Won't you be my blushing bride

di Lost In Donbass
(/viewuser.php?uid=628201)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Angeli hawaiani ***
Capitolo 2: *** Hanno rapito Bill-chan ***
Capitolo 3: *** Riprendiamoci Bill ***



Capitolo 1
*** Angeli hawaiani ***


WON’T YOU BE MY BLUSHING BRIDE?

CAPITOLO PRIMO: ANGELI HAWAIANI

Dedicato a Dharkja, lei sa perché!
 
Tom Kaulitz, per una volta in vita sua, poteva davvero dirsi completo e in pace con sé stesso, sdraiato sul piccolo divano verde dell’appartamentino della Amburg Strasse, gli occhi persi oltre le luci di una Berlino bollente in pieno agosto, guardando le stelle che pallide si affacciavano nel velluto nero del cielo malato dalle luci dei lampioni e dei locali notturni. Si passò una mano tra i capelli, che dai grassi dreadlocks biondicci erano diventati cornrows scuri, dopo che Bill si era lamentato del fatto che si fosse fossilizzato sui rasta senza avere voglia di cambiare almeno un pochino. E Tom aveva ubbidito al suo viziatissimo fidanzato, presentandosi poi nel Distretto Dieci con grosse treccine, un sputo di caffè sconvolto di Georg, e un pugno in testa del povero commissario capo Mann che doveva ancora venire a patti col fatto che il suo migliore agente, il Segugio di Berlino, fosse gay, fissato con le mode giamaicane, e allergico alla divisa regolamentare, siccome si presentava sempre coi suoi vestiti sformati. Ma alla fine, gli ricordava sempre Tom, non erano forse il Dieci, il distretto dei ritardatari, degli sfigati, dei casi clinici e dei sempre in bolletta? Dunque, perché proprio loro avrebbero dovuto attenersi alle regole che le Frittelle di Cervello imponevano, loro, che rappresentavano in tutto e per tutto il commissariato da telefilm, che con la sua illogicità e la sua carenza di mezzi riusciva però gloriosamente a risolvere casi fuori dal mondo? Nessuno aveva dimenticato il Serial Killer delle Croci, anche se la sua vicenda era stata tenuta nascosta il più possibile dall’opinione pubblica, per non scatenare un vespaio di scandali assurdi. Il pazzo era morto, la popolazione era al sicuro, bastava quello. Alle famiglie di quei poveri giovani uccisi (Tom ricordava ancora con orrore quei corpi sfigurati da croci e simbolismi coreani, quei ragazzi innocenti che si erano trovati vittime di un pentacolo tessuto da un demone impossibile da definire come uomo) era stata semplicemente mascherata la verità, chè di raccontare a quei genitori scavati dal dolore che il loro figlio, o la loro figlia, erano stati ammazzati solo per compiacere le paturnie di un ragazzo oltremodo possessivo e invischiato nella mafia nordcoreana proprio non glielo diceva loro il cuore. Era bastato un “Si è suicidato, i vostri figli sono vendicati” per calmare quegli occhi bruciati dall’insonnia e dal rimorso, per farli chiudere nel loro lutto eterno e sotterrare quel caso che nascondeva troppi dettagli bollenti per poter essere dato in pasto alla gente davvero in alto o alle persone comuni. Un omicidio coperto, l’uomo più ricercato del pianeta, un poliziotto ai limiti della legalità: notizie esageratamente scottanti da chiudere in un freezer e non tirarle più fuori sino al secolo successivo.
Tom andava avanti così, esattamente come prima di conoscere Bill. Squinternato, lavoratore oltre misura, sognatore. Però aveva il moro dalla sua, e questa era una “vecchia novità” che addolciva la sua vita in ogni sua sfumatura. Erano già due anni che vivevano pacificamente insieme, e che tiravano dritti per le loro vite così diverse eppure così intrecciate indissolubilmente. Uno al servizio della legge, integerrimo nel combattere il crimine e l’altro un assassino al servizio della malavita. Eppure erano così perfetti insieme che a volte Tom si chiedeva se non gli avesse dato quella notte un passagio come sarebbero entrambi finiti, senza l’altro che completava alla perfezione il loro specchio. La loro assurdità li faceva essere perfetti insieme, lui che era sempre il solito, impacciato Tom e Bill che rimaneva la solita carica di sensuale malizia. Sì, Tom si poteva dire un ragazzo felice, anche in quel momento, con i Green Day a tutto volume nelle vecchie casse, lo sguardo perso nella notte e la voce sensuale e melodica di Bill nell’orecchio
-Gattino, mi manchi tanto, lo sai?
Non sapeva se odiare o amare quel tono capriccioso e infantile eppure così eccitante e provocante, soprattutto quando erano lontani oceani. Era già una settimana che Bill era alle isole Hawaii, dall’altro capo del mondo, per svolgere una faccenda per conto di July e a Tom mancava così tanto da fare male. Gli mancava Bill, gli mancava tutto di lui, come una droga terrificante che lo lasciava spossato nell’animo, come i protagonisti di Trainspotting era perso senza la sua eroina personale da iniettarsi dappertutto, un Sick Boy tedesco dipendente da un paio di grandi occhi neri come l’inferno e truccati come la peggiore delle battone, che con un solo ammiccamento lo facevano capitolare come Rossana aveva fatto capitolare Alessandro Magno, una forza splendente e totalizzante che andava ogni anno fortificandosi, quasi che più si lasciasse dietro stracci di Will più riuscisse a illuminare le sue iridi intergalattiche, dove roteavano silenziosamente tutti gli arabeschi dell’Alhambra, le monumentali statue di Bangor, le statue del Bernini e i quadri del Masaccio. Bill era arte allo stato puro, la grondava da ogni angolo come ogni angelo che si rispetti, musa di tutto lo spettacolo artistico mai creato, frutto della più delicata perfezione celeste. I suoi occhi erano splendidi Turner, le sue movenze delicatissimi Prassitele, la sua bellezza una sventagliata di Raffaello, la sua vitalità un tripudio di Ernst, la sua follia una cascata di Kirchner, il suo stile esagerato una spruzzata di Kandisky. Era la sua Clio, quando gli raccontava le storie assurde che viveva quando erano lontani, accoccolati sul divano, Bill impegnato ad accarezzarlo e lui che lo stringeva come a non volerlo più lasciare andare, la voce melodiosa che narrava e si faceva narrare, costruendo panorami che Tom tentava di dimenticare non appena arrivava il solito “Shh, Tomi, giura che non lo dici a July-chan che te l’ho detto!”. Era la sua Euterpe, quando andavano fuori la sera con i G&G, Claudia e Raghnild, Heike e Kalle, se tornava in Germania, e Bill rideva gettando indetro la testa, scuotendo i lunghi capelli corvini, appeso al suo braccio con un sorriso sincero che si allargava sul suo viso troppo effeminato. Era la sua Tersicore, quando ballava in casa, mezzo nudo, Lady Gaga sparata a tutto volume nelle casse, e quei kris che a Tom facevano sempre un po’ paura che si faceva roteare tra le dita con un’abilità un po’ inquietante. Era la sua Thalia e la sua Melpomene, quando si rivedevano dopo una breve separazione e si lanciava in buffe commedie da due soldi, stringendolo forte e sfregandogli il nasino perfetto nel collo, come ogni volta che scommettevano su qualcosa e irrimediabilmente Bill vinceva, con quel sorrisino da sfotti sulle labbra. Era la sua Polimnia e la sua Calliope quando cantava, che fossero strane ninnananne coreane, che gli sussurava nell’orecchio tenendogli la testa sulle sue gambe come a un bambino, e aveva una voce così dolce e così melodiosa, eppure così forte e trascinante da fare male al cuore, che fossero canzoni da strillare sotto la doccia o mentre spignattava, saltellando di qua e di là, o che fossero semplicemente melodie da cantare la notte fonda, quando pensava che Tom dormisse. Invece lui era sveglio, e lo guardava, appoggiato alla finestra aperta, il vento che gli scompigliava la chioma, il corpo snello e flessuoso avvolto nella vestaglietta trasparente, la sigaretta tenuta tra le belle dita magre, lo sguardo perso nella notte, sopra ai tetti, verso la luna, e Tom aveva capito benissimo che quelle erano canzoni che gli ricordavano Will, ma lo lasciava stare, a cantare il suo passato e la sua malinconia. Era la sua Urania, quando gli faceva sempre vedere quanto sapesse di cose assurde, mentre Tom rimaneva sempre il solito ignorante che dalla scuola non si ricordava assolutamente nulla, e chiacchierava con July di cose così inconcepibili e complesse che Tom preferiva sempre starsene con June-Mei-Rin e May-Ran-Mao a giocare a quello strano gioco nordcoreano di cui non aveva ancora capito le regole. Era la sua Erato, quando erano sotto la doccia, e Bill gli si inginocchiava sensualmente in mezzo alle gambe, guardandolo con quella faccia così maliziosa eppure così graziosa o quando erano a letto, ed allora era sempre lui a iniziare, a rotolargli sopra e a ingabbiarlo tra le sue braccia muscolose, baciandogli il collo e scendendo sempre più giù, guardando quel corpicino pallido e flessuoso rispondere con gioia ad ogni tocco, le unghie che gli graffiavano la schiena. Bill era semplicemente tutto per Tom, come Tom era semplicemente tutto per Bill. Una spalla su cui piangere, una colonna su cui appoggiarsi, una persona da cui nascondersi quando si ha paura, un punto fisso che non se ne sarebbe andato. Erano il nido di un gabbiano, un porto amico per un marinaio, la terra natia per un soldato.
-Anche tu mi manchi, angelo.- disse, sorridendo come un ebete, immaginandosi Bill in qualche casetta di quei resort di lusso, seduto su quei comodi letti bassi, le tende bianche che sventolano dalla veranda e mostrano il mare meraviglioso, e lui che ricarica una pistola col silenziatore oppure che affila meticolosamente una katana. – Per quando pensi di finire?
-Uhm, non lo so, Tommuccio. Non posso parlarne per telefono, lo sai.- mugolò Bill dall’altra parte del filo, e per un secondo il ragazzo fu quasi sicuro di sentire una risatina da parte del moro. Probabile, come no. – Non dovrebbe mancare tanto, però. È un lavoro piuttosto semplice … ahia!
-Ehi, Bill, che hai?
-Niente, Tom, stai tranquillo. Mi sono solo punto con la punta della katana, niente di che. Non mi esce nemmeno del sangue.- Bill rise, quella risata bellissima e scrosciante come una cascata di rubini e diamanti che danzano nell’impalpabilità del Mar Baltico. Tom chiuse gli occhi, figurandoselo mentre rotolava sul letto, la lingua decorata dalla pallina argentata che leccava il dito ferito, il babydoll di delicata mussola bianca che usava per dormire, i capelli accuratamente acconciati in un morbido muccio, qualche maschera di bellezza sul viso.
-Stai attento con quella roba.- grugnì di rimando, grattandosi una guancia – Rischierari di affettarti un dito, prima o poi.
-Ma Tom! Non mi crederai mica uno sprovveduto, dopo tutti questi anni che vivo a stretto contatto con le armi.- sbuffò Bill, e Tom non fece fatica a visualizzare le guanciotte del fidanzato gonfiarsi come quelle di un criceto e svuotarsi con uno sbuffo innocente e infantile – Ti preoccupi troppo, tesoro. Rilassati.
