Hastral vol. 1

di ArtistaMaeda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: La Scomparsa di Deon S. Hathaway ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Paura ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: La Scomparsa di Deon S. Hathaway ***


Capitolo 1:

La scomparsa di Deon S. Hathaway



 

Un gran boato giù per le scale. L’atterraggio sul pianerottolo fu doloroso, ma si rialzò, doveva farlo; il panico di fuggire dal suo assalitore gli fece ignorare qualsiasi dolore fisico. Ma non aveva scampo. Una volta alla porta d’ingresso del cottage ci si spalmò addosso, incapace di aprirla. Era convinto di averla lasciata aperta, eppure stasera era chiusa. Si girò a cercare la chiave con lo sguardo, ma aveva troppa paura di staccarsi dalla porta per andare a frugare in giro, e poi vide l’ombra di quel maniaco che stava per scendere le scale. Il panico diventò più forte e scappò in cucina, chiudendocisi dentro.

Respirava in affanno come se avesse corso 10 km e si teneva il braccio che gli faceva male. Cosa poteva fare? Fuggire dalla porta del retro, ma certo! Nel momento in cui si girò per accedere alla porta, si ritrovò davanti il suo incubo. Gocciolava acqua piovana dall’impermeabile scuro, inondandogli il pavimento della cucina, ma non era quello che preoccupava l’uomo, bensì l’acuta emicrania che gli riempì immediatamente la testa non appena posò lo sguardo sul volto dell’assalitore. Pian piano l’uomo si ritrovò a soffocare con i piedi che levitavano da terra, e non poteva fare niente, solo sentire la vita scivolare via da lui. Esalò l’ultimo respiro, poi i suoi arti inferiori smisero di dimenarsi e rimase appeso come un prosciutto a dondolare lentamente dal soffitto, appeso a una corda.

 

Il sole entrava dalla finestra della cameretta. Il ragazzino aprì gli occhi pigramente, ma poi, un po' per il piacere dei raggi solari sul volto, un po' ripensando a ciò che aveva in mente di fare oggi, trovò l’energia di alzarsi dal letto con brio. Si mise addosso un paio di jeans, una maglietta, un paio di converse, e via di fretta fuori casa, per strada, Rue du Marché, già in fermento con il traffico della tarda mattinata, il mercato, i negozi. Entrò dalla fioraia di corsa, sfruttando la porta sempre aperta, più simile ad un cancello di piante e fiori che a una porta. Si fermò dentro, un posto non molto illuminato, ma decisamente verde. Era una pianta in particolare ad attirare la sua attenzione: una Dieffembachia. Carezzò le sue foglie con delicatezza e amore. La fioraia gli apparve alle spalle e lo spaventò. Lei rise.

“Ti piace questa pianta, eh?”

Lui la fissò da prima intimorito, ma poi sorrise anche lui, imbarazzato.

“Eri venuto qui per questa? O volevi prendere anche qualcos’altro?”

Il bambino si girò a guardare la pianta, e poi cercò con lo sguardo altrove. La fioraia guardò dove guardava lui. Fiori.

“Ah. Ho capito. Volevi dei fiori. Che fiori ti servono?”

La fioraia fece strada all’angolo dei fiori. Ce n’erano di ogni tipo e fruivano della luce diretta del sole dalla finestra. Il bambino li adocchiò sistematicamente con attenzione, e poi si soffermò sui tulipani. Alla fine si decise e puntò questi ultimi con l’indice.

“Questi?”

Lui annuì.

“Ti faccio un mazzo?”

Lui annuì di nuovo.

“Non parli molto, eh?”

La fioraia sorvolò la mancata risposta e decise di fare per conto suo. Gli impacchettò un mazzetto di 6 tulipani e il bambino la pagò con una manciata di monete, tutti pezzi da 1 euro ciascuno. Mentre la fioraia contava i soldi, il bambino già stava uscendo.

“Non vuoi la pianta?”

Lui si girò e le sorrise con più calma e agio.

“Ho capito. La prossima volta.”

Il sorriso del bambino si ampiò, poi uscì senza neanche salutare, e corse via continuando sul marciapiede della Rue, tra i vari negozi, facendo lo slalom tra la gente.

E di tutti i posti che un bambino poteva scegliere, il Celtic Pub…

Entrò nell’angusto, buio, locale con disinvoltura, ma poi si fermò a guardarsi intorno, alla ricerca di qualcosa, o di qualcuno. I clienti lo aggirarono infastiditi, chi entrava chi usciva. Uno di loro lo superò spingendolo sgarbatamente, e per poco il ragazzino non finì dritto per terra. Lo scatto attirò l’attenzione della barista, che subito gli lanciò contro un bercio.

“Te l’ho già detto, Puffo Sbiadito: i Puffi Sbiaditi non sono ammessi qua!”

Il cosiddetto Puffo si ricompose e sorrise timidamente all’affascinante barista dallo sguardo troppo severo, si avvicinò al bancone osservandola indaffararsi a servire i clienti, tra birra, caffè, e ordinazioni per piatti caldi. Il Puffo non arrivava a vedere sopra al bancone, pure sulle punte dei piedi, ma la barista poteva vedere la sua manina far leva per sollevarlo, e la sua testa rasata quasi a zero. Con un sospiro infastidito si prese un altro momento per rivolgersi al bambino.

“Sei proprio un rompicoglioni! Perché non te ne vai a giocare con quegli altri rompicoglioni dei tuoi amici? Eh?”

Il bambino le sorrideva timidamente e basta. Non una parola. Solo i suoi occhioni blu oceano. Ed il mazzo lasciato penzolare verso il pavimento. Già alcuni petali di tulipano si adagiavano sulle mattonelle.

Poi sbucò fuori lei.

“Oh! Meno male, pensaci tu, Jam!” disse la barista.

Jam, brunetta dall’aria saccente e sveglia, sbucò appunto fuori dal retrobottega, avvicinandosi al bancone, e interpellata dalla barista buttò lo sguardo sulla testolina del bambino e subito lo riconobbe e alzò gli occhi al cielo. Senza pensarci due volte, fece il giro del bancone e si pose davanti al bambino, già alzando l’indice e prendendo fiato per rimproverarlo. Ma lui l’anticipò, sollevando proprio in quel momento il mazzo di fiori davanti a lei, facendosi quasi scudo con esso, così che lei non potesse vedere altro. Dovette scansarlo e far capolino con la testa da dietro di esso, imbarazzato com’era. Ma si fece coraggio di sbirciare il volto di Jam, e la trovò ancora sorpresa. Quando i loro sguardi si incrociarono, però, Jam rilassò il proprio volto in una via di mezzo tra un’espressione infastidita e un sorriso grazioso. Era combattuta, si vedeva. Infatti cedette quando la barista sbuffò e fece finta di non vedere.

“Dìon! Adesso anche i fiori? Che ci devo fare con questi?”

Il sorriso si ammosciò. Jam prese il mazzo dalla manina di Deon e lo abbandonò sul bancone. Poi posò la mano sulla spalla del bambino e lo accompagnò ad un tavolo nell’angolo, dove potevano stare in pace.

Gli servì un piatto di patatine appena fritte ed una lattina di coca. Lui ne mangiò metà, poi si sentì troppo affaticato per continuare, così si attaccò alla coca.

“Ho già parlato con tuo padre” disse lei.

Lui si congelò, e la coca in bocca lo solleticò al punto di fargliela sputare inavvertitamente. Si asciugò la bocca con il polso e usò il tovagliolo che gli aveva dato Jam per asciugare la coca sputata sul tavolo. Lei lo osservò infastidita.

“Non puoi stare qui. Deon. È un posto per gente grande. Non è un posto per giocare. E tuo padre è d’accordo con me.”

Lui la guardava con ammirazione, ma non negli occhi, bensì addosso, il corpo snello, compatto, le mani, affusolate, leggermente grinzose e callose, forse dall’utilizzo di attrezzi e detersivi, la bocca, carnosa e lucida, la faccia, ovale al punto giusto, i capelli, scuri, ben curati, e quel piccolo neo al lato dell’occhio sinistro. E gli occhi, alla fine si soffermò sugli occhi, e lei pensò che finalmente le stava prestando attenzione.

“Sù. Non costringermi a chiamare tuo padre. Vai al parco o cose così… È domenica, porca miseria, troverai sicuramente qualche amichetto con cui giocare, no?”

Ma Deon si era già perso negli occhi neri intensi di Jam e non dava segno di voler comunicare. Alla fine Jam si spazientì e si alzò.

“Va bene, Deon. Non mi lasci altra scelta, dovrò chiamare tuo padre.”

Lo disse in maniera scoraggiata, e rimase ad attendere un’eventuale reazione da parte di Deon, ma non ci fu, perciò procedette per il retrobottega, lasciandolo da solo al tavolo. Tornò in sala esattamente 30 secondi dopo e, come si aspettava, non ce lo trovò.

 

Si perché l’intera cittadina di Locquirac, Bretagna, era oggi il suo parco giochi. E se pur solo, sapeva divertirsi. Tornò a casa, prima. Cercò in giro ma non trovò nessuno. In camera il letto era ancora fatto. In cameretta invece fece un pit-stop tattico. Si infilò una cintura alla quale aveva appiccicato con lo scotch una miriade di batterie tipo C, tutte Duracell. Poi si allacciò un ciondolo fatto con spago nero e una singola ma grossa conchiglia striata. Si mise addosso una simpatica borsa tracolla colorata e si prese cura di infilarci dentro il diario segreto sul quale aveva scritto “Jetwish” con un indelebile. Infilò nella borsa anche le due walkie talkie gialle e nere. Poi uscì fuori di casa a corsa.

Prese le vie dei campi, incontrando qualche contadino per strada, un trattore, persino un gregge di pecore. Corse sopra il ponticello che attraversa il canaletto, e poi tornò verso il paese, ma si fermò sulla collina, per godersi il panorama del borgo che sembrava uscito dal 1300.

Rientrò al paese dalla parte opposta e raggiunse la spiaggia. Era visibilmente stanco, ma non si fermò, s’arrampicò su per la scogliera sfruttando un sentiero poco sicuro che conosceva bene e una volta in cima, abbandonò la borsa in un angolo, e si affacciò su quel balcone naturale per sbirciare di sotto. L’oceano Atlantico era in subbuglio, la marea rientrata, le onde energiche e affamate di terra. Si suicidavano contro le rocce nude della scogliera, con tanta violenza da sollevare soffioni di goccioline minuscole che riuscivano a risalire la scogliera fino ad arrivare alla sua faccia.

