Se voglio, posso.

di Dunettas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ma tutto si può sopportare. ***
Capitolo 2: *** Ed è la sua resa. ***
Capitolo 3: *** O forse, nel caso, la terza. ***
Capitolo 4: *** Non più di 5 minuti ***



Capitolo 1
*** Ma tutto si può sopportare. ***


 

Ma tutto si può sopportare.

 

Marco si stiracchia sul banco e ne afferra con le dita l'estremità, cercando di non farsi vedere troppo. Quella lezione è tartassante. Lo sta annoiando oltre misura. È il suo ultimo anno di liceo e lui non vede l'ora di scappare al mare e di nuotare fino a non sentirsi più le gambe. Ha voglia di far ridere Giulietta, fino a che non tira fuori quelle sue meravigliose fossette, e di far indispettire Nicola con tutta quell'acqua.
Quei due sono la sua vita. La sua serenità. E lui sta bene così. Lo crede. Ne è convinto. Vuole convincersene. Poi suona l'ora della ricreazione e un lieve profumo di muschio gli sfiora le narici. Dopobarba, già, quello che tutti i maschi usano post rasoio. Eppure quel dopobarba è particolare. E non perché sia lui ad esserlo, in realtà sa solo di erba, erba anche un po' viscida e umidiccia. Cresce al buio, dove a Marco non piace stare. Perché Marco è mare, sole, estate.
Quel dopobarba è particolare perché lo mette sempre quella persona.
Quella che incupisce le sue notti e fa sparire il suo sorriso.
Marco tira indietro la sedia e solleva lo sguardo. Deve per forza. Lui se ne sta in piedi, le mani nelle tasche dei jeans e un mezzo sorriso che incurva le sue belle labbra carnose. Ha la pessima abitudine di mordersele, quand'è perplesso. E lo fa ora, proprio ora. Marco stringe i pugni e punta gli occhi scuri in quelli azzurrissimi del suo compagno di classe. Matteo, già, Matteo Malaspina. Nel senso letterale del termine.
“Che vuoi?”
Dice brusco, troppo brusco. Senza un senso. L'altro inclina il capo e si stringe leggermente nelle spalle.
“È la mia classe tanto quanto la tua, Sforza”
“Intendevo che vuoi da me...”
Conclude Marco, chinandosi per mettere i libri nello zaino. Non sopporta di guardarlo più di tanto. Gli prendono a formicolare mani e piedi, e comincia a sentire caldo dappertutto. Una cosa che non si spiega, ma che soprattutto non si vuole spiegare.
“Abbiamo un conto in sospeso, io e te, ricordi?”
Oh si che lo ricorda. Marco si lascia scappare un sorriso, e nel sollevarsi, si passa una mano fra i ricci biondi. Poi incrocia le mani sul petto, ampio, largo petto da nuotatore. E sente la maglia tirarsi sulle spalle, come sempre. Lo rincuora. Lo fa sentire un poco più uomo.
“E vorresti regolarlo ora? A scuola?”
L'aplomb da bulletto non gli si confà affatto. E sembra pensarlo anche Matteo perché si concede una piccola risata liberatoria, poi si riprende, rimandando gli occhiali sul naso. Quel gesto attira l'attenzione di Marco, che lascia scivolare lo sguardo su quel bel profilo altero. Matteo è un intellettuale dalla A alla Z, indossa sempre camicie e jeans scuri. Si vede che non dorme per leggere, perché ha sempre gli occhi stanchi. E poi sta sempre lì, giorno e notte, con il suo capannello di ammiratori, a decantare mondi infiniti e poesie senza tempo. È un ragazzo che ha sempre una parola per tutti, il consiglio buono della giornata, quell'attenzione in più che fa sentire tutti un po' speciali. È un po' come un angelo buono venuto da chissà dove per portare serenità. Invece con Marco no. Marco non lo sopporta proprio. Perché lo rende nervoso e insicuro, lo fa tremare senza neanche accorgersene. O forse se ne accorge, ma non gli importa.