-Non posso “rilassarmi” quando so che tu sei da solo dall’altra parte del mondo a fare non so bene cosa contro un’organizzazione criminale non meglio identificata.- ribatté di rimando Tom, alzando gli occhi al cielo.
-E non pensi a come possa stare io sapendo quanti pericoli sicuramente più tangibili vivi tu, in mezzo a una selva di criminali di bassa lega che, se permetti, sono molto più pericolosi dei veri signori della malavita?
Per quanto la voce di Bill cercasse di essere ironica, Tom udì un leggero velo di serietà e di reale preoccupazione. Da quando si erano ritorvati a fare i conti con la morte, sembrava che Bill avesse sviluppato nei suoi confronti una sorta di morboso attaccamento che lo faceva tormentare più di quanto avrebbe fatto normalmente. Forse aveva paura che Tom si ritrovasse nuovamente coinvolto con assassini del calibro di Will, e che questa volta il suo acume e il suo scanzonato coraggio non riuscissero a salvarlo. A volte lo guardava, quando era troppo concentrato su un caso e lo ignorava quasi, e si mordicchiava pensoso il labbro inferiore, accarezzandogli distrattamente le spalle, gli occhi piegati melanconicamente all’ingiù, come se stesse per mettersi a piangere. Bill era un ragazzo sensibile, dopotutto. Aveva vissuto tanti di quegli orrori che Tom non era nemmeno sicuro di conoscere tutti, eppure non ne era uscito fortificato, insensibile, bruciato dalla sua stessa sfortuna tanto da essersi creato una corazza in distruttibile. No, per quanti incubi infestassero la sua mente e i suoi occhi d’inferno, Bill aveva la dolcezza e la sensibilità che solo i puri di cuore possono avere, si emozionava per un tramonto e piangeva quando leggeva libri troppo romantici. Era umano, aveva un’anima leggera come un velo di seta cruda e tintinnava come avesse appesi milioni di perle giapponesi, un fantasma fuggitivo di qualche bellissima dama dimenticata da secoli.
-Comunque, indovina come sono adesso?- cinguettò Bill, quella carica di sensuale malizia a cui Tom non avrebbe mai potuto resistere.
-Sdraiato sul letto, con la katana in mano, la vestaglia trasparente che sventola?- ipotizzò Tom, figurandosi per un attimo Bill sprofondato tra le fresche coltri di lino, la vestaglia di seta cruda trasparente semislacciata sul suo corpicino perfetto e sodo, il tatuaggio dei triangoli ancora in bella vista, e la spada luccicante in mano. Una visione paradisiaca di un angelo steso nel candore e illuminato dalla totalizzante luna del Pacifico, bello come solo gli angeli lo possono essere, etero come un soffio di vento, letale come il Fuoco Celeste.
-Oppure, senza vestiti, la katana affianco, la luna che mi inonda di luce, una mano in mezzo alle gambe e tanta, tanta voglia di te …
-Smettila, Bill.- grugnì Tom, chiudendo gli occhi. Lo faceva apposta, lo sapeva, provava un insano divertimento a portarlo al limite e poi lasciarlo lì, mollarlo giusto un millimetro prima del precipizio infernale. Lo aveva fatto sin dal primo momento in cui l’aveva caricato sul vecchio maggiolino verde oliva (che, oltretutto, resisteva impavido nelle mani di Claudia e Raghnild) e non la smetteva nemmeno adesso, dopo due anni di convivenza e di fidanzamento. Erano fatti così, loro due, troppo dipendenti uno dall’altro eppure anche troppo amanti di loro stessi per permettere di lasciarsi completamente consegnare a qualcuno che non fosse la loro anima. La loro diversità li portava, in fondo, a essere uguali. Credevano in qualcosa in maniera così forte da farsi male, e che uno fosse ciecamente fedele alla Giustizia e credesse nella sua divisa più di quanto credesse in sé stesso e l’altro avesse fatto un giuramento di sangue con l’uomo più pericoloso e ricercato del pianeta e che si fosse consacrato a lui, non importava. Si amavano di un amore talmente trascinante, fuori dalle righe e paradossale da averli salvati, quando entrambi sembravano sull’orlo di collassare, perché se per uno l’amore era servito a capire davvero cosa volesse dalla sua vita, all’altro era servito per scappare dalla sua condizione mostruosa e inumana. Avevano un senso dell’onore che li aveva uniti e li aveva salvati, l’onore di un ragazzo dal cuore puro che voleva solo fare del bene per gente che conosceva solo il male e salvare anime che nessuno avrebbe mai salvato, l’onore di un altro ragazzo che non aveva mai conosciuto altro che la rovina, la vergogna, il supplizio e la morte in ogni sua forma. Conoscevano la speranza, quella vera, quella che aveva mostrato a uno un mondo che non credeva potesse esistere e l’aveva spinto a reagire per i valori in cui credeva, la speranza per l’altro, che non sapeva nemmeno cosa volesse dire, che aveva ormai chiuso con ogni stupore, troppo abituato a venire zittito per potersi permettere il lusso di sognare.
Si erano salvati a vicenda Tom e Bill, avevano insegnato all’altro l’amore, la fiducia, l’affetto, la forza di reagire sempre, qualunque cosa potesse accadere, ed erano sempre lì, insieme, legati da un passato che avevano deciso di tacere per il bene di tutti, consci che l’omertà del Distretto Dieci era stata ben poca cosa rispetto a quello che aveva dovuto fare July per preservare la vita di Bill. “Non si uccide un jejag doen ink-geu” gli aveva detto nemmeno due anni prima, anche se sembrava fosse passata una vita intera; eppure, la regola nel loro caso era bellamente andata a farsi friggere. Forse anche July amava Bill, si era ritrovato a pensare Tom. Come non accorgersi di quelle occhiate velate di affettuosa malinconia che gli rivolgeva, con quei suoi grandi occhi neri ricoperti di glitter, gli occhi che all’agente facevano ancora così impressone? Come non rendersi conto del legame che li univa, forse ancora più forte di quello che avevano Tom e Bill stessi? Come non leggergli nelle pupille quella sottile mestizia, mestizia di un uomo che aveva perso la bambola che tanto amava e che tanto proteggeva, forse andando anche contro l’effettiva importanza tattica di Bill. Se lo ricordava come fosse ieri, quando gli aveva detto che lo aveva tenuto con sé, che lo aveva spronato a salvarsi dalla bestia che Will nascondeva sotto l’efebica e glaciale bellezza, che voleva solo il meglio per lui. Perché dunque preoccuparsi tanto di un ragazzo berlinese senza famiglia e senza passato, se non giusto perchè lo amava di un amore così viscerale da volere davvero solo il meglio per lui? Avrebbe potuto averlo come niente, Tom era consapevole della dipendeza che Bill aveva nei confronti di July, ma non lo aveva fatto, glielo aveva consegnato su un piatto d’argento, con uno di quei suoi inchini sarcastici e il sorrisetto sardonico. Sapeva che Bill voleva Tom, e lo aveva accontentato, rinunciando e tirandosi da parte. Quale uomo avrebbe avuto la forza di fare una cosa simile? Solo July, appunto, July, di cui Tom non aveva ancora capito l’età, la provenienza reale, la magia che si nascondeva dietro il fumo della sua kiseru.
A volte si sentiva quasi in colpa, quando li guardava chiacchierare in coreano, e vedeva quella sottile ombra sulle spalle gracili del giovane coreano, la stretta che sapeva di abbandono della sua microscopica manina con le sue leggendarie unghie ad artiglio smaltate sul braccio del moro. Gli doleva che Bill sembrasse non accorgersene, mentre se ne accorgeva lui, che avrebbe anche dovuto ignorare la sola esistenza dello Scorpione di Fuoco nel piccolo negozietto della  Constanze Strasse.  Si passò una mano tra le treccine, stiracchiandosi pigramente sul divano
-Uhm, come sei bigotto, agente.- sbuffò Bill, soffocando una risatina – Comunque, come stanno i bambini di Kalle? E le due Eva?
-Stanno benissimo, anzi, mi ha detto che dovrebbero venire in Germania, lui e i bambini. Ce li porta a conoscere di persona!- rispose Tom, sorridendo da solo. I figli del suo amico coi capelli blu oltremare e i tatuaggi sparsi per tutto il corpo erano diventati la mascotte del gruppo, anche solo dai collegamenti skype nelle riunioni settimanali a casa di Georg e Heike, la coppia più fischiata, sia nel bene che nel male, di tutto il Distretto Dieci. Quei quattro bambocci coi capelli biondi come ogni svedese che si rispetti uguali a Eva Lisa ed Eva Lotta, le mitologiche fidanzate gemelle di Kalle, portavano sempre lo spirito per iniziare un nuovo caso col piede giusto.
-Ma ci avrei tenuto così tanto ad esserci anche io a vederli … - mugolò Bill, e Tom sentì un rumore ovattato di lenzuola che si scostavano – La zia Bill, non suona divinamente?
-Sarai la zia più originale che sia mai esistita, tesoro.- Tom rise, alzandosi finalmente dal divano verde con le nappe, osservando sempre con malcelato timore le katane, i pugnali yemeniti e i kriss appesi al muro, ingoiando a vuoto come ogni volta che realizzava che quelli non erano semplici suppellettili, come li aveva abilmente venduti ai suoi genitori una volta che erano andati a trovarli lì a Berlino. No, quelle erano tutte armi che avevano mietuto delle vittime, sporche di sangue di ogni razza e religione. A volte era come se non realizzasse del tutto che Bill era, comunque, un mercenario, un assassino, un sicario. Separava nettamente la figura che aveva sotto gli occhi tutti i giorni da quella violenta e selvaggia nella quale si tramutava quando era ora di diventare la guardia del corpo di July. Non voleva sapere chi avesse ucciso, ferito, minacciato con quelle lame che affilava ogni giorno, a chi avesse sparato con quelle pistole, quei fucili di precisione, quelle piccole balestre da caccia che teneva sotto chiave nello studio, ben lontani dalle mani impacciate di Tom.
Sentì Bill ridere dall’altra parte del filo, e sentì anche il suono soffocato di un altro telefono che squillava, seguito subito da un gemito dispiaciuto
-Oh, gattino, scusami … devo lasciarti, mi stanno chiamando i contatti. Ci sentiamo domani, sì?
Tom sbuffò, seccato. Odiava essere interrotto quando parlava al telefono col suo fidanzato lontano chilometri e chilometri da casa, come se lui non avesse diritto di parlargli per quanto tempo voleva.
-Come vuoi, B. Mi raccomando, non metterti nei casini.- si raccomandò, appoggiandosi distrattamente al muro del salotto, tra una spada e un poster della Marvel che aveva portato dal suo vecchio appartamento nella Brandenburg.
-Ma quando mai, cucciolo, quando mai?!- Bill rise dolcemente, e Tom poté vedere le sue belle dita lunghe e inanellate avvolgersi attorno a uno dei piccoli dread bianchi che aveva tra la folta capigliatura corvina. – Ti amo tanto, a presto!
Non fece nemmeno in tempo a rispondergli, che la telefonata fu chiusa con un freddo e secco click. Sì, abbastanza rapido, ma non abbastanza per non permettere all’allenato orecchio del Segugio di Berlino di sentire uno strano tonfo, in lontananza. Ma forse era soltanto lui che si preoccupava troppo di un angelo autostoppista, in fondo.

