Non avendo nulla da fare, lo aiutavo nel suo lavoro di ricerca. In due potevamo dimezzare i tempi dell’opera, e all’occasione si univano anche Trish, Logan e Chris.
   Ero da sola, però, nel momento in cui cambiarono le carte in gioco.
   Avevamo esaminato il 2011, il 2012 e il 2013, e avevo appena cominciato col 2014. A differenza degli altri, gli appunti di quell’anno partivano direttamente nel mese di marzo, per la precisione il 7. E stavolta non furono le parole del lupo quelle che la fecero da padrone.
   Di Mallardo c’era solo una breve introduzione, posteriore di parecchi mesi alla data del 7 marzo, che spiegava per sommi capi come fosse venuto in possesso della successiva lunga serie di scannerizzazioni delle pagine più disparate – fogli bianchi, di quaderno e di giornale, carta assorbente, tovaglioli, cartone e cartoncino... – e perché non avesse mai fatto menzione, precedentemente, dei fatti presentati.
   Il 10 agosto mi hanno riferito che è morto il 4. Volato in America il 13, presi i sottostanti il 14. Di lui non so nient’altro e nient’altro ho trovato segnato, ma queste informazioni devono restare in mano mia. Se tale questione si era mai aperta – e so bene di non averlo mai fatto, in passato – ora, ma forse solo per ora, è chiusa.

   Il boss, enigmatico, la concludeva qui.
   Meno enigmatico, invece, era lo scrivente delle pagine scannerizzate. Si poteva quasi toccare la differenza nel modo di esprimersi tra costui e l’ex Alpha: avrei scommesso che, diversamente dal lupo, avesse imparato come porsi e come esporre grazie a un percorso di studi mirato all’arte oratoria e non per semplice abitudine.
   Mi aveva detto di chiamarsi Carmine Mallardo.
   Principale e subordinata. Semplici ma incisive. Grafia ordinata e regolare. Grafia familiare.
   Sulle prime mi rifiutai di credere ai miei occhi. Si faceva cenno ad armi, molte armi – armi bianche – e a un esercito di Nascosti. Si discuteva di trattative, di scambi, di patteggiamenti e negoziazioni. Si menzionavano Idris e New York. Si menzionava anche il mio cognome.
   Era una coincidenza talmente improbabile – avrei osato dire impossibile – che il mio scetticismo raggiunse altezze stellari. Eppure non mi azzardai a chiedere conferma a chi di dovere se non dopo aver fatto tornare il mio battito cardiaco ai normali livelli.
   Papà rispose al mio messaggio chiamandomi sul cellulare. Promisi che gli avrei spiegato la versione integrale della storia non appena avessi rimesso piede a casa, ma pure con i pochi punti che avevo potuto fornirgli per dargli perlomeno un quadro generale della situazione era riuscito ad avere sufficiente sicurezza per asserire che la mia supposizione era fondata.
   Ricostruii la vicenda per com’erano andate le cose soltanto in seguito; tuttavia avevo avuto ragione su ogni singolo aspetto.
   Nell’agosto del 2014, mese della mia nascita, gli Shadowhunters di New York e le loro truppe ausiliarie dovettero combattere contro un manipolo di Nascosti ribelli che Mallardo aveva armato e contribuito a formare. Era stato poco prima di quella battaglia, oltretutto, che Silas Housley aveva abbandonato il clan del Dumort.
   E non aveva detto Silas che Stephen Herondale aveva contatti a Gaeta? 


Oh, finalmente.

Sì, sì, scusate il ritardo e bla bla bla. È tempo di scuola, perdonate una povera liceale.

A meno che non mi faccia altri conti – cosa piuttosto probabile, nonostante tutto – vi annuncio che questo capitolo sarà seguito direttamente dall’epilogo. Eh già, dopo più di un anno e mezzo riesco a concludere anche StF *sigh*

Fortunatamente il prologo di HoC – più che di prologo parliamo più che altro di inizio, e poi capirete perché – è già pronto, così come anche tutti gli altri parametri da sistemare per la pubblicazione di una nuova storia, quindi passerà massimo un giorno simbolico a seguito dell’aggiornamento dell’epilogo prima che possiate cominciare a leggere House of Cards. 

Passiamo ora a un paio di precisazioni a proposito di questo capitolo: le frasi con le quali termina il primo paragrafo sono liberamente ispirate a due versi di Emperor’s New Clothes dei Panic! At The Disco: Heroes always get remembered/But you know legends never die, ossia “Gli eroi vengono sempre ricordati ma, sai, le leggende non muoiono mai”.