“Devi semplicemente leggere una poesia ad alta voce, Marco... non prendermi a pugni finché non svengo”.
L'altro lo guarda in tralice, mentre fa finta di fare qualsiasi altra cosa. Sfogliare il quaderno di matematica, giocare con il cellulare, masticare la gomma della matita.
Aveva perso una stramaledetta scommessa e ora doveva pagare. Quello stupido, insidioso, geniale prezzo, che caratterizzava il sadismo intrinseco di Malaspina.
“Non intendo farlo assolutamente in pubblico”
Frase sbagliata. Matteo si morde ancora le labbra e aggrotta leggermente le sopracciglia al di là delle lenti. E Marco si maledice intimamente per quelle che gli parvero decine di migliaia di volte, mentre prega di non essere diventato color pomodoro.
“Va bene in giardino...”
Dice frettolosamente. Ed aggira il banco rapidamente, superando il dopobarba e il suo possessore, che sorride con una certa soddisfazione.
Trova il primo muretto disponibile e ci si arrampica sopra. Lasciando penzolare le gambe.
Non si guarda intorno, tiene gli occhi fermi sull'asfalto al di là delle scarpe. Si sforza anche di non fare caso ai passi che risuonano già da un po' sul selciato.
Matteo gli porge un libro. Sembra un testo scolastico. Marco lo guarda interrogativo, dall'alto. Sono più o meno alla stessa altezza, le loro teste in quel momento. Ma Matteo si tiene distante, sempre le mani in tasca, e gli fa cenno di aprirlo.
“C'è il segnalibro nel punto giusto”
Dice, ma è più che altro un sussurro.
Marco guarda meglio il libro. È di letteratura greca. Un mondo a lui del tutto sconosciuto e anche del tutto privo di interesse. Per questo lo apre con noncuranza, senza notare il lampo di aspettativa che illumina per un istante gli occhi del compagno.
Marco assottiglia leggermente lo sguardo sulle righe, sono scritte fitte, ma la grafia è chiara.
“Saffo nacque ad Ereso, nel VII secolo a.c. Era la figlia di una famiglia nobile, visse praticamente tutta la sua vita sull'isola, a Mitilene”.
Decanta brevemente Matteo, mentre l'altro si sforza di comprendere quelle frasi nebulose ed intricate.
“Leggi per me”
Mormora il compagno e Marco solleva gli occhi di scatto. Quel tono è strano, strascicato, come se la sua naturale conclusione si spegnesse in un singhiozzo. La cosa lo mette in uno strano stato di agitazione, lo infastidisce. Matteo se ne sta sempre lì, ad un paio di metri da lui, con le mani in tasta. Lo guarda attento, ma da quella distanza non riesce a distinguere quale espressione effettivamente abbia. Comunque gli sembra inoffensivo. Si sente abbastanza sicuro ed allora china gli occhi e prende a recitare. Un po' incerto all'inizio, poi sembra incuriosirsi.