***
Ciao gente! Eccomi qui, come mi era stato espressamente chiesto, sono tornata col mirabolante sequel di Wont'you be my bloody Valentine! Ammetto, che come primo capitolo fa un po'schifo, ma se sapete aspettare vi giuro sul cd di Scream che diventerà molto più bella, sempre frutto dei miei problemi mentali tra Criminal Minds e Tokio a palla ... beh, non è che ho molto da dirvi, se non che, ai nuovi arrivati, sarebbe consigliabile darsi una letta alla precedente, più che altro perché vorrei che non rimanessero punti in sospeso per nessuna di voi, ecco :DD
Che dire, spero che vi piaccia e mi raccomando recensite in tante!!!!!!
Bacio, :**
Charlie xxx

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Hanno rapito Bill-chan ***


CAPITOLO SECONDO: HANNO RAPITO BILL-CHAN

Il famigerato Distretto Dieci di Berlino era sempre rimasto invariato, Will o meno. Ci si raccoglievano tutti gli elementi più squinternati della Polizia tedesca, insieme a Mr.Mistake, il grasso gatto che continuava beatamente a riposare sulla loro stampante e accudito amorevolmente da Heike, la loro ottima patologa che finalmente, dopo anni di lotte incessanti, aveva capito che Tom era irraggiungibile per motivi propriamente tecnici, e che aveva finalmente ceduto alle lusinghe di Georg. Con quanti fischi e con quante battutacce irripetibili era stato accompagnato il loro lieto annuncio, e quanto continuavano ancora i commentini di Gustav, ogni volta che la coppia più chiacchierata del Dieci faceva il suo trionfale ingresso insieme la mattina. Erano sempre lì, tutti quanti, a barcamenarsi nella stazione di polizia più calda della capitale, i soliti ventilatori rotti dopo l’ennesima bolletta non pagata, il caffè rancido della macchinetta che non aiutava e Mr. Mistake che dormicchiava sereno sulla stampante. Tom, in realtà, assaporava questo ambiente lavorativo intimista e familiare, il legame che univa tutti i colleghi del Dieci, che se erano finiti lì dovevano per forza essere casi sociali come lui, quella solidarietà forse un po’ corrotta che teneva unite le pareti marcescenti e i casi scottanti che oramai venivano direttamente girati a loro anche se non si trovava implicato il loro distretto di competenza. Dopo il caso del Serial Killer delle Croci, essere agenti del Dieci comportava anche un certo orgoglio, un minimo di incertezza , la consapevolezza che quello non era e non sarebbe mai stato un distretto normale. Sì, decisamente Tom era soddisfatto quel giorno, intento a sfogliare fascicoli su fascicoli, la tazza di caffè annacquato accanto, il caldo insopportabile che gli appiccicava la maglietta alla pelle, le treccine tirate all’indietro e il piercing alla lingua martoriato per la concentrazione: era quella la sua vita, si diceva sempre. L’unica sua certezza dopo un angelo autostoppista. Si passò una mano sul collo, sospirando, e prese a sistemare un altro pacco di vecchi casi freddi, rispolverando i registri pieni di polvere che vegetavano nel Dieci da almeno un ventennio, quando l’affannata voce di Gustav si fece sentire, accompagnata dalla grassa presenza del biondo occhialuto nella stanza, sempre un po’ appesantito e sempre un po’ sconvolto
-Ehi, Tom, dammi orecchio!
Il ragazzo coi cornrows si voltò verso l’amico, finendo di impilare un fascicolo blu e spalancò i grandi occhi scuri
-Che hai, Gus? È successo qualcosa?
-Oh altroché se è successo, amico mio. Sbrigati a venire su, il crimine non dorme mai, e benché meno in sta città di merda. Un omicidio, bello, nella nostra giurisdizione.- Gustav si asciugò il sudore dalla fronte, pulendosi freneticamente le lenti – Georg è già partito, io e te prendiamo Berta.
Mentre correvano fuori nella pesante afa berlinese che gravava addosso a tutti schiacciandoli al suolo, Tom si ritrovò a pensare, sgraditamente, all’estate di due anni prima. Quando aveva conosciuto Bill, il caldo non era da meno. Ricordava lo stesso senso di soffocamento giornaliero che gli attanagliava il collo e non lo lasciava respirare, ricordava il sole malato dietro le nubi di umidità che illuminava Berlino in maniera così tossica da essere affascinante, ricordava quell’estate torrida e oscena, la sequela di incubi che si erano succeduti nella caligine bollente e che erano stati coronati dal temporale più violento che avesse mai colpito la città, quei tuoni che si erano inghiottiti il colpo di grazia che Bill aveva inflitto a Will, quei lampi che avevano illuminato lo shock sul viso di Tom, le lacrime su quello dell’angelo e il ghigno su quello del demone. Sembrava che le estati tedesche non portassero nessun bene alla coppia più squinternata di tutte. E nemmeno alla fida Berta, che resisteva impavida come mezzo più antico di tutte le forze di Polizia della capitale, con le sue porte attaccate con lo scotch e la sirena smontata.
-Briefing veloce, Gus, che si sa?- disse Tom guardando l’amico partire sgommando con la povera, vecchia carretta.
-Poco amico, anche se Georg e Heike sono già sul posto; è stato ucciso un uomo, comunque, pare in una maniera molto strana. Qualcosa che, non vorrei dirlo, mi ricorda il caso di due anni fa.- Gustav fece una smorfia eloquente, mentre Tom si lmitava a chiudere gli occhi e a sospirare. Non aveva bisogno di un nuovo serial killer ora che Bill era lontano, come non aveva bisogno di altri psicopatici che impestassero la sua città.
-Dici che Will sia …
-Will è morto. L’ha ucciso davanti ai miei occhi.
Il tono secco di Tom fece desistere Gustav dal continuare ad infierire, mentre svoltava seccamente in Rosen Strasse, un piccolo vicoletto dove si erano già affolati curiosi e volanti della Polizia. Ormai i due ragazzi si erano fatti le ossa di fronte all’odore di morte e di sopraffazione; c’era quel fastidioso verme che si era insidiato in loro e che li portava a pensare, nell’angoo più recondito del loro cuore “un altro”, quando l’altra metà di loro voleva piangere di fronte all’ennesimo omicidio che si trovavano a dover risolvere. L’assuefazione non si era ancora radicata del tutto nei loro cuori, rimaneva sempre quell’aura di mestizia e di orrore quando si trovavano chini su morti anzitempo, quell’odore pungente e acre che oramai si era infilato nella loro mente e non li avrebbe abbandonati tanto facilmente. A ben pensarci, si diceva a volte Tom, la notte, quando era così concentrato su un caso da non riusicre a dormire, lui e Bill erano fatti di morte, la loro storia puzzava di morte, tutti loro ne erano immersi. E se uno la combatteva e l’altro la portava, andava comunque avanti così e si facevano accompagnare dalla Nera Signora dovunque, oramai parte di loro più di quando volessero ammettere.
Si infilarono sotto i nastri isolanti della polizia, un grasso ragazzo biondo con i capelli unti e uno skater con le treccine senza divisa regolamentare che nessuno poteva credere agenti, con il loro accento provinciale e le espressioni da ragazzotti della periferia dell’impero.
-Pane per i tuoi denti, Tom.- lo accolse Georg, scostandosi i lunghi capelli castani dal viso – Non poi così tanto diverso da due anni fa.
Il ragazzo si accoccolò accanto a Heike, inginocchiata per terra a ispezionare il cadavere, che giaceva riverso sull’uscio di quello che era stata una casa di piacere ormai chiusa da tantissimi anni e mai ripresa. E il respiro gli si strozzò in gola.