Dopo la gita al mare, Deon tornò in paese e alla fine si ritrovò effettivamente ad andare al parco. Passeggiò lungo i viali, godendosi i rumori della natura, i ticchettii delle biciclette, l’abbaiare di qualche cane, e le voci lontane dei bambini che giocavano. Si sdraiò su uno dei prati, al sole pomeridiano, per riprendersi dagli sforzi. Qualcuno gli buttò gli occhi addosso per il bizzarro abbigliamento, ma Deon non si preoccupava degli occhi altrui. Tranne che di quelli impertinenti e smeraldi di una certa bambina dai capelli rossi che da un po' gli ronzava intorno, incuriosita. Lui si alzò a sedere per buttarle gli occhi addosso, e lei fece finta di niente, camminando apparentemente senza meta o interesse, giochicchiando con una delle due trecce ordinate e curate. Poi si girò, e i loro sguardi s’incrociarono, ma ciò che colpì poi Deon furono le lentiggini del volto della bimba. Sgranò gli occhi piacevolmente sorpreso. La bambina ne era ricoperta tanto quanto Deon. Erano compagni di efelidi. Lei, sempre più incuriosita, si avvicinò, per osservare meglio quella strada cintura di batterie. Deon si alzò in piedi e lei si tirò indietro intimorita. Poi prese più confidenza e si pose davanti a lui, sempre facendo attenzione a non infastidirlo. Lui restò a guardarla, lasciandola fare. Alla fine lei riuscì a esaminare con calma le varie batterie della cintura, il nastro adesivo con il quale erano state fissate, tanto nastro adesivo. Gli camminò intorno, esaminando anche il resto del coetaneo, facendo nota mentale dei vari elementi bizzarri ma interessanti. Tornatagli davanti, la rossa si focalizzò sul ciondolo di conchiglia sul petto di Deon. Affascinata, allungò l’indice con titubanza, mentre Deon soffriva di imbarazzo. Alla fine la rossa strinse la mano intorno alla conchiglia ed esplose in un enorme sorriso soddisfatto.

La bambina poi prese a camminare abbastanza svelta. Deon rimase lì a guardarla, ma poi lei si voltò e fece gesto a Deon di seguirla. Lui ci rimuginò un paio d’attimi, ma poi le corse dietro e camminarono fianco a fianco lungo il viale. Deon, stufo di tenere la testa bassa per l’imbarazzo, provò a guardarla, ma trovò i suoi vispi occhi verdi in agguato, così spostò lo guardo sulla treccia di capelli più vicina a lui e stavolta fu il suo turno di toccare. Si fermarono. Deon le carezzò i capelli. Poi, d’un tratto, la rossa afferrò la propria treccia e la gettò addosso alla faccia di Deon, solleticandolo. Lui rise imbarazzato e si scansò. Si studiarono a lungo, come due duellanti pronti a combattersi all’ultimo sangue. Chi avrebbe fatto la prossima mossa? Lui o lei?

Lei fece la finta. Come a volerlo spingere, e Deon ci cascò. Allora Deon le si avvicinò di nuovo come per stringerla, ma lei si scansò, camminando all’indietro. Sembravano fringuelli in danza. Incuranti della sera che scendeva.

All’improvviso la bimba tastò la spalla di Deon e cominciò a correre. Deon le corse dietro per prenderla ma la gazzella cambiava direzione repentinamente. Faticò a starle dietro, così abbandonò la borsa senza cura in mezzo al prato e la seguì lungo il viale, fino a tornare in Rue du Marché. Rovesciarono uno scaffale di frutta fuori da un negozio e finirono addosso alla gente, ma continuarono a correre comunque. Rubarono una spada giocattolo ciascuno per giocare a duellarsi per strada, con le auto che suonavano loro contro, e poi le lanciarono via e corsero ancora, fino a Rue des Tanneurs, passando sul ponticello del canale. Il fiatone e la stanchezza furono ignorati in favore di una scalata della fontana nella piazzetta. Si schizzarono con l’acqua torbida della vasca della fontana, e poi alla fine Deon si decise ad acchiappare la rossa, afferrandola per la vita, e finirono uno addosso all’altro contro il muro di un vicoletto, con un micio randagio che scappò via per lo spavento, rovesciando un sacchetto dell’immondizia.

Restarono a fissarsi con i volti a distanza di bacio mentre si riprendevano dal fiatone. Poi Deon si scansò e si guardò addosso. Guardò lei. Erano bagnati a chiazze. La maglietta e i jeans di lui, il vestitino azzurro di lei. Davanti a tale spettacolo, i due bambini scoppiarono a ridere di gusto e finirono per abbracciarsi, ridendo, come amici di vecchia data.

Rientrò in casa proprio quando si accesero i lampioni. Era ora di cena, lo sentiva dai gorgoglii del suo stomaco. Una volta in casa cercò di nuovo qua e là, ma la casa era ancora vuota. Aprii il microonde ma era vuoto anche quello. Si guardò intorno mentre rimuginava. Poi si guardò addosso e decise che, nel frattempo che aspettava di cenare, avrebbe potuto per lo meno darsi una sistemata. Entrò nel bagno e si tolse la maglietta. Mentre si slacciava le scarpe non fece caso dapprima alla lampada del bagno che lampeggiò come a voler fallire da un momento all’altro. La seconda volta che lampeggiò, Deon ci fece caso e si congelo sullo sbottonare i pantaloni, con lo sguardo verso la lampada. La fissò con il sopracciglio alzato, curioso e sospettoso, e poi quando il bulbo brillò più forte del solito, Deon sollevò una mano per farsi scudo dalla luce, che continuava comunque ad oscillare tra lieve e forte.

La situazione precipitò quando Deon sentì un rumore lontano ma poco promettente, come un rantolo. Il cuore prese a battere veloce e anche il respiro crebbe. Il rumore doveva venire da fuori il bagno, così, tremando, allungò titubantemente la mano alla maniglia e la girò, aprendola. La luce del bagno cessò all’istante, mentre si accese quella del corridoio, ben oltre le sue capacità, illuminandolo a giorno, ma la luce non arrivò su Deon, rimasto nell’ombra di un colosso che gli si parava davanti. Deon restò immobile a guardarlo, ma poi si rese conto che non si trattava di suo padre, perciò cominciò a gridare…

 

“Ciao Cleo”

“Giorno, capo”

Jam sbucò fuori dal retrobottega con una sigaretta tra le labbra ancora non accesa. Recuperò l’accendino proprio dal retrobancone dove Cleo preparava i caffè, e la accese, ignorando palesemente il cartello del divieto di fumare alle loro spalle.

“Hai già fatto i carichi per oggi?” chiese Jam.

“Sì, già fatto tutto. Stamani è stata tranquilla”

“Ah, bene. Meno male. Non avevo voglia di fare un cazzo” ridacchiò Jam.

“A parte quello che dice il giornale...” disse in maniera disinteressata ma provocatoria Cleo.

Jam si voltò a guardarla, incuriosita e sospettosa.

“Che intendi?”

“Leggilo. È lì” con un cenno della testa, Cleo indicò il giornale sul bancone. Jam sorpassò la barista per andare a recuperarlo.

“Parla del babbo del tuo fidanzatino”

Jam afferrò il giornale piegato mentre rispose alla barista.

“Fai meno la simpatica, Cleo, o ti spedisco in Egitto”

“E dove la trovi poi una che ti sopporta?”

Jam aveva il sorriso complice, pronta a ribattere alla barista, ma ormai aveva già buttato lo sguardo sull’inserzione in prima pagina:

 

Padre si impicca in cottage di famiglia

 

Jam rimase sbigottita a fissare l’inserzione. Poi, insazia, spalancò il giornale e cercò l’articolo intero. Quando lo trovò sistemò il giornale nel suo intero sul bancone, fregandosene di rubare posto ai pochi clienti presenti.

“Così magari se lo affidano a qualche servizio, ce lo togliamo di torno quel nanerottolo” commentò Cleo servendo una birra. Jam la fulminò con lo sguardo, poi, ancora insoddisfatta, si portò via il giornale goffamente e sparì in retrobottega.

Più tardi suonò il citofono del portone 11 in Rue du Marché. Suona, suona, suona. Nessuna risposta. Con il cellulare compose un numero…

“Pilar! Ascolta!”

Cercò di non litigarci ma fu difficile.

“Lasciamo perdere quella storia, OK? Ne parliamo un’altra volta, ti volevo chiedere una cosa urgente!”

Alla fine riuscì a farsi ascoltare.

“Sai mica dove ha il cottage, Hathaway, il babbo di Deon? Deon! Il ragazzino che viene sempre al Pub? Sì, lui. Dove? Ahahn… OK. OK, grazie, Pilar.”

A quel punto cercò di chiudere frettolosamente la telefonata nonostante Pilar provasse a tenerla al telefono.

Una volta ottenuto quello che voleva, Jam si mise alla guida. Uscì dal paese. Procedette per le fattorie. Alla fine trovò il cottage di Hathaway, lungo la via alberata Rue des Fleures, ma non poté neanche entrare nel vialetto perché una volante della Gendarmerie ne bloccava l’accesso. In un sospiro, Jam parcheggiò sul ciglio della strada e scese dalla spider. Si avvicinò alla volante dove un agente stava prendendo appunti con il quaderno sul tettino, nel frattempo che teneva a bada i due unici vicini degli Hathaway, un uomo e una donna in carne, che abitavano un centinaio di metri più avanti.

“Hey Maurice!”

Jam interpellò il gendarme. Lui le si rivolse infastidito.

“Jamael! Che ci fai da queste parti? Non ti facevo tipo di campagna…”

Ah, Ah, divertente. Cos’è successo qua?”

“Non hai letto il giornale stamani?”

Maurice adocchiò i due vicini e poi puntò la penna distrattamente verso il cottage, nel cui vialetto era parcheggiata un’altra volante, un furgone, e un uomo grassoccio stava uscendo proprio ora dalla porta d’ingresso assieme ad un collega smilzo.

“Hathaway s’è impiccato. Il medico legale ha detto che probabilmente l’ha fatto l’altro ieri”

L’altro ieri?

Il gendarme annuì disinteressato e con ironia. I vicini erano preoccupati e Jam cercò di contenere lo sbigottimento. Si mise le mani sulla pancia, come se stesse avendo dei contorcimenti di budella.

“Tutto apposto, Jam?”

“Sì, sì. Soffro un po' d’ansia, con lo stress”

“Beh sì, immagino. Con la gentaccia che gira al pub…”

Jam lo fulminò poi sentì la voce del commissario e così superò il gendarme e la sua volante per incrociare l’uomo grassoccio, ignorando l’ordine — intimato più ad avvertimento — del gendarme di non procedere oltre.

“Commissario!”

“Jamael. Non ho tempo di parlare del—”

“No, commissario, non si tratta della sparatoria”

“Allora mi lasci passare, ho da tornare a Plestin”

Il commissario si fece strada oltre Jam con prepotenza, ma lei gli si affrettò dietro, arrivando alla sua volante.

“Si tratta del figlio di Hathaway”

Il commissario si bloccò e si girò a guardare Jam, improvvisamente interessato.

“L’avete trovato?” chiese lei. Jamael aveva paura di sentire la risposta, già la anticipava. Il commissario la tenne sulle spine, sicuramente pensava a cosa dirle e cosa no, ma per Jamael fu una vera e propria tortura. Alla fine il commissario disse la sua.

“No. Abbiamo ragione di pensare che sia scappato. L’ha già fatto in passato, no?”

“Sì, l’anno scorso… In Inghilterra”

Jamael era evidentemente scossa. Il commissario tirò un sospiro e aprì la portiera dell’auto.

“Senta, Jamael. Se ci tiene tanto al ragazzino, mi faccia sapere se scopre qualcosa, e se si presentasse da lei, mi chiami subito…”

L’uomo s’infilò nell’abitacolo, e poi allungò un braccio per passare a Jam il suo biglietto da visita. Jam lo prese e gli diede un’occhiata, rimuginando però ad altro.

“Probabilmente è solo scappato dopo essere rimasto scioccato. Lo troveremo, stia tranquilla”

Jamael rispose con un sorriso forzato e poi osservò l’uomo mettere in moto e fare manovra per uscire, dovendo coinvolgere il collega per farsi fare spazio per uscire.