Simile a un dio mi sembra quell’uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, subito non posso
più parlare: la lingua si spezza: un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano:
un sudore freddo mi pervade: un tremore
tutta mi scuote: sono più verde
dell'erba; e poco lontana mi sento
dall'essere morta.
Ma tutto si può sopportare.

Chiude le ultime quattro sillabe, pervaso da uno strano tremore. Le labbra stentano nell'ultima frase. Sospira, poi, un'istante dopo averle serrate. E si sente stranamente commosso. Allora solleva lo sguardo e sussulta, di botto. Matteo è ad un passo e i suoi occhi traboccano di lacrime. Le lascia scivolare giù lungo le guance, non toglie nemmeno le mani dalle tasche.
Marco sgrana gli occhi e si muove inquieto sul muretto.
“Va bene, lo ammetto, è abbastanza ben riuscita, è leggerla ad alta voce con la giusta cadenza, è suggestivo. Ma non credo che ci sia da piangere”
Lo vede sorridere appena, incurvando le labbra umide, e mandare gli occhi chiari al cielo. Tanto è perfettamente consapevole anche lui di non avere a che fare con il genio dell'intuito.
“Lo è invece, se è quello che provi ogni giorno”
Marco assottiglia gli occhi e aggrotta le sopracciglia.
“Io credo che tu possa avere tutte le donne che vuoi, Malaspina. Mezza scuola ti viene dietro”.
Matteo ha smesso di piangere già da un po' e non gli sembra vero di dovercelo fare arrivare. Per lui la cultura e la reviviscenza delle emozioni, delle immagini del passato, sono qualcosa di assolutamente scontato. Automatico.
Fra il basito e il disperato, toglie le mani dalle tasche e le incrocia sul petto. Accademico come il più illustre dei professori.
“Saffo è lesbica, Marco. Sta parlando di una dannatissima donna”
Lo vede sbiancare e riportare automaticamente lo sguardo al libro, cercando fra le righe qualcosa che non vi potrà trovare.
“Non capisco...”
Dice poi in un sussurro, senza staccare gli occhi da quelle pagine per lui inspiegabilmente bianche.
E Matteo perde del tutto le speranze. Fa un passo avanti e gli appoggia una mano sulla testa, scompigliando quei meravigliosi capelli biondi, la cui consistenza non si era nemmeno mai permesso di immaginare. Ma anche alla sua pazienza, c'è un limite.
“Voleva essere una specie di dichiarazione d'amore. Ma credo di aver sbagliato tempo, modo e soprattutto... uomo”.
E con quelle parole, ritira la mano, si volta e se ne va. Lasciando in sospeso quella frase nell'aria, che rimbomba come un uragano nelle orecchie di Marco. E lui non riesce a staccare gli occhi da quel libro, mentre il cuore gli galoppa nel petto in un misto di terrore e gioia.
Solleva di scatto lo sguardo e trova solo le sue spalle. Se ne va, senza voltarsi. Orma quasi scompare. Marco strige i pugni e non si muove, no, lascia scivolare via quell'emozione, sempre più attutita, lontana, mentre si ricompone il ricordo di un’esistenza a cui è più avvezzo, definitivamente incrinata da quella piccola, innocente carezza e da quelle ben meno innocenti parole.
Chiude il libro di botto e salta giù dal muretto, abbandonandolo lì, da solo.
Non c'era storia. Non per lui. Mai.