Davanti a lui, corsero rapide tutte le immagini e i fotogrammi sparsi eppure orribilmente vividi della prima vittima mietuta da Will, quella povera ragazza tagliuzzata e dipinta col suo stesso sangue, con tanta di quella morfina in corpo e un buco del proiettile nella tempia e per un attimo un forte senso di nausea gli attanagliò lo stomaco. Se non era Will quella volta, chi sarebbe mai potuto essere a impestare Berlino con la sua impronta insanguinata? Non poteva credere che qualche altra associazione mafiosa avesse scelto la sua città come teatro per le loro guerra tra gang, mettendo in mezzo gli innocenti cittadini. D’altronde, non poteva negarlo, quella tra Will e Bill non era stata altro che una guerra di bande criminali che poi era sfociata in omicidi seriali, e, se doveva essere completamente sincero, una microscopica parte di lui era quasi contenta che fosse successo così: non avrebbe conosciuto l’angelo, se Will non fosse impazzito del tutto da spingersi a uccidere persone qualunque. Forse Bill sarebbe morto e lui sarebbe rimasto incompleto per il resto della sua grama vita. Deglutì rumorosamente, concentrandosi sul nuovo morto, un giovane uomo sulla trentina seduto in maniera bizzarra alla porta sbarrata della vecchia casa chiusa. Fece scorrere lo sguardo sulla camicia slacciata che mostrava il petto sfregiato da due lunghi tagli curvilinei che sembravano, a prima vista, colpi di spada, sul sangue incrostato sulla pelle come una delicata superficie nebulosa, fino ad arrivare al viso. Tom trattenne un conato a guardare la bocca dell’uomo, grottescamente e innaturalmente allargata in una risata perversa, gli occhi allucinati con ancora dentro il dolore e il terrore del momento in cui era morto.
-Dio, che scempio …- mormorò a mezza voce, per poi girarsi verso la bionda patologa – Che mi sai dire?
-Devi aspettare l’autopsia, come al solito, ma così a prima vista potrei dirti che i tagli che ha sul petto sembrano essere stati provocati da una lama molto affilata e molto precisa, sicuramente non da un coltello, per intenderci.- illustrò Heike, scostandosi una ciocca dal bel viso regolare, ammiccando all’amico ed ex fiamma mai corrisposta. – Le cause della morte non credo siano dovute a questo però, come nemmeno dallo sfregio che ha sul viso. Non so, Tom, fatemelo studiare e tra qualche ora vi so dire di più. Il resto, a voi.
Heike si alzò, scompigliandogli le treccine scure, lasciandolo da solo a rimirare quell’opera voluta da un qualche sadico scultore col gusto del grottesco. A modo suo, assomigliava alle vittime di Will nella sua orrida finezza di taglio e creatività. Osservò il cadavere venir prelevato dalla Scientifica, e cominciò a guardarsi attorno insieme a Georg, studiando il selciato dissestato del vicoletto dimenticato, attorno alle pattumiere strabordanti e dolorosamenti puzzolenti anche a causa del caldo torrido. Non pareva un posto qualunque; effettivamente, perché prendersi la briga di sedere la propria vittima sull’uscio di un luogo così fuori mano come quello eppure abbastanza conosciuto nel giro dei tossici per non essere mai completamente vuoto? E poi, come mai quello strano rituale sul viso e sul petto?
-Secondo me, l’hanno sbolognato qui per caso.- commentò Gustav, ruminando rumorosamente un pacchetto di patatine – Passavano con l’auto, hanno visto il vicolo vuoto e quale occasione migliore per disfarsi di un cadavere?
-Ma perché prendersi la briga di sederlo, scusa?- obiettò Georg, aggrottando le sopracciglia – Se l’avessero voluto davvero buttare via, l’avrebbero lanciato scompostamente sul terreno, forse al massimo l’avrebbero gettato nella rumenta.
-Ha ragione Geo, il luogo non è un caso.
Tom si era alzato, e l’espressione che aveva in volto fece immediatamente sospirare rumorosamente i suoi indolenti colleghi. Quando piegava la bocca in una linea sottile e fredda, induriva la mascella e guardava l’infinito, assottigliando i grandi occhi scuri, la voce che gli si faceva improvvisamente bassa e roca (“e straordinariamente sexy”, avrebbe aggiunto Bill se fosse stato lì), al Distretto Dieci si sapeva per esperienza che il Segugio era in azione, e non l’avrebbero fermato così facilmente. Nessuno aveva mai capito come un ragazzotto provinciale naif, giusto e idealista come lui potesse avere dentro di sé quell’innata dote che lo portava ad avere sempre una marcia in più in ambito investigativo, ma tutti ci avevano fatto l’abitudine e lo seguivano quasi ciecamente, tentando di tenere dietro ai cavalli furiosi del suo cervello che correvano per strade che tutti gli altri facevano fatica anche solo a vedere.
-Ragioniamo: la Rosen Strasse non è un luogo particolarmente centrale, ma è conosciuto per essere uno dei punti nevralgici per lo spaccio di eroina.
-Intendi dire una regolazione di conti?- intervennero in coro i G&G, lanciandosi un’occhiata esasperata.
-Non saprei.- Tom si grattò una guancia, incerto – Forse è un pochino fuori dai soliti canoni, ma non mi sentirei di escluderlo a priori. Ma l’hanno volutamente seduto sulla porta della casa chiusa, e questo deve per forza significare qualcosa. Georg, appena in centrale, fammi tutte le ricerche che puoi sul bordello. Gus, che si sa di quest’uomo?
-Nulla, capo.- grugnì il biondo – Dobbiamo passare all’identificazione, non aveva documenti.
-E allora tu occupati di questo mentre io vado da Heike ad aggiornarmi. Abbiamo trovato qualcosa qua intorno?- Tom si girò attorno con una strana euforia eccitata che lo coglieva sempre quando incappava in un  caso. Non vedeva l’ora di sentire Bill e tenerlo al corrente della cosa, sentendosi dire il solito “stai attento a non farti male, Tommuccio” che era diventato il suo mantra porta fortuna.
-Non so se possa servire, capo, ma vicino alla vittima c’era questo.- il piccolo Muller, che rimaneva sempre e comunque l’agente più male in arnese del Distretto Dieci si fece avanti timidamente, porgendo a Tom un piccolo orecchino con su montata una delicata perle – Pensa che possa essere utile?
Tom osservò da vicino il gioiellino, grattandosi il collo
-Non saprei dirti, Peter, comunque ottimo lavoro. Lo manderemo alla Scientifica e vedremo se ci possono dire qualcosa.
Strinse gli occhi, e squadrò le perline con una vaga opalescenza azzurrina. Assomigliava tanto a quella collana di perle giapponesi che aveva Bill e che, da quando si conoscevano, aveva indossato solamente una volta. Ripensò a come gli stava bene quel delicato gioiello che sarà costato due occhi della testa sul suo collo lungo e flessuoso, come il bianco delle perle si mimetizzasse con la sua pelle lattea e pulita, come le delicate luminescenze illuminassero il suo viso. Non sapeva esattamente la storia di quella collana, si era fatto andare bene quel vago “Me l’aveva regalata Will” accompagnato da un vago rossosore sulle guance e un repentino cambio di discorso, e non aveva insistito più di tanto quando Bill l’aveva riposta nella sua scatoletta d’avorio e gli aveva detto che per un po’ non l’avrebbe toccata. Non voleva sapere quanti morti e quanto sangue e sofferenza si nascondessero nella delicata maestà delle perle, aveva solamente annuito, aiutandolo a indossare la collana che gli invece gli aveva comprato lui, più volgare e molto meno cara rispetto a quella di Will ma che Bill indossava sempre con un sorriso e con uno squittio deliziato. Aveva tantissimi monili, nel cassetto, che passavano dalle pacchianate che si metteva così volentieri, a grossi anelli coi draghi dono di July, a miliardi di anelli, bracciali, collane di gusto estremamente raffinato ma che metteva solamente in rare occasioni. L’ombra di Will era ancora troppo presente per poter davvero indossare quelle meraviglie senza ricordare.
Tom inserì l’orecchino in un sacchetto di plastica sterilizzato
-Dove l’hai trovato precisamente?
Il piccolo Muller indicò timidamente uno spazietto dove prima il cadavere aveva poggiata la mano sinistra e Tom si grattò la testa. Un segnale? Qualcosa che funzionava come le croci sui corpi di due anni prima? O col pentacolo di sangue? Non riusciva quasi a capacitarsi che fossero tornati ad avere dei casi contorti come quello di due anni prima. Tom grugnì di disappunto, prima di incamminarsi verso la Centrale, l’orecchino in tasca che continuava a toccare nervosamente. C’era qualcosa che non andava, stava urlando il suo sesto senso, che solitamente non sbagliava mai in quei frangenti. Faceva caldo, quell’estate. E si sa che il caldo non porta altro che follia tra la gente e grossi guai per il Distretto Dieci.
 