Tornata al Pub, Jam ignorò Cleo al bancone e andò direttamente nel retrobottega. Cercò a lungo, facendo un discreto baccano, e poi tornò in sala con un borsone pieno di quotidiani vecchi. Lo poggiò su uno dei tavoli e cominciò a tirarli fuori uno ad uno. Lanciò solo brevi occhiate ad ognuno, non interessata a leggerli. Dopo un po', Cleo si prese un attimo di pausa per aggirare il bancone e avvicinarsi al tavolo, incuriosita dal fare strano di Jam.

“Capo, che stai facendo? Sei finalmente sbroccata del tutto?”

“Sta’ zitta, Cleo!”

La lasciò senza parole.

“Se non hai intenzione di aiutarmi, levati dai piedi”

“OK. Cos’è che cerchi?”

Jam continuò a passare in rassegna ogni quotidiano, e rispose distrattamente.

“Un vecchio giornale inglese che sono sicura di… Aver messo qui… Da qualche parte…”

“Ma quale, quello dove il Puffo Sbiadito quasi quasi ci lasciava la pelle?”

Cleo ottenne la piena attenzione di Jam.

“Non l’hai messo in quel casino. Te lo dico io. Da come ne parlavi, c’avrai fatto una cornice da appendere al muro”

Jam fece una smoria infastidita e si alzò, abbandonando la pila di giornali, e se ne andò via dal locale. Cleo rimase lì a sua volta infastidita di dover rimettere a posto.

 

“Che vuoi dire, sparito?”

La voce di lui era sempre stata rassicurante e lo era anche adesso. Jam tirò un sospiro di sollievo mentre si sistemava sul divano, con le chiavi ancora in mano. Il gatto non aspettava altro che salirle sulle cosce, e lei non fece nulla per impedirglielo, già stanca come fosse sera.

“Matt! Era nel pub solamente ieri a pranzo! Secondo il medico legale, Hathaway era già morto. Quindi… Deon è sparito tra ieri pomeriggio e stamani. Non s’è presentato a scuola”

“I poliziotti che dicono?”

“Il commissario dice che sarà sicuramente scappato dallo spavento”

“Beh, mi sembra una cosa plausibile, no? Vedrai che spunterà fuori. Deon è il tipo che se ne va in giro, lo sai pure te meglio di me”

Matt si sedette accanto a Jam e le infilò il braccio dietro il collo.

“Lascia che se ne occupino loro. Sei già abbastanza stressata di tuo. Loro sanno quello che fanno”

“Sì, hai ragione”

Jam e Matt si rilassarono sul divano per un po'. Poi, mentre Matt scaldava un caffè, Jam rovistò nel ripostiglio.

“Cosa cerchi?”

“Niente…”

“Jam!”

“Sto cercando un giornale inglese”

“Ma ancora con la storia di Deon?”

“No, No!”

Jam fece un gran baccano nel ripostiglio, ma alla fine riemerse con il bottino tanto bramato. Lo schiaffò sul tavolino in cucina e Matt le servì il caffè, poco contento di aver a che fare con una donna persa nel suo mondo.

“Cosa stai cercando?”

Nessuna risposta. Ma Jam alla fine trovò quello che cercava, e Matt fece il giro del tavolo per leggere bene anche lui, incuriositosi.

“’Scompare bambino dopo gita al mare’”

Jam si sorprese che Matt stesse a sua volta leggendo, così lo adocchiò e poi continuarono entrambi a leggere. Matt ad alta voce.

“’Deon S. Anderson, 7 anni, è scomparso ieri nei pressi della spiaggia di Cam Towan, durante una gita con i genitori adottivi Amanda e Thomas Anderson. Le autorità hanno avviato una ricerca della zona e la guardia costiera si è impegnata a setacciare le acque che bagnano il paese, le ipotesi per il momento sono molte, bla bla bla…’”

“’Il sergente Paul O’Neil, della forza poliziesca bla bla bla, ha suggerito che potrebbe essere annegato dopo una caduta dalla scogliera…’”

Entrambi si guardarono preoccupati.

“’I coniugi Anderson hanno completato le pratiche dell’adozione soltanto lo scorso Maggio; Amanda, la madre adottiva, ha raccontato alla stampa, in una maschera di lacrime, i problemi con il matrimonio e la battaglia per l’affidamento di Deon’”

Matt si fermò. Prese fiato, e si rivolse a Jam con confidenza.

“Ma tu le avevi lette tutte ‘ste cose?”

“Sì, ma giusto così, velocemente. Quando è successo, cos’era, l’anno scorso? Me lo disse Luc, che lo sentiva più spesso di me, e allora presi il giornale”

“’O’Neil non ha escluso la possibilità che il bambino possa riapparire di sua spontanea volontà.’ Vedi? Non è detto. Potrebbe rifarsi vivo.”

 

“Sofie! Dove l’hai presa quella?”

La bimba roscia, beccata in flagrante con una radiolina gialla e nera tra le mani, alzò lo sguardo verso la madre, rossa anche lei, e con occhietti innocenti le rispose che gliela aveva data un suo amico.

“Come si chiama il tuo amico?”

Sofie non rispose, sorrise soltanto, imbarazzata.

“Ho capito… Non gliel’hai chiesto, eh?”

Sofie voleva ridere, ma si trattenne, stringendo invece la radiolina come fosse un peluche.

“La prossima volta chiediglielo. Non è bello essere amici di una persona che non sai come si chiama”

Sofie strinse le labbra tra loro in una smorfia e annuì, e la mamma la lasciò stare. Poi si concentrò di nuovo sulla radiolina e la accese. L’aggeggio cominciò a gracchiare di tanto in tanto. Interferenze forse.

“Valkyrie! Valkyrie! Sei lì? Come funziona questo coso?”

 

Qualcosa gracchiò. Non era vicino ma non era neanche lontano. Deon aprì gli occhi. Aveva freddo ed era buio ed umido. Non era per niente un bel posto quello, puzzava di polvere e di abbandono.

Qualcosa gracchiò di nuovo. Deon gemette. La paura saliva man mano che lui riprendeva i sensi. Non fece in tempo ad arrivare al panico, però, perché riconobbe il fruscio della radiolina. Dov’era, però? Non era certo in vista, riusciva a vedere solamente una stanza di medie dimensioni, sgrombra, quattro mura semplici, cementate, fredde e squadrate, un ambiente per nulla ospitale o familiare, più una prigione, senza finestre né porte. Il fruscio andava e veniva, ma Deon non sapeva dove guardare.

“C’è nessuno?”

La sua voce riecheggiò tra le mura in una maniera atipica che gli ghiacciò il sangue. Era come l’eco venisse assorbito al primo rimbalzo, come se le mura si nutrissero della sua voce.

“C’è nessuno?”

Era fastidioso parlare, sentire quel lugubre effetto di riverbero. Decise di tacere. Passeggiò intorno alle mura. Dopo tre angoli, finalmente trovò il primo dettaglio di spicco: una grata. Sembrava robusta abbastanza da resistere alla forza di un bambino come lui, ma di sicuro, se fosse riuscito nell’impresa di aprirla, o sfondarla, sarebbe potuto passare di lì. Si accovacciò per sbirciare attraverso la grata. Si trattava di una serie di alette di metallo orizzontali orientate verso l’alto, dalle quali filtrava aria viziata dalle viscere del muro. Oltre le alette riusciva a malapena a mettere a fuoco una seconda grata di metallo, una vera e propria rete che mai avrebbe potuto sfondare. In un sospiro si scoraggiò e si lasciò scivolare a sedere, cominciando a singhiozzare.

“Valkyrie!”

Stavolta riuscì a sentire bene la radiolina. Era una voce femminile di sicuro. Giovane. Un coetaneo? Si alzò in piedi.

“Sofie!”

Esultò poi. Si guardò intorno, impaziente, ma non sentì più niente.

“Sofie?”

Restò lì in attesa per un po', ma poi si lasciò scivolare di nuovo a sedere a piagnucolare. Non aveva finito di esaminare la stanza, però. Gli mancava un angolo. Per distrarsi dalla tristezza e dalla paura decise di farlo adesso, così si alzò e procedette quasi al buio fino a trovare il muro. Lo scandagliò e trovò una porta. Girò la maniglia ma non c’era niente da fare, era chiusa a chiave. Provò a forzarla tirandola a sé ma non aveva lontanamente la forza necessaria. In un sospiro si scansò dalla porta e tornò a sedere al centro della stanza. Quando si calmò, e scese il silenzio, cominciò a sentire strani rumori che lo facevano spaventare.

“Non è reale” si disse. Poteva sembrare un grosso ragno che correva sul pavimento, o solo la sua fobia che gli metteva ansia. Oppure i rantoli nel muro. Anche quelli lo mettevano in paranoia. Provò a non pensarci e si rannicchiò in posizione fetale.

 

Spazientita, Sofie spense la radiolina e la ripose nel cassetto vuoto del comodino. Aveva i compiti da fare, ma la sua mente vagava fuori dalla finestra, i suoi pensieri altrove. Aveva provato ad abbellire la stanza con una foto sul comodino, ma rimaneva ancora troppo spoglia per sembrare la cameretta di una bambina.

Stufatasi di fare i compiti, poi, Sofie uscì fuori a giocare nel cortile. Si sedette sull’altalena ma non riuscì a trovare la voglia di spingersi con energia, così si lasciò dondolare mentre rimuginava.

“Dai, vai a giocare con tua cugina!” disse la mamma di Sofie al ragazzino, che si avvicinò all’altalena.

“Hey!” s’introdusse lui, ma Sofie non lo considerò.

“Vuoi giocare?” chiese lui, sedendosi al seggiolino accanto. Lei gli lanciò un’occhiata, ma poi fece no con la testa, visibilmente disinteressata. Lui si scoraggiò e sospirò, e la mamma di Sofie tornò in casa.

D’un tratto, Sofie si sporse sulla spalla del cugino per bisbigliargli.

“Didier! Mi serve il tuo aiuto!”

 

Sofie suonò per l’ennesima volta al portone 11 di Rue du Marché, sotto “Frostera” ma nessuno rispose né aprì il portone.

“Non c’è, dai!”

“Aspetta!” insistette Sofie.

Suonò ancora, ma nessuno venne mai a rispondere o aprire il portone.

“È ovvio che non c’è” disse Didier.

Sofie era abbattuta, ma poi prese coraggio di nuovo.

“Che vuoi fare?” chiese Didier.

“Proviamo casa sua!”

“Ma io pensavo che fosse questa casa sua!”

Sofie fece strada sul marciapiede di Rue du Marché. Si stava per far sera.

“No, qua ci sta la nonna. Deon sta fuori a Rue des Fleures, è un cottage”

“Rue de che?”

“Tu segui me”

Camminarono fino al tramonto e alla fine arrivarono al cottage. Una volante bloccava il vialetto e il gendarme faceva la guardia nell’abitacolo. Sofie e Didier si nascosero dietro il tronco di un albero. Sofie tirò fuori la radiolina e la accese.

“Lo stanno già cercando, non hanno bisogno di noi! Meglio se torniamo a casa o ci mettono in punizione”

“Shhh!” ordinò Sofie, tutta presa dalla radiolina. Attese il silenzio del cugino e poi prese parola.

“Valkyrie, sei lì? Valkyrie! Mi ricevi? Passo!”