Colgo l’occasione – vi sembreranno cose scollegate ma vi assicuro che per me ha senso – per porgervi una domanda: se doveste smistare Mattia in una Casa di Hogwarts, quale Casa sarebbe? Sono curiosa di vedere cosa ce ne esce. E chissà se così riesco a farvi parlare un po’.

Seconda sottolineatura: sono stata volutamente criptica e poco comprensibile nell’ultima parte – no, non è vero, la realtà dei fatti è che non sapevo come altro scrivere e cosa altro scrivere e dovevo finire – perché tutta la backstory della collaborazione di Mallardo e Stephen Herondale verrà non solo ampliata e ben raccontata nelle Houses, ma ci sarà un riferimento anche in quell’“inizio” di HoC di cui vi accennavo prima, per cui non preoccupatevi se non ci avete capito niente.

Vi rinfresco la memoria anche a proposito di Rita D’Amante e vi ricordo che la banda dei cugini Nephilim™ è irrispettosamente entrata, capitoli fa, nel suo ufficio a Villa Orlando e vi ha trovato, in aggiunta a una prescrizione a nome di Adriano – che poi è la stessa prescrizione che, vista in fotocopia da Lorianne e Trish al Palazzo, aiuta Trish a mettere insieme tutti i piccoli pezzi del puzzle e realizzare infine che Adriano è Imperator (capitolo Vita informe) – anche una finta laurea in Medicina che “giustifica” le prescrizioni di cui sopra. Rita è perciò un medico abusivo, oltre che una pessima psicologa, e, ci metto la mano sul fuoco, vi starà antipatica più di altri personaggi rompicoglioni al massimo che incontrerete nelle Houses.

Ci tengo a dire inoltre che altre eventuali questioni rimaste aperte o irrisolte verranno riprese o nell’epilogo o nelle Houses. Mi è dispiaciuto liquidare il coinvolgimento dei vampiri negli attacchi ai Beta di Mattia con mezza frasetta, ma purtroppo non ne ho avuto i mezzi né i modi e dovete pure considerare che il POV di Lorianne mi limita moltissimo (infatti nelle Houses mi sono decisa a scrivere in terza persona, alleluia alleluia).

Bene, speriamo di risentirci al più presto e come sempre mi raccomando di votare e commentare, specialmente ora che la storia è al suo termine!

Alla prossima,

Federica

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Capitolo 27
*** Non limitare il mare ***


25. Non limitare il mare

Non limitare il mare

8Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno,
9quando lo circondavo di nubi per veste e per fasce di caligine folta?
10Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e porte e ho detto:
11«Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde.»
 

[Giobbe 38, 8-11]

 

 

 