-Allora, tesoro, novità?
Tom osservò Heike indaffarata dietro al cadavere con un lungo paio di pinzette poco rassicuranti, sventolandosi nervosamente. Quel morto sghignazzante a pochi metri da lui non stava aiutando la sua concentrazione.
-Altrochè!- esclamò la ragazza, togliendosi la mascherina dal viso e scuotendo i lunghi capelli biondissimi – Rognoso, amico, te lo dico già.
Tom fece una smorfia, avvicinandosi al tavolo dove la vittima giaceva ridendo grottescamente la sua infame fine nella Rosen Strasse. Guardò la pelle sfigurata dal velo di sangue secco come una delicata decorazione di tulle maledetto e si trattenne dal far passare il dito su quei decori osceni eppure così artistici se non fossero stati fatti sul corpo di un morto.
-Dall’esame tossicologico non risulta nulla di particolarmente venefico, se non un esagerata dose di ketamina. La suddetta è una droga sintetica usata soprattutto in ambiente veterinario come sedativo per gli equini, ma sull’uomo ha effetti eccitanti e allucinogeni, una sorta di ecstasy. La usano come droga dello stupro, anche.
-Dici che è usata nell’ambiente veterinario? Potrebbe c’entrare qualcosa con le corse di cavalli?- tentò Tom, accarezzandosi distrattamente le treccine.
-Potrebbe, ma tieni presente che ora la ketamina è ampiamente utilizzata in ambito giovanile come sballo.- Heike socchiuse gli occhi celesti – Non è mica detto che c’entrino per forza le corse agli ippodromi. Comunque, ketamina a parte, le ferite da arma da taglio che ha sul torace sono state fatte da quella che presumo essere una spada a lama ricurva, come una katana, per esempio.
Tom deglutì rumorosamente. Ogni volta che pensava a una katana, il pensiero lo rimandava meccanicamente a Bill, alle sue spade, all’unica volta in cui l’aveva visto di sfuggita, lottare come una sorta di geisha assassina e volteggiare per aria muovendo con una rapidità incredibile lunghe lame troppo affilate.
-E tutto pre mortem.- Heike scosse la testa, sospirando e trattenendo un conato di vomito – Anche il massacro della bocca. Gli è stata brutalmente eppure metodicamente aperta in questo orrendo sorriso con un coltello, e gli hanno tirato … la carne. La morte è stata causata, alla fine, da una semplice botta in testa, e oserei far notare la precisione con cui è stata data. Hanno beccato perfettamente uno dei punti cruciali, la morte è stata immediata.
-Dio, che scempio, Heike, che scempio. Siamo di fronte a una belva.- commentò Tom, grattandosi il collo – Ha goduto nel veder soffrire la sua vittima, ma non nell’ucciderla. È un sadico, dunque, non gli interessa la morte tanto quanto la tortura. Oltretutto, se la droga che hai nominato è anche una delle cosiddette droghe dello sturpo, possiamo desumere che lui ha vissuto tutta la tortura senza poter reagire. Bestiale per noi, ma estremamente eccitante per il suo assassino.
-Probabile, e questo non mi piace per nulla.- mormorò Heike, appoggiando distrattamente una mano sul braccio dell’agente – Ma ho lasciato per ultimo il dessert migliore.- Scoprì rapidamente il cadavere, mostrando il polso dell’uomo, dove erano state incise una S e una V intrecciate. – E prima che tu me lo chieda, sono state fatte post mortem. Incise con un coltellino non troppo a fondo nella carne ma abbastanza da lasciare il segno, come i tagli adolescenziali. Insieme a questo simbolo strano.
Tom si grattò la guancia, socchiudendo gli occhi e aggrottando la fronte. Un segno sul polso e quel simbolo che, chissà come mai, gli ricordava gli hangoul sui documenti di Bill. Che c’entrasse nuovamente la mafia coreana? Possibile che Berlino fosse di nuovo diventata la piazza per le loro regolazioni di conti?
-Non mi piace questo simbolo, e nemmeno questa firma. È troppo ambigua. Non siamo di fronte a un semplice omicidio, Heike, l’avevo detto subito che era qualcosa legato alla malavita.
-Stai pensando a Bill, vero?- sussurrò Heike, stringendogli il braccio solidale. Tom non rispose, limitandosi a guardarla con i suoi grossi occhi scuri fattivi improvvisamente malinconici e preoccupati. Sì, ci stava pensando. Non gli piaceva quella storia e ancora meno ora che aveva capito che in qualche modo erano tornati in un brutto rewind del Serial Killer delle Croci. Non avrebbe potuto sopportare che il suo angelo finisse di nuovo in pericolo, non sapeva se avesse avuto la forza di scappare anche da questi nuovi demoni, non sapeva nemmeno se lui stesso sarebbe stato in grado quella volta di tacitare nuovamente gli incubi che lo avvelenavano e portarlo alla luce. Era confuso, e voleva toccare la pelle pallida di Bill, sentire le sue labbra sulle sue che gli giuravano eterno amore e fedeltà, ascoltare la sua voce dolce che lo rassicurava prima di dormire, vedere i suoi occhi incantati così vivi come nessuno mai, sprizzanti voglia di vivere da ogni sfumatura del nero oscuro, voleva sentire il suo profumo e inebriarsene, stringere le sue belle mani e non lasciarlo mai andare via. Quando era così lontano, Tom aveva paura di perderlo, che i suoi nemici, i suoi incubi, i suoi diavoli lo uccidessero e lui non era lì per proteggerlo. Ogni giorno che passava senza di lui  era una coltellata che lo lasciava sfinito. Bill era la sua metedrina e gli faceva più male di qualunque mix o amfetamina.
-Ehm, scusate se disturbo, ma … Tom, ti cercano tre musi gialli. Io non so che vogliano, ma hanno detto che è urgente.
La grossa mole di Gustav sbucò dalla porta dell’obitorio, piuttosto incerto e forse anche inquietato.
-Cosa?!- il cuore di Tom fece tre giri in petto – Chi mi cerca?!
-Ma che ne so, tre musi gialli ti ho detto, un mezzo travestito e due …
Gustav non fece in tempo a finir di parlare che Tom si era già lasciato alle spalle i due amici e si era precipitato col cuore in gola su per le scale. Non sentiva nulla, se non il rombo del suo sangue nelle orecchie. Se addirittura July si era presentato in centrale, voleva per forza dire che era successo qualcosa di grave a Bill, quasi che con quel nuovo caso si fosse tirato addosso una nuova sventura. Aveva il fiatone e gli occhi fuori dalle orbite quando fece il suo rumoroso ingresso nella stanza dove stavano i tre fratelli Choy, compostamente sistemati secondo il loro uso comune. July sedeva su una sedia, minuto e perfetto come una bambola anche se truccato e conciato come una drag queen, le lunghe unghie ad artiglio smaltate di nero e lillà che accarezzavano distrattamente le teste una mora e una tinta di rosso di June-Mei-Rin e di May-Ran-Mao, inginocchiate ai suoi piedi, i poveri agenti del Dieci che li fissavano con timore e reverenza, perché un senso di alterigia e nobiltà tale solamente loro potevano trasmettere. Non gli piacque per nulla l’espressione che vide stampata sul volto androgino e delicato di July, non gli piacquero quelle rughe attorno alla bocca, la linea indurita della labbra, come nemmeno gli quadrava la cattiveria, se così avrebbe potuto chiamarla, che grondava a fiumi dai grandi occhi così neri da inquietare. Abbassò lo sguardo sui visi congelati delle gemelle, che non tradivano la minima espressione, solitamente, ma che in quel momento luccicavano di agitazione. Se erano agitate loro, allora Tom sapeva che era successo qualcosa di davvero sconveniente.
-Tom-sama.- July alzò la testa, guardandolo dritto negli occhi, nessun sorrisetto sardonico in volto ma solo una smorfia addolorata – Portiamo un vento di sventure.
-Ju … July, June, May. Ma che ci fate qui?- balbettò Tom, avvicinandosi, il cuore avvolto in una morsa che non lo lasciava battere normalmente – Cosa è successo?
-E’ morto un uomo, oggi, Tom-sama. Un uomo che portava il simbolo delle Mudang.- commentò con voce atona July, lisciandosi le pieghe del bolero di paillettes rosa – Sappiamo che era un uomo sghignazzante. Indemoniato. Dimmi, aveva delle lettere sul polso?
-Eh? Intendete il cadavere rinvenuto oggi sulla Rosen? Non sto capendo, July, sì, era sfigurato come se stesse ridendo e sì, aveva delle lettere ma non …
-E’ quello che immaginavo.- July lo zittì con lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore – Il problema allora è più grosso di quanto potessi pensare.
-Ma si può sapere che cosa vuoi dire?- Tom si mise le mani nelle treccine, scuotendo la testa – Sei piombato qui, sai del cadavere, sai cosa gli è successo, ma che …?
-Tom-sama, il problema non è come io possa sapere queste inezie. Il problema è un altro, e decisamente di altra portata.
July si era alzato, avvicinandosi al ragazzo, e sembrò ancora più piccolo ed efebico di quanto già non fosse. Non gli piaceva quando faceva così: sapeva per esperienza che nascondeva qualcosa di molto cattivo. Lo Scorpione Di Fuoco non ti si avvicinava per niente e non ti posava la manina sul petto per nulla, Tom lo aveva imparato a sue spese e nulla lo terrorizzava più che quel semplice gesto pieno di dolore e di sconcerto.
-Tom-sama, promettimi di stare calmo.- July alzò gli occhi su di lui, piantandogli impercettibilmente le unghie nella maglietta – Il vento contrario è più forte di quanto pensassi. E il vento, si sa, segue il suo corso e non guarda dove passa. Non guarda nemmeno che cosa solleva e porta via nel suo percorso. Hanno rapito Bill-chan, Tom-sama. Hanno rapito Bill-chan.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Riprendiamoci Bill ***