Didier la osservò scettico ma incuriosito allo stesso tempo. Attesero impazienti entrambi ma nessuna risposta arrivò. Didier sospirò, ma Sofie non si diede per vinta e riprovò sul prossimo canale.

“Ma quante volte devi prova—”

“Shhh!”

Sofie posò l’indice sulle labbra. Didier stavolta capì.

“Valkyrie! Ci sei? Sono Chiomarossa! Rispondi!”

Continuò a provare su tutti i canali.

“Ma quanti ce ne sono?” chiese Didier.

“Otto”

Didier sbuffò.

 

Deon aprì gli occhi. Aveva di nuovo sentito quel rantolo strano provenire dai muri, ma non sapeva dove collocarlo esattamente. Si alzò e passeggiò in tondo alla ricerca del suono. Poi, all’improvviso, qualcosa gridò nella stanza, tanto vicino da sembrargli accanto a lui, e di riflesso anche Deon urlò, più per il fastidio della voce stridula e per la sorpresa che non per la paura. Non aveva ancora idea di cosa fosse. Il grido cessò e anche Deon tacque, con il fiatone e il cuore in gola. Accortosi dell’improvviso silenzio, decise di trattenere il fiato quanto poteva, per riuscire a sentire meglio. In effetti poteva sentire dei passi, ma chi poteva esserci lì con lui? La stanza era praticamente blindata e aveva già controllato, era vuota. Poi ci arrivò… La porta. Le mani alla bocca, sbigottito, inorridito. La paura era salita e si era fatta sentire. I passi si facevano sempre più vicini. Si aspettava di sentire la porta venir abusata in qualche modo, e infatti sobbalzò quando qualcosa o qualcuno la sbatacchiò di cattiveria facendola traballare. Questo essere possedeva sicuramente la forza per sfondarla, e sicuramente anche quella di sfondare lui. La paura di ritrovarsi a dover affrontare chissà cosa a mani nude lo spinse a cercare istintivamente qualcosa con cui difendersi. Portò le mani alla vita, ma non trovò la cintura di batterie, bensì l’elastico delle mutande. Portò le mani al plettro solare ma non trovò la conchiglia del ciondolo, bensì il tessuto umido della maglietta, la stessa con la quale aveva giocato tutto il giorno con Sofie. Ripensando a Sofie, si strinse nella maglietta, sperando di sentire il suo odore, immaginarla vicino, accanto a lui, a fargli compagnia, a dargli coraggio. Ma Sofie non c’era. C’era solo quella cosa che sbatacchiò di nuovo la porta di cattiveria, e Deon urlò, e le lacrime cominciarono a scendere.

 

“Hai sentito?”

“Cosa?”

Sofie era in attento ascolto. Si stava facendo buio. Il gendarme ascoltava la musica a basso volume in macchina mentre mangiava un take-away. Non era lo stesso, era il sostituto. E i due ragazzini invece si erano seduti accanto a quel tronco d’albero ed avevano aspettato tutto quel tempo. E ora finalmente qualcosa…

“Cos’era? Una voce?”

“Non lo so!” rispose Sofie, incerta e preoccupata.

“Ma sembrava stesse urlando!”

Seh, ora!”

“Ti dico di sì!”

“Secondo me sono interferenze…”

“Shhhh! Senti!”

Restarono in ascolto. Nel fruscio e nei rigurgiti elettronici, qualcuno stava piagnucolando. Qualcuno di piccino e di spaventato.

“È lui! Sono sicura!”

“Ma lo conosci appena!”

“Ti dico che è lui! Non può essere lontano!”

“Sofie… Dobbiamo tornare a casa, è tardi!”

“Ancora un altro po'!”

Didier sospirò spazientito. Già anticipava la cazziata.

Attesero ancora. E ancora. Ma niente.

“Sofie! Dobbiamo andare!”

Sofie sbuffò, ma dovette dar ragione a Didier stavolta. Si alzarono e si allontanarono dal cottage. Il ritorno fu al buio, e al vento. Cominciò anche a schizzettare. Non era inusuale, ma faceva comunque paura.

“Sbrighiamoci, ho i brividi!” ammise Didier.

“Fifone!” replicò Sofie.

Giunti a metà percorso, sentirono un fruscio nella boscaglia al lato della strada. Si bloccarono. Didier guardò la strada alla ricerca di fari di macchine, ma l’unica luce a disposizione era lo schermo del suo cellulare.

“Sarà un coniglio” disse Sofie riprendendo a camminare.

“E se non lo è?”

“Dai, Didier, mamma mia, come sei fifone!”

Le frasche frusciarono di nuovo, con più brio. I bimbi si congelarono dal terrore. Se c’era qualcosa, era qualcosa di grosso.

“S-sarà il ve-vento?” suggerì Didier. Sofie rimase paralizzata. Si strinse al cugino, che tutto sommato aveva comunque un paio d’anni più di lei, e cominciò a tremare.

Qualcuno stava smuovendo le frasche con decisione, ma i bimbi non sapevano in che direzione esatta, con il vento che muoveva tutte le frasche in maniera indistinta. I bimbi cominciarono a muoversi lungo la strada, con cautela. Poi cadde davanti a loro una pigna che li colse di sorpresa e, gridando, corsero via, disperdendosi nella boscaglia. Si separarono inavvertitamente e Sofie si perse al buio più totale.

“Didier! Didier!”

Chiamò, chiamò, ma Didier non rispose. Procedette terrorizzata per un po' ma era sicura che continuare al buio senza idea di dove stesse andando l’avrebbe fatta addentrare ancora di più nel bosco, così si fermò. Proprio in quel momento, dalle frasche, qualcosa emerse fuori, una sagoma più alta di lei, che le si pose davanti prima che potesse anche solo prendere aria per gridare. Quando effettivamente gridò, era troppo tardi, la cosa l’aveva già presa. Il grido le morì in gola.

Didier rimase pietrificato.

“Sofie! Sofie!”

L’aveva sentita gridare ma poi si era zittita. Brutto segno. Con il telefono provò a illuminare il bosco ma non era sufficiente. Cominciò a piangere. La situazione stava degenerando. Decise che era ora di darci un taglio. Tolse la torcia e tornò alla schermata principale del telefonino per comporre un numero, ma poi si accorse di non avere segnale per chiamare.

“No! No, no, no, no, NO!

Si guardò intorno paranoico. Le frasche erano minacciose.

“Sofie!”

Niente, Sofie non rispondeva più.

Le frasche poi frusciarono in sua direzione. Didier si congelò. Le sentì di nuovo e così si voltò di scatto. Ancora una volta. Allora si adoperò goffamente con il telefono per riattivare la luce, ma gli cadde di mano e finì nell’erba, sparendo all’istante. Didier piagnucolava mentre andava a tastoni in ginocchio per cercarlo, ma poi si fermò perché si sentì fronteggiare da una sagoma enorme, una presenza dominante. Poteva sentire i suoi passi fermarsi davanti a lui. Gli si fermò il respiro, e il cuore pareva volergli uscire dalla bocca. Stava per prendere aria per un grido quando l’essere gli accese una torcia in faccia, accecandolo, costringendolo a coprirsi per il fastidio. Quando si scoprì, Didier, che tremava, scoprì che si trattava di una donna, vestita da motociclista, e accanto a lei c’era Sofie, avvinghiata, che aveva trovato protezione nella donna. La donna era mora, asiatica, e dallo sguardo duro e intransigente. Li avrebbe tratti in salvo tutti e due. Per fortuna.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Paura ***


Capitolo 2:

Paura

 


“Vai al mare con Didier, stamani, Sofie?”

Sofie era assorta nei pensieri. Giocava a zappare i cereali nel latte con il cucchiaio da così tanto ormai che stavano diventando poltiglia.

“Sofie?”

In un sospiro, Sofie cadde dalle nuvole.

“Sì, mamma, vado con Didier”

 

“È perfetto!” disse Didier.

Lui e Sofie si dondolavano sull’altalena senza interesse mentre complottavano.

“Stavolta non ci facciamo prendere dal panico. Se Deon è al cottage, lo troveremo!” disse Sofie, convinta.

“Ma la donna in nero?”

“La motociclista?” ridacchiò Sofie.

“Strana, no?”

Sofie tornò seria, e pensierosa.

“Già”

“Però c’ha salvato la vita” disse Didier.

Sofie ridacchiò. Espose la sua opinione.

“Oddio, al massimo ci saremmo persi e c’avrebbero ritrovato stamani. Non credo che ci sarebbe successo niente di che”

“Tu dici?”

“Che fifone che sei”

 

“Ma ci sono le transenne della polizia!”

Didier illustrò l’impossibilità di oltrepassare una striscia di plastica gialla fissata ai pali della staccionata. Sofie non diede peso e passò sotto alla striscia con nonchallance lasciando Didier sbigottito. Sofie poi si girò per aspettarlo.

“Sei un fifone. Muoviti!”

In un sospiro Didier si convinse a seguire Sofie nella trasgressione. Raggiunsero la porta del cottage ma era chiusa a chiave. Fecero il giro ma anche quella sul retro era chiusa.

“E ora?” chiese Didier.

Sofie rifletté attentamente. Poi prese a esplorare il cortile. Adocchiò lo sgabozzino degli attrezzi e il casottino dell’autoclave. Si fermò a raccogliere una batteria tipo C Duracell impolverata tra i fili d’erba rinsecchiti, accanto alla piccola bocca di uno sfogo d’aerazione, essenzialmente un tubo che spuntava dal terreno come una pianta. La bocca era protetta da una grata piena di ragnatele. Sofie notò il ragnetto in un angolo che sistemava la ragnatela e si scansò di riflesso.

“Sofie!” bisbigliò spaventato Didier.

Sofie si girò e tornò diritta per guardarlo. Didier era rimasto indietro per fare la guardia e indicava il vialetto con frenesia. Sofie allungò lo sguardo e notò anche lei la volante della gendarmeria per strada che rallentava. Come aveva fatto a non sentire il motore dell’auto in avvicinamento?

Adesso aveva il cuore in gola e gli occhi sgranati. Didier era messo peggio. Corse verso di lei nel panico, suscitandolo anche in lei, e così fuggirono via a grandi falcate sollevando una nuvola di polvere. Tuttavia, Sofie non poté trattenere una risata di puro svago.

 

“Sofie?”

Deon aprì gli occhi. Il sole gli carezzava il volto rinsecchito dalle lacrime asciutte della notte trascorsa. Era ancora rannicchiato in posizione fetale. Quando si mosse subito strizzò la faccia in una smorfia di dolore per la posizione scomoda.

Però era giorno!

Bastò un’occhiata per notare come la stanza, che la notte prima era sembrata una catacomba, adesso aveva un aspetto più sobrio e innocuo, un semplice seminterrato, e a quanto pareva, una finestra, se pur stretta e alta, c’era!

C’era anche un tavolo con sopra una cassetta degli attrezzi e sotto un baule. Lo osservò confuso, non capendo come poteva non essersi accorto di un tavolo nella stanza.

E poi posò lo sguardo sulla porta ― quella porta che ieri notte l’aveva terrorizzato. Non voleva provocare la porta, quindi decise di pensarci dopo. Per quel momento si alzò a fatica barcollando dapprima, e poi si ricompose. Non appena diritto fu attraversato dai crampi provenienti dallo stomaco e dal tremolio della fame. Le mani carezzarono la pancia. Poi un sospiro scoraggiato.