La fine di luglio portò con sé i temporali di mezza estate.
   Sotto la grigia cappa di nubi che si rifletteva nel mare colorandolo di grigio ferro, Gaeta chiuse porte e finestre e si serrò al riparo dai forti venti e dalla pioggia battente. Serapo dichiarò forfait; si riempirono invece bar, ristoranti e locali di ogni genere. Assieme agli esercizi commerciali gioirono marinai e pescatori: tempo un paio di giorni, e in ogni buona famiglia gaetana si infornavano tielle di polipo.
   Mattia portò a Villa Orlando quello che aveva definito il suo capolavoro di tiella sabato 31, l’ultima serata che avremmo trascorso a Gaeta. Era di dovere una cena di arrivederci: Trish in particolare aveva insistito per vedere Adriano al di fuori del solito contesto, e dovevo ammettere che quattro risate in compagnia di cari amici e cibo delizioso non avrebbero fatto male a nessuno.
   Da quando a Rita era stata tolta la proprietà, a Villa Orlando non si respirava più la stessa aria. La mansarda era libera, adesso, e mancavano tutti gli effetti personali della D’Amante, eppure la casa sembrava essere stata rinnovata, più che privata di qualcosa. Per quanto potesse dispiacermi per Rita, ora mi sentivo finalmente a mio agio.
   Avevamo spostato il tavolo nel salone: ci era costato fatica e ce ne sarebbe costata ulteriormente al momento di servire i piatti, essendo la cucina piuttosto lontana, ma la vista del tramonto sul mare in burrasca dalle portefinestre ne era decisamente valsa la pena.
   La luce naturale del sole morente e le poche candele sistemate da Chrysta tingevano di violetto l’ambiente; da fuori arrivava una brezza profumata di salsedine che agitava leggermente l’orlo della tovaglia bianca, mentre cominciavano a risuonare i primi tuoni: di lì a breve sarebbe venuta giù acqua a catinelle.
   Adriano, incurante della minaccia, stazionava sul balcone, apparentemente non affatto intenzionato a tornarsene dentro. A vederlo lì, mi chiesi quante volte avesse guardato quel panorama, negli anni passati, aspettando che Rita vaticinasse sulla sua salute mentale.
   Trish aveva tentato l’avventura due o tre volte, nei quindici minuti intercorsi dall’arrivo di Adriano, ma aveva rinunciato: il giovane Mallardo quel giorno era inavvicinabile.
   Anche Mattia, presentatosi fortunatamente poco dopo, suggerì di non sfidare la sorte. E Trish Lewis, famosa per non stare a sentire mai nessuno, gli diede retta.
   Costretti a stare nella stessa stanza, i due si scambiarono giusto qualche parola di rito. Adriano era distante più del solito, e Trish era priva della consueta allegria. Domandai a me stessa se anch’io assumessi quell’atteggiamento al pensiero di lasciare Mattia e tornarmene a New York, o se al contrario ne restassi prevalentemente indifferente. Avevo paura che fosse la seconda opzione.
   Tutto sommato, contro ogni pronostico, alla fine la cena non andò poi così male.
   La tiella di Mattia – be’, di Anna, in realtà – era ottima, così come il riuscitissimo esperimento culinario di Logan, il quale, al contrario di sua madre, era alquanto pignolo nel seguire le ricette e dotato di un certo talento naturale: aveva sì appestato tutta la cucina con un odore nauseante e probabilmente avremmo dovuto dare fuoco alle tende, ma perlomeno quei tranci di pesce spada arrosto rasentavano la perfezione.
   Mattonella gaetana per dolce, su consiglio di Adriano: quattro meravigliosi strati di delizioso gelato ai gusti di nocciola, torroncino, cioccolato e amarena, con paradisiache scagliette di cioccolato e quadratini di pan di Spagna bagnato allo cherry, dalla storica gelateria Il Pinguino a Gaeta vecchia, nella cui cassa avevamo versato come minimo trecento euro dall’inizio di maggio. Una cosa buona, allora, Adriano l’aveva fatta.
   Una forza invisibile ci tenne incollati alle sedie anche dopo aver finito di mangiare. Era la stessa forza che percepivo a casa, durante le feste e le cene in famiglia; quella forza che per Mattia scaturiva semplicemente dallo stomaco pieno, ma che per me rappresentava la consapevolezza che, una volta alzati, si sarebbe rotto qualcosa, e non saremmo più stati capaci di chiacchierare come prima.