CAPITOLO TERZO: RIPRENDIAMOCI BILL

Tom cadeva. Cadeva così, come Alice nel buco, rotolando in mezzo ad immagini scollegate che rapidamente facevano capolino nel precipizio di rami intrecciati e radici che cercavano di ghermilo. C’erano foto di Bill, mentre cadeva. Foto del suo sorriso accecante e dolce, dei suoi occhi neri come la notte eppure più luminosi del più bel cielo stellato dei mari del sud, delle sue mani lunghe e nobili con le unghie aguzze e smaltate di nero, del suo corpo sodo e perfetto, dei suoi vestiti esageratamente vistosi, delle sue sciabole, del tatuaggio dei triangoli nell’inguine che a Tom piaceva tanto mordere e succhiare come a volerlo cancellare. Cadeva sempre più veloce, in mezzo ad affilate katane, kris malesi troppo affilati che tentavano di affettarlo, fucili di precisione che mitragliavano e gli facevano fischiare grossi proiettili attorno, calci rotanti di lolite coreane che volteggiavano silenziosamente sospese nel vuoto, mentre lui precipitava, in gola un urlo muto che bruciava come fuoco ma che non riusciva ad esternare. L’oscurità gli feriva gli occhi eppure riusciva a vedere con disperante chiarezza i fotogrammi del loro melodramma; rivedeva rapide immagini dei quadri di Will che vorticavano rapidi, con i loro ghigni satanici e le loro abnormi creature sconce e oscene, e sentiva le risate di quelle sirene assassine, di quei demoni incatenati, di quei tormentati vampiri vestiti da gothic lolita, guardando con malcelato orrore i momenti cruciali dell’indagine che li aveva rovinati, più freschi di una rosa eppure puzzolenti come una fogna a cielo aperto. Tom cadeva e non riusciva a fermarsi, le orecchie che fischiavano follemente come se mille radio disturbate stessero gracchiando la stessa frase “Hanno rapito Bill”. Parte di lui non ci credeva, si era ovattata su un ipotetico “non è possibile” e cercava di crogiolarsi nel finto calore che gli comunicava questo pensiero, aggrappandosi spasmodicamente a una speranza più effimera di un foglio di carta velina. Eppure, l’altra parte era lì che ansimava e tentava di riemergere dal buco di Alice, scalciando e urlando, tentando di uscire allo scoperto ed esternare la paura e l’orrore che gli avevano mozzato il respiro. Tom cadeva veloce. Ma in un battito di ciglia era riemerso alla luce del sole
-Cosa!? Cosa hai detto? July ma che cazzo dici, non ha senso, cosa …
-E’ quello che ho detto, Tom-sama.- il coreano lo guardò con quello sguardo di fuoco che forse gli aveva attribuito quello strano appellativo, e il ragazzo si sentì estremamente piccolo e impotente. Ora July sembrava di nuovo molto più anziano di loro; il viso si era riempito di piccole rughe, la bocca si era afflosciata, come gli occhi. Ma fu solo un attimo, come al solito, perché di colpo sembrò di nuovo il ragazzino giovanissimo di sempre, la manina che continuava a stringerli la maglietta con una morsa ferrea – Devi venire con me, subito. Sono misure di emergenza, non posso permettermi di perdere Bill-chan. Nessuno può toccare qualcosa che appartiene a me, tantomeno il mio piccolo cucciolo indifeso. Andiamo, Tom-sama. Il rapimento di Bill-chan è sicuramente legato alle Mudang e all’uomo sghignazzante.
Tom boccheggiò, mentre tutti i suoi colleghi avevano fatto loro capannello attorno, increduli e spaventati. Era … esterrefatto. Non solo la sua paura più grande, quella di perdere Bill, sembrava essersi orribilmente avverata, ma ora usciva anche che c’entrava qualcosa con l’omicidio sulla Rosen Strasse. Un brivido e un conato lo scossero come una fogliolina: e se avessero riservato la stessa fine del cosiddetto uomo sghignazzante anche al moro? Se avesse dovuto combattere contro non solo la sua morte ma contro le  torture da lui subite, se avesse dovuto venire a patti col suo viso bellissimo sfigurato per sempre in una smorfia oscena e grottesca? Non ce l’avrebbe fatta, lo sapeva, e non si vergognava di pensarlo.
-So che hai paura, ragazzo mio.- July lo guardò gravemente, stringendosi il bolero addosso – E fai bene ad averne, ma ora sei tenuto a seguirmi in negozio, dobbiamo parlare. Tu mi devi seguire, per Bill-chan e per il caso che stai seguendo.
Tom si morse il labbro, ma non esitò nemmeno un secondo a seguire i tre coreani, tra i colleghi che si aprivano come il Mar Rosso per lasciarli passare, consci che se il loro squinternato Segugio di Berlino aveva in mente una cosa sarebbe sicuramente stato un colpo di genio che avrebbe portato un’altra vittoria allo sfigato Distretto 10.
Gli faceva male il cuore, un dolore così forte da essere insopportabile, e non poteva fare a meno di pensare a Bill, il suo Bill, perso chissà dove in qualche isoletta sperduta nel Pacifico, lontano da casa, lontano da lui. Tom sapeva da solo che non avrebbe potuto aiutarlo in quel senso, che lui non era altro che un normale agente della Polizia di Stato tedesca, ma sapeva che lo avrebbe protetto con il suo amore infinito, che gli avrebbe fatto da schermo contro tutto il male che si annidava lì fuori. Se non poteva proteggerlo fisicamente, poteva chiuderlo nella sua dolce gabbia di affetto e di piedi per terra, per non farlo volare via ma tenerselo tra le braccia, al sicuro. Invece ora, tutto a un tratto, lui non c’era più, e Tom era rimasto lì da solo, il cuore soffocato dal terrore di perderlo e di perdersi di conseguenza nella caligine berlinese che non portava altro che guai inenarrabili. Cercò di nascondere i lacrimoni infantili che gli rigavano le guance ancora da bambino mentre seguiva July, June e May sull’auto lussuosa che li aspettava.