Si mosse verso la porta con molta cautela. La porta aveva una finestrella che non era alla sua portata. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa. Posò lo sguardo di nuovo sul baule.

Con il baule come piedistallo, Deon riuscì a raggiungere la finestrella e sbirciare oltre la porta: c’era un muro davanti a lui, era un corridoio che correva perpendicolarmente, illuminato da una luce artificiale. L’unico elemento visibile sul muro era un semplice interruttore, forse quello della luce.

Già stufo di riflettere si andò a sedere nel piccolo riquadro di sole che filtrava dalla finestra; osservò quella finestra a lungo: non poteva raggiungerla neanche con il baule come piedistallo.

Poi notò qualcosa se pur piccolo muoversi all’angolo della cornice della finestra. Intimorito ma anche incuriosito si alzò e si avvicinò per esaminare meglio. Si rese conto che si trattava di un grosso ragno, un folcide, appeso come di consueto a testa all’ingiù, intento a sistemare la sua ragnatela. Un colpo di adrenalina portò Deon istintivamente a muovere un passo indietro, ma poi si forzò di farne due avanti, e poi ancora, e ancora, per riuscire ad assecondare l’assoluta necessità di scoprire se il ragno era dentro o fuori la stanza. Si abbracciò, contorcendosi le budella per il forte ribrezzo e il desiderio irrefrenabile di allontanarsi, ma il bisogno di mettersi l’anima in pace lo spinse oltre il limite e mise fine al dubbio; concluse che il ragno non poteva che essere fuori dalla finestra. Un enorme sospiro e adesso poté staccarsi dal muro e allontanarsi dalla finestra. Un altro sospiro, stavolta di scoraggiamento. La fuga dalla finestra era bocciata. Tornò nel suo riquadro di sole e si sedette, abbracciandosi le ginocchia.

I secondi passarono come minuti, ore… Chissà che ore erano. Era sicuramente ora di mangiare, stando al suo stomaco.

“I’m your… tur-bo… lll-lover!”

Canticchiare lo aiutava a distrarsi. Il tempo sembrò improvvisamente passare più svelto. Intanto il sole si era affievolito. Di già? Adocchiò la finestra e trovò una luce ancora forte ma lattea. (Nuvoloso). Sbuffò.

Poi udì una sirena riechieggiare dentro la grata di aerazione, come venisse da fuori, ovunque quel condotto sfociasse, e si irrigidì dalla sorpresa. Era una di quelle sirene per annunci industriali o di cantiere. Aggrottò la fronte. Se pur aveva già sentito suoni simili gli pareva adesso del tutto fuoriluogo, e man mano che continuava e insisteva con quel tono fisso e monotono e fastidioso cominciava a diventare inquietante e lo distraeva dalla luce che si affievoliva sempre di più. Ci fece caso quando ormai non riusciva più a distinguere con chiarezza la sagoma del tavolo e la cornice della grata.

Si preoccupò e non poco. Il buio lo rese irrequieto. Si alzò in piedi e si strinse tra le braccia carezzandosi mentre girava su sé stesso non sapendo dove posare lo sguardo. Ad un certo punto non c’era più niente su cui posare lo sguardo perché erano calate le tenebre più totali. Chiuse gli occhi.

Un bridivo gelido gli attraversò la schiena.

Gemette.

Riaprì gli occhi e rimase di stucco.

Se pur in penombra, poteva vedere che la stanza era diversa ― si sentì immediatamente claustrofobico.

La stanza aveva ancora la stessa forma ma le pareti erano scalcinate e dominate da piante rampicanti e muffa, il cui odore acre e selvatico arrivò rapidamente al naso di Deon, nauseandolo. Si girò e notò che della finestra era rimasta solo la cornice, e al posto del vetro c’era una fitta rete di ragnatele che però lasciava filtrare una luce lunare, la quale risplendeva su frammenti di vetro per terra a un passo dai suoi piedi. Il brivido era una brezza esterna che sentiva ancora e smuoveva l’aria viziata e putrida.

Continuando a girarsi notò quel che rimaneva del tavolo: un amasso di tranci di legno marcio e detriti, e la grata non c’era più ma al suo posto c’era una voragine tappezzata da ragnatele e edera.

Deon gemette.

Sentì salire il terrore e non poté farci niente ― era tutto surreale. No! Doveva controllarsi. Un sospiro di incoraggiamento…

“È solo un sogno. Sto sognando…”

Si pizzicò il bicipite.

Si schiaffò la guancia.

Con la poca luce a disposizione si esaminò le dita della mano, contandole in maniera maniacale, facendo la prova della realtà. Erano sempre 5.

Si schiaffeggiò di nuovo.

Una lacrima scese ― stava per piangere. Gli si strinsero anche le cosce, come se dovesse correre a fare pipì, e così si aggrappò le mutande, come fa un calciatore difensore durante un calcio di punizione.

Sospirò di nuovo per darsi coraggio.

“Sono solo ragni. Non mi fanno niente…”

Ma aver pronunciato quella parola fu sufficiente per immaginare quei piccoli mostri salirgli addosso e così si strofinò, si grattò, e si pettinò i capelli se pur corti. Non aveva ragni addosso ma si sentiva formicolare da tutte le parti ― si sentiva senza scampo.

Sospirò ancora una volta. Stavolta aveva ripreso il controllo di sé. Si guardò intorno con una mente più lucida e analizzò di nuovo ciò che vedeva.

La stanza era marcia, come se il tempo fosse avanzato a velocità elevata ma lui fosse rimasto ibernato. Adesso che aveva superato parzialmente la paura si sentiva anche piuttosto incuriosito e affascinato dal fenomeno.

Si avvicinò cautamente alla parete opposta alla voragine dove ci sarebbe dovuta essere la grata, e quindi adiacente alla porta, allungando già una mano esplorativa. Toccò i ramoscelli e le foglie dell’edera rampicante: era reale come qualsiasi altra edera, poteva muoverla, le foglie ballarono, frusciarono. Ne staccò una e la studiò alla luce lunare della finestra non più finestra. Mentre era intento a dare una spiegazione a tutto ciò, cominciò a percepire dei passi atipici provenire da dietro la porta.

La sua prima reazione fu di curiosità verso la porta.

Il baule era ancora lì, coperto da polvere e pezzi d’intonaco. Ci salì sopra e si affrettò a sbirciare dalla finestrella della porta. Quella era rimasta intatta e non c’erano ragni in vista, era solo polverosa e incrinata.

Il corriodio era sempre lì, più buio della stanza, e riusciva a malapena a scorgere i contorni di quello che doveva essere l’interruttore. I passi che sentiva provenivano sicuramente dal corridoio, dalla sua destra. Provò a sbirciare ma non aveva modo di vedere oltre la cornice, perciò attese. I passi parevano tali di due o tre cani di grossa taglia. Il pensiero aumentò la sua adrenalina e le sue mani, appoggiate ai lati della finestrella, cominciarono a tremare dal nervoso.

Poi i passi si fecero improvvisamente più nitidi, come se i cani avessero girato l’angolo in sua direzione. Si congelò.

I passi si portarono quasi sotto la porta. Deon trattenne il respiro. Poi i passi si fermarono. Deon era in apnea. Tremava come se stesse prenendo la scossa. Poteva salire sulle punte dei piedi per migliorare la sua angolazione e vedere un tantino meglio, ma non ne ebbe il coraggio.

E neanche il tempo, perché all’improvviso apparve un ombra nella finestrella che lo prese alla sprovvista.

In un urlo si spinse via dalla porta e cadde sul sedere giù dal baule. Per prontezza portò le mani all’indietro e frenò la caduta. Ignorò il dolore, con lo sguardo e la mente fissi sulla finestrella. Già si spingeva gradualmente via dalla zona della porta con le gambe, trascinandosi sul pavimento polveroso ― era ancorato al bisogno della scoperta. Il suo corpo era in fermento e le lacrime scendevano incrontollabili in un turbine di emozioni di cui lui neanche si rendeva conto.

I secondi passarono come ore. Pian piano l’agitazione scese a livelli gestibili e Deon riuscì gradualmente a rialzarsi. Impiegò il dovuto tempo a ricomporsi e, non essendoci più stato nessun rumore, ritrovò un minimo di coraggio per avvicinarsi alla porta.

Quando posò le mani sul baule per arrampicarcisi, la paranoia s’insidiò di nuovo e Deon riprese a tremare, ma non se ne rese conto, trasportato dalla curiosità. Si issò sul baule e si strofinò gli occhi per togliere le lacrime e riuscire a vederci chiaro. Con un sospiro di incoraggiamento si appiccicò alla porta, si sollevò sulle punte dei piedi, e mirò gli occhi verso il pavimento del corridoio. Sbatté le palpebre nervosamente alla ricerca di una messa a fuoco nel buio, ma poi si rese conto che non era buio…

Era il corpo di un… Essere.

Si mosse.

Scattò verso di lui.

Vide zampe.

Troppe.

Vide mandibole, cheliceri, tipici di un… ragno.

Ma era grosso!

Deon gridò.

Nel contempo il ragno gigante assaltò la porta e Deon finì di nuovo culo a terra, stavolta immediatamente girandosi e gattonando via fino alla parete opposta, quella sottostante la finestra. Non sembrava importargliene più di essere così vicino alla rete fitta di ragnatele della finestra. Era terrorizzato dalla porta e di come resisteva precariamente alle spinte del mostro surreale.

Pianse. Gridava e piangeva assieme come se lo torturassero. La porta sembrava reggere, ma per quanto ancora? Quando la gola fu troppo infiammata per continuare a gridare prese a parlare sottovoce come se si recitasse un rosario mentre si accovacciava sempre più rannicchiato contro il muro..

“Svegliati-svegliati-svegliati-svegliati-svegliati…”

Improvvisamente la quiete.

Deon trattenne il respiro. Per un momento si lasciò sedurre dalla speranza che il mostro si fosse stancato, o meglio ancora che fosse svanito. Ma poi notò movimento nella finestrella e gemette dallo spavento e per la delusione di essersi illuso di essere salvo.

Il mostro cominciò a raschiare la porta. Qualunque cosa stesse cercando di ottenere non sembrava certo amichevole. Deon piangeva e gemeva, abbracciato a sé stesso, ogni rumore che sentiva pareva arrecargli una sofferenza fisica.

E infradiciò le mutande.

 

Sofie e Didier osservarono sotto il sole di mezzogiorno ― dal nascondiglio di un cespuglio ― un gendarme e un uomo in giacca e cravatta entrare nel cottage.

“Vedi? Loro hanno la chiave!” puntualizzò Sofie.

Didier sospirò scoraggiato.

“E noi no. E se ci scoprono ci fanno il pelo”

“Ma che devono fare… Non abbiamo fatto niente di male!”

“No, abbiamo solamente scavalcato la transenna…”

Sofie si girò a fulminare con lo sguardo Didier.

“Didier! È una fascetta! Un cervo ci passa se vuole”

“Sì ma è una scena del crimine!”

Sofie sbuffò e tornò a osservare il cottage.

“Voglio sapere che si dicono. Magari parlano di Deon e di come trovarlo…”

Ma hai perso la testa, forse?”

“Sei sempre un fifone. Aspettami qui allora!”

“Sofie!”