   Perciò ce ne stavamo lì seduti, a giocherellare coi tovaglioli, a guardare distrattamente fuori dalla finestra, a far sparire i residui della mattonella dal ruoto o, nel caso di Trish e Adriano, a scambiarsi sguardi esitanti seminascosti dalle bottiglie d’acqua. Mattia se ne uscì, scherzando con la proposta di una partita a scopa, e alla fine la partita la facemmo veramente, con un mazzo di carte che Logan aveva recuperato da uno dei tiretti della cristalliera, costantemente perdendo contro la mente diabolica di Adriano. Mattia poi ci insegnò a giocare a sette e mezzo e ad otto e nove, per i quali era d’obbligo una puntata monetaria: in quel caso fu lui a intascarsi la maggior parte del banco, svuotandoci le tasche di ogni spicciolo.
   Benché l’atmosfera fosse serena e rilassata, si avvertiva una presenza pesante e opprimente, parole non dette che aleggiavano sulle nostre teste come la proverbiale spada di Damocle, in attesa che il filo si spezzasse e le facesse cadere infilzandoci a morte.
   Sapevo che Adriano continuava a disprezzare Mattia, e d’altro canto il lupo non era esattamente bendisposto nei confronti del figlio dell’ex Alpha. Sapevo che Logan era irritato dal fatto che né lui né la sorella fossero giunti a un accordo sulla questione parabatai. Sapevo che la stessa Trish temeva di non essere capace di distinguere tra Adriano e Imperator, e di mal interpretare i sentimenti che provava per lui. Sapevo che a Gaeta mancava un Sommo Stregone, e Chrysta non faceva mistero di essere piuttosto interessata al posto. E sapevo che sarei stata malissimo se la mattina dopo non avessi salutato Mattia baciandolo sulle labbra.
   Si era fatto tardi, e la tempesta ora infuriava. Logan dovette andare a chiudere le persiane al piano di sopra poiché il vento le faceva sbattere. La luna si avviava a concludere il suo ciclo: anche quel plenilunio, Mattia si era affidato ai rimedi di Chris. Non osavo immaginare cosa sarebbe successo quando fosse rimasto a corto di pozione.
   Con l’avvicinarsi della luna nuova, la sua energia diminuiva progressivamente. Pochi lupi ne risentivano, ma lui era tra quelli. Il novilunio ci sarebbe stato solo tra una settimana, eppure Mattia già sfoggiava un colorito più pallido del normale, per quanto l’abbronzatura lo consentisse, e un’espressione più tesa e stanca.
   Ciononostante fu lui ad aprire la conversazione, come sempre: — A gennaio parto — esordì. — Devo fare il tour della vittoria e bussare alla porta degli altri membri del branco. Secondo Sabrina è meglio che lo faccia al più presto.
   — Gennaio non è al più presto — osservò, laconico, Adriano.
   — Grazie, non ne avevo idea — sbottò Mattia per tutta risposta. — Può darsi che abbia altre cose da fare, prima.
   Adriano alzò le mani per difendersi. — Dicevo tanto per dire.
   — Sì, sì, vabbè. Come vuoi tu. — Mattia tirò un lungo respiro. — In ogni caso...
   — Ti serve qualcuno che ti accompagni — lo anticipò Logan. — Io ci sto.
   Mattia scosse la testa, mordicchiandosi il labbro inferiore. — No.
   — Vengo io, allora — la buttai lì, e Trish mi diede manforte: — E io. Volevo dire, o io. Ammesso che tu abbia bisogno di una persona sola.
   Mattia negò ancora. — No. Non esiste.
   — Cos’è questa, misoginia? — sbraitò quindi Chris, sbattendo un pugno sul tavolo. — Proprio da te non me lo sarei aspettato.
   — Sarebbe stata misoginia se avessi detto di no solo alle ragazze e non anche a Logan — la corresse Mattia, imperturbabile. — In realtà mi chiedevo se potessi avvalermi delle conoscenze di un interno.
   Adriano colse al volo l’antifona. — Scordatelo.
   Mattia sospirò. — Ritiro tutto. Tranquillo, Adriano, non ti costringerò a uno sforzo fisico — lo rassicurò. — Ma necessiterò comunque di un supporto...
   — Informatico — lo precedette Trish. — Perfetto. Avrai il mio contributo.
   Adriano serrò le dita sulla tovaglia. — Patricia, no. Quello è il mio campo.
   Lei gli indirizzò un ghigno sbilenco, a metà tra l’offeso e il divertito. — Mi pare di aver già imparato da te, Imperator. Anzi, mi pare di averti persino superato.
   Fu Logan a rispondere, impedendo l’intervento di un Adriano parecchio infervorato: — Trish, ti conviene davvero diventare parte attiva di tutto questo casiino? Finora abbiamo fatto quel che dovevamo, ma adesso... francamente, sono ben felice di tirarmene fuori.
   — Bell’amico che sei — brontolai, scoccandogli un’occhiata furiosa da sotto le ciglia. — Sempre pronto ad aiutare il prossimo.
   Avrei dovuto tenermi quel pensiero per me. L’avevo fatto incazzare.