Bill aveva aperto gli occhi oramai da almeno qualche minuto, ma continuava a non capire dove si trovava. Aveva solamente molto caldo e gli doleva la testa. Socchiuse le palpebre, cercando di superare il dolore pulsante e di guardare oltre all’umida oscurità che lo avvolgeva. La prima cosa che sentì chiaramente, erano le mani legate con delle spesse corde, come le caviglie pallide orribilmente ferite da varie croste e lividi violacei. Cercò di mettersi seduto, ma una fitta alla spina dorsale lo costrinse a trattenere un gemito tra i denti e a rimanere sdraiato su quel pavimento duro, avvolto solamente dalla sua vestaglia trasparente oramai a brandelli. Si leccò il labbro, che sapeva di sangue, e gemette rumorosamente, rovesciando la testa all’indietro, tremando di rabbia. Alla fine, era successo. La più grande paura di July si era avverata: aveva osato troppo e qualcuno era riuscito a metterlo nel sacco e a rapirlo. Non ci volle credere, ma sentì qualche lacrima rabbiosa premergli dentro i grandi occhi stanchi. Era … fregato. Spalancò le palpebre, e, lottando contro il dolore terribile che dipartiva da ogni fibra del suo corpicino picchiato a sangue, fece il più grande sforzo di reni che avesse mai fatto in condizioni simili per mettersi seduto, cosa che gli costò una fitta oscena alla testa e un improvviso attacco di nausea. Tentò di arginare il conato e il giramento di testa, ma si ritrovò a vomitarsi addosso allo straccio lurido che gli era rimasto addosso. Sfarfallò le palpebre pesanti, e storse il nasino. In quella stanza c’era un odore terribile, di fogna, di umido, di muffa, di vomito. Si lasciò cadere appoggiato al muro, e inspirò con forza, per ritrovarsi vittima di un accesso di tosse violenta che gli fece sputare un grumo di sangue e muco. Ma come l’avevano conciato? E perché non si ricordava nulla di ciò che era successo? Il dolore alle tempie era così lancinante che gli faceva venire continuamente attacchi di nausea; provò a liberare le mani, ma le corde sembravano incredibilmente resistenti, e lui troppo debole per poter anche solo azzardarsi a fare un minimo di forza fisica. Provò  a distendere le gambe, e fece una smorfia a vedere le sue belle gambe magrissime e pallidissime rovinate da una corona di sangue secco, ematomi ed escoriazioni. Dio, avevano fatto le cose in grande, proprio. C’era solo una domanda che in quel momento gli premeva fortemente: chi l’aveva scoperto? Come avevano fatto, chiunque fosse il suo rapitore, a sapere che lui si trovava a Honolulu?  E, soprattutto, come diavolo avevano fatto a fregarlo così, lui, Bill Schadenwalt, il gattino prediletto dello Scorpione di Fuoco? Troppe domande affollavano la sua mente distrutta, e, tra tutte, l’immagine di Tom, il suo Tom, così lontano in quel momento. Il ragazzo si morse il labbro e si lasciò sfuggire un singhiozzo soffocato; voleva Tom, in quel momento. Voleva Tom che lo abbracciava e gli diceva che andava tutto bene, voleva baciare quelle belle labbra piene, stringere le sue spalle muscolose, accarezzargli i capelli, sentire la sua voce dolce nell’orecchio. Aveva un estremo bisogno di lui, eppure era lontano oceani, addirittura. In realtà, Bill non aveva paura di morire, non dopo Will, non dopo tutto quello che aveva passato, ma in quel momento aveva paura per Tom. Paura per un ragazzo normale che aveva trascinato in quel gioco di sangue e morte adatto solo a quelli che una vita non la meritavano. Chiuse gli occhi, e sperò che July lo avesse tenuto all’oscuro; sapeva che era una speranza vana ma una parte di lui si appendeva a quello, pregando che Tom fosse tranquillo, laggiù a Berlino, che non si stesse struggendo per lui, chiuso in uno scantinato lurido nelle isole Hawaii. Ma qualcosa gli diceva che in quell’esatto secondo Tom sarebbe stato lì a disperarsi, in lacrime, a pensare al suo Bill in balia di un cattivo da fumetto non troppo ben identificato. E il moro si maledisse per questo, sentendo un altro singhiozzo uscirgli dal petto straziato. Voleva il suo gattino, era l’unica persona a cui riusciva a pensare in un momento come quello, non poteva nemmeno sopportare l’idea di morire senza averlo potuto salutare, baciare, toccare, senza avergli potuto dire ancora un “grazie, gattino, ti amo più di ogni cosa di questo mondo”. Era qualcosa che lo opprimeva e gli faceva aumentare i conati terribili che gli sconquassavano lo stomaco. Si scostò con un gesto del capo i capelli corvini e bianchi sporchi e unticci, cercando di respirare senza vomitare altro sangue e altro muco, quando una luce gli ferì i grandi occhi di tenebra. Squittì tra i denti, cercando di distogliere lo sguardo dalla fastidiosa fonte luminosa che aveva illuminato lo stanzino dove era rinchiuso, quando intravide due piccole figure sgattaiolare dentro e chiudere la porta, dandogli un immediato ristoro alla vista. Istintivamente, quando sentì due risatine femminili, strinse le ginocchia al petto, rannicchiandosi il più possibile. Era inutile fare tanto lo spavaldo in una situazione simile, china la testa e aspetta, gli aveva sempre consigliato July. Guardò con la coda dell’occhio le due figure accendere due torce, e sentì i loro passi leggeri avvicinarsi, insieme alle snervanti e infantili risatine. Strinse i denti.
-Hey, disonore con la pistola, sappiamo che sei sveglio.- disse la prima voce, con quel tono canzonatorio da bambina che proprio a Bill non andava giù. Sentì un piedino che gli dava un leggero calcetto alla gamba. Aveva un delicatissimo accento dell’est, abilmente mascherato dall’inglese perfetto.
-Apri gli occhi, dobbiamo parlarti.- disse la seconda voce. In realtà, era identica alla prima, il ragazzo poteva solo supporre fossero due persone differenti.
-Cosa volete da me?- gemette, ingoiando a vuoto, cercando di farsi ancora più piccolo nell’angolino lurido. – Chi siete?
-Come chi siamo?- le due voci parlarono in coro, ridendo – Il tuo padrone dovrebbe averti parlato di noi.
Bill alzò la testa, mordendosi il labbro per evitarsi di sputare in faccia alle sue aguzzine, e guardò in faccia le due ragazze illuminate dalla torcia, che ridacchiavano tra loro, gioendo del suo dolore nel tenere aperti gli occhi. E quando finalmente le riconobbe, un altro conato di vomito lo percorse e lo obbligò a vomitarsi di nuovo sui brandelli di vestaglia, scatenando il loro riso divertito.
-Le … le Mudang?
-Bravo, caro, ottimo!- le due ragazze batterono le manine, sorridendo sadiche – Siamo le Mudang, potresti poi portare i nostri saluti al caro Scorpione.
Bill si sentì sprofondare del tutto, quando sentì quella spiegazione. Le Mudang erano tutto quello che la mafia mondiale temeva come la peste, quasi quanto potevano temere July, June e May. O quanto si poteva temere Will, prima che lui lo uccidesse a sangue freddo. Aleksandra e Valentina Tolmachevy, le sacerdotesse assassine, le peggiori ninja private dopo June Mei Rin e May Ran Mao, educazione moscovita e addestramento da yakuza. Bill soffocò un gemito di dolore quando i suoi polsi martoriati sfregarono contro le dure e rozze corde che li legavano. In realtà, non stava del tutto capendo come mai le Mudang fossero andate a rapire lui, non era conoscenza di nessuna lite recente tra loro e July, nessun traffico deviato, nessun incarico mai pagato, niente di niente.
-Cosa volete da me?- sussurrò tra i denti, cercando di ringhiare per quanto poteva permetterlo la sua bocca piena di sangue. – Lo Scorpione non vi deve niente. E io meno di lui.
-Questo lo dici tu, piccolo.- una delle due si scostò i lunghi capelli d’inchiostro dal viso rotondo, sorridendo con quell’aria perversa e malata che solo due piccole belve cresciute nel sangue e nella violenza più assurda possono avere – Lo Scorpione ci deve eccome, e tu sei la nostra arma.
-Non farebbe nulla per metterti in pericolo, dà?- continuò la gemella, aggiustandosi la frangetta ordinata – E noi faremo di tutto per farlo venire qui ed eliminarlo una volta per tutte.
Bill tacque, ringhiando, distogliendo il viso quando le manine piccolissime delle due sorelle gli accarezzarono le guance ridacchiando. Odiava essere toccato da qualcuno che non fosse Tom o July. E soprattutto, odiava essere toccato dai suoi nemici. Sembrava tutto un incubo, un sogno orrendo dal quale non riusciva a risvegliarsi, sprofondando sempre di più nel dolore fisico e psicologico che le Mudang gli stavano lentamente infliggendo senza una ragione.
-Siete delle infami meschine creature.- sputò, tremando per un improvviso accesso di freddo gelido e di tosse dolorosa. – Credete che July caschi nei vostri sporchi trucchetti? Non sapete con chi avete a che fare, russe di merda.
La sua spalvaderia ebbe le sue dolorose conseguenze, ma Bill cercò di non far trasparire minimamente il dolore che gli venne inflisso quando Aleksandra lo afferrò con violenza per i capelli e Valentina gli tirò un calcio nello stomaco che gli mozzò letteralmente il fiato, facendolo crollare a terra come una bambola.
-Vorrai dire che tu non sai con chi hai a che fare, tedesco di merda venduto ai coreani.- strepitarono in coro le due, sghignazzando impunemente quando, dopo un altro calcio, il ragazzo si vomitò di nuovo addosso. Bill socchiuse gli occhi, cercando di sputare addosso alle due bamboline assassine che, roteando nelle loro corte gonne, si stavano volgarmente esibendo di fronte a lui in un incestuoso bacio che dava il voltastomaco. Il suo sputo non le sfiorò nemmeno, anzi le fece ridere più forte e le fece sgattaiolare via, chiudendo la pesante porta di metallo e facendolo risprofondare nel buio più completo. Fu solo in quel momento che Bill si mise a piangere senza più ritegno.