Ma Sofie s’avviò impulsivamente per il vialetto e oltrepassò la transenna, o striscia di plastica volante che sia. Sgambettò furtivamente fino alla fiancata dell’edificio, e sbirciò alla finestra.

Didier la osservò col fiato sospeso.

Sofie riconobbe i due uomini all’interno muoversi di stanza in stanza. Lei dal canto suo si spostò chinata per seguire i due uomini e si ritrovò sul retro. Oltre quella porta c’era la cucina e i due uomini parlavano di un’efrazione e di un assalto. Sofie ascoltò attentamente.

“Non scomodatevi ad analizzare le tracce. Non ne ha sicuramente lasciate. E se pure l’avesse fatto, non è schedato”

L’uomo che parlava con quel tono sicuro di sé e autorevole era in giacca e cravatta e sembrava uscito da un poliziesco, o da Matrix, dato che aveva anche gli occhiali da sole.

“Ma colpirà ancora?” chiese il gendarme.

“Difficile dirlo. Ciò che ci preoccupa è se sia arrivato o meno a quello che cerca”

“E cioè?”

“Il bambino”

Sofie gemette.

Si tappò immediatamente la bocca, ma la sorpresa era troppa. L’avranno sentita?

“È ancora disperso. Non ci sono indizi per dichiararlo un rapimento, quindi finirà nel dubbio della fuga volontaria. Il bambino ha precedenti” disse il gendarme.

Non l’avevano sentita. Sofie sospirò di sollievo e riprese ad ascoltare.

“Meglio così. Prima si calmano le acque meglio è” concluse infine l’agente Smith di Matrix.

Sofie aveva sentito abbastanza. Tornò da Didier.

“Allora?”

Didier era impaziente. Sofie pensierosa.

“Sofie?”

Sofie s’avviò per la strada.

“Sofie!”

Cadde dalle nuvole e si girò a guardare il cugino.

“Allora? Hai scoperto qualcosa?”

Sofie rifletté rapidamente, e poi, mordendosi la coscienza, scosse la testa e fece cadere il discorso, tornando a casa con Didier apparentemente a mani vuote.

 

Sofie leggeva a voce alta da un diario dalla copertina nera, seduta all’ombra di una quercia, nel parco.

Non so ancora come si chiama ‘sto coso. Sembra il frutto di uno di questi alberi perché a volte li vedo attaccati ai rami come le mele. Ma non sembra proprio un frutto, devo vedere bene. In pratica è fatto a forma di un carciofo, ma invece che avere quella specie di petali duri, ha delle scaglie marroni, tipo la corteccia dei tronchi.

Rise a crepapelle indispettendo Deon, che le si pose davanti, in piedi, e allungò le mani a richiedere indietro il diario. Ma Sofie lo sbirciò soltanto e continuò a leggere.

Insomma guardo questo oggetto mentre il Sole si prepara ad andare a scaldare da qualche altra parte, anche se non ha scaldato noi granché, perché le nuvole si sono messe tra noi e lui a dargli fastidio. Non è colpa del Sole. Chiomarossa è proprio dietro di me, così mi giro e la guardo. Chiomarossa non è alta più di me e ha i capelli rossi e tanti puntini sulla faccia come me. Ha un pezzo di legno in mano (e ce l’aveva anche la prima volta che l’ho vista, qualche giorno prima di questo). Non so a cosa le serva ogni volta, forse la sua missione è studiare le forme di vita sottoterra.

Sofie rise di nuovo e Deon sbuffò.

“Sono io ‘Chiomarossa’?”

A malincuore Deon dovette ammetterlo.

“E perché scrivi sole con la maiuscola? Non è mica un nome proprio di persona…”

“Non di persona! Però è un nome proprio!”

“Il sole è il sole!”

No. Il Sole si riferisce a Sol, la stella di questo sistema solare”

Sofie sgranò gli occhi.

Che?”

“Non ha importanza… Me lo ridai?”

Deon rivoleva il diario indietro, ma Sofie gli mostrò il palmo e poi strinse a sé il diario sorridendogli.

“Dai, ancora un altro pezzo!”

No-ooh!

“E dai!”

Deon sbuffò. Sofie lo prese come un permesso e sfogliò le pagine. Ne trovò una che la interessava e lesse a voce alta.

Non ci sono ancora missioni in vista. Devo continuare a stare in allerta. Ma che cavolo, mi dico, -no… Ma per quanto ancora? Quand’è che passiamo al contrattacco? Quand’è che posso spaccare la faccia a qualche verme o dare un bel calcio nelle palle a chi dico io?- Teste di totem che non sono altro…

Sofie rise ancora una volta.

“Ma di che parli, Valkie! Non si capisce un tubo in questo diario! Io pensavo ci scrivevi le cose tue, invece sembrano scleri di un pazzo…”

Deon si gonfiò di risentimento. Sofie se ne accorse e perse il senso dell’umorismo.

“Non intendevo dire che sei un pazzo”

Deon le diede le spalle. Lei si alzò in piedi e gli posò la mano sulla spalla.

“Deon! Scusa! Non volevo dire che sei un pazzo!”

Deon restò offeso.

“Guarda che mi piace quello che scrivi! Se no non lo leggevo!”

Deon la sbirciò da sopra la spalla.

“Non te lo dovrei fartelo leggere, perché è segreto”

“Non t’impappinare!”

Sofie lo sfotté amichevolmente. Deon sospirò, ancora offeso, ma si era lasciato sdrammatizzare a sufficienza, così si girò e fronteggiò Sofie.

“Se ti da fastidio che lo leggo dimmelo, eh! Non lo voglio fare se te non vuoi”

Deon ci pensò.

“Se non volevo… Non te lo facevo leggere”

Sofie fece una smorfia con la bocca, poi diventò un sorriso malizioso e finì come provocazione.

“Non lo so… Te lo avrei potuto prendere comunque. D’altronde sei un po' una pippa, tu. Non come mio cugino… Ma quasi”

Deon si irritò. Protestò.

“Tu non mi hai visto all’opera!”

Sofie si ricompose. Ammise una concessione in suo favore.

“No, hai ragione. Non ti ho visto all’opera. Sono sicura che sai spaccare le facce di totem e tirare calci alle palle come un professionista, ahahaha!”

 

Sofie tirò su il moccio dal naso e si pulì la faccia dalle lacrime con il dorso della mano. Poi provò di nuovo la radiolina, rannicchiata sotto al letto di cameretta, incurante della polvere e dello spazio angusto.

“Deon? Deon!”

La radio gracchiava e basta, nessuna risposta.

“Aiutami! Ti prego!”

Grghrhghrhg…”

“Deon?”

Grghrhghrhg…”

“Ti prego, torna, Deon”

Grghrhghrhg…”

Le lacrime ripresero a scendere, così Sofie chiuse gli occhi e strinse la radiolina al petto come fosse un minuscolo orsacchiotto di peluche.

Poi la riportò alla bocca.

“Vieni qui” bisbigliò.

Grghrhghrhg…”

Sofie singhiozzava, non riusciva a trattenersi.

Grghrhghrhg… Sofie?”

Sofie s’irrigidì e trattenne il respiro. Restò in ascolto.

Grghrhghrhg… Sofie? Sei tu?”

A quel punto esplose a piangere in un misto tra rassegnazione e gioia e terrore.

“Stai un p-po' con me, Deon, p-perché ho p-paura”

Grghrhghrhg…”

“Con te non ho paura”

Grghrhghrhg…”

“Perché tu sai cose che io non so”

Grghrhghrhg…”

“Deon! Ti prego vieni qui! Ti proteggo io. E tu proteggi me”

Grghrhghrhg…”

“Deon?”

Grghrhghrhg…”

Da lì in poi sfociò nel pianto e le fu impossibile continuare a parlare.

 

Il mostro aveva smesso di raschiare la porta e Deon neanche se n’era accorto perché stava piangendo a dirotto, così decise di darci un taglio netto e mettersi in ascolto. C’erano soltanto il delicato sibilo del riscontro d’aria ed il suo pesante respiro malato.

D’un tratto sentì un calore nel petto ed un innaturale increspatura sonora poco distante da lui. E una voce a seguire.

“Aiutami! Ti prego!”

Non era chiara quella voce, ma era sicuramente una voce vicina, là sotto con lui. Era una bambina, non c’era dubbio. Deon aveva già sentito quella vocina. Si staccò dal muro e sulle ginocchia si trascinò mezzo metro e assottigliò l’udito, mentre respirava in affanno con l’ansia di un possibile ritorno del mostro.

“Vieni qui”

Era un bisbiglio.

Deon gemette. L’aveva sentita, anche stavolta. Ora aveva bisogno di una terza ed ultima conferma. Doveva parlare.

“Sofie?”

Sentiva battere un ritmo. Era forse il suo stesso cuore che batteva così forte da spaccargli i timpani? Come faceva a spegnerlo temporaneamente? Si portò la mano sul petto: effettivamente era il suo cuore, e batteva tanto forte da assordarlo. Deglutì e prese un bel respiro, cercando di calmarsi.

“Sofie? Sei tu?”

La speranza si insediò nella voce tremolante e il desiderio nello sguardo, mentre adocchiava quel buco nel muro dove un tempo c’era la grata. Un pensiero terrificante lo afferrò per i fianchi e per le spalle, che magari quella voce potesse essere un’illusione, o peggio ancora una trappola… Il pensiero lo costrinse in una smorfia di lutto.

Poi d’un tratto venne attraversato da una scarica elettrica, e sentì un riverbero lontano e innaturale della vocina che aveva parlato poco prima, come una registrazione venuta male. Fu tanto inquietante da accapponargli la pelle. Subito dopo, la vocina si stabilizzò e Deon riuscì a scandire qualcosa di sensato.

“Ho p-paura”

Deon gemette all’istante e cominciò a piangere sottovoce. Si fece comunque coraggio e si avvcinò in ginocchio al buco, fino a trovarcisi davanti, e bisbigliò a chiunque fosse lì dentro.

“Anch’io…”

E poi rimuginò qualche momento ma si fece coraggiò e si andò a rannicchiare dentro al buco, consapevole del solletico delle ragnatele e del prurito dei gambi e delle foglie d’edera. Si abbracciò le ginocchia e prese a tremare come se stesse congelando. In un certo senso poteva anche darsi, d’altronde aveva solo una maglia e le mutande addosso, le quali ancora bagnate adesso erano anche gelide.

 

Bagnata e gelida come la birra che Jamael stava versando in un boccale. Era presa a guardare la TV, aspettandosi qualcosa di interessante ma c’erano spot commerciali e basta. Accortasi di aver strabordato la birra, Jam sbuffò e la rovesciò deliberatamente nel lavablo.

“Ma che fai?” le chiese Cleo sbigottita.

“Fa schifo comunque”

Jam era annoiata. Lasciò il boccale nel lavablo e gesticolò al gendarme al bancone.

“C’è da cambiare il barilotto. O aspetti o ti stappo una Démon”

Il gendarme sospirò, più preso dal giornale che dai discorsi di birra.

“Mah, guarda, preferisco una Beck’s”

Jam lo fulminò con lo sguardo.

“Bleah!”

Poi a grandi falcate andò a recuperare una Beck’s dal grosso frigorifero nell’angolo della sala e lo portò al bancone dove lo stappò in diretta davanti al gendarme, e restò lì a osservarlo.

Il gendarme si prese il suo tempo di leggere e poi si accorse della birra e ne sorseggiò un po', sempre comunque con la mente all’articolo.