   — Okay, Lorianne, seriamente? — cominciò, scattando in piedi come una molla. — Amico? Mi sembra un tantino esagerato. Dannazione, lo conosciamo da tre mesi, per l’Angelo, e in questi tre mesi ho visto un Sottomondo peggiore di quanto avessi mai visto prima, ho visto persone peggiori di... persone peggiori di qualunque demone sulla faccia del pianeta. E io di Sottomondi ne ho visti diversi, cuginetta, non sono cresciuto sotto una campana di vetro come te. È uno schifo, Raziel, uno schifo! — urlò. — Non sono un gran nuotatore: mi lascio trascinare dal peso morto sul fondo dell’oceano, quando dovrei invece riportarlo a galla. Pertanto, Lori cara, scusami se sono consapevole dei miei limiti ed evito di cacciarmi in un guaio di queste dimensioni. Lo ripeto: sono ben felice di tirarmene fuori.
   — Un brindisi all’enorme coraggio degli Shadowhunters — commentò Adriano, sollevando teatralmente un bicchiere. — Forse mio padre aveva ragione a non volervi nemmeno portare a letto.
   — Parla quello che si è scopato mia sorella! — strepitò Logan, le guance chiazzate di rosso per la rabbia. — I gusti cambiano da padre in figlio, eh?
   — Fortunatamente — replicò Adriano, serafico. — Comunque, se non cado in errore, Trish era più che consenziente. Dovresti domandarlo a lei, dato che ci tieni tanto. Trish, tesoro, vuoi controbattere?
   Tutto ciò che lei disse al contrario fu: — Logan, siediti.
   Al comando della gemella, lui abbassò la cresta e cedette.
   — Sentite — iniziò Trish, massaggiandosi le tempie. — Col presupposto che, sì, Adriano mi piace moltissimo e potrei perciò essere di parte...
   Si interruppe per reprimere una risatina alla vista di Adriano che arrossiva. Arrossì a sua volta, ma si ricompose subito. — Ragazzi, mi fate cascare le braccia. Come Nephilim dovremmo valorosamente combattere le ingiustizie e l’illegalità nel Mondo Invisibile – per la miseria, gli Accordi li abbiamo pure scritti noi – e, nonostante questo, cosa stiamo facendo? Ce ne stiamo deliberatamente lavando le mani. Per di più, Logan, ti ricordo che faremmo la figura degli ipocriti insabbiando tutto ciò, quando eravamo noi, e siamo noi, i primi a forzare Lorianne a gridare al vento la verità.
   La ringraziai silenziosamente.
   — Non saremmo migliori di quei camorristi se semplicemente volgessimo la testa di lato e ce ne fregassimo alla grande, così come se ce ne dimenticassimo o fingessimo di dimenticarcene. Abbiamo assistito allo spettacolo e, che lo vogliamo o no, la storia adesso è anche un po’ nostra. Personalmente, io non ho intenzione di fare un passo indietro.
   Calò il silenzio per un istante che durò un’eternità.
   — Mattia — lo interpellò infine Chrysta, facendo sobbalzare tutti. — Sei chiamato in causa.
   Era strano che non avesse già preso la parola e che fosse dovuta intervenire Chris. Forse doveva ancora ragionare un po’, o, magari, non era sicuro di cosa dire.
   Magari non era sicuro di voler parlare.
   Mattia si grattò distrattamente il mento, meditando. — Ascoltatemi con attenzione — dichiarò, — e che questo concetto non venga frainteso: non vi sto obbligando a fare nulla. Tantomeno vi sto obbligando a considerarmi un amico; dopotutto, io stesso ho ancora delle riserve su di voi. Insomma, mi siete piombati tra capo e collo, come del resto io sono piombato tra capo e collo a voi, e capite bene che la situazione richiede un determinato tempo di riflessione, cosa che né io né voi abbiamo avuto. Ergo, non vi biasimo e non vi invidio. Nessuno vorrebbe trovarsi nella posizione in cui è ognuno di noi.
   Deglutì e si concesse una piccola pausa. — Non so chi sarà il mio chaperon, l’anno prossimo. Per come ho le idee chiare ora, potrebbe essere pure il mio cane. Tanto deve soltanto farmi compagnia e non mandarmi in manicomio.
   — Già — mormorò Adriano, — per quello basta e avanza il branco.
   — No, per quello basti e avanzi tu — precisò Mattia. — Non vi nascondo che ho una paura fottuta — confessò. — Ci sono persino due bordelli, signore e signori. Due bordelli.
   — Oh, non preoccuparti di quelli — minimizzò Adriano. — Ne ho fatto saltare in aria uno.
   Ci restammo tutti di sasso. — Hai fatto cosa? — strillò Logan, mentre Mattia, evidentemente più abituato di noi alle bizzarre uscite di Adriano, fece: — E perché l’avresti fatto, di grazia?
   — Ho fatto saltare in aria un bordello, con un bel po’ di gente dentro, perlopiù — sillabò lentamente Adriano, come per spiegarlo a un bambino. — Una prostituta mi ha mandato un SOS.