...e poco lontano mi sento
dall'essere morto.
Ma tutto si può sopportare.

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Capitolo 2
*** Ed è la sua resa. ***


Ed è la sua resa.



Sono passati quattro anni dall'ultimo giorno di scuola. Marco studia ed è anche un ottimo studente. Gli piacciono tutte quelle cose che hanno a che fare con la chimica, la biologia, la scienza in generale. Lo entusiasmano sinceramente. Ma la cosa che adora di più, è senza dubbio il professore di anatomia patologica.
Alto, moro, spalle larghe, vita stretta e quel camice pornografico che si porta sempre appresso. Quando lui spiega, mezza classe è in adorante contemplazione di come si muove, di come parla, e quando sorride. Dio quando sorride.
Con il tempo, Marco ha pienamente accettato di essere completamente, radicalmente e sostanzialmente gay. Era qualcosa di semplicemente inevitabile. Proprio come Saffo, lei lo sapeva, ma se lo teneva nel cuore, perché tutto si può sopportare.
E a Marco sta bene così. Alla sua piccola vuole bene, adora quando la notte si accoccola sul suo petto e lo fissa con quei grandi occhioni scuri, adora sentire il suo calore sul petto mentre fanno l'amore, ed adora quei lunghissimi capelli scuri che non ha mai tagliato dal liceo. Le scendono sulla schiena nuda come filamenti di una luna nera, sembrano quasi luccicare al buio.
Sono emozioni tenui, tiepide, nate dalla semplice constatazione di qualcosa di bello.
A volte se lo concede di essere un po' gay. Si infila nei locali più assurdi, per mettersi in un angolino a guardare, quelli che se lo possono permettere di vivere quella natura, e naturalmente rifiuta tutte le avance.
Una sera però, accetta il drink che gli offre un tipo, si sente particolarmente depresso. Deve andare a casa dei genitori di Giulietta nel fine settimana. E lui odia i genitori della sua ragazza. Li odia perché sono sofisticati, snob e con la puzza sotto il naso. E nonostante sia un fidanzato fedele e premuroso, lo trattano sempre come il più infimo dei randagi.
Da un sorso al Martini e concentra la sua attenzione su una coppia poco più in là.
Uno è alto, bello, piuttosto muscoloso, e indossa una camiciola sottile sottile che lascia intravedere i bei dorsali definiti. Marco si lascia scappare un mezzo sorrisetto sulla soglia del bordo del bicchiere. Pivello.
L'altro è piuttosto gracilino e si ritrae costantemente all'invadenza del compagno.
Quell'immagine gli fa lampeggiare nella mente il ricordo di una mattina di primavera. Un ragazzo, un sorriso e delle mani nelle tasche. Lo incalzava anche lui con un'impazienza nello sguardo, che Marco all'epoca non era stato in grado di capire.
Da un altro sorso al drink e si lascia andare contro la poltroncina di velluto scuro. Gli gira la testa. E nemmeno poco. Lui di solito non beve, no, perché in ospedale hanno sempre bisogno di lui per i turni in pronto soccorso e deve sempre essere pronto. Quindi non è abituato.
Vede confusamente qualcuno avvicinarsi e si accorge che si sta sporgendo verso di lui. Non ci fa caso, o forse non gli importa. Non sente niente, è tutto attutito. Percepisce piuttosto chiaramente che qualcuno lo sta toccando, lo ha afferrato per i fianchi e trascinato in pista. Ma non gli importa, ancora. Si abbandona all'alcol di quella cattiva serata, di quella cattiva settimana.
Poi un altro qualcuno, uno diverso da prima, si china su di lui e lo bacia, stringendogli saldamente il sedere tra le dita. Tanto non ci fa caso. Ha già baciato degli uomini, tanto per capire, tanto per vedere, ma non è stata altro che una conferma scontata e dolorosa di quanto effettivamente già sapeva.
Si sente infilare la lingua in gola e lo lascia fare, tanto è come sentire diecimila volte la stessa musica, la stessa sensazione. Gli fa schifo, si fa schifo. Poi, d'un tratto, sente due braccia afferrargli le spalle e tirarlo via da quella presa insidiosa. Disgustosa.
Vede il tipo innanzi a sé protestare: si sente offeso dal vedersi sottrarre la sua preda. Ma poi quello dietro di lui sembra dire qualcosa di convincente, perché l'altro impallidisce e si volatilizza.
Si accorge che stanno uscendo dal locale e che lo stanno facendo entrare in un taxi. Ma ha una presa fuggevole e inconsistente con la realtà.
“Ma che diavolo fai, Marco?”
Mormora la persona accanto a lui, ma Marco non la vuole guardare, non gliene importa niente nemmeno di dove sta andando. L'indomani si sveglierà, magari un po' dolorante e filerà a casa sua in un baleno, dimenticando ancora, dimenticando di nuovo. Perché tanto quel suo essere lui vuole semplicemente dimenticarlo.