Come fosse legato da un filo invisibile, Tom, seduto nel retro del negozio “Carabattole e Ammenicoli Vari” , stava singhiozzando come il suo fidanzato, bevendo a piccoli sorsi il the che le premurose June e May gli avevano portato. Non faceva nemmeno caso alle strane forme che assumeva il fumo bluastro della kiseru di July, troppo impegnato a pensare al povero Bill. Anche il caldo asfissiante era passato in secondo piano, tutta la sua intera esistenza era tristemente obnubilata da quel fatto che lo aveva sconquassato nel profondo.
-Tom-sama, riesci ad ascoltarmi?
Il ragazzo alzò gli occhi su July, che lo guardava mestamente, la lunghissima unghia ricurva che mescolava senza voglia il the verde al litchee e limone, e annuì
-Sì, July, scusami. Parla.
-Come ti ho detto prima, hanno rapito Bill-chan, ma questo ti deve spaventare solo fino a un certo punto.- prima che Tom potesse interromperlo, il coreano si alzò, volteggiando nel suo kimono viola con le gru e gli fece segno di tacere – Loro non se ne fanno niente di lui. Vogliono me. E saranno me che avranno, ovviamente.
-Aspetta, fammi capire. Questi “loro” hanno rapito Bill e come riscatto vogliono te? Quindi cosa sono, un altro clan mafioso avversario? Dunque, non gli faranno del male?
-Gliene faranno, ragazzo mio. Ma non lo uccideranno, almeno finché non mi presenterò al loro cospetto. Sanno bene che ucciderlo equivale alla fine di tutto, e questo non conviene nemmeno a loro.
Tom strinse i denti, e gemette, prendendosi la testa tra le mani. Ma perché, perché Bill era nato e cresciuto in quel mondo ignobile? Perché non poteva essere un ragazzo normale?
-Ma July … tu sai chi l’ha rapito?
-Certo che lo so, Tom-sama.- July guardò con noncuranza uno degli enormi arazzi che appesantivano le basse pareti di mogano e poi, veloce come un lampo, ne strappò un pezzo con la lunga unghia ricurva. Tom tremò. – E’ tutto collegato al cadavere che avete rinvenuto stamane sulla Rosen Strasse. È qualcosa di troppo grosso anche per il Distretto 10; è un avvertimento per i clan tedeschi.
-Ma tu sai chi è quell’uomo ucciso in maniera così barbara?- Tom assottigliò gli occhi, bevendo un sorso dell’ottima tisana alla salvia e rosa canina.
-Non di persona, ma aveva collaborato con me, tempo addietro, per il cartello della droga tra Shangai e Vladivostok. Traffico d’oppio.- July si lisciò le pieghe inesistenti del kimono e si passò una mano tra i capelli lucidi di gel e glitter violetti – Vedi, hai presente il simbolo che aveva sul polso? La S e la V intrecciate? E quel cerchio con detro una X? Quella è la firma delle Mudang. Le nemiche giurate di ognuno dei Signori.
Tom non avrebbe voluto chiederlo, ma si ritrovò a sussurrare
-E chi sarebbero le Mudang?
-La tradizione le vorrebbe come sciamane delle tradizione coreana, le intermediarie tra l’umano e il divino attraverso i sacri riti gut. La realtà, le vuole come una coppia di sorelle gemelle russe, le peggiori ninja sul mercato mondiale. Aleksandra Andreevna e Valentina Andreevna Tolmachevy, allenate da quando erano bambine a diventare delle belve inumane. Si dice che la loro famiglia le abbia rese completamente folli a causa delle continue sevizie e degli allenamenti impossibili a cui sono state sottoposte continuamente per tutta l’adolescenza e l’infanzia. Fino a che non si sono ribellate, e non sono diventate la mina vagante più pericolosa che ci sia. Capiscimi, Tom-sama: non hanno logica, rigore, non hanno nulla che non sia la loro visione distorta delle cose, la loro violenza e la loro crudeltà.
-E mi stai dicendo che il mio piccolo Bill è in mano a ste due psicopatiche?!- Tom a quel punto era balzato in piedi, di nuovo carico di quella rabbia che pensava solamente Will potesse scatenargli nel petto. Da quando lui era morto, pensava che nulla avrebbe mai risvegliato in lui quella vena omicida, ma evidentemente si sbagliava. – Cazzo, July!
-Stai calmo, Tom-sama. La rabbia è cattiva consigliera.- July lo fulminò con i suoi terribili occhi a mandorla, e si risedette sul divano – Le Mudang non mi hanno ancora fatto la loro proposta di riscatto; teoricamente, secondo loro, io non dovrei saperlo ancora. Ovviamente, si sbagliano, e io l’ho saputo immediatamente, ed è per questo che dobbiamo coglierle di sopresa. Per salvare Bill-chan. E per dare una parvenza di risoluzione al tuo mistero.
-Hai intenzione di spedire qualche tuo sicario giù a Honolulu?- chiese stancamente Tom, tirandosi le lunghe treccine scure – Sei sicuro che riescano nell’impresa senza nuocere alla salute di Bill?
-No, Tom-sama. Non manderò giù proprio nessuno.- rispose pacificamente July, bevendo un sorso di the – Sarebbe troppo pericoloso per tutti noi; come ti ho detto, le gemelle Tolmachevy non ci mettono niente a uccidere qualunque gattino io gli possa spedire contro. Ci vuole ben altro; possono essere folli, ma la loro educazione è delle più ferrate. Hanno anche loro una mandria di scagnozzi siberiani da scatenarci contro.
-E allora cosa dovremmo fare?!- urlò istericamente Tom, balzando in piedi – Senti, io non ci sto capendo più un cazzo di niente. Gemelle russe, santone coreane, un morto sfigurato che c’entra col cartello della droga cinese, le Hawaii, Bill rapito. Insomma, ma che razza di delirio è?!
-E’ comprensibile il disordine nella tua testa, figliolo. Nemmeno io riesco a capire del tutto come abbiano fatto le Mudang a incastrare Bill-chan. È una cosa così strana … è un gattino così accorto, così intelligente.- July scosse la testa, stringendosi nelle gracili spalle – Eppure, Tom-sama, ho una richiesta da farti.
Tom osservò con malcelata ansia il giovane che si alzava e si andava ad accomodare accanto a lui, prendendogli una mano tra le proprie
-In nome dell’amore che provi per Bill-chan, te lo chiedo fiducioso. Alle isole Hawaii non mando nessuno perché ci andrò io personalmente a riprendermi ciò che è mio. A questo punto, Tom-sama: vuoi venire con me a risolvere il tuo caso dell’uomo che ride e, soprattutto, a riprenderti Bill-chan?

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3663513