   — Ah — borbottò Trish. — Una prostituta. Ti ha mandato un SOS.
   — Non ho malattie veneree, se te lo stai chiedendo — interloquì l’hacker. — Quelle cardiache sono sufficienti.
   — Ovviamente ci sei andato a letto.
   — No, ci ho progettato un blog. Naturale che ci sia andato a letto!
   — Piantatela! — proruppe Mattia in tono scocciato. — Dio mio, fate le vostre cose da fidanzatini lontani dalla mia innocente e impressionabile persona, per carità cristiana!
   Adriano non demordeva. — Disse quello cornuto e mazziato.
   — Ti soffoco con le spine del pesce.
   — Piantatela! — li scimmiottai. — Dio mio, fate le vostre cose da lupo e gatto lontani dalla mia allergica persona, per carità cristiana!
   Avevo sperato di provocare una risata generale, ma tutto quello che ottenni fu un risolino cupo: trascorso il siparietto comico, era il momento di tornare al motivo originale della discussione.
   Mattia si piantò i denti nella lingua, come per impedirsi di aprire bocca. Purtroppo, però, una sua arringa finale era inevitabile.
   — Va bene, questo è quanto. — Si interruppe per versarsi un bicchier d’acqua. — Non può importarmene di meno di chi ha fatto saltare il bordello, perché l’ha fatto, come l’ha fatto, chi era questa prostituta... ora come ora, non me ne frego neanche di quelli che ci hanno perso la pelle, là dentro. Non è la mia priorità, questa. La mia priorità è innanzitutto farmi una maledetta idea su quale sarà il mio ruolo a Idris e su cosa diavolo significa rappresentare una razza intera, inventarmi un buon metodo per riuscire a raccontare al mondo questa storia tremendamente incasinata senza che ci vadano di mezzo le persone sbagliate e possibilmente trovare un minuto per ricordare a un certo soggetto di mantenere una certa promessa.
   Molto poco discretamente, mi indicò con un dito accusatorio.
   Mi sentii andare in fiamme, ma una bolla di gioia scoppiò nel mio petto.
   — Inoltre, per quanto riguarda voi e il vostro coinvolgimento in queste vicende, la questione mi pare semplice: chi vuole ficcare le mani in pasta e aiutare, benissimo, che aiuti, dunque. Ma, di conseguenza, chi non vuole non lo faccia. Punto. Non potete pretendere, e io non posso pretenderlo da me stesso, che metta d’accordo Logan e Adriano o Adriano e Trish o Lorianne e Trish o chicchessia, non sono un arbitro. Vedetevela tra di voi, ché siete grandi, grossi e si spera vaccinati. Ho già abbastanza problemi e non posso permettermi di risolvere pure i vostri.
   Adriano gli afferrò un polso. — Ehi ehi ehi, Nardone, calma. Controllati.
   Mattia se lo scrollò di dosso con un verso di disapprovazione, poi scosse la testa e sbuffò. — Suppongo di essere arrivato al punto in cui controllarmi è impossibile.
   — È vero — confermai. — Non fai altro che distruggere ogni barriera che ti crei o che ti fai creare.
   Lui mi scoccò un’occhiata storta. — Ed è un bene?
   — Forse. — Mi strinsi nelle spalle. — Forse dovresti provare l’ebbrezza della libertà.
   — Siete stati voi quelli che l’hanno incatenato — ci rammentò Adriano. — Ora i carcerieri si ergono inaspettatamente a salvatori?
   Logan si fece scuro in volto. — Io non spezzerei la catena.
   — Neanch’io — concordò Mattia, sogghignando. — Pertanto, date le circostanze, allungatemela.  
   Chrysta si pizzicò la radice del naso. — Perfetto. Diamo al cagnolino che tira un altro metro di guinzaglio.
   — Quel cagnolino tirerà ancora e ancora e ancora — osservò Logan. — Volete farvelo scappare?
   — Oh, ma io non scappo, Lewis — sussurrò Mattia. — Sono tutto meno che un lupo solitario. Non abbandono il mio branco.
   Adriano strinse nuovamente l’avambraccio di Mattia. — Se per non essere abbandonato devo far parte del tuo branco, allora... — Serrò le labbra. — Porco mio padre. Non ci credo che lo sto dicendo.
   Mattia sorrise malignamente. — Credici.
   — Vaffanculo. — Adriano respirò a fondo. — Sono del branco.
   Istintivamente mi sporsi in avanti e coprii la mano di Mattia con la mia. — Sono del branco anch’io.
   Trish intrecciò le dita con quelle di Adriano e mantenne una presa salda sul polso del licantropo. — Anch’io.
   — Adoro i giuramenti — gongolò Chris, unendosi felicemente a noi. — Ai suoi servizi, Alpha.
   Fissammo Logan con intenzione. — Al diavolo — imprecò, ma aggiunse la sua mano senza esitazione. — Però voglio un drink di benvenuto.