Il taxi si ferma e la presa sul suo braccio si serra. L'uomo lo tira fuori dalla macchina e lui si dà uno sguardo intorno. Sono in un bel quartiere di Milano. Le case sono aristocratiche e sofisticate, proprio come i genitori di Giulietta. Gli viene un conato di vomito e poi quasi contemporaneamente ridacchia, pensando a cosa farebbero se lo vedessero ora.
“Smettila”
Fa l'uomo di fronte a lui. Gli dà le spalle. Sono larghe, inguainate in una giacca blu. Sembra un uomo benestante. Ha i capelli scuri, leggermente mossi, e da dietro le orecchie si intravedono le stanghette degli occhiali. D'improvviso diventa attento ad ogni particolare.
Gli ricorda qualcuno, e poi, ha un odore familiare. Muschio. Marco sgrana gli occhi e si sente tirato dentro casa.
Matteo si volta verso di lui, rivelandogli finalmente e chiaramente il suo volto. Era esattamente come lo ricordava, a parte la giacca e la cravatta, e una piccola smorfia di disgusto sulle labbra. Labbra su cui aveva fantasticato centinaia di volte. Trattiene un conato, e si piega leggermente su se stesso.
“Vatti a sedere sul divano”
Gli dice poi Matteo, sparendo nel corridoio.
Ormai del tutto incapace di reggersi su due gambe, Marco gli ubbidisce e si lascia cadere su una poltroncina verde marcio, proprio come il muschio.
Poi si passa una mano fra i capelli e cerca di non farsi prendere dal panico.
Matteo Malaspina, il suo incubo ricorrente per cinque anni di fila. Proprio lui doveva beccarlo in locale gay a farsi slinguazzare da un perfetto sconosciuto.
Dei passi, gli stessi passi di allora, solo che stavolta sono sul parquet. Non fanno un suono così diverso dopo tutto.
Lo vede chinarsi e mettere gli occhi alla sua stessa altezza. Occhi blu come il mare, il suo mare. Lo guardano con apprensione adesso.
“Bevi”
Dice, porgendogli un bicchiere d'acqua.
Marco lo fa, se non altro per togliersi quel saporaccio dalla bocca. Ma non lascia il suo viso al di là dell'orlo del bicchiere. È magnetico, assolutamente coinvolgente, come il miele per le api. Naturale.
“Se proprio dovevi buttarti via così, avresti potuto farmi un fischio…”
Sorride Matteo e solleva la mano destra per accarezzare con la punta delle dita, l'attaccatura dei suoi capelli sulla fronte.
Marco sente lo stomaco ingarbugliarsi tutto, un po' per l'alcol, un po' per quel contatto sottile, appena accennato, ma intensissimo. Sente gli occhi farsi lucidi dall'emozione e istintivamente solleva mano, per stringere fra le sue quelle dita che tante volte si è trovato ad immaginare su di sé.
Poi fa la cosa più stupida nella lista di quelle possibili. Si sporge verso di lui e lo bacia. Percependo sotto le sue labbra, la tenera consistenza di quelle del compagno.
Sente il petto esplodere e ogni parte di sé fremere.  
Matteo sta fermo, sta fermo anche quando Marco gli avvolge il viso con le mani e scivola in ginocchio di fronte a lui, per averlo più vicino.
Per quasi dieci anni non ha avuto il coraggio di farlo, ed ora misero come un randagio, se l'è fatto dare dall'alcol.
Sente una lacrima scivolargli lungo la guancia. Si stacca leggermente dall'altro e solleva gli occhi scuri in quelli chiari e limpidi di Matteo.
“Sono patetico lo so... ma io... io non posso. Non posso. Ho Giulietta, e poi la mia famiglia...”
Si morde le labbra per fermare la disperazione. Poi china il capo. Misero, patetico Marco.
Deve andare, deve andare via subito e in fretta.
Si alza, un poco barcollante, e si dirige a grandi falcate verso la porta. Ma poi qualcosa lo blocca, stringendosi intorno al suo braccio. Si volta ed il viso di Matteo è ad un centimetro. Sgrana gli occhi e fa per parlare, ma poi è costretto a tacere. Perché lui lo bacia. E non in maniera normale, lo bacia con anni e anni di frustrazione alle spalle. Marco si ritrova stretto contro il muro del salottino. Sente le sue mani sulla schiena, sulla pancia, sulle spalle, mentre gli fa tenere la testa reclinata all'indietro contro la parete, mentre lo bacia. E Marco lo ha contro di sé, dentro di sé, e non gli fa schifo, non lo sporca, non lo contamina; è una rabbia, una forza che non nasce dal semplice desiderio sessuale. Lo sente dalla scia di baci, umidi, dolci, dolcissimi che corrono lungo la sua mascella e poi sul collo. E da come le sue mani lo stringono, lo saggiano, lo cercano ad ogni carezza. Sorride quando finalmente si ferma, abbandonando la testa sulla sua spalla con un lieve sospiro. Matteo ha le braccia ancora intorno a lui, ma non lo stringono ora, lo avvolgono e basta.
“Mi sei mancato da impazzire. E vederti appiccicato a quel pitone travestito da uomo mi ha tolto dieci anni di vita”
Dice quasi per giustificarsi. Poi chiude lo abbraccia e sospira, ancora.
“Scusa...”
Mormora poi, e lo stringe, appena, e Marco si sente invadere da un calore immenso, da un affetto immenso, mentre si rilassa, muscolo dopo muscolo, e china a sua volta la testa sulla spalla del compagno. Ed è la sua resa.