“Che dice?” esordì Jam, per fare conversazione.

L’uomo prese fiato, svogliatamente.

“Sto leggendo della Champions League, quindi… Mi sa che non t’interessa, Jam”

“Hai fatto centro. Che si dice di non calcistico, invece?”

Il gendarme emerse finalmente dalla sezione sportiva e incrociò lo sguardo di Jam, intenta comunque a pulire il banco e tenersi impegnata, o meglio, farsi vedere impegnata.

“C’è da dare la caccia a un gruppo di teppisti che fa i murales. Li fanno pure artistici, fosse per me li lascerei sta’. Ma la legge è la legge, e la gente si lamenta… Quindi…”

“Già, a volte è pure uno scempio…”

Cleo ammiccò una risata ironica nell’osservare il finto interessamento di Jam.

“E invece del bimbo scomparso? Si sa più niente?”

Jam a quel punto fece l’esatto contrario: cercò di nascondere il forte interesse fingendosi più impegnata a fare altro. Cleo allora si prese la libertà di appoggiarsi col gomito al bancone e godersi lo spettacolo.

“Errr…”

Il gendarme richiamò le informazioni dalla mente e si aiutò con la birra. Non era particolarmente felice di parlare dell’argomento.

“Sono appena arrivati i genitori adottivi. Lui si tollera, ma lei è una scassapalle assurda! Sono inglesi… Che dici te…”

“Immagino!”

“Vorrebbero che facessimo un’indagine combinata con la polizia inglese”

Il gendarme s’ingolfò in una risata goffa che soffocò poi con la birra.

Jam ascoltò attentamente e attese che continuasse.

“Ho saputo che il commissario li ha invitati a prendersi una stanza d’albergo. Perché non gli affitti una stanza, Jam!”

Jam si voltà a guardare il gendarme con una faccia corrugata.

“Ma non ci penso neanche!”

Il gendarme alleggerì la sua in un sorriso accogliente.

“Ma ti faresti qualche soldo! Quella è talmente disperata che pagherebbe qualunque cifra, e ci staranno parecchio, dai retta a me! Il bimbo non lo troveremo presto. Se lo troveremo…”

“Tu dici?”

Jamael era delusa e scoraggiata. , ma lo nascose decidendo di mettersi a pulire e stasare la lancia vapore della macchina del caffè senza motivo, e con vigore ingiustificato.

Cleo s’intromise avvicinandosi al duo, fronteggiando il gendarme, con le spalle a Jam, e si versò un boccale di birra con nonchallance.

“Secondo me lo trovate in un fosso”

Un tonfo.

Cleo si girò di scatto e anche il gendarme si allarmò. Era Jam che aveva rovesciato la macina caffè con tutto il serbatoio dei chicchi che si stavano spargendo ovunque come uno tsunami. L’aroma invase la sala fino a dare la nausea e Cleo indietreggiò dalla macchina e dalla zona interessata con sbigottimento e spirito di auto-preservazione. Il gendarme rimase invece a osservare con i sopraccigli inarcati.

Jam sospirò e imprecò sottovoce.

 

Guardavano un film sul divano. Sul più bello Matt provò a entrare in casa base ma Jam serrò bottega. Aveva messo gli occhi sulla statuina di argilla sulla mensolina nell’angolo e le era passata la voglia all’improvviso.

“Ma che ti prende?”

“Niente…”

“Ultimamente sei…”

Jam si girò a fulminarlo con lo sguardo.

“Cosa…?”

Matt si sentiva il pavimento cedere sotto ai piedi, doveva stare attento, perciò si morse la lingua.

“Niente, scusa. Vedo che hai qualcosa per la testa. È il lavoro?”

Jam sbuffò e si alzò. Matt sospirò e si sollevò dallo schienale per seguire Jam con lo sguardo. Alzò anche la voce e l’intensità, sentendosi preoccupato ma anche trascurato.

“Non dirmi che è ancora per quel bambino!”

Jam si fermò e si girò per abbaiargli contro.

“Deon! Si chiama Deon!”

Matt abbassò la voce cercando diplomazia.

“Lo so come si chiama, Jam. Ma non ti puoi far trasportare da questa storia in questa maniera”

Lei sbuffò e si andò a nascondere in cucina.

Il gatto mangiava beato i bocconcini dalla ciotolina in un angolo e gli avanzi del puzzolente giapponese dentro la busta sul banco della cucina le davano la nausea e al tempo stesso le suscitarono appetito, perciò squarciò la borsa e recuperò il recuperabile per finire dove aveva lasciato, mangiando più per nervoso che fame.

Matt arrivò a curiosare.

“Ma che fai…?”

Jam rispose senza voltarsi dal bottino.

“Lasciami stare, ho fame”

“Ma dai, che poi ingrassi…”

Matt già sorrideva.

“Con questa roba la vedo dura ingrassare, ti abbuffi una volta e poi non mangi una settimana”

“Ecco, è questo il tuo segreto!”

Matt maliziosamente la afferrò per i fianchi, cercando effusioni amorose, ma lei un po' perché stava assecondando l’appetito, un po' perché non aveva proprio voglia, lo scansò di nuovo, stavolta decisamente infastidita.

“Non capisco che ti prende!” protestò lui.

Jam lo guardò, dapprima fulminandolo, ma poi si lasciò intenerire. Matt però era esasperato.

“Vabbeh, sono stanco comunque, penso che me ne andrò a letto. Quali sono le novità sul caso Deon?”

Jam sospirò, cercando di soffocare i rimasugli di stress nel cibo.

“Sono arrivati i genitori adottivi dall’Inghilterra”

“Ma non stava col babbo?”

“Suo padre s’è impiccato!”

Stufa di dover ripetere tremila volte le stesse cose allo smemorato. Subito dopo però le proprie parole le riecheggiarono nella testa facendola sentire in colpa.

Matt intanto cadeva dalle nuvole e cercava conversazione per assecondare la sua curiosità.

“Ah… sì, giusto. Ma allora che ci faceva qua, il bimbo?”

“Era venuto a trovare suo padre? Che ne so!”

“Che casini. Ce ne sono parecchi di questi casini in giro. Anche a lavoro a volte mi capitano casi di questi bimbi che vengono abusati, maltrattati…”

Jam inarcò il sopracciglio e sospirò, poggiandosi comodamente al banco cucina. Sentiva che stava per tirare aria di sensi di colpa e intenerimenti. Matt intanto continuò.

“Ce n’era uno una volta che lo portarono in condizioni critiche. Un pischello l’aveva massacrato di botte giusto per sfogarsi. Per non parlare di tutti gli orfani…”

Jam stava trovando di cattivo gusto i racconti di Matt e così distolse lo sguardo. Matt provò ad accarezzarle il volto e trovò scarsa resistenza, ma la trovò. Dispiaciuto e avendo capito dove doveva rimediare, si limitò ad un bacio sulla guancia e si ritirò in camera.

Jam rimase a rimuginare fino a che il gatto le si arruffianò. A quel punto si accovacciò per prenderselo tra le braccia e se lo portò in salotto, dove la visione della statuina la ossessionava come mai prima d’ora.

 

Era un gesto semplice. Era un gesto anche stupido. Poteva essere ambiguo e scomodo e sconveniente. Ma in quel momento una mano di bambino che stringeva una mano di donna era qualcosa che smosse Jam dentro. Si ritrovò in seria difficoltà e Deon non aveva aperto bocca, si era limitato ad ascoltare.

“Forse tornerò, non è detto che rimango là. Anzi. Sicuramente tornerò”

Ma lui non mollava. Le stringeva la mano, adesso con tutte e due le sue manine calde e sudate e forti per un moccioso. Jam avrebbe preferito che Deon non stringesse così forte. Infatti avrebbe preferito che non gliele stringesse affatto. Infatti avrebbe preferito che non fosse entrato al Pub, non ora, beccandola in chiusura, da soli, quella strana ambigua intimità. Jam adocchiava l’uscita, come una possibile fuga da quel bambino. Aveva invaso il suo spazio privato con quel viso innocente. La difficoltà nel provare sentimenti avversi. Sospirò.

“Senti… Ti mando una lettera quando sono là, eh? Così ti faccio sapere come sto. Ci teniamo in contatto…”

S’inumidì le labbra. La mano libera stava quasi per posarsi sulla testa del bimbo. Gli avrebbe dato corda, però. Avrebbe dato corda ad un bimbo che andava in giro vestito come un Ghostbuster. Non se lo sarebbe più schiodato di dosso. Beh, troppo tardi baby, è già così!

E quegli occhi la guardavano di nuovo, comunicando più di lunghi papiri e pipponi. Gli occhi blu oceano del puffo sbiadito erano particolari. Erano un misto di europeo e asiatico. Anglo-sassone con un pizzico di orientale. Quella forma, quel taglio a mandorla con una leggera insaccatura, ma poi l’intensità dell’acqua delle sue iridi, due portali che lasciavano soltanto intravedere un mondo parallelo pregno di messaggi subliminali.

La via d’uscita, dov’è la via d’uscita?

“Okay? Ti scrivo appena atterro. Promesso! Adesso vai a casa che devo chiudere. Su. Togliti dalle scatole!”

Per una volta Deon le aveva dato retta. Una scarica di elettricità e un muso lungo, ma si avviò e non si guardò indietro. Cosa significava? Jam rimase lì a fissare la porta, prima aveva desiderato varcarla per fuggire, ora per tornare indietro nel tempo e scegliere la pillola rossa.

 

“Luc!”

Deon aveva proprio bisogno di un amico in quel momento.

“Artista! Come butta?”

Deon arrivò con entusiasmo dall’omone dal viso effemminato, metallaro ma modello, vagabondeggiante per Rue des Tanneurs dopo cena, orario preferito anche da Deon. C’era una certa analogia tra il bambino che non usciva di casa senza cintura di batterie e ciondoli di conchiglie e il metallaro con le cinture borchiate e i catenacci. Deon si attaccò alle catene e alla cintola di Luc, con l’affinità fraterna.

“Mi devi aiutare!”

“Dio bono, che succede? Dimmi tutto!”

Luc lo maneggiò come un giocattolo, facendo leva sui grossi muscoli. Deon si divertì a farsi gingillare.

“Majael sta partendo. Dobbiamo fermarla!”

Luc lo guardò a occhi sgranati e tentò un tono ironico e spassoso.

“Errr… Mi sono perso una puntata o due di Indiana Deons?”

Deon sospirò, sentendosi non preso del tutto sul serio come gli spetterebbe.

“Sta per andare in Canada!”

Luc aggrottò la fronte senza però perdere il tono umoristico.

“Sì, ma chi è ‘sta Marijuana?”

Deon stavolta aggrottò la fronte. Poi tralasciò e con un gesto chiese a Luc di abbassarsi al suo livello per rivelargli un segreto nell’orecchio. Luc acconsentì e chinò la sua mole sullo scricciolo. Una volta rivelato il segreto, Luc tornò diritto in un’ilare epifania.

“Ma non possiamo fermarla, amico mio! Lei ha il diritto di fare quello che si sente di fare o che deve fare, o quello che è. Mica possiamo decidere noi per lei!”

Deon rimase dapprima confuso e interdetto. Poi prese fiato e continuò con la sua agenda personale.

“Ma io non voglio che se ne va!”