   E lì, in una casa abbarbicata su un promontorio a picco su un mare in burrasca, mentre il vento indomabile scuoteva le imposte e i lampi squarciavano il cielo, un tuono sincronizzò i nostri cuori, e lasciammo che il silenzio suggellasse il nostro patto.

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Capitolo 28
*** Epilogo ~ Veleno ***


Epilogo - Veleno

Epilogo ~ Veleno

 

Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit.
Dosis sola facit, ut venenum non fit.
 

Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno.
Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.
 

[Paracelso]

 

 

Alberto, chaperon per un giorno, attendeva impaziente seduto al posto di guida. Chrysta stava finendo di caricare le valigie nel bagagliaio magicamente allargato, Logan chiudeva la porta di Villa Orlando e Trish tentava, senza risultati, di scollarsi da Adriano. In altre parole, un quadretto coi fiocchi: la partenza era ormai incombente e improrogabile.
   Mattia si passava distrattamente da una mano all’altra qualcosa che non riuscivo a vedere, scrutando l’orizzonte da dietro le lenti scure degli occhiali. La buriana della sera prima aveva scacciato via il maltempo, e Gaeta aveva ricominciato a brillare.
   — Allora, signor Nardone — esordii, tentando di mantenere un tono spensierato. — Quali sono i suoi piani per oggi?
   — Spiaggia — mi rispose lui immediatamente. — Mare. Sole. Salsedine. Cocco bello cocco fresco. Un po’ di tranquillità. — Sospirò. — Penso di meritarmela, almeno per un mese.
   — Già. — Mi concessi un sorrisetto. — Preparati per Idris.
   — Lo farò.
   Abbassai la testa, cercando le parole adatte per dirgli addio. No, no: dirgli arrivederci.
   — Lorianne.
   Rialzai lo sguardo. — Sì?
   Mattia aveva la stessa espressione che gli avevo visto stampata in faccia quella sera all’Eneas. La stessa espressione che da allora non era mai più tornata, fino a quel momento.
   Era un misto di rassegnazione, lontana tristezza, astuta curiosità e un pizzico di lucida follia. Sentimenti che non avevano ragione di coesistere, ma che in qualche modo riuscivano ad equilibrarsi e albergare pacificamente in quelle calde iridi nocciola. Mi sentii attraversare da un’improvvisa, bollente e piacevole vampa di calore.
   — Tieni.
   Mi piazzò tra le braccia tre grossi libri. Riconobbi il primo: era La Biblioteca dei Morti.
   Mattia mi sorrise. — Poi mi dici come sono.
   Percepii gli angoli della bocca sollevarsi di loro spontanea volontà. — Grazie.
   — Figurati.
   Lo abbracciai goffamente, intralciata dalla presenza dei volumi, ma lui sembrò non farci caso. — Buon ritorno, Lorianne. Ci rivediamo a settembre.
   Mi staccai a malincuore, lo salutai con un veloce gesto della mano ed entrai in macchina costringendomi a non voltarmi indietro.
   Pochi minuti dopo che Alberto mise in moto, però, quando eravamo quasi a tre quarti della discesa, abbassai il finestrino, mi sporsi fuori con metà del busto e gridai: — Come facevi a sapere che potevi rivendicare la proprietà di Rita?
   Il suono della risata di Mattia si perse nel vento. — Non lo sapevo.
   Risi anch’io, forte, e gli lanciai un bacio. — Ti adoro, Mattia Nardone!
   — E tu non mi repelli, Lorianne Herondale!
   Mi buttai sul sedile continuando a ridere, e ridevo, e ridevo, e ridevo. Era bello, bellissimo. Era stupendo.
   Quei tre libri erano stupendi. Mattia era stupendo. E ciò con cui Mattia stava giocherellando, prima, era stupendo.
   Era un bigliettino, infilato nella quarta di copertina de La Biblioteca dei Morti. Un semplice rettangolo di cartoncino, bianco con cornice rossa, stampato a lettere piccole e chiare. Assieme ad esso vennero fuori due chiavi attaccate a un anonimo anello di freddo metallo, ma ciò che quelle chiavi rappresentavano, assieme a ciò che c’era scritto sul biglietto, mi scaldò il cuore.
   Mattia Nardone, parco Ralph Scott, palazzo rosso, interno 3 – Alicante, Idris.

   E, sul retro, vergato in una calligrafia semplice e ordinata:
   Se Maometto non va dalla Montagna, la Montagna va da Maometto...

   È la seconda volta che prendo l’iniziativa. Dannazione, ragazza, svegliati. Non sono il tipo da Bella Addormentata nel Bosco. Sono più il tipo da Malefica.
   Mi sei strisciata addosso, vipera. È fiele, quello che stillano le tue zanne?
   Sublime.
   Striscia di nuovo al mio fianco, ti prego.
  
Non smettevo di ridere. Ero isterica; non riuscivo a fermarmi.
   Mattia era un bastardo. L’apoteosi, la genesi di tutti i bastardi. Uno stronzo coi fiocchi. E gli stronzi coi fiocchi si meritano una bella punizione.