“Mi sei mancato anche tu”.

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Capitolo 3
*** O forse, nel caso, la terza. ***


O forse, nel caso, la terza.




Era stato un inverno freddo, si, freddo e spigoloso, e ne aveva fatte di cazzate in quell'inverno lì. Aveva fatto il debole e aveva messo chi amava in grande difficoltà. Ora sta meglio, ma il peso della colpa non manca di gravarlo ogni tanto. Di punzecchiarlo con le sue verità. Incrocia le braccia sul petto e chiude gli occhi. Sono le quattro di mattina. Ha venti minuti per dormire poi dovrà essere nuovamente sveglio e assolutamente presente a sé stesso, questo sempre ammesso che non si presenti un'emergenza. Marco ama il suo lavoro e ci rimetterebbe anche la salute per farlo come si deve. Ma in quel momento si sente demoralizzato e stanco. In lontananza le sirene dell'ambulanza si fanno sempre più vicine e lui sospira. Eccolo il dovere che chiama. Si solleva dal piccolo letto a castello che si incastra con un altro paio di suoi simili in una stanzetta grande a malapena per respirare. Spinge la porta e la luce lo coglie vivissima, tanto che deve coprirsi la vista con il braccio destro, facendosi penzolare davanti agli occhi il braccialetto che gli avevano dato quand'era nata Ginevra, quell'angioletto con lo sguardo vispo e l'indimenticabile sorriso di Nicola. Sono passati due anni, ma lui ancora non l'ha tolto. Gli ricorda uno dei momenti più belli della sua vita e Dio solo sa quanto ne abbia bisogno. 
Si avvicina all'ambulanza e chiede brevemente ai paramedici cosa sia successo. Gli parlano di un incidente, uno di quelli che portano tanto lavoro e tante delusioni. La barella scivola giù dalla pedana e gli sfila sotto gli occhi. In quel momento tutto intorno a lui si blocca e gli sembra di vivere ogni istante a rallentatore. C'è sangue, tanto sangue, e in mezzo a questo... Matteo. Il suo viso è perfettamente intatto, proprio come due anni e mezzo prima, quando l'aveva scosso in un paco rifiuto, nel vano tentativo di farlo ragionare. I suoi occhi pieni di dolore e incomprensione è l'ultima cosa che ricorda di lui. Adesso sono chiusi e Matteo così pallido. 
   “Che è successo?” pigola ancora, correndo insieme alla barella, le mani appoggiate ai lati di quel corpo inerme. 
   “Grave emorragia” fa un'infermiera vicino a lui. 
Marco quasi ruggisce. 
   “Questo lo vedo” sibila e l'altra sgrana appena gli occhi. 
   “Lo hanno tirato fuori dalla macchina, devono essere stati dei pezzi della carrozzeria...” dice poi più titubante. Marco scuote la testa, non gli serve sapere quella roba. 
   “In sala operatoria. Ora” fiata e socchiude gli occhi, la mano ben ferma sul suo polso e quel battito, lento, lieve, reso. 
Dura tre ore ma alla fine ce la fanno. Marco sfila i guanti e esce da quella stanza come se non potesse resistere un istante di più. Si barrica nella stanzetta e piange tutte le sue lacrime. Stringe tra le dita il braccialetto sottile e lo accarezza come se potesse in qualche modo tirare fuori un genio e cancellare quella giornata. 
Prende il telefono e scrive un messaggio veloce a Giulietta. 
Dimmi qualcosa di bello” 
Se ne sta a fissare il cellulare fino a che non riceve la risposta. Il suo volto si apre in un sorriso umido di lacrime quando gli compare davanti agli occhi il viso di Ginevra, tutta imbrattata di pappa, che scopre i dentini e lo saluta con le mani tese verso lo schermo. 
Ed è con quella serenità nel cuore che esce dalla stanza e si dirige a grandi passi verso la camera 221. Schiude la porta e si avvicina al letto. Matteo sembra sereno in quel momento, come se stesse semplicemente dormendo e non avesse ottocento tubi che gli escono da tutte le parti. Paco e riflessivo come è sempre stato, ma con il cuore di un leone e la lealtà di un cavaliere. Marco si siede sulla poltroncina e azzarda ad allungare la mano verso la sua, è appena tiepida. Lo hanno imbottito di sangue, ne aveva perso una quantità smisurata, ma ora il suo battito è regolare ed anche il suo respiro. Non si era azzardato a richiamarlo quando aveva deciso di lasciarsi alle spalle le sue paure e di vivere sé stesso nel modo giusto, quello più sincero, quando era finalmente venuto a patti con il fatto che non c'è rimedio ad una semplice realtà, bisogna accettarla ed amarla così com'è. Come la vita infondo, no? E potrà sembrare banale, ma lui ci aveva messo un'eternità a capirlo. 
Ha finito il turno Marco, eppure non si muove, china appena la testa e l'appoggia sul letto accanto a quella mano e a quel battito cadenzato e regolare, cullato da quella piacevole sensazione di sicurezza si addormenta. 
Quando schiude gli occhi è mattina, si solleva di scatto e capisce subito che quella non è casa sua, né la stanzetta. Sussulta quando incrocia l'intenso sguardo blu della persona distesa lì accanto. Matteo è sveglio, ma non parla, ha ancora un casino di tubi attaccati addosso. Prima ancora della vergogna, Marco sente il bisogno, medico e meno, di sapere come lui stia. Si mette in piedi e dà uno sguardo ai macchinari. È tutto apposto, allora si avvicina e fa la domanda di rito, così come sa essere giusto da tanto tempo ormai. 
   “Come si sente?” ma non riesce a non far tremare la sua voce d'emozione. E un po' arrossisce, ritraendosi appena, per evitare di essere troppo ovvio. 
Matteo sorride ed anche se quel gesto sembra provocargli un certo dolore è comunque meraviglioso. La sua voce esce roca, ma il suo suono è dolcissimo. 
   “Mai stato meglio”. 
Marco sente le lacrime pizzicargli gli occhi, così annuisce e si dilegua con un rapido:

  “Vado a chiamare il collega” che non aveva né capo né coda, poi si appoggia al muro poco fuori dalla porta e ride. Ride come un deficiente. Perché forse anche per gli idioti patentati come lui esiste la seconda occasione. O forse, nel caso, la terza.