“Eh, lo so! Ma non decidi tu! Hai provato a dirle che ti mancherà e che vorresti che restasse?”

Deon tacque. Lo sguardo ai tasselli di pietra del pavimento della piazza. Luc lo addocchiò e lo lesse a sufficienza da capire, e quindi tirò fuori un sorriso sadico.

“Non hai avuto le palline per dirglielo, eh?”

Deon esplose dalla sua vergogna per difendersi.

“Ho provato a fermarla!”

Luc ridacchiò

“Non è la stessa cosa!”

Luc con affetto si prese Deon addosso con un braccio, e lui si avvinghiò con le braccine intorno al grosso collo e posò la testa comodamente su una spalla. A quel punto Luc se lo portò a spasso a piacimento.

“Vedi…”

Cominciò la parabola.

“Se te metti i paletti alle persone, gli dici cosa devono fare perché comandi tu, non solo si arrabbiano, ma poi spesso fanno proprio l’esatto opposto!”

Deon si rilassò. Forse forse avrebbe potuto anche addormentarsi. Nel contempo Luc incrociò lo sguardo con il padre di Deon, che era intento uscire dalla macchina parcheggiata mentre recuperava la cartellina dell’ufficio dal sedile del passeggero. Un contrasto di sguardi, cattivo sangue che scorreva per discordie, tutto tenuto in disparte però, e si ritrovarono faccia a faccia, consegna della staffetta.

Ma prima Luc doveva finire la parabola, e il genitore avrebbe aspettato, e se gli fosse interessato qualcosa avrebbe anche ascoltato o meglio ancora partecipato. Perché Luc non ammetteva essere interrotto.

“Invece, se dici loro come ti senti, quello che provi verso di loro, e come ti fanno sentire quando fanno certe cose, poi come minimo li fai sentire in colpa, e per lo meno fai capir loro che contano tanto per te e hanno il poter di farti del male, ma anche, se vogliono, di farti del bene. E io credo che gli esseri umani fondamentalmente vogliano fare del bene”

Che fosse invidia o possessività o antipatia, la smorfia dell’altro verso Luc fu tale da mettere a rischio l’incontro già delicato, ma la pazienza di Luc d’altronde fu tale da lasciar rimbalzare il rischio, e così il bimbo fu passato di braccio in braccio con tale gentilezza che il processo di addormentamento poté proseguire ininterrotto. Deon era tra le cure di Morfeo già prima di salire le scale.

Il giorno dopo si era messo in moto.

Entrò nel Celtic Pub nel suo appariscente vsestiario da Indiana Deons e confrontò una delle bariste tra occhiate stranite dei pochi clienti dell’ora di pranzo.

“Una statua?”

La barista era scettica. Aveva appena superato il fattore shock di veder entrare il puffo sbiadito lentigginoso e adesso questa proposta… Forse nella sua traduzione francese-spagnolo aveva perso un passaggio. L’esile donna si sforzò di prestare più attenzione al bambino.

“Sì, una statuetta. Pilar! Voglio costruire una statuetta per Majael, così posso pregare che torna.”

Pilar si guardò intorno. C’era poca ma troppa gente nel Pub per parlare liberamente di statuette per le preghiere, quello non era mica un convento o un centro catechismo. Si chinò sul bancone per abbassare la voce e si munì di un boccale e di un panno per fingere di asciugarlo perpetuamente.

“Ma porqué proprio una statuetta? Y qui ès questa Mahael?”

Deon analogalmente si guardò intorno, si alzò sulle punte delle scarpe, e parlò a Pilar con estrema discrezione, quasi un bisbiglio, assimilando involontariamente anche l’accento spagnolo.

“Mahal è uno spirito. Un fantasma”

Pilar si ricordò e sorrise e annuì.

“Ahah! Ti è piaciuta la mia storia de fantasmi, eh, niño…?”

Deon proseguì con invariata serietà.

“Allora, mi aiuti?”

Il volto di Pilar si racchiuse in una smorfia di ingenua curiosità.

“A que serve e la statueta… Veramente?”

Deon sospirò per farsi coraggio.

“A farla ritornare sana e salva. Te l’ho detto!”

Pilar annuì pensierosa.

“Mmh… Da dove?”

“Dal Canada”

Pilar si congelò, sforzandosi di trattenere la sorpresa, rifletté rapidamente e poi decise di sgranare gli occhi melodrammaticamente.

“Uuuuuuuh… Vuoi fare una maghia potente, niño! Te servirà uno spirito guida!”

Deon si preoccupò al punto da alzare la voce.

Uno spirito guida?”

Pilar s’imbarazzò e con l’indice sulle labbra lo invitò a tornare alla discrezione.

“Sì. Devi trovar uno spirito guida per questa Mahya”

“Mahael!”

Deon scosse la testa. era confuso.

“Majael!”

Pilar si corresse ridacchiando divertita. Deon prese fiato e con gli occhi carichi di spirito d’intraprendenza scavò più a fondo.

“Ma come dev’essere questo spirito guida?”

Pilar si lasciò sfuggire un ghigno di soddisfazione.

“Eh beh… Deve esser bueno, no?”

Deon abbassò lo sguardo e si fermò a riflettere. Pilar sistemò il boccale al suo posto. Poi puntò l’indice sul bambino attirando la sua attenzione e si confidò.

“Te presterò la mia pietra morbida. Perqué me stai simpatico”

Deon sgranò gli occhi incuriosito.

“La pietra morbida?”

Pilar ridacchiò, pronta a giocare sull’ignoranza del bambino.

! È fatta apposta per queste maghie. Vedrai! Farà al caso tuo! Però poi te la vedi te, eh. La statua la fai te. Non te posso aiudar a far anche quella, o se no la maghia non verrà”

 

Deon mostrò la statuetta-sgorbio a Luc nel loro posto preferito alla fontana della piazza di Rue des Tanneurs. Non era morbida la statuetta perché era stata nel forno a cuocere e ora era dura e salda, e non era pietra ma argilla. Aveva delle vaghe sembianze umane, ovvero presentava una sorta di testa, un busto, e degli arti. Per il resto era uno sgorbio. Ma Luc sorrise con sorpresa ed entusiasmo. Sembrava piacergli.

“Artista! Sei proprio un’artista! Com’è che si chiama?”

“Mahael!”

“Maya…”

“Ma-ha-el”

“Mayel”

Deon sbuffò. Luc rise divertito e imbarazzato allo stesso tempo. Deon era serio.

“Ora però mi serve uno spirito guida per Mahael o non troverà la strada di casa”

Luc rigirava la statuetta tra le mani, osservandola con scetticismo e curiosità, poi fece spazio sulla gamba per farci sedere Deon, e incrociarono gli sguardi. Luc prese fiato, e parola.

“Ma dov’è che è andata questa Maya?”

“Ma-ha-el”

“Sì, lei!”

“Te l’ho detto! È andata in Ca-na-da!”

“Sì, dio bono, il Canada lo conosco!”

Luc cullò Deon molleggiando la gamba. Si divertirono implicitamente mentre entrambi riflettevano indipendentemente.

Poi Luc elaborò.

“Beh, se ti serve uno spirito guida per far attraversare a ‘sta crista un intero oceano, mi sa tanto che dovrà volare, perché per mare…”

Luc sospirò e perse lo sguardo scoraggiato sulla fontana. Deon invece d’un tratto ebbe l’intuizione geniale.

Il Grifone! Ma certo!”

“Il che?”

Deon calmò l’entusiasmo per poter spiegare meglio a Luc la storia. Si sistemò adeguatamente sulla sua gamba fino a trovarsi stabile così che poté cominciare a gesticolare.

“Mahael ha perso la strada di casa quando è partita perché il suo aereo l’ha portata via”

“Che s’è schiantata?”

Luc fece una smorfia di ironia.

“Sì!”

Non aspettandosi tale risposta, Luc si sentì subito in colpa.

“Dio bono!”

Deon restò serio e lucido e continuò il ragionamento.

“E per ritrovare la strada deve passare da una bocca di leone come prova di coraggio. E il leone magari è solo la faccia del Grifone! E i Grifoni coprono lunghe distanze senza stancarsi!”

Deon stava contagiando Luc con il proprio entusiasmo.

“Wow! Che figo! Sei un genio!”

Lo guardava come si guarderebbe un bambino piccolo che compie i primi passi.

Deon intanto era concentratissimo.

“Allora! Geografia!”

Luc aggrottò la fronte.

Sempre gesticolando, Deon proseguì, a mo di professore.

“Quanto dista il Canada dalla Bretagna?”

Attese una risposta. Luc cadde dalle nuvole.

“Errr… qualcosa come tremila miglia?”

Il sarcasmo di Luc. Deon sgranò gli occhi, trovando la risposta inquantificabile secondo la sua conoscenza di alunno di terza elementare.

“Quante ore di volo ci vogliono?”

Luc ridacchiò.

“Mah… In Canada ci so stato, chicco. Otto ore e venticinque, Parigi-Montreal. Scalo a Londra Heathrow. Oltre le mille euro. Per un bambino facciamo sulle ottocento…”

Deon non era soddisfatto della risposta, quindi si affrettò a precisare meglio la domanda.

Nooooo! Intendevo quante ore di volo grifoniano ci vogliono…?”

Luc dapprima era scettico poi rise divertito.

Deon rifletté, invece, fece i suoi calcoli mentali, e poi concluse da solo, senza l’aiuto di Luc.

“Io direi un’ora e quindici minuti, senza scalo”

Luc tirò fuori di nuovo lo sguardo da tenerezza per bimbo piccolo che cammina per la prima volta.

“Wow! Più veloce del Concorde!”

“Cos’è il Concorde?”

Luc roteò gli occhi per ironica delusione e dopo rise.

 

Deon rise. Poi si ricompose. Il sole gli bruciava la nuca mentre stava a testa china verso la radiolina, in ginocchio in cima alla scogliera, con l’oceano in fermento, il vento pregno di sale e le nuvole minacciose all’orizzonte.

“Base, qui Valkyrie, mi ricevi? Passo!”

Deon portò la radiolina all’orecchio. Gracchiava e lui annuiva. Poi di nuovo alla bocca.

“Valkyrie comunica missione pietra morbida. Compiuta. Pausa… Soggetto tornato alla base. Passo”

Radio all’orecchio.

“Ricevuto. Riequip. Dettagli su Jetwish. Stand-by fino a nuovi ordini. Valkyrie. Chiudo”

Aveva il sorriso stampato in faccia nello spegnere la radiolina.

 

Quello stesso sorriso gli tornò quando, svegliandosi, sentì il calore corporeo di qualcuno lì con lui, nel buco del muro. Il mostro non era più tornato. Invece delle esili braccia si erano avvinghiate intorno al suo addome, e lui le aveva abbracciate a sua volta. Erano braccia vive, sentiva il sangue scorrervi all’interno, pulsare al battito ritmico di un cuore che se si concentrava poteva percepire anche dietro la schiena, a contatto con il torace di quella personcina che gli faceva compagnia.

Mugugnò, nel tentativo di dire qualcosa, ma le parole non si formarono, e il suono si disperdette nell’anfratto come sott’acqua.

 

Poi si svegliò ansimando ed era rannicchiato sotto al tavolo nella stanza. Il sole filtrava dalla finestra e il baule era davanti alla porta. C’era la grata anziché un buco nel muro e non c’erano mostri né esili personcine calde.

Però la pipì sotto se l’era fatta comunque.

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