   Be’, tutto considerato, visto che proprio non poteva farne a meno... avrei continuato a strisciare al suo fianco ancora per un bel po’ di tempo.

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Capitolo 29
*** Ringraziamenti ***


Ringraziamenti

Ringraziamenti

 

Stavolta un capitolo a parte è di dovere.
   Questi infatti non sono soltanto i ringraziamenti per StF, bensì quelli per tutta la trilogia. Perciò, senza andare a fare un elenco che sarebbe il copia e incolla delle note dell’autore dei due epiloghi precedenti, ci tengo a porgere i miei più sentiti e solenni omaggi a chi mi segue sin dall’inizio; a chi mi ha aiutato in qualsiasi modo possibile, anche solo leggendo; a chi è arrivato dopo, specialmente coloro che mi seguono solo da qualche settimana e hanno fatto scorpacciata di ogni singola storia in tempi record, e a chi invece ha – più o meno pazientemente – aspettato gli aggiornamenti. Grazie anche a te che magari sei capitato qui per caso, perché comunque mi hai dato una visualizzazione, e hai contribuito a far rientrare di pieno diritto l’intera trilogia tra le consigliate di Wattpad nel fandom di Shadowhunters.
   Parlando più specificatamente di Seeing the Future, in cima alla piramide non poteva esserci altra persona se non Francesca Paduano, la formidabile Saint-Lucifer (passate a leggere Bad Things Happen to Good Girls su Wattpad, la cui altrettanto magnifica coprotagonista Karef è per buona parte farina del mio sacco), che si è sorbita i miei audio di pure 12 minuti, telefonate di tre ore, papiri e documenti vari già da prima che il prologo di StF vedesse la luce. Nelle Houses, il suo contributo sarà ancora più grande.
   Grazie, Fra.
  Per seconde, Noemi Fabiano alias Alexiel94 ed Emanuela Malec aka Malec_1234 (sì, chiamo tutti per cognome tranne lei, semplicemente perché non so quale sia), anche loro martiri costrette all’ascolto di audio secolari e alla lettura di rotoli della Torah per la buona causa del compiacimento della sottoscritta.
   Thanks, girls.
   Terzo, colui che ama Adriano e odia la D’Amante, il bel Marco Canonico (TheLonePianist), mio follower da non così tanto tempo ma che si è degnamente guadagnato l’appellativo di Sommo Lettore di Federica Improda. A lui sono però stati risparmiati i lunghi monologhi via vocale.
   E grazie anche a te, Marcolì.
   Grazie ad Althea Matijacic per le copertine sia della serie Past, Present and Future che delle Houses e per il booktrailer di HoC – arriverà a breve, don’t worry – oltre che per avermi fornito il cognome di Jean insieme a un’esaustiva storia della famiglia.
   Menzione d’onore al testimone di nozze dei miei genitori, che mi ha reinstallato Office dopo che mi era scaduto l’abbonamento. Menzione di disonore a OpenOffice che, per quanto mi faceva schifo scriverci sopra, mi ha fatto perdere l’ispirazione per un’estate intera.
   E, ultima ma non meno importante, grazie a te, nonnina, perché è per merito tuo se amo Gaeta così come la amo, se conosco tutte le sue leggende e il suo passato, se Mattia è di Serapo, il Palazzo si trova a Santa Lucia e i vampiri si sono stabiliti nell’ex Italcraft, se Anna è un personaggio tanto importante e se importante è il Lupo di Mare. Ti ringrazio, nonna, per avermi supportata e supportata come solo tu sai fare, e soprattutto per non esserti fermata al testo ma aver capito cosa c’era dietro. Non sarei dove sono, e non sarei chi sono, senza di te.
   Concludo... anzi, no, perché dovrei concludere?
   Questa non è una fine. È tutto meno che una fine.  
  
È la tredicesima carta dei tarocchi: la Morte che spazza via il vecchio e fa largo al nuovo, che estirpa il brutto per far crescere il bello.
   Quattro storie, tre coprotagonisti, infiniti personaggi secondari, luoghi vicini e lontani, vite che si intrecciano come radici: sono House of Cards, House of Sand, House of Wood e House of Stone.
   Carte, sabbia, legno e pietra, o forse aria, acqua, fuoco e terra.
   Questo è l’inizio delle Houses.
   Grazie a tutti, ragazze e ragazzi; a chiunque abbia nominato e non abbia nominato. Grazie anche a me, dannazione.
   Ci rivediamo presto. O meglio, subito.
  
House of Cards è online.

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