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Capitolo 4
*** Non più di 5 minuti ***


Non più di cinque minuti. 


È mercoledì, quello che di solito è il suo giorno libero, ma sfortunatamente soltanto il suo. E questo lo rende un po' inutile dopo tutto. Incrocia le braccia sul cuscino e guarda imbronciato l'alta figura in vestaglia che svolazza qua e là per la stanza, con addosso solo i pantaloni del pigiama. È così sottile Matteo, alto e sottile, senza un filo di muscoli. Perfettamente intellettuale. Lui invece no, non ha abbandonato il nuoto, nonostante sia passato in secondo piano rispetto alla medicina. L'amore più grande aveva vinto, vinceva sempre alla fine. E sorride appena a quel pensiero, facendosi luccicare gli occhi di soddisfazione. Matteo a quella vista si blocca, la camicia appena abbottonata e la cravatta ancora penzolante intorno al collo. 
  “Che succede?” e lo fissa con gli occhi chiari semi dischiusi. Marco tace, si gira su se stesso e si stiracchia. Facendo buona mostra di quel petto, così possente, eppure così armonico, che s'era fatto con gli anni. Il lenzuolo gli arriva ai fianchi e lo sguardo di Matteo si blocca lì. 
“Fermati adesso” gli ordina perentorio e poi sparisce nell'altra stanza. Marco sbuffa, imbronciandosi appena. 
   “Ma ci devi proprio andare? Secondo me saremmo tutti molto più contenti se tu restassi qui”. 
E ciò detto scivola fuori dal letto, arrivandogli alle spalle in una mossa assolutamente sleale, avvolgendogli la schiena con le braccia, mentre appoggia la testa sulla sua spalla. Si guardano riflessi nello specchio del bagno. 
   “Ci devo proprio andare” mormora l'altro, ora un poco meno sicuro. Marco chiude gli occhi e inspira. Niente più muschio, al quindicesimo vasetto che spariva misteriosamente da casa, Matteo aveva deciso di optare per un altro aroma. 
   “Lo sai che i miei studenti non possono vivere senza di me” - sorride fra le parole Matteo e poi si volta, abbracciandolo a sua volta - “sii buono e aspettami” e ciò detto si china e lo bacia. Un bacio lungo e pieno di un sacco di allettanti promesse. E poi c'è Marco, notoriamente il tipo più paziente del pianeta, che se lo stringe addosso in un chiaro 'o adesso o niente'; ma la risata roca e morbida che gli arriva dritta sulle labbra, lo convince che questa volta non l'avrà vinta. Infatti Matteo si allontana e scuote il capo, sempre quel maledetto sorriso sulle labbra, tutto sesso e cannella. L'altro annuisce e manda gli occhi al cielo, incrociando le braccia sul petto. 
  “A dopo allora” - e solleva un sopracciglio - “buona lezione, prof” conclude poi, entrando nei pantaloni del pigiama con un paio di gesti che nel complesso appaiono come un movimento solo. Poi grattandosi il retro del capo, scompare ciondolante in salone. 
Matteo è ancora settato su quel 'prof'. Detto in quel modo e sa perfettamente che ogni sacrosanta volta in cui qualcuno dei suoi studenti lo chiamerà così in quella maledetta giornata, sarà come ripetere il sacrificio. Ogni. Dannata. Volta. Sospira, afferra la valigetta ed esce dalla stanza. Solo per trovarsi davanti Marco seduto sulla credenza con i piedi ciondolanti e la bocca piena di biscotti. Quando lo vede, solleva gli occhi blu si di lui e finge una certa indifferenza, come se non lo sapesse, lui, di essere la sua orrenda droga. Da sempre. Matteo sospira ancora e lascia cadere la valigetta. 
   “Non più di cinque minuti”.

 

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